Introduzione alla Sacra Scrittura - corso ufficiale

“LA BIBBIA: PAROLA DI DIO PER L’UOMO”
(Note non riviste dall’autore)
INTRODUZIONE
Il Papa raccomandava alcuni anni fa di portare per le vacanze, tra gli altri libri da
leggere, il libro della Bibbia. Lo fa ancora nella “Tertio millennio adveniente” (n. 40),
in preparazione al Giubileo: “I cattolici tornino con rinnovato interesse alla Bibbia”. Qui
si colloca il perché di questo corso.
Si tratta, infatti, di un libro poco conosciuto, anche dagli stessi cristiani, che,
nonostante l’apertura del Concilio Vaticano II, mantengono con esso un rapporto
distante, fatto di timore, che non è quello santo con cui accostarsi a leggerlo, a causa
della sua non-comprensione.
Accanto ad evidenti motivi storici, quali la difesa anti-modernista, la pastorale
ecclesiastica non recepì, purtroppo, le indicazioni della “Divino Afflante Spiritu” di Pio
XII (1943), la quale, ricalcando la “Provvidentissimus Deus” di Leone XIII (1893),
oltre a rilanciare gli studi biblici secondo la moderna metodologia scientifica, proponeva
ed invitava a corsi biblici per la conoscenza e la diffusione dei libri su cui si fonda la
fede cristiana, quelli della Bibbia appunto, e preferì chiudere i medesimi alla lettura
personale, financo a considerare in maniera assurda peccato la loro lettura.
Il Concilio Vaticano II e la lungimiranza di Giovanni XXIII e di Paolo VI
abbattono gli ultimi baluardi di un edificio conservatore ormai in frantumi e la Bibbia
torna ad essere nelle mani di tutti, almeno in linea di principio.
La Bibbia rimane oggi il libro più acquistato e meno letto. Nonostante le
numerose traduzioni (CEI, TOB, in lingua corrente) ed i tanti sussidi messi a
disposizione per una migliore comprensione di essa, la Bibbia rimane un libro difficile,
oscuro, non di facile comprensione. Si preferisce abbandonarlo dopo le prime pagine,
mentre si relega la sua lettura ai brani della Messa domenicale, i quali non si
comprendono neppure. Ciò a causa di tanti fattori, quali la perdita di familiarità con il
modo di pensare e, dunque, letterario (cioè modo di scrivere) della Bibbia stessa e, in
non pochi casi, la superficialità e la trascuratezza dei pastori, che spesso non si
impegnano a studiare prima loro medesimi e a spezzare poi al popolo santo di Dio la
Parola.
Questo corso risponde alla insistente richiesta di buona parte del popolo di Dio,
desideroso di conoscere e capire la Bibbia, non soltanto da un punto di vista
intellettuale, come dato culturale e scientifico, ma anche e soprattutto dal punto di vista
del cuore e della fede, come sacramento di quella Parola di Dio che come afferma san
Paolo in 1 Tessalonicesi, opera in colui che crede.
Scopo del corso non è una lettura biblica né tanto meno una lectio divina, ma
una introduzione alla lettura della Bibbia.
Spiegando il processo ed il contesto di formazione di libri sacri nella loro
divisione interna alla medesima Bibbia, ed illustrando le diverse forme e i vari generi
letterari adottati dagli autori sacri, questo corso intende facilitare l’accostamento
personale alla Bibbia, fornendo piste e chiavi di lettura senza tralasciare la lettura vera e
propria di alcuni brani, proposti anche dall’uditorio attraverso domande in merito.
Ciò perché, avveratasi la profezia di Amos (8, 11-12) che così predice: “Ecco,
verranno giorni, dice il Signore Dio, in cui manderò la fame nel paese, non fame di
pane né sete di acqua, ma d’ascoltare la parola del Signore. Allora andranno errando
da un mare all’altro e vagheranno da settentrione a oriente, per cercare la parola del
Signore, ma non la troveranno”, possa conpiersi oggi la profezia di Geremia (31, 34):
“Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri dicendo: “Riconoscete il Signore”, perché
tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande, dice il Signore”.
Ascoltiamo oggi la sua voce per entrare nel suo riposo e dare ragione così della
speranza che è in noi a quanti ce lo chiedono e a quanti travisano le medesime parole
della scrittura (fondamentalismo e spiritualismo).
2
ALCUNE NOTE DI TEOLOGIA FONDAMENTALE
La Bibbia è il sacramento della Parola di Dio: la Parola di Dio non si identifica
con la Bibbia. La Parola di Dio è Dio stesso nella persona di Gesù: la Bibbia ne è il
sacramento.
Come noi teniamo il Corpo e il Sangue di Gesù nelle mani sotto le specie del
pane e del vino, così teniamo la Parola di Dio nelle mani sotto le specie della Scrittura,
della Bibbia: e così pure la leggiamo e la proclamiamo liturgicamente.
Attraverso la sua Parola, Dio si rivela all’uomo parlandogli e incontrandolo nella
sua situazione storica: ciò con eventi e parole intimamente connessi tra loro, in modo
che le opere illuminino le parole e le parole le opere (Dei Verbum 2). Ecco perché la
Parola di Dio che è Cristo, si è fatta carne e nella Bibbia si segue la logica
dell’Incarnazione nell’intreccio di parola umana e parola divina che svela il mistero di
Dio, vicino e insieme imprendibile.
La Parola di Dio si lascia rinchiudere nei limiti e nelle contraddizioni della
parola umana: ma proprio questo scandalo per ogni uomo e per ogni cristiano fa sì che
Dio rimanga Altro, sempre al di là di ogni parola e di ogni concetto definitorio, eppure
presente con forza nella storia di ogni uomo e di tutti gli uomini di tutti i tempi. Lo
scandalo della croce che rivela Gesù come Cristo e, dunque, la sua figliolanza divina e
la sua divinità nel rapporto con il Padre e nel dono dello Spirito (rivelazione della
Trinità), si ripete necessariamente, e doveva così essere per l’identità Cristo-Parola di
Dio, nella caduta chenotica della parola nella Scrittura, nella traccia scritta, realtà
simbolica di presenza-assenza, di pienezza-svuotamento.
La Dei Verbum (DV) esprime chiaramente quanto detto. Inoltre, la Costituzione
Dogmatica mette in luce alcuni punti riguardanti la Parola di Dio e la Scrittura che qui
brevemente riassumo.
3
Sacra Tradizione e Sacra Scrittura
Riconosciuti la natura divina della Parola ed il carattere rivelatorio della
medesima in Cristo, la DV afferma la coesistenza di una tradizione orale e di una scritta
della medesima Parola: la seconda non è il deposito scritto della prima solamente, e la
prima non è diversa od opposta alla seconda (DV 9). Sacra tradizione e Sacra Scrittura
costituiscono un solo sacro deposito della Parola di Dio affidato alla Chiesa (DV 10),
sono tra loro congiunte e comunicanti e formano in certo qual modo una sola cosa,
tendendo allo stesso fine. Infatti la Sacra Scrittura è la Parola di Dio in quanto è messa
per iscritto sotto l’ispirazione dello Spirito Santo; la Sacra Tradizione trasmette
integralmente la Parola di Dio, affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli
apostoli e ai loro successori affinché questi, illuminati dallo Spirito di unità, con la loro
predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano (DV 9).
Se alcune cose tramandate oralmente sono state poi fissate per iscritto a formare
la Bibbia, altre hanno trovato posto in scritti non biblici, in atti liturgici ed in
consuetudini. Ciò vale sia per l’Antico Testamento e l’ambiente giudaico sia per la
Chiesa.
Per il primo si ha:
Mosè ⇒ Bibbia: Tanak e altri scritti ⇒ rabbini con scritti
Per il secondo si ha:
Mosè ⇒ Cristo ⇒ Apostoli ⇒ Bibbia ⇒ Padri, Magistero, Liturgia (Credo).
La continuità è data dalla successione apostolica con i Vescovi per la Chiesa. La
nostra fede si basa su questa successione: noi crediamo sulla testimonianza di altri che
hanno visto, udito e toccato con mano; testimonianza che facciamo nostra attraverso una
catena di tradizioni che ha carattere di sacralità religiosa grazie all’intervento dello
Spirito Santo (Battesimo, Cresima, Eucaristia e Ordinazione episcopale). La tradizione
progredisce nella Chiesa sotto l’assistenza dello Spirito Santo: la comprensione degli
eventi e delle parole divine cresce con la riflessione e lo studio dei credenti, con la loro
contemplazione, con la predicazione (8).
4
L’ispirazione
La Bibbia è ispirata: autore ne è lo Spirito Santo. “Per la composizione dei libri
sacri Dio scelse degli uomini, di cui si servì nel possesso delle loro facoltà e capacità,
affinché, agendo egli in essi e per loro mezzo, scrivessero come veri autori, tutte e
soltanto quelle cose che egli voleva fossero scritte” (DV 11).
Il concetto di una parola ispirata è presente nel popolo ebraico e negli autori
neotestamentari:
per il primo: Is 34,16 nel “libro di Jhwh”, probabilmente una prima raccolta di
profezie isaiane, presenta “la bocca del Signore e il suo Spirito”; Ne 9,3.20 attribuisce la
Torah allo Spirito di Dio; GF (verso il 95 d. C.): “Tra noi non è permesso a tutti di
scrivere la storia, ma soltanto i profeti raccontarono con chiarezza i fatti lontani e
antichi per averli appresi mediante ispirazione divina (kata ten epinoian ten apo theou
mathonthon)e quelli contemporanei per esserne testimoni. Per questo non esiste tra noi
un’infinità di libri discordi e contraddittori, ma 22 soltanto che abbracciarono la storia
di tutti i tempi e che sono giustamente considerati come divini.” (CA I,8, 37-38).
per il secondo: Mc 12,36: “Davide, mosso dallo Spirito Santo, ha detto”; At
1,16; 4,25 ancora su Davide ispirato; Eb 3,7 introduce il Sal 95,7-11 con l’espressione
“Come dice lo Spirito Santo”.
Testi biblici fondanti l’ispirazione:
a) 2Tm 3,14-16: “ispirata da Dio”, un aggettivo verbale che ha significato
passivo come risulta da un confronto con la letteratura ellenistica per ciò che
concerne l’uso del termine, un hapax biblico, sia perché lo Spirito agisce
come soggetto di ispirazione nei confronti di persone e realtà.
b) 2Pt 1,16-21: momento di riconoscimento delle scritture proprie del
cristianesimo attraverso la prova della Trasfigurazione e del carattere ispirato
della Scrittura che servono a spiegare il ritardo della parusia. Si afferma così
il carattere ispirato della S. S. (lo Spirito Santo spinge gli uomini a parlare in
nome di Dio, la natura dell’ispirazione, che è un’azione di Dio in e per
mezzo degli uomini, non un’azione umana, il bisogno di un’autorità
divinamente ispirata per l’interpretazione medesima della S.S. Le
5
annotazioni sul carattere ispirato delle antiche Scritture vengono formulate in
un momento in cui il canone della Chiesa apostolica comincia ad apparire
articolato nelle sue due grandi sezioni. (vd. 1Tm 5,18 che cita come Scrittura
Lc 10,7 e 2Pt 3,16 che accosta le Lettere di Paolo alle altre Scritture).
I Padri:
I Padri si impegnarono a sostenere:
a) Dio come Autore: S. Agostino scrive: “Come l’unico e vero Dio è il creatore
dei beni temporali e dei beni eterni, così egli medesimo è l’autore di entrambi i
Testamenti, poiché il Nuovo è figurato nel Vecchio e il Vecchio è figurato nel
Nuovo” (Contra Adversarios legis et prophetarum 1,17,35), per cui si
contrastavano le eresie gnostiche, marcionite e manichee, che opponevano i due
testamenti come fossero due economie di salvezza diverse;
b) l’uomo come strumento di Dio: strumento musicale nel quale si soffia
(Atenagora), cetra toccata dal plettro (Anonimo, Cohhortatio ad Grecos 8), non
sotto un’alienazione mantica ed estatica simile agli oracoli pagani come
affermava Montano; contro di lui Girolamo scrive: “Non è vero, come si
immagina Montano con le donne insipienti, che i profeti abbiano parlato in
estasi, così da non sapere ciò che dicevano” (Prologo ad Is. In PL 24,19); vd.
DAS p. 6;
c) la Scrittura come manifestazione della condiscendenza (sunkatabasis) di Dio
e sua lettera: concezione nata con Origene e sviuluppata dal Crisostomo, per il
quale essa è “l’apparire e il mostrarsi di Dio, non come egli è, ma come può
essere visto da colui che è capace di tale visione, offrendo il suo aspetto alla
debolezza di chi lo guarda” (De Incomprehensibili Dei natura: PG 48,722A). La
sua affermazione è ripresa dalla Divino Afflante Spiritu: “In effetti, come il
Verbo sostanziale di Dio si è fatto simile agli uomini in tutto, eccetto il peccato
(Eb 4,15), così anche le parole di Dio, espresse con lingua umana, si sono fatte
somiglianti al linguaggio umano in tutto, eccettuato l’errore. In questo consiste
quella condiscendenza del provvido nostro Dio, che già S. Giovanni Crisostomo
6
con somme lodi esaltò e più volte asseverò trovarsi nei Libri Sacri” (p. 6 ripreso
da DV 13).
I Concili
Puntano la loro attenzione nel tempo su:
a) L’ORIGINE DIVINA DEI DUE TESTAMENTI E DIO QUALE
AUTORE:
Concilio I di Toledo (400 circa): “Se qualcuno afferma e crede che c’è un Dio
dell’antica Legge e un altro Dio del Vangelo, sia anatema”: è la più antica
professione di fede sul carattere ispirato dei due testamenti;
Statuta Ecclesiae Antiquae (fine V sec.): “Se egli crede che Dio è l’unico e
identico autore dell’AT e del NT, cioè della Legge, dei Profeti e degli Apostoli”
(può essere ordinato vescovo)
Concilio di Firenze (XVII ecumenico) nel Decreto per l’unione con la Chiesa
cattolica da parte dei Giacobiti copti ed etiopi monofisiti in data 4 febbraio 1442
vi aggiunge l’ispirazione: “La Santa Romana Chiesa professa che un solo ,
identico Dio è autore dell’AT e del NT, cioè della Legge, dei Profeti e del
Vangelo, perché i santi dell’uno e dell’altro Testamento hanno parlato sotto
l’ispirazione del medesimo Spirito Santo. Essa accetta e venera i loro libri, che
vengono indicati con questi titoli…”;
b) IDENTICA NATURA DIVINA DI TUTTI I LIBRI (contro i Riformatori
che avevano adottato l’AT secondo il canone ebraico, escludendo i
“deuterocanonici” scritti in greco):
Concilio di Trento nel Decreto sui libri sacri e sulle Tradizioni da ricevere,
Sessione IV, 8 Aprile 1546 (vd. fotocopia allegata p. 406). Il Tridentino riprende
la formulazione di Dio quale autore dei libri dell’AT e del NT; usa per i libri
biblici l’espressione “sacri e canonici”, cioè ispirati e normativi; usa il verbo
7
dictare non solo per i libri biblici, ma anche per la tradizione orale, con il
significato qui non di “dettare”, ma “prescrivere, insegnare, suggerire”.
c) DEFINIZIONE DOGMATICA DELL’ISPIRAZIONE:
Concilio Vaticano I in Dei Filius (24 Aprile 1870), cap. 2 De rivelatione, e
canone 4: “La Chiesa ritiene i libri dell’Antico e del Nuovo Testamento sacri e
canonici, non perché, composti per iniziativa umana, siano stati approvati dalla
sua autorità, e neppure soltanto perché contengono la Rivelazione senza errore,
ma perché scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio come autore e
come tali sono stati consegnati alla Chiesa”. Ci si oppone qui alla teoria
dell’approvazione susseguente (identifica ispirazione e canonicità: un libro
composto con le sole capacità umane poteva divenire ispirato qualora la Chiesa
lo riconoscesse tale e lo inserisse nel canone: un libro è ispirato perché è
canonico) sostenuta dal benedettino Daniele von Haneberg, Vescovo di Spira
(+1876) e a quella dell’assistenza negativa (identifica ispirazione e inerranza:
l’ispirazione è volta a far evitare errori) sostenuta da Bonfrère e altri.
d) SVILUPPO DELLA DOTTRINA DELL’ISPIRAZIONE SINO AL
VATICANO II:
La Providentissimus Deus di Leone XIII (18 Novembre 1893) e la Divino
afflante Spiritu di Pio XII (30 Settembre 1943). La prima, nel contesto
dell’inerranza, stabilisce che (vd. allegato p. 410): il rischio qui è di far
coincidere Dio con l’agiografo quale autore letterario, giacchè l’influsso
ispirativo di Dio interessa tutto il processo psicologico che conduce all’opera
letteraria nei suoi tre momenti, intellettivo, volitivo e operativo, cioè
conoscenza, decisione di oggettivare letterariamente ed esecuzione. Lo stesso
concetto è ripreso da Benedetto XV nell’Enciclica Spiritus Paraclitus (1920). La
seconda DAS rivaluta l’agiografo come strumento vivo (vd. allegato p. 410). In
questo Pio XII rivaluta la categoria di instrumentum tipicamente tomista; p.
Lagrange distinguerà allora tra causa principale, Dio, e causa strumentale,
8
l’uomo, fra le quali non esiste contrapposizione. Rahner parlerà di Dio come
autore dei libri, in quanto autore della Chiesa apostolica come norma oggettivata
per mezzo di testimonianze scritte e orali. L’agiografo è l’autore letterario, Dio
l’autore quale causa agente. Congar afferma contro Rahner che la Chiesa aveva
la consapevolezza di possedere delle Scritture che ne fissavano per iscritto la
fede e che esse erano redatte da singoli con il carisma dell’ispirazione: gli
agiografi sono veri autori e non operai della Chiesa.
Benoit parla di analogie dell’ispirazione, situando l’ispirazione biblica nel
contesto carismatico. Sviluppando la sua intuizione. Grelot distingue:
1. carisma profetico nell’AT e apostolico nel NT per annunziare la Parola di
Dio;
2. carisma funzionale, di cui godettero quelli che intervennero per conservare e
trasmettere la Parola;
3. carisma scritturistico, per fissare per iscritto la Parola.
Non sappiamo come si leghino gli ultimi due.
A. Schoekel studia il concetto di ispirazione agganciandolo a quello della
creazione letteraria in tre tempi: raccolta di materiali, intuizione, esecuzione.
L’ispirazione interviene negli ultimi due: l’ispirazione biblica è essenzialmente
un carisma di linguaggio. L’ispirazione si estende fino alla formulazione
materiale dei concetti con parole umane che analogicamente sono parole di Dio
Il Canone
La tradizione fa conoscere alla Chiesa il canone integrale di libri sacri attraverso
la regola della fede: un libro è canonico se risponde alla fede della comunità che lo
legge e che l’ha tradotto (cfr. DV 8). Canone significa appunto “norma” (Gal 6, 14-16).
Nei primi secoli della Chiesa con l’espressione “canone della verità” si indica il nucleo
centrale della dottrina apostolica, in base al quale si giudica la verità di alcuni
insegnamenti. Soltanto nel IV sec. il termine canone indica l’elenco delle Scritture.
Atanasio nel 367 nella Lettera festale distingue tra kanonizomena e apokryfa e fornisce
l’elenco dei libri canonici dell’Antico e del Nuovo Testamento, per quest’ultimo di 27
9
libri e così lo riprenderà Trento, come prima Eusebio aveva distinto fra gli endiathkos, i
“libri testamentari”, tre gruppi:
omologoumena, libri da tutti accettati;
antilegoumena, libri discussi da molti;
notha, cioè spuri.
Dopo il Concilio di Trento, per distinguere i libri non accolti nel canone dei
Riformatori, Sisto da Siena (+1569) introdusse la terminologia di protocanonici e
deuterocanonici, questi ultimi assai discussi per ciò che concerne la loro canonicità
prima di essere accolti dalla Chiesa. I deuterocanonici sono 7 per l’AT: Tb, Gdt, 1 e
2Mac, Bar, Sir, Sap, Dn 13-14, Est 10,4—16,24; e 7 per il NT: Eb, Gc, Gd, 2 e 3 Gv, 2
Pt, Ap: vd. Tabet 86.92). Per i deuterocanonici dell’At la discussione si avviò dal
canone chiuso adottato dagli ebrei che riscosse la simpatia delle comunità cristiane
viventi a contatto con quelle ebraiche. Inoltre il timore che gli apocrifi penetrassero
nella pratica ecclesiale fece sì che alcune chiese non accettassero se non i libri sicuri,
che presentavano una tradizione stabile e ferma. La discussione si concluderà nel V/VI
sec. allo stesso modo i deuterocanonici del NT: le difficoltà di comunicazione e la
diversità culturale non facilitavano la trasmissione degli scritti, che rimanevano presso
la comunità alla quale erano destinati, gli apocrifi facevano accettare difficilmente libri
non consolidati dalla tradizione, il fatto che tali lettere giustificassero alcune tesi degli
eretici ne rese timido l’uso.
Il canone indica dunque la lista ufficiale di quei libri che la Chiesa accoglie e
riconosce come facenti parte della sua fondazione a comunità di fede; in quanto
canonici quei libri servono come norma profetica e apostolica di ciò che è proprio e
legittimo nella trasmissione della verità rivelata e nella strutturazione della vita
cristiana. Un libro è canonico perché è ispirato. In tal caso esso diventa normativo. La
Bibbia è “norma normans non normata”
Un primo canone delle Scritture ebraiche è dato nel prologo del Sir con le tre
parti Torah, Profeti e Scritti, questi ultimi non definitivi, cui si deve aggiungere quello
di Flavio Giuseppe in Contra Apionem 1,8 (Vd. Fabris p. 384), che conta 22 libri in
corrispondenza delle lettere dell’alfabeto, mentre l’apocrifo 4Esdra 14,18-47 menziona
10
24 libri. La discussione sulla canonicità dei libri del terzo gruppo cominciò a quietarsi
soltanto dopo il 70 d. C., quando cioè l’ebraismo sentì la concorrenza del nascente
movimento cristiano che fissava anch’esso un canone di libri sacri, includendovi i
deuterocanonici presenti nella LXX. Quest’uso da parte cristiana ha fatto ritenere che vi
fosse un canone alessandrino distinto e diverso da quello palestinese, ipotesi smentita
dalla critica sia perché la redazione della LXX abbraccia circa tre secoli, il che indica la
non esistenza di un canone rigido delle Scritture ebraiche, sia perché i codici
differiscono sulla presenza o meno di un libro nella LXX medesima. Inoltre non
esisteva un canone rigido per l’ambito palestinese per ciò che concerne gli Scritti, la
terza parte della Bibbia ebraica: lo dimostra Qumran con la presenza di Bar 6, Tb e Sir e
il fatto che Jamnia non stabilì rigidamente un canone per gli scritti, ma solo per Torah e
profeti. Infatti Qo e Ct furono ancora oggetto di discussione, mentre il Sir fu letto (un
rotolo ebraico del Sir è stato ritrovato nel 1964 a Masada, ultima roccaforte della
resistenza ebraica contro i romani). I criteri seguiti a Jamnia, che escluse i libri scritti in
greco, furono i seguenti:
a) antichità del libro (prima del profeta Malachia)
b) libro scritto in ebraico
c) conformità del libro alla dottrina farisaica
Gli autori cristiani ritengono subito i libri dell’AT come canonici, ma la
questione è più complessa. 2Pt 3,15 parla di un Corpus paulinum, Giustino verso la
metà del II sec. testimonia dell’uso liturgico di Profeti e Vangeli o Memorie degli
Apostoli, il Diatessaron di Taziano composto a Roma tra il 170 e il 180 d. C. dice di una
presenza dei 4 Vangeli riconosciuti come canonici, ma la dicitura NT è attribuita a
Tertulliano nel 200. Importante per i testi canonici del NT è il Canone Muratoriano dal
nome del suo scopritore L. A. Muratori che lo rinvenne nel 1740 in un manoscritto
dell’VIII sec. della Bibbia Ambrosiana proveniente da Bobbio. L’elenco, il più antico
dei libri del NT, è mutilo dell’inizio e forse della fine. Pare sia databile attorno al II sec.
d. C.; il luogo di composizione sembra essere Roma, la lingua il greco e il latino.
Sconosciuto l’autore, difficile l’attribuzione a Ippolito (vd. Fabris 389). Il frammento
sostiene il carattere normativo dei 4 Vangeli, degli Atti degli Apostoli, di tredici lettere
11
paoline, di Gd e 1-2 Gv, dell’Ap. Non include Eb, 1-2 Pt, Gc e 3Gv, mentre accetta
come cristiano il libro della Sapienza.
In questo giocò molto l’eresia di Marcione (rifiutava l’AT e del NT leggeva solo
10 lettere di Paolo, tranne le Pastorali ed Ebrei, e il Vangelo di Lc, epurato dai rimandi
alla Legge di Mosè) e degli gnostici come pure il contatto tra comunità ebraiche e
comunità cristiane. Alcuni autori optarono poi per il canone ebraico (Origene, Atanasio,
Cirillo di Gerusalemme, Girolamo), altri (Agostino) per quello ampio comprendente i
deuterocanonici giacchè usati nella liturgia di numerose Chiese e importanti per la
dottrina e la vita. I concili di Ippona (393) e di Cartagine (397 e 419) sancirono il
canone ampio, confermato da papa Innocenzo I nel 405, ma tali pronunciamenti non
furono ritenuti definitivi. Lo stesso accadde per il canone lungo del concilio di Firenze
(1441) ripreso poi a Trento e che comprende l’antica edizione latina Volgata e la
versione greca dei LXX (Decretum de libris sacris et de traditionibus recipiendis dell’8
Aprile 1546: “Se qualcuno non accogliesse come sacri e canonici gli stessi libri interi,
con tutte le loro parti, come si è soliti leggerli nella Chiesa cattolica e si trovano
nell’antica Volgata latina, e consapevolmente disprezzasse le suddette tradizioni: sia
anatema”).
Per il NT è importante per la canonicità di un libro:
provenienza apostolica: “il riconoscimento dello straordinario e ristretto arco di
tempo in cui la sua fondazione fu portata a termine dal ministero di insegnamento degli
apostoli e dei loro stretti collaboratori”.
conformità alla regola della fede
l’uso liturgico
Il problema del canone nel canone:
a) canonal criticism (Sanders, Childs): un libro va studiato tenendo conto del
canone dei libri in sé e dell’intero canone biblico. Per Sanders non si devono
comunque trascurare le diverse tradizioni, giacchè concorrendo alla
redazione finale e canonica del libro, rilevano conseguentemente lòa loro
canonicità;
12
b) Protocattolicesimo di von Harnack, Bultmann, Kaesemann: solo un nucleo di
ciò che i libri biblici contengono è ispirato, perché riguarda la fede, il resto
non è ispirato (vd. Fabris 393), in quanto fa parte di tutto quel processo
storico, che investe per Bultmann anche alcune parti del NT, attraverso il
quale il genuino cristianesimo evangelico degenerò nel cattolicesimo con le
sue istituzioni cultuali, gerarchiche, la sua dottrina specifica. Occorre allora
stabilire un “canone nel canone”, distinguendo ciò che è normativo e
obvbligante da ciò che non lo è. Il criterio di distinzione è dato dalla
giustificazione in virtù della fede. L’asserto è stato criticato ribadendo la
verità dell’intero NT, pur nella sua diversità, che testimonia la ricchezza e la
pluralità di espressione non solo del cattolicesimo, ma primariamente del
cristianesimo.
Il Magistero interpreta
Interpreta autenticamente la Parola di Dio scritta o trasmessa il magistero vivo
della Chiesa, che esercita la sua autorità nel nome di Gesù Cristo. Il magistero non è
però al di sopra della Parola di Dio, ma la serve, assistito dallo Spirito Santo, per divino
mandato piamente la ascolta, santamente la custodisce e fedelmente la espone. Da
questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone da credere come rivelato
(DV 10).
Inerranza e verità della Bibbia
In questa ottica si comprende l’inerranza della Scrittura, che non ha nulla di
materiale e non è contro lo sviluppo culturale e scientifico nella storia. Il non sbagliare
della Scrittura riguarda la verità che Dio, per la nostra salvezza, volle fosse consegnata
nelle sacre lettere (DV 11). Già Galilei affermava che la Sacra Scrittura insegna non
come si muove il cielo, ma come si va in cielo. Affermata da Leone XIII nella PV a
fronte delle conclusioni delle nuove discipline umane, che affermavano la presenza di
errori. Una proposta di soluzione era stata avanzata dal Rettore dell’Institut Catholique
13
di Parigi, mons. Maurice D’Hulst, con Jean Didiot, Rettore di Lilla, che giudicava
l’inerranza alla stessa stregua dell’infallibilità del Papa, promulgata dal Vat. I, in
materia di fede e morale (Fabris, 416). Questa la risposta dell’enciclica: “ sarebbe del
tutto illecito sia il restringere l’ispirazione solo ad alcune parti della Sacra Scrittura, sia
l’affermare che lo stesso agiografo ha errato. Né si può tollerare il modo di fare di
coloro che credono di superare tante difficoltà affermando che l’ispirazione riguarda le
cose delkla fede e dei costumi e nient’altro, poiché ritengono falsamente, trattandosi
della verità delle asserzioni, che non tanto bisogna ricercare quali cose abbia detto Dio,
quanto piuttosto per quale scopo le abbia dette. Infatti tutti i libri della Sacra Scrittura,
con tutte le loro parti, sono stati scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo. Quindi
non vi può essere errore nella divina ispirazione, a tal punto che essa non solo esclude
per se stessa ogni errore, ma così necessariamente lo esclude e lo respinge come è
necessario che Dio, somma Verità, non sia per nulla autore di alcun errore. Questa è
l’antica e costante fede della Chiesa”. L’enciclica è seguita da Benedetto XV con la
Spiritus Paraclitus (1920) e da Pio XII con la DAS: tutte si esprimono in negativo sulla
inerranza limitata. In positivo sull’inerranza della Scrittura in ogni campo si esprimeva
lo schema preparatorio “De Fontibus Revelationis” che i Padri conciliari del Vat. II
discussero e respinsero nella prima sessione del Concilio (novembre 1962), visto il
carattere della sua assolutezza (l’inerranza è applicata a “qualunque cosa religiosa o
profana”)
vd. Fabris, 417.
L’indicazione del Vat. I non andava secondo lo schema preparatorio del Vat. II:
infatti non legava ispirazione e inerranza, giudicava l’inerranza una qualifica della
Rivelazione da ancorare alla verità di Dio che ispira gli autori della Sacra Scrittura e
non la assimilava all’infallibilità del papa. Fabris, 417.
Il Vat. II e la DV 11: il “per la nostra salvezza” quale angolo formale di visione
(carattere dichiarativo, non limitativo); DV 12 per l’interpretazione e la distinzione tra
l’intenzione dell’agiografo e quella di Dio.
La Scrittura è allora una realtà teandrica per ricercarne il senso profondo, quello
spirituale vero, non si può saltare il senso letterale espresso secondo lo stile e le forme
letterarie proprie del tempo dell’autore e della sua cultura. Inoltre si deve badare al
14
contenuto e all’unità della Scrittura, alla Tradizione e all’analogia della fede. Non deve
scandalizzare la parola umana della Bibbia: Dio nella sua “condiscendenza” ha assunto
la natura umana e incontra l’uomo nella sua storia, nella concretezza della sua vita,
celandosi spesso nelle pieghe di essa (Elia e la brezza).
La Chiesa venera le Scritture come il corpo di Cristo (DV 21): per questo esorta
i fedeli ad apprendere la sublime scienza di Gesù Cristo con la frequente lettura delle
divine Scritture. “L’ignoranza delle Scritture, infatti, è ignoranza di Cristo” (San
Girolamo in DV 25). Ciò perché la Chiesa di Cristo, tutta ministeriale e comunionale
annunzi la salvezza al mondo intero il quale ascoltando creda, credendo speri, sperando
ami.
15
STRUTTURA DELLA BIBBIA
Materiale scrittorio, lingue, manoscritti: presentazione generale
La Bibbia che noi abbiamo è tradotta per l’Antico Testamento (AT) dal TM, un
testo ebraico vocalizzato (l’ebraico non ha vocali) tra il VI e il X secolo d. C. dai
Masoreti, maestri ebrei, e che si avvicina all’originale per il confronto del TM con altri
testi della Bibbia in papiri e pergamene (critica textus); per il Nuovo Testamento (NT)
dal greco (lo stesso per la critica textus).
Più precisamente:
1. la critica testuale si ripropone di ricostruire la forma più vicina possibile
all’originale. Essa si occupa dei testimoni del testo e della loro storia, a
partire dalla fattura dei mss. e dai metodi di trasmissione del testo stesso e
dalla storia dello studio di tale testo. Inoltre si avvale di principi scientifici
per scegliere la lezione migliore fra le varianti di un testo;
2. la paleografia (scrittura antica) è la scienza che si occupa dello studio delle
grafie antiche e di tutte le caratteristiche di una superficie scritta: materiale,
stile di scrittura, presenza di segni diacritici e di interpunzione, fattura dei
libri antichi.
