RASSEGNA STAMPA

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lunedì 10 novembre 2014
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Da il Salvagente del 6/13 novembre 2014, pag. 8
E se invece del bonus bebè si puntasse sul
welfare?
Di Francesca Chiavacci, presidente nazionale Arci
Il Bonus bebè di 80 euro per ogni nuovo nato, annunciato dal Governo, ha certamente un
pregio: riportare al centro del dibattito il tema degli investimenti per l'infanzia.
Perchè questi investimenti siano efficaci servono però provvedimenti mirati nell'utilizzo
delle risorse.
Le condizioni di vita dei bambini italiani sono caratterizzate da una povertà crescente, con
un fortissimo divario nel livello dei servizi erogati dalle diverse Regioni.
Come Arci e Arciragazzi (che lavora quotidianamente sui diritti dell'infanzia) denunciamo
quindi il fallimento di un sistema di welfare che non riesce ad offrire pari opportunità a tutti i
cittadini. I tagli degli ultimi anni, in particolare quelli alla spesa per l’Infanzia e
l’Adolescenza, hanno aggravato queste diseguaglianze.
In questo quadro, il provvedimento annunciato dal Governo rischia di incidere molto poco
sulla qualità di vita dei bambini e delle bambine.
Assegnare un bonus bebè della stessa entità a tutte le famiglie con reddito fino a 90.000
euro rischia di disperdere risorse essenziali che potrebbero invece essere indirizzate al
rilancio del sistema di welfare.
Arciragazzi , per esempio, propone di rifinanziare ai livelli precedenti al 2009 il Fondo per
l’Infanzia e l’Adolescenza (come pure quelli dedicati allo sviluppo delle politiche giovanili e
per la famiglia) attraverso l'introduzione di una tassa di scopo sul cosiddetto ‘cibo
spazzatura’. Si tratta di una proposta che mette al centro la promozione del benessere e
dei diritti di bambini e ragazzi e che indirizzerebbe le risorse in modo più selettivo.
I 500 milioni stanziati per il bonus bebé andrebbero quindi più utilmente finalizzati a
provvedimenti mirati, come il potenziamento degli asilo-nido, gli incentivi economici alle
famiglie in difficoltà e l'estensione dei servizi previsti dalla legge 285/97 a tutto il Paese
(attualmente riguarda solo le città metropolitane).
Solo così, rafforzando nel suo insieme il sistema di welfare, è possibile dare risposte
efficaci per la salvaguardia dei diritti dell’infanzia.
Da Corriere del Mezzogiorno del 10/11/14
Napoli mercoledì alle 20 e 30 il docu-recital
«Le cose belle», il film diventa concerto
Il cinema Modernissimo si fa music hall
Live Enzo Della Volpe, uno degli attori, con Loguercio, Rocco De Rosa,
Franco Ricciardi, Ivan Granatino e tanti altri
NAPOLI - «Le Cose belle» diventa concerto. Il premiatissimo film diretto da Agostino
Ferrente e Giovanni Piperno si fa «Cine-Concerto». Il mattatore è Enzo della Volpe, uno
degli attori (il «posteggiatore» che stornella Passione) della pellicola, accompagnato dagli
autori della colonna sonora del film e da tanti ospiti tra i quali Canio Loguercio e Rocco De
Rosa. Guest star Franco Ricciardi e Ivan Granatino. L’appuntamento è al Modernissimo
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mercoledì 12 novembre alle 20.30 (ingresso 10 euro, ridotto 8 euro studenti, anziani,
gruppi, tessera Mod), a cura di Pirata M.C., Parallelo 41 e Stella Film in collaborazione con
Arci Movie, Associazione Piano terra e Save the Children - “Progetto Crescere al Sud”.
Enzo della Volpe si esibirà in un’inedita versione del repertorio napoletano, classico e non.
Con Enzo due musicisti di Ponticelli, Marco Vidino al mandolino, curatore anche gli
arrangiamenti e Domenico De Luca alla chitarra a cui si aggiungerà il contrabbassista
Emanuele Ammendola.
Parterre ricco: al concerto parteciperanno il cantante e autore Canio Loguercio e il
compositore Rocco de Rosa (che hanno collaborato alla colonna sonora) che, tra l’altro,
eseguiranno alcuni brani del loro repertorio insieme all’organettista Alessandro
D’Alessandro. Introducono l’evento Luciano Stella, patron del Modernissimo, e Federico
Vacalebre che ha collaborato all’ allestimento del docu-recital musicale.
Nel film, in cui gli attori sono ‘veri’ e vere sono le storie narrate, Enzo è il bimbo che
accompagna il papà posteggiatore nei ristoranti, costretto poi, da grande, a rinunciare alla
musica e cercare lavoretti saltuari. Al Modernissimo Enzo omaggerà, in chiave molto
personale, il genere melodico partenopeo e in particolare i pezzi cult della «posteggia»,
oggi ancora tramandata oralmente da cantori di menestrelli e trovatori. La scaletta è però
elastica ed arriva a comprendere Caruso, Pino Daniele e pure gli Almamegretta (la cover
di Nun te scurda’).
«Questo un piccolo “happy ending”,una cosa bella… che abbiamo cercato di regalare ad
Enzo - spiega il regista Agostino Ferrente, che già aveva inventato “Il Cine-Concerto per il
suo “L’Orchestra di Piazza Vittorio” - per risarcirlo in parte di quello che la vita gli ha tolto,
cercando di salvare quel talento che il contesto sociale in cui è cresciuto non gli aveva
consentito di valorizzare con i dovuti studi».
http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/spettacoli/2014/10-novembre2014/cose-belle-film-diventa-concerto-230507312511.shtml
Da Repubblica.it del 10/11/14 (Napoli)
Torna al Modernissimo “Le cose belle”
Il cinema Modernissimo rinnova l'appuntamento con "Le cose belle", film dello scorso
giugno, proiettato per la prima volta proprio nel multisala di via Cisterna dell'Olio.
Mercoledì 12 alle 20.30 tornerà in sala la pellicola diretta da Agostino Ferrente e Giovanni
Piperno che, senza ricorrere a budget enormi o cast stellari, è riuscito a commuovere il
pubblico di tutta Italia e collezionato numerosi premi e consensi. I protagonisti delle storie
raccontate, infatti, sono quattro ragazzi napoletani e non attori professionisti: Adele, Enzo,
Fabio e Silvana, seguiti dai registi a partire dal 1999. Tredici anni di vita vera, dalle
fiduciose aspirazioni adolescenziali alle difficoltà dell'età adulta. Sullo sfondo una Napoli
problematica, che spegne le speranze e lascia ben poche chance. Per festeggiare i cinque
mesi di programmazione, dopo la proiezione, avrà luogo il concerto live di uno dei quattro
protagonisti del film, Enzo della Volpe, "l'ultimo posteggiatore". Fin da piccolo ha lavorato
con il padre in giro per ristoranti e locali. come maestro della cosiddetta "posteggia". Da
adolescente, per motivi economici, fu costretto a rinunciare agli studi musicali e a cercare
lavoro. Durante la serata, Enzo tornerà alla sua prima passione e omaggerà, in chiave
personale, la canzone napoletana. Il giovane artista sarà accompagnato dai suoi due
inseparabili musicisti, originari di Ponticelli e da, ospiti d'eccezione, Marco Vidino
(mandolino), Domenico De Luca (chitarra) e Emanuele Ammendola (contrabbasso).
Parteciperanno alla serata anche Canio Loguercio e Rocco De Rosa, autori di alcuni dei
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brani della colonna sonora, che si esibiranno con l'organettista Alessandro D'Alessandro.
E ancora: Franco Ricciardi e Ivan Granatino, creatori della hit presente nel film "A storia e
Maria". Il recital sarà introdotto dal critico musicale Federico Vacalebre e dal patron del
Modernissimo, Luciano Stella. "Le cose belle" è stato prodotto dagli stessi registi e da
Antonella Di Nocera per la napoletana Parallelo 41 produzioni.
L'appuntamento speciale è organizzato a cura di "Pirata M. C.", Parallelo 41 e Stella Film,
in collaborazione con Arci Movie, Associazione Piano terra e Save the Children - "Progetto
Crescere al Sud".
http://napoli.repubblica.it/cronaca/2014/11/09/foto/torna_al_modernissimo_le_cose_belle100162913/#1
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
Del 10/11/2014, pag. 23
Gli adempimenti. La legge 125/14 ha dettato un nuovo iter anche per gli
enti già riconosciuti idonei
Niente automatismi per qualificarsi Onlus
La nuova disciplina sulla cooperazione internazionale per lo sviluppo (legge n. 125/14)
mette a rischio la qualifica di Onlus delle organizzazioni non governative (Ong). Le 232
Ong ad oggi riconosciute idonee dal ministero degli Affari esteri erano finora considerate
anche Onlus di diritto in forza dell’esplicito riferimento alla vecchia norma (legge n.49/87);
ora la legge di 27 anni fa verrà definitivamente abrogata allo scadere del sesto mese
successivo all’emanazione del regolamento che farà nascere - almeno sulla carta l’Agenzia italiana per lo sviluppo internazionale. Il Parlamento, per evitare che nel
frattempo le Ong perdessero questo importante status di natura fiscale, aveva dapprima
previsto di iscrivere di diritto questi enti all’anagrafe delle Onlus, ma successivamente ha
virato verso una norma transitoria (art. 32, comma 7) che obbliga le Ong a presentare
un’istanza alla direzione regionale delle Entrate di competenza, al fine di ottenere
l’iscrizione all’Anagrafe delle Onlus.
Il termine di presentazione dell’istanza è il 25 febbraio 2015; se le Ong non presenteranno
l'istanza o se questa sarà respinta cadranno gli effetti della vecchia norma sulla
cooperazione internazionale e, in automatico, anche le agevolazioni riconosciute a queste
organizzazioni. Il conto rischia pertanto di essere molto salato. Grazie alla norma Onlus le
Ong, ad oggi, possono iscriversi al 5 per mille, far applicare alle persone fisiche e aziende
la deducibilità delle erogazioni liberali nei limiti del 10% del reddito dichiarato fino ad un
massimo di 70.000 euro, ottenere l'esenzione dall’imposta di bollo, la riduzione di quella di
registro, la riduzione o l’esenzione Irap (a seconda delle legislazioni regionali); hanno
diritto all’esenzione dall’imposta sulle successioni e donazioni, possono realizzare
manifestazioni di sorte locali (ad es. lotterie), ottenere i premi non richiesti né assegnati dai
partecipanti in occasione dei concorsi a premio organizzati da aziende. Tutte queste
agevolazioni, pertanto, rischiano di non essere più alla portata di quegli enti (già Ong) che
non inizieranno nei termini l’iter di iscrizione all’anagrafe delle Onlus o che se la vedranno
respinta dall’Amministrazione finanziaria.
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ESTERI
del 10/11/14, pag. 1/12
I catalani hanno risposto in massa alla consultazione “simbolica”
promossa dalla Generalitat. Esulta il leader nazionalista Artur Mas: “Un
successo pieno, ora abbiamo diritto a un referendum definitivo”
Due milioni al voto la prova di forza della
Catalogna per l’indipendenza
ALESSANDRO OPPES
BARCELLONA
SVILITA , decaffeinata, svuotata in parte del suo significato originale per l’azione
congiunta del governo di Madrid e del Tribunale costituzionale. Ma alla fine la giornata del
«dret a decidir», il diritto di scegliere, è arrivata. E poco importa che non abbia,
formalmente, nessun valore giuridico. I catalani hanno comunque risposto in massa, forse
persino oltre le attese dello stesso esecutivo della Generalitat e dell’intero fronte
separatista.
Più di due milioni, oltre il 40 per cento degli elettori — secondo i primi dati parziali —
hanno depositato nelle urne di cartone dei 6695 seggi allestiti in quasi tutti i comuni della
regione la scheda con la risposta alla doppia domanda: «Volete che la Catalogna sia uno
Stato?». E, «in caso affermativo, volete che sia uno Stato indipendente?». Solo oggi
conosceremo il risultato dello scrutinio, anche se tutto lascia pensare che il “Sì-Sì”
potrebbe superare ampiamente il 90 per cento, considerato che i partiti difensori dell’unità
di Spagna hanno invitato i loro simpatizzanti a restare a casa. Ma quello che contava
davvero ieri era il dato della partecipazione, per capire la reale consistenza del movimento
separatista, per sapere se il processo verso l’addio alla Spagna è un cammino senza
ritorno.
