27ott2014 - Altervista

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RASSEGNA STAMPA UNISIN 27 OTTOBRE 2014
A cura di Manlio Lo Presti
RAS Banca Monte dei Paschi di Siena
Esergo
Per la maggior parte il divario tra ricchi e poveri è
“fabbricato” da politiche fiscali e di spesa pubblica.
E’ qui che interviene “il governo dei “ricchi”… è composto
per il 60%
di top manager, in larga parte banchieri.
FEDERICO RAMPINI, Non ci possiamo permettere uno
Stato sociale. FALSO!, Laterza, 2012, pag. 23
1.
ilsimplicissimus2.wordpress.com
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http://www.wallstreetitalia.com/
Stress test: Bce boccia
9 banche italiane.
Mps e Carige a rischio
Per Italia record negativo, seguono Grecia e Germania. In tutto 25
istituti Ue non passano. Siena: mancano 2,1 miliardi.
di Luigi Grassia
Pubblicato il 26 ottobre 2014| Ora 13:23
ROMA (WSI) - La Bce boccia 25 banche europee, tra queste anche Mps e Carige. Sono i risultati
degli stress test sulla verifica di solidità degli istituti finanziari in Europa condotti su 131 istituti
europei. Dodici delle 25 banche europee che non hanno passato gli stress test della Bce hanno già
varato misure di rafforzamento del capitale. Montepaschi ha bisogno di un ulteriore rafforzamento
del capitale da 2.111 milioni, mentre a Carige servono altri 814 milioni per superare lo scenario
avverso degli stress test Bce. Lo comunica Bankitalia [LEGGI COMUNICATO INTEGRALE di
BANCA D'ITALIA]. Le banche italiane che non hanno passato lo stress test Bce sono: Monte
dei Paschi di Siena, Carige, Banca Popolare di Milano, Popolare di Vicenza, Bper, Banco
Popolare, Banca Popolare di Sondrio, Credito Valtellinese, Veneto Banca La lista completa in
ordine alfabetico delle maggiori 15 banche italiane sottoposte a stress test era la seguente:
1) Banco Popolare
2) Banca Popolare Dell'Emilia Romagna
3) Banca Popolare Di Milano
4) Banca Popolare di Sondrio
5) Banca Popolare di Vicenza
6) Banca Carige
7) Credito Emiliano
8) Banca Piccolo Credito Valtellinese
9) Iccrea 10) Intesa Sanpaolo
11) Mediobanca
12) Banca Monte dei Paschi di Siena
13) Unione Di Banche Italiane
14) UniCredit
15) Veneto Banca Carige, cda decide aumento capitale per 500 mln - Il cda di Carige ha approvato
all'unanimità il Capital Plan che verrà sottoposto all'approvazione Bce che prevede la copertura
dello shortfall tramite un aumento di capitale per un importo non inferiore a 500 milioni garantito
da Mediobanca ed altre operazioni di asset disposal. Tra le altre operazioni Carige elenca la
dismissione delle attività del Gruppo operanti nel comparto assicurativo, nei settori del private
banking e credito al consumo, oltre a economie di scala da realizzarsi con l'aggregazione delle
controllate. Panetta (Bankitalia), risultati nel complesso rassicuranti - Il risultato dei test Bce è per
l'Italia "nel complesso rassicurante, per noi non inatteso. Dà l'immagine di un sistema bancario nel
complesso solido", anche se "occorre proseguire nelle azioni intraprese in alcuni casi". Lo ha detto
Fabio Panetta, vicedirettore generale di Bankitalia e membro del comitato di sorveglianza Bce.
Tesoro: carenze banche italiane coperte da mercato - Il Ministro del Tesoro "confida che le residue
carenze patrimoniali" delle banche italiane nello stress test della Bce "saranno coperte con ulteriori
operazioni di mercato, e che la trasparenza assicurata dal Comprehensive Assessment permetterà di
portarle a compimento agevolmente." Per Italia record negativo in Europa - Le banche italiane
hanno subito la svalutazione dei propri attivi più forte fra gli istituti europei dalla asset quality
review della Bce. Lo si legge in una nota, che indica in 12 miliardi di euro (3,5% degli asset) la
correzione. Seconda la Grecia con 7,6 miliardi. La Germania è a 6,7 miliardi di riduzione.
Le bocciate hanno due settimane per presentare piani - Entro due settimane le banche che non
hanno superato lo stress test della Bce dovranno presentare i piani per la ricapitalizzazione.
E' quanto informa la Bce secondo cui 12 delle 25 banche hanno già coperto 15 miliardi di carenza
capitale nel 2014. Per le altre scatta la necessità di approntare misure. Banca Popolare di Vicenza e
la Popolare di Milano per le quali la Bce aveva individuato carenze di capitale si sono salvate grazie
alle misure di rafforzamento patrimoniale aggiuntive varate. Lo informa la Banca d'Italia secondo la
quale i 233 milioni e i 166 rispettivamente mancanti sono stati coperti da misure aggiuntive.
Bankitalia: 'Confermata solidità sistema' - "I risultati confermano la solidità complessiva del sistema
bancario italiano, nonostante i ripetuti shock subiti dall'economia italiana negli ultimi sei anni: la
crisi finanziaria mondiale, la crisi dei debiti sovrani, la doppia recessione". E' quanto afferma la
Banca d'Italia. (ANSA) *** Sono arrivate le pagelle della Bce. Le banche italiane che hanno fallito
i temuti «stress test» sono nove, fra esse a sole 4 viene chiesto di ricapitalizzare, ma anche su questo
bisogna fare la tara. Per Montepaschi la carenza è di 2,1 miliardi (che peraltro Bankitalia riduce a
1,35 miliardi, come spiegato più avanti) e per Banca Carige di 814 milioni. La Cassa genovese ha
reagito immediatamente annunciando un aumento di capitale fino a 650 milioni. In teoria anche
Banca Popolare di Vicenza è carente (per 233 milioni) e così Banca Popolare di Milano (166
milioni) ma di fatto si sono già messe al sicuro con operazioni dell’ultimo minuto. Ancora più
tranquilla, nonostante la bocciatura formale, la situazione delle altre cinque banche italiane nel
mirino. La Banca d’Italia precisa che la bocciatura di Mps e Carige è avvenuta «solo per lo stress
test nello scenario avverso», cioè nell’ipotesi dello scenario peggiore (il test ne contemplava diversi,
fino a quello di una crisi acuta del genere del 2011). La stessa Bankitalia sottolinea che i risultati dei
test «confermano la solidità complessiva del nostro sistema». Promozione piena per i due pesi
massimi italiani Unicredit e Intesa Sanpaolo: l’esame della Bce evidenzia un’eccedenza di capitale
rispettivamente di 8,7 e 10,8 miliardi. C’è anche un motivo per cui il risultato italiano degli stress
test è peggiore della media europea: spiega Fabio Panetta, vicedirettore generale di Bankitalia, che
«per l’Italia si ipotizza uno scenario sfavorevole in termini di crescita. E le condizioni iniziali
contano molto». Per citare tutti i numeri: le banche italiane che presentano carenze di capitale sono
nove e avrebbero bisogno di 9,7 miliardi. Ma questo dato ufficiale era valido al 31 dicembre scorso.
Tenuto conto degli aumenti di capitale avvenuti fra gennaio e settembre il fabbisogno scende a soli
3,3 miliardi. Le ulteriori operazioni decise dalle Popolari di Vicenza e Milano tagliano
ulteriormente la necessità di ricapitalizzazione. Anzi adesso le due banche hanno addirittura
un’eccedenza di capitale, rispettivamente di 30 e di 713 milioni. Una precisazione anche su Mps: la
Banca d’Italia spiega che il fabbisogno complessivo indicato dalla Bce è di 2,111 miliardi ma non
tiene conto del residuo dei Monti Bond; tenendone invece conto la carenza di capitale scende a 1,35
miliardi. Ancora Bankitalia su Mps: «Sono stati conseguiti importanti risultati, in particolare sul
piano della razionalizzazione organizzati e dell’abbattimento dei costi». Il Monte dei Paschi
annuncerà a breve le misure da presentare entro 15 giorni e da realizzare entro i prossimi nove mesi
per rispondere ai rilievi della Bce. Un cda straordinario presieduto da Alessandro Profumo si è già
riunito sabato per deliberare sulle misure, restano da verificare le ulteriori mosse. Il Ministro del
Tesoro «confida che le residue carenze patrimoniali delle banche italiane saranno coperte con
ulteriori operazioni di mercato», e la Carige ha risposto annunciando un aumento di capitale fra i
500 e i 650 milioni. In tutta Europa sono 25 le banche bocciate in base alla valutazione complessiva
di Francoforte, i cosiddetti «stress test». La carenza di capitale è di 24,6 miliardi. Ma 12 di queste
25 banche hanno già coperto queste carenze con aumenti di capitale per un totale di 15 miliardi nel
2014. Ne restano 13 con una carenza di capitale totale di 9,5 miliardi. Tutte le banche che
presentano «shortfall» di capitale «devono preparare piani di ricapitalizzazione entro due settimane
dall’annuncio dei risultati», e cioè da oggi, e avranno fino a un massimo di nove mesi per coprire
queste carenze patrimoniali. Le banche italiane hanno subito la svalutazione dei propri attivi più
forte fra gli istituti europei dalla Asset quality review della Bce. Una nota indica in 12 miliardi di
euro (3,5% degli asset) la correzione. Seconda è la Grecia con 7,6 miliardi e terza la Germania con
6,7 miliardi di riduzione.
Il contenuto di questo articolo, pubblicato da La Stampa - che ringraziamo - esprime il pensiero dell'
autore e non necessariamente rappresenta la linea editoriale di Wall Street Italia, che rimane
autonoma e indipendente.
Copyright © La Stampa. All rights reserved *** La valutazione approfondita della Bce ha rilevato
una carenza patrimoniale di 25 miliardi di euro per 25 istituti: in 12 (Cooperative Central Bank,
Bank of Cyprus, Veneto Banca, Banco Popolare, Piraeus Bank, Credito Valtellinese, Banca
Popolare di Sondrio, Munchener Hypothekenbank, Axa Bank Europe, Crh, Bper e Liberbank) delle
25 banche la carenza patrimoniale è già stata coperta con aumenti di capitale pari a 15 mld di euro
nel 2014. Ne restano 13 che dovranno ancora ricapitalizzare: Mps (short fall di 2,11 mld), Eurobank
(1,76 mld), Banco Comercial Portugues (1,15 mld), National Bank of Greece (0,93 mld), Banca
Carige (0,81 mld), Oesterreichischer Volksbanken-Verbund (0,86), Permanent tsb (0,85), Dexia
(0,34), Hellenic Bank (0,18), Nova Ljubljanska banka (0,03), Nova Kreditna Banka Maribor (0,03).
Nelle tredici figurano anche Bpm (0,17 mld) e Banca Popolare di Vicenza (0,22) che comunque
hanno già provveduto con misure aggiuntive. Gli istituti che presentano carenze sono tenuti a
predisporre piani patrimoniali entro due settimane dall’annuncio dei risultati. Per colmare le carenze
di capitale le banche avranno fino a nove mesi di tempo. Questo esercizio, articolato in un esame
della qualità degli attivi (asset quality review, AQR) e in una prova di stress prospettica delle
banche, "unico e rigoroso - ha commentato il vicepresidente della Bce, Vítor Constânciocostituisce un importante traguardo nel quadro dei preparativi per il Meccanismo di vigilanza unico,
che diverrà pienamente operativo a novembre". Questo accurato esame, "senza precedenti",
effettuato sulle posizioni delle maggiori banche, aggiunge Constancio, "rafforzerà la fiducia del
pubblico nel settore bancario. Individuando i problemi e i rischi, contribuirà a correggere i bilanci e
ad accrescere la tenuta e la solidità delle banche. Ciò dovrebbe agevolare una maggiore erogazione
di prestiti in Europa, promuovendo la crescita economica". L’AQR, rileva la Bce, ha evidenziato
che a fine 2013 il valore contabile degli attivi bancari deve essere corretto per un ammontare di 48
miliardi di euro, che confluirà nei bilanci o nei requisiti prudenziali delle banche. Inoltre, sulla base
di una definizione standard di esposizioni deteriorate, ossia non performing (scadute da 90 giorni
oppure oggetto di una riduzione durevole di valore o in stato di default), l’esame ha messo in luce
che tali esposizioni bancarie sono aumentate di 136 miliardi di euro, portandosi in totale a 879
miliardi. La valutazione approfondita ha inoltre rilevato che lo scenario avverso ridurrebbe di circa
263 miliardi di euro il capitale primario di classe 1 (Common Equity Tier 1, CET1) delle banche,
ossia il capitale di massima qualità destinato all’assorbimento delle perdite che misura la solidità
finanziaria delle stesse. Ciò darebbe luogo a una diminuzione della mediana del coefficiente di
CET1 di 4 punti percentuali, dal 12,4% all’8,3%. Tale diminuzione è più elevata rispetto agli
esercizi analoghi precedenti, indice del rigore dell’esercizio attuale. Questo esercizio, ha
sottolineato Daniéle Nouy, Presidente del Consiglio di vigilanza, "è un ottimo primo passo nella
giusta direzione. Ha richiesto un impegno straordinario e notevoli risorse da parte di tutti i soggetti
coinvolti, fra cui le autorità nazionali dei paesi dell’area dell’euro e la Bce. Ha accresciuto la
trasparenza nel settore bancario, individuando negli enti creditizi e nel sistema gli ambiti che
necessitano di miglioramenti". La valutazione approfondita, ha rilevato, "ci ha consentito di operare
un confronto tra banche indipendentemente dai confini nazionali e dai modelli imprenditoriali; gli
esiti della valutazione ci permetteranno di acquisire conoscenze e pervenire a conclusioni per la
vigilanza in futuro". In seguito all’annuncio dell’esercizio nel luglio 2013, le maggiori 30 banche
partecipanti hanno intrapreso varie misure, fra cui aumenti di capitale per 60 miliardi di euro, al fine
di rafforzare i loro bilanci per un totale di oltre 200 miliardi. Tali misure, effettuate in preparazione
alla valutazione approfondita, rientrano nei più ampi esiti dell’esercizio, conclusosi con successo.
Alcuni interventi intrapresi nel 2013 hanno limitato le insufficienze rilevate dalla valutazione
approfondita, altri adottati nel 2014 potranno essere considerati ai fini della copertura delle carenze
patrimoniali. (AdnKronos)
STRESS TEST,
COMUNICATO STAMPA
DELLA BANCA CENTRALE
EUROPEA
26 ottobre 2014
L’analisi approfondita della BCE evidenzia che le banche devono assumere ulteriori misure
Risultati essenziali della valutazione approfondita sulle 130 maggiori banche dell’area dell’euro:
Sono state individuate carenze patrimoniali pari a 25 miliardi di euro per 25 banche partecipanti. Il
valore degli attivi bancari deve essere corretto per 48 miliardi di euro, di cui 37 miliardi non hanno
generato carenze patrimoniali. La carenza di 25 miliardi di euro e l’aggiustamento del valore degli
attivi pari a 37 miliardi implicano un impatto complessivo sulle banche di 62 miliardi. Sono stati
rilevati ulteriori 136 miliardi di euro di esposizioni deteriorate. Lo scenario avverso della prova di
stress diminuirebbe il capitale delle banche di 263 miliardi di euro, riducendo la mediana del
coefficiente di CET1 di 4 punti percentuali, dal 12,4% all’8,3%. L’esercizio assicura un elevato
livello di trasparenza, coerenza e parità di trattamento. Questo rigoroso esercizio rappresenta una
pietra miliare per il Meccanismo di vigilanza unico, che avrà inizio a novembre. La Banca centrale
europea (BCE) ha pubblicato oggi i risultati di un esame approfondito, durato un anno, sulla tenuta
e sulle posizioni delle 130 maggiori banche dell’area dell’euro al 31 dicembre 2013. Vítor
Constâncio, Vicepresidente della BCE, ha dichiarato: "Questo esercizio, unico e rigoroso,
costituisce un importante traguardo nel quadro dei preparativi per il Meccanismo di vigilanza unico,
che diverrà pienamente operativo a novembre. Questo accurato esame, senza precedenti, effettuato
sulle posizioni delle maggiori banche rafforzerà la fiducia del pubblico nel settore bancario.
Individuando i problemi e i rischi, contribuirà a correggere i bilanci e ad accrescere la tenuta e la
solidità delle banche. Ciò dovrebbe agevolare una maggiore erogazione di prestiti in Europa,
promuovendo la crescita economica." La valutazione approfondita – articolata in un esame della
qualità degli attivi (asset quality review, AQR) e in una prova di stress prospettica delle banche – ha
rilevato una carenza patrimoniale di 25 miliardi di euro per 25 istituti. In 12 delle 25 banche la
carenza patrimoniale è già stata coperta con aumenti di capitale pari a 15 miliardi di euro nel 2014.
Gli istituti che presentano carenze sono tenuti a predisporre piani patrimoniali entro due settimane
dall’annuncio dei risultati. Per colmare le carenze di capitale le banche avranno fino a nove mesi di
tempo. L’AQR ha evidenziato che a fine 2013 il valore contabile degli attivi bancari deve essere
corretto per un ammontare di 48 miliardi di euro, che confluirà nei bilanci o nei requisiti prudenziali
delle banche. Inoltre, sulla base di una definizione standard di esposizioni deteriorate, ossia non
performing (scadute da 90 giorni oppure oggetto di una riduzione durevole di valore o in stato di
default), l’esame ha messo in luce che tali esposizioni bancarie sono aumentate di 136 miliardi di
euro, portandosi in totale a 879 miliardi. La valutazione approfondita ha inoltre rilevato che lo
scenario avverso ridurrebbe di circa 263 miliardi di euro il capitale primario di classe 1 (Common
Equity Tier 1, CET1) delle banche, ossia il capitale di massima qualità destinato all’assorbimento
delle perdite che misura la solidità finanziaria delle stesse. Ciò darebbe luogo a una diminuzione
della mediana del coefficiente di CET1 di 4 punti percentuali, dal 12,4% all’8,3%. Tale
diminuzione è più elevata rispetto agli esercizi analoghi precedenti, indice del rigore dell’esercizio
attuale. "Questo esercizio è un ottimo primo passo nella giusta direzione. Ha richiesto un impegno
straordinario e notevoli risorse da parte di tutti i soggetti coinvolti, fra cui le autorità nazionali dei
paesi dell’area dell’euro e la BCE. Ha accresciuto la trasparenza nel settore bancario, individuando
negli enti creditizi e nel sistema gli ambiti che necessitano di miglioramenti" ha affermato Danièle
Nouy, Presidente del Consiglio di vigilanza. "La valutazione approfondita ci ha consentito di
operare un confronto tra banche indipendentemente dai confini nazionali e dai modelli
imprenditoriali; gli esiti della valutazione ci permetteranno di acquisire conoscenze e pervenire a
conclusioni per la vigilanza in futuro." In seguito all’annuncio dell’esercizio nel luglio 2013, le
maggiori 30 banche partecipanti hanno intrapreso varie misure, fra cui aumenti di capitale per 60
miliardi di euro, al fine di rafforzare i loro bilanci per un totale di oltre 200 miliardi. Tali misure,
effettuate in preparazione alla valutazione approfondita, rientrano nei più ampi esiti dell’esercizio,
conclusosi con successo. Alcuni interventi intrapresi nel 2013 hanno limitato le insufficienze
rilevate dalla valutazione approfondita, altri adottati nel 2014 potranno essere considerati ai fini
della copertura delle carenze patrimoniali. Valutazione approfondita La valutazione approfondita,
che ha integrato le componenti dell’AQR e della prova di stress, era intesa a rafforzare i bilanci
delle banche, accrescere la trasparenza e promuovere la fiducia. Le 130 banche esaminate
rappresentavano 22.000 miliardi di euro di attività, pari all’82% degli attivi bancari totali nell’area
dell’euro. La valutazione è stata condotta conformemente al regolamento e alla direttiva dell’UE sui
requisiti patrimoniali in vigore (CRR/CRD IV), che prevedono alcune discrezionalità nazionali. Tali
discrezionalità possono determinare differenze – come nel caso della definizione di capitale – che si
ridurranno gradualmente nel corso dei prossimi anni con il progressivo venir meno delle
disposizioni transitorie nella normativa pertinente. La BCE riconosce l’esigenza di migliorare la
coerenza della definizione di capitale e della sua qualità. La vigilanza bancaria della BCE affronterà
il tema in via prioritaria. AQR L’AQR, condotta dalla BCE e dalle autorità nazionali competenti
(ANC), ha esaminato l’adeguatezza della valutazione degli attivi iscritti nei bilanci delle banche al
31 dicembre 2013. La comparabilità delle banche oltre i confini nazionali è stata assicurata
dall’applicazione di definizioni comuni per concetti inizialmente disomogenei e da una metodologia
uniforme per l’analisi dei bilanci. Oltre 6.000 esperti in tutto il Meccanismo di vigilanza unico
(MVU) hanno esaminato nel dettaglio più di 800 singoli portafogli, svolgendo fra l’altro un’analisi
accurata della qualità dei crediti di 119.000 debitori verso le banche. L’esame fornisce alla BCE
informazioni significative sulle banche che saranno sottoposte al regime di vigilanza diretta e si
affianca agli sforzi profusi per creare in futuro un contesto di parità di condizioni in seno alla
vigilanza. Prova di stress La prova di stress è stata condotta dalle banche partecipanti, dalla BCE e
dalle ANC in collaborazione con l’Autorità bancaria europea (ABE), che ne ha anche definito la
metodologia. Lo scenario avverso, invece, è stato sviluppato dal Comitato europeo per il rischio
sistemico (CERS) in collaborazione con le ANC, l’ABE e la BCE. Nello scenario di base alle
banche è stato richiesto di detenere un coefficiente minimo di CET1 dell’8% (come per l’AQR),
mentre nello scenario avverso il coefficiente era pari al 5,5%. La prova di stress non si configura
come previsione di eventi futuri, ma come esercizio prudenziale inteso a verificare la capacità delle
banche di superare situazioni di maggiore debolezza economica; le banche sono state incoraggiate a
elaborare proiezioni prudenti da sottoporre ad analisi critica sulla base di requisiti rigorosi di
assicurazione della qualità. Un elemento di novità è rappresentato dal fatto che le informazioni
acquisite nell’AQR sono state integrate nei bilanci bancari di partenza e nelle relative proiezioni
della prova di stress. Comunicazione per singola banca Nei 130 schemi relativi alle singole banche
la BCE distingue tra le carenze patrimoniali individuate in sede di AQR e quelle determinate dallo
scenario di base e dallo scenario avverso della prova di stress. La valutazione approfondita integra
le due voci. Gli schemi, inoltre, forniscono ulteriori informazioni importanti sulle singole banche,
riguardanti ad esempio le emissioni di strumenti di capitale già effettuate nel 2014. I risultati
integrali della prova di stress vengono pubblicati anche dall’ABE. Il rapporto aggregato contenente
gli esiti completi dell’esercizio per tutte le banche è reperibile all’indirizzo:
http://www.ecb.europa.eu/ssm/assessment/html/index.en.html.
