Attualità - Centro Editoriale Dehoniano

quindicinale di attualità e documenti
2014
6
Attualità
145 Dottrina e misericordia: indissolubili
153 Solo Renzi, Renzi solo
191 La TV dei generi inquieti
215 Accattoli: quarant’anni al Regno
203 Studio del Mese
Noi robot
L’antropologia cristiana nell’epoca dei cyborg
Anno LIX - N. 1163 - 15 marzo 2014 - IL REGNO - Via Scipione Dal Ferro 4 - 40138 Bologna - Tel. 051/3941511 - ISSN 0034-3498 - Il mittente chiede la restituzione
e s’impegna a pagare la tassa dovuta - Tariffa ROC: “Poste Italiane spa - Sped. in A.P. - DL 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Bologna”
quindicinale di attualità e documenti
A
ttualità
15.3.2014 - n. 6 (1163)
Caro lettore,
Libri del mese
145 (G. Brunelli)
consegnandole questo nuovo
numero, che speriamo trovi
interessante per la scelta di
temi che vanno dall’attualità
pastorale, con il Sinodo sulla
famiglia, a quella politica,
con un’analisi sullo scontro di
potere nel Partito democratico,
al dibattito filosofico sul
potenziamento della robotica,
desideriamo richiamarle un
piccolo gesto di cura, di cui
Il Regno ha bisogno, da parte
dei suoi abbonati: il rinnovo
tempestivo dell’abbonamento.
Come sa, la rivista vive quasi
esclusivamente di questa fonte
d’introiti, perché la pubblicità
– soprattutto in questi tempi
difficili per l’editoria – è in
continuo calo, e le vendite dei
singoli fascicoli in libreria sono
minime. D’altra parte il fatto di
sostenersi praticamente solo grazie
al contributo degli abbonati ha
garantito a Il Regno la libertà
di pensiero e parola che gli è
riconosciuta da tutti, in questo
numero anche da Luigi Accattoli
nella sua rubrica a p. 215.
Per questo motivo confidiamo
che chi non ha ancora pagato
la quota del 2014 lo faccia
con celerità, consentendoci di
rimanere quello che siamo.
R
Papa Francesco – 2013-2014:
il Vangelo è ancora possibile
{ Dopo il primo anno di pontificato }
171 (G.B. Pasini)
148 (G. Cereti)
177
Papa Francesco – Concistoro:
il Vangelo della famiglia
{ La relazione Kasper e il dibattito
sui divorziati risposati}
151 (L. Prezzi)
Francesco – Religiosi
Soluzioni al sole
152 (D. S.)
Papa – Pentecostali
Messaggio in video
153 (G. Brunelli)
Una cultura di carità
{ Quella Chiesa che crebbe con Nervo }
Schede (a cura di M.E. Gandolfi)
Segnalazioni
187 (M. Giardini)
G. Pressacco, L’arc di San Marc
188 (D. Sala)
E. Pace, Le religioni nell’Italia che cambia
M. Introvigne, P.L. Zoccatelli,
Enciclopedia delle religioni in Italia
189 (M. Matté)
www.dehondocs.it
Italia – Politica:
solo Renzi, Renzi solo
{ Lo scontro di potere dentro il PD }
190 (M. Veladiano)
155 (I. Diamanti)
191 (P. Taggi)
Europa-Italia – Analisi sociali:
la «Grande Incertezza»
{ Percezione della sicurezza nel
VII Rapporto dell’Osservatorio }
159 (M. Matté – F. Strazzari)
Riletture
Se l’ipocrisia avvelena gli affetti
Italia – Mass media: la TV si è fatta mondo
{ Sopravvivono i generi inquieti }
193 (G. Mc.)
CEI – Tv2000
Un nuovo caso Boffo
Russia – Rapporti ecumenici:
dal prestigio all’influenza
{ Le Chiese ortodossa e cattolica
e i progetti della nazione }
196 (A. Torresin)
162 (D. S.)
199 (P. Stefani)
Ucraina – Russia
Crisi politica, crisi ecclesiale
163 (M. Neri)
Italia – Teologia: una per tutti?
{ La FTIS su «forma cristiana
e forma secolare» della fede }
Teologia – Monoteismo:
l’immagine non violenta di Dio
{ A un secolo dalla Grande guerra }
Gran Bretagna – Scientology
Religione e spazio pubblico
201 (D. Sala)
164 (M. B.)
202 (L. Accattoli)
Belgio – Eutanasia e minori
Un passo di troppo
Diario ecumenico
Agenda vaticana
Studio del mese
165 (D. Maggiore)
Centrafrica – Guerra civile:
la violenza respirata
{ Procede la crisi: testimonianze
dagli operatori umanitari }
{ L’antropologia cristiana
nell’epoca dei cyborg }
203 (D. Lambert)
Noi, robot
167 (D. M.)
210 (P. Stefani)
168 (M. Castagnaro)
212 (P. Stefani)
Africa – Chiese e diritti gay
Se non c’è giustizia
America Latina – Il nuovo Cile:
la società domanda
{ A colloquio con mons.
Pedro Ossandón Buljevic }
170 (D. S.)
Malaysia – Religioni
Allah tra politica e fede
170 (D. S.)
Vietnam – Santa Sede
Novità sì e no
Profilo { Liana Millu }
Il libro custodito
Parole delle religioni
Udire la Parola scritta
214
I lettori ci scrivono
215 (L. Accattoli)
Io non mi vergogno del Vangelo
I miei quarant’anni al Regno
Colophon a p. 213
2013-2014
P a pa F r a n c e s co
i
l Vangelo è ancora possibile
Dopo il primo anno di pontificato
A
un anno dall’inizio del suo
pontificato, papa Francesco è sempre più ammirato e amato dalle genti,
dentro e fuori le Chiese, e
sempre più guardato con sospetto, scetticismo e contrarietà da una parte consistente delle gerarchie ecclesiastiche. Non
è una questione politica. Qui non c’entra
più il comunismo (nella sua forma dottrinale e nel suo esito storico e geopolitico), che per un secolo e fino a tutto il
pontificato di Giovanni Paolo II ha contribuito dialetticamente a definire parte
dell’identità pubblica della Chiesa cattolica e delle altre Chiese. È una questione ecclesiale, cioè di come debba essere
oggi una Chiesa testimone ed evangelizzatrice; è questione di come annunciare
nuovamente la fede cristiana e dunque è
questione di identità della Chiesa.
Di papa Francesco si accetta che faccia, se proprio vuole, il «prete di strada»;
che usi quel suo linguaggio così immaginifico che piace ai media; che compia
gesti che vadano oltre la consuetudine
e riempiano nuovamente le piazze; ma
non si accettano scelte pastorali che possano anche solo dare l’impressione che si
modifichi la dottrina. Lo si è visto bene
nel primo Concistoro che egli ha tenuto,
il 21 e 22 febbraio scorsi, a proposito delle
reazioni di diversi cardinali alla relazione
prudente e circostanziata del card. Kasper sul tema della famiglia, in vista dei
due anni sinodali. L’identificazione tra
forma dottrinale e istituzione ecclesiastica
è divenuta così forte negli ultimi trent’anni che la dottrina della fede rischia di essere scambiata con la sua forma espressiva. Non c’è peggior nominalismo.
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La conversione pastorale
Papa Francesco non intende modificare alcunché della dottrina della
fede. Non è questa l’urgenza che egli
avverte per la Chiesa. Nella tradizione
egli si è formato, la condivide. Ma ha
intimamente compreso che quella dottrina, nella sua formulazione e nelle sue
derivazioni concrete, è muta. Per varie
ragioni. Dall’analfabetismo dei cristiani
circa la loro identità, all’autoreferenzialità disciplinare della teologia (si pensi
solo al vuoto di riflessione sulle scienze
e le tecniche che definiscono il mondo
contemporaneo), alla professionalizzazione dei pastori, alle distanze culturali, generazionali, ambientali nelle quali
si svolge la vita reale delle persone. Di
quel messaggio di cui l’umanità ha bisogno per vivere più del pane arriva poco
o nulla. E questo comporta di per sé una
privatizzazione della fede e spesso un
impoverimento.
C’è bisogno di una conversione pastorale della Chiesa per papa Francesco.
Non semplicemente una ripuntualizzazione dottrinale in continuità col passato. Ci ha provato già Benedetto XVI,
e lo ha fatto con una sapienza e un’eleganza teologica che nessuno dei critici di
papa Francesco è in grado di riproporre.
Ma non è bastato. La sua rinuncia al ministero petrino non può aver riguardato
solamente alcuni esponenti di curia intenti ad approfittare e a condizionare il
papato e poi rivelatisi del tutto incapaci
di difendere l’istituzione ecclesiastica. La
crisi di autorità che si è prodotta è più
grave e non basta ristabilire – come la
parte minoritaria del Conclave avrebbe
inteso fare – un forte principio d’ordine
nella Chiesa per uscirne.
Nella notte degli uomini
C’è troppa distanza storica tra noi e
i Vangeli, una semplice conservazione
della tradizione (e poi quale delle molte
tradizioni del cristianesimo?) non basta
a ridire il Vangelo. La proposta deve
essere più radicale e più spirituale assieme. Quando nell’intervista alle riviste dei gesuiti Francesco afferma che le
riforme organizzative e strutturali sono
seconde e la prima riforma della Chiesa
deve essere quella dell’atteggiamento,
cioè della testimonianza dice questo.
«I ministri del Vangelo devono essere
persone capaci di riscaldare il cuore
delle persone, di camminare nella notte
con loro, di saper dialogare e anche di
scendere nella notte con loro, nel loro
buio senza perdersi». La notte dei sensi e dello spirito dell’uomo moderno, il
suo abbandono di Dio e il suo sentirsi
abbandonato da Dio, e la nostra incapacità come Chiesa e come cristiani di
saper vegliare anche solo un’ora con gli
uomini nel loro mistero umano. Questo
manca spesso alla nostra testimonianza.
Parlando a Rio de Janeiro, il 27 luglio 2013, ai vescovi brasiliani ha raccomandato la «grammatica della semplicità» come lezione che la Chiesa deve ricordare, «altrimenti disimpara il
linguaggio del mistero» e «si priva delle
condizioni che rendono possibile “pescare” Dio nelle acque profonde del suo
mistero». I linguaggi puramente precettivi e dottrinali ereditati sono indicati
tra i responsabili della disaffezione dei
credenti. A coloro che l’abbandonano,
«forse la Chiesa è apparsa troppo debole, forse troppo lontana dai loro bisogni,
forse troppo povera per rispondere alle
loro inquietudini, forse troppo fredda
nei loro confronti, forse troppo autoreferenziale, forse prigioniera dei propri
rigidi linguaggi» (nn. 1 e 3; Regno-doc.
15,2013,464.466)
E al Consiglio episcopale latinoamericano (CELAM), il giorno dopo, ha
detto: «Se rimaniamo nei parametri
della cultura di sempre, il risultato finirà con l’annullare la forza dello Spirito
Santo. Dio sta in tutte le parti: bisogna
saperlo scoprire per saperlo annunciare
nell’idioma di ogni cultura; e ogni realtà, ogni lingua ha un ritmo diverso»
(n. 3, Regno-doc. 15,2013,469). Dio ha
corso il rischio dell’umano, o, come si
esprime Ignazio di Loyola, «abita nelle
creature».
In una delle quotidiane omelie a
Santa Marta, il 19 giugno 2013, ha
stigmatizzato gli ipocriti della casistica,
i quali impediscono l’ingresso nel regno
di Dio agli altri: «Gesù lo dice: “Non entrate voi e non lasciate entrare gli altri”.
Sono eticisti senza bontà… Ti riempiono di precetti, ma senza bontà. Questi
sono gli ipocriti ai quali Gesù rimprovera tanto».
Con un fare processuale
Utilizzando le parole del teologo
francese Cristoph Theobald potremmo sintetizzare così lo stile nuovo, propriamente pastorale di papa Francesco
rispetto ai suoi immediati predecessori:
da un approccio cumulativo, unilateralmente preoccupato di dare ragione sempre, in ogni singolo punto della comunicazione, della riflessione e dell’annuncio
del contenuto dogmatico della fede a
una concezione processuale e relazionale, cioè storica, incentrata sull’offerta
del Vangelo di Dio che implica libertà
e soprattutto la capacità di apprendere
la creatività di coloro che comunicano
e coloro che ricevono (cf. Regno-att. 4,
2014,128s).
Francesco non abbandona la tradizione anche se non usa espressioni
come «figliolanza metafisica di Dio» o
«unione ipostatica con il Verbo eterno
di Dio». Espressioni che debbono essere
conservate. Ma bisognerà pur convenire
che chi accetta o cerca Gesù come suggello ultimo della propria speranza, costui è cristiano. Il linguaggio della misericordia non è ambiguo, non media tra i
valori. È espressione profonda della fede
perché manifesta l’economia trinitaria
di Dio. Per questo Francesco ha dedicato la sua esortazione apostolica (vera
enciclica) alla «gioia del Vangelo». Egli
ci dice che il Vangelo è ancora possibile
perché rivelando l’umanità di Dio tocca
il centro della nostra umanità e l’interrogativo che l’uomo è nella sua realtà incomprensibile ha ottenuto in Gesù una
risposta da entrambi i lati: quello della
grazia e quello della libertà.
Gianfranco Brunelli
Primo Concistoro
P a pa F r a n c e s co
i
l Vangelo della famiglia
La relazione Kasper e il dibattito
sulla comunione ai divorziati risposati
N
ella straordinaria prospettiva di rinnovamento generale della Chiesa cattolica allo scopo di
renderla sempre più fedele alla sua missione, così come è delineata nella Evangelii gaudium di papa Francesco, una priorità oltre che un
posto di particolare rilievo è stata data al problema del matrimonio e della famiglia.
Non si possono infatti affrontare
tutti i problemi insieme, sembra che
abbia detto questo papa riformatore. Vi sarà tempo per esempio per affrontare il problema dell’ordinazione
di uomini sposati oppure dell’apertura del ministero anche al mondo femminile. Quello che appare oggi più urgente, insieme al tema della riforma
della curia, è il problema della famiglia
e del matrimonio, come tema che riguarda assolutamente tutti e che sembra incontrare nel mondo di oggi particolari difficoltà.
A riflettere su questa tematica il
papa ha deciso di consacrare un intero Sinodo, che si svolgerà in forma
straordinaria nell’ottobre di quest’anno, e che si concluderà nell’ottobre del
2015, quando si prevede vengano prese delle decisioni che nella prospettiva
della collegialità e della comunione dovrebbero ottenere la maggioranza dei
consensi prima di essere avallate dallo
stesso papa Francesco.
Per giungere a qualche risultato
appaiono necessari un dibattito e una
riflessione che coinvolgano l’intera comunità cristiana. Così, per evitare che
questo dibattito si svolgesse in segrete
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stanze, escludendo l’insieme del popolo cristiano, è stato deciso di procedere con un ampio questionario, al quale
è stato risposto con grande partecipazione da episcopati, da comunità cristiane e da semplici fedeli di ogni regione del mondo. Nello stesso tempo, ben consapevole di tutte le resistenze che le proposte di cambiamento avrebbero incontrato, e della necessità di un lungo tempo di maturazione
per consentire un’autentica metànoia su tali questioni, il papa ha disposto che il dibattito venisse subito aperto nel Concistoro al quale ha partecipato un gran numero di cardinali, il
20 e 21 febbraio scorsi.
Incaricato dal papa di introdurre
il dibattito è stato il card. Walter Kasper, scelto per la sua lunga e complessa esperienza di teologo, di docente, di vescovo e di membro della curia romana. Tale relazione introduttiva, già resa nota con una anticipazione
su quotidiani, è stata in seguito pubblicata nella forma più completa e ufficiale in un opuscolo edito dalla Queriniana, che contiene infatti due appendici sulla «Fede implicita» e sulla «Prassi
della Chiesa dei primi secoli», la risposta dello stesso card. Kasper agli interventi dei cardinali e un epilogo relativo al «Cosa possiamo fare?».1
La relazione di Kasper
«La riscoperta del Vangelo della famiglia», e cioè della lieta novella di Gesù intorno alla famiglia, appare particolarmente importante – afferma il card. Kasper – nella crisi culturale e antropologica che attraver-
siamo attualmente, nella quale insieme a un gran numero di ottime famiglie cristiane vi sono tanti «che hanno
paura di fondare una famiglia o che
falliscono nella realizzazione del loro
progetto di vita».
Dopo questa premessa, nel primo
capitolo della sua trattazione lo stesso
Kasper riflette su «La famiglia nell’ordine del creato». Richiamandosi all’esperienza diffusa sin dall’antichità fra
tutti i popoli, considera la famiglia come di diritto naturale (cf. Rm 2,14s),
un diritto naturale che rende possibile
il dialogo con tutte le persone di buona volontà intorno al rispetto della dignità di ogni persona umana anche
nell’ambito della famiglia. Ciò che
è riconosciuto dal punto di vista del
cosiddetto diritto naturale, viene comunque interpretato in modo concreto nella rivelazione, grazie ai comandamenti della seconda tavola, che offrono indicazioni sul cammino per
una vita felice e realizzata, e soprattutto grazie ai due racconti della creazione (Gen cc. 1 e 2), che rivelano il
disegno di Dio sull’uomo e la donna,
creati a immagine di Dio e «donati da
Dio l’uno per l’altro».
La Bibbia comunque conosce la
situazione di peccato dell’uomo (Gen
3), che travolge anche i rapporti fra
l’uomo e la donna e quindi la stessa famiglia (c. II). Gesù assume tuttavia matrimonio e famiglia «nell’ordine cristiano della redenzione», per
cui l’alleanza stretta fra i coniugi diventa segno e sacramento dell’alleanza di Dio con il suo popolo che si è
compiuta in Gesù Cristo (c. III). «Co-
me sacramento, il matrimonio è sia
strumento di guarigione per le conseguenze del peccato, sia strumento della grazia santificante». Fa parte comunque della dignità della persona
umana il poter prendere decisioni definitive, che accompagneranno in modo permanente la storia della persona, anche se a esse si fosse venuti meno. Ciononostante, «grazie alla misericordia di Dio, per chi si converte sono possibili il perdono, la guarigione e
un nuovo inizio».
Il quarto capitolo, «La famiglia come Chiesa domestica», è il più originale e sorprendente. Gesù infatti «ci
dice che ogni cristiano, sposato o no,
abbandonato dal proprio partner o
cresciuto da bambino o da giovane
senza contatti con la propria famiglia,
non è mai solo o smarrito, è di casa
in una nuova famiglia di fratelli e sorelle (Mt 12,48-50; 19,27-29). Il Vangelo della famiglia si concretizza nella
Chiesa domestica». La Chiesa, famiglia di Dio, si è incarnata nei primi secoli proprio nelle Chiese domestiche,
che in forme diverse sono continuate
in tutte le epoche e fino a oggi. In esse
gli sposi si sostengono a vicenda nella
fede, ed educano nella fede i loro figli.
Qui si sviluppa un ampio discorso sulle comunità ecclesiali di base e
su tutte le forme similari, «Ecclesiolae in Ecclesia», nelle quali ci si nutre della parola di Dio, si può pregare insieme, e insieme vivere la domenica e le altre feste, restando sempre
nella comunione della grande Chiesa
e aprendosi all’accoglienza dei poveri e dei sofferenti. Pagine di grande interesse, che sembrano riflettere l’esperienza soprattutto dell’America Latina, e che indicano la via per il futuro
di una comunità ecclesiale in un mondo nel quale i cristiani si possono trovare in minoranza.
Infine, nel quinto capitolo viene
affrontato di petto «il problema dei divorziati risposati». Si tratta di un problema relativamente nuovo, che esiste dopo la introduzione del matrimonio civile nella legislazione degli stati moderni, a partire dall’epoca napoleonica. Esso deve essere affrontato nel contesto di una pastorale matrimoniale e famigliare globalmente
considerata. E tuttavia il card. Kasper
usa espressioni forti. «Tutti sanno che
esistono situazioni in cui ogni ragionevole tentativo di salvare il matrimonio risulta vano. L’eroismo dei coniugi abbandonati che rimangono soli e
vanno avanti da soli merita la nostra
ammirazione e sostegno. Ma molti
coniugi abbandonati dipendono, per
il bene dei figli, da un nuovo rapporto e da un matrimonio civile, al quale non possono rinunciare senza nuove colpe. Spesso, dopo le esperienze
amare del passato, queste relazioni
fanno provare loro nuova gioia, addirittura talvolta vengono percepite come dono dal cielo» (42).
Di fronte a questa situazione, non
si può venir meno alle parole del Signore sul matrimonio e alla tradizione
viva della Chiesa. E tuttavia, «a causa della fedeltà misericordiosa di Dio,
non esiste situazione umana che sia
assolutamente priva di speranza e di
soluzione». La Chiesa si trova oggi «in
una situazione simile a quella dell’ultimo Concilio. Anche allora esistevano, per esempio sulla questione dell’ecumenismo o della libertà religiosa,
encicliche e decisioni del Sant’Ufficio
che sembravano precludere altre vie.
Il concilio Vaticano II, senza violare
la tradizione dogmatica vincolante ha
aperto delle porte». Donde la domanda se anche in tale questione dei divorziati risposati, senza venir meno
alla tradizione di fede apostolica, non
si possano trovare delle nuove forme
di soluzione del problema.
Le due proposte
A partire da questo punto Kasper,
premettendo che non può esistere una
soluzione identica per tutti i casi, essendo questi molto differenziati fra loro, avanza due proposte di soluzione.
Una fa riferimento ai tribunali ecclesiastici e alla possibilità di riconoscere
che non può esistere il sacramento del
matrimonio, se viene contratto senza
fede e senza l’accettazione piena delle
caratteristiche essenziali del matrimonio, fedeltà e indissolubilità.
La seconda si richiama alla prassi
della Chiesa primitiva, che mediante
la penitenza pubblica offriva una seconda tavola di salvezza dopo il battesimo anche ai responsabili dei peccati più gravi, come gli apostati nella persecuzione (i lapsi) e gli adulteri,
e cioè coloro che dopo aver lasciato il
proprio coniuge entravano in un secondo matrimonio. Questa prassi viene testimoniata da diversi padri della
Chiesa, in particolare nella controversia con i novaziani, che escludevano
dalla comunione fino al letto di morte i responsabili dei peccati di apostasia, omicidio e adulterio. «Esisteva
dunque una pastorale della tolleranza, della clemenza e dell’indulgenza,
e ci sono buoni motivi perché questa
pratica contro il rigorismo dei novaziani sia stata confermata dal concilio
di Nicea del 325» (49).
Il tema viene ripreso e sviluppato
proprio nella seconda appendice, «La
prassi della Chiesa dei primordi», nella quale viene nuovamente richiamato il canone 8 di Nicea che esigeva dai
novaziani che intendevano essere riammessi nella Chiesa cattolica e apostolica di impegnarsi per scritto a essere in comunione (ecclesiale ed eucaristica, secondo il nostro linguaggio attuale) con coloro che vivono in
un secondo matrimonio e con coloro che sono caduti nella persecuzione,
una volta che hanno osservato il tempo della penitenza e sono stati riconciliati.
Questo canone è stato sempre conosciuto, ma è stato interpretato nella Chiesa latina come se la prassi della grande Chiesa (che il canone 8 suppone ben nota a tutti) concedesse la
reintegrazione nella comunità e la comunione agli apostati nella persecuzione e ai vedovi risposati, una volta
concluso il tempo di penitenza. Infatti gli unici che potevano vivere in seconde nozze, agli occhi di persone che
si trovavano in regime di cristianità e
in un’epoca nella quale l’unico matrimonio era quello celebrato in chiesa
(che evidentemente non veniva celebrato per un divorziato) potevano essere solo i vedovi risposati, per cui in
tutta la manualistica si è sempre ripetuto che i novaziani escludevano dalla
comunione apostati e vedovi risposati.
I nuovi novaziani
In realtà la situazione del primo
millennio era ben diversa, la celebrazione ecclesiale non era ancora conosciuta almeno nelle forme attuali,
i cristiani vivevano non solo in mezzo ai pagani ma anche in stretta relazione con gli ebrei, che ammette-
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vano divorzio e nuovo matrimonio.
E soprattutto, i documenti che possediamo relativi alla controversia novaziana ci dicono che essi escludevano dalla riconciliazione i responsabili
dei peccati più gravi, e cioè gli apostati nella persecuzione e gli adulteri (oltre che gli omicidi, citati molto raramente perché era un crimine fortunatamente quasi sconosciuto nell’antica
comunità cristiana). Per adulteri i novaziani però intendevano coloro che
sono definiti come tali nell’Evangelo
(«colui che ripudia il proprio coniuge e ne prende un altro, è adultero»;
«la persona ripudiata o divorziata che
si risposa è adultera»; «colui che sposa una persona ripudiata o divorziata è adultero», cf. Mt 5,32; 19,9; Mc
10,11; Lc 16,18), mentre non esistono
testimonianze che ci dicano che i novaziani definissero come tali i vedovi
risposati.
Per cui il canone 8 di Nicea è del
tutto chiaro nell’attestare, come prassi della Chiesa cattolica e apostolica,
ben conosciuta da tutti, il fatto che essa riammetteva nella comunità dopo il
periodo di penitenza gli apostati nella persecuzione e coloro che vivono in
un secondo matrimonio (e cioè in linea generale soprattutto, anche se forse non esclusivamente, i divorziati risposati).
Questo significa riconoscere alla Chiesa il potere di rimettere tutti i
peccati, compreso il gravissimo peccato definito come adulterio nell’Evangelo. Gesù ha ricordato come la monogamia assoluta sia conforme al disegno del Creatore, ma non ha mai dichiarato che questo peccato di adulterio debba essere considerato un pecca-
to contro lo Spirito Santo, non remissibile da chi nella Chiesa ha ricevuto il
potere di legare e di sciogliere, per cui
questo potere veniva a ragione rivendicato dalla Chiesa dei primi secoli. In
un’epoca nella quale anche per ragioni ecumeniche ci si richiama alla prassi del primo millennio, questa chiarificazione è essenziale.
È risaputo che il dibattito che nel
Concistoro ha fatto seguito alla introduzione di Kasper è stato quanto mai
acceso, e che nei confronti della soluzione proposta è stato sollevato un feroce fuoco di sbarramento, continuato
anche nei giorni successivi sulla stampa e in molte sedi diverse.
Per questo nelle «Considerazioni conclusive sul dibattito» Kasper si
è pronunciato con molta forza. «Nessuno mette in discussione l’indissolubilità di un matrimonio sacramentale rato e consumato». E tuttavia questo insegnamento deve essere compreso «in connessione con il messaggio di
Gesù dell’infinita misericordia di Dio
per chiunque si converte». E si deve tenere conto dell’intera tradizione della
Chiesa. «Nel nostro caso questa tradizione non è affatto così unilineare come spesso si è affermato».
La Chiesa non ha forse ricevuto da
Dio il potere di assolvere tutti i peccati? «Ci si deve piuttosto chiedere sul serio se noi crediamo realmente nel perdono dei peccati, come professiamo
nel Credo, e se crediamo realmente
che uno che ha commesso uno sbaglio,
se ne pente e non potendolo eliminare senza nuova colpa, fa però tutto ciò
che gli è possibile possa ottenere il perdono di Dio. E allora, possiamo noi rifiutargli l’assoluzione?» (68).
1 W. Kasper, Il Vangelo della famiglia, Queriniana, Brescia 2014.
2 G. Cereti, Divorzio nuove nozze e penitenza nella Chiesa primitiva,
EDB, Bologna 1977 (seconda edizione con nuova postfazione EDB, Bologna 1998; terza edizione Aracne, Roma 2013).
3 G. Cereti, Matrimonio e indissolubilità: nuove prospettive, EDB,
Bologna 1971. Richiamo questo lavoro perché in esso si possono già trovare le risposte a quasi tutte le obiezioni che vengono portate oggi nei
confronti della svolta pastorale chiesta da papa Francesco.
4 Nel momento in cui, dopo decenni di diffidenza e di emarginazione,
il buon fondamento di questa ricerca viene riconosciuto, mi viene spontaneo attestare il mio debito di riconoscenza a chi mi ha preceduto e aveva
ispirato questa ricerca. Il p. Edward Schillebeeckx, con il suo scritto sul
matrimonio nel quale affermava proprio che la Chiesa antica predicava
la monogamia e praticava la misericordia verso chi aveva fallito il suo
matrimonio. Dom Oliver Rousseau, che mi aveva indotto a riflettere sul
problema quando aveva scritto che la più grande difficoltà il giorno della
riconciliazione fra cattolici e ortodossi sarebbe stata offerta proprio dalla
diversa prassi seguita nelle due Chiese nei confronti dei divorziati risposati. E lo stesso p. Henri Crouzel, per il grande merito di avere raccolto
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Ringrazio il cardinal Kasper il quale, penso in conformità al desiderio del
papa, ha voluto citare proprio a proposito di questa prassi della Chiesa primitiva e del canone 8 di Nicea la mia
ricerca al riguardo,2 facendomi l’onore di metterla in dialogo con gli studi
di Crouzel e di Ratzinger.3 Personalmente sono grato al Signore per avermi concesso di vedere che viene preso
in seria considerazione il frutto di ricerche sulle quali in qualche modo ho
giocato tutta la mia vita4 e che, se riconosciute valide, dovrebbero consentire da una parte il riavvicinamento alla
prassi di altre Chiese cristiane e dall’altra il ritorno alla Chiesa e alla vita sacramentale di innumerevoli persone in
ogni parte del mondo.
Lo splendore del matrimonio monogamico che la Chiesa ha sempre riconosciuto ed esaltato rifulge maggiormente se non si difendono unioni
che con il loro fallimento evidenziano
il fatto che molto probabilmente non
erano state unite da Dio. Mentre il sacramento della riconciliazione a torto trascurato nel corso di questi ultimi
anni potrebbe ritrovare tutto il suo significato più profondo. Aggiungo infine che mi accompagna la speranza che
nessuno di quanti si oppongono oggi
alla svolta chiesta da papa Francesco
abbia a passare da una posizione novaziana solo materialmente (nella quale non vi è nessuna colpa a causa della
loro inconsapevolezza) a una posizione anche formalmente novaziana, negando il potere della Chiesa di rimettere tutti i peccati e rischiando così di andare fuori dalla comunione ecclesiale.
Giovanni Cereti
in un unico volume tutte le testimonianze relative al divorzio e al nuovo
matrimonio nella Chiesa antica. Egli si oppose per anni con forza alle mie
conclusioni, ma incontrandolo alla fine della sua vita si rammaricava che
non avessi continuato ulteriormente nelle mie ricerche, lasciandomi intendere che anch’egli aveva cambiato opinione al riguardo.
Mentre ricordo sempre un dialogo con i gesuiti p. Maurizio Flick e
p. Zoltan Alszeghy, nell’agosto 1970, mentre li riportavo in macchina a
Roma dopo avere partecipato a Galloro al mese ignaziano che essi avevano predicato. Colsi l’occasione per confrontarmi con loro intorno alla
posizione che avevo assunto in uno scritto che era pronto per la pubblicazione, nel quale esprimevo le mie critiche nei confronti del sistema dei
tribunali ecclesiastici (che non prevedeva nessun itinerario di conversione),
chiedendo di passare a un sistema penitenziale che potesse giungere ad
assolvere i divorziati risposati sinceramente convertiti e desiderosi di realizzare nella nuova unione ciò che non erano riusciti a realizzare nella prima. Uno di loro dopo avermi ascoltato mi investì con violenza per avere
fatto affermazioni insostenibili in campo cattolico. L’altro restò a lungo in
silenzio e poi intervenne, dicendo al confratello che forse avevo ragione e
incoraggiandomi ad andare avanti nella ricerca.
F
rancesco
P
- Religiosi
S
oluzioni al sole
er la prima volta il papa dedica un anno alla vita consacrata.
Dal 21 novembre 2014 (Giornata per la vita monastica) al 21
novembre 2015 (50° anniversario del decreto conciliare Perfectae caritatis) la Chiesa sarà sollecitata a valorizzare la particolare testimonianza dei religiosi e delle religiose (circa 900.000).
«Svegliate il mondo! Siate testimoni di un modo diverso di
fare, di agire, di vivere!»: con queste parole papa Francesco ha
indicato l’orizzonte e il compito dei consacrati nell’incontro
con l’Unione dei superiori generali (USG) del 29 novembre 2013.
Più della radicalità è la profezia a caratterizzare i consacrati: «La
radicalità evangelica non è solamente dei religiosi; è richiesta
a tutti. Ma i religiosi seguono il Signore in maniera speciale, in
modo profetico». E «la profezia del Regno non è negoziabile.
L’accento deve cadere nell’essere profeti, non nel giocare a esserlo».
Una forte accelerazione rispetto alla coscienza ecclesiale comune, che contrasta con la preoccupazione di custodire la ricchezza del passato messa in atto da Benedetto XVI in occasione
dell’Anno sacerdotale (19 giugno 2009 – 11 giugno 2010), in cui il
modello di riferimento è stato il curato d’Ars, Giovanni Maria Vianney, a 150 anni dalla nascita. Anno drammatico per l’accumulo
delle denunce sulla pedofilia del clero, che ha portato papa Benedetto a imputare al «nemico» l’aver tentato di oscure la «gioia
per il sacramento del sacerdozio», considerando quanto avvenuto come un compito di purificazione «che ci accompagna verso il
futuro e che, tanto più, ci fa riconoscere e amare il grande dono
di Dio» (Omelia a conclusione dell’Anno sacerdotale, 11.6.2010;
Regno-doc. 13,2010,386s).
Religiosi e religiose erano parte di quegli scandali e non si può
certo dire che siano successivamente mancati altri dolorosi episodi. In particolare attorno a due elementi. La gestione dei beni,
anzitutto, talora svolta con insufficiente vigilanza su faccendieri
non affidabili (come nel caso dei 125 milioni che i salesiani dovrebbero versare a eredi e mediatori di un lascito di alcuni decenni
fa; o le difficoltà di bilancio di strutture ospedaliere che hanno
coinvolto prestigiose famiglie come quelle dei concezionisti (Figli
dell’Immacolata concezione) o dei camilliani (Chierici regolari ministri degli infermi). In secondo luogo scandali o insufficienze che
hanno interessato fondatori di congregazioni o comunità recenti
(Villaregia, Beatitudini, San Giovanni, ecc.).
Insufficienze e scandali
Due vicende possono illustrare il percorso che lo scandalo o
l’insufficienza spingono a compiere: i Francescani dell’Immacolata
e i Legionari di Cristo (cf. Testimoni n. 3, marzo 2014, 38-45). I primi
sono stati fondati nel 1970 e nel 2012 contavano circa 400 fratelli e
altrettante suore, distribuiti in un centinaio di comunità. Dal 2013
hanno un commissario pontificio, p. Fidenzio Volpi, incaricato di
porre rimedio a limiti circa la formazione, il governo, la gestione
dei beni e l’inclinazione liturgica tradizionalista-lefebvriana. Le
prime reazioni interne sono state polarizzate e vivacemente critiche con discutibili derive nella difesa dell’immagine dei fondatori
(p. Stefano Manelli, p. Gabriele Pellettieri), nel trasferimento irregolare di beni immobili, nell’opera di disinformazione alimentata
grazie a siti, blog e pubblicazioni tradizionalisti, nel «familismo»
che si è attivato sul fronte femminile. Elementi che hanno spinto
il commissario a ricordare come l’intervento della suprema au-
torità sia finalizzato a «salvaguardare l’unità della stessa famiglia
religiosa e l’autenticità del suo carisma».
Assai più noto, drammatico e radicale lo scandalo che ha
travolto il fondatore dei Legionari, p. Marcial Maciel Degollado,
gravemente censurato dalla Santa Sede nel 2006 per comportamenti immorali (cf. Regno-att. 12,2006,368ss). Una faticosa opera
di paziente ricostruzione è stata seguita dal delegato pontificio,
il card. Velasio De Paolis e si è conclusa con il capitolo generale
(8 gennaio – 25 febbraio 2014) che ha visto il rinnovamento delle
cariche interne (nuovo direttore generale è p. Edoardo Robles Gil)
e la totale revisioni delle Costituzioni, ora sottoposte alla recognitio della Congregazione per gli istituti di vita consacrata. In un
comunicato il capitolo denuncia i «comportamenti gravissimi e
oggettivamente immorali» del fondatore. «A causa di questi fatti
e di queste circostanze, la nostra congregazione avrebbe potuto
dissolversi se non ci avessero accompagnati la misericordia di Dio
e la sollecitudine materna della Chiesa».
Molti progetti
Sono stati lunghi anni di esame di coscienza che hanno prodotto correzioni nell’ambito della formazione (una chiara separazione tra foro interno e foro esterno, fra ambito di coscienza e
regole di comportamento, fra confessione e direzione spirituale),
nella presa in carico delle vittime (sia del fondatore come di altri religiosi e consacrate), nell’architettura del governo. L’opera
rifondativa si è allargata ai consacrati (un centinaio) e alle consacrate (sette volte tante), giovandosi del patrimonio valoriale e
testimoniale del movimento laicale Regnum Christi, composto
da circa 45.000 laici, particolarmente attivi nelle università, nei
collegi e nelle opere apostoliche. Il card. De Paolis ammette: «Se
l’avessimo conosciuto subito sarebbe stato un elemento di grande rilevanza per bilanciare quanto succedeva nella Legione e fra
le consacrate». E conclude: «Maciel è alla fine un caso circoscritto
e la storia può continuare senza di lui».
Entrare nell’Anno della vita consacrata con una testimonianza
complessiva di grande significato e con casi in «via di soluzione»
rafforza i progetti. Gli obiettivi enunciati dal cardinale prefetto
del competente dicastero di curia, J. Braz de Aviz, sono così sintetizzati: «Fare memoria grata di questo recente passato» e cioè
dei decenni postconciliari; «Abbracciare il futuro con speranza»,
la crisi non è l’anticamera della morte ma un kairos; «Vivere il
presente con passione» testimoniando la bellezza della sequela
Christi. Numerosi gli incontri internazionali previsti e non meno
importanti i testi che sono stati annunciati: dalla revisione del
documento Mutuae relationes (del 1978, sui rapporti tra vescovi e religiosi) alla revisione dell’istruzione Verbi sponsa (del 1999,
per le comunità contemplative), da un documento sui religiosi
non chierici a degli orientamenti sulla gestione dei beni. Il vistoso
cambiamento di clima nella Congregazione per gli istituti di vita
consacrata rafforzerà il suo ruolo istituzionale. Del resto già intuito nell’incontro di papa Francesco con la Confederazione latinoamericana dei religiosi (CLAR): «Approfittate di questo momento
particolare nella vita della Congregazione per la vita consacrata...
È un momento di sole... Approfittatene!» (6.6.2013; Regno-doc.
15,2013,471).
Lorenzo Prezzi
Il Regno -
a t t u a li t à
6/2014
151
T3_Accompagnati:Layout 1 05/03/14 11.23 Pagina 1
Papa
Pentecostali
Accompagnati
dalle parole
di Papa Francesco
Via Crucis
A CURA DI PIER LUIGI CABRI
I
l tema della croce ritorna frequentemente in omelie, catechesi e interventi
di papa Francesco. Croce non significa
tristezza; al contrario: ogni cristiano è chiamato a portare un messaggio di speranza
e di fiducia nella vita, pur tra le grandi
prove e sofferenze che ciascuno attraversa.
Il sussidio propone un percorso lungo le
stazioni classiche della Via Crucis, accompagnati dalle parole del vescovo di Roma.
Messaggio
in video
è
una modalità insolita e moderna quella
scelta dal papa per inviare un messaggio all’assemblea di un gruppo pentecostale negli Stati Uniti, il 20 febbraio. Il messaggio è stato registrato in Vaticano il 14 gennaio con un cellulare da Anthony Palmer, un
pastore pentecostale che Francesco ha conosciuto in Argentina, e pubblicato il 20 febpp. 40 - € 2,50
braio, in italiano con sottotitoli in inglese,
sulla piattaforma di condivisione di video
T3_Reggi:Layout 1 5-03-2014 15:22 Pagina 1 on-line YouTube. Palmer, che risulta vescovo della Comunione delle Chiese evangeliche episcopaliane (non appartenente alla
Comunione anglicana) lo ha mostrato ai ministri pentecostali che partecipavano al raduno nel Tennessee, e ha introdotto il videomessaggio sottolineando l’importanza dell’unità tra i cristiani per predicare al mondo la
A CURA DI ROBERTO REGGI
salvezza in Cristo. Secondo il vescovo Palmer, le divisioni tra cattolici e protestanti
non hanno più ragione di essere dopo la Dichiarazione congiunta sulla dottrina della
giustificazione nel 1999.
Traduzione interlineare in italiano
Matteo
«Trovarci come fratelli»
I
l volume propone il testo originale in
lingua greca, la traduzione interlineare
italiana, il testo della Bibbia CEI a piè di
pagina con a margine i passi paralleli. Un
utile strumento di facilitazione e sostegno
per affrontare le difficoltà del greco e introdursi nel testo biblico.
«BIBBIA E TESTI BIBLICI»
pp. 112 - € 11,00
Il messaggio del papa sviluppa il tema
della fraternità tra le confessioni cristiane e
della nostalgia per l’unità. Eccolo trascritto integralmente: «Cari fratelli e sorelle, scusatemi
se parlo in italiano. Non parlerò in inglese ma
neanche in italiano, parlerò con il cuore. È una
lingua più semplice e più autentica, e questa
lingua del cuore ha un linguaggio e una grammatica speciale. Una grammatica semplice.
Due regole: ama Dio sopra tutto, e ama l’altro
perché è tuo fratello e tua sorella. E con queste due cose andiamo avanti. Io sono qui con
mio fratello, il vescovo fratello Tony Palmer.
Siamo amici da anni. Mi ha detto del vostro
raduno, e con piacere vi invio un saluto. Un
saluto gioioso e nostalgico. Gioioso perché
a me dà gioia che voi siete riuniti per lodare
Gesù Cristo l’unico Signore, e pregare il Padre per ricevere lo Spirito. Questo dà gioia
perché si vede che il Signore lavora in tutto
il mondo. Nostalgico perché… succede come
www.dehoniane.it
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Il Regno -
a t t u a li t à
6/2014
nei quartieri fra noi. Nei quartieri ci sono famiglie che si vogliono bene e famiglie che
non si vogliono bene, famiglie che si uniscono e famiglie che si separano. Siamo un po’
– permettetemi la parola – separati. Separati
perché i peccati ci hanno separato, tutti i nostri peccati. I malintesi nella storia, una lunga
strada di peccato comunitario. Ma chi ha la
colpa? Tutti abbiamo la colpa, tutti siamo
peccatori. Soltanto uno è il Giusto, il Signore.
Io ho la nostalgia che questa separazione finisca e ci dia la comunione. Io ho la nostalgia di quell’abbraccio, del quale parla la
sacra Scrittura, quando i fratelli di Giuseppe,
affamati, sono andati in Egitto per comprare,
per poter mangiare. Andavano a comprare,
avevano i soldi, ma non potevano mangiare
i soldi. Lì hanno trovato qualcosa di più del
pasto, hanno trovato il fratello. Tutti noi abbiamo dei “soldi”: i soldi della cultura, i soldi
della nostra storia, tante ricchezze culturali
e anche religiose, e abbiamo tradizioni diverse, ma dobbiamo trovarci come fratelli, e
dobbiamo piangere insieme, come ha fatto
Giuseppe. Quel pianto che unisce, il pianto
dell’amore.
Io vi parlo come un fratello, vi parlo così,
semplicemente, con gioia e nostalgia. Facciamo crescere la nostalgia, perché questo ci
spingerà a trovarci, abbracciarci, e a lodare
Gesù Cristo come unico Signore della storia.
Vi ringrazio tanto per avermi ascoltato,
vi ringrazio tanto per avermi lasciato parlare
la lingua del cuore. Vi chiedo anche un favore: di pregare per me, perché ho bisogno
delle vostre preghiere. Io prego per voi, lo
farò, ma ho bisogno delle vostre preghiere,
di pregare il Signore perché ci unisca tutti. E
avanti, siamo fratelli, ci diamo spiritualmente
questo abbraccio, e lasciamo che il Signore
finisca l’opera che ha incominciato. Perché
questo è un miracolo, il miracolo dell’unità
è incominciato. Dice uno scrittore italiano, il
Manzoni, dice questa frase in un romanzo –
un uomo semplice, del popolo, dice questa
frase: “Non ho trovato mai che il Signore
abbia incominciato un miracolo senza finirlo
bene”. Lui finirà bene questo miracolo dell’unità. Vi chiedo di benedirmi, e io vi benedico,
da fratello a fratello, un abbraccio. Grazie».
Il dialogo teologico ufficiale, iniziato nel
1972 tra la Chiesa cattolica (Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani)
e alcune Chiese pentecostali classiche (cattolici e pentecostali, insieme ai carismatici,
costituiscono circa il 75% di tutti i cristiani),
si trova attualmente nella sua sesta fase, dedicata a «I carismi nella Chiesa: il loro significato spirituale, discernimento e implicazioni
pastorali», che terminerà nel 2015 con un rapporto finale.
D. S.
Politica
I ta l i a
s
olo Renzi, Renzi solo
Lo scontro di potere dentro il PD
P
oteva svilupparsi diversamente il confronto inevitabile, terminato in uno
scontro di potere, all’interno del Partito democratico (PD), dopo la conquista della
segreteria da parte di Matteo Renzi,
attraverso la vittoria schiacciante alle
primarie di dicembre. Poteva. Anche
se, lo notarono in tanti allora, quelle
primarie non erano solo per la leadership del partito, ma contenevano già
tutta la spinta per la candidatura alla
premiership del paese.
Poteva. All’opposto infatti poteva
succedere che Enrico Letta guidasse un
nuovo esecutivo, prendendo finalmente atto che dopo l’andata all’opposizione di Berlusconi, la rinascita di Forza
Italia e la nascita del Nuovo Centro
Destra di Alfano, la sua maggioranza
aveva cambiato di segno, non era più il
«Governo delle larghe intese», né per
numero né per definizione politica. Più
piccola e sbilanciata sul PD, senza che
questo partito ne avesse ridiscusso il
profilo politico. La conseguenza ne fu
l’immobilismo, per debolezza politica
e rappresentatività.
Poteva. Ma Letta ha preferito continuare a traccheggiare, confidando
nella andreottiana durata per la durata. Quei 18 mesi di vita del Governo che ogni giorno si spostavano in
avanti, intatti e improduttivi. Se Letta
avesse preso l’iniziativa, anche in extremis, a inizio 2014, Renzi difficilmente
avrebbe potuto opporvisi. Ed era quel
che ci si attendeva. Poteva. Ma Letta
ha rinunciato, in tutti i passaggi politicamente significativi (dalla crisi ber-
lusconiana, alla lotta per la segreteria
dentro il PD), a difendere le ragioni
del suo esecutivo, facendone oggetto di
confronto politico dentro il PD e nel
paese, preferendo assumere la più comoda foggia del tecnico di stato, sotto
la copertura del presidente della Repubblica.
Poteva. Ma Renzi ha compreso che
il tempo per lui era breve. Dalla decisione circa la sua ricandidatura a sindaco di Firenze, alle rischiose elezioni
europee di maggio e alla consapevolezza che il centro della politica italiana,
soprattutto in una fase così precaria
per il paese, è a Palazzo Chigi e non a
Via del Nazzareno: tutto questo spingeva per una decisione subitanea, al
Il Regno -
a t t u a li t à
6/2014
153
limite dell’azzardo. Renzi ha preferito
giocarsi l’intera partita in una sola volta piuttosto che rischiare il logoramento e farsi intestare l’eventuale sconfitta
alla europee senza poter gestire alcuna
strategia riformatrice, magari con un
governo reticente, se non ostile. Anche
se, per far questo, ha accettato di pagare il prezzo politico che anche il suo
Governo non passasse dalle elezioni.
Un craxiano,
non un berlusconiano
Così è maturata l’idea di prendere
l’iniziativa politica, dapprima scavalcando il Governo e gestendo direttamente l’accordo con Berlusconi sulla
riforma della legge elettorale (18 gennaio), poi, affiancato da un generale
movimento di sfiducia nei confronti
dell’azione dell’esecutivo e di richiesta
di un passaggio di mano (che ha coinvolto sindacati, Confindustria, ANCI,
gli stessi alleati nella maggioranza), liquidando il governo stesso.
Il 13 febbraio, Renzi ha proposto
alla direzione del PD la sfiducia a Letta. Letta avrebbe potuto decidere di
dimettersi dopo il lungo incontro tra
Renzi e Napolitano del 10, seguito dal
suo breve incontro con lo stesso Napolitano dell’11. Ha preferito presentare
una sorta di progetto di rilancio del
suo esecutivo la sera del 12, a tempo
scaduto, e farsi sfiduciare il 13 dalla
stragrande maggioranza del suo stesso
partito, opposizione interna compresa.
Quella di Renzi si può qualificare
come una operazione craxiana. Simile
a quella del 1976 sul partito, cui seguì
solo nel 1984 la conquista del Governo. L’approccio politico, lo stile di
Renzi è più simile a quello di Craxi che
a quello di Berlusconi. Dalla conquista
del partito alla conquista del governo.
A differenza di Craxi – ma il contesto,
i soggetti e l’equilibrio delle forze sono
diversi – con una velocità supersonica. A differenza di Craxi senza una
spiegazione politicamente adeguata a
giustificare e argomentare il perché di
questa accelerazione.
Fuori da una sufficiente giustificazione politica, la necessità di questo
passaggio traumatico ha derubricato
la natura della svolta di Renzi a puro
scontro di potere (e personale) dentro
il PD, lasciando dietro a sé una lunga
scia di rancori e di odi destinati a rie-
154
Il Regno -
attualità
6/2014
mergere. Come Craxi, egli non se ne è
dato pena più che tanto.
Interprete di un cambiamento generazionale epocale, trasformato dal conservatorismo delle vecchie classi dirigenti in una vera e propria rivoluzione
che ha travolto molte figure dell’establishment, Renzi ha fatto della «rottamazione» la cifra simbolica della sua azione politica e del suo comportamento, a
tratti eccessivamente non-istituzionale
e guascone. Egli punta tutto sulla costruzione di una leadership solitaria,
nel partito e nel paese. Per questo nella
stessa formazione del suo Governo ha
scelto una squadra di ministri (tranne
il ministro dell’economia Padoan, voluto da Napolitano) che non gli faccia
ombra e ha centralizzato e rafforzato il
ruolo del presidente del Consiglio dei
ministri, facendolo somigliare più a un
premierato. Solo Renzi.
Di corsa,
in solitudine
Lo scontro di potere in atto nel PD
non si è spento. Anzi, a pochi giorni
dal varo del nuovo Governo, i gruppi
antirenziani (ex diessini, ex popolari,
lettiani, civatiani), d’intesa con i partiti minori, hanno cercato di battere il
premier in Parlamento sull’approvazione della legge elettorale concordata
con Berlusconi. La battaglia innescata
sul nobile motivo della rappresentanza paritaria tra generi aveva lo scopo
primario di fare saltare l’accordo con
Berlusconi e rimettere tutto in questione.
All’opposto, per difendere quell’accordo si sono ascoltate motivazioni di
cattiva lega. Il problema di quell’accordo – politicamente rilevante e tale
da descrivere due diverse maggioranze in Parlamento: quella di governo e
quella sulle riforme istituzionali, tendenzialmente conflittuali –, consiste,
come è stato acutamente osservato da
Arturo Parisi, nello scambio tra rappresentanza e governabilità. Si riconosce a Berlusconi il diritto di nomina dei
propri parlamentari e il potere politico
sul suo campo in cambio della governabilità attraverso una competizione
di tipo bipolare a doppio turno.
Quell’accordo così pesante sul piano democratico è figlio dei niet della
Corte costituzionale, che ha negato
legittimità al referendum che voleva
abrogare quella legge che essa stessa ha poi dichiarato incostituzionale.
Quell’accordo reso inevitabile vede
al momento vincitori Berlusconi e i
leader dei partiti confederati, di fatto
garantiti dalle candidature multiple
previste dalla legge.
Renzi ha vinto per soli 11 voti. Ha
superato il confronto con l’opposizione
interna al partito. Ma sa di essere solo:
il PD si è nuovamente diviso. Senza
Berlusconi non ce l’avrebbe fatta. Si
tratterà ora di capire se il passaggio al
Senato è reale e il premier intenda forzare rapidamente anche in questo caso
o se, all’opposto, il Senato è il parcheggio per un provvedimento che, se non
venisse approvato anche nella seconda
camera, di fatto sarebbe inservibile.
Renzi ha avviato la sua carriera politica correndo. Credo che sia costretto
a continuare a farlo, sapendo che tutti,
dall’Italia all’Europa, avversari compresi, sono costretti a fare il tifo per lui,
perché se si ferma siamo perduti.
Gianfranco Brunelli
Analisi sociali
E u ro pa - I ta l i a
l
a «Grande Incertezza»
L’
insicurezza è come una
nebbia densa, che accompagna la nostra vita quotidiana. Ci permette di procedere e, a volte, si alleggerisce un po’. Ma incombe. Grava su
di noi.
È l’immagine evocata dalla lettura dei diversi e accurati piani di analisi utilizzati nel VII Rapporto sulla sicurezza e l’insicurezza sociale in Italia e in
Europa.* In ambito europeo, in particolare, il clima d’opinione rivela un’insicurezza diffusa e pesante, ma non
nella stessa misura dell’ultimo anno.
E, soprattutto, non distribuita in modo
omogeneo.
L’Europa, diversamente
insicura
Anche se i problemi che inquietano la società, nei paesi considerati,
ricalcano il profilo degli ultimi anni.
Riguardano, infatti, in grande prevalenza, il lavoro, il reddito familiare e
lo sviluppo. La disoccupazione, anzitutto, poi l’economia, il costo della vita. Le tasse. Insieme vengono indicate come prima fonte di preoccupazione da oltre 7 persone su 10 in Italia e
in Francia e da oltre 6 in Spagna. Ma
da quasi la metà anche in Gran Bretagna. Solo in Germania i problemi
economici sollevano meno timore nella popolazione (coinvolgono, infatti,
circa una persona su tre). Gran Bretagna e, soprattutto, Germania sono,
dunque, i paesi meno scossi dall’insicurezza economica. E ciò ne riflette
la posizione sui mercati e la condizione sociale, meno squilibrata e più so-
Pe rc e z i o n e d e l l a s i c u r e z z a
nel VII Rapporto dell’Osservatorio europeo
IL DECLINO DEL CETO MEDIO IN ITALIA
Secondo lei, oggi, la sua famiglia a quale classe sociale appartiene?
