Documenti - CGIA Mestre

SOMMARIO
Culture Economie e Territori
Pag. 3
Perché questo numero? di Francesca Gelli
Rivista Quadrimestrale
Numero Quattro, 2002
Politiche urbane e territoriali dell’ U.E.
a cura di Francesca Gelli
Viaggiando tra le costellazioni del sapere
Pag. 8
Pag. 32
Pag. 53
Government e governance urbana nelle città Europee: argomenti per la discussione
di Patrick Le Galès
La declinazione Italiana dell’ Iniziativa Comunitaria Urban di Liliana Padovani
Reti di città: una forma emergente di governance Europea di Paolo Perulli, Fabio
Rugge, Raffaella Florio
Il faro
Pag. 71
Pag. 95
I programmi RECITE dell’U.E.: competitività e politiche di coesione nelle differenti realtà locali Europee di Ioannis Chorianopoulos
Dall’Europa alle città e ritorno. Organizzazioni, approcci e strumenti in atto nell’implementazione di un’Iniziativa Comunitaria di Andrea Mariotto
Passaggio a NordEst
Pag. 114 Arco alpino orientale e politiche Europee di sviluppo locale: prime lezioni dall’implementazione dei Fondi Strutturali 1994-’99 con particolare riferimento ad Interreg II
di Sandro Fabbro e Enzo Forner
Pag. 131 Slovenia: nuove opportunità di cooperazione economica per le piccole imprese della
provincia di Venezia a cura del Centro Studi C.G.I.A. Mestre
Il sestante
Pag. 139 L’analisi delle politiche urbane Europee: alcuni frame emergenti di Carla Tedesco
Pag. 147 Il modello neo-repubblicano: le origini concettuali di Marco Almagisti
Mayday Mayday
Pag. 160 La sinistra hegeliana di Massimiliano Tomba
Asterischi
Pag. 164 M. D. COHEN, J. G. MARCH e J. P. OLSEN, A Garbage Can Model of Organizational
Choice; J. G. MARCH and J. P. OLSEN, Ambiguity Choice in Organizations; J. G. MARCH
and J. P. OLSEN, Riscoprire le istituzioni. Le basi organizzative della politica; J. G.
MARCH and J. P. OLSEN, Governare la democrazia; J. DERRIDA, Oggi l’Europa. L’altro
capo seguito da La democrazia aggiornata.
Francesca Gelli
Perché questo numero?
La costruzione delle politiche pubbliche a livello Europeo presenta delle ambiguità di fondo, che emergono nella continua oscillazione tra due esigenze (contrapposte), entrambe considerate funzionali al processo di integrazione: da una
parte, quella della standardizzazione, dall’altra, l’affermazione di uno stile cooperativo. La prima, concepita secondo un approccio “top-down”, è riconducibile,
su di un piano analitico, ad una forma di razionalità e ad uno stile di decisione di
tipo tecnico-burocratico. In concreto, si presenta principalmente incentrata sulla
funzione di scelta di indicatori specifici e delle modalità della loro applicazione;
l’istituzionalizzazione di una serie di vincoli, norme e procedure da seguire, ecc..
In altri termini, quel che emerge è una tensione verso la costituzione di principi
e di leggi generali che informino indistintamente i territori dell’U.E., ai fini dell’integrazione. La seconda, improntata ad uno stile cooperativo, promuove la
costruzione e realizzazione partecipata – e partecipativa - delle politiche, con
una forte accentuazione del ruolo del locale e dell’importanza delle differenze
tra contesti territoriali, come risorsa per l’integrazione, riscontrando oltretutto
una sostanziale carenza di apposite strutture di implementazione a livello
Europeo. Una conseguenza di questa seconda proposizione è quella di leggere
il sistema di governo dell’U.E. anche come un’organizzazione complessa, per la
molteplicità di funzioni, attori, livelli, ecc. che sono compresenti, e soprattutto,
per le relazioni di interdipendenza che tra questi si instaurano e per le condizioni di rapido mutamento degli stessi contesti d’azione. In tal modo l’analisi si
estende dalla considerazione dei meccanismi di costruzione delle decisioni e
delle modalità di risoluzione dei problemi, all’osservazione dei processi di interpretazione e di comunicazione degli attori che ne sono in qualche misura coinvolti (March e Olsen 1982, 25). Se la tendenza alla standardizzazione, residuo del
paradigma della modernità, tende a strutturare la comunicazione all’interno di
un’organizzazione come formale (fondando sulla statistica la ricerca di una univocità del linguaggio di base), lo stile cooperativo scopre il peso della comunicazione informale, a partire dalle convinzioni di quanti agiscono e producono
senso nell’ambito dell’organizzazione, in misura dunque preponderante, nei
processi di produzione delle politiche (per un approfondimento su quest’aspetto, vedi in questo stesso numero, la recensione multipla su March e Olsen).
Più precisamente, nel caso di molti programmi e politiche, si crea l’aspettativa
che l’introduzione di una serie di indicazioni funga da dispositivo di operazionalizzazione di concetti e di principi molto generali (quali ad es. quelli di integrazione, o di coesione economica e sociale, ecc.), spesso utilizzati nella fase iniziale di concezione della politica in termini metaforici, nel presupposto che questi
vadano specificati in termini operativi per potere passare all’azione. Ciò può
avvenire secondo le due logiche di sopra descritte, cioè sia ricorrendo a parametri e metodi di tipo quantitativo, sia introducendo soluzioni di tipo più qualitativo, che si concretizzano nei processi d’interazione. Entrambe queste logiche
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si trovano applicate alla definizione e alla selezione delle aree, o regolano le procedure di partecipazione, di finanziamento, di monitoraggio, la costituzione dei
partenariati, ecc.. Nella varietà delle politiche e delle iniziative comunitarie queste due diverse logiche si trovano dunque spesso compresenti. In un recente
intervento, Bartolini (2002) riferendosi ai processi decisionali Europei riconosce
queste due logiche nei termini di un dualismo radicale tra “democrazia” e “diplotecno-burocrazia”. Ad ogni buon conto, dell’estrema diffusione e al contempo
vaghezza di alcuni principi basilari si hanno continui riscontri empirici. Così, i
discorsi intorno all’integrazione e alla coesione sociale sembrano ampiamente
accettati e condivisi, ma a ben vedere, di fatto, essi sono molto ambigui e il problema della coesione è stato trattato piuttosto attraverso una serie di meccanismi per l’integrazione (il mercato del lavoro, la famiglia, le istituzioni) e le politiche pubbliche, ai vari livelli di governo, sono apparse scarsamente rilevanti e
poco efficaci (Le Galès 2002, 8). Elazar individua un particolare momento storico nel processo di costruzione dell’U.E. in cui una certa ambiguità si produce,
relativamente ad alcuni principi fondamentali, proprio a partire dall’introduzione di alcuni termini che vengono rapidamente a fare parte del linguaggio che
dice le fasi e i caratteri dell’esperienza Europea dell’unificazione. Nel dopoguerra appare chiaramente che il passo verso la federazione in Europa (sul modello
della democrazia federale) è troppo difficile da sostenere e si fa strada la soluzione ‘funzionalista’; si abbassano i toni espliciti sugli ‘alti propositi’ dello sforzo
di unificazione e al posto dei termini di ‘federale’ e ‘confederale’ vengono utilizzate definizioni come ‘sopranazionale’ e ‘comunità politica’. Di qui, il dualismo
che si genera nella letteratura sull’integrazione europea tra teorie intergovernative e teorie sopranazionali, tuttora perdurante (Bartolini 2002), nonostante le
varie declinazioni teoriche della governance multilivello. Ancor più importante,
quello che si produce è una confusione fondamentale: “l’integrazione Europea
ha cominciato ad essere vista come un fine che ha valore in se stesso, spesso
confondendo i mezzi con i fini” (Elazar 2002, 32). Quello (ambiguissimo e caleidoscopico) dell’integrazione dunque diventa l’obiettivo imperante e su cui si
tenta di costruire una convergenza e condivisione, mentre la chiarificazione della
forma di governo e della natura ‘dell’impresa politica’ sembra passare in secondo piano.
Oggi possiamo affermare che quest’indefinitezza di concetti e principi appare
come una caratteristica preponderante del dibattito (che è ricco di posizioni),
forse tutto sommato ricercata, dal momento che attraversiamo una fase di
costruzione di una governance Europea, cioè di un nuovo tipo di polity.
E tuttavia è proprio nell’implementazione delle politiche che si possono aprire
strade per una definizione pratica di alcuni concetti e principi basilari, a partire
da quello di integrazione.
I Programmi d’Iniziativa Comunitaria (vedi in questo numero in particolare i
saggi su “Urban” e “Interreg”, di Padovani, Mariotto, Fabbro e Forner) si collocano tra gli strumenti di politiche e di orientamento delle politiche pubbliche
dell’U.E. che promuovono il territorio come componente strategica essenziale
(soprattutto in ambito regionale e interregionale) per la realizzazione di alcuni
fondamentali obiettivi politici comunitari, quali quello dell’integrazione e della
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Francesca Gelli
Perché questo numero?
coesione economica e sociale. Nell’ultimo decennio anche le reti di città transfrontaliere che connettono autorità locali e regionali, dando luogo a partenariati di attori pubblici e privati, possono essere collocati in questo scenario di crescita diffusa in Europa del livello meso di governo (vedi in questo numero i saggi
di Le Galès, Perulli, Chorianopoulos). Da un lato infatti le città si organizzano in
reti per esercitare una pressione sull’U.E., dall’altra l’U.E. essa stessa implementa le proprie politiche attraverso le reti di città.
Su questa rinnovata considerazione della dimensione del territorio per la predisposizione e attualizzazione di finalità politiche, economiche e sociali, si è concentrata negli ultimi anni l’analisi e la riflessione di vari studiosi provenienti da
differenti ambiti disciplinari, per cui il discorso ha assunto diverse accentuazioni1. Sembra comunque che ci sia condivisione sul fatto che un elemento di novità, rispetto al passato, di questo movimento di riterritorializzazione delle politiche, stia nel tentativo di proposizione di un ridisegno del territorio e delle sue
istituzioni dal punto di vista organizzativo, e secondo un’accezione “debole”,
cioè in riferimento alla natura delle interazioni e delle reti di relazione, piuttosto
che alle strutture istituzionali definite, dei centri di autorità e di governo. In altri
termini, quello delle politiche non è un territorio che si identifica e si precisa
propriamente con i confini amministrativi esistenti, all’interno degli Stati, o con
le frontiere tra gli Stati, e non per questo (o solo per questo) il territorio è “politico”: proprio la problematizzazione di confini e frontiere, ha assunto infatti
pieno significato politico, economico e sociale ai fini della realizzazione dell’obiettivo dell’integrazione Europea. Le nuove istituzioni della cooperazione su
base territoriale, così come l’implementazione di molti programmi di politiche
comunitarie, si inseriscono in quest’orizzonte di senso e di mutamento, ove le
realtà locali possono assumere una rilevanza strategica, se riescono nella sfida di
organizzare e strutturare forme innovative di governance territoriale. Così, basti
pensare all’impatto della ridefinizione, ancora peraltro pienamente in atto, dei
rapporti di sussidiarietà “verticale” e “orizzontale”, centrali ad una comprensione della produzione delle politiche territoriali Europee, in particolare per quel
che riguarda gli aspetti della partecipazione. In questo senso, la definizione del
principio del partenariato dato a livello Europeo fa riflettere.
A questo proposito va ricordato che, a seguito della riforma dei FS del 1988 nell’ambito della politica di coesione, oltre che ad un numero di Obiettivi, emergono dei principi-base. Il partenariato (assieme a “concentrazione”, “programmazione” e “addizionalità”) è uno tra i principi. “Il partenariato rappresentava uno
degli assi portanti della riforma. Per partenariato si intendeva una stretta concertazione tra la Commissione e le autorità pubbliche competenti in ciascun
Stato Membro, designate a livello centrale, per partecipare a tutte le fasi di programmazione” (Morata e Fabbrini, 2002, 116). Nasceva così il Consiglio consultivo degli enti regionali e locali, parte della DG XVI, considerato come il diretto
antecedente del Comitato delle Regioni (istituito con il Trattato di Maastricht).
Con la nuova politica di coesione (2000-2006) gli obiettivi vengono concentrati
in 3 e anche i principi rimodulati. “ Si richiede che i Piani di Sviluppo presentati
dai governi degli Stati membri, che devono garantire la partecipazione delle
autorità regionali e locali, comprese quelle ambientali, includano il parere degli
attori economici e sociali e delle Organizzazioni non Governative attraverso la
1
La letteratura su questo punto è vasta, ma
mi interessa rimandare, tra gli altri, alle
riflessioni di alcuni
autori, per il tipo di
connessioni che a partire da quest’aspetto
sviluppano, in particolare: Le Galès, 2002;
Janin-Rivolin, 2000;
Padovani (in questo
stesso numero);
Chorianopoulos (in
questo stesso numero);
Salone (2000).
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pratica dei patti territoriali sull’impiego (…). Il partenariato deve proseguire
anche nella fase successiva attraverso la partecipazione dei diversi interlocutori
al comitato di riferimento (autorità locali per l’ambiente, agenti socioeconomici,
ecc.)” (Morata e Fabbrini, 2002, 134). Se la prima definizione di partenariato è
riconducibile ad un’ottica di “sussidiarietà verticale”, in cui l’aspetto prevalente è
costituito dalle relazioni intergovernative, la seconda richiama maggiormente la
nozione di “sussidiarietà orizzontale” (che pertiene i rapporti tra istituzioni e cittadini, gruppi, ecc. e tra cittadini, nelle varie forme della loro organizzazione), e
molti aspetti dei processi di devoluzione nel frattempo intercorsi. Ci avviciniamo
in tal modo ad una comprensione più articolata di quanto s’intende come
costruzione di una governance Europea (vedi anche il Libro Bianco della
Governance Europea).
Chiarito questo punto, va tenuto presente come, poi, d’altra parte, l’impatto
delle strutture istituzionali del territorio esistenti abbia peso e risulti di fatto
ancora determinante, sotto molti aspetti, per la realizzazione delle politiche e
questa è l’altra faccia della medaglia (Chorianopoulos, in questo numero). Ciò
detto, comunque, il fatto ormai da più parti ricordato, che non si disponga ancora propriamente di una politica territoriale dell’U.E. di settore, formalizzata e con
l’attribuzione di competenze specifiche, assume un valore relativo ai fini della
definizione della nozione di territorio e della sua nuova centralità da giocare
nelle politiche, per quanto ovviamente questa formalizzazione sia per molti
aspetti attesa, per i vantaggi che potrebbe arrecare.
Tale riconcettualizzazione della nozione di territorio e del suo uso, è risultata di
particolare interesse nel contesto Italiano, dal momento che la comprensione
delle politiche territoriali, differentemente da quanto accadeva in altri paesi (prevalentemente del Centro e Nord Europa), fino a pochi anni fa in Italia sembrava
ancora particolarmente radicata nell’identificazione delle componenti “spaziali”
del territorio, intese come riconducibili alla sostanza di quelle “fisiche” (trascurando pertanto la dimensione d’interazione sociale, politica ed economica del
territorio). Questa ridefinizione a livello Europeo del territorio è quindi tornata
particolarmente utile in Italia per velocizzare i tempi di un salto culturale in atto,
nel modo di concepire il territorio, in molti ambienti scientifici e accademici in
primo luogo (dal momento che si rendeva necessario un dialogo interdisciplinare), ma anche prioritariamente negli ambienti dell’amministrazione pubblica e
della programmazione e pianificazione a livello nazionale e regionale. In questa
prospettiva, un’analisi che risulta nuovamente da rivisitare è quella di Bagnasco.
Ancor prima dei volumi del ‘99 (“Tracce di comunità)” e del ‘94 (“Fatti sociali
formati nello spazio”) si veda l’opera del ‘77: “Tre Italie. La problematica territoriale dello sviluppo italiano”. La definizione di una realtà della “Terza Italia” è
divenuta in generale una metafora non solo per la rottura degli stereotipi alla
base della contrapposizione Nord-Sud, ma per un mutamento di paradigma nel
modo di analizzare il territorio. Invece di essere accettato come un “dato”, il territorio ha cominciato ad essere problematizzato come il risultato di processi di
interazione sociale (e locale) tra diverse sfere di regolazione (economica, politica, comunitaria). In particolare, Bagnasco osserva come un approccio più strategico ed integrato alla pianificazione e alle politiche territoriali si realizza nelle
dinamiche di territorializzazione delle strutture delle società locali a livello regio-
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Francesca Gelli
Perché questo numero?
nale, ma come processo di regionalizzazione; quindi, non semplicemente come
assunzione dei confini amministrativi delle nuove costituite realtà istituzionali, le
Regioni, appunto (a partire dagli anni ‘70).
D’altra parte tale riconcettualizzazione del territorio è stata ricondotta spesso in
modo preponderante all’accresciuto ruolo delle città nello spazio politico ed
economico Europeo, mettendo in relazione anche la natura intrinsecamente
provvisoria e ibrida dei confini territoriali delle città con la diminuita rilevanza dei
confini amministrativi esistenti per la definizione delle politiche territoriali, cui
prima si è accennato. Inoltre, le città sono state viste a livello Europeo come nodi
strategici della concentrazione delle attività politiche ed economiche, dello
scambio, dell’interazione sociale, quindi, dello sviluppo e della competitività dei
sistemi locali, e al contempo come luoghi dell’addensamento di gravissimi problemi: esclusione sociale, povertà, emarginazione e conflitto sociale, disastro
ambientale, criminalità, ecc. ( Tedesco, in questo numero).
Per tutte queste ragioni, la selezione dei saggi che compongono il numero ha
privilegiato la trattazione di una politica volta specificamente all’intervento su
aree urbane (trattasi di Urban, tra i Programmi d’Iniziativa Comunitaria) e ricerche empiriche e in chiava comparata aventi per campo d’indagine le politiche
delle “reti di città”.
Desidero ringraziare gli autori, italiani e stranieri, che hanno contribuito alla realizzazione di questo numero, i quali, come era stato loro richiesto, malgrado fossero impegnatissimi con altri lavori, hanno inviato, tutti, saggi inediti.
A mia cura è la traduzione dall’inglese dei saggi di Patrick Le Galès e Ioannis
Chorianopoulos.
Riferimenti bibliografici
Bagnasco, A. (1977), Tre Italie. La problematica territoriale dello sviluppo italiano, Bologna, il
Mulino
Bagnasco, A. (1994), Fatti sociali formati nello spazio. Cinque lezioni di sociologia urbana e
regionale, Milano, Franco Angeli
Bagnasco, A. (1999), Tracce di comunità, Bologna, Il Mulino
Bartolini, S. (2002) “Lo stato nazionale e l’integrazione europea: una agenda di ricerca”, testo della
Lettura inaugurale, Associazione Italiana di Scienza Politica, Genova, 19-20 settembre 2002
Elazar, D.E. (2002), “The United States and the European Union: Models for Their Epochs”, pp 3153, in Nicolaidis K. and R. Howse (Editors), The Federal Vision, Oxford, Oxford University Press
Janin-Rivolin, U. (2000), (a cura di) Le politiche territoriali dell’Unione Europa, Milano,
FrancoAngeli
Le Galès, P. (2002), European Cities. Social Conflicts and Governance, Oxford, Oxford University
Press
March, J.G. and J.P.Olsen (1982), Ambiguity Choice in Organizations, Bergen-Oslo-Tromsø,
Universitetsforlaget
Morata, F.e S. Fabbrini (2002), L’Unione Europea. Le politiche pubbliche, Bari, Laterza
Salone, C. (2000), “Dallo Ssse all’Espon: prove generali di una comunità scientifica”, pp 13-25, in
Janin-Rivolin (2000)
[email protected]
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n.4 / 2002
Patrick Le Galès
Government e governance urbana
nelle città Europee: argomenti per
la discussione
Viaggiando tra le costellazioni del sapere
Introduzione
1
Alcuni classici tra gli
studi su città e regioni
in Europa si possono
considerare: Mény e
Wright (1985); Keating
e Loughlin (1997),
Sharpe (1993); Page e
Goldsmith (1987); Le
Galès e Lequesne
(1998); Dunford e
Kafkalas (1992);
Bagnasco e Le Galès
(2001); Kohler-Koch
(1999; Rhodes (1997).
2
Mény e Wright
hanno individuato
undici fattori, di tipo
politico, giuridico,
amministrativo, per
spiegare le variazioni
dei rapporti tra centro
e periferia nei paesi
Occidentali.
3
...per esser chiari: neomarxisti, neo-classici,
neo weberiani/Polanyi
8
L’aumento dell’importanza di città e regioni nell’ambito degli Stati nazionali e del
processo di costruzione della governance Europea è stato ampiamente documentato negli ultimi vent’anni1. Per spiegare la diffusa crescita in Europa del livello meso di governo (Sharpe 1993), Anderson sottolineava come la fine delle
guerre in Europa avesse ridotto la necessità di mobilitazione da parte degli Stati,
aprendo a scenari politici differenziati. In un primo momento, i ricercatori, per
lo più scienziati politici e costituzionalisti, hanno individuato la logica del prodursi di questa dinamica in una combinazione di pressioni dal basso (movimenti regionalisti, esigenze di democrazia, movimenti sociali che si contrappongono
allo Stato e agli apparati gerarchici) e interventi dall’alto (decentramento dei tagli
alla spesa sociale, mobilitazione della periferia a favore della modernizzazione e
dello sviluppo economico, razionalizzazione degli investimenti pubblici, necessità sempre minore di intraprendere una guerra contro uno Stato vicino, fine del
colonialismo). Nella maggior parte dei paesi dell’Europa Occidentale, questi elementi hanno indotto un ridisegno delle relazioni centro-periferia, con diverse soluzioni: dalla razionalizzazione del governo locale nel Nord-Europa, ad alcune riforme a favore del decentramento al Sud e, infine, al quasi federalismo di Spagna e
Belgio. Nel quadro dello Stato nazionale, considerato quale centro della concentrazione del potere, la maggior parte dei paesi hanno seguito diversi percorsi2 .
In un secondo momento, dagli anni ‘70 in poi, molti dei cambiamenti che hanno
riguardato governi locali e regionali sono stati collegati, nella letteratura, a tre
processi che sono potenzialmente lontani dall’essere conclusi: la globalizzazione, in particolare dell’economia, l’integrazione Europea, lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione. Per contrasto in anni più recenti, tali processi sono spesso considerati in grado di apportare radicali cambiamenti, di destabilizzare gli
accordi esistenti, nonché di costruire convergenze. Questi studi sono opera non
solo di scienziati politici, ma anche di geografi, economisti, sociologi e studiosi
di economia politica secondo vari approcci3 .
Si possono trarre diverse conclusioni da quest’ampio corpo di ricerche sui livelli di
governo infranazionali, aventi un impatto diretto o indiretto sulle domande di
democrazia:
- La prima, concerne la ristrutturazione dello Stato, che introduce nuovi vincoli
e opportunità per i governi infranazionali. Wright (1996) mette in evidenza la
Patrick Le Galès
Government e governance urbana nelle città Europee
combinazione dinamica dei seguenti fattori: la recessione economica, un mutamento di paradigma che attribuisce maggiore rilievo al mercato, nuove forme di
politica, globalizzazione, europeizzazione, liberalizzazione, progresso tecnologico, decentralizzazione e frammentazione, riforme del settore pubblico, cambiamenti nell’agenda politica. Viceversa, i neo-marxisti spiegano la ristrutturazione
dello Stato in relazione ai mutamenti di forma e di scala del capitalismo (Jessop
1997a). La redistribuzione dei poteri che procede con la costruzione dello spazio politico europeo riguarda anche l’apparato Statale. La complessificazione
dello spazio politico comporta per alcuni gruppi di soggetti influenti nell’ambito
Statale di distanziarsi dai gruppi costituiti di interessi, e di disporre di un maggior raggio d’azione per scegliere le proprie priorità, per esempio per accrescere invece che per sedare la pressione politica e sociale. Implementare la razionalizzazione della spesa pubblica sociale con il ricorso al decentramento, o servirsi dell’Unione Europea come di un dispositivo per imporre riforme all’interno
di ciascun paese, sono diventati misure molto comuni. Le élite politiche e amministrative Statali non possono più pretendere di proteggere interamente i cittadini, ma possono usare la pressione e i rischi che sono associati alla nuova
dimensione politica ed economica per giustificare un’espansione dell’intervento
in alcune sfere e un ritiro da altre. Majone (1996) ha messo in evidenza come
l’Unione Europea tenda a comportarsi come uno Stato regolatore, dovendo far
fronte alle cattive performance dei mercati, piuttosto che con interventi volontaristi di sostegno pubblico o politiche di redistribuzione. Questa tendenza è
venuta a caratterizzare anche paesi Europei, come si può constatare dalla diffusione della formula dell’agenzia regolativa (Wright and Cassese 1996). Cerny
(1990) vede tali mutamenti come il realizzarsi dello “Stato competitivo”, interessato soprattutto alla competizione economica e ai rapporti con la classe imprenditrice, una prospettiva questa espressa anche da Jessop (1994) nella sua concettualizzazione dello stato Schumpeteriano postnazionale garantista dell’occupazione. Dal lato della nazione, la frammentazione della società nazionale fa
aumentare la frammentazione dello Stato, avanzando di conseguenza nuove
istanze di coordinamento.
- La seconda, concerne la relativizzazione della rilevanza della scala (Brenner
1999) e della conflittualità di soggetti sociali pubblici e privati nell’azione di consolidamento o indebolimento dei vari livelli di governo, incluso quello dello
Stato-nazionale. Quel che abbiamo a fronte, non è un’Europa di regioni, o
un’Europa di città o un’Europa di Stati nazionali, ma una governance Europea,
un processo in cui la maggior parte degli Stati, e alcune regioni e città, stanno
giocando un ruolo, e possono diventare attori politici. Sono pertanto da considerare la formazione di reti orizzontali e verticali (attivatesi su una politica), e più
in generale, l’articolazione di scale differenti ‘dal locale al globale’. Buona parte
delle ricerche comunque registrano una tendenza, lenta e non uguale, verso il
rafforzamento dei livelli meso di governo di tipo rappresentativo.
- Un altro elemento è l’importanza crescente della politica nella produzione e
negli interessi economici a livello locale e regionale che non riposiziona gli
accordi di tipo politico e sociale. La maggior parte dei governi infranazionali cercano di approntare alcune soluzioni politiche e di sviluppo di tipo strategico, in
modo da agire come attori strategici nello spazio della governance Europea,
qualsiasi cosa questo possa significare, e per quanto possa darsi in maniera
9
n.4 / 2002
superficiale.
- Infine, le ricerche che hanno messo a fuoco politiche pubbliche locali e regionali, hanno posto l’accento in particolare su processi di frammentazione (Crosta,
1998), di deterritorializzazione e riterritorializzazione (Cole and John 2001;
Leresche 2001), sull’aumento della pressione sociale ed economica (Musterd
and Ostendorf 1998). I modelli tradizionali di governo urbano nell’ambito dei
sistemi politici e amministrativi nazionali sono perciò collassati, di qui un animato dibattito volto all’analisi e identificazione di nuove forme di governance urbana (Goldsmith 1995; Mayer 2000; Stoker 2000; Harding and Le Galès 1998;
Baldersheim and Stava, 1996).
Nel campo accademico così come in quello professionale, il dibattito intorno alla
governance è visto come sintesi di questi cambiamenti, per quanto possa essere definito debole. Ne consegue che in un certo senso, soprattutto nel contesto
di costruzione di una governance Europea, gli strumenti analitici della governance e delle reti di politiche sono stati utilizzati non soltanto per lo studio delle
politiche nazionali, ma sempre più anche per quelle locali e regionali, dal
momento che la crescente interdipendenza tra livelli di governo tende a essere
una caratteristica generale. Questo è stato fatto di solito in due modi: o ponendolo in relazione con le domande di sviluppo economico sulla scia del dibattito
teorico Americano avanzato sulle coalizioni per lo sviluppo e sui regimi urbani
(Judge, Stoker and Wolman, 1995), o trattandolo nei termini di reti di politiche
locali (con numerosi studi sulle politiche pubbliche locali).
L’ambito del governo infranazionale una volta era ben conosciuto per la diversità esistente tra paesi Europei, da cui il ruolo della ricerca in chiave comparata.
Attualmente la differenziazione politica ed economica nell’ambito dello Stato
nazionale è una tendenza comune alla maggior parte dei paesi, e non solo
all’Italia, alla Spagna o alla Germania, ma in modo crescente anche alla Gran
Bretagna, Francia, Olanda e perfino Svezia. Non è mia intenzione analizzare nello
spazio di questo saggio domande di governance democratica e partecipativa in
relazione con i vari tipi di governo locale e regionale. Alcune domande inerenti
governi e forme di governance regionali hanno convogliato l’attenzione di un
vasto corpo di studi. A dir il vero, il presente saggio si concentra sulle città, la
qualcosa è ben significativa in termini di comparazione nel caso dell’Europa. Una
buona trattazione dell’argomento, relativamente ai governi provinciali e regionali, è altresì di interesse. La scelta non è mirata ad enfatizzare il ruolo delle città,
ma a facilitarne la comparazione.
I governi urbani sono di solito messi in relazione con lo Stato nazionale, in termini di democratizzazione e legittimazione delle forme di gestione territoriale.
Sono definiti in primo luogo considerando la fornitura dei servizi e la politica
pubblica e in secondo luogo come arene politiche e strumenti per promuovere
la democrazia, la partecipazione e il governo delle società locali. Nel significato
tradizionale del termine, il riferimento è ai consiglieri eletti e all’amministrazione. Il dibattito intorno ai cambiamenti dei governi urbani e alle nuove forme di
governance in connessione con domande di democrazia è oggetto di analisi
della seconda parte del saggio.
10
Patrick Le Galès
Government e governance urbana nelle città Europee
Governi urbani in Europa e principali cambiamenti
In questa sezione l’accento è posto sulle principali caratteristiche dei governi
urbani in Europa. Viene data una breve descrizione dei cambiamenti più rilevanti, con qualche delucidazione sulle diversità. Non vi è alcuna intenzione per questa parte di inquadrare tali contenuti in una cornice teorica, trattandosi di un’analisi che si potrebbe definire piuttosto naive.
Prima dell’inclusione all’interno di Stati nazionali, le città Europee erano inizialmente associazioni istituzionalizzate, autonome, corporazioni attive territorialmente, capaci di intraprendere azioni verso l’esterno (che si trattasse del lord,
del principe, dello Stato, del sovrano o di città rivali) e condotte da pubblici funzionari urbani4 . I governi urbani del Medioevo svilupparono istituzioni più o
meno democratiche, difesero i loro interessi commerciali e la loro autonomia,
intrapresero la costruzione di nuovi quartieri e di nuove strade, gestirono conflitti sociali e conflitti tra interessi diversi, organizzarono la vita pubblica e l’ordine cittadino, lasciarono il segno di sé con l’edificazione di monumenti che simboleggiavano il potere: piazze, municipi, torri o campanili. In un periodo successivo, nelle città industriali, per esempio del Regno Unito o anche della
Germania, della Francia e della Scandinavia, il modo di riguardare ai problemi
sociali divenne tale che le èlite al governo urbano introdussero programmi innovativi di politiche abitative, di pianificazione, elementi fondamentali di politica
sociale ed educativa (De Swaan 1995). Le preoccupazioni igieniche condussero
al movimento di ricostruzione della città noto come “hausmanizzazione”, e cioè
alla valorizzazione dei beni pubblici locali. I governi urbani svolgevano un ruolo
essenziale nella fornitura dei servizi e dei beni di prima necessità, quali l’acqua,
le fogne, l’illuminazione delle strade, quindi il gas e l’elettricità, vigili del fuoco e
mezzi di trasporto, per non parlare dei macelli. Tale sviluppo fu diverso, frammentato, diviso tra una piccola borghesia conservatrice e il movimento socialista
municipale, più presente nell’Europa del Nord che del Sud.
La maggior parte dei governi locali in Europa ottennero un riconoscimento di
natura giuridica nella seconda metà del XIX secolo. A mano a mano, si formò una
burocrazia locale professionale, che aveva il compito di occuparsi di tali innovazioni. La crescita del governo urbano non fu un fenomeno limitatamente locale
o nazionale. Scambi di esperienze di idee, per esempio nella pianificazione e nell’edilizia abitativa popolare, furono essenziali.
Per quasi tutto il periodo del secondo dopoguerra, la categoria “governo urbano
Europeo” non aveva un particolare significato fatta eccezione che nel Nord e nel
Regno Unito. Con il compromesso socialista democratico nella maggioranza
degli Stati Europei, il ruolo del governo urbano fu visto secondo il paradigma del
centro-periferia (Mény and Wright 1985; Page and Goldsmith 1987), e cioè nei
termini nazionali e come parte del governo locale. I governi urbani differivano in
Europa perchè ogni paese possedeva un diverso sistema costituzionale, differenti regole, differenti sistemi di finanza pubblica, di politica e di tradizioni, una
diversa organizzazione per la fornitura dei servizi. In alcuni casi, le variazioni
all’interno di uno stesso paese erano anche significative (Germania o Italia).
I governi urbani erano visti o come entità predisposte alla fornitura dei servizi, in
particolare di tipo sociale (di qui, l’ultimo lungo dibattito sulla dimensione e l’a-
4
“La città del Medio
Evo, tale quale appariva al XII secolo, è
una comunità vivente
al sicuro di una cerchia fortificata, una
comunità di commercio e di industria e
basata sul diritto, con
una amministrazione
e una giurisprudenza
di eccezione, che
fanno della città una
entità collettiva privilegiata”.
Pirenne (1971, 154)
11
n.4 / 2002
malgama) o come unità politiche. Nella loro importante ricerca comparata,
Goldsmith e Page (1987) hanno avanzato la tesi secondo cui l’autonomia del
governo locale in Europa dovrebbe essere analizzata in termini di autonomia
attraverso due criteri principali che abbraccino o siano strettamente connessi ad
altre dimensioni: lo stato giuridico e politico.
Questa analisi chiaramente mette in luce le differenze tra i governi urbani del
Nord Europa attenti al mantenimento del welfare e quelli del Sud Europa, più
radicati politicamente e territorialmente (talvolta clientelari), e il modello di sviluppo economico del Regno Unito. Altre classificazioni hanno preso in considerazione anche l’Olanda e la Germania.
Facendo una mappa dei cambiamenti principali che hanno
interessato i governi in Europea: sugli aspetti politici
5
Per avere una
buona panoramica
della questione in differenti paesi, si rimanda al lavoro di
Gabriel e HoffmanMartinot (1999)
12
Secondo la tradizione consolidata degli scienziati politici che si sono formati sull’importante opera di Dahl, l’analisi va indirizzata sui principali meccanismi di
selezione dei leader, sulle elezioni, sull’organizzazione degli interessi e dei partiti politici, e l’impatto di questi sulle politiche. Essendo i governi urbani e locali
in Europa radicati nell’ambito di Stati nazionali, questi fattori si presentano massimamente integrati e differenziati tra gli Stati nazionali, nonostante le forti differenze all’interno degli stessi singoli sistemi nazionali (come è il caso dell’Italia
e della Germania). Come ho già avuto occasione di dire, la maggior parte delle
società Europee sono urbane. Cambiamenti che riguardano la politica in quegli
Stati nazionali si verificano, per esempio, anche a livello urbano: come la frammentazione dei partiti politici, degli interessi, la partecipazione alle elezioni che
non mostra un chiaro declino ma registra variazioni, alcune tendenti al calo, altre
alla stabilizzazione5. Le differenze tra Paesi appaiono ancora più marcate quando si prenda in considerazione il livello urbano.
Queste distinzioni consolidate sono ora oggetto di discussione poiché un insieme comune di pressioni e opportunità (l’Europa, la frammentazione, la riorganizzazione dello Stato, la ristrutturazione dell’economia, tensioni sociali) tende a
ibridare le frontiere tra i modelli nazionali esistenti di governo urbano e a rafforzare le diversità all’interno degli Stati nazionali. Varie spinte al cambiamento
sono portate avanti dagli Stati. Inoltre, i governi urbani in Europa stanno subendo pressioni politiche connesse sia alla ristrutturazione dello Stato sia a problemi relativi al sistema della democrazia rappresentativa, e a cambiamenti nella cultura politica (Clark and Hoffman-Martinot 1998). In primo luogo, vi è un movimento di carattere transnazionale che genera domande di democrazia urbana e
di affidabilità (King e Stoker 1996). Con l’elezione diretta dei sindaci in
Germania, in Italia, e in misura minore anche nel Regno Unito, i sindaci hanno
spesso conquistato una maggiore rilevanza sul piano politico in molti paesi
dell’Europa. In maniera emblematica è successo in Italia, negli anni ‘90, e in
Belgio, dove politici di livello elevato si sono impegnati nel governo delle città;
ma è accaduto anche in paesi centralizzati come il Portogallo, la Svezia o la
Finlandia. In secondo luogo, partiti dei verdi, di relativamente modeste dimensioni, si sono insediati nella maggior parte dei paesi del continente, esercitando
un’influenza sulla politica urbana. In particolare dalla metà degli anni ‘80, essi
Patrick Le Galès
Government e governance urbana nelle città Europee
hanno fatto pressione su due tipi di questioni: forme di consultazione diretta
(tramite referendum locali, esperienze di giurie di cittadini) da affiancare ai politici eletti nelle scelte su questioni fondamentali (per esempio, su decisioni relative al trasporto pubblico). Hanno altresì tratto vantaggio dal movimento di opinione contro la corruzione in Italia, in Belgio, in Francia e in Germania. Infine,
una certa erosione della capacità dei partiti nazionali di mobilitazione e incremento delle risorse a disposizione dei governi urbani, hanno dato maggiore rilevanza alle figure leader a livello urbano e a quelle strutture di partito che, in taluni casi, sono anche aggregazioni di partiti locali.
I governi urbani sono stati oggetto di contestazione da parte dei movimenti
sociali urbani negli anni ‘70 e ‘80. La burocratizzazione, gli apparati gerarchici, i
progetti di rigenerazione urbana, la frammentazione dei processi di decisione
che caratterizzavano i governi urbani, sono stati contestati nelle città di tutta
Europa. Conflitti sono entrati a fare parte della sfera della politica urbana, venendo a riguardare le politiche abitative, la pianificazione, i progetti di grandi infrastrutture, aspetti di crisi dell’economia e questioni di tipo culturale. Nuovi gruppi, oltre a quelli su presupposti di classe, hanno organizzato l’emergere di nuove
domande (di qualità della vita, di democrazia e partecipazione, di sviluppo economico e culturale) allo scopo di promuovere cambiamenti urbani in opposizione con i leader urbani formalmente eletti (Castells 1983). Le nuove classi medie
sono state progressivamente incorporate nell’ambito dei partiti politici (socialdemocratici e verdi) e hanno giocato un ruolo importante in molte città Europee
nel lancio di un insieme di politiche urbane che rispondessero a queste domande. Nei casi più estremi, per esempio quello degli squatters ad Amsterdam o a
Berlino, i rappresentanti dei governi urbani hanno imparato a cooperare, a darsi
da fare per trovare finanziamenti e per assorbire questi gruppi entro sistemi di
regolazione meno rigidamente definiti (Mayer 2000). Prevenire i grandi conflitti
sociali e includere i vari gruppi è divenuto di norma in molti governi urbani, e i
movimenti sociali sono diventati meno attivi (Pickvance 1995).
Molti governi locali e regionali hanno dovuto interagire con o adattarsi ai cambiamenti di natura organizzativa dello Stato. L’assunzione di differenti forme di
burocrazie centralizzate sembra essere stata sostituita dalla frammentazione
dello Stato. La letteratura nell’ambito della sociologia dell’organizzazione
(Crozier and Friedberg 1977), della governance (Kooiman 1993; Rhodes 1997),
delle politiche pubbliche (Lascoumes et Poncela 1998; Dente 1990), delle reti di
politiche (Marsch and Rhodes 1992) ha problematizzato la coerenza dello Stato.
È stata portata avanti la prospettiva di uno Stato frammentato (una realtà di agenzie, reti, singole individualità, differenziazione dell’arena politica e densificazione degli attori) in cui le politiche pubbliche non funzionano in termini di balistica e gerarchie ma di negoziazione, flessibilità, arrangiamenti specifici, che suggeriscono piuttosto una dissoluzione dello Stato. Questa frammentazione viene
posta in risalto non soltanto perché le frontiere tra attori pubblici e privati non
sono nette ma anche perché gli ambiti di politica stanno diventando sempre più
difficili da identificare. La formazione di una politica Europea ha accresciuto le
tendenze centrifughe all’interno dello Stato nazionale, aprendo a nuove prospettive per diversi gruppi, organizzazioni, a differenti livelli (governance multilvello)( Marks and Hooghe 2001). La costruzione di una governance Europea
13
n.4 / 2002
può essere vista come una sostanziale redistribuzione dell’autorità, in assenza di
un centro unico in grado di dominare sul sistema. Tale commistione del potere
non conduce esattamente alla frammentazione. In alcuni ambiti, permangono, o
possono essere ripristinate, strutture gerarchiche, e per quanto riguarda la
costruzione di una governance Europea, la maggior parte della ricerca empirica
mette in evidenza i processi di istituzionalizzazione (Stone, Fligstein and
Sandholz 2001). Questi movimenti e il cambiamento dei modelli da parte delle
élite al governo, hanno portato tanto a mutamenti strutturali quanto a esperienze di governo urbano, in tutta l’Europa, tipo le “libere comuni” in Scandinavia o
a forme di autogoverno (Montin 2000). Comunque, per più di vent’anni, il governo locale nel Regno Unito è stato soggetto di trasformazioni ben più rilevanti che
tutti gli altri governi locali Europei messi assieme. Una serie di riforme hanno
avuto l’obiettivo di trasformare il Regno Unito in un laboratorio sperimentale di
stampo neo-liberale (Stoker 1999), nel contesto di un discorso più generale pertinente l’economia e l’amministrazione pubblica che portava a cambiamenti di
tipo strutturale, con effetti non voluti. In Europa, la maggior parte dei governi
urbani hanno avviato alcune riforme di carattere amministrativo, inclusa l’introduzione di consigli di quartiere e la decentralizzazione della gestione dei servizi,
come nel caso di nuovi meccanismi di partecipazione alle decisioni pubbliche
nonostante la duplice difficoltà di aumentare poteri e budget (cosa con facile per
dei consiglieri) e di sostenere gli interessi dei cittadini nel perseguire gli affari
quotidiani. Oltre che nel caso del Regno Unito, idee di un mercato di tipo informale associate alle nuove teorie di gestione pubblica (Dunleavy and Hood 1994)
stanno sortendo un effetto sui governi urbani, in particolare nel Nord
dell’Europa (Baldersheim and Stava, 1996). Domande di partecipazione dei cittadini al governo urbano sono associate con una richiesta crescente di efficienza
gestionale nella fornitura dei servizi agli utenti. La ristrutturazione del settore
pubblico ha per conseguenza di accrescere la confusione nei settori delle politiche pubbliche e di aggravare la condizione di frammentazione dei governi urbani (Pierre 1999), da cui l’interesse crescente verso domande di leadership, di
gestione, di coordinamento e di governance (Borraz et al. 1994; Stoker 2000).
Lo sviluppo di nuovi strumenti di politica contribuisce ad evidenziare le ambiguità e le dinamiche interne alle politiche pubbliche: l’enfasi sul partenariato, la
forma del contratto, i vari tipi di processi di negoziazione, rivela lo sforzo di ridefinire la politica pubblica secondo criteri di flessibilità, in modo da affrontare problemi mal definiti e da gestire finalità eterogenee. La forma del partenariato offre
alcuni esempi interessanti di processi di “bricolage e transcodage della politica”
(Lascoumes and Porcela 1998). Questi aggiustamenti tra le forme di rappresentazione, gli obiettivi e le politiche subiscono modifiche, alcune volte con frequenza settimanale o perfino giornaliera. Fallimenti o successi per ottenere il
supporto degli attori fondamentali (come ad esempio si può vedere nel caso
della Germania, e delle tensioni con i tradizionali partner sociali), o per assicurare finanziamenti hanno spinto ad effettuare negoziazioni tra interessi contrastanti e a rappresentazioni di progressivi, quotidiani aggiustamenti. Come nella
maggior parte della ricerca sulle politiche pubbliche (in particolare nel settore
della spesa sociale pubblica, della rigenerazione dei quartieri urbani o dello sviluppo economico), l’enfasi sulla frammentazione, la moltiplicazione degli attori,
14
Patrick Le Galès
Government e governance urbana nelle città Europee
il “territoire” -una città, una località, una regione- tende ad apparire come un
possibile fattore di integrazione. Grazie al radicamento territoriale, “le nuove
politiche economiche e sociali” possono essere più democratiche, più trasparenti, più efficaci, di più lungo periodo e più coerenti. In particolare, nella politica sociale i territori appaiono come un potenziale supporto per una nuova
generazione di politiche pubbliche. Sfortunatamente, anche se siamo in presenza di un mito che ha la capacità di mobilitare, e di alcune potenzialità rilevanti,
questo capita raramente. Da un lato, lo sviluppo di partenariati e delle loro
modalità di azione, sono segnali significativi nella direzione di una territorializzazione delle politiche pubbliche (attraverso un approccio integrato). Dall’altro,
si verificano anche casi o di deterritorializzazione degli attori o di adattamento a
livello del locale di programmi e di politiche, che rispondono a logiche e a vincoli giuridici e finanziari definiti a livello centrale (Le Galès et Négrier 2000). La
frammentazione del governo urbano è stata accelerata anche dai grandi processi di privatizzazione, che lentamente si stanno facendo strada nell’Europa
Occidentale. Lorrain e Stoker (1996) osservano come (all’interno di questa generale tendenza alla privatizzazione) alcune variazioni si danno a seconda del prevalere di ambizioni di tipo politico e della dimensione dei rapporti tra pubblico
e privato.
Allemagne
Länder
communes
Autriche
Bundesländer
communes
Belgique
Danemark
Espagne
Finlande
France
Grèce
Irlande
Italie
Pays-Bas
Portugal
Royaume-Uni
Suède
(1) 1995
FBCF locale en % de la
FBCF de la Nation
2,2
FBCF locale en % de la
FBCF des admn. publi.
20,5
6,6
1,6
62,1
13,8
7,4
63,5
58,9
63,6
59,3
50,9
71,8
4
6,2
10,3 (1)
8,6
12,6
nd
10,9 (1)
nd
8,8
10,1
7,4 (2)
5,3
10,2
(2) 1992
80,1
66,9
74,2
47,9
59,3
54,2
fonte: le comunità locali in cifre, 1998, DGCL, Ministro dell’Interno
Fig. 1 Parte della FCBF (Formazione lorda del capitale fisso) locale. Europa, 1995
Si possono citare come esempi: 1) il Regno Unito, dove la riforma del governo
urbano è avvenuta assieme anche alla privatizzazione di buona parte del settore
dell’edilizia pubblica, dei principali consumi, per non dire dell’immissione di
pacchetti competitivi per la maggior parte dei servizi sociali; 2) la Scandinavia,
dove, nel quadro di un graduale cambiamento, le istituzioni pubbliche comuna-
15
n.4 / 2002
li sono comunque quelle ancora dominanti, nonostante la pressione della competizione (del privato); 3) la Francia, in cui, successivamente al processo di
decentralizzazione, i sindaci hanno voluto accrescere la loro autonomia dallo
Stato avviando la privatizzazione di numerosi servizi, ma complessivamente cercando di salvaguardare le proprie funzioni di regolazione; 4) un lento processo
di cambiamento in alcuni paesi dell’Europa Meridionale e Orientale, per l’incertezza del mutare dei modelli istituzionali. In Europa si sono avute differenti
forme di regolazione e di contratto per i servizi che vengono privatizzati o semiprivatizzati, in competizione sia a Brussels che con le principali città dell’Est
d’Europa. Inoltre, molte imprese che lavorano a scala mondiale nel settore dei
consumi e della costruzione sono attualmente in competizione in tutta Europa e
nei territori limitrofi per la fornitura dei nuovi servizi. Tale complessità delle politiche pubbliche, unitamente alla percezione della necessità di organizzarsi su
una scala più ampia rispetto a quella delle vecchie città, hanno portato al riemergere di una serie di tentativi -una rinascita a “trompe l’œil” dei governi metropolitani, secondo la definizione di Lefèvre - che vanno nella direzione di abbandonare la scala strettamente urbana del governo per una dimensione metropolitana di governo, come è accaduto differentemente in Italia, in Francia (con la
legge Chevènement, 1999), o a Rotterdam o a Londra. Città, aree metropolitane,
città-regioni, regioni: la ricerca di livelli istituzionalizzati di governo e di governance è un processo in corso nella maggior parte dei paesi (si consideri ad
esempio il fallimento del tentativo di una regionalizzazione del Portogallo, o il
dibattito attuale sul futuro delle regioni nel Regno Unito, o quello senza fine su
città, regioni, Mezzogiorno, federalizzazione in Italia, e infine gli sforzi di organizzare governi a scala metropolitana che riguardano molte delle capitali nazionali). La decentralizzazione delle politiche sociali e l’integrazione Europea inoltre, stanno conducendo verso l’affermazione di specifici diritti sociali e politici
(Garcia, 1996). Forme diverse di partecipazione politica (elezioni, democrazia
procedurale, associazioni) stanno portando verso forme sempre più differenziate di cittadinanza urbana, già evidenti nel caso degli Stati quasi federali.
La quasi totalità di paesi Europei sono ancora coinvolti in riforme dei poteri in
materia giuridica e di tassazione dei diversi livelli infranazionali di governo, che
si tratti di regioni, città, province, o di uno uno Stato quasi-federale. Lo sviluppo
del livello meso del governo in Europa può essere visto nel contesto di cifre di
investimento. La condivisione dei governi locali (soprattutto urbani) degli investimenti pubblici nazionali ammonta attualmente al 50% nei paesi centralizzati
più piccoli, come il Portogallo e la Finlandia, per arrivare a circa il 60% in paesi
come il Regno Unito, l’Italia, la Germania, la Spagna, la Danimarca, o addirittura
a quasi il 70% dell’Olanda e della Francia.
L’Europa e le politiche nazionali
L’Unione Europea contribuisce alla promozione di modelli e di principi che gradualmente vengono istituzionalizzati, contribuendo pertanto all’organizzazione
delle forme di governance, per quanto diversi processi siano in gioco e si combinino, in alcuni casi non senza difficoltà, con i programmi nazionali.
Citando Radaelli (2000, 2), l’europeizzazione è definita come “un insieme di processi attraverso i quali le dinamiche politiche, sociali ed economiche dell’Unione
16
Patrick Le Galès
Government e governance urbana nelle città Europee
Europea divengono parte della logica dei discorsi interni (a ciascun paese), delle
identità, delle strutture di governo e delle politiche pubbliche” (che non significa secondo logiche di convergenza o armonizzazione).
Tali processi assumono differenti forme6. L’europeizzazione dei governi urbani
può essere analizzata in termini di isomorfismo coercitivo (norme e regole che
diventano istituzionalizzate) e di mimetismo (attraverso le reti transnazionali)7 .
Le politiche Europee urbane e regionali hanno per esempio contribuito a esercitare pressione sui governi infranazionali, affinchè portassero avanti forme di
partenariato, di contratto. Il cambiamento nelle politiche pubbliche, a livello
nazionale ed Europeo (come nel caso dei Fondi Strutturali che includono programmi specifici come Leader, Interreg o Urban) enfatizza la logica del “aiutati e
Dio t’aiuterà”, piuttosto che quella dei programmi quasi automaticamente redistributivi. Nuove norme includono principi come quello del partenariato, che ha
assunto un ruolo preminente nell’ambito dei Fondi Strutturali (Hooghe and
Keating 1995). Ad esempio, facendo una rassegna sullo sviluppo di partenariati
a livello locale (secondo l’approccio promosso dall’Unione Europea), una ricerca recente ha messo in evidenza come diversi tipi di politiche e di programmi
abbiano giocato un ruolo coniugando dimensioni nazionali ed Europee:
- In vari paesi, inclusi il Regno Unito, l’Irlanda, la Francia e l’Olanda, programmi
nazionali ed Europei a supporto di azioni di sviluppo locale integrato e di riqualificazione, in contesti sia urbani che rurali, hanno acquisito una forza trainante
nella costituzione di partenariati a livello locale. In alcuni paesi, tali programmi
sono sotto la responsabilità delle autorità regionali, come nel caso del Fondo
Fiammingo per l’integrazione delle categorie svantaggiate, e del Fondo per la
lotta all’esclusione sociale della regione del Belgio di Walloon. Non tutti questi
programmi, comunque, hanno un impegno specifico verso un approccio che
prevede la costituzione di un partenariato formalizzato. Ci sono anche differenze considerevoli nella priorità che nell’ambito di questi programmi viene data ad
obiettivi di politica inerenti l’esclusione sociale e la povertà.
- Programmi nazionali ed Europei a supporto dello sviluppo sociale o dello sviluppo delle comunità locali, come il Community Development Programme in
Irlanda e il Social Development Programme in Danimarca, possono essere di
particolare utilità nel sostegno di partenariati locali che sono centrati specificatamente su comunità svantaggiate e su problemi di povertà ed esclusione sociale (Benington and Geddes 2001).
Goldsmith e Klausen (1997) nella loro opera sull’integrazione Europea e il governo locale mostrano la diversità delle risposte locali ai processi di europeizzazione, in particolare in termini di organizzazione e di cambiamento delle forme di
governo. Ad ogni modo, le città stanno cercando di tirarsi fuori dai rapporti diretti con lo Stato, preferendo la complessità delle reti di policy verticali e orizzontali, e in alcuni casi strategie di “uscita” (Bartolini 1998). Non c’è alcun bisogno
in questo saggio di fare un’analisi dei differenti ambiti in cui i processi di europeizzazione hanno luogo. Si ritiene invece dover evidenziare i temi che sono
stati oggetto di dibattito nel grande Urban Forum organizzato dalla Commissione
a Vienna nel 1998, mettendo a confronto attori di ogni tipo e livello per discutere in merito all’agenda urbana Europea, ovverosia di ambiente, sviluppo sostenibile, qualità della vita, esclusione sociale, competizione economica, competitivi-
6
A proposito di questi
processi si veda il
recente lavoro collettivo di Green Cowles,
Risse and Caporaso
(2001), Stone, Fligstein
and Sandholz (2001),
7
...“Un processo che
costringe una unità di
popolazione (di organizzazioni) a riassemblare altre unità che si
trovano a dovere
affrontare lo stesso
insieme di condizioni
ambientali (...) Le
organizzazioni competono non solo per le
risorse e per la clientela, ma anche per ottenere potere politico e
legittimazione su di un
piano istituzionale,
per il benessere sociale
ed economico (...)
L’isoformismo coercitivo è conseguenza dell’infuenza politica e
del problema della
legittimità. Risulta da
pressioni di carattere
sia informale quanto
formale che alcune
organizzazioni esercitano su altre, che sono
in un rapporto di
dipendenza, e da
aspettative di tipo culturale a livello della
società in cui le organizzazioni stesse funzionano.
L’isomorfismo mimetico deriva da risposte
di tipo standard alle
incertezze, una forza
questa potente che
incoraggia l’imitazione (...) Una terza fonte
di cambiamento organizzativo di tipo isomorfico e normativo
che deriva soprattutto
dalla professionalizzazione” (Powell e Di
Maggio 1991, 66-67)”.
17
n.4 / 2002
8
Si rimanda a questo
proposito a Benington
(1994); Benington e
Harvey (1999); sulle
motivazioni delle
autorità locali che vi
hanno partecipato,
vedi anche Bache,
Georges e Rhodes
(1996). “All’origine, le
reti transnazionali
delle autorità locali
hanno spesso come
origine questioni settoriali e programmi specifici dell’Unione
Europea: città minerarie, porti, città dell’industria aeronautica, dell’industria della
moda, della difesa,
della ceramica, del
tessile, della costruzione navale, i programmi LEDA, LEADER,
ELAINE (relazioni
etniche), Quartier en
Crise, Réseau européen de lutte contre la
Pauvreteé, URBAN.
Queste reti transnazionali concernono
spesso differenti tipi di
attori e le città sono
dei membri tra altri.
Alcune reti di città e
di regioni (organizzate su questioni specifiche) sono ugualmente
organizzate come la
CRPM (Conferenza
delle Regioni marittime periferiche), L’Arco
Atlantico, Eurocités
(che è passata dai sei
membri fondatori nel
1986 e cioè,
Birmingham,
Barcellona, Lione,
Milano, Francoforte,
Rotterdam, ad una
sessantina di membri,
compreso un ufficio di
una quindicina di
persone a Bruxelles
ben collegato a degli
18
tà, trasporti, reti Europee, politiche abitative, partenariato, salute, cultura, governance, cooperazione transnazionale, servizi pubblici, selezione degli indicatori.
Se, in un primo momento, i governi urbani organizzati in reti transnazionali
(come nel caso di Eurocities che comprendeva 200 membri) avevano un atteggiamento di esuberanza per via del nuovo potenziale utile ad esercitare un’influenza sulle politiche e ad ottenere finanziamenti, adesso essi tendono piuttosto a sottolineare gli obblighi associati con i processi di istituzionalizzazione,
come ad esempio tutte le norme e le regole la cui applicazione li riguarda direttamente8. Come afferma Goldsmith e Klausen (1997), l’Unione Europea è un
agente potente di internazionalizzazione per i governi urbani. Il tono neo-liberale di molte politiche Europee ha fatto sorgere un dibattito circa l’impatto dei processi di europeizzazione per i governi urbani. Gli scrittori marxisti interpretano
questo come il ritiro dello Stato a favore di una governance Europea che si adatta alle domande del mercato ed è sganciata dalla pressioni politiche e dagli interessi organizzati dei gruppi svantaggiati. Ci sono consistenti evidenze che portano in quella direzione. Vi è poi un’altra interpretazione, secondo cui il sopravvento delle logiche del mercato e delle istituzioni nell’Unione Europea è stato
utilizzato per incentivare cambiamenti interni, ma gli Stati nazionali e l’Unione
Europea vorranno in seguito riprendersi il controllo per imporre le loro priorità
politiche in cooperazione o in conflitto con gli attori economici. Non ultimo, se
l’Unione Europea è uno spazio politico in costruzione, potrebbe essere allora
che gradualmente anche gli attori sociali si riorganizzino di conseguenza. I principali interessi economici e alcuni gruppi (contro la povertà, per la difesa dell’ambiente, per le pari opportunità) sono già influenti e l’Unione Europea è sempre più un versante di attività politica. La crescita del ruolo del Parlamento e dell’organizzazione delle forze sociali possono necessitare ancora di altro tempo,
ma l’Europa può diventare una forma di Stato più classico per quanto complesso, anche senza imboccare la strada del federalismo. Molto dipende dal processo di costruzione dell’Europa e dal tipo di divisione dei compiti che si avrà tra
livello regionale e locale, nazionale e Europeo. Se i più concordano con il prodursi si una ben sviluppata struttura di governance, l’Europa non ha l’attributo
di uno Stato ( Schmitter 1997; Kohler-Koch 1999). Caporaso (1996) suggerisce
di considerare l’Unione Europa come una forma di Stato che non è però lo Stato
di Westphalia (per quanto vi siano alcuni processi simili alla costruzione di uno
Stato), nè semplicemente uno Stato regolatore (che lascerebbe le domande
sociali e redistributive al livello nazionale). L’Unione Europea ha messo a punto
in tempi recenti un ampio sistema di politiche pubbliche (Héritier, 1999), e
adesso si sta occupando di alcune domande sociali. C’è una dinamica di costruzione istituzionale al lavoro, che va ben oltre il semplice adattamento ai mercati.
Gli autori istituzionalisti sottolineano il fattore tempo nel processo di costruzione di istituzioni e la graduale europeizzazione delle norme e delle regole (Stone,
Fligstein and Sandholz, 2001; Pierson, 1998), come anche la constituzionalizzazione de facto dei Trattati.
Patrick Le Galès
Government e governance urbana nelle città Europee
Competizione economica e governi urbani: pressioni verso l’imprenditorialismo
In un momento in cui alcune élite dei governi urbani hanno sposato il discorso
e più di rado le politiche dell’imprenditorialismo urbano, costituendo delle specie di coalizioni per la crescita, sono apparsi nuovi movimenti sociali urbani ad
esercitare un’opposizione mirata ai progetti urbani più importanti, pensati come
cruciali per la promozione dell’immagine delle città. La formazione di nuove oligarchie nelle città Europee, del tipo delle coalizioni urbane Americane, è stata
pertanto maggiormente oggetto di dibattito. La ristrutturazione dell’economia
ha anche qualche impatto diretto sui governi urbani e la pianificazione. Nel
dopoguerra, molti governi urbani hanno avuto poco a che fare con lo sviluppo
economico, al di là della pianificazione, dell’approvvigionamento di terra libera
e di infrastrutture. Quest’orientamento ha cominciato a mutare negli anni ‘70.
Con la crescita della disoccupazione, il ritiro dello Stato e la graduale internazionalizzazione di un sempre maggior numero di imprese hanno esposto i governi
urbani a notevoli rischi (tassazioni, gruppi sociali, problemi sociali). La globalizzazione del commercio e i flussi monetari implica che le loro economie non
siano più così integrate all’economia nazionale. La globalizzazione economica
comporta la crescente mobilità dei capitali, ad un livello in cui è possibile immaginare il superamento delle costrizioni spaziali.
Paradossalmente, questo va con una crescita della consapevolezza dei territori,
in particolare delle città, quali potenziali contesti per gli investimenti e per l’abitare. Ciò implica una nuova fase creativa, di distruzione e di investimenti su altre
aree (Harvey, 1989). La competizione tra città è espressione del declino della
regolazione di Stato e del fatto che le città (nel senso delle coalizioni che le
governano) stanno cercando si posizionarsi, per come meglio possono, nel contesto di questa competizione (Chesire and Gordon 1995), e questo vale soprattutto per le città più importanti. David Harvey, in particolare, ha messo in risalto
la logica della competizione tra aree urbane nello spazio di un’economia globale (Harvey 1985; 1989). Le città -o, più precisamente, le coalizioni che le governano-, stanno lavorando a conquistarsi un ruolo: nel contesto della divisione
internazionale dei compiti, in special modo in termini di relazioni sociali e di
organizzazione della pianificazione del territorio urbano; come centri di consumo, il che significa accrescersi in prestigio, status, cultura, in modo da attrarre
visitatori e turismo; e infine, entrando in competizione per essere sede di compagnie transnazionali, di uffici pubblici di prestigio, o per altre forme di investimento pubblico e privato. La competizione ha a che fare con il controllo di risorse limitate: classi medie, consumatori e imprese. La competizione tra le città ha
portato a una rapida reazione di imitazione/distinzione tra le autorità locali urbane. Le seguenti azioni, per esempio, hanno avuto inizio in molte città: grossi progetti, sviluppo di piani strategici, creazione di parchi scientifici, investimenti in
eventi prestigiosi da un punto di vista culturale e in spettacoli, politiche di marketing, sistemi di trasporto pubblico più moderni (metro o tramvie), progetti di
particolare rilievo firmati da architetti di fama internazionale, nuovi centri di uffici di alta tecnologia , nuove costruzioni pubbliche quali stazioni dei treni, centri
di ricerca, teatri e sale da concerto, musei, ecc..
esperti), il club di
Eurométropoles o le
reti di città di media
dimensione, l’associazione delle città dell’industria tradizionale. Una parte di queste
reti è stata finanziata
nell’ambito dei
Programmi
d’Iniziativa
Comunitaria (PIC)
lanciati dalla
Commissione e del
programma RECITE
per le città e le regioni
in Europa (1991).
Quest’ultimo ha
espressamente incoraggiato la formazione e lo sviluppo di
molteplici reti al fine
di beneficiare delle
informazioni, degli
interlocutori che si
sono mobilitati dentro
le coalizioni, e di
favorire così, attraverso le interazioni transnazionali, i processi
d’integrazione europea.
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n.4 / 2002
Nei primi anni ‘80, un ampio movimento di politiche economiche urbane fu
osservato in particolare nel Regno Unito, in Olanda, in Germania, in Francia, in
Belgio e anche nelle città più dinamiche dell’Italia e della Spagna, in misura
minore nel Nord Europa (Judd and Parkinson 1990). Dare il supporto alle aziende e soprattutto attrarre capitali esterni divenne la politica standard nella maggior parte delle città Europee, portando quindi al rafforzamento di forme di
cooperazione tra interessi privati e governi urbani, ma raramente del tipo
Americano come i regimi urbani o le coalizioni per la crescita urbana. In questo
processo, gli sforzi locali nel campo dello sviluppo economico sono notevolmente aumentati, acquisendo maggiore legittimazione e venendo associati con
nuove, caratterizzanti forme di governance. In tal modo, i funzionari pubblici
hanno cominciato a negoziare con i direttori delle compagnie, delle banche e
quanti altri si sporgevano nella direzione di interventi pubblici. Hanno sperimentato nuove modalità di azione, studiando le dinamiche delle economie locali e formando reti con gli attori economici. Alla fine, si sono a poco a poco avventurati in investimenti pubblici che assumono la forma di aiuti indiretti alle compagnie e di concessione di costruzioni e terreni. Tali attività hanno avuto luogo
soprattutto nelle città della Germania, dell’Inghilterra, della Francia, dell’Olanda,
del Belgio, soprattutto nei primi anni ‘80, e in seguito in Italia, in Irlanda, in
Portogallo e in Scandinavia. Le politiche di sviluppo economico delle città sono
andate in quattro direzioni: la difesa dei posti di lavoro e politiche di formazione
(per l’occupazione); contributo all’accrescimento delle compagnie (modernizzazione, messa in rete, supporto finanziario); miglioramento dell’ambiente per rendere le aree più attraenti per le compagnie; competizione per attrarre investimenti e gruppi sociali privilegiati (come gli esecutivi). Più di recente, le città così
come le regioni, hanno cercato di promuovere attivamente i fattori ‘invisibili’
dello sviluppo: interdipendenze fuori dal mercato (Storper, 1997) o beni pubblici competitivi (Crouch et al., 2001). Alcuni autori come Jessop (modello di città
imprenditorialil) o in maniera più sottile Margit (politiche urbane post-fordiste)
hanno avanzato una netta connessione tra la trasformazione del capitalismo, le
nuove forme di politiche urbane, la formazione di nuovi regimi di governance.
Viceversa, Harding e Le Galès (1998) pur condividendo l’analisi mettono in evidenza il permanere dell’importanza dei più tradizionali governi urbani, servizi
sociali e amministrazioni. Configurano un quadro meno deterministico (e pertanto meno forte sul piano teorico) sottolineando i differenti tipi di alleanze tra
interessi economici e governi locali e diversi tipi di esiti.
Aumento delle disparità socio-economiche e frammentazione
Non ultimo, i governi urbani si trovano a gestire l’impatto dei cambiamenti che
riguardano le società. Molto sinteticamente, nella maggior parte degli ambiti
della vita sociale (lavoro, famiglia, consumi, educazione, divertimento, politica,
religione) la ricerca fatta dalle scienze sociali tende a attribuire rilevanza ai
seguenti punti: individualismo, frammentazione ma anche riarticolazione dei
gruppi, tendenze all’autonomia dalle istituzioni, diversificazione, pluralizzazione,
deinstituzionalizzazione, abbandono delle tradizioni. Questi processi sono spesso connessi con la condizione di frammentazione delle società (Mingione, 1991;
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Patrick Le Galès
Government e governance urbana nelle città Europee
Dubet e Martucelli, 1998; Lash and Urry, 1993) e l’apparentemente sempre crescente autonomia degli individui. Perciò i partiti politici, gli interessi economici
nazionali, le chiese, ma anche gli Stati impegnati nella spesa sociale e i sistemi
scolastici sono meno in grado di lavorare come apparati gerarchici o strutture di
controllo e dominio. Singoli individui e gruppi, o alcuni di essi, godono di maggiore autonomia nel contrattare i termini della loro implicazione, o di uscita dal
processo (Bartolini 1998). L’immigrazione per esempio è una componente
importante nelle grandi città Europee, e attualmente entro certi limiti in alcune
è vista come rafforzamento dei processi di differenziazione e pluralizzazione
delle società locali e regionali, anche se in misura comunque assai minore che
negli Stati Uniti, mentre resta un processo contestato in molti casi. I cambiamenti del mercato del lavoro, in particolare, accrescono il contrasto tra nuove
forme di “povertà urbana” e una più flessibile, fragile parte della forza-lavoro e
dei manager, dei professionisti (“i cosmopoliti”, nei termini di Merton) che si
avvantaggiano pienamente dal processo di globalizzazione. Gli impatti si vedono
anche chiaramente se si guarda alle disparità nei consumi: “Al di fuori dall’esaltazione che provano le élite globalizzate che sono in grado di distogliere i propri
consumi dalle nuove opportunità tutte centrate sull’offerta Americana e che credono di essere diventati individui globalizzati, probabilmente la stragrande maggioranza degli impatti nel mondo sono corrosivi delle comunità” (Lloyd 2000,
259).
Allo stesso tempo, quando gli Stati nazionali giocano un ruolo minore nella organizzazione e guida delle società, la città come fabbrica sociale può acquistare
maggior rilevanza, in termini sia negativi che positivi. Alcuni s’interrogano se il
lungo processo di crescita di istanze sempre più individualiste non stia spingendo troppo oltre, conducendo a un tipo di “individualismo negativo”, che è un
altro modo per indicare il rischio per le società di frammentazione e disgregazione. Per una migliore comprensione dell’esclusione/inclusione sociale o della
coesione, può tornare utile riflettere sull’attuale struttura delle società e sullo
spazio della solidarietà. Le tensioni associate alla competizione, alla globalizzazione, possono causare la disintegrazione di una società locale. Quest’evenienza
non è così frequente, dacché tra integrazione interna ed esterna si trova un
punto di equilibrio, nonostante essa sia chiamata continuamente in causa o nella
prospettiva di adeguamento allo sviluppo economico o per cercare riparo dai
danni operati dal mercato. Viceversa, l’insorgenza e la rapida diffusione di un’innovazione si dà il più delle volte in città in cui vi siano una sofisticata rete di ricerca, e reti sia di piccole che di grosse aziende, che sono in grado di garantire le
condizioni per un ambiente innovativo. Una dimensione fondamentale delle
città è pertanto rappresentata dalla misura in cui vari tipi di attori, gruppi sociali, interessi più o meno organizzati, sono portati ad agire insieme entro processi
di governance. L’organizzazione delle città come attori potrebbe essere intesa
anche come una risposta collettiva alla minaccia di un capitalismo che è eccessivamente soggetto alle incertezze del mercato, e più precisamente, ai pericoli
connessi alla deregolazione del mercato, che potrebbe incoraggiare e dare slancio ad abilità di giocare i mercati, da cui la possibilità di successo, per gli attori
che aderiscono ad una coalizione locale e che mobilitano risorse culturali nell’ambito di progetti politici e sociali.
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n.4 / 2002
Questa rassegna, a tratti forse un po’ caotica, costituisce lo sfondo per un’analisi degli attori e delle forme di democrazia nelle città Europee. L’integrazione
Europea è uno dei vari processi che produce un impatto sui governi urbani.
Argomenti diffusi riguardo la ristrutturazione delle politiche in Europa tendono
a indicare la perdita di rilevanza della regolazione dello Stato (nel senso della
gerarchia, essendo l’autorità la forza trainante, lo Stato giocando un ruolo di
coordinamento e di allocazione delle risorse, un nodo questo, centrale di conflittualità), a favore della sovrapposizione tra diversi livelli, tramite reti di vario
genere, e un incremento della quantità d’interazioni tra un’ampia serie di attori
a vari livelli. La redistribuzione dell’autorità va di pari passo con la moltiplicazione di differenti reti, incluse alcune reti di policy, con la definizione di meccanismi di regolazione di tipo negoziale, o cooperativo, sulla base di interessi ma
anche di relazioni basate sulla fiducia, o sui valori, tuttavia assieme con nuove
forme di potere e di conflitto. Il rafforzamento di forme di mobilitazione, a livello infranazionale, territoriale e politico, è motivata dalla necessità di fronteggiare
la destrutturazione delle società locali e regionali, tenendo presente, da un lato,
i processi di globalizzazione e dall’altro, le rivalità tra territori infranazionali.
Contrapponendosi a logiche di frammentazione, gruppi sociali, interessi organizzati ed élite politiche si mobilitano su progetti collettivi, reinventando le identità locali e organizzandosi in regimi di governance, in modo tale da resistere
politicamente, culturalmente ed economicamente e di adattarsi in rapporto
all’Europa e ai processi di globalizzazione. Ma le pressioni che riguardano gli
Stati nazionali possono anche interessare regioni, località, dando adito spesso al
prevalere della frammentazione.
Government e governance
Le discussioni sulla governance negli anni ‘80 non nascono per caso nelle città
Europee. Pressioni sulle società nazionali e la ristrutturazione dello stesso Stato
all’interno dell’Unione Europea segnano la fine di una fase della storia dello Stato
(Poggi, 1996; Mann, 1997). Questa avviene in connessione con forme di mobilitazione a livello locale e regionale e reazioni (di tipo offensivo e difensivo) ai processi
di globalizzazione e di Europeizzazione. Piuttosto che la fine dello Stato nazionale,
la presente analisi propone “la fine del grande racconto dello Stato-nazione” (Leca,
1996), e cioè, la fine dell’articolazione idealizzata di uno Stato e di una società
nazionale messe insieme in una narrazione di tipo moderno. Se lo Stato non è
scomparso (per esempio, lo Stato sociale), e adesso esiste un intero settore di
letteratura dedicato alla ristrutturazione dello Stato nell’Europa Occidentale,
potrebbe risultare di maggiore utilità ragionare in termini di articolazione di
government e governance, o in altre parole, nei termini del ruolo che il governo assume nel prodursi di forme di governance, piuttosto che spingere le analisi in una sola direzione, dal government alla governance urbana.