Le nuove lobby italiane: "trinità" vicina a Renzi
Tramontata l’era Bisignani. Cambia rete di chi agisce nell'ombra per promuovere nomine,
finanziamenti e aziende. Ecco i nomi.
di Emiliano Fittipaldi
Pubblicato il 24 ottobre 2014| Ora 11:11
Commentato: 10 volte
ROMA (WSI) - Luca Lotti è "lampadina", il sottosegretario dal carattere fumantino, considerato del
terzetto quello più difficile da avvicinare. Marco Carrai è l’imprenditore immerso nei suoi affari, ma
più disponibile ad ascoltare lamentele e richieste. L’avvocato Alberto Bianchi è lo "zio saggio", il
mediatore per eccellenza, colui che sa ammorbidire i dissidi e trovare la quadra. Insieme Luca,
Marco e Alberto formano quella che deputati e brasseur d’affari chiamano "la trinità", il gruppo
scelto a cui Matteo Renzi ha affidato la creazione di un nuovo sistema di potere che, all’ombra di
Palazzo Chigi, deve gestire nomine pubbliche, dossier delicatissimi e interessi economici del Paese.
Negli ultimi mesi la rete di relazioni della trimurti si sta espandendo come una supernova, tanto che
la supremazia della vecchia "ditta" (così veniva chiamato il sodalizio tra Gianni Letta e Luigi
Bisignani, che ha patteggiato un anno e sette mesi per associazione a delinquere nell’ambito
dell’inchiesta sulla P4) è ormai un lontano ricordo: la rottamazione della coppia che ha
amministrato la cosa pubblica durante il regno di Silvio Berlusconi è (quasi) terminata. Così da
febbraio lobbisti, consulenti d’azienda e battitori liberi si affannano per salire sul carro giusto.
Telefonate, appuntamenti nei bar del centro storico di Roma, pressioni sui parlamentari di
riferimento: entrare fin d’ora nelle grazie dei decisori è fondamentale, visto che chi resta fuori dai
giochi mette a rischio non solo gli interessi della sua azienda, ma anche potere personale e lo
stipendio. GLI UOMINI NERI Nella vulgata comune il lobbista è ancora sinonimo di intrallazzo.
L’iconografia lo dipinge come un maneggione in blazer, come l’uomo nero che smista mazzette per
velocizzare una pratica o spingere un emendamento. La cronaca giudiziaria non ha migliorato la
loro "reputation": la seconda Tangentopoli, la P4, gli scandali che stanno martoriando l’Eni e la
Finmeccanica, i traffichini alla Valter Lavitola, le tangenti del Mose, tutto ha contribuito a rilanciare
l’assioma "lobbista uguale faccendiere". Un luogo comune che danneggia i professionisti degli
affari istituzionali, che spesso e volentieri non solo difendono interessi legittimi (come fanno
associazioni di categoria e sindacati), ma servirebbero al legislatore per avere dati e informazioni
corrette su business cruciali. Non è un caso che la categoria, a Washington come a Bruxelles, sia da
lustri rispettata e regolamentata. L’Italia, anche in questo campo, è molto indietro. Sia per colpa del
Parlamento, che da trent’anni annuncia una legge sulla trasparenza delle lobby che non ha mai visto
la luce, sia perché i protagonisti della persuasione si comportano spesso come trent’anni fa, quando
il costruttore Gaetano Caltagirone rivolgeva all’andreottiano Franco Evangelisti l’immortale «A
Frà, che te serve?». Non è un caso che il dossieraggio per fregare i colleghi resta pratica assai
diffusa, così come l’opacità nei rapporti con la politica e la "black propaganda" attraverso cui si
tenta di distruggere l’immagine di un concorrente grazie a giornalisti ingenui o compiacenti. LA
TRINITA' I protagonisti della nuova leva renziana non sono stati coinvolti in indagini giudiziarie.
Almeno nel penale. Partiamo da Carrai. Che insieme a Lotti, Bianchi e al ministro Maria Elena
Boschi è nel ristretto board della Fondazione Open, cuore e cassa del meeting della Leopolda (vedi
articolo a pagina 36). Nonostante le voci lo diano in uscita dal "giglio magico", per il premier resta
un punto di riferimento imprescindibile. Più riflessivo di Lotti, timido e mingherlino, rampollo di
una famiglia di costruttori molto cattolica, nel 2009 ha deciso di lasciare la politica attiva
diventando imprenditore. L’apparenza inganna, perché Carrai nel tempo libero continua a raccoglie
fondi per le campagne elettorali del premier e tesse relazioni a tutto campo. Non solo con
ambasciatori e politici americani e israeliani, come è noto, ma con tutti i banchieri del Paese: da
Fabrizio Palenzona a Lorenzo Bini Smaghi, è a lui che i finanzieri devono fare riferimento. Se
Bisignani girava per Roma in un taxi che aveva affittato in regime di monopolio, Carrai va agli
appuntamenti fiorentini a bordo di una vecchia Fiat Punto verde. Ufficialmete non ha incarichi di
governo ma ogni volta che scende a Roma ha l’agenda piena zeppa nemmeno fosse titolare di un
dicastero. Si appoggia a un ufficio di Franco Bernabè (ex ad di Telecom) di cui è socio in una
società di consulenza, ma preferisce incontrare lobbisti e politici in luoghi pubblici. «Prima andava
spesso da "Tullio", ma dopo la vicenda delle microspie scoperte sotto i tavoli di "Assunta Madre"
preferisce le hall degli alberghi del centro, come l’Exedra a piazza della Repubblica», racconta chi
lo conosce bene. «Carrai è l’anello di congiunzione tra Renzi e i poteri forti: persino i manager di
Monte dei Paschi di Siena e Unipol, da sempre legati alla vecchia guardia dalemiana, ora vanno a
baciare la pantofola di Marco». PICCOLI LETTA CRESCONO Molti lobbisti della rete che sta
mettendo in piedi il giovane Marco li ha invitati al suo matrimonio: a festeggiare lui e la consorte
Francesca Campana Comparini c’erano anche alcuni emergenti, come Filippo Maria Grasso,
Pasquale Salzano e la "lobbista del papa" Francesca Chaouqui. Tutti in carriera, e determinati a
farne ancora di più: se Grasso, 35 anni, è da tempo nel cerchio magico di Tronchetti Provera in
Pirelli, legatissimo a Pippo Corigliano dell’Opus Dei e pizzicato nelle intercettazioni della P4 per
aver messo in contatto l’ex ministro Stefania Prestigiacomo e Luigi Bisignani (Grasso vanta
relazioni internazionali di alto livello in paesi cruciali come Russia, Brasile e Turchia, nonché stretti
rapporti con le forze di polizia), Pasquale Salzano, classe 1973, è il napoletano che ha preso da poco
la guida delle relazioni istituzionali all’Eni, al posto di Leonardo Bellodi. Scelto direttamente dal
nuovo numero uno del colosso petrolifero Claudio Descalzi, Salzano è un diplomatico, ha lavorato
con Romano Prodi e ha già capito che il suo sarà un compito difficile: a poche settimane dalla
promozione il suo capo è stato subito indagato per corruzione internazionale dalla procura di
Milano. Con il governo, però, per ora Salzano parla poco: Renzi e Descalzi si scrivono sms ogni
due giorni, scavalcando ogni possibile intermediazione. Al matrimonio di Carrai anche una delle
facilitatrici più ambiziose del momento, la Chaouqui. Figlia di un egiziano che se n’è andato di casa
quando era ancora bambina e di una insegnante calabrese di San Sosti, s’è trasferita qualche anno fa
nella Capitale in una topaia di 15 metri quadri sopra un garage. Ha fatto la babysitter per pagarsi
l’affitto e le tasse della Sapienza, poi ha scalato tutte le gerarchie della città in pochi anni. Grazie
alle entrature della contessa Marisa Pinto Olori del Poggio (ambasciatrice di San Marino che l’ha
praticamente adottata e presentata a decine di vescovi e cardinali), e a un rapporto personale con il
cardinale George Pell, il segretario di Stato Pietro Parolin e Bergoglio in persona. Tra un pranzo per
vip organizzato su una terrazza in San Pietro (tra gli invitati anche Carrai) e un appuntamento a
Santa Marta, Chaouqui sta pure curando gli investimenti italiani di due multinazionali asiatiche.
L’EPURAZIONE Scaltri e rapidi ad apprendere l’arte di Richelieu, Carrai Bianchi e Lotti non
conoscono ancora le logiche e i riti dei vecchi potentati. Cresciuti tra le colline toscane, diffidano
dei salotti alla Jep Gambardella dove «prima si magna e poi si intrallazza». Qualcuno, inoltre, ha
loro segnalato che sarebbero state proprio quelle élite ad aver pompato a dismisura sui media il caso
della casa fiorentina di Carrai in cui ha vissuto Renzi per qualche mese. Arrivati sotto il Colosseo i
tre decidono dunque di guardarsi le spalle, di non frequentare i bar di via Veneto dove i lobbisti
chiacchierano tra crodini e gin-tonic, e di annientare prima possibile la ragnatela costruita dai
venerabili maestri della Seconda Repubblica. L’epurazione parte a maggio. Cadono come birilli
Stefano Lucchini, ras all’Eni da sempre fedele a Bisignani, e Leonardo Bellodi, l’uomo ombra di
Paolo Scaroni, esperto di missioni a cavallo tra business e intelligence. Oggi Lucchini ha già trovato
un nuovo ufficio a Banca Intesa, mentre sembra che Bellodi voglia aprire - insieme a Scaroni e l’ex
ad di Siram Giuseppe Gotti - una sede italiana di un importante fondo di investimento Usa. Anche
Gianluca Comin, ex capo delle relazioni istituzionali dell’Enel e ganglio cruciale del vecchio
sistema, dopo aver perso la poltrona si è buttato nel privato: oggi ha una scrivania nella sede dello
studio legale Orrick, e collabora per la multinazionale dei farmaci Novartis, finita nella bufera per
una multa da 92 milioni comminata dall’Antitrust e bisognosa di lobbisti in grado di ridare smalto
alla reputazione dell’azienda. Dei vecchi leoni solo Fabio Corsico e Giuliano Frosini possono
vantare eccellenti rapporti con il nuovo establishment: il primo, da 10 anni factotum di Francesco
Gaetano Caltagirone e manager di punta della Fondazione Crt, è stato messo nel board di Terna
dalla Cassa depositi e prestiti; Frosini, un passato da bassoliniano, amico di Enrico Letta e Maurizio
Lupi nonché foundraiser per Comunione e Liberazione, ha lasciato Terna per tornare a seguire gli
interessi di Lottomatica, ma è stato piazzato dal governo Renzi nel nuovo cda di Trenitalia. I
lobbisti in cerca d’autore, invece, non si contano: se Franco Brescia della Telecom per ora è saldo al
suo posto, Marco Forlani (figlio del democristiano Arnaldo) è uscito da Finmeccanica a luglio,
mentre Paolo Messa (ex consigliere del ministro Corrado Clini, indagato per una vicenda di
corruzione) sta tentando la fortuna bisbigliando suggerimenti al potente Gianni De Gennaro,
presidente Finmeccanica ed ex capo della polizia. Costanza Esclapon, contrattualizzata dalla Rai e
amica di Lucchini, sta invece difendendo con le unghie il suo capo Luigi Gubitosi dagli attacchi
della stampa. Renzi sembra però aver già deciso le sorti del direttore generale di Viale Mazzini, che
dovrà cambiare azienda alla scadenza della nomina, prevista per marzo. In pole per il suo posto il
"giglio magico" si sta dividendo tra l’ex Mtv Antonio Campo Dall’Orto e il numero uno della
compagnia telefonica H3G Vincenzo Novari, per cui tifano Luca Lotti ed Ernesto Carbone. CHI
SALE E CHI SCENDE «Lobby» è una parola d’origine medioevale. Viene da "laubia", cioè
"loggia", "portico". Ma nell’immaginario significa clan, camarilla, combriccola che persegue i suoi
interessi a scapito di quelli della collettività. L’azione dei gruppi di pressione in Parlamento,
l’assenza di qualsiasi regola di condotta, i rapporti amicali e di scambio con i politici e i partiti,
però, non sono un luogo comune. Perché definiscono il tipo di lobbismo che in Italia va da sempre
per la maggiore. Se Bisignani (che ha cambiato ufficio, ora è in via Po, e tenta di dire la sua
attraverso il buon rapporto con Denis Verdini e la famiglia Angelucci) è metafora negativa, i nuovi
ciambellani di Renzi non hanno ancora del tutto cambiato verso, soprattutto nel modo di agire. «Nei
ministeri non si fidano di nessuno, e gestiscono da soli tutti i dossier. Così la trasparenza è un
optional, e il rischio di caos e approssimazione è elevatissimo», racconta il numero due degli affari
istituzionali di un’importante impresa di Stato. «Ai tempi di Enrico Letta potevamo coordinarci con
l’ambasciatore Armando Varricchio e con il suo consigliere Fabrizio Pagani. Ora, invece c’è un
vuoto assoluto»Per la cronaca, Varricchio è stato depotenziato a semplice burocrate, mentre Pagani
è stato spedito a via XX Settembre, come capo della segreteria del ministro Pier Carlo Padoan. Era
proprio Pagani uno dei commis di Stato più influenti: se ai consiglieri di Stato è stata messa la
museruola, nei palazzi contano ancora molto Salvatore Nastasi, ex enfant prodige di Gianni Letta e
potentissimo direttore del ministero della Cultura, e Antonio Agostini, un passato nei servizi segreti,
ex direttore dei ministri Gelmini e Clini, diventato qualche settimana fa numero uno dell’Isin,
l’authority per la sicurezza nucleare. Il VECCHIO E IL GIOVANE Quando Carrai ha qualche
dubbio sul da farsi, telefona ad Alberto Bianchi. Sessant’anni, pistoiese, Bianchi è un riservato
avvocato, esperto in diritto commerciale e fallimentare, con un grande studio a Firenze. Ma,
soprattutto, è l’uomo che da 15 anni sussurra buoni consigli ai tre ragazzini di belle speranze, Renzi,
Lotti e Carrai, che ha allevato intuendone ambizioni e capacità. Liberale convinto e anticomunista,
un fratello (Francesco) stimato da Giovanni Bazoli e da poco piazzato alla Fondazione Maggio
Fiorentino, lo "zio saggio" siede nel cda dell’Enel e ha un peso specifico notevole. Non solo nella
fondazione Open di cui è presidente e di cui ha scritto lo statuto, ma su ogni nomina che conta: pare
sia lui ad aver imposto Francesco Starace all’Enel. Dei tre tenori è l’unico che ha beccato una
condanna (seppure in primo grado): secondo la Corte dei Conti Bianchi - quando era commissario
straordinario dell’Efim spa (una delle holding delle vecchie Partecipazioni statali finita in
bancarotta) - avrebbe causato un danno erariale di 4,7 milioni di euro. Ma dei tre campioni di Renzi
quello che i lobbisti sognano di agganciare per primi è Luca Lotti. Nato nel 1982, sottosegretario
all’editoria a Palazzo Chigi, è delegato a tutti i rapporti informali del premier. Maestro
nell’anticipare i desiderata del "principale" di cui esegue gli ordini senza discutere, ha messo il suo
zampino in tutte le partite più delicate. Prima le nomine delle società pubbliche (il nuovo capo delle
relazioni istituzionali di Poste, Giuseppe Coccon, a Lotti deve moltissimo), poi ha sfilato le deleghe
del Cipe al ministero dell’Economia. Se prima i vescovi e i cardinali parlavano con Gianni Letta,
ora devono incontrare lui. Dagli uomini d’affari che vogliono avere buone entrature con il governo,
invece, Lotti manda due imprenditori di fede renziana come Andrea Conticini e Andrea Bacci. Tra
una partita di calcetto alla Cecchignola e un appuntamento sotto la galleria "Alberto Sordi", c’è solo
un obiettivo che "lampadina" non è riuscito ancora a raggiungere: le deleghe ai servizi segreti. Per
le barbe finte l’ex consigliere di Montelupo ha un chiod o fisso, e per strappare l’incarico al
sottosegretario Marco Minniti farebbe follie. Per ora Renzi gli ha detto di no. Così, con gli 007
dell’Aisi e dell’Aise, Lotti si incontra nei bar dietro Piazza di Pietra. In incognito, ma neanche
troppo.
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Draghi ha ancora un
grosso problema: la
Germania
Rapporti con la Bundesbank sono irreparabilmente compromessi.
"Dovremo combattere" per tenere tedeschi nel board, ha detto un
membro del consiglio.
di WSI
Pubblicato il 24 ottobre 2014| Ora 12:13
BERLINO/FRANCOFORTE/PARIGI (WSI) - Ai primi di ottobre, Benoit Coeure, membro
francese del board Bce, si è recato a Berlino per una visita alla Cancelleria tedesca, durante la quale
ha sommessamente espresso le preoccupazioni dell'Eurotower circa le crescenti critiche espresse da
politici teutonici nei riguardi dell'operato della banca centrale europa. Coeure, uno degli uomini più
vicini al presidente della Bce Mario Draghi a Francoforte, sperava di ricevere rassicurazioni sul
fatto che la campagna di stroncature da parte tedesca, guidata dal ministro delle Finanze Wolfgang
Schaeuble, sarebbe finita presto. Ma la risposta ottenuta dai consiglieri di Angela Merkel non è stata
affatto confortante, a quanto si apprende da una fonte informata dei colloqui. La cancelliera
continuerà ad evitare di mettere in discussione le politiche della Bce in pubblico. Ma sarà difficile
contenere l'ondata di malcontento che serpeggia fra i politici tedeschi riguardo l'operato della banca
centrale europea, in particolare se Draghi continuerà a puntare su misure non convenzionali per
rafforzare l'economia dell'area euro, come ad esempio l'acquisto massiccio di bond governativi. "Se
sarà così, ne verrà fuori un dibattito pubblico", ha detto un alto funzionario tedesco parlando a
Reuters in condizioni di anonimato. "Le critiche tedesche alla Bce verranno a galla apertamente". In
un'ormai famosa dichiarazione del 2012, Draghi promise che avrebbe fatto "qualunque cosa fosse
necessaria" per difendere la moneta unica, una posizione che la Merkel sostenne, dicendo che la
Bce stava agendo all'interno del suo mandato. A due anni di distanza, le relazioni del banchiere
italiano con il suo principale azionista - i tedeschi - si stanno incrinando con preoccupanti
implicazioni per l'Europa e per la sua già fragile economia. Questa tensione si avverte in modo
inequivocabile nei rapporti fra Draghi e il presidente di Bundesbank Jens Weidmann, che secondo
numerose fonti contattate da Reuters in condizioni di anonimato, sarebbero ormai giunti ad un
punto di rottura. E peggio. La Merkel si sarebbe sentita tradita da quanto detto da Draghi alla
conferenza dei banchieri centrali a Jackson Hole, in Wyoming ad agosto, durante la quale il numero
uno della Bce ha invitato apertamente Berlino ad allentare le sue politiche fiscali per stimolare la
crescita. L'entourage della cancelliera sarebbe anche molto scettico circa il piano di Draghi
sull'acquisto di ABS (asset-backed securities) e covered bond nella speranza di spingere le banche a
prestare denaro. Ma più di tutto, ciò che preoccupa i politici a Berlino è che se questo schema non
funzionerà, Draghi potrebbe essere tentato di approdare ad una politica di quantitative easing. Un
tabù in Germania e un passo che secondo gli alleati di Merkel non farebbe altro che rafforzare il
partito tedesco anti-euro Alternativa per la Germania (AfD). Perdere il sostegno dello stato membro
più importante ed influente dell'area euro sarebbe fatale per la credibilità della Bce, erodendo la
fiducia dell'opinione pubblica nella sua capacità di lavorare con i governi europei per riportare il
Vecchio continente sulla strada della crescita. "Fino ad ora, la Bce era fiduciosa, nonostante tutte le
critiche apparse sui media tedeschi, che avrebbe potuto contare su Schaeuble e Merkel," spiega
Marcel Fratzscher, ex capo del dipartimento di analisi delle politiche internazionali alla Bce e ora
presidente dell'istituto economico DIW a Berlino. "Ma le recenti forti critiche sono state una vera e
propria sveglia. E ora ci si domanda se Draghi abbia o meno il pieno supporto di Berlino. Il
criticismo tedesco rappresenta una grossa preoccupazione per la Bce". La Banca centrale europea,
citando la sua indipendenza, non ha voluto commentare lo stato delle sue relazioni con Berlino. Un
portavoce del governo tedesco ha detto di essere convinto che la Bce stia agendo all'interno del suo
mandato per garantire la stabilità dei prezzi, e non ha dunque voluto commentare oltre.
"IRREPARABILMENTE COMPROMESSI" I rapporti tra Draghi e Weidmann, ex consigliere
della Merkel divenuto governatore della Bundesbank tre anni fa, sono al momento particolarmente
incrinati, secondo una mezza dozzina di banchieri centrali e funzionari governativi sentiti da
Reuters. Le relazioni tra i due non sono mai state facili. Weidmann si è pubblicamente opposto al
programma di acquisto di bond propugnato da Draghi mesi dopo la famosa promessa del 2012. Ma
negli ultimi mesi, la reciproca diffidenza è aumentata, secondo fonti vicine ad entrambe le parti.
