Esaltazione della Santa Croce

Esaltazione della Santa Croce
Nm 21,4b-9; Sal 77; Fil 2,6-11; Gv 3,13-17
Prima Lettura Nm 21, 4b-9
Chiunque sarà stato morso e guarderà il serpente, resterà
in vita.
Dal libro dei Numeri
In quei giorni, il popolo non sopportò il viaggio. Il
popolo disse contro Dio e contro Mosè: «Perché ci avete
fatto salire dall’Egitto per farci morire in questo deserto?
Perché qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di
questo cibo così leggero».
Allora il Signore mandò fra il popolo serpenti brucianti i
quali mordevano la gente, e un gran numero d’Israeliti morì.
Il popolo venne da Mosè e disse: «Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro il Signore e contro di
te; supplica il Signore che allontani da noi questi serpenti». Mosè pregò per il popolo.
Il Signore disse a Mosè: «Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque sarà stato morso e lo
guarderà, resterà in vita». Mosè allora fece un serpente di bronzo e lo mise sopra l’asta; quando un
serpente aveva morso qualcuno, se questi guardava il serpente di bronzo, restava in vita.
Seconda Lettura Fil 2, 6-11
Cristo umiliò se stesso; per questo Dio lo esaltò.
Dalla lettera di San Paolo apostolo ai Filippési
Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio,
ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.
Vangelo Gv 3, 13-17
Bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo.
Dal vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo:
«Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo. E come Mosè
innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in
lui abbia la vita eterna.
Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada
perduto, ma abbia la vita eterna.
Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato
per mezzo di lui».
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Nm 21,4b-5: il popolo non sopportò il viaggio (waTTiqcar ne|peš-hä`äm BaDDäºrek, lett. «ma venne meno
anima del popolo a causa della via»).
- non sopportò il viaggio (waTTiqcar ne|peš BaDDäºrek, lett. «ma venne meno anima … a causa della»). Il popolo si
scoraggiò a causa del cammino che si allungava: infatti si mossero dal monte Or per la via del Mar Rosso, per
aggirare il territorio di Edom (v. 4a). Essi dissero: «Ora che siamo prossimi a entrare nella Terra, dobbiamo
ritornare indietro! È quanto fecero i nostri padri, che poi dovettero trattenersi trentotto anni, fino ad oggi».
Perciò, per la sofferenza del cammino, la loro anima venne meno. L'espressione «venire meno dell'anima»
nella Scrittura viene sempre spiegata «per quale motivo» essa viene meno. Esempi sono: La mia anima venne
meno a causa di loro (ba-hem, Zc 11,8); La sua anima venne meno a causa della miseria (ba-'amal) di Israele (Gdc
10,16). Ogni realtà dura che si abbatte sull'uomo, può essere chiamata un «venire meno dell'anima», lett: «un
restringimento dell'anima», conforme al significato del verbo qatsar «essere corto» usato nel testo. Zc 11,8:
waTTiqcar napšî Bähem wügam-napšäm BäHálâ bî «Ma io mi irritai contro di esse [pecore], perché anch'esse
mi detestavano», lett. «E fu impaziente anima mia con loro, e anche anima di loro detestò me»; BäHálâ significa: «Su
di me era diventata grande». Gb 10,16: wüyig´è KaššaºHal Tücûdëºnî wütäšöb TitPallä´-bî «Se lo sollevo, tu
come un leone mi dai la caccia e torni a compiere le tue prodezze contro di me», lett. «E si innalza, come leone
cacci me, e torni fai meraviglie contro me». Pertanto ogniqualvolta ricorre l'espressione «venire meno dell'anima»,
essa significa che l'uomo non è capace di sopportarla (Rashi).
21,5: Il popolo disse contro Dio e contro Mosè: «Perché ci avete fatto salire dall’Egitto per
farci morire in questo deserto? Perché qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di
questo cibo così leggero» (wayüdaBBër hä`äm Bë|´löhîm ûbümöšè lämâ he|`élîtuºnû mimmicraºyim
lämût BammidBär Kî ´ên leºHem wü´ên maºyim wünapšëºnû qäºcâ BalleºHem haqqülöqël, lett. «E parlò il popolo
contro Dio e contro Mosè: Perché faceste salire noi da Egitto per morire nel deserto? Poiché non c'è pane e non ci sono acque
e anima nostra si disgustò per il pane miserabile»).
- contro Dio e contro Mosè (Bë|´löhîm ûbümöšè). Gli Israeliti posero sullo stesso piano il servo e il suo padrone
(Tanchuma, Chuqqat 19).
- siamo nauseati (wünapšëºnû qäºcâ, lett. «e anima nostra si disgustò»). Anche questa espressione indica un «venire meno dell'anima» per il disgusto (Rashi).
- di questo cibo così leggero (BalleºHem haqqülöqël). Dal momento che la manna veniva interamente assorbita
nelle loro membra (per un miracolo divino), essi la chiamarono «leggera». Si dissero: «Questa manna è
destinata a gonfiarsi nelle nostre viscere! C'è mai stato infatti un nato di donna che assuma del cibo e non lo
espella?» (bYoma 75b).
21,6: Allora il Signore mandò fra il popolo serpenti brucianti i quali mordevano la gente, e
un gran numero d’Israeliti morì (wayüšallaH yhwh(´ädönäy) Bä`äm ´ët hannüHäšîm haSSüräpîm
wa|yünaššükû ´et-hä`äm wayyäºmot `am-räb miyyiSrä´ël, lett. «E inviò Adonay tra il popolo i serpenti brucianti e
mordevano il popolo e morì popolo molto da Israele»).
- serpenti brucianti (hannüHäšîm haSSüräpîm). La LXX traduce: τοὺς ὄφεις τοὺς θανατοῦντας, «i serpenti che
uccidono»; Sir: «serpenti crudeli»; NVulg: ignitos serpentes «serpenti di fuoco». Il termine ebraico Säräp è
usato da Is 30,6 per rappresentare un serpente o un drago alato. Il nome dei serafini di Is 6,2-6 proviene
dalla medesima radice. I serpenti sono detti «brucianti» per la sensazione prodotta dal morso, che irrita ed è
velenoso. Dovevano essere comuni nel deserto del Neghev e nel Wadi Araba, uadi che si estende per 166 km
tra il Mar Morto a nord e il Golfo di Aqaba (o Golfo di Eilat) a sud, segnando il confine fra lo stato di Israele
a ovest e la Giordania a est. Questa valle di origine fluviale fa parte dell'estrema sezione settentrionale della
struttura tettonica della Rift Valley.
- mordevano la gente (|yünaššükû ´et-hä`äm). Disse Dio: «Venga il serpente, che fu colpito per avere sparso
calunnie (cf Gen 3,1), e punisca quanti spargono calunnie! Venga il serpente, per il quale tutti i tipi di cibo
hanno lo stesso sapore, e punisca gli ingrati, per i quali un solo alimento assume sapori diversi!» (cf bYoma
75a; Tanchuma, Chuqqat 19: «Perché Dio eseguì la loro punizione tramite i serpenti? Anche se il serpente
mangia tutte le delizie del mondo, queste nella sua bocca si mutano in polvere, come è scritto: Il serpente ha
come cibo la polvere (Is 65,25). Questi invece mangiano la manna, che si muta per loro in molti sapori! [...]
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Venga dunque il serpente, che mangia molti tipi di cibo, i quali assumono nella sua bocca lo stesso sapore, e
punisca quanti, mangiando la stessa manna, assaporano molti tipi di cibo!» (Rashi).
21,7: Il popolo venne da Mosè e disse: «Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro il
Signore e contro di te; supplica il Signore che allontani da noi questi serpenti». Mosè
pregò per il popolo (wayyäbö´ hä`äm ´el-möšè wayyö´mürû Hä†äº´nû Kî|-diBBaºrnû byhwh(ba|´dönäy)
wäbäk hitPallël ´el-yhwh(´ädönäy) wüyäsër më`älêºnû ´et-hannäHäš wayyitPallël möšè Bü`ad hä`äm, lett.
«E venne il popolo a Mosè e dissero: Peccammo, perché parlammo contro Adonay e contro te. Prega Adonay affinché tolga da
noi il serpente. E pregò Mosè per il popolo»).
- Mosè pregò per il popolo (möšè Bü`ad hä`äm). Da qui apprendiamo che chi riceve la richiesta di perdono,
non deve essere crudele al punto da non accordarlo (Cf Tanchuma, Chuqqat 19).
