BOLLETTINO - Società Letteraria di Verona

bollettino
della
società letteraria
la terra e il cielo
Atti del Ciclo d’incontri sulla Spiritualità
(2012-2013)
2012
Bollettino
della
Società Letteraria
la terra e il cielo
Atti del Ciclo d’incontri sulla Spiritualità
(2012-2013)
2012
Bollettino
della Società Letteraria
Indice
Fondato nel 1925
Redazione, amministrazione
Piazzetta Scalette Rubiani 1
37121 Verona
telefono e fax: 045 595949
www.societàletteraria.it
[email protected]
Registrazione n. 59 presso Tribunale di Verona del 24.07.1953
Stampato nel mese di aprile 2014
Composto in caratteri ITC Garamond
Direttore responsabile
Daniela Brunelli
Coordinamento editoriale
Ernesto Guidorizzi
Comitato redazionale
Francesco Ginelli, Paola Tonussi, Elisabetta Zampini
Editoriale
Daniela Brunelli..................................................................................................................................3
“Il Vero e il Bello non son se non uno”
La ricerca della vocazione nella “Vita” di Vittorio Alfieri
Carlo Bortolozzo.............................................................................................................................5
Spiritus da Plauto ed Ennio fino al I sec. a.C.
Osservazioni lessicali
Francesco Ginelli............................................................................................................................ 35
Necessità dello s(S)pirito oggi. Il punto di vista credente
Giancarlo Grandis......................................................................................................................... 51
La Resurrezione di Gustav Mahler
Nicola Guerini................................................................................................................................... 63
Il cielo attraverso la poesia
Ernesto Guidorizzi........................................................................................................................ 85
Le sfide della libertà
Padre Laurent Mazas............................................................................................................... 103
Iniziativa regionale realizzata
in attuazione della L.R. 5.9.1984, n 51 - art 11
Il paesaggio e il sacro
Raffaela Gabriella Rizzo...................................................................................................... 113
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Società Letteraria
La mia anima vive
Paola Tonussi.................................................................................................................................. 127
Oltre l’orizzonte della materia.
Le basi concettuali della fisica quantistica.
Interpretazioni e prospettive
Yves Gaspar....................................................................................................................................... 151
Editoriale
Daniela Brunelli
presidente della Società Letteraria di Verona
Solo l’ideale è vero: la voce ritrovata di Ida Vassalini
Elisabetta Zampini........................................................................................................................ 183
Notizie sugli autori dei testi............................................................................................. 209
Se anche il più piccolo dettaglio nella tua vita quotidiana
non aspira a raggiungere l’armonia con le idee più elevate che tu condividi,
significa che quelle idee non hanno senso.
(Etty Hillesum, 16 aprile 1942)
Nel corso dell’anno si sono svolti in Sala Montanari alcuni incontri sul
tema della spiritualità, la cui esigenza di approfondimento è stata confermata anche dalla numerosa partecipazione di pubblico. Affrontare tale tema all’interno della tradizione laica della Società Letteraria
di Verona, ha significato porre l’accento anzitutto sull’esigenza diffusa e condivisa di riflettere circa la necessità di un’attitudine spirituale
dell’esistenza umana, tale da potersi considerare un modo d’essere, più
che un’inclinazione di fede religiosa. Un modo d’essere che riconosce
nell’altro da sé il valore del sakros che, secondo alcuni filosofi, è insito nell’esperienza biologica dell’Homo sapiens, in grado di riconoscere
il volto sacro di un altro individuo, libero e differente da tutti gli altri.
Nei saggi proposti, frutto di rielaborazione delle conferenze svolte,
si affronta il tema della spiritualità da diverse angolazioni, anche grazie ad una straordinaria varietà di approcci disciplinari che vanno dalla fisica dei quanti alla letteratura, dalla filosofia alla musica, dalla teologia alla relazione uomo-natura nel paesaggio.
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Bollettino della Società Letteraria, 2012, 3-4
Bollettino
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Società Letteraria
Poiché si è trattato di un lavoro corale, che ha consentito ai partecipanti un dialogo serrato e proficuo nel rispetto dei diversi orientamenti, sento doveroso esprimere il mio profondo ringraziamento anzitutto al prof. Ernesto Guidorizzi, vice presidente della Società Letteraria
di Verona e coordinatore del presente Bollettino e a Mons. Giancarlo
Grandis, responsabile del Progetto culturale della Diocesi, con i quali
il progetto ha visto la luce e, grazie ai quali, ha potuto vedere il compimento.
Inoltre, desidero ringraziare per il prezioso contributo offerto fin
dalla prima fase progettuale, in ordine alfabetico: prof. Carlo Bortolozzo, direttore del Centro di cultura europea Sant’Adalberto, don Tiziano Brusco, Direttore del Museo Diocesano d’Arte San Fermo, M° Nicola Guerini, Direttore del Fondo musicale Peter Maag, don Antonio
Scattolini, responsabile di Karis - Servizio per la Pastorale dell’Arte e
don Davide Vicentini, direttore del Centro Toniolo.
Infine, ringrazio di cuore tutti i relatori delle conferenze, molti dei
quali hanno donato il loro contributo in forma di saggio, affinché potesse testimoniare in modo duraturo la loro presenza. Oltre ai già
menzionati, grazie, quindi, a Yves Gaspar, Francesco Ginelli, Laurent
Mazas, Raffaela Gabriella Rizzo, Paola Tonussi, Elisabetta Zampini.
“Il Vero e il Bello
non son se non uno”
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Bollettino della Società Letteraria, 2012, 5-34
La ricerca della vocazione
nella “Vita” di Vittorio Alfieri
Carlo Bortolozzo
Il presente studio si volge a ripercorrere alcune pagine della Vita di
Vittorio Alfieri, dall’infanzia alla giovinezza. Esso fa parte di uno scritto più ampio, di prossima pubblicazione, riservato a un inquadramento complessivo, storico e critico, dell’autobiografia alfieriana.
Iniziata nel 1790, a poco più di quarant’anni, all’indomani della delusione per gli sviluppi autoritari della Rivoluzione francese, l’autore
la completò nel maggio del 1803, pochi mesi prima di morire1.