Una settimana dopo la visita di Coeure a Berlino, Draghi e il portavoce di Weidmann hanno reso
conferenze stampa separate, nello stesso giorno, ad un piccolo gruppo di cronisti tedeschi ad un
meeting dell'Fmi a Washington. Draghi ha elencato per filo e per segno tutte le misure cui
Weidmann si era opposto da quando alla guida di Buba. Mentre il collaboratore di Weidman, dalla
sua, si è lamentato del fatto che Draghi stesse volutamente tenendo nell'ombra i governatori centrali
delle banche nazionali senza creare consenso tra i 24 membri del board, secondo fonti presenti ai
due briefing. Pochi giorni dopo, a Francoforte, i due banchieri centrali si sono accusati di reciproco
sabotaggio tramite i media, secondo una fonte a conoscenza della questione. "La relazione tra i due
è irreparabilmente compromessa", ha detto una seconda fonte che conosce entrambi. "E' diventato
un fatto personale", ha aggiunto una terza fonte Bce. Un portavoce di Francoforte ha sminuito la
questione, affermando che è salutare che vi siano posizioni differenti all'interno del board. Buba
non ha voluto commentare. Tensioni tra il presidente Bce e i membri tedeschi del board si sono
verificate anche in passato. Durante la presidenza del francese Jean Claude Trichet, predecessore di
Draghi, nel 2011, il numero uno di Bundesbank Axel Weber e il membro tedesco della Bce Juergen
Stark diedero le dimissioni in aperto contrasto con le scelte di politica monetaria adottate da Trichet.
Non ci sono segnali al momento che Weidmann possa seguire il loro esempio. "DOVREMO
COMBATTERE" Persino alti funzionari di Bundesbank hanno iniziato ad esprimere
preoccupazione per il deteriorarsi delle relazioni tra le due istituzioni. Membri del board Bce hanno
ammesso di essere preoccupati circa le crescenti critiche verso la Banca centrale europea in
Germania, dove voci positive come quella di Fratzscher sono state soppiantate da scettici come
l'economista Hans-Werner Sinn e il commentatore della Frankfurter Allgemeine Holger Steltzner
che ha definito la Bce una "bad bank". "Dovremo combattere" per tenere i tedeschi nel board, ha
detto un membro del consiglio Bce. Il governo di Angela Merkel aveva sostenuto la Bce quando
Weber e Stark avevano lasciato i loro incarichi tre anni fa, aiutando Trichet a superare le pesanti
defezioni. Ma questa volta sembra più scontento di quanto sta facendo Draghi, in parte a causa della
minaccia elettorale costituita dall'AfD per la Cdu. Uno dei problemi principali, spiegano alcuni
funzionari, è che da quando lo scorso anno hanno lasciato Joerg Asmussen, membro del board Bce,
e l'alto consigliere Christian Thimann, Draghi non ha più avuto a Francoforte alleati tedeschi in
grado di diffondere il suo messaggio a Berlino. Asmussen è stato rimpiazzato da Sabine
Lautenschlaeger, esperta di finanza senza esperienza politica, mentre il posto di Thimann è stato
preso da Frank Smets, un belga. Le frustrazioni tedesche intorno all'operato di Draghi sono state
esacerbate inoltre dallo stile della sua leadership, riferiscono altri funzionari. L'italiano, dicono, ama
circondarsi di un piccolo gruppo di confidenti, guidato da Coeure e Peter Praet, il belga capo-
economista della Bce, piuttosto che allargare la schiera dei suoi fedelissimi all'interno dell'intero
consiglio, come invece aveva fatto Trichet. Fonti della Bce, hanno però smontato l'idea che ci siano
forti tensioni tra la banca e Berlino, notando che Draghi e Schaeuble hanno parlato a margine del
recente meeting Fmi e che Merkel non ha mai voluto apertamente criticare le decisioni
dell'Eurotower. Schaeuble, però, ha ammesso apertamente, il mese scorso, di "non essere contento"
riguardo alle decisioni di Francoforte sugli ABS e ha detto al parlamento tedesco che la Bce "ha
esaurito" gli strumenti a sua disposizione per sostenere l'economia. Al di là dei motivi specifici,
cresce in Germania il numero dei politici conservatori scontenti dell'operato di Draghi. All'inizio del
mese, Hans Michelbach della CSU bavarese, membro conservatore della commissione finanze del
Bundestag, ha definito "un errore" la nomina di Draghi alla presidenza della Bce.
330 milioni di famiglie
lottano per pagare le
spese della casa.
Rinunciando a cibo e
sanità
E' il risultato di una ricerca McKinsey, secondo cui mancano 650
miliardi di dollari l'anno. In Italia 2,3 milioni di famiglie in difficoltà.
di WSI
Pubblicato il 24 ottobre 2014| Ora 16:04
NEW YORK (WSI) - Sono circa 330 milioni le famiglie sparse sul pianeta che per far fronte ai
costi per la casa devono rinunciare ad altri bisogni essenziali, come il cibo e l’assistenza sanitaria.
Un numero destinato ad aumentare con l’intensificarsi dei flussi migratori verso le metropoli nei
Paesi emergenti, diventeranno 440 milioni nel 2025, almeno un miliardo e trecento milioni di
persone coinvolte. E’ quanto mette in evidenza l’ultimo studio condotto da McKinsey da cui
emerge su scala mondiale il gap di accessibilità alla casa: in sostanza, quanto salario in più
servirebbe a una famiglia media per comprare l’abitazione senza dovere impegnare più del classico
30% del reddito stesso; il gap si aggira intorno ai 650 miliardi di dollari all’anno, all’incirca l’1%
del prodotto interno lordo mondiale. Ma quello del gap di accessibilità alla casa non è un problema
che riguarda solo le grandi metropoli dei paesi emergenti. Anche in Italia la situazione non è rosea.
Sono 2,3 milioni le famiglie in difficoltà. E che pertanto avrebbero bisogno di 7,1 miliardi in euro in
più ogni anno. Il gap maggiore si registra nell’area metropolitana di Milano: quattro miliardi di
dollari. Seguono Roma, tre miliardi; Firenze, un miliardo; Torino, 500 milioni; Napoli, 300 milioni
e Venezia, 200 milioni.
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MPS: considerazioni sugli
stress test
News alert: Banca Mps
Pur non conoscendo il risultato degli stress test (che saranno pubblicati domenica) per MPS, è
comunque possibile fare qualche ragionamento in merito.
La vistosa debolezza delle ultime settimane, che ha provocato addirittura la temporanea e violenta
fuoriuscita dalla parte inferiore del range laterale di lungo termine, suggeriva la convinzione del
mercato di un esito particolarmente severo degli stress test.
timore degli investitori era ed è tuttora legato all'eventuale necessità di MPS di ricorrere ad un
nuovo corposo aumento di capitale.
A distanza di soli 4 mesi dal precedente (di ben 5 MLD), un ulteriore aumento di capitale
risulterebbe complicato da attuare e negativo per le quotazioni del titolo in misura proporzionale
alla sua entità (a meno che lo stesso non fosse dedicato all'ingresso di un nuovo importante socio).
In buona sostanza, l'ondata di vendite che ha travolto MPS nelle ultime settimane sconta uno
scenario che prevede un consistente aumento di capitale e, parzialmente, anche l'incapacità di
attuarlo.
Tuttavia, secondo le ultime voci si prospetta una bocciatura 'leggera' per MPS ripianabile attraverso
operazioni di alienazione e di emissioni di nuove obbligazioni.
Un simile risultato eviterebbe il ricorso ad una nuova ricapitalizzazione della banca.
Se così fosse, emergerebbe uno scenario decisamente meno preoccupante di quello scontato
attualmente dal mercato e, si sa, la diffusione di una notizia migliore rispetto a quella prezzata dalle
quotazioni solitamente (se non sempre) porta a decise ricoperture di cui abbiamo avuto un assaggio
nella settimana appena conclusa (+17%) ed in particolar modo nell'ultima seduta (+10%).
Inps fallita.
A prescindere dalle pensioni pagate al
10 del mese
L’Italia è un popolo di pensionati, un popolo tendenzialmente anziano e che, diciamo la verità, ha
spesso fatto dell’assistenzialismo una sorta di alibi morale, per riuscire ad avere facili extra senza
lavorare o quasi.
Il vizietto all'italiana
Un vizietto che la politica ha immediatamente mutuato e che ha facilmente estremizzato con le
famose pensioni d’oro, i bonus dei parlamentari, extra di tutti i tipi possibili. Insomma un’allegra
gestione da parte un po’ di tutti che, colpevoli, hanno reso l’INPS uno scalcinato baraccone, ormai
sul perenne orlo del fallimento con debiti le cui cifre, sempre a sette zeri, oscillano ormai nel
territorio della pura dissertazione. Si perchè è difficile sapere cosa c’è in cassa, soprattutto
considerando che i maggiori “morosi” per le casse della previdenza sociale, sono appunto gli enti
statali. Oltre che i politici stessi i quali possono permettersi pensioni e vitalizi anche sulla base di
pochi anni di lavoro (e qui, poi il termine lavoro potrebbe anche essere opinabile…).
I tanti problemi
Ad ogni modo, mentre si cerca di capire come risolvere i più nodi derivanti (tagli alle pensioni
d’oro, riorganizzazione di quelle già maturate, esclusione dei milioni di giovani che la Fornero ha
relegato nel limbo dei 6-7-800 euro al mese) arriva la notizia secondo la quale il pagamento delle
pensioni avverrà prossimamente dal 10 di ogni mese anzichè dal primo. Il motivo? Semplice: non ci
sono soldi. E questo a discapito di chi i contributi li ha versati, onestamente, e se li è letteralmente
sudati.
Partiamo dal principio. Nel 2009 il patrimonio dell’Inps era di oltre 41 miliardi e mezzo, stando
all’ultimo documento firmato dall’oramai celebre Mastrapasqua (l’uomo dai 1000 incarichi e dalle
100 poltrone), nel 2014, quindi già da quest’anno, si potrebbe trovare in passivo di oltre 5 miliardi
di euro che a fine anno arriveranno a 12 miliardi. A creare lo scompiglio, oltre quanto già detto
sopra, anche la zavorra Inpdap con i suoi debiti (quasi 24 miliardi) che a suo tempo cadde
sull’istituto di previdenza sociale, oltre alla mancanza di versamenti dovuti alla crisi: più
disoccupazione, meno lavoratori, quindi meno contributi versati. Ed è con quei contributi che
finora si è provveduto a mantenere in piedi il sistema pensionistico già maturato, tappando
l’ennesima falla che si apriva sul fronte dei conti, senza porre mano a riforme del sistema che
fossero credibili nel breve periodo ma soprattutto sostenibili sul lungo.
Perchè?
In molti si chiedono il perchè di quella scelta nefasta che ha praticamente distrutto il precario
equilibrio di una realtà già di per sè estremamente sensibile al risvolto sociale. E anche in questo
caso la risposta è semplice: scaricare sulla popolazione (Inps) i debiti contratti dall’amministrazione
pubblica (Inpdap) verso i propri dipendenti. Una scelta che, stando alle dichiarazioni di
Mastrapasqua, avrebbe senza dubbio portato conseguenze pesanti, ma i cui effetti sarebbero stati
attutiti dalle riforme che il governo Monti avrebbe poi varato. Inutile dire che quelle riforme non
sono state mai scritte e tanto meno pensate, sia per una questione di tempo (la vita dei governi in
Italia ha la stessa durata di quella di una falena notturna), sia per ovvi motivi di impossibilità: con
na situazione economica come quella che stiamo vivendo adesso e che anche allora non era poi
diversa (anzi, stando ai dati macro era per assurdo anche migliore) non c’erano margini per nessuna
manovra. Non solo, ma considerando il modus operandi delle riforme (quelle poche) del governo
Monti, forse, averle fatte sarebbe stato anche peggio.
Le conseguenze
Tutto questo ha creato una situazione di allarme che alla stessa Fornero era nota già dall’anno
scorso, tanto da farle lanciare l’allarme sulle casse vuote già dal 2015. E quella del pagamento delle
pensioni al 10 di ogni mese, provvedimento presente nella Legge di Stabilità, non ne è che la
conferma. E a poco serve la precisazione di queste ore, in arrivo dal governo, secondo cui lo
slittamento riguarderebbe solo quegli 800mila che godono di doppio assegno. Non sarà certo questa
"sottigliezza" a poter reggere un sistema che non può andare avanti.
Uno spostamento che, in linea di logica, sarebbe anche accettabile, se non fosse che sulla pensione,
causa mancanza di lavoro, non solo vivono molte persone (oltre il diretto interessato ed intestatario)
ma gravano anche impegni inderogabili (pagamento di rate, mutui, bollette, affitti). E ancora (il che
non è un dato negativo) aumentare i controlli nel caso di pensioni di reversibilità per controllare che
i beneficiari ne abbiano effettivo diritto. Diritto che però non si estende nè alla rivalutazione degli
assegni, nè ai famosi 80 euro promessi ormai a tutti nella più squisita tradizione della propaganda
elettorale, pur sapendo, ormai tutti, che difficilmente si troveranno le coperture.
Peccato che, con la soppressione dell’Inpdap e dell’Enpals (anch’essa aggregata al carrozzone
Inps) gli organismi dirigenziali dei sue enti sino stati “integrati” con quello dell’ente di previdenza,
in qualità di rappresentanti, appunto, degli enti soppressi. Ci sarebbe da chiedersi perchè
rappresentare un ente che, di fatto non esiste. Anche qui una risposta fin troppo semplice (ed è la
terza): per rispettare il poltronificio che gli enti vari e i loro governi hanno sempre rappresentato.
Strano come a problemi complessi spesso si contrappongano risposte particolarmente facili…
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http://www.sienafree.it/
Mps, Valentini: ''Preoccupazione per l'esito
degli stress test: paghiamo ancora gli anni di
gestione scellerata''
Domenica 26 Ottobre 2014 16:24 foto di Alessia Bruchi
“Ai disastri del passato si sono aggiunte strategie che non hanno dato i risultati attesi”
“Stiamo pagando ancora gli anni di una gestione scellerata, che ha dilapidato un patrimonio
plurisecolare”. Non usa mezze parole il Sindaco Valentini per commentare l’esito negativo del
comprehensive assessment, un’altra tegola abbattutasi su Banca M.P.S. e, indirettamente, sulla Toscana.
“Una gestione - continua Valentini - fatta di affarismo senza scrupoli e scommesse imprudenti, confermata
in tutta la sua brutalità dalla pubblicazione degli stralci di interrogatori del processo M.P.S. Oggi, con
enormi difficoltà, le istituzioni senesi stanno cercando di superare i danni prodotti in quel periodo buio
della nostra storia. Adesso è iniziato un nuovo corso: la politica non condiziona più la gestione della Banca
mentre la Fondazione, che dove confermare il patto di sindacato, sta delineando uno spazio per il futuro
coerente con le proprie finalità istituzionali. E’ finito, comunque, il tempo della politica pervasiva.
In questo momento l’attuale adeguatezza patrimoniale della Banca per la normale operatività potrebbe
scontare le eventuali criticità legate ad un peggioramento del contesto economico nazionale ed
internazionale.
In questi due anni la Banca ha lavorato per recuperare una situazione fortemente
compromessa, insistendo molto sul taglio dei costi e sul rafforzamento patrimoniale. Ma, evidentemente,
tutto questo non è stato sufficiente e della situazione ancora negativa l’attuale management deve dare
spiegazione. Ai disastri del passato si sono aggiunte strategie che non hanno dato i risultati attesi. La pulizia
dei conti e i sacrifici, la maggior parte dei quali sopportati dai dipendenti, in mancanza di un adeguato
recupero di redditività, non bastano. Viene da domandarsi, poi, come sia possibile che questa ulteriore
difficoltà si presenti proprio dopo il consistente aumento di capitale di pochi mesi or sono e dopo che la
Banca ha restituito gran parte dell’oneroso debito allo Stato, circa tre miliardi di euro.
A tutto questo si aggiunge l’eccessiva rigidità dell’Europa: in una fase delicata come quella attuale,
costringere le banche ad adeguamenti patrimoniali forzati e troppo rapidi significa compromettere il
finanziamento della ripresa e danneggiare il tessuto economico del Paese.
Oggi - continua Valentini - l’aspetto che sento di sottolineare con forza è che Mps è la terza Banca italiana
e la prima azienda toscana. E’ questo il cuore della questione: la vicenda riguarda l’intero Paese e il
Governo non può stare a guardare”.
Sul futuro di Mps il Sindaco sottolinea che “la rete delle filiali e i dipendenti devono essere i protagonisti
del rilancio della Banca. Occorre che l’azienda e i lavoratori vengano tutelati. Ci sono, infatti, ancora le
condizioni per tentare di mantenere l’unitarietà organizzativa delle banca, evitando qualsiasi processo di
disgregazione.
Forte preoccupazione - conclude Valentini - è questo il mio attuale stato d’animo in attesa delle misure che
il vertice della Banca deve assolutamente comunicare quanto prima”.
Banca Mps commenta i risultati di
Comprehensive Assessment
Domenica 26 Ottobre 2014 16:04 foto di Alessia Bruchi
"I risultati dell’esercizio di Comprehensive Assessment hanno confermato la solidità della
struttura patrimoniale di Banca Monte dei Paschi di Siena"
"E’ stato superato anche lo stress test “Scenario di Base”, con un CET1 che, nell’ambito
dell’esercizio, risulta pari all’ 8,8% a fronte di una soglia dell’8,0%. Non è invece stato
superato lo “Scenario Avverso” dello stress test al 2016, che evidenzia un deficit di €2,1
miliardi, al netto delle azioni già implementate"
"Il Cda di BMPS riunito nella giornata di ieri ha preso atto dei risultati dell’esercizio di CA
condotto dalla Banca Centrale Europea (“BCE”) e dall’European Banking Authority (“EBA”). Per
ben comprendere la portata dei risultati - informa una nota ufficiale di Banca Monte dei Paschi di
Siena -, si ritiene utile evidenziare preliminarmente la differenza concettuale tra la procedura
dell’AQR e quella dello Stress Test.
L’AQR è stato svolto applicando un approccio “point in time” sulla base dei dati contabili
confluiti nel bilancio chiuso al 31 dicembre 2013. Diversamente, gli Stress Test (nella duplice
componente Scenario base e avverso) sono stati effettuati con una logica “forward looking”
finalizzata alla valutazione della solidità del patrimonio della banca in teorici scenari prospettici
peggiorativi, senza alcun riferimento ai dati e ai parametri valutativi assunti a base per la
formazione del bilancio.
Ulteriore componente del CA, da distinguere rispetto alle precedenti, è il c.d. “Join-up”, che ha
integrato l’AQR con gli Stress Test assumendo, ai fini di questi ultimi, non il CET 1 effettivo al 31
dicembre 2013 determinato sulla base dei dati di bilancio, bensì un valore teorico di CET1
determinato dalla BCE rettificando il dato che risulta dall’AQR.
Rispetto al CET1 iniziale di €8.504 milioni e la soglia del 5,5% pari a €4.177 milioni, il risultato
finale del CA riguardante MPS evidenzia un deficit di capitale regolamentare pari a €2.111 milioni,
al quale concorrono:
- la componente relativa all'AQR di -€2.851 milioni;
- la componente relativa allo Scenario avverso 2016 dello Stress Test pari cumulativamente a €5.243 milioni;
- il Join-up pari a -€483 milioni;
- le azioni di mitigazione pari a €2.139 milioni (includendo l’aumento di capitale di €5 miliardi, al
netto del rimborso di €3 miliardi degli aiuti di Stato sotto forma di NSF, e la rivalutazione della
quota di partecipazione in Banca d’Italia).
La componente relativa all’AQR deriva dall’applicazione di standard di classificazione e di
valutazione stabiliti dalla BCE per finalità di vigilanza prudenziale, basati sull’applicazione
conservativa di criteri valutativi e di metodologie anche statistiche non sostitutive di quelli derivanti
dai principi contabili.
Secondo quanto precisato dalla BCE, la componente di €2.851 milioni relativa all’AQR è da
ricondurre sostanzialmente a: "I principali fattori che hanno avuto un impatto sui risultati dell'AQR
sono state le rettifiche su crediti aggiuntive riferite alla Credit File Review ("CFR”) e dovute ai
significativi livelli di riclassifiche da bonis a deteriorati, e all'impatto della proiezione statistica sul
resto del portafoglio crediti determinato in base a tali rettifiche analitiche. Il livello di
accantonamenti collettivi ha anch'esso avuto un impatto rilevante. La qualità degli attivi della Banca
è ancora influenzata dalla politica creditizia espansiva adottata in anni recenti (2008-2010), dalla
scarsa qualità (sotto la media) del portafoglio crediti della ex-Antonveneta e il basso livello degli
standard di erogazione del credito verso parti correlate e il territorio di riferimento."
In particolare, in sede di AQR è stato esaminato un portafoglio complessivo di oltre €100
miliardi di posizioni creditizie, di cui €73 miliardi Corporate e €27 miliardi Retail e Small Business.
L’esercizio è stato condotto in modo analitico attraverso la CFR su circa 950 posizioni
Corporate, per una esposizione complessiva pari a circa €16 miliardi, di cui circa €9 miliardi in
bonis e circa €7 miliardi deteriorati. Tale analisi ha determinato un impatto patrimoniale negativo di
€759 milioni.
La proiezione statistica del risultato della CFR sul restante portafoglio Corporate selezionato,
pari a circa €57 miliardi, ha comportato un ulteriore impatto di €1.474 milioni, nonché un effetto
negativo aggiuntivo di €574 milioni relativo al potenziale incremento del livello di copertura dei
crediti in bonis inclusi nel portafoglio stesso.
Un ulteriore impatto negativo di €44 milioni si riferisce all’analisi di strumenti finanziari
complessi e altre attività valutati al Fair Value, del valore complessivo di circa €650 milioni.
Infine, nessun impatto è derivato dall’analisi dei portafogli Retail e Small Business.
L'effetto combinato del solo AQR e delle azioni di mitigazione già implementate portano il
CET1 phased-in dell’esercizio al 9,5%, ben al di sopra della soglia richiesta del 8,0%. Risulta,
quindi, coerente il dimensionamento del recente aumento di capitale di €5 miliardi che ha
consentito di rafforzare il bilancio della banca in vista di questo severo scrutinio della qualità dei
suoi attivi.
Anche il Join-up e l’applicazione dello Scenario base non generano deficit, con il CET1
dell’esercizio che si attesta a 8,8%.