I cambiamenti prima evidenziati non conducono in tutti i casi alla completa frammentazione dei governi urbani. Piuttosto che andare in cerca di convergenze o
divergenze tra governi urbani, si potrebbe prima considerare l’ibridarsi dei confini nazionali ed individuare forme comuni di governance in gruppi di città, in
genere in parte articolate sulla base di modelli nazionali. Ciò che è interessante
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Patrick Le Galès
Government e governance urbana nelle città Europee
nel caso Europeo è il tentativo da parte delle élite urbane di bilanciare domande
economiche e sociali (o, più classicamente, le politiche di sviluppo e quelle redistributive), e trovare connessioni tra government e governance urbana secondo
varie possibilità. Lo sforzo di colmare il gap tra politica e politiche, unitamente a
quello di definire alcuni interessi urbani collettivi, sono al centro di un processo
politico. L’erosione dello Stato nazionale non significa la fine della politica in
Europa, essa riappare a ogni passo della governance multilivello.
Di governance urbana si è discusso inizialmente in relazione con i cambiamenti
delle politiche pubbliche nell’ambito del contesto di europeizzazione. È stato
uno strumento potente per “decostruire” visioni conservative del governo locale. Ora, le questioni classiche della democrazia sono oggetto di studio di ricercatori che si occupano di governance urbana e regionale.
Ma cominciamo dal government. In primo luogo, per government s’intende l’insieme dei politici eletti e degli amministratori. Gran parte della ricerca sul
government locale, urbano o regionale è incentrata sull’esecutivo eletto, i consiglieri e i funzionari. In secondo luogo, citando la definizione di Leca (1996) il
government è la combinazione dei seguenti quattro elementi:
1) I principi generali di organizzazione di un regime politico rappresentativo.
2) L’organizzazione implicata nell’allocazione, decisione, limitazione, amministrazione (principalmente i politici eletti e l’insieme delle agenzie che svolgono
l’amministrazione). I professionisti che sono differenti dalla società civile.
3) Il processo di governo (government) e cioè il processo decisionale e gestionale, ovvero, gli obiettivi raggiunti (in senso balistico). March e Olsen in
Democratic Governance chiariscono la distinzione tra il processo di aggregazione degli interessi e delle domande (opinione politica verso domanda politica)
e il processo di guida, di controllo.
4) I risultati, l’efficacia (di programmi, politiche, norme).
Il government risulta pertanto definito in termini politici come differente dal
mercato e dalla comunità.
Un primo approccio alla governance consiste nel prendere in considerazione i
punti 3 e 4, senza tenere in conto i primi due, e cioè di guardare al processo e ai
risultati, non ai principi e alle organizzazioni. I principi organizzativi dei governi
urbani sono definiti da regole nazionali, sebbene lo statuto Europeo delle autorità locali giochi il suo ruolo nella promozione di norme e principi. I governi
urbani sono retti da politici eletti e da un’amministrazione locale. Questi sono
coinvolti nel processo decisionale e gestionale per raggiungere scopi definiti collettivamente. Nella concezione tradizionale della democrazia locale rappresentativa, i politici eletti, i funzionari ed i cittadini (fondamentalmente in quanto votano
e pagano le tasse) sono i principali attori. Per circa un secolo nell’Europa
Occidentale, i governi urbani (dove e quando questo accadeva) erano parte dello
Stato che era l’attore legittimato a governare la società (in misura maggiore o
minore, e mai da solo). Una vasta parte delle ricerche si concentra sullo studio
delle élite, sulla partecipazione alle elezioni locali, sui partiti politici e sull’organizzazione delle elezioni. Questo tipo di ricerca non ha interesse alcuno per
l’Europeizzazione, la globalizzazione o le politiche pubbliche. Contrapponendosi
alla vecchia e alla nuova politica, ha il vantaggio di mostrare la resistenza ai governi urbani dell’Europa Continentale, alla crescita dell’importanza dei sindaci, allo
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n.4 / 2002
sviluppo difficoltoso delle forme di democrazia diretta (in particolare referendum).
La governance non appare essere una domanda.
Nello spazio di questo saggio non si è ritenuto di presentare i differenti approcci alla governance, ma si è concentrata l’attenzione su città e regioni. Partendo
dal problema della governabilità, Mayntz (1993), avanza come prima ipotesi l’idea che, alcuni settori della società, hanno fatto resistenza alle limitazioni e
imposizioni delle regole e norme definite dallo Stato. In secondo luogo, dà risalto alla capacità di gruppi, campi di politica e attori, di agire in modo organizzato,
di mettere a punto meccanismi di integrazione orizzontale per risolvere problemi di governo. La maggior parte degli studiosi conviene su molti punti: il venire
meno di confini netti tra pubblico, società civile e attori privati, l’interdipendenza tra i livelli, la differenziazione della società moderna, la fine del monopolio
dello Stato nel governo della società, l’autonomia di alcuni attori, sottosistemi
sociali, l’espansione di reti di politiche di attori pubblici e privati. La governance
è pertanto (un concetto) più vasto che il government.
Questa visione organizzativa della governance è anche l’interesse centrale del
lavoro di Rhodes, per quanto questi muova dall’analisi delle reti di politiche. Egli
definisce la governance in termini di “autoorganizzazione di reti interorganizzative”, dotate delle seguenti caratteristiche:
1) Interdipendenza tra organizzazioni.
2) Interazione continua tra membri della rete.
3) Interazioni limitate al gioco tra i membri della rete, motivate dall’esigenza di
scambiarsi risorse e negoziare propositi condivisi.
4) Un significativo grado di autonomia dallo Stato, le reti sono capaci di autoorganizzazione (Rhodes 1997).
Questo tipo di analisi è maggiormente connesso con le politiche pubbliche piuttosto che con le elezioni, riguarda il processo di governance piuttosto che la
democrazia. L’attenzione ad un ambito di politica e ad una rete di politiche tende
ad enfatizzare l’autonomia e la logica interna della rete, ad esempio i conflitti tra
coalizioni o lo scambio all’interno della rete, come i vari attori stanno insieme.
“Secondo l’approccio di ‘rete’ i processi di produzione delle politiche e di governance hanno luogo in reti costituite da attori eterogenei (possono essere singoli individui, coalizioni, dipartimenti, organizzazioni, ecc.), nessuno dei quali dispone del potere di determinare la strategia di un altro attore (...) la gestione
delle reti è un esempio di governance e di management pubblico in situazioni di
interdipendenza. Mira a coordinare strategie di attori che hanno scopi e preferenze differenti rispetto a una data questione o alla definizione del peso di una
politica all’interno di una rete esistente di relazioni di natura interorganizzativa”
(Kickert, Klijn, Koppenjan, 1999, 9-10). Quest’approccio risulta utile in molte
situazioni ma si espone ad attacchi poiché lascia fuori le questioni di potere.
Coloro i quali gestiscono le reti di fatto si trovano soltanto nell’ambito della stessa amministrazione pubblica. Ma l’idea che il governo di reti complesse può essere un obiettivo centrale per i politici non si traduce in una domanda, poiché non
si tratta di una questione solo di management e di risoluzione dei problemi, ma
anche di politica. Se nessun attore importante determina la strategia per altri,
allora potrebbe essere che ha il potere di influenzare la condotta di alcuni, anche
se non in forma monopolistica. In questa prospettiva, la domanda di legittima-
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Patrick Le Galès
Government e governance urbana nelle città Europee
zione è assolutamente centrale (Papadopoulos 1998; Duran 1999).
Oltre a ciò, data la moltiplicazione delle reti, potrebbe tornar utile concentrarsi
sull’articolazione tra varie reti. In un certo senso, dal momento che le reti rappresentano un fattore di incremento della frammentazione, si apre la possibilità,
per alcuni attori e per certe istituzioni, di tentare di controllare, usare, articolare,
integrare alcune reti nel quadro delle loro stesse strategie o obiettivi di lungo termine. Piuttosto che addentrarsi troppo nella direzione della governance policentrica, il tentativo è di capire come alcune strutture emergono, o sono rafforzate attraverso la messa a fuoco delle relazioni tra differenti ambiti di politica e
gli attori e interessi che ne sono associati. L’attenzione sull’integrazione di differenti reti di politiche per esempio apre la possibilità di reintrodurre politica,
legittimazione, sfera pubblica, scelta collettiva. In particolare, una ben nota critica che viene rivolta alla letteratura su governance e reti di politiche, consiste nel
fatto che questa tende ad enfatizzare la frammentazione, la disagreggazione, a
scapito del controllo, del potere, anche strutturale, radicati nello Stato o nella
sfera pubblica Europea (Jobert 1995). Un’altra ragione per guardare alle politiche
pubbliche a livello infranazionale è pertanto connessa alla politica. Al di là della
classica richiesta di più analisi di politica e di politiche pubbliche, l’analisi delle
reti di politiche ha teso a non concentrarsi principalmente sulla domanda politica. L’enfasi sullo scambio di risorse tra organizzazioni non lascia molto spazio alla
dimensione politica dello scambio ed è rinomato che la dimensione politica
dello scambio è cruciale a quel livello, almeno in Italia o in Francia, come ad
esempio in casi di forte territorializzazione della politica.
Nell’approfondimento di questo tipo di concezione di governo urbano, alcuni studiosi britannici hanno evidenziato in particolare il contrasto tra governo urbano e
governance urbana, in un paese in cui il governo locale è stato piuttosto indebolito, frammentato e privatizzato (Stoker 1999). Secondo Stoker, “la governance
può essere definita in senso ampio come cosa che pertiene il governare, in quel
che porta all’azione collettiva nella sfera degli affari pubblici, in condizioni in cui
non sussiste la possibilità di ricorrere all’autorità della Stato” (Stoker 2000, 3).
Nel suo libro sulla governance locale in Europa, John (2001) svolge degli approfondimenti, proponendo di mettere a confronto government locale e governance in modo sistematico, come nella Fig. 2:
Number of institutions
Bureaucratic structure
Horizontal networks
International networks
democratic linkage
Policies
central government
leadership
Government
few
hierarchical/consolidated
closed
minimal
representative
routined
regulative
collegial/clientelist
Governance
many
Decentered/fragmented
open, inclusive
extensive
representative, new expe
innovative, learning
micro-level intervention
mayoral/professionalised
Fig. 2
Questo quadro sembra significativo ai fini dell’analisi dei cambiamenti radicali
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n.4 / 2002
avvenuti nel Regno Unito in termini sia di ristrutturazione dello Stato centrale,
sia di profonda trasformazione del governo locale (vedi: Stoker 1999; 2000). La
messa a confronto tra i due modelli sembra fin troppo sottile e non corrispondente alla realtà di molti paesi Europei. Ad ogni buon conto, rappresenta un utile
strumento analitico per identificare cambiamenti e fare comparazioni.
In alcuni miei lavori precedenti sulle regioni o le città (in particolare con
Harding, nel 1998, e con Bagnasco, nel 2001), ho cercato di avanzare un modo
diverso di guardare alla governance urbana, radicato nella tradizione politica
weberiana, costruita sulla definizione di Jessop: “Si potrebbe definire il campo
degli studi di governance in generale come avente a che fare con la risoluzione
di problemi (para)politici (nel senso di problemi di conseguimento di un risultato collettivo o di realizzazione di finalità collettive) nell’ambito e attraverso
specifiche configurazioni di istituzioni, organizzazioni e pratiche governative (di
tipo gerarchico) ed extra-governative (non gerarchiche)” (Jessop 1995, 317). La
governance in senso politico è pertanto definita come un processo di coordinamento di attori, gruppi sociali e istituzioni, e di costruzione collettiva delle decisioni per conseguire fini espliciti, che sono stati discussi e convenuti collettivamente (domanda di democrazia) in situazioni frammentate e di incertezza (Le
Galès, 1998). Una forma di governance per me è l’articolazione di differenti tipi
di regolazione; e questo non ha nulla a che vedere con le retoriche di stampo
neo-liberale che tentano di delegittimare governi e politica (vedi: Rhodes, 1997).
Autori appartenenti alla corrente della “new political economy” sottolineano, più
di quanto non facciano i sociologi, l’autonomia della dimensione politica, l’importanza dei conflitti di potere tra gruppi ed istituzioni, e il ruolo di questi nelle
proposte per regolare l’economia (si considerino ad esempio nel corso dell’ultimo secolo il ruolo della democrazia sociale, dei sindacati e del corporativismo in
Europa). Ciò conduce a cercare le modalità in cui l’economia è regolata e ad
indagare negli effetti di lungo periodo dello Stato, delle istituzioni e dei gruppi
d’interesse, e dell’interazione tra strutture sociali e istituzioni all’interno di ogni
paese, così da conoscere queste società e i modi in cui il capitalismo viene gestito. La dimensione politica influenza, struttura le varie forme di capitalismo.
Secondo l’approccio di governance ogni società moderna può essere descritta
come una combinazione specifica di forme di regolazione. Per essere in grado di
identificare tali combinazioni di modelli di ordine sociale, le ricerche che seguono l’approccio di governance selezionano da vari modelli di ordine sociale (idealtipi) quelli che poi sono riconoscibili nei contesti reali in forme più o meno definite o in particolari combinazioni. Contrariamente da quanto sostenuto da
Williamson, l’approccio di governance non tratta soltanto della riduzione dei costi
di transazione e del miglioramento dell’efficacia delle organizzazioni. Seguendo la
tipologia classica delle regolazioni possibili (si vedano: Hollingsworth and Boyer
1997) le componenti di una forma di governance possono essere identificate
come il mercato, l’organizazzione degli affari, lo Stato, la comunità, e l’associazione. Conseguentemente, si può fare una distinzione tra competizione (il mercato),
gerarchia (l’organizzazione degli affari), la coercizione sulla base di un monopolio
dell’uso della violenza fisica (lo Stato), la solidarietà (la comunità) e la negoziazione (l’associazione). Ma la politica inerisce anche la negoziazione e la mobilitazione
degli interessi. Pertanto, l’approccio di governance apre ad un inaspettato oriz-
26
Patrick Le Galès
Government e governance urbana nelle città Europee
zonte di possibilità teoriche, lasciando alla ricerca empirica l’individuazione di
strutture di governance specifiche e l’analisi del loro funzionamento (secondo il
metodo della comparazione sincronica) così come delle dinamiche di evoluzione,
più nel dettaglio (secondo il metodo della comparazione diacronica). In anni
recenti, ho tentato (come altri) di occuparmi dell’economia politica delle città, che
potrebbe essere più “politica” e più “sociologica”9 , per esempio concentrando l’attenzione sui mutamenti delle regolazioni politiche, focalizzando sulle frontiere e
sull’articolazione con altre regolazioni.
Le élite politiche urbane hanno lavorato duramente per creare forme stabilizzate di
governance, di regimi o coalizioni urbane, per sviluppare azioni collettive e obiettivi politici di lungo periodo a favore delle aree urbane. In molti casi, in cooperazione con élite degli affari a livello locale, hanno cercato di far crescere la città come
un attore collettivo, ad esempio per portare avanti finalità di competizione economica (Mayer, 1995; Peck and Tickell, 1995; Jouve e Lefèvre, 1999). Tale forma di
governance, di tipo imprenditoriale, è dominata non da una varietà di interessi
eguali, bensì da nuove oligarchie, che cercano di imporre un nuovo, egemonico
progetto di governance. Quello che sta accadendo, almeno nel caso delle città francesi, è il fatto che lo sviluppo di reti non dà luogo ad un ritiro dei governi urbani
come tali (una questione, questa, divenuta ultimamente essenziale in molti paesi e
a molti livelli di governo). E non sembra nemmeno condurre a quanto Kickert ha
definito come “governare a distanza” quando ha analizzato il Ministero Olandese
dell’Educazione. Nelle città, forme di coordinamento gerarchiche, “dall’alto”, non
sono mai state realmente la principale opzione, in quanto i governi urbani sono
parte di sistemi nazionali. Le élite urbane non sono state gli elementi centrali nella
maggior parte delle politiche pubbliche, e mai hanno ricoperto posizioni di monopolio, nello spazio delle città. Con la ristrutturazione dello Stato, c’è piuttosto una
maggiore pressione sulle élite politiche per cercare di portare a una qualche forma
di coordinamento le politiche pubbliche. Una delle dinamiche chiave, dietro all’espansione di processi di governance urbana, è che i leader politici, quando ottengono legittimazione, sono percepiti come assolutamente centrali per l’organizzazione di azioni collettive. Questo può essere visto anche nel caso dell’Italia, per
esempio (Vandelli 1997, 2000).
Conclusioni
Nella letteratura sui regimi urbani, sulle coalizioni per lo sviluppo e la governance urbana (Harding 1997; Le Galès 1995), c’è uno sforzo di identificare
modelli stabili di relazione tra interessi di affari e autorità locali, di costruire capacità di azione collettiva per identificare nell’ambito di una città il prodursi di adattamenti strutturali finalizzati alla costituzione di coalizioni per risolvere problemi
politici e per accrescere le potenzialità di sviluppo economico. In un certo senso,
c’è molta affinità con l’analisi delle reti di politiche, ma il livello è piuttosto quello meso. Quello che manca è di analizzare le reti di politiche e i vari ambiti di
politica (a livello locale quanto nazionale quanto Europeo, incluso quello delle
città -e che sia politico urbano e/o burocratico o economico) per vedere il gioco
che queste organizzano per mettere su alcune coalizioni nelle città e per conferire alcuni orientamenti alle politiche. Ci possono essere casi in cui queste reti di
9
In un saggio con
Bagnasco (2001),
abbiamo ad esempio
suggerito una prospettiva di studi che
si applicano fondamentalmente alle
città Europee. Lo studio è volto a riconsiderare alcune questioni prefigurate da
Max Weber, e si è
tentato di contribuire a una nuova economia politica comparata di città
Europee che prenda
in considerazione le
trasformazioni
occorse alla società
Europea. L’analisi di
Weber è importante
perché egli solo ha
proposto un modello
di analisi sia delle
società locali che
delle città come
strutture sociali,
considerandole
come un luogo in
cui gruppi e interessi
si concentrano e trovano rappresentazione. Tale dimensione resta rilevante
nel nostro tentativo
di considerare le
città Europee in
relazione a uno studio in chiave comparata delle nuove
realtà urbane in
Europa, lasciando le
più vaste aree
metropolitane per
un discorso a parte.
In un contesto di
tendenze verso la
globalizzazione dell’economia che
mette in crisi gli
equilibri tradizionali, le città sono ora
soggette a significative forze centrifughe.
Tuttavia, in un certo
27
n.4 / 2002
qual modo, a dispetto di ogni previsione, le città restano
nodi dell’organizzazione politica e
sociale. Due campi
di analisi si delineano: l’integrazione
urbana e la governance urbana. La
prima, tocca il tema
delle condizioni che
consentono alle città
di rimanere al centro di rapporti economici e sociali, che
sono resi stabili da
attori che si trovano
in relazioni di interdipendenza. Quindi
le città sono società
locali che rivelano
una diversa struttura. La seconda, ha a
che vedere con la
capacità -come fattore che contribuisce
all’integrazione-, di
regolare al proprio
interno il gioco tra
interessi e di riunificarli per consentirne la rappresentazione all’esterno,
ritenendo pertanto
che le città, almeno
entro certi termini,
costituiscano unità
separate come attori. L’idea base è di
analizzare le strategie di gruppi, interessi organizzati,
istituzioni, in relazione con i sistemi
locali, la cultura, le
forme di governance, i regimi locali, le
convenzioni: quale
che sia il linguaggio
che viene usato per
fare risaltare differenze considerevoli
tra città e regioni,
alcune di esse, e
solamente alcune,
sono attori del sistema di governance
Europeo.
28
politiche non si trovano, o si trovano con molte difficoltà, e non descrivono precisamente modelli di organizzazione e relazioni tra differenti attori. In alcuni altri
casi, si possono trovare forti reti di politiche che gravitano intorno ad alcuni attori locali, ma che contribuiscono alla “de-territorializzazione” degli ambiti di politica, con gli attori locali costretti alla periferia della rete di relazioni. C’è un argomento importante che occorre introdurre, e cioè che uno dei problemi principali di città e regioni in Europa ai fini dell’accrescimento della propria capacità
politica è che quelle reti e reti di politiche passano attraverso di loro, contribuendo alla frammentazione dell’arena politica, senza produrre integrazione. La
nostra ipotesi di base per le città (ma si può riscontrare la stessa linea di argomentazione per quel che riguarda le regioni in Keating, 1997) è che in Europa, e
in Francia in particolar modo, alcune città sono esposte ad una crescente frammentazione dovuta o alla mancanza di attori politici e interessi organizzati, o a
processi d’integrazione deboli, dovuti alla strutturazione di reti di politiche che
sono relativamente autonome. Comunque, per contrastare queste tendenze,
molti leader di differenti città stanno cercando di approntare modi per integrare
i vari interessi e reti entro strategie collettive e politiche di lungo periodo. La
costruzione di coalizioni, partenariati e reti di vario tipo è nonostante tutto ancora molto sulla carta (Harding 1997). Vi è pertanto la necessità di esaminare attentamente il gioco reciproco tra tali tentativi di sviluppare nuove forme di governance, il contributo a questo gioco delle politiche pubbliche e dei modi di regolazione, e interrogarsi in questo contesto sulle reti di politiche.
Riferimenti bibliografici
Bache, I., S. George and R.A.W. Rhodes (1996), The European Union, Cohesion policy and subnational authorities in the UK, in Hooghe (1996)
Bagnasco, A. and Le Galès, P. (2001), a cura di, Le città nell'Europa Contemporanea, Naples,
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Patrick Le Galès è CNRS Senior Research Fellow (CEVIPOF) e Professore associato di Politica e Sociologia presso Science-po a Parigi.
[email protected]
31
n.4 / 2002
Liliana Padovani
La declinazione italiana della
Iniziativa Comunitaria Urban
Viaggiando tra le costellazioni del sapere
1
Risultati che in
molti casi sono positivi, ma in genere di
entità quantitativamente modesta rispetto ai problemi dell’area coinvolta.
2
Comitati di Sorveglianza, costituiti da rappresentanti della UE -DG16
e dei soggetti coinvolti a
livello locale e nazionale.
3
In merito alle modalità di analisi delle
relazioni tra UE e
Stati membri nella
costruzione delle politiche territoriali, si
veda Tedesco (2002).
32
Nel periodo recente si è venuta consolidando la convinzione che il Programma
Urban, avviato nel 1994 e ultimato nel dicembre 2001, abbia prodotto nel contesto italiano delle ricadute significative sul modo di concepire, programmare e
attuare le politiche urbane e più in particolare gli interventi di rigenerazione di
zone urbane connotate da degrado, declino economico e disagio sociale. Le ricadute sembrano interessanti non tanto, o non solo, per i risultati ottenuti nelle
singole aree di intervento1 , quanto per i processi di apprendimento che questo
tipo di iniziativa è stato in grado di produrre.
Il programma Urban è stato ideato dalla UE proprio come occasione di innovazione delle politiche urbane locali in funzione di obiettivi e orientamenti di carattere più generale assunti dall’Unione. Tra questi due rivestono un rilievo particolare nel caso specifico. Il primo consiste nel riconoscimento da parte della
Unione del ruolo strategico svolto dalla città come motore di progresso economico e nella scelta di potenziare queste funzioni tenendo però presente che proprio sulla città sono ricaduti molti dei costi sociali - in termini di dismissione
industriale, disoccupazione, emarginazione sociale - indotti dai mutamenti economici in atto. Alle politiche urbane europee viene quindi proposta la duplice
sfida di mantenere alla città una funzione di stimolo in un’economia sempre più
globalizzata e competitiva e al tempo stesso di contrastare e combattere la presenza e la formazione di situazioni di disagio e di esclusione sociale. Il secondo
consiste nel rilievo attribuito in una prospettiva di maggiore efficacia delle politiche pubbliche territoriali, al concetto di azione integrata trasversale multiattoriale, e al concetto di azione partecipata. L’orientamento proposto viene visto
dalla UE come superamento della scarsa efficacia mostrata dalle modalità più
consolidate di azione pubblica nel trattare alcune questioni, in particolare in
situazioni come quelle che si presentano quando si interviene in zone urbane
connotate da una molteplicità e cumulatività di problemi.
Questi obiettivi sono fatti propri dal Programma Urban che, in parte li traduce in
indicazioni operative, in parte li affida alle attività di un comitato che ha l’incarico di seguire e monitorare lo sviluppo e l’attuazione dei programmi2 . E’ forse
utile sottolineare come a questo comitato venga assegnato un interessante compito di anello di congiunzione tra gli obiettivi e i valori di sperimentazione che la
UE ha attribuito al programma e le possibili interpretazioni e ridefinizioni che
possono essere proposte in sede locale: un duplice ruolo di garante del perseguimento degli obiettivi del programma e di potenziale interprete delle innovazioni che possono emergere in sede di implementazione locale3 .
Nel caso italiano, i contenuti del programma e il contesto procedurale e di valu-
Liliana Padovani
La declinazione italiana della Iniziativa Comunitaria Urban
tazione che ne ha accompagnato l’attuazione hanno di fatto messo i comuni e gli
attori istituzionali coinvolti di fronte alla necessità di affrontare problematiche
nuove o quantomeno di porsi in modo nuovo rispetto a problemi più consolidati. Si sono così sperimentate pratiche progettuali e innovazioni procedurali e
organizzative, che hanno a loro volta attivato processi di sviluppo delle competenze manageriali e operative degli attori istituzionali (Fontana 2002). Ricadute
interessanti si sono verificate anche nelle modalità di interazione tra gli attori
pubblici e quelli privati e, pur se in misura minore, tra gli attori istituzionali e i
destinatari degli interventi.
Il tema che si vuole sviluppare in questo testo è quello di cercare di capire in che
modo il carattere fortemente sperimentale e dimostrativo del programma sia
stato interpretato nel caso italiano e con quali ricadute in termini di apprendimento per gli attori coinvolti e di trasferibilità della acquisizioni così ottenute
nelle pratiche ordinarie di gestione dei processi di trasformazione urbana.
Prima di prendere in esame i 16 casi Urban Italia, sembra utile anteporre alcune
considerazioni, sia sul contesto di assunzioni e di riferimenti che ha portato la
UE ad intervenire in materia di politiche urbane e territoriali e sulle finalità attribuite in questo quadro al programma Urban, sia su alcuni aspetti delle tradizioni di “trattamento” dei problemi in questione nel caso italiano che possono avere
inciso sulle modalità di “declinazione e ri-definizione” dei contenuti del programma. Questi elementi relativi al contesto sembrano indispensabili per cogliere meglio l’apporto specifico del programma in questione e il senso e la portata
degli esiti prodotti nel caso italiano.
Il ruolo crescente della UE nelle politiche urbane e territoriali
locali e le finalità del programma Urban in questo quadro
Anche se i trattati europei non attribuiscono alla UE competenze in materia di
politiche urbane - il principio di sussidiarietà riconosce infatti al livello locale la
responsabilità di definire e gestire queste politiche - si può rilevare come nel
corso degli anni novanta i temi della città e del territorio4 abbiano acquisito
un’importanza crescente nelle politiche comunitarie.
La prima occasione in cui la UE manifesta attenzione nei confronti del territorio
può essere fatta risalire alla riforma dei fondi strutturali del 19885 che, introducendo il principio della coesione economica e sociale, individua nelle situazioni
di arretratezza che caratterizzano alcune regioni europee un pericolo per le prospettive di sviluppo dell’Europa e propone una allocazione “territorializzata”6
dei Fondi strutturali. L’attenzione per il territorio e il “locale” viene meglio precisata e articolata nei successivi documenti connessi alla programmazione dei
Fondi strutturali7 dove vengono chiaramente espresse, l’esigenza di un superamento della distribuzione a pioggia degli interventi, la richiesta di una maggiore
precisazione degli obiettivi specifici da perseguire in ogni realtà locale e di una
maggiore coerenza tra azioni ed esiti da conseguire in ogni intervallo di programmazione, la necessità infine di superare una logica di intervento settoriale
in favore di modelli di azione locale integrata. Si consolida l’intenzione di rafforzare l’integrazione tra le politiche di sviluppo e quelle di coesione e i temi della
città e le politiche urbane entrano esplicitamente nella programmazione dei
4
“Territorio” visto
ovviamente non come
spazio definito da
confini istituzionali,
ma inteso come “locale” come luogo di sedimentazione di saperi
istituzionali, di pratiche, di tradizioni, di
cultura e di risorse
attive o attivabili.
5
Atto Unico 1987. Su
questi aspetti si veda
Rivolin (2000).
6
Viene avviata la procedura di definizione
dei criteri di perimetrazione delle aree
Obiettivo 1 (regioni in
ritardo di sviluppo) e
Obiettivo 2 (regioni in
crisi strutturale) verso
le quali convogliare
gli interventi nell’intento di ridurre il
divario tra le regioni.
7
In particolare:
Agenda 2000-06.
33
n.4 / 2002
8
Questi orientamenti
sono illustrati nella
successione di documenti e incontri che
hanno portato all’adozione nel 1999 del
Quadro di azione per
uno sviluppo urbano
sostenibile.
9
Viene stimato che la
quota di popolazione
europea che vive nei
vari sistemi urbani
oscilli tra il 60 e l’80%,
in funzione di come
vengono perimetrate
le aree urbane.
10
Nella programmazione 2000-06 rispettivamente il 5,35% e lo
0,65%, dei fondi strutturali, che a loro volta
rappresentano il 33%
degli stanziamenti UE,
vengono destinati alle
Iniziative
Comunitarie e alle
Azioni Innovatrici. Le
Iniziative Comunitarie
(costituite da 13 programmi diversi nella
programmazione
1994-99) con la riforma dei Fondi strutturali del 1999 sono
state ridotte a quattro:
a) cooperazione
transfrontaliera, programma INTERREG;
b) rigenerazione economica e sociale delle
città e dei quartieri in
crisi, programma
URBAN; c) sviluppo
rurale locale, LEADER;
(queste tre azioni
erano presenti anche
nella programmazione 1994-99) d) cooperazione transnazionale per la lotta alla discriminazione nel mercato del lavoro,
EQUAL, che aggrega
34
fondi strutturali attraverso la individuazione di questioni urbane prioritarie di
significato strategico non solo per gli Stati membri ma anche per le prospettive
dell’UE nel suo complesso8. In questo contesto la città viene considerata soprattutto in funzione di due ottiche di osservazione. Da un lato, è vista come “luogo
di vita” di una porzione importante della popolazione europea9 e quindi la qualità delle aree urbane, in termini di livelli di dotazioni urbane, di sostenibilità
ambientale, di coesione sociale, viene recepita come un obiettivo di rilievo per il
benessere dei cittadini europei. Dall’altro la città è anche vista come “fulcro strategico” per lo sviluppo economico europeo. Se rispetto a questa seconda ottica
vengono promosse iniziative tese a potenziare le valenze strategiche della città
come luogo di innovazione e di produzione di capacità tecniche a supporto della
crescita economica, la programmazione dei fondi strutturali nei due periodi
1994-99 e 2000-06 presta grande attenzione anche agli obiettivi connessi alla
prima ottica di osservazione, in funzione della quale sono incentivati programmi
in tre campi di intervento: a) quello della rigenerazione urbana, attraverso azioni tese a ridurre le situazioni di degrado e disagio sociale che vengono percepite come minaccia per l’inclusione sociale ma anche come freno per la competitività e la sostenibilità delle città; b) il miglioramento dell’ambiente urbano, attraverso interventi che rispettando il principio della sostenibilità ambientale rafforzino i legami tra qualità dell’ambiente, sviluppo economico e potenziamento
delle capacità di crescita individuali e collettive; c) infine, e questo terzo campo
di intervento è di carattere trasversale, particolare attenzione viene prestata,
come già accennato, agli aspetti gestionali sottolineando l’importanza di migliorarne l’efficacia e l’efficienza. A questo fine vengono promosse sia iniziative che
si prefiggano di raggiungere una migliore integrazione tra i vari livelli amministrativi e gli organismi che operano a livello locale, sia strategie che rafforzino la
partecipazione, la democrazia, le capacità di agire a livello locale.
Questi orientamenti vengono recepiti e fatti propri, in un rapporto di dialogo
con la Commissione, dagli Stati membri nelle fasi di predisposizione degli strumenti di programmazione necessari per accedere ai fondi strutturali, dai Quadri
comunitari di sostegno per i territori Obiettivo 1 ai Documenti unici di programmazione.
Accanto alla programmazione dei fondi strutturali10, un’azione di punta rispetto
agli obiettivi citati viene affidata a dei programmi speciali (le Iniziative
Comunitarie o le Azioni Innovatrici) ai quali viene destinata una piccola quota
dei Fondi strutturali. Si tratta di programmi con un forte carattere innovativo e
dimostrativo ai quali viene chiesto di sperimentare su questioni di rilievo strategico pratiche interessanti, nel caso delle Iniziative Comunitarie per gli esiti conseguiti e per la loro trasferibilità in altri contesti (buone pratiche), o, nel caso
delle Azioni Innovatrici per le potenziali ricadute positive sulla qualità degli interventi “ordinari” realizzati all’interno degli obiettivi dei fondi strutturali.
Tra i programmi più vicini ai temi urbani e di più diretto interesse in questa sede
si collocano appunto le Iniziative Comunitarie Urban I (programmazione 199499)11 e Urban II (programmazione 2000-06) e i Progetti Pilota Urbani (programmazione 1994-99)12 . La questione messa a fuoco attraverso questi tre programmi è quella della formazione all’interno dei sistemi urbani di situazioni di concentrazione e di cumulo di degrado urbano e disagio sociale nei confronti delle
Liliana Padovani
La declinazione italiana della Iniziativa Comunitaria Urban
quali viene proposto di sperimentare azioni innovative in grado di contrastare i
meccanismi che determinano queste situazioni. L’interesse della UE per le questioni territoriali e urbane si è espresso, oltre che attraverso la programmazione
dei fondi strutturali, in due altre aree di intervento. La prima è associata al percorso di costruzione di una sorta di quadro condiviso dello spazio europeo che
è stato avviato e sostenuto dal Consiglio dei Ministri responsabili dell’assetto del
territorio. Si tratta di un percorso informale di costruzione di una “strategia integrata per lo sviluppo del territorio dell’Unione” (Salone 2000, 14) che si è sostanziato nell’approvazione a Postdam nel 1999, dello Schema di sviluppo dello spazio europeo (Ssse)13 e successivamente in un percorso di costituzione di un
osservatorio per la pianificazione spaziale europea (European Spatial Planning
Observatory Network). E’ un’iniziativa complessa, ricca di contraddizioni che si
pone però come tentativo di proporre alle politiche urbane locali una prima
immagine d’insieme del territorio europeo rispetto alla quale porsi in un rapporto dialettico di interazione e di reciproca ridefinizione. La seconda area è connessa alle diverse iniziative promosse nell’ambito dei Programma quadro di
ricerca (in particolare il IV e V) che hanno attivato su specifici temi urbani ritenuti di rilievo dalla UE, sia la produzione di contributi conoscitivi e di scambio di
esperienze, sia l’attivazione di reti tra istituzioni pubbliche, privati e altri enti. Ne
sono scaturiti programmi sperimentali con ricadute di rilievo in termini di segnalazione di buone pratiche e di apprendimento per gli attori coinvolti.
Emerge da quanto riportato come l’UE abbia messo in campo una gamma variegata di iniziative connesse ai temi della città e del territorio che hanno coinvolto
diversi organismi dell’Unione (più direzioni generali della Commissione, il
Consiglio dei Ministri), e che, pur non ponendosi al centro dell’intervento comunitario, indicano come di fatto l’Unione sia entrata come nuovo attore nelle politiche territoriali locali. Ed è appunto in questo contesto in evoluzione che si colloca l’Iniziativa Comunitaria Urban 1994-99.
Urban 1994-99
La vicenda di Urban ha avuto inizio nel 1994 con la pubblicazione di un libro
verde nel quale la Commissione illustra il suo punto di vista sul contenuto delle
Iniziative comunitarie, mettendo in luce in particolare la dimensione urbana
delle tensioni sociali che attraversano i paesi della comunità. Nel luglio 1994 la
Commissione vara il programma (CCE 1994) invitando gli Stati membri a produrre dei progetti per l'ammissione ai finanziamenti. L’obiettivo è quello di spingere le città europee a mettere in atto programmi innovativi, integrati e partecipati che siano in grado di intervenire in termini efficaci in situazioni di grave
degrado urbano, ambientale e sociale. Sulla scia di quanto già sperimentato con
i Progetti Pilota Urbani, l’iniziativa Urban si pone l'obiettivo di fungere da catalizzatore dello sviluppo locale “mediante progetti esemplari intesi a migliorare in
modo durevole le condizioni di vita degli abitanti delle città, in particolare dei
quartieri più poveri e socialmente degradati” (CCE 1994).
Il programma fa esplicito riferimento ad una serie di assunzioni che stanno alla
base della logica operativa e degli obiettivi attribuiti al programma stesso. Tra
questi il fatto di ritenere che:
varie altre iniziative
più specifiche di lotta
alla disoccupazione e
che adotta in un'ottica di cooperazione
tra paesi. Le Azioni
Innovatrici comprendono studi, progetti
pilota e scambi di
esperienze che contribuiscano all'elaborazione di metodi e pratiche innovative tesi a
migliorare la qualità
degli interventi per
Obiettivo. Le proposte
possono venire presentate dagli Stati membri, da autorità regionali, locali o enti privati e fanno generalmente seguito ad inviti a presentare progetti
su temi specifici indicati dalla
Commissione.
11
Sulla Iniziativa
Comunitaria Urban 1
e sulla sua applicazione nel caso italiano
esiste ormai una vasta
letteratura. Tra le
pubblicazioni più
recenti Campagna e
Ricci (2000);
Palermo (2002);
Palermo e Savoldi
(2002); Pasqui e
Valsecchi (2002).
12
Per una descrizione
dei Progetti Pilota
Urbani e dei progetti
italiani si veda
Santangelo (2000).
13
Elaborazione decisa
a Liegi nel 1993 e conclusa a Potsdam nel
1999 con la approvazione da parte dei
Ministri responsabili
del territorio.
35
n.4 / 2002
- il fenomeno dell'esclusione sociale urbana rappresenti un problema emergente nel contesto europeo, da contrastare sia per ragioni etiche di garanzia di pari
diritti di cittadinanza europea sia perché la presenza nella aree urbane di gravi
situazioni di disagio e di esclusione sociale viene vista come potenziale ostacolo
al ruolo di motore di innovazione assegnato alle città;
- che i fenomeni di esclusione e degrado tendano a concentrarsi in alcuni quartieri urbani geograficamente identificabili sulla base di indicatori socio-economici;
- che la questione vada trattata in forma integrata associando la promozione delle
attività economiche al miglioramento delle infrastrutture e dell'ambiente, alla
formazione personalizzata e alla messa in atto di azioni che garantiscano pari
opportunità di accesso ai servizi e alla diverse forme di welfare.
Nel bando, che è rivolto ai comuni o alle agglomerazioni urbane con più di
100.000 abitanti, viene delineato il profilo delle situazioni territoriali alle quali è
rivolto il programma e sono fornite indicazioni in merito alle misure ammissibili
al finanziamento. I quartieri o le zone urbane oggetto del programma di intervento devono essere riconoscibili come entità spazialmente delimitate ed essere
abitate, il loro grado di criticità deve essere documentato da una elevata incidenza di elementi negativi, quali: disoccupazione, disagio sociale e insicurezza,
alto tasso di abbandono scolastico, forte presenza di beneficiari dell’assistenza
pubblica, cattive condizioni del patrimonio edilizio e delle abitazioni, carenze di
servizi e infrastrutture. In merito alle misure ammissibili, a titolo esemplificativo
dato che ogni programma interpreta la situazione locale, sono proposte le
seguenti categorie di interventi:
a) avvio di nuove attività economiche attraverso azioni mirate al sostegno delle
piccole e medie imprese locali esistenti e all'incentivazione della nascita di nuove
imprese (trasferimento di tecnologia oppure promozione di forme di partnership
pubblico-privato finalizzate ad incentivare lo sviluppo locale);
b) promozione dell'occupazione a livello locale attraverso azioni di qualificazione dell'offerta, o di riqualificazione nel caso di disoccupati di lunga durata, attivando contratti di formazione o la diffusione di esperienze di lavoro attraverso i
lavori socialmente utili (servizi alla popolazione, manutenzione dell'ambiente e
del patrimonio edilizio);
c) potenziamento e adeguamento dell'offerta di servizi pubblici con particolare
riferimento alle fasce sociali deboli (servizi sociali, sanità, sicurezza). La gamma
di azioni si estende dall’offerta di servizi aggiuntivi, all’adozione di modalità innovative nell’erogazione dei servizi (offerta attiva, servizi “a bassa soglia”), al diretto coinvolgimento degli utenti, ai progetti per il rafforzamento delle misure di
sicurezza e di prevenzione della criminalità;
d) miglioramento delle infrastrutture e dell'ambiente: il programma, pur non
contemplando il finanziamento di interventi sul patrimonio residenziale, può
finanziare progetti che riguardino opere di riqualificazione fisica e di miglioramento degli edifici, delle reti urbane, degli spazi pubblici (dal recupero e riqualificazione di spazi verdi, al risanamento di edifici pubblici da destinare alle attività previste dal programma, alle misure di riduzione dell’impatto ambientale,
alla mobilità locale o al recupero di aree dismesse o di spazi contaminati);
e) promozione della capacità locali di dare risposta ai problemi; si tratta di misure volte ad aumentare la coesione sociale e a promuovere la partecipazione degli
36
Liliana Padovani
La declinazione italiana della Iniziativa Comunitaria Urban
abitanti alle scelte che riguardano il futuro del loro quartiere. Inoltre nel caso di
un programma come Urban le attività relative alla promozione e alla informazione
rappresentano un momento fondamentale sia per realizzare un ampio coinvolgimento della comunità intorno agli obiettivi del programma, sia per valorizzare e diffondere gli effetti di innovazione che esso produce.
Complessivamente per l’intero programma Urban 1994-99 sono stati assegnati
dalla UE 885 milioni di ECU (circa 1.700 miliardi di lire), di cui 564 destinati alle
città dell'obiettivo 1 e 321 alle altre città con preferenza per quelle ricadenti in
aree dell'obiettivo 2. Si tratta di un co-finanziamento per cui alla quota messa a
disposizione dalla UE, che può variare da un minimo del 30% ad un tetto massimo del 75% (come nel caso dei programmi irlandesi), si aggiungono altri finanziamenti pubblici provenienti dagli stati membri e dagli enti locali (comuni e
regioni) o anche da soggetti privati coinvolti nel programma. Sono stati finanziati 118 programmi in agglomerazioni urbane con più di 100.000 abitanti14 coinvolgendo così una città su quattro all’interno di questa categoria dimensionale.
Il trattamento delle questioni in gioco nel Programma Urban e
nel contesto italiano
E’ forse utile riprendere qui quelli che possono essere considerati i caratteri
salienti, le finalità e i contesti di applicazione del programma. In termini sintetici si può rilevare come al programma Urban venga assegnato come compito specifico quello di sperimentare, in una logica di azione locale integrata, delle modalità efficaci di intervento in situazioni urbane di grave criticità per la molteplicità
di forme di deprivazione che vi sono presenti. L’obiettivo sotteso è di ottenere
dei risultati positivi per l’area, ma soprattutto di produrre indicazioni su pratiche
e modalità operative di successo che possano essere esportate in altri contesti.
Le ragioni alla base della scelta di promuovere il programma partono dalla assunzione che siano in atto nelle città europee fenomeni di “marginalizzazione localizzata” (Tosi 2000, 215) con gravi conseguenze in termini di esclusione sociale e
che contrastare questi fenomeni rientri tra le priorità delle politiche della UE.
Accanto alle finalità specifiche enunciate si delineano però anche altre aspettative quanto agli esiti conseguibili attraverso le diverse forme di apprendimento
che il programma può sollecitare. Esiti che possono avere delle ricadute positive anche rispetto ad obiettivi di carattere più generale come quello di rendere
più efficaci le politiche pubbliche all’interno della UE. Rispetto a questo quadro
operativo, si delineano alcuni punti di potenziale divergenza tra la definizione
del problema e delle strategie di intervento data dal programma Urban e l’interpretazione che ne può essere data nel contesto italiano dove sono presenti altri
quadri interpretativi e altre tradizioni di politiche di intervento. Due aspetti, sui
quali focalizzare l’attenzione nell’analizzare la vicenda Urban Italia, sembrano più
significativi.
a) Il primo riguarda il confronto tra la definizione che viene data della questione
“disagio e degrado urbano” nel programma Urban e la tematizzazione che ne
viene fatta nel contesto italiano.
b) Il secondo ha a che fare con il senso e le finalità che il programma Urban attribuisce alle innovazioni che si propone di introdurre nel modo di concepire le
14
Dato che nella
Unione Europea si
stima ci siano da 350
a 400 città di questa
dimensione, il programma coinvolge
quasi un quarto di
queste città.
37
n.4 / 2002
15
Tra quelle di maggiore rilievo si possono citare, l’esperienza
ventennale della
Politique de la ville in
Francia, le esperienze
dei programmi City
Challenge o Single
Regeneration Budget
in Gran Bretagna o
l’esperienza dei
Quartier en crise. Si
vedano su questi
aspetti contributi di
Atkinson and Graham
(1994); Hambleton
and Thomas (1995);
Jaquier (1990, 1992).
16
Il concetto di relegation, coniato dai
ricercatori francesi
che si sono occupati
dei problemi delle
banlieues per interpretare i comportamenti
e gli atteggiamenti
degli abitanti nei confronti del quartiere e
della città e rispetto
alle prospettive di evoluzione personale,
sembra esprimere
bene le punte più
estreme di questa
situazione. Su questo
tema si rimanda a
Behar (1992); Delarue
(1991).
17
Ad esempio, la perimetrazione delle aree
soggette a programmi
di riqualificazione
(come nel caso delle
politiche di slum clearence, delle General
Improvement Areas o
delle Housing Action
Areas nel caso della
Gran Bretagna) ha
contribuito ad accentuare la stigmatizzazione nei loro confronti, con pesanti
ricadute negative per
gli abitanti, quali il
maggior costo delle
38
strategie di intervento e la ri-declinazione che ne è stata fatta nel caso italiano.
a) Tematizzazione del degrado urbano e del concetto di esclusione
Dai contenuti del bando e dal dibattito che si è sviluppato attorno ad esso si
coglie come il programma Urban aderisca ad una particolare tematizzazione
della questione del disagio urbano e delle politiche da mettere in atto per contrastarlo, che si è venuta definendo e precisando nel corso degli anni ottanta e
novanta in alcuni paesi del centro nord Europa, in particolare Francia e Gran
Bretagna15 . Facendo proprie gran parte delle idee sottese da queste esperienze,
il programma Urban assume che i processi di trasformazione della città post-fordista portino alla concentrazione di situazioni di povertà e di disagio sociale in
determinate porzioni dei tessuti urbani e che proprio questa concentrazione
nello spazio venga a porsi come fattore di discriminazione, sino a produrre delle
vere e proprie forme di esclusione spaziale e sociale nei confronti di un numero
non indifferente di cittadini europei. La compresenza all’interno di queste porzioni di città di forme diverse di disagio sociale e di mancanza di opportunità
economiche, l’elevato tasso di disoccupazione, la presenza di attività illecite, i
bassi livelli di scolarità, tendono a generare modi di uso degli spazi pubblici e
delle parti comuni (vandalismo, appropriazione indebita degli spazi, conflittualità) fortemente penalizzanti per la vita associativa e in genere per la qualità della
vita di quanti sono costretti a vivere queste situazioni. D’altro canto il degrado
edilizio diffuso, l’assenza di manutenzione e il basso livello di dotazione infrastrutturale di questi quartieri, che si ripercuotono sul basso valore di mercato
degli immobili, si pongono come ostacolo ad eventuali progetti di riqualificazione delle unità edilizie, mentre lo stigma negativo che sovente connota l’area
penalizza i percorsi individuali di miglioramento delle condizioni di vita o di lavoro. Concentrazione spaziale e sovrapposizione di differenti forme di disagio tendono a comprimere pesantemente, in un circolo vizioso di reciproco rafforzamento, i diritti di cittadinanza di quanti sono insediati in questi quartieri, rendendo loro problematico l’accesso alle risorse di mercato e a volte anche a quelle del welfare16. A questo tipo di considerazioni si aggiunge la consapevolezza del
sostanziale insuccesso dei diversi tipi di intervento pubblico che sono stati effettuati in questi quartieri, sia nel campo della riqualificazione edilizia e urbana che
in quello dell’azione sociale. Non solo gli interventi non sono riusciti a produrre
risultati duraturi, ma in alcuni casi hanno inciso negativamente proprio sulle
questioni che si intendevano affrontare 17.
Facendo riferimento a questo quadro di esperienze operative e di assunzioni, il
mandato che viene assegnato al programma Urban è quello di intervenire in
situazioni di disagio urbano particolarmente grave con l’intento di contrastare e
invertire i percorsi di progressiva marginalizzazione e la cronicizzazione delle
dinamiche di segregazione e stigmatizzazione. Proprio per la molteplicità e
cumulatività delle forme di deprivazione presenti nell’area si ritiene che in questo tipo di contesto sia necessario operare attraverso misure che vanno oltre la
gestione ordinaria e che il modello dell’azione locale integrata nella sua declinazione più forte sia il solo in grado di garantire la presenza dei requisiti di base
affinché i processi di re-inclusione possano avere successo (Tosi 2000, 115).
Rispetto a questa tematizzazione della questione del degrado e del disagio urbano, l’interpretazione che del fenomeno viene data nel caso italiano è sensibil-
Liliana Padovani
La declinazione italiana della Iniziativa Comunitaria Urban
mente diversa18 . Il dibattito sulle dimensioni spaziali del disagio sociale e sul concetto di esclusione spaziale che si è sviluppato in Italia non ha attribuito a queste questioni il carattere di priorità che è stato loro assegnato in altri contesti,
come ad esempio in Francia, Gran Bretagna o Olanda19 . Se c’è ovviamente consapevolezza del fatto che l’Italia si collochi subito dopo il Portogallo, la Grecia e
la Spagna tra i paesi europei con maggiori diseguaglianze di reddito (dati
Eurostat 1998), si tende però a ricondurre i connotati territoriali assunti dalla
distanza tra i gruppi più ricchi e quelli più poveri più alla grande ripartizione del
paese tra Centro-Nord e Sud, che a diseguaglianze tra diverse zone all’interno
dei sistemi urbani. Si delinea una mappatura del problema che connota in modo
diverso la situazione del Sud rispetto al resto del paese. Nel Sud Italia la presenza di persone a rischio di emarginazione sociale è così rilevante e territorialmente diffusa da offuscare nelle politiche pubbliche la dimensione spaziale intraurbana del disagio - che pure esiste e anche in forme gravi20 - che viene lasciata
in secondo piano rispetto alla questione più generale dello sviluppo del territorio nel suo complesso. Diversa è la situazione nel Centro-Nord dove in un contesto di generale maggiore benessere si delinea la presenza di gruppi sociali a
rischio di povertà e anche casi di concentrazione di problemi sociali e di degrado in specifiche zone urbane (quartieri pubblici periferici, enclave di disagio in
aree relativamente centrali, quartieri in aree interessate da processi di dismissione). E’ il caso dei sistemi urbani di più vecchia industrializzazione del Nord-Ovest
o di alcuni tra i sistemi urbani maggiori, dove però almeno sino a metà anni
novanta si è ritenuto che questo ordine di problemi, di dimensioni relativamente contenute, fosse affrontabile introducendo innovazioni all’interno dell’intervento urbanistico-edilizio. Situazioni di questo tipo tendono invece ad interessare in misura minore i sistemi territoriali ad economia diffusa della parte orientale del paese. Sono molti i fattori che possono spiegare il discostamento rispetto
alla percezione della questione del disagio urbano assunta dal programma Urban
(quella che Tosi ha chiamato la sindrome dell’esclusione territorializzata) e non
è necessario considerarli in questa sede. Si può però rimarcare come di fatto
sino alla seconda metà degli anni novanta in Italia non si sia ritenuto che i fenomeni di polarizzazione sociale e di frammentazione urbana, presenti nel territorio nazionale pur se con intensità minore rispetto ad altri paesi europei, dovessero necessariamente tradursi in nuove gravi forme di segregazione spaziale e di
esclusione sociale a livello intra-urbano, tali da richiedere un’attenzione prioritaria nelle agende pubbliche e innovazioni sostanziali nelle modalità di intervento.
Questa diversa rappresentazione del problema ha prodotto una re-interpretazione del concetto di approccio d’area e di azione integrata espressi dal programma Urban , con ricadute sia sulla definizione del profilo della “area obiettivo” dei programmi, sia sul senso del tipo di intervento da promuovere. Da qui
emergono due primi aspetti da prendere in esame nell’analizzare la vicenda
Urban Italia.
b) Gli obiettivi di sperimentazione e di apprendimento
Il programma Urban, che come già detto in precedenza ha un forte carattere sperimentale dimostrativo e di apprendimento, suggerisce di prestare particolare
attenzione, nella costruzione della strategia di intervento, a due fronti di innovazione:
assicurazioni all’interno di questi perimetri o la non concessione di mutui da parte
degli istituti di credito
(red zones). Oppure, il
carattere marcatamente assistenziale
delle politiche di sostegno sociale ha reso i
destinatari di questi
benefici completamente dipendenti da essi,
riducendo fortemente
le loro capacità
imprenditive.
18
Si vedano su questo
tema i documenti del
Seminario coordinato
da Padovani (1999),
in particolare il tema
1: “Degrado urbano e
territorializzazione
del disagio sociale: la
specificità del caso
Italiano nel contesto
europeo.”
19
L’attività di ricerca
svolta in questo
campo tende a mettere in discussione sia
l’esistenza di fenomeni importanti (quantitativamente e per presenza diffusa nell’intero territorio nazionale) di grave concentrazione spaziale di
situazioni irreversibili
di impoverimento
(Mingione 1996;
Saraceno 1996), sia
l’esistenza di relazioni
forti tra povertà e aree
urbane (Becchi, 1999).
20
Nelle città del sud
sono infatti presenti
situazioni di concentrazione di fenomeni
gravi di degrado
urbano all’interno
delle agglomerazioni
urbane maggiori, in
particolare nei centri
39
n.4 / 2002
storici e nelle periferie
di edilizia pubblica o
negli insediamenti
abusivi. Si veda
Morlicchio (2000).
21
Questo aspetto è
stato sottolineato da
Eleonora Artesio nel
suo intervento al
Seminario “sull’accompagnamento
sociale dei PRU“
(Torino 2001).
40
- l’adozione nella costruzione del programma di una logica di azione locale integrata;
- l’adozione dell’obiettivo di finalizzare il programma al potenziamento delle
capacità di azione dei diversi soggetti coinvolti e di farlo “attraverso”, e non,
“nonostante”21 il contesto urbano di riferimento.
In riferimento al primo punto, si è già detto come Urban proponga una declinazione forte del concetto di azione locale integrata. Si ritiene che in presenza di
situazioni di criticità estrema, come quelle affrontate dal Programma, solo intervenendo trasversalmente e contemporaneamente sulle diverse cause che le
determinano sia possibile rovesciare i processi di degrado e le differenti forme
di derivazione presenti.
Rispetto a un’enunciazione di questo tipo, nel 1994 quando il Programma venne
lanciato, in Italia erano poche, se non del tutto inesistenti, le amministrazioni
che avessero messo in atto interventi riferibili a quel concetto di integrazione.
Incominciava invece a delinearsi, a partire dall’inizio degli anni novanta dopo
alcune sperimentazioni effettuate nel decennio precedente in applicazione di
programmi europei o in presenza di eventi eccezionali (PIM o mondiali), la convinzione che un’ottica di azione meno settoriale e più aperta a forme di interazione e di cooperazione tra i diversi settori e soggetti coinvolti fosse più adatta
per trattare problemi complessi come quelli dello sviluppo locale, del degrado
urbano, della tutela dell’ambiente e della qualità della vita. Il concetto di azione
integrata ha così incominciato ad essere oggetto di elaborazione e sperimentazione all’interno di differenti tipi di politiche pubbliche, assumendo valenze
diverse in funzione degli obiettivi e degli esiti attesi da ciascun tipo di politica.
Queste esperienze che si sono sviluppate prima e durante il programma Urban
si pongono come schemi di riferimento operativo più o meno consapevolmente riconosciuti e utilizzati e diventa allora interessante collocare il lavoro di interpretazione delle diverse declinazioni che del concetto di integrazione vengono
fornite dalle esperienze promosse nel programma Urban Italia anche rispetto a
questi altri contesti di sperimentazione di azioni integrate a livello nazionale.
Due campi di sperimentazione sembrano più significativi per l’entità dei programmi attivati e per il dibattito che si è creato attorno ad essi: si tratta, da un
lato, della vicenda dei Patti territoriali e, dall’altro, della consistente sequenza di
iniziative di promozione di programmi integrati di rigenerazione urbana che
sono state proposte e implementate dalla Direzione Generale del Cer prima e in
seguito dalla Direzione Generale del Coordinamento Territoriale del Ministero
dei Lavori Pubblici (Scheda 1). Nel primo caso la declinazione che viene data del
concetto di azione integrata è fortemente orientata al problema dello sviluppo
(economico locale) coinvolgendo “dal basso” gli attori locali rilevanti; nel secondo
caso l’attenzione è più specificamente rivolta agli aspetti fisico-spaziali della città, e
all’integrazione tra gli interventi che riguardano gli immobili e quelli relativi alle
opere di urbanizzazione e alla organizzazione degli spazi pubblici (Laino e
Padovani 2000). Nella scheda 2 sono sinteticamente riportati i campi di sperimentazione messi in gioco nelle due declinazioni del concetto di azione integrata.
Liliana Padovani
La declinazione italiana della Iniziativa Comunitaria Urban
Scheda 1. I programmi integrati promossi dal Ministero dei LLPP negli anni ‘90
Dal 1992 ad oggi sono stati promossi dal Ministero dei Lavori Pubblici cinque diversi tipi di programmi: i Programmi integrati, i Programmi di recupero urbano, i Programmi di riqualificazione urbana, i Contratti di quartiere e i Programmi di recupero urbano e di sviluppo sostenibile. I finanziamenti messi a disposizione sono quelli dell’edilizia residenziale pubblica e ad
eccezione dei Programmi integrati e dei Programmi di recupero urbano, si tratta di interventi
una tantum gestiti direttamente dalle Direzioni Generali competenti del Ministero dei Lavori
Pubblici:
- la legge n.179 del 1992 introduce lo strumento del Programma integrato, che per i forti connotati di de-regulation incontra diversi ordini di problemi, poi risolti dai contenuti dei provvedimenti successivi;
- la legge n.493 del 1993 e i tre Decreti del Ministero dei Lavori del 1 e del 24 dicembre 1994 introducono i Programmi di recupero urbano e i Programmi di riqualificazione urbana. I primi
sono prevalentemente rivolti al risanamento dei quartieri di edilizia pubblica nell’intento di
ridare loro qualità urbana e renderne più articolata la composizione sociale e funzionale. La
presenza di risorse private è auspicata ma non indispensabile per accedere ai fondi concessi
dal governo centrale. I secondi sono invece prevalentemente rivolti al recupero di aree degradate o in fase di grave declino per fenomeni di dismissione o di mutamento urbano; in questo
caso è indispensabile la compresenza di risorse private. Sono state presentate 245 proposte, selezionati 74 progetti di 39 comuni. E’ stato concesso un finanziamento pubblico di 1.100 miliardi per un investimento complessivo di 5.000 miliardi.
- nel 1997 viene introdotto, sempre dal Ministero dei Lavori Pubblici, lo strumento del Contratto
di quartiere che promuove interventi integrati per il risanamento di quartieri pubblici in condizioni di degrado grave. Accanto ad interventi sul patrimonio edilizio e le infrastrutture, per i
quali vengono messi a disposizione finanziamenti pubblici (700 miliardi), sono richieste operazioni (da finanziare con altri tipi di fondi reperiti autonomamente dai comuni) rivolte a
migliorare le condizioni economiche e sociali all’interno del quartiere. Sono state presentate
123 proposte, 83 sono state selezionate dalle regioni e inviate al Ministero, 77 giudicate ammissibili e le prime 55 finanziate con i fondi disponibili;
- infine nel 1998 viene introdotto lo strumento dei Programmi di riqualificazione urbana e di
sviluppo sostenibile del territorio: Prusst. 600 miliardi sono messi a disposizione per predisporre dei progetti integrati di ristrutturazione di porzioni di territorio dove sono necessarie opere
di infrastrutturazione, interventi per lo sviluppo produttivo e di risanamento ambientale.
L’area di intervento è più estesa rispetto ai programmi precedenti. Si tratta di azioni più specificamente rivolte agli aspetti fisico edilizi del degrado urbano e al potenziamento o riqualificazione dei servizi e delle opere di infrastrutturazione
Si delinea quindi una situazione in cui da un lato il programma Urban costituisce
per i comuni italiani la prima occasione di confronto con quella che in precedenza è stata definita come una declinazione forte del concetto di azione integrata. Dall’altro si sono venute costituendo durante il periodo di ideazione e
attuazione dei programmi Urban altri campi di sperimentazione del concetto di
azione integrata con delle declinazioni diverse, a volte riduttive, a volte finalizzate al perseguimento di obiettivi di carattere più settoriale. Diventa allora interessante cercare di capire se e come questi diversi campi di sperimentazione abbiano interagito e con quali conseguenze in termini di apprendimento.
41
n.4 / 2002
Scheda 2. (Fonte : L. Padovani 2002)
1. Declinazione fortemente orientata vero lo sviluppo (economico) locale. Patti Territoriali o
altre iniziative di sviluppo locale. In questo caso nella costruzione dei programmi di intervento viene dato peso:
- per quanto riguarda l’attivazione degli attori, particolare attenzione viene dedicata alle risorse locali legate al mondo della produzione, della ricerca e dello sviluppo, così come alle loro
rappresentanze e ai percorsi di costruzione di fiducia reciproca con la sottoscrizione di impegni reciproci;
- per quanto concerne i settori di intervento, è dato spazio allo sviluppo delle attività economiche e alla crescita del ceto imprenditoriale locale. I problemi del miglioramento della qualità
territoriale e ambientale o il potenziamento della coesione sociale, che sono lasciati più in
ombra, vengono però trattati come azioni al contesto tese a ridurre le condizioni di svantaggio
dell’area e a creare un ambiente più favorevole allo sviluppo;
- per quanto concerne gli obiettivi, la finalità dominante è quella di promuovere lo sviluppo
economico locale (che risponda a criteri di competitività e di sostenibilità).
2. Declinazione fortemente orientata alla riqualificazione urbana. Programmi integrati promossi dal Ministero LLPP. In questo caso nella costruzione dei programmi gli aspetti di innovazione più importanti sono:
- per quanto concerne il sistema degli attori, l’apertura a forme di collaborazione tra settore
pubblico e settore privato (in particolare il settore edilizio immobiliare), nella progettazione,
attuazione e gestione dell’intervento (forme di partenariato pubblico-privato per la riqualificazione edilizia e la produzione di beni comuni);
- per quanto concerne i settori di intervento, il maggiore spazio è dato all’integrazione tra le
operazioni che riguardano gli immobili e quelle relative alle opere di urbanizzazione e alla
organizzazione degli spazi pubblici. La riqualificazione ambientale è introdotta come tema trasversale. Gli aspetti sociali sono più sfuocati - fatta eccezione per il programma Contratto di
quartiere - anche se non del tutto ignorati, dato che viene richiesto di garantire all’interno dell’operazione un certo mix di offerta residenziale (sovvenzionata, convenzionata-agevolata e
privata);
- per quanto concerne gli obiettivi, la finalità dominante è quella di ridare qualità a porzioni
di città e di territorio che ne sono prive, di migliorare il loro livello di dotazione infrastrutturale e funzionale e di garantirne la funzionalità e il reinserimento nel contesto urbano o territoriale più vasto.
Il secondo fronte di innovazione, il fatto cioè di avere scelto di finalizzare il programma al potenziamento delle capacità di azione dei diversi soggetti coinvolti,
si articola in sotto aree di apprendimento, due delle quali sembrano di particolare rilievo per il tipo di ragionamenti in esame. La prima è connessa alla scelta
di fare partecipare al programma i destinatari dell’intervento. Il programma
Urban suggerisce infatti che i destinatari del programma, abitanti, attività, associazioni, reti locali, siano considerati come attori nel processo di costruzione e
attuazione del progetto, in una logica operativa che vede l’area di intervento
come contesto (milieu) di attivazione delle condizioni per un suo miglioramento. Questa scelta produce delle ricadute di rilevanza su più versanti. In primo
luogo la possibilità di attivare delle occasioni di confronto diretto tra organismi
istituzionali e abitanti e tra gli abitanti stessi coinvolti in un percorso di identifi-
42
Liliana Padovani
La declinazione italiana della Iniziativa Comunitaria Urban
cazione dei problemi, determinazione delle priorità e delle modalità di soluzione può produrre ricadute interessanti per ricostituire un clima di fiducia nelle
istituzioni e creare forme di fiducia reciproca tra gli abitanti. Condizioni indispensabili per pervenire a delle scelte operative condivise, che sono però del
tutto inesistenti in questi contesti insediativi. In secondo luogo il coinvolgimento attivo dei destinatari può contribuire alla ricostituzione di senso di sicurezza
e di fiducia nelle capacità di mobilitare le risorse necessarie per l’inserimento
nelle reti economiche e sociali (empowerment e capacity building). E questo sia
nel caso che il progetto sia quello di un re-inserimento nel sistema economico e
sociale dominante (mainstream society), sia nel caso di progetti di creazione di
nuove reti economiche e sociali, che considerino diversità e specificità (etniche,
di saperi, di pratiche) come risorsa aggiuntiva. In terzo luogo la partecipazione
dei diretti interessati alla progettazione e realizzazione degli interventi è condizione necessaria, anche se non sufficiente, per garantire la sostenibilità nel
tempo dei risultati conseguiti una volta esaurita la fase delle risorse economiche
e tecniche aggiuntive offerte dal programma.
La seconda area di apprendimento è connessa al mutamento di ruolo e di funzioni che si dovrebbe venire a creare all’interno dell’azione pubblica. Se l’obiettivo è, da un lato, quello di attivare e fare emergere risorse e saperi locali latenti, e, dall’altro, di promuovere percorsi di de-costruzione e ri-costruzione di
sistemi di aspettative e preferenze verso l’elaborazione di progetti e programmi
condivisi, all’amministrazione pubblica viene chiesto di modificare la propria
logica di intervento. In particolare, si pone il problema di uno spostamento dal
più tradizionale ruolo di erogazione di servizi, di prestazioni o di azioni di controllo verso un’azione di promozione e orientamento di capacità e iniziative locali (da un ruolo di provider a quello di enabler). Diventa allora interessante cercare di capire quali siano state le ricadute dell’esperienza Urban attorno alle questioni menzionate.
L’esperienza del PIC Urban Italia come fattore di innovazione
e di apprendimento
In Italia il programma ha suscitato interesse nei comuni, per la prima volta chiamati ad essere protagonisti di un programma co-finanziato dai Fondi strutturali.
Nelle fasi iniziali, antecedenti alla pubblicazione del bando, l’amministrazione
centrale si è attivata per assistere le città nella costruzione e presentazione dei
progetti. A farsi carico dell’avvio delle operazioni necessarie per partecipare al
programma Urban è stato l’Ufficio programmi del Dipartimento: Coordinamento
delle politiche comunitarie, presso la Presidenza del Consiglio che ha avviato
una riflessione su quelle che potevano essere le città da coinvolgere promuovendo riunioni di coordinamento presso il Dipartimento per il Coordinamento
delle politiche comunitarie alle quali partecipano le amministrazioni centrali
potenzialmente interessate a un programma trasversale come Urban: Industria,
Tesoro, Lavoro, LLPP, Istruzione (abbandono scolastico), Beni Culturali (patrimonio artistico), Interni (delinquenza giovanile), Aree Urbane. In funzione di
una serie di considerazioni in merito alla rispondenza delle città agli indicatori
enunciati dalla CE, al numero non rilevante di città che potevano essere coin-
43
n.4 / 2002
22
Nel caso italiano il
governo centrale si è
assunto un ruolo di
mediazione tra i
comuni e la UE.
nella preparazione e
gestione dei programmi. L’Italia ha così
presentato, e questa è
una specificità del
caso italiano, un
unico programma
composto da sedici
sottoprogrammi, coordinati dal governo
centrale (Dicoter
Ministero LLPP).
Questo ha fatto sì che
sia stato possibile ridistribuire all’interno
del PIC Urban Italia i
fondi non spesi entro i
termini concordati.
44
volte nell’iniziativa (in base ai dati forniti dal bando Urban 10-15 città per l’Italia),
al fatto che le città dovessero essere superiori a 100.000 abitanti e tenendo inoltre conto del fatto che il Fondo per lo Sviluppo Regionale prevedeva che il 70%
dei fondi fosse assegnato alle regioni del Sud, un certo numero di città sono state
invitate a presentare dei progetti entro il 1 novembre 1994, termine previsto
dalla Comunicazione. I progetti sono stati esaminati in sede di Commissione
Europea e sono stati selezionati in una prima fase 13, e poi altri 3 Programmi
Urban. Le 16 città che hanno ottenuto finanziamenti sono: Genova, Venezia,
Trieste, Roma, Napoli, Salerno, Foggia, Bari, Lecce, Reggio Calabria, Palermo,
Siracusa, Cosenza, Cagliari, Catania, Catanzaro. La gestione del Programma
Urban a livello di governo centrale è poi passata alla Direzione Generale del
Coordinamento Territoriale del Ministero LLPP22 . Nel dicembre 2001 i programmi si sono conclusi. Alcuni programmi sono riusciti ad utilizzare tutti i fondi assegnati altri hanno incontrato ostacoli e ci sono stati delle ridistribuzioni dei fondi
all’interno del PIC Urban Italia. Dato che al 31.12.2001 risulta spesa una quota
vicina al 95% degli stanziamenti complessivi, se ne può dedurre che le difficoltà
incontrate dai comuni nel gestire un programma fortemente innovativo come
Urban sono state in qualche modo superate. C’è stato quindi un processo di
apprendimento, anche se gli esiti si sono visti soprattutto nella fase finale del
programma quando la capacità di spesa si è di molto accelerata. Al dicembre
1999 risultava speso solo il 36% dei fondi assegnati, che sale al 56% a fine dicembre 2000, al 63% al 31.3.2001 (percentuale comunque superiore alla capacità di
spesa media dei programmi previsti dal Qcs Obiettivo 1, 1994-99 che alla stessa
data raggiungono solo il 43%) per poi raggiungere il 95% al dicembre 2001.
L’esame delle vicende dei 16 Urban italiani permette di sviluppare alcuni ragionamenti più circostanziati e di proporre una prima serie di considerazioni sugli
esiti conseguiti sia in termini di risultati specifici in ciascun caso, sia in termini
più generali di apprendimento su alcune questioni di rilievo. Alla luce delle considerazioni svolte in precedenza sugli elementi di innovazione proposti dal programma Urban, si delineano tre temi principali attorno ai quali organizzare le
indicazioni che emergono: il primo è connesso ai criteri di scelta del contesto su
cui intervenire e degli obiettivi del programma; il secondo alla declinazione che
viene data del concetto di azione integrata e alle implicazioni che ne derivano
per le modalità di costruzione e attuazione del programma; il terzo al tema della
partecipazione al programma dei destinatari del progetto.
In relazione al primo tema, l’esame dei criteri seguiti dai comuni nell’individuare l’area-obiettivo, nel perimetrarne i confini e nel definire gli obiettivi del programma, permette di avanzare alcune considerazioni in merito all’attenzione
prestata a quella che era stata individuata come “situazione tipo” proposta dal
programma Urban per questo tipo di azione. I comportamenti seguiti nei 16 casi
denunciano un certo discostamento dallo schema proposto. Per esempio, per
quanto concerne la perimetrazione dell’area-obiettivo, sorprende la variabilità
della sua estensione nei diversi casi, si passa dagli 8 ha di Lecce ai 30 ha di Bari
ai 2000 ha di Genova o di Venezia. Poiché le somme stanziate per ciascun programma non sono così distanti (Tabella 1), questa variabilità induce a ritenere
che il senso attribuito nella costruzione del programma al contesto di intervento come “attivatore” di risorse, di interrelazioni e quindi di possibilità di integra-
Liliana Padovani
La declinazione italiana della Iniziativa Comunitaria Urban
zione attiva, vari molto da una situazione all’altra. Viene messa in discussione, o
viene prestata scarsa attenzione, ai nessi tra “approccio d’area” e “azione integrata” e al significato attribuito nei criteri di perimetrazione al ruolo strategico
dell’area come contesto per attivare e integrare localmente risorse diverse e per
creare occasioni di sinergia e interazione tra le azioni promosse. Una seconda
peculiarità è costituita dalla dominanza della situazione “centro storico” come
area di intervento (nove casi su sedici) rispetto a quella del “quartiere residenziale in crisi”. La moderata attenzione prestata al concetto di quartiere residenziale in crisi (in un caso limite i residenti sono assenti nell’area intervento) può
essere indicativa della scarsa attenzione prestata alle valenze più sociali del programma Urban. Infine nella definizione delle finalità dei programmi, le scelte
fatte fanno riferimento a modelli diversi di declinazione del problema, alcune più
spostate verso interventi di riqualificazione urbana-edilizia, altre più attente ai
problemi dello sviluppo economico. E’ però interessante notare che un obiettivo che attraversa quasi tutti i 16 casi è quello del re-inserimento dell’area di intervento nel contesto urbano.