Il materiale scrittoio è costituito per i mss. ebraici da pergamena e papiro; i mss.
greci del NT più antichi sono su papiro, i più numerosi sono su pergamena. Parti
del testo biblico sono copiate su cocci (ostraka) o altro materiale.
1. Il papiro designa la pianta e la carta con essa prodotta. Le strisce, di
opportuna lunghezza si accostano e si sovrappongono le une perpendicolari
alle altre, quindi vengono essiccate e poi pressate. I fogli, essiccati poi al
sole, venivano incollati per formare il rotolo (tomos), in media di 20 fogli.
Sulle fibre orizzontali presenti all’interno (recto) era più facile scrivere che
su quelle verticali (verso) sul lato del papiro. Per scrivere si usava una canna
16
appuntita, il kalamos, e un inchiostro nero. Il papiro è usato sin dal III
millennio a. C. in Egitto. La carta più fine è la più antica.
2. Il codice è costituito da tavolette di legno incerate unite da legacci passanti
per fori laterali e costituisce il primo stadio del libro. Il libro deriva il suo
nome dal latino liber che designa la membrana sottostante la corteccia degli
alberi, utilizzata per scrivere (designa perciò anche la parte interna del fusto
di papiro). La parola carta deriva dal greco chartes che indica il rotolo non
scritto.
3. La pergamena deriva dalla pelle animale, usata come materiale scrittorio
dall’VIII sec. in Persia. Può essere ricavata ovunque e raschiata e riscritta (da
qui i palinsesti: su 241 codici maiuscoli del NT 55 sono palinsesti. Il più
celebre palinsesto biblico è quello denominato C o O4 del V sec., contenente
AT e NT, riutilizzato nel XII sec. per la versione greca dell’opera di Efrem il
Siro, da cui discende il nome di Efrem rescritto). Il costo è più alto rispetto al
papiro, vi si devono tracciare le righe e la superficie riflette meglio la luce e
perciò stanca l’occhio. L’inchiostro usato era nero o marrone, per le lettere
iniziali il rosso (ruber, da cui rubrica).
4. La carta fu inventata dai cinesi nel I sec. d. C. e diffusa dagli Arabi nell’VIII
sec. I codici in pergamena furono sostituiti da quelli di carta a partire dal
XII-XIII sec.
La forma più antica del libro fu il rotolo, chiamato volumen “ciò che si gira”: sul
bastoncino iniziale si indicava il contenuto, era scritto in colonne solo
dall’interno, si leggeva con entrambi le mani per svolgere e riavvolgere. Il
codice soppiantò il rotolo perché più pratico a leggersi (una sola mano), poteva
essere scritto da entrambi i lati, poteva contenere più testi in un unico libro. I
cristiani lo usarono di contro al rotolo degli ebrei. I mss. del NT sono in codice,
quelli ebraici in rotolo. I codici ebraici appaiono nell’VIII sec. d. C. I più antichi
codici di papiro sono biblici. I codici si arricchirono di pagine, giacché formati
da più fascicoli di fogli piegati a metà (all’inizio erano solo quattro, come attesta
il nome latino quaternio). Il testo, come nei rotoli, era suddiviso in colonne; la
17
suddivisione in libri delle opere antiche corrisponde alla lunghezza media di un
rotolo che era circa di 9-10 m. al massimo.
La Bibbia si compone di 46 libri dell’AT e 27 del NT per un totale di 73
libri.
Il nome Bibbia deriva dal greco biblia, plurale di biblion, a sua volta diminuitivo
di biblos o bublos, termine con cui si indicava il rotolo scritto e significa “i libri” (ta
biblia: 1Mc 12,9; 2Mc 2,13 per definire la raccolta delle tre parti della Bibbia ebraica),
in italiano è poi passato al singolare per indicare tutto il libro.
Le lingue originali della Bibbia sono tre: l’ebraico (AT), l’aramaico (Daniele 2,4
- 7,28; Esdra 4,8 - 6,18; 7, 12-26; Ger 10,11; due parole di Gen 31,47 e per parti di Tb,
Gdt, Bar, 1Mc, frammenti di Ester, Sir, scritti in ebraico o in aramaico originariamente,
anche se pervenuti in greco) e il greco di Sap, 2Mc, aggiunte a Dn e Ester, del NT
Sia l’ebraico che il greco derivano dall’alfabeto fenicio: il primo è consonantico,
il secondo è vocalico.
Dal fenicio derivarono il paleoebraico e l’aramaico. Dall’aramaico derivarono
gli alfabeti siriaci e tra questi, nato da una forma corsiva, l’ebraico quadrato, uniformato
nel I sec. a. C. L’ebraico fa parte delle lingue cananaiche nord- occidentali, sviluppatosi
a partire dal IX sec. a. C. con differenze registrabili nei testi biblici sino al post esilio,
quando gli scribi risolsero uniformando le divergenze linguistiche. La lingua migliore fu
quella dell’età monarchica e del Proto- Isaia. L’esilio babilonese determinò la
scomparsa dell’ebraico come lingua parlata (fu lingua sacra liturgica e per gli scritti
biblici) e il prevalere dell’aramaico imperiale (VIII-III sec. a. C.). L’aramaico biblico fa
parte delle lingue semitiche nord- occidentali e si divide in:
a) aramaico antico (IX-VIII sec. a. C.);
b) aramaico classico (VII sec. a. C. - era cristiana) parlato nei grandi imperi
orientali (assiro, babilonese, persiano);
c) aramaico recente (Targumim, Talmud j e b).
L’aramaico biblico è una variante di quello imperiale; i suoi testi sono databili tra V e II
sec. a. C.
18
Il greco biblico è quello della koinè, un dialetto greco antico con assunzione di elementi
ionici, al quale si aggiunsero gli influssi di altre lingue, oltre i mutamenti suoi propri.
Nacque con le conquiste di Alessandro Magno e fu la lingua internazionale del mondo
ellenistico. Il greco biblico comprende il greco della LXX e il NT, che linguisticamente
dipende dalla LXX, la quale ultima possiede una lingua di traduzione (però Sap è stato
composto direttamente in greco nel I sec. d.C.). Il NT rappresenta un ulteriore
evoluzione della lingua greca verso il greco moderno rispetto alla LXX (itacismo: la
pronuncia di eta con ita in età bizantina; e iotacismo: la sostituzione grafica della lettera
iota ad altre vocali o dittonghi). Dalla LXX il NT mutua la terminologia tecnica
teologica del giudaismo (lessico) ed espressioni di stampo semitico come apocritheis
eipen “rispondendo disse” o kai egeneto “e avvenne”. Il NT non presenta
un’omogeneità linguistica e varia per stile da un libro all’altro
I mss. biblici più antichi, sia quelli greci in caratteri maiuscoli e molti in caratteri
minuscoli, sia quelli ebraici medievali, presentano una scriptio continua, cioè senza
spazi o intervalli tra le parole. A seconda della forma della scrittura i mss. si dividono,
infatti, in maiuscoli o onciali, con una scrittura simile a quella capitale usata per i
monumenti, più arrotondata nelle lettere e meno lineare, dove le lettere sono tutte di
ugual misura, circa 1 oncia; e in minuscoli, con una scrittura minuscola con i caratteri
legati e di diversa altezza, usata a partire dal IX sec. Negli scritti ebraici in aramaico si
avevano degli spazi piccoli tra le parole, con problemi di divisione tra parola e parola.
Le vocali ebraiche furono inserite solo nell’VIII sec. d. C. e gli accenti ancora più tardi.
I mss. greci più antichi sono maiuscoli, senza accenti, né spiriti o altri segni, introdotti
tra il VII e il IX sec. d. C. La minuscola per ovvie ragioni soppiantò la maiuscola:
richiede meno materiale, era più veloce, i costi diminuivano (IX sec. d. C.). I mss.
minuscoli, benchè più tardivi, sono spesso la copia fedele di mss. maiuscoli andati
perduti.
La parte finale di un mss. si chiama colofone (cima, termine): contrapposto al prologo,
in esso si danno informazioni circa il contenuto, lo scriba e il suo lavoro. I mss. ebraici
sono più ricchi di informazioni di quelli greci.
19
Per ovviare le difficoltà di lettura si adottò il sistema colometrico (in ogni linea 1 sola
frase di senso compiuto), che sostituì così il sistema sticometro (ogni linea doveva
comprendere tante sillabe quante sono in uno stico o esametro di Omero, cioè 15-16
sillabe pari a 34-38 lettere). La necessità di trovare velocemente passi o brani della
Bibbia per scopo didattico o liturgico ha determinato la divisione del testo in sezioni. Il
testo ebraico venne diviso in sezioni ad uso sinagogale e dal IX sec. in poi si ha una
divisione in versetti costituita da due punti.
Agli inizi del sec. XIII Stefano Langton suddivise in capitoli la Vulgata. Nel 1528 Sante
Pagnini curò l’edizione a Lione di una Bibbia con testo ebraico e versione latina
interlineare, in cui ogni versetto, capitolo per capitolo, era contrassegnato da un numero
arabo. La numerazione attuale risale a Robert Estienne (1555), che riprende la
numerazione del Pagnini per l’AT e vi aggiunge il NT in greco-latino e un AT in latino.
DEFINIZIONE DEI TESTIMONI
Critica testuale: si ripropone di ricostruire la forma più vicina possibile all’originale.
Essa si occupa dei testimoni del testo e della loro storia, a partire dalla fattura dei mss. e
dai metodi di trasmissione del testo stesso e dalla storia dello studio di tale testo. Inoltre
si avvale di principi scientifici per scegliere la lezione migliore fra le varianti di un
testo;
Critica letteraria: muovendo dalla prima e dai dati forniti da essa si prefigge di
individuare le varie stratificazioni del testo.
Un testo nasce da:
1. redazione, cioè messa per iscritto originale o basata su testi (fonti) precedenti;
2. trascrizione, cioè la trasmissione scritta dell’opera attraverso la copia dello scriba;
3. recensione, cioè la revisione di un manoscritto, condotto con l’ausilio di altri
testimoni, per eliminare errori o introdurre nuove lezioni.
Vediamo adesso come procede la critica testuale ed i suoi metodi.
La critica testuale deve distinguere e valutare criticamente le famiglie di testimoni
rappresentati dai mss. (un mss. è detto testimone di un tipo di testo) che veicolano
20
pertanto una tradizione più ampia. Lackmann ha stabilito il metodo genealogico per
individuare il cosiddetto stemma codicum, ossia “la strutturazione dei documenti mss.
secondo i rapporti genetici che legano ogni copia ai testimoni precedenti”. Può così
accadere che due rami della tradizione che stanno ai margini della corrente di
maggioranza in un’area laterale e che concordano in una data lezione siano
rappresentative di una versione del testo più antica ed originaria, nonostante
l’attestazione minima del numero dei mss. Il criterio per stabilire la parentela tra i mss. è
la condivisione degli errori, che sono di due tipi: congiuntivi o separativi:
a) “Si dice errore congiuntivo quell’errore che dimostra la connessione tra due o più
testimoni; deve trattarsi di un errore di tale natura da non potersi ritenere commesso da
più scribi indipendentemente l’uno dall’altro”.
b) “Si dice errore separativo quell’errore che dimostra l’indipendenza di un mss. da un
altro; deve trattarsi di un errore di tale natura da non poter essere stato sanato
congetturalmente dai testimoni che non lo condividono. Tutti i testimoni portatori di una
lezione che costituisca un errore separativo rispetto al resto della tradizione si possono
considerare discendenti da un medesimo archetipo, ossia da un unico capostipite, già
corrotto (sempre nel senso, neutrale, di portatore di variante rispetto all’originale)” (vd
es. Fabris 316).
A questo punto occorre valutare il peso delle singole lezioni, indicando quella che
probabilmente si avvicina il più possibile all’originale. La lezione che spiega l’origine
di tutte le altre è da preferirsi, ma non è sempre così. Questo principio è retto da altri
sussidiari, che sono i seguenti: la prova esterna e quella interna, quest’ultima
comprendente le probabilità trascrizionali e le probabilità intrinseche:
Per una corretta critica si ricorre
La prova esterna comprende:
a) data del testimone, cioè la datazione del testo che il testimone rappresenta;
b) distribuzione geografica dei testimoni che concordano nell’attestare una variante,
dopo aver accertato che testimonianze lontane geograficamente siano anche
indipendenti;
21
c) relazione geneaologica dei testi e delle famiglie di testimoni. I testimoni vanno più
valutati che contati.
Si può così stabilire quali testimoni contengano una famiglia o un tipo testuale.
La prova interna prevede le probabilità trascrizionali e cioè:
a) preferire la lezione non parallela ad un’altra di un testo documentato in due passi,
poiché gli scribi tendevano ad armonizzare i testi (vd. Fabris 317);
b) preferire la lezione più difficile, cioè più difficile per lo scriba, che era così tentato di
correggere il testo, ma in realtà quella originaria corretta;
c) preferire la lezione breve a due condizioni: che non sia avvenuta omissione del passo
per la ripetizione all’inizio o alla fine di parole simili e che lo scriba non abbia omesso
materiale giudicato superfluo o contrario a devozioni o usanze o aggiunto e ampliato il
testo creando così lezioni conflate;
d) preferire la lezione che spiega l’origine delle altre (regola aurea);
Le probabilità intrinseche dipendono dalla valutazione di ciò che è più verosimile che
l’autore abbia scritto e si basano su:
a) esame dello stile e del lessico dell’autore in tutto il libro;
b) contesto immediato;
c) accordo con l’uso dell’autore altrove e per il NT nei Vangeli;
d) ambiente aramaico della predicazione di Gesù per il NT;
e) influenza della comunità cristiana sulla formulazione e la trasmissione del passo in
questione, sempre per il NT.
Si stabilisce così il tipo testuale più vicino all’originale nei suoi testimoni e attraverso
essi.
APPENDICE:
GLI ERRORI
ERRORI ACCIDENTALI
•
Omissioni:
a) aplografia: omissione di una lettera o di una parola;
22
b) parablepsis (in greco “guardare di traverso”) per homoioteleuton o
homoioarcton: quando il copista salta da una parola all’altra che
finisce o inizia allo stesso modo;
•
Dittografia: ripetizione di lettere, parole o frasi intere;
•
Errori di udito per parole omofone, ma di diversa grafia (in greco più facile per il
fenomeno dell’itacismo) e per la mancata distinzione fonetica tra vocali lunghe e
brevi: Gv 5,39: marturousai con amartavousai del cod. D [05];
•
Errori di memoria, nel tentativo di ricordare il testo mentre si copiava;
•
Confusione o scambio di lettere e di parole;
•
Metatesi di lettere e parole;
•
Divisione o unione errata delle parole con alterazione del senso.
ERRORI VOLONTARI:
•
Adattamenti grammaticali o lessicali del testo. Nel NT l’Ap presenta esempi di
semitismi e solecismi (dal greco soloikismos “sgrammaticatura”, da Soli, colonia
greca in Cilicia, i cui abitanti erano considerati sgrammaticati nell’espressione
linguistica);
•
Armonizzazione;
•
Glosse, esplicitazioni, conflazioni;
•
Correzioni dettate da preoccupazioni teologiche.
IL TESTO DELL’ANTICO TESTAMENTO
Manoscritti ed edizioni a stampa costituiscono la tradizione dei diversi libri biblici
dell’AT.
Tradizione diretta: il testo si conserva in forma esplicita e in lingua originale;
Tradizione indiretta: traduzioni, citazioni, rielaborazioni, commenti.
23
Ogni testimone – così si definiscono i manoscritti, come abbiamo visto - ha una propria
storia testuale e una propria tradizione testuale: il testo letterario, la sua recezione come
opera in sé conclusa da trasmettere fedelmente, la sua interpretazione. Un testo come Is
7,14 può essere valido se riferito alla traduzione della LXX e all’uso del NT per la
tradizione interpretativa del testo, ma non per la critica testuale.
L’uso delle fonti esterne (i commenti, in particolare) consente di ricostruire il
quadro culturale in cui va inserita storicamente ogni lettura degli scritti relativi.
Solo quando si sia giunti alle forme più antiche del testo, si potrà operare
correttamente sul piano critico-testuale, sottoponendo il complesso delle lezioni o
varianti (varia lectio) che si sono raccolte al vaglio critico (interpretatio), per giungere,
sulla base di criteri interni ed esterni, a una scelta (selectio) tra le diverse lezioni,
oppure, ove occorra, all’emendazione dei passi corrotti (sia con l’aiuto di un qualche
ramo della tradizione [emendatio ope codicum], sia per congettura [emendatio ope
ingenii]).
L’AT è comunemente letto in edizioni che riproducono fedelmente il testo di un
solo manoscritto, con l’eventuale aggiunta, a piè pagina, di un apparato in cui sono
raccolte una scelta di varianti tratte da altri manoscritti e dalle versioni antiche e le
principali congetture avanzate dagli studiosi per sanare i passi corrotti (mostrare
l’esempio della Bibbia Ebraica Stuttgartensia).
Le edizioni più diffuse:
a) N. H. Snaith per la British and Foreign Bible Society
b) Biblia Hebraica Stuttgartensia diretta da K. Elliger e W. Rudolph, prima di R. Kittel
I codici (ogni edizione a stampa si serve del codice ritenuto optimus):
a) Codice di S. Pietroburgo B 19a Lenigradensis della famiglia del Codice di Aleppo,
il più antico dei codici completi (1008) (BHS);
b) Codice di Aleppo del 950 (Hebrew University);
c) Codice del Cairo contenente il testo dei profeti (da Gs a Zaccaria) dell’895 d. C.;
d) Codice babilonese o Petropolitano dei Profeti, il più antico che porti una data, 916.
24
I primi tre codici appartengono alla famosa scuola dei masoreti della famiglia Ben
Asher che rappresentano la scuola tiberiense, che si impose. Ma il processo di
unificazione della tradizione dei manoscritti, imposto dai tiberiensi, aveva portato alla
scomparsa quasi totale delle forme testuali diverse da quella masoretica, che, prima di
Qumran, erano attestate solo indirettamente da versioni antiche. Il testo masoretico non
era l’unico e l’assoluto nell’antichità: la scuola tiberiense lo fece diventare textus
receptus.
I masoreti, tra cui i tiberiensi, sono così chiamati dal termine masora, che significa
tradizione e indica quell’insieme di note che accompagnano il testo biblico e che sono
poste o ai margini superiore e inferiore (masora magna) o a lato e tra le colonne del
testo (masora parva) o alla fine del manoscritto (masora finalis): vd. tav. 1-2.
I masoreti hanno fissato la vocalizzazione del testo a cominciare dal sec. VII per
evitare la deformazione della lettura sinagogale e parallelamente all’introduzione di
vocali nei testi siriaci e arabi. Il sistema vocalico oggi usato è quello tiberiense della
famiglia dei Ben Asher. Accanto ad esso si hanno pure quello babilonese e quello
palestinese.
Il pluralismo testuale è un dato di fatto confermato da Qumran, anche per la
presenza di diversi gruppi o scuole in seno alla società ebraica, che leggevano a volte il
testo per giustificare una loro posizione teologica o ideologica (Fabris 310). Qumran
contiene manoscritti databili tra il III-II sec. a. C. e il I sec. d. C.: importante è la grotta
4. Risultano attestate, nell’originale ebraico, molte lezioni che sinora si conoscevano
solo attraverso le versioni antiche (specie la LXX) e che in genere venivano considerate
frutto del lavoro di interpretazione dei traduttori, non come resa fedele di un originale
diverso da quello masoretico (probabilmente la traduzione dei LXX si rifà a un testo
diverso dal TM). Cross ritiene che la varietà testuale di quei secoli rifletterebbe la
diversità della tradizione del testo biblico nei tre centri più importanti:
a) Palestina: testo con forme lunghe, inserzioni e glosse e richiami a passi paralleli
(Pentateuco samaritano e alcuni mss. di Qumran);
b) Babilonia: testo breve (TM);
c) Egitto: testo a metà fra i due sopra (LXX).
25
È la “teoria dei testi locali” di F. M. Cross, molto discussa. Si ritiene che il testo rifletta
l’interesse di un gruppo, non di una regione, o di gruppi in contrasto tra loro all’interno
dell’area palestinese. La LXX sembra riconducibile al tempio di Gerusalemme, il TM ai
farisei.
IL TESTO DEL NT
I testimoni del NT; versioni e citazioni
I testimoni del testo del NT sono diretti (i mss. greci) e indiretti (versioni e
citazioni dei Padri e degli scrittori antichi. Le versioni antiche sono fatte sulla base di
mss. vicini nel tempo al testo originale. Divennero necessarie verso la fine del II sec.,
quando le lingue locali iniziarono ad affermarsi e ad entrare nella liturgia, che usava il
greco, almeno sino al 180, in Oriente come in Occidente. La critica testuale usa le
versioni con prudenza: gli autori non conoscono spesso bene il greco o propongono un
sunto, non una traduzione, persone diverse hanno fatto traduzioni da mss. greci diversi,
la traduzione spesso è fatta contro un’altra o contro lo stesso mss., spesso le traduzioni
derivano da altre traduzioni. Hanno valore solo quelle dal testo greco o rivedute in base
ad esso e che derivino da una forma unica originale, senza frammistione o mescolanza
di versioni diverse. Le più importanti e note versioni sono: le latine, Vetus latina e
Vulgata, le siriache (Vetus syra, Peshitta), le copte, l’armena, la georgiana, l’etiopica, la
paleoslava, la gotica.
Le citazioni dei Padri servono a localizzare e a datare varianti e tipi testuali
attestati nei mss. e nelle versioni. Ma spesso lo scriba adattava il testo al mss. che
conosceva (il testo era dettato dall’autore a più scribi insieme. Ciascun scriba riceveva
l’indicazione del passo, che poi riferiva da sé. Ogni scriba si riferiva ad un mss.
diverso). Inoltre l’autore parafrasava il testo o lo citava a memoria più che copiarlo da
un mss. a sua disposizione.
La produzione dei manoscritti (=le copie)
26
I libri del NT furono all’inizio unità a sé stanti e solo dalla fine del II sec. si ha
notizia della raccolta dei 4 Vangeli. Probabilmente il primo insieme di scritti
neotestamentari fu costituito dalle Lettere paoline, che venivano ricopiate e scambiate
fra le varie comunità (Col 4,16).
Agli inizi della vita della Chiesa la copiatura dei testi biblici era fatta da privati,
che riproducevano per sé o per la comunità il testo di uno o più libri del NT o dell’AT.
La diffusione del Cristianesimo provocava il moltiplicarsi delle copie e spesso, per la
fretta, queste risultavano poco curate. Ma dopo il riconoscimento ufficiale del
Cristianesimo da parte dello Stato (IV sec.) si fece ricorso alla riproduzione di copie
negli scriptoria, dove più scribi lavoravano contemporaneamente sotto dettatura. Il
lavoro procedeva più celermente, ma non sempre più correttamente. Si creavano errori
legati sia alla pronuncia, sia a disattenzione, sia a ricezione difettosa dello scriba, come
già notato.
Negli scriptoria lavorava almeno un correttore che rivedeva le copie sulla base
dell’originale: la diversa mano di scrittura permette di distinguere il copista dal
correttore. Dall’età bizantina i mss. biblici furono riprodotti dai monaci, più accurati e
meno frettolosi.
I libri furono divisi in capitoli e versetti con l’inserzione di titoli per facilitare la
lettura privata e il reperimento di passi paralleli; altri espedienti sono rappresentati dai
canoni (=tavole) di Eusebio di Cesarea. Ogni Vangelo fu diviso in sezioni numerate
progressivamente la cui lunghezza dipende dalla relazione con uno o più passi paralleli.
In margine al testo è posto, sotto o a fianco del numero della sezione , il numero del
canone in cui la sezione è citata. Ogni canone contiene le indicazioni numeriche dei
passi dei Vangeli in diverse combinazioni: rimandi numerici dei passi presenti in tutti e
quattro i Vangeli; rimandi dei passi comuni ai Sinottici; rimandi dei passi comuni di Mt,
Mc e Gv; rimandi ai passi specifici di ogni Vangelo. Es. in margine a Gv 4,44 si ha
35/1: si va al canone 1 in cui il passo in questione è indicato con il numero 35 (vd.
anche Novum Testamentum graece di Nestle- Aland).
27
La scriptio continua dei mss. crea infatti problemi per una corretta suddivisione
del testo. Altre difficoltà insorgono dalle abbreviazioni e contrazioni, più frequente
dopo il passaggio dalla maiuscola alla minuscola. Dal sec. I si contrassero i nomi, propri
o comuni, indicanti Dio, Gesù, personaggi o località bibliche: si tratta dei nomina sacra,
denominazione imprecisa, ma ancora in uso, coniata da L. Traube agli inizi del sec. XX.
I sistemi di contrazione sono diversi e vari. La presenza del nomen sacrum andava
segnalata con una lineetta orizzontale soprascritta: la dimenticanza ha indotto i lettori a
interpretare diversamente il testo.
Sul valore numerico delle lettere si sono poi basate la gematria e l’isopsefia: la
prima interpreta la parola in base al numero della lettera, la seconda stabilisce rapporti
fra parole che hanno stesso valore numerico. Il sistema è usato a scopo cautelativo per
parole tipiche o simboliche. Nei mss. è impiegato per nascondere il nome dello scriba o
altre notizie.
La classificazione dei manoscritti
I manoscritti sono classificabili in base al materiale di cui sono fatti (papiri,
ostraka), al tipo di scrittura (maiuscoli, minuscoli), all’uso (lezionari, amuleti):
I lezionari
Sin dal IV sec. esiste un sistema di letture dei Vangeli e delle Lettere, ordinati
secondo il calendario liturgico delle domeniche e delle feste: si tratta dei lezionari. I
lezionari presentano una forma di testo più antica, perché il modo di citare la Bibbia in
essi è conservatore. Essendo libri liturgici inseriscono nel testo espressioni quali “in
quel tempo” o “fratelli” nelle Lettere, che non abbiamo nel testo.
Gli altri manoscritti
28
Le denominazioni più antiche dei mss. greci neotestamentari sono connesse con il
luogo di provenienza o di conservazione, con il nome del possessore, con la segnatura
della biblioteca in cui erano custoditi o con qualche loro caratteristica. Un primo passo
per la loro classificazione fu compiuto da J. A. Bengel (1687-1752) che pubblicò il
Prodromus Novi Testamenti recte cauteque ordinandi, dove espose alcuni principi: i
testimoni del testo vanno valutati, non contati, cioè classificati in gruppi, famiglie, tribù,
nazioni, si deve preferire la lezione più difficile. J. J. Wettstein nella sua edizione del
NT nel 1751-1752 usò le lettere maiuscole latine per designare i mss. maiuscoli e i
numeri arabi per i minuscoli, raggruppando i mss. in base al contenuto. J. S. Semler
(1725-1791) introdusse il concetto di recensione, cioè di revisione del testo operata da
un curatore e classificò i mss. del NT in tre recensioni (Alessandrino, Orientale,
Occidentale). K. Lachmann (1793-1851) editò il NT in base ai codici dell’Alessandrino
e ricostruì il testo biblico in base ai codici più antichi. C. von Tischendorf continuò con
lo stesso sistema di Semler e designò con ’alef il cod. Sinaitico da lui scoperto; inoltre,
poiché i mss. maiuscoli superavano le lettere dell’alfabeto latino, egli ricorse alle lettere
maiuscole dell’alfabeto greco. Importante la sua edizione del NT conosciuta come editio
octava critica maior (2 voll. Leipzig 1869-1872). C. R. Gregory (1846-1917) stabilì
l’uso dei numeri arabi preceduti da 0 per i mss. maiuscoli; inoltre numerò i papiri
separatamente dagli altri mss., servendosi della lettera P in caratteri gotici, seguita da un
numero arabo progressivo ed esponente, e riunì in un altro elenco i lezionari. Questa
sistema, contemporaneo all’altro di von Soden, è ancora seguito con qualche modifica.
Nel periodo tra le due guerre B. H. Streeter (1874-1937) formula la teoria dei testi
locali, seguendo il metodo genealogico di B. F. Wescott e F. I. Hort, e di von Soden e di
K. Lake prima di lui, e individua un testo per ogni grande centro del cristianesimo
antico (Alessandria, Cesarea, Antiochia, Roma, Cartagine e la Gallia). Individua così le
quattro famiglie o i 4 tipi testuali, ai quali attribuire poi i manoscritti. Essi sono:
1. Alessandrino (sigla H)
2. Occidentale (sigla D)
3. Bizantino (sigla K)
4. Cesariense (sigla C)
29
Il Cesariense, accanto a un altro testo detto Antiocheno, apparterrebbe al testo
Orientale. Il testo Occidentale comprende i tipi testuali Italo-gallico e Africano.
La loro storia inizia in Egitto verso il II sec. quando il testo fu sottoposto a due
revisioni diverse a partire dalle copie (apografa): una con la finalità di rendere il testo
più simile agli autografi originali (H), l’altra di renderlo più intelligibile e chiaro (D)
Nel sec. III le due revisioni si fusero: nasce il tipo C. Nel sec. IV ad opera di Luciano di
Antiochia (III sec.) fu elaborato K per rendere più elegante H , senza trascurare i dati di
D, con una chiara finalità teologica. H sarà presente in Egitto e Palestina, D in
Occidente, K in Siria, Asia Minore e Costantinopoli. Il tipo K fu il textus receptus (la
denominazione risale ai fratelli Elzevier nel 1633, nella loro prefazione alla seconda
edizione del NT che riprendeva la prima edizione di Ginevra del 1551 del NT ad opera
di Robert Estienne, latinizzato in Stephanus, che intanto aveva già curato tre edizioni a
Parigi dello stesso NT nel 1546,1549, 1550), cioè il testo usato perché ritenuto migliore
per le edizioni del NT sino al XVIII sec., cioè sino a quando la critica non riconobbe
essere H più fedele al testo originale. Su K si basarono queste edizioni:
•
Il quinto volume della Bibbia Poliglotta Complutense (dal nome latino di Alcalà)
promossa da cardinale di Toledo Francisco Ximenes de Cisneros (1437-1517).
•
La prima edizione a stampa, che per motivi di tempo soppiantò la precedente
complutense togliendole il primato, fu quella dell’umanista olandese Erasmo da
Rottedarm (1466?-1536). Il textus receptus fu abbandonato da E. Wells, matematico
e teologo di Oxford, che preferì i mss. più antichi e su di essi pubblicò il suo NT.
Da ricordare che le quattro famiglie testuali sono recensioni diverse del testo
originario.
La classificazione dei papiri che contengono il 65% del NT (conservano meglio Gv,
Mt e Atti) registra come papiri più antichi il P46, il P66 e il P45 (i papiri si classificano
con P unito ad un numero esponente). I più importanti e cospicui papiri neotestamentari
si hanno nella collezione di papiri Chester Beatty, conservati nell’omonimo museo a
Dublino, di cui fanno parte il P45, P46, P47: acquistati dall’inglese Chester Beatty in
Egitto negli anni 1930-31, risalgono al III sec. d.C. e contengono sezioni notevoli dei
30
Vangeli e di Atti. Il P46 contiene un codice di 10 lettere paoline, mancante la 2Ts e
comprendente Eb, ordinate secondo la lunghezza. Il testo è vicino alla recensione H; e
in quella Bodmer a Ginevra: tra questi importanti il P75, somigliante al tipo codice
Vaticano, per cui diventò insostenibile l’opinione secondo la quale il NT fosse stato
totalmente rielaborato verso il IV sec. d. C., giacchè il nostro papiro risale al 175-225; il
P72, scritto verso i sec. III-IV, è il testimonio più antico sulle lettere cattoliche e la loro
integrazione nel canone.
Il P52 è il più antico testimonio del NT, risalendo alla prima metà o addirittura al
primo quarto del II sec. Proveniente da Ossirinco in Egitto e conservato alla “John
Rylands Library” di Manchester, testimonia che il Vangelo di Gv non è stato composto
più tardi del I sec., essendo già conosciuto e scritto nella valle del Nilo verso gli anni
120-130. (per una descrizione vd. Tabet 121-122 da leggere in classe).
