N 41 - Società Italiana di Studi Araldici

N 41 – Anno XXI – Marzo 2015 – Pubblicazione riservata ai soli Soci
UN SIGILLO ALLE ARMI
Mesi addietro, alla vigilia di un fatidico compleanno, mi
pervenne un dono da un amico pugliese, coltivatore dei
nostri interessi, che sta dedicando un po’ del suo tempo al
riordino di vecchie carte familiari. Il pacchetto conteneva un
oggetto e la lettera di accompagnamento si concludeva con
l’invito a comunicargli l’esito della identificazione dell’arma
gentilizia, sempre che ne fossi venuto a capo.
Si tratta di un sigillo da impronta su cera. La sua lunghezza
complessiva è di cm. 11,20, di cui cm. 5,40 sono costituiti
dalla impugnatura in legno d’ulivo, tornita a rocchetto,
sormontata da pomolo, in cui è infitto il fusto esagonale in
ferro, cm. 5,80 visibili, terminante in un’ovale (cm. 1,50 x
1,80), costituente la matrice sigillare. Il peso complessivo
ammonta a 200 grammi netti.
Va da sé che, per leggere quest’ultima, occorre ‘rivoltarla’,
riportando a una visione corretta la immagine speculare.
La matrice ha forma ovale, bordata da una cordonatura, al
cui interno è l’arma. Scudo ovale anch’esso, all’interno di
un cartoccio non privo di eleganza, la cui sommità è
sormontata da un nastro, i cui estremi si piegano verso il
basso, sino a posare sul margine superiore dello scudo. Ben
avrebbe potuto ospitare un motto o altra scritta, ma, al pari
di qualsiasi timbro o altro ornamento esterno, essi sono
assenti. Distinguiamo con chiarezza le figure all’interno e
ne risulta la seguente blasonatura, chiaramente orbata di
smalti, in mancanza di tratteggi o di altra forma
d’indicazione dei colori e dei metalli: Di …, alla colonna
di…, cimata da un giglio di … e sostenuta da un leone di …
Una certa familiarità con l’araldica meridionale mi indusse a
considerare probabile una attribuzione, ma la prudenza in
materia non è mai eccessiva e, inoltre, esisteva una qualche
difformità, anche se modesta. Per cui, non rimaneva che
seguire il ‘protocollo’, che ovviamente prevede, nella specie,
verifica e ricerche, da effettuarsi in prima battuta, quando
siano disponibili, su dizionari araldici e, in assenza di essi,
direttamente sul maggior numero possibile di blasonari, sino
al reperimento dello stemma con relativa assegnazione,
oppure a un risultato nullo, che è, in certo senso, una
risposta pertinente.
Esaurita la rassegna in termini significativi, non rimase che
la sostanziale conferma della ipotesi che m’era balenata al
primo colpo d’occhio: si trattava dello stemma della
famiglia CITO.
I Cito, per Spreti e Bonazzi, alzavano ad arma: Troncato di
rosso e di verde, alla colonna, cimata da un giglio e
sostenuta da un leone, il tutto d’oro. Se si volessero
pienamente rispettare le regole del blasone, dovrebbe
risultare, anzi: Troncato cucito di rosso e di verde, alla
colonna, cimata da un giglio e sostenuta da un leone, il tutto
d’oro, attraversante sulla partizione.
Invece Crollalanza, Noya di Bitetto, l’Annuario della
Nobiltà Italiana, il Libro d’Oro della Nobiltà Italiana,
Mango di Casalgerardo e Carrelli blasonano il giglio non
come cimante, ma come sormontante la colonna o collocato
in capo, anche se alcune delle loro raffigurazioni vedono
l’estremità inferiore del giglio posare sul capitello. In altre il
giglio è nel capo, disassato rispetto alla colonna. L’Elenco
storico della nobiltà italiana, pubblicato a cura dell’Ordine
di Malta, non presenta blasonature, ma solo (e non per tutte
le famiglie) rappresentazioni grafiche a colori, nel caso dei
Cito, ove figura anche l’arma di una linea ultrogenita, segue
un indirizzo salomonico, perché in un caso il giglio
sormonta la colonna e nell’altro vi aderisce, cimandola.
Sarebbe il caso di pronunciare il classico non olet, anche se
un marmo antico - secentesco, credo - riprodotto e coerentemente blasonato nel sito Nobili Napoletani (con ogni
probabilità, presente su un edificio appartenuto alla famiglia), mostra non un troncato, ma un capo, carico del giglio.
Il rame, posto in testa alla addizione a de Lellis, espone
anch’esso un capo, ma nel testo si legge: Fa per arme questa
famiglia un capo partito per mezzo, nella di cui parte
inferiore, ch’è rosso, è una Colonna, alla quale stà un Leon
rampante in atto di salire in essa, e nella parte superiore,
che è turchino (non verde, quindi. E’ inoltre da notare che
gli smalti risultano invertiti, per cui il campo risulta di rosso
e d’azzurro il capo), stà situato un Giglio d’oro in mezzo,
conforme si vede dell’Imprôto di dette Armi.
E’ pacifico che, in passato, i confini tra un’arma troncata e
quella dotata di un capo fossero tenui e labili, ma una linea
orizzontale, sia che attraversasse lo scudo a metà della sua
altezza, o che delimitasse il terzo superiore, doveva comunque esserci. Nel caso del nostro sigillo, tale segno di separazione difetta in tutta evidenza. Ma tutto il resto coincide e,
2
allora, viene da chiedersi se, all’origine, tale partizione
davvero esistesse e se i Cito – o una loro linea, visto che la
famiglia aveva numerose ramificazioni i località differenti,
alle volte tutt’altro che prossime – non alzassero talora,
invece, uno stemma dal campo ininterrotto da divisioni
orizzontali. Altra ipotesi potrebbe essere costituita da un
errore dell’incisore, ma è assai meno probabile: ove fosse
intervenuta una simile omissione, difficilmente sarebbe
sfuggita al committente e l’addizione di una semplice linea
non sarebbe stata certo un problema per il bulino,
sicuramente abile seppur distratto, dell’esecutore.
Questi interrogativi vanno inquadrati, ancora, nella
datazione dello strumento, che, per la matrice di ferro, va
fatta risalire a un periodo tardo-rinascimentale, in base al
suo design e alla foggia della cornice e dei decori dello
scudo, mentre il manico ligneo, soggetto a ben maggiore
usura, sembra, per i rocchetti, d’età barocca. L’impiego del
legno d’ulivo fa pensare al Mezzogiorno e, in particolare,
alla Puglia. In questa regione risiede il donatore del sigillo,
che, però, ignora se la propria famiglia, tra le più antiche e,
un tempo, tra le più numerose del Mezzogiorno, si sia mai
direttamente alleata ai Cito.