Dagli elementi riportati emerge una certa difficoltà a cogliere la portata del concetto di azione locale integrata e non esistendo una tradizione di intervento in
questo senso, soprattutto nelle fase di impostazione dei programmi sembra
assumere un peso di rilievo il riferimento ai modelli più sperimentati di concettualizzazione dei problemi del disagio e del recupero urbano. Questo in parte
spiega, data la dominanza nel contesto italiano di un approccio di tipo urbanistico alle questioni urbane, come mai tra le finalità dei programmi, l’obiettivo del
re-inserimento nella città dell’area di intervento sia presente in gran parte dei
casi. Sia nel caso di centri storici che di aree periferiche si tratta in genere di zone
degradate con problemi di esclusione rispetto al resto della città e quindi il tema
di aprire il quartiere alla città e viceversa, si colloca bene in un quadro di strumenti urbanistici e di piano che già operano in questa direzione. E’ un modo
intelligente e corretto di utilizzazione del programma, tuttavia esiste anche il
rischio che il potenziale di sperimentazione offerta dal programma Urban si
appiattisca su una funzione riduttiva di intervento a sostegno della attuazione
delle politiche del piano urbanistico. Situazioni potenzialmente di questo tipo
sono rilevabili nel caso di programmi che intervengono nei centri storici (Bari,
Cosenza, Salerno, Siracusa, Trieste) oppure in casi come quello di Cagliari dove
un peso di rilievo viene dato all’obiettivo “urbanistico” di ricondurre alla norma
e al mercato un intero quartiere di espansione residenziale abusiva. Esistono poi
i due casi limite di Genova e Venezia dove la dimensione dell’area obiettivo è talmente grande, sia rispetto a quella degli altri programmi Urban sia rispetto all’entità dei finanziamenti, che gli interventi previsti hanno senso solo se letti come
attuazione di una più ampia politica di rigenerazione urbana.
Rispetto alle questioni considerate, si delinea una situazione dove la scelta di non
avere focalizzato i programmi sui casi, pur esistenti, di accentuata marginalità e
degrado, come suggerito dal programma, e di avere invece attivato interventi
rivolti a una gamma più diversificata di situazioni di disagio urbano, da un lato
può essere vista come limitativa nei confronti delle potenzialità sperimentali offerte dal programma, dall’altro però anche come occasione per valutare le diverse
potenzialità in termini di qualità degli esiti che un’ottica di azione integrata può
45
n.4 / 2002
Tabella 1 - Finanziamento per sotto-programma (in Euro) e ripartizione per misura
costo totale inizio
Contribu- Avvio atal 1999 program. to UE
tività ecoinizio
nomiche
program
mis. 1
Formazione; promozione occupazione
mis. 2
Servizi so- Infrastrutciali, sanità, ture e amordine pub- biente
blico
mis. 3
mis. 4
Comunica- Varie
zione diffusione
mis. 5
Bari
20901
20988
9188
7861
1341
1733
8994
572
Cagliari 19837
19323
9188
5515
8074
5959
289
Catania 25220
24768
9188
5287
3872
14377
1224
Catanzaro 12895
12547
5850
3588
1519
1581
5717
490
Cosenza 20890
18555
9188
1112
310
5557
13694
217
Foggia
18534
18410
9188
2260
3332
4500
7242
1200
Genova 26271
22538
7158
4339
3717
9168
8164
883
Lecce
14654
13186
5852
3900
1076
1000
8178
500
Napoli
22838
22045
10186
3993
3134
14815
896
Palermo 22200
21420
10038
3100
1490
5023
11958
629
Reggio C. 21767
21136
9188
4883
827
4463
11241
353
Roma
20763
21768
7158
1630
1795
6011
9676
1389
Salerno 18342
18188
9188
2629
377
1300
11790
518
Siracusa 22510
22510
9188
5226
2285
592
13914
493
Trieste
21542
31113
6662
7547
2072
7356
3910
630
Venezia 19138
25547
7158
93
871
18024
150
Ass. tecn.
Monitorag.
3500
2450
Totale
328302
337542
136016
62990
28018
56358
167653 10433
Fonte: dati situazione 1999. Campagna e Ricci (2000); assegnazione iniziale, sito Ministero LLPP
23
Donolo (2001) fa
notare come le ragioni
dell’integrazione delle
politiche possano essere di natura diversa
da quelle che riguardano l’integrazione
degli impatti. Nel
primo caso i temi che
tendono ad essere
messi a fuoco sono
quelli della riduzione
dei costi e degli sprechi
e della razionalizzazione delle risorse.
L’integrazione che si
ottiene guardando ai
costi e quindi ai mezzi
è diversa da quella
che ottiene guardando
ai fini, cioè agli effetti
integrativi degli
impatti delle politiche.
Come considerazione
a margine, da tenere
presente nell’impostare l’analisi dei casi
Pic Urban Italia, si
46
mis. 6
400
460
262
1728
2850
assumere in presenza di scale diverse di gravità delle situazioni di intervento.
Passando al secondo tema, un secondo gruppo di considerazioni deriva dall’esame delle diverse declinazioni che del concetto di integrazione sono state data nei
16 casi, con particolare attenzione ai nessi tra gli interventi tesi a migliorare le
condizioni urbanistico-ambientali, quelli finalizzati al miglioramento delle opportunità economiche e quelli di carattere più sociale. Si prospettano due orientamenti nel modo di guardare al concetto di integrazione, un primo modo più
elementare è quello di considerarla come integrazione di politiche pubbliche
diverse, in un ottica di riduzione dei costi, di razionalizzazione delle risorse, di
riduzione degli sprechi e degli impatti negativi, un altro modo è quello di considerare l’integrazione come un esito, non definibile e prevedibile ex ante a tavolino, delle politiche pubbliche promosse. In questa seconda accezione sarebbe
più corretto parlare di azioni/programmi “integranti” piuttosto che di azioni o
programmi “integrati” (Donolo 2001; Crosta 2001)23 . Nei percorsi di costruzione e realizzazione dei programmi integrati i due orientamenti ovviamente non
sono esclusivi, sarebbe anzi interessante potere leggere attraverso i casi di studio
quali nessi si siano venuti a creare tra le due declinazioni.
Dai casi considerati emerge come forme di integrazione tra le diverse aree o settori di intervento, per altro esplicitamente richieste dal bando, siano presenti,
quantomeno nella formulazione più semplice della integrazione tra politiche, in
tutti i casi. Variano però, sia le declinazioni che sono state date ex ante dei nessi
e delle relazioni tra i diversi tipi di azioni, sia gli esiti conseguiti.
Nella fase iniziale di impostazione del programma si delineano due comportamenti. Un gruppo di comuni si propone di creare dei nessi forti tra i diversi tipi
di misure che si intendono attivare sin dalle fasi iniziali di avvio del programma.
Liliana Padovani
La declinazione italiana della Iniziativa Comunitaria Urban
Dalla lettura dei casi di studio si delineano alcune modalità tipo di nessi trasversali. Ad esempio se l’obiettivo è quello della rivitalizzazione economica dell’area
bersaglio si cercano di costruire dei legami forti tra: formazione (creazione di
profili di attività e di profili professionali anche in funzione della situazione sociale dell’area, del tipo di problemi di disoccupazione, dei giovani, ecc.), avvio di
nuove imprese all’interno dell’area obiettivo (artigianato artistico, turismo, servizi in settori innovativi o in settori dell’economia sociale) e azioni rivolte a
migliorare la qualità edilizia e ambientale dell’area, anche attraverso la promozione di interventi (privati) di risanamento delle strutture destinate ad ospitare
queste attività all’interno dell’area obiettivo, promuovendo in alcuni casi anche
l’intervento del settore immobiliare privato. Se l’obiettivo è quello del potenziamento delle funzioni di sostegno sociale si cerca di costruire dei nessi tra formazione, sostegno alle iniziative del terzo settore sociale, attivazione di centri di
presidio sociale e predisposizione in alcuni casi delle sedi per lo svolgimento di
queste attività, in genere attraverso operazioni di recupero di complessi abbandonati che abbiano anche un ruolo di rilievo nella migliorare la qualità urbana
dell’area. Per quanto concerne gli interventi tesi a migliorare la qualità urbana
dell’area, si cercano di costruire delle relazioni forti tra misure di risanamento
ambientale, di recupero urbano e riqualificazione edilizia dell’area bersaglio
associandole, quando possibile come nel caso dei centri storici, a politiche di salvaguardia e valorizzazione delle valenze storiche e archeologiche dell’area.
Relazioni forti vengono anche ipotizzate con le misure di promozione di attività
e con le misure di ordine sociale allo scopo di introdurre negli spazi urbani risanati forme nuove di vita sociale e di relazione. È collocabile in questo primo
gruppo la maggior parte dei programmi Urban.
Negli altri comuni, il programma si è appoggiato ad un concetto debole di integrazione, perché l’interesse è stato concentrato soprattutto verso azioni di riqualificazione urbana e ambientale sulla scia di esperienze precedenti, o perché si è
proceduto attraverso una giustapposizione di progetti diversi nell’area di intervento in parte anche attraverso operazioni di recupero di progetti preesistenti.
Sembra interessante constatare come, se all’interno del primo gruppo di comuni non sempre i livelli di integrazione preconizzati nella fase di impostazione
hanno potuto essere mantenuti e anche in fase di realizzazione le difficoltà
incontrate hanno comportato l’eliminazione o la forte contrazione di alcune
misure, all’interno del secondo gruppo in alcuni casi il concetto di azione integrata si è venuto elaborando e precisando in corso d’opera. Ad esemplificazione
di situazioni del primo tipo si possono citare il caso di Bari e di Catanzaro, dove
non sono state portate a termine alcune azioni rivolte a migliorare le condizioni
economiche e sociali delle componenti più fragili degli abitanti e delle attività
insediate nell’area obiettivo; quello di Salerno, dove l’intervento si è spostato
dalla parte più disagiata del c-s verso la totalità dell’area, penalizzando così i gruppi più svantaggiati; quello di Cosenza, dove l’inaspettato successo dei finanziamenti per il sostegno e l’avvio di nuove imprese ha reso ridondanti e inutilizzate le azioni di formazione. Può rientrare in questo gruppo anche il caso di Trieste
dove in fase di attuazione il programma Urban si è progressivamente allontanato dagli interventi di carattere più marcatamente sociale (Centro Interculturale
Multietnico, progetto spostato al di fuori del c-s e Centro di prima accoglienza
può rilevare che, se
nel primo caso l’integrazione tra le politiche pubbliche può
essere progettata e
definita anche ex ante,
nel secondo caso l’integrazione, se avviene,
si verifica come esito
di un processo difficilmente definibile a
priori in tutti i suoi
caratteri.
47
n.4 / 2002
per i giovani a rischio, progetto stralciato). Come esempi del secondo tipo si
possono citare, nel caso di Palermo, il progressivo delinearsi di quello che è stato
denominato il “sistema integrato della Kalsa”, che coinvolge una porzione limitata del centro storico dove al consolidamento delle relazioni tra le misure a
sostegno dell’artigianato, dell’assistenza sociale e della riqualificazione urbana, si
accompagna un percorso fisico di integrazione territoriale e il delinearsi di un
circuito nuovo di fruizione di questa parte della città.
Un ultimo gruppo di considerazioni è connesso al terzo tema, quello della partecipazione degli abitanti, dei destinatari dell’intervento e in genere dei soggetti
portatori di interessi nel processo di costruzione e attuazione del programma
Urban. Questo sembra essere il campo di sperimentazione che ha incontrato
maggiori difficoltà. All’esame dei 16 casi risultano modeste le risorse destinate
alla definizione di forme e modalità di coinvolgimento degli abitanti e anche
nelle fasi di costruzione delle singole azioni viene dedicata scarsa attenzione
all’attivazione delle risorse (conoscitive, di pratiche, economiche, ecc.) di cui
sono portatori gli stessi destinatari del programma. Ci sono delle eccezioni, per
esempio i programmi Urban di Napoli e Reggio Calabria hanno mostrato sin dalle
fasi iniziali delle forme di apertura del processo decisionale agli attori locali. Le
ragioni della scarsa attenzione per la partecipazione o delle difficoltà incontrate
a realizzarla vanno approfondite, anche perché proprio la debole capacità di
coinvolgimento degli abitanti e delle rappresentanze locali e la non sufficiente
attenzione dedicata alla identificazione di bisogni e delle potenzialità locali,
potrebbe essere alla base del mancato o non pieno successo di alcune azioni. In
particolare proprio di quelle azioni che ipotizzavano una partecipazione di investimenti di piccoli operatori privati locali sia per la promozione di attività economiche, sia per la riqualificazioni di locali da destinare a funzioni residenziali integrative con ricadute economiche per le famiglie (come ad esempio nel caso del
progetto bed and breakfast a Bari, o del risanamento di immobili da destinare a
residenza per studenti nel caso di Trieste).
Sulle difficoltà citate hanno influito inesperienza e carenze di saperi tecnici e professionali su come condurre questo tipo di azione e un basso livello di sperimentazione da parte delle amministrazioni locali. Tuttavia rispetto alle difficoltà
incontrate dalla gran parte dei comuni a strutturare nelle fasi di avvio del programma un percorso di costruzione di azioni partecipate, delle forme di interazione con gli abitanti e con le diverse rappresentanze locali si sono invece create, in un certo numero di casi, in corso di attuazione del programma. E ciò è
avvenuto sia in seguito a diverse forme di pressione esercitate dal basso, da
comitati e associazioni formatesi in relazione al programma stesso (è il caso di
Bari o di Cosenza), sia per la maturazione all’interno del gruppo responsabile del
programma di capacità di interazione e di ascolto degli attori locali (come ad
esempio nei casi di Palermo o di Trieste).
48
Liliana Padovani
La declinazione italiana della Iniziativa Comunitaria Urban
Scheda 3 Indicazioni sintetiche sui caratteri dell’area-obiettivo e sugli obiettivi
del Programma Urban
Comune
caratteri della area “obiettivo”
Finalità del programma
Bari
c-s (città antica c-a)
8000 ab.
30 ha
Cagliari
Nucleo Pirri 3000 ab.
Quartiere abusivo
200ha
6000ab
Catania
c-s
53000 ab.
Reinserimento del centro antico nell’area urbana di
Bari; sua rivalorizzazione e recupero di ruolo e di
centralità (valori storico monumentali e tradizioni artigianali locali).“Aprire la c-a alla città e la città alla c-a.”
Obiettivo forte: riqualificazione Nucleo Pirri e reinserimento del quartiere abusivo Baracca-Manna nel
tessuto urbano (legalizzazione, infrastrutturazione,
migliore qualità ambientale, recupero di immagine) e sviluppo residenziale aree ancora libere.
Obiettivo debole: contrastare emarginazione gio
vanile e disoccupazione nel Nucleo Pirri.
Rilanciare un’area significativa del c-s attraverso
una azione di ‘sviluppo locale’ basata sul: a) recupero e valorizzazione ambientale per restituire a
questa parte di città condizioni di vivibilità; b) sviluppo di attività economiche (artigianato);
c) riduzione condizioni di marginalità.
Restituire al c-s storico un ruolo come centro di
attività sociali, culturali, artigianali, produttive e
turistiche, di supporto per un territorio più vasto.
A questo fine, promozione attività economiche e
occupazione nel c-s, migliore offerta servizi sociali
e culturali.Rilevanza obiettivi sociali.
Rompere situazione di isolamento (abbandono)
del c-s e del quartiere Popilia (emarginazione).
Rilancio attività economiche (culturali, artigianali,
terziario innovativo) e residenza.
Intervento di riqualificazione lungo un asse di collegamento di due aree che presentano problemi di
marginalità: Sono previsti: a) interventi leggeri di
riqualificazione edilizia e urbana; b) la creazione di
nuovi servizi c) azioni di sostegno per lo sviluppo
di nuove attività economiche.
Intervento con forte valenza di riqualificazione
ambientale e di miglioramento della vivibilità urbana in due quartieri interessati da riconversione
produttiva. Sono previsti e realizzati interventi di:
a) riqualificazione ambiente urbano, miglioramento della dotazione e qualità dei servizi; b) controllo
e mitigazione dell’inquinamento da traffico; c)
sostegno nuove attività economiche “pulite”.
Rivitalizzazione e miglioramento condizioni di vita
nel c-s attraverso: promozione attività economiche
(imprese artigiane “Isola Artigiana” circuito turistico
culturale); sostegno occupazione (emarginati, disoccupati, donne, immigrati); miglioramento qualità
ambientale (risanamento di contenitori di valore storico -artistico, degli spazi pubblici e delle reti tecnologiche).
Catanzaro c-s (ampia parte)
10000 ab.
Cosenza
c-s
zona Via Popilia
Foggia
periferia e zona centro-nord
46000 ab.
Genova
Cornigliano: 16000 ab.
523 ha
Sestri P. 50000 ab.
481 ha
Lecce
c.s
6000 ab.
9 ha
(20% extra-com.)
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n.4 / 2002
Comune
caratteri della area “obiettivo”
Finalità del programma
Napoli
c-s QS
15000 ab.
Sanità25000 ab
Palermo
c-s. mandamenti
Castellamare,
Tribunali 112 ha
Reggio
Calabria
Periferia nord nuclei antichi e
edilizia residenziale sociale
33000 ab
Roma
Periferia
90000 ab.
1060 ha
sociale - 28000 ab.
Tor Bella Monaca,
ed. residenziale
c-s
7000 ab.
Urban viene visto come occasione: a) per sperimentare l’efficacia delle iniziative promosse dal Comune
tese a migliorare la qualità della vita nelle zone con
gravi problemi di degrado e disagio sociale; b) per
definire programmi pilota di intervento integrato.
Urban viene visto come sfida per sperimentare un
percorso di intervento integrato dove l’integrazione viene valutata non solo per i nessi tra le diverse
azioni, ma per la capacità di mobilitare e responsabilizzare gli attori coinvolti verso obiettivi di riqualificazione e di sviluppo locale condivisi.
Riduzione del degrado sociale attraverso un
approccio trasversale che si proponga di operare
simultaneamente attraverso: a) la valorizzare delle
risorse locali (turismo e prodotti locali); b) il risanamento ambientale e miglioramento dotazione
infrastrutturale; c) la responsabilizzazione della cittadinanza e il rilancio dell’immagine città all’interno e all’esterno del Comune.
Rompere l’isolamento (materiale e simbolico) del
l’area sia per i collegamenti con la città (accessibilità, presenza e qualità dei servizi), sia per i collegamenti interni (assenza luoghi e occasioni di aggregazione). Creare opportunità di lavoro (giovani).
Modificare immagine fortemente degradata dell’area
Migliorare la qualità complessiva della vita nel c-s
attraverso interventi integrati finalizzati al recupero
urbano (struttura fisica) e produttivo (struttura
economica) dell’area. Recupero del centro antico
obiettivo prioritario e strategico per lo sviluppo
turistico della nuova Salerno.
Sottrarre il c-s alla sua condizione di marginalità
urbana promuovendone le specifiche vocazioni turistiche, economiche e culturali. Riqualificazione del
l’immagine. Azioni tese a ridurre le situazioni di
rischio sociale e a incentivare la partecipazione alla
vita sociale, a promuovere il recupero abitativo e
l’adeguamento anti-sismico.
Rivitalizzazione economica attraverso l’insediamento di nuove attività artigianali e commerciali.
Inversione dello spopolamento del c-s: recupero
degli stabili degradati con destinazione ad uso
pubblico e a residenze studentesche.
Valorizzazione del patrimonio archeologico.
Misure di risanamento ambientale, di azione sociale,
di promozione di attività, nel più generale disegno
di riqualificazione del quartiere di Marghera e di S.
Giuliano.
Salerno
50
Siracusa
Isola Ortigia
5000 ab.
50 ha
Trieste
c-s
27000 ha
2000 ab.
Venezia
Marghera
20000 ab.
2200 ha di cui
2000 ha industriali
Liliana Padovani
La declinazione italiana della Iniziativa Comunitaria Urban
Considerazioni conclusive
Se, quando il programma Urban vene lanciato nel 1994, erano poche le amministrazioni che avessero messo in atto interventi nella direzione suggerita dal programma,
oggi, il concetto di azione trasversale, interistituzionale, multiattoriale e partecipata,
incomincia a essere presente in più contesti operativi: dai programmi integrati territoriali dei Fondi strutturali 2000-2006, alla scala micro-urbana dove sono stati sperimentati programmi speciali promossi dal governo centrale (come nel caso del
Contratto di quartiere), o programmi ordinari dove l’integrazione è costruita in loco
(come nel caso dei Pas di Torino). Sembra quindi che ci siano state delle ricadute
rilevanti in termini di apprendimento. Nel valutare la portata di questi risultati è bene
tenere presente che la fase di sperimentazione che è stata avviata e condotta durante gli anni novanta ha probabilmente raggiunto il suo punto di apice ed è in fase di
ridimensionamento. Sia a livello di politiche europee (si veda ad esempio il grande
cambiamento di obiettivi tra il 5 e il 6 Programma quadro europeo per la ricerca), sia
a livello di politiche nazionali, le prospettive di intervento sembrano oggi rivolte più
al potenziamento dei punti di forza dei sistemi urbani e dei sistemi territoriali che
ai problemi della lotta all’ esclusione sociale o all’intervento nei quartieri in crisi.
Le possibilità di continuare nella direzione intrapresa si poggiano quindi sulle capacità di apprendimento maturate dagli organismi istituzionali e dagli attori coinvolti e
sulla possibilità-capacità di applicare queste modalità operative attraverso “forme
ordinarie” di intervento. Da questo punto di vista diventa importante valutare attentamente i risultati conseguiti in termini di apprendimento e potenziare i punti di
forza acquisiti collocandoli nel nuovo quadro operativo che si sta venendo a configurare. L’esperienza condotta presenta infatti molti punti di riferimento ad aspetti
più generali del dibattito in corso in Italia sulla evoluzione delle politiche pubbliche
(con riferimento per esempio allo spostamento di interesse da politiche di settore
verso un orientamento più trasversale di interazione tra i vari organismi istituzionali, oppure allo spostamento da una logica di gestione di flussi di finanziamento verso
una logica di programmazione per obiettivo); sulle strutture e modi di governo delle
trasformazioni territoriali (dal piano urbanistico, alla programmazione, al programma locale integrato; dal criterio della norma sovra-ordinata alla cooperazione tra
attori e al principio di sussidiarietà); sulle modalità di costruzione del progetto di
intervento (dalla sequenza indagine-progetto-attuazione, alla circolarità del percorso
di conoscenza e decisione e del percorso ideazione-attuazione-gestione).
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Liliana Padovani è docente di Politiche Urbane e Territoriali della Facoltà di
Pianificazione dell’IUAV, Università degli Studi di Venezia.
[email protected]
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Paolo Perulli, Fabio Rugge, Raffaella Florio
Reti di città: una forma emergente
di governance Europea
Viaggiando tra le costellazioni del sapere
Questo saggio presenta i risultati di una ricerca sulle reti di città in Europa condotta dall’ Associazione Forma Urbis per incarico della Fondazione Monte dei
Paschi di Siena e conclusa nel giugno 2001. Il saggio presenta una interpretazione delle reti di città come nuova forma di governance, una loro tassonomia e la
individuazione delle principali aree di policy attivate. Il tema della cooperazionecompetizione tra città è particolarmente trattato nelle conclusioni. Gli autori ringraziano, oltre ai committenti della ricerca, i collaboratori per la raccolta e la
schedatura dei dati Fulvio Calia e Anna Casanova e, per la configurazione del
supporto informatico, il Centro di Calcolo dell’Università di Pavia
Una forma emergente di governance europea.
Le reti di città in Europa rappresentano un fenomeno che si propone all'attenzione di studiosi, osservatori e policy-makers nel corso del decennio Novanta;
un decennio in cui si compiono tappe decisive dell'unificazione economica e
monetaria europea. È come se le città volessero con ciò esprimere un proprio
contributo all'esigenza tuttora irrisolta di unificazione politica del continente.
E certo una forma di unificazione ‘dal basso’ sembra emergere dalla creazione di
stabili forme di incontro, di interazione e spesso di progettazione congiunta in
numerose arene di policy che vedono protagoniste le città in rete. Interessa
soprattutto sottolineare la natura no-place delle forme di coordinamento espresse dalle reti di città: con ciò le città sembrano indicare agli altri attori dell’unificazione europea – in particolare agli stati nazionali – la necessità di abbandonare una logica basata sull’equazione sovranità-territorialità e di ricercare forme
di sovranità condivisa. Sicuramente è troppo presto per considerare le reti di
città un nuovo attore collettivo, in grado di prendere proprie decisioni e di pesare nella formazione delle decisioni altrui, a partire da quelle prese a Bruxelles. Ma
anche ipotizzando che le reti siano nate come forme di cooperazione tra attori
‘opportunisti’ (le città) ciascuna interessata ad accrescere la propria influenza o
a catturare una quota di risorse erogate dall'Unione europea, bisogna riconoscere che nelle reti le città hanno trovato ‘esternalità’ e ragioni per superare il loro
stesso comportamento ‘egoista’. All'inizio del nuovo millennio l'Europa si trova
in effetti a disporre di un patrimonio di relazioni, di progetti e di interscambi,
non solo commerciali, tra le proprie città capace di riprendere nel senso migliore la tradizione di quella “Europa delle città” che ha rappresentato uno dei motivi di fondo delle vicende politiche, sociali, economiche e culturali del millennio
appena trascorso. In particolare, nella ricostruzione della fase di formazione
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n.4 / 2002
dell’Europa moderna, il modello delle “reti urbane” è stato contrapposto a quello dei “luoghi centrali”. Le reti urbane collegavano nodi anche molto remoti, talvolta distanti migliaia di chilometri, localizzati in regioni diverse e uniti da una
comune specializzazione o filiera produttiva e commerciale. Mentre i “luoghi
centrali”, come Londra e Parigi, sono stati il centro gerarchico dei nascenti stati
territoriali, le “reti urbane” hanno rappresentato un diverso percorso organizzativo, che non ha dato origine a una forma statale, ma piuttosto a un sistema reticolare di raggio amplissimo. Oggi, nella fase di formazione dell’Europa postnazionale, il modello delle reti di città tende a riassumere una propria attualità
entro i nuovi sistemi reticolari territoriali. Alla luce di questi cenni, appare riduttivo considerare le reti di città un modesto fenomeno di lobbying. Certo la pressione sull'Unione europea, ancora incerta sul suo futuro assetto politico, fa parte
dei compiti delle reti di città. La loro mobilitazione avviene in una fase di intermezzo, mentre in Europa dominano ancora gli Stati nazionali, ma essi vanno visibilmente cedendo sovranità verso l'alto e verso il basso. D'altra parte, le città stesse vivono una fase contraddittoria: da un lato, sono esse stesse attraversate da reti
incrociate che ne rendono problematica l'identità unitaria; dall'altro, si pongono
come attori unitari e collettivi alla ricerca di propri poteri.
La stessa attività di lobbying cui le reti di città si dedicano va inoltre vista nella sua
ambivalenza: essa non è solo l'attività di pressione delle città sull'Unione europea,
ma anche un modo attraverso cui le istituzioni europee e le burocrazie
dell’Unione implementano le proprie politiche attraverso le reti di città. Ciò avviene in molti campi, dalla cultura alle infrastrutture, dall'economia all'ambiente. È
questo un modo di interazione che, per ragioni funzionali, finisce per ‘incrociare’ sempre più le città con altri attori partecipanti alle reti, come le imprese, i
centri di ricerca, le università, le province, le regioni ecc. La creazione di “ibridi
istituzionali” come effetto delle politiche di integrazione è uno degli effetti
imprevisti più interessanti di questo fenomeno. È in questa direzione che la
ricerca sulle reti di città intende indagare, per la prima volta in modo ravvicinato, su uno dei fenomeni emergenti di governance europea. La letteratura in proposito ha da tempo messo in evidenza che il processo di integrazione in corso
include molti livelli di governance e diversi attori, non certamente i soli stati
nazionali. Tra questi attori si possono includere organismi sopranazionali e organizzazioni di rappresentanza: in particolare, lungo l’asse funzionale, gruppi e
comitati di interessi settoriali; lungo l’asse territoriale, organismi sub-nazionali e
sovra-nazionali come regioni e clubs di regioni, città e reti di città. Finora era
stata studiata la mobilitazione delle regioni europee, intese come attori relativamente autonomi rispetto agli stati nazionali di appartenenza ed interessati ad
avere una propria voce ed influenza a livello europeo rispetto a risorse da spartire e decisioni da assumere in campi per essi rilevanti. Con questo contributo
intendiamo colmare una lacuna relativa alla conoscenza della mobilitazione delle
città nell’arena dell’Europa negli ultimi dieci anni.
Una ‘intercettazione ambientale’: le fonti della ricerca
In via astratta, il modo più sistematico per condurre la ricerca sarebbe stato costituito da una ricognizione a tappeto, da condursi intervistando ogni città al di
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Paolo Perulli, Fabio Rugge, Raffaella Florio
Reti di città
sopra di una plausibile soglia demografica, per ottenerne notizie precise ed
aggiornate circa la sua appartenenza a reti associative di qualche tipo. È evidente tuttavia che una ricerca siffatta – soprattutto se condotta con l’obbiettivo di
ritrarre il fenomeno su scala europea – non poteva essere credibilmente intrapresa, se non con un enorme impegno di risorse materiali e di tempo. Peraltro,
anche a volere delimitare più o meno drasticamente l’universo da interpellare
non si era affatto certi che la percentuale di risposte e la loro distribuzione avrebbe finito per mettere a disposizione un campione significativo sotto il profilo
quantitativo e bilanciato sotto il profilo qualitativo.
L’idea di rivolgersi alla rete-web è sembrata una ragionevole risposta a queste difficoltà. Essa è stata suggerita dalla ovvia considerazione che la presenza - o
meglio la rappresentazione - in Internet potesse costituire un criterio qualificato
di selezione del nostro ‘campione’. In fondo, esso doveva consentire - come ha
consentito - di individuare quelle reti che attraverso l’autorappresentazione nel
mondo web dimostrano un grado di vitalità, di aggiornamento, di apertura all’esterno che, accomunandole, le rende un sotto-insieme identificabile e significativo. Insomma, è come se in un’inchiesta in cui era impensabile ‘sentire tutti i
testimoni’ si fosse fatto ricorso ad una ‘intercettazione ambientale’, captando i
segnali di cui si era alla ricerca in un ambiente in cui era difficile che essi non si
manifestassero. In effetti il richiamo tra la rete per antonomasia e le reti di città
è qualcosa di più che una coincidenza lessicale. Esiste indubbiamente tra esse
una chiara affinità funzionale: se il web consente lo svilupparsi di comunicazione orizzontale, secondo la logica della connessione piuttosto che della costruzione verticale (ed anzi precisamente questa decostruzione delle gerarchie viene
spesso riconosciuta come un limite del mondo Internet), le reti di città vengono
in vita ed agiscono proprio nella prospettiva della comunicazione, del collegamento, del coordinamento, del confronto - e semmai della coalizione - tra pari.
Non solo: è difficile trascurare come il supporto informatico offra un presupposto tecnologico decisivo per l’attività reticolare che si va illustrando. Tanto che
per qualcuna di queste reti il web sembra costituire non solo un luogo della propria rappresentazione, ma un elemento essenziale della propria ‘missione’. Così,
ad esempio, CEROI, acrononimo che indica il coordinamento di una decina di
città, istituito nel 1996 in vista del monitoraggio ambientale, sta per “Cities
Enviroment Reports On the Internet”!
Modi e metodi della ricerca
La ricerca delle reti di città europee (o a significativa partecipazione europea) è
stata dunque svolta utilizzando come strumento esclusivo Internet. Tutte le
informazioni sono state ricavate dai siti web delle reti di città esistenti e/o, più
raramente, esistite nel passato ed ancora presenti in Internet. Tali informazioni
sono state poi inserite in schede appositamente prefigurate in modo da riuscire
a riportare quante più informazioni possibili rispetto alla documentazione accessibile. Le schede raccolgono alcuni dati strutturali della rete (denominazione,
anno di nascita, presenza o meno di un atto costitutivo e suo anno di adozione,
liste dei fondatori e dei membri delle reti) e i dati riguardanti cinque dimensioni prevalenti, ciascuna concernente diverse categorie analitiche. Vediamo una ad
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n.4 / 2002
una queste categorie, con la premessa che le informazioni saranno mancanti laddove non è stato possibile reperirle (in questo caso, dato il limite della fonte utilizzata su cui torneremo di seguito, è difficile sapere se il dato effettivamente non
esiste o se non è accessibile su Internet):
a- tassonomia della membership: informa sul numero dei membri (con la specifica della presenza di full members, observers e membri associati), sulla consistenza demografica di ciascuno di essi, sul numero di stati cui appartengono e
sulla loro localizzazione territoriale (regionale o diffusa a seconda che gli stati di
appartenenza siano concentrati in un’area geografica delimitata o sparpagliati in
diverse zone d’Europa);
b- l’organizzazione della rete: informa sulle modalità differenziate di adesione
(come, ad esempio, la quota associativa), sugli organismi permanenti (di cui si
riporta la denominazione in lingua originale), sulla presenza/assenza di un apparato associativo e sui criteri di finanziamento (a proposito del quale sono previste
quattro voci: quota associativa, fund-rising, trasferimento da attori pubblici e altro);
c- la finalità della rete: informa sugli obiettivi della rete rispetto alla produzione
dei beni (riservati ai membri o pubblici a seconda che i destinatari e i fruitori dei
beni siano esclusivamente i membri appartenenti alla rete oppure no) e rispetto
al contenuto dell’attività (unica, plurima o generale);
d- l’attività della rete: informa sull’anno dell’ultima attività registrata (al fine di
misurare il reale funzionamento ad oggi della rete), sulla natura dell’attività
(sono prese in considerazione tre possibilità: lobbying, rappresentanza - istituzionale o degli interessi - e progettazione - intesa come capacità di sviluppare
progetti e avviare politiche), e sull’attività di pubblicazione (periodica, sporadica
o assente);
e- il tipo di attività della rete: informa sull’area di policy in cui si colloca l’attività,
ovvero le questioni affrontate dalle reti.
Queste sono raggruppate in 12 categorie: Sviluppo locale (inteso come marketing territoriale, competizione, reindustrializzazione, riconversione,ecc.),
Trasporti, Energia, Ambiente, Comunicazione e TLC, Finanza, Cultura, Welfare
locale, Formazione, Turismo, Sicurezza, Gestione amministrativa e altri beni e
servizi. Infine, la scheda prevede uno spazio in bianco per osservazioni su ulteriori informazioni che si ritiene utile segnalare (eventi o momenti particolari, ad
esempio premiazioni, risultati eccellenti, best practice, ecc.). Il censimento è
avvenuto attraverso tre momenti essenziali:
a- monitoraggio, il più ampio possibile, dei siti web delle reti di città, al fine di
verificare quanto questa forma di associazione fosse utilizzata e sviluppata tra le
città europee;
b- verifica della ‘tenuta’ della scheda predisposta per il censimento rispetto alle
informazioni desumibili dai primi websites visitati e relative modifiche della scheda originaria;
c- selezione, studio ed inserimento delle reti di città nel database.
Talvolta durante la ricerca si sono esaminati websites di reti di città poco chiari
ed esaustivi. Ciò ha comportato un'ulteriore ricerca di informazioni attraverso
altri strumenti (ad esempio invio di fax o di e-mail). Nonostante ciò, l'obiettivo
della completezza non è sempre stato raggiunto. Inoltre, alcuni siti di reti di città
sono in aggiornamento e dunque solo parzialmente consultabili. Le modalità di
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Paolo Perulli, Fabio Rugge, Raffaella Florio
Reti di città
ricerca sono state essenzialmente due: la seconda non ha prodotto particolari
risultati:
a- esame dei siti delle città europee a partire da links di reti di città precedentemente censite o comunque note;
b- utilizzo dei principali motori di ricerca (Google, Altavista, Lycos ecc.).
È utile notare che, se inizialmente l'oggetto della ricerca era costituito esclusivamente da reti di città in senso proprio, ossia reti i cui membri fossero solo città, in
un secondo momento si è deciso di allargare la tipologia delle associazioni monitorate includendo quelle ‘ibride’, ossia formate anche da membri come enti locali
non comunali, istituzioni pubbliche, aziende, università, camere di commercio
ecc. Analogamente, l'area geografica su cui ci si è concentrati non sempre ha corrisposto alla sola Europa: si sono inserite infatti anche reti di città di dimensione
mondiale, tenendo però fermo il criterio della sensibile presenza in tali reti di città
europee. Al termine del nostro lavoro riteniamo di aver individuato le reti di città
più importanti. I dati relativi alle variabili più significative, e/o volte a individuare
alcune caratteristiche tipiche della “rete media”, sono stati oggetto di statistiche di
sintesi. Si tratta dell’anno di nascita e del tipo di attività della “rete media”, della
dimensione media della rete (ovvero da quante città è composta la “rete media”),
dell’interstatalità media della rete (ovvero quanti stati sono rappresentati nella
“rete media”), della localizzazione territoriale e della finalità dei beni della “rete
media”. Tuttavia, tenuto conto dell'ampiezza e del carattere estremamente mobile
di ciò che viene veicolato attraverso Internet e della forte discordanza tra la capacità di creare un sito (e mostrare informazioni su questo) e la effettiva capacità progettuale, crediamo che la ricerca sia ampiamente perfezionabile, tanto in estensione quanto in profondità di analisi. Il proseguimento del lavoro vedrà l’utilizzo di
diverse fonti di ricerca (documentazione bibliografica, legislativa e amministrativa,
rapporti, ecc.) volte a migliorare e completare le informazioni acquisite e la realizzazione di analisi qualitative con interviste a interlocutori privilegiati per lo studio
delle principali variabili di policy emerse. Con questa prospettiva di avvio di una
ricerca che verrà esaurita in seguito, ci limitiamo qui a dare dunque una prima rappresentazione difendibile e caratterizzante del fenomeno. Il campione emerso,
seppure non esaustivo né rappresentativo, è certamente significativo della realtà in
Europa delle reti di città .
L'età delle reti e i tempi dell’Europa.
Analizzando l'età delle reti di città, si può dire che si tratta di un fenomeno recente e - salvo poche eccezioni - collocato negli anni Novanta. Il picco è raggiunto
tra 1990 e 1991 con l'attivazione di ben 13 reti (il 23% del nostro campione).
Negli anni seguenti la crescita si stabilizza e sembra conoscere una flessione con
il 2000-2001. Possiamo quindi ipotizzare che sia un meccanismo di ‘contagio’ a
spiegare la diffusione del fenomeno negli anni Novanta: si tratterebbe di una
forma di ‘emulazione’ tra città, accresciuta dalla consapevolezza dei possibili
benefici attesi, magari accompagnata dall'iper-attivismo di alcuni attori-città che
nella creazione di reti hanno trovato una propria missione e una base per accrescere la propria influenza politica ai vari tavoli decisionali europei. D'altra parte,
la partecipazione a reti o piuttosto la creazione di nuove reti corrisponde a diver-
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n.4 / 2002
se opzioni strategiche. Ci si può chiedere quanto abbia giocato per le città europee l'attrazione verso le reti esistenti, quindi l'imitazione, e quanto invece la
volontà di creare nuove reti, in altre parole l'innovazione. Questo secondo aspetto sembra aver fatto premio almeno in certe fasi, grosso modo coincidenti con
le tappe dell'integrazione europea: la creazione del mercato unico (1992) e il
successivo decollo della moneta europea (1997-8). Anche dall’intensificarsi dell’attività reticolare sembra dunque emergere l’immagine di città che hanno vissuto il decennio dell'integrazione europea alla ricerca di un proprio ruolo e che
hanno cercato di farlo riconoscere non tanto nei momenti formali e nelle istanze dell'Unione - riservate ad organismi statali - ma attraverso l’esistenza di una
realtà associativa parallela a quei momenti ed a quelle istanze. Le reti di città nate
nel decennio rappresentano così un nuovo tessuto organizzativo e per certi versi
un nuovo processo di istituzionalizzazione . Il fenomeno suggerisce che sia avvenuto un rafforzamento del peso politico delle città e soprattutto della loro
influenza strategica e negoziale, mediante forme di coordinamento tra municipi,
ma anche di relazione con altre entità come regioni, stati, imprese e la stessa
Unione Europea.
Reti di città e reti ibride
In effetti, uno dei dati salienti che emergono è precisamente il carattere prevalentemente ‘spurio’ delle reti di città censite. Quelle esclusivamente composte di
‘attori municipali’ ammontano a circa una metà. Questa comprende aggregazioni con finalità generali ed istituzionali (come Eurocities), e aggregazioni a carattere più regionale (come CIPL, Commisio Interpirenica de Poders Locals) ed, in
fondo, anche realtà quali WACLAW, il World Secretariat of Cities and Local
Government, che in effetti si presenta piuttosto come una “rete di reti”. L’altra
metà è costituita da reti in cui, accanto alle città, si ritrovano o soggetti economici privati e quasi-privati o autorità di governo di livello superiore. Frequentemente le reti
associano tutti e tre questi attori in varie forme di ibridazione. Se si osservano più
analiticamente tali reti ibride, si constata che esse possono distribuirsi lungo un
continuum che va dal tipo caratterizzato da una presenza del tutto accessoria
degli attori economici o degli altri attori pubblici al tipo in cui sono viceversa le
città a giocare un ruolo del tutto secondario. Come esempio del primo tipo si
potrebbe citare il network Citilec, i cui membri sono quasi tutti municipi, ad
eccezione della regione Lombardia . Come esempio del secondo tipo di ibridazione - ossia a bassa presenza di municipalità - potrebbe menzionarsi Ertico,
costituita nel 1991, per impulso della Commissione europea e dei ministeri dei
trasporti europei. Essa integra, con quest’ultimi, numerose decine di grandi
compagnie automobilistiche, telematiche ecc. e solo quattro città. Naturalmente,
in queste circostanze (che rappresentano però un caso limite) è difficile parlare
propriamente di reti di città, poiché sembra che esse non possano né costituirne il tessuto connettivo né - presumibilmente - esercitarvi una funzione di leadership della rete. Ma l’importanza dell’ibridazione rilevata va al di là di queste
esercitazioni tipologiche. Quale che sia il tasso di ‘municipalità’ delle reti, ciò che
appare di estremo interesse è la proprietà, tipica delle dinamiche reticolari, di
aggirare criteri prestabiliti di competenza e di gerarchia per mobilitare attorno ad
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Reti di città
un obbiettivo strategico ‘una comunità governante’. Questa viene quindi ad integrare soggetti variamente disposti rispetto all’asse pubblico-privato (società di
capitale pubblico e società di capitale privato, agenzie e amministrazioni tipiche)
e differentemente collocati nella gerarchia delle logiche territoriali (consorzi di
comuni e regioni, provincie e camere di commercio). Vediamo così svolgersi e
confermarsi, su questo terreno, tendenze già altrove rilevate dall’indagine sulla
realtà sociale ed istituzionale di fine ‘900: la sempre più evidente obliterazione
del confine - tutto moderno! - tra pubblico e privato, la crescente compenetrazione tra queste due sfere, il frequente determinarsi di una cooperazione tra
diversi livelli di governo che va al di là delle figure del decentramento, della competenza concorrente o di quella mista, per assumere invece forme squisitamente negoziali e pattizie. Potrebbe anzi osservarsi che queste tendenze, in quanto
aderenti ad una logica di coordinamento anziché di subordinazione, corrispondono ad una vocazione propria delle città, il cui ruolo politico vicario rispetto alla
statualità fu ancestralmente definito proprio a partire dalla loro inadeguatezza
territorial-funzionale a consentire l’impianto di forme verticali di sovranità.
D’altronde proprio tenendo a mente l’ancestrale divaricazione di destini tra stato
e città, non si vede contraddizione tra l’inclinazione cooperativa delle città e la
presenza di reti ‘pure’, costituite - per intendersi - solo ed in via esclusiva da
municipi. Né stupisce che spesso la retorica degli atti fondativi di simili reti registri e fissi - come vedremo - atteggiamenti di contrapposizione, se non addirittura di revanchismo nei confronti, dei poteri statali e della loro signoria.
Per una mappa reticolare dell’Europa e dell’Italia
Una mappa delle reti di città in Europa dovrebbe anzitutto verificare l'addensamento in una o più macro-aree delle città coinvolte. Il riferimento principale
sarebbe allora, naturalmente, ai due assi dello sviluppo europeo comunemente
contrapposti:
a) quello centro-europeo, più consolidato e corrispondente alla grande "banana"
che va da Londra a Milano;
b) quello della "sunbelt mediterranea" che corre da Barcellona all'Est europeo.
In modo impressionistico, si può rilevare la presenza abbastanza massiccia di città di
entrambi gli assi entro le reti censite, ma anche di città escluse dai due assi principali.
Quindi le reti di città possono favorire l'integrazione europea ben al di là degli assi forti
o dei club di città esclusive, ma anche al di là delle politiche regionali che hanno
‘segregato’ le “regioni Obiettivo 1” rispetto alle altre. Proprio la fertilizzazione incrociata delle reti di città emerge da casi tipici come Eurocities e Telecities: reti di 80-100
città con diffusione molto ampia e differenziata. Tipiche sono anche le reti, spesse
volte promosse direttamente dall'Unione europea, che raggruppano un piccolo
numero di città per ciascun paese, ma appartenenti a più paesi (a volte a tutti i
paesi) dell'Unione, con lo scopo di favorire gli scambi di idee e il benchmarking
tra città. Tutt'altra logica di diffusione seguono invece le ‘macro-reti’, con 1000 e
più membri, come Sustainable Cities anch'essa promossa dall'UE. Qui la logica
è la diffusione capillare, l'emulazione e il premio alle città che conseguono certi
traguardi nella policy oggetto della rete. Scorrendo la lista delle città premiate
non emergono assi forti, ma piuttosto una marcata dispersione territoriale.
Volendo riassumere i risultati che provengono da una prima lettura dei dati - e
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n.4 / 2002
in attesa di ricostruire mappe più dettagliate - possiamo distinguere tre livelli o
‘soglie’ di città europee:
a) le città più forti, in particolare le città “globali", che polarizzano le risorse e le
capacità continentali - e persino mondiali (si pensi agli investimenti multinazionali) – in tale misura da essere meno interessate a sviluppare reti di città. In effetti, Londra e Parigi, Berlino, Roma e Milano sono meno presenti nelle reti rispetto a città di rango inferiore;
b) le città che stanno sopra una ‘soglia’- non solo dimensionale, ma culturale e
di attenzione - che le spinge ad essere membri attivi di più reti e spesso loro promotori. In questa ampia categoria spiccano metropoli regionali - come
Barcellona, Bruxelles o Birmingham - e città di medie dimensioni - come
Montpellier, Anversa o Brema - il cui attivismo dimostra un forte interesse a
usare le opportunità offerte dall'"essere in rete";
c) le città che stanno sotto la ‘soglia’ che le rende suscettibili di essere attratte
nel fenomeno del networking. Questa soglia coincide certamente anche con la
possibilità di disporre di personale specializzato e tecnicamente attrezzato, che
sia dedicato all'attività di animazione, para-diplomazia e progettazione che il networking richiede. La diffusione del fenomeno in Italia vede:
a) un primo gruppo di “città protagoniste”, che appaiono cioè attive in numerose reti: Torino e Bologna partecipano a più di 10 reti, seguite da Venezia, e tra le
città medie, da Siena. In questi casi sembra esservi da parte delle città una propensione alla rete di tipo ampio, generale e probabilmente guidata da motivazioni culturali e politiche oltreché dal dinamismo nelle attività estere delle città;
b) un secondo gruppo di "città specializzate", che partecipano cioè a reti per
specializzazione produttiva e per filiera: è il caso di Genova, attivissima tra le reti
di città dei trasporti e marittimo-portuali, o delle città tessili riunite in rete, ecc.
c) le "città capitali" come Roma e, per rango economico, Milano risultano meno presenti nelle reti o, se lo sono, la loro presenza sembra il risultato di una adesione quasi
obbligata a reti di grandi città e di città di rango metropolitano. La possibile spiegazione è - in linea con quanto sopra ipotizzato per le città europee più forti - che per
queste città "fare rete" appaia meno importante e necessario rispetto a città di dimensioni e rango inferiore, che nella rete cercano occasioni e stimoli;
d) dal punto di vista della distribuzione regionale, sembrano più attive le città del
Centro-Nord rispetto a quelle del Mezzogiorno. Per essere più precisi, la diffusione nel Centro-Nord dipende meno dalla dimensione e dal rango delle città
(anche se, specie nel Centro-Nord-Est, si nota un attivismo marcato dei centri di
dimensione media), mentre nel Mezzogiorno sono soprattutto le città maggiori
- Palermo, Napoli e Catania - ad attivarsi. Molte città meridionali sono quindi,
almeno per il momento, al di sotto della soglia di capacità e consapevolezza
necessaria ad attivare una dinamica di rete o vi partecipano solo molto sporadicamente.
La estensione territoriale delle reti
Nelle reti oggetto della ricerca, si nota una assoluta prevalenza di reti a estensione territoriale diffusa (ben 49 sui 55 casi studiati) rispetto a un esiguo numero di
reti a localizzazione territoriale regionale (i restanti 6 casi). Si tratta di una conferma importante della natura aperta e non localistica del fenomeno, della sua
caratteristica pluricentrica e dello scarso peso di fenomeni di chiusura territoria-
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Paolo Perulli, Fabio Rugge, Raffaella Florio
Reti di città
le della membership. I pochi casi di questo genere, come le città baltiche o alcune reti est-europee, sono probabilmente frutto di fasi di transizione. In alcune
circostanze, si tratta di tentativi di integrazione tra città transfrontaliere Est-Ovest
o delle diverse sponde del Mediterraneo: reti quindi regionali sì, ma non localistiche; anzi di particolare interesse trans-nazionale. Di questo segno è anche la
rete C6, promossa da Barcellona e tesa a costruire una "regione" trans-nazionale con le città del Mezzogiorno francese. Di gran lunga prevalente è insomma la
rete ‘lunga’ (che permette alle città di associarsi con partners anche molto diverse e remote), debolmente connessa (nel senso che i legami non sono stretti, di
tipo comunitario o peggio localistico) e funzionale (nel senso che, ove vi siano
legami forti, essi scaturiscono dalla funzione, come nel caso di città specializzate
in economia, cultura, portualità, o altro). Un caso particolare e interessante è
quello di reti funzionali di città in competizione sulle stesse materie, come le reti
di città portuali (Amrie, Cities & Ports e Maritime City Network), di cui non è
peraltro facilissimo discernere una eventuale vocazione regionale.
La dimensione media delle città
In un'Europa di città, la dimensione media delle città in rete non può che riflettere la varietà e la ricchezza del tessuto urbano europeo. Quindi compaiono
nelle reti città di ogni dimensione e solo poche reti hanno delle barriere all'ingresso per dimensione: si tratta delle reti di città metropolitane o "major cities".
Nell'Europa delle città quindi, non si ripropone il modello delle "città globali" o
degli esclusivi "club" di rango metropolitano: la dimensione della membership
opera un taglio trasversale e permette la comunicazione tra livelli e ranghi differenti. In alcuni casi però è richiesta una massa critica minima. Eurocities - nata
nel 1990 - ne è l'esempio più evidente con la soglia di accesso fissata ai 250.000
abitanti, frutto probabilmente della impostazione metodologica seguita dalla
ricerca DATAR-RECLUS del 1989 sulle città europee, che prendeva in considerazione solo le agglomerazioni di almeno 200.000 abitanti. L'anno successivo, quasi
in risposta a Eurocities, nasce Eurotowns come rete di città medie, la cui soglia
di accesso si colloca tra i 50.000 e i 250.000 abitanti. In questo caso si tratta di reti
di città in competizione non per ‘missione’ - come nel caso delle città portuali ma per ‘rango’. Peraltro, nel 1995, riconoscendosi proprio in base al rango, quello delle “medium sized European cities” (locuzione che si ritrova identica nella
denominazione per esteso di Eurotowns), viene costiuito a Sankt Pölten
(Austria) un “Cooperation network” che non include nessuno dei membri di
Eurotowns ed ha estensione sostanzialmente regionale (Austria, Cekia, Croazia,
Germania, Romania, Slovenia, Slovacchia, Ungheria ecc.), con una sola, ‘eccentrica’ adesione francese.
Gli atti fondativi: la natura delle reti
Gli atti fondativi delle reti in esame assumono denominazioni e caratteristiche
tra loro differenti. Per quanto riguarda le denominazioni, due tipi sembrano prevalere: la “dichiarazione” e la “costituzione”. Agli atti ricompresi sotto la prima
denominazione possono esserne senz’altro assimilati altri quali la “risoluzione”
(ECDP) o il “manifesto” (Climate Alliance); così come alle costituzioni possono
essere assimilati gli “statuti”. I due tipi di atti fondativi possono distinguersi, in
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primo luogo, in base ai diversi contenuti. Le “dichiarazioni” hanno natura essenzialmente ‘programmatica’. Ciò significa che, sulla base spesso di alcune statuizioni di principio, esse fanno riferimento agli scopi della rete, ai suoi obbiettivi
strategici ed agli impegni - quasi mai veri e propri obblighi - che i contraenti assumono in vista di quegli obbiettivi. Anche le “costituzioni” sono sovente dotate di
preamboli che si richiamano a postulati etico-politici; ed esse pure presentano
una serie di scopi e di obbiettivi (solitamente di carattere più ampio di quelli contenuti nelle “dichiarazioni”). Tuttavia questi atti fondativi sono poi essenzialmente dedicati a delineare le forme organizzative della rete: condizioni e forme
dell’appartenenza, organi di governo e modalità di assunzione delle decisioni
ecc. È evidente che la diversa denominazione degli atti fondativi rinvia ad una
diversa natura delle reti. A “costituzioni” o “statuti” corrispondono in effetti vere
e proprie associazioni, che puntualmente provvedono anche a dichiarare a quale
regime giuridico, di quale paese esse rispondano. Apparentemente questa denominazione dell’atto fondativo e la rispondenza della rete a requisiti legali, stabiliti da norme di diritto positivo, segnalano un grado di istituzionalizzazione più
alto. Non è un caso che tali circostanze si presentino proprio per le associazioni
con maggiore anzianità: la IULA (fondata nel 1913) , l’UTO (fondata nel 1957) , il
CEMR (fondato nel 1951) . È però dubbio se il prevalere, tra le reti più recenti,
di atti fondativi meno preoccupati del profilo organizzativo, dipenda dal loro trovarsi in uno stadio del processo di istituzionalizzazione più elementare rispetto
a reti di più risalente generazione. Un’affermazione simile presupporrebbe che
associazioni basate su “dichiarazioni”, quindi esistenti meramente in via di fatto,
tendano necessariamente - in caso di sopravvivenza - ad evolversi in associazioni
di diritto, dotate di un proprio statuto, ovvero di una propria “costituzione”, e di
un profilo organizzativo preciso. Ora non pare che questo assunto sia calzante.
Innanzitutto, perché - a quanto si sa - le reti più risalenti hanno adottato la forma
dell’associazione statutariamente ossia legalmente definita sin dal momento del
loro venire in essere (quindi non come approdo di un’attività più o meno lungamente condotta in regime ‘informale’); in secondo luogo, perché anche reti di
nascita recente o recentissima hanno scelto di dotarsi di uno statuto (così
METREX, creata nel 1996 o Eurotowns, che pure nella sua “costituzione” insiste
a definirsi quale “network” ). La presenza di uno statuto e perciò di una forma
organizzativa stabile e normata sembra dunque il risultato di una scelta dei contraenti; i quali, evidentemente, nelle reti di vecchia generazione si mostravano
inclini a tale scelta, mentre nelle reti di nuova generazione preferiscono un
cooperazione meno formalizzata. Ovviamente un fattore determinante per la
scelta rimane l’esistenza o meno di un impegno a sostenere finanziariamente l’istanza associativa; da tale impegno scaturiscono infatti obblighi di gestione patrimoniale che quasi di necessità implicano una formalizzazione della rete.
Gli atti fondativi: le retoriche
Un’indagine ben più complessa meriterebbero le retoriche adoperate tanto nelle
“dichiarazioni” che nelle “costituzioni”. E tale indagine dovrebbe riguardare
tanto gli stilemi che i contenuti. Per quanto riguarda i primi, si assiste, negli atti
fondativi, ad una certa varietà di registri. Già l’uso stesso del termine “costituzione”, ossia di un significante il cui campo semantico è stato - nel corso degli
ultimi due secoli - pressoché esclusivamente occupato dal riferimento alla sta-
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Paolo Perulli, Fabio Rugge, Raffaella Florio
Reti di città
tualità, potrebbe assumersi ad indizio di un’intenzione imitativa e, al tempo stesso, conflittuale, secondo quella linea di rivalità con lo stato già sopra richiamata.
Del resto, il lemma “costituzione” sembra dotato di quella solennità di cui non
sorprende vogliano ricordare le proprie ‘carte fondamentali’ associazioni, ‘antiche’ e stabilite, come la IULA o la UTO. Interessante nella “costituzione” della
IULA è l’uso, nel preambolo, di un “noi” allocutivo. Esso per la verità compare
anche in alcune “dichiarazioni” come in quelle sottoscritte a Francoforte sul
Meno nel 1990 e 1998 dalle European Cities on Drug Policy (ECDP) e nel “manifesto” nonché nella “dichiarazione di Bolzano” (rispettivamente del 1990 e del
2000) sottoscritti della Climate Alliance. Ma, mentre nel caso della IULA il “noi”
sembra coerente ad una pretesa di solennità e ‘maestà’ dell’allocuzione, negli
altri due casi esso sembra coerente al carattere ‘militante’ della missione che i
contraenti si danno; sembra - in altri termini - funzionale a cementare un soggetto che si costituisce attraverso un agire di pronunciato carattere etico, non
privo di connotazioni polemiche (rispettivamente verso la riluttanza ai sacrifici
economici e culturali richiesti da una coerente politica di riduzione delle emissioni di anidride e verso la resistenza alla depenalizzazione dell’uso della droga)
Per quanto riguarda i contenuti delle retoriche impiegate negli atti fondativi, l’analisi potrebbe essere ancora più ricca. Però un tratto sopra tutti spicca: la riaffermazione delle istanze di autogoverno locale come presupposto non solo dell’identità cittadina, ma anche dell’efficacia delle politiche municipali. Il postulato
viene ampiamente fraseggiato nel preambolo alla “costituzione” della IULA
(“...proteggere e rafforzare l’autogoverno locale /.../ sono importanti contributi
alla costruzione di un mondo pacifico e basato sui principi della democrazia e del
decentramento del potere...”); viene affrontato come primo punto del preambolo alla “costituzione” del CEMR (“l’autonomia delle amministrazioni locali e
regionali è il presidio delle libertà personali”; “le libertà delle amministrazioni
locali sono ovunque minacciate dall’interferenza degli stati”); viene indicato
all’art. 3 della “costituzione” della UTO come uno degli scopi dell’associazione
(“difesa e promozione della democrazia e dell’autogoverno”); vien richiamato
come uno degli obblighi dei governi centrali al punto 5.4 della dichiarazione di
Brema (“dare alle municipalità i poteri e le risorse necessarie ad amministrare
l’ambiente locale”); viene considerato il presupposto della propria azione dalle
ECDP, nella dichiarazione del 1998 (“rivendicano la libertà necessaria /.../ a consentire la messa in opera di un intervento pragmatico ed equilibrato”). L’accento
sull’autogoverno locale non esclude tuttavia dal ‘discorso reticolare’ - che volentieri spende termini come “coordinamento”, “negoziato”, “scambio”, “cooperazione” - il riferimento ad autorità regionali e internazionali, così come ad altre
reti o ad organizzazioni di volontariato e del business. Meno frequente, se non
in senso negativo, l’evocazione dello Stato: sintomo di un’ostilità risalente, forse
solo di recente sopita.
Gli apparati delle reti
La rilevazione della presenza di strutture stabili di raccordo delle reti ha messo
in luce la natura ‘leggera’ di molte di esse. Una quota vicina alla metà dei coordinamenti analizzati, infatti, anche quando dispone di organi di direzione, non
possiede una propria struttura burocratica ed apparentemente funziona grazie
all’attività degli uffici delle città contraenti. Questo dato concorda con quella che
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potrebbe considerarsi una ‘filosofia’ propria del networking: “mettere in rete”
risorse di competenza, organizzazione, raccolta dati, insomma puntare sulla
coralità dei contributi piuttosto che dar vita a nuove strutture amministrative. È
una ‘filosofia’ che si attaglia senz’altro alle iniziative a carattere più ‘etico’: la rete
Bremen Initiative per uno sviluppo sostenibile, la Car Free Cities, la City for
Cyclist o la LIA (Local integration Partnership). Per altri reti prive di un proprio
apparato è poi possibile immaginare che ritraggano le proprie risorse organizzative e burocratiche dai promotori o da reti cui sono collegate. Nondimeno è evidente che, quando l’ampiezza del coordinamento o la continuità della sua azione o l’ampiezza e la complessità dei suoi compiti lo richiedono, la rete non può
non provvedersi di un perno.
L’attività di lobbying della rete
L’analisi evidenzia la presenza di una forte attività di lobbying che le città esercitano nell’arena politica dell’Unione Europea attraverso l’attività delle reti a cui
partecipano: 21 delle 55 reti esaminate specificano apertamente, nei documenti
introduttivi o costitutivi, la loro natura di lobby. Naturalmente, il numero dei casi
raddoppia, se si considerano le reti che non dichiarano espressamente siffatta
natura, ma le cui finalità sono chiaramente volte a tutelare i propri interessi e ad
aumentare la capacità di influenzare i processi di decision-making di livello
europeo. In ben 34 casi (in 17 dei quali non risulta dichiarata l’attività di lobbying), si indica la rappresentanza degli interessi quale funzione prevalente della
rete. E il dato è rafforzato dalla straordinaria capacità progettuale delle reti (attestata in 39 casi), a dimostrazione di un ruolo chiave da esse svolto, per ottenere
sostegno e legittimità “dall’alto” alla realizzazione di politiche locali settoriali. Le
modalità e le finalità emergenti di lobbying indicano dunque la richiesta, da parte
delle città, che gli interventi siano diretti e coordinati a un livello territoriale
superiore rispetto a quello statale (ma anche regionale e provinciale). Ciò è sicuramente dovuto, almeno in parte, alla crisi degli Stati nazionali e alla loro perdita di legittimità quali interlocutori credibili e attori dinamici della distribuzione
ragionata e governata delle risorse e della regolamentazione degli interventi.
Non solo le città probabilmente richiedono nuove forme di rappresentanza, trasversali rispetto agli Stati, e attribuiscono alle reti un ruolo di arbitro nella diffusione dei processi di integrazione europea e di globalizzazione economica.
Le reti di città, però, si sono mostrate inefficaci rispetto all’intenzione di sollecitare gli organismi internazionali in questa direzione. A vent’anni dalla nascita del
fenomeno l’Unione Europea non ha dato risposte adeguate, non si è ancora
costituito un luogo (una direzione generale, un segretariato, ecc.) dove affrontare le politiche delle città. E oggi le politiche urbane europee sono ancora frammenti di politiche settoriali che riguardano e si occupano anche delle città.
Esempi tipici ne sono le politiche ambientali e delle telecomunicazioni.
All’interno di queste politiche le città sono pensate come unità, destinatarie,
magari prevalenti, degli interventi, ma non quali soggetti attivi, decisionali e operativi degli stessi interventi. Inoltre le lobby si prestano ad una dinamica ambivalente. Essa si sviluppa dal basso verso l’alto quando le reti di città sollecitano a
Bruxelles regolamentazione e intervento; si sviluppa invece dall’alto verso il
basso quando le lobby vengono utilizzate da Bruxelles come strumento per crea-
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Paolo Perulli, Fabio Rugge, Raffaella Florio
Reti di città
re le condizioni favorevoli all’introduzione delle proprie linee di intervento e
all’implementazione delle proprie politiche. Le reti create appositamente dalla
Unione Europea (Entire, Histocity, Ceroi, Network of Urban Forum for
Sustainable Development, Diecec, Mig-cities, ELAINE, Quartiers en Crise, Ertico
e Net for Nets), ma anche quelle create da altri organismi internazionali
(Organizzazione Mondiale della Sanità con Healthy Cities Around the World,
l’Aliance of Maritime Regional Interests in Europe con la Maritime City
Network, il CCRE con European Local Authorities Telematic Network, la World
Federation of United Cities con Site 13 e l’OCSE con ARENA ), sono casi in cui i
soggetti fondatori delle reti innestano tramite esse le attività di transazione
necessarie a mettere in atto i propri interventi. Non è casuale che siano tutti
esempi in cui risulta una elevata capacità progettuale e in cui l’attività è concentrata su specifici settori di intervento (prevalentemente “comunicazione e TLC”,
“cultura” e “welfare locale”). In ogni caso, un’analisi più approfondita dovrebbe
mettere a confronto i contenuti delle politiche urbane europee e quelli delle
politiche di rete per rilevarne il grado di coincidenza come indicatore dell’efficacia della rete sia come modello di trasmissione della domanda da parte delle città
sia come strumento di ascolto da parte degli organismi internazionali.
Il ruolo di mediazione della rete
Le reti si presentano come forme di cooperazione tra agenti, le città, che trovano un modello di interazione basato su logiche diverse da quelle tipiche della
prossimità geografica. Le ragioni della cooperazione vanno ricercate, infatti, nei
vantaggi che le città ottengono dall’attività di networking che, per sua stessa
natura, diffonde privilegi e risorse ed esternalizza benefici (in termini di prodotti/risultati) indistintamente a tutti i soggetti appartenenti alle rete. Inoltre, in termini di governance, le forme di interazione volontaristica, come le reti di città qui
analizzate, presentano una più elevata capacità di risoluzione dei problemi.
Queste forme di interazione infatti assumono la presenza dei conflitti come
opportunità e fenomeno di crescita e, anziché scansarli, tentano di gestirli individuando e attivando le risorse per la loro soluzione. Come è noto, uno dei modi
per cercare di risolvere i problemi è quello di spostarli a una scala superiore
dove, l’assenza stessa di alcuni “conflitti intrattabili” (generalmente e tipicamente quelli inter-istituzionali) li rende maggiormente negoziabili. In altre parole, i
problemi sono più facilmente negoziabili se spostati su una scala superiore
rispetto alla loro trattazione in arene decisionali dove non si riesce ad avviare
processi di contrattazione della soluzione e a giungere a compromessi.
Questo è ovviamente un vantaggio molto appetibile che la rete offre a città generalmente e solitamente sommerse da conflitti tra istituzioni, soprattutto politiche, di diverso livello territoriale. La rete dunque è strumento utile e comunque
tentativo idoneo a portare il confronto e lo scontro (tipicamente comune-provincia, comune-regione e/o comune-stato) a un livello territoriale superiore; la
rete assume in questa prospettiva ruolo di mediatore in uno spazio di trattazione più efficace. Esempi di reti che sembrano poter essere interpretate con questa chiave di lettura sono quelle di città marittime (Maritime City Network, Cities
& Ports, e Alliance of maritime regional interests in Europe, a sua volta tra i soci
fondatori di Maritime City Network). Tutte presentano obiettivi particolari volti
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a promuovere gli interessi delle città portuali e contenuti specifici di definizione
di strategie integrate di livello europeo.
Tutte mettono in contatto le città e queste con attori portatori di interessi non solo
politici ma anche economici, tecnici, sociali e scientifici (agenzie di governo regionale e statale, aziende/partners, organizzazioni industriali, camere di commercio,
sindacati, centri di ricerca e università ecc.). Un tentativo forse di trovare una
dimensione più ampia e una visione più completa del problema per superare conflitti locali di difficile risoluzione a livello di comunità locale e di relazioni inter-istituzionali. E un tentativo forse di trovare un luogo di confronto più elevato per
acquisire risorse cognitive e legittimazione politica e tecnica, che accrescano, da un
lato, la capacità contrattuale al momento di riportare la questione sui relativi tavoli territoriali di presa della decisione e, dall’altro, il vantaggio competitivo al
momento della negoziazione/contrattazione con gli interlocutori locali.
14. La sovrapposizione e la competizione tra reti di città
L’analisi ha prodotto altri due risultati su cui è opportuno riflettere. Il primo fa
riferimento alla sovrapposizione delle reti di città, all’emergere cioè di una convergenza tematica o di policy e una convergenza di partecipanti o di attori. Ossia,
ci sono casi in cui le stesse città sono attive parallelamente in più reti che si occupano delle stesse questioni. Ancora una volta è indicativo il caso delle reti delle
città marittime, già citate nel paragrafo precedente (ad eccezione di Cities &
Ports che si occupa più specificamente del trasporto marittimo).
Entrambe le reti sono volte a promuovere lo sviluppo delle città portuali e a
sostenere gli interessi marittimi in Europa. Nel 1993 si costituisce l’AMRIE (56
membri); successivamente, nel 1998, viene fondata la Maritime City Network, di
dimensioni assai più ridotte (solo 6 membri: Bilbao, Genova, Southampton,
Bremen, Lisbona e Cadice) di cui, però, la prima rete è essa stessa socio fondatore e partecipe. La domanda che questo caso suscita è evidente: perché se già
esisteva una rete europea dei porti, cinque anni dopo ne nasce un’altra in cui le
stesse città, già rappresentate nella preesistente, si uniscono in una nuova forma
associativa? Un caso analogo, questa volta nel campo del trasporto pubblico, è
costituito dalle reti UITP International Association of Public Transport (tra le
più vecchie e più numerose, nata nel 1885 con oltre 2000 partecipanti), POLISEuropean cities and Regions networking for new transport solutions (nata nel
1989 con 58 membri), METREX-Network of European Metropolitan Regions
and Areas (nata nel 1996, con 85 membri) ENTIRE-European Network on
Transport Innovation for the Regional Use of Energy (nata nel 1997, con 7 membri). Come interpretare la significativa sovrapposizione verificata in questi due
casi? A questo livello di analisi, una risposta plausibile è che la rete si presenta per
le città come uno strumento per accrescere la propria capacità di pressione, la
propria visibilità e legittimità politica, il proprio potere contrattuale nelle arene
decisionali internazionali e nazionali, ecc. Quanto più si presentano e si offrono
alle città contesti/opportunità di questo tipo, tanto più vengono da esse accolte
con favore. A un successivo livello di analisi si potrebbe verificare quali sono le
arene politico-decisionali in cui si muovono queste reti. Le stesse policy community (in termini di contenuto e di membership) potrebbero ricercare differenti forme di reti (e magari anche differenti modelli di interazione) per poter
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Paolo Perulli, Fabio Rugge, Raffaella Florio
Reti di città
agire in più direzioni (promozione/diffusione cultura amministrativa, sviluppo di
modelli di governance, definizione di strategie politiche e realizzazione di interventi) e/o in vari campi di potere (pubblico, pubblico-privato, economico, istituzionale ecc.).
Un’altra possibile risposta è l’inefficacia delle reti di dimensioni troppo grandi
laddove si vuole passare da una politica di definizione di linee di intervento a una
politica volta a dare soluzioni concrete e a individuare azioni specifiche per il raggiungimento di fini particolari e settoriali. Anche in questo caso risultati più
attendibili potrebbero provenire solo da uno studio più approfondito sulla correlazione tra la dimensione della rete e gli esiti reali, in termini di prodotti, dell’attività di rete. Infine, una risposta più arrischiata è quella della competizione
tra reti. Può anche darsi, cioè, che alcune città, pur essendo formalmente unite
in azioni volte a promuovere interessi comuni, si trovino poi all’interno della
stessa rete a competere tra loro, vengano via via a formare una sorta di rete nella
rete e decidano, a un certo punto, di consolidarsi in un’altra unità (una nuova
rete) per incrementare il proprio vantaggio competitivo rispetto agli altri membri della rete. Tuttavia l’ipotesi di una competizione tra reti è più tipicamente
sostenuta dai casi a cui accennavamo all’inizio del paragrafo, quello cioè in cui si
verificano una sovrapposizione tematica, ma una divergenza dei membri. Si tratta di reti i cui contenuti di policy sono gli stessi o assimilabili, ma non vi appartengono le stesse città, almeno non del tutto. I casi più significativi li troviamo in
reti nate a metà degli anni ’90 nel campo del turismo (Med-cities, C6 e CIPLCommissio Interpirenica de Poders Locals) e nel campo della cultura (VITECC
e Co-operation network of medium-sized European cities). In questi casi, a rafforzare l’ipotesi della competizione, troviamo un altro dato interessante: si tratta di reti a localizzazione territoriale di tipo regionale, a dimostrazione che le città
scelgono di unirsi sulla base della prossimità geografica e forse culturale che le
avvicina. Un altro tipo di competizione emersa dall’analisi è la “competizione di
rango”, ovvero la competizione tra reti che, pur affrontando le stesse questioni,
sono costituite da città di dimensioni diverse. L’esempio più significativo è quello di Eurocities e Eurotowns. La prima, nata nel 1986 a cui partecipano 104 città,
fissa una soglia minima di appartenenza di 250.000 abitanti, mentre la seconda,
nata cinque anni dopo (1991) con 14 città aderenti, prevede una soglia minima
di 50.000 e massima di 250.000 abitanti. Entrambe le reti promuovono lo sviluppo di politiche urbane volte a migliorare la qualità della vita in diversi campi di
intervento (in particolare sociale, economico, ambientale e gestione amministrativa). In questo caso, Eurotowns è evidentemente una risposta alla preesistente Eurocities per promuovere la cooperazione di città medie e aumentarne
il vantaggio competitivo anche rispetto alle città di dimensioni maggiori già
coalizzate in rete.
