I due Pulitzer dello scandalo Watergate tornano

la domenica
DI REPUBBLICA
DOMENICA 9 NOVEMBRE 2014 NUMERO 505
DA SINISTRA: BOB WOODWARD, CARL BERNSTEIN E BEN BRADLEE NELLA REDAZIONE DEL “WASHINGTON POST” AI TEMPI DEL WATERGATE/ © MARK GODFREY/IMAGEWORKS
Cult
La copertina. L’arte è di moda, i mecenati griffati
Straparlando. Maldonado: “Che liti con Borges”
La poesia. Ode a Giala, che rese schiavo Paul Eluard
I due Pulitzer dello scandalo Watergate
tornano eccezionalmente a scrivere insieme
per ricordare il loro maestro Ben Bradlee
C A R L BE RNSTE I N E BOB W OODW A RD
UATTRO DECENNI FA Ben Bradlee
ci illustrò la teoria generale
che applicava tanto ai giornali
quanto alla vita: “Testa bassa,
muovi il culo e poi dritti a passo deciso verso il futuro”.
Capiva il passato, ne coglieva l’importanza ma se n’era anche completamente liberato. Il passato era la Storia da cui trarre
insegnamenti, ma non le permetteva di
agire su di lui come una zavorra emotiva, né
si lasciava scoraggiare dai suoi alti e bassi.
Nel suo caso l’analogia con la gerarchia
militare, che tanto spesso suona come un
cliché, calza a pennello: era come un grande generale che mantiene la calma durante la battaglia; ed era amato e ammirato dai
suoi uomini, verso i quali aveva un atteggiamento protettivo ma anche, al momento di mandarli in missione, assolutamente
determinato.
Era un tipo originale che s’era inventato
da sé, diverso da qualsiasi altra persona
Q
Tutti
gli uomini
del direttore
della redazione: diverso per temperamento, per atteggiamento e persino per presenza fisica e linguaggio (parlava un inglese aulico-clericale misto a un gergo da marinaio navigato). Ha trasformato non solo
il Washington Post ma anche la natura e le
priorità stesse del giornalismo.
Non era il tipo da avere rimpianti — sembrava non averne mai avuti. Non era mai cinico, ma persistentemente scettico. E il tema che ha segnato la sua vita — in un modo
singolarmente privo di arroganza — è stato quello della totale riverenza nei confronti della verità.
L’autorevolezza di Bradlee la si notava
ad esempio nel modo che aveva di affrontare gli errori. Una cosa che per un giornalista rappresenta forse la responsabilità
più scomoda: è una vera prova di forza, di
competenza e di dedizione alla verità.
Insieme a lui abbiamo vissuto in trincea
la vicenda del Watergate.
>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE
L’inedito. Camilleri rilegge Cechov e assicura che non è affatto un dramma Spettacoli. “Ascolto soltanto Dio”, intervista a Carlos Santana
Next. C’è vita oltre Interstellar? Sette missioni per scoprirlo L’incontro. Valeria Golino: “Vorrei recitare nuda ma è meglio che vi sbrighiate”
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LA DOMENICA
DOMENICA 9 NOVEMBRE 2014
26
La copertina. Ultima pagina
<SEGUE DALLA COPERTINA
CA R L BERNST EIN E B O B WO O D WAR D
ONO TRASCORSI quasi quarantadue anni
da quando commettemmo un errore
epico: scrivemmo in un articolo di prima
pagina che, da una testimonianza segreta resa di fronte al Gran Giurì, era
emerso che Bob Haldeman, capo di gabinetto della Casa Bianca di Nixon, aveva tenuto sotto controllo un fondo segreto impiegato poi per finanziare l’irruzione all’interno del Watergate e altre attività illegali. La notizia, a quattro
mesi dal giorno in cui la Casa Bianca aveva definito l’affaire “un furto di terz’ordine”, rappresentava un enorme passo avanti nel collegare allo Studio Ovale i reati commessi al
Watergate. Peccato che quella testimonianza non ci fosse mai stata
— anche se in seguito scoprimmo di aver avuto ragione: Haldeman
aveva davvero avuto controllo del fondo e di molto altro ancora.
«Che è successo?», ci domandò Bradlee. La Casa Bianca e i sostenitori del presidente stavano rispondendo con raffiche di denunce e
smentite che avevano tutta l’aria di essere credibili. Quanto a noi
non eravamo neppure sicuri di quale fosse stato il nostro errore, e
quel giorno di ottobre del 1972 su quel terreno così traballante ci ritrovammo ad agitarci goffamente in uno stato di evidente difficoltà.
«Non sapete dove vi trovate», disse Bradlee. «Non conoscete con certezza i fatti. Fermatevi un momento. E vediamo cosa salta fuori».
Girò sulla sedia, infilò un foglio nella sua vecchia macchina da scrivere e dopo qualche falsa partenza la sua dichiarazione fu pronta:
«Confermiamo la nostra versione dei fatti».
Non c’era rancore o rabbia nei nostri confronti, anche se in seguito avrebbe detto che quello era stato uno dei momenti più bui durante i ventitré anni in cui aveva diretto il Post.
Avevamo compiuto un errore stupido, da dilettanti, e la posta in
gioco era enorme. La nostra fonte principale, il tesoriere della campagna di Nixon, era certo che Haldeman avesse controllato il fondo,
e aveva effettivamente reso testimonianza di fronte al Gran Giurì.
Ma non gli era stata fatta alcuna domanda riguardo ad Haldeman,
mentre noi avevamo dato per scontato di sì — contravvenendo in
questo modo a una delle regole cardinali di Bradlee: «Mai dare nulla
per scontato».
Avere il suo sostegno in un momento così difficile fu per noi più
che un sollievo e un voto di fiducia. Sapevamo che pensava stessimo
seguendo la pista giusta, e che eravamo inciampati — anche se con
esiti quasi fatali. Lui era come un’ancora di salvezza che offriva un
senso di calma rassicurazione (sua moglie, Sally Quinn, ha detto di
non aver mai visto Ben depresso, nemmeno per un attimo).
Per lui era tutta una questione di fatti. Quali erano i fatti? Ed erano stati verificati? Chi affermava qualcosa di diverso?
Non potevi dire di essere un reporter se Bradlee non ti aveva mai
sottoposto a un interrogatorio. A un certo punto, durante quella straziante vicenda, gli riassumemmo ciò che ci era stato detto da una delle nostre fonti. «No», insistette Ben, «voglio sentire esattamente cosa gli avete domandato e che cosa vi ha risposto». Qualche giorno più
tardi, quando finalmente avevamo chiarito il nostro errore riguardo ad Haldeman e raccolto ulteriori prove sul fatto che avesse davvero tenuto sotto controllo un fondo segreto, Ben era già passato oltre. Ci chiese: «Cosa avete per domani?». In altre parole: avanti tutta, testa bassa e muovi il culo.
Quando il regista Alan Pakula era alla ricerca di un attore cui affidare il ruolo di Bradlee nella versione cinematografica di Tutti gli uomini del presidente, Jason Robards Jr. gli sembrò una scelta ovvia.
In seguito Pakula ci raccontò che all’inizio Robards era parso entusiasta e si era portato il copione a casa, ma che dopo averlo letto era
tornato da lui perplesso.
«Non posso interpretare Ben Bradlee» gli disse.
«E perché?» gli domandò Pakula.
«Non fa altro che andare in giro a chiedere ai reporter: “Dove c...o
sta la notizia?”».
«Ma è proprio questo che fa il direttore del Washington Post»,
spiegò Pakula. «È il suo lavoro. E quanto al tuo non devi fare altro che
trovare quindici modi diversi di dire “Dove c...o sta la notizia?”».
«Aaah!» rispose Robards, che accettò la parte e interpretò quel
ruolo come se avesse vissuto tutta la vita nei panni di Bradlee, tanto
da vincere l’Oscar come miglior attore non protagonista.
Al sentire questo racconto Ben era scoppiato in una fragorosa risata. È vero, disse, lui aveva il compito di essere il motivatore supremo. Bradlee possedeva una straordinaria irrequietezza, caratteristica già notata quando era ancora giovane. Alla fine degli anni Trenta, durate il suo primo anno ad Harvard, era stato scelto per prendere parte al famoso Grant Study, che prevedeva che 268 individui
(da lui definiti «porcellini d’india», ovvero cavie, nella sua autobiografia) venissero valutati periodicamente e per tutta la vita da assistenti sociali e psicologi. Uno dei primi ricercatori prese nota della
sua «irrequietezza», aggiungendo che «ci sono state volte in cui ha
bevuto troppo alcol ma questo non lo ha soddisfatto». Come dire che
nulla lo soddisfaceva del tutto. Le sue aspettative, nei confronti degli altri e di se stesso, erano sempre maggiori. Dal giorno in cui aveva assunto l’incarico di direttore del giornale negli anni Sessanta,
aveva preso ad aggirarsi furtivamente per la redazione, al quinto
piano, in cerca di storie, di qualche notizia interessante o dell’ultimo
pettegolezzo. La presenza fisica e la vitalità di Bradlee — che da sole sarebbero bastate a conferirgli autorevolezza — erano riconosciute e assiduamente imitate (sin troppi accoliti iniziarono a indossare con un effetto orrendo le camicie Turnbull & Asser, al punto da rendere talvolta l’intera redazione simile a un negozio di Savile Row). Spesso, quando passava a trovare i reporter, con il petto ben
in fuori e un’espressione di curiosità mista a piacere impressa sul volto, tutti smettevano di lavorare, e da un centinaio o più di scrivanie
gli occhi dell’intera redazione rimanevano incollati su di lui, pronti
a cogliere qualsiasi segnale. Se due o tre dei suoi reporter stavano facendo capannello, Bradlee si avvicinava a loro. Forse avevano per le
mani qualcosa, e lui voleva sapere di cosa si trattava.
Il mitico direttore del “Washington Post”
raccontato da Bernstein e Woodward
“Solo ora che non c’è più ci ha lasciati soli”
S
FOTO GETTY IMAGES
Dietro
le quinte
del
Watergate
Siate aggressivi, ripeteva. «Mi piacciono i reporter che non mollano», ci disse in un’intervista registrata nel 1973 per il libro che stavamo scrivendo sul Watergate — Tutti gli uomini del presidente. «È
una cosa che mi fa sentire enormemente a mio agio, dal momento
che sono a mia volta un direttore che non molla mai».
Non dirigeva il giornale per i suoi amici o per le persone di potere.
Mentre lavoravamo a un articolo sul ruolo avuto da Henry Kissinger, consigliere per la Sicurezza nazionale di Nixon, nella scelta di
diciassette tra assistenti della Casa Bianca e reporter che avrebbero dovuto essere intercettati per individuare la fonte delle fughe di
notizie, informammo Kissinger del fatto che i suoi commenti sarebbero stati pubblicati sul giornale. Lui esplose. «Cosa?!». Evidentemente con gli altri reporter aveva stabilito regole diverse. Di lì a poco fummo convocati nell’ufficio di Howard Simons, il vice di Bradlee.
Il direttore non era al giornale, chiamò da fuori, e ostentando un forte accento tedesco per imitare la voce di Kissinger ci disse: «Ho appena ricevuto una telefonata da Henry. È incavolato nero. Decidete
voi cosa fare. Io mi limito a riferirvi da buon reporter ciò che mi ha
detto. Vi leggo le sue frasi. Se pensiate che possano esservi di aiuto
servitevene pure». Il dibattito proseguì, l’articolo fu rimandato e noi
fummo battuti sul tempo da Seymour Hersh del New York Times —
non era la prima volta e non sarebbe stata nemmeno l’ultima. Ma le
affermazioni che Kissinger ci aveva rilasciato apparvero di lì a breve sul Post e furono poi riprese in diversi libri.