Secondo de Rosis, sarebbero venuti nel Regno al seguito dei
Normanni e passati poi a Rossano.
Carrelli si limita a riportare che i Cito o Zito già nel 1197
figuravano tra i nobiles cives Capuae e in quella importante
città campana divennero eminenti (Scipione, nel 1451, era
uno dei 60 senatori di Capua), imparentandosi sin dal
Duecento con importanti famiglie del patriziato locale, quali
i de Archiepiscopis (poi detti di Capua, gran conti di
Altavilla e principi della Riccia, tra le maggiori case del
Regno), i delle Vigne, del ceppo medesimo di Pietro, il Gran
Cancelliere di Federico II e, alla fine dell’Ottocento – è
questa l’ultima notizia posseduta sui Cito o Zito di Capua –
con i de Milano. La loro arma era quella del troncato, con
leone, colonna e giglio.
A proposito dei Cito o Zito, deve dirsi che ne è traccia anche
tra la nobiltà di Sicilia, a Palermo, con un Francesco,
Giudice del Tribunale del Concistoro, scomparso nel 1782.
Aveva sposato Giovanna Campisi e la loro unica figlia,
Anna, si era maritata con Scipione di Blasi. Questa famiglia
portava ad arma D’argento, a due avambracci al naturale,
vestiti di verde, moventi da fianchi dello scudo e tenenti
colle mani due ramoscelli dello stesso, accompagnati in
capo e punta da tre rose, male ordinate (nella illustrazione a
colori, che accompagna tale blasonatura, che, riveduta e
corretta, risale a Mango di Casalgerardo, si mutano
misteriosamente in ‘rose di giardino), che aveva ad alias
quella solita del troncato.
Sortino-Trono, peraltro, fa un mero accenno a una famiglia
de Citis, nobile di Ragusa, senza dire altro ponendo un punto
interrogativo alla voce “arma”
Al di là della origine prima dalla Croazia, con memorie dal
secolo XI, vantata dai Cito ancor oggi fiorenti, documenti
archivistici riportano, tra gli imprestatori di danari a Carlo I
d’Angiò nel 1275, Tommaso Cito di Aversa (Spreti pone tra
essi anche Pietro Cito, nobile di Bitonto e cita un Antonio
Cito, mastro portulano di Salerno, sempre nel Duecento); nel
1302, Giovanni Cito di Corato figura, in qualità di cameriere, tra i cortigiani di Filippo d’Angiò, principe di Taranto,
quintogenito di Carlo II lo Zoppo, che s’intitolava imperatore di Costantinopoli. Secondo più fonti, sarebbe stato
proprio questo Giovanni, divenuto Maestro Giustiziere di
Calabria, a trasferirsi, con la famiglia, a Rossano, dove furono immediatamente aggregati a quella nobiltà.
Il 27 giugno 1595, Giovan Bernardino Cito, di Rossano, viene ricevuto per Giustizia nell’Ordine Gerosolimitano, assieme a un altro rossanese di gran casato, Pirro Malena. I quarti
di Fra’ Giovanni Bernardino erano, oltre Cito, d’Alessandria, Caponsacco (nobile di Crotone e Rossano) e Britti (nobile di Rossano e patrizio di Cosenza). Giovan Bernardino
non lasciò, però, bella fama, in quanto, assieme al suo congiunto Giovan Battista Cito e altri, prese diretta parte all’
omicidio di Fabrizio Toscano, nel corso di una sanguinosa
faida, scoppiata all’interno dell’aristocrazia di Rossano nel
1598.
I Cito di Rossano si sarebbero estinti di lì a poco, se un
Niccolò, figlio di Giovan Andrea, definito da Donnorso
vago di viaggiare, verso il 1549, mezzo secolo prima del
brutto evento, non si fosse trasferito a Napoli, ove sposò
Lucrezia d’Argenzio, nobile di Capua, dando vita alla linea
ancora esistente. Tra altri figli ebbe Giovan Paolo, marito di
Lucrezia d’Alois, nobile di Caserta, da cui nacque Giovan
Alfonso. Quest’ultimo, preoccupato del rischio di decadenza
dalla nobiltà di Rossano e, con ogni probabilità, al corrente
della imminente - se non di fresco avvenuta - estinzione dei
Cito a Rossano rimasti, chiese nel 1605 provvedimento di
reintegra nella nobiltà rossanese, che il Sacro Regio
Consiglio concesse con decreto del 12 maggio 1607. Aveva
preso in moglie Sara Piacenti, che il Donnorso dice di antica
famiglia, originaria di Milano. Dei figli, nati da questo
matrimonio, Marcantonio, Capitan de’ cavalli nel 1617, fu
inviato a presidio delle coste calabresi. Tornatone, si
ammalò e morì nella terra di Somma. Il fratello Anacleto
studiò, invece, diritto, divenendo Uditore nella Provincia di
Principato Ultra. Sposatosi con Diana Pascale, di famiglia
patrizia Cosentina (la madre era la spagnola Geronima di
Medina del Campo, di eccellente nobiltà), procreò molti
figli. Diana, la primogenita, si maritò con Donato Francesco
Correale, patrizio di Sorrento; Giuseppe, dottor di leggi,
coniugato a Francesca Prato, nobile di Lecce, fu Avvocato
Fiscale e R. Uditore della provincia d’Otranto; Giovanni
abbracciò il sacerdozio e divenne vescovo di Lettere; il
quarto fu Carlo, personaggio di gran rilievo di casa Cito.
Nato nel 1636 a Rossano - ove evidentemente la famiglia
aveva preso a dimorare con una certa assiduità - si dette
anche lui allo studio del diritto, seguendo una tradizione
ormai consolidata nei Cito. Amante della cultura, fece parte
dell’Accademia degli Spensierati di Rossano e di quella
degli Infuriati di Napoli, che vedeva tra gli associati anche
Giambattista Vico. Come avvocato, patrocinò con successo i
cavalieri di Seggio nella causa intentata dal patriziato
napoletano, che deteneva il governo della città, contro il
Viceré, il marchese di Astorga, determinato all’abolizione
degli antichi privilegi e delle prassi derivanti da abusi.