Rileggeremo l’opera cercando di instaurare un dialogo con l’autore, nella convinzione che leggere significa innanzi tutto incontrare una
persona, compiere un’esperienza che va al di là della letteratura, “capace di modificare realmente il modo in cui una persona vive la propria vita”2. Prendiamo l’abbrivio da una delle letture più belle dell’opera alfieriana: Vocazione di Vittorio Alfieri, di Giacomo Debenedetti3.
Uscito in volume nel 1977, il saggio fu composto in piena guerra tra
il ’43 e il ’44. Esso ha il merito di cogliere, con finissima sensibilità e
straordinaria acutezza, il nodo centrale dell’autobiografia dello scrittore astigiano: l’avvenimento della vocazione letteraria che coincide con
la scoperta più profonda della sua personalità. Afferma Debenedetti che Alfieri “aveva bisogno che l’intero suo destino coincidesse con
una vocazione di poeta”4. È la scoperta più grande che possa fare un
uomo: intuire che la vita è vocazione, adesione a un destino, seguendo il quale l’esistenza può essere ancora dolorosa e faticosa, ma non
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priva di scopo. Questa è l’impressione che coglie il lettore quando
scorre le pagine della Vita: trovarsi davanti ad un uomo, con tutti suoi
limiti, molti dei quali esibiti, dal temperamento difficile, altero, oscuro,
ma con il quale è doveroso e spesso gratificante confrontarsi. È l’impressione che dovette avere un critico di tanti anni fa, uno dei maggiori della nostra letteratura, se non il maggiore: Francesco De Sanctis,
autore della “più bella storia letteraria che sia stata mai scritta”, secondo il famoso giudizio di René Wellek. Scrive De Sanctis che Alfieri irrompe in mezzo ad una “società imparruccata e incipriata, che gioiosamente declamava tirannide e libertà”, prendendo “sul serio la vita e
non si rassegna a vivere senza scopo, prende sul serio la morale, e vi
conforma rigidamente i suoi atti, prende sul serio la tirannide, e freme
e si dibatte sotto alle sue strette, imprecando e minacciando, prende
sul serio l’arte e vagheggia la perfezione. Le sue idee sono i suoi sentimenti; i suoi principi sono le sue azioni”5. Da qui deriva lo stile, se
lo stile è l’uomo. Alfieri “scrisse come viaggiava, correndo e in linea
retta. Stava al principio e l’animo era già alla fine, divorando tutto lo
spazio di mezzo”6; ricorre così alla brevitas e al suo inconfondibile stile rapido e spezzato, drammatico e teatrale.
Il libro si apre con due citazioni, le quali suggeriscono una prima
chiave di lettura. La prima, bellissima, è di Pindaro: “Pianta effimera
noi, cos’è il vivente? Cos’è l’estinto? – Un sogno d’ombra è l’uomo”.
Immagini antiche affiorano alla mente dell’autore nell’atto di scrivere
l’autobiografia. La precarietà della nostra vita, la consapevolezza della
nostra fragilità è il dato più vero da cui partire per un’indagine su noi
stessi. La seconda citazione, che apre l’Introduzione, è di Tacito, tratta dalla Vita di Agricola: “Plerique suam ipsi vitam narrare, fiduciam
potius morum quam arrogantiam, arbitrati sunt”. Scrivere di sé non è
atto d’arroganza, ma nasce, come dirà Alfieri subito dopo, dall’amore di sé stessi, congiunto ad “una ragionata cognizione dei propri suoi
mezzi, ed un illuminato trasporto pel vero ed il bello, che non son se
non uno”. Senza amore per se stessi non è possibile amare la vita, la
verità e la bellezza, coincidenti nel profondo. Nel tempo antico, Pla6
Il Vero e il Bello non son se non uno
tone e San Tommaso avevano potuto affermare che la bellezza è lo
splendore del vero.
Alfieri elenca poi le ragioni dell’opera: soddisfare la curiosità dei
lettori ed anticipare qualche stolido editore pronto a divulgare falsità sull’autore, pur di dare “più ampio smercio” alla “mercanzia”. Ogni
autobiografia, se presa sul serio, è una discesa agli inferi; per questo,
onestamente, Alfieri si augura di avere il coraggio, se non di dire tutto di sé, almeno di non “dir cosa che vera non sia”. Vano, del resto, è
il tentativo di discernere all’interno di un’autobiografia ciò che è reale e ciò che è idealizzato; esercizio improduttivo quant’altri mai, dato
che la “verità” di un’opera d’arte si pone su un piano ben diverso da
quello di un mero resoconto. Di questo siamo avvertiti ultimamente da Lejeune: ogni autobiografo inventa o modifica il racconto delle
proprie vicende, per varie e complesse ragioni7.
Egli si propone di dividere la trattazione in cinque epoche, “corrispondenti alle cinque età dell’uomo”, vale a dire “puerizia, adolescenza, giovinezza, virilità e vecchiaia”. Teme, tuttavia, di non riuscire a
mettere capo all’opera “con quella brevità che più d’ogni altra cosa ho
sempre nelle mie altre opere adottata o tentata”. In effetti, l’opera che
noi leggiamo è strutturata in due parti e in quattro epoche, mancando la vecchiaia; tra la prima e la seconda parte, che è la continuazione dell’Epoca Quarta, si apre un intervallo di composizione di tredici
anni; infatti l’autore riprende a Firenze nel 1803 quanto aveva terminato a Parigi nel 1790. Della Vita dovette esistere una prima stesura, perduta, mentre una seconda venne pubblicata da Luigi Fassò nel 1951:
noi leggiamo dunque la terza stesura8.
L’introduzione si chiude con la dichiarata volontà dell’autore di rinunciare a “risibili lungaggini”; si soffermerà invece su “quelle particolarità, che, sapute, contribuir potranno allo studio dell’uomo in genere; della qual pianta non possiamo mai individuare meglio i segreti
che osservando ciascuno sé stesso”. Partendo da ciò che conosciamo meglio, cioè noi stessi, possiamo contribuire più efficacemente
allo studio dell’uomo – oggi diremmo alla psicologia – che Alfieri in7
Bollettino
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dica decisamente quale scopo dell’opera. Ecco quindi la terza ragione
compositiva: l’autobiografia, partita da motivazioni strettamente personali se non egoistiche, si estende a scopi socio-culturali, essendo
diretta allo studio dell’uomo. Motivazione che discende direttamente dalle Confessions di Rousseau, il grande padre del genere autobiografico moderno: la seconda parte dell’opera del filosofo francese era
uscita nel 1788 e si proponeva, appunto, “l’étude des hommes”.
