Saltatempo

Stefano Benni
Saltatempo
I Narratori-Feltrinelli
E sognai così forte che mi uscì sangue dal naso.
Fabrizio De André, Sand Creek
PRIMA PARTE
1.
Quand'ero molto piccolo ho visto un Dio. Scarpagnavo
verso la Bisacconi. Scarpagnare vuole dire camminare a saltelli per via del dislivello, io abitavo in montagna, la scuola
era in basso. Si scarpagna senza pause, con l'inerzia della discesa che impedisce di fermarsi, un continuo scuotimento nei
giovani marroni e un piccolo ansito nei polmoncini. Le Bisacconi sono le scuole elementari del paese, un cubo giallo
vomito dentro un giardino di erbacce barbare, e devono il
loro nome a un uomo di nome Lutilio Bisacconi ricordato
per essere morto sull'uscio di casa, ucciso dal cugino fascista.
Sulla lapide infatti c'è scritto:
Lutilio Bisacconi, caduto.
Poi si vede che non hanno pagato lo scalpellino o c'è
stato un litigio ideografologico ma è finita lì: caduto. Non è
specificato se in guerra, per la Resistenza, nel fiore degli
anni, niente: caduto e basta.
Che a noi venne da pensare che allora nessuno cadeva
come Tadeo, che a otto anni già non ci vedeva un cazzo
come un anziano e aveva i piedi cavallerizzi storti in dentro e
voleva andare lo stesso in bicicletta e aveva una bicicletta
che sembrava masticata da uno squalo e in più non distingueva un paracarro da un precipizio e soffriva anche di un tic
che gli storceva la testa fuori strada, perciò cadeva quasi tutti
i giorni e aveva la fronte bozzuta e un polso sempre fasciato,
e le ginocchia egizie con i geroglifici di ghiaietto.
Perciò si poteva anche intitolare la scuola a lui: Tadeo,
caduto, oppure cadente, oppure tanto prima o poi cade ancora.
Parlai di questo in un tema e mi fecero un culo come
una tinozza.
Ma quel giorno di fine inverno era così bello da andar
fuori tema con ogni pensiero. I prati eran zuccherati di brina
e il sole se li beveva mentre io cantavo a bassa voce: se mi
vuoi lasciare dimmi almeno perché. Cantavo e correvo verso
l'obiettivo formativo della scuola, la cartella mi sbatteva contro le gambe, i piedi mi dolevano per il gelo, c'era la galaverna e voli alti di uccelli. La valle, giù in fondo, sembrava una
tavolozza di pittore.
Mi fermai a bere e a specchiarmi al lavatoio, ed ero
brutto. Pieno di brufoli di ogni colore e forma, cuspidati, col
craterino, a fico spremuto, a capezzolo (enumero). Poi avevo
il naso adunco come quello di una gallina e una testa di capelli a propulsione verticale, uno scopino da cesso alla rovescia. Tutte le volte che sorridevo a una principessa, quella
cercava rifugio presso il drago. Tutte le volte che andavo in
giro coi miei amici moschettieri, loro mi nascondevano sotto
i mantelli per non spaventar la gente.
A metà circa del tragitto dello scarpagnamento mi fermai a una vigna e rubai un grappolo di schizzozibibbo. Ogni
chicco era grande come la mia testa (esagero), un grappolo
di teste di me stesso, ognuna che gridava non mi mangiare.
Per gustar meglio il bottino tirai fuori di tasca una crosta di
paneterno. Niente, nella vita, ho incontrato che fosse duro
come quella crosta. Neanche i denti di una mietitrebbia o di
un caimano famelico lo avrebbero scalfito. La crosta sembrava forgiata nell'acciaio. La mollica aveva la consistenza di
certe pietre, porose ma solidissime.
Così mi sedetti, poiché albeggiava e il sole infuocava la
brina di strisce di brace e la linea delle montagne sembrava
un gigante assopito messo un po' di gallone. Il rumore del
fiume mi teneva compagnia poiché sapevo che dentro c'erano cavedani e lucci e barbi e acquadelle, tutte creature meravigliose nel loro guizzare ed esplorare pozze buie che noi
non conosceremo mai, per non parlare degli scoiattoli, del
tasso dormione, della talpa rugagna e del falco che planava
sul mio zenit. E di due mucche pezzate che ruminavano sotto
un albero e gli cadevano i marroni d'India in testa e loro erano felici.
Era un momento poetico, ma allora io facevo fatica a distinguere i momenti poetici tristi da quelli allegri, quindi
quando sentivo arrivare un attacco di poesia era un po' come
quando si mobilita la budella e segnala e crepita prima della
liberatoria, perciò quando sopraggiungeva il crampo dell'ecloga o del sonetto o dell'imperdibile istante, io ci mangiavo
su.
Divaricai la mandibola come se volessi ingoiare l'orizzonte, mangiai Monte Mario, la stazione dei treni, un pezzo
di strada cantonale e poi con rumore di tritura, un pezzo di
pane. Si chiamava paneterno, perché poteva durare mille
anni e si conservava sempre buono.
Quel pane lì lo potevamo mangiare solo io, il cane Fox
che era un bracco grande come un cavallo, e la Strega Berega dentidighisa. Poiché la Strega Berega era una creatura
fantastica inventata da me e da Selene (la mia pupa) e Fox il
pane lo mangiava solo ammollato con acqua, latte e sbavatura autoprodotta, io ero l'unico a rosicchiare paneterno doc, e
non per niente mi chiamavano Lupetto.
Allora crac fece il pane doc sotto i miei canini e bau
fece Fox lontano e ciac il sugo dello schizzozibibbo e non
saprei sintetizzare il rumore del fiume ma il sole si alzò ancora e c'era odore di una certa felicità irripetibile.
Mangiai quattro chicchi e tre mi esplosero nella trachea,
perché se un chicco di schizzozibibbo non ti va di giangone,
cioè di traverso, allora vuole dire che non è buono, il chicco
deve essere tutto compresso e turgido di sugo e zucchero e
invidia d'ape, l'esplosione che avviene quando il dente lo ferisce è come una bomba, uno sborramento di gusto, e lo zibibbo va su per il naso e nei bronchi fino nel pancreas, e tu
tossisci e godi e tossisci e godi e mentre tossisci mandi giù
un altro chicco per godere di più.
Se non lo avete provato vi manca qualcosa, diceva il
mio babbo che era rimasto col piede in una tagliola da volpi
(ve lo racconto in seguito).
Allora son lì seduto per terra col culo gelato che mangio
paneterno e schizzozibibbo e guardo un ragno che sferruzza,
il sole che dilaga e intanto si fa ora di scuola. Mi sembra di
sentire la campanella giù a valle, io l'orologio non ce l'ho,
calcolo l'ora dal gelo dei piedi, è un gelo da sette e mezzo,
con l'alluce addormentato, beato lui, e il calcagno che cigola.
Mi tiro su in piedi e di colpo il panorama si allarga,
vedo le schiene dei pesci saltare nel fiume e la piazza, del
paese e Selene su una panchina che mi aspetta avvoltolando
una treccia, e quella carogna statale del professor Testuggine
che batte il piede perché sono in ritardo e il busto di Caduto
Bisacconi nell'ingresso. Pregusto già quel buon odore scolastico di minestrina vomitata e formaggino tenuto sotto il culo
e pera cotta nel pitale della nonna e penso: un giorno qualcuno pagherà per tutto questo, quando ecco l'apparizione.
Dall'orto vien su un uomo alto come una nuvola, con
una barba immensa color letamaio, scortata da mosche, tutto
vestito di strati e stracci, con una capparella nera rappezzata
di toppe lustre. Ha un bastone di pero e un cane vecchio, ma
vecchio che ha annusato chissà quante pisce di tirannosauro,
e zoppica e rantola come se fosse pieno di brodo.
Subito l'uomo nuvola mi sorride e io capisco che solo
un Dio sorride così e si accovaccia sul poggetto, controluce,
tra la valeriana e i radicchi, si tira giù tre o quattro tipi di braghe e mutande e comincia a farla, ma farla davvero, è come
un anaconda che si srotola, o il granone che vien giù dalla
mietitrebbia, o la polenta fuori dal paiolo, è un trionfo di
merda tiepida che a contatto col suolo sprigiona una nube di
vapore immensa e odorosa, e più la fa e più il vapore cresce,
si deposita sul prato e sugli alberi e appanna i gusci delle lumache.
E continua a farla ed è una produzione che non ci credi,
mentre il cane mi guarda come a dire, questo è niente, e intanto non si vede più l'uomo ma una grande nube attraversata
da un arcobaleno, e da dentro proviene un breve respiro affannoso che vuol dire che ancora la sta facendo, e gli uccelli
volano intorno alla nube cinguettando festanti.
Poi la nube di vapore si dirada e per terra resta un obelisco fumante, la terra si è scaldata e non mi fanno più male i
piedi.
E Dio prende da sotto la capparella una foglia di fico
che si trova solo nei giardini dell'Eden, così bella pentalobata
e lustra, senza peluria stracciaculo, fa un gesto come gli
sventagliatori del sultano e si spazza in su e in giù e in giù e
in su.
Poi lancia la foglia biodegradabile che vola planando
verso valle, e io immagino che se arriverà santa e immerdata
fin sul piazzale della chiesa diventerà reliquia e verranno da
tutti i paesi a vedere la Foglia di Dio e io diventerò come
Bernadette, esclusa la castità.
– Questa è vita – dice il Dio stirandosi, e con lo sguardo
divino individua un fungo boledro, e sì che lì non è zona, lo
coglie e se lo pappa metà lui e metà il cane.
– Buon appetito – dico io.
– Grazie – dice lui – è una giornata meravigliosa per andare a pescare, o anche perché accada uno stromenamento
temporale e si crei uno spazio di Filler-Gauss oppure che uno
si innamora di colpo e se ne accorge il giorno dopo.
– Proprio così – dico io.
– Bene, come ti chiami, ragazzo che non vuole andare
mai a scuola?
– Mi chiamano Lupetto.
– Piccolo lupo del bosco – dice il Dio alzando al cielo
un dito sozzo e magnifico – goditi la libertà e un giorno avrai
l'onore di uccidere l'imperatore. Hai un pezzo di paneterno?
Glielo do.
– Tu non sai quanto ci mangerò con questo – dice l'omone – e cosa ti darò in cambio. Dunque Lupetto, mettiti
sotto quel nocciolo umido di brina, e fai in modo di ascoltare
il rumore delle stille che cadono. Fatto? Ora ti spiegherò una
cosa fondamentale. Questo – dice – è un orologio per il mondo di fuori.
E tira fuori una cipolla meravigliosa, di acciaio brunito
con un disegno di stelle e pesci. Lo apre e dentro c'è un carillon, dodici ballerine che girano e quando ti passano davanti
si inchinano e in mezzo uno gnomo che batte i secondi su
un'incudine.
– E' meraviglioso – dico io.
– Il diavolo ne ha di più belli, con le lancette incandescenti e il cucù che ti becca gli occhi. Ma anche questo non è
male. Questo è l'orologio che segna il tuo giorno cosiddetto
normale: quello del far tardi a scuola, dell'alzarsi presto, delle ore che non passano mai, dei calendari, del lei guarirà in
dieci giorni, del lei morirà tra sei mesi, dei moti stellari, delle
maree e delle partite di calcio. Ma attenzione!
Il signor Dio ingoia l'orologio in un boccone.
– Niente paura – dice – l'ho ingoiato, è sparito, ma il
tempo non si è fermato. Vedi, la gazza non è ferma in volo,
le gocce cadono, e tu invecchi. Ora ascolta.
E io ascoltai il ticchettio delle gocce che cadevano dal
nocciolo.
– Ecco, questo è il rumore dell'orologio dentro. Questo
misura un tempo che non va dritto, ma avanti e indietro, fa
curve e tornanti, si arrotola, inventa, rimette in scena. E' un
tempo che non puoi misurare né coi cronometri né col più
sofisticato astromacchinario. E' il tempo tuo, misura la tua
vita che è unica, e quindi è diverso dal mio e da quello di
Gabriele, il mio emerito cane.
Il cane si inchinò e vidi che aveva un orologio alla zampa.
– Non ti spaventare, ma tu vivrai sempre con due orologi, uno fuori e uno dentro. Quello fuori ti sarà utile per non
fare tardi a scuola, quando aspetti la corriera e il giorno che
muori, per calcolare quanto hai vissuto. L'altro, che comprende centosettantasei tempi protologici, novanta escatologici e trentasei tempi romanzati caotici, l'hai ingoiato da piccolo, anche se non ricordi. Chiamalo pure secondo orologio,
anzi orobilogio. Ogni volta che sentirai il suo ticchettio, il
gocciolare dell'acqua, le crome di un grillo, qualsiasi ritmo e
balbettio del mondo, potrà succedere che l'orobilogio parta,
non potrai fermarlo, e tu correrai avanti o scapperai indietro
e vedrai cose e altre ne rivedrai.
– E come è fatto un orobilogio?
– Non si può vedere, è fatto di tante parti insieme che
mescolandosi diventano invisibili. Vuoi un esempio? La tua
casa, la guardi dal di fuori e dici: questa è la mia casa. Ma la
casa ha sotto la cantina, la tinaia buia con le botti, la muffa
sulle pareti e quell'odore di anni e secoli ma in quel passato
oscuro fermenta il vino e i formaggi maturano. Sopra c'è il
granaio, con la farina, le mele, le noci e i pomodori secchi, e
ci frullano i topi rosicchioni e i ghiri ladruncoli, lì ci sono le
provviste per il tuo futuro. Poi c'è la casa dove abiti, col camino caldo, la cucina che fuma e il cesso che scroscia, e il
letto che ti accoglie e prepara i sogni, ma anche gli incubi, e
le lenzuola gelate d'inverno, e la febbre e le ore che non dormi la notte. E a volte tutto cambia: dal camino entra la notte,
le faville dei fantasmi del passato, o la paura di ciò che sta
dietro la porta, nella cantina il vino e il buio ti fanno immaginare viaggi e abbordaggi, nel granaio sbattono la testa gli uccelli imprigionati, come brutti pensieri. Ecco, questa è la tua
casa, non quella che vedi dal di fuori, con le finestre, il portone e l'edera sul muro.
– E' complicato – dico io.
– Niente è complicato, se ci cammini dentro. Il bosco
visto dall'alto è una macchia impenetrabile, ma tu puoi conoscerlo albero per albero. La testa di un uomo è incomprensibile, finché non ti fermi a ascoltarlo. La storia, be', la storia,
lasciamo perdere. Tutta questa solfa per dirti che da oggi ti
chiamerai Saltatempo. Adesso vai perché sento la campanella della scuola, Selene è preoccupata, e le schiene dei pesci
brillano.
– Amen – dice il cane.
E il Dio si allontana e sparisce tra i meli cotogni e i cipressi, e io ho le lacrime agli occhi perché ho visto una divinità, non so se pagana o chierica o boschiva, ma non succede
a tutti, qualche volta a quelli buoni, figurarsi a un malfattore
cialtrone ritardatario come me. Scarpagno giù di corsa e
piango e piango e scarpagno, inciampo e cado e lo schizzozibibbo mi esplode in tasca. Mentre son disteso a terra, ascolto
una cicala canterina, frinisce ritmica, zic zic zic, e sento
come nella pancia partissero delle rotelline, oh dio, sta già
succedendo. Mi tiro su, vedo il cielo basso e il paesaggio che
si storce come se avesse un elastico dentro, come l'acqua
quando riflette l'immagine dei pesci e in un attimo tutto si
trasforma. Al posto della cavedagna c'è una strada circondata
da case, e una puzza come se il Dio avesse lasciato il gas acceso. Giù nella valle, dal paese sale una scia di fumo nero, e
il fiume è secco, scavato e succhiato, lo attraversa una strada
lunga e larga che si infila in un buco nella montagna, ed è
tutta piena di macchine che ci entrano di corsa, speriamo che
il buco l'abbiano fatto anche dall'altra parte se no è un macello. E le macchine non sono millecento o giardinette, sono
lunghe e acuminate, sembrano le astronavi del libro di Verne, e saranno migliaia, ma evidentemente la carrozzeria si è
sviluppata mentre la motoristica è regredita, perché procedono lente, in fila come i bachi peloni, suonano e fanno fumo
dal culo, e in cielo c'è una libellula enorme mostruosa, che fa
un rumore assordante. Mamma mia, dico, cosa mi succede,
poi di colpo tutto torna normale compreso lo schizzozibibbo
che mi cola giù per le gambe e i geloni malefici e anche una
gran libertà dentro, la sensazione di aver ancora tante scoperte da fare e pagine da leggere.
Scarpagno e scarpagno ed entro nel paese e nella piazzetta. Sulla panchina Selene non c'è, sono in ritardo di forse
dieci minuti.
2.
La mia aula quinta B era piccola e aveva una sola grande carta geografica dell'Europa con la Russia tagliata a metà,
non si sa se per mancanza di spazio o volontà politica, e poi
un solo gesso per la lavagna, una sola grande finestra e una
sola gran testa di cazzo che era il professor Naselli detto Testuggine.
Il quale era cattivo di nascita, di formazione e per libera
scelta, il tutto invelenito dalle emorroidi e dalle sigarette
alfa, da noi dette le puzzole, che fumava a quattro pacchetti
al giorno. Quattro per venti, ottanta alfapuzzole. Ogni puzzola un minuto di scatarrata. Tutta una serie di ringhi e sbuffi e
schifi che finivano catalogati dentro un fazzoletto fradicio e
verdastro come la melma del fiume.
Testuggine aveva i baffi dispari, uno più lungo uno più
corto, non si sapeva perché, era sempre vestito di marrone a
righe, e non s'abbottonava mai bene le braghe da cui spuntavan mutande di lana e a volte anche scorci del lumacone. Selene diceva che lo faceva apposta perché era un maniaco sensuale, che sono quelli da cui non devi mai accettare caramelle, magari gliela dai, ma accettare caramelle mai.
Testuggine aveva altre sgradevolezze: usava un dopobarba odor corona da morto, aveva le unghie gialle e una
moglie che non usciva mai di casa perché aveva l'esaurimento nervoso e dicevano fumasse più alfapuzzole di lui. Infine
Naselli Testuggine Catarrone Puzzadimorto era un crociato
della corrente di Fefelli Federico detto Fefè, candidato sindaco e maggior venditore di vacche della zona, il cui slogan
elettorale era: «Nella vita di un uomo c'è tre cose importanti:
la famiglia la stalla e la messa».
I miei compagni erano un bel misto, come i funghi del
bosco, buoni e marci, larghi e sottili, grigi e colorati, tronchini e merdaioli, alcuni venivano da casolari sperduti in mezzo
alla montagna, altri eran riccastri figli di bottegai e vignaroli,
alcuni erano adolescenti ignari della vita, altri si tiravan pippe a raffica, alcuni erano piccoli piccoli come Grattino che
poi morì a tredici anni con le ossa bucate, altri lunghi e gozzuti come Sterpa che era figlio di due cugini e viveva in una
landa dove si trombavano tra consanguinei da un secolo,
sembrava un troll ma era buono.
Poi c'era Fulisca piccina e nera, suo padre vendeva carbone e sgurava i camini, aveva una vocetta come una sega
elettrica e si costruiva da sola delle collane di ghiande bellissime.
I miei amici preferiti erano Osso, che pesava sessanta
chili, cosciotti opimi e collo da vitello, non per niente era il
figlio del macellaio. Diceva tante boiate che lo avevano messo in banco da solo, in fondo come un appestato, ma tanto si
sentiva tutto quello che diceva perché aveva la voce tonante
da grande.
Poi c'era Gancio il Dritto, che era snello e svelto, con gli
occhi a mandorla. Era nato di plenilunio e quindi era matto
stellato, passava la vita a preparare scherzi al mondo. Era orfano e viveva con tre fratelli un po' torvi.
Poi c'era Selene, che era biondina, robustina e a me
sembrava bellissima, anche se aveva dei denti un po' leproidi
e suzissava la esse.
Poi c'erano Valisi Testadiferro e Nico Castagna e Lucianina Banghera e Camillina Figarina e Merlone Secchione.
Tra i piccoli, cioè quelli di terza e quarta, ricordo quelli un
po' speciali.
Grillomartino, perché era molto agile e giocava bene a
pallone.
Ciccio Mia, perché a calcio chiamava sempre la palla
«Mia!» ed era bassetto ma tenacissimo difensore.
Viperino, chierichetto e spione, figlio di un riccone con
ventisei vigne.
Otorina l'Obice, che per una qualche magia della laringe, a sette anni ruttava più forte di qualsiasi maschio della
scuola, e caricata a chinotto faceva il rumore di dieci orchi.
Per finire la bidella Grazia, che vendeva la marmellata
di nascosto, venti lire la spalmata.
E ora che li ho ricordati, entrai in classe e Testuggine
disse:
– Ancora in ritardo, il signorino. Ha qualche scusa speciale oggi?
Potevo dire che avevo visto Dio farla dentro una nube
con l'arcobaleno? E la storia dell'orobilogio nello stomaco?
Allora ne raccontai una semplice:
– Camminavo, signor professore, lungo l'argine del fossato detto la chiapparola, perché ci fan il bucato le lavandaie
del borgo, e stavo contemplando alcuni esemplari di flora e
fauna locale per portarli eventualmente qui come reperto didattico per l'ora di scienze. Quanduntratto vedo un movimento sospetto e vibratile nell'ortica che in quella zona abbonda
e con sprezzo del pericolo mi avventuro nel fogliame cercando il motivo del misterioso sfrocillamento.
E cosa vedo, signor professore?
Una vipera smargassa di quelle più velenose, color sabbia e con la testa sottile ma gonfia ai lati come Osso quando
si infila mezzo panino in bocca, e mi rendo conto che il gonfiore (della vipera, non di Osso) vuole dire che è incazzata e
sta per attaccare.
Allora raccolgo da terra un bastone biforcuto per difendermi.
Ma, signor professore, il bastone altro non è che altre
due viperotte smargasse che stanno intrecciandosi perché è la
stagione degli amori.
Che fare?
Tiro le due viperotte smargasse contro la vipera singola,
e accade l'imponderabile.
La vipera singola era il marito della vipera attorcigliata
al vipero amante e quindi la tresca è scoperta, scoppia un casino, una discussione con sibili e soffi e un combattimento
feroce e io mi attardo per vedere come va a finire.
Come va a finire?
Male. Tutte e tre le vipere si mordono uccidendosi e io
capisco che proprio non c'è spazio per l'amore al mondo,
prendo i cadaverini e li seppellisco e gli faccio un altarino
coi fiori che sono ancora lì, se lei volesse controllare la verità
di questa triste storia.
Naturalmente mica racconto questa balla, troppo bella
per sprecarla così. Sto zitto ad ascoltare Testuggine che scatarra e rimbrotta. Che dice che siamo un paese di ignoranti e
gozzuti metà bimbi metà bestie ma presto qualcosa cambierà, oh sì cambierà, e di questo sta per parlarci oggi.
Sospiro. Guardo affascinato Osso che tira fuori dal naso
una caccola e se la mette in tasca. Riesce a farle vivere anche
due o tre ore, senza fargli perdere peso e umidità. E' un vero
pollice verde. Fulisca riempie di ditate nere il quaderno. Selene invece disegna case. Siccome la sua è piccola piccola, ci
vive con i genitori sarti, lei disegna delle case con decine e
decine di stanze, ascensori, scale mobili, uno dovrebbe andare a pisciare portandosi dietro la merenda. Intanto vedo che
Gancio prepara un calabrone. Gancio è il più grande tiratore
di cerbottana del mondo, a eccezione degli indios guatayabas
dell'Amazzonia. Fa le cerbottane con dei tubi di plastica e il
nastro adesivo, le fa singole doppie o a mitraglia come il
flauto di Pan e soprattutto confeziona delle freccette più rapide e letali di qualsiasi insetto aculeato. Non usa curaro, solo
sputo e una resina che trova nei tronchi dei ciliegi.
– Voi credete che il mondo sia questo miserabile paese
– dice Testuggine tra gli anelli di un'alfapuzzola – i vostri rurali genitori non vi han mai messo in testa che possa esistere
qualcosa d'altro. Ma ora tutto cambierà. Un nuovo sindaco,
che forse qualcuno di voi conosce, il dottor Fefelli, vincerà le
elezioni e di qua passerà l'autostrada. Proprio dove c'è il fiume, con un gran viadotto sopra. E noi diventeremo uno svincolo importante, importantissimo, e sorgeranno distributori
di benzina, e ristoranti, e industrie, e sarebbe ora che vi metteste a studiare, perché quando tutto questo arriverà, sarà di
chi se lo prende prima. E' la Nuova Occasione, potrete diventare tutti ricchi se vi impegnate. Capito? Qualcuno di voi sa
cos'è un'autostrada?
– E' una strada più grande – disse Merlone Secchione. –
Che bisogna pagare il pedaggio per entrare e uscire.
– Scusi – disse Fulisca – allora diventan ricchi loro,
mica noi.
– No, bestia! Perché anzitutto ci sono gli espropri. Dove
passa l'autostrada lo Statitaliano espropria e paga profumatamente. Poi nascono le infrastrutture, e quindi il turismo, gli
allevamenti, e c'è bisogno di mano d'opera, insomma è un
gran rinnovamento che si muove e soldi che girano.
– E le galine? – disse Sterpa il Troll.
– Le galine?
– Sì, già con la strada di adesso muoiono uno sbanderno
di galine schiacciate dalle ruote. Con una strada più grande
ne schiacceranno di più, sarà una strada non di asfalto ma di
pappa di galine.
– Mica solo galine – disse Selene drammatica – schiacceranno anche noi.
– Che classe di bestie – urlò Testuggine – io vi dovrei…
Ma non finì la frase. Il calabrone di Gancio lo centrò
alla coscia, gli cedette la gamba, stramazzò. Tutti sospesi per
quel giorno, scuola finita e il giorno dopo tutti accompagnati
da un genitore.
Mio padre mi accompagnò e ascoltò la ramanzina. Ma
siccome era falegname comunista zoppo di tagliola, qualsiasi
forma di autorità lo faceva incazzare, e sotto sotto dava ragione a noi.
– Per uno spillo in una coscia – sbuffava – noi che ci
siamo presi a fucilate per degli anni cosa dovremmo dire?
Ma quando fu al cospetto della Testuggine si travestì da
bravo padre responsabile e faceva sì con la testa ai deliri del
fumapuzzole, e ogni volta che annuiva io sentivo che partiva
un canchero mentale che centrava il docente in varie parti del
corpo.
– Vede – disse Testuggine – suo figlio è un ragazzino
intelligente, ma è distratto. Sogna, si incanta, in storia confonde le date, fa i compiti del giorno dopo, si mette a parlare
del futuro come se lo conoscesse e dei babilonesi come se li
avesse visti. Mescola i romanzi, la geografia, gli animali. E
soprattutto quando parla salta da una cosa all'altra, da un ar-
gomento all'altro, divaga, e non sa mai che ora è che giorno
è, gli compri almeno un orologio.
– Lo farò – disse mio padre.
Andando a casa lui faceva la faccia di quello che ti deve
rimproverare. Poi mi vide triste e disse:
– Prenderò un serio provvedimento.
A occhi bassi attesi.
– Ti chiamerò Saltatempo. Non sei più Lupetto. Sei il signor Saltatempo. E oggi per punizione spaccherai un quintale di legna.
– Metà oggi metà domani – dissi io.
Dopo la ramanzina per fortuna c'era il sabato, e andammo al fiume.
Prima scarpagnammo giù per l'argine e poi arrivammo
nel canneto e attraversammo il Deserto dei Mosconi Verdi,
una zona di sabbia adattissima a una sosta di riflessione per
noi e per tutti i fiumaroli, forse era la morbidezza della sabbia o il naturale riparo dei papiri che formavano delle specie
di tendine ombrose, ma la budella trovava l'estro, e poi le
mosche venivano a controllare. Facemmo campo base vicino
alla nostra pozza preferita, che scorreva lenta e trasparente,
poi formava una cascatella e si imbuiava vicino a una grande
roccia. Sotto la roccia c'erano quattro metri di fondo e lucci
giganteschi coi musi tutti storpiati dagli ami, pieni di cicatrici, lucci lottatori che ancora non avevano incontrato la canna
pescatrice del destino.
E neanche a me sembrava che la canna del destino fosse
vicina, sdraiato sulla sabbia coi piedi nella corrente e una libellula a picco sulla testa. E guardavo Osso e Gancio che si
preparavano a pescare col battisasso, le loro nuche di adolescenti e le gambe fangose, e non vedevo nessun amo d'oro
sulla loro testa, pronto a ghermirli, con gran ronzare di mulinello, e a portarli lassù, tra le nuvole, dove il Grande Pescatore tiene nel retino le anime sgambettanti e boccheggianti. E
vicino a lui c'è un uomo col cappello che lo guarda, perché
neanche Dio sfugge alla prima legge del pescatore: che tu ne
prenda o non ne prenda, prima o poi arriva un uomo col cappello a guardarti. E il fiume cambiava colore, profondità e
velocità e persino acqua, l'acqua leggera e canterina che correva bassa sui ciottoli non era quella verde e lenta che stagnava vicino alle radici, l'acqua gelida e scura sotto il ponte
non era l'acqua bianca di schiuma che si buttava a capofitto
giù dai lastroni, e diventava corrente pericolosa, dove noi incoscienti ci sfidavamo a chi si avvicinava di più al punto fatale in cui si arrotolava in mulinelli gelidi. C'erano tante acque e tanti pensieri che ronzavano tra il sole, la mia testa e il
fango secco che mi faceva da cuscino. Guardavo Selene che
preparava uno zufolo di canna e lo scolpiva coi dentini, i
suoi occhi verdazzurri un po' strabici e i capelli di frumentone, e non avrei voluto che la lenza me la portasse via, magari
usando come esca una fragolina, di cui era ghiotta. E lei mi
guardava di sbieco, un po' rosicchiava la canna, e un po' sor-
rideva e io mi sentivo strano. Non sapevo se quello era l'amore, ma non avrei voluto essere in nessun altro posto.
Ed ecco che risuonò la prima pietrata. Osso e Gancio
pescavano così: individuavano un sasso largo e piatto a pelo
d'acqua, probabilmente pieno di tane, e poi sollevavano un
altro pesante sasso e glielo mollavano sopra, con lo spostamento d'aria tutti i pesci che eran rifugiati sotto il sasso bombardato venivano su storditi, boccheggianti, e li raccoglievi.
Non mi piaceva quella pesca, era come se uno stava a
casa sua che pranzava e badabam, qualcuno mollava un masagno da una tonnellata sul tetto e tu schizzavi fuori dalla finestra ancora col tovagliolo al collo e la forchettata di tagliatella a metà.
Ma tanto anche se glielo dicevo non smettevano.
Nel frattempo Selene si era tirata un po' su la sottana e
aveva delle mutande bianche molto abbondanti, ma sempre
mutande erano, e io mi sentii tutto invaso da una corrente tiepida con pesci saltellanti dentro.
Per di più notai che tutte le libellule volavano a coppie,
era la stagione degli amori, trombavano in aria, era tutto un
traffico di bilibellule. Cercai di distrarmi da quell'eros aereo,
ma subito vidi nella sabbia uno scarabeo rotolamerda, nero
lustro e grosso che anche lui inchiappettava la sua fidanzata,
e procedevano a passettini di mambo lasciando una striscia
sulla sabbia, il percorso dell'amore. Allora mi cavai quasi
nudo, a eccezione delle mutande cannettate, e mi tuffai nella
pozza pensando, voglio vedere se anche qua fanno del sesso
sottomarino, ma l'acqua era fredda e sapeva di fango, così mi
si bloccò lo stomaco e tornai ad asciugarmi al sole.
Badabam, fece il pietrone di Osso e vennero su quattro
cavedanini rintronati.
In alto, sull'argine, vedemmo dei signori che ci guardavano. E sentii un rumore che da allora avrei riudito molto
spesso, e sopra il canneto si alzò la bocca piena di denti del
dragone. Era una pala escavatrice.
– Stanno già cominciando a distruggere – sospirò Selene
e suonò lo zufolo – porteranno via il fiume, i pesci, tutto.
– Il fiume è grande, la pala è piccola – dissi io.
Osso e Gancio andarono subito a vedere la scavatrice.
La corrente mi portò vicino ai piedi un pesciolino maciullato,
ancora vivo, batteva la coda ma non riusciva più a nuotare e
l'acqua lo trascinava via.
Mi venne da pensare che anche noi eravamo pesciolini e
da un momento all'altro una grande pietra poteva calare sulla
nostra vita, e noi non eravamo importanti per quella pietra,
non contavamo nulla.
Per l'età che avevo era un pensiero molto precoce ma
triste, come quei bimbi che disegnano solo scheletri e la
mamma gli dice «bravo».
Allora abbracciai Selene e lei non si tirò indietro. Tremava e mi carezzava un dito del piede. Era tutta liscia e profumava di sapone.
3.
Ero fermo sulla cavedagna e guardavo mio padre. Stava
seduto sulla panchina di pietra del poggiolo, fumava un cicchino di sigaro e guardava la valle. Con lui c'erano i tre cani,
ognuno in posa diversa. Alaska, la bracca, lo guardava in
faccia e chiedeva, allora che si fa? Fox, il mezzo pastore, si
era messo a fiutare il bosco ed eventuali indiani cherokee.
Nestore, il salcicciometiccio, sonnecchiava con la testa posata sulle zampe e presagiva guai. A mio padre avevano appena detto che siccome gli scavi del viadotto passavano proprio
sotto il nostro podere, avrebbero espropriato e abbattuto la
casa in cambio di un sacco di soldi. Con questi soldi avremmo potuto permetterci qualsiasi cosa, comprare un'altra casa
con l'elettricità dentro, avviare una redditizia attività commerciale tipo liquerizie o cartucce da caccia, e insomma
comportarci come tutti gli altri che erano contenti di vendere.
Ma mio padre non era contento, non si faceva la barba da tre
giorni e girava con i cani sui sentieri, fino ai calanchi preistorici e alle balze di Monte Mario e tornava a casa tardi.
Cosa avrei potuto dirgli su quel poggetto che sembrava
la prua di una nave, in quel mare di verde e nebbia che ogni
tanto ci faceva sentire così lontani da tutto. Fatti la barba,
babbo.
Allora scarpagnai giù per la cavedagna e intanto passava
un anno e tutta la valle era un cantiere e c'erano betoniere
che ruminavano e pale che scavavano e pompe che ciucciavano e casotti di metallo e gente nuova nei bar e macchine
strabilianti e galine stiazzate e una grande agitazione.
Proseguii per le vigne: Dio non mi era più apparso. Vedevo solo, quasi tutte le mattine, una volpe vecchia, mezza
cieca che si accorgeva di me all'ultimo momento.
Era l'ultimo giorno di scuola elementare Caduto Bisacconi. Decisi di voltare per il viottolo dei prugni, fino alla
pozza delle raganelle, e prendere una scorciatoia. A metà c'erano un orto e una baracca di legno che in confronto quella
di Robinson Crusoe era un attico. Nella baracca viveva Celso. Celso aveva seicentonovantadue anni e viveva lì da sempre. La dimora erano quattro assi inchiodate e un tetto di lamierino, dentro c'erano un letto di pietra, un focolare, due
padelle, due galine, e centinaia di pacchetti di sigarette vuoti.
Io mi fermai sulla soglia, e pensai: come può un uomo
vivere anni e anni dentro questo angolo buio, che brandello
di vita, che pochi pensieri e volti, che solitudine senza fondo.
Eppure, quando lo vidi arrivare curvo, con il cesto delle
patate sotto il braccio e la zappa, sentii il calore del suo brandello di vita, sentivo i suoi pensieri, vedevo il fuoco che lui
accendeva la notte, e una donna bionda che gli appariva in
sogno, e i colpi di tosse che gli fermavano il cuore. E il rumore della pioggia, le albe gelide, l'odore delle patate cavate
dalla terra, e il sapore del vino che gli regalava mio padre.
Non si poteva strappare quel brandello, era la stessa
stoffa del mio. Celso, volevo chiedergli, ci andavi al fiume
da piccolo? Li hai visti anche tu i pesci moribondi nella corrente? Chi aveva il diritto di spazzarli via? Il mondo andava
avanti, magari per andare avanti distruggeva quello che aveva davanti ed era un pezzo di mondo, mica di un pianeta nemico, si bucavano le montagne, la gente si sarebbe spostata
veloce ovunque, impossibile stare da soli, mai più baracche e
solitudini. Così era scritto. Ma quando quell'orto sarebbe stato cancellato, l'autostrada avrebbe mangiato la montagna, e
le assi della baracca sarebbero crollate sotto il fiato del lupo,
dove sarebbe andato Celso?
E sperai che la donna bionda o la tosse nera lo portassero via prima che dovesse lasciare quella casa, perché ogni
tana è una casa. Ogni buco ogni nido ogni sasso sotto l'acqua
è una casa, anche se non ha la targhetta col campanello, il
numero di telefono e la porta col catenaccio.
Non capivo perché la vita veniva distribuita in quel
modo lì, un orto per qualcuno e tutto il mondo per un altro,
giorni lunghi da sprecare per alcuni e poco tempo malato per
altri, e il gelo per Celso e alfapuzzole per il professore e sogni per Selene, e per me libertà e gelati e un destino da grande calciatore o direttore d'orchestra, e la corriera verso la città e naturalmente sesso a balocchi, più di una libellula, e un
grande futuro che mi chiamava.
Sentivo felicità e pena insieme.
Mi avvicinai a Celso, era mezzo cieco, mi riconobbe
solo a un metro. Aveva alla cintura una pelle di vipera. Se
vedono la pelle, diceva, si prendono paura e non mi fanno
del male. Con gli uomini non si può fare.
Mi sorrise attraverso due denti e mezzo, e mi mise in
mano un mazzo di ravanelli. Un regalo. Dondolava la testa,
era il suo modo di comunicare amicizia.
Allora io gli diedi due sigarette che avevo fregato.
Lui fece un gesto di stupore, le arrotolò nella mano
sporca di terra, sparì e io pensai: non lo rivedrò mai più.
Poi corsi giù, era l'ultimo giorno di scuola.
Il signor esimiopreside fece un discorso sul nostro futuro e su quello del nostro paesello che sarebbe diventato una
grande metropoli e Gancio obiettò a bassa voce che il nome
«metropoli» è poco, se è grande deve essere almeno una chilometropoli, e per farlo star zitto gli tirai un lopez, che è una
botta con le nocche sul muscolo della coscia e fa un male
caino, e lui mi rispose con un coppone sulla nuca.
Qui è necessario un inciso sulle carognate e aggressioni
più comuni che si facevano a scuola in quei tempi mitici e
selvaggi.
Il lopez, come già detto, è una nocchiata sul muscolo
duro della coscia.
Lo sblisgo, o scazonte, consiste in un colpo di ginocchio
da dietro, che fa cedere la gamba di quello davanti proprio
quando lui c'ha tutto il peso sopra, è come farlo cadere in una
buca, è micidiale.
Il morso del cagnone. Si grampla il polpaccio della vittima e si fa il verso del cane inferocito. Stupido ma funziona
sempre.
La lecca. Colpo dato sul culo con l'elasticone che tiene i
libri.
La stironata. Colpo dato sull'orecchio del compagno di
banco, con un elastichino ben teso e poi smollato.
Il crollacartella. Una gran pedata, alle spalle e a tradimento, sulla cartella di chi ti cammina davanti, con doppio
effetto nocivo: fa cadere la cartella e stira dolorosamente i
muscoli del braccio.
Il coppone. Colpo a mano piena sulla nuca.
Il lopez special. Gomitata nel costato in corsa, adottato
anche nel calcio.
Ho lasciato fuori la caccola adesiva, il pestone semplice,
il cricco nel naso, i colpi alle palle, lo sgambetto semplice,
oppure la gambarola a due coordinata, e altri colpi meno comuni.
Fatto sta che al coppone io risposi con un doppio lopez,
cioè un lopez nello stesso punto appena tumefatto, e Gancio
tirò un sacrodio e fece cadere riga squadra e merenda, delle
prime due non fregandogliene.
Anche l'ultimo giorno, sospirò l'esimiopreside, anche
l'ultimo giorno fate gli asini. Il professor Testuggine, nella
nube di un'alfapuzzola, annuiva come a dire: questi al massimo hanno davanti una carriera da accattoni, e poi Gancio tirò
un calabrone al preside e per fortuna lo mancò, la freccetta si
piantò nella cornice della lavagna, come nei film di Robin
Hood, quello che rubava ai ricchi per dare ai poveri, cosa che
si può fare solo se uno è ricco di suo. Insomma l'esimiopreside, ignaro di essere appena scampato a una freccia guatayaba, ci parlò dell'autostrada e delle industrie quali gli allevamenti di galine e le cementerie che sarebbero sorte nella
zona, e il Troll come sempre sull'argomento galine si agitò e
muoveva il collo su e giù come un pollo. Fulisca si mise un
dito nel naso decorandolo di un alone cinerino poi tirò un
rutto alla banana (merendava con delle banane antiche, nere
come melanzane) e si addormentò sul banco. Le mosche ronzavano sugli anacoluti del simiopreside che attorcigliò due
frasi in latino e ci augurò buone vacanze raccomandandosi di
studiare perché il cervello è come un attrezzo, se non lo si
usa si arrugginisce, e tutti pensammo la stessa cosa, e neanche a farlo apposta in quel momento entrò Fefelli con la moglie. Era una cosa strana perché mica c'erano altri adulti nell'aula oltre il simiopreside e Testuggine, ma Fefè veniva già
a fare la campagna elettorale, si sentiva già sindaco e inoltre
aveva una busta che gli sporgeva dal taschino del gessato color merda. Si udì un sussurro murmurante e maligno, un rosario di comaruzze perfide e giovani satiretti. Perché la signora Fefelli Tiziana detta Labrador era donna assai chiacchierata. A tutti prese la ridarola, compresa Selene che faceva finta di niente ma le si era arricciato il mento, perché anche lei non ignorava le leggende sulla convenuta signora.
Leggende nate da confidenze fatte al barbiere Paolo e da lui
riverberate sulla polis. Il nome Labrador intanto aveva a che
fare non con la geografia ma, diciamo così, con la fisica dei
vasi comunicanti. I racconti su di lei erano un'Odissea dove è
meglio se Ulisse non torna. Narravasi infatti che la nostra
Penelope sbottonasse i pantaloni con gli occhi, e che nelle
cene fosse una specie di incursore, dotato addirittura di piedi
prensili, guantava tarelli sotto il tavolo e il commensale prescelto si strozzava di lasagna. All'aperto, ovunque ci fossero
spiazzi in campi di erba spagna, i casi erano due: o ci aveva
riposato una mucca o ci aveva trombato Labrador. Narravasi
che nella pompa avesse una varietà di ritmi degna di un maestro concertatore, dal lento avvolgente al crescendo eroico,
fino al finale con strappone, narravasi che lo sapesse praticare in posizioni varie e ginniche, e che avesse mezzo infartato
per subiolamento il dottore che era venuto per curarle una
tracheite e mai avrebbe immaginato quella nuova terapia.
Era indomabile: il marito la teneva chiusa in casa, ma era tutto un viavai di idraulici e gasisti e falegnami ed elettricisti,
poiché in quella casa c'era uno gnomo, un Cupido nerboruto,
che spaccava un tubo al giorno e scrostava intonaci e masticava lampadine e schiantava sedie perché la signora potesse
ricevere le maestranze.
Ma Labrador, onusta della sua fama, sembrava non interessarsi né ai pettegolezzi, né al simiopreside e neanche a
noi, persa in qualche pensiero stupendo. Sbatteva le ciglia e
si ritoccò i labbroni con tanto di quel rossetto che avresti po-
tuto condirci la pasta. Ma aveva una faccia mansueta e triste,
come a dire: lasciatemi divertire un po'.
Al suo fianco si agitava il maritino, piccolo rotondo sogghignante, con un assegno di trecentomila lire per la nuova
palestra della scuola, e quando lo mise in mano al simiopreside, spiegazzato come fosse carta straccia, tronfio come a
dire, tanto ce ne ho tanti, lei gli fece la controscena. Si chinò
facendo cigolare la sottana, e si controllò la smagliatura di
una calza. I nostri capini si inclinarono e le boccucce si spalancarono, e lei se ne rese conto e fece un gesto come a dire:
birichini. Idealmente vedemmo spuntare sulla fronte di Fefelli due corna d'uro inghirlandate di pampini con la punta
lucidata a Sidol. Fummo grati a Labrador.
Ma già eravamo lì da un pezzo e ci pisciavamo tutti addosso, e finalmente la cerimonia finì con l'inno di Mameli all'altoparlante. Dopo di ciò, lopez e saluti reciproci e poi, urlando come lupi, corremmo fuori liberi, in un indimenticabile momento di felicità collettiva e individuale. Qualcuno rideva, qualcuno saltava, qualcuno come Selene piangeva,
solo il Troll chiedeva se avevamo capito la storia delle galine, ma si prese una cartellata nei marroni e stette zitto.
Andammo in piazza, e l'altoparlante suonava una polka
che non è polacca, come mi aveva spiegato mio zio ballerino, la mazurka è polacca e piaceva alla tua mamma morta. Io
della mamma ricordavo niente, una foto sul comodino di
papà, oppure una faccia magra che guardava lo strutto disfarsi nella padella, chissà se ci vedeva i suoi pochi giorni. Ma
non era giorno di tristezze, c'era un sacco di gente nuova al
mercato, e uno schieramento di auto argentate col culo bombato mai viste prima, e Bortolini il meccanico le studiava
perché era la sua materia presente e futura. Noi cercammo lo
zucchero filato perché vedevamo dappertutto dei bimbi con
la barba da gnomo, zuccherati fin nelle orecchie, ma quando
arrivammo al dolcificatoio c'era la fila. Allora comprammo
della liquerizia, facendo contenta Fulisca perché così diventavamo neri anche noi, poi andammo a guardare il mercato
delle vacche dove Fefelli duellava con due toscani rubizzi, e
volavano numeri e pesi e sacriddio. Gancio calabronò un
giovanotto di città che gli stava sul cazzo perché stava dietro
alla postina, che era un nostro sex symbol, poi facemmo una
conta dei soldi e decidemmo di salire sul calcinculo del luna
park. Lo avevano messo su gli zingari nello spiazzo del campo di calcio, e da lontano sentivamo già gli strilli di paura ed
eccitazione aerea.
Intanto vidi mio padre ai tavoli del Cieffeeffe.
Il Cieffeeffe, circolo filosofico fancazzista, si radunava,
secondo le condizioni climatiche, davanti o dentro al bar della piazza. Alcuni dei soci erano lavoratori, altri meno. Si trovavano per parlare di argomenti vari, quali la peronospora,
Sivori, Mussolini e il destino del mondo.
E qui faccio una spiega dei personaggi del paese.
Anzitutto Baruch, ex capo partigiano. Lo chiamavano
così perché era molto saggio e un giorno qualcuno aveva visto un libro di filosofia scritto da tale Baruch Spinoza, Baru-
ch suonava meglio e il soprannome gli restò. Era un cavallone magro e ossuto, ingabanato, sole o gelo che fosse, in un
giaccone di fustagno con delle pezze sulle pezze sulle pezze,
delle pezze esponenziali. Fumava toscanelli avvertibili a sei
chilometri, non so a quale trattamento li sottoponeva, lui diceva che li frollava nella grappa, gli amici che li infilava nel
culo a una mucca, comunque l'aroma era unico. Il ruolo di
Baruch era quello di nostra guida spirituale.
Lavamèl era la jazza, ovvero il menagramo del paese.
Nerovestito con una gran mantella vampiresca, occhiali scuri
e un gatto nero di nome Carbonchio che aveva quindici anni
e sembrava sempre investito da un'auto, tanto che quando ci
finì davvero ce ne accorgemmo solo dopo una settimana. Il
compito di Lavamèl era di annunciare sfighe, malattie e ritardi di corriere. Fortunatamente per noi e disgraziatamente per
lui, non portava sfiga neanche un po'. Il suo compito, quindi,
era di professionista pessimista.
Karamazov era sferoide e baffuto coi capelli alla Einstein. Era stato sei anni in Russia a montare oleodotti. Lì per
il freddo aveva perso due dita e parecchi neuroni. Era diventato stalinista libertario, che è una bella gara. Per lui tutto
quello che esisteva era comunque meglio in Russia. Il suo
compito era quello di ideologo, cremlinologo e bugiardo.
Poi c'era Caprone, contadino professionista. Faccia da
pugile, con due braccia che potevano spostare qualsiasi oggetto, da un maiale da un quintale a un tronco d'albero. I suoi
pollici ridicolizzavano qualsiasi pornostar. Viveva sotto il
campo di calcio con pecore, porci e un cane di nome Hisssss,
perché lui lo chiamava solo così, con un soffio, era il cane
più grosso, sporco e mite del mondo. Abitava in una baracca
di materiali assortiti, disdegnando la casa in muratura, e nascondeva un bussolotto coi soldi tutti i giorni in un posto diverso, il pozzo, il materasso, un buco nel pavimento. Qualche volta si scordava dove li aveva messi e faceva la fame
per una settimana, finché non recuperava il malloppo. Era il
nostro esperto agricolo. Solo che parlava pochissimo, un sonetto al mese. Quindi per avere informazioni bisognava adottare la forma del quiz.
Esempio: Caprone, qual è la stagione migliore per piantare i pomodori?
Tutte?
Primavera?
Autunno?
Inverno?
– Primavera, boia d'un duca – rispondeva Caprone.
Alle anime provvedeva don Brusco, il parroco. Era crociato, bigotto, pedante. Con due bicchieri di rosso diventava
centrista, tollerante, moderato. Con cinque gli si poteva confessare tutto ed essere assolti. Balduino giurava che con la
grappa era riuscito a fargli cantare Avanti avanti gran partito.
Saltando di una generazione ecco appunto Balduino il
barista. Balduino era il capo degli alcolisti omonimi, ovverosia Piero il formaggiaio e Piero il barbiere. Insieme facevano
sperimentazione etilica. Cioè provavano quanti liquori tamugni poteva assimilare un essere umano prima di stramazzare
al suolo. Amavano il whisky e il vino buono, ma la loro gioia
e dannazione erano lo Strega, il millefiori Cucchi, il caffè
Borghetti, il Pezziol, l'Inca Pisco, i vini marsalati, la menta
con lo stravecchio. Il loro motto era: se va giù non è cattivo.
Erano tutti e tre bugiardi, visionari e, poiché l'alcol dà straordinarie illuminazioni, solutori di problemi complessi.
Mio zio Nevio era l'Esperto. Non c'era nulla, nel vasto
catalogo del mondo, che lui non conoscesse. Esperto di caccia, pesca, coltivazione campi, viticoltura, automobili, trattori, storia antica e moderna, calcio e sport olimpici. Bastava
pronunciare (adesso si direbbe digitare) una sola parola, ad
esempio: lepre. Zio Nevio si metteva un dito sulla tempia,
avviava il motore di ricerca ed ecco le prime dieci informazioni:
La lepre più grande presa nella zona, sei chili e mezzo
dal nonno di Osso, fucilata di prima canna.
La lepre d'inverno non diventa bianca, mette su un pelo
più morbido e non fa la tana.
La lepre il massimo è in salmì con l'uva nera.
In Iugoslavia ci sono tante lepri che le cacciano col retino da farfalle.
La lepre può fare salti di sette metri, ma non gliene frega un cazzo.
Leprotto è il nome di un motorino due tempi quarantotto
che però ha il cambio duro e le ruote troppo piccole.
Lepri era uno che morì disinnescando una mina per
scommessa. Disse, cosa volete che ci voglia, invece ci voleva.
La legge immutabile della lepre dice: se hai il permesso
di cacciare solo una lepre e spari a una grossa, mentre la
metti nel carniere te ne passa davanti una grossa il doppio.
La differenza tra la lepre e il coniglio è nel carattere.
La lepre morta è uno dei soggetti preferiti dei pittori di
nature morte.
Premere il dito sulla nuca per avere altre informazioni.
Ai tavoli della zona ombreggiata, sotto un tiglio ronzante di api, c'era il gruppo Buton, così detti perché non erano
vecchi, ma stravecchi. Ovvero:
Cipolla, che nel '47 aveva preso con l'aratro una mina
che gli aveva stoppato le orecchie, ed era diventato così sordo che l'anno dopo ne prese un'altra, tornò a casa tutto sporco di terriccio e sangue e disse: dev'essere scoppiata una
mina giù al fiume, ho sentito un boato lontano.
Arturo Novantasei, perché gliene mancavano quattro al
secolo.
Maria Casinò, che a ottant'anni giocava ancora a tutto: a
tressette a poker a bestia, anche a rubamazzo con i bambini,
se non c'era di meglio.
Tra gli ambosessi mediamente acculturati, l'istituzione
più importante era Regina, cartolaia giornalaia e tabaccaia.
Di stirpe sudista, ex staffetta rossa, con una bellissima faccia
da apache, Regina era esperta di qualsivoglia editoria, dalle
ricette di cucina al romanzo d'amore, dalla cronaca nera al
fumetto, dalla politica al pettegolezzo. A lei ci si rivolgeva in
una grande varietà di casi. Per sapere come si cucina la quaglia al cognac e come finisce Via col vento, ma anche chi è
l'attuale ministro dell'Interno e in quale numero Tex incontra
per la prima volta Mefisto. Inoltre era un'attenta lettrice di
necrologi. Se moriva qualcuno che aveva avuto qualche contatto col paese, lei riferiva. Una mattina si presentò al gruppo
fancazzisti annunciando: è morto Glisenti Ettore.
E chi è? chiesero tutti.
Lei ricordò che, dieci anni prima, c'era stata un'invasione di vespe. Avevano fatto il nido nel campanile e da lì partivano per le loro incursioni, attaccavano le cibarie e beccavano come granchi. Il figlio della Luciana ebbe anche uno choc
profilattico, si gonfiò come un melone e dovettero portarlo in
ospedale e fargli un antistalinico. Allora si disse basta, e dalla città arrivò un furgone giallo con la scritta: Rapide Disinfestazioni Glisenti, topi e insetti state attenti. Da vero professionista, in un solo pomeriggio Ettore risolse il problema, e a
terra c'erano più vespe morte che soldati a Little Big Horn. Il
Glisenti era quindi un benemerito del paese, e ora Regina ci
ricordava di onorarlo.
Poi c'era la Luciana merciaia cartomante e esperta di
moda.
Zoraide ricamatrice che era stata miss Regione nel '50.
La Grinza, la più pia del paese, che pregava in bicicletta.
Veronica la benzinaia, alta e tettuta, che a forza di battute sulla pompa le erano venuti i capelli bianchi a trent'anni.
Caio il fornaio, che era sempre allegro e tutta notte cantava l'opera impastando, e diceva la leggenda che qualche
volta mordendo una ciambella potevano uscire le note del
Rigoletto.
E c'erano i suoi figli Giglio e Loris Arduini, i belli del
paese, coi bicipiti sempre infarinati.
E Favilla il fabbro, coi baffi strinati dalle scintille.
E Maghino l'elettricista, che diceva se una lampadina si
fulmina è perché ha visto qualcosa che non le è piaciuto.
E Luis il trattorista, che col trattore Landini ricamava i
campi.
E Bortolini meccanico riparatutto, dalla bicicletta alla
ruspa, ma soprattutto il più grande pescatore del mondo.
Io frequentavo soprattutto il gruppo dei bombardieri,
così detti perché di carattere forte e portati a alzare la voce,
contraddirsi e litigare. Carburo, facile a deflagrare in incazzature tonanti, sindacalista e campione di biliardo. Belloni il
fontaniere, lo Sherlock Holmes delle tubature, celebre per la
sua abilità nell'individuare le perdite nei muri, e altresì celebre per le dimensioni del cannello naturale. Ossobuco, macellaio, padre di Osso, fascista inveterato e mago del barbecue. Edison Rondelli, droghiere assai bigotto, che odorava di
detersivo, dado da brodo e aromi vari, i cani lo seguivano
sempre e gli pisciavano sui pantaloni, non si sapeva perché,
qualcuno dei suoi odori li ispirava. Chicco il battirame, decoratore imbianchino caricaturista, nonché pittore «di donne
nude sdraiate scomode». Paolo, barbiere parrucchiere e pettegoliere.
A parte, nella categoria fancazzisti a tempo pieno, c'era
Slim lo splendido. Slim non aveva mai pagato da bere a memoria d'uomo, ma riusciva a scroccare e sopravvivere in
qualsiasi stagione. Fu lui a inventare, trent'anni prima degli
stilisti, l'abito firmato. Nel senso che firmava delle gran cambiali ai sarti, non pagava mai, ma era sempre vestito come un
damerino. Come unica attività faceva l'uomo uccello. Avendo una particolare struttura dentaria, con un buco tra i due incisivi, sapeva imitare alla perfezione il canto di centoventi
uccelli, di cui ventisei immaginari. Se dico alla perfezione
non esagero, passava dietro ai gatti, zirlava e quelli impazzivano. Ogni tanto andava ai tavolini della trattoria, aspettava i
clienti, iniziava lo show canoro e alla fine tirava su qualche
soldo. Lo portarono anche a caccia ma non funzionò. I gatti
li fregava, gli uccelli no.
E per finire Libero, il matto, lo zoppo, il falegname più
bravo del mondo che sapeva fare un cucù anche con degli
stecchini. Mio padre, insomma.
4.
Nel gruppo dei bombardieri mio padre si notava subito,
parlava sempre in piedi a braccia spalancate, girava su e giù
come un arbitro, fumava e buttava giù vino rosso. Gli altri lo
ascoltavano e non riuscivano mai a interromperlo. Mi vide e
mi salutò, ma non mi sorrise e aveva la barba lunga mezza
bianca, sembrava la volpe vecchia del poggetto.
Lo sentii dire:
– Ci danno quattro lire ma poi guadagneranno solo loro.
Ci porteranno via tutto. Come fate a non capire?
– Sei troppo pessimista – disse zio Nevio – arriveranno i
turisti. Verranno qui a cacciare. E io apro un negozio di Cacciapesca: schioppi cartucce lenze guadini bilancioni, tutte le
esche lombrico senighella pastone tremolina bigattini, diventiamo ricchi.
– Le lepri prima o poi finiscono – disse Rondelli, che oltretutto assomigliava a una lepre.
– Ci sono attualmente in Italia dieci milioni di lepri –
precisò zio Nevio.
– Io ho venduto e sono contento – disse Ossobuco – tanto vendere è obbligatorio, ti vuoi mettere contro gli avvocati
dell'autostrada? Il prezzo lo fanno loro, è il mercato, come
coi manzi.
Slim fece un assolo di cornacchia, era il suo modo di
dissentire.
– Ma la terra non ce la espropria solo lo stato – insisté
mio padre – ci son dei terreni che non sono espropriati e li
sta comprando Fefelli. Cosa c'è sotto?
– Io vendo – dichiarò Chicco il battirame – e apro un ristorante col menu sbalzato in foglia d'oro, ci sto già lavorando.
– E la cooperativa artigiana? – fece il babbo torvo. – Allora non la facciamo più?
– Ma bevi, dai – disse Chicco, e sembravano tutti meno
amici del solito. Maria Casinò arrivò, propose un tressette a
non prendere, ma fu mandata a prenderlo sai dove.
– E il fiume? – intervenne Baruch. – Perché vogliono
scavare tutto il fiume?
– Perché han bisogno di ghiaia per il calcestruzzo. Faranno anche una fabbrica.
– Poi noi peschiamo i pesci di asfalto – disse Arturo Novantasei, come tutti i giovani preoccupato per il suo futuro.
– Siete dei conservatori – sospirò zio Nevio – io vado a
vedere la nuova televisione al bar. E' il doppio della vecchia,
si vede la partita con Sivori a grandezza naturale, se esce una
pallonata dallo schermo ti ribalta. Animo ragazzi, novità, ci
vogliono delle novità in questo paese.
Allora parlò Karamazov.
– C'è novità e novità.
Lo zio sapeva già dove andava a parare.
– Perché, in Russia come farebbero?
– In Russia Stalin quando deve fare dei lavori sposta gli
uomini. Dice: voi, un milione, tutti a prosciugare il fiume. E
in una settimana il fiume non c'è più. E voi, un altro milione,
via da lì che lavorate poco, in Siberia a far crescere le vigne.
E ci riescono. E' inutile che scuotiate la testa. Io l'ho vista l'uva siberiana, rossa, con dei chicchi gonfi e lustri, e un po' di
peluria per proteggersi dal freddo. E tutti i russi hanno un
grappolo a testa e una bottiglia di vino siberiano, non due, se
no ti fan la multa. Perché lì tutto è collettivo, compresi la terra, le biciclette e gli animali.
– E le mucche? – chiesi io.
– Le mucche fanno anche cento, duecento litri di latte se
il partito decide, e hanno legata alla coda una paletta che raccolgono la propria merda e la metton loro nell'aldamara, fanno dei letamai precisi, quadrati, con la bandiera rossa in
cima.
– E le galine? – chiese il Troll apparendo dal nulla.
– Le galine sono grosse come falchetti e fanno l'uovo
due volte, alla mattina e alla sera. E non vanno sotto le macchine, perché in Russia hanno dei freni che noi ce li sogniamo, mai ho visto una galina sovietica stiazzata e mai un incidente stradale, e mai si è sentito di un russo che è caduto di
bicicletta.
– Karamazov – disse papà – candidati a sindaco, che le
balle le dici bene.
Lo disse a voce alta, forse perché aveva visto arrivare
Fefelli con Labrador e due figuri grossi tozzi, con delle facce
da impiccagatti. Erano i fratelli Pastori, Licio e Nerio, e gli
facevano da autisti tuttofare e malaffare.
– Allora, venite domani alla festa? – sorrise Fefelli.
– A villa Meringa? – disse Balduino, apparendo con un
bicchiere di Amaro Zampogna in mano. Balduino era specialista in entrate a cazzo, in francese gaffes.
La villa di Fefè era effettivamente chiamata villa Meringa per il colore bianco e l'abbondanza di stucchi, perlinature,
colonnine, parapetti zuccherati, fiorami e bassorilievi. Sul
nome dell'architetto c'erano supposizioni. Per noi era la strega di Hansel e Gretel, per alcuni l'architetto del Littoriale,
per altri Caio il fornaio.
– Ci troveremo nel parco della mia villa, tutti sapete dov'è – disse Fefelli un po' nervoso.
– E cosa si festeggia? – incalzò Balduino.
– Naturalmente la mia candidatura a sindaco. Vino, salcicce e danze. E parlerò dei miei programmi.
– Lavora sempre – si scusò Labrador a occhi bassi.
Slim fece il verso della pernice in calore.
– Allora vi aspetto tutti domani sera – disse Fefelli, e si
mise a offrire Muratti Ambassador piatte, pregiatissime. A
mio padre piacevano da matti, ma disse che lui quelle non le
fumava, e se ne andò.
– Quello – disse Fefelli – è una testa matta, non dategli
retta.
– E' mio fratello – disse lo zio – è un po' balzano, ma
alla fine obbedisce.
– Non è mica un cane – dissi io. Per la rabbia mi sentivo
più alto di dieci centimetri.
– E questo ragazzino chi è? – disse Fefelli.
– Quello che ti ammazzerà – dissi io a bassa voce.
– Come hai detto?
– Non ho detto niente. Io alla festa non ci vengo. Andiamo a pescare le rane.
– Benedisse Fefelli – poi le vendete ai ristoranti e ci fate
i soldini.
– Ehi, ragazzi – disse Osso mentre ci allontanavamo – il
futuro sindaco è un dritto. Quello tira fuori soldi dalle scoregge.
– Allora tu saresti Rockfeller – disse Gancio.
– Andiamo via – disse Selene – c'è troppa gente qui.
– Dici così – disse Osso – perché ci sono in giro delle
gnocchette con le sottane scozzesi e i calzini bianchi che ti
fanno sfigurare.
– Anche noi ragazze di paese sappiamo esser fini – protestò Selene.
Passò Otorina l'Obice con un'aranciata con cannuccia e
tirò un rutto da far girare una giostra e poi la Luciana che si
grattava il culo.
– Andiamo al calcinculo o no, tamperle? – gridò Gancio.
– L'ultimo che arriva i guatayabas gli taglian la testa.
Il calcinculo era bellissimo. Al centro c'era il rotore dipinto d'oro con dei marziani che sembravano un po' angeli e
un po' galine con l'occhio sbarrato. In cima c'era la scritta luminosa «Volo magico» e agganciati con le catene i seggiolini di colori diversi, con la sbarra di sicurezza. Chi se la mette, disse Gancio, è un cagasotto, ma io dissi me la metto, perché l'anno scorso un bimbo piccolo è stato sbalzato per cento
metri ed è volato proprio nella cucina di casa sua e la mamma lo ha trovato nel minestrone.
Questa l'avevamo inventata io e Osso.
Alla cassa c'era uno zingaro con l'orecchino e una cicatrice sul mento, e io subito capii che era il pirata Van Maxel
ed era lì in incognito per recuperare la contessina Velda che
era stata rapita da quello del tirassegno, che l'aveva messa a
caricare le carabine.
– Sveglia, ragazzo – mi disse il pirata, perché intanto
m'ero incantato nella fila.
– Quanto costa un ziro?
– Cinquanta lire un ziro, cento lire tre ziri. Conviene.
– Ragazzi, facciamo tre ziri?
– Io non li ho i soldi per tre – disse il Troll.
– E te stai sotto a guardare – disse Osso.
Quando suonò la sirena, il vecchio turno scese, barcollando per la rigirata al cervello. Il nuovo turno subentrò, c'erano a disposizione di culo dodici seggiolini per noi e una
ghenga di Castellito, un paese al di là del fiume. Subito Osso
tirò un pugno in fronte a uno che voleva rubargli il sedile
d'argento e Gancio si azzuffò con uno doppio di lui, e Selene
e Fulisca fecero uno sgambetto sincronizzato, una spinge e
l'altra fa l'ostacolo, e ribaltarono una cicciona prepotente. Bisogna farsi rispettare nelle faide.
Il rotore cominciò a girare e la forza centrifuga fu con
noi, prendemmo quota e sentii uno scrimlizzo nello stomaco
e Fulisca che strillava come se fosse già nella ionosfera, poi
si sentì un urlo di dolore, Gancio aveva calabronato un castellitese. Io mi attaccai al seggiolino di Selene e le diedi una
spinta, poi cominciai a girare su me stesso e intanto mi alzavo e beccheggiavo, vedevo la piazza girare, le bandiere del
mercato e l'arco delle montagne. Mi sembrò di vedere sotto
mio padre che guardava con le mani in tasca, e il seggiolino
saliva sempre più su e mi venne un po' nausea, vidi il mare in
tempesta e una nave pirata con Van Maxel che distribuiva biglietti «tre ziri, tre ziri di abbordaggio cento lire», avevo un
chiodo nella testa e vedevo tutto nero finché vomitai a spruzzaglia proprio in testa a Osso che bestemmiò nello spazio, mi
accasciai e persi i sensi. Il cigolio ritmico dei seggiolini fece
partire l'orobilogio. Mi apparve un altro pianeta.
Ora roteavo nello spazio al rallentatore, come sulla luna.
La piazza era piena di case nuove, tutte con l'elettricità dentro, c'era una banca coi vetri neri e un gran negozio con televisioni e lampadari accesi. C'era il ristorante Foglia d'Oro.
Lontano due ciminiere gemelle sputavano bile fumosa. Sul
pianoro verso la città era spuntato un edificio basso basso
che puzzava orribilmente.
Fulisca, che era vestita da strega e mi precedeva su un
seggiolino fatto a scopa, disse:
– E' un allevamento di vermi, che nascono nella carne
marcia, e vicino stanno costruendo un allevamento di galine.
Vidi in lontananza il Troll che lavava galine con uno
spruzzo disinfettante.
E poi vidi il fiume scavato, sbranato, con delle grandi
montagne di ghiaia, e la nostra pozza era secca e torbida, i
camion andavan su e giù. Vidi l'autostrada ampia che avanzava, come una lama di coltello nella valle. Però è bella, pensai.
– Tutto è bello se non si esagera – disse il pirata Van
Maxel, e si mise a duellare in aria con Gancio, a spadate.
Tutti i castellitesi sui seggiolini erano morti colpiti dalle
freccette, Selene roteava mostrando le mutande al mondo e
Osso si era addormentato fradicio di vomito.
Si alzò il vento, e sentii che il seggiolino saliva ancora,
ancora più su e faceva freddo negli spazi siderali e in cima al
bosco, guardai verso la cavedagna e c'era ancora, ma il monte non c'era più e neanche casa nostra, c'era solo il bosco dei
castagni e sotto una scarpata nuda e ripida, come tagliata da
una coltellata precisa.
Vidi mio padre sul seggiolino dietro al mio, pallido, che
beveva a collo da una bottiglia.
– Papà – dissi – cosa fai quassù?
– Tanto dove vado? – rispose lui, si impennò, fece un
salto mortale e cascò proprio in mezzo alla piazza, per fortu-
na sul paglione delle mucche e restò lì, a braccia aperte,
ubriaco perso.
Allora mi accorsi che il seggiolino cominciava finalmente a scendere, vidi la sottana di Selene richiudersi e le
sue mutande rincasare. Il pirata Van Maxel scese al volo con
un balzo, disse «fine della traversata» e i castellitesi si toglievano le frecce e dicevano: è solo un graffio.
Il rotore muggì arrestandosi, e io riaprii gli occhi. Ero
disteso per terra nell'odore di croccante e mistocchine. Mio
padre mi guardava preoccupato.
– Non è niente – disse una voce di donna – forse aveva
mangiato delle porcherie, delle volte questo marchingegno
qui fa star male.
– Dovrebbero proibirlo – disse la voce di Fefelli in lontananza – quando sarò sindaco, voglio vedere tutti i permessi
di 'sti zingari.
Gli rispose un fattindarinculo in gitano.
– Va meglio? – disse Selene che voleva carezzarmi la
fronte, ma si fermò per soggezione di mio padre.
– Li abbiamo sterminati – disse Gancio roteando la cerbottana.
– Sei proprio un finocchio – disse Osso, e vidi che gli
avevo vomitato addosso per davvero.
Per riprendermi dalla nausea e dallo choc dovetti mangiare due piade e uno stuffilone di liquerizia. Quella notte
non dormii. Avevamo dato via i cani a uno che abitava nel-
l'abetaia. Mio padre russava e li chiamava nel sonno. Mi
sembrava che la casa stesse per volare via, roteando.
5.
Son passati due anni nell'orologio e due canzoni di grillo nell'orobilogio. Scarpagno giù dal bosco dove una volta
c'era la mia casa. Ho sottobraccio un cesto pieno di funghi.
Porcino grasso fratino, protettore dei risotti. Boledro aranciato, ovetto con l'ombrello. Cappelline che vivete in branchi e
chiacchierate all'ombra dei fili d'erba. Candido prataiolo dalla sottoveste di seta viola. Mazza di tamburo, cazzaccio tutto
bugni. Chiodini piantati a uno a uno dal martello degli gnomi. Galletto stortignaccolo e delizioso, vescia scoreggiona,
fungacci sguinci attaccati agli alberi come malattie, e magari
siete anche buoni. Amanita bella e traditrice come una vampira. Satanasso verdastro e bavoso, che annodi gli intestini e
fai sudare bile. Scarpagno col cestino pieno di funghi buoni,
anche se li farò controllare, perché come diceva mio nonno
basta un bastardo nel cesto per rovinar tutto, proprio come
tra gli uomini. Mi fermo a guardare delle cavallette verdi che
sembran dei draghi, una volta riuscii a mettere un guinzaglio
di refe a una e la storpiai, mi dispiacque molto, la notte sognai una fata gambalunga che piangeva, era la regina delle
cavallette. Cammino tra l'erba alta e non vedo più i macaoni,
solo qualche cavolaia. E ci sono meno ragnatele. Papà dice
che quando il bosco è malato si vuota, dal ramo più alto alla
vita sottoterra. A me sembra più o meno uguale, solo che
non è più silenzioso, si sentono i rumori dell'autostrada in
lontananza. Decido di passare dove una volta c'era la mia
casa. Devo rompere un ramo e usarlo come un machete, che
si pronuncia maciete. In un anno sono nati rovi e felci e erbe
fantasma, la pietà del bosco ha coperto le ferite dello scavo.
Riconosco le pietre che recintavano il poggetto, un disegno a
prua di nave, ma non trovo più la panchina dove mio padre
conversava coi cani.
Mi incastro nelle spine e nelle ortiche, rosso e sudato,
brucio di passione vegetale e finalmente riconosco un castagno magno e capisco che sono circa sopra la casa, ma non si
vede nulla, solo uno strapiombo scuro e in fondo i piloni del
viadotto. Però se salgo dalla parte dei cotogni posso ritrovare
la Fanara, la vasca delle mucche a cui si abbeveravano tutte
le bestie del monte, un vero ritrovo alla moda. Sfondo un
muro di rovi e la vedo.
E' tutta coperta di muschio, un filo d'acqua cristallina
scende da una grondaia di legno, canta e si mescola nell'acqua verde, tutto è umido, oscuro e fresco, è un posto sacro,
gocce cadono dalle foglie che sporgono sul bordo e disegnano cerchi, stille misteriose piovono dall'alto. I calici delle
epatiche e le punte delle felci vibrano mossi da vite nascoste,
passi di maggiolini, strisciare di lumache, agguati di ragni.