Il deficit di €2.111 milioni è quindi da mettere in relazione alle modalità di svolgimento e le
assunzioni dello Scenario avverso dello Stress Test, che peraltro si discostano in misura
significativa da quelle applicate dalla Commissione Europea nel valutare il Piano di
Ristrutturazione approvato dalla medesima.
Il deficit non riflette fatti reali che incidono sulla solvibilità della Banca - prosegue la nota Mps
-, ma è volto a rappresentare l’impatto sui ratios patrimoniali prospettici di determinati scenari
ipotetici estremamente negativi, aggiungendolo al già severo scrutinio della qualità degli attivi
creditizi al 31 dicembre 2013 oggetto di AQR.
Va ricordato che BMPS ha definito un Piano di Ristrutturazione approvato dalla Commissione
Europea con decisione del 27 novembre 2013, in ragione degli aiuti di Stato ricevuti nel corso del
2013.
Nel periodo intercorso tra la seconda metà del 2011 e il primo semestre del 2013 BMPS ha
infatti attraversato una profonda crisi finanziaria e reputazionale dovuta ad alcune condizioni
specifiche della Banca, le cui conseguenze sono state aggravate dalle avverse condizioni di mercato,
e che ha comportato seri problemi di struttura patrimoniale, forti tensioni di liquidità e pesanti
implicazioni reddituali, legate in particolare al peggioramento della qualità del suo attivo creditizio.
L’operato dell’attuale gestione ha permesso a BMPS di effettuare:
- un sostanziale deleverage di oltre €45 miliardi, rispetto a un attivo di oltre €240 miliardi a fine
2011;
- accantonamenti per perdite su crediti per circa €6,6 miliardi dal 2012 al 30 giugno 2014;
- una riduzione dei costi operativi della Banca per oltre €760 milioni (da fine 2011 – 1S14
annualizzati);
- un aumento delle commissioni di wealth management di circa €200 milioni.
Queste azioni hanno consentito alla Banca di recuperare la fiducia della clientela e di affrontare
nuovamente il mercato, effettuando con successo un aumento di capitale di €5 miliardi. Tale
ricapitalizzazione ha permesso di rimborsare €3 dei €4 miliardi di NSF ricevuti, di aumentare la
dotazione patrimoniale, di migliorare la qualità complessiva del patrimonio e di determinare anche
uno strutturale cambiamento dell’azionariato della Banca.
La dimensione e la tempistica dell’aumento di capitale sono chiaramente stati concordati con le
Autorità di Vigilanza e sono stati definiti in ragione del Commitment preso nel Piano di
Ristrutturazione di rimborsare quell’ammontare di NSF entro il 31 dicembre 2014, nonché della
necessità di dotare la Banca di un buffer patrimoniale che potesse far fronte anche alle esigenze
eventualmente scaturenti dal CA.
Al fine di valutare meglio i risultati del CA Scenario avverso, è opportuno tenere in
considerazione lo scopo del Piano di Ristrutturazione, cioè ristabilire la redditività e solidità
patrimoniale della Banca in un ragionevole orizzonte temporale, partendo da una situazione di
notevole difficoltà che ci rende esposti agli impatti di uno scenario macroeconomico
particolarmente avverso. Va inoltre specificato che per la prima volta il risultato di uno Stress Test è
stato integrato con un esame della qualità degli attivi creditizi e quindi ha ulteriormente aggravato il
risultato finale per BMPS.
Venendo più specificamente allo svolgimento dello Stress Test, sebbene nello Scenario avverso
la BCE abbia modificato le proiezioni di conto economico prospettiche contenute nel Piano di
Ristrutturazione della Banca anche per riflettere talune mitigazioni quali (i) i benefici
potenzialmente derivanti dall'accesso alle aste settimanali di rifinanziamento della BCE nel periodo
2014-2016 e (ii) l'inclusione nel margine di interesse del c.d. effetto di discount unwinding sulle
sofferenze nello stesso periodo, di seguito si riassumono gli elementi che risultano maggiormente
sintomatici dell’approccio adottato e con le maggiori conseguenze, tali da determinare quasi
interamente il deficit:
1. Rimborso dei NSF. Nello Scenario avverso la BCE non ha considerato gli effetti dell’eventuale
mancato rimborso di €750 milioni di aiuti di Stato residui (sul totale di circa €1,1 miliardi), che
costituisce una delle possibili misure implicite di contingency incluse nel Piano di Ristrutturazione.
L’effetto è estremamente penalizzante perché a fronte di una grave situazione di crisi è ipotizzato
che BMPS sia costretta ad effettuare un rimborso che ne indebolirebbe ulteriormente la dotazione
patrimoniale.
2. Commissioni. Nel contesto dello Scenario avverso non è stato tenuto conto della trasformazione
in corso del modello di business della Banca, maggiormente focalizzato sui ricavi da servizi,
appunto le commissioni, che sul margine d’interesse. E’ stato invece applicato un criterio di stress
completamente basato sull’utilizzo di dati reddituali basati su medie storiche, che non ha consentito
di incorporare le azioni di business previste dal Piano di Ristrutturazione in corso di realizzazione,
quali, ad esempio: il passaggio nel settore del credito al consumo dall’intermediazione diretta alla
distribuzione di prodotti di terzi (peraltro sulla base di un accordo già in essere), o il contributo ai
conti economici futuri riveniente dalla cosiddetta Commissione di Istruttoria Veloce, non presente
fino alla fine del 2013 e quindi non inclusa nella metodologia BCE.
3) Cura dei crediti deteriorati. Nell’andamento del credito problematico non è stato consentito di
tenere alcun conto degli effetti migliorativi sulla qualità e sul costo del credito derivanti dalle azioni
di cura dei crediti deteriorati previste dal Piano di Ristrutturazione, laddove, come detto, il
miglioramento della qualità del credito costituisce uno dei punti fondanti del medesimo.
Il Consiglio di Amministrazione di BMPS ha avviato l’esame delle potenziali azioni da includere
nel Capital Plan che verrà sottoposto all’approvazione delle Autorità di Vigilanza entro i termini
previsti dalla normativa. Le conseguenti modifiche del Piano di Ristrutturazione della Banca, già
approvato dalla Commissione Europea, saranno subordinate all’approvazione da parte della stessa.
In aggiunta a quanto sopra, il Consiglio di Amministrazione della Banca ha altresì nominato UBS
e Citigroup quali advisors finanziari della Banca per la strutturazione e l’implementazione delle
azioni di mitigazione sopra indicate afferenti al Capital Plan, nonché per valutare tutte le opzioni
strategiche a disposizione della Banca".
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http://scenarieconomici.it/
ottobre 26, 2014 posted by Jean Sebastien Lucidi
Durante il discorso dei famosi mille giorni Renzi affermò in merito agli imminenti stress test
(http://scenarieconomici.it/dal-discorso-dei-mille-giorni-emersa-verita-sui-fondi-salva/)
”Sono convinto che negli stress test le banche italiane saranno più forti di altre europee”
Bene ad oggi due banche italiane necessitano una ricapitalizzazione di 2.9MLD rispettivamente per
la banca toscana di sinistra (2.1mld oltre le attese) e l’altra di (800 mln circa).
Ed in misura minore altre sette banche italiane, secondo l’EBA l’autorità bancaria europea, la
situazione patrimoniale delle nove banche italiane che non hanno superato gli stress test potrebbe
peggiorare in concomitanza con il deterioramento dell’economia nazionale (cosa ovviamente
scontata) per un ammontare di 35 mld in termini di capitale, come affermato da Vitor Constancio
vice della BCE.
In questo scenario non rassicurante per le finanze italiane l’orizzonte che si andrebbe a delineare
sarebbe una acquisizione da parte di banche magari tedesche su quelle italiane bocciate dagli stress
test, oppure si potrebbe delineare a mio avviso un’ altra operazione “Bella Ciao” ovvero
un’ulteriore ricapitalizzazione con soldi pubblici di quelle banche bocciate, analogamente a quanto
avvenuto con le rivalutazioni delle quote di Bankitalia da 156 mila euro a 7.5 mld nel gennaio di
quest’anno approvate in parlamento dove i parlamentari del PD per festeggiare magari la cosa,
hanno cantato appunto Bella Ciao…
Il paradosso che la frettolosa rivalutazione delle quote di Bankitalia è stata pianificata proprio al
fine di affrontare gli stress test previsti per l’anno corrente, per il fatto che l’istituto di credito
nazionale è ormai privatizzato e partecipato da banche private italiane.
In sostanza, la situazione patrimoniale delle banche bocciate dai suddetti stress test potrebbe
peggiorare come già descritto, con l’andamento negativo dell’economia nazionale. Ed a contribuire
a questo trend negativo, potrebbero essere eventuali ”salvataggi” stessi di queste banche con soldi
pubblici…
Apro una parentesi ricordando che fino al 2008 tutti i debiti pubblici di Spagna, Grecia ed Italia
erano in calo, poi hanno iniziato a decollare per i famosi salvataggi al sistema finanziario, additando
la colpa del debito pubblico ai mal costumi della popolazione…
Forse, il fatto di far parte dell’ eurozona che NON permette le famose nazionalizzazioni degli
istituti bancari in crisi non avrà un suo peso non indifferente?
Per adesso la cronaca ha mostrato invece che le uniche banche a godere un ottimo stato di salute
sono proprio quelle NON appartenenti all’eurozona http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-emercati/2014-10-26/eba-tutte-promosse-banche-extra-eurozona-bene-inglesi-e-svedesi–
132105_PRV.shtml?uuid=ABHiFx6B (mentre quelle dalla zona euro sono 25 le bocciate) magari
per il fatto che sussiste il rischio cambio per gli Stati che detengono moneta sovrana, queste non
hanno accumulato grosse esposizioni e che comunque hanno a le spalle le loro rispettive banche
centrali, oltre a godere di una sana economia non depressa dalle logiche assurde dell’eurozona.
Ma la morale dell’euro purtroppo si riassume nella famosa citazione di Ettore Petrolini in Nerone e
il Popolo: “Bisogna prendere il denaro dove si trova: presso i poveri. hanno poco, ma sono in tanti.
E anche in questo caso, sentiremo le note di Bella Ciao…
Ps. Ma la famosa banca tedesca piena di titoli tossici per
un ammontare di circa 53 trilioni di euro (20 volte il pil
tedesco) non dovrebbe essere bocciata dagli stress test
come Pierino agli esami?
O quella banca tedesca gode immunità tipo ” Lodo
bancario” ?
Jean Sebastien S. Lucidi
ottobre 26, 2014 posted by Antonio Rinaldi
La consulta ribadisce la via che
potrebbe far saltare i Trattati.
La recente sentenza della corte costituzionale italiana in merito alle azioni di risarcimento a
carico del governo tedesco per le stragi compiute nel periodo bellico aprono nuovi scenari sui
controlimiti costituzionali ai trattati internazionali.
Lucida analisi tecnica interpretativa di Luciano Barra Caracciolo, presidente di sezione del
Consiglio di Stato.
In molti si sono accorti della sentenza n.238 del 23 ottobre 2014 della Corte costituzionale.
Tale sentenza, nella sua parte di accoglimento:
1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3 della legge 14 gennaio 2013, n. 5 (Adesione
della Repubblica italiana alla Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali
degli Stati e dei loro beni, firmata a New York il 2 dicembre 2004, nonché norme di
adeguamento dell’ordinamento interno);
2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 17 agosto 1957, n. 848
(Esecuzione dello Statuto delle Nazioni Unite, firmato a San Francisco il 26 giugno 1945),
limitatamente all’esecuzione data all’art. 94 della Carta delle Nazioni Unite, esclusivamente
nella parte in cui obbliga il giudice italiano ad adeguarsi alla pronuncia della Corte
internazionale di giustizia (CIG) del 3 febbraio 2012, che gli impone di negare la propria
giurisdizione in riferimento ad atti di uno Stato straniero che consistano in crimini di guerra e
contro l’umanità, lesivi di diritti inviolabili della persona.
In sostanza, viene rimossa la norma nazionale che rendeva inammissibile, con difetto assoluto di
giurisdizione interna, l’esame delle domande di risarcimento, per le stragi delle truppe tedesche in
territorio italiano, proposte contro la Repubblica federale tedesca.
Tale norma era stata introdotta, dal governo Monti, come recepimento di una norma di diritto
internazionale generale (cioè, consuetudinario, ma “emergente” nell’art.94 della Carta ONU), nel
senso di ribadire l’immunità degli Stati, per atti jure imperii – quelli imputabili alla sfera pubblicapolitica in cui rientra l’azione militare degli Stati occupanti-, quand’anche risultassero lesivi di
diritti fondamentali della persona e costituissero crimini di guerra.
La Corte nazionale ha sostanzialmente riaffermato che, nonostante tale immunità sia conforme alla
interpretazione fornita dalla Corte Internazionale di Giustizia (CIG), ciò non possa essere ritenuto
legittimo alla luce dei principi fondamentali inviolabili della nostra Costituzione, che, pertanto,
prevalgono e rendono illegittima la norma così introdotta e, in tale parte, la legge di esecuzione.
Questo uno dei passaggi più significativi della sentenza:
“Non v’è dubbio, infatti, ed è stato confermato a più riprese da questa Corte, che i principi
fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona costituiscano un
«limite all’ingresso […] delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali
l’ordinamento giuridico italiano si conforma secondo l’art. 10, primo comma della Costituzione»
(sentenze n. 48 del 1979 e n. 73 del 2001) ed operino quali “controlimiti” all’ingresso delle norme
dell’Unione europea (ex plurimis: sentenze n. 183 del 1973, n.170 del 1984, n. 232 del 1989, n. 168
del 1991, n. 284 del 2007), oltre che come limiti all’ingresso delle norme di esecuzione dei Patti
Lateranensi e del Concordato (sentenze n. 18 del 1982, n. 32, n. 31 e n. 30 del 1971). Essi
rappresentano, in altri termini, gli elementi identificativi ed irrinunciabili dell’ordinamento
costituzionale, per ciò stesso sottratti anche alla revisione costituzionale (artt. 138 e 139 Cost.: così
nella sentenza n. 1146 del 1988).”
Se quanto così affermato vale rispetto al diritto internazionale generale di cui all’art.10 Cost., a
maggior ragione opera come limite al diritto internazionale “da trattato”, ancorché “europeo”, che è
fonte di rango inferiore, in Costituzione e nel diritto internazionale, rispetto al d.i. “generale”.
L’affermazione è compiuta con una “nettezza” che non lascia equivoci.
L’argomento sollevato da questa “forte” presa di posizione della Corte costituzionale, diviene allora
ancor più di scottante attualità nella sua proiezione verso le norme europee, secondo l’approccio
esaminato su questo post e nel libro “Euro e/o democrazia costituzionale”.
Come prima verifica delle sue implicazioni sulla (il)legittimità costituzionale del “vincolo esterno”,
il tema verrà affrontato, a Roma, nel convegno del prossimo 8 novembre 2014, promosso da
Riscossa Italiana e accreditato presso l’Ordine degli avvocati di Roma (nonché in corso di
accreditamento presso l’Ordine dei commercialisti).
Il convegno si svolgerà presso l’Aula Magna della Chiesa Valdese, via Marianna Dionigi n.59, dalle
10,00 alle 17,00.
Sarà un momento di verifica e di riflessione di grande importanza nel cercare una via costituzionale
di salvezza italiana dalla crisi apparentemente irreversibile in cui, obiettivamente, l’ha piombata
l’adesione al “disegno europeo”, che si sta rivelando tutt’altro da quello che è stato raccontato agli
italiani per decenni.
Ecco la locandina del convegno, che si avvarrà del contributo di importanti relatori, tra cui il prof.
Antonio M. Rinaldi, i presidenti di Sezione del Consiglio di Stato Salvatore Giacchetti e Luciano
Barra Caracciolo, il professor Cesare Pozzi ed il consigliere di Stato Vito Poli (NB: per i non
appartenenti agli ordini non occorre prenotazione per attestazione, ma gli stessi possono mandare
una mail alla info di Riscossa Italiana indicata nella stessa locandina):
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http://www.rischiocalcolato.it/
Dopo Equitalia, le
nostre tasse in Gran
Bretagna?
Di L'indipendenza
25 ottobre 2014
Grandi cambiamenti attraversano già da qualche tempo il settore della riscossione dei tributi locali.
Dopo l’annunciata riforma dello scorso luglio, e avvicinandosi l’ennesima scadenza dell’ultima
proroga concessa a Equitalia per l’esclusiva del servizio di riscossione tributi in oltre 4mila comuni,
sembra proprio che il destino del colosso che ha turbato i sonni di milioni di italiani sia ormai
inevitabilmente segnato.
A quanto pare infatti è sempre più vicino l’accordo della Serti spa, “rivale” di Equitalia, con Conset,
agenzia inglese che pare sempre più decisa ad acquistare il 40% delle quote della romana Serti. Un
business, quello della riscossione tributi in Italia, che sta attirando molti investitori stranieri, perché
considerato sicuro e ad ampio margine di rientro, addirittura destinato a subire un’impennata. Già,
perché allo scadere della proroga concessa a Equitalia (scadenza prevista per il 31 dicembre 2014), i
Comuni e gli altri enti locali si troveranno a dover “scegliere” a quale società affidare l’ingrato
compito della riscossione tributi, ovvero, saranno tenuti a bandire una gara d’appalto, alla quale
potranno partecipare le principali aziende private che lavorano nel settore e che sono iscritte all’albo
dei gestori dell’accertamento e della riscossione dei tributi locali.
E tra queste si farà avanti senza dubbio la Serti, che, se
tutto va come deve, sarà per dicembre di quest’anno già
“gemellata” alla inglese Conset. Con ottime probabilità di
aggiudicarsi buona parte delle gare d’appalto.
(da www.roadtvitalia.it)
Stress Test Europei, Nell’Ennesima Farsa
Europea gli Azionisti di Carige e Banco Monte
Paschi Saranno Azzerati (di nuovo)
26 ottobre 2014
Partiamo dalla notizia, dal Fatto Quotidiano:
Venticinque istituti “rimandati”. Tra cui gli italiani Monte dei Paschi di Siena e Carige. Le
“pagelle” della Banca centrale europea sulle 130 maggiori banche dell’area euro sono arrivate,
insieme ai risultati degli stress test della European banking authority. E il verdetto non si discosta
dalle indiscrezioni degli ultimi giorni. A sorprendere, semmai, è l’ammontare dello sforzo
aggiuntivo richiesto alle banche italiane: Montepaschi, ha comunicato la Banca d’Italia, ha bisogno
di un ulteriore rafforzamento del capitale da 2,1 miliardi, mentre a Carige servono altri 814
milioni per superare lo scenario avverso degli stress test Bce……
Allora cari azionisti del Monte dei Pacchi e di Carige ci sono due scenari per voi:
1. Quello buono: ovvero una aggregazione/spezzatino forzato che “forse” se avete culo
potrebbe pure fare emergere valore e fare salire i prezzi delle vostre azioni, ma non ci
scommetterei troppo.
2. Quello devastante (e probabile): ovvero un altro aumento di capitale, oppure una
acquisizione a prezzi giustamente stracciati ovvero che tengano conto dell’ulteriore BUCO
da coprire.
Diciamo che non mi dispiace NON essere fra voi… ecco per usare un eufemismo.
Ah a propositi indovinate quale nazione ha più banche scassate…. dal Sole 24 ore
Tutti e 25 questi istituti (oltre alle 9!!!! banche italiane, ce ne sono 3 greche, 3 cipriote, 2 slovene,
2 belghe, una ciascuno di Germania, Francia, Spagna, Portogallo, Irlanda e Austria) dovranno
comunque presentare un piano di rientro entro il 10 novembre, nel quale illustreranno gli aumenti di
capitale già fatti e altre misure, come dismissioni di attivi e utili non distribuiti, che dovranno essere
convalidate dalla Bce. I 13 tuttora inadempienti dovranno inoltre specificare come intendono
riportarsi sopra i valori richiesti con operazioni da realizzarsi nei prossimi nove mesi.
814 milioni di euro per Carige significa un aumento di
capitale pari a circa il 90% della attuale capitalizzazione
di borsa (900mil)….. no cosi’ per dire….
p.s.
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http://www.opinione.it/
Un “avvertimento” fin troppo scontato
di Claudio Romiti
A fronte della surreale legge di stabilità predisposta dal governo Renzi, era più che scontata una
decisa presa di posizione dell’Europa, espressa a chiare lettere dal commissario uscente, Barroso.
Così come scontata doveva essere, e così è stata, la reazione piccata del nostro spregiudicato
Presidente del Consiglio. Una reazione dagli insopportabili toni demagogici, con cui egli vorrebbe
spacciare i suoi sempre più evidenti contrasti con la linea rigorista dell’Europa – che non intende
finanziare la crescita con altri debiti – per una lotta senza quartiere contro le cattive burocrazie di
Bruxelles. Ed è essenzialmente questo l’elemento dirimente, già peraltro emerso alcuni mesi
addietro all’atto di insediamento della presidenza italiana dell’Ue, per comprendere la ragione di
fondo di tali contrasti, al netto dell’insopportabile propaganda renziana.
In estrema sintesi, l’Europa valuta con crescente preoccupazione la linea economica di un Esecutivo
il quale, per evidenti scopi elettoralistici, sta mettendo in campo tutta una serie di misure espansive,
regalando bonus a destra e a manca, senza aver posto a regime uno straccio di riforma strutturale in
grado di riequilibrare nel tempo i nostri disastrati conti pubblici, unico prerequisito, quest’ultimo,
per poter transitoriamente sforare i limiti del deficit.
Per dirla fuor di metafora, Barroso e soci si sono accorti che l’essenza della politica impostata
dall’ex sindaco di Firenze si basa sul raschiare il barile della fiscalità occulta e dei prestiti, onde
allargare i confini di quell’insostenibile redistribuzione delle risorse che sta mandando in bancarotta
l’Italia. Un Paese, occorre ricordare, in cui la mano pubblica spende circa 11 punti di Pil più della
Germania, all’interno di uno scenario dominato dall’assenza di crescita e di galoppante
disoccupazione.