(valori percentuali – serie storica)
59,5
47,9
49,7
44,3
41,7
7,5
7,7
51,5
41,1
28,2
11,7
2006
2008
PRIMA
INIZIO
della crisi
della crisi
Bassa/Medio Bassa
2011
DURANTE
la crisi
Media
5,9
2014
OGGI
Alta/Medio Alta
Fonte: Osservatorio europeo sulla sicurezza,
sondaggio Demos & Pi-Pragma per Fondazione Unipolis, gennaio 2014 (n. casi: 2016).
lida. A questo proposito, in particola- mi, delle migrazioni, per recarsi in un
re, è interessante rammentare un arti- paese dove gli spazi per l’impiego e le
colo della Frankfurter Allgemeine Zei- tutele sociali sono deboli?
tung, pubblicato a fine 2013, che de- In generale, però, l’immigrazione
finisce la Germania come «l’isola dei non presenta grandi motivi di inquiebeati», le cui condizioni sociali ed eco- tudine, rispetto agli anni precedenti.
nomiche, rispetto ad altri stati euro- Ancora meno il problema a cui essa
è stata, spesso, associata: la criminalipei, la rendono «un mondo a parte».
Più degli altri paesi, però, Germa- tà. Entrambe, immigrazione e (in minia e Gran Bretagna appaiono perva- nor misura) criminalità, appaiono più
se da timori riguardo lo stato dei servi- sentite in Germania e Gran Bretagna.
zi sociali (tradizionalmente efficiente) e Non a caso, in quanto si tratta dei pa0,7 8,6
l’immigrazione. Indicatore di crescita84,8 esi dove le preoccupazioni5,9economie di sviluppo. Perché mai gli immigra- che risultano meno diffuse e condivise.
Gennaio
ti se
ne dovrebbero andare da casa lo- Il polo meno insicuro di un’Europa diro e 2014
affrontare i disagi, talora i dram- versamente insicura.
83,8
Dicembre
6,9 1,1 8,2
Il Regno -
a t t u a li t à
6/2014
155
PRIORITÀ ED EMERGENZE SECONDO I CITTADINI IN EUROPA
Quali sono, secondo lei, i due problemi più importanti che il suo paese deve affrontare in questo momento? (valori percentuali)
ITALIA
La disoccupazione
La situazione economica
Le tasse
Il costo della vita, l’aumento dei prezzi
L’inefficienza e la corruzione politica
La criminalità
L’immigrazione
Il deterioramento ambientale
La qualità del sistema sanitario
La qualità della scuola
Il terrorismo
Nessuno di questi
Non sa / non risponde
Totale
FRANCIA
GRAN
BRETAGNA
GERMANIA
SPAGNA
Prima
scelta
Prima +
Seconda
scelta
Prima
scelta
Prima +
Seconda
scelta
Prima
scelta
Prima +
Seconda
scelta
Prima
scelta
Prima +
Seconda
scelta
Prima
scelta
Prima +
Seconda
scelta
49.4
11.6
8.0
4.1
17.6
1.1
1.1
0.6
2.0
2.2
0.5
1.0
0.7
100.0
69.7
27.7
25.5
13.4
30.3
7.0
3.4
1.9
8.3
6.4
1.3
–
–
–
37.4
14.3
8.3
14.0
6.8
2.6
3.8
2.6
3.7
5.2
0.8
0.4
0.1
100.0
54.1
28.6
21.9
31.3
16.2
7.4
8.0
7.6
8.7
13.0
2.4
–
–
–
12.0
15.0
1.6
19.7
8.0
4.3
14.0
2.0
11.1
3.8
3.4
1.7
3.4
100.0
25.5
25.1
6.0
36.4
15.2
11.2
26.3
4.4
25.2
9.4
7.9
-–
–
11.7
6.1
5.0
10.9
9.1
3.7
10.5
11.0
10.2
17.4
1.7
1.1
1.6
100.0
21.4
11.8
10.7
19.7
16.0
8.4
18.1
21.7
21.3
29.1
3.3
–
–
–
47.2
12.3
1.1
2.3
30.3
0.2
0.1
0.3
2.5
2.3
0.3
1.0
0.1
100.0
71.3
26.2
3.5
8.1
56.2
2.9
1.8
1.1
12.2
10.2
2.2
–
–
–
Fonte: Osservatorio europeo sulla sicurezza,
sondaggio Demos & Pi - Pragma per Fondazione Unipolis, gennaio 2014 (n. casi: 5000).
Il lato oscuro della politica
Su polo opposto, in Europa, si collocano, invece, l’Italia e la Spagna. Paesi scossi dalla crisi economica in modo
particolarmente violento, dove, peraltro, il disagio prodotto dal mercato e dal
(non) lavoro è moltiplicato dal malessere – specifico – suscitato dall’incertezza politica. La politica: costituisce una
causa specifica di insicurezza, in questi
due paesi in particolare. Fonte prima di
preoccupazione per quasi il 18% degli
italiani (che sale al 30%, se si considera
anche la causa secondaria). Ma motivo
principale di angoscia per il 30% degli
spagnoli, che si allarga di altri 25 punti
percentuali, se si considera anche il secondo fattore indicato dagli intervistati.
È il lato oscuro della politica, corrotta e inefficiente. Il problema che scuote la società dei paesi mediterranei. Italia e Spagna su tutte. La politica. Non
più considerata e percepita come un
problema in sé, ma come moltiplicatore
della crisi. Perché concorre ad alimentare le difficoltà interne ai paesi. E perché, in ambito internazionale e sui mercati, la stabilità e la credibilità dei governi, ma anche dei sistemi politici nazionali, costituiscono specifici fattori di
crisi. Anche se le ragioni che spingono
in questa direzione sono, in parte, diverse. In Italia l’insicurezza politica deriva dall’instabilità, aumentata dopo le
elezioni legislative del 2013 che hanno
sancito la divisione dell’elettorato in tre
grandi minoranze poco coerenti e com-
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patibili. E hanno, inoltre, visto l’emergere di una forza alternativa al sistema
partitico e alla stessa democrazia rappresentativa: il Movimento 5 stelle guidato da Beppe Grillo. In Spagna, invece, il clima di insicurezza politica origina da una serie di scandali che hanno
coinvolto l’ex tesoriere del Partito popolare, arrestato per corruzione e finanziamento illecito, ma anche la famiglia
reale.
La «Grande Incertezza»
Da qui si origina la «Grande Incertezza» che pervade una parte della società europea. E la società italiana, in
particolare. La perdita dei riferimenti di
valore, istituzionali, normativi che fornisce la politica. Rende il clima d’opinione deluso, ma ancor di più: disorientato. Lo sottolineano e dimostrano, in modo esplicito, le diverse indagini condotte dall’Osservatorio, in Italia, nell’ultimo anno. Anche se, considerati nell’insieme, i principali indici di insicurezza
non mostrano una crescita particolare,
rispetto all’ultimo anno. L’insicurezza
economica, globale, «criminale»: fanno
osservare un lieve arretramento in confronto alla fine del 2012. Anche l’insicurezza assoluta, che comprende e riassume coloro che esprimono indici elevati di inquietudine in tutte le direzioni, si
contrae un poco. La quota di popolazione coinvolta scende dal 41% al 36%.
Peraltro, osservando i titoli dei Tg italiani di prima serata la quota di notizie
sull’insicurezza rilevata quest’anno risulta la più bassa (16%) da quando è stato avviato questo Osservatorio.
Tuttavia, più che di un cambio di
tendenza, si tratta di una sorta di assestamento, dopo lo choc dell’anno passato. Quando la «scoperta» della crisi economica aveva investito e traumatizzato gran parte della società. Quest’anno
il trauma pare essere stato metabolizzato. In una certa misura, dato per scontato. Non certo assorbito, tanto meno accettato. Gli indici di insicurezza, infatti, restano molto elevati. I più elevati da
quando viene condotta questa ricerca.
Ad eccezione, appunto, dell’anno scorso. Il 2012, infatti, ha costituito un anno
di svolta, impressa dalla crisi economica
globale, che è rimbalzata anche in Italia,
in modo violento, sul piano della condizione, ma anche della percezione. Creando un clima d’opinione teso, che si è
assestato e riprodotto. Rispetto al 2009,
a un anno dall’avvio della crisi, il grado
di intensità delle preoccupazioni dei cittadini, è, infatti, cresciuto molto.
Oggi la perdita del lavoro viene ritenuta un rischio vero – per sé e per la
propria famiglia – da quasi il 50% delle
persone intervistate. Cioè, oltre 12 punti
in più. Si tratta di una sensazione fondata. Nell’ultimo anno, infatti, il 27% degli italiani intervistati afferma che qualcuno, in famiglia, ha perduto il lavoro. Il
43% degli italiani, inoltre, sostiene che
qualcuno, nella sua famiglia, ha cercato
occupazione inutilmente.
La perdita della pensione, invece, è
temuta dal 44% delle persone, cioè 16
punti percentuali in più rispetto al 2009.
Fra i reati contro il domicilio e la proprietà, invece, il caso più significativo è
sicuramente quello dei furti in appartamento, che preoccupa frequentemente una quota significativa della popolazione: 31%. Cioè, un paio di punti meno di un anno fa, ma quasi il doppio del
2009. D’altronde, è fra i reati cresciuti maggiormente, in termini reali, come
registrano le statistiche giudiziarie. Ed è
fra quelli che hanno maggiore impatto
sul sentimento sociale, visto che tocca e
minaccia il domicilio, cioè la sfera privata e familiare. La sensazione di fondo è
che, come negli ultimi anni, le preoccupazioni economiche abbiano modificato
a fondo la percezione delle persone. Fino a definire una visione radicata e generale, un frame che dà significato alla
realtà che ci circonda. Senza più specifiche distinzioni. In altri termini: l’insicurezza è divenuta un rumore di fondo e al
tempo stesso una prospettiva, una chiave di lettura. Come un paio di occhiali
che indossiamo e oscurano, deformano
quel che osserviamo. Senza che, quasi,
ce ne accorgiamo. Salvo scoprirci in un
mondo diverso, profondamente cambiato in pochi anni.
La società che scivola
verso il basso
La nostra posizione sociale, ad
esempio, ha subito un sostanziale «slittamento» verso il basso. Nel 2006 quasi il 60% degli italiani si autocollocava – e definiva – tra i ceti medi. Il 28%
nelle classi popolari (i ceti medio-bassi).
L’11% nelle classi più elevate. L’Italia
media aveva le sue basi più ampie tra i
lavoratori autonomi (70%), le radici nel
Nord.
Poi è arrivata la crisi. Economica e
politica. Ha sbattuto contro le basi del
ceto medio. Come altrove. Anche negli
USA, d’altronde, come mostrano le indagini del Pew Research Center, l’incidenza di coloro che si considerano ceti
medi, dal 53% nel 2008, è calata al 44%
nel 2014. Poco più di quanti si identificano nei ceti più bassi: 40%. Quasi il
doppio rispetto al 2008. Anche e forse
soprattutto per questo motivo Obama
ha promosso il suo piano di incentivi alle
retribuzioni dei dipendenti pubblici. Per
alimentare i consumi, ma anche l’iden-
tità – e l’ascensore – sociale. Per contrastare il senso di deprivazione relativa che
spinge verso il basso le aspettative di mobilità sociale.
In Italia, però, questo processo è avvenuto in modo molto più rapido e, soprattutto, profondo e sostanziale. Oggi, infatti, si è realizzato il sorpasso. La
maggioranza assoluta degli italiani si
sente parte della classe medio-bassa. I
ceti medi sono minoranza. Poco più del
40%. Così, l’Italia non è più cetomedizzata. È un paese popolare, in preda ai
populismi. E non è un caso che questa
dinamica abbia coinvolto in modo particolarmente rilevante le basi e il terreno originario della neoborghesia. I lavoratori autonomi: meno del 40% di essi si considera ceto medio. La stessa misura del ceto medio che si osserva nel
Nord. La cui distanza sociale, rispetto
al Mezzogiorno, sotto questo profilo,
appare molto ridotta.
Peraltro, è diffusa la sensazione che
questo ridimensionamento generale delle condizioni e delle aspettative di mobilità sia avvenuto in modo rapido e profondo. Circa l’85% degli intervistati ritiene che le disuguaglianze sociali in Italia, negli ultimi anni, si siano allargate.
Due anni fa questa opinione era condivisa dal 76%. Quasi 10 punti di meno.
Difficile, in questo scenario, distinguere specifiche responsabilità. Cause definite da isolare. Ma anche «capri
espiatori». Così, l’immigrazione continua a suscitare preoccupazione e diffidenza. In misura elevata. Ma lo straniero non è più l’«Uomo nero» su cui caricare e scaricare le nostre paure. Anche
la percezione della criminalità comune resta elevata, ma non più di un tempo. E, comunque, come abbiamo visto,
comparativamente, non costituisce un’emergenza pari ad altre. A quelle economiche, ad esempio.
È la «Grande Incertezza» che incombe su di noi. E rende difficile orientarsi. Perché non ha nomi né volti definiti. Salvo uno, forse, che nell’ultimo anno ha sovrastato gli altri. Fino a divenire
il Nemico. Lo Straniero, più ostico e lontano di ogni altro. Il Politico, il mondo
della politica. Le istituzioni stesse. Così, in testa alla graduatoria delle nostre
preoccupazioni quotidiane, incontriamo
«l’instabilità politica». Guardata con sospetto e inquietudine dal 68% degli italiani. Mentre la fiducia dei cittadini ver-
so le istituzioni di governo, in Italia, risulta la più bassa in Europa. Che si tratti
dello stato o degli enti locali. Della stessa
Unione Europea. Non c’è paragone con
gli altri paesi. Non solo con la Germania, dove la confidenza con le istituzioni
è fuori portata. Altissima. Ma perfino in
Spagna si osservano atteggiamenti verso
i governi e le istituzioni meno risentiti e
ostili che in Italia.
La rappresentazione offerta dai media, peraltro, ha assecondato questa tendenza. Ha, cioè, contribuito alla messa in scena della «Grande Incertezza».
E del suo principale artefice e responsabile.
Una narrazione grigia
e senza protagonisti
Così, lo spazio dedicato alla criminalità si è, complessivamente, ridotto.
Anche se rimane elevato, in rapporto
alle principali emittenti europee. Ma
soprattutto, sono cambiati il format, la
narrazione. Negli ultimi anni, infatti,
la criminalità era stata sceneggiata e riproposta, sui media, soprattutto attraverso i grandi casi, le grandi storie. I
processi che non finiscono mai. I delitti irrisolti, trattati come fiction e riproposti, rilanciati, da un notiziario a un
talk pop, del pomeriggio o di seconda
serata. Più di recente, invece, si è assistito alla rappresentazione dei delitti in
modo seriale. Diversi delitti e crimini
riuniti intorno a titoli di grande presa.
Anche perché riflettono drammi e questioni sociali effettivamente rilevanti. Le
violenze sulle donne, raccolte e riproposte sotto l’etichetta del femminicidio.
I suicidi degli imprenditori e dei lavoratori, oppressi dai debiti e dalla situazione del mercato. Oggi questi serial, questi casi criminali, sono scomparsi. Comunque, hanno perduto la rilevanza
del passato recente. E i crimini, i delitti,
i reati violenti scivolano nei notiziari secondo un flusso continuo. Quasi un fruscio di fondo, che produce e riproduce
la colonna sonora della «Grande Incertezza» in cui siamo immersi.
Così, l’unico vero soggetto su cui si è
concentrata l’attenzione dei media, nel
racconto della nostra incertezza quotidiana, è, appunto, la politica. Coerentemente con gli orientamenti dei cittadini. Pardon: degli spettatori. Perché è
difficile scacciare l’impressione di una
certa asimmetria fra gli orientamenti
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L’ANDAMENTO DELLE DISUGUAGLIANZE IN ITALIA
Secondo lei, in Italia, le differenze tra chi ha poco e chi ha molto negli ultimi dieci anni sono…
(valori percentuali – serie storica)
84,8
5,9 0,7 8,6
83,8
6,9 1,1 8,2
Gennaio
2014
Dicembre
2012
76,5
13,5
2,2 7,8
Gennaio
2012
Molto aumentate o Aumentate
Non sa/Non risponde
Rimaste come prima
Diminuite o Molto diminuite
Fonte: Osservatorio europeo sulla sicurezza,
sondaggio Demos & Pi-Pragma per Fondazione Unipolis, gennaio 2014 (n. casi: 2016).
sociali e mediali. Fra la percezione dei
cittadini e la rappresentazione dei media. O meglio, le tendenze che si osservano nella percezione sociale sui Tg appaiono enfatizzate. In particolare, per
l’attenzione dedicata alla politica, che
occupa gran parte dei palinsesti dei
Tg nazionali: il 26% nel 2013, mentre
nei due anni precedenti copriva circa il
20%. Naturalmente, il 2013 è anno di
elezioni politiche, il cui risultato ha generato un clima, appunto, di incertezza – e di tensione. Solo in Spagna, non
a caso, il peso della politica, o meglio,
dell’antipolitica ha assunto dimensioni
altrettanto, e perfino più, rilevanti che
in Italia.
L’analisi delle prime pagine dei
principali giornali europei conferma e
rafforza questa rappresentazione. Aggiungendo alcuni elementi specifici, determinati dal pubblico e dal linguaggio
del medium. Si ripropone, comunque,
l’importanza prioritaria della politica,
che, fra i temi, è al primo posto, in Europa, per numero complessivo dei titoli, e quindi degli articoli, che le vengono riservati. Subito dopo, viene l’economia. Il che riflette il nesso fra i due
contesti, economia e politica, rilevato
nell’opinione dei cittadini e nei servizi televisivi, nei commenti della stampa. In questo caso, tuttavia, risulta decisiva la differenza geopolitica. Allo spazio della politica, infatti, contribuisce in
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larga misura la stampa italiana. Mentre l’economia conta di più altrove. In
Spagna e in Francia, soprattutto. L’Italia, peraltro è il contesto dove la politica estera incontra minore attenzione.
L’interesse dei media, invece, si concentra quasi per intero sulla politica nazionale.
Dunque, lo spazio della politica,
nelle preoccupazioni degli italiani, è
cresciuto durante il 2013. Ma sui media ancor di più. Sui Tg e sui quotidiani
nazionali. Per due ragioni, soprattutto.
La prima: la contiguità fra la stampa, i
Tg (in particolare) e la politica. Perché
l’influenza della politica sui media e dei
media sulla politica è rilevante, anche
se molto diversa (fra testata e testata, fra
TV e giornali). La seconda: perché l’incertezza politica, l’insofferenza verso
la politica costituiscono uno «spettacolo» attraente, nel senso che attrae l’interesse popolare. Tanto che è divenuto
il centro di molte trasmissioni di approfondimento e di dibattito.
La politica, peraltro, appare moltiplicatore dell’insicurezza, in quanto,
con le sue iniziative, contrasta con il
«senso comune». Per esempio in materia di indulto e amnistia, iniziative che
incontrano decisa opposizione fra i cittadini. Contrari, in proposito, in larghissima maggioranza (oltre due terzi). In modo trasversale: da destra a sinistra.
Il futuro? È passato
Così, il ruolo e il peso della crisi economica, nella rappresentazione della
nostra angoscia quotidiana, ha perduto
centralità, forza esplicativa, soprattutto
nel nostro paese. Mentre gli atti e gli attori criminali hanno perduto visibilità,
salienza. E il ri-sentimento sociale si è
rivolto, di conseguenza, in direzione diversa e inversa. Lo schema narrativo si
è quasi rovesciato: crisi politica Z crisi economica Z insicurezza sul futuro.
Già, il futuro. È pressoché scomparso.
Si è perso, anch’esso, nella nebbia della «Grande Incertezza» in cui siamo affondati. Da cui è difficile guardare lontano, immaginare il domani o, peggio,
il dopodomani. Ne è prova la crescente attenzione suscitata dai giovani, dal
loro destino – incerto. Non a caso, nei
Tg di prima serata, i giovani hanno ottenuto un buon grado di attenzione. Infatti, sono state dedicate loro circa 200
notizie, concentrate in larga misura sul
tema della disoccupazione e del lavoro precario. A conferma dell’immagine «pubblica» assunta dalla generazione giovanile: precaria e senza futuro.
D’altra parte, non a caso, i due terzi degli italiani pensano che, per fare carriera, l’unica speranza, per i giovani, sia
di andarsene all’estero. Nel 2008 questa opinione era condivisa da meno della metà degli italiani. Il nostro futuro, in
altri termini, non è più qui. Ma altrove.
È un altro segno della «Grande Incertezza» che oscura e abbassa il nostro
orizzonte. Perché se l’unica speranza
per i giovani, in un paese dove i giovani sono demograficamente quasi in via
di estinzione, è andarsene, allora il futuro, per quel paese, il «nostro paese»,
è passato. E noi rischiamo, per questo,
di procedere immersi e costretti in un
eterno presente. Condannati, per forza,
alla «Grande Incertezza».
Ilvo Diamanti
* Osservatorio europeo sulla sicurezza, La Grande Incertezza. Rapporto sulla sicurezza e l’insicurezza sociale in Italia e in Europa. Significati, immagine e realtà. Percezione, rappresentazione sociale e mediatica della sicurezza. Il
Rapporto è un’iniziativa di Demos & Pi, Osservatorio di Pavia e Fondazione Unipolis ed è diretto
da Ilvo Diamanti. Giunto alla VII edizione, è stato reso pubblico lo scorso febbraio con un «Commento» dello stesso prof. Diamanti che qui riproduciamo, ringraziandolo per il suo consenso, insieme ad alcune delle tabelle.
Rapporti ecumenici
Russia
d
al prestigio all’influenza
N
el maggio 1799 l’arcivescovo Lorenzo Litta,
nominato ambasciatore
straordinario in Russia
due anni prima, venne
espulso e dovette lasciare Sanpietroburgo, a causa del fallimento del negoziato con lo zar in merito all’Ordine di Malta. Nel viaggio verso Roma
sostò a Venezia, prefigurandosi si trattasse di una «vacanza» temporanea, e
che presto si sarebbe ristabilita la sede
diplomatica in Russia ed egli vi sarebbe stato richiamato. Con l’elezione di
Pio VII l’anno successivo le sorti personali del Litta presero definitivamente la via di Roma. Quelle della nunziatura in Russia segnarono una vacanza diplomatica che durò fino ai giorni
nostri, quando mons. Francesco Colasuonno (1990) venne inviato in qualità
di delegato apostolico e poi, il 9 dicembre 2009, vennero ristabilite le relazioni diplomatiche tra Federazione russa
e Santa Sede e mons. Antonio Mennini riconosciuto nunzio apostolico.
La Chiesa ortodossa, la Chiesa cattolica
e i progetti di una nazione in rapido movimento
e Chiesa ortodossa russa è profondamente cambiata negli ultimi dieci anni. Dalle reazioni di parte ortodossa,
irritate per la erezione delle nuove diocesi (2002) e per la conduzione irruenta del primo metropolita a Mosca (Tadeusz Kondrusiewicz), si è passati a tre
inviti formalmente rivolti dal patriarca
Cirillo all’arcivescovo Pezzi.
Da entrambe le parti si riconosce
che il momento è positivo, addirittu-
ra senza precedenti nella storia. Non si
sentono più ripetere le accuse di proselitismo rivolte ai cattolici, non perché
la Chiesa cattolica abbia rinunciato o
sminuito la sua azione pastorale, ma
perché nel frattempo – soprattutto negli anni di Cirillo – la Chiesa ortodossa
si è sentita più sicura, più forte e anche
per questo meno minacciata. La Chiesa cattolica non trova motivo, in questo rasserenamento dei rapporti, per
Cattedrale di Cristo Salvatore, Mosca.
Duecentodieci anni dopo
La Chiesa cattolica ha imparato a
non avere fretta nelle terre russe, e ad
accettare che la situazione possa cambiare, anche repentinamente, e perfino
capovolgersi. Uno stile di marcia che
vale anche per i rapporti ecumenici. Se
parli di incontro fra papa Francesco e
il patriarca Cirillo, dagli ortodossi come dai cattolici ti senti dare più o meno la stessa risposta: «Ci vuole tempo...
Le cose devono maturare con calma...
Se Dio vuole si farà». Intanto la situazione dei rapporti fra Chiesa cattolica
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sollevare difficoltà. La Chiesa ortodossa, per parte sua, riconosce nella Chiesa cattolica un alleato prezioso in quello che considera il suo obiettivo pastorale e culturale primario: un’azione ad
ampio raggio per la salvaguardia dei
valori cristiani nella società russa ed
europea ancor più, dove il patriarca
Cirillo denuncia una sorta di «disarmo
spirituale delle masse. È una tendenza
incredibilmente pericolosa».1
Una Chiesa in crescita
Il patriarca sta lavorando alacremente alla ricostruzione del tessuto
della Chiesa ortodossa russa. Stima
che il suo ambizioso progetto non abbia precedenti nella storia. Ilarion Alfeev, metropolita di Volokolams e presidente del Dipartimento per le relazioni esterne del Patriarcato di Mosca, descrive in termini calorosi la fioritura della Chiesa ortodossa: «All’inizio del XXI secolo la Chiesa ortodossa
è una confessione religiosa in dinamico incremento in tutto il mondo. Cresce il numero dei fedeli ortodossi in
Russia, Ucraina, Bielorussia, Moldavia, Romania, Serbia, Albania e in altri paesi, dove in precedenza dominava l’ateismo, vengono restaurate e costruite nuove chiese, aumenta il numero dei monasteri, sorgono nuovi istituti di formazione religiosa. A differenza
di molte comunità cristiane occidentali, la Chiesa ortodossa non soffre di
“crisi vocazionale”: migliaia di giovani
scelgono la strada del sacerdozio e del
servizio alla Chiesa. Le chiese ortodosse sono piene di persone di tutte le età,
compresi bambini e giovani».2
Particolarmente vivace la situazione in Russia: «Il processo di costruzione, riapertura e restauro di molte chiese – prosegue Alfeev – conferma anche
oggi la perenne attualità dell’ortodossia, la sua vitalità ed energia spirituale. Le Chiese in Russia e negli altri paesi ortodossi sono piene, e i fedeli ortodossi che sono costretti a lasciare i loro
paesi creano nuove comunità religiose
all’estero. ... Molte chiese in Occidente lamentano la mancanza di sacerdoti e una graduale diminuzione del numero di parrocchiani. Invece la Chiesa
ortodossa è una delle poche confessioni cristiane il cui numero è in costante crescita e in cui il numero dei sacerdoti sta aumentando. Nella sola Chie-
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sa russa in 15 anni il numero dei sacerdoti si è moltiplicato fino a raggiungere
le 27.000 unità, e sono migliaia i giovani che studiano nei seminari e nelle accademie teologiche».3 Le voci di strada
raccontano una quotidianità più modesta, ma resta il fatto che il Patriarcato di Mosca ha presentato il progetto
per la costruzione di 200 nuove chiese
nella sola area metropolitana.
Il card. Silvestrini diceva che ai cattolici è sufficiente la libertà di poterle
costruire le chiese, perché, nel caso di
comunità povere, possono contare sugli aiuti internazionali («cattolici», appunto). Una Chiesa nazionale che intende costruire 200 nuovi edifici di culto ha un bisogno essenziale dell’aiuto
da parte dello stato, sia per l’edificazione sia per la gestione. Se per la ricostruzione morale il Patriarcato cerca
l’alleanza della Chiesa cattolica, per la
ricostruzione ecclesiastica cerca l’appoggio del governo. E lo trova grazie
alle zone di prossimità con la prospettiva del ristabilimento della «Grande
Russia», cara al presidente Putin.
Credito e consenso
In ordine al ricupero di prestigio, il
patriarcato interpretato da Cirillo non
disdegna qualche tratto sfarzoso (fino
all’«incidente» del costoso orologio ritoccato in foto).4 Ma punta soprattutto
sulle forme di dilatazione effettiva della
propria area di influenza. Come l’incremento accelerato al numero dei vescovi
sotto la giurisdizione del Patriarcato. O
le azioni per mantenere entro il proprio
ambito di influenza una parte dei vescovi ucraini.5 Oltre alla provvista della cura pastorale per le comunità locali, è probabile rientrino in una strategia
preparatoria al Santo Sinodo panortodosso, che si dà per imminente ormai
da vent’anni.6 Presentarsi con un corpo ecclesiale robusto dà maggiore forza
sia nel dirimere la lunga diatriba con il
Patriarcato Ecumenico sulla competenza di convocazione, sia successivamente nella elaborazione delle decisioni durante l’assise. Vale la regola (non scritta, ma di forte tradizione) del consensus.
Il dilemma per Cirillo è che se si impone con gesti di autorità rischia il consensus, se scende a compromessi per avere consenso svilisce la propria autorità.
Mosse che richiedono l’appoggio almeno indiretto delle autorità politiche, le
quali, peraltro, in netta perdita di consenso, gradiscono poter esibire la compiacenza della Chiesa.
«Negli anni dopo la svolta del 1989
la Chiesa aveva goduto di un grande prestigio sociale; ora cerca sempre
più di trasformare questa stima anche
in una concreta influenza sociale», diceva su questa rivista il prof. Thomas
Bremer.7 «Lo dimostra chiaramente il
tentativo d’introdurre l’insegnamento
della religione nelle scuole. (...) Un altro esempio è il tentativo di influenzare e determinare la discussione pubblica su molti temi».
Altra priorità è assunta nei confronti della situazione sociale. «Il forte calo del tenore di vita [durante gli
“sconvolgimenti” del secolo scorso]
per russi, ucraini, bielorussi e altre persone che vivevano nella ex Unione Sovietica, ha posto in modo drammatico
al nostro paese e al popolo il problema
della povertà», ha detto il patriarca Cirillo ricevendo in udienza lo scorso dicembre il card. K. Koch. «La questione, per grazia di Dio, è risolta, e vediamo che il tenore di vita è in crescita, soprattutto in Russia; ma in alcuni luoghi persistono sacche di povertà,
perciò nella nostra predicazione teniamo sempre conto di questi problemi. Il
tema della giustizia sociale, il problema degli squilibri economici, lo sviluppo delle opere di beneficenza e del servizio sociale della Chiesa sono al centro della nostra attenzione».8
Trasformare il prestigio in influenza può comportare un costo al cambio.
I fedeli possono sviluppare ammirazione per una Chiesa che sa esercitare la
propria influenza fino a condizionare
il potere politico, ma nello stesso tempo sviluppare simpatia per lo stile contromano di papa Francesco, visto come uomo genuinamente evangelico,
che sta improntando la riforma della
vita della struttura ecclesiale a essenzialità, sobrietà e trasparenza. Le critiche al papa non trovano terreno fertile. Anche i media parlano con favore di quanto sta avvenendo nella Chiesa cattolica: un papa che rinuncia e il
suo successore che imprime un registro
profondamente riformatore sono giudicati una sorpresa apprezzata e proposti ad esempio.
Il rapido accrescimento del numero di vescovi, preti, diaconi e monaci
lascia il dubbio che si siano allargate le
maglie della selezione. Ai tempi del regime ci pensava la durezza della situazione civile a scoraggiare le vocazioni.
Oggi sono di nuovo le condizioni sociali a «incoraggiare» l’ingresso in vocazione. È vero che ci sono molte persone nei monasteri, che qualcuno s’è
dovuto allargarlo. Altrettanto vero che
la realtà conferma i dubbi e, al di là
degli scandali sussurrati, sono troppi i
monaci che hanno trovato scampo nella vita religiosa contemplativa alla minaccia della povertà, dell’insicurezza,
dell’estrema fragilità psicologica.
Cattolici, cambio di registro
La Chiesa cattolica rappresenta
con i suoi fedeli una piccola minoranza (lo 0,5% della popolazione) e tuttavia è fatta segno di un apprezzamento
dell’opinione pubblica che va oltre le
sue risorse numeriche. C’è consapevolezza della propria esiguità e, per contro, rispetto per il valore statistico, storico e culturale della Chiesa ortodossa.
Consapevolezza della propria insufficienza: lo schema latino non basta per
interpretare il mondo intero, nemmeno l’Oriente europeo.
È stata molto apprezzata dalle autorità civili la lettera inviata da papa
Francesco al presidente Putin in occasione del G20,9 e in particolare l’attenzione riservata alla situazione siriana.
Continua ad esserci diffidenza verso i
cattolici negli ambienti monastici, ma
le posizioni non sono più omogenee.
Non era piaciuto a Mosca che papa Benedetto XVI avesse fatto cancellare dall’Annuario pontificio il titolo di
«patriarca d’Occidente», attribuendovi l’intenzione di non voler accettare
una limitazione geografica del suo primato. È apprezzato invece papa Francesco che, da subito, ha voluto privilegiare il suo titolo di «vescovo di Roma».
Nel campo delle relazioni ecumeniche c’è particolare fermento. Già si accennava alla prospettiva di dare effettivamente corso all’incontro tra il patriarca di Mosca e il «vescovo di Roma». Un incontro desiderato, con mille
distinguo, da entrambe le parti. Si tratterebbe di un evento la cui portata va
oltre il significato simbolico: imprimerebbe una tonalità nuova al dialogo fra
le due confessioni cristiane e potreb-
be anche liberare le arterie del dialogo
da quelle sclerosi, quei sedimenti che lo
minacciano di trombosi improvvise.
Di particolare rilievo il confronto sul primato nella Chiesa universale.10 Costituisce un punto di contrasto fra la Chiesa ortodossa russa e la
Chiesa cattolica. La prima non si riconosce nel cosiddetto Documento di
Ravenna,11 e in particolare «esprime il
suo disaccordo con la parte del testo
in cui si parla di sinodalità e di primato nella Chiesa universale». L’articolazione argomentata della posizione del
Patriarcato di Mosca ha suscitato una
risposta (non proprio pacata) del Patriarcato Ecumenico.12 In essa si rimprovera alla Chiesa di Russia di «scegliere il suo isolamento sia dal dialogo teologico con la Chiesa cattolica romana sia dalla comunione delle Chiese ortodosse».
Durante il già citato incontro con
il card. Koch, il patriarca Cirillo, a
quanto ha riferito il Patriarcato, ha
«accennato al fatto che nella vita della Chiesa ortodossa russa degli ultimi
anni c’è qualcosa di simile a ciò che sta
accadendo nella Chiesa cattolica, soprattutto a seguito dell’elezione di papa Francesco. Il papa sottolinea l’importanza e il ruolo del Sinodo dei vescovi. Ha creato un Consiglio di cardinali che lo aiuta ad affrontare i problemi della Chiesa. Nella Chiesa ortodossa russa è stato costituito, in aiuto al
patriarca, il Consiglio ecclesiastico supremo, composto dai capi di tutti i dipartimenti della Chiesa. Inoltre, qualche anno fa, è nato un nuovo organo
di governo della Chiesa russa, l’Amministrazione interconciliare».
«È composta da vescovi, sacerdoti
e laici. È l’organo che prepara i documenti più importanti, che vengono poi
adottati del Concilio, o dal Sinodo della nostra Chiesa; ma prima questi documenti devono essere discussi a livello di tutti i credenti, – ha detto il patriarca –. Mandiamo i testi in tutte le
diocesi, con la richiesta di darci opinioni, pubblichiamo tutto su Internet. Riceviamo migliaia di correzioni e commenti, che cerchiamo di inserire, entro
limiti ragionevoli, nei documenti. Infine, grazie alla discussione all’assemblea plenaria dell’Amministrazione interconciliare, poi al Sinodo, al Concilio dei vescovi, otteniamo documenti
che hanno un grande sostegno popolare».
«Come sua santità ha sottolineato –
prosegue il comunicato del Patriarcato
–, l’Amministrazione interconciliare è
uno strumento che serve alla sinodalità, in quanto aiuta la Chiesa ortodossa
russa, nelle condizioni di vita del tempo moderno, a prendere decisioni che
sono supportate dalla maggioranza dei
fedeli. “Perciò seguiamo da vicino come si sviluppa il tema della sinodalità
e del primato nel dialogo tra la Chiesa
cattolica e le Chiese ortodosse”».13
È ancora necessaria una pazienza
«orientale», quasi zen, ma si può confidare nel luogo comune che «a Mosca
tutti diventano filosofi».
Marcello Matté,
Francesco Strazzari
1 Cf. l’omelia di Natale, riportata in sintesi
da Avvenire-Catholica 8.1.14, 14.
2 I. Alfeev, La Chiesa ortodossa. Vol. 1.
Profilo storico, EDB, Bologna 2013, 339ss.
3 Ivi.
4 Cf. T. Bremer, «Non perdere l’armonia.
L’ortodossia tra governo e opinione pubblica»,
in Regno-att. 14,2012,447.
5 Va anche tenuto conto che la maggioranza dei vescovi più in vista nella Chiesa ortodossa
russa sono di origine ucraina. Sull’acuirsi della
crisi tra Ucraina e Russia e sul ruolo delle Chiese, cf. in questo numero a p. 162.
6 «Se il Signore lo benedice, nel 2016, le
Chiese ortodosse s’incontreranno per dire, con
una sola bocca e un solo cuore tutto quello che
oggi pensano sulla propria vita e attività, sul loro modo di affrontare i problemi più importanti», ha dichiarato il patriarca Cirillo in un’intervista rilasciata alla televisione russa e riportata
anche sul sito ufficiale del Patriarcato. Lo ha riferito la Radio Vaticana l’11 marzo scorso, dopo
l’incontro preparatorio tenutosi al Fanar (Istanbul) dal 6 al 9 marzo tra i primati delle Chiese ortodosse autocefale, presieduto dal patriarca ecumenico Bartolomeo.
7 Cf. nota 4.
8 Il card. Kurt Koch, presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei
cristiani, si è recato in Russia dal 14 al 19 dicembre scorso. Le parole di Cirillo sono riportate sul sito ufficiale del Dipartimento delle relazioni esterne del Patriarcato di Mosca (che ha
una sezione in italiano) https://mospat.ru/it,
nella sezione «Il ministero del patriarca».
9 Datata 4 settembre 2013; cf. Regno-doc.
17,2013,514.
10 La recente Posizione del Patriarcato di
Mosca sul problema del primato nella Chiesa universale (26.12.2013) è pubblicata in Regno-doc.
3,2014,121ss.
11 Commissione mista internazionale
per il dialogo tra la Chiesa cattolica romana e la Chiesa ortodossa, Le conseguenze
ecclesiologiche e canoniche della natura sacramentale della Chiesa, in Regno-doc. 21,2007,708ss.
12 Anche questo testo è pubblicato in Regno-doc. 3,2014,125ss.
13 Cf. nota 8.
Il Regno -
attualità
6/2014
161
Ucraina
Russia
L’
Crisi politica,
crisi ecclesiale
annessione della Crimea alla Russia, in
seguito al referendum del 16 marzo
scorso, rischia di far perdere alla
Chiesa ortodossa russa lo strettissimo rapporto che l’ha sempre legata alla Chiesa ortodossa ucraina, e che deriva da un lato dal fatto storico che la sede originaria del Patriarcato russo è Kiev, e dall’altro dal dato numerico:
l’Ucraina a livello ecclesiastico esprime poco
meno della metà delle parrocchie di tutto il
Patriarcato di Mosca (13.000 contro le 15.000
russe), e produce circa il 60% del clero ortodosso russo, compresi numerosi vescovi.
Con una popolazione di 44.300.000 abitanti,
di cui circa l’80% si dichiara cristiano ortodosso, l’Ucraina è il più grande paese a maggioranza ortodossa dopo la Russia. Il timore del
Patriarcato di Mosca nasce dalla costatazione che di fronte al rischio, poi verificatosi, di
una frattura nell’unità nazionale, le Chiese del
paese hanno dimostrato di dare più valore
all’appartenenza nazionale che alla giurisdizione canonica.
In Ucraina – e con una grande visibilità
in tutte le manifestazioni di Euro Maidan a
Kiev nei mesi di gennaio e febbraio (cf. Regno-att. 2,2014,15) – sono presenti quattro
giurisdizioni ecclesiastiche: la Chiesa grecocattolica, guidata dall’arcivescovo Sviatoslav
Shevchuk; la Chiesa ortodossa ucraina – Patriarcato di Mosca, sotto la giurisdizione canonica del Patriarcato di Mosca e guidata dal
3 marzo dal metropolita filo-russo Onufrij
Berezovskij come locum tenens di Vladimir,
gravemente ammalato; la Chiesa ortodossa ucraina – Patriarcato di Kiev, guidata dal
metropolita Filarete Denysenko, scomunicato da Mosca; e la Chiesa autocefala (indipendente) ucraina, guidata da Mefody Kudriakov, erede della Chiesa ortodossa «oltreconfine», che in questo caso non si è ricongiunta con Mosca (cf. Regno-att. 8,2001,217). Le
ultime tre realtà, la cui separazione risale al
1991, quando l’Ucraina divenne indipendente
dall’URSS, negli ultimi tempi hanno cominciato a parlare di una possibile riunificazione.
E il sostegno che Cirillo, patriarca di Mosca,
ha dato all’annessione della Crimea da parte
162
Il Regno -
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di Putin gli ha alienato il credito di una gran
parte della popolazione cristiana ortodossa
ucraina.
In una prospettiva più ampia, queste vicende si riflettono sugli equilibri messi in
movimento dall’annuncio, emerso dalla sinassi dei patriarchi ortodossi che si è tenuta a Costantinopoli dal 6 al 9 marzo, che nel
2016 si celebrerà il grande Concilio panortodosso, nel quale l’ortodossia si confronterà sui temi del primato e dell’autocefalia.
Se le tre Chiese ortodosse ucraine si dovessero riavvicinare o – a maggior ragione – riunire, un patriarcato ucraino riunificato potrebbe avanzare la richiesta dell’autocefalia,
cioè dell’autonomia sia dal Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli sia dal Patriarcato
di Mosca, e un esito come questo ridisegnerebbe la mappa dell’intera ortodossia. Ma in
base alle regole in vigore, perché sia riconosciuta l’autocefalia una Chiesa dev’essere riconosciuta tale dalla Chiesa madre, dal Patriarcato Ecumenico e da tutte le altre Chiese locali.
Un patriarcato ortodosso riunificato sarebbe un passo verso la riunificazione anche con la Chiesa greco-cattolica, che sin
dai tempi del precedente arcivescovo maggiore, il card. Lubomyr Husar, prefigurava
la costituzione a Kiev di un patriarcato unico di tutte le Chiese ucraine (cf. Regno-att.
22,2008,735).
L’unità sopra tutto
Per monitorare lo sviluppo delle posizioni assunte dalle diverse parti, raccogliamo le
principali dichiarazioni intervenute tra la fine
di febbraio, con i primi movimenti dell’occupazione russa della Crimea, e i giorni immediatamente successivi al referendum.
22 febbraio. Il Sinodo della Chiesa ortodossa ucraina – Patriarcato di Kiev pubblica
un Appello alla Chiesa ortodossa ucraina –
Patriarcato di Mosca sull’urgenza di superare le divisioni della Chiesa ortodossa in
Ucraina.
24 febbraio. Il Sinodo della Chiesa ortodossa ucraina – Patriarcato di Mosca sotto-
scrive un appello al Governo, in cui condanna il bagno di sangue e sottolinea l’importanza di «costruire un nuovo paese sui principi
del bene e della giustizia, dell’integrità territoriale e del consolidamento della società»,
e dichiara la sua collaborazione per mantenere l’integrità dello stato ucraino: «Dobbiamo conservare una sola Ucraina unita per le
future generazioni. Nell’attuale situazione di
grave crisi sociale, dobbiamo fare ogni sforzo per mantenere la pace religiosa in Ucraina». Il Sinodo della Chiesa ortodossa ucraina – Patriarcato di Mosca dichiara contestualmente la propria disponibilità al dialogo
con le altre due Chiese ortodosse del paese,
e decide la formazione di una Commissione
ufficiale per il dialogo con i loro rappresentanti.
26 febbraio. Il Consiglio delle Chiese e
delle organizzazioni religiose dell’Ucraina
(AUCCRO) pubblica una dichiarazione in cui i
rappresentanti delle Chiese dichiarano la loro disponibilità a lavorare con il nuovo governo, condannano ogni tentativo di dividere l’Ucraina e sottolineano l’importanza di
preservare la pace religiosa nel paese.
2 marzo. Il metropolita Onufrij invita il
patriarca Cirillo di Mosca a fare il possibile
per evitare spargimenti di sangue in Ucraina.
Riferendosi alla possibilità che la Russa invii le
sue truppe nell’ex repubblica sovietica, parla
di «conseguenze catastrofiche per entrambi
i paesi» e definisce la situazione come «la più
difficile della storia recente» del paese.
18 marzo. In un’intervista al Journal du
Patriarcat de Moscou, il metropolita Onufrij afferma: «Il mio augurio, come vescovo
che esercita il suo ministero in seno alla Chiesa ortodossa d’Ucraina, è che la Russia faccia tutto quello che è possibile per mantenere l’integrità territoriale dell’Ucraina. In caso
contrario, si creerà una ferita sanguinante nel
corpo della nostra unità, che sarà molto difficile da guarire e che colpirà dolorosamente le
nostre relazioni e i nostri reciproci contatti».
19 marzo. Il Santo Sinodo della Chiesa
ortodossa russa in una dichiarazione fa appello alla conservazione dell’«unità di fede e fratellanza dei popoli che sono nati da
un unico fonte battesimale» (Russia, Ucraina
e Bielorussia). «I confini della Chiesa non sono determinati da preferenze politiche, differenze etniche e nemmeno da confini statali. La Chiesa preserva la sua unità a dispetto
di tutte le circostanze in cambiamento. Allo
stesso tempo è di primaria importanza che il
popolo della Russia storica possa preservare
i valori sui quali la civiltà cristiana è stata costruita, valori che ci hanno consentito di erigere il nostro glorioso passato e, crediamo,
rendono possibile un futuro degno».
D. S.
G
ran
B r e tag n a - S c i e n t o l o g y
N
R
eligione e spazio pubblico
el dicembre scorso la Corte suprema britannica ha emesso una
sentenza nella quale si riconosce de iure, da un lato, il diritto di
registrare un matrimonio avvenuto in un preciso «luogo di culto» di Scientology (si tratta «della chiesa situata al 146 di Queen Victoria
Street» a Londra) nell’apposito registro comunale e, quindi, di dare anche valore legale secondo la legge britannica al suddetto matrimonio;
e, d’altro lato, si apre de facto (almeno a livello della percezione dell’opinione pubblica) al riconoscimento di Scientology come comunità religiosa.1 All’appello presso la Corte suprema si era giunti poiché gli officiali del «Registro generale delle nascite, morti e matrimoni» avevano
rifiutato in precedenza la trasposizione legale del matrimonio sulla base di una sentenza del 1970 emessa, in prima istanza, da una Corte distrettuale e poi confermata in sede di Corte d’appello.
Alla base di entrambe le sentenze (1970 e 2013) sta il Places of Religious Worship Act del 1855 (PRWA), e la sua interpretazione da parte
della giurisprudenza odierna, in quanto «rappresenta il documento legislativo che riguarda il caso in merito e che rimane, a tutt’oggi, ancora
ampiamente in vigore». Nella sentenza del 1970 il peso cadeva sulla
definizione di «un luogo di incontro per il culto religioso», cui conseguiva il fatto che il suo «uso principale è quello di essere un luogo in cui
la gente si riunisce insieme come gruppo o assemblea per riverire Dio.
Non è necessario che si tratti del Dio del culto cristiano; può essere un
altro Dio, o un Dio sconosciuto, ma si deve trattare della venerazione
di una divinità», da un lato. D’altro lato si osservava che «il credo della
Chiesa di Scientology sembrerebbe essere più una filosofia dell’esistenza dell’uomo o della vita, piuttosto che una religione».
Ora la Corte suprema britannica chiarisce che il riconoscimento
legale di matrimoni celebrati nelle sedi di Scientology è «inevitabilmente condizionato dal fatto se essa debba essere considerata una
religione»; annotando che la definizione di «culto religioso» inscritta
nella sentenza del 1970 «comportava al suo interno un’implicita definizione teista della religione», e che le direttive del PWRA «devono essere interpretate in accordo con la comprensione odierna della religione
e non facendo riferimento alla cultura del 1855». L’articolazione della
sentenza mostra non solo la necessità della giurisprudenza odierna di
ampliare la nozione di religione in modo tale che essa possa corrispondere effettivamente ai fenomeni in atto in cui essa è implicata; ma
anche la difficoltà a trovare una metodologia adeguata a ciò che non
si basi su procedure di inferenza analogica rispetto alle religioni tradizionali e meglio ancorate nel sistema legale del paese.
In ogni caso, data la natura propria del sistema giuridico anglosassone, la Corte suprema britannica non ha potuto rinunciare alla stesura quantomeno di una «descrizione» della religione, sulla base della
quale potesse poi elaborare dei criteri di giudizio in merito al caso in
questione: «Descriverei religione, sommariamente, come un sistema di
credenze spirituali o non-secolari, professato da un gruppo di aderenti,
che sostiene di spiegare il posto dell’uomo nell’universo e la sua relazione con l’infinito; e che insegna ai suoi aderenti come essi devono vivere le loro vite in conformità alla comprensione spirituale associata a
questo sistema di credenze. Con spirituale o non-secolare intendo un
sistema di credenze che va al di là di quello che può essere percepito
coi sensi o constatato attraverso l’uso delle scienze». Pur accogliendo
tutta la buona intenzione, e il realismo giuridico qui in esercizio, non ci
si può non chiedere se questa dilatazione dei criteri non apra la porta
alla rubricazione di tutta una serie di fenomeni che di religioso hanno
ben poco (la soglia fra religione e paranormale sembra essere qui ben
più che sottile).
Metamorfosi e paradossi
Se usciamo dal caso specifico, quello del riconoscimento di Scientology come comunità religiosa e della validità civile dei matrimoni
celebrati nei suoi luoghi di culto, la vicenda e il travaglio di questa sen-
tenza sono esemplari delle metamorfosi della religione dopo la fine
della modernità, da un lato, e della difficoltà dello stato costituzionale democratico a organizzare un nuovo sistema di relazione pubblica
con la «religione trasformata», che circola in maniera sempre più ampia
anche nei territori tradizionalmente presidiati dalle grandi tradizioni
religiose, dall’altro.
Ma è anche il segno di uno dei paradossi che stiamo attraversando
attualmente: la secolarizzazione dello spazio pubblico ha prodotto un
effetto di fuoriuscita della religione che, non più vincolata ai canoni
argomentativi richiesti alla sua rappresentanza all’interno di esso, ha
potuto via via distillarsi sempre di più nella forma di una «pura fede»
irrelata a qualsiasi mediazione culturale (O. Roy). Mentre, d’altro lato,
le istituzioni preposte al governo e alla pacifica convivenza di quello
spazio devono escogitare soluzioni sempre più dilatate per cercare di
contenere e regolare i fenomeni della religione che intercettano comunque la socialità in cui tutti viviamo. La soluzione della modernità,
che aveva affidato al diritto il compito di regolare la questione religiosa, sembra trovarsi oggi in una condizione di affanno; costringendo il
diritto stesso a farsi carico di compiti che non sono propriamente suoi
(nella salomonica decisione della Corte, quantomeno quello di «descrivere» che cosa sia una religione).
Eppure è proprio al diritto che dibattito pubblico, filosofia e teologia dovrebbero guardare. Se lo facessero con attenzione si accorgerebbero che la «religione» sta completamente scappando loro di
mano; proprio perché la secolarizzazione non ne ha affatto decretato
la fine, ma ne ha favorito invece – se non quasi prodotto – una radicale
trasformazione. Le metamorfosi della religione, che appaiono in tutta
la loro evidenza nei nuovi movimenti religiosi e nel neo-fondazionalismo tanto delle religioni tradizionali quanto della cultura laica, sono
oramai una realtà interna anche alle classiche forme della religione
istituita, così come l’abbiamo conosciuta ed ereditata dalla modernità.
Ed è forse proprio qui che si giocherà la partita più importante
per dare forma a una nuova e coerente relazione fra spazio pubblico e religione, alla quale le istituzioni del governo della cosa pubblica e quelle della politica dovrebbero guardare con attenzione non di
maniera e accompagnare con interesse. In Europa neanche le Chiese
cristiane sono a tutt’oggi immuni da questo processo di ridefinizione
della religione al loro stesso interno; e la sfida che esse hanno di fronte
è probabilmente quella di un ripensamento dell’assetto della loro rappresentanza nello spazio e nel dibattito pubblico, che dovrebbe in un
qualche modo recepire non solo le modificazioni in atto ma anche la
pluralità di rappresentazioni della fede che le abitano.
Marcello Neri
1 United Kingdom Supreme Court, Judgment. R (on the application
of Hodkin and another) (Appellants) v. Registrar General of Births,
Deaths and Marriages (Respondent). Il testo della sentenza può essere
trovato al sul sito web della Corte suprema britannica http://supremecourt.uk (aprendo la sezione «Decided cases» e, nell’elenco che compare, andando alla riga datata 11 Dec 2013, Case ID UKSC 2013/0030 , e
aprendo il file pdf «Judgment»; da me visitato e stampato il 18.12.2013).
Consiglierei la lettura integrale del testo, che ritengo essere non solo
una ponderata riflessione giuridica sulla questione in merito, ma anche l’indice di una più complessiva riconfigurazione del «religioso» nel
contesto europeo odierno. Una seconda ragione di interesse risiede
nell’incrocio fra la forma mentis giuridica di carattere anglosassone
(vengono prese in considerazione sentenze britanniche, australiane e
statunitensi) e quella dell’Europa continentale (col richiamo all’articolo
9 della Convenzione europea e alle direttive del Consiglio dell’Unione
Europea).
Il Regno -
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163
Belgio
Eutanasia
e minori
I
Un passo di troppo
l diritto del minore «a domandare la
propria morte è un passo di troppo. Si
tratta della trasgressione del divieto di
uccidere, che costituisce la base della nostra società umana». Così i vescovi del Belgio hanno espresso la loro «delusione» in
un comunicato, sul sito web della Conferenza episcopale (www.catho.be), il 13 febbraio, dopo che la Camera dei rappresentanti aveva dato il via libera alla legge che
estende l’eutanasia ai minori in «fin di vita»,
senza indicare limiti di età, all’unica condizione della «capacità di discernimento».