Posso sentire i diversi strumenti dell'acqua, schioccanti, fruscianti, gorgoglianti. Tante note, compreso il mormorio del
rigagnolo ai miei piedi. Bevo, l'acqua sa di corteccia. Lentamente l'oscurità e il rumore delle gocce mi ipnotizzano. L'orobilogio muove le lancette.
Subito arriva lo gnomo.
E' alto la metà di me, ha folti baffi candidi, una gabbana
verde e stivaloni a metà gamba, si muove nel fogliame quasi
invisibile. Ha in mano un secchio e un cesto di funghi, molto
più grossi dei miei. Alla cintura gli pende un'ascia affilata.
Nemmeno mi saluta. Riempie il secchio, io guardo l'ascia un
po' agitato. Lui se ne accorge.
– Hai paura che ti tagli la testa, ragazzino?
– No, no – rispondo – è che non credevo di incontrare
qualcuno qui.
– Infatti la foresta si è vuotata. Prima i geometri misuratori, con quei loro tirarighe assassini. Poi le ruspe. Poi le frane. Poi il fumo che sale fin qui, la puzza di quei maledetti allevamenti. Lo sai che i vermi li fan crescere nei cadaveri
vivi? Quando i vecchi si ammalano invece che in ospedale li
portano lì.
– Davvero? – dico. Questa mi piacerebbe averla inventata io.
– Ma se incontro un altro di quelli che vengon qui a segare alberi gli taglio la testa a metà, come uno zocco di legno. Cosa ci faranno con questi alberi? A me ne bastano due
all'anno.
– Il paese si sta ingrandendo. Vedesse quante case e
ognuna col tinello in legno e le ringhierine e la palizzata, lo
so perché mio padre fa il falegname, anche se il lavoro glielo
porta via la Legnami Capponi che è una ditta che sta in città:
fan tutto, dal segare al far le sedie, dal tronco al portauovo.
Hanno due camion enormi.
– Di legno?
– No, quelli no. Ma lei non scende mai in paese?
– Non posso, sai perché?
Certo, vorrei dire, lei è una creatura silvana probabilmente irreale, come il Dio allegro del poggetto, la volpe strega, l'uomo di pigne, lei forse è uno gnomo baccarino, oppure
un nano muschiato o un coboldo marronaio.
Lo gnomo mi guarda male e si trasforma. I baffi diventano verdi, gli occhi iniettati di sangue, e comincia a sudare
un umore viscido.
– Non mi prendere in giro, carino. Io ho due versioni.
Quella buona mangereccia, e allora son dolce e gentile. Ma
posso diventare verde e velenoso come un boleto satanasso e
allora son cazzi. Chiedimi scusa.
– Scusi – dico io. Non c'è da scherzare con uno gnomo
velenoso.
Lui torna bello candido ma resta incazzato.
– Non vengo in paese perché mi prendono in giro per
come son vestito, mi chiamano il fungo che cammina. Però
al ristorante i miei porcini li mangiano, eccome. Allora mi
sono eletto guardiano del bosco. Abito lassù in cima, dove
cominciano i carpini e gli abeti bianchi. E tu abitavi là, dove
adesso c'è quel buco pieno di rovi. E tuo padre allora non beveva.
– Come lo sa?
Un'ombra di tristezza gli velò il viso, e contemporaneamente il bosco si rabbuiò, il sole s'era nascosto. Lo gnomo si
lavò i baffi nell'acqua della vasca e gli restò una raganella attaccata.
– Lo so. E so che un giorno gli alberi scenderanno giù a
valle, trascineranno fango e pioggia, e si vendicheranno. Sai
che un mese fa hanno tentato di incendiare il castagneto?
– Chi?
– Due uomini tozzi e brutti, che si assomigliavano. Li
ho visti e ho liberato i cani, Stramonio e Amanita. Li han
masticati come ossi. E se tornano… – e roteò l'accetta. Vidi
che aveva gli occhi di colore diverso, uno verde scuro l'altro
verde chiaro, e mani pelose grandi tre volte le mie.
– Secondo me, scusi l'ardire e non si trasformi, lei è uno
gnomo – dissi tutto di un fiato.
– Mi hai scoperto – sospirò – sì, sono uno gnomo tomellone, quello che faceva gli scherzi a casa tua. Ricordi la scarpa nella polenta? Sono stato io. Quando il tuo cane camminava all'indietro era sempre opera mia, gli avevo messo la
grappa nella zuppa. E i cucù che facevano il verso del porco?
E quei passi misteriosi sul tetto? Altro che ghiri, ero io che
pulivo il camino, sfaticati, se no affumicavate tutta la foresta.
Poi però ci cagavo dentro.
– Quelle merde verdi col ribes dentro?
– Quelle. E poi vuotavo le cartucce a tuo padre e il fucile faceva cilecca. E con tua madre…
– Con mia madre cosa? – esclamai risentito.
– Be', se la incontravo nella legnaia… sotto la luna…
– Bugiardo.
– Forse mi confondo con un'altra. Ti ricordi quella volta
che è nevicato tutto il giorno e a mezzanotte c'era un muro
bianco davanti alla porta e tu hai detto: che bello, domani
non vado a scuola? E ricordi che la mattina era tutto spalato?
Be', sono stato io. E ho seppellito io il tuo gatto rosso, quando è venuto a morire nel bosco. Ero quello che arrivava prima di te alle fragole. Quello che ti faceva cadere le pigne in
testa. Quello che faceva le impronte finte dell'orso. E conoscevo bene la tua mucca.
– Ha fatto porcherie anche con la mia mucca?
– No, no. Ma ricordi che di notte qualche volta scappava? Veniva alle mie feste. Ballava come un capriolo, quella
cicciona.
– Lei non è gnomo, è un gran bugiardo, dieci volte più
di me.
– Proprio così. Sarà l'effetto del miele che lecco dai fiori. O qualche elisir magico che sprigiona il muschio. Chi nasce nel bosco vede il tempo da due parti, dalle radici e dalla
cima dei rami. E' una pazzia da cui non si guarisce – disse lo
gnomo, tirò l'ascia e centrò un albero a dieci metri. – Perciò
di' a quelli del paese che non provino più a salire quassù.
– E io posso venire?
– Tu dimenticherai tutto questo, le tue radici e le mie –
disse lo gnomo, severo. Scrollò le spalle e sparì con passi pesanti, col secchio che seminava gocce.
In quel momento scoppiò un temporale e in breve il crepitare della pioggia sugli alberi fu assordante. Il tetto del bosco grondava, le grandi foglie si riempirono d'acqua come
scodelle. Non avevo niente per coprirmi. Mi riparai vicino
alla vasca, sotto uno spuntone di roccia.
Sento lo schiaffo di un fulmine che spacca un albero giù
in basso. La luce diventa di piombo. Vedo una chiazza di
fango che si allarga nella vasca, forse il terreno sopra la
grondaia è smottato, ma l'acqua schiarisce subito e io mi
specchio. Però non vedo nulla, la pioggia increspa la superficie. Guardo meglio e forse sono ancora un bambino, il giorno che sul poggetto ho visto Dio. O forse son cresciuto e sto
per prendere la corriera verso il fondovalle, dove frequento
le scuole medie. Forse il camino di casa mia è acceso, potrei
correre a rifugiarmi là, ma forse là c'è solo un abisso di rovi e
ortiche, e tra una settimana inaugurano l'autostrada. Non
vedo il mio volto, la pioggia cade in giù ma qualche volta
sembra che il vento la porti a folate verso l'alto, i ragni scappano sotto le foglie e non so più se è mattina o sera. I funghi
si infradiciano e mi sembra che qualcuno di loro cerchi di
scappare dal cesto. Nella vasca di pietra ora c'è un'ombra sul
fondo, qualcosa di enorme che nuota, e all'improvviso balza
fuori, è il luccio più grosso della pozza, lungo come una spada, con la bocca incrostata di ami, i denti aguzzi da lupo.
Tira una gran codata e poi ricade e si mette storto, a mezz'acqua. Io capisco che la pozza è secca, è venuto a morire lì, ha
percorso i fiumi sotterranei in salita, come un salmone. Buona fortuna, lucciolupo. Mi piove anche dentro le braghe, il
rumore della pioggia è interrotto dal clacson di un camion,
giù nell'autostrada. Una cornacchia strilla. Allora mi sembra
di capire.
Capisco che ci sono due tempi o forse mille dentro cui
vivo, uno corre lento e riesco a vederlo e misurargli la testa e
la coda, l'altro procede a balzi e bufere, le cose cambiano in
fretta, appaiono i destini e le conclusioni e io non vorrei conoscere il futuro, ma il futuro mi chiama, mi ammonisce, mi
dice che forse posso cambiarlo, mi dice che i ragazzi nati nel
bosco passano troppo tempo da soli a fantasticare, è la loro
miracolosa fortuna e il loro maledetto segreto. Come dice lo
gnomo, non si guarisce. Così guardando nell'acqua vidi il
mio volto di vecchio, magro e sofferto, e una croce in un cimitero di campagna. Vidi Selene che partiva per la città e io
non c'ero a salutarla. Vidi un fiume torbido che correva in
mezzo al paese, e dentro rami spezzati e pesci morti, e mani
avide che spartivano una manciata di terra. Vidi una luna di
cenere. Ma una parte di me ascoltava il rumore di quel bosco
e diceva: esiste anche questo, ciò che non verrà mai toccato
né visto da tutti gli uomini. Solo da quelli che vivono davvero.
Smise di piovere e due mesi dopo Fefelli fu eletto sindaco col cinquantatré per cento promettendo il boom, anzi una
raffica di boom-boom edilizi e commerciali. Un nuovo ra-
dioso, moderno paese sarebbe sorto sulle pendici della montagna, guarda caso sui terreni suoi, oppure intestati a Labrador o al figlio Marcello che si diceva studiasse a Osford invece sfolgorava di zucconaggine al liceo privato Parini ricchi
e cretini. Si cominciò a edificare la banca, e la precedettero
gli usurai privati tra cui il babbo di Osso che passò direttamente dal tagliar bistecche allo sfilettare debitori. Qualcuno
ci cascò subito. Fatevi tutti la villetta e la macchina, basta
con queste case tristi e le biciclette scassate, diceva Fefè offrendo murattipuzzole e prestiti, siamo già una metropoli.
E infatti la strada intorno alla piazza fiorì di novità. La
più clamorosa fu certamente la boutique di biancheria intima
Luciana Lingerie, che tutti dicevano: ma di cognome non si
chiamava Carboni? Forse Lingerie è il nome da nubile, azzardò qualcuno. Era un negozio assai osé e quando il parrocco ci passò davanti ebbe una colica bilaterale, e si dovette
patteggiare la carica erotica della vetrina. In prima fila mutande tattiche e canottiere di lana, in seconda slipponi e reggiseni classici, in fondo le trine assassine e i bodies. All'inizio non ci entrava nessuno, poi avvenne il miracolo di Santa
Guêpière. La Zoraide, ex miss Regione, vigorosa over quaranta ancor ghiotta di piaceri, soffriva perché il marito Oscar
la trombava solo quando il Bologna vinceva e segnava Fogli.
In tre anni Fogli fece due gol. Ma una sera la signora Zoraide
tornò a casa con un pacchettino galeotto. Dopo cena il marito
era in poltrona, leggeva Stadio e ruttava lo stracotto. Zoraide
si presentò con la guêpière sotto la vestaglia. Oscar cadde in
ginocchio, per l'emozione e per vedere da vicino. Dopodiché
Fogli iniziò virtualmente a far gol tutte le domeniche e anche
negli allenamenti infrasettimanali. La Sacra Guêpière divenne la protettrice del negozio e aiutò molti matrimoni, non tutti, perché come diceva saggiamente la Luciana:
– Le giarrettiere sono come i quadri. Bisogna capirle.
Poi c'era mio zio, che aveva inaugurato il negozio di
caccia e pesca più bello dell'occidente. Sopra la cassa c'era
una testa di cervo soprannominato naturalmente Fefelli, ai
muri due lucci imbalsamati pescati da Bortolini, e un salmone norvegese che fa sempre arredo. E c'erano fucili di tutte le
marche e lenze sottili come frustini e tutti i rapalà e le esche
finte traditrici, dalla cavalletta di carta alla mosca piumetta,
dalla libellula di crini alla moscona di plastica, che se fossi
stato un moscone l'avrei corteggiata di sicuro, e c'era sempre
un gran puzzo di pastura e miscele insidianti e naturalmente
bigatti del locale allevamento Escapè: Escapè, il bigatto che
in una volta ne abboccano tre. Erano nati il ristorante Foglia
d'Oro di Chicco e una locanda sedici camere di cui dodici serie e quattro con entrata sul retro. Una profumeria, un fruttaverdura con ananassi, e il nuovo negozio di Paolo il parrucchiere con quattro caschi Elettro, che quando andarono le
prime donne a farsi la permanente e uscirono con le teste
raddoppiate, Karamazov disse: ma che permanente, per fare
una cosa così lui nel casco ci mette il piscione, che sarebbe
un concime molto efficace. Paolo smentì ma perse alcune
clienti.
Naturalmente la novità più controversa e visibile era il
cementificio grigio e turrito appena fuori dal paese, vicino al
fiume. Apparteneva a una società di cui Fefelli era ovviamente socio, e il direttore era un certo Paladini che non salutava mai, con moglie ossigenata e figlio che a otto anni era
già costretto al Principe di Galles. Dalla parte di Monte Mario erano spuntati l'allevamento di cadaveri fertili Escapè e il
Pollobello, il gulag per galine dove lavorava il Troll. Ci raccontava che le galine stavano in sei sette per gabbia sempre
con la luce accesa, senza conoscere giorno né notte, mangiavano di continuo e mitragliavano merda. Appena erano in
peso, alé, uccise, spennate col vapore e cellofanate per i supermercati. Ma molte si ammalavano di tristezza avicola e
nel pastone gli aggiungevano sciroppo e antibiotici e antiparassitari, ma si ammalavano ancora di più, allora le bruciavano con un gran falò che si sentiva lo strino fino in paese, oppure (correva voce) le inumavano tritate dentro le scatolette
di Miomicio, il cibo per gatti della pubblicità in tivù. Ah sì,
dimenticavo, nelle case c'erano decine e decine di nuove televisioni, spuntavan più antenne che margherite e il papà di
Fulisca passò da spazzacamino a antennista, sempre nel
ramo tetti, guadagnava bene e lavorava anche troppo e infatti
scarambolò giù da un terzo piano. Fine delle trasmissioni per
lui, e povera Fulisca. Era meglio quando era tutta nera, poveretta, al funerale piangeva e tremava, dicevano che era malata.
Ma bando alla tristezza, il boom economico ci scoppiava sotto il culo. C'era l'autostrada con uno svincolo e presto
ce ne sarebbe stato un altro a sei chilometri, e un altro viadotto sopraelevato con la galleria Castagnette metri settecentottantasei che passava sotto Monte Picone e nello scavarla
avevano trovato una grotta con mitra oliati da poco, e due
scheletri di tedeschi. Noi andavamo spesso a vederla dal cavalcavia, la grande arteria del progresso, guardavamo sfrecciare i camion e le automobili e tornavamo in bicicletta a ingarellarci nelle strade di ghiaia del cementificio, che sfogava
in continuazione un fumo, bianco ma non troppo, che annebbiava l'aria. Ma Fefelli diceva che era fumo buono, fumo di
soldi.
Lavamèl diceva: qui qualcuno diventa ricco e qualcuno
tisico. Finiremo tutti come i cittadini, che sputano i pezzi di
polmone per strada. Slim intonò l'usignolo e disse: basta tristezze, beviamo. Sì, disse Luis il pilota di trattore, rosso per
tutti. Gradimmo e alla fine Balduino chiese, chi paga? Io no,
io ho detto «beviamo», precisò Slim, non «pago da bere», è
Luis che ha detto «rosso per tutti». Baruch Salomone disse
che Slim era un gran figlio di troia ma dal punto di vista semantico e giuridico-enoico aveva ragione. Pagò Luis.
Mio padre e io ci eravamo trasferiti in un appartamento
piccolo appena fuori dal paese, c'erano l'elettricità e lo scaldabagno, c'era un prato intorno e la strada era abbastanza
lontana, ma quando tirava il vento si sentiva odore di carne
morta e depressione di galina, e papà rimpiangeva il bosco.
Continuava a fare il falegname, ma aveva poco lavoro e beveva del vino rosso, tristo, dentro dei fiaschi senza paglia, ne
aveva la cantina piena, eravamo ricchi solo di quello e di segatura. I soldi dell'esproprio erano stati la metà di quello che
avevano detto all'inizio.
Però io andavo tutti i giorni alla scuola media nel paese
a fondovalle, facevo la terza ed ero cresciuto, per via di una
difterite che mi aveva quasi ammazzato ma mi aveva allungato di dieci centimetri, Osso aveva calcolato che se fossi
stato malato un altro mese sarei diventato due metri e quarantasette centimetri. Lui invece si era allargato, imbrufolito,
e faceva l'elegantone, portava le giacche blu coi bottoni di
tolla e le camicie a collo alto sempre un po' merdo. Gancio
sembrava un indio magro e torvo, andava dietro a tutte le ragazze e i suoi scherzi diventavan sempre più perfidi. Fulisca
da quando aveva perso il padre viveva fuori dal paese e non
la vedevamo più, ma quando appariva era pallida e bella, coi
ricci scomposti, come una strega. Selene invece era partita,
era andata a far le medie in città, e studiava anche danza, e io
l'avevo presa male. Il giorno che era partita mi sentivo triste
e arrabbiato, non ero neanche andato a salutarla, e tutte le
notti sognavo che era andata diversamente in tre modi.
Uno, io ero andato alla corriera con un mazzo di fiori e
un cestino di fragole, che le piacevano tanto, mi ero pettinato
con la riga, ero virilissimo e le avevo detto: ti aspetterò sempre, e lei bellissima in un vestitino turchese e un nastro blu
nei capelli, con la mano guantata (in qualche sogno anche
senza guanto), mi aveva lanciato un bacio dal finestrino e
aveva detto: non ti dimenticherò.
La seconda fantasia era che eravamo stati sul prato dei
ciclamini e avevamo scopato tutto il pomeriggio e poi l'avevo accompagnata alla corriera e l'autista aveva detto: guardate lì, siete pieni di erba e spighe e spurazzi, cosa avete fatto
fino adesso, la conta dell'erba? E tutti avevano sgamato e
riso.
La terza versione riparatoria era che lei era partita insieme ai Goretti, che erano tre fratelli enormi e porci e puttanieri che guidavano tre ruspe spaccatutto e un camion che trasportava putrelle. Goretti Bruno il porcomaggiore aveva detto a Selene, siediti vicino a me fragolina, che ci divertiamo
fino in città.
Allora, mentre Van Maxel teneva l'autista sotto la minaccia di un maciete, io avevo detto: «Goretti Bruno Sergio e
Lanfranco, fuori dalla corriera che vi spacco quella faccia di
merda». C'era stato un combattimento coreografato nei minimi particolari al termine del quale li avevo stesi a calci e pugni, e Selene mi guardava ansimando e pensava: mio eroe.
Alla fine naturalmente ci baciavamo e intanto Gancio, in una
scena finale non adatta ai bambini, aveva tagliato le teste dei
Goretti e le aveva spiedinate su una picca guatayaba.
Questa terza versione era quando ero molto incazzato.
Comunque quella mattina ero contento perché papà si
era fatto la barba e gli avevano commissionato sette nani e
una Biancaneve di legno per ingentilire il prato della villa di
Paladini, il direttore del cementificio, e papà aveva discusso
con Karamazov e avevano deciso che ideologicamente si poteva fare, erano dei bei soldi e un lavoro artisticamente degno, magari i nani avrebbero ispirato a Paladini pensieri più
liberali.
Una domenica papà scalpellava il muso a Mammolo e
io dissi: papà, vado a fare una gita scolastica per vedere le
rovine e i mosaici della Santa Putilla, bella roba disse lui, e
tirò fuori di tasca mille lire dicendo: non puoi partire senza
soldi.
Io rimasi senza fiato, perché era un periodo che soldi
papà ne aveva pochi e quindi io pochissimi, mi dava qualcosa lo zio e vendevo qualche rana e cestini di fragole al ristorante di Chicco. Vidi che la banconota era tutta stropicciata,
come l'assegno di Fefelli quel giorno a scuola, ma era una
cosa diversa. I soldi si trasformano, a seconda delle mani che
li accolgono, pensai. In certe mani diventano mattoni, in altre
farfalle. E allora, nella mia nuova condizione di ricco, attraversai di corsa il prato col cane che mi abbaiava dietro e andai alla strada, dove la corriera sarebbe passata a prenderci.
La comitiva era già in attesa, c'erano Gancio, Baco, Galileo
l'intellettuale, Osso e la Rospa, una ragazzina occhialutissima e stronzissima da noi sadicamente derisa, figlia del droghiere ma odorava solo di candeggina, mai di cioccolato o liquerizia.
Ci eravamo attrezzati da viaggio. Io indossavo un gilè
milletasche di papà, Gancio una giacca da pesca che puzzava
di cavedano, Galileo era zavorrato con uno zaino da trincea.
Osso aveva un cesto della merenda da sfamare il Perù e già
con la mano strappava dei molliconi di pane, mentre la Rospa sbuffava e diceva «allora arriva o no, allora arriva o
no?», e si puliva continuamente le scarpe con un fazzolettino, tanto che Osso per darle una mano le tirò un gran sputo
sui piedi e disse:
– To', che così le lustri meglio.
La Rospa stava per piangere quando si sentì la tromba
del settimo cavalleggeri e la Sita apparve, la gran corriera
blu traballante e odorosa di gomma e benzina, e noi salimmo
rapidi e eccitati.
6.
Sembra incredibile quanto si diventa felicemente cretini
in una corriera. Ventisei ragazzi ambosessi e nessuno che
stava zitto o seduto da cristiano, tutti girati all'indietro, o
storti, o appoggiati ai vetri o in giro tra le poltroncine con
l'autista Angelo detto Fangio che smadonnava a ogni cambiata.
Nostra guida era la professoressa Zaini, magra come un
cavicchio, ossuta e con la mascella in avanti a polena di
nave, che quando parlava sembrava che qualcuno la tirasse
su all'amo. Aveva la esse sibilante, sputazzava e faceva finta
di essere severa, ma era una pasta di donna. Profumava sempre di mughetto e aveva delle collane finte, tre quattro fili,
che si rigirava alle dita quando era nervosa o pensosa. E lo
era spesso, perché era zitella, ahimè. Si sedette vicino a Fangio, un omone coi baffetti da tango, e cominciò a sussurrare
e ridacchiare, e lui rispondeva con dei cenni della testa, perché intanto doveva guidare e c'eran delle belle curve arrotolate alla montagna. Prima di ogni curva Fangio suonava il
clacson ammonitore e la plebaglia delle macchine si faceva
di lato.
Tra di noi gitanti ancora non si erano create le coppie ed
era tutto uno sguardo e una ridarola e un tralice, e anche
quelli che facevan finta di niente adocchiavano.
Fu subito chiaro che tre erano le dive della gita.
Le gemelle Sabbia che eran poco gemelle, Olga bruna
col caschetto, Orsola rossiccia con la coda, vestite a quadretti
e con dei visini furbi mica poco. E la Venerelli, che a quattordici anni caricava già la quarta di reggiseno, e aveva un
golfino bianco traforato che anche se non era traforato glielo
traforavamo noi a occhiate.
Le tre si erano naturalmente sedute vicine, causando un
ingorgo nella zona, mentre sparse qua e là a caso le medie e
le bruttine stavan tranquille, tanto si sa che di ora in ora nelle
gite si imbellisce.
I maschi erano tutti in sverzura, e ognuno aveva la sua
strategia, e il suo metodo seduttivo. Gancio corteggiava già
con la sicurezza di un adulto, si era messo in posizione strategica alle spalle del trio, e parlava nelle orecchie di Orsola
che a ogni sua frase rispondeva:
– Ma sarai scemo?
Però se lui non le parlava per un po', lei trovava il modo
di voltarsi, di dargli una spazzolata col codone e chiedere
pardon.
Il rivale di Gancio si chiamava Belletti ed era un fighetto coi capelli brillantinati che sparava balle su balle, ad
esempio che lui la corriera l'aveva guidata un sacco di volte
nel parco della villa paterna e che avrebbe fatto il corridore
di Formula uno. Gancio lo guardava freddamente e gli preparava una trappola guatayaba.
A corteggiare Olga c'erano Osso e Bruno lo scienziato,
detto Baco. Usavano barzellette che si interrompevano a
metà, battute al lardo, cagate a raffica, si spintonavano per
star più vicino alla bella e ogni tanto partiva un lopez o un
rutto potente e virile, quasi un richiamo amoroso, il bramito
del cervo alla cerva e del dugongo alla dugonga.
Osso offriva anche caramelle alla menta che ormai erano colla a presa rapida, e Baco, che stazzava quanto Osso,
stava appoggiato allo schienale di Olga, con le chiappe sporgenti nel corridoio, e prendeva un calcio in culo al minuto,
ma non mollava.
A fare la corte alla Venerelli c'eravamo io, Galileo e Cavazzuti. Cavazzuti non contava, era alto un metro e un barattolino, aveva le sopracciglia da cavernicolo e un alito da discarica. Ma ci provava, perché allora, grazie a dio, nessuno
di noi si accorgeva di essere ridicolo. Galileo invece era un
avversario temibile perché era un vero intellettuale con l'occhio cilestrino e melanconico, e parlava alla Venerelli come
fosse un puro spirito, senza mai guardarle le tette, ma io sapevo benissimo che se non le guardava al momento le aveva
guardate per bene prima. Galileo parlava con voce un po'
acuta di due dei suoi tre argomenti preferiti, che erano il destino dell'uomo e il senso della vita. Il terzo era il perché si
trovano tanti doppi nelle figurine di calcio, ma quel giorno
non era il caso. Sapeva sempre trovare un dubbio profondo
in tutto: ad esempio noi stavamo andando a visitare le rovine
del convento di Santa Putilla. Ma cos'è una rovina se non
qualcosa che una volta è stata una casa, una chiesa, una latte-
ria? Potenzialmente il mondo è tutto una rovina e una maceria.
– E le piramidi allora? – dissi io, che avevo capito che
se non entravo nella conversazione a cazzo non ci sarei entrato mai.
– Le piramidi – citò la Venerelli – le hanno fatte i faraoni per farsi ricordare.
– Ma bastava meno – dissi io – non dico il busto di Bisacconi delle elementari, ma far lavorare migliaia di schiavi
per farsi ricordare è un bell'egoismo. Ne bastava una. Oppure
un bel monumento, con la scritta sotto: ricordatevi di Ramsete.
La Venerelli rise. Uno a zero per me.
– I faraoni volevano che fosse ricordata la loro grandezza – sentenziò Galileo. – I potenti non sono come noi. E del
destino delle masse non gli importa nulla. Un po' come noi
artisti.
– Sei un artista? – disse la Venerelli, guardandolo dolce
e istariata. Due a uno per lui.
– Be', sì. (Sospiro)
– E cosa fai?
– Dipingo, disegno, suono il flauto e soprattutto scrivo
poesie.
– Ma dai – disse la Venerelli agitando il tutto – dai,
dimmene una.
– No, no – disse Galileo con un gesto teatrale – mi vergogno, magari dopo, quando scendiamo.
E si allontanò, seguito da una rotazione di novanta gradi
delle tette della Venerelli. Tre a uno per lui. Inutile restare lì,
ormai lei voleva la poesia, mica cagate. Mi alzai e mi ingrugnai a fondo corriera. C'era un forte odore di peto e la Rospa
bianca e verde che stava per vomitare, e un'altra che piangeva perché aveva dato una zuccata nel vetro. Un vero reparto
infelici. Partirono i cori, Fra Martino, Quando calienta el sol
e Tintarella di luna. Osso accennò un passo di twist e la corriera sembrò sbandare.
– Basta far casino – disse Fangio – eccoci alla prima sosta. La fontana di Santa Putilla. Scendete uno alla volta, per
favore.
Scendemmo a grappoli di tre. Galileo aveva accostato il
babordo della Venerelli, così mi feci da parte e mi si accodò
la Rospa col vomito in canna. Spruzzò tutto sull'erba verde,
direi pollo e fagiolini, poi disse roca:
– Scusatemi.
Poverina, pensai, lei dovette intuire la mia comprensione e mi si incollò. E giungemmo alla fontana di Santa Putilla. La Zaini si mise davanti, noi ci disponemmo a semicerchio, e lei fece la spiega. La santa era una modesta suora dell'ordine delle Disgraziatine di Maria, viveva semplicemente e
criticava i lussi della chiesa di allora, specialmente il malvagio vescovo Bernardo che viveva in un villone oggi ristorante alla moda. E cominciarono a perseguitarla come disobbediente eretica isterica e a lei per il dolore si sbullonò il cervello, cominciò a correre per i boschi come una cinghialetta
e dichiarò che ogni notte Dio veniva nella sua cella a visitarla. Anch'io ho visto Dio, volevo dire, e pensai che forse Dio
andava da Santa Putilla perché cercava un posto un po' intimo, insomma era stufo di farla sul poggetto, mi vedevo la
scena, entra Dio, va alla toilette, si sente tuonare lo sciacquone, lui si riabbottona le braghe e dice, allora cara Putilla,
come va? Non c'è male, Signore, mi perseguitano. Coraggio
Putilla, vai per la tua strada, non dare retta a quei cattivi ministri, dice Dio e se ne va. Erano pensieri audaci ma mica
blasfemi, secondo me. Insomma Putilla fu processata per visioni erotiche, scavallamento notturno nel bosco, follia apostasia ed eresia. Fu perciò condannata a essere rinchiusa nella rocca di Morbello, in cima a un'alta montagna. Ma lei disse, no, io non morirò in quella prigione. E mentre andavano a
cavallo, lei in mezzo tra due armigeri, disse: voglio bere, ho
sete. Ma non c'è acqua qui, dissero i rudi e realisti soldatacci.
Sì che c'è, disse Putilla. Scese da cavallo, toccò con un bastone la terra e sgorgò l'acqua. Poi Putilla giunse le mani e morì.
Per ricordare il miracolo fu eretta una fontana di roccia con
l'effigie della santa, proprio nel punto ove sgorgava quell'acqua benedetta che rende le donne fertili e guarisce da molte
malattie compresa la raspa e la boccarola. Secondo fatto saliente, Putilla divenne patrona dei rabdomanti. Terzo fatto, al
vescovo venne il vaiolo, chiese l'acqua santa della sorgente
ma quella evaporò nel bicchiere, come se il diavolo ci tenesse dentro la coda infuocata, e il vescovo morì tra atroci bubboni, tanto per dire che con le sante non si scherza.
– Allora ragazze, chi vuole bere, una alla volta? – disse
la Zaini.
Le ragazze per prime si attaccarono alla cannella e fu
tutto un fiorire di battute, perché la cannella era bassa e c'era
chi la prendeva di lato, chi ci smusava sotto, chi ciucciava a
mucca, chi beveva nelle mani, insomma era tutto un campionario erotico, almeno ai nostri occhi.
– Possono bere anche i maschi – disse democraticamente la Zaini.
Per primo bevette Fangio. Era dotato di un bicchiere in
alluminio, lo offrì alla Zaini e quella lo ringraziò con uno
sguardo assai audace per una docente.
Poi provammo noi maschi a bere, ma tra schizzi e calci
nel culo e sdentate ci riuscì neanche la metà.
Io vidi Galileo e la Venerelli che lasciavano la compagnia e si sedevano sul prato. Li seguii, li spiai da dietro un
rabarbaro. Lui recitò:
I miei occhi hanno spesso pianto
la mia bocca raramente ha riso
ma da quando ti conosco
tutto intorno è il paradiso
felicità è un attimo breve
poi viene la tomba sotto la fredda neve.
La Venerelli sospirò conquistata anche se le era piaciuta
di più la prima parte. I due stavano in silenzio e straffugnavano margherite, attività che spesso prelude al divampare
delle passioni. Pazzo di gelosia, pensai di assoldare un sica-
rio, di dare le mille lire a Gancio per calabronare Galileo, il
vate infame. Ma Gancio aveva rubato il nastro dei capelli a
una gemella ed erano lì che si rincorrevano, cosa mi dai se te
lo ridò? L'invidia mi raggrinziva, sentivo un magone nel petto e un malloppo nello stomaco. Sì, uccidersi lì, farla finita,
buttarsi dal parapetto della strada. Ma eran tre metri, al massimo mi storpiavo.
Ed ecco che lo gnomo del bosco venne in mio aiuto.
Vidi che Galileo si grattava, e che la caviglia della bella
tendeva al purpureo. Si erano sdraiati proprio in un habitat di
ortica, quella piccola e bastarda.
– Mi brucia – disse la Venerelli.
– Mi sa che è ortica – disse Galileo.
Piombai sul posto come un'autoambulanza.
– E' proprio ortica grisa – dissi – la peggiore. – E aggiunsi severo: – Mai andare sui prati se non si conoscono i
particolari vegetali.
– Già – disse la Venerelli, seccata. Tre pari.
– Ma io so il rimedio. La moniaca.
– Oh sì ti prego – disse lei.
– La troverò. So dove trovarla – dissi io. Bugia, ma
quattro a tre per me e palla al centro.
Risalimmo sulla corriera, dieci minuti di tornanti per arrivare al convento, ora albergo con sala congressi e scannatoio per puttanieri. La Venerelli si grattava e parlava con le gemelle, indicava prima Galileo, la delusione, e poi me, la speranza. Mentre la Sita si inerpicava muggendo vedevamo sot-
to tutta la valle, lì ancora non passava l'autostrada, il fiume
era limpido e c'eran delle pozze profondissime sotto i ponti.
Vidi un luccio saltare al finestrino. Vidi il fumo di un camino
in mezzo agli alberi, e mi venne nostalgia della vecchia casa.
Mi sentii triste, ma in quel momento Fangio frenò e Osso mi
rovinò addosso. Era sudato ed eccitato come una bestia e
aveva briciole di ciambella anche nel naso.
– Prima il picnic o prima la visita al convento con rovine? – disse la Zaini.
– Picnic, pic pic, nic nic – urlammo tutti.
Ci disponemmo in cerchio in un bel prato senza ortiche
e senza merde, la Zaini aveva ispezionato bene, ed eravamo
anche dotati di tovaglia. Galileo si presentò alla Venerelli
con un bicchiere di aranciata ma venne respinto. Era il mio
momento. Corsi da Fangio e chiesi:
– Signore, lei ha della moniaca?
– Sì – disse lui. – E' per le emergenze, tipo una puntura
d'ape. Mica te la posso dare.
– La Venerelli s'è orribilmente urticata. La prego, gliela
pago mille lire, ne uso solo un po'.
Mi strizzò l'occhio, come si usa tra noi gigolo, e mi consegnò gratuitamente la preziosa bottiglietta con ovatta annessa.
Tornai. Tutti sgranocchiavano. C'erano le frittatine e i
panini con salamino e mortadella e, per i raffinati, uovo sodo
col sale nel tovagliolino. I più scatenati erano Baco che si
spruzzava la maionese direttamente in bocca e Osso che ave-
va in dotazione due cotolette grosse come bovazze, spigolose
e taglienti, e non ne diede a nessuno. Quel fighetto di Belletti
aveva una baguette coi pomodori e l'insalata, che appena la
mise in bocca un lopez di Gancio gliela fece spargere in terra.
Ma quella che fece il colpaccio fu la Rospa, grazie al
babbo droghiere. Tirò fuori venti cremifrutto Zuegg, varie
cioccolatine con le mandorle e, udite udite, un vasetto di Nutella.
– Chi vuol favorire? – disse.
Il suo indice di popolarità si impennò, da rospa a principessa, ed era così contenta che non gliene restò per lei.
Io mi avvicinai alla Venerelli e sussurrai:
– Ho la moniaca.
– E come si fa?
– Bisogna spalmarla sulle gambe, con l'ovatta.
– Allora andiamo lì dietro, che qua mi vergogno.
Mi mancò il fiato. Non ero preparato a tanto. Pensavo
che si sarebbe moniacata da sola. Invece lei prese il suo panino e io il mio, e andammo dietro una siepe, c'era una stradina
con degli alberi di marasca, c'era il sole. E io mi misi a massaggiarle le caviglie con la moniaca e intanto lei mangiava e
diceva, che sollievo, sto già meglio, e c'era quell'odore di salame, mescolato al piscio della moniaca, che componeva un
aroma celestiale e io ero felice come un picchio, e sarei rimasto lì a ovattarle le caviglie e a masticare salame alla moniaca per tutta la vita.
Improvvisamente, pensai, e se ci metteva le tette nelle
ortiche?, e mi andò di traverso tutto, schizzai briciole ovunque, tossivo come un diesel. Lei rideva. Arrivò Gancio e mi
tirò un pugno nella schiena. Galileo, subdolo, osservava la
scena per vedere se si riapriva qualche spiraglio a suo favore.
Alla fine con un sospirone mi ripresi.
– Grazie – disse lei.
– Di niente – dissi io.
– Sai un sacco di cose sui prati – disse lei.
– Be', son nato in montagna. Bisogna che uno conosca il
suo ambiente. Certe erbe son velenose, certe curative. La resina cura la tosse, il radicchio rinfresca, la ruta cura il mal di
pancia, il sambuco i dolori reumatici, l'asparago selvatico ti
tira su, il rabarbaro lo puoi mangiare lesso o fritto, le bacche
di maggio son velenosissime e anche l'edera e il nocciolo
delle pesche. E poi ci sono i funghi. Ce n'è dei matti e dei
buoni. Quello ad esempio è la mazza da tamburo. Dicono
che sia afrodisiaco.
– Cosa vuol dire? – chiese lei.
Il momento era epico. Gli occhi della Venerelli erano
puntati su di me, e la sua balconata ondeggiava a circa sei
centimetri e mezzo dal mio petto. Pensai di dirle che afrodisiaco vuole dire originario dell'Africa, oppure che fa andare
di corpo. Ma fu lei che disse:
– Scioccone, lo so cosa vuole dire afrodisiaco.
Mi prese per mano, e ci mettemmo a correre, tra le marasche. Lei rideva, io ero estasiato. Ci fermammo ansanti.
Era il momento buono. All'orizzonte c'erano solo una casa
lontana e una mucca, animale naturalmente discreto e che si
fa gli affari suoi.
– Baciala – disse Dio abbottonandosi le braghe dall'alto
di un nuvolone.
– Baciala – disse il luccio aprendo la bocca vorace.
– Baciala – disse lo gnomo toccandosi il pacco.
Non sono esperto, ahimè, pensai. Qualche bacetto a Selene, a bocca chiusa. Ma ora lì ci voleva respirazione, ritmo
di lingua, gestione della saliva, era come l'esame di maturità,
come la promozione in serie A. Intanto la Venerelli mi guardava e il seno andava su e giù ansimante, ombreggiando nel
suo excursus la sottostante collina. Io pensai, ora o mai più,
la abbracciai e sentii i fianchi morbidi e il golfino traforato,
odore di pelle e moniaca insieme, e stavo per fiondare la lingua quando sentimmo un gemito strano, poi un altro.
– Chi sta maledissi? io.
– C'è qualcuno nel fienile della casa – disse la Venerelli.
– Qualcuno chi?
E in quel momento, sussurrata, ma come un rintocco di
campane nel silenzio del pomeriggio si udì la voce della Zaini che diceva:
– Oh sì, Angelo, tutto, tutto.
Comprendemmo subito di che totalità si trattava. Io volevo andar via. Ma la Venerelli era già diretta verso il proibito. Girammo dietro la casa, e subito, nell'oro del pagliaio, vedemmo il culone peloso di Fangio impegnato in un movi-
mento rapido e regolare, anche se le braghe a metà coscia lo
frenavano un po'. Ai lati del culone spuntavano le gambette
della Zaini, una con scarpa e una senza. Non ci si poteva sbagliare. Trattavasi di atto sessuale interclassista tra laureata e
automedonte.
– Andiamo via – dissi io.
– Perché? – disse la Venerelli, che voleva studiare la
materia.
La Zaini fece un rantolo e Angelo un muggito, e poi lei
gli azzannò l'orecchio e lui disse porcona, e il ritmo aumentò,
quando si sentì il rumore di un trattore. Dove c'è un trattore
c'è un contadino alla guida, perciò vedemmo Fangio scattare
in piedi col bigolone ancora affamato, e la Zaini rassettarsi in
frettissima, ma era piena di fili di paglia e quando ci passò
davanti di corsa, a me scappò da ridere.
– Ragazzi – disse Fangio, rosso come un gambero –
guai a chi dice una parola.
Annuimmo.
Le rovine eran tre pietracce, il convento era tutto imputtanito di linoleum e quadri moderni. Ma come dimenticare
quel ritorno in corriera, alla luce della luna… Sogno di giovani vite nelle sicure mani di Fangio, che timonava pacato,
con la Zaini che lo guardava adorante. In un angolo, alcuni
spaiati dormivano, altri cantavano a bassa voce. Ma sugli altri sedili, l'eros corrieristico celebrava il suo trionfo. Realtà e
finzione si mescolarono dipoi nel racconto di quei sessanta
chilometri. Si dice che Gancio smutandò la gemella rossa e
accadde di tutto. Che l'altra gemella resistette agli attacchi di
Osso, ma alla fine gli permise di tenerle una mano sulla coscia e Osso si allagò. Persino la Rospa, complice l'ultimo
cremifrutto, riuscì a esplorare i pantaloni di Baco. Altre coppiette si sbaciucchiavano. Ma io e la Venerelli eravamo perduti in un mare di risucchi e saliva, baci interminabili, lingue
che saettavano, per me fu un corso accelerato da cui trassi
esperienza e benefici tutta la vita. E premendo contro le sue
epiche tette, e rimbalzando indietro, e di nuovo allacciandomi respinto ma non troppo, provai piaceri e stupori che ancora mi commuovono. Poi, alle prime luci della città, dopo un
ultimo duello di papille, io la vidi di profilo, bellissima, sudata, accalorata, con un ciuffo sull'occhio e il golfino di lana
che le lasciava scoperta una spalla.
– Ti amo – le dissi.
– Ma sarai scemo? – rispose lei.
7.
Uno crede che una volta che le cose vanno bene, che
hanno preso l'anda della felicità, la strada sarà sempre in discesa, basta prendere più spinta e la goduria aumenta, diventa vertiginosa, e si sarà sempre più felici finché si raggiunge
il trampolino della fortuna e si vola nel nirvana del perfetto
culo.
Non è così.
Subito dossi, cunette, sassi in mezzo alla strada, e sbandate fuori dai tornanti. E davanti a noi, una gran salita che
non si vede la cima.
Questo per dire che dopo quella baceria di sessanta chilometri con la Venerelli le cose andarono maluccio. La bella
mi voltò le tette e il cuore, era una spietata collezionista di
giovani ardenti corrieristi, fece come nulla fosse successo, e
la settimana dopo la vidi salire sul Motom di Augusto, un
bulletto sedicenne coi pantaloni a zampa d'elefante e un ciuffo da upupa, che fumava e si dava arie da spanizzo.
Così la vidi sparire, all'odore della moniaca adesso preferiva quello della miscela e della Linetti del ganzo e io immaginai una tremenda vendetta con loro che uscivano di
strada e invece che nell'ortica finivano dentro al fiume, e i
lucci se li sbranavano, la polizia subacquea trovava solo due
scheletri sul motorino, allacciati nell'ultimo abbraccio.
Poi non ci pensai più.
Erano successe cose assai più gravi. I camion continuavano a passare pieni di tronchi, la strage del bosco continuava. Mio padre era tornato, una sera, coi nani accatastati sull'Apecar di zio Nevio. Li aveva portati dal cementodirettore
Paladini, il quale aveva detto che non erano abbastanza disneyani, che sembravano dei contadini e lui dei contadini nel
suo green non li voleva, e mio padre aveva detto, io li ho visti i nani di Disney, ma son finti, questi son più belli, mi
sono ispirato ai vecchi del paese, e Biancaneve è ispirata a
una lattaia che conoscevo. Orrore, plebaglia e odor di ricotta,
disse Paladini, li rifaccia perché così non li voglio. E mio padre ingoiò il rospo, c'aveva perso due mesi di lavoro e aveva
un gran bisogno di quei soldi. Ma tornò che bestemmiava
come un circasso e tirava pialle e seghe e subioli tutt'intorno,
in culo a Uoldisney e ai ricconi di merda che non apprezzano
l'arte dell'intaglio.
Papà, lo incitai, tu sei bravo, devi riprovarci. Allora lui
mi diede un cricco sul naso, che era la sua tipica carezza e
disse: meno male che almeno tu a scuola vai bene. Io non gli
dissi che proprio quel giorno avevo preso quattro in italiano
perché il tema era: «Quale tra i personaggi storici vi ha più
colmato di ammirazione e ritenete importante per la storia
del nostro paese». E tutti avevano infilato dei mazzini e dei
cavour e dei garibaldi e anche dei romoli e remi e dei danti,
per carità, tutte bravissime persone. Io invece avevo parlato
del comandante Ghigna, che era stato il capo partigiano più
celebre della zona, il suo gruppo scendeva dalle grotte di
Monte Mario e attaccava i convogli tedeschi, schioppi contro
mitraglie, e non lo presero mai, e quando finì tutto, per fare i
conti tondi, fucilò anche uno o due che gli avevano ammazzato il fratello. Insomma non era tutto perfettamente eroico
come nei libri di storia, ma se nella nostra montagna i fascisti
ne avevano massacrati trenta, e non duecento come nella valle vicina, il merito era anche di Ghigna e della paura che incuteva. Allora il maestro aveva detto che quello che avevo
scritto non era né giusto né ingiusto, era solo fuori tema. Io
non sapevo che in futuro ci sarebbe stato un periodo che quel
tema avrebbe preso otto e mezzo e poi sei e poi tre, pensavo
solo che Ghigna la sua parte rischiosa l'aveva fatta e che la
storia, una volta che dà un voto, lo mantiene fisso. Nove a
Dante, otto a Garibaldi, sette meno a Ghigna per quella sbavatura nel finale. Invece no, si cambia valutazione. Comunque il mio quattro sul registro c'era e sarebbe rimasto, nella
storia trimestrale e secolare.
A papà non lo dissi, era tutto impegnato a rifare il naso
a Eolo, copiandolo da un mio giornalino. Uscii cercando
qualcosa di costruttivo, e subito trovai Gancio e Osso che
con la fionda spaccavano i fanali del distributore di benzina.
Era divertente, ribaldo, ma non precisamente costruttivo.
Osso poi era diventato stronzo, esibiva sempre un portafoglio pieno di soldi, comprava venti bustine di figurine alla
volta e le scambiava alla pari, che per quante ne aveva, poteva benissimo scambiarle dieci per una. Allora io commisi
una delle azioni più basse e vergognose della mia vita. Una
volta che lui aveva lasciato l'album su una panchina, scaldai
la collamidina con un fiammifero e staccai Ghiggia della
Roma, che era una figurina rarissima, non l'aveva nessuno.
Quando lui si accorse del furto, avevo già scambiato Ghiggia
con venti figurine e un calendarietto da barbiere di donnine
in reggicalze. Barattai il calendarietto, meno giugno che lo
misi sotto il cuscino, con una canna da pesca. Stavo diventando un affarista come Fefelli, ma la canna da pesca me la
fregarono mentre giocavo a pallone. A Fefè non sarebbe successo. Lui non si faceva portar via le cose, e soprattutto diceva che tutti potevano diventare ricchi come lui, ma in realtà
avrebbe steso chiunque c'avesse provato. Però di parafefelli e
aspiranti fefoidi si stava riempiendo il paese. Chissà fin dove
aveva avvelenato, quanto a fondo nel fiume, pensavo. Guardavo Osso e Gancio e mi sembrava che tra noi fosse arrivato
qualcosa di freddo, uno spiffero di aria di grotta, eravamo
ancora amici, ma abitavamo già mondi diversi. Ci incontravamo nella connessione triuniversale intergalattica, e poi ritornavamo al nostro pianeta, Gancio nel suo mondo di rabbia, Osso a rituffarsi nel suo portafoglio gonfio, io nel mio
bosco e nelle mie confusioni.
Un lampione, centrato, esplose in una pioggia di scintille. Vidi Osso e Gancio nascondersi dietro una macchina. Attraverso lo spiazzo del distributore, stava arrivando quasi di
corsa zio Nevio, insieme a Carburo il sindacalista. Ma il lampione non c'entrava, la cosa era ben più seria. Zio Nevio prese Gancio da parte e vidi che gli tremavano le mani. Gli dis-
se che era successa una disgrazia a suo fratello Remo, il più
simpatico, anzi l'unico simpatico, perché gli altri due di Gancio se ne fregavano. Remo lavorava nel cementificio da appena due mesi. Si doveva scaricare un camion di putrelle, e
all'improvviso il carico aveva ceduto, e lui c'era rimasto sotto. Portarono via Gancio, lo vidi piangere, la prima e l'ultima
volta.
– Ci sono proprio dei lavori di merda – disse Osso con
rabbia – io non lo farò mai l'operaio.
Lo guardai bene, era proprio lui a aver detto quella
cosa? Sì, era lui, gli tirai un pugno sul muso, ci azzuffammo,
venne suo padre a separarci e disse al figlio, stai lontano da
quel piccolo pezzente e da quell'ubriacone di suo padre, proprio così disse.
Quel giorno scoppiò un casino, gli operai fecero una
manifestazione davanti al cementificio, ma vennero fuori i
fratelli Pastori con una ruspa, sarebbe finita a mazzate se non
fosse arrivata la polizia. Otto agenti verdoliva armati, roba
mai vista. Se la presero con mio padre, perché non lavorava
lì. E' come se ci lavorassi, disse. E Karamazov, che anche lui
non era maestranza, quando tutto sembrava tranquillo prese
un pietrone e lo tirò contro la ruspa. Così lo portarono in prigione tre giorni e ne parlò per tre anni.
La sera stessa il direttore del cementificio fece dire a
mio padre che i nani non li voleva più, non dava soldi a uno
che era andato a insultarlo davanti alla sua fabbrica. Mio padre riuscì a venderli alla Luciana, la padrona del negozio di
lingerie, che aveva un debole nell'ordine per Robert Mitchum, per lui e per zio Nevio. Papà, dissi io, ti ha pagato in
mutande? Lui rideva e beveva, mezzo contento e mezzo incazzato.
Al funerale del fratello, Gancio non disse una parola.
Eravamo tutti in fila, dietro una macchina grigia, e salimmo
su al cimitero in mezzo alle ginestre. Osso mi venne vicino.
Mi mise in mano un pacchetto di figurine. Io glielo ridiedi e
dissi:
– Va bene, pace, dimenticato.
– Prendile – disse lui.
– Non è questo il punto – dissi io.
Quel giorno avevo capito qualcosa. Vidi un fratello di
Gancio, ubriaco, ridere con una ragazza. Vidi l'altro che fumava e gliene fregava poco. Vidi Fefelli, che passò per farsi
vedere, scortato dai Pastori, ma risuonò un fischio e poi un
altro, e il sindaco scappò perché non era aria. Vidi Fulisca,
che piangeva come se il morto fosse fratello suo, e Regina
che la consolava. Vidi mio zio, mio padre e Cipolla che si tenevano a braccetto. Vidi Lavamèl che si era tolto gli occhiali
e aveva due occhi da lemure. Vidi Caprone un po' in disparte, con le scarpe infangate. Vidi Slim che a un certo punto gli
scappò un verso triste da upupa. Scusate, disse, m'è venuto
così. E gli operai di Messina, con le sopracciglia sporche di
polvere, il cappello in mano, che non sapevano dove mettersi.
E capii che nella vita non volevo diventare come certe
persone, e avrei cercato con tutta la mia forza di essere come
certe altre.
Ma quella fu una brutta settimana. Come diceva zio Nevio, ogni notte il diavolo suonava il violino sul campanile.
Fulisca finì in ospedale con un tremito irrefrenabile, venne
un'ambulanza di notte e la portò via lasciando una scia rossa
nella nebbia, e noi a guardare come fosse il Giro d'Italia. Una
mattina, trovarono il fiume a monte pieno di pesci morti. Anche qualcuno di quei lucci guerrieri, con la pancia gonfia di
veleno. Nessuno capì da dove veniva.
Una domenica stavamo andando verso il cavalcavia io,
Osso, Gancio e Baco. Sentimmo uno stridere di freni, una serie di schianti e poi delle grida. Era un incidente, il primo che
avveniva in quel tratto di autostrada. Vedemmo quattro auto
accartocciate, e della gente che tirava fuori un corpo da una
millecento, sembrava che non avesse più le ossa. Una donna
piangeva e camminava in tondo. C'era un camion a pancia in
su, come un tartarugone, dentro al campo dei carciofi. Un'altra auto bruciava ancora. Era tutto lontano, visto dall'alto. Ma
bastava guardare bene e vedevi che c'erano due lenzuoli sull'asfalto, e da uno spuntava un piede. E c'erano delle macchie
scure sulla carreggiata. E una cassa di mele in mezzo alla
strada, nessuno le avrebbe mangiate più.
– Bello – disse Gancio – non avevo mai visto un incidente vero.
– Andavano tutti a busso – disse Osso, eccitato.
Quella notte non dormii. Sognai un grande camion che
entrava nella mia vecchia casa, e mi inseguiva per le stanze e
per il cortile, tirava giù il pagliaio, il pozzo, suonava il clacson e mi accecava coi fari. E sopra c'era Fangio.
– Fangio – gridai – ma tu sei mio amico. La moniaca, la
professoressa Zaini, ti ricordi?
E lui scese e io vidi che aveva una gamba sola, un braccio monco ed era tutto graffiato in faccia.
– Siamo tutti pazzi – diceva piangendo – non guidiamo
più niente, sono loro che guidano noi.
Poi, preannunciata da tempo, ci fu la chiusura dell'allevamento di bigatti Escapè. Vennero dei pompieri vestiti di
arancione insieme a un magistrato, chissà quale irregolarità
avevano scoperto. La verità è che l'odore di carne marcia
soffiava verso il pianoro dove Fefelli voleva costruire il residence delle Roselle. Portaron via la carne marcia a tocchi e
brani, tre o quattro pompieri svennero, avevano preparato un
buco enorme, buttaron tutto dentro e diedero fuoco con la
benzina, il fumo e l'odore durarono tre giorni, come bruciassero un tirannosauro. Poi le ruspe buttarono giù l'allevamento, una si ribaltò e il guidatore si tritò le costole, era in fin di
vita. Ma mentre lo portavano via, dal bosco uscì un uomo
barbuto gigantesco, che si abbottonava le braghe. E gridò: lui
no, lui non c'entra. Ma chi è quel pazzo, dissero. Io lo sapevo
bene chi era. E infatti l'uomo della ruspa si salvò. E il periodo maledetto finì.
Una notte giravano per la piazza Cipolla, Karamazov e
Balduino il barista, erano tutti e tre breschi duri di Vov. E
mentre barcollavano in sincrono, sentirono un urlo e un tonfo. Dal campanile era caduto giù un ometto coi cornetti, la
coda e un vestito di velluto rosso. Si tirò su, starnutì e sparì
lasciando dietro di sé odore di zolfanelli.
La mattina dopo stavo andando in paese a prendere le
medicine per mio padre. Ora il paese aveva anche la farmacia. Babbo aveva preso una brutta bronchite, era andato a
prender legna sulla montagna di notte, con la pioggia. Tossiva come un leone e sulla fronte gli si poteva cuocere una piada.
C'era un bel sole, il dottor Carabelli, che presto avrebbe
aperto in paese un ambulatorio, mi aveva rassicurato che
papà se la sarebbe cavata in una settimana, e guardando il
fiume vidi che per chissà quale travaso o cambio di scavatura, si era nuovamente creata una pozza nella zona delle sabbie, non proprio come quella di prima, ma abbastanza fonda,
tanto che c'erano due che pescavano. E pensai, anche se mi
hanno fregato la canna nuova, ho sempre quella vecchia. E
magari pesco qualcosa, a papà piace la frittura. Per prima
cosa vado a prendere l'Aspirina e il Coricidin alla farmacia.
Entro, sento un odore metà prato e metà cimitero. C'è una
macchinetta per prendere la pressione che è come se alle
vecchie del paese gli avessero fatto un giardinetto con panchine, stan lì tutta la mattina a fare le gare di massima e mi-
nima. E c'è un farmacista molto gentile che sicuramente è un
po' busone, e io sto sulle mie. Perché nel nostro paese la rivoluzione sessuale ancora non c'è stata e siamo pieni di pregiudizi, quindi io scambio la sua gentilezza per chissà quale
corteggiamento e mi innervosisco e dico, ma allora me la dà
la medicina o no, e poi mi pento. Allora lui mi offre due pastiglie Valda e io non so se accettando divento busone anch'io, ma le prendo e ci sorridiamo. Pieno di dubbi sulla mia
sessualità mi fermo davanti al negozio di lingerie. Guardo la
foto del pugile con lo slip, e quella della bionda con il body.
No, dovrei essere regolare. Poi vado da zio Nevio e mi faccio dare dei bigattini, gli ultimi della serie Escapè, e due galleggianti nuovi rossi che sembrano ravanelli. Mi fiondo a
casa, consegno il medicinale prendo la canna e poi a tutta velocità in bicicletta verso il fiume, giù per lo stradello di giarablino, cado due volte ma chi se ne frega. E arrivo alla pozza. Uno dei due pescatori ha gli stivaloni a salopette, mi basta vederlo lanciare una volta e lo riconosco: è Bortolini con
il suo impareggiabile swing. L'altro è Baco, che pesca solo
per ghiottoneria, ma non è capace, molla il galleggiante troppo vicino o troppo lontano, c'ha attaccati dei piombi ballerini, e attacca i bigattini troppo in fretta che sull'amo resta solo
il sugo. Per finire ha appena fatto con la lenza un mulingazino da non crederci, in confronto il labirinto del Minotauro è
un rettilineo. Cerca di sbrogliarlo, si incazza e taglia tutto col
coltello.
– Per oggi basta, non si prende niente – dice.
In quel momento Bortolini il Grande schiocca la canna,
la cima si piega, si sente ronzare il mulinello e dall'acqua
esce un barbo di almeno sei etti. Lo guadina con calma. Lo
mette nella retina, dove c'è già una bella ressa di code.
Io mi metto nel posto dove pescava Baco. Metto un amo
del ventotto, e pesco vicino al pilone del ponte, dove c'è una
correntella. Lo so che lì c'è solo roba piccola, ma mi accontento. E salpo una, due e poi quattro e dieci acquadelle guizzanti, e altre ne sbaglio. Alla fine ho le mani impastate di bigattino e ho rotto due montature, ma ho il canestrino pieno,
che frulla. Bortolini mi passa da dietro. Ha nella rete sei o
sette bestioni da esposizione. Mi sorride e dice:
– Per l'acquadella, sei bravo.
Che è un mezzo complimento e anche un mezzo incitamento a osare di più, ma da lui me lo lascio dire. Mi sento
stanco, la pesca all'acquadella è impegnativa, non come la
corrida ma quasi. Mi sdraio sui sassi e metto i piedi nella
corrente. Sento che qualcosa sta succedendo, il fiume ha ripreso a scorrere, forse non sarà come prima, ma ci riproverà,
i pesci torneranno, forse le ruspe smetteranno di scavare e
rubar ghiaia. Le cose muoiono: questa è la prima cosa che
non puoi cancellare, una volta che l'hai davvero scoperta. Le
cose guariscono, le cose ricominciano, le cose tornano. Questa è una cosa bella da tenere in testa, ma non la puoi avere
sempre, la speranza fa il gioco del sole nel bosco, sparisce,
riappare un attimo, poi di nuovo è ombra e scuro. Sento dei
passi incerti sul greto del fiume, e un sasso che ruzzola. E
poi un «accidenti». Mi volto, chi mai dei miei amici selvaggi
e biastematori può dire «accidenti»?
Con una gamba sospesa nel vuoto, in equilibrio precario, le scarpe in mano, che guada un torrentello, c'è Selene.
Non ricordo da quanto non la vedo ma è cambiata. Non
posso dire che è diventata donna, lo era anche prima, mica
era una betoniera. Però si è allungata e snellita, il viso è più
intenso, ha gli zigomi un po' sporgenti, i capelli lunghi e vaporosi, e gli occhi sono sempre gli stessi verdazzurri, insomma è meravigliosa.
E mi chiede, come va?
E io come al solito penso di rispondere nei diversi, seguenti modi.
Va molto bene, ho avuto un sacco di esperienze sessuali
soprattutto su autolinee, il mio cervello si è intriso di nozioni
fondamentali e esperienze formative, il mio membro si è ingrandito a dismisura, sto pescando perché ho intenzione di
aprire una friggitoria fish and chips, io e mio padre abitiamo
in uno chalet sulla collina e lui è diventato il più grande scultore di nani d'Europa, c'è un suo nano Brontolo, che in francese si dice Grognon, nell'ufficio di De Gaulle all'Eliseo, a
scuola sono bravissimo e non vado mai fuori tema, adesso
mi vedi vestito così sportivo con un maglioncino militare ma
a casa ho sedici golf Ballantyne a rombi ognuno di colore diverso, una serie di giacche cromate e una vestaglia con le iniziali. Questa è la bicicletta-muletto per venire al fiume ma ho
anche una Legnano rosso globulo col cambio, e per finire
possiedo un libretto di assegni al portatore, fumo, bevo e mi
batto a duello ogni plenilunio.
Oppure potrei dire: adesso che ti vedo capisco quanto
mi sei mancata, e la sola idea che tu sparisca di nuovo mi fa
morire, ti amo ti amo e se mi rispondi «sarai mica scemo»,
giuro che mangio tutti questi pesci crudi e due chili di pane
con la mollica poi mi butto nella pozza gelida, mi verrà una
congestione annegherò e avrai rimorso tutta la vita.
Alla fine dico soltanto: va bene, insomma, e tu?
Lei mi dice che vivere in città per certi versi le piace,
per altri no.
Si sistema su un sasso e noto che ha delle belle gambe.
Ad esempio, dice, le compagne di scuola cittadine sono
un po' fighette e altezzose, c'è molto traffico, in tram ti
schiacciano e non c'è mai la possibilità di andare al fiume o
al bosco, l'acqua del rubinetto sa di ferro e le fragoline costano come diamanti.
E si tormenta un po' i capelli.
Però ad esempio lei va a scuola di danza e questo le piace molto, poi ci sono molti cinema e quindi una grande scelta
filmica, lei adora andare al cinema, adesso nella nuova casa
ha una stanza grande e comoda, coi poster di attori alle pareti, un giradischi e molti dischi, circa cento, potrebbe anche
farci delle festicciole.
Tira un sasso sul pelo dell'acqua e gli fa fare neanche tre
rimbalzini, ha perso la mano, la piccola.
Perché adesso, mi spiega, i suoi genitori hanno messo su
una sartoria che va abbastanza di moda, fanno anche gli
smoking e i tailleur, insomma non siamo ricchi ma benestanti sì, e allora suo padre per la nostalgia ha comprato un pezzo
di terreno sulla collina delle Roselle e ci costruirà una villetta
così tutte le estati lei verrà.
E, sottointeso nell'occhio verdazzurro, ci rivedremo.
E io vorrei dire, guarda stai attenta, quella non è la collina delle Roselle, è la collina Fefelli, è tutta roba sua, ha disboscato e sbancato e farcito di ghiaietto, e deviato il torrente, non è più come ricordavi, non c'è niente di selvaggio là,
farà un quartierino con un po' di vegetali in più, le stradine di
pavé e i lampioncini e un sacco di auto che vanno su e giù.
Non si avvicinerà né una volpe né uno scoiattolo né un porcospino, solo ladri e gatti a ravanare nella spazzatura.
Invece le dico, be', ci son tanti che costruiscono una
casa là.
Lei sembra stizzita e dice, se ce l'hai con me dimmelo
che me ne vado.
Io dico no, ma sei andata via che eri una piratessa selvatica piena di fili di paglia e spighe nei capelli come noi, e torni che mi parli di smoking e cinematografo e villette, ho capito che torni da turista, mica da paesana, e io insomma se
vuoi saperlo mentre eri via son successe un sacco di cose
non belle, a Gancio e Fulisca, ai pesci del fiume e alla testa
della gente. Io vivo con mio padre in una casa gialla e brutta,
in camera mia posso attaccare al muro quello che voglio ma
resta piccola, non abbiamo una lira e se zio Nevio non mi regalava il galleggiante e le esche non potevo neanche pescare,
sarò anche antipatico, ma non puoi dirmi solo cosa è successo a te senza chiedere cos'è successo a me.
Scusa, dice lei con un filo di voce, scusa davvero.
Niente, dico io.
Sta un po' in silenzio e si arrotola un treccione di capelli,
così nervosa che temo che se lo strappi. Allora per fare pace
le metto la mano sotto il naso.
Questo è il profumo di moda quest'anno in paese, le
dico, si chiama amour de vermicel.
Lei ride e mi mostra la lingua. Mi sembra cresciuta anche quella, mio dio. Esamina il contenuto del canestrino a
mollo nell'acqua.
Quanti pesci hai preso, dice. Poverini. Alcuni sono ancora vivi.
Se vuoi, dico io, li lascio andare.
Lei non commenta.
Allora vuoto il panierino nell'acqua e li libero. Metà son
già mezzi morti, metà si riprenderanno. La frittura se ne va
scodinzolando verso il mare. Coglione che sono.
Allora, dice lei, io resto solo cinque giorni.
Ah, dico io, e una pietra gelida del fiume mi entra nello
stomaco.
Lei si alza in piedi, tira un sasso nell'acqua e gli fa fare
solo tre rimbalzini.
Io rido, ha proprio dimenticato come si fa. Le prendo la
mano e le faccio vedere come si tiene la giarella, il sasso
piatto.
Lei mi guarda con audacia cittadina e dice, sai che sei
diventato un bel ragazzo, assomigli un po' a James Dean.
E io sento un soffione di caldo, una vampata che in confronto la Venerelli è una mezza caldarrosta, e le rispondo,
non lo so chi è questo Jeans Din però me l'ha già detto qualcuno. Che balle, quando mi devono paragonare a qualcuno
mi paragonano all'omino della pubblicità della Presbitero,
quello con le matite dritte in testa.
Voglio dire, precisa lei, che gli assomiglieresti se ti pettinassi un po'.
Già, dico io.
E io a chi somiglio?, dice lei.
Da piccola le dicevo sempre, a una cicciona mangiawafer, ma lei lo sa, la furba, che adesso è una gran gnocca, e allora ci penso su e vorrei dire, somigli a un'attrice che in un
film muore sparata, ma non ricordo il nome, e allora dico: tu
sei la regina dei pirati, non hai bisogno di far gare, sei più
bella di un'attrice.
Mi sa che stavolta l'ho azzeccata, perché lei tira il sasso
e non gli fa fare neanche un rimbalzo, la manina le trema.
Allora le dico: facciamo una scommessa. Tiro io la giarella,
se le faccio fare più di dieci rimbalzi domani ti porto nel bosco a fragoline.
Dai, dice lei.
Mi sento un po' come il discobolo Adolfo Consolini, o
Robin Hood quando deve tirare la freccia decisiva davanti a
Lady Marian, o Pelé quando tira il rigore sullo zero a zero e
potrei continuare con i paragoni per un'ora, perché modestamente a paragoni io sono come, e non faccio il paragone se
no non ci fermiamo più. Il momento è storico. Scelgo un sasso adatto, liscio ma non troppo, bombato giusto, pesante giusto, lo bacio e dico:
– Vola, uccellino.
E il sasso fa uno due e tre e quattro rimbalzi lunghi e poi
cinque sei e sette e otto medi e poi nove e dieci e undici e
dodici e tredici pippe di saltini e al quattordicesimo si inabissa.
– Grande – dice lei, e accenna un passo di danza. – Qual
è il tuo record?
Una volta, dico io, con una sassata ho attraversato il
lago da riva a riva, ho spaccato un dente a uno che pescava
sull'altra sponda.
Sei sempre lo stesso, dice lei.
Anche tu, dico io.
Non è vero, ma facciamo finta che sia così.
8.
Quella notte non dormo. Sento mio padre che pesta e
pialla, sta costruendo una statua di legno, non so cosa, ma si
vede con Carburo e Karamazov, fan delle gran riunioni e poi
ricomincia lo smartellamento, ma non è per quello che non
dormo.
La mattina alle nove ho appuntamento con Selene, sotto
un ippocastano che conosciamo io e lei, in zona appartata.
Mi son fatto prestare l'orologio dal babbo, lui non ha detto
niente ma qualcosa deve aver capito, ha sorriso con l'occhio
chiuso per il fumo della nazipuzzola.
Allora alle nove meno tre son lì in anticipo, pettinato.
Alle nove in punto lei non c'è.
Le donne in punto non arrivano mai.
Alle nove e cinque non c'è.
Fighetta di città abituata a farsi aspettare, fai la fenomena, fai la tattica per farmi soffrire. Con me non attacca. Invece attacca ed effettivamente comincio a soffrire un po' e a girare in tondo come un cane alla catena.
Alle nove e dieci non c'è.
Brutta stronza, se mi fai il bidone non ti parlo più, ma
cosa credi che son qui ad aspettare te, posso avere tutte le
Venerelli che voglio, ho infranto più cuori io che il colesterolo dello strutto. E continuo a soffrire e mi spettino.
Alle nove e tredici non c'è.
Troia, che ti venga un canchero, in testa te lo dovevo tirare il sasso, ma già, tu sei una cittadina benestante, sai cosa
ti interessa andare nel bosco, scusi commesso quanto costano
le fragoline? Diecimila il cestino? Me ne dia tre. E la sofferenza aumenta, comincio a parlare a voce alta.
Nove e quindici e niente.
Ma io lo so che abiti da tua zia, stanotte vengo con la
fionda, ti spacco tutti i vetri e scrivo sul muro Selene lo ciuccia a Sponda, che è il vicesindaco leccaculo di Fefelli, l'uomo più laido e puttaniere del paese e poi…
E poi lei arriva di corsa, trafelata.
Scusa, dice, ma i miei mi facevano un sacco di domande: dove vai, con chi vai nel bosco, non conosci più le strade,
qui è cambiato tutto, mica è come quando siam partiti, poi
adesso sei una ragazza grande e devi stare attenta. E' molto
che aspetti?
Tre quattro minuti, rispondo, anch'io ho ritardato perché
non trovavo il cesto per le fragole, questo è speciale, porta
fortuna, ci ha pisciato dentro lo gnomo del bosco.
Le fragole, evviva, andiamo, dice lei.
E saliamo per la cavedagna e io noto subito che lei ha
dei jeans attillati e sotto l'etichetta Levi's quello che vedo è
un culo, anzi un gran bel culo e mi sa che rimarrò spesso indietro in questa passeggiata. E' una giornata fresca, c'è un po'
di nebbia dorata e le foglie sono bagnate di guazza, ma dall'odore direi che sta arrivando il sole, arriviamo all'inizio del
bosco e quasi senza accorgermene cambio direzione, non
vado dalla parte dove c'era la mia casa, lei se ne accorge e
non dice niente. Percorriamo tutto il costone fino al filare dei
pioppi, poi saliamo un po' e sbuchiamo in una radura dove
c'è un grande noce.
– Ti piacciono ancora le noci bianche un po' acerbe? –
chiedo io.
– Sì – dice lei.
Allora mi arrampico sul tronco come un gatto che non
ce n'è bisogno, noci per terra ce n'è finché ne vuoi, ma io le
voglio appena appena un po' fresche, col mallo duro ma che
si toglie bene.
E spogliamo le noci del mallo, e io faccio certi pensieri,
e poi lei rompe le noci con un sasso e i pensieri si bloccano e
poi quando leviamo la pelle alla noce siamo nello strip, nella
pornobotanica, e io occhieggio i suoi jeans, e sento dell'armescolo nei pantaloni. Ci mangiamo un bel po' di noci bianche, nude e rugose, poi io dico, basta che impalugano la bocca e lo stomaco.
Ancora una, dice lei.
Poi rubiamo un grappolo di uva nera e mentre camminiamo carponi tra i filari lei inciampa e io le cado addosso,
proprio con la testa nei suoi capelli, sento tutto il suo odore
femminile biondo e sciampo, speriamo che il mio odore sia
all'altezza.
Mentre ci arrampichiamo su per il bosco, viene il sole e
passiamo in continuazione dall'ombra alla luce, i suoi occhi
cambiano colore ogni volta, lei è agilissima, sale con la targa
dei jeans che ondeggia e le gambe da ballerina, più svelta di
me e senza attaccarsi ai rami, solo una volta le porgo la
mano per tirarla su, lei si fa aiutare e mi sembra leggerissima. Ed eccoci al poggetto.
Gnomo di merda, penso, per favore, fammene trovare
tante.
Però qualcuno è passato prima di noi, perché di fragoline non ce n'è.
Ma lo gnomo vede la situazione, parte a razzo e rimette
le fragole una per una al loro posto, attaccandole con un po'
di sputo di gnomo, che è notoriamente resinoso. Tanto Selene non lo sa.
Ed ecco la prima colonia, le gocce rosse che brillano, tre
metri quadri di fragoline. Lei non resiste, se le pappa sul posto e subito le viene la bocca rossa, questo lo faceva anche
da piccola, ma adesso mi fa un altro effetto, allora era uno
sbrodolamento, adesso è una provocazione. E mentre io raccolgo lei mangia, e me le mangia anche dentro al cestino e io
dico uffa, e faccio finta di allontanarmi. E vedo che lei improvvisamente si mette a ballare. Fa dei giri su una gamba
sola, e anche se il terreno è scosceso salta, si inchina, muove
le braccia come fosse sott'acqua, sinuosamente, proprio
come le ballerine col tutù.