Assieme a Francesco d’Andrea, principe degli avvocati di
Napoli, venne chiamato a ricoprire, nel 1675, ruolo di
Governatore della Casa della SS. Annunziata, ma entrambi
rifiutarono, giacché l’accettazione della carica avrebbe
automaticamente comportato la decadenza, per deroga, dalla
nobiltà. Nel 1696 fu nominato Consigliere del Sacro Regio
Consiglio e, nel 1707, Reggente del Collaterale. Colpito da
paralisi, si spense a Napoli nel 1712. Da Anna de Majo, di
famiglia patrizia del Seggio di Montagna, aveva avuto dieci
figli, tra i quali maggiormente si distinsero Antonio, gesuita,
che divenne, a Vienna, confessore dell’imperatrice Amalia,
e Baldassarre, che non fu da meno del padre.
Nato nel 1695, studiò legge anche lui. Dopo un brillante
esordio nell’avvocatura, ottenne nomina di Uditore nei
Tribunali Militari, poi di Giudice civile della Gran Corte
della Vicaria, nel 1734 Caporuota della stessa Camera per il
criminale, Consigliere del Sacro Regio Consiglio l’anno
successivo, Avvocato Fiscale della Giunta di Stato nel 1737,
quindi Presidente della Sommaria e Presidente del Tribunale
della Dogana di Foggia. Nel 1754, unitamente alla nomina a
Luogotenente della Sommaria, gli pervenne, dal favore di
Tanucci, il titolo di marchese. Divenne Presidente del Sacro
Regio Consiglio e della Regia Camera di S. Chiara, don
stipendio annuo di ducati 4000, che mantenne sino al 1795.
Presiedette nel 1771 la Giunta di Stato nel processo contro i
Liberi Muratori e, nel 1794, in quello contro i Giacobini,
mandando al patibolo Vitaliani e De Deo. Morì a Napoli nel
1797, a ben 102 anni, ancora - sembra - sveglio di mente.
Era celibe e fin dal 1788 aveva refutato il titolo di marchese
in favore del nipote Carlo, che, con Regio Assenso, lo incardinò sulle terre di Torrecuso e di Torrepalazzo, da lui
possedute. In quello stesso 1788 la famiglia Cito era stata
aggregata al patriziato napoletano nel Seggio di Portanova,
entrando a far parte, così, della migliore nobiltà del Regno e
mettendo a bando le malevoli insinuazioni contenute in uno
dei manoscritti Corona, Notizie d‘alcune famiglie…
Da quel tempo a oggi, una nutrita serie di prestigiose alleanze matrimoniali con l’alta aristocrazia non soltanto napoletana, ma italiana ed europea, ha aggiunto lustro ulteriore, arricchendo, per successione napoletana, la titolatura
della casa. Le nozze di Carlo Cito con Anna Maria Filo3
marino di Rocca d’Aspro, ultima della sua linea, consentì di
aggiungere, al cognome Cito quello Filomarin0, con decreto
del 1855, e, per successione napoletana. provenienza Filomarino, Pappacoda e de Angelis), ai predetti marchesati di
Torrecuso e di Torrepalazzo, oltre al patriziato napolitano, al
patriziano beneventano, alla nobiltà di Rossano e a quella di
Lucera), i principati di Rocca d’Aspro, di Mesagne e di Bitetto (quest’ultimo refutato al secondogenito di Carlo), il
ducato di Perdifumo, i marchesati di Capurso, di Ceglie e di
San Chirico e la contea di Castello.
I rami ultrogeniti, separatisi prima dell’alleanza Filomarino,
non aggiungono, ovviamente, tale cognome e hanno diritto i
maschi al titolo di Patrizio napolitano e, maschi e femmine,
a quello di nobile di marchesi di Torrecuso. A una di esse
diramazioni furono riconosciuti, nel 1900, anche i titoli di
duca e di marchese, per successione Roubies du Barry de
Nerval, e quello di conte palatino.
Cito Filomarino e Cito usano oggi tutti la classica arma del
troncato, alla quale i principi di Bitetto aggiungono, a titolo
di brisura, due stelle d’oro, di sei raggi, allineate nel capo. I
principi di Rocca d’Aspro usarono anche un alias, memoria
visiva delle alleanze con i Filomarino e Pappacoda, cioè:
Interzato in palo: nel 1°, di verde, a tre bande di rosso,
bordate d’argento (FILOMARINO); nel 2°, troncato di
rosso e di verde, alla colonna cimata da un giglio, il tutto
d’oro (CITO); nel 3°, di nero, al leone d’oro, la coda
passata al di sopra della testa e tenuta tra i denti
(PAPPACODA).
Angelo Scordo
Appunti sul Giglio di Firenze
Per lo scudo della città di Firenze, che carica nel campo il
famoso giglio, sembra che per primitivo fiore abbia avuto un
giaggiolo, per la moltitudine di tali fiori presenti nei dintorni
della città e nelle varie vallate circostanti, senza notare che
lo stesso nome di Florentia, probabilmente, avrà suggerito
di prendere, per figura araldica da caricare nello scudo, un
fiore.
Una leggenda vuole, invece, che Firenze abbia ottenuto per
simbolo araldico della città il giglio, per concessione di
Carlo Magno, ma ricordiamo che a quei tempi gli scudi
araldici ancora non esistevano. Il giglio dell’arme di Firenze
in origine era d’argento sul campo di rosso, ma tali smalti
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vennero alternati dai Guelfi nel 1251, divenendo così lo
scudo d’argento al giglio di rosso, quando i Ghibellini
vennero cacciati dalla città.
Dante ne parla nel suo canto XVI del Paradiso: “Con queste
genti vid’io glorioso e giusto il popol suo tanto, che ‘l giglio
non era ad asta mai posto o a ritroso, né per division fatto
vermiglio”.
Il giglio è il più nobile di tutti i fiori che si usano nel
blasone, come tra i volatili, invece, è l’aquila, tra i pesci, il
delfino e tra i quadrupedi, il leone. Il giglio araldico è
diverso da quello che osserviamo in natura e viene
rappresentato a tre punte. Araldicamente simboleggia la
speranza, l’attesa del bene, la purezza, il candore dell’animo
e la chiara fama.