Le finalità delle reti
Le reti perseguono nella maggioranza dei casi finalità uniche (38 reti, rispetto a
solo 9 con finalità generali e 8 con finalità plurime) e producono beni riservati
alle città appartenenti alla rete (in ben 45 casi). Inoltre, delle 19 reti in cui compare la voce dei beni pubblici ciò avviene in modo esclusivo (ossia senza che
appaia anche la voce “beni riservati ai membri”) solo in 9 casi, mentre negli altri
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dieci compaiono entrambe le possibilità. La natura consortile delle reti prevale
dunque nettamente su un orientamento più universalistico della rete. Le reti non
sono “altruistiche”: le città si mettono insieme per perseguire obiettivi di interesse proprio. È interessante osservare che le reti che perseguono beni pubblici
si contraddistinguono tutte per alcuni elementi caratterizzanti: sono reti di reti
(IULA, Municipia, Bremen Initiative), reti molto estese che formano quasi federazioni mondiali di città (World Secretariat of Cities and Local Government,
World Federation of United Cities, Site 13 e Healthy Cities around the World) e
reti a carattere prevalentemente culturale e sociale (ELAINE e Mig-Cities).
Le aree di policy delle reti
Premettendo che, nella rilevazione, l’indicazione del “tipo di attività” non era
prevista né unica né esclusiva (e il fenomeno delle finalità plurime si è presentano nella maggioranza dei casi analizzati), è comunque possibile estrapolare alcuni risultati significativi in merito alle aree di policy a cui le reti di città europee
dedicano maggiore interesse. L’analisi attesta che le reti affrontano prevalentemente temi legati allo sviluppo locale (in 19 casi), alla cultura (18) e ai trasporti
(15); a un livello di frequenza leggermente inferiore le reti trattano i problemi di
gestione amministrativa e di ambiente (entrambi riscontrati in 13 casi) e welfare
locale (11). Molto meno trattate, invece, sono le questioni relative alla comunicazione e alla TLC (solo 8 casi), alla sicurezza e alla formazione (entrambe appaiono in 7 casi), all’energia e al turismo (entrambe in 5 casi).
Infine, sembra che le reti non si dedichino affatto alla materia “finanza”, comparsa solo in un caso (la World Federation of United Cities) a carattere così generale e ampio che, ad eccezione dell’ambiente e del welfare, segnala anche tutti
gli altri tipi di attività previsti. Un dato, però, da prendere con molta cautela è
quello relativo allo sviluppo locale che, interpretato spesso in senso molto
ampio, risulta decisamente sovrastimato. Infatti, l’attività di sviluppo locale è
sempre abbinata ad almeno un altro tipo di attività (soprattutto la gestione
amministrativa e/o il welfare locale). Non è emerso quindi nessun caso di rete
che si occupa esclusivamente e specificamente di sviluppo locale.
E ancora, sono state spesso incluse in questo campo quelle reti, come
Eurotowns, che presentano un carattere polivalente promuovendo e svolgendo
varie iniziative in molti settori delle politiche urbane e che, soprattutto, hanno
un obiettivo generico volto a favorire la cooperazione e l’interazione tra le città.
Un ultimo dato, a prima vista rilevante, emerge poi nella categoria “altri beni e
servizi” (16,3% che corrisponde a 9 delle reti studiate). L’incidenza di questa
categoria, però, diminuisce drasticamente se si tiene conto che in 7 di questi casi
viene specificata anche, tra il tipo di attività, un’altra voce che si presume essere
prevalente (in particolare lo sviluppo locale, la gestione amministrativa e il turismo). Rimangono quindi solo due casi che non è stato possibile includere nelle
categorie individuate per il particolare contenuto della loro attività: la rete telematica Municipia che facilita lo scambio di esperienze tra attori locali delle città
europee sui temi del governo urbano e l’Associazione delle Comunità tessili
europee che riunisce enti pubblici e privati di sette paesi (Italia, Francia, Spagna,
Portogallo, Grecia, Belgio e Inghilterra) per promuovere la cooperazione tra le
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Paolo Perulli, Fabio Rugge, Raffaella Florio
Reti di città
“regioni del tessile” e sostenere l’adozione di politiche europee di modernizzazione del settore.
Fatte queste precisazioni, le aree di policy maggiormente interessate dalle politiche di rete si riducono e possiamo affermare con maggiore attendibilità che le
sfide poste dalle reti a livello europeo investono principalmente il campo della
cultura e dei trasporti e, seppure in misura minore, i campi dell’ambiente, della
gestione amministrativa e del welfare locale.
A questo punto un’analisi in profondità dovrebbe mettere in luce le ragioni di
tale risultato. Sarebbe interessante, cioè, verificare:
1. quanto siano questi i problemi effettivi che oggi maggiormente preoccupano
le città europee, ovvero se la salienza delle reti ad essi dedicate sia una risposta
a una domanda reale di intervento;
2. quanto invece siano queste le politiche a crescente competitività a livello europeo (come sembrerebbe il caso delle politiche culturali);
3. quanto piuttosto siano questi i temi che, rispetto ad altri, si prestano meglio
ad essere trattati all’interno di processi e strutture decisionali come quelli delle
reti internazionali;
4. quanto le questioni richiedano per il loro stesso contenuto, geograficamente
trasversale e diffuso, di essere trattate a un livello territoriale più esteso rispetto
alla dimensione locale e nazionale (come parrebbe per le politiche dei trasporti
e dell’ambiente, ove le normative europee tendono sempre più a omologare e
standardizzare le scelte di carattere nazionale);
5. quanto ancora le questioni individuate siano quelle maggiormente conflittuali nelle arene decisionali locali e nazionali, che verrebbero dunque trasferite su
una dimensione sovranazionale con la speranza di trovarvi maggiori spazi di
soluzione;
6. quanto infine siano argomenti più suscettibili di benchmarking, di confronto
tra best practice, di scambio di informazioni e know how (ciò che potrebbe essere vero in particolare nel caso della gestione amministrativa).
Un’ultima considerazione sulla capacità progettuale delle reti: sorprende che la
grande maggioranza di reti (39 dei casi studiati) si occupi di progettazione, cioè
sia in grado di sviluppare progetti e avviare interventi. Il dato sembra indicare un
carattere altamente operativo delle reti, a dimostrazione di una volontà determinata ad andare oltre la definizione di linee programmatiche e dichiarazioni di
intenti. Ma, anche in questo caso, è necessaria un’analisi qualitativa per valutare
fino a che punto tale capacità progettuale si traduca anche in capacità di realizzazione degli interventi; se le reti cioè siano capaci di avviare processi decisionali relativi nelle singole città.
Paolo Perulli è docente di Sociologia dell’Organizzazione della Facoltà di
Scienze Politiche dell’Università del Piemonte Orientale.<[email protected]>
Fabio Rugge è docente di Storia dell’Amministrazione Pubblica della Facoltà di
Scienze Politiche dell’Università di Pavia.
Raffaella Florio è dottore di ricerca in Scienza Politica (Università Autònoma de
Barcelona) e svolge attività di ricerca pressso Forma Urbis.
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Ioannis Chorianopoulos
I programmi RECITE dell’U.E.:
competitività e politiche di
coesione nelle differenti realtà
locali Europee
Il faro
Introduzione
La recente proliferazione di iniziative di messa in rete di autorità locali ‘transfrontaliere’ nello spazio dell’U.E. riflette l’accresciuta importanza politica ed economica del livello locale1, come risultato di processi di riorganizzazione di tipo
industriale e regolativo nell’arco degli ultimi trent’anni (Jessop 1994; Eisenschitz
and Gough 1998). Inoltre, questa nuova realtà rispecchia le opportunità di sviluppo attraverso la cooperazione che si sono aperte nel mercato interno e la
necessità di rafforzare sinergie a livello locale alla luce di una più intensa competizione territoriale (CEC 1999, 64-65; Grasland and Jensen-Butler 1997, 49-50).
In questa prospettiva, l’organizzazione di reti tra le autorità locali è valutata come
uno sforzo collaborativo2 volto a ridurre le incertezze e ad accrescere l’influenza
del locale sull’emergente spazio economico Europeo (Cattan 1996; Berg and
Kling 1995; Dematteis 1999). Ancor più importante, l’organizzazione di reti indica che le prospettive emergenti dei territori locali si basano sempre più sulla loro
capacità di adattare le funzioni, l’ampio ventaglio delle attività economiche e le
strutture di governance, in modo da sfruttare lo svilupparsi dello spazio economico Europeo (CEC 1999). Comunque, confrontando le diverse realtà locali tra
loro, vengono fuori differenti possibili vantaggi e risposte in termini di governance, secondo le rispettive tendenze di sviluppo. Esplorando le forme del cambiamento delle gerarchie urbane emergenti nello spazio Europeo si scoprono le
polarità delle prospettive di sviluppo locale. Il cuore dell’Europa urbana è definito da una concentrazione di più della metà delle città della Comunità, un fenomeno in espansione sul 20% della superficie complessiva (CEC 1999, 8). Gli
accordi dipendenti dalle reti, infatti, si riscontrano principalmente in tale spazio
centrale, che corrisponde all’area tra Londra, Parigi, Monaco e Amburgo (Cattan
1996, 245-7). In quest’articolo, alla luce delle persistenti disparità spaziali e del
lancio dell’iniziativa da parte dell’U.E. di politiche di messa in rete delle autorità
locali, si discute dell’importanza di approfondire la conoscenza della pluralità
delle soluzioni di governance locale e di costruzione di reti in Europa.
L’attenzione è rivolta in particolare su una delle disparità più gravi nello spazio
dell’U.E.: la polarizzazione Nord-Sud degli andamenti di crescita locale (Wegener
1
I termini “livello
locale”, “infranazionale”, “autorità
locali”, fanno riferimento ad aree urbane alla scala municipale e metropolitana e ad unità politico-amministrative.
Secondo il sistema di
classificazione statistico europeo
(NUTS), il livello
locale per come qui
definito corrisponderebbe ad aree equivalenti o al di sotto
del III grado NUTS
(CEC 1995-b, 6)
2
Attività comuni di
promozione di reti
includono: azioni di
lobby per favorire
interessi comuni a
livello dell’U.E., progetti per infrastrutture e sviluppo di
database che trovano imprese in località associate, che posseggono un intuito
di mercato che individua opportunità
di tipo commerciale
nello stare in rete
(Marlow 1992).
71
n.4 / 2002
and Kunzmann 1996, 12-3; Grasland and Jense-Butler 1997, 55-66; Cheshire
1999). Si cerca inoltre di riflettere sulla posizione relativamente poco competitiva e sulla limitata integrazione del livello locale in Spagna, Grecia e Portogallo,
rispetto alla rete emergente delle economie urbane Europee. Gli studi dedicati
all’analisi delle possibili cause soggiacenti alle differenti risposte all’integrazione
Europea che vengono dalla Spagna, dalla Grecia e dal Portogallo, puntano sugli
indicatori che comparativamente individuano in questi paesi autorità locali che
si mostrano poco competitive (per dotazione finanziaria, amministrativa, infrastrutturale) rispetto alle norme dell’U.E. (Council of Europe 1995, 1997, 19; CEC
2001, 49-65). Costruito su queste premesse, l’articolo prende in esame i meccanismi causali che soggiacciono alla definizione dei fattori economici che influenzano la competitività. La competitività a livello di governance locale si articola
attraverso processi di tipo politico, condizionati dall’infrastrutturazione politica
e sociale locale (Le Galès 1999). Ciò detto, la particolarità della governance locale in Spagna, Grecia e Portogallo è discussa attraverso un approfondimento dei
diversi contesti economici, sociali e politici dei processi di urbanizzazione occorsi nel dopoguerra in questi paesi. La pluralità dei contesti di urbanizzazione e di
ristrutturazione industriale in Europa è fatta oggetto di analisi, in un tentativo di
comprendere le differenti risposte in termini di governance e di modalità di
costruzione di reti rispetto all’integrazione Europea. Il saggio è strutturato in
quattro parti. La prima si sofferma brevemente sull’esplorazione delle caratteristiche della ristrutturazione industriale e del rafforzamento del livello locale negli
ultimi trent’anni. Viene messo in rilievo il diverso impatto spaziale e urbano dei
cambiamenti economici in Europa, focalizzando sulle differenze Nord-Sud. Nel
tentativo di delucidare le ragioni sottese alla scarsa competitività del livello locale in Spagna, Grecia e Portogallo, la seconda parte del saggio è dedicata all’analisi delle caratteristiche economiche e socio-politiche dei processi di urbanizzazione in tali paesi. L’individuazione di una divergenza tra urbanizzazione del Sud
e del Nord e di governance a livello locale è di conseguenza oggetto di indagine
nell’ambito delle reti Europee. Il saggio evidenzia le caratteristiche chiave del
mutamento di politica da parte della Comunità a livello del locale e si chiede in
che misura le reti Europee urbane e regionali riconoscono e fanno proprie le differenze tra Nord e Sud relative alle forme di governance locale. Le risposte di
sette autorità urbane e regionali, nell’ambito di due reti EU-RECITE (EUROSYNET e SCIENTIFIC CENTRES), sono oggetto di analisi in chiave comparata. I casi
studio (Cork, Bayes e Bergueda, Dafni, Midi-Pyrenees, Warrington e Valencia)
sono esempi di autorità infranazionali del Nord e del Sud che cooperano a progetti di costruzione di reti. La sezione conclusiva presenta una riflessione sui
risultati della ricerca e discute delle difficoltà, conseguenze e possibilità dei correnti modelli Comunitari di intervento a livello locale.
Selettività del rinnovamento urbano e differenze Nord-Sud
L’accresciuta importanza a livello dell’U.E. del locale, in termini di economia e di
occupazione della popolazione, è indicata dalla netta inversione, sin dagli anni
‘80, della tendenza al decentramento urbano nel Nord Europa (Parkinson and
Harding 1995). Quello del rinnovamento urbano, ad ogni modo, è un processo
altamente selettivo, essendo basato su una transizione di successo dal settore
72
Ioannis Chorianopoulos
I programmi RECITE dell’U.E.
manifatturiero ad attività del terziario qualificate. Come indicato nella Fig.1 (vedi
al termine dell’art.), solo la metà delle città del Nord Europa hanno fatto esperienza negli ultimi due decenni di ricentralizzazione della popolazione e dell’occupazione. Al fine di dare spiegazione della selettività di tale processo, un certo
numero di argomenti viene avanzato a favore del fatto che la competitività economica del locale consiste in risorse eterogenee e si defisce ulteriormente sulla
base di capacità specifiche, connesse al luogo, di natura sociale, culturale, istituzionale e di governance (Storper and Scott 1989; Sassen 1995; Shachar 1997).
Nella fig.1 sono anche rappresentate le differenti risposte del livello del locale ai
processi di ristrutturazione sociale ed economica in Spagna, Grecia e Portogallo.
La popolazione urbana e l’andamento dell’occupazione nel Sud Europa diverge
dai modelli dominanti di urbanizzazione del Nord Europa, a partire dal periodo
del dopoguerra fino agli anni ‘70. Le città del Sud Europa non sembravano interessate dalla deindustrializzazione e ristrutturazione industriale urbana secondo
percorsi simili a quanto è dato di vedere nel Nord Europa. Città nella Spagna,
Grecia e Portogallo si stavano e si stanno (anche se in minore misura) urbanizzando. L’argomento sotteso a questa divergenza è la tardiva (risalente al dopoguerra) industrializzazione di Spagna, Grecia e Portogallo; l’accento è posto sul
fatto che le città del Sud Europa sono ad uno stadio iniziale di sviluppo urbano
(Hall and Hay 1980, 129-30). Per quel che riguarda i corsi futuri, si prevede che
le città del Sud Europa seguano l’esaurirsi del ciclo lineare di vita urbano in un
modo non dissimile allo stile neo-corporativo di rinnovamento urbano sperimentato nel Nord Europa a partire dagli anni ‘80 (Cheshire 1995). Questa assunzione è basata sulla convinzione che la principale differenza tra le caratteristiche
dell’urbanizzazione del Nord e del Sud è il ritardo nell’industrializzazione.
Comunque, non è questo il caso. L’industrializzazione non è stata la precondizione che ha fatto scattare le tendenze alla concentrazione urbana nel Sud, come
è accaduto invece nel Nord (Bairoch 1988). Quando si sono generate la popolazione urbana e l’esplosione dell’occupazione negli anni del dopoguerra nel Sud
Europa, la popolazione lavoratrice si impegnò in attività di servizio che stavano
alla pari (caso della Spagna e del Portogallo) o superavano (caso della Grecia)
quelle dell’industria (Williams 1984; World Bank 1984, 221). Questa caratteristica delle strutture dell’economia urbana, assieme con il prevalere di aziende di
piccola e media dimensione nell’organizzazione del settore manifatturiero
(Hudson and Lewis 1984, 197-201), stanno ad indicare che l’industria a quel
tempo non era forte abbastanza come fonte di occupazione per generare le alte
percentuali di migrazione urbana al Sud (Leontidou 1990). L’ampia emigrazione
nel dopoguerra del surplus di forza-lavoro dal Sud Europa verso le industrie del
Nord, alla ricerca di opportunità di lavoro, denota piuttosto il ruolo limitato dell’industria come fattore di attrazione urbana (King 1998). I processi di urbanizzazione del dopoguerra nel Sud Europa dovettero produrre come risultato rapidi livelli di sviluppo (CEC 1992-b, 65). Comunque, la scarsa manifestazione di
economie interne di scala nelle aziende industriali e i pochi segni di economie
di localizzazione inerenti il modello spaziale di sviluppo industriale, indicano
l’importanza degli effetti dell’urbanizzazione come principale fattore nell’industrializzazione. Le economie dei territori urbanizzati riflettono i vantaggi di un
più ampio mercato del lavoro e del settore dei servizi. In questo caso, l’esten-
73
n.4 / 2002
sione dell’economie di scala rilevanti per una particolare industria è influenzata
dalla dimensione della città e non dalla sua formazione industriale (Louri 1988,
433-7). Le differenze negli sviluppi dell’urbanizzazione nel Nord e nel Sud
Europa, perciò, non corrispondono ad un ritardo in un percorso di industrializzazione unilineare, ma riflettono differenze di struttura economica urbana
(Chorianopoulos 2002). Le forme di spazio urbano in Spagna, Grecia e
Portogallo, rispecchiano la particolarità delle traiettorie ‘periferiche’ di crescita,
dove l’urbanizzazione non è stata direttamente causata dall’industrializzazione
(Lipietz 1987; Leontidou 1990). Tale perifericità ha plasmato il contesto di regolazione della organizzazione della politica locale nel periodo del dopoguerra. Più
importante ancora, essa influenza fortemente gli attuali modi di governance e di
costruzione delle reti.
Contesto politico
Restituire un quadro del contesto operazionale idealtipico delle politiche locali nel
periodo del dopoguerra comporta due principali livelli di analisi:
- il ruolo dello sviluppo economico locale come funzione di una domanda macroeconomica determinata a livello nazionale. Le attività di pianificazione spaziale, la
fornitura di infrastrutture locali per supportare grandi produzioni industriali nell’interesse della piena occupazione, e la domanda di servizi pubblici e di politiche
di welfare locali rientrano in questa categoria (Castells 1997);
- la scala locale del contesto sociale e politico dell’organizzazione dell’economia.
Il ruolo delle funzioni di rappresentanza del governo locale nella costruzione di
relazioni salariali consensuali regolanti l’economia, e lo sviluppo di strutture di
negoziazione collettiva a livello locale, attraverso la predisposizione di servizi pubblici, sono gli esempi caratteristici in quest’area di analisi (Goodwin and Painter
1996).
Il profilo delle azioni dello Stato a livello locale negli anni del dopoguerra nel Sud
Europa è assai differente. Le strutture dell’industrializzazione delle economie di
Spagna, Grecia e Portogallo -per quanto ancora sottosviluppate al confrontonon erano basate su relazioni salariali consensuali e politiche corporative
(Maravall 1997).
A causa della base stretta urbana-industriale e della limitata libertà sindacali, in
questi paesi la crescita nella domanda sociale non è stata regolata istituzionalmente a livello nazionale o locale (Lipietz 1987). Più importante, la natura autoritaria e centralizzata dell’amministrazione nazionale in tutti e tre i paesi fino alla
metà degli anni ‘70 ha deviato piuttosto l’articolazione locale delle forme di regolazione (Syrett 1995, 150).
La ricostituzione dei regimi democratici nel Sud Europa negli anni ‘70 segna una
svolta significativa nella natura dei rapporti centro-periferia. Comunque, nonostante gli arrangiamenti politici e le aumentate responsabilità istituzionali, la
capacità di regolazione dei livello locali presenta costrizioni specifiche. Come si
può vedere dalla Fig.2 (vedi al termine dell’art.), il livello locale in Spagna, Grecia
e Portogallo, ha (in termini di comparazione) un’autonomia finanziaria limitata.
Per di più, il ruolo politico e rappresentativo dello Stato a livello locale è aperto
74
Ioannis Chorianopoulos
I programmi RECITE dell’U.E.
a interrogativi. Il ruolo dominante dei partiti politici di massa nazionali (o regionali, nel caso della Spagna) nella nuova infrastruttura politica locale è riconosciuto come un fattore distinto che mette nel paniere tentativi di sviluppo endogeno (Hadjimichalis and Papamichos 1990, 200; Syrett 1995, 98; Ignazi and Ysmal
1998, 295-6 e 301).
L’impatto delle strutture governative centralizzate si riflette nella distribuzione del
potere esecutivo nell’amministrazione locale. La ridotta capacità amministrativa
locale e la limitata presenza di gruppi d’interesse privati e del volontariato giustifica la concentrazione di autorità nella figura del sindaco. Tale forma di personificazione dell’amministrazione, a sua volta, viene valutata attraverso l’abilità di mediazione del sindaco di traslare l’autorità locale in influenza politica di livello nazionale, soprattutto attraverso i meccanismi di partito (Page 1991; Silva et al. 1998;
Goldsmith and Klausen 1997, 243).
Questa schematica rappresentazione dell’infrastruttura socio-politica locale di
Spagna, Grecia e Portogallo, differisce significativamente dai modelli ‘idealtipici’
della diffusa governance locale che rende possibile il lancio di iniziative politiche
orientate alla competizione (Amin and Thrift 1994). Nel caso della Spagna, tuttavia,
occorre fare una precisazione in particolare. Lo Stato di Autonomia delle Regioni
Spagnole è deciso dall’assemblea territoriale regionale e la gamma dei poteri delle
quindici Comunità Autonome è altamente eterogeneo (Rodriguez-Pose 1996).
Dal momento che la condizione delle municipalità è sotto il controllo dello Stato
regionale, la gamma dei poteri finanziari e politici a livello municipale in Spagna
varia considerabilmente (Nel.lo 1998).
Così, anche in Regioni con una forte identità nazionale e maggiori livelli di autonomia (quali il territorio Basco, la Catalogna, la Galicia), si osserva il ruolo dominante dell’amministrazione regionale nelle relazioni intergovernative.
La presenza di tendenze politiche centrifughe e gerarchie di partito nel sistema
regionale governativo risulta nella mancanza di risorse finanziarie e potere di
decisione politica al livello municipale (Morata 1993).
Si arguisce, perciò, che, centrale ai fini dell’analisi delle differenti manifestazioni
di competitività locale e formazioni di rete nel Nord e nel Sud Europa, sia la
divergenza dei processi di urbanizzazione: le differenze tra Nord e Sud nelle
forme di governance economica e locale che ristrutturano i contesti.
Quest’argomento non sottovaluta i diversi percorsi di Spagna, Grecia e
Portogallo3 .
Né bisogna ignorare le opportunità per lo sviluppo economico locale nel Sud
Europa fatte emergere dal processo di integrazione Europeo. L’oscillazione nell’attività economica recentemente osservato nelle regioni urbane del Nord-Est
della Spagna è basato su nuovi settori industriali e viene attribuito a soluzioni di
governance neo-corporative orientate verso la competizione (Lever 1999;
Sanchez 1997). Comunque, lo scarso coinvolgimento di località Portoghesi,
Greche e Spagnole, per la maggior parte, nelle reti emergenti delle economie
urbane Europee suggerisce la particolarità delle loro risposte di governance
all’integrazione. Inoltre, mette in questione l’efficacia di un decennio di reti
Europee nell’innescare la competitività del locale nel Sud Europa.
Il modo in cui i programmi dell’U.E. orientano le differenze di governance loca-
3
Economicamente,
per esempio, il ruolo
del colonialismo nell’economia
Portoghese, del settore traffico marittimo
nella Grecia, o la
sostituzione delle
politiche d’importazione intrapresa
dalla Spagna nel
periodo del dopoguerra indica differenti vie all’industrializzazione.
Inoltre, le differenze
tra i tre paesi nella
durata e caratteristiche dell’autoritarismo suggeriscono
che le loro strutture
politiche si possono
meglio comprendere
se si indagano a
livello nazionale
(Maravall, 1997).
75
n.4 / 2002
le, focalizzando i casi della Spagna, Grecia e Portogallo, viene analizzato di seguito attraverso uno sguardo più ravvicinato alle forme di partecipazione di sette
città e regioni urbane Europee, nell’ambito di due reti dell’U.E.
La svolta della politica dell’U.E. verso il livello locale
L’aumentata importanza delle specificità del territorio ai fini dello sviluppo economico e lo squilibrio attuale degli andamenti di crescita a livello locale sono
stati riconosciuti dall’U.E. e indirizzati nel quadro di due obiettivi strategici.
In primo luogo, l’aumento della competitività dell’economia Europea è promossa attraverso la decentralizzazione di istituzioni e di principi di costruzione delle
decisioni. Il riferimento è alla costituzione del Comitato delle Regioni, così come
al rafforzamento del principio di sussidiarietà espresso nel Trattato di Maastricht,
promuovendo connessioni dirette tra i livelli locale e Comunitario, cercando di
definire un’intelaiatura per la politica spaziale flessibile e decentralizzata (CEC
1993; CEC 1993-b).
Inoltre, i programmi Europei mirati al livello locale sono stati introdotti a partire
dalla riforma dei Fondi Strutturali dell’ ‘88 (così, ad es., le reti RECITE, l’iniziativa Urban), un mutamento di politica che è stato poi sancito con l’introduzione,
dal ‘99, di programmi esplicitamente di tipo urbano nelle aree dell’Obiettivo 2
(CEC 1994, 16; CEC 1994-b; CEC 2000). In secondo luogo, i possibili effetti negativi della competizione territoriale come risultato di processi d’integrazione economica e monetaria sono stati riconosciuti e direzionati con il conferire priorità
alle politiche di coesione e convergenza (CEC 1992, 7). L’enfasi sull’obiettivo di
coesione nel Trattato di Maastricht e nei programmi Europei di livello locale
introduce un modo di riguardare al processo di costruzione delle politiche che
interpreta la competizione locale come un ‘gioco a somma zero’, incorrendo in
rischi di aumento delle disparità (CEC 1999, 14).
Le modalità di intervento dell’U.E. sono regolate da tre principi-chiave di politica:
a) Lavoro di rete: l’agevolazione di reti transnazionali di cooperazione su temi
specifici, tra autorità locali democraticamente elette, nel tentativo di indirizzare
le strategie locali di sviluppo economico verso il livello Europeo.
b) Crescita economica e occupazione: se c’è una varietà di ambiti di cooperazione (Società dell’Informazione, Cultura, Piccola e Media Impresa), gli obiettivi di
promuovere la competitività economica e la creazione di occupazione soggiacciono alla maggior parte dei progetti Europei di costruzione di reti.
c) Partenariato e sussidiarietà: le linee guida e le procedure contenute nei programmi chiedono che le autorità locali assumano un ruolo attivo di agevolazione e di regolazione, incoraggiando il coinvolgimento dei settori del privato e del
volontariato nella predisposizione e implementazione dei progetti (CEC 1994,
102-3; CEC 1997, 14).
Secondo la terminologia propria dell’analisi delle reti (Chorley and Hagget
1974), si potrebbe anche affermare che, l’U.E., con il decidere in merito alla possibilità per le autorità locali di essere supportate finanziariamente per un particolare progetto influenza la formazione di “nodi” di reti. Ad ogni modo, non
sono previste politiche apposite per le connessioni tra le reti, o in merito all’autorità locale che le connette. Il modo di incorporare le autorità locali nei processi
76
Ioannis Chorianopoulos
I programmi RECITE dell’U.E.
di costruzione di reti da parte dell’U.E. risulta eterogeneo. La misura in cui le autorità locali si rendono capaci di esercitare un’influenza e di partecipare ai sistemi di
reti dell’U.E. dipende dalle priorità locali e dal grado di decentramento delle strutture di governo nazionali (Mazey 1995; Goldsmith and Klausen 1997). Ad esclusione dei requisiti minimi di cofinanziamento richiesti per le aree Obiettivo 1, l’organizzazione delle reti dell’U.E. poggia esclusivamente sulle strutture di governance locali (CEC 2000, 57). I differenti livelli di competitività della governance locale
Europea non vengono presi in considerazione come obiettivo di politica -cosa che
costituisce una causa fondamentale delle forme correnti di disparità spaziale.
Le implicazioni di questo approccio ai fini dell’efficacia delle politiche locali
dell’U.E. sono state oggetto di esame nella prima fase (1992-97) del programma
RECITE (Regioni e Città per l’Europa). RECITE è uno tra i primi programmi, contenuti nell’Art.10, del Fondo Regionale di Sviluppo Europeo (FRSE).
Rappresenta altresì una delle iniziative di maggiore rilevanza nell’ultimo decennio di politiche concernenti l’intervento sul territorio da parte dell’U.E. (CEC
1995). Lo scopo è stato quello di indagare sugli accordi di governance locali e
fare luce sulle capacità relative delle autorità locali del Sud Europa di trarre beneficio dai progetti dell’U.E. Inoltre, lo scopo è anche di identificare e chiarire i differenti vantaggi delle realtà locali Europee rispetto ai sistemi di reti dell’U.E., in
modo da estrapolarne i problemi e le modalità possibili d’intervento locale da
parte della Comunità.
I programmi RECITE
Le reti tra autorità locali sotto il nome di RECITE sono state sviluppate nel 1990
nell’ambito dell’obiettivo di “cooperazione interrregionale” (si veda l’Art.10,
FRSE; CEC 1995). I programmi formano reti a tema di cooperazione tra autorità locali -bypassando il livello nazionale- e dipendono interamente dall’attiva partecipazione del livello locale nelle varie fasi della loro formulazione e dell’implementazione. Per quanto vi siano modeste variazioni nel modo in cui alcune reti
specifiche di RECITE operano, in generale, ciascuna rete tematica comprende in
qualità di partner dalle 3 alle 7 autorità locali e città o regioni di almeno tre differenti Stati membri. Nonostante che il tempo limite per lo svolgimento delle
operazioni sia di tre anni, la maggior parte delle reti che hanno avuto inizio nel
‘92 si sono protratte fino al ‘97, mentre alcune hanno ottenuto una proroga e
finanziamenti dell’U.E. fino al 2001. Il saggio si concentra su due reti RECITE a
partire da questa fase del programma: EUROSYNET e SCIENTIFIC CENTRES.
Due considerazioni hanno portato a selezionare questi due programmi tra le 36
reti RECITE di questo periodo. La prima riguarda i loro temi, direttamente connessi agli obiettivi Europei di coesione e di competitività. La cooperazione nell’ambito di EUROSYNET si concentra su tre aspetti:
a) sviluppo economico locale, mirante a promuovere un coinvolgimento della
Piccola Media Impresa (SMEs) nei commerci transfrontalieri;
b) pianificazione della città, connessa alla protezione dell’ambiente e al recupero di aree abbandonate e inquinate;
c) sviluppo del turismo, mettendo a fuoco azioni per la promozione del turismo
77
n.4 / 2002
4
Altre due autorità
locali coinvolte in
EUROSYNET non vengono fatte oggetto di
discussione in questa
sede. Si tratta di
Charleroi (Belgio?) e
Bethune (Francia). La
ragione principale
consiste nella loro
partecipazione limitata o perfino nell’uscita
(caso di Charleroi) da
una serie di gruppi di
lavoro nel periodo di
svolgimento del progetto (CEC 1995-d, 3;
Chorianopoulos 2000).
5
Sono state coinvolte
anche le università di
“Labein”, “Ceit” e
“School of Engeneers”
di Bilbao, così come
l’“Istituto di Ricerca in
Sistemi Informativi
Paralleli” e il
“Dipartimento dei
Sistemi Informativi”
dell’università
“Federico II” di
Napoli. Per quanto
riguarda il ruolo delle
autorità regonali del
Governo Basco
(Spagna) e della
Campania (Italia)
nell’accompagnamento di tale partecipazione, vedi
Chorianopoulos
(2000) e CEC (1995-c).
78
urbano.
Anche la cooperazione nell’ambito di SCIENTIFIC CENTRES si concentra sulla
Piccola Media Impresa. Il principale obiettivo in questo caso, comunque, è stato
quello di seguire la formazione di un gruppo permanente di esperti che avrebbero condiviso le reciproche competenze sulle reti di “High Performance
Computing” (HPC - telematics) e avrebbero, conseguentemente, provveduto ai
servizi per le industrie locali. Sono stati pertanto coinvolti anche dipartimenti universitari ritenuti rilevanti, situati nelle aree di appartenenza di ciascun partner della
rete. La seconda considerazione che ha portato a selezionare queste reti consiste
nel fatto che le autorità locali partecipanti offrivano l’opportunità di esplorare differenti risposte di governance locale ai programmi dell’U.E., includendo anche le
differenze tra Nord e Sud d’Europa.
Come si può constatare dalla Fig.3 (vedi al termine dell’art.), EUROSYNET4 ha
compreso due autorità locali Catalane, Bayes e Bergueda (Spagna), così come il
Consiglio della Contea di Cork (Irlanda) e il Consiglio della città autonoma di
Warrington (Regno Unito) (CEC 1996-b). Il saggio si concentra sulle esperienze di
rete tra queste autorità locali per le seguenti ragioni:
a) le due autorità locali Catalane sono state coinvolte come singoli partecipanti
nella rete. Questa modalità di partecipazione eccezionale per i programmi Europei
è stata voluta dalle autorità regionali Catalane. Nel dibattito aperto sulla regionalizazzione della Spagna, i casi-studio delle realtà Catalane fanno luce sul modo in cui
avviene l’interazione tra il livello municipale e regionale e sull’impatto della devoluzione in Spagna sui processi di governance urbana, a livello cittadino;
b) sulla scia del crescente impegno del governo Britannico nell’organizzazione
locale dei Fondi Strutturali dell’U.E. (Boland 1999), il caso di Warrington offre una
possibilità per capire le risposte, in termini di governance, di un’autorità locale del
Regno Unito nei confronti di un programma Europeo che bypassa il livello nazionale. Per di più, Bayes, Bergueda e Warrington offrono l’opportunità per una comparazione diretta tra il modo in cui il programma è stato preso in considerazione
e perseguito dalle autorità locali del Regno Unito e della Spagna;
c) lo studio di Cork non si trova compreso direttamente in tale quadro di riferimento Nord-Sud. Ad ogni modo Cork è stato il progetto-guida della rete e una
serie di interviste fatte sul posto hanno fornito ulteriori informazioni in merito a
EUROSYNET. Ancor più importante, la centralizzazione delle strutture amministrative del paese (Bannon and Grier 1998), e gli alti livelli di crescita dell’economia Irlandese fanno di Cork un caso studio distintivo e interessante per la comparazione sia con Warrington che con Bayes e Bergueda.
Come di può vedere dalla Fig.4, la seconda delle due reti, SCIENTIFIC CENTRES5,
include due autorità regionali, Midi-Pyrenees (Francia), l’organo di autogoverno
(Generalitat) di Valencia (Spagna), la città di Dafni (Grecia), un comune dell’area
metropolitana di Atene. Il saggio mette a fuoco le risposte in termini di governance da parte di queste autorità locali, per le ragioni seguenti:
a) alla luce dello status politico relativamente recente (1986) delle regioni Francesi,
lo studio su Midi-Pyrenees fornisce un approfondimento in merito all’influenza e
alla capacità del livello regionale di articolare relazioni di partenariato con il settore privato locale. Inoltre, il caso di Midi-Pyrrenees offre l’opportunità di esplorare
l’efficacia delle nuove politiche locali per lo sviluppo economico in Francia (Charte
Ioannis Chorianopoulos
I programmi RECITE dell’U.E.
d’Objectif, 1991), con l’aspirazione di promuovere la competitività nel contesto
dell’accresciuta competizione territoriale a livello dell’U.E.
b) motivo fondamentale della selezione di Valencia è stato il primato (squilibrato) di partecipazione delle autorità rispettivamente regionali e municipali alla
rete Europea. Il livello regionale, per esempio, ha preso parte a nove reti RECITE durante gli anni ‘90, mentre la municipalità di Valencia non è stata coinvolta
in alcun progetto di questo tipo (CEC 1995-b). Lo studio del caso dell’autorità
regionale di Valencia integra l’analisi della interazione tra livello municipale e
regionale in Spagna, che comincia con i casi-studio Catalani di EUROSYNET. In
quest’ultimo caso, comunque, le sinergie di governance locale e le dinamiche di
devoluzione, sono esplorate dal punto di vista del livello regionale.
C) I rapporti di valutazione dell’U.E. inerenti RECITE mettono in evidenza la difficoltà di trasferimento del “know-how” nell’organizzazione della rete, osservando che i progetti incontrano i loro obiettivi quando tutti i partner hanno a disposizione il know-how per contribuirvi” (CEC 1995).
Le esperienze di cooperazione della municipalità di Dafni con due autorità regionali,con capacità finanziarie e livelli di esperienza significativamente maggiori,
offre un’ulteriore opportunità per approfondire quest’aspetto.
Le risposte di governance locale ai programmi sono state fatte oggetto d’analisi
procedendo ad interviste a figure chiave dei governi locali e a coordinatori del
programma dalla parte del settore privato.
Le interviste sono state concepite come semi-strutturate, per consentirne l’adattamento alle specificità dei singoli contesti, così come presentati dagli intervistati, e
per permettere la comparabilità tra casi-studio presi in esame. Il lavoro di ricerca
sul campo ha esplorato le varie situazioni di governance dalla prospettiva delle
autorità locali, concentrandosi su:
a) la rispettiva abilità delle autorità locali di acquisire informazioni in merito alle
reti dell’U.E. e proporre la propria partecipazione;
b) la loro conseguente capacità di organizzare e finanziare i progetti;
c) le modalità d’interazione tra le autorità municipali e regionali nell’area di pertinenza dei programmi in questione;
d) il grado di interferenza (se ve ne è alcuno) nei progetti da parte del livello
nazionale e l’eventuale impatto di questo coinvolgimento sul programma locale;
e) le differenze inerenti la modalità di comprendere il settore privato nei programmi.
Il principale limite al materiale empirico presentato nell’analisi delle differenze
tra forme di governance locale del Sud e del Nord d’Europa nel contesto dei programmi dell’U.E. è la mancanza di un caso-studio Portoghese per una diretta
comparazione. Per gestire questo problema il saggio attinge da altri studi che
esaminano le forme di governance locale nel contesto del Portogallo con riferimento a progetti di organizzazione di reti. Inoltre, si conviene che una selezione
di reti alternative a quelle considerate potrebbe presentare differenti risposte
locali ai programmi.
Ad ogni modo, la selezione delle due reti presentate, ha esteso la scelta dei casistudio esplorati e ha fornito esempi di autorità locali del Nord e del Sud e del
livello municipale e regionale nel caso della Spagna. In questa indagine compa-
79
n.4 / 2002
rativa, le due reti sono analizzate come complementari.
Uno sguardo sulle autorità locali e le forme di governance
Sono state osservate quattro differenze tra i partecipanti, che mostrano la rilevanza di differenti strutture di governance ai fini dell’efficacia con cui i programmi dell’U.E. promuovono politiche di sviluppo endogeno:
A) il grado di centralizzazione del sistema di governo nazionale (o regionale)
come fattore che regola l’accesso all’informazione;
B) la disponibilità finanziaria da parte delle autorità locali di devolvere risorse a
favore del programma;
C) il ruolo dell’elemento politico nell’amministrazione locale e nelle strutture
esecutive;
D) la relazione (interazione istituzionale) tra autorità locali e gruppi del settore
privato. I fattori esplicativi più rilevanti di queste differenze sono riportati di
seguito, secondo quanto detto ai punti A), B), C) e D).
A) Modalità di accesso all’informazione pertinente i programmi dell’U.E.
La natura centralizzata (a livello nazionale o regionale) delle strutture di informazione di cui dispongono la Spagna, la Grecia e l’Irlanda ha costituito un fattore limitante rispetto alle opportunità che le reti offrivano a Bayes e Bergueda, a
Cork e a Dafni, di articolare uno sviluppo endogeno delle politiche e di promozione degli interessi locali a livello dell’U.E. Cominciando da EUROSYNET, le
prime fasi del programma sono state organizzate da un’agenzia di consulenza
con sede a Warrington, che ha contattato varie autorità locali e organizzazioni
per elaborare una proposta per una rete Europea orientata verso la Piccola e
Media Impresa. L’agenzia di consulenza ha organizzato l’insieme delle attività
sulle basi di un passato di intensa cooperazione con il Consiglio Autonomo della
città e il settore privato locale e all’inizio è stata supportata finanziariamente dall’associazione locale della Piccola e Media Impresa (Hoyle 1997). Nel caso di
Bayes e Bergueda, ad ogni modo, è stata un’organizzazione regionale Catalana
(COPCA), specializzata nel commercio con l’estero, ad essere contattata per
prima dall’agenzia di consulenza. Successivamente, la COPCA ha informato le
autorità regionali in merito alle opportunità che EUROSYNET avrebbe potuto
offrire alla Piccola e Media Impresa Catalana orientata verso l’esportazione (Guri,
2001). La decisione dell’autorità regionale Catalana (Generalitat) è stata di prendere parte come Regione al programma. Questo, però, non è stato accettato
dall’Ufficio Europeo di RECITE, in ragione dell’incompatibilità esistente tra la
scala territoriale e di popolazione della autorità regionale Catalana e gli altri partecipanti alla rete. Per questa ragione, la Regione ha proposto il coinvolgimento
di Bayes e Bergueda nella rete, cosa sulla quale hanno acconsentito tanto
l’Ufficio di RECITE quanto le due autorità locali (Farguell, 1998). La cooperazione tra Bayes e Bergueda prima di EUROSYNET comunque era stata minima.
Perciò, le due autorità locali hanno dovuto impegnare una parte consistente del
loro tempo per identificare ambiti di comune interesse e metodi di lavoro.
Inoltre, Bayes e Bergueda - per quanto coinvolte insieme come un partecipante
singolo alla rete e così condividendo i fondi dell’U.E. -, in via eccezionale sono
80
Ioannis Chorianopoulos
I programmi RECITE dell’U.E.
state rappresentate nel Consiglio d’Amministrazione di EUROSYNET da due
membri, rispettivamente i sindaci delle due città. Questo ha costituito un fattore
di disturbo dell’equilibrio della rappresentanza al Consiglio e, a causa di difficoltà a cooperare tra Bayes e Bergueda, ha provocato circa un anno di ritardo nell’approntare l’agenda e dare inizio al programma (Costello 1997). Per quel che
concerne la partecipazione di Cork, è stata una organizzazione nazionale,
l’Agenzia Irlandese per il Commercio (ITB), ad essere contattata per prima dall’agenzia di consulenza, in ragione del suo ruolo guida nel rappresentare gli interessi della Piccola e Media Impresa in Irlanda. Quindi l’ITB ha informato il
Consiglio della Contea di Cork in merito ad EUROSYNET. L’agenda locale per
quel che riguarda le politiche per la Piccola e Media Impresa era stata già messa
a punto dall’ITB prima del coinvolgimento di Cork nel programma. Sono state
osservate anche ulteriori implicazioni inerenti l’amministrazione del programma.
Comunicazioni dalla Commissione inerenti questioni finanziarie sono state indirizzate dal Dipartimento del Governo Centrale a Dublino invece che al livello
locale, cioè a Cork. Ad ogni modo, Cork aveva il ruolo di capofila del progetto di
rete, e come tale era responsabile per la ricezione e allocazione dei fondi
Europei. Il ritardo nella comunicazione che si è verificato ha pesato sulla distribuzione dei finanziamenti e, di conseguenza, sull’avanzamento dei progetti specifici di EUROSYNET6 (Costello 1997). Elemento chiave alla costituzione della
seconda delle reti, SCIENTIFIC CENTRES, è stata la collaborazione di successo di
Midi-Pyrenees e Valencia ad un programma dell’U.E. (PACTE). In questo periodo di precedente cooperazione, sono state individuati ambiti comuni di interesse da parte delle due autorità locali e si sono definiti gli obiettivi di politica di
SCIENTIFIC CENTRES (Cros 1998). In questo caso, le due sopracitate località
locali, mettendo a punto attivamente una specifica area tematica di collaborazione e innescando una dinamica per ulteriori cooperazioni, hanno generato informazione piuttosto che ricevere passivamente proposte di partecipazione. Il
coinvolgimento di Dafni nel programma, comunque, è stato determinato dal
ruolo di coordinamento del Ministero dell’Economia Nazionale nei programmi
Europei. In quel periodo (anno 1993) tutti i contributi finanziari ai programmi
Europei in Grecia , che provenissero dal Governo Centrale o dalla Commissione,
erano incanalati attraverso il Ministero dell’Economia Nazionale. I n tale contesto, Midi-Pyrenees e Valencia hanno contattato l’Università Tecnica di Atene
come potenziale partner di ricerca per il progetto. Il Ministero è stato informato
in merito ad EUROSYNET dall’Università e ha assegnato il progetto alla Regione
di Attiki -a quel tempo braccio amministrativo decentralizzato del governo centrale. Le procedure dell’U.E., richiedevano comunque la partecipazione delle
autorità politiche locali alle attività della rete. La Regione ha contattato Dafni
sulla base della sua elegibilità a partecipare ai programmi SCIENTIFIC CENTRES
in quanto autorità politica locale. La Regione, comunque, aveva già negoziato l’azione di piano con l’Università Tecnica di Atene e aveva cominciato a individuare le Piccole Medie Imprese interessate a obiettivi telematici, nell’ambito dell’area metropolitana di Atene (Psaros, 1997). Similarmente agli esempi offerti da
Cork e Bayes e Bergueda, nel caso di Dafini, la presenza di strutture centralizzate addette all’informazione ha vincolato la promozione di obiettivi di sviluppo
endogeni attraverso la rete, cosa questa fortemente voluta dei programmi RECI-
6
Il dirigente di Cork
incaricato di seguire
EUROSYNET ha evidenziato il blocco
delle comunicazioni
esistente al
Dipartimento del
Governo Centrale in
Dublino. “Molte volte ha affermato - ho cercato informazioni da
Brussels che non
sarebbero poi seguite...Quelli sono ansiosi
di possedere tale senso
di potere. Questo mi è
stato evidenziato
come problema anche
dalla Commissione”
(Costello 1997).
81
n.4 / 2002
TE (CEC 1995, 14-7).
B) Aspetti finanziari locali
Nell’analisi è emerso come il grado di autonomia finanziaria locale sia un fattore
di differenziazione delle risposte di rete da parte delle autorità locali. Gli esempi
più discordanti si trovano in SCIENTIFIC CENTRES e coinvolgono Midi-Pyrenees
e Dafni. I partecipanti hanno corrisposto alle prerogative finanziarie di SCIENTIFIC CENTRES attraverso una varietà di mezzi, facendo emergere sia la loro differente capacità di devolvere risorse ai progetti sia la diversa importanza attribuita
al programma a livello locale. Il grado di collaborazione tra le autorità locali, i
centri di ricerca e le Piccole e Medie Imprese coinvolte, sono stati un elemento
centrale per l’attivazione di risorse e, di conseguenza, per la promozione attraverso il programma di obiettivi locali. Midi-Pyreness, per esempio, è in stretta
relazione di lavoro con il principale istituto di tecnologia della Regione, che si
occupa di “telematica”, il CERFACS. In questo contesto, il CERFACS nel 1991 ha
richiesto e ottenuto l’approvazione di un finanziamento da parte delle autorità
regionali, per procedere ad un progetto di ricerca che avrebbe aiutato le Piccole
Medie Imprese locali interessate alle applicazioni industriali della telematica. La
partecipazione agli SCIENTIFIC CENTRES è stata suggerita da CERFACS a MidiPyrenees sulla base di risorse extra che sarebbero confluite al progetto locale
attraverso il finanziamento Europeo. L’impegno da parte della Regione a supportare finanziariamente il progetto, comunque, doveva essere mantenuto indipendentemente dall’esito della richiesta di finanziamento Europeo. Infatti il contributo finanziario regionale è aumentato dalla quota fissata inizialmente, per via
del successo dell’azione di lobbying portata avanti dalle autorità nazionali
Francesi, sulle basi della dimostrabile rilevanza (disponibilità dell’UE ad accettare) della ricerca locale telematica. In Francia, le relazioni di tipo finanziario tra
Stato e Regioni sono formalizzate in un piano negoziato secondo delle procedure, il contrat de plan, che ha validità di cinque anni. Nell’ambito del terzo contrat de plan per Midi-Pyrenees (1994-98), la Regione è stata finanziata con risorse extra per SCIENTIFIC CENTRES. Elemento chiave per questo sviluppo è il lancio in Francia dell’iniziativa delle Carte delle Grandi Città (Chartes d’Objectifs)
risalente al 1991 e tendente ad aumentare la competitività economica regionale
in Europa individuando e supportando vocazioni specifiche in undici agglomerazioni urbane. La Carta di Midi-Pyrenees si concentra sulla città di Toulouse e
supporta le industrie aerospaziali ed elettroniche (vedi anche Sallez 1998). Nel
processo di elaborazione della Carta viene deciso a livello locale un nuovo investimento nei progetti Europei e conseguentemente incorporato - con l’approvazione del governo centrale - nel contrat de plan. Durante il processo di negoziazione della Charte d’Objectifs si verificano attriti tra i vari livelli di governo
(regionale, municipale, delle prefetture) in merito all’allocazione delle risorse e
alla distribuzione delle responsabilità (Cros 1998). Comunque, soprattutto l’iniziativa delle Chartes d’Objectifs offre un supporto finanziario di cui si ha molto
bisogno e che, come dimostrato dal caso di Midi-Pyrenees, facilita l’orientamento del livello locale verso quello Europeo.
L’esempio del caso-studio della Grecia differisce significativamente nell’ambito
dei SCIENTIFIC CENTRES. Dafni non è stata coinvolta negli aspetti finanziari ed
amministrativi della rete. La Regione di Attiki è intervenuta per garantire i requi-
82
Ioannis Chorianopoulos
I programmi RECITE dell’U.E.
siti di finanziamento locale, mentre i contributi finanziari dell’U.E. a Dafni sono
stati dati direttamente alla Regione. Gli obblighi amministrativi locali nell’ambito
della rete sono stati sub-appaltati dalla municipalità ad una compagnia privata
finanziata dalla Regione. Come rilevano le interviste effettuate localmente, due
sono state le principali ragioni del limitato coinvolgimento di Dafni negli aspetti
più pratici delle attività della rete:
a) le restrizioni applicate ai progetti dalla Regione. Come è stato evidenziato,
“…per compensare alla pre-definizione dell’agenda politica, la Regione ha
assunto responsabilità in materia di amministrazione e finanziamento” (Psaros,
1997);
b) la “inabilità dell’amministrazione municipale ad ottemperare ai requisiti finanziari e organizzativi dei progetti”, una limitazione che ha ridotto sensibilmente le
opportunità che la rete offriva per lo sviluppo locale (Psaros, 1997).
Un esempio caratteristico di questa realtà riguarda le spese extra indicate
dall’Università di Atene per l’organizzazione di una conferenza “telematica” nel
quadro delle attività della rete. Per coprire i costi in mancanza di sostegno da
parte della municipalità, l’Università è stata costretta a eliminare qualsiasi pubblicazione di atti, privando la rete stessa di un elemento importante per la diffusione del “know-how” generato (CEC 1995-c).
C) La distribuzione del potere esecutivo a livello locale.
Indagando in merito alla rilevanza della varietà di strutture esecutive ai fini dell’efficacia con la quale i casi studio hanno partecipato alla rete, sono stati individuati due raggruppamenti (schematici) di autorità locali. Nel primo raggruppamento - che comprende Warrington, Cork, Midi-Pyrenees e Valencia - è stata
rilevata una particolare correlazione tra l’alto grado di autonomia e l’efficienza
della macchina amministrativa locale e la promozione libera di obiettivi locali per
mezzo del programma. I relativi ‘autonomia e professionismo’ delle strutture
locali amministrative (vedi Page 1991; Goldsmith 1995), ad esempio, sono emersi dalle interviste effettuate a Cork e a Warrington come fattore centrale soggiacente la partecipazione di successo a EUROSYNET. L’enfasi è stata posta sul percorso (finanziario e amministrativo) semplificato dei progetti nel momento in cui l’accettazione dalla parte politica era garantita (Pizer, 1997) e non vi era interferenza da
parte dei politici locali durante la fase d’implementazione (Costello 1997).
Nel secondo raggruppamento, la predominanza della dimensione politica nelle
strutture esecutive di Bayes e Bergueda e di Dafni, ha fatto sorgere una serie di
problemi nel percorso dei progetti, influenzandone anche gli esiti. I rappresentanti di Bayes e Bergueda al Consiglio di Amministrazione di EUROSYNET, per
esempio, non erano dirigenti locali ma i sindaci delle rispettive autorità locali.
Quando il sindaco di Bergueda ha perduto le elezioni del ‘96, questo ha avuto
una ricaduta sulla continuità dell’impegno politico locale ad adottare quelle politiche. Inoltre, ha posto dei problemi di efficienza del processo decisionale a livello delle commissioni facenti parte della rete. La capacità dei rappresentanti
Catalani di procedere all’implementazione di politiche di lungo-termine è stata
messa in discussione da parte degli altri partecipanti della rete e attribuita alla
contingenza particolare della loro condizione politica (Farguell 1998).
Similarmente, a Dafini il mutamento accaduto a livello della leadership politica
della municipalità, conseguentemente alle elezioni locali del ‘94, ha cambiato
83
n.4 / 2002
l’impegno politico che garantiva la partecipazione a SCIENTIFIC CENTRES. Dafni
si è ritirata dal programma alla fine del periodo a questo relativo, mentre gli altri
partecipanti hanno proseguito con le loro attività di cooperazione, confluendo
in un progetto co-finanziato della DG III. Inoltre, l’unità tecnica che era stata
costituita a Dafni per seguire le reti “telematiche”, è stata sciolta poco dopo che
le nuove autorità politiche si sono insediate e il personale appositamente formato è stato dimissionato (Psaros, 1997).
D) L’interazione a livello delle istituzioni locali.
La rilevanza di strutture di governance diffuse che regolano il livello di prestazione delle località prescelte come studi di caso nelle reti è stata documentata
dal lavoro sul campo. Gli obiettivi locali venivano promossi con maggiore efficacia in relazione al coinvolgimento del settore privato nel programma.
La partecipazione di Warrington ad EUROSYNET, ad esempio, è stata determinata dalla costruttiva collaborazione tra l’autorità locale e l’associazione locale
della Piccola Media Impresa. La pianificazione ed organizzazione delle attività di
rete è stata predisposta dal Consiglio in collaborazione con le Piccole Medie
Imprese coinvolte. Inoltre, la gran parte delle responsabilità finanziarie nella rete
- in particolare quelle inerenti la partecipazione della Piccola Media Impresa alle
fiere ed esposizioni commerciali - è stata inizialmente assunta dalla comunità
degli affari, mentre il Consiglio reclamava successivamente il rimborso delle
spese dalla Commissione (Hoyle 1998). A Valencia, la collaborazione tra le autorità regionali e i centri di ricerca ha giocato un ruolo fondamentale nella formazione della agenda politica locale per SCIENTIFIC CENTRES. Gli obiettivi sono
stati decisi prima dell’applicazione, attraverso una serie di incontri tra le autorità
regionali e gli istituti di ricerca. Questo ha dotato entrambe le parti di una ben
definita comprensione della divisione delle responsabilità che andavano assunte
e degli obiettivi da portare avanti (Castellet Marti 1998). Per di più, l’inclusione
nel programma di Piccole e Medie Imprese di Valencia è stata organizzata sulla
base dei preesistenti legami istituzionali. L’economia di Valencia si poggia consistentemente sulle attività di esportazione del sistema di Piccola Media Impresa,
organizzato localmente in settori. La connessione tra le associazioni della Piccola
Media Impresa e le autorità regionali è fornita dall’Agenzia di Supporto
all’Esportazione (IVEX) di Valencia, una corporazione del settore pubblico controllata dalla Regione e preposta allo sviluppo degli affari. Tale infrastruttura istituzionale facilita la ricognizione delle compagnie interessate alle applicazioni
della telematica e conseguentemente il loro coinvolgimento nel progetto (PerezAntoli 1998). Nel caso di Midi-Pyrenees, la costruzione come obiettivo e l’annessione del sistema della Piccola Media Impresa a SCIENTIFIC CENTRES è stata
semplificata dalle strutture istituzionali regionali. Le ventidue Commissioni
Economiche e Sociali Regionali istituite dal governo Francese (1972) hanno
costituito un tentativo di mettere insieme gli interessi dei settori pubblico e privato relativamente agli obiettivi di pianificazione economica che erano stati
devoluti (Sallez 1998). La costituzione di un livello politico regionale in Francia
(1982) ha accresciuto il ruolo delle Commissioni in qualità di forum locali incentrati sulla politica economica. A Midi-Pyrenees, ad esempio, gli obiettivi di sviluppo economico - la già menzionata charte d’objectif - sono definiti dentro il
processo di negoziazione delle Commissioni. In tale contesto, un accordo è
84
Ioannis Chorianopoulos
I programmi RECITE dell’U.E.
stato assunto tra le autorità Regionali e CERFACS (1991) perché quest’ultimo dia
supporto tecnico alle Piccole Medie Imprese interessate alle applicazioni all’industria della telematica. Sulla base di quest’accordo, le autorità Regionali hanno
proceduto alla domanda di partecipazione alla rete Europea e hanno contrattato fondi extra per il progetto con il governo Francese. CERFACS a sua volta, ha
contrattato sotto il profilo tecnico l’agenda della rete con altri partecipanti e ha
fatto parte dei progetti la Piccola Media Impresa con cui stava già cooperando
(Cros 1998). A Cork la piattaforma per la rappresentanza del sistema locale di
Piccola Media Impresa in EUROSYNET è stata un’organizzazione nazionale, l’ITB.
La struttura decentralizzata dell’ITB, che ha uffici nella maggior parte dei centri
Regionali dell’Irlanda, ha consentito la promozione degli interessi imprenditoriali locali nella rete. Il Consiglio della Contea di Cork, comunque, non ha collaborato direttamente con la Piccola Media Impresa locale ad EUROSYNET
(Costello 1998). Bayes, Bergueda e Dafni offrono esempi simili a Cork, di modesta interazione di tipo istituzionale a livello locale. In entrambi i casi, le strutture
dell’autorità locale devono formalmente promuovere il coinvolgimento del settore privato nel processo di elaborazione delle politiche. Ancora, la collaborazione tra le autorità locali ed i gruppi del settore privato è minima. Come il
Sindaco di Bayes ha significativamente detto: “non funziona ancora per nulla. La
comunità degli affari partecipa in molte procedure ma il suo principale contributo è di idee. C’è poca cooperazione sul piano finanziario e questa è limitata
alle banche, e in misura ancora minore alla Camera del Commercio” (Farguell
1998). La presenza di strutture di governance diffuse che facilitano l’articolazione e la promozione di priorità di sviluppo endogeno attraverso le reti è connessa al grado di centralizzazione del sistema di governo nazionale. In generale, le
realtà amministrative centralizzate mostrano bassi livelli di interazione tra autorità locali e gruppi d’interesse. La rappresentazione di interessi dei settori privato
e del volontariato, in questi casi, si esprime con maggiore successo a livello
nazionale (Chorianopoulos 2002). Ad ogni modo, occorre fare una distinzione
tra il livello locale nel Sud Europa e l’Irlanda, e gli esempi di strutture amministrative centralizzate del Regno Unito. Nel caso dell’Irlanda, la predominanza di
industrie di piccola scala a partire dagli anni ‘50 e l’assenza di agglomerati urbani di notevoli dimensione ha inibito lo sviluppo di pratiche regolative a livello
locale. Un numero di tentativi da parte dello Stato di includere i sindacati e i
gruppi d’interesse in corpi consensuali7 , comunque, punta al progresso dei processi di contrattazione industriale e di politiche corporative a livello nazionale
(Ross 1988). L’efficienza con cui un’organizzazione nazionale, l’ITB, ha promosso gli interessi della comunità imprenditoriale di Cork nell’ambito di EUROSYNET ne è proprio un esempio. Anche il caso del Regno Unito costituisce un
esempio di forti interventi a livello centrale sull’organizzazione locale delle politiche spaziali dell’Unione Europea. In assenza di un livello regionale di amministrazione, la creazione da parte del governo Britannico degli Uffici di Governo a
livello regionale (GOR-1994) ha aspirato a dare coerenza nella politica locale alla
distribuzione tra differenti Dipartimenti di Governo (Ambiente, Occupazione,
Trasporto, Commercio ed Industria) e a organizzare l’assistenza regionale a livello locale e a negoziare con la Commissione dell’U.E. L’orientamento politico nei
confronti dei Fondi Strutturali nel Regno Unito, comunque, è stata fortemente
7
Questi includono la
Commissione
Nazionale per la
Produzione (1959), la
Commissione
dell’Organizzazione
Industriale (1961), il
Consiglio Nazionale
dell’Industria e
dell’Economia (1961)
e la Conferenza
Nazionale
sull’Occupazione e sul
Lavoro, centrale ai
processi di contrattazione industriale
(1962) (Ross 1988).
85
n.4 / 2002
influenzata dalle priorità nazionali di sviluppo regionale, come definite dai
Dipartimenti governativi rappresentati nei GORs (Lloyd and Meegan 1996). Ne
sono emerse, in forme di partenariato per interventi di rigenerazione, contestate a livello locale, restrizioni di tipo tecnico effettuate dai Gors sulle fonti di finanziamento e le quote di contributo del settore privato ai Documenti Unici di
Programmazione (Boland 1999). Recenti sviluppi istituzionali in Inghilterra, in
particolare il trasferimento di responsabilità per i Fondi Strutturali alle Agenzie
di Sviluppo Regionale (1999), più affidabili e orientate agli affari, possono tuttavia alterare il quadro (Harding, Wilks-Heeg and Hutchins 1999). Nel frattempo,
comunque, le reti Europee hanno rappresentato un approccio alternativo alle
forme di partenariato locale nell’ambito dei programmi dell’U.E.. Le reti Europee
offrono un’opportunità per le autorità locali di lavorare con il settore locale privato ai progetti dell’U.E. che saltano i controlli del governo centrale. Come si è
visto nel caso di Warrington, le iniziative di rete dell’U.E. spesso hanno origine
(e sono finanziate) dal settore locale privato e sono solo successivamente organizzate dalle autorità locali. Un prerequisito per una risposta simile è un grado di
autonomia locale finanziaria e di interazione istituzionale che consenta l’articolazione e la promozione degli interessi imprenditoriali locali a livello dell’U.E..
Questa particolare struttura di governance, orientata alla competitività e neo-corporativa, non è stata osservata nei casi studio inerenti la Spagna e la Grecia.
Unitamente alle basi finanziariamente ristrette e alla serie delle funzioni che
hanno luogo a livello locale, il sottosviluppo dell’infrastruttura locale istituzionale osservata negli studi di caso del Sud Europa si connette al particolare contesto economico e socio-politico dei processi di urbanizzazione in questi paesi.
Una rassegna della letteratura rilevante sui processi di governance locale in
Portogallo completa il quadro del Sud Europa e fornisce ulteriore supporto a
quest’argomento. Un’inchiesta che ha interessato 28 municipalità in Portogallo
(su un totale di 305), riguardo la loro capacità di risposta alle reti Europeee ha
messo a fuoco la limitata partecipazione dei gruppi d’interesse alla definizione
delle politiche, quale principale esito nel breve periodo delle strutture di governance locali (Silva et al. 1997, 179). Un’altra questione rilevante toccata dall’inchiesta include la mancanza di adeguate risorse finanziarie, e il limitato accesso
all’informazione circa le iniziative locali dell’U.E. In modo ancor più peculiare, lo
studio fa un ritratto del Sindaco “come il solo responsabile per la gestione locale delle questioni Europee”, un tratto questo che è stato collegato al carattere
personificato - come opposto a quello professionalizzato - delle strutture esecutive locali (Silva et al. 1997, 181-186). Santos (2000, 152), in merito alla Piccola
Media Impresa e alla scarsa innovazione delle Regioni Portoghesi, attribuisce alla
“base istituzionale leggera” la principale ragione di debolezza delle aree
Portoghesi che presentano ritardi nello sviluppo. Il sottosviluppo della cultura
della collaborazione orizzontale, la “svogliatezza” degli attori dei settori locali del
pubblico e del privato ad “incrementare il loro ruolo di coordinamento”, viene
visto come rafforzato dal ruolo dominante delle autorità nazionali nei programmi che promuovono innovazione a livello regionale. Il risultato è la riproduzione di legami gerarchici e l’assenza di “ogni politica per l’innovazione che sia basata su scala territoriale regionale” (Santos 2000, 153-4). La forte interazione tra le
Regioni ed i gruppi del settore privato che è stata riscontrata a Valencia e in
86
Ioannis Chorianopoulos
I programmi RECITE dell’U.E.
Catalogna non è in contraddizione con la scoperta di una notevole differenza tra
Nord e Sud Europa per gli aspetti di governance locale e la concettualizzazione
inadeguata di tale divergenza in rapporto al processo di decisione politica a livello dell’U.E. Come si è detto, le Regioni in Spagna, fin dalla riforma Costituzionale
ed amministrativa del ‘78, hanno goduto di un certo grado di autonomia che ha
consentito la rappresentazione degli interessi del settore privato nella costruzione delle politiche a livello regionale. Le tendenze centrifughe osservate in
Spagna a livello regionale, comunque, fanno pensare che, fin dalla riforma del
‘78, l’amministrazione municipale ha sviluppato relazioni (di tipo costituzionale,
finanziario) dipendenti sia dal livello nazionale che da quello regionale (Morata
1993). L’orientamento Europeo dell’autorità regionale di Valencia e la sua partecipazione alle reti dell’U.E. riflette questa relazione. L’ufficio messo su a Brussels
dalla Regione alla fine degli anni ‘80 rappresenta più ampi interessi locali ed è
costituito in congiunzione con il governo regionale, la Camera del Commercio e
la Federazione delle Casse di Risparmio (Mazey 1995; Merenciano Camara 1998).
Il livello municipale di Valencia, ad ogni modo, non ha avuto un ruolo centrale
in questo tentativo e non ha partecipato ad alcuna delle reti RECITE per tutti gli
anni ‘90 (CEC 1996-b). Allo stesso modo, in Catalogna, le autorità regionali
hanno risposto attivamente alla sfida dell’integrazione Europea. Un anno dopo
l’entrata della Spagna nell’U.E., la Regione ha formato il COPCA (1987), l’organizzazione della Piccola Media Impresa che ha fornito alle autorità regionali le
informazioni circa EUROSYNET. Con il COPCA la Regione ha cercato di facilitare
le questioni relative all’impatto sulla Piccola Media Impresa dell’accresciuta
competizione e di organizzare e promuovere gli interessi di questa a livello
Europeo (Guri 2001). Inoltre, la collaborazione, iniziata dall’1989, su connessioni infrastrutturali migliori tra Catalogna e le Regioni Francesi di Midi-Pyrenees e
Languedoc-Roussillon, illustra ulteriormente l’orientamento transfrontaliero
delle reti delle autorità regionali (Mazey 1995). Perciò, come è stato notato altrove (Morata 1993) e anche in quest’analisi, tali tentativi di governance e di organizzazione di reti non ha origine da nè comprendono adeguatamente il livello
municipale. Ciò non è a dire che gli interessi imprenditoriali della Catalogna o di
Valencia non siano adeguatamente rappresentati a livello Europeo attraverso le
autorità regionali. Comunque, contrariamente al principio di sussidiarietà, come
i casi-studio della Spagna suggeriscono, le strutture governative centralizzate a
livello regionale costituiscono un freno alle opportunità di sviluppo che i programmi dell’U.E. offrono al livello municipale. La relazione di dipendenza dal
livello regionale vista nel caso-studio della Grecia offre ulteriori argomenti a questa tesi.
Conclusioni
Il lancio di iniziative di messa in rete di autorità locali da parte dell’U.E. sembra
riorientare le politiche di sviluppo economico locale. L’effetto di questo cambiamento è stato la creazione di nuove sinergie, tra autorità locali appartenenti a
Stati diversi, che favoriscono processi di ristrutturazione industriale e facilitano
la realizzazione di uno spazio economico Europeo competitivo. Il cambio di
accento piazza le autorità locali all’interno di strutture strategiche di partenaria-
87
n.4 / 2002
to e rispecchia i caratteri del rinnovamento urbano verificatosi nel Nord Europa
fin dagli anni ‘80, basato su accordi di tipo neo-corporativo con una leadership
locale orientata verso interessi imprenditoriali. Inoltre, problemi derivanti da
un’inadeguata concettualizzazione del “lavoro di rete” vengono fuori piuttosto
rapidamente dagli aspetti più pratici, connessi all’implementazione dei programmi. L’impatto sfavorevole della diversità di organizzazione dei contesti locali Europei, a livello istituzionale e non, sulle reti dell’U.E. è stata riconosciuta sia
da documenti dell’U.E. che da studi da questa finanziati. Tra gli aspetti specifici
che sono riportati nella letteratura pertinente, emergono la disuguaglianza delle
condizioni di partenza, sul piano amministrativo e finanziario, delle autorità locali che cercano di partecipare alle reti dell’U.E., con la relativa conseguenza di una
diversa capacità di organizzazione di strutture diffuse di governance per l’implementazione dei progetti (Wegener and Kunzmann 1996; CEC 1996, 23; CEC
1995). Ostacoli di questo tipo alla cooperazione sono stati osservati anche negli
studi di caso presentati in questo saggio. L’individuazione dei fattori che sono di
impedimento alla piena efficacia delle reti dell’U.E. rappresenta un buon passo
verso la comprensione della complessità della costruzione di un quadro di riferimento per una politica locale di carattere transnazionale. Ancor più, a questo
punto, si rende importante fornire uno spaccato delle ragioni sottese alla diversa capacità dimostrata, da parte delle autorità locali, di azioni cooperative. Le
autorità locali dei paesi del Sud Europa mostrano un notevole ritardo nel dotarsi di quei requisiti finanziari e amministrativi che sono necessari per partecipare
a questi programmi e trarre da essi beneficio. Inoltre, mostrano di avere infrastrutture politiche e sociali differenti da quelle supposte dai programi dell’U.E. e
presentano dei limiti significativi nell’approntare forme di governance aperte
verso il mondo imprenditoriale. Il coinvolgimento di autorità locali in una rete è
un processo dinamico e di apprendimento; in quanto tale, è stato ritenuto come
un modello di intervento sul territorio da parte dell’U.E. più adeguato che il trasferimento ad hoc di risorse per progetti (Hadjimichalis 1994). Come ampiamente riportato nella letteratura rilevante del settore, comunque, e come si è cercato
di dimostrare con i casi-studio riportati in questo saggio, il contributo più positivo
delle reti dell’U.E. ai paesi del Sud Europa è una sorta di “stimolo” per le riforme
istituzionali, mentre non si tratta tanto di un’opportunità per le città di avere un
ruolo nella ridefinizione dello spazio economico Europeo (Opello JR 1993; Syrett
1995; Silva et al. 1997). La rilevanza di quest’argomento ai fini delle strategie di
coesione dell’U.E. è di particolare importanza, data anche la prossimità con l’aumentato fuoco verso il locale delle politiche relative alla programmazione 20002006. Un altro aspetto importante per la discussione è la connessione che vi è
con le politiche che devono servire ad accompagnare l’allargamento dell’U.E. ai
paesi dell’Est, le cui caratteristiche di urbanizzazione e di contesto socio-economico, a livello delle realtà locali, costituiranno una nuova sfida alla politica spaziale dell’U.E. L’efficacia dell’intervento a scala locale dell’U.E. dipende dall’assimilamento nel quadro di riferimento politico delle eterogeneità fondamentali
delle forme di governance locale esistenti in Europa. La dimensione delle differenze tra Sud e Nord Europa relativamente alle forme di governance locali, per
come risulta in questo saggio, può suggerire possibili strade per approcciare e
analizzare tale eterogeneità.
88
Ioannis Chorianopoulos
I programmi RECITE dell’U.E.
Cities1
gaining population
(% of total)
Figura 1: Differenze di urbanizzazione nel Nord e Sud Europa
100
80
Northern
Europe
60
40
Southern
Europe
20
0
1951- 1961- 1971- 1975- 198161
71
75
81
91
Fonte: (Cheshire, 1995: 1051).
Note :
1) I dati includono tutte le regioni urbane Metropolitane con più di 300.000 ab.
2) Nord Europa: Germania Ovest, Olanda, Belgio, Lussemburgo, Danimarca e
Regno Unito.
3) Sud Europa: Spagna, Grecia, Portogallo, Italia Meridionale e Irlanda.
Figura 2: Spesa del governo comunale in percentuale del GD
30
25
20
15
GDP
10
Greece
Portugal
Spain
IRL
Belgium
France
Italy
Germany
Luxemb.
UK
Austria
Netherl.