Dio com'è bella dio com'è bella dio com'è bella, se mi
dice di no devo aver subito pronti tre modi di morire: mi butto giù dal cavalcavia, oppure mi taglio la gola con la sega del
papà oppure mi annego.
E lei balla e dice: questa sì che è vita, altro che la città.
E io penso che sul cavalcavia magari casco sul telone di
un camion, mi storpio e basta, in quanto alla sega no perché
poi papà si sentirebbe responsabile, e annegarsi c'è l'istinto di
sopravvivenza che mi farebbe tornar su anche con un masagno legato al collo, e poi i lucci ci rimarrebbero male.
Vivrò, vivrò per te, amore. E anch'io mi metto a ballare,
non sono capace, faccio una specie di satiro che saltella tutto
intorno e lei ride.
Poi crolla sull'erba, tra i ciclamini, col petto regolarmente ansante.
Credo sia questo il momento, almeno nei film quando
lei è ansante sull'erba, a meno che non abbia una freccia nella schiena, quello è il momento erotico che può succedere di
tutto.
Lei si mette un filo d'erba in bocca.
Questo non capisco se è bene o male.
Poi dice: sai, ci sono tanti ragazzi in città che mi fanno
la corte.
Questo è male e ripenso al cavalcavia alla sega eccetera.
Ma sono così noiosi, sospira, non distinguono un tiglio
da un pero, non sono mai stati al fiume, solo in piscina o a
Riccione, e mangiano quei fragoloni che sanno d'acqua e li
chiamano fragole e io dico no, guardate che le fragole sono
quelle di bosco, quelle piccoline.
Giusto, dico io. E magari non riconoscono le ortiche e ci
si siedono sopra.
E quando io gli racconto che sono nata qui mi chiamano
la paesanella. Ma poi io gli ballo davanti e loro si innamorano.
Perché tu, dico io, balli per farli innamorare?
Sì, dice lei. Per farli innamorare, ma poi gli dico di no.
Ah, dico io. Hai fatto così anche con me, allora, vorrei
aggiungere, ma sto zitto.
Mastica il filo d'erba. Mi fulmina di verdazzurro e chiede: e tu cosa fai per fare innamorare le ragazze?
Cosa le dico? Che uso la moniaca?
Be', sussurro, non lo so. Sono loro magari che mi cercano.
Bum, dice lei, non fare lo spanizzo, conquistatore. E
quando ti cercano, tu cosa fai?
Niente, dico io, perché…
Perché?
Perché io ne ho una sola nella testa, dico.
Lei si rabbuia. Buon segno, direi.
E chi è? Una di quelle nuove, le toscane? La Camillina
Figarina?
La Camillina, vorrei dire, ha messo su dei baffi e delle
guance che sembra un criceto.
Segue un silenzio, un lungo silenzio pieno di ronzii di
api che nasano i fiori e crepitii di rami e cani lontani, e io
penso devo dire qualcosa, anche in cirillico, perché le donne
vogliono parlare e che qualcuno le parli, il silenzio è dopo,
quando le sposi. Gnomo, dammi un'idea.
– Tutte le volte che venivo qui e vedevo le fragole –
dico tutto d'un fiato – pensavo a te.
Se fossi stato James Din avrei detto: evrytime i camhere
for strawberries, i think ov iu.
Davvero?, dice lei, e mi si avvicina e col filo d'erba in
bocca, mi solletica le labbra.
E lì non mi tiene più nessuno, anzi non ci tiene più nessuno.
E furono tre giorni sui prati, di baci, ma altro che la Venerelli, la Venerelli era ginnastica di mandibole, lì era una
roba folle, che dopo ogni bacio avevo più voglia di prima,
ero insaziabile e anche lei, e la baciavo di traverso, e in piedi, e contro i tronchi, e di nascosto nei portoni, e con la bocca piena d'uva e ci baciavamo anche dopo un panino alla
coppa.
E poi toccavo.
Arrivai alle tette naturalmente e al pancino, e le consumai i bottoni dei jeans a forza di slacciare e riallacciare e lei
diceva no no, ma ogni volta si ricominciava.
E non le dicevo ti amo per paura di un altro sarai mica
scemo, ma parlavamo molto, facevamo progetti, di quando
sarei andato al liceo l'anno prossimo e lei mi avrebbe portato
in giro per la città a scoprire le fragole cittadine, ovvero le
delizie metropolitane, avrebbe dato una festa per farmi conoscere ai suoi amici e mi avrebbe insegnato il twist e il cha
cha cha che è facilissimo.
Ma io mi vergogno, dicevo.
E poi pensavamo di fare un viaggio in America, cioè
partire dal Canada a vedere gli orsi bianchi e gli irochesi, poi
traversare New York e il deserto del Nevada su una macchina tipo James Din quindi passare per il Messico a mangiare
qualche fungo che lì sono allucinogeni più della grappa, e
poi andare a cercare lo zio di Gancio nella giungla guatayaba, quindi lei avrebbe ballato su un carro del carnevale di
Rio non troppo succinta però, poi avremmo deposto dei fiori
sulla tomba del corsaro Verde a Maracaibo e infine saremmo
andati in Patagonia e da lì avremmo preso la nave fino a Livorno per andare a vedere l'aquarium, poi avremmo fatto il
passo della Futa a piedi e saremmo scesi fino in paese,
avremmo distribuito i souvenir e poi…
E poi bisognava separarsi.
E la mattina andai di nascosto a vederla partire. Avevano una millecinque color crema, erano pieni di valigie e lei
era vestita di blu, una vera signorina. Tornai a casa, e vidi la
mia camera spoglia, con le figurine per terra, il pallone da
calcio e i libri vecchi usati, anche se gli volevo bene mi sembravano malati. E mio padre che smazzolava la sua misteriosa statua, e puzzava di vino, ed era un mese che cucinavamo
a turno e mangiavamo pasta e pomodoro, pasta e burro e
ogni tanto una lepre che ci regalava zio Nevio. E io non avevo i soldi per la merenda, andavo a scuola con due o tre albicocche che mi si impataccavano in tasca e diventavano una
dolciuria molle.
Un giorno entrai nel bar. Gran parte dei clienti guardava
il quiz e Lavamèl diceva, tanto sbagliano e tutti chiedevano a
Baruch se secondo lui la domanda era facile o difficile. A un
certo momento ci fu una domanda sui dinosauri e Slim chiese a Arturo Novantanove, tu che li hai visti, dai la risposta, e
il vecchione si incazzò.
Al tavolo della cospirazione politica c'era Karamazov
che dormiva e sognava la steppa, Carburo leggeva l'Organo,
e zio Nevio beveva anicione. I messinesi ascoltavano mio
padre che alzava la voce mentre tutti protestavano: zitto, facci sentire il quiz.
E io guardai l'orologio del quiz che segnava i secondi
che mancavano per rispondere ed ebbi un singulto temporale, vidi un gran televisore a colori e uno che dalla poltrona
gli sparava contro con un pistolino nero, e lo colpiva, perché
lo schermo cambiava immagine cercando forse di piacere di
più, o di mimetizzarsi. Poi ebbi una visione, come l'esplosione di un altissimo fungo atomico di cretineria e le scorie ricadevano su ogni punto del nostro paese, affollate metropoli
e sperdute lande, e l'effetto era un rincoglionimento totale,
cosmico, indescrivibile. Nessuno aveva ancora capito che
quell'elettrodomestico lì era il balcone dei beniti futuri.
Quel giorno un concorrente si ritirava alla cifra mostruosa di un milione e duecentottantamila lire, dicendo:
sono troppi, non posso rischiare di perderli. E io ascoltavo
mio padre che diceva:
– Ma sì, tiriamola giù con la dinamite la montagna, tanto sta già franando. Buttiamoci ancora cemento. Anche i Lunini, i sarti, si fanno la villa nel terreno di Fefelli. Son diventati dei signori anche loro. Peccato per la loro figlia, era amica di mio figlio, era una brava ragazzina, adesso si dà delle
gran arie.
Non è vero papà, volevo dire, sei ingiusto.
Ma poi pensai, mica lei mi ha lasciato un numero di telefono, io il telefono non ce l'ho ma lei sì, non ha detto cercami, non ha detto ci rivediamo. Ha detto solo una volta, sto
bene con te. Ma magari in città ha un fidanzato altro che James Din, uno tipo Altafini. Ed ero così stupido da non capire
che, nell'ultimo incontro, lei non aveva parole perché le dispiaceva separarsi, proprio come a me. Mi sentii infelice,
non da cavalcavia ma quasi. Presi un fiasco di vino dalla
cantina e mi sbronzai. Vomitai tutta notte. Al mattino mi alzai pallido e dissi: papà, fammi vedere la statua.
Lui mi vide così sbattuto e strano che non disse di no.
Tolse il lenzuolo. Era bellissima. C'erano due uomini
che reggevano tra le braccia il corpo di un terzo uomo. Avevano dei fazzoletti al collo. Sotto c'era scritto:
Ai caduti sul lavoro.
9.
Anche se vivevo sghembo tra i ritmi del sole e dell'orobilogio, qualcosa di dritto lo vedevo. Ad esempio che nel nostro paese e nella sua piccola storia era in corso un grande
combattimento tra divinità buone, cattive e strampalate. Da
una parte il Dio allegro, lo gnomo mangereccio, Santa Putilla
e la Sacra Guêpière ci aiutavano e proteggevano. Dall'altra il
Diavolo Violinista e lo Gnomo Boleto portavano piccole sfighe bizzarre. L'Ombra tagliatrice d'anime e la Sacra Pilla, la
dea dei soldoni che sconvolge la testa degli avidi e dei poveracci, portavano sfortune grosse e irrimediabili. Perciò non
ebbi tempo di riflettere sull'amore trovato e forse perduto,
perché la teomachia divampò e furono giorni di grandi eventi.
Una sera tutti eravamo al bar a vedere la partita con la
Svizzera, e Lavamèl seduto con Carbonchio in grembo disse
che tanto sarebbe andata male, la Svizzera era piccola ma
ricca, aveva di sicuro comprato la partita con franchi e chili
di cioccolato. Invece andammo sull'uno a zero con gol di
Mazzola. La Svizzera pareggiò e Lavamèl ghignò. Poi segnarono Corso e Rivera. La partita finì tre a uno e nessuno
fece caso che Lavamèl si era messo zitto. Un po' alla volta
lasciammo il bar e Lavamèl era sempre lì coi suoi occhiali
neri, immobile, forse incazzato perché la maledizione elvetica non era andata a segno.
Alle due di notte, scolato l'ultimo fondo di millefiori
Cucchi, Balduino disse: – Lavamèl, è ora di chiudere.
Non ebbe risposta.
Tolse gli occhiali neri a Lavamèl e sotto c'erano gli occhi chiusi.
Lo scrollò, niente, anzi gli cascò la cicca di mano. E
Carbonchio non si muoveva neanche lui.
Lavamèl aveva raggiunto i grandi pascoli e il vecchio
Carbonchio pure, in sincrono con il suo padrone.
Fin qua niente di strano. Lavamèl era vecchio e ci dispiaceva un po', perché era un menagramo, ma in ogni paese
ci voleva un menagramo, e magari adesso ne sarebbe venuto
uno vero. Il problema era il modo anomalo in cui era morto
Lavamèl. Tecnicamente era spirato per uno scaramaccino.
Ma come ebbe a dire il becchino, di nome Felice, il problema era la posizione.
Lavamèl infatti sedeva sempre sulla stessa sedia, una sedia di ferro coi braccioli. Poiché soffriva di varicocele, cioè
aveva un marrone grande come una provola, doveva tenere
le gambe larghe. Perciò le infilava nei braccioli tenendole ai
lati della sedia, alla cavallerizza. Ora, essendo morto in quella posizione, e avendo subito assunto una rigidità mortuaria
sorprendente, da statua equestre, le soluzioni per funeralizzarlo erano tre.
Uno, si sarebbe potuto disincastrargli le gambe dai braccioli. Ma fu subito chiaro che bisognava spezzargliele, per-
ché eran rigide che solo a toccarle facevano un rumore spaventoso, e già si era sentito un crac.
Due, si potevano fondere i braccioli con la fiamma ossidrica. Ma al primo tentativo del fabbro Favilla, Lavamèl iniziò a sciogliersi e far puzza di strinato, insomma il rischio
era di bruciare non solo la sedia ma anche Lavamèl, e sottoporlo a una cremazione indù.
La terza soluzione era seppellirlo così, seduto con sedia,
gatto e tutto.
Perché, ultimo particolare, anche Carbonchio era imprigionato tra le braccia del padrone, duro come uno stoccafisso.
Il barista, nel senso non di Balduino, ma di uomo che fa
i sarcofaghi, si dichiarò sinceramente in difficoltà, e richiese
l'intervento di mio padre, falegname emerito. Insieme fecero
un progetto di bara quadrocubica. All'interno furono sistemati Lavamèl con la sedia e Carbonchio, a don Brusco non dicemmo del gatto, e si apprestò un regolare funerale. Al momento dell'interramento, però, qualcuno disse che sarebbe
stato bello seppellirlo dritto, ma nessuno aveva scritto sulla
cassa alto, basso, quindi non era facile. Per fortuna mio padre ricordò che l'asse di sotto aveva delle venature più scure.
Quindi la cassa fu calata, e che io sappia è l'unica bara cubica bicadavere esistente al mondo.
Il giorno dopo fu inaugurata la filiale della Banca delle
Valli. Buon segno, i soldi giravano. Brutto segno, i soldi
mettevan su casa, diventavano grandi e indipendenti. Il diret-
tore era un certo Boccoli, elegante come Mitchum ma stronzo. Venne a salutarci tutti e ci spiegò che un libretto degli assegni è una cosa comoda perché dopo uno firma e può pagare con quello. Ci aveva preso per deficienti, l'unico che non
lo sapeva era Caprone che rimase affascinato.
Il giorno dopo posteggiò Hisssss fuori dalla banca ed
entrò.
Uscì incazzato dopo pochi minuti.
– E' una tomellata, ti danno il libretto, ma paghi coi tuoi
soldi. Allora son capace anche me.
Subito dopo ci fu il caso della statua. Mio padre chiamò
tutti a casa nostra per vederla. Dissero che sarebbe stato bello metterla nella piazza del paese. Naturalmente questo suscitò un epico scazzo in municipio. Carburo disse che era
una bella statua, che ricordava non solo Remo, ma anche gli
operai morti nei cantieri dell'autostrada. Il laido puttaniere
Sponda disse che non era il caso, perché un monumento siffatto predisponeva male i bambini nei confronti del lavoro. Il
sindaco tagliò corto: un monumento così palesemente politico, mai. Piuttosto in piazza metteremo una fontana.
Siccome il voto di Fefelli era quello che decideva, ma
l'opposizione teneva duro, iniziarono consultazioni segrete.
Per qualche giorno non si parlò d'altro. Poi la situazione
si sbloccò. La statua fu caricata su un camion scoperto, portata in giro per il paese e da lì fin davanti al cementificio,
dove ci fu un concerto di fisarmonica, Regina cantò sciur pa-
drùn e poi slogan e crescentine, alla faccia del direttore Paladini e dei suoi scagnozzi, a cui Fefelli aveva ordinato di star
buoni e lasciarci sfogare. Quindi la statua fu portata nell'atrio
della casa del popolo, dove diventò subito monito per la memoria e attaccapanni nelle riunioni. Dovrebbe essere ancora
lì.
A Fefelli toccò di ingoiare la rivolta e di costruire la
fontana. Ma a mio padre gliel'avevano giurata, e una sera i
fratelli Pastori lo seguirono in macchina, mentre tornava a
casa in bicicletta e per fortuna c'era Fangio con la corriera in
sosta alla fermata. Vide e capì tutto, mise la Sita per traverso,
scese e disse ai Pastori:
– Mi è finita la benzina, vi toccherà di fare il giro largo.
I Pastori erano grossi, ma Fangio aveva in mano un cric,
e mio padre un mannarino.
– Ci rivedremo – dissero, e fecero inversione di marcia
facendo stridere le ruote.
Il cementificio assunse due guardie giurate, e andavano
insieme loro e i Pastori, una triste squadraccia.
– Mi piacciono – disse subito Osso – sono tosti. Sono
come quelli dell'Ok Corral.
– Quando uno non distingue più i banditi dagli sceriffi –
disse Gancio – vuole dire che è nella merda.
Fu una delle frasi celebri nella giovane vita di Gancio.
Vita difficile, i suoi fratelli si erano trasferiti in città lasciandolo solo, zio Nevio lo aveva preso nel negozio ma Gancio
non faceva che fumare e fregare soldi dalla cassa, pochi ma
spesso. Di notte, girava con dei balordi di fondovalle, dei ladruncoli. Un giorno lo vidi con una giacca di cuoio nuova
fiammante.
– Dove l'hai presa?
– L'ho vinta a poker – disse lui, ridendo. Non aveva più
la cerbottana guatayaba né la fionda, ma un piccolo serramanico. Aveva quattordici anni ma ne dimostrava venti. Aveva
anche una morosa, una trentenne mezza matta che curava i
pomodori dell'orto e la solitudine dei pensionati. Futuro incerto, povero indio Gancio. Per fortuna zio Nevio aveva preso a volergli bene, giurò che lo avrebbe fatto studiare e lo
avrebbe mandato al liceo.
– Per me è lo stesso – diceva Gancio, fumando nazipuzzole. Quando rideva o sfotteva, gli veniva una ruga da adulto
sulla guancia da adolescente.
Un giorno cominciò a piovere. Piovve tre giorni e tre
notti. I tombini si intasarono, una zuppa di merda invase le
strade, Fefelli s'era fregato anche i soldi delle fogne. Il fiume
diventò giallo e ribollì di pesci morti, una conceria a monte
si era allagata ed erano usciti veleni e acidi, l'acqua si riempì
di schiuma, tirammo su quattro camion di pesci che già puzzavano. E morirono anche alcune pecore di Caprone e due
cani, che si erano abbeverati al fiume.
Baruch disse che sulla montagna c'era qualcosa di strano, si sentivano dei rumori. E una notte io stavo dormendo, e
mio padre tossiva più del solito, quando alla finestra vidi apparire lo gnomo, versione benevola.
– Dormi dormi, che intanto il mondo sparisce – mi disse.
– Cosa dici?
– Vieni alla vasca della Fanara domani mattina. Ti devo
far vedere una cosa.
Il giorno dopo c'era nebbia, feci fatica a trovare la strada
nel bosco. C'era fango dappertutto, scivolavo e m'impantanavo. Tornai nel prato dei ciclamini, dove avevo baciato Selene
la prima volta, ed era smottato, metà del terreno era precipitato, come tagliato dalla falce di un gigante, e due alberi sradicati mostravano le loro viscere, le radici umide e brulicanti
di insetti.
Andai alla vasca di pietra. Come sempre il rumore dell'acqua mi ipnotizzò e chiusi gli occhi. Quando li riaprii all'improvviso l'acqua si mise a vorticare, prima in un senso
poi nell'altro. Vidi un volto riflesso affiorare dall'acqua, poi
una donna uscì, gocciolante: era mia madre. Proprio come
nella foto. Magra, pallida, con un sorriso patito, e un vestito
grigio. Aveva un cesto pieno di biancheria e in mezzo ci aveva messo delle mele gialle.
– Come sei cresciuto, ragazzino – mi disse.
– Mamma, per me sei sempre la stessa, quella della foto
sul comodino di papà. Non riesco a ricordarti. Mi dispiace.
– Non è colpa tua. Eri troppo piccolo.
Si mise a lavare i panni, cantando a bassa voce. Sembrava trasparente.
– Mamma – dissi – perché lavi, la casa non c'è più.
– La casa c'è ancora. Se no, perché farei il bucato e raccoglierei le mele?
– Ma mamma…
– Il bosco non smette di vivere, qualsiasi cosa gli fai.
Stai vicino a tuo padre – sussurrò.
Entrò nell'acqua e scese piano, come se nella vasca ci
fosse una scala. E scomparve.
D'improvviso, la Fanara si riempì di una colata fangosa,
che tracimò fuori. Vidi anche che nella base centenaria di
pietra c'era una crepa, e l'acqua usciva anche di lì. Corsi giù
in paese, scivolando nel pantano, scavalcando rospi. Non sapevo se dirlo a mio padre, a Baruch, a chi dirlo. Alla fine entrai nel negozio di zio Nevio. Stava confezionando le cartucce a mano e le riempiva di pallini. Mi salutò sorridendo.
– Cosa vuoi Saltatempo, dell'esca? Con questa acqua
torbida, mica puoi pescare.
Gli raccontai di cosa avevo visto su nel bosco. Lui mi
disse, non dirlo a tuo padre che non sta bene e poi si agita.
Domani andiamo noi.
Ma poi gli scappò detto quello che avevo detto con Baruch, a Baruch scappò detto con Carburo e Carburo lo raccontò a mio padre e decisero, domattina andiamo.
Quella notte mi alzai, e sentii dei rumori in officina, dei
colpi da non credere, sembrava che stessero spaccando il pa-
vimento. Entrai e vidi lo gnomo che stava scavando con l'ascia un tronco. Volavan schegge dappertutto.
– Ma cosa stai facendo! – gridai.
– Sto preparando una canoa – rispose lo gnomo – nel
bosco c'è un fiume di fango, e andrà sempre peggio.
– Ma tu sei matto. Una canoa in mezzo agli alberi?
– Proprio così – disse contemplando la sua opera. –
Cosa ci metto a prua come polena? Una gnoma nuda? Una
cerva? Selene coi jeans?
– Fatti i fatti tuoi.
– Vi ho visto sai, nel bosco – disse lo gnomo, saltellando. – Se non era per me, mica ce la facevi. Chi ha riattaccato
le fragoline? Chi faceva cantare gli uccellini, che erano addormentati e li ho svegliati? Chi sventolava i ciclamini perché odorassero?
– Certo, tutto merito tuo – ghignai.
Il baffo dello gnomo diventò verde e gli occhi iniettati
di sangue.
– Piccolo presuntuoso. Chiedimi scusa.
– Scusi, Sua Verdità – dissi inchinandomi. C'era poco
da scherzare quando si trasformava nel Boleto satanasso.
Si rilassò e i baffoni tornarono candidi. Vidi che aveva
il grembiule da lavoro di mio padre.
– Gnomo – chiesi – ma il mio babbo dov'è?
– Svegliati e lo saprai.
Saltai su dal letto e corsi nella sua camera: papà non c'era e neanche i suoi stivaloni.
Era andato sulla montagna di notte, da solo con la torcia, non poteva aspettare.
La mattina corse subito in piazza a fare comizio, tossiva, aveva la febbre ma la sua voce tuonava come quella del
profeta Nabumelech. Disse che la montagna stava franando.
Che dopo tutte le ferite inferte dai lavori dell'autostrada, se
non smettevano di scavare al poggio delle Roselle e non la
finivano di disboscare, sarebbe crollato il monte sul paese.
La vasca della Fanara era crepata, alcuni castagni erano già
caduti, veniva giù acqua dappertutto.
Sarà stata l'aria da profeta pazzo, ma convinse tutti. Una
delegazione di paesani andò dal sindaco. Fefelli disse, va
bene, chiamo gli ingegneri, i geometri e i geologi, tranquilli,
magari rallenteremo i lavori, ma non possiamo fermarci. Le
ditte hanno bisogno di legna ancora per un po', dopodiché gli
alberi saranno sacri.
Sembrava davvero preoccupato, girò in bicicletta per
tutto il paese, si fermò a parlare con Baruch, con Carburo,
con la Luciana che ne approfittò per piazzargli quattro paia
di slip. Disse che lui teneva al benessere di tutti, non agli interessi di qualcuno. Se la prese col laido Sponda, che secondo lui non controllava le ditte appaltatrici. Venne persino da
me, mi fermò all'uscita del bar. Mi disse, lo so che sei un
bravo ragazzo molto maturo per la tua età, perciò cerca di
star dietro a tuo padre, è un gran brav'uomo, ma è troppo pre-
so dalla politica. Digli che stia calmo e vedrai che presto ci
sarà lavoro per lui.
Tanto io la ucciderò signor sindaco, pensai. E gli chiesi:
– E la fontana come la farà?
– Come la vorresti?
– Lucci. Faccia dei lucci d'argento che saltano, che gli
esce l'acqua pulita dalla bocca.
– Io pensavo a una bella signora con una cornucopia in
mano – disse lui – ma vedremo.
– Se si parla di cornucopia, allora ci vorrebbe il ritratto
di sua moglie – disse Balduino, che aveva già la mezza
sbronza della mattina, e aveva sentito tutto.
Fefelli scrollò le spalle. Oltretutto la signora Labrador
era invecchiata, ingrassata, intristita. Postini e fontanieri
uscivano indenni. E a villa Meringa, quella sera, arrivò una
Lancia grigia, scesero alcuni distinti signori, erano quelli delle ditte costruttrici. Si fermarono a parlare a lungo.
Io ero andato a giocare a pallone, e tornavo a piedi verso
il paese con Osso e Baco. Eravamo merdi di fango come
moto da cross. Osso provava a fare l'autostop, ma data la sua
scarsa somiglianza con Marilyn Monroe non si fermava nessuno. Ci fermammo stanchi al distributore di benzina. Osso
tirò fuori Playboy, con un paginone centrale che ospitava un
metro quadrato di gnocca, e Baco gli si sedette vicino. Sembrava che leggessero i Sepolcri, dal gran che erano seri. Non
è che a me la cosa non interessasse, ma ero nervoso. Non capivo la gentilezza improvvisa di Fefelli, la vipera cambia la
pelle, non i denti. Mi misi a palleggiare, il pallone fangoso
pesava come il mondo, diedi tre o quattro pedate e lasciai
stare.
– Serata di merda – dissi ai due pornoipnotizzati.
Vidi una Giulia bianca fermarsi al distributore. Da un'altra macchina parcheggiata in fondo al piazzale uscirono due
persone. Erano le guardie giurate del cementificio. La Giulia
accese i fari e partì. Alla guida c'era Licio Pastori. Allora urlai, e mi misi a correre verso casa. Osso e Gancio non capirono, non mi seguirono.
Arrivai che era buio. C'erano tracce di ruote sul prato.
La luce dell'officina era accesa. Entrai, mio padre non c'era.
Non era neanche in casa. Lo cercai nel canneto dietro casa,
niente. Poi sentii un lamento, e una bestemmia.
Era sdraiato vicino al bordo della strada. La faccia era
gonfia, il naso rotto. Un mignolo gli pendeva dalla mano,
inerte.
– Due li ho conciati per le feste – disse – bastardi, erano
incappucciati, ma lo so chi sono.
Poi non disse più niente.
Se la cavò in un mese, anche se avevano picchiato duro.
Ci fu una denuncia contro ignoti, ma i Pastori e le guardie
giurate avevano un alibi, dieci amici li avevano visti in città.
In quanto a quei lividi in faccia, be', una rissa per motivi di
donne, sapete com'è. Chiesi a Osso e Gancio di testimoniare,
Osso non rispose, Gancio disse sì, ma cosa dico, che ho visto
una macchina che forse era quella dei Pastori? Dammi retta.
I guatayabas lasciano passare dieci lune, poi si vendicano.
Zio Nevio parlò con l'avvocato che gli disse, purtroppo sono
furbi, non possiamo dimostrare niente. Sembrava che tutti la
volessero mandare giù, qualche anno prima non sarebbe successo. Ero furibondo, ma una sera mio padre mi chiamò. Col
naso gonfio, sembrava Bartali.
Mi disse tre cose.
Che era andata così, ma lui non mollava. Io però dovevo
stare calmo e non fare sciocchezze, dovevo giurarlo.
Poi disse, lo vedi questo quaderno nero? Ci scriverò le
denunce su tutto quello che stanno facendo. Se mi succede
qualcosa, portalo in città a questo signore scritto qui, è un
avvocato del sindacato, ma non ce ne sarà bisogno.
Terzo, se muoio, nella scatola dei chiodi c'è una chiave.
C'è un armadio di ferro nell'officina, e dentro una sorpresa
per tutti.
– Basta con questi discorsi, papà – dissi io piangendo –
basta.
– Son discorsi che si fanno una volta nella vita, e da
oggi mai più – disse lui, stringendomi forte un braccio –
adesso parliamo della tua scuola. Tuo zio mi aiuterà coi soldi, farai il liceo in città, diventerai un laureato come il dottor
Carabelli, come quel porco di Fefelli. Dacci dentro, mi aspetto una bella pagella, da mostrare in giro come le tavole di
Mosè.
Studiai quattro mesi come un matto. La notte mi facevo
il caffè con la moka per stare sveglio e quando andavo a letto
il cuore mi batteva come se avessi Selene vicino senza jeans.
Invece ero solo, triste e tachicardico. Ma fui promosso. Dell'ultimo giorno di scuola media, l'ennesimo ultimo giorno,
non ricordo molto. Solo i saluti agli amici, e che ero triste, la
strada futura mi sembrava in salita, anzi in verticale, come le
rocce dell'orrido di Monte Mario.
Poi venne l'estate e col sole le ferite guarirono. Mio padre ebbe un buon lavoro, tutta la falegnameria di una sala
mensa tombola assemblee per la casa del popolo. In paese gli
volevano bene, e beveva un po' meno. I Pastori stavano costruendosi una casa nuova, dietro villa Meringa. Una notte
tutto bruciò misteriosamente. Una guardia giurata trovò la
moto smontata pezzo per pezzo, senza foglio delle istruzioni
per rimetterla insieme. La giustizia guatayaba aveva colpito.
I lavori ricominciarono, alle Roselle, ma le case erano
indietro. Quella dei Lunini aveva appena le fondamenta.
Pensai che non avrei più rivisto Selene, che il mio breve
amore era finito e per tutta la vita non avrei avuto che Playboy, seghe e qualche Venerelli di passaggio. Invece mi arrivò una sua cartolina.
C'era scritto:
Non vengo, come saprai la villetta non è pronta, sono in
vacanza a Cesenatico. Ma ho saputo che verrai a studiare in
città. Ti aspetto, non ti ho dimenticato. Selene.
(PS: porta delle fragole.)
La cartolina mostrava delle vele e un porto. La misi nei
raggi della bicicletta, perché il suo rumore mi ricordava che
l'avevo, vera e preziosa come la mia quasi fidanzata che si
chiamava Selene.
Fu un'estate lunga, brodosa, caldissima.
E anche molto noiosa. Chi poteva era andato al mare, ad
esempio Osso che era partito per la Versilia con un chilo di
preservativi, chissà se gli sarebbero bastati. Qualcuno era andato a caccia in Iugoslavia, come se lì le lepri fossero diverse, disse sospirando Baruch. Dei rimasti, alcuni andavano a
rinfrescarsi a Fiumerunco beach, ma l'acqua era torbida e
poca. Le donne passeggiavano davanti al negozio della Luciana per ammirare gli ultimi modelli di bikini e si tingevano
i capelli da Piero e Renata parrucchieri ambosessi, riferito ai
clienti, precisava lui. Gli uomini che non lavoravano vagabondavano attorno ai lavori della fontana o del residence Roselle. Slim lo splendido andò a fare l'uomo uccello in un locale notturno, guadagnò un po' di soldi e una sera disse a
Carburo, ti offro una bottiglia. Carburo disse no che allora la
montagna crolla davvero. Balduino mise una nuova insegna
al neon. Vennero zanzare e farfalloni anche dalla Mongolia,
sbattevano nella luce e precipitavano cotti nei bicchieri, ai tavoli era tutto un mangiaebevi. Cipolla che non ci vedeva un
cazzo consumava Campari alla falena e Crodino al moscerino, e intanto la banda dei vecchi si intossicava di tressette e
nazipuzzole. Maria Casinò vinse seimila lire a sbarazzino e
si comprò una guêpière. Non mi serve a niente, disse, ma almeno nella vita ne ho avuta una. Balduino lanciò la moda del
Brivido Antartico, una tremenda granita di cedrata e liquore
Strega che scatenava diarree dall'effetto più rapido del morso
di un cobra.
Noi ragazzi facevamo interminabili partite a pallone e
lunghe discussioni di sesso. Gancio ci raccontava cosa faceva a letto con la sua zabariona, e a volte illustrava con disegni. Baco invece era un'enciclopedia del sesso autonomo, ci
rimproverava che eravamo dei segaioli sbrigativi, spiegandoci lungamente le raffinatezze dell'arte di Onan. Soprattutto la
sega cadaverica, ovvero come addormentare la mano perché
sembrasse di qualcun altro. O dell'uso dei cocomeri, delle
mele, delle spugne, dei termosifoni, della differenza tra pippa tirata e pippa sfregata, tra pippa a pressione e pippa a sfioramento, con cineserie quali la pippa al pelo di coniglio e
alla mosca ballerina.
La mia pippa preferita era scoparmi il prato, e poi restare esausto con l'erba stampata in faccia ansando Selene Selene dove sei.
Dopo le chiacchiere però, la noia restava, prendevamo
le biciclette, ci salivamo in due o tre insieme come il carosello dei carabinieri, e poi andavamo sul cavalcavia a vedere le
file delle vacanze e i tamponamenti, ma un incidente come
quello del camion ribaltato non ci fu più. Inventammo uno
scandalo: Labrador, in un ultimo impeto di mignotteria, aveva sedotto Caio il fornaio su un talamo di farina, e l'anello
nuziale con tanto di nome e data era finito in una pagnotta e
da lì proprio tra i molari del marito becco. Era tutto falso:
Labrador, grassa, triste e imbottita di sedativi, girava nuda di
notte per il giardino della villa, e vennero gli infermieri a
prendersela. Fefelli fece finta di soffrire ventiquattr'ore, poi
la dimenticò.
Anche noi la dimenticammo. La noia ci ingoiava, come
l'afa.
Poi vennero le orme.
Il giorno primo agosto, trenta gradi già di mattina, la
Luciana andò al fiume per rinfrescarsi la peluria prima di
aprire la boutique. Il suo urlo fu avvertito fino alle balze
montane. Accorsero in molti. Sulla sabbia del greto c'erano
le impronte di un animale mostruoso, quasi sicuramente bipede.
Esse misuravano quaranta centimetri di lunghezza, ventotto di larghezza e circa tre di profondità. Il piede era dotato
di quattro dita di cui una grande laterale con unghioni e le altre tre davanti. Non v'era traccia di palmatura né strisciate di
coda, né peli, né materiale viscido o squamoso. Solo quell'inquietante, gigantesca orma.
Entro sera, ognuno aveva la sua teoria sull'animale misterioso.
Per il razionale Baruch e il capitano dei carabinieri di
fondovalle Tavarelli, trattavasi di un orso tetradattilo, ultimo
esemplare di una razza anticamente assai diffusa nelle nostre
montagne. Era alto circa un metro e novanta, pesava cento-
venti chili, aveva una folta pelliccia scura ed era sceso al fiume per bere, perché il suo habitat era stato sconvolto, forse
abitava in una grotta della montagna crollata o invasa dall'acqua.
Per Balduino e il gruppo alcolisti omonimi, trattavasi di
una «pantera dritta», animale che cammina sulle zampe posteriori per ingannare sulla sua quadrupedicità. Balduino sosteneva di averla già vista aggirarsi nei dintorni del paese e
che già una volta gli aveva rubato una damigiana di vino. Era
alta un metro e mezzo e lunga tre, pesava ottantasette chili,
aveva una lunga coda, mangiava uomini, specialmente astemi, ed era venuta al fiume per lavarsi perché come tutti i felini aveva un grande senso dell'igiene.
Per Karamazov e gli stravecchi le orme appartenevano a
un Gulibiaka russo, antica creatura delle steppe siberiane.
Trattavasi di un grosso umanoide baffuto, con zanne e artigli, il cui grido ricorda il muggito della rana toro. Era alto tre
metri, pesava come un trattore (russo) e si cibava di patate,
insalata e cavoli. Perché era capitato lì, questo bisognava
chiederlo ai compagni sovietici.
Per le donne si trattava di un gorilla del Congo. Altezza
due metri, peso centotrenta chili, carico sporgente circa due
volte quello di Belloni il fontaniere (quest'ultimo particolare
non veniva discusso in presenza di bambini). Era fuggito dallo zoo, e vagava per la valle perché l'estate era la stagione
degli amori e cercava un bipede con cui accoppiarsi.
Per me e gli altri era un lucciosauro, specie di rettile-pesce quasi estinto, nato nel cretaceo dalle mutazioni provocate
da un meteorite, o da una conceria preistorica. Viso di luccio, corpo di velociraptor, rapidissimo nel correre, ghiotto di
ossobuco. Ogni tanto andava al fiume per nuotare e pescare.
Per altri era un Tampicoceronte, per altri un Quel, per
altri un porcospino gigante.
E a complicare le ipotesi, apparirono nuove orme sul
campo di calcio. Quattro, stavolta, un po' sghembe, con una
striscia in mezzo.
La tesi fu questa: o grosso orso zoppo col cazzo penzoloni, o enorme pantera con una coda corta. Fatto sta che l'animale venne battezzato Pantorso, e come tale gli furono preparate le contromisure.
Vennero presi i seguenti provvedimenti.
Uno, la creazione di una squadra di volontari armati di
schioppo, formata dagli uomini con regolare licenza di caccia, oltre a battitori, tedofori e un vivandiere, con Slim che
faceva dodici versi tra cui poteva esserci quello del Pantorso
in amore. Il tutto guidato dal capitano Tavarelli e da zio Nevio.
Due, una forza di avvistamento da terrazzi, tetti e punti
sopraelevati, formata da donne e bambini binocolati, oltre a
una ronda cittadina di tre uomini a turno, il tutto coordinato
da Baruch e dalla Luciana.
Inoltre: una squadra scientifica atta a cercare reperti
quali altre orme, grosse merde, tracce di rosicchiamenti, for-
mata dal dottor Carabelli e dal farmacista. Perché solo loro
due si capì dopo.
Una squadra di vecchi fancazzisti con il compito di leggere libri e pubblicazioni zoologiche, selezionate da Regina
e Karamazov.
Una prima squadra di giovani esploratori armati di fionde, picche di legno e sassi, comandata a turno da me, Osso e
Gancio due ore per uno.
Una squadra di cinnazzi fino ai dieci anni con il compito
di far casino in paese per tener lontano l'animale.
Una commissione d'emergenza pantorsica del consiglio
comunale con il compito di avvertire la stampa e creare la
massima attenzione sull'evento.
Cominciarono le battute a tappeto e i falsi avvistamenti.
Per i cani di grossa stazza furono giorni duri. Due giorni
dopo arrivarono i primi curiosi. All'entrata del paese era stato
piantato il cartello «Qui comincia il territorio del Pantorso,
prudenza». Nel bar, Balduino aveva attaccato alla parete un
disegno della belva, preso da Tex, e si poteva mangiare il panino del Pantorso, nonché consumare bevande fortemente alcoliche che toglievano la paura del Pantorso.
Ma nonostante le ronde, ogni mattina si trovavano nuove orme in posti diversi. Anche un pelo e uno stronzetto minuscolo, tipo fox-terrier, che suscitò parecchie perplessità.
Venne anche la televisione a fare un servizio, e Baco riuscì a
mettersi davanti alla telecamera e a fare ciao alla nazione.
Venne un professore dell'università e disse che se non
era una grossa burla era un grosso orso.
Grazie al cazzo, dissero tutti.
Altro che burla, una mattina trovarono una pecora sbranata a tocchi nel cortile della casa di Carburo, e nuove orme
e segni di lotta.
Partì una battuta colossale sui monti, cinquanta uomini
impegnati, due si spararono addosso, un altro si scavezzò
una gamba, furono abbattuti venti lepri, un cinghiale e un
cane di nome Tom, ma niente Pantorso.
Fefelli stava già per chiamare l'esercito, non si parlava
d'altro, e la psicosi faceva vedere il mostro dappertutto, davanti ai fari delle macchine, fuori dall'uscio di casa, che correva sull'autostrada e persino che usciva dalla toilette del
benzinaio. Ogni ombra era ormai un Pantorso in agguato.
Una sera volevo chiedere a mio padre cosa ne pensava
di quella strana storia, entrai in officina, e lui era lì con Carburo, Baruch e i messinesi, e vidi…
Cosa vidi?
La mattina dopo, lo spazzino scoprì che numerose orme,
sporche di sangue, partivano dalla strada, attraversavano la
piazza e si dirigevano verso il municipio.
Qua furono trovati i piedi del mostro, ovvero quattro
stampi di legno abilmente confezionati, una montagna di
sterco con la scritta «Attenzione, merda fresca di Pantorso»,
e il seguente cartello: «Invece di avere paura delle bestie che
non esistono, cercate di aver paura delle bestie vere che avete in casa. PS: la pecora era già morta di polmonite».
Papà, gli dissi sollevato, ecco da chi ho preso i cromosomi storti.
Sì, fu una bella fine d'estate.
Ci fu anche una grande scoperta culturale. Baruch, frugando in una cassa di vecchi libri, trovò nientemeno che il
diario di guerra di Ghigna, cento pagine scritte a mano. Venne un editore d'assalto e disse che ci avrebbe fatto un libro,
che quelle cose erano storia e mai sarebbero state dimenticate.
– Sì, per un po' le ricorderemo – mi disse Baruch – ma
non so quanto. Tuo padre una volta mise il piede in una tagliola da volpi. Mentre era lì che soffriva disse: giuro che se
ne vengo fuori non sparerò più a nessun animale. Riuscì a liberarsi col polpaccio stracciato, si curò, la cicatrice sbiadì, e
qualche anno dopo lo vidi tornare dalla caccia con due lepri
nel carniere. Passato il dolore, passato il giuramento, e tuo
padre non è un uomo disonesto. Ma la memoria non è fatta
solo di giuramenti, parole e lapidi, è fatta di gesti che si ripetono ogni mattino del mondo. E il mondo che vogliamo noi
va salvato ogni giorno, nutrito, tenuto vivo. Basta mollare un
attimo e tutto va in rovina.
Baruch scrutò verso i monti, come se cercasse le orme
dei suoi passi, e di quelli dei suoi compagni.
– Torneranno – disse tristemente – tra vent'anni o trenta
ma torneranno. Non vedremo i cingolati entrare in paese,
non parleranno in tedesco. Sorrideranno e avranno delle belle auto ammirate da tutti. Vestiranno giacche di sartoria invece della divisa di ordinanza. Non gireranno le squadracce,
ma si sparirà in silenzio, cancellati in qualche nuovo modo
elegante. Così sarà. Oppure mi sbaglio, forse è la cicatrice
della tagliola che ogni tanto ritorna a far male e mi fa sragionare.
La pendola del bar ticchettava, ma non feci partire l'orobilogio. Avevo paura che Baruch vedesse giusto.
SECONDA PARTE
1.
Nel dormiveglia, scarpagnavo giù dalla cavedagna. Non
erano più i sassi a farmi ballonzolare, ma le rotaie. In fondo
alla cavedagna c'era il binario otto. Gli storni volavano sotto
il capannone della stazione. Il bosco era diventato una siepe
di piante in vaso, le orme sulla neve l'orario delle partenze. Il
mio schizzozibibbo era una merendina in un preservativo di
cellophane.
Il treno ormai da due anni mi portava in città e scarpagnava rombando, passava sotto le gallerie e costeggiava il
fiume, era un treno antico, affumicato e cigolante che tutte le
mattine alle ore sei e venti in quarantadue minuti mi portava
alla stazione e poi prendevo l'autobus Sette/barrato, mi facevo un'altra dormita in piedi e giungevo sotto la mole centenaria e severa del liceo Giosuè Pascoli.
In treno, quando il rumore degli stantuffi faceva partire
l'orobilogio, andavo sul fiume a pescare. A volte portavo anche Carducci Giosuè, che non aveva pazienza e si passava
sempre la mano sporca di esca nella barba, ed era ghiotto di
pesciolini crudi, la storia della letteratura non lo dice. Pascoli
Giovanni invece non pescava, ma era molto interessato al
rimbalzino, però era negato, al massimo sei o sette. La poesia in fondo, diceva, è far volare il pesante del mondo sul
leggero dei versi, come un sasso sull'acqua. Sarà, Giovannino, rispondevo io. Alighieri Dante pescava sotto i pietroni
con le mani e lanciava invettive se gli scappava un cavedano.
Foscolo Ugo si buttava in acqua vestito e gridava: come
Shelley, voglio morire come Shelley. Per finire Manzoni
Sandro non lo volevo, portava sfiga, i pesci si rintanavano
nel fondo. Oppure saltavo nel futuro, su un treno superrapido, con dei sedili che sembravano poltrone di salotto, e una
hostessa mi dava patatine e giornali, e tutti avevano in tasca
un telefono, lo giuro, non più grande di un biscotto, e ci parlavano dentro, non c'erano fili né cornette né ruote coi numeri, ognuno aveva il suo biscottino che faceva un verso diverso e lo riconosceva, come il vagito del figlio. Era proprio un
attacco di fantascienza, allora fermavo l'orobilogio, mi svegliavo e guardavo la periferia che mi veniva incontro, con le
industrie a scatolone e le cataste di rottami, i lenzuoli alle finestre e i gerani asmatici sui terrazzi. Passavano le stazioni
Leona, Caverzo, Caverzo basso, Modanella, e la gente saliva
e scendeva assonnata. Qualche volta ripassavo la lezione,
qualche volta leggevo, ma soprattutto annusavo. Era un treno
pieno di operai che andavano a lavorare, e molti avevano la
gamella col pasto. E così si sentiva nell'aria una sinfonia
odorosa di maccheroni, lesso, brodi, cavoli fermentati, fagioli e mandarino. E scoregge metabolicamente intonate alla
dieta di ognuno, divise in tre tipi: a) sopportabili, b) da aprire
il finestrino, c) da buttarsi giù dal finestrino. Quelle di Osso
erano del terzo tipo. Le mie mi sembravano del primo, ma
non tutti erano d'accordo. C'era un muratore che dormiva
russando e scoreggiando, a volte separatamente, a volte in
duetto, e lo chiamavamo l'uomo orchestra, ogni volta che si
svegliava diceva scusate, è mia moglie. Che non voleva dire
che lui era sposato con una scoreggia, voleva dire che sua
moglie gli cucinava pesante. Poi c'era odore di calzini, scarpe, sudore, lana di cappotti e stanchezza che era l'odore più
indefinibile, un odore di qualcosa di umido lasciato ad asciugare, ma tanto non si asciuga mai e te lo devi rimettere tutti i
giorni.
E poi i discorsi. Calcio e donne e scuola noi studentelli.
Calcio e donne e fabbrica gli operai. Attoricantanti e scuola e
pissi pissi le studentesse. E con gli operai era una presa per il
culo continua, a volte dura a volte allegra. Voi bei figarini
studiate, non sapete cos'è la fabbrica, orari, capataz stronzi,
cartellini da timbrare. E noi materie noiose, maestri sadici,
campanelle. E noi incidenti sul lavoro e veleni da respirare.
Ma a voi vi pagano. E sentivo parole come comitato di lotta,
capitalismo e ribellione, io le avevo sentite da mio padre ma
lì si moltiplicavano, sembravano riempire ogni vagone del
treno, quando il treno sarebbe arrivato alla stazione sarebbero scesi trecento uomini con bandoliere e fucili per prendere
la ciudad. Invece tutti in fila lungo il binario, con borsa e gamella, verso la nebbia.
La città non era grande, non aveva la spocchia del vicino capoluogo, ma si vedeva che i soldi le piacevano. Andando in autobus non vedevo che negozi e negozi, banche e
scarpoteche, elettrodomestici, abbigliamento uomodonna,
profumerie. A piedi attraversavo un giardinetto dove tutti gli
alberi avevano la rogna, e dove scoprii un manipolo di eroici
funghi abbarbicati a un platano. Tenete duro, li incitavo ogni
mattina, un giorno la città sarà vostra. Poi arrivavo al liceo
Giosuè Pascoli, un palazzone decrepito, circondato da centinaia di biciclette vespini e motorini. Questa era la prima divisione sociale: chi arrivava da fuori e chi era cittadino, chi
aveva il Morini e chi la lambrettina, chi la bici e chi niente,
chi la scarpa giusta e chi no, chi fumava puzzole yankees
tipo pallmall e chi le nazionalpuzzole.
Il bosco era lontano, lì non contava riconoscere le ortiche, le orme del porcospino o la tana della volpe. Lì contava
uno strano miscuglio di desideri adulti e fatuità infantili, una
voglia di sembrare giovani ma anche più grandi e più cattivi.
E anch'io sentivo un bruciore di ribellione insieme a un prurito di conformismo. Avrei voluto anch'io, a volte, avere il
Motomorini rosso, il pantalone di vigogna, la camicia oxford
col collo alto. Mi vergognavo dei miei maglioni slabbrati,
della vecchia cartella, dei libri usati. Era una continua battaglia, tra i miei orologi. E per lungo tempo desiderai tutte e
due le cose: essere diverso dagli altri e come gli altri. Nel
cuore una voce mi guidava e diceva: sei speciale Saltatempo,
in un modo o nell'altro sarai unico. Ma il rombare di una
lambrettina azzurra accendeva le mie fantasie: io in un gruppo di cento ragazzi su lambrettine azzurre in fila sul lungomare, ognuno con una Selenina remissiva e bionda sul sedile
di dietro, e il golf bianco da tennis. E ogni giorno la Sacra
Pilla tormentava la Grande Rana, cioè la mia perenne penuria di contante.
Dei vecchi amici, nessuno era finito in classe con me,
nella sezione B. Osso e Gancio erano insieme nella D, Osso
sempre più grosso e cachemirato, Gancio sempre più balordo
e rissoso. Baco e la Rospa erano nella E. Baco si era dato
alle scienze matematiche per amore di una giovane professoressa, tale Tania. La Rospa si era messa le lenti a contatto e
tinta i capelli di rosso. Restava però bruttarellina. Di Selene
nessuna notizia, lei faceva lo scientifico.
Gli altri compagni di scuola li dividevo in vere merde,
quasimerde con fascino, simpatici e simpatici disperati. Le
vere merde erano Gentilini, un fascistello prepotente e ricco,
figlio del presidente della squadra di basket cittadina, alto e
con la faccia da falco, girava sempre con una gran moto nera
e pupa al seguito. Poi c'era Monachesi, fighetto, ruffiano e
spia, reggicoda di Gentilini, che cambiava cravatta ogni giorno e bruciava le mille lire in classe. La Liuba, una contessa
cinquantenne in un corpo da ragazza secca, astiosa e razzista.
Tra le quasimerde c'era Brian Pontiroli, il playboy. Era nato
a Londra e questo ci impressionava molto, si chiamava Brian
e assomigliava a Brian Ferry, il cantante dei Roxy Music, ma
i Roxy sarebbero diventati celebri solo qualche anno dopo e
quindi per il momento non somigliava a nessuno. Mi piacevano i suoi capelli lisci sugli occhi, che scostava con abile
gesto seduttivo, l'accento inglese un po' ostentato e la sua allegria. Era un gran figlio di puttana, ma almeno sapeva ride-
re. Le ragazze eran tutte sue. Poi c'era Lollo detto Aristotele,
una macchina tritamaterie, un secchione sesquipedale, uno
che prima di essere interrogato si faceva il segno della croce
e veniva a scuola con trentotto di febbre e i bubboni. I simpatici erano Verdolin Valerio, una gran faccia da pazzo che
non faceva che disegnare e scrivere fumetti e si definiva
anarchico vangoghico, e divenne subito il mio amico preferito. Poi c'era Lussu il sardo, serio e deciso, un ometto saggio,
per mantenersi a scuola lavorava in pizzeria la notte, parlava
pochissimo ed era l'unico di cui Gentilini aveva paura. C'era
la Schiassi Serena, una biondina sognatrice che tutti la volevano trombare e lei non se ne accorgeva, ma per davvero, e
amava Rimbaud, Pontiroli e altri tre o quattro, quasi tutti insomma meno me. Tra i simpatici disperati c'era Domineddio,
che aveva fatto il manovale in Belgio, parlava metà italiano e
metà francese e non aveva voglia di fare un cazzo, aveva la
media del due e mezzo, gli piaceva solo ballare e vestirsi da
teddy boy. Poi il compagno Carpaccio, un baffutello asmatico che inalava spray in continuazione e citava Mao a memoria, aveva l'alito all'aglio e non faceva altro che attaccarmi
bottone e criticarmi perché, diceva, ero un contadino arrivista con tendenza all'inurbamento borghese. E poi la Bottoni.
Alta, tettuta, ingenua, se l'erano già trombata in tre, poi la
mollavano e lei andava in depressione, prendeva il Valium in
classe e piangeva attaccata al termosifone. Un giorno che il
termosifone era rotto e spento si sentì mollata anche da lui e
pianse il doppio.
Gli altri, non li ricordo molto. Dei professori, ne citerò
due. Quello di italiano si chiamava Vainich, sembrava cattivo, era un istriano con la faccia da bulldog, ma quando leggeva Dante si accendeva, era meglio del miglior attore. Così
mi aveva conquistato, e italiano era la mia materia preferita.
Di matematica avevamo Piloni, un giovane coi capelli corti e
la bavetta all'angolo della bocca. I numeri, diceva, spiegano e
ordinano il mondo. Era ruffiano con gli alunni ricchi e cattivo con gli altri. Lo odiavo cordialmente e forse avrei ucciso
lui come antipasto di Fefelli.
Eravamo all'ultimo trimestre del secondo anno di ginnasio. Ero stanco di andare avanti e indietro in treno, avrei voluto trovare una stanza in città. Ma non mi andava l'idea di
lasciare solo mio padre. Tornavo il pomeriggio tardi, dormivo, studiavo e vagavo per il paese. La sera eravamo stanchi
morti tutti e due, scambiavamo poche frasi. Mio padre tornava a lavorare in officina, io mi addormentavo con Edgar Allan Poe tra le mani. Sognavo di murare vivi Gentilini e Monachesi, attirandoli in cantina con l'esca di una bottiglia di
Amontillado, ma anche un chinotto sarebbe bastato. Mettevo
Fefelli dentro al pozzo col pendolo. Sognavo Ligeia, Berenice, e una Selene con capelli neri di corvo. L'orobilogio si era
calmato. Soltanto una volta, una mattina, sul treno, un marocchino vicino a me cantava una nenia, e di colpo lo vidi
steso a terra, pestato a sangue e poi vidi un cumulo di macerie, e un orologio rotto. Non capivo in quale città era la visione, ma rabbrividii. Fu un giorno storto. Vainich era malato e
al suo posto c'era una supplente che leggeva Dante come una
speaker del telegiornale. Duellai a lungo con un parallelepipedo sadico sotto gli occhi opachi di Piloni. E a fine lezione
Monachesi mi prese in giro perché avevo due calzini diversi.
E' la moda, stronzo, dissi. All'uscita vidi Monachesi e Gentilini che confabulavano, poi salirono tutti e due sulla moto
nera. Appena fui in strada, la moto mi si avvicinò piano e
vidi che Monachesi si sporgeva con una gamba per darmi un
calcio in culo. Non si frega facile un Saltatempo. Mi scansai
e gli diedi una gomitata, Gentilini perse il controllo della
moto e caddero, quasi da fermi. Il rumore di ferraglia fu notevole, la moto finì contro un'edicola, sparpagliando giornali.
Gentilini si rialzò furibondo e tirò fuori di tasca una cosa che
non avevo mai visto, un pugno di ferro. Al mio fianco in un
istante, ci furono Domineddio, Lussu e Verdolin.
– Posalo che ti fai maledisse Lussu deciso.
– Voi, manica di comunisti – disse Gentilini, indicandoci con un gesto da film americano – prima o poi vi spazzeremo via da questa scuola.
– Io sono teddy boy, non comunista – precisò Domineddio.
Avvisati dalla Liuba, arrivarono tre o quattro fascistelli
amici di Gentilini, si metteva male quando all'improvviso,
con passo da dandy, si intromise Pontiroli.
– Ragazzi, c'è troppa tensione in questa classe. Make
love not war. Siete troppo nervosi. Vi faccio una proposta di
pace. Tutti a casa mia, domenica, è la mia festa di compleanno.
– Io con questi contadini? Mai – disse Gentilini.
– Sii un po' superiore, Nino – disse Pontiroli – un vero
gentiluomo accetta le sfide. E poi alla festa c'è Jeanne.
Jeanne era una favolosa ragazza francese di ben ventun
anni. Di lei si diceva che portasse reggicalze capaci di guarire da ogni forma virale, batterica e depressiva.
– Be', se quelli tirano su la moto – disse Gentilini – se
ne parla.
Guardai Lussu: lui annuì. In quattro la riportammo in
posizione bipede.
– Guarda, s'è scheggiata la leva della frizione. Bastardi.
Vale più questa moto che tutte le vostre case insieme – ringhiò Gentilini.
– Brian ti ha fatto una proposta – disse Verdolin – accetti o continuiamo a litigare?
– Ma sì, se c'è Jeanne vengo – disse Gentilini – e poi
sarà un piacere vedervi in società. Chissà che bella figura
farà il boscaiolo.
– Farò la figura che mi tocca fare. Non mi trucco da
gentleman e quando faccio a botte non ho bisogno del pugno
di ferro – risposi io.
Questa frase colpì Gentilini duro. Riavviò la moto, aiutato da Monachesi. Si dissero qualcosa all'orecchio. Poi Monachesi dipanò le spire fino a Pontiroli e disse:
– Va bene veniamo, ma a un patto. Ognuno porta due
ragazze, se no non entra.
E se ne andò lasciando una scia di squame.
Ci riunimmo al bar a rimuginare. Ormai eravamo diventati il gruppo dei comunisti, anche se variamente ideologizzati. Lenin Carpaccio, Van Gogh Verdolin, Elvis Domineddio, Ghigna Saltatempo, e il bandito Sparasaminca Lussu.
Lussu disse subito che lui ogni domenica aveva appuntamento con Margherita e Capricciosa, le sue ragazze del
cuore, cioè doveva lavorare in pizzeria. E poi l'unico ballo
che sapeva fare era su ballu tundu.
– Com'è? – chiese Domineddio.
– Come un hully-gully ma con le bestemmie – rispose
Lussu.
– Che merde quei due riccastri – disse Domineddio. –
Pontiroli invece è un gran fico.
– Vi fate affascinare dal dandismo deteriore – disse inalando Carpaccio – e dalla falsa accondiscendenza dei padroni.
– Monachesi – disse Verdolin – lo voglio mettere in un
fumetto come Snake boy. Non è cattivo. Durante un esperimento in laboratorio, è stato colpito da un raggio gamma che
ha attraversato prima la gabbia dei cobra. Da allora…
– Smettila – dissi io – dobbiamo decidere, proviamo ad
andare o no?
– Mi meraviglio – disse Carpaccio – volete cadere in
una trappola mondano-borghese? Volete portare due ragazze
come segno di potere virile, per non essere da meno degli altri? Volete accettare una sfida conformista sul terreno dell'avversario?
– Carpaccio – disse Domineddio soffiando un anello di
fumo – mi sa che tu due ragazze non le hai.
– Non è questo il punto – disse Carpaccio – tu, Saltatempo, che sei di estrazione quasi proletaria…
– E lasciami in pace – sbottai – mi piacerebbe solo far
vedere a quegli stronzi che anche noi abbiamo voglia, diritto
e talento di divertirci, e che le donne non sono tutte stupide
da correre solo dietro a chi ha il cardigan e il motorino.
– Bravo – disse Verdolin – io potrei chiamarne una.
Abita sotto da me, ha delle belle tette ma ha solo tredici anni.
Forse un po' truccata…
– Ragazzi – disse Domineddio – io ne posso portare tre.
La mia ragazza Cindy e sua sorella. Sono due teppiste mica
da ridere, una guida la moto meglio di Gentilini, l'altra trinca
birra da far paura.
– E la terza?
– La loro mamma. Quarant'anni ma è gagliarda.
– Ehi, ho un'idea – disse Verdolin. – Io lo chiedo alla
Schiassi Serena. Glielo chiedo con un disegno, le disegno la
fata Graal del bosco di Glenfiddich, è una ragazza tutta poesia, non mi dirà di no. E se viene la Schiassi viene anche la
sua compagna di banco, quella col naso storto.
– Merda – dissi – alla Schiassi ci avevo pensato anche
io.
– Bimbe, mamme, compagne di banco. Siete dei puttanieri – disse Carpaccio alzandosi – mi deludete.
– Se ti troviamo due ragazze – sondai – ci vieni?
– Sì – disse Carpaccio dopo un attimo di esitazione
ideologica – per mostrarvi il disastro che avverrà e l'errore
politico che commetterete.
E se ne andò a raddrizzare torti.
– Quel Carpaccio mi sa che è il più dritto di tutti – disse
Domineddio – ne porto due anche per lui. Allora intesi, ci
proviamo. Forza Saltatempo, ce la puoi fare anche tu.
Restammo io e Verdolin, alla fermata dell'autobus.
– Se vuoi – disse Verdolin – stasera andiamo al pub irlandese. Io faccio le caricature a pagamento. Tu mi fai da
spalla, e se ne trovi una disponibile…
– Grazie – dissi io – ma tu lo sai, quando la cerchi non
la trovi mai.
Proprio così dissi in rima, e mi sentii solo ma solo che
mi facevo pena da solo solo a pensarci. E mentre Verdolin
mi parlava dell'idea di un fumetto su un tale che si sveglia la
mattina trasformato in due gemelle, io pensavo a quale divinità invocare. Se il Dio allegro o lo gnomo del bosco, o la
Sacra Guêpière, o il grande Culo cherokee.
Stasera, pensai d'un tratto, quando torno a casa vado
dalla zia di Selene, mi faccio dare il numero di telefono o
l'indirizzo, e poi la invito alla festa, che mi dica pure di no e
mi spezzi il cuore, nella vita bisogna osare.
Sentii una voce alle spalle.
– Saltatempo!
Mi voltai. Su una vespetta rossa, con un buffo cappello
tipo lappone, c'era Selene. Avevo evidentemente commosso
varie divinità e mosso le sfere del cosmo.
Andammo nel bar, si tolse il cappello. Aveva i capelli
lunghissimi, era più bella dell'ultima volta e sì che l'ultima
volta era bella davvero. Tutto ricominciò piano piano, con
cautela. Non eravamo nel bosco, eravamo nella città, timidi e
imbarazzati, ci annusavamo come cani. Ma io non mi sentivo
più solo.
– Vieni a una festa con me domenicale? chiesi.
– Al paese?
– In città. Casa di lusso, un party.
– Volentieri – rispose ridendo.
– Porti anche un'amica carina?
– Io non ti basto?
– Ti spiegherò poi.
– Va bene. Porto Lisa, che sembra Liz Taylor nel film di
Lassie. Ora devo andare, mi aspettano a casa.
– Anch'io. Mi aspettano nella steppa.
– Sono felice di averti rivisto – disse lei un po' confusa,
e fece scomparire metà chioma nel cappello.
– Io sono più felice di te – dissi. La baciai a labbra chiuse e scappai. Non avrei tollerato che quell'incontro si gua-
stasse, neanche per un secondo. La vidi che sorpassava il
mio autobus sul vespino, e mi salutava con la mano.
2.
La casa di Brian Pontiroli era in un quartiere di vialetti
incendiati da alberi rossi, e casette che sembravano di zucchero, ognuna con la veranda e il giardino con cane accucciato e macchina parcheggiata.
L'appuntamento per la festa era alle tre del pomeriggio,
ma Selene come al solito era in ritardo, Lisa anche di più e
arrivammo solo alle tre e mezzo, non per snobismo, ma lo
pensassero pure. Non vi dirò come erano le mie due girls, è
una sorpresa per dopo. Io ero emozionato, avevo la bocca
secca e il cuore mi batteva in testa, avevo un bel dirmi che
un coraggioso ragazzo del bosco non deve temere il giudizio
dei festaioli professionisti. Anche il pirata Morgan, quando
andava a Maracaibo, si faceva uno shampoo e lustrava spada
e stivali, è storia. Mi ero vestito con i miei migliori pantaloni
di velluto e una camicia azzurra col colletto tondo. L'avevo
comprata il sabato dalla Luciana, nel nuovo negozio Modabella, mutanda ma non solo quella. La Luciana era stata mezz'ora a consigliarmi e a provarmi roba e poi aveva detto: con
questa non sbagli, fa pendant con l'occhio verde, ti cadranno
ai piedi che dovrai scavalcarle. Avevo anche un golf blu a vu
sulle spalle, nel caso qualcuno criticasse la camicia. Sotto
avevo una canotta cannettata, non pensavo che avrei dovuto
esibirla, comunque era pulita.
Feci un gran respirone e suonai il campanello PontiroliWilliamson, la porta si aprì e vennero fuori le note di Mr
Tambourine man dei Byrds, accidenti che inizio. Sulla soglia
apparve Brian con pupa abbrancata.
Era elegantissimo, con una rebecca verde e camicia a
collo alto. La pupa era una volpetta in jeans, un po' truccata.
Ma non fummo noi a guardare loro, furono loro a guardare
noi.
Non scorderò mai quell'entrata. C'era un grande salone,
non ne avevo mai visto uno così grande, con un pavimento
marmoreo che sembrava la chiesa di Pragallo, e alle pareti
quadri enormi con cavalli inglesi, cani da caccia inglesi e anche due quadri astratti, forse picassi. Da un lato del salone
c'era una stesa di divani di velluto morbido, e sopra ci stavano i festanti stravaccati in varie pose. Dall'altro lato troneggiava un lunghissimo tavolo pieno di ogni ben di dio, dolcezze salatezze e torta e bevande analcoliche e anche una vasca
di sangria e tartine col salmone.
In fondo c'era il giradischi con i dischi per terra, almeno
cento dischi sparpagliati, e due ragazze che li sceglievano e
li mettevano su.
E tutti, i festanti sui divani, quelli al buffet e quelle addette al giradischi non fecero finta di niente, quando ci presentammo. Perché io forse non ero granché, ma Selene e
Lisa facevano il vuoto, illuminavano la scena, dominavano il
campionato, insomma eran tre volte più belle di ogni fighetta
presente, e lo capirono all'istante sia le fighette sia i ragazzotti.
Selene aveva dei jeans aderentissimi e una camicia legata alla zingaresca che le lasciava un po' scoperto il pancino.
Si era lavata i capelli e una cascata d'oro e grano le incorniciava il musetto.
Lisa era vestita di nero stile esistenzialista, era piccola e
riccia, ma aveva due occhi viola da gheparda, un po' orientali, e le scarpette a punta coi tacchi.
Domineddio, dal centro di una gang di teddy girls, alzò
il calice di sangria in segno di saluto e approvazione. Gentilini restò con una tartina in bocca, basito. Monachesi si morse
la lingua biforcuta e distolse lo sguardo. Liuba se ne andò
addirittura dalla stanza, stizzita. Carpaccio non riuscì a abbozzare alcuna dichiarazione su come fosse falsamente rassicurante esibirsi insieme a due ragazze evidentemente esemplari della seduzione borghese. Anzi, si avvicinò a Selene
come se avesse visto Che Guevara in persona, e disse:
– Piacere, sono un amico di Saltatempo.
E la stessa cosa disse a Lisa.
Guadagnammo il centro sala, salutando con sussiego. A
sorpresa c'era anche Osso, con un orrendo completo amaranto con gilè e cravatta regimental gialla e rossa. E c'era Gancio, mezzo ubriaco, che aveva già il braccio al collo di una
stangona, e mi salutò con un rutto. C'era la Rospa, truccata
da mezza puttanazza, con dei tacchi che quando camminava
faceva rumore come una capretta. C'era Verdolin, che balla-
va con la Schiassi. C'era la Bottoni che era già lì che baciava
uno alto e giallo che sembrava il figlio di Nosferatu. Poi entrò una ragazza alta, castana, sinuosa, più vecchia di noi, con
una maglietta raffigurante un tale poi identificato in Jacques
Brel.
– Saltatempo – disse Pontiroli con un sorriso maliardo –
ti presento Jeanne.
– Brian – dissi io – ti presento Selene e Lisa.
E da come io guardai Jeanne e da come lui guardò Selene capii che il risultato era Italia tre Francia uno.
Un'ora dopo la festa era al culmine. Domineddio, insieme alla fidanzata borchiata che rimbalzava come una palla,
insegnava il rock a tutti e aveva già spaccato due sedie. Carpaccio aveva già massacrato le balle a metà dei presenti. Liuba e Monachesi si erano rifugiati a mangiar tartine alla bile
in cucina. Il gatto Teo si era palesato, aveva miaodetto ma
che cazzo di miaocasino sta succedendo e se n'era andato.
Osso era già alla settantesima pizzetta. Verdolin continuava
a ballare il lento con la Schiassi anche quando mettevano su
il rock. La Bottoni succhiava Nosferatu. Gentilini si era attaccato a Lisa, le riempiva il bicchiere di aranciata con solerzia da cameriere, e rideva qualsiasi cosa lei dicesse. Io facevo la conoscenza di un sacco di gente, bevevo moderatamente e ogni tanto tenevo una mano a Selene. Capivo che ero abbastanza considerato, anzi qualcosa di più. Se ha portato due
pupe così, pensavano gli uomini. Se ha portato due pupe
così, pensavano le donne. In tutto questo, Selene e Lisa erano considerate non molto più di due valigie, mancavano sei
mesi e nove giorni al femminismo.
Insomma ero lì e stavo bene. Avrei potuto pensare, ma
che storia è questa, prima ero niente, e poi perché ho portato
due belle fighette ecco che sono diventato un grand'uomo,
cosa c'è da bearsi di questo, ecco cos'è essere conformisti.
Ma allora non lo pensavo, ci sono momenti nella vita che
uno non si rende conto di essere ridicolo e sciocco, non puoi
cancellarli dal curriculum, poi ti risveglierai, li ricorderai con
un po' di vergogna, ma la vergogna è qualcosa che ci attacchi
dopo. Ero a mio agio, la mia strada verso l'unicità prendeva
fiato in una casa per bene, coi quadri di setter alle pareti, il
pavimento da basilica e i divani vellutati, davanti a un buffet
con le tartine salmonate e la spremuta di arancia vera, almeno cento arance sacrificate al Dio Party, tra la sangria e i volovan, in un quartiere elegante molto lontano dal bosco.
E se il merito era di Selene be' che c'era di male? Lei
non era solo bella, era luminosa. E io sapevo che era anche
ironica, intelligente e viziata. La guardassero pure, solo io
sapevo chi era davvero, non ero geloso.
In quel momento vidi venire verso di me Brian Pontiroli, sorridente come fossimo intimi da sempre, mi chiese: bella quella camicia, è di Benson? E' di Luciana Modabella
avrei dovuto rispondere, ma dissi non lo so, è un regalo, e
vidi che lui guardava Selene e Selene attorcigliava una ciocca ma non mi agitai, però poco dopo vidi Jeanne che avanza-
va panterescamente verso di me, e mi si sedette vicino sul divano. Mi tornò in mente che poco prima avevo visto Brian e
la francesina parlottare, come se preparassero un piano.
Ma sta' buono, paranoico, disse una vocina.
Occhi aperti, Saltatempo, disse una vociona.
– Allorha (uso l'acca per far immaginare l'accento francese) – disse Jeanne accavallando le gambe lunghissime – mi
dice Brhian che sei un poeta, che conosci tutte le piante del
bosco. Anch'io sono nata in campagna nella Prhovenza, vicino ad Arhles.
Il suo charme era esotico e innegabile, in qualsiasi altro
momento mi sarei sentito lusingato. Ma notai che Brian si
sedeva vicino a Selene e lei stromenava sempre più i capelli
come fa quando è emozionata, e lui chiedeva:
– E tu, miss della festa, da dove vieni?
Non sentii quello che rispondeva, Jeanne mi sommergeva di frasi con la erre e le pizzette e le arance morte mi si
bloccarono nello stomaco, le mani mi sudavano e capii all'improvviso cos'è la bestia della gelosia, il crudele Pantorso
che morde e graffia, fu come scoprire un nuovo senso, gusto
olfatto e gelosia, qualcosa di così chiaro e inatteso da lasciarmi senza respiro.
Per qualche minuto non sentii null'altro che il rodere
della bestia dentro le mie budella di maschio innamorato. I
Rolling Stones impazzavano, tutti sembravano contenti e
danzanti, ma io ero raggelato.
– Ehi, voi del giradischi, basta rock and roll – disse
Brian e pronunciò rockenroull con l'accento inglese, poi
guardò Selene e disse: – Mettete su un lento per favore.
Verdolin e la Schiassi sembrarono risvegliarsi da un sogno. Cosa avevano ballato fino ad allora?
– Un lento, che palle – disse Domineddio e mi crollò vicino sul divano, sudato come un cavallo, poggiando gli stivaletti sul bracciolo. La teddy girl venne a sederglisi sulle ginocchia e gli inserì la lingua per trenta secondi.
– Lei è Cindy, ovvero Cinzia – disse Domineddio – con
la moto non le stai dietro.
– Non so mica solo andare in moto – protestò Cinzia.
– Di' a Saltatempo cosa sai fare – disse Domineddio,
con aria lubrica.
– Faccio vestiti, vestiti di cuoio, sono stata a Londra
questa estate, e voglio diventare stilista. Conosci Mary
Quant?
– Io sì – disse Jeanne – è spirhitosa.
– Spiritosa in che senso? – chiese Cinzia.