Dunque, come poteva tacere L’Europa di fronte ad un signorino il quale, con faccia strafottente, si
presenta con una manovra dalle coperture ballerine, che in soldoni presuppone di rilanciare lo
sviluppo aumentando i costi complessivi del sistema Italia? Una manovra dai contorni molto oscuri,
soprattutto dal lato dei tagli alla spesa pubblica, il cui impianto è a mio avviso destinato a portare il
bilancio dello Stato ben oltre il già contestato tetto del 2,9 per cento di deficit, determinando i
presupposti per un’ennesima fuga dai titoli del nostro colossale debito sovrano. Dopodiché Renzi e
il successore di Barroso dovranno per forza di cose rivedersi a Filippi.
Il Comitato Helsinki per i diritti umani
di Domenico Letizia
Tra la diffusione e la creazione di varie Organizzazioni Non Governative, la creazione dei
“Comitati Helsinki” in tutta Europa, Usa, Russia e Asia Centrale ha ribadito storicamente la
necessità e la prioritaria tutela dei diritti umani in tutto il globo. Il Comitato Italiano Helsinki per i
diritti umani fu fondato a Roma nel 1987, su suggerimento del Presidente dell’allora IHF International Helsinki Federation -, Karl von Schwarzenberg. Tra i fondatori e i primi aderenti vi
furono: Ennio de Giorgi, Sergio Mercanzin, Antonio Stango, Francesco Rutelli, Paolo Ungari, Carlo
Ripa di Meana e Jiri Pelikan.
Il Comitato Italiano da allora svolge analisi, dibattiti, campagne d’informazione, ricognizioni in
zone dove la democrazia risulta precaria e poco sviluppata, promuove iniziative parlamentari,
contribuisce all’osservazione di processi sociali, al monitoraggio di elezioni, redige rapporti e li
diffonde. Come altri Comitati Helsinki, esercita un’attenta azione di lobbying per i diritti umani
presso istanze statali e internazionali, sostiene l’istituzione e il funzionamento della Corte Penale
Internazionale nell’ambito del sistema delle Nazioni Unite e l’abolizione della pena di morte in tutto
il mondo.
I suoi membri partecipano frequentemente all’annuale “Human Dimension Impleamentation
Meeting” dell’Osce a Varsavia, al Consiglio per i Diritti Umani a Ginevra, ad incontri al
Parlamento Europeo e al Consiglio d’Europa. Nelle sue attività, il Comitato collabora con numerose
istituzioni e con altre organizzazioni non governative, fra le quali la Lega Italiana dei Diritti
dell’Uomo, Nessuno Tocchi Caino, e Amnesty International. L’attuale Segretario del Comitato
Italiano Helsinki per i diritti umani è il politologo, attivista ed editorie, nonché membro di segreteria
del Partito Radicale Nonviolento transnazionale e transpartito, Antonio Stango.
Molte le campagne portate avanti nel corso di questi ultimi anni come il Primo Simposio Nazionale
sull’etica dei trapianti, durante il quale si è denunciata la pratica di abuso e vendita di organi umani
da parte delle istituzioni cinesi nei confronti sia dei detenuti che delle minoranze etniche e religiose,
la Conferenza Internazionale sul tema “Protezione della popolazione civile nei conflitti armati”,
durante la quale si è ricordato il massacro della città di Khojaly, nella regione del Nagorno
Karabakh, ove nel 1992 si perpetuò un massacro della popolazione civile azerbaigiana ad opera
delle forze armate dell’Armenia, il convegno “Dalla guerra fredda alla ridefinizione dell’Europa”
tenutosi a Sacile il 14 ottobre durante il quale si è analizzato l’attuale situazione Ucraina come
conseguenza di quel processo storico che risponde all’aspirazione di tanti Ucraini a guardare al
modello Europeo come riferimento del proprio futuro economico, politico e sociale.
Il Comitato intende, inoltre, contribuire allo studio delle violazioni dei diritti umani commesse,
sistematicamente, con statistiche allarmanti, dalla criminalità organizzata e pianificata a livello
internazionale, come nel caso del traffico di persone e della riduzione in schiavitù.
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http://www.loccidentale.it/
Primavera demografica
Perché all'Italia serve un
"Family Act"
di Bernardino Ferrero
26 Ottobre 2014
Se, come sembra, nei prossimi decenni l'Europa dovesse rassegnarsi al binomio bassa crescita/bassa
natalità, per le classi dirigenti continentali diventa allora strategico favorire in tutti i modi politiche
che esaltino il ruolo e la funzione della famiglia tradizionale nella nostra società.
Non perché si voglia impedire altri tipi di convivenze, a cui pure vanno riconosciute delle tutele, ma
perché il trend a cui bisogna opporsi con tutte le forze è il declino della fertilità, della generazione,
in una parola della vita. Lo scenario globale indica purtroppo che molte nazioni, interi continenti,
rischiano di suicidarsi proprio perché le famiglie non fanno più figli.
Oggi 1/4 dei giapponesi ha più di 65 anni, mentre gli under 14 sono il 13 per cento della
popolazione. In Russia, nel 2013 il numero dei bambini abortiti ha superato la cifra dei
nati; secondo L'Onu la Federazione entro la fine del secolo potrebbe piombare da 90 a 20 milioni di
persone. Negli Stati Uniti degli anni '50 c'erano 16 lavoratori per ogni pensionato, oggi ce ne sono
3.
La denatalità è un fenomeno grave che va affrontato con buonsenso perché sta avendo e avrà effetti
sempre più dirompenti sul welfare (dai bambini alle madri ai nonni). Sgravi fiscali e bonus per i
figli sono un primo e importante passo in avanti, che il Nuovo Centrodestra può rivendicare con
orgoglio. Ma occorre fare uno sforzo in più: un "family act" che mobiliti le coscienze e riconosca
alle tante mamme e papà del nostro Paese il ruolo insostituibile che hanno nel progresso della
nazione.
Con gli occhi chiusi
Il divorzio tra sinistra e lavoro (in sette emendamenti)
di Joe Galt
24 Settembre 2014
Storicamente la sinistra si e' sempre fatta vanto di comprendere i cambiamenti del mondo del
lavoro, la mutazione dei modi di produzione, del tempo di lavoro, delle sue mansioni, eccetera
eccetera. Ma leggendo le anticipazioni sugli emendamenti presentati ieri dalla minoranza del Pd
l'impressione e' che si tratti, appunto, di vanterie e che non si riesca a comprendere la potente
rivoluzione sistemica generata dalla globalizzazione. Lasciamo stare la vicenda dell'articolo 18, che
a quanto pare può essere superato ma solo per i primi tre anni e già questo basterebbe a dare la
cifra dello stato confusionale in cui versano gli oppositori di Renzi. Ma come si fa a giudicare il
contratto a tempo indeterminato "la forma privilegiata del contratto di lavoro" nel triennio
quando si sono già liberalizzati i contratti a termine? Va bene disboscare la contrattualistica ma si
può davvero ritenere che in futuro le persone nella loro vita faranno un solo lavoro, sempre lo
stesso ed immutabile? Vi sembra che così va il mondo? Perché mettere dei paletti ai cambi di
mansione nelle imprese visto che il lavoro anche sotto la spinta della innovazione tecnologica si
modifica continuamente? Perché non puntare con più coraggio sul telelavoro, si pensi ai nuovi
lavori del web? Perché "contenere" quello stagionale? E infine perché tutto questo andrebbe
subordinato al discorso sugli ammortizzatori, 4 miliardi di euro secondo Stefano Fassina? Il guaio
di certa sinistra non e' solo e tanto il fatto di ricadere in vecchie logiche ideologiche. L'impressione,
ben più grave, e' che ormai alla sinistra manchi del tutto la capacità politica di comprendere la
dialettica tra capitale, lavoro, reddito, patrimoni, e così via. E a questo punto viene da chiedersi se
dopo gli anni Settanta quella capacità ci sia mai stata o invece, come dire, si sia preferito vivere di
rendita. Ultimi giapponesi in un mondo che si trasformava e che non ha più smesso di farlo.
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26/10/2014
Tutti pazzi per le sofferenze
bancarie
Il mercato delle sofferenze continua ad aumentare e per i fondi è il momento migliore per comprare
Fabio Bolognini
Tratto da "Linkerblog.biz"
Sono tra le poche cose che in Italia stanno crescendo a ritmi superiori al 20%, sono le sofferenze
delle banche italiane cresciute in pochi anni da 40 miliardi a 200.
fonte: Pwc
Una montagna di crediti con scarsa probabilità di recupero integrale diventata l’oggetto del
desiderio di investitori esteri specializzati nei cosiddetti Npl (Non Performing Loans). Li osservano,
li vedono crescere mese dopo mese (anche in agosto al tasso del 20,5%), li valutano e sanno che le
banche italiane prima o poi dovranno disfarsene per ripulire i bilanci. I fondi esteri stanno solo
aspettando che le valutazioni tra chi compra e chi vende si avvicinino, perché sino ad oggi la
distanza eccessiva tra i valori netti scritti dalle banche (dedotto quel 40-55% di rettifiche) e i prezzi
offerti dal mercato era troppo ampia. Un movimento in atto come scriveva anche Prometeia in
questo ottimo articolo del luglio scorso.
fonte: Pwc
Se fossero stati applicati i prezzi di mercato le banche avrebbero subito eccessive minusvalenze nei
bilanci. Questa è quasi certamente la vera ragione che ha impedito la volontà comune di creare una
bad bank italiana, sulle orme della Sareb spagnola: le banche non potevano sopportare altre perdite,
alcune banche avrebbero perso troppo capitale. E proprio l’ipotesi di una bad bank, tornata di moda
recentemente per le aspettative sull’esito degli stress test, è lo spauracchio degli acquirenti di Npl,
che si vedrebbero sottrarre di colpo un ghiotto pasto a cui si stanno preparando da tempo.
Perché il mercato delle sofferenze è così attraente per gli investitori? Prima di tutto perché è
gigantesco, poi perché questo potrebbe essere il momento migliore per comprare, prima che la
ripresa cominci e che risalgano le percentuali di recupero dai debitori, oggi alquanto modeste.
Perciò non stupitevi di leggere che Fortress abbia dichiarato recentemente di volere fare grandi
investimenti in Italia, che lo specialista dell’immobiliare Reag abbia annunciato l’entrata nel
mercato Npl, o che il fondo Tages con Fonspa stia facendo di tutto e di più pur di mettere le mani
sui 3-4 miliardi di sofferenze esplose nel bilancio di Banca Marche. Poi c’è anche Saviotti attende
di rimettere sul mercato Release, la società che contiene tutti i disastri di Italease e Unicredit che ha
messo in vendita la sua bad bank, Uccmb disputata tra cordate di fondi esteri a prezzi che per ora
non sono stati sufficienti a prendere una decisione. Ma la lista è molto più lunga e i valori in gioco
importanti.
La corsa alle sofferenze italiane era già stata segnalata nel 2013 dagli specialisti, e a luglio da un
articolo di Bloomberg Businessweek. Le operazioni stanno cominciando, probabilmente a partire da
portafogli selezionati con maggiori garanzie e più elevata probabilità di recupero.
fonte: Pwc
La fabbrica delle sofferenze continua a sfornarne ogni mese, che sia colpa degli imprenditori poco
abili o delle banche che li hanno fatti indebitare e poi non hanno saputo frenare il tracollo poco
importa. La situazione del sistema bancario italiano è spaventosa, anche a confronto con il resto
d’Europa e alcune banche si segnalano per una posizione estremamente vulnerabile, come mostrano
questi grafici contenuti del rapporto di pwc sul mercato Npl italiano:
fonte: Pwc
Tutte le banche italiane, ad eccezione del virtuoso Credem hanno capitalizzazioni di borsa inferiori
al valore contabile di libro, e la pattuglia tricolore si segnala per valore molto elevati di crediti
deteriorati sul patrimonio tangibile a fine 2013, con la gravissima posizione di Mps in evidenza.
fonte: Pwc
Ma di sofferenze sono imbottite anche le banche di seconda fila e questo grafico mostra la grande
differenza di banche pluri-regionali tra l’eccellente Credem, Banca Marche, Carige e Banca Etruria
notoriamente in difficoltà e le due principali venete. Perciò i fondi aspettano soddisfazioni anche in
provincia, visitando e rivisitando i Cfo delle banche e facendo offerte che non avranno mai
pubblicità né sui prezzi preventivati né su quelli concordati. Forse la combinazione di un’altra
tornata di alte rettifiche e la fine della recessione potranno aiutare a fare esplodere sul serio questo
anomalo e triste mercato.
24/10/2014
I Madoff italiani, è
record di frodi
finanziarie
Con la crisi crescono le frodi contabili e fiscali.
E il truffatore tipo è un top manager
Francesco Cancellato
INDICE ARTICOLO
1.
2.
3.
4.
5.
6.
Con la crisi le frodi aumentano, soprattutto in Italia
In Italia, però, sono segnalate meno frodi che altrove
Controlli e segnalazioni sono in aumento
La corruzione rimane sottostimata
La frode regina? L’appropriazione indebita
Crescono, e tanto, le frodi contabili e fiscali
7. Ma più di tutti cresce il cybercrime
8. Vuoi prevenire una frode? Controlla i dipedenti…
9. …ma soprattutto, stai attento ai piani alti
10. Forse hai subito una frode, ma ancora non lo sai
A volte diventano casi da prima pagina, come quello di Gianfranco Lande, ribattezzato dai giornali
il “Madoff dei Parioli”, condannato in primo grado per aver truffato trecento protagonisti della
Roma bene, tra chirurghi, parlamentari, armatori, registi e attori. Spesso, tuttavia, i casi di frode
economico-finanziaria non guadagnano nemmeno l’onore di una riga. Eppure, sono un problema
molto serio. Sia per chi ne è la vittima. Sia, non va dimenticato, perché la disonestà e l’impunità
sono il miglior deterrente per chi vuole investire nel nostro paese.
La questione delle frodi economico-finanziarie perpetrate ai danni delle imprese – frodi aziendali,
se preferite – è cruciale, in quest’ottica ed è sempre più al centro dell’attenzione di realtà
istituzionali come la Banca d’Italia o l’Olaf (l’ufficio anti frodi dell’Unione Europea), così come di
realtà di consulenza private come Kroll o come Pwc, che ha recentemente dato alle stampe
l’edizione 2014 di un report sul tema, frutto di cinquemila interviste a imprese di tutto il mondo,
Italia compresa. Dei tanti spunti che questa indagine offre, ne abbiamo estratto i dieci più
significativi.
Con la crisi le frodi aumentano, soprattutto in Italia
Per quanto può apparire ovvio, è interessante notare come esista una correlazione piuttosto evidente
tra frodi e congiuntura. L’indagine di Pwc riporta infatti una crescita globale del fenomeno pari al
3% in più rispetto all’anno precedente. Nell’Europa occidentale in stagnazione, questa percentuale
aumenta sino ad arrivare al 5%. Nell’Italia in recessione, infine, aumenta del 6%. Senza voler fare
sociologia spicciola, è facile che nelle difficoltà e nell’insicurezza, a qualcuno possa venir voglia di
approfittarne.
In Italia, però, sono segnalate meno frodi che altrove
Nel 2014, in Italia, quasi un’impresa su quattro tra quelle
intervistate da Pwc ha dichiarato di essere stata vittima di
almeno una frode economico-finanziaria nel corso
dell’anno.
Il 23%, per la precisione. Un numero altissimo, peraltro in forte crescita. Un numero che, tuttavia, è
ancora molto basso rispetto alla media dell’Europa occidentale, che arriva a toccare il 30% e di
quella mondiale (34%). Questo non vuol dire che in Italia siamo più onesti che altrove, visto che da
noi l’economia illegale vale più dell’11% del Pil, percentuale che in Europa non ha eguali, o quasi.
Cosa allora? Forse, i nostri truffatori preferiscono rivolgere altrove la loro attenzione. O forse le
nostre imprese non hanno sistemi di sicurezza interni alle imprese adeguati per scoprirli.
Controlli e segnalazioni sono in aumento
Non disperiamo, tuttavia: insieme alle truffe e alle frodi, sta aumentando anche la consapevolezza
del fenomeno. Un’azienda italiana su due, vittima di frodi economico-finanziarie, ha dichiarato
infatti che la frode è stata intercettata grazie al sistema di controllo interno. Nel 15% dei casi, in
particolare, grazie ad un’attività preventiva di fraud risk management. Anche l’ultimo rapporto
dell’unità d’informazione finanziaria (Uif) della Banca d’Italia rileva come le segnalazioni di frodi,
corruzione e riciclaggio siano aumentate dalle 21.066 del 2009 alle 64.601 del 2013.
La corruzione rimane sottostimata
Tra tutte le tipologie di frodi segnalate in Italia, stupisce che la corruzione sia in fondo alla
classifica. Solo il 13% delle imprese intervistate che hanno subito frodi, infatti, ha dichiarato di
essere stata parte lesa, nell’ultimo anno, di un episodio di corruzione. Strano, per il paese che
secondo il Corruption Perception Index di Transparency International è la maglia nera dell’Europa
occidentale, 69esimo su 177 paesi di tutto il mondo, sopravanzato da realtà come Namibia e
Botswana. È possibile, ad esempio, che negli Stati Uniti d’America vi siano più casi di corruzione
che da noi? Un simile risultato potrebbe figlio della scarsa disponibilità delle aziende rispondenti a
denunciare episodi di corruzione. Oppure, ancora, per la difficoltà di individuare tale tipologia di
frode, poiché in diversi casi la corruzione si nasconde dietro l’erogazione di doni e di omaggi. O,
infine, perché è nascosta da un’altra, precedente, frode, come ad esempio, le fatturazioni fittizie
finalizzate alla creazione di fondi neri destinati alla corruzione.
La frode regina? L’appropriazione indebita
Nel 65% dei casi, la frode economico-finanziaria che subisce un’impresa è quella di appropriazione
indebita. Esempio classico: un dipendente che riscuote somme di denaro per conto dell’impresa e se
le tiene per sé. Una classica frode da impresa manifatturiera o commerciale, per di più tipica delle
piccole realtà che non hanno processi standardizzati e certificati, né meccanismi di controllo
interno. In quest’ambito, peraltro, tutto il mondo è paese.
Crescono, e tanto, le frodi contabili e fiscali
Ciò che preoccupa, semmai, è la crescita tutta italiana delle frodi contabili e fiscali, cresciute in
Italia rispettivamente del 22% e del 13% rispetto al 2011. Anche in questo caso, c’entra molto la
crisi. Non solo perché aumenta la tentazione di spedire i capitali nei paradisi fiscali, per sfuggire
alle maglie del fisco. Spesso, infatti, accade l’opposto: più precisamente, che le aziende decidano di
alterare i bilanci per ottenere finanziamenti dalle banche, rating migliori da parte di agenzie
internazionali che possono condizionare l’andamento del titolo azionario. O anche, molto
banalmente, per permettere ai manager dell’azienda di incamerare premi e bonus.
Ma più di tutti cresce il cybercrime
Alla faccia del digital divide, del ritardo tecnologico, la tipologia di frodi più in crescita in Italia,
così come nel mondo, è quella dei cybercrime. In Italia, con il 22% sul totale, le frodi informatiche
rappresentano la seconda categoria di frode più frequentemente dichiarata, in forte aumento rispetto
al 2011 (+19%). Peraltro, come racconta il report di Pwc «è pure probabile che il fenomeno sia
sottostimato in quanto meno facilmente individuabile da parte delle aziende o talvolta non
volutamente condiviso, ad esempio in caso di violazioni nell’accesso a dati riservati». Dai bancomat
alle carte di credito, dall’eCommerce ai profili online violati, non è difficile immaginare che la
questione diventerà sempre più cruciale, nel prossimo futuro.
Vuoi prevenire una frode? Controlla i dipedenti…
Chi è che truffa le aziende? Solitamente è qualcuno che lavora nell’impresa. Il 61% degli
intervistati che hanno subito frodi, perlomeno, si sono resi conto che il truffatore era uno cui
pagavano regolarmente lo stipendio. Questo non vuol dire che l’unico fuoco di cui preoccuparsi sia
quello amico, però: in quattro casi su dieci il fraudster – così si chiama in inglese – è esterno
all’impresa e due volte su tre è un cliente della stessa. In calo, invece, le truffe da ex dipendenti o
concorrenti.
…ma soprattutto, stai attento ai piani alti
Maschio, tra i 41 e i 50 anni, laureato, senior manager, in servizio nell’azienda da più di 10 anni: è
lui, secondo l’indagine di Pwc il frodatore tipo delle aziende italiane, quello cui ogni imprenditore
dovrebbe con un po’ di diffidenza. Questo perché, banalmente, non è la fame a spingere alla frode,
quanto la competenza. Ciò che spinge un manager a perpetrare i crimini economici è infatti
riconducibile all’opportunità di portare avanti l’evento fraudolento senza essere scoperto. Chi
meglio di un top manager conosce i meccanismi di controllo interno, del resto? Chi più di lui, sa
come far sparire le prove della sua frode?
Forse hai subito una frode, ma ancora non lo sai
Il vero ritardo italiano, rispetto al resto del mondo occidentale, sta soprattutto nell’attività di
smascheramento, controllo e prevenzione delle frodi. Solo un’impresa italiana su cinque attua
azioni di monitoraggio periodico per scovare le transazioni sospette, laddove nell’Europa
occidentale la media è di un’impresa ogni tre. Il problema è serio: in media, una frode su due è
smascherata attraverso strumenti di controllo interno. Questo significa che, se un’impresa non ne
ha, ha una possibilità su due che in questo preciso momento una frode gli stia passando sotto il naso
senza che lo sappia.
Il mondo degli schiavi invisibili
Blog post del 2/10/2014
Parole chiave:
La schiavitù moderna continua ad esistere e a contare un popolo di milioni di
persone, escluse dai sistemi dell'economia formale, intrappolati in un'invisibilità
sconcertante. Frutto di un modello commerciale che esternalizza i costi, a beneficio
del prezzo finale, pagato dalle società ricche, la schiavitù è il pianto di una società
iniqua. In versione inglese, riprodotto dal portale accademico, The Conversation,
un'inchiesta sul mondo del "human trafficking", oggi.
By Terence Tse & Mark Esposito
When Indra Nooyi, chairman and CEO of PepsiCo, was speaking at the World Economic
Forum in Davos in January this year, she called on business leaders and industry
captains to change the dialogue from “what we do with the money we make” to “how we
make the money”. The idea was that companies can run in an ethical way and be
profitable at the same time. Even better, we think, if companies tightly focus their energies
to concentrate on areas where genuine change can be made.
