RASSEGNA STAMPA

RASSEGNA STAMPA
martedì 25 novembre 2014
L’ARCI SUI MEDIA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SCUOLA
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Corriere.it del 25/11/14
Educare alle differenze, contro stereotipi e
violenza di genere
Si celebra oggi la Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, una ricorrenza di
cui da qualche anno si comincia a parlare anche nelle scuole. La commissione delle Elette
del IV Municipio di Roma, attraverso il progetto “La scuola fa la differenza”, ha voluto
sostenere e incoraggiare i programmi con gli studenti finalizzati alla decostruzione degli
stereotipi di genere e alla promozione di una cultura inclusiva contro le discriminazioni.
All’iniziativa hanno aderito una ventina di scuole medie, tra cui l’Istituto Comprensivo
Angelica Balabanoff del quartiere Colli Aniene, nella periferia Est della città. “Ragazze e
ragazzi hanno bisogno di confrontarsi sul tema delle differenze e della pluralità” spiega
Tina Nastasi, insegnante di lettere che insieme a quattro colleghe (Ricci, Esposito,
Sorrentini e Sabatini) e alla preside Anna Proietti, ha portato avanti il progetto. “Da
settembre abbiamo dedicato spazio a una serie di attività e approfondimenti: la visita
guidata della Casa internazionale delle donne, i laboratori teatrali svolti con il metodo del
Teatro dell’Oppresso, la lettura di articoli di giornale e di brani tratti dal libro di Malala
Yousafzai, la visione del video-documentario Da uomo a uomo realizzato da Michele
Citoni per l’associazione Maschile Plurale. Un lavoro preparatorio che ci ha permesso di
guidare i nostri alunni e consentire loro una riflessione che poi si è tradotta nella
realizzazione di un’opera collettiva”.
Lo scorso venerdì, nella sede Arci Malafronte di Pietralata, sono stati presentati i lavori
delle diverse scuole, tra queste una tela con fiori di carta di giornale appesi con fili rossi. “È
un’opera che comunica con un linguaggio simbolico – prosegue la Nastasi – e che vuole
evocare le ferite delle relazioni in cui prevalgono violenze fisiche e psicologiche. I fiori
sono stati creati con le pagine dei quotidiani, che troppo spesso riportano notizie di donne
uccise in casa, e costituiscono un messaggio di speranza perché alludono agli affetti e alla
tenerezza. Il filo rosso che li unisce trasporta, come piccole foglie che crescono, i pensieri
e i desideri di studenti e studentesse per un presente e un futuro diversi”.
Oggi nella sede del Municipio IV, in via Tiburtina, la cerimonia finale del progetto dove
saranno riproposti i lavori dei ragazzi. E’ previsto anche l’intervento di Filomena Di
Gennaro, una giovane donna sopravvissuta a un tentato omicidio da parte dell’ex
fidanzato e da allora ridotta su una sedia a rotelle. Stefania Esposito, consigliera del
municipio, dice: “Anche quest’anno abbiamo voluto dare spazio a un momento di
riflessione sul fenomeno della violenza domestica. Crediamo molto nella valorizzazione
dell’educazione sentimentale e di genere nelle scuole di primo e secondo grado, e
intendiamo sostenere tutte le iniziative che possano contribuire allo sviluppo di una cultura
di rispetto e dialogo”.
http://scuoladivita.corriere.it/2014/11/25/educare-alle-differenze-contro-stereotipi-eviolenza-di-genere/
2
ESTERI
del 25/11/14, pag. 16
Iran-Usa, niente accordo sul nucleare
VANNA VANNUCCINI
DOPO dieci anni è arrivata l’ora della verità, aveva detto il ministro degli Esteri tedesco
Steinmeier al suo arrivo a Vienna per la fase finale del negoziato. E la verità è che troppo
profonda è ancora la grande sfiducia reciproca, soprattutto tra Iran e Stati Uniti. Ancora
una volta i 5+1 — le cinque potenze che hanno potere di veto al Consiglio di Sicurezza più
la Germania — non sono riusciti a trovare un accordo, che tutti volevano, sul programma
nucleare dell’Iran. Lo volevano gli iraniani: in mattinata l’ayatollah Khamenei, il Leader
supremo che al di sopra del Parlamento e del presidente ha l’ultima parola su tutto, aveva
twittato il suo appoggio ai negoziatori. Era un gesto di sostegno per il presidente Rouhani,
sotto attacco in Iran da parte dei conservatori che non vogliono l’avvicinamento
all’Occidente. In gioco in questo negoziato infatti non c’è solo il programma nucleare, ma
quali saranno in futuro le relazioni dell’Iran con l’Occidente: un esito positivo avrebbe
potuto creare abbastanza fiducia da reinserire l’Iran nell’economia mondiale e nella
cooperazione politica per contrastare le diverse crisi in corso in Medio Oriente.
Anche il Segretario di Stato Kerry avrebbe volentieri annunciato la buona novella. Invece,
poco prima che il tempo scadesse, i negoziatori hanno potuto annunciare soltanto una
proroga, per evitare di dover ammettere il fallimento. L’ostacolo dirimente è stata la
sfiducia. La Repubblica islamica teme che se darà all’Occidente piene e libere possibilità
di controllo su tutti i suoi programmi, l’Occidente le userà per spiare e sabotare il regime. E
la comunità internazionale non si fida dell’Iran perché in passato ha costruito di nascosto il
suo programma nucleare e lo ha reso noto solo dopo essere stato colto in flagrante.
L’accordo interinale firmato a Ginevra nel novembre scorso varrà ancora per sette mesi.
Prevedibilmente la nuova scadenza sarà il primo luglio del 2015. Un accordo quadro
dovrebbe essere pronto entro marzo, mentre i dettagli tecnici più sensibili come il numero
delle centrifughe dovrebbero essere stabiliti entro giugno. «Nessuno esce depresso da
questo negoziato», ha detto Steinmeier, annunciando «intense trattative già nelle
prossime settimane». Il russo Lavrov ha parlato di «sostanziali progressi fatti» e ha detto
di ritenere che fra tre o quattro mesi un documento conclusivo potrà essere firmato. E il
presidente Rouhani ha annunciato più tardi alla tv iraniana che «le distanze si erano
accorciate e che mai le posizioni erano state così vicine». Tutti insomma hanno fatto buon
viso a cattivo gioco. Ma non si vede come le ombre che si sono sempre più infittite negli
ultimi mesi possano diradarsi. A Washington in gennaio entra in funzione il nuovo
Congresso dominato dai repubblicani, cosa che renderà ancora più difficile a Obama fare
delle concessioni a Teheran. Anche in Iran le cose non andranno meglio: a marzo
comincia il periodo preelettorale in vista delle elezioni parlamentari, e Rouhani, dicono i
diplomatici occidentali a Teheran, avrà ancora meno libertà d’azione.
Dietro le quinte i negoziatori a Vienna ne sono consapevoli: «La proroga non è un buon
segno. Perché in realtà non siamo mai arrivati vicini a un accordo», ha confidato uno dei
negoziatori a un giornale tedesco. Due i numeri chiave: quello delle centrifughe per
l’arricchimento dell’uranio che saranno lasciate all’Iran e quello degli anni in cui resteranno
in vigore le restrizioni. L’Iran ha oggi 9600 centrifughe operative e ne ha già installate altre
10.000 che però restano inattive in osservanza dell’accordo di Ginevra.
3
del 25/11/14, pag. 17
Obama silura il capo del Pentagono
Chuck Hagel costretto a dimettersi a causa delle divergenze sulla
strategia di lotta all’Is Una donna, l’ex sottosegretaria alla Difesa
Michèle Flournoy, favorita per la successione
FEDERICO RAMPINI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
NEW YORK .
Ora lo descrivono come un ministro della Difesa deludente, quasi un fallimento. E per di
più, sempre schierato dalla parte sbagliata, nelle dispute sulla strategia da adottare in
Siria, Iraq, Afghanistan. Forse è diventato un capro espiatorio, di fronte all’imprevista e
folgorante ascesa dello Stato islamico. Chuck Hagel, ex senatore repubblicano del
Nebraska cooptato nell’esecutivo di un presidente democratico, se n’è andato dopo meno
di due anni. Il commiato è stato cortese, come comanda il galateo istituzionale. Barack
Obama ha detto di essergli «eternamente grato per il suo servizio», Hagel ha risposto che
la nomina alla Difesa è stato «il più grande privilegio della mia vita». Ma al di là delle
buone maniere, il licenziamento è stato brutale, improvviso. Conferma l’insoddisfazione di
Obama per il comportamento del Pentagono, e la volontà di Obama di imprimere una
svolta. Che potrebbe, simbolicamente, portare la prima donna al vertice delle forze
armate: in pole position per succedere a Hagel c’è l’ex sottosegretaria alla Difesa Michèle
Flournoy.
Un’altra donna figura in cima alla lista degli avversari di Hagel: Susan Rice, la National
Security Adviser di Obama, una figura che oggi conta più del segretario di Stato. La Rice,
di cui Obama ha la massima fiducia, si scontrava sempre più spesso con Hagel. Per il
Pentagono, invece, il segretario alla Difesa è caduto vittima di un vizio di Obama: il micro
management, ovvero il voler decidere nei dettagli anche ciò che sarebbe di competenza
dei singoli dicasteri. È una critica già echeggiata in passato quando alla Difesa ci furono
Robert Gates (repubblicano) e Leon Panetta (democratico).
Per i consiglieri di Obama, se il mandato di Hagel è durato solo 22 mesi la colpa è soltanto
sua. La Casa Bianca ha espresso insoddisfazione e frustrazione di fronte alle “opzioni”
che Hagel aveva presentato per la strategia di lotta allo Stato Islamico. Di certo non hanno
giovato al segretario uscente le troppo frequenti esternazioni di generali che continuano a
ipotizzare un invio di truppe terrestri su quel fronte. Anche in Afghanistan le scelte da fare
sono oggetto di duri scontri all’interno di questa Amministrazione. La settimana scorsa è
trapelato che Obama lascerà “missioni da combattimento” ai 9.800 soldati americani
destinati a rimanere in Afghanistan per tutto il 2015. Si prolungano anche i raid aerei, con
cacciabombardieri e droni. Resta da verificare se le operazioni militari contro i Taliban
proseguiranno anche nel 2016 e oltre, contravvenendo a una solenne promessa del
presidente. Il Pentagono preme per rimane- re anche su quel fronte, dopo essere ritornato
in Iraq.
È proprio la “lezione irachena”, quella che i generali stanno usando per premere su
Obama: guai a ritirarsi prematuramente da un fronte che potrebbe essere riconquistato
molto in fretta dal nemico. Ma il presidente non tollera che la pressione dei generali si
trasformi in un vero e proprio lobbying politico, con la sponda dei repubblicani che hanno
la maggioranza nei due rami del Congresso. Il segretario alla Difesa dovrebbe essere un
“uomo del presidente”, non un burattino manovrato dai generali o dai falchi della destra. A
difendere Hagel, non a caso, ieri è subito intervenuto il suo compagno di partito John
4
McCain, l’ex avversario di Obama nell’elezione presidenziale del 2008. McCain, che in
seguito alla vittoria dei repubblicani nel voto legislativo tornerà a presiedere la
commissione Esteri del Senato, di fronte alle dimissioni ha dichiarato: «So che Chuck era
frustrato per diversi aspetti della strategia di sicurezza nazionale, e per il processo
decisionale in seno a questo esecutivo».
In realtà a suo tempo Hagel era stato oggetto di un tiro al bersaglio anche dai suoi
compagni di partito. I repubblicani al Senato fecero una battaglia di ostruzionismo contro la
sua nomina, rendendolo fin dall’inizio ancora più debole in seno all’Amministrazione. Ora il
processo di conferma della nomina del successore sarà ancora più in salita. Con l’elezione
presidenziale del 2016 all’orizzonte, e una maggioranza repubblicana ringagliardita dal
successo elettorale, la politica estera e militare dell’America torna ad essere più che mai
un terreno di posizionamento dei futuri candidati alla Casa Bianca.
Del 25/11/2014, pag. 7
Si dimette Hagel, Obama sempre più
azzoppato
Stati Uniti. Il ministro della Difesa che aveva preso il posto di Leon Panetta era a
disagio con il decisionismo presidenziale. Secondo una fonte del governo «non era
all’altezza». Ora il sostituto dovrà essere sottoposto al voto di un Congresso furioso
per il decreto sull’immigrazione
Luca Celada
Con le improvvise dimissioni del ministro della Difesa Chuck Hagel l’amministrazione
Obama perde una figura di spicco del governo, in vista di un biennio conclusivo che promette di essere il più difficile del suo mandato. Hagel era l’unico membro repubblicano
dello staff della national security, un moderato che era succeduto a Leon Panetta nel febbraio del 2013. Nel darne l’annuncio ieri mattina Obama ha affermato che «se gli Stati
Uniti oggi possono vantare le forze armate più potenti che il mondo abbia mai conosciuto
lo si deve all’investimento in finanze e in sangue di molte generazioni e al carattere dei
suoi leader». Il presidente ha ringraziato il dimissionario 24mo ministro della Difesa ricordando di averlo nominato «in un momento in cui le forze Usa affrontavano un periodo di
importante transizione caratterizzato dal drawdown in Afghanistan, il bisogno di preparare
le forze armate a future missioni facendo al contempo fronte a «difficili decisioni fiscali».
Obama ha elogiato l’operato di Hagel nel gestire «una maggiore presenza americana in
Europa centrale e orientale», il rafforzamento della Nato e dell’alleanza con paesi asiatici,
compresa la Cina, oltre che i nuovi impegni militari e umanitari, specificamente l’escalation
delle missioni contro l’Isis in Iraq e Siria e le operazioni in Africa per combattere Ebola.
Missioni che confermano, ha concluso Obama come le forze armate americane siano oggi
la «maggiore forza di bene» al mondo. Dietro ai convenevoli di circostanza tuttavia ci
sarebbe qualcosa di meno roseo della decisione volontaria di «concludere il proprio servizio» citata nella conferenza stampa. Secondo fonti all’interno dello stesso dipartimento
della difesa Hagel sarebbe stato spinto alle dimissioni senza tanti complimenti a causa di
crescenti diverbi con la Casa bianca sulla gestione in particolare delle operazioni di Iraq
e Afghanistan dove la “smobilitazione” di due anni fa è stata sostituita da una escalation su
due fronti. L’intensificazione delle operazioni anti-Isis hanno ribaltato lo scenario della riduzione delle operazioni (e dei bilanci) militari che Hagel era stato chiamato a gestire. E contrariamente a quanto affermato ancora ieri da Obama la «fine delle operazioni afghane»
5
annunciata entro il 2015 appare ora assai più dubbia e flessibile. Proprio la scorsa settimana è trapelata la notizia che le «operazioni offensive» in Afghanistan potrebbero protrarsi ben oltre il limite annunciato. Hagel, ministro moderato scelto per gestire una «decrescita» si sarebbe insomma trovato fuori sincrono con un presidente riscoperto «decisionista» o, come dichiara più asciuttamente una fonte del governo, «Hagel non era all’altezza
del compito». Secondo I repubblicani si tratta invece dell’ennesimo esempio di fallimentare
politica estera dell’amministrazione Obama. Il senatore McCAin, capo dei falchi Gop, ha
suggerito che la dipartita di Hagel sia stata determinata dalle interferenze della Casa
bianca nella gestione della politica estera. Simili accuse sono state avanzate da Leon
Panetta, predecessore di Hagel allo stesso dicastero, nella recente autobiografia in cui
imputa a Obama un ritiro «prematuro» dall’Iraq e un «temporeggiamento» sulla Siria che
avrebbero entrambi favorito la degenerazione della situazione mediorientale. Dal canto
suo Obama, che durante tutto il mandato ha mostrato un inquietante predisposizione alle
operazioni covert utilizzando Cia, droni e forze speciali, non ha sicuramente favorito i rapporti sereni col Pentagono. Qualunque siano i retroscena, l’amministrazione perde, dopo il
ministro di giustizia Holder, un altro pezzo cruciale nel momento meno propizio per il presidente “azzoppato” dalla recente cocente sconfitta elettorale che perdipiù ora dovrà sottoporre un sostituto a un congresso la cui maggioranza, inferocita dal decreto
sull’immigrazione, ha ogni motivo per ostacolarlo.
del 25/11/14, pag. 18
Il bancomat di Putin per i nazionalisti
d’Europa In fila anche la Lega “Ogni aiuto ben
accetto”
Esplode il caso dell’oro russo dopo i fondi alla Le Pen Gli analisti:
dall’Ukip all’Afd, strategia per far implodere la Ue
ETTORE LIVINI
NICOLA LOMBARDOZZI
MOSCA
DIFFICILE che nel faccia a faccia di metà ottobre a Milano, e poi nella sua visita lampo a
Mosca della settimana successiva, Matteo Salvini possa avere ottenuto molto di più che
una forte comprensione e un potente riconoscimento internazionale. I 9 milioni di euro
concessi alla Le Pen, attraverso una banca ceco-russa sono frutto di una ben più lunga
intesa politica che risale addirittura al padre Jean-Marie. E anche del fatto che Mosca
ritiene la Francia assai più ostile dell’Italia dove, sotto sotto, nemmeno il governo in carica
viene ritenuto visceralmente anti russo come “il perfido Hollande”. Ma la speranza che
prima o poi aiuti in denaro possano arrivare in qualche modo da Mosca è rimane accesa
nel clan di Salvini. Lui stesso conferma: «Noi facciamo un appello politico a tutto il mondo
e ogni aiuto è ben accetto, anche perché abbiamo 70 dipendenti in cassa integrazione».
Ma precisa: «Finora non è arrivato né un rublo né un euro. E non ci interessa chiederlo. Il
nostro appoggio alla Russia è totalmente disinteressato».
UN po’ per amore del vecchio metodo sovietico, un po’ per ripicca contro gli Usa che
starebbero facendo altrettanto, Putin ha deciso di sostenere, accreditare e perfino
finanziare una lista di partiti che in qualche modo possano creare problemi ai cosiddetti
“governi ostili” e scompiglio nelle politiche dell’Unione europea.