21,8: Il Signore disse a Mosè: «Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque sarà
stato morso e lo guarderà, resterà in vita» (wayyöº´mer yhwh(´ädönäy) ´el-möšè `áSË lükä Säräp
wüSîm ´ötô `al-nës wühäyâ Kol-hannäšûk würä´â ´ötô wäHäy, lett. «E disse Adonay a Mosè: Fa' per te un
bruciante e poni esso su un'asta, e sarà ogni morso vedrà esso e vivrà»).
- Fatti un serpente (`áSË lükä Säräp, lett. «Fa' per te un bruciante»). Il culto del serpente era molto diffuso nella
terra di Canaan, associato ai riti di fertilità, ma questo serpente di bronzo messo sopra un palo non doveva
essere inteso come parte di un culto permanente (cf 2Re 18,4). Era un segno della salvezza offerta da Dio al
suo popolo (cf Sap 16,6-7).
- mettilo sopra un’asta (`al-nës). In maniera analoga: wükannës `al-haGGib`â «come un'asta sopra una
collina» (Is 30,17); ´ärîm nissî «isserò il mio vessillo» (Is 49,22); Sü|´û-nës «issate un segnale» (Is 13,2). Dal
momento che si tratta di una cosa elevata che serve da segno evidente, viene chiamata «vessillo» (cf nes in Es
20,17).
- chiunque sarà stato morso (wühäyâ Kol-hannäšûk). Il morso di un cane o di un asino provoca una ferita che
si aggrava gradualmente, ma il morso del serpente uccide in fretta. «Chiunque sarà stato morso indica non
solo chi ha subìto il morso di un serpente, ma anche di una vipera e di uno scorpione, di una belva feroce e
di un cane» (Tanchuma, Chuqqat 19).
- e lo guarderà, resterà in vita (würä´â ´ötô wäHäy). Chi veniva morso dal serpente era risanato in fretta solo se
«fissava lo sguardo» sul serpente di bronzo, perciò è detto würä´â ´ötô «lo guarderà». Qui si fa riferimento a
culti di religioni antiche, dove riti del genere avevano un valore apotropaico («fare gli scongiuri»): in questo
caso il simbolo o segno di un serpente doveva allontanare il pericolo letale del serpente stesso. Per l'antico
Oriente, basta citare l'ureo (dal greco οὐραῖος), decorazione a forma di serpente posta ai lati del disco solare
e sul copricapo dei sovrani egizi. Inoltre due serpenti erano arrotolati su una lunga bacchetta dei cilindri
babilonesi (il dio Nergal era chiamato anche Sharrapu, «saraf» che significa appunto bruciante), usati come
amuleti o talismani magici contro gli spiriti del male. I maestri di Israele osservavano: «Il serpente dava la
morte o la vita? Quando i figli di Israele volgevano lo sguardo verso l'alto e assoggettavano il proprio cuore
al loro Padre che è nei cieli, venivano risanati; in caso contrario, invece, venivano meno» (mRosh ha-shanah
III, 5).
21,9: Mosè allora fece un serpente di bronzo e lo mise sopra l’asta; quando un serpente
aveva morso qualcuno, se questi guardava il serpente di bronzo, restava in vita (wayyaº`aS
möšè nüHaš nüHöºšet wayüSìmëºhû `al-hannës wühäyâ ´im-näšak hannäHäš ´et-´îš wühiBBî† ´el-nüHaš
hannüHöºšet wäHäy, lett. «E fece Mosè un serpente di rame e pose esso sull'asta ed era se mordeva il serpente un uomo
guardava verso il serpente di rame, viveva»).
- un serpente di bronzo (nüHaš nüHöºšet). Questo episodio deve essere in relazione con le miniere di rame
dell'Araba, dove il metallo era già sfruttato nel XIII sec. a.C. A Meneijeh (oggi Timna) si sono rinvenuti
parecchi piccoli serpenti di rame che forse erano utilizzati, come quello di Mosè, per proteggersi contro i
serpenti velenosi. Questa regione mineraria dell'Araba si trova sulla via da Kades ad Aqaba. Rashi annota:
Non gli era stato detto di farlo "di rame". Mosè però si disse: «Il Santo, benedetto egli sia, lo chiama nechash
«serpente» e io pertanto, per assonanza, lo farò nechóshet «di rame» (cf Genesi rabbah XXXI, 8).
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Tracce di ofiolatria, culto dei serpenti, ci possono essere state nei templi cananaici e anche israelitici; a Ghezer
si è trovato un serpente di bronzo nella fossa delle offerte di un luogo alto di culto (come anche nelle
fondazioni di un tempio a Susa, in Iran, l'antica Persia). Il culto del serpente di bronzo si introdusse perfino
nel tempio di Gerusalemme. Il serpente di bronzo eretto da Mosè fu trasformato in un idolo chiamato
nüHušTän «oggetto di bronzo» (2Re 18,4) e distrutto da Ezechia (716-687). La tradizione sacerdotale che
rifiuterà qualsiasi immagine di Dio proporrà tuttavia la legittimità di un incontro con lui nel segreto del
tempio di Gerusalemme tramite l’arca dell’alleanza (Es 20,4; Dt 5,9). Un simbolo valeva l’altro ma
l’esclusione di ogni raffigurazione doveva aiutare il popolo a comprendere che il suo Dio non era alla
pari di quelle divinità che le nazioni (gli egiziani, i cananei) veneravano. Ciò nonostante Israele continuerà
ad avere santuari (Bethel, Dan, Bersheva) e raffigurazioni divine sempre e ovunque. Persino nel tempio di
Gerusalemme si collocheranno simulacri (il «Serpente di bronzo», «il Dio geloso» o l’idolo della gelosia,
«Jahve e la sua Ashera», la «Regina del cielo»: 2Re 17,9-17; 18,4; 21,7; 23,4-8; 2Cr 15,16; 29,16-17; 31,1; Os 4,1213), segno che la pietà popolare ha bisogno di vedere vicino a sé, come a sua immagine, il Dio in cui crede.
Il fatto in sé può ingenerare sospetti di magia o idolatria, ma il libro della Sapienza ne relativizza la portata:
5Quando infatti li assalì il terribile furore delle bestie e venivano distrutti per i morsi di serpenti sinuosi, la tua collera
non durò sino alla fine. 6Per correzione furono turbati per breve tempo, ed ebbero un segno di salvezza a ricordo del
precetto della tua legge. 7Infatti chi si volgeva a guardarlo era salvato non per mezzo dell’oggetto che vedeva, ma da te,
salvatore di tutti (Sap 16,5-7). Non era tanto la contemplazione del serpente che procurava la guarigione,
quanto la misericordia di Dio, Salvatore universale. Gesù cita questo episodio (Gv 3,14-15; 19,37). I Padri
della Chiesa come Ambrogio (340-397), Teodoreto (393-457), Agostino (354-430), fino a S. Tommaso
d'Aquino (1225-1274) hanno intravisto una profezia di Cristo crocifisso, nel quale tutti siamo salvati mediante la fede: gli Israeliti erano salvati nel corpo, i cristiani lo sono nell'anima (cf Dt 8,15; 1Cor 10,9).
La seconda lettura (Fil 2,6-11) ci propone il celebre elogio di Cristo riportato nella Lettera ai Filippesi,
una delle sette lettere autoriali di Paolo (Rom, 1-2Cor, Gal, Fil, Fl, 1Ts). Filippesi è ritenuta la «lettera della
gioia», il testamento in cui il bene inestimabile del vangelo che è Cristo è consegnato alla comunità che ha
più amato: la prima che abbia fondato in Europa.
Fil 2,5: Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: (τοῦτο φρονεῖτε ἐν ὑμῖν ὃ καὶ ἐν
Χριστῷ Ἰησοῦ, Pitta: «Questo valutate in voi che (è) anche in Cristo Gesù»).
Una formula esortativa introduce l'inno cristologico. Tipica è l'espressione ἐν Χριστῷ Ἰησοῦ, en Christỗ Iesoũ,
che rimanda alla relazione tra i credenti e Cristo.
2,6 [Cristo Gesù], pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere
come Dio, (ἐν μορφῇ θεοῦ ὑπάρχων οὐχ ἁρπαγμὸν ἡγήσατο τὸ εἶναι ἴσα θεῷ, Pitta: «essendo in forma di
Dio non considerò possesso geloso l'essere alla pari di Dio»).
- pur essendo nella condizione di Dio (ἐν μορφῇ θεοῦ ὑπάρχων, lett. «in forma di Dio esistente»). Fil 2,6-7b si
sofferma sull'antitesi tra la μορφή θεοῦ, morphé theoũ (forma/condizione di Dio, v. 6a) e la μορφή δούλου,
morphé doúlou (forma/condizione di servo, v. 7b), ossia tra il livello divino e quello umano di Cristo Gesù.
