PDF interni Babette - Morellini Editore

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Copertina e illustrazioni di Sara Rambaldi
Grafica di Marino Gotti
ISBN: 978-88-6298-346-4
Data di pubblicazione: novembre 2014
Tutti i diritti sono riservati a norma di legge e a norma delle convenzioni internazionali.
Lorenzo Bianciardi – Giovanni Pellicci
A cena
con Babette
i migliori film gourmand da proiettare a tavola
Postfazione di Gianfranco Marrone
Illustrazioni di Sara Rambaldi
Presentazione
A
vete mai provato ad assaggiare un film? Sì, perché questo
libro si spinge oltre la semplice visione davanti allo schermo. Cercate anche voi di prolungare le sensazioni golose stimolate dalle
immagini con un assaggio vero e proprio. È questo il gioco che hanno
tentato di mettere nero su bianco su queste pagine i due autori.
Lorenzo Bianciardi ha testato le pellicole “di gusto” più deliziose della
storia del cinema e le ripropone qui in una recensione originale e accattivante, interamente centrata sull’universo dei sapori.
Giovanni Pellicci, invece, attingendo alla sua creatività enogastronomica, prende spunto dalle atmosfere create dalle immagini per suggerire
arditi abbinamenti, fantasiosi e mai scontati.
Un libro che gioca su un’idea semplice di partenza: quali sono le emozioni al palato che possono suscitare in noi spettatori alcuni dei più conosciuti film gourmand? Quali sono gli spunti gustosi e gli abbinamenti
perfetti per gustarsi una serata a base di ottimo cibo, grandi vini e cinema
d’autore?
Un’opera scritta a quattro mani, che mette in contatto due mondi
all’apparenza lontani: sapori che partono dalla magia del grande schermo, per sfociare in piatti e vini reali, con combinazioni dai gusti insoliti,
che si chiude con un’inedita postfazione del semiologo e scrittore Gianfranco Marrone e che ci offre un punto di vista “appetitoso” sul valore del
cibo nel cinema, ripensandolo con seriosa ironia a partire da una battuta
del grande Totò.
A cena con Babette è un libro di atmosfere golose che fanno sognare e
cercano di mettere l’acquolina alla bocca: la magia del cinema a braccetto
con il piacere della buona tavola. Ce n’è per tutti i palati…
—5—
Jndice
ANTIPASTI e PRIMI PIATTI
11 Ratatouille, i segreti per leccarsi i baffi
13 Carabaccia & Pinot Nero
47
$
15
La maga delle spezie e la magia in
cucina
17 Peperoncino & Cirò
$
19
Tampopo, quando il gusto dà del “tu”
allo spettatore…
21 Zuppa di ramen
& Cerasuolo d’Abruzzo
$
23
27
SECONDI PIATTI
53 Mangiare bere uomo donna, alla
ricerca del gusto perduto
55 Aragosta alla Catalana
& Vermentino di Gallura Docg
$
57
Soul Kitchen, il cibo per l’anima
Ricette d’amore, è la fantasia che
“vince” in cucina
33 Spaghetti al pomodoro
& Frappato
$
35
Chocolat, i poteri magici della
cioccolata
37 Tagliatelle al cacao
& Morellino di Scansano
$
39
Pranzo di Ferragosto, i sapori
della “terza età”
41 Melanzane alla parmigiana
& Franciacorta Rosè
61
Il cuoco, il ladro, sua moglie e
l’amante, il gusto a tinte nere
45 Tortelli zebrati al nero di seppia
& Erbaluce di Caluso
$
Come l’acqua per il cioccolato
e i sapori in “codice”
63 Quaglie ripiene & Tempranillo
$
65
69
73
77
81
85
$
93
Il pranzo di Babette, il gusto (im)morale
& Brunello di Montalcino
97
Julie & Julia, due vite a colpi di ricetta
99 Anatra arrosto & Marzemino
$
101 Soul Food, i sapori della vita
103 Tonno alla carlofortina
& Carignano del Sulcis Rosato
$
113 Grazie per la cioccolata, la bevanda
nera del Male
115 Cinghiale al cioccolato
& Barbaresco
Sideways, quando degustare è un’arte
75 Stracotto & Sassicaia
117 La cuoca del presidente, i sapori
antichi della nonna
119 Tartufi & Barolo
$
Cous Cous, i sapori e i ritmi del
Magreb
79 Cous cous alla marocchina
& Syrah
$
$
151 La fabbrica di cioccolato, un gustoso
tuffo nella fantasia
153 Cioccolato al peperoncino
& Barolo chinato
$
$
155 Postfazione di Gianfranco Marrone
Cibo, cinema: una visione politica
$
DESSERT
123 Caramel, il gusto al femminile
125 Gorgonzola & Marsala
Lunchbox, il gusto “a distanza”
83 Pollo tandoori & Gewürztraminer
127 Fragola e cioccolato, l’identità
in un sapore
129 Bavarese di fragole e cioccolato
fondente & Malvasia delle Lipari
passito
Un’ottima annata, il piacere sincero
del vino
87 Peposo & Cannonau di Sardegna
$
147 I cinque sensi, un film da “sentire”
149 Peconzola & Vinsanto
$
$
$
139 Chef, il Mozart del piano (di cucina)
141 Tiramisù
& Moscadello di Montalcino
$
$
La grande abbuffata, quando
l’eccesso “uccide” il gusto
71 Cacciucco alla livornese
& Nobile di Montepulciano
135 Un tocco di zenzero
e il “sale” della vita
137 Pan di zenzero & Picolit
143 Vatel, alla “corte” del gusto
145 Crema Chantilly, ciliegie
& Moscato d’Asti
105 Io sono l’amore, galeotti furono
i gamberi…
107 Gamberi rossi & Pigato
$
131 Il profumo del mosto selvatico,
alla “radice” del gusto
133 Schiaccia ’briaca
& Aleatico dell’Elba
$
$95 Filetto al foie gras
Fuori Menù, il gusto della diversità
67 Topinambur & Dolcetto
$
—6—
Tortilla Soup, colori e sapori di una
società “piccante”
91 Tortilla & Lambrusco
109 Chef, il #gusto ai tempi di twitter
111 Panino gourmet
& Birra artigianale
$
$
43
Big Night, il timballo di una grande
notte
59 Polpette al pomodoro & Taurasi
$
$
31
89
$
$25 Ribollita & Chianti Classico
La cena, il piacere “italiano”
del chiacchierare
29 Carciofi alla giudia
& Prosecco Superiore
Bottle Shock e le nuove frontiere
del vino
49 La “ghiacciata”
& Blanc de Morgex et de la Salle
$
$
—7—
Antipasti
e
primi piatti
Ratatouille,
i segreti per leccarsi i baffi
«S
e è vero che siamo ciò che mangiamo, io voglio mangiare solo
cose buone», dice Rémy, un grazioso topino che si scopre grande chef nel ristorante “Gusteau’s”. Un topo che cucina, vi chiederete? Sì,
la magia della Walt Disney, con Ratatouille di Brad Bird e Jan Pinkava
(2007), è quella di portare in scena una fiaba che fa sognare grazie a un
simpatico animaletto che tanto spaventa gli esseri umani, specie quando si aggira in qualche vecchia cantina abbandonata. Figurarsi se ce lo
troviamo di fronte agli occhi tra pentole e fornelli, a guidare con le sue
zampette l’aiuto chef Linguini, suo complice. Eppure, come nella migliore
tradizione dei film di animazione, Rémy non spaventa affatto, anzi ci insegna i segreti dell’arte culinaria, facendoci “leccare i baffi” (mai metafora
fu più appropriata) con i suoi piatti buonissimi. E se vi chiedete qual è il
luogo migliore per ambientare una storia così, basta ascoltare una delle
battute del film: «Perché qui? Perché ora? Quale posto migliore di Parigi
per sognare?».
È proprio Parigi, con la sua magia e la sua tradizione gastronomica, a
fare da cornice agli esperimenti di Rémy, che ha un “fiuto” eccezionale:
gli basta, infatti, annusare un attimo gli ingredienti, per capire quale sarà
il sapore finale della sua creazione.
Quante volte lo vediamo porgere il naso verso recipienti colmi di spezie? A inizio film, ad esempio, dagli odori riuscirà ad accostare la toma
di capra con un fungo, aggiungendo poi rosmarino e qualche goccia di
avena profumata, in un abbinamento tanto buono quanto inesplorato.
È così che il gusto, di solito rappresentato al cinema grazie ai movimenti della bocca, in Ratatouille, invece, sembra esprimersi soprattutto
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attraverso il naso. È con l’olfatto che Rémy, già dagli aromi degli ingredienti, riesce a trasformare una minestrina insipida in un piatto indimenticabile.
Come insegna il compianto Auguste Gusteau, grande chef proprietario del ristorante, nel gusto tutti i sensi sono in gioco: «la buona cucina
è una musica che ha anche un sapore, è un colore che ha un profumo».
Non dobbiamo meravigliarci, per questo, se la cuoca Colette in un passaggio del film spiega che è il suono del pane a rivelarne la bontà, e più
precisamente la “sinfonia di scrocchi” della sua crosta. Anche l’udito partecipa alla sensazione e rafforza ciò che l’immagine esibisce: un piacere
gustativo che coinvolge tutti i sensi.
Un legame forte, quello fra i sensi, che finisce per chiamare in causa
anche i meccanismi profondi della memoria: nel finale, è grazie ai ricordi
degli odori e dei sapori d’infanzia che lo chef Rémy riuscirà a commuovere il perfido Anton Ego, che in passato aveva stroncato la cucina del ristorante “Gusteau’s” dalle pagine del suo giornale. È preparando la “ratatouille”, piatto povero della cultura contadina francese, che il protagonista
catturerà le emozioni profonde del critico, richiamando i sapori della sua
infanzia lontana, quando Ego era povero e assaporava con il cuore i cibi
della tradizione provenzale preparati dalla madre.
Una serie di emozioni, che si intrecciano a messaggi profondi. Ratatouille c’insegna che «bisogna avere immaginazione, essere temerari.
Tentare anche l’impossibile e non permettere a nessuno di porvi dei limiti
solo perché siete quello che siete. Il vostro unico limite sia il vostro cuore». Parola di Gusteau, c’è da fidarsi.
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Carabaccia & Pinot Nero
Ora che il film è finito, non vi sembra di percepire nell’aria gli inebrianti profumi della cucina francese? Ratatouille è solo un’animazione ma ha il grande
merito di essere decisamente reale nel risvegliare la nostra fantasia e farci
credere che tutto sia possibile, rapendo i nostri sensi. Su tutti quel piatto
finale di verdure stufate che riesce a sciogliere anche l’animo del severissimo critico gastronomico Anton Ego è il classico esempio di “piatto della
memoria”, capace di riportare ai sapori iniziali di quando siamo bambini e il
nostro palato si “forma”.
È un’altra però la ricetta che vogliamo suggerirvi dopo aver visto la divertente
storia di Linguini e del suo piccolo chef Rémy: quella della Carabaccia, l’antenata della parigina soupe à l’oignon. Sì proprio una zuppa, come quella che
permette di conquistare la cucina di “Gusteau’s” all’insolito binomio composto dall’incerto “sguattero” e il topolino sognatore. Anche quella di cipolle
è frutto di un equilibrato connubio di origine rinascimentale che i francesi
scoprirono grazie ai gusti di Caterina de’ Medici, alla corte del marito Re di
Francia Enrico II d’Orléans nel ‘500, per poi diventare il piatto popolare della
Rivoluzione francese.
Alla maniera fiorentina questa ricetta prevede oggi, oltre alle cipolle stufate a
fiamma bassa, anche pecorino stagionato e groviera grattugiati in abbondanza, da far sciogliere in forno prima di servire calda in tavola. Provate ad
accompagnare il piatto con un calice di Pinot Nero, vitigno nobile e versatile che ha fatto il percorso inverso, affermandosi in Borgogna prima di
arrivare ad essere diffuso e apprezzato anche in Italia per le sue qualità e
complessità di interpretazione e degustazione. Straordinario sia se vinificato
in rosso (come per alcune tipologie del Trentino o Alto Adige) che come
preziosa base per le bollicine Metodo Classico della Franciacorta.
Anche Ego approverà...
— 13 —
La maga delle spezie
e la magia in cucina
U
n mondo di sapori, di volute profumate, di colori accesi. Come
quelli dei peperoncini, rossi come il fuoco su cui si apre il film.
«Questa è una favola che parla di immigrazione e di come è possibile
tenere in vita la magia», introduce la voce fuori campo de La maga delle
spezie (The Mistress of Spices, 2005) del regista americano Paul Mayeda
Berges.
Anche nel libro da cui la pellicola è tratta, protagonista assoluta della
storia è Tilo, una ragazza indiana (la bellissima attrice Aishwarya Rai)
che lavora in una bottega delle spezie a San Francisco. Una vita fatta di
pile ordinate di semi in cui immergere la mano, di barattoli da annusare,
di erbe da assaggiare, di piante da accarezzare. È questo il mondo di Tilo,
una ragazza capace di prevedere gli eventi del futuro e votata alle magie
delle spezie dopo l’incontro con una “santona”: «siete pronte a non amare
nessuno più delle spezie?», chiede la Grande Madre alle maghe novizie,
ad inizio film.
È così che Tilo costruisce la sua quotidianità attorno alle regole della
magia: non soddisfare i propri desideri ma solo quelli degli altri. Mai
abbandonare il negozio. Non toccare la pelle di un’altra persona. La vita
vera, però, quella che scorre fuori della bottega, è troppo invitante per
non cedere alla tentazione. «Nelle pieghe della mano, una linea che gira»,
recita una celebre canzone di De Gregori. È proprio a partire da un semplice tocco, dall’incontro fugace con la mano di Doug, un affascinante
architetto, che Tilo inizierà ad infrangere le leggi “sacre” e a perdere il suo
potere magico di preveggenza, perché se una maga manca ai suoi doveri,
le spezie la puniranno.
— 15 —
In effetti all’inizio Tilo riusciva a districarsi a meraviglia negli aromi
della bottega, grazie al suo fiuto speciale, ma l’amore nel corso del film
riuscirà a far breccia nei suoi buoni propositi.
«Ogni spezia serve al suo scopo e ogni persona ha una sua spezia speciale»: se Tilo è un termine indiano che richiama i semi di sesamo bruciati dal sole, spezia del nutrimento per eccellenza, il cumino serve invece
per proteggere dal male in agguato, mentre lo zafferano è consigliato per
le serate solitarie, per dare energia e conforto nelle lunghe ore notturne.
E poi c’è il peperoncino rosso, simbolo del peccato, della tentazione di
infrangere le regole della Grande Madre.
Riuscirà la protagonista a scegliere tra realtà e magia, tra assecondare
l’amore oppure obbedire ai princìpi magici? Per i più curiosi, non resta
che aspettare il finale. Magari cercando, nelle trame del film, la spezia che
più ci assomiglia…
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Peperoncino & Cirò
Si chiama “capsaicina” ed è il principio attivo che rende piccante il peperoncino favorendo quella sensazione di caldo che si sprigiona nel nostro corpo
quando ne mangiamo un po’.
Dopo aver visto l’epilogo dell’affascinante storia di Tilo possiamo scegliere, anche noi, di cedere alle tentazioni culinarie: in questo caso utilizziamo proprio
quel peperoncino co-protagonista del film. Saprete che di questa spezia –
arrivata in Europa grazie alla scoperta delle Americhe da parte di Cristoforo
Colombo – ne esistono numerose varietà nel mondo e che il diverso grado
di piccantezza si misura secondo la Scala di Scoville. È il Trinidad Scorpion
Butch Taylor, originario dell’Australia, il peperoncino più piccante al mondo.
Più noto è l’Habanero, che non scherza affatto quanto a potenza. Ricco di vitamine e notoriamente afrodisiaco, potete sbizzarrirvi nell’impiego del peperoncino in cucina: dalla ricetta più semplice, come gli spaghetti aglio, olio e
peperoncino che rappresentano uno dei cult dell’italianità a tavola o come
condimento per rendere più saporito il vostro piatto. In onore della Calabria,
patria italiana di questa spezia del peccato, provate il paté di peperoncino e
‘nduja calabrese da spalmare sul pane casereccio per un aperitivo hot.
Rimanendo in Enotria (ovvero l’antico nome della Calabria ai tempi dei greci)
anche per il vino, sorseggiamo un calice di Cirò, il primo di questa terra ad
ottenere la Doc. Realizzato con uve Gaglioppo, il Cirò nella versione rosso
è un vino dai profumi delicati ma dalla struttura corposa e tannica, quindi
sufficientemente robusta per accompagnare pietanze piccanti.
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Tampopo,
quando il gusto dà del “tu” allo spettatore…
Q
uando entrate in una sala cinematografica, siete anche voi fra
quelli che odiano il rumore degli spettatori delle file dietro che
sgranocchiano le patatine o magari i pop corn proprio durante una delle scene più emozionanti? Vi consigliamo allora di guardare Tampopo
del regista giapponese Juzo Itami (1986), che a questa situazione dedica
un’intera sequenza: due minuti imperdibili per chi è appassionato al filone dei film che “parlano” dei sapori.
Cosa vediamo di fronte agli occhi proprio ad inizio pellicola? Un boss
della mafia giapponese con la compagna, di bianco vestiti, che entrano in
sala e si siedono in prima fila per assistere ad un film; la macchina da presa si avvicina lentamente, ma, invece di svelarne i volti, posa lo sguardo
su una tavola apparecchiata proprio davanti ai due protagonisti. Ecco che
l’uomo si alza di scatto dalla poltroncina e, occhi puntati verso l’obiettivo,
ci domanda: «Anche voi siete al cinema? Cosa state mangiando? Sapete, i
pacchetti delle patatine accartocciati, proprio durante il film, non li sopporto!».
Un modo originale di affrontare il tema del gusto al cinema, non trovate? Un “tipo” di gusto che la teoria definirebbe «extradiegetico», cioè
esterno al racconto. Che significa? Il cinema, se ci pensiamo bene, è una
proiezione dentro una sala buia in cui gli spettatori sono chiamati in causa in prima persona con le proprie emozioni, ma anche con la propria
“fisicità”. Ecco che lo sguardo e le parole del boss danno del “tu” allo spettatore: un dialogo del protagonista con lo schermo che è uno degli stratagemmi usati dal regista (la così detta «interpellazione») per coinvolgere
chi guarda il film e condurlo passo passo lungo i vari episodi.
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La storia è quella di Tampopo, cuoca che cerca d’imparare l’arte culinaria e di scoprire la ricetta giusta per preparare in modo delizioso la
zuppa di tampopo (che, oltre al nome della protagonista e del suo locale,
è, prima di tutto, il nome di un fiore). En passant, tra le portate di piatti
più o meno invitanti, non mancano riflessioni sulla “filosofia del gusto”
– dal lancio di un nuovo menù al cambio di “stile” del locale – e sulla ritualità dei pasti; ma anche sul rapporto stretto tra cibo e sesso, e sull’arte
di degustare i ramen, i classici spaghetti giapponesi.
«Tutte le mattine guardo gli asparagi, il prosciutto, le patate e mi domando come filmare tutto ciò per mettere l’acquolina in bocca allo spettatore», affermava il regista durante la lavorazione del film. In diverse
sequenze, che vi divertirete a cercare, Itami tenta proprio di trasformare
il pubblico in personaggio della storia, accompagnandolo “mano nella
mano” lungo i vari episodi. L’obiettivo è quello di renderci partecipi della
storia narrata, fino alla sequenza finale, che strizza ancora l’occhio allo
spettatore. Il film si chiude con una scena di gusto, così come era stato
nell’incipit: la macchina da presa mostra l’immagine di una madre che
allatta il suo bambino e piano piano si avvicina a svelare il dettaglio
della bocca attaccata al seno materno.
E cos’è questo, se non un ritorno alla prima “degustazione” dell’esistenza umana?
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Zuppa di ramen
& Cerasuolo d’Abruzzo
In questo e in altri film che descrivono la cultura giapponese vi sarà capitato
di vedere uno dei personaggi ingozzarsi di strambi spaghetti, solitamente
pescati con le bacchette in legno direttamente da un barattolo. È l’instant
ramen, pasto decisamente frugale che vede protagonista una delle pietanze tipiche della tradizione nipponica a tavola: il ramen, ovvero gli spaghetti
fatti di frumento. La consistenza e gli usi sono molto diversi dai nostri: in
Giappone sono soliti mangiarli cotti in un brodo caldo, di pollo o di maiale
ma perfino di pesce.
La ricetta originale della zuppa di ramen è ovviamente più lunga e complessa
della versione del barattolo: se avete voglia di una cena diversa dal solito,
potete provarla. Vi serviranno una mezza cipolla, uno spicchio di aglio, erba
cipollina, zenzero, carne di maiale a fettine sottili, 1 o 2 uova sode, germogli
di soia freschi e un foglio di alga nori (facoltativo, anche perché difficile da
reperire) e 2 cucchiai di salsa di soia. Preparate un delicato soffritto utilizzando gli odori, uniti in padella allo zenzero, aggiungete la carne di maiale
e fatela rosolare per qualche minuto. Aggiungete il brodo, la salsa di soia e
fate proseguire pazientemente la cottura a fiamma media. Nel frattempo
lessate le uova e dividetele in parti uguali; quindi saltate i germogli di soia
in padella con sale e pepe, allungando con un po’ di brodo che è ancora sul
fuoco. I ramen andranno cotti in acqua bollente (ma non salata!) per circa 3
minuti e quindi uniti in capienti ciotole assieme al brodo bollente, guarnendo il piatto con gli spicchi di uova sode e i germogli di soia (quest’ultima è
una delle varianti che cambia a seconda delle diverse zone del Giappone).
Per abbinare un vino servirà un nettare equilibrato, capace di affrontare i sapori della carne di maiale e delle uova, senza però coprire quello del brodo.
Il consiglio giusto può essere quello di stappare un Cerasuolo d’Abruzzo
Doc, profumato rosato di medio corpo, dall’intrigante color ciliegia, dalle
note fruttate intense, che sarà capace di colpirvi per il suo retrogusto lievemente mandorlato.
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Soul Kitchen,
il cibo per l’anima
S
passoso come il protagonista, spensierato e intraprendente. Questo è Soul Kitchen del regista turco-tedesco Fatih Akin (2009). Soul,
«anima», più kitchen, «cucina»: fin dal titolo due temi chiave del film
sono uno accanto all’altro in un gioco di parole che richiama la celebre
canzone dei Doors. Ma si può davvero accostare l’arte culinaria alla profondità dell’animo?
È quello che prova a fare, con il suo stile di vita, il protagonista Zinos, un simpatico giovane greco con la passione per la ristorazione. “Soul
Kitchen” è il nome del ristorante-bettola di Amburgo di cui è proprietario, collante di mille vicissitudini e set ideale per far incontrare diversi
“casi umani”. Qui confluiscono le storie di Illias, il fratello di Zinos in
libertà vigilata e con il vizio del gioco, di Thomas Neumann, il compagno di scuola e agente immobiliare in cerca di speculazione, e di Lucia,
cameriera artista. E poi c’è Shayn, che darà la svolta alla storia: licenziato
da un ristorante di lusso per essersi rifiutato di scaldare il gazpacho, la
tradizionale zuppa spagnola a base di verdure crude da servire fredda,
il nuovo chef cambierà “anima” al ristorante, riempiendolo di piatti di
nouvelle cuisine.
Si possono forse convertire alla buona cucina i così detti «razzisti del
palato», cioè quei clienti abituati a cibi fritti e surgelati, pieni di panna,
da divorare in fretta all’uscita da lavoro? Questa è la sfida ambiziosa di
Shayn, che da grande artista dei sapori è ancora convinto di poter insegnare il buon gusto a colpi di piatti prelibati e dolci afrodisiaci. Così in
una scena emblematica vediamo Shayn cucinare a fianco di Zinos, insegnando a lui (e anche a noi) le consistenze, i colori e gli odori che stanno
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alla base del gusto. Poche immagini che mettono a nudo tutta la goffaggine di Zinos rispetto al maestro e in cui ad essere svelati sono i trucchi del
mestiere: la velocità del taglio, la compattezza dell’impasto, la magnifica
presentazione visiva dei piatti. E poi le quantità, sempre contenute.
Princìpi semplici che trasformano il vecchio “Soul Kitchen”, grigio e
senza personalità, con «quaranta piatti che hanno lo stesso sapore», in un
ristorante che ha tutto un altro colore, un’altra musica, e in cui si balla,
non a caso, a ritmo di soul. Se prima a regnare era lo stile culinario di Zinos, fatto di gesti approssimativi, di cibi appassiti e maleodoranti di fritto,
ora si respira davvero un’aria nuova.