6
Come? Il canale bancario — come è successo con la Le Pen — resta in teoria la strada
più semplice e trasparente. La moral suasion del Cremlino, nel settore, è altissima. Cinque
istituti di credito sono finiti nella lista delle sanzioni Ue e Usa. Tra di loro la Rossiya Bank
di Yuri Kovalchuk e Nikolaj Shamalov (membri della Ozara Dacha, la cooperativa degli
anni ‘90 da cui sono usciti i padroni della nuova Russia, Putin compreso) etichettata dalla
Ue come «la banca personale dei vertici della repubblica russa». Esistono poi altri canali
di finanziamento più tortuosi ma molto più efficaci per occultare i mandanti: il rapporto
2007 messo a punto dalla Cia sul tesoro nascosto di Putin — mai reso noto — descriveva
secondo fonti d’intelligence Usa complesse triangolazioni nel mondo del trading energetico
su petrolio e gas che coinvolgevano molti uomini dell’entourage del presidente. Una
girandola di intermediari che dai giacimenti siberiani fino ai consumi finali faceva salire i
prezzi della materia prima. Lasciando strada facendo piccole fortune nelle mani di chi
(anche politici stranieri, dice il tam-tam a Washington) garantiva il suo appoggio alla linea
di Mosca. Oggi, spiega un recentissimo rapporto di Political Capital Research — un
thinktank ungherese che già nel 2009 raccontava dei rapporti tra Putin e l’estrema destra
europea — il “soccorso rosso” a Le Pen & C. arriva anche in forme più immateriali:
assistenza tecnica nell’organizzazione di manifestazioni, aiuti professionali con personale
specializzato, accesso ai network media e internazionali sfruttando le liaison del Cremlino.
Partite di giro che si chiudono spesso attraverso Ong e associazioni di amicizia bilaterali
sostenute dai rubli di Putin.
La lista dei possibili beneficiari, aggiornata quotidianamente dai consiglieri ultraconservatori che hanno conquistato la leadership nell’ufficio del Presidente, vede la Lega
ormai stabilmente ai primi posti dopo l’irraggiungibile Marine Le Pen. E insieme ad altri
partiti e movimenti che sembrano formare una vera e propria “Internazionale Nera”. Ci
sono gli austriaci del Partito Popolare, i tedeschi di Afd e gli olandesi del Partito della
Libertà, xenofobi e antieuro; i Tea party statunitensi, più a destra dei repubblicani; l’Ukip
del pittoresco alleato di Beppe Grillo, Nigel Farage; gli antisemiti ungheresi di Jobbik; i
“fratelli sla- vi” dei movimenti nazionalistici bulgari e serbi e polacchi; e in coda, per il
momento, perfino i neonazisti dichiarati greci di Alba Dorata. «Una miscela letale che mira
a far esplodere l’Unione europea dall’interno», dice Mitchell Orenstein, docente alla
Boston University e collaboratore della rivista Foreign Affairs lanciando un allarme molto
sentito negli Stati Uniti.
In Russia intanto, le fonti ufficiali tacciono. «Avete mai sentito un governo ammettere di
finanziare partiti stranieri? Sarebbe assurdo ma lo fanno tutti e gli americani in questo
sono maestri », dice una fonte assolutamente anonima degli uffici che contano. Ma come
si può giustificare un appoggio anche solo morale a una lista così impresentabile? La
chiave è semplice: tutti quanti, difendono quelli che il Cremlino ritiene «sacri valori della
tradizione, della famiglia e della cristianità». Applaudono alla omofobia di Stato di Mosca,
scimmiottano il nazionalismo di Putin nelle loro richieste punitive contro immigrati e
stranieri. L’anonimo del Cremlino spiega meglio: «Gli Stati Uniti finanziano rivoluzioni e
colpi di Stato, usando sempre il vecchio slogan della Guerra Fredda dell’esportazione
della democrazia. Lo hanno fatto palesemente in Ucraina dal 2004 al disastro di oggi. E
nelle rivolte del Nord Africa. Perfino con i nostri oppositori di piazza, quelli che fino a due
anni fa riempivano le piazze di Mosca con slogan anti-Putin preconfenzionati ». Non è poi
così vero. Le proteste di piazza, che sembravano assolutamente spontanee, sono semmai
state fatte fuori con leggi che hanno di fatto eliminato ogni forma di dissenso. E comunque
non spiega il sostegno alle forze di destra sempre meno moderata. Ma al Cremlino
nessuno si scandalizza: «L’Unione sovietica inviava gioielli e bonifici milionari ai partiti
comunisti, ai rivoluzionari del Terzo Mondo, qualche volta anche ai terroristi, con il pretesto
di diffondere la Rivoluzione proletaria. Adesso invece aiutiamo tutti coloro che ci aiutano a
7
combattere questa ondata di immoralità dell’Occidente. E nella lista non ci sono terroristi
ma partiti democraticamente eletti».
Parole che sono miele per Salvini e i suoi, e che invece non suonano molto piacevoli per
l’italiano che più di ogni altro in questi vent’anni è stato considerato il vero grande amico di
Putin. Gli ultimi anni di Berlusconi hanno però creato più di un imbarazzo al presidente
russo. Prima le storie troppo indecenti di olgettine, lap-dance e del famoso lettone di Putin
che, qui giurano, non è mai esistito. Poi una debolezza sul piano euroscettico e un fatale
declino politico che lo rende sempre meno utile per la causa. La botta finale è arrivata
dalla posizione di Forza Italia a favore dei matrimoni gay che, non a caso, Salvini continua
a sottolineare ad ogni occasione con studiato stupore.
Sorride il leader leghista e ne ha ragione. E spera in un messaggio di complimenti per la
sua vittoria elettorale. Privilegio finora concesso solo alla bionda Marine. Nelle sue
passeggiate moscovite mostrava con orgoglio una brutta maglietta con un Putin in
mimetica e aggressive scritte in cirillico. Robaccia al confronto di quelle più raffinate che si
possono trovare a soli dieci euro conoscendo i negozi giusti. Il suo trofeo feticistico
sbiancherà alla prima lavata. Ma forse il futuro potrebbe portare qualcosa di più che una tshirt.
Del 25/11/2014, pag. 7
A un anno da Euromajdan, Kiev pronta a
entrare nella Nato
Ucraina/Usa. Washington annuncia: nostre truppe fino al 2015 in
Lituania, Estonia, Lettonia e Polonia
Fabrizio Poggi
<<L’esercito americano resterà qui in Lituania, Estonia, Lettonia e Polonia il tempo necessario per appoggiare i nostri alleati e scoraggiare l’aggressione della Russia. Come
minimo per tutto il 2015», ha dichiarato ieri il Comandante delle forze di terra Usa in
Europa Frederick Ben Hodges. Parole senza equivoci. Un po’ meno, ma altrettanto indubbie, quelle del presidente ucraino Pëtr Poroshenko che, durante l’incontro a Kiev con la
Presidente lituana Dalia Grybauskaite, ha detto «Abbiamo messo a punto i criteri con cui
potremo soddisfare i requisiti richiesti dalla Nato. Solo dopo, il popolo ucraino deciderà con
un referendum se aderire o meno». Se si è dovuto attendere l’arrivo a Kiev, con la scusa
dell’anniversario di Majdan, del vice Presidente Usa Joe Biden, perché i 5 partiti di destra
entrati alla Rada con le elezioni del 26 ottobre riescano a firmare (forse dopodomani)
l’accordo per la coalizione di governo, su un punto l’intesa è stata rapida: la coalizione
intende abolire lo status di paese fuori dai blocchi, per riprendere il percorso di adesione
alla Nato. Adesione alla Nato e ingresso nella Ue, dunque, gli obiettivi dei golpisti usciti
da Euromajdan. Nello scorso fine settimana in Ucraina si è celebrata la Giornata della
dignità e della libertà: uno slogan europeista per santificare l’inizio di Euromajdan. Il 21
novembre 2013, una settimana prima della firma dell’accordo di associazione tra Ucraina
e Ue, l’ex presidente Viktor Janukovic annunciò la sospensione della firma. Tra i motivi
della decisione: da un lato, il disinteresse della Ue stessa, dimostrato dall’irrisorio aiuto
finanziario che Bruxelles avrebbe offerto, in cambio, all’Ucraina; dall’altro, la necessità di
uno studio più dettagliato sulle misure da adottare e sugli scambi commerciali con i paesi
della CSI. I Manifestanti si radunarono nella piazza centrale di Kiev per protestare contro
8
la decisione. Già a fine novembre le manifestazioni «europeiste» si trasformavano in incursioni nazionaliste e neonaziste; a febbraio 2014 c’erano già 100 vittime: i «cento celesti».
Il 22 febbraio la Rada suprema, ormai controllata dai nazionalisti, aboliva la legge che riconosceva il russo quale lingua regionale, vietava i canali tv russi e stilava una lista di artisti
(come avviene ora nei paesi baltici) cui era negato l’ingresso in Ucraina. Nel sudest del
paese, in cui è predominante la popolazione di lingua russa, iniziavano le proteste; il
7 aprile Kiev dava inizio alle operazioni «anti-terrorismo» e, una settimana dopo, alle operazioni militari, cui prendevano parte attiva i cosiddetti battaglioni di volontari, nazionalisti
e neonazisti. Il resto, purtroppo fino a oggi, è storia nota. E dopo le elezioni del 26 ottobre
il potere ucraino si è spostato ancora più a destra, come dimostra il corso delle operazioni
nel Donbass; l’accordo con la Lituania per la collaborazione nel settore degli armamenti
e il via libera Usa alle forniture militari servono allo scopo. Ma cosa attende l’Ucraina nei
prossimi mesi o settimane? Oltre ai 4.317 morti e 9.921 feriti (rapporto Onu del 18 novembre), gli eventi di quest’anno trascorso da Majdan hanno dato all’Ucraina un’inflazione al
19,8%, un debito pubblico — aumentato del 74,3% — che ha raggiunto i 63,29 miliardi di
dollari. Il volume della produzione si è ridotto del 18,6% e quello del commercio al dettaglio
del 6,8%; la produzione di energia elettrica è diminuita del 10,7%, l’estrazione del petrolio
del 5,3%; cresciute del 40–60% le tariffe sui servizi comunali. Svalutata quasi del 100% la
moneta: da 8 a 15 grivne per un dollaro. Per l’economista Sergei Bespalov, «agli Usa non
interessano l’economia e il mercato ucraini, quantomeno in termini economici». Tanto l’ex
Segretario di Stato Usa Henry Kissenger, che l’ex presidente ceco Vaclav Klaus rilevano
come Maidan sia nata a Washington, per legare l’Ucraina alla sfera d’influenza occidentale
e inserire un cuneo tra Russia e Ue. Il capo redattore del Kiev Telegraph Vladimir Skachko
dice: «Nessuno accoglie l’Ucraina nella Ue; le viene solo promesso. Appendono la carota
come esca davanti all’asino, e l’asino corre: può correre in circolo, in avanti, indietro, ma
non otterrà mai la carota». Proprio in questi giorni il premier ungherese Orbàn ricordava
come l’adesione di Kiev costerebbe alla Ue 25 miliardi di dollari l’anno. E per l’ex consigliere presidenziale Rostislav Ishchenko: «La popolazione è pronta a esplodere alla prima
scintilla. Ma non c’è una forza di opposizione (antinazista) in grado di mettersi a capo delle
proteste. Quindi, la situazione si evolverà probabilmente verso un altro golpe, ancora più
radicale», diretto in prima battuta contro Poroshenko, ma che potrebbe rivelarsi esiziale
anche per Yatsenjuk, che già ora rischia di finire sotto inchiesta per la perdita delle strutture del complesso militare-industriale nel Donbass. «Kiev non è in grado di vincere la
Novorossija» dice ancora Ishchenko; «le milizie avranno presto la meglio sui soldati
ucraini; ma potranno velocemente occupare tutto il territorio dello Stato solo se verranno
appoggiate da sollevazioni di massa nei centri regionali e nella capitale. Per ora si può
però pensare a sollevazioni antifasciste solo in 4 o 5 centri (Kharkov, Odessa, Dnepropetrovsk, Zaporozhe)». Ma non è escluso un ulteriore scenario, cioè che «dopo un nuovo
golpe a Kiev, la Galizia (regioni di Lvov, Ivano-Frank, Ternopol) proceda alla separazione
e alla costituzione di uno stato autonomo; e Lvov potrebbe avanzare pretese anche su
Transcarpazia (Uzhgorod), Bucovina (Cernovtsi), Volinia (Lutsk, Rovno)». Scenario jugoslavo, insomma;si quando USA atque Nato utilitati est.
Del 25/11/2014, pag. 9
Netanyahu insiste: Israele è solo degli ebrei
Tel Aviv. Il premier non torna indietro nonostante le proteste di alcuni ministri e dei
cittadini palestinesi. Ribadisce la sua ferma intenzione di far approvare dalla
9
Knesset la nuova legge che definisce Israele come Stato della nazione ebraica.
L'opinione pubblica è con lui
Michele Giorgio
<<Quale è stata la reazione qui ad Arara?…Silenzio e preoccupazione, qualche amico mi
ha chiesto che cosa sarà di noi adesso che il governo ha approvato quella legge. Alcuni
sperano ancora che sia respinta dalla Knesset». Parla senza tradire particolare emozioni
Mohammed Kabaha, attivista palestinese nella zona di Wadi Ara, nella bassa Galilea,
adiacente alla Cisgiordania. Un’area che ad oltre 60 anni dalla proclamazione di Israele
resta ancora a maggioranza palestinese. Perciò è un’area “a rischio”, dicono da queste
parti. Se un giorno Israele e Olp dovessero mettersi d’accordo su scambi territoriali, nel
quadro di un accordo finale (assai improbabile), Wadi Ara con le sue decine di migliaia di
abitanti palestinesi, sarà la prima zona che qualsiasi governo israeliano offrirà al futuro
Stato di Palestina in cambio delle porzioni di Cisgiordania dove sono situate le principali
concentrazioni di colonie ebraiche. Uno scenario che, temono i palestinesi della Galilea,
potrebbe rivelarsi concreto con la legge approvata domenica scorsa dal governo Netanyahu, volta a definire Israele “Stato della nazione ebraica”.
A differenza di molti suoi amici e conoscenti, Mohammed Kabaha, guarda le cose da un
altro angolo. «Penso che lo scenario del transfer sia possibile. Tuttavia – aggiunge – dobbiamo concentrarci sulle cose immediate e credo che questa nuova legge stia mostrando
al mondo intero il vero volto di Israele, ben diverso da quello che cercato di dare in tutti
questi anni. E noi palestinesi (in Israele) dobbiamo essere pronti ad usare politicamente
questa situazione per mettere fine alle discriminazioni del presente e del futuro». Sulla
stessa lunghezza d’onda è il deputato Ahmad Tibi che, l’altra sera, commentava che «Tutti
ora si concentrano su questa nuova legge ma la definizione sino ad oggi conosciuta di
Israele, Stato ebraico e democratico, già era un problema serio per le minoranze, per chi
non fa parte della maggioranza (ebraica) del Paese». Simili le considerazioni che giungono da varie ong ed associazioni israeliane, non solo arabe anche ebraiche, che, inoltre,
cercano di sottolineare che sono diversi i punti critici della nuova legge. Non ultimo quello
che proclama fonte di legge primaria il diritto religioso ebraico, superiore anche ai principi
della democrazia. In sostanza, dicono gli attivisti dei diritti umani e civili, la legislazione e le
sentenze dei giudici dovranno ispirarsi maggiormente ai valori ebraici, sarà sostenuta di
più l’educazione ebraica, per impedire che Israele diventi uno Stato di tutti i suoi cittadini.
Nessuno sa con quale testo finale la legge arriverà alla Knesset. Netanyahu ha annunciato
domenica che medierà tra le varie posizioni per garantire da un lato che Israele sia definito
“Stato della nazione ebraica” e dall’altro che sia assicurata l’uguaglianza di tutti i cittadini. Il
carattere democratico, ha argomentato, è radicato. Invece il carattere ebraico, secondo il
premier, anche all’interno di Israele, sarebbe messo in discussione dalla minoranza araba
e da diverse ong. Netanyahu sostiene che gli arabo israeliani (come sono definiti ufficialmente i cittadini palestinesi, 20% della popolazione) intenderebbero creare propri Stati in
Galilea e nel Neghev. «Quello dello Stato nello Stato è un pretesto creato ad arte per giustificare certe decisioni politiche figlie del sionismo più estremista – sostiene Maha Masri,
una insegnante di Acri – tutti sanno che la minoranza araba in Israele vuole solo uguaglianza a tutti i livelli con i cittadini ebrei». Il disegno di Netanyahu e del ministro ultranazionalista Naftali Bennett, secondo l’insegnante, «è quello di fare del futuro Stato di Palestina
(che potrebbe un giorno nascere in Cisgiordania e Gaza, ndr) un contenitore di tutti i palestinesi e di costruire un Israele senza più arabi al suo interno». Secondo altre interpretazioni, la nuova legge rappresenterebbe anche una risposta indiretta alla Corte Suprema
che nei mesi scorsi ha annullato una norma anti-immigrazione in Israele. In futuro i giudici
avranno le mani legate. Ai vertici dell’establishment politico ed istituzionale israeliano il
dibattito si concentra sullo scontro tra Netanyahu e i sei ministri centristi capeggiati da
10
Tzipi Livni e Yair Lapid contrari al suo progetto. La legge solleva talmente tanti dubbi di
legittimità democratica che persino due esponenti politici dichiaratamente sionisti come
Livni e Lapid, si dicono non disposti ad appoggiarla e si aspettano che il premier consegni
alla Knesset un testo molto più morbido rispetto a quello approvato domenica. Forti perplessità hanno manifestato anche il Procuratore generale dello Stato Yehuda Weinstein e i
capi dell’opposizione di centrosinistra. E’ probabile, spiegano gli analisti, che Netanyahu
stia cercando di guadagnare il consenso della parte più oltranzista della destra israeliana,
perchè è uscito “non vittorioso” dall’offensiva contro Gaza della scorsa estate. Bennett lo
tiene sotto pressione nei sondaggi. «Si parla con insistenza di elezioni anticipate e Netanyahu si rivolge al suo elettorato, al suo partito, facendo leva sui sentimenti più nazionalistici allo scopo di guadagnare voti» ‚ci spiega il giornalista Shimon Schiffer di Yediot Ahronot. «E i provvedimenti nei confronti dei palestinesi che (il premier) ha varato in questi
giorni – aggiunge — e la nuova legge godono dell’appoggio di larga parte degli israeliani,
sempre più spostati a destra».
Del 25/11/2014, pag. 7
“Podemos”: è in Spagna il modello degli
orfani della nostra sinistra
Un po’ Tsipras,un po’ Grillo, il movimento nato dagli Indignados è primo nei
sondaggi
Un “partito” che aiuta i cittadini e combatte “la casta”: può funzionare in Italia?