E si misero a parlare di sottane, anzi gonne, ma per me
era un ronzio in assiro, non ascoltavo. La mia torturata attenzione era rivolta verso il centro sala, dove Brian e Selene
avevano cominciato a ballare Crying in the chapel (E. Presley) e avevano raddoppiato con Se piangi se ridi (B. Solo) e
lui la teneva stretta per un fianco, con una mano, e con l'altra
chissà cosa preparava. Anche Gentilini e Lisa ballavano e
Gentilini fece l'occhietto a Pontiroli. Banda di bastardi, tutti
d'accordo.
A riprova della congiura, Monachesi e la Liuba si erano
ripresentati, e lui sfoderava un sorriso da alligatore. Per ultimo incrociai lo sguardo di Carpaccio che voleva probabilmente dirmi: lo vedi, il padrone arraffa tutto, e l'operaio
piange. Oppure: i borghesi coi borghesi. Oppure, e fece per
avvicinarsi, ma gli lanciai uno sguardo come un coltello in
mezzo alla fronte, lui capì e arretrò fino al buffet, con un gomito nella torta.
Intanto Brian cinse Selene anche con l'altra mano, ora
erano due. Il dato, anatomicamente esatto, mi sembrò simbolicamente abnorme.
Allora chiesi a Jeanne:
– Bella questa casa, quanti piani ha?
– Trhe, crhedo, perhché? – disse la francesina, con arlesiano stupore.
Neanche le risposi. Stavo calcolando: tre piani almeno
dieci metri. Ed elaborai i futuri scenari possibili:
Uno, Pontiroli e Selene uscivano dalla stanza insieme.
Io li seguivo in cucina e dopo aver accertato che si baciavano
mi buttavo dalla finestra del terzo piano.
Due, Pontiroli e Selene si baciavano mentre ballavano:
io prima mi tagliavo le vene con il bicchiere dell'aranciata e
poi salivo al terzo piano eccetera.
Tre, Selene veniva da me e diceva: ti devo parlare, spero
che tu capisca, sono così confusa, certe cose accadono all'im-
provviso, io le rispondevo va bene capisco e poi terzo piano
e sirene di ambulanza.
Quattro, affrontavo i due e dicevo Selene o lui o me, e
lei diceva lui, e io uscivo nella notte inseguito dai pipistrelli
delle risate.
Cinque, affrontavo i due e dicevo Selene o lui o me, e
lei diceva non so e ci battevamo a duello ma Pontiroli vinceva con irrisoria facilità prima a braccio di ferro, poi a spostapiede e poi con la sciabola, venivo ferito non mortalmente e
mentre ero in ospedale veniva a trovarmi tutti i giorni Carpaccio e infine ricevevo la partecipazione di nozze di Brian e
Selene, portata a mano da Monachesi.
La possibilità che Selene scegliesse me non era calcolata, la gelosia mi accecava, mi avvelenava, mi devastava.
Soffrivo come Otello, o come uno stronzo.
Ci fu altro lento, Georgia (R. Charles), e gli amanti diabolici non si staccarono, anzi lei gli aveva messo ben due
mani allacciate al collo, la troia, io mi alzai barcollando e mi
versai dell'aranciata ma non andò giù, la glottide era bloccata, mi domandai come facevo a respirare. Mi misi su una sedia da solo e pensavo: Selene no, per favore non farlo, ma lei
non mi sentiva e sorrideva a lui, e R. Charles collaborava.
Allora Gancio mi venne vicino, pallido e gonfio d'alcol,
mi toccò la mano e disse:
– Non dargliela su, Saltatempo. La vita è una merda, ma
se ci tieni a qualcosa, non devi mollare.
Avrei ricordato queste sue parole, un anno dopo, una
notte d'estate davanti a una discoteca.
Elaborai alcune soluzioni diverse dal suicidio.
Uno, gridavo «Brian, la cucina brucia» e mi precipitavo
a ballare con Selene, e se non voleva le davo una botta in testa e la rapivo.
Due, andavo in cucina e strozzavo il gatto, ascoltando i
miagolii di agonia tutti venivano a vedere e si interrompevano le danze, ma poi ricordai che Selene amava i gatti.
Tre, mettevo un tango e dicevo Selene vuoi ballare questo tango, ma poi pensai che lo ballo male e Pontiroli magari
è un fenomeno.
Ancora: con una pedata facevo saltare il giradischi in
aria.
Affrontavo Pontiroli e gli dicevo ti spacco la faccia.
Facevo finta di svenire.
Un'astronave atterrava proprio alla finestra e un raggio
verde uccideva Pontiroli, Monachesi e rendeva muto per
sempre Carpaccio.
Pontiroli moriva stroncato da infarto a diciassette anni.
Era incredibile come le immagini continuavano a proliferare, sentii che entro pochi istanti avrei urlato o sarei scappato da quella festa e avrei continuato a correre sotto un'eterna pioggia tutta la vita.
Carpaccio mi transitò vicino verso il buffet, mi guardò.
Ingoiò un volovan, non disse niente ed ebbe salva la vita.
Si avvicinarono Monachesi e Liuba. Si versarono due
calicini di Coca-Cola.
Lei mi fissò sardonica e disse:
– Cosa fai tutto solo, non ti diverti più?
Allora il sangue mi rifluì nelle vene come lava bollente,
la rabbia mi tremò dentro come una febbre. R. Charles terminò la sua fatica. E subito si udirono le note del nuovo disco.
Era And I Love her (Lennon-Mccartney).
Percorsi i pochi metri che mi separavano dalla strada
centrale di Abilene. Sganciai il cinturino delle Colt e mi
piazzai a gambe larghe davanti alla coppia.
– Selene – dissi – balli un po' anche con me?
Il vento sibilò sulla pianura riarsa, nel canyon dei Seminoles, e sulla schiena irta dei coyotes, e tutti nel saloon zittirono.
– Certo – disse lei.
La bestia, con un urlo di sconfitta, si dissolse in una
nube di cenere. Lennon mi diede una pacca sulla spalla e disse, hai visto, stronzo? Effettivamente pensai solo un istante a
quanto ero stato imbecille, in un attimo dimenticai quanto
avevo sofferto, la glottide si sbloccò e mi venne una gran
fame ma non era il momento. Io e Selene ballammo a lungo,
e ci baciammo davanti a tutti. Tutto andò a meraviglia. Brian
Pontiroli, da vero sportivo, si mise a limonare con Jeanne.
Gentilini prese uno schiaffo da Lisa. Gancio vomitò sulle
scarpe a Monachesi, secondo me non casualmente. Liuba fu
inchiodata da Carpaccio al muro senza possibilità di fuga. La
Bottoni infilò una mano in tasca a Nosferatu e lo vampirizzò.
Domineddio si esibì nel limbo passando sotto un carrello
portavivande. I genitori angloitaliani di Pontiroli apparvero
sulla porta mentre Osso sbronzo di sangria si era tirato giù le
braghe e mimava una sodomia con la Rospa. Il gatto Teo
prese confidenza e si spazzolò le ultime tartine al salmone.
Ci fu un hully-gully collettivo con urla belluine. Poi, un po'
alla volta ce ne andammo. Brian e Jeanne erano scomparsi.
Una cameriera apparve e cominciò a mettere tutto in ordine,
aiutando anche Osso a venir fuori da sotto il tavolo. Uscimmo io e Selene, nel primo buio, tra gli alberi rosso fuoco e le
siepi di mortella. Transitò Lisa, in moto con Gentilini. Faceva un po' freddo, Selene mi chiese il golf per coprirsi l'ombelico fascinoso. Io la baciai e le dissi:
– Ti amo.
Seguì un breve silenzio.
– Anch'io, credo – disse lei. C'era un verbo di mezzo,
ma era sempre meglio di ma sarai scemo.
Fu uno dei giorni più belli della mia vita. Avevo sofferto e gioito per cose che molti anni dopo mi sembrarono un
po' sciocche. Ma l'orobilogio non la pensava così. Avevo
sofferto profondamente, e provato una vera gioia. Molti altri
giorni mi videro ribelle, solitario e separato, ma quella volta
tutto andò diversamente, nel salone di una casa per bene,
dove tutti potevano andare d'accordo, nella loro perfida e generosa giovinezza. Nessuno di noi era ancora perduto, ci per-
demmo dopo. Una voce forte mi ripeteva: Saltatempo, sarai
unico. Ma anche quella sera fu unica, e la ricorderò sempre.
3.
La scuola riprese, e l'effetto del magico party non durò
molto. Gentilini, respinto con perdite da Lisa, tornò torvo e
arrogante come prima. Oltretutto a scuola era un disastro, ed
era sempre più spesso assente. Monachesi e Liuba vivevano
nella loro tana scambiandosi perfidie, almeno si fossero accoppiati e avessero messo al mondo una bella nidiata di viperini, macché, niente. Verdolin e la Schiassi erano innamorati
marci e addirittura convivevano, lei aveva un appartamentino
tutto suo con terrazzino e cane lupo. Verdolin aveva iniziato
una storia a fumetti dal titolo Mickey Marx, dove Topolino
si dava alla guerriglia e cercava di distruggere Hollywood
con un milione di pantegane radiocomandate. Non era male,
ma era troppo avanti per quei tempi. Inoltre non aveva mai
abbastanza matite e si arrangiava a colorare con tutto, col
caffè, coi mattoni tritati, con la Nutella, con l'erba e col rossetto della Schiassi, che rinunciava alla sua modica dose di
vanità per il talento dell'amato.
Domineddio era depresso. Era chiaro che non sarebbe
mai stato promosso. Lo facevamo copiare e lo aiutavamo in
tutti i modi, ma precipitava impallinato dai tre e dai quattro.
Si mise a fumare in classe e a leggere ostentatamente giornali sportivi. All'ultimo trimestre trovò lavoro in un'officina
meccanica e ci venne a salutare. Era commosso, il ciuffo gli
ciondolava mesto in avanti. Non perdiamoci di vista, disse.
Tornò in Belgio, non lo avremmo visto mai più.
L'unico che era rimasto come alla festa era Brian. Sembrava diventato davvero mio amico. Sai, diceva, la tua ragazza è uno schianto, ma non ci volevo provare davvero. Per me
corteggiare è istintivo, come per Verdolin dipingere, per te
raccontar stranezze e per Monachesi fare la spia.
Ogni tanto mi dava un passaggio in moto alla stazione.
Diceva, verrò a trovarti in paese, ma non sapevo se mi avrebbe fatto piacere. Brian mi affascinava e mi spaventava. C'era
in lui qualcosa di invecchiato prematuramente, un quadro
dove tutti i colori erano spenti. Gli dissi, se davvero sei così
dandy, leggi almeno Oscar Wilde, o il vecchio Poe.
Leggo solo i giornali delle corse di cavalli, rispondeva
con una ghignata, e scommetteva e perdeva, tanto aveva
sempre soldi in tasca e pullover nuovi. E le ragazze lo adoravano. Una volta all'uscita della scuola vidi Jeanne piangere,
appoggiata al muro. Lui uscì e fece finta di non vederla.
– E' tutta scena, Saltatempo – disse – le donne sono attrici, te ne accorgerai.
Io studiavo a testa bassa, in treno e la notte, poi mi bastava vedere Selene e l'energia tornava. Era proprio passione,
di parole e di sensi. Non avevamo un posto dove andare per
la nostra sacrosanta, meritata, bramata prima scopata. Ci rintanavamo al piano di sopra di un baretto, il bar Tomoka, una
stanzetta buia e rossastra con quattro divanetti e annessi tavolini. Prendevamo due cioccolate e iniziavamo a toccarci.
Io le sfilavo le mutandine a metà, lei me lo tirava mezzo fuori, io mi sdraiavo su di lei, lei mi saliva a cavalluccio, era un
kamasutra dell'impossibilità, della scomodità, dell'interruzione dolce e sfibrante. Una volta eravamo riusciti a trovare una
posizione che ci mancava un attimo all'obiettivo, quando entrò una coppietta. Fate pure, dissero, e lei fece una pompa a
lui tra un salatino e l'aperitivo. Non eravamo soli, nel nostro
problema logistico. Ma non abbastanza audaci da imitare
quella coppia. Finché una volta una baceria con strofinamenti finì con la cioccolata in tazza sulle braghe di entrambi. Selene disse: basta amore, devi trovare un posto, non possiamo
continuare così, non pretendo l'Hilton, ma non voglio neanche perdere la verginità al bar Tomoka.
Aveva ragione. Pensai di tornare a casa e parlare con
mio padre. Avrei cercato una stanza in affitto, avrei lavorato
di notte, oppure da zio Nevio la domenica. Intanto io e Verdolin avevamo cominciato a giocare la schedina del Totocalcio, ogni settimana la stessa. Sì, basta treni all'alba, tasche
vuote e pasti grami, basta tranci di pizza plasticati e spuma
all'arancia, volevo boccali, stivali, piviali di birra, e vere pizze al salmone, alla sangria, con mozzarella di bufala vergine
di savana. Dovevo affrontare la situazione e diventare milionario, ma anche centomilario sarebbe bastato.
Prima però, un venerdì, avrei dovuto anche affrontare la
mia prima importante riunione politica. Tra i giovani iniziava allora un certo fermento che sarebbe poi esploso, e sarebbe stato contrassegnato con la sigla dei due ultimi numeri
dell'anno solare, sei e otto. Carpaccio aveva deciso che io e
Verdolin, anche se eravamo intimamente borghesi, ideologicamente barcollanti e devastati dalla brama di gnocca, eravamo, tutto sommato, potenziali compagni, e quindi ci avrebbe
presentato al suo collettivo, il Guantanamera, che aveva sede
in un garage.
Entrammo. C'erano una trentina di persone sedute per
terra, e solo tre dotate di sedie. I seduti erano la trimurti dei
capi: Riccardo l'ideologo, Paolo Lingua l'operativo e Tamara
la pasionaria. Appena sotto i vicecapi Lionello il colto, Cinzia la concreta e Carpaccio lo spaccamarroni.
Non fummo sottoposti a esami né a iniziazioni col sangue né a pratiche erotiche contro natura, ma ci sentivamo
sorvegliati. Un libro di poesie che portavo sottobraccio fu
esaminato con sospetto. Una ragazza dopo breve presentazione chiese a Verdolin se secondo lui il fumetto era potenzialmente rivoluzionario. Verdolin per tutta risposta le disegnò su un quaderno Mickey Marx, con un gran cazzo nero
penzoloni. Carpaccio intanto illustrava in giro le nostre poche doti e i nostri borghesissimi difetti. Improvvisamente, la
trimurti parlò.
Dapprima per bocca di Riccardo l'ideologo. Costui era
altero, capelluto e aveva due anni più di noi. Lui diceva di
averli passati in Sudamerica, qualcuno invece parlava di una
doppia clamorosa bocciatura, da cui si era ripreso raggiungendo vette di solidità ideologica e culturale per noi inarrivabili. Riccardo disse che il nostro gruppo aveva elaborato
molto ma agito poco, che dovevamo confrontare la nostra
inerzia borghese ad esempio con le iniziative dei francesi,
con le lotte sudamericane e con quello che succedeva a Berkeley. Appresi così che in quel garage avevamo delle responsabilità su scala mondiale, non ero preparato a tanto. Poi Riccardo proseguì che anche sul piano personale eravamo rigidi
e avremmo dovuto vivere delle situazioni liberate e comuni,
e nel dire questo si rivolgeva soprattutto a due ragazze in prima fila, quindi quanto prima avremmo dovuto vivere o un'esperienza di vita collettiva in una casa, o procedere all'occupazione di una scuola. Poi citò Marcuse, che non conoscevo
ancora, e Sartre, che conoscevo solo in foto. Disse che se
qualcuno credeva di essere lì per divertirsi si sbagliava, eravamo all'inizio di un periodo di nuove lotte che avrebbero
cambiato il mondo e ognuno doveva lasciare da parte tutto
quello che aveva pensato fino ad allora. Terminò con una
frase in francese, credo «cour ton patron t'attend». Non c'entrava un cazzo ma era una bella chiusa, come le scariche di
batteria alla fine dei brani rock. Ci fu un breve applauso e lui
ci rimproverò: non siamo qui per esibirci, ma si vedeva che
aveva goduto come un porcello.
Paolo Lingua era piccolo e tozzo, era anche lui vetusto e
universitario, frequentava scienze politiche nel capoluogo
ma aveva deciso che il suo campo d'azione politica era insieme a noi. Fumando un cigarillo pestifero, disse che bisognava essere meno teorici e che entro il mese avremmo dovuto
compiere un'azione. Capii che non si trattava dello stesso ge-
nere di azioni che fanno i boyscout. Questa azione, disse
Paolo Lingua, doveva colpire un obiettivo preciso e sabotare
un ganglio importante dell'apparato capitalistico in modo da
disarticolarlo e doveva quindi essere un'azione pensata come
parte di un movimento globale che doveva tenere conto delle
diverse esperienze di guerriglia, delle iniziative passate e degli scenari di lotta futuri e doveva coinvolgerci tutti poiché
solo così sarebbe stata efficace, l'azione.
– Potresti farci un esempio concreto di questa azione? –
disse una voce severa. Era Lussu, non mi ero accorto che c'era anche lui.
Paolo Lingua disse che nello specifico la domanda era
immatura, in quanto non si decide mai senza un'elaborazione, ma ad esempio scrivere slogan sui muri della scuola era
una prima azione e poi bruciare la porta e soprattutto bruciare le aule con dentro i crumiri quando c'era sciopero, ecco,
questa poteva essere una buona azione.
– Cazzo – commentò Lussu.
Poi parlò Tamara. Disse delle cose semplici e con un
certo calore, raccontò com'era stata la sua vita in un paesino
del Sud e disse, io non vorrei che altri facessero la vita dei
miei genitori, siamo un po' persi in questa città e credo che
se stiamo insieme potremo fare una buona attività politica, la
prima cosa da fare, ad esempio, è una colletta per una ragazza che deve abortire.
La cosa mi turbò, era la prima volta che pensavo davvero a queste cose. Però a Tamara credetti subito. Le diedi tutti
i soldi che avevo in tasca. Verdolin le regalò una caricatura
fatta al volo. Gli altri due trimurtini lo guardarono male.
Poi ci furono gli interventi.
Quello di Carpaccio durò quindici minuti e riguardava
l'atteggiamento da tenere nei confronti del gruppo rivale di
Potere Rosso e di come discutere sul problema dell'Unione
Sovietica senza cadere nelle semplificazioni come fanno loro
e di come sviluppare una coscienza critica all'interno del nostro gruppo che però valesse anche verso l'esterno, mentre
quelli di Potere Rosso fanno esattamente il contrario.
Poi si alzò una ragazza e chiese se qualcuno sapeva se
c'era un libro su come si resiste alla tortura.
Un altro ragazzo occhialuto lesse una poesia che si chiamava La mia solitudine.
Una ragazza con le trecce da indiana fece un bell'intervento dicendo che tutti i libri che lei amava non poteva leggerli a scuola, perché era obbligata a leggere altri libri che
non le piacevano. E si chiedeva perché dovesse perdere tutto
questo tempo quando la voglia di leggere non le mancava.
Presi coraggio e dissi, sono d'accordo con la compagna
con le trecce, anche a me succede così, i libri che amo non
sono mai tra i testi scolastici.
E che libri sono?, chiese Riccardo, con una certa freddezza.
Io dissi così a caso Edgar Allan Poe, Chandler, Kafka,
Hemingway, la fantascienza, Flaubert, Eliot e i libri sugli alberi, perché no.
Hemingway è un virilista di destra, disse Riccardo, la
fantascienza è dominio americano, e i libri sugli alberi non
servono, qua siamo in città, cosa se ne fanno gli operai degli
alberi?
– Veramente mio padre è falegname – dissi io, e tutti risero, meno Riccardo.
– Veramente anche Eliot è troppo cattolico – disse Tamara, con aria di complicità.
– E poi – disse Riccardo abbastanza arrabbiato – mi
sembra che tu non legga molta teoria politica.
– Ma la vita di Chandler la conoscete? – dissi.
Partì un bel casino di dibattito. Carpaccio inalava a tutto
andare, ci aveva portato lui. Per fortuna Cinzia la concreta
disse di smetterla coi libri, che all'ordine del giorno c'era l'elenco delle cose che servivano per la sede cioè il garage. Mi
isolai appoggiato al muro, non credevo che la politica fosse
così complessa, in paese era più semplice. Dentro al muro,
l'acqua scorreva nei tubi con ritmo uguale. L'orobilogio partì
e li vidi, trent'anni dopo.
Riccardo era diventato professore universitario, bocciava a tutto andare, pubblicava costosissimi libri di testo e
quando c'era da prendere una posizione precisa scappava, cosicché si era fatto la fama di intellettuale riflessivo e moderato.
Paolo Lingua era diventato il giornalista più di destra di
un'emittente tivù di destra e ogni mercoledì infamava i suoi
ex compagni in un seguito videocorsivo.
Tamara era diventata sindacalista e tale era rimasta. Si
era sposata, aveva tre figli di cui uno politicamente impegnatissimo e due che se ne fregavano moltissimo, e viveva vicino al mare.
Poi vidi qualcosa che avrei preferito non vedere. Lussu,
nel gabbiotto di un tribunale, con la solita espressione severa
sul volto. Appena un po' più grasso, la barba lunga. Altri due
con lui. E il presidente del tribunale che leggeva la condanna, vent'anni per banda armata. E vidi anche il giorno che
uscì, e prese il traghetto per tornare nell'isola più bella del
mondo.
Ad accompagnarlo alla banchina eravamo in tre io, suo
fratello e una ragazza coi capelli grigi.
– Compagni – disse una voce tonante – ci rivediamo tutti qui il prossimo venerdì, e se potete leggete il libro che Riccardo ha consigliato.
Riaprii gli occhi. Vicino a me c'era la ragazza con le
trecce.
– Cosa fai stasera? – mi chiese.
La liberazione sessuale era ufficialmente iniziata.
Non uscii con la tentatrice. Prima cosa ero fedele, seconda cosa non era granché, anzi siamo sinceri e invertiamo
le due cose. Dopo la riunione presi il treno per il paese. La
mia prima assemblea politica era durata più del previsto, e
arrivai che era quasi mezzanotte. Nella casa c'era ancora una
luce accesa, e mentre aprivo la porta, sentii un gemito. Rab-
brividii, al pensiero di un'altra aggressione a mio padre. Ma
ascoltando meglio, capii che quel gemito non era di dolore.
Era un gemito che avevo già sentito in bocca a Selene, alla
Zaini e durante la proiezione del film La calda pelle di Susy
quando lei a letto immagina di fare l'amore col giardiniere, si
tocca e si dimena, poi tagliano la scena di colpo e inquadrano
lei in macchina il giorno dopo, vaffanculo.
Mi avvicinai alla camera di mio padre. Sentii di nuovo il
gemito, cigolio di molle e ansiti. Spiai attraverso la porta.
Mio padre era lì. Era sicuramente lui, anche se la sua faccia
era interamente nascosta al mio sguardo da un culone niveo
di notevole volumetria. Il culone andava su e giù massaggiando il nombrillo al babbo, e poi risuonò una voce che diceva, come mi piace, come mi piace, e riconobbi Regina, la
cartolaia giornalaia e tabaccaia, e mi tornarono alla mente alcuni particolari.
Che la casa ultimamente era sempre piena di giornali
anche se papà leggeva solamente l'Organo, e che da qualche
tempo aveva cambiato sigarette, fumava le Astor che costano
molto più delle nazipuzzole. Inoltre una volta, nell'officina,
avevo trovato per terra una bustina di preservativo, ma non
ci avevo fatto caso, con tutta la gente che passava di lì.
Uscii, ero arrabbiato. Perché papà non me l'aveva detto?
Certo, pensai, sono un bell'egoista. Come ho fatto a pensare
che mio padre rimanesse tanti anni senza una donna? Cosa
doveva diventare, un segaiolo stagionato? Non ha anche lui
gli incendi ormonali, come ho io con Selene? Ma l'idea di
una donna in casa, al posto di mia madre, il pensiero di qualcosa in cui ero stato messo da parte, mi agitava. Camminai
fino alla piazza, e vidi che la luce nel negozio di zio Nevio
era accesa. Bussai e lo chiamai.
E' aperto, disse zio Nevio.
Era seduto al bancone e come sempre caricava cartucce.
C'era odore di polvere da sparo e il pavimento era pieno di
pallini.
– Saltatempo, cosa fai qui a quest'ora? – chiese un po'
preoccupato.
– Non riuscivo a dormire.
– Problemi? – disse zio Nevio.
– Sì, ma prima raccontami i tuoi – dissi. Facevo fatica a
incominciare il discorso.
– Il mio problema lo conosci, è il tuo amico Gancio. E'
un buon ragazzo, ma ha qualcosa di scuro dentro, che lo rovina. Come la rogna delle patate. Lo frequenti, in città?
– Poco – risposi. E non dissi che lo vedevo spesso ubriaco e litigioso.
– Dovresti stare un po' con lui. E' sbandato, a scuola va
male, i professori dicono che è arrogante. Non so più cosa
fare.
Guardai lo zio, curvo nella poca luce di una lampadina
da tavolo. Le tempie erano brizzolate, gli era cresciuto un po'
di doppio mento, era invecchiato insomma. Ma gli restava
quella generosità semplice e silenziosa. Il suo destino era
aiutare tutti senza avere quasi nulla in cambio. Quanto avrebbe resistito ancora?
– Zio – dissi di colpo – papà ha un'amante.
Lo zio esplose in una sonora risata.
– Lo so benedisse.
– E perché non mi avete detto niente?
– Perché tuo padre non vuole che si sappia. Lo sai com'è
fatto. Questo è un paese dove le lingue son caricate a pallettoni. Tu non hai segreti? Non hai una fidanzata?
– Be', sì – ammisi.
– Be', anch'io – disse zio Nevio stirandosi le braccia.
Barcollai sulla sedia.
– Da due anni – dichiarò comicamente con una mano
sul cuore – divido tre notti alla settimana tortellini e talamo
con la Luciana. Come vedi questo paese è un covo di perdizione. Tuo padre e la cartolaia. Io e la regina delle guêpière.
Carabelli e il farmacista. Maghino e la moglie di chi so io.
Karamazov e una mucca.
– Non prendermi in giro – dissi.
– Saltatempo – disse lo zio, passandosi la mano sui capelli – è duro star soli da vecchi. Anche da giovani, ma da
vecchi è proprio duro. Vai da tuo padre, digli che capisci,
cosa c'è di male in fondo?
– Niente – dissi, e lo pensavo davvero, anzi, ora ero
contento. – Grazie zio, sei saggio.
– La mia saggezza è leggendaria e credo sia ora di sfruttarla – disse lo zio. – A tale proposito, ti comunico ufficialmente due grandi notizie.
Erano davvero grandi.
La prima era che il nostro paese avrebbe avuto finalmente una squadra di calcio, iscritta al campionato di terza
categoria. Nome Polisportiva Dinamo, maglia rossa, pantaloncini neri, calzettoni rossi. Giocatori effettivi per il momento, nove. Tre messinesi, il professore di ginnastica della
scuola, i due fratelli Arduini, Grillomartino, Ciccio Mia e il
sottoscritto. Per gli altri si stava sondando il mercato a fondovalle. Forse poteva arrivare un centravanti oriundo dalla
Toscana. Dimenticavo, presidente e allenatore della squadra,
zio Nevio.
Seconda notizia. La squadra era il primo atto della campagna elettorale di zio Nevio, che si sarebbe candidato a sindaco, contro il laido portaborse Sponda. Fefelli era candidato
al parlamento e quasi sicuramente sarebbe stato eletto, ma
stavolta in paese no pasaran.
– Zio, è roba grossa – dissi tutto eccitato – ti sosterrò.
Farò una caterva di gol. Da domani mi alleno, anche in città
mi sposterò sempre a piedi, di corsa.
– E niente sesso – rise lo zio.
– Be', in quanto a quello – dissi – in effetti poco ci manca. Io e la mia ragazza non abbiamo un posto dove stare in
pace da soli. Mi piacerebbe avere una stanza, volevo parlar-
ne con papà, so che sarebbe un sacrificio, ma ormai sono
grande…
Lo zio caricò una cartuccia con aria sognante.
– Sai, anch'io più o meno alla tua età avevo una fidanzata. Andavamo nei prati, ci arrangiavamo, ma lei diceva, e un
letto vero mai? Quando la prima volta riuscimmo a restare
soli nella casa dei suoi ci infilammo nel letto e ci addormentammo. Tanta era la voglia di materasso.
– A me non succederebbe – dissi altero.
– Certo, grande scopatore – disse lo zio – per la stanza,
ne parleremo. Intanto tieni questi. Puoi portarla a mangiare
fuori, al cinema. Ma non portarla in albergo, siete troppo
giovani. Porta pazienza.
Mi mise una banconota in mano.
– Grazie, zio. Non dirò a nessuno della Luciana. Adesso
capisco perché da un po' di tempo hai tutte queste camicie di
popeline.
– Ho anche una dotazione di mutande da vestire un reggimento – confidò lo zio – dai, adesso chiudo il negozio e
andiamo a casa.
Ci separammo all'angolo della piazza. Lo guardai allontanarsi, con la sua andatura dondolante. Camminava uguale a
papà, era solo un po' più basso e con le spalle più larghe.
Alla luce della luna guardai la banconota e mi mancò il fiato.
Erano diecimila lire. Non avevo mai avuto tanti soldi in vita
mia. Corsi a casa, ogni ombra poteva essere Robin Hood, ora
ero diventato ricco e dovevo temerlo.
Proprio davanti a casa, incontrai mio padre in pigiama, a
braccetto con Regina.
– Così – disse papà – ci hai scoperti.
– Ti ho sentito, sai – disse Regina – che spiavi dalla porta. Non si fa.
– Facevate rumore come una mietilega – dissi.
– Se stai zitto – disse Regina con aria di intesa – avrai
giornalini e libri gratis tutta la vita. E anche sigarette tra
qualche anno. Anzi no, che poi ti riduci i polmoni come tuo
padre.
La guardai bene. Aveva i capelli grigi e una ruga apache
sulla fronte, ma gli occhi erano bellissimi e giovani. Pensai a
mia madre. I grilli cantavano nel prato e restammo tutti e tre
in silenzio, come se qualcuno ci stesse guardando.
– Io vado, buonanotte – disse Regina, salì agilmente sulla bicicletta e scomparve dietro la curva.
– Vieni – disse mio padre prendendomi sottobraccio –
parlami di Selene.
Cominciai a cercare casa e lavoro. Ma era dura, la gente
di città era sospettosa, un ragazzo alto e magro con la faccia
da pazzo non poteva essere scambiato per un libero professionista. Trovai solo un posto di lavapiatti alla pizzeria di
Lussu, due sere la settimana. Non lo dissi a Selene. Ma stavo
preparando una grande serata, col mio capitale in tasca, anzi,
qualche volta in tasca qualche volta nella scarpa destra.
Avvicinai Verdolin con decisione. Gli dissi Verdolin, tu
hai la fortuna di trombarti la Schiassi Serena in tutta intimità
quando vuoi. Quando vuole lei, precisò Verdolin. Bene, la
proposta è questa: devi fare in modo di star fuori con lei tutta
la notte fino alle tre, e lasciarmi la casa libera. Non si può
fare, disse Verdolin, a mezzanotte Serena è già lì che ronfa.
Ho visto in un negozio una scatola di pastelli Stabilo da ventiquattro, dissi allora io. Si può fare, disse Verdolin. Ventiquattro colori, tre notti, precisai. No, per tre notti voglio la
scatola da trentasei. Affare fatto, dissi io, ma mi raccomando, dalle dieci fino alle tre di notte. A costo di legarla a un
lampione, assicurò lui. C'è solo un problema, ti avverto, il
cane Leopoldo. Morde?, chiesi io. No, disse Verdolin, guarda. Non ci feci caso.
E così un mercoledì andai a prendere Selene, e a sorpresa la portai al ristorante cinese. Era davvero cinese con dei
gestori cinesi, camerieri cinesi, lampioncini cinesi e una vasca con dei pesci quantomeno di aspetto cinesoide. Lei era
felice ed eccitata. Diceva, hai vinto al Totocalcio? Mangiammo il riso con le bacchette e lo spargemmo ai quattro punti
cardinali. Io mi finsi esperto e ordinai un piatto con un nome
strano e ci arrivarono delle frittelle bisunte che invece ci
aspettavamo del pollo. Poi però c'era vitello e ananasso, sembrerebbe che insieme non c'entrano un cazzo e invece era
squisito. Poi due frutti che sembravano occhi di Pantorso e
per finire sakè. Uscimmo, ci baciammo e fu come un bacio
tra due crescentine, sapevamo di fritto a cento metri.
– E adesso – dissi – ho una sorpresa.
Aprii la porta dell'appartamento Schiassi-Verdolin con
le mani tremanti. Riuscii a trovare la luce, Verdolin mi aveva
insegnato il gesto esatto da fare, trenta centimetri in alto a sinistra. Leopoldo arrivò scodinzolando. Era un lupo obeso
con gli occhi storti, uggiolò di piacere e annusò Selene con
interesse. Nella suite c'erano una cucinetta, un bagno e la
stanza da letto, piena delle bambole della Schiassi e dei disegni di Verdolin. Per terra bicchieri di acqua colorata, matite e
taccuini, un gran casino. Il letto però era rifatto, con una bella trapunta azzurra.
Mi sedetti sul letto, Leopoldo balzò sopra anche lui.
– Eh no, in tre no – disse Selene.
Lo chiudemmo in bagno. Iniziò a ululare come un coyote. Gli diedi del pane. Niente. Voleva partecipare.
Selene era un po' a disagio. La baciai con cautela e dolcezza sfibrante. Leopoldo ci guardava tranquillo. Sembrava
dire, va bene, questo è il primo tempo, ma poi speriamo che
ci sia più azione.
Avevamo tanto sognato quel momento e adesso eravamo lì un po' timidi e bloccati, tra le bambolone della Schiassi, l'opera omnia di Verdolin e un cane voyeur. Ma lei era
troppo bella e vicina. La baciai e sentii che la sua bocca cedeva, diventava arrendevole. Le calai il golfino sulla spalla e
la baciai sul collo.
Lei sospirò. Le tirai su la gonna.
E saltammo in aria insieme.
Mi sembrava di non aver fatto altro tutta la vita che tenere Selene nuda tra le braccia. Forse era l'allenamento sui
prati o al bar Tomoka, ma non avevamo paura uno dell'altro.
A quel punto restava solo da decidere la terminologia. La parola scopare non piace ai puritani, ma ai puritani non sarebbe
piaciuto niente di quello che cominciammo a fare da subito.
Fare l'amore è più dolce, ma suona un po' accademico. Così
la scopai facendo l'amore per la prima volta, tenendola così
stretta che sentii scricchiolare le ossa. Lei disse solo, fai piano. Poi andò in bagno, tornò, mi salì sopra e fece l'amore
scopandomi. Andai in bagno, bevvi un litro d'acqua dal rubinetto, Leopoldo ne approfittò per infilarmi il naso freddo nel
culo. Eccitato non dal naso, ma da Selene nuda sotto le lenzuola, tornai e cercai una posizione che avevo visto su un libro, fallii e riscopammo classicamente. Lei riprese a sua volta l'iniziativa, e con una serie di urletti mi scopò di nuovo
amorosamente. Scoprii con stupore che alle donne piace
quanto agli uomini e sono anche più resistenti. Alle due e
cinquanta eravamo ancora lì a rotolarci. Io dissi: dobbiamo
andare. Ma il mercoledì seguente, di nuovo spettacolo, Leopoldo ci aspettava coi popcorn. Riuscii a fare tutto quello che
avevo sognato di fare con lei durante la settimana, ci rimasi
quasi male.
Il mercoledì dopo, mi si bloccò la digestione e fu la prima figuraccia della mia giovane carriera di pornostar. Mi
sbloccai alle due e recuperammo accelerando i tempi.
Non dirò che dopo quei mercoledì con la scadenza, da
pornocenerentola, non ho provato niente di meglio, ma li ricordo ancora attimo per attimo, gesto per gesto, ogni dolcezza e ogni porcellezza. Con Verdolin firmammo un accordo,
un mercoledì sì e un mercoledì no, anche se la Schiassi fu informata della cosa, non capiva perché un maledetto giorno
alla settimana le toccava di vedere due film di seguito, andare all'osteria e poi vagare per la città. Devo dire che fu comprensiva. Disse solo: non trattate male il cane. Il cane, dissi
io, è un gran maiale e se la gode.
Bamboline, disegni, i capelli biondi di Selene che riempivano il cuscino e i miei maglioni, il suo impareggiabile
culo illuminato da una candela, i baci che non bastavano
mai, gli odori, e anche la scatolina azzurra dei preservativi,
che ci guardava rassicurante dal comodino. Tutto questo e di
più. E soprattutto, il vecchio Leopoldo. Per un po' di tempo,
tutte le volte che un cane lupo mi guardava, mi veniva duro.
Scherzo.
4.
E vennero le vacanze, ero promosso e innamorato, tornai al paese dandomi anche un po' di arie. Avevo i capelli
abbastanza lunghi, una camicia a fiori e dei jeans azzurri
usati con un'autentica pezza del Massachusetts.
– Ci siamo imbusonati? – disse Balduino quando mi
vide, rivelando tutti i suoi pregiudizi sulla moda e sul sesso.
– Mandami tua sorella – dissi io come dicono a Berkeley.
– Se vuoi te la mando ma poi te la tieni – sospirò Balduino. Mi offrì un caffè corretto alla grappa e mi raccontò le
novità del paese. Il libro su Ghigna era stato pubblicato e
aveva avuto un discreto successo ma avevano cambiato molte cose. Ghigna nella vita parlava un italo-montanaro meticcio con bestemmie come collante semantico. Nel libro, invece, sembrava un professore universitario e si esprimeva con
frasi tipo: «e allora ci rendemmo conto che la nostra strategia
era inficiata dalla scarsa motivazione di alcuni elementi»,
che tradotto poi sarebbe: «ragazzi, se c'è qualcuno che si
caga sotto si tolga dai coglioni». Poi erano state tagliate alcune pagine, le più controverse.
Altra vecchia novità: la fontana della piazza non procedeva. C'erano dodici progetti, ugualmente raccomandati, sirene, unicorni, veneri e poseidoni, ma Fefelli aveva paura di
scontentare tutti e rinviava la decisione. Inoltre sembra fosse
indagato per una truffa sui terreni delle Roselle, abuso d'ufficio e altre piacevolezze. Avevano anche avviato un procedimento contro il cementificio per violazioni alle norme di sicurezza, c'era stato uno sciopero di due giorni, con botte tra
scioperanti e crumiri.
Non mi sembravano grandi novità, la città mi aveva abituato al peggio. Cercai qualcuno dei miei amici. Il primo che
incontrai fu Baco. Aveva una cartella piena di appunti, e mi
bloccò su una panchina. Disse che grazie alla professoressa
Tania (sospiro) aveva scoperto il futuro e il futuro era la cibernetica. Per farti capire, mi spiegò, la nostra testa funziona
a scatoline, ne apri una e trovi altre scatoline e dentro ci sono
i pensieri importanti. Ma la testa funziona lenta, perde colpi,
apre le scatoline sbagliate, io ne sapevo qualcosa. Allora
mettiamo che io riesca a mettere i pensieri dentro delle scatoline meccaniche piccole, ma piccole che non si vedono, che
si chiamano chip. Poi metto queste migliaia di scatoline in
una scatolona più grossa che le coordina. Basta che prema
dei tasti e trovo la scatolina che mi serve, tipo «ragazzo triste». E poi un altro tasto su una scatolina che mi serve ancora di più, tipo «come me, ha ha…». E poi così fino a trovare
la biografia di Patty Pravo, tutte le sue canzoni e una foto di
lei nuda.
– Che idea del cazzo – dissi io – a cosa serve?
– E' più veloce, Saltatempo. Tu hai un fungo, vuoi sapere se è velenoso, metti in moto le scatoline, esce la foto con
scritto velenosissimo, in trenta secondi.
– Karamazov ce la fa in tre secondi.
– Ma non puoi tenere Karamazov sul comodino.
– Su uno grande sì.
Baco sbuffò. Evidentemente aveva già incontrato incomprensioni di questo tipo.
– Saltatempo, tu sei una delle poche teste pensanti in
questo paese di caproni. Collaboriamo io te e magari la professoressa (sospiro). Ti porto delle riviste americane, ti spiego cos'è un chip. Fondiamo una ditta, ho già il marchio.
Guarda qui.
Mi mostrò un foglio con il disegno di una mela, e la
scritta Baco Cibernetica srl.
– Perché la mela?
– Perché è come il mondo, il mondo è tutto da raccogliere e poi da mangiare con le nuove tecniche.
– Meglio l'uva – dissi.
– Giusto. I singoli distinti chicchi che formano il tutto.
Lo cambio.
Quando i nemici di Bill Gates molti anni dopo andarono
all'ufficio slogan a brevettare la mela Apple, non mi ringraziarono neanche.
Rividi i soliti eroi. Slim lo splendido mi salutò con una
novità, il verso del tucano ingrifato. Maria Casinò e Cipolla
litigavano sui punti a scopa. Arturo Cento ce l'aveva fatta ed
era anche andato sul giornale, ma si scherniva che sui duecento non ci contassimo. Caprone aveva imparato a guidare
il trattore con le lezioni di Luis, e adesso ci girava tutta notte
cantando. Don Brusco aveva installato una campana nuova
che si sentiva fino in Svizzera. Karamazov e Carburo coi soldi delle riffe alla casa del popolo stavano organizzando una
gita a Mosca quattro giorni in corriera, praticamente c'era
solo il tempo per un'inversione di marcia nella Piazza Rossa.
C'era stata anche la prima mostra del cane da caccia, con
scandalo perché Hisssss si era trombato la prima classificata,
una setter irlandese di alto lignaggio. Ma ormai i ritmi cittadini mi avevano intossicato, la vita di paese mi sembrava
lenta e monotona, mi annoiavo. Ne parlai con mio padre, lui
diceva ormai sei mezzo fighetto Saltatempo, ma ti riabituerai. E poi ci tornerai presto in città. Papà, dissi, vienici anche
tu qualche volta. Quando ci andrò, disse lui, ci andrò con Caronte. Caronte, ovverossia Casatelli Remo, era l'autista dell'ambulanza di fondovalle.
Per fortuna, contro la noia, il giorno dopo c'era la presentazione ufficiale della Dinamo. Appuntamento al campo
di calcio alle ore quindici.
C'era mezzo paese, anche i sostenitori di Sponda e della
destra fefelliana. Zio Nevio si era vestito da presidente di
calcio, con un gigantesco foulard Modabella vagamente assomigliante a una sottoveste. La gente gli chiedeva, quanti
anni per la serie A? Pochi, pochi, rispondeva lui. E le trasferte, andrete in undici sull'Apecar? Abbiamo già il pulmino a
noleggio, precisava, e godeva come un porcello.
Il campo era stato rifatto, non c'era l'erba perché l'avrebbero mangiata le pecore di Caprone. Ma erano stati tolti i
crateri, le buche e gli avvallamenti più insidiosi. Erano state
dipinte le righe, e, particolare che suscitò l'ammirazione di
tutti, nelle porte c'erano delle nuove reti senza buchi e sbrindellamenti. La tribuna in cemento, costruita dai messinesi in
tempo record, mostrava anche le prime corruzioni pubblicitarie. Tre cartelloni: Luciana Modabella abbigliamento, Ristorante da Chicco la Foglia d'Oro, Mangimi per animali Lebboroni. Si aspettavano la Fiat e la Motta.
Gli spogliatoi erano un vecchio deposito attrezzi, ci spogliavamo tra erpici e forconi. D'inverno si gelava. C'erano
solo due docce, se una andava a pieno getto l'altra pisciolava
appena, e viceversa. Niente armadietti, solo scatoloni di cartone. La serie A era lontana.
Eravamo tutti emozionati e in mutande quando Karamazov ci consegnò le maglie, e sorse il primo problema. Erano
belle e rosse, ma sul lato sinistro c'era stampato un faccione
di Stalin, piccolo ma ben visibile.
– Pensavo che tutta rossa era banale – mentì Karamazov.
Mio zio si incazzò. Disse che sport e politica non vanno
d'accordo e inoltre lui non andava d'accordo neanche con
Stalin, a costo di perdere voti preferiva Gramsci. Ci ordinò di
rivoltare la maglietta alla rovescia, tanto non si notava. Le
maglie, inoltre, erano tutte della stessa taglia. Quindi a me
andava bene, ai messinesi arrivava a metà ginocchio e sem-
bravano il nano Cucciolo, ai gemelli Arduini che erano due
marcantoni gli rimaneva scoperta la pancia stile Saint-Tropez. C'era anche un giocatore nuovo. Era un susanello alto
uno e novanta e bestemmiava in toscano. Si chiamava Roda,
e dalla circonferenza dei polpacci capimmo che era un fuoriclasse. Era costato un fucile, cento cartucce e un posto di
commesso da Luciana Modabella. Entrammo di corsa e fummo presentati al pubblico festante.
– Ecco a voi la Dinamo – disse lo zio, col megafono in
mezzo al campo. – E' tutta composta di giovani entusiasti,
come è giovane ed entusiasta lo spirito che mi guiderà nella
mia eventuale attività di sindaco. Le vittorie della Dinamo
prepareranno la mia vittoria. Domani debutteremo in amichevole contro il Troppiano, squadra di grandi tradizioni, militante in terza categoria, come noi. Ed ecco a voi la nostra
formazione, applauditeli uno per uno.
Per cominciare ecco i potenti terzini, i sexy fornai Arduini Giglio e Arduini Loris (applausi specialmente femminili). Centromediano, o libero come si dice adesso, il nostro
professore di ginnastica Pieroni (uragano di applausi degli
allievi). Stopper marcatore Ciccio Mia, giovane talento, figlio di Bortolini, se gioca come pesca il babbo… (mormorio
con applauso dubbioso, Ciccio era alto un metro e un cazzo).
Mediani e mezze ali Sciarrillo, Schillaci e Riggio (applausi
dal Sud, qualche fischio dagli ultrà nordisti). Ala destra mio
nipote Saltatempo (applauso che mi commosse). Ala sinistra
Grillomartino figlio di Maghino (applauso fiacco, ma Marti-
no fece trenta palleggi di fila e l'applauso si rinsaldò). E dulcis in fundo, signore e signori, ventisei gol l'anno scorso nella terza categoria toscana, il centravanti del futuro Attilio
Roda (uragano di applausi, sventolio di fazzoletti). Infine
come riserve Baco e il figlio di Carburo, Taddeo, tredici anni
ma talento da vendere. Un bell'applauso finale per la Dinamo!
– Momento – lo interruppe una voce tonante (era Ossobuco, tifoso ma comunque dell'altra fazione) – c'è qualcosa
che non va.
– Cosa?
– Manca il portiere – disse Osso, chiamando il pubblico
e Dio a testimoni.
Zio Nevio sembrò piuttosto imbarazzato.
– C'è ma è in ritardo, era di turno al cementificio, domani ci sarà.
– No no, lo vogliamo vedere oggi – disse Ossobuco –
che futuro sindaco sei, ci prometti una squadra e non hai il
portiere, è come se dicessi, farò le case senza la porta, e le
strade senza i parapetti.
Ebbe approvazioni anche da sinistra.
Allora zio Nevio guardò verso gli spogliatoi e con voce
un po' esitante disse:
– Vieni, Philippe.
E lui apparve.
Ci fu un attimo di silenzio preistorico.
Al centro del campo era apparso un nero magrissimo e
altissimo, inguainato in una tuta ancor più nera di lui, guanti
da portiere e un sorriso sfavillante.
– Ecco a voi Philippe M'Bukunda, ex portiere della nazionale juniores del Senegal nonché operaio al cementificio.
Ci furono pochi applausi, qualche fischio, ululati. Quasi
due metri di nero erano troppo per il nostro immaginario rurale.
– Siamo la Dinamo o la nazionale delle colonie? –
esclamò Rondelli.
– Non lo vogliamo un negro – ruggì qualcuno da bordo
campo.
– Zitti, poverino – gridò la Luciana – siete delle bestie!
– Zitti, e niente poverino – la corresse Regina.
– Se giochiamo in notturna come facciamo a vederlo? –
disse Boccoli il bancario.
Ci furono risate e fischi e anche qualche spintone.
Il povero Philippe in mezzo al campo capì che doveva
fare qualcosa. Allora alzò le mani. Erano due badili, enormi.
Poi con una mano sola, come la gru acchiappapeluche del
luna park, raccolse la palla da terra.
– Però – si sentì mormorare tra il pubblico.
La Luciana e la Zoraide subito si sussurrarono qualcosa
all'orecchio e giù a ridere. Sicuramente ipotizzavano una
possibile simmetria tra gli organi di Philippe.
– Prego – disse Philippe con voce un po' incerta – io
vorrei tanto giocare ma capisco che è strano per voi un por-
tiere africano. Datemi una possibilità. Se domani gioco bene,
resto, se no prendete un altro.
Questa volta ci fu un applauso abbastanza convinto.
Educato e non sgrammaticato. Certo era proprio nero, non
caffelatte o grigio, nero.
Naturalmente quello fu l'argomento di discussione della
serata. E scoprii che un razzismo istintivo sarebbe stato lungo da disinnescare, nel nostro piccolo paese. Un razzismo
astutamente riciclato in vari modi.
Mio padre la mise sul tecnico: facciamolo pure giocare,
ma il Senegal a calcio vale come la Scafatese.
Chicco disse subito: e se lui si trova bene qui e ne arrivano degli altri?
Balduino sentenziò: se era bravo, giocava nel suo paese.
Troppo magro, disse Favilla il fabbro, la struttura non
tiene.
Ma i messinesi assicurarono che a lavorare era forte
come un toro. E fu Baruch a trovare la soluzione, con abile
artificio retorico di deviazione semantica.
– Io credo – disse – che il vero problema sia nel nome.
Non si può partire con una formazione che fa: M'Bukunda,
Pieroni, Arduini. Riderebbero tutti. Perciò bisogna trovargli
un soprannome adatto.
– Io suggerisco un nome brasiliano – disse zio Nevio –
quelli sono neri e giocano, oh se giocano.
Alla fine si decise di scegliere tra Didì Vavà e Pelé, il
trio d'attacco carioca, non erano portieri ma erano dei bei soprannomi. Pelé era troppo, i miti sono unici, Vavà era pericoloso perché subito trasformabile in coro Vavaffanculo.
Didì era perfetto.
– Bene – concluse Baruch – domani in porta gioca Didì.
E tutti furono soddisfatti.
Fu un trionfo. Vincemmo tre a uno. Uno a zero di Roda
con un colpo di testa stratosferico, galleggiò in aria come un
falchetto toscano e poi bang, palla nell'angolo basso. Da
solo, metteva in crisi tutta la difesa avversaria. Poi ci furono
due parate strepitose di Didì, che si allungò da un palo all'altro, e subito fu ribattezzato Didì Tiramolla. Poi devo dire che
feci un gran bel dribbling, con cross a Roda che tirò una savarna all'incrocio dei pali, le tribune impazzirono, e vedemmo Rondelli saltare e abbracciare il primo a caso, se era comunista pazienza. Fine primo tempo. A metà del secondo
tempo qualcuno finì l'ossigeno e cominciammo a subire. Ciccio Mia non aveva più il fiato per dire che la palla era sua.
Per dieci minuti ci assediarono e Tiramolla parò tutto. Ma al
trentaseiesimo il centravanti avversario scappò e Giglio Arduini, ansando, lo prese per la maglia appena fuori area.
L'arbitro invece disse che il fallo era dentro l'area e diede rigore, raggiungendo all'istante un livello di corna da
branco di renne.
Tiramolla Didì balzò e toccò il pallone, ma la palla entrò.
– Ragazzi – ci gridò zio Nevio – ancora tre minuti, resistete.
Ne mancavano nove, ma lui faceva il furbo. Ci mettemmo a fare melina, facendo finta che perdevamo le scarpe e ci
calavano i calzini. Grillomartino prese uno sgambetto da
niente e fece una scena alla Ermete Zacconi, rotolandosi per
terra come se l'avessero centrato con un obice, l'arbitro beccò
e passò un altro minuto. L'ala avversaria partì in contropiede
ma fu fermata da un fischio. Slim aveva aggiunto al suo
campionario di suoni l'uccello arbitro, e ci salvò. Col fiatone,
ma tenevamo duro. In attacco Roda prendeva calcioni e lottava come un leone, in difesa Pieroni e Ciccio Mia respingevano anche coi molari. A due minuti dall'agognato fischio, io
presi la palla a metà campo, e partii. Avevo i piedi in fiamme, il cuore nell'esofago, ma la serie A era vicina, scartai il
centromediano tirai, presi il palo. No, gridai. Ma la palla rimbalzò tra i piedi di Schillaci, che segnò. Tre a uno. Schillaci
si mise a piangere e anche sua mamma in tribuna. Al fischio
finale mi buttai per terra, guardai il cielo e dissi, sei un ragazzo felice e fortunato, Saltatempo.
– Abbiamo guadagnato almeno cento voti, oggi – ci disse zio Nevio negli spogliatoi – grazie ragazzi.
– Grazie e basta?
– E cinquemila a testa – sospirò mettendo mano al portafoglio.
Cosa potevo volere di più? A ottobre avrei giocato in un
campionato vero, il giorno dopo arrivava Selene coi genitori.
Li vidi scendere dalla macchina, una nuova Lancia Fulvia,
con un mare di valigie, ed entrare nella villetta odorosa di cemento fresco. Era un brutto chalet metà legno e metà sasso,
con la porta blindata e davanti un prato di trifoglio inglese e
lo stradino di ghiaia pressata per la macchina. E neanche un
nano.
Sapevo che ai suoi genitori non andavo a genio. Perciò
aspettai che si facesse viva lei. Lo fece solo il giorno dopo.
Si era tagliata i capelli, era molto alla moda. Ci baciammo,
era il solito bacio ma con qualcosa di meno. Forse per lei tornare in paese era un piccolo choc, forse io ero stanco per la
partita, comunque a mezzanotte ci separammo.
Un'ora dopo scoppiò un gran temporale, la pioggia ballava la ridda sui tetti. L'orobilogio partì. Vidi il residence Roselle abbandonato e pieno di erbacce, con la scritta «Chiuso,
costruzioni abusive». Vidi il processo per abusivismo, tutti
assolti e solo Sponda in galera per pochi mesi. Vidi una classifica della serie A di dieci anni dopo, c'era il Cagliari ma la
Dinamo non c'era. Vidi morire Jim Morrison. Vidi una grande discoteca, sotto un cielo afoso, qualcuno sdraiato sul prato
e un'ambulanza. Vidi la vasca della Fanara con un'altra grande crepa, e usciva acqua rossa. Vidi Fangio che guidava il
camion nella notte, sbadigliava e ascoltava alla radio Duke
Ellington. Non riuscivo a dormire, il tempo mi ammoniva,
mi parlava con la voce del temporale, diceva: hai le radici
forti, Saltatempo? Quanto vento può sopportare l'albero del
tuo coraggio? Verso le quattro la pioggia cessò, e mi addormentai. Ma poco dopo mio padre mi svegliò e mi fece uscire
di casa in pigiama. C'era appena una sfumatura rosa di alba,
sul profilo delle montagne addormentate. Papà era pallido.
Disse:
– Lo senti?
Lo sentii anch'io. Un rumore come di qualcosa di enorme che si muove, trema, vibra, poi degli schianti, e più nulla.
– Il monte, sopra le Roselle – disse papà – l'avevo detto
io.
Dopo un'ora eravamo tutti lì. Una fetta di terra, un chilometro sopra il nuovo villaggio, era franata. Era una colata di
terra e alberi divelti. Per fortuna la frana si era fermata contro uno schieramento di castagni robusti.
– Dai e dai, abbatti e scava ce l'hanno fatta – diceva Baruch triste.
Mio padre non parlava. Guardava le radici, le toccava,
come se le conoscesse. Le sue viscere, allo scoperto.
I carabinieri dissero, è stata la pioggia di stanotte, è abbastanza naturale. Zio Nevio disse, se divento sindaco, sai
che pioggia di denunce. La frase si seppe in giro. Perse dieci
voti ma ne guadagnò qualcuno di più. Fefelli, dalla città,
mandò un geologo di fiducia. Quello guardò la frana e non
riuscì a fare il furbo.
– E' roba seria – disse scuotendo la testa.
Il pomeriggio io e Selene andammo sul fiume a fare il
bagno. Lei aveva un costume blu olimpionico, andai giù di
testa, ci baciammo davvero stavolta, e le dissi dai, nascondiamoci nel canneto. Dopo, disse lei, quando è più fresco.
Mise la testa sulle mie ginocchia.
– Non hai paura, nello chalet? – chiesi.
– Perché dovrei?
– Be', c'hai la montagna pericolante sopra.
– Mio padre dice che son tutte balle, tutta propaganda
elettorale, allora non si dovrebbero costruire più case e ci
toccherebbe tornare nelle grotte.
– Tuo padre è uno stronzo – dissi di getto.
Si arrabbiò davvero. Mi tirò l'asciugamano in faccia e
andò a nuotare. Vedevo la sua testa andare avanti e indietro
nella pozza. La raggiunsi.
– Scusa, non volevo.
– Sei il solito, tu e tuo padre non fate che prevedere disastri, sembra che ci godiate. Io ho le mie idee, non la penso
certo come Fefelli, ma la politica non mi fa sragionare, c'è
anche altro nella vita. Come posso star bene con te se giudichi ogni cosa che faccio?
– Tutti giudichiamo – dissi io – anche tu stai giudicando
me. Però hai ragione, starò più attento a parlare.
– Mio padre è un uomo semplice – disse lei, e la rabbia
non le passava. – Ha lavorato tutta la vita per avere questa
villetta. Certo non è tornato da paesano, ha voluto dimostrare
che ha fatto fortuna, che è benestante, voleva questa rivincita. Ha lavorato anche per me. E a me lo chalet piace. E' vero,
c'è il vialetto per la macchina, ma la macchina è comoda. E
non siamo noi che abbiamo distrutto il castagneto. Io sono
per metà una cittadina viziata, ma per metà sono ancora una
del bosco. O no?
– Tu sei sempre la regina dei pirati – dissi baciandola –
è giusto che tu abbia una bella casa. E poi in fondo il Corsaro
nero era un conte.
– Raccontami della partita di ieri. Senza bugie però.
– Va bene. E tu raccontami cosa hai fatto a Cesenatico.
Quanti ne hai sedotti?
Arrossì, fece finta di arrabbiarsi, e corse di nuovo a nuotare. Poi si stese al sole. Che bella lucertolina, pensai. La
amavo e la avrei amata sempre, avrei amato ogni sua metà, i
suoi capelli color grano, il suo culo impareggiabile e la sua
sincerità. Amavo anche il fatto che era quasi più permalosa
di me.
Aveva lasciato la borsetta sull'asciugamano, aperta. Non
so perché, ma vidi una cartolina e la tirai fuori.
Era una cartolina di Londra. C'era scritto:
To my impossible love. Brian.
Mi sentii come mi avessero messo la testa sott'acqua, e
non mi facessero respirare. Il sole calò per davvero, dietro
una nuvola. Non riuscivo a alzarmi né a parlare. Lei mi venne vicino e mi guardò preoccupata.
– Cos'hai – dissestai male?
Poi vide subito la cartolina.
– Perché mi frughi nella borsetta? – disse tremando.
– Mi dispiace. Non ho frugato, ho buttato l'occhio. Non
volevo. Era meglio se non lo facevo.
Mi abbracciò, io ero una statua gelida.
– Saltatempo, ti prego, non pensare a niente di grave. Ci
siamo visti solo tre volte. Solo qualche bacio una volta, poi
ho detto basta. Non so perché l'ho fatto, forse la mia metà
strana. Non è successo nulla, io amo te, Saltatempo.
Mi misi a piangere, come un bambino. Ricordai ogni
gesto di gentilezza di Brian nei miei confronti e la sua frase:
le donne sono attrici, te ne accorgerai. Mi sentii tradito, mille
volte tradito. Pensai, se adesso la lascio sono ingiusto, spietato, che razza d'amore è se non supera neanche questa prova,
lei ti vuole bene, non buttare via tutto per orgoglio, non farti
del male, non farle del male.
– Non voglio più vederti – dissi – vattene.
Tenevo il volto tra le mani. Lei cercò di aprirle, mi baciò sulla tempia, poi si arrese. Sentii i suoi passi allontanarsi
sul greto. L'orobilogio partì. Vidi Brian grasso, imbruttito,
con un foulard vistoso, davanti al suo autosalone. Si atteggiava ancora a playboy, ma ora era ridicolo. Mi venne incontro e disse, Saltatempo, dimentica quella vecchia storia, mica
ci penserai ancora. Vuoi vedere il nuovo modello della Maserati? Stasera ti presento due ucraine che Selene in confronto era acqua fresca.
Io volevo proprio l'acqua fresca. E adesso tutto si era
sporcato. Avevo pianto tanto che mi faceva male la gola.
Pensai che avrei voluto, come ultimo ricordo, una foto di Selene in quel costume blu. Restai al fiume finché fu notte. L'estate era finita, prima di cominciare.
5.
L'estate forse era finita per me, ma non per il paese.
Anzi si annunciava rovente, con l'apparizione delle Triveneto
girls. Nel generico modernizzarsi e crescere di appetito del
capitalismo italico, il cementificio era diventato anche industria chimica e spandeva fumi assai più colorati e aulenti. E
gli affari andavano bene, perché ci furono una ventina di assunzioni. Di queste, la metà, cioè dieci, erano donne. Di queste, sette non erano granché e tre erano venete una più bella
dell'altra, a partire dalla prima che era bella, perché avrebbero potuto essere anche una più bella dell'altra in questa sequenza: una bruttissima una brutta e una bruttina. No, erano
tutte e tre seducenti e di età diversa, così da poter turbare
ogni generazione desiderante del paese. Ebbero come soprannome Dondolo, Cincia e Mediga.
Dondolo era una over quaranta bionda che camminava
con ondeggiamento assai marcato, dondolando tutto quello
che possedeva, da cui il nome. Piaceva molto ai ragazzi dai
cinquanta ai novantasei anni, e Baruch, in un accesso di ferormoni, dichiarò che lui per una donna così avrebbe vissuto
anche a Rovigo, città notoriamente pretaiola.
Cincia era una trentenne con le gambe da fenicottero,
capelli bruni e una risata ultrasonica, che schiantava i bicchieri. Era sempre di buonumore e, se fatta oggetto di complimenti, esplodeva in un refrain di risatine acute, proprio
come il verso della cinciallegra, o di Slim lo splendido. Piaceva alla generazione di mezzo, e soprattutto a zio Nevio,
che una volta vedendola transitare le incollò lo sguardo alle
gambe come un francobollo. La Luciana osservò la scena dal
Modabella, con calma si avvicinò allo zio e gli versò un
Campari nelle braghe. Lui disse cosa fai, ma benché umido
continuò a seguire le gambe di Cincia finché non svanirono
all'orizzonte.
Mediga era chiamata così perché la prima volta che Balduino l'aveva avvicinata, lei aveva risposto cortesemente
«me diga», e quindi il barista che non sapeva il veneto riferì
che si chiamava Mediga, le piaceva il caffè con la grappa, e
che lui la amava e nessuno si mettesse di mezzo. Mediga piaceva a tutti e soprattutto ai giovanotti, dato che aveva ventitré anni. Era di media statura, fulva di capelli, con gli occhi
verdi e una bocca da sturbo. Per lei entrarono in lizza Roda il
centravanti, il professore di ginnastica e ambedue gli Arduini, praticamente mezza Dinamo. Staccato di un minuto e
mezzo, inseguiva Balduino. A nove minuti Karamazov che
aveva deciso che Mediga era una tipica bellezza russa, anzi
siberiana, e le chiese subito se aveva la mamma di Vladivostok.
Il successo delle Triveneto girls, naturalmente, fece incazzare le bellezze locali che passarono da richiestissime a
richieste. Tutte prepararono contromisure e si videro rossetti
inattesi e ciglia da baiadera. Partì una campagna per sostenere il consumo dei prodotti locali, ovverossia le senior Lucia-
na e Regina, la sorella della Rospa, detta Raganella, le juniores messinesi, Nuccia e Dolores, vispissime brunette, e Otorina l'Obice, che aveva aggiunto al super-rutto altre armi di
seduzione. In questa competizione, il clima erotico del paese
lievitò e ci fu anche un giro di scommesse, tenuto da Maria
Casinò. Caprone era dato trecentomila a uno, io ci giocai
mille lire.
Anche mio padre partecipava a questo clima, e mi diceva dai, provaci con Mediga. Aveva capito che qualcosa era
andato storto con Selene. La famiglia Lunini non si era ambientata in paese. Si danno troppe arie, diceva la gente. La
madre Clara si era vantata di essere andata a cena a villa Meringa, e che con ogni piatto c'erano otto posate. Balduino disse, se è per quello, venga a casa mia, le posso mettere anche
venti forchette, se le fa piacere. Karamazov disse che otto
posate, in Russia, era la media.
Selene non si faceva vedere. Dicono la sera un gruppo
di ragazzi grandi venisse a prenderla in macchina, per andare
a ballare alla nuova discoteca Marilyn, un casermone basso
tipo allevamento di galine con le luci verdi e rosse fuori. Una
sera Lunini padre confidò a zio Nevio che non era più a suo
agio lì, che quello era rimasto un paese di buzzurri e si era
anche pentito dello chalet, i muri erano sottili e si sentiva lo
sciacquone dei vicini, e poi lui non era più abituato a tutti
quegli urli notturni di fagiani e civette e abbaiar di cani. Insomma voleva vendere.
Una mattina fecero le valigie e se ne andarono. Sperai
che Selene mi avesse lasciato almeno un biglietto, ma niente.
Del resto cosa pretendevo? L'avevo scacciata dalla mia vita,
ingiustamente o giustamente non lo sapevo, sospeso tra affetto e orgoglio. Non avevo saputo perdonare.
Ero ferito, mutilato, anche se capivo che tutto questo era
nel segreto degli orologi, dentro il tempo dell'imparare. Intanto però mi facevo del male, anche a sedici anni si può farlo davvero. Mi ero messo a bere vino rosso, come mio padre,
Gancio mi aveva fatto provare la marijuana e non era niente
male. Ero sempre un po' stordito. La sera stavo spesso in
casa a leggere, oppure camminavo nel bosco al buio con Rufus, il cane di zio Nevio, l'unica creatura che sopportava i
miei sbalzi di umore.
Una notte verso l'una stavo tornando a casa e vidi la
luce accesa. Sentii della musica. Regina, che amava cantare e
ballare, aveva regalato un giradischi a mio padre. Era un pezzo jazz per piano. Allora non lo sapevo, ma era Misterioso di
Thelonius Monk. Improvvisamente il mondo mi sembrò più
grande, il mio dolore restava lo stesso, ma era un grano di
polvere, un ciottolo levigato, e scivolava sul mare immenso
dei sentimenti degli altri. Altre due volte una musica mi stupì
e mi ingrandì il mondo. Fu con Revolver dei Beatles, e quando vidi il Flauto magico a teatro. Ma Misterioso fu la scossa
più forte. Non entrai in casa, girai i tacchi e andai in paese.
C'era un nuovo bar, il Mefisto, dove si trovavano un po' di
giovani più o meno balordi. Gancio era lì, con le sexy messi-
nesi, Nuccia e Dolores, e una ragazza pallida dall'aria mesta.
Mi sedetti con loro, flirtai un poco e poi dissi: Gancio, domenica voglio andare alla discoteca.
– No – disse la pallidona, che era la ragazza di Gancio –
non ce lo portare che poi…
– Che poi cosa – la interruppe Gancio iroso – fatti i cazzi tuoi, Nora.
La ragazza stette zitta. Bevemmo ancora, spesi metà dei
soldi che avevo in tasca. Poi Gancio disse: rubiamo una macchina. Fin da quando avevamo dodici anni mi aveva insegnato a aprirle e metterle in moto ma tutto finiva lì, non ci andavamo in giro. Invece stavolta ci salimmo sopra e lui guidava
forte, accelerando nei rettilinei e io dissi: basta Gancio, non
esagerare.
– E' come quando nuotiamo nel fiume, mollate sempre
tutti prima della rapida – disse Gancio.
– Ho più paura qui che sul fiume – dissi – fermati, se
vuoi ammazzarti fallo da solo.
Mi pentii di quella frase. Forse era proprio quello che
stava facendo, nelle pieghe della sua notte. Per farmi perdonare, lo presi a braccetto. Sembrò stupito, come se avessi fatto qualcosa che non si aspettava, da me e da nessuno.
Lasciammo la macchina proprio in mezzo al piazzale
del distributore. Eravamo mezzi ubriachi. Tornando a piedi,
provai a baciare Dolores, lei mi lasciò fare per cortesia. Aveva la bocca secca e sapeva di liquore, non era proprio come
Selene.
– Scusa – dissi io – ma stasera non me la sento.
– Non te la senti cosa? – disse lei.
Capii che ero proprio andato. Rientrando a casa, trovai
mio padre che prendeva il fresco, su una sedia nel prato. Mi
guardò e disse, in casa ne basta uno di ubriacone. O smetti di
bere o una di queste sere faccio quello che non ho mai fatto,
ti prendo a sberle. Aveva rimosso due o tre sberloni infantili,
ma capii che era arrabbiato e preoccupato. Lo odiai per un
attimo.
La domenica sera partì la spedizione per il Marilyn, eravamo in sei dentro una milletré, circa duecento di cilindrata a
testa. Guidava Teseo detto Tex, un diciottenne con rughe da
trentenne e i capelli impomatati. Poi c'eravamo io, Gancio e
Osso con una camicia alla Elvis e scarpe bianche, un incrocio tra un puttaniere e un suonatore di liscio. C'erano Nora,
sempre triste e silenziosa, e Dolores che io avevo battezzato
Medusa, per i capelli ricci e spettinati e la faccia da matta. Io
mi misi davanti, dietro Osso tampinava Medusa e Gancio limonava distratto Nora.
Era una notte molto calda, intorno alle luci del Marilyn
volavano nugoli di moscerini, e beccavano pure. Notai che i
ragazzi erano vestiti più o meno come in città. C'erano dei
colli un po' paesani e robusti, le ragazze avevano il polpaccione da ciclista, ma si vedevano minigonne e camicie floreali, nel parcheggio c'era l'autoraduno delle Cinquecento.
All'entrata del Marilyn c'era un buttafuori panciuto, con un
cartellino con sopra scritto «staff». Staff in dialetto suona all'incirca come «stufo», io non resistetti e dissi «st'i staff, va
ban a cà» cioè: se sei stanco, allora vai a casa. Lui che aveva
il senso dello humour di un cavedano disse, se cominciate a
fare gli stronzi già da fuori, non vi faccio entrare. Poi vide
Gancio che era un habitué, e si calmò. C'era dell'elettricità
nell'aria, ma non bella, come quando sta per scoppiare un
temporale.
Entrammo, il posto era orrendo e soffocante, immerso in
una luce di melassa rossastra, c'erano divanetti informi, poltroncine sgonfie e tavolini zoppi, la musica pestava a tutto
volume, la gente si accalcava in mezzo alla pista, non riuscivi neanche a parlare. Un cameriere arrivò di fretta, mi chiese
il Buono Consumazione e cosa volevo da bere. Non potrei
bere dopo? dissi, no rispose, io devo sbrigarmi subito, siete
in tanti. Allora presi un Cuba libre, lo vuotai d'un fiato e pensai, da adesso sarà meglio che non abbia più sete. Andarono
tutti a ballare e io restai solo, sprofondato nel molliccio del
divano. Di fianco a me, una coppia era incollata a baciarsi da
quando eravamo entrati. Mi domandai perché erano venuti lì,
non sarebbe stato meglio in macchina o sotto un bel noce
con la luna? Forse lui captò i miei pensieri, perché staccò la
ventosa e disse:
– Che cazzo guardi?
– Niente, niente – dissi io. E capii che in quella discoteca c'erano musica e sudore collettivo, ma non un grande clima di solidarietà. Infatti poco dopo due si presero a cazzotti
davanti al bar, una ragazza strillava come se si ammazzassero che io volevo dire, non esageri, signorina, è normale sfogo
di maschi in fregola. Piombò mister Staff e risolse la situazione a panciate e schiaffi. Tutto tornò normale. Partì Satisfaction e i bassi mi rimbombarono tra le costole. Osso rientrò barcollando tra i tavoli, urtò uno col giaccone di cuoio.
– Che cazzo fai? – gli disse quello.
Osso neanche lo sentì e mi franò addosso sul divano. Mi
mise in mano un biglietto da diecimila e disse: vai a prendere
due Cuba libre.
Il gesto mi offese un po', ma avevo una sete dannata.
Andando al bar, vidi Gancio che parlava con un tipo strano,
vestito di tutto punto in un completo violaciocca, sembrava
uscito da un cartone animato. Entrarono insieme nei cessi.
Al bar c'era una biondaccia niente male in minigonna,
sembrava sola e disperata.
– Salve – dissi aspettando i due Cuba.
– Che cazzo vuoi? – disse lei. Capii che in discoteca anche se si è soli e disperati non si è necessariamente intenzionati a correggere la situazione. Stavo capendo un sacco di
cose. Anzitutto che un Cuba libre in discoteca è così: un dito
di rum, due dita di Coca e un chilo di cubetti di ghiaccio.
– Dovreste chiamarlo Alaska libre – dissi al barista.
Non afferrò la battuta, meglio così. La biondaccia cambiò idea e disse:
– Ne offri uno anche a me?