Ad essere cambiata non è solo la cucina: sarà anche il padrone, sembra
suggerire il regista Akin, strizzando l’occhio agli spettatori? Se osserviamo il percorso di Zinos, non ci sono dubbi: il finale è l’occasione perfetta
per ricordarci che con passione e creatività si può davvero mettere sul
piatto “l’anima” del cibo. Serve essere pronti a cambiare se stessi, grande
determinazione e un pizzico di pazzia. Ingredienti che non mancano certo al nostro Zinos…
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Ribollita & Chianti Classico
Gazpacho caldo? Sarebbe come chiedere di scaldare il riso freddo o, in Toscana,
di passare in forno la panzanella! Possiamo però trovare un compromesso,
attraverso un piatto che per colori, ingredienti e tradizione è una sorta di
alter ego di quello spagnolo tipico dell’Andalusia.
È la ribollita, ricetta simbolo della tradizione contadina toscana, che una volta
si cucinava al venerdì utilizzando gli avanzi, per poi riproporla – appunto
bollendola di nuovo – anche nei giorni a seguire. Oggi come ieri si consuma soprattutto in inverno, utilizzando pane raffermo e verdure di stagione
(non fate mancare cavolo nero e fagioli cannellini), a cui poi aggiungere un
generoso filo d’olio extravergine d’oliva (perfetto se nuovo) e un tocco di
cipollotto fresco a crudo.
La ribollita è perfetta per una domenica fredda, in cui potete sicuramente trovare il tempo necessario (circa due ore) per provare ad emulare la nonna e
scaldare la vostra anima in compagnia di chi volete. A questo punto completate il tour toscano anche al momento di stappare una buona bottiglia di
vino rosso. Quale? Beh, in questo caso scegliete un Chianti Classico, preferibilmente ancora giovane per esaltare le note tanniche, in cui l’uva Sangiovese è grande protagonista: è l’abbinamento ideale.
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La cena,
il piacere “italiano” del chiacchierare
S
arete entrati anche voi almeno una volta in una tipica trattoria romana, magari a contatto con un campionario variegato di “casi umani”
a chiacchiera davanti ad un bel piatto di pasta o un carciofo alla giudia...
Ecco, vi sembrerà di rivivere la stessa atmosfera in un film che è diventato
uno degli emblemi dell’italianità a tavola: La cena di Ettore Scola (1998) è
di quelle pellicole che “speluzzicano” le pietanze e le sfiorano appena con
gli occhi. In effetti tutta la storia potrebbe essere letta come una sorta di
camminata tra i tavoli, perfetta per orecchiare i commenti dei vicini di
sedia, prima di lasciarsi andare ad un assaggio fugace con la forchetta.
Il gusto come strumento di conoscenza: solo a tavola, ci insegna il
maestro Scola, si può entrare in confidenza con gli altri con tanta facilità.
Perché ci si lascia andare, si apre ciò che abbiamo di più prezioso, la bocca, non solo per mangiare, ma anche per discorrere e confidarsi.
Con un movimento continuo dello sguardo, la macchina da presa si
sposta rapidamente da un tavolo all’altro tra una quarantina di clienti del
ristorante “Arturo al Portico”. Ma c’è un personaggio, tra le tante situazioni tratteggiate, che rappresenta il vero collante della narrazione: il Maestro, un bravissimo Vittorio Gassman che ha talento per l’arte oratoria, e
dalla sua l’esperienza e il fascino di un uomo di una certa età che riesce ad
entrare in sintonia con chiunque passi a un metro di distanza. Un uomo
che conosce a memoria il menù, ma che si prende comunque il tempo di
leggerlo accuratamente, prima di ordinare il solito riso in bianco: a che
servirebbe altrimenti «il piacere di avere fantasia?».
L’incontro in cui Scola mostra tutta la sua sensibilità poetica è proprio
quello che vede protagonisti il Maestro e la “ristoratora”, Flora, la mo-
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glie del proprietario (una bellissima Fanny Ardant). Un dialogo a suon
di galanterie: «Per essere felici non basta sognare di essere re, bisogna
anche incontrare qualche regina», è il primo approccio di Gassman, con
un inchino, entrando nel ristorante. Cui risponderà lei con un’arguta osservazione: «Quando gli uomini parlano con una donna, si vergognano
di mostrare una qualità che pensano sia solo femminile, la grazia. Alcuni
di voi altri non se ne vergognano, ma siete pochini…».
È inutile raccontare tutti gli intrecci e i personaggi del film; vi lasciamo
con piacere la sorpresa di trovare all’opera alcuni degli attori più celebri
della cinematografia italiana, e di assaporare le storie una ad una. Vicende
di vita “reale”, all’insegna delle meschinità quotidiane, condite di tanto in
tanto dalle perle di saggezza del capo chef Duilio, come «prima di essere
camerieri, bisogna essere uomini», o «chi non sa, non è».
La cena è un film che in apparenza si sofferma sui menù, sulle portate e sulle abitudini gastronomiche del Bel Paese, ma che in realtà svela
con particolare precisione vizi e virtù di una borghesia italiana in lento e
graduale declino di valori. La chiosa ideale sta tutta nelle sagge parole di
Gassman, che spezzano ancora una volta il brusio di fondo: «Il cibo e le
bevande simboleggiano la stessa condizione umana». Quindi «il consumo di un pasto, a una tavola qualunque di estranei o di amici, contiene
qualche cosa che ha più a che fare col cuore che non con lo stomaco. D’altronde ‘convivialità’ vuol dire vivere con gli altri».
E se il gusto ha davvero a che fare con il cuore, il film non poteva che
chiudersi sull’immagine di una “visione”, al limite tra il sogno e la realtà,
da parte del commensale più piccolo. Quasi a ricordarci che il futuro non
è nelle mani dei grandi, ma (per fortuna?) nell’immaginazione delle nuove generazioni.
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Carciofi alla giudia & Prosecco Superiore
La romanità a tavola può avere mille declinazioni. Alcuni piatti che si trovano
nei menù dei ristoranti di Trastevere sono ormai capisaldi della tradizione
italiana. Pensiamo all’unione degli spaghetti (o meglio ancora dei bucatini)
con i saporiti sughi alla carbonara, all’amatriciana o alla gricia. Piatti semplici,
schietti, diventati parte integrante delle nostre abitudini a tavola. Sulla scia di
queste tradizioni, il film rievoca una ricetta genuina che, se la stagione ve lo
permette, potrete scegliete di gustare: quella dei carciofi alla giudia. Sono
semplicemente fritti ma vengono così chiamati per la loro diffusione partita dal ghetto ebraico di Roma. Qui, le massaie sceglievano nei banchi del
mercato la “mammola” (“cimaroli”), qualità di carciofo tipica del Lazio, particolarmente tenera, dalla forma più rotonda degli altri e, soprattutto, priva
di spine, per preparare la ricetta al tempo della ricorrenza di Kippur, la festa
dell’espiazione caratterizzata da un giorno di digiuno totale in cui ci si dedica
al raccoglimento e alla preghiera. Dopo 24 ore senza cibo, ecco che i carciofi
alla giudia venivano assaporati in tutta la loro bontà. Come si preparano? È
molto semplice: pulite i carciofi, togliendo il gambo e conservando la parte
più morbida come a dare all’ortaggio la forma di una rosa. Lasciateli a mollo
per qualche minuto in acqua e limone e poi, dopo averli ben scolati e allargati delicatamente, immergeteli in una padella con abbondante olio caldo
(meglio se non bollente). Friggeteli per poco più di 10 minuti, così da salvaguardare la loro croccantezza; quindi toglieteli dal fuoco e fateli raffreddare
capovolti. Condite con sale e pepe e servite a tavola.
Al momento del vino riflettete bene: i carciofi sono una delle pietanze più complicate da abbinare. Le loro note “amaro-metalliche” non aiutano, anzi. Ma se
desiderate tentare qualcosa di diverso provate con le bollicine di Prosecco
Superiore di Conegliano Valdobbiadene Docg. Il giusto equilibrio tra effervescenza e acidità risulterà determinante per preparare la bocca al successivo e gustoso boccone…
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Ricette d’amore,
è la fantasia che “vince” in cucina
U
no psicanalista, taccuino alla mano, ascolta attentamente, mentre la paziente è stesa sul divano e racconta il suo flusso di pensieri. Sarà forse l’inizio di una delle divertenti gag di Woody Allen? No,
è la scena che apre Ricette d’amore (Bella Martha, 2001), film d’esordio di
Sandra Nettelbeck.
Fin qui niente di strano, vi direte. Se non fosse che la confessione della
donna al terapeuta si riduce a un elenco dettagliato di segreti per cucinare il piccione. Ci deve essere qualche problema, e lo capiamo subito:
Martha è ossessionata dal cibo. Beh, si dirà, in fondo è una cuoca. Il fatto
è che la protagonista sembra del tutto incapace di vivere al di fuori dei
piatti che prepara: è tutta casa e lavoro, inerme di fronte alla vita. Dentro
il ristorante di Amburgo, la vediamo all’opera con i suoi tagli di precisione e con gesti di una meticolosità maniacale - quasi fosse un chirurgo che rivelano un carattere insicuro e arido di emozioni.
Il cibo come metafora di sentimenti? Sembra proprio di sì: bello ma
freddo quello di Martha, solare e improvvisato quello di Mario, lo chef
italiano (Sergio Castellitto) che un bel giorno sarà assunto nel ristorante
e le scombinerà tutti i piani, culinari e non solo.
Al centro della storia c’è anche Lina, la nipote di Martha: un duro banco di prova per la protagonista, chiusa com’è nel suo mondo fatto solo di
ricette, e incapace di allevare la bambina da sola, dopo la morte improvvisa della sorella.
Riusciranno i piatti ricercati di Martha a far tornare l’appetito alla piccola che non ne vuole sapere di mangiare? «Il bravo cuoco si capisce nei
piatti più semplici», dice Mario accennando ai suoi spaghetti pomodoro
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e basilico. Sarà proprio il suo stile spensierato a prendere per la gola Lina
e a farle tornare il sorriso, insieme alle canzoni italiane che risuonano ai
fornelli con l’arrivo del nuovo chef, emblema di quella leggerezza e fantasia portata da Mario nella fredda cucina di Martha.
Come andrà a finire? Nel finale ritroveremo Martha e lo psicanalista
uno accanto all’altro. Possibile che non sia cambiato niente rispetto all’inizio? A ben guardare, qualcosa di diverso c’è: i ruoli si sono invertiti, ora
è la chef ad assaggiare la torta cucinata dall’altro. «Ho seguito scrupolosamente la sua ricetta passo per passo», dirà il dottore. Eppure qualcosa non
sembra funzionare: ma siamo sicuri che, come ipotizzano i due, sia “solo”
lo zucchero l’ingrediente sbagliato? Non sarà forse colpa di quella parola
magica (l’amore) che è già nel titolo del film?
Post scriptum, per i più curiosi: se a qualcuno è sembrato di riconoscere nelle trame dei personaggi una storia già nota, non è solo un déjà
vu. Non vi preoccupate, non siete anche voi nel bel mezzo di una terapia.
È solo perché del film esiste un remake: Sapori e Dissapori (No Reservations, 2007) di Scott Hicks. Cambia l’ambientazione – ci siamo spostati a
Manhattan – e sono diversi gli attori: Kate (Catherine Zeta-Jones) e Nick
(Aaron Eckhart). Rimangono invece i battibecchi e un gusto della vita
che non si sa dov’è andato a finire. E poi in Sapori e Dissapori si conferma
un’altra grande verità: che sono sempre «le ricette che uno si inventa» a
funzionare meglio.
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Spaghetti al pomodoro & Frappato
Sul terrazzo di casa, specie se il sole vi omaggia dei suoi raggi, conviene tenere
una pianta di basilico. Per tanti motivi. Il suo profumo è affascinante per noi
umani. Meno per alcuni insetti fastidiosi che non ne gradiscono l’intensità
e quindi ne stanno alla larga. Ma soprattutto per la sua versatilità in cucina.
Facile pensare al pesto alla genovese in cui è assoluto protagonista.
Dopo Ricette d’amore, però, c’è voglia di riproporre un piatto ancora più semplice, buono e sano. Gli spaghetti al pomodoro! Banale e facile, direte voi.
Può esserlo solo se non ne avete assaggiato la versione come “dio comanda”. Consiste nello scegliere accuratamente pomodori freschi e dolci che
solo la terra e la stagione ad hoc possono proporre: della serie non potete
cavarvela con un barattolo qualsiasi. Gli altri ingredienti indispensabili sono
uno spicchio d’aglio (o cipolla se la gradite di più), olio extravergine d’oliva,
un pizzico di sale, il “nostro” basilico e ovviamente gli spaghetti n° 5. Anche
con il basilico siate accurati: scegliete solo le foglie migliori, passatele poi
sotto l’acqua fredda e aggiungetele a cottura ultimata sul piatto, prima di
metterlo in tavola.
È o non è una ricetta che trasmette amore? Non a caso tutto il mondo ce la
invidia. Così come gli americani, da quando lo hanno scoperto, vanno matti
per il Frappato, vitigno autoctono siciliano, che si trova sul mercato nella
versione in purezza o assieme al Nero d’Avola per comporre il Cerasuolo di
Vittoria Docg. È un vino che affascina per i suoi profumi fruttati, che ricordano il lampone e la fragola, e per il suo sapore schietto, entrambi esaltati se il
vino è servito fresco. L’estate e l’amore: chiedete altro?
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Chocolat,
i poteri magici della cioccolata
S
e vi capita di vedere un canguro saltellare su una zampa davanti la
vostra porta di casa, non è detto che sia solo un sogno. Forse avete
in mente Pantoufle, il simpatico animaletto che si aggira tra i vicoli di
Lansquenet, piccolo villaggio della Francia. Alzi la mano chi non ha mai
visto Chocolat (2000) di Lasse Hallström, uno dei film più “gustosi” della
storia del cinema. Il regista svedese si ispira al romanzo della scrittrice
Joanne Harris e sceglie come protagonisti Juliette Binoche (la cioccolataia Vianne) e Johnny Depp (lo zingaro Roux), per raccontare una vicenda
tra favola e realtà.
Siamo a fine anni ‘50, nel paesino regna la tranquillité. È il vento irrequieto del Nord a scombinare la quiete degli abitanti, portando “in dote”
Vianne e i poteri magici del cioccolato. A risvegliare l’intera comunità
assopita nelle solite abitudini sarà prima l’apertura della cioccolateria
“Maya”, poi l’arrivo di un barcone di nomadi, capitanato da Roux, che
un bel giorno attraccherà sulle sponde del fiume a portare feste e buona
musica.
Due personaggi, Vianne e Roux, troppo carismatici per passare inosservati. Su loro si concentrano gli occhi di tutto il paese, compresi quelli
del sindaco, l’incorruttibile conte De Reynaud, che con la sua campagna
contro l’immoralità cercherà in tutti i modi di allontanare il barcone e di
boicottare la cioccolateria.
Ma il cioccolato è più forte di qualsiasi pregiudizio: servito freddo,
come nei deliziosi cioccolatini del Guatemala, tiepido, come ingrediente
base di soffici torte, oppure bollente, nella ben nota cioccolata calda, riuscirà pian piano a far “sciogliere” gli abitanti. Vecchi, bambini, persino
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gli animali non sapranno farne a meno: chi si lecca i baffi, chi si pulisce
le dita sporche di cioccolata, chi riscopre passioni dimenticate. Come resistere alle ampie volute scure dell’impasto o alle torte impreziosite di
mandorle e nocciole?
Agli spettatori l’ingrato compito di sentir crescere l’acquolina in bocca,
senza poter assaggiare niente, di fronte alle immagini delle fasi di preparazione: dalla rottura dei semi di cacao in polvere alla miscelazione lenta
degli ingredienti, fino alla scelta delle spezie che danno il tocco finale al
sapore. «Come si fa a sapere se la glassa è ben stemperata?», domanda
la protagonista Vianne a Josephine per vedere se l’amica ha capito i suoi
consigli: «Prima controlli se è a temperatura corporea, e dopo intingi la
spatola per vedere se la glassa indurisce in modo omogeneo».
Questo film, fin dal titolo, è un inno alla cioccolata e al mestiere del
chocolatier. Gusto, amore, fantasia: in questa miscela di ingredienti non
potevano certo mancare la passione e la magia: ad introdurle la voce fuori
campo del narratore, che ci svela che «i Maya credevano che il cacao avesse il potere di liberare i desideri nascosti e di svelare il destino».
Nell’arte di Vianne di «capire i gusti delle persone», saprete anche voi
indovinare qual è il cioccolato preferito di Roux, e dove porta il suo destino? Riuscirà mai a fermarsi, o continuerà ad andare sempre di salto in
salto, in cerca di nuove avventure, come il caro Pantoufle?
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Tagliatelle al cacao
& Morellino di Scansano
Dopo la torta al cioccolato di Vianne e l’avvolgente cioccolata calda con peperoncino e panna montata potreste avere voglia di assaltare la dispensa a
caccia di un dolce. Attenzione, però, con Chocolat le calorie si possono assimilare direttamente dallo schermo! Noi ci immaginiamo la visione del film
in una prima serata autunnale, quando il fresco risveglia la voglia di sapori
più forti e schietti, temporaneamente abbandonati solo per via del caldo
estivo. Per questo, vogliamo usare il cioccolato in una declinazione diversa:
le tagliatelle al cacao, con funghi porcini e granella di castagne. È un piatto
goloso, che esalta due prelibati frutti dell’autunno.
Un consiglio: per calibrare bene l’amaro che il cacao (servono 2 cucchiai) potrebbe dare alla pasta fresca, aggiungete una parte di farina di farro a quella di grano duro. Per il sugo occorrono delle castagne precedentemente
bollite e ridotte in granella mentre i funghi porcini freschi (se avete fiuto,
uscite a cercarli nel bosco) vanno saltati in padella con uno spicchio d’aglio
in camicia e sfumati con vino bianco ed un tocco di brandy.
Concedetevi un generoso calice di Morellino di Scansano, interpretazione delle
uve Sangiovese della Maremma grossetana dove questa denominazione
si è affermata a partire dalle fine degli anni ’70. I tannini dell’uva verranno
ammorbiditi proprio grazie all’azione del cacao.
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Pranzo di Ferragosto,
i sapori della “terza età”
U
na calda Roma di mezz’agosto, svuotata e silenziosa, affascinante
come nell’affresco de La grande bellezza, ma senza gli eccessi del
film di Sorrentino. È questo lo sfondo del film Pranzo di Ferragosto di
Gianni Di Gregorio (2008), un delizioso “saggio” sulla terza età che ci
racconta un gusto nascosto tra le righe del quotidiano.
Davanti a noi troviamo Gianni (regista della pellicola e insieme attore
protagonista), uomo sulla sessantina che ha un solo impiego giornaliero:
occuparsi di una madre a dir poco capricciosa. A questa si aggiungono,
per il ponte di Ferragosto, tre esuberanti “nonnine”, parcheggiate a casa
sua dall’amministratore del condominio e dal medico di famiglia. Una
situazione “esplosiva” che turberà presto la quiete del povero Gianni, alle
prese con un gruppo di vivaci signore di una certa età cui far da balia.
Un uomo sull’orlo di una crisi di nervi, per parafrasare un celebre film
di Almodovar? Niente di tutto questo, perché la serenità e un approccio
“gustoso” alla vita sembrano essere invece i tratti distintivi di Gianni. Nelle prime sequenze lo vediamo ad esempio sorseggiare un bel bicchiere di
vino bianco per rinfrescarsi dall’afa estiva e poi passeggiare tra i banchi
del mercato alla ricerca di frutta e verdura. Un rapido annusare al melone e poi via, di rientro dall’anziana madre, facendo sempre attenzione al
prezzo: se nel ménage familiare i due faticano infatti a tirare avanti, guai a
rinunciare però ai piaceri del palato. Anzi, per concedersi un pasto come
si deve, saranno pronti anche a chiedere prestiti e favori.
Fortemente autobiografico, il film racconta episodi di vita comune in
cui il gusto non è mai ostentato, racchiuso com’è nei gesti semplici dello
chef Gianni ai fornelli, intento ad assecondare le esigenze delle vecchiette.
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Una quotidianità fatta di intolleranze alimentari, medicine per la digestione, bevande proibite, pomodori cotti che la sera danno acidità. Senza dimenticare, alle dieci in punto, l’aspirina per tutte, prima della camomilla.
Momenti di tutti i giorni da assaporare con lentezza: tra le sequenze
indimenticabili, quella in cui Grazia, allergica al latte e al formaggio, di
notte andrà a mangiare di nascosto tutta la pasta al forno «con la crosticina» cucinata da Maria, piena di mozzarella. Che dire poi dell’episodio di
Marina, che rifiuterà di sedersi a tavola con le altre per scappare di casa e
godersi da sola una cena al ristorante, di fronte a una bella birra? L’esuberanza delle vecchiette a contrasto con il ritmo monotono della silenziosa
estate romana.
Fino al pranzo finale, il giorno di Ferragosto: ritroviamo Gianni in cucina a sbucciare le patate e a preparare con la solita delicatezza e passione
le trote appena pescate dalle acque del Tevere. «Viva questo pranzo tanto
buono», diranno alla fine le commensali, estasiate a tal punto da rimandare la partenza e chiedere, al momento del congedo, di rimanere ancora.
Potere di uno chef che ha cucinato tutto con amore e di un gusto semplice
fatto di piccoli gesti quotidiani.
«Stasera, signore, però facciamo una cosa leggera: un brodino vegetale» è l’ultima battuta di Gianni. «Col parmigiano», però, puntualizza
Grazia: tanto per non smentirsi, perché la gola vuole la sua parte. Anche
quando si è “in là” con gli anni…
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Melanzane alla parmigiana
& Franciacorta Rosè
L’immagine del Ferragosto in spiaggia, con la borsa carica di bontà da mangiare
sotto l’ombrellone, è probabilmente (e purtroppo) un po’ sbiadita nell’immaginario collettivo. Il fascino è però ancora intatto e il film di Gianni Di
Gregorio, in qualche modo, serve a riscoprirlo, specie immaginando quelle
ricette da assaporare direttamente sul bagnasciuga. Quella di preparare abbondanti fagotti carichi di sapori di ogni genere da portare in riva al mare è
un’arte sapiente e che, specie nelle regioni del Sud Italia, trova le migliori e
più genuine interpretazioni.
Tra le tante opzioni possibili, ne scegliamo una che probabilmente rappresenta
un’icona del Belpaese a tavola: le intramontabili melanzane alla parmigiana.
Ovviamente, come tutte le tradizioni campanilistiche italiane, ogni famiglia
custodisce la ricetta migliore e più gustosa. Basti pensare che si contendono
la sua creazione almeno tre regioni: Emilia Romagna, Campania e Sicilia, con
quest’ultima forse terra più generosa per quanto riguarda l’attore protagonista (la melanzana, appunto) nonché per l’abbondanza di ingredienti che,
giocoforza, le rendono un po’ “pesantucce” ma sicuramente gustosissime.
Oltre al Parmigiano Reggiano, i siciliani aggiungono infatti anche un po’ di caciocavallo, ideale per fondersi con il pomodoro maturo e le melanzane rigorosamente fritte. Come abbinamento vinicolo suggeriamo un Franciacorta
Rosè, pregiato Metodo Classico della zona di Brescia a base di uve Pinot
Nero e Chardonnay. La versione Rosè dona a questo vino, meritatamente
definito lo Champagne italiano per la sua struttura e sapidità intensa, ulteriore corpo e vigore che lo rendono ideale per accompagnare piatti saporiti
e robusti come le nostre melanzane di Ferragosto. Ovviamente, poi, dimenticatevi di fare il bagno…
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Il cuoco, il ladro,
sua moglie e l’amante,
il gusto a tinte nere
I
nsieme a La grande abbuffata, è uno dei classici a tinte fosche che non
tramonta mai: Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante di Peter Greenaway (The Cook, the Thief, His Wife & Her Lover, 1989) è un film intrigante
come un romanzo noir, per chi non ama certo le mezze misure.
Se esiste uno humour nero, forse in questo caso si potrebbe coniare il
termine di “gusto nero”, perché la storia si sviluppa tutta intorno all’intreccio di cibo, sesso e morte. Uno schiaffo in faccia: all’ipocrisia e anche
al buonismo che è in ognuno di noi. Sì, perché tutti i sentimenti più meschini sono qui all’opera: vendetta, ingordigia, odio…
Dovremmo forse chiudere gli occhi di fronte alla malvagità umana?
Oppure affrontarla di petto, senza paura? Ecco allora di fronte a noi le
“gesta” del criminale Albert Spica, che ama cenare con la moglie Georgina e la sua gang nel lussuoso ristorante londinese di cui è comproprietario
con lo chef francese Richard.
C’è poco da tenere segreto: il titolo svela già chi sono i protagonisti
del film. Nell’aria si respira così fin da subito profumo di tradimento: un
amante farà la sua comparsa in scena e prenderà le sembianze di un libraio, Michael.