Francesco Olivo
A Madrid non si parla d’altro: Podemos, la nuova formazione nata dalle piazze degli
Indignados, è il primo partito secondo i sondaggi. Un successo fulmineo, che negli ultimi
tempi ispira anche la sinistra radicale italiana. Il fenomeno Tsipras è, dalle nostre parti, un
po’ in ombra, alle Europee non è andata bene, tanto che della lista che portava il suo
nome si sono perse le tracce. Il modello vincente, o perlomeno di sopravvivenza elettorale,
arriva adesso dalla Spagna. Un partito nuovo, è nato nel gennaio scorso, un leader, Pablo
Iglesias, dall’eloquio affascinante e con un look giovanile, che non ha paura di farsi
chiamare «segretario politico». Insomma, una sinistra che sa reinventarsi e che piace ai
giovani, un esempio da seguire per chi a sinistra non digerisce le scelte di Renzi, ma non
può accontentarsi dello scarso appeal di Sel.
Gli altri partiti spagnoli si mobilitano «contro il populismo», accusa che richiama il dibattito
italiano. Le somiglianze con i Cinque Stelle esistono, ma sono più di forma che di
sostanza: uso abile dei social network, primarie online e sfida alla «casta» (in italiano). Il
cavallo di battaglia di Podemos è la lotta all’austerità, con accenti duri, propri della sinistra
radicale, ma senza ipotesi di uscita dalla moneta unica. Più Tsipras che Grillo, tanto che la
maggior parte degli eletti al Parlamento europeo fa parte del gruppo guidato dal politico
greco. Il successo, per ora virtuale, è arrivato velocissimo. Nemmeno il tempo di trovare
una sede che non sia un sottoscala. Mentre prosegue la ricerca immobiliare, Podemos (in
spagnolo «possiamo»), compie balzi incredibili. Secondo un sondaggio pubblicato ieri dal
Mundo, il movimento avrebbe scavalcato popolari e socialisti, inedito assoluto nella storia
politica del paese: 28,3%, più del quadruplo dei voti presi alle Europee, due punti in più del
partito di Rajoy, con il Psoe dell’astro nascente Pedro Sanchez fermo al 20%.
Il terremoto è totale, gli imprenditori sono spaventati, e serve immaginazione per realizzare
che tutto nasca da questo scantinato a Calle de Zurita, venti metri quadri con saracinesca
11
sporca, nel cuore di Lavapiés, quartiere interetnico di Madrid. Un po’ stupita sembra anche
Fabiola Lopez, volontaria che da sola presidia il locale, lo pulisce e risponde alle richieste
dei cittadini: «Ha letto El Mundo? Siamo primi – spiega, mentre sposta tavoli e piega
volantini - forse è tempo di spostarsi in una sede più adeguata. Ma non abbiamo
finanziamenti pubblici, non abbiamo nessun eletto in Spagna, andiamo avanti con
donazioni online e con il merchandising». Sulle quattro mura campeggiano fotografie
dell’assemblea che ha proclamato segretario Iglesias, professore universitario con
destrezza mediatica. Nella Spagna dilaniata dalla crisi, il nuovo partito acquista consensi
anche con un ruolo di mediazione sociale: aiuta i cittadini nel pagamento delle tasse,
nell’iscrizione alle liste di disoccupazione, pure gli stranieri vengono alla Calle de Zarita
per chiedere una mano. Basta uno sguardo superficiale alle pareti per capire che lo slogan
di Iglesias «né destra, né sinistra» sia un espediente retorico. Fondatori, volontari e
simpatizzanti hanno storie e linguaggi di sinistra, tanto che a fare le spese del boom sono
Izquierda Unida e socialisti. Se alle politiche del 2015 finisse così, si produrrebbe uno
stallo simile a quello italiano, con tre partiti nemici che non possono governare soli. Il
tema, quindi, è quello delle alleanze: «Con Podemos nessun accordo possibile», spiega il
socialista Sanchez. Una grande coalizione con i popolari è impensabile. Un patto con il
nuovo partito lo chiede a gran voce Izquierda Unida. «Andiamo insieme», dicono i baschi
di Bildu. Loro tacciono e, nel dubbio, evitano di presentarsi alle amministrative della
prossima primavera.
12
INTERNI
del 25/11/14, pag. 2
Il patto del Nazareno ora rischia di saltare
Renzi: “Avanti anche soli alla palude dico no”
Dopo le elezioni regionali Berlusconi non garantisce la tenuta Contatti
con il premier. Ritorna l’ipotesi del voto anticipato
CLAUDIO TITO
ROMA .
«Io mi sono stancato di trattare. Di farlo con tutti. Così diventa una palude». Ci può essere
già una prima vittima, al momento invisibile e non dichiarata ufficialmente, di questo
terremoto elettorale che ha avuto il suo epicentro in Emilia Romagna. È il patto del
Nazareno. L’accordo tra Matteo Renzi e Silvio Berlusconi sulle riforme. Sull’Italicum e
sull’abolizione del Senato. Nessuno lo dice apertamente, ma le sue fondamenta rischiano
di sbriciolarsi. La sostanziale implosione di Forza Italia sta infatti mettendo all’angolo la
sostanza e la tempistica di quell’accordo. La disaffezione mostrata dalla tradizionale base
del consenso Pd non aiuta certo a puntellare un edificio che già scricchiolava. Aprendo
così uno scenario che in questa fase sembrava accantonato: le elezioni anticipate.
Il premier lo ha capito e ha iniziato a adottare le precauzioni del caso. Lo ha fatto nel volo
che lo riportava da Vienna e poi dal suo studio a Palazzo Chigi. Inviando allo stato
maggiore forzista una serie di messaggi piuttosto netti: «Avanti con voi o senza di voi. Di
certo non accetto la palude». Ha parlato con Denis Verdini e con Gianni Letta. Li ha quasi
minacciati: «Noi andiamo avanti anche senza di voi, non stiamo dietro alle fobie di
Brunetta. La riforma elettorale sta in piedi anche senza di voi».
Ma il punto è proprio questo. È che la potenziale palude non può più essere prosciugata
dal Cavaliere. Forza Italia ha più che dimezzato i voti in Emilia Romagna e anche in
Calabria. Soprattutto nella regione rossa è stata doppiata dalla Lega di Salvini. Il Carroccio
si sta trasformando nel “motore” del centrodestra e tra i forzisti è scattato il panico. Il
partito è “balcanizzato”. Si è formata una corrente maggioritaria che punta esplicitamente
a cancellare la leadership dell’ex premier. I gruppi parlamentari stanno assumendo
sempre più una struttura “anarchica”: tutti vanno in ordine sparso. Berlusconi e i suoi
luogotenenti non sono allora in grado di fornire alcuna garanzia sulle prossime scadenze
parlamentari. Tanto da dover riformulare a Palazzo Chigi la richiesta già avanzata due
settimane fa: «Serve un po’ di tempo». Oggi riuniscono l’ufficio di presidenza di Forza
Italia per provare a correre ai ripari. Ma tutto appare più friabile.
Del resto è proprio la dote del «tempo» che il presidente del consiglio a questo punto ha
esaurito. Renzi rivendica il risultato di questa tornata amministrativa. Parla di due a zero,
di vittoria. Ma sa che sotto il velo del successo da parte dei “suoi” governatori, si è
accumulata una “polvere politica” difficile da spazzare. Anche il Pd ha perso nel giro di sei
mesi oltre il 50% dei voti in termini assoluti andando ad ingrossare le file
dell’astensionismo. Il capo del governo tutto può fare tranne che concedere un’altra
dilazione. Anzi, deve serrare. Presentare ai suoi militanti un saldo concreto anche in vista come minimo - della successiva tornata amministrativa: quella primaverile con ben sette
regioni. «La legge elettorale subito».
Berlusconi, in realtà, vorrebbe rispettare il patto. È combattuto tra il “cerchio magico” e gli
amici di sempre come Letta, Confalonieri e Doris. Il Cavaliere, però, non è più il «sole che
illumina » come si definiva lui stesso. È una stella cadente cui pochi nei suoi gruppi
13
parlamentari credono ancora. Anzi, quasi tutti gli rimproverano l’«appiattimento » sul
governo a guida Pd. Insomma, un vero e proprio corto circuito che sta minando le basi di
questa legisla- tura già nata zoppa.
Nel suo ufficio a Palazzo Chigi il segretario democratico ha iniziato a mettere in campo le
contromisure. Vuole il sì all’Italicum entro dicembre o al massimo a gennaio. Teme più di
ogni altra cosa il pericolo di subire la metamorfosi della lumaca: movimenti lenti nel terreno
melmoso delle estenuanti e infinite negoziazioni. Ma senza i forzisti con chi può accelerare
il passo? Nel pallottoliere del presidenza del consiglio già vengono associati alla
maggioranza governativa una ventina tra ex grillini e grillini in via d’uscita. Anche la Lega
di Salvini? «No, sarebbe un errore tattico rincorrerlo adesso. La legge elettorale funziona,
loro devono decidere cosa fare. Noi andiamo dritto. Il Pd non è mai stato così forte e
governiamo ovunque».
Eppure il quadro è meno limpido di quanto lo voglia descrivere il premier. Perché i voti in
Parlamento dei berlusconiani non sono così facilmente sostituibili sulle riforme. E la
probabile prossima elezione del presidente della Repubblica offre a tutti i suoi avversari
una formidabile arma di ricatto. Anche dentro il suo partito, dove il fronte della minoranza
bersaniana ha ripreso fiato proprio dopo il “caso” Emilia. «Le elezioni - ripete però Renzi servono a indicare chi governa e non solo per contare quanti votano». E rispondendo
proprio a Pierluigi Bersani ha un moto di stizza: «Di fronte a qualche Solone del giorno
dopo che solleva il tema dell’affluenza alle urne in maniera strumentale, è il caso di
ricordare che da febbraio a oggi il Pd ha riportato a casa quattro regioni. Non possiamo
aspettare l’analisi del voto interessata di quelli che non hanno mai vinto ».
In questi giorni, però, l’esecutivo dovrà affrontare un altro test: il Jobs act. «Alla fine osserva però il capo del governo su oltre trecento deputati oggi (ieri ndr.) hanno votato
contro l’abolizione dell’articolo 18 solo in 17». Come a dire che il fronte interno non è così
preoccupante.
Ma lo diventerà quando si voterà a scrutinio segreto sul successore di Napolitano. E allora
una legislatura tenuta in vita dall’ossigeno del patto sulle riforme, potrebbe
improvvisamente rimanere senza fiato e precipitare nelle urne. Non è un caso che il
vicesegretario del Pd, Lorenzo Guerini, ieri dicesse con una punta di malcelata
soddisfazione: «Per noi Salvini è l’avversario ideale. Se lui è contento, lo siamo anche noi.
E se domani ci fossero le elezioni politiche, ci basterebbe un’affluenza del 75% per
arrivare al 50% dei seggi». E non può essere una semplice coincidenza che nei giorni
scorsi il ministro delle riforme, Maria Elena Boschi, dicesse senza troppi giri di parole che
si può tornare al voto «con due sistemi diversi»: l’Italicum alla Camera e il Consultellum al
Senato. Anche dopo questo novembre è difficile mettere ancora in calendario il via libera
alle riforme costituzionali: senza il sì dei forzisti, nessuno può pensare di condurre in porto
l’abolizione di palazzo Madama. E le chance che tutto rotoli verso le elezioni anticipate
stanno progressivamente aumentando. Con un grande ostacolo di mezzo però: le
dimissioni di Napolitano e la scelta del nuovo capo dello Stato.
del 25/11/14, pag. 1/4
DI STEFANO FOLLI
Le 24 ore che hanno cambiato la legislatura
Il voto di due sole Regioni ha terremotato la scena politica e costringe
Renzi a correre
14
SI È capito il giorno dopo quanto il risultato dell’Emilia Romagna abbia cambiato lo
scenario politico. L’agenda della vigilia, fatta di lente trattative intorno alle riforme in attesa
che il patto del Nazareno offrisse il miracolo di qualche frutto concreto, è stravolta. Forse
non poteva essere altrimenti. Il Pd è uscito dalle urne vincitore ma devastato. Quei
700mila voti persi sono un drammatico allarme. Obbligano Renzi a guardare cosa sta
succedendo nella base del partito di cui è segretario e a correre ai ripari. Quanto a
Berlusconi, l’altro contraente del patto, è il grande sconfitto del voto insieme a Beppe
Grillo.
Per ore il presidente del Consiglio ha enfatizzato la conquista dei due «governatori » a
Bologna e a Reggio Calabria e ha definito «fatto secondario» la valanga dell’astensione.
Voleva rassicurare se stesso e i suoi. Ma in cuor suo Renzi ha sempre saputo che le
conseguenze del voto non sono positive: al contrario, sono destabilizzanti. Escludono, in
ogni caso, che il «partito di Renzi» possa accettare il «tran tran» di riforme sempre
annunciate e mai realizzate. Non è nella psicologia del personaggio e nel suo interesse
politico. Del resto, la fuga dalle urne a Bologna anticipa una trappola parlamentare: quella
che scatterà a Montecitorio il giorno in cui si comincerà a votare per il nuovo capo dello
Stato, se Renzi arriverà a quella scadenza senza intese politiche credibili e senza
strumenti per obbligare alla resa i più riottosi del suo partito.
Quindi lo scenario è cambiato. È in corso uno sforzo del premier per verificare quanto
Berlusconi sia in grado di controllare i suoi parlamentari e quanto abbia ancora voglia di
essere fedele al patto. Su quest’ultimo punto, ci sono pochi dubbi: Berlusconi intende
rimanere alleato di Renzi perché lì e non altrove è il suo interesse. Ma non è detto che ci
riesca, almeno non nel modo determinato che Renzi considera oggi indispensabile. Il voto
in Emilia Romagna ha dato il senso a molti parlamentari di Forza Italia che la partita è
finita, che l’era di Arcore è conclusa, che il domani probabilmente appartiene a Salvini. Se
non siamo al rompete le righe nel centrodestra, poco ci manca.
Renzi si muove sul palcoscenico di questo singolare “day after” con l’ansia di arrivare
presto a un risultato. Che oggi può essere solo la riforma della legge elettorale secondo lo
schema tracciato nell’ultimo incontro con Berlusconi. Ma sono pochi quelli convinti che il
centrodestra nel suo complesso abbia voglia di impegnarsi in tal senso. Il ragionamento è
semplice: legge elettorale vuol dire elezioni anticipate a breve; Forza Italia è quasi
azzerata, quindi non ha interesse a correre alle urne; ergo — si ragiona — perché
dobbiamo fornire i nostri voti per consentire a Renzi di metterci un cappio intorno al collo?
Al netto della spavalderia, il presidente del Consiglio sa di dover giocare una partita
delicata. Può convincersi che le riforme si possono fare con il sostegno della sua
maggioranza, più qualche transfuga «grillino» o altro. Eppure la riforma elettorale è una
legge di sistema che difficilmente può vedere la luce a colpi di maggioranza. Specie
quando la situazione all’interno del Pd — sempre a seguito dell’Emilia Romagna — è
tutt’altro che serena. L’astensione ben oltre il 60 per cento ha creato un «buco nero» che è
pericoloso irridere o minimizzare come episodio secondario o danno collaterale. C’è un
pezzo di storia della sinistra italiana in quello sciopero del voto. E la sfida di Renzi con il
suo «partito della Nazione» consiste nel non perdere consensi a sinistra prima di aver
conquistato in modo stabile i voti moderati di una parte del centrodestra. Per ora l’obiettivo
resta lontano. Commettere un errore nel dopo-Emilia Romagna significa pregiudicarlo per
sempre.
15
del 25/11/14, pag. 3
Il premier minimizza “Astensione secondaria
quello del Pd è un 2 a 0”
ROMA .
La valanga di astensioni? «La non grande affluenza è un fatto che deve preoccupare tutti
ma che è secondario».
Matteo Renzi minimizza le urne vuote in Emilia e Calabria ed esalta la vittoria del Pd, dato
che in ogni caso «oggi non tutti i partiti hanno perso, e chi ha contestato le riforme del
governo può valutare il risultato ottenuto». E se a caldo il premier ha commentato con un
2-0 la vittoria, il risultato definitivo diventa un cappotto se sommato alle ultime tornate
elettorali: «Ci sono state, negli ultimi 8 mesi, cinque elezioni regionali: il mio partito ha
vinto 5 a 0, e ci siamo presi quattro regioni dal centrodestra. Oggi una qualsiasi persona
normale dovrebbe essere felice per questo». Siluro chiaramente diretto alla minoranza
interna. «L’agenda di governo non cambia».
Sulla lettura “calcistica” del voto ha però da ridire Roberto Saviano, «2-0 netto. La
metafora calcistica è una costante della nostra classe dirigente. Cittadini tifosi, Parlamento
stadio».
Ma è dentro e fuori il Pd che si scatenano dure polemiche col premier, soprattutto per
l’imbarazzante 37 per cento di votanti nella ex roccaforte “rossa” emiliana. Frutto anche
della rottura di Renzi con la Cgil? L’esito del voto finisce per rendere più incandescente lo
scontro con la Camusso. Per la leader della Cgil «nessuno può rivendicare risultati
esaltanti, visto il crollo della partecipazione», convinta che l’astensione «sia frutto del
livello di divisione e frammentazione nel paese creato nel paese». E al premier non
perdona di aver messo sullo stesso piano la Lega, («ha asfaltato Forza Italia e Grillo»,
constata Renzi) e la Cgil, presentata come una specie di “altra faccia” del rifiuto al
governo, e peraltro perdente (nei risultati di domenica esce male la sinistra filo Camusso).
«È un paragone insultante», s’indigna la segretaria della Cgil. Per gli iscritti al sindacato,
per l’azione quotidiana all’unificazione del mondo del lavoro che invece «le scelte del
governo vogliono dividere». La Camusso rispedisce al mittente, con gli interessi: «Quando
Renzi si permette di dire che Cgil e Lega sono la stessa cosa, non capisce che in Italia è
in corso una lotta ad un razzismo di ritorno che non è solo sul colore della pelle ma anche
sulla paura della povertà». Sulla stessa lunghezza d’onda anche Maurizio Landini. Renzi
sbaglia a sottovalutare l’astensione. «Come fa uno a governare una regione, e più in
generale un Paese — chiede polemicamente il segretario della Fiom — quando
rappresenta un’assoluta minoranza?».
del 25/11/14, pag. 6
Partito in rivolta contro Berlusconi
Risultato sotto ogni aspettativa, non raggiunti nemmeno duecentomila
voti. Fitto e decine di parlamentari chiedono l’azzeramento delle
cariche. Oggi l’ex Cavaliere alla resa dei conti nel comitato di
presidenza
CARMELO LOPAPA
16
ROMA .
Forza Italia è esplosa, del resto bastava una scintilla. Invece i 100.478 voti raccolti in
Emilia (neanche il 9 per cento), sommati ai 95.935 in Calabria (sotto i 200 mila in totale, su
5 milioni e mezzo di votanti) appiccano un incendio. Silvio Berlusconi è tramortito da un
risultato oltre le peggiori previsioni, la situazione gli sfugge di mano e rianima gli oppositori
interni. Adesso di azzurro resta colorata una sola regione, la Campania di Caldoro che va
al rinnovo in primavera.