Stavo per dire, i soldi sono del similelvis là in fondo,
poi pensai, peggio per lui.
– Va benedissi. – Uno anche per la signorina.
– Deborah – precisò lei, con un sorriso un po' vampiresco.
Tornai al tavolo. Gancio era sdraiato sul divano e sembrava euforico, abbracciava Nora e diceva a voce altissima:
– Ragazzi, è bello stare con gli amici in discoteca e non
fregarsene un cazzo del mondo.
– Tu sì che sai vivere – disse Tex ruffiano – invece Osso
è un gran sfigato.
– Che cazzo dici? – ringhiò Osso.
– Ehi, Osso – disse Gancio – quand'è l'ultima volta che
hai scopato?
– Ieri – disse Osso.
Gancio si mise a ridere di una risata innaturale e acuta, e
rotolò per terra sulla moquette piena di cicche. Nora cercò di
tirarlo su.
– Quand'è che la finite di fare gli asini? – sospirò Medusa. – Chi mi fa ballare?
In quel momento arrivò Deborah barcollando, con il
Cuba in mano.
– Posso sedermi con voi? – mi disse.
– Ehi! – disse Tex – gnocca fresca! Hai capito quel Saltatempo, sembra che non ne voglia e invece rimorchia di
brutto.
– Ho conosciuto la signorina or ora al bar – mi venne da
dire.
Osso si avvicinò a Deborah con l'occhio assatanato. Ma
lo oscurò la mole del ragazzo con la giacca di cuoio.
– Che cazzo ci fai lì? – disse a Deborah.
– Parlo con degli amici – rispose la bionda. Vidi che tremava di paura.
– Torna subito al tavolo o ti riempio di schiaffi.
– Veramente noi… – disse Tex.
– E tu sta' zitto o le prendi anche tu.
Deborah si alzò barcollando, lui la afferrò brusco per un
braccio. Mi fece una gran pena.
– Ehi – disse Gancio guardandoli allontanarsi – ma cosa
vi prende? Vi fate insultare così?
– La vendetta guatayaba è lunga – dissi io.
– Ma piantala, che razza di vigliacchi siete? – Non era
Gancio, sembrava un'altra persona, i capelli gli si erano appiccicati sulla fronte e la bocca era storta e contratta. Si alzò
in piedi.
– Ehi, Deborah – gridò – torna qui, non perdere tempo
con quello stronzo.
Fu un attimo. Mi trovai in mezzo a una mischia di calci
e spintoni senza arbitro, tavolini che rotolavano, bicchieri
che si frantumavano. Non capivo neanche chi era con me e
chi contro, mettiamoci delle maglie mi veniva da dire, vidi
Osso che prendeva un gran papagno in faccia da uno che era
la metà di lui, e Medusa che graffiava una ragazza. E vidi
brillare un coltello in mano a Gancio.
– No – urlai – Gancio, no!
Il buttafuori mi prese alle spalle e mi torse un polso.
– Non sto facendo niente – dissi.
– Io ti spacco il braccio, disgraziato – disse l'energumeno – se volete fare a botte andate fuori.
Non so come, ma a inciampi e spintoni ci trovammo all'aperto, in mezzo alla nuvola dei moscerini. Gancio ritirò
fuori il coltello, il ragazzo con la giacca di cuoio e i suoi
amici si allontanarono.
– Ci rivedremo, drogato – disse il coriaceo.
Gancio stava per scattare di nuovo.
– Basta Gancio, finiamola qui – dissi tenendolo stretto.
Sputò per terra, bestemmiò, tirò un calcio a una macchina.
Non riusciva a calmarsi. Facemmo l'inventario dei danni.
Medusa si era rotta un'unghia. Tex aveva preso un calcio in
uno stinco. Osso invece era conciato peggio di tutti, perdeva
sangue dal naso e la camicia Elvis aveva preso una tinta da
film dell'orrore.
– Li abbiamo sistemati – disse Osso, e sputò un pezzo di
dente.
Gancio lanciò un urlo di guerra guatayaba, si mise a saltare come un ossesso. Poi si piegò in due e vomitò.
Cercai di tenergli su la testa. Crollò per terra. Aveva gli
occhi rovesciati, e i muscoli del collo così tesi che la bocca
gli si era spalancata, le gambe si contraevano in spasmi.
Sembrava un pesce boccheggiante, in un'acqua avvelenata.
– Sta maledisse Tex, e fece due passi lontano per precisare che lui comunque se ne lavava le mani.
– Chiama l'ambulanza – disse Nora.
– Magari gli passa.
– Non gli passa, non gli passa, ma siete tutti cretini? Si è
bucato ancora.
Tutto mi fu chiaro in un attimo. Le euforie e i crolli di
Gancio, il dimagrimento di quell'ultimo anno, l'uomo col vestito violaciocca. Come avevo potuto non pensarci, non accorgermi che stava succedendo non sui giornali o in un film,
ma a un mio amico?
– Chiamate un'ambulanza – dissi a quelli del locale.
– Ma dai, vi sbronzate e poi volete anche l'ambulanza –
disse il solito buttafuori.
Mi piazzai a venti centimetri dalla sua pancia e dalla sua
faccia di Staff.
– Senti, sacco di merda. Sono il figlio del sindaco Fefelli, e se non chiami subito un'ambulanza mio padre manderà
tante di quelle ispezioni e vi chiederà tanti di quei permessi
che dovrai cercarti un altro lavoro. E poi, perché lasciate
vendere droga qui dentro?
Il buttafuori schizzò a telefonare come una molla.
Aspettammo, un tempo che sembrò lunghissimo, sospeso tra i due orologi. Tenevo la mano di Gancio. Quelle quattro ossa dentro una maglietta sporca, quel ragazzo crocifisso
sul prato, era il Gancio del fiume, delle corse in bicicletta.
Non c'era niente di strano, si era spezzato, una parte era volata via, come quando perdi il cappello col vento, e forse non
l'avremmo mai più trovata. Pensai a zio Nevio, lo immaginai
mentre caricava cartucce sotto la luce della piccola lampada.
– Cerca di vivere, Gancio – gli dissi all'orecchio. – Un
guatayaba non muore così come uno stronzo, davanti a un
locale da quattro soldi. Almeno muori sull'Orinoco, con un
funerale da capo.
Aprì gli occhi, un istante.
– Sto maledisse. Gancio se la cavò, ma il dottore disse
che aveva il fisico a pezzi e se ci ricascava era un disastro.
Solo zio Nevio e la Luciana furono informati della storia,
non lo dicemmo neanche a mio padre. La Luciana lo prese
per un po' a casa con lei. Gancio stava muto e guardava fuori
dalla finestra, lei gli cucinava frittate e tortellini che lui assaggiava appena.
Una sera lasciò sul tavolo un biglietto «Grazie di tutto,
davvero» e se ne andò. Passò davanti a casa mia e mi chiamò
fuori con un fischio.
– Saltatempo – disse – io vado al mare con Nora. Non ti
preoccupare, sono deciso a smettere.
– Lo spero – dissi.
– Parola di guatayaba. Senti, avresti un po' di soldi? Ti
giuro, non è per la roba, è per i biglietti del treno.
Erano gli ultimi soldi, gli credetti.
La sera dopo passeggiavo con Baco e Osso, e rivedemmo Fulisca. Mi venne da abbracciarla. Era diventata alta e
abbastanza bella, anche se aveva sempre quella faccia patita.
Mi disse che lavorava in un paese vicino, da un orologiaio
che le stava insegnando il mestiere. Era guarita dalla malattia, non disse quale. Volle sapere di tutti.
– Be' – dissi – io studio e sto per andare in serie A con
la Dinamo.
– Io – disse Baco – sto studiando cibernetica. Se vuoi te
ne parlo.
– Io – disse Osso – sto imparando a fare i soldi.
– E Gancio? – chiese Fulisca.
– Gancio è andato – disse Osso – drogato marcio.
– Osso – dissi – sei uno stronzo. Sparisci o ti meno.
– Provaci – disse Osso.
Ci azzuffammo di nuovo, forse non volevamo farci
male, ma mi cascò sopra, e mi schiacciò una costola.
– Sei un fascista – gli gridai – non sei più amico mio.
Non sei più amico di nessuno.
– E tu sei un comunista, col padre alcolizzato – rispose.
Capii che stavolta ci sarebbero volute molte figurine per
dimenticare. Baco portò via Fulisca. Io rimasi da solo, con la
costola indolenzita. Sentii la sirena di un'ambulanza. Ma non
sto così male, pensai. L'ambulanza passò a tutta velocità, poi
un'altra, poi un camion dei pompieri. Andavano verso l'autostrada. Dal bar, qualcuno si alzò e chiese cosa succedeva. Un
agente della polstrada in moto si fermò e disse qualcosa. Salii in macchina con lo zio.
Sull'autostrada era un macello. Un camion aveva saltato
la corsia, falciando una ventina di macchine. Un altro camion era finito fuori strada. Le auto erano schiacciate, alcune
impastate insieme, sembrava il monte del rottamaio. Altre
vetture bruciavano ancora, e c'era una fila di chilometri in
tutti e due i sensi, tutto era bloccato.
Le luci blu della polizia pulsavano, sentimmo gridare
qualcuno, chiamava aiuto da dentro una macchina rovesciata.
– Ecco – disse zio Nevio – cos'è l'inferno.
Sul cavalcavia eravamo in parecchi, tra paura e curiosità
morbosa. Favilla il fabbro disse, ho la fiamma ossidrica e gli
attrezzi nel furgone, andiamo a dare una mano. Scendemmo
lungo il terrapieno, scavalcammo il guardrail. Un agente ci
venne incontro.
– Non potete stare qui – disse.
– Sono fabbro – disse Favilla – ho la fiamma ossidrica e
le leve. Vogliamo darvi una mano.
– Andate fuori dalla sede stradale però, date una mano a
quelli che cercano di liberare il camion ribaltato.
Nel campo il gigante rosso mostrava la pancia metallica,
con una ruota che ancora girava. La cabina era ridotta alla
metà, dentro si vedevano un braccio e una camicia bianca, un
gagliardetto di una squadra di calcio, un cornetto rosso.
Favilla si mise gli occhiali, sparò la fiamma ossidrica da
una parte, un pompiere fece lo stesso dall'altra. Ogni tanto si
guardavano. Poi zio Nevio, Chicco e Roda provarono ad
aprire la portiera coi piedi di porco. Alla fine cedette.
– Lasciate fare agli infermieri, adesso – disse il pompiere, esausto. Aveva poco più della mia età.
Arrivarono. Tirarono fuori un corpo, come un mollusco
dalla conchiglia. Proprio mentre lo mettevano sulla barella lo
vidi in viso. Era Fangio.
Non si era accorto di niente. Quando aveva visto l'altro
camion che gli puntava contro, istintivamente aveva sterzato,
era volato giù dal guardrail, era morto sul colpo. Al funerale
c'erano tutti i suoi amici camionisti e i vecchi colleghi della
corriera. C'era la Zaini, invecchiatissima, non mi riconobbe.
Fangio fu seppellito in una nuova ala del cimitero, più brutta
e senza ginestre. Il cimitero in pochi anni era quasi raddoppiato.
– I morti han bisogno di spazio anche loro – disse Karamazov, e mise dei garofani rossi sulla tomba.
La sera in piazza c'erano i fratelli Pastori che festeggiavano ubriachi. Fefelli era stato assolto dalle accuse, il loro
stipendio era salvo.
Licio, il maggiore, guardò il necrologio di Fangio, appeso al muro. Ci pensò un po' su e poi realizzò che era quello
che li aveva bloccati con la corriera, quando inseguivano mio
padre.
Disse a voce alta:
– Un comunista di meno…
Mio padre lo sentì. Gli saltò addosso. Balduino arrivò
con un badile e sentii un colpo secco, Licio cadde come fulminato. Arrivò anche Carburo. Io mi attaccai alle gambe di
Nerio che mi colpì in testa e con una spinta mi fece volar via.
Carburo lo centrò con un cazzotto nel mento e lo stese, mio
padre lo riempì di calci. Arrivò Baruch, correndo per quanto
poteva.
– Adesso basta – disse – siete tre e mezzo contro due.
– Ma loro sono grossi – disse Balduino, appoggiando il
badile al muro, come rimettesse la Colt nella fondina.
– Questa ce la pagate – disse Licio, con un gran taglio in
fronte – non finisce qui.
Sentii una rabbia che non avevo mai provato, una rabbia
che mordeva.
– Invece deve finire! Basta – gridai – basta, dovete sparire da questo paese, andate a fare i padroni da un'altra parte,
basta.
Mio padre mi teneva stretto per il collo, ma io continuavo a urlare.
– Non diventare come loro – mi disse.
Scoppiai in singhiozzi.
– Baruch – dissi – dimmi che finisce qui.
Baruch mi diede una pacca sulla spalla. Non rispose.
Venne l'ultimo giorno di vacanza, si tornava in città, prima liceo, professori nuovi, forse qualche compagno nuovo.
Ero sdraiato sul prato davanti a casa. Rufus era venuto a salutarmi. Vidi passare Roda e Mediga, di ritorno dalla camporella. Le Triveneto girls si erano tutte piazzate, Mediga col
supercentravanti, Cincia con Loris Arduini e Dondolo era diventata socia di Balduino al bar, però si era fidanzata con un
orchestrale. Non poteva suonare con lui e trombare con me?,
si lamentava Balduino.
I due erano bellissimi e spettinati, l'amore è un gran cosmetico.
– Mi raccomando, tra due settimane si gioca – disse il
toscano – tieniti in forma.
– E tu vacci piano – dissi io – che le terzine venete picchiano duro.
Li vidi ridere e allontanarsi abbracciati, lui il doppio di
lei. Crepai d'invidia. Mi tornò in mente Selene, il dolore tornò a mordermi lo stomaco, come ci fossimo lasciati ieri.
Camminai fino al noce. L'orobilogio partì. La vidi su una
moto, sul lungomare, abbracciata a un ragazzo dai capelli
lunghi, non era Brian. Vidi Fangio, che rideva in un ristorante per camionisti e alzava il bicchiere. Vidi il mio brutto liceo, e le bidelle che spazzavano i pavimenti e preparavano i
banchi. Rufus abbaiò a due scoiattoli che saltavano da un albero all'altro e li seguii a testa in su, finché scomparvero nel
bosco. Aspettai se arrivava qualcuno, lo gnomo o il Dio allegro o anche il Diavolo Violinista o una strega di terza cate-
goria, come la Dinamo, ma non accadde nulla. Mio padre e
Regina ascoltavano la partita alla radio. Anche le stelle sembravano attente.
Sospirando pensai, è ora di fare la valigia.
Vidi un'ombra che si avvicinava. Era Osso.
– Mi dispiace – disse a testa bassa, vidi che aveva già un
po' di doppio mento.
– Va bene, fa niente – risposi, ma sentivo che non era
vero. Qualcosa di freddo e senza perdono era venuto a abitare con me quell'estate. Potevo solo sperare che passasse in
fretta.
– Non hai portato le figurine? – dissi.
Lui nemmeno si ricordò di quel fatto, e ascoltò la radio
lontana.
– Quanto stanno?
– Vinciamo uno a zero, credo. Ho sentito Regina che
gridava gol.
– Questa – disse Osso – è una buona notizia. Ci ho
scommesso ventimila lire.
– Bravo – dissi io.
– Be', vado, ci vediamo al treno. Buonanotte. Sai, avrò
un appartamento tutto mio, quest'anno. Nel centro della città.
– Forse anch'io – dissi.
Restai ancora solo. Di nuovo l'urlo di Regina. Ma non
capivo se era di gioia o di delusione.
– Cosa succede? – gridai.
– Due a zero per noi – rispose papà – in culo ai milanesi.
– Due a zero – sussurrai al buio – hai capito Selene, sei
contenta? Andiamo a dormire?
6.
Uno dei primi giorni di scuola, presi il treno e mi addormentai. Sognai un soldato che caricava un fucile e il capitano
Guzano Rodriguez che diceva, non sparare alla testa, deve
sembrare morto in combattimento. Arrivai alla stazione e
vidi il titolo sul giornale: era morto Che Guevara.
Avevo in tasca un libro che parlava di lui. Non so perché, lo buttai irosamente in un cestino della spazzatura. Volevo un uomo vivo da ammirare, non un eroe di carta da
compiangere. Non potevo sapere quanto sarebbe stato celebrato, anche da quelli che lo avevano tradito. Il giorno dopo
tornai, infilai la mano nel cestino, il libro era ancora lì. Lo ripresi, e andai a scuola.
Il Giosuè Pascoli era sempre lo stesso, era solo cambiata
la gamma dei motorini, e la nuova classe aveva una finestra
che dava sui tetti, studiavamo sorvegliati da piccioni malaticci. I compagni erano quasi tutti nuovi. Dei miei amici erano
restati la coppia perfetta Schiassi-Verdolin, Lussu e Carpaccio in versione Taras Bul'ba, capelli lunghi e baffoni. A sorpresa si era aggiunto Baco, triste per la separazione dalla
professoressa Tania ma gasatissimo per gli ultimi sviluppi
della cibernetica californiana. Dei miei nemici, purtroppo,
Monachesi e Liuba erano sempre lì, a trascinare la loro vita
di aspidi. Gentilini era stato bocciato e assunto per premio
nell'azienda paterna. Non c'era più neanche Brian, si diceva
che fosse tornato a vivere a Londra. Questo mi risolveva un
sacco di problemi. Dei nuovi individuammo subito gli eredi
di Gentilini. Erano tre ragazzotti cachemirati e brufolosi, tutti
muniti di Corsarino 50, la moto del momento. Si chiamavano
Checco, Fede e Bobo, veri nomi da Corsari. Poi c'era la Desoli, detta Duse. Si presentò dicendo che lei studiava lì ma
contemporaneamente faceva anche scuola di teatro. Vestiva
di nero e non aveva un solo gesto naturale, roteava le mani e
strabuzzava gli occhi come fosse in scena, uno starnuto per
lei era il Macbeth, oh dio avrò ancora il naso? Ogni giorno
sparava bugie del tipo: ieri Vittorio era a casa nostra. Vittorio era Gassman. Una volta mi chiese come venivo ogni mattina dal paese e io risposi, vengo in bicicletta con Fausto.
Sull'istante non capì, poi gliela spiegarono e da allora mi
odiò. Tra i simpatici individuammo subito Fred e Tremolina.
Fred il pazzo aveva i capelli corti e i baffi alla tartara, ed era
un motardo scatenato. Avendo il privilegio di due bocciature
e diciotto anni di età, possedeva un Settebello Morini truccato pistolato dopato smarmittato che raggiungeva la velocità
di centoquarantasette chilometri orari. Quando arrivava, lo si
sentiva un minuto prima. Si definiva anarchico-motorista, ed
era il più gran piegaiolo da curva e raccontatore di barzellette
della filibusta. Tremolina era piccola graziosa e nervosissima, parlava sempre in fretta tipo tidevodirunacosimportantnonteneandà, e quando si agitava, non portando giammai
reggiseno, le tremavano le tette, che aveva di buona stazza.
Devo dire che la prima volta che le parlai mi colpirono più
dei suoi contenuti verbali. Poi scoprii che era una lettrice folle, che aveva letto tutto, da de Sade ai simbolisti, e da grande
voleva scrivere, anzi aveva già scritto un libro che si chiamava Diario di un segreto, che appunto essendo diario e segreto
non aveva mai fatto leggere a nessuno se non a una cinquantina di amici fidati, sevuoitelofaccioleggerancheatté.
Dei professori ricorderò il Sadico, il nano calvo di italiano, che diceva: non comincio finché sento tossire, e d'inverno faceva lezioni di dieci minuti, perché un po' eravamo
bronchitici davvero, un po' ci davamo il cambio a scatarrare.
Poi il Neuros, di greco, che passava dall'apatia totale a improvvisi balzi sulla cattedra mimando il duello tra Achille e
Ettore. Infine la Salma, la vecchiona di filosofia, che diceva
una parola ogni dieci secondi e ogni tanto diceva, scusate, e
usciva perché era debole di prostata. Le mancavano due anni
alla pensione e voleva resistere. Era la mia preferita.
Nella classe contigua erano finiti Tamara e Riccardo l'ideologo, quindi la scuola aveva già i suoi leader politici. In
quanto a me, il mio scrittore preferito non era più Allan Poe
ma Aaa Affittasi, leggevo annunci per ore, poi giravo tutta la
città a piedi cercando una stanza. Per la verità una volta mi
ero fatto dare un passaggio in moto da Fred, ma al primo sorpasso avevo avuto la sensazione di lasciare una fetta di coscia su una portiera, e mi ero ripedonalizzato.
Affrontavo anche cinque Aaa al giorno, ma erano tutti
troppo cari. La città cominciava a capire che gli studenti fuori sede erano un ottimo investimento. Mi arrangiavo col la-
voro, qualche sera lavavo piatti nella pizzeria di Lussu, qualche notte scaricavo casse al mercato ortofrutticolo e dormivo
su una branda, nell'odore di cavoli e limoni, insieme a senegalesi, greci e creoli vari. Per me fu un antidoto contro il razzismo, almeno finché non mi fregarono le scarpe e un maglione e li mandai tutti a 'fanculo loro e i rispettivi paesi. La
sera dopo le scarpe tornarono, con dentro un biglietto «il maglione me lo tengo, fa troppo freddo».
Tutto questo spiegava, anche se non mi giustificava di
fronte al proletariato mondiale, perché non riuscivo a frequentare le riunioni politiche del garage. Ma un giorno ci fu
la prima assemblea nella scuola, durante l'orario di lezione, e
non potei mancare.
Nell'aula magna eravamo in un centinaio, mentre nelle
altre aule le lezioni proseguivano. Seduti alla cattedra c'erano
già Riccardo, Tamara e Carpaccio, promosso Visnù nella trimurti.
All'ordine del giorno: in primo luogo come e quando attuare la prima occupazione del liceo, poi come procedere alla
critica dei programmi didattici e avviare una gestione comune o un'autogestione delle lezioni, oltre a una protesta contro
l'autoritarismo del corpo insegnante e soprattutto contro l'atteggiamento dittatoriale di tre professori, il Sadico e due della sezione F, e per finire termosifoni più caldi.
Il primo intervento fu di Riccardo che disse, come al solito, che due licei cittadini avevano già occupato e molti altri
in Italia, per non dire della Francia, di Berkeley e del Sudamerica. Mancavano notizie sugli asili australiani.
Tamara disse, per adesso siamo pochi, bisogna convincere gli altri che quello che facciamo non è contro di loro,
che sarà utile a tutti. Abbiamo iniziato, qui e fuori, una grande discussione di libertà che un giorno servirà anche a chi
non è d'accordo.
Carpaccio parlò per otto minuti, tempo massimo concesso, dei rapporti tra Lenin e Marx e finì dicendo, non dobbiamo commettere lo stesso errore, ma nessuno capì quale.
Si alzò un ragazzo alto con degli occhiali stereoscopici e
una massa di capelli crespi in testa tre volte Jimi Hendrix, un
vero nido per poiane. Il suo nome era Giandomenico Maria,
ma guai a chiamarlo così, il suo nome di battaglia era Giap,
come il generale vietnamita.
Giap disse che il discorso di Riccardo era di destra perché le cose non si fanno per imitare gli altri ma sempre per
essere avanguardia, che il discorso di Tamara era di destra
perché non si contrapponeva decisamente ai crumiri solidali
al modello didattico-capitalista, e che il discorso di Carpaccio era di destra perché evocare i leader storici è un trucco
per togliere alla base la facoltà di discutere.
Riccardo replicò brevemente citando un autore di cui
nessuno capì il nome.
Tremolina disse cheleieralìperaverdeicontattinonsolopoliticimanchepersonali e avrebbevolutodiscuternonsolodelloccupazionemaanchediciocaccadefuori, poi si calmò e rallentò
e propose un gruppo di discussione sui rapporti interpersonali e un seminario autogestito su de Sade.
Un ragazzo col poncho disse che anche lui era lì per
avere calore umano e tutto gli sembrava troppo rigidamente
politico e partitico e proponeva di andare a mangiare la pizza
tutti insieme, magari scaglionati.
Un biondo con l'orecchino disse che comunque dovevamo partire da Frank Zappa.
Una ragazza un po' strabica disse che lei doveva dire
quello che sentiva e cioè che c'erano dei pregiudizi contro le
donne in quell'assemblea, perché quando parlava una donna
tutti parlottavano mentre quando parlava un uomo stavano
zitti e il risultato fu che tutti parlottarono commentando il
suo discorso e lei si incazzò.
Giap disse che l'intervento di Tremolina era di destra
perché prima di de Sade bisogna studiare Mao, che se il ragazzo voleva calore personale si comprasse una stufa perché
le rivoluzioni si fanno al freddo, che Frank Zappa come testi
era di sinistra ma come musicista era di destra e che la ragazza strabica era di destrissima perché aveva imposto un pregiudizio sessista a sbarramento dei veri argomenti politici.
Lussu disse, decidiamo chi si occupa dei seminari, e
mettiamo giù delle richieste scritte per i professori, e inoltre
parliamo anche dei libri di testo che costano troppo.
Un ragazzo disse, sono d'accordo col compagno siciliano, e Lussu disse: sardo, porcamadonna.
Una bruna abbastanza vistosa disse che lei come donna
stava cercando di superare la lamentela sui pregiudizi, però
effettivamente per una donna è più difficile parlare in pubblico e parlò otto minuti e poi altri otto.
Baco disse ciò che temevo, e cioè che nei programmi
mancava la cibernetica e non ci sarà rivoluzione senza cibernetica.
Verdolin propose di dipingere sul muro della scuola un
murales.
La Schiassi disse, però i colori costeranno un sacco di
soldi.
Giap chiese se eravamo un gruppo politico o il servizio
affissioni.
Tamara disse che Giap le sembrava distruttivo e non costruttivo.
Giap disse che quello era un tipico argomento delle destre.
Fred disse che non aveva capito quasi un cazzo di quello
che aveva sentito fino ad allora, ma che le moto vanno se c'è
la benzina, e la benzina secondo lui era fare politica sì ma
anche divertirsi a farla.
Io dissi che ero d'accordo con Fred, che ero nato in un
paese e lì la politica non la discuti soltanto, ti cade addosso
ogni giorno, tutto quello che ci circonda è politico. Noi facevamo bene a pianificare il futuro ma dovevamo essere pronti
alle sorprese, non dovevamo cercare rassicurazioni, linee e
partiti, dovevamo soltanto capire quando era utile discutere e
quando invece cominciava la necessità di fare qualcosa, io
proponevo dei seminari autogestiti per parlare dei libri che
non si studiano mai in classe, un ciclostile interno con notizie politiche ma anche varie, e per finire una commissione
che discutesse dei prezzi esorbitanti delle case per i fuori
sede.
Giap disse che parlavo bene ma che mi aveva visto leggere Ezra Pound al gabinetto e quindi tutto quello che avevo
detto era di destra.
Lussu disse che l'intervento di Giap era di destra senza
specificare perché, ma l'effetto fu devastante.
Il biondo chiese se qualcuno aveva una cartina.
Un ragazzo con la sciarpa chiese cosa ne pensavano i
compagni del tifo sportivo e dell'andare allo stadio, perché a
lui piaceva.
Tamara disse, le due ore son scadute, ritroviamoci tutti
al garage venerdì e intanto sono d'accordo subito per il ciclostile, facciamo una colletta ed eleggiamo una redazione di tre
per scriverlo.
Giap disse, tre è verticismo di destra, almeno cinque.
Riccardo disse, io ci sono ma non voglio fare il direttore, così si era già eletto.
Scoppiò un casino, si tentò una votazione, poi vennero
fuori misteriosamente i seguenti nomi.
Tamara direttrice, Riccardo, Giorgia la ragazza strabica,
Baco, Giap.
Tre uomini e solo due donne, disse la brunona.
Tanto Baco è frocio, gridò una voce anonima dal fondo.
Queste sono robacce da asilo, disse Tamara, ma intanto
tutti ridevano e Baco smentiva con una serie di gesti a pistone.
Stavamo per uscire quando Lussu gridò:
– Ma allora, abbiamo deciso se occupiamo o no la scuola?
Cazzo, ce l'eravamo dimenticato. Ma non c'era più tempo. Così in trenta secondi si decise che intanto avremmo partecipato all'occupazione di un altro liceo, lo scientifico Guglielmo Volta.
Uscendo la bruna vistosa, che si rivelò stivalata, disse
che il mio intervento le era piaciuto molto, che lei si chiamava Marella, era umbra e io di dov'ero? Di un paese vicino, risposi, ma sto cercando casa in città. Anch'io, disse lei. Ci
demmo appuntamento a sabato, per cercare insieme un appartamento, una stanza, un letto. Poi eventualmente, una volta trovatolo…
Avevo proprio bisogno di una storia. Non sapevo nulla
di Selene, una volta mi sembrava di averla vista per strada, le
ero corso dietro, si era voltata, era una bionda standard con
un sorriso equino, non era lei. Tutte le volte che mi veniva in
mente, avevo l'impressione di rompere l'orobilogio con una
martellata, fermati gli dicevo, non partire col tuo cinemascope di visioni, non farmi soffrire. Facevo una vita abbastanza
grama, studiavo, lavavo piatti alla pizzeria, scaricavo cavoli,
mi spostavo da un punto all'altro sempre di corsa, per tener-
mi in forma calcistica. Quando mi veniva troppo in mente
Selene, avevo scoperto una bancarella che vendeva Playboy
usati, e mi massacravo di pippe. Tornavo a casa sempre
meno, mi arrangiavo a dormire su un divano da Verdolin, o
all'Hotel Melanzana, cioè su una panca al mercato ortofrutticolo, o in qualche scuola occupata. Se il clima politico si
scaldava per me era un doppio piacere, lotta dura e sacco a
pelo morbido.
La domenica, giocavo con la Dinamo. La squadra si dimostrò migliore del previsto. Vincemmo la prima partita due
a zero, poi andammo a giocare sul campo del Montovolo, un
paese in cima all'Himalaya, ottantasei tornanti di fila, chiusi
in dodici dentro un furgone da pasticciere, vomitammo l'anima, ma Philippe Tiramolla parò anche i passeri in volo, e
benché privi di forze pareggiammo due a due. Battemmo
cinque a uno la Libertas Riovado, che aveva giocato in nove
perché anche loro non erano molto attrezzati da trasferta,
viaggiavano su un camioncino scoperto, pioveva e due arrivarono inchiodati dal freddo. Poi, su un campo di fango dove
ogni caduta diventava una gita in slitta, battemmo i diavoli
gialli della Castellanese. Insomma eravamo secondi a un
punto dalla prima, la Libertas San Rocco, squadra assai ricca
e religiosa di proprietà di un noto capitalista del ramo barbabietole.
Zio Nevio ci aveva promesso qualche soldino, ma fu
coinvolto in un investimento sbagliato, l'acquisto di trecento
anatre finte da richiamo che appena le anatre vere le vedevano, si alzavano di quota nella ionosfera e sparivano. E' sbagliato il colore, disse Anselmo, il cacciatore anatrologo più
esperto della valle. Fatto sta che lo zio disse, per adesso
niente paghetta, ma prometto che vi darò qualcosa a metà
campionato.
Perciò ero al verde e dovevo contare i soldi in tasca. Il
sabato avevo l'appuntamento con Marella, pensai che con
duemila lire avrei retto le spese, quando Verdolin mi disse
che forse c'era un lavoretto per me. Nella città si faceva l'edizione provinciale del giornale del capoluogo, la Gazzetta
delle Valli. Erano due pagine di cui la metà necrologi. Venivano confezionate in loco e spedite via treno con busta fuorisacco ultrarapida alla redazione centrale, dove linotype e redattori le tramutavano in mass media. Non era certo un giornale di sinistra ma era l'unico. Verdolin era riuscito a vendergli qualche disegno e qualche vignetta. Cercavano qualcuno
che sapesse scrivere bene, per fargli fare un po' di sano apprendistato.
Bidonai Marella e mi presentai. La redazione era dentro
un palazzo antico, con giardino e fontana con carassi annessi, ma era abbastanza misera. Un grande stanzone fumoso,
quasi interamente occupato da tavoli su cui si accatastavano
macchine da scrivere, pile di carte e fotografie. In uno stanzino, mitragliava il trasmettitore di notizie Ansa. In fondo c'era
l'ufficio del capopagina Bedisco, ex consigliere comunale
che aveva rinunciato (diceva) a Montecitorio per battersi sul-
la trincea della verità. Non l'avevano neanche assunto, aveva
un contratto capestro di collaborazione, ma sembrava di parlare con Hemingway. Mi disse che in quella redazione, provinciale ma fondamentale nell'economia della Gazzetta, erano cresciuti numerosi talenti come Farigari, ora vaticanista,
Billi, che scriveva di pallacanestro serie A, e Baccarini, attuale direttore di Piante e Fiori. L'azienda non avrebbe potuto
pagarmi molto, ma le cose che avrei imparato sarebbero state
tante, e poco alla volta avrei apprezzato il fascino innegabile
del mestiere. Inizialmente, avrei avuto due mansioni adeguate ai miei studi classici. La domenica notte avrei compilato le
classifiche di tutti i campionati di calcio provinciali, raccogliendo i risultati dai corrispondenti, dall'Ansa o con telefonata diretta. Il mercoledì avrei potuto rendermi utile portando il fuorisacco con le pagine in stazione e avrei fatto tirocinio sulle notizie.
Mi presentò ai redattori.
Scandoli, cronista sportivo, tre pacchetti di nazipuzzole
al giorno, severo fustigatore della squadra cittadina e spesso
oggetto di minacce incrociate da parte della società e della tifoseria.
– E' un mestiere bello ma pericoloso – disse.
Tirinnanzi, cronista di nera, ospedali e questura, esperto
di sfighe in genere, dal delitto alla sbandata in motorino.
Aveva avuto il suo momento di gloria alcuni anni prima col
caso del cadavere senza testa, di cui mi mostrò subito una
foto, insieme a quella di un evirato e di due impiccati.
– E' un mestiere bello ma ci vuole stomaco – mi disse.
Giason, detto il Gagà. Capelli tinti con diversi strati di
catrame nero con sfumature focate color dobermann, e papillon che sembravano sfrappole. Era stato insegnante e anche
preside, e adesso era cronista politico ossia consigli comunali, polemiche, elezioni, a volte anche corsivista pungente con
lo pseudonimo di Yanez. Aveva già visto morire sette sindaci.
– E' un mestiere di merda, perché non vai a scopare invece di perder tempo qua dentro? – mi disse cortesemente.
Per ultimo Nino lo svelto, notista di costume, esperto in
sagre della salciccia e elezioni di miss locali, nonché fotografo sportivo, mondano e da incidente stradale.
– E' un mestiere bello ma faticoso – disse.
E mi guardò come a dire, tanto non ce la fai.
C'erano poi una serie di collaboratori che andavano dall'esimio professor Lavareti Finzi, che portava ogni settimana
cinquanta cartelle sui mosaici della chiesa di Santa Marta al
Colle, e poi telefonava ogni giorno chiedendo perché non lo
pubblicavano. La signora Virginia, amante di un boss politico, che aveva diritto a una rubrica di astrologia, moda e
mondanità cittadina. E così via fino a una torma di aspiranti
scrittori che portavano cinque righe su una partita, o ai funzionarietti di partito recanti veline CPP, con preghiera di
pubblicazione.
La domenica mi battevo con la maglia della gloriosa Dinamo, poi zio Nevio mi accompagnava in macchina al mio
posto di demiurgo delle classifiche. Era un lavoro di concetto
e responsabilità. Bastava sbagliare di un punto o di un gol e
da Roccacannella il lunedì mattina telefonavano, bastardi
correggete subito. Protestavano meno se gli davi un punto in
più. Se il risultato della partita a tarda notte non era arrivato,
dovevo telefonare io, avevo tutti i numeri di riferimento per
ogni squadra, ad esempio la casa del presidente o dell'allenatore, ma soprattutto il bar del paese. A volte rispondevano
gentilmente, a volte, specie se avevano perso, ti mandavano
affanculo, a volte una voce imbarazzata di donna diceva
mah, credo che abbiamo vinto uno a zero, o perso sei a uno,
richiami quando c'è mio marito. Se avevo dei dubbi dovevo
controllare. Se no dovevo mettere «risultato non pervenuto».
Ma un risultato non pervenuto, ammonì severamente Scandoli, è una resa per l'informazione.
Mi davano poche lire, ma quel mondo fumoso e nevrotico mi piaceva, mi eran passati certi sogni da giornalista americano che da solo sconfigge i boss della città, e imparavo un
sacco di cose curiose e nascoste. Che nel girone D la Maturanese era a punteggio pieno con sedici punti in otto partite e ci
giocava un certo Brandoli che aveva segnato già dieci gol,
due più di Roda. Che a Vigneto viveva una bimba di nove
anni promessa italiana del pattinaggio a rotelle. Che una pericolosa buca all'angolo di via Oberdan aveva già scavezzato
tre ciclisti e diversi pedoni, e il comune cosa faceva? Che si
era svolta con pieno successo la sessantesima sagra del fagiolo con l'elezione di miss Cannellina, segue foto. Che il
sindaco di Pontello era dimissionario per uno scandalo di
dieci damigiane di vino ordinate per la festa del patrono e
sparite nella sua cantina. Una volta vidi anche una foto di Fefelli con relativa intervista: parlava della sua candidatura a
onorevole e del suo regno di sindaco durante il quale il paese
si era modernizzato ed era passato da duemila a tremila abitanti, della frana ormai sotto controllo e della fontana che sarebbe stata pronta in pochi mesi. Il pezzo iniziava: «La tanto
desiderata fontana forse sta per arrivare». La firma era di tale
Nestori. Non esisteva nessun Nestori al paese e quindi avevamo un giornalista infiltrato. Con stupore imparai che si
trattava di Testuggine. Ero stato educato da una spia.
Con un gran colpo tonante di culo, trovai casa. Lessi in
un annuncio: Aaa affittasi via Tognoli 28 camera a studente.
Mi presentai subito in un quartiere vicino al fiume, un villaggetto di case basse e stradine strettissime. Mi piacque subito.
Il ventotto era una casa bianca, con un giardinetto e sette meravigliosi nani di gesso. Nell'aria c'era un soave profumo di
pane e vaniglia. Suonai il campanello con scritto Bacci e mi
aprì una signora alta, con un bel viso aperto e i capelli da zebra, mezzi bianchi e mezzi neri. Era la signora Elide.
Parlammo, la cifra era accessibile. Mi disse: lei sembra
un bravo ragazzo ma soprattutto è di paese, e anche noi veniamo dal paese, viviamo qui da dieci anni e mio marito faceva il falegname come suo padre. Abbiamo un laboratorio
di pasticceria dietro la casa, sente che profumino? La stanza
dà sul fiume, c'è anche un bagnetto piccolo ma tutto suo, la
doccia non c'è, ma la può fare nel nostro bagno, avvisandoci
si intende (risatina). Unica cosa, la prego, niente ragazze in
camera. Siamo tre donne, i vicini parlano, la città è peggio
del paese, già adesso chissà cosa diranno, vedendo un bel ragazzo come lei che entra e esce.
Bel ragazzo? Tre donne?, pensai io. E dove sono?
La porta si aprì rispondendomi, entrarono le figlie Bacci. Una era alta, profilo greco e gambe lunghissime. Si chiamava Berta e salutò compostamente. L'altra era piccola, rotondetta e bionda, sembrava una bambola e fu cordialissima,
mancò poco che scodinzolasse. Si chiamava Vanina.
– Ecco le mie due gioie – disse Elide – noterà che sono
assai diverse. Berta è figlia del mio primo marito, il falegname, Vanina di un'altra mia relazione recentemente sciolta.
– Un gran stronzo – disse Vanina.
– Non parlare così di tuo padre. Il signor Saltatempo ha
preso in affitto la stanza. E' un gran bravo ragazzo, studia e
lavora. Fate di tutto per farlo sentire a suo agio.
Le tre mi guardarono sorridenti. Non so perché ma sentii un rumore strano, un misto di fusa e digrignar di denti.
Uscii dalla casa e immaginai tre titoli. La Gazzetta delle
Valli Giovane orrendamente ucciso e panificato
E' stato risolto il mistero del giovane studente scomparso dieci giorni fa. I carabinieri sono stati guidati dalla segnalazione di una signora che ha riconosciuto il giovane nella
foto del nostro giornale, ricordando di averlo visto entrare al
numero 28 di via Tognoli. Qua i carabinieri hanno fatto l'orribile scoperta. Nel laboratorio di pasticceria dietro la casa
c'erano arti umani infarinati, e pezzi tritati di carne nella pasta della crescente, venduta per crescente con salciccia. Oggetti personali appartenenti a tre studenti, di cui uno greco,
sono stati trovati in un armadio. Le pasticciere diaboliche…
La gazzetta delle Valli Un Ufo atterra in un giardino e
rapisce tre donne
Non è vero, sostiene uno studente che era in affitto presso di loro, erano tre nevoriane e sono tornate al loro pianeta
di origine. A me mi hanno sempre trattato bene, tolto la bava
sui vestiti…
La Gazzetta delle Valli
Scoperto un bordello
gestito da un ragazzo
di diciassette anni.
Poi l'erezione immaginativa si placò. Si era fatto tardi e
avevo perso l'ultimo treno. Dove potevo dormire? In stazione
era freddo, Verdolin non aveva telefono, l'Hotel Melanzana
era lontano. Allora ricordai che il liceo Guglielmo Volta era
occupato. Ci andai subito, sul muro c'era un bel murales, riconobbi la mano di Verdolin. Una scritta diceva, Berkeley è
qui. E sotto, e anche Sassari. Uno scambio di idee politiche
tra Riccardo e Lussu.
Bussai. Carpaccio versione sentinella mi fece entrare.
– Saltatempo, bravo, abbiamo bisogno di rinforzi, stanotte temiamo un'incursione fascista.
– Siete sicuri?
– Non si sa mai – disse con aria congiurativa.
C'era una trentina di persone, alcune le conoscevo. C'era
Baco, che ciberistruiva il ragazzo marxista-frankzappista.
Giap sbronzo duro e Marella, la bruna a cui avevo fatto il bidone. Mi sorrise. Lo vedi, pensai, che a fare i preziosi ci si
guadagna?
– Ho trovato casa – comunicai – sono molto contento,
ma posso entrare solo lunedì.
– Allora festeggiamo – disse Carpaccio – suonerò per
voi un brano di Crosby Stills Nash and Young.
– Non avevi detto che si festeggiava? – disse Baco.
Carpaccio da solo massacrò tutti e quattro i musicisti
americani, in una vera vendetta vietcong.
Partì una discussione su chi doveva lavare i piatti. Baco
mi venne vicino, sembrava agitato.
– Saltatempo, devo parlarti subito, una cosa personale.
– Non adesso, ti prego, casco dal sonno.
– Va bene, non stasera, ma ricordati, devo assolutamente parlarne con qualcuno.
Ciondolai un po' e poi dichiarai:
– Scusate se faccio il frazionista, ma io vado a dormire.
– Hai un sacco a pelo? – disse la bruna.
– No.
– Ne ho uno io.
La seguii su per i vasti scaloni, quel liceo era anche più
vecchio e triste del nostro, con busti di professori emeriti incastonati nelle pareti, e un Guglielmo Marconi ossigenato in
biondo da Verdolin. Marella mi portò in una stanza che doveva essere una segreteria, c'erano fotocopiatrici e scrivanie,
e sulla moquette sporca, resti di panini e due paia di mutande
in bella vista.
– E' una delle stanze più calde – disse lei – ecco il sacco
a pelo.
– Grazie – dissi io, mi ci infilai dentro e tirai la zip.
– Scusa – rise Marella – e io dove dormo?
– Ah – feci io, e capii che non avevo capito.
Lei spense la luce, si spogliò e nella penombra vidi un
fisico atletico e assai intrigante. Marella entrò nel sacco a
pelo, ma dalla parte della testa.
– Guarda che al buio ti stai sbagliando – dissi io – la testa non va lì, lì ci vanno i piedi.
– Guarda che sei tu che ti stai sbagliando – disse lei languidamente. Scivolò dentro e stavolta capii che quella non
era una posizione per dormire, o almeno non subito.
Pensai a Selene solo i primi sei secondi. Sei un porco
senza remore e senza rimorsi, pensai. Finalmente.
7.
Iniziò per me un grande periodo dionisiaco. Marella mi
insegnò che ogni parte del corpo, ben usata, può suscitare delizie e vibrazioni. Mi infastidiva un po' che in quel sacco a
pelo si infilasse ogni tanto qualcun altro, come lei sinceramente ammetteva, e una volta le dissi: e se gli dessimo una
lavata? Mi guardò male.
Poi ne capitarono delle belle. Mi ero subito ambientato
nella stanza in affitto, avevo finalmente un posto mio e le
Bacci erano molto ospitali. Mi invitavano spesso a cena ed
erano sbafate di tortellini, torte salate e cannoli, io ingrassai
subito due o tre chili, se erano streghe cannibali pazienza.
Eravamo una bella famigliola, noi quattro e il gatto Teofilo,
un gigante rosso tirato su a sardelle e prosciutto cotto. Ma
come in ogni famigliola per bene, il per male era in agguato.
Le tre pasticciere lavoravano la notte a turno, due sgobbavano e la terza riposava. Una notte che stavo per addormentarmi, la porta si aprì ed entrò Berta.
– Zitto – disse, cominciando a spogliarsi.
E chi dice niente, pensai.
Berta era, nonostante l'aspetto severo, una vera diavolessa da materasso. Spalancava le lunghe gambe che sembrava riempisse tutta la stanza, e poi cominciava a parlare da
sola a bassa voce. Poco alla volta scoprii che non erano parolacce ma una sorta di maialate poetiche del tipo, dammi il
tuo pirimpipino che mi trifola la pirimpipina, o corri corri bel
cavallino che la tua puledrina è calda calda. Però dopo un po'
di questo pirimpinaggio mi venne da ridere e pensai, se le
piace il sottofondo, parlo anch'io e dissi, sei una gran porcona e adesso ti infilo dentro il grissinone.
Non so se fu la porcona o il grissinone, ma partì come
una locomotiva, con delle urla che le dovetti tappare la bocca, e da quella notte anche il suo lessico peggiorò, e diceva
delle robe che de Sade in confronto era un chierichetto, insomma si trombava e si ripassava il vocabolario.
La settimana dopo, mentre Berta era di turno alle crostate, si apre la porta e entra Vanina, già mezza nuda. Si infila
sotto le coperte, mi si sistema sopra, inserisce l'apposito attrezzo e inizia a muoversi. La cosa strana è che mi guarda e
sta zitta. Dondola dondola e non dice nulla, sorride un po' e
io le chiedo, ma ti piace o no, e lei zitta dondola dondola e io
sempre lì a fare da paletto. E proprio quando sto per chiederle: ma sei vera o sei finta bambolina, all'improvviso lancia
un urlo da coyote e viene in tre secondi, mordendomi a sangue un orecchio.
– Scusami dice – lo so che son strana: il mio ex fidanzato diceva che vado in trance.
Trance o non trance, una volta capito il meccanismo si
può star tranquilli. Devo solo riuscire a prevedere più o
meno quando arriveranno l'urlo del coyote e il morso otocida, e imparo che si può calcolare, perché circa un minuto prima dell'esplosione lei comincia a sudare, quando si imperla il
labbro vuol dire che il coyote si avvicina, mi copro le orecchie e posso godere anch'io.
Con tre donne, pensavo, potevo sentirmi il più appagato
dei conquistatori e in fondo, mi mancava davvero Selene?
Mi mancava davvero e moltissimo.
Ma questo era un altro discorso, e inoltre le sorprese
non erano finite.
Io e Fred eravamo diventati amici. Era un vero allegrone
e a parte la sua mania di infilarsi ai cento tra due autobus, era
un ragazzo intelligente.
– Lo so che in moto impazzisco – diceva – ma nella vita
si devono fare almeno due o tre cose a manetta, senza pensarci troppo. Alla nostra età bisogna andare in fondo al contachilometri, far schizzare la lancetta in cielo. Poi ci sarà
tempo per andar piano.
Mi raccontò che aveva una madre paralizzata, e la accudiva da anni. Poco alla volta mi raccontò la sua vita, i due
anni che non era riuscito a studiare, la faticosa conquista della sua allegria. L'unica cosa che mi sfuggiva era perché non
lo vedevo mai con una donna, e sì che gli andavano dietro a
grappoli.
Una mattina bigiammo la scuola, c'era il sole e decidemmo di andare in moto sui colli. In tre minuti e sei secondi
eravamo su un prato. Ci sdraiammo e consumammo le brioches della ditta Bacci mamma&figlie, ormai ero un pappone
sfruttatore.
– Sai, Fred – dissi – ti farò una confessione. Non avevo
mai avuto molte ragazze. Anzi, una sola, che forse amo ancora. Be', questo mese ne ho messe insieme tre. Tu quante
ragazze hai avuto?
– Ragazze, due – rispose.
– Be', credevo di più – dissi.
– Ma ragazzi, parecchi.
Ingoiai un bolo da un chilo. Restai immobile, col culo
attaccato al prato, i pregiudizi mi assalivano come vespe.
Certo che ero per la liberazione sessuale. Ma una cosa è un
intervento in assemblea o leggere Wilde, un'altra avere un
amico busone a un passo, un amico alla cui schiena ero abbarbicato fino a un attimo prima. Sentii che dovevo dire
qualcosa.
– Ragazzi… nel senso di ragazzi uomini?
Non era una frase decisiva ai fini della liberazione sessuale mondiale.
– Certo – disse Fred, ridendo – non l'avevi capito?
– Veramente no.
– Be', in effetti mi piacerebbe dirlo a tutti, ma non è facile. Forse adesso sta cominciando a cambiar qualcosa, posso
vivere meno nascosto. Ma da qui a essere sereno, la strada è
lunga. Allora magari divago, dico battute, faccio il furbo.
Non prendertela se sei in imbarazzo, capita.
Era lui che tranquillizzava me.
– Scusami Fred. Io sono nato in un paese. Anche mio
padre e mio zio dicevano quel busone del farmacista. Poi
poco alla volta gli son diventati amici. Le cose bisogna conoscerle. Adesso lo chiamano per nome, dicono quel busone di
Nicola.
– Certo, bisogna conoscere le cose – disse Fred – io ad
esempio conosco un locale che si chiama la Gang, siamo tutti motociclisti e parecchi siamo gay, o busoni come preferisci. Vengono anche camionisti, e qualche curiosotto donnosessuale come te. Vuoi che ti ci porti?
– Non sono ancora pronto – ammisi sinceramente.
Parlammo a lungo. Mi raccontò di come lo aveva scoperto, di come per una settimana era rimasto a letto, quasi si
sentisse malato. E di come era felice adesso.
– E hai un grande amore? – chiesi.
– Sì, ma ci siamo lasciati – disse – non lo vedo da mesi.
Ebbi una visione. Selene su una moto, insieme a un macho gay a petto nudo.
– E com'è?
– Bello, biondo, mezzo norvegese, vanitoso, un po' cattivo e molto dolce quando vuole.
– La mia è bella, bionda, mezza paesana, un po' viziata e
molto dolce quando vuole.
Ci fu un attimo di silenzio.
– Siamo tutti e due soli – dissi con un sospiro.
– Sì, ma non sei il mio tipo – disse Fred – a me piacciono alti e robusti.
Ci rimasi quasi male.
Al giornale imparavo grandi cose. Ad esempio che un
vecchio di settant'anni in motocicletta si chiama comunque
centauro. Che se in consiglio comunale si sono presi a cazzotti in faccia si deve scrivere «seduta accesa ieri in consiglio». Che se un disgraziato viene accusato si scrive «pesanti
accuse a carico» e non lo si intervista, se è uno potente si
scrive «avviata un'indagine» e si intervista l'indagato perché
possa subito difendersi. In quel periodo Fefelli aveva tre processi, ma sgusciava da uno all'altro, rinviava, diceva che c'era una congiura di magistrati, non sapeva che un giorno questa sua linea avrebbe fatto scuola. Imparai che era lui il vero
proprietario della società Residence Roselle, insieme a un
certo Arcari, finanziere rampante. Ed erano anche soci della
ditta che aveva scavato e disboscato la montagna. Chissà se
questo era scritto anche nel quaderno di papà. Ma come diceva Bedisco, non si condanna senza prove, in vent'anni di
giornalismo non ho mai preso una querela.
Per forza, sibilò Giason, si caga sotto dalla mattina alla
sera. Giason mi aveva preso a benvolere, forse lo incuriosivo. Non capiva cosa c'entrasse la mia passione per Poe con la
militanza calcistica nella Dinamo. Un giorno mi fece uno
scherzo, mi mise tra i marcatori del girone con settantanove
gol, se non me ne accorgevo era un disastro. Poi mi insegnò
a fare le notizie stoppaglio, ovverossia tappabuchi. Molto
spesso c'erano giorni in cui in città non accadeva nulla e la
pagina era mezza vuota. Allora si rimediava mettendo dentro
la pappardella del professor Lavareti Finzi sui mosaici di
Santa Marta al Colle, oppure allargando da due a quattro colonne la foto del nuovo vicequestore. Ma a volte servivano
notizie piccole, per chiudere gli spazi a fondo colonna e allora, finite le cadute di bicicletta e le martellate sulle dita, si
confezionavano le notizie stoppaglio. Esempio:
Il signor Camola Remo, nella sua casa di via Erliobnz
(nome incomprensibile), stava spostando un armadio quando
dal mobile è caduto un quadro che lo ha colpito alla testa.
Medicato in ospedale, è stato dimesso.
Questa rapida dimissione era necessaria per impedire
che qualcuno controllasse se Camola era effettivamente ricoverato in qualche reparto.
Oppure: calabrone punge ciclista, per fortuna senza gravi conseguenze eccetera.
Io inventai la seguente notizia:
Paurosa avventura a lieto fine per il piccolo Arturo Bonciarini, di anni otto. Mentre scendeva sdraiato su un carriolino dai tornanti di via Larga, si trovava di fronte le ruote di un
grosso camion proveniente in senso inverso. Per fortuna il
piccolo passava sotto il camion, restando completamente illeso. Per i genitori solo una grande paura, e il sollievo dello
scampato pericolo.
– Non maledisse Giason.
La settimana dopo mi chiese un'altra notizia e io scrissi:
Paurosa avventura per il piccolo Arturo Bonciarini, di
anni otto. Mentre procedeva in bicicletta sull'argine del fiume Runco, perdeva il controllo e rotolava giù. Per fortuna
cadeva in una pozza profonda solo un metro che attutiva la
caduta e impediva altresì l'annegamento. Per i genitori una
grande paura, e il sollievo per lo scampato pericolo.
Due giorni dopo arrivò in redazione la seguente lettera:
Dite per favore ai genitori di Arturo Bonciarini di tenerlo a casa o quantomeno di sequestrargli carriolini, biciclette e
altri mezzi di trasporto. Un lettore preoccupato.
Per fortuna Bedisco non si accorse di niente.
Quella sera, per divertirmi, scrissi un pezzo dove Arturo
Bonciarini usciva di casa in bicicletta e affrontava una decina di pericoli, uno sciame d'api, una macchia di gelato alla
crema sull'asfalto, l'aggressione di un bulldog, una pallonata
in faccia, una diarrea durante uno scatto in salita, un ramo in
un occhio e per finire la frattura della bicicletta che si divideva in due e lui riusciva a fermarsi su una ruota sola come al
circo.
Non so come, Giason lesse il pezzo e disse: vieni qua,
Saltatempo.
Mi aspettavo una ramanzina, e invece fui sorpreso.
– Quello che vedo nel tuo pezzo – sospirò – è, con mio
grande dolore, talento. Genuino, puro e cristallino talento.
Quello che io non ebbi, non ho e non avrò mai. Quando lasciai l'insegnamento ero sicuro di scrivere meglio di chiunque. Ahimè, devo dire che sono uno scrittore corretto ma
mediocre. Vedere il talento in te mi strazia, ma la sua evi-
denza è tale che devo dirti: insisti. Non disperdere questo
dono.
Ci vollero parecchi anni perché tornassi a scrivere qualcosa di analogo, ma le parole di Giason mi rimasero dentro.
Uscimmo insieme, mi pagò un caffè al bar. Mi parlò dei suoi
sogni, dei suoi libri. E io capii che quell'uomo che avevo
sbrigativamente disprezzato e compatito aveva i miei stessi
interessi, e i miei sogni. E mi vergognai. Da allora Giason fu
sempre mio complice, e scoprii che dietro un papillon vistoso e dei ridicoli capelli tinti può nascondersi un poeta, e dietro un poeta vestito da poeta può nascondersi il vuoto. Mi
diede alcuni suoi racconti. Erano davvero belli. Prova a pubblicarli, gli dissi. E' tardi, disse, passandosi una mano sui capelli color dobermann. Caro Saltatempo, nella vita che hai
davanti cerca di non pronunciare mai queste due maledette
parole: «è tardi».
Tornando in redazione ne ebbi la prova. C'era una breve
notizia: ciclista travolto e ucciso sulla Valligiana. E sotto: il
pensionato Lollini Mercurio di settantadue anni, meglio conosciuto col soprannome di Karamazov… e poi le ultime righe… l'investitore non si è fermato a soccorrerlo ed è fuggito.
Volevo tornare a casa, quel sabato e non l'avevo fatto. Il
funerale c'era già stato. Adesso era tardi per salutare il compagno Karamazov, che finalmente avrebbe visto se era meglio la Russia o il paradiso.
Telefonai a mio padre la mattina dopo, era molto triste,
gli dissi, arrivo subito. Il mio treno arrivò al binario otto, per
ripartire verso il paese. Mentre stavo per salire, vidi scendere
Schillaci, Riggio e altri operai del cementificio. Ehi, mi disse
Riggio, che fai, non vieni alla manifestazione? Quale, dissi
io? Sei proprio uno studente di merda, c'è il corteo unitario
oggi, gli operai per la vertenza del cottimo e gli studenti perché ci sono stati dodici arresti per un'occupazione a Torino.
Che fai, te la svigni? E vidi che dai treni scendeva un mare di
gente con bandiere rosse. Così mi avviai alla mia prima grossa manifestazione. Eravamo tanti, vidi lo schieramento degli
operai coi tamburi e gli striscioni, organizzatissimi, vidi la
gente che ci guardava passare, alcuni solidali, altri ostili, altri
come la mucca quando passa il treno. Vidi le autorità fischiate andarsene a testa bassa. Noi eravamo divisi in vari spezzoni di corteo. I superdurissimi, i duri organizzati, i duri creativi, i duri caotici. Il nostro gruppo era un po' appartato, venivamo definiti anarchici intimisti, di merda, aggiungeva qualcuno. Sentii per la prima volta l'odore dei lacrimogeni. Uno
ci scoppiò a pochi metri. Carpaccio diede un limone a Verdolin per spremerlo e medicarsi gli occhi. Verdolin lo mangiò. Io gridavo slogan in coro con gli altri, con voce già roca,
e pensavo a cosa avrebbe detto Karamazov, e cosa stava facendo in quel momento mio padre. Se Selene sapeva della
manifestazione, se magari era lì che la guardava da qualche
finestra, se era turbata, se era indifferente. Vidi della gente
fare a botte dentro il corteo e un operaio urlare, siete con noi
o con loro? Sentii il frastuono di una vetrina rotta. Verdolin
con l'occhio avido mi disse, poco più avanti c'è un negozio di
colori. Scordatelo, dissi. Vidi Tamara affrontare la corazza di
scudi della polizia. Si fermò faccia a faccia davanti a un giovane agente, disse: fateci passare, abbiamo il diritto di protestare in piazza. La affiancammo. La corazza si mosse, e mi
beccai una manganellata nella spalla, caddi per terra, ebbi
paura. Quando mi rialzai stavano caricando Tamara su una
camionetta, lei si divincolò e riuscì a scappare. Vidi un'auto
ribaltata e dentro un negozio un abito da sposa che bruciava,
era surreale, mi fermai a guardare affascinato e restammo separati dal corteo. Scappa scappa, urlò improvvisamente Verdolin, i fascisti. Dal fondo di una strada laterale arrivarono in
una cinquantina coi fazzoletti sul viso, armati di sbarre e catene. Per la polizia erano invisibili, un agente addirittura voltò le spalle facendo finta di usare il radiotelefono. Mi infilai
di corsa nell'unico negozio aperto, una piccolissima merceria. Dentro c'era una vecchietta, che riordinava con calma la
merce.
– Per favore – le dissi – non mi cacci fuori.
– Secondo te – disse lei – perché tengo il negozio aperto? Ce n'è altri dieci nel retrobottega.
E continuò a mettere a posto bottoni.
A metà dell'anno scolastico tornai al paese per due avvenimenti di fondamentale importanza. Lo scontro Dinamo-
Libertas San Rocco per il primato nel girone, e lo scontro zio
Nevio-Sponda per il posto di sindaco.
La Libertas era prima con diciassette punti, noi secondi
con sedici. Vincere voleva dire porre una seria ipoteca sul
campionato, spiegai io che ormai di linguaggio giornalistico
ne masticavo.
Il big match radunò sul campo più di mille spettatori, di
cui un centinaio da San Rocco, guidati dal parroco, con campanacci da mucca e trombe. La Libertas arrivò in pullman.
Avevano delle borse gialle con la scritta San Rocco, meravigliose. Avevano le scarpe con la riga bianca. Le maglie erano color oro come quelle del Brasile. In confronto le nostre,
già stinte dal lavaggio, sembravano canottiere da muratore.
Ma al fischio di inizio apparve chiaro che se loro avevano le
borse e le superscarpe, noi eravamo molto più incazzati e
motivati. Prendemmo un palo al decimo e uno al ventesimo.
Al trentesimo, un terzino respinse col culo un mio colpo di
testa che sembrava già dentro. Poi subimmo un'autorete, un
vero sghetto con tre rimbalzi incredibili. Subito dopo Roda
tirò a colpo sicuro e prese prima la traversa e poi il palo. Era
chiaro che Dio stava dalla parte del San Rocco in modo partigiano e spudorato. Il loro parroco guardava la partita a
mani giunte. C'era un collegamento diretto. Il primo tempo
finì con Pieroni che si azzoppò.
– Ragazzi – disse Roda – qua è come pulirsi il culo a revolverate, non ce la faremo mai, quelli hanno un patto col
loro santo – e giù una sventagliata di bestemmie.
Ci aspettavamo una visita d'incoraggiamento di zio Nevio, ma non arrivò.
Quando tornammo in campo, capimmo il motivo della
sua assenza. Era seduto a bordo campo, e vicino a lui sulla
panchina c'era il nostro parroco con le due più gran beghine
del paese. Zio Nevio mostrava chiaramente all'Arbitro Supremo che anche noi avevamo i nostri agganci.
Il sortilegio si dissolse. Grillomartino con una rovesciata
a bicicletta pareggiò. Poi, su cross di Schillaci, Roda volò in
cielo in un coro d'angeli e di testa e segnò il due a uno.
Fu il trionfo. Negli spogliatoi venne don Brusco a benedirci tutti. Zio Nevio ci fece segno di star buoni. Poi spiegò:
– Ho fatto un'offertina per la chiesa e ho anche promesso che nessuno di voi avrebbe bestemmiato in campo fino a
fine campionato. Per favore, rispettate la promessa.
Zio Nevio fu eletto sindaco col cinquantotto per cento di
voti. Le doppiette spararono tutta notte, ci fu una sbronza
collettiva, fumi di salciccia come il risveglio dell'Etna, cori e
un commosso omaggio a Karamazov.
I primi eventi dell'insediamento di zio Nevio furono alterni. La brutta sorpresa fu che la Dinamo era esclusa dal
campionato. Arrivò un secco comunicato dalla federazione
calcio, che spiegava le nostre irregolarità: Tiramolla Didì
non poteva giocare perché straniero, Ciccio Mia e Grillomartino erano già tesserati per una squadra juniores, campo e
spogliatoi non erano regolamentari ed era scaduto il termine
per la tassa di iscrizione. Scomparimmo dalle classifiche, ma
non dalla storia. Roda andò a una squadra di serie D per un
milione e un Apecar nuovo, zio Nevio divise tra noi il milione e regalò l'Apecar a Tiramolla, che mise su un'impresa di
pulizie in città e fu uno dei primi neri a avere scandalosamente un conto in banca.
La seconda prevista, ma ugualmente brutta notizia, fu
l'elezione di Fefelli a deputato, con immediata promessa che
avrebbe costruito un nuovo enorme villaggio residenziale
con campo da golf di fianco alle Roselle, e una centrale
idroelettrica sul fiume per dare più elettricità alla valle, cioè
alle industrie.
Poi vennero le belle notizie. Zio Nevio consultò le leggi
regionali e emise un provvedimento che impediva ogni ulteriore abbattimento di alberi a Monte Mario, e giurò che
avrebbe bloccato qualsiasi centrale idroelettrica, mandato i
cinghiali a grufolare nel campo da golf e abbattuto villa Meringa per deturpazione dolciastra del paesaggio. Le ultime
due cose non le disse in consiglio comunale ma a noi in privato. Inoltre annunciò che, bocciati tutti i vecchi progetti, sarebbe stata costruita una fontana dedicata al fiume, e ai bozzetti avrebbero lavorato Chicco e mio padre, diretti dal famoso scultore di fontane itticoepiche De Pirris, di famiglia originaria del paese.
Eravamo stati tutti promossi, e l'estate iniziò e passava
troppo in fretta, languida e piena di luna. Ci godevamo il bar,
il bosco, il fiume, e sognavamo come sarebbe stata DinamoMilan in notturna. Gancio tornò dal mare, era abbronzato e si
era fatto tatuare un drago sul braccio. Stava abbastanza bene
per tutti, ma non per me che lo conoscevo a memoria. Venne
a trovarci la coppia perfetta Schiassi-Verdolin e si fermò
qualche giorno in paese. Verdolin, da una fotografia, disegnò
un grande ritratto di Karamazov cosacco a cavallo che fu appeso nel bar, e una Loren nuda solo per Balduino. Venne a
trovarmi Tamara e passammo una giornata insieme. Mi fece
effetto vederla nella pozza, e giocare a spruzzarsi. Chissà
perché la vedevo così seria, per stima l'avevo invecchiata,
ma aveva diciassette anni.
– Saltatempo – mi disse, sdraiata su un asciugamano –
non ti innamorerai mai di me perché non sono abbastanza
bella, vero?
– Tamara – risposi – credo proprio che sia così, ma sono
sicuro che molti si innamoreranno di te.
– Apprezzo la tua sincerità e l'augurio – disse Tamara.
– Speriamo che non si innamori Riccardo – aggiunsi.
La sera stessa ci fu il ballo all'aperto e vidi Tamara, con
mia grandissima sorpresa, che si baciava perdutamente con
Loris Arduini.
Mi sentii profeta. Ma vedendo ballare Roda e Mediga,
papà e Regina, Verdolin e la Schiassi, Tamara e il terzino destro, Dondolo e il fidanzato violinista, e Balduino con la sua
mamma, mi venne il magone. Il ritmo della fisarmonica
azionò l'orobilogio che mi fece tornare indietro e ricordai
ogni noce mangiata con Selene e ogni bacio e ogni scopata e
ogni litigio. Pensai: devo parlarne subito con qualcuno se no
scoppio. Vidi Baco e gli balzai addosso.
– Saltatempo – mi disse – meno male che sei qui. Devo
parlare subito con qualcuno se no scoppio.
L'aveva detto prima lui.
– Vedi – iniziò serio serio – quest'anno la mia vita si è
ribaltata, mi sono successe delle cose incredibili. Tu sai che
io amavo, o credevo di amare, la professoressa Tania. Be',
una volta mi ha invitato a casa sua. Era tutto perfetto, il vino
bianco, l'abat-jour a luce bassa e ci siamo messi a parlare di
chip e di cosa fanno gli americani a Silicon Valley e del futuro dell'informazione. Lei aveva una gonna scozzese, non è
giovanissima ma ha sempre avuto delle belle gambe, quindi
logicamente le aveva anche quella sera, e aveva bevuto e allora…
– E allora?
– Allora niente. Era tutto perfetto, ma io non ho mosso
un dito, a mezzanotte me ne sono andato, c'era qualcosa di
strano nel mio chip sentimentale. Finché all'occupazione del
liceo scientifico ho capito. Ti ricordi che parlavo con un ragazzo biondo, con l'orecchino? Be', lo guardavo negli occhi e
sudavo, gli parlavo e lui mi ascoltava, e io sentivo qualcosa
di particolare, ci ho messo un po' di tempo a ammetterlo. Il
giorno dopo, avevo voglia di rivederlo, e una sera…
– Falla corta, Baco. Ti piacciono i maschietti – dissi io
con la sicurezza di un uomo vissuto.
– Be', credo, anzi sì. Ma quella sera che siamo usciti, ho
capito che lui era normale, etero anzi dovrei dire, insomma,
non c'era nulla da fare oppure non avevo il coraggio di farlo.
Ti stupisce tutto ciò? Sarai ancora mio amico? Cosa devo
fare?
– Baco – sospirai – sei molto avanti nella cibernetica,
ma molto indietro nella fisica dei sentimenti. Devi trovare
qualcuno che ti piaccia con cui avere le prime esperienze,
tutto qui.
– Non so da dove cominciare – disse Baco – sono bloccato, confuso. Tu mi trovi insomma, decente, cioè mediamente virile?
– Assomigli a Clark Kent – dissi con decisione – sei
alto, robusto, con gli occhiali…
Non era proprio vero, ma l'importante era caricarlo.
– Clark Kent, Nembokid? – disse lui a occhi spalancati
– ma davvero? Ma dai, mi prendi in giro.
– Baco – chiesi – chi sono i più belli della classe secondo te?
– Bobo che però è un fascistello noioso, tu perché sei
qui davanti e Fred.
– Hai dei gusti da depravato – dissi io – trovati domani
sera al Mefisto bar. Non chiedermi perché. Zitto. E vai a ballare con una donna, potrebbe essere l'ultima volta.
La mattina dopo telefonai a Fred e gli dissi:
– Ti piacciono ancora alti e robusti?
– Certo.
– E con gli occhiali?
– Gli occhiali li trovo molto sexy.
– E timidi?
– Il massimo.
– Be', prendi la moto e vieni nel mio paese, chiedi dov'è
il Mefisto, c'è una festicciola.
– Alle otto parto.
La sera dopo eccoci al Mefisto bar, io, Baco, Gancio,
Nora e le vispette di Messina. Dissi subito a Baco, viene a
trovarci Fred, credo che arriverà verso le dieci. Mentre parlavamo sentimmo il rumore di una moto che affrontava le tre
curve all'entrata del paese, poi tirava le marce lungo tutto il
rettilineo delle Roselle, scalava davanti alla piazza, si fermava a chieder informazioni, ripartiva a tutto gas, prendeva la
discesa verso il campo di calcio e voltava a destra verso il
Mefisto bar.
La porta del saloon si aprì e apparve Fred in giaccone di
cuoio, cappello da poliziotto e occhiali a specchio.
– Quaranta minuti, media dei cento, mica male vero?
Aveva capito tutto con uno sguardo. Si sedette vicino a
Baco e gli disse:
– Sai che sei uguale a quello dei fumetti?
– Clark Kent? – disse Baco.
– No, Superbone, quello del Monello.
Si bevvero molte birre e ci furono gare di barzellette e
imitazioni. Feci piedino con successo a Nuccia. Gancio per
una volta non vomitò. E alla fine Baco e Fred andarono via
insieme in moto. Avevo fatto la mia buona azione, e soprattutto disinteressata.
Andai a casa, mi misi in ginocchio nel prato e gridai
verso il cielo:
– Dio, Dio, non vedi come sono buono, come sono solo
e come sono generoso, ridammi Selene.
E subito sentii una lingua sul collo.
Era Rufus.
So interpretare i segni divini. Perciò andai a letto.
TERZA PARTE
1.
Si stava avvicinando un anno che sarebbe rimasto impresso nella storia del secolo ma anche nella storia di Saltatempo. Durante questo anno, le cose che mi accaddero a un
passo mi sembrarono a volte più importanti di ciò che si trasformava tutto intorno. Solo dopo, riguardando indietro, capii che vivevo al centro di una grande galassia di trasformazioni e scoperte, e nel mio pianetino ne avvenivano altrettante. Dalle stelle venivano segnali per me e io li rimandavo alle
stelle. Di una sola cosa ero consapevole: la forza fondamentale di quell'universo era l'attrazione per la libertà, che risucchiava tutti a velocità folle. C'era chi resisteva attaccandosi
alla zavorra delle vecchie idee o alla catena della paura, ma
altri, a migliaia, volavano in questo nuovo spazio, alcuni imbarcati su comode astronavi, altri cavalcando comete e allucinazioni, altri in missione di guerra contro gli alieni del Sistema. I miei due orologi funzionarono molto quell'anno, a
volte alleati, a volte conficcando le lancette appuntite uno nel
quadrante dell'altro, in un duello tra i miei terremoti e quelli
del mondo. Se quell'anno durò molti anni nella storia, altrettanto a lungo durò nei miei dolori e nelle mie passioni.
Dopo l'estate al paese, tornai alla mia stanzetta cittadina,
sperando di ritrovare il mio ménage di bigamo. Trovai una
lieta sorpresa, la doccia in bagno. Ma mi accorsi che qualcosa era cambiato. Berta e Vanina erano sospettose, controlla-
vano ogni mio passo. Solo mamma Elide era tranquilla come
sempre, e spegneva le tensioni con panini al sesamo e crostate all'albicocca.