Bradlee trovava esaltante il fatto che alcuni fondamentali articoli pubblicati dal Times sul caso Watergate portassero la firma di Hersh. «Non eravamo più gli unici a seguire quella storia», ci disse nell’intervista del ‘73. Pur di proteggere i suoi giornalisti era disposto a
ricorrere anche a stratagemmi teatrali. Quando, nell’ambito di una
causa civile, il comitato per la rielezione di Nixon ci chiese di consegnare i nostri appunti sul caso Watergate, insieme a quelli di altri colleghi del Post, Bradlee e l’editrice Katharine Graham decisero di dichiarare che fosse lei — e non i reporter — la detentrice legale di tutti i materiali, e che qualsiasi iniziativa del tribunale avrebbe dovuto
essere rivolta contro di lei. «Se il giudice vuole spedire qualcuno in
prigione dovrà prendersela con la signora Graham», ci disse Ben con
palpabile soddisfazione. «E lei, Dio mio, dice che ci andrà! Il giudice
l’avrà sulla coscienza. Vi immaginate le foto della sua limousine che
si ferma davanti al carcere femminile, con lei che scende dall’auto e
va in prigione per difendere il Primo Emendamento? La pubblicherebbero tutti i giornali del mondo».
Fu solo quando intervistammo Bradlee in quell’estate del 1973,
nel mezzo delle udienze in Senato sul caso Watergate, trasmesse in
diretta tv in tutta la nazione, che comprendemmo tutta la portata e
la natura delle pressioni a cui lui e la signora Graham erano stati sottoposti, e da cui ci aveva tenuto fuori. Non aveva nemmeno detto a
Howard Simons degli insistenti tentativi con cui si era cercato di obbligare il Post ad ammorbidire la linea sul caso Watergate. «Stavo
la Repubblica
DOMENICA 9 NOVEMBRE 2014
iniziando a capire quanto il mio stesso culo fosse a rischio», ci disse.
A chiamarlo erano anche i direttori di altri quotidiani — colleghi
di cui aveva una grande stima — che gli chiedevano se per caso il Post non fosse «impazzito». Anche Katharine Graham veniva bombardata: dal governo, in particolare da Kissinger; dai suoi amici più
stretti, tra cui gli influenti editorialisti Joseph Alsop e James Reston;
e dai membri del suo consiglio di amministrazione. «A un certo punto Katharine mi disse che avremmo dovuto fare due chiacchiere perché la situazione era molto, molto seria», ci raccontò Bradlee. «Le stavano rendendo la vita impossibile; amici a lei vicini come Alsop e Reston le dicevano che il Post stava davvero rischiando grosso: il suo
giornale stava praticamente aggredendo il governo, non si chiedeva come mai nessun altro stesse facendo altrettanto? Lei veniva da
me e mi raccontava tutto. E io la rassicuravo, punto per punto» che i
nostri articoli avevano un fondamento solido. «In un paio di occasioni ha avuto paura» disse Bradlee. «Era andata a Wall Street e alcuni
amici che lavoravano lì le avevano detto che gli uomini di Nixon avevano preso di mira il Post e che la stavano pedinando e che intercettavano i suoi telefoni — e che pedinavano anche me e che intercettavano il mio telefono e che non scherzavano. E lei venne a riferirmelo». Tra le altre cose, aggiunse Ben, era preoccupata che gli uomini di Nixon potessero diffondere informazioni — vere o false — riguardo alla sua vita privata. (Durante le indagini sul Watergate non
è emersa alcuna prova riguardo al fatto che Graham, Bradlee o altri
I PROTAGONISTI
CARL BERNSTEIN E BOB WOODWARD
ERANO DUE GIOVANI CRONISTI
DEL “WASHINGTON POST” QUANDO
RIVELARONO QUELLO CHE SAREBBE
PASSATO ALLA STORIA COME IL CASO
WATERGATE: IL 17 GIUGNO 1972
CINQUE UOMINI VENGONO SORPRESI
NELLA SEDE DEL PARTITO
DEMOCRATICO, NEL WATERGATE
HOTEL, MENTRE SISTEMANO MICROSPIE
CHE RIVELANO IL PIANO DI SPIONAGGIO
MESSO IN ATTO DAL PARTITO
REPUBBLICANO E DALLO STAFF
DELLO STUDIO OVALE. NIXON SI DIMISE.
I DUE AUTORI DELLO SCOOP, CHE VALSE LORO
IL PULITZER, HANNO POI SCRITTO “TUTTI GLI UOMINI
DEL PRESIDENTE” DA CUI È STATO TRATTO IL FILM
DI ALAN PAKULA CON ROBERT REDFORD E DUSTIN
HOFFMAN. NELLA FOTO GRANDE, BEN BRADLEE,
SCOMPARSO IL 21 OTTOBRE SCORSO, OSSERVA
LA PRIMA PAGINA DEL SUO GIORNALE CHE L’8 AGOSTO
1974 ANNUNCIA LE DIMISSIONI DI NIXON
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del Post fossero stati intercettati o pedinati).
Una svolta si ebbe con un articolo pubblicato nel settembre del
1972, tre mesi dopo l’irruzione nel complesso del Watergate, ci disse Bradlee, quando nel corso di una conversazione telefonica John
N. Mitchell, ex direttore della campagna elettorale di Nixon e suo ministro della giustizia, ci rispose che, se avessimo pubblicato un qualunque articolo che lo avesse implicato, «Katie Graham si troverà
con le tette strizzate in una gigantesca morsa». Mitchell aggiunse
che in un futuro non lontano avrebbero scritto loro «un articolo su
tutti voi», e riagganciò il telefono.
«Le persone mi dicono “sai che se avessi avuto torto avresti dovuto dimetterti?”, ed è proprio così», ci disse Bradlee. Aggiungendo:
«Non voglio esagerare ma le pressioni c’erano, ed erano ogni giorno
più pesanti… Certo che avevo paura». A un certo punto il Washington Post Co. ebbe l’occasione di acquistare una stazione televisiva ad
Hartford, nel Connecticut. Il direttore aveva incontrato i membri del
consiglio di amministrazione del giornale, che si preoccupavano del
fatto che gli articoli sul Watergate avrebbero potuto influenzare una
possibile trattativa. «I nostri articoli avrebbero reso i proprietari della stazione più o meno inclini a vendere? Io ero perfettamente a conoscenza di quel dibattito, ma non ne avrei mai parlato né con voi né
con Simons (il caporedattore, ndr)».
«Non bisogna mai avere torto», ci disse. «Quando il gioco è così duro, la posta in gioco si triplica, si quadruplica in modo esponenziale».
«Era ovvio che avevamo per le mani una bomba e che era sul punto di esplodere. Ma ancora non avevo capito se avrebbe distrutto noi
o il presidente o entrambi».
A Bradlee, in qualità di direttore, spettava l’ultima parola sulla
pubblicazione di decine di articoli che avrebbero potuto rivelare segreti di importanza scottante sulla sicurezza nazionale. Nel 1977,
durante il primo mese della presidenza di Jimmy Carter, fu convocato nello Studio Ovale mentre il Post si preparava a pubblicare un
articolo in cui si affermava che re Hussein di Giordania era sul libro
paga della Cia. Carter confermò che la Cia aveva effettuato dei pagamenti, ma implorò personalmente Bradlee di non pubblicare l’articolo. Tuttavia, quando Carter riconobbe che la pubblicazione non
avrebbe messo a rischio la sicurezza nazionale, il direttore decise di
pubblicare la storia, suscitando l’ira del presidente che inviò a Ben
un messaggio in cui lo rimproverava per quell’articolo «irresponsabile». Bradlee era portato per propria natura a sospettare quando
qualcuno diceva che alcuni articoli non dovevano essere pubblicati
per «motivi di sicurezza nazionale». Soprattutto quando quel qualcuno era un presidente. I fatti, Pentagon Papers inclusi, gli davano
ragione. Ma non sempre si comportava così.
Nel 1988 un agente di grado inferiore dell’intelligence Usa si presentò al Post con delle informazioni relative a dei programmi top-secret. L’Occidente non aveva ancora vinto la Guerra fredda. Come ricordato da Bradlee nella sua autobiografia, A Good Life, scritta nel
1995, l’agente gli fornì «dettagli relativi a tre diverse operazioni intorno ai sistemi che permettevano ai sovietici di controllare diverse
unità delle loro forze nucleari, e descrivevano in che modo gli Stati
Uniti fossero riusciti a penetrare in questi sistemi in tempo reale».
Bradlee incontrò l’agente di persona e giunse alla conclusione che
quelle informazioni, se divulgate, «avrebbero sicuramente messo a
rischio la sicurezza del nostro paese». Si rifiutò di pubblicarle, ma la
possibilità che l’agente si rivolgesse ad altre testate fin quando non
avrebbe trovato un direttore pronto a pubblicarle lo preoccupava.
Non per motivi di concorrenza, ma perché aveva a cuore la sicurezza dell’America. Ben era un patriota vecchio stampo: durante la Seconda guerra mondiale aveva trascorso tre anni nel Pacifico a bordo
del cacciatorpediniere USS Philip, e aveva avuto modo di partecipare a parecchie azioni. «Volevamo fermarlo» scrive Bradlee nella sua
autobiografia, e insieme al direttore della Cia William Webster trovò
il modo di neutralizzarlo: l’agente avrebbe ricevuto una promozione dalla Cia e sarebbe stato messo in guardia sul fatto che, se avesse
mai divulgato o discusso dei programmi top secret, sarebbe stato
perseguito e sarebbe finito in carcere. L’uomo non divulgò mai quelle informazioni a nessun altro giornalista, e i dettagli delle operazioni, che ebbero grande successo, a oggi rimangono talmente delicati che l’intelligence ancora non ritiene possano essere rivelati.
Ben Bradlee era l’essenza stessa del giornalismo. Nel 2008 tornò
a sedersi tra noi per parlare del Watergate, della sua vita e del Post
in un’altra conversazione registrata. In quell’occasione fece anche
delle riflessioni sulla repentina trasformazione dei mezzi di comunicazione, riconducibile tra l’altro al declino economico dei giornali, all’avvento di internet e — cosa che lo preoccupava particolarmente — all’impazienza e alla velocità del flusso delle notizie. Secondo lui ci si preoccupava troppo del fatto che i quotidiani sarebbero potuti scomparire. «Sono davvero sconcertato. Non posso immaginare un mondo senza giornali. Non ci riesco. Posso immaginare un mondo con meno giornali. Posso immaginare un mondo in cui
i giornali si stampano e si distribuiscono in maniera diversa, ma la
professione dei giornalisti continuerà a esistere, e il loro scopo continuerà a essere quello di riferire ciò che ritengono essere la verità.
Questo non cambierà».
Quando scrivemmo Tutti gli uomini del presidente avevamo solo
trent’anni, e dire che provavamo soggezione — di Bradlee e del suo
modo di fare — è dire poco. Tuttavia, mentre la nostra collaborazione andava avanti negli anni e poi nei decenni, e l’amicizia e il legame nati da quell’esperienza unica diventavano indistruttibili, abbiamo continuato a guardarlo con immutato stupore senza mai
smettere di meravigliarci della sua saggezza e dell’inimitabile limpidezza del suo esempio, ancora increduli, proprio come la prima volta che lo avevamo incontrato, di fronte al senso di allegria e determinazione che riusciva a trasmettere nella vita di ogni giorno. Nei
quarant’anni successivi abbiamo avuto molte conferme di tutto ciò.
«Come ti piacerebbe essere ricordato?» gli domandò un paio d’anni fa sua moglie Sally, sposata con lui da trentasei anni, in un’intervista per il Post. La sua risposta è l’essenza stessa di Ben Bradlee:
«Vorrei lasciare una testimonianza di onestà e vivere una vita quanto più mi sia possibile vicina alla verità».
© Washington Post/Distribuzione Adnkronos
(Traduzione di Marzia Porta)
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LA DOMENICA
DISEGNO DI GIPI PER “REPUBBLICA”
Il reportage. Miracoli
la Repubblica
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Una zia crocerossina. Il vagone barellato. La basilica che pare un hangar. L’energia
speciale della grotta. Dal suo pellegrinaggio nei luoghi dell’apparizioneLorenzo Amurri,
ateo e disabile, ha tratto molte domande, un libro e questo racconto per “Repubblica”
LOR ENZO AMURRI
U
NA MISTERIOSA DONNA, dicono sia un’astrologa, durante una delle serate del Premio
Strega si avvicina a mia sorella e le chiede: «Perché non lo portate a Lourdes?». C’è
qualcosa di oscuro nascosto in questa domanda che, dopo quasi diciotto anni passati su una sedia a rotelle, ancora non riesco a capire: per quale motivo nell’immaginario di tantissime persone il disabile motorio perda la facoltà di decidere cosa fare o dove andare. Come se la paralisi portasse con sé non solo l’immobilità, ma
anche l’incapacità di esercitare il libero arbitrio. Per di più, una richiesta del genere presuppone uno scenario talmente tragico, che l’unica soluzione possibile sarebbe affidarsi a un improbabile aiuto divino. L’ultima spiaggia prima di essere
scaraventati di sotto dalla rupe di Sparta. Non me la prendo, come di solito mi accade, al contrario mi sembra subito una grande idea. Decido di afferrarla e, d’accordo con la mia casa editrice, di farne poi un libro.