Raffaele Fitto e decine di parlamentari con lui invocano l’«azzeramento di tutte le nomine»,
vogliono radere al suolo e rifondare il partito, sottrarlo al cerchio magico. Matteo Salvini
punta dritto allo scettro del centrodestra, «siamo la vera alternativa a Renzi». Così, mai
come in queste ore la stessa leadership di Berlusconi è messa in discussione. Altri, da
Brunetta a Minzolini, vorrebbero vedere stracciato il patto del Nazareno e la linea
trattavista con Renzi.
Il capo di Forza Italia invece quel patto vorrebbe difenderlo a oltranza, ma ha perso ormai
il controllo dei gruppi. Il quadro è fin troppo chiaro, tanto che l’ex premier convoca per oggi
pomeriggio il comitato di presidenza. Sarà l’estremo tentativo di riprendersi il partito, di
«spianare » l’opposizione a modo suo, prima di cantarle pubblicamente in occasione della
presentazione del libro di Bruno Vespa in serata. «Con questo attacco, nel momento per
noi più delicato, Fitto e tutti i suoi si sono messi fuori dal partito, di certo la ricandidatura se
la sognano», è stato lo sfogo carico di rabbia dopo la lettura della nota dell’eurodeputato
pugliese. Berlusconi tace per tutto il giorno, dopo i controlli al San Raffaele fa giusto una
puntata a sorpresa all’assemblea milanese dei conciatori. Si sente sotto attacco, nel
classico bunker: «Se Fitto vuole sfidarmi, lo faccia apertamente, si prenda il partito se ne è
capace». Oggi la resa dei conti ci sarà, ma stavolta a distanza: il capo degli oppositori
interni resterà a Strasburgo per la visita di Papa Francesco al Parlamento europeo.
Tornerà per la nuova prova di forza in programma giovedì a Roma, quando circondato da
una quartina di parlamentari e centinaia di simpatizzanti dirà la sua al Tempio di Adriano.
La lettura della disfatta regionale porta Berlusconi a individuare tre cause, ma nessuna
responsabilità personale: «L’astensionismo senza precedenti » che colpisce tutti, ma loro
soprattutto; il suo status di «prigioniero politico», i vincoli che gli hanno impedito di
muoversi in campagna elettorale a differenza di Salvini e Renzi; infine, la linea della
«responsabilità». «Io sapevo che il patto del Nazareno avrebbe avuto un costo e che a
breve lo avremmo pagato, ma non sarebbe onesto se ora ci tirassimo indietro», ha ripetuto
al telefono da Arcore ai dirigenti. «Non possiamo tenerci fuori dai giochi che contano»,
insiste riferendosi al Quirinale in ballo a inizio 2015. Il fatto è che tanti parlamentari non
sono più disposti a seguirlo. Non solo Maurizio Bianconi e altri nemici dell’intesa col
premier. «Bisogna rivedere il patto», gli dice anche il capogruppo Brunetta, «ripensare
subito le nostre scelte sulle riforme », rincara un fedelissimo come Altero Matteoli.
Ma è l’affondo di Fitto, seguito dagli attacchi di decine di altri “suoi” senatori e deputati, a
destabilizzare Forza Italia. Parla di «risultato drammatico» nelle due regioni, di «clamorosi
errori » che hanno portato la lista a essere doppiata dalla Lega in Emilia. «Sono stati persi
sei mesi», insiste, ora bisogna «azzerare tutte le nomine per un vero rinnovamento ». Vuol
dire cancellare i vertici nazionali, i capigruppo, i coordinatori regionali e ripartire dal basso,
magari con le primarie anche per scegliere il nuovo leader. Dello stesso tenore altri, da
Capezzone («Occorre una terapia choc») a Saverio Romano, dalla Bonfrisco a Minzolini
(«Cambiare linea e classe dirigente »). Berlusconi si trattiene, tace, il suo medico Alberto
Zangrillo twitta in milanese quel che il capo di certo pensa: «Se fossi Berlusconi io vi direi,
quella è la porta», è la traduzione. La replica ufficiale invece è affidata al consigliere
Giovanni Toti: «Qui non si tratta di fare processi», anche perché «chi punta il dito è
dirigente del partito da anni» e il riferimento è proprio a Fitto. Ma è la giornata in cui
17
Mariastella Gelmini predica cautela e invita a non dividersi, a «non beccarci come i polli
del Manzoni», e in cui anche Gasparri apre alle primarie. In fondo, che tutto un mondo stia
venendo giù lo si capisce anche ascoltando l’amazzone d’un tempo, Michaela Biancofiore.
«Niente coltelli alla gola a Berlusconi — spiega — ma la verità è che Forza Italia va
rifondata».
del 25/11/14, pag. 7
Matteo Salvini. Il leader del Carroccio si candida alla guida della destra:
“Pronto a correre alle primarie”
“Noi i soli a crescere andiamo ora alle urne e
vediamo chi vince”
RODOLFO SALA
Da Matteo a Matteo: «Caro Renzi, a questo punto andiamo a votare; se ti senti così forte
conviene anche a te, meglio così che tirare a campare: io sono pronto». È il messaggio del
leader della Lega dopo la performance delle elezioni in Emilia Romagna: secondo partito
in Regione, 20 per cento contro l’8 di Forza Italia.
Onorevole Salvini, partiamo proprio dai risultati.
«Sono straordinari. Abbiamo eletto nove consiglieri regionali, mai vista una cosa così in
Emilia».
E l’astensione?
«È una sconfitta per tutti, anche per me che pure ho vinto. Per questo adesso i nostri
consiglieri devono mettersi pancia a terra per mantenere gli impegni presi e pescare in
quel 60 per cento che non ha votato».
Avete preso 233 mila voti...
«Erano 116mila nel maggio scorso: nonostante il forte astensionismo abbiamo
raddoppiato i consensi, siamo gli unici col segno più. se si considerano i dati assoluti. E se
guardiamo i flussi...».
Già. Uno studio dell’Swg dice che 36mila voti vi arrivano da ex elettori del Pd,
35mila dai grillini, 49mila da Forza Italia e 30mila dal non voto. Quasi un quinto del
vostro elettorato emiliano è costituito da gente che alle europee aveva votato
Berlusconi.
«Quest’ultimo non è un dato molto significativo, i nostri elettorati sono abbastanza
contigui. Preferisco sottolineare che migliaia di elettori del Pd e dei 5Stelle stavolta hanno
scelto un partito lepenista, razzista, fascista, per stare a come ci dipinge la sinistra».
Però Forza Italia è scomparsa, ed è questo a rafforzarvi. Chissà che dispiacere per
Berlusconi: l’ha sentito?
«Domenica c’era il derby, e il Milan purtroppo non ha vinto. Silvio sarà di cattivo umore, ci
sentiremo più avanti».
Che cosa si aspetta dall’ex Cavaliere?
«È una persona intelligente, non ha bisogno dei consigli di Salvini. A breve presenteremo
le nostre proposte economiche, a partire dall’aliquota unica dell’Irpef che favorisce i meno
abbienti. Spero che Forza Italia la sostenga. E la smetta di tenere un piede nella
maggioranza e l’altro all’opposizione. Basta col Nazareno. E, in vista delle future alleanza,
basta con Alfano, che sostiene Renzi».
Ecco, l’altro Matteo. A lui che cosa dice?
18
«Che noi siamo pronti, che bisogna andare a votare. Non vorrei che il Paese restasse
ostaggio dei continui litigi nel Pd. Succedeva anche nel centrodestra, quando eravamo al
governo, sto rivedendo la stessa fotografia. Andiamo alle urne, e vediamo chi prende il 51
per cento».
Tra voi due?
«Renzi c’è già, è lì. E il suo sfidante deve essere scelto dagli italiani, non dalle segreterie
dei partiti. Insomma, ci vogliono le primarie, una cosa ottima che io riconosco alla sinistra.
Dopodiché, se serve, e con tutti i miei limiti, io sono a disposizione. Del resto l’anno scorso
i giornali davano per morta la Lega, mentre adesso mi dipingono come un genio.
Sbagliavano allora e sbagliano oggi, ma siamo pronti a dare un senso alla nostra
battaglia».
Nel weekend lei vedrà Marine Le Pen a Lione. Per fare che cosa?
Per gettare le basi dell’Europa che verrà. Non quella delle banche, ma dei produttori».
A Madame Le Pen stanno arrivando un bel po’ di soldi da Putin...
«Buon per lei, la invidio. Noi abbiamo 70 dipendenti in cassa integrazione».
Magari qualcosa l’ex capo del Kgb ve l’ha offerto, o no?
«Ma quando mai. Comunque io le battaglie le faccio non perché Putin mi regali dei soldi,
ma perché sono giuste. E lo è quella contro le sanzioni alla Russia, che per l’Italia
significano cinque miliardi di esportazioni mancate. E poi lui è il migliore alleato
dell’Europa contro il terrorismo islamico, non è certo un nemico».
Venerdì il federale della Lega dovrà discutere del nuovo “contenitore” da lanciare
nel centro-sud. Ci sarà il suo nome nel simbolo?
«Questo mi stanno chiedendo. Ne terrò conto, nel Meridione ci sono 40mila persone
pronte a impegnarsi al nostro fianco ».
Fabrizio Cicchitto, del Ncd, dice che Salvini politicamente fa schifo...
«Che cosa brutta, legittima le violenze che abbiamo subito in campagna elettorale».
del 25/11/14, pag. 11
Da Pd, 5Stelle e Ncd astensioni record
Studio del Cattaneo sul boom della disaffezione. Rispetto alle europee il
movimento di Grillo cede 7 voti su 10, i democratici la metà, Forza Italia
un quinto. Per la prima volta i disertori delle urne sorpassano le schede
valide
SILVIO BUZZANCA
ROMA .
Una Caporetto su tutta la linea. Il voto regionale di domenica segna in Emilia Romagna un
vero e proprio spartiacque. Perché, spiega l’Istituto Cattaneo nella sua analisi sui flussi
elettorali, per la prima volta il numero dei voti validi, 1.200.000, è inferiore a quello delle
astensioni: 2.150.000. Cifre che, per fare un paragone, valgono 4 volte i 535 mila voti
ottenuti dal Pd. Che rispetto alle Europee ha lasciato sul terreno 667 mila 283 voti. Una
perdita pari al 55,9 per cento del bottino delle Europee.
Dovrebbe bastare questo per preoccupare il mondo politico. Ma il Cattaneo segnala anche
un’altra prima volta: domenica l’affluenza al 37,7 per cento straccia il record negativo
relativo alle regionali del recente voto sardo dove si era toccata quota 40,9 per cento. Un
risultato che ha dell’incredibile in una regione dove l’affluenza non era mai scesa sotto il
19
68 per cento. Infine, ciliegina sulla torta, ancora per la prima volta il presidente della
Regione viene eletto con una percentuale inferiore al 50 per cento.
I ricercatori del Cattaneo segnalano che questi risultati potrebbero essere il frutto della
disaffezione dopo gli scandali dei rimborsi regionali, la ricaduta dello scontro fra Renzi e la
Cgil, lo scarso appeal del candidato leghista del centrodestra e l’incapacità dei grillini di
intercettare la protesta.
Tutte motivazioni che si possono leggere nell’analisi dei flussi elettorali che il Cattaneo ha
elaborato usando i dati della città di Parma e confrontandoli con quelli delle recenti
Europee. E allora c’è da segnalare l’85 per cento perduto verso l’astensione dal Ncd di
Angelino Alfano. Meglio non va Fratelli d’Italia che cede il 42,8 per cento al non voto e il
42,7 alla Lega.
Ma in termini assoluti sono stati i grillini, ben più consistenti del Ncd, a cedere la quota
maggiore di consensi al partito dell’astensione: meno 284.480 voti che equivalgono al 69,2
per cento del bottino europeo. Un po’ meglio, se così si può dire, del meno 76,3 per cento
fatto segnare in Calabria. Inoltre i grillini cedono il 4,7 alla Lega e l’1,7 per cento alla
sinistra. Unica consolazione un più 25 per cento rispetto alle regionali del 2010.
Subito dopo in questa preoccupante classifica si piazza il Pd che cede alle astensioni
quasi metà del suo risultato europeo: il 49,6 per cento. Il resto che manca all’appello va
alla sinistra, 3,4 per cento, alla Lega, 3,8 per cento, e al M5S, 1,7 per cento. Alla fine vuol
dire che il partito di Renzi ha confermato solo il 37,2 per cento del suo voto europeo.
Ancora più altro il contributo alle astensioni che arriva dalla sinistra: 54,5 per cento, con
una conferma del 34,4 per cento e una trasmigrazione del 3,4 per cento verso Ncd. Solo lo
0,8 per cento è invece andato verso la Lega.
Il risultato di Forza Italia, meno 63,1 per cento rispetto alle Europee, meno 171. 472 voti in
termini assoluti, si spiega con una fuga generalizzata dall’ex Cavaliere rispetto alle
Europee. Il grosso, il 35,2 per cento ha scelto ha deciso di trasmigrare armi e bagagli
verso la Lega di Matteo Salvini. Il 22,5 per cento si è rifugiato nell’astensione, ma c’è
anche un 10 per cento che ha scelto il Pd e Matteo Renzi. Infine ci sono i vincitori. Almeno
così li definisce il Cattaneo. E sono i leghisti. Anche se con qualche ombra.
Infatti il Carroccio in voti assoluti non riesce a raggiungere la cifra ottenuta nel 2010. Ma
alla fine doppia i forzisti, pagando un contributo del 27,2 per cento all’astensione, cedendo
pochissimi alla sinistra, 1,7 per cento, e l’1,9 per cento al Ncd. In pratica Salvini vince
conservando il 65,9 per cento dei voti che aveva ottenuto alle Europee e risucchiando voti
un po’ a tutti.
Del 25/11/2014, pag. 1-15
Le città ingovernabili, il collasso della
democrazia
Mal comune. Da Pisapia a De Magistris, da Doria a Marino, da Orlando a Pizzarotti,
non c’è più un sindaco eletto sull’onda ed il bisogno di una svolta radicale che oggi
non sia in crisi di consensi
Tonino Perna
Italo Calvino avesse scritto oggi il suo insuperabile «Le città invisibili» avrebbe incluso
probabilmente un capitolo dedicato alla «città ingovernabile». Questa è infatti la condizione della gran parte delle città italiane negli ultimi cinque anni, da quando la crisi economica ha prodotto crescente disoccupazione, precarietà, disagio e paura crescenti.
20
Da Pisapia a De Magistris, da Doria a Marino, da Orlando a Pizzarotti, non c’è più un sindaco eletto sull’onda ed il bisogno di una svolta radicale che oggi non sia in crisi di
consensi. Persino Renato Accorinti, eletto a Messina a furor di popolo un anno e mezzo
fa, il sindaco con la maglietta «No Ponte», icona della pace e della difesa dell’ambiente,
è oggi a corto di consensi nella sua città malgrado i risultati conseguiti.
Esattamente venti anni fa si inaugurava la cosiddetta «stagione dei sindaci», partendo
dalla rinascita della Napoli di Bassolino, passando per la primavera della Palermo del
primo Orlando, e poi ancora Bianco a Catania e Falcomatà a Reggio Calabria, per citare
i casi più famosi. Coincideva anche con una stagione di risveglio delle popolazioni meridionali a sostegno dei propri sindaci che avevano dato segni concreti di buon governo dopo
la fallimentare gestione democristiana. Non a caso tutti rieletti al secondo mandato.
Oggi sarebbe impossibile. Da una parte, i tagli dei trasferimenti statali ai Comuni, inaugurati dal governo Monti e portati alle estreme conseguenze da Renzi, dall’altra un debito
insostenibile ereditato dalle amministrazioni passate, rendono impossibile rispondere ai
bisogni crescenti della cittadinanza. Crisi economica e tagli ai bilanci comunali si traducono in una morsa che impedisce di rispondere a un disagio sociale crescente e, soprattutto, all’insofferenza. Gli abitanti delle periferie sono diventati ansiosi e intolleranti dopo
aver sopportato decenni di abbandono e degrado. Infatti, bisogna ricordarlo, anche
durante la cosiddetta «stagione dei sindaci» le periferie urbane, di Roma, Napoli o Catania
erano rimaste sostanzialmente esterne alla riqualificazione urbana diretta soprattutto ai
centri storici. Ma, non c’era la pesantezza di questa crisi e le popolazioni delle periferie si
aspettavano ancora di essere incluse nel processo di rinascita cittadino. C’era ancora la
speranza. In questi anni è stata seppellita.
Oggi non si dice più «piove governo ladro», ma per ogni guasto sociale e ambientale il
«punching ball» è il sindaco. Doria a Genova e Marino a Roma, solo per citare gli ultimi
casi, avranno pure le loro mancanze ma sono stati messi alla gogna come gli unici responsabili del disastro dell’alluvione o del degrado/razzismo dei quartieri periferici. E non sono
fenomeni isolati, ma destinati ad allargarsi perché il governo Renzi ha una strategia politica chiara: scaricare sugli enti locali il costo della crisi e del debito pubblico insostenibile.
Ed è una strategia che funziona. I tagli alla sanità pesano sulle Regioni che si trovano di
fronte una forte opposizione sociale alla cosiddetta «razionalizzazione dell’offerta ospedaliera» che comporta la chiusura di decine di ospedali per ogni regione. I tagli ai comuni si
abbattono sui servizi sociali, i mezzi di trasporto locale e, soprattutto, aumentano le imposte locali. Quasi tutte le amministrazioni comunali sono diventate le più odiate dai commercianti, dai proprietari di case, dai soggetti deboli privati dell’assistenza necessaria. Risultato finale: lo scollamento/scontro tra popolazioni ed amministrazioni comunali porta al collasso della democrazia reale, perché è proprio a livello locale che è possibile praticare
forme di democrazia partecipativa, di gestione dei Beni Comuni , di autogoverno.