Sempre nel simbolismo araldico l’argento, che è lo smalto
del campo dello scudo di Firenze, rappresenta la Speranza
fra le virtù, la Luna fra i pianeti, il Cancro nei segni
zodiacali, giugno fra i mesi, il lunedì fra i giorni della
settimana, la perla fra le pietre preziose, l’acqua fra gli
elementi, l’infanzia sino a sette anni fra le età dell’uomo, il
flemmatico fra i temperamenti, il giglio fra i fiori, il due fra i
numeri e se stesso fra i metalli, mentre il rosso, che è lo
smalto del giglio, simboleggia la Carità e l’ardire fra le virtù,
Marte tra i pianeti, l’Ariete e lo Scorpione nei segni
zodiacali, marzo e ottobre fra i mesi, il mercoledì fra i giorni
della settimana, lo zaffiro fra le pietre preziose, il fuoco fra
gli elementi, l’autunno fra le stagioni, la virilità sino ai
cinquanta anni fra le età, il sanguigno fra i temperamenti, la
violacciocca ed il garofano fra i fiori, il tre fra i numeri ed il
rame fra i metalli.
Il giglio di Firenze, poi, figura caricato negli stemmi civici
di molti Comuni toscani, assieme ad altre figure araldiche,
per ricordare il dominio di Firenze o l’attaccamento delle
varie comunità alla comunità madre.
Tra questi figurano i Comuni di Borgo a Buggiano,
Calenzano, Cavriglia, Certaldo, S. Croce, Castelfiorentino,
Dicomano, Dovadola, Firenzuola, S. Godenzo, Massa e
Cozzile, Montecatini e Pratovecchio.
L’arme di Firenze così si descrive: D’argento al giglio
allargato e bottonato di rosso.
Giorgio Aldrighetti
Attività dei Soci
Il nostro consocio Gabriele Reina ha esposto una ventina di
grandi tele e tavole in una mostra intitolata “Il Volo del
Leone: i leoni di San Marco, dipinti di Gabriele Reina”
tenutasi nel Palazzo della Assicurazioni Generali a Trieste
dal 19 al 30 gennaio 2015.
Complimenti a Gabriele, soprattutto per la sua bravura
artistica!
I consoci SISA che lo desiderassero possono avere una
copia del catalogo della mostra in formato pdf inviando una
richiesta a: [email protected]
Le Mappe dei Tesori, di cui è il secondo volume, segue
infatti il primo dal titolo “Disegnare il territorio di una
commenda magistrale. Stupinigi”. Accanto alla Dott.sa
Scalon , Chiara Devoti, architetto e ricercatore al Politecnico
di Torino, dove svolge l’incarico di docente, che nell’ambito
del volume è autrice di saggi di alto valore scientifico e che
è stata coautrice del primo volume della collana.
Il volume di cui si intende parlare in questa breve e riguarda
i possedimenti minori dell’Ordine Mauriziano provenienti
dai territori già costituiti come commende dall’Ordine di
San Lazzaro, da quelli derivanti da benefici ecclesiastici, da
quelli confluiti all’Ordine per donazioni di privati, esclude
quindi le grandi commende magistrali oggetto di altro
studio.
Il volume è teso a ricostruire la rappresentazione di tutta
questa grande serie di possedimenti come essa risulta dalla
documentazione esistente che si concreta in cabrei, mappe,
disegni ed altro materiale. Nella loro introduzione le due
autrici scrivono: “Proprio alla ricchezza dei cabrei è dedicato il secondo volume della collana che … si concentra
sulla sezione più specificamente figurata e in particolare sulla strepitosa ricognizione in figura che i cabrei appunto rappresentano”. Ma la straordinarietà del lavoro è che accanto
alle splendide riproduzioni del territorio si ha una testimonianza della sua trasformazione, e accanto ad esso sono ricordati i tanti tecnici, misuratori, geometri, agrimensori, architetti, ingegneri e i tanti che hanno fatto grande l’Ordine.
Il lavoro è articolato in una serie di studi ai quali alle due
autrici han fornito la loro collaborazione insigni esponenti
della comunità scientifica del Politecnico di Torino.
L’opera è sinteticamente presentata dal Commissario e dal
Vice Commissario della Fondazione Ordine Mauriziano,
dalla Prof.sa Costanza Roggero, coordinatrice del rettorato
di ricerca in beni culturali del Politecnico di Torino e dalle
due curatrici. Queste schede forniscono il quadro generale
nel cui il lavoro si inserisce ed elementi di conoscenza sul
tesoro di conoscenza conservato nell’Archivio dell’Ordine.
Primo degli studi che compongono il testo è quello della
Dott.sa Nicoletta Amateis “Le Commende mauriziane:
aspetti istituzionali e funzionali” che fornisce elementi
sull’istituzione e regolamentazione delle commende
mauriziane, della loro evoluzione e quindi traccia la storia e
le vicende di alcune di esse, la più antica delle quali, quella
di Santa Maria della Redenzione, risale al 1573 quando
Francesco Valperga Masino, governatore di Vercelli chiese
il permesso di istituirla.
AMG
Tenimenti scomparsi. Commende minori
dell’Ordine Mauriziano.
di Chiara Devoti e Cristina Scalon
L’Archivio storico dell’Ordine Mauriziano rappresenta un
inestimabile tesoro culturale sul quale le autrici di questo
volume, così come dl precedente aprono finestre che ne
fanno conoscere la straordinaria ricchezza e bellezza.
L’opera è stata curata da Cristina Scalon, la direttrice
dell’Archivio Storico dell’Ordine, autrice di numerosi saggi
illustrativi tesi a far meglio conoscere l’Archivio
Mauriziano, ed impegnata nell’impegnativo lavoro di
conservazione, inventarizzazione e valorizzazione di un
patrimonio di straordinario valore si inquadra nella collana
Cabreo della Commenda Drusiana - 1715
I cabrei e l’immagine del territorio, di Chiara Devoti e
Vittorio Defabiani, è il titolo del secondo studio che par5
tendo dall’origine del termine descrive l’impiego della rappresentazione dei terreni con ampi riferimenti anche a quanto avveniva nel resto d’Europa, alla necessità di una revisione periodica dei cabrei soprattutto quando relativi a possedimenti dinastici, a proprietà di ordini religiosi o cavallereschi. La sua importanza è fatta rilevare dalla Dott.sa Paola
Sereno che scrive“…il cabreo figurato si fa così misura del
reddito e metafora del potere”.