Non sono un uomo di fede, e di conseguenza, non so nulla sul pellegrinaggio. Mi rivolgo a mia zia Irma: fervida credente, esperta crocerossina e habituée di Lourdes. Nonostante le mie razionali spiegazioni sullo scopo
del viaggio, è convinta che mi sia convertito e che abbia ricevuto la chiamata. Grazie a lei, scopro cos’è l’Unitalsi. L’unione nazionale italiana trasporto ammalati a Lourdes e santuari internazionali da più di un secolo organizza pellegrinaggi. Mi invitano a passare nella sede del Lazio per effettuare la prenotazione. Mi aspetto di
trovare un luogo moderno in frenetica attività, brulicante di persone nelle più diverse condizioni fisiche. Mi ritrovo invece in un posto desolato, con costruzioni tutt’altro che moderne nel mezzo di un ampio piazzale vuoto. Per un attimo credo di aver sbagliato non solo il giorno, ma anche il luogo dell’appuntamento, finché non
scorgo una porta con un campanello. All’interno, in un grande ufficio deserto come l’esterno, due signore attendono il loro turno. Ho la precedenza in banca, alle poste e nei vari pubblici uffici, figuriamoci qui che dovrebbe essere il regno della disabilità. Di solito non ne approfitto, ma in questo caso lo farei volentieri pur di andarmene velocemente. Le due signore, invece, appena l’uomo ha finito, si alzano di scatto liquidandomi con un
secco: «Facciamo subito». Se questa è la solidarietà cristiana, non è buon inizio. Esco dall’ufficio con in tasca la
prenotazione e una certezza: viaggerò sul vagone barellato del treno bianco.
Ma cos’è un vagone barellato? Immagino di trovarmi davanti un convoglio bianco candido, quasi dotato di
luce propria, moderni comfort e giusta sicurezza legata al delicato trasporto. Al contrario, è la cosa più lontana
dal bianco che abbia mai visto. Un vecchio treno, anche un po’ malandato, di quelli con gli scompartimenti. La
vettura dedicata ai disabili è divisa in due, una per le
donne e una per gli uomini, ognuna con due file di let- frire di stenti e privazioni. Ogni volta che torna in pati a castello, due su un lato e due sull’altro, per un to- tria, e vede la gente nei supermercati comprare cibo
tale di sedici posti per parte. In effetti i letti sembrano per gattini e cagnolini, si chiede «meglio salvare la viproprio barelle, da qui il nome barellato, con il fondo ta di gattini e cagnolini, o quella dei bambini?». Quindi stoffa plastificata attaccata a una massiccia strut- di a morte gli animali da compagnia, è colpa loro se i
tura rettangolare di metallo, che comincia con spesse bambini nel mondo soffrono fame e povertà.
Nella tratta italiana il treno viaggia alla giusta vee lunghe fasce dello stesso materiale che corrono lungo il perimetro del vagone. Quello che da subito mi locità, se rapportata all’usura del mezzo, mentre in
preoccupa è la totale assenza di sicurezza. Le uniche mano ai francesi, preoccupati di recuperare il ritardo
cinture presenti servono a evitare che chi dorme sulla accumulato, viene lanciato come fosse un Tgv. Non
barella superiore cada di sotto. Non esistono ganci a posso fare a meno di pensare alla tragedia di Santiago
terra per le carrozzine. Circondati da metallo come sia- de Compostela, e capisco che il vero primo miracolo è
mo, se il treno dovesse fare una brusca frenata all’ar- arrivare vivi a Lourdes.
Dopo venti ore di viaggio, una schiera di autobus ci
rivo troverebbero una bella marmellata di disabili.
Per non parlare della disposizione casuale dei vari ba- attende. Vengo violentemente issato a bordo di quelgagli, infilati sotto ai letti e in ogni pertugio possibile lo che porta la scritta Notre Dame, la struttura che mi
dai volontari, che sono tutti gentili e disponibili. Li ve- ospiterà. Neanche qui esistono ganci per fermare le
do più volte durante il viaggio, complice anche il pic- carrozzine, per fortuna il tragitto è breve e l’autista, al
colo corridoio che separa queste barelle, impegnati a contrario del treno, va piano. C’è una lunga e ripida pegiocare una specie di Tetris umano su ruote, dove l’in- dana che conduce all’ingresso dell’edificio. Vengo precastro perfetto provoca solo un inestricabile ingorgo. so in consegna dal tipo violento di prima, che non semUn continuo di togli, metti, sposta, inserisci, smonta, bra però abbastanza forte da riuscire a spingermi fino
rimonta, salta, lega e slega a cui neanche un creatore in cima. Infatti, a metà salita, la corsa rallenta. Sbuca
di strutture illusorie come Escher saprebbe dare un un altro signore che, mediante un tubo di ferro con l’esenso. Oltretutto, in prossimità della partenza, succe- stremità a forma di uncino, aggancia la carrozzina e
de quello che sul barellato non ti aspetti: si accorgono mi tira su come fossi un capo di bestiame, evitando l’inche la porta scorrevole del bagno degli uomini si fer- farto all’altro. Ci raggruppano in un ampio salone vema a metà, e le carrozzine non passano. Per l’intera du- trato che si affaccia sul Santuario, e dopo quattro ore
rata del tragitto sono costretti a farci attraversare tut- di snervante attesa condita da terrificanti corali into il vagone per raggiungere, all’altra estremità del terpretazioni di canzoni — si va da Morandi a Celentreno, il bagno riservato alle donne, che a un certo pun- tano — prendo possesso della mia stanza. Bella e
confortevole, arredata con gusto e con due letti eletto si rompe.
I pellegrini sono scanzonati, conosco gente diver- trici ospedalieri e due bagni. Ho giusto il tempo di dartente, si crea un bel clima cameratesco. Sono pronto mi una sciacquata veloce, prima che arrivi la chiamaad affrontare un viaggio all’insegna del raccoglimen- ta per il pranzo. I francesi, che gestiscono la cucina, su
to e della preghiera, ma il primo messaggio che sento due cose non fanno sconti: il rispetto degli orari dei pauscire dagli altoparlanti, e dalla voce del sacerdote che sti e la distribuzione di cibo immangiabile. Abbiamo il
ci accompagna, è un consiglio per gli acquisti: libro dovere di farci avvelenare con estrema puntualità.
Lourdes mi ha cambiato la vita e visita guidata per un
Ingurgitato il veleno, scendo nel Santuario. Oggi
totale di trentacinque euro di “spontanea donazione”. non c’è un programma da seguire, decido di visitare la
Non bastasse, tra un rosario recitato e una messa, il Grotta, il simbolo di Lourdes, accompagnato da Giorprelato si esibisce in profonde riflessioni: ha viaggiato gio, il mio fido assistente, che mi permetterà di essemolto, racconta, e ha visto bambini di ogni etnia sof- re indipendente nei vari spostamenti. Me la immagi-
L’AUTORE
LORENZO AMURRI,
43 ANNI, MUSICISTA
E PRODUTTORE
DISCOGRAFICO,
È SU UNA SEDIA
A ROTELLE DAL 1997
A CAUSA
DI UN INCIDENTE
SUGLI SCI.
NEL 2013
IL SUO PRIMO
ROMANZO “APNEA”
È ARRIVATO
TRA I DODICI
FINALISTI
DELLO STREGA.
ORA È APPENA
USCITO IN LIBRERIA
“PERCHÉ
NON LO PORTATE
A LOURDES?”
(FANDANGO LIBRI,
201 PAGINE,
15 EURO)
navo profonda e in grado di contenere centinaia di pellegrini, in realtà è una piccola rientranza nella roccia.
Molte persone siedono su file di panche sistemate davanti, altre aspettano il loro turno per entrare. Le carrozzine hanno la precedenza (qui sì). Mi unisco al flusso che percorre il perimetro interno accanto alle pareti, che tutti accarezzano come fossero il tramite per
stabilire un contatto con la spiritualità. Dopo neanche
un minuto il giro si conclude. Sembrano tutti appagati dalla breve esperienza. Io sono rimasto colpito dal silenzio carico di assordanti pensieri, di fede.
Il giorno seguente — in occasione di un’importante
celebrazione che coinvolge tutte le sezioni dell’Unitalsi — visito la famosa Basilica sotterranea, in grado
di ospitare ventimila devoti. Mentre scendo lungo una
rampa che somiglia a quella di un garage, immagino
ciò che mi troverò davanti: un pavimento di marmo
pregiato, statue, colonne, icone religiose dai colori
sgargianti. Non potrei essere più distante da quello
che si presenta ai miei occhi: un immenso hangar di
cemento, più ampio di un campo di calcio, sovrastato
da alte e possenti volte parallele a forma di arco squadrato. Si direbbe di essere all’interno della chiglia rovesciata di una gigantesca nave. Più che una basilica,
a me sembra una struttura dove si costruiscono armamenti militari su vasta scala. La sorpresa iniziale
lascia il posto a un’ansia claustrofobica. Mi fisso sull’idea che possa succedere un disastro: il crollo improvviso delle volte, l’istantaneo allagamento con ondate
di acqua di Lourdes. Passo tutta la durata della funzione non lontano dall’ingresso, pronto a un’eventuale fuga.
In questo pellegrinaggio ho incontrato persone affascinanti, ognuna a suo modo. Come Raffaele: ossessionato dalla sua condizione — un braccio paralizzato
— e dal sesso. Qualsiasi argomento si affrontasse, anche il più innocente, lui lo proiettava su immagini sessuali. Adriano: il gladiatore, dal forte accento romano
e dalla stazza imponente, reso paraplegico da una rara forma di herpes, con un vissuto di dipendenza e un
presente fatto di pesanti rinunce che non gli hanno tolto il sorriso. Persone con alle spalle vite difficili, nascoste, noiose, ripetitive. Il viaggio per loro è un diversivo, non la soluzione. Certo, ognuno nutre la speranza di essere il prescelto. Si narra che quando accade un miracolo, molti esultino e ringrazino, e molti altri non nascondano la rabbia perché non è toccato a loro. Anch’io, che inizialmente mi sarei accontentato
del miracolo di un wifi funzionante per vedere la Roma, devo ammettere di averci sperato, sì. Ma quando
mi hanno immerso nella piscina benedetta, ho provato solo un freddo cane. Uno prima di me, ha tirato un
bestemmione.
Però sono stato parte di un qualcosa di importante,
in un luogo dove la diversità si integra alla perfezione
con il mondo che la circonda. E questo, già di per sé, è
un miracolo. Al ritorno non ho viaggiato con loro — nonostante la mia atavica paura di volare, ho preferito
prendere due aerei piuttosto che rivivere l’esperienza del treno — ma a ridosso della partenza ho visto volti rilassati e felici. Nessuna delusione. Ho toccato con
mano la tolleranza e l’aiuto disinteressato dei volontari, che insieme alla fede, sono il motore che alimenta il pellegrinaggio. Pagano per essere lì ad aiutare gli
altri. Come Andrea, giovane commercialista che mi
accompagnava in bagno sul treno a fumare e che
chiacchierava di Kant. E, alla fine, ho portato a casa la
percezione nitida della forte energia che sgorga dalla
grotta di Massabielle, l’unico posto che ha davvero un
senso, e ne toglie a tutto quello che gli uomini le hanno scolpito attorno. Magari è solo un punto di particolare magnetismo sulla Terra, chissà. È un’energia alla quale è stato dato un nome e un credo, ma che a mio
avviso non può essere battezzata.