I codici onciali sono contrassegnati i primi 51 con una lettera maiuscola
dell’alfabeto latino o greco e una cifra arabica preceduta da zero, i restanti con la sola
cifra arabica preceduta da zero. I più importanti sono:
•
S (01) ) Sinaitico scritto nel IV sec. in Egitto e scoperto da von Tischendorf nel
1859 nel monastero di Santa Caterina sul Sinai, contiene l’AT lacunoso e tutto il
NT. Presenta il testo H, più mani di correttori e i canoni di Eusebio;
•
B (03) Vaticano, scritto nel IV sec. e conservato nella Biblioteca Vaticana
contiene quasi integralmente il testo dell’AT greco e del NT secondo la
recensione H. Presenta la più antica divisione del testo fra quelle attestate nei
codici pergamenacei;
•
A (02) Alessandrino, risale al V sec., scritto in Egitto, contiene l’AT e il NT con
molte lacune;
•
C (04) Codice palinsesto, è il celebre codice rescritto di Efrem del V sec.,
contenente l’AT e il NT con lacune;
•
D (05) codice di Beza o Cantabrigiensis (codice di Cambridge), scritto nel V
sec. in Francia, bilingue greco-latino, riporta Vangeli e Atti, con un testo
conflato, ricco cioè di glosse, aggiunte o omissioni di parole o frasi.
31
•
D (06) Claromontano, perché scoperto nel monastero di Clarmont, scritto nel V
sec. nell’Italia meridionale contiene tutte le lettere di Paolo.
•
X (038) codice di Koridethi proveniente dal Mar Nero e conservato in Georgia,
scritto nel sec. VIII contiene il testo lacunoso dei Vangeli.(vd. Tabet 120 o
Fabris 326).
I codici minuscoli sono classificati con un numero arabico. Sono suddivisi in quattro
categorie a seconda dell’epoca in cui sono stati scritti e delle caratteristiche
paleografiche che presentano:
1. Codices vetustissimi IX-X sec.
2. Codices vetusti X-XIII sec.
3. Codices recentiores XIII-XV sec.
4. Codices novelli, posteriori all’invenzione della stampa
Le famiglie più note che raggruppano alcuni codici minuscoli sono la 1 ( Codici
Lake) e la 13 (Codici Ferrar). I codici Lake prendono il nome dallo studioso che li
esaminò, raggruppandoli per la loro affinità e le loro caratteristiche filologiche.
Appartengono al XI-XIV sec.; i codici Ferrar discendono da un archetipo presente
nell’Italia meridionale e sono stati copiati tra l’XI e il XV sec. Prendono il nome dal
loro identificatore. Loro caratteristica è porre Gv 7,53—8,11, il passo dell’adultera dopo
Lc 21,38.(Vd. Fabris 327 e Tabet 121).
Le versioni
Della Bibbia si hanno diverse traduzioni sin dall’antichità. Esse si suddividono in due
categorie: una di matrice giudaica per il solo AT e una di matrice cristiana per l’AT e il
NT. In questo punto ci interesserebbero solo quelle del NT, ma per ragioni didattiche
prenderemo qui in esame anche le versioni dell’AT.
Le versioni di origine giudaica
32
Il Pentateuco samaritano non è propriamente una versione, ma rappresenta una
differente tradizione testuale formatasi in seguito allo scisma tra Samaritani e Giudei nel
I sec. d. C. Tra il PS e il TM ricorrono circa 6000 differenze tra varianti ed ortografie; il
PS concorda invece in 2000 frequenze con la LXX ed è citato in alcuni passi del NT. Le
varianti sono a volte intenzionali, per giustificare il culto samaritano contro quello
gerosolimitano, ma spesso anche il TM è stato modificato nella polemica antisamaritana (Dt 27,4: Garizim del PS contro Ebal del TM).
Del PS esisteva una versione in greco, il Samaritikon, citato da Origene. Rimane
ancora una traduzione in aramaico, il Targum samaritano, e una araba, utili per la
ricostruzione del testo, anche se presentano numerosi problemi di critica testuale.
La LXX costituisce la più antica traduzione del testo ebraico ed aramaico
dell’AT in greco ed ebbe inizio nel III sec. a. C. ad Alessandria d’Egitto. Due le fonti
principali sulla sua origine: la “Lettera di Aristea a Filocrate”, la cui datazione, assai
discussa, oscilla tra II e I sec. a. C., detta anche “pseudo-Aristea”, trattandosi di uno
scritto pseudoepigrafo, e la rielaborazione della suddetta nel cap. 12 delle Antiquitates
Iudaicae di Flavio Giuseppe. A queste si aggiungono le notizie della tradizione
rabbinica, le citazioni dei Padri.
La denominazione di versione della LXX è da collegarsi al numero dei saggi che
lavorando autonomamente stilarono la stessa traduzione, come vuole la leggenda. I
testimoni oscillano tra 70 e 72 saggi nel tentativo di dividere il n. dei saggi per le 12
tribù di Israele. Essa nacque in relazione alla versione del Pentateuco, da cui si avviò la
traduzione: la denominazione di “versione della LXX”, infatti, era limitata soltanto alla
Torah. In seguito si estese alla traduzione degli altri libri biblici del canone ebraico, ai
quali si aggiunsero quelli del canone alessandrino (deuterocanonici) in lingua greca,
essendo perduto l’originale semitico: Tb, Gdt, Bar, 1Mc, aggiunte a Dn, Est, Ger, 1Esd
e Sir (del quale si è rinvenuto in parte a Masada l’originale ebraico). A questi furono
aggiunti libri composti direttamente in greco: Sap, 2Mc, aggiunte greche a Ger, Est,
Salmi (che fanno parte del canone cristiano), 3 e 4 Mc (esclusi dal canone cristiano).
Viene anche chiamata Alessandrina, per essere stata composta ad Alessandria o Greca
33
perché è la principale versione in greco, utilizzata dagli ebrei della diaspora che non
parlavano più l’ebraico, ma il greco.
La data di composizione è circa la prima metà del III sec. a. C., giacché il
prologo del Sir parla delle tre parti della Bibbia ebraica, Torah, Profeti e Scritti, come
già acquisite (siamo nel 130 a. C.) e il colofone di Ester nella versione greca dà notizia
che il testo di Est in greco fu introdotto in Egitto nel quarto anno del regno di Tolomeo
e Cleopatra, cioè il 78-77 a.C. dopo essere stato tradotto a Gerusalemme all’inizio del I
sec. a. C. Il lasso di tempo tra l’inizio e la fine della traduzione è notevole: 3 e 4 Mc e
Sap furono probabilmente composti nel I sec. d. C. Per individuare il luogo della
traduzione gli studiosi si basano su alcuni indizi di natura lessicale e/o storica: in
Palestina sarebbero stati tradotti le Meghillot, in Alessandria gli altri libri (vd. Fabris
349 nota 6).
Il motivo della traduzione è spiegato diversamente dalle fonti: quelle ebraiche
(Filone e lo Pseudo- Aristea) lo attribuiscono al re Tolomeo per il desiderio di
conoscere la Legge degli ebrei, secondo cui vivevano le colonie giudaiche d’Egitto, tra
le quali primeggiava Alessandria. Giustino, Ireneo, Clemente Alessandrino e
Tertulliano attribuiscono al re un interesse culturale: egli dispose la traduzione per
arricchire la biblioteca d’Alessandria. La critica moderna vi vede invece delle
motivazioni cultuali e liturgiche: disporre di testi a uso liturgico per ebrei che non
conoscevano più l’ebraico. Accanto a queste possono spiegare l’esigenza della
traduzione motivazioni culturali, pedagogiche e catechetiche: la traduzione serviva alla
lettura personale e all’educazione. Infine si sono scorti motivi apologetici e missionari
per difendere gli ebrei dall’accusa di idolatria e favorire il proselitismo. Ma sembrano
valere le motivazioni date dalle fonti antiche.
Testimoni diretti del testo della LXX sono papiri e mss. pergamenacei a partire
dal II sec. a. C. I più antichi papiri si riferiscono al Pentateuco e sono stati rinvenuti a
Qumran e in Egitto; più numerosi sono i papiri cristiani a partire dal II-III sec. d. C. I
codici della LXX sono più di 1500 e sono designati come quelli del NT: i più completi,
antichi ed importanti sono il Vaticano (B) e il Sinaitico (S) del IV sec. e l’Alessandrino
del V sec. Testimoni indiretti sono le citazioni dei Padri della Chiesa (che permettono di
34
localizzare i tipi testuali) e dei rabbini oltre che Giuseppe Flavio, Filone e il NT, che cita
la LXX o in forme divergenti dal TM o nelle forme ebraizzanti o in forme testuali
sconosciute. I libri veterotestamentari più citati sono Isaia, i Salmi e il Pentateuco.
La lingua della LXX da un punto di vista grammaticale, morfologico e lessicale
rappresenta un testimone prezioso della storia del giudaismo ellenistico, perché mostra
le equivalenze scelte dai traduttori nella loro opera di transculturazione del pensiero
biblico dalla mentalità semitica a quella greca indoeuropea. Il NT continua l’evoluzione
semantica della terminologia tecnica del giudaismo nel passaggio al cristianesimo
nascente. La traduzione è più a senso nei primi libri tradotti (il Pentateuco) e più
letterale nei libri successivi. Lo stesso accade con le revisioni della LXX. Si ha dunque
che la versione più lontana dall’ebraico sia la più antica, quella più fedele la più recente.
Il testo della LXX è diverso dal TM e spesso vicino a Qumran, che riportano un
testo altro da quello masoretico. Il traduttore disponeva allora o di un mss. diverso dal
TM o lo modificava volutamente, allontanandosene.
Altre versioni giudaiche in greco: le “revisioni” o “recensioni” della LXX
Il testo della LXX si diffuse dal II sec. a. C tra gli ebrei del mondo greco-romano
e dal I sec. d. C. tra i cristiani, che la usarono nella predicazione per mostrare la
messianicità di Gesù. Alla fine del I sec. d. C. la LXX fu rigettata dal giudaismo, in
quanto adottata dai cristiani come testo ufficiale dell’AT e da loro letta in chiave
cristologica e messianica.
Il testo fu oggetto di numerose “revisioni” a carattere ideologico o teologico, al
fine di renderlo più “ortodosso”. La prima revisione avvenne in Palestina nel I sec. d. C.
ed è conosciuta con il nome di kaige. In realtà si tratta in parte di una revisione, in parte
di una nuova versione. Lo scopo era rendere il testo della LXX più fedele all’ebraico.
Altre versioni o revisioni sono a noi giunte in frammenti (oltre ad averne notizia dagli
autori antichi) nella nota Hexapla di Origene, opera filologica che lo tenne impegnato
per più di trent’anni (215-245) con la collaborazione di molte persone, in cui egli
trascrisse oltre al testo ebraico dell’AT la sua traslitterazione in caratteri greci e le
35
quattro versioni greche di Aquila, Simmaco, LXX e Teodozione. Ognuna occupava
colonne diverse e nei testimoni le colonne spesso occupano un ordine di colonne
diverso. Il nome di Hexapla (sestuplice) non risale ad Origene, ma ad Eusebio e ad
Epifanio. La prima colonna (testo ebraico) non è conservata e si pensi derivi, come la
seconda, da una precedente sinossi giudaica. La seconda colonna costituisce un
documento molto interessante della pronuncia dell’ebraico nell’antichità. Per i Salmi vi
erano altre 2 colonne (Octapla) che riportavano anche le versioni denominate Quinta e
Sexta. L’Hexapla mostra, infatti, anche altre versioni, denominate la Quinta, la Sexta e
la Septima, delle quali non si conosce bene se fossero revisioni o traduzioni e se fossero
continue o meno.
La Quinta (distinta dalla quinta colonna dell’Hexapla che riporta il testo della
LXX con segni diacritici) era stata trovata da Origene ad Azio. L’opera è anonima e
occupava la settima colonna dell’Hexapla riportando Re, Giobbe, Cantico, i 12 profeti, i
Salmi.
La Sexta doveva esistere per i Salmi, i 12 profeti, Es, Re, Cct, Gb e secondo
Girolamo è di origine ebraica.
La Septima è testimoniata solo da Girolamo che la cita per Gb, Salmi, Lam, Cct
e 12 profeti.
Origene pare che intraprese il lavoro dell’Hexapla per un duplice motivo:
polemico: preparare i cristiani ad affrontare le dispute con gli Ebrei (Epistola ad
Africano 9);
scientifico: ricostruire il testo della LXX, compromesso dall’esistenza di copie
differenti
tra loro, da correzioni e interventi dei copisti
(Commentario a Mt 15,14).
Origene ebraizzò il testo della LXX e lo rese eclettico a causa dei suoi segni diacritici
confusi poi dai testimoni, che li inserirono anche nel testo puro della LXX. Uno dei
testimoni principali della versione origeniana è la versione siro-esaplare, che la traduce
letteralmente e ne riproduce i segni critici più fedelmente dei mss. greci.
Nel 638, quando Cesarea fu conquistata dagli arabi, l’Hexapla andò perduta insieme alla
biblioteca.
36
Girolamo parla poi di trifaria varietas, cioè delle tre recensioni importanti della
LXX nell’antichità che furono:
a) quella di Luciano di Antiochia (250-312) in Asia Minore, citata dai padri antiocheni,
come Giovanni Crisostomo e Teodoreto, e nelle annotazioni marginali dei mss.
greci e della versione siro-esaplare. Luciano lavora su 1Esdra, Mac, i profeti. Non si
distingue bene lo stato pre- da quello post-origeniano, al quale ultimo la recensione
lucianea deve molto;
b) Esichio in Egitto, anche se si dubita di una sua recensione, oltre che della sua
esistenza. Si pensa piuttosto ad una recensione alessandrina, della quale si trova
traccia nelle opere dei padri alessandrini;
c) Origene in Palestina, del quale abbiamo già parlato.
È da notare che le recensioni cristiane vollero stabilire il miglior testo della LXX,
scegliendo tra le varianti dei mss. a loro disposizione. Le opere dei Padri, in special
modo Girolamo, attestano versioni greche antiche diverse dalla LXX: l’intenzione di
queste versioni greche, tra l’altro successive alla LXX, puntava ad ottenere un testo
fedele all’ebraico secondo il testo premasoretico. Tra queste le più note riportate
nell’Hexapla di Origene sono:
Teodozione operò probabilmente una revisione di una traduzione greca dell’AT
già esistente. Teodozione sembra essere un giudeo proselito di Efeso, la cui opera fu
contemporanea di quella kaighe (30-50 d. C.) o della revisione/traduzione originaria
palestinese. I motivi per questa datazione si ritrovano nel fatto che già nel NT si hanno
citazioni dell’AT secondo una forma testuale che corrisponde alla revisione di
Teodozione e che nei libri più tardi della LXX si ritrovano influssi di tale revisione.
Della sua opera rimane il testo di Dn, che alla fine del III sec. ha soppiantato la versione
della LXX del medesimo libro; attraverso i segni diacritici sono giunte le parti di Ester,
Ger e Gb inserite da Origene lì dove mancavano nella LXX. La lingua testimonia di una
fedeltà all’ebraico che preferisce lasciare nella lingua semitica la parola per la quale non
esiste un’equivalenza in greco.
37
Aquila fu originario di Sinope nel Ponto. Visse sotto il regno di Adriano (117138), da pagano si convertì all’ebraismo passando per il cristianesimo. Secondo la
tradizione fu allievo di Rabbi Aqiba, da cui dipende nella sua traduzione. Letterale sino
all’esasperazione, Aquila era erroneamente considerato come autore del Targum
Onqelos sul Pentateuco, giacché con quest’ultima opera la sua traduzione presenta
numerose affinità e parti identiche. Per certi libri, come i 12 profeti e Re, Aquila si basò
su una precedente revisione giudaica del testo greco dell’AT, mentre dalla LXX si
discosta notevolmente. Scopo della traduzione di Aquila era servire da base per
l’esegesi rabbinica a lui contemporanea e mostra tratti di polemica anticristiana.
Simmaco, un ebionita o un un samaritano convertitosi all’ebraismo, avrebbe
operato nella seconda metà del II sec. d. C. Presenta affinità con alcune citazioni
veterotestamentarie del NT e con i libri del Siracide e della Sapienza. Linguisticamente,
la sua versione è la più corretta e la più chiara: traduce i calchi dell’ebraico operati dalla
LXX con espressioni idiomatiche, varia le traduzioni di una medesima espressione e
mostra un lessico mediato dalla letteratura scientifica del II sec. d. C.
Le versioni aramaiche: i Targumim
Targum (plurale Targumim) è termine aramaico che significa “interpretazione” e sta ad
indicare le versioni orali, poi scritte, dell’AT ebraico, fatte nella sinagoga durante e
dopo la lettura per rendere comprensibili i testi ai fedeli e a scopo catechetico. La
redazione scritta si ha già in età precristiana: lo testimonia Qumran con il Targum di
Giobbe, il più esteso fra gli antichi (metà I sec. a. C.) e con frammenti di un Targum al
Levitico. La redazione scritta dei Targumim si pone comunque in età tardiva: essi
contengono però materiali antichi, che testimoniano una forma testuale più antica del
TM e interpretazioni dell’epoca neotestamentaria. Si hanno Targumim di tutti i libri
dell’AT tranne Esdra-Neemia e Daniele. Nei Targumim il testo non è semplicemente
tradotto, ma parafrasato, aggiungendo frasi esplicative, reintegrandolo secondo le
esigenze teologiche dell’epoca, attualizzandolo con riferimenti a fatti della vita
38
contemporanea. Si tratta di opere di esegesi giuridica volta a stabilire la norma di vita
per gli ebrei con un fondamento scritturistico. Fu l’espressione letteraria dei maestri
ebrei tannaiti (coloro che ripetono).
I targumim si distinguono in due forme:
a) la palestinese, più antica;
b) la babilonese, una revisione dei testi targumici palestinesi operata a partire dal sec. V
d. C. in Babilonia.
Il Targum palestinese è conosciuto in due forme:
a) una completa detta dello Pseudo Jonatan a causa di una lettura errata della sigla TJ
che indica il Targum Jerushalmi I, che sarebbe una revisione del Targum Onqelos
del Pentateuco. Contiene molto materiale midrashico, cioè molto commento, ed è
più una parafrasi che una traduzione. La redazione risale alla fine del V sec. d. C.,
dopo i Talmudim, ma contiene materiali antichi;
b) l’altra frammentaria proveniente dalla Genizah del Cairo, che contiene la forma più
antica del Targum palestinese senza influenze dell’Onqelos. I frammenti presentano
resti di sette mss. nei quali stava la versione del Pentateuco datati tra il VII e il IX
sec. d. C.
Ad essi si aggiungono:
c) il Targum Neofiti I scoperto da A. Diez Macho nella Biblioteca Vaticana nel 1956.
Si tratta di 477 fogli in pergamena e fornisce la versione del Pentateuco. Pare essere
antico (II sec. d. C.) e la lingua testimonia uno stadio antichissimo di aramaico
parlato. Permette di riconoscere gli elementi originali e antichi dello Pseudo
Jonatan, quelli tipicamente palestinesi di Onqelos, e chiarisce la relazione esistente
tra la Peshitta e il Targum palestinese.
d) Il Targum Jerushalmi II, in stato frammentario, che conserva 860 vv. del Targum
palestinese del Pentateuco. Parafrasa a volte interi capitoli, a volte qualche parola o
dei versetti.
I Targum Babilonesi furono redatti intorno al IV-VII sec. d. C. in Babilonia, sulla base
di un materiale palestinese più antico. La loro vocalizzazione fu posta in analogia con
quella del TM, ma la loro forma consonantica fu fissata molto presto. Sono frutto
39
dell’opera di revisione sistematica e delle discussioni rabbiniche babilonesi, al fine di
ristabilire una forma testuale fedele all’interpretazione ebraica ortodossa, rivista sul
testo ebraico ed epurata dai midrashim. Si hanno questi Targumim:
a) T. Onqelos (IV-V sec.), versione ufficiale della Torah, fornito poi di una
vocalizzazione, una redazione accademica dotta per il gusto della letterarietà
tipicamente babilonese. Ritornato in Palestina, ne soppiantò il Targum e si impose.
b) T. Jonatan ben Uzziel (VII sec.), discepolo di Hillel, è la versione ufficiale dei
profeti.
c) Targumim degli Agiografi, mai riconosciuti ufficialmente dagli ebrei perché non
letti nella sinagoga. La lingua e le tradizioni rivelano l’origine palestinese, ma la
loro redazione si estese sino al VII sec. d. C., permettendo così all’ebraico
babilonese di estendersi ed imporsi.
Le versioni di origine cristiana
Due le versioni cristiane: una la Vetus, dipendente dalla LXX in versione preesaplare, senza cioè le recensioni dei secc. III-IV, per l’AT, dalla recensione occidentale
(D) per il NT; l’altra la Vulgata, fatta sul TM in un periodo in cui ancora il testo di
quest’ultimo non era stato fissato nella sua forma definitiva per la mancanza di
annotazioni delle vocali.
Vetus latina
È attestata a partire dal II-III sec. d. C: in Africa, in Gallia meridionale e in Italia
ad uso delle comunità cristiane di lingua latina. Viene anche chiamata versione
pregeronimiana (anche al plurale se si considera la sua duplice attestazione). Due le
versioni principali: una redatta nell’Africa proconsolare intorno al 150 d. C. (Vetus
Afra), l’altra redatta in una località ignota dell’Europa, forse Roma, tra il II-III sec. d.
C., che Agostino chiama Itala (da cui Vetus Itala) e che considera superiore alle altre
versioni per la fedeltà al testo e la chiarezza. Alcuni libri di tale versione, non
40
revisionati né tradotti da Girolamo, entrarono a far parte della Vulgata: essi sono 1 e
2Mc, Bar, Epistola di Ger, Sir, Sap.
È citata dai Padri e trasmessa da mss. risalenti al V sec., almeno i più antichi. La
Vetus fu comunque copiata fino al sec. XIII. Benchè soppiantata nel V sec. dalla
Vulgata, continuò ad esercitare il suo influsso su quest’ultima.
Fu revisionata per ordine di Papa Damaso da Girolamo nel 382. Girolamo si
servì della LXX nella recensione origeniana. Di questa revisione rimangono solo Gb e
Salmi e parti di Pr, Cct, Qo. La revisione dei Salmi, detta Psalterium Gallicanum, entrò
poi nella Vulgata al posto della successiva revisione sull’ebraico.
Vulgata
Fu redatta da Girolamo nel 390, dopo che egli si fu trasferito a Betlemme nel
386. Per l’AT, cioè i libri protocanonici, Girolamo si riferì al testo ebraico e a quello
aramaico per Tobia e Giuditta ed i frammenti deuterocanonici di Dn nella versione
greca di Teodozione. Vi si aggiunsero poi i deuterocanonici della Vetus latina ed il
Psalterium gallicanum ed ancora la revisione del NT operata da Girolamo nel 383 su
versioni precedenti che si basavano sulla recensione occidentale, cioè il tipo testuale D,
i cui autori rimangono ignoti e dei quali si può soltanto notare la fedeltà al testo e la
redazione in una lingua latina popolare e non letteraria grazie alle citazioni di Pelagio e
dei suoi seguaci (inizi sec. V). Di queste versioni del NT Girolamo corresse i punti
alterati. Il lavoro di redazione della Vulgata continuò sino alla morte, avvenuta nel 405.
La
Vulgata
sottolinea
fortemente
le
implicazioni
messianiche
veterotestamentarie, fatto che nutre la pietà cristiana, ma che impone limiti al dialogo
con il mondo ebraico, che pure Gerolamo auspicava come frutto della sua versione.
La diffusione della Vulgata produsse un gran numero di mss. e dunque di alterazioni
testuali. Si stabilirono così tre recensioni fra le tante considerate più vicine al testo
originale:
1. recensione di Cassiodoro (sec. VI);
2. recensione di Alcuino (Francia, sec. VIII);
41
3. recensione di Teodolfo, vescovo di Orléans (Francia, sec. VIII: meno riuscita della
2.);
La Bibbia parigina edita dall’Università di Parigi nel sec. XIII introdusse la divisione in
capitoli all’interno della Vulgata, divisione realizzata da Stefano Langton, cancelliere
della medesima Università e poi cardinale e arcivescovo di Canterbury (+1228). In essa
vi sono anche i Correttori biblici, cioè la raccolta di varianti, ciò che costituisce
l’antenato della critica testuale. La Vulgata fu stampata proprio da J. Gutenberg a
Magonza nel 1452 e prese il nome di Bibbia Mazarina. I primi tentativi di edizione
critica, realizzata su codici antichi, apparvero nel sec. XVI nella Bibbia Complutense
(1522), nella Poliglotta omonima e nella Parigina di Roberto Stefano, cioè la Estienne
(158), nella quale fu introdotta la versione in versetti.
La Vulgata divenne testo ufficiale della Chiesa cattolica con il decreto Insuper
del Concilio di Trento nella Sessione IV dell’8 aprile 1546 che afferma: “il Concilio
stabilisce e dichiara che l’antica edizione della Vulgata, approvata dalla stessa Chiesa da
un uso secolare, deve essere ritenuta come autentica nelle lezioni pubbliche, nelle
dispute, nella predicazione e nella spiegazione e che nessuno, per nessuna ragione, può
avere l’audacia o la presunzione di respingerla”. Ciò accadde a causa della
proliferazione di testi e contro la Riforma protestante. L’autenticità cui si riferisce il
Concilio non è da intendersi nel senso della critica testuale quanto nel senso
dell’autorità della Volgata in materia di fede e morale. Il decreto richiedeva poi una
revisione della Vg che possedesse i caratteri della “massima esattezza”: essa fu
approntata nel 1592 sotto papa Clemente VII e prende il nome di Sisto-Clementina
(papa Sisto V la fece revisionare già nel 1590).
Una commissione pontificia per la determinazione del testo della Vulgata,
istituita da Pio X nel 1907, ha avuto sede da allora nell’abbazia di san Gerolamo a
Roma. Iniziando da Gen (1926), gli editori benedettini della Biblia Sacra juxta Latinam
Vulgatam Versionem hanno pubblicato 12 volumi dell’AT, che comprendono la
maggior parte delle versioni di Gerolamo dal testo ebraico con il Psalterium
gallicanum.
42
La Neo-Volgata nasce sotto Paolo VI che avviò i lavori di revisione con la
costituzione della Pontificia Commissione per la Neo- Volgata il 29-11-1965, al fine di
correggere la Vg sulla base di testi precedenti e mantenere la Neo-Vg per l’uso liturgico
e per lo studio. È stata promulgata da Giovanni Paolo II con la Costituzione Apostolica
“Scripturarum Thesaurus” del 25-4-1979.
Le versioni siriache
La Peshitta
Detta anche Peshitto nella tradizione occidentale, può essere definita la Vulgata siriaca,
ancora in uso nelle chiese sire. Di origine antica, anche se non determinabile, è
trasmessa da mss. del sec. V, i più antichi, poiché in questo periodo essa divenne
autorevolmente la Bibbia di tutti i cristiani di lingua siriaca. Il nome di Rabbula,
vescovo di Edessa, morto nel 435, è colegato senza alcuna garanzia all’elaborazione
della Peshitta, specialmente dei suoi vangeli. Benchè essa già esistesse ai suoi tempi,
egli non ne fece uso. È discusso se la versione sia di origine cristiana o giudaica e se sia
stata fatta direttamente sul testo ebraico o sulla base di un Targum, almeno per ciò che
concerne l’AT, come può apparire analizzando il libro di Cr. La Peshitta dipende,
sempre per l’AT, dalla LXX, da cui tradusse Tobia, Giuditta, Maccabei, Baruc,
Sapienza e le parti deuterocanoniche di Dn. La LXX esercitò il suoi influsso nella
traduzione di Salmi, Isaia e i 12 profeti, ma la loro non fu una traduzione diretta. Il NT
presenta i resti di alcune lezioni occidentali e di altre caratteristiche antiche e presenta
un adattamento al tipo bizantino di mss. greci che era già usuale verso il 400 d. C. Per
questo per il NT non si parla di una traduzione, ma di una revisione di una redazione
dell’antica versione siriaca basata su mss. del tipo testuale Koinè. Per il NT comprende
solo 22 libri, tralasciando le piccole lettere cattoliche (2.3 Gv, 2Pt, Gd) e l’Apocalisse.
La versione non presenta un carattere uniforme e i mss. presentano una
recensione uniformatrice. La divisione della Chiesa sira in due rami, occidentale e
orientale, portò a distinguere due forme diverse di Peshitta.
43
La versione siro- palestinese
È redatta in un dialetto aramaico occidentale (siro-palestinese appunto) parlato in
Palestina nei secc. IV e V dai cristiani lì residenti. Questo dialetto ha molte somiglianze
con il Samaritano e trova attestazione nel Targum del Pentateuco. In particolare, era
parlato dai Melchiti imperiali, cioè i seguaci del Concilio di Calcedonia dopo lo scisma
della Chiesa di Edessa, e veniva scritto con una grafia derivata dall’estrangela (dal greco
strogulè=rotonda e indica la più antica scrittura siriaca. La versione dell’AT ha subito
l’influsso dell’Hexapla di Origene. Di esso si conoscono i librti del Pentateuco, Gb
Prov, Sal, Is e altri libri in forma frammentaria, derivati da più antichi testi siriaci e
forse giudeo-aramaici. Frammenti si hanno del NT risalenti al VI sec.
La versione siro-esaplare (solo per l’AT)
Sorse, insieme alla versione Filosseniana, per il desiderio dei siriani Melchiti, aderenti
alla chiesa bizantina e romana, e dei Giacobiti, monofisiti siro-occidentali, al fine di
uniformare la loro Bibbia con quella dei LXX. Redatta per l’AT soltanto, e non per tutta
la Bibbia come le prime due sopra, viene attribuita a Paolo, vescovo di Tella, traduttore
di 1-2 Re, nella Mesopotamia settentrionale. Consiste nella traduzione siriaca della
quinta colonna degli Hexapla di Origene. La data di composizione è il 612-615 d. C.
Versioni siriache del NT
Sono precedute dal Diatessaron di Taziano, dalla fine del sec. II e fino al sec. V assunto
come testo ufficiale dei cristiani di Edessa, come attestano le citazioni di Efrem il siro,
fonte principale per la ricostruzione del testo. Si tratta di un’armonizzazione continua,
che intesse insieme marteriale dei quattro vangeli con brani tratti dagli apocrifi (Storia
di Giuseppe il falegname e il Vangelo degli ebrei). Originario della Siria, nato verso il
110, Taziano visse molti anni a Roma come discepolo di Giustino. Asceta estremo tornò
in patria dopo il 165 e iniziò la composizione dell’opera. È difficile stabilire se sia stato
scritto prima in greco o in siriaco La forma greca del Diatessaron è andata perduta,
tranne un frammento di 14 righe risalente al III sec., scoperto nel 1933 a Dura Europos
sull’Eufrate. Andò perduto a causa degli oppositori, come Teodoreto di Ciro che verso il
44
425 ne distrusse quasi tutte le copie perché sospettava Taziano di eresia. Il Diatessaron
venne sostituito dai quattro vangeli in siriaco.
Esse sono due:
1. Vetus syra, la più antica e la più lacunosa, di cui si posseggono due mss. contenenti i
quattro Vangeli ritrovati l’uno nel monastero di Santa Caterina al Sinai detto sirosinaitico(sys), l’altro nel deserto di Nitria in Egitto da W. Cureton detto sirocuretoniano (Syc). Subiscono l’influsso del Diatessaron e rappresentano, pur nelle
loro diversità, una medesima versione. Il testo greco sottostante è arcaico e di tipo
occidentale.
2. La versione Filosseniana attribuita a Policarpo, corepiscopo di Mabbug, che la
eseguì nel 507-508 sul testo greco per ordine di Filosseno, vescovo monofisita della
città. È andata perduta e la versione di Tommaso di Harqel (616) non la restituisce
bene perché la integra con il tipo testuale Koinè e con altri mss.
GEOGRAFIA BIBLICA
Il luogo degli eventi biblici è compreso all’interno della Mezzaluna Fertile, che
si estende dalla Mesopotamia all’Egitto. Il territorio della terra di Israele, facente parte
del più ampio denominato geograficamente Siria- Palestina dall’epoca ellenistica e sino
alla dominazione romana, si estende per circa 320-400 Km da Dan nel nord a Bersabea
nel sud ai margini del Sinai, includendo anche il deserto del Neghev e la Rift Valley
giordanica (Dan e Bersabea in linea d’aria coprono infatti solo 240 Km). Il territorio di
Israele copre così quella che è chiamata la fossa o depressione giordanica che si estende
dal bacino di Hule, fonte del Giordano a nord, al Mar Morto a sud (400 m sotto il livello
del mare), il punto più basso della crosta terrestre. Questa vasta area si può suddividere
in quattro striscie parallele, che si estendono da nord a sud, da est a ovest:
1.
i monti della Transgiordania;
2.
la Rift Valley giordanica;
3.
i monti della Palestina o Cisgiordania;
45
4.
la pianura costiera del Mediterraneo.
Le due catene montuose, quella transgiordanica e quella palestinese, sono la
continuazione rispettivamente delle catene del Libano e dell’Antilibano, in Siria. In
origine si trattava di un’unica catena, che si spaccò in due da nord a sud a causa del
ripiegamento della crosta terrestre. Nell’area palestinese questa spaccatura formò la Rift
Valley giordanica, lungo la quale oggi scorre il fiume Giordano dalla zona nord nel
bacino di Hule fino al Mar Morto. La spaccatura raggiunge i 390 m sotto il livello del
mare alla superficie del Mar Morto e si continua poi nella vallata dell’Araba, territorio
semidesertico, che si apre nel golfo di Aqaba. La spaccatura continua sino al lago
Nyassa e alle cascate Vittoria in Africa, nel Kenya.