Una notte avevo appena finito la trance amorosa con
Vanina, e lei era sotto la neodoccia cantando Quando dico
che ti amo credi a me (T. Renis). La porta si spalancò ed entrò Berta.
– Amore – disse – non ce la facevo a star giù, mamma è
andata a cercare dei canditi, ho chiuso il negozio, facciamolo
alla svelta, ho voglia.
Pensai come al solito a una triplice via d'uscita.
Uno, ho contratto una malattia venerea estiva che si propaga anche col fiato, fuggi e salvati.
Due, sento dei rumori nella pasticceria, so che c'è in
azione una pericolosa banda di ladri di krapfen, corriamo a
vedere.
Tre, non sono terrestre, sono nevoriano e oggi è il giorno della settimana in cui sono sprovvisto di organi sessuali.
Ma non ci fu tempo: Vanina uscì nuda dalla doccia e
Berta lanciò un urlo, Vanina le corse dietro e io pensai: da
domani torno a dormire all'Hotel Melanzana.
Invece niente.
Il ménage andò avanti come niente fosse. Non so quale
patto avessero fatto le diaboliche sorelle, nessuna ne volle
parlare, e la mia spartizione proseguì.
Una notte al mercato scaricavo casse da un camion all'aperto, si scatenò un temporale, ero in maniche di camicia. Il
giorno dopo avevo trentanove di febbre. Non mi succedeva
più dalla difterite allungatrice. Mi infilai sotto le coperte. Venivo coperto di attenzioni e di brodi, anche il gatto veniva a
trovarmi e dormiva sul letto, cosa potevo volere di più?
In una settimana la febbre cessò, decisi che avrei poltrito un altro giorno, poi sarei tornato a scuola. Era un pomeriggio tranquillo, un odore di bignè alla crema cullava il mio
dormiveglia. La signora Elide entrò, con un tè e dei pasticcini.
– Il nostro Saltatempo è guarito – disse – è un bel ragazzo forte – e si mise a carezzarmi la testa in modo non convenzionale.
– Sì, sto meglio – risposi, tirandomi un po' da parte.
– Be' – disse lei con le mani sui fianchi – adesso che ti
ho guarito, non merito una ricompensa?
Non risposi. Non poteva essere vero. La signora Elide
era ancora appetibile, ma come si dice in questi casi poteva
essere la mia mamma.
– Insomma – disse Elide spazientita – è possibile che
solo le mie figlie debbano godere e io sempre giù a lavorare?
– Godere in che senso, scusi?
– Oh, giovanotto – disse Elide, agguantandomi con decisione una zona dove fino ad allora avevo appoggiato il termometro – lo so benissimo che fai l'amore con tutte e due le
mie figlie, l'ho sempre saputo, l'abbiamo sempre saputo.
Adesso però tocca a me.
Chiusi gli occhi. Non mi opposi. Il risultato non mi sembrò eccezionale, ma alla signora Elide bastò, perché disse:
– Adesso siamo pari – e se ne andò sistemandosi il reggiseno.
Convalescente e incestuoso mi allontanai. Capii che non
potevo tornare lì. Due era possibile, tre no, e poi c'era sempre
il rischio che arrivasse qualche nonna. Tamara viveva in una
comune, le chiesi di essere ospitato lì per un po'. Mi diedero
una branda in cucina, tutta la notte mi scavalcavano per andare a consultare il frigo, ma ci feci l'abitudine.
In quanto a via Tognoli 28, avevo lasciato un biglietto
con i soldi dell'ultimo mese ed ero fuggito come un ladro.
Non potevo andarmene in quel modo. Perciò tornai a salutare.
Mi accolse Berta, severissima.
– E così hai fatto i tuoi comodi e te ne vai – disse.
– Veramente avete cominciato voi – mi difesi io – ma
ultimamente, insomma, la situazione stava diventando troppo
complicata.
– Sono incinta – disse Berta all'improvviso.
Boccheggiai.
– Non è possibile – dissi – abbiamo sempre usato il profilattico.
– L'ho bucato. Capivo che te ne saresti andato. Ti amo
troppo.
E mi buttò le braccia al collo.
Allora capii che disastro avevo combinato. Quelle poche
notti abbracciati per me erano state un piccolo piacere, per
quella ragazza forse il sogno della vita. Ero stato cieco ed
egoista. Ma ero troppo giovane per scalare una montagna
così alta. Perciò dissi:
– Dammi un po' di tempo per pensarci – e scappai per la
seconda volta come un ladro.
Restai una settimana quasi senza parlare. I miei amici si
chiedevano se mi drogavo. Le provarono tutte per farmi riprendere. Fred e Baco mi portarono al Gang e ballai la samba con un travestito che sembrava la Madonna di San Luca.
Marella fece delle robe acrobatiche da spezzarsi in due, e io
guardavo il soffitto. Avevo scoperto una cosa molto semplice: che ci sono responsabilità che uno accetta con coraggio e
decisione e altre che ti cadono addosso, pesanti e incomprensibili, e tu devi affrontare le seconde proprio come le prime.
Pensai di parlarne con Tamara. Mi sembrava l'unica che
potesse capire. Forse anche Regina, ma non mi sentivo abbastanza in confidenza, e avevo paura di mio padre.
Tamara era in casa, a letto.
Entrai, aveva un volto sofferente, sembrava che avesse
pianto molto.
– Saltatempo – mi confessò – sto male. Devo dirti una
cosa. Sono stata in Svizzera a abortire. Ho preso un treno la
mattina e sono tornata la sera, era tutto organizzato da amiche che si occupano di queste cose. Mi sono state vicine e
sono convinta di quello che ho fatto. Ma sto male lo stesso, e
sono piena di brutti pensieri.
Restai con lei tutta notte, a parlare.
La mattina fuori dalla scuola, vidi Berta. Mi mise un biglietto in mano, e scappò.
«Scusa,» c'era scritto. «Non sono incinta, era una bugia
per vendicarmi di te, perché te ne sei andato. Stavo troppo
male. Ti ho amato davvero. Buona fortuna, Berta.»
Così scoprii, nel mio periodo dionisiaco, quante altre divinità intime e dolorose avevo evocato. Pensai a Selene, al
fatto che forse aveva sofferto per me, non ci avevo mai riflettuto davvero, solo il mio dolore era stato importante. Mi buttai nello studio e nei libri, leggevo tutta notte, divoravo Melville e Gadda, Satanik e Foucault, i sudamericani e Pasolini e
ascoltavo i Beatles e i Doors su un piccolo mangiadischi Gelosino. Anche gracchiante e lontana ogni canzone era una
scoperta. Poi passai a Mozart e al jazz e al folk gaelico, ero
onnivoro e insonne. La comune di Tamara si era vuotata e
ora avevo una stanza tutta per me. Marella si era fidanzata
con Riccardo. Ero solo e andavo più spesso alla redazione
della Gazzetta. Avevo un amico adesso, il vecchio Giason,
che stava per pubblicare i suoi racconti presso un piccolo
editore. Ma gli altri mi detestavano, o almeno così credevo,
forse si era sparsa la voce che ero un sovversivo, infiltrato lì
per sabotare le macchine da scrivere e sostituire i vecchi tasti
con tasti in cirillico.
Una sera stavo raccogliendo le notizie Ansa quando ne
vidi una che mi lasciò senza fiato. Tale signorina Federica
Cinti, ovverossia Fulisca, aveva denunciato un orologiaio per
violenza carnale. Lui, padre di famiglia, smentiva. Poco
dopo arrivarono le due foto. Lei, che sembrava ancor più
giovane, e lui, un ometto paffuto.
– Su questa notizia – disse subito Bedisco – facciamo
nascere un bel caso: ci sono tutti gli ingredienti ben pepati: la
bella ragazzina, la violenza, l'uomo per bene, il dubbio. La
città si dividerà in due.
– Quale dubbio – dissi io – la conosco, è una mia amica,
non direbbe mai una bugia.
– Questo lo decideremo noi, anzi i giudici – disse Bedisco. In quella suonò il telefono. Dalla sede centrale stava arrivando l'inviato speciale Milio, un trentenne rampante che
aveva già all'attivo due o tre bei colpi, il delitto della contessa cieca, i balletti verdi del lungofiume, la cellula anarchica
dei fiorai organizzati.
Andai a trovare Fulisca in ospedale, ma non era permesso vederla. Un medico gentile mi disse che stava molto male.
E' epilettica, aggiunse, quello che è successo ha aggravato la
situazione.
Ora conoscevo il nome della malattia di Fulisca. Le lasciai dei fiori e un libro. Tornai in redazione. Milio era arrivato, elegantissimo in doppiopetto carta da zucchero, coi capelli imbalsamati che sembravano finti e un'abbronzatura da
yachtman.
– E così, ragazzo, tu conosci la presunta violentata – mi
disse – be', che ne diresti di fare quattro chiacchiere: come si
comportava al paese, se aveva molte storie, cosa dicevano di
lei. In cambio ti insegnerò come si mette insieme uno scoop
giornalistico.
– E' una mia amica, ed è malata – risposi – non è uno
scoop giornalistico.
– Ovviamente – disse lui – conosco bene la deontologia
professionale. Non scriverei mai niente che non rispettasse la
tua amica. Ma anche lui deve avere il diritto di difendersi. E'
un uomo di sessant'anni che lavora da sempre, con due figli.
– Ed è fratello dell'arcivescovo – disse Giason.
– Nessuno l'ha interpellata – disse seccamente Milio. –
Allora, dici che la tua amica è malata?
– E' epilettica – dissi io.
– Molto interessante, un caso assai pietoso – disse Milio. – Scandoli, tu vai all'ospedale. Nino, tu a fotografare la
famiglia di lui, soprattutto il figlio piccolo se ci riesci. Tirinnanzi, tu fai un elenco di tutti gli stupri degli ultimi anni.
Giason, tu…
– Io vado al cinema – disse Giason – tanto so già cosa
scriverai. – Prese il cappotto e se ne andò.
Due giorni dopo uscì un deontologico pezzo di Milio.
Fulisca veniva dipinta come una pazza, che durante gli attacchi della malattia non sapeva cosa faceva, e dopo non ricordava nulla. Lui era descritto come un uomo debole e buono.
Certo, concludeva il pezzo, spetterà ai giudici emettere
il verdetto. Noi possiamo dire alcune cose. Che non deve essere la prima istintiva reazione a farci giudicare, o le prevenzioni politiche di questo nuovo femminismo aggressivo e
frustrato. Da una parte c'è il doveroso rispetto per una ragazza sofferente e malata, forse non padrona delle sue azioni.
Dall'altra un uomo che vede la sua vita rovinata da un'accusa
infamante. Non siamo noi i giudici, ripeto. Possiamo però
dire che si fa presto a pronunciare la parola stupro, ma i rapporti tra uomo e donna sono spesso segnati da un'ambiguità
in cui piacere e violenza convivono. Io credo che la città
debba seguire questo processo con obiettività e serenità,
come farà il nostro giornale, senza ipocrisie e partiti presi.
Entrai in redazione che tremavo. Milio era al telefono,
riceveva i complimenti del direttore. Bedisco lo guardava
con aria adorante e invidiosa.
– Ehilà – disse Milio – ecco qua il nostro sovversivo.
– Bel pezzo, Milio – dissi io – equilibrato e appassionante.
Si gonfiò come un copertone.
– Impara l'arte… – disse.
– Io ho un orologio – gli dissi – che funziona in un
modo strano. Io e te ci rincontreremo. Io non so cosa sarò,
ma so cosa sarai tu. Un sacco di merda, un fascista e un servo.
– Fuori di qua, bastardo – disse Bedisco, e mi tirò addosso una risma di carta. Milio era rimasto impassibile.
– Se vuoi saperlo – disse – ho una pistola nella giacca.
– Ficcatela nel culo – dissi.
E qui ci fu la seconda sorpresa. Dopo Giason anche
Scandoli, il cronista sportivo dal cervello di cuoio gonfiato,
quello che se ne fregava di tutto, disse:
– Anche a me fai schifo, Milio. Non hai riportato niente
di quello che mi hanno detto i medici dell'ospedale. Se l'orologiaio non fosse fratello dell'arcivescovo e lei una povera
paesana che non conta niente, avresti scritto questo pezzo?
Sei come gli arbitri che si inchinano alle grandi squadre. Sei
scorretto, se fosse per me non giocheresti in nessun giornale.
– Fuori anche tu – disse Bedisco.
– Ho già un nuovo lavoro – disse Scandoli – ufficio
stampa del Giro delle Valli. Andate affanculo tutti e due.
Saltatempo, comunista di merda, usciamo da qui e offrimi da
bere.
Così finì la mia avventura alla Gazzetta e ci fu un rimpasto in redazione. L'orologiaio fu assolto, Fulisca finì in clinica, si riprese solo molti anni dopo. La battaglia per l'informazione era vinta.
L'anno si incendiò, le occupazioni si moltiplicavano una
dopo l'altra. Toccò anche al nostro liceo. Il primo giorno
bloccammo l'entrata. La Salma si presentò e non capiva cosa
succedeva. Chiese a qualcuno, e le tirarono un quaderno addosso.
– Siete degli stronzi – dissi – è la mia professoressa, è
una brava persona.
– Non esistono bravi professori – disse Paolo Lingua –
sono tutti funzionali al sistema.
– Non è quello che dirai tra vent'anni al tuo telegiornale
– dissi io.
– Che cazzo dici?
Accompagnai la Salma alla fermata dell'autobus. Lei mi
chiese cosa stava succedendo.
– Siamo tutti un po' agitati, signora.
– Legga Seneca, Saltatempo. Si calmerà un po'.
Tornai davanti alla scuola, qualcuno mi fischiò. Fred e
Tamara mi difesero, volò un paio di ceffoni. E mentre ci
scambiavamo slogan, in mezzo minuto si radunò una cinquantina di poliziotti in tenuta da Vietnam. Ci tirarono fuori
dalla scuola a uno a uno per i piedi e ci presero a botte scientificamente, a me menarono sulle ginocchia. A Paolo Lingua
ruppero il naso. Non gioii, volevo farlo io. Mentre noi litighiamo, loro ci prendono le misure, disse Fred sorreggendomi. Zoppicavo e mi faceva male una costola. I celerini continuavano a pestare.
– Però – gridò Fred a voce alta – quel poliziotto biondo,
guarda che chiappe.
Il biondo ci corse dietro furibondo. Ci raggiunse in un
vicolo pieno di biciclette. Alzò il manganello, ma Baco, che
ci aveva seguito lo bloccò alle spalle. In due lo tenemmo fermo e Fred lo baciò appassionatamente in bocca, sotto il ca-
sco. Fu una delle azioni di guerriglia più anomale ed efficaci
che io abbia mai visto. Il poliziotto scappò come se l'avessimo cosparso di napalm.
2.
Venne maggio. Dalla Francia giungevano notizie di
grandi sommovimenti. Una domenica alla comune stavamo
guardando la televisione con un'intervista a Sartre, quando
entrò Verdolin con gli occhi sbarrati.
– Compagni, una richiesta. Avrei bisogno di vedere i risultati di calcio.
La mozione fu respinta sei voti a tre e Sartre poté proseguire l'intervista.
– La radio – gridò Verdolin – la tua radiolina.
Piombò nella mia camera, accese, aspettammo pochi
minuti, io non capivo. Poi la voce del radiocronista lesse i risultati. Assomigliava a quella del Dio allegro.
Verdolin lanciò un urlo e mi gettò le braccia al collo.
Avevamo vinto al Totocalcio. Da anni giocavamo sempre la stessa schedina e non avevamo mai fatto più di dieci.
Stavolta avevamo fatto un dodici, non grande per le statistiche, ma grande per noi. Un milioneottocentoventimila lire.
Seicentoseimila lire per me seicentoseimila per lui seicentoseimila per Fred.
Facemmo subito i nostri progetti.
Fred, trecentomila lire per truccare la moto come voleva
lui, centomila per regalini a parenti e amici, e una vacanza a
Amsterdam.
Verdolin, un loden per la Schiassi che ci fa le bave da
un anno, colori a gogò e un viaggio.
Io dissi: quattrocentomila da parte, e una settimana a Parigi.
A Parigi, disse Verdolin, buona idea, io e te.
Io te e la Schiassi, pensai.
Invece la Schiassi incassò il loden e disse: io a Parigi
non vengo, devo studiare, ho due insufficienze, vai tu.
Verdolin andò in crisi: erano quattro anni ormai che respiravano una volta a testa, uno aveva le sistole e l'altro le
diastole, vivevano incollati. E adesso un'intera settimana di
separazione.
Ti farà bene cambiar aria, dissi io.
Ma sì Valerio, ti farà bene, disse lei.
Sarete mica amanti, disse Verdolin.
Se fossimo amanti, dissi io, ti faremmo partire da solo.
Già, disse Verdolin. Non dormì per tre notti, poi si convinse e partimmo, su un treno notturno, il primo vero viaggio
della mia vita.
Io sulla cuccetta di sopra, lui sotto, con l'energia dei nostri giovani anni, otto panini alla mortadella fatti dalla
Schiassi con le sue manine sante e due minerali gasate del
Santo Pellegrino.
Io ero felice, emozionato, carico di libri di Hemingway,
Rimbaud, Baudelaire, Aragon e cartine e vocabolarietti. Verdolin aveva una scatola di colori e una ventina di foto della
Schiassi, anche a sei anni.
In treno ebbe il primo attacco di schiassite. Boccheggiando disse: perché mi ha lasciato andare? Se è stanca di me
avrebbe potuto dirmelo in faccia, le donne sono traditrici, si
vede che non ne poteva più, non vedeva l'ora di liberarsi di
me, ha fatto lei la mia valigia, tornerò e troverò la serratura
cambiata e le mie robe fuori e un cartello con scritto: «Ti
odio, te e i tuoi disegni di merda…».
– Verdolin, smettila – dissi – o comincio a scoreggiare
finché non perdi i sensi.
– Hai ragione, forse sto esagerando – disse lui, e si rotolò tutta notte.
Arrivammo alla Gare de Lyon e ci dirigemmo verso
l'Hôtel des Beaux Arts a piedi. Non conoscevamo la distanza, era una bella scarpinata, ma quella era Parigi, e io bevevo
ogni scritta, ogni insegna, ogni ostrica, ogni libreria, tutto mi
sembrava più bello e colorato, dai giornali nelle edicole, alle
baguettes che sporgevano dalle borse come bacchette magiche, alle merde di cane che mi sembravano pennellate impressioniste. Verdolin ignorava quelle pariginità squisite e si
mise a camminare in fretta, aveva visto una bionda schiassisimile e doveva assolutamente telefonare in patria. Ci fermammo a una cabina, lui tirò fuori dei gettoni italiani e si
rese conto con terrore che non funzionavano. Riuscii a trascinarlo fino all'albergo, un piccolo hotel in una strada stretta
piena di odori di arrosto, spezie, insalata di umani. C'era gente di tutte le razze, io bevevo ogni faccia.
– Verdolin – dissi – ma qua c'è il mondo da disegnare.
– Prima devo telefonare – disse.
Gli feci io il numero, telefonò, parlò con lei. Calcolai
che questo gli avrebbe dato circa sei ore di ossigeno. Così ci
incamminammo, ebbri di Parigi. Vidi subito che in ogni casa
aveva abitato una celebrità, in ogni bar si era seduto un poeta, in ogni albergo era morto qualcuno di importante. Andai a
pisciare e pensai che perlomeno stavo ricalcando le gocce di
Picasso. Verdolin scomparve dentro un emporio di fumetti in
Saint-Michel, io girai tutto il Quartiere latino e poi salii fino
a place de la Contrescarpe, cercando i luoghi e i riferimenti
letterari. Le pagine diventavano case, piazze, chiese. Il cielo
era la copertina di un libro.
La sera prendemmo il shish kebab, che è un panino con
dentro una sfettarata di montone, e poi scegliemmo un bar
con vista su transito di jeunes filles e lì ci sedemmo con due
bières. C'erano tante pupe parigine doc da far girare la testa.
Verdolin però aveva finito la sua autonomia. Si era premunito di spiccioli francesi e si mise a duellare con una cabina telefonica. Io stavo cercando di immaginare quale dei tavoli
del bar era quello di Verlaine o di Kopa, cercavo tracce quali
un cappello o una poesia su un tovagliolo. Nel cielo le nuvole transitavano veloci trascinate dal mistral, due ragazzi chitarrati cantavano Blowing in the wind (R. Zimmerman) e io
pensai, che cosa può volere di più un ragazzo di paese che ha
raggiunto la capitale letteraria e magica del mondo?
E apparve Françoise.
Aveva i capelli lunghi e lisci, jeans délavé che le fasciavano i fianchi, un vitino stretto. E una maglietta con una rosa
rossa e la scritta: «Parlez-moi d'amour».
Era con un'amica mulatta, gran nasone e gran fisicone.
Si sedettero al tavolo vicino al mio e ordinarono pommes de
terre à l'huile con incantevole accento francese, anzi pensandoci bene forse non era accento, era francese e basta. Il cameriere le servì subito, a noi ci aveva ignorato per dieci minuti. Vidi Verdolin furibondo cercare di fare del male alla
cornetta.
– Stai calmo – gli gridai.
– Italiano? – disse Françoise con bella intuizione.
Abbordato a Parigi, pensai, il massimo.
– Oui – risposi.
– Di Roma?
– Più su – dissi – paese molto bello avec bocu des arbres. Châtaignes. Beau fium – sapevo che se parlavo in fretta
qualche errore si mimetizzava – e vous conoscez bien l'Italie?
– Oh sì – disse lei – anno scorso un mese Venezia, Firenze e Roma.
– Io mi chiamo Saltatempo – dissi – e quello che sta
prendendo a calci un vostro telefono è il mio amico Valerio.
– Io mi chiamo Françoise, lei è Lorette della Martinica.
Mai stato in Martinica?
Nemmanco a Cesenatico, avrei voluto dire.
– No – dissi – ma me ne hanno parlato bene.
– Cos'ha ton ami? – disse Lorette vedendo Verdolin sacramentare chez la cabine.
– E' molto innamorato della sua ragazza. Se non riesce a
telefonarle va in crisi, il devien fou, tu comprend, giù di tête.
– Voi italiani – disse Françoise languida – sempre innamorati.
Possedeva una bocca francese grande il doppio di qualsiasi bocca italiana, almeno così mi sembrò. Aveva diciassette anni e studiava musica, violon per l'esattezza. Lorette diciotto e studiava pianò. Io cosa facevo? Io studiavo e facevo
anche il giornalista, piccoli reportage, ero lì con una borsa di
studio della Sisal.
Verdolin tornò.
– Non è in casa – disse, e sembrava sul punto di svenire.
– Che numero hai fatto?
– Questo. – E mi mostrò un biglietto.
– E il prefisso dall'estero?
– Che prefisso?
Insomma Lorette aiutò Verdolin a telefonare a Serena, e
si dissero ti amo mi manchi cosa fate siete da soli, e se fosse
stato sincero lui avrebbe detto, no sono con una mulatta con
un gran culo, tanto ti amo, invece disse: sai Saltatempo è un
po' in crisi, un suo vecchio sogno era venire a Parigi con Selene e adesso è un po' malinconico ma io lo tengo su, buonanotte amore e il cane come sta? bene e tu mi pensi? ogni ora
anch'io a domani, cos'è questo rumore? il cane tra le pentole,
va bene amore buonanotte a domani.
Dopo il contatto Verdolin si placò, fece una splendida
caricatura a Lorette, si fermarono dei turisti italiani e dissero,
anche a noi anche a noi. Lui disse, veramente non sono un
professionista però alla fine disegnò una cavallona di Milano
e si intascò cento franchi, il dritto.
– Andiamo a ballare? – disse Françoise stirandosi, col
seno che le balzò in avanti.
– Possibilmente un locale con telefono – disse Verdolin.
Andammo a ballare in un locale vicino a piazza della
Bastiglia e là vidi che Françoise si muoveva come credevo
accadesse solo nei film o al Crazy Horse, e tutti non la guardavano, perché a differenza che in Italia, se il francese è allupato fa finta di niente, se invece ti dà retta e ti guarda vuol
dire che non gli interessi. Il che voleva dire che in fondo a
Françoise non piacevo, perché mi aveva rivolto la parola al
bar.
Uscimmo dal locale, camminammo tutti e quattro a
braccetto e arrivammo sul Pont Neuf che in realtà è vecchio,
sotto le cui ampie arcate scorre la Seine, che quella sera era
illuminata da una lune d'argent e Françoise chiese:
– Chi mi canta una canzone italiana?
Verdolin mi guardò come a dire no, io la Schiassi non la
tradisco.
Io cantai 'Na sera 'e maggio, la preferita da Regina, poi
Bella ciao, politico-tradizionale, e poi Una lacrima sul viso,
perché mi venivano bene le note basse alla Bobby Solo.
Gli occhi di Françoise brillavano come pesciolini e mi
fissavano, le piacevo sempre meno. Ci demmo appuntamento per l'indomani nel suo quartiere, Ménilmontant, un po'
fuori dal centro. E' meno turistico, più vero, disse. Quando ci
salutammo, lei mi baciò a labbra chiuse.
Allora mi odia, pensai. Ma qualche speranza ce l'avevo.
Quella notte non dormii. La bocca di Françoise mi tormentava. Verdolin si era portato dietro una sveglia-Minnie,
dono di Serena. Il tic-tac avviò l'orobilogio in versione culturale. Picasso bussò alla porta della stanza e sbraitò: lascia
stare la mia modella Françoise, italiano di merda, che se è innamorata non posa bene. E io risposi, signor Picasso, faccia
qualcosa di astratto per qualche giorno e non rompa i marroni. E poi vidi Rimbaud e Fred in moto sul boulevard SaintGermain, ai centottanta, e Fred diceva, che paura hai Arthur,
tanto muori giovane lo stesso. E vidi una libreria con due libri in vetrina. Uno era i Contes di Giason, l'altro Les aventures de Mickey Marx, disegni di Verdolin, testi di Saltatempo.
Poi il mio socio si svegliò, in preda a un attacco di schiassite
senza precedenti e accese la lucetta del comodino.
– Quel rumore – disse.
– Quale rumore?
– Mentre telefonavo dalla cabina ho sentito un rumore,
lei ha detto: è il cane tra le pentole. Ma lei non permette mai
che il cane vada tra le pentole.
– Se è al telefono il cane se ne approfitta e ci va.
– Ma lei non ha detto ehi, va' via dalle pentole. Quindi
non era il cane, era qualcuno che cucinava.
Gli occhi di Verdolin brillavano nella penombra, in un
volto senza più sembianze umane.
– E chi poteva essere allora?
– Verdolin, vaffanculo, ci stai rovinando la vacanza.
– C'era qualcuno con lei in casa. Io torno indietro. Non
posso restare qui, muoio.
– Un altro albergo dove morirà uno celebre – dissi io,
girandomi dall'altra parte.
Rise, di un riso strozzato. Rantolò ancora alcuni minuti
poi si addormentò. La mattina alle sei e mezzo svegliò Serena e la telefonata lo rassicurò. Consumammo un caffè piscioso e degli squisiti croissant, ci facemmo due o tre musei,
dove Verdolin mi spiegò perché sembra facile disegnare i
papaveri nel grano, e invece no. Comprammo Libération e
c'era scritto: domani grande manifestazione, camarades, partecipate tutti. Camarades voleva dire il contrario che in Italia,
cioè compagni.
– Pensa – dissi io – una vera grande manifestazione
francese. Riccardo creperà d'invidia.
– A Serena piacerebbe – sospirò Verdolin.
Prendemmo il metrò e raggiungemmo Ménilmontant.
Era proprio vecchia Parigi, c'erano dei barboni e delle facce
anche troppo parigine, per me erano comparse. La casa di
Françoise era piccolissima, con dei termosifoncini minuscoli
e un cessino da gnomi, ma dalle finestre si vedevano i tetti.
Ci suonò il violon, coi capelli che le scendevano lungo il
braccio, mossi sensualmente dall'archetto. Nella notte le si
era ingrandita ancora la bocca. Poi arrivò Lorette. Andammo
a mangiare cuscus piccante e Verdolin si sbronzò di birra.
Serena non aveva mai mangiato il cuscus, ne era sicuro, e si
sentiva colpevole.
Poi risalimmo in casa per fare il punto su dove andare.
Ma io vidi che Lorette prendeva Verdolin per mano e gli diceva, vieni, voglio che mi disegni un bel chaton, che sarebbe
un gatto, e quindi restai solo con Françoise che abbassò la
luce.
Poi mise su un disco che si chiamava Et je entend siffler
le train (A. Barrière).
Poi ci baciammo e aveva una bocca, lo ripeto, il doppio
delle italiane, per cui bisognava baciarla partendo dai lati e
poi arrivare al centro ed era un gran bell'esercizio.
Poi lei si spogliò e io mi sentii male, ma male per davvero.
Selene aveva un gran bel fisichino, ma indossava una
lingerie diciamo così d'ordinanza, reggiseno e mutandine
bianche. Invece Françoise aveva un reggiseno di pizzo rosa
pesca e delle mutandine in pendant piccole, ma piccole che a
me venne una gran tachicardia e dissi: attend un moment,
trop de cuscus.
Lei sembrò delusa, aveva grandi aspettative dall'amante
latino nel senso non Cicerone ma Mastroianni.
Si accese una sigaretta interlocutoria e nel farlo si girò,
e io vidi il suo culo sfavillare.
L'inno di Mameli risuonò in tutto il quartiere e anche
Bella ciao e 'Na sera 'e maggio e io le balzai addosso come
una belva assetata di rosapesca.
Italia-Francia si giocò con grande agonismo e rapidi
cambiamenti di fronte tutta notte, ci alzavamo ogni tanto per
bere e spegnere l'incendio del cuscus e poi baiser cioè scopare, e allez di nuovo a bere e poi allons contro natura e torna
in bagno e allez ariscopami e io non ce la facevo quasi più
ma pensai: se muoio qui tanto meglio, magari mi seppelliscono al Père Lachaise vicino a Jim Morrison (premonizione), in patria tutt'al più mi possono mettere vicino al batterista dei Maccarons. Intanto Verdolin parlava a Lorette di Serena e lei si addormentò, come si usa nella Martinica quando
ti vengono due balle così.
Il giorno dopo Verdolin partì col primo treno e io non
andai alla manifestazione, rimasi tre giorni e tre notti a scopare con Françoise, uscendo solo per qualche rapido panino
croccamonsier e per guardare le bancarelle di libri usati e
comprare birra e preservativi, che ce n'era un gran consumo.
Così iniziò il maggio francese e io me lo persi, tra le
braccia di una Françoise qualsiasi che poi non era qualsiasi.
In treno, al ritorno, mi sentivo strano. Françoise e Selene mi ballavano nella testa, si cambiavan di posto come nei
minuetti, amoreggiavano insieme, bionda l'una, castana l'altra. La differenza era che mi rattristava molto il pensiero di
non rivedere più Françoise anche se c'era stato scambio di indirizzi e giuramenti di vediamoci. Ma mi faceva maggiormente soffrire, anzi morire, l'idea di non rivedere più Selene.
Ero malato, non come Verdolin, ma quasi.
Tornai in patria.
Alla scuola mi chiesero subito: allora, sei capitato proprio nel mezzo del casino francese, racconta. Compagni, un
momento di attenzione, il compagno Saltatempo, che ha partecipato alle manifestazioni di Parigi, ora ci terrà una relazione politica.
Non lo sapevano ma sul treno avevo studiato tutti i giornali, italiani e transalpini, e mi ero preparato benissimo.
I francesi hanno la bocca più larga degli italiani, iniziai,
e il rumore era assordante. Il corteo era aperto da uno striscione rosso alquanto stinto per le numerose battaglie, il colore era diventato rosa pesca, e sopra c'era scritto «Parlezmoi d'amour».
Mormorio.
Scherzo: c'era scritto «Ce n'est que un début».
Così raccontai il maggio francese, e tutti furono contenti, e alla fine quasi mi convinsi di aver partecipato davvero.
In fondo, diceva il Che, el revolucionario verdadero està
guiado para grandes sentimientos de amor. Nessuno scoprì il
mio segreto. Solo Giap mi fece qualche domanda inquisitoria
e mi chiese com'era Sartre.
Sembra una rana, risposi.
L'anno finì con un grande scazzo politico, il gruppo di
Tamara e quello di Riccardo si separarono con accuse reciproche di infantilismo, opportunismo e furto di libri. Io ero a
volte quello che leggeva Eliot, a volte quello del maggio
francese, a volte l'anarchico apartitico, a volte quello col
babbo Pci. Un cocktail che mi permetteva di litigare con tutti, ma anche di discuterci. Preferivo parlare di politica con
Tamara o con Lussu. Non mi piaceva stare sempre in assemblea, preferivo sentirmi parte di qualcosa che fluttuava e si
muoveva e non sapevi mai cosa poteva accadere, poi di volta
in volta capivi chi stava davvero al tuo fianco, chi aveva davvero il coraggio delle sue idee. Quello che volevo dalla politica, e non solo da quella, era già racchiuso in una frase: bisogna assomigliare alle parole che si dicono. Forse non parola per parola, ma insomma ci siamo capiti. Alcuni parlavano
bene, ma chissà perché io non gli credevo, il mio orobilogio
segnalava: questo tra un anno, o dieci, molla, se va bene appende le scarpe al chiodo, se va male cambia squadra del tutto. Altri parlavano poco come Lussu o Tamara, o con ingenuità come Fred o la Schiassi, ma io sentivo che dietro le
loro parole c'era qualcosa che avrebbero fatto, un giorno o
l'altro. Questa sensazione mi accompagnò tutta la vita.
La scuola finì, con una promozione un po' raffazzonata.
Tornai al paese con metà gruzzolo del Totocalcio e un pacco
di balle su Parigi. Era già luglio. Mio padre era tutto affaccendato a scolpire dei bellissimi lucci per la fontana, zio Ne-
vio aveva preso la fissa della pesca alla trota e confezionava
tutto il giorno mosche finte di pelo di culo di lepre. Gancio e
Osso erano al mare. Era scoppiato il boom delle ferie di massa, il bar di Balduino e Dondolo si riempiva di Saluti dalla
Riviera Adriatica, con vele, tramonti e culi, e arrivavano cartoline persino da Positano e dal Cervino. L'autostrada era tutta una colonna di macchine, al fiume ormai ci andavano solo
dei ragazzini che non conoscevo. Pensai di partire di nuovo,
magari da solo. Una volta telefonai a Françoise, ma una voce
mi rispose che era a Saint-Tropez – la luna – si chiede – perché, beata lei. Una solitudine afosa mi circondava e sfibrava.
Allora salii alla Fanara.
Guardai la valle e notai che il cielo aveva cambiato colore, era grigio, il fumo delle industrie e l'indigestione di
macchine l'avevano appannato, non si vedevano più le cime
dei Monti Alti. Verso est due grosse gru lavoravano a un
nuovo residence. A ovest stava sorgendo un ripetitore televisivo. Ma lì dov'ero io niente era cambiato, il muschio era rigoglioso, l'acqua scorreva tranquilla, i bachi scalavano gli
steli, i maggiolini si caramellavano gioiosi nelle campanule.
Un falco vigilava in alto. Chiusi gli occhi e aspettai mia madre.
Arrivò. Era venuta a lavare i barattoli di vetro per la
conserva. Era un po' colorita di sole, ma sempre magra.
– Saltatempo – disse – raccontami com'è Parigi.
– Grande e bella, piena di posti che in ognuno ci ha tirato le cuoia un poeta, un pittore, un artista.
– Io e tuo padre – disse – abbiamo fatto il viaggio di
nozze a Parigi.
– E' vero – dissi, lo avevo completamente scordato, e mi
tornarono in mente le teorie di papà sulla Tour Eiffel, perché
secondo lui si poteva fare anche in legno, e con Belloni e Baruch avevano fatto un calcolo che ci volevano sei anni, una
tonnellata di chiodi navazzini e una gran cubatura di legno,
ma si poteva fare.
– La cosa che ricordo di più – disse la mamma – è Notre-Dame. Era settembre, era così fredda, grande. Pensai, ci
stan dentro tutte le chiese della valle. Mi fece paura, mi affascinò, sembrava volerti tenere con sé. Ecco com'è la morte,
dissi.
– Mamma – dissi – com'è la nostra casa? Sempre uguale? Ci sono ancora i ghiri in granaio?
Non rispose. Come l'altra volta, sparì lentamente nell'acqua.
E arrivò lo Gnomo Boleto.
– Si scopa anche all'estero, adesso – disse ghignando.
– C'è chi può – risposi.
– Credi che non abbia viaggiato? – disse. – Quando ero
uno gnomo alato, ho visitato tutta l'America. E il Canada.
Orsi bianchi, a migliaia, trichechi e funghi, mai visti dei funghi così grossi, ci si poteva sdraiare sopra un uomo.
– E i boschi?
– Boschi grandi come da qui al mare. E forse stanno abbattendo anche quelli – disse lo Gnomo – ma ormai è inutile
pensarci.
– Zio Nevio ha detto che qui nessuno abbatterà più un
albero.
– Il mondo ha preso a rotolare – disse lo gnomo – gli
uomini gli han dato una bella spinta, adesso sarà difficile fermarlo. I prossimi anni saranno tristi per la montagna e la valle, Saltatempo. Fai qualcosa, ascolta l'orobilogio, ragazzo.
– No, basta – dissi – sono grande, voglio vivere nel presente.
Lo gnomo sorrise. Prese il mestolo per bere che da cento anni era appoggiato alla vasca. Lo riempì, fece finta di
bere. E invece lo versò lentamente a terra, goccia per goccia.
L'orobilogio partì. Vidi l'incendio di un bosco, grande
cento volte il nostro, e animali che scappavano. Vidi cento
altri incendi. Vidi il fiume secco, e un mare denso e nero,
come di catrame. Vidi delle persone chiedere aiuto, sopra un
tetto circondato da un'immensa palude gialla. Vidi, attraverso il vetro appannato, un bambino perso nell'inverno, con un
orso al guinzaglio. Poi vidi mio padre che correva gridando,
con un badile in mano, e in aria c'era come una nuvola di
polvere spessa. Vidi una casa che si apriva in due, tagliata da
un'accetta. E una costruzione bianca, di molti piani, e un parcheggio con tante ambulanze parcheggiate. Sentii un odore
violento, di etere.
– Basta – dissi spossato. Scarpagnai giù per la cavedagna. Mi fermai al grande noce. Mi chinai a raccogliere qualche frutto. Me li misi in tasca, ma quando ci misi la mano
per prenderne uno, non c'erano più. Un buco in tasca o uno
spiritello mangianoci? Mi venne un pensiero improvviso e
mi misi a correre. Andai fino al residence Roselle. Davanti
allo chalet di Selene, c'era una macchina. Vidi il padre, un altro signore basso e Nando, l'intermediario. Mi ricordai di
aver sentito che Lunini stava vendendo la casa. Ci furono alcune strette di mano, e poi i tre si misero a ridere.
Sentii alle mie spalle un fagiano che volava via. Mi voltai, sapevo che lei era lì.
– E così adesso sono senza casa – disse Selene.
– Ci sono un sacco di alberi cavi nel bosco – dissi io.
Per due giorni camminammo insieme dalla mattina alla
sera, senza toccarci senza baciarci. Era come far tornare il
sangue in un corpo freddo, come far ricrescere un bosco bruciato. Ma ogni ora ci riavvicinavamo di nuovo, non c'era nulla da fare, era come una calamita.
Una sera eravamo sdraiati sul prato, come la volta della
prima baceria. Lei disse:
– Domani parto.
– Lo so – dissi, ma non era vero.
Si alzò in piedi, col volto acceso.
– Non fare finta di niente. Lo sai che cosa sta succedendo. Chiamala magia, chiamalo sortilegio o maledizione.
Quando ti vedo, ricomincia tutto.
Non sapevo cosa dire. Avevo paura.
– Ho avuto un ragazzo – disse lei.
– Ci andavi sempre in moto, sul lungomare. Era bello
come un attore ed elegante, usava il dopobarba anche se non
si faceva la barba.
– Come fai a saperlo?
– Poi una sera siete andati in ballotta in una pizzeria, e
lui parlava di macchine e cilindrate e tu hai pensato cosa ci
sto a fare con questo cretino, hai detto vado a vedere il mare
e sei sparita.
– Tu sei un maledetto stregone – disse lei.
– E io cosa ho fatto secondo te?
– Hai sbaciucchiato e scopato a destra e a manca, immagino.
– Ti sono sempre stato quasi fedele – risposi.
– Non sono gelosa – disse e fece la smorfia che faceva
sempre quando diceva una bugia.
E io risposi:
– Io sì, molto.
Le carezzai i capelli. Fu un bacio breve, morbido. Poi
lei mi respinse con dolcezza.
– No, non vale, qua sei in vantaggio. E' il tuo terreno, tu
sei un ragazzo del bosco e io ormai un'indifesa ragazza cittadina. Hai tutti che lavorano per te, i grilli, i tramonti, le far-
falle. Logico che non possa resisterti. Questa volta ti sfido.
Vieni al mare, nel mio terreno. Non è brutto. Passeremo due
giorni insieme. Se mi conquisti lì, sarò tua per… facciamo
due anni.
– Cinquanta – dissi io.
– Si può trattare – disse lei.
Ci accordammo su quindici.
3.
Così presi il treno e arrivai a Rivamarina, ove avevo
prenotato una suite di sette metri quadri alla pensione Edelweiss, con vista sul mare se salivi sul tetto. In previsione della breve ma impegnativa vacanza avevo provveduto ai seguenti acquisti voluttuari.
Una Lacoste color panna con coccodrillino di serie.
Un paio di pantaloni di lino azzurri che stanno bene anche sgualciti.
Un paio di scarpe Superga di tela bianca (pendant con la
Lacoste).
Due costumi da bagnante, uno a braghetta rosso con disegno di ippocampi, uno blu a slip, da usare con cautela in
caso di improvvise erezioni.
Un deodorante spray di marca Gentleman.
Un telo da bagno rosso con un Pippo tuffatore. Qui avevo risparmiato.
Uno stick antizanzare.
Selene mi venne a prendere alla pensione con i pantaloncini bianchi da tennis e le gambe tra il rosso e l'abbronzato. Con lei c'era l'amica Giusi. Forse era la prima prova da
superare, perché aveva una voce da fresa elettrica e si fermava a ogni negozio a dire: che carino che bellino, quando arriva Ettore me lo faccio comprare.
Immaginai che Ettore fosse il padrone della Pirelli, invece poi scoprii che era ragioniere, si vede che rendeva bene.
Poi andammo al mare.
Io ero abituato al fiume dove uno si sdraiava dove voleva, pisciava e tirava sassi e pescava.
Lì, no.
Bisognava stare sotto gli ombrelloni, si metteva la sdraio e tutta la sabbia compresa nell'ombra era diciamo così
roba tua, ma se mettevi il piede nell'ombra di un altro erano
cazzi.
Allora io misi la sdraio metà all'ombra metà al sole.
– Guarda che così ti bruci – disse Giusi.
– No, perché tra dieci minuti il sole gira e l'ombra arriva
qui.
Giusi fece una faccia come gli scienziati dell'epoca davanti a Galileo.
Facemmo il bagno e devo dire che era meglio del fiume,
potevi nuotare tranquillo senza paura dei mulinelli, c'erano i
granchi, le vongole e le soglioline che scappavano via, e soprattutto c'era una piattaforma in mezzo all'acqua alta, dove
non si toccava più, che potevi raggiungerla e prendere il sole.
Ecco la seconda prova.
– Nuotiamo fino lì, dai – disse Selene, e lei e Giusi partirono come delfinette.
Io ingoiai la fifa, non ero un gran nuotatore, ma ero
sempre un ex atleta della Dinamo. Partii calmo calmo a rana.
Quando arrivai stremato alla piattaforma, intorno a Selene e Giusi c'era già un branco di mandrilli dallo slip rosso,
almeno sei o sette. Il più intraprendente era un indigeno muscolatissimo, con uno slip visibilmente pieno di materiale.
– Dai bionda – stava dicendo – venite al Dancing Bluemoon stasera, che c'è la gara di ballo.
– Che ne dici? – mi chiese Selene.
– E' il tuo ragasso? – chiese il muscolato.
– No – disse Selene.
Troia, pensai io.
– Allora non c'è problema. Tu chiedi del tavolo di Vanes. Mi conoscono tutti, anzi tutte.
E strizzò uno dei due occhi tenendo chiuso l'altro con
grande abilità.
Quindi si mise in bilico sulla piattaforma, tirò lo stomaco in dentro e si esibì in un tuffo con salto mortale.
Le ragazze applaudirono. Lui tornò su per ricevere gli
applausi. Peccato che avesse un gran moccolone che gli colava dal naso. Se lo soffiò nell'acqua e scomparve farfallando.
La terza prova consisteva in una passeggiata pomeridiana su un lungomare dove c'era uno sgombiglio di gente, e poi
si doveva prendere il gelato. Lì il gelato non era come da
Balduino, mottarello, coppa del nonno o vaffanculo. E neanche in città avevo mai visto un campionario così. C'erano le
coppe che si chiamavano Antartide, Golosone, Brivido Blu,
Tentation al caffè, Tropicana, Troppobuono, Tour Eiffel.
Ognuno costava come due tagliatelle, due polli, dolce, frutta
e caffè.
Ci sedemmo a questo bar con vista sul passeggio, si era
aggiunto Ettore che era un ragazzo occhialuto che stava sempre zitto, tanto parlava Giusi. E le pupe eccitate dissero, dai,
prendiamo un bel gelato.
– Ma sono le cinque – dissi io – poi passa la fame.
Mi guardarono male e capii che avevo rivelato la mia
natura di boscaiolo. Giusi e Selene presero due Brivido Blu,
Ettore scelse il Tropicana, io, visto che ero stato a Parigi, ordinai un Tour Eiffel.
Le mie aspettative erano di tre tipi.
Un gelato in coppa larga, per bocche grandi, tutto di pesca con in cima un ombrellino di pizzo rosa.
Oppure, un gelato di kebab con panna.
Oppure una Tour Eiffel di zucchero e ogni piano un sapore diverso.
Invece era un gelato di crema e cioccolato con quattro
ombrellini, e un obelisco di panna montata, che forse quello
era la Tour Eiffel.
Iniziammo a sbrodolarci. Io il mio lo lasciai a metà.
– Non ti piace? – disse Ettore.
– No, è buono, ma non capisco perché si chiama Tour
Eiffel.
– Perché forse c'è dentro un liquore francese – disse Selene.
– Perché la crema è tipicamente francese – affermò Giusi.
– Se non lo finisci lo mangio io – disse Ettore.
E scoprii qual era il secondo lavoro di Ettore: la chiavica. Naturalmente pagai io, perché nessuno faceva il gesto.
La quarta terribile prova era la pizzeria. Ordinammo la
pizza alle otto e mezzo e alle nove e un quarto avevamo
mangiato tutto, i grissini, il pane e anche delle caramelle
mou di Giusi. Il cameriere ogni tanto ci passava davanti e diceva: le vostre stanno arrivando.
Così io capii che al mare non è come da noi che uno va
in una pizzeria e lì gli fanno la pizza. Le pizzerie sono collegate con un sistema che uno ordina una pizza e gliela fanno
in un'altra pizzeria, mentre nella pizzeria dove sei fanno la
pizza magari per gente che sta a una ventina di chilometri, o
in montagna. Quindi le nostre pizze stavano arrivando da
qualche località segreta, e bisognava avere pazienza. Illustrai
questa teoria, ma nessuno rise, anzi Selene disse:
– Qua non è come in paese, quattro gatti e ti servono subito. Qua è pieno di gente.
Era davvero stronza, pensai di alzarmi e andarmene ma
in quel momento arrivarono le pizze. Loro avevano ordinato
tre margherite, e io una alla salciccia. Arrivarono una margherita, due alle verdure e due ai frutti di mare. Per quella in
più non c'era problema, Ettore era una sicurezza. Io presi
quella alle verdure, avevo una fame che avrei mangiato anche una pizza al kerosene.
L'ultima prova della giornata era il Dancing Bluemoon.
Entrammo alle undici, era già l'ora degli smorzoni, cioè del
ballo della mattonella, che crea condizioni ideali per conquiste e conferme. Un'orchestra suonava in un palchetto sotto i
pini, era quasi buio, avanzavamo in mezzo alle sedie e ai bacianti, ribaltando chinotti. Non andammo al tavolo di Vanes,
ma al tavolo di tale Ninni, un affascinante imbecille ventenne con una camicia fosforescente. C'erano ragazzi e ragazze,
tutti un po' rossi di sole e nessuno con un nome cristiano, ma
tutti Ninni e Fede e Cris e Ghigo e Marcy e ognuno parlava
con tutti contemporaneamente, e Selene si mise a parlare con
Marcy, faceva apposta a lasciarmi da solo. Pensai, adesso mi
alzo e me ne vado, e due. Invece passò Vanes e disse: eccola
la bionda della piattaforma. Balli?
Selene disse, no, questo ballo l'ho promesso al mio ragasso, e mi indicò.
Vanes mi guardò con disprezzo, ingaggiò una tedesca e
dopo dieci minuti le aveva già interamente lubrificato un
orecchio. Selene invece non ballò col suo ragasso, cioè me,
ma con Ninni, e allora io invitai Cris, lei ballò con Ghigo e
io con Marcy e così via, e stavo pensando adesso me ne vado
numero tre, quando si presentò il presentatore, che sembrava
il babbo di Vanes con una parrucca di felino morto in testa, e
disse:
– Signore e signori, l'attrazione di stasera è la gara di
ballo divisa in ben tre categorie con ben nove premi. I premi
sono offerti dalla Boutique del Dollaro di Rivabella, e consistono per ciascheduna categoria in: primo premio un pupazzo di peluche, secondo una confezione di profumi da donna,
terzo una bottiglia di moscato.
E mostrò tre conigli alti come corazzieri, tre pacchetti
dorati e tre bottiglie.
– Oh sì, il coniglione sì – disse Selene. Il cromosoma di
paese stava venendo fuori.
– Ma fa schifo – disse Giusi.
– Lo voglio – disse Selene. – Saltatempo, guai a te se
perdiamo.
Facile a dire, lì erano tutti ballerini provetti, che si dimenavano sulla pista come saltabecchi, sapevano ballare tutti,
anche i tedeschi.
Le categorie furono annunciate ed erano: beat dance,
cioè balla come cazzo ti pare, cha cha cha e valzer. Ripresi la
speranza.
– Selene, il valzer, ti ricordi, lo ballavamo in piazza da
bambini, tu eri bravissima e io me la cavavo.
– Ma il valzer è da vecchi – disse Selene.
– Se vuoi il coniglione, valzer – dissi io.
Si convinse. Partì la prima gara di beat dance. L'orchestra Max e i vocalist attaccò una canzone che verso la metà
capii che poteva essere anche Get Off of My Cloud (R. Stones). I danzatori non erano granché, ma alcune donne muo-
vevano il culo di più e Vanes faceva delle penetrazioni aeree
col pacco e vinse lui, secondi dei ragazzini tutti snodati, terzi
Giusi e Ninni.
Seconda gara, cha cha cha, brano Patricia (P. Prado). E
lì c'erano due coppie di professionisti che stracciarono tutti,
primo e secondo, terza una mamma con figlio.
Ultima prova, valzer. Non erano affatto tutti vecchi, c'erano due coppie di tedeschi, di cui una duecentotrenta chili
in due, alcune coppie locali sui trent'anni, due bambini e noi.
Merda, pensai io, i bambini fan simpatia.
Il valzer partì, era Diavoletto (S. Belloni). All'inizio eravamo un po' rigidi, poi prendemmo un buon svolazzo. La
bimba scapuzzò e si ritirò zoppicando, una in meno, pensai
spietato. Vidi subito che le coppie erano modeste, tolti due
vestiti di nero che sembravano unti tanto andavano svelti, e
poi c'era una sorpresa. I due panzer crucchi volteggiavano
come libellule, piroettavano con l'effetto tornado e ti spazzavano via. Noi contavamo sul dato glamour. Io ero un po' rigido ma elegante, dieci anni di ballo in piazza ti danno una
certa postura, e Selene aveva fatto scuola di danza e si vedeva, faceva svolazzare i capelli, e notai che, quando girava, la
sottana si sollevava e si vedevano le gambe.
– Più veloce – dissi io.
– Mi si vedono le mutande.
– Coniglione – dissi io, e alla parola magica lei partì
come una trottola.
Ci fu un applauso, e tutti sudati ci presentammo alla
giuria, che poi erano quelli dell'orchestra.
Il verdetto fu ingiusto.
Primi i panzer tedeschi, per la simpatia.
Secondi noi, per le mutande.
Terzi i due vestiti di nero, che erano di gran lunga i migliori ma la presero sportivamente e incassarono il moscato.
– E' che stasera avevo le mie cose – spiegò la ballerina.
Selene era sudata e un po' contrariata, ma la fortuna ci
sorrise. Il panzer arrivò e disse:
– Mia moghlie dicie lei piace parfuma italiano, se voi
disponivoli cambia nostra coniglia con vostra confezzione
profuma, hein?
Noi disponivoli prende coniglia e lascia confezziona
profuma a moghlie tedesca e tutti noi felici e amicizia ItaliaDeutschland rinsaldata.
– Che bella serata – mi disse Selene, davanti alla pensione.
– Davvero – sussurrai io, cingendola alla vita.
– Ci vediamo domani in spiaggia – mi disse divincolandosi, e mi baciò sulla guancia.
Si allontanò, tenendo il coniglione in spalla come fanno
i cacciatori col cinghiale.
Mi buttai sul letto della camera con gli occhi pieni di lacrime. Dissi, stavolta me ne vado davvero, si voleva vendicare e basta, ci son caduto come un cretino, vaffanculo Riva-
marina. Ho rischiato di morire annegato, ho speso due milioni di gelato, ho mangiato una pizza fredda coi cavolini di
Bruxelles, ho ballato e il coniglio se l'è preso lei, ma adesso
basta, domattina prendo il treno e torno a casa, basta con le
donne italiane, d'ora in avanti solo francesi e tedesche sopra i
cento chili.
Feci subito la valigia e naturalmente non dormii fino
alle cinque.
La mattina mi svegliai alle dieci. Ma non presi subito il
treno, pensai che volevo vederla ancora un'ultima volta. E'
stata meschina, cattiva, ma anche io lo sono stato, voglio lasciare da parte l'orgoglio. La vado a salutare e le dico, va
bene, hai avuto la tua vendetta, me ne vado, ma per favore,
non diventare una che si comporta così, l'amore non è fatto
solo di ricatti e di rivincite, non è una gara. Io comunque ti
vorrò sempre bene anche se sei un po' stronza, anzi molto
stronza.
Dicevo queste cose a alta voce, camminando verso la
spiaggia, e la gente mi guardava come un pazzo. Cercai l'ombrellone di Selene ma non lo trovavo, finché sentii la sua
voce e mi corse incontro. Il viso era radioso. Cosa le era successo quella notte? Aveva trombato col coniglio?
– Cosa fai tutto vestito? Dai, prendiamo un moscone.
– Andiamo a pescare?
– No, scemo – rise lei – il moscone è quello lì, è una
barca di legno coi remi.
– E chi andiamo io te e Giusi e Pappi e Cris e Vanes e la
madonna?
– No, io e te da soli.
Per fortuna sotto avevo il costumino, avevo dimenticato
di portare le mutande di ricambio, un altro segno del destino.
Remai come potevo, non ero un gran vogatore. Lei si era stesa sulla poppa del moscone, che era una specie di tavolone
da abbronzatura, e mi diceva: sei diventato robusto, che spalle hai messo insieme, e si tolse il reggiseno.
Io pensai, se si vuol vendicare ancora può farlo, ma recupereranno il corpo tra una settimana, se le correnti sono favorevoli.
Invece lei disse:
– Sono stata un po' perfida, ti ho messo troppo alla prova, vero? Ma volevo vedere se hai ancora quel maledetto testardo orgoglio e soprattutto se ci tenevi a me. Io a te ci tengo molto.
Smisi di remare. Il sole era caldo, e per una legge fisica
elementare anche la sua pelle. Cominciammo a baciarci e
non smettevamo più. Io sentivo la schiena in fiamme, lei stava diventando color mazzancolla, ma non mollavamo. Facciamo un tuffo, disse lei, no dissi io, e continuai a baciarla.
Finché sentimmo un colpo sordo e tirammo su la testa.
La corrente ci aveva portato a venti metri dalla riva, novanta alberghi a ovest. Avevamo speronato un altro moscone
con a bordo padre, madre e tre bambini dall'aria stupefatta.
– Attenti a dove andate – disse il padre con aria paterna.
Io mi alzai in piedi e dissi:
– Scusate, ci si è rotto un remo.
Tre figuracce in un colpo solo.
Uno, il remo non era rotto e si vedeva benissimo.
Due, Selene aveva il reggiseno di sbalerzo.
Tre, alzandomi in piedi mi accorsi che ce l'avevo duro
da tre ore e anche se non si trattava di misure da Vanes, c'era
un evidente effetto piramidale nei miei slip.
Il padre cercò di remare a marcia indietro, uno dei bimbi
chiese:
– Papà, quel signore ha la coda?
Quella notte facemmo il nostro primo amore sadomaso,
eravamo ustionati e ogni contatto ci faceva male.
– Ci sarà tempo per farlo benedisse Selene.
– Sì – dissi io – quindici anni, hai giurato.
Tornai al paese col naso che mi si staccava a pezzi. Non
c'erano buone notizie. Gancio aveva avuto un altro collasso,
si era ripreso ma ora era in città, in una clinica. Zio Nevio si
batteva come un leone contro Fefelli, che voleva aprire una
nuova strada attraverso il castagneto e la Fanara, per costruire ancora più in alto, in mezzo al bosco. Addirittura si parlava di far saltare degli speroni di roccia con la dinamite. Piccoli orrori di paese e grandi orrori nel mondo. A Praga c'era
stata l'invasione russa, e alla casa del popolo si erano divisi e
avevano fatto a botte. Avevano dato del fascista a Baruch
perché aveva detto, io i carri armati purtroppo li ho già visti,
e questi non sono proprio uguali ma ci somigliano.
Mio padre disse tristemente:
– Per me la Russia non esiste più. Mi dispiace solo per
Karamazov.
Lo disse come se fosse ancora vivo.
– E tu come la pensi? – mi chiese.
– Come te, papà – dissi.
– Per una volta siamo d'accordo in politica, ci sarà la
neve a agosto – disse. Lo trovai invecchiato, aveva perso
molti capelli e i suoi movimenti erano lenti, come temesse da
un momento all'altro di cadere. Solo quando lavorava ringiovaniva, e volavano trucioli come stelle filanti. Ma non riuscivo a essere triste, in quei giorni.
Uscii sul prato, guardai le stelle e pensai: le stelle esistono perché amo Selene, se non la amassi scomparirebbero.
Neanche Verdolin avrebbe osato tanto.
Arrivò scodinzolando Rufus. Aveva un'aria più responsabile perché aveva avuto undici figli. Anch'io e Selene, pensai, magari non tutti insieme.
4.
Il mio ultimo anno di liceo iniziò e si interruppe bruscamente con la prima occupazione, anzi doppia occupazione. Il
gruppo di Riccardo aveva occupato il primo piano della
scuola, contro l'autoritarismo scolastico e padronale, per un
seminario autogestito sulle nuove forme di pensiero antagonista. Il gruppo di Tamara aveva occupato il secondo piano,
contro l'autoritarismo padronale e scolastico, per lezioni autogestite sulle nuove forme di conflittualità operaia.
Io, Fred, Baco e gli amanti perfetti avevamo assunto una
posizione opportunistica, tamaristi con sfumature anarchiche, o anarchici con un fondo di veterotamarismo organizzato. Lussu faceva gruppo a parte.
Erano giorni da cui molti furono trasformati e che altri
dimenticarono in fretta. Di una febbre che fece bene a tutti,
anche a chi non amò quell'anno. Di occupazioni e profanazioni, di cui severi edifici ancora conservano una segreta nostalgia. Giorni di scazzi e ciclostili, di pasti improvvisati e di
schitarrate notturne, fumo verbale fumo giamaicano fumo da
lacrimogeni. Di improvvisi slanci da casalinghe quali lavare
tutti i pavimenti e di incomprensibili raptus di guerriglia,
quali lo svitare i rubinetti, gesto di cui non si trovava traccia
negli scritti del Che. Tutto questo in un variopinto proliferare
di scritte sui muri, di messaggi d'amore e accuse politiche, di
disegni di Verdolin, di cazzi frettolosi che le femministe sot-
tolineavano con pistolotti critici, oppure di slogan femministi
sottolineati da cazzi anonimi, perché noi maschi in assemblea stavamo zitti, ma nell'intimità ci scatenavamo in lamenti
e accuse di lesbocattononmeladaismo.
Ma la notte smussava le polemiche e arrotondava le
ideologie, nei giacigli improvvisati e dentro i sacchiapelo
fiorivano accoppiamenti vari, anche tricuspidati e col turnover, grandi liberazioni, scene di gelosia con lacrime e dubbi
laceranti tra il personale e il collettivo.
Come quando Mina, quella con le treccine, una sera
chiese, potrebbe venire a dormire qui il mio ragazzo che però
è apolitico?
Le donne risposero sì, perché la tua sessualità fa parte
della tua militanza ma non è a essa subalterna, basta che non
sia proprio un fascista.
Gli uomini risposero no, perché ci siamo qua noi e non
comprendiamo perché si debba tocciare fuori nel calderone
della sessualità qualunquista quando qui c'è tanta fava rivoluzionaria.
Uno addirittura sostenne: sarebbe come a dire, sono in
camera col Che e apro la porta a Fanfani.
Lo cacciammo via noi prima che lo picchiassero loro.
Alla fine si decise: vediamo come si comporta il tuo ragazzo. Costui, che era assai furbo, diventò compagno in una
settimana e si trombò una tedesca in stage di estremismo in
Italia.
Spesso Selene veniva a prendermi, vestita secondo lei
da occupazione, con un poncho e delle scarpe da tennis masticate, le mancavano solo la merenda e il mitra. Io le dicevo,
non voglio che ti politicizzi per forza, voglio che tu mantenga la tua indipendenza. La mantengo, la mantengo, disse lei,
ci pensi tu a farmela mantenere. Carpaccio le fece un interrogatorio e alla fine la definì una socialdemocratica di stampo
borghese-scandinavo-solidarista, ovverossia l'ultimo posto
disponibile a destra nel nostro schieramento rivoluzionario.
Tirai un sospiro di sollievo. Facemmo l'amore più volte non
in un sacco a pelo, ma in un indimenticabile sandwich di
plaid scozzesi intrisi di naftalina, per cui durante l'amplesso
ogni tanto lei diceva: baciami, Eta Beta.
Poi Selene doveva preparare delle interrogazioni importanti e disse, non ci vedremo per un po'.
Durante quel po' succedette molto.
Ci fu un'assemblea bollente. Tamara disse che i riccardiani non avevano nessun rapporto con la classe operaia ma
solo con le avanguardie intellettuali privilegiate. Riccardo
disse che i tamariani erano legati a una ingenua e mitica concezione della classe operaia senza in realtà conoscerla, e temevano l'intelligenza critica degli intellettuali, che sono in
fondo gli operai del pensiero.
Seguirono alcuni argomenti quali una sedia in testa a
Giap, schiaffi misti etero e omo.
Il dibattito fu interrotto dalla polizia che ci diede una
rullata di botte e sgomberò. Paolo Lingua riportò la frattura
di un mignolo.
Il giorno dopo rioccupammo.
I riccardiani tirarono un colpo basso e decisivo verso la
leadership globale. Fecero un'assemblea con due veri operai
metalmeccanici, addirittura uno in tuta. Mancava solo il cartello con la scritta «operaio» e la fiamma ossidrica. Li misero
in mezzo all'assemblea e quelli erano un po' imbarazzati, poi
parlò uno studente con l'accento veneto e l'operaio con la
tuta disse, sei di Treviso anche tu, si sbloccarono e si misero
a parlare delle piccole fabbriche e dello sfruttamento. Fu un
successo, poco mancava che alla fine gli chiedessero l'autografo, pensa, due operai veri, ne ho anche toccato uno. Riccardo gongolò.
Noi sappiamo parlare con gli intellettuali, e anche col
proletariato, disse, voi no.
Allora io e Fred preparammo la contromossa. Il giorno
dopo in bacheca c'era la scritta: Aula sette, secondo piano, il
collettivo Bateau Ivre presenta un incontro col filosofo francese Jean-Baptiste Paponnard, dell'Università di Narbonne,
autore dei libri La finzione della libertà e Per un comunismo
delle ambiguità, sottotitolo Da Karl Marx a David Bowie. I
libri saranno pubblicati in Italia dalla nuova casa editrice Fanara.
Era la risposta al precettamento dei due operai. Riccardo, interrogato, disse che Paponnard era un allievo minore di
Foucault, comunque interessante nella sua medietà: perciò la
sala si riempì dei due gruppi uniti.
Paponnard entrò: aveva una gran testa di capelli bianchi,
indossava una palandrana sdrucita ed era palesemente sbronzo. Toccò subito una tetta alla Schiassi, rischiando di venire
pugnalato dal lapis indaco di Verdolin. Poi chiese una birra,
ruttò e iniziò a parlare.
Io traducevo.
Disse che vivere dans la rue, in strada, è l'unica verità,
perché solo da lì puoi vedere la gente e capire veramente
dove va la storia, e che scopare, fumare e bere sono le uniche
cose che rendono la vita sopportabile. Ma un giorno i siriani
scenderanno con le loro astronavi sulla terra e giudicheranno
chi ha agito bene e chi è stato malvagio. Caricheranno sulle
astronavi i buoni e li porteranno a Sirio Uno, che è un posto
pieno di sole, alberi da frutta e cani. I malvagi invece andranno su Sirio Due, che è un posto come l'inferno, solo che
invece del fuoco ci sono le docce, tutto il giorno docce gelate, e guai ribellarsi.
Era un discorso fortemente metaforico, che io cercai di
rendere accessibile. Ma tutti avvertirono che nascondeva una
profonda verità.
Riccardo convenne che vivere in strada, cioè nel caos
della rivoluzione, aiuta a conoscere i veri bisogni della gente,
e che era d'accordo sull'astronave, perché le idee nuove non
possono provenire da ciò che già conosciamo ma da un altro-
ve, da un'eterotipia per dirla con Foucault, un ailleurs che
dobbiamo saper riconoscere, quando verrà.
– C'est ça – rispose Paponnard.
Paolo Lingua disse che questa immagine dell'inferno
come doccia continua è un forte invito all'azione, siamo
sporchi di revisionismo e sensi di colpa, e questo giustifica
un grado di violenza di volta in volta verificabile, perché una
coscienza pulita non sempre è una coscienza pacifica.
– C'est ça – disse Paponnard.
Una rossa, con una chioma come una molotov, disse che
non aveva capito se i siriani erano quelli di Damasco, nel
senso della potenzialità rivoluzionaria islamica, o qualcosa di
diverso.
Paponnard disse che parlava di Sirio, la stella lassù, e
che quella era una gran bella domanda.
In realtà aveva detto che lei, la rossa, era una gran bella
figa, ma io non me l'ero sentita di tradurre.
– Cosa c'è di diverso tra il movimento francese e quello
italiano? – chiese Tamara.
In Francia, disse Paponnard, è più facile trovare da mangiare, ci sono molti posti di assistenza, mentre in Italia i negozi di alimentari sono meno sorvegliati ed è più facile rubare, inoltre in Italia lavano spesso la strada di notte, mentre in
Francia è più facile essere picchiati.
La metafora era assai ardua. Solo Giap la capì.
Il compagno Paponnard intende dire che in Francia la linea politica vien spesso data come elemosina dai falsi leader,
mentre in Italia bisogna ribellarsi e rubarla ogni giorno alla
realtà. In quanto alla violenza, in Italia si cerca di lavarla nascostamente e ipocritamente, mentre in Francia la repressione poliziesca non si nasconde, ed è quindi meno subdola.
– C'est ça – disse Paponnard.
Si alzò Lussu che aveva sgamato.
– Professor Paponnard – disse – lei ha un cane?
Paponnard si mise a piangere e disse che l'aveva avuto,
ma li avevano separati a forza una sera che faceva troppo
freddo, la polizia l'aveva portato dentro a forza per fargli la
doccia e lavargli i vestiti, e lì i cani non potevano entrare,
quando era uscito Boulboul non c'era più.
Io tradussi in modo confuso, ma stavolta ci fu un attimo
di vero sconcerto. Fred si alzò e disse:
– E' chiaro che in ogni azione politica c'è qualcuno al
tuo fianco e non bisogna perderlo, e questo è un invito all'unità.
Paponnard vomitò e noi applaudimmo.
Se ne discusse tre giorni, finché Riccardo non vide Paponnard elemosinare all'angolo della chiesa, e fu chiaro ciò
che molti avevano capito subito. Avevamo spacciato per filosofo un barbone francese che da qualche tempo vagabondava in città.
E' una truffa infantile e fascista, dissero i riccardisti, è
un modo creativo di coltivare l'autoironia, rispondemmo noi.
Paponnard era un vero filosofo, aggiunse qualcuno, e andò
persino in libreria a chiedere Da Marx a Bowie. Insomma,
Jean-Baptiste Paponnard visse a lungo nel nostro immaginario. L'unico inconveniente fu che Paolo Lingua spaccò un
labbro a Fred dicendo: vile, tu irridi la rivoluzione. Ma il
giorno dopo venne la televisione a intervistare gli occupanti
e Lingua riuscì a farsi intervistare solo lui. Da quel momento
iniziò il suo rotolamento a destra, un partito all'anno.
Dopo un mese trovai casa, un buco odoroso di cesso, ma
dalla finestra vedevo un albicocco, e dal davanzale entravano
gatti assai cordiali. Misi alle pareti un poster del Lago Ontario, una foto di Selene, un Che Guevara, un Lee Evans, un
Gramsci, un Poe, vari Beatles e mi sembrò una bella stanzetta. Da molto tempo andavo nella clinica dove era ricoverato
Gancio, ma mi spiegarono che stava ancora riprendendosi e
non poteva vedere nessuno. Finalmente una volta dissero,
può entrare, ma non lo agiti.
Gancio era seduto davanti alla finestra, seguiva i voli
dei passeri, muovendo la testa come un gatto. Forse sognava
la sua vecchia cerbottana. Aveva i capelli rasati a zero ed era
magro come una palanca, il ragno dei muri. Lo abbracciai, e
mi sembrò di vetro.
Si sdraiò sul letto a braccia conserte. Aveva nello sguardo un'infinita stanchezza e una grande dignità.
– Mi son fregato da solo, Saltatempo – disseti ricordi al
fiume, quando nuotavamo verso la fine della pozza, dove
l'acqua va verso il ponte e si avvita nei mulinelli, facevamo
la gara a chi resisteva di più, mentre la corrente aumentava.
Vincevo sempre io, nuotavo a riva un attimo prima di essere
trascinato via, voi mollavate ancora prima. Per me è sempre
stato così, mi piace dove tutto scorre forte, dove c'è pericolo.
Adesso la corrente mi ha fregato, e sono affondato.
– Se passi la rapida, poi torna la calma, e in fondo c'è il
mare.
– Sì, il mare – disse lui, socchiudendo gli occhi da indio
– stavo bene al mare con Nora, poi sono venuti loro. Mi hanno trovato, mi han portato la roba fino in casa, me l'hanno regalata.
– Loro chi?
– Non importa. Come sta Selene?
– Bene. Sta studiando forte.
– State insieme? Il playboy londinese è ancora in agguato?
– Non ti ringrazierò mai abbastanza per quello che mi
hai detto quel giorno alla festa. Mi hai aiutato.
– Davvero? Non me ne sono accorto. Hai una sigaretta?
– Non fumo Gancio, te lo sei scordato?
– Hai qualcosa di forte da bere?
– La prossima volta provo a contrabbandare una bottiglia di acqua di fuoco guatayaba. Promesso.
– La prossima volta – rise Gancio.
Un'infermiera entrò, gli prese il braccio magro, fece
un'endovena, uscì senza parlare.
– Mi tengono calmo, calmo quasi morto – disse lui sorridendo amaro.
– Tieni duro, Gancio – dissi. – Zio Nevio ti aspetta, ha
detto che ha un vero lavoro per te.
Gancio divenne bianco cadaverico, si aggrappò alle coperte. Mi spaventai, stavo per chiamare un dottore, ma lui mi
fermò con un gesto del braccio.
– Non è niente. E' questa robaccia che c'è nella puntura,
mi fa vomitare. Il dottore dice che ho il fegato di un novantenne, mica male vero? Meglio quando vomitavo per la birra.
– Vomiterai ancora con noi.
– Non lo so, Saltatempo – disse Gancio bevendo acqua
a piccoli sorsi – i guatayabas vivono in media ventotto anni,
mi sembrava un obiettivo possibile, adesso non so. Però fammi una promessa. Anzi due.
– Tutto quello che vuoi.
– Primo, quando torni al paese, di' a zio Nevio che mi
hai trovato bene, fresco come una rosa. E se dovesse arrivare
la mannara, insomma la freccia guatayaba nella schiena, digli che mi sono sempre accorto di quello che faceva per me,
anche se magari non l'ho ringraziato abbastanza.
– Smettila di parlare come un morto.
– Son discorsi che si fanno una volta nella vita e mai più
– disse Gancio. Dove avevo già sentito quella frase? Poi aggiunse, con voce improvvisamente dura:
– Come seconda cosa, vendicami.