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Uno scrittore
a Lourdes
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 9 NOVEMBRE 2014
30
L’inedito.Non è un dramma
iotr Sharoff, grande regista russo che, giovanissimo, era stato prima allievo e poi assistente di Stanislavskij e di Nemirovic-Dancenko al Teatro d’Arte, più volte ebbe modo
di raccontarmi come Cechov, al termine
delle prove generali dei suoi spettacoli,spesso non si mostrasse pienamente soddisfatto delle regie di Stanislavskij. A dirla così, sembra addirittura una bestemmia. Ma
come?! La consacrata e celebrata coppia autore-regista,
tramandata come esempio più unico che raro di collaborazione assoluta tra creatore e interprete, aveva delle crepe segrete? Mi diceva Sharoff che a queste prove Cechov
P
A N D R E A C A MIL L E R I
assisteva standosene seduto da solo in platea, mentre gli altri componenti della compagnia, che non partecipavano allo spettacolo, venivano relegati nel loggione. E da lì gli occhi di tutti puntavano non
sul palcoscenico, ma sul solitario spettatore in platea che spesso si
agitava sulla poltrona, sbuffava infastidito o faceva ripetuti cenni
d’assenso con la testa o muoveva le mani in un silenzioso applauso.
E quando Stanislavskij, senza nemmeno levarsi l’abito di scena, si
precipitava in sala per sentire il parere di Cechov, questi prima gli diceva i motivi di soddisfazione, che erano tanti, e poi i motivi di insoddisfazione, che erano sempre due e sempre gli stessi.
Il primo era per l’eccesso di realismo nella messinscena, per esempio quando seppe che le foglie che cadevano dagli alberi del Giardino
dei ciliegi erano vere, andò letteralmente in bestia.
Una spia del suo ideale scenico può intravvedersi nell’entusiasmo
che invece dimostrò per la soluzione trovata per rendere una didascalia fondamentale che si trova sempre nel Giardino. La didascalia
dice suppergiù: “si sente il rumore della corda del pozzo che si spezza”. Ho detto che si tratta di una didascalia fondamentale perché da
Cechov
Risate
a denti
stretti
GLI SCHIZZI
ALCUNI DEI RITRATTI
DISEGNATI DA ANTON CECHOV
(A DESTRA IN UNA FOTO
DEL 1897)
PER LE SUE “UMORESCHE”
quel momento in poi la commedia svolta decisamente verso la sua
conclusione. Ma attenzione: la scena rappresenta il salone della villa, oltre la vetrata del quale si vede il giardino col pozzo. Quindi quel
rumore, realisticamente, non può essere udito dall’interno della villa. Di fronte a questo problema, dopo una serie di vani tentativi, Stanislavskij si arrese.
Fu Nemirovic-Dancenko a trovare la soluzione che tanto piacque
a Cechov e che non aveva niente a che fare col realismo. NemirovicDancenko fece ben tirare da un muro all’altro del retropalco otto corde di pianoforte, su quattro delle quali attaccò dei campanellini cinesi. Poi, al momento dovuto, le quattro corde coi campanellini furono fatte vibrare con uno strappo secco e deciso di mano mentre le altre quattro venivano contemporaneamente suonate con un arco da
contrabbasso. Ne venne fuori un suono basso, cupo, percorso da un
tintinnio, un suono profondo e misterioso.
Il secondo, e certo più grave, motivo di dissenso, riguardava l’interpretazione registica del testo che si può semplificare così: Cechov
considerava come “commedie” le sue opere teatrali, mentre Stanislavskij le metteva in scena come fossero “drammi”. Cechov rimproverava al regista di costringere lo spettatore all’impossibilità di ridere o di sorridere in qualche momento della rappresentazione.
Confesso che, quando sentivo Sharoff ripetere che Cechov pensava che nelle sue maggiori opere teatrali ci fosse un qualcosa di divertente, rimanevo assai perplesso. Assistendo alle belle messinscene
cechoviane di Visconti, Costa e Strehler non avevo mai sorriso, anzi.
E, da regista, anche volendolo cercare col lumicino, non avrei saputo
individuare uno spunto che muovesse al sorriso.
Che Cechov fosse capace di straordinari, irresistibili exploits comici era pacifico, sugli otto atti unici che scrisse prima delle grandi
opere, la maggioranza rappresenta altissimi esempi di comicità pura e di tragicomicità.
Ma non mi pareva che l’autore avesse, come dire, travasato nelle
opere maggiori l’ironia, se non la comicità, che anima i suoi lavori in
un atto.
Così un giorno chiesi a Sharoff da che parte stesse lui: erano commedie o drammi? Non ebbe un attimo d’esitazione: “Sono commedie”. E lo dimostrò splendidamente quando, ultraottantenne, mise
in scena al romano Teatro della Cometa Zio Vanja. I maggiori critici
di allora, Radice, Prosperi, De Feo, scrissero di essersi trovati di fronte a un “nuovo” Cechov. In realtà non c’era niente di nuovo se non il
fatto che la lettura registica era in chiave di commedia.
Momenti di alta tensione emotiva a causa di un dettaglio come
un’intonazione, un gesto, una pausa, si scioglievano in una risata liberatoria.
Ma, badate bene che tutto era già nel testo, non si trattava di aggiunte esterne, registiche. Un fiume carsico che bastava poco per farlo tornare a scorrere all’aperto.
Da allora mi sono sempre domandato dove fosse situata la fonte
originaria di quel fiume.
Non certo nella sua stessa narrativa conosciuta, costituita da racconti di altissimo, eccezionale livello stilistico e di straordinaria modernità che però nella quasi totalità dei casi sono improntati a un più
o meno cupo pessimismo.
La risposta a quella mia vecchia e irrisolta domanda credo d’averla finalmente ricevuta.
Si trova tra le pagine di questa raccolta di scritti cechoviani, finora inedita in Italia, e che si intitola Umoresche.
Che cosa siano queste umoresche lo spiega molto bene la traduttrice, la quale racconta anche le fatiche sostenute dagli studiosi russi per portare a termine la raccolta, trattandosi di composizioni brevi o brevissime (addirittura alcune sono didascalie a disegni del fratello o di altri) apparse su giornali
umoristici e firmati dal giovane studente in medicina con
diversi pseudonimi.
Lo trovo un libro di divertentissima lettura e nello stesso
tempo un fondamentale contributo per una migliore comprensione della complessità creativa di Cechov.
Ci sono qua dentro soluzioni narrative di fulminea sinteticità che cortocircuitano la risata, come per esempio, Agenzia
di annunci di Antosa C., o scritti decisamente comici come In
stile americano, ma quello che più mi ha colpito, proprio per la
domanda che mi portavo appresso, è la rivelazione della tecnica
che l’autore mette in atto per ottenere un effetto umoristico.
Si tratta di inserire, all’interno di una certa situazione, un dettaglio minimo, uno scarto, uno sfaglio che mandi all’aria la situazione stessa virandola al ridicolo.
Porto un esempio, grossolano ma efficace, per chiarire quanto ho
scritto. Nel componimento intitolato Del più e del meno (che è possibile leggere qui a fianco, ndr) una coppietta è seduta su una panchina del parco. Il giovane sta dichiarando il suo amore alla ragazza
che arrossisce ma non gli risponde. Il che porta il giovane a espressioni sopra le righe come “o una vita con voi o il non essere assoluto”
oppure “rispondete, altrimenti muoio!”.
E quando la ragazza finalmente si decide a dirgli che anche lei l’ama e apre la rosea boccuccia, le scappa un improvviso e inatteso “ah!”
di disgusto. Che ha visto? Lascio la parola a Cechov: “Sui nivei colletti del ragazzo, inseguendosi, corrono due enormi cimici”…
Questa è la chiave dell’umorismo cechoviano.
E allora si capisce che il sorriso che Cechov voleva venisse fuori nelle sue opere maggiori non poteva essere provocato né da una battuta spiritosa né da una situazione comica che del resto sarebbero state introvabili, ma appunto da un dettaglio, un particolare non consonante con l’insieme e con la situazione. E Sharoff, col suo indimenticabile Zio Vanja, quelle note dissonanti le trovò e le mise in luce, dimostrando praticamente che tra Stanislavskij e Cechov aveva ragione l’autore.
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“UMORESCHE” DI CECHOV
CON L’INTRODUZIONE
DI ANDREA CAMILLERI
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la Repubblica
DOMENICA 9 NOVEMBRE 2014
31
Dove, pur muovendosi,
uno è fermo?
Al comando di polizia
A N T O N CE CHOV
U
NO STRAORDINARIO
mezzogiorno di gelo.
Scintilla il sole in ogni
cristallo di neve. Non tira
vento, non c’è una nuvola.
Su una panchina del viale è seduta una
coppietta.
«Io vi amo!», mormora lui. Sulle guance
della ragazza si accendono amorini rosa.
«Vi amo!», procede lui…
«La prima volta che vi vidi capii per cosa
vivo, conobbi lo scopo della mia vita! O
una vita con voi, o il non essere assoluto!
Mia cara! Mar’ja Ivanovna! Sì o no?
Manja! Mar’ja Ivanovna… vi amo…
Manecka… rispondete, altrimenti muoio!
Sì o no?».
Ella solleva i suoi grandi occhi e lo
guarda. Vuole dirgli: «Sì».
Apre la boccuccia.
«Ah!», strilla.
Sui nivei colletti del ragazzo,
inseguendosi, corrono due enormi
cimici… Oh, che orrore!!…
«Mammina cara», scriveva un certo
artista alla sua mamma, «vengo a
trovarvi! Giovedì mattina avrò la fortuna
di stringervi al mio petto traboccante
d’amore! Per prolungare la dolcezza
dell’incontro, porto con me… Chi?
Indovinatelo! Non lo indovinerete! Porto
con me un miracolo di bellezza, una
perla dell’arte mondiale! Vi porto (vedo
il vostro sorriso) l’Apollo del
Belvedere!…».
«Caro Kolecka», risponde la mammina,
«sono molto contenta della tua visita.
Che Dio ti protegga! Tu vieni, ma non
portare con te il signor Belvedere, già
così non abbiamo abbastanza da
mangiare!…».
A teatro danno l’Amleto.
«Ofelia!», urla Amleto.
«Oh, ninfa! Prega per i miei peccati…».
«Vi si è staccato il baffo di destra!»,
sussurra Ofelia.
«Prega per i miei peccati… Eh?».
«Vi si è staccato il baffo destro!».
«Mal-ledetti!… nelle tue sante preci…».
Napoleone I invita a un ballo di corte la
marchesa de Chailly.
«Verrò con mio marito, Vostra Altezza!»,
dice madame de Chailly.
«Venite sola», risponde Napoleone. «La
carne buona mi piace senza senape».
(da Del più e del meno. Poesia e prosa)
Il grande drammaturgo russo
fu anche autore di raccontini
comici solo ora tradotti in Italia
Eccone alcuni. Presentati
da un critico d’eccezione:
Andrea Camilleri
Ci riferiscono per vero che pochi giorni
fa in un ospedale ebbe luogo il seguente
doloroso evento. Il celebre chirurgo M.,
che doveva amputare ambedue le
gambe a uno scambista delle ferrovie,
per distrazione amputò una gamba a se
stesso e l’altra all’infermiere che lo
assisteva. È stata prestata assistenza
medica ad entrambi.
(Il colmo della distrazione)
Ci scrivono che recentemente un
dipendente del «Kieviano», tale T.,
leggendo i quotidiani moscoviti venne
assalito dal dubbio ed effettuò una
perquisizione in casa sua.
Pur non avendo trovato nulla di
riprovevole, egli comunque si portò alla
stazione di polizia.
(Il colmo della lealtà)
A un signore avevano rubato il cavallo.
L’indomani tutti i quotidiani
pubblicarono il seguente annuncio: «Se
non mi verrà restituito il cavallo, la
necessità mi costringerà a ricorrere ai
rimedi estremi cui ricorse mio padre in
circostanze simili». La minaccia fece il
suo effetto. Il ladro, non sapendo cosa
temere, ma supponendo che si trattasse
di qualcosa di particolarmente
tremendo, si spaventò e di nascosto
riportò il cavallo.
Quel signore, felice per il risultato,
parlando con un conoscente ammise di
essere molto contento di non aver
dovuto seguire l’esempio di suo padre.
«Ma che aveva fatto vostro padre?»,
chiese quello.
«Mi domandate cosa fece mio padre?
Ecco, ve lo dirò… Quando in una locanda
gli rubarono il cavallo, si mise la sella
sulla schiena e tornò a casa a piedi. Vi
giuro che avrei fatto lo stesso se il ladro
non fosse stato così gentile e puntuale!».