Finland
Denmark
0
Sweden
5
Fonte: (Council of Europe, 1997
89
n.4 / 2002
Figura 3: la rete di EUROSYNET
Temi: commercio transfrontaliero per Piccola e media Impresa; Turismo urbano;
proteste per inquinamento del suolo
Organizzazione della rete: I partner sono stati messi insieme da un’agenzia di consulenza di Warrington, che ha organizzato e inviato la proposta all’Ufficio di RECITE
Warrington
Borough
Council (UK)
SMEs
Cork County
Council (IRL)
Bayes and
Bergueda (E)
Project Leader:
(responsabile della
ricezione e collocazione
dei fondi dell’U.E.)
(due autorità locali
Catalane coinvolte come
un solo partecipante)
SMEs
SMEs
Figure 4: SCIENTIFIC CENTRES NETWORK
Temi: Cooperazione tra Autorità locali e Università con lo scopo di individuare le
Piccole Medie Imprese (SMEs) interessate in applicazioni industriali di reti di High
Performance Computing (telematica)
Organizzazione della rete: Una prima cooperazione di successo tra Midi-Pyrenees e
l’autorità regionale di Valencia (Generalitat) ha condotto alla sottomissione di questo
progetto RECITE
EU RECITE Office
Valencia
Generalitat (E)
Midi-Pyrenees (FR)
Project Leader
Research Institutes
University Jaume 1;
Univ. Of Valencia;
Univ; of Alicante
Research Institute:
CERFACS
SMEs
SMEs
90
.
City of Dafni
(GR)
Research Institutes
National Technical
University of Athens;
SMEs
Ioannis Chorianopoulos
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Ioannis Chorianopoulos (Ph.D) insegna alla London School of Economics presso il Department of Geografy and Environment.
[email protected]
94
Andrea Mariotto
Dall’Europa alle città e ritorno.
Organizzazioni, approcci e strumenti in atto nell’implementazione di un’iniziativa comunitaria
Il faro
Premessa
L’articolo assume l’iniziativa comunitaria Urban, in via di attuazione nel contesto
italiano, per una verifica di quelli che sono descritti dalla recente letteratura politologica come i caratteri salienti del processo di europeizzazione delle politiche
pubbliche. Il caso delle politiche urbane è certamente anomalo rispetto al complesso delle politiche promosse dall’Unione Europea, in quanto rappresenta
chiaramente uno spazio d’azione che l’attore sovranazionale si è creato, seppure in via sperimentale, forzando in una certa misura il ruolo ad esso ‘richiesto’
dai livelli amministrativi sottostanti. A fronte di altri settori, si pensi ad esempio
alla politica monetaria o a quella agricola, quello delle politiche urbane può essere considerato marginale, sia per le risorse messe in gioco sia per la diffusione
degli effetti percepiti. Tuttavia, l’impostazione europea delle politiche in questo
settore sembra fornire un impulso non indifferente ad un processo già in atto di
innovazione, o quantomeno di ridefinizione, di approcci e ruoli nel policy
making nazionale. L’influenza dell’Europa in questo campo può quindi essere
intesa più per gli aspetti ‘culturali’, che non per quelli ‘sostantivi’, ma il successo
riconosciuto da parte degli attori nazionali e subnazionali alle prime esperienze
– condotte secondo i principi di quello che via via ha preso la forma di un vero
e proprio ‘modello’ – indica anche l’opportunità di rilevare come elementi qualificanti dell’europeizzazione la trasmissione e l’acquisizione di metodi analitici e
valutativi, modi operativi e stili organizzativi. Il campo delle politiche urbane
tende quindi a dimostrare non tanto la pervasività dell’europeizzazione, estesa
del resto ben oltre la produzione di politiche pubbliche, quanto piuttosto la funzione dell’europeizzazione nel promuovere processi transnazionali di apprendimento tra policy makers. Oltre ai meccanismi attraverso i quali le strutture comunitarie effettivamente innescano o, più spesso, catalizzano e legittimano tali processi, l’articolo si interessa anche delle possibilità che l’apprendimento
(inter)organizzativo assuma la forma di un circolo virtuoso in grado di coinvolgere tutti i livelli amministrativi, riproducendo così le stesse risorse cognitive su
cui è basato. Il ‘ritorno’ nominato nel titolo è infatti da intendersi per le potenzialità dell’europeizzazione nella costruzione di un dialogo permanente tra
95
n.4 / 2002
1
Il presente lavoro
costituisce uno dei
prodotti della ricerca
"Europa delle città" o
"Europa delle regioni"?
Trasformazioni istituzionali e politiche territoriali, finanziata allo
scrivente, in qualità di
assegnista di ricerca,
dal Dipartimento di
Pianificazione
dell’Istituto
Universitario di
Architettura di
Venezia (Dp-Iuav).
Delle tre iniziative
comunitarie Urban,
Leader e Interreg considerate come campo
di analisi empirica
della ricerca è qui
trattata soltanto la
prima.
Colgo l’occasione per
ringraziare il
Dottorato in
Pianificazione
Territoriale e Politiche
Pubbliche del
Territorio (Dp-Iuav) e,
in particolare il
responsabile prof. P. L.
Crosta, per avermi
dato la possibilità di
discutere una prima
versione di questo
testo in un seminario
ad esso dedicato.
96
diverse competenze e tra diversi livelli impegnati nella produzione di politiche
urbane. Per ora, come vedremo, il dialogo risulta del tutto occasionale, soprattutto per l’inadeguatezza delle strutture organizzative di livello locale, laddove
alcune caratteristiche delle forme organizzative tipiche del livello comunitario e,
in particolare della Commissione Europea, lasciano invece intravedere delle disponibilità in questo senso, ancorché riposte in una strategia mirata al progressivo incremento della propria legittimazione istituzionale. L’efficacia propositiva e
comunicativa delle strutture comunitarie è inoltre migliorata da un interesse
esplicito per la creazione e lo sviluppo di relazioni entro un’ampia rete di soggetti e, in particolare, con la componente ‘esperta’, il contributo della quale risulta evidente soprattutto nei contenuti immessi in fase di formulazione delle politiche. E proprio nel fertile rapporto instaurato con le comunità epistemiche
sembra si possa individuare sia il valore culturale aggiunto dall’Unione Europea
nella costruzione delle politiche pubbliche, sia la principale sfida per chi nel
mondo della ricerca si interessa di analisi, valutazione, o progettazione di politiche pubbliche. L’indagine sulle iniziative comunitarie, infatti, non può non svelare l’avvenuta assimilazione di linguaggi e contributi prescrittivi tipici degli studi
di policy e dell’implementation research relativamente ai temi dell’efficienza e
dell’efficacia delle politiche stesse. Nel modo in cui le politiche europee sono
formulate ed attuate – ma si potrebbe anche aggiungere monitorate e valutate –
si ha pertanto la sensazione che siano superate o che, quantomeno, debbano
risultare manifeste, alcune carenze degli assetti burocratici e amministrativi tradizionali, soprattutto per quanto concerne la capacità di riconoscere, attivare ed
impiegare con le politiche pubbliche le risorse diffuse tra individui ed organizzazioni sociali. Nell’ipotesi che le iniziative comunitarie costituiscano il motore di
avviamento del circolo virtuoso di apprendimento sopra accennato è probabile
che le capacità messe in gioco dall’attore sovranazionale si riverberino sugli altri
livelli territoriali di governo, nonché su tutte le forme di coordinamento sociale
comprese dalle varie accezioni del concetto di governance. Affinché i contributi
esperti compresi sotto l’etichetta della policy analysis possano esprimere il proprio valore interpretativo, è allora necessario che essi riguadagnino un distanziamento critico rispetto al ‘farsi delle politiche’, dotandosi di un impianto concettuale che risulti adeguato sia per l’attinenza con i fenomeni posti all’osservazione, sia per la capacità di avanzare ipotesi su possibili future configurazioni di
arene e reti1.
L’europeizzazione di policies, politics e polity
(cosa ‘fa’ l’Europa?)
Partiamo da alcune definizioni fornite recentemente dalle scienze politiche che
ci permettono di avvicinare e circoscrivere gli aspetti del policy making considerati in questo scritto. L’europeizzazione può essere vista come "un processo
incrementale che ri-orienta e dà forma alla politica al punto che le dinamiche
politiche ed economiche della comunità europea divengono parte della logica
organizzativa della politica e del policy-making nazionale", dove per logica organizzativa si intenda "il processo adattivo delle organizzazioni verso un ambiente
mutato o mutevole" [Ladrech, cit. in Radaelli 2000, 3, e in Börzel e Risse 2000, 2].
In questa definizione, adattamento, apprendimento e mutamento delle politiche,
Andrea Mariotto
Dall’Europa alle città e ritorno.
sono considerate attività che investono tipicamente i soggetti collettivi partecipi
ad un processo di policy making. Se vogliamo cogliere il ruolo degli individui, di
cui le organizzazioni sono composte, quali soggetti investiti dal, e attori del, processo di europeizzazione, dovremo articolare la definizione pensando all’europeizzazione come concetto comprensivo di "processi di a) costruzione, b) diffusione e c) istituzionalizzazione di regole formali e informali, procedure, paradigmi, stili, ‘modi di fare cose’, credenze condivise, e norme che sono dapprima
definite e consolidate nel decision making comunitario e quindi incorporate
nella logica dei linguaggi locali (domestic discourse), nei processi identitari,
nelle strutture politiche e nelle politiche pubbliche" [Radaelli 2000]. Che si guardi a ‘ciò che l’Europa fa’ prendendo a riferimento le sole organizzazioni ovvero
anche gli individui, permane comunque il senso di una certa ‘superiorità’ delle
strutture comunitarie nel costituirsi come soggetti iniziatori di processi di apprendimento – via emulazione, in prima approssimazione – dei livelli decisionali inferiori. È questo un tema sul quale si tornerà in seguito descrivendo alcune qualità,
attribuibili al soggetto sovranazionale, che sembrano costituire un modello e pervadere le logiche organizzative dei livelli decisionali inferiori.
Nei primi paragrafi si tenterà invece di avanzare qualche ipotesi interrogandoci
su ‘come’ e, soprattutto, ‘perché’ i livelli nazionali e subnazionali si trovano ad
incorporare nelle proprie attività ciò che caratterizza il decision making
dell’Unione Europea. Prenderemo dunque in considerazione a) i tentativi della
scienza politica di isolare o relativizzare il peso esercitato dal policy making
europeo, rispetto alle tendenze più generali riconoscibili all’interno dei diversi
Stati sotto forma di decentramento e innovazione dei modelli amministrativi e
dei rapporti interorganizzativi; e b) i modelli d’interazione (‘mechanisms of
europeanization’), cui possiamo affidare il compito di diffondere princìpi e logiche entro un panorama internazionale determinando mutuo apprendimento ed
esiti convergenti2 nella costruzione processuale (e, quindi, mai del tutto intenzionale) di politics, policies, e polity ai livelli nazionale e subnazionale.
L’esplorazione del tema “europeizzazione e governance” verterà essenzialmente
su tre approcci che mettono in evidenza diversi aspetti del processo di europeizzazione: quello intergovernativo liberale, quello della governance multilivello e quello dei policy networks. Successivamente, nei paragrafi su “europeizzazione e apprendimento organizzativo” ci concentreremo sui contributi dell’istituzionalismo sociologico e della psico-sociologia delle organizzazioni alla
comprensione dei processi di apprendimento collettivo, riflettendo infine su
alcune ‘qualità’ delle istituzioni europee, quali fattori di efficacia nella strutturazione dei rapporti intra e inter-organizzativi.
Europeizzazione e governance
Un primo elemento di pervasività dell’Europa nelle politiche è rappresentato dal
fatto che, in alcuni settori di politiche, l’agricoltura in primis, più dell’80% delle
decisioni rilevanti sono compiute a livello comunitario [Börzel e Risse 2000, 3].
L’implementazione di tali politiche comporta, ovviamente, mutamenti sostanziali
negli stili, negli approcci, negli strumenti di policy tradizionalmente utilizzati nei
diversi contesti territoriali, oltre che nelle varie strutture organizzative (pubbliche
2
Va precisato che gli
esiti convergenti sono
riconoscibili più sul
piano dell’institution
building e, più in
generale, su quello dei
mutamenti dei rapporti inter-organizzativi, che non sul piano
dei conseguenti policy
outcomes. Su quest’ultimo piano infatti,
l’europeizzazione può
anche produrre divergenze (vedi ad esempio le resistenze a
direttive europee di
settore quali quelle
emanate nel campo
dei trasporti); non
costituisce necessariamente ‘armonizzazione’ ma, ad esempio,
può produrre maggiore competizione; né è
assimilabile al concetto di integrazione,
riferito ad un processo
di trasferimento della
sovranità in determinati settori, dagli Stati
alle istituzioni sovranazionali, senza il
quale l’europeizzazione (ciò che accade
una volta ammesse le
istituzioni europee)
non avrebbe modo di
esplicarsi. Per una
disamina più approfondita del concetto di
europeizzazione,
anche giocata in termini di sottrazione
rispetto ad altri concetti, si veda Radaelli
(2000).
97
n.4 / 2002
amministrazioni, stakeholders, reti di soggetti più o meno formali, ecc.). Mutano
di conseguenza anche le istituzioni nel senso più ampio del termine, le strutture e
i processi di formazione, aggregazione, rappresentazione degli interessi, i modelli
di intermediazione degli interessi, le relazioni intergovernative, ecc. "Che il focus
sia posto su policies, politics o polity la generale locuzione per cui l’europeizzazione influenza gli Stati membri non è controversa. […] si assiste inoltre all’emergenza di un consenso emergente sul fatto che l’impatto dell’europeizzazione sia da
assumersi come differenziale" [Börzel e Risse 2000] in ragione delle risposte fornite sia dai singoli stati che dai diversi settori di politiche. C’è quindi ampia convergenza sull’ipotesi che l’europeizzazione conti, nel processo di strutturazione
dei rapporti di governance già in atto in diversi paesi e in diversi settori di policy,
nella misura in cui il processo stesso diviene più visibile e, al contempo, più complesso. Su questa linea va comunque precisata una differenza di prospettiva, a
seconda che si attribuisca più o meno valore alle modalità in cui l’Unione Europea
ha preso e sta prendendo forma, e a seconda che si faccia o meno discendere dal
processo di formazione dell’Unione Europea una nuova distribuzione di ruoli,
competenze, poteri tra soggetti non solo governativi. Si tratta, in altre parole, di
discernere (e non di scegliere, in quanto come vedremo, trattasi di processi e percorsi analitici complementari) tra un interesse per la strutturazione formale dei
rapporti tra attori pubblici nel corso di processi di policy making (teoria intergovernativa), ed un interesse per un fenomeno più comprensivo di governo dei processi di trasformazione sociale non strettamente correlati a manifestazioni di autorità, gerarchia, e sanzioni da parte di attori governativi (governance multilivello e
policy network). Ambedue i percorsi, come vedremo, assumono rilevanza nei
modi in cui si innescano i meccanismi di europeizzazione delle politiche, ma il passaggio da uno all’altro segna anche una sorta di successione evolutiva delle strutture organizzative verso forme e relazioni via via più efficaci rispetto all’avanzamento delle politiche pubbliche.
Relazioni inter-governative
La posizione incentrata sull’essenza intergovernativa dell’integrazione europea è
espressa negli studi compresi dalle etichette di neofunzionalismo e di teoria
inter-governativa liberale. Questi studi non dicono un granché sulla dinamica
delle politiche pubbliche [Radaelli 1998] e, ponendo al centro dell’attenzione il
livello decisionale nazionale, per di più in forma di sistema razional-sinottico,
offrono al meglio un’immagine parziale di come opera l’Unione Europea. Essi tuttavia sono da considerare in quanto mettono in luce una componente rilevante
dell’europeizzazione: il fatto che gli stati nazionali siano tra i fautori della governance europea, in quanto protagonisti dell’entrata in scena dell’attore sovranazionale, e del conseguente sistema multilivello che si è venuto a creare.
Moravcsik, principale esponente della corrente inter-governativa liberale, osserva
che l’integrazione europea ha rafforzato il livello nazionale, in quanto "i governi
nazionali sono in grado, con relativamente pochi vincoli, di intraprendere iniziative e stipulare accordi nelle negoziazioni a livello di Consiglio Europeo. L’Unione
Europea fornisce ai governi informazione che non è solitamente disponibile […]
I leader nazionali indeboliscono le potenziali opposizioni, prima stipulando accordi a Bruxelles, e poi mettendo i gruppi interni di fronte a scelte ormai compiute.
98
Andrea Mariotto
Dall’Europa alle città e ritorno.
[…] Un maggiore potere di definizione dell’agenda interna nelle mani dei leader
politici nazionali aumenta la capacità dei governi di stipulare accordi, rafforzando
così anche la loro capacità di ottenere la ratifica interna di compromessi raggiunti e di tattiche connessioni tra questioni" [cit. in Jordan 2001]. In accordo con
quanto citato, si può dire, che la presenza di una leadership statale – governativa o, piuttosto, personalistica – in grado di guidare le decisioni di maggior peso
e di influenzare il trattamento di questioni politiche, sembra in effetti valere se
guardiamo all’europeizzazione come processo innescato e determinato in una
certa misura da grandi scelte di politica internazionale. Nell’economia di questo
lavoro, il valore della teoria sopra citata è da limitarsi al progressivo aumento
della consistenza istituzionale dell’Europa, nel momento in cui è assunta come
contesto negoziale ‘alto’ ed esclusivo, e perciò di per sé legittimante, ovvero con
dichiarato scetticismo è ricondotta entro le dinamiche più tradizionali delle
forme democratiche e partitiche di rappresentanza. Manterremo pertanto l’idea
che la dimensione intergovernativa conti, almeno nel discorso politico, ma ci
sposteremo gradualmente verso approcci più aperti e comprensivi, passando
per alcune definizioni di governance che includono anche un interesse per i tradizionali rapporti di government.
Governance multi-livello
Nel campo delle politiche, la leadership governativa se può essere riconosciuta
(e fatta valere) come capacità di gate-keeping, si associa necessariamente alla
partecipazione di più attori – la cui importanza per l’avanzamento delle politiche
supera spesso quella della parte governativa – ed alla (conseguente) produzione
di esiti inintenzionali. Il punto cruciale dal punto di vista della strutturazione dei
rapporti tra le organizzazioni coinvolte nelle politiche europee è nella produzione di meccanismi di governo che non si appoggiano sul ricorso all’autorità e alle
sanzioni governative. Al fine di comprendere come l’europeizzazione influisce
nella produzione delle politiche pubbliche si rende perciò necessaria l’apertura
del campo d’analisi offerta dal concetto di governance, come "fenomeno più
comprensivo di quanto rappresentato dal concetto di government. In quanto
racchiude in sé le istituzioni governative, ma assume anche i meccanismi informali e non-governativi a mezzo dei quali persone ed organizzazioni soddisfano i
propri bisogni ed appagano i propri desideri" [Rosenau, cit. in Jordan 2001].
La prospettiva di governance comporta la comprensione di come si articolano
differenti tipi di regolazione in un territorio, sia in termini di integrazione politica e sociale, sia in termini di capacità d’azione3. Proprio in considerazione del
mix tra relazioni governative e non, riconoscibile nel campo europeo delle politiche, Hooghe e Marks [2001] propongono di individuare nella governance europea una forma di multi level governance. Il limite di questa teoria sta nel mantenere viva una separazione tra organi statuali e organizzazioni sociali, mentre il
suo valore sta proprio nell’indicare la necessità di vestire occhiali adeguati per
cogliere dinamiche ed interazioni tra diversi livelli e diverse sfere. Il quadro
complessivo è inoltre caratterizzato dalla presenza di attori non governativi e dall’assenza di un sistema gerarchico nella strutturazione dei rapporti tra gli stessi.
Il campo europeo permette di cogliere l’intersezione tra due modelli di governance multilivello sviluppati dalla teoria politilogica e in particolare dagli studi
3
La governance come
approccio analitico è
così definita da Jessop:
"il campo degli studi
sulla governance si
potrebbe generalmente
definire come interessato alla soluzione di problemi para-politici (nel
senso di problemi di
costruzione collettiva di
obiettivi o di realizzazione di intenti collettivi) in e tra specifiche
configurazioni di istituzioni, organizzazioni e
pratiche governative
(gerarchiche) e extragovernative (non gerarchiche)" [cit. in Le Gales
1998 243].
99
n.4 / 2002
4
Il punto di partenza
per l’approccio della
governance multilivello
è l’esistenza di sovrapposizioni tra competenze di molti livelli di
governo e l’interazione
tra attori appartenenti
ad ognuno di questi
livelli. La governance
multi-livello assicura
più efficienza del, ed è
normativamente superiore al, controllo
monopolizzato da un
centro, in quanto è in
grado di internalizzare
le esternalità, prodotte
dalle politiche pubbliche a più livelli, da
quello globale a quello
locale. Altri benefici
sono nella capacità di
meglio riflettere l’eterogeneità delle preferenze
tra i cittadini, nella
maggiore credibilità
degli impegni politici
assunti, nella messa in
competizione di diverse
giurisdizioni, e nella
facilitazione di processi
innovativi e sperimentali [Hooghe e Marks
2001].
5
Va comunque precisato che, a differenza
di altri approcci della
stessa famiglia (teoria
intergovernativa liberale e neofunzionalismo) quello di governance multi livello
conclude che l’europeizzazione non favorisce un particolare
gruppo ma aumenta
piuttosto l’interdipendenza tra gli attori
generando forme più
cooperative di governance.
100
sul federalismo. Il primo di tali modelli è tipicamente interessato alla dispersione di autorità nelle relazioni istituzionali tra organi di governo centrali e decentrati; il secondo è più orientato a descrivere il complesso e fluido patchwork di
attori collettivi, istituzionali e non, che si mobilitano in una data politica. Per
quanto concerne il primo modello, l’influenza dell’europeizzazione è da individuarsi sostanzialmente nel riallocamento di poteri conseguente al simultaneo
potenziamento delle istituzioni subnazionali e sovranazionali ed allo sviluppo di
relazioni dirette tra le stesse. La dispersione dell’autorità in questo senso si manifesta nei processi di regionalizzazione, caratterizzanti in vario modo la storia politica recente di tutti i paesi europei e, in particolare, quella di Francia, Italia,
Spagna e Belgio. Nel secondo tipo di governance la dispersione giurisdizionale è
pressoché infinita: basti pensare ai labili confini esistenti nel rapporto tra pubblico e privato e tra nazionale e transnazionale. Anche in questo caso, tuttavia,
una spinta notevole verso una riconfigurazione complessiva delle categorie classiche di appartenenza, sembra derivare dalle politiche europee.In ambedue i
modelli dispersione di autorità, estemporaneità delle configurazioni, variabilità
delle geometrie, rimandano alla questione dei maggiori costi di coordinamento
rispetto ad assetti di governo più gerarchici. Tali costi sono tuttavia limitati nel
primo caso attraverso il mantenimento di un basso numero di attori istituzionali e di quella che Scharpf chiama un’"ombra di gerarchia" tra gli stessi4. Mentre
nel secondo tipo di governance il problema è bypassato attraverso la compartimentalizzazione: ogni gruppo di attori è solamente responsabile di una politica
o di un settore di politiche. Il risultato di questa differenziazione è quindi composto da un numero elevato di strutture del secondo tipo differenziate funzionalmente, relativamente autocontenute verso i propri obiettivi (così da non
imporre maggiori esternalità ad altre), a fianco di un numero più limitato di istituzioni multi-settoriali.La permanenza di tale bipartizione è garantita dal fatto
che le strutture più policy oriented costituiscono una risposta ai costi del mutamento istituzionale che le giurisdizioni del primo tipo non possono sopportare,
in quanto spesso radicate a livello costituzionale. Nel caso si proceda ad una
riforma, per esempio, risulterà più semplice riallocare le competenze tra giurisdizioni esistenti piuttosto che creare nuovi centri di governo. Ad aumentare la
stabilità di tali giurisdizioni è infine il significato che viene loro attribuito dai cittadini. Un significato che spesso è principio identitario e che non è attribuibile
alle strutture del secondo tipo: l’identità esprime un intrinseco senso di appartenenza ad un particolare gruppo piuttosto che una preferenza verso un set di
politiche. Per quanto logicamente corretto, suggestivo e ricco di spunti esplicativi anche l’approccio di governance multilivello ricade nella famiglia degli
approcci basati sulla ‘dipendenza dalle risorse’, poco inclini a considerare i processi di interazione sociale che ‘si danno’ anche al di là dell’esistenza di fini predefiniti5 .
Policy networks
La letteratura sui policy networks costituisce un ulteriore passo verso il superamento degli approcci razional-efficientisti ai rapporti interorganizzativi: da un
lato essa permette di cogliere pienamente la natura dell’interazione tra i ‘due tipi
di governance’ sopra richiamati, abbracciando in modo più deciso la scomparsa
Andrea Mariotto
Dall’Europa alle città e ritorno.
di confini tra gli stessi; dall’altro lato essa fa emergere il ruolo dell’attore individuale nei processi di strutturazione dei rapporti interorganizzativi6. "Un policy
network comprende tutti gli attori coinvolti nella formulazione e realizzazione di
una politica in uno specifico settore di intervento. È caratterizzato da interazioni
preminentemente informali tra attori pubblici e privati con interessi distinti,
ma interdipendenti, che cercano di risolvere problemi di azione collettiva ad un
livello centrale non gerarchico." [Börzel 1998, 402]. L’esistenza dei policy networks è spiegata come risposta all’impossibilità del coordinamento gerarchico,
laddove il campo di interazione scavalchi i confini posti tra settori, organizzazioni, o nazioni. L’auto-coordinamento orizzontale tra attori funge quindi da equivalente della gerarchia [Scharpf 1998].
Contrariamente alle gerarchie ed ai mercati, i policy network non hanno necessariamente conseguenze disfunzionali7 . Combinando l’autonomia degli attori
tipica del mercato con l’abilità delle gerarchie di perseguire specifici obiettivi i
policy networks sono in grado di produrre esiti collettivi nonostante gli interessi divergenti dei loro membri attraverso il negoziato volontario; e possono creare ulteriori connessioni informali tra arene decisionali intra e inter-organizzative.
Tali connessioni informali basate su comunicazione e fiducia reciproca, si
sovrappongono alle strutture istituzionalizzate di coordinamento e collegano differenti organizzazioni indipendentemente dalle relazioni formali esistenti tra
loro. Così facendo i network permettono di superare il dilemma strutturale della
contrattazione (cd. dilemma del prigioniero) in quanto essi forniscono possibilità ridondanti per l’interazione e la comunicazione che possono essere utilizzate
dagli attori per la soluzione dei problemi incontrati nel corso del processo decisionale [Börzel 1997].
Come affermato da Scharpf, "si può sostenere che oggi sia gli organismi decisionali di tipo centralizzato-unitario sia quelli decentrati e frammentati sono diventati meno capaci di fronteggiare diversi e complessi interessi, e di individuare
problemi e soluzioni in società che sono nello stesso tempo più differenziate e
più interdipendenti che nel passato. Reti di comunicazioni e interazione meno
strutturate, più flessibili e informali possono avere un ruolo da giocare nell’elaborazione di soluzioni efficaci ai problemi politici caratteristici del presente.
Inoltre, è plausibile sostenere anche che con il concetto di policy network non
si intenda descrivere strutture decisionali istituzionalizzate ma piuttosto modelli
informali di interazione che precedono o accompagnano decisioni formali
assunte dai parlamenti tramite la regola della maggioranza, o da accordi negoziati
tra i governi, o attraverso altre modalità di interazione formalmente legittimate"
[Scharpf 1999, 26-27]. Il fatto che tali modelli informali di interazione non agiscano direttamente nella ‘fase decisionale’ delle politiche, costituisce il vero
punto di forza dei policy network in quanto non mirano ad un prodotto
(pre)determinato del policy making ma piuttosto forniscono una soluzione ai
problemi di azione collettiva, consentendo azioni non strategiche, fondate sulla
comunicazione e sulla fiducia reciproca8. I policy networks hanno trovato varie
applicazioni nello studio della governance europea, a seconda che siano utilizzati come strumenti analitici ovvero come approccio teorico. Un’applicazione
del concetto come strumento analitico che appare interessante per la discussione qui proposta è quella che coglie nei policy networks la principale sfida al
6
Sotto la denominazione di policy networks
sono comprese sottocategorie quali subgovernments, iron triangles, policy community, implementation
structures, e advocacy
coalitions. Per una
disamina dettagliata
delle differenze tra
questi e dei relativi
autori di riferimento si
veda Carlsson [2000].
7
Mentre i mercati sono
incapaci di controllare la produzione di
esternalità negative
(problemi di fallimento del mercato), le
gerarchie producono
‘perdenti’, che devono
sopportare i costi di
una decisione politica.
8
Comunque – fa notare
Tanja Börzel – i network non costituiscono
la soluzione finale ai
problemi di decision
making nei sistemi
negoziali. A causa delle
dinamiche che li caratterizzano, i network
divengono molto spesso
arene ‘quasi istituzionali’ con proprie strutture, conflitti, e problemi di coordinamento.
Essi divengono inoltre
resistenti al cambiamento e, non essendo
sottoposti a controllo
democratico si presentano spesso con un deficit di legittimità. Da
una parte quindi mettono in campo funzioni
necessarie al superamento delle inefficienze
del sistema negoziale,
mentre d’altra parte
essi non possono sostituire pienamente le isti
101
n.4 / 2002
tuzioni formali a causa
delle proprie inefficienze [Börzel 1997, 6].
ruolo di gatekeeper dei governi nazionali, ruolo sul quale la scuola interorganizzativa appoggia le ipotesi per cui il processo di integrazione europea finisca col
‘rafforzare’ lo Stato.
I policy network, infatti, collegando la Commissione Europea agli attori subnazionali (regionali o locali), possono bypassare il livello nazionale, conferendo agli
attori subnazionali un accesso diretto e indipendente all’arena europea di definizione delle politiche e assicurando alle istituzioni comunitarie la possibilità di
costruire coalizioni contro i governi nazionali [Börzel 1997; 1998, 414].
L’applicazione dei policy network come approccio teorico allo studio dell’europeizzazione dello Stato nazionale, considera invece i margini di trasformazione
del ruolo dello Stato in tale processo (e tralascia perciò lo sterile dibattito su
potenziamento vs. indebolimento dello stato), a partire dall’assunto che lo stato
si sta progressivamente trasformando da attore ad arena.
Europeizzazione e apprendimento organizzativo
9
"Nei primi anni ’60 un
libro fondamentale di
Alfred D. Chandler,
Strategia e struttura,
codificò sulla base di
una vastissima ricerca
sulle imprese industriali
americane quello che
poi è diventato una
sorta di postulato: non
c’è serio cambiamento
di strategia senza cambiamento della corrispondente struttura
organizzativa. Almeno
a partire da allora ha
cominciato ad entrare
nel senso comune l’idea
che il cambiamento
delle strutture organizzative esistenti, o la
creazione di nuove
strutture, sono indicatori fondamentali del
grado di serietà delle
strategie" [Pichierri
2001, 257].
102
L’europeizzazione delle politiche pubbliche può assumere diverse forme, in
quanto si tratta di un fenomeno che va a toccare tutti gli elementi che intervengono nei processi di policy (attori, risorse, strumenti, modelli, stili, ecc.).
Qui ci interessa esplorare la letteratura che coglie ‘esiti di apprendimento’ nei
mutamenti delle strutture organizzative innescati dall’esistenza di un livello
comunitario di policy making9.
L’ipotesi è che si possa avere un’idea dell’apprendimento organizzativo osservando i mutamenti intercorsi in un dato processo nelle caratteristiche dell’organizzazione, quali: forma, livello di istituzionalizzazione, livello di apertura, numero di membri, modalità di accesso, ma soprattutto senso condiviso attribuito
all’organizzazione dai propri membri, capacità riflessiva, problem setting, riconoscimento delle, e apertura alle, necessità e potenzialità di mutamento
[Mariotto 1997]. La prospettiva che appare più adatta al fine di cogliere il ‘valore
aggiunto’ recato dalla presenza di un livello sovranazionale è di tipo ‘top-down’,
in quanto considera le dinamiche e gli esiti del processo di istituzionalizzazione
delle strutture comunitarie come variabili indipendenti rispetto ai processi di
decentramento o, comunque, di mutamento delle relazioni intergovernative. In
tale prospettiva possiamo riconoscere due logiche di mutamento dei contesti di
policy: la logica dell’istituzionalimo razionale, che vede l’europeizzazione sostanzialmente come processo di ridistribuzione di risorse; e l’istituzionalismo sociologico che enfatizza la ‘logica dell’appropriatezza’ [March e Olsen 1992, 232].
La prima fa seguire il mutamento organizzativo ad un puro calcolo di costi e
benefici, cosicché l’europeizzazione può essere assunta come un’opportunità
emergente che offre risorse addizionali ad alcuni attori a danno di altri. La
seconda vede l’europeizzazione come processo in cui emerge una nuova serie di
regole, norme, pratiche e significati, verso la quale gli attori nazionali si sentono
esposti (‘inappropriati’) o percepiscono la necessità di internalizzarla.
Propenderemo per quest’ultima ipotesi, che appare più fertile per la discussione
che segue in quanto postula l’esistenza di uno scarso livello di razionalità strumentale collettiva, e sembra in grado di comprendere il ruolo specifico dei membri di un’organizzazione nella strutturazione dei rapporti tra questa e l’ambiente
Andrea Mariotto
Dall’Europa alle città e ritorno.
da essa attivato10 .
Logica dell’appropriatezza
Alcune interessanti evidenze di carattere generale presentate da questa prospettiva si riferiscono alla varietà di ‘direzioni di cambiamento’, come risposte all’europeizzazione osservate nei contesti nazionali e subnazionali, e, soprattutto, alla
verifica di particolari ‘condizioni’ come princìpi generativi del cambiamento
[Radaelli 2000]. Su quest’ultimo punto è stato osservato che le politiche formulate a livello europeo esercitano delle pressioni verso i processi e le strutture di
livello locale se, e in quanto, esiste un gap (misfit) tra i relativi apparati normativi e cognitivi: quanto più basso è il livello di compatibilità tra processi ‘europei’
e processi (politiche e istituzioni) locali, tanto più alta è la pressione al cambiamento. I policy frames europei che riecheggiano idee e discorsi già in uso a livello locale difficilmente scatenano processi di apprendimento collettivo in grado
di mutare interessi ed identità degli attori [Börzel e Risse 2000]. La condizione
appena richiamata risulta meno banale se si pensa al fatto che, perché essa si dia,
è necessario che gli attori riconoscano i limiti della propria condizione, delle proprie conoscenze e dei propri poteri. Come accade quando si ‘trae una lezione’
da esperienze compiute altrove, diviene necessario che gli attori si sentano
insoddisfatti di quanto conoscono e di quanto producono attraverso le proprie
azioni o le proprie routine organizzative (il potere può infatti essere definito
come capacità di parlare piuttosto che di ascoltare e come capacità di impartire
piuttosto che di imparare) [Deutsch, cit. in Rose 1991]. Si attua in questo modo
un processo intra-organizzativo di ri-significazione del senso della propria azione11 .
Policy transfer, isomorfismo istituzionale, e diffusione delle
best practices
Per ‘trarre delle lezioni’ da altri paesi risulta necessaria la sovrapposizione di una
serie di altri fattori, così come indicato nella letteratura di politica comparata sul
policy transfer, laddove questa distingue tra trasferimento volontario o coercitivo; discrimina fra differenti oggetti di trasferimento (gli obiettivi, la struttura, gli
strumenti, le tecniche amministrative, le istituzioni, le idee, i concetti); considera vari gradi di trasferimento (imitazione, copia, emulazione, ibridazione, sintesi,
ispirazione); cerca luoghi da cui si dipartono le lezioni (il passato, i paesi limitrofi, i paesi leader). Ma, come fa notare Claudio Radaelli, perché questo quadro
concettuale possa essere esteso all’Unione Europea deve essere colmata la principale differenza esistente fra il trasferimento da governo a governo e trasferimento tra organi comunitari e organizzazioni appartenenti ai paesi membri: una
differenza in termini di legittimità. "Quando un governo decide di imitare, copiare e prendere ispirazione da un altro governo, il processo di trasferimento è
legittimato, almeno nelle poliarchie, da precise regole e procedure democratiche, a cominciare dalle elezioni che assegnano ai governanti il potere di decidere. Ma le istituzioni dell’Unione Europea non possiedono un simile grado di
legittimità" [Radaelli 1998, 207]. Tale legittimità deve essere attribuita ad esem-
10
La dicotomia tra
ambiente e organizzazione – caratteristica
delle “concezioni
dominanti” negli studi
organizzativi – è
superata da Weick
con l’osservazione che
l’ambiente “esiste” soltanto nella misura in
cui esso viene attivato
da parte dell’organizzazione e, visto che
l’organizzazione è
composta di unità
agenti, esso deve essere attivato attraverso
l’azione di qualcuna
di tali unità. I processi
di attivazione, secondo questo approccio,
sono veri e propri processi di costruzione
della realtà sulla
quale l’azione individuale od organizzativa può compiersi
[Weick 1979].
11
In tale attività l’organizzazione stessa
diviene un ‘sistema di
costruzione di senso’ o
un dispositivo che
incoraggia i propri
membri ad agire ed
interpretare reciprocamente le proprie
azioni [Weick, K.
1995: 82].
103
n.4 / 2002
12
Citando un saggio di
Offe sull’institution
design, Radaelli afferma inoltre che "c’è un
vantaggio politico nel
sostenere che si sta
copiando invece che
creando: il designer,
se percepito come tale,
sarà inevitabilmente
sospettato di tentare di
imporre i suoi particolari interessi o punti
di vista normativi
sulla comunità più
ampia, e solo quel
sospetto, per quanto
ingiustificato possa
essere in qualche caso,
può mettere in discussione il riconoscimento
e il rispetto per le
nuove istituzioni e prevenire così lo svolgersi
delle loro
funzioni socializzanti"[Radaelli 1998, 209].
13
Una comunità epistemica è una rete di
professionisti che non
solo hanno una competenza riconosciuta
in una politica pubblica, ma che anche
vedono pubblicamente
riconosciuta (per
esempio tramite la
consultazione sistematica) la loro pretesa a
fornire conoscenza
rilevante per le decisioni pubbliche.
[Radaelli 1998, 210,
nota]. Per una più
completa ricostruzione etimologica del termine, si veda anche
Brown [2000, nota n.
7].
104
pio dai paesi membri alla Commissione Europea come riconoscimento di una
capacità di leadership nello sviluppo di politiche pubbliche. Tuttavia, il riconoscimento della legittimità dell’Unione Europea e della sua capacità di trasferire
politiche ai livelli inferiori non vede gli stati membri nel ruolo di soggetti passivi,
né può essere fatto rientrare in un modello gerarchico-coercitivo, anche se il
livello di dipendenza funzionale tra gli stati nel mercato unico dà sicuramente
adito a scelte di policy in qualche modo obbligate. Per questo, sembra prevalere
l’idea dell’Unione Europea come soggetto in grado di innescare e catalizzare processi di ‘isomorfismo mimetico’ o ‘mimetismo’ tra organizzazioni attive ai livelli
inferiori. L’imitazione dei modelli d’azione tra organizzazioni non garantisce
assolutamente l’efficienza ma è efficace nel generare legittimità [Radaelli 1998,
209], soprattutto laddove si debba far fronte all’incertezza circa gli esiti (auspicati
o prodotti) delle proprie azioni. L’Unione Europea sembra quindi in grado di
fare dei processi di mimetismo già in corso, il principio condiviso delle proprie
politiche. Ma il mimetismo può divenire anche strategia politica di mascheramento12 . E in questo senso vanno considerati gli sforzi di disseminazione delle
best practices da parte, ad esempio, della Commissione Europea, in qualità di
imprenditore politico. Quanto affermato conduce ad una duplice riflessione: da
un lato vanno colti alcuni effetti apportati da tali processi nella strutturazione dei
rapporti tra gli attori dei livelli nazionale e subnazionale; dall’altro vanno messe
più a fuoco le qualità specifiche fatte giocare dalle organizzazioni comunitarie, e
in particolare dalla Commissione Europea, una volta legittimate, in termini di
capacità di apprendimento e di rilancio della propria funzione. Nella diffusione
di best practices e nell’innesco di processi isomorfi tra organizzazioni di diversi
paesi, un ruolo rilevante è coperto dalle reti di esperti o di professionisti portatori di conoscenza. Anche per questi soggetti il ricorso alle ‘best practices osservate altrove’ costituisce una base di legittimazione, che tuttavia, impiegata nel
policy making, tende a rendere simili le singole organizzazioni. Ciò che risulta
importante è però il fatto che la presenza di queste reti nei processi di policy
making promossi a livello comunitario è ‘richiesta’ e dotata di risorse specifiche,
quale garanzia di efficacia implementativa, ma soprattutto di ‘esportabilità’ delle
azioni condotte a livello locale. L’Unione Europea tende quindi, se non proprio
a creare, almeno a sviluppare il ruolo esercitato nelle politiche dalle comunità
epistemiche13. Queste presentano, al proprio interno, membri direttamente incaricati dalle istituzioni governative, e operano a più livelli, anche se un po’ all’oscuro, nei contatti transnazionali e transgovernativi [Rose 1991]. Lo stesso vale
per la moltiplicazione delle strutture (agenzie di coordinamento, segretariati tecnici e simili) deputate a gestire l’implementazione o, più frequentemente, a
coordinare le strutture organizzative attuatrici (di iniziative variamente comprese sotto l’etichetta di sviluppo locale concertato). Lo sviluppo delle comunità
epistemiche e di altre popolazioni di organizzazioni di supporto alle politiche
tende quindi a caratterizzare la strutturazione delle arene nelle politiche comunitarie. Esse condividono il, e sono funzionali al, medesimo percorso di diffusione di best practices e isomorfismo. Percorso che, per quanto giustificabile in termini di razionalizzazione amministrativa, riduzione degli sprechi, possibilità di
monitoraggio e valutazione, comporta anche il rischio di un appiattimento notevole verso one best way organizzativa standardizzata e, in quanto tale, poco
Andrea Mariotto
Dall’Europa alle città e ritorno.
incline ad approssimarsi alle dinamiche dello sviluppo locale [Pichierri 2001,
263]. Si può dire, a questo punto che, in un processo di riconfigurazione generale delle relazioni verticali ed orizzontali, gli strumenti di legittimazione possono essere internalizzati da tutti i livelli di governo e, più estesamente, dal policy
network complessivo: anche gli attori locali più deboli, dal punto di vista della
propria institutional thickness14 trovano modo di abbinare l’ottenimento di
risorse materiali ad un guadagno in termini di legittimazione, producendo o, più
spesso, applicando best practices, eventualmente col supporto di (qualche
membro di) una comunità epistemica.
Caratteristiche delle istituzioni e delle politiche comunitarie
Il fatto che le istituzioni comunitarie risultino particolarmente efficaci e talvolta
innovative nell’impostazione e nel trasferimento di politiche pubbliche, risponde ad una loro specificità nell’arena decisionale internazionale. Specificità che
può del resto costituire il contributo prescrittivo rispetto alla capacità che le
organizzazioni attive ad altri livelli dovrebbero sviluppare. Al netto di tutti i fattori costituzionali (i poteri demandati dagli stati membri attraverso i vari trattati)
e dimensionali (l’ampiezza delle strutture istituzionali, l’ammontare delle risorse
di cui esse godono, l’estensione delle reti in cui opera, oltre alle possibilità di
attingere dai modi in cui i diversi stati risolvono i propri problemi di policy) possiamo ipotizzare che l’Unione Europea, si caratterizzi per una buona capacità di
apprendimento nel corso dei processi di policy in cui interviene. L’ipotesi ha già
trovato validazione, anche se limitatamente al campo delle politiche ambientali
[Brown 2000]. Ma pensando ai caratteri di incertezza, complessità, dinamicità,
intersettorialità, dei problemi ambientali, si può pensare che le capacità di
apprendere messe in gioco in questo settore, possano essere estese anche alla
globalità del policy making europeo. Nell’accezione sviluppata da Argyris e Schön
[1996] l’apprendimento organizzativo avviene in due fasi distinte: il single-loop
learning, dove i membri di un’organizzazione analizzano e correggono gli errori
compiuti, e il double-loop learning o deutero-learning, in cui i membri apprendono dal contesto in cui hanno agito, riflettono sui precedenti episodi in cui si è
dato apprendimento organizzativo ovvero si è fallito. Essi scoprono ciò che hanno
fatto per facilitare o inibire l’apprendimento, inventano nuove strategie, valutano
e generalizzano ciò che hanno prodotto. Organizzazioni in grado di apprendere
sono quindi quelle aperte ai feedback innescati da processi autovalutativi, circa la
propria efficacia e la necessità di abbandonare i comportamenti meno adeguati al
perseguimento dei propri obiettivi. Per quanto concerne l’Unione Europea, è da
sottolineare che esiste un quadro normativo e procedurale che tende a favorire sia
la circolazione delle informazioni rilevanti, sia l’innesco di feedback tra le organizzazioni coinvolte nei processi di policy. La circolazione delle informazioni e la loro
‘messa in rete’ rientra pertanto nel modus operandi delle strutture interne e giunge a caratterizzare anche il rapporto instaurato con apparati governativi esterni e
con i gruppi di interesse15 . Sono inoltre da considerare le capacità di analisi e ricerca, sviluppate, ad esempio, in seno alle Direzioni Generali della Commissione –
un’organizzazione che ha come sua principale risorsa proprio la conoscenza
[Radaelli 1999] – spesso in grado di ispirare gli stessi orientamenti di ricerca delle
14
Il termine rappresenta una combinazione
di fattori che include
elementi esogeni (interazioni e sinergie
interistituzionali, rappresentazioni condivise da altri gruppi), ed
endogeni (condivisione di culture, norme e
valori). "Thickness
both establishes legitimacy and nourishes
relations of trust"
[Hassink and
Lagendjik 2001: 73].
15
A riprova di ciò, si
guardi all’ingente utilizzo delle pagine web
per la messa in circolo
di tutte le versioni preconclusive di direttive,
comunicazioni, progetti di ricerca, ecc.
105
n.4 / 2002
comunità epistemiche internazionali. Carattere saliente delle strutture decisionali
e, soprattutto, di quelle scientifiche è l’estrema snellezza, unita talvolta all’instabilità, come condizione per il mantenimento di rapporti con una vasta schiera di
attori esterni e per la produzione di informazioni pertinenti, scientificamente avanzate, e di effettivo supporto alle decisioni. Infine, come dimostrato nel caso delle
politiche ambientali e della legislazione nascente sulla qualità delle acque [Brown
2000], una efficace cultura dell’apprendimento si fonda sulla capacità di far fronte
all’incertezza scientifica che spesso accompagna i processi di decision making. In
questo senso, l’adeguatezza delle organizzazioni comunitarie è da rintracciarsi
nella (ancora) incompiuta ‘ossificazione’ delle relative strutture burocratiche e
nella loro continua evoluzione. I continui mutamenti negli organigrammi, nei programmi, nei nessi tracciati fra obiettivi e strumenti, stanno quindi a testimoniare la
presenza di continui processi di apprendimento organizzativo. Il fatto che gli
approcci, le modalità d’azione e le capacità di apprendimento riconosciute alle istituzioni comunitarie siano trasferite ai livelli inferiori potrà essere verificato solo nel
lungo periodo, mediante un approccio analitico in grado di trattare il policy change ponendo enfasi sulle occasioni di apprendimento create, e accumulate, nel
corso dei processi. Un backward mapping di tale portata dovrà comunque servirsi, oltre che dell’osservazione empirica diretta, anche di contributi interpretativi
prodotti parallelamente all’avanzamento delle politiche..È a questa utilità che mira
la seguente rilettura dell’iniziativa comunitaria Urban.
L’europeizzazione nel contesto italiano: riflessioni a partire
dall’implementazione dell’Iniziativa comunitaria Urban
L’iniziativa comunitaria Urban (in breve)16
16
Per una trattazione
più dettagliata dei
contenuti e dei risultati conseguiti con l’esperienza di UrbanItalia si rimanda alla
cospicua produzione
letteraria sul tema e
in particolare ai riferimenti riportati in
bibliografia.
106
Il Programma di Iniziativa Comunitaria (Pic) Urban risale al giugno 1994, quando
la Commissione Europea decide di stanziare parte del Fesr e del Fse a favore
delle zone urbane. La Commissione fissa gli orientamenti relativi ai programmi
operativi (PO) da predisporre nell’ambito di Urban, tramite due comunicazioni
agli stati membri: l’una [CE, 1994] con una dotazione iniziale di 600 milioni di
euro; e l’altra [CE, 1996] con una dotazione supplementare di 157 milioni di euro.
Le aree urbane sottoponibili a finanziamento sono collocate, in linea di principio,
in città o agglomerati urbani con oltre 100 mila abitanti. Il totale europeo
ammonta a 118 municipalità beneficiarie dei finanziamenti.
L’Italia presenta la propria domanda di contributo alla UE nel novembre 1994 e
solo nell’aprile 1996 vede approvato il proprio PO. A 13 delle 33 proposte selezionate e inviate a Bruxelles dall’Italia viene così accordato il finanziamento. Altre
tre si aggiungeranno nel dicembre 1997. La selezione delle città invitate a presentare proposte compatibili con i criteri della Comunicazione [CE, 1994] è operata dall’amministrazione nazionale capofila, il Dipartimento per il
Coordinamento delle Politiche Comunitarie presso la Presidenza del Consiglio
dei Ministri, e si basa su una seria di consultazioni con le altre amministrazioni
nazionali competenti in materia (Dipartimento per le Aree Urbane, Ministeri
dell’Ambiente, Industria, Interni, Ll.Pp., Lavoro, ecc.). Per l’Italia sono stanziati
inizialmente 102,037 Meuro del Fesr e 15,615 Meuro del Fse. Il cofinanziamento
da parte statale viene deliberato da Comitato interministeriale per la programmazione economica (Cipe): ca. 130 Meuro sono stanziati per i primi tre anni del
Andrea Mariotto
Dall’Europa alle città e ritorno.
programma.
L’organo preposto al controllo sull’attuazione del programma è il Comitato di
Sorveglianza – come previsto dall’art. 25 del Reg. (CEE) n. 4253/88, così come
modificato dal Reg. (CEE) n. 2082/93 del Consiglio, del 20.07.93 (GU L 193 del
31.07.1993) – in cui siedono i rappresentanti di tutte le città, i funzionari dei
Ministeri del Bilancio, del Lavoro, del Tesoro, dell’Ambiente, dei Lavori Pubblici,
e la rappresentanza della CE. Nel programma nazionale è altresì previsto uno
stanziamento dedicato ad attività centrali di assistenza tecnica, valutazione e
monitoraggio. Visto il successo conseguito dall’esperienza, la Commissione
Europea nell’aprile 2000 ha dato avvio a Urban II. L’impostazione e criteri di selezione sono grosso modo i medesimi del primo, mentre si è riscontrata una contrazione delle risorse messe a disposizione (da 136 a 108 Meuro), mentre il
numero delle città italiane coinvolte ammonta a 10. Alle 10 seconde classificate
nella graduatoria redatta da Dicoter saranno invece destinati i fondi messi a disposizione per Urban-Italia, il programma promosso a livello nazionale che si ispira ampiamente ed esplicitamente al programma di iniziativa comunitaria.
Le strutture organizzative coinvolte: ruoli e relazioni in mutamento17
Valutazioni e commenti sul complesso dei sottoprogrammi italiani sono solitamente piuttosto favorevoli. Per quanto riguarda le strutture organizzative, da più parti
si riconoscono i meriti dell’iniziativa comunitaria in termini di occasioni di apprendimento e d’innovazione tanto per le città quanto per gli organismi centrali18 .
Nelle ricerche promosse da Dicoter come ‘azioni a sostegno della programmazione 2000-2006’ il trattamento dello specifico tema porta a rilevare che: "in
primo luogo si tratta di una occasione nella quale le amministrazioni interessate
vengono contemporaneamente sottoposte ad una stessa sfida sul piano organizzativo che le vede impegnate nella realizzazione di operazioni per loro inedite
dal punto di vista del merito (progetti integrati di riqualificazione di contesti
svantaggiati) e del metodo (necessità di rendicontazione, di monitoraggio e valutazione ecc.)" [Balducci 2002]. In prospettiva futura, il programma Urban: "potrebbe diventare, invece, un tassello di un disegno di riforma finalmente compiuto,
come parte integrante di un nuovo modello di governance, nello stesso tempo
rigoroso, flessibile ed efficace. Oppure potrebbe dare luogo (oltre ai risultati specifici) soltanto a processi di apprendimento e di innovazione relativi alla costruzione di progetti d’area rilevanti e fattibili, la loro messa in rete, la capacità di ordinare le azioni parziali entro quadri coerenti e condivisi" [Palermo 2001].
L’insieme delle risorse introdotte (e riprodotte) nei processi di policy da Urban
e da altre iniziative comunitarie è piuttosto variegato (spaziando dal puro finanziamento, ai modelli operativi, agli approcci, alle conoscenze, alle norme, alle
procedure,…) e nel contesto nazionale si presenta sempre in combinazione con
elementi di un processo più ampio di innovazione o, comunque, di mutazione,
di arene e strumenti operanti nelle politiche pubbliche. Gli esiti prodotti da tale
processo, nonché il peso specifico esercitato in esso dalle iniziative comunitarie,
sono quindi da valutare nel lungo periodo. Al momento, se ne possono cogliere
alcune caratteristiche peculiari come manifestazioni concrete di quanto espresso dai contributi teorici considerati nella prima parte.
L’iniziativa come trasferimento di risorse e modelli
Con l’indizione del programma Urban la Commissione europea mette in campo
un notevole bagaglio di conoscenze sui processi in corso in tema di politiche
17
Le riflessioni che
seguono si basano sui
materiali già disponibili prodotti nell’ambito della ricerca:
Azioni a sostegno
della programmazione 2000-2006. Il programma di iniziativa
comunitaria Urban,
appaltata dal
Ministero delle
Infrastrutture e dei
Trasporti – Dicoter,
alla Associazione temporanea di impresa
costituita tra Consorzio
Arpa (Napoli) e
Dipartimento di
Architettura e
Pianificazione del
Politecnico di Milano,
alla quale ho partecipato curando lo studio
di caso sul
‘Sottoprogramma 2:
Venezia’.
18
Si vedano ad esempio i numerosi articoli
pubblicati sul bollettino trimestrale Urban
(a cura di Dicoter), e
su EuroPass (newsletter e dossier)
[http://europass.class.it
/europass.asp]. Per
una valutazione più
critica, tra quelle prodotte ‘istituzionalmente’, si veda Corte dei
Conti Europea [2001].
107
n.4 / 2002
urbane e, in particolare, sulle condizioni di alcune aree, sui problemi di efficacia
degli interventi in atto, e sulle potenzialità insite nell’integrazione tra azioni ‘di
settore’, nell’adozione di approcci partecipativi, e nella creazione di nuovi partenariati tra amministrazioni pubbliche e tra questi e privati.
Il trasferimento delle politiche si appoggia su una ‘strategia politica di mascheramento’ (la ‘dichiarata’ copiatura dell’impostazione ‘integrata’) e sulla contestuale distribuzione di diversi tipi di risorse, di cui i beneficiari sono, evidentemente, carenti. Tali risorse sono, oltre a quelle finanziarie, anche quelle legate
all’opportunità di mantenere o acquisire un ruolo entro una rete; di mettere alla
prova nuovi criteri operativi; e di misurarsi con le rigide condizioni imposte dal
livello comunitario, che diventeranno "uno dei fattori di efficacia e di successo
dell’esperienza (un fattore influente, se si confrontano i processi più lenti e gli
esiti spesso solo parziali di altri programmi urbani, di matrice nazionale o locale)" [Palermo 2001]. Il caso italiano diviene tuttavia esemplare per comprendere
la tortuosità del percorso distributivo. L’attore nazionale tende ad acquisire il
ruolo di ‘filtro’ nella distribuzione dei fondi alle città, redigendo arbitrariamente
un primo elenco di 24 città eleggibili, con relativi inviti a predisporre i progetti,
e costituendosi come primo interlocutore della Direzione Generale titolare del
Programma (ex DG XVI, ora DG Politiche Regionali). Ciononostante, nove città,
non invitate dall’organo governativo centrale, ma a conoscenza dell’avvio di
Urban, presentano progetti di propria iniziativa. "Di fronte a questa situazione,
lo Stato membro invia tutte le proposte, decisamente eterogenee, alla
Commissione, affinché prenda una decisione. La selezione viene infine negoziata tra la Commissione e lo Stato membro in quanto, nonostante gli sforzi compiuti, era risultato impossibile per la Commissione, in assenza di una metodologia e di informazioni appropriate, valutare in maniera obiettiva le proposte presentate" [Corte dei Conti Europea 2001, punto 13].
Un policy network in costruzione
Nel corso del processo il ruolo dell’attore nazionale (stabilizzato nelle competenze della Direzione Generale Coordinamento Territoriale – Dicoter – presso il
Min. delle Infrastrutture e dei Trasporti) ha comunque modo di rafforzarsi, sia
rispetto alle amministrazioni locali coinvolte, sia all’interno dell’apparato ministeriale e governativo in genere, quale soggetto detentore di un efficace sistema di
relazioni multilivello e di conoscenze intersettoriali, che ne ha aumentato visibilità e resilienza organizzativa in rapporto ai vari avvicendamenti intercorsi al vertice. Ciò è avvenuto, da un lato, facendo leva sul proprio ruolo istituzionale di autorità in grado di stabilire rimodulazioni e spostamenti di bilancio tra i sottoprogrammi e di garantire così il mantenimento dell’ammontare complessivo dei
fondi destinati all’iniziativa; e dall’altro lato, mediante l’amministrazione diretta –
ancorché aperta alle indicazioni fornite dai Comuni in sede di Comitato di
Sorveglianza – del cosiddetto Sottoprogramma 14, dedicato ad attività tecniche di
assistenza, valutazione, monitoraggio, e comunicazione, oltre che ad attività sussidiarie e/o integrative proposte dalle Amministrazioni locali.
Ed è proprio nell’attuazione del Sottoprogramma 14 che prende piede quello che
si può definire il ‘costruendo’ policy network di Urban-Italia, il cui nucleo – composto da rappresentanti delle amministrazioni pubbliche coinvolte e da una nutrita comunità epistemica – ha contribuito a diffondere presso altre amministrazio-
108
Andrea Mariotto
Dall’Europa alle città e ritorno.
ni ed altri esperti il bagaglio di conoscenze che si è andato via via formando.
Si verifica così un processo circolare nel quale l’attore nazionale – rappresentato
da Dicoter – assume un ruolo centrale anche grazie alla generazione, ed al progressivo ampliamento, di un network che, in quanto tale, a sua volta, relativizza il
peso esercitato gerarchicamente dall’attore governativo, al punto che quest’ultimo vede riconosciuta l’acquisizione di un ruolo preminente più all’esterno – nei
rapporti orizzontali con altri settori del governo centrale – che all’interno del network stesso. A creare un certo livello di strutturazione del network sono sia le
riunioni del Comitato di Sorveglianza, sia i seminari più allargati organizzati dalla
compagine ministeriale come attività di monitoraggio, sia ancora le attività intraprese dalla Rete delle Città Urban. Le riunioni del Comitato di Sorveglianza
hanno spesso dipanato i dubbi nascenti nelle varie fasi del processo: dubbi spesso legati all’impreparazione di tutti gli attori principali nei confronti degli obiettivi e dei vincoli procedurali e temporali posti all’iniziativa. Qui, la presenza di
rappresentanti della Commissione Europea e dei ministeri competenti, il confronto diretto tra i ‘casi’ presentati dai Comuni, e l’immediata efficacia dei provvedimenti adottati, hanno notevolmente snellito un processo altrimenti destinato all’insorgenza di stalli decisionali. Le informazioni e le conoscenze scambiate
durante i seminari, col supporto di studiosi ed esperti, sono spesso servite alle
amministrazioni locali in procinto di intraprendere l’esperienza di Urban II o di
Urban Italia, anche al fine di evitare l’esternalizzazione delle funzioni di messa a
punto e di gestione dei progetti. Le attività promosse direttamente dalla Rete
delle Città Urban hanno infine costituito sia l’occasione per la diffusione di know
how, anche ad uso delle città che si affacciano ora sulla scena, sia la compiuta
affermazione di un soggetto che, per quanto su altre basi, arriva a contendere il
ruolo di leadership all’attore centrale. La produzione di azioni comuni può divenire infatti uno strumento di pressione sia verso il governo nazionale che verso
l’Unione Europea, per orientare politiche e introdurre in esse criteri selettivi e
valutativi in genere. La Rete delle Città Urban italiana guarda inoltre a reti omologhe formate in altri paesi, così da poter disporre di risorse informative aggiuntive rispetto a quelle messe in circolazione dal coordinamento nazionale. Una
ramificazione interessante della Rete, è quella che si estende alle strutture di servizio territoriale (job centers, front offices PMI, sportelli d’impresa, centri antiviolenza, ecc.) create nel corso del processo come nodi locali. Sembra infatti che
la rete complessiva possa contare – per il suo mantenimento/ampliamento nel
tempo, ma anche per evitare i rischi di un isomorfismo eccessivo – sugli interessi
tematici di questi ultimi, più che sugli Uffici Speciali creati ad hoc per l’implementazione di Urban. Va considerato inoltre come l’iniziativa comunitaria stimoli
lo sviluppo di una rete di città, che almeno in parte è già operante, ad esempio
nel trattamento di specifiche policy (come nel caso di Quartiers en Crise) ovvero nella gestione di altri programmi complessi quali i programmi di riqualificazione urbana. L’osservazione appare coerente con la funzione attribuita ai policy
network nell’offrire possibilità ridondanti di interazione e comunicazione tra gli
attori. I deboli legami e l’informalità dei rapporti tra gli stessi comportano, tuttavia,
anche variabilità dei temi e degli interessi prevalenti sui quali si costruisce e si concentra il policy network: ‘politiche’ e ‘forme reticolari di interazione’ stanno a rappresentare fenomeni mutevoli, dinamici, di processo, in cui qualsiasi etichettatura e
precostituzione di obiettivi, esiti attesi e composizione delle arene, va confrontata
109
n.4 / 2002
con ciò che ci è dato di osservare ex-post rispetto alle azioni compiute.
Nuovi approcci e nuovi strumenti, da legittimare
19
Sono 8 i casi in cui
fin dall’inizio, oppure
in fasi più avanzate, il
sindaco assume una
responsabilità diretta
nella gestione del programma.
L’impatto dell’iniziativa sull’organizzazione della macchina amministrativa locale
è valutabile soprattutto in termini di semplificazione delle procedure. La ricerca
condotta sui sottoprogrammi [cfr. Palermo, 2001] ha mostrato come tutti i
comuni abbiano adottato una corsia preferenziale per le delibere relative al programma Urban, e come siano stati diffusamente sperimentati accorgimenti organizzativi per superare la tradizionale distinzione tra servizi tecnici e servizi amministrativi (come la gestione degli appalti e la rendicontazione). Molti comuni
hanno appreso grazie all’esperienza a gestire nel modo più semplice e cauto le
procedure di invito pubblico e selezione mediante gara, cercando di ridurre al
minimo i tempi di attesa e i rischi di controversie. Gli uffici speciali attivati hanno
permesso di unire funzioni di gestione tecnica dei progetti con funzioni di
gestione amministrativa (la preparazione di delibere e bandi, la gestione degli
appalti, la rendicontazione), con benefici notevoli in termini di efficienza e di
rapidità dei processi. L’Ufficio Urban è per lo più concepito come una struttura
di staff, che dipende dalla direzione generale, ma di solito risponde politicamente allo stesso sindaco o a un suo delegato19 . La ‘copertura’ politica tende a
legittimare pratiche e procedure non ancora assimilate dall’organizzazione complessiva: leadership, gerarchie e legami fondati sulla lealtà sembrano quindi fungere da elementi in grado di surrogare, almeno inizialmente, processi collettivi
di costruzione del senso dell’azione organizzativa. Va tuttavia precisato che, se il
discorso sembra valere per le amministrazioni di tutti i livelli, le innovazioni così
legittimate e messe all’opera, spesso riguardano l’azione di una piccola parte
delle relative amministrazioni. Affinché l’innovazione si diffonda è quindi necessario l’avvio, se non il compimento, di un processo di apprendimento di cui
siano consapevoli tutti i membri al di là delle gerarchie vigenti. Un primo sviluppo in tal senso può essere osservato nei casi in cui le funzioni degli uffici speciali non si limitano alla gestione di questo specifico programma, ma vengono progressivamente estese al complesso delle politiche comunitarie ovvero alla programmazione dello sviluppo locale, massimizzando il carattere interdisciplinare e intersettoriale della composizione dell’Ufficio. In questo secondo caso, l’esperienza di Urban è interpretata più per i suoi contenuti innovativi in termini di
approccio di policy che non per il pacchetto finanziario messo in gioco. Il tema
della legittimazione sembra costituire una chiave interpretativa anche per i casi
in cui la struttura organizzativa non viene sostanzialmente mutata e l’iniziativa
comunitaria interviene come strumento attuativo, ma più spesso come una fonte
tra le altre di finanziamento addizionale, di piani che sono ‘già legittimati’ a livello di organizzazione complessiva (in quanto, ad esempio, sono immessi tra i
punti strategici del programma del sindaco). L’assimilazione dell’iniziativa entro
piani o programmi già operanti determina spesso il successo sia della prima che
dei secondi, a discapito tuttavia dei caratteri più originali e innovativi che potrebbero derivare da una riflessione più profonda circa le possibilità di incrocio tra le
due modalità d’azione.
Cosa si apprende?
Un ulteriore aspetto messo in luce dalla ricerca – che appare rilevante se pensiamo all’iniziativa comunitaria come occasione di apprendimento organizzativo
– è quello relativo alle capacità tecniche dimostrate dalle amministrazioni locali.
110
Andrea Mariotto
Dall’Europa alle città e ritorno.
In particolare, si è notato che in varie città, la provenienza dai diversi settori dell’amministrazione dei componenti del gruppo di lavoro che si è occupato di
Urban garantisce la copertura delle expertise relative alle competenze di contenuto. Al contrario le capacità tecniche relative agli aspetti di processo20 sono in
gran parte nuove e, comunque, eventualmente apprese on the job.
Ciò spiega il carattere quasi totalmente ‘pubblico’ (dal punto di vista di ‘chi
paga’) degli interventi come una sorta di chiusura o di semplificazione efficientista di una rete che, per converso, sarebbe tanto più efficace quanto più in grado
di avvicinare e riprodurre le risorse diffuse nei molteplici contesti sociali di decisione, azione, analisi o riflessione valutativa. Ma ciò denota anche le difficoltà
insite nel trasferimento di un know how di tipo relazionale attraverso i processi
di policy transfer e di isomorfismo richiamati nella parte precedente. Più adeguato all’innesco di un apprendimento di questo tipo sarebbe il ricorso a capacità che abbiamo visto attribuite per ora alle sole istituzioni comunitarie, sia per
quanto concerne le relazioni instaurate con le comunità epistemiche, sia per la
‘programmata variabilità’ degli assetti organizzativi.
Suggestioni in divenire
L’acquisizione di competenze di processo in seno alle amministrazioni rimanda
al rapporto da esse instaurato con i cosiddetti portatori di interessi diffusi e, in
particolare, col mondo associativo. La semplificazione efficientista sopra richiamata ha portato a considerare questi soggetti esterni all’amministrazione prevalentemente come rappresentativi dei bisogni dei ‘beneficiari’ del programma, ma
meno come attori per la sua realizzazione21. Si osserva un certo squilibrio tra attori, a netto favore della componente pubblica, così da garantire per questa via il
carattere pubblico dell’iniziativa. Tale squilibrio contrasta evidentemente con la
conformazione reticolare dell’arena, e coi presupposti di livellamento, a-gerarchicità e informalità nei rapporti tra Stato e società caratterizzanti alcune nozioni di governance.
Conclusioni
L’apparato concettuale passato in rassegna nella prima parte e ‘testato’ nella
seconda ci permette di individuare alcuni aspetti delle strutture organizzative
coinvolte dall’applicazione di Urban al contesto italiano. In particolare, abbiamo
potuto osservare il trasferimento transnazionale di un nuovo approccio alle politiche urbane, e il passaggio da una forma di multi-level governance, tutta incentrata su scambi diretti tra attori di diverso livello per l’acquisizione di un set di
risorse in base alle quali costruire il proprio ruolo, a quello che è, e potrà essere, un policy network di nuova strutturazione. L’osservazione empirica induce
ad una prima puntualizzazione rispetto alla base teorica qui impiegata, riferita
alla partecipazione al processo soltanto di parti delle organizzazioni amministrative dei vari livelli e, alla conseguente opportunità non considerare queste ultime come attori collettivi, dotati al proprio interno di coesione e coerenza. Più
che di Unione Europea, di stati, di governi nazionali o di i comuni si dovrebbe
piuttosto parlare delle singole unità coinvolte di volta in volta in una politica.
Anche per questa via si riesce infatti a superare i limiti applicativi di teorie basate su concetti quantomeno astratti, e su una gerarchia tra gli stessi che è solo
nominale. Nel processo analizzato si è notato come la centralità del ruolo, acqui-
20
Quali: gestione dei
rapporti interni al
gruppo di lavoro per
mantenerne la coesione e l’efficienza;
gestione dei rapporti
con la rete dei soggetti
interni alla amministrazione che svolgono
il ruolo di gate-keeper;
gestione dei rapporti
diretti con gli organismi della Commissione Europea, con il
Ministero e in alcuni
casi con le Regioni;
gestione dei rapporti
con gli organismi preposti alle attività di
controllo e valutazione; costruzione e
gestione di rapporti
partenariali con soggetti privati o del terzo
settore; gestione di
processi partecipativi;
gestione di programmi
di comunicazione.
21
I casi in cui la comunità locale sia stata
coinvolta pienamente
nel processo decisionale – con la coprogettazione – non sono
stati spesso praticati e,
in generale, si può
parlare piuttosto di
un partenariato di
gestione ed attuazione
di segmenti di programmi specializzati.
[Moccia 2002].
111
n.4 / 2002
sita, ad esempio, da Dicoter non derivi da attribuzioni normative quanto soprattutto dalle relazioni verso l’alto e verso il basso che è riuscita progressivamente
a costruire, anche grazie al fatto che una parte delle risorse economiche disponibili fosse specificatamente destinata alla formazione di una rete ed alla costituzione di una comunità epistemica. Estendendo l’annotazione a tutti gli attori
ricaviamo una prima caratteristica del policy network di Urban: nella sua forma
iniziale, esso è composto dai settori delle pubbliche amministrazioni più vicini ai
temi toccati dall’iniziativa, e progressivamente ha visto prevalere i responsabili
dei servizi territoriali implementati, favorendo così specializzazioni e ramificazioni che giungono a ridefinire o a variare il tipo di policy su cui il network complessivo si struttura. Se, come abbiamo visto, la possibilità di variare attori e interessi rappresenta il valore aggiunto della forma reticolare a legami deboli, c’è tuttavia da chiedersi come sia possibile trasmettere ad altre unità, non tanto i contenuti ma piuttosto i modi di acquisizione, di un crescente patrimonio conoscitivo e relazionale che sta determinando il successo di un dato settore. Le risposte sono da ricercarsi ad un doppio livello: quello delle relazioni esterne, come
necessità di sviluppare la rete verso i soggetti sociali che con la propria azione
producono, o potrebbero contribuire a produrre, politiche; e quello delle relazioni interne, come necessità di trovare occasioni di autovalutazione e costruzione collettiva del senso delle iniziative in corso. Per il mantenimento e lo sviluppo dei rapporti ai due livelli sembrano inoltre incidere le possibilità aperte a
tutta una serie di attività meta-politiche di incontro e scambio tra soggetti diversi siano essi istituzionali o non istituzionali, pubblici o privati. C’è infatti una relazione diretta tra ricchezza e ridondanza dell’attività relazionale; continuità del
network; capacità degli attori di attivarsi rispetto alle rotture delle routine organizzative cui sono abituati. Anche per la ricerca, la sfida posta dall’europeizzazione delle politiche richiede lo sviluppo di una prospettiva ‘meso’ articolata su
un doppio ordine di capacità: verso la comprensione della complessità rappresentata dalla moltiplicazione dei luoghi di interazione sociale in cui le politiche
prendono forma e sortiscono i propri effetti; e verso la valorizzazione di tutte
quelle forme di autorganizzazione trasversale che, come le ‘comunità di pratiche’
[Gherardi e Nicolini 2001] costituiscono gli ambiti nei quali hanno luogo i processi di apprendimento e trasmissione del sapere pratico e della conoscenza in
azione, anche senza dare luogo a strutture formalizzate né a percorsi di policy.
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Andrea Mariotto è dottore di ricerca in Pianificazione e Politiche Pubbliche del
Territorio (Daest IUAV) e ricercatore del Laboratorio “Ombrello” (DP IUAV)
[email protected]
113
n.4 / 2002
Sandro Fabbro e Enzo Forner
Arco alpino orientale e politiche
europee di sviluppo locale: prime
lezioni dall’implementazione dei
Fondi Strutturali 1994-’99 con
particolare riferimento ad
Interreg II
Passaggio a NordEst
Introduzione: la rilevanza dell’area alpina per le politiche
dell’Unione Europea
Le politiche strutturali europee ed i relativi strumenti di intervento stanno giocando un ruolo significativo sia nei cambiamenti sociali, economici e spaziali in
corso in molti settori e componenti delle regioni alpine sia nel determinare le
prospettive di sviluppo di queste regioni che sono caratterizzate, come già
importanti studi hanno messo in evidenza, da differenze interregionali ed anche
infraregionali assai marcate (su questo aspetto vedi, in particolare, Bätzing et al.