Ne’ “Le Commende nei fondi dell’Archivio dell’Ordine
Mauriziano” Cristina Scalon fornisce alcuni dati che danno
l’idea della complessità e vastità dell’Archivio dell’Ordine
anche solo relativamente a questa materia e che per le commende di minore estensione, come quelle di cui l’opera
tratta, ammontano a 430 mazzi, oltre 40 volumi o registri e
più di 100 documenti iconografici. La documentazione cartografica riguardante tali commende è conservata nel fondo
Mappe e Cabrei che riguardano il periodo fra il XVIII e XIX
secolo, i primi risalgono in genere al 1715.
Chiara Devoti nello studio “Grandi e piccoli cabrei per la
conoscenza del patrimonio dell’Ordine: dal territorio all’architettura” fornisce interessantissime notizie sulla gestione
del patrimonio, sui provvedimenti e prescrizioni per la conoscienza del tenore della commende, tramite un’azione informativa ed ispettiva che fornisse un quadro dettagliato e preciso del bene. È da questa esigenza che in fin dei conti nasce
l’esigenza della rappresentazione che si estrinseca nel cabreo, la cui redazione è espressamente dettata da un ordine
magistrale. Documento che fornisce lo stato di ogni commenda con i suoi redditi, la misura dei suoi beni, e l’insieme
delle fabbriche in essa esistenti, le loro condizioni ed esigenze di interventi di manutenzione. Da quest’ultimo aspetto
la presenza di un legame con l’architettura, con numerosi
disegni che ci restituiscono l’immagine di costruzioni facenti parte o costituenti commende.
29 del Torinese, 22 del Cuneese (Saluzzo, Alba-Bra,
Cherasco, Fossano), 8 dell’Astigiano, 6 dell’Alessandrino, 8
del Vercellese, 3 del Nizzardo, 3 dell’Italia meridionale (già
beni dell’Ordine di San Lazzaro), 1 Sardo.
La selezione curata è stata curata da Chiara Devoti che ha
redatto le schede con la revisione archivistica di Cristina
Scalon. Le fotografie, splendide,sono di Dino Capodiferro,
che come ben ha evidenziato nella sua presentazione
Costanza Roggero ha condotto la campagna fotografica “con
la consueta perizia, disponibilità e capacità di adeguare lo
strumento alla varietà e complessità dei documenti”.
Sfogliare le pagine di questa parte dell’opera e venire a
scoprire veramente un tesoro, ogni pagina presenta
rappresentazioni di grande bellezza ed interesse. È quasi
impossibile descrivere le sensazioni che suscita anche solo
lo sfogliare le pagine del volume, che ad ogni girar di foglio
mostra elementi di straordinario interesse, non solo per gli
appassionati del bello, dell’architettura, della rappresentazione del territorio nelle su diverse forme, ma anche solo
per i cultori dell’araldica per la presenza di numerosissime
armi, alcune di famiglie ormai estinte da tempo e che non
sempre sono riprodotte correttamente. Mi permetto pertanto
di dare un ai soci della SISA il consiglio di passare, magari
solo per curiosità e dare un’ occhiata a questo pregevolissimo lavoro
Si riportano qui di seguito alcune delle armi che si trovano
nel testo per dare un idea della accuratezza della loro fattura
Edifici rustici della Commenda di San Domenico, commendatori
Zapata e Ardizzone, territorio di Asti, post 1751.
Volume Mappe Cabrei di Saluzzo - Archivio Ordine Mauriziano
A questa serie di saggi segue la splendida parte del volume
dedicato alla schede dei cabrei nel numero di 80 dei quali:
6
Le Guardie del Corpo del Re di Sardegna alla
Restaurazione.
Arma Ferraris di Mombello
Arma Birago di Rovaschia
Cabrei di Torino 18 – Commen- Cabrei di Torino 17 – Commenda Ferrary di Settimo Torinese da dei SS Carlo e Ottavio
Arma: Morelli di Popolo
Cabrei alessandrino e casalese Commenda S. Bernardino
Sin dall’epoca del conte Amedeo V (1285-1323)
(1285
alla Corte
degli allora Contii di Savoia facevano servizio nuclei di
alabardieri chiamati a garantire la sicurezza della dimora
del sovrano e della sua famiglia. Da allora aveva avuto
inizio quella che si può chiamare la Casa Militare alla Corte
dei Savoia. Con l’invasione francese del 1798 e la
successiva annessione del Piemonte alla Francia, le unità
incaricate della sorveglianza al sovrano e alla sue proprietà
vennero inglobate in vario modo nella nuova organizorganiz
zazione statuale, in Sardegna ove il sovrano si era stabilito
era peraltro stata riordinata una compagnia che garantisse il
servizio d’ onore e sicurezza.
Quando il 12 maggio del 1814, Vittorio Emanuele I sbarcò a
Genova, proveniente da Cagliari, per riprendere
ripr
possesso dei
suoi Stati di terraferma che gli venivano restituiti
dall’Austria, dopo che ne aveva scacciato i Francesi, e il 20
dello stesso mese entrò in Torino il servizio alla sua persona
venne svolto da una cosiddetta Guardia d’onore, formata
conn nobili e borghesi di famiglie fra le più facoltose, in
buona parte già facenti parte di analoga struttura addetta al
principe Borghese.
In Sardegna a svolgere il servizio a favore della Regina,
Reg
era
la compagnia delle Guardie del Corpo cui si è detto.
detto Gli
ufficiali di questa unità erano:
*il
il marchese Luigi Amat di Sorso,
Sorso capitano della compagnia. Il cui grado nell’esercito era di maggior generale,
Arma:Pallavicini di S. Remy
Cabrei vercellese e biellese
Commenda La Margaria
Ill volume si può acquistare in Torino presso Archivio Storico Ordine Mauriziano
iziano in via Magellano n. 1 al costo di
Euro 30. Il primo volume della serie cui nell’opera si fa
spesso riferimento è anch’esso in vendita a Euro 30. Se si
acquistano ambedue il costo totale è di Euro 50.
Si ringrazia la Dott.sa Scalon
lon per aver consentito le
riproduzioni sopra riportate.
ALFS
Risposta a un Quesito Araldico
Nel numero 28 – Anno XVII – Dicembre 2011 del nostro
notiziario vi era un quesito araldico riguardante l’ubicazione
di uno stemma di un cavaliere teutonico, Freiherr Jakob von
Spaur. Ora, dopo quattro anni, grazie ad Alberto Arcangeli,
possiamo dare una risposta se qualcuno fosse ancora
interessato: l’arma di trova tra altri stemmi nella Chiesa di
San Giorgio a Bolzano, già commenda dell’Ordine
Teutonico. Si riproduce
iproduce lo stemma qui sotto. Per la
blasonatura e l’immagine intero si rimanda al N° 28 del
nostri bollettino.