Favorevoli e contrari
Il Belgio è il primo stato al mondo a
prevedere questa possibilità. I Paesi Bassi,
dove l’eutanasia per i minori è prevista dal
2006, avevano stabilito i 12 anni come età
minima per ammettere la richiesta. Il testo
della legge belga, approvato con una maggioranza di 88 deputati favorevoli contro
44 contrari (12 gli astenuti), è stato poi ratificato dalla firma del capo dello stato, il
re Filippo, lo scorso 2 marzo. Il 26 febbraio, una petizione con oltre 200.000 firme
raccolte in tutta Europa era stata depositata al Palazzo reale (ne dava notizia sul sito
web il quotidiano cattolico olandese Katholiek nieuwsblad). Ricordando il precedente del 1990 – quando re Baldovino non
firmò (ma neppure fermò) la legge sull’aborto –, la petizione domandava al sovrano di «ascoltare la propria coscienza» e di
non firmare, ma rinviare la legge in Parlamento.
La legge è passata grazie soprattutto al
sostegno di deputati (di entrambi i gruppi
linguistici) appartenenti al Partito socialista
(PS), alla Nieuw-Vlaamse Alliantie (N-VA), ai
liberali del Mouvement réformateur (MR) e
ai verdi del movimento Ecolo-Groen. Una
maggioranza diversa da quella che sostiene il Governo guidato dal socialista vallone
Elio Di Rupo, visto che i cristiano-democratici valloni e fiamminghi si sono opposti. In
tutti gli schieramenti si sono registrate defezioni per ragioni di coscienza.
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Il Regno -
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I sostenitori del progetto giudicano
molto «strette» le condizioni poste dalla legge per concedere l’eutanasia: il minore dovrà essere «in una situazione medica
senza via di uscita, che preveda il decesso a
breve termine»; dovrà trovarsi in uno stato
di «sofferenza fisica costante e insopportabile, che non può essere alleviato, a seguito di un incidente o di una patologia grave
e incurabile» (www.liberation.fr 13.2.2014). La
capacità del minore di «comprendere l’irreversibilità della morte», secondo le parole
di una deputata, sarà «valutato caso per caso dall’équipe medica e da uno psichiatra, o
da uno psicologo, indipendente. E se la richiesta dell’eutanasia dovrà venire dal minore, i genitori dovranno dare il loro consenso» (www.lalibre.be 13.2.2104).
Gli oppositori alla legge non hanno
mancato di rilevare la divisione interna al
mondo del personale medico e paramedico. «Questa legge – si legge in un editoriale di Francis Van de Woestyne su La Libre
Belgique – risponde a un non problema.
La maggioranza dei medici coinvolti dicono di non essersi mai trovati di fronte a un
bambino o a un adolescente che chiedesse di farla finita. Sono casi che vanno gestiti con dolcezza, con cure palliative adatte.
I medici si dicono ora umiliati da una legge “brutale”». Votata ormai a fine legislatura, essa «corre il rischio di non essere che
un trofeo, pensata non tanto per alleviare la situazione angosciosa di minori e famiglie, ma per ragioni strettamente politiche» (www.lalibre.be 11.2.2104).
I vescovi, prima e dopo
La forte opposizione alla legge sull’eutanasia da parte dei rappresentanti delle
grandi religioni nel paese (Chiesa cattolica,
Chiesa protestante unita, Sinodo federale
delle Chiese protestanti ed evangeliche, Patriarcato Ecumenico, Comitato dei musulmani del Belgio, gran rabbino di Bruxelles) si
era espressa congiuntamente in un comunicato del 6 novembre scorso, prima del passaggio del testo in Senato (27 novembre).
«Vogliamo ribadire la nostra opposizione ed esprimiamo viva inquietudine davanti al rischio di una crescente banalizzazione
di una realtà tanto grave». «Siamo contro
la sofferenza, sia fisica sia morale, in particolare quella dei bambini. Ma proporre che
dei minori possano decidere della propria
eutanasia è un modo distorto d’intendere
la loro capacità di giudizio e la loro libertà». L’eutanasia di minori, o in generale di
persone con capacità di giudizio ridotta o
compromessa, «è una negazione della loro
dignità e significa consegnare queste persone al giudizio, o addirittura all’arbitrio, di
coloro che prendono tale decisione» (info.
catho.be 6.11.2013).
Nei giorni in cui il disegno di legge veniva discusso alla Camera, l’episcopato cattolico, riunito in assemblea a Grinbergen,
approfondiva la questione e in un comunicato del 22 gennaio (www.catho.be) domandava anzitutto ragione della necessità
di «legiferare in una materia tanto delicata», quando una legge simile esiste nei Paesi Bassi, dal 2006, ma in pratica non vi si
è mai fatto ricorso. Nello stesso comunicato, la posta in gioco legata all’estensione dell’eutanasia è elencata in cinque punti: (1) il rispetto dell’interdizione a uccidere, che è a fondamento dell’umana convivenza e che viene minato dall’eutanasia
delle persone più fragili; (2) l’incidenza sulla prassi medica a fronte degli enormi progressi di una medicina che, giunta al limite delle sue possibilità, corre il rischio di
«passare da tutto a niente», dimenticando le pratiche sedative e le cure palliative
(con il dilemma posto al personale di capire «qual è il loro ruolo tra il “troppo” della medicina e il “più nulla” dell’eutanasia»);
(3) la questione culturale dell’oblio della
morte («come prepararsi a essa piuttosto
che ignorarla?»); (4) il dato della sofferenza
umana (da combattere in tutte le sue forme e da diminuire al massimo; ma quando
è presente, malgrado tutto, «come assumerla? Come preparasi ad affrontarla?»);
(5) il tema della spiritualità, perché nella
questione dell’eutanasia «si gioca tutto il
senso della vita».
Dopo il voto della Camera, l’episcopato belga ha ribadito le sue forti preoccupazioni di fronte all’«approvazione di una
legge che numerosi esperti ritengono inutile» e giuridicamente difettosa: «Temiamo
che questa nuova legge apra la porta a una
prossima estensione della stessa alle persone handicappate, a quelle con limitata
capacità di giudizio, ai malati mentali, persino a coloro che sono stanchi di vivere»
(www.catho.be 13.2.2014).
M. B.
Guerra civile
Centrafrica
l
a violenza respirata
L
a Repubblica Centrafricana cerca la svolta,
ma trova ancora guerra. A fermare gli scontri
tra guerriglieri dell’ex
coalizione Seleka e milizie anti-balaka non sono state sufficienti un rinnovato impegno militare internazionale e una nuova presidente ad interim, Catherine Samba-Panza. L’ex
sindaco della capitale Bangui aveva
già guidato le istituzioni per il dialogo nazionale nel 2003 ed è considerata una personalità super partes; è subentrata a Michel Djotodia
a gennaio, dopo che l’ex comandante di Seleka – cedendo alla pressione dei paesi dell’area – aveva rassegnato le dimissioni durante un vertice a N’djamena. I problemi da risolvere per la nuova amministrazione, però, sono rimasti gli stessi che
avevano paralizzato la vecchia. Emblematica in questo senso l’uccisione a sangue freddo di uno dei deputati del Parlamento provvisorio, Jean-Emmanuel Djarawa, di fronte alla sua casa di Bangui.
«Il livello di violenza che è ancora presente anche all’interno della capitale è preoccupante», racconta
a Il Regno Federica Biondi, dell’organizzazione umanitaria Intersos, che
si trova sul posto. Anche se la forza
multinazionale (6.000 uomini della
missione a guida africana MISCA, oltre ai 2.000 militari francesi dell’operazione Sangaris; l’Unione Europea
ne ha promessi altri 600) è «presente
e visibilissima», prosegue l’operatrice
umanitaria, «in città ci sono combat-
Come procede la crisi:
testimonianze dagli operatori umanitari
timenti e azioni da parte sia dei Seleka sia degli anti-balaka». «Dobbiamo verificare la sicurezza ogni giorno», spiega ancora, raccontando come anche le cliniche mobili, che l’ong
italiana sta attivando, spesso non possano raggiungere alcune zone della
città a causa del riesplodere di scontri, anche mortali. Oltre 1.250 persone, nella sola capitale, hanno perso la
vita tra dicembre e febbraio, una situazione che ha spinto il Parlamento francese a votare il prolungamento della missione Sangaris e lo stesso
presidente transalpino François Hollande a visitare Bangui il 28 febbraio.
Che l’attenzione dell’ex-potenza
coloniale alla questione centrafricana – in un primo momento considerata di relativamente facile soluzione
– sia ora più alta lo dimostra anche il
cambiamento di linea implicito nelle
dichiarazioni del generale Francisco
Soriano, comandante della forza militare mobilitata da Parigi. Il 10 febbraio l’ufficiale ha definito gli anti-balaka «i principali nemici della pace»,
preannunciando di fatto una svolta rispetto a comportamenti come quello
descritto, in un’intervista a Radio Vaticana, da Patrizia Emiliani, medico
volontario all’ospedale delle missioni
cattoliche a Bimbo, non lontano dalla capitale. I peacekeepers internazionali, spiegava a fine gennaio, «hanno
disarmato tutti i Seleka ma non disarmano gli anti-balaka».
Su questa condotta potrebbe aver
inciso anche l’equivoco, durato piuttosto a lungo, sulla natura degli stessi anti-balaka. Presentatisi come mi-
lizie di autodifesa sorte spontaneamente per reazione ai soprusi dell’altro gruppo armato, hanno però arruolato tra i loro ranghi anche «ex
prigionieri e altri criminali», come
ha testimoniato all’associazione Aiuto alla Chiesa che soffre il vescovo di
Bangassou, mons. Juan José Aguirre
Muñoz. Senza contare che a proclamarsi coordinatore politico di questi gruppi – in realtà privi, come i Seleka, di una vera guida unitaria – è
stato Patrice Edouard Ngaïssona, già
ministro dello Sport sotto il presidente François Bozizé, che Djotodia aveva deposto.
Vittime i musulmani
I Seleka, da parte loro, malgrado
gli sforzi per la loro smobilitazione siano stati più evidenti, si sono resi protagonisti di abusi soprattutto nelle zone in cui la forza multinazionale non
ha ancora dispiegato i suoi uomini.
L’effetto delle due minacce contrapposte è stato di aumentare ancora di
più le divisioni all’interno del paese.
A farne le spese, in quest’ultima fase, sono state soprattutto le comunità
di religione musulmana: minoritarie
nella Repubblica Centrafricana, sono state viste dal resto della popolazione – durante il periodo di maggior
potere di Seleka – come complici della coalizione, al cui interno combattevano numerosi mercenari ciadiani
e sudanesi di religione islamica, anche di tendenze radicali.
In molte località, la fuga della milizia ha coinciso con quella dei musulmani stessi. Così è stato, ad esempio,
Il Regno -
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165
a Bouca, nell’Ovest del paese. Suor
Angelina Santagiuliana, delle Figlie di
Maria missionarie, all’inizio di febbraio è stata testimone della loro partenza dalla città, semidistrutta da quando, cinque mesi prima, un migliaio
di case erano state incendiate durante gli scontri. «Il tentativo della Chiesa è stato quello di lavorare per una
coesione sociale – racconta la religiosa – ma visto che non è stato possibile
ci siamo impegnati per far sì che i civili musulmani che avevano deciso di
partire potessero farlo senza che nessuno sparasse sui convogli». La stessa
rabbia è esplosa in altre parti del paese, compresa Bangui, dove, nota Federica Biondi, «buona parte della popolazione di religione islamica è fuggita o è nei campi» destinati agli sfollati. Tra loro, dice ancora l’operatrice
umanitaria, «ci sono persone in attesa
di essere rimpatriate: non sono solo i
musulmani centrafricani a essere state vittime di questa situazione, ma anche quelli di altri paesi, in particolare
i ciadiani», spesso identificati semplicisticamente con gli ex–ribelli.
Gli episodi di violenza contro i
musulmani hanno fatto crescere la
preoccupazione della comunità internazionale e delle organizzazioni per
i diritti umani: Amnesty international a metà febbraio ha esplicitamente parlato di «pulizia etnica», così come l’alto commissario ONU per i rifugiati, Antonio Guterres, che ha anche definito la situazione centrafricana «una catastrofe umanitaria di proporzioni indicibili». Più cauto è stato
l’arcivescovo di Bangui, mons. Dieudonné Nzapalainga, che, pur avendo
parlato, per alcuni scontri di questi
mesi, di «scene che ricordano il genocidio in Ruanda», ha sempre respinto l’idea che la contrapposizione stia
avvenendo su base etnica e religiosa.
Il presule ha anche negato che gli anti-balaka possano essere definiti «milizie cristiane», come pure sono stati
considerati da molti mezzi di comunicazione.
Al centro del cristianesimo, ha ricordato mons. Nzapalainga (nella
sua casa abita da mesi il principale
imam del paese, Oumar Kobine Layama), ci sono valori come «ospitalità, accoglienza, dialogo». Oggi i religiosi li praticano soprattutto nei con-
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fronti dei numerosi musulmani che,
su tutto il territorio, chiedono di potersi rifugiare nelle chiese e nei conventi per passare la notte al sicuro.
A evitare che l’emergenza fosse ancora più grave, giudica suor Angelina Santagiuliana, ha probabilmente
contribuito la presenza sul territorio
«di molte etnie diverse: se fossero state solo due o tre la situazione sarebbe
esplosa già da molto tempo». Di fronte all’insicurezza che ancora domina,
anche la comunità internazionale sta
cercando soluzioni, almeno a Bangui. «All’interno dei quartieri – riferisce Federica Biondi – si stanno organizzando dei “santuari”, con dormitori pubblici dove le persone possono
riunirsi per la notte e dove la sicurezza è garantita anche dalle forze internazionali».
Difficile normalizzazione
La popolazione cerca però, per
quanto possibile, di tornare a un’esistenza ordinaria: quelli che ancora hanno una casa, prosegue l’operatrice di Intersos, durante il giorno –
quando è meno rischioso spostarsi –
«rientrano nelle zone dove ci sono le
loro abitazioni per cercare di riprenderne possesso e per ricominciare
una vita normale». Su questo influisce anche l’inizio della stagione delle
piogge: da un lato mette a rischio di
allagamento molti campi per sfollati,
dall’altro offre l’occasione di «riattivare il settore agricolo, in modo che
i centrafricani non dipendano da aiuti esterni e possano contare su un’autoproduzione». Nella stessa direzione va lo stanziamento, da parte delle Nazioni Unite, di 26 milioni di dollari, per promuovere la coesione sociale offrendo opportunità di lavoro a
350.000 persone nelle regioni centrali e occidentali.
Dare alla popolazione i mezzi per
rientrare nelle proprie case, o in un
ambiente non ostile, potrà avere anche conseguenze positive sulla sicurezza. «Vivere in così tanti in un piccolo spazio aumenta le possibilità di
violenze e lo spirito di vendetta», avverte infatti suor Santagiuliana, che è
arrivata ad accogliere, nella missione,
4.500 sfollati nel periodo di Natale,
ora ridotti a 500. «Adesso si tratta di
fare un lavoro di reinserimento di tut-
te queste persone in una vita normale, cosa non facile, perché la violenza che hanno vissuto è forte: hanno
davvero respirato violenza», continua
la religiosa. Gli ostacoli alla normalizzazione, tuttavia, non mancano:
lo stato non è praticamente in grado di fornire i servizi essenziali (sanità, istruzione, accesso all’acqua) e
malgrado in molti luoghi riescano finalmente ad arrivare aiuti e operatori umanitari, varie strade sono ancora bloccate per la presenza dei gruppi
armati.
Con gli scontri, è continuata anche la fuga dei civili: da dicembre
2012 più di 700.000 persone hanno dovuto abbandonare le loro case, mentre quasi 290.000 si sono rifugiate nei paesi vicini, le cui strutture
di accoglienza stanno andando in crisi. Il Programma alimentare mondiale ha lanciato a fine febbraio un appello, in cui ha definito ormai «estremamente basse» le sue scorte di cereali destinate ai rifugiati centrafricani nella Repubblica democratica del
Congo; ha poi espresso il timore di
non poter venire incontro, «per mancanza di fondi», alle necessità di chi
ha tentato di sfuggire alla guerra.
I rischi, dopo il terzo cambio di
governo in un anno, riguardano anche il piano politico: a preoccupare è
soprattutto la prospettiva che la parte nord-orientale del paese dichiari la
secessione. Qui si sono raggruppati
in maggioranza gli ex–Seleka e nella
stessa area, al confine con il Ciad, si
trovano anche importanti giacimenti di petrolio. La prospettiva di una
divisione è sempre stata esclusa dalla presidente Samba-Panza e anche
da Hollande, che da Bangui ha invitato a «evitare qualsiasi tentazione
di partizione». Gli uomini delle forze
internazionali si sono già dimostrati insufficienti, però, a controllare efficacemente tutto il territorio. A rafforzare massicciamente il contingente potrebbero intervenire le Nazioni
Unite, come chiesto anche dalle autorità transitorie: il segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon in persone, a inizio marzo, ha raccomandato
l’invio nel paese di circa 12.000 caschi blu, tra militari e forze di polizia.
Davide Maggiore
Africa
Chiese e diritti gay
Se non c’è giustizia
D
ov’è «la voce profetica della Chiesa?». A chiederselo – in un editoriale del 29 gennaio dedicato al «radicato senso di omofobia in Africa» – è stato
The Southern Cross, settimanale cattolico
promosso dai vescovi di Sudafrica, Swaziland e Botswana, riuniti nella Conferenza
episcopale dell’Africa australe (SACBC).
Motivo dell’articolo, le leggi sulle persone
omosessuali approvate dall’Uganda, dove
il presidente Yoweri Museveni ha dato il
suo benestare il 24 febbraio, dopo una serie di ripensamenti, e dalla Nigeria, dove il
presidente Goodluck Jonathan ha firmato
il testo il 13 gennaio.
In Uganda sono proibiti «il comportamento omosessuale» (con possibilità di
ergastolo in caso di recidiva) e la sua «promozione pubblica», incluse conferenze o
dibattiti sull’argomento. In Nigeria, dove
gli atti omosessuali erano già considerati
reato, il divieto è stato esteso al matrimonio gay, ai gruppi a favore degli omosessuali e alle «manifestazioni affettive» in
pubblico: le sanzioni possono arrivare fino
a 14 anni di carcere.
Ricordando che altri paesi stanno pensando di adottare provvedimenti simili,
The Southern Cross invita a una presa di
posizione le Chiese cattoliche del continente, dove 38 stati, riferisce Amnesty
international, puniscono l’omosessualità.
Solo il Sudafrica, al contrario, ha inserito
i diritti delle persone omosessuali nella
Costituzione, oltre a permettere il «matrimonio gay». In questo quadro «l’assenza
di interventi a favore della giustizia – nota
l’articolo – può essere interpretata, a
torto o a ragione, come un’approvazione dell’ingiustizia». Molti insegnamenti
della Chiesa, ricorda a questo proposito
il settimanale sudafricano, la mettono in
contrasto con gli omosessuali «soprattutto a proposito dei matrimoni tra persone
dello stesso sesso», ma allo stesso tempo
«essa ha un obbligo, imposto da Cristo, di
essere solidale con tutti coloro che sono
ingiustamente emarginati e perseguitati».
Di legge che contrasta con «i valori
centrali della fede cristiana» hanno parlato, in una dichiarazione riportata dalla
Radio Vaticana, proprio i vescovi ugandesi, a proposito della norma in vigore nel
loro paese. Ribadita dunque la condanna
espressa di fronte alla prima proposta di
legge, datata 2009, che prevedeva addirittura la pena di morte per i trasgressori.
Nei giorni successivi, mons. John Baptist
Kauta, segretario della Conferenza episcopale, ha specificato all’agenzia Catholic news service che la Chiesa «non sostiene gli omosessuali» ma «è a favore della
compassione».
In Nigeria i vescovi hanno commentato la decisione del governo attraverso
una lettera firmata dal presidente della
Conferenza episcopale, l’arcivescovo di
Jos Ignatius Kaigama: «Non piegarsi alle
pressioni internazionali per la promozione delle unioni tra persone dello stesso
sesso e altri vizi connessi», vi si legge,
è stato un esempio di come la Nigeria
«possa ergersi a protezione (…) dell’istituto del matrimonio e della dignità della
persona umana».
Non è un’urgenza
In un’intervista al quotidiano Daily
Trust, il 2 febbraio, il presule ha precisato:
«Se qualcuno è gay per costituzione biologica (biological constitution) e semplicemente prova un’attrazione per lo stesso sesso, non voglio biasimare la persona,
così come non dovrei biasimare qualcuno
per essere eterosessuale e attratto dal
sesso opposto». In generale, ha concluso
mons. Kaigama, «come persona religiosa
cerco di vedere nella persona gay qualcuno fatto a immagine e somiglianza di
Dio, anche se la sua azione è disordinata e
peccaminosa. Per la mia dottrina religiosa
si condanna il peccato, non il peccatore».
Dal canto suo, il vescovo di Sokoto,
mons. Matthew Hassan Kukah, citato dal
quotidiano This Day, ha voluto allargare
il discorso ad altri temi, dicendosi speranzoso che l’Assemblea nazionale «possa
approvare la legge contro la disoccupazione così velocemente come è accaduto
per la legge anti-gay». L’omosessualità, ha
però spiegato, «non fa parte della vita e
della cultura» della maggior parte delle
persone che vivono in Nigeria e in Africa.
L’idea che la depenalizzazione dell’omosessualità sia soprattutto un’urgenza
dell’Occidente ha ripreso vigore anche
per le ipotesi di taglio degli aiuti allo sviluppo nei confronti dell’Uganda, ventilate
da Stati Uniti, Francia, Paesi Bassi e Svezia,
mentre la Banca mondiale ha congelato
un prestito da 90 milioni di dollari. Ma già
a fine 2011, dopo le dichiarazioni del primo ministro britannico David Cameron e
dell’allora segretario di stato USA Hillary
Clinton sulla possibile sospensione degli
aiuti ai paesi che non avessero garantito
«i diritti degli omosessuali», il portavoce
della Conferenza episcopale dello Zambia, p. Paul Samasumo, aveva invitato
a non legare gli aiuti «alla promozione
dell’immoralità». In quell’occasione, varie
altre Chiese cristiane si erano poste sulla
stessa linea.
Il contesto culturale e religioso non va
sottovalutato quando si esamina la posizione dei vescovi in tema di leggi sull’omosessualità: ad esempio i presuli di paesi
in cui sono presenti forti comunità islamiche, ha spiegato al Religion news service p. Thomas Reese, sacerdote gesuita
e noto commentatore di cose religiose, e
potrebbero essere «spaventati dalla reazione dei musulmani», oltre che temere di
andare contro idee ancora diffuse tra gli
stessi fedeli.
La questione non riguarda solo la
Chiesa cattolica: la Comunione anglicana
rischia di vedersi abbandonata dal clero
dell’Uganda dopo aver criticato, attraverso l’arcivescovo di Canterbury, i provvedimenti presi dal paese africano. Se questa
posizione non cambierà, ha infatti dichiarato l’arcivescovo anglicano di Kampala,
Stanley Ntagali, gli ugandesi potrebbero
decidere di «andare da soli». Varie denominazioni protestanti, invece, sono apertamente favorevoli alle leggi anti-gay e
molti gruppi evangelical – un bacino politico-elettorale da non trascurare, vista la
loro crescita numerica – hanno fatto pressione a favore di queste norme.
D. M.
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La Chiesa e il nuovo Cile
A m e r i c a L at i n a
l
a società domanda
A c o l l o q u i o c o n Pe d ro O s s a n d ó n B u l j e v i c ,
vescovo ausiliare di Santiago del Cile
M
ons. Pedro Ossandón
Buljevic, cinquantatreenne vescovo ausiliare di Santiago del
Cile dal 2012, dopo
esserlo stato per quattro anni a Concepción, è presidente dell’Area pastorale-sociale-Caritas della Conferenza
episcopale del Cile (CECH). Viene
considerato tra i più promettenti membri dell’episcopato, tanto che molti ne
pronosticano la rapida ascesa ai vertici
dell’arcidiocesi della capitale.
– Negli ultimi due anni il Cile è stato teatro di forti mobilitazioni sociali, soprattutto studentesche, in cui è apparsa
sulla scena pubblica una nuova generazione che non ha vissuto la dittatura
militare. Come guarda la Chiesa cilena
a questo scenario?
«La nostra visione del momento
che vive il paese è contenuta nelle lettera pastorale Humanizar y compartir
con equidad el desarrollo de Chile, pubblicata dal Comitato permanente della
CECH nel settembre del 2012.
Nel ventennio seguito alla fine della
dittatura, attraverso la “Commissione
Rettig”1 e la “Commissione Valech”,2
si sono compiuti passi avanti nella direzione della verità, della giustizia e
della riconciliazione. Adesso al paese
è consentito farsi domande più radicali, tanto che soprattutto il movimento
studentesco e quello degli indigeni mapuche rivendicano una riforma della
Costituzione del 1980.
“In Cile le istituzioni funzionano”, hanno ripetuto in questi anni
tutti i presidenti della Repubblica. È
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vero, ma dalla società viene ugualmente una domanda di loro profonda revisione. Ciò spaventa alcuni
settori sociali, secondo cui questo
potrebbe mettere in pericolo la pace
sociale e lo stato di diritto. A me però
pare positivo, perché mostra la volontà dell’opinione pubblica di partecipare attivamente alla discussione
sullo sviluppo del Cile, affrontando
pubblicamente i vizi economici, sociali e politici del modello disegnato durante la dittatura. I giovani ci
hanno dato una lezione di partecipazione, che mi rallegra molto. Si può
essere d’accordo o meno con le loro
richieste, ma questo fa parte del dialogo sociale. Lo stesso vale per i mapuche, per i quali ho sempre provato
ammirazione, appoggiando tutte le
iniziative in direzione del loro sviluppo come popolo e cultura. I mapuche
possono dare un grande contributo
alla società cilena, che ha un debito
storico nei loro confronti. Sebbene
una loro porzione rivendichi l’azione
violenta, quello mapuche è un popolo pacifico e con un grande desiderio
di integrazione, pur subendo anche il
flagello della povertà.
Speriamo che questo risveglio della società si traduca anche in partecipazione politica, o quantomeno in un
dialogo che ci aiuti a definire sulla base
del consenso un futuro per il Cile. In
questo senso la Chiesa cattolica dice
che la grande sfida è “umanizzare lo
sviluppo”, al centro del quale ci deve
essere la persona, e accrescere l’equità,
perché la sua assenza è fonte di violenza».
Dopo la dittatura
– Durante la dittatura la Chiesa cilena diede un’importante testimonianza
difendendo i diritti umani. Negli ultimi
anni è invece apparsa meno capace di
segnare con la propria presenza la situazione del paese. Come pensa che la Chiesa debba collocarsi in questa fase?
«In passato il paese esigeva dalla
Chiesa una parola: “Che dice la Chiesa
su questo momento economico, politico, sociale che viviamo?”, ci domandavano. E di fatto durante la dittatura siamo stati “la voce dei senza voce”, in un
contesto in cui innalzavamo un’unica
bandiera: la difesa della dignità umana
e dei diritti della persona, in particolare
attraverso la Vicaría de la Solidaridad.
Quando, nel 1988-89, vinse il “No” nel
referendum sulla continuità del gen.
Augusto Pinochet alla presidenza della Repubblica e si tennero elezioni per
formare un governo democratico, la
Chiesa decise di fare un passo indietro.
Io ero d’accordo con questa scelta, perché condividevo l’idea che non dovevamo entrare in una competizione per la
leadership politica.
Oggi la società ci pone un interrogativo più radicale: “Perché la Chiesa
deve dire qualcosa? A chi importa?”.
Questo mi pare estremamente positivo, perché ci costringe a giustificare
con la bellezza del Vangelo e la nostra
testimonianza la parola che vogliamo
dire per lo sviluppo del Cile, in un dialogo con la società su un gran numero
di temi».
– Pesa lo scandalo prodotto dai casi
di violenze su minori compiuti da preti
anche molto in vista?
«Per questo come Chiesa abbiamo perso molta credibilità. Un colpo
particolarmente duro è stato il caso di
don Fernando Karadima, un prete che
godeva di grande prestigio nelle classe
alta cilena. Dobbiamo recuperare l’umiltà e la trasparenza per far risplendere la forza del Vangelo. Perciò io
credo che la lettera pastorale del 2012
che ho già ricordato indichi davvero
una tendenza. Nella stessa direzione
va la II Assemblea ecclesiale nazionale, alla quale nel giugno del 2013 hanno partecipato 600 rappresentanti di
tutte le diocesi per compiere insieme
un discernimento su cui basare i nuovi
orientamenti pastorali della Chiesa cilena (2014-2020), pubblicati all’inizio
di quest’anno col titolo Una Iglesia que
escucha, anuncia y sirve.
Il documento mostra che vogliamo
compiere un salto di qualità in termini di comunione e di partecipazione,
di collegialità e di sinodalità. È finito
il tempo dei guru o degli esperti che
vengono a darci tutte le risposte: adesso siamo tutti umili peccatori e tutti
fratelli uguali nella dignità, sebbene
con funzioni diverse. Vogliamo mettere pienamente in pratica gli orientamenti del concilio Vaticano II e della
V Conferenza generale dell’episcopato
latinoamericano, svoltasi ad Aparecida nel 2007, attraverso la “sinodalità”.
Non ci interessano l’impatto mediatico, la tattica, le risposte immediate
(anche perché non tutte le abbiamo),
preferiamo cercarle insieme nella corresponsabilità».
Tra la Bachelet e Francesco
– La rieletta presidente della Repubblica Michelle Bachelet, che è in carica
dall’11 marzo, ha annunciato l’intenzione di portare in porto sia il «Proyecto de acuerdo de vida en pareja»3 sia
la depenalizzazione dell’aborto terapeutico e in caso di violenza sessuale, provvedimenti cui la Conferenza episcopale
si è detta contraria. Quale sarà la relazione tra Chiesa e Governo?
«Nei documenti dell’ultimo quindicennio la Chiesa cilena ha sempre
ricordato la dottrina cattolica in materia di matrimonio tra persone dello
stesso sesso o interruzione volontaria
di gravidanza, ma non si è concentrata sulle questioni di morale sessuale.
Al centro dei nostri messaggi pubblici
c’è sempre stato il servizio al Cile a
partire dall’annuncio del Vangelo e di
un Vangelo sociale, perché un Vangelo non sociale non è quello di Gesù
Cristo.
Col Governo e con chiunque altro
siamo disponibili a discutere qualunque tema, con serenità e facendo appello alla ragione. Non vogliamo apparire i padroni della verità in modo
prepotente. Vogliamo partecipare al
dibattito pubblico, dicendo quello che
pensiamo, ma dialogando per trovare
soluzioni legislative, stimolando i laici
che militano nei partiti ad agire alla
luce dei principi e dei valori, ma con
la debita autonomia loro riconosciuta
nelle realtà temporali. Non vogliamo
lo scontro, perché lo scontro non risolve nulla, ma intendiamo muoverci
secondo una ragione illuminata dalla
fede. Cercheremo, inoltre, di offrire
una parola ancorata saldamente alla
proposta della fede, che credo sia il
nostro grande contributo alla società
cilena.
Al centro dei nuovi orientamenti pastorali della Chiesa cilena, che
si ispirano all’Evangelii nuntiandi di
Paolo VI e all’Evangelii gaudium di
Francesco, c’è il dialogo con la cultura, perché ci siamo resi conto che il
nostro linguaggio è autoreferenziale
e per molti incomprensibile e, d’altro canto, dobbiamo interloquire con
visioni della vita che hanno codici
diversi dai nostri. Dobbiamo assolutamente imparare a parlare la lingua
di questo tempo con la bellezza e la
verità del Vangelo. Molte volte restiamo muti o diciamo cose che nessuno
capisce. Papa Francesco dimostra una
grande capacità di tradurre il messaggio di sempre in una novità meravigliosa! Basti pensare all’“io sono
peccatore”: lo preghiamo ogni giorno
nella messa, però Francesco l’ha detto con una forza dello spirito che ha
avuto un enorme impatto. E il papa
indica che il modo migliore di relazionarsi con gli altri non è dire “io sono
il buono, quello che sa tutto, quello
che ti aiuta, che ti insegna”, ma “io
e te siamo peccatori e insieme vediamo come scopriamo questo Dio cui
entrambi parleremo e di cui nessuno
di noi è padrone”. Questo mi pare un
importante apporto alla maturazione
civica del dialogo sociale in Cile».
– In base alla sua esperienza, quali
pensa siamo le principali urgenze che la
Chiesa deve affrontare?
«Prima di tutto la pace. Io vivo
a La Legua, il quartiere più violento
di Santiago, in cui sono frequenti le
sparatorie, a causa del narcotraffico
e delle pandillas,4 in un contesto di
indigenza, diserzione scolastica, precarietà lavorativa e disoccupazione.
Viviamo in un paese dove c’è sviluppo e non c’è guerra, quasi da primo
mondo, ma in cui la gente sperimenta
quotidianamente la violenza, quella
strutturale e quella del narcotraffico.
La seconda sfida è la costruzione
di cittadinanza. Il movimento dei giovani e degli studenti ne è un esempio,
soprattutto perché è semi-organizzato, ma autonomo e molto diversificato. Valga un esempio: diversi governi
succedutisi dopo la fine della dittatura
hanno cercato di risolvere il problema
della violenza a La Legua, ma tutte
le decisioni erano calate dall’alto e si
traducevano in azioni inefficaci. Di
recente le organizzazioni del quartiere, alcuni partiti politici e la parrocchia hanno presentato una proposta,
fondata sul criterio che tutte le soluzioni (si parla di problemi di abitabilità, educazione, assistenza sanitaria,
urbanizzazione, ecc.) venissero dagli
abitanti e lo stato partecipasse coi propri tecnici per renderle praticabili, ma
lasciando iniziativa e protagonismo al
cittadino comune. Il governo l’ha accolta. Questo significa costruire cittadinanza».
Mauro Castagnaro
1 Commissione nazionale di verità e riconciliazione, costituita nel 1990 per indagare sulle violazioni dei diritti umani compiute sotto il
regime militare – 1973-1990 – e sfociate nella
morte o nella scomparsa delle vittime. A presiederla fu nominato l’avvocato ed ex senatore del
Partito radicale Raul Rettig.
2 Commissione nazionale sulla detenzione
politica e la tortura, creata nel 2003 per individuare le persone private della libertà e torturate
per motivi politici durante la dittatura. Come
presidente fu scelto mons. Sergio Valech, già
vescovo ausiliare di Santiago e dal 1987 al 1992
alla guida della ben nota Vicaría de la Solidaridad dell’arcidiocesi.
3 Noto per la sigla AVP, prevede in sostanza la regolamentazione delle unioni di fatto, ed
è in discussione nel paese da più di un anno.
4 Si tratta delle bande giovanili dedite alla
criminalità.
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Malaysia
Religioni
Allah tra
politica e fede
I
l lungo processo giudiziario sul diritto
dei cristiani a utilizzare la parola «Allah»
per indicare Dio, iniziato nel 2008 e arrivato ora all’ultimo grado di giudizio, si è arrestato dopo aver provocato una tale
escalation di tensione da causare episodi
di violenza anticristiana. Il caso era scoppiato nel 2008, quando il Ministero dell’Interno aveva minacciato di revocare al settimanale diocesano di Kuala Lumpur, lo Herald,
il permesso di utilizzare il termine «Allah»,
l’unico che indica Dio nella lingua malay. La
Chiesa cattolica si rivolse alla giustizia, e nel
2009 il Tribunale le diede ragione autorizzandola a chiamare Dio «Allah» nella sezione in lingua malese. Ma il processo d’appello nello scorso ottobre ha ribaltato la sentenza, per cui la causa è arrivata all’ultima
istanza, davanti alla Corte federale.
L’udienza del 5 marzo si è tenuta mentre all’esterno del Palazzo di giustizia manifestavano centinaia di attivisti di organizzazioni etno-nazionaliste che affermano di
difendere l’identità esclusivamente musulmana della componente malese della Federazione. A indicare l’estrema delicatezza
del processo, in luogo di cinque giudici,
come avviene abitualmente, ne sono stati
designati sette, cosa rara e comunque inedita sinora per un processo civile.
Per la rivista Herald erano presenti l’editore, cioè mons. Pakiam Murphy, amministratore apostolico di Kuala Lumpur, e il
direttore, il gesuita Lawrence Andrew. Gli
avvocati hanno esposto le ragioni in base
alle quali a loro avviso la Corte federale
dovrebbe rigiudicare completamente il
caso. Le 26 domande che hanno sollevato
possono essere raccolte intorno a tre punti principali: innanzitutto il divieto di usare
il termine «Allah» è incostituzionale perché
contraddice gli articoli della Carta fondamentale che riguardano il ruolo dell’islam
nella Federazione, la libertà di religione e il
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Il Regno -
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fatto che ogni religione gode di una piena
autonomia nella gestione dei propri affari interni; inoltre il Ministero dell’Interno
oltrepassa il limite del proprio potere restringendo le libertà fondamentali; e infine
è incongruo che una Corte di giustizia si
pronunci in materia di teologia comparata
fondando le sue conclusioni su delle semplici ricerche su Internet. Mentre gli avvocati della parte avversa, che rappresentano
i Consigli islamici di sei stati, hanno chiesto
alla Corte federale di riconfermare la sentenza dello scorso ottobre.
I giudici si sono limitati ad ascoltare le
parti, ma non hanno preso per il momento
alcuna decisione, né hanno fissato ulteriori
scadenze.
In Malaysia i cristiani usano il nome
Allah per riferirsi a Dio sin dai tempi di
Francesco Saverio, così come avviene nel-
la vicina Indonesia, il paese con il più alto
numero di musulmani al mondo (203 milioni, l’88,2% della popolazione). Le radici
del conflitto vanno cercate, più che nel
confronto interreligioso, negli interessi politici della maggioranza malese, tant’è che
il partito ultra-islamico all’opposizione si è
schierato dalla parte dei cristiani. Rispetto
agli scontri interetnici del 1969, che vedevano contrapposte la ricca minoranza
cinese e la povera e risicata maggioranza
malese, quest’ultima dopo quasi 50 anni di
trattamento preferenziale – utilizzando la
religione come un mezzo per rafforzare
la propria etnia – è in una netta predominanza numerica, economica e politica; la
sua percentuale è salita al 60%, mentre i
buddhisti sono il 19%, i cristiani il 9% e gli
indù il 6% della popolazione.
D. S.
Vietnam
Santa Sede
T
Novità
sì e no
ra le numerose delegazioni diplomatiche recatesi a Roma il 22 febbraio
per assistere al Concistoro (cf. Regno-att. 2,2014,3), ha attirato l’attenzione
quella del governo vietnamita, benché tra i
19 nuovi cardinali non vi fosse un vietnamita. Il fatto si spiega invece per la presenza
tra essi di mons. Pietro Parolin, il nuovo segretario di stato vaticano.
Parolin ha avuto un ruolo importante
nello sviluppo dei rapporti diplomatici tra
la Santa Sede e il Vietnam, che sono migliorati a tal punto da essere presi a modello di
quelle che potrebbero essere le relazioni
tra la Santa Sede e la Cina (cf. Regno-att.
2,2013,13). Nominato sottosegretario della
Segreteria di stato per i rapporti con gli
stati nel novembre 2003, ha da allora partecipato ai negoziati annuali tra la Santa
Sede e il Governo vietnamita fino al 2009,
quando è stato nominato nunzio in Venezuela. Il nuovo ruolo di vertice del card.
Parolin nella Segreteria di stato potrà favorire ora un ulteriore sviluppo nelle relazioni
bilaterali.
Nel frattempo tuttavia pare non aver
avuto esito l’endorsement della Chiesa
cattolica vietnamita a favore dei movimenti che chiedevano una profonda revisione
della Costituzione in senso democratico
e pluralista (cf. Regno-att. 6,2013,134). Il 28
novembre la stampa ufficiale ha annunciato l’adozione di una nuova Costituzione da
parte dell’Assemblea nazionale, con 486
voti su 488 e due astenuti. Tra i pochi cambiamenti rispetto alla Carta precedente,
va sottolineato il rafforzamento del ruolo
dirigente del Partito comunista all’interno
dello stato e della società, esattamente al
contrario di quanto chiesto da molte delle
risposte pervenute alla consultazione popolare lanciata nel 2012.
D. S.
L
L ibri del mese
Una cultura di carità
Quella Chiesa italiana che crebbe con mons. Nervo
C
onsidero un privilegio
poter illustrare la figura di mons. Nervo, che
ho frequentato e con il
quale ho collaborato
per quasi l’intero arco della mia vita
sacerdotale e che considero un grande
dono del Signore alla Chiesa italiana e
alla società nel suo insieme. Sento il dovere, come persona che più di tutte le
XLI
altre è vissuta accanto a lui, di fare qualche cenno alla sua persona, prima di entrare in merito al tema che mi è stato assegnato.* D’altronde ritengo che Nervo
abbia influito nella comunità ecclesiale
con la sua personale testimonianza, prima ancora che con le sue iniziative.
Mons. Nervo fu grande per le qualità interiori, prima ancora che per le
cose straordinarie che ha compiuto; era
un uomo integro, trasparente, irreprensibile; carismatico, ma sobrio e rigoroso;
di una sola parola; coerente tra quanto
insegnava e quanto testimoniava quotidianamente; umile prete della Chiesa
dei poveri; il vissuto della sua carità lasciava trasparire tutte le caratteristiche,
che trasmetteva nel suo impegno educativo e pastorale (carità come condivisione, spirito di servizio, impegno promozionale, attenzione preferenziale agli
ultimi…).
Reagiva d’istinto contro ogni forma
di sopruso e difendeva i deboli senza
lasciarsi condizionare dalle critiche dei
potenti di turno. Aveva una personalità ricca e complessa: era insieme uomo
di cultura, ma si esprimeva in termini
chiari e comprensibili anche alle persone semplici e meno acculturate; aveva
intuizioni profonde, ma era simultaneamente dotato di una straordinaria capacità organizzativa.
Era una persona schiva e riservata:
non parlava quasi mai di se stesso, né si
lamentava mai delle sofferenze relative
alla salute o alle contrarietà che doveva
subire. Anche nel periodo piuttosto lungo passato nei vari luoghi di cura, negli
ultimi mesi della sua vita, non lo si è mai
sentito lamentarsi di nulla.
Lui ha voluto testimoniare nelle
sue memorie che la principale missione
della sua vita nell’ambito della Caritas
italiana fu preparata dalla Provvidenza da una serie di impegni, nell’ambito
educativo, in quello sociale e in quello
pastorale, che egli considerò funzionali
a questa sua missione storica. Li ricordo
in sintesi.
L’impegno educativo nel mondo
giovanile (vicedirettore del Collegio
Barbarigo, insegnante di religione per
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ibri del mese
18 anni presso l’Istituto Calvi di Padova)
ha consolidato la sua visione dei giovani
come risorsa essenziale nella costruzione di una nuova società. A proposito del
Calvi scriveva: «Sono giunto al Calvi
nell’autunno del 1945 e vi sono rimasto
fino al 1963. Ero giovanissimo. Il primo
impatto non fu facile: classi di 35-40 allievi; quelli di quinta erano già uomini,
alcuni erano stati con le “Brigate Nere”,
altri con i partigiani. Un po’ alla volta
diventammo amici e il periodo del Calvi divenne uno dei più arricchenti della
mia vita. Anche perché mi obbligava
continuamente a ringiovanirmi».
Don Giovanni ebbe sempre, fino
alla tarda età, una straordinaria presa
sui giovani, forse perché essi vedevano
in lui uno spirito innato di novità e di
essenzialità.
Umile prete della Chiesa
dei poveri
Egualmente utile gli fu il lavoro svolto nell’ambito sociale (primo assistente
delle ACLI provinciali di Padova dal
1941 al 1945), poi cappellano dell’Opera nazionale di assistenza religiosa e
morale degli operai (ONARMO), successivamente fondatore e direttore della
Scuola superiore di servizio sociale, infine fondatore e presidente della Fondazione E. Zancan).
È significativo cogliere dalle sue
parole come diede avvio alla Scuola
superiore di servizio sociale e alla Fondazione Zancan. «Quando, nel 1950,
cominciai a collaborare con don Zaramella all’ONARMO di Padova, incontrai due signorine che, a seguito di un
accordo con la Confindustria, curavano
le pratiche previdenziali degli operai
nelle fabbriche: si chiamavano “assistenti sociali”, ma in realtà avevano
solo la competenza e l’incarico d’assistere gli operai nelle loro pratiche. Mi
sembrava troppo poco e mi sembrava
che avessero bisogno di una maggiore
preparazione. Pensavo a un breve corso
di aggiornamento, ma la direttrice della Scuola di servizio sociale ENSISS di
Milano a cui mi ero rivolto, mi convinse
che c’era bisogno di una vera scuola per
una formazione seria.
Tornato a Padova, telefonai alla
signorina Emanuela Zancan, che collaborava con l’ONARMO per l’assistenza religiosa agli operai e le chiesi di aiu-
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tarmi ad avviare la scuola, come vicedirettrice: io avrei fatto il direttore. Il prof.
Lionello Rossi dell’Università di Padova
accettò di fare da preside. Chiedemmo
e ottenemmo da professori universitari l’impegno di tenere i corsi e mons.
Baldelli, responsabile nazionale dell’ONARMO ci assicurò un contributo annuo di 1 milione di lire. All’inizio del
1951 aprimmo le iscrizioni e iniziammo
con 16 allieve. La scuola funzionò con
ottimi risultati per 20 anni. In totale gli
assistenti sociali usciti dalla Scuola di
Padova furono 392».
Analoga occasionalità provvidenziale si realizzò per la Fondazione Zancan. Anche a questo riguardo leggiamo
quanto scrisse mons. Nervo: «Dalle
radici della Scuola di servizio sociale
nacque anche la Fondazione Zancan.
Emanuela Zancan, vicedirettrice della
Scuola superiore di servizio sociale morì
a 47 anni nel novembre 1963. Aveva
espresso il desiderio che la sua liquidazione fosse utilizzata per la formazione.
Con una sottoscrizione, fra studenti, docenti, amici e la famiglia Zancan, raggiungemmo la somma di 7 milioni e 200
mila lire.
Nel 1964, con don Giuseppe Pasini,
don Pietro Zaramella e alcuni docenti
della Scuola di servizio sociale, costituimmo la Fondazione Emanuela Zancan. L’unica proprietà della Fondazione era l’immobile di Casa di Malosco,
utilizzato per i corsi di formazione durante l’estate, acquistata con un mutuo
ventennale, acceso presso la Cassa di risparmio di Padova e pagata lentamente
con elargizioni varie».
Di queste tre esperienze nel sociale
ha fatto tesoro mons. Nervo per affinare
la sua attenzione per il mondo del lavoro e capirne le rivendicazioni, per consolidare un metodo di lavoro, per rafforzare l’attenzione alle relazioni umane, per concentrarsi nell’individuazione
dei problemi nuovi che emergevano via
via nella società, un’attenzione che caratterizzerà tutta la sua vita.
Infine fu prezioso, in funzione dell’impegno successivo nella Caritas, il
servizio pastorale (è stato parroco per 4
anni della parrocchia di Santa Sofia in
Padova, dal 1965 al 1969). Si trattò di
un’esperienza vissuta con entusiasmo e
creatività, nella quale si era impegnato
ad avviare il rinnovamento del concilio
Vaticano II. Ma fu anche un’esperienza
sofferta, perché totalizzante per sua natura e difficilmente conciliabile con tutti
gli altri impegni, che anche da parroco
continuò a seguire (Scuola di servizio
sociale, Fondazione Zancan), tanto che
egli, a un certo punto, si sentì in dovere
di dare le dimissioni, che il vescovo alla
fine accettò, non senza difficoltà.
L’esperienza però fu provvidenziale per il successivo servizio pastorale
nell’ambito della Caritas. Egli scrisse:
«Scoprii che la parrocchia offre l’esperienza più completa della Chiesa come
comunità di fede, si esercitano tutti i
ministeri e il popolo di Dio è presente
in tutte le sue componenti e le sue condizioni: ci sono i bambini, i giovani,
gli adulti, i vecchi; ci sono i ricchi e i
poveri; c’è la gente colta e quella senza cultura; ci sono i sani e i malati. La
parrocchia accompagna tutta la vita dei
suoi membri, dalla nascita alla morte.
Io mi trovai bene e credo che anche i
miei parrocchiani abbiano conservato
un buon ricordo».
L’inizio della Caritas:
testa nuova e braccia vecchie
Nel mio contributo terrò presente
sia gli aspetti organizzativi, sia quelli relazionali, sia in particolare il suo sforzo
per migliorare la cultura di carità nella
comunità cristiana, in linea con la maturazione del concilio Vaticano II.
Il primo grande impegno che si
trovò ad affrontare don Giovanni fu la
salvaguardia dell’identità della Caritas e
la sua singolarità rispetto alla situazione
precedente.
Precedentemente in Italia esisteva
la Pontificia opera d’assistenza (POA),
una realtà voluta dal santo padre Pio
XII, per aiutare la popolazione italiana,
stremata dalla guerra. Gli aiuti provenivano in gran parte da cattolici americani. In corrispondenza alla POA, che
aveva la sua centrale nello stato del Vaticano, a livello regionale esistevano le
delegazioni regionali, dipendenti dalla
POA e a livello diocesano le Opere diocesane di assistenza (ODA), dipendenti
dai rispettivi vescovi.
Tutte queste realtà avevano una
finalità essenzialmente assistenziale,
che svolgevano prevalentemente con
aiuti provenienti dall’esterno (gestione
di colonie estive per bambini, istituti
XLII
d’assistenza per minori, disabili, anziani…).
Il Concilio aveva evidenziato per
un verso la centralità pastorale delle
Chiese locali e, per altro verso, l’importanza dell’esercizio della carità cristiana nel contesto dell’evangelizzazione.
Di conseguenza, nel 1970 Paolo VI
sciolse la POA, nominando il suo ultimo presidente, Abramo Freschi, vescovo di Pordenone e contemporaneamente sollecitò la CEI a darsi un proprio organismo caritativo di promozione della carità e di coordinamento,
nello spirito e secondo gli orientamenti
del Concilio. Il card. Antonio Poma,
presidente della CEI costituì un piccolo gruppo di studio per elaborare una
proposta di regolamento, del quale
faceva parte anche mons. Nervo. La
bozza fu proposta alla Segreteria di
stato (quindi al santo padre), che la accettò, accentuando però la promozione e la tutela dei diritti dei poveri.
A questo punto, il Consiglio permanente della CEI, il 2 luglio 1971,
istituì la Caritas italiana, e l’affidò a un
piccolo gruppo guidato da mons. Nervo. Papa Paolo VI volle tenacemente
che fossero i vescovi italiani a farsi
carico responsabilmente della nuova
istituzione, ma vigilò personalmente
perché il nuovo organismo pastorale
rispecchiasse gli orientamenti conciliari e, in occasione del primo convegno nazionale delle Caritas, illustrò il
nuovo statuto, pur essendo ancora in
prova per tre anni, dandone un’interpretazione precisa e puntuale, che
conserva tuttora piena attualità.
Ma qui sentiamo cosa scrisse mons.
Nervo:«Dal luglio 1971 al settembre
1972 lavorammo intensamente per
mettere in piedi la struttura della Caritas italiana (…). Dovemmo partire da
una struttura già esistente lasciataci in
eredità dalla POA, ossia le ODA che
dipendevano dai vescovi (…). La CEI
trovò un compromesso: a livello diocesano, la Caritas italiana avrebbe avuto
come referente o la Caritas diocesana,
o le ODA, che potevano anche chiamarsi Caritas. Sicché avemmo una
testa nuova, la Caritas italiana e delle
braccia vecchie, le Opere diocesane
d’assistenza.
Questo appesantì l’avvio della Ca-
XLIII
ritas, perché bisognava cambiare mentalità e metodo. I responsabili delle
ODA erano dei buoni amministratori dei beni che ricevevano dalla POA,
ma l’animazione della carità nella
comunità – la prevalente funzione
pedagogica, sottolineata da Paolo VI
– non era nella loro mentalità e non
era il loro mestiere. Il nodo si sciolse
in occasione del primo Convegno nazionale. Mons. Ismaele Castellano, vicepresidente della CEI, stabilì che da
quel momento la Caritas era solo la
Caritas diocesana. Così da quel momento i presidenti ODA, che erano
venuti al Convegno anche in veste
di direttori Caritas, tornarono a casa
dismessi dall’incarico ricevuto (…). A
livello diocesano, un po’ alla volta, i
vescovi istituirono le Caritas diocesane, lasciando alle ODA la gestione dei
servizi che avevano messo in piedi con
la POA».
Contemporaneamente furono organizzati gli uffici della Caritas italiana, in tutto quattro impiegati ereditati
dalla POA, nella sede di Via Baldelli
41. Nei primi mesi del 1972 entrò nel
gruppo anche don Giuseppe Pasini,
come responsabile dell’Ufficio studi,
formazione, animazione. Di lì partì
il grande impegno della promozione
delle Caritas in tutte le diocesi e anzitutto della formazione dei responsabili
diocesani, secondo gli orientamenti
conciliari.
Caritas e CEI:
più per obbedienza
che per convinzione
In rapporto alla Conferenza episcopale italiana (CEI), la Caritas ebbe
un avvio un po’ sofferto. La Presidenza CEI temeva che si riproducesse una
realtà simile alla POA. Inizialmente
qualcuno proponeva che si trasformasse
la POA in Caritas: la CEI non accettò,
anche per gli oneri di personale che
essa comportava e per le contese economiche e giudiziarie, che essa avrebbe
portato con sé e accondiscese a istituire
la Caritas solo quando fu chiaro che gli
oneri e le pendenze della POA sarebbero state assunte in toto dalla Santa Sede.