Fulcro del film è il ristorante, tratteggiato con colori e contorni degni
di un quadro, nell’ossessiva ricerca di riferimenti pittorici di un maestro
della composizione fotografica come Greenaway. E proprio nel locale Albert potrà dare libero sfogo ad una brutalità fatta di insulti alla moglie e
ai clienti e ad una materialità che si traduce in puro eccesso.
Così il ristorante diventa il set dove si celebra l’ambiguità ossessiva
tra vita e morte, tra gusto e disgusto, e in cui a farla da padroni sono il
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corpo (sempre protagonista, nel bene e nel male) e il colore, nel continuo
alternarsi di luci spettrali che vanno dal viola al verde al rosso. E poi ovviamente il nero, scelta stilistica, ma anche fosco presagio. In un dialogo
divenuto ormai celebre, il cuoco Richard rivela: «Io chiedo di più per
tutto quello che è nero: uva nera, olive nere, ribes nero. La gente in genere
ama ricordarsi della morte. Mangiare pietanze nere è come consumare la
morte. È come dirle: ‘Morte ti sto mangiando’». Ecco perché le pietanze
nere sono quelle più costose e perché ritornano con costanza nel film.
Fino ad arrivare all’epilogo, che sfocia nel cannibalismo, tabù che accompagna da sempre la storia dell’umanità, e che ha anche un ricco filone cinematografico (pensate a La carne di Marco Ferreri oppure a Delicatessen
di Jean-Pierre Jeunet e Marc Caro).
Un film grottesco, simbolico, tutto giocato sul contrasto tra rappresentazioni appetibili e disgustose: così, nel menù, il pesce (poisson, in
francese) nell’approssimativa pronuncia inglese di Albert si trasforma in
pericoloso poison (veleno): il cibo si fa vita e morte nello stesso tempo.
Un’opera per stomaci forti, provocatoria, per ricordarci che il cibo si
fa anche metafora di una civiltà “carnivora”, che produce continuamente
prodotti e li divora alla velocità della luce. Forse proprio per questo un
film da vedere, disgustoso per la pancia quanto catartico per l’anima.
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Tortelli zebrati al nero di seppia
& Erbaluce di Caluso
Oltre che al cinema è ricchissimo anche in letteratura il ricorso ad un ruolo quasi
determinante per il cibo. Il genere in voga è quello del food noir in cui si
addentrano numerosi e famosi autori, sviluppando trame che vedono protagonisti scaltri detective o sornioni ispettori, famelici e soprattutto dediti ad
una sconfinata passione per il cibo. L’elenco è lungo, basti ricordare il “nostro” commissario Montalbano, Pepe Carvalho oppure i più vintage Maigret
e Nero Wolfe.
Il nero a tavola può avere numerose interpretazioni ma il film appena visto fa
pensare ad un ingrediente molto particolare: il nero di seppia. Se il risotto è
uno dei piatti più classici, solleticando la fantasia potrete assaggiare i tortelli
zebrati al nero di seppia, ripieni di gamberi e salmone affumicato.
Preparate, secondo la classica ricetta, l’impasto per i tortelli. Ve ne serviranno
due però, uno tradizionale, e uno con l’aggiunta del nero di seppia. L’incrocio tra le due diverse sfoglie – bello anche per gli occhi – darà vita ai tortelli “zebrati” che taglierete a misura e riempirete con il composto di pesce,
precedentemente passato in padella con un filo d’olio e cipolla e quindi
sfumato al vino bianco. Siate generosi con il pesce, così che con l’avanzo del
ripieno potrete guarnire i piatti da portare in tavola come fossero un quadro
su cui indugiare il vostro sguardo. Per il vino andiamo in Piemonte, terra di
grandi rossi ma anche di uno straordinario bianco. L’Erbaluce di Caluso, pregiato nettare di cui si hanno notizie fin dal 1600 e che deve il nome al colore
che assumono gli acini in autunno, quando i riflessi rosati e caldi si fanno più
intensi, ambrati, specie nelle parti esposte al sole. Docg dal 2010, l’Erbaluce
è un vino elegante che vi sorprenderà: al comune giallo paglierino del suo
colore, seguirà poi un profumo raro e delicato, capace di ricordare i fiori di
campo e conquistare il vostro olfatto, preparando quindi la bocca ad un
viaggio tra aromi freschi, secchi ed equilibrati. L’ideale, quindi, per “ripulire”
la bocca da ogni traccia “sospetta”…
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Bottle Shock
e le nuove frontiere del vino
N
el verde di colline che si perdono a vista d’occhio, preparatevi a
planare a volo d’uccello tra i filari al tramonto del dolce paesaggio della Napa Valley. In Bottle Shock (2008) di Randall Miller a farla da
padrone sono le vigne e le uve californiane: un tuffo nell’universo dell’enologia è quello che vi attende e ne vale la pena, se volete davvero imparare qualche segreto di quella «luce del sole tenuta insieme dall’acqua»
che, citando Galileo Galilei, risponde alla definizione di «vino».
Ma partiamo da lontano, dal 24 maggio del 1976. Qualche appassionato del settore forse avrà sentito parlare del «giudizio di Parigi» o della
«degustazione del ‘76». Davvero in pochi sanno quello che successe quel
24 maggio e il film di Miller può servire a rinfrescarci la memoria. È la
data di un celebre concorso che ha marcato un passaggio storico: una
degustazione “alla cieca” dei migliori vini statunitensi e francesi che ha
sancito il primo successo di una bottiglia made in USA.
In Bottle Shock tutto parte da qui, e in particolare dall’idea del protagonista – il British man Steven Spurrier interpretato da Alan Rickman – di
farsi un bel giro in California per aprirsi ai gusti d’oltreoceano e arricchire
così i sapori della sua enoteca parigina. Se all’inizio del suo viaggio sarà
accusato di snobismo, per quel senso di superiorità che da sempre caratterizza la “vecchia” Europa quando si parla di vino e di tradizioni, Steven
ne uscirà con uno spirito rinnovato, libero dai cliché e smanioso di indire
un concorso sui generis al rientro in Europa.
Sulle note di Maria Callas, le immagini ci portano nel cuore delle cantine americane più affascinanti, tra enormi botti di legno, a tu per tu con
coltivatori – come Gustavo – che il sapore della vite ce l’hanno nel san-
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gue e il marrone della terra ben visibile sotto le unghie. La pellicola è un
viaggio nei caldi territori californiani, alla ricerca di sapori insoliti; ma è
anche un percorso sorprendente che ci porta a scoprire la storia di una
famiglia e di una cantina della Napa Valley, quella di Mister Barrett e della sua Montelena Winery.
Non mancheranno anche i colpi di scena, come l’imprevisto che dà il
titolo al film. Lo “shock da bottiglia” è quello strano fenomeno che, per
un’ossidazione anomala, vede il deterioramento temporaneo dei vini imbottigliati da poco: è mai possibile che uno Chardonnay perfetto si possa
trasformare in vino rosso, per poi tornare al colore originario, senza perdere l’eccellenza del suo sapore? Succederà anche questo, e non sarà certo
per un gioco di prestigio…
Ecco che il titolo, con evidente doppio senso, finisce per richiamare
uno shock ancor più grande: per tornare alla degustazione di partenza,
chi avrebbe mai scommesso sulla vittoria di un vino americano, davanti
a una giuria 100% francese? La storia ci testimonia che a prevalere fu
proprio il signor Barrett con il suo Chateau Montelena del 1973. Così la
vinificazione d’avanguardia californiana per la prima volta avrà la meglio
sulla scuola europea e dal ‘76 il mondo del vino non sarà più lo stesso e si
aprirà ai nuovi terroir e alle nuove frontiere.
«Questo è solo l’inizio», dirà il protagonista nel finale, elencando paesi
emergenti come la Cina, l’Australia e il Sud America: ha proprio ragione,
«benvenuti nel futuro!».
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La “ghiacciata”
& Blanc de Morgex et de la Salle
Esiste una pietanza ghiacciata? Il gelato, direte voi. Beh, vero. Noi, dopo questo
film, abbiamo voglia di stupire e per questo motivo prendiamo in prestito
la ricetta della “ghiacciata” del “cuciniere errante” Carmelo Chiaromonte. Lo
diciamo subito: il piatto, questa volta, non servirà. Ci vorranno alcuni bicchieri. Sì, anche per mangiare.
Vi serviranno, se siete in due a condividere la ricetta, 200 grammi di spaghettini,
uno spicchio d’aglio, basilico fresco, olio extravergine d’oliva e tre pomodori
rossi grandi con cui preparare una salsa, da congelare già salata. È tutto molto facile: cuocete la pasta, non troppo al dente. Nel frattempo, pulite l’aglio
e dividetelo a metà così da strofinarlo nelle pareti interne di un capiente
calice da vino (ad esempio quelli a forma di tulipano).
Conclusa la cottura, scolate la pasta e passatela sotto dell’acqua fredda per un
paio di minuti. Aiutandovi con un forchettone, raccoglietene un po’ e inseritela all’interno del calice. A questo punto conditela con l’olio e mischiate
bene il tutto, così da far prendere alla pasta il profumo d’aglio. Aggiungete i
cubetti di salsa di pomodoro, che avrete tirato fuori dal congelatore qualche
minuto prima, e qualche foglia di basilico. Et voilà: la “ricetta shock” è servita!
Negli altri calici, servite il Blanc di Morgex et de la Salle, il vino che nasce dal
vitigno più alto d’Europa, il Prié Blanc, coltivato tra i 900 e i 1200 metri di
altitudine ai piedi dei ghiacciai del Monte Bianco, in Valle d’Aosta. Un vino
straordinariamente minerale e aromatico, che ha alle spalle una storia fatta
di resistenza e coraggio. All’inizio del ’900 le viti d’Europa furono sterminate
dalla fillossera. Non quelle della Valle d’Aosta, che si salvarono perché il parassita fu fermato dal freddo. A partire dagli anni ‘60 un parroco della zona
seppe coglierne le grandi potenzialità, decidendo di affinarlo e imbottigliarlo. Oggi è un grande vino, pluripremiato e apprezzato: sorseggiatelo con
cura, così da apprezzare la sua freschezza e la sua leggera effervescenza.
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Secondi
piatti
Mangiare bere uomo donna,
alla ricerca del gusto perduto
«H
o perso il palato. Dunque è col cuore che gusto i cibi che
mangio» dice il vecchio maestro Chu, famoso cuoco di
Taiwan, che sta perdendo sensibilità nelle papille gustative e si trova costretto a giudicare i piatti che cucina osservando le reazioni degli altri.
Mangiare bere uomo donna del regista Ang Lee (Yinshi Nan Nu, 1994) ci
consegna una riflessione sulle “soglie” che fanno accedere al sapore: per
tutto il film vediamo lo chef Chu vagare “alla ricerca del gusto perduto”,
interpretando le smorfie degli altri come riflesso di una sensazione gustativa che a lui, con il passare degli anni, non è più concessa.
Di fronte ai nostri occhi si avvicendano piatti prelibati, dai ravioli al
vapore ripieni di polpa di granchio alla zuppa di melone bianco, dalla
“Fantasia di ali di drago” con pinne di pescecane alla carpa in salsa d’aglio: cibi raffinati che rappresentano «una festa degli occhi, dell’olfatto e
del palato», e che mettono proprio l’acquolina in bocca.
L’unico giudizio di cui si può fidare pienamente il maestro Chu è quello dell’amico cuoco Wen, che però verrà presto a mancare, lasciandolo
in bilico tra gusto buono e gusto cattivo, tra piatti insipidi o troppo cotti.
«Mangiare, bere, uomo, donna. Cibo e sesso, caro mio. Desideri fondamentali dell’uomo, non se ne può fare a meno. Ma è tutto qui? Questa me
la chiami vita, tu?», si chiederà il protagonista. Il titolo del film rimanda,
infatti, a un vecchio proverbio cinese che riassume i quattro “ingredienti”
di base che esprimono le necessità della vita. Sì, perché dopo aver perduto la moglie ed essersi dedicato una vita intera alle tre figlie e alla cucina, imprigionando se stesso e le proprie emozioni, il vecchio Chu oltre
a cercare i sapori è anche alla ricerca di se stesso: «perché vivere non è
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come cucinare: non sempre possiamo permetterci di aspettare che tutti
gli ingredienti siano pronti per iniziare la cottura. E in ogni caso, dopo il
primo boccone, è il sapore l’unica cosa che conta».
Il gusto non è “soltanto” il senso mediante il quale si percepisce il sapore degli alimenti. Non a caso «sapore» viene dal latino sàpere, che in
origine voleva dire «avere sapore», ma che oggi finisce per significare
«avere conoscenza» (perché fa distinguere le differenze tra i vari cibi).
Ecco perché il cerchio sembra chiudersi nel finale, quando il protagonista, assaggiando la zuppa cucinata dalla figlia, si aprirà alle passioni che
teneva nascoste da anni. Un parallelo tra sapore culinario e sapore della
vita che ci svela una lettura metaforica: per saper vivere, sembra dirci Ang
Lee, non basta assecondare le pulsioni fisiche. Le necessità della vita non
possono essere “ridotte” ai quattro ingredienti base del proverbio cinese.
Serve anche aggiungere emozioni, amori, conoscenza: potere di una
zuppa, che con il suo “calore” umano, cucinata con amore dalla figlia prediletta, sembra in grado di ridare sapore e senso a una vita intera.
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Aragosta alla Catalana
& Vermentino di Gallura Docg
Il palato del maestro Chu si è risvegliato solo grazie all’amore e, finalmente, è tornato ad apprezzare tutti i sapori della sua straordinaria cucina. Vi siete mai
chiesti quanto può essere desolante per un cuoco – ma anche per un qualsiasi amante del buon mangiare – non riuscire ad apprezzare la sapidità o
la dolcezza di un cibo? Pensiamo che possa essere davvero triste ma, come
dice lo stesso Chu, si può comunque gustare grazie al cuore. Mangiare bere
uomo donna vi ha fatto venire fame grazie allo straordinario viaggio tra i
sapori e profumi della cucina orientale. Ma non solo. Il film infatti si sofferma
educatamente anche su un altro dei principali desideri della vita: il sesso.
Di pietanze capaci di stuzzicare più appetiti ce ne sono diverse: le ostriche, il riso
venere oppure le fragole o l’avocado. Provate però con un’aragosta alla
Catalana, seguendo fedelmente la ricetta affermatasi in Sardegna grazie
alla colonia di spagnoli catalani che si insediò nella zona di Alghero nel XIV
secolo. Dopo aver lessato in acqua bollente il pregiato crostaceo per circa
15 minuti, accompagnatelo con un piatto di verdure crude e croccanti, che
potete scegliere liberamente tra sedano, ravanelli, insalata belga, qualche
pomodorino, peperoni rossi e perfino cipolla di Tropea. Non fate mancare la
salsa vinaigrette per bagnare il tutto.
Come vino potete scegliere un Vermentino di Gallura Docg, che arriva dalle
terre sarde della zona di Olbia, Tempio e Sassari. Nettare dal buon corpo e
dall’ottima struttura, che ben si accompagna ai crostacei proprio per via della sua acidità. Se volete invece provare effetti simili alla mistura di ginseng e
cetriolo di cui si parla nel film, provate allora con una coppa di Champagne.
Più sensi si risveglieranno…
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Big Night,
il timballo di una grande notte
«A
volte gli spaghetti vengono da soli»: come si fa a spiegare
ad una coppia di americani che chiede gli spaghetti come
contorno per un bel risotto ai frutti di mare, che in realtà nella cultura gastronomica italiana è assolutamente proibito mischiare due amidi?
Una battaglia contro i mulini a vento è quella che si trovano a combattere
quotidianamente i due fratelli protagonisti di Big Night (1996) di Stanley
Tucci e Campbell Scott: Primo e Secondo Pileggi, emigrati negli Stati
Uniti a cercar fortuna, sono due cuochi – abruzzesi nella versione italiana, calabresi invece nella pellicola originale americana – il cui ristorante
italiano stenta a decollare.
Anni ‘50, cittadina del New Jersey: troppo difficile far apprezzare ai
palati americani un tocco di basilico sulla pasta al pomodoro. Per loro
sono e saranno soltanto delle “foglie” da scansare. E allora forse non sarebbe più conveniente scendere a compromessi e togliere dal menù il “dispendioso” risotto? Il più giovane dei fratelli vorrebbe cercare di assecondare i “facili” gusti americani e seguire le logiche del business.
«Se gli dai un po’ di tempo la gente s’impara!», è invece la filosofia di
Primo, incapace di vendersi l’anima al diavolo e sacrificare la tradizione
italiana per accontentare i palati “criminali” della clientela americana.
Se «la cognizione di Dio è il pane degli angeli», confida Primo tra i
fornelli, «chi mangia bene sta molto vicino a Dio»: ecco che, proseguendo la metafora religiosa, per toccare il Paradiso (“Paradise” è il nome del
ristorante) serve continuare a cucinare con il cuore i piatti della tradizione. Come le portate meravigliose che sfilano una dietro l’altra durante
la serata-evento (la “grande notte” del titolo) organizzata dai due fratelli
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per rilanciare il locale. Protagonista indiscusso, il maestoso timballo, un
pasticcio a forma di tamburo al cui interno «ci stanno le cose più buone
del mondo», che viene tastato, carezzato, annusato e baciato, quasi fosse
un figlio, prima di essere servito caldo.
Una cena indimenticabile sulle note di canzoni italiane d’altri tempi,
come la simpatica “Tic Ti, Tic Ta” anni ‘60 di Claudio Villa, che accompagna i secondi piatti e il colpo di (s)cena finale, con l’ingresso del maialino
su un magnifico vassoio di frutta fresca. Le facce dei commensali la dicono lunga sulla bontà di quella che sarà definita a fine serata la «miglior
cena della loro vita».
E poi la sequenza-capolavoro finale: dopo una notte di litigio e di botte
sulla spiaggia tra i due fratelli, la colazione alla mattina è un lungo piano
sequenza che ci mostra Secondo in cucina a preparare una “umile” omelette. Cinque minuti dedicati ad un piatto semplice – pane e frittata – che
i due fratelli mangiano seduti uno accanto all’altro, in perfetto silenzio,
stretti in un tenero abbraccio finale.
Sceglieranno di rimanere davvero in un posto che li «mangia vivi»,
dove i palati vanno “educati” al gusto italiano tradizionale, oppure faranno svanire il loro sogno a stelle e strisce?
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Polpette al pomodoro & Taurasi
Il “timballo di pasta” non è un “mapazzone” ma una delle più fedeli interpretazioni della tipicità regionale italiana. Evoca mega pranzi delle feste in famiglia, di quelli che lasciano storditi fino all’Epifania. Se vogliamo seguire il
filone regionale c’è un piatto più easy ma altrettanto goloso da preparare in
compagnia degli amici: gli spaghetti con le polpette. Non ci sono trucchi:
è fondamentale saper preparare delle squisite polpette con una base bella
sugosa di pomodoro.
Per farle vi potete scatenare nella consultazione di un buon manuale di cucina
oppure ricorrere ai sempre validi segreti della nonna. Altrimenti tentate la
carta della vicina e suonatele. Chissà. Altrettanto importante è cuocere al
dente gli spaghetti. E qua non avete scusanti, altrimenti vi conviene lasciar
perdere.
Abbinateci un buon bicchiere di vino rosso e, per restare al Sud, scegliete l’Aglianico, straordinario vitigno protagonista in numerose denominazioni del
meridione italiano (Aglianico del Taburno e Aglianico del Vulture, ad esempio). La migliore interpretazione, probabilmente, la troverete nel Taurasi,
pregiata Docg della provincia di Avellino. Si tratta di un vino dal grande
corpo, dall’elegante struttura, dai profumi intensi e dal gusto morbido e
schietto. Come dovrebbe essere un buon fratello.
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Come l’acqua per il cioccolato
e i sapori in “codice”
V
i siete mai chiesti se il gusto, al di là di una sensazione percettiva,
possa anche diventare un vero e proprio “canale” di comunicazione? È il tema alla base di Come l’acqua per il cioccolato del regista Alfonso
Arau (Como agua para chocolate, 1992).
Messico, inizio Novecento: protagonisti Tita e Pedro, due giovani innamorati costretti a nascondere la loro passione per non violare le regole
della tradizione. Usanza vorrebbe infatti che l’ultima delle figlie femmine
fosse destinata a non prender marito per assicurare assistenza alla madre.
Ma ne inventa una delle “sue” Pedro, sposando la sorella maggiore Rosaura, pur di star vicino alla sua amata.
Una storia d’amore più forte di ogni imposizione della società e che
sembra reggersi su una comunicazione nascosta, basata tutta sul cibo. Tita,
infatti, fin dall’infanzia ha uno straordinario talento culinario, cresciuta
com’è tra i vapori di una cucina: il gusto diventa così l’ingrediente adatto
per manifestare in modo segreto i propri sentimenti. Ecco che la sceneggiatura sembra ruotare attorno a quello «strano fenomeno d’alchimia» che
avvicina i due amanti: come se il sangue di Tita si potesse sciogliere nella
sua salsa di rose, nella carne delle quaglie e in ogni aroma del cibo cucinato
con amore, la sua anima riesce a penetrare nel corpo di Pedro.
È forse un nuovo «codice di comunicazione» che Tita inventa per
esprimere se stessa? A confermarlo è anche la voce fuori campo, che racconta di una relazione sensuale che si consuma segretamente attraverso il
cibo e che solo Pedro è in grado di decifrare.
Il gusto svela qui tutto il suo potere “magico”: le emozioni di Tita al
momento della preparazione dei piatti inducono degli stati d’animo simi-
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li nei commensali. Una volta sarà la torta di nozze di Pedro e Rosaura, con
la glassa impregnata delle lacrime di Tita, a provocare subito negli invitati
nostalgia e lacrime, che si trasformano ben presto in nausea e vomito.
Che dire poi delle quaglie ai petali di rosa che, cucinate con passione,
scatenano effetti afrodisiaci? «Un piacere degli dei», dirà Pedro estasiato,
mentre vedremo la macchina da presa scorrere sui piatti in una lenta panoramica, con la fotografia invece a descrivere, attraverso un colore caldo
e ambrato, un’atmosfera di emozioni forti.
«Veniamo tutti al mondo con una scatola di fiammiferi dentro di noi,
che però non possiamo accendere da soli: ogni persona deve soltanto scoprire quali sono i suoi detonatori per poter vivere», si afferma nel film.
La vera fonte che fornisce energia all’anima: è quello che cercano i due
protagonisti, capaci di infiammarsi, nel corso della storia, con la passione
del cuore e quella del gusto.
«Tita si sentiva letteralmente ribollire di rabbia, come l’acqua per la
cioccolata», si legge in un passaggio del romanzo di Laura Esquivel che
ha ispirato il film. Ecco svelato il senso del titolo: sensazioni forti che
mettono in subbuglio l’anima dei protagonisti, quasi con lo stesso effetto
che fa il cioccolato nell’acqua bollente, secondo una tradizionale ricetta
messicana che vi consigliamo di sperimentare.
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Quaglie ripiene & Tempranillo
La pellicola ambientata in Messico ci ha fatto riscoprire i poteri afrodisiaci delle
quaglie, le cui carni e uova venivano impiegate fin dall’antichità per preparare pietanze ed elisir in grado di scatenare una reazione sensuale ed energetica. In particolare, le carni di quaglia si distinguono per essere tenere e
succulente e oggi compongono le preparazioni di numerosi tra chef e massaie. Abbiamo visto come la ricetta di Tita, preparata unendovi i profumati
petali di rosa, abbia scatenato intensi ardori.
Vogliamo anche noi provare a giocare con i poteri intriganti del cibo, preparando una ricetta ispirata dal film ma con una nostra variante: le quaglie
ripiene di pancetta e mandorle, passate in forno e accompagnate da un
contorno a vostro piacimento (suggeriamo verdure di stagione stufate o
purè di patate). Dopo aver accuratamente pulito le quaglie, concentratevi
sulla preparazione del ripieno. In un recipiente unite formaggio grattugiato,
mandorle tritate grossolanamente, pepe, sale, uno spicchio d’aglio tritato e
3 o 4 fette di pancetta tagliata in piccoli pezzetti. Dopo aver amalgamato il
tutto, aggiungete olio extravergine d’oliva e avrete pronta la vostra farcitura
che andrete delicatamente ad inserire all’interno delle quaglie che poi avvolgerete in due fette di pancetta, prima di infornare a 180°C per circa 40’.