(Una minaccia)
Domande
1) Come conoscere i pensieri di lei?
2) Dove può leggere un analfabeta?
3) La moglie mi ama?
4) Dove, pur muovendosi, uno è fermo?
Risposte (testo invertito)
1) Fatele una perquisizione.
2) Nei cuori.
3) La moglie di chi?
4) Al comando di polizia.
(Domande e risposte)
Caro signore! So tutto! Questa settimana
ci sono stati sei incendi di grossa entità e
quattro minori. Un giovanotto si è
sparato a causa del suo amore
passionale per una signorina e quella
stessa signorina, saputo della sua morte,
ha perso il senno. Si è impiccato il
netturbino Guskin per abuso di alcol. Nel
giorno di ieri è affondata una barca con a
bordo due passeggeri e un bambino
piccolo… Povero bimbo! All’«Arcadia»
hanno forato la schiena a un mercante e
per poco non gli hanno rotto l’osso del
collo. Sono stati acciuffati quattro
truffatori vestiti bene e ha deragliato un
treno merci. Io so tutto, mio caro
signore! Tanti casi fortunati
corrispondono ad altrettanti soldi nelle
vostre tasche e a me non avete dato
neanche un copeco!… Una persona
onesta non si comporta così!
Il vostro sarto Zmirlov
Comunicazione dell’Uomo Senza Milza
(Lettera a un giornalista)
Sono un agente di borsa. Ogni mattina
mia moglie mi dà la borsa e mi manda al
mercato a fare la spesa.
Sono un consigliere di palazzo. Ogni
mattina prima di andare al mercato
tengo consiglio con il portinaio nel
cortile del mio palazzo sugli affari
correnti.
Sono una guardia di quartiere perché
guardo sempre il mio quartiere.
Sono un nobile della corte, è fuor di
dubbio. La sera passeggio nella corte del
mio condominio, d’estate mi piace
dormire all’aperto nel cortile, faccio la
corte alla figlia del portinaio e mi dicono
sempre che i miei cani starebbero bene
alla corte dei miracoli.
(Da I miei gradi e titoli)
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LA DOMENICA
la Repubblica
DOMENICA 9 NOVEMBRE 2014
32
Spettacoli. Oye como va
“Colpa di Woodstock e della mescalina”
che proiettarono uno sconosciuto
musicista messicano nella leggenda
Intervista al più mistico tra i re del rock
G INO CAST ALDO
L TELEFONO SQUILLA in qualche luogo d’America. Dov’è ora mister Santana? «A
I
Las Vegas», risponde candidamente la suprema leggenda della chitarra, «a
casa mia». Circostanza che potrebbe lasciare perplessi, conoscendo la vocazione spirituale del messicano, ampiamente confermata dalla sua copiosa e
dettagliata autobiografia. Ma come, proprio nella città del vizio? «Ma no, in
realtà è un ottimo posto in cui vivere. Tutti pensano a quella parte della città
dove si gioca, ma c’è molto altro a Las Vegas». All’età di sessantasette anni,
Carlos Santana ha deciso di raccontare tutto, con molta sincerità, comprese
dolorose esperienze di molestie infantili.
È stato difficile?
«No, è bello esser genuini, sinceri e genuini, è un modo di liberarsi di quello che ci ha fatto soffrire».
Nel suo libro parla spesso del potere della musica, della connessione col divino. Non le sembra che la musica oggi abbia perso parte
del suo potere come se gli dei si fossero messi da parte?
«No, penso che Dio sia sempre presente, è la gente che crea divergenze. Sento ancora musicisti come Wayne Shorter che mantiene questo amore per il mistero. Sì, certo, se uno ascolta la radio può avere questa impressione. Ma io non ascolto la radio,
ascolto gente che dialoga con Dio. E in giro ce ne sono molti. La
musica di oggi è piena di illusioni».
Sincerità per sincerità, ha anche rivelato che nella famosa
esibizione di Woodstock era sotto l’effetto della mescalina. Ma non sembra che abbia guastato il suo concerto…
«No, per assurdo fu qualcosa di molto solido, e ora ne ho
le prove tangibili. Successe perché credevo che avrei suonato molte ore dopo, e che l’effetto sarebbe svanito. Ma ci
fu comunque qualcosa di magico. Sembra incredibile a
pensarci oggi ma in quel momento, soprattutto nella East Coast, eravamo praticamente sconosciuti. Il nostro
primo disco doveva ancora uscire. Ma da quel giorno
cambiò tutto».
Come racconterebbe oggi il suo rapporto con la chitarra?
«È la mia luce, il linguaggio della mia luce, io ho la luce come chiunque altro, ma se non sei sconosciuto anche
tu puoi creare miracoli, non solo il Papa o il Dalai Lama.
Chiunque può farlo e più lo sai più puoi aiutare il pianeta a sopravvivere».
Come si fa a mantenere l’energia della musica dopo tanti anni?
«È facile perché adesso la gente è più consapevole della musica che eleva. La musica deve anche
divertire, questo è fondamentale, ma allo stesso
tempo può elevarci, tutti».
Qual è stata la prima vera lezione che ha imparato sulla musica?
«Fu quando mio padre, che suonava il violino,
mi portò in una radura dietro casa, mi fece sedere, tirò fuori lo strumento e cominciò a suonare, finché un uccello si posò sul ramo di un albero che era lì accanto e si mise a fissare mio padre. Poi cominciò a cantare. Per un po’ dialogarono e io ero sbalordito. Alla fine mio padre mi
disse: “Capisci? Quello che ho fatto ora con quell’uccello, tu lo puoi fare con la gente”. Non l’ho
mai dimenticato».
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Carlos
Santana
Ascolto Dio
non la radio
RTV-LA EFFE
LUNEDÌ SU RNEWS
(ORE 13.45 E 19.45,
CANALE 50 DEL DT
E 139 DI SKY)
IL VIDEOSERVIZIO
SU SANTANA
la Repubblica
DOMENICA 9 NOVEMBRE 2014
33
Tutto cominciò con un reggiseno
appeso al violino di mio padre
CAR LO S SANT ANA
A MIA STORIA comincia con
un corteo. In realtà potremmo partire da qualsiasi punto della mia vita,
senza alcun problema. È
come la scaletta di un concerto dei Santana. Si può
fare a pezzi, lanciare in
aria e poi rimettere insieme. Davvero, qualunque
cosa si scelga per iniziare o
per finire funziona. Sono
tutte porzioni dello stesso cerchio, tutto è connesso. Il corteo? Quel giorno mio padre e mia madre si
incontrarono per la prima volta da adulti. Fu allora
che tutto ebbe inizio per me. Mia mamma mi ha raccontato che erano le cinque del pomeriggio: il sole
stava calando, e ogni cosa appariva dorata, come
avviene sempre a quell’ora. All’improvviso sentì
un gran trambusto in strada. Questo accadeva nella sua cittadina natale, Cihuatlán, nello Stato messicano di Jalisco sulla costa del Pacifico. Era il 1938,
e viveva ancora con la sua famiglia. Si chiamava Josefina Barragán.
Mio nonno, suo padre, si stava lamentando: «Oh,
è quel diablo di Farol». Chiamavano mio padre El
Farol, che letteralmente significa “lanterna”. Si
era guadagnato quel soprannome con una canzone che cantava e suonava sempre.
«Che stai dicendo?» chiese lei.
«È lui: José Santana».
Mia madre si era già imbattuta in
lui, adolescente, quando era bambina. La sua palla era caduta
tra i piedi di mio padre, e
lei era corsa a pren-
L
derla. «Buh!» le aveva detto lui. Poi aveva aggiunto: «Ehi, biondina, hai i capelli lisci come la barba
del granoturco». E lei era scappata via.
Più di dieci anni dopo, mia madre scostò le tende
della finestra e vide un gruppo di persone che camminava in mezzo alla strada: José era alla loro testa,
seguito dalle prostitute della cittadina. Tutti ridevano, suonavano e cantavano. L’uomo che sarebbe
diventato mio padre stava tenendo l’archetto del
violino in alto, come se fosse l’asta di una bandiera,
e da esso pendevano un paio di mutandine e un reggiseno. Il sindaco era al suo fianco, e c’erano anche
altri musicisti. Il sacerdote li seguiva furibondo,
tentando di spruzzare qualche goccia di acqua santa su ciascuno di loro.
Stavano facendo una barulla,
un’incredibile baraonda. Dal modo in
cui lo raccontava mia madre, mi feci
l’idea che questa gente, dopo essere
stata in piedi tutta la notte, il giorno
seguente fosse ancora così invasata e
fradicia da decidere di prolungare
la festa. A ogni modo, era solo
una cittadina, e tutti stavano guardando questa
scena scuotendo la
testa.
Mio padre
non aveva
che il
suo violino.
Ma questo non
fermò mia madre.
Mi diceva sempre:
«Quando vidi tuo padre
alla testa di quel folle corteo
capii che era l’uomo che avrei
sposato e con cui avrei lasciato quella cittadina. Dovevo andarmene. Non
mi piaceva l’odore del ranch; non
mi piacevano gli uomini che puzzavano di cavalli e di pelle. E tuo padre non aveva quell’odore».
José e Josefina si incontrarono e si innamorarono. Lei non ricevette la benedizione del padre. Fuggirono su un cavallo: papà
la portò via senza che nessuno li vedesse. Mentre la famiglia di mia madre li cercava, loro erano
ancora a Cihuatlán, nascosti da un amico. Poi scapparono ad Autlán, dove ebbe inizio la nostra famiglia. La mamma aveva diciotto anni, e papà ventisei. Nacqui qualche anno dopo, quarto di sette figli.
MIO PADRE SI CHIAMAVA JOHN COLTRANE
F
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L’elenco che potrei stilare per rispondere alla domanda “Chi sono i tuoi padri?” comprenderebbe Lightnin’ Hopkins, Jimmy Reed e John Lee Hooker.
B.B. King, Albert King e Otis Rush. Buddy Guy, Jimi Hendrix e Stevie Ray Vaughan. Gábor Szabó,
Bola Sete e Wes Montgomery. Miles Davis, John e
MIA MADRE SCOSTÒ LE TENDE:
TUTTI RIDEVANO, SUONAVANO
E CANTAVANO. L’UOMO
CHE SAREBBE DIVENTATO
MIO PADRE AVEVA UN ARCHETTO
DI VIOLINO DA CUI PENDEVANO
UN PAIO DI MUTANDINE
E UN REGGISENO. IL SINDACO
ERA AL SUO FIANCO.
IL SACERDOTE LI SEGUIVA
FURIBONDO, TENTANDO
DI SPRUZZARE ACQUA SANTA
B.B. KING, ALBERT KING E OTIS
RUSH. JIMI HENDRIX E MILES
DAVIS E TANTI, TANTI ALTRI.
SONO ORGOGLIOSO DI POTER
DIRE DI AVERLI CONOSCIUTI
QUASI TUTTI, DI ESSERE
RIUSCITO A IMMERGERMI
NELLA LORO LUCE
E A SENTIRE UN LEGAME
CON LORO ATTRAVERSO
LA MUSICA CHE HANNO
OFFERTO AL MONDO
LA MUSICA COSTRINGE
ALL’IMPROVVISO LA GENTE
AD ANDARE CONTRO CIÒ
CHE RITENEVA ESTETICAMENTE
DEFINITIVO, E QUELLO CHE FINO
A POCO PRIMA GLI ANDAVA
ALLA PERFEZIONE RISULTA
TUTTO D’UN TRATTO SCOMODO
E FASTIDIOSO, COME UN PAIO
DI SCARPE CHE, DIVENUTE
TROPPO STRETTE, NON RIESCE
PIÙ A METTERE
SONO SOLO UN UOMO.
HO I PIEDI D’ARGILLA,
COME CHIUNQUE ALTRO.
AMO L’ESTASI E L’ORGASMO,
LA LIBERTÀ E TUTTE LE COSE
CHE ADESSO MI POSSO
PERMETTERE, MA STO MOLTO,
MOLTO ATTENTO. TENGO
SOTTO CONTROLLO
L’OSCURITÀ CHE C’È IN ME.