Resta difficile cogliere il senso del sostantivo μορφή, morphé che compare soltanto in questi due casi
nell'epistolario paolino. Nel resto del NT è attestato in Mc 16,12, a proposito delle apparizioni postpasquali
di Gesù: «Dopo queste cose, apparve a due di loro mentre camminavano in un'altra forma (ἐν ἑτέρᾳ μορφῇ, en
hetéra morphễ), mentre andavano verso la campagna». Esiste una corrispondenza tra μορφή, morphé (forma) ed
εἰκόν, eikón (immagine). In 2Cor 3,18 Paolo asserisce che i credenti «sono trasformati (μεταμορφούμεθα,
metamorphoúmeta) nella stessa immagine (εἰκόνα, eikóna) da gloria in gloria» (cf Rm 8,29). Dal versante
cristologico, in 2Cor 4,4 e in Col 1,15 Gesù Cristo è riconosciuto come εἰκόν, eikón di Dio. I termini però non
sono interscambiabili. In pratica, il sostantivo μορφή, morphé esprime un aspetto dinamico che non è
riscontrabile in εἰκόν, eikón. Inoltre due motivi impediscono di equiparare i sostantivi μορφή, morphé e δόξα,
dóxa: la forma di schiavo esclude di pensare alla gloria divina nell'umanità di Cristo. L'uso di δόξα, dóxa in
Fil 2,11 pone in risalto che la gloria di Dio Padre rappresenta la mèta finale del percorso di Cristo e non il
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suo punto di partenza. Poiché Fil 2,5-11 si chiude con l'accenno alla paternità di Dio non è fuori luogo
sostenere che μορφή, morphé designi la duplice figliolanza divina e umana di Cristo.
- non ritenne un privilegio l’essere come Dio, (οὐχ ἁρπαγμὸν ἡγήσατο τὸ εἶναι ἴσα θεῷ, lett. «non rapina considerò
l'essere uguale a Dio»). Nella seconda parte di Fil 2,6 l'attenzione si sposta sul modo di pensare di Cristo: «Non
considerò possesso geloso l'essere come Dio». Qual è il significato del sostantivo ἁρπαγμός, harpagmós che
compare soltanto in Fil 2,6 ed è raro nel greco profano? Come bisogna interpretare l'espressione εἶναι ἴσα
θεῷ, eĩnai ísa theỗ? Il termine ἁρπαγμός, harpagmós in senso attivo significa «furto, rapina»; qui prevale
l'accezione passiva ed equivale ad ἁρπαγμά, harpagmá, «refurtiva, bottino». Di fatto, si può sostenere che
Cristo non ritenne l'essere alla pari di Dio come un possesso geloso o un tesoro da custodire. Pertanto, è
da preferire il significato di res rapta, cioè di realtà già in possesso di Cristo, da cui avrebbe potuto trarre un
vantaggio ma non ne approfittò. Gesù Cristo «si fece povero, pur essendo ricco, affinché voi foste arricchiti della sua
povertà» (2Cor 8,9) e «non piacque a se stesso» (Rm 15,3). Perciò non possiamo dire che Gesù Cristo è «simile»
a Dio, perché egli condivide la stessa condizione divina. Il sostantivo θεός, theós non è mai attribuito a
Gesù Cristo, bensì soltanto a Dio, nel rispetto del monoteismo delle prime comunità giudeo-cristiane. La
cultura giudaica e greco-romana parla di esseri umani, che si attribuiscono poteri e dignità divine. Al re di
Tiro è detto: «Io sono un dio... Ti precipiteranno nella fossa e morirai della morte degli uccisi in mezzo ai mari» (Ez
28,2.8). Filone di Alessandria (20 a.C. ca – 45 d.C. ca) dirà che «la mente egoista e senza Dio crede di eĩnai ísa
theỗ, "essere uguale a Dio"». Giuseppe Flavio (37 ca - 100 ca) ricorderà che Gaio Caligola (12-41 d.C.)
«deificava se stesso e richiedeva dai sudditi onori che non erano proprio quelli che si rendono a un uomo».
Della metà degli anni 50 d.C. è la satira Ἀποκολοκύντωσις, Apokolokýntosis di Seneca (4 a.C. - 65 d.C. Il titolo
deriva dal sostantivo κολόκυνθα, kolókyntha che significa «zucca»; pertanto il titolo dell'opera significa:
«zucchificazione»), in cui con mordace ironia è rappresentata l'apoteosi in cielo e la condanna agli inferi
dell'imperatore Claudio: «Vuol diventare un dio; non gli basta avere un tempio in Britannia, né che ora i
barbari lo venerino e gli levino preghiere come a un dio». Così mentre gli esseri umani tendono verso la
deificazione di se stessi, Gesù Cristo che «era alla pari di Dio» non approfittò della sua condizione. A sua
volta, la questione sulla divinità di Cristo sarà sviluppata nel vangelo di Giovanni, dove da una parte risalterà l'accusa dei farisei, per cui «chiamava Dio suo padre, facendosi uguale (ἴσον) a Dio» (Gv 5,18), e dall'altra
Gesù stesso riconoscerà che il Padre è più grande di lui (Gv 14,28).
2,7ab: ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli
uomini (ἀλλὰ ἑαυτὸν ἐκένωσεν μορφὴν δούλου λαβών, ἐν ὁμοιώματι ἀνθρώπων γενόμενος, Pitta: «ma
spogliò se stesso avendo assunto forma di schiavo, essendo diventato nell'assimilazione degli uomini»).
- ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo (ἀλλὰ ἑαυτὸν ἐκένωσεν μορφὴν δούλου λαβών).
L'elogio procede con il percorso kenotico o umiliante di Cristo, con le caratteristiche di una degradatio:
progressivo allontanamento dalla condizione divina, sino all'esito finale della sua morte. Il verbo κενόω,
kenóō è utilizzato soltanto da Paolo nel NT e assume diverse sfumature: «spogliare, annientare, svuotare,
annullare». Forse la traduzione più rispondente è quella con «spogliò se stesso». Il verbo κενόω rimanda,
per contrasto, a κενοδοξία, kenodoxía, «vanagloria» (Fil 2,3). Cristo scegliendo di diventare δούλος, doúlos
«servo» operò la scelta del disonore e della vergogna. La kénōsis di Cristo si riferisce alla sua incarnazione o
alla crocifissione, come luogo della sua massima spoliazione? Probabilmente si accenna all'intera vita di
Cristo: dall'incarnazione alla sua morte, come percorso di spoliazione, di autorinunzia alla sua condizione
divina. Per l'allusione all'incarnazione vedi Gal 4,4: «Dio mandò il suo Figlio» e Rm 8,3: «avendo mandato il suo
Figlio in un'assimilazione della carne del peccato, e in vista del peccato ha condannato il peccato nella carne». In 2Cor
5,21 Paolo sostiene che «colui che non aveva conosciuto peccato (Dio) fece peccato per noi», e in 2Cor 8,9: «... Per noi
si fece povero, pur essendo ricco, affinché voi diventaste ricchi della sua povertà». A sua volta, la tradizione paolina
di 1Tm 3,16 asserisce che Cristo «si manifestò nella carne», un'affermazione che anticipa l'incarnazione del
lógos, di matrice giovannea (Gv 1,14; 1Gv 4,2; 2Gv 7).
- diventando simile agli uomini (ἐν ὁμοιώματι ἀνθρώπων γενόμενος). Per descrivere la relazione tra Cristo e
l'umanità, l'autore si sofferma sull'homoíōma «somiglianza, assimilazione» che egli ha assunto. Il termine è
utilizzato quasi esclusivamente da Paolo nel NT (6 volte) e con particolare attestazione in Romani (cf Rm
1,23; 5,14; 6,5; 8,3; Ap 9,7). In dipendenza dai contesti, il termine significa raffigurazione (Rm 1,23),
«espressione percettibile», «somiglianza» (Rm 5,14), «conformazione» (Rm 6,5) e «assimilazione» (Rm 8,3). Il
sostantivo è spesso utilizzato nella LXX, dove rende l'ebraico demut, tabnit e temunà (cf Dt 4,6; Is 40,9; Es
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20,4). Nel nostro caso, non si può pensare a «somiglianza» tra Cristo e gli esseri umani, ma alla massima
assimilazione con gli esseri umani. Cristo è diventato pienamente uomo; perciò l'elogio anticipa
l'asserzione di Eb 2,17: «Perciò Gesù doveva assimilarsi (ὁμοιωθῆναι) ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote
misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio». La mimèsi compiuta da Cristo diventa così
esemplare per quanti vogliono assumere il suo stesso modo di pensare e discernere.