Viceversa tutte le cose positive le fa Renzi. E non solo gli 80 euro. Vorrei citare un fatto
recentemente accaduto. In provincia di Cosenza una organizzazione cattolica, il Banco
delle Opere di Carità, in collaborazione con diversi comuni collinari e montani, sta distribuendo gratuitamente la frutta alle popolazioni di questi comuni periferici (mele,
prugne,ecc.) come sostegno economico alle fasce territoriali più povere. Si è sparsa la
voce che questo insolito provvedimento (di solito la frutta che non si vendeva finiva sotto il
trattore) sia opera del governo, e così la gente dice : «È arrivata la frutta di Renzi». Naturalmente c’è sempre il rovescio della medaglia. L’attacco al sindacato e ai lavoratori che
scioperano toglie consensi al premier, ma non va sottovalutato il fatto che la strategia principe di Palazzo Chigi è tipica di un’azienda capitalistica: esternalizzare i costi, sociali ed
ambientali, e internalizzare i profitti (consensi in questo caso). Per questo gli amministratori locali che rischiano in prima persona dovrebbero unirsi contro questo governo con più
21
forza e determinazione di quello che finora hanno fatto, a partire dalla richiesta di ristrutturazione dei debiti ereditati e non più sostenibili.
del 25/11/14, pag. 1/13
Anche la partecipazione elettorale per la prima volta è stata più alta al
Sud che nella storica roccaforte Pd Non si va più alle urne per
confermare un’identità
Quando l’elettore non fa più atti di fede
così la Calabria si scopre più rossa
dell’Emilia
ILVO DIAMANTI
NON c’è più religione. Almeno nel rapporto fra elettori e partiti. Il voto non è più un atto di
fede, che si replica di volta in volta, per confermare la propria identità e la propria
appartenenza a un sistema di valori, a una rete associativa e mondo di relazioni. Lo
sapevamo già da tempo, ma mai era apparso così evidente come in queste elezioni
regionali in Emilia-Romagna e in Calabria. Due idealtipi diversi e opposti, avevamo scritto.
L’Emilia Romagna, stabilmente “rossa”, di sinistra. Grazie ai legami fra partiti di sinistra –
comunisti e postcomunisti - e società. La Calabria, instabile e frammentata, dal punto di
vista sociale e del comportamento di voto. Stavolta si sono scambiate orientamento e
posizione. Per la prima volta nella storia repubblicana, la Calabria è più “rossa” dell’Emilia
Romagna. In Calabria, Mario Oliverio, candidato del Centrosinistra, ha vinto con il 61% dei
voti validi. Mentre Stefano Bonaccini, anch’esso candidato dal Centrosinistra, in Emilia
Romagna, è stato eletto Governatore con il 49%. Per la prima volta, inoltre, la
partecipazione elettorale è risultata più alta in Calabria che in Emilia Romagna. Ma, forse,
converrebbe dire “meno bassa”. Infatti, l’affluenza alle urne, in Calabria, ha raggiunto il
44%: quasi 2 punti meno delle Europee dello scorso maggio, ma 15 meno delle Regionali
del 2010. Sufficiente, però, a superare l’Emilia Romagna, dove la quota dei votanti, in
questa occasione, è crollata sotto il 38%. E, dunque, 32 punti sotto alle recenti Europee e
30 meno delle Regionali del 2010.
L’Emilia Romagna, dunque, non è più “rossa”. Non ha più un’identità diffusa, che dia un
colore politico al territorio. Certo, il cambio d’epoca era già avvenuto in passato. Anzitutto
e soprattutto, a Bologna, nel 1999, quando Giorgio Guazzaloca venne eletto sindaco, alla
testa di una coalizione di centro-destra. Ma si era colto anche nel 2012, a Parma, dove,
alle municipali, Federico Pizzarotti venne eletto sindaco, nelle liste del M5s. Ma questa
volta è diverso. Perché non è avvenuto alcun ribaltone. Il candidato del Centrosinistra,
Stefano Bonaccini, ha vinto largamente, sfiorando la maggioranza assoluta dei votanti.
Lasciando a grande distanza gli sfidanti. Il leghista Alan Fabbri, capolista del Centrodestra (circa il 30%) e l’esponente del M5s, Giulia Gibertoni, poco sopra il 13%. Eppure
oggi, più che della sua vittoria, si parla dell’astensione. Ed egli appare un Governatore a
metà. Indebolito dall’avanzata del non-voto. Che molti elettori hanno usato come un “voto”.
Un segno di dissenso o di distacco. Dalle analisi elettorali condotte dall’Istituto Cattaneo di
Bologna – limitate alla città di Parma – appare evidente, infatti, che, rispetto al voto
europeo, il flusso verso l’astensione ha coinvolto soprattutto il Pd (oltre il 15%). Ma non
solo. Perché ha colpito in misura molto pesante anche il M5s: 8%. E, in misura marginale
(1-2%), anche altri partiti, da destra (Ncd, Fi, Ln) a sinistra (Sel). Ciò segnala il rilievo
22
assunto dal sentimento di distacco verso la politica. Enfatizzato, in Emilia Romagna, dai
legami fra il Partito e la società. Negli ultimi anni, d’altronde, il cedimento del retroterra
della Sinistra era già emerso, evidente. In particolare, alle elezioni politiche del 2013,
quando il M5s aveva eroso la Zona Rossa. Allora, il Pd, in Emilia Romagna, aveva
ottenuto un “modesto” (per le tradizioni della regione) 37%. Risalendo, però, al 53% alle
Europee di pochi mesi fa. Grazie al contributo “personale” di Renzi. A-ideologico ed
estraneo alla tradizione comunista e postcomunista. Lontano dai miti e dai riferimenti della
sinistra – storica. Ormai “sinistrati” (per citare un saggio di Edmondo Berselli, profondo
conoscitore dei vizi della sinistra e dell’Emilia). Se alle Europee il Pd e il post-Pd si erano
aggregati intorno a Renzi, questa volta sono entrati in contrasto. E se pochi elettori hanno
abbandonato il Pd per un altro partito, molti hanno, semplicemente, rinunciato a votare.
Tuttavia, ciò non ha dis-integrato il PD(R). Che ha, comunque, ottenuto il 44% - cioè, 4
punti più del 2010 (pur perdendo 300 mila voti). Mentre il neo-governatore, Bonaccini, si è
fermato a 3 soli punti da Errani. Questa elezione, semmai, enfatizza la fine di una stagione
politica all’insegna dell’appartenenza. Del voto come “fede” radicata sul territorio. Un
passaggio d’epoca sottolineato dalle elezioni politiche del 2013 e dalle Europee di maggio.
Quando il M5s e il PD(R) hanno ottenuto consensi distribuiti in tutto il territorio nazionale.
In modo omogeneo. Così, stavolta, la stessa Lega, il partito territoriale per eccellenza, ha
ottenuto un risultato molto rilevante: 19,4%. Ma senza scendere sotto il 15% in nessuna
provincia. Neppure a Bologna e Rimini. FI, invece, è crollata ovunque. Ridotta a meno di
metà della Lega. (E in Calabria si è fermata al 12%.) Un “partito personale”, incapace di
sopravvivere al declino del Capo, Berlusconi. Oscurato dall’alleanza con un leader,
Salvini, più visibile e giovane di lui. Un altro segno di questo passaggio d’epoca. Che non
garantisce più certezze. Come avviene in altre democrazie rappresentative. Così, anche
noi dovremo abituarci – o, almeno, rassegnarci - a considerare il voto un diritto e non un
obbligo. E a valutare l’astensione, il non-voto, non come una malattia della democrazia.
Ma una scelta - o una non-scelta. Perché oggi “non c’è più religione”. Votare non è più
ritenuto un dovere morale e sociale. Riflesso di un’identità. E ogni elezione diventa una
competizione aperta. Per vincerla, bisogna offrire agli elettori buone ragioni per votare un
partito o un candidato. Ma, prima ancora, per votare.
del 25/11/14, pag. 10
Una sola donna in consiglio, il record
negativo della Calabria
Bersaniana la maggioranza di Oliverio. Ncd supera la prova e attacca
Pascale per le divisioni nel centrodestra
DAL NOSTRO INVIATO COSENZA Calabria, regione di veri uomini: su trenta nuovi
consiglieri regionali, una donna. Al massimo due, quando sarà interpretata la bizantina
legge elettorale e si deciderà se la candidata presidente berlusconiana, la sconfitta Wanda
Ferro, potrà avere un posto in consiglio. L’unica donna eletta, Flora Sculco, è figlia di un
uomo politico, Enzo Sculco, già consigliere regionale della Margherita, che alla richiesta di
restituire, a seguito di una condanna per concussione, 100 mila euro di vitalizi, rispose:
«Me ne fotto».
Niente da fare — restando alle parentele — per Antonietta Stumpo, sorella di Nico (già
potente capo dell’Organizzazione del Pd bersaniano), vittima a Crotone della freddezza
dei renziani. E niente da fare, passando al centrodestra, per Giacomo Mancini jr., nipote e
23
omonimo del segretario socialista degli Anni 70. Il padre, Pietro Mancini, ieri ha accusato
direttamente la politica di Forza Italia in Calabria «delegata da Berlusconi alla sua giovane
compagna Francesca Pascale».
Per il resto, i calabresi hanno stroncato tutti gli uomini dell’Udc (qui in alleanza con il
Nuovo centrodestra). E hanno stroncato quasi tutti i profughi dal centrodestra che avevano
trovato posto nelle liste del nuovo presidente di centrosinistra, Mario Oliverio: bocciato
anche Elio Belcastro, ex sottosegretario nel governo Berlusconi.
Il trionfatore è Oliverio, che ora ha sulle spalle la Regione più disastrata d’Italia per
criminalità, disoccupazione, povertà. Venerdì torna in Calabria Renzi e sarà l’occasione
per stabilire un patto con il governo. Oliverio si è iscritto al Pci di Berlinguer nel 1972,
quando Renzi non era ancora nato e ha vinto con tanti punti di percentuale quanti sono i
suoi anni, 61. Pensa che con i sindacati «si debbano affrontare questioni di merito, senza
ideologie». Renzi ci sta mettendo un po’ di ideologia? Oliverio alza gli occhi al cielo, non è
il caso di fare polemiche adesso. Qui in Calabria ha vinto la «ditta» di Bersani e D’Alema e
su 19 nuovi consiglieri di maggioranza i renziani sono al massimo tre, dell’ultima ora
peraltro.
Il secondo successo delle Regionali calabresi è del Nuovo centrodestra. Il partito di Alfano
ha superato il quorum dell’8%. Racconta il senatore Antonio Gentile, plenipotenziario a
Cosenza con il fratello Pino: «Quagliariello e Verdini avevano concluso l’accordo elettorale
con Forza Italia, quando ci fu un’interferenza di natura femminile...». Francesca Pascale?
«Lei e il cerchio tragico di Berlusconi e quella poveretta di Iole Santelli, che gestisce FI in
Calabria. A quel punto Quagliariello ha provato con il Pd, ma Oliverio ha rifiutato l’accordo
e siamo rimasti soli con quei poveretti dell’Udc, che non hanno dato un grande
contributo...».
Andrea Garibaldi
Del 25/11/2014, pag. 1-15
Se la politica è simulacro non c’è società
possibile
Seconda repubblica. La «transizione italiana» ormai si fa costituente. Il paese in
mezzo ai quattro punti cardinali è sofferente. Tra la via «ungherese» di Salvini e il
«trasversalismo» di Grillo, la svolta «carismatica» di Renzi e la rotta
«rappresentativa» della Cgil non c’è più alcuna continuità con il recente passato.
Ogni argine è rotto. E la sofferenza dilaga
Aldo Bonomi
Negli ultimi mesi la politica italiana si è costellata di eventi che le hanno impresso
un’accelerazione potente. Se non fosse che il termine è abusato, verrebbe da dire che
siamo nel pieno di una fase costituente. Perché è tutto l’assetto dei rapporti tra politica
e società che è in fibrillazione accelerata: al capolinea sono le forme di quel postfordismo
italico fatto di capitalismo molecolare e concertazione con cui il paese ha gestito la sua
lunga uscita dal fordismo e dal sistema dei partiti di massa cresciuti dentro la geopolitica
dei blocchi. Il nodo dello scontro non è oggi tra le «due sinistre» o i «due Pd»: sinistra
è oggi uno spazio da ridefinire. Riguarda invece, direttamente, le forme del rapporto tra
politica, statualità e nuova composizione sociale dei lavori. In un bel libro uscito qualche
mese fa, W.Streeck ha scritto che il capitalismo dagli anni ’70 non ha fatto altro che «guadagnare tempo». Inflazione, debito pubblico, finanziarizzazione subprime, sono stati modi
24
per rinviare il momento in cui prendere atto che un divorzio tra mercato e democrazia era
in atto. In Italia abbiamo usato i nostri mezzi, peculiari: debito e occupazione pubblica
a finanziare la cetomedizzazione dipendente, svalutazione, patto fiscale e territorio messo
al lavoro per far crescere il capitalismo dei piccoli come blocco sociale capace di stare sul
mercato; concertazione per dare un minimo di vertebre ad un paese il cui ceto dirigente
era stato spazzato via dal vento di Tangentopoli.
È stato un successo con cui abbiamo scavallato per un ventennio la fine della grande
impresa pubblica e privata, ossatura del boom nel dopoguerra. Ricordo che dai ranghi del
capitalismo molecolare è uscito il drappello di medie imprese globali sulle cui spalle oggi si
regge la tenuta di larga parte dell’infrastruttura manifatturiera del paese.
Oggi quella finestra storica si sta chiudendo. La «via italiana» al guadagnare tempo è terminata e gli 80 euro o il Tfr in busta paga non basteranno. Dentro il meccanismo europeo
e della governance globale di tempo da guadagnare ce n’è sempre meno. Tocca sperimentare la fatica di ripensare un nuovo modello e un nuovo assetto nei rapporti tra società
e politica se vogliamo uscirne in piedi. Il fatto è che per un ventennio, la cosiddetta
«seconda repubblica», la politica italiana ha vissuto di simulacri delle culture politiche
novecentesche: la reinvenzione del comunismo, la socialdemocrazia senza socialismo, il
liberismo solo proclamato del centro-destra (visto che le vere privatizzazioni e liberalizzazioni le ha per lo più fatte l’altra parte), la società di mezzo delle rappresentanze a concertare una redistribuzione che già negli anni ’90 era a risorse decrescenti e senza più
fabbrica. Oggi i nodi vengono al pettine e le fibrillazioni si moltiplicano. I quattro eventi politici delle ultime settimane a loro modo esprimono la drammaticità e l’accelerazione di questo passaggio, ciascuno prefigurando una possibile linea di uscita. La via ungherese –più
che francese– della lega verde-bruna di Salvini, il radicalismo trasversale di Grillo con un
occhio ai beni comuni e l’altro all’anti-immigrazione, la modernizzazione carismaticotecnocratica di Renzi con il doppio richiamo alle start-up e ai grandi flussi del capitale globale, la rappresentanza dei sofferenti materializzatasi nella piazza della Cgil. Con Berlusconi in mezzo, moderno Re Travicello.
Quale via d’uscita prevarrà non sarà questione di vecchio o nuovo ma di chi mostrerà
capacità di «connessione sentimentale» con una composizione sociale del paese frammentata e smarrita ma allo stesso tempo desiderosa di ricominciare a mangiare futuro.
Prevarrà il partito della nazione o il partito nazional-populista? Il populismo internettiano
e territoriale di Grillo o il «popolo» del sindacato?
Se si guarda a quanto accaduto sabato 25 ottobre a Roma non si può non vedere una
discontinuità storica rispetto alla manifestazione del 2002: i 3 milioni di Cofferati volevano
essere la classe che poggiando sulla concertazione premeva sulla politica. Il milione della
Camusso e di Landini oltre all’aspetto politico, rappresentano soprattutto il sindacato che
si fa sociale in crisi, che prova a polarizzare e rappresentare la sofferenza sociale diffusa
rispetto all’impatto della crisi. A San Giovanni c’era ciò che resta della forza propulsiva di
Cofferati: pensionati, senza lavoro, tempi indeterminati senza più sicurezze, precari, esodati, ecc. Questo mi pare l’elemento nuovo da capire e valutare nel suo possibile divenire.
Il venir meno della concertazione neocorporativa che aveva messo le braghe al paese nel
ciclo precedente, rende impossibile riproporre una versione aggiornata dei grandi patti
sociali fordisti senza più né fordismo né classe sociale. È l’eclisse della società di mezzo,
per dirla con De Rita. Oggi ci sono i tavoli della «Leopolda» ma sono un’altra cosa: il thinktank del leader. In parte assemblea in parte meccanismo di reclutamento di nuove élite,
i tavoli di Firenze sono la chiamata a raccolta delle tribù attorno al leader per costituire il
suo cerchio magico. È il nuovo soggetto politico che nasce, non la concertazione. Un
evento costituente di una forma politica la cui vera forza è la capacità del leader unico di
ricostruire «in proprio» la capacità rappresentativa dei soggetti sociali da parte della poli25
tica oggi in crisi. A maggior ragione dopo il voto di domenica, è la crisi della rappresentanza, dunque, il tema da affrontare. Perché se la statualità è sempre più artefice
e garante del nuovo capitalismo mercantile e sempre meno centro redistributore delle
risorse, la funzione della società politica cambia. In questo quadro, che alcuni definiscono
ormai postdemocratico, a me pare che il tema di fondo della politica sia ricostruire trama
sociale, fare società dentro la transizione, ricostruire i tessuti connettivi tra società e politica. Claudio Napoleoni diceva che tra economia e politica va posta la società. Questo
è l’unico modo per comporre una frattura tra «sofferenti» e «innovatori» che oggi mi pare
molto ideologica, visto che molti degli innovatori, soprattutto se giovani guadagnano,
quando va bene, 1.200 euro al mese e i sofferenti sono depositari di una cultura politica
e produttiva che ha retto e regge l’industria del paese. La divaricazione tra questi due
bacini di composizione sociale non salverebbe l’art. 18 né servirebbe a «modernizzare» il
paese ma aprirebbe le porte alle altre due vie di uscita, probabilmente più capaci di raccogliere un conflitto che in assenza degli argini della rappresentanza da collettivo si fa
molecolare. Se la politica si fa simulacro, gli ultimi giorni ci dicono che occorre tornare
a raccontare il sociale e le sue sofferenze.
Del 25/11/2014, pag. 6
Solo un decimo del Pd dirà «no»
Jobs act. La minoranza «non dialogante» ascolterà una delegazione di operai. Non
passa l’emendamento salva articolo18. Stasera o domani il via libera della Camera.
Speranza e Damiano: abbiamo evitato la fiducia. Airaudo (Sel): è un’autodelega al
governo Dubbi di costituzionalità sulla delega
Massimo Franchi
Votare «No» o uscire dall’aula. L’amletico dubbio percorre la minoranza — quella non dialogante — del Pd rispetto al voto finale sul Jobs act previsto per questa sera o al massimo
domani mattina. La decisione verrà presa in una riunione prevista all’ora di pranzo. Quanti
saranno i dissenzienti? Non arriveranno ad una trentina su un totale di 308: meno del 10
per cento. E di certo non avranno effetti sull’esito di un voto scontato e blindato.