CERCO QUASI SEMPRE
DI TIRAR FUORI IL MEGLIO
IL LIBRO
LE FOTO E IL BRANO
SONO TRATTI DA
“SUONO UNIVERSALE LA MIA VITA” DI CARLOS
SANTANA IN LIBRERIA
DALL’11 NOVEMBRE
(MONDADORI,
480 PAGINE, 22 EURO
TRADUZIONE
DI CARLO PROSPERI,
ANDREA SILVESTRI
E LICIA VIGHI)
Alice Coltrane e tanti, tanti altri. Sono orgoglioso
di poter dire di averli conosciuti quasi tutti, di essere riuscito a immergermi nella loro luce e a sentire un legame con loro attraverso la musica che
hanno offerto al mondo.
Una volta, in merito all’album What’s Going On,
chiesero a Marvin Gaye: «Come hai fatto a creare
un simile capolavoro?». Lui rispose: «Ho solo fatto
del mio meglio per togliermi di mezzo e lasciare che
venisse fuori». Cindy, mia moglie, dice che Art
Blakey le raccontava di come si suona la batteria,
spiegandole che la musica viene «dritta a te dal
Creatore». Lo diceva spesso, e i suoi pezzi fanno proprio questo effetto. I veri musicisti sanno che la vera musica nasce così. Non arriva a te, passa attraverso te. Questo non ha niente a che vedere con lo
show business o l’intrattenimento. Non è musica
di sottofondo, musica da sala da attesa: è musica
che permette di ascendere, di elevarsi. La musica
costringe all’improvviso la gente ad andare contro
ciò che riteneva esteticamente definitivo, e quello
che fino a poco prima gli andava alla perfezione risulta tutto d’un tratto scomodo e fastidioso, come
un paio di scarpe che, divenute troppo strette, non
riesce più a mettere.
NON SAI MAI CHI ILLUMINERAI
Sono solo un uomo. Ho i piedi d’argilla, come
chiunque altro. Amo l’estasi e l’orgasmo, la libertà
e tutte le cose che adesso mi posso permettere, ma
sto molto, molto attento. Tengo sotto controllo l’oscurità che c’è in me. Cerco quasi sempre di tirar
fuori il meglio da me stesso comportandomi con affabilità, coerenza e umiltà, evitando di essere sgradevole, crudele o volgare. La gente mi conosce tanto per la mia ricerca spirituale quanto per la mia
musica. «Carlos il mistico», «Carlos il matto»: so cosa dicono, e non mi crea alcun problema. Sono il tizio che parla della luce e dell’illuminazione e porta
sempre camicie e giacche con le immagini di defunti. Essere “mistico” per me significa essere connesso al resto dell’universo. Se le persone volessero davvero conoscermi, non dovrebbero fermarsi
lì. Dovrebbero sapere che sto sempre migliorando
me stesso e che c’è voluto molto tempo perché comprendessi che è ora di smettere di cercare e di cominciare a essere. Il fine spirituale che stavo inseguendo non era poi così lontano, non era sulla cima
di una montagna o addirittura un po’ più in alto. È
sempre qui, proprio qui e adesso, nel mio spirito e
nella mia musica, nelle mie intenzioni e nella mia
energia. Quando sprigioni una certa energia e una
certa musica, non sai mai chi colpiranno e chi verrà
illuminato.
© 2014 by Carlos Santana Trust of 2011
This edition published by arrangement
with Little, Brown and Company, New York.
All rights reserved © 2014 Arnoldo Mondadori
Editore S.p.A., Milano
© RIPRODUZIONE RISERVATA
LE IMMAGINI DA SINISTRA: TIJUANA 1959, CARLOS SANTANA A 12 ANNI CON IL VIOLINO. AL CENTRO, SEMPRE CON IL VIOLINO, IL PADRE DI CARLOS, JOSÈ, CON IL SUO GRUPPO DI CUI FA PARTE ANCHE LO ZIO
JUAN (VIOLONCELLISTA) NEL 1945. CARLOS NEL 1968, L’ANNO PRECEDENTE L’USCITA DEL SUO PRIMO ALBUM OMONIMO CHE VENDETTE DUE MILIONI DI COPIE. FOTO GRANDE: SANTANA OGGI A 67 ANNI
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 9 NOVEMBRE 2014
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Next. Astrobiologia
Dalla fantascienza (“Interstellar”) alla scienza
(“Rosetta”) tutti a caccia di pianeti abitabili
Ma per trovarli sarebbe meglio tornare alle origini
ARNALDO D ’ AM I CO
D
OPO DIECI ANNI in viaggio la sonda
spaziale europea Rosetta si prepara a sbarcare su una cometa in
cerca di vita, un po’ come nel
film Interstellar di Christopher
Nolan in cui un gruppo di scienziati viaggia nello Spazio in cerca di un nuovo pianeta per l’umanità. Il 12 novembre sulla
Churyumov-Gerasimenko
scenderà un robot armato di trivelle e vari strumenti scientifici.
Nelle viscere della cometa cercherà i “semi della vita”, ovvero
molecole organiche che — secondo le teorie attuali — potrebbero aver avviato la vita sulla Terra e, perché no, anche su altri corpi celesti.
È l’ennesima missione di astrobiologia, scienza che cerca di
rispondere a due domande non da poco: siamo soli nello Spazio? Ci sono altri pianeti abitabili? È assai probabile che Rosetta non darà risposte certe, anche se ulteriori indizi sì. Ma la
vera questione è un’altra. Per sapere cosa cercare di preciso,
prima dobbiamo risolvere un bel po’ di misteri sull’origine e
l’evoluzione della vita. Ed è proprio con questo ambizioso
obiettivo che in questi giorni la Nasa ha avviato un progetto
che potrebbe essere ribattezzato “I sette pilastri della vita”.
Grazie a un finanziamento di cinquanta milioni di dollari, sette gruppi di scienziati hanno cinque anni di tempo per risolvere altrettanti enigmi che ancora impediscono di capire, in
buona sostanza, come dalla materia inorganica sia nata quella organica. E come questa si sia poi organizzata per ricavare
energia dall’ambiente, per conservarsi e riprodursi. È successo sul nostro pianeta: se scopriamo come potremo capire in
quali altri pianeti il fenomeno potrebbe ripetersi.
«Con il rover Curiosity che sta cercando su Marte tracce biologiche per capire se il pianeta rosso possa diventare abitabile; con il telescopio spaziale Keplero a caccia di pianeti extrasolari situati nella “fascia della vita”, un’orbita simile a quella
terrestre, a una distanza dalla stella che non bruci il pianeta o
lo lasci congelare; e con la prossima missione su Marte nel
2020, diventa indispensabile sapere il prima possibile cosa
cercare con maggior precisione», spiega Jim Green, direttore
della divisione scienze planetarie, dal quartier generale della
Nasa a Washington. «I nostri sette gruppi di ricerca aiuteranno insomma le missioni attuali e quelle future dedicate all’astrobiologia a definire un nuovo elenco di prove da raccogliere». Aggiunge Mary Voytek, direttore del programma di astrobiologia della Nasa: «La chiave è tutta qui. Dobbiamo capire come il nostro pianeta sia passato da un agglomerato di roccia
sterile a ciò che vediamo oggi».
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7
pilastri
i della vita
Le missioni sulla Terra che ci aiuteranno a capire cosa cercare nello Spazio
Coordinatore
Michael Mumma
Coordinatore
Scott Sandford
Coordinatore
Isik Kanik
Coordinatore
Nathalie Cabrol
Coordinatore
Alexis Templeton
Dove
Goddard Space Flight Center
della Nasa, Greenbelt,
Maryland
Dove
Ames Research Center
della Nasa, Moffett Field,
California
Dove
Jet Propulsion Laboratory
della Nasa, Pasadena,
California
Dove
Seti (The Search for Extraterrestrial Intelligence Institute),
Mountain View, California
Dove
University of Colorado,
Boulder
Obiettivo
La squadra deve trovare le conferme all’ipotesi secondo cui comete e meteoriti abbiano portato sulla Terra l’acqua e le prime
semplici molecole organiche, il
cosiddetto “brodo primordiale”
da cui si è poi evoluta la vita. Se
così è andata allora bisognerà
cercare su comete e pianeti le
tracce della mistura.
Allo stato attuale delle conoscenze, infatti, non è ancora ben
chiaro se questa “soluzione prebiotica” si sia potuta generare
solo sulla Terra o, come sembra
da dati sinora raccolti, anche in
altri corpi celesti.
Obiettivo
Ricostruire le reazioni chimiche
che dal “brodo primordiale”
hanno assemblato i “semi” della
vita. I composti organici sin qui
trovati fuori dalla Terra, come
aminoacidi e zuccheri, rivelano
che la chimica cosiddetta inorganica arriva ad assemblare molecole organiche molto complesse. Ma quelle degli organismi anche primordiali, come virus e
batteri, sono molto, molto più
complesse.
Obiettivo
Il team svolgerà indagini ed
esperimenti scientifici nelle
aree fredde della Terra, come le
montagne del Nord della California, per capire se il ghiaccio,
che domina le lune di Giove e Saturno come Europa, Ganimede e
Encelado, possa ospitare la culla
della vita e farle diventare abitabili.
Obiettivo
Stilare una nuova lista di indizi
della vita per preparare la prossima missione su Marte del nuovo rover Mars 2020 e metterlo in
condizione di raccogliere prove
finalmente certe, positive o negative che siano.
Obiettivo
I geologi indagheranno nelle viscere della Terra, in particolare
nella California e in Oman. In
queste zone si trovano siti scoperti di recente dove si è osservato il fenomeno detto Rock
Powered Life (vita accesa dalla
roccia). Sono acque bollenti che
ospitano forme microbiche. Ma
il calore di queste acque non è
frutto di fenomeni vulcanici,
bensì generato da reazioni chimiche tra particolari elementi
delle rocce e dell’acqua. Le forme
di vita microbiche ricavano l’energia vitale non dalla luce solare ma da idrogeno, metano e altre molecole semplici
Metodologia
Analisi spettroscopiche dei confini del Sistema solare (dove si
formano le comete) e delle atmosfere di Marte, di Europa ed
Encelado, lune, rispettivamente, di Giove e Saturno.
Metodologia
I fattori che rendono possibile
tutto ciò saranno cercati nei meteoriti caduti e nelle polveri
emesse dalle stelle in formazione e da cui si aggregano i pianeti. L’equipe californiana cercherà poi, sulla base dei dati raccolti, di ricostruire come si sono
potuti formare aminoacidi e zuccheri nello Spazio.
Metodologia
Saranno studiate anche altre
situazioni estreme come i camini idrotermali sottomarini (dove l’acqua è ad altissima temperatura a stretto contatto con le
rocce) ritenuti una delle fucine
della vita sulla Terra. In questi
camini sono stati trovati microrganismi che vivono senza energia dal Sole ma ricavandola dalla digestione delle semplici molecole organiche create da questi sistemi idrotermali.
Metodologia
Ricerca negli ambienti estremi terrestri di testimonianze
certe dell’esistenza di vita poi
scomparsa. Èdi pochi giorni fa la
scoperta del rover Curiosity: le
rocce prelevate nel sottosuolo di
Marte sono state a contatto con
acqua e ossigeno e possono aver
innescato forme microbiche primordiali. Già fatta dallo spettrometro della sonda orbitante da
cui si era staccato il rover, la recentissima scoperta dimostra
che il fenomeno si rileva anche
dallo Spazio, senza sbarcare su
un pianeta.
Metodologia
Capire se il processo naturale è
interconnesso agli altri fenomeni alla base della vita. E se consentirà di rapportarlo a altri pianeti rocciosi come Marte.
la Repubblica
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INFOGRAFICA PAULA SIMONETTI
DOMENICA 9 NOVEMBRE 2014
Coordinatore
Timothy Lyons
Coordinatore
Frank Rosenzweig
Dove
University of California,
Riverside
Dove
University of Montana,
Missoula
Obiettivo
La ricerca dovrà ricostruire la
storia dell’ossigeno nell’aria e
nell’acqua sulla Terra tra i 3,2
miliardi e i 700 milioni di anni fa.
È l‘intervallo di tempo in cui
sembra che le concentrazioni di
ossigeno siano esplose dal quasi
niente a quelle di oggi. Questo lavoro aiuterà a capire come ha
fatto la Terra a sostenere la vita
per la maggior parte della sua
esistenza, nonostante i forti mutamenti nella composizione dell’aria e dell’acqua che ha subito.