Probabilmente qualcuna delle montagne presentò una natura ed un’attività
vulcanica: a est di Israele, il Gebel Druze ha lasciato tracce vulcaniche nella lava o
basalto eruttati sul Basan e sul deserto orientale transgiordanico. Il ribollire sotterraneo
è evidente nelle sorgenti calde di Callirrhoe, sulle sponde nord-orientali del Mar Morto.
Terremoti sono attestati nell’antichità come ai nostri giorni.
I monti della Transgiordania sono più alti di quelli della terra di Israele e sono
tagliati da est ad ovest da una serie di spaventosi canyons o gole, che costituivano, per i
suoi abitanti, delle frontiere naturali. I monti meridionali della Transgiordania, che
costituivano il territorio dell’antico Edom, cominciano a circa 30 Km a nord-est di Elat
(Golfo di Aqaba). Quindi attraverso le montagne di granito di Madian si giunge ad
Edom. Fanno parte della Transgiordania le regioni di Edom, Moab, Ammon, Galaad,
Basan.
La Rift Valley giordanica è una valle elevata, con un’altitudine che va dai 500m
circa ai 1000 m., originata dalla spaccatura delle due catene montuose del Libano e
dell’Antilibano. Ospita il bacino di Hule, lungo oltre 13 Km e largo quasi 5 Km,
anticamente alla convergenza dei quattro corsi d’acqua che filtrano dai monti del Libano
e che danno vita al Giordano. I più importanti di essi sono due, il Liddani e il Baniasi,
che nascono ai piedi dell’Ermon. Il bacino, che formava una zona paludosa insalubre,
venne prosciugato. Costituiva un punto di passaggio obbligato per il Libano e la Siria:
per questo venne edificata l’antica roccaforte di Cazor, sui monti a sud-ovest dello
46
stesso lago di Hule. Dal bacino di Hule si passa, dopo 16 km, al lago (così lo chiama
Luca) di Tiberiade (così nel Vangelo di Giovanni, il più tardivo, che così lo chiama con
il nome che il lago prese nel I sec. d. C., dopo che Erode il Grande vi fece erigere la
città omonima in onore dell’imperatore) o Mare di Galilea (in Matteo e Marco), in
ebraico Kinnereth (arpa, da cui il nome di pianura di Genesaret in Mt 14,34, lago di
Genesaret in Lc 5,1 e lago di Genesar in Flavio Giuseppe), teatro del ministero galilaico
di Gesù, lungo 20 km e largo 12 km. Qui si trovano le località menzionate nei Vangeli,
insieme alla regioni della Batanea e della Decapoli. Il Giordano finisce poi nel Mar
Morto. Chiuso dai monti sui due lati, lungo 80 km e largo 16 km, è il punto più basso
della superficie terrestre, 396 m sotto il livello del mare. È anche chiamato Mar
d’Araba, Mare Salato, Lago Asfaltide. In esso oltre il 27% delle sostanze sono composti
chimici solidi; il suo contenuto salino aumenta continuamente perché i sette miliardi di
tonnellate di acqua che vi si immettono ogni giorno non hanno sfogo e la costante
evaporazione lascia residui solidi. Sulla costa nord-occidentale, presso la sorgente di
Ain Feshkha, sorgono le rovine di Qumran, il centro in cui visse la comunità che
produsse i Rotoli del Mar Morto. Sorgono qui la sorgente di Engaddi, dove Davide
cercò rifugio da Saul (1Sm 24,1; Ct 1,14), e la fortezza di Masada, ultimo baluardo della
resistenza ebraica contro Roma.
La sezione meridionale della Rift Valley, cioè i 160 km delle paludi salate di
Sebkha che giungono fino al golfo di Aqaba, costituisce la regione chiamata Araba.
Fiancheggiato su entrambi i lati dai monti si innalza fino a 200m per poi riabbassarsi al
livello del mare. Fu abitata dai Nabatei, gli abitanti di Petra, ed è importante sia perché
fu una delle strade di cui Israele si servì per avanzare da da Kades Barnea alla
Transgiordania sia perché costituì il centro dell’industria del rame di Salomone.
Sorgevano qui la fortezza di Elat, contesa tra Giuda ed Edom e la città di Ezion-Gheber,
famosa per il porto ivi costruito da Salomone.
I monti della Palestina o Cisgiordania si estendono verso sud sino al Negheb,
con l’unica interruzione della pianura di Esdrelon, che la taglia in direzione nordovest/sud-est. Il Negheb è la regione meridionale della Palestina, un’area più o meno
trapezoidale delimitata da Gaza, il torrente d’Egitto, Ezion-Gheber e Sodoma,
47
fiancheggiata a ovest dal deserto della costa e ad est dall’Araba. Il Negheb (Sud) è
chiamato nella Bibbia deserto di Sin, anche se questo nome si riferisce alla propaggine
meridionale estrema, nei pressi di Kades-Barnea, località bilica famosa insieme a quella
di Bersabea, legate alla storia patriarcale e agli eventi delle peregrinazioni nel deserto
conseguentemente all’esodo nel ciclo di Miriam, sorella di Mosè, e nei racconti del
dono miracoloso dell’acqua.
La costa mediterranea venne abitata nel 1200 a. C. dai “popoli del mare”, i
cosiddetti Filistei, un amalgama di indo-europei originari di Creta, Cipro, Sardegna,
Sicilia e altre isole del Mediterraneo. Superiori in guerra, conquistarono, con l’aiuto
dell’Egitto, la fascia costiera, costituendovi una pentapoli formata dalle città di Gaza,
Ascalon, Asdod sulla costa e Gat ed Ekron all’interno. Lungo questa costa correva la
Via Maris, la strada principale che dall’Egitto attraverso Cafarnao conduceva alla Siria.
Qui, tra i monti della Giudea e la pianura filistea, sta una striscia di colline larga dai 16
ai 23 km e alta tra i 100 e i 450m: è la Sefela, “terra bassa”, passaggio naturale dalla
Filistea alle montagne e luogo fertilissimo, protetto da città fortificate: Debir, Lachis,
Libna, Azeka, Makkeda, Bet-Semes e Ghezer, ricorrenti nei racconti biblici di guerra.
La costa presenta città famose quali Akko, Dor, Joppe, Asdod, Askalon, la stessa Gaza.
A nord si trova il massiccio montuoso del Carmelo che forma la baia di Haifa e Acco,
sulla pianura di Esdrelon, chiamata Izreel nella sua propaggine orientale. La pianura di
Esdrelon si stende dalla baia di Haifa alla Rift Valley giordanica. Sulla piana di
Esdrelon passava la Via Maris: per questo sorsero qui quattro fortezze a sua custodia e
difesa: Iokneam, Meghiddo, Taanach e Ibleam. Legata alla tribù di Giuseppe, fu teatro
di lotte interne tra le tribù del nord e quella stessa di Giuseppe per il suo controllo e
possesso.
Da Joppa (Giaffa) nel sud per 60 km sino al nord si estende la pianura di Saron
(probabilmente “terra piatta”), più stretta della pianura filistea avendo una larghezza di
16 km. Una collina d’arenaria emerge come un’isola al centro della pianura, in
direzione nord-sud; le zone ai lati di questa collina, a causa della deviazione dei tre
torrenti e dei wadi che essa determina proprio ai suoi stessi lati, erano paludose. Gli
ostacoli che presenta la struttura del terreno di questa regione furono un deterrente
48
notevole agli spostamenti e insediamenti umani. La strada maestra rasentava la base dei
monti e le poche città importanti – Joppa (Giaffa), Lod (Lidda), Afek, Gilgal e Soco –
erano situate lungo il perimetro della pianura. Solo in epoca neotestamentaria strade e
ponti resero la pianura di Saron più praticabile. Qui sorse Iabne o Iamnia o Iabneel, la
città del rabbinismo, e, costruita da Erode il Grande, Cesarea Marittima (o Torre di
Stratone), con il suo porto, sede della legione romana di stanza in Israele e del
procuratore/prefetto romano.
Il fiume più importante è il Giordano (il cui nome significa “in forte discesa”),
un corso d’acqua non più largo di 18-24 m, che raggiunge la sua massima velocità di
scorrimento nei 16 km che separano il bacino di Hule dal Lago di Galilea, giacché,
scorrendo attraverso una stretta gola di basalto le cui pareti si innalzano sul fiume fino a
350 m, il fiume scende dagli oltre 60 m d’altitudine di Hule ai 205 m sotto il livello del
mare del lago di Galilea. Naaman il Siro lo trovò poca cosa rispetto ai fiumi imponenti
di Damasco. Con le sue anse e i suoi meandri, soprattutto a metà del suo corso dal lago
di Galilea verso il sud, il Giordano si è scavato nella Rift Valley un letto assai profondo
chiamato lo Zor. In certi punti lo Zor è largo più di 1 km e mezzo e profondo oltre 45 m.
coperto dalle acque a primavera, quando le nevi dell’Ermon, sciogliendosi, gonfiano il
Giordano, lo Zor è spesso un folto impenetrabile di cespugli e di alberi che,
nell’antichità, offriva rifugio ad animali selvatici, leoni compresi. Il terreno attorno allo
Zor consiste di terremare deserte, ossia di grigie colline di marna dalla terra sterile e
friabile, dette qattara. Il Giordano così divide anziché unire, tranne che nei percorsi più
facilmente guadabili a nord. I suoi tre affluenti maggiori sono lo Yabbok, l’Arnon e lo
Yarmuk. Lo Yarmuk aveva una portata d’acqua pari a quella del Giordano stesso. Lo
Yabbok con la città di Adama alla sua confluenza con il Giordano è la spiegazione delle
acque ridotte o ferme del Giordano nell’episodio dell’ingresso nella Terra con Giosuè
(Gs 3,16): testimonianze storiche confermano, infatti, che le frane nella zona di Adama
hanno talvolta fermato temporaneamente le acque del Giordano.
Il clima varia a seconda delle principali caratteristiche ambientali del territorio.
Fondamentalmente vi sono due stagioni: l’estate, calda e asciutta, e l’inverno, fresco e
piovoso. La costa è calda con in media 25° d’inverno e 34° d’estate. La temperatura
49
della regione montagnosa Di Israele è di 2-3 gradi in meno di quello della costa.
L’estate in questa zona montagnosa porta giornate calde e assolate e notti più fresche. Il
cattivo tempo sulle montagne non è causato dall’umidità, come sulla costa, ma dal
vento, sia che si tratti del vento che porta la pioggia dal Mediterraneo sia che si tratti del
Khamsin o scirocco che soffia dal deserto in maggio e in ottobre. Il portico di Salomone
nel Tempio era l’unico a riparare dai venti (Gv 10,23). In tal senso Gerico è invivibile
d’estate, ma diventa una località climatica ideale d’inverno. Il territorio più vicino al
Mediterraneo riceve più piogge, perché la catena montuosa palestinese, con le sue cime
più altre, agisce come una barriera alle perturbazioni provenienti dal mare,
costringendole a scaricare le loro acque sulle pendici occidentali delle montagne. In
corrispondenza, le pendici orientali sono molto più aride. Un’annata buona è quella in
cui la pioggia autunnale, precoce, cade in ottobre, nel periodo della semina, e quella
primaverile, tardiva, in marzo e aprile, appena prima della mietitura. La Bibbia conosce
queste due stagioni e la preghiera ebraica fa sua l’espressione salmica “manda la
pioggia al tempo opportuno” inserendo in questi periodi la richiesta della pioggia.
Caratteristico della terra di Israele è il wadi, ossia una valle che d’estate è asciutta,
trasformandosi però in un canale di rapidi flutti e di violenti correnti nella stagione delle
piogge. Quando sono asciutti i wadi servono come strade per salire sui monti.
Le tre regioni in cui si divide la terra di Israele sono: la Galilea a nord (a sua
volta divisa in Alta e Bassa Galilea), la Samaria al centro, la Giudea al sud.
La Galilea, posta fra la pianura di Esdrelon e Dan, si stende per circa 55-65 km
da sud a nord, e per 32-40 km da est a ovest. È divisa in due parti da una linea di
frattura, una faglia, la piana di Ramah, che da oriente ad occidente va dal lato nord del
lago di Tiberiade fino alla città di Tolemaide (oggi Akko) sulla costa mediterranea.
L’alta Galilea o Galilea settentrionale, dai contrafforti della catena del Libano, arriva a
ovest fino a Peq’in, alla frontiera con Tolemaide e all’est fino al Giordano. Copre circa
240 km2 con un terreno elevato che raggiunge i 900-1200 m. piogge abbondanti e forti
venti caratterizzano questa regione che di fatto è l’inizio della catena del Libano a nord.
Presenta poche città, importanti però nella storia di Israele, quali Giscala, Safed, e molti
luoghi di rifugio, dove alture inaccessibili offrirono la possibilità di resistere ad eserciti
50
molto forti. Da qui si cominciò la guerra giudaica, nonostante la regione fosse aperta ai
contatti con la Siria e la Fenicia. I villaggi dell’Alta Galilea erano abitati da persone di
fede tradizionalista e conservatrici: essi sono citati nella lista delle 24 classi sacerdotali
di servizio a turno da un sabato al successivo nel Tempio di Gerusalemme.
La Bassa Galilea o Galilea meridionale copre un’area di 750 km2 e risulta
costituita da morbide colline che non superano i 600m d’altezza. Isaia la definisce
Galilea delle genti, per la presenza di pagani in essa, presenza che fu costante. Il terreno
è costituito da una serie di bacini alluvionale assai fertili, mentre i villaggi
conseguentemente sorgono sulle colline. nella zona collinosa centrale presenta, come
monte più alto, il Tabor (588 m).
La Samaria si estende per 23 km comprendendo il territorio a nord di Efraim
(siamo nella tribù di Manasse) fino alla pianura di Esdrelon. Si tratta di una regione
collinosa che presenta ricche pianure e ampie vallate. Il clima permette la coltivazione
di cereali.
La Giudea è la regione montuosa che inizia a nord di Bersabea e continua fino
poco oltre Gerusalemme. I monti, non molto fertili, toccano gli 800 m di media, con il
monte Silo a 915m, e superano i mille sull’altopiano di Baal Hatsor; rimangono poi sui
700m verso sud. Ad est, dove l’altopiano scende verso il Mar Morto e la Rift Valley, si
stende il deserto di Giuda, rifugio di banditi e di fuggiaschi o luogo di ritiro per religiosi
eremiti. Non esistono sorgenti d’acqua nel tratto di strada che separa Gerusalemme da
Gerico. Ad ovest di Giuda, la Shefela fiancheggiava le montagne ed offriva una zonacuscinetto contro l’espansione filistea. A sud la difesa è costituita dai monti di Bersabea
e dal deserto del Negheb, percorso da razziatori. La tribù di Giuda, che può essere
entrata dal sud piuttosto che attraverso il Giordano, sembra essersi alleata con un
gruppo di popolazioni meridionali come i Keniti, i Kezziti, i Calebiti e gli Ieracmeliti,
che essa introdusse nella confederazione israelitica. Giuda incorporò anche il territorio
di Simeone (Gs 19,9), dai confini molto caghi, formando in tal modo un’unità
territoriale
completamente
indipendente
dalle
tribù
israelitiche
del
nord:
un’indipendenza che rimase evidente lungo tutto il corso della storia ebraica. A nord la
difesa era costituita da Gheba, nella tribù di Beniamino, che Giuda riconosce e difende
51
come sua (città e tribù). Fra le città di Giuda la più importante, come è ovvio, è
Gerusalemme, che sorge a 700 m sul livello del mare ed è circondata da colline e monti
un po’ più alti, che sono: all’esterno verso nord il monte Scopus (831 m), a ovest il
Monte degli Ulivi (818 m), a sud il Monte dello Scandalo (734 m) e il Monte del
Cattivo Consiglio. Il monte coperto da Gerusalemme è isolato su tre vallate. Ad oriente
la vallata del Cedron, che separa la città dal Monte degli Ulivi. Viene identificata con la
Valle di Giosafat, nella quale Gl 3,2-12 pone il raduno di tutte le nazioni per il giudizio
universale. Ad occidente di Gerusalemme c’è la valle di Innom che gira attorno alla
parte meridionale del monte per incontrare il Cedron presso sud-est, presso Akeldama
(At 1,19). Questa valle (Ge-Innom da cui Geenna) acquistò una fama poco simpatica
perché usata per bruciarvi le immondizie e per i culti di divinità pagane. Il monte stesso
di Gerusalemme era diviso in due colline, una ad occidente e l’altra ad oriente, da una
valle molto meno profonda, oggi appena visibile, detta Tyropeion (“dei formaggiai”).
La città cananea (gebusea) che Davide conquistò si trovava sull’estremità meridionale
della collina orientale, dove il Cedron e il Tyropeyon si avvicinavano l’uno all’altro per
entrare poi nella valle di Imnon, sovrastante l’unica sorgente della città, il Ghicon, dalla
quale Davide e il suo esercito salirono, con una tecnica ancora sconosciuta, verso la
città. La collina occidentale di Gerusalemme, più alta e imponente, conosciuta dalla
tradizione come Sion o Città di Davide nella sua parte meridionale (qui Erode e i ricchi
avevano la loro residenza e qui sorge il Cenacolo), contiene nella sua parte
settentrionale, detta Gareb, il Golgota, fuori le mura al Tempo di Gesù (le mura di
Gerusalemme furono tre in tre epoche diverse: mura di Salomone-Neemia, mura di
Erode il Grande, mura di Agrippa I). la città di Davide sorgeva nella zona sud-est della
collina orientale chiamata Ofel ed era separata dal Moria da un avvallamento riempito
(il Millo). Il Moria fu l’area del Tempio a nord dell’Ofel, acquistato da Davide da
Arauna il Gebuseo. Ancora più a nord sta Bezeta, che conteneva la Piscina Probatica e
la Porta delle Pecore.
Cenni sull’influsso della geografia nella vita e nella storia delle popolazioni:
tendenza all’isolamento o apertura, facilità o meno di comunicazione, scambio culturale
ed economico. Interessante l’osservazione di Galbiati: “L’influsso della geografia fisica
52
che impedì alle popolazioni residenti – compresi i piccolissimi regni delle città
fortificate dei Cananei, prima che vi si stabilissero gli Israeliti – di avere un grande
ruolo nella storia politica e nella cultura, favorì invece quella che è da ritenersi la
vocazione fondamentale di Israele, l’esser cioè depositario di un messaggio religioso
assolutamente nuovo e tale da poter resistere alle tentazioni di sincretismo e di
assimilazione alle correnti religiose di popoli culturalmente più dotati. L’espressione più
alta e, diremmo, più esasperata di questo volersi tenere nell’isolamento più assoluto dal
punto di vista religioso, si ha nel Deuteronomio, eco di una catena ininterrotta di
messaggi provenienti dagli ambiti profetici. Questa catena va da un capo all’altro nella
storia biblica e, se nella lotta contro parziali cedimenti finì per trionfare nell’epoca postesilica, ciò si deve anche al fatto che potè contare sulle caratteristiche di una
popolazione predisposta dalle condizioni geografiche all’isolamento e a reagire con crisi
di rigetto alle pretese di popoli più potenti e più dotati di civiltà materiali” (in Fabris,
149).
(articolo consigliato per l’esame: R. E. BROWN, S. S. – R. NOTH, S. J., Geografia
biblica, in AA.VV., Nuovo Grande Commentario Biblico, Queriniana, Brescia 1997,
1546-1573).
ARCHEOLOGIA BIBLICA
L'archeologia oggi tende a definirsi sempre più come scienza autonoma fondata
epistemologicamente. Nel senso moderno del termine l’a. è un’invenzione del XVIII sec. Con
l’Illuminismo cerchie sempre più numerosi di eruditi iniziarono a inseguire sistematicamente il
passato dell’umanità. Il nome si deve all’archeologo lionese Jacob Spon, che l’introdusse nella
lingua francese; l’idea è molto più antica. È fuor di dubbio che generazioni d’uomini, ancor prima
della scoperta della scrittura, ancor prima delle società agricole, abbiano avuto conoscenza del
passato. Un passato di cui sappiamo solamente che si rivelava attraverso oggetti conservati con
cura, tesaurizzati perché portavano la traccia di un comportamento o di uno stile non più di moda.
In Mesopotamia, in Egitto, in Cina, dal II millennio a. C., alcuni sovrani iniziano a scavare tombe
e santuari per scoprire i resti dei loro lontani predecessori. Architetti e scribi sono chiamati per
53
liberare i muri, decifrare le iscrizioni, restaurare le dimore degli dei o degli antichi sovrani. Tutto
dimostra che per i governanti dei primi stati della storia, il controllo del passato è una necessità
politica e religiosa, garanzia della stabilità del regime. Nel V sec. a. C. in Grecia, i sofisti
inventeranno il termine di archaiologia, inteso come la scienza del passato: origine dei popoli,
delle usanze, delle città. L’archaiologia è una parte della ricerca (historia) sugli avvenimenti del
passato. Ma essa è più attenta alle istituzioni, alle singolarità dei popoli che ad ordinare
cronologicamente i fatti. Così Tucidide, riflettendo sulla storia comparata di Atene e di Sparta, o
Pausania, commentando le rovine di Micene, mettono a confronto la tradizione con il paesaggio e
le vestigia identificabili. Fanno dei monumenti e degli oggetti una fonte della storia (così Tucidide
nell’archeologia siciliana). Il Medioevo vedrà la riorganizzazione dello spazio per gli usi cristiani.
Nell’Europa delle grandi invasioni, i chierici, forti della loro ottima conoscenza della tradizione
greco-latina, devono spiegare al popolo l’origine di antichi monumenti, poi destinati ad altri usi,
che spuntano nel caso di una costruzione, di una nuova pianificazione o della creazione di una
nuova città. La preoccupazione per l’antichità prende forme molto diverse, dagli editti di
Teodorico che prescrivono di rispettare i monumenti di Roma ai riti ecclesiastici intesi a purificare
rovine, statue o vasi antichi della loro influenza pagana, fino alle ricerche organizzate dai papi e
dai re, per scoprire sia le reliquie dei santi sia i tesori dei pagani. Il primo Rinascimento si muove e
prosegue la stessa linea. Gli eruditi italiani dei secc. XIV e XV, Petrarca e Ciriaco d’Ancona,
gettano le basi di un altro approccio del passato. La Grecia e Roma antiche sono oggetto di
conoscenza che il ritorno alle fonti e la critica filologica possono contribuire ad illuminare. Si
confronta la tradizione scritta con l’epigrafia, la descrizione dei monumenti e ben presto la scienza
delle medaglie: la numismatica. I precursori del Rinascimento si chiamano e si proclamano
nuovamente antiquari, non più eruditi. Essi sono i conoscitori e i collezionisti delle vestigia del
passato. Con il ritorno dei papi da Avignone a Roma, la città eterna ritorna ad essere la capitale
intellettuale dell’Europa. Trasformare la città del Medioevo in metropoli del mondo cristiano
diventa un imperativo, e queste operazioni urbanistiche implicano lo scavo del suolo. Uomini
come Flavio Biondo e Raffaello danno al mestiere di antiquario i suoi metodi e la sua dignità. La
scienza degli antiquari romani è un modello per tutti gli eruditi del XVI secolo. Inglesi e
scandinavi sono i pionieri, perché devono supplire alla mancanza di fonti scritte con
l’osservazione del paesaggio, e gettare le basi di una geografia storica che porta l’erudito ad uscire
54
dal suo studio; monumenti, monete, vasi, iscrizioni diventano strumenti della storia.. Ad essi si
aggiungono tedeschi, francesi e olandesi; rinascono allora le discussioni dimenticare dai tempi
degli storici greco-latini sui meriti comparati delle fonte storiche o sul peso della tradizione scritta
rispetto alla raccolta delle antichità. L’attenzione non è più limitata alle vestigia del mondo
classico, ma si apre alle mummie egiziane, ai megaliti, cioè le tavole dei giganti, alle selci tagliate,
alle pietre focaie, alle urne che gli scavi rivelano. In quest’epoca, nonostante la diffidenza degli
ecclesiastici, il benedettino B. de Montfaucon stabilisce le regole del discorso archeologico,
mentre il Conte di Caylus inventa il metodo tipologico, postulando che ogni oggetto manifesta un
luogo e un’epoca identificabili. Buffon stabilì, esplorando “l’oscuro abisso del tempo”, che la
storia del mondo deve contarsi in decine, addirittura in migliaia di anni. Boucher de Perthes fece
prendere coscienza dell’alta antichità dell’uomo e diede così inizio all’estrazione dei fossili
necessari a stabilire una paleontologia umana che fa dell’uomo un animale tra gli altri. L’a.
moderna è tributaria di questa evoluzione. Essa è fondata su tre pilastri: la tipologia, che stabilisce
l’evoluzione degli oggetti nello spazio e nel tempo; la stratigrafia, che osserva la posizione degli
oggetti nei differenti strati; la paleontologia, che descrive la variazione delle specie animali e
vegetali. A questi recentemente si è aggiunto il metodo archeometrico (dall’archeometria) che,
verificando attraverso leggi fisiche la datazione e la provenienza degli oggetti, rivela che in tre
millenni di progressi discontinui gli antiquari del passato hanno preparato la base per gli
archeologi del presente. Dopo gli anni 1950 l’a. cambia: ai margini delle scienze dell’uomo e della
natura, essa ha saputo fare sue tanto le scoperte della fisica moderna quanto i nuovi orientamenti
della storia e dell’antropologia.
L’a., contrariamente all’etnologia e alla storia, è totalmente tributaria di dati
esclusivamente materiali, che sono esumati nello scavo. L’etnologia, infatti, dispone di una ricca
informazione, poiché essa ha o ha avuto la possibilità di osservare e porre domande a degli
interlocutori. La storia lavora sui testi soprattutto, ma la scrittura non compare che in un esiguo
numero di società, molto sviluppate, dove essa è maneggiata in genere solo dai ceti privilegiati
della popolazione. Numerosissime società sono , dunque, inaccessibili alla storia e, anche in caso
contrario, interi ambiti della sfera culturale restano nell’ombra. L’a. interroga il dato, del quale
deve saper ascoltare e interpretare il linguaggio. Questo costituisce un handicap, perché i dati non
parlano da soli. Spetta all’archeologo dar loro un senso, operazione alquanto delicata.
55
Ciò che si trova nello scavo si riduce a poche cose: resti di oggetti che sono stati
fabbricati, prodotti o solamente utilizzati dall’uomo, insieme, per esempio, a prodotti
manifatturati; ma ci sono anche vestigia botaniche ed ossee. Ci sono pure i resti di edifici,
d’impianti e installazioni fissi, creati dall’uomo per gli scopi più diversi. C’è infine il terreno
archeologico stesso, creato sia dall’attività umana (per esempio, con la formazione di depositi
organici legata ai meccanismi di rifiuto), sia dalla decomposizione dei resti antropici ad opera
degli agenti naturali (la pioggia, il vento, ecc.). L’archeologo deve stabilire rapporti tra ciò di cui
dispone e ciò che desidererebbe, cioè essenzialmente tra vestigia materiali ed elementi non
materiali. Ora questi rapporti sono molto diversi, a seconda del ruolo giocato da fattori naturali e
culturali, e cioè, alla fine, in che modo i dati rimasti riflettano una volontà o un’intenzione umana.
Ci sono dei campi in cui predominano, ad esempio, le costrizioni naturali. La decomposizione
dei prodotti organici, per esempio, è perfettamente estranea alla volontà umana. Nella sua
relazione con la natura l’archeologo deve tenere conto delle proprietà inerenti ai materiali, alle
piante e agli animali su cui egli esercita la sua azione e ciò o per conoscenza ritenuta oppure, se le
domande sono troppo particolari in un determinato caso, attraverso la sperimentazione o
l’osservazione. Se vuole invece affrontare il campo culturale e trattare per esempio della
parentela, dell’alleanza o del potere, si deve appellare ad altri tipi di relazioni. Ogni società,
infatti, funziona su una rete di convenzioni che si manifestano nell’individuo attraverso una
gamma di atteggiamenti, di gesti, di attività: tutto quello che si potrebbe globalmente chiamare
“comportamenti”. Almeno alcuni di questi comportamenti possono trovare un’eco nella materia
(l’esogamia: la donna porta con sé i suoi arredi. Da questi si può arrivare a dedurre la pratica
esogamica stessa) Osservando società tradizionali ancora esistenti, l’archeologo può far ricorso
alle informazioni di ordine materiale presenti nella letteratura etnologica., che però solo
raramente sono messe in relazione con gli elementi culturali che interesserebbero all’archeologo.
L’archeologo può attingere negli atlanti etnografici per cercarvi delle correlazioni tra un tratto
materiale che egli studia e questo o quel tratto culturale. Tuttavia queste correlazioni sono più
spesso tendenziali che sistematiche e derivano dall’osservazione più che dalla spiegazione.
L’archeologo può sostituirsi all’etnologo ed esplorare egli stesso le relazioni che gli interessano
in società tradizionali ancora viventi. Vi troverà alcuni elementi di spiegazione, ma può
analizzare bene solo alcuni casi particolari. La ristrettezza del campo d’osservazione rende
56
delicata ogni generalizzazione. Numerose relazioni tra l’universo materiale e il resto della sfera
culturale sono perfettamente arbitrarie e poggiano interamente sull’iniziativa umana. Alcuni
elementi materiali (per esempio oggetti, tratti architettonici o pratiche funerarie) sono forniti di un
significato puramente convenzionale e dunque proprio di una società. Molto spesso, questi tratti
si organizzano in trame per formare quelli che si possono chiamare codici simbolici: in essi, ogni
tratto ha senso solo se in rapporto agli altri, conformemente ad una scala di valori opposti. Per
penetrare il senso di questi codici l’archeologo deve impegnarsi in una vera opera di
decifrazione. Questa operazione è possibile solo se egli ha un’idea di quanto la gente del passato
cercava di esprimere, cosa che si ottiene attraverso l’etnologia, che permette all’archeologo di
conoscere a quale tipo di società appartiene quella che ha creato il codice, in modo da definire
con molta precisione la conoscenza di cui si servirà. L’archeologia, allo stesso tempo, è utile
all’etnologia, perché solo essa ha la padronanza del tempo, cioè la possibilità di affrontare le cose
in termini di mutamento e di origine.
L'archeologia biblica nel suo stesso nome rivela la problematicità del suo esserci e del
suo essere-scienza. Venne sostituita dapprima dal termine "palestinologia" che indicò così la
cultura materiale degli scavi effettuati nella terra della Bibbia, preferita alla vecchia dizione
“teologia biblica” in quanto più adatta a preservare la laicità della disciplina stessa,
liberandola da ogni equivoco confessionale. Ma neppure tale scelta fu soddisfacente a
rispondere alla domanda su quale identità e quale valore assegnare, concretament, a questa
disciplina all’interno dell’investigazione biblica. Intanto, l'a. passava da scienza mitica,
romantica, legata spesso a miti nazionali, a sapere scientifico, sostituendo il criterio fattuale di
collezione degli antiquari con quello funzionale di campionatura: l'archeologo aveva
cominciato a riflettere in modo critico sulla correttezza delle operazioni ermeneutiche che
compiva per giungere ai giudizi di conoscenza del passato, rendendo così conto a tutti della
fondatezza delle sue conclusioni. Si preferì a questo punto riferirsi al solo territorio e non alla
cultura e si coniarono i termini asettici di "a. della Palestina" o "a. siro-palestinese". Ogni
eventuale connessione con il testo biblico o con la vicenda religiosa era considerata non
oggettiva e non pertinente dal punto di vista storico culturale, per cui si demandava al singolo
l'approfondimento di tale tematica. P. Aarata Mantovani così spiega: “non a caso ho scelto la
definizione “archeologia palestinese”, invece della consueta “archeologia biblica” perché ho
57
voluto eliminare qualsiasi condizionamento di carattere religioso o ideologico, nel tentativo di
portare avanti una ricerca il più possibile obiettiva e lasciando al lettore, se lo vorrà, di trattare
eventuali connessioni con i testi biblici […]. Questo tipo di approccio vuole evitare un certo
‘concordismo’, mirante a far ‘quadrare’ dati archeologici e dati letterari, una tendenza che, come
vedremo in seguito è ben presente in questi genere di studi, specialmente in ambito israeliano. la
moderna a. israeliana o ‘archeologia della Terra d’Israele’, secondo la definizione coniata da Y.