Infine, per lo stile, emerge una notazione importante: Alfieri pensa
di “lasciar fare alla penna, e di pochissimo lasciarlo scostarsi da quella
triviale e spontanea naturalezza con cui ho scritto quest’opera, dettata dal cuore e non dall’ingegno; e che sola può convenire a così umile tema.”
Deriva da questa singolare e forse irripetibile condizione d’animo,
la novità di un’opera che ha pochi riscontri nella nostra letteratura.
“Quale altra opera di prosa nostra invece prima dei Promessi Sposi si
presenta come la Vita alfieriana insieme così fresca, spontanea, moderna, congiungendo senza residui la lezione dei classici nostri con
un’esperienza morale, politica, linguistica attuale?”, ha rilevato Mario
Fubini9.
Epoca Prima. Puerizia
Il valore dell’educazione.
Ripercorrendo il racconto della sua vita nell’Epoca Prima, Alfieri individua, nei suoi giorni primissimi, i segni di una felice congiuntura:
nato da genitori nobili, poté farsi libero critico di quella classe sociale; e, insieme, da quei privilegi ricavò la possibilità di dedicarsi con
agiatezza a ciò che gli interessava. Divenne così il “libero scrittore” di
cui parla nel trattato Del Principe e delle Lettere, godendo di quella libertà indispensabile per coltivare la vocazione letteraria. Il padre, cinquantaquattrenne alla nascita di Vittorio, morì l’anno seguente; la madre sposò un altro Alfieri, con il quale condusse un felice matrimonio,
8
Il Vero e il Bello non son se non uno
ancora in atto nel 1790, quando ha inizio la Vita. Dopo questa breve
digressione sulle sue origini, iniziano le “Reminescenze dell’infanzia”:
come detto, uno dei luoghi più affascinanti del libro ed alta riflessione
sull’importanza del fattore educativo. Alla memoria dell’autore, affiora
innanzi tutto il ricordo di uno zio paterno, il quale “portava certi scarponi riquadrati in punta”: la figura dello zio scompare, ma quando,
molti anni dopo, allo scrittore capiterà di imbattersi in calzature simili,
immediatamente verranno richiamate il lui “tutte quelle sensazioni primitive ch’io aveva provate già nel ricevere le carezze e i confetti dello
zio, di cui i moti ed i modi, ed il sapore perfino dei confetti mi si riaffacciavano vivissimamente ed in subito nella fantasia”. Sottolineando
l’affinità di “pensieri” e “sensazioni”, Alfieri dimostra un’intuizione di
straordinaria modernità, tanto che Croce lo definì addirittura precursore di Proust10. Poche, ma importanti immagini dell’età prima restano
impresse nella memoria, destinate a diventare archetipi: fra queste, il
distacco, dolorosissimo, dalla sorella Giulia, maggiore di tre anni, avviata in un monastero di Asti. Anche questo dolore rinvia ad altri successivi congedi, da donne amate o da amici, “che tre o quattro successivamente ne ho avuti”; se ne deduce che “tutti gli amori dell’uomo,
ancorché diversi, hanno lo stesso motore”. Affidato alle cure scolastiche di un “buon prete”, ma “ignorantuccio”, il giovane Vittorio avverte in sé “una certa inclinazione allo studio” e una disposizione alla malinconia e al raccoglimento.
Affiorano presto, infatti, i “primi sintomi di un carattere appassionato”. Per compensare la temporanea perdita della sorella amata, il
giovane prende a visitare la vicina Chiesa del Carmine, frequentata da
“certi fraticelli novizi”, i quali, con i loro visi giovanili e quasi “donneschi”, lo traggono ad un “innocente amore”. Inezia, certo, la definisce
l’autore, ma meno puerile di quanto possa sembrare, se vale a rintracciarvi “il seme delle passioni dell’uomo”. In preda all’“umor malinconico” (e malinconia è parola chiave di questo capitolo, sottolinea Fubini), il ragazzino, tra i sette e gli otto anni, ingoia una gran quantità
d’erbe selvatiche, le quali gli provocano violente crisi di vomito: spin9
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to dalla madre a confessare il gesto, ne riceve punizione esemplare,
rimanendo chiuso in camera per più giorni. Episodio questo che fa ricordare più duri castighi inflitti al giovane Belli e ancor di più a Kafka, a testimonianza della durezza dei metodi educativi che attraversa
secoli e culture.
Prosegue l’introspezione, sempre fondata su “fatterelli” che rendono accattivante il racconto e che vanno a costituire un vero manuale di controeducazione nel Piemonte di metà Settecento. Dapprima il
giovane Alfieri è costretto a legare i capelli con una buffa reticella (a
“inreticellarsi”, secondo un neologismo di cui è ricca la lingua alfieriana della Vita), che lo fa inorridire; poi, dinanzi alle richieste da parte della nonna di un regalo gradito, egli si trincera dietro un ostinato
niente, per il quale merita altra punizione e reclusione; infine, affiora il ricordo della prima confessione, dopo la quale, per penitenza, al
ragazzino viene ingiunto di prosternarsi davanti alla madre prima del
pranzo. Com’è facile da immaginare, ne segue un altro testardo rifiuto dal giovane. Sono tutti episodi da segnalare, oltre che per la documentazione pedagogica, per il rilievo assegnato alla forza della natura originaria dello scrittore, “quella natura che poi, vinti i mali abiti
dell’educazione, si esplicherà trionfalmente nell’opera poetica”, secondo una tipica concezione settecentesca11.
L’Epoca prima si chiude con un’“ultima storietta puerile”, di certo la più importante. Il giovane Alfieri riceve la visita del fratellastro,
maggiore di sei anni (dunque già quattordicenne), per il quale avverte
un sentimento misto di invidia e di emulazione. Svolgendo un esercizio militare “alla prussiana”, a Vittorio accade di ferirsi alla testa, piuttosto gravemente: ne riporta una ferita che esibisce con infantile orgoglio. Di lì a poco, i due fratelli si separano e il maggiore morirà un
anno dopo: prefigurazione di altri distacchi e di altri congedi, che segnano le varie parti della Vita. Uno zio, infatti, persuade la madre a
interrompere quel sistema educativo così improvvido e fa trasferire il
ragazzo all’Accademia di Torino.