A mezzogiorno, quando il presidente Artur Mas si è presentato alla porta della Escola Pia
de Balmes, nel quartiere della buona borghesia dell’Eixample alto, ma a due passi dal
barri de Gracia, zona popolare roccaforte dell’indipendentismo, il clima era già di
entusiasmo alle stelle.
Ovazione prolungata, applausi sullo sfondo dello slogan «In-Inde-Independencia» per il
leader nazionalista che già un anno fa aveva promesso «schede e urne » per il 9
novembre 2014, e ha mantenuto la promessa, pur avendo dovuto sostituire l’impegnativo
termine «referendum» con un edulcorato «processo di partecipazione dei cittadini».
Ostacoli e trappole non sono mancati neppure nelle ultime ore, tanto alla vigilia come nel
corso della giornata del voto. Prima con gli attacchi informatici contro il sito web del
governo regionale e i virus nei telefoni cellulari dei dirigenti della Assemblea Nacional
Catalana e di Òmnium Cultural, i due movimenti che in questi anni hanno avuto un ruolo
centrale nella mobilitazione separatista. E poi con la richiesta della procura generale dello
Stato (direttamente dipendente dal governo) al Tribunale supremo catalano perché
valutasse se la cessione di locali pubblici per la consultazione non fosse costitutiva di
reato. Ieri, a seggi già aperti, sono arrivate una raffica di denunce, tanto dal partito
neonazista Plataforma per Catalunya, come dai nostalgici del franchismo della Falange,
ma anche da UPyD, la formazione anti-nazionalista guidata dall’ex dirigente socialista
Rosa Díez, durissima nel chiedere l’arresto del presidente per «disobbedienza e
prevaricazione » e lo «sgombero e chiusura dei centri di votazione» con un «uso
proporzionale della forza in caso di resistenza». Pretese alle quali la magistratura non ha
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dato ascolto. Anzi, a metà pomeriggio, quando mancavano poco più di tre ore alla
chiusura dei seggi, il Tribunale supremo catalano ha compiuto un passo definitivo per
allentare la tensione giudicando «sproporzionato » il ritiro delle urne installate e indicando
ai tribunali che hanno ricevuto le denunce di rifiutarsi di adottare questa misura.
In serata un Artur Mas raggiante ha dato il sigillo del trionfo sulla giornata: «È stato un
successo pieno. I due milioni di catalani andati alle urne hanno dato una lezione di
democrazia ». Ma già in mattinata il presidente aveva replicato alle polemiche con un tono
di sfida: «Se la procura vuole sapere chi è il responsabile dell’apertura delle scuole
pubbliche, solo deve guardare me. Eccomi, il responsabile sono io», ha detto risolvendo
l’ambiguità sul fatto che la gestione diretta delle operazioni di voto dovesse essere
attribuita al governo regionale o fosse stata delegata all’ultimo momento — per schivare
conseguenze penali — a movimenti della «società civile» attraverso l’esercito dei
quarantamila volontari impegnati nelle sezioni.
Da Madrid, la risposta della Moncloa è dura. Il premier Mariano Rajoy parla di «esercizio
antidemocratico e inutile» e accusa Mas di «complicare parecchio il futuro» con il suo
atteggiamento. Ma il presidente ora si sente più forte: «Ci siamo guadagnati il diritto a un
referendum definitivo». La prossima mossa tocca al governo centrale.
del 10/11/14, pag. 12
Lo «strappo» della Catalogna
Due milioni in coda, si profila un plebiscito indipendentista. Unionisti
pronti ai ricorsi Mas: «Un successo totale, ora vogliamo un vero
referendum». Il fastidio di Rajoy
DAL NOSTRO INVIATO BARCELLONA Inutile, illegale, una pagliacciata propagandistica,
uno spreco di denaro, un voto fai da te degno solo di Ikea. Ma anche un’allegria, un diritto,
meno di un referendum però più di un sondaggio, un passo in più verso l’indipendenza.
Hanno detto di tutto sul voto di ieri in Catalogna, ma il risultato è che voi, come milioni di
cittadini nel mondo, ne state leggendo. Il presidente spagnolo Mariano Rajoy aveva
assicurato un anno fa che il referendum non si sarebbe tenuto e invece ieri le code ai
seggi di Barcellona calpestavano i veti di Madrid lasciando Rajoy politicamente ferito.
Certo non è stato un vero referendum, le schede infilate nelle urne sono decaffeinate,
senza forza legale, ma i catalani si sono messi in coda a centinaia di migliaia e hanno
testimoniato il proprio dissenso dalla condotta del governo centrale.
Ieri sera, con il 90% delle schede scrutinate, il Govern catalano anticipava che avevano
votato 2 milioni e 250 mila persone, oltre il 35% degli aventi diritto, ma considerando le
affluenze medie abbastanza per cantare vittoria anche perché i «sì» sarebbero stati
l’80,7%. I conti sull’affluenza sono inverificabili perché elaborati nell’esecutivo regionale e
forniti da 40 mila volontari che hanno fatto da scrutinatori. Tutti indipendentisti e
«controllati» da osservatori internazionali a loro volta separatisti nei loro Paesi. Gli stessi
dubbi si potranno coltivare stamane quando verranno diffusi i risultati.
Nonostante ogni maligno sospetto, però, la giornata catalana è stata un esempio di
mobilitazione civica. Un po’ di silicone spalmato nella serratura di una scuola e cinque
ragazzotti «spagnolisti» che hanno preso a calci un’urna, non hanno intaccato la calma dei
separatisti. Le file ai seggi (illegali per Madrid) parlano di tanti, tantissimi cittadini convinti
che il resto della Spagna sottragga risorse alla Catalogna per sovvenzionare le regioni
povere del Sud, che Madrid neghi le infrastrutture necessarie ad affrontare la sfida della
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globalizzazione e imponga il suo modello sociale a una nazione, la catalana, orgogliosa
della propria lingua, cultura e originalità politica.
La risposta unionista è affidata alle carte bollate. L’UPyD, partito centralista, ha chiesto il
sequestro delle urne, la chiusura dei seggi e l’incriminazione del governo regionale per
malversazione e disobbedienza. Il magistrato di turno non ha riscontrato né l’urgenza né
l’opportunità di ordine pubblico per fermare il voto. Indagherà invece sulle responsabilità
dei politici.
Non è l’unico scricchiolio nella coesione istituzionale. L’esecutivo Rajoy aveva domandato
ai Mossos d’Esquadra, la polizia locale, i nomi dei presidi che mettevano le scuole a
disposizione della «consulta» vietata. Gli agenti hanno disobbedito, limitandosi a stilare
l’elenco degli edifici senza identificare nessuno.
Mano a mano che passavano le ore e si allontanava la possibilità di un intervento
clamoroso di Madrid, il President catalano Artur Mas alzava il tono della sfida. «Se
cercano un responsabile, eccomi, sono io e il mio governo. È stato un successo totale.
Oggi abbiamo guadagnato il diritto ad un referendum definitivo, come in un Paese civile».
Il Partito popolare di Rajoy rispondeva a muso duro con l’eurodeputato Esteban González
Pons: «Fino a che governeremo noi, nessuno spagnolo sarà obbligato ad andarsene dalla
Catalogna». Non un buon clima per riaprire il dialogo.
A. Ni.
del 10/11/14, pag. 14
Obama: “Ora via a una nuova fase contro l’Is
passiamo all’offensiva” L’Iraq: “Al Baghdadi
è stato ferito”
L’annuncio del presidente che adesso ha un Congresso più propenso
alla linea dura Washington non dà conferme sul Califfo. Testimoni
iracheni: “Ucciso uno dei suoi vice”
FEDERICO RAMPINI
DAL NOSTRO INVIATO
PECHINO .
L’invio di altri 1.500 soldati americani segna «l’avvio di una nuova fase nella lotta contro lo
Stato islamico». Lo annuncia Barack Obama in un’intervista alla Cbs, andata in onda
mentre il presidente è in volo per Pechino dove da oggi partecipa al vertice Apec (AsiaPacifico). Mentre il ministero della Difesa iracheno annuncia che è stato ferito il leader dei
jihadisti Abu Bakr al Baghdadi (notizia non confermata fino a ieri sera da Washington), il
presidente Usa spiega l’escalation dell’offensiva per ricacciare indietro le milizie dell’Is.
«La prima fase puntava ad avere un governo inclusivo e credibile in Iraq, e ci siamo
riusciti», dice Obama, riferendosi alla necessità che sunniti, sciiti e curdi facciano fronte
comune contro la minaccia jihadista. «Adesso non ci accontentiamo di fermare l’avanzata
dello Stato islamico, siamo in condizioni di all’offensiva», aggiunge il presidente,
sottolineando che lo sforzo militare sul terreno spetta all’esercito regolare iracheno. La
nuova fase, dunque, non significa riportare “scarponi americani sul fronte”, anche se il
presidente non ha escluso di poter in futuro autorizzare l’invio di altri soldati. Gli attuali
1.500 rinforzi ufficialmente sono in funzione di adde- stramento delle truppe locali: «Intanto
daremo tutto il sostegno aereo che sarà necessario una volta che l’esercito iracheno è
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pronto a scatenare la controffensiva. Ma non manderemo a combattere i nostri soldati».
L’efficacia dei raid aerei Usa sarebbe in aumento, tuttavia, se è vero che proprio in uno di
questi bombardamenti è stato ferito al Baghdadi.
Lo scenario che illustra Obama è ottimistico, se lo si confronta con i rapporti di forze sul
campo fino a pochi mesi fa. Nella prima fase dell’avanzata dello Stato islamico, l’esercito
iracheno era andato incontro a una débâcle. Molte sue divisioni si erano smembrate,
ritirandosi in disordine o rifiutando di combattere. Ai primi di agosto, due mesi dopo la
sorprendente avanzata dell’Is in Iraq, Obama aveva annunciato l'avvio di raid aerei contro
i jihadisti. Alla fine di settembre, i bombardamenti della coalizione si erano estesi anche
alla Siria. Negli Stati Uniti molti avevano accusato la Casa Bianca e il Pentagono di avere
capito in ritardo la pericolosità delle nuove forze jihadiste, la minaccia diretta contro
l’America e l’Occidente. Un brutale risveglio era arrivato al momento delle esecuzioni di
alcuni giornalisti riprese in video.
La decisione di Obama di aprire una “nuova fase” è anche una concessione ai nuovi
rapporti di forze al Congresso di Washington. Dopassare po la vittoria repubblicana alle
elezioni di midterm martedì scorso, la destra avrà la maggioranza anche al Senato. John
McCain, il senatore repubblicano che fu l’avversario di Obama nell presidenziali del 2008,
dovrebbe tornare a presiedere la commissione Difesa al Senato, riacquistando
un’influenza di primo piano. McCain è da sempre un falco in politica estera. McCain
sarebbe favorevole anche all’invio di truppe terrestri americane, una posizione che non
tutti i repubblicani condividono. Con l’ulteriore invio di 1.500 soldati, il contingente di
“consiglieri” americani sale a 3.100. Pur contenuto, è comunque un’inversione di rotta per
il presidente che si era posto come obiettivo il ritiro dalle due guerre ereditate da George
Bush, Iraq e Afghanistan.
Al-Baghdadi, il quarantenne iracheno che ha preso la guida dello Stato Islamico dal 2010
con l’obiettivo di costruire un Grande Califfato in Medio Oriente, ha sulla sua testa una
taglia da 10 milioni di dollari offerta dagli Stati Uniti per chi ne favorirà l’uccisione o la
cattura. Venerdì sera il Pentagono aveva lanciato nuovi raid aerei per colpire un raduno di
leader jihadisti vicino alla città di Mosul nell’Iraq settentrionale. Altri bombardamenti
avevano colpito al-Qaim, tra Iraq e Siria nella regione occidentale di Anbar: testimoni
raccontano che gli uomini dell’Is avrebbero fatto evacuare l’ospedale locale per portare i
loro feriti, chiedendo sangue alla popolazione. Le stesse fonti danno per «grave » il Califfo.
Patrick Ryder, il portavoce del Centcom (US Central Command) che dirige le operazioni in
Medio Oriente, pur non confermando fino a ieri sera il ferimento di al-Baghdadi, ha detto
che i raid «sono la prova della pressione che continuiamo ad esercitare su quella rete di
terroristi». L’obiettivo che i raid aerei continuano a perseguire, secondo Ryder, è «di
limitare sempre più la loro capacità di manovra, di comunicazione e di comando». Fonti
irachene indicano che raid americani avrebbero ucciso Abu Suja, «uno dei più stretti
collaboratori di al- Baghdadi».
del 10/11/14, pag. 15
“Armi pesanti dai russi per i separatisti
dell’Est” l’allarme di Usa e Ue
NEW YORK .