Aharoni, tecnicamente avanzata, insiste particolarmente sui risultati storici finali, cercando di
correlare, a volte arbitrariamente, qualsiasi dato emerso, seppur minimo, con le notizie bibliche,
nel tentativo di individuare la presenza di elementi ebraici in Palestina anche nelle epoche più
remote. Questa tendenza al concordismo è comunque riscontrabile fin dagli albori della ricerca
archeologica in Palestina, poiché la molla che ha messo in movimento gli scavi in Terra Santa è
stato proprio il desiderio di illustrare e di verificare la Bibbia: attraverso le ricerche archeologiche
si voleva tanto studiare l’ambiente in cui gli eventi biblici avevano avuto luogo, quanto apportare
delle prove che dimostrassero la veridicità del testo sacro. Ci sono voluti anni affinché
l’archeologia palestinese volgesse la propria attenzione anche ad epoche e zone diverse da quelle
‘bibliche’ ed assumesse quindi lo status di disciplina storica. L’archeologia palestinese, definita
in senso geografico, mira a ricostruire ‘storicamente’ gli insediamenti e le manifestazioni
culturali che si sono verificate all’interno di tutto il territorio palestinese, tenendo in egual conto
sia la zona costiera e transgiordanica, sia la zona giudaica, da sempre privilegiata dall’archeologia
‘biblica’ traendone, quando possibile indicazioni sullo svolgimento dei fatti storici’ (P. Arata
Mantovani, Introduzione all’archeologia palestinese, 7-8). L’errore non sta nel fare
un’archeologia legata alla cultura religiosa di un popolo, ma nel condizionare l'autonomia della
ricerca, facendola dipendere dalle questioni di fede che quella religione implica, non nel trattare
la storia religiosa di un popolo, oggettivata nelle sue scritture, come materiale informativo
della sua stessa cultura. Le fonti scritte, anche quando non documentano la storia di un popolo, ne
registrano fedelmente il processo culturale che testimonia l’intelligenza della sua identità
storica. All’antica archeologia biblica si rimproverava giustamente di mantenere una
concezione territorialmente e cronologicamente parziale che rinchiudeva la ricerca solo dentro
il dato veterotestamentario, non mettendo in rilievo la naturale contiguità spazio-temporale con le
civiltà della Mesopotamia e dell'Egitto, come anche la stessa continuità storica con le
58
successive epoche intertestamentaria e neotestamentaria; a quella siro-palestinese si
rimproverava di operare con troppa disinvoltura nel contesto storico-culturale, prescindendo
volontariamente da ogni serio confronto con una corretta esegesi delle fonti scritte della storia
biblica. Oggi, accettato l'indirizzo non confessionale della ricerca biblico-archeologica e in
presenza di una forte metodologia storico-antropologica si è ripresa la denominazione di
archeologia biblica, rilevando l’interdisciplinarietà tra archeologia ed esegesi, quest’ultimo
problema di non facile soluzione sino a quando le due scienze non risolvano reali problemi di
credibilità scientifica e si dotino di uno statuto epistemologico che permetta loro di affrontare
tutte le domande di senso che incontrano nei loro processi conoscitivi. Il problema, infatti, non
si risolve attraverso una collaborazione, peraltro in sordina, che vorrebbe salvaguardare
l’autonomia i entrambi, ma non raggiunge la sintesi da molti auspicata..
L’archeologia non consiste allora solo nel trovare reperti, nello scoprire e catalogare
antichità, nello scovare documenti. L'archeologia deve riportare gli oggetti rinvenuti a
orizzonti di senso. In tal senso, l’archeologia non è più una disciplina descrittiva, ma una
scienza ricostruttiva del passato. Nasce così la distinzione tra archeografia, disciplina
descrittiva che realizza in modo sistematico la raccolta e la classificazione dei dati, e
l’archeologia in senso proprio, intesa come luogo di una vera opera di interpretazione dei
reperti materiali in funzione culturale. Il dato materiale, infatti, non doveva essere inteso come
semplice traccia morfologica dei mutamenti storici del passato in un determinato territorio,
ma, in quanto prodotto antropico, anche se muto, doveva essere riconosciuto e giudicato
come il segno pietrificato di un processo culturale che qualunque azione dell'uomo sempre
comporta. Il dato archeologico è significativa espressione materiale di un determinato
comportamento culturale in un contesto geografico e ambientale cronologicamente databile. In
quanto “oggetto”, ogni produzione dell'uomo si presenta dunque non come atto arbitrario e
soggettivo del solo autore, ma piuttosto come effettiva testimonianza, anche se non sempre
riuscita, di sintesi culturale dei comportamenti e delle consuetudini sociali del suo preciso ambiente
storico. L’archeologica deve così coniugare scienze naturali, che descrivono le correlazioni tra i dati,
e scienze storiche, che ricercano e sviluppano i nessi di significato: si tratta di tener presenti così
scienze e discipline che tentano di coniugare il sapere strutturale della sincronia con quello dinamico
della diacronia, dando luogo a indirizzi di ricerca post-processuale che, forse, sarebbe più
59
conveniente definire post-moderna, dove il funzionalismo dei simboli viene privilegiato rispetto al
suo statico significato originario. In archeologia si introducono, pertanto, nuove discipline, come la
paleontologia, e la paletnologia, si adottano nuove tecniche conoscitive e si fa uso di concetti nuovi
come gli ecofatti, termine introdotto per indicare, accanto allo studio dei manufatti, anche l’analisi
del materiale vegetale e faunistico che si riscontra nei dati paleoambientali, giudicati indispensabili, e
di fatto privilegiati, per ricostruire l’insieme dei processi culturali avvenuti nel lungo periodo delle
società estinte.
In archeologia il processo conoscitivo che va dal dato al risultato comprende almeno tre
tappe o tre distinti momenti di ricerca:
1.
l’osservazione e il recupero dei dati archeologici (survey e scavo);
2.
la loro classificazione (descrizione degli ecofatti e definizione funzionale,
tipologica e cronologica dei manufatti: classification);
3.
l'interpretazione del passato (spiegazione, lettura culturale, cioè sociale,
antropologica e storica dei reperti: explanation).
L’archeologia biblica, nella mediazione dello spazio-tempo, guidata dal buon senso
dell’archeologo, che contemporaneamente diventa cosciente dei suoi atti conoscitivi, in modo che
le sue affermazioni possano essere verificabili da tutti, libera dalla dittatura delle fonti scritte,
attraverso il recupero del ruolo di significazione del dato e della cultura materiale, rimane
affascinata dalla teoria della storia secondo Fernand Braudel (vd. fotocopie allegate da leggere: “La
storia secondo Fernand Braudel”).
La tecnica degli scavi divenne disciplina universitaria indipendente con Mrs Kathleen M.
Kenyon: fino ad allora era stata una branca degli studi classici, della teologia, dell’etnografia e degli
studi orientali. Lo scavo avviene in tal modo: in primo luogo, uno studio attento della Bibbia e di
altre fonti indica la zona del territorio di Israele in cui una particolare località biblica potrebbe
trovarsi.. Poi, il British Survey, la base delle principali carte geo-topografiche oggi in uso, e le carte
topografiche di Israele mostrano se un nome arabo tradizionale corrisponda al nom ebraico biblico
del luogo. Infine, una ricognizione dell’intera area e la raccolta di pezzi di ceramiche possono
indicare in anticipo quanto in profondità si dovrà scavare prima di incontrare il periodo biblico che
interessa. Attualmente gli archeologi hanno accesso alle informazioni acquisite attraverso fotografie
aeree e ricognizioni del territorio che possono essere estremamente utili per decidere dove scavare.
60
Lo scavo era limitato nel metodo stratigrafico a fosse piuttosto ristrette di 5m2. Questo metodo è
tuttora utile per datare eventi della storia politica, come distruzione di città (metodo diacronico). Per
cercare di ricostruire l’ambiente quale era nell’antichità, tuttavia, gli archeologi devono scavare aree
più ampie ed estese: è il metodo orizzontale o sincronico, utile per avere un’idea della vita quotidiana
delle popolazioni antiche.
Il luogo che gli archeologi scavano si chiama tell, cioè “rovine”. Un tell tende ad
assumere una forma molto caratteristica di un tronco di cono. Il tell – così lo si definisce
– è una collina che è andata crescendo a seguito di fasi successive di insediamento
assumendo la forma di un tronco di cono. Un tell non può essere scavato isolatamente,
poiché una località deve essere sempre considerata nel suo contesto. Gli archeologi
pertanto operano ricognizioni del territorio, e studi sull’intera regione, come mezzi per
capire i fenomeni quali l’insediamento di una popolazione, i sistemi commerciali, gli
avvicendamenti nella popolazione, le strutture sociali, l’ecologia e l’0economia
dell’antichità. L’attuale interesse per l’ambiente che ci circonda ha reso gli archeologi
consapevoli dell’importanza dell’ambiente nell’antichità e della sua relazione con la
presenza dell’uomo. Per ottenere poi il maggior numero di informazioni, gli scavi si
compongono di staff interdisciplinari, e non di singoli archeologi. Specialisti in scienze
naturali e sociali, tra cui geologi, antropologi fisici e culturali, idrologi, etnologi,
paleoetnobotanici e zoologi collaborano insieme sul campo insieme agli archeologi. Il
vasto repertorio di nuove testimonianze raccolte in gran numero con questo sforzo di
cooperazione è estremamente utile per ricostruire sia la storia che il processo culturale
della società del passato. Nello stesso tempo, le tecniche di ricupero, registrazione e
analisi dei dati sono sostanzialmente migliorate. Inoltre nello scavo stratigrafico si è
rinunciato ad immettere nel terreno esaminato la rigida stratigrafia geologica: i confini
sono labili. Molti materiali vennero riutilizzati o caddero nello strato precedente. Gli
stessi strati si perdono o crollano sotto il peso di quelli superiori; ancora molti edifici o
utensili vengono riutilizzati dagli abitanti degli strati successivi, rendendo così ancor più
difficile l’identificazione temporale dei dati materiali.
L’archeologia in Israele è caratterizzata da una estrema scarsità di costruzioni di
prestigio, di testimonianze epigrafiche monumentali e dalla povertà dei manufatti
61
artistici. L’unico ritrovamento archeologico abituale ed abbondante è la ceramica, che
così permette la definizione della cultura dei popoli della terra di Israele ed una
attribuzione cronologica relativamente sicura. L’argilla era infatti il materiale più usato,
sia nella forma di mattoni crudi e malta sia nella forma di mattoni cotti in fornace e
ceramica. Le ceramiche si infrangono facilmente, ma i frammenti non si possono ridurre
in polvere. Da una qualunque parte del bordo o da certi altri piccoli frammenti è
possibile ricostruire con grande esatezza la dimensione e la foggia d’origine. Lo
sviluppo dell’archeologia biblica si riflette nei risultati di studiosi come Petrie, Vincent,
Albright e Mazar nel perfezionare “l’orologio delle ceramiche”, cioè un quadro che
presenta i tipi di ceramica caratteristici dei secoli e delle zone geografiche che si sono
succeduti nella storia.
Dall’insieme dei ritrovamenti archeologi emerge un dato sorprendente: la
mancanza di originalità e di realizzazioni monumentali in terra di Israele, quindi una
certa povertà dei manufatti, all’interno di una cultura sostanzialmente fenicia, ma
arretrata e artisticamente inferiore rispetto ai più importanti centri culturali limitrofi: la
Fenicia, la Siria e l’Egitto. E per parlare di Israele bisogna aspettare la fine dell’età del
Ferro, cioè l’VIII-VI sec., il periodo cioè pre- ed esilico (leggere P. Arata Mantovani p.
84. Non così il NGCB 74: 108).
I periodi archeologici in terra di Israele si suddividono così:
Paleolitico
1.600.000-18.000
Inferiore
1.600.000-120.000
Medio
120.000-45.000
Superiore
45.000-18.000
Epipaleolitico (Mesolitico)
18.000-8.000
Neolitico
8.000-4.500
Pre-ceramica
8.000-6.000
Ceramica
6.000-4.700
Tardo
4.700-4.500
Calcolitico
4.500-3.200
62
Età del bronzo antico
3.200-2.000
BA I
3.200-3.000
BA II
3.000-2.800
BA III
2.800-2.400
BA IV
2.400-2.000
Età del bronzo medio
2.000- 1.550
BM I (BM II A)
2.000-1.800
BM II (BM II B)
1.800-1.650
BM III (BM II C)
1.650-1.550
Età del bronzo recente
1.550-1.200
BR I
1.550-1.400
BR II
1.400-1.200
Età del ferro
1.200-539
Prima
1.200-900
Tarda
900-539
Periodo persiano
539-332
Periodo ellenistico
332-64
Periodo romano
64 a. C. – 324 d. C.
Primo
64 a. C. – 135 d. C.
Tardo
135-324
Periodo bizantino
324-640
Primo periodo islamico
640-1174
Crociate
1099-1291
Tardo periodo islamico
1174-1918
63
Storia biblica
Fonti per la storia di Israele:
bibliche: la Bibbia come raccolta di racconti antichi a sfondo storico e di notizie
extrabibliche: 1. scritte: iscrizioni, documenti, testi letterari, lettere, ecc.;
2. reperti non linguistici, come ritrovamenti archeologici, costruzioni,
ceramiche, ecc.;
3. nomi di località palestinesi (in lingua araba), come furono raccolti nel
secolo scorso dai viaggiatori.
La prima menzione di Israele si ha nella stele del 1219 a. C. ritrovata a Tebe sullla quale
è inciso il Canto della vittoria di Merneptah, faraone. Qui Israele è un popolo che giace
spezzato e non ha grano da seminare. Una descrizione diversa da Es 1,1-5. Da dove
viene dunque Israele? I testi biblici non sono concordi nel rispondere. Si sono formulate
diverse teorie:
a) conquista. Gli Israeliti si impadronirono del paese attraverso una guerra nel XII sec.
a. C. (accordo con i testi biblici: Gs 1,11); il fatto è confermato dalla presenza di
distruzioni databili al periodo finale del Tardo Bronzo. È la tesi della scuola
americana di W. F. Albright, G. E. Wright, Y. Yadin.
b) immigrazione o infiltrazione. Gruppi nomadi di pastori al seguito del pascolo
divennero poi sedentari per il contatto con popolazioni a sistema agricolo: è la tesi
di A. Alt. I testi biblici quali il libro di Gs sono in tal caso eziologici circa le origini.
In tal senso è più vicino alla storia (verisimile) il Libro di Giudici, che parla di
relazioni conflittuali degli israeliti con i cananei e gli altri popoli e di lotte sociali e
religiose per rendersi indipendenti. Sociologi ed etnologi rigettano però la teoria di
Alt. I sociologi gli rimproverano di non conoscere bene le leggi che regolano lo
sviluppo delle società primitive. N. P. Lemche preferisce parlare di evoluzione da
una civiltà pre-statale ad una forma organizzata che prevede il culto, la politica, e
l’amministrazione centralizzata.
c) rivoluzione. Rivoluzione contadina contro il sistema cananeo, rifugio nelle
montagne, unione attorno al dio El. Venuta dei gruppi del dio JHWH, che
fomentarono la rivolta. È la tesi di G. E. Mendenhall nel suo articolo “the Israelite
64
Conquest of Palestine” in BA 25 (1962) 66-87, ripresa e diffusa da N. K. Gottwald,
che prende in considerazione la documentazione di Tell el- Armana, designazione
moderna della capitale del regno d’Egitto fatta costruire dal faraone Amenhotep IV
(Akhenaton, 1364-1347), la quale presenta nelle lettere provenienti dai re cananei
una società differenziata in varie classi sociali, alcune integrate, altre tenute ai
margini del sistema politico- sociale. Tra questi gli Hapiru/Abiru, che disturbano
l’amministrrazione dei centri cananei. Un gruppo di israeliti avrebbe conosciuto al
Sinai la religione jahwista e l’avrebbe poi trasmessa agli altri gruppi, mediante
forme di aggregazione o confederazione. Il culto jahwista che si presentava con le
caratteristiche dell’uguaglianza e della libertà avrebbe generato la rivlta contro le
città-stato cananee dirette secondo criteri di dispotismo e disuguaglianza sociale.
Troviamo perciò gruppi di Israeliti o nomadi fuorisiti dall’Egitto e israeliti o nomadi
stanziati nelle montagne della Transgiordania (vd. P. Arata Mantovani, p. 79-81).
d) Evoluzione. Decadenza della città a causa della chiusura delle vie di comunicazioni
internazionali e popolamento delle montagne della Giudea da parte di sevi della
gleba e di affittuari provenienti dalle pianure che si stabilirono pacificamente nelle
zone poco popolate delle montagne dando origine a nuove comunità agricole
(ritribalizzazione). Il Dio dal Nome impronunciabile sarebbe allora una divinità
cananea prevalsa sulle altre.
Numerose le ipotesi e le spiegazioni. Un dato però è certo: non esistono città distrutte e
grandi insediamenti in questo periodo, l’archeologia non li rileva. I. Finkelstein così
afferma:
1. non si ha traccia negli scavi e nei surveys di una conquista armata, ma si trovano
elementi per ipotizzare una presa di possesso graduale del paese. Si notano
insediamenti di clan israelitici prima nella regione centrale montagnosa di EfraimManasse. Successivamente gli insediamenti raggiungono le regioni più lontane e
difficili come il Negev e la Galilea;
2. le testimonianze sul fenomeno delle origini di Israele sono costituite da una serie
impressionante, per numero e per caratteristiche, di piccoli insediamenti in alcune
regioni bibliche (Galilea, Manasse, Efraim, Giuda, Negev, Galaad e Moab).
65
Daver scrive: “in conclusione, si può tranquillamente stabilire che oggi le prove
archeologiche sono massicciamente contrarie al modello classico della conquista degli
israeliti così come viene descritto nel libro di Giosuè e come veniva accettato dagli
studiosi biblici fino a poco tempo fa. Molti siti del TB-F I non sono stati distrutti per
niente; tra quelli distrutti, la maggior parte delle distruzioni si deve addebitare ai filistei,
oppure a forze sconosciute. Alcune possono essere state operate dagli israeliti, ma di
questo manca la certezza” (vd. anche il prosieguo dell’articolo di P. Kaswalder,
L’archeologia e le origini di Israele, in RivBiblIt XLI (1993) 171-188).
In realtà, si assistette pertanto intorno al XIII sec. a. C. al passaggio dalla città,
ormai decaduta, al sistema tribale, che era presente anche prima insieme alla città.
Nuove tecniche (lavorazione del ferro e cisterna ermetica) resero possibile la vita nelle
montagne. Nel 1200 a. C. le tribù delle montagne si unirono, contro le città di Canaan,
per dar vita a Israele, dal nome del loro dio El, il dio creatore dei cananei. JHWH era
sconosciuto a questi popoli. Ruben, Simeone e Levi scompaiono o sono emarginati. Le
tribù adorano il dio El. I gruppi dall’Egitto si uniscono ad essi e fanno prevalere il dio
JHWH. Nessuna istituzione centrale, ma uguaglianza: decisioni e giudizi erano presi
dagli anziani delle tribù, il culto era dei leviti, in alcune circostanze straordinarie
sorgevano i giudici. Probabilmente le tribù di Giuda vennero dal sud e strinsero alleanza
con i popoli lì presenti, conservando conseguentemente una certa indipendenza alla
quale mai vollero rinunciare. La tribù è costituita da 50 alleanze locali formate dalle
famiglie patriarcali. Le famiglie patriarcali riunite in alleanza erano otto o dieci. La tribù
offriva reciproca assistenza e difesa. I matrimoni avevano luogo preferibilmente, ma
non necessariamente, all’interno della tribù. Gli organi giuridici ed amministrativi erano
costituiti dall’assemblea degli uomini adulti e dal consiglio degli anziani.
L’alleanza delle famiglia patriarcali o clan comprendeva 50-100 persone dello stesso
villaggio. Importante qui il ruolo del capofamiglia nell’esercizio del potere politico,
giudiziario, amministrativo e bellico.
L’ipotesi dell’anfizionia delle 12 tribù confederate proposta da Noth sulla base di Gs 24
è smentito da Gdc 5 che nomina solo 10 tribù. Manca l’aspetto fondamentale
dell’anfizionia, cioè il santuario, Israele è legato al dio El, non a JHWH di cui si parla in
66
Gs 24. Si può meglio parlare di società non organizzate in uno stato e quindi acefale,
cioè prive di un’istanza centrale, e tuttavia stabili, rette dagli anziani, economicamente
agricole, con delle genealogie precise, a volte con qualche leader. I gruppi dall’Egitto si
unirono a questi che avevano pure compiuto il loro esodo dalla città alle montagne
perché oppressi. Israele diventa tale con il dio JHWH (Gen-Gdc). Le tribù radunate
attorno all’adorazione di JHWH instaurarono tra loro rapporti di parentela e crearono
genealogie tra i loro patriarchi, definendo per essi caratteri simili, quali la
peregrinazione, come è nella penna dello Jahwista.
I nomi dei patriarchi erano tipici della Mesopotamia nord-occidentale del II millennio a.
C. e si diffondono in seguito. Non si comprendono nel loro significato originario. I
patriarchi abitano fuori dalle città, non sulla costa, ma nella Terra centrale e meridionale
e nella zona a est del Giordano. I racconti più importanti si svolgono negli antichi
luoghi sacri. Il dio El è per loro un dio personale.
L’esodo avvenne non nelle dimensioni narrate. Probabilmente fu la ribellione di un
piccolo gruppo, forse semiti, che fuggirono dalle città-magazzino per vie già praticate
(Bock p. 46). Il mare è difficilmente determinabile anche dai testi biblici discordanti tra
loro: forse una palude con sabbie mobili ai margini del deserto. Il nome Jhwh è legato al
deserto del Sinai e a gruppi di seminomadi che lì risiedevano, parenti dei fuoriusciti
dall’Egitto (vd. anche la fuga di Mosè a Madian: leggere dall’Atlante di Galbiati-Aletti
pp. 15.66). Mosè è la figura del mediatore, probabilmente un leader del tempo che in
seguito assunse i tratti che ritroviamo nei testi. Nel deserto si sancisce l’alleanza, sulla
base dei patti allora vigenti tra le nazioni (cfr. il codice di Hammurabi), tra Jhwh e
Israele, alleanza che tuttavia è sorta in epoca tardiva in Israele: il credo storico
deuteronomista di Dt 26,5-10 non la conosce. E poiché tutto è localizzato nel deserto di
Kades, si pensa che siano state raccolte tradizioni eziologiche diverse su luoghi e
popolazioni di questo medesimo deserto. Dell’infiltrazione con Giosuè si è già discusso.
Le dodici tribù si stabiliscono nella Terra abitata ancora dai cananei e dai popoli del
mare, i Filistei, sulla costa (Bock. 54). I giudici furono capi carismatici sorti in
determinate circostanze: si distinguo in sei grandi e sei piccoli. Il pericolo filisteo
costante, il desiderio di unificare le leggi, il culto comune di Jhwh favorirono la nascita
67
della monarchia, che però inglobò anche i non-israeliti. Il tentativo di diventare re da
parte di Abimelech (Gdc 9) fallirà. Solo Saul vi riuscirà, attraverso la sconfitta dei
Filistei. Ma Saul non rispettò le tribù e le loro leggi, annullò ordini sacri, intervenne
nelle questioni cultuali e assunse la fisionomia di un tiranno.
Davide giunse al potere perché oltre a rispettare le tribù e le loro leggi, strinse
alleanze con i nemici e coinvolse le tribù meridionali che erano state escluse da Saul. Il
figlio di Saul regnava a nord, ma fu assassinato. Davide divenne allora re del nord
(Israele) e del sud (Giuda). Davide conquistò la rocca dei Gebusei, Gerusalemme, per
assicurarsi l’autonomia dalle tribù, sconfisse tutti i nemici e creò un regno che andava
dalla Siria centrale ai confini dell’Egitto. Il giudizio storico su Davide è più cauto della
descrizione biblica: certamente fu questo il periodo di massimo splendore per Israele,
giacché Davide riuscì a tenere unite intorno alla sua persona tutte le tribù, stringendo
alleanze con i popoli vicini, alleanze rispettate a causa della capacità bellica di Israele in
quel momento e del collasso delle altre potenze intorno, che prima di Israele erano
giunte all’unificazione nazionale e allo splendore. L’arca trasferita a Gerusalemme
segnò l’inizio del cammino verso l’accentramento del culto nella sola città di
Gerusalemme che sarà effettivo solo con Giosia.
La discendenza di Davide occupò tutta la restante parte della sua vita e del suo
regno, con intrighi e sanguinose lotte fratricide. Alla fine Davide scelse Salomone.
Costui si dimostrò ottimo statista: intraprese rapporti commerciali con tutti i popoli
vicini e strinse con loro alleanze attraverso matrimoni. Fu un mecenate delle arti, un
saggio. Con lui si costruì il Tempio su un modello cananaico del quale egli fu il primo
sacerdote. L’alleanza trono-stato non piacque a nessuno, come pure l’ingerenza fiscale
divenuta gravosa, dalla quale erano esclusi Gerusalemme e Giuda. Ciò porto alla sua
morte alla divisione nei due regni del Nord (Israele)
e del Sud (Giuda con
Gerusalemme). È questo il tempo dei profeti, che denunciano le sperequazioni sociali, la
contaminazione del culto e i sacrifici umani, l’apertura agli stranieri, le alleanze
diplomatiche. Israele era poi un regno esteso, mentre Giuda si presentava più compatto.
Il IX sec. vede l’ascesa degli Assiri che conquistarono la Siria nel 738. Giuda
resiste in quanto stato cuscinetto con l’Egitto e grazie alla sottomissione di Acaz; Israele
68
con capitale Samaria è distrutto nel 722 a.C. e i suoi abitanti deportati. Alcuni trovarono
rifugio in Giuda e vi introdussero le loro concezioni religiose e i loro scritti sacri. La
zona fu ripopolata e stranieri si mescolarono ai sopravvissuti. In questo periodo si
colloca la guerra siro-efraimita (734-732 a. C.) e la profezia dell’Emmanuele (Is 7,114). Nonostante la ribellione al tempo del re Ezechia e la ricerca di alleanza con
l’Egitto, Giuda non venne distrutto dagli assiri (2Re 18-19; costruzione del canale di
Siloe): nacque il mito della città indistruttibile.
Con Giosia inizia la riforma religiosa ispirata dal ritrovamento del Dt e
l’accentramento del culto a Gerusalemme (622 a. C.: 2 Re 22-23). Intanto i Babilonesi
si sostituiscono agli Assiri nella scena politica mondiale. Ciò parve segnare l’inizio
della pace, ma Giosia morì a Meghiddo ucciso dal faraone Necao. L’avanzata
babilonese fu rapida. Gerusalemme venne saccheggiata e assediata a più riprese per poi
essere alla fine distrutta (598 a. C.) Sotto il regno di Sedecia, nell’estate del 587-586,
Gerusalemme capitolò definitivamente. Il popolo venne deportato e altri fuggirono
inutilmente in Egitto.
La liberazione avvenne soltanto con l’avvento dei Persiani e specialmente con
Ciro, che permise nell’anno 538 di ricostruire il Tempio e aprì la via del ritorno agli
esuli (editto in lingua aramaica trasmesso da Esd 6,3-5). È il tempo di Esdra e Neemia,
dei difficili rapporti tra esuli e sopravvissuti in patria, del problema dell’identità ebraica
con il divieto dei matrimoni misti, dell’opposizione probabile tra Garizim e Sion. Il
Tempio divenne la sede del sommo sacerdote, per il quale fu introdotta una
consacrazione eguale a quella del re. Molti però rimasero in Babilonia e in altri centri
(diaspora). Scompare la profezia, sorge l’apocalittica. Si forma il nucleo consistente
della Bibbia. Periodo oscuro storicamente sull’organizzazione interna e sulle sette
(farisei, sadducei, qumraniani, esseni, ecc.) che in questo periodo si formano: uniche
fonti la Bibbia e Giuseppe Flavio.
Al governo persiano seguì quello macedone – ellenestico, con i diadochi, cioè i
generali di Alessandro Magno, ai quali succederanno gli epigoni. Nella Siria- Palestina
e nella Terra di Israele essi sono rappresentati dalla dinastia dei Tolomei in Egitto con
capitale Alessandria e da quella dei Seleucidi in Siria con capitale Antiochia. Se nel 301
69
con la battaglia di Issos i Tolomei ottennero il governo della Terra di Israele, fu con
Antioco III il Grande e la sua vittoria a Panion (200 a. C.) che i Seleucidi riuscirono a
governare su questo prezioso lembo di terra. Antioco concesse ai sacerdoti, agli anziani
e ai dottori della legge notevoli privilegi, tra cui l’esenzione dalle tasse ed ellenizzò
Gerusalemme. Il punto massimo di ellenizzazione si raggiunse con Antioco IV Epifane,
che volle abrogare tutte le istituzioni religiose e culturali ebraiche, profanando persino il
tempio. Scoppia così la rivolta guidata dalla famiglia dei Maccabei (o Asmonei) che
intorno al 164 riuscirono, dopo lunghe guerre narrate nei libri dei Maccabei, a
riconquistare Gerusalemme e il tempio, cacciando i Seleucidi (25 Kisleu [14 dicembre]
164 a. C. istituzione di Hannukah). I Maccabei ottengono l’appoggio romano, dato in
realtà solo per debellare la potenza seleucide: vd. la lettera dei legati romani residenti in
Siria del 163 in 2Mc 11,34-38 e il senatus consultus del 161in 1Mc 8,23-30.
Inizia così la lunga dinastia dei sommi sacerdoti asmonei: Gionata, il primo
(160-142), che si autonominò sommo sacerdote nel 158 a. C., invischiato in ambigui
rapporti diplomatici all’interno del conflitto tra tolomei e seleucidi, cui segue Simone
(142-134), che riconquistò l’akra di Gerusalemme, la cittadella abitata dai siriani, nel
142-141, e Giovanni Ircano I (134-104) che divenne re pur senza assumere il titolo
regale. Fu lui a riportare in auge l’antico regno di Davide, fra l’altro con la distruzione
del tempio o altare dei Samaritani sul Garizim e la circoncisione forzata degli Idumei.
Le sette cominciarono il loro schieramento: ai farisei che rifiutavano Giovanni quale
sacerdote si opponevano i sadducei che lo sostenevano nella sua duplice funzione. Il suo
regno passò poi nelle mani di Alessandro Ianneo (103-76) e della moglie Salome
Alessandra (76-67) sotto la reggenza della quale i farisei acquisirono il potere.
Una nota linguistica: la parola asmoneo si applica alla dinastia dei sommi
sacerdoti (Simone, Giovanni Ircano) e poi dei re (Aristobulo I, Alessandro Ianneo,
Alessandra, Aristobulo II), che rivestirono l’incarico del potere supremo dei giudei tra il
142 e il 63 a. C. Abitualmente, si riserva l’appellativo maccabeo (martello) ai tre capi
dell’insurrezione giudaica, i figli gloriosi di Mattatia di Modin: Giuda, Gionata e
Simone. Secondo Giuseppe Flavio in AJ XII, 265, asmoneo deriverebbe dal nonno di
Mattatia, un sacerdote originario di Gerusalemme di nome per l’appunto Asmoneo. Non
70
si conosce nulla di questo personaggio, il cui nome, probabilmente, è da ricollegare ad
una località: Hashmon (Gs 15,27), Hushin (1Cr 8,11) o Hasmonah (Nm 33,29). La
parola asmoneo non si trova nei libri dei Maccabei, ma in GF e nel Talmud e nella
Mishnah.
Intanto si faceva minacciosa l’avanzata romana. I figli di Alessandra, Aristobulo II e
Ircano II, si scontrano. A sostenere Ircano si fa avanti Antipatro, figlio del governatore
idumeo sotto Ianneo e padre del futuro Erode il Grande. Secondo Giuseppe (AJ XIV, 810), Antipatro apparteneva a una grande e ricca famiglia idumea, i cui membri si
sarebbero convertiti alla religione giudaica sotto Giovanni Ircano. Nel 63 a. C. Pompeo
marcia su Gerusalemme e la cinge d’assedio, conquistandola (entra pure nel tempio ma
non vi trova nulla nel Santo dei Santi). Il regno seleucide è trasformato in provincia di
Siria- Palestina, retta da un governatore e da diversi procuratori. Sotto la dominazione
romana fa la sua comparsa Erode il Grande, un Idumeo che era salito al trono per aver
falsato e fatto scomparire le genealogie. Figlio di Antipatro, amico dei Romani, arricchì
Israele di nuove città e rese il Tempio una delle 7 meraviglie del mondo. Regnava però
sulla violenza e sul terrore. Alla sua morte il regno venne diviso tra i suoi figli più
giovani in quattro stati:
1. Archelao ottenne il governo su Giudea, Idumea e Samaria, diventandone etnarca, e
mantenne il titolo di re;
2. Erode Antipa fu signore della Galilea e della Perea;
3. Filippo divenne tetrarca del territorio nord-orientale del Giordano;
4. Salomè ottenne tre città.
In questo periodo assumono una fisionomia ben definita le sette ebraiche quali noi le
conosciamo (farisei, sadducei, sicari, zeloti), insieme a movimenti, di ispirazione
messianica, che propugnavano la liberazione e la salvezza di Israele per mano di Dio o
di un suo inviato consacrato (Messia – messianismo). È questo il tempo in cui fa la sua
comparsa anche il movimento di Gesù di Nazaret.