This may sound like old wine packaged in a new bottle – after all, many organisations
have been practising corporate social responsibility (CSR) for a long time, with very little
real impact. This is not that surprising. Such efforts are often a response to external
pressure and are designed to enhance a company’s reputation, rather than re-orient a firm
to make social benefits a part of business decisions. The CSR departments get a budget,
but it is not being put to good enough use.
Businesses that truly care about wider society should be taking aim at particular examples
of social injustice and using their corporate muscle to eradicate it. Sadly, there is a lot of
social injustice to choose from. Here, we would like to pinpoint one of the biggest ones:
human trafficking and forced labour. Most of us associate trafficking with human trafficking
for sexual exploitation. Yet, according to the latest UN report, there is more forced labour
than any other form of human exploitation in Africa, the Middle East, South and East Asia
as well as the Pacific.
Out of sight
Human trafficking is an issue that we don’t see and therefore it is remote to many of us –
so far removed from our daily lives that we are mostly unconcerned with it. Nevertheless,
we are all implicated. We all have mobile phones that contain an ingredient called coltan.
Coltan is only available from mines in Democratic Republic of the Congo rife with slavery
and child labour. While we may be surprised to read this, there is a good chance that
products that fill our shops in the developed world are the result of forced labou
Human trafficking happens everywhere, even in supposedly well-developed countries.
Take, for example, Singapore. The US State Department points out that many foreign
workers in the country have assumed debt associated with their employment to the
recruitment agencies, making them vulnerable to forced labour, including debt bondage.
There were also reports of confiscation of passports, restrictions on their movement, illegal
withholding of their pay, threats of forced repatriation without pay as well as physical
abuse.
Certainly, NGOs have called for tougher penalties against errant companies and
governments. However, legislation against human trafficking still varies widely from
country to country. In addition, many politicians may prefer to look away from the issue,
fearing that they would upset businesses. Indeed, even when the political will exists,
NGOs and governments are often unable to turn it into action. Therefore, we would urge
companies and consumers alike to take the initiative themselves.
Taking responsibility
The financial crisis has shown us that our brand of shareholder capitalism can be
detrimental to our societies. Of course, the argument runs that businesses pay a lot of
taxes, keep people employed and make new investments; companies are already making
significant contributions to society. However, this view effectively assumes that anything
that is outside the scope of the firm is not the firm’s responsibility. Companies cannot, and
should not, be responsible for taking care of society as a whole, but they should do their
utmost to eliminate and prevent social harms and problems linked to their activities. Sadly,
while many firms have been addressing human trafficking, many more have not.
The Rana Plaza Tragedy in Savar, Bangladesh in May 2013 provided a tragic illustration
of the problem. The products for many world-famous brands were manufactured under the
roof of the collapsed factory. One would imagine that that these companies would have
sufficient processes in place to preclude labour exploitation. Yet, in addition to being paid
only €38 a month, labourers had to work in dire conditions. Poverty drove them into
situations where they couldn’t say “no” for fear of losing their jobs. Young people and
children effectively work in forced labour conditions – these young “helpers” earned 12
cents an hour, while “junior operators” took home 22 cents an hour or $10.56 a week and
senior sewers received 24 cents an hour or $12.48 a week.
Perhaps more incredibly, it was reported that at least one famous brand was unsure
whether or not its products were made there. Companies may pride themselves on their
ability to manage complex supply chains and outsourcing. However, very often, they lack
the necessary processes and routines to check whether their contractors are exploiting
labour.
Consumer power
Responsible companies would be asking what steps they are taking to ensure that their
entire supply chain is free from unfair and unethical labour practises, especially those
outsourced abroad. But it is an open question of how far brands go to monitor suppliers
and whether they take full responsibility for the conditions in which those employed by
third-party contractors are working? This needs to be discussed publicly. Otherwise,
companies that believe they are working for the good of society may have inadvertently
supported some forms of exploitation in distant parts of their value chains.
And of course, we, as consumers, should start to question our ceaseless demand for dirt
cheap products. We are feeding companies’ drive to source as cheaply as possible. The
extra pound, dollar or euro in our pocket could easily come at the expense of someone’s
suffering, or as the disaster in Savar shows, someone’s life.
Human trafficking of any sort, and not just forced labour, is modern-day slavery. We
should not allow it to perpetuate any further. A good first step is to not shut up about it.
Speak up. Because in the end, we, companies and consumers alike, are responsible for
everything we do – and everything we don’t.
This article was co-authored with Eunice Olsen, founder and chief executive officer
of WomenTalkTV.asia, a portal for video interviews about empowered women from all
over Asia.
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http://www.liberoquotidiano.it/
Banche alla frutta
Stress test: la Bce boccia Monte dei Paschi e
Carige
26 ottobre 2014
Ricordate i 3,9 miliardi di Monti-bond con cui nel dicembre 2012 il governo Monti salvo la banca
Monte dei Paschi dalla chiusura. Ecco, dimenticateli. Perchè a distanza di meno di due anni da
quella operazione, oggi l'istituto di credito senese, nota cassaforte del Pd e "braccio bancario£ del
maggior partito della sinistra italiana, è stato bocciato dalla banca centrale europea. Una delle 25
che non hanno superato gli stress test della Bce sulla base dei bilanci 2013. Di queste, nove sono
italiane: oltre a Montepaschi, Carige, Creval, Banco Popolare, Popolare di Milano, Popolare di
Sondrio, Popolare di Vicenza, Veneto Banca. Cinque tuttavia hanno già realizzato operazioni di
rafforzamento patrimoniale nel corso del 2014, e la Bce lo segnala. Restano carenti di patrimonio,
per gli elenchi Bce, dunque Montepaschi, Carige Bpm e Pop. Vicenza: queste ultime due, a loro
volta, hanno realizzato sempre nel 2014 altre operazioni computate dalla Banca d’Italia come
rafforzamento patrimoniale. Di conseguenza, alla fine sono solo due le banche italiane con deficit
patrimoniale: Montepaschi per 2,111 miliardi (che scende a 1,35 al netto dei Monti bond) e Carige
per 814 milioni.
Ci si può chiedere, dunque, che fine hanno fatto quei 3,9 miliardi di euro che appena due anni fa il
governo travasò nella banca che fu di Mussari. Anche perchè, allora, le polemiche furono
asprissime. Proprio nello stesso periodo del salvataggio di Mps il governo Monti rimise l'Imu, la
tassa sulla casa, con cui portò via dalle tasche degli italiani circa 4 miliardi di euro. E furono in
molti a vedere nelle due operazioni più che un legame, coi soldi degli italiani pagati per l'Imu finiti
nella banda del Pd.
Catasto, ecco le
classificazioni
dell'Agenzia delle
Entrate
24 ottobre 2014
Le mani dell'Agenzia delle Entrate sulle case degli italiani. Con le statistiche catastali 2013,
l’Agenzia delle Entrate ha cambiato la classificazione di buona parte delle abitazioni dei centri
storici delle principali città italiane. Case con quotazioni stellari, che però per ragioni storiche
erano state iscritte al catasto con la categoria A4 (popolari) o addirittura A5 (ultrapopolari), vale a
dire, nel secondo caso, “unità immobiliari appartenenti a fabbricati con caratteristiche costruttive
e di rifiniture di bassissimo livello, di norma non dotate di servizi igienico- sanitari esclusivi”. In
realtà, come ha rilevato l'Agenzia in molte di queste abitazioni c'erano accessori di lusso ben
lontani dall'idea di una casa popolare.
Le nuove rendite - Al 31 dicembre 2013, comunica l’Agenzia delle Entrate, lo stock di case popolari
è calato dello 0,8 per cento rispetto all’anno precedente ma soprattutto quello delle case
ultrapopolari è calato del 5,8 per cento. In forte calo anche le case rurali, diminuite in un anno del
5 per cento, forse anche perché molte erano state classificate in questo modo diversi decenni fa,
prima dell’allargamento dei centri abitati, che ha trasformato molte zone di campagna in quartieri
periferici. Segno meno anche per due categorie di abitazioni pregiate, A8 (sono le ville, meno 0,2
per cento) e A9 (palazzi, meno 0,9 per cento), due categorie che raggruppano un numero molto
limitato di immobili, la somma non arriva a 40.000: il calo riflette probabilmente un cambiamento
di destinazione d’uso o magari un frazionamento dell’immobile.
Cosa cambia - Le categorie che invece crescono sono A1, A2 e A3, rispettivamente abitazioni civili,
signorili ed economiche, nelle cui fila sono entrate sicuramente centinaia di migliaia di ex case
ultrapopolari. In aumento anche i villini (categoria A7, più 1,4 per cento) e le abitazioni tipiche (per
esempio trulli o rifugi di montagna).
Giorni di tensione
Manovra, lettera dell'Ue all'Italia. Lo
scontro tra Barroso e Merkel, Renzi ha
rischiato grosso
23 ottobre 2014
Per qualche giorno l'Italia e Matteo Renzi hanno rischiato grosso, grossissimo. Tutta colpa di José
Manuel Barroso, il presidente uscente della Commissione Ue che avrebbe premuto per mandare
una lettera durissima a Palazzo Chigi, una stroncatura definitiva sulla manovra del governo
italiano. Tutto questo a soli 8 giorni dalla fine del suo mandato e, come suggerivano già qualche
settimana fa fonti vicine allo stesso Renzi, per lanciare la propria carriera politica in Portogallo.
Barroso era stato il falco rigorista che aveva fatto pagare alla "sua" Lisbona i danni della crisi sotto
forma di politiche di austerity rigidissime, logico che ripresentarsi ai propri connazionali come colui
che "l'ha fatta passare liscia" agli italiani non sarebbe stato un gran biglietto da visita. Secondo
Repubblica era già tutto pronto: una serie di richieste tremende al governo Renzi che andavano dal
"chiarimento" sulle coperture della finanziaria da 36 miliardi al diktat di tagliare il deficit dello
0,5% nel 2015 (cioè 8 miliardi) fino al rifiuto di riconoscere all'Italia le "attenuanti" delle
circostanze eccezionali (recessione, deflazione, riforme in via di attuazione) che avrebbero
allargato le maglie del rigore, rifiuto che avrebbe portato all'obbligo di pareggio di bilancio nel
2015 (invece dello slittamento al 2017 già annunciato da Palazzo Chigi). Condizioni inattuabili per
l'Italia (che il 29 ottobre si sarebbe di fatto vista bocciare la legge di stabilità da Bruxelles) e un
disastro per la stessa Eurozona.
E qui entra in scena Angela Merkel. L'acerrima nemica delle politiche "allegre" di Roma e non solo
sarebbe intervenuta per stoppare Barroso, in tandem con il commissario Jyrki Katainen e il
presidente in pectore Jean-Claude Juncker: troppo alto il rischio che una bocciatura dell'Italia
facesse crollare le speranze di ripresa di tutta l'Unione, riavviando il circolo infernale dello spread e
facendo crollare le economie non solo dell'area del Mediterraneo e dei cosiddetti Pigs. Anche per
questo il prossimo presidente del Consiglio Ue Herman Van Rompuy si è adoperato affinché al
posto di una lettera di richiamo ufficiale fosse inviata a Renzi un "primo richiamo", un appunto
meno "cogente" alle politiche italiane, una semplice richiesta di dettagli sulla manovra. Certo, da
qui a immaginare che l'Europa da matrigna diventi madre benevola per l'Italia ce ne passa: lo
stesso Juncker ha assicurato il giorno del suo insediamento che l'unica via per la salvezza è il
rigore, altro che deficit e debito. Il risultato è che la "grazia" concessa da Bruxelles obbligherà il
governo italiano a usare parte di quei 3,4 miliardi di tesoretto messo da parte per aumentare il
taglio del deficit allo 0,35% al posto dell'attuale 0,1, ma comunque meno dello 0,6 che avrebbe
voluto imporre Barroso. Se la Merkel avrà salvato noi o solo Berlino, però, lo scopriremo tra
qualche mese.
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http://www.lastampa.it/
“Stress test” per saggiare la resistenza delle banche europee alle crisi future
Alle 12 il verdetto, mercati finanziari col fiato sospeso
luigi grassia
Gli «stress test» delle banche che in questi giorni tengono col fiato sospeso l’economia europea
sono una verifica dell’adeguatezza del capitale degli istituti, non solo in relazione alla situazione
attuale ma anche in vista di possibili crisi future: cioè servono a valutare la capacità delle banche di
subire «stress» come ad esempio la crisi finanziaria del 2011. Ne sono già stati fatti in passato,
adesso vengono replicati perché la Bce sta per assumere la supervisione di una buona parte delle
banche dell’Eurozona.
Nella tornata precedente gli stress test furono all’acqua di rose e questo sollevò polemiche (a che
serve farli così?); stavolta dovrebbero essere più severi, anche se non c’è molto da aspettarsi perché
è verosimile che le autorità di vigilanza abbiano timore di scatenare, con giudizi troppo severi,
proprio quel terror panico sui mercati finanziari che invece gli stress test si prefiggono di prevenire
e di evitare. È verosimile che nel dubbio non si calchi la mano neanche stavolta. Potrebbe essere
significativo il fatto che le azioni delle due banche italiane che (secondo indiscrezioni) riceveranno
una pagella negativa, cioè Mps e Carige, venerdì hanno goduto di un boom in Borsa.
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Bazoli: «Possibili
fusioni tra banche»
Per il presidente di Intesa è la sorte per «chi fallisce l'esame
Bce».
Comunicati agli istituti i verdetti pubblici da domenica
Massimo Restelli - Ven, 24/10/2014
Otto anni dopo le grande fusioni da cui nacquero i tre campioni del credito nazionale (Intesa
Sanpaolo, Unicredit e Mps), le prove di incastro tra le banche italiane stanno per ripartire.
A dare il fischio (politico) d'inizio al nuovo consolidamento del settore è stato il presidente di Intesa
Giovanni Bazoli, rimandando al verdetto degli stress test atteso domenica: da ieri sera le pagelle di
Eba e Bce sono nelle mani dei singoli gruppi. Ca de' Sass guarda al responso europeo in modo
«positivo. È probabile», tuttavia, che altre banche siano in «situazioni meno favorevoli, in
conseguenza delle quali le aggregaziono sono una delle cose possibili», ha sottolineato Bazoli.
Il tono, complice la consegna del silenzio imposto da Mario Draghi, è circostanziato ma di certo
non sarà facile per i gruppi a corto di patrimonio chiedere al mercato altro denaro se non come
contorno a una fusione industriale. L'alternativa è procedere con le cessioni.
Da qui l'atteso riassetto del settore.
Da un lato si è legittimo considerare Intesa, Unicredit,
Popolare Milano, Ubi Banca e Bper tra i soggetti
aggreganti; dall'altro Carige, Mps come potenziali
prede insieme ad altri istituti minori come Creval o
Veneto Banca.
L'assetto finale dipende però da quanto sarà salato lo scontrino presentato dall'Eurotower, ricorda
un banchiere al Giornale, sottolineando che difficilmente
ci sarà un take over su
Mps visto che «la Toscana è la terra di Renzi».
Quanto a Genova, se l'ad Piero Montani è riuscito a limitare i danni allora potrà restare da sola o
unirsi a una popolare radicata nelle provincie attigue alla Liguria: come Bpm, Bper o Ubi,
considerate dagli analisti in grado di sopportare uno sforzo fino a 4-500 milioni. In caso contrario,
Carige sarebbe alla portata solo di un grande istituto estero come Cariparma-Credit Agricole o Bnl
Bnp Paribas.
Il Banco Popolare potrebbe invece guardare alla Lombardia o al trevigiano, dove ha sede Veneto
Banca, ma molto difficilmente per Verona ci sarà spazio per andare oltre a operazioni mirate.
Non dovrebbero invece muovere in Italia nè Intesa nè Unicredit, perché entrambe si esporrebbero a
problemi Antitrust. Piuttosto, nel mondo del credito, si pensa che la banca di Federico Ghizzoni
(che ieri si è detto «tranquillo» sugli esami europei) possa cogliere l'occasione per rafforzarsi in
Germania, assecondando così la propria anima tedesca: alcuni analisti pensano che Deutsche Bank,
complice il peso delle cause legali, supererà gli esami Bce sul filo del rasoio. L'ad di Intesa Carlo
Messina ha invece già detto di guardare con interesse al private banking e al risparmio gestito. Dove
Ca de Sass è alla ricerca di una soluzione per Eurizon dopo che Unicredit ha unito i fondi Pioneer
con quelli degli spagnoli del Santander. Le visite degli advisor nelle stanze dei bottoni
aumenteranno, con l'esito finale di distinguere, sia nel credito al consumo sia nei fondi, chi produce
da chi vende.
Bank of China al 2% di Mediobanca
Nelle nostre aziende quotate il colosso asiatico ha investito 7
miliardi. Piazzetta Cuccia corre in Borsa (+4,33%)
Rodolfo Parietti - Mer, 22/10/2014
Giusto un anno fa, parlando della Cina, così diceva Alberto Nagel, ad di Mediobanca: «Ci andremo, ma non
è una priorità»
Da allora, nulla è cambiato. Tranne il fatto che sono stati i cinesi a muoversi per primi verso
Piazzetta Cuccia, attraverso quella People's Bank of China usata spesso da Pechino come longa
manus per allargare la propria ragnatela di investimenti. Il 14 ottobre scorso, giorno dell'incontro tra
il premier Matteo Renzi e quello cinese Li Keqiang, la Bank of China è entrata a far parte dei soci
di Mediobanca con una quota del 2,001%. Notizia diffusa solo ieri e accolta col botto in Borsa,
dove il titolo della merchant bank è salito del 4,3%%.
Un classico, per l'ex Impero Celeste, superare appena di una frazione la soglia oltre la quale scatta
la segnalazione Consob. Un segno di visibilità sempre ricercato, anche quando da Pechino è partito
l'ordine di mettere una fiche superiore al 2% su Eni, Enel, Fca, Generali, Telecom e Prysmian. Si
calcola che nelle società quotate a Piazza Affari i cinesi abbiano puntato oltre 7 miliardi di euro,
mentre già a fine 2012, 200 piccole e medie imprese tricolori, con ricavi oltre i 6 miliardi, erano in
parte o interamente controllate dal colosso asiatico.
Cominciata 16 anni fa col primo ufficio aperto a Milano, la lunga marcia della Cina verso l'Italia
prosegue. Che si muovano i cingoli della banca centrale o quelli del potente fondo sovrano Cic, la
strategia resta la stessa: quando si fiuta il colpo, si compra. Per Pechino, Mediobanca ha i connotati
del duplice affare: sia sotto l'aspetto finanziario, visto che il titolo ha lasciato sul campo il 17% in
sei mesi; sia perchè l'istituto si va liberando delle incrostazioni tipiche di quel capitalismo di
relazioni che tanto piaceva a Enrico Cuccia. D'altra parte, il meno salotto buono e più soci e ricavi
dall'estero è proprio quanto Nagel persegue. Anche senza andare in Cina.
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Il paradosso delle banche tedesche: hanno più derivati che
crediti ma vengono promosse
di Fabio Pavesi, con un articolo di Leonardo Maisano
Tutte promosse, solo la piccola o meglio minuscola quanto a dimensioni, Munchener
Hypothekenbank non ha passato gli esami della Bce. Le banche tedesche escono a pieni voti dal test
della verità. Tutte anche quelle Landesbank, le banche regionali, su cui molti analisti nelle
simulazioni condotte prima della prova da sforzo erano dubbiosi sulla reale solidità finanziaria.
È questa la vera sorpresa uscita dalle urne della prova cui Francoforte ha sottoposto il sistema
bancario europeo. Del resto era ovvio che la Germania, nonostante la recente frenata inaspettata
della sua economia, era il Paese che aveva meno da temere dagli esami europei. Le banche sono
pro-cicliche alla congiuntura economica: se l'economia gira, le banche continuano a prestare denaro
con poco rischio, dato che le sofferenze sono ridotte al minimo. Al contrario economie in
stagnazione, vedono le banche ridurre i prestiti e dover fronteggiare le perdite sui crediti che si
deteriorano.
Ma c'è un ma in tutto ciò. Le banche tedesche non solo godono di un'economia tra le più salde, ma
sono di fatto le meno esposte. È infatti il credito l'attività considerata più a rischio per una banca. Le
attività finanziarie, comprare e vendere azioni, bond e commodity sono considerate meno
pericolose, tanto più se gli asset finanziari, come è accaduto in questi ultimi anni salgono a
dismisura. Quel capitale, calcolato dalle autorità per stabilire la solidità patrimoniale, non è
parametrato all'intero bilancio ma alle sole attività a rischio, i cosiddetti Rwa.
E qui il sistema tedesco ha tutti i vantaggi dalla sua parte. Gli Rwa, le attività ponderate per il
rischio, sono infatti relativamente più basse delle altre banche commerciali, in particolare quelle del
Sud Europa. Le banche germaniche cioè fanno, in proporzione, meno credito e più trading
finanziario.
Basti vedere i bilanci della Deutsche Bank, la più grande banca dell'eurozona e il colosso tedesco
per eccellenza. Il suo bilancio complessivo è di 1.580 miliardi di euro. Ma quello considerato a
rischio (Rwa) e che determina il rapporto con il capitale necessario è di soli 353 miliardi. Poco più
del 20% dell'intero bilancio vale per la determinazione del capitale necessario a rendere solida la
banca. Tanto per fare un confronto, la Deutsche è grande oltre due volte banche come Intesa e
UniCredit, ma ha attività a rischio che sono meno delle italiane.
Basta quindi avere come nel caso di Deutsche solo 47 miliardi di capitale per superare i requisiti di
forza patrimoniale. Con un rapporto tra capitale e attivo totale di solo il 3% Deutsche appare una
banca più che solida. Ma solo perché oltre 1.200 miliardi di attività di bilancio sono di fatto escluse
dal computo per determinare quanto capitale occorre per superare i test della Bce. Il quadro di
Deutsche Bank è esemplificativo dell'intero sistema bancario tedesco.
L'altro big la Commerzbank, ha attivo a rischio per poco più di 200 miliardi, ma ha un bilancio
doppio pari a 561 miliardi. E anche qui con solo 20 miliardi di capitale, la seconda banca tedesca
appare più solida di banche del Sud Europa. Come se azioni, bond, derivati siano esenti dal rischio
di perdite e quindi di erosione di capitale.