Il governo americano è «molto preoccupato» per il riaccendersi dei combattimenti nella
zona di Donetsk, nell’est Ucraina, con i ribelli filorussi che continuano a ricevere rinforzi e
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nuovi armamenti da Mosca. Anche Federica Mogherini, responsabile della politica estera
dell’Unione europea, ha definito «uno sviluppo estremamente preoccupante» le notizie
dell’arrivo di rinforzi nelle regioni orientali ucraine di Donetsk e Lugansk.
L’Associated Press ha segnalato veicoli militari in movimento nei giorni scorsi vicino a
Donetsk e più a est. Molti, che erano senza insegne, trasportavano artiglieria. Secondo le
autorità ucraine, una colonna di mezzi militari e armi pesanti è entrata nel Paese dalla
Russia attraverso un tratto di frontiera sotto il controllo dei filorussi. Mosca smentisce, ma
anche gli osservatori dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa
hanno segnalato colonne di blindati e veicoli per il trasporto truppe senza insegne di
riconoscimento, in movimento verso l’interno del territorio controllato dal separatisti. Sia
l’ex segretario di Stato Usa Henry Kissinger che l’ex leader sovietico Mikhail Gorbaciov, in
due diverse interviste, hanno lanciato l’allarme per il rischio di una nuova Guerra fredda.
A Donetsk i colpi di artiglieria si sono sentiti nella notte di sabato e ieri mattina, poco dopo
l’alba. Quattro edifici sono stati distrutti, non ci sono informazioni su eventuali vittime. Da
quando l’accordo di cessate il fuoco è stato raggiunto il 5 settembre, la tregua è stata
violata quasi quotidianamente.
del 10/11/14, pag. 14
Obama vola in Asia Missione per evitare
l’abbraccio Putin-Xi
DAL NOSTRO INVIATO PECHINO Barack Obama accolto coi fuochi d’artificio — si
annuncia un trionfo pirotecnico — per la sua prima visita in Cina dal 2009 e la
partecipazione all’Apec, il summit dei Paesi del Pacifico che, insieme, fanno più della metà
del Pil mondiale e il 40% della popolazione del Pianeta: un vertice organizzato quest’anno
da Pechino che ha trasformato l’evento in una celebrazione della sua potenza economica.
Per il presidente americano una preziosa occasione per riaprire l’agenda di politica estera
— e sulla pagina che gli sta più a cuore, quella del «ribilanciamento» degli Usa, decisi a
rafforzare il loro ruolo in Estremo Oriente e nel Sud-Est Asiatico — accantonando per
qualche giorno le amarezze della sconfitta elettorale. Ma Obama ha davanti a sé un
percorso arduo, pieno di insidie. Nella sede multilaterale il presidente spera di poter
portare avanti il Tpp, il negoziato per un’alleanza di libero scambio coi Paesi asiatici alleati
che esclude la Cina: tre anni di trattative ma traguardo ancora lontano soprattutto perché il
Congresso di Washington non ha dato alla Casa Bianca i poteri necessari per siglare un
patto vincolante.
La vittoria parlamentare dei repubblicani, più aperti al «free trade» dei democratici,
potrebbe sbloccare la situazione, ma intanto la Cina fa le sue contromosse organizzando
alleanze alternative, fondando a Pechino una banca per il finanziamento delle grandi
infrastrutture in Asia e cementando con un accordo di forniture energetiche da 400 miliardi
di dollari la nuova intesa tra due presidenti — Xi Jinping e Vladimir Putin — che mostrano
di capirsi molto bene: hanno tutti e due una cultura politica che si è formata in un ambito
militare — tra tensioni con l’Occidente per le loro pretese territoriali, dispute sui diritti civili
e progetti d’investimento condivisi — hanno scoperto di avere molti interessi comuni.
Obama schiacciato tra il dragone cinese e l’orso russo? E’ un rischio: Putin, sotto
pressione per l’aggressione all’Ucraina, è sempre tentato di reagire con sfrontatezza.
Quando ha un palcoscenico internazionale, ostenta ostilità e sarcasmo verso gli Usa. Ma
la vera partita politica stavolta Obama se la gioca con Xi che, da buon padrone di casa, lo
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accoglierà con cortesia, ostentando spirito di collaborazione. Ma, dietro la cortina del
garbo diplomatico, il confronto sarà duro: dal loro ultimo incontro, un anno e mezzo fa in
California, il presidente Usa si è molto indebolito, mentre Xi, allora appena insediato, ha
conquistato un potere quasi assoluto a Pechino usando una retorica populista e
cavalcando il nazionalismo.
Nonostante gli enormi interessi economici comuni (562 miliardi di dollari di scambi
commerciali) nell’ultimo anno le relazioni Usa-Cina si sono molto deteriorate: il divieto di
volo sulle isole giapponesi rivendicate dalla Cina decretato unilateralmente da Pechino e
subito violato dai B-52, i pescherecci sequestrati, una piattaforma petrolifera cinese
spuntata davanti alle coste del Vietnam, ma anche una moltiplicazione degli episodi di
cyberspionaggio. Una situazione pericolosa che, però, tutti e due i leader hanno interesse
a non far degenerare: la Casa Bianca ha preparato con cura questa visita (missioni a
Pechino di Kerry, Susan Rice e Podesta perché sono possibili progressi importanti sui
temi ambientali) al termine della quale i cinesi decideranno se negoziare ancora con
questo presidente o aspettare il suo successore.
Obama non rinuncia a rafforzare la presenza militare lungo la costa orientale del Pacifico
(in Australia pronuncerà un discorso sul ruolo dell’America in questa parte del mondo) ma
vuole evitare che le frizioni inevitabili tra la superpotenza e una potenza emergente sfocino
in una nuova «guerra fredda». Questo è anche l’obiettivo di Xi e alcuni segnali recenti —
meno retorica antigiapponese a Pechino, Obama prudente sulla rivolta a Hong Kong —
sembrano indicare una volontà di disinnescare, o contenere, le tensioni.
Massimo Gaggi
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INTERNI
del 10/11/14, pag. 5
Renzi esclude il voto anticipato «Alla fine il
Cavaliere dirà di sì»
Il messaggio di Palazzo Chigi: avanti con urgenza, ma l’orizzonte è
quello del 2018
ROMA «Vedrete che alla fine Berlusconi dirà di sì». Matteo Renzi non appare spiazzato
da uno scenario che già conosceva, l’uscita di scena di Napolitano a fine anno. Resta
convinto che sia questione di ore, o di giorni, ma alla fine si riuscirà ad incardinare la legge
elettorale al Senato in modo da avere un voto prima della fine dell’anno.
Se in Forza Italia leggono le cose in modo diverso, convinti che il premier non ha più la
minaccia delle elezioni anticipate visto che il Parlamento dovrà occuparsi da gennaio
dell’elezione del nuovo capo dello Stato, a Palazzo Chigi tengono ferma la linea degli
ultimi giorni: martedì prossimo si comincia in prima commissione a Palazzo Madama, il
capo del governo dice agli alleati che alla fine il Cavaliere sarà della partita, e che riuscirà
persino a trovare una sintesi fra il Nuovo centrodestra di Alfano e le richieste di Forza
Italia. «Noi andiamo avanti con le riforme, con urgenza e determinazione sapendo che
l’orizzonte del governo è quello dei mille giorni, del 2018», ha fatto sapere ieri pomeriggio
il premier, sottolineando il ruolo di presidio e garanzia di Napolitano e smentendo di
puntare ad elezioni anticipate, o di voler strappare un’accelerazione al Cavaliere per
questo motivo. Lasciando poi al sottosegretario Delrio la definizione più completa della sua
posizione: «Il Matteo Renzi che conosco io vuole governare il Paese e aiutarlo ad uscire
da problemi gravissimi, non vuole andare a votare, finché il Parlamento ci darà la fiducia e
avremo i numeri per farlo staremo fortemente attaccati non alle nostre poltrone ma ai
bisogni del Paese».
Contatti diretti con Berlusconi non ce ne sono stati, almeno sino ad ieri all’ora di cena.
Renzi voleva una telefonata che arrivasse prima di oggi. È probabile che l’ex premier
abbia deciso di non muovere un dito anche per ragioni di orgoglio: se poi il patto del
Nazareno sia ancora in piedi, da registrare con nuovi incontri o sia prossimo allo
scioglimento, saranno i prossimi giorni a dirlo, quando inizierà la discussione sulla nuova
legge elettorale in Senato. Intanto stasera si terrà il vertice di maggioranza con il partito di
Alfano.
La nota di ieri del Colle è stata accolta positivamente: il premier conosceva la decisione
della prima carica dello Stato, è soddisfatto che sia stata fatta chiarezza e che si siano in
qualche modo fermate, attraverso le precisazioni di Napolitano, illazioni e suggestioni. Che
al momento, si affrettano a rimarcare nel governo, non entrano e non incrociano il
percorso delle riforme. E se Berlusconi sostiene il contrario, intravede un Renzi indebolito,
a Palazzo Chigi non legano le cose.
Del resto il capo del governo è convinto che non ci siano alternative ad un calendario che
preveda un nuovo voto sulla legge elettorale entro la fine dell’anno, si mostra sicuro di
riuscire ad andare avanti, se sarà il caso, «anche senza Forza Italia». Resta l’obiettivo di
un Jobs act rivendicato come «di sinistra», che sia vigente «dal primo gennaio», mentre
l’apposizione della fiducia parlamentare arriverà «solo se necessario». E non allarma
nemmeno lo scontro che non scema con la Cgil, «opposizione a prescindere», la chiama il
premier.
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Una confidenza complessiva che ha riflessi anche sull’agenda internazionale: prima di
partecipare al G20 di Brisbane, in Australia, nel fine settimana, Renzi farà una tappa a
Bucarest, per dare una mano al collega socialista Victor Ponta e rafforzare il fronte
europeo anti austerity. Per la stessa ragione ha accettato l’invito di partecipare al
congresso del Ps portoghese, su invito del nuovo leader, António Costa.
Marco Galluzzo
del 10/11/14, pag. 1/6
Responsabilità civile, toghe in guerra
“Sciopero se si lede indipendenza”
LIANA MILELLA
ROMA .
Non scioperano sul taglio delle ferie «perché sarebbe un autogol, la gente non capirebbe e
sarebbe contro di noi». Ma sulla riforma della responsabilità civile non esitano. Se il testo
resta quello del governo o peggiora, sarà sciopero perché, come dicono tanti dei 400
magistrati che si ritrovano nell’aula magna del palazzaccio, «è una misura che lede la
nostra autonomia e indipendenza». La maggioranza (1.718 voti per via delle deleghe)
batte la minoranza (230). Nel primo gruppo c’è la sinistra (Area), il centro (Unicost), ma
pure una parte della destra (Mi). Nel secondo i movimentisti di Proposta B e, ironia del
caso, il gruppo dei “ferriani” di Mi, quelli che per anni hanno avuto come riferimento il
sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri, quando era il loro più votato segretario.
Sciopero bianco subito perché «il taglio delle ferie senza contraddittorio è un vulnus»
(Antonio Racanelli, Mi).
Il nome di Renzi non risuona mai. Semmai si parla di governo. Ma sono per lui gli strali più
duri, «dibattito pubblico superficiale, intriso di propaganda, di pregiudizi, di luoghi comuni,
accuse infondate e ingiuriose d’inefficienza e irresponsabilità». Poi gli «slogan
propagandistici», tipo «chi sbaglia paghi» di renziana memoria. «Manteniamo la schiena
diritta con l’orgoglio d’essere magistrati» dice il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli
quando apre l’assemblea. Seguono più di 30 interventi. Non si sottrae Henry John
Woodcock, il pm di inchieste famose che sembra spiazzare i colleghi. «Le ferie? Un falso
problema. Sono favorevole a ridurle purché facciano una riforma globale con
autoriciclaggio, falso in bilancio e prescrizione». Bacchetta sulla responsabilità: «Nessun
magistrato dovrà mai rispondere per il solo fatto d’aver svolto indagini, come nessun
indagato potrà strumentalmente creare presupposti affinché il processo finisca ad altro
giudice». Questa è la paura. Che il Guardasigilli Andrea Orlando tenta di esorcizzare
perché «non è un attacco all’indipendenza dei magistrati bensì un intervento a tutela dei
cittadini». Più duro il vice ministro Enrico Costa per cui «lo sciopero sarebbe stato uno
strappo difficile da ricucire».