AMG
Arma Amat: Di rosso al braccio destro armato, movente dal
fianco sinistro ed impugnante una spada posta in
i palo, il tutto
d’argento, con un mare d’argento, fluttuoso d’azzurro, nella
punta dello scudo;
*il
il cav. Antonio Zappata,
Zappata tenente, il cui grado nell’
esercito era di colonnello di cavalleria,
Arma Zappata: Di rosso a cinque stivaletti scaccati d’argento e
di nero, ordinati in decusse; colla bordatura di rosso carica di
cinque scudetti, caduno, d’oro alla banda di nero;
nero
7
*il marchese Stefano Manca di Villahermosa, cornetta
col grado nell’esercito di tenente colonnello di cavalleria,
*capitano Giuseppe Ippolito d’Haberes de Sonnaz, che vi
era già stato, quale cornetta dal 1789 al 1798, durante
l’occupazione francese si era ritirato dal servizio e nel 1813,
aveva collaborato con suo fratello, il generale Janus, alla
rivolta antifrancese in Savoia
Arma Pes di Villamarina: D’azzuro al persico, sradicato,
fiorito e fogliato, le radici accostate a due piedi umani recisi,
sanguinanti ordinati in fascia a destra e a sinistra del tronco, il
tutto al naturale;
Arma Gerbaix de Sonnaz:Inquartato: al primo e al quarto alla
croce di rosso; al secondo e al terzo: d’azzuro al capo d’argento
caricato di tre stelle di rosso ordinate in fascia;
*il conte Francesco Sanjust di San Lorenzo, maresciallo
d’alloggio, con il grado nell’esercito di capitano.
*tenente il marchese Giuseppe Mareste de St. Agneaux,
già cornetta in soprannumero nella stessa compagnia nel
1798; già tenente colonnello di cavalleria il 13 gennaio
1815, venne promosso maggior generale, nel 1818 venne
dispensato dal servizio, nel 1828 venne nominato da Carlo
Felice Grande della Corona;
Arma Mareste: D’azzurro a due fasce d’argento, colla banda di
rosso attraversante;
Arma Sanjust:: Di rosso all’orologio a polvere d’argento.
E’ da ricordare a tal proposito che i gradi delle Guardie del
Corpo erano diversi da quelli dell’esercito, il capitano delle
Guardie in genere era un tenente o un maggior generale, il
tenente delle Guardie era un maggior generale o colonnello,
una cornetta (sottotenente) delle Guardie era un capitano od
un maggiore, il maresciallo d’alloggio delle Guardie un
capitano o tenente anziano.
La ricostituzione della Casa Militare del sovrano iniziò
poco dopo il suo arrivo a Torino, egli diede infatti ordine al
conte Giuseppe Ippolito Gerbaix de Sonnaz di ricostituire la
1^ compagnia e al conte Benedetto Piossasco di None la 2^.
Le due unità erano tradizionalmente formate, con Savoiardi
la 1^ cp., che prendeva il nome di Gentiluo-mini Arcieri a
ricordo della prima unità costituita per la sua difesa
personale da Amedeo VII: la 2^ era tradizionalmente
formata da Piemontesi.
Era poi intenzione del sovrano di chiamare a Torino la
compagnia sarda, non appena fosse avvenuto il definitivo
trasferimento della regina e di costituire una quarta
compagnia con personale ligure. La 1^ compagnia,
ricostituitasi ufficialmente il 13 giugno 1814, vedeva quali
suoi ufficiali:
8
*cornetta il barone Giovanni Battista Michal de la
Chambre, già maggiore di cavalleria il 17 gennaio 1815, fu
promosso tenente colonnello, fece in seguito un brillante
carriera raggiungendo il grado di tenente generale e nel 1830
venne investito dell’Ordine della Santissima Annunziata;
Arma Michal: Di verde al gallo ardito, d’argento, beccato ed
armato d’oro;
marescialli d’alloggio:
*il cav. Gabriele de Launay che fece una splendida
carriera e fu l’ultimo Viceré di Sardegna
*tenente, il marchese Vittorio della Chiesa di Roddi, col
grado di maggior generale nell’esercito, anch’egli rimase
poco più di un anno nel corpo perché nel novembre del 1815
fu nominato gran maestro della Real Casa;
Arma de Launay: D’argento, inquartato da un filetto di nero e
nel primo e nel quarto:un decusse contro scanalato di nero; nel
nel secondo e nel terzo cinque moscature d’ermellino ordinate
in decusse;
*Ettore d’Haberes de Sonnaz, quest’ultimo figlio del
generale Janus e nipote di Giuseppe Ippolito. Già ufficiale al
servizio della Francia, nel 1813, aveva mantenuto i suoi
impegni verso quella nazione facendo parte del suo esercito,
mentre i suoi familiari si battevano per l’indipendenza della
Savoia. Ambedue questi, allora marescialli d’alloggio fecero
brillanti carriere, il primo fu l’ultimo Viceré di Sardegna e il
secondo venne decorato con l’Ordine Supremo della SS.ma
Annunziata.
La 2^ compagnia venne ufficialmente ricostituita il 17
giugno 1814, alla ricostituzione i suoi ufficiali erano:
*capitano il cav. Benedetto Piossasco di None, che era già
stato comandante della 2^ compagnia, in cui aveva servito
sin dal 1793 quale capitano in 2^, durante l’occupazione
francese, inizialmente era stato trattenuto in servizio e
successivamente lasciato libero di rientrare a casa sua. Egli
ricevette il nuovo incarico ancora prima venisse ricostituita
l’unità, venne infatti nominato capitano delle Guardie del
Corpo il 1° maggio 1814. Il 1° gennaio del 1815, venne
promosso generale di cavalleria ed il 19 dicembre di quello
stesso anno lasciò l’incarico perché nominato Gentiluomo di
Camera di S.M.
Arma della Chiesa di Roddi: Inquartato: al primo d’argento, al
tizzone di nero scorciato, accostato da due tizzoni di verde tutti
accesi di rosso; al secondo e al terzo di rosso al cavaliere
d’argento armato di tutte pezze; al quarto d’argento a tre pali
di rosso con il capo d’oro, carico di un’aquila coronata di nero,
sul tutto di della Chiesa;
*cornetta, il marchese Anselmo Doria del Maro, colonnello di cavalleria, nel novembre del 1815 venne promosso
maggior generale e subentrò a Della Chiesa nel grado di
tenente delle Guardie, per divenirne capitano nel 1820;
Arma Doria: Troncato d’oro e d’argento, all’aquila di nero,
coronata, rostrata ed armata d’oro.