Una delle Landesbank considerate più in bilico dagli analisti prima degli stress test, la Hsh
Nordbank ha capitale per soli 3,8 miliardi che bastano a farle superare il test, perché parametrati su
un attivo a rischio (Rwa) di 38 miliardi. Peccato che l'intero bilancio della banca sia di ben 110
miliardi.
Di fatto ciò che rende più solide le banche germaniche è la loro bassa esposizione al credito, non
certo l'abbondanza di capitale che anzi è tenuto ai livelli minimi indispensabili. Quel che lascia
perplessi è che le attività di trading finanziario siano di fatto considerate meno pericolose. Finché i
mercati salgono nessun problema per i bilanci di banche come le tedesche imbottite di Bund, azioni,
titoli strutturati.
Ma i mercati non possono salire sempre. Siamo poi così sicuri che banche più propense alla
speculazione finanziaria che al credito all'economia reale non siano anch'esse una minaccia
sistemica?
Mps polemico:
penalizzanti le
modalità dello stress
test Bce
Il Monte dei Paschi «e' stato penalizzato dalle modalita' di svolgimento» degli esami della Bce.
Cosi' la banca di Rocca Salimbeni in una lunga e circostanziata nota nella quale afferma che il
deficit di capitale da 2,11 miliardi emerso «non riflette fatti reali che incidono sulla solvibilita' della
banca» ma solo l'impatto sui ratios «di scenari ipotetici estremamente negativi». Le modalita' dello
stress test, inoltre, sono molto diverse da quelle applicate dalla Commissione Ue per il piano di
ristrutturazione che ha dato l'ok ai Monti Bond. Nota positiva per Mps e' invece il fatto che dall'Aqr
emerga che l'aumento da 5 miliardi dell'estate scorsa era della giusta dimensione.
Mps evidenzia come i risultati della valutazione Bce “hanno confermato la solidità della struttura
patrimoniale”, “capace di assorbire l'impatto dell'asset quality review” a valle dell'aumento di
capitale di giugno. L'istituto sottolinea poi in una nota di aver superato anche lo stress test della Bce
nello scenario di base, mentre non è stato superato lo scenario avverso “penalizzato dalle modalità
di svolgimento del comprehensive assessment”. “L'effetto combinato del solo Aqr e delle azioni di
mitigazione gia' implementate portano il Cet1 phased-in dell'esercizio al 9,5%, ben al di sopra della
soglia richiesta del 8%”. Da qui la considerazione che l'aumento da 5 miliardi e' stato capiente
perche' “ha consentito di rafforzare il bilancio della banca in vista di questo severo scrutinio della
qualita' dei suoi attivi”. Tornando allo stress test, invece, altri sono i motivi di recriminazione di
Rocca Salimbeni per la metodologia utilizzata. “Nello scenario avverso - si legge - la Bce non ha
considerato gli effetti dell'eventuale mancato rimborso di750 milioni di aiuti di Stato residui (sul
totale di circa euro1,1 miliardi), che costituisce una delle possibili misure implicite di contingency
incluse nel piano”.
L'effetto della scelta della Bce “e' estremamente penalizzante perche' a fronte di una grave
situazione di crisi e' ipotizzato che Mps sia costretta ad effettuare un rimborso che ne indebolirebbe
ulteriormente la dotazione patrimoniale”. Ulteriore elemento negativo dello scenario avverso: “E'
stato applicato un criterio di stress completamente basato sull'utilizzo di dati reddituali basati su
medie storiche, che non ha consentito di incorporare le azioni di business previste dal piano di
ristrutturazione” che la banca sta realizzando.
Infine sui crediti a rischio di Mps “non e' stato consentito di tenere alcun conto degli effetti
migliorativi sulla qualita' e sul costo del credito derivanti dalle azioni di cura dei crediti deteriorati
previste dal Piano, laddove, come detto, il miglioramento della qualita' del credito ne costituisce
uno dei punti fondanti”.
La precedente gestione e l’eredità AntonVeneta
La valutazione del bilancio del Monte dei Paschi a fine 2013 da parte della Bce ha portato a
significative rettifiche sui crediti aggiuntive sul portafoglio corporate che e' stato calcolato in oltre
2,85 miliardi. Lo rivela la Banca nel comunicato sull'esito degli esami Bce. «La qualita' degli attivi
della banca, si legge, e' ancora influenzata dalla politica creditizia espansiva adottata in anni recenti
(2008-2010), prima dell'attuale gestione (ndr), dalla scarsa qualita' del portafoglio crediti ex
Antonveneta (sotto la media) e il basso livello degli standard di erogazione del credito verso parti
correlate e del territorio di riferimento». Nessun impatto dall'analisi della Bce del portafoglio Retail
e small Business.
Dopo i risultati delle valutazioni Bce Mps annuncia in una nota di aver avviato l'esame delle
potenziali azioni da includere nel capital plan da sottoporre alla Bce: Ubs e Citigroup saranno
advisor per valutare tutte le “opzioni strategiche”. Il piano verra' sottoposto all'approvazione delle
autorita' di vigilanza entro i termini previsti dalla normativa. Le conseguenti modifiche del piano di
ristrutturazione della banca, gia' approvato dalla commissione europea, saranno subordinate
all'approvazione da parte della stessa».
La preoccupazione del sindaco di Siena
«Stiamo pagando ancora gli anni di una gestione scellerata, che ha dilapidato un patrimonio
plurisecolare'. Cosi' il sindato di Siena Bruno Valentini commenta l'esito negativo del
comprehensive assessment sul Monte dei Paschi. `Una gestione - continua Valentini - fatta di
affarismo senza scrupoli e scommesse imprudenti, confermata in tutta la sua brutalita´ dalla
pubblicazione degli stralci di interrogatori del processo Mps». Oggi - aggiunge Valentini - «con
enormi difficolta', le istituzioni senesi stanno cercando di superare i danni prodotti in quel periodo
buio della nostra storia. Adesso e' iniziato un nuovo corso: la politica non condiziona piu' la
gestione della Banca mentre la Fondazione, che deve confermare il patto di sindacato, sta
delineando uno spazio per il futuro coerente con le proprie finalita' istituzionali. E' finito,
comunque, il tempo della politica pervasiva». «Ai disastri del passato si sono aggiunte strategie che
non hanno dato i risultati attesi. La pulizia dei conti e i sacrifici, la maggior parte dei quali
sopportati dai dipendenti, in mancanza di un adeguato recupero di redditivita', non bastano»,
conclude il sindaco che manifesta `forte preoccupazione” in attesa delle misure che il vertice della
Banca deve assolutamente comunicare quanto prima´.
26 ottobre 2014
Perché si è dimessa Paola Testori Coggi,
direttore della Dg Sanco a Bruxelles
di Giuseppe Chiellino
Un errore procedurale in una gara d’appalto per un valore “largamente inferiore a 100mila euro” è
all’origine delle dimissioni annunciate ieri da Paola Testori Coggi dalla direzione generale Salute e
tutela del consumatore (Dg Sanco) della Commissione europea, dopo 32 anni di carriera senza
macchia nelle istituzioni comunitarie. Una somma ridicola se rapportata agli importi che gestiscono
normalmente i direttori delle dg. Secondo quanto è stato possibile ricostruire, l’appalto in questione
avrebbe avuto un esito diverso da quello desiderato, dunque sarebbe stato annullato e ripetuto. In
seguito ad una denuncia è partita l’inchiesta interna che ha preso via via una brutta piega per una
delle poche donne italiane che occupava la posizione di direttore in Commissione. Testori Coggi
rischiava una pesante sanzione disciplinare, anche se con motivazioni quanto meno discutibili. Per
evitare il declassamento o provvedimenti ancora più pesanti ha preferito dimettersi. Va
sottolineato, in ogni caso, che le fonti interpellate confermano quanto già affermato ieri
ufficialmente dalla Commissione, e cioè che non c’è alcuna evidenza che dalla vicenda Paola
Testori Coggi possa aver tratto il sia pur minimo vantaggio personale. Così come non c’è stato
alcun danno per il bilancio della Commissione.
La vicenda è un colpo durissimo non solo per Testori Coggi che era in Commissione dal 1983, ma
per tutti gli italiani che lavorano ad alti livelli nelle istituzioni comunitarie. In un ambiente in cui la
competizione, anche tra gruppi nazionali, è spesso spietata, fa comodo a molti associare la
nazionalità italiana all’idea di corruzione, tanto più mentre è in corso la transizione tra Barroso e
Juncker che inevitabilmente porta avvicendamenti e giochi di palazzo.
A questo punto, però il dubbio su come realmente siano andate le cose è legittimo: è stato un banale
errore di procedura senza conseguenze (ma la lunga esperienza della Testori porterebbe ad
escludere questa ipotesi) o la funzionaria italiana che negli anni ha scalato le gerarchie europee ha
pagato per decisioni e colpe di altri?
Paola Testori Coggi è entrata in Commissione nel 1983 e ha lavorato, tra l’altro, nel gabinetto di
Vittorio Maria Pandolfi (commissario italiano 1988-1993), e con Emma Bonino che dal ’95 al 99 è
stata commissario alle Politiche dei consumatori.
16 ottobre 2014 - 12:49
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Regioni, 200 ex consiglieri godono di doppio
vitalizio. Nel Lazio sono 28
di Jacopo Orsini
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«Hanno cose da farsi perdonare». Sferzante e sarcastico come al solito, il premier Matteo Renzi ha
scelto un bersaglio facile da attaccare negli ultimi giorni: le Regioni sprecone. Tutti ricordano gli
scandali di Franco Batman Fiorito, Vincenzo Maruccio e i soldi buttati per comprare suv e mutande
verde leghista. Ma ci sono anche tanti privilegi, più nascosti, che resistono nonostante tutti gli
annunci di tagli e le continue promesse di risparmi. Fra i più incredibili, per quanto perfettamente
legali, c’è sicuramente quello del doppio vitalizio.
Sono un esercito gli ex consiglieri regionali campioni della doppia (e a volte anche tripla e
quadrupla) pensione. Il conto preciso è complesso, perché bisognerebbe incrociare gli elenchi,
ancora non tutti pubblici nonostante le battaglie dei radicali e del Movimento 5Stelle, di migliaia di
”pensionati” di 20 consigli regionali con le altre centinaia del Parlamento. Una stima però si può
tentare partendo dal Lazio: incrociando l’elenco di chi è stato deputato (leggi tutti i nomi) o senatore
(leggi tutti i nomi) con quelli degli ex consiglieri regionali (leggi tutti i nomi), si trovano almeno 28
privilegiati che incassano ogni mese due assegni che valgono da un minimo di 5.200 euro netti a un
massimo di 11.500 euro sempre netti.
I SUPERASSEGNI
Il più fortunato è Oreste Tofani, classe ’46, di Alatri, provincia di Frosinone, ex sindacalista della
Cisnal: è stato in Regione fra gli anni’80 e ’90 e poi deputato di An e Pdl. Una carriera che gli è
valsa una pensione dorata da 11.554 euro netti al mese. Subito dopo si piazza un altro ex An (e poi
Pdl), Domenico Gramazio, 67 anni. Il più ”povero” fra i privilegiati del doppio vitalizio è l’ex
socialdemocratico Robinio Costi, classe ’43, che ogni mese si deve accontentare di 5.291 euro netti.
In Veneto la doppietta sono riusciti a farla almeno in 19: nella lista ci sono l’ex deputato del Pci e
Pd ed ex sindaco di Venezia Massimo Cacciari, il verde Michele Boato e il leghista Franco
Rocchetta. Dunque 47 in sole due regioni, che portano a stimare il totale delle doppie pensioni a una
cifra oltre quota 200.
Nel Lazio, fra i 28 magnifici pensionati ce ne sono poi almeno tre - l’ex Margherita poi Pd Fabio
Ciani, l’ex repubblicano Mario Di Bartolomei e l’ex missino e poi An Giulio Maceratini - che sono
stati anche eurodeputati. E quindi, se hanno versato i contributi, di assegni ne dovrebbero portare a
casa addirittura tre. La lista degli eurovitalizi, a differenza di quella di quella di Camera e Senato,
che in questo sono molto trasparenti, non è però pubblica. La scusa per tenerla segreta sono
presunte ragioni privacy di chi incassa l’assegno, nonostante si stia parlando di soldi pubblici.
Da tagliare insomma nelle Regioni c’è ancora parecchio. Grazie anche alla spinta portata prima dai
radicali e poi dall’arrivo dei grillini, qualcosa tuttavia negli ultimi anni si è mosso. I vitalizi per
esempio sono stati aboliti, anche se solo per il futuro (nel Lazio incredibilmente si può ancora
incassare l’assegno a 50 anni). E ora si sta studiando qualche altro taglio: si punta a intervenire in
maniera coordinata in tutte le regioni per tassare le pensioni in modo progressivo. E fra le ipotesi
c’è quella di ridurre gli assegni di un ulteriore 40% proprio a chi porta a casa due vitalizi. Ma la
battaglia sarà ancora lunga e l’esito parecchio incerto.
twitter @jacorsini
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Scandalo Cia
I servizi mandano agenti travestiti al Senato per fermare il rapporto sulle torture. Il duro
McDonough
di Redazione | 26 Ottobre 2014 ore 06:27
Roma. “Il presidente vuole sapere chi cazzo ha autorizzato il rilascio [dei documenti] alla
commissione. Ho un presidente infuriato e voglio sapere per quale cazzo di ragione hai fottuto
tutto!”. E’ il 2009, la scena è alla Casa Bianca. A sbraitare è Rahm Emanuel, allora capo dello staff
dell’Amministrazione Obama. La vittima della sfuriata è Leon Panetta, al tempo capo della Cia. I
documenti a cui si riferisce Emanuel sono quelli, “tra i più importanti in possesso dell’agenzia”, che
Panetta concesse in visione alla commissione Intelligence del Senato americano per una gigantesca
indagine, durata cinque anni e costata 40 milioni di dollari, sui metodi di interrogatorio e di
detenzione usati dalla Cia dell’èra Bush dopo l’inizio della guerra al terrore. Allora l’indagine della
commissione, presieduta dalla senatrice democratica Dianne Feinstein, era agli inizi, la Feinstein
aveva tutte le autorizzazioni in regola per vedere i documenti. Ma Obama, il presidente della
“Amministrazione più trasparente della storia”, non voleva che la commissione deputata a
sorvegliare l’operato della Cia sorvegliasse davvero l’operato della Cia. Il testo della sfuriata di
Emanuel è tratto dal memoir appena uscito di Panetta, “Worthy Fights: A Memoir of Leadership in
War and Peace”. Da settimane il memoir è discusso per la descrizione negativa degli anni di Panetta
dentro l’Amministrazione Obama (prima come capo della Cia e poi come segretario della Difesa), e
mostra tra le altre cose che il report della commissione Intelligence è da sempre un problema
enorme per il presidente.
Il report di 6.300 pagine si concentra, secondo fonti dell’agenzia McClatchy, sui presunti abusi e
sulle accuse di tortura rivolte alla Cia durante la guerra al terrore – sulle sue “azioni e inazioni”.
L’agenzia d’intelligence da anni cerca di limitare il lavoro della commissione. Lo scorso marzo la
senatrice Feinstein accusò John Brennan, a capo della Cia dal 2013, di aver tentato di violare i
computer del Senato per ottenere le bozze del report. Brennan prima negò, poi ammise la violazione
e chiese scusa, infine si rifiutò di nominare gli agenti che avevano partecipato all’operazione. Ma
secondo fonti sentite questa settimana da Ali Watkins e Ryan Grim dell’Huffington Post America
“se la gente sapesse in dettaglio quello che hanno fatto davvero per entrare nei computer del Senato
e cercare i documenti sulla tortura resterebbe a bocca aperta”. Un ispettore della Cia che ha chiesto
di rimanere anonimo ha detto ai giornalisti che alcuni agenti dell’agenzia hanno “fatto finta di
essere dipendenti del Senato per ottenere accesso alle comunicazioni e alle bozze dell’indagine
della commissione”. Persone vicine alla Cia smentiscono, e la Casa Bianca continua a dare
all’agenzia e a Brennan “piena fiducia”.
Il fatto è che la pubblicazione del report potrebbe essere imbarazzante anche per il presidente
Obama, soprattutto se le strategie di sicurezza nazionale sono messe in discussione in un periodo
delicato a livello politico (le elezioni di midterm) e a livello internazionale (l’intervento in Iraq e
Siria contro lo Stato islamico). Un documento di 480 pagine con le conclusioni della commissione è
pronto da sei mesi, ma l’Amministrazione sta cercando in tutti i modi di ritardare la sua
pubblicazione o di farne uscire una versione pesantemente modificata. Obama ha attivato il suo
capo di gabinetto, il tostissimo Denis McDonough, per negoziare direttamente con la commissione
le modifiche al documento. Soprattutto, dice una fonte all’Huffington Post, McDonough avrebbe
chiesto ad alcuni membri del Senato la protezione di Brennan, che rischia di essere travolto “dal
prevedibile furore che seguirà la pubblicazione del documento”. I complottisti del sito The Intercept
dicono che niente sarà pubblicato prima delle elezioni di midterm, e che a quel punto un nuovo
Congresso a maggioranza repubblicana bloccherà l’indagine. Anche i democratici non sarebbero
contrari. Molti pensano, dice l’ex capo antiterrorismo Robert Grenier, che mentre lo Stato islamico
avanza e decapita giornalisti americani “non è il momento di chiedere di andarci piano contro il
terrorismo”.
MANUALE DI CONVERSAZIONE
Come fare bella figura in salotto senza necessariamente sapere quel che si dice
Il chilometro zero
Una delle definizioni più abusate. Se la detestate, ecco dei luoghi comuni di pronto impiego
- Ha rotto le balle
- Apprezzare l'idea di marketing, ma non sopportare l'aria di superiorità intellettuale con cui
vendono gli asparagi. (Vedi seguente)
- Chiedere con piglio sociologico se i seguaci del chilometro zero siano gli autentici eredi della
spocchiosità di certe frange ad alto reddito della sinistra intellettuale d'antan. Concluderne che in
tempi postideologici concetti come destra e sinistra sono superati; pasta e fagioli, invece, godono
ancora di ottima salute.
- Di tanto in tanto ricordare che, al netto di tutte le considerazioni ideologiche, la mozzarella di
Paestum è infinitamente migliore di quella del caseificio politicamente corretto che sta a soli venti
chilometri da casa, e quindi, che il chilometro zero si impicchi pure. (Vedi seguente)
- Citare provocatoriamente uno studio del 2007 che ha calcolato che se si fanno dieci chilometri in
auto per andare a comperare un chilo di verdura, si genera più CO2 che non facendola arrivare
direttamente dal Kenya.
- Nelle botteghe a chilometri zero (ma anche in quelle biologiche) parlare a un tono di voce normale
è considerato un'inqualificabile cafonata: bisogna sempre sussurrare come certe attrici impegnate
del cinema italiano. Deplorare.
- Alcuni ristoranti politicamente corretti ci tengono a scrivere sul menù che tutti i prodotti con cui
sono preparati i loro piatti provengono dal loro orto. Se se la tirassero un po' meno sarebbero più
simpatici. Convenirne.
- Épater le bourgeois spiegando che l'acqua minerale è il prodotto più inquinante del mondo. Non
addentrarsi in spiegazioni tecniche, parlare in generale della quantità di energia che serve per
trasportarla da dove sgorga a dove viene consumata.
- Di questi tempi si porta molto l'acquisto con i colleghi d'ufficio presso il contadino di fiducia della
cassetta di verdure settimanale. Finire per mangiare grandi quantità di ratatouille e minestroni anche
ad agosto per non doverle buttare.
- Al solo udire la parola "filiera", specialmente se usata in modo espressionistico (la filiera del libro,
la filiera culturale ecc.), coprirsi di un eritema devastante.
- Deprecare che il chilometro zero sia un lavoro a tempo pieno che non ammette distrazioni: se hai
comprato la lattuga e per qualche ragione non si riesce a mangiarla la sera stessa, l'indomani nel
frigo se ne trova la sindone. Convenirne.
- Perché mai si è cominciato a dire "chilometro zero", al singolare, invece di, come sarebbe giusto,
"a chilometri zero"? Far partire un estenuante pippone sulla volgarizzazione del pensiero in tempi di
massificazione pseudoculturale.
- Citare con apparente competenza uno studio del Defra, il ministero dell'Ambiente e
dell'Agricoltura britannico, secondo il quale il 48 per cento del chilometraggio percorso da un
prodotto alimentare deriva dal consumatore finale, quindi un indicatore basato solo sullo spazio
percorso non può essere una misura attendibile dell’impatto ambientale totale. Posizione
provocatoria che lascia intendere come non vi accontentiate della vulgata. Valutare se concludere
con un più pop: "E quindi, de che stamo a parla'?"
- Parlare di "food miles" fa capire che in materia non siete venuti giù con la piena.
- Le mele della grande distribuzione, saranno anche velenose come quella della matrigna di
Biancaneve, ma dal punto di vista estetico non c'è gara. Auspicare l'avvento di uno Steve Jobs del
chilometro zero che rifondi l'estetica delle mele genuine.