2,7d-8: Dall'aspetto riconosciuto come uomo, 8umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla
morte e a una morte di croce (καὶ σχήματι εὑρεθεὶς ὡς ἄνθρωπος ἐταπείνωσεν ἑαυτὸν γενόμενος
ὑπήκοος μέχρι θανάτου, θανάτου δὲ σταυροῦ, Pitta: «e trovato nell'aspetto come uomo 8umiliò se stesso
essendo diventato obbediente sino alla morte, morte però di croce»).
- Dall'aspetto riconosciuto come uomo (καὶ σχήματι εὑρεθεὶς ὡς ἄνθρωπος). La piena assimilazione alla
condizione umana è stata possibile grazie alla scelta di Cristo di umiliare se stesso, diventando
obbediente sino alla fine.
- umiliò se stesso (ἐταπείνωσεν ἑαυτὸν). Tre sono i sostantivi che caratterizzano il percorso umiliante di
Cristo: μορφή, morphé «forma, condizione», ὁμοίωμα, homoíōma «assimilazione» e σχῇμα, schễma «aspetto»
associati a tre participi: λαβών, labón «assumendo», γενόμενος, genómenos «diventando» ed εὑρεθεὶς,
heuretheìs «riconosciuto». La kénōsis di Cristo rivela la sua piena condivisione della situazione umana ma
anche un atteggiamento etico di grande spessore. Il verbo ἐταπείνωσεν, etapeínōsen «umiliò» segnala non
tanto una virtù da perseguire, quanto la condizione sociale o etica di chi si trova in una situazione
d'inferiorità rispetto ad altri. Ma nel caso di Cristo, invece, l'umiltà non è dettata dalla sua condizione
sociale o civile, ma da chi liberamente ha assunto la forma di schiavo con una rilevanza positiva, cosicché
«chi si umilia sarà esaltato» (Mt 23,12; Lc 14,11; 18,14; 2Cor 7,6). Sorprende il silenzio nei confronti di chi
Cristo si sia umiliato. Tale silenzio merita di essere rispettato, poiché denota la portata universale della sua
umiltà e obbedienza (mentre nel IV canto del Servo si parla di un'umiliazione subita da parte degli
avversari, in Fil 2,8 si parla di Cristo che liberamente fa la scelta dell'umiltà).
- facendosi obbediente (γενόμενος ὑπήκοος). L'inno si limita a constatare l'obbedienza fedele e permanente di
Cristo. Non si dice che Cristo «imparò l'obbedienza dalle cose che patì» (Eb 5,8), per alludere alla passione.
L'elogio non concentra l'attenzione sulla sofferenza nell'obbedienza di Cristo, bensì sulla scelta
volontaria di un'obbedienza totale, μέχρι θανάτου, méchri thanátou, «fino alla morte», espressione ripresa
soltanto in Fil 2,30 nel NT, dove segnala la prossimità della morte a cui è andato incontro Epafrodito, a causa
di Cristo e del vangelo.
- una morte di croce (θανάτου δὲ σταυροῦ). La prima parte dell'elogio (Fil 2,6-8) si chiude con questa
specificazione. Si deve a Paolo la ripresa esplicita del valore della croce. Cristo non muore in croce perché
ha trasgredito la Legge, bensì ὑπὲρ ἡμῶν, «per noi», affinché i credenti ricevessero lo Spirito promesso e la
figliolanza divina (Gal 4,4-6). Notevole deve essere stato l'impatto della crocifissione su una comunità di
origine gentile, come quella di Filippi, poiché dagli scrittori latini essa è descritta come summum supplicium
(Cicerone, Contro Verre 2,5,168), infelix lignum (Seneca, Lettere a Lucilio 101,14), servile supplicium (Tacito, Storie
4,11,3) e maxima mala crux (Plauto, Captivi 469). La kénōsis fino alla croce descritta in Fil 2,7-8, evidenzia così il
cursus pudorum o percorso dell'ignominia a cui si è sottomesso Cristo. Anche il contesto giudaico esprime una
profonda repulsione per la pena capitale di origine persiana. Durante l'assedio di Macheronte, Flavio
Giuseppe racconta che il comandante romano Basso «comandò di piantare una croce come se volesse
immediatamente appendervi Eleàzaro; di fronte a tale spettacolo quelli della fortezza furono presi da
un'angoscia più grande, gridando fra alti gemiti che quella era una disgrazia intollerabile». Sembra che fosse
stata sufficiente la comparsa di una croce perché gli assediati si arrendessero. La stessa risonanza ritroviamo
negli scritti di Filone di Alessandria: «Il sole non tramonti su coloro che sono crocifissi ma siano sepolti nella
terra prima del declino». Paolo in Gal 3,13 cita i passi di Dt 27,26 e di Dt 21,23 per sostenere che Cristo è
diventato sul legno maledizione per noi, affinché la benedizione di Abramo giungesse ai gentili e
ricevessimo lo Spirito promesso (Gal 3,14); allo stesso passo del Deuteronomio allude Luca in At 5,30: «Il Dio
dei nostri padri ha risuscitato Gesù che voi avete ucciso appendendolo all'albero». Paolo è il primo autore cristiano
che interpreta la maledizione di Dt 21 in funzione della benedizione dei credenti. Fil 2,8c non riconosce la
funzione soteriologica della morte di croce con l'importante precisazione «per noi», usata da Paolo in 1Cor
1,18-31 e in Gal 3,10-14.
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2,9: Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, (διὸ καὶ ὁ θεὸς
αὐτὸν ὑπερύψωσεν καὶ ἐχαρίσατο αὐτῷ τὸ ὄνομα τὸ ὑπὲρ πᾶν ὄνομα, Pitta: «Proprio per questo Dio lo
sovraesaltò e gli donò il nome che (è) al di sopra di ogni nome»).
- Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, (ὁ θεὸς αὐτὸν ὑπερύψωσεν καὶ ἐχαρίσατο αὐτῷ
τὸ ὄνομα τὸ ὑπὲρ πᾶν ὄνομα). Nella seconda parte dell'inno (2,9-11) cambia il soggetto principale
dell'elogio: subentra l'azione di Dio nei confronti di Cristo. Soggetto principale della proposizione è ὁ θεὸς,
ho theòs, riconosciuto alla fine come padre, che ha sopraesaltato Gesù e gli ha donato il nome al di sopra di
qualsiasi altro nome: il nome che caratterizza la sua sopraesaltazione non è Ἰησοῦς, Iēsoũs «Gesù», che
aveva ricevuto con la nascita, né Χριστός, Christós «Cristo» che allude alla sua identità messianica, bensì
κύριος, kýrios «Signore» (Fil 2,11). Fra gli scritti neotestamentari che incentrano la loro cristologia sul nome,
meritano di essere citati il Vangelo di Matteo e la Lettera agli Ebrei. In Mt 1,21 l'angelo rivela a Giuseppe che
Maria riceverà un figlio «e lo chiamerai con il nome Gesù; infatti egli salverà il suo popolo dai suoi peccati»; e il
nome Ἐμμανουήλ Emmanouél (Mt 1,23) contiene il disegno del «Dio con noi», proprio della cristologia
matteana (Mt 18,20; 28,20). A sua volta, l'autore della Lettera agli Ebrei, concentra l'attenzione sul titolo di
ἀρχιερεὺς «sommo sacerdote», inteso come nome per delineare la sua originale cristologia (Eb 1,4; 2,17; 5,10).
Per questo, nel nome di una persona è coinvolta la sua identità: nomen omen, il nome è un presagio,
dicevano i latini.
- lo esaltò (αὐτὸν ὑπερύψωσεν). Il verbo ὑπερυψόω significa «esalto oltremodo, innalzo al massimo grado,
sovresalto». La prima azione compiuta da Dio nei confronti di Cristo riguarda la sua superesaltazione, senza
citare esplicitamente la sua risurrezione. Quando comincia la sopraesaltazione di Cristo? Soltanto con la
risurrezione e l'ascensione alla destra di Dio oppure già nelle tenebre o nel paradosso della croce? Sappiamo
che in seguito la teologia giovannea svilupperà la cristologia dell'esaltazione riconosciuta nell'evento
della croce e non solo nella risurrezione.
2,10: perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra,
(ἵνα ἐν τῷ ὀνόματι Ἰησοῦ πᾶν γόνυ κάμψῃ ἐπουρανίων καὶ ἐπιγείων καὶ καταχθονίων, Pitta: «affinché
nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi di chi (è) nei cieli, sulla terra e sottoterra»).