A convincerne qualcuno in più proverà una delegazione di una cinquantina di Rsu Fiom
del nord Italia che già un mese fa aveva chiesto all’ex segretario Cgil Guglielmo Epifani di
«non rottamare lo statuto dei lavoratori». Epifani non gli ha mai risposto.
Il tutto mentre i «dialoganti» dell’area riformista gridano al miracolo per aver evitato
l’ennesima fiducia posta dal governo. «Ha vinto il Parlamento che ha migliorato la delega
grazie al lavoro della commissione», sostiene il capogruppo Roberto Speranza. «Contrariamente alle previsioni di alcuni profeti di sventura, non solo abbiamo cambiato nel profondo la delega sul lavoro con 37 emendamenti, ma abbiamo anche evitato la fiducia»,
ribadisce Cesare Damiano. «In realtà siamo stati noi, riducendo il numero degli emendamenti, ad evitare la fiducia — spiega Giorgio Airaudo di Sel — . Nel gruppo del Pd in aula
intervengono solo quelli della commissione ribadendo che il compromesso non è il massimo, ma anche loro voteranno per un’autodelega in bianco al governo che manderà in
soffitta lo statuto dei lavoratori», insiste.Gli unici brividi della giornata a Montecitorio vengono dai 17 voti di deputati Pd all’emedamento di Sel 1.68 che proponeva «che l’articolo
18 dello statuto dei lavoratori si applichi integralmente trascorso un anno dalla data
dell’assunzione». Fra tanti voti attesi — Pippo Civati, Gianni Cuperlo, Ileana Argentin, Barbara Pollastrini, Stefano Fassina — arriva a sorpresa anche quello dell’ex ministro per le
Pari opportunità Barbara Pollastrini: «Ho riconosciuto e riconosco l’impegno del gruppo Pd
26
in commissione ma penso che l’aula abbia il dovere di esprimersi. E, per quanto riguarda
la mia piccola storia, il tema dell’allargamento dei diritti intesi nella loro unitarietà, umani,
civili e sociali, è una delle ragioni del mio impegno politico». Caos nell’aula invece quando
i grillini tentano di imitare la nuova norma sul controllo a distanza riprendendo con i telefonini il lavoro dei deputati Pd e poi cercando di impedire al relatore della legge Cesare
Damiano di intervenire. Il presidente di turno, Roberto Giachetti, decide di espellere
i deputati del Movimento 5 stelle Ivan Della Valle e Michele Dell’Orco, dopo aver chiesto
diverse volte ai deputati di abbassare i cellulari. La destra, come ormai le succede sempre,
si spacca a colpi di improperi. La destra sociale ha la faccia di Renata Polverini di Forza
Italia che messe da parte gli scandali giudiziari si è riscoperta sindacalista ed ha votato a
«titolo personale» tutti gli emendamenti dell’opposizione che tentavano di salvare barlumi
di articolo 18, rispondendo per le rime a Sergio Pizzolante dell’Ncd che accusava Forza
Italia di «stato confusionale».
Il Jobsact si avvicina dunque allo striscione della sua seconda approvazione, quella alla
Camera. Al Senato la terza lettura sarà una facile e veloce tappa di trasferimento:
l’accordo politico con Sacconi è blindato e non ci saranno sorprese.
Rimane ancora da capire però quando e come arriveranno le deleghe legislative. La prima
sarà certamente quella sul contratto a tutele crescenti che certifica l’addio all’articolo 18
per i neo-assunti e per coloro che cambieranno lavoro. L’idea del governo è di farlo
entrare in vigore dal primo gennaio per legarli agli sgravi fiscali per le imprese che assumono previsti nella legge di stabilità. Il rischio però di profili di incostituzionalità è reale: la
delega deve avere un parere non vincolante delle commissioni Lavoro e rischia di essere
dunque retroattiva con tutti i problemi che questo comporterebbe.
Sarà comunque la prima di un numero imprecisato di deleghe in bianco che riguarderanno
l’intera legislazione sul lavoro: dai contratti . L’unica certezza è che i tanto sbandierati diritti
e tutele ai precari saranno limitati ai soli al contratto di collaborazione coordinata e continuativa». Una goccia nel mare in espansione del precariato.
del 25/11/14, pag. 1/19
Il virus Ebola contagia un medico italiano
In Sierra Leone per Emergency, sarà curato allo Spallanzani di Roma:
«Ce la farò»
di Margherita De Bac e Michele Farina
Un medico italiano di Emergency è risultato positivo al virus Ebola in Sierra Leone. Sarà
trasferito oggi all’Istituto nazionale per le malattie infettive Spallanzani di Roma. Al
volontario di Emergency, il paziente zero italiano, il ventunesimo curato al di fuori
dell’Africa, è destinata una delle stanze speciali ad alta sicurezza del complesso
ospedaliero. Viaggio nel reparto dove sarà curato.
Ha curato malati per un mese, perdendo due litri di sudore al giorno nelle tute isolanti,
dentro e fuori la «zona rossa» sotto le tende di Emergency. Ha festeggiato la guarigione
della settantenne Iye, soprannominata «nonna Ebola», e quella di Momoh, 5 anni, orfano
per il virus, che gli zii sono andati a prendere al cancello del centro di trattamento di Lakka,
alla periferia di Freetown, pochi giorni fa. E con i colleghi italiani e britannici era pronto a
trascorrere le feste in Sierra Leone, combattendo l’epidemia che ha già ucciso 5.500
persone in tre Paesi dell’Africa Occidentale. Come regalo natalizio i 14 inglesi arrivati
giusto domenica a dare manforte avevano pensato a un dono collettivo: un minuto di
27
abbracci una tantum (con gli scafandri addosso) nella terra che ha abolito ogni forma di
contatto anche tra operatori sanitari.
Orgoglio, paura e niente abbracci: è tornato a casa nella notte, su un Boeing KC-767
dell’Aeronautica Militare, chiuso in una speciale struttura denominata «Aircraft Transit
Isolator». Quattro ore in ambulanza fino all’aeroporto. E poi cinque di volo assistito da
medici e infermieri dell’esercito, un team specializzato in «bio-contenimento». Dallo scalo
di Pratica di Mare è stato trasportato all’Istituto Spallanzani di Roma, uno dei due centri
specializzati nella cura delle febbri emorragiche.
È un medico cinquantenne il primo italiano infettato da Ebola, uno dei 19 operatori
internazionali contagiati da marzo a oggi. Una quindicina sono stati evacuati dall’Africa
verso l’Europa e gli Stati Uniti usando la stessa compagnia privata di charter, l’americana
Phoenix, fondata da un ex pilota della guerra in Vietnam e specializzata in voli con «ospiti»
particolari: pinguini per un acquario, esplosivo per miniere, malati di Ebola. Il nostro
connazionale ha viaggiato italiano: ha due figlie, e anche pensando a loro ha chiesto che il
suo nome non venisse divulgato. Era partito per Freetown il 18 ottobre, per una missione
di 11 settimane con Emergency, l’ong fondata da Gino Strada (per cui ha già lavorato in
Iraq) che opera in Sierra Leone dal 2001. Domenica un leggero episodio febbrile. Si è
«autodenunciato». Il primo test per la Pcr (la reazione a catena della polimerasi) e poi un
secondo hanno confermato la positività al virus. «È stato assistito sin dai primissimi
sintomi — ha detto ieri Cecilia Strada, presidente di Emergency —. Sappiamo che il tempo
fa molta differenza. E in questo caso l’assistenza è stata immediata».
Spesso Ebola è in agguato quando ci si toglie la tuta protettiva. Una disattenzione, la
stanchezza? Non è ancora chiaro come il medico italiano abbia contratto il virus. «Non per
un errore nei protocolli di sicurezza — dice Cecilia Strada al Corriere — altrimenti
avremmo avuto un numero ben maggiore di casi, a fronte di due infettati su un totale di
450 operatori». Il primo, un medico ugandese curato in Germania, è tornato a casa sano e
salvo mercoledì scorso.
A Freetown la squadra dell’ong milanese conta 26 italiani. Infermieri, medici, logisti: tre
case, stanze singole e spazi comuni, piatto preferito gli gnocchi con il ragù della cuoca
locale. Nessuno ha chiesto di rientrare. «Gino e gli altri sono chiaramente preoccupati per
la salute del nostro collega — dice ancora Cecilia — ma questo non li scoraggia: nel
Paese ci sono cento nuovi casi al giorno». In tutto 6.500, con 1.700 morti e appena 356
letti disponibili. A metà dicembre Emergency prenderà in gestione un centro da 100 posti
che il governo di Londra sta terminando. Ong italiana, soldi britannici.
28
LEGALITA’DEMOCRATICA
del 25/11/14, pag. 21
Sottosegretario e capo degli 007 testimoni
della difesa di Riina
Strage del Rapido 904, il boss chiede la deposizione di Minniti e
Massolo
DAL NOSTRO INVIATO FIRENZE Un attentato di trent’anni fa, l’eccidio del Natale 1984
sul Rapido 904 Napoli-Milano, fu il primo atto della strategia terrorista della mafia;
realizzato «con l’intento di operare pressioni sugli organi dello Stato, in un primo momento
al fine di ottenere, tramite i suoi “referenti politici” dell’epoca, un intervento sul
maxiprocesso, e successivamente per imporre con l’arma del ricatto un alleggerimento
degli effetti delle predette sentenze». Ecco perché Totò Riina compare nuovamente alla
sbarra in un giudizio per strage: la bomba che sventrò il treno in una delle gallerie
dell’Appennino, appena dopo Firenze la sera del 23 dicembre ‘84, uccidendo 16 persone e
ferendone molte altre.
Davanti alla Corte d’assise del capoluogo toscano, oggi, comincerà il dibattimento nel
quale il «capo dei capi» di Cosa nostra ha chiamato a deporre nientemeno che il
sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi segreti, Marco Minniti, e
il capo dei Dipartimento per l’informazione e la sicurezza, Giampiero Massolo. In pratica il
responsabile politico e quello operativo dell’ intelligence , indicati come testimoni a
sostegno delle tesi difensive del boss.
L’avvocato del capomafia, Luca Cianferoni, vuole chiedere loro notizie sulla
«desecretazione di tutti gli atti afferenti alle indagini dei servizi di sicurezza relativi
all’attentato del 23 dicembre 1984, e in ordine al contenuto dei medesimi», dopo la
direttiva del premier Matteo Renzi di aprire gli archivi dei Servizi su alcuni fatti di sangue
che hanno segnato la recente storia d’Italia. Una «iniziativa un po’ provocatoria», ammette
il difensore di Riina, che continua a chiamare in causa gli apparati dello Stato in alcuni
eventi dei quali è stato accusato (come l’eccidio di via D’Amelio che uccise il giudice Paolo
Borsellino e cinque agenti di scorta).
Non solo. Il capomafia pluriergastolano ha citato come testimone a sua discolpa un altro
boss già condannato all’ergastolo per quella strage: Pippo Calò, il «cassiere di Cosa
nostra» arrestato a Roma tre mesi dopo l’esplosione, «su quanto a sua conoscenza» in
relazione all’attentato. Un fatto del tutto inedito nei processi di mafia: un «uomo d’onore»
che chiama a deporre davanti ai giudici un altro «uomo d’onore», nel tentativo di
dimostrare la propria innocenza, segna l’abbandono di una delle regole basilari — la
segretezza e la consegna del silenzio — su cui è prosperata l’organizzazione criminale.
Oltre che a Calò il carcere a vita era stato inflitto al suo uomo di fiducia Guido Cercola,
suicidatosi nella prigione di Sulmona a gennaio del 2005, dopo vent’anni di detenzione;
ora il difensore di Riina vuole far deporre il direttore di quel penitenziario «sulla tenace
manifestazione di innocenza da parte di costui rispetto alla strage per cui è a processo».
Sarà la Corte d’assise a decidere quali e quanti testimoni ammettere, dopo che i pubblici
ministeri avranno espresso il loro parere. A rappresentare l’accusa sarà il sostituto
procuratore antimafia Angela Pietroiusti che stamane, alla prima udienza, verrà affiancata
dal procuratore capo Giuseppe Creazzo.
Per i pm — eredi di un processo spostato per competenza dopo le indagini avviate dalla
Procura di Napoli che individuò il nesso fra la bomba e il ricatto allo Stato — la strage fu
29
decisa da Riina «nella qualità di capo indiscusso» di Cosa nostra, all’indomani degli arresti
seguiti al «pentimento» di Tommaso Buscetta, che nel 1984 con le sue dichiarazioni al
giudice istruttore Giovanni Falcone mise le basi per il maxi-processo a Cosa nostra. Una
reazione alla prima vera risposta delle istituzioni al potere mafioso, otto anni prima della
sentenza della Cassazione che, nel 1992, facendo diventare definitive le condanne dei
boss, avrebbe scatenato la nuova stagione stragista prima in Sicilia (gli attentati a Falcone
e Borsellino) e poi sul continente (Firenze, Roma e Milano) che fece da sfondo alla
presunta trattativa sotto giudizio a Palermo.
L’attentato terroristico al treno, realizzato con la collaborazione di elementi della camorra
legati alla mafia, doveva servire a distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica
dall’emergenza mafiosa scoperchiata dalle dichiarazioni di Buscetta, facendo balenare un
ritorno alle bombe sui treni di matrice eversiva. La composizione dell’esplosivo e alcuni
congegni elettronici erano dello stesso genere di quello utilizzato per le stragi degli anni
Novanta, come testimonierà il perito chiamato a deporre insieme ai nuovi pentiti di mafia.
Giovanni Bianconi
30
SOCIETA’
del 25/11/14, pag. 1/31
Uomini che odiano il mistero delle donne
MASSIMO RECALCATI
LA CONTA degli stupri, dei maltrattamenti, degli omicidi di cui sono vittime le donne lascia
sempre sgomenti. Tutta questa violenza brutale ha una chiara matrice razzista. Soprattutto
se interpretiamo il razzismo, come ci invitava a fare Lacan, come odio irriducibile nei
confronti della libertà dell’Altro. La donna, infatti, è una delle incarnazioni più forti,
anarchiche, erratiche, impossibile da misurare e da governare, di questa libertà. Il suo
stesso sesso non è visibile, sfugge alla rappresentazione, è nascosto, si sottrae alla presa
dell’evidenza. La loro identità, difficile da decifrare, non risponde mai a quella della divisa
fallica degli uomini. Proprio per questo le donne possono essere l’oggetto di una violenza
inaudita. Possono essere aggredite, offese, maltrattate, uccise proprio perché sfuggono ad
ogni tentativo di possesso, perché coincidono con la libertà. L’uomo può rispondere a
questa coincidenza con l’arroganza razzista e insopportabile della sopraffazione provando
in tutti i modi a cancellarla.
È UN disegno fallimentare che costringe ad una iterazione disperata. Invece di scegliere la
via dell’amore per la differenza prende quella dell’odio rabbioso e sterilmente rivendicativo
(“sei mia!”). L’esercizio della violenza è sempre una alternativa secca a quella della parola.
Mentre la legge della parola prova sempre a rendere giustizia della libertà dell’altro, la
violenza la vorrebbe sopprimere, calpestarla, ridurla al silenzio. È innanzitutto una
battaglia culturale che dovremmo cominciare magari ripensando seriamente a quello che
usiamo chiamare “educazione sessuale”. Questa educazione non è forse innanzitutto —
essenzialmente — una educazione alla legge della parola? Non dovremmo imparare dai
poeti più che dalle slide che classificano scientificamente i sessi mostrando il
funzionamento oggettivo dei loro organi? È davvero tutta lì quella che chiamiamo
differenza sessuale? È davvero quello il mistero dell’amore?
La battaglia culturale contro la violenza di genere non può non passare da un
ripensamento dell’educazione sessuale come educazione della sessualità al mistero
dell’amore. Non dovremmo inseguire l’ideale di una sessualità normale — che la
psicoanalisi ha dichiarato non esistere — ma valorizzare l’incontro tra i sessi — a
prescindere dalla loro anatomia — come un incontro tra differenze. Dovremmo pensare
che l’educazione alla sessualità implichi sempre una educazione al rispetto dell’alterità.
Dovremmo pensare che essa sia una educazione al discorso amoroso. La domanda
d’amore che muove l’uno verso l’altro, non deve mai essere scambiata con il sopruso che
annienta la libertà, ma come un dono di libertà. Non è questa la forma più alta e intensa
dell’amore, quando c’è? Amare la libertà dell’altro, amare la sua differenza inassimilabile
di cui la donna è il simbolo. Per questo Lacan affermava che si ama, quando si ama,
sempre e solo una donna. Per questa ragione amare — dovremmo sempre aggiungere —
contempla il rischio della caduta e dell’abbandono. È sempre una esposizione rischiosa
all’altro che ci rende tutti più indifesi e più femminili. Ci esponiamo senza riserve alla
libertà dell’altro che ha sempre, in ogni momento, il diritto di scegliere se rinnovare o
interrompere il patto che ci unisce. Ed è, come sappiamo, di fronte a questo diritto del
discorso amoroso che la violenza dei maschi può scagliarsi come una freccia avvelenata
contro il corpo delle donne.
Colpire, sfregiare, mutilare, straziare per ribadire una proprietà che non esiste. Per coloro
che vivono senza educazione alla legge della parola la libertà della donna non è
31
sopportabile se non è imprigionata. Nemmeno per le donne è facile abitare quella alterità
che esse portano con sé. Per questa ragione Freud sosteneva che il “rifiuto della
femminilità” non riguardasse solo gli uomini, ma attraversasse anche le donne. Non è
proprio questa difficoltà che talvolta può consegnare una donna nelle braccia di chi la
umilia, la offende, la violenta, la uccide? La donna che rifiuta inconsciamente la propria
femminilità può credere che si possa essere una donna solo consegnandosi passivamente
ad un uomo, magari seguendo l’esempio sacrificale delle proprie madri. È però del tutto
evidente che si tratta di una atroce illusione. Nessun uomo sa cosa sia una donna. Ecco
allora consumarsi il terribile equivoco: lei si consegna nelle mani dell’uomo per essere una
donna, ma si ritrova ad essere ridotta a corpo-cosa, corpo-strumento, a “roba”, come
direbbe il Mastro Don Gesualdo di Verga. È una lezione disturbante che l’esperienza
clinica può confermare. La violenza porta con sé una seduzione silente che in alcune
donne può nutrire l’illusione fatale che avere un padrone possa sollevarle dal difficile
compito di abitare la libertà radicale della femminilità. Ma tutto questo non deve scaricare
in nessun modo sulle donne la responsabilità che grava solo su coloro che scelgono la via
della violenza al posto di quella della parola. Questa scelta è sempre colpevole. Preferisce
il dominio cieco al rischio dell’esposizione, l’affermazione autarchica del proprio Io al suo
decentramento, la potenza narcisistica del fallo (sempre un po’ idiota, secondo Lacan)
all’incontro con l’alterità di un corpo, come quello femminile, fatto di segreti. Se l’amore è
sempre un salto nel vuoto è perché esso implica la rinuncia a rendere l’altro una nostra
proprietà, la rinuncia alla violenza come soluzione (impossibile) del problema della libertà.
del 25/11/14, pag. 26
Violenza, i fondi rimasti congelati
Femminicidio, i 16 milioni mai distribuiti Il governo rilancia: nel 2015 più
soldi ai centri
Nella giungla delle norme e nell’incertezza dei criteri di distribuzione dei fondi, una cosa è
certa: ai centri antiviolenza e alle case rifugio per ora non è arrivato nulla. Non hanno visto
un euro di quel finanziamento di 17 milioni (diventati 16 milioni e 450 mila) previsto per il
biennio 2013/2014 dalla legge 119, la cosiddetta contestata legge sul femminicidio. Soldi
che in teoria dovrebbero integrare e non sostituire le scarse risorse di cui dispongono
perlopiù i circa 350 centri attivi in Italia (secondo la mappatura approssimativa stilata sulla
base del centralino d’emergenza nazionale 1522).