10
Il Vero e il Bello non son se non uno
Con questa cesura si chiude il capitolo riservato all’infanzia, dedicato a coloro che dimenticano “che l’uomo è la continuazione del
bambino”.
Epoca Seconda. Adolescenza
Ancora sui danni dell’ineducazione.
L’Epoca Seconda si distende lungo gli anni dell’adolescenza e “abbraccia otto anni d’ineducazione”. Il capitolo primo tratta della “partenza dalla casa materna, ed ingresso nell’Accademia di Torino, e descrizione di essa”. Sono pagine che proseguono la riflessione sul valore
dell’educazione, di grande e originale rilievo, come s’è detto, in Alfieri. Si apre davanti a noi una nuova epoca, segnata dall’esperienza del
viaggio, mito centrale dell’autore, in cui gli avvenimenti non si collocano più solo nello spazio chiuso e infantile della casa paterna. Ecco
dunque affacciarsi per la prima volta “il gran piacere di correre”; l’ammirazione per gli amatissimi cavalli; ed ecco giungere il ragazzo a Torino, in “una giornata stupenda”: fatti che conducono Alfieri “fuor di
sé stesso”. Ma l’ammirazione si volge presto in delusione, alla vista
di un’organizzazione tanto assurdamente severa. L’autore maturo dà
voce al dolore infantile: “nessuna massima di morale mai, nessun ammaestramento della vita ci veniva dato”. Su tutto, grava l’assenza di
maestri in grado di educare, e non solo di istruire, l’animo dei giovani. Implacabile scende il suo giudizio: chi curava quell’organizzazione “era uno stolido, e non conosceva punto il cuore dell’uomo”. Dal
fondo della giovinezza più inquieta e sensibile, giunge il grido contro
l’incomprensione degli adulti, che la grande letteratura moderna raccoglierà, da Mann, a Musil, a Salinger, solo per indicare alcune voci.
Anche gli studi sono “pedanteschi, e mal fatti”; la scuola sembra
una caserma, in cui non mancano tirannelli come il servitore a cui il
giovane Vittorio è affidato. Sono pagine intrise di amarezza e di moti
d’accusa contro quei sistemi educativi protrattisi per decenni ancora
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e che intristirono l’infanzia di Manzoni nel collegio di Merate alla fine
del XVIII secolo, tanto che l’autore dei Promessi Sposi ne parlerà in
toni non molto dissimili12. Alfieri si trascina in quella “scoluccia, asino, fra asini”, in cui si consuma un vero tradimento contro la gioventù. Sono anni di “non studi”, in cui si forma però l’animo sdegnoso e
fiero del giovane e il suo “amore per la solitudine”. Si intravedono i
nomi dei primi autori importanti, Ariosto, Metastasio, Goldoni, Annibal Caro traduttore dell’Eneide, i quali stentano però ad emergere nella nebbia dell’infingardaggine.
La descrizione delle lezioni di filosofia, con la “voce del professore
languente” accompagnata dal suono dei “russatori” suoi allievi, è degna di una triste commedia.
In mezzo a tali “insulse vicende”, brillano alcuni episodi: il ritorno
della sorella Giulia, ormai avvenente quindicenne, spostata in un monastero di Torino per via di qualche indebito “amoruccio” e soprattutto la
prima uscita a teatro del giovane Alfieri. Egli resta impressionato dall’opera buffa, su libretto di Goldoni, a cui viene condotto; si destano in lui
“una malinconia straordinaria” e un “bollore d’idee fantastiche”, in cui
non si fatica a ravvisare l’impronta del futuro scrittore (si ricordi il “bollore di cuore e di mente” del Libro III del trattato Del Principe e delle Lettere). Catalizzatore di effetti dirompenti è la musica: Alfieri menziona i
“suoni tutti e specialmente le voci di contralto e di donna. Nessuna cosa
mi desta più affetti, e più vari, e terribili. E quasi tutte le mie tragedie
sono state ideate da me o nell’atto del sentir musica, o poche ore dopo”.
Ancora, pochi giorni dopo, al giovane è concesso un breve viaggio, da Torino a Cuneo, per la visita allo zio; tanto basta a risollevare
il suo animo, alla vista della “fertilissima ridente pianura del bel Piemonte”, viaggio pur guastato dalla lentezza dei vetturini, che procedono “a passo d’asino”. Alfieri, dunque, inquadra anche questo aneddoto nelle generali preoccupazioni pedagogiche che informano tutta
l’Epoca Prima. Analoga funzione assume il ricordo del primo “sonettaccio”, subito stroncato dallo zio, il quale gli fece passare “la voglia
di poetare”, fino ai “venticinque anni passati”.
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Il Vero e il Bello non son se non uno
Alfieri rievoca poi altri episodi che, per quanto puerili, sarebbe ingiusto sottovalutare; prefigurano, infatti, in nuce, movenze e stile del
grande scrittore. Si veda l’accenno al periodo in cui il giovane, privo
dei capelli per una malattia, è costretto a girare “imparruccato” e quindi deriso dai compagni; e come lesto si libera dalla parrucca e dalla derisione, facendo palleggiare in aria il copricapo. “Allora imparai,
che bisognava sempre parere di dare spontaneamente, quello che non
si potea impedire d’esserti tolto”, commenta con la “consueta clausola aforistica”13. Si accosta poi ai primi romanzi, sopra tutto Gil-Blas di
Lesage e Mémoires et aventures d’un homme de qualitè di Prévost, appassionate letture giovanili di Alfieri. Tutta alfieriana è anche l’avversione per il ballo, “arte burattinesca”, la quale fornisce all’autore l’occasione di attaccare la moda francese. Ancora una volta, lo scrittore
rinviene nell’infanzia il germe di future inclinazioni; come quella ferocemente antifrancese, gridata nella prosa del Misogallo, con toni di
cui l’autore fa parziale ammenda definendoli esagerati. Ciò che rende interessanti tali ricordi, tuttavia, è riconoscere che quegli strali impietosi ebbero origine dal viso impiastricciato di “quel mio maestro di
ballo”, il che fa dire all’autore: “Oh, picciola cosa è pur l’uomo!”. Ma
non meno interessante è sicuramente il capitolo settimo: dopo la morte dello zio paterno e compiuti i quattordici anni, all’adolescente viene
concessa un’autonomia pressoché completa, con la possibilità di liberarsi della tutela del servitore-tiranno Andrea, fin qui aborrito. Alfieri,
tuttavia, sorpreso egli stesso, è talmente dispiaciuto del fatto da recarsi a trovare il suo ex carceriere, piangendo la sua dipartita. Autentica
dimostrazione del “guazzabuglio del cuore umano”, direbbe Manzoni,
anche se Alfieri attribuisce tale affezione, oltre al carattere, all’influenza, a posteriori, della lettura di Plutarco e al conseguente amore “della gloria e della virtù”, per cui si impara a “rendere bene per male”.