Ma le certezze delle toghe sono altre. L’ex segretario dell’Anm Giuseppe Cascini, pm a
Roma: «È sbagliato dire che l’unico problema della giustizia sono i magistrati. Non bisogna
cadere nelle provocazioni, stipendi ridotti, età pensionabile tagliata, ferie accorciate, ma
tenere i nervi saldi». Giovanni Diotallevi, Cassazione: «Il magistrato, anche se fa il suo
lavoro, scontenta sempre qualcuno. Lo sciopero? Ce lo teniamo se toccano la
responsabilità». Fabrizio Vanorioo, pm a Napoli: «Abbiamo vissuto una stagione difficile di
attacchi all’assetto costituzionale della magistratura, ma la gente scendeva in piazza al
nostro fianco. Ci offende non il taglio delle ferie ma il modo in cui veniamo dipinti». Ezia
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Maccora, gip a Bergamo: «A Orlando farei una domanda: perché Grasso ha presentato un
ddl che non ha camminato? Dove sono i ddl del governo? Passa il decreto sul civile che
toglierà solo il 3% dell’arretrato. L’Anm deve incalzare il doverno con domande puntuali ».
Mario Fresa, Cassazione: «Ci sono processi sulla P3 e P4, ma già lavorano P5 e P6. La
nuova responsabilità porterà a un conformismo diffuso. Le riforme sono demagogiche,
populiste, ingannatrici. Si cancellino la Cirielli e le altre leggi ad personam». Carlo Fucci:
«Questa mi sembra la storia del film “Le parole che non ti ho detto”. Allora diciamo subito
“sciopero”».
del 10/11/14, pag. 1/21
La scelta del Colle e quella partita a tre
PIERO IGNAZI
UN PRESIDENTE condiviso: questo l’auspicio che tutti si fanno quando si incomincia a
parlare di Quirinale. Però, sarà difficile che qualcuno possa raccogliere un consenso così
ampio come quello di cui ha goduto l’anno scorso Giorgio Napolitano. La sua rielezione
avvenne infatti in condizioni eccezionali.
CONDIZIONI dovute al collasso politico del Pd dopo il naufragio della candidatura di
Romano Prodi. Cosa è cambiato nel frattempo? I numeri sono quasi gli stessi di allora: la
composizione politica dei grandi elettori, fatta salva la scissione del Ncd, lo spappolamento
di Scelta Civica e le espulsioni del M5s, grosso modo riflette quella uscita dalle urne nel
2013. Semmai si à rafforzato numericamente il Pd che ha conquistato quattro regioni (che
nominano tre grandi elettori ciascuna) e ha attratto alcuni fuoriusciti dalle formazioni
minori. Molto diverso è invece il “quadro politico”, vale a dire i rapporti di forza politici tra le
formazioni in campo. Il Pd non è nemmeno paragonabile a quel partito frastornato e
afasico del post-elezioni: il dinamismo del nuovo segretario, riportato nell’attività di
governo, e il successo “scioccante” alle elezioni europee, fanno del Pd il perno di ogni
decisione in merito. Mentre allora Bersani si fece irretire da un Berlusconi ringalluzzito dal
quasi successo della sua coalizione in una inutile ed umiliante trattativa e non riuscì ad
imbastire un rapporto con un M5s in pieno delirio di onnipotenza per il suo trionfo
elettorale, oggi Renzi ha tutte le carte in mano (al netto delle divisioni interne) per gestire
la successione a Napolitano .
Forza Italia è all’angolo. Non è tanto la condanna di Berlusconi, che continua a fare
tranquillamente attività politica come se niente fosse (tanto in Parlamento non ci andava
mai), ad averla resa praticamente irrilevante: Forza Italia ha perso capacità di iniziativa
politica perché indebolita dalla scissione di Alfano al punto da diventare ininfluente per la
sopravvivenza del governo, e divisa al proprio interno tra chi vede negli accordi con Renzi
una trappola mortale e chi, come il Cavaliere, li considera vitali per sopravvivere
politicamente (e forse anche economicamente). Soprattutto, Berlusconi non controlla più il
proprio partito, come hanno dimostrato le votazioni per il Csm e la Consulta. L’incrinarsi
della sua leadership in Forza Italia la rende un soggetto inaffidabile per accordi leonini
sull’elezione del prossimo presidente della Repubblica. In queste condizioni il segretario
del Pd non può essere sicuro di quanto gli potrebbe garantire e promettere il Cavaliere. E
proprio per rimediare in qualche modo a questa sua debolezza Fi smetterà di fare le bizze
sulla riforma elettorale.
Se Renzi può gestire agevolmente la pratica Berlusconi, il rapporto con il M5s necessita
invece di maggior attenzione. Qui il problema non riguarda certo la carenza di leadership
di Grillo o la fedeltà dei parlamentari cinquestelle. Una volta partito l’ordine da Genova,
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l’ubbidienza è considerata ancora una virtù tra i grillini. Ma cosa ha in mente Grillo? Non si
è capito bene se abbia condiviso o mal digerito l’accordo siglato con il Pd per le nomine
dei membri della Corte Costituzionale e del Csm. A seguire le sue ultime uscite Grillo
sembra ancorato ad una contrapposizione frontale nei confronti del sistema e in primis con
il premier. Per lui ogni contatto con le forze politiche tradizionali, a incominciare dal Pd,
corrompe e perverte il movimento dalla sua purezza originaria. Lo stop intimato a Di Maio
l’estate scorsa quando aveva avviato un confronto con il partito democratico sulla riforma
elettorale rifletteva questa impostazione. Ora però i parlamentari si sono riproposti come
un gruppo responsabile, disposto a siglare accordi purché alla luce del sole . Una
condizione veramente minima, che sottende piuttosto il desiderio di contare; o, altrimenti
detto, il desiderio di mettere in pratica il mandato elettorale sbandierato tante volte, e cioè
quello di far sentire e pesare la voce dei cittadini in Parlamento. Forse i grillini si
muoveranno ancora come un sol uomo seguendo le indicazioni di Grillo, ma è certo che
questa volta vogliono esserci, entrare in gioco. A questo punto le elezioni per il Quirinale
possono diventare un momento di ridefinizione del sistema partitico, con un Pd al centro,
master and commander delle relazioni con gli altri gruppi, attratti o coinvolti dalla sua forza
magnetica. A Forza Italia e M5s, in particolare, non rimane che adeguarsi o restare isolati
ad abbaiare alla luna; due scelte perdenti, a meno che non mettano sul tavolo una wild
card, una proposta in grado di spiazzare il partito democratico.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 10/11/14, pag. 13
Immigrati, teste rasate e la tentazione Le Pen
Così sprofonda Calais
Nella Lampedusa francese rabbia e condizioni disumane
Aline Arlettaz
Calais è una città del Nord della Francia, sulla Manica. Proprio davanti all’Inghilterra, che
si può raggiungere dal mare o, ancora più rapidamente, attraverso il tunnel. Oltre duemila
immigrati clandestini si trovano lì in questo momento, pronti a tutto per raggiungere il loro
Eldorado. Spesso a rischio della loro stessa vita. Come quelli che ogni giorno si
nascondono all’interno dei camion e trattengono il più possibile il respiro, infilando la testa
in un sacchetto di plastica, così che i poliziotti francesi addetti a controlli sistematici, non
possano rilevare la CO2 del loro respiro, un modo per capire se nei Tir si nascondano
clandestini. Si stima che una trentina di loro, ogni notte, riescano a raggiungere
l’Inghilterra.
A Sangatte, vicino a Calais, esisteva un centro per questi sans-papier. La sua chiusura nel
2002, per decisione di Nicolas Sarkozy, non ha fatto altro che spostare il problema dei
migranti. Da qualche mese il loro numero si è moltiplicato. Prima si trattava soprattutto di
ragazzi e giovani tra i 16 e i 35 anni. Un anno più tardi si è registrato un afflusso di donne,
spesso con i loro bambini. La composizione di questa popolazione cambia a seconda dei
conflitti in corso nel mondo. Adesso ci sono siriani, eritrei, etiopi, sudanesi ed egiziani.
Trovano rifugio in baracche e campi insalubri, tra le diverse comunità scoppiano delle risse
e gli abitanti sono esasperati. Il Comune, la polizia e le associazioni sono disarmati. Il
sindaco di Calais, Natacha Bouchart, dell’Ump (centrodestra), dice di comprendere la
rivolta dei cittadini che ogni giorno sopportano i vagabondaggi di questi stranieri. Sa molto
bene chi si avvantaggia di questa situazione: il Fronte Nazionale. Quindici giorni fa, Marine
Le Pen si è fatta vedere a Calais. Come aveva fatto nel marzo 2011 a Lampedusa, dove
era andata incontro ai migranti. All’epoca aveva dichiarato: «Io, se ascoltassi solo il mio
cuore, certo vi offrirei di salire sulla mia barca, solo che la mia barca è troppo fragile e se
vi prendo a bordo colerà a picco e noi annegheremo insieme... L’Europa non è più in
grado di accogliere tutti questi clandestini ». A Calais, ha denunciato l’immigrazione
clandestina.
La signora sindaco dunque deve prendere urgentemente provvedimenti. In primo luogo,
trovare un luogo aperto di giorno dove i migranti possano farsi una doccia in condizioni
decenti. Perché ormai si tratta di un problema sanitario. David Lacour, direttore di un
centro d’accoglienza per donne e bambini a Calais, spiega che da un mese e mezzo le
docce della struttura non funzionano più e che c’è solo una doccia mobile. È catastrofico,
aggiunge, pensare che il Paese dei diritti umani lasci incancrenire così una situazione. Allo
stato delle cose questi immigrati si lavano usando le manichette d’acqua dei pompieri o
approfittano delle toilette dei bar. Ma da qualche giorno, ci sono dei baristi che rifiutano
l’accesso ai loro locali. Invocando l’igiene o per paura delle risse o anche, spiegano, per
via dell’eccessivo consumo di alcol. Ed ecco che s’immischiano dei gruppuscoli d’estrema
destra. Il 7 settembre scorso la prefettura ha autorizzato una manifestazione
dell’associazione «Salviamo Calais». Davanti al municipio, una formazione, peraltro
ufficialmente sciolta dal ministero dell’Interno, ne ha approfittato per tenere un incontro. E
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che incontro! Il suo leader, Yvan Benedetti, ha incitato la popolazione di Calais, tra cui si
trovavano dei giovani tatuati con simboli delle SS, ad attaccare i migranti. E ci sono stati
degli incitamenti all’odio.
Come uscire da una simile situazione? La settimana scorsa il sindaco di Calais è andata a
Londra per allertare i parlamentari britannici e chiedere aiuto. L’accoglienza è stata
piuttosto glaciale. Gli onorevoli le hanno detto che stava a lei, in quanto sindaco, risolvere
il problema e spetta alla Francia controllare le frontiere. Mercoledì, il ministro dell’Interno
francese, socialista, che sollecitava anche lui la collaborazione della polizia inglese, ha
ricevuto un cortese ma fermo rifiuto dal suo omologo britannico. Lo stallo è totale. In effetti,
a Calais come a Lampedusa, occorrerebbe una politica dell’immigrazione europea. Che al
momento non esiste. Intanto gli immigrati continuano ad arrivare. Sempre con il sogno di
attraversare la Manica.
[traduzione di Carla Reschia]
Del 10/11/2014, pag. 19
Crisi e immigrazione. Secondo l’analisi di Fondazione Moressa lavorano
soprattutto in piccole aziende e sono più propensi ad accettare orari
scomodi
Raddoppiano gli stranieri a termine
Il tasso di occupazione supera quello degli italiani ma dal 2007 ha
subìto un arretramento maggiore
Hanno un tasso di occupazione superiore rispetto agli autoctoni, ma frequentemente
svolgono attività disagevoli, e sono pronti ad accettare orari “asociali”. Inoltre, nonostante
siano disposti ad accettare una retribuzione sotto la media, si dichiarano poco propensi a
spostarsi in altre città o ad abbandonare l’Italia per trovare un impiego.