Per il vino scegliete qualcosa di insolito, ovvero un Tempranillo, vino che prende forma dall’omonimo vitigno rosso, originario della Spagna (è nella regione della Rioja che esprime il massimo del suo potenziale) che anche in
Italia, in varie regioni tra cui la Toscana, dove ha trovato terreno fertile per
esprimere le sue pregiate peculiarità, fatte di morbidezza e profumi che ben
si prestano all’unione con altre pregiate uve. Il nome Tempranillo deriva dalla precocità della sua maturazione (temprano significa “presto” in spagnolo):
ecco fate presto a sorseggiarlo, così da lasciarvi il tempo per… quagliare…
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Fuori Menù,
il gusto della diversità
U
n’atmosfera colorata e rumorosa, solare e divertente è quella che
si respira dentro il ristorante “Xantarella”, in Calle de Belén, nel
quartiere “Chueca” di Madrid. State pronti a trovare un caos pazzesco
in cucina, a vivere scene grottesche, in cui volano parolacce, regnano i
doppi sensi e a volte parte anche qualche sonoro ceffone. È il regno di
Maxi, simpatico chef alle prese con uno staff di svitati senza precedenti:
un capitano autorevole ai fornelli, che guida la sua ciurma a suon di urla
isteriche, schiocchi di dita e grida di panico.
Tra fumetto e realtà, Fuori menù (Fuera de carta, 2008) si apre con la
preparazione di un piatto magnifico: chele di astice con lacrime di asparagi frullati e una sensuale spuma marina, servite con l’aggiunta di salsa
di ostriche, per dare un tocco orientale.
«Guardiamo che piatto, come ci adesca, come tenta di sedurci. Qui la
gente non viene solo a mangiare, viene a cercare il piacere, viene a soddisfare le sue fantasie», dice Maxi orgoglioso della sua creazione. Perché
bisogna sempre innovare, provocare nuove reazioni e proporre un’esperienza che soddisfi tutti i sensi: è questa la filosofia culinaria del protagonista, senza peli sulla lingua a lavoro e nella sfera privata.
Conoscete il detto? L’uomo va preso per la gola. E infatti a cadere nella
sua golosa seduzione sarà Horacio, ex calciatore argentino. Nessun colpo
di scena: Maxi fin dal primo minuto del film ostenta orgogliosamente la
sua omosessualità.
È invece Horacio a dover uscire “dall’armadio”, come dicono in Spagna, e svelare una pagina nascosta della sua personalità alla maître del
ristorante, la sensuale Alex, innamorata pazza di lui.
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Una commedia degli equivoci che si trasforma presto in parodia, a
tratti dolce e a tratti amara, della società di oggi: una cultura che sembra
invertire i ruoli di genitori e figli e che rifiuta tutte le convenzioni classiche della famiglia, in una confusione totale delle identità sessuali.
Indizi, questi, in cui si può riconoscere l’influenza forte del cinema di
Pedro Almodovar? Sì, è il regista stesso ad ammetterlo. In effetti in ballo c’è la stessa società (spagnola), stessi ambienti colorati e confusionari,
alcuni attori in comune (lo chef Javier Cámara e la maître Lola Dueñas
compaiono in diversi film di Almodovar). E poi c’è lo sguardo aperto al
mondo omosessuale e ci sono le continue gag divertenti. Come, ad esempio, lo scambio di persona tra il critico culinario che verrà a giudicare il
ristorante e il rappresentante di pneumatici: entrambi “Michelin”, certo,
ma in settori un po’ diversi! Oppure il rabbioso ingresso in sala di Maxi
per scaldare il tonno a quel marito dal gusto, così dice, «atrofizzato». E
come dargli torto? Basta osservare sua moglie accanto, non certo un emblema di bellezza!
Fuori menù racconta in stile comico una vita comunque travagliata:
per Maxi sarà dura “digerire” l’inaspettato ritorno a casa dei suoi due figli, alla morte dell’ex moglie. Sa, infatti, di non essere mai stato un padre
modello, e questo alla lunga potrebbe pesare sulla sua coscienza. Fortuna
che il suo carattere spensierato, ad immagine e somiglianza del suo locale,
lo spinge a non avere paura delle sfide e a salire comunque sul «treno che
non aspetta mai». Come recita la canzone cantata da tutti i protagonisti
nel finale, in fondo «la felicidad es eso».
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Topinambur & Dolcetto
Le originali storie che si sviluppano dentro e fuori il ristorante Xantarella di Madrid evocano alla mente il topinambur. Si tratta di un tubero “diverso”, dalla
forma molto particolare, simile per aspetto alla patata ma molto più gibboso. L’aspetto finale risulta bruttino, ma durante la fioritura prendono vita
piccoli fiori gialli che ricordano le margherite. In bocca richiama il sapore del
carciofo e in cucina è molto versatile, sia se cotto che se consumato crudo
ad insalata. Ultimamente si sta diffondendo sempre di più nelle abitudini
culinarie italiane ma, probabilmente, l’utilizzo più diffuso è quello per la bagna cauda, piatto tipico del Piemonte, sinonimo di convivialità e amicizia
proprio per il suo modo di consumarlo, iniziando una cena in modo divertente e gustoso.
Per prepararla servono acciughe dissalate, aglio, olio e burro: gli ingredienti vanno uniti assieme durante una cottura lenta e paziente, dopo la quale prende
forma una crema molto densa che andrà mantenuta ben calda anche durante il consumo a tavola, preferibilmente usando un fojòt, il contenitore in
terracotta con l’apposito vano per una piccola candela. Sono poi le verdure
le altre grandi protagoniste di questa ricetta: cardi, peperoni a pezzi, sedano,
cavoli, finocchi, patate bollite e appunto il topinambur che, assieme al pane
casereccio e crostini, vanno inzuppate nella bagna cauda e gustate chiacchierando e sorseggiando un buon vino.
Rimanendo in Piemonte, l’ideale è accompagnare con un Dolcetto Doc di cui
esistono numerose versioni a seconda della diversa area produttiva. Fratello
minore degli altri grandi vini del Piemonte (Barolo, Barbera d’Asti e Barbaresco), il Dolcetto è un vino comunque all’altezza della situazione e dall’ottimo rapporto qualità-prezzo.
Esistono sul mercato numerose versioni: scegliete quello d’Alba, specie per la
sua acidità più moderata ma comunque indispensabile per “sgrassare” la
bocca dopo ogni boccone di bagna cauda.
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La grande abbuffata,
quando l’eccesso “uccide” il gusto
Q
uando si parla di gusto al cinema, a chi non viene subito in mente
un classico come La grande abbuffata (La grande bouffe, 1973)?
Tanto si è scritto e tanto si è parlato del film di Marco Ferreri e la vicenda
ai più sarà fin troppo conosciuta: quattro amici della “buona società” – un
pilota di aerei (Marcello Mastroianni), un giudice (Philippe Noiret), un
cuoco (Ugo Tognazzi) e un produttore televisivo (Michel Piccoli) – che
si ritirano in una lussuosa villa nei dintorni di Parigi con l’idea di dare
libero sfogo alla passione comune della buona tavola.
Molto si è discusso dell’epilogo: quella grande abbuffata che si fa ritratto spietato di una società borghese dei consumi e dell’abbondanza che
finisce per autodistruggersi. Ma lasciando da parte la morale del film,
provate invece a riguardare la pellicola concentrandovi sul contenuto gustativo: cosa si può dire, ad esempio, delle lunghe sequenze a tavola e
dell’uso prevalente di riprese ravvicinate? L’eccesso sembra essere il filo
conduttore: troppe sono le pietanze servite nei banchetti, troppa è la velocità con cui il pasto viene consumato, troppo il desiderio puramente fisico di mangiare, che si accompagna a una sessualità che potremmo definire “contaminata”. Immagini al limite del “pornografico”, per riprendere
il parallelo tra cibo e sesso che ricorre per tutto il film? Diciamo che sono
volutamente eccessive: pensate ai primissimi piani di volti bramosi, alle
bocche che masticano avidamente i cosciotti di pollo, oppure agli occhi
carichi di cupidigia e ai denti che strappano le carni in modo animalesco,
cui si aggiungono i vari rumori sgraziati dei commensali.
Excèdere, ci insegnano i latini, significa varcare la soglia, andare al di
là del limite. E come su una scacchiera, anche qui si gioca sul bianco e
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nero delle emozioni contrastanti con una semplice “mossa”: nessuno può
sfuggire a quella sensazione straniante che in pochi secondi ci fa passare
dal gusto al disgusto, dalla bellezza dei piatti al fastidio visivo, dal piacere
alla sofferenza. Marco Ferreri sembra muoversi su questa sottile linea di
“confine”: lui sa che per una buona degustazione occorre ben altro. Serve prima di tutto una durata d’assaggio lenta, che dia il tempo alla percezione di trasformarsi dal semplice mangiare ad una «sensazione vera
e propria dell’anima», come si legge nella celebre Fisiologia del gusto di
Brillat-Savarin, citata non a caso nel corso del film. Una lentezza cui si
accompagna una masticazione nella bocca anch’essa non troppo rapida,
perché il cibo o un buon bicchiere di vino devono avere il tempo di attraversare tutte le regioni deputate ad accogliere i “segnali” gustativi. E,
infine, una giusta misura nella quantità: il troppo finisce per guastare la
sensazione, riempiendo lo stomaco, ma non lo spirito.
Ferreri riesce forse a declinare l’eccesso in tutte le sue forme? Pensiamo alla quantità delle porzioni, all’assenza di bisogno e alla rapidità di
consumazione dei protagonisti… Il corpo in effetti sembra diventare un
semplice contenitore di cibo e il desiderio di mangiare lascia spazio a un
tentativo consapevole di annientarsi. Di fronte a noi un enorme bordello
in cui si pasteggia ovunque, in ogni stanza e in ogni momento della giornata: stomaci pieni e teste vuote, ci vuole forse dire, provocatoriamente,
il regista?
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Cacciucco alla livornese
& Nobile di Montepulciano
Probabilmente non avrete fame per un po’. Anzi. Provate però ad immaginare
di dover consumare il vostro ultimo pasto. Sì, proprio l’ultimissimo, con la
fortuna (si fa per dire, vista la situazione...) di poter scegliere tutto ciò che più
vi gusta. Se tanto deve essere, sicuramente meglio farlo a pancia piena, no?
Cosa scegliereste di mangiare per la vostra personale “ultima cena”? Esiste
un piatto che, per ciascuno di noi e per una serie di svariati motivi, è in assoluto il preferito. Per il gusto indimenticabile, per il sapore intenso e profondo
che ha ammaliato il vostro palato. Anche il più semplice. Comunque speciale, perché assaporato in un momento particolare e con le persone più care.
Avete le idee chiare o vi serve un aiuto? Che ne dite di un ricco cacciucco alla
livornese, un piatto straordinario che unisce tradizione, passione e sapori
autentici? Un vero trionfo di mare che, secondo la ricetta originale, prevede
l’uso di 16 diverse specie ittiche tra cui crostacei, polpi, seppie, cicale, scorfani ed altre varietà di pesce che qualcuno definisce “povero”. Il tutto cucinato
in tempi diversi, assieme alla salsa di pomodoro, per poi essere adagiato su
fette di pane abbrustolito e agliato. Già sentite il profumo?
Con il cacciucco è “vietato” bere un vino bianco, scegliete allora un rosso robusto, importante. Non è affatto un azzardo stappare, ad esempio, un buon
Nobile di Montepulciano, in cui il Sangiovese è protagonista. Per una cena
senza appello.
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Sideways,
quando degustare è un’arte
«P
er prima cosa alzi il bicchiere ed esamini il vino in controluce. Devi osservare colore e limpidezza e valutarli. Ora inclinalo, così facendo controlli la densità del colore quando si dirada verso
il bordo. Questo ti suggerisce che età ha il vino. Adesso, infilaci tutto il
naso… Poi posi il bicchiere e gli fai prendere un po’ d’aria, l’ossigenazione
lo fa aprire, dischiude gli aromi, i profumi». Una piccola lezione di degustazione è quella che ci descrive in una delle prime scene il film Sideways.
In viaggio con Jack (2004) del regista Alexander Payne.
È arrivato il momento di bere e il protagonista Miles (l’attore Paul Giamatti) porta finalmente alla bocca un bel calice di vino, brindando al futuro matrimonio del grande amico Jack (Thomas Haden Church). Quale
migliore idea per festeggiare l’addio al celibato che un bel viaggio di una
settimana sulle strade del vino della California, alla scoperta dei piaceri
della degustazione? Le finestre sullo schermo si aprono e si chiudono su
magnifici vigneti al tramonto, primi piani di calici traboccanti di vino,
movimenti di macchina da presa che sembrano accarezzare le uve, con
una fotografia dai colori caldi.
A contrapporsi due opposti stili di vita, quelli dei due protagonisti, che
si rispecchiano nel modo di assaporare il vino: chiuso e riservato Miles,
sull’orlo della depressione, solare ed esuberante Jack, al limite del superficiale. Così, se per il primo la degustazione rappresenta un rito da celebrare con lentezza e un tocco di romanticismo, per il futuro sposo, invece,
l’assaggio ha la durata fugace di un’apertura di tappo. Non a caso, in una
sequenza indimenticabile, Jack stapperà in macchina una rara bottiglia di
Byron del ‘92, non curante del suo “valore”.
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Più che un film sul vino, Sideways sembra piuttosto un inno ai sapori
della degustazione, in cui a contendersi l’Oscar di “miglior vino” sono
due nemici classici, il Pinot Nero e il Cabernet: la cura certosina di cui
ha bisogno il Pinot, vino molto difficile da produrre, contro la forza di
uve che riescono a fiorire anche quando sono trascurate. Due vini tanto
diversi, proprio come i due personaggi: un parallelo che sottolinea, se
ancora ce ne fosse bisogno, due stili di vita a confronto.
Degustare è un’arte con una propria filosofia, svela la protagonista
femminile Maya (Virginia Madsen) in uno dei momenti più intensi del
film, vera e propria dichiarazione d’amore cinematografica al vino: «Mi
piace pensare che se apro una bottiglia oggi, avrà un gusto diverso da
quello che avrebbe se la aprissi un altro giorno. Perché una bottiglia di
vino è un qualcosa che ha vita ed è in costante evoluzione e acquista complessità finché non raggiunge l’apice».
Ne saranno ben consapevoli i nostri protagonisti alla fine della storia,
e forse anche gli spettatori, che grazie al romanzo scritto da Miles, lasceranno la sala con il dubbio che «il giorno dopo ieri», certe volte, non
significhi “soltanto” «domani».
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Stracotto & Sassicaia
Lo strampalato viaggio di Miles e Jack tra i vigneti della California è probabilmente uno dei manifesti cinematografici degli appassionati enologici. Oltre allo
strepitoso Byron ‘92 (uve Pinot Nero in purezza, vinificate secondo il Metodo
Classico dai vigneti di Santa Barbara), nel film entra in scena anche lo Château
Cheval Blanc ‘61 e viene citato il Sassicaia ‘88. Due vini icona per gli intenditori,
con quotazioni stellari e oggi quasi introvabili. Lo Cheval Blanc nasce a Bordeaux da uve Cabernet Franc e Merlot: tuttora è uno dei quattro vini al mondo
che può fregiarsi della più alta quotazione nel Premier Grand Cru Classé (A),
una delle bibbie del vino. Una vera e propria star, quindi, che al cinema viene
spesso chiamata in causa. Il fatto che Miles, dopo averlo custodito sapientemente per anni, finisca col berlo in un banalissimo caffè, e per di più dentro
un bicchiere di cartone, è un sacrilegio! Il Sassicaia è italianissimo, nasce a
Bolgheri, piccolo borgo nel comune di Castagneto Carducci, nella zona della
Maremma tra Grosseto e Livorno che per clima e paesaggio ricorda molto la
California. È il portabandiera dei Supertuscan, i grandi vini nati a partire dalla
fine degli anni ‘60 grazie alla valorizzazione di vigneti internazionali (Cabernet
e Merlot in particolare) e l’impiego di nuove tecniche importate dalla Francia
che decretarono la fama di questo angolo di Toscana.
Il Sassicaia è frutto di uve Cabernet Sauvignon e Cabernet Franc: è un vino top,
costoso ma ideale da stappare se volete togliervi un vero sfizio. Il suo colore rosso granata intenso è ammaliante. Al naso e in bocca spiccano delicate
note vanigliate e un gusto armonico e molto lungo.
Non commettete l’errore di Miles: abbinatelo ad un piatto importante, preferibilmente di carne, come ad esempio lo Stracotto, il brasato alla maniera toscana. La sua ricetta si trova fin dal ricettario di Pellegrino Artusi del 1891. Il
segreto è avere un amico macellaio in grado di darvi il taglio giusto e tutto il
tempo per cuocerlo lentamente e come si deve, facendo esaltare il profumo
e la morbidezza di una carne che si scioglierà nella vostra bocca.
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Cous Cous,
i sapori e i ritmi del Magreb
A
vete anche voi un sogno nel cassetto che aspetta solo il destino
per essere realizzato?
La storia di Slimane del film Cous Cous (La graine et le mulet, 2007)
muove proprio dal desiderio di una vita: se sai riparare le barche e hai la
passione per la cucina, cosa ci può essere di più affascinante che ristrutturare una vecchia imbarcazione e farla diventare un ristorante?
Così Slimane un bel giorno troverà il coraggio di aprire davvero quel
cassetto dove teneva nascosti i suoi sogni. Si licenzierà dal vecchio lavoro
al porto di Sète, vicino Montpellier, e cercherà di cambiare vita: un’impresa difficile, soprattutto se si hanno sessant’anni e alle spalle, ancora
fresche, le ferite di un divorzio.
Questa è la vicenda raccontata dal regista franco-tunisino Abdellatif
Kechiche, che accende i riflettori su una cultura a lui familiare, quella
magrebina, con una storia d’immigrazione intima e quotidiana.
Il titolo originale del film, in lingua francese (il grano di semola e il
cefalo), vi dice niente? Chi conosce il sud della Francia avrà riconosciuto
immediatamente due degli ingredienti di base per la preparazione di un
piatto di origine nordafricana che ormai è entrato a far parte dei menù di
moltissimi ristoranti: il cous cous.
Una pietanza che fa volare la mente di Slimane alla ex moglie, cuoca
formidabile, capace di servire «il cous cous dell’amore», considerato dai
commensali «una delle sette meraviglie». Cucinato con il pesce e accompagnato con le verdure, è il collante che riesce a far radunare una famiglia
spezzata in due dal divorzio, facendo sedere uno a fianco all’altro tutti i
protagonisti, attori di vite diverse che raramente riescono ad incrociarsi.
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Tra una litigata, un pettegolezzo e una chiacchiera tra parenti, Kechiche
svela nei particolari i primi piani del pesce, delle verdure e delle bocche
che si sfamano con grande soddisfazione. È la condivisione di spazi e
momenti di socialità, per una famiglia mista afro-francese che solo così
riesce a parlare, a scambiarsi emozioni e tradizioni.
Cous Cous potrebbe essere proprio definito una storia di integrazione.
E l’ingrediente fondamentale di questa integrazione sembra essere proprio il gusto. Sì, perché il cous cous, piatto forte di famiglia, rappresenta
il vero motore che anima la storia: l’idea di Slimane è quella di chiedere l’aiuto della famiglia “allargata”, al completo, per inaugurare con una
grandissima festa il nuovo locale costruito a bordo dell’imbarcazione ristrutturata. Pezzo pregiato del menù, manco a dirlo, il cous cous della
ex moglie. Nella strepitosa scena finale seguiremo passo passo la lenta
preparazione dell’evento: camera a spalla, immagini in movimento, ritmi
africani, corpi danzanti ed un linguaggio cinematografico “traballante”
che crea un effetto di realtà. Ci sembrerà di stare anche noi dentro il barcone, ad osservare da vicino pregi e difetti dei vari componenti della famiglia: dai due figli “inetti”, che metteranno Slimane nei guai, alla splendida
Rym, la figlia della nuova compagna, che invece farà di tutto per salvare
quello che considera il suo “vero” padre. La sua danza del ventre per allietare l’attesa dei commensali, in una sequenza che resterà indelebile nei
vostri occhi, sarà il tentativo estremo di evitare il fallimento della serata.
Come andrà a finire? La disperata corsa del protagonista contro il suo
destino sarà guardata di buon occhio dalla fortuna? Vi diciamo solo che
il cous cous, simbolo di un popolo, di un’identità, richiamo esplicito alle
origini e alle radici di Slimane, finirà per diventare l’ago della bilancia di
una vita intera. Il sogno nel cassetto è lì a portata di mano. Prendere o
lasciare.
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Cous cous alla marocchina & Syrah
La tradizione magrebina del cous cous si è fatta largo anche nelle abitudini gastronomiche occidentali. Quello di origine berbera, tipico di Algeria, Marocco e Tunisia, è diventato negli ultimi anni un piatto consueto anche nei
nostri stili di vita, grazie alla capacità di dare un tocco di fantasia ad un pasto.
Dopo l’epilogo della storia di Slimane attrezzatevi per reperire tutti gli ingredienti necessari per preparare il cous cous alla marocchina. Vi occorrerà, oltre ovviamente al cous cous, carne di agnello, ceci, uva passa, zucchine, pomodori,
cipolle, carote e un mix di spezie e odori composto da zafferano, coriandolo,
paprika, prezzemolo, pepe, sale e olio extravergine d’oliva. Per accorciare i
tempi di preparazione il suggerimento è quello di utilizzare i ceci già lessati.
Il resto sarà piuttosto facile: cipolle, carote, zucchine, ceci, assieme al pepe
e allo zafferano andranno uniti, in ordine, e fatti lievemente soffriggere con
l’olio all’interno della “couscoussiera”, ovvero l’apposito recipiente per la preparazione del piatto. Dopo di che andrete ad aggiungere i bocconcini di
agnello e procederete nella cottura a fiamma bassa (aggiungendo un po’ di
acqua calda dentro il recipiente, man mano) per circa un’ora.
Sgranato il cous cous con un filo d’olio d’oliva e un po’ d’acqua, trasferitelo nella
parte superiore della couscousseria così da cuocerlo a vapore per circa 30 minuti. Terminate le cotture, gli ingredienti andranno uniti (compresa l’uvetta),
bagnando il cous cous con il sugo della cottura della carne e scegliendo
quanto renderlo piccante, dosando a piacimento pepe e paprika. Sull’abbinamento enologico può essere curioso scegliere una tipologia caratterizzata da una nitida speziatura come il vitigno Syrah. Sarà importante reperirne
uno equilibrato, preferibilmente di montagna (puntate sulla Valle d’Aosta),
quindi non troppo alcolico (altrimenti il piccante del piatto si accentuerà) né
barriccato ma capace di distinguersi per la sua freschezza e sapidità, ideale
per sposarsi ad un piatto intrigante come il nostro cous cous.
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Lunchbox,
il gusto “a distanza”
U
n uomo e una donna… e non è un film di Claude Lelouch! Non
c’è bisogno di molto altro per emozionare e Lunchbox del regista
indiano Ritesh Batra (Dabba, 2013) fa economia di effetti speciali, per
andare all’essenza dei rapporti, e anche del gusto.
Ila, una giovane madre che vive a Mumbai, fa la casalinga e passa la
mattina a preparare il pranzo di metà giornata del marito. La vediamo
annusare la nuvola di vapori che sale dalla pentola e leccarsi il palmo
della mano per assaggiare il cibo; ma non si sarà dimenticata qualche ingrediente? «Ce l’hai messe tutte le spezie?», domanda la vicina del piano
di sopra, la zia che dall’alto, con l’«odore che sale fino a quassù», riesce a
capire che qualcosa non va… Manca il «tocco magico», un pizzico di spezie contenute nel barattolino che la zia cala con un cestino dalla finestra.
Basterà questa nuova ricetta a ridare sapore al matrimonio di Ila che sta
andando a rotoli?
Ora che il pranzo è pronto, non resta che consegnarlo ai dabbawalla.
Se non siete mai stati in India, forse non sapete che Mumbai è la città di
5.000 fattorini che ogni mattina raccolgono più di 200.000 pranzi fatti in
casa, per consegnarli ai lavoratori direttamente in ufficio all’ora di pranzo.
Figuratevi se una cultura gastronomica raffinata come quella indiana può
rinunciare a servire piatti caldi, altro che snack bar!
E con questo sistema, da più di cent’anni, con una tradizione che si
tramanda di generazione in generazione, le mogli da casa assicurano un
pasto “come si deve” ai loro mariti. La macchina da presa segue tutto il
percorso del lunchbox di Ila da casa fino a lavoro, passando di mano in
mano, tra autobus, treni e carrelli.
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Ma cosa succede se per una volta questa rete quasi perfetta fa “cilecca”? Così, non sarà il marito di Ila a ricevere il pasto squisito, ma Saajan,
il contabile di una società alle soglie della pensione. Il cestino tornerà a
casa completamente ripulito ed Ila, ignara dell’errore, sarà soddisfatta: il
pranzo ha forse colpito nel segno? Sì, ma ha fatto breccia nella persona
sbagliata: «Per qualche ora ho pensato che la strada del cuore fosse davvero attraverso lo stomaco», confessa la donna tra sé e sé. Invece no, il
marito non si accorge neppure che sta mangiando sapori diversi da quelli
cucinati dalla moglie…
Ma questo scambio di pasti sarà davvero una coincidenza “sbagliata”?