Tra i primi frutti dell’acquistata libertà, vi è la possibilità di cavalcare, arte in cui Alfieri divenne poi veramente maestro, tanto che i cavalli assurgono addirittura a simbolo del suo struggente desiderio di
libertà14. Il giovane comincia disporre più liberamente di se stesso e
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Bollettino
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del suo cospicuo patrimonio, ma senza trarne effettivo vantaggio, trovandosi “non diretto da nessuno”, in balia delle proprie sfrenatezze di
agiato adolescente. A peggiorare la situazione, vi è la mancanza della
padronanza della lingua italiana, che gli impedisce una fruttuosa applicazione di un talento in fieri.
Gli anni dell’adolescenza vanno a concludersi nel segno dell’ozio,
della dissipazione e della vana protesta. Questi ultimi capitoli, tuttavia, sono importanti, in quanto iniziano a configurarsi parole e temi
fondamentali della poetica alfieriana: la noia, la prigione, l’ansia di liberazione. Gioanola ha fatto notare la rilevanza del lessico carcerario, tanto che “legame”, “nodo”,“ceppo”, “prigione” sono certamente
“tra le parole-chiave del vocabolario alfieriano”15. Ora l’inquietudine
è data dal desiderio di liberarsi di un “semi-aio”, vale a dire un cameriere troppo assillante. Tentativi frustrati: la ribellione si dispiega allora in un’inerte malinconia, di leopardiana memoria. A trarlo d’impaccio è il matrimonio della sorella Giulia, grazie al quale può trascorrere
un mese fuori da Torino, felice come “uno scappato di carcere”. Per
di più, può finalmente comprarsi un cavallo. “Lo amai con furore”,
esclama lo scrittore, senza riuscire a trattenere l’emozione. Da lì cominciano le spese pazze, ma non al punto da finire in vanagloria; di
modo che l’autore, pur feroce “esaminatore di se stesso”, può alla fine
legittimamente riconoscersi “una certa naturale pendenza alla giustizia, all’eguaglianza, ed alla generosità d’animo”, propria degli uomini liberi. L’Epoca Prima si conclude con un’esemplare fenomenologia del “primo amoruccio”, provato per una “brunetta piena di brio”.
Ma si direbbe che ad Alfieri, più che all’oggetto d’amore interessino le
reazioni sentimentali, secondo la lezione, esplicitamente riconosciuta, del maestro Petrarca. Del resto, si passa subito ad un interesse per
ora prevalente nell’animo del giovane: il “primo viaggetto” a Genova,
indelebilmente fissato nella memoria. “La vista del mare mi rapì veramente l’anima, e non mi poteva mai saziare di contemplarlo”.
Sarà l’inizio di una lunga serie di viaggi, destinati ad occupare gran
parte dell’autobiografia. L’Epoca Seconda si chiude con una promo14
Il Vero e il Bello non son se non uno
zione assai poco desiderata: il giovane diventa porta-insegna del Reggimento di Asti. Ciò comporta “una catena di dipendenze graduate”,
una continua subordinazione che mal si concilia con quella di “un futuro poeta tragico”.
L’insoddisfatto Alfieri conclude volentieri la poco rimpianta adolescenza, riassunta nei termini dell’“infermità”, dell’“ozio” e dell’“ignoranza”.
Epoca Terza. Giovinezza
Il viaggio come fuga e ricerca.
L’Epoca Terza, dedicata alla giovinezza, “abbraccia circa dieci anni
di viaggi, e dissolutezze”. Essa si inaugura nel segno di una baldanza ritrovata, simile ad un movimento musicale, quasi un “andante con
brio”, come se il poeta aprisse una finestra nell’aria fresca di un mattino primaverile. È questa la conferma del carattere “romanzesco” della
Vita, anche se avvertiamo in questo movimento un’inquietudine più
che una gioia. Sorprendiamo il diciassettenne Alfieri nell’atto di partire per il primo vero viaggio, verso Milano, Firenze e Roma; situazione, per l’appunto, quanto mai romanzesca, oppure di commedia brillante ed avventurosa, la quale richiede che si presentino i personaggi.
Il primo, destinato ad accamparsi sulla scena per molte pagine, sarà
Francesco Elia, l’indubbio “eroe protagonista della commedia”, “il solo
e vero nocchiero”: cameriere, servitore, factotum, sodale e compagno
di mirabolanti avventure16. Sprovveduto e presuntuoso, il giovane Alfieri parte senza conforto di libro alcuno, se non qualche povera guida turistica, e paga il fio “del nascere in un paese anfibio”, linguisticamente a disagio, per motivi diversi, sia col francese che con l’italiano.
Più che dai luoghi, dei quali intende poco o nulla, privo com’è del
“senso del bello”, egli sembra mosso dalla smania di partire. Riconosce che i suoi occhi erano “molto ottusi ai colori”; pure, qualche brec15
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cia si apre nell’animo ineducato del giovane signore, “tanta è la forza
del bello e del vero”. Così, egli rimane affascinato ascoltando parlare
le persone più umili di Siena o di Livorno, le quali si esprimono “con
tanta eleganza proprietà e brevità”, nel vagheggiato idioma toscano,
per lui ancora proibito; così vede crescere la sua meraviglia davanti a
San Pietro e agli altri monumenti di Roma.