*marescialli d’alloggio di questa compagnia erano:
il cav. Paolo Saluzzo di Castellar
Arma Piossasco: D’argento a nove merle di nero, membrate e
rostrate di rosso, tre, tre, due,una
e venne sostituito dal marchese Vittorio Seyssel d’Aix,
nominato nel novembre del 1815 cavaliere dell’Ordine della
SS.ma Annunziata che ricoprì l’incarico sino alla morte nel
1818.
Arma Seyssel: Partito, trinciato,troncato e tagliato d’oro e
d’azzurro;
Arma Saluzzo: D’argento al capo d’azzurro caricato di una
corona d’oro;
*il marchese Galeazzo Scarampi di Pruney
Arma Scarampi: D’oro a cinque pali di rosso;
9
*e il marchese Carlo Morozzo della Rocca
*cornetta, il conte Francesco Sanjust di San Lorenzo, già
maresciallo d’alloggio della compagnia delle Guardie
esistente in Sardegna.
Il 18 luglio 1815, si costituì la compagnia genovese Gli
ufficiali chiamati a farvi servizio furono:
*capitano il conte Agostino Fieschi, già presidente del
magistrato di polizia genovese, nominato maggior generale,
e insignìto dell’Ordine della SS.ma Annunziata nel 1821
Arma Morozzo: D’oro alla banda di nero, doppio merlata.
La 3^ compagnia si trasferì dalla Sardegna a Torino nel
corso del 1814, ed era in parte rinnovata rispetto alla
costituzione i Cagliari, infatti vi erano:
*il capitano, marchese Stefano Manca di Villahermosa,
maggior generale nell’esercito, legato da un eccellente
rapporto di amicizia con Carlo Felice, fu il consigliere che
più spinse il sovrano a confermare Carlo Alberto quale suo
successore dopo i moti del 1821, nel 1834, venne nominato
Gran Mastro d’artiglieria
Arma Fieschi: Bandato d’argento e d’azzurro
*tenente, il cav. Giuseppe Bendinelli Negrone, già
membro del comitato di guerra e marina dopo la liberazione
di Genova dalla dominazione francese, nominato colonnello
di cavalleria, nel 1820 venne promosso maggior generale e
nel 1824 venne nominato capitano in 2^ della compagnia;
*cornetta, nobile Antonio Spinola, già capitano della
guardia d’onore a cavallo genovese durante l’occupazione
francese e comandante della coorte urbana di Genova, nel
1817, promosso capitano di vascello in 2° e nominato
comandante della corvetta Aurora;
Arma Manca: Di rosso al braccio, armato, d’argento, movente
dal fianco destro dello scudo ed impugnante una spada al
naturale, alta, in palo; in punta dello scudo: un elmo d’argento,
di fronte semi aperto, ornato di tre penne di struzzo d’azzurro;
*tenente, il cav. Francesco Aymerik di Laconi, già
ufficiale nel reggimento di Sardegna, gentiluomo di camera
del Re, piccolo grande di Corte e comandante della
cavalleria miliziana del regno di Sardegna
Arma Spinola:: D’oro alla fascia scaccata d’argento e di rosso,
sostenente una spina di botte di rosso;
*cornetta soprannumeraria, il marchese Domenico Costa
del Carretto di Balestrino, tenente colonnello di cavalleria ;
Arma Costa: D’azzurro a cinque bande d’oro.
Arma Aymerich: Inquartato: al primo e al quarto, inquartato
in decusse; al 1° e al 4° d’oro a quattro pali di rosso; al 2° :
d’oro all’aquila bicipite di nero coronata dello stesso; al 3°
d’argento alla torre d’oro, aperta e finestrata di nero,
sormontata da tre bisanti d’argento ordinati in fascia;
10
marescialli d’alloggio erano:
*il marchese Giuseppe Salvago,
*il nob. Pietro Giustiniani,
*il nob. Pietro Franzone
*il nob. Alessandro Ferrari.
Di questi si ricorda che il marchese Salvago, maggiore di
cavalleria, essendo ammalato non poté partire nella notte fra
il 22 ed il 23 marzo 1821 per Novara a lui Giuseppe de
Sonnaz, che aveva assunto il comando di tutte le Guardie,
affidò la responsabilità degli alloggiamenti e degli uomini
che sarebbero dovuti restare in sede a salvaguardia dei
materiali e dei beni del Corpo.
A proposito dei moti del 1821 il Manca di Villahermosa,
comandante della 3^ compagnia, che si trovava a Modena di
scorta alla delegazione inviata da Carlo Alberto a Carlo
Felice per ragguagliarlo sulla concessione della Costituzione, il giorno 25, scrisse ai comandanti di compagnia
rimasti a Torino comunicando loro l’ordine di recarsi immediatamente a Novara e porsi agli ordini del conte Sallier
de la Tour. Le Guardie del Corpo avevano però preceduto
l’esecuzione dell’ordine, in quanto si erano mosse nella
notte fra il 22 ed il 23 marzo al seguito di Carlo Alberto,
quando questi aveva abbandonato Torino.
Questo comportamento fu molto apprezzato dal sovrano e
venen particolarmente elogiato dal Conte Thaon de Revel
quando venne nominato luogotenente generale il 19 aprile
del 1821.
ALFS
La Redazione ringrazia il Sig. Federico Bona per la
concessione all’utilizzo degli stemmi contenuti nei
Blasonari Subalpino e Savoiardo e Donna Silvia
Aymerich di Laconi per gli stemmi relativi alla
compagnia Sarda delle Guardie del Corpo. L’arma di
Aimerich, è una delle più di 30 versioni esistenti.
L’ARCTIC STAR
A quasi 70 anni dalla fine della seconda guerra mondiale, il
Regno Unito ha instituito una nuova decorazione per
commemorare una delle più importanti campagne di quel
conflitto e per premiare i superstiti di coloro che ne presero
parte.
L’Arctic Starva ad aggiungersi alle 8 stelle che furono
emesse nel 1945, subito dopo la fine del conflitto, per
riconoscere i sacrifici e l’impegno di quanti, sudditi
britannici e cittadini dell’allora Impero britannico (se
quest’ultimi hanno avuto un’award dal proprio governo non
potrebbero ricevere l’Artic Star), prestarono servizio negli
anni di guerra in patria e/o nei teatri più critici in tutto il
mondo.