1993, 1995, 1996; Perlink, 1996, Cipra, 1995). Molti fattori contribuiscono a mettere in evidenza l’importanza delle politiche europee nell’area alpina:
- La crisi del tradizionale modello rurale, solo in parte sostituito da più moderni
e vitali sistemi socio-economici, che determina una larga applicazione delle politiche comunitarie per il sostegno allo sviluppo rurale (ad esempio Obiettivo 5b
dei Fondi strutturali, Programma LEADER per il periodo 1994-99, Obiettivo 2 e
LEADER+ per il periodo 2000-2006).
- I differenziali di produttività tra l’agricoltura di montagna e quella di pianura, a
causa delle più critiche condizioni ambientali e morfologiche, che rendono l’agricoltura alpina più esposta ai rischi di marginalizzazione, pur essendo un’attività fondamentale per il mantenimento del paesaggio alpino e dell’equilibrio
ambientale. In questo senso l’agricoltura alpina appare particolarmente sensibile agli orientamenti della Politica agricola comunitaria.
- La presenza di numerosi confini tra Stati membri dell’Unione Europea, come
pure tra questi ed altri Stati attualmente esterni all’UE, che rende particolarmente importante il tema della cooperazione transfrontaliera in molti campi di
attività; in questo senso l’area alpina (orientale) appare fortemente interessata
dall’attuazione di Programmi comunitari come INTERREG e PHARE (per quanto
riguarda gli stati esterni all’UE).
- La presenza di aree, sia pur limitate territorialmente, con una vocazione indu-
114
Sandro Fabbro e Enzo Forner
Arco alpino orientale e politiche europee di sviluppo locale
striale di lunga data, specialmente in alcune valli ove storicamente predomina il
settore estrattivo/siderurgico, come pure il settore dello sfruttamento delle risorse idriche e delle altre materie prime ma non solo, e che negli ultimi anni sono
state esposte a processi di crisi e che richiedono quindi politiche di sostegno e
riorientamento dello sviluppo industriale (vecchio e nuovo Obiettivo 2 dei Fondi
strutturali).
- La funzione dell’area alpina come cerniera/barriera di collegamento tra l’Europa
meridionale e quella centrale/settentrionale, che comporta la presenza di infrastrutture di trasporto di interesse internazionale, che trovano naturale riferimento nelle politiche europee nel campo dei trasporti.
- La diffusa presenza di valori paesistici, ambientali e naturalistici.
- La fragilità di molte aree alpine dal punto di vista dell’equilibrio idro-geologico,
che rendono particolarmente attuale il tema della sostenibilità ambientale dello
sviluppo socio-economico, tema presente con particolare evidenza negli orientamenti generali dell’azione dei Fondi strutturali.
Per tali motivi, il Progetto REGIONALP ha ritenuto di approfondire il tema del
rapporto tra politiche comunitarie e lo sviluppo sostenibile per l’arco alpino
orientale, avviando una prima fase di documentazione ed analisi generale
(Regionalp, 2000), finalizzata a perseguire, in una prospettiva di più lungo periodo, i seguenti obiettivi:
- Mettere a confronto le esperienze realizzate nei diversi Stati/Regioni dell’arco
alpino orientale, in tema di attuazione dei vari programmi comunitari, in modo
da offrire degli elementi di riflessione comune e di attivare un processo di scambio di informazioni e di reciproco apprendimento.
- Raccogliere sistematicamente ed elaborare le informazioni sui contenuti dei
diversi programmi comunitari attivi nell’arco alpino orientale, per offrire un contributo significativo alla individuazione di temi di comune interesse che possano
portare in futuro allo sviluppo della cooperazione transfrontaliera nei diversi
campi.
- Verificare all’interno delle politiche comunitarie di sviluppo territoriale il livello di attenzione verso le problematiche specifiche dell’arco alpino, sia per
quanto riguarda i documenti di impostazione strategica che i regolamenti
attuativi dei diversi interventi, al fine di rilevare la sensibilità delle istituzioni
comunitarie verso quest’area, nonché al fine di contribuire a definire posizioni
comuni delle diverse amministrazioni locali dell’arco alpino sui temi di maggiore importanza.
- Contribuire a migliorare di conseguenza l’efficacia futura degli strumenti
comunitari nell’affrontare le tematiche specifiche dell’arco alpino orientale,
attraverso uno scambio di informazioni ed esperienze e lo sviluppo di reti di
cooperazione transnazionali su determinati argomenti.
Concretamente il lavoro che viene qui presentato si articola in due parti principali:
- la prima (capp. 3. e 4.) prende in considerazione i principali strumenti comunitari operativi nell’ambito del periodo 1994-1999 dei Fondi Strutturali, al fine di
individuare la loro diffusione territoriale nell’arco alpino orientale, i loro contenuti principali, la loro dimensione finanziaria, la loro capacità di affrontare i problemi specifici dell’arco alpino orientale;
- la seconda (cap. 5) prende in considerazione le prospettive e gli effetti preve-
115
n.4 / 2002
dibili per l’applicazione nell’area alpina della prossima tornata dei Fondi strutturali 2000/2006, al fine di operare alcune riflessioni sulla loro capacità di risposta
alle esigenze che l’area alpina mette in evidenza.
Nota metodologica
L’analisi empirica e le valutazioni qui contenute si riferiscono solo alla fase di
prima attuazione operativa dei diversi obiettivi e programmi comunitari nei
diversi paesi e regioni dell’arco alpino orientale.
Non era infatti nelle intenzioni e nelle possibilità operative di Regionalp condurre una valutazione di efficacia complessiva ex-post, in particolare in termini di
impatto socio-economico (posti di lavoro generati, nuove imprese create ecc.),
dei suddetti programmi (a proposito delle difficoltà di questo tipo di valutazione cfr., tra l’altro, Malan, 1998).
È necessario, tuttavia, sottolineare che anche una valutazione parziale -ma comparata tra i diversi paesi e regioni e tra gli obiettivi generali di ciascun programma e la sua attuazione locale-, della prima fase operativa, è comunque importante e fondamentale in quanto è proprio in questa fase che si gettano le basi,
strategiche e tattiche, dell’efficacia futura della politica (EC, 1995). In particolare
in questa prima fase:
- vengono definite le problematiche specifiche delle diverse regioni ed aree locali interessate: la definizione dei problemi costituisce una delle fasi più delicate di
ogni processo di costruzione di politiche poiché è in questo momento che, di
fatto, vengono identificati obiettivi e priorità e che, quindi, vengono gettate le
basi fondanti dei programmi strategici;
- vengono elaborate le strategie d’azione e, cioè, vengono, di fatto, identificati gli
attori, i programmi, le diverse misure, le fasi, i criteri di scelta ecc. attraverso i
quali ci si propone di perseguire gli obiettivi e le priorità;
- viene costruita la macchina amministrativa (leggi, commissioni, bandi, procedure e criteri specifici di valutazione e di erogazione ecc.) ed organizzativa (strutture informative, gruppi d’azione, comitati di valutazione e controllo ecc.) che
deve implementare le politiche;
- viene dato corso al flusso delle azioni vere e proprie.
Troppo spesso l’analisi di queste fasi risulta trascurata nella valutazione dell’efficacia delle politiche di sviluppo o perché si considera solo una di queste fasi
separatamente dalle altre (la strategia separatamente dalla macchina operativa,
per esempio) o perché si guarda agli effetti delle politiche senza ricondurli alle
ragioni di fondo che ne hanno determinato l’esito, ragioni che possono risiedere nella costruzione di ciascuna delle precedenti fasi o nella regolazione delle
relazioni tra l’insieme delle fasi.
Gli studi di “analisi delle politiche” insegnano, invece, che le ragioni del successo o dell’insuccesso di una politica vanno ricercate non solo nelle intenzioni
esplicite della politica e neanche solo nei risultati finali, quanto, piuttosto, nel
complesso degli strumenti di cui la politica si dota per attivare attenzione, motivare gli attori, suscitare interessi, rendere conveniente il coordinamento di obiettivi, la cooperazione tra attori, azioni ecc.
Ci si rende conto, tuttavia, che le informazioni di cui disponiamo per elaborare
116
Sandro Fabbro e Enzo Forner
Arco alpino orientale e politiche europee di sviluppo locale
questa valutazione (documenti regionali di programmazione; studi e valutazioni
regionali; piani di azione locale ecc.), non sono tutte quelle che sarebbero necessarie né, forse, tutte quelle che, metodologicamente, sarebbero le più adatte; è
anche vero però che sono le uniche disponibili o di cui si è potuto ottenere la
disponibilità nei tempi a disposizione. Useremo comunque tali informazioni per
cominciare ad indagare, quanto più sarà possibile, i seguenti nessi problematici:
- il nesso tra diagnosi dei problemi e costruzione della strategia d’azione (gli
obiettivi, le priorità, le tappe del percorso ecc.) o, se vogliamo, tra conoscenza
ed azione: ci si può chiedere, a questo proposito, cosa si perda e cosa si guadagni quando si passa dalla conoscenza dei problemi locali alla costruzione delle
strategie regionali d’azione con un passaggio che, inevitabilmente, comporta la
mediazione tra gli attori e i molteplici interessi in gioco;
- il nesso tra strategia e macchina organizzativa: ci si può chiedere, a questo proposito, cosa si perda e cosa si guadagni quando si passa dalla strategia alla attuazione vera e propria e cioè dall’“accordo”, tra gli attori e gli interessi, alla mediazione con la macchina organizzativa e burocratica;
- infine il nesso, forse il più problematico e controverso tra i tre, tra diagnosi dei
problemi (la conoscenza) e l’implementazione (la macchina organizzativa ed
amministrativa).
Gli esiti delle politiche strutturali europee scaturiscono dalla azione congiunta di
diversi attori e di diversi livelli di azione: in particolare, se gli indirizzi generali
sono formulati a livello UE, è poi la programmazione delle Regioni che regola la
allocazione delle risorse sul territorio ma è la capacità progettuale locale che può
condizionare sia la programmazione regionale sia l’efficacia finale delle stesse
politiche. Le politiche di allocazione regionale definiscono un delicato punto di
equilibrio tra diffusione della domanda locale di intervento e la ricerca di accettabili livelli di integrazione e di concentrazione degli investimenti.
Il ruolo delle regioni, pertanto, costituisce uno snodo fondamentale di tutta le
politiche strutturali europee ed i Documenti Unitari di Programmazione
(DOCUP) risultano essere, pertanto, i documenti nei quali questo ruolo trova
espressione formale e decisionale.
Dalla analisi dei DOCUP può trasparire, pertanto, la capacità di programmazione della regione in particolare nel ricercare un equilibrio tra diffusione e concetrazione, tra attenzione alla domanda locale di sviluppo e ricerca di integrazione
razionale e funzionale delle diverse azioni settoriali, locali ecc. (cfr, anche
Crescini, 1998). Si può dire, allora, che i DOCUP, sono oggi, in una certa misura,
i più importanti documenti di programmazione regionale se non altro perché,
attraverso di essi, vengono veicolate ingenti risorse pubbliche (europee, nazionali e regionali) e private.
Questa è la ragione per cui i DOCUP delle diverse regioni e per i diversi oviettivi, costituiscono la principale documentazione di analisi utilizzata ai fini del presente studio.
117
n.4 / 2002
Fondi Strutturali 1994 - 1999 e arco alpino (orientale)
Uno sguardo di insieme
In questo capitolo prenderemo in considerazione l’impatto del principale strumento dell’Unione europea per lo sviluppo territoriale - cioè i Fondi Strutturali
1994-1999 - sulle regioni dell’arco alpino orientale. Come noto l’intervento dei
Fondi Strutturali nel periodo 1994-1999 si è articolato in 6 Obiettivi prioritari, di
cui i seguenti appaiono particolarmente significativi rispetto al tema dello sviluppo e pianificazione territoriale transnazionale nelle Alpi:
- L’Obiettivo 2, che riguarda la riconversione delle aree gravemente colpite dal
declino industriale,
- L’Obiettivo 5a, relativo all’adattamento delle strutture agricole nelle aree rurali,
e le Politiche Agricole Comunitarie più in generale,
- L’Obiettivo 5b, che riguarda la promozione dello sviluppo nelle zone rurali vulnerabili.
Accanto agli interventi relativi ai diversi Obiettivi del Fondi Strutturali appare
opportuno considerare almeno altri due Programmi di Iniziativa Comunitaria,
che si affiancano ai precedenti e che risultano presenti in maniera significativa
nell’arco alpino (orientale):
- Il Programma INTERREG II, volto a favorire lo sviluppo della cooperazione
transfrontaliera tra regioni appartenenti sia a frontiere interne che esterne alla
Unione Europea,
Il Programma LEADER II, volto a sperimentare azioni innovative di sviluppo
rurale, e che si attua nell’ambito delle aree ammesse all’Obiettivo 5b.
Altre iniziative comunitarie hanno interessato in maniera più o meno ampia l’arco alpino orientale. Citiamo il Programma RESIDER II, volto a contenere gli effetti della crisi del comparto siderurgico, che ad esempio ha operato in Lombardia
nell’area della Val Camonica, oppure il Programma KONVER, volto alla riconversione delle imprese o delle economie locali fortemente dipendenti dalla presenza delle attività militari, che ha operato ad esempio nella montagna della
Lombardia e del Friuli-Venezia Giulia.
Come si può notare si tratta di un campo ampio e differenziato di interventi: è
parso utile in maniera particolare soffermarsi su quegli interventi che riguardano
specificamente l’arco alpino orientale e che hanno significativi effetti territoriali
diretti, escludendo le azioni a carattere formativo (Obiettivo 3 e 4) che presentano un impatto territoriale meno diretto.
Al fine di realizzare un quadro di insieme dell’arco alpino orientale, l’analisi ha
considerato un’area più estesa rispetto a quella delle regioni che partecipano al
progetto REGIONALP (non tutte le regioni considerate sono totalmente montane ed alpine):
- Per l’Italia le regioni considerate sono: Friuli-Venezia Giulia, Veneto, Trentino,
Alto Adige, Lombardia,
- Per l’Austria le regioni considerate sono: Kaernten, Steiermark, Salzburg,
Oberoesterreich, Voralberg e Tirol,
- Per la Germania è stata considerata l’area del Bayern,
- Per quanto possibile sono stati inoltre presi in considerazione gli interventi
118
Sandro Fabbro e Enzo Forner
Arco alpino orientale e politiche europee di sviluppo locale
comunitari che coinvolgono anche gli stati alpini attualmente non facenti parte
dell’Unione Europea, cioè la Svizzera, il Liechtenstein e la Slovenia
Alcuni Programmi comunitari risultano diffusi in maniera omogenea in tutte le
regioni alpine orientali: l’Obiettivo 5a, l’Obiettivo 5b ed INTERREG II in particolare; al contrario l’Obiettivo 2 risulta invece il Programma comunitario meno diffuso, essendo presente in sole 3 regioni austriache. Il Programma INTERREG II
risulta infine presente in tutte le regioni alpine comunitarie poste sui confini
nazionali, e la sua operatività investe anche Svizzera, Liechtenstein e Slovenia al
di fuori dei confini comunitari, sia attraverso specifici programmi di cooperazione transfrontaliera che attraverso l’attuazione, almeno in Slovenia, del
Programma comunitario CBC-Phare, che può essere considerato l’equivalente
del Programma INTERREG II sul versante sloveno dei Programmi comunitari
INTERREG II Austria-Slovenia e Italia-Slovenia.
-Il quadro generale che emerge evidenzia quindi la diffusione dei programmi
comunitari, la cui operatività si sovrappone in molte regioni offrendo una ampia
disponibilità di strumenti e opportunità di intervento, ma ponendo al contempo
anche delicati problemi di coordinamento sia tra i diversi programmi nell’ambito di una regione, che tra le regioni contermini.
-Prima di passare ad illustrare una sintesi dei principali risultati del lavoro realizzato, con particolare riferimento alla cooperazione transnazionale, appare utile
sottolineare come non sempre i territori ammessi a beneficiare dei diversi programmi comunitari abbiano caratteristiche alpine: molte regioni considerate,
infatti, presentano una compresenza di aree di pianura e di montagna che risulta impossibile distinguere, per quanto riguarda i dati quantitativi, senza ricorrere ad un livello di analisi di dettaglio non disponibile attualmente. I dati forniti
nel presente rapporto, salvo indicazione contraria, si riferiscono quindi al livello
regionale complessivo.
La lettura comparata dei diversi documenti programmatici permette di evidenziare una serie di macro-obiettivi che, al di là della specificità dei Programmi
Operativi, emerge come elemento di fondo dell’azione dei Fondi Strutturali nell’area alpina:
- Lo sforzo di diversificazione della struttura produttiva nelle aree dove le tradizionali attività (siano esse di tipo agricolo od industriale) siano entrate in crisi,
ricercando nuovi equilibri tra passato e futuro;
- Il conseguente sforzo di integrazione tra i diversi settori economici quale strategia di risoluzione dei problemi tipici delle aree a forte specializzazione o di
quelle a scarsa caratterizzazione e dinamica di sviluppo;
- Una significativa attenzione alla necessità di recuperare le disparità territoriali
nelle dinamiche di sviluppo che si evidenziano sia nel confronto tra aree alpine
e le vicine aree di pianura (specie sul versante italiano dove lo stacco, sia dal
punto di vista geografico che socio-economico è più netto), che nel confronto
tra le diverse subaree della catena alpina;
La spinta alla riscoperta e valorizzazione delle risorse e delle specificità locali,
umane, culturali, materiali, come mezzo per recuperare e ricostruire una nuova
identità e senso di appartenenza.
119
n.4 / 2002
Interreg II
Inquadramento generale dei programmi Interreg
"Interreg II" ha interessato l’Austria per le relazioni confinarie con la Slovenia, la
Germania e la Svizzera; la Germania per le relazioni confinarie con la Svizzera e
infine l’Italia per le relazioni confinarie con la Slovenia, l’Austria e la Svizzera.
Di seguito riportiamo una descrizione di ciascun programma Interreg con l’esclusione di quello Austria-Svizzera di cui non è stato possibile recuperare i dati.
Interreg Austria-Slovenia
Informazioni generali
Le regioni interessate dal programma sono la Carinzia e la Stiria. Il costo totale
è di 22,560 MECU. L’Unione Europea interviene con la copertura del 39,9% delcosto totale.
Il programma prevede, per ordine di importanza finanziaria, le seguenti priorità:
- Cooperazione e sviluppo economico (decisamente la più consistente)
- Ambiente, conservazione della natura ed energia
- Assistenza tecnica e pianificazione
- Risorse umane
- Infrastrutture tecniche
Tabella 1. Costi totali e per sottoprogrammi dell’Interreg Austria-Slovenia
Sottoprogrammi/misure
Costo totale (in MECU)
Contribuzione UE (in MECU)
Assistenza tecnica e
pianificazione
Cooperazione e
sviluppo economico
Infrastrutture tecniche
Risorse umane
Ambiente, conservazione
della natura ed energia
2,384
1,192
13,449
4,940
1,056
2,292
3,379
0,528
1,110
1,230
TOTALE
22,560
9,000
Interreg Austria-Germania
Informazioni generali
Le regioni interessate dal programma sono la Baviera (GER), l’Oberosterreich,
la regione Salisburghese, il Tirolo e il Voralberg. Il costo totale è di 56,258 MECU.
L’Unione Europea interviene con la copertura del 43,7% del costo totale.
Il programma prevede, per ordine di importanza finanziaria, le seguenti priorità:
- Sviluppo socio-economico, specialmente nei settori del turismo e della cooperazione industriale
- Agricoltura e foreste
- Sviluppo delle risorse umane, principalmente nel settore dell’addestramento e
120
Sandro Fabbro e Enzo Forner
Arco alpino orientale e politiche europee di sviluppo locale
della certificazione
- Ambiente, trasporto e infrastrutture
- Assistenza tecnica, sviluppo della pianificazione e studi (comprendenti la promozione di Euregios)
Tabella 2. Costi totali e per sottoprogrammi dell’Interreg Austria-Germania
Sottoprogrammi/misure
Costo totale (in MECU)
Contribuzione UE (in MECU)
Protezione ambientale
nel trasporto/Infrastrutture
Sviluppo socio-economico
Agricoltura
Sviluppo delle risorse umane
Sviluppo della pianificazione,
studi assistenza tecnica
6,972
3,486
26,874
9,949
7,550
4,913
11,600
3,280
3,778
2,456
56,258
24,600
TOTALE
Interreg Germania-Svizzera
Informazioni generali
Il programma, del costo complessivo di 9,710 MECU di cui 4,855 di contribuzione UE, comprende, per ordine di importanza finanziaria, queste misure di
intervento:
- Economia/turismo/agricoltura
- Sviluppo e gestione dell’area
- Rete di trasporto pubblico
- Formazione e cultura
- Sanità e servizi sociali
- Altro (compresa assistenza tecnica)
Tabella 3. Costi totali e per sottoprogrammi dell’Interreg Germania-Svizzera
Sottoprogrammi/misure
Costo totale (in MECU)
Contribuzione UE (in MECU)
Economia/Turismo/agricoltura
Sviluppo e gestione dell’area
Formazione e cultura
Rete di trasporto pubblico
Sanità e servizi sociali
Altro (compresa assistenza tecnica)
2,428
1,748
1,164
1,456
0,486
2,428
1,214
0,874
0,582
0,728
0,243
1,214
TOTALE
9,710
4,855
121
n.4 / 2002
Interreg Italia-Slovenia
Informazioni generali
Le aree oggetto del programma di cooperazione transfrontaliera tra Italia e
Slovenia sono comprese nelle tre province di Udine, Gorizia e Trieste, mentre il
confine marittimo interessa anche il vicino ambito della provincia di Venezia, per
una superficie di 8.000 kmq.
Il programma interessa, sul territorio italiano, una popolazione di circa
1.719.000 abitanti. La densità media di popolazione varia notevolmente da una
provincia all’altra (1.211 abitanti per chilometro quadrato a Trieste, 296 a Gorizia,
106 a Udine e 333 a Venezia).
Le diverse caratteristiche geografiche del territorio si rispecchiano anche nelle
caratteristiche socio-economiche di ciascuna zona. L’area prealpina presenta
un’economia agricola marginale, mentre sulle colline goriziane si sviluppa un’agricoltura più florida ed è presente una rete di PMI più avanzate. Le grandi industrie navali e siderurgiche del litorale triestino sono state colpite dalla crisi di tali
settori, mentre Venezia dipende prevalentemente dal turismo e dal settore
secondario.
I punti di forza
- Presenza di risorse ambientali e naturali ancora ben conservate e diffuse per
buona parte della frontiera. Particolarmente significative sono quelle dell’area
montana-pealpina, dell’area carsica, quelle dei golfi di Trieste e di Venezia. Il
carattere chiuso della frontiera e le esigenze strategico-militari hanno contribuito a mantenere tali aree al riparo da processi di sviluppo intensivo.
- Esistenza di tracce di interscambio culturale, quali la comune matrice istroveneta testimoniata dall’architettura e dal patrimonio culturale dell’area costiera,
come nella presenza di minoranze nazionali attente al dialogo e alla salvaguardia
dei loro valori e delle loro culture.
- Le potenzialità legate al miglioramento dei rapporti tra Italia e Slovenia, rispetto ai decenni passati, che possono incrementare la collaborazione operativa esistente a livello di enti locali verso altre possibili forme di interscambio quali la
cooperazione economica, la realizzazione di reti di informazione e di servizio
transfrontaliere. Tale obiettivo si inquadra nel recupero dei legami culturali ed
economici con l’area slovena e istriana sviluppati dai tempi della repubblica di
Venezia e quindi nella valorizzazione della dimensione multiculturale che possiede l’area dell’Alto Adriatico.
- Connesso a questo ultimo punto, vi è la presenza, sul versante sloveno, di un
programma comunitario quale il CCP-Phare che rappresenta il naturale complemento del programma Interreg per la parte italiana e che va a colmare il tipico
intervento unilaterale di Interreg.
I punti di debolezza
- Marginalità e disomogeneità del territorio confinario, inteso in senso stretto, e
i vincoli morfologici che ostacolano le relazioni e lo sviluppo unitario del territorio frontaliero lungo la dorsale delle Alpi Orientali, da una parte e gli effetti
negativi della marginalità tipica delle aree di frontiera rispetto ai rispettivi centri
nevralgici della vita socio-economica nazionale, dall’altra, sono stati rafforzati
dalle incomprensioni e dalle oggettive difficoltà di comunicazione con le vicine
122
Sandro Fabbro e Enzo Forner
Arco alpino orientale e politiche europee di sviluppo locale
zone transfrontaliere e dall’appartenenza del territorio a quattro diverse realtà
provinciali, caratterizzate da percorsi storici di sviluppo assolutamente diversi tra
loro (ad es. l’appartenenza all’impero austro-ungarico della Venezia Giulia e della
Slovenia, sino al 1918). Per tali motivi l’area di confine non è mai stata individuata
come un’area unitaria, appartenente ad un più vasto sistema regionale, ma è
stata trattata come una componente svantaggiata del territorio, sezionata secondo parametri diversi (confini amministrativi, configurazione geografica, crisi di
settori economici ecc.).
- Stasi o addirittura crisi economica che coinvolge parti significative delle province di frontiera: in particolare l’area montana, con la rarefazione del sistema
insediativo e del tessuto economico, nonché l’area triestina e quella veneziana,
dove i processi di deindustrializzazione in atto evidenziano la necessità di attivare programmi di riconversione (esigenza peraltro già riconosciuta dall’Ob.2).
- Processi di trasformazione socio-economica e istituzionale ancora in svolgimento nelle aree limitrofe, che provocano una generale instabilità e generano i
rischi tipici connessi all’evoluzione delle economie dell’est europeo (dumping
sociale e ambientale, flussi migratori e pendolarismo frontaliero, etc.); le opportunità di miglioramento dei rapporti tra Italia e Slovenia rappresentano un fattore positivo, ma spostando l’attenzione sulla situazione generale dei paesi exJugoslavia, questa rappresenta un elemento di debolezza per le prospettive di
sviluppo dell’area frontaliera. Sviluppo relativamente limitato della sensibilità e
delle propensioni alla concreta cooperazione tra operatori economici e sociali
locali e, in parte, tra istituzioni decentrate dovuto alla presenza di alcune incomprensioni culturali e alla scarsa conoscenza reciproca che tende a tradursi in una
sostanziale chiusura rispetto alle opportunità di collaborazione.La strategia di
attuazione del programma Interreg Italia-Slovenia si basa sui seguenti tre assi
principali e diverse misure di intervento (Tab.4). Osservando la Tab. 4 si può
notare che il programma Italia-Slovenia comporta un costo totale, per gli interventi in Italia, di 31,35 MECU; la quota dei costi che interessa la regione FriuliVenezia Giulia è del 66,5% mentre il resto interessa il Veneto. Il sottoprogramma
più impegnativo dal punto di vista finanziario è quello della "valorizzazione del
territorio, delle risorse locali e della tutela ambientale" con poco meno della
metà dei costi totali (14,912 MECU) e che è indirizzato soprattutto verso le misure della "tutela delle acque" e dello "sviluppo del turismo tematico". Viene poi il
sottoprogramma della "Cooperazione istituzionale e miglioramento delle comunicazioni" (10,318 MECU pari al 33% circa) ed infine il sottoprogramma della
"Cooperazione tra soggetti imprenditoriali” .
Con lo stesso metodo, si può osservare il caso Interreg Italia-Austria e il caso
Interreg Italia-Svizzera. Per brevità, se ne omette, in questa sede la descrizione di
questi altri due casi.
Dall’esame dei tre casi, emergono le seguenti considerazioni conclusive: le aree
ammesse al programma presentano problematiche comuni quali la posizione marginale; la debolezza del sistema imprenditoriale (e lo scarso livello di servizi alle
aziende); la tendenza allo spopolamento, che provoca problemi alla risorsa lavoro;
la scarsa presenza di elevate qualifiche professionali e forte presenza di occupazione stagionale; l’ambiente e l’agricoltura sono settori fragili, soggetti a degrado.
I punti di forza di queste aree sono da ritrovarsi: nell’ambiente, ben conservato
123
n.4 / 2002
e salvaguardato, fattore che può avere interessanti riscontri nell’offerta turistica;
nelle possibili sinergie tra turismo, agricoltura e artigianato; nell’agricoltura con
la presenza di alcune imprese in grado di adattarsi al mercato; nei rapporti transfrontalieri (soprattutto con Austria e Svizzera). Dall’osservazione della Tab.5 si
può notare che, tra quelli considerati, i programmi Interreg che interessano
l’Italia sono quelli che impegnano quasi la metà dei costi complessivi (52,38%).
Seguono i programmi austriaci e, quindi, quello della Germania. Le regioni italiane dell’arco alpino orientale partecipano ai costi totali dei programmi Interreg
che riguardano l’Italia, in misura pari a 69,954 MECU pari al 62,7% del totale dei
costi. Tra le regioni italiane dell’arco alpino orientale, la Lombardia ed il FriuliVG sono sicuramente quelle più impegnate rispettivamente con il 24,76% e con
il 24,1%. Nei programmi si riscontrano alcune misure che possono dirsi in qualche modo innovative: il programma ITA-AUS prevede misure legate alla risoluzione dei problemi derivanti dalla esistenza di due aree culturali che presentano
delle difficoltà, anche linguistiche, di comunicazione tra loro; il programma ITASVI prevede la valorizzazione di produzioni tipiche (attraverso la definizione di
standard produttivi per la tipicità del prodotto), della pesca nei laghi subalpini e
del sistema economico locale tramite l’adeguamento delle strutture turistiche; è
presente inoltre una attenzione alla gestione dei bacini per la sicurezza idraulica
del territorio montano; il programma ITA-SLO prevede l’attuazione di misure
quali la cooperazione inter-istituzionale e il miglioramento della comunicazione,
attraverso lo sviluppo delle risorse umane; la cooperazione tra soggetti imprenditoriali, tramite servizi alle PMI; il miglioramento della qualità e la promozione
dei prodotti locali; la cooperazione nel settore trasporti con la realizzazione del
sistema Vessel Traffic Management Information Service (VTMIS). Si può concludere osservando che, nel caso dei programmi "Interreg II" come anche nel caso
di altri programmi, le dimensioni della comunicazione intersoggettiva ed interorganizzativa, delle interdipendenze di filiera o di sistema tra componenti delle
risorse locali, della cooperazione inter-organizzativa ed inter-istituzionale entrano significativamente nei programmi anche se non ne costituiscono sempre le
componenti finanziarie maggioritarie. Cooperazione, comunicazione, tutela dei
sistemi ambientali e naturali, integrazione tra micro risorse locali sono le parole
chiave più importanti ed innovative dei programmi. In questo caso, tuttavia, c’è
una differenza sostanziale: c’è un confine di mezzo, confine che, in diversi casi,
divide non solo stati ma anche nazioni, culture, aree linguistiche (germaniche,
slave, latine) ecc.. Cosa significa, allora, costruire ed implementare programmi
che, attraverso le risorse di cui abbiamo detto, mirino a trasformare l’identità
precaria del confine in una identità più stabile e vitale? Mirino, cioè, a trasformare l’area di confine da margine delle regioni esistenti in centro di nuove "regioni" nel senso di costruire e condividere nuovi sistemi di interessi strategici, di
vocazioni specifiche, di attività locali? In questo senso la problematica si complica e si arricchisce di nuovi elementi. L’”apprendimento sociale”, nel caso
dell’InterregII, è un processo che si complica per il sommarsi di discontinuità ed
asimmetrie dovute non solo alla presenza di aree confinanti appartenenti a paesi
ed aree linguistico-culturali diverse ma anche al fatto che, quelle stesse aree,
sono spesso le più marginali anche rispetto ai propri paesi. Il processo che va in
qualche misura monitorato è, pertanto, quello che, attraverso una riconcettualiz-
124
Sandro Fabbro e Enzo Forner
Arco alpino orientale e politiche europee di sviluppo locale
zazione delle risorse locali, il miglioramento dei vecchi e la costruzione di nuovi
sistemi di comunicazione, l’avvio di nuove forme di cooperazione anche al livello
micro delle comunità locali, dovrebbe portare alla elaborazione di una nuova identità locale e di un nuovo tessuto comune di interessi. Sono, come abbiamo già
osservato, le sfide delle nuove politiche di sviluppo locale avviate dalla UE e,
quindi, anche gli aspetti su cui bisogna concentrare maggiormente l’attenzione
al fine di coglierne fino in fondo implicazioni e possibilità di successo.
Tabella 4. Costi totali per sottoprogrammi e misure dell’Interreg Italia-Slovenia
Assi e misure
Asse 1 Valorizzazione
del territorio, risorse locali
e tutela ambientale
1.1 Sviluppo dei parchi
naturali dell’area
frontaliera
1.2 Sviluppo del turismo
tematico
1.3 Sviluppo del centro
pilota per la vitivinicoltura
1.4 Sostegno della
produzione e commercializzazione dei prodotti locali
1.5 Interventi per la tutela
delle acque
Asse 2 Cooperazione istituzionale e miglioramento
della comunicazione
2.1 Cooperazione culturale
e manifestazioni
transfrontaliere
2.2 Studi finalizzati ad
agevolare la cooperazione
2.3 Formazione e
riqualificazione professionale
2.4 Viabilità locale frontaliera
2.5 Cooperazione nel
settore dei trasporti
2.6 Cooperazione nel
settore dei servizi a rete
Asse 3 Cooperazione tra
soggetti imprenditoriali
3.1 Aiuti agli investimenti
delle PMI
3.2 Servizi alle imprese
Assistenza tecnica
TOTALE GENERALE
Totale FESR
Totale FEAOG
Totale FSE
(in milioni di ECU)
Costo totale
Friuli-Ven. Veneto
Giulia
(in milioni di ECU)
Contributo UE
14,912
10,992
3,200
7,096
1,700
1,700
0
0,850
4,892
4,392
0,500
2,446
0,200
0,200
0
0,100
1,400
1,000
0,400
0,700
6,000
3,700
2,300
3,000
10,318
7,530
2,688
5,064
1,848
1,000
0,848
0,924
0,580
0,480
0,100
0,290
1,900
1,000
0,900
0,855
2,500
1,790
2,500
1,150
0
0,640
1,250
0.895
1,700
1,500
0,200
0,850
6,140
1,850
4,290
3,070
3,140
0,850
2,290
1,570
3,000
0,700
31,350
28,050
1,400
1,900
1,000
0,400
20,872
18,872
1,000
1,000
2,000
0,300
10,478
9,178
0,400
0,900
1,500
0,350
15,580
14,025
0,700
0,855
125
n.4 / 2002
Tabella 5. Quadro riassuntivo dei costi totali relativi ai diversi programmi Interreg
Costo totale
Austria-Slovenia
22,560
Austria-Germania Austria- Svizzera
56,258
n.d.
Totale
78,818
Costo totale
Germania-Svizzera
22,560
Costo totale
Italia-Austria
27,426
Italia-Slovenia
31,350
Italia-Svizzera
52,734
Totali
111,51
Friuli V.G.
6,030
20,872
Veneto
5,714
- (*)
Bolzano
5,493
Lombardia
*: Provincia di Venezia, confine marittimo
4,227
27,618
26,902
5,714
9,72
27,618
ITALIA
Costo totale
111,51
Peso percentuale 52,38%
GERMANIA
22,560
10,60%
Totale
212,888
100%
(in MECU)
AUSTRIA
78,818
37,02%
Fondi strutturali 1994 - 1999 e arco alpino (orientale): considerazioni conclusive
Quali sono i principali elementi che emergono da una visione complessiva dell’impatto dei Fondi Strutturali nell’arco alpino orientale? L’importanza dei Fondi
Strutturali va oltre il solo aspetto quantitativo: in alcuni settori, come ad esempio
quello agricolo, il loro sostegno appare ancora oggi – e anche nel prossimo futuro – fondamentale per garantire la presenza di un sistema produttivo vitale. In altri
settori – PMI, turismo, infrastrutture – la presenza di Fondi Strutturali appare
importante per realizzare una spinta verso l’ammodernamento e verso lo sviluppo
economico integrato delle regioni alpine, che sarebbe certamente frenata dalla
mancanza delle risorse comunitarie. Non si tratta infatti dei soli Fondi Comunitari,
ma del volume complessivo di risorse finanziarie sia pubbliche (nazionali e regionali) che private le quali, in assenza del volano comunitario, prenderebbero almeno in parte altre direzioni, verso le regioni forti dello sviluppo economico, generalmente coincidenti con quelle di pianura.Ciò che merita di essere ulteriormente
sottolineato è che, sia l’analisi dei problemi (punti di forza e di debolezza), sia la
costruzione delle misure, sia i pesi degli impegni finanziari contenuta nei diversi
DOCUP, hanno messo in evidenza, al contempo, una elevata frammentazione di
programmi, sottoprogrammi, misure ecc. e la ricerca di una visione integrata ed
interdipendente dei principali settori e fattori in gioco. Inoltre, se si esclude la
generale percezione negativa dello stato delle risorse umane, negli altri casi raramente si identificano settori decisamente positivi o negativi mentre prevalgono le
situazioni ambivalenti e controverse (nell’agricoltura e nel settore forestale; nel
paesaggio e nell’ambiente; nell’industria ecc.). L’impressione che si ha, pertanto,
126
Sandro Fabbro e Enzo Forner
Arco alpino orientale e politiche europee di sviluppo locale
è che le immagini dei problemi che vengono fornite, con l’esclusione, forse, di
alcuni casi estremi, implichino ambiguità, compresenza di forza e di debolezza,
o, addirittura, il fatto che gli stessi fattori possano essere percepiti in modo diverso in situazioni diverse ma che al contempo ci sia la necessità di ricondurre tutta
questa ambiguità (non priva di una sua ricchezza informativa) a programmi, sottoprogrammi, misure ecc. operativamente ben definiti.
Sembra, pertanto, che uno sforzo particolare e preliminare dovrebbe essere fatto
per ricercare non solo il paradigma che interpreta meglio queste situazioni
ambigue ma anche per adattare le procedure di intervento alla complessità della
realtà in gioco. Va riconosciuto, tuttavia, che, dal punto di vista delle strategie e
delle misure si punta soprattutto:
- sugli strumenti che servono a migliorare l’informazione, la comunicazione e
l’interfacciamento degli attori (i centri di Sviluppo Locale, i Sistemi Informativi
Territoriali);
- su risorse insediative, ambientali ed economiche poco valorizzate -se non addirittura ignorate fino a poco tempo fa- e che comunque implicano, ancora, la
necessità di interventi di insieme e non isolati (turismo tematico, albergo diffuso, microfiliere produttive ecc.);
- su interventi tesi a sviluppare capacità adattive ed imprenditive da parte dei soggetti sociali coinvolti nei processi di sviluppo.
Tutta una serie di nuove problematiche sembrano allora entrare prepotentemente sia nella interpretazione dei problemi sia nella ricerca di soluzioni adeguate e compatibili con il livello delle sfide in atto:
- la dimensione della comunicazione tra i soggetti e tra le organizzazioni coinvolte;
- la scoperta delle interdipendenze (verticali a filiera, ed orizzontali a rete od a
sistema) non solo a livello di macro settori (che è cosa nota) ma anche tra componenti, spesso eterogenee, della storia, della geografia e della cultura locali
(che non sono date per scontate ma che implicano, invece, nuove capacità interpretative, immaginative e creative);
- la questione, tutt’altro che semplice, dell’apprendimento sociale attraverso la
costruzione di processi circolari e partecipati di riflessione, conoscenza, azione
congiunta.
Ci si dovrà chiedere, in particolare, se i tanti ed articolati assi, misure e progetti:
- riescono anche a costruire una immagine unitaria, nuova e riconoscibile dello
sviluppo della montagna alpina, una identità nuova del territorio alpino;
- riescono a favorire la cooperazione e le sinergie tra i tanti attori coinvolti, tra
istituzioni e mercato, tra sistemi territoriali strettamente locali e sistemi regionali più grandi e complessi.
Agenda 2000 ed i Fondi Strutturali 2000-2006: nuove sfide e
nuove opportunità per l’Arco alpino?
Il periodo di operatività dei Fondi Strutturali 2000-2006 rappresenta una sfida
aperta per l’arco alpino per consolidare i risultati di sviluppo regionale conseguiti nel corso del periodo precedente. Agenda 2000 ed i successivi Regolamenti
attuativi non presentano specifici riferimenti al territorio alpino: seguendo una
prassi ormai consolidata, ci sembra di poter affermare che, viste da Bruxelles, le
127
n.4 / 2002
Alpi rappresentino un’area assimilabile alle altre zone rurali, se non addirittura
un’area “ricca” in conseguenza dello sviluppo delle attività turistiche locali o
delle aree peri-alpine, e quindi senza tener conto delle specifiche condizioni
ambientali e socio-economiche locali e della presenza di ampie aree con gravi
problemi di ritardo nello sviluppo. La responsabilità delle scelte territoriali ricade quindi di nuovo sulle spalle delle autorità nazionali e soprattutto regionali,
chiamate a definire innanzitutto l’ambito territoriale di applicazione dei diversi
Programmi ed Obiettivi, e successivamente a definire i contenuti degli interventi. Alcune indicazioni strategiche contenute nei nuovi Programmi offrono interessanti stimoli per ripensare alle tradizionali politiche di sviluppo regionale
nelle Alpi, come ad esempio:
- una forte spinta al passaggio dalle misure di investimento materiale a quello
immateriale (informazione, formazione e orientamento, servizi alle imprese,
ricerca e sviluppo);
- la forte attenzione per i temi dell’occupazione e dell’ambiente, da sviluppare
anche attraverso misure fino ad oggi realizzate solo in chiave sperimentale, come
ad esempio lo sviluppo dell’auto-imprenditorialità.
Guardando agli strumenti di intervento per il prossimo periodo, le linee-guida
generali indicano le seguenti modificazioni principali:
- Una maggiore concentrazione degli aiuti comunitari, ottenuta sia riducendo da
6 a 3 il numero degli Obiettivi prioritari, che riducendo il numero della popolazione ammissibile;
- Una semplificazione ed un decentramento nella loro attuazione, in particolare
attraverso un accorpamento dei documenti di programmazione regionale richiesti;
- Una maggiore importanza ai criteri di efficacia della spesa in termini di tempestività e risultati. Si tratta di tendenze che non sono state certamente indolori per
la montagna alpina.
L’aspetto più critico è certamente quello legato alla concentrazione delle popolazione ammissibile ai Fondi Strutturali, passata dal precedente 51% all’attuale
previsto 38%, con un solo 5% destinato alla popolazione in area rurale
Obiettivo 2. Ciò ha reso necessario operare una selezione a livello regionale, particolarmente grave soprattutto in quelle regioni che sono costituite totalmente
da territori alpini. In sostanza, nonostante le affermazioni di principio, è certo
che le politiche di sviluppo rurale/locale – e alpino in particolare - troveranno
minore spazio nel periodo di programmazione 2000-2006, anche per il permanere di un forte squilibrio tra le misure di sostegno ai mercati agricoli, nettamente predominanti, e quelle orientate allo sviluppo strutturale dell’agricoltura.
Tale fatto, che pur nella sua gravità va considerato a questo punto un dato di
fatto, impone di operare prioritariamente, in futuro, in direzione di un miglioramento della efficacia nell’utilizzo delle risorse disponibili, processo che sarà possibile solo attraverso l’avvio di meccanismi di “apprendimento continuo”, possibilmente su scala trans-nazionale, in grado di selezionare strategie e misure di
intervento che nella passata esperienza si siano dimostrate più efficaci nell’affrontare i problemi comuni del territorio alpino. La prosecuzione di due
Programmi particolarmente importanti per l’arco alpino in termini di elaborazione e sperimentazione di nuovi modelli di sviluppo endogeno e di apprendimento tramite scambio e la conoscenza reciproca , come INTERREG e LEADER,
128
Sandro Fabbro e Enzo Forner
Arco alpino orientale e politiche europee di sviluppo locale
va valutata certamente come un fatto positivo. In particolare la prima offre l’opportunità di proseguire, consolidare e sviluppare l’esperienza fino a qui realizzata, nell’ambito della nuova area transnazionale di cooperazione definita per il
Programma INTERREG III B “Spazio alpino“, aperta anche alla partecipazione
delle regioni dell’arco alpino occidentale, che coinvolge le diverse nazioni e
regioni frontaliere in un processo di scambio di informazioni ed esperienze sul
tema dello sviluppo regionale. La programmazione operativa di INTERREG III B
“Spazio Alpino”, in fase conclusiva al momento della scrittura di queste note,
pone al centro degli obiettivi di intervento il tema dello sviluppo sostenibile considerato come elemento centrale per una nuova strategia di sviluppo dell’Area
Alpina e dei rapporti con le aree vicine.Tale concetto di base si articola in diversi
significati/obiettivi specifici:
- Nella preservazione di una funzione vitale anche per le sub-aree territoriali più
deboli e marginali della montagna alpina;
- Nell’arresto dei flussi demografici fortemente negativi ancora in atto in molte
aree alpine a tutto vantaggio di quelle pre-alpine e peri-alpine;
- Nello sviluppo di politiche territoriali orientate alla sostenibilità, anche in relazione all’attuazione dei concetti-chiave di Agenda Locale 21;
- Nello sviluppo di reti di lavoro e di cooperazione attraverso i numerosi confini
che interrompono la continuità alpina;
- Nella definizione di modelli di sviluppo turistico maggiormente orientati alla
sostenibilità rispetto alle risorse ambientali e naturali che tanta parte giocano
nello sviluppo turistico alpino;
- Nello sviluppo di una accessibilità sostenibile in grado di coniugare le esigenze
di trasporto e comunicazione delle aree forti peri-alpine con le esigenze locali di
presenrvazione delle risorse naturali e della qualità della vita;
- Nella protezione, valorizzazione e fruizione dei valori naturalistici e culturali di
cui l’area alpina è portatrice in modo molto significativo.
A questo Programma è assegnato il compito, nei prossimi anni, di riprendere e
sviluppare l’eredità lasciata da Regionalp e da altri progetti di cooperazione
transnazionale in area alpina che nel periodo 1994-99 hanno gettato le prime
basi per l’attuazione di Interreg IIIB.
Ringraziamenti:
Questo saggio è stato pubblicato grazie alla gentile concessione della Regione
Autonoma Friuli-Venezia Giulia.
Riferimenti bibliografici
Agenda 2000, Commissione europea: Agenda 2000. Volume 1: Per un'Unione più grande e più
forte. Volume 2: La sfida dell'ampliamento. Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle Comunità
europee, Lussemburgo, 1997. N. cat. CB-CO-97-379-IT-C e CB-CO-97-380-IT-C.
http://europa.eu.int/comm/agenda2000/
ALPIN SPACE PROGRAMME, INTERREG IIIB Community Initiative, 3rd Draft, September 2000,
Alperforschungsinstitut gemn. GmbH, D - Garmish-Partenkirken.
Bätzing W. (1993) Der sozio-oekonomische Strukturwandel des Alpenraumes, in 20. Jahrhundert,
Geographica Bernensia, n. 26, Bern.
Bätzing W., Perlink M., Dekleva M. (1995) Urbanization and depopulation in the Alps. An analysis
of current socio-economic structural changes, in Mountain Research and Development, 15°.
Bätzing W. (1996) Agricoltura nell’Arco Alpino, quale futuro? Un bilancio dei problemi attuali e
129
n.4 / 2002
delle soluzioni possibili, Franco Angeli, Milano.
CIP INTERREG II Italy-Austria, adoption 4/15/’97
CIP INTERREG II Italy-Slovenia, Friuli-Venezia Giulia and Veneto, adoption 7/24/’97
CIP INTERREG II Italy-Switzerland, adoption 12/18/’96
CIP INTERREG II Austria-Slovenia, adoption 12/21/’95
CIP INTERREG II Germany-Austria Bayern/ Oberösterreich/Salzburg/Tirol/Voralberg, adoption
DOCUP Austria Steiermark Objective 5b 1995-1999, adoption 12/04/’95
DOCUP Austria Voralberg Objective 2, adoption 11/15/’95
DOCUP Austria Voralberg Objective 5b 1995-1999, adoption 12/04/’95
DOCUP Austria Kärnten Objective 5b 1995-1999, adoption 12/04/’95
DOCUP Austria Salzburg Objective 5b 1995-1999, adoption 12/04/’95
DOCUP Austria Tirol Objective 5b 1995-1999, adoption 12/04/’95
DOCUP Austria Niederösterreich Objective 2, adoption 11/15/’95
DOCUP Austria Niederösterreich Objective 5b 1995-1999, adoption 12/04/’95
DOCUP Austria Oberösterreich Objective 2, adoption 11/15/’954/17/’96
DOCUP Austria Oberösterreich Objective 5b 1995-1999, adoption 12/4/’95
DOCUP Austria Steiermark Objective 2, adoption 11/15/’95
DOCUP Germany Bavaria Objective 2 1997-1999, adoption 5/7/’97
DOCUP Germany Bavaria Objective 5b 1994-1999, adoption 12723/’94
DOCUP Germany Baden Württemberg Objective 5b 1994-1999, adoption 3/24/’95
DOCUP Italy Friuli-Venezia Giulia Objective 5b 1994-1999, adoption 1/20/’95
DOCUP Italy Veneto Objective 5b 1994-1999, adoption 12/23/’94
DOCUP Italy Bolzano-Bolzen Objective 5b 1994-1999, adoption 12/16/’94
DOCUP Italy Trento Objective 5b 1994-1999, adoption 12/16/’94
DOCUP Italy Lombardy Objective 5b 1994-1999, adoption 12/23/’94
European Commission (1995) EC Structural Funds, Common Guide for Monitoring and Interim
Evaluation
INEA (2000) Politiche di sviluppo rurale nelle regioni italiane dell’obiettivo 5b: 1994-1999, eds.
Cesaro L. and Marotta G., Roma.
Malan J. (1998) Translating Theory into Practise: Lessons from the Ex-post Evaluation of the 1989’93 Objective 2 Programme, paper presented at the European Conference on Evaluation,
Siviglia, 16-17 March.
Regionalp (2000), Spatial Planning and Spatial Development in the (Eastern) Alpine Area, Final
Report, European Commission.
Sandro Fabbro, docente di Pianificazione Territoriale della Facoltà di Ingegneria
dell’Università di Udine
Enzo Forner, ricercatore dell’Istituto di Ricerche Economiche e Sociali del FriuliVenezia Giulia (IRES)
[email protected]
[email protected]
130
A cura del Centro Studi C.G.I.A. Mestre
Slovenia: nuove opportunità di
cooperazione economica per le
piccole imprese dalla provincia di
Venezia.
Passaggio a Nordest
Nel corso degli ultimi anni il processo di allargamento dell’Unione Europea ha
subito una forte accelerata: la possibilità di ingresso di numerosi paesi diventa
infatti un obiettivo non solo storico, ma sempre più concretamente realizzabile,
che coinvolge oltre ai paesi PECO (Europa Centrale ed Orientale) anche Cipro,
Malta e la Turchia. Tale allargamento costituisce, per chi già fa parte dell’Unione
Europea, una importante occasione per ampliare scambi ed attività commerciali, nonché un impulso per l’integrazione economica europea nel suo complesso.
I paesi candidati ad entrare a far parte dell’Unione Europea partono, in linea di
principio, da condizioni di parità; tuttavia le realtà economiche e socio-politiche
di tali paesi sono spesso diverse, ponendo i paesi in posizioni diverse nei rapporti commerciali con i partner europei.
Tra i paesi candidati ad entrare nel primo gruppo, insieme ad Estonia, Ungheria,
Polonia, Cipro e Repubblica Ceca, vi è anche la Slovenia, che si caratterizza per
avere avviato, già da tempo, interessanti e proficui rapporti economici con le
regioni del Nord Est d’Italia, ponendosi in primo piano nei rapporti futuri con il
nostro paese.
Nel 1999, oltre la metà delle esportazioni italiane verso la Slovenia partiva
dall’Italia nord-orientale, per un valore complessivo superiore a 900 mila euro
(1.740 miliardi di lire circa). Tra le regioni dell’area il primato era detenuto dal
Friuli Venezia Giulia, seconda regione per export nel ranking nazionale, seguita
a brevissima distanza dal Veneto. Nella graduatoria delle province italiane maggiormente esportatrici, ben tre dei primi cinque posti risultavano occupati da
province friulane (Gorizia, al secondo posto, contava un volume complessivo
d’export verso la Slovenia pari a circa 137 mila euro, 265 miliardi di lire, ed
all’8,2% del totale nazionale). Nel 1999, quattro delle sette province venete si collocavano tra la sesta e la decima posizione; quest’ultima era occupata da Venezia,
con una quota del 3,4% sul totale (circa 56.500 euro).
Il Friuli Venezia Giulia ha da sempre costituito il principale punto di riferimento
sia nei movimenti migratori sia in relazione alla cooperazione economica tra
imprese, anche se di recente la regione del Veneto ha iniziato a mettersi in luce
per le opportunità che offre a questo paese. All’interno del Veneto, la provincia
certamente più candidata ad intrattenere relazioni di natura commerciale e non
131
n.4 / 2002
con la Slovenia è la provincia di Venezia, per la tradizione di rapporti e per la
posizione di vicinanza che diventa sempre più strategica nelle relazioni tra paesi.
L’affermarsi di una economia di mercato stabile nella Slovenia denota ottime
opportunità per avviare scambi e forme di collaborazione economica; se la
Slovenia può rappresentare una preziosa funzione di ponte tra l’Italia ed i paesi
della ex-Jugoslavia, il Veneto ed in particolare la provincia di Venezia a sua volta
può svolgere un ruolo importante nella ricostruzione dell’economia di questo
paese, con ricadute positive anche in territori diversi dalla Slovenia stessa. Sono
in maggioranza le piccole imprese ad avere un forte interesse al mercato che si
apre in Slovenia: l’esperienza veneta di forte sviluppo della imprenditorialità diffusa può fungere da modello alla crescita dell’economia di un paese che per certi
aspetti è molto simile alla regione del Veneto.
Dopo la raggiunta indipendenza nel 1991, l’economia slovena è entrata nel difficile periodo di transizione che ha caratterizzato tutti paesi socialisti. La transizione all’economia di mercato ha portato ad importanti mutamenti strutturali, quali
le privatizzazioni, la riforma monetaria e la ristrutturazione del sistema bancario,
l’apertura del mercato domestico e l’orientamento dei mercati d’esportazione
dalla Jugoslavia ad altri paesi. Tradizionalmente specializzata nei settori della
metallurgia (alluminio, acciaio), della lavorazione del legno e degli articoli sportivi, l’industria slovena si è progressivamente diversificata, grazie anche alla forte
espansione delle imprese di piccole e medie dimensioni.
L’economia del Paese si sta caratterizzando per una buona solidità, con una crescita (PIL +4,6%) che nel 2000 è stata parallela ai parametri economici delle
nazioni europee occidentali, se rapportati alle esigue dimensioni territoriali ed
alla popolazione residente abbastanza contenuta. Questo ha fatto sì che negli
anni, i paesi dell’Unione Europea siano diventati il partner commerciale più
importante della Slovenia. Il rapporto stilato nel novembre 1998 dall’Unione
Europea ha dato atto alla Slovenia di un’effettiva accelerazione del processo di
riforma dell’industria, un riconoscimento dovuto a una serie di riforme messe a
punto con successo che pongono la Slovenia al medesimo livello legislativo dei
paesi europei. Tutto ciò sta velocemente trasformando la repubblica slovena in
un mercato economico snello, competitivo e funzionale.
L’esportazione di beni e servizi è salita del 12,7% in termini reali, anche se il
pesante deficit della bilancia commerciale (723 mila euro circa) non riesce a
riflettere gli effetti positivi della forte domande esterna. Il tasso di inflazione
medio annuo nel 2000 ha raggiunto l’8,9%, (+2,8% rispetto al 1999), valore elevato innanzitutto per fattori esterni, quali soprattutto il rincaro dei prezzi dei prodotti petroliferi sui mercati internazionali, il rialzo del dollaro e l’incremento dell’inflazione nei paesi dell’Unione Europea. L’elevato livello dei prezzi medi è
stato comunque pesantemente influenzato dagli effetti dell’introduzione della
tassa sul valore aggiunto nel 1999. Il problema maggiore resta il livello piuttosto
alto della disoccupazione; i relativamente alti costi del lavoro frenano ancora la
Slovenia ad essere veramente competitiva a livello internazionale, anche se i disoccupati sono diminuiti del 2,8% nella prima metà del 2000, attestando il tasso
di disoccupazione al 12,2% e ponendo la nazione fra quelle con il maggior tasso
di non impiegati in confronto ai paesi dell’Unione Europea.
Pur essendo un paese economicamente ancora in transizione, ovvero in gradua-
132
C.G.I.A. Mestre
Slovenia
le trasformazione dall’economia di tipo socialista all’economia di mercato, la
Slovenia si è caratterizzata già da vari anni come una nazione con un elevato
grado di apertura verso l’esterno. L’esigenza di trovare nuovi mercati di approvvigionamento ha fatto naturalmente guardare il Paese ad occidente, dunque
verso i paesi membri dell’Unione Europea, la cui importanza, oltre che per le
esportazioni, si è rivelata sempre crescente dal lato delle importazioni.
L’Italia è un partner commerciale importante per la Slovenia, venendo dietro la
Germania, mentre si va erodendo il vantaggio che la stessa Germania esibiva, una
decina di anni addietro, nei riguardi dell’Italia. Se un trend di tale natura dovesse continuare nel 2002/2003 l’Italia dovrebbe superare la Germania nel ruolo di
partner commerciale principale. Si tratta di una prospettiva significativa nella
quale si ritrova la capacità di legare l’economia slovena a quella italiana. C’è da
aspettarsi che nel futuro la tipologia degli scambi commerciali fra la Slovenia e
l’Italia, e con questa la provincia di Venezia, tenda ad acquisire le forme del
commercio orizzontale, con una specializzazione della Slovenia verso produzioni mature ma a buon livello tecnologico.
Le esportazioni della provincia di Venezia verso la Slovenia hanno assunto un andamento stazionario, dopo un grande balzo dal 1994 al 1995, che caratterizza più o
meno tutte le voci merceologiche fondamentali; si riscontra una polarizzazione
dell’export in poche voci doganali: la chimica (materie plastiche e coke metallurgico), la meccanica (macchine e apparecchi utensili), l’industria del legno e l’industria del vestiario e dell’abbigliamento (calzature). Anche analizzando l’import
per singole voci doganali si riscontra una polarizzazione nelle produzioni chimiche
(prodotti chimici organici e inorganici) seguita dalla produzione di macchine e
apparecchi (generatori elettrici e motori elettrici) e dalle industrie del legno e del
sughero (legno comune segato e prodotti in vimini e giunco).
Molto simili risultano anche le strutture produttive delle due “sponde”.
Complessivamente nella provincia di Venezia le imprese si concentrano soprattutto nel settore del commercio all’ingrosso e al dettaglio (33,4%), seguite dalle attività manifatturiere (14,9%) e leggermente più indietro dalle costruzioni (14,5%).
Per quanto riguarda la struttura dimensionale delle imprese, si evidenzia la centralità delle micro e piccole imprese: quasi la metà sono imprese individuali, oltre il
90% costituite da meno di 10 dipendenti. Meno numerose, ma pur sempre significative, sono le unità di medio-piccola dimensione (10–49 addetti).
Nella Repubblica Slovena le imprese si ripartiscono equilibratamente in quattro
importanti macro-settori: il commercio al dettaglio (23,4%), il settore dei servizi
pubblici, sociali e personali (16,3%), i servizi alle imprese (13,8%) ed il settore
manifatturiero (15,5%). La struttura produttiva Slovena è prevalentemente composta da micro e piccole imprese, con oltre il 90% delle unità concentrato nella
fascia dimensionale 1-9 addetti; la micro-piccola dimensione è dominante in tutti
i settori di attività fino a raggiungere concentrazioni quasi esclusive nei settori
del trasporto e comunicazioni nel turismo, nel commercio e nei servizi alle
imprese.
Attraverso un’indagine empirica a doppio senso, ovvero ad imprese sia veneziane che slovene, si sono indagate le opportunità, le necessità di intervento e le
modalità di attivazione dei contatti tra gli operatori delle due realtà nell’intraprendere rapporti commerciali.
133
n.4 / 2002
Nel caso delle imprese della provincia di Venezia il questionario è stato somministrato ad imprese che hanno intrattenuto o intrattenevano relazioni commerciali con la Slovenia al momento della rilevazione. Tali imprese hanno iniziato ad
interessarsi maggiormente al mercato sloveno negli anni ‘90, cioè dopo la fine
della Repubblica Jugoslava, in particolar modo dal 1994, in coincidenza con la
proclamazione dell’indipendente Repubblica di Slovenia. La quasi totalità degli
intervistati si rivolge al mercato sloveno per vendere propri beni, solo marginalmente decentrando una parte della propria attività; in quest’ultimo caso, per
espressa manifestazione degli intervistati, essi sono stati spinti dall’esigenza di
reperire manodopera a loro avviso carente nel Nord-Est e dall’opportunità di
contenere i costi dei prodotti. Lo scarso peso della Slovenia come mercato di
decentramento produttivo viene ascritto ai relativamente alti costi che il lavoro
ha ormai raggiunto e che impediscono al Paese di essere competitivo nei confronti di altri paesi dell’Europa orientale. Dalle testimonianze raccolte si intuisce
la difficoltà (dovuta alla piccola dimensione d’impresa ed alla non profonda
conoscenza del mercato) ed a volte lo scarso interesse (dettato dall’incertezza
economica del Paese in fase di transizione) ad avviare scambi commerciali. Una
prima riflessione di natura propositiva emerge dalla lettura delle indicazioni relative a quali servizi, da attivare o implementare ulteriormente, le imprese intervistate ritengano più utili per avviare o incrementare l’attività di export in Slovenia,
dando una quasi parità di importanza alla necessità di organizzare la partecipazione a manifestazioni fieristiche ed al reperimento di agenti o rappresentanti in
Slovenia. Importante viene considerato anche il reperimento di maggiori informazioni sul mercato sloveno e sugli operatori economici esteri. L’ostacolo principale all’export verso la Slovenia resta la burocrazia, sia interna che esterna,
troppo intricata e pressante, i costi di esportazione e dazi doganali di vario tipo
e l’agguerrita concorrenza internazionale, soprattutto austriaca, instauratasi dall’apertura del mercato sloveno; per difendersi l’imprenditore veneziano avverte
l’esigenza di fortificare l’immagine italiana in Slovenia creando un marchio di
garanzia del “Made in Veneto”, sentendo altresì la mancanza di un sistema bancario nazionale di riferimento operante in zona, e notando nel contempo la presenza attiva dei gruppi creditizi tedeschi.
Le piccole e medie imprese veneziane sono coscienti delle opportunità che il
giovane Stato della Slovenia può offrire loro, ma spesso l’instabilità politica del
passato e l’attuale fase di transizione economica trasmettono insicurezza nell’intraprendere in modo importante relazioni commerciali. Alla domanda sui possibili vantaggi che spingono a collaborare con la Slovenia, gli imprenditori interpellati mettono in luce come la vicinanza della nazione costituisca l’elemento
cruciale per future cooperazioni, alla luce anche del fatto che, fra tutti i Paesi
dell’Est, la Slovenia è quello più florido e prossimo all’adesione dell’Unione
Europea. Altri vantaggi si riferiscono alla buona commerciabilità del prodotto
(grazie a una domanda affine a quella italiana), alla ricettività del mercato ed alle
maggiori facilitazioni sul piano fiscale. Sicuramente il mercato interno in espansione e l’aumento della domanda trainato dal progressivo innalzamento del livello di vita della popolazione costituiscono un forte elemento di attrazione per gli
esportatori veneti, che oltretutto considerano la Slovenia come un ponte indispensabile per orientarsi verso i paesi dell’Est.
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C.G.I.A. Mestre
Slovenia
Dal lato delle imprese slovene intervistate, circa un quinto del campione risulta
costituito da imprese che intrattenevano rapporti commerciali con la provincia
di Venezia, con assoluta predominanza delle importazioni ed al limite di rapporti simultanei di import/export. Praticamente tutte le imprese connesse con la
provincia di Venezia si relazionano da almeno 10 anni, denotando rapporti ben
consolidati vista la relativa giovinezza delle imprese slovene, dichiarando
comunque un rapporto medio di importazioni dal veneziano sul fatturato inferiore rispetto all’analogo rapporto per le esportazioni dalla provincia di Venezia.
Il canale maggiormente utilizzato per realizzare rapporti di interscambio con le
ditte veneziane risulta senza dubbio il contatto diretto, approccio caratterizzato
dalla conoscenza personale e dalla fiducia reciproca che genera quindi un intrinseco “valore aggiunto” al rapporto commerciale stesso. I principali ostacoli
incontrati dalle imprese slovene nello sviluppare relazioni con la provincia di
Venezia sono principalmente di natura finanziaria e legati alla conoscenza reciproca, quest’ultimo da superare tramite la realizzazione di un database di imprese del veneziano interessate al mercato sloveno ed in particolar modo verso quali
produzioni o servizi si orientano. Si rivela unanime ed affermativa la considerazione riguardo a maggiori opportunità future per gli scambi con la provincia di
Venezia da parte degli imprenditori sloveni, sicuri che l’ingresso della Slovenia
nella Unione Europea abbatterà i problemi che ancora si legano alla presenza
delle dogane ed alle residue difficoltà nei trasporti.
In termini conclusivi, guardando alla struttura ed alla evoluzione dell’interscambio
fra Slovenia e provincia di Venezia si percepisce una certa debolezza “relativa”, al
di sotto del suo livello di massimo potenziale. Il livello dell’interscambio fra due
aree dipende, naturalmente, da molti fattori, alcuni di carattere ambientale, ed altri
di carattere più strettamente economico. Tra i fattori di carattere ambientale possono essere considerati i legami di ordine culturale, la vicinanza fisica, la presenza
di un sistema di infrastrutture adeguate ai fini del collegamento tra tali aree. La
struttura degli scambi fra le moderne economie avanzate è segnata dal ruolo del
commercio orizzontale; in altri termini, le economie avanzate tendono a scambiare prodotti simili tra di loro oppure ad avviare rapporti di collaborazione basati su
accordi di committenza e/o subfornitura. Da una seppur sommaria lettura dei dati
descriventi la struttura del settore manifatturiero nelle due aree si ricava la maggior
vocazione della Slovenia verso la metalmeccanica in generale, settore nel quale il
veneziano non appare particolarmente forte. Eppure è proprio in tale settore che
possono aversi processi di commercio orizzontale.
Dunque, il veneziano esibisce una minore capacità di altre province ad intessere
rapporti commerciali con la Slovenia nei settori che più contano. Tra l’altro, dall’indagine emerge come l’interesse delle imprese veneziane verso la Slovenia sia
diventato per così dire “maturo”. In altri termini, sono relativamente poche le
imprese veneziane che in anni recentissimi hanno preso ad interessarsi del mercato sloveno. Certamente esistono e persistono difficoltà nell’avviare e mantenere rapporti commerciali con un mercato in transizione, come quello sloveno,
e tali difficoltà spesso portano le imprese – soprattutto quelle meno strutturate–
ad abbandonare tale mercato, come emerso dalle risposte degli imprenditori.
Tuttavia, tali difficoltà sono incontrate anche da imprese situate in altre province, precisamente in province italiane che hanno raggiunto risultati migliori nei
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n.4 / 2002
loro rapporti con la Slovenia.
Se originariamente, e cioè alla fine degli anni Ottanta, la Slovenia attirava un
certo interesse come paese verso cui delocalizzare alcune produzioni, oggi può
e deve attirare interesse in quanto mercato di consumo in evoluzione, un mercato da non sottovalutare. È probabile che attualmente le potenzialità del mercato sloveno siano, in una certa misura, sottovalutate dai produttori ed esportatori del veneziano. Una possibile ragione di tale atteggiamento può essere rinvenuta nella dimensione relativamente piccola del mercato. In effetti, la penetrazione di un mercato estero, con l’obiettivo di crearvi stabili rapporti, genera costi
di impianto il cui livello iniziale è più o meno fisso, indipendentemente dalla
dimensione del mercato stesso. In realtà, le cose possono essere viste in un’ottica diversa, in quanto un mercato, seppure piccolo, ma evoluto può presentare
interesse proprio per aziende di piccole dimensioni, trattandosi di un mercato di
nicchia.
In certi settori le imprese del veneziano potrebbero ottenere risultati maggiori di
quelli finora ricavati, purché sappiano adeguare segmenti delle proprie produzioni ai gusti ed al carattere dei consumatori sloveni. Per fare questo occorre
dapprima individuare i settori nei quali i prodotti italiani godono di prestigio nel
mercato sloveno e poi avviare prospezioni per analizzare i caratteri strutturali
della domanda slovena, al fine di comprendere la psicologia e gli orientamenti
del consumatore sloveno.
In modo particolare, apparirebbe interessante analizzare il mercato sloveno nel
campo della filiera della moda ed in quella dell’arredamento. Si tratta di due filiere nelle quali esiste una buona presenza di imprese del veneziano che, a priori, non
possono non avere interesse per un mercato come quello della Slovenia. Si è visto
che, in larga misura, finora i contatti tra le imprese acquirenti slovene e le imprese
esportatrici del veneziano vengono effettuati su iniziativa delle prime. Si tratta di
una strategia commerciale che assegna l’iniziativa alle imprese slovene e mette le
imprese del veneziano in una posizione di debolezza contrattuale, di minorità.
Uscire da tale situazione è necessario, se le imprese del veneziano non vogliono,
in prospettiva, rischiare di rimanere escluse dal mercato sloveno. Prendere l’iniziativa, nel campo dell’export, significa creare strutture ed istituzioni stabili e capaci di costruire una solida rete di legami conoscitivi e commerciali.
Le imprese del Nord-Est hanno saputo conquistare mercati importanti come
quello tedesco e quello austriaco, per cui appare incongruo che esse soccombano davanti ad imprese tedesche ed austriache che competono nel mercato sloveno. Le imprese italiane, in generale, e quelle veneziane, in particolare, hanno
la possibilità e la capacità di competere, con successo, con le altre imprese europee nel mercato sloveno, mercato che sarebbe un errore non prender in adeguata considerazione.
Centro Studi C.G.I.A. Mestre
[email protected]
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C.G.I.A. Mestre
Slovenia
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n.4 / 2002
LAPP
LABORATORIO ATTORI POLITICHE PUBBLICHE
Facoltà di Scienze Politiche
Università di Padova
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Carla Tedesco
L’analisi delle politiche urbane europee
Carla Tedesco
L’analisi delle politiche urbane
europee: alcuni frame emergenti
Il sestante
Tra i numerosi sviluppi della politica regionale europea, seguiti alla riforma dei
fondi strutturali del 1988, un ruolo di un certo rilievo ha sicuramente assunto
l’attenzione della Commissione verso il ruolo delle città nell’ambito del processo di integrazione europea. Più nel dettaglio, nell’ambito della revisione dei
Trattati dell’Unione, nel 1991, la Commissione propose l’inclusione del “declino
urbano” nella definizione degli obiettivi del Fondo Europeo di Sviluppo
Regionale. La proposta non fu però accettata dal Consiglio Europeo, sicché il
Trattato di Maastricht non include alcun riferimento alle città, né assegna un
mandato alla Comunità per lo sviluppo di una politica urbana. Tuttavia, pur in
mancanza di uno specifico mandato in questo settore nei trattati dell’Unione,
nell’ultimo decennio la dimensione urbana ha di fatto acquisito un ruolo sempre
più rilevante nell’agenda politica comunitaria e, in particolare, nell’ambito della
Direzione Generale (DG) “Politica regionale”. Così, se, in linea di principio,
diverse erano le DG che potevano giocare un ruolo rilevante nel settore della
politica urbana, facendosi promotrici di iniziative di intervento nelle città, è stata
la DG “Politica Regionale” ad avere, infine, il sopravvento nell’ambito del conflitto innescatosi nei primi anni novanta per il controllo di questo settore di policy.
In questo quadro di riferimento, si è assistito alla pubblicazione di alcune
Comunicazioni della Commissione sulle questioni urbane, nonché al lancio di
alcuni interventi in ambito urbano quali i Progetti Pilota Urbani, Urban e Urban
II, finanziati dai fondi strutturali e compresi i primi tra le Azioni Innovative (azioni volte a migliorare la gestione ordinaria dei fondi strutturali), gli altri tra le
Iniziative Comunitarie, ideate come strumenti finanziari speciali per l’attuazione
delle politiche strutturali in settori particolarmente innovativi e significativi per
lo sviluppo delle politiche comunitarie.
Contemporaneamente, in letteratura, un numero crescente di studi ha riguardato la politica dei fondi strutturali, nonché, più nello specifico, le questioni urbane e le loro peculiari declinazioni nell’ambito del processo di integrazione europeo. Più nel dettaglio, alcuni studi hanno concentrato l’attenzione sul meccanismo di funzionamento della politica dei fondi strutturali, cercando di cogliere le
relazioni tra tale meccanismo e la struttura istituzionale europea, verificando
altresì l’efficacia di alcuni frame analitici nel descrivere un oggetto di assai difficile definizione quale l’Unione Europea. Altri studi hanno invece riguardato il
ruolo delle città nell’ambito del processo di integrazione europea e messo in
relazione alcuni fenomeni che investono le città europee – quali quelli di crescita della competizione urbana e di esclusione sociale – con temi, obiettivi e
conseguenze di tale processo di integrazione.