Obiettivo
La domanda non è delle più semplici: come si è potuti passare da
microrganismi unicellulari che
si alimentano di idrogeno e metano e/o di luce solare, anidride
carbonica e sali minerali a (definizione di Charles Darwin)
“quell’intreccio indistinguibile
ed interdipendente di piante, insetti ed animali che popola il nostro pianeta”? In particolare,
quali sono le forze naturali che
spingono la vita a darsi strutture sempre più complesse, sia per
quanto riguarda i singoli organismi che i loro rapporti?
Metodologia
Anche queste informazioni,
confrontate con le analisi delle
atmosfere di altri pianeti, saranno preziose per valutare le condizioni di abitabilità di Marte e
altre “Terre Alternative”, come
i planetologi chiamano i pianeti
di altri sistemi solari che orbitano nella fascia della vita.
Metodologia
Lo studio riguarderà colture batteriche dove sarà possibile osservare come si modificano il
metabolismo e la moltiplicazione dopo l’introduzione di elementi nocivi e/o stimolanti che
agiscono come forze selettive.
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 9 NOVEMBRE 2014
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Sapori. A confronto
UNO IN PADELLA,
L’ALTRO A CRUDO.
UNO ACCESSIBILE
E POPOLARE,
L’ALTRO QUASI
PROIBITIVO
(MA MOLTO MENO
DELL’ANNO SCORSO)
UNO SI SPOSA BENE
CON PAPPARDELLE
RUSTICHE, L’ALTRO
SOLO CON CREME
SOAVI: IL SEGRETO
IN CUCINA
È TENERLI SEPARATI
PER ACCONTENTARE
PALATI E TASCHE
DI TUTTI QUANTI
4
con il bianco
Uovo in cocotte
Negli stampini, un cucchiaino
di Parmigiano, tre di panna, l’uovo,
burro fuso, un pizzico di sale, pepe
bianco macinato fresco: 8’ in forno
a 200°. Una spolverata di tartufo
Fonduta
Fontina Dop a dadini a riposare
coperta di latte (temperatura
ambiente), poi lavorata con la frusta
a bagnomaria insieme a un tuorlo
ogni 100 grammi. Tartufo a piovere
Tajarin
Fettuccine impastate con 40 rossi
d’uovo per kg di farina, tagliate
finissime, lessate, condite con burro
leggermente imbiondito
nel tegamino. Spolverare col tartufo
Carpaccio
Fette sottili di rotondino di coscia
spennellate con extravergine e sale.
Per emulsionare, la forchetta
profumata con uno spicchio d’aglio
Infine, tartufo tagliato finissimo
All’asta
Due aste oggi tra Acqualagna
e Grinzane Cavour con i migliori
esemplari di tartufo bianco
raccolti nell’ultima settimana.
Per i marchigiani, collegamento
con il Dubai World Trade Center,
mentre dalle Langhe i pezzi più
pregiati voleranno a Hong Kong.
Incassi in beneficenza
Spaghetti al tartufo bianco
La ricetta/1
Cardi alla fonduta d’alpeggio
spolverati con tartufo di Alba
Lo show
È uno scranno di design, il set
fotografico dei super chef
protagonisti dell’Alba Truffle
Show, in questi giorni alla Fiera
del Tartufo Bianco d’Alba. Tra
un’analisi sensoriale e una cena
a tema, i cuochi saranno
immortalati sulla “Sedia stellare”
disegnata da Stefania Vola
INGREDIENTI
4 CARDI
4 LIMONI
100 G. DI FARINA
OLIO DI NOCCIOLE
200 G. DI RASCHERA D’ALPEGGIO A CUBETTI
200 G. DI LATTE
200 G. DI PANNA
2 FILETTI D’ACCIUGA
TARTUFO BIANCO D’ALBA
n una pentola, cinque litri d’acqua, metà farina e il succo di due limoni. A bollore, versare le migliori foglie esterne dei cardi a
pezzetti, lessare due ore, scolare e frullare con
poco liquido di cottura. In un’altra pentola, stessa preparazione per far bollire i
cuori dei cardi a tocchetti (teneri
ma non rotti).
Sciogliere il formaggio a bagnomaria con latte, panna e acciughe, passare al colino ed
eventualmente aggiungere
poco latte. Nei piatti, la crema di
cardo a velare, sopra la fonduta,
poi un cucchiaino di olio di
nocciole, due nocciole sbriciolate e generoso tartufo
bianco.
I
L’appuntamento
Fino a domenica prossima,
appuntamento con la Fiera
nazionale del tartufo nero
di Fragno in quel di Calestano,
borgo delle colline parmigiane
iscritto all’Associazione
Nazionale Città del Tartufo.
Per glorificare la “perla nera”,
gite guidate e menù a tema
LO CHEF/1
ENRICO CRIPPA
(TRE STELLE
MICHELIN
AL “PIAZZA
DUOMO”
DI ALBA)
SA DOMARE
LA CUCINA
PIEMONTESE,
RENDENDOLA
LEGGERA
E MODERNA,
COME
NELLA RICETTA
IDEATA PER
REPUBBLICA
Tartufo. Bianco o nero?
Il principe e il povero
quei due fratelli
che non s’incontrano mai
LICIA GRANELLO
“R
ICORDO anzi che più avanti negli anni un signore dei miei
paesi sapendo che conoscevo
l’Italia, mi chiese come mai
aveva visto laggiù dei signori
andare a pascolare i maiali, e
io risi comprendendo che invece andavano in cerca di tartufi”. Ne Il nome della rosa,
Umberto Eco mette in bocca
ad Adso una verità storica: la
ricerca del tartufo nero era già
praticata durante il Medioevo. Allora, l’animale d’elezione per la ricerca del
tartufo era il maiale, “salvo che come lo trovavano, volevano divorarselo, e
bisognava subito allontanarli, e intervenire a dissotterrarlo”. Così, per evitare spiacevoli discussioni tra cercatori umani e non, negli anni il quattrozampe di riferimento è diventato il cane, scelta che avvicina i protagonisti
la Repubblica
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DOMENICA 9 NOVEMBRE 2014
4
con il nero
Il vero derby
l’abbiamo
vinto
coi francesi
Crostini
Pane casareccio abbrustolito,
spalmato con una crema ottenuta
scaldando l’olio e uno spicchio
d’aglio. Via l’aglio, dentro l’acciuga,
sciolta con il tartufo grattugiato
CA RL O P E TRI NI
B
IANCHI E NERI suona un po’
Crespelle
Battuto di uova, farina, latte, sale.
Cottura in antiaderente. Per farcire,
taleggio sciolto a bagnomaria con
tuorli, tartufo e pepe nero. Gratinare
in forno con burro e Parmigiano
Capesante
Patate a rondelle, cotte al vapore,
alternate a dischi di capesante
e fettine di tartufo, spennellando
con burro fuso. Ancora poco burro
colato e 10’ in forno a 200°
Filetto
Carne lardellata con tartufo,
spadellata e infornata 5’ a 200°.
Nella stessa padella, cottura breve
per i porcini a fettine. Nel piatto,
funghi, filetto e tartufo in lamelle
Uova in padella con patate e tartufo nero
La ricetta/2
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INGREDIENTI
250 G. DI RISO ACQUERELLO
40 G. DI PECORINO DI FOSSA
100 ML DI VINO BIANCO
12 COSCE DI RANA
60 G. DI BURRO
4 FOGLIE DI SALVIA
40 G. DI TARTUFO NERO FRESCO
osolare uno scalogno, aggiungere il riso, tostare, bagnare col vino bianco,
sfumare e portare a cottura con acqua
calda. Spegnere e mantecare col pecorino e
mezzo etto di burro. Frullare il risotto e filtrarlo
per ottenere una crema omogenea.
Sciacquare le cosce di
rana in acqua e aceto,
asciugare, condire con
sale, pepe e olio. Arrostire
da entrambi i lati per qualche minuto. Togliere le
cosce dalla padella e
glassare con una noce
di burro, la salvia e il
tartufo tritato. Impiattare adagiando
la crema di riso Acquerello al centro.
Sopra, le cosce e fettine di tartufo.
R
TOMMASO TAGLIAFERRI
della caccia al tesoro, sia esso (nel vocabolario del marketing) un diamante
bianco o una perla nera. Per il resto, neri e bianchi compiono traiettorie gastronomiche talmente diverse da non incontrarsi mai: uno in padella e l’altro rigorosamente a crudo, uno pronto a sposare sapori forti, l’altro in grado
di reggere solo gusti soavi e senza squilli, uno in qualche misura popolare e
accessibile, l’altro ai limiti del proibitivo. E ancora, il nero primo di molti fratelli e fratellastri, la cui maturazione attraversa quasi per intero le stagioni,
da un capo all’altro dell’anno, adattando le varietà al clima, mentre il bianco
è esigente come un milordino: per svilupparsi in tutto il suo odoroso candore vuole estati calde ma non torride, piovose senza eccessi, e poi autunni severi e asciutti, per sbocciare a inizio inverno, meglio se dopo le prime gelate.
Non a caso, i cuochi di tutto il mondo evitano accuratamente di farli incontrare, dedicando loro parti del menù ben distinte, con il solo denominatore
comune dell’accondiscenza verso i funghi, pur ben distinta: se il nero si accoccola volentieri nella stessa pentola con tutti i “cugini” epigei, dai gallinacci in su, il bianco condivide l’insalatieria solo con ovuli e porcini. Sei gradi di separazione culinaria che accontentano palati e portafogli, che si scelgano le pappardelle più rustiche o la crema di formaggio più leggiadra. In
realtà, tra il principe e il povero, il vero errore è cercare il vincitore. Come pesare patate e caviale: buonissimi tutt’e due, nella loro evidente diversità. Di
più: rispetto al tuber melanosporum, ubiquitario e democratico, il magnatum pico suscita amori e odi senza compromessi, tra chi ne sparge scaglie abbondanti perfino sulla panna cotta e chi annusandolo lo assimila all’odore del
gas (non proprio un complimento).
Se volete sciogliere gli ultimi dubbi al riguardo, regalatevi una gita nelle
Crete Senesi tra oggi e il prossimo fine settimana, in occasione della Mostra
Mercato del Tartufo Bianco di San Giovanni d’Asso, dove potreste approfittare di prezzi addirittura dimezzati rispetto a un anno fa (siamo sui 2500 euro al chilo). Poi scollinate verso l’Umbria, dove Fabro e Norcia mandano in
passerella i migliori esemplari di tartufo nero pregiato. L’ingresso nell’inverno vi apparirà come un trionfo di profumi.
Crema di riso e cosce di rana
la mia versione al nero
LO CHEF/2
VITO MOLLICA
(“FOUR SEASONS
DI FIRENZE”)
OFFRE A TURISTI
DI TUTTO
IL MONDO
IL MEGLIO
DELLA CUCINA
ITALIANA
MODERNA.
QUESTA LA SUA
VERSIONE
DEL TARTUFO
NERO
PER I LETTORI
DI REPUBBLICA
come guelfi e ghibellini:
l’Italia si divide anche sui
tartufi? Per la verità non è il
nostro Paese, dove
convivono le due specie più pregiate di
Tuber, il terreno di scontro tra i
sostenitori dell’una e dell’altra. Disfida
alquanto insensata, trattandosi di
prodotti entrambi di eccellenza ma che
differiscono per modalità riproduttive e
usi culinari: Tuber melanosporum
Vittadini (nero di Norcia o di Spoleto) è
coltivabile e sprigiona il massimo del suo
aroma in cottura; Tuber magnatum Pico
(bianco d’Alba o di Acqualagna) cresce
solo allo stato spontaneo, in aree
ristrette, e va mangiato crudo. Il tartufo
nero pregiato si trova con relativa
abbondanza un po’ in tutta Europa e in
molte regioni dell’Italia peninsulare.
Quasi esclusivo del nostro Paese, o
meglio di alcuni suoi settori — le colline
piemontesi, la media pianura padana e
l’Appennino centrale —, è invece il
bianco pregiato: oltre che in Italia, si
trova solo in Croazia, Romania e
Bulgaria. La sua rarità e irriproducibilità
ne fanno il tartufo più ricercato e costoso.