«Io ho avuto l’impressione – scrive
don Nervo nelle sue memorie – che la
CEI istituì la Caritas, più per obbedienza e fedeltà a Paolo VI che per com-
pleta e profonda convinzione. Eravamo percepiti come una realtà da tener
d’occhio. Sta di fatto che nei primi tre
anni, la Caritas era all’ordine del giorno
in quasi tutte le riunioni della Presidenza della CEI. Mons. Bartoletti, allora
segretario generale della CEI, pensò
di superare queste preoccupazioni, stabilendo che il presidente della Caritas
fosse uno dei tre vescovi vicepresidenti
della CEI. Il primo fu mons. Guglielmo Motolese, arcivescovo di Taranto.
Mons. Nervo. che fino allora era presidente, fu promosso vicepresidente. (…)
Il fatto di avere come presidente uno dei
tre vicepresidenti della CEI, la poneva
in una posizione di privilegio. Tale privilegio cadde per un incidente di percorso. Dopo il 1986, la CEI si trovò ad
avere tre cardinali come vicepresidenti.
Non si trovò conveniente che la Caritas avesse come presidente un cardinale. Pertanto fu modificato lo Statuto
della Caritas e fu stabilito che il presidente fosse un vescovo nominato dalla
CEI e, perché potesse essere membro
del Consiglio permanente, fu costituita
una “Commissione episcopale [per il
servizio] della carità”, il cui presidente sarebbe stato anche presidente della
Caritas italiana».
Emblematico il card. Siri
L’impegno maggiore della Caritas
italiana nei primi anni si concentrò nel
promuovere la nascita delle Caritas nelle diocesi. Esistevano difficoltà anche
d’ordine organizzativo, nel senso che
l’impianto delle diocesi non prevedeva
la presenza di un organismo come la
Caritas. Ma le difficoltà maggiori nascevano dal non percepire l’esigenza
di questo organismo, dal non avere informazioni sufficienti sulla sua identità
e anche dal non aver interiorizzato gli
orientamenti pastorali del Concilio, in
particolare quelli relativi alla Chiesa,
soprattutto quelli relativi alla carità.
Nella grande maggioranza delle
parrocchie infatti esistevano le associazioni della San Vincenzo, che operavano in maniera soddisfacente e non si
capiva perché si dovesse creare un’altra realtà, con le stesse funzioni. Pertanto in molte diocesi dove esistevano
le ODA, i vescovi continuarono a presentarli anche come direttori Caritas,
ignorando quanto stabilito da mons.
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Castellano; in altre dove non c’erano
le ODA furono nominate persone che
in qualche modo presenziassero alle
riunioni delle Caritas.
Un caso emblematico fu quello
di Genova. Così lo presenta mons.
Nervo nelle sue memorie. «Indimenticabile il primo incontro con il card.
Giuseppe Siri. L’avevamo invitato al
primo incontro con le Caritas della
Liguria. “Che cosa ci portate di nuovo da Roma? – disse –. Noi la Caritas
(Auxilium) l’abbiamo già dal 1965”.
Io, rispettosamente, ma chiaramente
gli dissi: “La Caritas l’avete fatta voi
vescovi. Dovete dirci voi cosa volete
che facciamo”. “Non divaghiamo” –
continuò, e ripeté la stessa domanda.
A quel punto, prosegue Nervo,
«intervennero in diversi per chiarire
le finalità della Caritas. Egli ascoltò in
silenzio, poi concluse: “Il tempo destinato a voi è passato”. Si alzò e se ne
andò. Noi rimanemmo molto male. Io
poi ero preoccupato, perché il card.
Siri era uno dei tre vicepresidenti della
CEI. Qualche giorno dopo, per parare
il colpo, gli chiesi udienza. Mi accolse
con molto garbo. Gli chiesi i suoi consigli per avviare le Caritas diocesane.
Mi ascoltò e mi diede ottimi consigli.
Forse aveva più bisogno di essere riconosciuto come maestro che come
discepolo».
La situazione si sbloccò tre anni
dopo, in occasione del disastroso terremoto del Friuli. Nervo presente quasi
costantemente sul territorio, accanto
al vescovo, mons. Battisti, colse un’esigenza profonda nelle popolazioni:
quella di non essere abbandonate e di
avere accanto altre comunità che le accompagnassero e le sostenessero nella
lunga fase della ricostruzione. Ed ebbe
l’intuizione dei gemellaggi. Chiese alle
Caritas diocesane di farsi carico di una
delle parrocchie colpite dal sisma e di
seguirle con una presenza permanente,
che poteva durare anche anni.
Le Caritas che accettarono – oltre
un centinaio – dovettero organizzarsi,
sensibilizzare le comunità parrocchiali,
mobilitare il volontariato, continuare
a raccogliere fondi, organizzare periodici incontri. Furono preziosi in questa
circostanza gli obiettori di coscienza e
le ragazze dell’anno di volontariato.
Lentamente le Caritas nelle diocesi si
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strutturarono in modo da rispondere a
esigenze varie, concernenti le finalità
articolate fissate nello statuto.
Anima del primo
Convegno ecclesiale
Un momento prezioso per il lancio
delle Caritas fu il primo Convegno della Chiesa italiana, tenuto nell’autunno
del 1976 sul tema «Evangelizzazione
e promozione umana», nato dal piano
pastorale Evangelizzazione e sacramenti.
Nervo lavorò con molto impegno all’interno del comitato promotore, accanto
a personaggi importanti, quali Bartolomeo Sorge, Giuseppe Lazzati, Pietro
Scoppola, Vittorio Bachelet, Domenico
Rosati.
Sulla linea della Chiesa dei poveri,
Nervo presentò la relazione su «Evangelizzazione ed emarginazione», sintetizzando centinaia di relazioni provenienti dalle Chiese locali, e riassunse il
tutto in un’affermazione: «Le Chiese
locali non esprimono mai con una parola sola la situazione dei “non promossi”: usano due o tre di questi termini: gli
ultimi, i deboli, i poveri, gli emarginati. Il vocabolario marxista usa un solo
termine, il sottoproletariato. Anche il
Vangelo usa un termine solo: i poveri. I primi da curare nella promozione
umana sono i non promossi, i bocciati.
“Evangelizzare pauperibus, misit me”, ha
detto Gesù. Questo è anche il compito
della Chiesa».
Nel Convegno ecclesiale, nella sesta
commissione, guidata da un altro membro della Caritas italiana, emerse una
proposta: le Chiese dovrebbero portare
avanti la causa della pace, attraverso
la promozione degli obiettori di coscienza, per consentire ai giovani, oltre
a promuovere la cultura della pace,
anche di fare esperienza di servizio ai
poveri: inoltre dovrebbero allargare
questa esperienza di servizio anche alle
ragazze, proponendo un anno di volontariato sociale.
La proposta ripresa da p. Sorge nella relazione finale ottenne un applauso
prolungato dell’intera assemblea. La
CEI dovette prenderne atto e chiese
alla Caritas d’avviare l’esperienza giovanile, che durò fino a quando non fu
sospeso l’obbligo del servizio militare.
Circa 100.000 giovani attraversarono
questa preziosa esperienza educativa:
ne uscirono anche vocazioni sacerdotali
e religiose, ma soprattutto laici impegnati nella vita civile, nel volontariato,
nell’ambito della pace. Per le Caritas
diocesane furono una preziosa occasione di ringiovanimento e di creatività.
Uno degli insegnamenti di papa
Montini che mons. Nervo portò impresso nella propria mente e che cercò
di diffondere con vigore nel suo servizio
pastorale, fu la precisazione sull’identità
della Caritas, come organismo ecclesiale caratterizzato dalla «prevalente funzione pedagogica». «La vostra azione
non può esaurire i suoi compiti nella
pura distribuzione d’aiuto ai fratelli bisognosi. Al di sopra di questo aspetto
puramente materiale della vostra attività, emerge la sua prevalente funzione
pedagogica, il suo aspetto spirituale che
non si misura con cifre e bilanci, ma con
la capacità che essa ha di sensibilizzare
le Chiese locali e i singoli fedeli al senso
e al dovere della carità, in forme consone ai bisogni e ai tempi».
Educare alla carità
Queste ultime parole fanno capire
che si trattava di un impegno pedagogico, realizzato non con trattazioni teoriche, quanto invece di una pedagogia
dei fatti, di uno stile della carità vissuto
nell’affrontare i problemi concreti dei
poveri, il modo d’accoglierli, il rispetto
della loro dignità, la difesa dei loro diritti, il loro coinvolgimento nella soluzione
dei problemi che li riguardavano, il farli
sentire soggetti, non oggetto di cura.
I nodi da sciogliere erano sostanzialmente due: il primo, aiutare le comunità cristiane (diocesi e parrocchie) ad
assumere il servizio della carità cristiana in prima persona, non delegandolo
a qualche associazione di volontariato.
Nervo era solito usare l’analogia con la
catechesi e l’amministrazione dei sacramenti. Nessuna parrocchia si sarebbe
mai sognata di appaltare il primo annuncio e la catechesi a qualche associazione cristiana: si trattava di funzioni irrinunciabili e da gestire in proprio dalla
parrocchia, in piena e diretta responsabilità. Questo invece non avveniva per
l’esercizio della carità. Evidentemente
non era passata l’idea che l’esercizio
della carità faceva parte dell’impegno
d’evangelizzazione della Chiesa.
Il secondo nodo stava nell’esercitare
XLIV
un servizio di carità che fosse genuinamente cristiano, cioè che esprimesse e
incarnasse le caratteristiche dell’amore
di Dio, rivelate in Gesù: l’universalismo
(quindi un’attenzione preferenziale agli
ultimi), la condivisione (quindi il superamento della semplice elemosina), la
dimensione promozionale e liberatoria
(quindi il superamento dell’assistenzialismo e la rimozione delle cause della
povertà). L’esercizio della carità doveva
perciò essere e apparire come un annuncio – attraverso i fatti – della carità
del Signore.
Questi due obiettivi implicarono
anzitutto uno sforzo intenso di sensibilizzazione, attuato attraverso la produzione di una mole notevole di sussidi
didattici predisposti ogni anno, a uso
delle parrocchie e dei gruppi di volontariato, particolarmente nei tempi forti
dell’Avvento e della Quaresima, riferiti
rispettivamente ai problemi della povertà presente in Italia e alla povertà nel
Terzo mondo.
Ma l’educazione alla carità si sviluppò anche in occasione degli innumerevoli incontri tenuti personalmente
da mons. Nervo e dai suoi collaboratori nelle diocesi e anche nei vicariati
e nelle parrocchie. Dovunque lo chiamassero, Nervo non si negava mai, anche perché a mano a mano che le Caritas diocesane si sviluppavano, fiorivano
ovunque nuove preziose esperienze,
che venivano recepite da Nervo e fatte
conoscere ad altre comunità, come iniziative possibili, se non altro perché già
sperimentate.
Nervo era un viaggiatore instancabile, partiva con la sua borsa usurata,
conosceva ormai tutte le opportunità
ferroviarie – tanto che scherzando gli
dicevamo che avrebbe potuto richiedere la pensione da ferroviere –, arrivava
puntualissimo, silenzioso, discreto, sempre preparato, giacché scriveva tutto
quanto avrebbe detto a voce, con gli
esempi collocati nel posto giusto, per
essere più incisivo.
Teologia della carità
Dopo i primi dieci anni di lavoro
intenso, le Caritas diocesane erano state avviate in quasi tutte le diocesi. Segnavano invece il passo le Caritas parrocchiali: erano state istituite solo nel
30% delle parrocchie e non tutte erano
XLV
«autentiche»: in molte parrocchie esse
esaurivano il loro impegno nella distribuzione di viveri e di vestiti, ignorando
l’animazione comunitaria, tanto che
spesso emergevano conflitti di competenza con la San Vincenzo.
Una riflessione attenta, compiuta nella Caritas italiana, condusse alla
conclusione che il difetto stava «nel
manico», cioè nella carenza teologica
e pastorale della formazione impartita
nei seminari e nell’insufficiente aggiornamento conciliare dei sacerdoti. Un
rilievo in tal senso era stato espresso dal
card. Martini, in un convegno nazionale
promosso dalla Caritas sul volontariato
nel 1981. L’arcivescovo di Milano aveva affermato: «Nella Chiesa italiana si
sono registrati seri approfondimenti sul
rapporto “Parola – Chiesa”, così pure
sul rapporto “sacramenti – Chiesa”: invece esiste ancora una scarsa riflessione
sul rapporto “fede e carità”».
Mons. Nervo ebbe allora l’intuizione d’invitare le tre associazioni teologiche italiane, quella dei biblisti (Associazione biblica italiana, ABI), quella dei
sistematici (Associazione teologica italiana, ATI) e quella dei moralisti (Associazione teologica italiana per lo studio
della morale, ATISM) a un seminario di
ricerca, organizzato a Palidoro (Roma)
nel 1984, per offrire un contributo teologico e culturale su una serie di interrogativi:
– la collocazione della diaconia della carità nel quadro della pastorale organica e il rapporto conseguente con la
liturgia e la catechesi;
– il significato delle opere caritative
della Chiesa nel contesto sociale italiano: limitarsi a opere «segno» o preoccuparsi di occupare spazi nell’ambito dei
servizi sociali?
– la presenza dei cristiani nella promozione della giustizia e nella difesa dei
diritti dei poveri.
I teologi concludevano il loro seminario con due auspici: lo sviluppo
dell’approfondimento del tema della
carità, sotto un approccio multidisciplinare e con l’attenzione alle suggestioni
provenienti dalla società; l’inserimento
della disciplina «Teologia e pastorale
della carità», nell’iter formativo dei candidati al sacerdozio.
L’appello emerso dal seminario di
Palidoro fu accolto dall’Università la-
teranense, dalla Facoltà teologica di
Napoli e dalla Facoltà teologica di Cagliari. Inoltre diversi seminari diocesani o interdiocesani chiesero ai direttori
Caritas del territorio di tenere una serie
di incontri con gli studenti di teologia
dell’ultimo anno, allo scopo di facilitare
quanto auspicato dal Concilio: i presbiteri, in quanto guide ed educatori del
popolo di Dio devono curare «che ciascuno dei fedeli sia condotto dallo Spirito Santo a praticare una carità sincera e
operosa» (Presbiterorum ordinis, n. 6; EV
1/1258).
Il «no» di Andreotti
Lo spazio dove mons. Nervo sperimentò in maniera magistrale la sua capacità organizzativa e simultaneamente
la prevalente funzione pedagogica che
caratterizza l’azione della Caritas fu
quello delle emergenze. Le emergenze,
per definizione, non sono programmabili, esplodono improvvisamente e
richiedono prontezza negli interventi,
creatività e capacità d’adattamento alle
situazioni specifiche. Le emergenze abbondarono nel periodo della sua presidenza: ce ne furono una quindicina,
in media una all’anno. Mi permetto di
ricordarne tre delle più impegnative,
nelle quali Nervo ha incarnato alcuni
valori fondamentali della sua visione
di carità: il terremoto del Friuli, l’accoglienza dei profughi del Sud-est asiatico, la siccità nel Corno d’Africa.
Dell’emergenza terremoto del Friuli
abbiamo già parlato. In essa Nervo ha
fatto risplendere l’idea di carità come
alleanza. Egli aveva avvertito che dopo
il primo periodo nel quale le presenze
e gli aiuti abbondavano, la gente terremotata finiva per rimanere sola, con
la sua disperazione, legata alla perdita
delle persone care e delle cose.
Era il periodo in cui diminuiva l’attenzione dei «media» e insieme calava
anche la speranza della ricostruzione.
Era il periodo in cui si registravano più
numerosi i tentativi di suicidio. Di qui
l’intuizione originale dei «gemellaggi»,
che impegnavano le comunità cristiane
per lunghi periodi di anni ad assicurare una presenza fisica, e, attraverso la
costruzione di «Centri della comunità»,
si aiutavano i terremotati a sentirsi comunità, sotto il profilo civile e religioso.
I gemellaggi furono percepiti come una
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T3_grilli-maleparampil:Layout 1 05/02/14 11.41 Pagina 1
A CURA DI
M. GRILLI – J. MALEPARAMPIL
Il diverso
e lo straniero
nella Bibbia
ebraico-cristiana
Uno studio esegetico-teologico
in chiave interculturale
B
iblisti di tutto il mondo si confrontano
sulla comprensione che i libri dell’Antico
e del Nuovo Testamento esprimono nei confronti del «forestiero». La sfida è il passaggio
dall’estraneità all’ospitalità, perché il rumore
assordante del potere – nella società come nella Chiesa – non sommerga chi non ha voce.
«EPIFANIA DELLA PAROLA»
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6-03-2014
9:10
JOSÉ MARÍA RECONDO
Il cammino
della preghiera
in René Voillaume
R
ené Voillaume (1905 - 2003), sacerdote e teologo francese, è il fondato-
re dei Piccoli Fratelli di Gesù. Lo studio permette di penetrare più a fondo nell’intuizione di Charles de Foucauld esplicitata
da Voillaume: immergersi nelle fonti vive
del vangelo e nelle profondità dell’amore
di Dio e del prossimo.
«CAMMINI DELLO SPIRITO»
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Pagina 1
L
ibri del mese
provvidenza, per le comunità disastrate.
La regione Friuli volle dimostrare la sua
riconoscenza, offrendo a mons. Nervo
la laurea honoris causa.
La seconda grande emergenza riguardò i rifugiati del Sud-est asiatico.
Li chiamavano «uomini delle barche»:
erano vietnamiti, laotiani, cambogiani,
che tentavano di scappare con piccole
imbarcazioni dalla dittatura comunista
dei loro paesi, per approdare in Malesia o sulle coste della Thailandia. Il governo della Malesia aveva già accolto
70.000 profughi vietnamiti, ma vedendo che nessun aiuto veniva dall’Occidente, aveva deciso di rimettere in mare
i nuovi che arrivavano, offrendo loro
solo un po’ di cibo, e ributtandoli in
mare: i respingimenti, di cui parliamo
oggi, hanno una storia antica. Inutili risultarono gli appelli dei capi religiosi ai
credenti del mondo perché accogliessero i rifugiati. Nervo era in Malesia per
alcuni progetti di sviluppo.
Quando ritornò in Italia sottopose
al Governo, guidato dall’on. Andreotti,
il problema e la proposta d’accogliere
almeno un piccolo nucleo di profughi.
Ne ricavò un netto diniego. Non si
scoraggiò: assieme a varie associazioni
cattoliche, impostò una campagna di
pressione sul Governo e dopo cinque
mesi, in vista delle imminenti elezioni,
il Governo cedette e concesse l’ok, a
condizione che la Caritas garantisse per
due anni casa e lavoro ai rifugiati.
Dottrina incarnata
Ecco come scrive Nervo: «Probabilmente il Governo pensava che per ben
pochi casi saremmo riusciti a garantire
casa e lavoro. Invece lanciammo un
appello alle diocesi, alle Caritas diocesane e alle associazioni e pervennero
disponibilità di abitazione e lavoro per
ben 10.000 famiglie. Affiancammo le
ambasciate italiane per andare nei campi profughi della Malesia e della Thailandia e raccogliere i nomi di quanti
desideravano venire in Italia, fornimmo
gli interpreti pescati tra i religiosi e le
religiose che studiavano in Italia. Alla
fine riuscimmo a sistemare 3.000 famiglie». L’aspetto che emerse da questa
esperienza fu quello della carità vista
come «stimolo e completamento della
giustizia», così come ci aveva insegnato
sapientemente Paolo VI.
Il terzo episodio che considero eccezionale fu la siccità che colpì l’Eritrea
nel 1984. Si trattava di un fenomeno
purtroppo ricorrente per quel paese
e per tanti altri paesi dell’Africa, con
il retaggio di migliaia di morti, di lunghe processioni di mamme con i loro
bambini che si spostavano da una zona
all’altra alla ricerca disperata di un po’
di cibo e di un po’ d’acqua. Nervo prese la decisione d’intervenire soprattutto
nella prevenzione.
Con l’aiuto del direttore di Caritas Eritrea, progettò la costruzione di
22 dighe, con l’obiettivo di trattenere
l’acqua che cadeva abbondante nella stagione delle piogge e che spariva
rapidamente e la perforazione di circa
400 pozzi, uno per ogni villaggio. Nella costruzione delle dighe fu coinvolta
attivamente la popolazione, uomini
e donne, che ricevevano farina e olio
in cambio del lavoro. L’operazione fu
guidata da una ditta di Belluno, esperta in questi interventi, ma si fissò nel
contratto che doveva preparare fin dai
primi mesi operatori del luogo.
Il progetto raggiunse due obiettivi:
la popolazione considerava le dighe
come loro strumenti di sviluppo; inoltre uscirono molti tecnici preparati ed
efficienti, in grado perfino di riparare le macchine perforatrici dei pozzi,
senza dover ricorrere all’Italia e senza
doverne dipendere. Una carità questa,
veramente promozionale e che applicò
l’indicazione del Concilio: «Si eliminino
non solo gli effetti ma anche le cause»
della povertà; «l’aiuto sia regolato in
modo tale che coloro i quali lo ricevono, vengano poco a poco liberati dalla
dipendenza altrui, e diventino autosufficienti» (Apostolicam actuositatem, n. 8;
EV 1/946).
L’indicazione dottrinale è affascinante: Nervo ha saputo incarnarla nel
vissuto storico.
Giuseppe Benvegnù Pasini
1 Questo testo riproduce, con piccoli aggiustamenti redazionali, l’intervento pronunciato da
mons. Pasini in occasione della presentazione del
volume L’alfabeto della carità. Il pensiero di Giovanni Nervo «padre» della Caritas Italiana, EDB,
Bologna 2013, avvenuta a Roma il 13 dicembre
scorso.
www.dehoniane.it
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XLVI
L
L ibri del mese / schede
Per la redazione delle Schede di questo numero hanno collaborato:
Giancarlo Azzano, Marco Bernardoni, M. Caterina Bombarda, Eleonora Corti, Andrea Franzoni, Maria Elisabetta Gandolfi, Marco
Giardini, Manuela Panieri, Valeria Roncarati, Daniela Sala, Domenico Segna, Piero Stefani.
I Libri del mese si possono acquistare:
per telefono, chiamando lo 051 3941522
per fax, inviando un ordine allo 0513941577
per e-mail, scrivendo a [email protected]
online, acquistandoli presso www.libreriacattolica.it/
per posta, scrivendo a Centro editoriale dehoniano,
Via Scipione Dal Ferro, 4 - 40138 Bologna
Sacra Scrittura, Teologia
Ambrosiaster, Frammenti esegetici su Matteo. Il Vangelo di Matteo
(Mt 24,20-42), Le tre misure (Mt 13,33), L’apostolo Pietro (Mt 26,51-53.72-75.
Introduzioe, testo, traduzione e commento a cura di A. Pollastri, EDB, Bologna 2014,
pp. 466, € 42,50. 9788810420645
I
l n. 50 di «Biblioteca patristica» offre l’edizione riveduta (le precedenti
sono del 1903-1904) dei frammenti esegetici attribuiti all’Ambrosiaster
che contengono un’interpretazione di alcune porzioni di testo del Vangelo
di Matteo che fanno emergere l’interesse dell’a. per gli ultimi tempi: lo
sguardo rivolto alla parusia del Signore sollecita l’agire dell’uomo nell’oggi
della storia, di fronte alle diverse circostanze che lo interpellano (rapporto
con il potere politico, con le osservanze religiose, con le esigenze derivanti
dall’adesione a Cristo). Il contesto storico e dottrinale che traspare dall’opera consente di ambientarla nella seconda metà del IV secolo. Essa manifesta significative corrispondenze con i commentari paolini e le Quaestiones
Veteris et Novi Testamenti dell’Ambrosiaster, tali da indurre a ritenere che sia
uscita dalla sua mano.
Servizio a cura di Maria Elisabetta Gandolfi
Chiodi M., Teologia morale fondamentale, Queriniana, Brescia
2014, pp. 570, € 38,00. 9788839924216
P
rimo tomo di un’opera articolata in 7 voll., il presente studio è il frutto
di vent’anni d’insegnamento di morale fondamentale presso la Scuola
di teologia del Seminario di Bergamo; l’Istituto superiore di scienze religiose e di corsi di specializzazione che dal 1995 l’a. ha tenuto presso la Facoltà
teologica dell’Italia settentrionale. Che cosa sia la morale e quale sia il suo
rapporto con la teologia è la questione cruciale che sta alla radice di questo
vol. diviso in due parti: la I descrive i tratti caratteristici dell’esperienza
morale nella postmodernità; la II riprende sistematicamente le categorie
fondamentali che articolano l’esperienza universale della coscienza nel suo
originario rapporto con Dio.
Ferrario F., Bonhoeffer, Carocci, Roma 2014, pp. 263, € 18,00.
9788843071098
E
nnesima biografia sul grande teologo tedesco ucciso dai nazisti per
ordine di Hitler pochi giorni prima della fine della Seconda guerra
mondiale? No, forse qualcosa di più. Certamente l’intento dell’a., pastore valdese e docente di Teologia sistematica presso la Facoltà teologica
valdese, è divulgativo; eppure proprio in questo sta la sua originalità. Il
testo agile, essenziale, preciso nel ripercorrere i tratti biografici, rigoroso
nella disamina degli snodi fondamentali dell’esistenza e delle opere di B.,
permette d’entrare a contatto con un pensiero teologico che ancora ci precede, che ci stimola a tornare a riflettere sulla Resistenza e sulla Resa che
tanta parte hanno avuto sugli sviluppi della teologia successiva. Da leggere
e, soprattutto, da mettere a confronto con l’altro grande studioso di B., il
cattolico Alberto Gallas a cui il testo di Ferrario risponde da un punto di
vista evangelico.
Mancuso V., Il principio passione, Garzanti, Milano 2013, pp. 495,
€ 18,80. 9788811601319
Q
on l’espressione «distinzione mosaica», l’egittologo tedesco Assamann
non intendeva descrivere un capitolo della storia del monoteismo, ma
la storia di un’idea: l’idea di una verità esclusiva ed empatica, che separa
Dio da tutto ciò che non è Dio, che divide la religione dalla superstizione e
che trova la sua espressione più chiara non nella frase «Dio è uno!», ma nel
comandamento «Non avrai altro Dio!». Il presente vol. riprende e discute
questa tesi sotto l’angolo visuale di diverse prospettive storiche e culturali.
uesto libro è interessante per chi si pone delle domande sul senso
della vita e del mondo in cui vive. Il testo testimonia anche quante
strade l’uomo abbia battuto nel tentativo di svelare la verità. Una lettura
questa che richiede impegno ma non delude. L’a. nella sua analisi affronta
problemi di metodologia, di teologia, di biologia e di fisica nel tentativo di
superare le aporie che nascono quando s’intrecciano il tema di Dio, della
natura e dell’uomo: creazione o evoluzione, finito o infinito, caos o logos.
La riflessione di Mancuso mette capo all’idea di creazione continua dove
Dio e l’uomo sono impegnati insieme a dare senso a tutto ciò che accade
nel microcosmo come nel macrocosmo, nelle vicende umane dei gruppi
come nei singoli. Questo è il dramma in cui non sono le scienze naturali
e neppure la teologia come disciplina autonoma a trovare la direzione del
nostro pensare e del nostro agire ma la figura di Cristo, paradigma del
«principio passione».
Böttigheimer C., Comprendere la fede. Una teologia dell’atto di fede,
Queriniana, Brescia 2014, pp. 282, € 28,00. 9788839904676
Neusner J., Il giudaismo nei primi secoli del cristianesimo,
Morcelliana, Brescia 22013, pp. 172, € 16,00. 9788837226909
L
P
Ballanti Celada R., Ghia F. (a cura di), Jan Assmann e la «distinzione mosaica», Humanitas 5/2013, Queriniana, Brescia 2013, pp. 192,
€ 16,00. 9788837227340
C
a fede è un concetto chiave del cristianesimo. All’interno della teologia
fondamentale il discorso sulla fede può essere articolato sostanzialmente in due modi: il primo prende in considerazione determinate proposizioni di fede per dimostrarne la ragionevolezza; il secondo si concentra invece
sullo stesso atto di fede. Il vol. si occupa di questo secondo aspetto. Lo
scopo dell’a. è quello di elaborare una teoria teologico-sistematica dell’atto
di fede analizzando, in particolare, la relazione che quest’ultimo intrattiene
con la Rivelazione, la ragione e l’esperienza.
Brunini M., «Vi chiamo amici». Le conversazioni di addio nel Vangelo di
Giovanni, EDB, Bologna 2014, pp. 231, € 20,00. 9788810211366
N
el Vangelo di Giovanni, Gesù e i discepoli condividono un momento
di difficoltà e insieme cercano di intravedere atteggiamenti e percorsi
per affrontare il futuro. È la narrazione riportata nei cc. 13-17, comunemente chiamati «discorsi di addio», perché collocati dall’evangelista poco
prima della passione e della morte di Gesù. Il vol. coglie sollecitazioni e
stimoli per rileggere il rapporto personale con Cristo e la sua incidenza
nella vita e nella missione delle comunità ecclesiali.
XLVII
ensato per coloro che si accingono alla studio del Nuovo Testamento
e del cristianesimo delle origini, il vol. intende offrire al lettore una
descrizione ben documentata e accessibile del mondo ebraico nella terra di
Israele al tempo in cui visse e prese forma l’insegnamento di Gesù.
Lupieri E., Giovanni e Gesù. Storia di un antagonismo, Carocci, Roma
2013, pp. 231, € 19,00. 9788843068401
I
l vol. è una riproposizione aggiornata di un libro con lo stesso titolo
uscito nel 1991 presso Mondadori. A colpo d’occhio titolo e sottotitolo
rischiano di essere ingannevoli: fanno infatti pensare che si tratti di un
ennesimo libro dedicato al problema del Gesù storico. Non è così. L’idea
di scrivere questo testo venne all’a. tra gli indios del Messico. Anche là c’è
infatti un culto, fortemente sincretico, di Giovanni Battista considerato più
importante di Gesù. Il libro parte dai Vangeli secondo la successione Marco, Luca, Matteo, Quarto Vangelo (25-51), per passare poi a Giuseppe
Flavio (53-78). In seguito il testo entra in maniera molto articolata nel multiforme mondo della gnosi antica e del mandeismo (79-158), per affrontare
più brevemente l’islam (169-177). Si scavalca poi l’Atlantico e si giunge agli
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R2f_Messale:Layout 1 31/01/14 08.44 Pagina 1
L
Messale
festivo
Letture bibliche dal Nuovo Lezionario CEI
COMMENTI DI FRATEL MICHAELDAVIDE
ibri del mese / schede
indios mesoamericani, per approdare infine a gruppi religiosi recentissimi,
dispersi nella nebulosa della New Age (177-196). Si è dunque di fronte a un
panorama ben più ampio di quello che si è consueti incontrare negli studi
neotestamentari; da qui l’originalità e l’utilità del libro.
Piana G., Introduzione all’etica cristiana, Queriniana, Brescia
2014, pp. 255, € 15,50. 9788839908674
I
l vol. – che si compone in diverse parti di contributi già pubblicati dall’a.
In novità di vita, I: Morale fondamentale generale (Cittadella, 2012) – intende,
attraverso il suo carattere introduttivo, liberare l’etica cristiana, e più precisamente quella cattolica, dalle identificazioni negative sviluppatesi soprattutto in epoca moderna. La proposta della rivelazione biblica è per l’a. di
tutt’altro tenore. Pur avendo senza dubbio connotati esigenti, essa ha un
orientamento positivo, in cui alla «radicalità della proposta fa da contrappunto l’esperienza di una profonda libertà interiore».
Scaiola D., La donna perfetta. Interpretazioni di un poema biblico, EDB,
Bologna 2014, pp. 51, € 6,00. 9788810555231
L’
antico libro biblico dei Proverbi si conclude con un poema dedicato al
sorprendente ritratto di una donna eroica, perfetta, «di valore». Non
sappiamo se si tratta di una figura reale, della destinataria di un elogio
funebre o della personificazione della Sapienza. Contro l’idea di perfezione femminile celebrato nella poesia erotica diffusa nelle corti reali e
negli harem del Vicino Oriente antico, il libro dei Proverbi glorifica una
donna impegnata in normali affari famigliari e sociali che realizza con
decisione anche ciò che, nel mondo antico, è normalmente di competenza
dell’uomo.
Theobald C., Charru P., La teologia di Bach. Musica e fede nella tradizione luterana, EDB, Bologna 2014, pp. 47, € 5,50. 9788810555279
B
I
l Messale quotidiano con gli apprezzati commenti
di fratel MichaelDavide è ora proposto con i soli
testi per la liturgia domenicale, unitamente ai giorni
di festa e alle solennità. In formato tascabile, l’ingombro ridotto non pregiudica la leggibilità, grazie all’utilizzo di due colori nell’impaginazione. Una rubricatura
visibile sul taglio della pagina permette di individuare
velocemente le varie parti in cui il volume è struttu-
ach trova nella tradizione luterana un’intelligenza teologica e spirituale
che orienta in modo profondo il suo lavoro di musicista. La gioia alla
quale il brano fa riferimento è segnata contemporaneamente dalla presenza e dall’assenza dell’amata, fenditura in cui si forma il desiderio mentre
il cuore si angoscia e sospira. In questo spazio si genera un autentico combattimento spirituale, che cerca il faticoso equilibrio tra l’intelligenza e il
cuore e che consente a Bach di superare la contrapposizione tra pietismo e
ortodossia. Il testo è stato inizialmente pubblicato in Regno-att. 8,2013,249.
Wénin A., Il bambino conteso. Storia biblica di due donne e un re, EDB,
Bologna 2014, pp. 40, € 6,00. 9788810558133
L
a storia biblica, narrata nel Primo libro dei Re e scelta per illustrare la
sapienza di Salomone all’inizio del suo regno, ha almeno una ventina
di versioni nella letteratura del folclore universale e in racconti dell’India
e della Cina.
Ravasi G., Daniele e l’apocalittica. Conque conferenze tenute al Centro culturale S. Fedele di Milano, EDB, Bologna 2014, CD, € 17,40. 8033576840444
rato. Numerosi e dettagliati indici facilitano la ricerca.
Reggi R. (a cura di), Luca. Traduzione interlineare italiana, EDB, Bologna
2014, pp. 111, € 11,00. 9788810821039
«LITURGIA VIVA»
Pastorale, Catechesi, Liturgia
pp. 888 - € 17,50
DELLA
MESSALE QUOTIDIANO
Festivo e feriale
STESSA SERIE
pp. 2552 - € 39,50
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Andate anche voi. Educazione alla missionarietà per una nuova evangelizzazione,
In Dialogo, Milano 22013, pp. 101, € 7,50. 9788881238507
N
uova edizione del sussidio che costituisce il naturale complemento di
un primo vol., Andate!, riedito nel 2006. I due libri scaturiscono dall’esperienza ultradecennale di un gruppo di catechesi pre e post-battesimale,
che affida a genitori il compito di condurre una catechesi nelle case delle
coppie in procinto di battezzare il figlio e negli anni immediatamente successivi. L’esperienza costituisce un esempio di nuova evangelizzazione e
incarna la missionarietà delle comunità cristiane mature, in cui i laici sono
corresponsabili della pastorale.
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A CURA DI
Associazione italiana catecheti, Vie del bello in catechesi. Estetica ed educazione alla fede. A cura di D. Marin, Elledici, Cascine Vica (TO) 2013,
pp. 224, € 21,00. 9788801053975
L’
idea di mettere al centro la «via della bellezza» nell’educazione alla
fede raccoglie nella tradizione sollecitazioni antiche e nuove. Del
tema si è occupata l’Associazione italiana catecheti, che nel settembre del
2012 vi ha dedicato il suo convegno nazionale, di cui il vol. pubblica gli atti.
I contributi raccolti sono organizzati in tre sezioni: «l’orizzonte di fondo»
(declinazioni del rapporto tra bellezza e fede); «nodi e criteri educativi»
(bellezza e catechesi); «modelli e percorsi» (alcune proposte catechetiche in
forma aperta e sperimentale).
Barberi G., Spedicato G., La partecipazione giovanile alla messa. Gli studenti del liceo Omero di Milano (1983-2008), Marcianum Press, Venezia 2014, pp. 120, € 13,00. 9788865122365
A
lettori molto competenti di sociologia e statistica vengono proposti i
dati derivati da una serie di interviste somministrate tra il 1983 e il
2008 agli studenti di un liceo classico di Milano. Le risposte provengono
per la maggior parte dagli studenti che si avvalgono dell’ora di religione,
tuttavia anche tra questi la partecipazione alla messa in questi 25 anni
si rivela in calo. Illuminanti le considerazioni e valutazioni espresse dagli
studenti sulle varie parti della celebrazione liturgica.
Cabra P.G., Credo. Il contenuto della fede cristiana, EDB, Bologna 2014,
pp. 55, € 5,50. 9788810512180
I
DINO DOZZI
Matteo: il Vangelo
della Chiesa
P
rosegue l’itinerario di spiritualità sui libri
biblici visti alla luce del messaggio di
san Francesco e dell’attualità. Si parte dal
testo biblico (la sezione Parola...), si osserva
come esso è stato recepito e vissuto nel
francescanesimo (...e sandali...), per arrivare
infine alle sfide dell’oggi (...per strada). Il
tutto «con brevità di sermone»: un modo
semplice e chiaro di presentare una visione
cristiana e francescana della vita.
«LA BIBBIA DI SAN FRANCESCO»
pp. 272 - € 22,00
NELLA STESSA COLLANA
RUT E LE ALTRE
LA BIBBIA AL FEMMINILE
pp. 224 - € 19,50
l dialogo tra il Maestro e i discepoli espone meglio di tanti trattati teolo-R1f_Bianchi:Layout 1 19-01-2014 17:25 Pagina 1
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Edizioni
gici il contenuto della fede cristiana: Cristo, la sua persona e il rapporto
con lui. Come tutte le relazioni, anche questa ha bisogno d’essere espressa
Dehoniane Tel. 051 3941511 - Fax 051 3941299
in una forma determinata, che può divenire di volta in volta riflessione,
Bologna
preghiera, regola o discorso. Per vivere in pienezza questo rapporto, la
Chiesa ha tramandato nei secoli il tesoro prezioso del Credo. Gli articoli
che l’a. ha scritto per il mensile Testimoni entrano nel vivo del testo, ma
lo fanno con il passo umile e incerto del fedele che interpreta il mistero
attraverso la vita.
UISITO IANCHI
www.dehoniane.it
L
Cànopi A.M., Dio amico dell’uomo. Il Vangelo della fedeltà, Paoline, Milano 2014, pp. 122, € 9,00. 9788831544405
I
l libro vuole mostrare che «il Vangelo non è altro che il mirabile documento della fedeltà e dell’amicizia di Dio nei confronti della creatura
umana». Esso si divide in due parti, rispettivamente dedicate alla fedeltà e
all’amicizia nei confronti di Dio, ma appunto partendo dalla consapevolezza che è egli per primo ad avere questi atteggiamenti verso l’uomo, così
come ci rivela Gesù. Il testo propone dunque diversi passi evangelici con riferimenti alla fedeltà e all’amicizia, ne fornisce brevi commenti e infine li fa
seguire da preghiere dell’a. Per la sua agilità e la sua struttura, il libro può
essere utilizzato per guidare i momenti di preghiera personale quotidiana.
Carrarini S., L’esilio, tempo di crisi e di speranza. Traumi, sofferenze, progetti del popolo ebreo a Babilonia, Gabrielli, San Pietro in Cariano (VR)
2014, pp. 158, € 12,00. 9788860992017
S
acerdote, parroco a Bosco di Zevio (VR), appassionato di sacra Scrittura. Il vol. pubblica alcune meditazioni dell’a. attorno a uno snodo
fondamentale della storia e della coscienza d’Israele: gli anni di esilio in
terra di Babilonia. A partire dalla Scrittura, vengono proposti 7 «esercizi»
di meditazione non tanto sulla «crisi», ma «nella crisi», aperti a spunti di
possibile attualizzazione: seguire «il popolo ebreo in quei suoi duri, intricati ma fecondi anni di esilio» per vedere «qualche luce che possa illuminare
il nostro cammino nel buio della crisi globale».
Carson D.A., Fallacie esegetiche, GBU, Chieti 2013, pp. IX + 160,
€ 12,00. 9788896441442
L
a fallacia, le fallacie: in campo esegetico significa valutare le conseguenze di esse. Commettere un errore nell’interpretazione della Scrittura ha, infatti, ricadute pratiche sulla vita della Chiesa. L’a. con questo
suo lavoro si propone di segnalare alcuni tra gli errori più comuni che si
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B
Lettera
all’amico vescovo
A CURA DI MARCO D’AGOSTINO
E DEL FONDO LUISITO BIANCHI
P
uò un prete servire liberamente e gratuitamente il Vangelo nella Chiesa, se
riceve uno stipendio per il ministero che
svolge? Questo interrogativo attraversa le
pagine della profetica Lettera che don Luisito Bianchi – insegnante e traduttore,
prete-operaio e inserviente d’ospedale –
indirizza idealmente a un amico vescovo.
«ITINERARI»
pp. 152 - € 13,00
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L
ibri del mese / schede
compiono a livello linguistico, grammaticale, logico. Scopo ultimo dell’indagine consiste nel far prendere coscienza a colui che riveste il ruolo di pastore o comunque di predicatore, o anche di semplice appassionato lettore
della Bibbia, della necessità di un impegno sempre più rigoroso e autocritico nel momento in cui ci si pone in ambito esegetico.
Commissione episcopale per il clero e la vita consacrata della
CEI, Fare i preti. Esperienze e prospettive per la formazione permanente. A cura
di mons. F. Lambiasi, EDB, Bologna 2014, pp. 111, € 8,00. 9788810512197
I
l vol. si propone di condividere prospettive ed esperienze di formazione
permanente del clero, rilanciando una riflessione in atto da lungo tempo
nella comunità ecclesiale. La I parte suggerisce riflessioni dal punto di vista
teologico e pedagogico, mentre la II si apre con la lettura dei dati emersi
da una consultazione sulla formazione del clero che ha coinvolto circa 120
diocesi italiane.
P
erché ripercorrere la storia di Giacobbe, narrata nella Genesi? Perché
ne emerge una figura abbastanza sconcertante rispetto a quella dei patriarchi suoi predecessori: Giacobbe non è certo moralmente integerrimo,
né pare far affidamento primariamente su Dio bensì sulle proprie capacità
e sulle occasioni colte con opportunismo. Eppure, in un profilo così ambiguo e in una vicenda così poco nobile, si cela la prosecuzione dell’Alleanza.
Ciò costituisce un forte stimolo per rileggere i nostri cliché su Dio e sull’appartenenza a lui, anche avanzando critiche alle nostre comunità, spesso
conformistiche e sterili.
Previdi E., Dalle preghiere inutili all’amicizia con Dio. «O la preghiera trasforma la vita, o la vita eliminerà la preghiera», Il segno dei Gabrielli, San
Pietro in Cariano (VR) 2014, pp. 173, € 13,00. 9788860992055
L
I
a preghiera, dice l’a., è più che una serie di pratiche da applicare con
costanza: è il modo per alimentare la relazione originaria con Dio. Eppure oggi vi sono molti modi sbagliati di concepire e praticare la preghiera,
anche fra i cristiani. L’a. li smaschera, elencando i «pericoli ed errori», gli
atteggiamenti che la insidiano, «il decalogo delle preghiere inutili», passando poi in rassegna i modi di pregare basilari nella tradizione della Chiesa
e la loro bontà. Conclude il percorso una proposta di preghiere ispirate a
diverse situazioni.
Gelardi A., Alfabeto della vita morale, EDB, Bologna 2014, pp. 160,
€ 9,90. 9788810808764
Ricci M., Catechismo. Il vero significato di «Signore del cielo». Sommario: Un
sincero dibattito su Dio. Trad. e note di Sūn Xùyì, A. Olmi, ESD - Edizioni studio
domenicano – Edizioni San Clemente, Bologna – Roma 2013, pp. 499,
€ 30,00. 9788870948646
Cucchetti S., Nella luce della fede. Meditazioni sul Credo degli apostoli,
EDB, Bologna 2014, pp. 155, € 12,50. 9788810571125
l libro nasce dalla predicazione degli esercizi spirituali a gruppi di giovani nell’anno della fede e si presenta come un commento al Simbolo apostolico. Attraverso un percorso di meditazioni ed esercizi rivolti in
modo particolare ai giovani, il testo accompagna il lettore nel cammino di
progressiva trasformazione che la fede realizza nel credente.
N
essuna cosa è più intrigante, sfruttata, assolutizzata, relativizzata della
«morale». Eppure i moralisti non fanno altro che sostenere le rivendicazioni della ragione a guidare gli uomini così che possano essere felici.
Perché farsi presenti a Dio, compiendo il bene ed evitando il male, introduce l’uomo nella gioia dello Spirito, senza trascurare le altre gioie che il
Creatore mette sul suo cammino. Il vol. non propone quindi l’elenco di ciò
che è proibito. Prova a dire come essere davvero donne, uomini e cristiani
degni di questo nome.
Gianotti D., Quando dico Credo. Piccola guida al Simbolo degli apostoli,
EDB, Bologna 2014, pp. 40, € 3,50. 9788810712122
C
ompendio o «simbolo» della fede, il Credo indica prima di ogni altra
cosa la risposta mutabile (ne esistono dozzine di formule) a una Parola
immutabile che precede e interpella, che si condensa in Gesù Cristo e si
riflette nella Scrittura.
Istituto superiore di catechiesi e spiritualità missionaria, Il Catechismo della Chiesa cattolica a 20 anni dalla sua pubblicazione. A servizio della catechesi missionaria nel contesto culturale attuale. A cura di F. Placida, Elledici, Cascine Vica (TO) 2013, pp. 255, € 24,00. 9788801054972
I
l vol. raccoglie i contributi di diversi docenti dell’Istituto superiore di
catechesi e spiritualità missionaria della Pontificia università urbaniana sul Catechismo. Nei vent’anni trascorsi dalla sua pubblicazione, infatti,
il magistero e la riflessione catechistica vi hanno dedicato una crescente
attenzione e diviene dunque utile indagare questo strumento da diversi
ambiti disciplinari per interrogarsi sul suo impiego nella prassi catechistica
odierna, in particolare in un’ottica di nuova evangelizzazione, e apprezzare il suo rapporto con altri ambiti fondamentali della vita ecclesiale quali
la liturgia e le Scritture.
Köster P., Simboli e riti della fede. La celebrazione dei sacramenti, EDB,
Bologna 2014, pp. 114, € 11,00. 9788810712115
L’
a. si propone di rendere accessibili il linguaggio simbolico, le azioni
e i loro significati emotivi delle celebrazioni dei sacramenti. Accanto
a una presentazione generale del gesto che coinvolge attraverso il rito, i
simboli e la Parola, il testo offre un’introduzione alla celebrazione dei singoli sacramenti con una descrizione e una spiegazione delle singole azioni
liturgiche.
180
Mauri C., L’abito non fa il monaco. Giacobbe: chi era costui?, Centro
Ambrosiano, Milano 2013, pp. 109, € 8,90. 9788880259619
Il Regno -
a t t u a li t à
6/2014
L
a collana «I talenti», coedizione dello Studio domenicano e dello
Studio san Clemente, s’arricchisce di un prezioso tassello: una nuova
traduzione italiana del Catechismo di Matteo Ricci, missionario gesuita in
Cina, pubblicato a Pechino nel 1603. L’opera, che riporta il testo originale
cinese a fronte (nella 3a edizione del 1607), è un lungo trattato (54.711
caratteri cinesi) redatto in forma di dialogo tra un letterato cinese e uno
occidentale sul tema del «Signore del cielo» (Tianzhu Shiyi). Due saggi
introduttivi (di p. Criveller, missionario del PIME e di p. Olmi, curatore
dell’opera) offrono il contesto e alcune chiavi di lettura, mentre mons. C.
Giuliodori – vescovo di Macerata, la diocesi che ha aperto la causa di beatificazione del gesuita –firma la Postfazione.
Rocchetta C., Viaggio nella tenerezza nuziale. Per ri-innamorarsi ogni
giorno. Nuova edizione, EDB, Bologna 2014, pp. 280, € 22,00. 9788810513392
L
o studio – nuova edizione di un testo del 2003 – sviluppa il tema di una
spiritualità di tenerezza nuziale, per aiutare gli sposi a divenire sempre più consapevoli del mistero unico che vivono e proclamano al mondo.
Offre indicazioni perché i coniugi possano crescere, ogni giorno di più,
nella dimensione dell’affettività, intesa come tenerezza, che è quanto dire
reciprocità di dono, di accoglienza, di condivisione; unica via di realizzazione del desiderio di felicità che essi portano nel cuore e a cui li chiama
la grazia stessa del sacramento celebrato. Al termine di ogni capitolo sono
posti degli schemi, che consentono di concretizzare i contenuti elencati e
impostare una personalizzazione del tema.
Schmemann A., Liturgia e tradizione. Per una cultura della vita nuova,
Lipa, Roma 2013, pp. 174, € 16,00. 9788889667521
S
i pubblicano qui alcuni saggi scritti in anni diversi dal teologo ortodosso Alexander Schmemann. A trent’anni dalla sua morte, infatti, si
assiste a una fortuna del suo pensiero, giudicato di sorprendente attualità,
poiché aveva intuito che «la tragedia della Chiesa, la radice del suo male,
è il divorzio in cui si articola la sua vita. Liturgia, teologia, spiritualità,
esistenza personale dei fedeli – ogni cosa procede per conto suo». In questi
saggi – che trattano del rapporto fra teologia, liturgia e tradizione, della
natura eucaristica ed escatologica della Chiesa e di riforma liturgica – egli
soprattutto insiste sulla necessità di tornare alle radici della Chiesa, quando
la teologia non poteva che essere intimamente legata alla liturgia, l’atto in
cui la Chiesa esprime e rigenera se stessa.
L
AIMONE GELARDI
Pietà di me
Setti C.A., Il canto della fede. Preghiere dalla Parola celebrata. Presentazione e commenti di G. Bova, Edizioni Viverein, Roma 2013, pp. 353, € 25,00.
9788872634585
L’
a., sacerdote con molteplici incarichi pastorali, è profondamente
convinto della centralità per il ministero presbiterale della predicazione della Parola. In questo vol. si raccolgono delle «omelie in versi»,
cioè preghiere e meditazioni scaturite dalla lettura dei testi evangelici e
originariamente pronunciate nella basilica di san Pietro in Vaticano, dove
da anni l’a. celebra messa. Il vol. presenta il testo in versi, spesso seguito da
un commento del brano evangelico cui si riferisce e tocca quasi per intero
il ciclo dell’anno liturgico: per questo può essere un ausilio per la preghiera
personale.
Sodi M., Baroffio G., Toniolo A. (a cura di), Sacramentarium veronense. Concordantia, LAS, Roma 2013, pp. 665, € 46,00. 9788821308833
D
opo la concordanza del Sacramentario gregoriano (2012), in occasione del
50° anniversario della costituzione Sacrosanctum concilium, vede la luce
la concordanza del Sacramentario vTeronese, mentre è in preparazione quella
del Gelasiano. L’opera, che risponde all’esigenza di una conoscenza sempre
più approfondita delle fonti liturgiche, è uno strumento pensato per gli
studiosi per facilitare l’accesso e la lettura del testo originale (riportato integralmente) dell’antica raccolta eucologica attribuita a papa Leone Magno
(V sec).
Riscoprire i Salmi penitenziali
I
Sette Salmi penitenziali hanno formato
sin dalle origini della Chiesa una raccolta
a sé nei libri liturgici. Nel corso dei secoli
queste preghiere hanno nutrito la spiritualità di Israele e poi di grandi santi, hanno
ispirato artisti, scrittori e musicisti, accompagnato il cammino penitente di personaggi celebri e cristiani comuni.
«MEDITAZIONI»
pp. 104 - € 7,90
DELLO STESSO AUTORE
C’ERA UNA VOLTA...
Riscoprire il silenzio
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Trigo T., I ricordi di Jasid. Il cane della santa famiglia. Traduzione
di E. Mazzilli, illustrazioni di N. Bertelle, EMP - Edizioni Messaggero, Padova
Via Scipione
Dal Ferro,
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2013, pp. 173, € 16,00. 9788825033946
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Dehoniane
Bologna
Q
uante volte i cristiani si sono interrogati sul periodo nascosto dell’infanzia di Gesù e su come potesse essere la vita quotidiana della santa
famiglia. Questo libro immagina proprio questi aspetti e li racconta dal
punto di vista di un cane: un cagnolino bianco con una stella gialla sulla
fronte, di nome Jasid, che iniziò a vivere con Giuseppe e Maria durante la
gravidanza di lei. Attraverso questo personaggio si racconta la storia della
santa famiglia ispirandosi ai Vangeli dell’infanzia. Il libro, illustrato, può
aiutare i bambini a conoscere Gesù e il suo contesto di vita, mostrandolo
come un personaggio «in carne e ossa».
Ufficio catechistico nazionale, Dodici ceste piene… Mc 6,43.
Catechesi e formazione cristiana degli adulti. A cura di G. Benzi, P. Dal Toso, U. Montisci, Elledici, Cascine Vica (TO) 2013, pp. 198, € 20,00. 9788801055269
I
l vol. scaturisce dalla Commissione nazionale catechesi per gli adulti
dell’Ufficio catechistico nazionale (CEI) e raccoglie numerosi contributi
dedicati al tema della catechesi degli adulti, avvertito sempre più dal magistero come un ambito centrale della pastorale. I saggi sono raggruppati
in tre sezioni, rispettivamente dedicate a: nozioni teoriche sulla condizione
adulta oggi e sulla pedagogia rivolta a questa fascia d’età; considerazioni
pastorali sulla catechesi per adulti; esemplificazioni di vari ambiti di vita
sperimentati dall’adulto.
Vanhoye A., L’eucarestia sorgente di vita, ADP - Apostolato della
Preghiera, Roma 2013, pp. 72, € 6,00. 9788810555088
L’
itinerario proposto mira a mettere in rilievo tre delle ricchezze spirituali dell’eucaristia: l’atteggiamento filiale di rendimento di grazie a
Dio, la fondazione della nuova alleanza e il dinamismo di trasformazione
della vita in sacrificio d’amore. Due delle catechesi qui presentate dal biblista gesuita sono parzialmente tratte dal vol. Dio ha tanto amato il mondo, del
2003, mentre la terza è inedita.