Credete anche voi al destino? Perché, si dice nel film, «a volte il treno
sbagliato ti porta alla stazione giusta». E infatti la nostra Ila comincerà a scrivere allo sconosciuto, lasciando dei bigliettini di carta dentro il
porta-pranzo: inizia così tra loro una fitta corrispondenza quotidiana,
che si consuma sempre nel momento del pasto. Saajan, vedovo, aspetta
impaziente tutti i giorni l’arrivo del dabba, il tipico contenitore in acciaio
con le scodelle che poggiano una sull’altra: come un rito, ne gusta prima
l’odore, aprendolo appena, poi solleva subito tutti i recipienti per scovare
quel pezzo di carta tanto atteso. Dentro ci troverà parole profonde, scritte col cuore, alla ricerca di quella «felicità interna lorda» di cui nessuno
parla abbastanza.
Lunchbox è la storia di una distanza e di un “trasporto” sbagliato che si
fa metafora. E cos’è la metafora se non, nel significato letterale dal greco,
un «trasporto»? Di emozioni, di aromi, di confidenze che finiscono per
rendere i due protagonisti così lontani ma, in fondo, anche così vicini. È
bello condividere un pasto, dei sapori, come è bello raccontare di sé agli
altri, mettendosi in gioco. «Penso che dimentichiamo le cose quando non
abbiamo qualcuno a cui raccontarle», scrive Saajan in un suo messaggio.
Per fortuna ci ha pensato questo regista indiano, al primo film, a rendere
indimenticabile, con il suo racconto, una storia poetica e deliziosa come
questa.
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Pollo tandoori & Gewürztraminer
Lunchbox fa venire voglia di imitare il popolo indiano e mutuare la sana abitudine di mangiare cose buone fatte in casa, durante la pausa pranzo dal lavoro.
In Italia, ahinoi, questi usi sono stati sopraffatti dall’era del consumismo. Al
di là del fagotto da gustare alla scrivania, è affascinante scoprire la cucina
indiana e tutte le sue spezie. Se il pollo al curry è il cult, subito dopo c’è il
pollo tandoori. Il nome è legato al tandoor, il forno tipico dell’India: di forma
cilindrica, è realizzato in argilla e alimentato a legna o a carbone. Pensate
che può raggiungere fino ai 480°C.
La caratteristica di questo piatto è la speciale marinatura, che dona alla carne sia
la morbidezza che la tipica colorazione rossa. Un piatto semplice, quasi basic, ma che potrete infilare perfino nello zaino al marito manager. Del pollo
servono le cosce, spellate e condite prima con il succo di limone e quindi
marinate in frigo per alcune ore assieme ad un intingolo a base di spezie
(curcuma, coriandolo, Gran Masala a cui potete aggiungere aglio e zenzero
freschi), yogurt bianco magro, sale e pepe. Completata la marinatura, il pollo
andrà cotto in forno (difficile che abbiate un tandoor a portata di mano ma
state sereni, va bene anche il forno di casa o, in alternativa, la griglia) per 45’
a 180°C, così da fargli assumere l’aspetto invitante e croccante. Nel servizio
il piatto si accompagna con qualche spicchio di limone.
E per il vino? Come per altri piatti particolarmente speziati, il suggerimento è
quello di optare per un vino dai profumi intriganti, capace di creare un’alchimia del tutto particolare per il palato. Provate con un Gewürztraminer,
vitigno autoctono italiano tipico dell’Alto Adige, da cui prendono forma vini
dal colore intenso giallo paglierino, con ricchi riflessi dorati. La principale
particolarità – da cui deriva la capacità di ammaliare soprattutto il gusto
femminile – sta nell’olfatto aromatico, che richiama la frutta esotica. Con il
pollo tandoori prenderà forma un’unione di fatto…
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Un’ottima annata,
il piacere sincero del vino
I
mmaginatevi i ritmi frenetici della Londra dei broker. Poi pensate alla
quiete delle campagne francesi della Provenza. Ora accompagnate
tutto questo agli aromi di una bella bottiglia di vino rosso. Un volo pindarico, direte… No, se siete il Russell Crowe del film Un’ottima annata
(A good year, 2006), portato sul grande schermo da Ridley Scott.
Sì, perché Max, l’uomo d’affari protagonista della storia, è uno che non
ama le mezze misure: prima in carriera, senza scrupoli, immerso totalmente nella vita della City; poi, alla morte del vecchio zio e tornando a
contatto con i colori della maison de campagne dove è cresciuto, pronto a
mollare tutto per adagiarsi sugli “ermi colli”.
La tenuta “Château la Siroque” illuminata al tramonto è lo scenario
perfetto per questa redenzione, un angolo di paradiso dove il gusto per il
vino rappresenta un ponte immediato per i ricordi d’infanzia. «I profumi, i colori e i suoni si rispondono», scriveva Baudelaire: a questo sembra
ispirarsi Ridley Scott, giocando sull’idea di armonia ed equilibrio e declinandola in tutte le sue sfumature. Musiche soavi di un vecchio giradischi,
colori morbidi della luce sul far della sera, odori della terra e delle viti:
tutto si fonde perfettamente nei sapori delle bottiglie della vecchia cantina.
Così il vino “Coin perdu”, prodotto nelle vigne della tenuta, sembra
frutto delle melodie canticchiate alle viti dal paziente coltivatore, talmente attaccato al suo terreno da viverci e respirarci dentro, come ama ripetere: «Io amo fare il vino perché questo nettare sublime è semplicemente
incapace di mentire. Vendemmiato presto o tardi non importa. Il vino ti
bisbiglierà in bocca sempre con completa e imperturbabile onestà ogni
volta che ne berrai un sorso».
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Opposte al grigio e blu della fredda Londra, le vigne della Provenza,
sintesi di profumi e sapori da gustare con lentezza, per tutto il film sono
associate al rosso e al giallo del tramonto. Un’atmosfera fertile per risvegliare i sentimenti del protagonista: il profumo della china è così forte da
risvegliare in Max i ricordi di un’infanzia da troppo tempo dimenticata e
l’odore del sigaro è traccia indelebile della presenza dell’amato zio Henry.
Ancora una volta, al cinema, il gusto si fa metafora della capacità di
assaporare i piaceri della vita. Se Max predilige il cognac, che permette di
ubriacarsi più velocemente del vino, è proprio perché è rimasto prigioniero di un mondo caotico, quello della finanza, dove tutto si consuma
in solitudine e con voracità. «Perdona le mie labbra. Trovano gioia nei
posti più inaspettati», sono le parole che arriverà a pronunciare nel finale,
segno di un cambiamento a trecentosessanta gradi.
Le labbra di Max ritrovano il gusto di posarsi con gioia sui calici, e non
solo… È il piacere sincero di un bel bicchiere di vino rosso sorseggiato al
tramonto. Finalmente in dolce compagnia.
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Peposo & Cannonau di Sardegna
Esiste un piatto che può essere un elogio della lentezza? Ovvero a quella rara ma
preziosa pazienza che serve per accarezzare il tempo e assaporare il sapore
intenso delle cose? Come nel film, anche in cucina si possono scegliere diverse strade.
Se optate per quella più rapida e semplice, difficilmente gusterete piatti che
rimarranno a lungo nella vostra memoria. Pensate allora ad un gusto profondo come quello del peposo, la ricetta a base di carne di manzo cotta
pazientemente nel coccio, assieme a pepe nero macinato e vino rosso. Ne
erano assai golosi i fornacini dell’Impruneta che si dedicavano alla cottura
dei mattoni necessari alla realizzazione del Duomo di Firenze del Brunelleschi. Oggi è un piatto che valorizza il “quinto quarto”, le cosiddette parti
meno nobili del manzo. Anche per questo è un sapore robusto che chiede
un compagno di viaggio in grado di reggere il confronto.
Scegliete quindi un vino rosso tosto, optando per un abbinamento che dalla
Toscana vi porterà in Sardegna, per un nettare dai legami altrettanto storici. Il Cannonau è infatti considerato tra i più antichi del Mediterraneo. Doc
dal 1992, è un vino prodotto prevalentemente nella parte insulare dell’isola,
impiegando quasi esclusivamente le omonime uve. Si presenta con un deciso color rubino, destinato ad assumere riflessi tendenti al granata in caso
di invecchiamento. Particolare è il profumo: noterete spezie e un tocco di
frutta rossa. Il sapore – ricco, caldo e morbido – prenderà possesso della
vostra bocca. Proprio come quel giovane bacio di Fanny che stupisce Max
a bordo piscina.
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Tortilla Soup,
colori e sapori di una società “piccante”
R
icordate il vecchio maestro Chu, cuoco di Mangiare bere uomo
donna, alle prese con la vecchiaia, la perdita del palato e tre figlie
da mantenere? Provate ora a immaginare la stessa storia, ma cambiate i
colori, i profumi e i ritmi di Taipei con quelli della moderna Los Angeles
e pensate poi a un protagonista, Martín, non più orientale, ma tipicamente latino. Il risultato sarà un’intrigante trasposizione del film, come quella
proposta dalla spagnola María Ripoll nel suo Tortilla Soup (2001).
I ravioli al vapore, la carpa in salsa d’aglio e le pinne di pescecane descritti da Ang Lee si trasformano come per magia in avocado maturi per
preparare la salsa di guacamole tipica dei piatti messicani; o nella zuppa
di fiori di zucca (la sopa de flor de calabaza); o ancora nelle nopales, i fichi
d’India puliti dalle spine e bolliti, che tritati assieme alla cipolla, farciscono i tacos. Variano le pietanze e gli ingredienti, ma cambia soprattutto anche il contenuto culturale della storia: da una parte Taiwan, sospesa tra la
modernità e le radici secolari della cultura cinese, dall’altra una comunità
messicana di Los Angeles che vive lo scontro tra l’integrazione nella società ospitante e il rispetto per la cultura d’origine. Da qui anche l’evidente
contrasto di tecniche cinematografiche usate nei due film, quasi a rispecchiare i temperamenti delle due società. Se la comunità tradizionale di
Taiwan è descritta con un montaggio classico e uno stile semplice che
non ricorre ad artifici o immagini “sensazionali”, la famiglia di Martín,
invece, è ripresa in modo dinamico, con la macchina da presa sempre
in movimento e preferibilmente a spalla e un montaggio sgrammaticato
fatto di stacchi repentini, come a mostrare il ritmo caotico e il carattere
passionale tipicamente latino.
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Resta il parallelismo delle situazioni vissute da entrambi i protagonisti
e un impianto narrativo immutato, che finisce per evidenziare soprattutto
la diversa portata culturale e sociale dei piatti. Le specialità alimentari, se
ci pensiamo bene, altro non sono che “costruzioni” di una certa cultura
e hanno un legame forte con il territorio e la sua gente. Così, nel mix di
idiomi e di origini della famiglia di Martín, a regnare sono i colori sgargianti dei peperoni rossi, il verde delle foglie di cactus cucinate alla griglia
e il giallo delle banane fritte, cibi che si alternano al ritmo frizzante delle
melodie latino-americane.
Per differenziarsi dal film originale di Ang Lee, María Ripoll vuole forse dipingere una società “piccante” e offrire così una sua “versione” della
vicenda? Nel finale, ad esempio, se il maestro Chu riesce a recuperare il
gusto perduto grazie a una calda zuppa, in Tortilla Soup sono invece i
semi piccanti dei peperoncini serrano a dare alla pietanza un gusto «più
interessante». A far recuperare sapori e profumi a Martín sarà la figlia
Carmen, con la sua ricetta particolare del pollo pibil: marinato nel succo
d’arancia, servito all’interno di bucce di banana e accompagnato dai serrano, semi compresi.
Che abbiate amato Mangiare bere uomo donna o meno, che vi piacciano i gusti piccanti o al contrario preferiate l’orientale, non perdetevi il
film! Potrebbe riservarvi gradite sorprese e farvi magari scoprire (se non
lo sapete già) da dove proviene il rito del “cin cin”. Santé, cheers, salud,
prosit, ogni paese usa la sua espressione per brindare: ma se non vi siete
mai domandati perché tutti tocchiamo i bicchieri prima di bere, vale davvero la pena chiederlo a Carmen… Alla vostra salute!
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Tortilla & Lambrusco
Avete aperto il frigorifero e avete scrutato delle uova? Allora avete la base indispensabile per preparare una gustosa tortilla di patate, piatto della tradizione spagnola che diventa il “frittatone” se vogliamo declinarlo all’italiana.
Quello di Fantozzi era di cipolle, ricordate? Beh, anche in questo caso una
cipolla dorata può farvi comodo nella preparazione, assieme a 4-6 uova (dipende da quanti sarete a divorarla dopo), un chilo di patate a pasta gialla (le
migliori per essere fritte) e olio di semi.
La preparazione è piuttosto semplice ma è fondamentale avere una padella ampia e con i bordi alti: non usate la frittatiera perché rischierete di rovesciare
il tutto al momento di girare il composto. Potete anche personalizzare la
tortilla con un tocco in più: ad esempio con un po’ di formaggio all’interno
per renderla filante oppure un po’ di pancetta a cubetti. Il risultato sarà quello di una soffice e profumata “torta” di patate che potrete rendere ancora
più morbida grazie ad un piccolo trucco: aggiungete alle uova sbattute due
cucchiai di lievito in polvere, sciolti in mezzo bicchierino di latte.
Se volete completare una divertente cena di ispirazione ispanica potete aggiungere anche qualche tortilla di mais come aperitivo, accompagnando la
serata con una bottiglia di Lambrusco. Se non lo sapete esistono quattro diverse denominazioni: scegliete quello rosso di Sorbara, il più pregiato e più
chiaro. Dal caratteristico profumo di violetta; il sapore delicato, leggermente
aromatico e fruttato; da consumarsi giovane e fresco, anche di temperatura.
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Il pranzo di Babette,
il gusto (im)morale
I
l pranzo di Babette (Babettes gæstebud, 1987) è un capolavoro del gusto che non poteva certo mancare alla nostra lista. Premiato con l’Oscar come “miglior film straniero”, il regista danese Gabriel Axel riprende
un racconto di Karen Blixen e lo racconta per immagini, disegnando una
rappresentazione fedele di due società attraverso le abitudini a tavola.
Fine ‘800, ad opporsi sono la cultura danese di un villaggio imprigionato nei rigidi schemi della morale luterana e quella francese di una Parigi appena uscita dall’esperienza della Comune. Il gusto è forse culturale,
viene da chiedersi? È un indizio fedele di chi siamo e di ciò che pensiamo? Osserviamo la storia di Babette (l’attrice francese Stéphane Audran),
artista dei sapori parigina costretta alla fuga dalla Francia rivoluzionaria
perché accusata di essere una communarde. Il suo esilio volontario in un
piccolo paesino della Danimarca come donna di servizio di due anziane
sorelle, figlie di un pastore luterano, fa da sfondo ad una vicenda con
molti livelli di lettura. Soffermiamoci qui sul tema della “culturalità” del
gusto, declinata nello scontro tra costumi morali e sociali molto diversi, e
teniamo a mente due scene su tutte: il pasto consumato dalle due sorelle
nel silenzio quotidiano, da opporre al pranzo finale che Babette offre alla
nuova famiglia per festeggiare la vincita inaspettata di una grossa somma
di denaro.
Da una parte un’atmosfera sobria e temperata, nella logica di rinuncia
ai piaceri di questo mondo: una cena frugale in cui le sorelle consumano
il pasto in completo silenzio, mentre la domestica Babette viene lasciata sola in cucina. Dall’altra, invece, un crescendo di emozioni culinarie
che affiora dai volti dei commensali, tutti riuniti gioiosamente a tavola.
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«Non diremo una parola sul cibo», si propongono gli invitati, consapevoli di dover purificare con la preghiera gli eventuali peccati del palato. A
rompere gli indugi sarà il generale, incapace di tacere le sensazioni di un
pasto eccezionale: «Misericordia e verità si sono incontrate. Rettitudine
e felicità si sono baciate». Sì, perché la gioia del cibo e la cura meticolosa del banchetto sciolgono i cuori dei commensali; così la memoria dei
momenti passati riaffiora e gli sguardi, al ritmo incalzante delle portate,
da inespressivi si fanno sorridenti. Ai primi piani dei bicchieri riempiti
di vino si alternano i dettagli della preparazione di piatti ricercati come il
brodo di tartaruga oppure le cailles en sarcophage, quaglie farcite al tartufo servite dentro ai vol-au-vent.
Impareremo forse anche noi, seguendo il consiglio del generale, che
«in questo nostro splendido mondo ogni cosa è possibile?». Alla fine i silenzi e la paura iniziale lasciano spazio alla loquacità, ai baci appassionati
e ad una felicità che si sprigiona nei balli. Il piacere culinario può riuscire davvero a far dialogare anche culture così diverse tra loro? L’ultimo
banchetto ci immerge in una specie di «avventura amorosa» romantica,
nel corso della quale anche noi spettatori non saremo più in grado di distinguere tra appetito del corpo e appetito dell’anima. Poco importa che
Babette abbia speso per un solo pasto tutti soldi vinti alla lotteria: non si
ritroverà mai senza risorse, perché, afferma convinta, «un artista non è
mai povero». Come non darle ragione?
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Filetto al foie gras
& Brunello di Montalcino
E se vi capitasse di portare a cena Babette? È da questo gioco di parole che si
sviluppa l’immaginario viaggio nel gusto, visto e riletto chiamando in causa tutti i nostri cinque sensi. Prima il film e poi la degustazione a tavola,
unendo due arti uniche e affascinanti: il cinema e la cucina. Sembra il menù
perfetto da servire ad una donna che si vuole conquistare, prendendola sia
per gli occhi che per la gola, stupendola con un gioco di sapori capace di
rapire, lentamente, assaggio dopo assaggio, i suoi dolci sensi. Sapete cucinare? Allora osate, cimentatevi nella preparazione di una ricetta in grado di
sorprendere. Il brodo di tartaruga vi sembra un tantino complesso da proporre? Scegliete allora un ingrediente raffinato come il foie gras con il quale
preparare una ricetta fattibile e comunque in grado di garantirvi una raffinata figura: il filetto di manzo al foie gras. Fate come i francesi, fate sciogliere
in padella un’abbondante noce di burro con la quale far rosolare due filetti
su ambo i lati ma senza cuocerli troppo. Toglieteli e teneteli al caldo. Nella
stessa padella, versate un bicchiere di brandy da far “flambare”, aggiungete
la panna e il foie gras fino a far amalgamare il tutto, così da raggiungere
una consistenza cremosa. A questo punto potrete aggiungere di nuovo i
filetti e proseguire la cottura a fiamma bassa, salando e pepando a vostro
piacimento.
Per il vino è tempo di stappare quella bottiglia preziosa, che avete conservato
finora per un’occasione importante. Eccola, è arrivata: non indugiate ancora, apritela con anticipo e scaraffate con cura esattamente quella bottiglia
di Brunello di Montalcino. Se potete scegliere tra annate come la 1997 o
la 2004 vorrà dire che vi piace vincere facile. Scegliete due eleganti e ampi
calici, così da liberare tutta la potenza delle pregiate uve Sangiovese, invecchiate pazientemente per ben cinque anni, fino a coglierne le singole
sfumature, gli intensi profumi e i robusti sapori che solo un grande vino sa
riservare. Ecco, ora Babette potrà essere vostra…
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Julie & Julia,
due vite a colpi di ricetta
S
e vi chiedessero “cosa vi piacerebbe fare nella vita?”, rispondereste
«mangiare», come Meryl Streep in Julie & Julia (2009)? Allora siete
“malati” di ricette anche voi come la protagonista del film. La pellicola
della regista statunitense Nora Ephron mette fame fin dalle prime immagini: marito (Stanley Tucci) e moglie (Meryl Streep) vagano in macchina alla ricerca di un buon ristorante francese tipico nei pressi di Rouen.
Assaggiando una gustosa sogliola cucinata su un tappeto di burro, i due
personaggi non riescono a trovare le parole giuste per descrivere la loro
emozione. A noi spettatori bastano gli sguardi, gli ammiccamenti e i mugolii per capire che si tratta di una vera gioia del palato. D’altra parte, si
sa, la cucina francese non fa economia di calorie, e alla domanda «esiste
qualcosa di più squisito del burro?», la risposta nel film sarà una sola: «Il
burro non è mai troppo!».
Se non amate la cucina d’Oltralpe, non potrete gustare a pieno Julie &
Julia, un vero e proprio inno alla gastronomie française e a due donne che
hanno dedicato gran parte della loro vita alle ricette.
La narrazione prende spunto da due vicende vere, e le porta avanti in
parallelo usando il più classico dei montaggi alternati. Parigi 1949 e New
York 2002: da una parte il romanticismo della Ville Lumière, dall’altra
la frenesia del Queens. A confronto due coppie sposate, in cui è sempre
la donna a portare il grembiule in cucina. Ci credo, vi direte, abbiamo
di fronte delle professioniste: Meryl Streep è Julia Child, un “asso” della
gastronomia, autrice del best seller dal titolo Imparare l’arte della cucina
francese. La simpaticissima attrice Amy Adams, invece, interpreta Julie
Powell, un’impiegata statale con la passione per la scrittura e per il mito
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di Julia Child, che finirà per trasformare il suo blog di cucina in un libro.
Così ad intrecciarsi saranno le abilità di due donne che si muovono fra
i fornelli con «il fascino di un suonatore di timpani in una sinfonia». A
passarci davanti al naso piatti affascinanti come il vitello alla bourguignonne, le uova in camicia, oppure la salsa olandese, quella prelibata crema in cui «burro e rosso d’uovo si amano alla follia». Ma tante saranno
anche le “disavventure” in cucina: che dire delle aragoste, così difficili da
immergere vive in padella? Oppure del poulet rôti à la normande, il cui
ripieno schizza tutto sul pavimento? Per non parlare dell’aspic, la gelatina
fatta col brodo di manzo che finisce puntualmente nel lavandino…
Le “partite” da vincere, per le due protagoniste, sono avvincenti: per
Julia, si tratta di riuscire a finire e farsi pubblicare un manuale intero di
cucina francese. Per Julie, portare a compimento per la prima volta nella
vita una scadenza, e nemmeno delle più semplici: un blog di 365 giorni e
ben 524 piatti. Una sfida all’ultima ricetta, dove non sarà la cucina la sola
protagonista.
Il film, infatti, è anche ricco di sentimenti e romanticismo, con una
delle più gustose dichiarazioni tra innamorati che il cinema gourmand
ricordi: «Tu sei il burro sul mio pane, e il pane della mia vita», dirà Paul
Child alla moglie per San Valentino.
Dall’inizio alla fine, una commedia infarcita di spunti culinari e non
solo. Piccoli segreti, come quello di scaldare la ciotola prima di sbatterci
dentro l’uovo, per far montare al meglio la maionese. Oppure il colpo
secco di manico, per girare al volo la frittata in padella.
Inutile svelare molto di più, godetevi la pellicola e bon appétit!
— 98 —
Anatra arrosto & Marzemino
Julia Child e Julie Powell si sono letteralmente sfidate a distanza, interpretando
due modelli generazionali del fare (e promuovere) la cucina. Julia ricorda
un po’ il nostro Pellegrino Artusi, primo storico ideatore di un ricettario: La
scienza in cucina e l’arte di mangiar bene che, pubblicato in sordina nel 1891,
è oggi ancora incredibilmente valido e attendibile con le sue ben 790 ricette, tutte frutto di prove e sperimentazioni fatte oltre un secolo prima di
Masterchef. Un po’ come la più moderna Julie che ricorre ad uno strumento
di comunicazione 2.0, il blog online, per raccontare ai suoi crescenti lettori le
evoluzioni delle sue sperimentazioni culinarie.
Unendo le storie di Julie & Julia a quella di Pellegrino Artusi ci imbattiamo in
un’anatra, proprio come quella preparata sul finire del film. L’Artusi la definisce «naturalmente magra» e avara di sugo: per questo suggerisce di ungerla
abbondantemente. Con cosa? Ovviamente con quel burro tanto caro a Julia
e a tutta la cucina made in France! Non solo, Artusi suggerisce, dopo averla
salata all’interno, di «fasciarla per tutto il petto con larghe e sottili fette di
lardone tenute aderenti con lo spago» e, ovviamente, di ungerla, di nuovo,
con l’olio a cottura in forno quasi completa. Insomma una ricetta decisamente light (si fa per dire…) che, in una domenica di sano ozio, potrete
provare a personalizzare!
Nel caso, nel calice versate un Marzemino, nettare che nasce dall’omonimo
vitigno autoctono italiano che trova in Trentino Alto Adige il suo habitat
ideale. Vi colpirà il suo colore rubino deciso e, soprattutto, il suo bouquet
aromatico sorprendentemente delicato, quasi romantico. E citando l’opera
Don Giovanni di Mozart che ne decanta le superbe qualità, potrete brindare
esclamando: «Eccellente Marzemino!».