Certo, in alcune Regioni più virtuose dove è stata fatta la delibera per l’assegnazione, i
soldi sarebbero in dirittura d’arrivo, ma nella maggior parte dei casi i centri antiviolenza,
privati o pubblici, si arrangiano tra bandi comunali, ricerca di fondi privati e
autofinanziamenti.
A fronte di questo panorama economicamente sconfortante grandi numeri vengono
annunciati sulla carta con molte buone intenzioni: è l’atteso Piano nazionale antiviolenza
interministeriale che dovrebbe coordinare strategie e risorse, peraltro sollecitato dalla
stessa Convenzione di Istanbul (primo strumento giuridico internazionale per la
prevenzione e il contrasto della violenza di genere), in vigore in Italia dal primo agosto
2014.
Spiega l’onorevole Giovanna Martelli, consigliera alle Pari opportunità per il governo
Renzi: «Per il 2015 abbiamo la certezza di 19 milioni e 100 mila euro di fondi per
l’attuazione del Piano nazionale, più 7 milioni per il mantenimento dei centri. Presto
32
comunicheremo le azioni principali del Piano il cui varo definitivo avverrà a gennaio, dopo
una costruzione partecipata».
Quando dice «presto» la consigliera Martelli intende dire oggi. Perché proprio in occasione
della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne sarà lei stessa ad anticipare i
passaggi-chiave del nuovo Piano. «Sarà molto importante — valuta — la conferenza
Stato-Regioni del 27 novembre per definire alcuni dei punti principali». Qualche esempio?
«Siglare i criteri minimi di funzionamento per centri antiviolenza e case di rifugio, che
dovranno essere omogenei da Bolzano ad Agrigento e che serviranno anche per
sciogliere il nodo sulla ripartizione dei fondi. E poi è prioritaria la costruzione di una banca
dati che ci consentirà di fare una programmazione costruita, appunto, sui dati».
Denuncia però il rischio di tutta l’operazione l’avvocata Titti Carrano, presidente di D.i.Re
(Donne in Rete contro la violenza), che raggruppa 70 centri indipendenti e gestiti da
donne: «Definire i requisiti strutturali per poter accedere ai finanziamenti significa
burocratizzare l’intero sistema, cancellano la storia e l’identità dei centri antiviolenza.
Anche l’idea di introdurre personale maschile stravolge l’approccio di genere che abbiamo
sempre avuto. Come possono poi richiedere 365 giorni di apertura o un centralino
telefonico attivo 24 ore su 24 se non ci sono mai stati dati i fondi per questi servizi?».
Il problema, dati alla mano, è che solo una piccola parte di quei 16 milioni e mezzo del
biennio 2013-14 viene (per ora in teoria) destinata ai centri e alle case rifugio: per
l’esattezza 2 milioni e 204 mila euro. Gli altri fondi vengono accantonati per realizzare
nuovi centri (5 milioni e 400 mila euro) oppure per creare reti istituzionali all’interno delle
quali i centri esistenti dovrebbero essere recuperati (8 milioni e 800 mila euro). Da qui il
timore che arriveranno solo le briciole.
Ammette l’avvocata Manuela Ulivi, presidente della Casa delle donne maltrattate di
Milano: «Non sappiamo come e quando verranno distribuiti i fondi. In Lombardia è già
stato rinviato due volte il tavolo regionale al quale partecipiamo insieme ad altre 12
componenti non governative e 12 istituzionali. E anche il milione deliberato dalla Regione
è disponibile per progetti di Rete. In altre parole: i soldi vanno ai centri solo se stanno
all’interno delle istituzioni. L’unico a far la differenza è il Comune di Milano che ha
stanziato 600 mila euro per sostenere direttamente alcuni centri ed enti convenzionati».
Nel frattempo, da Milano a Palermo, si batte la strada dell’autofinanziamento: in piazza a
vendere clementine o con spettacoli teatrali. Dice Maria Rosa Lotti dello storico centro Le
Onde: «Un mese fa la nostra Regione ha inviato al governo un’ipotesi di progettualità.
Siamo in attesa di risposta. Il nostro centro? È messo malissimo... Oggi possiamo contare
sul contributo della Chiesa valdese! Gli stanziamenti governativi sono lontanissimi dalla
copertura di una domanda sociale così diffusa».
S ono briciole anche per la Regione Emilia-Romagna, che tuttavia ha già una delibera per
finanziare i centri: «I primi fondi arriveranno entro l’anno e un altro 30% dopo il rinnovo
della Giunta» si augura Angela Romanin, operatrice della Casa delle Donne per non
subire violenza di Bologna. Ma resta un’ulteriore incognita: sono cumulabili o no i fondi che
arrivano dai Comuni e dalla legge 119? C’è sempre il rischio che qualcuno dica: visto che
adesso ci pensa il governo…
Tra le più battagliere, Maria Luisa Toto del Centro pugliese Renata Fonte: «Vorrei sapere
chi sono i cassieri della mia Regione! Dall’oggi al domani sono sbucati dal nulla 7, 8 nuovi
centri che funzionano solo in teoria, non hanno alcuna competenza specifica. Il nostro
centro esiste da 16 anni, siamo collegate al 1522, copriamo la provincia di Lecce e siamo
tutte volontarie, per molto tempo abbiamo avuto come sostegno 5 mila euro finché nel
2012 di fronte al rischio chiusura ho fatto lo sciopero della fame. Risultato: oggi ne
riceviamo 10 mila, bastano appena per le spese telefoniche».
Giusi Fasano
33
Giovanna Pezzuoli
del 25/11/14, pag. 10
Donne, centri antiviolenza
in rivolta contro il governo
NELLA GIORNATA INTERNAZIONALE ESPLODE LA POLEMICA DELLE
ASSOCIAZIONI: ”NUOVI OBBLIGHI CON APPENA 6.000 EURO L’ANNO,
VOGLIONO CANCELLARCI”
di Elisabetta Ambrosi
Non accettiamo che il governo decida come dobbiamo lavorare, soprattutto perché la
donna non è una minus habens che deve essere messa dentro un percorso con una
logica solo securitaria e sanitaria. E comunque se il governo ritiene che dobbiamo lavorare
come un servizio di pronto intervento, almeno dovremmo avere le risorse, che invece non
ci sono”. È netto il parere di Manuela Ulivi, presidente della Casa delle donne di Milano
(primo centro antiviolenza in Italia), contro le linee guida elaborate dal Dipartimento delle
Pari opportunità di Palazzo Chigi, che prescrivono i requisiti per poter accedere ai
finanziamenti previsti dalla legge 119/2013, a partire dal 2015. Senza riconoscere la
specificità dei luoghi dove le donne già sono accolte e aiutate, il documento, che verrà
sottoposto il prossimo 27 novembre alla Conferenza Stato e Regioni, rischia di cancellare
un patrimonio qualificato di esperienze acquisite da oltre venti anni dai centri antiviolenza.
È QUESTO l’allarme che l’Associazione Dire, Donne in Rete contro la violenza, che
raggruppa circa settanta centri sparsi sul territorio italiano, lancia proprio alla vigilia della
giornata internazionale contro la violenza sulle donne, oggi 25 novembre. Oltre a non dare
alcune priorità ai centri antiviolenza già esistenti nell’assegnazione dei fondi – nonostante
un accordo tra l’Associazione nazionale comuni italiani e Dire – il documento redatto dal
Dipartimento delle Pari opportunità prevede infatti criteri che, secondo l’associazione, non
solo rischiano di escludere chi già opera sul campo ma che rispecchiano una metodologia
del tutto diversa da quella con la quale, da anni, lavorano i centri. “Il documento impone
infatti che debbano esserci psicologi e assistenti sociali, ma gli operatori sono considerati
come figure indistinte, mentre i centri antiviolenza sono fatti da donne che si mettono in
relazione ad altre donne. C’è una istituzionalizzazione che nasconde, secondo me, una
volontà di controllo sulle donne”, continua Ulivi. “Il fatto è che gli stereotipi di genere”,
spiegano proprio dall’associazione Dire, “attraversano le stesse istituzioni, quindi se le
operatrici non sono formate le donne vittime di violenza rischiano di trovarsi di fronte
psicologhe o anche avvocate che magari le valutano attraverso dei cliché, magari
giudicandole poco collaborative, immature, ostili. Attraverso questi criteri, il governo
impone una logica che appiattisce, istituzionalizza l’interven - to, lo riduce a un servizio:
ma la violenza sulle donne non è un fatto solo psicologico, ma è un problema culturale,
sociale e anche politico”. Ci sono poi altri due aspetti che vengono chiamati in causa: la
separazione dei centri violenza dalle case rifugio dove vengono accolte le donne – “non
hanno bisogno solo di un letto, ma di un percorso” – e il fatto che, mentre il governo ha
deciso che i centri dovranno essere aperti cinque giorni a settimana, con un numero
telefonico disponibile 24 ore su 24, i fondi che i centri antiviolenza hanno ricevuto sono
pochissimi, circa 6.000 euro per due anni per ogni struttura. Interpellata dal Fatto , la
34
consigliera di Palazzo Chigi per le Pari opportunità, onorevole Giovanna Martelli, si è
limitata a segnalare l’iniziativa governativa di domani a Roma: “Vincere la partita più
importante: quella contro la violenza sulle donne”. Interverranno Maria Elena Boschi, e
personalità del mondo del calcio e dello spettacolo. Durante l’evento, sarà lanciato l’ha shtag #cosedauomini, la nuova campagna di sensibilizzazione del governo italiano rivolta
agli uomini. “Quando ho visto la locandina sono rimasta senza parole, volevo scrivere al
governo”, conclude Manuela Ulivi”. “Quella è una logica che insegue gli applausi, noi
invece non facciamo spettacolo. Noi siamo quelle che, di notte, rispondono alle telefonate
delle donne impaurite. E con loro facciamo un percorso di consapevolezza che le tratta
come soggetti adulti quali sono”.
Del 25/11/2014, pag. 8
La violenza sulle donne e la paura di un vero
cambiamento
Luisa Betti
25 novembre è diventata una data che non passa più inosservata in Italia. Da quel lontano 1999, anno in cui le Nazioni Unite decisero per una giornata internazionale contro la
violenza sulle donne, sono passati molti anni di silenzio e omertà in cui i giornali parlavano
di donne uccise nel mistero o sbattevano in prima pagina l’immigrato di turno dando la
sensazione di un territorio invaso da barbari stupratori. E mentre i maschi italiani agivano
del tutto inosservati a casa propria e in piena impunità, anche quando i dati dell’Istat nel
2007 ci facevano notare che l’85% della violenza era violenza domestica, si è continuato
per molto tempo a stigmatizzare la violenza sulle donne come un fatto che non riguardava
le “famiglie normali” e su cui lo Stato poteva tranquillamente agire puntando il dito sul
rumeno di turno. Per parlare della violenza maschile sulle donne in un modo più aderente
alla realtà, e in maniera più corretta, è stata necessaria una vera e propria sollevazione
delle donne che trasversalmente hanno cominciato a interrogarsi e a dialogare con chi
sulla violenza ci lavorava da sempre: quei centri antiviolenza nati in maniera indipendente
30 anni fa che conoscevano bene cosa era la violenza domestica sulle italiane. Uno
sforzo, quello delle donne e della società civile, che ha avuto il merito di porre al centro
dell’attenzione politica il fenomeno, sia nell’informazione che di fronte alle istituzioni,
dando diversa dimensione al femminicidio e a tutte le forme di discriminazione sulle donne
in questo Paese e nel mondo. Un lavoro capillare e prezioso senza il quale oggi, questa
giornata, continuerebbe a essere una come le altre. Una campagna di sensibilizzazione
permanente sulle donne che ormai parte da ottobre in vista del 25 novembre, allungando
la data fino a dicembre, riprende a gennaio in vista del One Billion Rising (14 febbraio)
e culmina nell’8 marzo (che non è più solo la triste mimosa) per proseguire su questa scia
fino all’estate. Un salto di qualità per un Paese dove, secondo il rapporto del World Economic Forum, ci vogliono ancora 81 anni per raggiungere una certa equità tra uomini
e donne (l’Italia è al 69° posto nel Gender Gap) e in cui la discriminazione delle donne –
nel lavoro, a casa, in famiglia, nelle aziende e in tutti i luoghi pubblici e privati – è ancora
molto forte e sostenuta da una cultura lontana dall’abbattere definitivamente quegli stereotipi che sono alla base stessa della violenza maschile sulle donne.
Ma una sensibilizzazione così massiccia, che in pochi anni ha cambiato molte carte in
tavola, quali risultati ha avuto e quali sono state le risposte concrete da parte delle
istituzioni?
35
In un recente report di We World Intervita, presentato alla camera una settimana fa dal
titolo “Rosa shocking… e altre questione del genere”, si può leggere che se da una parte
è certo un aumento notevole della sensibilizzazione sull’argomento violenza maschile sulle
donne – triplicata in soli 5 anni (2009/2013) con un + 34% tra ‘12 e il ‘13 – dall’altra sono
65 i milioni di euro che le aziende spendono ogni mese per proporre a un enorme pubblico
campagne pubblicitarie legate a un’immagine femminile oggettivizzata e stereotipata che
va dalle donne decorative, a quelle manichino fino alle pre-orgasmiche: categorie che in
ambito maschile vengono sostituite da professionisti di successo o sportivi. Cifre che
fanno impallidire se paragonate a quello che le onlus in Italia hanno speso nel 2013 per
valorizzare la figura femminile nel contrastare e prevenire la violenza sulle donne, malgrado sia aumentata passando da 6,3 milioni di euro a 16,1 milioni nel biennio 2012–
2013. Stereotipi, quelli legati alla donna come oggetto da usare ora per pubblicizzare una
marca di caffè ora da utilizzare come schiava in casa, che in Italia sono ancora fortemente
radicati nel tessuto sociale e che culturalmente classificano la donna come un accessorio
utilizzabile dall’uomo dalla A alla Zeta, e che nella percezione della violenza porta a una
sostanziale sottovalutazione del fenomeno: tanto che, sempre secondo We World, non
solo 1 Italiano su 5 non considera violenza la denigrazione di una donna ma è convinto
che se le donne non indossassero abiti provocanti non subirebbero violenza. Per 1 italiano
su 3, ancora oggi e dopo quell’incremento così considerevole di sensibilizzazione sul fenomeno, la violenza domestica dovrebbe prima di tutto essere risolta in famiglia: l’esatto contrario di quello che ci indica la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la
lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, ratificata da noi lo scorso anno
e ora in vigore. In Italia, nonostante le norme per il contrasto alla violenza sulle donne
varate nel 2013 e malgrado la ratifica della citata Convenzione di Istanbul, ogni 3 giorni
una donna viene uccisa dal partner, dall’ex o da un familiare, e in un anno più di 1 milione
di donne hanno subito violenza maschile con oltre 25 casi di stalking al giorno: casi che
possono essere anche archiviati, malgrado sia ormai chiara la pericolosità dello stalker e il
fattore di rischio (di vita) che la donna ha soprattutto quando cerca di sottrarsi alla violenza
e non è adeguatamente protetta. Se ancora in alcuni tribunali italiani si stenta a riconoscere la violenza all’interno delle mura di casa scambiandola per semplice “conflittualità”,
non solo rivittimizzando la donna che denuncia ma a volte anche colpevolizzandola e sottraendo alla stessa i figli in quanto “madre malevola” rea di manipolazioni sulla prole che
ha assistito o subisce direttamente la violenza di un padre, non ci possiamo stupire se la
percezione degli italiani sulla violenza è così minimizzante. Una violenza che sempre We
World ha monetizzato, con un’indagine fatta lo scorso anno (“Quanto costa il silenzio”),
con una spesa di 17 miliardi di euro annui a carico dalla collettività per gli effetti devastanti
di un fenomeno che è strutturale e per questo difficile da contrastare. Un nodo, quello tra
stereotipi e violenza, ben presente anche ad alcune rappresentanti istituzionali di un certo
peso, come la presidente della camera, Laura Boldrini, e la vicepresidente del senato,
Valeria Fedeli, che durante la presentazione del rapporto di We World hanno lanciato
anche delle proposte e suggerito riflessioni. Se Boldrini ha fatto notare l’importanza del
cambiamento culturale a tutti i livelli e come le stesse aziende, che qui promuovono le
donne “grechine”, altrove lanciano altri tipi di campagne proprio perché non hanno gli
stessi agganci culturali, Fedeli ha valutato come necessari a un vero contrasto alla violenza la rappresentanza istituzionale delle donne, il dialogo tra istituzioni e società civile,
una strategia di un quadro nazionale per l’implementazione della Convenzione di Istanbul,
l’importanza della trasformazione della cultura attraverso scuola e media, una “commissione bicamerale” che relazioni a scadenza annuale i lavori e l’efficacia delle azioni istituzionali per contrastare la violenza sulle donne, “un osservatorio di genere presso la presidenza del consiglio che valuti “ex ante” le politiche che si scelgono”, e infine una rifles36
sione sulle stesse aziende italiane che possono scegliere di fare “campagne per una pubblicità sostenibile sul ruolo delle donne nella società”.
Ma allora che cosa è che non funziona?