– Di chi?
– I Pastori e i loro amici, Saltatempo. Possibile che nessuno si sia mai chiesto da dove arrivava l'eroina, e mica si
trovava solo in discoteca, anche in paese al Mefisto bar e in
un sacco di altri posti, io dico che parecchi lo sapevano e facevano finta di non vedere. Come credi che si siano comprati
le loro belle macchine quei bastardi, solo con lo stipendio di
Fefelli? Rifornivano loro tutta la zona, insieme a dei fetenti
di città. La colpa di quello che è successo è solo mia, ma io
sto pagando, loro no. Una volta la polizia li beccò davanti
alla discoteca, li arrestò. Fefelli si è messo di mezzo, li ha
fatti liberare, ha garantito lui. Adesso non spacciano più, ma
la roba che han venduto non torna indietro, resta nel mio sangue. Vendicami, Saltatempo. Io so che è un brutto coltello a
punta che ti metto in mano, ma tu sei l'unico che qualche
volta ho sentito simile a me.
– Non lo so, Gancio – dissi, senza riuscire a guardarlo in
faccia – adesso cerca di riprenderti, poi penseremo a queste
cose.
– Bastardi – ripeté lui, a occhi chiusi. Il drago tatuato
sul suo braccio sembrava scolorito, temetti che volasse via,
insieme alla poca forza che gli restava.
– Ma se i Pastori hanno smesso – chiesi – dopo chi ti
dava la roba?
– Meglio di no – disse Gancio – non chiedermelo, per
favore.
– Hai paura?
– Io non ho paura di nessuno – disse lui – dopo di loro,
ci sono dei ragazzi giovani che viaggiano in vespa, la porta-
no di paese in paese. Forse i Pastori sono ancora i magazzinieri, non lo so. E poi…
– E poi?
– E poi qualche volta me l'ha venduta Osso. Quel giorno
cambiò parecchie cose. Capii che l'Ombra che stava coprendo il paese era più grande e mortale di quanto avessi mai
pensato. Avevo quasi paura di tornare. Studiai giorno e notte,
a testa bassa. Con Selene ero silenzioso, lei aveva capito che
era successo qualcosa di grave, ma non chiedeva nulla. Sentiva che in qualche modo mi stavo allontanando da lei. Le
parole di Gancio mi avevano colpito come una coltellata: tu
sei simile a me, aveva detto. Una rabbia uguale ci univa. Io
ero uscito prima dalla corrente gelida, ma forse un giorno sarei rimasto fino in fondo, a sfidarla del tutto. Non seguirmi
Selene, dissi una volta che ero ubriaco, io ho una brutta strada davanti.
– Se vuoi lasciarmi, di' che ami un'attrice del cinema,
quello mi spaventerebbe. Ma quello che hai detto ora, no –
disse lei con calma.
– Ho una relazione con Brigitte Bardot e una con Cary
Grant.
– Passami Cary e tieniti la tua puttanella.
Selene aveva reimparato a scherzare, e questo mi faceva
felice. Ma avevo paura per lei e per me. Un giorno lessi questi versi di Apollinaire:
Aspettavo la fine del mondo
La mia arrivò, fischiando come un uragano.
Tornai al paese per le vacanze di Natale, il mitico anno
era alla fine. Il paese era tutto coperto dalla neve quando arrivai, il treno si fermò un chilometro prima, dovetti farla tutta
a piedi. E i segni dell'uragano c'erano già.
Papà mi raccontò che la notte prima c'era stato un delitto, il primo delitto del paese dopo la guerra. Favilla il fabbro
era impazzito, aveva ucciso la moglie con una fucilata e si
era sparato in bocca. Senza motivo, dicevano, ma non era
vero. Gli usurai lo avevano rovinato. Si era indebitato per
aprire un negozio di ferramenta, e non ne veniva più fuori.
– Chi sono gli usurai – dissi – e chi vende droga in paese?
– Te lo dirò solo quando sono sicuro – disse papà – l'unica cosa di cui sono certo è che i soldi sono diventati diversi, non sono più qualcosa che tieni in tasca per comprare
quello di cui hai bisogno. Sono dei macigni, che calano sulla
testa della gente e la stordiscono, nessuno più dice che gli sta
andando bene, tutti sono scontenti, i soldi non bastano mai.
– Come in città.
– Non lo so come è la città – disse scuotendo la testa. –
Qua ci hanno messo uno contro l'altro.
La vigilia di Natale era un freddo antartico, Regina preparava un'oca farcita che sembrava la preparazione della
mummia di Ramsete e disse, fuori dai coglioni, ragazzo. Allora andai a fare gli auguri a Balduino. Dondolo se ne era an-
data a vivere col musicista ed erano arrivati due nuovi flipper, uno si chiamava Pirates. Balduino disse che voleva vendere il bar, ce n'erano altri tre ormai in paese, da lui venivano
soltanto i vecchi momentaneamente vivi. Io continuerò a venir qua, dissi. Va' là, rise, che le pupe sono al Mefisto o al
nuovo bar vicino alla banca, che fa gli hamburger, che sarebbero venti lire di pane, centottanta di polpetta e milleottocento lire di nome americano. Se io facessi un panino al burro e
lo chiamassi Neve del Nebraska, a quanto potrei venderlo?
Sai cosa dice Baruch? Che nel ventennio dovevamo chiedere
il permesso ai tedeschi, adesso lo dovremo fare con gli americani. La storia gira come una giostra.
Camminavamo, con le mani in tasca e la faccia nascosta
nel bavero, quando sentimmo un suono provenire dal campanile, una raffica di vento ci soffiò la neve in faccia. Ma eravamo equipaggiati a vodka, due sorsi e andammo avanti. I
lavori della fontana proseguivano, il misterioso capolavoro
era nascosto da un telo coperto di neve, sembrava un iceberg
in mezzo alla piazza. L'orologio del campanile batté le otto.
Vidi per un attimo la fontana splendere al sole, in un carosello di lucci e delfini. Poi vidi, in alto sul campanile, un
paio di gambette in calzamaglia rossa, che sporgevano nel
vuoto. Era il Diavolo Violinista che suonava la sigla dei telefilm di Hitchcock (H. Berlioz).
– Il diavoletto delle piccole rogne – disse Balduino.
Ma un nuovo schiaffo di vento quasi ci fece cadere. Volando in mezzo al nevischio, vedemmo l'Ombra coprire la
piazza e passarci sopra con uno stridio di uccello. Scalò il
campanile, lo dipinse di nero e avvolse il diavoletto, che di
colpo smise di suonare e precipitò. Andammo sul punto dove
l'avevamo visto cadere, come i cani col fagiano. Non c'era
nulla, solo l'impronta di un piccolo corpo, e un po' di roba
rossa che sembrava cera di candela.
Il giorno dopo andai nel bosco, a cercare dei rami di forma strana, papà voleva fare un grande centrotavola per una
cena alla casa del popolo, si festeggiavano i sessant'anni di
Baruch. Salii fino alla Fanara, la vasca era gelata, dagli alberi intorno pendevano pugnali di ghiaccio, sembrava di essere
in una grotta fatata. Piccole orme di animali erano ricamate
sul terreno. Vidi anche delle orme più grosse, di un piedone
stivalato.
– Gnomo – dissi a alta voce – vieni a pattinare sul
ghiaccio.
Nessuno mi rispose.
– Gnomo, fottuto boleto malefico, vieni, è Natale, ho un
regalo per te.
Era vero, avevo un temperino.
Il bosco rimase silenzioso. Seguii le orme dello gnomo.
Diventavano sempre più vicine una all'altra, segno che era
stanco, poi scomparivano dentro un albero cavo.
Misi la testa dentro al buco.
– Vieni fuori – dissi.
Poi guardai meglio. L'albero era contorto e con grandi
radici, sembrava avere braccia e gambe, ma soprattutto ave-
va in alto due rami carichi di neve che sembravano proprio
baffi candidi. Il buco era la bocca, e due nodi nel legno gli
occhi.
Il mio gnomo riposava, in un sonno secolare. Il bosco
stava perdendo le sue creature a una a una.
Venne inatteso il sole. A Capodanno era quasi tutto sgelato, l'acqua cantava giù dagli alberi e nelle forre, formava rigagnoli e cascatelle, attraversava i prati e lustrava la strada.
– E' bello – dissi io, mentre aiutavo mio padre a segare
un tronchetto.
– Era meglio se restava neve – brontolò lui.
Il destino del paese era in bilico tra la testardaggine di
zio Nevio e il potere di Fefelli e dell'immobiliare Arcari, che
stava ingrandendosi in tutta la regione. Zio Nevio aveva
bloccato i lavori della strada verso Monte Mario, e il tribunale gli aveva dato ragione. Ma proprio in quei giorni c'era stato un rimpasto di governo e Fefè, che aveva azzeccato il
cambio di corrente giusto, era diventato sottosegretario dei
Lavori Pubblici. Adesso contava dieci volte di più. A Capodanno ci furono i botti, eravamo tutti in strada, al bar di Balduino guardammo in televisione i festeggiamenti di tutto il
mondo. A New York e Mosca e Rio brindavano uguale a
noi. Telefonai a Selene che era in vacanza in montagna, ti
penso le dissi, io di più rispose lei, Brigitte Bardot è lì con
te? Sì, ma si è messa con Baco, dissi, e Cary Grant sta con
Fred, sei fregata.
Qua si scia, mi disse e io risposi, anche qua. Era vero.
Caprone aveva preso il trattore e con una corda faceva servizio di seggiovia, tirava tutti su dal pendio sotto il campo di
calcio, e poi noi scendevamo. Io avevo trovato dei vecchi sci
di bambù, Baco dei Rossignol tutti scheggiati. Roda faceva il
fico con degli sci nuovi ma se a calcio era bravo, a sciare
sembrava che avesse tre gambe che si annodavano.
Balduino e Carburo, ubriachi, presero lo slittino e dissero:
– Adesso l'equipaggio Italia uno batterà gli odiati tedeschi Wührer-Jägermeister.
Partirono e li vedemmo scomparire dentro il macchione
alla velocità della luce. Il Dio dei beoni li salvò, si graffiarono solo la faccia.
Il secondo giorno del nuovo anno l'uragano arrivò all'alba. Sentii dei camion ingranare la ridotta della salita, ma ero
troppo stanco per chiedermi perché lavoravano a quell'ora.
Salirono dalle Roselle, sulla strada interrotta. Tolsero la sbarra che bloccava il passaggio e proseguirono verso le pendici
di Monte Mario. Qua c'erano due speroni di roccia che impedivano ogni possibile avanzamento.
Cominciò a piovere. Erano le otto di mattina; io mi svegliai sentendo il rumore dell'Apecar di zio Nevio. Era sconvolto, quasi piangente.
Mi mostrò un foglio.
Era un decreto legge ministeriale che concedeva il permesso di attuare i lavori sull'interrotta strada di sviluppo turistico Roselle-Monte Mario di chilometri sei, con data due
gennaio, invalidando ogni altra disposizione in materia.
– Non so come dirlo a tuo padre. Lo svegli tu?
Non ci fu bisogno. Lo svegliò l'esplosione. Altissima e
tonante, come tutti i botti di Capodanno sparati in una volta
sola. E poi il rumore di una pioggia di pietre.
– Che dio li fulmini – gridò zio Nevio – questa è dinamite.
Mio padre apparve in canottiera e mutandoni di lana.
Guardò su, verso il bosco, dove si stava alzando una nuvola
di polvere.
– Hanno fatto saltare il primo sperone di roccia, quello
coi quarzi. L'han fatta grossa.
Uscimmo in strada, parecchia gente era fuori dalle case,
questo li salvò. Perché dopo un minuto sentimmo la terra tremare, e la frana che si avvicinava con un rumore che non
avevo mai sentito, neanche con le piene del fiume.
– Papà – urlai – cosa succede! – Mi sembrava di avere
la voce di un bambino di sei anni.
– Maledetti – disse mio padre, e scoppiò a piangere di
rabbia, le sue lacrime accompagnarono il disastro. Una valanga di terra precipitò sul paese, dalla parte a nord. Quando
ci ripenso, era proprio come un gigantesco corpo umano che
crollava, ferito nel suo cuore di roccia, gli alberi erano le
ossa sgretolate, i nervi le radici strappate, la pelle era l'erba,
l'acqua sotterranea il sangue, e tutto gridava di dolore. Il fiume di terriccio fangoso travolse una decina di case, proseguì
spazzando via vigne e orti, e rotolò in fondo, verso il fiume,
con un brontolio triste e sordo, come a chiedere perdono.
– La casa di Carburo – urlò papà – lui, la moglie, i figliE! si mise a correre, in quel buffo abbigliamento, sembrava un film muto.
– Aspetta – disse zio Nevio – chiamiamo gente.
– Aspetta un cazzo, prendi dei badili.
Dalla curva sbucò Regina in bicicletta, con due vanghe
sulle spalle. E poi il trattore di Luis e quello di Caprone e altra gente, tutti andavano verso la frana. Arrivammo e vedemmo solo terra, i comignoli, un tetto scoperchiato. Due bambini piangevano in mezzo alla strada, erano i figli piccoli di
Carburo, li aveva calati giù dalla finestra.
Iniziammo a scavare, continuava a piovere, io scavavo
con le mani, e mi ferii con una bottiglia, era nocino, eravamo
sopra il tinello di Carburo. Tirarono fuori sua moglie con un
braccio rotto. Luis col trattore riuscì ad aprire un varco nel
muro di terra, apparve un buco tra le travi di un soffitto. Mio
padre si calò dentro, tirò fuori Carburo, le travi cedettero, rimasero tutti e due prigionieri, la testa fuori e le gambe
schiacciate, metà salvi e metà morti. Io urlai e la voce non
veniva fuori. In qualche minuto li tirarono fuori. Carburo era
morto, mio padre respirava ancora, un'ambulanza lo portò
via mentre arrivavano i pompieri.
Ne morirono sei quella sera, Carburo e il figlio Taddeo,
e una coppia di operai del cementificio, con un bambino di
tre anni che aveva il mio stesso nome. E morì nella sua baracca piena di gabbie di canarini anche Slim lo splendido.
Con lui morirono tutte le sue voci di uccelli. Altri se la cavarono per un niente. Se la frana non avesse deviato, se la Fanara e il castagneto e lo gnomo albero non avessero deviato
la sua furia, mezzo paese sarebbe stato distrutto.
Quella notte la passai in ospedale con Regina, mio padre
era sotto i ferri. Un'infermiera gentile mi disse: se vuoi vedere la televisione, parlano del tuo paese.
Non ne ho voglia, dissi.
Meglio così. Era arrivato uno squadrone di giornalisti,
anche Milio in giaccone mimetico. La televisione aveva intervistato zio Nevio che ne aveva dette di tutti colori, ma alla
fine andò in onda solo questa frase:
– Siamo feriti, ma ricostruiremo tutto.
Tutto il resto era stato tagliato.
Poi c'era il parere di un geologo e l'intervista con Fefelli.
– I lavori non dovevano cominciare e quella roccia non
doveva saltare – aveva dichiarato. – Il decreto diceva che da
oggi si dovevano «avviare» i lavori, ma prima di procedere,
ovviamente, ci voleva il parere della commissione territorio
e dei geologi. Ci sono gravi responsabilità e noi andremo
fino in fondo, perché ciò che è accaduto non si deve ripetere.
Non veniva fatto il nome della ditta di Arcari, anche
perché Arcari non figurava in nessun modo, era sparito da
tutte le carte. Responsabili unici restarono due ignoti ingegneri, e tale Fattorini, artificiere, che sparì in Argentina ad
addestrare giovani talenti per esplosioni politicamente più
produttive.
Mio padre era in prognosi riservata per un'emorragia interna. Per le vittime ci fu un funerale imponente con tutti i
sindaci delle valli, Fefelli ebbe la decenza di darsi malato e
non venire. Sembrava una ferita insanabile, il ricordo di un
delitto lento e crudele che ci avrebbe tormentato tutta la vita.
Le ruspe erano già al lavoro. Col loro frenetico avvitarsi
su se stesse, e frugare e spianare, cancellando pietre e terra,
mattonelle e legno e brandelli di vite passate, sembravano
dire al piccolo paese e al paese grande: questa è una delle
prime cose che dovrete dimenticare.
5.
Non avremmo dimenticato, come potevamo dimenticare. Così pensavo mentre andavo in treno verso la Cittàgrande, l'antico capoluogo, con il quaderno nero di mio padre.
Ero stato poche volte nella Cittàgrande, una per vedere la
partita, e due o tre per visitare la biblioteca. Ma non mi fermavo mai, la annusavo e scappavo via. Detestavo il traffico e
i suoi negozi di lusso, mi piacevano l'aria vetusta e gli stucchi col naso rotto, e una certa aria paesana degli abitanti, di
cui però si vergognavano nascondendola sotto abiti di lusso e
scarpe inglesi. In treno lessi il quaderno e scoprii che, oltre a
papà, c'avevano scritto anche Carburo, zio Nevio e Baruch.
Papà parlava degli scavi abusivi nel fiume, dei danni alla
montagna, della gente che andava a abbattere gli alberi di
notte e li caricava sui camion, e lui aveva annotato la targa e
il tipo dei camion. Carburo parlava delle riunioni notturne a
villa Meringa, con le pantere dei carabinieri e le auto blu. Ricordava le amicizie dei Pastori, e il loro arresto per spaccio.
Baruch parlava di usura, faceva il nome di Ossobuco e di un
certo signor C. Zio Nevio aveva messo tra i fogli delle fotocopie di documenti, con le irregolarità che aveva riscontrato
nella gestione Fefelli. Non era il diario di una banda di incazzati vendicativi, no, era un piccolo libro di ribellione civile di
un gruppo di amici, un libro forse settario e ingenuo, ma generoso. Lì c'era scritto: questo tocca anche a noi difenderlo, è
tesoro e pena di chi ci sta vicino, vogliamo che queste cose
cambino, lo speriamo ancora. Ecco il messaggio che andavo
a consegnare alla Cittàgrande, a un uomo onesto a un'istituzione o a un partito, sperando che non sarebbe andato perso,
e mi sentivo investito di una grande missione, così grande
che non mi veniva in mente nessun paragone tipo, che ne so,
Michele Strogoff oppure Pecos Bill che va a chiedere aiuto
per il forte assediato dagli indiani o Aquila Grigia che va a
chiedere aiuto ai Seminoles contro i soldati blu, oppure l'ultimo staffettista della quattro per cento di americani neri incazzati alle olimpiadi, ecco questo era il paragone migliore
anche se, ripeto, ero così emozionato che per me era difficile
fare paragoni, tipo Zanna Bianca che attraversa tutto lo Yukon tirando la slitta col suo padrone ferito oppure più modestamente le tavole di Mosè, va bene, basta.
Io dovevo andare in uno studio di avvocati in piazza
della Giustizia 6/c. In città c'era una gran nebbia, feci fatica a
prendere l'autobus giusto, e scesi alla fermata sbagliata. Mi
trovai in un viale, tra palazzi alti e macchine coi fari accesi,
attraversai di corsa e mi bombardarono di clacson, poi presi
una strada laterale con una cornucopia di negozi illuminati,
pieni di vestiti cibo e ninnolerie, finché mi trovai in una piazza con chiesa, ma non era la piazza che cercavo. Era più difficile che orizzontarsi nel bosco. In mezzo alla piazza c'era
una vasca, come quella della Fanara. Dentro ci nuotava un
solo pesce rosso disperato. Un getto centrale scrosciava. Se
fossi stato lassù tra i miei alberi, avrei azionato l'orobilogio e
lo gnomo o la mamma o il Dio allegro mi avrebbero indicato
la strada, ma lì non conoscevo nessun essere né immaginario
né umano.
Così lamentandomi vidi passare una ragazza con una
sciarpa azzurra, camminava in fretta come tutti, ma quando
mi vide rallentò e disse:
– Saltatempo!
– Venerelli! – dissi io.
Era proprio lei, la mia prima baciatrice ufficiale. Non
era cambiata in meglio, era ingrassata e i lineamenti erano
involgariti da un trucco pesante. Le tette invece eran sempre
quelle, forse qualcosa di più. Mi disse che lavorava come cameriera in un bar lì vicino, mi ci portò, mi offrì un caffè con
panna.
Si era messa il grembiulino bianco da lavoro, e guardava fuori.
– In paese era meglio, anche la nebbia era diversa, qua ti
resta attaccata addosso, ti sporca i vestiti, ti infradicia. Di', ti
ricordi la gita in corriera?
– Accidenti se la ricordo.
– Sei molto più carino adesso – disse.
– Anche tu – mentii.
– Dimmi cos'è cambiato nel paese, Fangio guida ancora
la corriera?
– Sì – risposi, non so perché. Non so che vita faceva,
probabilmente neanche sapeva della frana. Ma non avevo
voglia di raccontargliela, né di spiegarle nulla, la storia del
paese era nell'orobilogio e ci sarebbero volute molte gocce
d'acqua e un secolo almeno per raccontare tutto, meglio che
lei ricordasse tutto com'era. Mi feci indicare piazza della
Giustizia, promisi che sarei tornato al suo bar, me ne andai.
Addio Venerelli dai capezzoli belli per cui tanto soffrii.
L'atrio del palazzo degli avvocati era antico, severo e
pieno di merde di cani. Guardai le targhette coi campanelli,
ce n'erano una trentina, sembravan le medaglie di un generale: era un palazzo decorato al Valore giuridico. Ci abitavano
solo avvocati o commercialisti, tutti avevano almeno due
lauree e due cani con due culi ognuno. Il mio uomo si chiamava Speri, ma non lo trovai. Poi vidi il suo nome in fondo a
una targa ovale. C'era scritto: avvocato Cannavale in grande,
avvocato D'Intesa in medio e avvocato Speri in piccolo.
Suonai e mi aprì una segretaria assai graziosa, probabilmente la capa segretaria, che mi condusse da una meno carina che mi portò da una cicciona che era la segretaria di Speri.
Speri mi aspettava, era giovane coi baffetti, assomigliava a Clark Gable molto molto in brutto. Vicino a lui c'era un
uomo panciuto e distinto, con un panciotto giallo, che fumava la pipa con dentro il tabacco Principe Alberto, non è che
me ne intendessi, ma la busta gli sporgeva dalla tasca. Quello
era evidentemente l'avvocato D'Intesa.
Speri disse che aveva parlato per telefono con zio Nevio, e sapeva che c'era l'intenzione di fare una o più denunce.
Io gli consegnai il quaderno. Lui lo aprì e lo fece subito ve-
dere a D'Intesa che sembrò interessato, sfogliava, corrugava
la fronte e tirava delle gran pipate principesche.
– Certo – disse Speri – quella frana è stata un disastro
colposo, ma poi hanno seppellito tutto una seconda volta.
Speriamo di poter arrivare al processo, ma sono molto protetti, specialmente quell'Arcari è molto abile, lavora coi capitali esteri, non figura mai, e ricicla il danaro di una loggia
molto potente che…
– Questo al ragazzo non interessa – lo interruppe secco
D'Intesa.
– In quanto al tuo ex sindaco Fefelli, ora vive un momento di disgrazia politica, ha fatto molti errori, ma è sempre
potentissimo. Io ti assicuro, per tuo padre di cui mi hanno
raccontato il coraggio, che farò il possibile. Il nostro partito è
impegnato su molti fronti, sono tempi durissimi, ma bisogna
lottare anche sulle piccole cose come questa.
– Per noi non è una piccola cosa – dissi io.
– Vedi, ragazzo – disse D'Intesa sedendosi, e non mi
piacque come disse «vedi, ragazzo» – è piccola in rapporto a
ciò che succede. Quella frana ha dietro degli interessi oscuri,
ma sapessi quanti grandi misteri oscuri vediamo noi. Sai
cosa vuole dire Sid, Sifar, Cia? Stanno preparando una guerra contro di noi, contro la gente pulita come tuo padre e tuo
zio che ci vota, come ci voterai tu un giorno. Ma non possiamo procedere a testa bassa, dobbiamo usare una strategia,
perché loro hanno il potere da tanto tempo. Dobbiamo imparare da loro a essere abili e pazienti, e muoverci al momento
giusto. Questo quaderno è pieno di cose interessanti, anche
se non nuove. Sappiamo che a villa Meringa si raduna molta
gente, anche militari, quei fratelli Pastori sono neofascisti
notori e poi c'è Arcari, che fa parte di una loggia, cioè diciamo un gruppo di affaristi con intenti comuni, da grande capirai. Sono già tanto potenti da poter ricattare Fefelli. Ma noi,
ti ripeto, caro ragazzo, useremo la strategia, ci vorranno un
po' di tempo e pazienza ma ce la faremo. Intanto custodiremo questo quaderno.
Io volevo dirgli, preferirei che lo tenesse Speri.
– Comunque telefoneremo a tuo zio, e vi faremo sapere.
– Scusa, D'Intesa – disse Speri – forse bisognerebbe che
gli rilasciassimo qualcosa di scritto. Cioè, il fatto che riceviamo un quaderno con delle denunce informali…
– Non è necessario – disse D'Intesa puntandogli contro
la pipa come una pistola – se il quaderno diventerà giuridicamente rilevante metteremo tutto per iscritto, se no glielo ridaremo. Contento, caro ragazzo?
– Non è un momento che posso essere contento – dissi
io.
– Capisco che il nostro linguaggio ti è un po' ostico –
disse D'Intesa – ma vedi, ragazzo, il sapere giuridico sembra
lontano e freddo, ma alla fine ottiene ciò che vuole.
– O che non vuole – disse Speri.
Stavolta furono le nuvolette che uscivano dalla pipa,
una dopo l'altra, a fare partire l'orobilogio. Vidi Speri con un
futuro da spogliarellista, a una a una gli toglievano tutte le
inchieste politiche e gliene restava solo una su un furto di
aragoste cubane al festival dell'Unità. Usciva dal partito e
continuava a rompere i coglioni in una pretura del Sud. Invece D'Intesa faceva molta strada ed entrava in una commissione che sarebbe passata alla storia per innumerevoli patteggiamenti e assoluzioni e diventava apprezzato ospite di talk
show. Dal partito rosso si spostava in altro partito rosa shocking, poi rimbalzava di nuovo al primo e poi non vedevo più
nulla, era come seguire la pallina di un flipper. Chissà che
fine avrebbe fatto Cannavale.
La porta si spalancò e risolse i miei dubbi. Apparve un
uomo rotondo e ben vestito, con la faccia di Dracula che
però invece di sangue ogni notte ciuccia amatriciane.
– C'è il direttore del giornale per quella querela – disse –
vi voglio tutti nel mio studio.
– Questo è quel ragazzo di cui ti parlavo, viene dal paese della frana di Fefelli e Arcari – disse D'Intesa – il quaderno che ha portato è… abbastanza documentato.
– Benedisse Cannavale, e voleva dire male. Non c'era
bisogno di orobilogio. Quello avrebbe assolto anche uno che
mangiava un asilo di bambini.
– Veniamo tra un minuto – disse Speri.
– No, venite subito. E in quanto a lei, D'Intesa, una frana è fatta di terra e fango, non dei due nomi che così frettolosamente ha fatto.
Giuro che non parlo, avrei voluto dire, magari con un
accento siciliano, anche se credo che questa frase la dicano
con tutti gli accenti del mondo. D'Intesa e Speri uscirono dallo studio insieme a me, a coda bassa. Ebbi proprio l'impressione di tre pesci. Speri era un onesto barbo e D'Intesa un
luccio pronto a ingoiarlo e poi arrivava Cannavale, un gigantesco pesce siluro da macero, con una bocca abbastanza
grande da divorare tutti e due e un'intera corte di giurati.
Appena uscito a slalom tra le merde canine, mi ritrovai
nella grigia e umida città. Avrei dovuto notare che piazza
della Giustizia era immersa fittamente nella nebbia e forse
c'era qualcosa di profetico in quella situazione. Ma tutto
sommato mi fidavo ancora delle parole di zio Nevio: Cannavale è un porco, ma Speri e D'Intesa sono dei nostri, ci aiuteranno.
Camminai sotto un portico, in alto c'erano dei grifi ghignanti e blasoni nobiliari, cercai il mio: Saltatempo de' Boschis di Gnomoboleto Delfiume, stemma due orologi in campo verde con la scritta in latino: Time is on my side.
Poi notai che le gnocchette cittadine a diciotto anni erano tutte uguali, col capello a caschetto, dei cappottini coi risvolti di pelo riccio, minigonne e stivaletti, mentre i ragazzi
avevano il maglione a collo alto, anche chi aveva il collo
basso, e delle scarpe basse larghe camosciose. Guardai le
mie scarpe, sembravano due liquerizie succhiate, e il mio
pullover aveva parecchie prese d'aria. Normalmente me ne
fregavo, anzi era il mio stile, ma in mezzo a tutti quei negozi
mi venne fame di moda. E ne vidi uno che si chiamava Abbigliamento Chelsea, grande come non avevo mai visto. Sette
vetrine piene di vestiti, una di pullover, di cachemire e angora e merino, provai l'acquolina di Verdolin davanti a una mesticheria. C'era un pullover e sotto c'era scritto 20.000 lire,
era col collo a vu, di un verde bellissimo, intonato ai miei occhioni. Avrei fatto un gran colpo su Selene, forse anche sulla
Bardot. Avevo un po' di soldi presi dalla cassetta di biscotti
di mio padre, Regina aveva detto, te li avrebbe dati lui, usali
per andare in città. Pensai allo slogan della Luciana per le
sue clienti: quando tutto va storto, comprati un abitino corto.
E per un uomo? Decisi che o trovavo lo slogan o niente, e
così restai davanti alla vetrina pestando i piedi, finché partorii: nessuno è tanto povero da non potersi comprare un pullovero.
Era una vera stronzata, ma mi diede la spinta per entrare. Mi avvolse un odore di lane pregiate e pecore scuoiate. Il
commesso, sicuramente un conte in incognito, mi guardò con
nobiliare freddezza.
Pensai di colpirlo con tre frasi di questo tipo.
La mia Rolls è in ritardo con tutta questa nebbia, attendendola vorrei vedere qualcuno dei suoi prodotti, qualcosa di
caldo, leggero e che alle pupe venga voglia di strofinarsi
contro.
Oppure: ha niente che vada bene sotto uno smoking
arancione?
Oppure ancora: sono il figlio dell'avvocato Cannavale e
vorrei fare un regalo a papà ma due taglie di meno perché lo
vuole stretto.
Più concisamente chiesi:
– Mi può far vedere quel pullover verde da ventimila
lire in vetrina?
– Signore – rispose lui – veramente costa duecentomila
lire.
– Non ci credo – mi uscì di bocca.
– Non ci creda – sospirò lui – ma è così.
Era vero, avevo contato male gli zeri. Stavo per uscire
umiliato quando vedo un lungone che sta scegliendo giacche,
e due commessi che lo servono con sussiego. Lo guardo e
penso, non è possibile. E' il secondo ritorno al passato della
giornata, è il Troll. Lui sì che è cambiato in meglio, almeno
esteriormente. E' sempre gobbo e goffo, ma i brufoli son spariti, è elegantissimo con la giacca blu e i gemelli dorati che
sporgono dalla camicia, ben pettinato, sicuro di sé. Quello
delle galine, quello che ci ha messo nove anni a fare le elementari. Il brutto pulcino è diventato un bel fagiano.
– Troll – dico io.
– Saltatempo! Quanti anni sono passati!
Mi dà la mano, sorride, i denti son sempre storti, è proprio lui.
Usciamo, lui trascina due buste piene di moda, mi offre
un aperitivo e mi racconta la sua storia. Nell'allevamento lui
ha studiato i problemi e, insieme a un collega, ha inventato
un metodo per spiumare le galine a velocità supersonica. Naturalmente le galine morte. Lo ha brevettato anche in Giappone, adesso va a venderlo e installarlo in tutti gli allevamenti italiani e anche in Austria e Germania, e se arriviamo
alle galine dell'Est è fatta. A ventidue anni è milionario, ha
sposato una padovana nel senso di donna, vive sui colli in
una casa con giardino. Qui ha messo delle gabbie con sessanta galine che sta studiando perché vuole brevettare una
nuova invenzione, un mangime che fa una galina doppia del
normale, con delle cosce da ciclista.
– Ma a cosa serve?
– La gente è allevata meglio, ha più soldi e mangia di
più. Il settore va verso il mini-gallettino, io vado controcorrente, verso la super-galinona. E ci riuscirò. Saltatempo, l'avresti mai detto che io, il più cretino della classe, avrei fatto i
soldi?
– Non eri il più cretino, eri a pari merito con la Marcella.
– Dai, parlami del paese – dice – ho saputo di quella
brutta cosa della frana.
– Sì. Mio padre sta molto male, ma forse se la caverà.
Anche Gancio sta male. Ci sono anche delle belle notizie ma
in questo momento non mi vengono. Insomma meglio che
non ti rattristi troppo.
Il Troll non dice niente e piange, di botto, coi lacrimoni
sui salatini. E' come se tornasse indietro di dieci anni, la si-
curezza e i soldi e la galina Godzilla svaniscono, torna gobbo
sull'ultimo banco di scuola, guardando fuori dalla finestra un
mondo strano e incomprensibile.
– Non dovevo venir via – dice.
Non so cosa dirgli, non capisco cosa c'è nella testa di
quel ragazzone, forse come succede a tanti, una sua metà è
rimasta nel suo allevamento puzzolente, metà dentro la giacca blu e i gemelli d'oro. Forse non è felice come sembra, e
gli dico:
– Torna al paese ogni tanto. Magari ti farebbe bene.
– Quando una galina lascia un pollaio – dice – è per la
padella.
Mirabile sintesi. Addio Troll.
Percorro i corridoi dell'ospedale. Hanno cambiato i fiori
e adesso c'è proprio odore di cimitero, era meglio quello dei
medicinali. Mio padre è in camera insieme a un vecchione
con la testa sfondata, si è buttato da un terrazzo, per la solitudine.
Papà è chiuso in un'armatura di gesso, assopito, aspetto
che si svegli. Sul comodino ci sono un giornale che non ha
aperto, una bottiglia d'acqua, il suo orologio col cinturino riparato tre o quattro volte. Apre gli occhi.
– Ho portato il quaderno agli avvocati – dico – erano
tutti contenti, hanno detto che con quello si può fare molto.
– Benedice mio padre. – Come vedi, è servito scrivere
tutti questi anni.
Mi sembra che stia un po' meglio, ma ho paura a dirlo.
Si assopisce di nuovo. Gli prendo la mano, tocco i suoi calli
a uno a uno. La mia mano non ne ha. Ci sono cento anni tra
la mia infanzia e la sua, abbiamo vissuto il periodo di cambiamenti più veloce del secolo, forse di tutti i secoli. Eppure
siamo stati sempre vicini.
Mentre torno in treno sto leggendo un libro, è Martin
Eden. E' la scena finale di quando lui si uccide gettandosi in
mare. Non riesco a andare avanti. Chiudo il libro, e in quel
momento sento che mio padre è morto.
Il giorno del funerale andai nel bosco, volevo parlare
ancora una volta con papà. Aspettai che le gocce di brina
scendessero da un nocciolo e lo vidi, sulla panchina di pietra
del poggiolo, con i cani.
– Vedrai – gli dissi – col tuo quaderno, ne succederanno
delle belle.
– Non succederà niente – rispose, carezzando Fox. –
Noi ci abbiamo creduto, la nostra vita è stata piena di porcherie e meschinerie, ma ogni tanto suonava la tromba e tutti
al nostro posto, a lottare e a darci una mano. Abbiamo creduto di poter essere liberi, di non far tornare quei vent'anni di
divise nere. Ma la tromba suona fioca adesso. Ci hanno venduto, uno per uno. Hanno venduto le nostre povere vite e la
nostra storia, per fare una storia insieme agli altri, una storia
finta, che non ha neanche un lieto fine, finisce nell'indiffe-
renza per tutto e per tutti. Se gli servirà a far voti, ci insulteranno pure.
– Papà – dissi – ma ti ricorderanno con affetto, come un
uomo buono e forte. Un po' incazzereccio forse, ma era la
tua benzina.
– Avrei voluto fare di più. Lavoravo lavoravo e pensavo
alla politica, alla mia rabbia, e magari non mi accorgevo di
cosa succedeva a te, a Regina, a mio fratello. Ho lavorato
tanto legno da fare l'arca di Noè e poi non avevo nessuno da
farci salire sopra.
– Non addolorarti, papà. Anch'io quando tornavo a casa
e ti sentivo picchiare con l'accetta tutta notte pensavo: ma
che razza di padre, era meglio se mi chiamavo Pinocchio. E
non venivo a salutarti in officina, perché non volevo sentire
il tuo puzzo di vino e i discorsi confusi. Ci siamo voluti bene
anche perché non abbiamo fatto finta di niente, abbiamo
guardato le nostre miserie in faccia. Non sei stato un padre
perfetto né io un figlio ideale e Regina non era mia madre,
però la nostra casa era una casa, ci ho passato delle ore felici,
e ora sembrerà vuota. E adesso basta, come tu mi hai insegnato, questi discorsi si fanno una volta sola nella vita.
Quando ti ho visto entrare in quel buco tra le macerie ho capito che forse era la fine, ma che avevi vinto, una volta per
tutte.
– Tieni dietro a Rufus – disse papà – e a Regina.
– Darò la pappa col pane e il latte a tutti e due – risposi.
Il parroco era sbronzo duro e fece un discorso che non
avrebbe fatto neanche Fidel Castro incazzato con le emorroidi. Tuonò contro i peccatori, anzi disse proprio: i porci peccatori che distruggono il bosco e han sempre i soldi in testa e
hanno ucciso sette nostri compaesani. A ogni parola rischiava il trasferimento alla parrocchia di Maracalagonis. Il nostro
falegname, aggiunse, non lo vedevo mai in chiesa, ma so che
nel profondo del cuore era religioso. Se gli avessi chiesto un
crocifisso, me l'avrebbe fatto. Nessuno fece commenti, del
resto, chi conosceva tutto di mio padre? Neanche io, forse.
Baruch disse poche cose semplici, poi il parroco fu allontanato con l'esca di un bicchiere di zibibbo, e a voce bassa tutti
cantarono l'Internazionale. Il cimitero splendeva di ginestre e
di fazzoletti rossi.
Quando mio padre fu calato nella buca si sentì una voce
tuonare:
– Ma che cassa di merda!
Trasalimmo, era come un racconto di Poe, era forse la
voce di papà che si lamentava dall'oltretomba?
No, era Balduino, pieno di liquore come un dolce di
nozze.
– A lui non piaceva il mogano, diceva sempre, il noce sì
che è un gran legno, vorrei una cassa di noce.
E accadde qualcosa di inusuale. La cerimonia si fermò. I
due baristi, quello che dava da bere e quello che sotterrava,
corsero in macchina in un paese vicino. Don Brusco chiese
cosa stava succedendo.
– Non abbiamo il permesso della commissione provinciale loculi – disse Baruch.
– Potrebbe esserci una falda d'acqua sotterranea – dissi
io.
– Oppure del tartufo – disse Caprone.
– Forse anche un'anfora antica – disse la Luciana.
Il parroco ulteriormente zibibbato si addormentò su una
lapide. Dopo poco arrivò la bara nuova, di noce. In quattro si
nascosero dietro una siepe e fecero il trasbordo. Il parroco fu
svegliato, la nuova bara fu calata. Arrivò zio Nevio di corsa,
con una scarpa in mano.
– E' rimasta fuori questa – disse.
Pensammo: se è in paradiso ci sono le nuvole e non servono scarpe. Se è all'inferno ti bruci anche con le scarpe. Nei
grandi pascoli si va a cavallo. Nel paradiso islamico ci si toglie le scarpe prima di entrare. Buddha va notoriamente a
piedi nudi. E se dopo c'è il nulla, nel nulla non si cammina.
Tornando a casa, trovai Selene davanti alla porta. Era
appena arrivata, il treno era in ritardo, mi dispiace molto disse. La baciai, pensai di fare l'amore, quando si va a un funerale dopo tira, sarà blasfemo ma è così, diceva sempre mio
padre, perché non dargli retta.
– Lo so che sei un po' lontano da me, Saltatempo – disse
lei. – Ma io ti aspetterò. Però non mi va di fare l'amore adesso.
Dormimmo insieme, per due notti, la presentai ufficialmente a zio Nevio, e in quei giorni non mi sentii solo. Ogni
mattina veniva Regina a innaffiare i fiori, e Rufus e Baruch e
una volta anche Arturo Centouno, passin passino col bastoncino.
– Sai chi ha fatto il letto dove dormo? – mi disse.
– Mio padre – risposi.
– No, tuo nonno – disse lui, e passin passino si allontanò.
Il pomeriggio accompagnai Selene alla stazione. Poi
crollai, mi misi a piangere in mezzo alla strada, e Rufus ululava in contrappunto.
Lo zio disse che dallo studio degli avvocati nessuno
aveva telefonato. Due giorni dopo tornai nella Cittàgrande,
in piazza della Giustizia 6/c. Speri non c'era. Mi fu consegnata una lettera di D'Intesa che diceva:
«Caro ragazzo. Il quaderno è molto interessante come
testimonianza di una vita coraggiosa, forse sistemandolo potrebbe diventare un libro incoraggiante per i militanti. Ma
quello che c'è dentro non giustifica un nuovo processo, non
bastano qualche numero di targa e qualche fotocopia di documento, ci vorrebbe cento volte tanto. Se vi servirà aiuto,
contattateci pure. Cordiali saluti».
Vidi che dal quaderno, però, mancavano quattro pagine.
Mi arrabbiai, me la presi con la segretaria, quella batteva a
macchina e diceva, non posso farci niente.
Dissi, non ci credo che non ci sono, aspetto qui sul divano. Aspettai fino a tarda sera poi capii che non c'era niente
da fare.
– Sa signorina – dissi – ho capito perché avete lo studio
qui. Piazza della Giustizia, 6/c vuole dire piazza della Giustizia, Se c'è.
La segretaria soffocò una risata. Forse lì dentro ridere
era uno dei reati peggiori.
Quella fu la mia prima lezione di giustizia ufficiale.
Mentre io ero in città entrò nel negozio di zio Nevio un
colonnello dei carabinieri alto e di bel portamento. Lo chiamavano l'Americano, perché aveva studiato tre anni negli
Usa, in una scuola speciale per poliziotti speciali. Con lui
c'era Licio Pastori.
– Mi dispiace davvero per suo fratello – disse Licio. Lo
zio gli diede la mano meccanicamente. Poi Pastori disse: –
Le presento il colonnello Maluschi, il nuovo capo del reparto
indagini.
– E' un piacere conoscerla – disse il colonnello. – Lei è
un buon sindaco, molto amato. Certo, ci sono anche quelli
che la detestano. Ma è come nel mio mestiere, non si può accontentare tutti. – Girava per il negozio e guardava tutto con
interesse. – E vedo che ha dei gran bei fucili da caccia. Quello è un Browning? Posso vederlo?
Mio zio prese il fucile dalla bacheca. Il capitano lo carezzò sensualmente, provò l'inserimento delle cartucce.
– Come son belle le armi. Quando non devono sparare,
naturalmente. O tutt'al più a qualche fagiano.
– Già – disse zio Nevio, si sentì inquieto e gli sembrò di
avere una lunga coda di penne colorate.
– Vede, signor sindaco – disse l'Americano, puntando il
Browning contro il muro e prendendo la mira contro un fagiano immaginario, magari sovversivo – le indagini sulla frana hanno già trovato i responsabili. E' stata un'iniziativa affrettata e colpevole di due ingegneri, due disgraziati, uno
aveva già dei precedenti per costruzioni abusive. C'è poi
quell'artificiere scappato all'estero, speriamo che lo prendano
ma sarà dura. Ora bisogna che il paese torni alla normalità,
ho visto che stanno ricostruendo, è ora di metter da parte accuse e vecchie ferite.
– Se c'è stato qualche equivoco – disse Pastori – dobbiamo superarlo. Anche Fefelli è stanco di litigi.
Sembravano molto affiatati, due attori che hanno studiato la parte. Un gruppo scelto di militari, fascisti e politici per
bene insieme per il paese che volevano. Bisognava essere
proprio prevenuti per pensare che volessero un paese diverso
dal nostro.
– Sappiamo che ci sono in giro altre denunce – disse
Maluschi – che sta girando un quaderno di suo fratello, che
suo nipote va in giro dagli avvocati. I ragazzi non dovrebbero essere coinvolti in storie così delicate.
Zio Nevio ebbe paura. Guardò fuori nella piazza, se passava qualcuno. C'era solo una jeep ferma, con altri due carabinieri.
– Perciò – disse il colonnello – vengo a chiederle di pacificare questo paese. Il signor Ossobuco ieri mi ha detto che
ha paura a tornare, che lo accusano di usura. Son parole
grosse, tocca a lei chiarire. Lei è il sindaco di tutti i cittadini,
non di una sola parte.
– Io credo che prima di pacificare, bisogna trovare la
verità. Se no non si dice pacificare. Si dice insabbiare, cancellare, deviare, scelga lei il verbo.
– Allora scelgo ordinare – disse il colonnello in tono
secco – è il mio primo compito ed è anche il suo, mantenere
l'ordine. Se no dovrò pensare che lei non è il sindaco adatto a
questo paese.
– Non dovrebbe tenere tanta polvere da sparo nel negozio – disse Pastori che si stava aggirando tra i banconi – basta una scintilla e salta tutto.
– Fuori di qui – disse zio Nevio.
– Andiamo fuori se ci siamo spiegati – disse Maluschi.
– Vi siete spiegati benissimo – disse zio Nevio.
Uscirono e salirono sulla jeep, che partì verso nuove
missioni. Prima di tornare al fronte, si fermarono da Chicco a
schiantare quaglie.
Tutto questo zio Nevio me lo raccontò solo parecchi
anni dopo. Da quel giorno diventò più triste e silenzioso. Il
sindaco è stanco, diceva la gente. Lui si tenne dentro la paura
di quella conversazione, non ne parlò neanche con Baruch. E
fece male, perché tutto questo gli consumava il cuore.
Gli ultimi tre mesi del liceo studiai giorno e notte, da
solo oppure con Fred e Tamara, drogandomi con litri di caffè
freddo. La nostra media di battiti cardiaci era quattrocento a
riposo. Baco prendeva una medicina che si chiamava Plegin,
dava una gran spinta ma anche effetti collaterali, tre ore di
studio indefesso e una al cesso, e così via.
Del giorno della maturità ricordo poco. La nostra commissione era definita di media carogneria. Ricordo un professore siciliano che mi chiedeva di Pirandello e finì per parlare sempre lui. Un'insegnante di matematica piccola che
sembrava lo gnomo del bosco, aveva dei gran sbalzi di umore, comunque era più cattiva con le donne che con gli uomini. Io avevo studiato e venni fuori da un'equazione che cercava di dimostrare l'unicità della Trinità. Poi affrontai il prof di
greco. Aveva una terribile fama e un aspetto spaventoso, col
cranio pelato, folte sopracciglia e una gran barba nera incolta. Sembrava il cattivo dei film di Charlot.
– Odissea – tuonò – libro sedicesimo da questo verso,
legga, traduca e commenti.
Lessi, era l'incontro tra Telemaco e Ulisse: leggendo vedevo ogni parola e ogni immagine, la stanza scomparve, Itaca mi circondò con i suoi ulivi, vidi il mare di Cesenatico
non avendo mai visto quello greco. Mi sentii stanco come
Ulisse, e felice come Telemaco.
– Adesso traduco? – dissi.
– No – rispose lui – mi è bastato sentire come ha letto.
E un grande sorriso si dipinse sul faccione da orco. Pensai, la scuola è noia supplizio e cose che non resteranno, ma
altre riaffioreranno un po' alla volta, e altre non le scorderai,
come questo momento di simpatia con un omaccio che conobbi per pochi minuti e non rividi mai più.
La sera che uscirono i tabelloni andai a festeggiare la
promozione con Selene, anche lei era andata abbastanza
bene. Mi disse che partiva per l'Inghilterra con l'incredibile
motivazione di studiare inglese, tre lunghi mesi. Ci restai
male, ma avevo capito che la felicità di una coppia è data
dalla somma delle felicità individuali. La sua cresceva di due
punti, la mia calava di uno. E' un principio matematico, quindi astratto e difficile da applicare. Quella volta ci riuscii.
– Dove vai? – dissi.
– In college, in un posto che si chiama Coventry.
– Ma che caso – dissi – ho un castello là, non ci vado
mai. Potresti andare due volte alla settimana a dar da mangiare al gatto?
– Mangia così poco?
– E' un gatto fantasma. Ci sono solo fantasmi lì dentro.
C'è il fantasma senza testa, quello senza tiroide, poi ci sono il
signor Waldemar, Van Maxel, Karamazov…
– Karamazov?
– Sì, anche lui. E poi c'è il fantasma batterista che suona
tutta notte. E' per quello che ci vado poco. Poi c'è il fantasma
dei sette colletti.
– E cosa fa?
– Ti bacia quando non te l'aspetti.
E la baciai. Quella notte facemmo l'amore come gatti,
non la ricordavo così accesa da tempo, mi fece anche uno
strip al ritmo di Fever. Favoloso, dissi, voglio diventare il
tuo manager.
La mattina la accompagnai alla stazione.
– Ti penserò molto – dissi – e sai quanto posso pensare
io. Se incontri Brian, salutalo.
– Piantala. Amo solo te.
– Mi fido. Comunque, se ti interessa saperlo, tra dieci,
quindici anni Brian diventerà cento chili di ciccia con foulard, anzi forse lo è già. So saltare nel tempo.
– Lo so. Per questo parto, tu vivi in tre o quattro tempi e
io ho posto in uno solo. E visto che sei stregone, tu cosa diventerai?
– Un serial killer – dissi – oppure un deputato, e tu una
medichessa oppure una gran gnocca stagionata che si fa
mantenere da un industrialotto di merda.
– Altre possibilità?
– Spogliarellista al Crazy Horse, oppure mia moglie –
dissi.
Partì e la baciai fino all'ultimo. Quando il treno fu lontano, capii che ero solo, e da solo avevo davanti dei giorni de-
cisivi della mia vita. L'orobilogio aveva quattro lancette. Due
indicavano che ero ancora parte del bosco, pronto a rinascere, avrei rivisto Selene e avrei trovato il mio talento: avrei recitato l'Odissea in teatro, avrei interpretato Poe in un film,
avrei scritto Le memorie di una giovane ala destra e sarei diventato sindaco di Maracaibo.
Le altre due mi dicevano: tu ucciderai Fefelli. La rabbia
di Gancio, di tuo padre e di quelli che combatterono sul
monte tornerà tutta in una volta dentro di te, e ti chiederà un
sacrificio.
Prima di tornare in paese, salutai tutti, anche Riccardo e
Giap, dissi loro venitemi a trovare e intanto pensavo, speriamo di no, baciai Tamara, pensai di trombare Tremolina poi
cambiai idea, mi sbronzai con Fred e Baco, che non erano
più fidanzati. Comprai un pullover verde stavolta da ventimila lire esatte, e un disco di Totò per Regina. Mi risbronzai e
ascoltai Monk per tutta la notte. La mattina, prima di prendere il treno, andai a trovare Gancio. Mi dissero non c'è più, è
stato dimesso, i medici erano contrari, ma è partito per il Sudamerica.
I guatayabas avevano un nuovo capo.
6.
Tornai in paese. Sarebbe stata una lunga estate, e avrei
dovuto decidere cosa fare quando sarebbe finita. Andare all'università o partire per Cuba o suicidarmi o fondare un
gruppo rock, o fondare un gruppo rock e poi suicidarmi in
tournée, oppure metter su un fruttaeverdura di sinistra, o
commettere un tirannicidio. La vita si spalancava davanti a
me, ero libero, e la libertà è rischiosa, non puoi sapere se nel
tuo fiume c'è un mulinello pronto a strangolarti, se dietro la
curva la strada prosegue in salita o sprofonda in un burrone,
se c'è ad attenderti una locanda o lo sceriffo di Nottingham.
La libertà, diceva Baruch, è un fungo che devi assaggiare,
non puoi sapere prima se ti fa male o no. E io non sapevo
quale dei miei due orologi avrebbe battuto più forte. Non sapevo neanche più se ero giovane o vecchio. Un giovane che
morirà a vent'anni, a diciotto è già vecchio. E se zio Nevio
aveva ancora quarant'anni da vivere, poteva essere più giovane di me.
E così era il paese, sospeso tra due età. C'erano ancora
molte vecchie case con gli orti, la legnaia e il pozzo, le pecore di Caprone che attraversavano la strada, la piazza col bar e
la gente seduta sull'uscio, i campanacci delle mucche sul ciglio della strada e le biciclette col fanale acceso nella nebbia.
C'erano il bosco, la Fanara, i casolari nascosti, il fiume coi
pescatori, il silenzio di Monte Mario. E l'autostrada, già un
po' vecchiotta coi buchi sull'asfalto, il cementificio sempre
più fumigante, la vecchia ferita sulla montagna, il residence
Roselle con metà case disabitate, i nuovi negozi coi neon già
balbettanti, ma tutto correva, e continuava a trasformarsi. Un
nuovo distributore di benzina con l'autolavaggio, altre mille
antenne sui tetti, nuove orrende villette a schiera a metà
montagna.
E la nuova fontana, che sarebbe stata pronta in agosto.
Anche al bar di Balduino mi avevano detto che c'erano
delle grandi novità, cioè un televisore più grande e un jukebox. Il jukebox conteneva solo una dozzina di canzoni un po'
datate. Romantica, Non ho l'età e Piove. Poi una polka, una
mazurka e un franksinatra. White Christmas di Bing Crosby
che però per metterlo su bisognava spingere il tasto di Zingara. Andando sul moderno, i Beach Boys, Satisfaction e un disco di cui esisteva una sola copia ed era finita lì: si chiamava
Tu che sei la vita mia di Arturo e i Dreamboys. Era il più
gettonato. Quando il jukebox era apparso nel bar, aveva prodotto una grande impressione, e un gran rompimento di coglioni, specialmente ai giocatori di tressette che come è noto
abbisognano di concentrazione. Maria Casinò diceva: se
mettete su Bianco Natale mi commuovo, mi vien da piangere
e non gioco più. Caio il fornaio diceva: ogni volta che sento
quel pezzo che bombarda nei marroni (era Satisfaction) sicuro che sbaglio. Dovrete prepararvi a ben altre invasioni tecnologiche, disse Baco, in America già stanno preparando un
incrocio tra flipper, televisione e jukebox che si chiama videogame.
– Finché dall'America arriva quello – disse Baruch – va
anche bene. Basta che non arrivi della roba che scoppia.
Baruch ci prendeva sempre, purtroppo.
Ma a parte la megativù e il jukebox, il bar era sempre lo
stesso, col biliardo liso come un colletto usato e la bacheca
per le coppe di pescasportiva. Mentre il Mefisto bar e l'Acapulco bar e il New bar si erano fatti dei banconi di diaspro e
alabastro e ti sedevi sui puff di scroto d'ippopotamo e nei séparé col triclinio, e insieme all'aperitivo davano via olive e
cipolline gratis, capisci che concorrenza scorretta, disse Balduino.
Be', dissi io, tu offri dei dadini di mortadella.
Non posso, rispose, entra Caprone e li finisce tutti.
Tu di' che ne deve lasciare anche agli altri.
Diglielo tu, rispose Balduino.
Allora mettemmo due piatti con la scritta. Per Caprone.
Per gli altri clienti.
Caprone si incazzò a tal punto che entrò con una mortadella da quindici chili in braccio, la tirò dietro il bancone e
disse:
– To', così siamo pari, ghittoni.
Ghittoni stava per spilorci, ingenerosi e miserabili.
La sera tutti si radunavano ancora nella piazza, agli stessi tavolini, e parlavano di mio padre. Dissero che prima di
morire aveva terminato l'ultimo bozzetto della fontana, e che
sarebbe stato contento di vederla finita. Vidi che mancava
Baruch. Mi dissero che stava traslocando. Aveva venduto la
casa, un casolare in mezzo ai ciliegi, e avrebbe abitato in un
brutto condominio dietro la chiesa.
– Perché? – chiesi a Baruch.
– Forse sei abbastanza grande per capire – disse. Mi raccontò che aveva firmato una garanzia per un amico, non fece
il nome, che si era invischiato con gli usurai e la banca. Il
suo amico non ce l'aveva fatta a venirne fuori, e aveva pagato lui, vendendo la casa.
– Non è giusto, Baruch, loro non sono onesti, non gli
dovevi niente.
– La parola data è la parola data. E poi ho la gotta, ero
stanco di farla a piedi fino in piazza. Adesso abito più vicino.
Mio zio mi raccontò il resto della storia. Non erano più
Ossobuco e Osso a prestar soldi, loro erano diventati ricchi e
compravano case e terreni. Adesso i soldi li prestava Chicco,
il ristoratore.
– Ma è un compagno – dissi.
– Non lo so più se è un compagno. E' un usuraio e io gli
ho detto che se non la smette lo denuncio.
Passai davanti al ristorante. Per caso lui era a un tavolino fuori, faceva dei conti.
– Saltatempo, cosa fai qui? Vuoi ordinare il pranzo di
nozze?
Non riuscii a dire niente. Lo guardai con una rabbia tale
che si alzò e si allontanò. Aveva capito tutto. Forse quello
sguardo gli bruciò peggio di qualsiasi insulto. O forse fu solo
un piccolo fastidio, nella sua nuova vita senza rimorsi.
A fine giugno, io e zio Nevio avevamo ripreso a andare
al fiume, e a pescare. Andavamo verso monte, dove l'acqua
era ancora pulita. Una volta portammo Fred e gli amanti perfetti. La Schiassi urlò subito, no quei poveri vermi no, e allora o pescavamo con pane e polenta ma lì carpe non ce n'erano, oppure la Schiassi se ne doveva andare. Invece lo zio,
con pazienza, le spiegò la legge di natura, che nel fiume il
pesce mangia la mosca e la libellula e tutto quello che cade
sul pelo dell'acqua. Il passero mangia il verme, la balena
mangia il plancton che è un pulviscolo di animaletti, la mantide mangia il marito, il leone mangia lo gnu, noi uomini
mangiamo metà delle razze del creato. E se proprio vogliamo
trovare un senso cosmico, il verme alla fine si vendica perché si mangia il pescatore, bello frollato.
Nel giro di pochi minuti vedemmo la Schiassi che infilava lombrichi sull'amo con sadismo insospettabile dicendo
«stai fermo brutta bestia». Verdolin la guardava amoroso:
anche cattiva gli piaceva.
Dopodiché la Schiassi pescò il suo primo pesce, e la
legge di natura ebbe il suo corso.
Fred pescava con le mani, gli avevo insegnato il trucco
del battisasso. Io e lo zio pescammo due grossi barbi che rimettemmo in acqua, e parecchi pesciolini di media taglia.
Facemmo il fuoco e poi la frittura in padella. Sembravamo
proprio cow-boys intorno al bivacco, con in più olio sale cocacola pane sedano tovagliolini e sacco della spazzatura.
Zio Nevio colse l'occasione per dire:
– Ragazzi, siete i primi a saperlo. Prima di ferragosto,
faremo una gran festa per l'inaugurazione della fontana. Però
a ottobre non mi ripresento sindaco. Lascio e vado a vivere
con la Luciana.
Io mi sentii deluso. Non mi aveva ancora raccontato delle minacce. Ma non mollava per quello, mollava perché voleva vivere bene gli ultimi anni, aveva avuto un attacco di
cuore e lo aveva tenuto nascosto. Sarebbe sempre stato il sindaco, per noi.
– Mi raccomando, non ditelo a nessuno – disse.
Noi lo raccontammo a tutti ed era proprio quello che lui
voleva.
Qualcuno disse fa male, altri, specialmente le donne, fa
bene, che si viva una vecchiaia serena insieme alla Luciana.
Molti erano preoccupati per le nuove elezioni. Giglio Arduini, che era diventato il numero uno del partito, propose di
candidare il dottor Carabelli. Ah no, un sindaco busone no,
dissero gli altri. Ma Carabelli era ormai un'istituzione in paese, ed era amatissimo. Di giorno e di notte, andava in lambretta a curare la gente, in cima alla montagna e a fondovalle, col caldo e col gelo. Oltretutto il farmacista l'aveva mollato per un rappresentante di aerosol. Dopo lunga discussione
fu deciso che sarebbe stato Carabelli il candidato sindaco, e
finalmente si poteva dire che la liberazione sessuale aveva
conquistato anche il mio paese.
Gli altri, quelli di villa Meringa, adesso si riunivano in
un albergo scannatoio, l'Hotel Lara, di proprietà dei Pastori.
Decisero di candidare Boccoli, il direttore della banca. E annunciarono che anche loro avrebbero fatto una festa per presentare l'eleggendo e dare una grandiosa notizia.
Era stato concesso il permesso per costruire il multiresidence Millerose, sopra alle Roselle, appena prima dello sperone di roccia del disastro. Ottanta appartamenti, una piscina,
un campo da tennis e un albergo con centro congressi. Lavoro e soldi per tutti, e soprattutto per l'immobiliare Arcari, stavolta tutto allo scoperto e senza prestanomi. La festa era perfidamente indetta il giorno stesso dell'inaugurazione della
fontana. Sarebbero intervenuti Arcari, Fefelli, il ministro Anguilla e vari generali. Grande banchetto all'aperto nel parco
di villa Meringa. Ospite d'onore la nota attrice Gina Jocesò.
Alla fine concerto del tenore Malavasi reducedaitrionfi, e
fuochi d'artificio. E' gradito l'abito scuro.
Anche se su scala provinciale, era un primo esempio di
connubio militar-imprenditorial-politico con momento culturale e una spruzzata di gnocca. Ci sarebbero stati tutti i Picimici, Protagonisti delle Cronache Mondane Cittadine, che
solo più tardi si sarebbero chiamati Vip.
Siccome in paese non si parlava d'altro, noi andammo
dallo zio e dicemmo: loro fanno il festone per cancellarti e
noi risponderemo. Occhio per occhio, buffet per buffet, fuo-
co per fuoco e gnocca per gnocca. Saluteremo il tuo addio e
la nuova fontana con una festa al cui confronto la loro sembrerà una tombola parrocchiale, con tutto il rispetto per don
Brusco.
Zio Nevio disse, ma io non me ne intendo di feste, più
che la salciccia e l'orchestrina, cosa possiamo fare?
Ci riunimmo in commissione io, Baruch, Giglio, Fred e
tale Cavadori, organizzatore della festa della Castagna, di
miss Gambe Provincia e amico personale di Fred Bongusto.
Alla fine fu stilato il seguente programma.
A mezzogiorno salciccia per tutti in piazza. Nel pomeriggio giochi e ballo liscio con il gruppo Camilla e i corsari.
La sera alla casa del popolo, ore diciotto, proiezione di un
film documentario sulla Resistenza, nella piazzetta della banca spettacolo di burattini Fagiolino medico della mutua. Alle
ore nove sfilata di lingerie Luciana Modabella. Ore nove e
trenta circa, inaugurazione della fontana seguita da spettacolo di arte pirotecnica dei fratelli Pipitone. Alle dieci, il più
grande complesso rock inglese mai visto nella zona.
Tutto bene, disse lo zio, ma spiegatemi un po'. Quanto
ci costa tutto questo, e dove lo troviamo il grande complesso
rock?
Noi spiegammo che non avevamo fatto i conti precisi,
ma tutti erano pronti a lavorare gratis e anche a tassarsi, e poi
ci sarebbe stato l'incasso della riffa e gli eventuali sponsor. Il
programma era stato studiato per abbracciare ogni generazione dal bambino al rockettaro, dal militante all'anziano balle-
rino, dal goloso al pirotecnico, c'era tutto, lingerie, cultura e
colesterolo, insomma li avremmo stracciati.
– Va benedisse zio Nevio – ma a un patto. Ho preso dei
soldi perché ho ceduto una quota del negozio. Almeno due
milioni ce li voglio mettere di tasca mia. Li voglio vedere
crepare di invidia, quei merdoni.
Sembrava fatta sulla carta, ma il difficile veniva adesso.
Anzitutto ci voleva il grande complesso. Fred disse, telefoniamo ai Rolling Stones, magari vogliono venire in Italia,
che cosa ci costa tentare? Io telefonai al centralino informazioni e chiesi, è possibile avere questo numero di Londra,
Rolling Stones, erre come Roma, o come Otranto…
Una voce dolce mi rispose: mi sta prendendo in giro?
Non può guardare neanche se c'è Mick Jagger nell'elenco?, chiesi. Mi staccò la linea. Consultammo i giornali specializzati: i Beatles erano in tournée, i Nomadi quel giorno
suonavano a Mestre. Io stavo per telefonare di nuovo per
chiedere di Tom Jones quando arrivò Cavadori e disse: ragazzi, un colpaccio. Possiamo avere gli Scrapers.
Mai cagati, dicemmo in coro.
Siete degli ignoranti. In Italia ancora non li conosciamo,
ma presto esploderanno. In Belgio, in Germania, in Svizzera
sono il complesso del momento. E ci portò un giornale belga,
in effetti erano in classifica al ventesimo posto con Wild
night. C'era anche un giornale tedesco con la loro foto, quattro ragazzoni con giacche fosforescenti, e delle teste di capelli che altro che piscione, lì ci avevano messo il concime
da carciofi, ognuno aveva in testa una pianta diversa, il batterista una palma, un altro un salice, un altro un cactus e il cantante una banana imbrillantinata a becco di tucano. E poi
Scrapers voleva dire ruspe, per dire che ruspavano via qualsiasi vecchia concezione musicale, ma era anche un nome
adatto alla nostra tradizione di lavoro agricolo ed edilizio.
Zio Nevio guardò la foto e disse: qua mi gioco il culo e
quel po' di reputazione che ho ancora.
Ci dividemmo in due squadre: una ufficiale e una segreta. L'ufficiale doveva organizzare la festa; la segreta, formata
da me, Fred e Grillomartino, doveva sabotare le iniziative
nemiche.
In più avevamo un aiuto inatteso. Era tornato Gancio.
Abbronzato, baffuto, con un nuovo tatuaggio di drago. Prima
ancora di salutarlo gli dicemmo: racconta.
– Troppe cose, ragazzi, troppe. Ma una soprattutto: i
guatayabas esistono e io li ho visti. Fumano delle erbe nella
pipa che poi vedono un dio a testa, ognuno ha il dio personale con cui parlare. Le donne hanno le tette un po' a sbindoloni ma sono allegre e non dicono mai di no. Mangiano manioca e braciole di coccodrillo, la Gazzetta dello Sport arriva
con due giorni di ritardo ma arriva. Resto qui qualche mese,
metto insieme un po' di soldi e torno, là si vive con niente.
Quel mare di mezze verità e mezze balle ci rassicurò
che Gancio era sempre lui.
Per zio Nevio fu il miglior regalo, il suo quasifiglio,
come lo chiamava, era tornato e stava bene. Solo io, che
Gancio lo conoscevo a memoria, capivo che gli era successo
qualcosa di bello, ma il nero era rimasto nella sua testa straniera.
Venne la vigilia della festa. A villa Meringa c'era più
polizia che a una manifestazione. Ispezionavano tutto, vennero anche in paese, una ronda di tre, guidata da uno un po'
grassottello subito battezzato Garcia, il sergente dei film di
Zorro. Entrarono al bar e si misero a guardare tutto intorno.
– Se cerca il Che Guevara è al cesso – disse Balduino.
Non la presero bene. Chiesero i documenti a quelli seduti fuori. Poi fecero l'errore di chiederli a Caprone. Lui si
incazzò e aveva una falce al seguito, lo fermammo appena in
tempo. Zio Nevio arrivò e disse alla ronda: ragazzi, domani è
una festa, non una guerra. Non capisco il perché di questo
vostro atteggiamento. Sono il sindaco e vi invito a rispettare
il mio paese.
Lo disse con tanta forza che il sergente Garcia quasi
scattò sull'attenti. Se ne andarono dopo aver perquisito diverse siepi sulla strada.
Noi preparammo il piano di sabotaggio. Per questo ci
servivano un furgone e una bomba. Il furgone ce lo prestò
Caio il fornaio. La bomba ce l'avrebbe procurata Dolcino,
che lavorava alla Cooperativa Latticini. Ce la consegnò la
notte prima dicendo, attenti, questa è come un'atomica. Eravamo pronti.
La festa, per noi, cominciò a mezzogiorno. Grande salcicciata, una nebbia di salciccia, una nube di puro suino angelicato. I segnali di fumo e l'odore si sparsero in tutta la valle. I cherokee di Scaricalasino, gli apaches di Monfalco, i comanches di Polverino telefonarono: messaggio ricevuto, arriviamo con damigiane. Le griglie portarono la temperatura da
ventisei gradi a trentasei, fu necessario bere molto e nessuno
si lamentò.
Poi si passò ai giochi e alla riffa. Vidi tra i premi un coniglione uguale a quello della gara di valzer, e il cuore mi si
spezzò. Ma la festa impazzava, ci fu la tombola, la gara di
tressette e infine il torneo di braccio di ferro.
Dalla Toscana era arrivato Garzellini, il maglio di Barberino. Aveva un braccio, disse la Luciana, che come manica
gli ci voleva un pantalone. Batté tutti con facilità. Poi si trovò di fronte Caprone. I polsi si unirono. Gli sguardi si incrociarono, Caprone spalancò il suo sorriso con tre soli denti e
fu lì, secondo qualcuno, che psicologicamente Garzellini iniziò a vacillare. Fu dato il via e il maglio di Barberino attaccò
subito, ma il caprone della Vignabassa non cedette di un millimetro. Garzellini cominciò a guardare sotto il tavolo per
vedere se l'avversario era inchiodato da qualche parte, o aveva un cric che lo sosteneva o qualche parte meccanica tipo
Terminator, perché più spingeva e più l'altro se ne fregava e
rideva. Era come se sul braccio di Caprone si fossero seduti
in quaranta. Si sentì un rumore come quando si pesta una
sfrappola, era il metatarso di Garzellini che cedeva e poi Caprone urlò «alé» e il braccio di Garzellini si scarrucolò sul
tavolo.
Pochi andarono al film della Resistenza e qualcuno russò anche rumorosamente, ma Baruch consolò Giglio dicendo
che dopo un pomeriggio così, le anime dei partigiani avrebbero compreso e perdonato. Mentre si montava il palco e sotto il telo qualcuno lustrava la fontana, io Gancio e Fred andammo in ricognizione a villa Meringa, travestiti da giovani
fornai. La bomba era sotto un telo. Cominciavano a arrivare
le prime auto blu e i primi invitati. I carabinieri vigilavano al
cancello e ce n'era uno anche in cima a un ippocastano, sembrava una cornacchia. Vidi Osso, grasso e dondolante, vestito con lo smoking, sembrava un pinguino farcito. Gancio
non resistette e urlò: – Osso, attento che stasera non puoi
scoreggiare. – Lui si voltò, ci vide, rimase a bocca aperta,
obeso, ridicolo, impinguinato. Poi ci mandò a quel paese con
un gesto. Un carabiniere ci disse: circolare, circolare. Io volevo dirgli, nel senso che dobbiamo girare in tondo?, ma non
dovevamo farci notare troppo. L'attacco si basava sul fatto
che avevamo un nostro uomo dentro la villa, ovverossia Veleno, uno dei camerieri del ristorante Foglia d'Oro, ingaggiato per servire ai tavoli. Era un compagno fidato e odiava Fefelli perché aveva licenziato e insultato sua madre cuoca.
Scendemmo dal furgone e sgattaiolammo nel prato di sotto,
silenziosi come guatayabas. Veleno ci aspettava sul retro
della villa, dove c'era il magazzino degli attrezzi. Nel magazzino c'era una porticina che dava direttamente su un buco
della siepe. Gli consegnammo l'ordigno.
Se loro erano sotto la minaccia della bomba di Dolcino,
anche noi eravamo in difficoltà: nessuna traccia degli Scrapers e dovevano essere già lì dalle sette. Mancava poco all'inaugurazione della fontana ed eravamo molto tesi. Oltretutto
la sfilata di lingerie, che doveva avere luogo alla casa del popolo, era stata bloccata. C'erano già duecento persone fuori, e
la sala ne teneva cento. Si decise di osare: solo tre modelle,
una per generazione, ma sul palco della piazza. Sodoma e
Gomorra, disse don Brusco. Bianco o rosso?, chiese Balduino, giungendo opportuno con due bottiglie in mano. In fondo, sospirò don Brusco delibando, tanto è caldo, le donne
vanno in giro spogliate lo stesso. E dette l'imprimatur.
Quando il campanile della chiesa batté nove tocchi, la
situazione era la seguente.
A villa Meringa tutti erano a tavola, una tavola a forma
di ferro di cavallo, adorna di fiori. Dalla parte orientata verso
il culo del cavallo c'erano i più importanti, Arcari sorridente,
Fefelli un po' rimbambito, tre generali marziali, il ministro
Anguilla gobbo, nell'atto di ciucciare un grissino. Poi il candidato sindaco Boccoli in blazer, Gina Jocesò in lamé, con
abbondante décolleté ed esubero di collane. Seguivano sin-
daci assortiti, il direttore del cementificio e signora, il direttore della Gazzetta cittadina e signora, un cardinale senza signora, un conte con contessa annessa. Ai lati gli importanti
meno importanti, come Osso, Ossobuco, Rondelli, vicesindaci eccetera. Il colonnello Maluschi capo del servizio d'ordine
si aggirava a larghi passi, incazzato come un'ape, perché non
era stato usato abbastanza napalm, ovverossia zampironi, e le
zanzare insidiavano civili e militari. Tutti avevano fame ma
non si poteva dire. Finalmente dodici camerieri in giacca
bianca arrivarono coi vassoi, e salmonarono e cavialarono i
presenti. Al conte andò subito di traverso un crostino, e furono attimi di terrore. Maluschi era già pronto a una tracheotomia mediante baionetta. Una signora si versò del burro nella
scollatura. Non ci furono altri disordini e si procedette. I Pastori mangiavano in piedi, pronti all'azione. Partirono i fuochi, un po' di botti di ordinanza. E si continuò a mangiare e
trincare.