Annunziata E., Paganelli R., Nel mistero del dolore. Via crucis,
EDB, Bologna 2014, pp. 35, € 2,80. 9788810710814
Bocci V., Cliccate e troverete… un Dio davvero speciale. Progetto La buona notizia, Elledici, Cascine Vica (TO) 2013, pp. 64, € 4,90.
9788801052565
LI
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www.dehoniane.it
rivista
di teologia
morale
Trimestrale - anno XLVI – N. 181 (1) gennaio-marzo 2014
Direzione - Redazione: Centro Editoriale Dehoniano - Via Scipione Dal Ferro, 4 - 40138 BOLOGNA
tel. 051/3941314 - fax 051/3941399 - e-mail: [email protected]
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LA GIOIA DEL VANGELO
Evangelizzazione
e messaggio morale
A. F UMAGALLI: Una morale «dal cuore
del Vangelo»
A. RIZZI: Le sfide all’evangelizzazione
oggi
G. COLZANI: L’annuncio del Vangelo
L. LORENZETTI: La dimensione sociale
dell’evangelizzazione
S. ZAMBONI: Evangelizzatori con Spirito
studi
H.M. YÁÑEZ: Indifferenza o solidarietà?
La moralità personale come cammino
di riconoscimento
M. PRODI: Le crisi dell’Occidente alla luce
della «Gaudium et spes»
A. DRAGO: Concilio Vaticano II e riforme
nonviolente delle religiosità
trimestrale
in collaborazione con
i teologi moralisti dell’atism
(associazione teologica italiana
per lo studio della morale)
convegni
S. SALUCCI: La rivelazione dell’amore
e la risposta della libertà
R. VINERBA: Custodire l’umanità.
Verso le periferie esistenziali
M. DORIGATTI: Nasce la Scuola
di Economia civile
G. CESAREO: «Evangelii gaudium».
Un testo che ci interroga
rassegna bibliografica
P.D. GUENZI: In novità di vita. Morale
socioeconomica e politica
D. SANTANGELO: Il volto umano
del marketing. Un approccio
etico-antropologico
R. PAGOTTO: Volti dell’anima russa.
Identità culturale e spirituale
del cristianesimo slavo-ortodosso
editrici e morale
itinerari atism66
Abbonamento anno 2014
ordinario in Italia
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Europa (stati UE + Svizzera)
Resto del mondo
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arretrato
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CARLO ROCCHETTA
Questo mistero
è grande
Via Crucis degli sposi per gli sposi
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12:04
Semeraro D., Nelle tue mani è la mia vita. Rosario per i malati commentato da fratel MichaelDavide, EDB, Bologna 2014, pp. 55, € 4,50.
9788810714133
«SUSSIDI PER I TEMPI LITURGICI»
pp. 44 - € 2,80
Pagina 1
a fondatrice della comunità Nuovi orizzonti, che da più di vent’anni
si dedica all’accoglienza di ragazzi di strada ed emarginati di tutti i
tipi, rielabora quasi come un «manuale», con tanto di «esercizi pratici»,
il messaggio di liberazione ed empowerment che le viene dall’incontro con il
Vangelo. La fiducia nel potere risanante dell’amore, in primo luogo per sé
stessi, ha una forza semplice e diretta che colpisce.
Bouyer L., Il senso della vita monastica, Qiqajon, Magnano (BI)
2013, pp. 294, € 29,00. 9788882274047
L
a storia della passione di Gesù narrata
dai Vangeli solleva molte domande.
Perché era diverso da colui che ci si aspettava? Perché è stato condannato a morte? I
suoi stessi discepoli non l’hanno compreso,
ma hanno interpretato la sua missione
come un fallimento e lo hanno abbandonato. Il volume risponde agli interrogativi
più profondi sulla vera identità di Gesù.
L
e Edizioni Qiqajon offrono al lettore italiano la possibilità di accostarsi al monachesimo quale straordinaria espressione della vita cristiana
pubblicando l’opera di una grande teologo francese che con passione e fervore spirituale introduce alla vocazione di chi lascia il mondo per rientrarvi
in modo più autentico: «Se questo libro riuscisse a convincere qualcuno
che non esiste cristianesimo senza lacrime, esso avrebbe realizzato pienamente l’intento dell’autore», così scrisse l’a. nel luglio del 1949, indicando
la gioia che dà la via aperta dalla Croce e che giunge alla Croce.
Recondo J.M., Il cammino della preghiera in René Voillaume,
EDB, Bologna 2014, pp. 131, € 15,00. 9788810507285
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NELLA STESSA COLLANA
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Spiritualità
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Le domande del Venerdì santo
DIMENSIONI UMANE E SPIRITUALI
Volonghi Bonomi M.R., Artingioco. Bambini alla scoperta della Bibbia attraverso l’arte, Elledici, Cascine Vica (TO) 2013, pp. 99, € 13,90.
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Amirante C., E gioia sia. Il segreto per la felicità, Piemme, Milano 2014,
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Ma Dio
è diverso
IL PERDONO
Clarisse di Cortona, Quaresima. Lectio brevis, Queriniana, Brescia
2014, pp. 181, € 13,50. 9788839932136
Messina S., Credenti o credibili? Giorno per giorno con il Vangelo di Luca,
Effatà, Cantalupa (TO) 2013, pp. 373, € 14,50. 9788874028931
HELMUT KRÄTZL
MICHEL HUBAUT
Bocci V., Le beatitudini spiegate ai ragazzi. Progetto La buona notizia,
Elledici, Cascine Vica (TO) 2013, pp. 65, € 4,90. 9788801055450
Lindeijer M., Il segreto del confessionale. Padre Cappello: vita, grazie, consigli, Apostolato della Preghiera, Roma 2013, pp. 135, € 10,00.
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«SENTIERI»
Bocci V., I doni dello Spirito Santo spiegati ai ragazzi. Progetto La buona notizia, Elledici, Cascine Vica (TO) 2013, pp. 64, € 4,90.
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Di Nicola G.P., Danese A., Un mese con Maria e Luigi. Un pensiero
e una preghiera al giorno con i beati Beltrame Quattrocchi, Effatà, Cantalupa (TO)
2012, pp. 110, € 9,00. 9788874027835
C
he cosa accomuna la via di Gesù
verso la croce e il cammino inaugurato dal sacramento delle nozze? Come
il sacrificio di Gesù rappresenta il vertice di un percorso d’amore, così la
vocazione coniugale porta a una comunione fatta di accoglienza, perdono,
condivisione, ma anche amore e gioia.
Un sussidio liturgico davvero originale,
pensato specificamente per le coppie.
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ené Voillaume (1905-2003), sacerdote e teologo francese, fondatore
dei Piccoli fratelli di Gesù, è stato un grande maestro spirituale e ha
offerto preziosi insegnamenti sul cammino della preghiera con un linguaggio contemporaneo e con indicazioni appropriate alla concreta realtà del
mondo attuale. Riflesso ed espressione di una vita contemplativa condotta
nel «cuore delle masse», l’insegnamento di V. ha consentito a laici, sacerdoti e religiosi di trovare un’eco adeguata alle proprie aspirazioni e alle
possibilità reali di preghiera.
Trianni P., Skudlarek W. (a cura di), Cristo e l’advaita. La mistica
di Henri Le Saux tra cristianesimo ed induismo, Studium, Roma 2013, pp. 162,
€ 13,50. 9788838242410
I
l vol. raccoglie gli atti del convegno tenuto al Pontificio ateneo sant’Anselmo di Roma il 4.12.2010, celebrato in occasione del centenario del-
182
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LII
la nascita del monaco benedettino e teologo bretone Le Saux. I diversi
contributi ricostruiscono l’itinerario spirituale e teologico di L.: una figura
unica nella storia della teologia, il primo monaco e prete cattolico che si
è confrontato con il pensiero mistico indù dell’advaita. Quest’ultima è «l’unione mistica con il divino nei termini di risveglio non-dualistico tra atman
e Brahman, ovverosia tra l’essenza interiore dell’individuo e l’assoluto».
Un monaco della Chiesa d’Oriente, Il roveto ardente. Meditazioni sull’amore di Dio, Qiqajon, Magnano (BI) 2014, pp. 162, € 16,00.
9788882274115
V
engono offerte per la prima volta in italiano due meditazioni che Lev
Gillet tenne in Inghilterra nel 1969 e nel 1967, e che poi furono pubblicate insieme nel 1976. Qui sono accompagnate come introduzione da
un testo del grande teologo ortodosso Olivier Clément, scritto in occasione
dei 100 anni della nascita di G. Quest’ultimo, monaco benedettino con
una profonda tensione ecumenica ed entrato poi nella Chiesa ortodossa,
ha pubblicato molti scritti sotto il nome di «monaco della Chiesa d’Oriente».
una giornalista discendente del religioso. Piero Fassino, sindaco di Torino
(città che ha ospitato il convegno), firma la Prefazione.
Livi S., L’ortodossia e gli altri. Il dialogo cattolico romano-ortodosso nel secolo XIX. La svolta del XX secolo e la resistenza ortodossa, Il Cerchio, Rimini 2013,
pp. 300, € 38,00. 9788884743619
U
na Chiesa ortodossa della «resistenza», cioè non in comunione con le
altre Chiese ortodosse a causa dei contrasti sull’adozione del calendario liturgico, esprime la sua visione negativa sull’ecumenismo e sull’attuale
corso dell’ortodossia in comunione con Costantinopoli. L’interesse della
pubblicazione risiede in particolare nella seconda parte, che propone in
traduzione italiana i testi dottrinali di riferimento sia per quello che riguarda le confessioni cattolica e ortodossa, sia relativamente alla Resistenza
ortodossa.
Attualità ecclesiale
Vinerba R., Nel grembo e nel cielo. La donna come spazio, deserto, speranza, Paoline, Milano 2014, pp. 136, € 12,00. 9788831544399
Accattoli L., Il vescovo di Roma. Gli esordi di papa Francesco, EDB,
Bologna 2014, pp. 160, € 12,50. 9788810565018
S
F
Bellet M., «Non sono venuto a portare pace…». Saggio sulla violenza assoluta, EMP - Edizioni Messaggero, Padova 2012, pp. 167, € 13,00.
9788825026610
rancesco è un papa nuovo per numerosi aspetti: la provenienza, il nome
che ha scelto, le vesti e l’alloggio, la sobrietà, il linguaggio, le libertà che
rivendica e riconosce. Nuovo per la continua invenzione di gesti di vicinanza ai feriti della vita, l’audacia di parlare con l’intenzione di arrivare a
tutti, la precedenza che attribuisce alla predicazione del vangelo rispetto a
ogni altro impegno. Che destino avrà quest’uomo che spinge gli abitatori
dell’istituzione più carica di storia a pensare il nuovo e a osare l’inedito?
Come affronterà le opposizioni di cui farà esperienza? Riuscirà nell’intento
di rifare missionaria e povera la Chiesa di Roma, compresa la cittadella
curiale? Sarà compreso il suo azzardo di una nuova lingua che spesso contrasta con quella della tradizione?
Monari L., La libertà cristiana. Una meditazione, Morcelliana, Brescia
2012, pp. 55, € 9,00. 9788810555088
Andreatta D., Gardumi F., Nicoletti W., Vittorio Cristelli. Giornalista del Concilio, Il Margine, Trento 2013, pp. 208, € 15,00. 9788860891341
uora francescana, l’a. medita sulla femminilità prendendo come riferimento insieme concreto, simbolico e spirituale il corpo della donna.
L’idea che unifica il percorso di riflessione è quella dello spazio: lo spazio
occupato prima della nascita nel corpo della madre, lo spazio del proprio
corpo reso disponibile per il proprio uomo, lo spazio dilatato per accogliere
una nuova vita, lo spazio desertificato di quando maternità significa fare
un passo indietro.
Tripaglia S., Il testimone, Edizioni Segno, Feletto Umberto - Tavagnacco (UD) 2012, pp. 98, € 8,00. 9788861385641
Storia della Chiesa
Comotti G., La libertà di stampa nel diritto canonico, Marcianum Press, Venezia 2013, pp. 253, € 23,00. 9788865121825
U
n saggio molto interessante e documentato sulla disciplina canonica
della censura librorum e sul suo esercizio. Nata nella Controriforma per
la difesa dell’ortodossia, insieme all’Indice dei libri proibiti, essa «si rivelò,
anche in seguito, e sotto diversi profili, un progetto pretenzioso nella sua
impostazione teorica, ma inefficace nell’applicazione alla realtà concreta».
Lo studio si propone di analizzare la ratio dell’attività censoria così come
si rinviene oggi nel Codice di diritto canonico (occidentale e orientale), la sua
collocazione nel contesto della cosiddetta provvidentia doctrinalis, e di evidenziarne l’inadeguatezza sia per riferimento alla comunicazione nell’era digitale sia davanti alla pretesa del Codice attuale di essere una «traduzione
giuridica» della Chiesa tratteggiata dal concilio Vaticano II.
Coverlizza Abbona A.M., Cardinali V.G., Missionario e diplomatico. L’avventura di padre Paolo Abbona dal Piemonte alla Birmania, Effatà,
Cantalupa (TO) 2013, pp. 300, € 19,50. 9788874026692
A
tti del convegno internazionale di studi storici del 2006 dedicato alla
figura e all’opera del religioso piemontese p. Paolo Abbona, missionario degli Oblati di Maria vergine, che nell’Ottocento visse e operò in
Birmania per oltre trent’anni. Il vol. – che raccoglie i contributi di 12 studiosi e i ringraziamenti di una suora birmana – è curato dal presidente
dell’Associazione immagini per il Piemonte (promotrice dell’evento) e da
LIII
I
l libro è dedicato alla figura del sacerdote Vittorio Cristelli, che fu direttore del settimanale diocesano Vita trentina dal 1967 al 1989, periodo
cruciale per la società italiana e per la Chiesa. I tre cc., rispettivamente,
ricostruiscono la vita di C., con attenzione alle figure umane e intellettuali
più incisive per la sua formazione; evidenziano i nuclei più rilevanti delle
posizioni assunte dal suo giornale e, infine, descrivono gli impegni da lui
assunti oltre e successivamente alla direzione di Vita trentina, con sollecitudine pastorale indomita. Ne emerge la figura di un pastore votato a diffondere nella propria Chiesa locale le novità del Concilio.
Bertone T., La diplomazia pontificia in un mondo globalizzato.
Prefazione di papa Francesco, a cura di V. Buonomo, LEV – Libreria editrice vaticana, Città del Vaticano 2013, pp. 539, € 25,00. 9788820991623
R
accolta di una selezione di interventi, discorsi e scritti del card. Bertone, a compimento del suo lungo servizio come segretario di stato
che ha coinciso con il pontificato di Benedetto XVI. Il valore aggiunto del
testo, oltre a essere un prezioso strumento d’archivio, è il fatto di contenere
una lunga prefazione a firma di papa Francesco che così conclude: «La storia, la cui misura è la verità della Croce, renderà evidente l’intensa azione
del card. Bertone, che ha dimostrato anche di avere la tempra piemontese
del gran lavoratore che non lesina nelle fatiche nel promuovere il bene della Chiesa, preparato culturalmente e intellettualmente e animato da una
serena forza interiore che ricorda la parola dell’apostolo delle genti: “Di
null’altro di glorieremo se o della croce di Gesù Cristo”».
Bianchi L. (a cura di), La testimonianza della Chiesa nel mondo
contemporaneo. Atti del XII Simposio intercristiano, Tessalonica, 30 agosto 2 settembre 2011, Edizioni San Leopoldo, Padova 2013, pp. 258, € 15,00.
9788896579091
C
on il XII simposio, tenuto a Salonicco dal 30.8 al 2.9.2011 (Regno-att.
18,2011,590), l’Istituto francescano di spiritualità dell’Antonianum di
Il Regno -
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L
ibri del mese / schede
Roma e la Facoltà di teologia dell’Università «Aristoteles» di Salonicco
hanno festeggiato i vent’anni dei loro colloqui teologici, iniziati appunto
nel settembre 1992, all’Accademia ortodossa di Creta-Colibari. Il testo,
che prende il titolo dal colloquio, raccoglie gli atti tradotti in italiano.
Bignami B., Don Primo Mazzolari parroco d’Italia. «I destini
del mondo si maturano in periferia», EDB, Bologna 2014, pp. 188, € 15,00.
9788810104941
N
ell’Italia del primo Novecento don Mazzolari decide di non ritirarsi
all’ombra del campanile di Bozzolo, nella bassa padana, ma di partecipare al travaglio storico del Paese. La sua voce inconfondibile percorre
tutto lo Stivale e negli anni Cinquanta un fiume di persone giunge da ogni
parte alla sua canonica per ascoltare la parola dell’arciprete o accostarsi alla
geografia di epistolari provenienti dai luoghi più sperduti. Questa biografia
mette in dialogo i diversi mondi che hanno segnato il ministero sacerdotale
di don Primo: il servizio alla parrocchia e l’impegno «oltre la parrocchia»
per una pastorale missionaria e una testimonianza coraggiosa ispirata al
convincimento che «i destini del mondo si maturano in periferia».
Burigana R., Burigana R., I papi in Terra santa. I viaggi di Paolo
VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI in Terra Santa. Quaderni di Colloquia Mediterranea 3, Fondazione Giovanni Paolo II, Firenze 2013, pp. 143, € 12,00.
9788890626821
A
50 anni dall’incontro di Gerusalemme tra Paolo VI e il patriarca Atenagora di Costantinopoli (5.1.1964), e alla vigilia del pellegrinaggio di
papa Francesco (24-26.5.2014), che intende commemorare e rinnovare l’unità espressa da quello storico abbraccio, il vol. vuole «ricordare, fare memoria, dei pellegrinaggi che i vescovi di Roma hanno compiuto in Terra
santa». La ricostruzione degli eventi è affidata ad alcune «note di cronaca»
stese dagli aa. in due brevi contributi anteposti a una sezione antologica
di testi tratti dai viaggi in Terra santa di Paolo VI, Giovanni Paolo II e
Benedetto XVI (1964-2009). Il vol. è impreziosito dalla presentazione del
patriarca ecumenico Bartolomeo I.
Butturini E., Il punto su don Milani. Famiglia, idee, collaboratori, Mazziana, Verona 2013, pp. 139, € 13,50. 9788897243137
U
n bilancio sulla vita e sull’opera di don Milani a 90 anni dalla nascita. L’a. – già delegato nazionale del movimento studenti di Azione
cattolica, poi preside di Scienze della formazione all’Università di Verona –, partendo dall’influsso dell’ambiente familiare, si sofferma su alcune
questioni centrali dell’impegno di M.: dalla «conquista della parola» come
«pratica di liberazione», al rapporto tra libertà e autorità, alla descrizione
di alcuni suoi «metodi di lavoro». Un ricordo di due importanti collaboratori e una preziosa sezione antologica – con testi tratti soprattutto dall’epistolario – completano un’opera che può valere anche da introduzione
sintetica alla figura affascinante del sacerdote fiorentino.
Castagnaro M., Eugenio L. (a cura di), Il dissenso soffocato:
un’agenda per papa Francesco, La Meridiana, Molfetta (BA) 2013,
pp. 295, € 18,50. 9788861533240
S
critto a 4 mani e frutto della collaborazione tra editrice, movimento
Noi siamo Chiesa (Italia) e agenzia Adista, il vol., chiuso poco prima
delle dimissioni di papa Benedetto e dell’elezione di papa Francesco, è
una raccolta ragionata di documenti, testimonianze e interviste su alcune
forme di dissenso che hanno attraversato la Chiesa cattolica in Australia
(1-92), in Europa (93-201) – con testimonianze provenienti da Germania,
Austria, Francia, Irlanda, Slovacchia, Svizzera, Gran Bretagna, Italia – e
negli Stati Uniti, con uno sguardo particolare sul caso dell’associazione
delle religiose posta sotto indagine dal Vaticano nel 2009 (295).
D’Agnese G., L’avventura della fede. I missionari italiani nel continente
americano: evangelizzatori, esploratori ed educatori, Edizioni Noubs, Chieti 2013,
pp. 172, € 13,00. 9788886885485
Q
uaranta brevi «ritratti» apparsi dal 1998 in una rubrica ospitata dal
quotidiano italiano pubblicato negli Stati Uniti America oggi. L’a. –
giornalista e appassionato di vicende legate all’emigrazione italiana nel
184
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mondo – descrive il percorso umano di religiosi che hanno attraversato, in
500 anni di storia, il continente americano per la causa dell’evangelizzazione, senza nascondere l’ambivalenza dell’impresa: dalla bramosia di potere
e dall’ostinata convinzione di superiorità di alcuni di loro all’esemplarità
evangelica di vite spese per la comprensione dei popoli nativi americani e
per la difesa dei loro diritti elementari.
Macciantelli R., Mons. Gilberto Baroni. Uomo di Dio e della sua Chiesa, Dehoniana Libri, Bologna 2013, pp. 94, € 4,90. 9788889386712
L
a figura del vescovo Baroni, presentata in questo vol. pubblicato in occasione del centenario della nascita, costituisce la settima tappa di biografie di chierici bolognesi curata dal Seminario arcivescovile del capoluogo. Lo ricorda così il card. Ruini che fu da lui consacrato vescovo a Reggio
Emilia – Guastalla, dove B. esercitò il ministero: «È mia impressione che
l’esperienza del Concilio lo abbia segnato profondamente, sia stata per lui
una fonte di grande rinnovamento», specialmente in campo liturgico, dove
mise a frutto l’insegnamento tratto dall’essere stato ausiliare a Bologna del
card. Lercaro. «Ma la valorizzazione della liturgia non era però soltanto un
insegnamento del Concilio e una felice esperienza ecclesiale. Era soprattutto ciò che emerge dal Vangelo» – conclude Ruini.
Monda A., Simonelli S., Fratelli e sorelle, buona lettura! Il
mondo letterario di papa Francesco, Áncora, Milano 2013, pp. 107, € 13,50.
9788851412180
I
mmaginiamo. C’è una scrivania nella stanza. Su di essa una lampada da
tavolo illumina letture cariche di ricordi. Alcuni nomi: l’amico Borges,
Dostoevskij, Tolkien, l’amato Chesterton, Manzoni, il poeta tedesco Hölderlin e il quasi sconosciuto Antonio Dal Masetto. Si entra in punta di piedi in questa stanza, lo sguardo cerca di cogliere un libro posto in un angolo,
si scopre un poeta che non s’immaginava piacesse a un lettore piuttosto
conosciuto che, con un semplice «Buonasera!», è entrato nel cuore delle
moltitudini di ogni continente. È la biblioteca personale di papa Francesco
che viene alla luce in questo delizioso libro e che ci trasmette un pensiero:
il cristiano deve leggere e deve essere creativo nelle sue letture per poter
avere «l’eroismo» di un «piccolo» hobbit.
Pontificio consiglio della giustizia e della pace, Il concetto di
pace. Attualità della Pacem in terris nel 50° anniversario (19632013). A cura di Vittorio V. Alberti, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2013, pp. 620, € 30,00. 9788820991654
I
l ponderoso vol. è un contributo interdisciplinare e celebrativo scritto per
il 50o della nota enciclica di Giovanni XXIII (11.4.1963) ed è stato pubblicato alla vigilia di un convegno internazionale che doveva tenersi a febbraio 2013. Tuttavia lo storico annuncio della rinuncia di Benedetto XVI ha
costretto da un lato a posticipare il convegno a ottobre e dall’altro ha posto
questo anniversario sotto un’altra luce o – come dice il curatore nella nota
introduttiva – lo ha «intimamente intrecciato alla Pacem in terris»: l’enciclica,
che «esalta l’uomo individuando i quattro principi di libertà, giustizia, verità, solidarietà», propone, infatti la medesima «prospettiva antropologica di
primato della coscienza» che il gesto di papa Ratzinger ha concretizzato.
Ross M.-P., Parliamo di sesso. Perché la Chiesa non deve temere l’eros. Con
la collaborazione di C. Baldewyns e S. Délézir, Piemme, Milano 2013, pp. 184,
€ 15,00. 9788856629538
I
l tema del sesso è un argomento – di fatto – considerato tabù in ambito
cattolico. Questo testo dimostra la verità della considerazione ma anche
il suo opposto. Infatti suor Marie Paul diventata sessuologa, non senza resistenze da parte della propria congregazione religiosa ma appoggiata da
papa Giovanni Paolo II, affronta l’eros in tutte le sue componenti: famiglia,
omosessualità, clero, handicap ecc. Il testo risulta più importante là dove
indaga gli aspetti patologici della vita sessuale, che richiede apertura per liberare le cariche libidiche da ignoranza, opportunismo e pregiudizi morali
che spesso producono disagio, angoscia e violenza. Suor Marie concepisce
questo suo lavoro come una forma d’evangelizzazione per un cattolicesimo
che non giudica ma cerca di capire e di aiutare. Leggere questo testo è un
viaggio anche nella propria storia personale per verificare in che misura
amore ed eros sono armonizzati.
LIV
Vigini G., Papa Francesco. La Chiesa incontra il mondo, Paoline, Milano
2014, pp. 110, € 7,50. 9788831544436
È
passato «solo un anno di pontificato e sembra invece che sia trascorso
un secolo». A un anno dall’elezione di papa Bergoglio, e dopo Il parroco
del mondo scritto dallo stesso a. in quell’occasione, il presente breve saggio si
propone d’accompagnare il lettore alla scoperta dei tratti salienti del nuovo
volto di Chiesa, e prima ancora del «modo nuovo di “essere Chiesa”»,
che sta emergendo grazie al «solco profondo» scavato in questi mesi da
Francesco, papa «dalle continue sorprese e dalle impensate novità». Una
riflessione pensata per tutti e suddivisa per parole chiave (fede, misericordia, poveri, giovani, Vangelo).
Filosofia
Ferraris M., Realismo positivo, Rosenberg & Sellier, Torino 2013,
pp. 109, € 10,00. 9788878852136
C
ontrapponendosi alla prospettiva trascendentalista inaugurata
da Kant, in questo breve vol. l’a. recupera il reale, provvisto di
proprietà, o meglio di «positività», intrinseche, non dipendenti da un
soggetto ordinatore e spiegabili ricorrendo a una serie di parole-chiave:
invito (è il mondo che sollecita il soggetto a riconoscere la realtà esterna); resistenza (il mondo non si conforma ai nostri schemi); oggetti (gli
organi stessi con i quali si propone e si dà la realtà); realismi (le diverse teorie sulla realtà, anch’esse da considerarsi come oggetti); finzione
(parte integrante del reale) e possibilità (distinto dalla realtà, ma da
essa sollecitato).
Ombrosi O., Il crepuscolo della ragione. Benjamin, Adorno, Horkheimer
e Lévinas di fronte alla Catastrofe, Giuntina, Firenze 2014, pp. 171, € 15,00.
9788880575238
L’
a. interroga alcuni dei più importanti filosofi di origine ebraica per trarre indicazioni sul modo meno inadeguato di riflettere
su quella che, unanimemente, è stata percepita come l’eclisse della
ragione, e con essa del modello di civiltà fondati «sui valori del progresso e dei Lumi». Confrontando testi di pensatori contemporanei
alla tragedia della Shoah (nonché di Benjamin, che l’aveva in qualche
modo presentita), l’a. ritiene di poter trovare una via d’uscita in una
filosofia della testimonianza, che consenta di ripartire nella riflessione
filosofica dalla «testimonianza della sofferenza fisica dei morti dello
Sterminio».
Spanio D. (a cura di), Il destino dell’essere. Dialogo con Emanuele Severino, Morcelliana, Brescia 2014, pp. 330, € 25,00. 9788837226794
R
accolta di interventi confluiti attorno a un omonimo convegno organizzato a Ca’ Foscari dagli allievi veneziani di S. Il punto di partenza
è dato dalla riflessione sull’essere nei suoi risvolti teoretici più stringenti (M.
Visentin, L. Messinese, P. Pagani e, successivamente, V. Vitiello); seguono contributi sulla lettura severiniana di alcuni filosofi (Spinoza, Gentile
e Aristotele), sulla sua concezione del tempo e della storia in funzione del
concetto di divenire (P. Barcellona) e sul rapporto fra diritto positivo e normatività della tecnica (N. Irti). Concludono interventi, molti dei quali non
privi di rimandi biografici.
Storia, Saggistica
Bottazzini U., Nastasi P., La patria ci vuole eroi. Matematici e vita
politica nell’Italia del Risorgimento, Zanichelli, Bologna 2013, pp. 432, € 27,00.
9788808194916
G
li eroi protagonisti di questo vol. non figurano nei manuali di storia: sono uomini di scienza, matematici in particolare, che sono
stati protagonisti a diverso titolo delle vicende politiche di questo paese durante il lungo Risorgimento italiano. Un punto di vista inedito
LV
quello proposto dagli aa. – storici della matematica e noti divulgatori
scientifici – che è rimasto completamente ignorato dalla storiografia
ufficiale.
Calduch-Benages N., Pratiche della cura. Medicina e religione nel mondo antico, EDB, Bologna 2014, pp. 78, € 8,00. 9788810558096
N
ella Bibbia i riferimenti alla figura del medico sono scarsi e frammentari, se si fa eccezione per il Siracide, per le pagine del Vangelo
di Marco dedicate all’attività terapeutica di Gesù e per un proverbio
molto conosciuto nella letteratura antica – «medico cura te stesso» –
noto ancora oggi grazie al Vangelo di Luca. Un breve viaggio in Egitto
e Mesopotamia oltre che nell’AT e nel NT, nei testi ebraici, arabi e nel
corpus ippocratico consente di ripercorrere il rapporto tra medicina e religione nel mondo antico e d’attualizzare e declinare il significato del
proverbio in chiave biblica (salva te stesso), filosofica (conosci te stesso),
psicologica (analizza te stesso) e professionale (abbi cura di te). Una riflessione che riguarda ogni persona e, in particolare, coloro che hanno il
compito di aiutare chi vive situazioni critiche e ha bisogno di attenzioni
e cure.
Rüpke J., Tra Giove e Cristo. Trasformazioni religiose nell’impero romano. A cura di R. Alciati, Morcelliana, Brescia 2013, pp. 376, € 32,00.
9788837226367
A
differenza dei «vecchi approcci storiografici» – interessati a determinare quale fosse diventata la religione imperiale tra i culti
di Giove, Mitra e Cristo –, il vol. intende illustrare la tesi secondo la
quale «il mutamento decisivo dell’epoca imperiale romana non è tanto il cambiamento o l’incremento delle religioni, quanto piuttosto la
trasformazione del fenomeno e del ruolo sociale della religione» nella
storia della cultura Mediterranea.
Salvadori M.L., Storia d’Italia, crisi di regime e crisi di sistema.
1861-2013, Il Mulino, Bologna 42013, pp. 237, € 16,00. 9788815247131
L’
a. delinea i tratti dell’anomalia italiana, caratterizzata da una persistente situazione di «blocchi di sistema» che hanno impedito
una regolare alternanza politica nel nostro paese. In questa prospettiva, vengono esaminati le tre principali fasi della storia politico-istituzionale italiana – stato liberale, fascista e repubblicano-democratico
– originati da diverse «crisi di regime», che hanno inaugurato una diversa configurazione dell’ordinamento giuridico. Le fasi turbolente del
passaggio dalla I alla II – e ora alla III Repubblica – denotano invece
una «crisi di sistema», che non modifica però la diagnosi generale riscontrata.
Sgarbi V., L’ombra del divino nell’arte contemporanea, Cantagalli, Siena 2012, pp. 236, € 18,90. 9788882727550
L
a ricostruzione della cattedrale di Noto – dopo i danni subiti durante il terremoto del 13.12.1990 e il disastroso crollo avvenuto nel
1996, frutto di un grave difetto di costruzione che ha causato la perdita dell’intero apparato iconografico – diventa l’occasione per l’a. di
riflettere sul ruolo dell’arte nella comunicazione della fede, attraverso
un commento puntuale dell’intero programma iconografico proposto
per la ricostruzione.
Vaccaro L. (a cura di), Storia religiosa degli ebrei di Europa, Centro Ambrosiano, Milano 2013, pp. 542, € 24,00. 9788880259503
N
ella prestigiosa collana «Europa ricerche» promossa dalla Fondazione ambrosiana Paolo VI, vengono ora presentati i contributi della
29a edizione del ciclo di studi intitolato alla «Storia religiosa» dei popoli
soprattutto europei. Con la consueta accurata profondità i 20 cc. seguono
le vicende dei due grandi ceppi etnico-culturali ebraici, quello sefardita e
quello ashkenazita, sostanzialmente lungo tutto il II millennio della storia
europea, soprattutto nei loro aspetti religiosi, ma anche inevitabilmente
nelle connessioni con la realtà economica, culturale e politica, sino alla
grande persecuzione della Shoah nel Novecento.
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185
L
ibri del mese / schede
Politica, Economia, Società
Agostini G., Eravamo la DC. Memorie della classe dirigente democristiana in
Trentino, Il Margine, Trento 2013, pp. 283, € 16,00. 9788860891242
U
n caso «speciale» quello del Trentino, anche sotto l’aspetto politico:
lo afferma I. Diamanti nella Prefazione al vol. Perché il «partito è,
insieme, governo e realtà associativa, incrociato con il tessuto economico
e, anzitutto, col mondo cattolico». E poi perché da Trento sono venute «le figure più importanti nella storia del partito». E infine perché la
Democrazia cristiana, «per quasi cinquant’anni, non ha rappresentato
“una parte” della politica e della società, ma “la” politica e “la società”». Le interviste in profondità che l’a. propone hanno quindi un sapore esemplare per una rilettura del passato alla luce del presente: oggi
«Trento appare quasi un bonsai – prosegue Diamanti – (…) coltivato nel
giardino di Trento dai post-democristiani». Modello invidiabile, invidiato o mal sopportato altrove…
Ceruti C. (a cura di), Quando vivo stagioni d’amore. Storia di Sarina
Ingrassia e del «Quartiere», Altra Economia, Milano 2012, pp. 160, € 10,00.
9788865160763
Q
uesto libro racconta una storia di una Chiesa marginale; la storia di
una donna siciliana di fede che ha costruito attorno a sé una piccola
comunità solidale, fatta di piccoli gesti, fondata sul «principio accoglienza». Attorno a questo principio Sarina ha tessuto i fili della sua lettura del
Vangelo dove ciò che conta sono le relazioni e non le cose, l’essere piuttosto che l’avere. Il pellegrinaggio di questa donna percorre tante strade
da Monreale a Taizé, dall’Italia all’India, ma anche le strade battute da
Adriana Zarri ed Ernesto Balducci. Sarina è sempre accompagnata dall’umiltà di chi è consapevole che se nelle cose non c’è la presenza del Signore
il proprio cammino non può stare in piedi. Dobbiamo augurarci che nella
Chiesa ci siano tanti uomini e donne come Sarina perché sono le persone
come lei che danno un futuro alla Chiesa.
Costa P. (a cura di), Tolleranza e riconoscimento, EDB, Bologna
2014, pp. 208, € 15,30. 9788810415283
I
l libro raccoglie quasi tutte le relazioni tenute all’interno del ciclo di
conferenze sul tema della tolleranza e del riconoscimento organizzato
dal Centro per le scienze religiose della Fondazione B. Kessler tra l’ottobre
2012 e il febbraio 2013 (www.fbk.eu/it). Nei diversi contributi la tensione tra
i due diversi paradigmi della «tolleranza» liberale e del «<riconoscimento» identitario sono analizzati sia da un punto di vista storico, sia da una
prospettiva più specificamente etico-politica. I testi degli aa. (L. Cortella;
E. Greblo; E. Pulcini; L. Lanzillo; R. Sala; I. Testa) sono preceduti da
un’Introduzione del curatore (P. Costa) che inquadra l’argomento alla luce
della riflessione filosofico-politica contemporanea.
Giglioli D., Critica della vittima. Un esperimento con l’etica, Nottetempo, Roma 2014, pp. 128, € 12,00. 9788874524822
«L
a vittima è irresponsabile, non risponde di nulla, non ha bisogno
di giustificarsi» e proprio per questo – sostiene l’a. – essa diventa il
sogno che qualsiasi potere desidera realizzare. Obiettivo di questa «critica
della vittima» non sono dunque le vittime reali: ma piuttosto la trasformazione dell’immaginario della vittima in uno strumento, che agendo come
una vera e propria macchina, produce e giustifica la pretesa (molto spesso
violenta) di Autorità.
Latouche S., Incontri di un «obiettore di crescita», Jaca Book,
Milano 2013, pp. 122, € 12,00. 9788816412194
I
nsieme a Nicholas Georgescu-Roegen, Ivan Illich e Andrè Groz, l’a.
è considerato uno dei più importanti teorici del cosiddetto pensiero
della decrescita, che ha richiamato, a partire dagli anni Settanta del Novecento, l’opinione pubblica a ripensare radicalmente il modello economico occidentale. In questo vol. sono raccolte vere e proprie cronache
della crisi attuale tese a mostrare «il volto creativo, redentore, gioioso
della decrescita».
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Müller J.-W., L’enigma democrazia. Le idee politiche nell’Europa del
Novecento. Traduzione di L. Giacone, Einaudi, Torino 2012, pp. XIX + 353,
€ 26,00. 9788806213008
N
on è facile districarsi nei fatti storici e nelle dottrine politiche del Novecento. Questo libro intersecando processi storici, elementi sociologici e dottrine politiche di questo periodo ci aiuta a riflettere su un secolo
che ha visto svilupparsi la società di massa e l’affermazione della democrazia ma anche il trionfo dei totalitarismi di diverso segno, come parte
dello stesso problema. L’a. ha considerato pure la ricostruzione postbellica
dell’economia, degli istituti democratici e la contestazione del Sessantotto
che ha visto le giovani generazioni mettere in discussione proprio quei valori postbellici del benessere perché considerati valori alienanti, e maschere
senza sostanza. Oggi questo testo ci aiuta a riflettere sul disincantamento
delle certezze ideologiche del XX sec. e ci invita a ripensare la democrazia
come forma di governo dell’«incertezza istituzionalizzata».
Pasquino G., Regalia M., Valbruzzi M., Quarant’anni di scienza politica in Italia, Il Mulino, Bologna 2013, pp. 322, € 26,00.
9788815247551
L
a nascita della Società italiana di scienza politica nel 1973 è presa
come data d’inizio di uno studio scientifico della politica in Italia, di
cui questo vol. vuole celebrare i 40 anni presentando una rilettura e un
bilancio. Nei diversi cc. sono analizzati i risultati nei vari settori: metodologia, democrazia e democratizzazioni, sistemi elettorali, movimenti sociali,
comunicazione politica, rappresentanza, partiti, governi e processo legislativo, opinione pubblica e comportamento elettorale, politiche pubbliche,
sistema giudiziario, relazioni internazionali e Unione Europea. Secondo
Pasquino, in questi 40 anni ha fatto apprezzabili passi avanti la professionalizzazione della materia, mentre «la vocazione all’impegno pubblico e
all’applicabilità… sembra invece poco diffusa e poco convinta».
Ratzinger J. - Benedetto XVI, Il posto di Dio nel mondo. Potere,
politica, legge, Cantagalli, Siena 2013, pp. 261, € 14,00. 9788882729127
I
l vol. raccoglie una serie di interventi del papa emerito Benedetto XVI
effettuati nelle più diverse occasioni nel corso del suo breve pontificato.
Filo conduttore che li unisce è il rapporto tra la fede cattolica e la ragione
nel terzo millennio incardinato sulla centralità di Dio – e ciò costituisce lo
zoccolo duro del pensiero ratzingeriano – in dialettica, costruttiva e critica
al tempo stesso, con il tridente socio-politico costituito da potere-politicalegge. In gioco c’è la domanda che Benedetto XVI pone, come ha ben
evidenziato nella prefazione P.D. Ryan, se «sia possibile istituire un sistema
economico organizzato in maniera tale da ottenere il benessere e la soddisfazione dei bisogni della persona umana tutelandone la dignità».
Schmitt C., Le categorie del «politico». Saggi di teoria politica a
cura di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino, Bologna 22013, pp. 336, € 15,00.
9788815247858
I
l vol. – pubblicato per la prima volta in Italia nel 1972 – riunisce i saggi
più rappresentativi della riflessione politologica del controverso giurista
tedesco, scritti tra il 1922 e il 1963. Testi come Teologia politica (1922); Il
concetto di «politico»; (scritto nel 1932 e qui arricchito con una premessa dello
stesso a. del 1963); Legalità e legittimità (1932) costituiscono ancora oggi un
passaggio obbligato, seppur non agevole né pacificante, per chi voglia affrontare alcune tra le questioni più urgenti della politica occidentale.
Springhetti P., Donna fuori dagli spot. Il diritto di essere sé stesse, AVE,
Roma 2014, pp. 172, € 10,00. 9788882847920
S
chiacciate dal lavoro di cura verso i figli piccoli o verso i genitori anziani; costrette a scegliere tra carriera e famiglia; poco rappresentate nei
vertici sociali, politici e lavorativi; ridotte a «pezzi» da consumo o a stereotipi nel discorso mediatico; educate all’ossessione del corpo perfetto; scarsamente valorizzate nell’ambito ecclesiastico, dove per altro costituiscono
il nocciolo duro della manovalanza… Paola Springhetti pone con schiettezza la necessità di un cambio di paradigma culturale in cui le donne
siano se stesse fuori da uno schema competitivo che premia ed esclude allo
stesso tempo. C’è bisogno «non di donne che abbiano assimilato modelli
maschili o che si siano formate specchiandosi in immagini che piacciono
agli uomini». Ma di «donne vere, libere e fuori dagli spot» (dalla Presentazione di V. De Luca).
LVI
L
L ibri del mese / segnalazioni
G. Pressacco,
L’arc
di San Marc.
Opera omnia,
volume II. 1986-1997,
2 tomi, a cura
di Luca De Clara,
Forum editrice,
Udine 2013,
pp. 1.013, € 42,00.
9788884208163
V
engono pubblicati in due ponderosi volumi tutti gli articoli scritti negli ultimi anni della sua vita da don
Gilberto Pressacco (1945-1997), maestro di
cappella del duomo di Udine e docente
di Esercitazioni corali presso il Conservatorio della stessa città. I testi qui raccolti,
interamente dedicati alla storia musicale
ed ecclesiastica della regione friulana, gettano luce su temi quasi del tutto inesplorati, che consentono d’assegnare all’antica
diocesi di Aquileia e al suo retaggio tradizionale, conservatosi in forme del tutto
singolari nella cultura contadina del Friuli,
un ruolo centrale nella storia primitiva del
cristianesimo.
La tesi di fondo dell’autore è articolata
su più punti.
L’introduzione del cristianesimo ad
Aquileia sarebbe riconducibile a una ramificazione giudeo-cristiana di derivazione
petrino-marciana, distinta dalla corrente
paolina, e contraddistinta da forme rituali
che consentirebbero un loro accostamento alla confraternita dei «terapeuti», menzionata da Filone Alessandrino.
L’impronta giudaico-cristiana e marciana, che testimonia di un antico collegamento con la sede di Alessandria (e giustifica la successiva attribuzione ad Aquileia
del titolo patriarcale), è stata caratterizzata sin dall’inizio da alcune peculiarità
dottrinali, prima fra tutte la teoria del
descensus in inferna, motivo eminentemente «misterico», comparso nel Pastore
dell’aquileiese Erma, fratello del vescovo
di Roma Pio. In Erma, questa dottrina viene riferita non solo alla discesa agli inferi
compiuta da Cristo il Sabato santo per
la redenzione dei patriarchi israeliti, ma
altresì agli apostoli e ai dottori per una
liberazione «universale» dei giusti delle
nazioni.
La conservazione di questo retaggio
giudaico-cristiano avrebbe successivamente comportato un isolamento della diocesi aquileiese, sfociato per lungo tempo
in aperta rottura con Roma: è infatti dal
comma aquileiese del descensus in inferna di Cristo e degli apostoli che l’autore
LVII
fa derivare il nucleo della dottrina origeniana dell’apocatastasi finale; e Rufino,
traduttore in latino delle opere di Origene
e suo strenuo difensore, operò proprio ad
Aquileia, vero ponte fra Oriente costantinopolitano e Occidente romano; inoltre,
è nella questione origeniana che l’autore
ha riscontrato il motivo scatenante dello
scisma tricapitolino, che comportò la separazione di Aquileia della comunione con
Roma (imperiale e papale).
L’eredità marciana, infine, dopo la definitiva assimilazione della diocesi di Aquileia nell’alveo dell’ortodossia romana, si
sarebbe conservata nella memoria popolare, dove avrebbe lasciato tracce profonde e durature. È questo forse il punto più
interessante e appassionante dell’opera
di Pressacco, il quale apporta una serie di
evidenze toponomastiche, onomastiche
e folkloriche che comproverebbero in
modo davvero impressionante questa impronta originaria. Anche in questo caso ci
si limiterà ad accennare agli elementi più
significativi.
In generale è da segnalare il tema della
rusticitas, sovente evocato sia nella storia della Chiesa aquileiese sia nel folclore
friulano. Il motivo è riconducibile alla questione del contrasto fra città e campagna
e suggerisce una diversa modalità di diffusione del cristianesimo o, per meglio dire,
una diversa veicolazione del contenuto
dottrinale rispetto al modello d’evangelizzazione venutosi a imporre, prevalentemente urbano.
Macôr, parola furlan per «rozzo», «rustico», «zotico», deriverebbe dal nome
di Ermacora (latinizzazione di Ermagora),
primo vescovo di Aquileia, secondo la
tradizione locale, successore di Marco,
venerato nelle vicine Carinzia e Slovenia
con denominazioni pressoché identiche.
Ma la stessa parola richiama anche l’ebraico maqor, fonte, sorgente, riferita
sia all’idea di fondazione (in questo caso
di una comunità giudaico-cristiana) sia a
quella di purificazione, non priva di valenze terapeutiche; e, in quest’ultima accezione, sono notevoli i rimandi dell’autore
alla conformazione carsica del territorio
friulano e alla sua prima cristianizzazione
presso «piccoli insediamenti rurali/agricoli attorno a una fonte d’acqua risorgiva»
(974).
Scjaràzz-Maràzz è il titolo di un ballo, citato in un documento inquisitoriale
del 1624, organizzato il sabato della Pentecoste per propiziare l’arrivo della pioggia e guidato da una «Maria (A)lis(s)andrina»; con lo stesso titolo, il ballo era stato
pubblicato nel 1578 da uno dei principali
compositori in territorio friulano, Giorgio
Mainerio, e presentava una struttura nel
quale l’autore ha riscontrato molte analogie con i canti e i balli della comunità dei
«terapeuti» descritti da Filone (e da questi
associati alle «feste bacchiche»). Gli stessi
termini deriverebbero entrambi dal greco
e starebbero per «canna» e «finocchio»…
proprio gli oggetti branditi dai «benandanti» (noti per un celebre studio di C.
Ginzburg) nelle loro danze notturne.
Nonostante i tentativi ecclesiastici di
ostacolarla, è giunta fino a oggi in alcune
vallate la consuetudine d’imporre alle neonate il nome di Sabata, e nel Friuli non
mancano chiese intitolate a Sante Sabide: una traccia eminentemente giudaicocristiana, secondo l’autore, che ricollega
questo nome alla «santificazione del sabato» e al Sabato santo, e ricorda come solo
in furlan – oltre che in ebraico – il sabato
sia di genere femminile.
Infine, ecco altri due elementi più
strettamente correlati alla dottrina del
descensus in inferna, vero tratto peculiare
del cristianesimo marciano-aquileiese.
Il borboros (o boboros, o borobos) è il
termine furlan per «luogo/persona paurosi, terrificanti, orridi (…), la cui esperienza
è riferibile appunto agli “orridi” geologici» (360); inoltre, esso è il termine greco
corrispondente agli infer(n)i del comma
aquileiese, ai quali si richiamano anche
due rappresentazioni emblematiche della
basilica di Aquileia: Giona gettato in mare
(più precisamente tra le fauci di un mostro
marino), e la lotta del gallo contro la tartaruga (anch’esso rettile acquatico dai tratti
«cavernosi»), variante del motivo simbolico della lotta fra l’aquila e il serpente.
Arc di San Marc, infine, è l’espressione in furlan per designare l’arcobaleno,
che già nel testo biblico aveva indicato
l’alleanza «universale» stipulata da Dio
con l’umanità noachide e che, nel particolare linguaggio «marciano» conservato nel
folclore friulano, allude ora all’estensione
universale della redenzione operata con il
descensus in inferna di Cristo e dei suoi
apostoli.
Questi sono solo alcuni dei temi affrontati da Pressacco nella sua opera. Molti altri non possono essere qui menzionati
(fra i quali meriterebbero una segnalazione a parte gli studi sul ruolo di Paolino
d’Aquileia come riformatore liturgicomusicale all’epoca di Carlo Magno): questi
rapidi cenni dovrebbero tuttavia bastare
per render conto della ricchezza di spunti
d’approfondimento e delle piste di ricerca
che gli scritti del sacerdote friulano hanno
consentito di aprire.
Marco Giardini
Il Regno -
a t t u a li t à
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187
L
ibri del mese / segnalazioni
E. Pace (a cura di),
LE RELIGIONI NELL’ITALIA
CHE CAMBIA.
Mappe e bussole.
Carocci, Roma 2013, pp. 268,
€ 29,00. 9788843067312
M. Introvigne, P.L. Zoccatelli
(a cura di),
ENCICLOPEDIA DELLE RELIGIONI
IN ITALIA
Elledici, Torino 2013,
pp. 1240, € 125,00. 9788801052299
Il metodo da cui parte la ricerca è quello
di mappare i luoghi di culto relativamente
ad alcuni gruppi: la costellazione ortodossa,
i sikh, i musulmani, le religioni orientali, le
Chiese neopentecostali e carismatiche africane, i protestanti (ricomprendendo all’interno della famiglia anche testimoni di Geova e mormoni), l’ebraismo, i tamil, la presenza del cattolicesimo d’immigrazione, le
caratteristiche religiose delle nuove generazioni studiate a partire dal caso dei giovani
pentecostali italo-ghanesi e dei giovani sikh
italo-indiani.
I
l principale problema con cui si devono confrontare quanti vogliono
descrivere l’attuale panorama religioso – in Italia ma non solo – è quello
della definizione, nei suoi due aspetti,
cioè quello qualitativo e quello quantitativo: quali movimenti possono essere
annoverati tra le religioni, e chi si può
arruolare tra gli affiliati? E si può notare
en passant che la questione a ben vedere trascende i problemi metodologici
della sociologia della religione, come
dimostra la vicenda del riconoscimento
giuridico di Scientology nel Regno Unito
(cf. in questo numero a p. 163).
Gli importanti volumi recentemente
pubblicati da due dei principali gruppi di ricerca di sociologia della religione nel nostro
paese – Le religioni nell’Italia che cambia a
cura di Enzo Pace di Padova e l’Enciclopedia
delle religioni a cura di Massimo Introvigne
e PierLuigi Zoccatelli del Centro studi sulle nuove religioni (CESNUR) – affrontano
in misura diversa il problema definitorio,
anche perché hanno obiettivi parzialmente
differenti. Entrambi comunque evidenziano
il carattere in un certo senso provvisorio di
questo tipo di ricerche, relative a un ambito di studi in continuo e profondo cambiamento sia per quel che riguarda l’oggetto,
sia per quello che concerne la metodologia di ricerca, che a sua volta dipende dalle
scelte che vengono fatte in materia di definizione.
Lo scopo che si prefigge il lavoro coordinato da Pace è quello di cominciare ad
aprire gli occhi sul cambiamento religioso
che l’Italia sta conoscendo. Il nostro paese,
rispetto al resto dell’Europa, ha sperimentato un processo immigratorio molto più tardo ma più rapido negli ultimi due decenni, e
a differenza di altri paesi europei come Germania, Olanda e Belgio, dove coesistono da
molti decenni pochi gruppi di origine straniera caratterizzati da una matrice religiosa
molto più omogenea, si deve confrontare
con un mosaico di 189 nazionalità di confessioni e religioni diverse.
188
Il Regno -
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A partire da questa scelta metodologica
– che privilegia la dimensione «comunitaria»
della religione attraverso l’identificabilità
di una presenza cultuale – passano in qualche modo in secondo piano la necessità di
quantificare i singoli fedeli, anche se i dati
vengono comunque desunti dalle statistiche ISTAT e dalle indagini Caritas-Migrantes,
e viene ristretta l’area alle grandi famiglie religiose propriamente dette.
La mappa che ne risulta offre parecchi
spunti di riflessione, perché restituisce la fotografia di una geografia socioreligiosa profondamente variegata sia quanto alla presenza di fedi sia rispetto ai vissuti e alle modalità
di appartenenza. Questa compresenza sempre più evidente ha una conseguenza diretta,
che qui si inizia solo a tratteggiare ma che andrà ulteriormente approfondita, anche nelle
contaminazioni che provoca sulle presenze
confessionali di più antica data. Ma provoca
anche un pensiero sull’effettiva tenuta del
modello sinora prediletto nelle relazioni tra
lo stato e le confessioni religiose, cioè la «via
delle Intese», che ha dato frutti positivi fino
a oggi ma che era stato immaginato dalla Costituzione in un panorama religioso ben diverso.
La ponderosa Enciclopedia delle religioni in Italia rappresenta la nuova edizione dell’opera del 2001 e del 2006; raccoglie
rielaborandolo il lavoro del CESNUR (con-
sultabile in una forma diversa anche sul sito
www.cesnur.org) e parte da una scelta di
metodo del tutto diversa, tanto che le presenze religiose che registra in Italia sono alla
fine 836. Questo perché nella definizione di
religione esplicitamente affrontata nell’Introduzione si vengono a ricomprendere i sistemi di risposte – che danno vita a organizzazioni e strutture – non puramente fattuali
né suscettibili di verifica empirica alle domande ultime sull’origine e sul destino della
persona umana che ogni uomo si pone.1
Le descrizioni di questo tipo non considerano decisiva l’autodefinizione ed «escludono sia la necessità di un riferimento a
un Dio – personale o meno – sia la “benevolenza” e il contributo positivo al bene
comune», ed «evitano di avventurarsi sul
terreno di nozioni controverse come quelle
di “rito” o di “comunità”» (Enciclopedia, 16).