Alla duplice azione di Dio (sopraesaltazione e conferimento del nome) nei confronti di Cristo corrisponde
quella di «ogni ginocchio» (v. 10) e di «ogni lingua» (v. 11).
- nel nome di Gesù (ἐν τῷ ὀνόματι Ἰησοῦ). Non «mediante» il nome di Gesù tutti rendono gloria a Dio, né «a
causa» del nome, bensì «di fronte» al nome di Gesù tutti sono chiamati a conferirgli l'adorazione. Non è
un caso che qui per la prima volta nell'inno sia citato il nome di Gesù che, dopo aver percorso il
drammatico itinerario della kénōsis, ora è sopraesaltato da Dio e riceve l'adorazione di ogni ginocchio (πᾶν
γόνυ). Illuminante è il confronto con la fonte di Is 45,23 e il parallelo di Rm 14,11.
Is 45,23
«Davanti a me (emoì)
si piegherà (kámpsei)
ogni ginocchio (pãn góny)
e confesserà (exomologésētai) ogni
lingua (pãsa glỗssa) davanti a
Dio».
Fil 2,10-11
Rm 14,11
«Nel nome di Gesù
ogni ginocchio (pãn góny)
si pieghi (kámpsē)
di chi è nei cieli, sulla terra e
sottoterra e ogni lingua confessi
(exomologésētai)
che Signore Gesù Cristo a gloria di
Dio padre ».
« Io vivo, dice il Signore, perché
davanti a me (emoì)
si piegherà (kámpsei)
ogni ginocchio (pãn góny)
e
ogni
lingua
confesserà
(exomologésētai)
davanti a Dio».
- nei cieli, sulla terra e sotto terra, (ἐπουρανίων καὶ ἐπιγείων καὶ καταχθονίων, lett. «delle [realtà] celesti e terrestri
e sotterranee»). Fil 2,10 pone in risalto il gesto della prostrazione che «ogni ginocchio» deve realizzare di fronte
al nome di Gesù. A chi o a che cosa si allude con la formula triadica «di chi è nei cieli, sulla terra e
sottoterra»? La triade esprime l'adorazione universale che gli esseri umani e gli spiriti devono attribuire al
Signore Gesù Cristo. Ignazio di Antiochia (35-107 d.C.) scrive: «Egli realmente fu crocifisso e morì alla
presenza dei celesti (τῶν ἐπουρανίων, tỗn epouraníōn), dei terrestri (ἐπιγείων, epigeíōn) e dei sottoterrestri
(ὑποχθονίων, hypochtoníōn)». Tuttavia, mentre tutti i corpi celesti si prostrano davanti al nome di Gesù,
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non tutti quelli «terrestri» riconoscono la sua signoria: saranno obbligati a farlo soltanto con l'evento
escatologico della sua totale signoria.
2,11: e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre (καὶ πᾶσα
γλῶσσα ἐξομολογήσηται ὅτι κύριος Ἰησοῦς Χριστὸς εἰς δόξαν θεοῦ πατρός, Pitta: «e ogni lingua confessi:
«Signore Gesù Cristo» per la gloria di Dio padre»).
- e ogni lingua proclami (καὶ πᾶσα γλῶσσα ἐξομολογήσηται). Non è molto chiaro il significato del verbo
ἐξομολογέω, exomologéō, al congiuntivo aoristo, che assume due significati fondamentali: «confessare o
ringraziare e lodare». «Ogni lingua» è chiamata a proclamare ovunque e per sempre che Gesù Cristo è il
Signore.
- a gloria di Dio Padre (εἰς δόξαν θεοῦ πατρός). L'elogio si chiude con una dossologia della paternità di Dio.
La signoria di Cristo non pone in discussione l'unicità di Dio: Gesù Cristo è «nella forma di Dio» (Fil 2,6),
«alla pari di Dio», ma il titolo theós appartiene soltanto a Dio che è Padre di Gesù Cristo e di tutti coloro che
sono in Cristo, mediante lo Spirito.
Filippi (in greco antico Φíλιπποι) è un'antica città della Tracia, attigua alla Macedonia e non
distante dal mare Egeo. Sorge sul sito dell'antica Crenides e prese il nome dal re Filippo il Macedone, che la fece
ingrandire e fortificare nel 356 a.C. per farne un centro minerario. Fu conquistata dai Romani nel 168 a.C. Nel 42
a.C. fu teatro della battaglia decisiva tra le truppe di Ottaviano e Antonio contro quelle di Bruto e Cassio;
Ottaviano, divenuto Augusto, la eresse al rango di colonia. Negli anni 50 d.C. la cittadina di Filippi recava la
denominazione ufficiale Colonia Iulia Augusta Philippensis, conferitagli da Ottaviano, Imperator Caesar Divi Filius
Augustus (dal 27 a.C. al 14 d.C.). La città è collocata nella pianura del fiume Gangites (oggi Bunarbaschi), sulla via
Ignazia, a 16 chilometri dal porto di Neapoli (odierna Kavala).
La popolazione doveva essere di 10.000 abitanti circa, composta di colonizzatori romani e di abitanti
greci e traci. La romanizzazione della città le permise di godere dello ius italicum, il privilegio per cui i cittadini
potevano intraprendere scambi (in iure cessio) commerciali in proprio ed erano esenti da imposte fondiarie
imperiali. La lingua ufficiale era il latino, ma il popolo continuava a parlare il greco. In At 16, si accenna a un
luogo presso il fiume, dove ci si incontrava per la preghiera. L'annotazione di Luca è generica, per cui una
riunione in giorno di sabato non implica la presenza di una comunità giudaica; la figura di Lidia, commerciante di
porpora e timorata di Dio (At 16,14), proveniente da Tiàtira, implica soltanto una sua simpatia per il giudaismo.
Il primo ritrovamento di un'iscrizione tombale che allude a una sinagoga risale al III sec. d.C.
Dal punto di vista religioso, le iscrizioni attestano il culto per il pantheon greco romanizzato: da Giove
sino a Marte. Il culto più praticato era per Diana/Artemide. Figlia di Zeus e di Leto e sorella gemella di
Apollo, era la più importante delle divinità della caccia e degli animali selvatici, soprattutto degli orsi,
nonché protettrice delle nascite, della natura e dei raccolti. In quanto personificazione della Luna, talvolta
veniva identificata con Selene ed Ecate. Benché tradizionalmente protettrice delle giovani fanciulle, durante
la guerra di Troia Artemide impedì ai greci di salpare per Troia finché non le ebbero sacrificato una vergine.
Secondo alcune versioni della leggenda, all’ultimo momento salvò la vittima, Ifigenia. Come Apollo, Artemide era
armata di arco e frecce, con cui spesso puniva i mortali che la indispettivano. Secondo altre leggende,
assicurava alle donne che morivano di parto una morte rapida e indolore.
Particolare sviluppo godette il culto dedicato alle divinità guaritrici (Asclepio). Nella mitologia
greca, dio della medicina, il cui simbolo era un bastone (caducèo, simbolo anche di Ermes/Mercurio,
messaggero degli dei) intorno al quale era avvolto un serpente (l’innocuo colubro). Era figlio del dio Apollo
e di Coronide, una bellissima fanciulla tessala. Infuriato perché Coronide gli era stata infedele, Apollo la uccise e
trasse Asclepio non ancora nato dal suo grembo, per poi affidarlo al centauro Chirone. Asclepio imparò tutto ciò
che Chirone sapeva sulla medicina e divenne abilissimo nell’arte della guarigione, ma poiché minacciava l’ordine
naturale strappando gli uomini alla morte, il dio Zeus lo uccise con un fulmine. Il centro del culto di Asclepio
era Epidauro (Grecia), da dove si diffuse in tutto il mondo greco-romano. I santuari di Asclepio erano veri e
propri centri di cura, dove si prescrivevano cure basate su esercizi, diete e pratiche terapeutiche come
l’incubazione: i malati dormivano in un tempio o in un recinto sacro, nella speranza che il dio li visitasse in sogno
per guarirli. Il più celebre tra gli asclepiadi (i discendenti di Asclepio) fu Ippocrate. I romani importarono il culto
di Asclepio e lo chiamarono Esculapio.