Raggiunge Napoli, “lieta e popolosa”, ma nonostante i divertimenti, le feste, la giovane età, la “figura avvenente”, la libertà e l’agiatezza economica, Alfieri ritrova ovunque “la sazietà, la noia, il dolore”; il
cuore è “vuoto”, l’inquietudine lo spinge ad andare sempre, a sostare
mai. Altro leit motiv dell’opera è l’incontro con i principi: dopo quelli di Torino, Modena e Toscana, è ora il turno del giovanissimo Ferdinando IV di Borbone, anche questo drammaticamente uguale agli altri. Ma le pagine ritornano presto alle note interiori, le più interessanti
del libro: il giovane non ravvede in sé “nessunissimo impulso deciso,
altro che continua malinconia; non ritrovando mai pace né requie, e
non sapendo pur mai quello che io mi desiderassi”. Solo molti anni
dopo capirà che la sua infelicità proveniva dalla necessità di “avere
ad un tempo stesso il cuore occupato da un degno amore, e la mente
da un qualche nobile lavoro; e ogniqualvolta l’una delle due cose mi
mancò, io rimasi incapace dell’altra, e sazio e infastidito e oltre ogni
dire angustiato”. Attraversa altre città italiane, sempre accompagnato
da “stessa noia, stessa malinconia, stessa smania di rimettermi in viaggio”; finché non arriva a Venezia, con un viaggio in barca di sapore goldoniano, di cui forse conservava il ricordo letto nei Mémoires.
Nemmeno il fascino della città lagunare è sufficiente per distoglierlo
dalla “malinconia”, dalla “noia” e dall’“insofferenza dello stare”, sentimenti appena mitigati da “qualche breve dialoghetto con una signorina” dirimpettaia, su cui l’autore si mostra reticente alquanto. La noia
sembra dovuta alla smania di intraprendere il primo viaggio “ultramontano”, cosicché “spronato dalla noia e dall’ozio”, il giovane Alfieri
lascia presto Padova, Vicenza, Verona, Mantova e Milano, soffermandosi solo un po’ di più nell’amata Genova, ma ormai già proietta16
Il Vero e il Bello non son se non uno
to verso la Francia. L’immaginazione vivissima gli fa ingrandire “tutti i beni e tutti i mali”, “prima di provarli”, afferma, con una nota che
sembra anticipare la delusione procurata a più riprese dai soggiorni
francesi.
La breve permanenza a Marsiglia vale sopra tutto per le prime, acute
osservazioni di Alfieri spettatore teatrale: assiste, tra le altre, alla Fedra
di Racine, e ha modo di criticare l’abbondanza di personaggi secondari nelle tragedie francesi, nonché l’imperversare del pesante alessandrino, il verso classico della tragedia d’Oltralpe. Ma ormai, niente può distoglierlo “dall’andar dritto a guisa di saetta in verso Parigi”.
La delusione è dietro l’angolo e pareva preannunciata dall’esagerata
aspettativa, quasi che il giovane piemontese fosse una Madame Bovary
ante litteram. Tutto sembra fetido e disgustoso all’entrata in Parigi, sapientemente rievocata da una prosa lenta che poi precipita in un abisso di sapore quasi leopardiano. “Tanto affrettarmi, tanto anelare, tante
pazze illusioni di accesa fantasia, per poi inabissarmi in quella fetente
cloaca”. Non ci stupiamo che, appena arrivato, il giovin signore manifesti il desiderio di ripartire. Fu un’impressione così negativa da permanere viva nell’autore, che la rievoca a distanza di ventitré anni, nel 1790,
quando scrive le pagine della Vita. Prima di partire per Londra, Alfieri
si dispone tuttavia ad incontrare nella reggia di Versailles il re Luigi XV,
del quale lo disgusta irreparabilmente “il contegno giovesco”.
Lasciata presto la capitale francese, il giovane si dirige verso Londra, descritta in perfetta antitesi alla città precedente. “Quanto mi era
spiaciuto Parigi al primo aspetto, tanto mi piacque subito e l’Inghilterra, e Londra massimamente”. Di quel “fortunato e libero paese”, loda
la laboriosità degli abitanti, il decoro e la pulizia di paesi e città, il giusto ed equilibrato governo “e la vera libertà che n’è figlia”: tutte impressioni confermate dalle successive visite all’isola verde. Il “furore
dell’andare” non trattiene Alfieri nemmeno nell’amata Inghilterra; presto fa vela per l’Olanda, paese che, visitato dopo l’Inghilterra, lo colpisce meno, tanto da far concludere all’autore: “dopo molti altri viaggi e molta più esperienza, i due soli paesi dell’Europa che mi hanno
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Bollettino
della
Società Letteraria
sempre lasciato desiderio di sé, sono stati l’Inghilterra e l’Italia; quella, in quanto l’arte ne ha per così dire soggiogata o trasfigurata la natura; questa, in quanto la natura sempre vi è robustamente risorta a
fare in mille diversi modi vendetta dei suoi spesso tristi e sempre inoperosi governi”.
Il soggiorno olandese è legato però al “primo intoppo amoroso”
per una “gentil signorina”. Confortato, nello stesso tempo, da una
preziosa amicizia con il rappresentante diplomatico del Portogallo in
Olanda, il quale gli fa leggere Machiavelli, Alfieri può dire che amore,
amicizia e studi letterari non solo non confliggono, ma si arricchiscono a vicenda: “avendo un oggetto caro e amato mi parea di potere a
quello tributare anco i frutti del mio ingegno”.
Ostacoli familiari si frappongono però alla frequentazione della
donna; alla forzosa separazione da questa segue una violenta crisi del
giovane, tentato da una forma di suicidio: si tratta di un’altra delle numerose manifestazioni autolesionistiche che corrono nella Vita, a cominciare, come abbiamo visto, dalla puerizia.
Le letture, gli incontri. I paesaggi del sublime.
Tornato in Piemonte dopo due anni di viaggi, il ventenne Alfieri sente
la necessità di darsi “agli studi filosofici”, ma che comprendono anche
romanzi: da Rousseau, del quale non lo entusiasma La Nouvelle Héloïse,
ravvisandovi “tanta maniera, tanta ricercatezza, tanta affettazione di
sentimento, e sì poco sentire, tanto calor comandato di capo, e sì gran
freddezza di cuore”; tiepido anche il giudizio su Voltaire, più critico
ancora quello su De l’esprit di Helvétius, condiviso vent’anni dopo da
Manzoni17; caloroso invece l’apprezzamento per Montesquieu, il cui
Esprit des lois ebbe sicuramente un’influenza su i suoi sentimenti antimonarchici. “Ma il libro dei libri per me, e che in quell’inverno mi
fece veramente trascorrere dell’ore di rapimento e beate, fu Plutarco,
le vite dei veri Grandi”.