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Soul Food,
i sapori della vita
L’
anima del cibo o il cibo dell’anima? È intrigante fin dal titolo Soul
Food (1997) del regista americano George Tillman Junior, conosciuto in Italia come I sapori della vita.
«Mia nonna diceva sempre: la famiglia che resta unita nei momenti
del bisogno, ti rende più forte»: sono le prime parole del narratore ed
è la voce di un bambino a pronunciarle. Il punto di vista, lo capiamo
subito, viene dal “basso”: sono gli occhi del più piccolo ad offrirci uno
sguardo particolare sulla vicenda. Come già nel capolavoro di Truffaut
Quattrocento colpi, quando è la prospettiva di un bambino a portarci per
mano nell’interpretazione delle immagini, il cuore di noi adulti non può
che “sciogliersi”. Specialmente poi se siamo davanti ad un film di buoni
sentimenti, dove a regnare è quel pizzico di “sana” retorica americana del
«tutto è bene quel che finisce bene».
Gli occhi sorridenti, che brillano, di Ahmad, il piccolo nipote di Mama
Joe, ci guidano alla scoperta delle vicende di una famiglia benestante
afroamericana che vive a Chicago, alle prese con un ricambio generazionale che sembra minarne le fondamenta.
La «roccia», quella che tiene tutti uniti, è ovviamente la capofamiglia,
la nonna Joe: una signora vecchio stampo, come d’altra parte la sua cucina, fatta di «quattro pizzichi», senza mai usare il misurino, perché l’ingrediente più importante dei piatti è «l’amore con cui li fai». E poi c’è la
consueta cena domenicale a rinforzare i legami, facendo gioco sul potere
della tradizione. Fulcro della storia, infatti, è il rito del pasto tutti insieme:
una cena preparata non solo per mangiare, ma soprattutto per condividere gioie e dolori. Così, attorno ai piatti tradizionali della vecchia nonna si
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celebrano liti e battibecchi, con le due sorelle più grandi a recitare la parte
«dell’olio e dell’aceto», due ingredienti che in padella si respingono e che
non possono far altro che bisticciare.
Ma la difficile convivenza tra figlie è mitigata dai tipici piatti del Sud
preparati da Mama Joe: «Durante lo schiavismo, cucinare era l’unico
modo che avessero i neri per esprimersi a vicenda il loro affetto», spiega
la voce del piccolo Ahmad. E infatti il termine soul food, in lingua inglese,
non richiama solo il “cibo dell’anima”, ma si riferisce anche ad un tipo di
cucina tradizionale della comunità afroamericana fatta di piatti poveri a
base di maiale, cucinati spesso con foglie di cavolo. Ingredienti semplici
ed essenziali, per un gusto che rappresenta un prezioso collante.
«Si fa quello che va fatto per salvare la famiglia», ama ripetere Mama
Joe. Capace, non a caso, di inventarsi sempre qualcosa di nuovo (e di
buono), pur di tenere saldi i rapporti con i propri cari, secondo il saggio principio che «se tu lasci che le brutte cose ti fermino, non sarai qui
per godere delle cose buone». Così, quando la nonna che «sapeva sempre cosa fare per mettere le cose a posto» verrà a mancare, toccherà ad
Ahmad raccogliere il suo testimone.
Quale piano inventerà mai per rimettere in piedi i rapporti familiari
ed esaudire l’ultimo dei desideri espressi dalla donna in fin di vita, quello
di tenere unita la famiglia, costi quello che costi?
Basteranno quarant’anni di tradizione e una sfilza infinita di portate
dal sapore “quotidiano” a riunire al completo tutti i parenti nell’ultima
cena domenicale?
Di certo, non mancheranno le sorprese e anche la dea bendata ci metterà il suo zampino. Perché, è proprio vero, la fortuna aiuta gli audaci.
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Tonno alla carlofortina
& Carignano del Sulcis Rosato
Conoscete la storia dei tabarkini? Erano una comunità ligure che, partita da Pegli,
arrivò sulla piccola isola di Tabarca (l’odierna Tunisia) attorno al 1540 per insediarsi in quella che allora era un piccolo lembo di terra dell’impero di Carlo
V di Spagna. Dopo oltre duecento anni di insediamento alimentato dal commercio del corallo, alcuni di loro, coraggiosi e pronti a nuove sfide, decisero di
trasferirsi in Sardegna, dando vita al rigoglioso sviluppo dell’isola di San Pietro,
nella zona del Sulcis, e quindi al paese di Carloforte. Una storia affascinante, fatta di solidarietà e grande volontà, e di una comunità orgogliosa che,
giustamente, può rivendicare una propria identità, fatta di un dialetto misto
sardo/ligure e di ricette mediterranee che vedono il tonno (il maiale del mare,
perché anche di questo pesce non si butta via niente) fonte di gusto e prosperità economica. Nella piccola isola a sud della Sardegna potete assaggiare
tante varianti: dal tonno di corsa (pregiati filetti messi sott’olio subito dopo
averli pescati) al belu (una sorta di trippa di mare) all’immancabile tonno alla
carlofortina.
Piatto saporito e semplice anche da rifare a casa propria, a patto di avere una
pescheria di fiducia a cui chiedere del pesce freschissimo. Oltre al tonno, vi
occorreranno tre generosi cucchiai di salsa di pomodoro, 4 spicchi d’aglio, 5
foglie di alloro, mezzo bicchiere di vino bianco, una spruzzata di aceto bianco,
1 cucchiaio di farina, sale e olio q.b. Infarinate e fate saltare in padella con olio
caldo il tonno per alcuni minuti. Scolatelo dall’olio in eccesso e ponetelo a
cuocere ulteriormente in un tegame con il pomodoro, l’aglio e l’alloro. Dopo
aver svaporato con il vino e l’aceto potrete gustare questo intenso sapore, da
accompagnare con un nettare deciso ma non troppo. Rimanendo in Sardegna, così da esaltare il legame con il territorio, provate il Carignano del Sulcis
Doc, versione Rosato. Un vino armonioso, delicatamente profumato, da servire moderatamente fresco per consentire al vostro naso di percepire le note
fruttate e il sapore lievemente sapido. Sarà come tuffarsi in mare.
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Io sono l’amore,
galeotti furono i gamberi…
S
iete pronti a vivere una storia da “un cuore in inverno”, per riprendere il titolo di un grande classico del cinema? Sentimenti glaciali e
una Milano coperta da un bel manto di neve fanno da cornice a Io sono
l’amore (2009) di Luca Guadagnino, un affresco in chiaroscuro che sembra ruotare attorno a due protagonisti: la famiglia alto borghese Recchi e
il cibo. La vita nella bellissima villa scorre fredda e monotona, fino all’arrivo del cuoco Antonio (l’attore Gabbriellini), che attraverso la forza magica del gusto sconvolge la quiete apparente della famiglia. «Da quando
ho assaggiato il suo cibo, mi sono innamorato di lui», confessa Edoardo
alla madre Emma (la bravissima Tilda Swinton), presentando il nuovo
amico chef.
Fin dal suo primo ingresso in scena, vediamo Antonio bussare alla
porta di casa con una delle sue torte capolavoro in mano, per poi entrare presto a far parte dello staff in cucina, a suon di piatti deliziosi che
convincono anche i palati più esigenti: come l’uovo marinato, l’insalata
russa caramellata, o le verdure coltivate nella campagna attorno a San
Remo, cucinate ed impiattate dal consulente gastronomico del film. Dietro i piatti che vediamo sullo schermo, si nasconde infatti il tocco di un
vero cuoco, Carlo Cracco, il ghost chef, alter ego dietro le quinte del personaggio Antonio.
Che dire poi dell’indimenticabile “invenzione” melanzane e sambuco,
che viene preparata per l’amico Edoardo nella quiete dei colli liguri? Gli
spettatori sono invitati ad abbandonarsi ai sapori, in modo da cogliere le
sfumature più originali della storia: sì, perché le tavole imbandite e i pasti
mostrati nei particolari non sono solo “decorativi”, ma fanno parte inte— 105 —
grante della narrazione. Ecco che i gamberi di Santa Margherita, serviti
con caponata di verdure in salsa agrodolce, saranno la scintilla che farà
innamorare Emma del giovane chef. Seduzione che si “consuma”, è proprio il caso di dirlo, a tavola, quando il tripudio di colori rossi dei gamberi, accompagnati da un vino Riesling Altenberg de Bergheim del 1995,
cambieranno d’improvviso i tratti rigidi del viso di Emma in espressioni
rilassate, cariche di piacere e sensualità.
Un viaggio nell’inconscio della protagonista, denso di suggestioni visive e gustative, dove anche le parole sembrano assumere la forma di un
triste presagio: «Felice non si dice perché è una parola che immalinconisce», confessa infatti ad Edoardo la sorella Elisabetta. C’è da aspettarsi
un finale a sorpresa e un po’ indigesto, dove è ancora il cibo a farla da
padrone: Emma, che proviene dalla Russia, ama cucinare un piatto tipico
quando ha nostalgia della sua terra. Quella zuppa Ukha a base di pesce
che sarà riproposta nell’ultima cena anche dallo chef Antonio. Saranno in
pochi ad assaggiarla, se è vero che la ritroveremo nei piatti anche il giorno
successivo, abbandonata nelle scodelle. Fredda e mai consumata.
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Gamberi rossi & Pigato
La passione che esplode tra Emma e Antonio è di quelle proibite. Come alcuni
cibi che, in alcuni angoli del mondo e per i più diversi motivi, non possono essere consumati. Per fortuna non c’è alcuna proibizione per i gamberi
rossi di Santa Margherita che nella pellicola sono la miccia che accende la
passione tra i due protagonisti. Anche la cinepresa non riesce a fare a meno
di indugiare su quel piatto che vede i gamberi abbinati ad una delicata caponatina di verdure in agrodolce.
Per una volta è il piatto che “buca” lo schermo, quasi a voler far sentire tutto il
gusto allo spettatore. I gamberi di Santa Margherita ligure sono particolarmente pregiati: pescati nei fondali del Mar Ligure, sono oggetto di tutela e
salvaguardia. Per assaporarli in tavola il consiglio è quello di essere il meno
invasivi possibile: se vi piacciono, provateli crudi per esaltare tutto il sapore
del mare. Altrimenti, se decidete di cuocerli, fatelo il meno possibile: provateli appena passati su di una griglia con una fiamma delicata e quindi
conditi con un lieve accenno di limone.
Nelle località della costa ligure potete provarli anche nei tagliolini con gamberi
e carciofi, quest’ultimo altro prodotto che caratterizza la Riviera di Ponente.
Perché allora non lasciarsi trasportare per qualche giorno negli incantevoli
borghi della costa ligure? Qui potrete trovare l’ispirazione giusta anche per
l’abbinamento enologico. La Liguria, infatti, non è affatto avara quanto a vini
di ottima qualità, specie da uve bianche. Il Vermentino è tra i più famosi ma
– per ampliare gli orizzonti – assaggiate il Pigato, vitigno autoctono, dalle
note profumate, originario della Grecia.
Estremamente elegante, dai profumi delicati e schietti che ricordano la frutta
a polpa gialla, il Pigato ha un sapore secco e sapido che si accompagna in
modo ideale proprio ai piatti che arrivano dal mare. Va consumato giovane,
senza farlo invecchiare eccessivamente. Come l’amore.
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Chef,
il #gusto ai tempi di twitter
N
on inganni il sottotitolo «la ricetta perfetta»: Chef (2014) è lontano anni luce da un vecchio manuale di ricette. E anche dall’omonimo film francese d’haute cuisine di Daniel Cohen (Chef, riderete di
gusto, 2012). È invece al passo coi tempi, effervescente, e ci racconta cosa
significhi essere chef al tempo dei social network.
Tra tutte le pellicole a tema gusto che negli ultimi anni si stanno moltiplicando come funghi, questa del regista (e attore protagonista) newyorkese Jon Favreau è sicuramente tra le più interessanti e merita di essere
vista. Non solo perché vi recitano, anche se con piccole apparizioni, due
star come Dustin Hoffman (il proprietario del ristorante) e Scarlett Johansson (la provocante caposala). Ma soprattutto perché finora, al cinema, non ci si era mai occupati della componente “tecnologica” del gusto.
Così il grande cuoco Carl Casper, un tempo chef all’avanguardia di
Miami, si vede stroncare il menù pubblicamente, a mezzo twitter, da un
food blogger, un giornalista online che lo accusa di essersi adagiato negli
allori e trasformato in una «vecchia zietta» che ripropone sempre lo stesso menù da dieci anni per «insicurezza e assenza d’immaginazione».
Mai affronto fu più grande, per un ragazzo che si è fatto da solo, a
suon di panini, lungo le spiagge della Florida. Grazie alla complicità di
Percy, il figlio di dieci anni, Carl si mette al passo con i tempi e apre il
profilo @ChefCarlCasper, per rispondere a tono al critico saccente (cuoco contro giornalista, ricordate Ratatouille?).
Peccato che non conosca ancora i “confini” del medium, pensando che
la risposta al messaggio resti nell’ambito del privato (come una qualsiasi
email) e non diventi invece “virale”, andando cioè a confluire nel mare
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magnum della sfera pubblica. È questa l’ingenuità che sta alla base di una
violenta lite che coinvolgerà il nostro protagonista, prima esponendolo
alla mercé del mondo intero, poi obbligandolo a cambiare velocemente
vita dopo l’onta mediatica subita.
Ma non tutto il male viene per nuocere: questa sarà solo la “scusa” buona per tornare a divertirsi in cucina, dando sfogo al puro divertimento e
a quella «voragine di creatività» che lo porterà a riscoprire il territorio. La
scintilla sarà un vecchio furgone scassato da rimettere a nuovo insieme al
giovane Percy e al fido aiuto cuoco Martin: “El Jefe” è il nome del food truck,
il furgone itinerante con cui macineranno chilometri da Est ad Ovest nello sterminato territorio americano, trasformando la storia in un vero road
movie. Si parte da Miami, si passa da New Orleans, si fa tappa ad Austin in
Texas, per poi ritornare in California: il tutto tra selfie, cinguettii e video del
“figlio tecnologico”, che trasformano ogni tappa in un evento mediatico, un
diario di bordo da “postare” sui social network e su youtube per creare attesa
nei clienti e aumentare la coda davanti al furgone.
Chef, la ricetta perfetta viaggia rapido sul filo della comunicazione,
verso la quale tutti noi siamo dipendenti, a volte senza saperlo; non dimentica però di toccare anche la vicenda intima di un padre e marito
spesso inadeguato a ricoprire il “giusto” ruolo all’interno della famiglia,
e a cui il figlio è costretto ad elemosinare attenzioni, anche solo per stare
un po’ insieme e parlare.
Quello che succederà nel finale non ve lo stiamo a raccontare, sappiate
solo che vi ritroverete immersi nei ritmi cubani e nei sapori latinoamericani, con i sandwich che cambiano sapore ed ingredienti a seconda dei
gusti delle persone del luogo. Perché, sapete qual è il motto del nostro
chef? Lo twittiamo qui: @ChefCarlCasper «io entro nella vita della gente,
col mio mestiere» #ChefMovie.
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Panino gourmet & Birra artigianale
Ci facciamo un panino? Al tempo degli show sulla cucina, è diventato – anzi è
tornato – trendy sfamarsi mordendo un ricco sandwich. Il boom del genere
lo conferma il trend che vede i più famosi chef elaborare ricette pensate ad
hoc per un vero e proprio micro cosmo del gusto che è appunto un panino.
Visto il film, postate un invito al gusto ai vostri amici e sbizzarritevi insieme
nella creazione dell’abbinamento più goloso e originale a cui potete dare
vita. Crema di carciofi, pomodorini secchi sott’olio e finocchiona? Capocollo
con pecorino di fossa stagionato e olive taggiasche? Oppure il più classico
degli hamburger che diventa principesco se lo farcite con un’abbondante
pioggia di scaglie di tartufo.
Uno dei maestri dei panini gourmet è sicuramente Alessandro Frassica: visto
che sarete sicuramente degli smanettoni, consultate il suo sito per cercare
spunti e idee tra le centinaia di proposte nate per donare nuova dignità ad
un modo di mangiare goloso e fantasioso che nulla ha da invidiare ai piatti
più elaborati. Tra due estremità di pane (fate attenzione anche alla scelta di
quello più adatto, sperimentando qualche farina insolita) si racchiude infatti
un tripudio di gusti e sapori che difficilmente prima avevate immaginato di
unire. La fantasia sarà il vostro primo ingrediente.
E, per continuare ad essere smart, servitevi una birra artigianale pescando
nell’ampio ventaglio che anche l’Italia sa offrire. Chiara, rossa, scura o bianca
che sia, dipenderà da quali ingredienti comporranno il vostro golosissimo
panino!
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Grazie per la cioccolata,
la bevanda nera del Male
Q
uando vi capiterà, una sera, di sentire la mancanza di una storia
“alla Sherlock Holmes”, enigmatica e misteriosa, che vi tenga in
sospeso dall’inizio alla fine attraverso le immagini di un film, non dimenticatevi di Grazie per la cioccolata (Merci pour le chocolat, 2000) del
regista francese Claude Chabrol.
Una vicenda intrigante, sottile, psicologica, tratta dal libro The Chocolate Cobweb di Charlotte Armstrong, che vede protagonista l’attrice
Isabelle Huppert nei panni di Mika Muller, direttrice di una azienda di
cioccolato e moglie del famoso pianista André Polonski (l’attore Jacques
Dutronc). Con loro vive il figlio di André, Guillaume, avuto dalla prima
moglie, prematuramente scomparsa. Una vita che scorre tranquilla nella
quotidianità dell’alta borghesia svizzera, fatta di routine e cene spensierate con gli amici.
A rompere gli schemi, l’ingresso nella loro vita di Jeanne, una graziosa
pianista nata nello stesso giorno e nella stessa clinica di Guillaume, che
nutre il dubbio di essere stata scambiata nella culla e desidera per questo
incontrare il suo “presunto” padre.
Come la tela avvolgente di un ragno, Chabrol tesse le sue trame creando un’atmosfera sospesa, avvolta nel dubbio: perché il percorso che porta
Jeanne a entrare a tutti gli effetti nella vita e nella casa di André – spinta
dalla comune passione per il pianoforte e da una sfrenata curiosità di
capire se sia veramente suo padre – si circonda ben presto di elementi
misteriosi.
Ed è qui che entriamo nel terreno del gusto: sì, perché Mika, la padrona di casa, la cioccolata sembra davvero averla nel sangue. Oltre a prose-
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guire la tradizione di famiglia nel lavoro, il suo legame con la cioccolata
continua nella vita quotidiana. «Sono io che mi occupo della cioccolata»,
dirà in una sequenza emblematica: è lei infatti a prepararla tutte le sere,
finita la cena.
Forse vi chiederete: ma cosa ci può essere di tanto misterioso in una
bevanda? Iniziamo ad assaporarne i “foschi contorni” da una serie di indizi disseminati nel film. Innanzitutto la morbosità con cui Mika la prepara, in solitudine; la scena in cui la donna fa cadere volontariamente il
thermos, con la cioccolata calda che si sparge per terra, quasi fosse una
macchia di sangue; poi il sospetto di Jeanne e Guillaume che dentro la
cioccolata si possa nascondere un sonnifero; e infine i particolari del passato che entrano in gioco, come la morte dell’ex moglie di André, venuta
a mancare (forse uccisa?) in circostanze troppo strane. I tasselli del puzzle
si ricompongono uno alla volta, verso un finale ricco di colpi di scena.
E il gusto? Si cela nell’elemento-chiave della cioccolata, che qui si arricchisce di contenuti originali. Non più carico di poteri magici e afrodisiaci
come in Chocolat, né elemento simbolico che mette in subbuglio l’anima
dei personaggi, come nella ricetta messicana di Come l’acqua per il cioccolato. Qui invece la cioccolata è lo strumento stesso di un mistero, una
bevanda che con il suo color nero rappresenta perfettamente l’inquietudine di una donna che tiene tutta la famiglia sotto scacco, simbolo perfetto
del male oscuro che Mika, nelle pieghe del viso e dentro i suoi pericolosi
silenzi, porta con sé.
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Cinghiale al cioccolato & Barbaresco
Ci sono delle portate salate che utilizzano il cioccolato nell’ardito, ma molto interessante, abbinamento con alcuni tagli di carne. È il caso del cinghiale al
cioccolato, forse la ricetta più famosa della tipologia, interpretata dai maestri di cucina fino a diventare un classico, spesso citato nelle più autorevoli
riviste del genere. Si tratta di un piatto molto particolare e sicuramente non
semplice da riproporre a casa.
Ormai siete tutti o quasi dei provetti cuochi e, quindi, vale la pena tentare, così
da assaggiare qualcosa di insolito per sapori e abbinamenti che prenderanno forma. Legate la carne a mo’ di arrosto e lasciatela marinare per 8
ore coperta di vino rosso, con un gambo di sedano, una carota, una cipolla
a pezzetti e 3 spicchi di aglio. Scolate la carne marinata e rosolatela uniformemente in un velo di olio caldo. Trasferitela poi in un tegame con un
gambo di sedano, una carota, una cipolla a tocchi, uno spicchio di aglio e
un rametto di rosmarino. Salatela, irroratela di olio, portatela sul fuoco dolce
e cuocetela per 40’ circa, bagnandola via via che si asciuga con vino rosso
(non quello della marinata), in modo che si formi un sughetto.
A fine cottura filtrate il fondo e fatelo sobbollire con il cioccolato (preferibilmente fondente al 70%), fino a quando questo non sarà sciolto. Per il vino
da abbinare il consiglio vi porta in Piemonte, per stappare un affascinante
Barbaresco Docg. Con questa ricetta, infatti, vi servirà un nettare corposo
e inteso, dal profumo ampio e armonico. Quello che arriva dalle Langhe, a
base di uve Nebbiolo al 100% e quindi parente molto stretto del fratello più
grande Barolo, è il vino ideale per ricercare queste sensazioni, grazie al suo
carattere schietto e sincero.
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La cuoca del presidente,
i sapori antichi della nonna
U
ova strapazzate con porcini e cerfoglio, seguite da cavolo farcito
al salmone di Scozia e carote della Loira. Per dessert una torta
Saint Honoré alla crema della nonna. Voilà il primo menù cucinato all’Eliseo da Hortense Laborie, protagonista de La cuoca del presidente (Les
saveurs du Palais, 2012) di Christian Vincent.
Hortense, interpretata dall’attrice francese Catherine Frot, il destino
sembra averlo già nel nome. Nomen omen, dicevano i latini: il suo deriva
da hortus, il giardino di casa. È proprio lì che va a recuperare gli ortaggi
e i prodotti del territorio, alla ricerca di un gusto regionale tradizionale.
Un giorno, d’improvviso, andranno a prenderla nella sua fattoria nel
Périgord per portarla a Parigi, in Faubourg Saint Honoré, dimora di
“Monsieur le Président”. Un compito difficile l’attende: servire il capo dello Stato e rinvigorire le sue papille gustative invecchiate, che hanno solo
bisogno di «ritrovare il sapore delle cose semplici».
Un presidente d’altri tempi, che ricorda a memoria le ricette dei vecchi
manuali e gradisce piatti semplici ma “veri”. Ad essere bandite sono la
forma, gli intrugli e tutte le decorazioni inutili (in primis le roselline di
zucchero nei dessert). Per questo si troverà subito in sintonia con la nuova
chef, che cucina «come faceva mia nonna», con uno stile fatto di cibi cotti
a fuoco lento e di strumenti d’altri tempi. Come la “mussola”, tessuto leggero per rivestire il setaccio, indispensabile per cucinare le verdure, che
farà correre Hortense per mezza Parigi pur di trovarlo.
Per tutto il film la protagonista si diverte a sorprendere il presidente con piatti della cucina tradizionale: sapori antichi che evocano in lui
«un’infinità di ricordi d’infanzia». L’apoteosi si tocca nel pranzo di fami— 117 —
glia ispirato alla Loira, tra foie gras e pane di mais, cassolette di lumachine “alla Nantaise”, chaudrée charentaise (una zuppa di pesce e filetti di
seppia), formaggi di capra e pecora, e quella giuncata di Roquefort che le
creerà diversi dissapori con la cucina centrale. A lei non spettava, infatti,
il dessert, ma «ogni piatto conduce ad un altro, c’è un ordine, una logica.
Se togliete il tocco finale, che cosa succede? Che zoppica». Nello stile di
Hortense, il cuoco non è un contabile, ma un vero artista dei sapori.
Qualcuno potrebbe rivederci Il pranzo di Babette. Saranno gli ingredienti ricercati o le pietanze della tradizione francese (come il filetto di
bue in crosta o le costolette di agnello alle erbe). O sarà forse l’ambientazione “glaciale”: là era la Danimarca, qui invece un’isola antartica dove
Hortense va a cucinare per un anno, rifugiandosi ai confini del mondo
per disintossicarsi dalle malelingue parigine. In comune ci sono senz’altro
le vecchie maniere in cucina, quelle di chi ancora “parla” alle pentole e
detesta farsi chiamare «chef».