Le italiane da parte delle istituzioni, oltre all’impegno costante di alcune rappresentanti,
hanno avuto due risposte concrete sul tema della violenza: la prima è stata l’importante
ratifica della Convenzione di Istanbul, la seconda le norme per il contrasto alla violenza
sulle donne contenute nel pacchetto sicurezza poi diventata legge. Eppure se ancora oggi
per un uomo su due – sempre secondo We World – il matrimonio viene considerato “il
sogno di tutte le donne” e per quasi 7 uomini su 10 “è più facile per una donna fare dei
sacrifici nella famiglia”, significa che quelle risposte o non sono efficaci, o non sono abbastanza, o c’è qualcosa che non va. Forse perché serve anche altro, come la vera e unica
novità a livello istituzionale – poi messa nel cassetto – che fu l’iniziale e proficua interlocuzione con tutte le associazioni italiane fatta dalla ex ministra delle pari opportunità, Josefa
Idem. Perché malgrado sia stata la ministra precedente, Mara Carfagna, a varare la legge
sullo stalking, il primo piano antiviolenza nazionale in Italia (scaduto nel 2013) e il finanziamento per i centri antiviolenza, è stata la ministra Idem la prima a costituire una task force
interministerale sulla violenza contro le donne, che avrebbe dovuto essere costantemente
collegata ai tavoli delle ong, e a convocare tutte le associazioni italiane esistenti e operanti
sul tema: un ponte che qui in Italia non si era mai fatto pubblicamente e con un impegno
così esplicito.
Ma cosa rimane oggi di quel lavoro? Un piano antiviolenza le cui linee principali dovrebbero essere illustrate oggi dall’onorevole Giovanna Martelli – consigliera delle pari opportunità del presidente del consiglio – all’Aranciera di San Sisto (via di Valle delle Camene
11 dalle ore 10) in occasione del lancio della campagna #cosedauomini e dal titolo “Vincere la partita più importante: quella contro la violenza sulle donne”, insieme alla ministra
Boschi. Un piano che Martelli ha già dichiarato essere stato “costruito in modo partecipato,
attraverso tavoli tematici” ma sul quale le stesse associazioni di donne che si sono sedute
a quei tavoli hanno cominciato a contestare: a partire da DiRe (rete nazionale dei centri
antiviolenza che oggi si riunisce a Roma – Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani – con il convegno “Contrastare la violenza contro le donne, migliorare la qualità della vita”), che ha
pubblicamente disconosciuto i lavori del piano i quali, secondo DiRe, disconoscerebbero
“le specificità che caratterizzano il lavoro delle donne nei Centri antiviolenza e le competenze acquisite dalle operatrici dei centri”, prevedendo “la presenza di personale
maschile”, dettando “criteri che schiacciano la connotazione politico-culturale dei centri
antiviolenza”, e prevedendo finanziamenti che non solo non coprirebbero l’attività dei centri così come sono ma che sarebbero assolutamente insufficienti anche per applicare le
linee decise dal Piano stesso. Una difficile eredità, quella ricevuta da Giovanna Martelli,
che dalle mani di una ministra, Josefa Idem, è passata con una delega nelle mani della ex
viceministra del lavoro, Cecilia Guerra, e che ora è invece rimasta stretta nelle mani del
nuovo premier Renzi che ha incaricato Martelli di seguire i lavori del Dpo per suo conto la
quale, come ha suggerito Boldrini, deve svolgere questa attività da una posizione ben differente da quella di una ministra.
Ma perché il vuoto di una ministra come referente unico e con pieni poteri va così stretto
a una società civile di donne che in pochi anni è riuscita a triplicare la sensibilizzazione sul
femminicidio, portando il tema sull’agenda istituzionale e premendo sul tasto della discriminazione di genere?
Effettivamente l’input da cui era partita la ex ministra Idem, interloquendo preliminarmente
con tutte le associazioni presenti sul territorio nazionale – nessuna esclusa – ha dato un
imprinting che, se anche stroncato sul nascere, è rimasto indelebile come punto di svolta,
e che solo un’altra ministra con il suo stesso potere e le sue stesse capacità potrebbe por37
tare avanti fino a farne scaturire un quadro coerente ed efficace di risposta reale alla violenza contro le donne in questo Paese. Un’opinione, quella della necessità di una figura
nel governo che sia un riferimento per le politiche di genere, condivisa anche da Boldrini
e da Fedeli, su cui la stessa ex ministra Idem, intervenuta pochi giorni fa all’Adnkronos, ha
dichiarato che “Bisogna ripristinare il ministero delle Pari opportunità e andare alla radice
del male, concentrandosi sulla sua origine culturale. La legge sul femminicidio – ha spiegato – ha avuto sicuramente ricadute positive, incentivando le denunce e va valutata nel
tempo, ma non basta. Quello che il governo sta facendo con l’istituzione di un consigliere
ad hoc e l’azione del dipartimento per le Pari opportunità, non è sufficiente, perché manca
un organismo di coordinamento dei centri sul territorio e soprattutto serve che ci sia qualcuno, al tavolo del Consiglio dei ministri, che ricordi la necessità di investire risorse. Se
anche gli altri ministeri – ha detto Idem – vengono trattati allo stesso modo, sostituiti da
strutture come queste perché si è dimostrato utile, allora mi piego a questa logica, ma se
questo trattamento si riserva solo alle Pari opportunità, allora è chiaro che sta venendo
meno l’attenzione su questo tema”.
del 25/11/14, pag. 32
I nativi digitali la usano sempre meno. Dal 2016 la Finlandia la metterà al
bando dalle classi Ma un esperimento italiano rilancia le virtù della
scrittura manuale Migliora ricchezza lessicale e capacità di sintesi dei
bambini
La fine della penna
MARIA NOVELLA DE LUCA IRENE MARIA SCALISE
QUATTRO mesi, per quindici minuti al giorno. Provando a dimenticare tastiere e touch.
Lettere maiuscole e lettere minuscole che scorrono sul foglio, intersecando segni e
pensieri, simboli ed emozioni. Il tondo della “o”, il gambo della “g”, l’asta della “t”, il manico
della “f”. Curve, linee, pieni e vuoti. E a sorpresa quattrocento bambini digitali di otto, nove
e dieci anni riscoprono la scrittura in corsivo, e in poco più di cento giorni il loro lessico,
punteggiatura e ortografia, migliorano sensibilmente. Così mentre il mondo celebra (o
piange) la morte della calligrafia e degli esercizi a penna, mentre addirittura la Finlandia
delle scuole più belle del pianeta annuncia, dal 2016, l’addio ad ogni forma di
compilazione manuale, un piccolo esperimento italiano rilancia con forza le virtù del
corsivo. Ri-alfabetizzazione di bambini e ragazzi che volando dallo stampatello alla
tastiera, dicono i più pessimisti, rischiano di non saper più né leggere né scrivere. E di
perdere a furia di esercitarsi sui tasti, quell’abilità sottile delle mani che l’uso della penna
regala.
È stato un famoso pedagogista italiano, il professor Benedetto Vertecchi, tenacemente
convinto del pericolo che la scuola 2.0 cannibalizzi capacità e competenze dei più giovani,
ad ideare un singolare progetto che ha coinvolto quasi quattrocento bambini di due scuole
romane. «Abbiamo chiesto alle insegnanti di far scrivere ad ogni allievo, per quindici minuti
al giorno, brevi testi e pensieri di quattro o cinque righe, utilizzando unicamente il corsivo.
È ormai evidente — dice Vertecchi — che alla diminuzione della capacità di scrittura
corrisponda una minore coordinazione tra pensiero e azione. Ma anche un peggioramento
nell’organizzazione del discorso, un impoverimento del linguaggio e della memoria».
I risultati di questo singolare laboratorio, dal titolo latino “Nulla dies sine linea”, citazione da
Plinio il Vecchio, sono stati sorprendenti. «Man mano che i bambini si abituavano ad usare
38
la penna, visto che ormai anche in molte scuole primarie si stanno diffondendo le tastiere,
abbiamo visto progressivi miglioramenti. Nell’accuratezza e ricchezza del linguaggio, nella
struttura della frase, addirittura nell’ortografia». Segno cioè che nella scrittura corsiva il
pensiero corre fluido dalla testa alla mano, a differenza di quanto accade con lo
stampatello, che spinge invece al fraseggio sincopato e spezzettato.
Un coraggioso ma solitario tentativo di rieducazione pedagogica quello ideato dal
professor Vertecchi, che rischia di venire divorato dalla globalizzazione del sapere in
“power point”. Profetizza infatti Paolo Ferri, docente alla Bicocca e grande esperto del
rapporto tra culture tecnologiche ed educazione: «Un futuro digitale è inevitabile, anzi
siamo in forte ritardo e il nostro sistema scolastico è assolutamente impreparato. Non c’è
un linguaggio che deve sovrastare l’altro, il computer e la penna possono convivere,
l’importante è evitare ai bambini di essere calati in un contesto schizoide». Mentre cioè a
casa e con gli amici, anche i più piccoli vivono una vita da nativi digitali, quali
effettivamente sono, in classe si ritrovano d’un colpo in un’altra epoca. «Frequentano aule
dove non esiste nulla, neanche il computer, per non parlare di tablet e Lim. E da questa
contraddizione spesso nascono gravi problemi di insegnamento ».
Un punto di vista opposto dunque a quello di Vertecchi. Anche Ferri però concorda con la
necessità di non perdere l’abilità manuale che la scrittura in corsivo sviluppa. «Paesi come
la Finlandia, che puntano oggi soltanto sul digitale, non trascurano per niente la motricità
fine, ma la sostituiscono con attività come il disegno, la creta, la musica che purtroppo
nelle nostre scuole non sono sviluppate».
Bisogna allora spostarsi in Umbria, a Giove, nella scuola elementare dove insegna il
maestro Franco Lorenzoni. Qui il sapere dei bambini si crea in un particolare percorso
dove lo studio e l’esperienza della natura e dell’arte, l’abilità di accendere un fuoco e
quella di imparare una poesia si fondono insieme. Famoso per aver promosso nel 2012
una petizione, perché fino agli otto anni computer e lavagne digitali restino fuori dalle aule
dei più piccoli, Lorenzoni ha di recente raccontato la sua esperienza di maestro nel libro “I
bambini pensano grande. Cronaca di un’avventura pedagogica”.
«Il corsivo sviluppa uno straordinario legame tra il pensiero e la mano, oggi i bambini
sanno usare le tastiere ma non sanno più allacciarsi le scarpe. Trovo giusto lasciare
maggiore libertà anche a chi vuole usare lo stampatello, ma l’importante è far recuperare a
questa generazione l’uso delle mani, al di là dei pollici che servono per digitare i
messaggi». Arte, natura, laboratori, la matematica, la storia, ma anche veder nascere un
vitellino. Per Franco Lorenzoni, nei primi anni la scuola «deve essere un controcanto,
preservare, essere anche un po’ anacronistica rispetto alla società: i bambini possono
imparare che il sapere non è soltanto dentro il computer, ma dappertutto, nella vita,
nell’esperienza...». Ma la scuola non è l’unica “imputata”. I piccoli scrivono sempre di
meno non solo per l’abbuffata di pc e tablet che li circondano quanto per la mancanza di
esempi. «Sono gli adulti, genitori compresi, a non saper più convivere con la penna —
incalza la calligrafa Monica Dengo — non possiamo colpevolizzare soltanto gli
insegnanti». A rischio poi c’è anche la memoria: «I contenuti scritti con la propria penna
restano assai più impressi nella mente, rispetto a quando si utilizza il computer». E il
paradosso, aggiunge Dengo, è che proprio i grandi guru della Silicon Valley se ne
guardano bene dall’abbandonare i loro blocchi di appunti e le loro (lussuosissime) penne.
«I tavoli dei manager di Microsoft e Google ospitano computer e tablet ma anche tanti fogli
e appunti volanti». A riprova di quanto la manualità sottile sia una dote da non far cadere
nell’oblio, la calligrafa Dengo ricorda: «Il Giappone dove si mangia con le bacchette, che
richiedono abilità e delicatezza, è il paese nel quale i bambini hanno la più elevata
capacità di uso della scrittura».
39
BENI COMUNI/AMBIENTE
del 25/11/14, pag. 15
La bolletta dell’acqua rincara del 9%
«Arrivano 5 miliardi di investimenti»
Nel 2014 deciso un aumento del 3,9%, l’anno prossimo salirà di un altro
4,8%
MILANO Che le nuove tariffe dell’acqua sarebbero aumentate già si sapeva. A dicembre
2013 l’Autorità dell’energia elettrica, il gas e il sistema idrico aveva annunciato la
rivoluzione copernicana del settore: rincari concessi ai gestori che investono sul sistema
idrico. Ieri l’aumento è stato quantificato: in media +3,9% nel 2014 e +4,8% nel 2015. Con
anche la novità che si tratta di un metodo di calcolo per la prima volta omogeneo in tutta
Italia.
Gli utenti interessati sono 40 milioni, ma di questi quasi 6 milioni hanno avuto una
riduzione del 10% nella bolletta. L’aumento per la stragrande maggioranza dei
consumatori è legato alla ripresa degli investimenti «che erano fermi da decenni» da parte
delle aziende che erogano i servizi idrici. Lo ha spiegato il presidente dell’Autorità per
l’energia, Guido Bortoni, a Milano per fare il punto sull’attività dell’Authority nel corso della
Conferenza nazionale sulla regolazione del comparto. Nei prossimi quattro anni risultano
attivati 4,5 miliardi di investimenti per nuove infrastrutture, tutela ambientale e
miglioramento dei servizi, un valore pari a quello degli impianti finora realizzati. In realtà il
sistema idrico del Paese avrebbe bisogno di investimenti ben maggiori. Solo un anno fa
l’Authority spiegava che per superare le carenze croniche e mettersi in regola con gli
adempimenti europei sarebbero stati necessari oltre 25 miliardi in cinque anni.
Resta il fatto che per le famiglie si tratta di un esborso ulteriore in un momento di crisi,
come denunciato dalle associazioni dei consumatori. Per Elio Lannutti dell’Adusbef,
l’Authority ignora i risultati del referendum 2011 contro la privatizzazione dell’acqua e
«continua a stangare i consumatori deliberando aumenti e rincari sulle bollette, attribuendo
tali oneri impropri alla “ripresa degli investimenti” delle aziende idriche, che non si
comprende perché devono essere sopportate dalle famiglie». L’Adusbef ha calcolato «un
aggravio pro capite sulle bollette 2014-2015 di oltre 130 euro a famiglia, per finanziare gli
investimenti di nuove infrastrutture, che in un regime di libero mercato spettano
esclusivamente alle imprese». Bortoni nella sua relazione ha ricordato che «con oltre 20
sentenze emesse nel corso del 2014 il Tar Lombardia ha respinto interamente i ricorsi
presentati, contro il nuovo metodo tariffario dell’Autorità, da parte di alcuni soggetti che ne
reclamavano l’illegittimità rispetto al portato referendario, nonché da parte di imprese di
gestione».
Quanto ai quasi 6 milioni di consumatori che avranno lo sconto del 10% in bolletta, il
motivo è legato al loro gestore, che non ha inviato in tutto o in parte i dati richiesti ai fini
tariffari. I «colpevoli» sono oltre 1.250, si tratta di municipalizzate piccole o piccolissime e
la decisione dell’Authority del taglio della tariffa è una sorta di punizione per le gestioni
inadempienti. Il Metodo tariffario idrico, che assorbe tutte le regolazioni passate, prevede
quattro diversi tipi di schemi tariffari, rispetto ai quali ciascun soggetto competente può
individuare la soluzione più adatta a seconda dei propri obiettivi di sviluppo e delle
peculiarità territoriali.
Bortoni nella sua relazione ha anche ricordato che nel corso del 2014 si è concluso il
procedimento per la restituzione ai consumatori della componente tariffaria relativa alla
40
remunerazione del capitale, abrogata con il referendum del giugno 2011. Il rimborso
riguarda i 5 mesi dalla consultazione popolare fino all’entrata in vigore, il primo gennaio
2012, del metodo tariffario transitorio con cui l’Authority ha eliminato la remunerazione del
capitale investito nel rispetto del principio del full cost recovery . Il rimborso andrà a 14
milioni di utenti domestici per un valore di 55 milioni di euro (in media 3,9 euro a
consumatore).
Francesca Basso
41
INFORMAZIONE
del 25/11/14, pag. 5
Rognoni attacca: «Sulla Rai solo promesse e
gravi ritardi»
ROMA «Il governo, sulla Rai, è in clamoroso ritardo rispetto alle eccellenti promesse
iniziali. Ora l’unica via d’uscita è che Matteo Renzi se ne occupi personalmente e dica i
due-tre punti che occorre affrontare. Altrimenti il suo governo sarà costretto a nominare i
nuovi vertici di viale Mazzini con la legge Gasparri…». Carlo Rognoni è stato membro
della Commissione di vigilanza Rai dal 1996 al 2001 e dal 2005 al 2008 consigliere di
amministrazione, prima come uomo del Pds, poi Ds e infine Pd. Ora è consulente del
gruppo del suo partito in Vigilanza. È preoccupato: «Gli annunci sul canone? L’ultimo
argomento da affrontare. Prima occorre la legge sulla nuova governance. E io sono
d’accordo che urga un amministratore delegato. Ma occorrerà dargli il tempo per un
progetto di rifondazione della Rai da servizio pubblico radiotelevisivo a Media company».
E poi, Rognoni? «Solo dopo aver stabilito le finalità della nuova Rai si può fissare il
canone. Tanti annunci rischiano di essere inutili. Siamo a ridosso del 1° dicembre, data in
cui la televisione pubblica è obbligata ad emettere le bollette tenendo conto dell’inflazione.
In più, in questo clima, l’evasione del canone rischia di aumentare, anziché diminuire»
Ma il sottosegretario alle Comunicazioni Antonello Giacomelli si sta muovendo per la
riforma Rai… «All’inizio ha avuto un passo sicuro. Poi è inciampato in qualcosa. Magari in
Renzi stesso che, mesi fa, aveva annunciato un grande ascolto degli italiani sulla rete per
arrivare a un identikit della nuova Rai, a una clamorosa operazione prima di analisi e poi di
sintesi. Che fine ha fatto? Silenzio. Si era anche detto di anticipare ai primi del 2015,
addirittura a fine 2014, il rinnovo della concessione Rai-Stato in base a presupposti
completamente diversi. Anche qui: che fine ha fatto? Di nuovo silenzio». Ma il Pd promette
una nuova legge sulla governance in tempi molto rapidi… «Siamo comunque in ritardo. Le
tante riforme annunciate da Renzi hanno creato un evidente ingorgo parlamentare. Ma se
una legge non viene avviata concretamente adesso, assicurandole un corridoio
preferenziale, non sarà mai pronta entro maggio, quando gli attuali vertici scadono. E
allora… allora riecco la Gasparri! Una conclusione ridicola, dopo tante parole». Morale?
«Beh, il sospetto che il patto del Nazareno nasconda qualcosa sulla Rai, adesso diventa
più che un sospetto...».
Paolo Conti
42