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n.4 / 2002
Ciò premesso, il percorso che qui si propone intende rinvenire possibili relazioni tra questi diversi filoni di studi. Il filo rosso che connette le scelte dei contributi considerati è individuabile partendo dalla ricerca delle possibili connessioni
tra le iniziative di politica urbana comunitarie e i processi e i fenomeni che vengono riconosciuti anche nei documenti comunitari come caratteristici delle città
europee. In definitiva, questo percorso intende sollevare una serie di interrogativi sul contributo che il contesto di policy europeo può fornire alle politiche
urbane.
Senza alcuna pretesa di esaustività, ci si riferirà di seguito ad un esiguo numero
di contributi che, pur nella loro numerica limitatezza, possono essere considerati rappresentativi di alcuni dei temi e degli approcci emergenti nell’ambito degli
studi urbani nel contesto comunitario. In particolare, tra gli studi che hanno
guardato al meccanismo di funzionamento della politica dei fondi strutturali si
prenderanno in considerazione quelli (forse i più diffusi) basati sulla teoria della
governance urbana e, in particolare, sul concetto di multi-level governance (in
particolare: Marks et al. 1996); nonché studi che, con specifico riferimento alle
iniziative comunitarie di politica urbana, hanno utilizzato il concetto di
gatekeeping, arrivando alla individuazione di un meccanismo di multi-level gatekeeping (Tofarides 2002).
Per quanto riguarda invece gli studi che hanno avuto ad oggetto le relazioni tra
questioni urbane e Unione Europea, si farà riferimento, in particolare, ad alcune
delle predette Comunicazioni della Commissione sulle questioni urbane messe
a punto e diffuse nel corso degli anni novanta (CEC 1994; CCE 1995; CCE 1997;
CCE 1998); nonché a studi che guardano alle agglomerazioni urbane in Europa
nell’ambito della crescita della competizione tra città e, più nel dettaglio, alle
relazioni tra il processo di integrazione europea e l’emergere in Europa della
competizione urbana (in particolare: Cheshire 1999); infine, a studi sull’esclusione sociale e sulle specifiche forme che essa assume nelle città dei diversi Stati
membri (in particolare: Parkinson 1998).
Politiche urbane e struttura istituzionale dell’Unione Europea:
multi-level governance e multi-level gatekeeping
Nell’ambito degli studi che hanno concentrato l’attenzione sul meccanismo di
funzionamento della politica dei fondi strutturali, la chiave di lettura forse più
diffusa è rappresentata dall’utilizzo del concetto di governance. Tale concetto,
in linea con la sua grande diffusione nell’ambito della scienza politica nel corso
degli anni ottanta e novanta, ha influenzato in modo rilevante le analisi teoriche
ed empiriche sulla Unione fin dalla definizione dell’Atto Unico.
Più nel dettaglio, le specificità del contesto europeo, e, in particolare, la comparsa di attori di livello regionale o comunque sub-nazionale nel processo decisionale europeo in seguito alla riforma dei fondi strutturali, hanno portato alla
formulazione della teoria della multi-level governance, utilizzata da molti lavori
di ricerca sulla politica dei fondi strutturali e utile a spiegare le modalità con le
quali attori economici e politici di diversi livelli di governo (europeo, nazionale,
regionale, locale) sono coinvolti nella complessità del meccanismo di policymaking europeo, giocandovi un ruolo di tutto rilievo.
140
Carla Tedesco
L’analisi delle politiche urbane europee
Prima di addentrarci nell’analisi dei principali assunti di uno dei principali lavori
che hanno utilizzato questa prospettiva di osservazione, appare opportuno spendere alcune parole – seppure in modo sommario – sul ruolo che la teoria della
multi-level governance riveste nell’ambito dell’evoluzione delle tesi sulla natura
della struttura istituzionale europea.
Le notevoli difficoltà incontrate dagli studiosi nel fornire una definizione dell’oggetto Unione Europea, non inquadrabile in alcune delle strutture istituzionali
riconosciute, hanno prodotto un intenso dibattito sulle caratteristiche del governo europeo. Tale dibattito si è svolto tra due posizioni estreme: quella di coloro
che ritenevano l’Unione assimilabile ad una organizzazione intergovernativa e
quella di coloro che la assimilavano piuttosto ad uno stato sovranazionale. Più in
particolare, sino all’inizio degli anni novanta l’approccio ‘Stato-centrico’ ha connotato il modo di intendere l’Unione, successivamente, si è riscontrata una tendenza crescente ad adottare l’idea dell’Unione Europea come un sistema politico unico, una polity europea multilivello, pur con contorni di assai difficile definizione. In questo quadro di riferimento, numerosi studi hanno iniziato a formulare approcci alternativi agli studi sulla Unione Europea, quale risposta alla
provata inefficacia dell’approccio Stato-centrico nel descrivere l’influenza indipendente delle istituzioni sovranazionali e la mobilitazione degli attori locali
direttamente nell’arena europea. La teoria della multi-level governance si è inserita nell’ambito di questi studi e vi ha assunto un ruolo di tutto rilievo.
La scelta di riferirsi alla teoria della multi-level governance, concentrando l’attenzione sul lavoro di alcuni studiosi (Mark et al. 1996), è motivata dal fatto che
questi autori richiamano la multi-level governance con specifico riferimento agli
sviluppi della politica regionale che hanno fatto seguito alla riforma dei fondi
strutturali, basandosi su un lavoro di ricerca empirica sulla implementazione
della politica dei fondi strutturali. Marks ha successivamente esteso le sue considerazioni ad altri settori delle politiche europee (segnatamente alla politica di
coesione) e ad altre fasi del processo di policy, ma ciò che del suo lavoro appare rilevante mettere in evidenza in questa nota, sono proprio le considerazioni
sviluppate con riferimento alla politica dei fondi strutturali.
Più nel dettaglio, Marks e gli altri coautori si riferiscono sia allo sviluppo da parte
della DG “Politica regionale”, nel periodo successivo al 1988, di contatti sempre
più intensi con i governi sub-nazionali, finalizzati a portare avanti la politica dei
fondi strutturali; sia alla creazione di reti tra governi sub-nazionali. Nel caso
europeo, infatti, è possibile parlare di governance sia con riferimento alle relazioni ‘orizzontali’ tra i diversi attori coinvolti nei processi di policy, sia a quelle
‘verticali’ tra i diversi livelli di governo. Questa è l’interpretazione che Marks e gli
altri coautori forniscono del concetto di governance con specifico riferimento al
caso europeo; interpretazione che li porta a teorizzare l’esistenza di un sistema
di multi-level governance: “Il punto di partenza per l’approccio della multi-level
governance è dato dall’esistenza tra livelli multipli di governo di competenze
che si sovrappongono e di interazioni degli attori politici attraverso questi livelli. Gli esecutivi degli stati membri, sebbene potenti, costituiscono soltanto uno
degli attori del sistema politico europeo. Gli Stati non costituiscono un legame
esclusivo tra la politica interna e le contrattazioni intergovernamentali nella
Unione europea. Alle assunzioni relative ad un gioco a due livelli adottate dai
141
n.4 / 2002
sostenitori dell’approccio Stato-centrico, i teorici della multi-level governance
sostituiscono l’esistenza di una serie di policy networks multilivello. La struttura
di controllo politico è variabile, non costante, nelle diverse policy arenas”
(Marks et al. 1996, 41).
Il riconoscimento della crescente mobilitazione degli attori ai vari livelli non dice
tuttavia nulla su quali attori si mobilitano, né sul perché. Con questa consapevolezza, Marks e altri coautori esplorano le motivazioni che hanno portato alla
costituzione delle rappresentanze regionali a Bruxelles, così sollevando la più
generale questione della differenziazione della mobilitazione degli attori locali in
virtù del territorio e dei settori di policy. In definitiva, gli stessi autori evidenziano come, assumendo una prospettiva di multi-level governance, resta da chiarire quali sono gli attori più rilevanti in questo gioco multilivello. E ciò non può
che essere esplorato attraverso lavori di ricerca empirica in ciascun settore di
policy.
In proposito si prenderà in considerazione un recentissimo studio che si riferisce nello specifico alle iniziative comunitarie di politica urbana, inquadrandole
nel più generale quadro della politica regionale europea successiva alla riforma
dei fondi strutturali del 1988 (Tofarides 2002). Tale studio assume alcuni concetti
sviluppati nell’ambito dei numerosi contributi che accusano la teoria della MLG
di ignorare l’enorme influenza esercitata di fatto dagli Stati membri nei processi
di policy europei e sottolinea, in particolare, la rilevanza del controllo esercitato, nell’ambito delle iniziative di politica urbana comunitarie, dagli Stati membri
in ogni fase del processo di policy. Lo studio va oltre quanto ordinariamente
osservato dai sostenitori dell’esistenza di un ruolo di ‘gatekeeper’ esercitato dai
singoli Stati membri, rilevando che, nel caso delle politiche urbane, il ruolo di
‘gatekeeper’ è esercitato anche dagli altri livelli di attori coinvolti.
In particolare, lo studio sottolinea che, nonostante l’esistenza di obiettivi e
finanziamenti di livello sovranazionale, nell’ambito di tali iniziative, così come
più in generale della politica regionale europea, è riscontrabile una tendenza –
da parte dell’ampia gamma di attori di livello nazionale, regionale e locale – non
solo a prendere parte al processo di policy, ma anche ad agire da ‘gatekeeper’
tra la concezione della politica a Bruxelles e la sua implementazione. Ciò è favorito dal fatto che la Commissione dipende dalla macchina organizzativa dei singoli Stati membri per l’implementazione delle sue politiche: così, se l’implementazione della politica regionale europea successiva alla riforma del 1988
coinvolge una vasta gamma di attori a livello nazionale, regionale e locale, questi
possono agire da ‘gatekeeper’ al livello di propria competenza. Inoltre, nello
specifico caso delle iniziative di politica urbana, il concetto di ‘gatekeeper’ può
essere utilizzato anche per dar conto del tentativo da parte di individui o di associazioni, a livello di quartiere, di monopolizzare il processo di policy.
Appare chiaro che i due diversi approcci a cui si è accennato sono accomunati
dal riconoscimento del moltiplicarsi dei livelli di attori coinvolti nei processi di
policy europei, ma riconoscono ad essi ruoli e pesi differenti. La questione meriterebbe ben altri approfondimenti, che ci porterebbero lontano dal percorso che
si è inteso tracciare in questa breve nota. Per questa ragione, e al di là di queste
considerazioni, ciò che qui rileva mettere in evidenza è che il riconoscimento
della pluralità di attori presenti nei processi di policy europei apre una serie di
142
Carla Tedesco
L’analisi delle politiche urbane europee
interrogativi circa i rapporti tra la circostanza di disporre di un contesto di policy
europeo in cui promuovere iniziative di intervento in ambito urbano, da un lato,
e gli obiettivi delle stesse iniziative dall’altro. Al fine di rintracciare questi rapporti
appare utile ricostruire un quadro dei temi attorno ai quali è stata costruita l’attenzione della Commissione nei confronti dei problemi urbani.
L’attenzione europea verso i problemi delle città: promozione
della competitività e lotta all’esclusione sociale
Sin dall’inizio degli anni novanta, alcuni documenti della Commissione hanno
riconosciuto il ruolo cruciale delle città nell’ambito del processo di integrazione
europea, sottolineando in primo luogo che, con circa i tre quarti della popolazione comunitaria concentrata in aree urbane, l’Unione Europea è la regione più
urbanizzata del mondo; in secondo luogo, che le città europee sono allo stesso
tempo luoghi di opportunità per lo sviluppo economico, l’innovazione tecnologica e i servizi pubblici, ma anche luoghi di congestione, inquinamento, declino
industriale e esclusione sociale (CEC 1994). In tali documenti ha cominciato a
profilarsi l’idea, sviluppata successivamente in modo più ampio, secondo cui a
causa della concentrazione della popolazione europea nelle aree urbane, alcune
DG, pur in mancanza di una specifica politica urbana comunitaria, intraprendano
di fatto azioni che investono le aree urbane e che ne affrontano le problematiche.
Le idee della Commissione sulle questioni urbane sono state più diffusamente
sviluppate in due Comunicazioni, diffuse alla fine degli anni novanta. La prima
Comunicazione, intitolata “La problematica urbana: orientamenti per un dibattito europeo” (CCE 1997) e pubblicata nel maggio 1997, riconosce quali problemi
delle città europee la disoccupazione, l’emarginazione sociale, gli squilibri nel
sistema urbano europeo, la qualità dell’ambiente, l’indebolimento della partecipazione ai processi della democrazia locale; quindi passa in rassegna le azioni
condotte a livello della Unione europea in relazione allo sviluppo urbano, prospettando la necessità che le politiche di competenza dell’Unione adottino una
“prospettiva urbana”, ossia contribuiscano allo sviluppo delle città. La seconda
Comunicazione, “Quadro d’Azione per uno sviluppo sostenibile dell’Unione
europea” (CCE 1998), oltre a sottolineare l’importanza della dimensione urbana
nelle politiche comunitarie, fa propria sul piano operativo l’idea di promuovere
azioni che consentano di ottenere “una maggiore efficacia delle politiche comunitarie previste dal trattato, aumentandone la sensibilità verso le problematiche
urbane” (CEE 1998, 2).
Lo sguardo sulle città europee della Commissione pone, dunque, l’accento su
due aspetti diversi. Per un verso, le città sono considerate il motore economico
dell’Europa; per altro verso, esse sono viste come luoghi in cui si concentrano
gravissimi problemi sociali: “In Europa le città rappresentano tradizionalmente la
principale fonte di creazione di ricchezza e sono al centro dello sviluppo socioculturale; crescono però i problemi dovuti ai rapidi cambiamenti economici, alla
disoccupazione, alle condizioni ambientali e alla congestione del traffico, nonché
alla povertà, agli alloggi inadeguati, alla criminalità e alla droga” (CCE 1998, 3).
A ben guardare, la duplicità dello sguardo europeo sulle città può essere messa
in relazione con il concetto di coesione economica e sociale, uno dei capisaldi
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n.4 / 2002
1
Nel Libro Bianco
della Commissione
viene delineato un
programma di azione
che ha, tra gli altri
obiettivi, proprio quello del rafforzamento
della solidarietà tra
regioni e tra gruppi
sociali.
144
del Trattato di Maastricht. La coesione è definita nel Trattato in termini di “sviluppo armonioso”, ossia ponendo l’accento sulla necessità di ridurre il divario sia
tra i livelli di sviluppo delle diverse regioni europee, sia tra i gruppi sociali. Alla
base della coesione vi è il concetto di “economia di mercato sociale”, che “si propone di conciliare un sistema di organizzazione economica basato sulle forze di
mercato, sulla libertà di opportunità e di impresa con l’impegno a favore dei
valori di solidarietà interna e sostegno reciproco che garantiscono a tutti i membri della società il libero accesso ai servizi generali di assistenza e protezione”
(CCE 1997/b, 13). Ora, la strategia individuata a livello comunitario al fine di perseguire la coesione comporta per un verso, che venga accresciuta la competitività delle regioni più deboli, per altro verso che vengano utilizzati sistemi universali di protezione sociale, disposizioni che rimedino alle inefficienze del mercato, sistemi di dialogo sociale (CCE 1997/b).
La strategia complessiva definita nel Trattato di Maastricht e dal Consiglio
Europeo attraverso la pubblicazione del Libro Bianco “Crescita, competitività,
occupazione”1 ha evidenti implicazioni territoriali. Alcune di queste implicazioni sono state esplicitamente evidenziate dalla Commissione con la pubblicazione
di Europa 2000+, un documento che si propone di “orientare la discussione in
corso” sulle questioni rientranti nell’ambito della pianificazione territoriale,
migliorando la base delle scelte politiche in materia, ma senza interferire nelle
responsabilità delle autorità nazionali, regionali e locali (CCE 1995, 4). Tre sono
le implicazioni della suddetta strategia comunitaria che vengono messe in evidenza. Anzitutto, la necessità di “un territorio europeo più competitivo” dal
duplice punto di vista della competitività globale e della competitività delle varie
aree dell’Unione; poi, la necessità di “un territorio capace di uno sviluppo sostenibile”; infine, l’esigenza di “un territorio più solidale, organizzato più equamente e nel rispetto della coesione economica e sociale”, laddove i principali problemi al raggiungimento della coesione sono considerati la perifericità, l’esclusione sociale e le disparità economiche (CCE 1995, 16-19).
In questo quadro di riferimento, due appaiono i significati attribuibili all’obiettivo di perseguire la coesione economica e sociale e riguardanti nello specifico il
ruolo delle città. Il primo è quello di accrescere la competitività delle città europee a livello globale: è cioè la declinazione europea del tema delle città come
‘nodi di reti’ e, più in generale, delle tematiche relative alla competizione territoriale. Il secondo è quello di perseguimento della coesione all’interno delle città
e, in particolare, di lotta ai fenomeni di ‘esclusione sociale’.
Appare opportuno specificare che in alcuni documenti è possibile rinvenire tracce della consapevolezza, da parte europea, delle difficoltà insite nel perseguire
questo duplice obiettivo: “L’esperienza di diverse città (...) indica che, sebbene il
declino economico causi l’esclusione sociale, lo stesso può dirsi per la crescita
economica. L’aumento della competitività non risolve il problema dell’esclusione” (CEC 1994, 4). Tuttavia, il duplice obiettivo di promozione della competitività e lotta all’esclusione sociale è generalmente trattato in modo assai poco problematico.
Così, la competitività dei sistemi locali viene vista come condizione di competitività della Unione, ma non è specificato come questa accresciuta competitività
possa contribuire a combattere gli squilibri all’interno delle città e, nello specifi-
Carla Tedesco
L’analisi delle politiche urbane europee
co, l’esclusione sociale. Per altro verso, i problemi dell’esclusione sociale sono
affrontati a livello comunitario a partire comunque dall’imperativo economico,
che sembra caratterizzare le politiche dell’Unione Europea. Ed infatti l’obiettivo
della “efficienza di mercato”, inteso come “necessità di sfruttare pienamente i
meccanismi del mercato per sviluppare le potenzialità economiche delle zone e
dei sistemi urbani” è uno dei principi sui quali è costruita la promozione di azioni in ambito urbano a livello comunitario (CCE 1998, 11).
Per quanto riguarda l’aumento della competitività quale strumento per la riduzione degli squilibri tra territori, può essere interessante partire dalla definizione
stessa di ‘competizione territoriale’. Cheshire la definisce come “un processo
attraverso il quale gruppi di attori economici a scala regionale o sub-regionale
(tipicamente di city region) cercano di promuovere un’area per la localizzazione
di attività economiche, in competizione esplicita o implicita con altre aree”
(Cheshire 1999, 853). Ancora, la competizione territoriale “riguarda l’efficienza
economica (concepita meramente a livello locale) non l’equità spaziale”; essa
“può essere vista come la produzione di un bene pubblico locale, in questo caso
sviluppo economico locale addizionale” (Cheshire 1999, 853).
Ora, dagli studi che hanno affrontato il tema del rapporto tra competizione territoriale e processo di integrazione europea emerge che tale processo ha rinforzato e continuerà a rinforzare i vantaggi esistenti, che tendono ad estendersi dal
“cuore” alla vicina periferia (Cheshire 1999). In proposito, appare opportuno
osservare che la competizione sembra favorire le città nelle quali si verificano
particolari condizioni, capaci di favorire la mobilitazione degli attori locali nell’arena europea. Per quanto riguarda invece le strategie di lotta all’esclusione sociale, anche in questo caso appare necessario in primo luogo fornire una definizione del concetto di esclusione sociale. Tale concetto è via via penetrato a livello
comunitario nel corso degli anni novanta, dopo aver già informato di sé la politica urbana nell’ambito degli Stati membri negli anni immediatamente precedenti. Esso può essere considerato come un compromesso, seguito al dibattito
politico nell’ambito del quale alcuni Stati (segnatamente Gran Bretagna e
Germania) rifiutavano di estendere una serie di iniziative europee di lotta alla
povertà, in quanto restii ad ammettere l’esistenza della povertà nel proprio contesto nazionale, sulla base della convinzione che questa fosse prevenuta da efficienti operazioni sul mercato del lavoro e da meccanismi di welfare (Parkinson
1998). Paradossalmente, il concetto di esclusione ha assunto un significato più
ampio di quello di povertà: “La povertà è solitamente definita principalmente in
termini di basso reddito e bisogni materiali; l’esclusione sociale implica qualcosa in più. Si tratta di un concetto più ampio, più dinamico, che enfatizza le modalità con le quali le persone sono tagliate fuori dalle dinamiche sociali, economiche e politiche” (Parkinson 1998, 1). In definitiva, assai problematici risultano i
rapporti tra due ordini di strategie entrambe perseguite a livello europeo: quelle tese ad aumentare la competitività delle città e quelle di lotta all’esclusione
sociale. Ciò appare confermato dalla circostanza che la presenza nelle città europee di fenomeni di esclusione sociale è indipendente dalla loro ubicazione geografica; anzi, tali fenomeni sono rinvenibili non solo nell’ambito di città in declino, ma anche all’interno di città economicamente prospere (CCE 1995).
145
n.4 / 2002
Alcune considerazioni conclusive
Il riconoscimento della Unione Europea quale sistema politico multilivello in una
prospettiva di multi-level governance vede l’emergere di una serie di attori di
livello non solo nazionale, ma anche sub-nazionale nei processi di policy europei. Al di là del ruolo effettivo che essi assumono e del potere effettivo di cui
godono nei processi decisionali (potere che, secondo quanto evidenziato dai
sostenitori di altri approcci, quale quello basato sul concetto di ‘gatekeeping’, è
piuttosto di fatto mantenuto a livello dei governi nazionali) restano da esplorare
le relazioni tra il moltiplicarsi dei livelli di attori e l’efficacia dell’intervento comunitario nelle città. A tal fine diviene di cruciale importanza comprendere quali
sono gli obiettivi che l’azione comunitaria in ambito urbano si pone.
Così, nella prospettiva di una governance multilivello, l’obiettivo della promozione della competitività urbana si confronta necessariamente con la effettiva
capacità degli attori locali di mobilitarsi nell’arena europea, la quale appare strettamente legata ai rapporti di forza esistenti, più che alla capacità effettiva di rafforzamento delle città più deboli attraverso l’azione europea. Tale prospettiva
risulta ulteriormente complicata se si guarda poi all’obiettivo di lotta all’esclusione sociale, il cui perseguimento risulta spesso di difficile coniugazione – se
non in vera e propria contraddizione – con quello di promozione della competitività urbana.
Riferimenti bibliografici
CCE (1998), Quadro d’azione per uno sviluppo urbano sostenibile nell’Unione Europea, COM
(1998) 605, finale, 28.10.1998, Bruxelles.
CCE (1997/a), La problematica urbana: orientamenti per un dibattito europeo. COM (97) 197,
def., 06.05.97, Bruxelles.
CCE (1997/b), Primo rapporto sulla coesione economica e sociale. 1996, Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle Comunità europee, Lussemburgo.
CCE (1995), Europa 2000+. Cooperazione per lo sviluppo del territorio europeo. Ufficio delle
pubblicazioni ufficiali delle Comunità europee, Lussemburgo.
CEC (1994), Community Activities in Urban Matters. Bruxelles, Directorate General XVI Regional
Policies.
Cheshire, P. (1999), “Cities in Competition: Articulating the Gains from Integration”, Urban
Studies, vol. 36 n. 5-6, pp.843-864.
Marks, G., Scharpf, F.W., Schmitter, P.C., Streeck, W. (1996) Governance in the European Union,
Sage, London.
Parkinson, M. (1998), Combating social exclusion. Lessons from area-based programmes in
Europe, The Policy Press, Bristol.
Tofarides, M. (2002), Urban Policy in the European Union: a Multi-level Gatekeeper System, in
corso di stampa, Ashgate, Aldershot
Carla Tedesco è dottore di ricerca in Pianificazione e Politiche Pubbliche del
Territorio (Daest, IUAV). Attualmente è titolare di un assegno di ricerca presso il
Dipartimento di Architettura e Urbanistica del Politecnico di Bari.
[email protected]
146
Marco Almagisti
Il modello neo-repubblicano: le
origini concettuali
Il sestante
Nell’ultimo quarto di secolo, i contributi di numerosi studiosi hanno dato forma
ad una sorta di modello che è stato definito neo-repubblicano, una formula che
contiene al proprio interno analisi eterogenee di autori che possono essere accomunati dal grande rilievo riconosciuto all’evoluzione dei concetti politici e dall’intenzione di ridiscutere, per tale via, alcuni presupposti tradizionali della storia
delle dottrine politiche: “a partire da The Machiavellian Moment di John Pocock
e continuando con Quentin Skinner e Philip Pettit, [essi] sviluppano la convinzione che Roma antica sia stata l’iniziatrice di una filosofia politica, indipendente
da quella dei Greci, che ha avuto tra i continuatori più rilevanti: la Repubblica di
Firenze, prima del ritorno dei Medici; molti avversari della corona inglese prima
della Gloriosa Rivoluzione; molti teorici della Rivoluzione Americana, compreso
Madison; molti avversari del regime prima della Rivoluzione Francese” (Gangemi
2001, 107).
In particolare, Pocock e Skinner sono stati, dalla seconda metà degli anni
Sessanta, parte di un movimento di studiosi (sviluppatosi in origine a Cambridge)
“intenzionati a rimodellare la storia del pensiero politico, presentandola come
storia del linguaggio e del discorso politico” (Pocock 1980, 17)1.
La scelta degli elementi da valorizzare, operazione indispensabile quando si
richiama una tradizione di pensiero vasta e complessa, presuppone di soffermarsi, in questa sede, su due questioni intrinsecamente legate: la partecipazione politica diffusa e la legittimazione del conflitto, che rendono peculiare la tradizione
repubblicana (e in particolare il contributo di Machiavelli). La successione degli
argomenti che tratteremo può essere così sintetizzata: 1) La riscoperta del linguaggio repubblicano; 2) Il concetto di virtù nel Principe; 3) il concetto di virtù
nei Discorsi (virtù repubblicana); 4) il confronto con la teoria politica di Hobbes;
5) la rilettura di Vico e la fecondità attuale del pensiero repubblicano.
Un’indagine che non potrà che risultare parziale e sommaria, data la vastità degli
argomenti considerati, in particolare nella ricostruzione effettuata da Pocock
(1980), davvero straordinaria per la complessità dei temi affrontati e per la profondità dell’analisi condotta. Inoltre, si deve considerare un limite fondamentale
di questi approcci “contestualisti” che consiste nella determinazione a ricostruire
il contesto effettivo in cui si è sviluppata una particolare linea di pensiero (comprendere il “Machiavelli in sé”), senza avvertire il peso che, su di sé, grava in virtù
della consapevolezza stessa delle conseguenze politiche che sono scaturite dagli
accadimenti verificatisi in quel contesto.2
1
Con l’espressione,
non certo originale
nella storia del pensiero, “Scuola di
Cambridge” si intende
fare riferimento, in
questa sede, agli storici contestualisti contemporanei e cioè,
essenzialmente, a
Pocock e Skinner.
2
Il contesto rappresenta, sotto questo profilo,
un costrutto metafisico. Esso non può coincidere fra il soggetto
che agisce e il soggetto
che ricostruisce gli
accadimenti ex-post.
In altri termini, non
vi può essere coincidenza fra il contesto
in cui operava
Machiavelli e quello
ricostruito più di
quattro secoli dopo da
Pocock e Skinner.
Consapevolezza (della
fallace inseità del
“nostro” Machiavelli)
che deve essere ancora maggiore in chi,
come noi, effettua
delle ricostruzioni di
“secondo grado”.
147
n.4 / 2002
3
L’epoca di transizione dal policentrismo
comunale al progressivo insediarsi della
sovranità statuale è
riassumibile da un’efficace metafora di
Alberto Tenenti: “La
fase che va dal 1250 al
1350 rappresenta per
lo Stato qualcosa di
simile a quella degl’incunaboli per l’editoria:
un innegabile momento di gestazione ed
articolazione”
(Tenenti 1997, 54).
Una fase innovativa
preparata nelle
Università, con la
riscoperta del diritto
romano e del Corpus
iuris civilis di
Giustiniano, prima a
Bologna (con Irnerio e
Pepo), poi a Parigi,
Oxford, Padova,
Pavia, Siena e Firenze
e successivamente sviluppata dal confronto
fra giuristi post-glossatori di formazione scolastica e retori di formazione umanistica.
4
Il collasso dell’esperienza romana oscura anche i riferimenti
alla polis; nel linguaggio politico medievale
compaiono termini
come rex e regnum,
ma raramente ci si
riferisce ad un’idea di
bonum comune utilizzando l’espressione
res publica. Come sottolineano Ullmann
(1982), Skinner (1989)
e Panebianco (1993),
per tale ripoliticizzazzione del bonum
comune risulterà
essenziale la rilettura
delle riflessioni politiche costantinopolitane.
5
148
Che lo Stato si distin-
La riscoperta del linguaggio repubblicano
Considerando queste premesse, interrogare il pensiero repubblicano significa, in
primo luogo, ripercorrere la storia del suo linguaggio, ossia della retorica della
“vita activa” e del “vivere civile” (quella particolare concezione della libertà intesa
come partecipazione politica responsabile al governo repubblicano), a fianco dei
linguaggi coevi – considerati anch’essi come veicoli del pensiero politico – derivanti dalla giurisprudenza successiva all’età dei glossatori e dalle dispute scolastiche.
L’arco temporale considerato coincide, sostanzialmente, con il processo mediante il quale si viene formando il concetto moderno di Stato: la rinascita delle città
dopo l’anno Mille, l’esperienza delle città-repubblica dell’Italia settentrionale (de
jure vassalle del Sacro Romano Impero, ma de facto dotate di un elevato grado di
indipendenza) all’interno della quale Firenze, sin dall’inizio del Trecento, si erge
come la “principale paladina delle libertà repubblicane” (Skinner 1989, 51), la crisi
di tale esperienza, consustanziale alla produzione di una compiuta ideologia
repubblicana.3
Alla rarefazione dei concetti astratti sul terreno della politica, che caratterizza l’epoca che intercorre fra la Patristica e il XIII secolo,4 fa riscontro una significativa
ripoliticizzazione del bonum comune nell’esperienza comunale. In tale contesto
ricompare il concetto latino di civitas; “ma, quando, in Europa, la genesi di ordinamenti territoriali di grandi dimensioni, che non potevano più essere ricondotti ad un centro urbano e al suo contado, rese manifesta l’inadeguatezza del termine; la parola Stato, ricavata isolando la componente “struttural-istituzionale”
dell’espressione status rei publlicae, prese il sopravvento e finì, sia pur gradualmente, per imporsi” (Portinaro 1999, 33).
Risulta interessante notare la discrepanza che si verifica, nella loro comparsa, fra
la “parola” e la “cosa”: il termine status incomincia a circolare nel linguaggio politico in una fase in cui “il referente non è ancora un’organizzazione centralizzata
né un’impresa istituzionale di tipo razionale, né un gruppo politico riconosciuto
legittimo” (Portinaro 1999, 31). Tuttavia, già dai primi decenni del Trecento, al
termine status vengono collegati attributi abbastanza definiti: stabilità, durata,
compattezza.5
Attributi che acquisiscono grande rilevanza nel contesto storico drammatico che
investe Firenze nel “momento machiavelliano”, in cui la forma politica della
repubblica è posta di fronte alla propria limitatezza temporale, a causa di eventi
“reputati di per sé eversivi di qualsiasi tipo di ordinamento mondano che pretendesse di avere una sua stabilità nella storia” (Pocock 1980, 8): la sconfitta della
repubblica nel 1512 e il rientro dei Medici dopo diciotto anni di esilio, un’altra
breve esperienza di autogoverno nel 1527-30 ed un nuovo inesorabile declino
delle libertà repubblicane che conduce Firenze ad essere calpestata da eserciti
stranieri e, dal 1532, alla Signoria perpetua dei Medici, da cui origina il
Granducato di Toscana.
Secondo Pocock, i retaggi di tali vicende contribuiscono all’elaborazione di una
riflessione politica “che costituisce parte del cammino percorso dal pensiero occidentale nel giungere dalla concezione cristiana del Medioevo a quella storicista
dell’età moderna (…). Il prodotto finale dell’esperienza fiorentina fu una socio-
Marco Almagisti
Il modello neo-repubblicano
logia della libertà, quanto mai elaborata ed affascinante, che Firenze passò in
retaggio all’illuminismo europeo e alle rivoluzioni d’Inghilterra e d’America”
(Pocock 1980, 9 e 207).
In coerenza con tale ipotesi continuista che sorregge l’opera di Pocock, l’introduzione all’edizione italiana del 1980 è incentrata sulla polemica con l’impostazione dei neo-aristotelici, che “limita la storia della filosofia all’affermazione di una
dottrina classica del diritto naturale e al sovvertimento di tale dottrina operato
dall’individualismo e dallo storicismo moderni” (Pocock 1980, 22).
Mentre la concezione neo-aristotelica (à la Leo Strauss, à la Eric Voegelin) riduce
Machiavelli a semplice precursore di Hobbes nell’opera di frantumazione dell’ordine naturale della società e nella “consegna” dell’individuo, confinato nel proprio isolamento competitivo, alla “sovranità manipolatrice di qualche principe”
(Pocock, 1980, p. 23), Pocock sostiene, che il concetto repubblicano di virtù sia
utilizzato, nel Sei-Settecento proprio per “costruire una critica alle emergenti tendenze individualistiche e liberistiche della società commerciale” (Pocock 1980,
23).
In questo senso, se è lecito cercare di “contestualizzare storicamente” le analisi
articolate dagli storici contestualisti, possiamo affermare che, in gran parte, il loro
contributo risulta arricchito dalla considerazione dei relativi bersagli polemici: in
particolare, appare evidente l’intenzione di Pocock di presentare il modello
repubblicano in sostanziale contrasto rispetto alla concezione della storia del pensiero politico (e alle interpretazioni della Rivoluzione americana) propria di quanti ritengono l’individualismo liberale ideologicamente egemone, sin dagli albori
del moderno (ciò spiega l’imponente tentativo pocockiano di rilettura del patrimonio aristotelico all’interno delle categorie repubblicane).
L’intero volume secondo dell’opera di Pocock è dedicato allo studio del “momento machiavelliano” nel pensiero inglese e americano dell’età moderna, al fine di
dimostrare come la tradizione politica anglofona sia portatrice di concetti repubblicani almeno quanto di concetti costituzionalisti (lockiani), al punto che la
Rivoluzione americana viene considerata come l’ultimo grande atto dell’umanesimo civile del Rinascimento.6
Si tratta di una questione centrale per tutti gli studi che si prefiggono di approfondire la conoscenza del repubblicanesimo e attraversa anche i dibattiti che contrappongono individualisti e comunitaristi: se il “momento machiavelliano” non è
altro che una tappa che avvicina al Leviatano, allora non è da una sua rivalutazione che possono essere messe in dubbio le letture egemoni circa la genesi del liberalismo moderno e la riduzione della storia delle dottrine politiche alla contrapposizione dicotomica, sostenuta da McYntire, fra individualismo liberale e varie
forme di aristotelismo.
L’ipotesi continuista è messa in dubbio da Skinner, la cui opera deve essere interpretata considerandone l’obiettivo polemico essenzialmente costituito dalle teorie comunitariste, come quelle di McYntire, da cui scaturisce la volontà di Skinner
di presentare il repubblicanesimo come fondato su una particolare forma di libertà negativa (Berlin 1994), meritevole di essere distinta dalla dottrina liberale classica. Questa contrapposizione contribuisce a spiegare l’importanza riconosciuta
da Skinner, anziché ai retaggi aristotelici, ad autori romani come Cicerone e
Sallustio nella genesi del pensiero repubblicano (che, in questa accezione, è stato
gua dalle forme politiche pregresse per il
fatto di affontare
meglio la contingenza
è convinzione di decisionisti come Schmitt
(1972) e Miglio (1988).
A quest’ultimo si deve
la precisa etimologia
del termine in questione che risale alla radice indogermanica sta,
da cui discendono
svariati concetti di
natura istituzionale e
che richiama i significati, al contempo, di
stare (stehen) e di
porre (stellen).
6
La versione americana dell’ideologia
repubblicana deriverebbe dalla retorica
dell’opposizione, nel
Parlamento inglese e
nelle colonie, al regime whig, sotto il regno
di Anna, Giorgio I e
Giorgio II e continuerebbe a permeare,
secondo Pocock, alcune categorie interpretative della condotta
politica di un Paese,
quello americano, che
non ha conosciuto le
esperienze “delle rivoluzioni e della costruzione dello Stato proprie dell’Europa
moderna” (Pocock,
1980, p. 65).
149
n.4 / 2002
7
Sulla concezione
della libertà repubblicana come libertà
negativa non concorda un autore come
Pettit (2000) che pure
risulta profondamente
debitore rispetto all’analisi di Skinner.
Pettit afferma esplicitamente di considerare il modello repubblicano come una sorta
di “terza via” rispetto
alla contrapposizione
fra individualismo e
comunitarismo, tentativo teorico condotto,
in Italia, anche da
Viroli (1999) e che ha
contribuito a modificare l’originaria
impostazione dello
stesso Skinner. Per
approfondimenti si
rimanda all’interessante introduzione al
libro di Pettit effettuata da Marco Geuna.
8
In realtà, Skinner dimostra come Machiavelli
non formuli una dottrina
della “ragion di Stato”
(espressione che non figura mai nei suoi scritti), a
differenza di quanto
sostengono nelle proprie
riletture i tomisti domenicani e gesuiti. Comunque,
ai fini di una compiuta
teoria dello Stato risulta
ancora troppo marginale, nel Principe, il requisito, tipicamente moderno,
dell’astrattezza, essendo,
lo status percepito ancora
come assetto di potere
eminentemente personale.
150
anche, coerentemente, definito “teoria neo-romana).7
Indubbiamente nel pensiero repubblicano sono presenti elementi di lacerazione
rispetto alle concezioni pregresse, come è disposto a riconoscere anche Pocock,
in quanto esso accelera quel processo di considerazione del politico come dimensione distinta rispetto ad una destinazione di senso trascendente ed indisponibile: il “vivere civile” repubblicano è già altro rispetto alla concezione medievale di
una comunità “che resti ligia a comportamenti consuetudinari, situata in qualche
parte dell’ordine eterno” (Pocock 1980, 147). La forma politica viene distinta dall’ordine presunto-naturale della gerarchia tradizionale: “la repubblica non era
atemporale, proprio perché non rispecchiava, in virtù di una mera corrispondenza, l’ordine eterno della natura (…). Dunque, il dare valore alla repubblica equivale a spezzare la continuità atemporale dell’universo gerarchico in tanti momenti particolari e cioè in quei periodi della storia in cui erano esistite delle repubbliche e che erano degni d’attenzione” (Pocock 1980, 154--55) da un lato, e, dall’altro, in periodi in cui le repubbliche erano sopraffatte da altre forme di dominio,
periodi cui viene attribuito un giudizio di valore negativo.
La concezione della storia propria al pensiero repubblicano si caratterizza, pertanto, dalla presenza di giudizi di valore relativi all’analisi delle forme di governo.
Questo è il motivo che induce Pocock e Skinner a soffermarsi sull’analisi machiavelliana delle forme di governo e sulla riflessione, connessa, circa la virtù.
La virtù del Principe
Un’opinione molto diffusa attribuisce al segretario fiorentino un primo discorso
organico ed articolato sullo Stato (Portinaro 1999, 35), in virtù del celebre incipit
del Principe in cui “stati” e “domini” sono utilizzati come genere astratto rispetto
alla specie “principato” e “repubblica”.8
Alla luce della propria predilezione per la storia della repubblica romana, rispetto
alla polis greca, Machiavelli riduce la tipologia delle forme di governo dalla tripartizione aristotelico-polibiana (riesumata alla fine del XII secolo) ad una bipartizione: principato (governo di uno) e repubblica (governo di molti). La tripartizione
aristotelico-polibiana si struttura in base ad un criterio quantitativo: regno (governo di uno), aristocrazia (governo di pochi), politia (governo di molti), cui si
aggiunge un criterio qualitativo, in virtù del quale ognuna delle suddette forme
identificata come “retta” prevede una propria forma “degenerata” (rispettivamente tirannide, oligarchia e democrazia, intesa come demagogia, lungo un continuum modulato dalla legge naturale dei cicli storici, la polibiana anakiklosis).
Nella bipartizione machiavelliana accanto al criterio quantitativo, manca quello
qualitativo; viene meno, pertanto, ogni distinzione fra forme rette e degenerate.
Accantonate le repubbliche, che non rappresentano, per ora, il proprio oggetto
d’analisi, Machiavelli esprime l’ovvia constatazione che i principati sono ereditari
o nuovi; nuovamente ignora il primo termine dell’antitesi per introdurre un’ulteriore distinzione che conduce direttamente al fulcro della sua riflessione: “i
principati nuovi (…) si acquistano o attraverso la virtù e per mezzo di armi proprie, o attraverso la fortuna e per mezzo di armi altrui” (Skinner 1999, 31).
Come evidenzia anche Norberto Bobbio (1976), Machiavelli concepisce il
Principe quale strumento per incidere immediatamente sulla realtà politica cir-
Marco Almagisti
Il modello neo-repubblicano
costante: in particolare, è necessario sottolineare l’invocazione finale dell’opera al
principe nuovo che tragga l’Italia dal “barbaro dominio”, in cui sta tragicamente
sprofondando in seguito alle guerre che dal 1494 hanno per oggetto proprio il
dominio sulla penisola.
In questo caso, essendo il principe nuovo un tiranno – secondo una nota definizione di Bartolo da Sassoferrato – ex defectu titoli (cioè un usurpatore), per
Machiavelli decade la distinzione classica fra principe (retto) e tiranno (degenerato); anzi, il tyrannus ex defectu titoli ha per lui una valenza positiva, è un innovatore, il fondatore di un nuovo ordine politico.
Rimuovendo la distinzione fra forme di governo rette e forme degenerate, il criterio per distinguere la buona dalla cattiva politica resta il successo, identificato
con la capacità di conservare lo status. Si verrebbe, quindi, ad imporre la stabilità come valore in sé, conseguenza del disgregarsi dei riferimenti tradizionali e
delle antiche sicurezze.
In effetti, la figura del principe “nuovo” si colloca al di fuori della sfera concettuale della politica medievale (ma anche di quella antica), in quanto pone la questione di un fondamento di legittimità disgiunto dalla tradizione e dalla consuetudine. Conseguentemente, Machiavelli evidenzia la necessità di una virtù straordinaria che deve possedere chi innova.9 In questo caso egli traduce (e trasfigura)
all’interno del proprio pensiero altamente innovativo concezioni proprie dell’umanesimo classico: secondo la distinzione latina, la virtù è quella dote che rende
capaci di resistere ai colpi della fortuna. Quest’ultima è particolarmente sensibile alla virtus dell’autentico vir (dell’uomo “virile”, audace), come deve essere,
necessariamente, l’innovatore.10
Questa concezione “tecnica” della virtù, che emerge in particolare nei capitoli XV
e XVIII del Principe, apre scenari di discontinuità radicale rispetto al patrimonio
concettuale della filosofia politica classica: la gestione del potere si “secolarizza”,
la politica si spiega facendo riferimento a regole e principi prevalentemente autonomi. Ne risulta sovvertito il rapporto tradizionale fra “legge di Dio” e politica: per
Machiavelli la religione diviene un instrumentum regni, subordinato alla progettualità politica, innalzata, quest’ultima, al rango di riferimento intellettuale supremo, e alla razionalità strumentale orientata al mantenimento/rafforzamento del
potere del Principe.
Il tema della virtù, nel Principe, è circoscritto a particolari individui, principi e
condottieri. In precedenza, abbiamo ricordato come tale opera sia concepita per
incidere sulla realtà politica circostante: Machiavelli scrive con il chiaro intento –
confidato a Vettori – di farsi notare da “questi signori Medici” (Skinner 1999, 30).
Egli si trova in una condizione che l’accomuna a tanti umanisti tardo-rinascimentali, come Patrizi, che pur preferendo personalmente le istituzioni repubblicane,
si devono adeguare ad un contesto caratterizzato dalla forma di governo di un
principe (nuovo), nella speranza di ottenerne i favori.
Di conseguenza, nel Principe, Machiavelli non si occupa del tema della partecipazione politica (Pocock 1980, 319), eppure, indirettamente, trattando delle
vicende del principe nuovo, egli evidenzia la somma difficoltà di tale principe a
governare i possedimenti di quella che fu una repubblica – e qui il riferimento al
rientro dall’esilio dei Medici nel 1512 è palese – perché il trascorrere del tempo
non può cancellare la consuetudine alla libertà, al “vivere civile”, inteso come
9
Il genere innovatori
è costituito, dalle specie dei principi nuovi
e dei legislatori (come
Mosè, Teseo, Ciro, o
Romolo) che si differenzia dalla prima
per il fatto di comprendere individui
che devono rifondare
una comunità politica
in situazioni di radicale anomia.
10
Per Machiavelli l’innovatore è un soggetto
che provoca particolarmente la fortuna.
Egli è esplicito al
riguardo: chi innova
innesca inevitabilmente una serie di
conseguenze che non
sono interamente prevedibili “ex-ante” (fortuna) e con cui dovrà
necessariamente rapportarsi con speciale
cura (virtù). In questa
accezione, la contrapposizione virtù/fortuna sfiora il tema degli
“effetti inintenzionali
dell’azione sociale”,
che troverà ampio
spazio, in seguito,
nelle categorie dell’illuminismo scozzese e
in autori come Smith
e Burke, Vico e
Mandeville, oltre che,
nella sociologia contemporanea, in
Merton e Boudon.
151
n.4 / 2002
“libera partecipazione alla cosa pubblica” (Pocock 1980, 334.).
Il valore della libertà intesa come partecipazione politica responsabile al governo
della repubblica, che nel Principe è presente solo “in negativo”, diviene argomento centrale delle successive riflessioni di Machiavelli, quando, a seguito della
delusione patita a causa della scarsa considerazione dei Medici e della mancata
intercessione di Vettori, si avvicina al gruppo di letterati repubblicani, sostenitori
della libertà civica, che discutono regolarmente agli Orti Oricellari. Il risultato fondamentale di tale esperienza è la decisione di Machiavelli di rivedere e portare a
conclusione un’opera fondamentale, concepita (e cominciata) ancor prima di
scrivere il Principe, ossia i Discorsi sui primi dieci libri della Storia di Tito Livio,
in cui esplicita le proprie preferenze repubblicane.
La virtù repubblicana: vita activa, partecipazione, conflitto
Mentre “nel Principe aveva attribuito la virtù solo ai più grandi capi politici e ai
comandanti militari; nei Discorsi [Machiavelli] afferma esplicitamente che, se una
città vuole ottenere la grandezza, è essenziale che la virtù sia posseduta dall’intera cittadinanza” (Skinner 1999, 62-63). Si pone, pertanto, un interrogativo decisivo: “come possiamo sperare di infondere questa qualità in modo così ampio e di
mantenerla abbastanza a lungo da assicurare il raggiungimento della gloria civica?”
(Skinner 1999, 64).
Al problema di come combattere i fenomeni degenerativi della vita civile, la teoria politica dell’età moderna ha risposto delineando due diverse strategie
(Skinner 1989, 109): la prima, che raccoglie l’eredità scolastica ed annovera fra i
propri fautori Hume, secondo la quale un governo efficace presuppone, in primo
luogo, istituzioni forti; e la seconda, che rielabora l’eredità retorica ed umanistica
ed è sviluppata da autori come Machiavelli e Montesquieu, secondo cui un governo efficace implica la virtù dei governanti, la quale, a sua volta, può essere sostenuta solo attraverso lo “sviluppo dello spirito pubblico dei cittadini” (Skinner
1989, 160). A tal proposito il segretario fiorentino scriverà, nel quinto capitolo del
primo Discorso, dell’esigenza di un governo largo.
E’ necessario precisare a tale riguardo, che Machiavelli non trascura affatto gli
aspetti istituzionali: il recupero dell’esperienza romana e l’elogio della forma del
“governo misto” risiedono nel principale pregio di tale forma che “sta nel concepire le leggi relative alla costituzione in modo da creare un equilibrio elastico e
bilanciato tra opposte fazioni sociali, in cui tutte le parti vengano coinvolte nella
gestione del governo” (Skinner 1999, 75).
La repubblica romana rappresenta un riferimento comune agli umanisti del XV
secolo e, prima ancora, ai retori e agli scolastici (Skinner 1989, 163); l’elemento
innovativo dell’analisi machiavelliana è costituito dalla contrapposizione fra il
modello repubblicano romano e quello veneziano (Discorsi, I, 5-6), ossia fra “una
repubblica che si fonda su una milizia popolare e una plebs politicamente attiva
da un lato e dall’altro una repubblica che si fonda sull’impiego di armi mercenarie attuato da un’oligarchia” (Pocock 1980, 28).
Si tratta di una posizione che distingue nettamente Machiavelli dai suoi concittadini: il “mito di Venezia” è sempre presente negli ultimi decenni del XV secolo e
si rafforza grazie a pensatori come Donato Giannotti e Guicciardini; in particola-
152
Marco Almagisti
Il modello neo-repubblicano
re, dopo il ritorno dei Medici, Venezia appare ai fiorentini come un grandissimo
modello repubblicano, una “sorgente di saggezza politica” (Skinner 1989, 247-48).
Essa rappresenta agli occhi degli ottimati il modello di “stabilità perfetta” perché
“in equilibrio perfetto” (Pocock 1980, 231). Nella propria opera di idealizzazone
del modello, i patrizi fiorentini giungono a negare, di fatto, la prevalenza aristocratica nella forma di governo veneziana e, con ciò, quanto rilevato da Machiavelli,
ossia che quello della Serenissima è un governo stretto.
Nei Discorsi (I, 17) Machiavelli sostiene che la corruzione, cioè quel processo
generalizzato di decadenza morale che ha condotto alla perdita della virtù e, con
essa, al tracollo dell’esperienza repubblicana fiorentina, non sia imputabile alla
generale malvagità degli uomini, bensì all’inequalità, ossia, nella fattispecie concreta, all’eccessiva prepotenza dei gentiluomini (Discorsi, I, 55).11
Egli è ben consapevole che proprio l’eliminazione del Consiglio Grande (l’organo
democratico della forma di governo fiorentina) per opera degli ottimati apre la
strada al ritorno dei Medici. In tal modo gli ottimati stessi si condannano alla
dipendenza dal regime mediceo: negando al popolo il diritto alla partecipazione
finiscono per negarlo anche a sé medesimi. La perdita, nel 1512, di questo diritto
popolare alla partecipazione politica è considerata, non solo da Machiavelli, ma
anche da Guicciardini e Vettori (da quest’ultimo con compiacimento) un accadimento epocale nella storia fiorentina. Un dramma che, come teorizzerà palesemente l’Alemanni – e la storia successiva non mancherà di confermare – sostituirà alla tensione repubblicana fra autorità e partecipazione, l’assuefazione alla cortigianeria.
Nell’analisi della fine della repubblica fiorentina “la causa principale che
Machiavelli isola (…) consiste nell’esclusione del popolo da un ruolo sufficientemente attivo negli affari di governo” (Skinner 1989, 284). La sua difesa di tale concezione del governo largo si regge su alcune affermazioni sconvolgenti, che scandalizzano i contemporanei, a cominciare da Guicciardini: “La prima è che il dissidio e la contesa tra nobili e plebei avevano prodotto la stabilità, la libertà e la
potenza di Roma: asserzione sconcertante e incredibile per la mentalità che era
solita stabilire un’identità tra unione e stabilità con il relativo vigore…” (Pocock
1980, 375-76). Contro tutta la tradizione repubblicana fiorentina che, sin dal
Duecento, enfatizza la minaccia costituita dalla faziosità nei confronti della libertà
dei cittadini, Machiavelli sostiene che “tutte le leggi che si fanno in favore della
libertà” nasceranno dalla “disunione fra loro” (Discorsi, I, 4, 5).
Se la virtù è identificata con il “vivere civile”, la vita activa,12 che presuppone la
partecipazione politica, stante la riconosciuta pluralità di opinioni ed interessi, il
conflitto ne diviene un corollario quasi ineluttabile, che Machiavelli considera
come “la manifestazione della più elevata virtù civile” (Skinner 1989, 306). Il riconoscimento del medesimo, e la sua regolamentazione, consentono la limitazione
degli interessi settoriali. In contrasto rispetto alla pratica del governo veneziano,
Machiavelli ritiene che “questo conflitto di classe non rappresenti il solvente,
bensì il cemento di una collettività” (Skinner 1989, 306).13
La forma di governo repubblicana si distingue per l’abitudine al “vivere civile” che
la caratterizza, cioè per la diffusa partecipazione alla cosa pubblica (è proprio
Guicciardini ad utilizzare tale termine) in cui viene ad identificarsi il comportamento virtuoso, in tal modo “l’edificio della virtù si trovava collocato nel territo-
11
La politicizzazione
della virtù comporta
lo slittamento semantico del proprio opposto diadico da fortuna
a corruzione; in altri
termini, la perdita di
virtù non si spiega più
solo in termini morali, bensì propriamente
politici.
12
L’espressione spirito
pubblico (public spirit) viene utilizzata da
Henry Neville traducendo il termine virtù
nella sua edizione del
tardo Settecento, dal
titolo “The Works of
the famous Nicolas
Machiavel.”
13
In Machiavelli vi è
una prima esplicita
teoria che mette in
relazione il conflitto
con – per utilizzare
una categoria appartenente al lessico corrente della scienza
politica contemporanea – la formazione
del capitale sociale
(Putnam, 1993;
Almagisti e
Riccamboni, 2001).
153
n.4 / 2002
14
Machiavelli si concentra sul dinamismo
delle conquiste belliche, i sostenitori del
modello veneziano
(come Guicciardini)
si orientano con più
decisione verso il conseguimento della stabilità per mezzo della
distribuzione istituzionale del potere. La
radice della tradizione repubblicana classica agli albori della
modernità è costituita
dalla congiunzione di
queste due forme di
pensiero.
15
Si deve sempre tener
presente che “nella
misura in cui il sistema politico cessa di
essere una realtà universale e viene, invece, visto come una
realtà particolare,
riesce ad esso quanto
mai arduo affrontare
il tema della fortuna”
(Pocock 1980, 320).
154
rio della fortuna e questo almeno in parte perché la virtù della repubblica era
anch’essa un’innovazione; e, quindi, doveva possedere quel tipo di virtù atto ad
imporre una forma alla fortuna” (Pocock 1980, 362).
In altri termini, anche la repubblica, come emerge dai Discorsi, è in balìa della dialettica incompiuta fra virtù e fortuna – e lo è in quanto ordine politico particolare, temporalmente determinato e, quindi, contingente – elemento tanto più evidente, quanto più Machiavelli insiste sulla necessità di integrare nelle strutture
militari l’intero popolo, legando la virtù repubblicana all’aleatorietà delle intraprese militari espansioniste. Su questo aspetto, come sottolinea Pocock, i
Discorsi contengono elementi più inquietanti ed eversivi rispetto al Principe.14
Si comincia a delineare, pertanto, la condizione che, sin dall’inizio della propria
vicenda, caratterizzerà lo Stato, come forma stabile ed instabile al contempo.
All’interno del proprio territorio, lo Stato, si palesa come forma più stabile rispetto alle altre organizzazioni politiche compresenti e costrette a soccombere. Ma –
essendo lo Stato una parzialità, ossia territorialmente limitato – il contesto politico continentale, precedentemente unificato dall’“unità inclusiva di senso cui
tendeva la politica medievale” (Fiaschi 1984, 79), si viene caratterizzando per la
compresenza di molteplici parzialità che si auto-affermano come tutte ugualmente “sovrane” (i singoli “Stati”), da cui consegue l’instabilità delle relazioni politiche interstatuali e la loro regressione sempre possibile (nonostante i nobili tentativi di Grozio, Pufendorf e Kant di edificare una “comunità internazionale di
diritto”) al rango di rapporti di sopraffazione.
La consapevolezza della costitutiva instabilità dello Stato, per l’opera anche dell’azione di forze esogene, prende il posto della teoria ciclica delle forme di governo di
Polibio, che spiegava l’instabilità dell’ordine politico solo in base a fattori endogeni.
Anche per questo motivo Machiavelli non può accettare il tipo ideale del regime
perfettamente stabile secondo Guicciardini e gli ottimati, ossia quello della repubblica aristocratica, costruito sugli esempi storici di Sparta e Venezia. Machiavelli è
consapevole dell’illusorietà circa la perfetta stabilità attribuita a tale modello, poiché
“Sparta e Venezia non potevano sottrarsi al dominio della fortuna” (Pocock 1980,
382), essendo realtà parziali e, quindi, contingenti, dipendenti dai rapporti con le
altre realtà politiche parziali almeno quanto dai rapporti interni.
Non è questa la sede per approfondire tale ordine di questioni, altri hanno già evidenziato, egregiamente, sia le “ambiguità machiavelliane” in merito al mutamento
dell’ordine politico (Pocock 1980; Fiaschi 1984), sia l’aporeticità della teoria della
sovranità statuale (Ferrajoli 1995); qui basterà richiamare il nesso evidenziato da
Machiavelli tra vita activa, conflitto e partecipazione alla cosa pubblica.
In primo luogo, tale partecipazione acquista una salienza particolare:15 la vita
activa è considerata come risorsa difensiva dagli assalti della sorte. Ne scaturisce
una connessione fra il tema della sicurezza e quello della presenza di una rigogliosa sfera pubblica di cui si colgono i riverberi nei più avveduti fra gli autori a
noi contemporanei (Bauman 1999).
Secondariamente, l’enfasi posta sulle virtù repubblicane non si dimostra affatto
inconciliabile con il pluralismo: il liberalismo storico s’è formato sui capisaldi
costituiti dalla libertà dei moderni e dai diritti individuali, ma, in realtà, come
ricordano Bellamy e Castiglione (2001, p. 13), sul piano storico il repubblicanesimo riconosce le inevitabili divisioni che attraversano il corpo politico.
Marco Almagisti
Il modello neo-repubblicano
Pizzorno (1993, 189) evidenzia che, secondo Machiavelli, a condizione che avvengano disputando e non tramite violenze all’ultimo sangue, i conflitti giovano alla
cosa pubblica allargando il diritto ad essere presente nel governo della città ad
una parte precedentemente esclusa e garantendo le libertà dei cittadini.
Machiavelli e la teoria politica di Hobbes
Resta un interrogativo cruciale: è possibile riproporre una tale concezione della
partecipazione e del conflitto, quando dal piano analitico della città-repubblica si
passa a quello dello Stato nazionale? Thomas Hobbes fornisce una risposta drastica: i conflitti vanno radicalmente eliminati in quanto conducono tutti alla guerra civile: “uno Stato diventa tale proprio quando abolisce ogni identità collettiva
che si presenta autonoma rispetto ad esso” (Pizzorno 1993, 190).
Emerge una cesura drammatica rispetto alla teoria machiavelliana: “Hobbes, che
non è affatto il Machiavelli inglese, è invece il maestro radicale del pensiero politico al tempo della guerra civile” (Pocock 1980, 639). Nel declino della deferenza
di tipo religioso – come nella frantumazione del corrispondente universo simbolico condiviso – e nella fallacia del tradizionale controllo comunitario, che caratterizzano la transizione alla modernità, lo Stato viene ad assumere un compito
epistemologico (Pizzorno 1993, 190): onde prevenire conflitti asperrimi, deve stabilire la verità delle persone, cioè la loro identità sociale.16
Si delinea una sovranità assoluta e indivisibile, per cui non solo viene concettualmente meno, come nel Principe, la distinzione classica fra forme di governo rette
e degenerate,17 ma viene rigettata ogni ipotesi di governo misto, cioè di quel
governo pensato per portare a tessuto (a contesto) ciò che è riconosciuto come
“diverso”, quel governo che si trova di fronte una molteplicità di forme politiche
associative, in cui avviene una partecipazione politica mediata e plurima. Lo statalismo hobbesiano postula, pertanto, il più radicale individualismo (scaturente dal
dissolvimento di qualsiasi diaframma frapposto tra il singolo e l’autorità politica)
come proprio presupposto “scientifico”. In virtù del grandioso disegno hobbesiano, mediante la teoria si realizza l’azzeramento sia della molteplicità del reale che
della riflessione filosofica pregressa, considerata non scientifica: la nozione hobbesiana di individuo non è, pertanto, solo la singola parte determinata dalla quale
il tutto (Stato) viene a dipendere come risultato di una costruzione meccanica,
bensì anche il risultato stesso della medesima costruzione.
Il prototipo antropologico hobbesiano dell’individuo ab-soluto ed irrelato, abitante ferino di uno stato di natura dominato dall’insostenibile terrore di essere
annichiliti per mano (omicida) del proprio identico, viene scientificamente imposto come condizione umana universale, ben triste destino cui si può fuggire
soltanto per mezzo della costruzione di un Leviatano cui devolvere la propria
soggettività politica.18
Vi sono elementi sufficienti per sostenere che fra la virtù repubblicana e il concetto di rappresentanza che emerge dal capitolo XVI del Leviatano corrano rapporti
di mutua esclusione: la prima comporta partecipazione politica diffusa, multipla e
conflitto; mentre la seconda implica una manifestazione di volontà individuale
mediante la quale operare la dismissione completa della propria soggettività politica delegando integralmente la risoluzione delle questioni politiche rilevanti a dei
16
Per garantire la
pace agli individui, lo
Stato non deve mantenere “solo” il monopolio della forza, ma
anche quello “della
storia” (Tronti 1998,
174) e del “controllo
del futuro” (Koselleck
1986, 18).
17
V’è un passo illuminante di Hobbes (De
Cive, II, 2), in cui egli
postula, con la consueta chiarezza che
contraddistingue il
suo grande genio, l’assoluta convenzionalità dei criteri qualitativi in base ai quali si
distinguono le forme
di governo.
18
Thomas Hobbes
nasce il 5 aprile 1588,
nel momento in cui la
Grande Armada spagnola prende d’assalto
le coste inglesi; si racconta che sua madre
sia stata presa dalle
doglie per lo spavento
dell’invasione, così
che lo stesso Hobbes
potrà in seguito affermare di essere nato
“gemellato con il terrore”.
155
n.4 / 2002
19
Nel Leviatano di
Hobbes, di fronte al
governante non vi
sono più governati,
intesi nella propria
soggettività politica, in
quanto essi sono nel
Leviatano (com’è raffigurato nel frontespizio dell’edizione originale del testo hobbesiano). Il meccanismo
della rappresentanza
postula l’autorizzazione da parte di ogni
soggetto individuale
ad un soggetto altro:
tutti autorizzano le
azioni dell’attore, che
agisce in nome e per
conto di tutti
(Leviatano, cap. XVI).
20
“Il concetto di autonomia del politico,
che appartiene alla
tradizione della teologia politica, fu definito per la prima volta
da Thomas Hobbes.
L’importanza di questo concetto fu quindi
ribadita in modo
ancor più deciso da
Carl Schmitt” (Hardt,
Negri 2002, 430, nota
6).
21
Per una più approfondita analisi della
teoria politica di Vico
e un confronto con le
teorie di Machiavelli e
di Hobbes, si rimanda
a quanto esposto in
Almagisti (2002).
22
Di Vico all’estero è
molto nota soprattutto
la Scienza Nuova, in
cui il concetto di virtù
appare poco (essendo
in gran parte sostituito dalla Provvidenza);
esso si trova nella
“Ottava orazione” (il
156
rappresentanti. La rappresentanza hobbesiana implica, infatti, “il trasferimento
della propria pienezza di potere e della propria persona; se non, addirittura, della
propria individualità. E un umanesimo repubblicano, a cui premeva moltissimo
che nella concreta partecipazione politica si affermasse la personalità morale dei
singoli, poteva benissimo allarmarsi: forse che l’idea di rappresentanza non finiva
per escludere quella di virtù?” (Pocock 1980, 871).19
Si tratta di una questione molto controversa anche nel dibattito contemporaneo:
molti autori (ricordiamo fra i tanti, Fiaschi, 1984; Bauman, 1992; Barcellona, 1995;
Cacciari, 1997; Gelli, 2000), hanno ravvisato nella costruzione della forma-Stato
come strumento tecnico di neutralizzazione (rimozione) del conflitto, di derubricazione del politico all’amministrazione centralizzata e autonoma di una “macchina” i cui componenti sono autonomi e fungibili,20 di frantumazione dell’idea di persona inserita nella complessa gerarchia delle appartenenze sociali a favore di quella di individuo atomizzato, l’origine di una “desertificazione” politica del sociale,
che si contrappone “per principio”, alla partecipazione politica in differenti realtà
associative conflittuali e, quindi, concettualmente, al governo delle diversità.
Questo tema, così attuale e dibattuto, appare molto sfumato nelle opere degli
autori della “Scuola di Cambridge”: una ricostruzione, come quella di Skinner, fortemente orientata ad evitare ogni contaminazione “comunitaria” e ad identificare
il repubblicanesimo con una concezione “negativa” della libertà finisce per eludere il confronto fra Machiavelli ed Hobbes.
Mentre l’analisi di Pocock giunge sino ad Hobbes per negare decisamente che
Machiavelli vi possa essere accomunato e poi trasmigra in America per quattrocento pagine, poiché è la spiegazione della peculiarità della storia americana – e il
tentativo di rintracciarvi tradizioni aristoteliche o, più in generale, classiche – che
soprattutto orienta la sua ricerca (tanto da essere accusato, da alcuni critici ingenerosi, di avere scritto una lunga giustificazione dell’imperialismo americano).
Vico e un patrimonio di pensiero politico da riscoprire appieno
La ricostruzione di Pocock, tuttavia, può offrire spunti interessanti, se si considera
che gli americani, prima della Rivoluzione, sono artefici di una prassi repubblicana (Gangemi 2001), anche se, per la reputazione di immoralità di cui gode a quel
tempo Machiavelli, mai citerebbero tale autore tra i propri riferimenti, né possono
avvalersi delle feconde interpretazioni di colui che, riprendendo in modo originale la lezione machiavelliana, rappresenta uno strenuo oppositore dello Stato assoluto e del modello antropologico hobbesiano: Giambattista Vico .21
Siccome Vico non ha ancora scritto (inizio ‘700) o non è ancora noto (prima metà
del ‘700) o, se noto, è considerato anticipatore di Hegel (‘800), la letteratura americana, per gli elementi della propria cultura politica esulanti dal filone lockianocostituzionalista, ricorre alla particolare interpretazione di Hobbes fornita dai
Padri Pellegrini, trovandovi quei tratti che gli europei (che stanno sperimentando
pratiche di governo assolutistiche), mai avrebbero riscontrato.22
In realtà, è nella rilettura di Vico (il quale, come Machiavelli, medita a proposito
dell’esperienza della respublica romana per riflettere sul processo di sviluppo
politico in generale) che possiamo riscontrare elementi significativi per una rivalutazione attuale della lezione repubblicana: è Vico che, in contrasto con Hobbes,
Marco Almagisti
Il modello neo-repubblicano
sostiene l’esistenza della socialità anche prima dell’istituzione dello Stato.23 E’ il
filosofo napoletano a sviluppare la lezione di Machiavelli che preannuncia – tramite l’accettazione della “disarmonia” politica – il tema moderno della “società
civile” e ad esprimere una concezione pluralistica ed antagonistica della storia.
In tale interpretazione, pertanto, il conflitto torna ad essere, come per
Machiavelli, condizione essenziale per il miglioramento sociale e la difesa della
libertà: infatti, mentre reintroduce la liceità dei giudizi di valore nell’analisi dei
fenomeni politici e, quindi, delle forme di governo, Vico sottolinea che le forme
di governo qualitativamente più elevate (a suo parere, la repubblica popolare e il
principato) sorgono storicamente proprio in seguito alla lotta degli esclusi dal
dominio e, cioè, da una domanda di partecipazione politica diffusa.
Ne deriva una concezione della società civile – come dimensione distinta dallo
Stato – che non si limita a delineare un ambito di autonomia privata a tutela delle
libertà individuali, come insegna il liberalismo classico, ma che si avvale anche
della componente repubblicana relativa al riconoscimento di un diritto generalizzato di partecipazione politica, da parte di soggetti organizzati, di identità collettive autonome rispetto allo Stato.
Riguardo alla considerazione secondo la quale tale componente repubblicana,
abbia finito per essere sottostimata nella storia del pensiero politico, risulta solo
parzialmente efficace la spiegazione fornita da Philip Pettit, secondo cui la nozione di libertà repubblicana è “passata in secondo piano solo allorché, verso la fine
del XVIII secolo, divenne chiaro che, una volta estesa la cittadinanza al di là dell’ambito ristretto dei maschi benestanti, non era più pensabile rendere tutti i cittadini liberi nel senso antico (…). Se la libertà doveva essere ridefinita come un
ideale aperto a tutti i cittadini, allora non si poteva che ripensare la libertà in termini meno esigenti” (Pettit 2000, 5). In realtà, come ha notato O’ Donnell (1998),
l’apporto della tradizione intellettuale repubblicana è stata (ed è) tutt’altro che
ininfluente nella costruzione delle contemporanee democrazie reali, o poliarchie,24 nei termini, periodicamente ricorrenti, dell’attenzione posta sulla partecipazione consapevole agli accadimenti della sfera pubblica. In questo senso, il
patrimonio repubblicano risulta essere fecondo, per quanto almeno in parte sottovalutato, rispetto alle vicende dei regimi poliarchici contemporanei. Le ragioni
del relativo oblio, che hanno spinto autori come Pocock e Skinner (nella differenza delle rispettive traiettorie di ricerca) a ricostruirne la complessa genealogia,
investono direttamente i capisaldi del pensiero politico moderno, che ha concepito, per lungo tempo, lo Stato e il mercato come fonti pressoché esclusive di
regolazione, per mezzo di un duplice processo riduzionista, in virtù del quale il
politico è hobbesianamente ridotto allo statuale e la società civile ai rapporti di
scambio del mercato. In altri termini, liberismo e statalismo rappresentano
autentici “pensieri forti” della modernità, le cui vicende sono, pertanto, caratterizzate dal rapporto di conflitto e compromesso fra queste due grandi logiche d’azione (Ferrarese 2000; Almagisti 2002), accomunate dall’esigenza di una forte
omologazione dello spazio sociale di riferimento, da cui deriva il giudizio di disvalore relativo all’esistenza di identità collettive autonome (specie delle classi subalterne) o alla persistenza di culture locali difficilmente assimilabili. Già dal XVII
secolo, la crisi dei tradizionali dispositivi disciplinari legati alla supervisione comunitaria ed il timore conseguente riguardo alla possibile diffusione di comporta-
primo dei grandi scritti vichiani) o De
Ratione.
23
Com’è noto, secondo
Vico, che anticipa
temi ripresi poi da
Leopardi e da
Nietzsche e nel corso
del Novecento, da
Max Weber, Hannah
Arendt e Karl Jaspers,
il processo di civilizzazione dell’uomo non è
caratterizzato solo da
effetti positivi, così
come non lo è il processo di statalizzazione, dal momento che
una “seconda barbarie” (razionalistica e
molto più immane
dell’originaria barbarie del senso) si può
sviluppare proprio
all’interno della
forma politica statale
(cpv. 1106, Scienza
nuova seconda).
24
O’ Donnell considera le poliarchie contemporanee come il
risultato di tre componenti distinte – sovente confliggenti – e, al
contempo, indispensabili: la tradizione
democratica, quella
repubblicana e quella
liberale. Differenti
modalità di ricomposizione di tali componenti, in relazione
anche alle strutture
dello Stato e del mercato, originano differenti tipi di poliarchie,
le quali presuppongono sempre delicati
contrappesi fra istanze diverse.
L’estremizzazione di
una componente a
scapito delle altre
comporterebbe, secon-
157
n.4 / 2002
do O’ Donnell (1998,
115), la fuoriuscita
dalla tipologia poliarchica.
25
Nell’introduzione
all’edizione italiana
del 1979, Hirschman
afferma di aver preso
visione delle ricerche
compiute da Pocock e
Skinner solo dopo
aver ultimato la stesura della propria opera
concernente le implicazioni morali relative all’avvento del
capitalismo e di considerare la propria
opera come complementare rispetto a
quelle della “Scuola di
Cambridge”.
menti anomici ha prodotto, come ricostruito da Hirschman (1977),25 la convinzione che le minacce per il vivere civile (e la stabilità dell’ordine politico) potessero
essere contenute solo tramite la soluzione prescritta da Hobbes, unitamente, laddove essa si dimostrasse impraticabile, ad una strategia della passione come contrappeso, consistente nella selezione delle passioni più “innocue”, allo scopo di
frenarne altre ritenute più pericolose e distruttive (Hirschman 1977, 29). La pericolosità riconosciuta alle passioni politiche (sulla cui “rispettabilità” gravano le conseguenze degli asperrimi conflitti di matrice religiosa che funestano l’Europa nel
Cinquecento) ha comportato la “selezione dell’interesse come passione di contrasto” (Hirschman 1977, 36), in virtù di un pregiudizio favorevole, secondo il quale
l’interesse sarebbe passione inoffensiva, poiché possederebbe gli attributi di prevedibilità, costanza e dolcezza (Hirschman 1977, 47-48).
Gli accadimenti contrastanti rispetto all’ottimismo liberale circa l’innocuità dell’interesse, che si verificano già nel corso del Settecento e dell’Ottocento, condurranno Marx a scrivere pagine di memorabile sarcasmo in merito alla “dolcezza” dell’interesse e, soprattutto, Tocqueville a sottolineare le derive connaturate
al ripiego esclusivo sui propri interessi privati da parte dei singoli individui che alimentano, per questa via, lo svuotamento di una “sfera pubblica” progressivamente sempre più misera e, pertanto, disponibile alle incursioni colonizzatrici da
parte di nuovi despoti, come le terribili vicende del secolo breve hanno avuto
modo di confermare.