Una sera il presidente scenderà addirittura nelle segrete stanze della
cuoca per uno spuntino goloso: pane abbrustolito e imburrato con scaglie
di tartufo, servito con un bicchiere di Château Rayas del ‘69. Sarà quella
l’occasione giusta per aprirsi alla confessione che sono le avversità a tenerlo in vita: una riflessione che incoraggia Hortense a guardare oltre. Lo
sguardo della protagonista verso l’orizzonte e una piccola imbarcazione
che si allontana in mare aperto: sono le ultime immagini del film che ritraggono una donna semplice ma determinata a combattere le difficoltà,
che sono il vero «peperoncino» della vita.
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Tartufi & Barolo
«Una salute conservata con una dieta troppo severa è come una noiosa malattia». Parole “sante” quelle di Montesquieu che vengono citate nel film: la
buona cucina, infatti, fa bene al corpo ma anche e soprattutto allo spirito.
Senza esagerare, ovviamente. Hortense Laborie (la cui storia si ispira a quella
vera di Danièle Delpeuch, cuoca personale del presidente francese Mitterand dal 1988 al 1990) decide così di prendere letteralmente per la gola il
politico francese, proponendogli piatti ispirati alle tradizioni regionali francesi e ai ricordi di un’infanzia assai lontana. Senza alcun condizionamento
di spesa o salute.
Tra i tanti ingredienti di eccellenza impiegati sono i tartufi i grandi protagonisti.
Dei pregiatissimi tuberi si ritrovano tracce fin dal Medioevo con il nome che
assumeva varie declinazioni a seconda dei diversi dialetti italiani. Tartùfola,
trìfula o trìfola, ad esempio. Sia bianchi – i più pregiati – che neri – comunque gustosi – i tartufi oggi sono tra gli emblemi della cucina di alta qualità,
vuoi per il loro costo, spesso proibitivo, che per la loro difficoltà di reperimento.
Se un tempo si impiegavano perfino i maiali per stanarli, in tempi più recenti
è soprattutto un cane dal grande fiuto il fattore fondamentale per poterli
trovare. Se riuscite a reperirne uno, anche di piccola dimensione, ecco due
impieghi che potete concedervi. Provate, infatti, a spargere qualche sottile
scaglia su di un uovo cotto nel tegamino oppure su di un piatto di tagliolini.
Si tratta di due ricette molto semplici e facili da preparare che vi consentiranno
di apprezzare l’inconfondibile profumo del tartufo in tutta la sua integrità.
Stappate una bottiglia all’altezza della situazione, magari un ottimo Barolo
piemontese, vino straordinario per longevità, corpo e bouquet aromatico.
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Dessert
Caramel,
il gusto al femminile
S
plendide onde di caramello spalmate davanti ai nostri occhi, in un
tripudio di colori gialli, rossi e arancioni. Zucchero soffice immerso
in pentole di acqua bollente. E poi bolle di calore che borbottano e scoppiano dentro le padelle, creando un delizioso impasto dai filamenti dorati, da mangiare con gli occhi. Sono queste suggestioni in immagini ad
aprire Caramel (Sukkar banat, 2007) della regista Nadine Labaki, un film
che ci trasporta nelle atmosfere libanesi, nei colori caldi di Beirut, città
cui l’opera è dedicata. Una storia di donne, di amori e solitudini, di ansie
e felicità, tutte accomunate dal caramello e da una “certa” delicatezza del
vivere. Donne di età diverse i cui destini sembrano ricongiungersi dentro
il salone di bellezza “Si belle” (che in francese suona come “così bella”),
chiara allusione alle protagoniste, tutte al femminile, del film.
Quale cibo può esprimere meglio la sensualità femminile, se non proprio quel caramello che può svolgere il duplice “ruolo” di sostanza dolce
al palato e, al tempo stesso, di collante caldo per la cura del corpo?
C’è il tocco di una donna dietro la macchina da presa, e si vede. Una
sensibilità di sguardo resa attraverso le sollecitazioni tattili. Basti pensare
ad alcune scene girate con delicatezza dalla regista Nadine Labaki, che è
anche attrice protagonista del film, nei panni di Layale (la proprietaria del
salone). Fin dalla sequenza iniziale la vediamo giocare con il caramello
caldo tra le dita, assaggiarlo in bocca e poi spalmarlo addosso alle clienti,
usandolo come crema depilatoria, secondo il costume mediorientale.
Una metafora del “tocco” suggerita anche nella scena del make up di
zia Rose, donna matura che torna a farsi bella per uno spasimante, ma
che vedremo struccarsi subito dopo, in lacrime per non aver retto al peso
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degli anni riflessi sullo specchio. La troviamo anche nei gesti delicati della
giovane Rima, che accarezza e lava con cura i lunghissimi capelli neri
di un’affascinante cliente. Cliente che sarà protagonista del finale, ripresa
davanti ad una vetrina, mentre continua a “testare” con le dita la nuova
capigliatura corta, sorridente per aver dato un taglio al passato.
La camminata di Rose mano nella mano con l’anziana sorella, all’imbrunire, è l’epilogo migliore per un film delizioso, in cui il gusto non è
mai esplicito, sempre sotto le righe, appena spennellato, ma comunque
presente sottotraccia fin dal titolo: quel caramello che può sembrare a
prima vista un elemento marginale, ma che in realtà fa da collante a tutta
la storia, con la sua potente magia del calore, che rende il film buono da
gustare con gli occhi, quando non anche con il cuore.
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Gorgonzola & Marsala
È una di quelle domeniche uggiose? Di quelle passate in casa perché fuori piove
e il freddo comincia a pungere? Caramel è il film giusto per viaggiare un po’
con l’immaginazione dalla vostra postazione chiamata “divano”. La pellicola
è deliziosa e ha lasciato un tocco dolce, appena accennato, ma che il palato
vorrebbe approfondire. Provate a farlo con un abbinamento tanto insolito
quanto goloso. Prendete un calice ampio, che utilizzereste per un vino rosso importante, e versate un po’ di Marsala (nella versione Vergine Riserva
sarebbe perfetto).
Scrutate il colore intenso e lasciate ossigenare per qualche secondo prima di
tuffare il naso dentro il bicchiere. Ecco che le note profumate delle uve Grillo e Catarratto sembrano voler rapire l’olfatto. È merito del sapiente e lungo
invecchiamento che ha permesso di valorizzare delicatamente profumi e
sensazioni di questo straordinario vino liquoroso che nasce in Sicilia. Concedetevi ora un sorso ampio così da sentire l’equilibrata dolcezza conquistare
la bocca.
Ecco, il vostro palato è ora pronto per accogliere un qualcosa di sorprendente.
Osate con un pizzico di gorgonzola dolce, così da lasciarsi avvolgere come
fosse il caramello del film. Adesso la finestra assomiglierà a quella della protagonista Layale, pronta ad assumere nuove prospettive e orizzonti.
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Fragola e cioccolato,
l’identità in un sapore
D
opo aver visto Fragola e cioccolato (Fresa y chocolate, 1993), la
scelta del vostro gelato estivo non sarà più la stessa. Del film cubano di Tomás Gutiérrez Alea basta forse una sola sequenza a dare senso
a una storia intera.
Per chi non conoscesse la scena in questione, proviamo a raccontarla: Diego (l’attore Jorge Perugorría) tenta di corteggiare David (Vladimir
Cruz) in un bar all’aperto, sedendosi al suo stesso tavolo. Entrambi hanno
di fronte una coppa di gelato, ma con gusti diversi. L’Avana 1979: il contesto è quello di una Cuba castrista e proibizionista. David è uno studente
militante comunista mentre Diego è un giovane omosessuale “trasgressivo” che ama leggere libri censurati, fa collezione d’icone cattoliche e
ascolta musiche proibite che vengono dall’Europa.
In campo sembrano esserci tutti gli ingredienti per un vero e proprio
scontro, costruito su due personaggi così apparentemente differenti. Diversi, dicevamo, per colore della pelle, estrazione sociale, convinzioni
politiche e soprattutto per inclinazioni sessuali. Così distanti anche nella
scelta dei gusti del gelato: sì, perché nella scena che ancora non vi abbiamo finito di descrivere, Diego andrà a sedersi proprio di fronte a David e,
mangiando il gelato, tenterà di sedurlo a gesti e a parole: «Non ho potuto
resistere. Mi fa impazzire la fragola! È l’unica cosa buona che c’è in questo
paese». Trovandone un pezzo intero dentro la coppa, continuerà così,
in un evidente doppio senso: «Oggi è il mio giorno fortunato. Incontri
meravigliosi». Seduto dalla parte opposta del tavolino, con il suo gelato al
cioccolato, troviamo David, imbarazzato e infastidito dagli atteggiamenti
effeminati dell’altro.
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Può il gusto del gelato farsi simbolo e stereotipo di una scelta di “campo” sessuale? Raccontando lo strano incontro a un amico, David più tardi
dirà di aver avuto la conferma dell’omosessualità di Diego proprio dal
sapore: «C’era il cioccolato e ha preso la fragola». Strano, non vi sembra?
Eppure il gusto, inteso come senso del palato, può allargarsi a un significato più generale, e farsi anche specchio di un’identità, di una preferenza
sociale e individuale.
Fragola e cioccolato è un film delicato che gioca sul confronto, anche
dialettico, tra i due personaggi: se David all’inizio considera gli omosessuali come “spie del capitalismo”, Diego al contrario rimprovera all’altro
di non conoscere a sufficienza la cultura cubana. Entrambi arroccati nelle
loro rispettive posizioni, pian piano i due finiranno per avvicinarsi.
Cosa dobbiamo aspettarci dal finale? L’ultima sequenza ci propone
una situazione identica a quella iniziale, ma a ruoli invertiti: i due amici
si siedono allo stesso tavolo del bar, ma David scambierà il suo gelato
al cioccolato con quello alla fragola dell’altro, giocando a sedurre Diego
con le stesse parole del loro primo incontro. Una situazione esattamente
rovesciata e particolarmente divertente, che mette a nudo l’ipocrisia del
“primo” David. Ecco che il sapore di fragola o di cioccolato, che all’inizio
aveva diviso i due protagonisti, alla fine riuscirà a unirli, in un inno alla
tolleranza e alla libertà, contro tutti i pregiudizi.
E voi cosa preferite? Il gelato alla fragola o al cioccolato? La prossima
volta, ne siamo certi, farete più attenzione al gusto da scegliere.
Bavarese di fragole e cioccolato
fondente & Malvasia delle Lipari passito
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Non sappiamo e non vogliamo scegliere. Siamo golosi di natura e quindi vogliamo gustare sia la cioccolata che la fragola. Si tratta di una felice coppia di fatto
che, nell’arte pasticcera, trova numerose interpretazioni, capaci di prendere
per la gola chiunque. Anche coloro che si mostrano un po’ refrattari ai dessert. Allora che ne dite di provare l’abbinamento dei nostri due ingredienti in
un dolce al cucchiaio, da gustarsi al termine del vostro pasto? Scegliamo la
bavarese di fragole con cioccolato fondente. Innanzitutto sapete perché si
chiama bavarese quando è un dolce originario della Francia? Pare prenda il
nome da una bevanda tedesca composta da latte, liquore e tè, che si è poi diffusa in Francia, ispirando la creazione di questo goloso dolce, preparato con
una base di crema inglese, a cui vengono poi aggiunti colla di pesce e panna
semimontata. La preparazione è più semplice di quanto si possa pensare: occorre montare 3 tuorli d’uovo con circa 125 grammi di zucchero, poi quando
il composto diventa spumoso, potete aggiungere 1 bicchiere di latte tiepido
e proseguire la cottura per alcuni minuti sul fuoco, a fiamma bassa. Dopo aver
incorporato i fogli di gelatina che servono per addensare la bavarese (ve ne
serviranno 5), il composto va lasciato raffreddare alcuni minuti in frigo e poi va
aggiunta la panna montata.
La nostra evoluzione prevede di aggiungervi sopra le fragole, che avrete mondato
con zucchero e limone, e il cioccolato fondente fuso. Non avete già l’acquolina alla bocca? Resistete ancora un attimo, giusto il tempo di scegliere l’abbinamento enologico ideale. Con questo tipo di dolce vi servirà infatti un vino
da dessert, preferibilmente mediamente dolce ma dotato del giusto apporto
di alcool, utile per ripulire la bocca. Ecco una profumata Malvasia delle Lipari,
Doc che arriva dalle Isole Eolie, in provincia di Messina. Nella versione passito
è un nettare pregiato, dagli intriganti riflessi dorati, dai profumi aromatici che
conquisteranno il vostro olfatto, prima di un sapore che alla bocca risulterà
armonico e regale.
Il profumo del mosto selvatico,
alla “radice” del gusto
Se pensate alla vostra infanzia, anche a voi tornano subito “al naso” gli
aromi intensi dei chicchi d’uva? Chi da piccolo ha trascorso alcune ore
d’autunno in campagna, come può dimenticare i profumi indelebili della
vendemmia, una vera gioia per gli occhi e le narici? Ecco, Il profumo del
mosto selvatico (A walk in the clouds, 1995) del messicano Alfonso Arau
riuscirà certamente a rendere vivo questo ricordo e vi emozionerà con
l’olfatto, vero e proprio “ponte” per le sensazioni lontane nella memoria,
ma anche per le confinanti percezioni gustative che ne derivano.
Le prime immagini anticipano quello che sarà il filo conduttore del
film: a pieno schermo, grappoli d’uva al tramonto, in un’atmosfera di colori caldi ed emozioni palpabili. Come location, la tenuta “Le Nuvole”,
immersa nella natura della Napa Valley come in un quadro dipinto; sullo
sfondo, un cielo da cartolina, in mezzo filari che si perdono a vista d’occhio e in primo piano Paul e Victoria, due amanti “inconsueti”, le cui vite
si sono appena incrociate per caso, prima su un aereo, e poi su un autobus
scassato. Una favola che si ispira liberamente (fin dal titolo in inglese) a
quel capolavoro italiano che è Quattro passi tra le nuvole di Alessandro
Blasetti (1942).
Se non si è ancora capito, centro del film è la vita dell’uva: «Questa
terra, questo vigneto m’impegna 365 giorni l’anno», dice Alberto, padre
di Victoria, che dirige i lavori della vigna. Mentre il vecchio capofamiglia
Don Pedro, dopo una notte quasi insonne, svela: «È il richiamo dell’uva
che ci ruba il sonno. Quando è matura, chiama l’uomo».
Un viaggio nelle diverse fasi che portano alla produzione del vino: la
prima gelata si trasforma così in un ballo di angeli bianchi, in cui i protagonisti, con delle specie di “ali” di tela trasparente, diffondono delica— 131 —
tamente il calore del fuoco per evitare che i chicchi assorbano il freddo.
Una scena di grande effetto visivo, con il contrasto di colori in chiaroscuro reso attraverso il nero della notte, il rosso del fuoco e il bianco delle ali.
Poi seguiamo la potatura e la vendemmia, un vero e proprio “momento di magia”, in cui Paul e Alberto finiscono per fare a gara a chi raccoglie
prima tutti i grappoli del filare. E infine la pigiatura, che si trasforma in
una danza gioiosa dove gli amanti si scambiano il loro primo bacio.
Ma la scena madre resta il finale, che qui non vogliamo svelare del
tutto. «Questa è la radice, è la tua vita. Alla radice è la tua famiglia, tu sei
legato a questa terra e a questa famiglia con la promessa e con l’amore,
piantala e crescerà!», dirà l’attore Giancarlo Giannini (Alberto) a Keanu
Reeves (nei panni di Paul) in un emblematico passaggio di testimone.
Riuscirà il nostro Paul, orfano dei genitori, a ritrovare nella vite le proprie origini, aggrappandosi all’ultima pianta rimasta in vigna? Come farà
a scacciare i “mostri” della guerra appena combattuta da soldato? Un epilogo che ci svelerà “la radice del gusto”, simbolo di un nuovo inizio, di una
rinascita, di una riconciliazione.
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Schiaccia ’briaca & Aleatico dell’Elba
La vendemmia è una festa ricca di profumi e sapori. Dopo tanto attendere e
sperare, la raccolta delle uve è un lavoro faticoso ma anche un tripudio che
accoglie il vino nuovo esaltando quel frutto prelibato che si presta anche ad
altri golosi impieghi. La Toscana, in tal senso, è patria di fantasiose ed originali ricette a base di uva. Nel fiorentino, settembre coincide con la preparazione della schiacciata con l’uva, nella quale si impiegano succulenti chicchi
di uva da vino e semi di anice.
Arriva dall’Isola d’Elba un’altra ricetta ideale per calarsi con il gusto dentro
quell’atmosfera gioiosa che coincide con il periodo di raccolta delle uve:
la schiaccia ’briaca, così chiamata in quel gergo genuinamente toscano
perché bagnata con l’Aleatico dell’Elba, pregiato passito dal colore rubino intenso, caro anche a Napoleone durante il suo esilio forzato sull’isola.
La schiaccia è un dolce tipico, dalla forma rotonda, poco lievitato e senza
uova che, proprio per queste caratteristiche, trovava spesso posto all’interno delle cambuse delle navi come prezioso nutriente in mezzo al mare. Lo si
prepara con un impasto a base di farina di grano tenero “00”, uva sultanina,
zucchero, olio di oliva, alchermes, nocciole, pinoli, vino passito, scorze di
arancio candito, polvere lievitante, aroma di arancio dolce e quell’immancabile tocco segreto che ogni buon pasticciere artigianale riesce a dare alle
sue creazioni. L’impasto va poi cotto in forno per circa 45’.
Proprio l’Aleatico è il compagno perfetto per le sue intriganti note profumate e,
soprattutto, per quel suo sapore appena, ma non troppo, dolce. La particolarità di questo vino è quella che le uve siano fatte appassire direttamente
sulla pianta per poi essere impiegate nel ciclo produttivo. Di bottiglie in
giro se ne trovano davvero poche, per questo il suo sapore è ancora più
pregiato.
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Un tocco di zenzero
e il “sale” della vita
L
a vita di Fanis è intrisa fin da bambino degli aromi e dei profumi
della sua città, Istanbul, la città delle spezie. Non può che essere ricco di sollecitazioni sensoriali Un tocco di zenzero (Politiki kouzina, 2003)
del regista greco Tassos Boulmetis che, attraverso le vicende del suo protagonista, gioca sul rapporto intimo e metaforico che sembra legare la
vita all’universo dei sapori.
«Per illustrare la nostra cucina, bisogna iniziare dalle spezie. Ho imparato i primi segreti sulle spezie nella bottega del nonno, sulla riva orientale del Bosforo», confessa la voce fuori campo. Se il cumino è forte ed
aggredisce, inducendo le persone a “chiudersi”, lo zenzero invece, con il
suo gusto delicato e pungente, spinge a guardarsi negli occhi: sono questi
i primi insegnamenti del vecchio nonno Vassilis al nipote, spesso conditi
di metafore che danno gusto alla storia, in un costante intreccio tra cucina e astronomia. Il pepe, ad esempio, è caldo, scotta ed è associato al Sole;
la cannella invece rappresenta Venere, dolce e amara come le donne. Poi
c’è la Terra, che è il pianeta della vita: «e di che cosa ha bisogno la vita?
Di cibo. E cosa rende il cibo più gustoso? Il sale. E anche la nostra vita ha
bisogno di sale per avere più gusto».
Un tocco di zenzero è forse un viaggio alla scoperta dei piccoli segreti
della vita? Anche se non si vede «la sostanza sta nel sale», spiega Vassilis, che consiglia sempre di parlare delle cose che non si possono vedere.
Forse è per questo che la pellicola si apre e si chiude sul parallelo tra le
spezie e le stelle, perfette entrambe per creare un ponte con il sogno e
l’immaginazione.
Una vicenda dai contorni fiabeschi, quella di Fanis, in cui le emozioni
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intime si legano ai ricordi dei sapori e degli odori d’infanzia. Un intreccio
continuo tra nonno e nipote, così vicini nel loro forte legame familiare,
ma anche così lontani fisicamente per uno scherzo della Storia: quella con
la “S” maiuscola, che vede Turchia e Grecia in conflitto tra loro alla fine
degli anni ‘50, in una guerra che allontana fatalmente i due personaggi
(non a caso il titolo originale in greco è “cucina politica”).
Un film che descrive anche un fortissimo senso di appartenenza al
proprio paese e alle proprie radici. Così Istanbul rimane nel cuore di Fanis, che riesce sempre a portarla con sé nei sapori della sua cucina così
speziata. Fin da piccolo, il protagonista è un cuoco provetto: poco importa se per uno strano gioco del destino finirà per diventare professore di
astronomia. Perché «a volte bisogna usare le spezie sbagliate, per ottenere
l’effetto desiderato, aggiungere qualcosa di diverso», ricorda il nonno. E
poi in fondo, se ci pensiamo bene, «la parola gastronomo racchiude la
parola astronomo» e il senso di una vita, sembra indicarci Boulmetis, è
come il sale o come un pianeta lontano: non si può vedere, ma va assaporato e colto nelle pieghe del quotidiano.
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Pan di zenzero & Picolit
Delicato ma pungente. È questo l’animo che caratterizza lo zenzero che, proveniente dall’Oriente, si presta a molteplici utilizzi in cucina, anche in quella
nostrana. Come abbiamo scoperto dal film che narra la storia di Fanis, lo
zenzero veniva impiegato assieme alla cannella quando la carne non era
fresca. Non solo però. In una delle novelle del Decamerone lo zenzero viene
citato quando Boccaccio descrive l’arte fiorentina dei dolciumi.
Ai giorni nostri lo troviamo anche in una delle numerose varietà della cioccolata
di Modica. Ecco perché, se vi dovesse capitare di vedere il film nel periodo di
Natale, può essere divertente ispirarsi nella preparazione dei biscotti a base
di pan di zenzero. Si tratta di un impasto che vede protagonisti, oltre allo
zenzero e la cannella, i chiodi di garofano e la noce moscata. Li conoscerete
sicuramente perché sono quei simpatici biscottini che, pur di origine britannica, hanno trovato sempre più spazio nei modi più originali di celebrare
le festività anche in Italia. Preparato l’impasto, potrete poi divertirvi a condividere il momento della realizzazione delle forme più particolari, decorate
con glasse colorate.
Sempre in compagnia potrete degustare un calice di Picolit, pregiato vino passito originario del Friuli, Docg della zona di Udine. La particolarità di questo
vitigno sta nei pochi acini che si sviluppano sui grappoli a causa di un difetto di impollinazione. I chicchi sono pochi ma dolcissimi: per questo prende
forma un vino straordinario per bouquet aromatico al naso che, in alcuni
versioni, richiama anche alcune delle “nostre” spezie più delicate, perfino lo
stesso zenzero.
Una volta in bocca lasciatevi trasportare dalla piacevolezza equilibrata di fragranze dolci e dal giusto tocco di acidità che vi faranno un po’ sognare.
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Chef,
il Mozart del piano (di cucina)
U
n consiglio: prendete carta e penna prima di guardare Chef di
Daniel Cohen (Comme un chef, 2012). Come farete altrimenti a
ricordarvi tutte le strepitose ricette che vengono svelate nel film? Se volete
catturare qualche piccolo segreto dalle portate del prestigioso ristorante
tre stelle “Cargo Lagarde” di Parigi, è proprio il caso di prendere appunti. Sulle note di Nicola Piovani, di fronte ai vostri occhi vedrete infatti
scorrere una portata dietro l’altra: agnello aromatizzato con cannella e
foglie di loto, tartine di ossobuco al nero di seppia, spuma di pomodori
al cetriolo… Già dai titoli di testa una grafica intrigante esplora le pagine di un menù, con gli attori a recitare la parte degli ingredienti, in un
continuo vai e vieni metaforico tra cinema e cucina. Poi la macchina da
presa ci presenta il primo dei protagonisti: Jacky Bonnot (l’attore Michaël
Youn), cuoco di talento in cerca di lavoro. Abile tra i fornelli, col fare
estroso di chi legge Auguste Escoffier e cita Paul Bocuse – grandi chef
francesi –, giovane arrogante e determinato, fiero di aver cucinato il suo
«primo pollo alla basca a quattro anni e il primo soufflé a cinque».
Se vi chiedete perché i ristoratori facciano a gara a chi lo licenzia prima, la risposta è semplice: nessuno riesce a capire la sua cucina così sofisticata. In umili tavole calde di quartiere, Jacky pensa bene di servire
piatti come la mousse di zucca gialla con castagne candite, i ravioli di
pomodoro su foglia di lattuga, accompagnati da barbabietola rossa alla
paprica, in una zuppa di crescione con aromi di spuma di carota e una
linea di aceto di sidro di Azincourt.