Questa impostazione metodologica è scelta sia perché è stimata più adatta a ottenere
risultati di tipo politico sul piano della difesa della libertà religiosa, sia perché idonea a
offrire una più ampia mappatura del «campo
religioso». L’Enciclopedia quindi non distingue tra «sette» e «religioni», anche perché è
risultato problematico, dopo i tragici casi di
suicidi-omicidi che hanno coinvolto alcuni
gruppi definiti «sette», fissare una linea di
demarcazione precisa fra «sette» pericolose
e «religioni» legittime.
La conseguenza è che in questa mappatura sono presenti tra gli altri – a prescindere dalla loro consistenza, tanto che a conti
fatti si può parlare più di un’«invasione delle
sigle» che di un’«invasione delle sette» – anche i movimenti riferibili a neo-paganesimo,
neo-stregoneria e neo-sciamanesimo; la tradizione rosacrociana; i gruppi teosofici; lo
spiritismo e le parapsicologia; il satanismo;
i movimenti del potenziale umano (Scientology ecc.); il New Age e Next Age.
Lo studio così ad ampio raggio delle minoranze religiose – che solo tra i cittadini
italiani raccolgono il 2,5% degli affiliati, e
non l’1% come si è continuato a sostenere
a lungo – permette d’individuare quali siano
i temi emergenti nel variegato pluralismo
religioso che caratterizza l’Italia del XXI secolo: gli interessi escatologici e apocalittici,
il tema della reincarnazione, la «sacralizzazione del sé» e il ritorno della magia.
Daniela Sala
1 Massimo Introvigne ha partecipato al
progetto dell’Università di Leida su «Metodi e
teorie nello studio della religione», che ha evidenziato come non esista oggi, nelle scienze
sociali e nello studio delle religioni in genere,
una definizione condivisa di «religione».
LVIII
www.
dehondocs.
it
P
adre Leone Dehon è nato a La Capelle, nel Nord della Francia, il 14 marzo
1843. È il fondatore della Congregazione dei sacerdoti del sacro Cuore di Gesù
(sci – dehoniani), la cui Provincia italiana
settentrionale ha dato vita all’editore di
questa stessa rivista (il Centro editoriale
dehoniano). Il titolo della testata, Il Regno,
riassume in sé un lungo processo storico ed
ecclesiale partito nell’Ottocento, quando
p. Dehon fondò la rivista Le Règne du coeur
de Jésus dans les âmes et dans les sociétés.
Da un punto di vista meramente quantitativo, Le Règne… rappresenta soltanto una
minima parte del vasto repertorio di scritti
composti da p. Dehon negli 82 anni della
sua vita. Un prete con la penna in mano, è
stato definito da un volume EDB del 2005.1
Alcuni scritti sono nati come opere consegnate alla stampa, altri sono rimasti come note, corrispondenze, appunti di viaggio.
Ha frequentato numerosi generi letterari:
saggi, articoli, recensioni, lettere, diari, meditazioni, sermoni, conferenze, testi giuridici in appoggio alla fondazione (era laureato in Diritto), catechismi, preghiere… Qualunque sia la tematica delle tante da lui affrontate, si muove sempre sul doppio binario dello
spirituale e del sociale. Sono i due occhi con i
quali p. Dehon scruta la realtà del suo tempo.
Intelligenza acuta, formato alla scuola
dei gesuiti, è stato scelto come stenografo
al concilio Vaticano I. Fondamentalmente
curioso e inquieto, lascia trapelare nei suoi
scritti intuizioni che lo sopravanzano e che
solo molto più tardi saranno recepite e
sviluppate dalla consapevolezza sociale ed
ecclesiale.
La pubblicazione della Rerum novarum
nel 1891 lo trova reattivo, come se l’enciclica liberasse tutto un mondo di attenzioni,
domande, esigenze che da tempo fermentavano in lui. E così diventa per quelli del
suo tempo l’«apostolo della Rerum novarum». Tutta la sua «opera» (quella scritta
e quella fondata) assumerà la «questione
sociale» tra le attenzioni prioritarie, fino a
profilarne l’identità.
In occasione dell’anniversario della nascita, il Centro studi dehoniani di Roma ha
acceso il sito web www.dehondocs.it che
introduce al vasto patrimonio degli scritti
di p. Dehon. Il progetto è stato avviato nel
2003 e nella sua fase iniziale ha curato la
digitalizzazione dei testi e una prima revisione redazionale.
Successivamente, i testi sono stati corredati di quegli apporti redazionali che
aiutano la lettura e stabiliscono le interconnessioni, utili al ricercatore come al lettore. I criteri seguiti sono descritti nell’Introduzione raggiungibile insieme ad altri
testi ausiliari dal riquadro di informazioni
e aiuto della homepage. La terza fase ha
visto il coinvolgimento del Centro dehoniano di Bologna e di Data service center
per l’arrangiamento website dell’archivio.
Trattandosi della proposta dei testi
originali, la lingua dei documenti resta naturalmente il francese. I menù per l’accesso e la navigazione sono disponibili in 8 lingue. Ai testi
si approda scegliendo tra le
8 classificazioni, attraverso il menù di ricerca (full
text, parole chiave, data),
oppure attraverso l’albero
cronologico che riporta gli
eventi salienti della biografia di Dehon,
corredati di fotografie e affiancati dal collegamento alle opere più significative.
All’interno del documento, è possibile
spostarsi lungo un indice, oppure utilizzando specifici criteri di ricerca. Le citazioni bibliche vengono esplose nella lingua
scelta per il menù.
Le note – quelle dell’autore, quelle del
redattore dell’opera stampata e quelle del
revisore digitale – possono essere richiamate in un balloon.
Una funzione particolarmente interessante: mentre si scorre il testo, sulla spalla
sinistra viene riprodotta in miniatura l’anteprima dell’immagine del manoscritto
(quando esiste), sincronizzata con la porzione in finestra; è possibile ingrandirla,
scaricarla stamparla. È possibile scaricare i
documenti impaginati a stampa in formato
PDF.2
Il sito è in continua espansione, perché
il Centro studi dehoniani ha completato la
digitalizzazione dei testi presenti in archivio ma sta incrementando l’indice dei testi
disponibili sul web.
L’operazione supera l’interesse puramente archivistico. Un paio di analogie
con il contesto attuale possono provocare
a verificare come un protagonista creativo abbia affrontato la situazione dei suoi
tempi.
1) Siamo nel mezzo di una rivoluzione
antropologica per la quale l’intero sistema
mondo va cambiando; Leone Dehon ha
scritto e agito in risposta a un’altra rivoluzione, senz’altro sconvolgente, che si stava
consumando nei giorni suoi: la rivoluzione
industriale e quella ideologica.
2) Nella Chiesa del suo tempo, p.
Dehon ha trovato la scintilla nel pontificato di Leone XIII e in particolare in quel programma dirompente che è stata la Rerum
novarum. I dehoniani, e Il Regno in particolare, si sono accreditati come divulgatori
di quella conversione profonda avviata dal
Vaticano II, riaccesa oggi dalla scintilla del
pontificato di Francesco.
Se p. Dehon è stato l’apostolo della
Rerum novarum, i suoi «discepoli» si riconoscono suoi interpreti oggi accogliendo
e promuovendo il profondo rinnovamento
ecclesiale declinato nella Evangelii gaudium, frutto maturo, eppure ancora in
bocciolo, del Vaticano II.
Marcello Matté
1
Y. Lédure, Un prete con la penna in
T3_Ferrari:Layout
1 Bologna
5-03-2014
mano. Leone Dehon, EDB,
2005. 11:19
Per l’utilizzo a scopi editoriali è neces
sario richiedere l’autorizzazione, utilizzando
l’apposito collegamento sulla homepage.
2
MATTEO FERRARI
In quello
stesso giorno
L’«oggi» della Parola
nel Vangelo di Luca
L’
autore, monaco camaldolese, affronta la lettura del terzo Vangelo per
aiutarci a comprendere meglio la Parola,
ma soprattutto a rileggere la vita alla sua
luce. I due aspetti non sono in concorrenza
tra loro, come insegna la pratica della
Lectio divina.
pp. 96 - € 10,00
www.dehoniane.it
LIX
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189
Pagina
L
iletture
Mariapia Veladiano
ibri del mese
Se l’ipocrisia avvelena gli affetti
Guido Piovene ha pubblicato I falsi redentori nel 1949.1
Lo stesso anno in cui uscivano 1984 di Orwell, La casa in
collina di Pavese, La pelle di Malaparte. Ma il tentativo di
capire la tragedia da cui il mondo era appena emerso, e
di affrontare le ombre di un agire umano che non aveva
saputo impedirla, non trovano spazio in questa opera di
Piovene, dove anche la guerra, quando è nominata, lo è
solo per il disturbo fastidioso che porta nella vita di Giulio,
voce narrante, il quale nella prima pagina del romanzo
torna a V*** (Vicenza, la città di Piovene) per «paura della guerra, allora scoppiata in un grande centro abitato e
soggetto ai bombardamenti; disgusto per un mondo sconvolto che mi offriva solo disagi».
A Vicenza c’è Maria, un amore passato, sposata all’amico Pietro, ma il matrimonio è l’inferno che il disamore
sa costruire in silenzio dentro le case. E c’è Carlo, cognato
di Maria, fratello di Pietro e amico di Giulio. Tre uomini
e una donna. Tranne Maria, tutti parlano sempre e solo
di verità, di fare il bene dell’altro, di riparazione, di confessioni, di pentimento.
In un libro fatto esclusivamente di dialoghi e di pochissimi movimenti non c’è quasi parola che non si possa
condividere. Eppure no. «Niente mi ripugna di più che
far soffrire una persona, una persona che ha sofferto... togliere una speranza a chi ne ha perdute già tante», ma qui
Pietro parla dell’amante Alda, una ragazza onesta, povera
e innamorata. Lui rimane con lei in ragione di un’assoluta
inettitudine a decidere qualsivoglia cosa della sua vita e
dell’ossessivo suo narcisismo: «Il suo scopo sono io... non
la posso deludere». Come dire: restare con la ragazza che
ha sedotto e rovinato per consolarla di averla sedotta e
rovinata.
E voler convincere il mondo che si sta facendo del
bene. La chiarezza di una scelta non è nemmeno all’orizzonte. Il fratello Carlo lo dice limpidamente: «Non potrà
decidersi mai... Pietro teme una cosa sola, la verità».
Giulio prende a frequentare la casa di Maria e Pietro,
invitato proprio da Pietro ad aiutarlo a riparare il matrimonio ormai distrutto, in nome dell’«eternità degli affetti», di quell’anticipo di paradiso che il matrimonio deve
essere fin da qui sulla terra, per proteggere Maria da se
stessa e dalla sua vocazione all’infelicità, perché «lo stato
matrimoniale suscita in me il bisogno di difendere tutti
gli affetti anche contrastanti, anche quelli che tendono a
minacciare l’esistenza».
Ma non è vero. Tutto questo volere bene proclamato
avviene, come dire, alle spalle di Maria, che legge bene
la natura debolissima e pusillanime del marito, il quale
non sa amare nessuno, né lei, né Alda e nemmeno la madre che dice di venerare: «Appena sposato con me si sentì
come in colpa, e ne ebbe paura. Non soltanto in colpa
con lei, ma con tutto, anche con le piante, coi mobili di
casa sua. Solo allora gli venne la frenesia di sua madre. La
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smania di accostarmi a lei, quasi di comprendermi in lei,
per non avere più paura».
Giulio sembra a volte avere una maggiore fortuna nella propria autoanalisi, una maggiore onestà. Eppure no.
A un certo punto scappa con Maria per qualcosa che somiglia a uno slancio di altruismo, quasi nuovo amore, ma
si ritrae immediatamente e nella ricostruzione che disegna
dei fatti mette in gioco lo stesso rovesciamento di Pietro
con Alda: «In me ci sono due preoccupazioni. La prima
sei tu: non posso lasciarti sola per il mondo... Poi mi preoccupo di me e dei miei amici e di mia madre...». E incredibilmente la riporterà a casa dal marito, perché «laggiù
tu non eri felice, ma almeno eri comoda». E anche lui si
assolve per bene: «Ti direi che provo rimorso di averti
portata via, se fosse utile in questo momento il rimorso...
Invece sarebbe un lusso che non posso permettermi... Utile è solo riconoscere la situazione mia, e la tua...».
I puntini di sospensione sono tutti nel testo, quasi una
rappresentazione grafica dei baratri di falsità su cui ondeggiano i personaggi, soli, attorcigliati e dannati. L’area
semantica della falsità è quella che raccoglie il maggior
numero di parole in tutto il romanzo, insieme a quella
della verità.
Di sicuro Maria vede più degli altri. Viene da un’infanzia dolorosa, ma non la legge come causa delle sue
azioni. Sbaglia, ma non attribuisce a nessuno gli errori
che fa. È lei che suggerisce la fuga con Giulio, tentativo
di far accadere qualcosa che la sottragga a quel che tutti
vogliono da lei. Cosa questo sia lo dice Carlo, un attimo
prima della tragedia, quando dichiara finalmente il vero
nascosto scopo di tutti in quel parlare di bene e di verità:
«È semplice: volevate ucciderla!».
Ci sono descrizioni struggenti dei colli intorno a Vicenza. Una bellezza che non salva proprio nessuno. È solo
il fondale malinconico alla mala-vita di tutti.
Completamente intrisi di una libidinosa velleitaria volontà (voluttà?) di bene, i tre protagonisti di questo inquietante romanzo sulla abissale possibilità di male dell’umana inettitudine costruiscono una maschile perversa trinità
che infetta sentimenti parole e azioni.
In un mondo così, solo la morte sembra promettere un
nuovo inizio. Decide per chi non sa decidere. Ma non è
vero, e lo scopre Giulio davanti al corpo di lei, suicida ma
in realtà uccisa dall’oscuro loro desiderio, «perché nessun
pensiero bugiardo reggeva davanti al cadavere vero». Si
può vivere anche così dannati. Se non c’è un movimento
che porta fuori di sé, se lo sguardo è tutto un chiuso rivoltar sé stessi, non c’è parola né bellezza che ci salvi.
Mariapia Veladiano
G. Piovene, I falsi redentori, Garzanti, Milano 1976.
1
LX
Mass media
I ta l i a
l
a TV si è fatta mondo
L
a televisione è un catalizzatore di colpe, ma non
prova sensi di colpa. La
televisione è un parafulmine compiaciuto, che
trasforma in vantaggi le scariche elettriche che la colpiscono. La televisione
si può spegnere o minacciare di estinzione, tanto ormai è ovunque, ben oltre lo schermo che le fa da cornice. E
si è fatta mondo. La televisione uccide gli altri media con dolcezza, inglobandoli, sostituendosi a loro, fingendo di farsi portare a passeggio e di esserne diventata una complice discreta. L’eliminazione dei quotidiani della sera è stata silenziosa, fulminea,
senza strascichi. La TV l’ha preparata con cura, riempiendo i pomeriggi
di notizie incartate in confezioni regalo festose, con tinte pastello e caratteri d’oro, come nelle scatole dei cioccolatini e dei biscotti da the. Un saggio
come questo non può che partire da
una premessa forte, perché tutto quello che segue non sono altro che sfumature delle conseguenze.
La televisione vive da 60 anni di
frasi fatte come: «E ora una domanda
da un milione di dollari»; «Cosa provi
in questo momento?»; «Dove sei stato in questi anni?» (a un cantante o un
attore scomparsi dalle scene da anni);
«Vuoi dire qualcosa a chi ti sta guardando?»; «Avrei molte cose ancora da
chiederti, ma il tempo è volato via»;
«Hai dimostrato ancora una volta la
tua immensa sensibilità, anche se non
ce n’era bisogno». Elargisce ogni giorno le sue paradossali bugie (una fra
tutte: «Il meglio deve ancora venire»).
Tr a i r e a l i t y e g l i i n f o t a i n m e n t :
sopravvivono solo i generi inquieti
Eppure tutto quello che sappiamo di ciò che ci circonda (che siano
solo finzioni, come suggerisce Christof a Truman nel celebre film di Peter Weir, mezze verità, fatti-spettacolo
creati per attrarla, segreti nati per essere rivelati, misteri destinati a non dissolversi) lo veniamo a scoprire attraverso la televisione.
Il cellulare e gli i-pad ci permettono
di vedere ovunque televisione. Sempre
più programmi vengono costruiti solo
per riempire quelli che vengono ritenuti i vuoti della giornata (il tempo in
treno di un pendolare, che una volta si passava a giocare a carte, l’attesa di uno studente alla fermata dell’autobus, tempo interstiziale della pausa
pranzo tra il consumo di un panino e il
ritorno al lavoro).
Le notizie arrivano da ogni parte,
ma sono i programmi di infotainment
che le trattano, le incorniciano, le personalizzano, le soapizzano, le commentano e le fanno commentare da
persone come noi. Le radicano. I factual le ribadiscono, e le trasformano
in manuali minimi di sopravvivenza. I
docudrama le rinforzano con le bollicine naturali della fiction. (…)
Le serie americane di successo non
solo raccontano mondi inesplorati (da
un’isola misteriosa a un laboratorio
dove si effettuano autopsie) ma si sviluppano a partire o comunque intorno
a fatti che hanno colpito l’immaginario collettivo e creano legami forti con
i protagonisti, miscelando le vicende
individuali (peraltro ispirate ai racconti di veri protagonisti) a fatti ed eventi
accaduti da poco, che, avendo segnato
nella finzione i propri personaggi immaginari, li proiettano dentro il reale.
Conta la schiuma
All’inverso, i personaggi dei mondi di invenzione diventano sempre più
spesso il modello di riferimento dei
protagonisti di fatti di cronaca: qualche anno fa a Cagliari venne arrestata una banda di rapinatori che si ispirava pubblicamente ai Bassotti, talmente
patetici nei loro insuccessi da aver indotto Paperon de’ Paperoni, su invito
del loro nonno, a far loro conquistare il
suo deposito, per una volta (purtroppo
il progetto non è riuscito per l’incauto
intervento di un Paperino che per una
volta pensava di essere stato vincente).
La tv è garanzia di approfondimento di ciò che accade, nel vuoto delle apparenze che ha contribuito a creare. Approfondire ciò che è superficie è un’impresa magica. Quindi adatta alla televisione. «Cosa conta di più:
la schiuma o la corrente?», si chiedeva
uno dei protagonisti di un radiodramma giovanile di Harold Pinter, premio
Nobel per la letteratura. Il suo «dimmi cosa conta» ripetuto in finale di frase contava per il suono, ma il contenuto era scontato.
E adesso? Nel mondo televisivo le
correnti si formano in funzione della schiuma che possono produrre. La
previsione dell’effetto scatena le cause.
La percezione immediata di quali conseguenze saranno più durature, spettacolari, magnetiche determina in partenza la scelta di quali fatti, argomenti, dibattiti affrontare e quali ignorare,
lasciandoli precipitare oltre l’orizzonte
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degli eventi, nel buco nero di tutto ciò
che non abbiamo mai saputo.
Perché certi delitti attraggono morbosamente e altri si esauriscono in una
breve di cronaca? Perché certe stragi
umanitarie scatenano le reazioni della cosiddetta opinione pubblica e altre
si consumano nell’indifferenza totale?
È facile rispondere: perché gli uni finiscono nei programmi di intrattenimento e di approfondimento e gli altri no.
Esistono delle regole precise che ci dicono quando scatta questa attenzione
mediatica che quasi immediatamente
assume caratteristiche virali. Ma non è
questa la sede in cui approfondirli. Ci
basta sottolineare, in questa sede, che
niente è casuale.
I programmi di intrattenimento
non si limitano più a ospitare la cronaca, la politica, l’attualità insieme a canzoni, balli, prove di talent, frammenti
di Academy, incursioni spregiudicate
nella privacy dei vip. Ne fanno la loro
materia viva, il lievito che alimenta l’attesa e la crescita dell’escalation emozionale che ne garantisce o dovrebbe garantirne il successo. È una logica che
non intendo giudicare, ma mettere in
luce. Se le notizie del mondo sono i fermenti vivi dell’intrattenimento quotidiano, esistono insieme cause e tentativi di spiegazione. La mia convinzione
è che siano almeno quattro i punti forti
di questo processo:
– il mondo di cui la TV parla è un
mondo diventato televisione;
– i generi tradizionali sono scomparsi e sopravvivono solo quelli inquieti, che tendono a essere altro;
– i reality hanno insegnato soprattutto al pubblico ad aspettare il nascere
delle storie, promettendogli una vita di
incipit;
– l’infotainment è una risposta semplificata a un’età che non può più permettersi le favole.
Da notiziari a monumenti
Nei villaggi spopolati della Groenlandia gli indigeni ricevono i telegiornali in videocassette, consegnate dalle navi di passaggio. Le notizie di cui
parlano risalgono a una settimana o un
mese precedente, dipende dalle stagioni e dalle condizioni del mare. (…) Per
gli abitanti della Groenlandia, che convivono per tanti mesi con l’isolamento e la neve, le news parlano di qual-
192
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cosa che è già accaduto, ma per loro
è comunque una novità differita. La
neve attutisce. Certi silenzi fanno risaltare di più le parole. O danno loro
un significato più profondo, che magari li costringe a ripensare i giorni passati, quando non sapevano di qualcosa
che avrebbe potuto e forse potrà cambiare anche la loro vita. Quelle notizie non hanno il compito di farli sentire
in contatto diretto con il mondo, parte
del suo battito irregolare. Sono altro in
partenza, pretesti per altri racconti che
si mescoleranno con le loro mitologie.
Siamo un po’ tutti abitanti della Groenlandia interna. Non esistono
news che ci raccontino davvero e ancora qualcosa di nuovo. Le notizie ci piovono addosso da tutte le parti e quando dedichiamo loro un’attenzione particolare (nei telegiornali), è come arrivare in un luogo lontano dopo averlo
visto in migliaia di fotografie. I titoli di
testa dei telegiornali, che si inseriscono
nel momento clou dei game e dei quiz
dello spazio preserale, hanno qualcosa di anacronistico nel loro farci credere di annunciarci qualcosa che sappiamo da tempo. La radio ha capito prima
questo equivoco. Enrico Mentana, direttore e conduttore del Tg de La 7, ha
trasformato questo rito in un pre-racconto, non a caso vincente. Molti altri
usano ancora i toni propri dei venditori
di almanacchi e poi degli estinti quotidiani della sera, che cercavano il cuore
di un fatto per attrarre, rovinando con
il tono eccessivo le parole migliori che
avevano trovato per descriverlo. (…)
Nell’era dell’intrattenimento diffuso e confuso (come vedremo con più
profondità nelle prossime pagine) la sopravvivenza dei telegiornali della sera
è legata alla loro capacità di essere ancora radice. Uno dei pochi luoghi comuni rimasti. Un punto di incontro
potenziale nella dispersione dell’offerta televisiva. I Tg della sera continuano
a svolgere il ruolo simbolico di centro
della programmazione come un famoso monumento continua a rappresentare il cuore simbolico di una città, anche se quello reale si è spostato altrove.
Sono un minimo denominatore comune che ha bisogno di molte protezioni
per continuare a svolgere la sua missione. Che, provocatoriamente, non è più
informare la maggior parte dei cittadini su quanto è avvenuto nel giorno,
quanto essere un punto di riferimento,
una buona abitudine.
I telegiornali sono navi-faro, boe
che indicano la rotta corretta. Quando va in onda una partita di calcio importante, le reti che la ospitano riducono drasticamente la durata dei telegiornali principali, senza togliere loro completezza e appeal. La loro durata, infatti, è convenzionale e la loro composizione ha due anime: la prima informativa pura; la seconda molto più commerciale, con consigli camuffati all’acquisto di libri, concerti, spettacoli e soprattutto dei propri programmi della
sera. Quello che normalmente si dice
in mezz’ora, si può dunque riassumere
in 15 e anche in un solo minuto. Perché
le informazioni in realtà sono ovunque
e sempre presenti: nei canali specializzati dove i Tg vanno in onda a ripetizione, nei contenitori del mattino e del
pomeriggio, nelle trasmissioni di approfondimento.
Un mondo e l’altro
La televisione è una straordinaria collezionista di colpe non sue. Che
ignora sempre e spesso trasforma in
nuove sfide a risultato sicuro. Ogni volta che si accusa la televisione di un presunto misfatto, la soglia etica di ciò che
è giusto o sbagliato trasmettere si sposta un po’ più in là, e la televisione guadagna un margine ulteriore di movimento, nella sua marcia verso nuove
sorti magnifiche e progressive.
Chi è davanti allo schermo a quell’ora, quelle notizie le conosce da tempo: la TV stessa le ha già analizzate,
scomposte, commentate nel corso della giornata, utilizzando tutte le cornici
possibili. I telegiornali con la loro autorevolezza e capacità di sintesi possono solo riassumerle, ribadirle, aggiornarle all’ultima ora, sapendo che un secondo dopo Internet aggiungerà particolari che le renderanno già superate.
I telegiornali si sforzano di raccontare
il mondo come se fosse un oggetto da
osservare che è altro da chi lo guarda.
I programmi di intrattenimento infarciti di notizie sono, nella loro indefinitezza, più coerenti e sinceri. Prendono atto che i bordi del piccolo schermo,
sempre più sottili e sfumati, sono sempre più un confine convenzionale. Una
cornice ingannevole.
Perché giorno dopo giorno un pro-
cesso simile a quello clorofilliano ha
trasformato il mondo stesso in televisione. Come una spugna, la TV ha
assorbito per anni la realtà restituendola a suo modo cambiata. E quando questa nuova versione ritornava in
circolo, cambiava a sua volta il mondo circostante. Un esempio molto preciso ce lo offrono i primi concorrenti
del Grande Fratello: avevano una specie di verità, venivano definiti con la
loro professione e la regione di provenienza, in assenza di altri indizi. Dalla
seconda edizione in poi, i loro successori non hanno più avuto una identità
o espressività primaria, ma sono stati
accostati all’uno o all’altro dei pionieri dell’edizione del 2000, come se fosse diventato immediatamente impossibile essere sé stessi, senza un modello
cui ispirarsi.
Il mondo di cui l’informazione si
occupa è sempre in scena, ma intorno c’è un immenso territorio di fuori
scena. In poche aree sempre illuminate
si svolge tutto ciò che sembra contare,
come se ci si trovasse sul palcoscenico
di un varietà, in un parco divertimenti,
in un resort. Tutto il resto del pianeta è
lo spazio dell’ignorabile. Sono gli spazi che non devono affiorare, le cantine,
i magazzini, i retrobottega del mondo.
Se vengono rivelati, è per ottenere un
supplemento di spettacolarità.
Nel mondo sempre in onda, quando accade qualcosa di spiacevole, o patemico, bisogna sempre sperare di essere vittime di Scherzi a parte. Nel secondo, essere vittime è la condizione naturale. Sfuggire alla rassegnazione sconfi-
na immediatamente nella ribellione. In
entrambi i mondi le indicazioni dell’uscita non devono apparire: nel primo
caso per non dissolvere l’incantesimo
collettivo; nel secondo caso perché il
portale del mondo sognato non sia violabile. Gran parte delle notizie che la
televisione ci racconta ogni giorno parla di questa dialettica spiegata in altre
parole: il mondo incantato minacciato
dal mondo oscuro.
Il primo mondo, quello di cui si parla, è diventato televisione. Il secondo è
la sua trama d’ombra. Il mondo diventato televisione è caratterizzato dal suffisso dis: disuguale, discontinuo, distante, disagiato, disperso e dispersivo, dispiaciuto o disperato ma anche disponibile, disilluso, dissolto, iperinformato e insieme disinformato, distratto, disegnato e designato, distrutto e capace
di rigenerarsi quando meno te l’aspetti,
disturbato, disimpegnato, disancorato,
disintegrato, distinto, distonico, diseducato.
Il genere è morto
Le scenografie dedicate ai format
di intrattenimento enfatizzano il senso
della trasparenza. Dopo gli Swatch, anche gli orologi più preziosi lo fanno.
Ma come possono convivere, senza entrare in conflitto, l’informazione drammatizzata degli episodi più spietati e i
complimenti spolverati di zucchero tra
le amiche dei sabati o le pubblicità in
cui i frammenti di cioccolato in un biscotto secco sono pepite, la marmellata incontra la pasta sfoglia e si innamora dando vita a una brioche e i frutti di
bosco decidono di vivere sempre insieme in uno smoothie?
Un mondo oltre il senso del luogo.
Oltre il senso del tempo. Dove quest’ultimo, per usare le varie traduzioni del
romanzo di Philip Dick che ha ispirato The Truman Show, è fuori di sesto,
spezzato, fuori luogo. Per la prima volta, viviamo un’epoca in cui non sono
gli uomini a caratterizzare il loro tempo, ma devono provare ad adattarvisi,
perché intanto impone i suoi ritmi e i
suoi modelli. Le offerte creano i bisogni
e gli anni fanno a meno di noi. L’intrattenimento quotidiano che miscela notizie drammatiche, le speranze e i sogni di nuove stelline in attesa del calciatore che le possa illuminare indirettamente, interni di ville da sogno e tuguri in cui si cerca Bin Laden (è successo
a La vita in diretta, per diverse settimane, dopo l’11 settembre) è forse anche
un modo di blandire il tempo. Di intrattenerlo rendendolo più umano, più
a misura d’uomo. (…) Mentre alza il livello del sensazionale, contribuisce ad
annacquarlo.
L’onnipotente televisione di questi
anni ogni tanto patteggia con gli apocalittici nemici il sacrificio ciclico di
un genere in cambio della sua eternità. Che fine hanno fatto quelli che prevedevano la fine del nuovo dinosauro, della radio cieca, nel giro di pochi anni? I necrologi sono rientrati alla
base, come equivoci senza mittenti. I
coccodrilli sono rimasti negli archivi,
pronti a essere utilizzati al primo pretesto, che la TV non sembra intenzionata a offrire. Se il mondo rivelabile, visi-
CE I - T v 2 0 0 0
Un nuovo caso Boffo
I
l 14 febbraio scorso, diverse agenzie di stampa, tra cui il SIR,
hanno riferito che la Società Rete Blu, editrice di Tv2000, per
tramite del suo presidente, Giovanni Traverso, aveva «comunicato al direttore dott. Dino Boffo l’avvenuta risoluzione del suo
rapporto di lavoro in qualità di direttore di rete di Tv2000 e Radio
in blu». «L’avvicendamento di un direttore – proseguiva il comunicato – è un fatto fisiologico all’interno di qualsiasi realtà oggi, tanto
più in una fase di repentini cambiamenti nella società e nella stessa
Chiesa. Al dott. Boffo va la gratitudine sincera per quanto fatto
con professionalità e dedizione per lunghi anni, anche dopo la tormentata vicenda del 2009, con l’augurio di valorizzare al meglio
quanto compiuto».
«A questo obiettivo – concludeva il comunicato – è finalizzata
la nomina del nuovo direttore», del quale però, a un mese di distanza, non si conosce ancora il nome, mentre, a conferma delle interpretazioni – subito circolate sui media – sulla non-consensualità di
questa decisione, diverse fonti hanno riportato il 25 febbraio che gli
avvocati Disertori e Podda (Studio Grande Stevens) hanno ricevuto
dallo stesso Boffo l’incarico di contestare il licenziamento, a motivo del suo carattere «ingiurioso», e di avviare «ogni più opportuna
iniziativa a tutela dei diritti e dell’immagine» del loro assistito. Dino
Boffo era stato nominato direttore di Tv2000 nell’ottobre 2010.
G. Mc.
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bile, raccontabile – con le sue paure, il
bisogno di sicurezza, la dialettica perfezione-imperfezione, la perenne e indispensabile al business ricerca della felicità – è diventato televisione, il prezzo dell’immortalità della TV non può
che essere simbolico. In ogni caso è stato stabilito. È la morte annunciata di
un genere ogni 10 anni circa: prima il
varietà, poi la lunga serialità, i quiz, i
grandi reality e oggi i talk show.
Un inganno collettivo che nasconde una semplice verità: è il concetto di
genere che è morto. I generi nascono
(in letteratura, a teatro, nel cinema)
per tranquillizzare i fruitori. Per stabilire un semplice patto iniziale. Per
formulare una giusta tipologia di attesa. Per creare accordi iniziali. I generi
televisivi di oggi (come quelli letterari
e cinematografici, ma in modo più accentuato e deciso) sono diventati dei
veri e propri transformer, capaci di rivitalizzarsi sacrificando una parte del
loro specifico per inserire i cromosomi
di un altro. Generi che si sono fatti indefiniti per inquietudine. Che indossano la mezza maschera. Dietro l’apparenza iniziale tendono a essere un
altro.
I reality avanzati alla Survival, Big
Brother, eccetera, sarebbero rimasti
programmi di nicchia se non fossero
stati contaminati dal game. È stata la
nomination a renderli vincenti. Le immense serie a basso costo come Un posto al sole contengono elementi di talk;
i game mettono al centro l’interiorità
rivelabile del concorrente, che diventa spesso più importante della dinamica del gioco.
Storie a migliaia
Nei primi talk show con storie vere,
gli autori definivano le storie «casi».
Il quotidiano aveva cominciato a non
sfuggire più, anzi premeva per emergere, affiorare. Raccontarsi, apparire,
non richiedeva talento (il revival del saper fare qualcosa di spettacolare stava
iniziando il suo percorso di ritorno che
si è completato solo pochi anni fa). Bastava (basta) avere una vita da dichiarare, magari una ferita da esporre o un
problema aperto da risolvere pubblicamente. I «casi» di allora oggi si definiscono «ospiti», «individui», «persone».
Da inserire nel tritatutto di un quiz preserale dal titolo indicativo (Avanti un
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altro!) o da eliminare dal quiz dopo due
sole domande.
Prima dell’affermazione definitiva
della televisione, una persona comune
conosceva solo le storie delle persone
che aveva avuto l’occasione di incontrare direttamente, o quelle raccontate
nei film o nei libri. In Heimat, il film in
10 episodi di Edgar Reitz, la protagonista vive in un piccolo paese, che è al
centro del racconto dei primi 80 anni
del Novecento. Non lascia mai quella
piccola porzione di paese. Quando il
suo tempo si conclude, nella sua mente e nel suo cuore ci sono alcune decine
di storie. Uno spettatore medio di oggi
incontra attraverso la TV 100 storie al
giorno, 3.600 all’anno. In 50 anni, diventano 180.000.
Attraverso le storie degli altri scopriamo qualcosa di noi, sostengono gli
studiosi delle emozioni. Quelle storie
contengono delle scelte già compiute e
spesso diventano un modello di comportamento che scatta in automatico quando ci troviamo di fronte a una
scelta improvvisa, a un bivio imprevisto della vita, apparentemente senza
indicazioni. La strada (o il destino, alla
spagnola) indicano allora le scelte già
compiute da altri le cui storie abbiamo
già sentito raccontare. È questo meccanismo che ci rende previsibili.
Chi sta per vivere un episodio che
ha potenzialità emotive, narrative,
spettacolari, prima informa la TV, affidando a un agente le trattative per
concedere in esclusiva o in compartecipazione una parte della futura vicenda. Chi ha una storia del passato (o un
semplice episodio) che può assumere
tinte eroiche, appassionanti, coinvolgenti, offre alla TV di rivelarlo, riattualizzarlo, riviverlo, modificarlo o completarlo. (…) Un anno prima di uscire dal carcere dopo aver scontato una
lunghissima pena, Graziano Mesina
aveva affidato a un noto avvocato l’asta della sua prima intervista televisiva
da uomo libero: se lo aggiudicò la Domenica di Rai2 (…).
Nello stesso periodo, un ex soldato
americano sbarcato in Normandia, che
si apprestava a fare un pellegrinaggio
della memoria in Italia, diede mandato a un producer di suddividere la sua
esperienza di ritorno in varie puntate,
destinate a varie trasmissioni: le motivazioni della partenza a Uno mattina,
le speranze e le attese a Fatti vostri, l’incontro con una bambina che aveva salvato e le emozioni successive a La vita
in diretta o Maurizio Costanzo Show, a
seconda delle offerte. (…) Nel mondo
diventato televisione, i generi inquieti
riducono la vita a una serie allineata di
episodi, in cui il finale dell’uno non è
che il teaser di quello successivo.
È in un mondo previsibile che l’intrattenimento si è impadronito dell’informazione, trattandola come una polvere per fuochi artificiali. Una materia
prima spettacolare da maneggiare con
cura, piegandola alle regole universali del format: economiche, drammaturgiche, di comunicazione. La spietata guerra tra i telegiornali di punta delle reti generaliste fa pensare che il loro
ruolo sia ancora centrale, ma l’informazione si è polverizzata, come l’acqua nebulizzata di certe attrazioni estive nei parchi divertimento.
Meglio la gente comune
L’irruzione sempre più significativa degli elementi di varietà nella programmazione del pomeriggio (formule, elementi scenografici, tipologia degli ospiti, toni) ha spinto i programmi
della sera in un vicolo cieco. L’attuale crisi presunta dei talk show andrebbe
vista prima di tutto alla luce di questo
processo precedente.
Un giocoliere dei primi del Novecento, dopo aver studiato attentamente
i più amati tra i suoi predecessori, stabilì che nessuno – neppure lui – avrebbe potuto fare meglio di loro. Allora ha
rovesciato il gioco. Se nel far volteggiare gli oggetti non c’era margine per stupire ancora, decise di essere il primo a
specializzarsi nel farli cadere. E così si
conquistò un posto nei cuori degli spettatori e nella storia della giocoleria.
Nella spietata rincorsa agli ascolti
della sera, i talk show hanno rovesciato a loro volta il gioco. Pochi programmi evento – questi sì davvero superiori alle proposte del pomeriggio per importanza degli ospiti e ricchezza dei
budget – a punteggiare e caratterizzare un’intera stagione. Molti talk e autosedicenti programmi di approfondimento, caratterizzati più dalla personalità del conduttore che dalle differenze
reali nei meccanismi, a coprire le altre
sere. La scelta tattica si è rivelata strategicamente perdente nel tempo medio:
nella punteggiatura tradizionale della
giornata televisiva la sera è lo spazio festivo, il day time quello feriale. (…)
Un tempo non lontano quando si
trasferiva un programma di successo
del day time in prima sera si agiva in automatico, alzando il reostato emozionale virtuale con l’entrata in scena di vip
di primissimo livello al posto della gente
comune o degli ospiti passepartout, aumentando notevolmente la posta in palio nei games e nei quiz. Espedienti consumati per una serie di motivi e comunque non più in grado di soddisfare le attese esasperate di chi vive, suo malgrado, nella società eccitata dal sensazionalismo diffuso. I vip che si contendono altissimi montepremi da donare in
beneficienza appaiono sempre più patetici. La gente comune spesso ha una
forza espressiva e una capacità di creare empatia con gli spettatori superiore a quella di molti vip (le eccezioni si
contano sulle dita di una mano, e non
a caso centellinano le loro presenza,
come vuole la logica degli eventi).
La via d’uscita potenziale l’ha offerta quella che ho definito tempo fa
«l’evasione dalla realtà dentro la realicità». Ritorniamo indietro di quasi 30
anni. Siamo a metà degli anni Ottanta e l’università La Sapienza organizza un convegno-dibattito dedicato a
una tendenza che sta affiorando nella
TV attuale (nel particolare caso italiano la si definisce, quasi sottovoce, «TV
verità»). Una serie di programmi nati
all’interno di Rai Tre, allora diretta da
Angelo Guglielmi, ma non solo (penso
a Specchio della vita, versione italiana
dell’americano Donahue Show prodotto da Sandra Parenzo per Telemontecarlo), inducono un gruppo di studiosi
della comunicazione a domandarsi se
siamo di fronte a un nuovo genere o,
addirittura, a un nuovo orizzonte per
la televisione stessa.
Io confesso, Chi l’ha visto?, Telefono giallo, i primi talk con gente comune di Maurizio Costanzo. Il cosiddetto «popolo della normalità» appare (o
si nega alle telecamere rivelando, protetta da uno schermo di plexiglass opaco, il proprio segreto) in TV con una
naturalezza che sconvolge. Non si accontenta dei cinque minuti di celebrità, ma conquista ore e ore di attenzione, appassionando le platee con la forza esplosiva del proprio vissuto.
Realicità
Quello che succede dopo è molto semplice, e ancora poco studiato:
con la parola reality siamo abituati a
definire, classificare, spesso giudicare
una costellazione di programmi molto diversi fra loro per obiettivi, modalità produttive, mission, struttura, atteggiamento verso gli ospiti e verso
gli spettatori... Chiamiamo allo stesso modo trasmissioni che si insinuano,
grazie a dei meccanismi semplificanti, all’interno dei rapporti tra le persone per far scaturire delle emozioni primarie, quindi fortemente condivisibili, e complesse operazioni spettacolari come Big Brother, che circoscrivendo lo spazio e dilatando il tempo creano condizioni esasperate in cui una serie di giovani rivelino sé stessi per conquistare la vittoria.
Ci sono state finora almeno tre stagioni diverse nella storia del reality, e
ognuna di esse ha avuto al suo interno
complessi meccanismi di evoluzione e
involuzione, impossibili da riassumere
in questa sede. Quello che ci interessa sottolineare qui è che – schiacciato
in una prospettiva unificante – il fenomeno reality ha convogliato la TV (autori, editori, pubblico) nella direzione
della realicità.
Fuori e dentro la TV, oltre il senso
dichiarato dei luoghi in cui viviamo,
siamo invitati a respirare l’aria euforizzata della televisione (…). Il divario
tra la vita reale, sempre più problematica, e la vita televisivamente coerente che vorremmo incontrare continua
a crescere e non può essere la TV a
chiederci di aprire gli occhi sull’illusione che le è stata richiesta. La TV può
solo spingerci a spalancarli, provocando nuovi stupori. La realicità è un’illusione di realtà, vagamente più accettabile. Come un interno povero in un
film assomiglia al reale, ma è più gradevole, accettabile, abitabile. È una
vita al Photoshop, addolcita, saturata
nei colori. Una vita passata in Truka
per aumentarne il magnetismo.
È il sogno di una realtà appena più
accettabile, così simile alla parte di
mondo reale/resort – eccitato dal sensazionalismo – che non è illusorio pensarla possibile. Piovono storie dovunque e siamo continuamente connessi
con il mondo, anche se sempre più distaccati da chi ci è vicino. Se ci colpi-
sce quello che ci riguarda, proporzionalmente a quanto inciderà sulla nostra vita, molte delle informazioni che
ci arrivano, ci sfiorano soltanto. Ma
nello stesso tempo ci distraggono e sottraggono parte della nostra attenzione
alle persone più prossime. Nel trionfo dell’educazione permanente ai sentimenti e alle emozioni filtrate, sentiamo troppe parole e fatichiamo sempre
di più ad ascoltare.
L’intrattenimento lavora sull’effetto. Non chiede di ripensare, ma promette un’emozione successiva. Per
questo vince, in una sorta di morra cinese in cui vince sempre la stessa mossa. L’informazione diventata intrattenimento racconta come se tutto fosse già avvenuto. Come se ogni fatto,
anche il più tragico, fosse riconducibile alla logica rassicurante di un romanzo. Nel Corriere della sera del 13
ottobre 2013, uno scrittore come Tullio Avoledo commenta il prossimo arrivo di un terribile tifone in Asia a partire da una fotografia. Ricondurre il
non ancora accaduto all’universo della finzione disinnesca la paura del futuro. O la esaspera. In ogni caso anche
il fatto più inquietante sembra rientrare nell’illusione del controllo.
Le favole interrotte a metà sono
racconti tragici. Se continuiamo a raccontarcele è perché conosciamo l’happy end. La televisione non può garantire il finale favolistico, ma inserisce sotto ogni fatto, tra un fatto e l’altro, che non si può ignorare una sottile
corrente di ottimismo. Sotto la schiuma dei giorni, suggerisce, scorre un
fiume di allegria sotterraneo, che prima o poi dovrà riaffiorare. Magari in
un altro programma, che ci continua a
sfuggire.
Paolo Taggi*
* Autore televisivo e radiofonico (oltre che
giornalista e scrittore sui temi della comunicazione) tra i più originali e fecondi della TV italiana degli ultimi 25 anni, i suoi programmi
vanno da Io confesso (Rai Tre) a Domenica in…
onda (Rai Uno) e da Stranamore (Canale 5) a
Nel cuore dei giorni, il «maxicontenitore» crossmediale che fa da «scivolo» alla programmazione quotidiana di Tv2000. L’articolo che qui
pubblichiamo è ripreso, con piccoli tagli redazionali, dal trimestrale Desk 20(2013) 3, numero
monografico dedicato a Intrattenimento e gioco
come servizio al pubblico (pp. 51-62). Ringraziamo l’autore e la rivista per la loro disponibilità.
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Te o l o g i a
I ta l i a
u
na per tutti?
L a Fa c o l t à t e o l o g i c a d e l l ’ I t a l i a s e t t e n t r i o n a l e
su «for ma cristiana e for ma secolare» della fede
L
a domanda dell’annuale
convegno di studio della
Facoltà teologica dell’Italia settentrionale* appare
fin dal titolo, «Una fede
per tutti? Forma cristiana e forma secolare», e pone la questione. Riguarda
sia la società civile oggi in Occidente,
sia la Chiesa che ne condivide i frangenti storici. Potrebbe apparire fuori
luogo e anacronistico porsi la questione di una fede «per tutti» in un’epoca di scristianizzazione, ma non è così, per un duplice motivo. Da un lato
la Chiesa non può rinunciare a questo
compito, pena l’essere ridotta a un forma settaria che è da sempre la sua tentazione, ma alla quale è anche severamente interdetta dai suoi stessi principi fondativi. Perdere le folle è perdere anche il Vangelo. Anche se guardiamo la questione dall’altro lato, ovvero da quello della società civile, diversi indicatori ripropongono oggi in modo inedito la questione della fede, perché l’esito della secolarizzazione è sicuramente stato quello della fine della cristianità, ma non la scomparsa del
sacro. La seconda fase della secolarizzazione – dopo quella che ha riguardato le istituzioni è stata secolarizzata
anche la morale – ha lasciato un vuoto che rimane da elaborare. Eliminato Dio, scomparsi gli dei, la condizione dell’uomo secolare deve ugualmente fare i conti con il sacro.
L’inquadramento
Il compito di fornire un primo quadro interpretativo è stato dato alle prime due relazioni. Quella del preside
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mons. Sequeri ha offerto una lettura
della condizione attuale dell’uomo secolare chiamato a «fronteggiare» il sacro nell’odierna «città-mercato». Nelle società antiche questo era il compito delle religioni. Nasce così la tragedia,
che altro non è che una prima razionalizzazione di fronte all’ingiunzione
del sacro: esistono leggi che si impongono all’uomo prima e oltre quelle civili della polis. L’intervento del prof. Givone ha preso avvio esattamente dalla ripresa del pensiero tragico. L’annuncio nietzschiano della morte di Dio
è ancora tutto da elaborare. Lo stesso
Nietzsche sosteneva che sarebbero dovuti passare secoli prima che gli uomini tornassero a interrogarsi sul senso profondo e misterioso di quella morte. Quello che viviamo è un tempo di
nichilismo, che annulla il senso del tragico e rimuove le grandi domande che
pervadono la vita dell’uomo. Deve per
questo rimuovere lo scandalo del male:
«Tranquilli, non c’è nulla di tragico».
È, in realtà, soltanto un’operazione di
cosmesi.
Prendere sul serio la provocazione moderna della morte di Dio significa invece ritrovare l’approccio tragico alla vita, fare i conti con lo scandalo del male e, per la teologia, «pensare
tragicamente l’eredità cristiana», quella
che chiede di nuovo di interrogarsi sul
nesso tra «colpa» e «destino», sul debito che ci lega inesorabilmente al tutto. Questa è l’eredità del pensiero greco nella cultura occidentale: «Il destino
è il fatto che il vivente deve la vita al
vivente. Ciascuno deve qualcosa a tutti
gli altri e quindi al Tutto. (…) L’espia-
zione del debito corrisponde a una misura anonima, uguale per tutti, non alla responsabilità individuale: la “colpa”
(amartia) altro non è che la colpa di essere nati» (Givone).
Destino, colpa, espiazione: sono le
categorie con le quali l’uomo fa i conti con il sacro, con l’ingiunzione che sovrasta la sua esistenza, con una differenza che il tragico cristiano introduce rispetto al tragico greco: «La più alta
tragedia su cui Kierkegaard invita a riflettere è non solo quella di Dio che si fa
uomo, assumendone il destino di morte e prendendo su di sé tutto il male del
mondo fino a espiare il debito che l’umano ha con il divino, ma anche quella dell’uomo che si fa Dio, e da creatura assoggettata al destino qual è, diventa a suo modo creatore, almeno nel
senso che per lui il destino cessa di essere un gravame, una somma da portare
e di cui liberarsi morendo, ma diventa,
benché imposto da un decreto misterioso ex alto, la cosa più propria, quella di cui bisogna farsi carico totalmente,
quella su cui si basa il principio responsabilità» (Givone).
In questa «esposizione al sacro», oggi chi protegge l’umano dalle sue ambiguità? «Fronteggiare il sacro» nel tempo della caduta degli dei – la perdita del religioso – e della morte di Dio
– il venir meno di ogni assoluto anche
in campo morale – rende la questione ancora più urgente perché riguarda tutti e tutto l’umano. «Abbandonati dagli dei, la nostra esposizione al sacro (l’antecedente, l’inviolabile, la fonte dell’ingiunzione che non puoi rifiutare) è più indifesa. La giustizia degli af-
fetti non è più custodita. Siamo nudi di
protezione per la giustizia degli affetti e vulnerabili ad ogni orribile mescolanza dei contrari (amore e odio)» (Sequeri). Privi di un’elaborazione «tragica» della condizione umana, ci accontentiamo di un’«estetica del sacro senza
gli dei». In questo «fronteggiamento»,
possiamo oggi partire da due guadagni
da non perdere: «Il sacro non è l’opposto del profano e non va semplicemente risolto nell’ambito del divino (…) Noi
sappiamo del sacro attraverso il religioso che deve contenerlo: ma sono l’azione e la rivelazione del divino che devono, infine, decifrarlo. Le religioni nascono ed eventualmente muoiono, il sacro non nasce e non muore. Ci sono solo trasformazioni del sacro. Il sacro deborda totalmente la sfera del religioso,
si adatta la sua mediazione, attiva la sua
ingiunzione nella sfera della psiche individuale e del legame sociale. Il sacro
è in sé pura potenza dell’incondizionato affettivo del senso» (Sequeri).
Oggi la forma dell’ingiunzione che
determina l’agire è totalmente requisita da due polarizzazioni che visualizzano l’inviolabile e ciò deve essere in ogni
caso assolutamente rispettato: «L’estetica della singolarità e l’erotica dei potenziali». Ovvero, da una parte il dovere di salvaguardare a ogni costo la
propria individualità, di ricercare sopra ogni cosa la propria realizzazione;
una singolarità indivisibile non partecipabile. Dall’altra parte, l’ossessione delle potenzialità, la crescita come infinita
espansione delle opportunità e per questo la percezione che ogni legame può
costituire un limite. Sono le ingiunzioni
che un narcisismo imperante impone al
soggetto.
Il tutto va collocato in un contesto,
quello della città-mercato, che riplasma
in modo inaspettato le categorie di fronteggiamento del sacro, classiche del religioso. «Consacrazione» e moderna teoria del «sacrificio» continuano a essere
le forme con cui l’ingiunzione del sacro
impone il suo ethos, le sue leggi inesorabili: cambiano forma, ma continuano a determinare un ethos comune. Solo che oggi questo funzionamento non
è più regolato dalle religioni, ma dall’anonimo management che è il grande sacerdote invisibile che detta le sue regole e le sue ingiunzioni. «Il management
si candida a essere l’icona del mediato-
re che indirizza e attrae l’atteggiamento
dell’adorazione, cioè del rispetto incondizionato per ciò che ci sovrasta in vista del governo del sacro e della possibilità di approfittare delle sue energie invece che esserne distrutti e feriti. Attrae
l’atteggiamento dell’adorazione rivolto
al misterioso fondamento di ogni estetica della singolarità (la vita riuscita) e di
ogni erotica dei potenziali (la vitalità infinita). Decidere il guadagno e la perdita, l’efficienza e l’inconcludente, la qualità e l’insignificanza, l’utile e il sacrificabile, sapendo leggere dietro e perfino
contro le apparenze e le ingenuità della
vita buona interpretata secondo i criteri
di un obsoleto umanesimo sensibile alla
qualità dello spirituale è la missione del
management».
Esattamente qui si apre il compito della fede, a favore di tutti. Non inseguire la domanda narcisistica circa
la propria singolare identità a scapito
di tutto il resto e neppure l’ossessione
della crescita delle proprie potenzialità, per custodire una differenza cristiana che trae dal comando del Signore
il suo ethos, la libertà e la responsabilità. Amore del prossimo e adorazione di
Dio solo, l’unico che è buono. «Nell’odierna città mercato il cristiano non sarà forse di nuovo uno che frequenta allegramente un liberatorio disinteresse circa la fatale domanda “chi sono io
veramente?”. Per volgersi alla più intrigante e creativa domanda “per chi sono io?”».
Esplorazioni storiche
e precisazioni ecclesiali
Posta la questione, il convegno si
è dedicato ad alcune esplorazioni storiche. Una, riguardante il linguaggio (prof. Ubbiali), ha indagato prima
due episodi della teologia del Novecento (Bonhoeffer e Casel) sulla disciplina
dell’arcano, risalendo poi fino alle origini stesse del linguaggio cristiano (Origene).
L’altra relazione storica ha preso in
esame il tema della legge, dell’ethos nel
cristianesimo nascente. Il prof. Rizzi ha
analizzato alcune figure sintomatiche:
Paolo, Origene, Ambrogio, Ambrosiaster e Agostino. È chiaro che la diversa
relazione tra cristianesimo e società civile determina il senso e l’interpretazione dei diversi significati insiti fin dall’inizio nel termine legge: ethos (legge ci-
vile), nomos (legge naturale), legge evangelica e legge mosaica. Là dove il cristianesimo vive in contesti di minorità,
si percepisce meglio la differenza esistente tra legge civile e legge evangelica e tra queste e il nomos. Esse insieme,
ma senza sovrapporsi, concorrono nel
definire le leggi positive. In regime d’identità tra cristianesimo e società civile, si tende a una certa sovrapposizione,
per cui la legge rivelata diventa principio per determinare anche ogni forma
di legge civile e la stessa legge naturale.