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Bankitalia: “Banche italiane penalizzate in
stress test Bce. E non hanno avuto aiuti”
Fabio Panetta, vice direttore generale di via Nazionale, ha spiegato che sui risultati degli esami
europei hanno pesato le ipotesi molto pessimistiche dello "scenario avverso" e il fatto che gli
istituti del nostro Paese abbiano ricevuto dallo Stato solo 4 miliardi
contro i 250 di quelli tedeschi
di F. Q. | 26 ottobre 2014
Venticinque istituti europei “bocciati”, di cui tredici ancora alle prese con carenze di capitale per un
totale di 9,5 miliardi nonostante gli aumenti varati in corso d’anno. Sono i risultati degli “esami”
(comprehensive assessment) sulle maggiori banche dell’area euro, costituiti dalla revisione della
qualità degli attivi (asset quality review) della Banca centrale europea e dagli esiti degli stress
test della European banking authority. Le valutazioni, basate sui bilanci del 2013, promuovono di
fatto a pieni voti solo Credito Emiliano, Iccrea, Intesa
Sanpaolo, Mediobanca, Ubi e Unicredit. E nel drappello delle 25 bocciate ben nove sono banche
italiane: Monte dei Paschi di Siena, Carige, Banca Popolare di Milano, Popolare di
Vicenza, Bper, Banco Popolare, Banca Popolare di Sondrio, Credito Valtellinese e Veneto
Banca. Un risultato che, pur molto ridimensionato dalle misure messe in campo nel frattempo e da
cui emerge che solo Mps e Carige dovranno chiedere altri soldi ai soci, ci vale l’ultimo posto
in Europa. Ma gli analisti della Banca d’Italia, che aveva il compito di valutare l’impatto sul
capitale degli interventi adottati nel 2014, in conferenza stampa hanno spiegato senza mezzi termini
che questa brutta pagella è stata influenzata non poco dalle ipotesi sottostanti. Che hanno
penalizzato il nostro Paese molto più di altri. Non è un caso, dunque, se per esempio tutte le banche
tedesche si sono “salvate”, compresa Deutsche Bank che alla vigilia sembrava sul filo della
bocciatura nonostante un aumento di capitale monstre da oltre 8 miliardi.
Quello della Bce “è un esercizio che ipotizza uno scenario sfavorevole soprattutto in termini di
crescita e ovviamente le condizioni iniziali contano molto”, ha detto Fabio Panetta, membro del
direttorio e vice direttore generale di via Nazionale. Di conseguenza “un esercizio che riduce la
crescita attesa in modo significativo è molto più doloroso” per l’Italia piuttosto “che per un Paese
con una crescita significativa”. Non solo perché partivamo da una “situazione macroeconomica
fortemente deteriorata” e con banche indebolite da forti perdite su crediti, ma anche a causa
dell'”handicap” costituito dal fatto che “altri Paesi partivano con aiuti di Stato e interventi pubblici”.
Riferimento non casuale alla Germania, le cui banche dall’inizio della
crisi hanno ricevuto aiuti governativi per quasi 250 miliardi, ma anche
alla Spagna, dove gli interventi pubblici sono ammontati a 60 miliardi, a
Irlanda e Paesi Bassi (50 miliardi a testa), alla Grecia (40 miliardi). Ma
anche a Belgio e Austria (19 miliardi) e Portogallo (18 miliardi). Al
contrario, il sostegno pubblico in Italia è stato limitato ai circa 4 miliardi
di euro andati a Mps sotto forma di Monti bond.
Questo, ha sottolineato Panetta, “è un motivo di vanto per il Paese. Se avessimo avuto un terzo
degli aiuti della Germania, quindi per circa 77 miliardi di euro, avremmo avuto un surplus”. Il
sistema bancario italiano, invece, “è rimasto in piedi senza aver avuto bisogno di cospicui interventi
pubblici”.
Fin qui, comunque, tutto regolare. Il fatto è, però, che nel caso peggiore Francoforte si è spinta a
immaginare che l’Italia possa rimanere in una grave recessione (pil in calo dell’1,6% nel 2015 e
dello 0,7% nel 2016) “per l’intero periodo 2014-16, dopo quella già sofferta dall’economia italiana
nel 2012-13, che faceva seguito a quella del 2008-09. E ipotizza inoltre un riacutizzarsi della crisi
del debito sovrano. Questo ipotetico scenario utilizzato nella simulazione configurerebbe quindi un
collasso dell’economia italiana, con gravi conseguenze ben oltre la sfera bancaria”. Un quadro,
insomma, di gran lunga troppo pessimistico anche se inserito nello “scenario sfavorevole” che era
parte integrante degli stress test e doveva costituire una prova di resistenza agli shock. E, in questo
panorama, Francoforte ipotizza anche uno scenario avverso sul mercato dei titoli di Stato, mentre
“da alcuni mesi le banche hanno registrato plusvalenze” grazie al calo del tasso di interesse sui titoli
di Stato. Lo scenario avverso, quindi, sottolinea, “è uno scenario apocalittico. E noi non siamo
ancora all’apocalisse”.
Anche Mps, la grande bocciata con 2,1 miliardi di esigenza di capitale, nel comunicato diffuso
domenica pomeriggio ha sottolineato di essere stata “penalizzata”, ricordando di aver “da poco
(novembre 2013, ndr) intrapreso il percorso di ristrutturazione approvato dalla Commissione
europea”, che nel valutare il piano ha usato modalità che “si discostano in misura significativa” da
quelle utilizzate da Francoforte per determinate lo scenario avverso. Tra le altre cose, si legge nel
comunicato, “nello scenario avverso la Bce non ha considerato gli effetti dell’eventuale mancato
rimborso di 750 milioni di euro di aiuti di Stato residui (sul totale di circa 1,1 miliardi) che
costituisce una delle possibili misure implicite incluse nel Piano di ristrutturazione”. Insomma,
Rocca Salimbeni ricorda che non è ancora tramontata l’ipotesi che, nel peggiore dei casi, lo Stato
possa diventare azionista dell’istituto attraverso la conversione in azioni dei Monti bond residui tra
quelli sottoscritti nel 2013.
Stress test, Mps bocciata.
La fine della ‘banca
rossa’ per come la
conosciamo?
di Mauro Meggiolaro | 26 ottobre 2014
La bocciatura di Monte Paschi agli stress test della Bce era ampiamente prevista. Ancora venerdì
si parlava però di un deficit di capitale intorno a 1 miliardo di euro, superabile agevolmente con
l’emissione di un bond ibrido, un prestito convertibile in capitale. Le voci sulla possibile emissione
del bond e su eventuali cessioni di asset che avrebbero scongiurato un nuovo aumento di capitale
hanno lanciato la speculazione al rialzo sul titolo in borsa, che venerdì sera ha chiuso a +10,68%.
Oggi i numeri diffusi dalla Bce sono molto peggiori. A Monte Paschi mancano 2,11 miliardi di
euro: più del doppio del previsto. A pesare, per 600 milioni di euro, la brutta storia del derivato
“Alexandria” negoziato con la banca giapponese Nomura, che sarebbe servito ad Mps ad abbellire il
bilancio del 2009. La Bce ha considerato “Alexandria” a tutti gli effetti come un derivato, mentre la
banca continua a contabilizzare l’operazione come “titoli di stato”.
Quello che succederà d’ora in poi è incerto. La banca ha reso noto in un comunicato stampa di
aver incaricato le banche Ubs e Citigroup di esplorare opzione strategiche, tra cui una possibile
fusione. Un ulteriore aumento di capitale da oltre 2 miliardi di euro appare poco probabile, come
anche l’emissione di bond ibridi per la stessa cifra. Chi, infatti, sarebbe disposto a investire in una
banca che in quattro mesi ha bruciato l’intero aumento di capitale monstre da 5 miliardi di euro,
sottoscritto con successo a giugno?
Tra i possibili acquirenti continua a circolare il nome della banca francese Bnp Paribas, che in
Italia ha già acquisito nel 2006 la Banca Nazionale del Lavoro (Bnl). Un’ipotesi che piacerebbe
anche ai sindacati. Ma Bnp – fa notare il Financial Times – è ancora sotto shock dopo la multa
record da 9 miliardi di dollari inflitta dalle autorità americane per aver gestito (dal 2002 al 2012)
transazioni con Sudan, Iran e Cuba, paesi sotto embargo negli Stati Uniti. Perché dovrebbe ora
sobbarcarsi l’onere di rilevare e ristrutturare una banca in seria difficoltà che per i prossimi anni
non produrrà profitti?
Un altro possibile acquirente, la banca spagnola Santander, si trova in una delicata fase di
transizione dopo la morte del suo fondatore e presidente Emilio Botín in settembre. Da più parti si
parla poi di non meglio definiti “fondi americani”. Ma al massimo i fondi potrebbero essere
un’ennesima soluzione provvisoria: nel lungo periodo servirebbe un partner bancario, interessato a
rilanciare l’operatività della banca.
Un’altra ipotesi che si sta facendo strada è quella di uno spezzatino, una divisione della banca in
vista della cessione di asset per fare cassa. Secondo quanto rivelato da fonti vicine all’istituto senese
al mensile Valori (www.valori.it), si potrebbe presto concretizzare una “tripartizione”. L’idea
dell’ipotetico piano di smembramento prevede di mantenere sotto il marchio “Mps 1472″ le filiali
dell’Italia centrale, che diventerebbe a tutti gli effetti la “banca delle regioni rosse”. Le filiali del
Nord Italia (la ex Antonveneta) potrebbero essere vendute a un gruppo bancario mentre il Sud – che
è carico di sofferenze creditizie – potrebbe essere acquisito dallo Stato (che recupererebbe in questo
modo il miliardo di euro di Monti bond che Mps deve ancora restituire) o trasformarsi nel nucleo
iniziale di una “bad bank” pubblica, nella quale si farebbero eventualmente confluire anche parte
dei crediti non performanti di altri gruppi bancari.
Un progetto che richiederebbe naturalmente la benedizione del governo Renzi, che dovrebbe
esporsi a un’operazione dai risvolti tutt’altro che popolari.
Mps ha ora due settimane di tempo per rispondere alla Bce. Indipendentemente dalla soluzione che
sarà scelta, una cosa sembra chiara: la “banca rossa” come la conosciamo, serbatoio di voti e scambi
di favori per il Pd locale e nazionale, sembra avviata verso la fine. Un epilogo triste per la terza
banca italiana: la più antica in attività a livello globale e la più longeva al mondo. Forse ancora per
poco.
Legge di stabilità, sul lavoro
l’effetto sostituzione prevarrà
sui nuovi posti
di Lavoce.info | 24 ottobre 2014
Dal testo e dai numeri della legge di Stabilità saltano fuori varie sorprese. Un disavanzo
aggiuntivo per poco più di 7 miliardi, nuovi assunti con decontribuzione solo per l’anno 2015,
aumento delle entrate grazie alla tassazione dei Tfr che entrano in busta paga. Infine, meno tagli
ai ministeri.
di Tito Boeri (Fonte: lavoce.info)
Finalmente abbiamo un testo per la legge di Stabilità e una relazione tecnica. Non poche le sorprese
rispetto alle variopinte slide renziane. Cominciamo dal potenziale espansivo della manovra che si
può desumere dai saldi. Il disavanzo aggiuntivo dovrebbe essere appena al di sopra dei 7 miliardi
rispetto agli 11 delle diapositive mostrate a Palazzo Chigi una settimana fa. Questo si deve non solo
alle riserve accantonate in previsione di richieste della Commissione europea (che, a quanto pare,
ci saranno), ma anche ad aggiustamenti successivi richiesti per la “bollinatura” della Ragioneria
dello Stato.
I costi della decontribuzione
La seconda importante sorpresa riguarda la decontribuzione dei nuovi assunti con contratti a tempo
indeterminato. La misura sarà in vigore per il solo 2015. Non sono previste clausole di
addizionalità, vale a dire anche imprese che abbiano ridotto gli organici negli ultimi anni o mesi
potranno accedervi.
Data l’entità dello sgravio (riduce di un terzo il costo del
lavoro) e la sua temporaneità (solo 2015) probabile che ci
sia un forte effetto di sostituzione sia con posti di lavoro
già esistenti che nel corso del tempo. Ad esempio, presumibile che si avrà un forte effetto
sulla distribuzione nel tempo delle assunzioni: forte calo nei restanti mesi del 2014, impennata a
inizio 2015 e poi ancora a fine anno, prima che l’agevolazione scada. Il Governo prevede che a
beneficiarne siano 1 milione di posti di lavoro. Potrebbe essere una sottostima alla luce degli
effetti di sostituzione di cui sopra. Assume inoltre che le assunzioni siano distribuite uniformemente
nel corso dei mesi del 2015. Questo spiega perché i costi dell’agevolazione siano previsti molto più
bassi nel 2015 che nel 2016 (vedi ultima riga della tabella): si presume infatti che i nuovi contratti
attivati nel 2015 abbiano una durata media di sei mesi.
Anche se prendiamo per buona la stima governativa di 1 milione di contratti a zero contributi
previdenziali e ci limitiamo a cambiarne il profilo temporale, prevedendo che il 20 per cento di
queste abbia luogo a gennaio 2015 e un altro 20 per cento a dicembre 2015 con – in mezzo a queste
due picchi – 60mila assunzioni al mese, otteniamo una stima dei costi nettamente superiore a
quella del Governo, attorno ai 3 miliardi per il 2015. Da notare che noi abbiamo utilizzato i dati EUSilc per stimare i salari d’ingresso in questi contratti, mentre la relazione tecnica si è avvalsa dei
dati dell’Inps (che a noi non sono stati concessi). Ma le differenze nelle stime nostre e della
relazione tecnica si spiegano soprattutto col diverso profilo temporale delle assunzioni. Infatti, la
spesa del 2016, quando questo fattore temporale non conterà più, sarebbe per noi di soli 400 milioni
più alta di quella del governo.
Effetto Tfr in busta paga
Un’altra sorpresa riguarda il contributo delle entrate alla manovra. È di circa 10 miliardi. Questo si
deve soprattutto al fatto che 2.5 miliardi vengono dalla tassazione del Tfr in busta paga. Vero che
l’intera operazione è praticamente a saldo zero per la Pubblica amministrazione allargata (alle
maggiori entrate associate al pagamento dell’Irpef sul Tfr in busta paga si devono dedurre i minori
versamenti al fondo dell’Inps che replica il Tfr). La relazione tecnica ipotizza, infatti, che siano
soprattutto i lavoratori delle grandi imprese a portare il Tfr in busta paga, quelli che alimentano il
flusso verso l’Inps. Tuttavia se il Tfr venisse smobilizzato in misura superiore a quanto ipotizzato
dal Governo dai lavoratori delle imprese con meno di 50 dipendenti (quelli per cui non opera il
fondo Inps), che hanno i salari e tasse marginali Irpef più basse e un più alto rischio di fallimento
della loro impresa, ai quali dunque l’operazione può sembrare più vantaggiosa, lo smobilizzo del
Tfr in busta paga può portare ad aumentare e, non di poco, il prelievo netto operato dallo stato con
questa operazione.
La natura dei tagli
Il tanto declamato bonus bebè vale circa 300 milioni. Ci si chiede se valga la pena di istituire nuovi
programmi, creando nuovi entitlement, su programmi così limitati. Per sostenere le famiglie e
incoraggiare la fertilità ci si può in gran parte avvalere su istituti esistenti, a partire
dall’ampliamento dell’offerta di asili nido. L’unica cosa è che fare di più di ciò che c’è già non
permette di fare annunci in Tv.
I tagli alle spese dei ministeri hanno più dettagli che in precedenti leggi di Stabilità. Questo è un
fatto positivo perché sembra testimoniare che non siano solo obiettivi generici, ma che siano stati
già identificati provvedimenti concreti. Il problema è che la somma di questi provvedimenti porta
risparmi per 1,7 miliardi al posto dei quasi 5 miliardi annunciati una settimana fa. Un esame più
approfondito delle singole voci è comunque fondamentale. Bene che il nuovo Ufficio parlamentare
di bilancio sia al lavoro.
Infine, le Province ci rimettono dalla manovra, con un taglio secco di 1 miliardo di spesa. Per i
Comuni il calcolo è più complesso. Anche loro devono ridurre le spese per 1,2 miliardi. Ma i
Comuni si vedono anche sbloccare 3,3 miliardi dal Patto di stabilità interno, compensati però dai
2,3 miliardi di spese non più effettuabili sulla base di crediti difficilmente esigibili. L’effetto netto è
dunque +1 miliardo che accoppiato alle riduzioni di 1,2 miliardi dà un saldo netto negativo di soli
200 milioni per il comparto. Ma naturalmente si tratta del pollo di Trilussa; le disposizioni
influenzano i diversi Comuni in modo diverso e quindi gli effetti netti su ciascun singolo ente
saranno molto diversi.
Bio dell’autore
Tito Boeri Ph.D. in Economia alla New York University, per 10 anni è stato senior economist
all’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, poi consulente del Fondo
Monetario Internazionale, della Banca Mondiale, della Commissione Europea e dell’Ufficio
Internazionale del Lavoro. Oggi è professore ordinario all’Università Bocconi, dove è anche
prorettore alla Ricerca, e Centennial Professor alla London School of Economics. E’ Direttore della
Fondazione Rodolfo Debenedetti, responsabile scientifico del festival dell’economia di Trento e
collabora con La Repubblica. I suoi saggi ed articoli sono scaricabili a questa pagina:
http://mypage.unibocconi.it/titomicheleboeri/ Redattore de lavoce.info. Segui @Tboeri su Twitter
Legge di Stabilità: la ‘grande
depressione’ europea è già
iniziata. Grazie anche a
Barroso
di Roberto Marchesi | 24 ottobre 2014
Non si capisce bene se a Barroso abbia dato più fastidio che Renzi abbia messo in piazza il suo
“promemoria di austerità” o se sia stato proprio il timore che l’Italia non rispetti i limiti del “patto di
stabilità” irresponsabilmente siglati due anni fa (non si capisce con quale criterio) a farlo arrabbiare.
In entrambi i casi però il primo a non capire sembra proprio essere lui, perchè o lui si mette le vesti
del gendarme (che controlla semplicemente in modo notarile il puntuale rispetto di regole senza
nemmeno chiedersi se sono utili e a chi) oppure continua a gingillarsi nei panni dello statista, e
allora non può ignorare quello che ormai tutto il mondo dice (facendosi pure risate di scherno sulla
insistenza di tenere in piedi una strategia che, ormai l’hanno capito anche i bambini, è perdente
sotto tutti i fronti. Dalla recessione non solo non siamo usciti in tre anni di durissima austerità,
servita solo a mettere in ginocchio l’economia di tutta l’Europa, ma stiamo entrando persino in un
vortice depressivo pericolosissimo perché è come i buchi neri, se ci entri non ne esci più e non
basteranno né l’austerità né le riforme sul lavoro a salvarci.
Dice Peter Morici su Fox News in “Europe great Depression“: “Across much of Europe Gdp is
shrinking faster than governments can cut spending, and sovereign debt burdens are becoming
worse, not better” (in gran parte d’Europa il Prodotto Interno Lordo si assottiglia più rapidamente
di ciò che i governi riescono a ridurre coi tagli, e il fardello dei debiti sovrani peggiora invece che
migliorare).
Fox News è uno dei maggiori media nazionali americani ed è il principale network mediatico
unanimemente considerato “vicino” al partito repubblicano che è, politicamente, il principale
sostenitore della linea di riduzione del debito pubblico. Perché allora proprio Fox News condanna
con un articolo di fondo scritto da un noto economista la politica di austerity europea? Tra l’altro
Morici non si limita a segnalare il pericolo di una entrata in depressione economica, come fanno già
da tempo diversi noti economisti, ma prende proprio in giro i responsabili del governo europeo (di
cui proprio José Manuel Durão Barroso è il presidente uscente) mettendo al suo articolo un titolo
che, richiamando la “Grande Recessione” (2007-2009), “battezza” la crisi europea addirittura
“Grande Depressione“, significando quindi che l’Europa sta entrando in una fase economicofinanziaria ben peggiore che una semplice, quantunque “grande”, recessione. E lui, che è stato al
vertice della Commissione Europea per tutti questi anni (dal 2004), non lo vede?
Lui ha attraversato stando sulla più alta poltrona del Commissione Europea tutte e tre le fasi della
crisi:
1) la fase della “bolla”, che ha preceduto la crisi (perché non ha fatto a quel tempo il gendarme,
richiamando all’ordine le grandi banche, anche europee, non solo americane, che prestavano soldi a
“ufo” a chiunque?)
2) la fase della crisi acuta in America (2007-2010), durante la quale l’Europa ha dato una grossa
mano alla ripresa americana facendo rivalutare l’euro per tutto il periodo e fino a quasi il 50% (2
anni fa). Devo dirglielo io a Barroso che un dollaro debole favorisce le esportazioni americane in
Europa e penalizza le esportazioni europee in America? Cosa ha fatto la Commissione Europea per
fermare Trichet (allora presidente Bce), quando in soli tre mesi nel 2011, ha alzato per ben due
volte il tasso di sconto alle banche, sprofondando immediatamente l’Europa in crisi di
liquidità proprio mentre la grande speculazione internazionale si preparava a lanciare fortissimi
attacchi finanziari all’Europa (vedasi: “Le cause della crisi europea, in successione quasi
cronologica“. Lui dov’era in quel dannato 2011? Che direttive ha dato?
3) la fase dell’inizio della crisi europea, legata al debito sovrano (iniziata a metà 2011). In questo
periodo sono iniziati gli attacchi della speculazione internazionale al debito sovrano dei paesi
europei. Ed è cominciato l’impennarsi del famigerato “spread” (differenziale tra il tasso del nostro
debito e quello del debito tedesco). Motivo? Il timore di un default dell’Italia, che non sarebbe
riuscita a rimborsare il suo debito. E chi ha messo in giro quelle voci? In quel periodo l’economia
italiana andava a gonfie vele. Certo, la politica faceva schifo anche più di oggi, ma agli investitori la
politica interessa molto poco quando c’è da far soldi. E l’Europa di Barroso e Trichet, invece di
sbarrare ogni entrata ai vandali della speculazione ha spalancato loro la porta. Così invece di
difendere l’economia europea da attacchi pretestuosi ha steso il tappeto rosso del benvenuto. Poi,
per completare l’opera e legare in modo definitivo i grandi paesi indebitati (come Italia e Francia),
riottosi a sostenere una politica che impedisce loro di difendersi nei modi tradizionali, hanno
imposto le regole dell’austerità e il tetto al debito (sebbene ogni economista di buon senso sappia
perfettamente che è l’autostrada più rapida per arrivare alla recessione certa).
E adesso che anche i capitalisti conservatori d’America ci avvertono (forse perché non conviene
nemmeno a loro) che l’Europa sta entrando in una bruttissima fase di depressione, Barroso che fa?
Si arrabbia con Renzi che gli fa capire (senza dirlo ovviamente) di star tranquillo e di pensare alla
pensione ormai prossima?
E’ noto che sul programma di Renzi sono moltissime le cose sulle quali è impossibile (in una seria
democrazia) concordare, ma se Renzi, in nome dell’Italia e dell’Europa, licenzia e respinge con
disdegno tutti i moniti e le reprimende dei Trichet e dei Barroso d’Europa, come si fa a non dargli
tutto il nostro incondizionato appoggio?
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