Poi c’è il grande cuoco stellato Alexandre Lagarde, interpretato da Jean
Reno, che ama proporre piatti della tradizione e che è alle prese con una
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crisi d’ispirazione per creare il nuovo menù di primavera, incalzato com’è
da un terzo “incomodo”: è il nuovo manager rampante del “Cargo Lagarde”, pronto a tutto pur di allontanarlo dal ristorante. Stanislas vorrebbe lasciarsi incantare dalle sirene della cucina molecolare, quelle che portano
in tavola mousse di rafano fosforescente, entrecôte effervescenti e cubetti
di ghiaccio al pollo, tutti piatti innovativi suggeriti dal nuovo chef inglese
à la page.
L’incontro tra Alexandre e Jacky sarà tanto fortuito quanto esplosivo.
Liti, battibecchi divertenti sui sapori della tradizione («la melanzana è
suscettibile, bisogna guardarla dritta negli occhi»), dispute sull’equilibrio
e l’armonia nelle spezie. Da una parte il padre delle ricette, che non ricorda più nel dettaglio le sue invenzioni d’un tempo; dall’altra invece il
giovane «che sussurrava alle verdure», quello che sente parlare la carota
(dice «grattugiami!»), e che continua a difendere a spada tratta le ricette
originali del maestro. In Chef troverete tutto questo e molto altro ancora.
Anche una buffa parodia dei cibi istantanei, quelli che si ottengono usando l’azoto liquido, e di tutte le operazioni molecolari da “piccolo chimico”
che, come consiglia la saggezza popolare, fanno tanto fumo e poco arrosto. A loro, in effetti, manca un ingrediente fondamentale, chiosa Alexandre Lagarde dall’alto della sua toque blanche: le emozioni. Perché «senza
amore non siamo niente», ammette. E questo, ovviamente, vale anche in
cucina.
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Tiramisù & Moscadello di Montalcino
Avete mai provato a fare un tiramisù sotto lo sguardo vigile di Gordon Ramsey?
Al sottoscritto è capitato, ovviamente per gioco e non perché assoldato alla
sua cucina. Ramsey è il popolare e “grintoso” cuoco che ha dato il via al
fenomeno della cucina – ormai dilagante – in tv, a partire dalla sua trasmissione dedicata al rilancio dei ristoranti più disastrati. Avete visto mai le “partacce” (per dire un eufemismo) che è capace di fare?
Come d’altronde il trio protagonista di Masterchef che strapazza spesso i concorrenti della trasmissione per una preparazione non in linea con le aspettative.
Insomma, lavorare dentro la cucina di un grande ristorante è sicuramente
molto difficile ma, dopo aver visto il film Chef, oltre che fame potreste anche
avere voglia di tentare l’iscrizione ad una delle trasmissioni tanto di moda.
Allora allenatevi con la preparazione di una ricetta che potrebbero chiedervi
in fase di selezione: quella del Tiramisù. È curioso scoprire il dibattito sull’origine di questa autentica golosità e di cui esistono varie interpretazioni. Ne
suggerisco una di un’amica fidata che prevede: 4 uova (dividere le chiare dai
tuorli), un cucchiaio di zucchero per ogni tuorlo. Montare a neve le chiare,
lavorare lo zucchero con i tuorli, ai quali aggiungerete 500 grammi di mascarpone e le chiare montate. Amalgamate il tutto aggiungendo un po’ di
panna montata. Un buon caffè per bagnare i pavesini (potete usare anche i
savoiardi, a seconda della preferenza), cioccolato in scaglie e cacao in polvere. Realizzate almeno due strati seguendo questo criterio: pavesini, crema,
pavesini, crema, cacao in polvere.
In abbinamento servirà un vino da dessert non eccessivamente zuccherino, per
non stuccare troppo la bocca. Ecco il Moscadello di Montalcino, prodotto
nel territorio senese dalle omonime uve e in piccole quantità. Un vino raro,
prezioso ed affascinante fin dal colore, che vi colpirà per le sue sfumature
dorate e vi conquisterà per la sua delicata e profumata armonia. Con questa
proposta potreste convincere anche il più severo chef.
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Vatel,
alla “corte” del gusto
S
e vi piacciono i film in costume, che ricostruiscono le vicende storiche e sanno intrecciarle con memorabili sequenze di banchetti e
pasti luculliani, Vatel di Roland Joffé (2000) è il film che fa per voi! Un
bell’affresco del gusto all’epoca del Re Sole in cui si raccontano le gesta
del principe di Condé che deve prepararsi ad accogliere a corte il Re Luigi XIV. Per farlo si affida alle sapienti mani del maestro di cerimonie
François Vatel, il grande Gérard Depardieu.
Chiudete gli occhi e immaginate di trovarvi nella Francia del 1671,
dentro il castello di Chantilly imbandito a festa: vi muoverete attorno a
sculture di ghiaccio, giochi pirotecnici, spettacoli teatrali e fontane zampillanti, che fanno da cornice a grandiosi pasti preparati per il Re Sole.
Sarete tra i pochi fortunati che potranno dire di avere assaggiato per
primi una deliziosa panna fresca montata a mano, con vaniglia e zucchero a velo, che serve per farcire e decorare i dolci: è la “crema Chantilly”
che viene creata da Vatel proprio per l’occasione.
Vi sembrerà di rivivere l’atmosfera di un altro classico del cinema, La
presa del potere da parte di Luigi XIV di Roberto Rossellini (1966), che
come Vatel rappresenta gli schemi rituali delle portate come una metafora sottile di pericolosi giochi di potere. Sì, perché dietro al cibo si
nascondono delle insidie e di questi sotterfugi pagherà dazio il nostro
Depardieu, personaggio che non sembra avere mezze misure, tanto arde
in lui il fuoco della passione per il cibo, per le donne e per il suo mestiere.
«La bellezza nasce sempre da armonia e contrasto», svela il protagonista,
costretto sempre a «creare e stupire», per coprire con effetti di luce abbagliante il buio delle meschinità e delle frivolezze dei padroni.
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Così al centro dell’attenzione saranno soprattutto le scenografie barocche, le ghirlande fatte di zucchero filato, le stupende decorazioni dei
cestini con fragole e fiori e le composizioni di frutta e verdura. Le bontà
preparate con cura meticolosa passano in secondo piano, diventano accessorie, perché il pasto si fa spettacolo e il gusto rappresenta in primis
l’espressione di un cerimoniale.
Vatel racconta un crescendo di emozioni e regala un climax dalla grande potenza visiva e scenografica. Rilassatevi allora davanti alle immagini:
sulle note di Ennio Morricone vi sentirete anche voi dei prìncipi, seduti a
fianco di Madame de Montausier (Uma Thurman), intenti ad assaporare
fino in fondo gli aromi e i sapori di un’epoca lontana. Riempite gli occhi
e la pancia di qualcosa di straordinario: «Oggi finalmente ho imparato
qualcosa di raro», dirà il Re Sole a metà banchetto. Attenti però a non perdere la parrucca di corte o a sgualcire il costume, perché in un mondo di
apparenza e illusioni, bisogna guardarsi dagli sguardi maligni: è il “gusto”
di un’epoca, state all’erta, se a farne le spese non volete essere anche voi…
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Crema Chantilly, ciliegie
& Moscato d’Asti
Siete golosi? Speriamo di sì, perché uno spazio per il dolce – probabilmente l’apoteosi del gusto – si trova sempre. Specie di fronte ad opere di pasticceria
che stupiscono gli occhi e rendono profonda la gola. Vatel, almeno secondo
la leggenda, è davvero colui che inventò la crema Chantilly (l’elaborazione
della “nostra” panna montata), indispensabile e goduriosa base per tanti tipi
di torte. Prepariamone una generosa, in cui la panna sia tanta a decorare la
superficie e anche gli strati a base di pan di Spagna (che è stato inventato
da un cuoco genovese ma esaltato alla corte spagnola nella metà del ’700).
Sopra distribuite con cura tante ciliegie fresche, denocciolate e precedentemente immerse nella cioccolata fondente che avete fatto sciogliere lentamente a “bagnomaria”. Sentite già il profumo conquistare il vostro olfatto?
Pensate alla gioia del palato!
Per l’abbinamento con un vino vi servirà qualcosa di non eccessivamente dolce,
capace di ripulire la bocca dopo un assaggio di torta e prepararla a quello
successivo. Questo compito spetta al livello di acidità di un vino. Niente passiti, quindi, perché rischierebbero di aggiungere dolce su dolce e “ingrassare” troppo, fino a stuccare. L’ideale è quindi un Moscato d’Asti Docg, straordinario vitigno del Piemonte capace di dare vita ad uno spumante dolce
ma delicato, aromatizzato e dal moderato contenuto alcolico. Tenetelo in
frigorifero fino all’attimo prima di servirlo nei flûte.
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I cinque sensi,
un film da “sentire”
C
hiudete gli occhi, respirate qualche secondo e concentratevi sui
vostri sensi. Ora potete riaprirli e siete pronti a gustarvi I cinque
sensi del regista canadese Jeremy Podeswa (The Five Senses, 1999), un
film che va “sentito”.
L’abilità tattile di una massaggiatrice che non riesce però a “toccare” il
cuore di sua figlia; l’odorato di un collezionista di profumi alla ricerca disperata dell’«essenza dell’amore»; la vista di una adolescente che sembra
guardare il mondo attraverso il filtro distorto dei suoi occhiali, incapace
com’è di cogliere il lato positivo della vita; l’udito di un oculista che sta
diventando sordo e tenta di assaporare i suoni più importanti per l’ultima
volta (la voce della figlia, il rumore del treno che si avvicina rapido sulle
rotaie, il battito del cuore di una donna). E poi, dulcis in fundo, il gusto
poco invitante di una decoratrice di torte bellissime ma senza sapore,
perché insipide sono in realtà le sue emozioni.
Questi i cinque capitoli in cui è suddiviso il film, ciascuno dei quali dedicato all’indagine di una singola sfera sensoriale. E se vi chiedete quale
sia il filo conduttore di storie tanto diverse, pensate ai protagonisti e alla
loro battaglia personale contro la perdita progressiva di uno dei cinque
sensi. Condizione che ci rivela in realtà una caratteristica “naturale” del
mezzo cinematografico, che per raccontare la sensorialità si trova spesso costretto a rappresentare un’assenza percettiva. Pensiamo alla celebre
fioraia cieca di Luci della città di Charlie Chaplin (1931) che, una volta
riacquisita la vista, riesce a riconoscere Charlot solo al tatto: una sequenza che insegna a noi spettatori come anche gli occhi, a volte, possano
ingannare.
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Ecco, I cinque sensi apre proprio alla scoperta di alcuni confini della
sensazione: nell’episodio dedicato al gusto, ad esempio, Rona è una giovane “stilista del cibo” canadese che decora torte all’apparenza magnifiche,
ma senza gusto. «Il sapore non è importante, devono solo avere un bell’aspetto», confessa infatti la ragazza. Ma Roberto, il ragazzo italiano che
decide di farle una sorpresa, andando a trovarla in Canada, non sembra
assolutamente d’accordo: «No, il sapore è molto importante, non è una
scultura che si deve vedere solo bene».
Si scontrano qui due modi di intendere la vita e il gusto: da una parte la razionalità di Rona, incapace di lasciarsi andare nella vita e negli
amori, rigida nelle sue abitudini e poco aperta alle novità. Dall’altra, il
personaggio un po’ stereotipato dell’italiano bello e fascinoso, amante del
buon vivere, delle donne e della cucina, un eterno seduttore che tenta di
prendere per la gola la persona amata. Rona è attenta al bell’aspetto delle
torte che cucina: non le assaggia, sembra invece divorarle velocemente,
per poi sputarle o gettarle via con fastidio. Roberto invece pensa solo al
piacere del palato: invece di abbuffarsi, preferisce prendersi il tempo per
assaporare le torte con calma. La sensazione di buon gusto richiede tempi
lenti, lo abbiamo visto più volte.
Quello che invece rende la storia originale è la frontiera sottile, qui ben
evidenziata, tra il «vedere» e l’«avere sapore». È questo il nodo centrale
della vicenda, che ci induce a riflettere in modo critico sul luogo comune
che accosta immediatamente ciò che è bello a qualcosa di buono. Sono
molti, infatti, i film che amano stupire e mettere l’acquolina in bocca agli
spettatori con sequenze magnifiche di presentazione dei piatti. E così accade anche per i cibi che troviamo a tavola o al supermercato tutti i giorni. Ma stiamo attenti, sembra ammiccare Podeswa, perché il gusto non è
soltanto bello da vedere. Come recita anche il vecchio detto popolare, a
volte «l’apparenza inganna».
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Peconzola & Vinsanto
Le torte di Rona non saranno neppure un granché ma se accettiamo il guanto
della sfida e proviamo ad aprire i nostri cinque sensi a tutte le percezioni,
potremmo sperimentare un abbinamento enogastronomico insolito, adatto ad una pellicola di sollecitazioni sensoriali. Immaginandosi di risalire dalla
frescura di una delle cantine storiche che si trovano nel cuore del centro
storico di Montepulciano, e che ospitano pregiate botti di Nobile e preziosi
caratelli, divertiamoci ad unire due vere e proprie “chicche” per provare un
gusto nuovo, da condividere dopo il film.
I protagonisti sono un buon Vinsanto, preferibilmente con qualche anno sulle
spalle, e un formaggio insolito. Mica vi sarete infatti fermati all’abbinare il famoso vino ai pur sempre buoni Cantucci? Ok, quello è un must ormai esportato in tutto il mondo, ma proponiamo un azzardo, fidatevi come abbiamo
fatto noi, raccogliendo un prezioso suggerimento e abbinando il nostro
Vinsanto (che magari avete fatto sostare un po’ in frigorifero) con il Peconzola che, come si può dedurre dal nome, è un incrocio molto goloso, perché del più famoso Gorgonzola Dop conserva le note decise delle pregiate
e nobili muffe sposandosi però con il latte di pecora e quindi assumendo
una consistenza lievemente maggiore.
Un’esperienza di sapori insolita, che vedrà il vostro palato prima assalito dalle
note robuste del Peconzola e quindi come rilassato dalla conquista delle
note più dolci e ammalianti del Vinsanto. Giusto un tocco prima di farsi rapire da altre sensazioni. A voi la scelta…
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La fabbrica di cioccolato,
un gustoso tuffo nella fantasia
«S
e vedendo La fabbrica di cioccolato di Tim Burton vi verrà
fame, sappiate che è una fame salutare, non un effetto speciale»: a metterci in guardia è il critico cinematografico Alberto Crespi nella
sua recensione di Charlie and the Chocolate Factory (2005), trasposizione
del romanzo di Roald Dahl (1964).
Proprio da qui bisogna partire per capire un’opera tanto geniale quanto gustosa: dalla capacità del film di mettere in scena davanti ai nostri occhi uno spettacolo bello da vedere e buono per le suggestioni che offre al
palato. Come non restare inebriati di fronte ai fiumi di cioccolata sciolta
e ai prati d’erba deliziosi da assaggiare? «Ogni cosa qui dentro è commestibile», dice Willy Wonka, il più grande cioccolataio al mondo, parlando
della sua fabbrica. Tutto ciò che vediamo dentro il suo castello, infatti, è
buono da mangiare: fiori fatti di caramello, cascate che “mescolano” con
il loro movimento il cioccolato caldo, frutti di panna montata e montagne create con scaglie di cioccolata. C’è davvero da farne indigestione.
Davanti a noi un mondo fantastico e colorato in cui si muove il protagonista, interpretato dallo straordinario Johnny Depp, che vive isolato
dentro la sua meravigliosa fabbrica insieme a 165 scapestrati operai, i
nanetti “Oompa Loompa”. Un bel giorno deciderà però di aprire le porte della sua dimora alla visita di cinque vincitori di un concorso da lui
indetto per cercare di “scovare” il suo successore. Cinque bambini a cui
viene data l’opportunità di visitare la sua reggia da sogno. Alla fine uno
solo di loro riceverà un dono speciale: diventare il futuro Wonka, ereditandone la fabbrica intera. Chi vincerà? C’è l’ingordo Augustus, la ricca e
viziata Veruca, la vanitosa campionessa di gomma da masticare Violetta,
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il tv dipendente Mike. A venirne fuori è il dipinto amaro di una gioventù
egoista e arrivista, pronta a tutto pur di avere la meglio sugli altri, specchio di genitori senza valori. C’è da scommettere che sarà invece Charlie,
il più povero e il più genuino, a ottenere la stima di Wonka, per i suoi sani
princìpi e la sua spontaneità.
La fabbrica di cioccolato è un bel tuffo nella fantasia: più della trama o
della morale che sottende, ad impressionare sono soprattutto le intuizioni
visive e sonore messe in scena da Tim Burton, un vero e proprio artista
della creatività.
Nel doppio “percorso” della storia, se il piccolo Charlie riuscirà a meritarsi l’eredità della fabbrica di cioccolato, Willy Wonka arriverà invece
a guadagnarsi una cosa ancor migliore: una famiglia. E così il narratore
può concludere che per entrambi «una cosa era assolutamente certa: la
vita non era mai stata più dolce».
Dimenticavo, una raccomandazione quando (ri)vedrete il film di Tim
Burton: se il cioccolato dà sempre «la sensazione di essere innamorati»,
occhio allora a non cadere anche voi nella “trappola” della dipendenza.
Potrebbe essere contagiosa!
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Cioccolato al peperoncino
& Barolo chinato
Anche il gusto può diventare un gioco divertente. Specie se decidete di liberare
la fantasia e tentare qualche abbinamento insolito, che può risultare perfino
azzardato. Lo abbiamo già visto su queste pagine: non ci sono limiti alla
fantasia e alla creatività. Proprio come insegna il genio cinematografico di
Tim Burton. Con una tavoletta di cioccolato fondente alla mano potete scatenarvi negli accostamenti con pregiati distillati, rum invecchiati e perfino
grandi vini rossi capaci, quest’ultimi, di creare quasi un rapporto sinergico a
beneficio del vostro palato tra i tannini dell’uva e il cacao estratto dalle fave.
Dopo il film, potete osare con qualche quadretto – rigorosamente spezzato con
le mani – di cioccolato fondente al 70% e aromatizzato al peperoncino.
Lasciate “agire” per qualche secondo dentro la vostra bocca e quindi abbinate un sorso di Barolo Chinato (ossia la versione del classico Barolo piemontese che viene aromatizzata con un’aggiunta di una miscela di erbe e
spezie, spesso segreta). Probabilmente i vostri sensi vi ringrazieranno e vi
spingeranno a nuovi azzardi…
Ecco, proprio nello spirito che contraddistingue l’elaborazione di questo libro,
proseguite voi su questa scia dei sapori e della loro esaltazione più originale.
Abbiamo tracciato un percorso (de)gustativo. A voi il compito di proseguire
e spingervi ancora oltre.
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Postfazione
Cibo, cinema: una visione politica
Gianfranco Marrone
«A
proposito di politica…, ci sarebbe qualche cosarellina da mangiare?».
A parlare è Totò in Fifa e arena, regista Mario Mattòli, 1948. Una battutaccia, lo so, niente a che vedere con le altezze cinematografiche e culinarie di cui abbiamo letto sinora. Ma forse una strada per ripensarle
ancora. Con la dovuta, seriosa ironia.
Proviamo per esempio a chiederci: perché fa ridere? Il motivo è semplice: come sempre nelle barzellette, questa domanda apparentemente
incongrua inverte un modo tradizionale e diffuso di pensare. E, in particolare, la maniera comune di concepire il legame fra cibo e politica. Cosa
che accade, guarda caso, in un film.
Il grande Totò sapeva esser comico in modo geniale. Lo faceva al modo
dello sciocco del folklore tradizionale, dietro la cui patente ingenuità si è
sempre celata un’arguzia tanto sottile quanto corrosiva. Domandare del
cibo mentre si discute di politica – o, meglio, dato che si discute di politica – può sembrare il gesto incongruo e intempestivo di chi pensa solo allo
stomaco, la boutade involontaria di un affamato ancestrale.
Ma non è difficile capire che, a un altro livello, il senso della battuta è
diverso, forse opposto: dato che i politici pensano soprattutto a mangiare
(nel senso figurato di rubare), e si sta parlando di loro, potrei avere qual— 155 —
cosa da mangiare (nel senso letterale del termine)? Il gioco di sovrapposizioni fra significato metaforico e significato letterale è il meccanismo
formale, tanto nascosto quanto evidente, che strappa il sorriso. Ecco allora una delle migliori espressioni della cosiddetta antipolitica, atavico
retropensiero dell’italiano medio di cui Totò, notoriamente, si faceva ironico, ostinato portavoce.
Peraltro, a un altro livello ancora, la battuta del Principe della risata
funziona grazie a ciò che, presupponendo, ribalta. Se fa ridere, nella sua
mal celata verità, è cioè anche perché generalmente si pensa il contrario:
una cosa è la politica, un’altra il cibo. Almeno in linea di principio: i politici pensano alla cosa pubblica, o quanto meno dovrebbero; mangiare è
faccenda che non li riguarda, o almeno dovrebbe.
In sintesi, la vis comica ha una tripla ragion d’essere: mette in scena la
figura ridicola dell’indigente famelico; allude al significato figurato del
termine ‘mangiare’ (= rubare); rovescia il senso comune che tiene separati cibo e politica.
Tuttavia, sulla scorta di quanto abbiamo letto sinora a proposito del
valore del cibo nel cinema, dobbiamo con dispiacere ammettere che Totò
aveva torto. O quanto meno che la sua battuta, dal punto di vista di una
visione cinematografica della gastronomia, non funziona poi così bene.
La politica è una delle dimensioni antropologiche che s’intreccia di continuo, volente o nolente, con quella del cibo. Cosa che il cinema sa, e fa,
benissimo. Innumerevoli, lo abbiamo visto, sono i film che hanno come
tema principale il mondo del cibo e della cucina, e in moltissimi altri
il cibo gioca ruoli non indifferenti in parecchi momenti della trama. A
scorrere le pagine che ci precedono, non è difficile accorgersi che il film
culinario coinvolge quasi tutti i generi cinematografici: commedia, poliziesco, thriller, documentario, sentimentale… Per non dire del fatto che
il cinema gastronomico viene oramai considerato come un genere a sé
stante, con proprie rassegne e festival dedicati.
A dispetto di tanta ricchezza e varietà, a uno sguardo più approfondito
ci si rende però conto come nelle diverse storie cinematografiche tornino
temi comuni. Il cibo, al cinema, non è quasi fonte di semplice piacere
gustativo, meno che mai di sostentamento nutritivo, ma si pone come
basilare elemento narrativo di trasformazione di persone d’ogni tipo e di
situazioni abbastanza varie.
Prendiamo per esempio, come è stato fatto recentemente1, alcuni film
topici del contemporaneo: Il pranzo di Babette, Big Night e Ratatouille. In
ciascuno di essi è in atto, se pure con modalità differenti, uno scontro fra
culture gastronomiche, e dunque fra culture tout court. Ora incompatibili ora permeabili. Con la sua grazie inenarrabile, Babette la petroleuse
impone ai suoi pii commensali la supremazia sciovinista della gastronomia francese. Molto diversamente, Primo e Secondo sono due emigrati
calabresi che riescono a fatica a imporre il proprio modello culinario nel
melting pot statunitense. A sua volta, superando il disgusto che pure genera, il topino Rémy riesce a cambiare il sistema di giudizio dell’accigliato
critico Anton Ego, facendogli recuperare il senso della leggerezza felice
nella vita quotidiana.
La cucina diviene così il luogo di una competizione identitaria che si
fa per forza di cose politica. Emergono in questi film veri e propri modelli
di gestione dei conflitti interetnici, che solo a partire dal cibo, dalla sua
preparazione e dal suo consumo, riescono a manifestarsi con chiarezza.
Come se non bastasse, a riguardare questi e tanti altri film del medesimo
genere, ci accorgiamo come la gastronomia si leghi a un’altra forma di
politica, quella della gestione del corpo e della sua immagine, alla ricerca
di una qualche forma somatica condivisa. Il corpo culinario, al cinema, si
forma e trasforma, ma anche si deforma e si conforma a seconda dei casi,
a seconda cioè dei modelli sociali che, fondandolo, lo opprime.
Insomma, quando gustiamo i manicaretti che, grazie al lavoro di Lorenzo Bianciardi e Giovanni Pellicci, potranno felicemente arrivare alle
nostre tavole, ricordiamoci che sta succedendo dell’altro. Che il legame
fra papille gustative e banchi parlamentari è molto più forte di quanto
non sembri. Per cui: buon appetito, e buona fortuna.
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1. Francesco Mangiapane, “Scontri etnici e corpi gloriosi. Mangiare al cinema”, in Buono da pensare. Cultura e comunicazione del gusto, a cura di Gianfranco Marrone,
Roma, Carocci 2014.