I procuratori romani continuano a vessare la popolazione con il fisco e il terrore,
profittando pure delle lotte interne. Il 66 d. C, segna lo scoppio della prima rivolta e
della guerra giudaica sotto il procuratore Gessio Floro. I partiti rivoluzionari sono di
71
diversa estrazione, ma intendono liberare Gerusalemme dal nemico. La guerra si protrae
sino al 70 d. C., quando Tito, figlio di Vespasiano, assedia e distrugge Gerusalemme. Le
ultime resistenze si concentrarono a Masada, dove nel 74 un gruppo di zeloti diede la
morte a sé e ai propri familiari per non cadere in mano ai romani. Masada rimane ancor
oggi il simbolo della volontà di libertà del popolo ebraico. La Giudea divenne provincia
imperiale; il legato imperiale risiedeva a Cesarea Marittima. È questo il periodo di
formazione della letteratura rabbinica (Mishnah, Ghemara, Talmud). Un’altra rivolta si
ebbe nel 132-135 d. C. guidata da Simone Ben Kosebah, ribattezzato da Rabbi Aqiba
Simone Bar Kokebah (figlio della stella; la stella è simbolo di regalità, infatti Simone
sembrava essere il discendente di Davide). Si raggiunse un breve periodo di
indipendenza, cessato nel 135 con la morte in battaglia di Simone. Dopo il 135
l’imperatore Adriano cambiò il nome di Gerusalemme in Aelia Capitolina. Si
introdussero gli dei e l’accesso alla città venne proibito, sotto pena di morte, a tutti gli
ebrei. A questo punto la storia si divide in storia ebraica con il rabbinismo e storia
cristiana con la Chiesa.
Per approfondire le istituzioni del popolo ebraico (famiglia, clan, tribù, monarchia,
culto, profezia, diritto:
R. DE VAUX, Le istituzioni dell’Antico Testamento, Marietti, Casale Monferrato 19773;
R. RENDTORFF, Introduzione all’Antico Testamento. Storia, vita sociale e letteratura
d’Israele in epoca biblica, Claudiana, Torino 2001, 117-156 (valido come articolo per
l’esame).
CENNI SUI POPOLI DELLA MESOPOTAMIA
(articoli per l’esame: S. MOSCATI, Antichi Imperi d’Oriente, Newton Compton, Roma
1997, 13-26;
M. LIVERANI, Le civiltà mesopotamiche, vol. 3 in Storia
Universale Corriere della Sera, Torino 2004, 5-48)
Il mondo orientale nella sua accezione più ristretta si estende su circa 2.000.000
Km2, un’area ristretta e compatta che alterna catene montuose, pianure alluvionali e
72
aridi tavolati. Dal regime pluviale mediterraneo si passa rapidamente al clima steppico
del deserto siro-arabico o altrove al clima di alta montagna. Grandi fiumi, come il Tigri
e l’Eufrate, attraversano zone altrimenti condannate ad un’aridità quasi totale. Zone di
alta concentrazione demografica sono a stretto contatto con zone pressoché vuote. Il
rilievo giunge fra i 3500 e i 4000 metri nel Turo, nel Ponto e negli Zagros, e supera i
5000 in Armenia (Ararat); mentre la depressione del Mar Morto (-395 dal livello del
mare) è la più profonda del mondo.
Per dare un’immagine semplificata del Vicino Oriente si usa spesso l’immagine
della “fertile mezzaluna”: un semicerchio di terre fertili, irrigate, atte all’insediamento
agricolo ed urbano va dalla Palestina (Israele) alla Siria alla Mesopotamia, confinando a
sud col deserto siro-arabico e a nord con le alte terre anatoliche, armeniche, iraniche.
In senso più ampio il Vicino Oriente comprende pure l’Egitto. In tal senso si
pone il problema di tutte le popolazioni e le culture eterogenee eppure in contatto tra
loro che si avvicendarono in questa estesa regione: Egiziani, Sumeri, Assiri, Babilonesi,
Ebrei, Hittiti. Una classificazione dei popoli può prendere approssimativamente a base
le diverse zone geografiche dell’area orientale: ad esse si connettono le condizioni della
vita e, conseguentemente, gli impulsi e le leggi del movimento. La fascia esterne del
desero arabo è la sede delle genti semitiche, pastori seminomadi che l’aridità della
steppa spinge a successive riprese verso le fertili regioni circonvicine. Qui i Semiti
incontrano altre genti, diverse, con le quali si compenetrano, determinando un
complesso etnico molto vasto. Ad ovest, nella valle del Nilo, elementi molteplici
confluiscono nel popolo egiziano, e la lingua se ne fa specchio. Nell’opposta valle
mesopotamica i Semiti incontrano i Sumeri, gente di incerta origine la cui lingua, di tipo
agglutinante non rivela affinità genetica con alcun’altra lingua conosciuta. I due popoli
coesistono e concorrono alla determinazione della politica e della vita economicosociale della regione. Nella striscia di costa siro-palestinese, che congiunge le due valli
di fiumi, i Semiti trovano popolazioni altre. Il predominio andrà qui ai Semiti, diversi a
loro volta nelle successive fasi di occupazione, ma nell’insieme sostanzialmente
dominanti le vicende e la loro documentazione storico-letteraria. Senonché, la natura
particolare della zona, punto d’incontro e d’intercambio, fa sì che le grandi alterazioni
73
politiche successivamente vi si riflettano, aumentando e complicando senza posa il
complesso etnico già frammisto. Al di là della Mezzaluna Fertile, sugli altipiani
dell’Anatolia e dell’Iran, vivono di nuovo dei nomadi, non più pastori di pecore e di
cammelli come quelli del deserto, ma cacciatori e cavalcatori. Questi nomadi sono di
stirpi diverse, ma un fatto essenziale li accomuna: il loro intervento su larga scala nella
storia orientale è connesso al movimento di genti indoeuropee, che di essi costituiscono
parte almeno nella classe dirigente. Queste popolazioni soppiantarono altre più antiche
imparentate tra loro: Elamiti, Hurriti, ecc.
Il territorio è sovrabbondante rispetto alla popolazione, vi è abbastanza acqua
per rendere la terra produttiva, il lavoro umano rende possibile la sistemazione
infrastrutturale delle acque e della terra e poi il loro sfruttamento continuo. I tre
elementi – terra, acqua, lavoro – si condizionano dunque a vicenda, e il popolamento è
sì condizionato dalla disponibilità di risorse alimentari, ma a sua volta ne condiziona la
produzione. Lo sviluppo demografico è instabile e vario per diverse cause e riflette
modelli sociali e culturali di versi (vd. M. LIVERANI, Le civiltà mesopotamiche, vol. 3 in
Storia Universale Corriere della Sera, Torino 2004, 29-31: leggere).
Le grandi fasi innovative sono sostanzialmente tre (vd. Liverani, 35). I modi di
produzione sono due: quello palatino e quello domestico (vd. Liverani 39-40).
Nell’Antico Oriente non esiste, per ciò che concerne la produzione letteraria, il
genere storiografico vero e proprio, fine a se stesso: iscrizioni reali ed annali sono testi
di carattere politico e di intento celebrativo, sono sostanzialmente propaganda.
Veicolano, dunque la storia, ma non come semplice fatto, piuttosto come ideologia
politica o teologica (vd. Liverani, 43-44). La letteratura celebrativa consegnata nelle
iscrizioni reali ed in altri testi di emanazione palatina è mossa da evidenti scopi politici,
riconducibili agli intenti della legittimazione, della celebrazione, della contrapposizione,
della comunicazione (Liverani, 44-48).
74
ANTICO TESTAMENTO
LIBRI STORICI
“Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il
Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6, 4-5).
E’ questo il significato fondamentale dei libri storici dell’AT: nella storia di
Israele, che la Chiesa accoglie in pieno e che ogni uomo rivive nella sua personale
esistenza, si rende presente Dio, che si confessa unico ed al quale ci si lega totalmente in
un rapporto esclusivo, ma aperto. La storia umana, scritta con parole umane, diventa il
luogo della presenza di Dio proprio nella sua apparente e paradossale assenza: l’uomo
dall’occhio penetrante come Balaam vi scorge il suo passaggio, lo crede con il cuore, lo
confessa con la bocca, lo deposita nella Scrittura la quale diviene una kenosi successiva
a quella storica e insieme ad essa parallela e simultanea (è la stessa logica
dell’ispirazione divina della Bibbia). La storia diventa così storia di salvezza: ciò
giustifica la lettura della Bibbia a due livelli complementari, umano e spirituale,
secondo la sua stessa natura. La storia non perde la sua autonomia, ma questa si acquista
nella dipendenza da Dio che in essa si rivela; la storia di Israele mantiene una sua
validità come storia di un popolo in sé e nel suo rapporto con Dio e la lettura tipologica
del NT (Mosè-Cristo, Diluvio-Battesimo, sacrificio di Isacco-sacrificio di Cristo) non la
annulla, ma la porta a pienezza in Cristo, punto di discontinuità che in questa stabilisce
la continuità tra i 2 Testamenti, mentre si delinea il cammino di Dio con l’uomo nel
nascondimento stesso di Dio nelle pieghe della storia che la stessa lettura tipologica
rivela. Non dunque inferiorità dell’AT e superiorità del NT, ma illuminazione
vicendevole, tensione e compimento, desiderio e incompiutezza, segno e realtà.
I libri storici di cui trattiamo sono, secondo l’ordine della CEI:
♦
-
Pentateuco
Genesi (Gen)
Esodo (Es)
Levitico (Lv)
Numeri (Nm)
75
-
Deuteronomio (Dt)
♦
♦
♦
♦
♦
Giosuè (Gs)
Giudici (Gdc)
Rut (Rt)
1 e 2 Samuele (1 e 2 Sam)
1 e 2 Re (1 e 2 Re)
♦ 1 e 2 Cronache (1 e 2 Cr)
♦ Esdra (Esd)
♦ Neemia (Ne)
♦ Tobia (Tb)
♦ Giuditta (Gdt)
♦ Ester (Est)
♦ 1 e 2 Maccabei (1 e 2 Mac)
Il Pentateuco appartiene alla sezione Torah della Bibbia ebraica. Torah significa
legge, ma nel senso di istruzione divina e di rivelazione della sua sapienza nella storia
del culto e di un popolo, Israele, il più piccolo fra i popoli della terra, eppure scelto da
Dio, che stringe con esso un’alleanza incaricandolo di una missione.
La Bibbia si apre con un complesso di 5 libri chiamati Pentateuco o Torah
degli ebrei. Essi sono nell’ordine: Genesi (Gen), Esodo (Es), Levitico (Lev), Numeri
(Nm), Deuteronomio (Dt).
La denominazione dei libri quale la conosciamo deriva dalla versione greca dei
LXX, che chiama il libro volendo riassumere il contenuto. In ebraico il libro prende il
nome dalla prima parola con la quale inizia il rotolo che si apre per essere letto. Per cui
si ha questa denominazione:
Ebraico – TM
B’resit (in principio)
W ellelh s mot
(e questi sono i nomi)
Wayyiqra
(e chiamò)
Greco – LXX e Vg
Γενεσις
(Genesi perchè tratta delle
origini del mondo, dell’uomo e
del popolo d’Israele)
Εξοδος
(Esodo, uscita dall’Egitto)
Λευιτικον
(Levitico, leggi attinenti in
76
B midbar (nel deserto)
Oppure
Wayydabber (e parlò)
‘elleh hadd barim
(queste le parole)
particolare la tribù di Levi)
Αριτµοι
(Numeri, censimento degli
ebrei usciti dall’Egitto)
∆ευτερονοµιον
(Deuteronomio o seconda
legge rispetto a quella
contenuta nei libri precedenti)
Nella tradizione ebraica i cinque libri vengono indicati con l’espressione Torah
o Torah di Mosè o il libro della Torah (così già nell’AT: sefer ha-Torah in Ne 8,3;
Torah Moshe’ in 2Cr 23,18; 30,16; sefer Torah Moshe’ in 2Re 14,6 e Ne 8,1),
ritenendone, contro i risultati del metodo storico-critico, Mosè quale autore (in realtà
Mosè ricevette la Torah sul Sinai); secondo certi midrashim la scrisse sotto dettatura di
Dio stesso nei 40 giorni e nelle 40 notti durante i quali rimase sul monte. Tuttavia, il
metodo storico-critico non nega la storicità di Mosè né la sua funzione di legislatore né
il suo ruolo di protagonista (ma qualcuno l’ha pure erroneamente messo in dubbio)
anche se ne limita la portata.
La suddivisione in 5 libri è detta anche dalla tradizione ebraica hamishah
humshe ha-Torah “i cinque quinti della Torah”. A partire da Filone di Alessandria (I
sec. d.C.), i giudei della diaspora e poi i cristiani di lingua greca e latina, ripresero
questa espressione traducendola con
pentateucov
sottinteso biblov
cioè un
libro intero, unico, che si legge di seguito (non esistevano capitoli e paragrafi né
tantomeno titoli, che furono aggiunti dopo) ma che è contenuto in cinque rotoli posti in
cinque (pente)
astucci (teucov).
Anche se alcuni parlano di un Tetrateuco, volendo fare di Dt un libro a sé,
giacché parenetico come stile e differente pertanto dai precedenti, o altri ancora di
Esateuco, includendovi Gs e dunque l’ingresso nella Terra promessa, è pur vero che la
tradizione ebraica e cristiana hanno voluto mantenere l’ordine di 5 libri conchiusi in sé e
ben delimitati da un preciso piano teologico, dentro il quale particolari temi (elezione
alleanza, promessa) si richiamano e si intrecciano a costruire una trama ben definita.
Centrale rimane la figura di Mosè come protagonista che lega i libri fra di loro; ma non
meno importante (ed è forse il motivo principale) è la figura di Israele nella genesi sua
77
propria e nell’instaurazione e sviluppo di un rapporto con Dio, basato da quest’ultimo
su elezione-alleanza-promessa e da lui per primo voluto, cose tutte che si ritrovano
“emblematicamente” nella storia dei patriarchi (Abramo, Isacco, Giacobbe) e ancor
prima nel racconto dei 6 giorni della creazione al cap. 1 di Genesi.
La narrazione del Pentateuco incomincia con il racconto dell’origine del cosmo
e dell’uomo (Genesi 1-2) e della storia primitiva dell’umanità (Genesi 3-11); segue la
storia dei patriarchi d’Israele, Abramo, Isacco e Giacobbe (Gen 12-50 = 2a parte del
libro, ma la divisione risponde più a criteri interpretativi ed a esigenze di studio. In
realtà i due blocchi non vanno separati, in quanto la loro costituzione è simmetrica e
costruita secondo parallelismi, per cui la scelta di Israele nella 2a parte si inserisce nel
quadro universalistico del mondo e delle nazioni quale è delineato nella 1a parte. Inoltre,
il piano di Dio è sempre portato avanti da una coppia: Adamo ed Eva, Abramo e Sara,
Isacco e Rebecca, Giacobbe e Rachele + Lia).
Si tratta quindi della schiavitù d’Egitto, della liberazione e del pellegrinaggio nel
deserto sino a Esodo 1-18. In Esodo 19 ha luogo l’avvenimento centrale della
costituzione di Israele come popolo di Dio attraverso l’alleanza del Sinai, la rivelazione
del decalogo e del codice dell’alleanza, cui si aggiungono diverse prescrizioni rituali (cf.
Es 19-40), concernenti per la maggior parte la costruzione del tempio futuro, le feste, i
sacrifici. Segue il libro del Levitico contenente la legislazione cultuale con le leggi sui
sacrifici, sull’investiturta dei sacerdoti, sulla purità. Del Levitico è importante il capitolo
18, il cosiddetto codice di santità. Il libro di Numeri riprende il filo degli avvenimenti:
le schiere delle tribù di Israele, disposte come un esercito, si muovono nel deserto del
Sinai fino a Kades (cf. Nm 1-19), quindi si spostano a Moab, dove Mosè fornisce
ulteriori disposizioni (cf. Nm 20-36). Il Dt racconta gli episodi accaduti nella pianura di
Moab: il libro si presenta strutturato in 3 grandi discorsi di Mosè (1-4; 5-28; 29-30), con
il ricordo delle tappe nel deserto e un completamento della legislazione precedente.
L’insieme si conclude con le ultime vicende e la morte di Mosè (cf. Dt 31-36). La morte
di Mosè ha fatto concludere che non fosse lui l’autore del Pentateuco: questo è uno
degli elementi più evidenti. Essa però sigilla la chiusura del Pentateuco o Torah:
secondo la tradizione rabbinica, infatti, la Torah sarebbe bastata a Israele se egli non
78
avesse peccato con il vitello d’oro. A causa di questo peccato, ma anche degli altri, sono
stati dati i Profeti (anteriori e posteriori) e gli Scritti.
P. Beauchamp (1985) afferma che con la morte di Mosè si vuole significare che
la legge non entra nella terra promessa se non in virtù della fedeltà ad essa che Israele
“oggi” (termine ricorrente nel Dt) si assume. Israele possiede la terra sotto il giudizio di
Dio: ma deve restare Israele, altrimenti la terra sarà tolta. La legge è allora sempre lì a
ricordare che la terra è dono, non possesso.
La storia raccontata nel Pentateuco si svolge tra i secc. XIX – XVIII a.C.
(l’inizio dell’epoca dei Patriarchi) e il sec. XV o XIII a.C. (l’epoca di Mosè) in un
territorio che si estende dalla Mesopotamia all’antico Egitto. Questa immensa distesa
vede l’avvicendamento di diversi imperi, molti dei quali però svolgono la loro storia al
tempo della redazione dei cinque libri e sono lì posti retroattivamente. Guerre e
conquiste, crisi economiche e rivolte sociali spiegano il loro avvicendarsi e la
migrazione dei popoli in cerca di nuove terre. Ogni impero è legato a un dio dal quale si
sente eletto e chiamato e che offre loro una terra: si tratta di una legittimazione della
conquista fatta attraverso una storia patriarcale che poi si apre ad una guerra di
conquista voluta e condotta dallo stesso dio (Abramo compra delle terre a Canaan che
poi saranno riconquistate dagli Israeliti con Giosuè: la guerra è dunque una guerra
giusta, voluta dal Dio, per riappropriarsi di ciò che l’antenato aveva acquistato per i suoi
discendenti). Le guerre sono guerre di dei e molti dei testi biblici presentano affinità
contenutistica con i testi dei popoli vicini. Il monoteismo di Abramo e poi di Israele è
uno stadio in realtà successivo, trasferito indietro nel tempo all’epoca della redazione,
essendovi tracce di una fede che affiorano dall’analisi dei testi rilevati come più antichi
e primitivi.
Il primo a mettere in questione l’autenticità mosaica del Pentateuco è il
riformatore A. Karlstad (+1541) seguito da Hobbes (+1679) e Spinoza (+1677). Fu però
Richard Simon (+1712) ad affermare nel suo “Histoire critique du Vieux Testament”
(Paris, 1678) che Mosè compose la parte legislativa e la Genesi fondandosi su materiali
precedenti. Il resto sarebbe opera di scrittori posteriori, che avrebbero messo per iscritto
una larga tradizione risalente a Mosè. Con Esdra, secondo Simon, si sarebbe giunti
79
all’attuale configurazione del Pentateuco. Simon parte da dati di critica letteraria quali
ripetizioni nel Pentateuco, disordini logici o cronologici, contraddizioni, differenze di
stile, ecc. J. Astruc (+1766) dà l’avvio all’ipotesi documentaria distinguendo le 2 fonti
“J” ed “E”, a seconda se Dio sia chiamato con il nome di Jahvé o di Elohim. J.G.
Eichhorn (+1827) individua la fonte sacerdotale “P”. Colui che dà la forma più
completa all’ipotesi documentaria è il filologo ed esegeta tedesco protestante J
Wellhausen (1844-1918). Assumendo il principio hegeliano dell’evoluzionismo
religioso e muovendo da dati esclusivamente letterari, e non storico-archeologici,
Wellhausen postula che il Pentateuco sia nato dalla redazione di brani disparati,
appartenenti a ben precisi ‘documenti’ o ‘parti’ che egli così distingue:
Sigla
Sec. a.C.
Premosaico
(aninismo: culti
tribali nei
santuari)
J
IX
Mosaico
(monolatria
E
VIII
RJE
VIII/VII
(dopo catuta
Samaria)
VII
Periodo
Profetico
(monoteismo
Giudaico
(nomismo
Luogo
Stile
regno del sud
Descrittivo,
narrativo, poetico,
antropomorfico
D
regno nord
più riflessivo
regno del sud
Parenetico
(Giosia 622)
RDT
P
~450
Pentateuco
IV
scuola
sacerdotale
Preoccupazioni
cultuali e
genealogiche
La teoria documentaria fu sottoposta a revisioni e critiche: alcuni la rifiutarono
in toto, altri pensarono di dividere una fonte in due strati successivi (ad es. O. Eissfeldt
distingue J1 e J2) o di introdurre nuove fonti (ad es. L, cioè la fonte laica). Von Rad
(1993) pensa che il Pentateuco nasca da saghe di natura cultuale ed eziologica
assemblati secondo il filo conduttore del credo di Israele che egli crede di ravvisare in
alcuni brani come Dt 26,5-9 e 6,20-24 ed arricchita con l’inserzione della tradizione
sinaitica, assente nei brani del credo antico da lui citati, delle storie dei patriarchi,
dapprima brevi ed in seguito rielaborati teologicamente dallo ‘J’, della preistoria, opera
tutta della creatività di “J”, che così sarebbe l’autore di Gen 1-11. Il problema in Von
80
Rad è dato dalla determinazione del concetto di saga e della sua natura di storia narrata
diversamente dalla storiografia: quando parla di saga come storia della fede del popolo
contrapposta alla grande storia, Von Rad cade in errore, in quanto proprio la storia di
fede di un uomo, Abramo, è la storia di Israele, la sua grande storia, e Abramo conduce
anche delle guerre. I due piani sono inscindibili (cfr. G. VON RAD, Genesi. La storia
delle origini, Paideia, Brescia 1993, 35-36).
Rendtorff riprende la teoria di Von Rad e parla di “unità maggiori indipendenti”
in sé compiute, elaborate e riunite insieme secondo punti di vista e pensieri informatori
molto vari, riflessi dallo stile o da aggiunte lessicali. Così facendo però, Rentdorff
tradisce Von Rad e la stessa intenzione biblica sostenendo una cesura tra la storia delle
origini e quella dei patriarchi. Vede all’opera, nella redazione del Pentateuco più la
scuola ‘dt’- ‘dtr’ (deuteronomica-deuteronomistica), che assicura la continuità con i libri
successivi, che ‘P’. (R. RENDTORFF, Introduzione all’Antico Testamento. Storia, vita
sociale e letteratura d’Israele in epoca biblica, Claudiana 1994, 211-220)
La tradizione ebraica parte da un presupposto diverso e non si attarda su rilievi
storico-critici. La Torah è parola di Dio e come tale va considerata un “unicum”. Così si
afferma in Pirqè Abot 1.1: “Mosè ricevette la Torah dal Sinai e la trasmise a Giosuè e
Giosuè agli Anziani e gli Anziani ai Profeti e i Profeti la trasmisero agli Uomini della
Grande Assemblea”.
Il termine Torah non significa solo “legge”, ma “insegnamento”. La radice
ebraica del termine dà l’idea di mirare un bersaglio, di tirare una freccia, di indicare una
direzione. Inoltre, per consonanza con altre radici, il termine Torah evoca anche la luce
e il fuoco (vedi Es 19, festa di Shabuot). La Torah quale parola di Dio è una, ma è
rivelata sotto due forme, scritta e orale, giacché “una parola ha detto Dio, due ne ho
udite” (Sal 62 (61), 12). Essa è ricevuta (qibel) e trasmessa (masar), è principio
ordinatore di condotta della comunità di Israele, la halakah. La Torah orale è come una
siepe attorno alla Torah scritta, che riassume nella regola d’oro che fu di Gesù e di
Hillel: “Così tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro:
questa è infatti la Torah e i Profeti” (Mt 7,12); e Hillel aggiunge: “Il resto è
interpretazione. Vai e studia”. Questa idea del Testo scritto e del Testo orale risale alla
81
distruzione del 1° Tempio ed anche Gesù l’ha ricevuta. Gesù legge e spiega la scrittura
secondo la maniera dei maestri ebrei. L’interpretazione della Scrittura non è solo
halakicah (giuridica) ma anche haggadicah (haggadah=racconto): da qui il midrash,
questa lettura-ricerca del senso nascosto delle Scritture ponendo attenzione alle
ripetizioni, a ciò che non è detto, a discordanze logiche, al valore numerico delle lettere
(Gematria), alla scomposizione delle parole, alla forma di ogni singola lettera. I maestri
ebrei non cambiano il testo, non parlano di glosse o di fonti: la Torah è data da Dio e
creata prima dei 6 giorni della creazione. Essa è da sempre nel cielo ammirata dagli
angeli. I maestri ebrei, come il noto ‘Aqiba’, anche quando “la Torah parla il linguaggio
degli uomini” (R. Ishmael), si impegnano a fare le corone nelle lettere della Torah, cioè
ad esplicitare tutti i sensi possibili. Ed è così, dunque, che accanto ad un senso ovvio,
quale appare dal testo (peshat), si ha pure un senso altro che dal primo nasce (darash) e
che spiega e attualizza.
La peculiarità e la validità della Parola non risiedono più nel fatto che essa è in
cielo, ma nel fatto che essa è data a Israele che la trasmette e la interpreta. Anche Dio
deve sottostare alla sua Parola interpretata dagli uomini che diventa Parola rivelata,
perché questa è la sua volontà: se Egli viene meno a ciò, i maestri lo riprendono ed Egli
non può fare altro che dichiararsi sconfitto. La halakah non è mai un dogma
incontestabile, ma un cammino sempre più profondo e largo alla ricerca della unità mai
raggiunta, i cui frammenti si ottengono all’interno di una cultura della discussione, dove
allo stesso tempo tutte le interpretazioni sono valide e sullo stesso piano eppure si deve
propendere per la maggioranza per non aumentare le divisioni
Giosuè, Giudici, 1 e 2 Samuele, 1 e 2 Re appartengono all’opera storiografica
“dtr”, secondo la definizione coniata da Noth nel 1943, cioè all’opera di una scuola
consolidatasi nel post-esilio che rielabora materiali precedenti. Nella Bibbia ebraica
sono i profeti anteriori.
Rut è un libro di natura sapienziale, posto nella LXX dopo i Gdc, usato per la
festa di Shabuot (settimana o pentecoste): è qui posto perché gli eventi in essa narrati
sembrano svolgersi all’epoca di Gdc, anche se la data di composizione del libro si situa
82
in età monarchica per alcuni, in età post-esilica per altri. Rut fa parte delle Meghillot, i
cinque rotoli di scritti di natura sapienziale usati nelle feste ebraiche secondo il seguente
schema:
Cantico dei Cantici
Pesach
Rut
Shabuot
Lamentazioni
il 9 del mese di Ab per commemorare la
distruzione del Tempio
Qohelet
Sukkot
Ester
Purim
1 e 2 Cronache, Esdra, Neemia sono un tutto unico: nella Bibbia ebraica il libro
di Cr viene dopo l’unico libro di Esd-Ne, anche se dovrebbe essere messo prima, e
fanno parte degli scritti, non di libri storici. L’unità di stile e di idee fondamentali e,
dunque, di composizione è rivelato anche dalla ripetizione in Esd 1,1-3 di 2 Cr36, 2223. Per la composizione Esd e Ne vengono prima di 1 e 2 Cr, stesi verso il 300 a. C..
Tobia, Giuditta, Ester (greco), 1 e 2 Maccabei non sono accolti dalla Bibbia
ebraica: fanno parte dei deuterocanonici della LXX. Risentono molto dell’influenza
sapienziale, il loro scopo è didattico, la forma narrativa è quella della novella o del
romanzo epico. Est (ebraico) fa parte del rotolo delle megillot ed era letto durante la
festa di Purim (festa ebraica forse simile al giorno di Mardocheo, maturata da una festa
persiana, come per il Natale cristiano).
L’ESILIO E I LIBRI STORICI
L’esilio è il momento centrale per Israele della comprensione della sua storia
passata e della sua messa per iscritto, diciamo finale.
Anche noi come Israele siamo oggi in esilio e ripensando insieme agli ebrei
deportati in Babilonia, la storia passata, ci convertiamo veramente a Dio, ne troviamo il
volto autentico che a noi si rivela, senza più la pretesa di conoscerlo e di piegarlo ai
nostri concetti e voleri.
83
In esilio non c’è più per Israele né re né profeta né tempio: la monarchia è
distrutta da un potere più grande perché ha perso il suo legame con Dio; la profezia è
scomparsa perché si è compiuta; i sacrifici non ci sono più perché il tempio, la casa di
Dio, che pretendeva di far abitare lì Dio, che i cieli non possono contenere, è distrutto. I
sacerdoti e gli scribi ripensano allora alla storia passata, vi trovano il passaggio di Dio,
il suo amore, la sua fedeltà, anche nel dolore e nella prova vi scoprono il loro amore e la
loro fedeltà di risposta, ma anche la loro infedeltà e il loro peccato (l’idolatria): fanno
memoriale, ma così riattualizzano. Il memoriale si deposita nel libro scritto che dà
identità al popolo di fronte agli altri popoli e diviene per questo normativo: nasce la
Bibbia, promessa e speranza di un nuovo avvento di Dio e della sua opera, compiuta già
mentre si scrive. E Israele tornerà in patria.
Tecnicamente, per la composizione dei libri ci si servì di unità narrative
maggiori distinte. Esse erano costituite da racconti autonomi, da novelle (Giuseppe), da
saghe, da liturgie di fondazione o di genere (Gerico), da preghiere, da inni
commemorativi, da discorsi celebrativi, da detti e brevi raccolte sapienziali-didattiche,
da storie di profeti (Elia, Eliseo, Samuele, Isaia, Michea ben (ben=figlio) Imla). Ognuno
di questi documenti ha fonti diverse, che la critica letteraria ha così diviso: “J”
(Jahvista) – “E” (Elohista) – “P” (Priester Codex (=Sacerdotale) ) – “Dtr”
(Deuteronomico) e “dtr” (deuteronomistico) e che si estendono dal IX al V secolo a. C..
La più difficile da ricostruire è l’”E”, mentre “P”, “Dtr” e “dtr” danno tutto il tono alle
tradizioni precedenti nella loro redazione finale e segnano la base per gli scritti
successivi dall’apocalittica alla linea sapienziale. Questi documenti non sono solo di
Israele, ma anche degli altri popoli del Vicino Oriente, dei quali riflettono le medesime
idee (ad es. il re-pastore babilonese scelto da Dio a rappresentarlo in terra e la figura del
re Davide). Come negli altri popoli, alcuni erano tramandati oralmente, altri (liturgie di
guerra o alleanza) fissati per iscritto e disposti in un santuario per essere letti
periodicamente.
I redattori misero insieme tutto questo materiale senza nulla tralasciare,
seguendo un ordine più pedagogico che propriamente storico, anche se non scissero i
due piani: il Dio d’Israele è il Dio della vita, cioè della storia, del singolo e della
84
comunità, uniti questi ultimi da un destino medesimo indissolubile: ciò spiega la
ripetizione di tanti brani, come ad es.: due racconti della creazione (Gen 1 – 2, 4a e 2,4b
– 3,24), due racconti della vocazione di Mosè (Es 3,1 – 4,17 e 6,2 – 7,7) due decaloghi
(Es 20,2-17 e Dt 5,6-18) con varianti notevoli, due codici dell’alleanza (Es 20,22 –
23,33 (elohista), Dt 12,1 – 26,15 (accentua il culto rispetto a Es, che mantiene gli altri
santuari, a Gerusalemme). “P” insiste sulle classi sacerdotali, sui precetti, sul sabato, la
circoncisione, la purità (vedi Levitico specialmente, oltre Nm ed Es); “Dtr” e “dtr” sulla
terra, l’elezione, il patto (berit). Numerosi i rimandi simbolici di tipo numerico: torna
frequentemente il numero 40 e il numero 12 (tribù di Israele, del figli di Giacobbe, 12
Giudici maggiori e minori), come anche il 7 e il 50 (Pentecoste). Molti scritti hanno
espressione critica e furono composti a Babilonia (cfr le origini).