E, comunque, anche gli stranieri in Italia - contrariamente a quel che si tende a credere risentono di un generale peggioramento del quadro generale rispetto a sette anni fa, prima
dell’inizio della grande crisi. A grandi linee è questa la fotografia che emerge dalla ricerca
realizzata dalla Fondazione Leone Moressa su «Come è cambiato il lavoro negli anni della
crisi» che, sulla base dei dati Istat, ha messo a confronto la situazione lavorativa attuale
degli stranieri e degli italiani nel 2013, rapportandola anche ai dati relativi al 2007, ultimo
anno positivo prima dell’ingresso nel tunnel della crisi. «La crisi ha inciso profondamente
sugli indici occupazionali dei lavoratori nel nostro Paese - osserva Stefano Solari, direttore
scientifico della Fondazione Leone Moressa -. A rimetterci maggiormente sono stati gli
immigrati, in quanto prevalentemente occupati nei settori più esposti alla crisi. Tra gli effetti
di questa difficoltà troviamo la crescita dei contratti a tempo determinato e l’aumento della
disoccupazione di lunga durata. Tuttavia, i cittadini stranieri dimostrano una adattabilità
maggiore rispetto agli italiani, come conferma la disponibilità a lavorare negli orari più
scomodi». Gli indicatori ci dicono prima di tutto che il tasso di occupazione degli immigrati
è molto più alto rispetto a quello degli italiani (57,1 contro 41,8%). Questo fatto però si
spiega facilmente se si pensa che si tratta di soggetti mediamente più giovani rispetto alla
popolazione autoctona (dove c’è un’elevata componente di pensionati) e che per rinnovare
il permesso di soggiorno devono dimostrare di avere un lavoro.
Dal 2007 a oggi però la crisi ha colpito più duramente gli immigrati: infatti per loro il tasso
di disoccupazione è peggiorato di 9 punti, mentre “soltanto” di 5,6 per gli italiani.
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E se è vero che oltre un occupato su dieci oggi è straniero (quando nel 2007 erano circa il
6%) è anche vero che dall’inizio della crisi è raddoppiata la percentuale di immigrati
assunti con un contratto a tempo determinato (sono il 13% dei lavoratori stranieri, sei punti
in più rispetto al 2007, contro il 9,5% degli italiani) ed è ferma al 13% la quota di chi riesce
a mantenersi cimentandosi in un’attività autonoma o da collaboratore (si veda la tabella a
fianco). L’obiettivo “permesso di soggiorno” spiega anche la maggiore disponibilità degli
stranieri ad accettare i lavori meno qualificati, ma soprattutto posti con minori tutele, orari
disagevoli e retribuzioni sotto la media. Elaborando le rilevazioni delle forze di lavoro
dell’Istat, la ricerca di Fondazione Moressa mette in luce la forte presenza di stranieri in
imprese piccole e medie, ossia in realtà dove non trova applicazione l’articolo 18: tra i
dipendenti nel settore privato quelli che possono ricorrere alla protezione dello Statuto dei
lavoratori in caso di licenziamento senza giusta causa sono solo meno di un terzo tra gli
stranieri (contro una media complessiva del 55%). Quanto al maggior grado di adattabilità,
lo si evince dalla percentuale di immigrati che accettano di lavorare in orari asociali, nei
fine settimana, di sera o di notte: il 53% (contro il 46,6% tra gli italiani), un dato peraltro in
aumento su entrambi i segmenti di lavoratori e chiaro sintomo della crisi in atto. Anche
sulla busta paga lo straniero è disponibile a fare più di un passo indietro: al mese la media
si aggira sui 960 euro contro i 1.250 di un lavoratore italiano, circa un quarto di differenza.
Una volta arrivato in Italia, comunque, chi viene da un Paese straniero non sembra
trovarsi poi tanto male: pur di avere un impiego, quasi un disoccupato italiano su tre
sarebbe disposto a trasferirsi in un’altra città nella penisola (17%) o all’estero (13%).
Invece, tra gli stranieri, meno del 20% si muoverebbe di nuovo per un’altra destinazione in
Italia (10%) o all’estero (8,5%).
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SOCIETA’
del 10/11/14, pag. 1/13
Il mito della Padania si è offuscato, ma restano forti spinte
locali all’autonomia. Lo spirito indipendentista fa breccia anche nelle
Isole e nelle Regioni “rosse” del centro. E conquista operai e lavoratori
autonomi
Separatisti d’Italia uno su tre favorevole
all’addio a Roma
Il vento che sta scuotendo l’Europa soffia anche da noi Nordest in prima
linea: in Veneto pronto al sì il 53%
ILVO DIAMANTI
IERI , in Catalogna, si è svolta la consultazione sull’indipendenza dalla Spagna, dichiarata
illegale dal governo centrale e dalla Corte Costituzionale. Ma le autorità catalane hanno
proceduto egualmente e la partecipazione è stata massiccia. Come il consenso ottenuto
dalla rivendicazione catalana. Anche 2 mesi fa, in Scozia, comunque, il 45% dei cittadini
aveva votato contro l’unione con Londra. Il vento indipendentista, dunque, soffia forte in
Europa. Soprattutto dove esistono divisioni territoriali – economiche e culturali - profonde e
radicate. Neppure in Italia la questione dell’indipendenza regionale è nuova. La Lega ne
ha fatto una bandiera, fin dalle origini. Ha minacciato la secessione, negli anni Novanta.
Senza grande successo, alla prova dei fatti. Quando, nel settembre 1996, organizzò una
marcia sul Po, per dichiarare – appunto – l’indipendenza della nazione Padana. Con un
seguito molto scarso, però. D’altronde, la Padania era – e resta – un’entità immaginaria.
Ma l’indipendenza è un obiettivo perseguito anche da altri gruppi e movimenti, soprattutto
in Veneto. Con azioni dimostrative, come l’assalto al campanile di San Marco, da parte dei
Serenissimi, nel 1997. O, nello scorso mese di marzo, attraverso un referendum
autogestito. Azioni localizzate, ad opera di soggetti localizzati. Nel Nord, ma soprattutto in
Veneto, appunto. Eppure, come abbiamo già suggerito altre volte, conviene non
sottovalutare questi eventi. Né considerarli segni di un malessere territoriale espresso dai
“soliti veneti”. Che strepitano tanto ma, all’atto pratico, combinano poco. La sindrome
indipendentista, in effetti, non è così limitata né delimitata.
Appare, invece, diffusa, se oltre il 30% del campione nazionale (rappresentativo della
popolazione) intervistato da Demos, nelle scorse settimane si dice d’accordo con
l’indipendenza della propria regione dall’Italia. Quasi uno su tre, dunque. Distribuito
diversamente, anzitutto su base territoriale. Il sentimento indipendentista, com’era
prevedibile, è concentrato, anzitutto, nel Nord. In particolare nel Nordest, dove è condiviso
da oltre metà della popolazione. Soprattutto in Veneto, dove supera il 53%. Un dato
praticamente identico a quello rilevato in un sondaggio dello scorso marzo. Il campione,
nelle altre due regioni di quest’area, è, invece, troppo limitato per suggerire stime (ma in
Friuli Venezia Giulia l’adesione al referendum andrebbe oltre il 60%). Ma l’indice di
indipendentismo risulta superiore alla media anche in Piemonte e in Lombardia (dove
scavalca il 35% della popolazione). La “questione settentrionale”, dunque, non sembra
essersi assorbita, nel corso degli anni. Semmai, si è “regionalizzata” maggiormente. Ma
continua a generare distacco dall’identità nazionale. Il sentimento indipendentista risulta,
però, molto esteso anche nelle due grandi isole, Sardegna e Sicilia, dotate di Statuto
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autonomo. In entrambi i casi, circa il 45% della popolazione (intervistata) afferma di ambire
all’indipendenza. Nonostante la “dipendenza” dai trasferimenti dello Stato centrale.
Più sorprendente, invece, risulta l’ampiezza (superiore alla media) degli indipendentisti nel
Lazio (35%). Ma in questo caso, probabilmente, conta l’influenza di “Roma capitale”. La
tendenza (e la tentazione), cioè, di sovrapporre le due entità e identità. Roma all’Italia. E
viceversa. In questo caso, cioè, si tratterebbe di vocazione all’auto-dipendenza.
Lo spirito indipendentista, invece, presenta valori limitati nel Mezzogiorno (ad eccezione
delle Isole) e nelle regioni “rosse” dell’Italia centrale. E ciò suggerisce alcune importanti
ragioni - ulteriori rispetto alla storia e ai fattori geopolitici. Ragioni socio-economiche,
connesse al reddito e all’attività professionale, anzitutto. L’aspirazione indipendentista,
infatti, raggiunge la massima diffusione fra gli operai, i lavoratori indipendenti (imprenditori
e autonomi) e, inoltre, fra i disoccupati. In altri termini, tra le figure professionali
maggiormente coinvolte nel mercato del lavoro. Su versanti opposti.
Gli imprenditori, i lavoratori in-dipendenti del Nord e del Nordest, soffrono per i vincoli –
fiscali e burocratici - imposti dallo Stato, in profondo contrasto con l’instabilità dei mercati
globali – e senza regole – in cui sono proiettati. Mentre i lavoratori “dipendenti” ed
“esclusi”, i disoccupati, soffrono per la debolezza delle tutele pubbliche. E per le
conseguenze sul mercato del lavoro di un’economia – e di una finanza – senza confini. Le
stesse ragioni che hanno accelerato i flussi demografici e migratori. Che inquietano, più
degli altri, gli strati sociali periferici. Gli ultimi e i penultimi della società. Così si comprende
– e appare conseguente - anche il profilo politico dell’indipendentismo. Largamente
maggioritario fra gli elettori della Lega (oltre tre su quattro). Ma fortemente marcato anche
nella base di Forza Italia (45%). Il “forza-leghismo” (secondo la “definitiva definizione” di
Edmondo Berselli), dunque, riassume l’indipendentismo dei “forti” e dei “deboli”. Del Nord
e del Sud. Uno spirito diverso e diversificato. Unificato da un comune senso di distacco
dallo Stato. Da un comune spaesamento rispetto al mondo che incombe come una
minaccia - alla condizione di vita e alla comprensione di ciò che avviene intorno.
In altri termini, lo spirito indipendentista che alita nel Paese, più che l’avanzata del
regionalismo, riflette il crescente distacco dallo Stato. Non compensato da altre e diverse
appartenenze, da altri e diversi ambiti di governo. Inter- nazionali, come la Ue. Ma
neppure territoriali, come le stesse Regioni. Patrie alternative: stanno perdendo consenso,
fra i cittadini.
Così, c’è il rischio, per gli italiani, di ritrovarsi, alla fine, davvero indipendenti. Da tutti. Cioè:
soli.
del 10/11/14, pag. 6
Più ottimisti che pessimisti
ma dopo sei anni di crisi
siamo soprattutto attendisti
La maggioranza non vede ancora la luce alla fine del tunnel C’è più
fiducia nel Paese che nella propria situazione personale
Daniele Marini
Stanchi e provati come dopo un lungo e tortuoso viaggio del quale ancora non si vede
chiaramente il traguardo. Durante il tragitto, le condizioni di vita per molti sono peggiorate
e l’orizzonte è sempre molto incerto, quasi imperscrutabile. Tuttavia, nello stesso tempo, si
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guarda al futuro con una qualche speranza, soprattutto con un atteggiamento di attesa
disincantata, dopo tante disillusioni e mancate promesse.
è il sentimento generale degli italiani che emerge dall’ultima rilevazione dell’indagine LaST
(Community Media Research in collaborazione con Intesa Sanpaolo, per La Stampa).
Potrebbe essere diversamente, dopo che sono trascorsi oltre sei anni dall’avvio
conclamato della crisi economica? Dopo che, nel frattempo, abbiamo sperimentato in
rapida successione quattro esecutivi (Berlusconi, Monti, Letta, Renzi)? Dopo che la
disoccupazione è cresciuta a ritmi elevati e investito una parte consistente delle giovani
generazioni, facendo diventare il lavoro (e con esso il senso del futuro) la preoccupazione
maggiore degli italiani?
Evidentemente no, non potrebbe essere altrimenti. E questo anche a dispetto dei piccoli
segnali recenti che hanno messo in luce qualche positività. Il numero degli occupati che –
per il momento – ha conosciuto un lieve miglioramento. Il novero delle persone che hanno
ricominciato a cercare attivamente un’occupazione. Le banche che segnalano una ripresa
dei risparmi delle famiglie, ma che rimangono giacenti. Indicatori oggettivamente positivi,
ma soggettivamente ancora non in grado di influenzare gli orientamenti.