Il rito del Rosalia o del giorno in cui le tombe venivano adornate di rose attesta anche la diffusione per il
culto dei morti nei villaggi circostanti. Tuttavia, il culto imperiale era dominante, riconoscibile dai due santuari
rinvenuti intorno al Foro: Divus Augustus e Diva Augusta. L'imperatore Augusto fu il primo a essere divinizzato e
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sua moglie Livia Drusilla Claudia ricevette il titolo di Augusta dopo la morte del marito (19 d.C.), che aveva nel
frattempo firmato l'atto di adozione di sua moglie come se fosse una figlia, lasciandole in eredità un terzo del suo
patrimonio e il diritto di appartenere alla gens Iulia. Fu madre di Tiberio che si sentì dominata dalla madre e
perciò la osteggiò; fu nonna di Claudio, bisnonna di Caligola e trisavola di Nerone. Fu divinizzata da Claudio.
La Diva Augusta veniva onorata in occasione dei giochi pubblici da un carro trainato da elefanti che
portava la sua immagine; nel tempio di Augusto le venne dedicata una statua; corse di carri vennero indette in
suo onore, mentre le donne dovevano nominarla nei loro giuramenti.
L'espressione popolare «Ci rivedremo a Filippi» per significare che prima o poi si arriverà alla resa dei
conti deriva dalla frase che lo spettro di Giulio Cesare rivolge a Bruto nel IV atto del Giulio Cesare di William
Shakespeare (1564-1616), episodio ripreso dalle Vite parallele di Plutarco (45-120 d.C., Vita di Bruto, 36).
La città ebbe un notevole ruolo nei primi secoli del Cristianesimo: sant'Ignazio di Antiochia (35-107 d.C.)
e san Policarpo di Smirne (69-155 d.C.) indirizzarono alla chiesa locale alcuni dei loro scritti. Fu un centro
importante anche in epoca bizantina; fu occupata dai Latini durante la IV crociata e fu in seguito abbandonata.
I cristiani di Filippi sono chiamati agapetoí «amati», epipóthetoi «desiderati» (hapax legomenon nel greco
biblico), cioè «amati intensamente». Il clima positivo di questa Lettera è testimoniato anche dal fatto che
riporta solo un elenco di virtù e non di vizi (4,8).
Una situazione di «estrema povertà» accomunava le comunità di Tessalonica (Salonicco, Grecia) e di
Filippi; eppure, soltanto dai filippesi Paolo accettò il sostentamento economico (Fil 4,10-20; cf 2Cor 11,9).
Anche se non rappresenta la motivazione principale, non si può negare che la questione degli aiuti
economici offertigli, sino all'ultima prigionia per mano di Epafrodito (Fil 4,18), svolga un ruolo
fondamentale nella dettatura di Filippesi.
Nella Lettera ai Filippesi sono citati Evòdia, Sìntiche, Clemente ed Epafrodìto (Fil 4,2-3.18). Gli Atti
degli apostoli ricordano Lidia, mai menzionata nelle lettere paoline. Dal versante etimologico, Epafrodìto,
Evòdia e Sìntiche sono nomi greci, Clemente è romano. Molto probabilmente si tratta di nomi di estrazione
liberta (schiavi liberati) e non a caso tre dei cinque nomi sono di donne (Evòdia, Sìntiche, Lidia), a
dimostrazione del ruolo di rilievo che queste svolgevano nelle comunità domestiche.
L'«inno cristologico» di Fil 2,6-11 è fra le pagine più note e studiate dell'epistolario paolino, di cui
è il testo più complesso. Esso si inserisce bene nel materiale innico di natura cristologica del NT: Col 1,15-20; Ef
2,14-16; 1Tm 2,5-6; 3,16; Tt 3,4-7; 2Tm 2,12-13; 1Pt 2,21-23 e di Eb 1,1-4, oltre ai testi della tradizione lucana (il
Magnificat di Lc 1,46-55; il Benedictus di Lc 1,68-79) e giovannea (cf Gv 1,1-14; Ap 1,4-8; 4,8; 5,9-12; 11,15-18;
15,3-4; 22,17). In Fil 2,5-11 ritroviamo una prosa ritmica che lo differenzia dal contesto più epistolare e
colloquiale del resto del capitolo. Dal versante storico, è importante quanto Plinio il Giovane scrive
all'imperatore Traiano (prima decade del II sec. d.C.) a proposito dei cristiani: «D'altra parte, essi affermano
che tutta la loro colpa o il loro errore erano consistiti nell'abitudine di riunirsi in un determinato giorno,
prima dell'alba, di cantare fra loro alternativamente un inno a Cristo, come a un dio (convenire carmenque
Cristo quasi deo dicere)...» (Plinio il Giovane, Lettere 10,96,7).
Nell'«inno cristologico» distinguiamo due parti principali: 2,6-8 (l'umiliazione di Cristo); 2,9-11
(l'esaltazione di Cristo). A loro volta, nella prima parte distinguiamo i vv. 6-7b (l'itinerario della kénōsis) dai vv.
7c-8 (l'itinerario dell'umiliazione); nella seconda parte il v. 9 (l'esaltazione e il nome di Cristo) dai vv. 10-11 (la
confessione dei viventi). In ogni proposizione i verbi all'aoristo svolgono funzioni di rilievo: nella prima
parte (vv. 6-7b) la postazione principale è occupata dai verbi hēgésato (ritenne, v. 6) ed ekénōsen (svuotò, v. 7a);
nella seconda lo spazio dominante è conferito al verbo etapeínōsen (umiliò, v. 8); nella terza tornano due verbi
principali: hyperhýpsosen (sovraesaltò) ed echarísato (donò, v. 9); e nella quarta subentrano due congiuntivi
aoristi: kámpsē (si pieghi, v. 10) ed exomologésētai (proclami, v. 11).
In conclusione possiamo ritenere che l'elogio sia di fattura prepaolina con l'intento di giustificare
i valori dell'umiltà e dell'obbedienza nei destinatari. Il Sitz im Leben dell'inno è probabile che sia la
confessione di fede che può essere sorta sia in contesto giudaico-cristiano palestinese, sia in quello della
diaspora. La professione di fede (exomológēsis) che caratterizza l'inno si trasforma in elogium di Cristo, che
fonda il discernimento dei filippesi che si adoperano a praticare la mimèsi di Cristo (Fil 2,5).
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Il vangelo (Gv 3,13-17) riprende il cuore del discorso che Gesù fa a Nicodemo (Νικόδημος,
Nikódēmos, composto da νίκη, níkē, «vittoria» e δῆμος, dễmos, «popolo»; il significato può essere «vittoria del
popolo» o «vincitore fra il popolo»). Gesù si trova a Gerusalemme (cf 2,13) dove, di notte, riceve la visita di
Nicodemo, «fariseo» e «uno dei capi dei Giudei». L'andare di Nicodemo verso Gesù rappresenta la ricerca
della verità e il percorso che conduce alla fede, cioè riconoscere Gesù come l'Inviato di Dio.
Gv 3,13: [In quel tempo, Gesù disse a Nicodemo:] Nessuno è mai salito al cielo, se non
colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo (καὶ οὐδεὶς ἀναβέβηκεν εἰς τὸν οὐρανὸν εἰ μὴ ὁ
ἐκ τοῦ οὐρανοῦ καταβάς, ὁ υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου,).
- Nessuno è mai salito al cielo (καὶ οὐδεὶς ἀναβέβηκεν εἰς τὸν οὐρανὸν). Per molti commentatori il legame tra
il motivo dell'ascesa (v. 13a) e il Figlio dell'uomo (v. 13b) è associato o all'idea gnostica dell'ascensione
dell'Uomo Primevo (Protánthropos, Adamo) o all'idea lucana dell'ascensione di Gesù. Questa interpretazione
non si concilia con l'azione di Mosè che «innalzò il serpente nel deserto» (3,14). Nell'AT non c'è nessun
accenno all'ascesa del serpente. Rimane fisso perché possa essere veduto. A far da sfondo al v. 13 è la
speculazione ebraica contemporanea riguardo all'ascesa dei grandi rivelatori d'Israele: Mosè, Abramo,
Isaia, Enoch e altri grandi santi (cf Tg. Onq., Tg. Ps.-J e Frg. Tgs. su Dt 30,11-14; Tg. Ps. 68,19; Mart. Is. 2,9; 3,710; 1Enoch 71; 2Bar. 2,1-8; 3Bar.; Adamo ed Eva 25-28; 2Enoch 1; T.Abr., Rec. A: 10-15; Rec. B: 8-12). Tutte queste
ascensioni rivelatorie in cui il veggente è trasportato in cielo per poi far ritorno e far conoscere Dio sono
categoricamente negate dall'uso di οὐδεὶς oudeìs «nessuno» (cf 1,18).