Oggi la critica letteraria insieme ai metodi archeologici, sociologici ed
antropologici e alla filosofia del linguaggio (v. i nostri modi popolari di espressione) ha
raggiunto una più profonda conoscenza delle istituzioni di Israele e dei popoli del
Vicino Oriente, della storia di questo lungo periodo, di mutamenti geo-politici, con una
comprensione più piena, ma non definitiva, della storia di salvezza narrata dalla Bibbia,
questo grande memoriale delle gesta di Dio in mezzo al suo popolo riconosciute
attraverso la fede e confessata in un atto di fede scritto che nulla tralascia delle
contraddizioni della storia umana proprio perché risalti maggiormente l’azione creatrice
e provvidenziale di Dio e proprio lì dove sembra non esserci. E’ forse un caso che il
libro di Ester eviti di nominare il nome di Dio, cosa che creò scandalo agli estensori
dell’Ester greco che invece citano il nome di Dio in abbondanza? Non dicono forse
entrambi con il silenzio e la voce, l’azione dell’unico Dio nella storia umana? Per cui
nulla va nascosto o rigettato di questa parola di vita, che, per quanti l’ascoltano e la
custodiscono, diventa benedizione e vita per lunghi giorni sulla terra.
85
LIBRI PROFETICI
“Consolate, consolate il mio popolo,
dice il vostro Dio .
Parlate al cuore di Gerusalemme
E gridatele che è finita la sua schiavitù,
e stata scontata la sua iniquità,
perché ha ricevuto dalla mano del Signore
doppio castigo per tutti i suoi peccati”
(Is. 40, 1-2 )
Questo brano può riassumere il messaggio profetico, che è insieme di condanna
del peccato e di correzione del peccatore, mentre manifesta la pedagogia divina
scaturente dal suo amore misericordioso. Ogni profeta è infatti costituito “per sradicare
e demolire, per distruggere e abbattere, per edificare e piantare” (Ger. 1,10) attraverso la
Parola del Signore posta sulla sua bocca. Il profeta è infatti portatore di una parola non
sua e che spesso comunica senza il consenso diretto della sua volontà e controvoglia ad
un popolo di dura cervice che si ostina a non ascoltare. Una Parola che costringe il
profeta alla solitudine per poter essere ascoltata, compresa e poi annunciata: una
solitudine che separa il profeta da tutti e dal comune modo di pensare, per condurlo sui
sentieri di Dio, così diversi da quelli degli uomini, così come lo sono i suoi pensieri.
Una Parola che è gioia e letizia del cuore ed insieme dolce alla bocca, ma amara nelle
viscere, una Parola che promette insieme sventura e consolazione, morte e vita, castigo
e salvezza, in cui la misericordia non è sterile irenismo né la severità intransigenza
infruttuosa. Una Parola che diviene il centro della storia di questi uomini senza storia,
che scompaiono dietro il rapporto conflittuale, e per questo sanante e redentivo tra la
parola dell’uomo e la Parola di Dio che si invera nella storia. Ecco perché il profeta è
definito “uomo della Parola”.
4.2.1 I LIBRI PROFETICI SECONDO LA VERSIONE CEI
86
Comprendono i quattro libri maggiori: Isaia, Geremia, Ezechiele, Daniele più il
rotolo dei dodici profeti minori.
Subito dopo Geremia la Bibbia greca e la Volgata pongono il libro delle
Lamentazioni (Lm) che la Bibbia ebraica pone invece tra gli Scritti e che fa parte di
“megillot”: la CEI segue la LXX e Vulgata secondo la tradizione di 2 Cr 35,25
(“Geremia compose un lamento su Giosia… Esso è inserito fra i lamenti”) che ne
attribuisce la composizione a Geremia: il contenuto del libro le è di grande appoggio.
Ma Geremia non poteva dire, come afferma l’A. di Lm, che la profezia era svanita, né
lodare Sedecia e gli egiziani: l’opera risale probabilmente ad un autore del 587 a. C.,
che scrive dopo la caduta di Gerusalemme.
Baruc, dopo Lm è assente dalla Bibbia ebraica, in quanto faceva parte dei
deutero-canonici: la LXX lo pone tra Ger e Lm , la Vulgata dopo Lm (così CEI).
Sarebbe stato scritto da Baruc, segretario di Geremia e personaggio influente alla corte e
nella casta sacerdotale: ma si tratta di pseudonimia. Il libro risale al I secolo a. C.; ad
esso la LXX aggiunge la Lettera di Geremia che è poi diventata il cap. 6 di Baruc, una
dissertazione contro gli idoli risalente al periodo maccabaico. Il ricordo di Bar si è
perpetuato nella tradizione: a lui la tradizione rabbinica attribuì due apocalissi del II
secolo d. C, una in greco, l’altra in siriaco, mentre un frammento del testo greco è stato
rinvenuto a Q e risale al 100 a. C. Ecco perché questo libro sapienziale porta il suo
nome.
Il libro di Daniele non appartiene propriamente al genere profetico: è composto
tra il 167 e il 164 a. C., in età maccabaica, durante la persecuzione di Antioco Epifane,
da un autore che racconta fatti già accaduti ponendoli in bocca a Daniele veggente. Lo
scopo è didattico-esortativo (rafforzare la fede in tempo di persecuzione), lo stile
sapienziale-apocalittico (confluiscono in esso le tradizioni dell’apocalittica seguita
all’ultimo dei profeti: l’apocalittica contiene la profezia ma allo stesso tempo è un
genere autonomo che nasce dalle sue ceneri). L’età recente del libro spiega il suo posto
nella Bibbia ebraica: esso è posto tra Ester e Esdra, nel gruppo degli Scritti. La LXX e
la Vulgata lo pongono tra i profeti e gli aggiungono alcune parti deuterocanoniche
assenti nel TM: salmo di Azaria e cantico di 3 giovani, storia di Susanna, storie di Bel e
87
del serpente sacro. Sviluppa il tema del giorno del Signore ed ha il Figlio dell’uomo,
figura (messianica?) di cui si approprierà Gesù per parlare di sé.
Il profetismo si ha a Mari (XVIII sec.) secondo alcuni con caratteristiche similari
a Israele. Mosè ritenuto il 1° profeta – Scuole di profeti – profezia con incisione e taglio
– Criterio di verità della profezia di Dt 18,9-22 (deve compiersi la parola del profeta)
non certo profeti di corte.
I profeti maggiori sono così detti perché il loro rotolo è più lungo, per ciascuno,
rispetto all’unico rotolo in cui sono contenuti, tutti insieme, i 12 profeti minori: la
differenza è quantitativa, non qualitativa. La raccolta era già costituita al tempo del
Siracide. La Bibbia ebraica li ordina cronologicamente secondo la successione storica
loro attribuita, la LXX li pone prima dei profeti maggiori: BC segue l’ordine della
Bibbia ebraica e della Vulgata.
Sono tutti profeti scrittori e vanno dall’VIII al VI secolo a. C.: sono così
chiamati perché scrivono i loro oracoli e li redigono in raccolte e libri a differenza di
quelli del IX sec e della prima parte dell’VIII sec. come Samuele, Elia, Eliseo, Natan e
Gad che troviamo nei libri di Samuele e di Re (detti per questo “profeti anteriori” nella
Bibbia ebraica per distinguerli dai nostri chiamati “profeti posteriori”). Giona è più
sapienziale che profetico.
In realtà scrissero tutti i loro oracoli o direttamente o per mezzo di discepoli
scribi, per testimoniare la veridicità della loro profezia: le loro scuole e le scuole postesiliche, soprattutto “dtr”, composero redazionalmente queste unità letterarie di profeti
seguendo quest’ordine: oracoli contro Israele e Giuda e castigo, oracoli contro le
nazioni, consolazione e restaurazione.
I temi erano presenti singolarmente in ciascuna delle unità profetiche. Inoltre i
loro oracoli vennero integrati o attualizzati (come i capp 31-33 di Ger, dati prima per il
Nord (nel 720-700 a.C.) e poi adattati per il Sud negli anni 590-587) perché ritenuti
veritieri e normativi, mentre la loro normatività viene allo stesso tempo riconosciuta e
fissata. Si possono così riconoscere 1°, 2° e 3° Is o 1° e 2° Zc.
Le forme fisse e ricorrenti sono: “Così dice il Signore”, oppure, “Oracolo del
Signore” e “Parola di Jahvè.
88
I profeti si esprimono pure con “azioni simboliche (la vita del profeta è segno
(Isaia con la moglie e i figli; Os e la sua storia d’amore)
I profeti si presentano sulla scena negli anni più difficili di Israele: non solo
perché siamo in piena dominazione assira prima e babilonese poi, ma soprattutto perché
il consolidarsi dello stato monarchico, già con Davide e Salomone, aveva portato ad un
tradimento delle tradizioni jahviste, con un conseguente sincretismo religioso, dovuto
all’assimilazione del culto di Baal dei Cananei, e con la creazione di una stratificazione
sociale che prevedeva le distanze tra nobili proprietari terrieri e poveri contadini
costretti a cedere la loro parte di terra, che spettava loro di diritto come membri del
popolo ebraico cui Dio aveva concesso la terra per ogni uomo, ed a lavorare per i nobili
come schiavi.
I nobili avevano combattuto con il re e per il re, ricevendo da lui dopo la vittoria
terreni come pagamento e premio.
Jahvé assumeva le fattezze di Baal oppure accanto ai sacrifici offerti a Jahvé si
dava culto in luoghi alti (alture e pali sacri) ai Baal (padrone, marito, signore ⇒ Osea)
per ottenere fecondità della terra e pioggia (prostituzione sacra) ⇒ idem oggi con i
cristiani che si rivolgono ai maghi.
Lo stato di Israele aveva assunto le forme istituzionali, ormai decadenti, di
Canaan, caratterizzate da lusso riservato a pochi, da corruzione, sfruttamento, dominio,
sperequazione sociale, e le aveva accolte proprio quando esso era in crisi, diviso in due
da spinte autonomistiche territoriali.
I profeti, ritornando al passato di Israele e alle antiche tradizioni (Esodo, Tribù,
Deuteronomio ritrovato sotto Giosia nel 680 a Gerusalemme nel tempio, che influenzò
Osea che influenzò Geremia e parte di Esodo), chiamati dalla Parola di Dio sono inviati
a parlare in nome di Dio davanti al popolo, ai capi, al re, alle nazioni: il termine “nabi”,
tradotto in greco con “profetes” ha questo significato. Sinonimi sono missionario e
veggente. Avvertono la chiamata in forti mozioni interiori, mentre le visioni sono più
comprensione della simbologia naturale che rimanda all’interpretazione del corso degli
eventi (mandorlo in Ger). Non si danno previsioni del futuro ma discernimento del
89
piano di Dio nella storia del suo popolo per salvarlo. La Parola chiama più dentro la vita
che con sogni o estasi, che si attenueranno nei profeti posteriori rispetto a quelli
anteriori, secondo anche la linea di Dt per il quale il sogno non è verace, e che
torneranno nell’apocalittica. Vicini al culto e alla liturgia del tempio dove era riservata
loro una parte delle funzioni pubbliche come predicatori (Geremia può denunciare
tranquillamente nel tempio i suoi oracoli di distruzione) e una zona di residenza dove
ricevevano la chiamata (Isaia e Geremia). Non si scagliano contro i sacrifici o la classe
sacerdotale per far valere un culto spirituale, ma cercano di far ritornare il popolo ed i
sacerdoti ad una interiorizzazione degli stessi atti di culto, intesi come comunione con
Dio e fonte di moralità, cioè di eguaglianza e di giustizia tra i membri del popolo e con
gli stranieri. Fedeli al patto di Dio con il suo popolo, anche se non lo nominano quasi
mai, e convinti soprattutto della protezione di Dio al suo popolo, vogliono far evitare in
politica qualsiasi alleanza con altre nazioni nella battaglia contro i nemici: la ricerca
dell’alleanza e allo stesso tempo la presunzione degli israeliti che Dio è con loro e che
nulla potrà loro nuocere e che l’alleanza è voluta da Dio perché annunziata dai profeti
(ma quelli sono falsi, profeti di corte, come tanti nel vicino Oriente antico) provocherà
l’allontanamento di Dio, la distruzione come castigo e punizione dell’infedeltà e del
peccato cultuale e sociale, la deportazione. In esilio Israele si ravvederà e allora i profeti
annunzieranno la consolazione e la restaurazione, con il ritorno in patria del resto da cui
germoglierà un popolo numeroso, la ricostruzione del tempio sul Sion monte di Dio e di
Gerusalemme ove affluiranno tutti i popoli, salvo poi, come Ag e Zc a dover stimolare il
popolo apatico nel ricostruire il tempio dove Dio vuole riabitare dopo essere andato via
a causa della iniquità del suo popolo(gloria di Ez), per poi comprendere la sua
trascendentalità e santità e il fatto che l’elezione non è presunzione di salvezza, di
possesso di Dio e di conoscenza del suo volere, perché Dio può eleggere altri popoli
(Ciro e i Persiani) e vede che tutte le nazioni sono salve mentre Israele sarà in mezzo ad
esse segno della sua presenza. Il giorno del Signore è così per loro giorno di tenebra e di
oscurità, di battaglia e di distruzione, dopo le quali giungerà la prosperità e la pace.
Sostenitori della casa di Davide e del sacerdozio aronnitico, non sembrano poi sostenere
90
così a fondo il messianismo regale, propugnato in Is 8, 23 – 9,6; Mi 5,1-3a; Zc 9,9 e
forse Is 7, 10-17, l’oracolo dell’Emmanuele.
Se i profeti anteriori si interessano ad ogni aspetto della vita, i profeti posteriori a
parti della vita come il culto e la condanna delle ricchezze. Tutti però annunciano una
salvezza di Dio che si manifesta come punizione e redenzione, senza estremizzazioni né
rigoristiche né sentimentalistiche. Il profeta permette lo svolgersi del processo e del rib
tra Dio e l’uomo, dove è sempre la Parola di Dio a prevalere (Is 55) e a convertire: essa
produce ciò che Dio vuole e per cui l’ha mandata, seminando la legge di Dio nel cuore
nuovo dell’uomo, un cuore di carne, non più di pietra, donato da Dio stesso insieme al
suo spirito per stipulare una nuova alleanza che sarà eterna.
Il profeta Malachia, ultimo del canone, con la menzione di Elia, profeta
escatologico per eccellenza, chiude la profezia ed apre all’apocalittica. Ma la profezia
innerva tutta la storia di Israele e tutta la Scrittura intesa come parola rivolta da Dio
all’uomo nella storia per mezzo della storia, un appello alla conversione che Dio
concede nella dilazione del giudizio fino al tempo della mietitura, un criterio di
discernimento della storia personale e comunitaria ed una base di decisione a favore
della volontà di Dio.
Questo era pure l’insegnamento della Sapienza, presente in Is 11 e 40 ma con
toni più universalistici che solo il post-esilio e la diaspora potevano dare.
Con i profeti ha inizio il monoteismo in Israele: Jahvé non è solo il primo fra gli
dei, ma l’unico Dio.
91
LIBRI SAPIENZIALI
“La Sapienza forse non chiama
e la prudenza non fa udir la voce?
In cima alle alture, lungo la via,
nei crocicchi delle strade essa si è posta,
presso le porte, all’ingresso della città,
sulle soglie degli usci essa esclama:
<< A voi, uomini, io mi rivolgo,
ai figli dell’uomo è diretta la mia voce.
Imparate, inesperti, la prudenza
e voi, stolti, fatevi assennati.
Ascoltate, perché dirò cose elevate,
dalle mie labbra usciranno sentenze giuste,
perché la mia bocca proclama la verità
e abominio per le mie labbra è l’empietà.
Tutte le parole della mia bocca sono giuste;
niente vi è in esse di falla ce o perverso;
tutte sono leali per chi le comprende
e rette per chi possiede la scienza.
Accettate la mia istruzione e non l’argento,
la scienza anziché l’oro fino,
perché la scienza vale più delle perle
e nessuna cosa preziosa l’uguaglia.
(Prov. 8)
Questa sapienza, seguendo la quale si ottiene la vita, come seguendo la follia si
va incontro alla morte, in una ripresa delle due vie della benedizione e della maledizione
del Dt, è l’oggetto dei libri sapienziali che la BC apre con Giobbe e conclude con
Siracide. Secondo lo schema di BC sono libri sapienziali:
♦
♦
♦
♦
♦
Salmi
Giobbe (Gb)
Proverbi (Prov)
Qoelet (Ecclesiaste) (Qo)
Cantico dei Cantici (Ct)
♦ Sapienza (Sap)
♦ Siracide (Sir)
Nella Bibbia ebraica fanno parte della 3^ sezione
“Gli Scritti!; Ct e Qo erano letti a Pasqua e nella
festa delle capanne e fanno parte di megillot
Deuterocanonici: scritti in greco, sono apocrifi
per la Bibbia ebraica. Del Sir è stato scoperto un
rotolo quasi per intero a Masada, in ebraico; Sap
è l’ultimo libro dell’AT (50 a. C.)
92
Rimangono fuori altri libri di natura sapienziale come Dn, Gn, mentre gli altri
libri del rotolo “Scritti” sono entrati nella BC tra i libri storici e profetici (Baruc e
Lamentazioni).
I libri sapienziali, che si estendono dall’epoca monarchica al 50 a. C. (Sapienza),
hanno come fonte Davide e Salomone. Secondo la tradizione, a Davide va la paternità
dei Salmi, poiché cantore e devoto del culto lo presentano a noi 2 Sam e 1 Re e 1 e 2 Cr;
a suo figlio Salomone la paternità dei proverbi, degli enigmi e delle parabole, cioè di
tutti gli altri scritti sapienziali, poiché appare dai libri storici come il re più saggio della
terra del suo tempo, visitato per questo anche dalla regina della lontana Saba nel Sud, il
solo che richiese la sapienza nel governare a Dio, sapienza che non gli giovò molto se
già sul finire della sua vita il regno comincia a vacillare per poi spezzarsi in due
tronconi alla sua morte (gli storici biblici dicono a causa delle sue molte mogli che lo
indussero all’idolatria). I nomi di Davide e di Salomone dicono però che la letteratura
sapienziale, e i saggi che la coltivano nascono in ambiente di corte e ha uno scopo
essenzialmente pratico: formare i dirigenti e i consiglieri del re, in questo non
differenziandosi né contenutisticamente né formalmente dalla letteratura sapienziale
degli altri popoli del Vicino Oriente, specialmente l’Egitto. Numerosi i paralleli tra gli
altri popoli con moduli espressivi e forme di pensiero identiche: la sapienza, come la
profezia di Mari, non è esclusiva di Israele, che se non l’apprende da altri popoli, la
coltiva come loro. E scandalizza non poco che a prima vista si tratti di una sapienza
pratica e ovvia quella di cui si parla (trasmissione orale) e si scrive, di una sapienza che
sta accanto a Jahvé quasi come un’ipostasi in Prov 8 ed anche poi in Sir. 24 e in Sap.
9,4 (sapienza paredra di Dio) e che solo alla fine da questi due ultimi libri insieme al
poema sapienziale di Baruc sarà identificata con la Torah, mentre prima il nome di Dio,
Jahvé, compariva solo per dire la fede di questi saggi che potevano sembrare addirittura
atei. C’è chi parla di una sapienza pratica antica e di una teologia più recente: ma non
conviene mai separare gli ambiti perché ogni filone della letteratura veterotestamentaria è un continuum di tradizioni e di fonti (orali e scritte) che subisce
rimaneggiamenti, aggiunte, complementi, commenti, edizioni e redazioni. La donnasapienza in Siracide 24 trova si posto in Israele e nella Torah: ma non si tratta altro che
93
della stessa visione universalistica dei profeti. Ciò avviene perché Israele è segno tra le
nazioni della presenza di Dio che raggiunge le nazioni proprio nell’esilio di Israele,
come vuole Bar, nel luogo dove non si dimentica l’elezione e la promessa, ma si
scrivono per renderle presenti, perché Israele sia tale attorno al libro contro i libri degli
altri popoli, che non rifiuta né combatte né accetta perché li ha già dentro di sé, nella sua
vita per manifestare Dio agli altri popoli. Ciò permette a Israele di dialogare con le
nazioni, mentre l’ellenismo incalza, e di mantenere intatta la sua fede in Jahvè. La
Sapienza, presente nella creazione, regola l’ordine cosmico, di cui quello sociale è
riflesso: essa è anche sapienza pratica (lavorare il legno, tagliare pietre, tessere) e questo
suo duplice aspetto inserisce l’uomo all’interno di questa armonia cosmica, per dire che
egli sì fa tutto, ma animato dalla sapienza divina, per cui tutto dipende da Dio. E’ messo
a tacere chi affermava che i saggi erano atei. Questa stessa sapienza presente nella
creazione configura il matrimonio come istituto che sigilla la fedeltà dell’amore nel suo
stesso avverarsi come alleanza istituita nella carne e nel sangue dal rapporto sessuale,
espressione della benedizione divina che il Cantico dei cantici esprime con punte di alto
lirismo. Ed il saggio, istruito dal padre e soprattutto dalla madre, poiché la sapienza è
donna, poiché molte sono le donne sapienti nella Bibbia, ed anche il saggio stesso e il
suo maestro si divertono, se la donna saggia e virtuosa fa ben funzionare la casa, è
invitato a sposare la sapienza, anzi l’ha già sposata: “Questa ho amato e ricevuto fin
dalla mia giovinezza, ho cercato di prendermela come sposa … Ho dunque deciso di
prenderla a compagna della mia vita, sapendo che mi sarà consigliera di bene e
conforto nelle preoccupazioni e nel dolore. Tornato a casa, riposerò vicino a lei, perché
la sua compagnia non dà amarezza, né dolore la sua convivenza, ma contentezza e
gioia”. Perché la Sapienza dona immortalità e incorruttibilità, promette la retribuzione
nell’aldilà per le opere di bene compiute quaggiù, contro il comune modo di pensare,
che poi degenera nell’orgoglio e nella presunzione, proclama beati la sterile, l’eunuco e
il giovane morto prematuramente. Il male e la morte sono inquadrati nell’ordine
cosmico, anche se il saggio vive il dramma del loro mistero e della loro
incomprensibilità: se Qoelet sa che c’è un tempo per ogni cosa sotto il cielo e che tutto è
vanità, Giobbe protesterà la sua giustizia contro Dio fin quasi alla bestemmia e
94
affronterà il male e il pericolo della morte non con la sterile rassegnazione di chi crede
che sia Dio a permettere tutto questo, ma con la forza di chi lotta, forte della sua
concezione che il dolore e la morte servono a punire i peccatori, non i giusti, per
scoprire alla fine che Dio ha decretato la vita per tutti, ma non può impedire alla natura
di scoprire, tramite la morte, che la vita non è un bene che essa possiede di per sé, ma un
dono che viene da Dio. Cade la concezione e si apre lo spazio di una rivelazione: la vita
nasce dalla morte, anche se l’uomo non crederà mai nella morte. Passando attraverso la
sentenza della morte, la vita (bene della Sapienza) mostrerà di essere un dono fatto al
mondo e di non provenire da esso. Perciò Dio ha creato tutto per la vita e non gode della
morte, introdotta nel mondo a causa del diavolo.
E così i saggi sperimentano che non sono loro a salvare il mondo, ma Dio:
questo Dio che non definiscono, ma che lodano. Nei Salmi ogni uomo ed ogni comunità
trova la sua propria voce: nascendo dalle profondità dell’animo umano essi si
configurano proprio per questo, come Parola di Dio, preghiera stessa coniata da Dio per
l’uomo, che dall’uomo sale a Dio. Dio ci ha donato le parole con cui vuole essere
lodato: da qui l’importanza della LO, il canto delle lodi di Dio, così come lo cantava
Israele accompagnandosi con gli strumenti musicali (mizmor) nel tempio (i Salmi sono
ritenuti canti dei leviti) Ogni salmo attinente Davide, il re, o i figli di Core o per loro (è
discusso il senso della preposizione le) è supplica collettiva o individuale, lamentazione,
ringraziamento, inno, richiesta di perdono o di aiuto (Salmo 50 “Miserere” o “De
Profundis”) che ogni uomo sente di dover cantare in ogni luogo e in ogni tempo. E chi
loda Dio loda pure la sua legge con cui la sapienza si identifica: essa è il libro dei
comandamenti di Dio. Se elementi sapienziali troviamo nel Pentateuco e nell’opera
storica “dtr”, la ripresa di temi dei libri storici allargati e commentati secondo il metodo
midrashico aprono la storia di Israele e dunque la presenza di Dio in essa agli altri
popoli, rivelando al contempo che Israele è il solo popolo saggio e intelligente e che mai
nessuno ha posseduto la sua sapienza. Non è un caso, inoltre, che il libro dei Salmi si
divida in cinque parti separate da brevi dossologie:
1 – 41
42 – 72
95
73 – 89
90 – 106
107 – 150
mentre Proverbi si componga di nove collezioni
1–9
10 – 22,16
22,17 – 24,22
24,23 – 34
25 – 29
30,1 – 14
30,15 – 33
31,1 – 9
31,10 – 31
La sapienza allora come architetto insegnerà a scoprire e a vivere nell’armonia
cosmica stabilita dalla legge di Dio, mentre come bambina ama il riso che si erge contro
la vanità del mondo e la transitorietà di ogni evento e per questo non si stacca dalla vita,
ma la vive più profondamente, con sapore, nella verità e nella libertà. Teme Dio perché
l’ama, ne accetta la concezione perché lo conosce come padre, se la perde ne va in cerca
come l’amata nel Cantico dei Cantici, accettando ferite e percosse pur di ritrovarlo e di
riposare al suo fianco, sul suo petto. Perché la Sapienza nasce da Dio e a lui ritorna
conducendo gli uomini, tutti gli uomini, rinnovando la sua alleanza con loro attraverso
Israele e ponendo in essi quelle delizie che l’uomo chiede con il grido e che vede in una
promessa che si rinnova e in un desiderio che si accresce, ma non in una compiutezza
che si manifesterà solo in Gesù Cristo, Figlio di Dio, venuto però sulla terra per far
gustare un poco della divina sapienza e insegnarci così a tendere non verso le cose
visibili che sono di un momento, ma verso le cose invisibili che sono eterne: il desiderio
si espande e si ritrova nelle sorgenti del proprio cuore scaturenti dall’infinito dell’anima,
luogo dell’abitazione di Dio che solo dona la vita e sazia l’uomo di ogni bene attraverso
una croce che gli fa comprendere il suo essere figlio e non schiavo, creatura libere di
fronte a Lui, destinata a diventare come Lui non per suo volontà o forza propria, ma per
dono, attraverso la sapienza dall’alto che è piena, poi pacifica, mite, arrendevole, senza
falsità e ipocrisia, piena di misericordia e di buoni frutti. Per essa un frutto di giustizia
viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace: di shalom.
96
NUOVO TESTAMENTO
VANGELI E ATTI
“Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti, e noi
sappiamo che la sua testimonianza è vera. Vi sono ancora molte altre cose compiute da
Gesù, che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a
contenere i libri che si dovrebbero scrivere” (Gv 21,24)
E’ proprio questa la natura dei Vangeli e di Atti: quella di essere una
testimonianza su Gesù da parte del discepolo, cioè un confessare la propria fede in
colui che si riconosce, attraverso il dono che è la Rivelazione, Figlio di Dio, e la fede
della comunità cui si appartiene, attraverso la narrazione della vita di Gesù e dei prodigi
da lui compiuti nella sua gloria in mezzo alla sua Chiesa e fra i pagani da Risorto,
mantenendo stretto il legame fra Gesù e Cristo, anzi non ponendosi neppure il problema
di un divisione, giacché il Risorto è quello stesso Gesù crocifisso che Dio ha risuscitato
dai morti costituendolo suo figlio con potenza, cioè rivelando la sua eterna figliolanza e
divinità, in quanto Verbo, agli uomini. Ciò è proprio di una comunità semitica che narra
la presenza e l’azione di Dio nella storia non attraverso concetti, ma narrando la storia
già compiuta e sulla quale si è scritto in nuce e si è meditato: i libri storici dell’AT e la
storia della loro formazione gettano non poca luce sul processo di composizione dei
Vangeli. Per cui è vero che i Vangeli non sono una biografia di Gesù, ma partono
ugualmente dall’evento Gesù, dalla sua storia e, come tali, sono storici e ricchi di
informazioni storiche; mentre la qualifica di narrazioni teologiche non ne fa delle
produzioni “mitiche”, in quanto la fede è sempre storica, ma qui la fede in un uomo
crocifisso perché condannato a morte dalle autorità sfida la stessa storia e si impianta
con forza in essa: sarebbe stato meglio dimenticare, tornare alle proprie case (Emmaus,
precedere in Galilea) e al proprio lavoro, anziché raccontare 5 volte (i vangeli e la
notizia contenuta in 1Cor 15,5-6) di apparizioni dello stesso crocifisso, compreso e
97
annunciato, alla luce del compimento delle Scritture, come Risorto perché risuscitato da
Dio.
Il criterio letterario della attestazione multipla non inganna: Gesù dopo la sua
morte è stato visto vivo dai suoi discepoli (non solo dai 12, ma a più di cinquecento
fratelli) e questa memoria è stata trasmessa con forza e per prima da tutte le comunità,
perché il fatto non visto, ma compreso, della risurrezione sta alla base della fede
cristiana e della comprensione piena dei Vangeli e Atti.
E la parola “Vangelo” indica proprio una
“buona notizia”, che per gli
evangelisti è Gesù Cristo. Il termine non compare molto in LXX, dove invece abbonda
il verbo, né nel giudaismo intertestamentario. E’ invece usato nel culto imperiale
romano a indicare la buona notizia dell’ascesa al trono o della vittoria dell’imperatore
(stele del 9 a. C. per la nascita di Augusto). Paolo lo usa 60 volte con genitivo oggettivo
e soggettivo (di Dio, di Gesù Cristo). E nel NT è presente 76 volte; Marco lo utilizza 5
volte in forma assoluta, non così Matteo, mentre Luca lo adopera solo in Atti.
Il primo autore che chiama vangeli gli scritti che noi conosciamo è Giustino, il
quale usa per essi anche la forma “memoria degli Apostoli”. Ciò intorno al 150 se
Giustino muore nel 165. Gli autori non imposero loro alcun titolo. Quando la raccolta fu
costituita si aggiunsero due termini: “secondo… + nome dell’evangelista”, secondo
un’antica tradizione. Questo semplice titolo di 2 parole, ben presto si ampliò in “il
vangelo secondo…”. Ciò per indicare l’unità del vangelo nella sua quadruplice forma,
che è sempre necessario mantenere (la Chiesa condannò il Diatesseron di Taziano). Se
questi scritti furono inseriti d’autorità apostolica e furono ben presto ritenuti normativi
rispetto agli altri sorti e circolati anche essi tra le chiese è perché essi ripercorrevano la
storia del Signore in concordanza con la tradizione ricevuta: messi da parte gli altri
scritti, detti apocrifi, ritenuti edificanti, per porre fine ad eresie ed errori (Marcione),
questi scritti o Vangeli, furono accettati come autoritativi e normativi per la fede e alla
fine entrarono nel canone con una importanza pari ai libri dell’AT (il cui canone
definitorio non era ancora stato fissato).
I primi tre Vangeli sono Sinottici perché disponendoli in colonne parallele li si
può leggere contemporaneamente con un solo colpo d’occhio. Giovanni (Gv) ha una sua
98
storia particolare perché è il frutto di una lunga e profonda riflessione personale, oltre
che comunitaria. Atti fa parte dell’opera lucana e seguirebbe al Vangelo (ma lo studio
sulla passione di Cristo in Luca e il suo confronto con il martirio di Stefano devono far
rivedere la questione della composizione. Forse Luca lavorava ad entrambi man mano
che scopriva nuove fonti: si comprende perché scrisse prima il martirio di Stefano e su
questo la passione di Gesù).
Per la datazione si ha:
Matteo (Mt): 80 d. C. in Siria
Marco (Mc): 50 d. C. a Roma
Luca (Lc) e Atti (At): 70 d. C. a Roma e in Grecia
Giovanni (Gv): 100 d. C. in Asia Minore (Efeso ?)
Lo stile di Mc e ruvido, pieno d’aramaismi e scorretto, ma vitale e spontaneo. Mt
è aramaizzante, ma più forbito e corretto. Lc è complesso, imita lo stile dei LXX, difetta
solo quando rispetta le fonti. Gv ha un greco eccellente segnato da semitismi.
La data e il luogo di composizione e lo stile di ogni Vangelo sono importanti per
determinarne l’autore, l’ambiente vitale, la natura e gli scopi. I Vangeli furono scritti
dalla comunità per la comunità: sono dunque egualmente importanti la tradizione e la
redazione. La tradizione orale di detti e fatti di Gesù trovò espressione in inni liturgici e
in apposite catechesi stilate secondo la forma sapienziale, sempre trasmesse oralmente.
Queste unità letterarie (forme), trasmesse oralmente e poi successivamente messe per
iscritto, sono studiate dalla critica delle forme o storia delle forme inaugurata da K. L.