Perché la percezione determina la realtà. E ciò spiega – com’era plausibile ipotizzare –
come mai gli 80 euro non sono finiti nei consumi, ma nei risparmi, in attesa di tempi più
certi e migliori. Lo si può comprendere meglio se consideriamo come gli italiani
percepiscono le loro condizioni economiche. Rispetto a tre anni fa, in generale, una
leggera maggioranza (53,4%) ritiene che il proprio bilancio economico familiare sia rimasto
sostanzialmente stabile. Fra questi, soltanto meno di un decimo (8,7%) l’ha visto
aumentare. Per il 46,6%, invece, il reddito mensile disponibile in famiglia è diminuito.
Dunque, le risorse economiche disponibili per gli italiani quando è andata bene sono
rimaste invariate e per una parte assai consistente sono andate peggiorando. Di sicuro,
non abbiamo conosciuto alcuna mobilità economica, e quindi sociale, ascendente.
I più penalizzati da questa situazione sono le donne, i 50-60enni, chi possiede un basso
livello di studio e le persone ai margini del mercato del lavoro (disoccupati, pensionati e
casalinghe). Se queste sono le condizioni economiche oggi, rispetto a tre anni fa, quali
sono le prospettive? Quando si prevede di uscire da questa crisi? L’incertezza è
l’elemento dominante.
Complessivamente, tre interpellati su quattro (75,1%) ritengono si dovrà aspettare almeno
un anno e mezzo prima di uscire dalle difficoltà e fra questi ben il 68,2% vede la fine del
tunnel oltre l’anno e mezzo. Pochi (10,2%) immaginano si debba aspettare al più solo un
anno prima di conoscere prospettive migliori e una quota marginale (2,2%) intravede già
segni di ripresa. Se a chi rinvia ad almeno un anno e mezzo l’attesa di un miglioramento
aggiungiamo quanti non se la sentono di fare previsioni (12,5%), otteniamo che quasi i
nove decimi della popolazione vivono nel day by day, privi di un orizzonte temporale
definito: si naviga a vista, in assenza di una direzione precisa.
L’aspetto preoccupante è che questa indeterminatezza sul futuro sembra innervare in
misura maggiore le prospettive economiche personali e familiari, più ancora di quelle del
territorio in cui si vive, dell’Italia o dell’Europa.
A immaginare che nel futuro prossimo la situazione economica conoscerà un
miglioramento per il proprio nucleo familiare è in media il 42,1% degli italiani.
Analogamente, il 61,1% fra gli intervistati ritiene che ciò accadrà per l’area di residenza, il
62,5% per l’Italia e il 46,3% per l’intera Europa. Dunque, si pensa (o si auspica) che
l’economia del Paese possa riprendersi, ma si medita che le proprie condizioni faranno più
fatica a risollevarsi.
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Una conferma indiretta a questa difficoltà a sognare un futuro positivo viene dal recente
Prosperity Index 2014 (Legatum Institute) che mette a confronto 142 Paesi sull’idea di
sviluppo futuro: l’Italia si colloca al 37° posto, perdendo cinque posizioni rispetto al 2013.
Per provare a offrire una misura di sintesi, abbiamo creato un indicatore di fiducia sul
futuro, sommando le prospettive di crescita economica per i diversi ambiti. Ne
scaturiscono quattro profili prevalenti.
Gli Ottimisti sono un terzo degli interpellati (34,3%) e annoverano chi, per tutte le
dimensioni, ipotizza percorsi di miglioramento economico e, in proporzione, comprendono
quanti sono oggi più in difficoltà (operai), i sessantenni o hanno avuto una diminuzione di
reddito rispetto agli anni precedenti. Quindi, un ottimismo dettato dalla speranza.
Il gruppo più cospicuo, però, è quello degli Attendisti (39,2%), quanti oscillano attorno a
una condizione di stabilità o di leggero miglioramento.
Il terzo gruppo è quello dei Preoccupati (21,7%): comprende ha una visione
tendenzialmente pessimista per le condizioni economiche future, idea particolarmente
diffusa fra le giovani generazioni e chi ha un titolo di studio elevato.
Infine, troviamo i Pessimisti (4,8%), nucleo marginale che prevede un sostanziale declino
generalizzato.
Fiducia e senso di un futuro possibile sono il motore dello sviluppo. Ma questi lunghi anni
di difficoltà hanno intaccato l’aspettativa di realizzare un miglioramento per sé e per i
propri familiari. Come se negli italiani si stesse incrinando la proverbiale capacità di
adattamento alle difficoltà. E, in questa lunga traversata, avessero tirato un po’ i remi in
barca.
del 10/11/14, pag. 22
Addio postini, centralinisti e agricoltori: il futuro è di nanomedici,
banchieri del tempo e informatici super-specializzati. La rivoluzione
digitale sta cancellando negli Usa metà dei mestieri tradizionali. Ecco
come quest’onda lunga arriverà presto anche in Italia
Il lavoro che verrà
ETTORE LIVINI
BANCHIERE del tempo. No, meglio nanomedico. Oppure, per amor di natura, agricoltore
verticale. C’era una volta l’Italia dove i bambini sognavano di fare i calciatori, le ballerine o
i pompieri. C’era una volta perché oggi quell’Italia e quel mondo non ci sono più. La
rivoluzione digitale sta cambiando i lavori del futuro a ritmi più rapidi di un corso di laurea.
Azzeccare quello giusto (nanomedici & C. sono scommesse del think-tank Fastfuture) è
impresa da Mago Otelma. «Oggi si studia in vista di professioni non ancora create, fatte
con tecnologie da inventare per problemi che adesso non conosciamo», riassume Andrea
Cammelli, direttore di Almalaurea, la più importante banca dati dei laureati in Italia,
consultata da enti ed imprese. A guidare il cambiamento — più che medici o avvocati —
sono algoritmi, formule fisiche e nuvole informatiche. E l’America, locomotiva globale
dell’hi-tech, ha deciso di giocare tutte le sue carte sui campioni dello Stem — l’acronimo
sta per science, technology, engineering e math — le facoltà tecnico-scientifiche su cui la
Casa Bianca ha concentrato i piani di incentivazione allo studio (con 2,6 miliardi di
investimenti solo nel 2014) e dove le iscrizioni negli ultimi anni sono cresciute del 48%.
Fabbriche di lavoro certo e ben remunerato, promette l’amministrazione Usa. Ma
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soprattutto il volano educativo grazie a cui gli States contano di mantenere la loro
leadership tecnologica nei prossimi decenni.
L’ERA DEGLI STEM
Le classifiche, in questo caso, rischiano di sviare. Buona parte delle professioni che
creeranno più posti da oggi al 2022 — per l’invecchiamento e per la legge dei grandi
numeri — sono legate alla salute. In testa alle graduatorie ufficiali del ministero del lavoro
Usa ci sono gli infermieri per l’assistenza sanitaria a domicilio. Brillano pure fisioterapisti e
consulenti genetici, esplode (+53%) la domanda per psicologi aziendali. E persino per i
muratori (+43%), un omaggio alla concretezza della old economy , è previsto un inatteso
revival.
L’apparenza però inganna. E la scommessa della Casa Bianca guarda a un dato
d’insieme ben più significativo: «Il 27% del totale dell’occupazione generata nei prossimi
tre anni in America arriverà da discipline legate a scienza, tecnologia, ingegneria o
matematica », come calcola una ricerca della Economic Modelling society. Competenze
destinate a condizionare in modo pervasivo il lavoro di tutti, dagli infermieri in corsia fino ai
carpentieri in cantiere. Il 47% dei posti di lavoro negli States — calcola una ricerca
dell’Università di Oxford — è a rischio sostituzione con i computer. Cifra che in Europa
(Fondazione Bruegel) sale al 50%. E la Stem-generation sarà il carburante che darà un
colpo d’acceleratore decisivo per colmare questo gap.
La rivoluzione è già iniziata e il boom delle iscrizioni è solo la punta dell’iceberg: i laureati
tecnico-scientifici trovano lavoro in metà tempo rispetto agli studenti di altre discipline e
guadagnano da subito in media 65mila dollari l’anno contro i 49mila degli altri corsi per il
National Center for education statistics. Il tasso di crescita dell’occupazione nei loro settori
è al 17% contro la media nazionale del 9,8%. L’80% dei laureati (dati Pew Research) dice
di trovare lavori legati a filo doppio al corso di studi. E uno studente straniero su tre che
sceglie di iscriversi a un corso di laurea Usa — grazie ai piani di attrazione di cervelli del
governo — finisce inevitabilmente per occuparsi di scienza, tecnologia, ingegneria o
matematica.
L’ESPERIENZA ITALIANA
L’Italia, su questo fronte, viaggia con il freno a mano tirato ma non fa eccezione. I dati
dicono che dalle nostre parti, quanto a professioni con un futuro, vale ancora la regola
dell’”usato sicuro”: nel 2013, a cinque anni dalla laurea il 96,7% dei medici (dati
Almalaurea) aveva un posto, come il 91,9% degli ingegneri e il 91% dei diplomati in
economia. Classici del genere. Scontati come l’elenco delle Cenerentole: nella zona bassa
della classifica arrancano geo-biologi e reduci da facoltà letterarie. Soldi e occupazione,
visto che piove sempre sul bagnato, vanno a braccetto: un lustro dopo la tesi, un
ingegnere guadagna 1.708 euro netti al mese in media, un medico 1.646 mentre chi ha in
curriculum un cursus honorum umanista si deve accontentare di mille euro.
I piccoli germogli Stem nel nostro Paese — dove resistono le molte baronie a prova di
tecnologie e dove la disoccupazione giovanile è al 44% — si stanno però già confermando
come promettenti fabbriche di lavoro. «Noi siamo in piena occupazione a un anno dalla
laurea — assicura Marco Taisch, delegato del Rettore al Politecnico di Milano per il
placement — Succede anche in settori come la computer science che sembravano passati
di moda». Lo stesso vale per il Politecnico di Torino e per i corsi ad alto contenuto
innovativo che stanno iniziando a spuntare lungo tutta la penisola.
TRA CONOSCENZE E COMPETENZE
Il boom degli Stem e l’addio a postini, centralinisti, agricoltori e stenografi — le professioni
a rischio estinzione per l’Us Labour of statistics — non significa in assoluto il trionfo dell’hitech e dei guru di Silicon Valley. Qualche Cassandra fuori dal coro sostiene che la spinta
dell’amministrazione Obama sugli Stem rischia di inondare il mercato del lavoro di troppa
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offerta da qua a pochi anni. Molti economisti e accademici puntano invece il dito contro
l’eccesso di specializzazione cui si sta arrivando. «Il problema — dice persino un neokeynesiano come il Nobel Ned Phelps — è non aumentare indefinitivamente i laureati in
discipline scientifiche». Padroneggiare algoritmi e data-flow non è tutto. Anzi. In un mondo
dove le tecnologie nascono e muoiono alla velocità della luce «la tecnica va puntellata con
le soft skills umanistiche e figlie di storia, filosofia e letteratura necessarie a sviluppare lo
spirito critico e di iniziativa necessari per gestire il cambiamento», aggiunge l’economista.
«Oltre alle conoscenze, oggi servono le competenze», ammette anche Cammelli.
Capacità di far gruppo, di avere la mente aperta alla formazione continua e al
cambiamento. Più che una virtù, una necessità. La generazione Erasmus sa benissimo
che il lavoro del futuro, per sfuggire all’etichetta facile di “bamboccioni” un po’ “choosy”
(copyright Elsa Fornero), devi inseguirlo all’estero o nelle aree dove si fa davvero
innovazione. Londra ha importato un milione di abitanti in dieci anni. Il 50% del business
alla Silicon Valley è generato da gente che non è nata e cresciuta lì. Ben 94mila giovani
italiani — il doppio dell’anno precedente — ha lasciato nel 2013 il Belpaese per cercare un
posto oltrefrontiera.
Le università hi-tech si sono già adeguate. Inserendo accanto alle lezioni 100% Stem più
tesine e lavori di gruppo per sviluppare i soft skills degli studenti. E potenziando i master
dove ormai il 50% dei partecipanti sono persone che già lavorano e devono aggiornare
conoscenze scientifiche invecchiate nel giro di una breve stagione. La realtà, oggi, obbliga
a un sano esercizio di pragmatismo. Altro che fantasticare di fare i calciatori o i pompieri.