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Il Vero e il Bello non son se non uno
Momento davvero decisivo questo della scoperta della lettura,
capace di scuotere e rivelare l’animo ineducato del giovane aristocratico. Rilegge più volte le Vite parallele, “con un tale trasporto di
grida, di pianti, e di furori pur anche, che chi fosse stato a sentirmi nella camera vicina mi avrebbe certamente tenuto per impazzato”. Riconosciamo in questo episodio uno degli avvenimenti salienti
della biografia umana e letteraria di Alfieri. Egli è come invasato, o
estasiato, in quanto fa l’esperienza di chi è fuori di sé; è la rivelazione dell’altro che è in noi, che solo qualcosa di esterno fa scaturire18.
Come dirà nel trattato Del Principe e delle Lettere, il primo dovere
dello scrittore è conoscere “questo sublime impulso, e, conosciuto, a
dirigerlo”. Registriamone la fenomenologia: “all’udire certi gran tratti
di quei sommi uomini, spessissimo io balzava in piedi agitatissimo, e
fuori di me, e lagrime di dolore e di rabbia mi scaturivano dal vedermi nato in Piemonte ed in tempi e governi ove niuna alta cosa non
si poteva né fare né dire, ed inutilmente appena forse ella si poteva
sentire e pensare”. La presenza di un animo “perturbato e commosso”, direbbe Vico, è la prova della vocazione autentica di uno scrittore: se “nel leggere i più sublimi squarci dei più sublimi autori, altro non sente nascere in sé che commozione e diletto, egli è come i
molti che stupidi non sono; se vi si aggiunge la maraviglia, egli può
giustamente riputarsi qualche cosa di più”; tuttavia, non basta ancora. Al di là della semplice meraviglia, egli deve avvertire accendersi
nel cuore “come da un’improvvisa saetta un certo sdegno generoso
e magnanimo”, che lo porta a chiudere il libro e ad iniziare a comporre. Si tratta di una “nobile ira”, la quale nasce da “un tacito e vivissimo sentimento delle proprie forze, che a quel tratto di sublime
si sviluppa e si sprigiona dalle più intime falde dell’animo”; è una
“superba e divina febbre dell’ingegno e del cuore, dalla quale sola
può nascere il vero bello e il grande”19, afferma, con toni che fanno pensare al Perì hypsous del Longino, testo fondamentale per l’estetica e la letteratura del Sette-Ottocento, che Alfieri lesse nella traduzione del Gori.
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Nello stesso tempo, Alfieri si volge allo studio dei corpi celesti sublimando l’“intelletto alla immensità di questo tutto creato”.
Il capitolo, così intenso, si chiude abbassando debitamente i toni:
sfuma un progetto di matrimonio e si tronca sul nascere una brillante
quanto noiosa carriera diplomatica.
Riprende quindi i viaggi, stavolta diretto verso Vienna. Il giovane
è invaso da “un’altra malinconia riflessiva e dolcissima”, dovuta evidentemente alle nuove letture e a nuove riflessioni, a cui si aggiungono quelle conseguenti alla frequentazione dei “sublimi Saggi del familiarissimo Montagne”. Vienna lo delude, come una sbiadita copia di
Torino. È probabile, tuttavia, che Alfieri proietti sulla città la delusione provata all’incontro famoso con Metastasio, presente nella capitale
austriaca fin dal 1730 come poeta di corte. Lo aveva visto nei giardini
imperiali di Schoenbrunn, mentre faceva a Maria Teresa “la genuflessioncella di uso, con una faccia sì servilmente lieta e adulatoria”, che
Alfieri “giovenilmente plutarchizzando” non può che ritrarsi di fronte
a “una Musa appigionata o venduta all’autorità despotica da me sì caldamente abborrita”. Altrettanto celebre è l’incontro berlinese con il sovrano prussiano Federico II, descritto con “un piglio plutarchiano che
mancava invece nell’atteggiamento dell’Alfieri dinanzi a Luigi XV”20.
Lo scrittore abbandona presto “quella universal caserma”, “aborrendola quanto bisognava”, dirigendosi verso la più congeniale Danimarca e l’ancor più amata Svezia.
Si colloca qui il primo accenno al sublime paesaggio nordico, di
gusto veramente romantico. “La novità di quello spettacolo, e la greggia maestosa natura di quelle immense selve, laghi e dirupi, moltissimo mi trasportavano”. Il fascino della natura anticipa le letture
dell’Ossian nella celebre versione di Cesarotti, che tanta parte ebbero nel nascente movimento romantico europeo. Il grand tour prosegue verso la Finlandia, attraversata in pieno inverno; stagione, luogo
e clima si addicono ad Alfieri, quanto mai propenso per gli estremi.
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Il Vero e il Bello non son se non uno
Di straordinaria efficacia è la descrizione del paesaggio scandinavo
che costituisce una delle documentazioni più importanti del sublime
settecentesco: “Nella sua salvatica ruvidezza quello è uno dei paesi
d’Europa che mi siano andati più a genio, e destate più idee fantastiche, malinconiche, ed anche grandiose, per un certo vasto indefinibile
silenzio che regna in quell’atmosfera, ove ti parrebbe quasi esser fuori del globo”21. Sono osservazioni che paiono richiamarsi al delightful
horror di Burke, anche se non sembra che Alfieri avesse letto la famosa Inchiesta sul Bello e il Sublime dello scrittore irlandese.
Ma è tempo ormai di raggiungere la favolosa Russia, preceduta dalle letture su Pietro il Grande, le quali tengono il giovane viaggiatore in “una straordinaria palpitazione”, ingrandita, come sempre, dalla fantasia.
Entrando a Pietroburgo, alla vista di “quell’asiatico accampamento
di allineate trabacche”, la delusione è atroce; rifiuta di essere presentato all’“autocratice Caterina Seconda”, su cui, moderna Clitennestra
“filosofessa” (in quanto amica di philosophes), pesa anche l’assassinio
del marito e si merita quindi l’applicazione di “un odio purissimo della
tirannide in astratto”. È ben nota, del resto, l’avversione di Alfieri per i
sovrani riformatori, i “semi-tiranni”, come li definisce nel trattato Della Tirannide, prodotto “dei nostri costumi presenti che tutto a mezzo ci danno”. Essi, a suo parere, non risolvono il problema del dispotismo, che non si può riformare ma solo eliminare, e per di più sono
invisi ad un uomo come lui, lontano dalle mezze misure. Disgustato
da ogni “moscoviteria”, l’inquieto viaggiatore si riporta verso Berlino;
a Zorendorff, presso Brandeburgo, ha modo di visitare il campo della
battaglia tra Russi e Prussiani della guerra dei Sette Anni. Malinconiche
riflessioni vi nascono, alla vista di “fosse sepolcrali vastissime”, frammiste “alla folta e verdissima bellezza del grano”, a dire della stupidità
di ogni guerra. Attraversa quindi le amene contrade bagnate dal Reno
e poi ancora è in Olanda e in Belgio, ma prevale ormai “la smania di
riveder l’Inghilterra”, dove si preannuncia, come in feuilleton, un “secondo fierissimo intoppo amoroso”.