L’Arctic Star è destinata a premiare il servizio, di qualunque
durata, nel periodo dal 3 settembre all’8 maggio 1945,
prestato da coloro che facevano parte degli equipaggi di navi
della Royal Navy o della marina mercantile nel Mare Artico
(a nord del latitudine 66° 32’), in particolare nei servizi di
scorta ai convogli da e per la Russia.
L’Artic Star ha una foggia simile alle altre “stelle”, cioè una
dimensione di 40mmx40mm, a otto punte, con la parte
centrale rotondo recante le parole THE ARTIC STAR e al
centro il monogramma di Re Giorgio VI (GRVI) sormontato
dalla corona reale. I colori del nastro rispecchiano le tre
forze armate e la marina mercantile, mentre il bianco,
bordato di nero, rappresenta l’Artico.
Nel 2005 si pensava di “onorare” i veterani con un semplice
badge o distintivo anziché una medaglia vera e propria. Tale
decisione fu annunciato dall’allora primo ministro laborista
Tony Blair per segnalare il sessantesimo anniversario della
fine dei convogli verso l’Unione Sovietica. Ma, giustamente
i veterani hanno espresso il loro disgusto.
Ben otto anni sono poi passati e finalmente la stella è stata
istituita all’inizio del 2013con l’approvazione della Regina. I
primi conferimenti sono stati fatti dall’attuale Primo
Ministro britannico, il Conservatore David Cameron, che al
numero 10 Downing Street, il 19 marzo 2013, ha consegnato
le decorazioni a un gruppo di circa 40 veterani, tutti,
ovviamente, arzilli novantenni. Il totale dei potenziali
conferimenti a veterani viventi si aggira tra i 200 e i 400.
Durante la cerimonia Cameron ha giustamente descritti
veterani “un gruppo di eroi” ed ha espresso tutto il suo
“orgoglio di poter condividere il momento con un tale
gruppo di persone” e che gli “dispiaceva che siano passati
70 anni”. Ricordiamo che il Grande Winston Spencer
Churchill ha definito la rotta che i convogli dovevano
seguire come “il peggiore viaggio nel mondo”.
Tra gli insigniti vi è anche S.A.R. il Principe Filippo, Duca
di Edimburgo, il quale partecipò alle missioni di scorta come
tenente di vascello a bordo HMS Whelp.
È interessante notare che il Principe Filippo già è insignito
di: Atlantic Star, Africa Star, Burma Star, Italy Star per il
suo servizio sui vari teatri di guerra; con l’Arctic Star
raggiungerebbe un totale di 5 stelle, cioè il massimo di cui
può essere decorato un singolo individuo.
Ricordiamo che le 8 Star istituite dal Regno Unito per le
campagne della seconda guerra mondiale sono:
1939-1945 Star: conferita al personale militare che
avesse compiuto sei mesi di servizio tra il 1939 e il 1945;
Atlantic Star: conferita al personale della Royal
Navy per sei mesi di servizio in mare tra il 3 settembre 1939
e l’8 maggio 1945 in Atlantico o nelle acque domestiche.
Poteva essere conferita an-che al personale che prestò
servizio su convogli per la Russia e per il Sud Atlantico e a
personale della marina mercantile e della RAF che prestò
servizio sugli stessi teatri.
Air Crew Europe Star: conferita al personale di
volo della RAF per un periodo di almeno due mesi di
servizio tra il 3 settembre 1939 e il 4 giugno 1944, che
operava dalle basi del Regno Unito sull’Europa (il
conferimento di questa stella fu molto raro e ciò la rende
molto costosa sul mercato collezionistico).
Africa Star: conferita per partecipazione ad operazioni nel Nord Africa tra il 10 giugno 1940 e il 12 maggio
1943.
Pacific Star: conferita per servizio operativo nel
teatro del Pacifico tra l’8 dicembre 1941 (entrata in guerra
11
degli USA dopo Pearl Harbour)) e il 15 ago-sto
ago
1945 (resa
del Giapopone).
Burma Star:: conferita per partecipazioni ad
operazioni nel teatro dellaBirmania dall’11 dicembre 1941.
Italy Star:: conferita per servizio operativo in Italia,
Sicilia, Grecia, Jugoslavia, Egeo, isole del Dodecanneso,
Dodeca
Corsica, Sardegna, Elba tra l’11 giugno 1943 e l’8 maggio
1945.
France and Germany Star:: conferita per servizio
operativo in Francia, Belgio, Olanda e Germania e altri teatri
nord europei, tra il 6 giugno 1944 (giorno dello sbarco in
Normandia) e l’8 maggio 1945 (fine delle seconda guerra
mondiale in Europa).
Un’ulteriore
ulteriore riconoscimento è stato istituito in contempocontempo
ranea con l’Arctic Star, si tratta di una barretta (clasp)
(
con
incisa l’iscrizione Bomber Command (Comando BombarBombar
dieri),
), riservata a coloro che facevano parte degli equipaggi
di volo del Bomber Command e che effettuarono molteplici
missioni sull’Europa centrale, e in particolare sulla GermaGerma
nia, nel corso dell’intera guerra. L’esigenza di conferire queque
sta distinzione è sorta
orta dalla necessità di poter concedere un
riconoscimento agli equipaggi del Bomber Command che
erano stati generalmente considerati di secondo piano
rispetto a quelli del FighterCommand (Comando Caccia). La
barretta può essere applicata sul nastro delle stelle che gli
aventi diritto già detengono.
Fonti principali:
Gould, R.W., BritishCampaignMedals: Waterloo to the
Gulf, Londra, 1972 (ed. 1994)
Joslin, E.C., Litherland, A.R., and Simpkin,
Simp
B.T. (eds),
BritishBattles and Medals, Londra, 1988
- “Artic VeteransAngered by Badge”, neThe
ne
Journal of
the Orders and MedalsResearch Society,
Society June 2005,
Volume 44, NUmber 2 (267), Londra
http://www.veterans-uk.info/Eligibility%20Criteria.doc
uk.info/Eligibility%20Criteria.doc
http://www.bbc.com/news/uk-england-hampshire
hampshire21845753
http://webarchive.nationalarchives.gov.uk/20140805133
045/http://www.veterans-uk.info/arctic
uk.info/arctic star_index.htm
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