In questo senso può essere lecito
vantarne la superiorità: circostanza cui
non si sono rassegnati i francesi, i quali,
privati dalla natura del magnatum, si
sono eretti a paladini del melanosporum,
assegnando alla loro truffe du Périgord il
primato nell’insensata disfida tra
bianchi e neri. Eppure un francese JeanAnthelme Brillat-Savarin, nella Fisiologia
del gusto (1825), scriveva: «In Piemonte
vi sono i tartufi bianchi, che sono molto
pregiati». E vari documenti testimoniano
un interesse francese per le trifole
subalpine: nel 1814 Luigi XVIII chiedeva
di ricevere tartufi dal Piemonte come ai
tempi antecedenti la Rivoluzione, e nel
1723 Luigi XV pregava il nonno Vittorio
Amedeo II di Savoia di inviargli un
cercatore esperto e dei cani.
Già, i cani. Indispensabili per individuare
e dissotterrare i tartufi, sono perlopiù
esemplari di razza indefinita, meticci di
taglia medio-piccola, robusti, obbedienti
e dall’olfatto molto sviluppato. Le
cronache delle fiere italiane del tartufo
(una sessantina, di cui una sola
internazionale, quella di Alba) hanno
registrato le performance di alcuni di
loro: la cagnolina Fruja, per esempio, che
nel 1979, in coppia con il trifolao Pinòt,
recuperò sulla sponda sinistra del
Tanaro un magnatum di oltre un chilo e
mezzo, di cui l’acquirente fece omaggio a
papa Giovanni Paolo II. Ma il massimo
campione di tutti i tempi pare essere
stato Pulìn: addestrato all’Università dei
cani da tartufo della famiglia Monchiero,
a Roddi, si narra arrivasse a scovare
anche cinque chili di trifole in una sola
notte. Per rimanere sull’attualità. Dopo
le elezioni di midterm negli Usa in questi
giorni si fa un gran parlare del
presidente Truman. Nel 1951 Giacomo
Morra, uno dei più grandi commercianti
di tartufi d’Italia, spedì al presidente
americano Harry Truman un tartufo da
peso record di 2519 grammi, trovato a
Novello. Il profumo insospettì la Cia.
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la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 9 NOVEMBRE 2014
38
L’incontro. Splendide cinquantenni
QUESTO MESTIERE
NON È SEMPLICE
COME PENSAVO.
TI RESTANO
SEMPRE ADDOSSO
DELLE SCORIE,
ANCHE SE PENSI
D’ESSERTENE
LIBERATA. INVIDIO
GLI ATTORI
CHE FUORI DAL SET
DIMENTICANO
SUBITO IL LORO
PERSONAGGIO
Figlia di un germanista napoletano e di una pittrice greca, ha recitato in settantacinque film (“solo di una quindicina vado fiera”),
con la sua voce ha conquistato Hollywood (“Rain Man mi ha fatto
piangere”) e poi la Francia. Che dopo un lungo oblio le ha permesso di riprendersi l’Italia (“con la cultura si potrebbe mangiare eccome”). A quarantanove anni ha avuto successo anche alla regia,
ma vuole restare attrice: “Più
un successo internazionale: su quella spinta l’Italia, che l’aveva subito affosl’ha riesumato di corsa, in trenta sale, ma, di nuovo, senza successo. È
un film che ci ha tenuti isolati per tre mesi a Lampedusa, in una situazione di
che guardarmi preferisco esse- sato,
allarme permanente per le incertezze dei pagamenti. Ma per tutti, incluso
l’allora giovanissimo Elio Germano, ha rappresentato uno stato di grazia. Un
ipnotico. La prima volta che l’ho visto, ho sorriso». Un film, invece, che
re guardata e valorizzata, anche film
l’ha fatta piangere? «Rain Man. Sono stata alla prima con accanto gli altri due
protagonisti, Tom Cruise e Dustin Hoffman. Ero disperata. Mi dicevo: non andrà a vederlo nessuno. Ma sono stata smentita. Rain Man, dopo ormai un
fisicamente. Aspetto ancora quarto
di secolo, continua a essere uno dei film del nostro immaginario. Privilegio di pochi titoli nella storia del cinema».
Niente da fare. Per la Golino, la cui vita privata è percorsa da forti passioni e
che un regista mi metta a nudo. amori
invidiatissimi — da Peter Del Monte a Benicio del Toro, da Fabrizio Bentivoglio a Riccardo Scamarcio, suo compagno da otto anni — il cinema è sempre il soggetto di conversazione preferito, con inevitabili asprezze sul caso-ItaE sarà meglio che si sbrighi”
lia: «Da noi la cultura è sprofondata negli ultimi vent’anni. Il cinema, non solo
Valeria
Golino
M AR I O SER EN EL LI N I
ANNECY
Non è più la ragazzina
sconvolgente di trent’anni fa, gli occhi marini che affioravano
dalla pioggia rotonda di fusilli corvini: adesso è una fiamma più
pacata — almeno sembra — più assottigliata nel corpo e più dolce nella capigliatura a larghe onde, che lei, di tanto in tanto, risolleva e ricompone. La voce è invece sempre quella docile grattugia che ogni
volta si sgrana dal suo volto infantile. «Sono stata doppiata solo in Italia: mai
in America, dove mi hanno lasciato intatta anche la pronuncia». È subito battaglia. Sparite le timidezze degli esordi, Valeria Golino, quarantanove anni
poche settimane fa, seconda figlia di un germanista napoletano e di una pittrice greca, ha ora la parola sicura, simpaticamente combattiva. Prima di tutto contro se stessa: «Io proprio non me lo meritavo il David per Il capitale umano di Paolo Virzì. Sono settantacinque, tra Italia, Francia e Stati Uniti, i film
che ho girato, tutti con (mio) grande entusiasmo ma non tutti riusciti: saranno al massimo una quindicina quelli di cui vado fiera». Tra
quei quindici, sicuramente Giulia non esce la sera di Giuseppe Piccioni, Storia d’amore di Francesco Maselli (Coppa Volpi a Venezia
‘86) e il recente Come il vento di Marco Simon Puccioni (premio
Anna Magnani al Bif&st), titoli che Annecy Cinéma Italien ha
riproposto in omaggio all’attrice, accolta da affettuosissimi
applausi agli incontri condotti dal direttore del festival Jean
Gili. Nella hit parade dell’attrice c’è, naturalmente, La guerra
di Mario, di Antonio Capuano, anno 2005: «Lì dovevano darmi il
David! Quello è un film dove ho riavuto tutta Napoli attorno: la
metà di me più calda, anche più di quella greca. Capuano è regista fuori degli schemi. Sul suo set ho migliorato la recitazione
Q
UANDO APPARE, L’ARIA SI RIEMPIE DI GIOIA.
HO INTERPRETATO MADRI DI TUTTI I TIPI
SENZA ESSERLO NELLA VITA. FORSE DIPENDE
DAL RAPPORTO CON L’INFANZIA CHE MI SI LEGGE
IN FACCIA, QUEST’ARIA INNOCENTE CHE LASCIA
UNA TRACCIA FRESCA SULLO SCHERMO
e reimparato a parlare. Dagli anni Ottanta la parola, anche al cinema, è diventata colloquiale, domestica, spesso perdendo lo spessore del senso: e se il cinema non è
solo parola quel film ha fatto però riemergere i significati ormai spariti del nostro vocabolario, restituendo a
ogni termine la sua storia, la sua capacità di dire». L’altro film cui deve molto, che l’ha di nuovo riammessa al
cinema italiano, dopo la lunga parentesi d’oltre Atlantico e d’oltralpe, è Respiro di Emanuele Crialese, dodici anni fa: «Ci sono voluti i francesi per scoprirlo e farne
d’autore, sta rischiando di diventare un fenomeno d’élite. E pensare che da noi,
con la cultura — per riprendere l’infelice battuta di un politico — si mangerebbe molto meglio se soltanto, come avviene in Francia, fosse riconosciuta e
aiutata. Paradossalmente, nonostante tutti i nostri problemi, e quelli del cinema sono solo una conseguenza, fioriscono tanti talenti, tra attori e tecnici.
L’Italia manda segnali di risveglio».
Perché questa sua dedizione esclusiva al cinema? «Il teatro? In teoria sì, in
pratica no. La reiterazione, sera dopo sera, non è nelle mie corde. Amo i momenti esplosivi, unici: sono l’ossessione di tutti noi interpreti». Eppure uno dei
suoi ruoli più magici è quello di diva del teatro in Actrices, la regia migliore di
Valeria Bruni Tedeschi e uno dei suoi numerosi film d’oltralpe: è da qui che le
deriva l’eccellente francese? «No, è una vecchia storia. A diciannove anni, dopo il film di Maselli, ho subìto un grave intervento alla schiena: sono rimasta
sei mesi bloccata a letto, con l’assoluto divieto del benché minimo movimento. Che fare? Ho deciso di imparare il francese. Veniva ogni giorno una giovane insegnante, che io guardavo così, da sotto in su, la testa inchiodata al cuscino. Ho imparato la lingua, leggendomi a rinforzo l’intera Recherche. Giuro.
Non l’avrei mai fatto se non fossi stata malata».
Un’energia positiva permea i suoi personaggi, anche quelli drammatici: è
poi difficile uscirne, reinserirsi nella vita quotidiana? «Non è così semplice come pensavo. Ti restano sempre addosso delle scorie, anche quando sei convinta d’essertene liberata. Conosco interpreti “tecnici”, che sanno staccare a
macchinetta: quanto li invidio, io che mi do sempre anima e corpo. Ma c’è chi
sta messo peggio di me: dopo Rain Man, Hoffman ha continuato per un anno e
mezzo a parlare con la testa reclinata».
L’America, senza farsi intimidire dalla sua bellezza, ha fatto di lei una star
del cinema comico, con le due formidabili parodie di Top Gun firmate Jim
Abrahams, Hot Shots! e Hot Shots! 2: «A differenza dell’Italia, gli Usa sono sempre pronti a ampliare la gamma dei loro attori. Da noi, un’attrice bellissima come Laura Chiatti, con cui ho lavorato in A casa nostra di Francesca Comencini, non è utilizzata come meriterebbe: commedie su commedie». La bellezza
A DICIANNOVE ANNI HO SUBITO UN GRAVE
INTERVENTO ALLA SCHIENA E SONO STATA
SEI MESI A LETTO. CHE FARE? DECISI
DI IMPARARE IL FRANCESE LEGGENDO
LA “RECHERCHE”. TUTTA. LO GIURO
può diventare un handicap? «È una comoda garanzia. Quand’ero più giovane
e proprio carina, venivo pagata di meno: la bellezza mi è costata cara…». Adesso che è anche regista, dopo lo splendido esordio con Miele, non potrebbe darsi lei stessa il ruolo della sua vita? «Da regista,
non la sento una necessità. Forse non amo troppo guardarmi, mentre mi piace che un regista mi guardi, mi valorizzi: anche fisicamente. Ma dobbiamo sbrigarci, anche in questo. Dovete mettermi nuda, ma subito!».
Chissà se avremo la bella sorpresa nei film in preparazione, La
vie très privée de Monsieur Sim di Michel Leclerc e Per amore vostro del napoletano Giuseppe Gaudino, o tra quelli in uscita, Il
nome del figlio di Francesca Archibugi e Il ragazzo invisibile,
fantasy di Gabriele Salvatores: «Sono la prima attrice con la
quale ha lavorato due volte, mentre continua a circondarsi
sempre degli stessi attori: ama il cameratismo, una goliardia
complice. Una volta gli ho detto: attento, divento uomo anch’io. Tra l’altro, mi capita spesso, come a molte attrici, di
prendere a modello di recitazione un attore: Gian Maria Volonté, primo tra tutti, che credo sia il modello di tanti nostri
giovani attori. Nel caso di Salvatores, m’ha agevolata il ruolo:
madre-poliziotta». Nel cinema, ha spesso sfiorato la maternità: «Soprattutto in Italia: madre o con il desiderio di diventarla, magari madre drogata, madre folle, madre-bambina…
Mai madre e basta: sempre madre con qualcosa d’aggiunto!
Anche mamma inverosimile: nel film di John Frankenheimer, Year of the Gun (con una Sharon Stone ancora sconosciuta, pre-Basic Instinct), dove a ventiquattr’anni avevo un
figlio di dieci. Non sono mamma nella vita. Ma a ispirare i registi è forse il rapporto con l’infanzia che mi si legge in faccia:
un’aria innocente, che lascia una traccia sempre fresca sullo
schermo».
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