- se non colui che è disceso dal cielo (εἰ μὴ ὁ ἐκ τοῦ οὐρανοῦ καταβάς). In contrapposizione alla negazione
iniziale, abbiamo qui l'affermazione positiva di un unico rivelatore, il Figlio dell'uomo, che è disceso dal
cielo. Il verbo ἀναβέβηκεν, ind. perf. di ἀναβαίνω «salgo, monto, ascendo» e il verbo καταβάς, aor. part.
att. di καταβαίνω «vengo giù, scendo, discendo» sono deliberatamente contrapposti. Il rivelatore non è uno
che è salito, ma il solo che è disceso. Gesù è «dal cielo», l'inviato del Padre.
- che è in cielo (ὁ ὢν ἐν τῷ οὐρανῷ). Alcuni antichi scribi, attratti dal riferimento all'ascensione, hanno aggiunto all'attuale v. 13 «che è in cielo» (cf antica versione dell'Alessandrino, Koridethi, alcune versioni latine
e siriache). La lezione che prolunga comunque è preferita dalla NVB che la considera lectio difficilior e perciò
preferibile. Essa sembra richiesta dal ritmo del versetto, che così risulta costituito da tre stichi ben bilanciati
(P. Beretta).
3,14: E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio
dell’uomo, (καὶ καθὼς Μωϋσῆς ὕψωσεν τὸν ὄφιν ἐν τῇ ἐρήμῳ οὕτως ὑψωθῆναι δεῖ τὸν υἱὸν τοῦ
ἀνθρώπου,)
- E come Mosè innalzò il serpente (καὶ καθὼς Μωϋσῆς ὕψωσεν τὸν ὄφιν). C'è uno stretto rapporto tra ciò che
ha fatto Mosè con il serpente di bronzo (Nm 21,8-9) e ciò che dovrà accadere al Figlio dell'uomo. Il parallelo
abbraccia anche il v. 15. Come gli Israeliti guardavano il serpente innalzato per recuperare la salute, così
anche colui che crede nella rivelazione di Dio che si manifesta sulla croce avrà la vita eterna (v. 15).
- così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo (οὕτως ὑψωθῆναι δεῖ τὸν υἱὸν τοῦ ἀνθρώπου). Il verbo
ὑψωθῆναι, inf. aor. pass. di ὑψόω «elevo, innalzo, esalto», indica sia l'innalzamento fisico di Gesù su un
palo, come il serpente di Mosè, sia il significato teologico di «esaltazione». L'innalzamento è associato alla
morte di Gesù, ma il legame tra la morte e la glorificazione verrà sviluppato in seguito, man mano che si
svolge il racconto, quando diventerà il leitmotif del resoconto della passione.
3,15: perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna (ἵνα πᾶς ὁ πιστεύων ἐν αὐτῷ ἔχῃ ζωὴν
αἰώνιον).
I vv. 12-15 sviluppano il terzo significato di ἄνωθεν ánōthen «dall'alto» (vv. 3.7) secondo questo schema:
terra
cielo
salire al cielo
discendere dal cielo
Mosè innalzò il serpente
Il Figlio dell'uomo è innalzato
Qui si realizza la transizione dall'ordine del principio, la creazione - all'ordine della fine, l'apocalisse, con
la figura emblematica del Figlio dell'uomo (Dn 7,14). Il testo associa la figura danielica del Figlio dell'uomo
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a Mosè (v. 14) e a quella del Servo, implicitamente evocata dal verbo ὑψωθῆναι «essere innalzato»: «(Il mio
servo) sarà innalzato (ὑψωθῆναι) e glorificato molto» (Is 52,13 LXX). La Sapienza è associata alla Torah, alla
profezia e all'apocalittica attraverso la rilettura di Nm 21,1-9 da parte di Sap 16,5-12. Gesù afferma: «noi
parliamo di ciò che sappiamo e testimoniamo ciò che abbiamo veduto» (v. 11). Il «noi» sembra includere le figure
bibliche evocate. Con Gesù, anch'esse prendono qui la parola nella misura in cui vengono fatte rivivere dal
midrash attualizzante di Gesù che si auto-definisce «il Figlio dell'uomo». Come quella del Servo, la figura del
Figlio dell'uomo ha una dimensione collettiva. Sia l'una sia l'altra rappresentano, come Gesù, una persona
e il popolo: dei santi dell'Altissimo in Daniele, dei servi in Isaia, del regno sacerdotale in Es 19, dei figli nel libro
della Sapienza. Queste allusioni sono sufficienti per definire il «noi» di Gesù includendovi la sua dimensione
personale e la dimensione di tutto ciò che egli ricapitola nella sua rivelazione di compimento. Il v. 15 si ispira
a Dn 12,1 (LXX): «In quel giorno tutto il popolo sarà innalzato ὑψωθήσεται, hypsōthésetai, quello che sarà
stato trovato scritto nel libro, e molti di coloro che dormono sulla superficie della terra si desteranno: gli uni
per la vita eterna, gli altri per l'obbrobrio, gli altri per la dispersione (diaspora) e la vergogna eterna».
Gv 3,16: [In quel tempo, disse Gesù a Nicodemo]: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da
dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita
eterna (Οὕτως γὰρ ἠγάπησεν ὁ θεὸς τὸν κόσμον, ὥστε τὸν υἱὸν τὸν μονογενῆ ἔδωκεν ἵνα πᾶς ὁ
πιστεύων εἰς αὐτὸν μὴ ἀπόληται ἀλλ' ἔχῃ ζωὴν αἰώνιον).
- Dio infatti ha tanto amato il mondo (Οὕτως γὰρ ἠγάπησεν ὁ θεὸς τὸν κόσμον). Gesù sta parlando con
Nicodemo (Νικόδημος, Nikódēmos, composto da νίκη, níkē, «vittoria» e δῆμος, dễmos, «popolo»; il significato
può essere «vittoria del popolo» o «vincitore fra il popolo»). A partire dal v. 16 inizia a parlare di sé in terza
persona e non usa più il titolo «Figlio dell'uomo»; smette inoltre di rivolgersi a interlocutori. Tutto è collocato
sotto il segno di «Dio» che ama il mondo. Il verbo usato è ἀγαπάω, agapáō «amo» che qualifica l'amore di
Dio e dei suoi figli. Il mondo appare così come un'epifania del Dio che ama. Per poter amare Dio Bükollübäbkä ûbükol-napšükä ûbükol-mü´ödeºkä «con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze» (Dt 6,5)
bisogna che Dio per primo si riveli come colui che ama il suo Figlio. Solo partendo dal mistero pasquale di
Gesù ci è dato di conoscere il mistero trinitario di Dio.
- da dare il Figlio unigenito (ὥστε τὸν υἱὸν τὸν μονογενῆ ἔδωκεν). Nell'uso del verbo δίδωμι, dídōmi, «do,
affido, dono, consegno, rendo» alcuni vedono un legame tra la croce e il «dono» del Figlio. Ma per la croce i
vangeli sinottici usano il termine tecnico παραδίδωμι, paradídōmi, «do, trasmetto, consegno, affido, tradisco,
rimetto». Comunque i vv. 13-15 che precedono parlano del Figlio dell'uomo che deve essere innalzato come
il serpente nel deserto. Pertanto il punto culminante dell'amore del Padre è il dono del Figlio. L'Unigenito
condensa nella sua persona tutta l'economia biblica. Lo scopo di questo dono è la vita eterna di chiunque
crede in lui, contrapposta alla sua perdizione. Nel testo il Figlio occupa il posto del mediatore fra Dio e il
credente. L'opera dello Spirito traspare dai verbi che vengono usati nel v. 16: ἀγαπᾶν «amare» (per il
Padre), διδόναι «essere dato» (per il Figlio), πιστεύειν «credere», ἔχειν ζωὴν αἰώνιον «avere la vita eterna»
(per il credente).
3,17: Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma
perché il mondo sia salvato per mezzo di lui (οὐ γὰρ ἀπέστειλεν ὁ θεὸς τὸν υἱὸν εἰς τὸν κόσμον,
ἵνα κρίνῃ τὸν κόσμον, ἀλλ' ἵνα σωθῇ ὁ κόσμος δι' αὐτοῦ).
- Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo (οὐ γὰρ ἀπέστειλεν ὁ θεὸς τὸν υἱὸν
εἰς τὸν κόσμον, ἵνα κρίνῃ τὸν κόσμον). Il ruolo del Figlio nei confronti del mondo è descritto prima in
negativo: οὐ ἵνα κρίνῃ τὸν κόσμον «non per condannare il mondo»; il verbo usato è il cong. aor. di κρίνω
«separo, distinguo, giudico, condanno»; poi in positivo: ἀλλ' ἵνα σωθῇ ὁ κόσμος δι' αὐτοῦ «perché il mondo
sia salvato per mezzo di lui»; il verbo usato è il cong. aor. pass. di σῴζω, «salvo, guarisco». Il «non perdersi»
e l'«avere la vita eterna» passa, per il credente, attraverso un «giudizio». Il giudizio si compie nel modo
stesso in cui gli uomini reagiscono al dono del Figlio: credere o non credere, oppure volontà che preferisce la
luce o la tenebra. Gli uomini sono giudicati dalle loro opere, perché il giudizio di Dio non può prescindere
dall'agire dell'uomo. Tuttavia il giudizio spetta al Figlio (5,22).