Nella prima parte della seconda
giornata si è invece precisato il «caso
del cattolicesimo italiano». Sia la relazione sociologica, sia quella teologica
pastorale hanno cercato di leggere soprattutto la posizione di quello che viene chiamato «il popolo dei sacramenti», perché da questa condizione di una
certa appartenenza, e allo stesso tempo
di confine, meglio si comprende il destino di quel cattolicesimo popolare che
sembra caratterizzare il «caso italiano».
Di «caso» si può parlare anche riconducendolo entro limiti temporali e geografici limitati: quel regime di stretta alleanza tra ethos civile ed ethos religioso,
infatti, conosce ben altre declinazioni,
non solo fuori Europa (Oriente o America ad esempio), ma anche nelle tradizioni anglosassoni, francesi e tedesche.
Il prof. Diotallevi si è posto fondamentalmente questa domanda: mentre
il cattolicesimo ancora fatica ad elaborare il lutto della cristianità, è chiamato
a decidere se il proprio destino sia quello di essere semplicemente una «religione a bassa identità» per restare una religione per tutti, oppure di trasformarsi
in una proposta ad alta intensità, ma rinunciando al suo carattere popolare. La
tensione è interna e lavora nel corpo ecclesiale. Perché il «cristianesimo soffre e
non tollera una sua riduzione a religione», ma neppure la sua separazione in
setta. Oggi ci sono spinte in entrambi i
sensi: da un lato, per restare alla portata di tutti, sembra adeguarsi a essere un
servizio ai bisogni religiosi. La proposta
di una Chiesa che si identifica con il suo
profilo movimentista non sembra trovare credito nei vertici della Chiesa italiana; questo potrebbe significare appunto
che «procede in maniera decisa la trasformazione del cattolicesimo in una religione a bassa identità». L’esito non è
scontato e ancora del tutto aperto.
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La riflessione è proseguita sul versante teologico pastorale. In questi anni sono stati abbondanti e perfino dispersivi i modelli che la Chiesa ha elaborato per comprendersi. La moltiplicazione delle rappresentazioni che la
Chiesa produce è sintomo di una fatica a leggersi dentro la trasformazione
che sta vivendo. In particolare sembra
che questi modelli fatichino a mettere
a fuoco un punto che invece è centrale: il nesso fra trasmissione della fede e
forma Ecclesiae che, non a caso, è stato – invano – messo a tema da Benedetto XVI durante il Sinodo del 2012 sulla
nuova evangelizzazione. I tratti di questo cristianesimo sarebbero, secondo il
prof. Bressan: «Una capacità di contaminazione con la cultura, che ne decide
la forma plurale e non settaria; una forza di annuncio che crea legami, legge la
realtà e ne esalta la capacità di umanizzazione; una dimensione esemplare ed
educativa, che genera percorsi di maturazione e di crescita». Le indicazioni
pratiche delle due relazioni sono state
corrispettive, anche se alquanto laconiche: una ripresa del tema dei laici (per il
sociologo) e una ripresa della cura animarum e della formazione del ministero ecclesiastico da parte del teologo pastorale.
Il principio di agape e la
mediazione della coscienza
L’ultima parte del convegno ha ripreso un profilo più teorico con due relazioni. La prima ha riletto il precetto
centrale dell’imperativo evangelico (l’amore del prossimo) e la seconda la necessaria mediazione della coscienza:
due tratti che sono decisivi per la formulazione di un ethos, per provare a
dare forma all’ingiunzione, all’incondizionato, ovvero il modo cristiano di
«fronteggiare il sacro».
Nella prima relazione la prof. Guanzini, in un’originale e impegnativa analisi, è partita da un ascolto del modo in
cui il precetto di agape viene oggi riletto in ambito non immediatamente cristiano. Perché il tema dell’amore, oltre
le sue riduzioni a sentimento e alla sua
marginalizzazione nel privato, sembra
essere un «caso» che in ambito laico
viene istruttivamente riletto come punto decisivo di un intreccio di eros-filosofia-politica. Freud stesso, ne Il disagio della civiltà, ha affermato che «sol-
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tanto il comandamento cristiano dell’amore del prossimo poteva rappresentare un antidoto alla deriva umana in
corso». Da qui è partito l’ascolto di voci laiche, da Lacan a Derrida, da Slavoj
ZiZek a Jean-Luc Nancy, che «considerano l’agape biblico-cristiana come una
“potenza universale” che realizza una
giustizia non procedurale e disinnesca
la retorica mistico-fusionale del legame
identitario, nominando una legge non
letterale al di là della legge, attraverso
cui il soggetto, da morto che era, ritorna al posto della vita».
Tema fortemente paolino. Infatti
a Rm 7 si rifanno tutte le analisi come
punto insuperabile da cui partire per rileggere il tema della legge: quella da superare perché porta alla morte (un «superio» che vuole la morte del soggetto)
e quella da ritrovare perché viene dallo Spirito che dà la vita. La parte propositiva ha provato a ricostruire il pricipio-agape come «escatologico cristiano»: «La figura intermedia di questa ridefinizione di agape fra politica e utopia, tra intimità dei legami privati e governance dello spazio pubblico è quella della vocazione messianica di agape»
(Guanzini).
Il prossimo, nella sua «durezza» (un
prossimo da «odiare» paradossalmente,
come afferma Zizek, per non trasformarlo nell’ idealizzazione di sé, per lasciarlo essere nella sua perturbante manifestazione) appare come un appello
e una vocazione alla relazione tra «distanti e differenti»: «Ossia in tutte quelle relazioni – genitori/figli, giovani/
vecchi, maschile/femminile, vivi/morti, fra persone in diverse condizioni di
vita e di salute – in cui si annuncia una
dissimmetria generativa, una sproporzione creativa, una differenza e mancanza costitutive che permettono di trascendere la relazione aggressiva fondamentale con il miraggio del simile, perché precisamente in esse si realizza il
simbolo. Nella dissimmetria degli affetti elementari dell’umano si annuncia la
promessa di un’eteronomia non dispotica e di una dipendenza non alienante,
grazie alle quali possa circolare la potenza generativa del desiderio e la possibilità politica di pensare in modo nuovo il comune dell’umano» (Guanzini).
Il prof. Angelini ha infine analizzato il tema della necessaria «mediazione
della coscienza» per il prender forma di
un ethos comune. I modelli tradizionali (Agostino e Tommaso) non sono più
sufficienti. Il primo propone un’opposizione tra amor sui e amor Dei che separa; il secondo propone un disegno di
natura opposta: i due ordini (natura e
grazia, ordine civile e ordine religioso)
sono armonizzati in modo gerarchico.
Entrambi falliscono la necessaria mediazione della coscienza, così come appare nelle forme elementari del vivere,
nella cultura, nelle evidenze che vengono alla luce nelle forme primarie delle
relazioni.
Di queste il prof. Angelini ha ripreso quella decisiva della relazione genitori-figli come luogo privilegiato che
fa emergere la carenza di un ethos comune indispensabile per ogni compito educativo ineludibile. Il compito che
viene richiesto è quello di una «ripresa a distanza» delle «grandi parole» che
rimandano all’origine: «Le grandi parole circolano anche nella società secolare, ma come cifre logore. Per riempire di verità quelle parole, occorre che intervenga la ripresa non tautologica ad opera del singolo propiziata
da esperienze religiose. La ripresa porta alla luce il rimando religioso rimosso». La conclusione della sua relazione
ha ripreso la domanda centrale del convegno: «La fede così testimoniata è per
tutti? Certo, per tutti, ma perché tutti
si convertano, non per confermare tutti
nel luogo comune».
Antonio Torresin
* Il convegno si è tenuto a Milano nei giorni 25-26 febbraio 2014, con le seguenti relazioni:
Sergio Givone, Università degli studi di Firenze: «“Non nominare Dio invano”. Le risonanze contemporanee dell’antico comandamento»;
Pierangelo Sequeri, preside della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale (FTIS): «L’umano “esposto al sacro”. Forme e luoghi dell’adorazione nell’odierna città-mercato»; Sergio Ubbiali, FTIS: «La “disciplina dell’arcano”. Rivelazione e mistero: l’invenzione del linguaggio cristiano»; Marco Rizzi, Università cattolica del
Sacro Cuore: «Dall’Ad Diognetum al De Civitate Dei. Ethos cristiano ed ethos civile: fra inclusione e separazione»; Luca Diotallevi, Università degli studi Roma Tre: «La domus Ecclesia, oggi. Comunità testimoniale, ethos borghese e individuo-massa»; Luca Bressan, FTIS: «Trasmissione della fede? Ministero ecclesiastico e forma
religiosa nell’età secolare»; Isabella Guanzini,
FTIS: «La nuova “escatologia laica”. Utopia di
agape e regime della legge fra sacro e profano»;
Giuseppe Angelini, FTIS: «L’habitat secolare
della fede. Ripresa e distanza a opera dell’ethos
cristiano».
Monoteismo
Teologia
l’
immagine non violenta di Dio
A un secolo dallo scoppio della Grande guerra
N
el recente documento della Commissione teologica internazionale, Dio Trinità,
unità degli uomini. Il
monoteismo cristiano contro la violenza,1 è contenuta una valutazione che
si presenta anche come una pressante esortazione. Essa invita a riconoscere il congedo del cristianesimo
dalle ambiguità della «violenza religiosa» come un «kairos» e una «svolta epocale». Si avanza pure l’istanza
che questo irreversibile mutamento sia adeguatamente argomentato
tanto in sede teologica quanto prospettando una conveniente ermeneutica della tradizione. In ogni caso il cambiamento va giudicato una
fioritura del «seme evangelico» destinata a portar frutti in una nuova
stagione di evangelizzazione e testimonianza (n. 64).
Una ragione profonda che induce a porre la parola fine all’uso di
una violenza motivata religiosamente è l’incapacità attuale di pensare a
un Dio punitore. Il documento della Commissione teologica pare, però,
non aver dato sufficiente attenzione a
questo punto. Giustamente preoccupato di denunciare la violenza commessa in nome di Dio, il testo tralascia di considerare un lungo filone storico propenso a spiegare un certo tipo
di violenza interumana come una forma di cui Dio si serve per punire i traviamenti delle società. Si tratta dunque non di guerre di religione in senso stretto ma di visioni teologiche che
ambivano a spiegare teologicamen-
te gli eventi bellici. In altre parole, vi
è stato un modo di leggere gli accadimenti come kairos all’insegna di un
appello alla conversione nato dal dilagare di una violenza vissuta come punizione.
Un secolo fa, l’8 settembre 1914,
appena due giorni dopo la sua incoronazione, Benedetto XV emanò un’accorata esortazione alla pace. La guerra, iniziata da poche settimane, aveva già fatto versare molto sangue cristiano. Siamo dunque in un’epoca
ben anteriore alla lettera del 1° ago-
sto del 1917, nota a causa dell’espressione che definiva un’«inutile strage»
quella immane guerra. In quel precoce intervento, la preoccupazione del
papa per la pace era assai viva. Forte era l’invito alla preghiera fervorosa
perché giungesse il tempo in cui i capi
delle nazioni arrivassero a stringersi la
mano.
Le guerre,
punizioni di Dio
La guerra doveva finire al più presto. Eppure nell’esortazione Ubi pri-
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mum in beati si leggono anche passaggi come il seguente: «Mentre, pertanto, Noi stessi, levando gli occhi e le
mani al cielo, non cesseremo di supplicare l’Altissimo, esortiamo e scongiuriamo, come fece vivamente lo
stesso Nostro predecessore [Pio X],
tutti i figli della Chiesa, specialmente quelli che sono ministri del Signore, affinché proseguano, insistano, si
sforzino, sia privatamente con umili loro preghiere, sia pubblicamente
con solenni suppliche, a implorare da
Dio, arbitro e signore di tutte le cose, che memore della sua misericordia, deponga questo “flagello dell’ira
sua”, col quale fa giustizia dei peccati
delle nazioni».2
Quest’ultima affermazione va considerata un’espressione stereotipata;
ma ciò non fa che confermare quanto
essa fosse radicata e data quasi per ovvia. Resta comunque evidente il dramma connesso a essere costretti a giudicare un male da cui si chiede di essere liberati quanto, per altri versi, è ritenuto esercizio della volontà punitriT3_AnnunziataPaganelli:Layout
1 25/02/14 09.39 Pagina 1
ce di Dio.
E. ANNUNZIATA - R. PAGANELLI
Nel mistero
del dolore
Via Crucis
«Il cammino quotidiano con i crocifissi
del nostro tempo ci aiuta a contemplare
la morte del Signore».
P
er ogni stazione della Via Crucis,
di impianto classico, un estratto da
un brano biblico, una breve riflessione
o racconto, una preghiera. Attraverso
la via del Calvario, un modo per «stare
dentro» il mistero della sofferenza e
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«SUSSIDI PER I TEMPI LITURGICI»
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È passato un secolo, e, se le preoccupazioni espresse nella prima parte del passo citato sono ancora le nostre, il contenuto della seconda parte
appare tanto lontano da far pensare
a un’altra religione. L’uso della violenza esercitata in nome di Dio è una
realtà che ha trovato riscontri in anni recenti. Assolutamente remota appare invece una lettura teologica della storia che intendeva le guerre come forme di punizione volute da Dio
a causa dei peccati dei popoli.
Eppure è fuor di dubbio che l’ interpretazione abbia precisi antecedenti biblici. Tutta la cosiddetta storiografia deuteronomistica ragionava
infatti in questo modo. D’altra parte
è forse possibile pensare a una signoria divina sulla storia senza proporre
una qualche forma di lettura teologica delle guerre? Chi potrà mai sostenere che nella vicenda umana le guerre rappresentino solo una folle e saltuaria eccezione? L’espressione «ira
di Dio» un tempo era lungi dall’essere assunta solo come un modo di dire più o meno scherzoso. Al contrario
ci si appellava a essa per cercare di interpretare effettivamente l’accaduto.
Nella comune lettura storiografica
la pace di Vestfalia del 1648 pose fine a una certa modalità di condurre
le guerre di religione. L’eccesso della
violenza esercitata aveva indotto a dar
spazio alla diplomazia abbandonando la precomprensione che giudicava
l’avversario un nemico assoluto. Mutatis mutandis, nella seconda metà del
Novecento sul piano teologico sembra
aver avuto luogo una dinamica paragonabile a quella ora evocata. A seguito delle due guerre mondiali, dei totalitarismi e dell’angoscia per un possibile conflitto nucleare, non si è più nelle
condizioni di affermare che Dio si serve delle guerre. Come nel XVII secolo
anche nel XX è stato l’eccesso di violenza a porre la parola fine a un determinato modo di leggere la storia.
Purificare
l’immagine di Dio
Dietro il kairos della rinuncia definitiva a giustificare la violenza in nome di Dio vi è una quantità enorme
di violenza. Questa precondizione
getta ombre non lievi sul prezzo che
si è dovuto pagare al fine di riacqui-
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stare un’immagine più evangelica di
Dio. L’incapacità di affermare il volto
punitivo di Dio costituisce una rottura epocale che comporta una rilettura radicalmente diversa sia di questo
mondo sia dell’aldilà. Quanto per secoli è stato creduto ora appare incredibile. Guerre volute da Dio e inferni
eterni non sono più accolti come forme di esercizio della signoria di Dio.
Ci si può chiedere: questa visione del
tutto differente di Dio costituisce davvero una comprensione più profonda
della tradizione o è dovuta soprattutto
a un nostro bisognoso?
Gianfranco Bonola chiude un suo
recente articolo dedicato a discutere le tesi di Jan Assmann relative a rivelazione, monoteismo e violenza con
queste parole: «E siccome oggi la posizione più progredita in termini morali è considerata quella di chi rifugge dalla violenza nei suoi rapporti interpersonali come pure nei confronti della natura, pare che ciò non possa rimanere senza effetti nei confronti
della concezione della divinità. Quasi che il monito biblico: “siate santi,
come io sono santo” (Lv 19,2; 20,7;
20,26), da esortazione rivolta agli uomini, si rovesciasse in un’esigenza posta alla figura divina».3
Il linguaggio scelto da Bonola è volutamente paradossale; tuttavia la teologia non dovrebbe tralasciare simili sfide. Esse, sul piano del pensiero,
sono più penetranti di quelle lanciate dal fondamentalismo. Non è dato
di prendere alla leggera l’ipotesi stando alla quale la visione di un Dio incapace di esercitare la violenza sia frutto, almeno in parte, della proiezione
che noi facciamo in lui dei nostri bisogni. Oggi occorre sicuramente purificare l’immagine di Dio da incrostazioni violente, senza però dimenticare il rischio di cadere, inconsapevolmente, in condizioni che, per quanto
di segno opposto, sono anch’esse non
esenti da ambiguità.
Piero Stefani
1 Il testo integrale in Regno-doc. 3,2014,70ss.
2 Cf. Enchiridion della pace, vol. I, Pio X –
Giovanni XXIII, EDB, Bologna 2004, nn. 19-20.
3 G. Bonola, «Rivelazione, monoteismo e
violenza. Variazioni con controcanto su temi di
Jan Assman», in Humanitas 68(2013) 5, 812.
diario ecumenico
FEBBRAIO
CEC – Droni. Il Comitato esecutivo del Consiglio ecumenico
delle Chiese (CEC), riunito a Bossey (Svizzera) dal 7 al 12 febbraio,
condanna l’uso degli aeromobili a pilotaggio remoto, noti come
droni. «I droni pongono una seria minaccia all’umanità e al diritto
alla vita» e «creano pericolosi precedenti nelle relazioni tra stati»,
denunciano i rappresentanti dell’organismo ecumenico. La dichiarazione chiede ai governi di opporsi a politiche e pratiche illegali,
prendendo ad esempio negativo l’uso dei droni statunitensi in Pakistan. Su quest’ultimo punto, il Comitato esecutivo del CEC chiede
al Governo degli USA di «assicurare giustizia alle vittime di attacchi
illegali», di offrire adeguata compensazione alle famiglie dei civili uccisi e di provvedere al percorso di riabilitazione dei feriti.
Chiesa d’Inghilterra – Sinodo generale. Il Sinodo generale della Chiesa d’Inghilterra, riunito a Londra dal 10 al 14 febbraio,
decide di porre su una corsia preferenziale le procedure per l’introduzione dell’episcopato femminile. Con 358 voti favorevoli e 39
contrari vengono dimezzati da 6 a 3 mesi i tempi delle consultazioni diocesane sull’argomento. La decisione finale sull’introduzione
delle donne vescovo nella Chiesa d’Inghilterra dunque potrà essere presa durante il Sinodo che si terrà a York dall’11 al 15 luglio. La
decisione dovrà poi essere approvata dal Parlamento, per entrare
definitivamente in vigore prima della fine dell’anno. Cf. Regno-att.
22,2013,704.
Regno Unito – Le Chiese contro il governo. Il 19 febbraio
il quotidiano inglese The Mirror (www.mirror.co.uk) ospita una lettera firmata da 27 vescovi anglicani e 16 tra metodisti, esponenti della Chiesa riformata unita e quaccheri, che richiama l’attenzione del
Governo conservatore guidato da David Cameron sui dati allarmanti
del problema della fame nel paese. Le Chiese britanniche, compresa quella cattolica, non hanno risparmiato critiche al Governo negli
ultimi anni per la riforma dello stato sociale, che sta aumentando a
dismisura il disagio delle fasce più deboli della popolazione.
Messaggio di Francesco ai pentecostali. Il 20 febbraio
papa Francesco invia un messaggio videoregistrato all’assemblea di
un gruppo pentecostale radunato per la conferenza annuale della
Kenneth Copeland Ministries. Cf. in questo numero a p. 152.
Ucraina – Chiese europee e CEC. Al degenerare del conflitto in Ucraina (cf. Regno-att. 2,2014,15), la Conferenza delle Chiese europee (KEK) si dice «seriamente preoccupata». «La KEK – afferma Guy Liagre, segretario generale dell’organismo ecumenico che
riunisce 115 Chiese di tradizioni ortodossa, protestante, anglicana
di tutti i paesi europei – sta esortando le sue Chiese membro a
pregare affinché tutte le parti in Ucraina esercitino la massima moderazione dopo che più di 25 persone sono state uccise e molte
altre ferite durante i violenti scontri a Kiev tra polizia antisommossa e manifestanti di questa settimana». Il segretario generale del
Consiglio ecumenico delle Chiese (CEC), Olav Fykse Tweit, esprime
la sua preoccupazione il 3 marzo: «La situazione pone molte vite
innocenti in un grave rischio. E come un vento gelido della guerra
fredda, rischia di minare ulterioremente la capacità della comunità
internazionale di agire ora o nel futuro sulle molte questioni urgenti che richiedono una risposta collettiva e di principio». Cf. anche in
questo numero a p. 162.
Avventisti italiani – Nuove cariche. L’Assemblea amministrativa dell’Unione italiana delle Chiese cristiane avventiste del settimo giorno (UICCA), che si tiene a Montesilvano, in Abruzzo, dal 23 al
26 febbraio, rinnova le cariche per il prossimo quinquennio. Il pastore
Stefano Paris, 46 anni, è il nuovo presidente, mentre il nuovo segretario è il pastore Giuseppe Cupertino, 56 anni. La UICCA, che rappresenta circa 20.000 avventisti in Italia, è firmataria già dal 1986 di un’Intesa
con lo stato italiano, tramite la quale accede all’otto per mille IRPEF.
Il card. Koch su sinodalità e primato. «Spianare la strada
verso il futuro» nel cammino di riconciliazione tra la Chiesa d’Occidente e la Chiesa d’Oriente significa «compiere ulteriori passi comuni nella questione cruciale del primato del vescovo di Roma». Così
dichiara il card. Kurt Koch, presidente del Pontificio consiglio per la
promozione dell’unità dei cristiani, il 26 febbraio a Castel Gandolfo
al convegno dei vescovi amici del Movimento dei focolari, con una
relazione dal titolo «Sinodalità e primato alla luce degli stimoli forniti
da papa Francesco». Secondo il cardinale la questione non è arrivare «a un compromesso intorno al minimo comune denominatore.
Piuttosto si vogliono far interloquire i punti di forza di entrambe le
Chiese, confidando nel fatto che esse siano disposte a imparare l’una
dall’altra e dando prova del principio fondamentale del dialogo ecumenico che consiste nel mutuo scambio di doni. In questo senso, entrambe le parti nel dialogo ecumenico devono fare passi l’una verso
l’altra». Da un lato la Chiesa cattolica «dovrà ammettere che non ha
ancora sviluppato nella sua vita e nelle sue strutture quel livello di sinodalità che sarebbe teologicamente possibile e necessario». Dall’altro «le Chiese ortodosse possono imparare che un primato anche al
livello universale della Chiesa non è soltanto possibile e teologicamente legittimo ma è necessario, e che le stesse tensioni all’interno
dell’ortodossia suggeriscono che occorre riflettere su un ministero
dell’unità a livello universale». «La riuscita di una sintesi credibile tra
primato e sinodalità dipenderà soprattutto da quanto il primato del
vescovo di Roma dimostrerà di essere un primato dell’obbedienza al
Vangelo». «Soltanto se il vescovo di Roma – prosegue –, il cui compito consiste nel far sì che la Chiesa s’impegni all’ubbidienza davanti
alla parola di Dio, è egli stesso modello esemplare di ubbidienza e
dunque non si auto-concepisce come regnante assoluto intento a
seguire soltanto le proprie idee e le proprie visioni, nel senso di una
monarchia di tipo politico, né limita il proprio servizio ad un semplice
primato onorifico, vi è davvero la speranza e la possibilità che il primato del vescovo di Roma si ponga al servizio del ristabilimento della
Chiesa una e indivisa in Oriente e in Occidente».
Germania – Documento cattolici-protestanti. A distanza di 17 anni dal precedente documento sociale comune Per un futuro di solidarietà e giustizia (Regno-doc. 9,1997,288), il 28 febbraio
le Chiese cattolica ed evangelica in Germania pubblicano insieme
un nuovo testo in tema di giustizia sociale e impegno economico
etico: Responsabilità comune per una società giusta. Iniziativa
del Consiglio della Chiesa evangelica tedesca e della Conferenza
episcopale tedesca per un ordinamento rinnovato dell’economia
e sociale (in tedesco su www.dbk.de). Presentando il documento
l’arcivescovo Robert Zollitsch, presidente uscente della Conferenza episcopale tedesca, e Nikolaus Schneider, presidente della
Chiesa evangelica di Germania, spiegano che le crisi economiche di
questi anni sono il motivo per cui le Chiese sono tornate a prendere la parola sul tema, per stimolare un ampio dibattito sull’ordinamento economico e sociale del paese.
Daniela Sala
Il Regno -
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201
a
agenda vaticana
febbraio
Neocatecumenali. «Ringrazio il Signore per la gioia della vostra fede e per l’ardore della vostra testimonianza», dice Francesco
ai neocatecumenali ricevendoli il 1° febbraio nell’Aula Nervi e consegnando il crocifisso a 414 famiglie in partenza per vari paesi: «La
Chiesa vi è grata per la vostra generosità». Ma fa loro tre «raccomandazioni»: «Avere la massima cura per costruire e conservare la
comunione all’interno delle Chiese particolari nelle quali andrete a
operare»; «Una speciale attenzione al contesto culturale nel quale
voi famiglie andrete a operare»; «La libertà di ciascuno non deve
essere forzata, e si deve rispettare anche l’eventuale scelta di chi decidesse di cercare, fuori dal Cammino, altre forme di vita cristiana».
Comitato ONU sui diritti dell’infanzia. «Alla Santa Sede
rincresce di vedere in alcuni punti delle Osservazioni conclusive
un tentativo di interferire nell’insegnamento della Chiesa cattolica sulla dignità della persona umana e nell’esercizio della libertà
religiosa»: è la conclusione di un comunicato della Sala stampa, in
data 5 febbraio, a commento di un documento del Comitato ONU
sui diritti dell’infanzia che contiene Osservazioni conclusive fortemente critiche sul Rapporto della Santa Sede al Comitato in materia di abusi sessuali. Il 7 febbraio il portavoce vaticano torna più
ampiamente sull’argomento e annuncia una risposta formale della
Santa Sede. Cf. Regno-doc. 5,2014,141ss; Regno-att. 4,2014,97ss.
Consiglio di cardinali. Dal 17 al 19 febbraio si tiene, presso la Casa Santa Marta, la terza riunione di papa Francesco con il
«Consiglio di cardinali» («Consiglio degli 8»). Il 19 febbraio pomeriggio il papa presiede nella Sala Bologna del Palazzo vaticano un
consulto allargato sulle riforme del settore economico della Santa
Sede, presenti i membri del Consiglio di cardinali per lo studio dei
problemi organizzativi ed economici della Santa Sede, i capi dei dicasteri economici della Santa Sede, oltre ai membri del «Consiglio
di cardinali». Nel corso della riunione alcuni rappresentanti delle
due Commissioni referenti fanno brevi relazioni sul lavoro svolto e
il «Consiglio degli 8» espone le proprie proposte.
Concistoro straordinario sulla famiglia. Il 20 e 21 febbraio
si tiene nell’aula del Sinodo un Concistoro straordinario sulla famiglia in preparazione ai Sinodi sulla famiglia convocati per l’ottobre
2014 e per l’ottobre 2015. Il 20 mattina, dopo la recita dell’Ora terza
e il saluto del decano Angelo Sodano, e prima della relazione introduttiva del card. Walter Kasper, Francesco rivolge un breve saluto ai
presenti: «La famiglia oggi è disprezzata, è maltrattata, e quello che
ci è chiesto è di riconoscere quanto è bello, vero e buono formare
una famiglia, essere famiglia oggi; quanto è indispensabile questo
per la vita del mondo, per il futuro dell’umanità. Ci viene chiesto di
mettere in evidenza il luminoso piano di Dio sulla famiglia e aiutare
i coniugi a viverlo con gioia nella loro esistenza, accompagnandoli in
tante difficoltà, con una pastorale intelligente, coraggiosa e piena
d’amore». Cf. Regno-doc. 5,2014,162ss; Regno-att. 4,2014,73ss.
Presidenti Sinodo 2014. Il 21 febbraio Francesco nomina
presidenti del Sinodo 2014 i cardinali André Vingt-Trois arcivescovo di Parigi, Luis Antonio Tagle arcivescovo di Manila e Raymundo
Damasceno Assis arcivescovo di Aparecida.
Concistoro prega per Ucraina. «Io vorrei inviare un saluto, non solo personale ma a nome di tutti, ai cardinali ucraini – il
202
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card. Jaworski, arcivescovo emerito di Leopoli, e il card. Husar, arcivescovo maggiore emerito di Kiev – che in questi giorni soffrono
tanto e hanno tante difficoltà nella loro patria. Forse sarà bello fare
arrivare questo messaggio a nome di tutti: siete d’accordo, tutti
voi, con questo?»: così Francesco parla al Concistoro straordinario
il 21 febbraio, dopo che l’assemblea aveva «elevato una particolare
supplica» per i cristiani perseguitati in vari paesi e per le nazioni
lacerate da conflitti.
Benedetto in basilica Vaticana per i nuovi cardinali. Il
22 febbraio in San Pietro, al Concistoro per i 19 nuovi cardinali, è presente il papa emerito, sulla sinistra della prima fila dei cardinali: Francesco l’abbraccia all’arrivo e torna a salutarlo prima di lasciare la basilica. Così il primo dei nuovi cardinali, Pietro Parolin, lo saluta all’inizio
del discorso che tiene a nome degli altri: «Santo padre, con animo
commosso e trepido, le rivolgo un devoto saluto a nome dei vescovi
che oggi sono aggregati da vostra santità al Collegio cardinalizio e di
mons. Loris Capovilla, che lo sarà fra qualche giorno a Bergamo. Salutiamo, con uguale affetto e venerazione, il papa emerito, sua santità
Benedetto XVI, lieti per la sua presenza in mezzo a noi». Domenica
23 febbraio, all’omelia della concelebrazione con i nuovi cardinali, il
papa rivolge un monito contro gli intrighi di corte che hanno caratterizzato la recente stagione vaticana: «Il cardinale entra nella Chiesa
di Roma, non entra in una corte. Evitiamo tutti e aiutiamoci a vicenda
a evitare abitudini e comportamenti di corte: intrighi, chiacchiere,
cordate, favoritismi, preferenze. Il nostro linguaggio sia quello del
Vangelo: “Sì, sì; no, no”; i nostri atteggiamenti quelli delle beatitudini,
e la nostra via quella della santità». Cf. Regno-doc. 5,2014,129ss.
Segreteria per l’economia. Il 24 febbraio il papa istituisce la
Segreteria per l’economia, «che avrà autorità su tutte le attività economiche e amministrative all’interno della Santa Sede e dello Stato
della Città del Vaticano» e «sarà responsabile, tra le altre cose, per la
preparazione di un budget annuale per la Santa Sede e lo Stato Città
del Vaticano, nonché per la pianificazione finanziaria e le varie funzioni di supporto quali le risorse umane e l’approvvigionamento». La
Segreteria sarà diretta da un cardinale prefetto e «metterà in opera
le direttive formulate da un nuovo Consiglio per l’economia» che
sostituisce il Consiglio dei 15 cardinali e sarà composto da otto cardinali o vescovi e sette esperti laici. Lo stesso giorno il papa nomina
il card. George Pell, sinora arcivescovo di Sydney, Australia, prefetto
della Segreteria. AIF e APSA restano nelle loro funzioni.
Lettera del papa alle famiglie. Il 25 febbraio viene pubblicata una Lettera di papa Francesco alle famiglie che le invita
a «pregare intensamente lo Spirito Santo» in vista dei due Sinodi
sulla famiglia «perché, attraverso questi eventi, la Chiesa compia un
vero cammino di discernimento e adotti i mezzi pastorali adeguati
per aiutare le famiglie ad affrontare le sfide attuali con la luce e la
forza che vengono dal Vangelo». Cf. Regno-doc. 5,2014,164.
La Santa Sede all’Expo di Milano 2015. Il 27 febbraio il
card. Ravasi, commissario generale della Santa Sede per l’Expo di
Milano 2015, e Giuseppe Sala, commissario unico del Governo italiano per la stessa Expo, firmano un protocollo sulla partecipazione
della Santa Sede alla manifestazione, che ha il tema: «Nutrire il pianeta, energie per la vita». L’area espositiva della Santa Sede avrà il
motto: «Non di solo pane» e avrà carattere ecumenico.
Luigi Accattoli
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studio del mese
L’a n t ro p o l o g i a
cristiana
n e l l ’e p o c a
dei cyborg
Noi, robot
Alla «robotizzazione dell’umano» in ambiti
particolari si accompagna ormai la tendenza
a un’«umanizzazione dei robot» (moral
machine) che consentirebbe, sotto il controllo
di opportuni software «etici», di delegare alla
macchina decisioni importanti in campo
medico, giuridico, economico e militare.
Sullo sfondo – spiega in questo saggio
il prof. Dominique Lambert –, tali
tentativi alimentano correnti di «pensiero
trans-umanista», che mirando a un
potenziamento illimitato dell’umano ne
determinerebbero in realtà la dissoluzione,
a partire dagli aspetti – per lui costitutivi
– di fragilità e di limite. Di fronte alla
minaccia, e riconoscendo tutta la validità
del progresso tecnologico, Lambert
individua nell’antropologia cristiana
l’istanza critica adeguata a stabilire criteri
capaci di ricollocare «in modo corretto e
coerente» la robotica in rapporto all’umano,
«evitando che essa lo riduca o lo distrugga
aumentandolo a dismisura».
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V
orrei cominciare ricordando due correnti contemporanee che per loro natura interrogano l’antropologia in generale e l’antropologia cristiana in
particolare.
La prima è quella del post-umanesimo o del trans-umanesimo, che sostiene sia l’idea di un’evoluzione dell’uomo verso quegli ibridi biologico-informatici denominabili cyborg sia
la speranza di alcuni di assistere all’avvento – una volta
superata una certa soglia – di una singolarità, come dice Ray Kurzweil, ovvero all’apparire di un’altra umanità o di un’altra società nella quale l’uomo sarebbe radicalmente oltrepassato.
La seconda, contrariamente alla prima che è ancora
largamente immaginaria, è oggi in parte già realizzata
in numerosi e importanti settori delle nostre società. Si
tratta del trasferimento ai robot di una serie di capacità
umane di azione e di decisione, anche negli ambiti cruciali dell’etica economica, giuridica, medica e militare.
Conviene anzitutto definire correttamente che cos’è
un robot per riferimento ad altri sistemi complessi non
robotizzati. Un robot è un sistema tecnologico dotato
di una certa indipendenza rispetto all’uomo (di un’autonomia parziale o totale, secondo i casi) che presenta i
seguenti tre elementi essenziali:
1) una capacità di acquisire informazione dal suo
ambiente grazie a un complesso di captatori, di sensori (telecamere, rivelatori di raggi infrarossi, rivelatori sonori, chimici, radiologici...);
2) una capacità di elaborare l’informazione grazie a
sistemi di «ragionamento» automatizzati (sviluppati nel
contesto dell’intelligenza artificiale); si tratta di sistemi
di trattamento dell’informazione che possono anche essere evolutivi e modificati da un apprendimento, come
avviene nei cosiddetti algoritmi genetici;
3) infine, ed è l’elemento essenziale nella definizione
del robot, il sistema deve possedere una capacità di agire sul suo ambiente.
In breve, il robot è un sistema autonomo o semi-autonomo che possiede: 1) dei sensori; 2) dei processori;
3) degli effettori. Esso deve avere necessariamente una
certa indipendenza rispetto a un operatore umano, perché altrimenti perde la sua specificità. Ma un robot non
cessa di essere tale se viene in parte telecomandato, se
è guidato a distanza per alcuni compiti. L’ambiente del
robot non è necessariamente «geografico»: può essere
anche «elettronico». Un robot può, ad esempio, estrarre informazioni e retroagire su una rete informatica, come il web, che in questo caso costituisce il suo ambiente. Per tale ragione il robot non deve necessariamente
essere mobile nel senso fisico del termine.
Uomo robotizzato
e trans-umanesimo
I robot sono comparsi anzitutto nel mondo della
finzione letteraria e teatrale. Oggi, i fulminei sviluppi
dell’elettronica, dell’informatica, della meccanica dei
sistemi asserviti e delle nanotecnologie hanno permesso la trasformazione di quelle finzioni in realtà estrema-
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mente efficaci in ambiti dove l’uomo svolgeva compiti
noiosi, faticosi e ripetitivi, ma anche in ambienti chimicamente o radiologicamente inquinati o particolarmente ostili, come quello che incontra il robot Curiosity su
Marte.
Il robot è quindi un alleato molto utile dell’uomo e
delle sue società complesse. La mia proposta non è affatto tecnofoba, perché il robot permette davvero di alleviare il lavoro e di salvare vite umane. Basti pensare a
quelli impiegati per disinquinare centrali nucleari danneggiate, o per disinnescare ordigni esplosivi.
L’alleanza fra l’uomo e i robot può essere preziosa,
ad esempio, per restituire la mobilità a persone disabili. Alcune esperienze preliminari hanno mostrato che
è possibile pilotare un robot con il pensiero, collegando adeguatamente i neuroni del cervello a un computer che comanda il robot. Nel 2011, il professor Miguel Nicolelis1 dell’Università di Duke negli Stati Uniti ha dimostrato che una scimmia può comandare un
avatar informatico visualizzato su uno schermo, a partire da un sistema di connessione tra il suo cervello e
l’immagine e da una retroazione tattile (dall’immagine
verso la scimmia) fornita all’animale. L’équipe diretta
dal prof. Nicolelis sta ora sviluppando un esoscheletro,
una sorta di tuta robotizzata da indossare sul corpo, che
permetterebbe a un adolescente paralizzato a entrambe le gambe di giocare a calcio e forse di dare già il calcio d’inizio alle partite del campionato mondiale 2014!
Gli esoscheletri HAL (Hybrid Assistive Limb), sviluppati
dalla società Cyberdyne, consentono agli operai di portare più facilmente grossi pesi. Esistono ormai tute in
parte robotizzate che agevolano gli spostamenti in ambienti radioattivi.
In modo molto simile il robot Da Vinci – un sistema
pensato per le operazioni chirurgiche, eventualmente
effettuabili a distanza nel caso in cui non fosse reperibile un chirurgo specializzato –, può essere considerato
una sorta di robotizzazione della mano umana! L’uomo si «robotizza», ma in questo caso in funzione di una
maggiore sicurezza delle persone. Un robot di questo
tipo potrebbe riconoscere, tra l’altro, movimenti sbagliati della mano del chirurgo e bloccarli, correggendo
da solo la posizione, per evitare al paziente un’azione
pericolosa per la sua sopravvivenza.
Ma l’uomo robotizzato non è solo questo. È anche,
ad esempio, l’anziano che vive con un «partner robot»,
un robot di compagnia. Si tratta di un robot comandato via smartphone o via tablet che può prendere oggetti,
aprire porte, rispondere al telefono e aiutare un paziente allettato o un disabile.
Infine, l’uomo robotizzato – la cosa è ancora a livello di progetto, ma è del tutto realizzabile – è il cyborg.
Un essere umano «infiltrato» fisiologicamente da robot
capaci di accrescerne la memoria e le capacità mentali, oppure da «nanobot», robot nanometrici in grado di sorvegliarne i parametri della salute e di rispondere immediatamente a patologie con interventi mirati e automatizzati. Si può pensare anche a persone
alle quali è stato impiantato un chip RFID (radio frequency identification), che ne consente l’identificazio-
ne e la localizzazione via satellite. Se da un lato, si coglie tutta la pertinenza di una tecnologia capace di ritrovare persone, come ad esempio malati di Alzheimer
che rischiano di perdersi, dall’altro, è evidente anche il
rischio di tecniche che potrebbero produrre un asservimento dell’uomo all’uomo, e i problemi giuridici ed
etici sollevati da un’intrusione permanente nella vita
privata dei cittadini.
Al servizio dell’uomo
Finché la robotizzazione dell’uomo è al suo servizio,
come nel caso del telefonino o del computer, non c’è
nulla che possa spaventarci o cambiare radicalmente la
nostra antropologia. Ma oggi si segnala, in alcuni circoli filosofici, una sorta di infatuazione per una robotizzazione più spinta, che rischia di modificare in profondità l’uomo nella sua biologia, ma anche nel suo rapporto con gli altri. Il trans-umanesimo, o il post-umanesimo, mira – al di là della robotizzazione «a servizio di»
– a cambiare l’uomo e a oltrepassarlo, come se l’umano
non fosse che una tappa.
Jean-Michel Besnier, docente a Paris-Sorbonne, ha
mostrato in una serie di pubblicazioni interessanti, e specialmente nel suo libro Demain les posthumains (Pluriel,
Paris 2012), che le correnti – molto diverse e poco unificate – che fanno parte del cosiddetto trans-umanesimo
sono forse legate a una «fatica di essere sé stessi» conseguente al crollo delle grandi ideologie, o a una «vergogna prometeica» derivante dal non essere così forti e così rapidi come le macchine che ci circondano. Di fronte ai compiti colossali a cui è posto dinnanzi – nel trattamento delle informazioni complesse, nella regolazione delle attività a cui ha dato inizio – l’uomo contemporaneo ammira a tal punto la macchina da desiderare di
somigliarle e di arrendersi davanti a essa. Secondo Besnier, il fenomeno tradisce «un’immagine negativa che
noi abbiamo di noi stessi in questo inizio di XXI secolo». E aggiunge: «Azzardo a vedere nelle speculazioni
post-umaniste o nelle fantasie trans-umaniste qualcosa
come un senso di stanchezza. Come se gli uomini vedessero giungere il tempo di dare forfait e di lavorare, nel
caso migliore; perché questa fatica di sé potrebbe anche
condurli ad abbandonare il futuro a se stesso» (ivi, 202).
Vediamo qui uno dei rischi di questi immaginari che
spingono all’estremo aspetti in partenza benefici della
robotizzazione dell’umano: si tratta di una sorta di perdita di fiducia nell’uomo e di una non accettazione dei
limiti antropologici.
Curiosamente il trans-umanesimo pensa il futuro
dell’uomo sognandone la scomparsa. È una contraddizione! Il cyborg diventa un summum dell’umano, ma
che non è più umano! C’è qui qualcosa che ci interpella, perché segnala un errore antropologico. Il pensiero
dell’umano sfocerebbe sulla negazione dell’umano stesso. Le cose si potrebbero in realtà vedere diversamente.
Piuttosto che considerare il cyborg un modo per superare radicalmente una realtà di cui si è stanchi per via dei
suoi limiti e delle sue fragilità (è l’ottica dei trans-umanisti), si potrebbe immaginare che l’accoppiamento uomo-robot trovi tutto il suo significato e tutta la sua ric-
chezza inventiva non quando serve a negare le debolezze (della vecchiaia e della disabilità), ma quando contribuisce a integrare al meglio le persone che ne soffrono.
S’intravede qui una sorta di «ecologia delle macchine»
nella quale i rapporti uomo-macchina non vengono disprezzati, ma concepiti a partire dal rispetto delle persone fragili e in vista della loro migliore integrazione sociale e non a partire da deliri di onnipotenza e di autodistruzione dell’umano in ciò che ha di fragile e vulnerabile.
Un esempio vissuto. Ho avuto occasione di discutere
con un industriale che fabbrica esoscheletri. I suoi ingegneri potevano fornirgli sistemi robotizzati in grado di
aumentare in modo gigantesco la forza muscolare umana. Ma egli ha rifiutato la loro proposta, perché riteneva
l’esoscheletro un’estensione delle capacità fisiche finalizzata all’assistenza e all’aiuto dell’uomo e non all’inseguimento di un delirio di potenza illimitata.
Robot umanizzati
ed etica delle macchine
Mentre si pensa alla robotizzazione dell’umano si
sviluppano anche progetti di umanizzazione dei robot.
Che cosa significa una tale sorprendente espressione? In
realtà, lo sviluppo di «robot di compagnia», soprattutto in Giappone e in Corea del Sud, ha dato impulso al
desiderio di creare macchine molto somiglianti agli esseri umani, non solo nell’aspetto esteriore, ma anche in
alcuni tratti del loro comportamento. Per tale ragione,
oggi sono in corso ricerche su modelli di riconoscimento (vocale e visivo) e di simulazione delle emozioni su robot androidi incaricati di svolgere compiti a servizio degli anziani e degli ammalati negli ospedali. Esistono già
robot del genere, come il giapponese Hospi (abbreviazione di hospital; ndr), sviluppato da Panasonic, che gestisce l’accoglienza dei pazienti e provvede al trasporto
di medicine e analisi, spostandosi alla velocità di un metro al secondo. Nello stesso ambito, è stato testato l’utilizzo di robot anche per soggetti con i quali è difficile entrare in relazione, come ad esempio i malati di autismo.
Lo sviluppo di questi robot solleva questioni analoghe a quelle poste dalla progressiva chiusura in sé e desocializzazione degli adolescenti o degli adulti prigionieri di mondi virtuali, di avatar ecc.
Ma il caso più problematico dell’umanizzazione
dei robot è quello dell’«etica delle macchine» (machine
ethics). Non si tratta qui della classica etica delle tecnologie, dell’etica della robotica, ma dello studio di moral
machine e di autonomous moral agent, cioè di macchine
autonome aventi – o pretendenti avere – la capacità di
fare valutazioni etiche.2 L’idea è quella di creare macchine programmate in modo tale da poter agire nel rispetto di principi etici dati o che esse scoprono da loro
stesse.
Il mito della macchina morale, che determina la decisione etica mediante un calcolo, si potrebbe far risalire a Leibniz o a Jeremy Bentham (1748-1832), il quale
sosteneva la necessità di «scoprire alcuni calcoli o processi di “aritmetica morale”». Più vicino a noi, nel campo della fantascienza, Asimov3 enunciava nel 1942 le tre
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famose leggi etiche alle quali dovevano tassativamente
sottomettersi i programmi che dirigevano i robot e che
possono essere riassunte così: 1) nessun robot può fare
torto all’uomo direttamente o per inavvertenza; 2) ogni
robot deve obbedire all’uomo, tranne nel caso in cui
questo contraddica la legge 1); 3) ogni robot deve difendersi, tranne nel caso in cui questo contraddica le leggi
1) e 2).
Quanto apparteneva alla fantascienza è diventato
progressivamente realtà grazie allo sviluppo dei sistemi
informatici e robotici, anzitutto in campo medico. All’inizio degli anni 2000 sono stati inventati sistemi come
MedEthEx (medical ethics expert, di Susan e Michael Anderson), che implementavano, ad esempio, i principi fondamentali della bioetica di Beauchamp (principio del rispetto dell’autonomia del paziente, principio di
non arrecare danno e principio di fare del bene), e permettevano la soluzione automatica di dilemmi medici
con i relativi conflitti di valori. Dagli stessi universitari,
è stato inventato un sistema denominato ETHEL (ethical elercare system), pensato per i robot dedicati all’assistenza di persone anziane, che sono incaricati di portare le medicine di cui gli assistiti hanno bisogno e di raccomandare loro di prenderle. Il programma è stato concepito per risolvere i conflitti che possono insorgere fra
la tutela della salute delle persone e il rispetto della loro
autonomia di decisione.
Il grande paradosso del robot «etico»
Lo sviluppo eticamente più problematico e al tempo
stesso più significativo dell’etica dei robot è quello legato al crescente numero di robot armati, come i famosi
droni, e dal progetto di una crescente automatizzazione
delle armi robotizzate.4 L’introduzione di armi robotizzate autonome è in larga parte guidata dal desiderio di
risparmiare vite umane negli ambiti in cui vengono utilizzate e di aumentare la velocità di reazione in caso di
attacco. Ma il loro impiego ha conseguenze che sollevano questioni cruciali alle quali si deve prestare attenzione.
Queste armi «senza volto» sono avvertite come «sleali» e l’asimmetria che esse producono nei combattimenti provoca reazioni disperate in coloro che subiscono gli attacchi.5 Si è potuto mostrare che gli attacchi
con i droni in Pakistan hanno fomentato il terrorismo,
perché le vittime volevano colpire a loro volta chi utilizzava armi senza correre il rischio di esporsi. Queste armi rischiano inoltre di abbassare la «soglia d’innesco»
di conflitti locali: se non si rischia più di perdere i propri piloti in un’offensiva allora si esiterà probabilmente
meno a scatenare un conflitto.
Le armi robotizzate autonome rischiano soprattutto
di eclissare la catena delle responsabilità reali. Che ne è,
ad esempio, degli effetti collaterali di attacchi con robot
armati autonomi? La risposta sembrerebbe semplice: il
responsabile è chi li usa. Ma egli potrebbe attribuire gli
effetti collaterali a disfunzioni tecniche (errata identificazione del bersaglio per difetti nei sistemi di riconoscimento delle forme, anomalia degli algoritmi che contribuiscono all’identificazione dei bersagli e alla decisione
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di sparare ecc…). Una cascata di processi lunghi e tecnici potrebbe in definitiva nascondere i responsabili o
diluire all’infinito le responsabilità. Si tratta del resto di
un caso ben noto in etica delle tecnologie. Spesso, infatti, l’introduzione della mediazione tecnologica cambia
il modo in cui viene considerata la questione della responsabilità giuridica ed etica.
È problematica oggi l’idea secondo la quale sarebbe sufficiente introdurre in questi robot armati dei programmi «etici» per legittimarne l’impiego. Ron Arkin,6
costruttore americano di robot militari, è fra i sostenitori dell’inserimento di programmi etici in grado di regolare il comportamento dei droni armati; egli ritiene addirittura che un agente umano si comporterebbe meno
bene di questi robot «morali», che non sono soggetti a
stress, fatica, sentimenti di odio... Il paradosso raggiunge qui il suo colmo e la sua massima gravità, perché si
mira a rendere i conflitti più «etici», da un punto vista
umano, sopprimendo puramente e semplicemente l’uomo! Si rischia di assestare un colpo fatale all’antropologia, con il pretesto di ottenere una maggiore umanità!
Contro questo approccio si sono levate voci e non soltanto nella sfera civile! Il rischio risiede anche nelle presentazioni mediatiche che vantano i meriti dei software
«etici». Su questo tema, un’analisi interessante è offerta dal filosofo Grégoire Chamayou, del Centre national
de la recherche scientifique (CNRS), nel suo Théorie du
drone (La Fabrique, Paris 2013), dove egli mostra chiaramente che «più si diffonde la leggenda del robot etico, più cedono le barriere morali di fronte alla creazione e all’utilizzazione del robot killer» (ivi, 296).
Robotica e finanza
Anche in campo finanziario si pensa di introdurre
«algoritmi etici» nelle macchine autonome di High Frequency Trading, il «trading (scambio) ad alta frequenza». Si tratta anche qui di veri e propri robot! Sono
macchine i cui «sensori» permettono di seguire l’evoluzione delle borse in tempo reale, mentre dei processori
elaborano l’informazione ricevuta, calcolando azioni e
reazioni possibili, acquisti o vendite di determinati titoli con il criterio, ad esempio, di massimizzare il profitto e minimizzare le perdite. Le stesse macchine possiedono inoltre la capacità di agire sui mercati finanziari
attraverso ordini di acquisto e di vendita. Esse possono
effettuare 100.000 operazioni al secondo; in un batter
d’occhio vengono lanciate o annullate milioni di operazioni, le quali consentono di realizzare profitti colossali,
ma rischiano anche di indurre, attraverso una moltiplicazione esponenziale degli ordini, perdite enormi (legate ai cosiddetti «flash crash»). L’uomo è qui deliberatamente estromesso dal gioco; ma resta la domanda se sia
morale lasciare l’economia reale in mano alle macchine. Cominciano a nascere proposte legislative per tassare le cancellazioni di ordini di borsa o vietare che si
scenda al di sotto di un certo tempo minimo per effettuare le operazioni. Altri pensano invece di introdurre
negli algoritmi dei robot finanziari dei programmi «etici» in grado di seguire quanto viene ritenuto un codice
di buona condotta in campo economico. Siamo qui di
fronte a una sorta di esclusione del soggetto umano, gestore di un’economia reale, e a un’importante delega di
potere alle macchine per compiti che attengono la sopravvivenza delle famiglie e delle società. Questa delega totale può indurre una perdita molto problematica
del senso di responsabilità.
Le questioni poste dalla formalizzazione dell’etica,
da una morale basata sul calcolo, ricordano sotto molti
aspetti quelle emerse alcuni anni fa in un dibattito il cui
oggetto era la possibilità di risolvere interamente i problemi giuridici attraverso la logica formale, ad esempio
la logica deontica (sul tema rinviamo ai lavori di Georges Kalinowski).7 All’epoca, un certo numero di giuristi, fra cui Chaim Perelman8 in Belgio, avevano obiettato che l’esercizio del diritto non è meccanizzabile e che
dipende piuttosto da una retorica, da una logica dell’argomentazione che non è, in ultima analisi, formale. Il
dibattito si è riaperto con l’invasione da parte dei robot della sfera giuridica, soprattutto a livello delle istanze che devono pensare il diritto su scala internazionale
e dunque seguire in tempo reale l’evoluzione dei corpora legislativi ed emettere giudizi coerenti rispetto a tali
corpora complessi e a volte in contraddizione fra loro.
Torna qui un problema simile a quello già sollevato.
È possibile delegare totalmente a una macchina un potere di giudizio da cui dipende il destino di una persona? Come mostra la tradizione della retorica giuridica,
il giudizio non è soltanto un «calcolo», una deduzione
meccanica e logica. Esso deve tener conto di tutta una
serie di fattori e di circostanze difficilmente integrabili
in un sistema algoritmico. Ed è proprio l’analisi di tali fattori e circostanze che consente di risolvere dilemmi in situazioni d’incertezza, di dubbio. L’uomo, questa «canna pensante» di cui parlava Pascal, è più lento della macchina, ma fa bene almeno quanto la macchina, o comunque non fa meno bene quando è posto
di fronte a conflitti di valori, a dilemmi e all’incertezza. Mireille Delmas-Marty, docente di Diritto internazionale al Collége de France, ha espresso con acutezza
la necessità di mantenere il soggetto umano nel cuore
del processo di decisione giuridica: «L’assistenza dei robot sarà indispensabile per gestire la crescente complessità dei sistemi di diritto e per far emergere una giustizia al tempo stesso nazionale, continentale e mondiale.