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Marco Almagisti è dottorando borsista in Scienza Politica presso il Dipartimento
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[email protected]
159
n.4 / 2002
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Russland und das Germanentum, 2. Abteilung. Die deutsche
und die orientalische Frage (La Russia e il germanesimo.
Seconda parte. La questione tedesca e quella orientale),
Charlottenburg, E. Bauer Verlag, 1853.
Mayday- Mayday
1
C. Schmitt, Donoso
Cortés in gesamteuropäischer
Interpretation, Köln,
Greven Verlag, 1950,
trad. it. a cura di P.
Dal Santo, Donoso
Cortés interpretato in
una prospettiva paneuropea, Milano, Adelphi,
1996, 102-3.
2
Ivi, pp. 100-1; H.
Wagener (Hg. von),
Staats- und
Gesellschafts- Lexikon:
neues ConversationsLexikon in Verb. mit
dt. Gelehrten und
Staatsmännern, Bde
23, Berlin, Heinicke
Verlag, 1859-1867.
3
P. Linzbach, Das
Europabild Bruno
Bauers nach der
Revolution von 1848
unter besonderer
Berücksichtigung des
west-osteuropäischen
Verhältnisses,
Hamburg, 1990.
160
Questo mayday non riguarda solo un libro da salvare, in questo caso l’antologia
di Löwith sulla sinistra hegeliana, ma anche un libro da tradurre, che da solo
potrebbe costituire una buona porta d’accesso nei problemi novecenteschi che
Bauer pose alla metà dell’Ottocento, quasi a significare che i sommovimenti tellurici del secolo scorso avevano le proprie radici in alcune questioni già poste nel
Vormärz. Nella sua Introduzione Cesa scriveva che “il Bruno Bauer autore di La
Russia e il Germanesimo, nel quale collegava la “fine della filosofia” con la dissoluzione del sistema politico della vecchia Europa, aveva posto un tema che, già
prima del 1914, ma soprattutto negli anni di Weimar, era stato uno dei poli del
dibattito sulla crisi europea; si trattava, allora, dell’ossessione di un visionario, o
della lucida diagnosi di una mente che, dal rifiuto di tutte le ideologie, aveva ricavato uno sguardo straordinariamente penetrante?” (XXIII). Il nome di Bruno
Bauer è oggi quasi dimenticato; esso ricorre ancora, qualche volta, nella letteratura scientifica come colui che fu oggetto di dure critiche da parte di Marx ed
Engels (non solo nella Questione ebraica, ma anche nell’intera Sacra famiglia
e in una parte dell’Ideologia tedesca); oltre a ciò il nome di Bauer viene talvolta
preso in considerazione anche come esempio di un certo antisemitismo di
ascendenza hegeliana. Non è con nessuna di queste linee interpretative che
intendiamo confrontarci, nella convinzione che, se Bauer può ancora essere di
un qualche interesse per la comprensione del presente, è altrove che bisogna
cercare. Se ne accorse Carl Schmitt che, nel definirlo un “autentico inattuale”,
scrisse che “nessuno più di Bruno Bauer attuò e portò a compimento la critica
teologico-filosofica, nel senso pregnante e con tutta l’ineluttabilità che per la storia dello spirito tedesco degli ultimi due secoli si legano alle parole critica e
crisi” 1. Ma la “sua opera – aggiunse Schmitt – è sepolta sotto spessi cumuli del
più bieco giornalismo”, nonostante egli fosse l’autore “delle voci più importanti
contenute nei ventitré volumi del Wagenersches Staats - und GesellschaftsLexikon”2. Proprio la collaborazione a questa opera diede adito a polemiche sulla
svolta conservatrice di Bauer. Ma non è questo il problema. Bauer indaga le categorie dello Stato moderno dal punto di vista della loro crisi. E sul solco di questa riflessione si inseriscono anche le sue considerazioni sull’Europa. Ad eccezione di una Diplomarbeit discussa nel 1990 ad Hamburg da Petra Linzbach, non
mi risulta esistano degli studi dedicati all’idea baueriana di Europa3, idea che per
altro, pur percorrendo l’intera riflessione di Bauer, non è facilmente enucleabile
dal plesso di problemi con il quale viene di volta in volta fatta interagire. Questa
mancanza diventa considerevole se solo si tiene presente che Friedrich
Nietzsche, in una lettere del novembre 1882, scriveva a Gast che l’idea fondamentale dell’introduzione di Bauer alla rivista di Schmeitzner4 — l’unità europea
e l’annientamento delle nazionalità (das Europäerthum mit der Perspektive der
Vernichtung der Nationalitäten) — era la sua stessa idea5. Sia Bauer che
Nietzsche iscrivono la propria riflessione nel quadro complessivo della crisi europea, alla quale entrambi cercano una risposta puntando lo sguardo verso
Oriente, in una “reciproca compenetrazione della razza tedesca e di quella slava”.
Ma cosa scrisse Bruno Bauer in quella Prefazione che piacque tanto a Nietzsche?
“Mentre il martello di una sempre crescente centralizzazione cade sui popoli,
essi si stringono in un comune destino e ciascuno riconosce nell’altro l’europeo.
Dal Neva fino al Danubio e al Tevere il martello compie questa miracolosa metamorfosi; sotto i suoi colpi vanno in polvere i resti delle nazionalità. La centralizzazione si appoggia anche alla forza di livellamento del socialismo, così i popoli
si stringono tanto più strettamente l’un l’altro per sciogliere, senza il martello, il
problema dell’eguaglianza assieme alla dignità e all’autonomia personali.
Finalmente il martello della centralizzazione è diventato un nostro collaboratore”. Bauer saluta il nuovo inizio scandito dalla nascita della scienza della natura
dell’uomo e dalla collaborazione scientifica internazionale come “l’inizio del
suaccennato periodo dell’europeismo, che sorgerà dalle attuali centralizzazioni
politiche e dalle loro inevitabili rivalità. Ci avviciniamo a quei tempi dell’antichità dove, all’inizio delle lotte dei triumviri e dell’epoca cesaristica, Oriente e
Occidente si fusero assieme e l’uomo prese il posto delle nazionalità e delle loro
creazioni morali. (…) Così anche per noi, in mezzo al conflitto delle dittature e
al transitorio baccano delle lotte ecclesiastiche, l’Europa sarà presto la nostra
patria comune e la presente rivista si sforzerà, per quanto le è possibile, di dare
il proprio contributo alla fondazione di una patria europea”. Crisi e livellamento
sono in Bauer i concetti cardine attorno ai quali egli tenta di far ruotare, come in
un praxinoscope, le immagini storiche del XVIII e XIX secolo. La distruzione
degli Stände non ha solo liberato l’individuo dai vincoli cetuali, ma ha anche prodotto la moderna società civile che, “liberata dalla politica” (La Russia e il
Germanesimo, in La sinistra hegeliana, cit., 246), necessitava di una nuova
forma di organizzazione; questa fu posta in essere per la prima volta dai funzionari napoleonici, il cui potere, ormai non limitato da nessuna barriera cetuale,
era libero di giungere fino alla sfera spirituale degli individui. E’ un nuovo “terribile potere” che inizia a prendere forma, un potere che libera la società dalla
politica e fa sì che essa non possa più nemmeno immischiarsi nella politica; prefigurando gli scenari totalitari del XX secolo, secondo Bauer la nuova dittatura
non si raffigura più come lo scettro monarchico che regna su un insieme di corpi
politici, ma come la nuda spada che si leva su una pianura indifferenziata di individui e che sola è in grado di tenere assieme gli individui atomizzati ( 248). Con
lo scorrere delle immagini, la concettualità liberale si rovescia nel proprio opposto: l’eguaglianza diventa eguale assoggettamento a un potere senza limiti, la
democrazia diventa estrema (extreme Demokratie); qui giungerebbe a compimento l’assolutezza del potere e l’insignificanza del singolo, il cui destino è quello di essere stritolato in una “morsa d’acciaio” e costretto a “sottomettersi o a
4
Schmeitzner’s
Internationale
Monatschrift,
Zeitschrift für allgemeine und nationale
Kultur und Litteratur,
Jg. 1882, Bd. I.
5
F. Nietzsche an H.
Köselitz, 5.2.1882, in
Nietzsche, Briefwechsel
(1880-1884), in Werke.
Kritische
Gesamtausgabe, cit.,
Bd. III, 1, p. 167. Sul
rapporto tra Bauer e
Nietzsche si veda D.
Tschizewskij, Hegel et
Nietzsche, in “Revue
d’histoire de la philosophie”, III (1929), 32147; Z. Rosen, Bruno
Bauers und Friedrich
Nietzsches Destruktion
der bürgerlich-christlichen Welt, in
“Jahrbuch des Instituts
für Deutsche
Geschichichte”, Hg.
von W. Grab, Tel-Aviv,
Nateev-Printing, 1982,
151-172.
161
n.4 / 2002
6
B. Bauer, Disraelis
romantischer und
Bismarcks sozialistischer Imperialismus,
Chemnitz, 1882
(ristampa anastatica:
Aalen, Scientia Verlag,
1979), 241.
7
C. Schmitt,
Glossarium.
Aufzeichnungen der
Jahre 1947-1951, Hg.
von E. Freiherr von
Medem, Berlin,
Duncker & Humblot,
1991, 10.7.48, 178.
8
D. Groh, Russland
und das
Selbstverständnis
Europas. Ein Beitrag
zur europäischen
Geistesgeschichte,
1961, trad. it. di C.
Cesa, La Russia e l’autocoscienza d’Europa,
Torino, Einaudi, 1980,
329.
162
perire” ( 263). L’individualismo liberato dagli antichi vincoli cetuali e la dittatura
si mostrano ora agli occhi di Bauer come forme complementari: egli attacca “l’illusione che vede nell’individualismo, che è il risultato degli ultimi sessanta anni
di rivoluzioni, la soluzione, addirittura ogni soluzione, mentre poi deve quotidianamente accorgersi che è soltanto qualcosa di provvisorio, che è solo un
aspetto della questione, e che è stretto da una legge ferrea al suo opposto, all’imperialismo ed alla dittatura” (262). L’opposizione di individualismo e dittatura è
solo apparente, perché essi si presentano come i due poli della dialettica del
livellamento: la democrazia estrema “ha spinto il principio egualitario fino alla
dissoluzione di ogni associazione politica (Staatsverband) in puro atomismo ed
ha spinto il principio di nazionalità fino a dissolvere tutti i corpi politici in gruppi tenuti insieme da interessi individuali”; questa forma estrema della democrazia è, secondo Bauer, la “democrazia dell’individualismo” (243). Livellamento e
individualismo da un lato, centralizzazione e imperialismo dall’altro, si delineano in Bauer come le forze dominanti il XIX secolo. La Rivoluzione francese e
l’impero napoleonico le hanno presentate in un’istantanea, il XIX secolo le sviluppa nella forma di un dramma. Ed è proprio su questo dramma che Bauer
tiene lo sguardo, convinto ormai, ma siamo dopo il fallimento rivoluzionario,
che, se una qualche possibilità di salvezza può darsi, questa non può che essere
individuale. Scrive Bauer nel suo ultimo lavoro — quasi un testamento: “le doglie
dell’epoca cesaristica coincidono con il risveglio della libertà e dell’azione personali. In mezzo alla battaglia e alla confusione dei partiti a nessuno è impedito
orientarsi nella ricchezza della storia e appropriarsi di ciò che gli è conforme; nel
timore della centralizzazione un autonomo tentativo di riforma non è vietato, —
ma è anche molto difficile”6. Ma Bauer non ha mai smesso di cercare una qualche dialettica nello stesso livellamento. Ci riavviciniamo così a quella citazione
della “Prefazione” della rivista di Schmeitzner dalla quale abbiamo preso le
mosse. Scrive Schmitti negli appunti presi subito dopo la Seconda Guerra
Mondiale: “Una difesa da un potere totale può darsi solamente in un contropotere quantomeno altrettanto totale. Se non così, solo nell’utilizzo da parte del
libero individuo delle fessure di quella totalità, vale a dire nel sabotaggio. Uno
splendido campo di ricerca per dialettici senza paura e per partigiani dello spirito del mondo come Bruno Bauer, non per eunuchi in cerca di licenza. Un tema
meraviglioso: l’inizio di un salto eiv allogeénov”7. Ma non c’è vera alternativa tra
l’anarca jüngeriano e una teoria del contropotere, per quanto totale esso possa
essere: sono entrambe figure della sottrazione, tentativi di dilazionare lo scontro
che è già reale e che ha prodotto quel potere. L’ambiguità di Bauer lo dimostra:
volontà di spingere la crisi fino in fondo e tentativo di salvezza personale, dispiegamento del livellamento e ricerca di un contropotere, affermazione del proprio carattere profetico e accettazione di essere kateécon8.A partire da queste
ambivalenze, per quanto esse impattano la questione del destino dell’Europa,
possiamo tentare di riannodare le fila di quanto finora detto. Bisogna però fare
un rapido salto nel Vormärz, ed andare all’inizio degli anni Quaranta, quando
Bauer, pensando al futuro di nuovi stati di dimensioni continentali, presagisce
che molto presto il conflitto tra gli Stati europei lascerà il posto a un nuovo conflitto tra potenze mondiali. Se l’Europa non tiene presente il modello nordamericano – “la repubblica della federazione” – se non sarà capace di diventare una
società di nazioni riunita in una famiglia di popoli, sarà spazzata via dal nuovo
livello delle opposizioni polemiche9. Ma è una speranza di breve durata, perché
con il fallimento della rivoluzione del 1848 tramonta anche l’illusione “che fosse
spuntata l’epoca in cui i membri della famiglia storica dei popoli (…) avrebbero
potuto costituirsi liberamente e collaborare in pace” (262). La crisi europea
diventa crisi culturale ed epocale, poiché l’Europa, lacerata dai conflitti delle
nazionalità che polverizzarono anche l’opera di Napoleone, non sembra in grado
di elevarsi al nuovo livello delle contrapposizioni mondiali. Solo la Russia poteva
essere secondo Bauer in grado di costituire una qualche unità, perché solo la
Russia era già una “potenza universale” e non era ancora stata intaccata dalla crisi
europea. Con la fine della guerra di Crimea la Russia perde di interesse e l’opposizione inizia ad affievolirsi. Per superare l’impasse, per non sprofondare nel
nichilismo, la filosofia della storia di Bauer tenta un’ultima disperata mossa: la
ricerca di nuove contrapposizioni e di un popolo nuovo capace di oltrepassare
la crisi dell’Occidente. Non è però sulla mitologia politica del “popolo nuovo”
che intendiamo concludere, ma sui problemi che la concezione baueriana
dell’Europa lascia irrisolti, perché strutturalmente incapace di risolverli. Anche
quando negli anni ’80 Bauer riprende il tema europeo come sviluppo del superamento dei conflitti tra le nazionalità, questa riflessione continua a muoversi
all’interno della concettualità che ha prodotto quegli stessi conflitti. Bauer pensa
di scorgere nel martello del livellamento un alleato, perché quello stesso martello frantumerebbe i resti delle nazionalità. Così, da capo, se la patria europea è
il punto di confluenza tra Oriente e Occidente, per pensare questa nuova identità politica europea Bauer necessita di nuove contrapposizioni e di nuove esclusioni: non solo la lotta tra i continenti prosegue, ma nuove e più gravi opposizioni polemiche segnano i confini di questa nuova patria. Purtroppo La Russia e
il Germanesimo è solo parzialmente tradotto e pubblicato nell’antologia di
Löwith; ma oggi che le questioni dell’Europa, della sua identità e della sua
coscienza acquistano nuovo e urgente interesse, può essere utile risalire alla filiera originaria di un’identità europea che andava definendosi in opposizione polare alla Russia e che, in quell’opposizione già tutta prefigurata nel XIX secolo,
lasciava intravedere un più generale contrasto tra Oriente e Occidente. La questione per noi oggi importante, e che testi come La Russia e il Germanesimo
possono aiutare a pensare, è se quella cosa che va sotto il nome di Europa non
possa definirsi altrimenti se non attraverso una suddivisione dualistica del
mondo e contrapposizioni polemiche. La contrapposizione tra Oriente e
Occidente ha infatti un carattere matriciale che può lasciare il posto a nuove
opposizioni, nelle quali l’autointerpretazione di ciascuna parte si pone al tempo
stesso come un’alternativa universale ed esclusiva. Cosicché l’alternativa non è
tra la civiltà e i suoi nemici, opposizione che ricade completamente in quella storia, ma tra la suddivisione dualistica della terra e la sua diluizione pluralistica.
L’Ottocento, almeno quello attraversato da Bauer, non fu in grado di pensare
questo pluralismo ma, in un’opera di ricognizione sulla crisi, riuscì ad evidenziare il nesso tra la moderna concettualità politica e la patogenesi dell’identità
europea da quella suddivisione dualistica.
(Massimiliano Tomba )
[email protected]
9
Cfr. B. Bauer,
Theodor Rohmer:
Deutschalnd Beruf in
der Gegenwart und
Zukunft, in
“Rheinische Zeitung”,
Beiblatt zu Nr. 158,
7.6.1842: “Chi pensa al
futuro dell’Europa e
della Germania non
deve perder di vista nè
lasciar da parte
l’America settentrionale, perché la lotta
tra gli Stati europei
passerà presto in
secondo rispetto ad
una lotta più grande,
quella dei continenti”.
Massimiliano Tomba, dottore di ricerca in Filosofia Politica, svolge attività didattica e di ricerca presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Padova.
163
n.4 / 2002
MICHAEL D. COHEN, JAMES G. MARCH E JOHAN P. OLSEN, “A Garbage Can Model of
Organizational Choice”, Admnistrative Science Quarterly, XVII, 1972, n. 1, pp.1-25
JAMES G. MARCH AND JOHAN P. OLSEN, Ambiguity Choice in Organizations, BergenOslo-Tromsø, Universitetsforlaget, 1982
JAMES G. MARCH AND JOHAN P. OLSEN, Riscoprire le istituzioni. Le basi organizzative della politica, Bologna, Il Mulino, 1992
JAMES G. MARCH AND JOHAN P. OLSEN, Governare la democrazia, Bologna, Il Mulino,
1997
In questo scritto non intendo presentare una rassegna esaustiva del lavoro di March e Olsen, ma solo lo
svilupparsi del loro pensiero attraverso un articolo importante, pubblicato con Michael D. Cohen, nel 1972,
e tre volumi significativi pubblicati, nella prima edizione in lingua originale, nel 1982, 1989 e 1995.
Michael D. Cohen, mentre era un borsista post-dottorato alla Stanford University, James G. March, mentre
era un professore della stessa Università, e Johan P. Olsen, in qualità di assistente all’Università di Bergen,
hanno scritto insieme un saggio che introduceva il concetto di Modello Cestino dei Rifiuti (Garbage Can
Model), per indicare un tipo di organizzazioni che essi chiamavano Anarchie Organizzate. Queste Anarchie
si presentavano come organizzate quando caratterizzate da preferenze problematiche (nel senso che le
preferenze sono definite male), da tecnologie non chiare (basate solo su procedure di prova ed errore) e
da partecipazione fluida (i partecipanti vanno e vengono). L’irriverente riferimento al cestino dei rifiuti
veniva applicato alle Università, che venivano descritte come il caso tipico di queste Anarchie Organizzate.
Il motivo che spingeva i tre a scrivere insieme questo saggio, con gli autori in rigoroso ordine alfabetico,
stava nel fatto che Cohen e March avevano condotto e pubblicato insieme una ricerca sull’Università americana e Olsen aveva pubblicato due volumi sui problemi delle Organizzazioni Accademiche. Il saggio era
un’occasione per trarre delle conclusioni dalle loro precedenti ricerche.
Il saggio ebbe una notevole fortuna e del Modello Cestino dei Rifiuti si parlò a lungo con riferimento a quelle organizzazioni in cui coesistono “collezioni di scelte in cerca di problemi, istanze (issues) e desideri (feelings) in cerca di situazioni decisionali nelle quali esse possono essere esposte all’attenzione, soluzioni in
cerca di domande (issues) alle quali esse possono essere una risposta e decisori in cerca di collocazione
(work)”(1972, 1).
Il punto di partenza dei tre autori è il fatto che “Le opportunità di decisione sono fondamentalmente stimoli ambigui” (1972, 2). Questa convinzione, sottolineano gli autori, discende dalle opere di vari altri autori, tra i quali, gli stessi Cohen, March e Olsen, ma anche Simon, Coleman, Lindblom e tanti altri. Il secondo presupposto è che il paradigma dell’attore razionale (basato su problemi ben definiti, nel senso di definiti ex ante) è inadatto a descrivere l’operare concreto di molte organizzazioni, nelle quali “i partecipanti
arrivano a una interpretazione di quello che essi stanno facendo e di quello che hanno fatto durante il processo del farlo” (1972, 2); essi sostengono che “una decisione è un risultato o interpretazione di molti
eventi relativamente indipendenti che si svolgono dentro un’organizzazione” (1972, 2-3).
Nel Modello Cestino di Rifiuti, i due autori individuano una struttura delle decisioni e una struttura di
accesso. Essi le descrivono con delle matrici che combinano ciascun problema con ciascuna scelta (struttura di accesso) e ciascun decisore con ciascuna scelta (struttura delle decisioni). Per quanto riguarda, poi,
lo stile delle decisioni, nel Modello Cestino dei Rifiuti gli attori vengono visti come incapaci di adottare lo
stile della risoluzione (dei problemi), e in condizione solo di adottare lo stile dell’omissione (oversight) o
quello del volo (flight). Quest’ultimo consisterebbe nel trovare la soluzione quando i problemi lasciano la
situazione da decidere.
Segue, nel saggio, tutta una parte statistica che cerca di collegare la struttura delle decisioni con la strut-
164
tura di accesso e costruire vari tipi di combinazioni possibili. Il saggio continua nell’applicazione del modello a quattro diversi tipi di Università: grandi e ricche; grandi e povere; piccole e ricche; piccole e povere.
Le conclusioni di questa parte statistica del saggio sono scarsamente interessanti, rispecchiano lo stile degli
anni Settanta (comprese le cinque pagine di software in Fortran, in coda al saggio). Questo stile verrà fortemente ridimensionato nella ristampa del saggio per il volume Ambiguity Choice in Organizations, a cura
di March e Olsen.
Anche perché, nel frattempo, qualcosa è cambiato in tema di studi sulle organizzazioni: in particolare, sono
entrati in crisi molti degli assunti del paradigma della modernità. Questo paradigma condivideva la convinzione che la modernità fosse caratterizzata da trasparenza e univocità del linguaggio di base (e quindi
da ampia possibilità di strutturazione e standardizzazione della comunicazione). In particolare, si sosteneva che quanto più la comunicazione diventava formale in una organizzazione, tanto più quella organizzazione era da considerare moderna. Questa convinzione ha portato alla conclusione che, in una realtà
moderna (azienda, istituzione, associazione, etc.), ciò che realmente conta è solo ciò che può essere trattato statisticamente e tradotto in un sistema di equazioni.
Con la metà degli anni Settanta, questa convinzione è entrata in crisi perché, proprio dove più si credeva
di trovare conferma ad essa (la grande impresa multinazionale che è sempre stata considerata la manifestazione più evidente della modernità), si è scoperto che la comunicazione informale aveva un peso maggiore di quello che si ritenesse. Una grande ricerca sugli imprenditori di grandi multinazionali (con sede
negli U.S.A., in Giappone, in Germania o in Inghilterra) ha evidenziato che un buon numero di dirigenti si
è dichiarato convinto che la comunicazione informale all’interno fosse più importante della comunicazione formale nel governare l’azienda. Per comunicazione informale si intendevano le convinzioni dei dipendenti sull’azienda stessa, sulle persone che la guidavano e persino il pettegolezzo (gossip) interno all’azienda.
Dopo questo mutamento di prospettiva, March e Olsen decidono di riprendere le loro riflessioni sulle
Organizzazioni curando la pubblicazione di un volume che raccolga i contributi di vari altri autori che condividono questa o quella posizione dei due autori o che presentano prove empiriche a sostegno delle loro
chiavi di lettura. Il volume è, da una parte, “un tentativo di comprendere come le organizzazioni trattano
le ambiguità” (1982, p. 8), dall’altra, un tentativo di mettere alla prova il modello cestino di rifiuti o bidone della spazzatura.
Apre il volume la versione ridotta del saggio di Cohen, March e Olsen del 1972. In questa nuova versione
del 1982, il saggio viene presentato con delle differenze: si abbandona il riferimento alle collezioni di scelte in cerca di problemi e si sostituisce il riferimento ai decisori (decision makers looking for work) con il
riferimento ai partecipanti (participants looking for problems or pleasures). La prima formulazione, con
riferimento ai decisori, restringeva il campo sia per il riferimento ai soli decisori che per il riferimento al
solo tema del lavoro; la seconda allarga moltissimo il campo di riferimento sia perché considera tutti gli
appartenenti all’organizzazione (partecipanti), sia perché considera anche motivazioni diverse dal lavoro
(pleasure).
La definizione di organizzazione che ne deriva è la seguente: “Una organizzazione è un insieme di procedure per l’argomentazione e l’interpretazione oltre che per la soluzione dei problemi e la costruzione di
decisioni. Una situazione di scelta è un luogo di incontro per istanze e desideri in cerca di situazioni decisionali nelle quali esse possono essere esposte all’attenzione, soluzioni in cerca di domande alle quali possono essere una risposta, e partecipanti in cerca di problemi o distrazione” (1982, 25).
Il Modello Cestino dei Rifiuti non viene più riferito alle Anarchie Organizzate o alle sole Università. Ma si
dice che le condizioni di questo modello sono (anche e particolarmente) presenti nelle organizzazioni
pubbliche, dell’educazione e nelle organizzazioni illegittime, cioè criminali (1982, 25).
Nella riedizione del 1982 del saggio del 1972, si abbandonano le parti di analisi quantitativa più rilevanti (a
165
n.4 / 2002
cominciare dal programma in Fortran) e si riduce il numero delle caratteristiche quantitative del modello
alla sola descrizione della struttura dei partecipanti e della struttura degli accessi.
Questo secondo saggio fisserà i caratteri per i quali il Modello Cestino dei Rifiuti sarà conosciuto negli anni
successivi, anche se non sempre le definizioni che saranno fornite del Cestino di Rifiuti riporteranno, per
intero, la complessità della definizione adottata da March e Olsen. Per esempio, Luigi Bobbio (Dizionario
di politiche pubbliche, voce Decisione) definisce il modello cestino di rifiuti come quel modello che si
allontana di più dal modello di decisone razionale e che è caratterizzato da un’interazione tra attori che
vanno e vengono, che operano in condizioni di ambiguità, che non hanno una chiara motivazione di ricerca della soluzione e che producono soluzioni solo perché queste incontrano casualmente i problemi.
March e Olsen chiariscono che l’ambiguità può essere di quattro tipi: di intenzione, di comprensione, di
storia o di organizzazione (nel senso di attenzione rivolta dagli attori al problema). L’ambiguità nasce, quindi, dal fatto che “gli obiettivi non sono chiari, le tecnologie sono conosciute in modo imperfetto, le storie
sono difficili da interpretare e i partecipanti entrano ed escono dal processo” (1982, 8).
Queste diverse forme di ambiguità portano a frequenti distorsioni del Completo Ciclo di Scelta che viene
così descritto: le azioni individuali
(che si trasformano in) azioni organizzative (che producono)
reazioni ambientali
(che influenzano) le concezioni individuali del contesto (che ristrutturano)
le azioni individuali (e il ciclo ricomincia).
Date queste premesse, mi sembra di poter concludere che la strategia del cestino di rifiuti è quella che,tra
le altre, cercano di evitare le Organizzazioni Non Governative nel fornire aiuti alle popolazioni del terzo
mondo. Queste organizzazioni evitano per principio l’aiuto da Stato a Stato per il seguente motivo: se uno
Stato fornisce 100 milioni di euro per aiuti umanitari a uno Stato in difficoltà e questo secondo Stato spende 100 milioni in latte, medicine, beni di prima necessità, etc., e contemporaneamente spende (perché è
una seconda voce possibile nel proprio bilancio) altri 100 milioni in armamenti, sorge il problema che si
perde la chiarezza di (nella terminologia di March e Olsen, diventa ambiguo) ciò che l’ONG ha finanziato
(gli aiuti o le armi?). In altri termini, il bilancio di ogni Stato è una specie di cestino dei rifiuti che rende
ambiguo il rapporto tra input e output.
Da questo punto di vista, l’operare di uno Stato non è diverso dall’operare di molte organizzazioni, per
esempio quelle partitiche – ma anche una Università e, perché no?, un’organizzazione illegale - che svolgono insieme più funzioni, coinvolgono più attori, trattano più problemi e realizzano più soluzioni e questa molteplicità (di funzioni, attori, problemi, soluzioni) crea ambiguità. Per evitarla, le ONG o seguono la
prassi di finanziare progetti che loro stesse provvedono a seguire o debbono ricorrere a organizzazioni in
loco che hanno una sola voce di bilancio.
In un modello a cestino di rifiuti, una decisione può essere “sia un esito che una interpretazione di parecchie ‘correnti’ [di eventi] relativamente indipendenti dentro un organizzazione” (1982, 26). Ciascuna di
queste correnti (ma molti preferiscono parlare di flussi) di eventi può costituire un problema in quanto è
una pertinenza per qualcuno, i risultati di questi flussi di eventi possono anche essere le soluzioni realizzate per caso, i partecipanti vanno e vengono perché alcuni vengono estromessi dall’attenzione degli altri,
perché chi partecipa lo fa a seconda degli interessi che lo motivano e presta attenzione solo ad alcuni flussi di eventi, e non a tutti, mentre la politica diventa una questione di opportunità di scelta con soluzioni
che sono soltanto occasioni per produrre comportamenti che possono essere chiamati decisioni. In un
Modello Cestino di Rifiuti, si confondono problemi in cerca di soluzioni (in quanto sono presi in considerazione dall’organizzazione) con soluzioni in cerca di problemi (cioè soluzioni che preesistono ai problemi) e il risultato è che alcuni problemi vengono risolti, per caso o interattivamente (che non significa intenzionalmente), altri rimangono irrisolti o vengono aggravati.
Cosa sia un problema in cerca di soluzione è facilmente comprensibile perché è la situazione cosiddetta
“normale”. Per spiegare cosa sia una soluzione in cerca di problema, presento un esempio di risanamento/sventramento di un quartiere di una imprecisata città del Meridione. L’esempio dovrebbe anche mostra-
166
re come sia spesso una soluzione in cerca di problema la modalità del realizzarsi del Modello Cestino di
Rifiuti.
All’inizio vi è solo una consapevolezza: laddove si sono fatte, per la ricostruzione delle città disastrate dalla
guerra, grandi operazioni di risanamento, il giro di denaro che ne è derivato ha portato notevoli consensi
elettorali alla DC (che guidava le amministrazioni locali coinvolte nei progetti) sottraendoli ai partiti di
notabili di destra. Siccome un’operazione politica del genere era sentita urgente anche in una imprecisata
città meridionale per consolidare il potere democristiano, alcuni uomini politici locali e un gruppo di banche, insieme ad alcune società immobiliari, sollecitate dalla disponibilità di un forte incentivo in forma di
finanziamento pubblico al risanamento, progettarono un intervento immobiliare di notevole impegno
finanziario. Si trattava di risanare una parte del centro storico. Questa era, naturalmente, la soluzione preesistente al problema (perché la possibilità di ottenere le risorse necessarie era chiara prima ancora di sapere dove le risorse sarebbero state impiegate).
Occorreva scegliere il problema cui applicare il pacchetto di soluzioni già disponibile. Siccome tutto il centro storico era da risanare, ma l’impresa sarebbe stata ciclopica, si trattava di scegliere una parte limitata
del centro storico. Fu scelto il quartiere X, cioè fu scelto di intervenire, nel centro storico, limitatamente a
quel quartiere ed esattamente per una fascia che permettesse la costruzione di una larga strada (con ai lati
una sola linea di isolati con uffici e banche, non molti appartamenti e qualche attico di prestigio) di collegamento tra la zona dei negozi e degli uffici della via principale con la Stazione Ferroviaria e il mare. In questo modo, il “risanamento” diventava soprattutto uno sventramento.
Dopo lo sventramento, in prosecuzione della nuova arteria che spaccava il centro storico, una larga strada
fu costruita in riva al mare, sulle pietre laviche immacolate, per permettere un rapido scorrimento dal centro cittadino, dei negozi e degli uffici, alle periferie residenziali delle ville sul mare.
Il quartiere X aveva certamente bisogno di essere risanato, ma non meno dei quartieri vicini che rimasero
sempre “insanati”. La popolazione di X non fu “risanata” perché fu spostata su quartieri periferici privi di
servizi e con scarsissimi mezzi pubblici per il trasferimento. Molti dei quartieri del centro di quella città, circondati dalle vie di traffico veloce, furono ben presto emarginati e questo produsse, in successione, disadattamento, devianza giovanile, piccole bande di scippatori e ladri, i protagonisti delle prime rapine in
villa con sbarco da veloci motoscafi nel corso di feste private ed esclusive, la manovalanza di associazioni
mafiose sviluppatesi rapidamente nel tessuto urbano ormai disgregato, etc.
Molti problemi furono risolti solo temporaneamente (le classi dirigenti che produssero, arricchendosi, l’emarginazione dei quartieri del centro storico furono poi taglieggiate, e persino spogliate delle imprese, dai
più determinati di quanti erano cresciuti nei quartieri emarginati); altri problemi non furono risolti (gli ex
abitanti del quartiere X si trovarono in una situazione peggiore di quella di partenza perché molti di essi
persero del tutto o ridussero di molto le loro attività artigianali); furono realizzati obiettivi non desiderati
(spostare il potere interno alla DC dagli sturziani motivati in base a valori agli affaristi legati alle clientele
della speculazione edilizia; l’attenzione dei politici fu spostata dallo sviluppo industriale allo sviluppo assistito; etc.).
Il Modello Cestino di Rifiuti mostra con chiarezza perché una teoria della scelta organizzativa debba porre
in primo piano la qualità e il livello dell’attenzione degli attori (1982, 38). Ed infatti, Ambiguity Choice in
Organizations tratta il tema dell’attenzione in riferimento all’ambiguità. Per spiegare i diversi livelli di
attenzione e la discontinuità nell’attenzione, viene presa in considerazione l’ambiguità degli scopi, quella
del potere (chi ha il potere e quanto ne ha), dell’esperienza (nella valutazione delle decisioni pregresse) e
del successo (se si è raggiunto lo scopo desiderato o altri diversi che hanno vanificato il primo).
Segue l’analisi delle soglie o salti (uno per ogni passaggio tra le quattro posizioni del Ciclo di Scelta) che
conseguono dall’ambiguità e che riducono l’attenzione degli attori. Queste ambiguità e il difetto di attenzione rendono non applicabile, secondo gli autori, il modello della decisione razionale. Perché la decisione sia razionale, nel senso classico, March e Olsen ritengono necessarie le seguenti condizioni: 1) pochi
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partecipanti; 2) una situazione stabile nel tempo (possibilmente breve) che intercorre tra l’attivazione degli
attori e la decisione.
Altri modelli di decisione alternativi a quello della scelta razionale sono il modello del conflitto (risolto
attraverso coalizioni o accordi) e il modello della non-decisione. Nessuna organizzazione è più portata a
questo o quello dei tre modelli, ma in ciascuna organizzazione ogni modello può prevalere in determinate circostanze di contesto. Ovviamente, è possibile che altri vedano dei modelli intermedi tra quello della
scelta razionale e il Modello Cestino di Rifiuti di March e Olsen: Luigi Bobbio, per esempio, nel già citato
dizionario, presenta, come modelli intermedi, quello derivante da Herbert A. Simon che è detto della razionalità limitata o cognitivo (perché gli studi di psicologia cognitiva hanno dimostrato che i problemi complessi vengono affrontati con strutture concettuali predefinite e persino routine), quello della razionalità
incrementale (attribuito a Lindblom e di cui il Modello Cestino di Rifiuti sarebbe, per Luigi Bobbio, solo la
versione più estrema), etc.
March e Olsen condividono, inoltre, con Simon, la convinzione che le organizzazioni tendano ad affrontare i problemi attraverso procedure di routine, e che questo sia tanto più difficile quanto maggiore è la differenza tra risorse esistenti e domande avanzate. Aggiungono a Simon, invece, la convinzione che l’ambiguità in cui opera il modello cestino di rifiuti produca come conseguenza che molti dei suoi risultati sono
spesso “un sottoprodotto di un processo per esercitarsi intorno ai (piuttosto che per risolvere i) problemi” (1982, 252).
Una delle conseguenze più importanti, sul piano metodologico, ricavabile dalla lettura di Ambiguity Choice
in Organizations è che raramente si presenterà alla nostra analisi (nello studio di una organizzazione i cui
processi non hanno ben delimitati inizio e fine, un ben delimitato numero di partecipanti, una ben definita e
costante intenzione di ciascun partecipante e, infine, una ben delimitata gerarchia di problemi) un caso empirico oggettivamente circoscrivibile, ma sempre solo una successione di problemi o un flusso o sequenza di
eventi (secondo la terminologia di Heclo, presentata in un articolo del 1972).
In conclusione del lavoro, gli autori sostengono che il concetto di decisione non costituisca un caso o un
fenomeno o un evento, bensì una teoria. “Questo implica una connessione tra attività chiamate processo
decisionale, pronunciamenti chiamati decisioni, e azioni chiamate implementazione di decisioni” (1982, 352).
Mi sono dilungato su Ambiguity Choice in Organizations perché, non essendo stato tradotto, è meno
noto al pubblico italiano, mentre è indispensabile per presentare in modo soddisfacente i successivi due
volumi: Rediscovering Institutions. The Organizational Basis of Politics; Democratic Governance. Essi
sono stati tradotti, con il titolo: Riscoprire le istituzioni. Le basi organizzative della politica e Governare
la democrazia.
In Riscoprire le istituzioni, March e Olsen si pongono l’obiettivo di superare il paradigma che ha prevalso
negli studi e nelle ricerche di Scienza Politica. Questo paradigma appare loro come contestualista (la politica viene studiata nel contesto della società), riduzionista (il comportamento politico è un aggregato di
comportamenti individuali e il primo è comprensibile a partire dai secondi), strumentalista (concepisce
decisioni e risorse come problemi fondamentali), utilitarista (considera l’azione come motivata esclusivamente dall’interesse) e funzionalista (considera la storia come capace di produrre un ordine e oggettivi
punti di equilibrio). Per superare questo paradigma, March e Olsen si affidano a una letteratura empirica
vastissima dalla quale estraggono un’infinità di piccole conferme che mostrano l’urgenza di un paradigma
alternativo che interpreti l’organizzazione politica come autonoma dal resto della società, riconduca il comportamento dei singoli alle regole di queste organizzazioni, consideri l’azione anche come una risposta a
obblighi e doveri, rivaluti il ruolo portante di simboli, rituali e cerimonie e, infine, ipotizzi adattamenti imperfetti e molteplicità di punti di arrivo di ogni processo storico. La conseguenza, dell’operare in base a questo
secondo paradigma, sarebbe quella di riscoprire le istituzioni (da cui il titolo del libro).
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Congeniale al primo paradigma è la metafora del modello aggregativo riferita alle istituzioni; congeniale al
secondo paradigma è la metafora, sempre riferita alle istituzioni, del modello integrativo. Per questo, si può
dire che il modello aggregativo è prevalso nella Scienza Politica moderna e quello integrativo sta prevalendo nella Scienza Politica post-moderna dopo essere a lungo prevalso in quella pre-moderna.
Il modello aggregativo privilegia la descrizione degli eventi come conseguenza di decisioni calcolate (cioè
razionali) e la politica come competizione razionale. Il modello aggregativo concepisce la politica come se
fosse l’opera di tanti decisori unitari con conoscenze esaustive e complete della situazione e delle alternative di scelta possibile, come pure degli effetti e delle cause e con la consapevolezza di come si possa ottenere l’ottimizzazione dei risultati (per esempio, l’ottimo-paretiano). Il modello aggregativo, inoltre, concepisce la politica come subordinata a forze esogene. Infatti, “Si pone come assunto che la classe, la geografia, il clima, i fattori etnici, la lingua, la cultura, le condizioni economiche, la demografia, la tecnologia,
l’ideologia e la religione influenzano la politica ma non ne siano influenzate in maniera apprezzabile”
(1992, 24-5).
L’assunto adottato (nel modello integrativo) in alternativa a quello dell’azione razionale è che, nella competizione politica, l’interazione appare (ed è) caotica in quanto dominata dai vari tipi di ambiguità di cui si
è già detto. Le routine non regolano, ma intervengono in, questo caos, e a queste routine si affiancano altri
tipi di azione che sono originate da credenze non necessariamente razionali. Infine, sono le istituzioni che
influenzano le forze esogene quanto, se non più di quanto, esse influenzino le istituzioni.
Nel modello aggregativo, la fiducia (cioè un valore, quindi la razionalità di valore, per restare nello schema) non gioca alcun ruolo, mentre ne gioca uno importante nel modello integrativo. Naturalmente, non
si tratta della fiducia fondata su accordi di reciprocità (contratti impliciti o espliciti), ma della fiducia istintuale di chi non è guastato da concezioni utilitariste. “Per questo la fiducia può essere scalzata dalla persistenza della slealtà ma è più probabile che essa venga minata nel momento in cui ci si accorge che è parte
di un accordo contrattuale volontario, invece che degli obblighi naturali della vita politica” (1992, 56).
Per capire il senso di quest’ultima affermazione, bisogna considerare che, nel modello integrativo, si presuppone che “la fiducia connessa con la delega nelle istituzioni politiche non è un contratto esplicito ma,
al pari della stessa divisione del lavoro, una regola di comportamento appropriato” (1992, 56). Con questo
accenno, March e Olsen introducono il concetto di appropriatezza che, con riferimento alle organizzazioni, indica la tendenza di queste ultime a formare le persone che vi lavorano sulla base di valori prodotti
dalla stessa organizzazione. Uno di questi valori, forse il fondamentale, è appunto quello della fiducia
(anche se quanto si è detto a proposito della comunicazione informale, e in particolare del gossip interno
all’organizzazione, mostra che non sempre il valore della fiducia, e quindi l’appropriatezza, viene rispettato), senza la quale (malgrado la possibilità di eccezioni, anche rilevanti, ma pur sempre eccezioni) nessuna organizzazione può funzionare.
Questo significa due cose. La prima può essere riferita all’intera società: non esiste società strutturata sulla
divisione del lavoro che non abbia un proporzionale livello di fiducia su cui poggiare per funzionare (e siccome divisione del lavoro e fiducia sono compresenti solo nel modello integrativo, dei due modelli puri in
cui è possibile descrivere l’organizzazione sociale, uno – nel caso specifico, il modello integrativo puro –
si presenta come unico possibile – anche se intollerabile e distruttivo della libertà – per la ragione che l’altro – nel caso specifico, il modello aggregativo puro – risulta contraddittorio e impossibile). La seconda
può essere riferita ad ogni organizzazione: in ogni organizzazione vige la regola che gli attori si muovono
secondo il ruolo che definisce la loro identità e secondo regole che sono il prodotto della divisione del
lavoro - altrimenti detta struttura dei ruoli - (e siccome divisione del lavoro e identità sono compresenti
solo nel modello integrativo puro, dei due modelli puri in cui è possibile descrivere ogni organizzazione,
una – nel caso specifico, il modello integrativo puro – si presenta come unico possibile – anche se intollerabile e assurdo – per la ragione che l’altro – nel caso specifico, il modello aggregativo puro – risulta contraddittorio e impossibile).
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Va, inoltre, considerato che anche l’appropriatezza può produrre dei problemi all’organizzazione.
L’appropriatezza che crea problemi, quella che si manifesta nella versione più intollerabile e assurda, può
essere esemplificata attraverso il comportamento dell’ipotetico funzionario dell’ufficio A che chiede al funzionario dell’ufficio B di essere autorizzato a svolgere una funzione che abitualmente non svolge. Reitera
più volte questa richiesta e ogni volta se la vede respingere. Infine, a causa di una lunga assenza del funzionario dell’ufficio B, lo supplisce per un lungo periodo. Il funzionario dell’ufficio A, adesso temporaneo
funzionario dell’ufficio B, trova sul tavolo del nuovo ufficio la richiesta che egli stesso ha inoltrato dall’ufficio A e la respinge. Finita la supplenza, e ritornato all’ufficio A, inoltra una identica richiesta all’ufficio B.
Nella versione più razionale, l’appropriatezza deriva dal fatto che l’organizzazione addestra (perlomeno nel
breve periodo) i propri funzionari sulla base dei valori che essa stessa produce al proprio interno, più che
sulla base di un’adesione acritica ai valori esterni alla società (anche se nel lungo periodo questi possono
influenzare i valori dell’organizzazione).
Fermo restando il principio che nelle organizzazioni vige il principio dell’appropriatezza, una maggiore efficienza dell’organizzazione (maggiore attenzione, solerzia, motivazione dei funzionari) può essere ottenuta attraverso due tipi di intervento che, prima di March e Olsen, Parsons ha chiamato: integrativo e aggregativo. Nella versione di Parsons, operano secondo il modello integrativo coloro che vedono, nell’appartenenza a un sistema di valori e nell’organizzazione, una risorsa fondamentale per costruire la propria identità e vedersela riconoscere affermandosi; operano secondo il modello aggregativo coloro che vedono nell’organizzazione l’occasione per costituire un sistema di relazioni strumentale, più che solidale (strumentale, naturalmente, al raggiungimento di obiettivi individuali).
Parsons aveva applicato questa dicotomia al caso di Doc, leader dei Corner boys considerato gruppo integrativo, e al caso di Chick, esponente importante dei College boys considerato gruppo aggregativo (i due
sono le figure centrali dell’opera di Foot Whyte, Street Corner Society). Tuttavia, proprio questa divisione
netta tra gruppi aggregativi e integrativi era stata fortemente criticata nell’interpretazione imposta da
Parsons all’opera di Whyte (il quale, da buon ricercatore empirista, era stato molto più sfumato nel rappresentare le figure di Doc e Chick). Questa critica, e le discussioni che ne seguirono, nasceva da un problema da sempre presente nella cultura americana (e ne abbiamo avuta anche ampia illustrazione in un’infinità di film, soap operas e cartoons): i due modelli (aggregativo e integrativo) sono presentati, da alcuni, come separati nettamente nella figura del buono (il modello integrativo disposto al sacrificio per la
comunità e per difenderne i valori) e del cattivo (il modello aggregativo, utile ma mai veramente amato e,
comunque, facilmente portato a finire male); da altri, artisti o studiosi, i due modelli sono concepiti sempre come compresenti e conflittuali all’interno della stessa organizzazione, dello stesso gruppo e persino
della stessa persona.
La compresenza e la conflittualità dell’aggregativo e dell’integrativo nello stesso idealtipo è evidente: nell’imprenditore razionale come descritto da Weber (un religioso che seguendo i dettami della fede della
comunità in cui opera, soprattutto quella calvinista, realizza anche il proprio interesse); nella biografia di
Charles S. Peirce fornitaci da Wright Mills che fa di questo filosofo l’idealtipo dell’uomo di genio che, insieme, esprime e interpreta al meglio i valori della cultura americana, mentre vive la propria vita nella sensazione di avere fallito perché ha avuto meno successo professionale di molti suoi colleghi meno capaci, ma
più opportunisti.
In alcuni passaggi cruciali di Riscoprire le istituzioni, March e Olsen dimostrano di propendere per l’idea
che l’integrativo e l’aggregativo siano compresenti nella stessa istituzione. Vediamo, adesso, con quali argomenti.
Per spiegare le forme della partecipazione, March e Olsen descrivono il sistema politico come costituito da
individui che operano in base a vari tipi di interazione, che si muovono tra i due poli della fiducia e della
sfiducia, o tra i poli dell’integrazione e dell’emarginazione e vari tipi di orientamenti verso la realtà (come
le cose o i fatti vengono visti, valutati, considerati rilevanti o meno e controllati). Riprendendo, in
170
Riscoprire le istituzioni, il tema di Ambiguity Choice in Organizations, March e Olsen sostengono che
l’ambiguità si manifesta negli orientamenti verso la realtà, ma nasce dalle varie collocazioni o modi di operare degli individui: individui che interagiscono senza conflitti, che si fidano gli uni degli altri e che si sentono dalla stessa parte (insieme integrati nel o insieme emarginati dal sistema) vedono, valutano, considerano e controllano le cose e i fatti allo stesso modo (senza ambiguità tra loro). Individui che interagiscono
in modo conflittuale, che non si fidano gli uni degli altri e che non si sentono dalla stessa parte (integrati
da una parte ed emarginati dall’altra) vedono, valutano, considerano e controllano le cose e i fatti in modo
diverso (con una ambiguità che, a volte, può essere una risorsa, altre volte - se decisa, “risolta”, attraverso
forme di semiosi chiusa, cioè in modo integralista - produce incommensurabilità). L’incommensurabilità
nasce, infatti, dalla compresenza di forti credenze e ambiguità. “La perseveranza di fronte a chiari fallimenti
e l’indifferenza a un’attenta ponderazione delle conseguenze dell’azione sono, naturalmente, aspetti
comuni del comportamento umano – soprattutto in ambiti contrassegnati da forti credenze e dall’ambiguità dell’esperienza” (1992, 138).
La rilevanza dell’ambiguità nell’organizzazione e nelle istituzioni deriva dal fatto che la vita non è solo scelta e decisione, ma anche interpretazione e significato. Infatti, “il significato costituisce uno degli aspetti
principali della vita” (1992, 87). Proprio per questa rilevanza del significato, anche i termini usati per descrivere una politica hanno il loro peso nel costituirne la valutazione. Per esempio, la politica di Reagan in
U.S.A. (già anticipata, per molti aspetti, dalla Thatcher in G.B.) ha ricevuto, in molti Paesi, reazioni negative maggiori quando è stata chiamata privatizzazione ed ha prodotto reazioni più contenute quando è stata
chiamata riforma dell’amministrazione o modernizzazione o con altri termini più neutrali, rispetto alla
“ideologia del welfare”.
Questa ambiguità permette di definire la stessa organizzazione, a volte, come integrativa e, altre volte,
come aggregativa. Questo perché ogni organizzazione è fonte e sbocco dell’ambiguità. Quest’ambiguità
permette, di conseguenza, che vengano riprodotte, nel vedere, nel valutare, nel considerare e nel controllare la stessa organizzazione, le contrapposizioni paradigmatiche della teoria politica (dove ci si può contrapporre tra contrattualisti-aggregativi e comunitari-integrativi). Inoltre, coloro che si sentono integrati
nell’organizzazione la possono vedere con gli occhi del modello integrativo, mentre coloro che si sentono
emarginati la possono vedere con gli occhi del modello aggregativo (o viceversa). Quindi, ancora, un
nostalgico di vecchi valori a lungo prevalsi nell’organizzazione (per esempio, un repubblicano in una amministrazione passata sotto il controllo dei democratici o viceversa) può vedere il prevalere, nell’organizzazione, di comportamenti aggregativi anche quando sono ancora prevalenti comportamenti integrativi (o
viceversa). Etc.
In altri termini, la stessa organizzazione è detta aggregativa quando, in essa, si vede (ma questa visione è
sempre da un particolare punto di vista) un ordine fondato sulla razionalità e lo scambio; è detta integrativa quando, in essa, si vede (sempre da un particolare punto di vista) un ordine fondato sulla storia, sull’obbligazione e sulla ragione. Tanto è vero che, a proposito di qualsiasi istituzione della rappresentanza,
“Le teorie aggregative sottolineano il primato della regola della maggioranza. Le teorie integrative collocano la regola di maggioranza all’interno di una rete di diritti e di norme istituzionali. Le teorie dell’aggregazione considerano le politiche pubbliche e l’allocazione delle risorse come il risultato fondamentale di un
processo politico. Le teorie dell’integrazione considerano come risultato primario lo sviluppo di un sistema politico dotato di scopi e valori condivisi” (1992, 179).
E subito dopo, March e Olsen chiariscono: “Nell’ambito delle teorie aggregative dello scambio razionale, il
problema della rappresentanza si definisce come un problema di compatibilità fra incentivi […] D’altra
parte, nel quadro delle teorie integrative dell’obbligazione ragionata, il problema della rappresentanza consiste nell’integrità professionale del funzionario. Le soluzioni consistono nella socializzazione dei rappresentanti a un’etica del dovere amministrativo e dell’autonomia” (1992, 179-80).
Ma siccome tutte queste componenti (maggioranze, reti di diritti e norme, politiche pubbliche, scopi, valo-
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ri, etc.) sono immerse nell’ambiguità, tutte le istituzioni possono essere descritte come aggregative o integrative. E non vi sono organizzazioni più integrative o più aggregative, se non a partire da un determinato
punto di vista. Anche se le teorie politiche con cui vengono valutate fanno parte delle organizzazioni, le teorie politiche sono pertinenti agli interpreti, non alla realtà. Che uno stesso interprete dica che l’istituzione A
è (più) integrativa e l’istituzione B è (più) aggregativa è possibile, purché non dimentichi che “La distinzione
tra aggregazione e integrazione è importante ai fini della valutazione delle concrete istituzioni politiche, che
hanno la tendenza a presentare una mistura di entrambi gli elementi” (1992, 178).
Secondo March e Olsen, tendono a vedere istituzioni aggregative quanti guardano ad esse con gli occhi e i
criteri di interpretazione degli economisti neoclassici (cioè presupponendo comportamenti egoistici e la
mano invisibile del mercato che traduce in bene l’aggregazione di tutti i comportamenti egoistici); tendono
a vedere istituzioni integrative quanti guardano ad esse con gli occhi e i criteri di interpretazione dei comunitaristi (cioè presupponendo comportamenti basati sull’integrità morale dei funzionari che operano concependo l’istituzione come una comunità in relazione con la comunità più ampia dei cittadini). Inoltre, coesisteranno sempre, insieme a individui e gruppi (ma anche partiti) che vedranno le istituzioni come integrative, individui, gruppi (e partiti) che, in contrasto con i primi, le vedranno aggregative (o viceversa). Questo
perché individui, gruppi (e partiti) vedono, valutano, considerano e controllano le cose e i fatti allo stesso
modo di coloro con i quali interagiscono in armonia, con i quali si sentono ugualmente integrati o emarginati e dei quali si fidano, e perché individui, gruppi (e partiti) vedono, valutano, considerano e controllano le
cose e i fatti in modo alternativo rispetto a coloro con i quali interagiscono in forma conflittuale, rispetto ai
quali si sentono in posizioni differenti (emarginati verso integrati o viceversa) e dei quali non si fidano.
Infine, ciascuna metafora riceve, nel tempo, maggiore o minore consenso: a volte prevale quella del modello integrativo, altre volte quella del modello aggregativo. Tanto è vero che, nel non lontano passato, le istituzioni tendevano a vedersi come aggregative; negli ultimi anni, ma anche nel lontano passato, come integrative. Più aumentano le risorse e più le istituzioni tendono a essere viste come aggregative, mentre la
contrazione delle risorse tende a farle vedere come integrative (a meno che non appaiano troppo coinvolte
nel tentativo di far pagare il costo dei sacrifici a una sola parte sociale). L’integrazione, è la conclusione, è
una metafora che pone in primo piano il valore della fiducia; l’aggregazione è una metafora che pone in
primo piano il realismo degli interessi di parte.
Tutti questi temi (dell’ambiguità, dell’integrativo e dell’aggregativo) vengono ripresi nel volume
Democratic Governance (tradotto in italiano con il titolo: Governare la democrazia).
Le interpretazioni di studiosi e uomini politici, sostengono March e Olsen all’inizio di Governare la democrazia, “si sono tramandate attraverso i loro insegnamenti e attraverso le istituzioni di governo che essi
hanno contribuito a creare. Il loro pensiero è stato incorporato nelle pratiche, nelle regole, nelle norme,
nelle identità, nei valori, nei discorsi e nelle capacità su cui si fondano i sistemi politici moderni” (1997, 7).
Su questo elenco è praticamente strutturato buona parte del volume.
La premessa interpretativa di Governare la democrazia sta in una constatazione già ampiamente chiarita:
solo nel non lontano passato, la visione dei governanti come preoccupati del bene comune e della virtù
civica è stata sostituita da “una visione della politica tutta incentrata sulla negoziazione, sui problemi di
coalizione, e sulla competizione” (1997, 13). Questa sostituzione è stata conseguenza di un’interpretazione derivata dal prevalere temporaneo del modello aggregativo, individualista e dello scambio razionale.
Secondo March e Olsen, il punto di vista aggregativo non è sufficiente “per comprendere il fenomeno della
governance” (1997, 13), un concetto, quest’ultimo, che è più congeniale alle teorie integrative.
Sono individuabili, infatti, due diversi approcci alla governance: il primo, insufficiente, la concepisce come
“un meccanismo di aggregazione di preferenze individuali” (1997, 15) ed è un caso speciale delle “teorie
del comportamento dell’attore razionale” (1997, 16). Queste “sono, anche, per la maggior parte, teorie del
comportamento strategico” (1997, 17) che “guardano al mutamento politico e istituzionale come a qual-
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cosa che è determinato in larga misura da cambiamenti esterni alle istituzioni stesse, ovvero da mutamenti previsti o avvenuti nel più vasto ambiente fisico e sociale” (1997, 18).
Inoltre, il modello aggregativo concepisce per governance soprattutto la costituzione di coalizioni o il raggiungimento di accordi. Ed invece, secondo March e Olsen, la governance è più di questo e ben coglie
questo di più il modello integrativo della teoria delle istituzioni nel quale, per governance, si intende più
della costituzione di coalizioni o accordi. Si intende anche il tentativo di “influenzare la vita politica e sociale in modo tale da esercitare un impatto sulla storia, sulla sua interpretazione e sulla capacità dei cittadini di
apprendere le lezioni del passato” (1997, 63).
Nel volume, i due autori ripropongono una sintesi di tante cose già dette, in Riscoprire le istituzioni, a proposito dei modelli integrativo e aggregativo.
Il modello integrativo o delle teorie istituzionali, si differenzia dall’altro in due nodi principali: enfatizza “il
ruolo delle istituzioni nel definire i termini dello scambio razionale” (1997, 43), inserendo le percezioni
soggettive nelle istituzioni sociali e politiche; sottolinea “il fatto che anticipazioni e aspettative non avvengono nel vuoto, ma all’interno di un più vasto contesto di regole, ruoli e identità” (1997, 43). I due autori
chiariscono che, proprio in quanto privilegiano il modello integrativo, essi sono convinti che “le istituzioni possono sostituirsi alla mancanza di un accordo culturale profondo” (1997, 47). Il che mi sembra essere una deduzione dall’assunto (da loro attribuito al modello integrativo, nel volume Riscoprire le istituzioni, 1992, 24-5) secondo cui le istituzioni non sono influenzate, in modo unidirezionale, da fattori esogeni come la classe, la geografia, il clima, i fattori etnici, la lingua, la cultura, le condizioni economiche, la
demografia, la tecnologia, l’ideologia e la religione. Infatti, le istituzioni tendono anche a influenzare questi fattori, soprattutto la cultura politica (laddove con questo concetto si intendono le divisioni interne al
sistema politico).
Del resto, la storia è piena di esempi di movimenti o leader che sono stati frenati, influenzati e, infine, essi
stessi condizionati dalle istituzioni che volevano distruggere o rimodellare.
Le culture che modificano le istituzioni o le modellano nel tempo, al di fuori di sconvolgimenti rivoluzionari, sono sempre state trasversali alle divisioni interne ai sistemi politici. Secondo Dewey, Neurath,
Russell, Popper e persino Norberto Bobbio, infatti, è la cultura empirica a favorire la democrazia, mentre
la cultura idealista avrebbe favorito i totalitarismi (ma il problema si è, poi, rivelato più complesso del previsto). Secondo Putnam e altri, è la cultura civica (io ho parlato, in precedenti mie ricerche, di presenza o
meno di federalismo antropologico) a influenzare il buono o cattivo funzionamento delle istituzioni locali. Secondo March e Olsen, infine, le differenze culturali profonde che possono influenzare le istituzioni
sono quelle derivanti dai modelli integrativo e aggregativo. Ma anche questa distinzione culturale attraversa trasversalmente i sistemi politici (sono tanti gli individualisti, sia di centro, di destra e di sinistra, che non
credono nelle “Chiese” alle quali magari manifestano adesione, in primis quelle religiose, poi la Patria, la
classe, etc., e dall’altra i comunitaristi che, ad una di queste “Chiese”, ci credono, anche se, a volte, sono
spinti a starsene fuori o ai margini).
I modelli integrativo e aggregativo, infine, possono cambiare le istituzioni attraverso il modo in cui intendono pervenire al buon governo: facendolo discendere dal tornaconto personale e, quindi, dagli incentivi
ai funzionari delle istituzioni, secondo i sostenitori di teorie aggregative, mentre nel modello integrativo “Il
buongoverno è ritenuto impossibile se i cittadini e i funzionari pubblici sono interessati al proprio tornaconto personale ignorando il bene comune” (1997, 54). Solo che, riconoscono March e Olsen, l’influenza
di questi modelli non è sempre positiva quando spinta fino alle estreme conseguenze. Infatti, pur essendo
vero che la storia occidentale recente è consistita nell’erosione delle tradizioni che procuravano integrazione, e pur essendo questo valutabile negativamente, è anche vero che sono da evitare i processi integrativi (cioè la produzione di identità comunitarie) non compatibili con i valori della tolleranza e della
democrazia. Va criticata, da una parte, sia l’eccessiva disintegrazione sociale, sia “l’eccessiva integrazione
dei sistemi sociali e politici” (1997, 94).
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Ammettendo di forzare, in parte, le teorie di March e Olsen, Gianfranco Pasquino, nell’Introduzione all’edizione italiana del volume Riscoprire le istituzioni, distingue tra istituzioni aggregative (per esempio un
parlamento fortemente proporzionale) e istituzioni integrative (per esempio il governo o comunque istituzioni fortemente decisioniste) (1992, 15-6). La lettura congiunta di Riscoprire le istituzioni con
Governare la democrazia e Ambiguity Choice in Organizations, porta, a mio avviso, a convincersi che
non esistono istituzioni integrative e istituzioni aggregative, ma che la stessa istituzione può produrre, a
volte, effetti integrativi e, altre volte, effetti aggregativi.
Per esempio, nell’accettazione delle regole della democrazia, intese come regole basate sul dialogo (quindi, si parla di quella che viene detta democrazia deliberativa o partecipativa), si manifestano effetti integrativi, mentre nell’accettazione delle regole della democrazia, intese come regole basate sulla decisione a
maggioranza o per accordo (quindi, si parla di quella che viene detta democrazia formale o rappresentativa), si manifestano effetti aggregativi. Questo vuol dire, per esempio, che Parlamenti e consigli elettivi di
vario grado (ma anche governi e giunte), proprio in quanto vi si discute e si riconosce spazio a tutti, producono effetti integrativi; in quanto in essi si decide, limitando al minimo la discussione o non ascoltando
le ragioni degli avversari, producono effetti aggregativi.
Ma anche in questa formulazione, il problema è controverso perché immerso nell’ambiguità: ci potremmo,
infatti, domandare: ma, si decide o si discute, nel Parlamento italiano? In altri termini: è questo dilemma
privo di ambiguità? No! L’ambiguità c’è sempre perché la soluzione di questo dilemma dipende sempre dai
punti di vista. Infatti, secondo alcuni, si decide troppo e si discute poco; secondo altri, si decide poco e si
discute ancor meno; secondo altri ancora, si decide poco e si discute troppo.
March e Olsen dedicano il resto del volume a un’analisi puntuale e particolareggiata del concreto manifestarsi della governance in quella mistura di effetti integrativi e aggregativi che caratterizzano tutte le istituzioni concrete.
Si ritorna, così, ai temi dell’appropriatezza, dell’attenzione, del Modello Cestino di Rifiuti, dell’ambiguità,
delle correnti di eventi e della chiarezza dei discorsi che le raccontano, sempre cercando di imporre un
senso, in alternativa a quello che gli avversari darebbero alle stesse correnti di eventi.
La conclusione più rilevante è la constatazione che, nel mentre che competono per imporre la propria produzione di senso, le parti politiche che accettano il confronto democratico, come effetto a volte non programmato, costruiscono un discorso comune. Infatti, il dialogo e il confronto democratico riducono i tre
grandi nodi (che a volte sono problemi e altre volte sono risorse) di tutti i sistemi politici: l’ignoranza, il
conflitto e l’ambiguità. Ma perché un sistema democratico produca effetti integrativi è necessario che la
qualità del dialogo tra i politici sia sempre elevata perché il deterioramento della qualità del dialogo tende
a far prevalere gli effetti aggregativi.
Ed anche a questo proposito ci potremmo domandare: la qualità del dialogo politico tra lo schieramento
di Berlusconi e quello di Rutelli e D’Alema o Fassino è migliore o peggiore della qualità del dialogo politico al tempo di Craxi, De Mita e Berlinguer? Anche questa domanda, ovviamente, non è priva di ambiguità
e la risposta dipende sempre dai punti di vista.
(Giuseppe Gangemi)
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Ash Amin e Nigel Thrift
Riflessioni sulla competitività della città
J. DERRIDA, Oggi l’Europa. L’altro capo seguito da La democrazia aggiornata, a
cura di M. Ferraris, Milano, Garzanti, 1991.
Accogliamo con grande favore la notizia di una prossima ripubblicazione del testo di Derrida sull’Europa.
Questo libretto di Derrida si può infatti trovare con relativa facilità in ogni biblioteca di provincia minimamente fornita. Ma c’è qualcosa di più, qualcosa che farebbe sentire come non superflua una nuova edizione di questo testo. Oggi l’Europa uscì in italiano nel 1991 per i tipi della Garzanti, la traduzione era di
Maurizio Ferraris, che vi aggiunse una corposa postfazione. L’edizione italiana, una volta tanto, apparve
immediatamente di seguito all’originale francese dal titolo L’autre cap suivi de La démocratie ajournée.
Si trattava di due articoli di giornale o, come precisava Derrida nella prefazione all’edizione francese, di due
articoli apparsi sì in giornali, ma a parte, vale a dire in supplementi o inserti. Questa circostanza non è
secondaria perché i temi trattati dai due articoli toccano la questione del libro, dell’edizione, della stampa,
della cultura mediatica, del giornale, ma non i mezzi di informazione in quanto tali. Piuttosto, si potrebbe
dire in prima battuta, trattano il loro rapporto con la sfera pubblica. Si trattava di una riflessione sul giornale e sulla quotidianità dalle pagine di un giornale. Il problema posto da Derrida non è più quello habermasiano di una sfera pubblica manipolata: certo, i mezzi di informazione interpretano, operano una valutazione selettiva, informano ‘(di) un fatto’, non limitandosi, ma ciò non sarebbe nemmeno possibile, a riferire del fatto, bensì dando forma al fatto stesso.
Prima però di procedere lungo questa linea di riflessione interna al libro, occorre fare un passo indietro.
Oggi l’Europa: perché questo titolo per l’edizione italiana? Ci sono certamente delle ottime ragioni, oltre
all’esigenza editoriale di vendere qualche copia in più. Possiamo provare a mettere in relazione due piani
argomentativi (ma ce ne possono essere molti altri): da una parte i media e la sfera pubblica, dall’altra ciò
che essi significano ‘al giorno d’oggi’. "Qualcosa di unico è in corso in Europa – scrive Derrida –, in ciò
che ancora si chiama Europa, anche se non si sa più bene che cosa si chiami in questo modo. Di fatto, a
quale concetto, a quale individuo reale, a quale entità determinata si può, al giorno d’oggi, conferire questo nome? Chi ne traccerà le frontiere?" (11). Un evento, il 1989, ha appena iniziato a porre nuove questioni quando un secondo evento, la guerra del Golfo, scompagina nuovamente l’agenda per riconfermare vecchi dubbi e porre nuovi problemi. Derrida se ne rende conto, ed ha appena il tempo di aggiungere
nella prefazione del gennaio 1991: "Le ipotesi e gli asserti che mi ero azzardato ad avanzare risulteranno
allora datati, al giorno d’oggi, nel pieno della cosiddetta guerra “del Golfo”, nel momento in cui i problemi del diritto, della opinione pubblica e della comunicazione mediatica, tra l’altro, conoscono l’urgenza e
la gravità che sappiamo?" (8). Un libro già invecchiato, allora? Tanto più dopo la guerra in Kosovo, l’11 settembre 2001 e l’attacco all’Afghanistan? Derrida rimette il giudizio al lettore, e d’altra parte altro non può
fare l’autore. Ma entrambe le questioni poste hanno acquistato attualità al giorno d’oggi. Non solo la questione delle frontiere europee, delle nuove linee di inclusione ed esclusione, dei processi decisionali e dell’identità europea, ma anche ciò che è in grado di valicare le frontiere nazionali e quelle linee di esclusione: la capillarità dei discorsi, l’opinione pubblica come soggetto di una topologia intricata, irriducibile a un
‘dove’. "Dato che deborda la rappresentazione elettorale, l’opinione pubblica non è, di diritto, né la volontà generale, né la nazione, né l’ideologia, né la somma delle opinioni private analizzate con tecniche sociologiche o attraverso i moderni istituti di sondaggio" (72).
Qui il discorso dell’opinione pubblica, la sua storia, si intreccia al discorso politico dell’Europa. L’"opinione pubblica non si esprime": ciò significa che essa non preesiste alla sua espressione, e meno ancora esiste un foro, sia esso interno o pubblico, come precondizione della sua manifestazione. L’opinione pubblica spezza l’equivoco mediatico dell’in-formazione perché non è né prodotta né formata, non è "influenzata o distorta dalla stampa più di quanto non ne sia semplicemente riflessa o rappresentata". L’opinione
pubblica non è rappresentabile perché pura presenza da un lato, e perché incalcolabile dall’altro. Nessun
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n.4 / 2002
sondaggio e nessuna media statistica delle opinioni può infatti rendere conto dell’opinione pubblica, perché in essa c’è qualcosa di incalcolabile, si tratti della capillarità dei discorsi che ne scompagina la topologia o della costitutiva porosità della frontiere tra pubblico e privato che la contraddistingue. L’opinione
pubblica eccede ogni tentativo di rappresentarla, anzi, scrive Derrida, quasi indicando le linee di una possibile ricerca, "rischia di compromettere lo stesso concetto di rappresentanza" (77).
Ma l’opinione pubblica è sempre stata minacciata dalla censura, e oggi una "nuova censura" si presenta
sotto forma di accumulazioni, concentrazioni e monopoli, che possono "ridurre al silenzio ciò che non è
commensurabile alla loro scala" (79). A questa centralizzazione dell’informazione non si può semplicemente contrapporre la pluralità delle "differenze minoritarie, gli idoletti intraducibili, gli antagonismo
nazionalistici, gli sciovinismi dell’idioma" (33). La "nuova censura", osserva infatti Derrida, è proprio la
combinazione di "concentrazione e frazionamento, accumulazione e privatizzazione" (79-80). La concentrazione e il monopolio dell’informazione, vale a dire dell’interpretazione dei fatti e della loro valutazione
selettiva, non si afferma più azzerando la pluralità di culture più o meno minoritarie, ma attraverso esse,
riaffermandole e rafforzandole nella loro identità esclusiva, la stessa che opera in modo mortifero nel
nazionalismo. E’ questa la difficoltà che si pone al giorno d’oggi: il problema della politica europea assieme alla questione dell’opinione pubblica e alla necessità di combattere la nuova censura. Una tale difficoltà richiede una reinvenzione della libertà, anche della tradizionale “libertà di stampa” quale strumento dell’opinione pubblica. Secondo Derrida ciò non può avvenire che attraverso una doppia ingiunzione contraddittoria: "se bisogna vigilare affinché l’egemonia centralizzatrice (la capitale) non si ricostituisca, non
per questo bisogna moltiplicare le frontiere, cioè i gradini e i margini" (33). Proprio questa doppia ingiunzione contraddittoria deve essere lo stimolo per "inventare gesti, discorsi, pratiche politico-istituzionali"
(ibidem), per affrontare filosoficamente quell’invenzione impossibile che nasce dall’aporia. Dobbiamo
"imparare a riconoscere, per resistere, nuove forme di presa di potere culturale. Ciò che può anche passare attraverso un nuovo spazio universitario, e soprattutto tramite un discorso filosofico" (39). Una reinvenzione dell’università attraverso un nuovo discorso filosofico capace di affrontare quell’aporia e rimanere fedele a quella doppia ingiunzione, un discorso filosofico che rifugga ogni tentativo, apparentemente
democratico e pluralistico, di imposizione dell’omogeneità di un medium attraverso norme di discussione
e modelli discorsivi, come invece sembrerebbe fare la teoria dell’agire comunicativo" quando intende produrre un modello linguistico favorevole a questa comunicazione. Qui Derrida accanto al problema relativo
al ruolo dell’università per la società contemporanea e per l’Europa di oggi, pone anche l’urgenza di una
filosofia capace di mettere in discussione la stessa idea di linguaggio, il suo rapporto con i media e con la
sfera pubblica. Una delle vie percorribili, che Derrida abbozza appena, riguarda la "necessità di una nuova
cultura che inventi un altro modo di leggere e di analizzare Il capitale, il libro di Marx e il capitale in genere" (40). Lo farà pochi anni più tardi in un nuovo libro – Spettri di Marx (Milano, Raffaello Cortina Editore,
1993) – che affronta Marx come "uno di quei rari pensatori del passato che hanno preso sul serio, almeno
in via di principio, l’indissociabilità originaria della tecnica e del linguaggio, quindi della tele-tecnica (poiché ogni linguaggio è una tele-tecnica)" (Derrida 1993, 71). Ma questo è un altro libro.
(Massimiliano Tomba)
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