In piazza un ululato accoglieva l'inizio della sfilata di
lingerie. Noi ci disponemmo in cordone, temendo disordini.
Apparve Luciana Modabella che annunciò: vedrete tre capi
ognuno per una diversa età perché la donna è bella a ogni
età, a venti, trenta e quaranta, e poi da quaranta in su restano
sempre quaranta.
Applauso scrosciante.
– Il primo capo – disse la Luciana – è un composé in
pizzo nero, reggiseno e slip ricamato a mano, adatto alle giovani e lo indossa Nuccia Riggio, la nostra bella sicilianina.
Nella piazza si udì un urlo: era il padre. Non era stato
avvisato. Ma quando Nuccia apparve, in tutta la sua bellezza
latina, mamma Riggio disse: dopo stasera la sposiamo in una
settimana, e lui si calmò.
– E ora – disse la Luciana – per l'età che la bellezza è
matura come l'uva ottobrina, un baby-doll nuziale, in seta di
Scozia, e lo indossa Gina la postina.
E Gina consegnò la sua bellezza Raccomandata Urgente
all'ammirazione generale, tutti applaudivano e Caprone piangeva, era il suo modo di apprezzare.
– Infine – concluse la Luciana – per noi over quaranta,
chi ha detto «per gamba» se lo vada a prendere in culo, scusate, ecco una vestaglia lunga modello Paris Pigalle, indossata da Zoraide.
E Zoraide sfoderò la bellezza levigata dei suoi anni, e
quando aprì la vestaglia per mostrare la calza nera, dovemmo
tenere fermo Caprone in quattro.
In una tempesta di sensazioni ormonali, il pubblico si
spostò dal palco al centro della piazza. Là zio Nevio aspettò
che arrivassero tutti e poi fece un cenno. In dodici, con movimento coordinato, alzarono il telo che copriva la fontana.
Eccola, la tanto sognata. Ma per una volta, era meglio
che nei sogni.
Non avevo mai visto niente di così bello neanche a Parigi, o almeno il sentimento mi faceva credere così. La fontana
era illuminata dall'interno, l'acqua era azzurra e calma, la
zampilleria non era ancora in azione. Al centro della vasca
c'era una Venere che si copriva con la mano nei punti giusti.
E intorno quattro tritoni con una conchigliona in mano, e un
girotondo di delfini, lucci, tonni e ranocchie che saltavano,
qualcuno di rame qualcuno di marmo. Ma i più belli erano
quattro lucci di pino canadese verniciato, e io mi ricordai di
aver visto le teste nell'officina, e mio padre che incideva le
squame. Tutte quelle ore ora diventavano un attimo, ma valeva la pena.
Lo zio si sistemò sotto la Venere, che lo guardò con interesse. Era visibilmente un po' ubriaco. Con una mano sul
fianco e l'altra al megafono disse:
– Avremmo potuto far costruire questa fontana a qualche famoso architetto o scultore, ma non l'abbiamo fatto perché qui nel paese c'era gente altrettanto brava, e col loro lavoro abbiamo fatto una fontana che modestamente lo mette
nel culo a parecchie fontane di città.
Avremmo potuto fare un monumento alla Resistenza ma
io so che non abbiamo bisogno di monumenti per ricordare i
nostri fratelli e padri e nonni, il vero monumento è dentro di
noi, è la nostra libertà.
Avremmo potuto dedicarlo a un uomo illustre del paese,
ma qui siamo tutti illustri e importanti.
Avremmo potuto fare una fontana moderna con uno scaraffone di cemento e di acciaio, ma a edificare scaraffoni ci
pensano tutti qua intorno.
Avremmo potuto fare una Venere tutta coperta, ma non
abbiano niente da nascondere, posso anche dirvi chi è la modella, l'operaia Mediga, pardon Marina Roda, fresca sposa.
Per finire qualcuno ha detto, ma perché una fontana marina? Anzitutto in omaggio al nostro fiume, che tanto amiamo, e che come tutti i fiumi per bene sfocia nel mare. E poi
c'è la nostra voglia di acqua pulita, che lavi via le brutture
che abbiamo visto e speriamo di non rivedere. Ma soprattutto
a noi piacerebbe avere il mare, ci piacerebbe alzarci la mattina e andare in barca, e se questo non c'è allora lo sogniamo,
perché grazie a Dio in questo paese siamo ancora matti e ci
immaginiamo le cose, perciò abbiamo fatto la fontana che
noi tutti abbiamo sognato e se qualcuno ha qualcosa da dire,
si becchi questo. Uno due e tre, via.
E da cento fori sgorgarono gli zampilli. Piangevano Venere e i tritoni, pisciavano i lucci e i tonni, sputava la rana.
Scrosciò una cascata di applausi.
– Chissà che bolletta – disse Balduino, ma era commosso anche lui.
In quel momento, alla villa, Veleno aprì il sacco con la
bomba. Dentro c'era un contenitore a tenuta stagna. Veleno
si mise un fazzoletto sulla bocca e aprì.
Erano quattro forme del formaggio detto puzzone di fossa, frollato per due giorni sotto il sole in una mistura di caglio andato a male e siero di ricotta. Era come togliere le mutande al tafanario di Satana, come scoperchiare un cimitero,
come scatenare tutti i gorgonzola occidentali. Dal contenitore si librò un'orda di spiriti fetidi e fantasmi maleolenti, di
fuochi fatui e vapori che si diresse verso la tavola imbandita.
Quando l'odore, ma odore è misera parola, raggiunse i commensali, di colpo inchiodò le forchette a mezz'aria, spense il
sorriso ad Arcari e vetrificò le tette della Jocesò. Un carabiniere in piedi svenne.
– Mi sembra di sentire un certo qual spiacevole aroma –
disse Fefelli.
– Uomini – intimò il colonnello Maluschi – cercate la
fonte.
– Quale fonte? – chiese il sergente Garcia.
– La fonte di questo odore, una fogna o chissà che cosa
– sbraitò Fefelli.
Quando il tafanario di Satana fu trovato, dovettero fare
un buco di due metri perché a un metro di profondità si sentiva ancora. Fu interrogata la servitù, nessuno ne sapeva niente. Forse il residuo di qualche vecchia festa, dimenticato lì.
Arrivò in tavola la torta fatta a Residence, con mille casine di zucchero, la piscina di gelatina e l'albergo di cioccolato scorza. Arcari tagliò trionfalmente le fette. Ma l'appetito
era passato a tutti, ne restarono trentasei chili su quaranta.
Allora si alzò Fefè, brindò e annunciò: adesso, il momento artistico che tutti aspettavamo: il tenore Malavasi reducedaitrionfi canterà arie d'opera accompagnato al piano
dal maestro Stradivari.
– Stramicioli – corresse il maestro.
E Malavasi attaccò La donna è mobile (G. Verdi).
Loro erano formaggiati a morte, ma noi eravamo nella
merda. Il grande gruppo rock non si vedeva e la piazza era
piena, gente sulle sedie, per terra e sui balconi e qualcuno
anche rampicante sugli alberi. Le luci erano puntate, sul palco troneggiavano gli amplificatori Roland e i microfoni. Era
stata allestita la cibaria, in gergo rock il catering. Cinquanta
birre e altrettanti panini al prosciutto attendevano gli Scrapers nei camerini, ossia la sagrestia della chiesa. Don Brusco, sebbene invitato alla villa, aveva scelto la nostra festa
per tre motivi.
In primis, non era un parroco mondano e l'aveva fatto
incazzare la scritta sull'invito è gradito l'abito scuro, come
vogliono che ci vada, in rosa?, aveva detto.
In secundis, qualcuno gli aveva detto che Scrapers in inglese vuole dire arcangeli.
In tertiis, il nostro vino era molto meglio del loro.
Erano già le dieci e mezzo e qualcuno cominciava già a
fischiare. Oltre ai locali erano arrivati tutti i giovani rockettari e teppistelli della valle. Gli Scrapers avevano un nome che
attirava e poi dalle foto sui manifesti sembravano dei disgraziati niente male.
– Allora – gridò uno – cominciamo a mezzanotte?
– Ci vuole il suo tempo – disse Maghino, elettricista
promosso addetto alle luci. – Gli Scrapers non sono mica degli scoreggioni qualsiasi.
Non era proprio come gli annunci del festival di Sanremo ma placò tutti, almeno per un po'.
Qualche minuto dopo, però, volò una bottiglia sul palco,
e la piazza ricominciò a rumoreggiare. Il campanile batté
dieci colpi e sull'undicesimo finalmente vidi Gancio che mi
faceva un segno di vittoria. A tutta birra arrivò un furgone
rosso con bandiera inglese, contenente gli Scrapers, gli strumenti, il manager Cavadori e due ragazze caricate per strada.
– C'era un posto di blocco dei carabinieri, siccome in
due non hanno i documenti abbiamo dovuto fare la strada
alta – spiegò Cavadori.
Scesero gli Scrapers. Dal vivo erano piuttosto bassotti,
ma i vestiti erano accecanti. Il cantante poi, quello coi capelli
a superbanana, aveva qualcosa di familiare.
– Ehi – dissi – are you the singer?
– Yes – disse lui.
– And what's your name?
– John Malcolm, ovvero Gino Domineddio, cretino.
Era proprio lui. Era andato in Belgio a fare il pizzaiolo e
tornava rockstar.
– Ma siete inglesi o cosa? – chiesi, dopo gli abbracci di
rito.
– Siamo un gruppo di Emigrant rock – spiegò – due siciliani, un abruzzese e un sardo, ma abbiamo lavorato in tutte
le pizzerie europee, prima come camerieri e poi come musicisti. Siamo poliglotti. Nessuno si accorgerà del trucco.
C'era un ulteriore problema. Gli Scrapers dovevano provare gli strumenti, almeno un quarto d'ora. E qui zio Nevio
ebbe un'idea geniale.
Chiese ai Pipitone brothers di anticipare lo spettacolo.
Così al primo botto tutti si voltarono verso il campo di calcio, da dove partivano i fuochi, e dietro il palco gli Scrapers
si misero a provare. Suoni e luci, all together.
I Pipitone erano fuoriclasse del ricamo aereo, niente a
che fare coi quattro peti colorati di villa Meringa. Nel cielo
blu si disegnarono dalie candide, gerani rossi, soffioni che si
sfarinavano in cascate d'argento. E sibilavano missili che
scaricavano starnuti variopinti e schizzi vulcanici, e fuochi a
incastro uno dentro l'altro, una medusa blu da cui scaturiva
una medusa gialla e poi una più grande verde che le copriva
tutte e quando credevi che fosse finita, bam, un'altra gigantesca medusona dorata, che prendeva tutto il cielo. Accompagnati dalle note della chitarra di Billy Bachisio Puddu, si esibirono marziani verdi, draghi volanti e per finire una crepitata piroscintillante che sembrava lo sbarco in Normandia, tre
minuti di botti. Quando finirono, non solo applaudimmo noi
ma, dicono le cronache, applaudì tutta villa Meringa, com-
presi i carabinieri, con il colonnello Maluschi che gridava
«basta, contegno», ma quelli guardavano in alto e non smettevano.
– Questi fuochi sono un extra – disse Fefelli per far credere che era roba sua, ma pochi gli credettero. Malavasi, che
aveva dovuto interrompere le sue romanze per il frastuono,
disse un po' nervoso:
– Posso ricominciare?
– Certo – disse il ministro Anguilla in persona.
Malavasi intonò Bella figlia dell'amore, e sui vezzi tuoi
entrò la chitarra di Billy Bachisio Puddu e lo soverchiò di un
centinaio di decibel. Il vento era a favore nostro, era come
avere gli Scrapers in mezzo al tavolo. Malavasi reducedaitrionfi bestemmiò e se ne andò incazzato.
Il concerto fu adrenalina pura. Domineddio era una vera
bestia da palcoscenico, era già sudato prima di salire, e quando attaccò Tutti Frutti irrorò le prime tre file. Aveva dei pantaloni viola serici assai aderenti e muoveva il bacino in modo
che parecchie signore trovarono scostumato ma interessante.
Il batterista pestava come una carica di cavalleria, il bassista
era immobile e muoveva solo le dita, il solista teneva la sigaretta infilata nella chitarra, grande figata, e Armando il fisarmonicista disse, anch'io, la sera dopo ci provò e diede fuoco
allo strumento.
John Malcolm Domineddio alternò successi di Iggy
Pop, dei Rolling Stones e di Presley con pezzi scritti da lui
quali You dirty woman (puttanazza) e I love mai bike (amo
la mia moto) e poi passò a una romantica ballad, Midnight in
London, che in realtà aveva scritto in pizzeria a Bellinzona
dopo essere stato mollato da una svizzera. Ci furono molti
bis, un Ventiquattromila baci cantato con finto accento inglese, poi a richiesta Nessuno mi può giudicare e per finire I
wanna hold your hand dei Beatles, e lì fu l'apoteosi perché
una ragazzina, che l'aveva letto su un giornale, si tolse il reggiseno e lo tirò sul palco, e subito la Luciana pensò: si vede
che è il rito, estrasse dalla camicetta una quarta misura di
pizzo nero e la lanciò sul palco e la Zoraide le andò dietro tirando una quinta rinforzata con stecche e metà donne del
paese la imitarono. Il palco era invaso di pizzi e trine e cotone, e Domineddio li baciava e per fortuna che il parroco era
già sbronzo e non seguiva più.
Nella calca mi venne vicino Balduino e mi chiese: non è
che noi uomini dobbiamo tirare le mutande?
No, dissi io, siamo esentati.
Il concerto finì con un «grazie, siete un pubblico meraviglioso». La Luciana baciò Domineddio e poi si mise a ridistribuire i reggiseni alle proprietarie. Ogni tanto diceva: questo non l'hai comprato da me. Ci fu solo un piccolo incidente. Schillaci e il bassista Jerry Melodia si guardarono in faccia e si abbracciarono piangendo. Erano cugini e non si vedevano da vent'anni. Naturalmente, acqua in bocca. Avevamo vinto e stravinto il duello delle feste. Il paese meritava
una notte così.
La mattina ci svegliammo e tutto ci sembrò migliore.
Gli Scrapers partirono per una tournée in tutto il Ticino, ci
abbracciammo e ci scambiammo gli indirizzi.
La sera già ci annoiavamo un poco.
Tre giorni dopo tutto tornò del colore solito.
A settembre Gancio sparì di nuovo.
A ottobre Carabelli vinse di pochi voti e subito i muri si
riempirono di scritte contro lui e i suoi gusti sessuali.
A novembre decisi che forse non mi sarei iscritto all'università, ma avrei cercato un lavoro. Selene sarebbe tornata
per Natale, ci scrivevamo lunghe lettere, ma io non capivo
più se l'amavo ancora. Mi sembrava che fossimo tornati in
due mondi diversi. Sentivo che il bosco mi chiamava, ma
avevo perso la strada. Tutto scorreva lento e indistinto, come
la fila di macchine di notte, che tornava verso la città. Il ricordo di quella bella festa di agosto aveva placato la mia rabbia. E se vivessi sempre qui in paese, pensai? Se facessi il falegname come papà, o cercassi di diventare corrispondente
della Gazzetta al posto di Testuggine? Potrei vivere appartato e scrivere un libro che scopriranno solo dopo la mia morte, il caso del falegname scrittore che ha scritto il capolavoro
del Novecento, «Trucioli», trovato dentro una vecchia pendola. Se diventassi il leader politico della sinistra valligiana?
Se mi sposassi con una brava ragazza? Se mi sposassi con
Fred? Se partissi per il Caribe? Avevo le idee chiare come
l'uva nera.
Un giorno di dicembre, il dodici, faceva un gran freddo.
Mi svegliai e mi ricordai all'improvviso la storia della chiave
e dell'armadio nell'officina. La cercai nella scatola dei chiodi, e la trovai subito. Prima di andare in officina, accesi la radio.
Diedero la notizia della bomba a piazza Fontana.
7.
Non lo so quanti eravamo, trentamila disse la televisione, ottantamila dissero gli organizzatori, io non avevo mai
visto tanta gente riunita, la piazza della Cittàgrande era piena, e anche le strade intorno, e dalla stazione continuavano a
arrivare, era come il fiume quando trova un letto nuovo,
riempie le pozze e dilaga nel canneto e dove c'era la sabbia,
ora scorre un torrente, o un filo d'acqua. Io ero una goccia
nel fiume, triste, eccitato e impaurito, troppe cose insieme, la
speranza e la disperazione, la rabbia e la gioia di stare insieme a tanti. Mi colpivano le cose grandi, il palco con gli oratori, le centinaia di striscioni, i cortei compatti delle fabbriche, gli universitari che gridavano gli slogan uno sull'altro in
una canea guerresca. Ma ancora di più mi colpivano i particolari. Forse avevo bisogno di ritagliare qualcosa in quel
grande quadro semovente, come quando vedi il dipinto di
una battaglia enorme che ti stordisce, e devi soffermarti su
un dettaglio, la testa di un cavallo, un soldato caduto, un albero sullo sfondo.
Ricordo un gruppo di operai silenzioso, in mezzo a tutto
quel rumore, e un vecchio in tuta che reggeva un cartello con
la foto di una delle vittime. Ricordo vicino a me Baruch che
cercava di camminare al ritmo del corteo, ma zoppo di gotta
faceva fatica e io Fred ogni tanto lo sostenevamo e lui protestava.
– Quando ero in montagna – disse – una volta mi feci
trasportare dai miei amici partigiani, ma mi avevano sparato
a una gamba. Adesso faccio da solo.
Ricordo due donne in tuta gialla che spingevano un carrello con sopra dei thermos di caffè e tè e lo offrivano, era
freddo quel giorno. Ricordo che guardavo i doni natalizi nelle vetrine e pensavo che dovevo comprare ancora il regalo
per Selene.
E poi uno sbandamento, una voce preoccupata: «la polizia carica», e uno del servizio d'ordine che diceva al megafono «calmi e tranquilli, oggi siamo in tanti, sarebbe più facile
per noi caricare loro». Ricordo Loris e Tamara che si erano
rivisti, dopo il loro breve interludio, e camminavano a braccetto. E una madre con un bambino, lo portava via di corsa,
come fosse in pericolo, e un ragazzo che gridava «non deve
avere paura di noi, signora». E un tale che da un bar di lusso
fece il saluto romano e il servizio d'ordine fermò due che gli
stavano per saltare addosso. Una vetrina che andò in frantumi e dei ragazzi che rubavano delle scarpe, e altri incazzati
che dicevano, cosa c'entra questo con i morti?
Ricordo una ragazza bellissima, con un cappotto rosso,
di cui incrociai lo sguardo e le lacrime. La sensazione di gelo
che provai vedendo l'avvocato D'Intesa sul palco. E quando
chiusi gli occhi, tutto quel rumore diventò una cascata dentro
una gola. Vidi la piazza vuota, di notte, piena di barattoli e
cartacce, dopo un comizio o un concertone come tanti altri.
Dove siete finiti, tutti voi che c'eravate quel giorno? pensai.
Lo rifareste? Eravate diversi, ci credevate in un altro modo,
oppure vi avevano detto di crederci e obbedivate soltanto?
Potevate immaginare, quel giorno, che non ci sarebbe stata
giustizia per nessuno, ma che le ingiustizie sarebbero cresciute una sull'altra, come le muffe su un tronco morto?
Vidi nell'orobilogio la città cambiare in modo così repentino e profondo che pensai: quel giorno si è spaventata,
anche le città hanno bisogno di pace e tranquillità, ha ingoiato la nostra rabbia nel suo sottosuolo, l'ha imprigionata, e ora
fa brillare i suoi negozi e le vetrine, per non farcene ricordare. Dimenticate per favore, dice, io sono una vecchia città, ho
visto le guerre medievali e la peste, e duelli e invasioni nemiche e poi gli spari nelle strade e i carri armati, lasciatemi invecchiare in pace.
E quando aprii gli occhi, un oratore parlava ma non capivo nulla, dietro di me un gruppo urlava slogan feroci. Mi
raggiunse mio zio Nevio, aveva il fiatone, si era impillolato
di cardiotonici come un cavallo da corsa. Ho visto Verdolin,
ansimò, mi ha detto che ha incontrato Selene, in fondo al
portico. Dice che ti aspetta dopo la manifestazione, davanti
alla libreria.
Era tornata con il primo aereo. Non l'ho fatto per te, disse. L'ho fatto per quei poveri morti, e anche per te. A hard situation and a dark future for Italy, aveva detto il commentatore della tivù inglese, e sembrava davvero preoccupato. Ci
baciammo, mentre la piazza si vuotava. Forse non era il
caso, ma non potevamo fare altro, io la tenevo abbracciata e
non la lasciavo, neanche quando salutammo gli amici.
– Vuoi una corda per legarla? – disse Fred.
Selene passò la vigilia con i suoi, ma il giorno di Natale
disse che voleva venire in paese. Lo zio ordinò: voglio conoscerla, invitiamola a cena dalla Luciana. No, risposi io, troppo compromettente. Nessuna è mai rimasta incinta per una
lasagna, rispose lui. Io dissi va bene, ma non mettetela in difficoltà, lei è timida. All'inizio della cena lo zio e la Luciana
si fingevano timidi più di lei, invece scalpitavano, parlavano
col freno a mano tirato. Zio Nevio tossicchiava e diceva, mi
dica mi dica signorina, com'è la professione medica? E Selene rispose: io sono solo al primo anno, ho appena cominciato
a studiare anatomia. E la Luciana commentò, l'anatomia è
una gran bella cosa. Non si capì se alludeva a quella di Selene, alla sua o in generale. Poi vedendo che Selene gradiva sia
le cibarie sia il vino, cominciarono a prendere confidenza.
Mio zio disse, studi signorina, se vuole le faccio da cavia che
le ho tutte, ho proprio bisogno di un dottore. Per te non ci
vuole un dottore, disse la Luciana, ci vuole Santa Tirella.
– Chi è Santa Tirella? – chiese Selene.
Avrei dovuto spiegare, la santa della Sacra Guêpière,
quella che ristabilisce una sana intesa sessuale nelle coppie,
ci sono anche canzoni in rima a riguardo. Omisi.
Poi la situazione si scaldò. Lo zio raccontò di quella
volta che il dottor Carabelli era stato chiamato in una casa
colonica e il contadino gli aveva comunicato, in camera da
letto c'è Marisa che sta male. Il dottore aveva tirato fuori il
termometro e aveva detto: mentre mi lavo le mani le provi la
febbre, glielo metta sotto la lingua. Il contadino tornò e disse, l'ha ingoiato. Ma è impossibile, disse, mi faccia vedere. Il
dottore entrò nella camera e c'era una mucca coricata per terra.
– Così non sta da sola – spiegò il contadino.
Selene rise come una matta, il vino l'aveva resa rosea e
paesanotta. La Luciana si mise a darmi dei pizzicotti e a sussurrarmi nell'orecchio com'è bella com'è bella, se te la fai
scappare sei un baggiano, al quarto pizzicotto dissi, Luciana,
ho capito, lei sussurrò, con voi uomini è meglio ribadire.
Poi lo zio ci raccontò molto dettagliatamente le sue coliche renali e cominciò a parlare di erbe mediche. Era tanto
esperto e dettagliato che Selene chiese, le dispiace se prendo
appunti, e si mise a scrivere come a lezione.
Fui orgoglioso dello zio. Tutto era andato bene. Sulla
porta salutammo e la Luciana mi disse: aspetta che ti devo
dare una cosa.
Era un baby-doll per lei.
– Se te la fai scappare – ripeté, e fece un gesto minatorio.
A Capodanno i genitori della Schiassi andarono alle
Maldive, iniziava la dolorosa emigrazione degli italiani verso
quelle isole lontane. Così potemmo andare nella loro casa di
montagna sulle Dolomiti. Bei monti, ma i nostri son meglio,
dichiarai, ma non era mica vero. Quando il sole le arrossava
era come essere su un altro pianeta e nei boschi dovevano esserci degli gnomi di eccezionale qualità. C'era molta neve
dolomitica, che però da assaggiare è uguale all'appenninica.
Andammo a sciare. Selene sembrava un agile scoiattolo, io
un cinghiale con due assi da stiro ai piedi. Eravamo tre coppie. Io e lei, gli amanti perfetti, e Fred con un'amica tedesca.
– Voglio solo stare tranquillo – precisò – non ci sono ripensamenti in atto.
La notte sentivamo il cigolio delle molle del talamo
dove Verdolin trombava la Schiassi, facevano piano perché
si vergognavano, si sentiva ogni tanto solo un «uh» di godicchiamento. Invece Selene strillava come una baccante, e facevamo cadere i soprammobili.
Una notte mi misi a urlare:
– Dov'è il mio costume da Uomo ragno! Dove l'hai messo, lo sai che senza non mi eccito!
Dopo molte e assillanti insistenze, Selene mi rifece lo
strip, avevamo una piccola radio che riceveva male, cercammo una musica adatta ma alla fine lei si spogliò sulle note di
Quarantaquattro gatti, canzone dello Zecchino d'Oro. Il risultato fu comunque entusiasmante.
Una mattina ci eravamo svegliati presto, il bosco era tutto un saettare di scoiattoli. Lei corse avanti, io la inseguii, mi
persi in una radura. Al centro c'era una roccia che emergeva
dalla neve, come uno scoglio nel mare. Pensai che lei fosse
nascosta lì dietro, perché c'erano delle orme. Invece era uno
gnomo, molto più vecchio dello Gnomo Boleto, che fumava
una pipa fatta con una pigna. Stava pisciando.
– Scusi se l'ho disturbata – dissi.
– Niente, ragazzo – rispose – piscia pure anche tu.
Pisciai per un minuto, mi riabbottonai e lui continuava.
– Lei – chiesi – conosce per caso lo gnomo del bosco
basso, a Monte Mario?
– E' mio bisnipote – disse – perché?
– Io non vorrei darle una brutta notizia ma…
– Si è inalberato? Ma non è grave, lo fa spesso quando è
nervoso, si inalbera una ventina di anni e poi torna alla forma
gnomica.
– E lei si inalbera?
– Io sono troppo vecchio – disse lo gnomo continuando
a pisciare, anzi incrementando il getto – se mi inalbero, non
mi ritrasformo più. Preferisco morire una volta per tutte.
– E quando accadrà?
– A noi gnomi di Dolomia, basta parlare una volta con
un essere umano e subito crepiamo.
– No! – gridai. Lo avevo ucciso!
– Ci sei cascato, scemo – disse lo gnomo, mi pisciò in
testa e sparì nel bosco con una gran risata a sette echi.
– Saltatempo, cosa fai lì incantato in mezzo alla neve? –
disse Selene e mi tirò una palla ghiacciata proprio nel coppino.
– Maledetta – gridai, la raggiunsi e riuscii a turbarla anche sotto tre strati di maglioni.
Mentre ci baciavamo, vedemmo Fred e la tedeschina
che camminavano a braccetto. Lui si fermò e la baciò appassionatamente.
Ci incrociammo e lo guardai con stupore.
– Ehi – disse – non rovinatemi la reputazione.
– E neanche a me – disse la fräulein.
Tornai in città, e tornò a girare la giostra dell'inquietudine. Selene si era iscritta a medicina e frequentava assiduamente, la sera studiava dei bellissimi libri con cancheri pustole e ustioni, la vedevo molto poco. Io mi aggiravo per l'università, raccoglievo programmi e piani di studi, ma non mi
decidevo. Ero indeciso tra lettere, filosofia e botanica. Avevo
comprato un tesserino falso e mangiavo alla mensa universitaria, perché non avevo soldi. Mio padre mi aveva lasciato
poche lire, e non volevo vendere le sue belle cose di legno, i
cucù e le due pendole antiche restaurate. Zio Nevio insisteva:
ci penso io, a te e Gancio, ma Gancio era lontano. Non era ripartito per il Sudamerica, aveva telefonato da Parigi dicendo:
lavoro in un ristorante dove nel menu c'è scritto «Tortellini
alla Hemingway», ma tolto questo tutto bene.
Andai a un'assemblea a Lettere, gli interventi erano più
o meno gli stessi del liceo, le barbe erano più lunghe e si facevano più citazioni. Rividi Riccardo che appena mi salutò, e
Lussu che mi fece festa.
– Adesso si fa sul serio, Saltatempo – mi disse – al momento giusto ti voglio parlare di una cosa. Di te mi fido.
Due giorni dopo lo arrestarono la prima volta, perquisirono la casa, ma trovarono solo dei volantini. In prigione lo
picchiarono. Lo rividi in un bar.
– Stai pronto, Saltatempo – disse – appompiadi a bastusu: preparati che si fa a botte.
Una sera dovevo uscire con Selene ma lei disse che era
stanca, aveva fatto cinque ore di lezione. E mi sgridò perché
non mi decidevo a iscrivermi, la scadenza era tra quindici
giorni. E' un affare mio, dissi. Fa' come vuoi, rispose e riattaccò la cornetta.
Andai in mensa. C'era una brunetta con cui parlavo ogni
tanto. La abbordai, andammo al cinema. Poi su da lei. Per
due ore il mio uccello rifiutò qualsiasi prestazione, ci mancava solo che scappasse sotto il letto. Poi si rianimò per una
scopata da coniglietto e mentre lei era in bagno me la svignai. Una figura miserabile. Presi il treno e tornai al paese,
volevo parlare con Baruch, ero proprio confuso.
Appena arrivato in casa, mi ricordai della chiave. Aprii
l'armadio dell'officina e vidi il segreto di mio padre.
Erano ventisette statuine di legno, alte ognuna una ventina di centimetri. Un presepe laico, senza capanna e bambino. C'era Baruch con il suo bastone da passeggio, Karamazov col fazzoletto al collo, Caprone con una pecorina di legno sul piedistallo, Regina con il giornale, la Luciana che
mostrava un paio di mutandoni. E poi lo zio col fucile e Ru-
fus al fianco. C'era Lavamèl seduto col gatto, Slim con una
tortora su una spalla, Balduino col fiasco, Bortolini con la
canna, e Carburo, Zoraide, Favilla il fabbro e Caio il fornaio
e altri tre o quattro che non conoscevo, forse erano morti
quando ero piccolo. E sullo stesso piedistallo c'eravamo noi
della banda del fiume, a sette, otto anni. Io, Gancio, Osso,
Selene, il Troll, Fulisca. Tutti insieme come allora, anche se
qualcuno si era staccato dal piedistallo per camminare coi
piedi suoi, e non eravamo andati nella stessa direzione. E poi
il papà si era fatto l'autoritratto con l'ascia in mano come un
sioux e sotto la scritta:
«Me».
Chiamai zio Nevio che si mise a battere le mani di gioia,
come un bambino.
– Bisogna che le vedano tutti – diceva – le portiamo subito alla casa del popolo, o mettiamo un banchetto in piazza.
– Lasciale qui ancora un giorno – disse – vorrei guardarle ancora.
– Va benedisse zio Nevio – questa è una gran bella cosa.
Mi consola un po' delle due brutte notizie di oggi.
– Gancio? – dissi subito.
– Proprio lui – sospirò – è tornato ma non si azzarda a
farsi vedere. Hanno detto che l'hanno visto al bar dell'Hotel
Lara, dai Pastori, insieme a della teppaglia.
– Lo cerco io. E l'altra notizia?
– L'altra più che brutta è fastidiosa. Sabato tornano in
paese Fefelli e Arcari con la loro corte di ruffiani, c'è la ceri-
monia della prima pietra del Multiresidence. Carabelli non sa
se andarci o no. Lo hanno invitato, ma tutte le notti gli danno
del pederasta sui muri. L'ho visto che cancellava le scritte da
solo, per risparmiare i soldi del comune. Poveraccio, non ce
la fa più.
Lo zio se ne andò pedalando piano, il bavero rialzato.
Rufus abbaiò da qualche parte dietro la casa, io guardai verso il monte e vidi l'Ombra. Vattene sanguinaria, pensai, mi
hai stancato. Quale delle statuine vuoi ancora, vai in città, là
c'è tanta gente. Ma l'Ombra scivolò lungo il bosco, come un
serpente, e si diresse verso il fiume.
Non riuscivo a dormire. La pendola batteva le ore. Sentii una voce che mi chiamava. Era Gancio. Immobile, in
mezzo al prato, con le mani in tasca.
– Cosa fai qui a quest'ora? – dissi.
– Quale ora? – disse Gancio.
Mi accorsi che era quasi l'alba. Nella mia testa era appena mezzanotte.
– Non è colpa di nessuno – disse con voce stanca.
– Che cosa?
– Quella cosa che ti dissi, che dovevi vendicarmi, non ci
credo più, non farlo. Non è colpa di Osso o di Fefelli o dei
Pastori o della società cattiva, il destino ti dà la spinta e ti
butta in acqua. Ma sei tu che decidi se tornare su oppure
nuotare nella corrente, finché trovi un mulinello più forte
della tua voglia di vivere, e addio merlo.
– Gancio, non ricominciare a farti del male. Ricordati la
sera degli Scrapers, la bomba biologica alla villa, il ritorno di
John Domineddio. E i tuoi amici guatayabas.
– Vuoi sapere la verità, Saltatempo? – disse Gancio. –
Sai cos'ho visto in Sudamerica? Miseria, tanta miseria e
sfruttamento e gente che si sgozza per un paio di scarpe. E
quando sono arrivato al villaggio indio, metà erano morti o
ricoverati per un'infezione, gli avvelenano l'acqua per farli
andar via e tagliare gli alberi della giungla. Mi son riempito
di funghi strani per non vedere, ma vedevo ancora di più.
– Gli indios stanno lottando – dissi – e lo faranno ancora, come noi.
– Il loro fiume è più grande e la corrente più forte – disse Gancio – hanno una vita breve, in confronto a noi sono
farfalle. In quanto a me, cosa importa.
– Mi avevi detto: nella vita questi discorsi si fanno una
volta sola.
– Nella vita, amico – disse tristemente. La luce dell'alba
andò via di colpo, calò il buio e Gancio non c'era più. In cielo, vidi una nuvola scura, a forma di drago. Allora mi ricordai del percorso dell'Ombra, presi la bicicletta e corsi al fiume. Scesi sul greto, ma era troppo buio. Accesi il fanale, per
non farlo spegnere pedalavo in tondo. Puntai la luce verso la
pozza, e sulla riva sabbiosa c'era Gancio. Rannicchiato,
come se dormisse.
Mi sedetti vicino a lui.
Tirai un sasso.
– Sedici rimbalzi – dissi – in tuo onore, Gancio.
Poi andai a avvisare lo zio.
Non era morto di droga. Forse un cocktail di pillole e alcol, droga legale. Un arresto cardiaco, avrebbe compiuto
vent'anni tra pochi mesi. Lo zio si sentì male. Carabelli gli
proibì di andare al funerale, ma zio Nevio c'era, in prima fila.
C'erano tutti, anche Osso.
Mi venne vicino e aspettò qualcosa, un pugno, una frase.
– Mi dispiace – disse.
– Come puoi essere così ipocrita – dissi – gliel'hai venduto anche tu un pezzo di morte.
– E' vero, ma non mi rendevo conto, mi dispiace – disse
Osso.
Quanta miseria doveva esserci nella sua testa per non
capire cosa aveva fatto per qualche lira, per non capire che il
suo posto non era più tra di noi, che il suo nuovo posto lo
aveva scelto al tavolo imbandito di Arcari. Non riuscivo a dir
nulla, ero paralizzato, mi faceva schifo e pena. Fu Regina a
prenderlo per un braccio e a dire:
– Vattene, se hai rispetto per il morto e per Nevio, vattene.
Osso si allontanò quasi di corsa.
Dopo il funerale tornai a casa. Disposi le statuine sul tavolo. Quasi senza accorgermene misi da una parte i vivi e
dall'altra i morti. Solo noi ragazzi eravamo ancora insieme,
sul piedistallo della nostra infanzia, quando eravamo amici.
E di colpo tutto fu chiaro. Quelle statuine e la vita preziosa che racchiudevano, la fatica lenta di mio padre per far
uscire i loro volti dal legno del bosco, legandoli per sempre a
questi luoghi. Li aveva costruiti e nascosti alla ferocia e all'avidità, perché qualcosa restasse di loro, perché la frana degli
anni non li portasse via. Quelle statuine erano uomini e donne e ora mi guardavano. Qualcuno aveva giocato con la loro
vita, li aveva venduti, corrotti, piegati. Adesso doveva pagare. Forse Fefelli era vecchio e stanco, ma era lui che aveva
aiutato l'Ombra a entrare in città, lui aveva allevato nel suo
cadavere i Pastori, Ossobuco, Arcari. E io avevo allevato
nella mia rabbia quel pensiero che mi aveva tormentato fin
da piccolo.
Presi in mano la statuina di Baruch, che sembrò brillare,
i lineamenti diventavano sempre più vivi. La pendola divideva in due il silenzio. L'orobilogio mi avvolse, mi strappò dal
tavolo e mi fece volare attraverso la finestra, sopra il bosco,
fino alla vasca di pietra. Faceva freddo e tremavo, la statuina
di Baruch vibrò e mi disse:
– Posami a terra, sono stanca.
La posai sul muschio, e mise delle piccole radici, poi dei
rametti, e crebbe sotto i miei occhi, invecchiò e diventò un
albero, una grande quercia, in cima al ramo più alto era appesa la giacca di Baruch.
– Ti ricordi – disse l'albero – quando avevi scoperto che
il nonno di Fulisca era stato ammazzato dai partigiani, e venisti da me confuso? Ricordi cosa ti dissi?
– Sì, Querciabaruch – risposi io – mi dicesti: ringrazia
ogni giorno in cui puoi svegliarti in pace, senza dover dividere il mondo in amici e nemici.
– E poi?
– Poi non ricordo…
– Poi ti dissi: perché a molti è capitato di svegliarsi quel
giorno, il giorno di combattere. Non è un bel risveglio, è un
risveglio doloroso e crudele. Quel giorno non chiedere agli
altri chi sei, gli amici diranno che sei un eroe, gli altri che sei
un assassino. Solo tu puoi saperlo, e pagherai ogni ora di
questa tua decisione. Solo dopo molto tempo potrai vedere se
hai aggiunto dolore al mondo o lo hai aiutato a guarire, se
hai fatto crescere più vita di quella che hai spento. Questo si
chiama responsabilità.
– E' tutto troppo grande per pensarlo – dissi, tremando
di freddo – tu sei un vecchio albero, Baruch, io non ho la tua
lunga vita, la tua linfa, il tuo tronco, dimmi qualcosa che mi
aiuti.
La chioma dell'albero sospirò, volarono via le gazze
bianche e nere.
– Ricordati, piccolo albero Saltatempo. Quel giorno ti
sembrerà di essere solo, ma non lo sei. E ricorda una cosa
ancora più importante. Guarda intorno al tiranno che tu odi e
troverai mille servi e mille complici. Guarda intorno a loro, e
ne troverai altri mille e ancora mille. Sono nati in un giorno
solo? Combattere prima di quel giorno, vuol dire combattere
quel giorno.
– Sei oscuro – dissi.
– Sono un oracolo, non un gazzettino meteorologico –
disse un po' risentito Querciabaruch, scosse la chioma e mi
inondò di una pioggia di bachi pelosi.
Mi ritrovai nella mia casa al buio, con la statuina in
mano, un baco arrancava sul tavolo. Credevo di avere capito.
Ora toccava a me. Non ero triste né rabbioso, sentivo chiaramente che ogni gesto che avrei fatto d'ora in avanti sarebbe
stato molto importante, perché dopo non avrei più avuto altri
gesti. Mai più mettersi la sciarpa e il giaccone, mai più chiudere la porta e carezzare Rufus e incamminarsi sulla strada
verso il paese. Mai più paese, mai più il bosco e le montagne, la vasca e il Dio allegro. Mai più Selene. Mai più sangue, dopo.
Arrivai davanti al negozio di zio Nevio. Avevo la chiave, me ne aveva data una copia nel caso avesse smarrito la
sua, si fidava di me. Aprii, sapevo come si staccava l'allarme.
Sapevo che nella bocca del luccio imbalsamato era nascosta
la chiave che apriva la cassaforte, dove c'erano due pistole e i
proiettili. Presi la Beretta nove, lo zio mi ci aveva fatto sparare qualche volta. Non riusciva a accettare che io fossi il
primo della famiglia a non voler diventare cacciatore. Chiusi
il negozio e tornai a casa. Mi addormentai.
Entrò Selene in lacrime, era piccola come una statuina e
luminosa, sulla sponda del letto, come la fatina di Peter Pan.
– Ho saputo di Gancio, arrivo domani. Ti prego, ho telefonato a tuo zio ma è sempre occupato, forse ha staccato la
cornetta per dormire. Sento che stai per fare qualcosa di brutto. Hai davvero capito cosa ti ha detto Querciabaruch?
Aspettami, ti prego.
– Non farò niente di strano – dissi – e sono stanco di
parlare con le ombre.
– Hai ragione Saltatempo, siamo stati lontani ultimamente, ma io ci credo in questo lavoro. Voglio diventare una
brava dottoressa, lo so che ti ho lasciato solo in questi giorni,
ma tante volte tu hai lasciato sola me. Ascoltami, ti prego,
non buttarti nella corrente, non ce l'ha fatta Gancio e non ce
la puoi fare tu. Ti amo, ascoltami.
Uscii fuori, lei mi rincorse con piccoli balzi, come uno
scoiattolo.
– Non ti sento più – mentii – non sento cosa dici.
Gli orologi si stavano torcendo, azzuffando, uno mordeva l'altro e forse ne sarebbe rimasto uno solo.
– Ascoltami – disse Selene con un filo di voce.
Una nuvola velò la luna, e lei sparì.
La mattina mi vestii con un pullover e un paio di braghe
di mio padre, larghe e coi tasconi. C'era un sole tiepido, una
pausa nel freddo. Camminai verso le Roselle e vidi le auto
blu ferme all'ingresso della strada che portava al bosco del
futuro Multiresidence. Le auto erano a motore spento, nessu-
no si muoveva. Forse sono in anticipo, pensai, oppure aspettano qualcuno.
La pistola mi gonfiava il tascone, mi tirai giù il pullover
per coprire meglio. Mentre camminavo, una Giulia dei carabinieri suonò il clacson e gridarono:
– E non stare in mezzo alla strada!
Mi avvicinai ancora alle macchine blu. Da lontano vidi
Arcari e il colonnello Maluschi, sembravano depressi, forse
non era venuta abbastanza gente. Tagliai per il prato e dietro
il frutteto di meli, conosco questa zona meglio di voi, ragazzi, pensai. Sbucai dalla siepe che recintava una vigna, a tre
metri da loro. Erano tutti vicini. Guarda intorno al tiranno e
vedrai mille servi e mille complici. Chiusi gli occhi, calmai il
respiro e feci due passi in avanti, con la mano sul calcio della
pistola. Guardai.
Ma Fefelli non c'era. C'erano don Brusco, mio zio, e il
sindaco Carabelli, che si stava togliendo la fascia. I Pastori
mi guardarono con stupore.
– Non si fa niente, Saltatempo – disse mio zio – Fefelli
è morto stamattina, un infarto mentre si stava preparando a
venire qua.
– Per me – disse Arcari con rabbia trattenuta – potremmo fare l'inagurazione lo stesso. I giornalisti sono venuti. Fefelli sarebbe d'accordo.
– Per favore – disse il parroco – un po' di rispetto per i
morti.
Dalla mia pancia saliva qualcosa che poteva essere vomito, o una grande risata. I Pastori mi passarono davanti urtandomi. Nerio disse:
– Vecchio di merda, poteva morire stanotte, così non
perdevamo tutto questo tempo.
– Tanto non contava più un cazzo – disse Licio e salirono sull'auto, una Mercedes color maionese, la macchina più
bella che avessi mai visto.
Gancio diceva sempre: un giorno ruberò una di quelle.
Tornai per i campi, mangiai un bel grappolo di uva nera,
mi sentivo vivo in ogni vena e arteria e poro della pelle.
Così, pensai, ho perso la mia grande occasione per passare alla storia del mio piccolo paese e dell'Italia intera. Certo Arcari prenderà il posto di Fefelli, e qualcuno un giorno
sostituirà Arcari. Ma io ho fatto il mio dovere, ho affrontato
la sfida che mi attendeva da tanti anni. Adesso sono quasi libero.
Perché prima di essere del tutto libero dovevo fare alcune cose.
Anzitutto quella notte riportai la pistola nella cassaforte,
nessuno si era accorto di niente. La rimisi nella sua custodia
di velluto nero. Richiusi. Baciacuore, boccadiferro, baiaffa,
le dissi, regina dei miei soldatini di piombo, riposa in pace
per mille anni o per molto meno. Quello che ho imparato e
porto dentro, nel mio velluto rosso, vale cento pistole.
Per seconda cosa andai a casa, presi le statuine e le portai a Regina. Lei si illuminò vedendole.
– Lo zio mi aveva detto che erano belle, ma non credevo
così. Neanche a me le aveva fatte mai vedere. Le metteremo
in piazza o in qualche posto dove tutti possano vederle e riconoscersi.
– Proprio così – dissi io.
L'ultima cosa era telefonare a Selene, ma mi dissero che
aveva già preso il treno per venire da me.
Questa non ci voleva. Selene non doveva sapere quello
che stavo per fare. Lasciai un biglietto sulla porta: «Vado in
città, torno tardi». Mi nascosi nel bosco e aspettai che venisse il primo buio. Scesi per i prati costeggiando la strada. Sapevo sempre dov'era, curva per curva, anche se non la vedevo. Sapevo che sopra l'Hotel Lara c'era un filare di cipressi,
da lì dovevo scendere in linea retta e sarei arrivato a uno
spiazzo, dove posteggiavano le macchine i clienti dell'hotel.
La Mercedes era lì tra due alberi. Dall'albergo venivano
musica e risate, a quell'ora tutti bevevano e giocavano a poker. Aspettai il momento buono, in cui il rumore era più forte, e con una pietra spaccai il vetro, poi aprii la portiera.
Scassinarla avrebbe richiesto troppo tempo. Aspettai, dall'hotel nessun movimento. Passò un camion, mi appiattii dietro
la macchina. Ora veniva il difficile. Con Gancio l'avevamo
fatto tante volte, ma mai con un'auto come questa. Mi sembrò che ci fosse lui a guidarmi le mani, con un cacciavite
staccai i fili dal cruscotto, li unii e misi in moto. Non avevo
la patente ma avevo già guidato qualche volta. Presi la strada
della Strega. Era una vecchia strada che esisteva prima della
statale, ormai era quasi abbandonata, portava a poche case di
contadini. Era piena di curve e sterrata, a tratti piena di sassi.
Quando si passava l'ultima casa diventava ancor più stretta e
sconnessa, saliva fino a un punto che si chiamava l'Inferno, e
qui si infilava in una crepa nella roccia, proseguendo sopra
un orrido profondissimo. Non c'erano paracarri, da anni ormai veniva percorsa solo a piedi da qualche cacciatore. Guidavo piano, ero riuscito ad accendere i fari ma la strada era
tortuosa, la luce si disperdeva sui muri di roccia e nel buio
dell'abisso. Sentivo di avere le ruote a un palmo dal ciglio.
Stai nuotando proprio in mezzo alla corrente, pensai, cosa ti
aspettavi di diverso? Passai sotto una roccia nera, da cui
scendeva un rivolo d'acqua, la strada diventò fangosa e si restrinse ancora. Finché i fari illuminarono una frana che bloccava tutto. Frenai, la ruota destra restò con mezza gomma in
bilico sul bordo del precipizio. Scesi e guardai giù. Nel burrone buio il vento faceva scrosciare le fronde, sembrava il respiro di un animale. Lì sotto, chiuso tra due pareti di roccia,
c'era il cuore antico della montagna, là un milione di anni fa
scorreva un fiume, e forse nel fondo abitavano mostri e creature irraggiungibili anche dalla mia immaginazione.
Macchina, dissi accarezzando il cofano, non ce l'ho con
te, tu sei bella e svelta, hai portato anche delle cose buone
nel mondo. Bastava che restassi quello che sei, un carriolone
con un motore assai raffinato, non la padrona di ogni strada e
ogni città. Tu sei disegnata nella bandiera di quelli che hanno
distrutto ciò che c'era di più vivo e generoso nel mio paese.
Ce ne sono milioni come te che in questo momento corrono
sull'autostrada e si schiantano una contro l'altra, diventano
carogne di lamiera, e sopra la gente ci muore contenta e rassegnata, e sempre più ne morirà. Sei la macchina di due bastardi, non è colpa tua, ma ora devi fare questo salto, devi
provare cosa vuole dire l'ultimo respiro della vita. Capiscilo
tu, perché certi uomini non sanno più capire.
Misi in folle e la spinsi, si mise in moto con un dondolio
da mucca. La montagna spalancò la bocca, sentii gli schianti,
uno dopo l'altro, come morsi sulle lamiere, poi un ultimo
tonfo sordo la inghiottì.
Subito dopo cominciò a piovigginare. Non mi ero reso
conto di quanta strada avevo fatto, corsi in discesa a lungo,
mi mancò il fiato, mi fermai, ripresi a correre, arrivai a casa
alle tre di notte, Selene era seduta sull'uscio, piangeva. Regina era con lei. Mi diede una tazza di brodo e un gran pugno
sulla schiena.
– Sei vivo – disse Selene, asciugandomi i capelli – avevo paura.
– Sì – dissi io – avevo paura anch'io.
8.
I Pastori avevano tanti nemici che nemmeno provarono
a indagare, tanto la Mercedes maionese se la ricompravano
quando volevano. Però si incazzarono eccome. L'abisso della
montagna digerì la macchina, la coprì di rovi e ramaglie, la
trasformò in un felice mostro vegetal-minerale. Riposi in
pace.
Quando Selene tornò in città per dare il primo esame e
incassare il primo trenta, venne a trovarmi Verdolin. Poiché
si era presentato dimezzato, cioè senza la Schiassi, capii che
il motivo era importante. Mi disse che una rivista di fumetti
indiceva un concorso per una storia, lui aveva già disegnato i
personaggi, bisognava scrivere il testo, solo io potevo farlo.
Non so se sono capace, dissi. Mi misi al lavoro, in una
notte scrissi la sceneggiatura. La mattina la consegnai a Verdolin e mentre lui leggeva, mi allontanai, mi vergognavo. Lo
sentii ridere di gusto.
– Saltatempo – disse – sei una rivelazione.
Spedimmo la storia Mickey Marx contro il jukebox assassino. Dopo una settimana arrivò la lettera del direttore.
Diceva:
«Non avete vinto, ma avete un discreto talento e dovete
coltivarlo. Lavorate ancora e rimandateci del materiale».
Verdolin ci restò male, ma io non mi arresi. L'orobilogio
mi diceva che, qualche anno dopo, sarebbe arrivata un'altra
lettera magica, e stavolta ce l'avremmo fatta.
Tutto poteva succedere, tutto era cambiato in una settimana. Credevo di essere a un passo dal burrone, avevo fatto
un salto e mi ero ritrovato su un ponte invisibile, che portava
di là, in un paese di gioie faticose e arcane. Decisi che sarei
tornato in città e con Verdolin avremmo lavorato a una lunga
storia a fumetti, mentre io avrei potuto scrivere dei raccontini
e magari un romanzo d'esordio di seicento pagine sulla lotta
tra le divinità del bene e quelle del male in un paese di montagna all'inizio del diciassettesimo secolo sullo sfondo di una
storia d'amore tra due giovani ostacolati da un signorotto locale coinvolto in una guerra sanguinosa a cui partecipa anche
un paese straniero dove un eroe solitario vive in un castello
sulla riva di un lago nebbioso dove una fata gli fa una strana
profezia seguendo la quale l'eroe decide di partire per uccidere il signorotto che intanto ha messo gli occhi sulla giovane e manda due bravacci a rapirla quando dal bosco esce un
esercito di gnomi e la giovane dice siete buoni o cattivi e qui
finisce il primo capitolo.
Prima di tornare in paese, sentii che dovevo tornare nel
bosco. Era come se lo avessero rovesciato a testa in giù, tutto
era sconvolto dalla frana, ma la giungla stava ricrescendo e
copriva le cicatrici. Le cime dei grandi alberi erano ancora
visibili, il castagno magno e la quercia dei gufi mi aiutarono
come stelle a orizzontarmi, ma dovetti fare una deviazione
verso l'alto. Presi un sentiero che non conoscevo, credevo
che mi riportasse verso la Fanara, invece continuava a salire,
in certi punti era ripidissimo e dovevo arrampicarmi attaccandomi ai rami, c'erano dei tronchi cavi enormi che non
avevo mai visto e delle querce centenarie e faggi, poi inattesi
cominciarono i pini. Un tappeto soffice di aghi mi accolse, e
sbucai in un punto che non conoscevo. Era proprio sotto la
parete verticale di Monte Mario. Una cascata precipitava dalla fessura di una roccia. Il rumore era forte e incantevole.
Andai ai piedi della cascata. Prima di ripartire nella sua
corsa, l'acqua formava una polla d'acqua limpidissima, forse
era quella che alimentava la Fanara. C'era una croce, a ricordo di qualcuno e, appeso, un mestolo per bere. Guardai nell'acqua e vidi la cima della montagna riflessa. Poi sentii dei
passi, un uomo con un mantello nero saliva dal sentiero, con
un grosso sacco in spalla. Ebbi paura. Poi vidi che aveva legata alla cintura una pelle di vipera. Era Celso: tutti lo avevano dato per morto da tempo. Invece era vivo, non se ne era
andato dalla montagna, era sopravvissuto a frane e rovine.
– Celso – dissi quando fu a un passo – ti ricordi di me?
Mi guardò tranquillo.
– Sei quello delle sigarette – disse.
– Dove abiti?
Indicò in basso. Vidi qualcosa che sembrava una minuscola capanna, nascosta tra i tronchi.
Inatteso, si udì il rumore di un motore. Ricordai che lì in
alto c'era una mulattiera, i partigiani la percorrevano per nascondersi nelle grotte. Si diceva che fosse minata. Una jeep
verde si fece largo tra i cespugli e si fermò sopra di noi. Scese un uomo con delle scarpe da rocciatore e un bastone.
– Buongiorno – disse con un sorriso – questo posto sta
diventando frequentato. – E poi, rivolto a Celso: – Allora,
com'è andata la pesca?
Celso gli porse il sacco. Era pieno di ovoli e di porcini. I
più grossi erano arrotolati in una carta di giornale. Guardai la
data: era un giornale del '48.
– Benedisse l'uomo – questo è per te. E gli diede due
pacchetti di sigarette e un pacco, forse di roba da mangiare.
Stavo per dire, non è poco due pacchetti di sigarette per
tutto quel ben di dio? Ma poi capii che lì le leggi di mercato
non valevano molto, ed era inutile spiegare a Celso cosa voleva dire poco. Lui viveva nel pochissimo.
Celso si allontanò a grandi zampate. Il barattatore aveva
voglia di chiacchierare. Mi spiegò che era di Lucino, dall'altra parte della montagna. C'era una vecchia strada molto disagevole che aggirava il monte, una volta era la sola a collegare le due valli. Adesso con quella jeep campagnola trazione integrale otto marce con le ridotte lui poteva arrivare fin
lassù, che portento la meccanica, che industria la Fiat. Lui
faceva il ristoratore, aveva una trattoria che si chiamava il
Cavallo Bianco, io dissi che c'ero stato ma non era vero. Un
giorno con la jeep era arrivato fin lassù e aveva visto questo
strano cavernicolo con un cesto di funghi pregiati, li aveva
comprati e da allora una volta alla settimana e con qualsiasi
tempo, aveva luogo il loro baratto o business che dir si voglia.
– Non so come fa quell'uomo – disse – non ha orologio
eppure è sempre puntuale.
Ha un orobilogio dentro, volevo dirgli, oppure basta
guardare l'ombra sulla parete del monte.
– Vive in una baracca d'assi. E' venuto in paese solo una
volta, per prendere una damigiana di vino. E' veramente incredibile che ai nostri tempi qualcuno possa vivere così isolato.
Celso può, pensai, mentre la jeep si allontanava. Tutte le
nostre distruzioni non avevano potuto niente contro quel vecchio. Si era spostato di un po', aveva ritrovato il bosco e le
sue leggi. Quella tenacia di vivere era più forte di tutto, era la
forza del bosco che ricresce. Anni prima mi era sembrata una
vita misera. Era invece una vita nascosta e misteriosa.
La cascata scrosciava. Tutto si accese di un sole accecante, la cima del monte brillò di neve. Vidi mia madre e
mio padre, in basso sul sentiero, avevano in spalla delle gerle
piene di legna, lei mi salutò con un gesto della mano, lui si
asciugava il sudore. Vidi dall'alto tutta la valle futura, altre
industrie e case ovunque, una colata di cemento, e il mio
paese che sembrava sempre più piccolo, piccolo, finché fu
una casina da tortore e dentro c'erano le statuine di legno.
Vidi Arcari fare una grande disonestissima carriera e Baruch
vecchissimo che leggeva il giornale e diceva: questo è come
l'altro, miliardi invece dei manganelli. Vidi uno dei Pastori
ammazzato a revolverate, davanti all'Hotel Lara. Vidi il colonnello Maluschi su un banco degli imputati con l'accusa di
strage, tranquillo e sprezzante. Vidi molti tradimenti e trionfi, e la fontana della piazza che dopo vent'anni era ancora più
bella. Vidi Osso gonfio d'alcol e Baco davanti a uno schermo
azzurro, vidi i figli Schiassi-Verdolin e la cella di Lussu, vidi
Fred su un mare tropicale sopra una barca, e vidi Tamara
morire in un'auto incendiata, un giorno che tornava dal mare
ed era felice. Mi vidi vecchio e arrabbiato che salivo su quella montagna e dicevo a qualcuno, ma certo che conosco il
sentiero e invece mi ero perso. Vidi Selene in camice bianco,
in una camera d'ospedale, china sul letto di zio Nevio, gli
ascoltava il cuore con lo stetoscopio, e mi guardava.
Poi sentii uno schioccare di rami, qualcuno che cantava
con voce baritonale e il Dio allegro arrivò. Era come lo ricordavo, colossale, coi capelli lunghi e ritorti, tutto sporco di
terra. Gli occhi azzurri sbucavano dal volto barbuto come i
vetrini dei peluche. Mi ricordò un certo coniglione.
– Saltatempo – dissechi si rivede non muore. Stanno facendo delle belle porcherie i tuoi paesani, l'aria puzza e ci
son più macchine che desideri, e invece di pensarci su continuano a scavare e buttare cemento, e tutto frana di nuovo. Mi
è arrivata addosso mezza montagna. Adesso faccio un bel
bagno.
Si spogliò nudo ed entrò nella pozza. Mi fece cenno di
imitarlo.
– Ma è fredda – dissi.
– Entra, fighetto.
Rabbrividendo, mi tolsi i vestiti. L'acqua era gelata, ma
mi accorsi che resistevo bene.
– Sei diventato più forte Saltatempo, non hai la forza del
bosco, ma di un alberino sì, di un nocciolo di una decina
d'anni. Se non ti rovini in città, magari un giorno diventerai
un bel pero.
– Un giorno di quale orologio?
Il Dio rise e fece ribollire l'acqua con mezzi propri.
– Forza – disse – andiamo a fare un giro.
– Dove?
– Tuffati e seguimi.
Sparì con una mezza capriola. La pozza era larga pochi
metri e profonda poco più di un metro, l'acqua era limpidissima ma lui non c'era, non capivo dove poteva esser finito.
Misi la testa sott'acqua e sentii un mulinello che mi afferrava, cercai di non resistere e lasciarmi trasportare, come mi
avevano insegnato. Mi ritrovai in un fiume sotterraneo che
scorreva dentro una galleria di roccia, scendevo rapidissimo,
la galleria si restrinse e dovetti nuotare sott'acqua, mi stava
per mancare il fiato quando vidi la luce ed emersi. Ingoiai
aria. Ero a mollo nella vasca della Fanara, il Dio allegro si
stava lavando le ascelle, e due rane gli facevano lo shampoo.
Capii che non dovevo stupirmi più di niente.
– Bella nuotata, vero? – ridacchiò.
– Ma come è possibile – dissi – la pozza è collegata alla
Fanara sotto terra?
– Proprio così. La gente crede che per andare da un punto all'altro ci sia sempre una sola strada, quella sulla carta, o
quella che ti indicano gli altri. Se sapessero quanti passaggi
nascosti ci sono nel mondo e nella loro testa. Inventiamo
macchine per unire ciò che sta già insieme. Ci mettiamo in
fila sull'autostrada, e tutto intorno ci sono strade nei campi e
sotto le zolle, e sotto l'acqua del fiume. Vicino a casa tua, ad
esempio, c'è un passaggio che porta direttamente a Maracaibo.
– Dove? – chiesi eccitato.
– All'agenzia di viaggi, basta che compri il biglietto. – E
si mise a ridere sgangheratamente, e le rane con lui.
– Sei proprio spiritoso. Ma vacci piano con le scorciatoie subacquee. Stavo per restarci secco.
– Imparerai. – E di nuovo si rituffò. Stavolta lo seguii
subito, in un'acqua verdastra e filamentosa, dove nuotavano
tritoni e rane smeraldine, poi venni preso da una corrente tiepida che mi trascinò sempre più veloce, mi travolse, ogni
tanto riuscivo a tirare fuori la testa, vidi una luce lontana, e
pensai: resisti, Saltatempo, ce la devi fare, la corrente diventò impetuosa e precipitai lungo una cascata che non finiva
più, finché atterrai su qualcosa di duro e dondolante.
Ero sulla piattaforma di Rivamarina, quella di Vanes.
Tutto intorno mare, pattini e alberghi, proprio come lo ricor-
davo, solo che gli alberghi e la gente sulla spiaggia erano
moltiplicati per dieci. Il Dio allegro, con un bermuda verde
ranocchia, stava corteggiando alcune tedesche.
– Forse abbiamo sbagliato strada – disse vedendomi –
ma anche qui non è male.
– E adesso?
– Adesso ci rituffiamo – disse.
– Fammi riprendere fiato – implorai. Ma lui niente.
– Guardate questo, ragazze – gridò. Si avvitò in aria con
quattro capriole poi fece un salto mortale, risalì battendo le
braccia come ali e si infilò in acqua come un cormorano. Le
tedesche non sapevano se chiamare un esorcista o applaudire. Io mi tuffai di piedi. Vidi il Dio sul fondo, che nuotava in
mezzo a un gruppo di balenottere. Lo raggiunsi, avevo imparato a respirare sott'acqua, era tutto pieno di coralli e attinie e
pesci meravigliosi, prima tropicali, poi mediterranei poi pesci rossi, riconobbi quello della fontana di Cittàgrande e lo
salutai, poi cominciarono i branchi di muggini, segno che
s'avvicinava l'acqua dolce e poi vidi i lucci, i miei vecchi
lucci con il loro piercing di ami e i musi segnati dalla battaglia contro i Pescatori. Mi salutarono sbattendo la coda. Ma
dal fondo arrivò un pesciaccio minaccioso, grande dieci volte gli altri. Era un pesce siluro baffuto, con una faccia mista
tra Stalin, l'avvocato Cannavale e Fefelli. Mi puntò e spalancò la bocca, con uno scatto lo evitai e guizzai su, verso la superficie.
Adesso eravamo a mollo nella fontana, tra i lucci argentati e i tritoni di alabastro. La piazza era deserta, sotto una
luna gialla e tonda. Uno zampillo mi picchiettava la testa.
Guardai in su e vidi la Venere un po' strana.
Era bella e immobile, ma l'espressione del volto era corrucciata, e dopo un po' storse la bocca e sibilò al mio compare:
– Se sei venuto a chiedere scusa, risparmiatelo.
– Ho avuto da fare – balbettò il Dio – riunioni, teofanie,
apparizioni. Anche un ribaltone. Ti prego, perdonami.
– Via di qui – disse la bella irata, con un gesto della
mano marmorea – o ti scateno contro i lucciolupi.
Una delle creazioni di mio padre fece scattare le mandibole con rumore di tagliola, in modo poco rassicurante.
– Le dee… – sospirò il Dio, e mi fece segno di rituffarmi subito.
Stavolta fu un viaggio breve, scivolammo lungo un tunnel sotterraneo azzurro e liscio che sembrava una pista da
bob, dopo una curva parabolica mi ritrovai a testa in giù e di
nuovo finii sott'acqua. Non era molto alta, in due bracciate
riemersi.
E stavolta ero nella pozza, il nostro ritrovo sul fiume.
Il Dio allegro intinse un dito nella corrente e quando lo
tirò su c'era attaccata una cerniotta.
– Non vale, non è un pesce di qua.
Accese un fuoco e si mise a rosolarla infilata in uno
stecco.
– Aquae ad unum marem conveniunt – disse – e poi ho
fame, sono una divinità e posso permettermelo.
– Sei un pazzo e anche un presuntuoso – dissi. Ero ammaccato e infreddolito.
– Tu sei un presuntuoso – disse il Dio – vuoi che tutto
torni normale, quando ti fa comodo? Credevi di saper tutto
su come funzionano il tempo, lo spazio e i loro contrari. Ti
sei divertito a saltare da un orologio all'altro. Però non andava mai come pensavi. Vuoi sapere perché? Perché non credi
abbastanza al mondo. Credevi di far girare tu le lancette, illuso, uccellino nella tempesta, pescetto nelle rapide! Volevi
consumare una cosa preziosa come la tua voglia di lottare in
un istante, invece che usarne la forza ogni giorno. Credevi
che il tuo destino fosse segnato, avevi previsto tutto, dramma
tragedia e revolverate, e invece come vedi sei qui, nel posto
dove tutto è cominciato e sempre ricomincerà.
– Allora cosa è successo se non ho capito nulla?
Il Dio allegro azzannò la cernia e non me ne diede neanche un po'.
– Cos'è successo? Bella domanda. Immagino che non ti
riferisca all'inizio dell'universo, ma alla tua piccola storia.
Be', intanto hai vissuto e questo è un gran bel risultato. Se
vuoi saperlo c'è stato un consulto nel bosco, per decidere la
tua sorte. Un vero assembramento, ci vai forte con la fantasia, ragazzo. Da una parte c'era l'Ombra, il diavoletto col violino, la Sacra Pilla, gli elfi scuri, la Strega Berega, lo Gnomo
Boleto, Saturno, la prof di matematica e due arpie anomale,
due gran gnocche alate. Dall'altra io, lo Gnomo Mangereccio, Querciabaruch, Santa Putilla, gli elfi dell'acqua, Dioniso,
che tu hai già conosciuto all'esame di maturità sotto forma di
professore di greco, e poi un rappresentante della sinistra di
Sirio e un signore con baffi e mantella che si chiamava credo
Edgar Allan Puck.
– Poe – dissi.
– Sì. Ha detto che forse era anche colpa sua se ogni tanto tu immaginavi dei futuri un po' cupi, ma che sei un bravo
ragazzo. L'Ombra ha detto, dice che ha paura di me ma mi
sfida sempre, mi sono stufata, adesso lo sistemo io. Io ho
detto, non ti sembra di aver fatto abbastanza danni in questa
valle? Io eseguo gli ordini, mi ha risposto, nei secoli fedele.
E' quella lì, e ha indicato la Sacra Pilla, è lei che non ne ha
mai abbastanza e spinge gli uomini alla rovina e al gabariolo.
Se fosse per me, mi basta prendere le ordinazioni dai bacilli,
e ho già abbastanza lavoro, guarda qua, cinquanta polmoniti
solo oggi, e ho una zona che è tre volte il normale, ho chiesto
un sostituto ma niente. E quello suona il violino.
– Io mi occupo solo di piccole sfighe – ha risposto il
diavoletto – ammazzare non mi piace, mica sono un arcangelo con lo spadone.
– Piano con queste affermazioni – ha detto Santa Putilla.
– E com'è finita allora? – chiesi.
– Allora ci sono stati gli interventi contro e a favore. Saturno ha detto, è della mia squadra, è iracondo, egocentrico,
ha sbalzi di umore, e poi questa storia che vuole essere unico
e speciale, ma resta sempre un boscaiolo.
– Legge bene l'Odissea – ha detto Dioniso.
– Legge anche Playboy, si massacra di pippe ed è un
maschilista – hanno obiettato le arpie.
– E' sincero fino a sanguinare – ha detto il siriano – sul
nostro pianeta sarebbe almeno alkazar di terza categoria e
poi l'intervento di Saturno è di destra.
Insomma è stata una assemblea agitatissima, i due gnomi si sono presi a randellate sui baffi, un elfo biondo ha detto
alla Strega Berega o voti a favore o non ti trombo più, e alla
fine io ho detto: basta, è chiaro che non c'è unanimità e allora
si tira il dado.
– Un dado – ho esclamato, risentito – tutto questo congresso di divinità e miti assortiti, e alla fine decide un dado?
Bella irresponsabilità!
– Il dado lo tiro io, bello, è questo il trucco. Ho tirato il
dado e ho detto: che strano. Il dado dice che tocca a Fefelli.
– Baro – ha detto l'Ombra. Le ho tirato un ceffone, tanto
non lo sente. Se ne è andata dicendo, be', poco male, quello
cade con un cricco. Alludeva all'onorevole.
– Così vi giocate le nostre vite a dadi.
– Come voi ve le giocate in Borsa. Ma no, ma no. Abbiamo tenuto conto del tuo coraggio e delle raccomandazioni
e del fatto che sei uno dei pochi fessi che ancora crede in noi.
Sei libero di scegliere uno dei tuoi sedici futuri ma non posso
dirti quale, solo che in uno diventerai pontefice, non fare
quella faccia, sto scherzando. Devi solo promettermi che
conserverai gli orologi come una cosa importante e preziosa,
non tradire né l'uno né l'altro. Quello della fatica quotidiana e
quello dei mondi possibili, quello che conta i tuoi passi in
terra e quello che misura i tuoi sogni. Quello che scorre e
quello che gira. Quello che ti ruba le persone care e quello
che te le riporta. Quello che uccide i tuoi nemici e quello che
ti fa immaginare in quanti vari modi li uccideresti. Quello
che ti fa amare e quello che ti fa amare, capisci la suggestiva
ripetizione?
– E questi orologi io li avrò sempre?
– Se mi spieghi cosa vuole dire «sempre», ti risponderò
– disse il Dio allegro. – Adesso vediamo chi fa più rimbalzini col sasso.
– Attento che a questo gioco sono fortissimo.
– Allora comincia tu.
Presi una giarella che sembrava levigata a mano e tirai
con tutta la mia forza. Fece ventisei rimbalzi. Il mio record,
almeno a quanto ricordavo.
– E vai! – esclamai trionfante – stavolta voglio proprio
vedere. Sei un Dio, ma ventisei è tanto.
– Hai ragione, mi dovrò impegnare – disse lui pensoso.
Prese un sassone piatto lungo e largo come un'asse da
stiro.
Questa non me l'aspettavo.
Ruggì e lo lanciò a pelo d'acqua. Contemporaneamente
ci saltò sopra. Il sasso e il Dio planarono insieme sul fiume,
controcorrente, quello non era rimbalzino, era volare sull'acqua, roba da inventarci uno sport.
– Mica male, vero? – disse il Dio, ormai lontano, scavalcò la chiusa con un salto e proseguì la corsa.
– Addio – dissi, sventolando la lisca del pesce.
– Torno alla sorgente – gridò – ci rivedremo, Saltatempo. Esattamente tra sei giri di orobilogio.
– Chiarissimo – dissi io.
Stava venendo sera, e cominciavo a sentire freddo. Vidi
un ragazzino che mi veniva incontro dalla cascatella, traballando sui sassi. Era uguale a me, anzi quasi uguale, aveva i
capelli più chiari, era vestito con una giacca a vento come
quelle dei pompieri, e aveva delle scarpe strane, con una
gran suola di gomma e un viluppo di lacci, color rosso fuoco.
– Un nuovo modello di scarpa da gnomo – pensai.
Il ragazzo mi si sedette vicino e disse:
– Papà, quando sono vicino alla cascata e ascolto il rumore, è come se mi addormentassi, e vedo delle cose stranissime.
– Davvero? – dissi io.
All'alba del giorno dopo partii per la città. Avevo una
valigia più grossa delle altre volte. Il treno partì, era un po' in
ritardo, ebbi il tempo per riconoscere e chiamare per nome i
Monti Alti, uno per uno. Poi il treno fischiò, annunciando la
partenza. Mi tornò in mente una frase di Baruch, il giorno
che Fefelli era stato eletto sindaco e tutti erano mogi: «C'è
gente che dice che vuol lottare e poi confonde il fischio d'inizio della partita con quello dell'ultimo minuto, e va a casa».
Guardai fuori dal finestrino. Il paese era avvolto nella nebbia
della mattina, il sole cominciava a illuminarlo. Immaginai
chi si stava svegliando, chi lavorava già, chi dormiva ancora
e chi indugiava nel letto, a metà tra i colori dei sogni e la
luce che entrava dalla finestra. Chiusi gli occhi, e ci entrò il
fiume.