Ma la fragilità e la flessibilità della “canna” sono ancora più necessarie in quanto il dubbio è la condizione di
una giustizia che accetta talora di rinunciare a punire
“a beneficio del dubbio”, o di rinunciare al giudizio per
consentire il perdono, che è condizione per la riconciliazione».9
Dilemmi morali: i limiti della macchina
Il problema che si pone nella robotizzazione del diritto, come nel caso dell’implementazione algoritmica
dell’etica finanziaria o militare, è quello dell’impossibilità di formalizzare e informatizzare completamente
qualcosa che è dell’ordine del giudizio prudenziale, della phronesis aristotelica, della prudentia tomista.
Questa «prudenza applica la conoscenza universale alle realtà particolari»10 e «ha per oggetto le azio-
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ni umane nella loro contingenza». E in questo campo,
come ricorda giustamente il Dottore angelico, «l’uomo
non può essere guidato da quanto è vero in senso assoluto e necessario, ma da ciò che è vero nella maggior
parte dei casi».11 Ora, per conoscere ciò che è vero nella maggior parte dei casi, occorre contare sull’esperienza custodita nella memoria, che è parte integrante della
prudenza. Tale prudenza, che può spingere oltre i principi astratti per custodire meglio l’umano e il suo ambiente, per ridare un’opportunità là dove la regola rigida lo vieterebbe e per tener conto delle infinite sfumature che fanno parte della complessità dell’agire umano, non è riducibile a un calcolo. Questo è infatti basato su regole a priori e necessarie che non tengono conto, per definizione, del contingente.
Si può dunque mostrare come la realizzazione di
macchine etiche ponga domande enormi che evidenziano il carattere ampiamente arbitrario dell’impresa.
Chi pensa di costruire queste moral machine imponendo loro delle norme a priori (approccio «top-down») si
scontra con il seguente problema: quali regole scegliere? E a questo livello si constata come gli ingegneri ricadano tendenzialmente su regole suscettibili di essere
calcolate. In breve, essi scelgono norme legate a etiche
utilitaristiche e consequenzialistiche. Ma in che modo
scegliere poi i parametri per il calcolo di un massimo di
utilità o di un’ottimizzazione del benessere? Come modellare adeguatamente lo spazio delle conseguenze possibili delle azioni e dove fissarne i confini? Entrano già
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qui problemi enormi legati alla rappresentazione degli
ambienti dei robot («framework problem») e ai limiti interni dei processi di ottimizzazione, problemi le cui soluzioni non sono sempre determinabili in forma algoritmica. Se si pensa invece a una macchina in grado di
rinvenire le proprie leggi mediante apprendimento (approccio «bottom-up») ci si scontra inevitabilmente con il
problema di sapere in che modo la macchina definirà,
da se stessa e senza informazione preventiva, una condotta morale e una decisione etica.
Alcuni ingegneri progettano di integrare nei robot
capacità che oltrepassano la semplice razionalità logica:
ad esempio, il riconoscimento e la gestione di emozioni. Ma non è detto che questo faccia avanzare il dibattito, perché le emozioni possono sia falsare sia favorire
la soluzione di problemi etici. È interessante segnalare
che l’approccio strettamente algoritmico, o puramente «calcolante», alla morale è oggi messo in discussione
dall’interno delle scienze stesse. I neurofisiologi, che ricercano le basi neuronali delle attività etiche, mostrano
che un’etica delle virtù (ovvero un’etica basata sulla vita
buona, sui tratti indispensabili a un «funzionamento»
pienamente umano), nella quale si dà spazio alle emozioni e all’educazione sociale, sembra più vicina alla realtà empirica rispetto a etiche «del calcolo», utilitaristiche o deontologiche.12
La nostra ricerca ci ha condotti al cuore di quel
campo tecnologico assai sorprendente che non è quello
dell’etica dei robot, ma della robotizzazione dell’etica.
La machine ethics mette in risalto lacune che mostrano
in negativo aspetti essenziali dell’umano. Non si possono delegare compiti e decisioni importanti a strumenti,
o in generale a macchine, se non si è certi che queste ultime siano affidabili e che resteranno sempre al servizio
di chi le ha messe in funzione.
Ciò che colpisce è che vi sono ambiti in cui la macchina non fa meglio dell’uomo, e uno di questi – è il meno che si possa dire – è quello dei dilemmi morali, dei
conflitti di valori e di beni. Una macchina non può sapere in modo adeguato come reagire se un insorto, la
cui cattura è ritenuta strategica, si rifugia in un ospedale per bambini. Il riferimento a valori; la possibilità
di scelta di un ufficiale, che può rischiare i suoi uomini per evitare di mettere in pericolo la vita dei bambini;
un negoziato «fra uomini», disarmandosi... sono altrettante possibilità di un’etica che non è affatto algoritmica. L’uomo, nella sua fragilità e con i suoi limiti, si rivela talvolta l’alleato di una diplomazia umana e pacifica
che verrebbe a scalzare armi automatizzate, senza volto.
Inoltre, la rapidità delle macchine può rivelarsi un
ostacolo per le loro prestazioni. In campo finanziario,
l’amplificazione esponenziale delle fluttuazioni di borsa
può condurre a un flash crash, mentre il ritorno a transazioni dell’ordine del minuto, accompagnate da una
riflessione sulle finalità delle operazioni stesse, potrebbe
bloccare comportamenti che destabilizzano il mercato
o lo conducono alla rovina. La «canna» debole e pensante può dunque funzionare come fusibile, che consente di evitare la catastrofe economica e finanziaria.
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Risposte e giustezza
dell’antropologia cristiana
L’antropologia cristiana si fonda sul riconoscimento
di una natura umana. C’è un’essenza che definisce ciò
che l’uomo è in profondità: una creatura creata a immagine di Dio suo creatore, dal quale l’uomo riceve –
con il magnifico dono dell’esistenza – un appello a portare a compimento la creazione rispettandone la finalità profonda.
Spesso i filosofi hanno pensato l’essenza dell’uomo
ponendo l’accento sulle capacità linguistiche, cognitive,
tecnologiche... in breve, sulle capacità che vanno di pari passo con il dominio delle cose che ci circondano. Ma
l’essenza dell’uomo, la sua «parte più nobile » per utilizzare l’espressione di Darwin nella conclusione del suo
The Descent of Man (1871), consiste anche nella possibilità di rinunciare a un potere per far posto a ciò che è
vulnerabile e che sarebbe eliminato in forza della selezione naturale; o nella possibilità di rinunciare a mettere le mani, direttamente o tecnologicamente, sull’alterità, sia essa minerale, animale o umana, che ci circonda, per lasciarla essere ciò che è, per ammirarla come
un dono gratuito che ci si rifiuta di sottomettere.
Fa parte della natura dell’uomo creare strumenti,
servirsi delle risorse della tecnologia e dominare le cose.
Per questo il cristiano non è tecnofobo. Tuttavia, l’antropologia cristiana sottolinea una dimensione dell’uomo che ha già la sua consistenza al di fuori della rivelazione: l’umano si rivela anche nella capacità di rinunciare a dominare, per far posto a ciò che è vulnerabile e a volte per rendersi egli stesso vulnerabile. La natura dell’uomo si rivela tanto nella sua capacità di dominio performante quanto nella sua capacità di rinuncia
al dominio, in quelle decisioni in cui sceglie di far posto
a ciò che è fragile in lui o negli altri, a ciò che è vulnerabile intorno a lui, nel suo ambiente, umano o non umano.
La nostra società è vittima di un doppio furore, quello che Alain Prochiantz al Collège de France chiama –
nel suo libro Qu’est-ce que le vivant?13 – «lo strano furore di essere una scimmia», che vorrebbe fare dell’uomo
una scimmia come le altre. Esiste però anche lo strano
furore di diventare un robot, una macchina fra le altre,
o più performante delle altre, come esito di una depressione o di una fatica a essere soltanto ciò che si è. Ma
l’uomo non è né semplicemente un animale fra gli altri
né un robot perfezionato, o chiamato a diventarlo, in
un’ipotetica era trans-umanista. Egli si rivela altrettanto umano in quei momenti in cui lascia il regime della
prestazione, del successo calcolabile o del dominio per
entrare nel regime dello spossessamento, della gratuità,
della dimenticanza di sé per fare posto a ciò che è piccolo, fragile, vulnerabile, apparentemente privo di valore...
Vorrei concludere basandomi su due constatazioni che permettono di sottolineare la pertinenza dell’antropologia cristiana. Anzitutto, il fatto che l’utopia del
post-umano, dell’uomo «iper-aumentato», ha di mira
come suo esito un robot non umano. Si potrebbe dire che l’orizzonte dell’uomo è qui la negazione ultima
dell’uomo stesso, la sua scomparsa. Si tratta di una auto-contraddizione che deve tenerci in allerta! In secondo luogo, il fatto che la delega progressiva e sognata
dell’azione umana a dei robot si configura, alla fine, come volontà di perdere ogni volontà di decisione umana. Anche in questo caso si sfiora l’auto-contraddizione
performativa! Ma non solo. Si entra infatti in un regime
che rasenta una sorta di animismo, perché si pensa l’inanimato, la macchina elettronica e meccanica, come
dotato di capacità emotive, morali ecc.
Criteri di giudizio
Qui l’antropologia cristiana è interessante, perché
sulla base di un’antropologia biblica che unisce in un
equilibrio mirabile la dimensione propriamente spirituale e la dimensione corporale, essa evita sia la riduzione «animalistica» (legata al «furore di essere una scimmia») sia lo spiritualismo etereo, disincarnato, che si
spingerebbe fino a postulare l’esistenza di un’anima nella macchina, rischiando di divenire una sorta di «animismo tecnologico».
Sul piano filosofico, l’antropologia cristiana non mi
sembra semplicemente un’opzione fra altre, perché essa
consente di evitare le auto-contraddizioni legate a una
volontà di pensare l’uomo che nega in definitiva la sua
consistenza. Queste auto-contraddizioni, se vi si presta
attenzione, sono evidenti nelle figure letterarie e cinematografiche della science-fiction. L’equilibrio dell’antropologia cristiana consente di ricollocare in modo corretto e
coerente la tecnologia nei confronti dell’uomo, senza che
essa lo riduca né lo distrugga aumentandolo a dismisura.
Le figure del «robot umanizzato» o dell’«umano robotizzato» corrispondono in sostanza a dei «passaggi
al limite», utopici e unilaterali, di caratteristiche umane che in realtà non possono esistere in astratto senza la
presenza di un’altra dimensione indispensabile al loro
giusto equilibrio. L’uso della robotizzazione dell’uomo,
o l’uso di robot che simulano capacità umane, può avere senso solo nella misura in cui resta al servizio dell’u * Dominique Lambert è docente all’Università di Namur e membro dell’Accademia reale del Belgio. Pubblichiamo, in una nostra traduzione dal francese, il testo di una conferenza tenuta lo scorso 5 dicembre alla Pontificia università gregoriana e inserita in un «percorso filosofico e teologico» dal titolo «Cosa hai fatto del creato?», organizzato dall’Ambasciata di Francia presso la Santa Sede, dall’Istituto
francese Centre Saint Louis e dalla Facoltà di Filosofia della Gregoriana. Ringraziamo l’autore e il decano della Facoltà di Filosofia, prof.
Paul Gilbert, per averci concesso la pubblicazione.
1 Cf. M. Nicolelis, Beyond Boundaries: The new Neuroscience of
Connecting Brains with Machines and How it Will Change Our Lives,
St. Martin’s Griffin, New York 2012.
2 Cf. W. Wallach, C. Allen, Moral Machines. Teaching Robots
Right from Wrong, Oxford University Press, New York 2009.
3 I. Asimov, I-Robot, Doubleday & Co, New York 1950 (tr. it. Io,
Robot, Mondadori, Milano 1963).
4 Ci si può rendere conto dei pericoli legati allo sviluppo di queste tecnologie di guerra a distanza e alle strategie degli ambienti che
le promuovono leggendo B.J. Strawser (a cura di), Killing by remote control. The ethics of an unmaned military, Oxford University Press,
New York 2013.
5 Rinvio qui ai rapporti: Stanford International Human
Rights & Conflict Resolution Clinic, Stanford Law School,
Global Justice Clinic, NYU School of Law, Living Under drones.
Death, Injury, and trauma to Civilians. From US Drone Practices in
Pakistan, settembre 2012; disponibile sul sito web livingunderdrones.
mano e ciò significa, fra l’altro, la necessità di riservare
sempre uno spazio affinché la nostra debolezza e quella degli altri possano essere accolte, possano sviluppare
la loro forza di «amorizzazione» (termine che richiama
il pensiero di Teilhard de Chardin; ndr) e di umanizzazione. La tecnologia robotizzata è un bene per l’uomo
se ne rispetta sempre l’irriducibile fragilità.
Ritroviamo qui un tema caro a Jean Vanier e a Xavier Le Pichon. Quest’ultimo, professore di geofisica al
Collège de France, afferma: «Fin dall’inizio della storia dell’uomo, sono stati i membri più deboli, più emarginati, più colpiti della società ad avere la forza di trarla fuori dal mondo animale o, al contrario, quando sono stati rifiutati, di abbassarla al più basso livello».14 E
ancora: «è con la scoperta progressiva della sofferenza e
della morte che l’ominizzazione è apparsa – è mia convinzione, ma non posso provarlo –, man mano e a misura che la coscienza riflessa dell’uomo e la sua capacità di
proiezione nel tempo si sviluppavano. L’uomo diveniva
più uomo nella misura in cui scopriva e accoglieva il suo
prossimo sofferente come un altro se stesso».15
Ritroviamo così in conclusione anche san Paolo:
«Affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia
carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi,
perché io non monti in superbia. A causa di questo per
tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me.
Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”» (2Cor
12,7-9).
è alla luce di ciò, a mio avviso, che si devono stabilire – con il rifiuto dell’auto-contraddizione antropologica – i principi in base ai quali valutare l’utilizzo delle
tecniche robotizzate. Principio di prudenza e di saggezza, principio di delicatezza e di rispetto che mostra anche la ricchezza e l’attualità di un’antropologia cristiana
al servizio del senso profondo dell’uomo, che senza tecnofobia ricentra la tecnologia sulla sua vera finalità.
Dominique Lambert*
org; e Amnesty International, Will I Be Next? US Drone Strikes in
Pakistan, Amnesty International Publications, London 2013; disponibile sul sito web www.amnestyusa.org.
6 Cf. R. Arkin, Governing Lethal Behavior in Autonomous Robots, CRC Press, Boca Raton 2009.
7 Cf. G. Kalinowski, La logique des normes, PUF, Paris 1972.
8 Cf. C. Perelman, L. Olbrechts-Tyteca, Traité de l’Argumentation, voll. 1 e 2, PUF, Paris 1958.
9 Cf. M. Delmas-Marty, «La justice entre le robot et le roseau»,
in J.-P. Changeux (a cura di), L’Homme artificiel, Odile Jacob, Paris
2007, 239-246; qui 246.
10 «Prudentia appliquat universalem cognitionem ad particularia»; Tommaso d’Aquino, Summa theologiae II/II, q. 49, a. 1, Ad
Primum.
11 «In his autem non potest homo dirigi per ea quae sunt simpliciter
et ex necessitate vera, sed ex his quae ut in pluribus accidunt»; Tommaso d’Aquino, Summa theologiae II/II, q. 49, a. 1, Respondeo.
12 Cf. W.D. Casebeer, P.S. Churchland, «The Neural Mechanisms of Moral Cognition: a Multiple-Aspect Approach to Moral
Judgment and Decision-Making»; in Biology and Philosophy, 18(2003)
1, 169-194.
13 Cf. A. Prochiantz, Qu’est-ce que le vivant?, Seuil, Paris 2012,
83-103.
14 Cf. X. Le Pichon, De la mort à l’amour, Presses de la Renaissance, Paris 1997, 201.
15 Cf. ivi, 68.
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209
p
“
Liana Millu
rofil o
(1914-2005)
Il libro custodito
Nel centenario della nascita
l’originale del Tagebuch in dono alla città di Genova
P
er «sopravvivere bisognava anche essere
fortunati, valeva (anche) il caso, la fortuna».
«Quel cielo sereno, quegli alberi in fiore,
una grande strada provinciale: bianca, spesso bordata da grandi platani. La libertà».
«Io sono, sola, sento quasi tangibile la mia
solitudine e il mio destino». Tutte e tre le
frasi sono di Liana Millu.1
La biblioteca Berio a Genova si trova nella sede
dell’ex seminario. La stradetta in lieve salita su cui si
apre è ancora contraddistinta dal nome dell’edificio in
cui si formano i futuri preti. Per arrivare alla biblioteca
vera e propria, una volta oltrepassato l’ingresso, occorre
attraversare un breve cortile. Per facilitare il passaggio
è stato costruito un tunnel trasparente, tipo quelli che
si trovano negli ospedali o in edifici consimili. Non bello, risulta funzionale tanto in caso di intemperie quanto
come luogo per segnalare le iniziative della biblioteca:
tutti coloro che vi passano sono sollecitati a leggere gli avvisi. Per tutto
il mese di febbraio, appoggiati alle
arcuate pareti in plexiglass, sono
stati esposti una ventina di cartoni
scritti a mano con un pennarello,
in caratteri grandi. I contenuti di
tre di essi sono riportati qui sopra.
Introducevano a una mostra racchiusa nelle poche bacheche che
formano lo spazio BerioIdea. Era
intitolata «Liana Millu. Tagebuch il
diario del ritorno dal Lager».
Per qualche giorno nella bacheca più piccola, ma anche più
centrale, è stato esposto pure l’originale del Tagebuch. Si tratta del
diario ancora in bianco trovato
dalla scrittrice genovese (Millu, pisana per nascita, si trasferì nel capoluogo ligure del 1940) in una fattoria del Meclemburgo all’inizio di
maggio del 1945, poco dopo essere
uscita da Malchow, sottocampo di
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Ravensbrück. La trentenne Liana Millu2 vi era giunta
nell’autunno precedente provenendo da un Lager ben
più grande e terribile: Auschwitz-Birkenau. Millu trovò,
oltre alle pagine di carta piuttosto spessa racchiuse tra
due copertine di finto coccodrillo, anche una matita, divenuta con l’uso un mozzicone, che Liana avrebbe infine donato a Primo Levi poco prima della sua tragica
morte. Le pagine bianche e il lapis (allora lo si chiamava
spesso così) furono fedeli compagni di Millu dal giorno
del loro ritrovamento fino al 1° settembre 1945, quando,
in concomitanza con il ritorno in Italia, fu riempita l’ultima pagina disponibile.
Le prime parole scritte sul Tagebuch il 10 maggio
1945 sono: «Lim» e «una comes solitudo». Liana inizia
con il suo soprannome che riferiva a se stessa perché
in tal modo la chiamava la persona amata; la seconda
frase dichiara la solitudine come sua unica compagna.
Si tratta di un’aspirazione a ritrovare sé stessi. Siamo di
fronte a una specie di riproposizione del bunker interiore che, quando
era nel campo, Liana aveva presentato come espressione della propria
fede laica. In quei frangenti lo scrivere ebbe una funzione salvifica. La
lotta condotta per salvaguardare
se stessa entro il Lager aveva dato
i propri frutti. La scrittura fu la via
per tornare a essere se stessa senza
dimenticare quanto era stato. Si
tratta però, e il particolare è fondamentale, di uno scrivere già allora
consapevolmente narrativo e non
già di una parola che vuole essere
una descrizione testimoniale dei
fatti.
Il ritorno alla scrittura è, per
definizione, dopo il Lager. Nei campi quell’atto umano era negato alle
vittime. Non c’è neppure bisogno di
spiegare il perché. In senso stretto
lo stesso non valeva per i libri. Ovviamente non li si poteva avere, né
leggere. Anch’essi erano una mancanza, anch’essi facevano parte del mondo «civile» a cui i deportati non
avevano alcun accesso. Su questo versante non si registra nessuna differenza. Tuttavia, mentre per la scrittura
prevaleva l’assenza scarsamente sostituibile da un’immaginazione priva del confronto con il foglio di carta, per
la lettura ci si poteva affidare al ricordo. Per essa valeva
quanto avviene anche per le persone o le cose sottratte
ai nostri occhi ma non ancora estinte nella nostra mente
e nel nostro cuore. Il ricordo è la presenza nell’assenza;
mentre la nostalgia è la forma più percepibile di siffatta
condizione. Anche i libri possono essere interiorizzati e
diventare parte di noi stessi. Per saperlo non c’è bisogno di evocare romanzi e film (tipo Fahrenheit 451 di
Ray Bradbury), basta guardare all’esperienza personale
di tanti lettori. Nel Lager ciò fu vero anche per Liana,
come lo fu per Primo Levi.
L’aggrovigliarsi dentro l’animo umano di libri, esperienze, ricordi, lettere, diari è stato per molti un passaggio obbligato nella formazione della propria personalità.
Questo plesso fu un riferimento per intere generazioni.
In senso più lato la nostra cultura sarebbe inimmaginabile senza libri. Leggere e scrivere non sono solo abilità o
competenze, sono forme di civiltà.
Da tempo ormai sono in atto mutamenti tecno-antropologici formidabili che stanno modificando in profondità l’insieme di esperienze a cui si faceva riferimento. Il
destino del libro è divenuto problematico. Il guado comunque non è stato ancora del tutto oltrepassato. Incontrare pagine che esprimono una fede laica nella scrittura
(e nella lettura) è tuttora un’esperienza capace di parlare, è ancora un messaggio. Come approdo definitivo
del Tagebuch, ritrovato tra suppellettili fracassate di una
fattoria del Meclemburgo, nessuna collocazione sarebbe
stata più consona della biblioteca Berio. La permanenza
dell’originale del diario non sarà infatti limitata alla du-
rata della mostra: quella sarà la sua sede definitiva. Là
sarà costantemente conservato e, con ogni probabilità,
di nuovo periodicamente esposto.
Quasi trent’anni fa, con un gesto indimenticabile,
Liana Millu mi consegnò l’originale del Tagebuch con la
clausola di non leggerlo fin dopo la sua morte, che sarebbe avvenuta nel febbraio del 2005. L’anno dopo apparve
l’edizione a stampa; l’originale restava però chiuso in un
cassetto da cui era, di rado, estratto per essere mostrato a qualche persona amica. Tuttavia Liana Millu mi
ha insegnato che bisogna dare per tempo un futuro a
quanto di prezioso si ha in custodia, più che in possesso.
Perciò nel corso del convegno «Liana Millu 1914-2005.
Scrittrice, educatrice, deportata», svoltosi nel salone di
rappresentanza di Palazzo Tursi il 12 febbraio scorso,3
ho consegnato nella mani del sindaco di Genova, Marco
Doria, il manoscritto. L’avevo pensato come dono alla
città, il merito di aver individuato una collocazione così
consona alla sua natura e al suo messaggio è invece da
attribuirsi, in toto, all’amministrazione genovese.
Piero Stefani
Rispettivamente pubblicate in Il Lavoro, 12.5.1994; Resine 27(2005)
103; Tagebuch, Giuntina, Firenze 2006.
2 Cf. Regno-att-,. 10,1987,285; 14,1995,390; 22,2004, 734; 4,2005,
138; Regno-doc., 21,1996,654.
3 Il convegno era stato organizzato dell’Istituto ligure della storia
della Resistenza e dell’Età contemporanea (ILSREC), dal Comune
di Genova e dall’Università degli studi di Genova, Dipartimento di
Italianistica, Romanistica, Antichità, Arti e Spettacolo con l’adesione
della Comunità ebraica di Genova. Il convegno prevedeva relazioni
di Silvio Ferrari, Piero Stefani, Ombretta Freschi, Anna Szwarc Zajac, Daniel Volgelmann, Guido Levi, Paolo Battifora, Marta Baiardi,
le testimonianze di Gilberto Salmoni e Miryam Kraus e le conclusioni
di Fernanda Contri. La cerimonia di consegna è stata preceduta e
seguita dalla letture di alcuni passi del Tagebuch da parte di Ottavia
Piccolo. Gli atti del convegno saranno prossimamente pubblicati in
un numero della rivista Storia e memoria» dell’ILSREC di Genova.
1
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211
p
p arole
delle religioni
Piero Stefani
Udire la Parola scritta
Po s s i a m o ve d e r e l ’ e s t a s i d e l l e p a ro l e
I
l fondatore del moderno chassidismo, il Ba‘al Shem Tov,
una volta propose una parabola. Su una piazza di un villaggio apparve un musicista che suonava in modo meraviglioso, al punto che gli abitanti furono spinti irresistibilmente a ballare estaticamente. Proprio in quel momento
passò un sordo che nulla sapeva della musica; quest’ultimo,
vedendo tutta quella agitazione, pensò di avere a che fare
con un paese di matti. Lo sciocco però era lui. Se fosse stato
saggio avrebbe intuito che lì c’era della gioia autentica e si
sarebbe unito alla danza. Dopo aver riportato il racconto, il
pensatore ebreo contemporaneo A.J. Heschel lo impiega in
chiave di ermeneutica biblica. Egli infatti afferma che non ci
è più dato di ascoltare la voce; ci è solo concesso di vedere le
parole. Siamo sordi, ma non ciechi: «Possiamo vedere l’estasi
delle parole».1 Secondo questa immagine, il lettore della
Scrittura è un sordo danzante.
Hic et nunc
Ma davvero ci è negato di udire la Parola scritta? Sotto
certi aspetti, per un cristiano, il problema della distanza è
invalicabile ancor più che per un ebreo. Per la Chiesa, il
culmine delle Scritture è costituto dai Vangeli. Non a caso
durante la recitazione liturgica, a differenza delle altre letture,
li si ascolta in piedi. Secondo la più antica terminologia, essi
erano chiamati «memorie apostoliche». Ciò significa che,
per la fede cristiana, questo genere letterario è antitetico
alla concezione che del rapporto fra Gesù e il Vangelo (al
singolare) avrebbe avuto la successiva visione musulmana.
Per l’islam, il figlio di Maria è l’inviato (rasul) tramite il quale
il Vangelo è sceso dal cielo; di contro, i Vangeli cristiani (al
plurale) sono un genere biografico che trasmette i detti e
i fatti di Gesù. La critica biblica si impegna a individuare
quali parole possono effettivamente esser fatte risalire al
Gesù storico, ma questa pur opportuna ricerca non ha un
peso decisivo rispetto alla determinazione di un genere
letterario che pone al proprio centro parole e gesti compiuti
dall’«uomo Gesù». Proprio questo riferimento conferma
però che nessuno di noi ha udito la voce, ha visto le mani, i
piedi, gli occhi, i capelli di Gesù. Rispetto ai suoi gesti e alle
parole uscite dalla sua bocca, siamo ciechi e sordi.
Un aspetto non irrilevante, persino sul piano teologico,
relativo al «Gesù storico» è che egli è vissuto in un’epoca
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molto anteriore a quella in cui è possibile catturare parole
e immagini attraverso un sussidio tecnico. Chi ama
speculare sui disegni di Dio – operazione peraltro sempre
assai problematica – potrebbe anche utilmente riflettere sul
perché Gesù sia nato in un tempo che ignorava le forme
di comunicazione che oggi costituiscono il collante forse
più percepibile di molte società. Avrebbe potuto essere
diversamente? Nessuna registrazione della voce di Gesù
è giunta fino a noi; né abbiamo filmati del suo volto o
documenti visivi della sua pubblica morte. Si hanno invece
molte parole scritte su quanto da lui detto e, con il trascorrere
del tempo, innumerevoli immagini, tutte interpretative e
nessuna documentaria, relative alla sua vita e alla sua morte.
Ci è dato collegarci al suo messaggio soltanto con parole
scritte da altri e redatte parecchio tempo dopo il momento
in cui sono state pronunciate. È il contrario di quanto
avviene oggi, tempo in cui la scrittura sembra emergere
soprattutto nell’immediatezza dell’sms o del twitter, una
forma di comunicazione per definizione personalizzata e in
presa diretta estendibile a livello planetario.
Colto in questa angolatura, papa Francesco si colloca
oggettivamente agli antipodi del modo originario di
comunicazione dell’Evangelo, legato a un’oralità diretta
e corporea e quindi limitata nello spazio e nel tempo,
contraddistinto da un hic et nunc che riesce a non scomparire
solo nella misura in cui lascia traccia di sé nella mente e nel
cuore dei suoi primi ascoltatori.
Il Vangelo come predicazione
I Vangeli scritti si collocano, per loro intima natura,
nell’ambito di una distanza. Si comprende perciò perché,
nelle prime generazioni cristiane, le testimonianze orali
fossero considerate più autorevoli di quelle scritte. Gesù ha
vissuto, ha chiamato attorno a sé discepoli, ha predicato,
ha compiuto segni dotati di autorità, ha pregato, è stato
condannato a morte e ucciso e secondo la fede è risorto il
terzo giorno, ma non ha mai scritto. Il Vangelo di Giovanni
è l’unico a parlare di Gesù che scrive per terra; si trattava
però di segni destinati presto a dissolversi, proprio come lo
fu la condanna dell’adultera a cui si riferisce l’episodio (cf.
Gv 8,1-11). L’insegnamento di Gesù è stato tutto affidato
a un linguaggio fatto di parole e gesti tramandati perché
perduti nella loro realtà fattuale. Rispetto alla voce di Gesù
siamo sordi danzanti, a qualificarci tali è proprio il cuore
stesso della fede.
Nella tradizione liturgica i Salmi, che sono preghiera,
cioè voce umana rivolta a Dio, sono recitati coralmente.
Ciò non vale per la lettura del Vangelo; esso è sempre
proclamato da una voce e udito da altri. Anche se non si
è nel contesto kerygmatico a cui alludeva Paolo quando
affermò che la fede nasce dall’ascolto (cf. Rm 10,17), pure
nella liturgia l’orecchio resta l’organo decisivo per l’accesso
alla Parola (il foglietto delle letture è un sussidio che sarebbe
preferibile usare prima o dopo e non già nel corso della
celebrazione). Rispetto a quanto detto in precedenza, le
parti si sono in un certo senso rovesciate, non si è più solo
sordi danzanti. Il primato dell’oralità è stato di nuovo, sia
pur parzialmente, riconquistato. Certo la lettura del Vangelo
nella Chiesa cattolica non è di tutti: essa è riservata al
presbitero o al diacono; si tratta di un aspetto né irrilevante,
né immodificabile in senso assoluto. Una componente su cui
varrebbe la pena riflettere è comunque il fatto che a colui
che proclama è, di norma, anche chiesto di spiegare quanto
da lui letto. Il lettore è anche l’omileta: l’oralità produce
altra oralità. Qui la dimensione della distanza cede il posto a
quella di una presenza. In senso più aperto in direzione del
kerygma, ciò è stato ben colto da Lutero, quando affermò che
il Vangelo è predicazione (ovviamente non nel senso della
pura omelia) «e non propriamente ciò che sta nei libri o viene
fissato in lettere, bensì piuttosto una predicazione orale, una
parola viva e una voce che risuona in tutto il mondo viene
emessa pubblicamente perché la si senta ovunque».2
Si tratta di una presenza che è impossibile surrogare. La
proclamazione della Parola in questo senso è accostabile
all’eucaristia: la ripetizione memoriale dei gesti e delle parole
origina una presenza. Nella celebrazione non si misura
alcuna lontananza da quanto avvenne nell’Ultima cena.
La mensa della presenza è imbandita ora in un contesto
alimentato dalla memoria e dall’attesa, senza che venga
rimarcata alcuna distanza temporale dall’origine.
La proclamazione della Parola nell’assemblea raggiunge
il suo autentico scopo quando quello che è scritto è
riconsegnato all’oralità; in ciò l’atto richiama addirittura una
specie di dinamica profetica. Per rendersene conto possiamo
partire – e così facendo ci muoviamo nel paradosso – da un
testo scritto, esattamente dai primi capitoli del Vangelo di
Matteo. Questa sezione è costruita attorno a cinque profezie
che trovano il loro compimento in Gesù. L’angelo rivela
in sogno a Giuseppe che la sua promessa sposa è incinta
per opera dello «Spirito Santo». Ciò è avvenuto perché
si adempisse quanto detto dal profeta: «Ecco: la vergine
concepirà e partorirà un figlio, che si chiamerà Emmanuele»
(Is 7,14). Così avviene anche per la fuga in Egitto (cf. Mt
2,13-21; Os 1,11), per la «strage degli innocenti» (cf. Mt
2,16; Ger 31,15) e persino per il ritorno a Nazaret, passo
per il quale non si è nelle condizioni di trovare un preciso
richiamo testuale per la profezia (cf. Mt 2,22). In questo
quadro vi è un’unica eccezione e riguarda i Magi che, giunti
a Gerusalemme, chiesero notizie a Erode. Il re, riuniti i capi
dei sacerdoti e gli scribi del popolo, domandò loro in quale
luogo dovesse nascere il Messia: «Gli risposero: “A Betlemme
di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta (...)”»
(Mt 2,5). Seguono i versetti di Michea (cf. 5,1-3). Dunque
qui non ci sono l’«adempiere», né il ricorso al verbo «dire»;
c’è un muto «è scritto». Gli scribi sanno, ma non si aprono
alla fede; conoscono, ma non prestano ascolto alla Parola.
Se così si potesse dire, Matteo presenta il loro operato come
una specie di pura documentazione. La Parola scritta non
è tornata a essere viva in loro; se fosse stato diversamente,
sacerdoti e scribi si sarebbero accodati ai Magi diretti verso
Betlemme. Ciò non avvenne.
Fino a quando quel che è scritto resta solo scritto, lo si può
capire ma non si è nelle condizioni di viverlo. Conclusione
classica e da ribadirsi, ma che è comunque assai più facile da
scrivere che da vivere.
1 A.J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, Borla, Roma 1983, 272.
2 Cit. in S. Gaburro, La voce della Rivelazione. Fenomenologia
della voce per una teologia della rivelazione, San Paolo, Cinisello Balsamo
(MI) 2005, 275. Cf. D. Kampen, «Annuncio e testimonianza cristiani:
l’esperienza della Chiesa luterana», in Segretariato Attività
Ecumeniche (a cura di), Condividere e annunciare la parola, Atti della 50a
Sessione di formazione ecumenica, Paderno del Grappa (TV), 28 luglio-3
agosto 2013, Paoline, Milano 2014, 27-37.
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documenti + Annale 2014 - € 66,00;
CCP 264408 intestato a Centro
Editoriale Dehoniano.
Chiuso in tipografia il 25.3.2014.
Il n. 5 è stato spedito l’11.3.2014;
il n. 4, il 27.2.2014.
In copertina: Jan Vermeer (1632-1675),
Cristo in casa di Marta e Maria, ca. 1654-1655;
Registrazione del Tribunale di Bologna Edimburgo, National Gallery of Scotland.
N. 2237 del 24.10.1957.
Associato all’Unione Stampa
Periodica Italiana
L’editore è a disposizione degli aventi diritto che non è stato possibile
contattare, nonché per eventuali e involontarie inesattezze e/o omissioni
nella citazione delle fonti iconografiche riprodotte nella rivista.
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attualità
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i
i lettori ci scrivono
Il questionario per il Sinodo mai arrivato
Caro direttore,
le scrivo dalla provincia di Modena. Desidero esprimere tutto il mio rincrescimento per il fatto che nessuno dei miei parroci – vivo in una zona di
montagna dove ci sono più parrocchie – ci ha parlato dell’esistenza del questionario in preparazione per il Sinodo. Ho saputo della cosa ascoltando la
radio, dove si diceva che la vostra rivista stava raccogliendo alcune risposte, e
purtroppo era troppo tardi.
Mi dispiace molto non essere stata coinvolta perché anch’io ho un figlio
che vive in una situazione cosiddetta «irregolare» e per questo ne soffre e io
con lui. Quando infine ho avuto in mano il testo e ho letto che si voleva una
«diffusione capillare» mi sono ancor di più risentita.
Certo il questionario non poneva domande semplici, ma era questo un
buon
motivo per non farcelo neppure sapere?
signora Bernardi
1° febbraio 2014
Divorziati: la prassi dell’ortodossia
Caro direttore,
per la Chiesa cattolica il matrimonio è indissolubile, il divorzio non è am-
R1f_Agnolin:Layout
04/03/14che
15.27
1 relazione non sono «ammessi» alla
messo e 1i divorziati
vivonoPagina
una nuova
comunione. Di contro la Chiesa può dichiarare nullo il matrimonio e a quel
punto uno si può sposare con un’altra persona.
ADONE AGNOLIN
L’invenzione
del Tupì
Imprese coloniali e catechismi indigeni
I
catechismi in lingua indigena prodotti dai gesuiti in America Latina
tra la seconda metà del Cinquecento
e la prima metà del Seicento sono un
ricchissimo e insospettabile osservatorio sull’incontro e lo scontro tra le
culture nel primo periodo coloniale,
quando la confessione e l’esame di coscienza diventano centrali nel nuovo
modello missionario.
«CONIFERE»
NUOVA COLLANA
Edizioni
Dehoniane
Bologna
Mi pare che l’atteggiamento dei tribunali ecclesiastici sia guidato anche da
premura pastorale, oltre che dalla ricerca della verità: offrire a qualche pecora
smarrita una seconda possibilità.
Ciò non verrà mai ammesso, e anzi questa mia affermazione mi attirerà
critiche, ma lo dico con serenità, dopo essermi imbattuto in vari annullamenti
«generosi» e ciò come legale di persone che contestualmente si rivolgevano al
giudice civile per la separazione oppure nei casi di delibazione nell’ordinamento italiano di sentenze ecclesiastiche.
Basti pensare alla rilevanza, nell’ordinamento della Chiesa cattolica, della
«riserva mentale» circa uno dei requisiti essenziali del matrimonio: è sufficiente
affermare e dimostrare, anche per testimoni, che al momento del matrimonio
non si credeva – per esempio – all’indissolubilità dello stesso o alla fedeltà e... il
matrimonio non è esistito! Tamquam non esset!
A un convegno ebbi l’impertinenza di chiedere pubblicamente a due
giudici di un tribunale ecclesiastico se il difensore del vincolo (cioè colui che,
nel processo, sostiene le ragioni della validità del matrimonio) può chiamare a
testimoniare persone diverse da quelle indicate dagli sposi che chiedono l’annullamento e mi sentii rispondere: «Certo, ma non succede mai». (…).
Se la situazione attuale mi pone degli interrogativi, non sono neppure in
sintonia con chi invoca un «divorzio cattolico» solo con motivazioni pastorali.
Credo che il tema si possa e si debba affrontare da un punto di vista teologico e questo anche nel quadro di un cammino ecumenico coi fratelli ortodossi.
La Chiesa ortodossa, infatti, benedice le seconde nozze senza annullare le prime: semplicemente prende atto del fallimento del primo matrimonio e, senza
far venir meno gli obblighi legali discendenti dallo stesso (si pensi ai doveri economici verso l’ex coniuge, per esempio), concede al fedele un’altra possibilità.
Interessante è pure il rito del secondo matrimonio che inizia con una liturgia penitenziale, cioè con la richiesta di perdono a Dio, per non essere riuscito
(o riusciti) a tenere in piedi la prima unione.
Una Chiesa ortodossa che, pur fedele alla parola di Cristo, si ispira a
quel... già e non ancora ... in cui viviamo: già salvati da Gesù e dalla sua risurrezione, ma non ancora nella pienezza del regno dei cieli (e quindi tuttora
peccatori e fragili).
Ecco: personalmente penso che la riflessione da fare sia teologica, e non
possa partire solo da «esigenze» pastorali (i tanti divorziati poi risposatisi civilmente).
Sono fiducioso che papa Francesco saprà indicare la via da percorrere,
secondo
verità e amore.
Marco Calandrino
Bologna, 22 marzo 2014
Cari lettori,
pp. 88 - € 8,50
Lutti nel giornalismo
nelle scorse settimane abbiamo pianto la morte di tre giornalisti che, per
un motivo o per l’altro, vogliamo richiamare alla vostra memoria orante. Il
4 febbraio p. Michele Simone, vicedirettore di La Civiltà cattolica, del
quale avevamo condiviso il costante impegno ecclesiale e apprezzato il lucido
sguardo sulle vicende italiane e sul cattolicesimo. Il 9 marzo Mario Palmaro, neoapologeta impegnato soprattutto sul versante della bioetica, del quale
Settimana (n. 38, 27.10.2013, 12-13) aveva recentemente raccolto una viva
testimonianza umana e professionale. Il 10 marzo Angelo Agostini, direttore
di Problemi dell’informazione e maestro di giornalismo e di «giornalismi» nelle
maggiori scuole, con un pensiero particolare alla sorella Mirella, già nostra
collaboratrice.
Gianfranco Brunelli, direttore
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I miei quarant’anni al Regno
E la sua spinta ad andare al largo
“
io non
mi vergogno
del vangelo
“
Luigi Accattoli
C
ompio 41 anni di Regno. Volevo intrecciare qualche scherzo su
questa esagerazione l’anno scorso, ma 40
anni mi parevano troppi e ho aspettato
i 41. Inizio a collaborare con un articolo non firmato sul numero di aprile del
1973 riguardante le elezioni in Cile, le
ultime prima del golpe dell’11 settembre
di quell’anno. Il primo pezzo firmato esce
in maggio: «Dove va Gioventù aclista».
Mi avevano mandato a Montesilvano
(Pescara) a seguire il congresso di quell’associazione. Al congresso ACLI di Cagliari
dell’aprile dell’anno prima – dov’ero per
la FUCI – avevo incontrato p. Alfio Filippi, che mi aveva proposto di collaborare
a Il Regno.
Un migliaio di articoli,
si salvi chi può
Avevo 29 anni, stavo per sposarmi,
era il mio primo lavoro dopo un decennio
di occupazioni precarie. Da allora a oggi
ho scritto per Il Regno un migliaio di articoli. Sta scritto in Matteo: «Di ogni parola
vana che gli uomini diranno, dovranno
rendere conto nel giorno del giudizio»
(12,36). Confido nello sconto dei grandi
numeri. Per il Corriere della sera, in 33
anni ne ho scritti un numero maggiore,
forse 5.000 e più tribolati e più pagati. Ma
quelli de Il Regno contano di più. Senza di
essi non sarei andato né a La Repubblica
nel 1975, né al Corriere della sera nel 1981.
Ma è soprattutto la qualità del lavoro a Il
Regno che non è paragonabile a quella di
un quotidiano. Ricordo quando gli articoli li spedivo per espresso o quando – nei
casi di emergenza – p. Serafino Suardi,
un dehoniano piccolo e bianco di capelli della comunità romana di Cristo Re,
veniva a prendere i fogli dalla macchina
da scrivere e correva al treno per portarli a Bologna. Serafino amava viaggiare e
i confratelli l’impiegavano come messo
redazionale. Lo ricordo seduto accanto
a me, nella redazione open space de La
Repubblica, che aspetta che io finisca di
battere il pezzo: al rientro dalla prima visita di papa Wojtyla in Polonia (10 giugno
1979) e al rientro da quella in Africa (12
maggio 1980). Facevano così, in casi straordinari, anche i redattori della Rocca di
Assisi, alla quale pure ho collaborato negli
anni a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta. Racconto queste avventure da posta
degli incas per aiutare i lettori giovani a
farsi un’idea di come fino a ieri si correva
di qua e di là, con grande impegno, per
imprese che oggi si fanno cliccando.
Nei primi anni Ottanta gli articoli li
mandavo per telescrivente dalle Poste
centrali di piazza San Silvestro, poi per
fax da quello stesso ufficio: «È arrivato
ma non si legge niente». Infine con il fax
da casa, che comprai nel 1989. E ormai,
da più di tre lustri, per e-mail. Dicevo che
il primo articolo riguardava l’America
Latina, argomento che ricorreva e ricorre con continuità su Il Regno, ma allora
più di oggi. Nel tempo della mia presenza
in redazione (dalla primavera del 1973
all’inverno del 1975), ebbi a occuparmi
dell’Argentina, del Brasile, del Cile; di una
pubblicazione su «La lingua come veicolo
di neocolonialismo» tra i nativi, del movimento indigenista. Fu una notizia di cui
scrivere il fatto che Hélder Câmara sarebbe venuto al Sinodo del 1974, quello da
cui uscì l’Evangelii nuntiandi, dalla quale
è venuta l’Evangelii gaudium.
In Italia, il mio pascolo erano le Co-
munità di base e i Cristiani per il socialismo, che tennero un convegno a Bologna
dal 21 al 23 settembre 1973, cioè nei giorni di fuoco del golpe cileno. Simpatizzavo
ed ebbi in casa alcuni di loro. Alla fine di
quell’anno ci fu a Lione un’assemblea internazionale dei Cristiani critici: fu la mia
prima trasferta fuori d’Italia e scoprii che
nell’Europa di sinistra noi italiani eravamo guardati con ammirazione, pensa tu.
I preti operai, i cattolici del no nel referendum sul divorzio, il dibattito sull’aborto,
i cattolici democratici (andando ai loro
convegni conobbi Achille Ardigò e divenimmo fratelli), il «7 novembre» e il «febbraio 74»: c’era una fretta che si esprimeva per date. Com e Nuovi Tempi che si
fondevano in Com-Nuovi Tempi, che poi
diventerà Confronti.
A Settegiorni ero stato
il vice di Magister
Gran fermento a sinistra e qualcosa
che si muove anche a destra: dieci intellettuali scrivono a Paolo VI per chiedergli
«iniziative chiarificatrici» nei confronti
dell’altra sponda della Chiesa italiana.
Tra le firme: Sergio Cotta, Augusto del
Noce, Gabrio Lombardi. Me ne venne
un colloquio agitato con Cotta, che avevo
conosciuto all’università La Sapienza in
margine alle occupazioni del Sessantotto.
«Si va a una nuova visione di Chiesa»,
facevo io e lui: «Qui tutti che hanno visioni». La Democrazia cristiana di Moro
e di Zaccagnini che ripensa l’ispirazione
cristiana. Il 1° marzo 1975 a Bologna si fa
un convegno di area cattolica sul Partito
comunista, io intervengo e la rivista pubblica il mio testo che faceva gran conto
di qualcosa che aveva detto poco prima
Giorgio Napolitano sulla tendenza «a
restringere l’area del nostro impegno a
fatti meramente economici e meramente politici». L’avanzata delle sinistre nelle
amministrative del 1975 e il nuovo collateralismo di Comunione e liberazione:
andai a Milano a intervistare il giovane
Formigoni. La chiusura di Settegiorni (7
luglio 1974), che era stata anche una mia
testata. Ho imparato molto conversando
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c .Regno
f
Per chi ancora custodisce le nostre annate, o
frequenta una biblioteca, ecco i riferimenti
di tutti gli articoli di Luigi Accattoli pubblicati
su Il Regno nel periodo 1973-1975 (n. fascicolo, pagine) e in buona parte da lui richiamati
in questa puntata della sua rubrica, che per
noi de Il Regno è più speciale del solito.
1973: Cile (8, 179); Gioventù aclista (10,
235ss); Comunità ecclesiali di base (12, 285ss);
Belgio (12, 290); Lingua e neocolonialismo (12,
292ss); Cattolici e ortodossi (14, 334); Francia
(14, 340); Vietnam (16, 371); Parrocchie (Studio
del mese 16, 399ss); Cristiani per il socialismo
(18, 422ss); ACLI (18, 440s); Corea del Sud (18,
450s); FCEI (20, 493s); Francia (20, 502s).
1974: Preti operai (2, 20s); Brasile (2, 39s);
Referendum divorzio (4, 74ss); «7 novembre»
(4, 95s); Italia - Crisi di governo (6, 127); Mali
di Roma (6, 162ss); DC e cattolici democratici
(8, 193); Com-Nuovi tempi (10, 259); Cattolici
democratici (14, 280ss); Settegiorni (14, 293);
Küng (14, 308); CEI-Sinodo (16, 367); Togliatti e De Gasperi (16, 377ss); Brasile (16, 395ss);
Cristiani per il socialismo (Studio del mese
18, 464ss); Diario Mazzolari (20, 488ss); ACLI
(20, 498s); Cristiani per il socialismo (20, 504s);
Vicariato di Roma – Scuola (22, 549s); Lettera
intellettuali a Paolo VI (22, 560s).
1975: Preti operai (2, 8ss); DC e ispirazione cristiana (4, 87); PCI e questione cattolica
(6, 102ss); Dissenso cattolico (6, 106ss); Ameica Latina, indigeni (8, 169ss), Anno santo (10,
200ss); Comunità di base (10, 202); Abortoregolamentazione (10, 209ss); Comunione
e liberazione (12, 268ss); Rhodesia (14, 304s);
Amnesty International Italia (14, 308ss); Sinistra cattolica (14, 335s); Vietnam (16, 357ss);
Portogallo (16, 362); Laureati cattolici (20,
436ss); lega democratica e Movimento popolare (20, 438s); Comunione e liberazione
(Studio del mese 20, 470ss); FUCI (22, 507ss).
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Ho raccontato
i viaggi dei miei papi
Tieni gli occhi aperti
ma non t’imbambolare
In una redazione si fa di tutto ed eccomi a recensire le Settimane sociali dei cattolici francesi in crisi conclamata, il dialogo tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa
russa, i contrasti all’interno della comunità
cattolica del Vietnam. Il Programma per
combattere il razzismo del Consiglio ecumenico delle Chiese, Küng sotto processo
al Sant’Uffizio. Un rapporto di Gheddo a
Silvestrini sul Vietnam. Il Portogallo che
esce dalla dittatura e il Mozambico che
festeggia la fine della dominazione portoghese. La nascita della sezione italiana
di Amnesty international. Una carrellata
sugli articoli da me scritti per Il Regno
negli anni 1973-1975 mi era necessaria
per recuperare un’immagine concreta
degli argomenti di cui ebbi a occuparmi
allora. Il Regno mi spingeva, o io spingevo
Il Regno, a dare attenzione a ogni gruppuscolo ecclesiale. La scuola de Il Regno
è questa: tenere gli occhi aperti anche a
rischio di qualche imbambolamento. Ma
per fortuna la rivista mi spingeva anche a
guardare più ampiamente e ad andare al
largo. Una spinta che poi sarebbe continuata con le trasferte dei quotidiani. A La
Repubblica fui l’unico inviato di un giornale laico che seguì la Conferenza di Puebla
per le tre settimane in cui si svolse (26 gennaio – 14 febbraio 1979) e parlai con Romero e Câmara, con López Trujillo e con
Castrillón Hoyos. Per il Corriere della sera,
nel giugno del 1988 andai una settimana
a Mosca e a Zagorsk per le celebrazioni
del Millennio della Santa Rus’ e fui nella
sala del Cremlino dove Casaroli incontrò
Gorbaciov. È stata la veduta ampia de Il
Regno a prepararmi ai papi che sono venuti da lontano e a farmi sentire per tempo il vento dell’America Latina che ci ha
portato la primavera bergogliana.
“
io non
mi vergogno
del vangelo
“
con Piero Pratesi e con Ruggero Orfei,
che erano vicedirettore e direttore del settimanale. Ero stato in esso qualcosa come
il vice del vaticanista Sandro Magister. La
pubblicazione del Diario di Mazzolari da
parte delle EDB: avevo dato una mano ad
Aldo Bergamaschi nella sistemazione di
quelle carte e infine lo commentavo. Andai più volte a Roma per il convegno del
febbraio 1974, detto dei «mali di Roma»
e in quelle andate conobbi Luigi di Liegro, Luciano Tavazza, Giuseppe De Rita,
Clemente Riva. A Roma ci tornai per il
tribolato Anno santo 1975, la FUCI e i
laureati cattolici, tribolati anche loro, ma
miei orti di provenienza. Andavo ai convegni e li narravo giudiziosamente.
A Puebla c’erano anche p. Sorge e
p. Bergoglio, ma non si conoscevano. In
quell’occasione e in altre successive, il
buon Bartolomeo sentì giudizi severissimi su Bergoglio da parte dei confratelli
latino-americani. Di rumori simili mi ha
parlato ultimamente anche il centenario
Arturo Paoli, che fu in Argentina negli
anni Sessanta e Settanta: quel Bergoglio
provinciale dei gesuiti che frenò la politicizzazione dei confratelli si fece cattiva
stampa. Del resto, anche il Sorge di quegli anni era guardato come un reazionario
dai nostri cristianucci «per il socialismo».
Ho narrato per Il Regno l’ultimo viaggio di Paolo VI (a Pescara per il Congresso eucaristico del settembre 1977), quasi
tutti quelli di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, ed è sulla base di quei lavori
che sono nati i miei libri e libretti sui papi,
fino a quello appena uscito su Francesco
(Il vescovo di Roma. Gli esordi di papa
Francesco, EDB, Bologna 2014, pp. 160).
Il Regno ti provoca ad ampliare la veduta
tenendoti aggrappato ai fatti come il marinaio all’albero. Gli devo l’apprendimento di questo esercizio. Ma gli devo molto
di più. Credo di avere avuto da Il Regno
una fortuna che non ho meritato: di disporre di questo spazio mensile libero che
ha ormai 14 anni. La rubrica nacque nel
2000 da un libretto EDB intitolato Io non
mi vergogno del Vangelo, che ha avuto dieci ristampe e che aveva un taglio di narrazione della quotidianità. La direzione mi
chiese di continuare sulla rivista l’esplorazione di quel volumetto.
Questa rubrica è il luogo
dove sono più io
Questa rubrica è il luogo dove sono
più io. Solo il blog la pareggia in libertà,
ma il blog sottostà alla tirannia della quotidianità e allo strattonamento dei visitatori. Nonché alla superstizione della brevità.
Moltiplica gli stimoli, amplia i contatti,
ma a modo suo anch’esso ti porta dove
non vuoi, per la velocità del botta e risposta, per l’impensabile reazione di destinatari sconosciuti.
In queste due pagine invece sono sicuro di me, oltre che libero. Scelgo l’argomento. Se lo spazio non mi basta, ci torno
il mese dopo. Ho il tempo per scegliere gli
aggettivi, come dice il direttore Brunelli.
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WALTER KASPER
CHI CREDE NON TREMA 1
Il sì di Dio e l’agire cristiano
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La fede nella vita cristiana
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NON HO PERDUTO NESSUNO
Comunione, dialogo ecumenico, evangelizzazione
pp. 240 - € 20,00
EDB
L UIGI A CCATTOLI
Il vescovo
di Roma
Gli esordi di Papa Francesco
«FARE IL PUNTO»
pp. 160 - € 12,50
www.dehoniane.it
EDB