L’unico sogno consentito ancora oggi, a non voler davvero tenere i piedi per terra, è quello
di fare gli astronauti. Il decollo dei voli orbitali privati — altra disciplina molto Stem — è già
una realtà, assicura il dipartimento al lavoro Usa. Il lavoro c’è. Basta cercarlo nello spazio.
del 10/11/14, pag. 23
Il gap che dobbiamo colmare prima che sia
troppo tardi
RICCARDO LUNA
NON si può dire che non ci avesse avvertito. Nel 1995 il futurologo Jeremy Rifkin ci
scrisse sopra un libro: La fine del lavoro si intitolava, e non poteva essere più chiaro di
così. Sono passati vent’anni e oggi, guardando i dati sulla disoccupazione crescente quasi
ovunque dalle nostre parti, possiamo dirlo: sul lavoro Rifkin aveva ragione. L’automazione,
indotta dalle nuove tecnologie, ha avuto e sta avendo davvero un effetto devastante sugli
operai, gli impiegati, i commercianti e i liberi professionisti. Basta guardare alla cronaca: la
catena di fast food McDonald’s ha appena annunciato di voler introdurre dei tablet per
ricevere le ordinazioni riducendo i camerieri; il colosso dell’e-commerce Amazon sta
assumendo 10 mila robot nei propri magazzini per sbrigare lo smistamento dei pacchi;
mentre da tempo sappiamo che gli algoritmi introdotti da Google e da altri per guidare le
auto funzionano alla perfezione ed è solo per una questione di assicurazione (chi paga in
caso di incidente?) che non abbiamo ancora auto senza autisti. Torna in mente un altro
saggio profetico, questa volta del 2000, scritto da uno dei guru di Silicon Valley, Bill Joy:
«Il futuro ha ancora bisogno di noi?».
Anche stavolta la risposta è nella cronaca, in quello che accade ogni giorno, magari senza
fare notizia. Qualche giorno fa a Dublino si è chiuso il Web Summit, uno dei più grandi
eventi del mondo dedicati agli startupper, una definizione dietro la quale dovete
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immaginare dei giovani che hanno visto un problema e realizzato una soluzione con il
digitale, e che quindi sperano di diventare ricchi in fretta. Bene, ce n’erano circa duemila di
startupper a Dublino, da tutto il mondo. E indovinate chi è risultato il numero uno? Una
startup italiana, Nextome, un navigatore per musei, gallerie d’arte, centri commerciali,
aeroporti e hotel; funziona grazie ad una tecnologia basata sul wi-fi che è stata inventata e
brevettata da quattro ragazzi pugliesi. Il giorno prima a Brescia il premio Federico Faggin
— dal nome dell’inventore del primo microchip — era stato assegnato a un’altra startup
pugliese, Blackshape, che realizza aerei in fibra di carbonio. Nel frattempo in California
venivano ufficializzate le start up ammesse al prestigioso acceleratore 500startups: su
trenta, due sono italiane. Ogni giorno ce n’è una, di storia così. Non sono più casi isolati, o
stranezze. Sono un movimento di ragazzi che ha capito che il nostro tempo presenta rischi
e opportunità, ma hanno deciso di provare a cogliere le seconde (far partire una start up è
infinitamente più facile di una volta), per non tenersi solo i rischi. Forse, se lo sapessero,
anche i Neet (i giovani che non studiano né cercano impiego) sarebbero meno rassegnati
ad un futuro buio.
Ciò detto, le startup non sono certo la soluzione ai problemi di disoccupazione di un
Paese. Non bastano a risollevare il Pil e a invertire il ciclo economico. Ed è fuor di dubbio
che fino ad ora la rivoluzione digitale deve mantenere tutte le sue promesse di un mondo
migliore. E però una soluzione c’è. Sono finiti i lavori che possono fare le macchine meglio
di noi, ma c’è un dannato bisogno di altri lavori: in Europa si calcola un milione di posti di
lavoro pronti per persone che siano computer savvy , ovvero a proprio agio con i
computer. È su questo punto che in Italia siamo in fondo a tutte le classifiche possibili. Ed
è per questo che un ragionamento sui lavori del futuro non può non partire dalla scuola.
Sono sempre le skills, le competenze, il prerequisito del work, del lavoro. E le competenze
ormai sono, non possono non essere, legate alla rivoluzione digitale.
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BENI COMUNI/AMBIENTE
del 10/11/14, pag. 18
“Non bevete quell’acqua”
Il veleno di Agatha Christie che fa tremare la
Versilia
Il tallio, residuo delle vecchie miniere, ha inquinato i pozzi Da tre anni
concentrazioni altissime mai rilevate dalla Asl
MARIO NERI
FABIO TONACCI
PIETRASANTA .
Il veleno di Agatha Christie ha inquinato i pozzi della Versilia. Da almeno tre anni.
Nell’acqua di Pietrasanta, cuore turistico e culturale della riviera con i suoi 39 ristoranti
sempre pieni di vacanzieri e le sue famose gallerie d’arte, c’è il tallio. Nome dal suono
greco, metallo prezioso quanto tossico, numero atomico 81 nella tavola degli elementi. Il
farmacista Zacharia Osbourne, nel romanzo “Un cavallo per la strega” della scrittrice
inglese lo usava per far fuori le sue vittime, arma letale e inodore. Ora terrorizza i
versiliesi. Da quanto tempo il tallio galleggia nel loro acquedotto? Quanto ne hanno
bevuto?
Pietrasanta, tre giorni fa. Le auto del municipio che girano con gli altoparlanti a tutto
volume: «Vietato bere, cucinare e lavarsi i denti con l’acqua del rubinetto…». Il sindaco
Domenico Lombardi ha firmato l’ordinanza, è allarme. Settecento famiglie dovranno
rifornirsi chissà per quanto dalle cisterne, ma qualcuno ha già scoperto di avere
concentrazioni di tallio nei capelli cinquanta volte superiori alla norma. Il perimetro
contaminato racchiude il centro storico e le aree vicine, compresa Valdicastello, casa
natale del poeta Giosuè Carducci. Gli assessori dei quattro comuni della Versilia storica si
telefonano, le giunte si interrogano, lo scaricabarile è nell’aria. «Al momento non ci sono
pericoli per noi», spiega il primo cittadino di Forte dei Marmi Umberto Buratti, il cui
territorio è servito da una sorgente non inquinata. Ma intanto la Asl di Viareggio ha
disposto analisi urgenti ovunque, comprese le zone di villeggiatura balneare. Quelle, per
capirci, della vacanza d’elite, dei bistrot di lusso, delle ville in stile “Scarface” comprate dai
ricchi russi, che tanto hanno fatto la fortuna di chi le ha vendute.
Questa storia è iniziata piano, al rallentatore. E non è priva di ombre. Un paio di mesi fa
alcuni ricercatori dell’università di Pisa scoprono in una falda altissime concentrazioni di
tallio: fino a 10,1 microgrammi al litro quando il limite tollerabile dall’organismo umano,
secondo l’Epa, l’agenzia per la protezione ambientale degli Stati Uniti, è di 2 microgrammi.
Oltre diventa tossico. La causa di tale presenza va cercata nelle vecchie miniere di pirite
abbandonate di Valdicastello, carcasse industriali oggi di proprietà del comune e mai
bonificate. L’11 settembre vengono avvertite le autorità, ma per quasi un mese non si
muove una foglia: il divieto di usare l’acqua scatta solo il 3 ottobre e solo per l’area attorno
alle miniere, dove abitano un migliaio di persone.
Però qualcosa non torna. Il 22 settembre c’era stata una riunione tra l’amministrazione di
Pietrasanta e Gaia, il gestore idrico. È spuntato un documento, di cui Repubblica è venuta
in possesso, nel quale sono indicati valori oltre la soglia di sicurezza nei campioni del
2011. Già tre anni fa l’acqua era avvelenata. Perché nessuno ha fatto niente? La
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giustificazione fornita dalla Asl 12 è una di quelle contorsioni burocratiche inaccettabili per
qualunque cittadino che quell’acqua ha bevuto e soprattutto pagato. «Il tallio non rientra
tra i parametri di qualità e conformità previsti dalla normativa e quindi non viene ricercato
di routine. Lo abbiamo rilevato con nuove analisi soltanto adesso». Tradotto: bastava
avere lo scrupolo di allargare lo spettro di informazioni richieste ai laboratori e la
popolazione si sarebbe risparmiata tre anni di probabile intossicazione.
Ma le istituzioni non hanno brillato per prontezza. Tant’è che la scoperta che il tallio ha
infestato anche l’acquedotto di Pietrasanta non l’ha fatta né la Asl, né il gestore idrico. Il
merito va a una signora che mercoledì scorso si è presentata nell’ufficio del sindaco con
due fogli in mano: a spese proprie ha fatto controllare l’acqua di casa ed è saltato fuori che
ne contiene 12 microgrammi al litro. «Abbiamo verificato — spiega Lombardi — i valori nel
centro storico oscillano tra i 2,5 e i 5 mcg». Colpa, pare, di 5 chilometri di tubature
incrostate di tallio. Nel mondo soltanto un’altra città ha sperimentato un analogo
avvelenamento delle falde, in Cina. «Temo conseguenze per l’indotto turistico — prosegue
il sindaco — Gaia spa si assuma le sue responsabilità e ci dia risposte chiare
nell’interesse della salute e dell’immagine della Versilia». Che intanto ha paura.
«Siamo sicuri che sia una contaminazione temporanea e che nessuno sapesse?», si
domanda Michele Marcucci, titolare della celebre enoteca pietrasantina. Arrivano le prime
disdette alle prenotazioni di tavoli, la procura di Lucca valuta l’apertura di un’inchiesta.
Emilia Bramanti, ricercatrice del Cnr di Pisa, sta coordinando lo screening sulla
popolazione di Valdicastello, dove anche lei vive. «I risultati delle analisi eseguite sui
capelli delle mie due figlie di 12 e 16 anni — racconta — hanno dato valori di 50 volte
superiori a quelle delle persone non esposte». Non è una buona notizia e non ci vuole
Poirot per capirlo.
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CULTURA E SCUOLA
del 10/11/14, pag. 25
Alghe a Pompei e capperi al Colosseo: un team speciale per salvare
l’archeologia
Venti capolavori sotto assedio i biologi
contro funghi e batteri
IRENE MARIA SCALISE
IL COLOSSEO e la Domus Aurea sono a rischio? Chiamate i biologi. La grande bellezza
risorge grazie a questi Indiana Jones armati di microscopio e in camice bianco. Le piante
di capperi infestano l’Anfiteatro Flavio, gli affreschi della Domus Aurea sono brutalizzati da
radici di conifere e l’ailanto deturpa Pompei. Per restituirgli il ruolo di portabandiera delle
italiche meraviglie, adesso arrivano i biologi, applicati in difesa del patrimonio culturale.
Non solo l’arte del restauro, quindi, ma anche la scienza può fare molto per i 20 e più
monumenti in difficoltà.
«Con un corretto utilizzo della biologia si potrebbe risparmiare un terzo delle risorse che si
investono quando il monumento è già rovinato», spiega Ermanno Calcatelli, presidente
dell’Ordine nazionale dei biologi. «È fondamentale identificare gli organismi che
minacciano il nostro patrimonio artistico e valutare, per esempio, se un lichene è
aggressivo. Il risparmio potenziale è alto, visto che in Italia abbiamo oltre 60 mila siti
archeologici». Aggiunge Giulia Caneva, biologa in prima linea nella cura del patrimonio
culturale: «Tutti i monumenti vanno incontro a un degrado naturale: per loro serve una
diagnosi che sia insieme preventiva e curativa». Certo, c’è malato e malato. La Domus
Aurea, per la sua natura ipogea, è uno dei beni più a rischio perché le infiltrazioni d’acqua
creano alghe e funghi che attaccano gli affreschi, mentre le radici degli alberi possono
arrivare a distruggere le pitture. Doppie le incognite per il Colosseo: «Alla base c’è un
proliferare di infestazione tipiche degli ambienti umidi come muschi, fichi e sambuco,
mentre nella parte alta il cappero, grazie al sole, moltiplica le sue radici che vanno in
profondità ».
A volte gli interventi dell’uomo nati per riparare i danni finiscono per peggiorare il quadro.
«Nella chiesa di San Clemente a Roma era stato ideato un impianto d’illuminazione non
calibrato e sono sorti batteri originati dal caldo eccessivo — spiega Matteo Montanari,
docente per la biologia del restauro — Un biologo può far risparmiare tempo e denaro,
anche perché per un suo intervento non sempre servono sostanze chimiche».
