“E vidi gir gualdane...” - La Gualdana del Malconsiglio

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“E vidi gir gualdane...”
(Dante, Inferno, Canto XXII)
Irregolari al saccheggio nell’Italia basso-medievale
Rapine, incursioni e scorrerie, o, per usare un linguaggio storico “venture” e “cavalcate”, rappresentano uno dei modi
più longevi che la storia umana ha conosciuto per condurre gli affari bellici e accaparrarsi le risorse della sfortunata
vittima di turno.
Anche il medioevo, in questo senso, non è stato da meno. Accantonata, infatti, l’efficiente macchina da guerra romana,
raid e saccheggi tornano coi popoli “barbari” che, a partire dall’era cristiana e per tutto l’alto medioevo invadono,
causa e conseguenza della crisi economica e dal decadimento del sistema urbano, l’antica civiltà europea, importando
usi, costumi e pratiche guerresche. Un’eredità, quella della rapina, che durerà a lungo, ben oltre l’età di mezzo e quella
professionalizzazione della guerra che costituisce uno dei cardini della “rivoluzione militare”.
Ecco perché, al di là dell’immaginario holliwoodiano che ama la decisiva battaglia campale e forse al di là della stessa
ideologia della nobiltà cavalleresca che questo sogno coltivava, troviamo una realtà medievale popolata da zaffones,
scherani, briganti e saccomanni, una folta schiera di “gioiosi predoni” – per usare la definizione di Aldo Settia – che
conducono una guerra tanto sporca quanto utile. E si tratterebbe di una proporzione davvero impietosa, se, come
sembrano confermare le analisi dello stesso studioso, le forme atipiche e predatorie potrebbero addirittura
raggiungere il 70% del totale dei conflitti occorsi durante tutto il medioevo.
Una di queste formazioni, impegnate nella rapina dei territori nemici, è divenuta famosa per la nobile citazione fatta
da Dante che, in una descrizione della guerra a lui coeva, scrive:
“Io vidi già cavalier muover campo,
e cominciare stormo e far lor mostra,
e tal volta partir per loro scampo;
corridor vidi per la terra vostra,
o Aretini, e vidi gir gualdane,
fedir torneamenti e correr giostra”
Dante, Inferno, Canto XXII vv. 1 e segg.
Che cosa sono queste gualdane di cui canta il Poeta?
Presente nelle cronache già a partire dal XII secolo, il termine gualdana ha un’etimologia tutt’ora incerta, anche se gli
studiosi concordano sulla sua provenienza germanica. Alcuni, come Schmeller, ritengono che derivi da waldan (assalto)
che, a sua volta, dovrebbe provenire da un antico grido di guerra, vol dan (avanti!). Altri, invece, come Ducange,
ritengono che gualdana possa ricondursi a wald (bosco) e quindi alle truppe di cacciatori impegnate nella battuta nel
bosco. Altri ancora rimandano ad latino medievale waldana che sarebbe da ricondursi a woldan, da intendersi però
come truppa di genti armate.
Quale che sia l’origine del termine, il significato attribuitogli nell’Italia basso-medievale è abbastanza chiaro anche se,
a seconda dell’occorrenza, esso sembra individuare sia l’azione della rapina e della scorreria, sia la banda di persone
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incaricato di svolgerla. Matteo Villani, per esempio, nella sua Cronica, con parola che poco si prestano ad essere
fraintese, sostiene che “Niuna fede, né niuna pietà è in quegli uomini, che seguitano gli eserciti d'arme, cioè a dire in
gualdana, a predare, e a far male”. Le gualdane sembrano qui più che altro bande, formazioni di irregolari che
“seguitano” e quindi sfruttano la copertura e le attività degli eserciti regolari per compiere le loro azioni di predazione.
In alcuni casi il rapporto delle truppe regolari con le gualdane appare più strutturato se, come si legge nel Chronicon
Parmense, durante l’assedio di Parma condotto da Federico II nel 1247, i cavalieri imperiali rimanevano fino a sera
presso la città “aspettando e custodendo le loro gualdane” impegnate nella devastazione e nell’incendio delle
abitazioni limitrofe. Sempre il Villani sembra qui fare eco quando racconta che “I Fiorentini nondimeno tennero
ottocento cavalieri alle frontiere di Valdarno, e raffrenavano alquanto le loro gualdane” quasi che i soldati regolari
fossero impegnati a trattenere la cupidigia e la voglia di rapina che animava questi predoni.
In altri casi, invece, le gualdane sembra trovassero una collocazione ufficiale all’interno degli eserciti comunali. A
Firenze tra due e trecento la gualdana “è costituita da ribaldi inquadrati sotto una loro bandiera con il compito di
andare appunto «rubando e ardendo le case» sul territorio nemico” (cit. Settia). L’uso della bandiera ricorre anche in
una citazione del XIII secolo di Rircordano Malaspina nella cui Storia si può leggere: “quella (insegna) de' guastatori
era bianca con ribaldi dipinti in gualdana giucando”. Indicativo è anche l’episodio, sempre del tardo XIII secolo, di
Venezia che, contro i ribelli ciprioti, inviava gualdane composte da dieci a trenta uomini con la facoltà di spartirsi il
bottino, avendone lasciato una quota fissa al capitano.
L’analisi, per altro sommaria, condotta in queste righe delle formazioni conosciute col nome di gualdane, illumina
aspetti interessanti, e forse poco compresi, della guerra medievale. Da quanto è lecito dedurre, appare probabile che
gli eserciti medievali fossero accompagnati, a volte seguiti, a volte anticipati, da gruppi di irregolari. Questi ribaldi, più
o meno inquadrati, a piedi o a cavallo, conducevano le operazioni più sporche come il guasto, il saccheggio e il
rapimento (“pigliare prigioni” commenta Francesco de Buti) e, contrariamente a quanto avveniva per le truppe
comunali, erano senza soldo e speravano quindi di ripagarsi coi proventi delle loro basse attività. Il quadro, se
consideriamo però anche le “cavalcate” o le “venture”, non è certo chiaro, quasi che, nell’epoca di riferimento, la
tassonomia della rapina potesse declinarsi sulla base della durata dell’attività così come dell’appartenenza sociale dei
suoi “corridori”.
Da tutto ciò emerge comunque un panorama intrigante, uno scorcio su di un mondo militare in cui la
professionalizzazione non è ancora diventata la cifra dominante, dove la guerra è ancora un orizzonte di vita, una
forma di economia in periodi difficili, una possibilità di avventure per un animo passionale, sfrenato e cupido, come
spesso ci appare quello dell’uomo medievale.
A. R.