- perché il mondo sia salvato per mezzo di lui (ἵνα σωθῇ ὁ κόσμος δι' αὐτοῦ). Il linguaggio dei vv. 11-17 è tipico
della letteratura gnostica tardiva: il Figlio parla di ciò che ha visto (v. 11); la rivelazione delle cose della terra
11
e delle cose del cielo (v. 12); la discesa del Figlio dell'uomo (v. 13); l'«innalzamento» del Figlio dell'uomo (v.
14); il Padre manda il Figlio a salvare il mondo (v. 16), non a giudicare il mondo (v. 17). Giovanni sembra che
voglia offrire un insegnamento con parole che siano significative per un uditorio pagano. Questo passo è un
altro chiaro esempio dell'uso nuovo che fa l'autore del linguaggio tradizionale.
L'episodio dedicato a Nicodemo e l'ultima apparizione di Giovanni Battista fanno seguito
alla riflessione sulla fede dei molti che sono stati indotti a credere in Gesù dai segni che ha operato (2,23-25).
Il racconto di 3,1-10 prende le mosse dalle parole di Gesù e dalle risposte di Nicodemo a tali parole. Nei vv.
11-12 Gesù sembra concludere la discussione con Nicodemo, per rivolgersi a un uditorio plurale nel v. 11b:
οὐ λαμβάνετε «voi non accogliete». I vv. 11-12 costituiscono un «ponte» che serve da conclusione ai vv. 1-12
e da introduzione ai vv. 11-21. Nicodemo viene relegato nello sfondo ad ascoltare il breve discorso di Gesù
(vv. 11-21). Il discorso è diretto al lettore ed è un commento all'incontro tra Gesù e Nicodemo.
Nicodemo rimane confuso. La sua reazione all'insegnamento di Gesù non è di rifiuto né di ricusa;
ma è comunque una confessione perplessa che rispecchia la sua incapacità di abbandonare le proprie
categorie mentali per abbracciare la misteriosa vita dello Spirito che gli offre Gesù: «Come può accadere
questo?» (v. 9). La risposta è debole, e Gesù sorride mentre gli ricorda che lui è un «maestro di Israele» (v. 10a).
Dopo aver ripreso l'idea essenica del Figlio dell'uomo disceso dal cielo (v. 13), l'unico capace di
rivelare i segreti celesti (v. 12b), ci si domanda come si effettuerà questa rivelazione.
«Nel Libro delle Parabole di Enoc, scritto alla fine del I secolo a.C., leggiamo che il Messia, il Figlio
dell'Uomo, è il giudice finale che distruggerà il male sulla terra prodotto dalla contaminazione del peccato
angelico […]. Secondo la dottrina essenica, il Figlio dell'Uomo è creato da Dio al pari degli angeli, quindi è
inferiore a Dio, ma Dio «gli diede un nome» prima della creazione degli angeli e dell'universo, quindi egli è
superiore agli angeli e all'uomo. Il Figlio dell'Uomo è una specie di superangelo ed è stato creato per
essere il Messia escatologico. È pre-esistente, vive in cielo, gli è stato dato il nome, cioè la funzione, da
Dio fin dall'origine della creazione, e verrà alla fine dei tempi come il giudice finale, in modo da
purificare l'universo dagli effetti malefici del peccato angelico, di satana e delle sue schiere, che ha
contaminato la creazione di Dio» (G. Boccaccini, Dallo stesso grembo, EDB 2012, 29).
Uniti dall'uso dell'espressione «il Figlio dell'uomo», i versetti 13 e 14 sono strettamente legati tra
loro. Mentre il v. 13 afferma che Gesù è il solo rivelatore di Dio, il v. 14 dice come questa rivelazione si
manifesterà. Come Mosè ὕψωσεν, hýpsōsen «innalzò» il serpente su di un'asta, così ὑψωθῆναι δεῖ τὸν υἱὸν
τοῦ ἀνθρώπου «bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo». Come il popolo dell'Esodo, sofferente per i
suoi peccati, doveva guardare il serpente innalzato sull'asta per poter essere risanato (cf Nm 21,8-9), così la
vita eterna sarà data a coloro che, guardando il Figlio dell'uomo innalzato sulla croce, crederanno (v. 15). I
magnifici doni elargiti da Dio al popolo eletto d'Israele, ora vengono portati alla perfezione con il dono
del Figlio. La morte di Gesù ha fornito la conoscenza per poter capire la lotta tra la luce e le tenebre. Come
Gesù dovrà morire? ὑψωθῆναι δεῖ «bisogna che sia innalzato»! La prima volta che viene usato questo verbo
a doppio senso indica che la crocifissione di Gesù sarà anche la sua esaltazione. Gesù è la rivelazione di Dio
(v. 13) e questa rivelazione raggiungerà il suo culmine nell'«innalzamento/esaltazione» di Gesù sulla croce
(v. 14). Il credere a questa rivelazione porta la vita eterna (v. 15). Questa introduzione della promessa della
vita eterna (v. 15) porta allo sviluppo del tema della salvezza nei vv. 16-21.
Un altro importante tema di questo vangelo emerge per la prima volta nei vv. 16-17: l'amore
salvifico di Dio raggiunge il mondo tramite l'«innalzamento» del Figlio. Nelle parole di Gesù entra un
elemento universalistico nonostante il contesto marcatamente ebraico dell'incontro con Nicodemo che
precede questo breve discorso. «Dio ha tanto amato il mondo» (v. 16); «Dio ha mandato il Figlio perché il mondo sia
salvato per mezzo di lui» (v. 17).
Ma l'amorevole dono del Figlio per la salvezza del mondo solleva la questione della κρίσις, krísis
«giudizio» (v. 19). Sebbene Dio abbia mandato il Figlio a salvare - e non a giudicare - il mondo, un giudizio è
ugualmente incombente. Questo scaturisce dall'accettazione o dal rifiuto dell'unica rivelazione di Dio che si
manifesta nel Figlio. La fede porta all'esenzione dalla condanna e alla vita, mentre il rifiuto di credere
porta alla condanna e alla morte (v. 18). Né il Figlio né il Padre si ergono a giudici. Il rifiuto di credere
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comporta l'autocondanna, evidenziata dalle opere malvagie e dalla presenza delle tenebre (vv. 18-19). Il
tempo del giudizio è adesso, mentre il credente si trova di fronte alla rivelazione del Padre nel Figlio.
L'escatologia giovannea già realizzata sottolinea l'importanza della risposta del credente.
Davanti a un irrompere irripetibile della Parola di Dio, il discorso di Gesù termina con
un'osservazione sulla situazione del credente e del non credente che suppone una disposizione a lungo
termine ad accettare o a rifiutare la rivelazione di Dio (vv. 20-21). Il fare il male consegue dall'amare le
tenebre e dallo stare in esse per potervi nascondere le proprie ambiguità (v. 20), così come una vita di
opere buone porta a trovare la luce.
Solo Gesù fa conoscere Dio (vv. 13-15) e il giudizio deriva dall'accettazione o dal rifiuto di questa
rivelazione (vv. 16-21). Alla luce di questo discorso di Gesù, Nicodemo comincia a interrogarsi. Questo
«capo dei Giudei» (v. 1) e «maestro di Israele» (v. 10) mostra una certa apertura nei confronti di Gesù. A
differenza de «i Giudei» (vv. 13-22), Nicodemo non respinge mai apertamente la parola di Gesù (cf vv. 1820). Nicodemo sarà nuovamente di scena in due altre occasioni e compirà il suo cammino di fede nel
prosieguo del racconto (cf 7,50-52; 19,38-42). Tuttavia, a differenza dell'assenza di fede tra «i Giudei» che
hanno rifiutato la parola di Gesù (2,13-22), Nicodemo è esempio di una persona che dimostra una fede che
non smette di cercare. Nicodemo pian piano scoprirà quanto sia importante per conoscere Gesù il lasciarsi
guidare dallo Spirito che scende ἄνωθεν «dall'alto» (v. 3), per riconoscere τὰ ἐπουράνια «le cose del cielo»
(v. 12).
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