Gli istituti del restauro danesi, svedesi e britannici sono all’avanguardia nel monitoraggio
predittivo e pretendono altrettanta cura. Un esempio per tutti? «Quando arrivò a Bologna il
quadro della Ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer - racconta Montanari - il facility
report ( la relazione tecnica che fissa i requisiti della sala che prende in prestito l’opera)
era richiesto il monitoraggio di insetti e muffe». Le tecniche per salvaguardare i nostri
monumenti, assicura Montanari, spesso ci sono e costano poco: «Basterebbero dei
dispositivi per i filtri dell’aria, per evitare l’umidità. Ovviamente, bisogna evitare di correre ai
ripari quando il danno è fatto, ma per fortuna molti biologi lavorano già nei Beni culturali e
negli istituti del restauro».
Anche i chimici confermano l’importanza di giocare d’anticipo. «In Italia, l’incuria e la
dimenticanza sono il problema principale», spiega Antonio Sansonetti del Cnr, consulente
tecnico per gli interventi di conservazione, «l’acqua si porta dietro una quantità di
microrganismi nocivi, mentre le radici degli alberi riescono a infiltrarsi nelle strutture
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murarie. La loro sinergia con l’inquinamento può essere fatale, basti pensare che i nostri
monumenti si sono degradati di più negli ultimi 40 anni che nei quattro secoli precedenti».
Pochi sanno che a Roma arriva lo “spray marino” che dal mare viaggia sino a 200
chilometri l’ora. Oppure che le prime piogge sono nefaste perché l’acqua è carica di
sostanze inquinanti. O ancora che il granito è un gran combattente mentre il travertino e il
tufo napoletano sono i materiali più delicati. Lasciamoli curare (anche) dai biologi: per loro
non hanno segreti.
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ECONOMIA E LAVORO
del 10/11/14, pag. 9
La Ue avverte l’Italia: pronti alla procedura
La Commissione Juncker minaccia una nuova correzione da 3,3 miliardi
sul 2015 e un early warning sul debito Palazzo Chigi spinge sul Jobs
act: entro dicembre, anche con la fiducia. Ma in Parlamento i tempi sono
stretti
ROBERTO PETRINI
ROMA .
Palazzo Chigi tira dritto sul Jobs act e stila un calendario serrato: chiudere entro dicembre,
varare i decreti attuativi sui quali sono già al lavoro i tecnici e avere regole certe a partire
dal 1° gennaio del 2015. La posizione del governo va ad impattare sul percorso
parlamentare della legge di Stabilità che questa settimana comincia l’esame in
Commissione Bilancio con l’obiettivo di consegnare il testo all’aula entro il 24 novembre,
data che potrebbe slittare di un paio di giorni come spesso avviene.
Il rischio è quello di un «incrocio»: per assecondare il timing del governo potrebbe essere
necessario dunque anticipare l’esame del Jobs act rispetto alla legge di Stabilità: la
valutazione che viene fatta in Commissione Bilancio è che il ritardo potrebbe spostare la
data di consegna della “Finanziaria” al Senato verso il 10 dicembre.
Comprimendo l’esame di Palazzo Madama. A decidere sarà martedì la conferenza dei
capigruppo in accordo con ministro dei rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi.
Naturalmente la questione non è solo procedurale: dopo la fiducia al Senato (il 9 ottobre)
al Jobs act, la minoranza Pd ha detto esplicitamente che vuole modifiche, soprattutto sul
tema nodale dell’articolo 18, oggetto delle agitazioni sindacali di questi giorni, e che non
intende votare una nuova fiducia al Senato (fiducia che peraltro Palazzo Chigi vuole
utilizzate a Montecitorio solo se necessaria).
La partita della legge di Stabilità non ha ancora un esito scontato. In prima linea il Tfr in
busta paga, al quale Palazzo Chigi non vuole rinunciare, ma che il Tesoro ha già
annunciato di essere pronto a cambiare. L’intervento che sembra più gettonato è quello di
ridurre le tasse a chi chiede l’anticipo instaurando una neutralità fiscale con chi riscuote a
fine rapporto. L’altra ipotesi di cambiamento, peraltro chiesta da tutti i gruppi parlamentari,
riguarda la riduzione delle tasse sul rendimento dei fondi pensione.
Del 10/11/2014, pag. 9
Strategie ancora poco attente ai più fragili
Fondi sociali in lieve ripresa ma mancano i piani nazionali
Nella legge di stabilità ci sono 700 milioni di euro per le politiche sociali, in leggera
ripresa rispetto a quelli del 2014 (667 milioni), ma manca una strategia. Continuano,
dunque, a latitare le riforme in grado di assicurare i servizi contro la povertà e a
favore di non autosufficienti, disabili e infanzia. Eppure se ne parla da vent’anni.
All’appello della legge di stabilità, le politiche sociali risultano assenti. Il testo del Governo,
infatti, contiene poche risorse e nessuno dei necessari interventi migliorativi. Ciò è
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accaduto perché il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, non ha sinora rivolto lo sguardo
verso famiglie in povertà, anziani non autosufficienti, persone con disabilità e bambini nei
nidi, cioè i principali destinatari delle politiche sociali. Lo stanziamento complessivo
previsto nel 2015 per i due fondi nazionali principali ammonta a 700 milioni di euro (300
del Fondo nazionale politiche sociali e 400 del Fondo non autosufficienze), cifra che
rappresenta un leggero incremento rispetto ai 667 milioni del 2014, ma una netta discesa
dai 970 del 2008, che già allora tutti gli esperti giudicarono inadeguati ad affrontare lo
storico sottofinanziamento delle politiche sociali.
Ciononostante, a partire dal 2009 il governo Berlusconi ridusse i fondi statali, sino ad
azzerarli nel 2012, poiché era contrario alla responsabilità pubblica nei confronti delle
persone fragili. Nel 2013 è cominciata la parziale risalita fino agli attuali 700 milioni, ma nel
frattempo la debolezza del settore si è ulteriormente accentuata. Oggi, per esempio, la
spesa pubblica dedicata alla lotta contro la povertà risulta in Italia inferiore dell?80% alla
media europea e quella nei servizi per le persone non autosufficienti (disabilità e anziani)
lo è del 40 per cento. Il nocciolo della questione, comunque, non è l’esiguo importo dei
fondi nazionali, bensì l’eredità della Seconda Repubblica. I fondi, infatti, furono allora
introdotti intendendoli dichiaratamente come i primi mattoni sui quali costruire quelle
riforme nazionali attuate perlopiù negli ultimi vent’anni, e a volte anche prima, in tutti i
Paesi simili al nostro. In Italia, invece, se n’è discusso a lungo, qualche passo iniziale è
stato appunto compiuto, ma come avvenuto solo in Grecia - nessuna riforma è stata
realizzata. Si tratti di povertà, non autosufficienza o asili,l’impianto degli interventi è
ovunque il medesimo. Primo, lo Stato incrementa i propri stanziamenti definendoli a partire
non dai fondi dell’anno precedente, ma dalle reali esigenze del settore, affiancandoli a
regole che assicurino l’adeguato sforzo finanziario di Regioni e Comuni. Secondo, per chi
è in condizioni di fragilità s’introduce il diritto a ricevere risposte, oggi esistente in altri
ambiti - come la sanità e l’istruzione - ma non nel sociale. In Italia, per esempio, i nuclei
che vivono in povertà non hanno diritto ad alcun sostegno pubblico. Terzo, uno sforzo
particolare viene dedicato a potenziare i servizi alla persona (come assistenza domiciliare
per gli anziani, nidi per i bambini o servizi sociali per gli indigenti e così via) a fianco dei
contributi economici, ora nettamente prevalenti. I servizi, infatti, mettono le persone in
grado di organizzare diversamente la propria vita, mentre le erogazioni monetarie servono
esclusivamente a ‘tamponare’ i bisogni. Le riforme debbono essere introdotte
gradualmente, così da spalmare su più anni lo sforzo organizzativo e l’incremento di spesa
che richiedono. Si tratta, dunque, di attivare piani nazionali che permettano di giungervi
grazie a percorsi pluriennali che definiscano con chiarezza, sin dall’inizio, i finanziamenti e
il punto di arrivo. Dell’avvio di simili percorsi non vi è, però, traccia nella legge di stabilità
né in altri atti del Governo. All’estero le riforme nazionali sono state introdotte, perché lì
come in Italia - le domande sociali crescono da tempo, ma gli enti locali non hanno le
risorse e gli strumenti adeguati per rispondervi, dato che le loro funzioni sono state
disegnate in un’epoca precedente, quando tali domande erano assai minori. Negli ultimi
due decenni, intanto, l’incremento dei bisogni ha subìto un’ulteriore accelerazione, basti
pensare alla povertà e all’invecchiamento della popolazione. Le riforme nazionali, dunque,
risultano oggi più necessarie che mai. Quanto scritto sin qui è da contestualizzare nelle
complessive vicende dei primi mesi del nuovo Esecutivo. Quest’ultimo ha concentrato i
suoi sforzi iniziali sulla nostra profonda crisi economica e occupazionale, unanimemente
riconosciuta come la priorità da affrontare. Coerentemente, nel welfare l?azione è stata
rivolta principalmente al rafforzamento delle tutele contro la disoccupazione. In un quadro
simile, i margini per un’attenzione sostanziale alle politiche sociali sono stati finora molto
ristretti. Nel prossimo futuro, però, il Governo dovrà definire la propria posizione verso il
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settore. Se vorrà occuparsene in modo incisivo, la strada è segnata: il punto non è
destinare 100 milioni in più o in meno ai fondi, ma mettere in agenda le riforme nazionali.
Del 10/11/2014, pag. 9
La sfida è conciliare diritti e investimenti
L’ANALISI
Giorgio Gori
Per capire se le politiche sociali diventeranno una priorità del futuro bisogna, innanzitutto,
esaminare come le concepisce Renzi. Lui e i suoi collaboratori propongono da almeno tre
anni una stessa visione. Analogamente alla Social investment strategy promossa dalla Ue,
il sociale è considerato un investimento per valorizzare le potenzialità dell'individuo e far sì
che possa così contribuire allo sviluppo produttivo (attraverso il proprio lavoro). Non a
caso, i renziani ricorrono abitualmente a due esempi: la necessità di ampliare gli asili nido
e quella di realizzare contro la povertà interventi “attivanti”, in grado di rafforzare le
competenze di chi vive tale condizione per consentirgli di trovare - o ritrovare - un impiego
(indicazioni comunque sinora non tradotte in pratica). Si rappresenta un panorama fatto di
bambini che, anche grazie ai nidi, diventeranno lavoratori adulti con migliori capacità
cognitivo-relazionali, di giovani con un futuro davanti, di poveri per i quali è possibile un
reinserimento occupazionale. Gli indigenti che non potranno ottenere un nuovo lavoro, le
persone con disabilità, gli anziani non autosufficienti, e così via, non vi trovano posto.
Un simile orientamento è positivo perché valorizza il welfare come costruzione di
opportunità ma diventa inevitabilmente critico se risulta esclusivo. Piaccia o meno, infatti,
la maggior parte dei destinatari delle politiche sociali non può offrire alla società un
apporto dal punto di vista produttivo in senso stretto, mentre può farlo sul piano
relazionale, dello sviluppo di comunità o altro. Lo mostrano tutte le ricerche scientifiche e
l’esperienza delle famiglie coinvolte. Pertanto se l’interesse si rivolge solo agli interventi
che permettono investimenti sociali, come sopra definiti, la gran parte delle reali politiche
sociali viene esclusa. Renzi non ha mai precisato se ritenga debba esistere una
responsabilità pubblica nei confronti delle persone fragili che non possono contribuire al
contesto produttivo. Poiché la logica dell'investimento qui non è applicabile, bisogna
decidere se spetti alla collettività assicurare loro uno standard di vita almeno decente e la
possibilità di cercare di realizzare alcuni desideri, nei limiti dettati dalle condizioni di
ognuno. Intanto, una mole crescente di studi internazionali mostra che il welfare ha
successo solo se riesce a coniugare la Social investment strategy e la tutela dei diritti degli
individui fragili, parti complementari che funzionano bene solo insieme. Emerge, inoltre,
come in diversi Paesi l’enfasi posta sull’Investment strategy sia stata utilizzata a livello
politico per gettare fumo sull’inadeguata salvaguardia pubblica di tali diritti.
Il premier deve scegliere se concepire le politiche sociali solo come un trampolino per chi
può inserirsi nel contesto produttivo o anche come uno strumento per garantire i diritti
delle persone in condizione di fragilità.
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