Schmidt nel 1919 in uno studio dal titolo La cornice della storia di Gesù. Lo stesso
anno è M. Dibelius a dare a questo metodo il suo nome, appunto storia delle forme, che
è anche il titolo di un suo libro. R. Bultmann distinguerà tra la predicazione missionaria
palestinese e la polemica e l’apologetica di stampo ellenistico. Queste forme letterarie
hanno i loro paralleli nella letteratura ebraica ed ellenistica e sono strettamente legate al
loro Sitz im Leben, cioè il loro ambiente vitale, le comunità. Si distinguono così le
seguenti forme:
Gruppo A: la tradizione delle parole
1. Sentenze profetiche
99
2. Sentenze sapienziali
3. Detti sulla sequela
4. Detti sulla venuta
5. Norme per la comunità
6. Meshalim o parabole
Gruppo B: la tradizione dei fatti
1. Paradigmi-esempi
2. Discussioni
3. Racconti di miracolo
4. Racconti biografici
5. Racconti di chiamata
6. Racconti teofanici
7. Storia della passione
Sul valore storico delle forme vd. R. Fabris, Introduzione alla lettura dei Vangeli
Sinottici e degli Atti degli Apostoli, BSR, Roma 1995, 15-17.
La scomparsa dei primi testimoni e il pericolo di errori e travisamenti spinse a
mettere per iscritto tale patrimonio orale (memorizzato secondo alcune tecniche basate
sul ritmo della frase, alcune attribuibili direttamente a Gesù), raggruppandolo
tematicamente in pericopi ed in sezioni narrative più ampie. I redattori intervennero
ordinando tutto questo materiale, di cui il primo e il più organico per la trama narrativa
fu il racconto della passione(che insieme alla Resurrezione e alla confessione di Gesù
quale Signore costituisce il kerygma, cioè il primo annuncio della fede, che sarà anche
poi la formula battesimale: 1Cor 15,3-4), anche secondo il loro intento pedagogico e le
esigenze della comunità che essi riflettono e per la quale scrivono (alcune chiese sono
state già fondate e cominciano a darsi una struttura come rivelano At e le lettere di
Paolo ⇒ settenario). Della redazione e degli evangelisti quali autori veri, e non solo
semplici compilatori, si occupa la storia della redazione, inaugurata dagli studi di W.
100
Trilling, di W. Marxsen., di H. Conzelmann. L’attività redazionale può così essere
riassunta:
1. correzione e modifiche della tradizione o di un testo precedente;
2. spostamenti di una parola o di un particolare;
3. aggiunte di carattere teologico;
4. sentenza di applicazione o di attualizzazione.
La trama evangelica si sviluppa su quattro tappe:
1. preparazione messianica sulle rive del lago e predicazione di Giovanni il
Battista;
2. attività di Gesù in Galilea;
3. viaggio a Gerusalemme;
4. passione e morte di Gesù a Gerusalemme.
La presenza di fonti comuni (molti parlano per Mt e Lc della fonte “Q” unita a
Mc, cioè una raccolta di detti di Gesù, diversi da quelli del Vangelo di Tommaso, ma
non tutti la riconoscono) e l’intenzione teologica spiega le somiglianze ed anche le
divergenze o le omissioni dei Sinottici (in Lc manca 6,45—8,26 di Mc, mentre è sua
propria la sezione di 9,51—18,14) e la peculiarità giovannea, dove sono presenti i
Sinottici. La concordanza dei vangeli sinottici si può suddividere seguendo un triplice
ordine:
1. tradizione comune o triplice: i brani evangelici, riguardanti detti e fatti di
Gesù, sono riferiti da tutti e tre i vangeli, dove quello di Mc, occupa una
posizione mediana tra Mt e Lc;
2. tradizione duplice: concordano i due vangeli di Mt e Lc;
3. tradizione semplice: un solo vangelo con una trama comune che si adatta allo
schema teologico di ciascun vangelo.
Sulla base di questo schema si sono formulati otto grandi sistemi di ipotesi circa
la redazione dei vangeli sinottici riconducibili a due grandi orientamenti: l’ipotesi delle
due fontie quella di più documenti orali o scritti. La prima suppone che Mt e Lc
dipoendano da Mc, nella forma attuale oppure precedente, e da una fonte che spiega la
101
loro convergenza denominata Q dal tedesco Quelle, cioè “fonte”, a volte identificata con
il vangelo aramaico di Mt di cui parla Papia di Gerapoli
La seconda sostiene che alla base dei tre vangeli sinottici vi sono diversi
documenti, tre o più, che furono tradotti in greco e che riproducono la tradizione
comune a diversi stadi o livelli della sua evoluzione. Sulla base di questa i tre autori
hanno lavorato per produrre gli attuali tre vangeli sinottici.
La teoria delle fonti non soddisfa in pieno: Mc in certi casi sembra più antico, in
altri più recente di Mt e Lc, i quali a loro volta presentano reciproche concordanze
contro Mc che sembrano opporsi a una comune dipendenza da questo Vangelo.
Probabilmente Mt e Lc hanno utilizzato un’antica versione del Vangelo di Mc prima
che quest’ultimo ricevesse una redazione posteriore.
La fonte Q è ricostruita in diverso modo dagli studiosi. Inoltre i logia che vi si
accumulano si trovano in Mt e in Lc con una disposizione che fa pensare a due raccolte
più che a una: da una parte quelli della sezione centrale di Lc, detta pereana, dall’altra
quelli del resto del suo vangelo. Entrambi concordano con Mt, ma quelli della prima
parte, raggruppati in Lc, sono invece sparsi in Mt. Sembra allora che Mt e Lc abbiano
attinto da due fonti diverse i medesimi logia: da una parte una fonte F o S (Vaganay)
che Lc ha sostanzialmente ripreso nella sua pereana e che Mt spezzetta e sparge nei suoi
discorsi, dall’altra parte uno strato antico, caratteristico del vangelo di Mt.
Il sostrato arcaico di Mt, e anche di Lc, come di Mc, conduce ad ammettere tre
redazioni successive, almeno per Mc e Mt: un documento di base, una prima redazione,
una redazione definitiva, quella attuale. Tra le diverse redazioni si sono prodotte delle
interazioni, per cui la prima redazione di Mc può aver subito l’influsso del documento
base di Mt, da cui le somiglianze là dove dipende, ma può aver influenzato a sua volta
l’ultima redazione del primo vangelo, che ne viene allora a dipendere.
Si potrebbe così delineare questo sviluppo:
all’inizio un “primo” vangelo di Mt (Mt1) che riuniva fatti e parole di Gesù dal
battesimo alla resurrezione. Accanto ad esso una fonte F, che accoglieva le stesse parole
e azioni del Signore, ma in altra forma, o altre. Scritti in aramaico, i due documenti
furono poi tradotti in greco. Il Vangelo di Mt subì un rifacimento in greco per i cristiani
102
provenienti dal paganesimo (Mt2). Probabilmente, esisteva un altro vangelo arcaico,
alla base dei racconti della passione in Lc e Gv. Quindi 4 documenti: Mt1, F, Mt2,
A(vangelo arcaico).
Sulla base di Mt1 e Mt2 nasce una prima redazione marciana (Mc1), conosciuta
da Mt e Lc. Mt frattanto viene combinato con F, distribuita lungo tutto il vangelo. Lc
utilizza Mt2 per un vangelo proto-lucano e Mt già combinato con F, inserendo F, che
conosceva personalmente, nella sezione centrale, quindi ha usato per i racconti di
passione e resurrezione A, comune a Gv.
Infine Mt viene rimaneggiato con Mc nella sua forma antica. Mc a sua volta è
rivisto con Mt con F, mentre Lc è rivisto sulla base di Mc1.
Questa a grandi linee ed esemplificata, la formazione dei Vangeli, la quale è
ancora discussa dagli studiosi secondo diverse tesi, alcune molto complesse, che qui
non possiamo riportare. E’ certo che questi scritti si intersecano mediatamente o
immediatamente. L’evento della risurrezione ha permesso di comprendere il mistero di
Gesù alla luce delle Scritture di Israele, seguendo le forme letterarie delle quali esso si
iniziò a descrivere. E cosi, se le prime raccolte furono inni o “semplici” catechesi di
natura cristologica o escatologica, il loro ampliamento e completamento venne operato
seguendo in tutto il modo di riscrivere le Scritture proprio di Israele, sia tecnicamente,
cioè nell’atto dello scrivere, sia formalmente, cioè nel modo di pensare a riscrivere. Per
cui la Scrittura illumina l’evento e l’evento illumina la Scrittura: si da inizio alla lettura
tipologica dell’AT, prefigurazione del nuovo, attraverso soprattutto il mondo e il modo
midrashico (“midrash sono ad esempio i Vangeli dell’infanzia di Mt: riferiscono un
fatto vero, ma interpretato alla luce della Scrittura – abbondano le citazioni -, per cui
esso diviene una confessione di fede ed insieme una catechesi alla comunità di Mt,
composta da ebreo-cristiani e da pagano-cristiani, sul compimento delle Scritture e sulla
salvezza offerta da Dio nel verbo incarnato, l’Emmanuele, a ebrei e pagani egualmente.
E così altri esempi , senza però ridurre il vangelo ad un midrash grande che
annienterebbe la realtà storica, perché è l’ancoramento stretto a quest’ultima e la salda
padronanza della Scrittura che permette il midrash).
103
Gli autori sono anzitutto le comunità, le quali redigono le loro testimonianze
secondo le forme letterarie del loro tempo, che anche Gesù conosceva: ad esse
appartengono i redattori dei nostri vangeli, posti sotto l’autorità apostolica di Mt, Mc,
Lc e Gv per affermare la conformità con la tradizione e per ciò stesso la loro validità.
L’identificazione di questi apostoli non è così pacifica: Matteo e Giovanni
facevano parte della cerchia dei 12, Luca della cerchia di Paolo e Marco di quella di
Pietro. Di Matteo, che si presume scrisse un primo vangelo in aramaico, è difficile dire
se si tratti dello stesso Levi chiamato da Gesù: il Vangelo non dice niente del suo
autore. La tradizione ecclesiastica più antica (Papia, prima metà del sec. II) e alcuni
padri (Origene, Girolamo, Epifanio) lo attribuiscono a lui, ma il Vangelo non conferma
questa ipotesi (alcuni parlano della firma di Matteo al suo vangelo: lo scriba che trae
cose antiche e cose nuove).
Mc, composto a Roma durante la vita di Pietro e dopo la sua morte, dopo la
persecuzione di Nerone secondo alcuni (Marco usa molti latinismi), è identificato con
Giovanni-Marco, originario di Gerusalemme, compagno di Paolo e Barnaba (v. Atti),
poi di Pietro a Babilonia. Luca, secondo Ireneo (fine II sec. d. C.) è il medico Luca
menzionato da Paolo. Giovanni sarebbe l’apostolo di Gesù secondo la tradizione, tranne
che per Papia, che parla di un presbitero Giovanni. Alcuni ritengono che sia Giovanni
perché egli non è mai menzionato nel Vangelo: non è questo un criterio sicuro, giacché
Matteo (se Levi è uguale a Matteo) si firma per autenticare il suo vangelo parlando della
sua vocazione. Più giustamente altri pensano che si tratti di un autore che si riallaccia
alla tradizione della chiesa giovannea, del quale però sconosciamo il nome. Forse “quel
discepolo che Gesù amava” troppo presente e troppo importante nel Vangelo per non
esserne lui l’autore.
Per studiare i Vangeli oggi ci si avvale oltre che del metodo storico-critico anche
di altri metodi, quali quello sociologico, antropologico, linguistico, che permettono di
inquadrare Gesù nell’ambiente del suo tempo e di comprendere meglio i vangeli.
E così veniamo a sapere che Gesù nasce a Betlemme, vive a Nazaret dove con il
“presunto “ padre Giuseppe svolge il mestiere di costruttore, recandosi anche nella
vicina Sepphoris, dove assistette anche a rappresentazioni teatrali (l’ipocrita di fariseo
104
deriva dalla maschera indossata dagli attori). Di ceto medio, è attratto dalla predicazione
del Battista, di cui diviene discepolo (Gv 3, 22-26) per poi seguire una via tutta sua.
Stabilisce la sua residenza a Cafarnao, luogo di sbocco e di incontro delle grandi vie di
comunicazione del Sud e del Nord verso la Siria e la Mesopotamia, nella Galilea abitata
dai pagani e da pochi ebrei per questo, perché considerati inferiori, disprezzati dai
giudei. Amico dei farisei, dei quali critica però l’osservanza scrupolosa, ma senz’anima
di precetti della loro tradizione umana, poco legato ai Sadducei e ai rivoluzionari Zeloti,
con nessun contatto con gli esseni di Qumran, conoscitore dell’ebraico, del greco,
dell’aramaico, raccoglie attorno a sé un gruppo di discepoli, fra i quali emergono 12, a
lui più legati, di diversa estrazione sociale, alla ricerca di nuove terre e nuovi lavori
perché gravati dalla politica fiscale romana.
Gesù fonda perciò un movimento di cristiani itineranti come tanti altri del suo
tempo: l’unica differenza è la proclamazione della già venuta del Regno nella umiltà e
nel nascondimento della sua persona, mentre egli si comprende man mano nell’intimo
della sua coscienza come Figlio di Dio. Si scontra con tutti e alla esaltazione iniziale fa
seguito un isolamento progressivo che lo porterà alla morte per un calcolo politico
(Caifa): ma qui si svela la sua diversità. I discepoli lo rivedono vivo, lo comprendono
Risorto e forti del dono dello Spirito lo annunciano ad ebrei e pagani. Sorgono ovunque
comunità di uomini della via detti poi cristiani ad Antiochia, che rischiano il martirio.
La predicazione tra i pagani è facilitata dalla presenza di timorati di Dio.
I discepoli parlano in persona Cristi (“Chi si vergognerà della mia parola, anche
il Figlio dell’Uomo si vergognerà di lui”), accettano di subire il martirio per non adorare
l’imperatore, pur proclamando di vivere sottomessi alle istituzioni, esprimono diverse
esigenze a seconda della comunità da cui provengono e a chi si rivolgono (Lc condanna
la ricchezza; Mt la giustifica con l’elemosina).
La Chiesa compie il suo cammino nel mondo attraverso di essi, fra i quali
spiccano Pietro e Paolo, fondatori di diverse chiese, che accentuano diversi modi di
comprendere il mistero di Cristo e di vivere il discepolato (cfr. ad es. la questione del
sostentamento dei predicatori itineranti).
105
[GESÙ E IL SUO AMBIENTE
1. I Vangeli come documento storico
I racconti protocristiani su Gesù e i Vangeli che da essi derivano non sono
inattendibili. Essi presentano un ritratto ragionevolmente fedele di Gesù come ebreo del
suo tempo, accanto alla confessione di lui come il Risorto. Il Gesù ritratto nei Vangeli e
non solo il Cristo della fede, ma anche il Gesù storico.
Non è difficile per gli studiosi oggi separare l’attività redazionale dal materiale
originario tradizionale. Gesù viene così collocato nell’ambiente ebraico del I sec., che
gli è proprio e che è ben conosciuto grazie alla notevole quantità di testimonianze
archeologiche e di scritti e manoscritti (Qumran, Giuseppe Flavio).
La famiglia di Gesù: della discendenza di Davide?
Secondo la testimonianza dei Vangeli, la famiglia di Gesù era di ascendenza
davidica: la notizia è alquanto discussa, giacché la conservazione delle liste
genealogiche extraevangeliche non è sicura ed inoltre bisognava giustificare la
messianicità di Gesù. Allo stesso modo si discute sulla composizione del nucleo
familiare: vi erano o no dei fratelli e sorelle o queste rappresentavano il clan?
Nonostante il racconto della nascita verginale, Luca rinuncia a fare di Maria una
discendente di Davide e neppure colloca la sua appartenenza alla stirpe sacerdotale, ma
solo vi accenna col dire che era parente di Elisabetta (1,36), discendente di Aronne (1,5)
e sposa a un sacerdote. Sarà poi Giulio l’Africano a interpretare il racconto lucano
dell’infanzia secondo l’ottica dell’ascendenza davidica. Sono le genealogie a far
discendere Gesù da Davide attraverso l’adozione legale di Giuseppe, descritto per
l’appunto quale membro del casato davidico. Gli evangelisti sembrano non aver
problemi nel conciliare nascita verginale e ascendenza davidica. Ma i problemi interni
delle genealogie e le loro rispettive differenze lasciano pensare che esse siano state
106
composte appositamente per dimostrare una discendenza da Davide. Non si ha notizia di
famiglie di discendenza davidica al tempo di Gesù e se vi fossero state e numerose non
avrebbe più senso parlare di Gesù come Messia davidico in incognito. Le genealogie al
tempo di Gesù furono bruciate da Erode per impedire che qualcuno gli rinfacciasse la
sua non appartenenza alla razza ebraica. Non è sicuro, come vuole fare Eusebio, che
tutti conservassero la loro genealogia, non solo delle famiglie sacerdotali, ma anche di
quelle nobiliari. A proposito poi delle genealogie di Lc e Mt da notare che, se entrambi
collocano la nascita di Gesù a Betlemme, città natale di Davide, Luca la introduce in
ragione del censimento, Matteo ne fa la dimora stabile sino a quel momento (a Nazareth
si stabiliscono al ritorno dall’Egitto). Betlemme è un luogo teologico della fede cristiana
per confessare Gesù come figlio di Davide e Messia (Gv 7, 41-42).
Gesù fu dunque un ebreo di Galilea probabilmente nato a Nazareth, dove visse
per circa trent’anni sino al momento del suo battesimo da parte del Battista, che fu
prima suo maestro (Lc 3, 32 e Gv 3, 25-26). Il nome Gesù era comune all’epoca, anche
perché, per rispetto, non si davano i nomi dei grandi della storia biblica (es. Mosè).
Anche il nome Miriam era comune in onore della sorella di Mosè. Secondo la notizia di
Mc 6,3 Gesù ebbe fratelli e sorelle. I suoi fratelli si chiamavano Giacomo, Iose, Giuda e
Simone. Secondo alcuni il testo si riferirebbe a dei cugini o parenti, membri dello stesso
clan (J. Blinzer, I fratelli e le sorelle di Gesù, Paideia, Brescia 1975)
La lingua di Gesù e la sua educazione
Gesù parlava l’aramaico, conosceva l’ebraico, la lingua sacra, parlava pure il
greco. Studiò nella scuola rabbinica grazie anche alla sua professione ereditata dal
padre: quella di costruttore più che di carpentiere. Ciò gli procurava una certa
indipendenza lavorativa ed un certo benessere economico. Gesù non era un povero
privo di sussistenza né un salariato dal lavoro saltuario, ma un lavoratore indipendente
riconosciuto che probabilmente, pur non essendo ricco, vendeva e commerciava i suoi
prodotti. La parola greca tekton sembra indicare un costruttore più che un semplice
falegname (Mc 6,3; 13,55). Nella tradizione ebraica i costruttori /falegnami sono ritenuti
107
particolarmente istruiti tanto che si chiedeva: “C’è un falegname tra noi o un figlio di
falegname perché possa risolverci il problema?”. Come tekton Gesù lavorò anche nella
città di Sepphoris, vicina a Nazareth, città greca ricca, con banche, archivi, il ginnasio, il
teatro, dove forse Gesù si recò per assistere a rappresentazioni sacre (il Mosè di
).
Non c’era sufficiente lavoro solo a Nazareth e Gesù si spostava con Giuseppe. Cfr. il
detto di Mt 5,14 riferito a Sepphoris. Gesù poi mostra in varie occasioni di conoscere il
mondo cittadino e di saper trarre le sue immagini sia dal mondo contadino che da quello
urbano, e non solo del carpentiere, ma persino, secondo alcuni, dell’attore di teatro
(upokrites).
Il mestiere di carpentiere non era incompatibile con gli studi per diventare rabbi;
ogni rabbi è poi tenuto al lavoro nell’ebraismo. Pur non essendo uno scriba accreditato,
la gente dà a Gesù l’appellativo di Rabbi, comune al tempo per designare maestri e
studiosi della Torah. Gesù apprese le prime nozioni in casa dal padre (Gv 5,19-20),
Giuseppe, e poi frequentò le scuole delle sinagoghe. Padroneggiava perfettamente sia la
Sacra Scrittura sia la tradizione orale e sapeva come applicare questo patrimo nio di
dottrine e di sapere tradizionale. Secondo Flusser, l’istruzione ebraica di Gesù era
nettamente superiore a quella del “greco” Paolo. Se Gesù parlava aramaico – e lo
testimoniano gli aramaismi del vangelo: effata, abba, mamona, pasca, kepha, talita
koum – conosceva e parlava altrettanto bene l’ebraico e il greco. L’ebraico era la lingua
della preghiera (Lc 4, 16-19), mentre il greco costituiva la lingua internazionale parlata
da tutti (commercianti, piccoli artigiani, produttori). La Galilea era d'altronde abitata da
pagani di lingua greca, il lago di Tiberiade comprendeva anche o era vicino al territorio
greco della Decapoli, Sepphoris era città greca. Gesù parla con il centurione, con la sirofenicia, con gli abitanti di Gerasa; Pietro parlerà con Cornelio.
Il ministero di Gesù
Gesù fondò un movimento di carismatici itineranti fondato sul comandamento
dell’amore, che fu la dottrina peculiare del suo insegnamento. In nome di questo
principio cardine innovò la dottrina tradizionale, ma giunse ad un punto di rottura con
108
tutti gli strati della società ebraica. L’epilogo del suo ministero con la morte in croce fu
la concorrenza di cause politiche e progetto divino.
Gesù inizia il suo ministero a trent’anni (è la notizia di Lc che richiama Davide e
la sua unzione regale a 30 anni: 2Sm 5,4), subito dopo il battesimo. Nato tra il 7 o 6 a.
C. Gesù fu battezzato intorno al 28/29 d. C., intorno ai 34 anni. Il suo ministero è
descritto in termini teologici, da qui la variante uno/tre anni di Gv e dei Sinottici. La sua
morte è da collocare nel 30, all’età di 35 anni. Gesù non fondò una religione, ma un
movimento di carismatici itineranti, gente desiderosa non solo della salvezza
dell’anima, ma di miglioria economica, vista la pressione fiscale e il sopravvenire di
catastrofi naturali che avevano minato la produzione (ne parla Gesù in quelli che sono i
discorsi apocalittici). Il punto cardine della dottrina di Gesù fu l’interpretazione nuova
del precetto dell’amore, conosciuto dall’ebraismo, estesa sino ai precetti minimi (es.
l’ira o la concupiscenza), sino ad estendersi al nemico.
Le sue idee non piacquero a molti: specie i sadducei e i sacerdoti sentirono
minacciati i loro interessi economici (Gesù e il tempio) e riuscirono a coinvolgere la
folla dinanzi alla quale Gesù aveva giudicato inutile il lavoro di abbellimento del
tempio. Era poi un motivo politico a muovere tutto: i romani avevano un altro ebreo da
giustiziare e gli ebrei il popolo da salvare in attesa della vera rivolta. Solo i farisei gli
rimasero più vicini. Gesù morì e poi fu confessato vivo e risorto. Ma questa è già
un’altra storia.]
Tutto questo è narrato nei quattro Vangeli e in Atti secondo quanto già detto.
I simboli degli evangelisti:
Matteo ⇒ uomo ⇒ genealogia di Gesù all’inizio
Marco ⇒ leone ⇒ Battista che grida
Luca ⇒ toro ⇒Zaccaria offre il sacrificio
Giovanni ⇒ aquila ⇒ altezza della sua teologia (“In principio era il Verbo”)
109
LETTERE DI PAOLO - LETTERE CATTOLICHE - APOCALISSE
“Dichiaro a chiunque ascolta le parole profetiche di questo libro: a chi vi
aggiungerà qualche cosa, Dio gli farà cadere addosso i flagelli descritti in questo libro;
e chi toglierà qualche parola di questo libro profetico, Dio lo priverà dell’albero della
vita e della città santa, descritti in questo libro.
Colui che attesta queste cose dice: “Si, verrò presto!”. Amen. Vieni, Signore
Gesù. La grazia del Signore Gesù sia con tutti voi. Amen!
(Ap 22, 18-20)
Con questo ammonimento e con questa supplica della Chiesa che chiede il
ritorno del suo Signore nella gloria, invitandolo ad abbreviare il tempo dell’attesa,
l’Apocalisse chiude il canone di libri biblici, dei quali oggi passiamo in rassegna
l’ultima parte relativa al NT, le Lettere. Di queste, 13 sono attribuite a Paolo più una, la
lettera agli Ebrei, che oggi si riconosce non essere di Paolo; una a Giacomo, non
l’apostolo, ma il presbitero, fratello del Signore; due a Pietro, tre a Giovanni, una a
Giuda. Alla fine si ha l’Apocalisse.
A Paolo si attribuiscono: Romani (Rm), 1 e 2 Corinzi (1 e 2 Cor), Galati (Gal),
Filippesi (Fil), 1 Tessalonicesi (1 Ts), Filemone (Fm), il cosiddetto “settenario paolino”.
Efesini (Ef) e Colossesi (Col), 2 Tessalonicesi (2 Ts), 1 e 2 Timoteo (1 e 2 Tm) e Tito
(Tt) (le lettere pastorali) sono della sua scuola: lo dà ad intendere lo stile, così diverso
da quello paolino, e la struttura della chiesa, troppo avanzata per i tempi di Paolo e
troppo statica per interessare l’apostolo. Per le altre lettere la paternità apostolica se è
sicura a livello di normatività, non lo è altrettanto a livello di redazionalità e
composizione: è certo comunque che queste lettere riflettono la predicazione
dell’apostolo di cui portano il nome e la struttura di chiesa da essi fondata.
Queste lettere narrano della vita delle prime comunità, dei loro fondatori, del
loro rapporto con il mondo culturale del tempo.
Formatesi attorno alla fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio, morto, risorto e asceso
al cielo, del quale si attende la venuta, dapprima immediata, poi rimandata nel tempo
della benevolenza di Dio che vuole salvi tutti gli uomini, queste comunità dovranno
110
risolvere problemi pratici, per i quali ricorrono all’apostolo-fondatore, il quale dà
consigli, ammonisce, rimprovera, esorta, gioisce e soffre con esse come un padre con il
figlio. Paolo si trova dunque a dover illuminare sulla condizione delle vedove, delle
vergini, sulla carne immolata agli idoli e su altri diversi punti, come faranno anche gli
altri apostoli. Le sue lettere, che coprono un arco di tempo che va dal 50 al 65, durante il
quale compie 3 viaggi missionari, per poi finire arrestato a Gerusalemme e morire a
Roma essendo cittadino romano di Tarso, riflettono il suo amore per tutte le chiese e lo
zelo per Cristo che lo spinge a predicare il Vangelo: Paolo è un convertito che pone al
servizio della causa di Cristo il suo temperamento appassionato che lo aveva fatto
eccellere nell’attaccamento alle tradizioni dei Padri e nella persecuzione contro la
chiesa. Sua principale preoccupazione è chiarire che la salvezza e la giustificazione
vengono da Dio per la fede in Cristo e non dalle opere della Legge che ha trovato la sua
compiutezza in Cristo. Da qui il fatto che la comunità deve essere unita, che non ci
devono essere divisioni tra cristiani provenienti dal giudaismo e cristiani provenienti dal
paganesimo, che l’Eucaristia deve essere espressione dell’unità e dell’amore
vicendevole, che i carismi sono in vista dell’utilità comune e che nessuno ne è escluso,
che questi vanno esercitati senza invadere il campo dell’altro e con umiltà. L’apostolo,
il missionario è pronto a dare la vita per mantenere questa comunione e preferisce essere
messo al bando pur di non ostacolare il cammino verso l’unità, anche se la fede può
essere espressa secondo diverse prospettive, ma secondo una sola verità, che sarà quel
deposito della fede dove confluisce la sacra dottrina delle Pastocoli. Anche i presbiteri,
continuando l’opera dell’apostolo, non spadroneggeranno sul gregge loro affidato, ma
lo sorveglieranno volentieri e di buon animo, rispettando e programmando il cammino
di ciascuno. Pronti ad animare la fede di tutti, la sostengono inoltre nei momenti di
persecuzione: loro compito principale e direi quasi esclusivo è presiedere la preghiera.
Non hanno in loro tutti i carismi che gli altri esercitano senza però lasciarsi andare in
esaltazioni mistiche (in tal caso l’Apostolo richiama all’ordine e al fatto che il carisma è
dato per l’utilità comune e non serve se nessuno lo comprende). Tutti i membri della
comunità contribuiscono all’edificazione della comunità pur ricoprendo diversi ruoli nel
mondo (padrone, servo, moglie, marito, ricco, povero), non si distinguono più nella
111
realtà nuova, quella escatologica, inaugurata con il Battesimo, dove tutti sono uno in
Cristo Gesù. E quando partecipano all’Eucaristia non fanno distinzione tra persone più
o meno importanti: se questo accade, Paolo come Giacomo sono pronti a rimproverare.
Il mondo è fuori da Dio perché passa la sua scena: tutte le funzioni e i ruoli che si
ricoprono nel mondo scompaiono nella celebrazione eucaristica, dove si è tutti uguali
giacché essa prefigura ed anticipa la comunità escatologica. Allo stesso modo
l’Apocalisse non traccia una prefigurazione della fine del mondo, ma secondo lo stile
profetico-apocalittico mostra una chiesa perseguitata, ma orante, sicura della protezione
del suo Signore, di cui richiede supplichevole la venuta, che la libererà dal pericolo,
cioè dalla persecuzione dello stato, simboleggiato dal drago, come il 666 che non è altro
che il nome di Nerone Cesare nella “gematria” ebraica. In tal modo invita a perseverare
nella prova, come pure la lettera agli Ebrei, giacché il NT compie la promessa dell’AT e
la parusia compirà quella del NT, già iniziata a compiersi in Gesù e nel suo mistero
pasquale.
Lo stile di Paolo è passionale e segue il suo temperamento e l’incalzare del suo
pensiero: conosce il greco, la Bibbia ebraica e la LXX, l’oratoria greca e il metodo
esegetico di farisei (futuri rabbini). Gli altri autori sono vicini al mondo letterario
semitico da cui provengono, conoscono la LXX e sanno scrivere bene in greco. I termini
si caricano di nuovi significati specie in Paolo.
112
CONCLUSIONI
Alla fine del nostro corso riporto un detto dei Padri: Detti di Rabbini
Studio della Parola e accoglienza dell’uomo perché così Gesù disse: “Chi
ascolta le mie parole e le mette in pratica è simile ad un uomo saggio che ha costruito
la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si
abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia”.
Ed infatti, secondo i rabbini su tre cose sta il mondo: sulla Torah, sul culto e sulle opere
di misericordia.
Ed un rabbino, al discepolo che gli chiedeva perché andasse veloce mentre
pregava e fosse lento mentre leggeva la Scrittura rispose: “Perché quando prego parlo
con Dio come con un altro uomo, quando leggo la Scrittura è Dio che mi parla e non
debbo lasciare cadere nessuna delle sue parole “.
[Abbiamo già parlato di testimoni di questi scritti: il testo siriaco o antiocheno
(300 d. C.); quello alessandrino contenuto nel Vaticano e nel Sinaitico, quello
occidentale (Codice di Beza), attestato anche in Oriente. La lingua usata è il greco,
scritto però secondo una mentalità semitica (si pensi al Mt aramaico perduto).]
113
BIBLIOGRAFIA
-
AA.VV., Grande Commentario Biblico, Queriniana, Brescia 1997.
-
S. BOCK, Breve storia del popolo d’Israele, EDB.
-
L.A. SCHOEKEL, La Parola ispirata.
-
A. J. SOGGIN, Introduzione al’AT, Paideia.
-
A. J. SOGGIN, Storia di Israele, Paideia
-
G. THEISSEN, Sociologia del Cristianesimo pimitivo.
-
R. DE VAUX, Le istituzioni dell’AT.
-
A. WIKENHAUSER – J. SCHMID, Introduzione al NT, Paideia.
-
Costituzione Conciliare Dei Verbum.
-
Collana LOGOS, Corso di studi biblici, ELLE DI CI, 8 volumi tutti editi.
-
ALESSANDRO SACCHI, I libri storici, Paoline
-
PAUL BEAUCHAMP, L’uno e l’altro testamento, Paideia 1985.
114
INDICE
1.
INTRODUZIONE
Pag 1
2.
ALCUNE NOTE DI TEOLOGIA FONDAMENTALE
4
3.
STRUTTURA DELLA BIBBIA
9
4.
ANTICO TESTAMENTO
13
4.1
Libri Storici
13
4.1.1
I luoghi degli eventi
16
4.1.2 La storia degli eventi
17
4.1.3 L’esilio e i libri storici
19
4.1.4 Alcuni esempi
22
4.2
23
Libri Profetici
4.2.1 I libri Profetici secondo la versione CEI
24
4.3
31
5.
Libri Sapienziali
39
NUOVO TESTAMENTO
5.1
Vangeli e Atti
39
5.2
Lettere di Paolo – Lettere Cattoliche - Apocalisse
47
6.
CONCLUSIONI
52
7.
BIBLIOGRAFIA
54
115