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Bollettino
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Il Vero e il Bello non son se non uno
Le disavventure dell’amore.
E subito riprende il viaggio. Nuovi paesaggi e figure.
Il nuovo intoppo si chiama Penelope Pitt, moglie del visconte Edward
Ligonier, aiutante di campo del re Giorgio III. Le tonalità della Vita
diventano qui quelle del romanzo d’avventura o della commedia
giallo-rosa. Sospettati dal visconte, i due amanti sono costretti a sotterfugi continui; in uno di questi Alfieri cade da cavallo e si infortuna gravemente ad una spalla, ma ciò non basta a trattenerlo dal felice appuntamento. Sorpreso poi dal marito a teatro, ne consegue,
come vuole il rito del romanzo d’avventura, il fatale duello, dal quale
esce ferito l’italiano. Per colmo d’avventura, Alfieri trova riparo nella casa della cognata della sua amante e proprio lì, con un magistrale colpo di scena, gli accade di ritrovare l’amata. Da questa apprende che il marito sapeva tutto da tempo, ma – diversità dei costumi e
dei sentimenti – “l’inglese marito”, anziché lanciarsi in “veleni, battiture, o almeno carcerazion della moglie”, come sarebbe avvenuto in
Italia, non perde tempo a concederle un civilissimo divorzio. Fatto
che non può che soddisfare Alfieri, felice di subentrare tanto facilmente al marito. L’avventura erotica ha però un “disinganno orribile”, giacché Penelope deve confessare all’esterrefatto Alfieri di avere
già avuto per tre anni un altro amante: per giunta un palafreniere! E
ciò bastava a spiegare la facilità con cui il marito, a conoscenza del
fatto, si era liberato della donna. La prosa alfieriana ricorre qui agli
artifici retorici dell’elencazione polisindetica per esprimere tutto lo
sbigottimento per quell’“indegno amore”. Allo sdegno segue la beffa
e ad Alfieri tocca anche poi leggere il resoconto della sua disgraziata
avventura in una gazzetta inglese, anticipazione del moderno gossip.
Non gli resta che allontanarsi dalla donna, dall’Inghilterra e dall’infausto episodio, utile comunque ad intimamente conoscere l’autore della Vita, generoso, anche se talvolta reticente, a giudicare dalle
fonti, nella rievocazione dello scabroso accidente.
Cercato riparo in Olanda, confortato dall’amico diplomatico portoghese, Alfieri non sa indovinare altra cura al mal d’amore che “il mutar luogo continuamente ed oggetti”; si avvia quindi verso la Spagna,
unico paese d’Europa che ancora gli resta da visitare. Passa di nuovo per Parigi, dove gli si presenta l’occasione di conoscere Rousseau; orgoglio ed ostinazione, tuttavia, hanno di nuovo la meglio e sfuma l’incontro con quell’uomo “superbo e bisbetico”, del quale poco
aveva amato i libri. A Parigi si procura invece alcuni preziosi compagni di viaggio, “possenti scudi contro l’ozio e la noia”, che da allora
non lo abbandoneranno più. Si tratta di una raccolta di autori italiani,
tra i quali spiccano i sei maggiori della nostra lingua, “in cui tutto c’è”:
Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, Boccaccio e Machiavelli.
Giunto a Barcellona, ha finalmente l’occasione di acquistare i tanto desiderati cavalli andalusi. Libri e cavalli si confermano per lui le
migliori medicine, con qualche preferenza per questi ultimi. Essi sono
tanto più necessari, viste le pessime condizioni in cui versano le strade “di tutto quel regno affricanissimo”. Ha modo di leggere in lingua
spagnola, rapidamente appresa, il Don Quixote di Cervantes. Si inoltra
poi per “i deserti” della Spagna centrale, “dove chi non ha molta salute, danari e pazienza, non ci può resistere”. In viaggio verso Madrid,
preferisce di gran lunga “l’andare, che il soggiornare in qualunque di
quelle semibarbare città”. Afferma, infatti, con una delle sue sentenze più lapidarie: “per me l’andare era sempre il massimo dei piaceri; e lo stare il massimo degli sforzi; così volendo la mia irrequieta indole”. Percorre i “vasti deserti d’Arragona” con la sola compagnia del
fedele andaluso, preceduto dal solito Elia, avvezzo a procurargli “conigli, lepri, ed uccelli, che quelli sono gli abitatori della Spagna”. Invaso da riflessioni ed immagini “e liete, e miste, e pazze”, ne avrebbe di che scrivere, se ne avesse la lingua. Senza, non gli rimane che
piangere e ridere tra sé: “due cose che, se non sono poi seguitate da
scritto nessuno, son tenute per mera pazzia, e lo sono; se partorisco-
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no scritti, si chiamano poesia, e lo sono”. I grandi deserti della Spagna
sono il pendant mediterraneo delle vaste distese nordiche; anch’essi
diventano il corrispettivo di un animo inquieto e bramoso di assoluto. Come ben vide Momigliano, sono paesaggi che costituirebbero gli
scenari ideali per le sue tragedie. Il poeta tragico e moderno aggiorna l’immaginario petrarchesco, immettendovi “un’immagine aristocratica e vagamente araldica, del cavaliere solitario e malinconico che va
per i boschi poetando e sospirando: un emblema che aveva già avuto una versione ironica nel Don Chisciotte e che avrà una prosecuzione, debitamente riveduta e corretta dai miti fondamentali del West, nel
giustiziere cow-boy”22.
Ci imbattiamo a questo punto in uno degli episodi più celebri e
narrativamente felici dell’autobiografia: ci riferiamo al racconto del
violento alterco scoppiato tra Alfieri e il fido Elia, alla presenza di un
giovane spagnolo, quando Elia, nell’atto di pettinare il padrone, gli
tira inavvertitamente una ciocca di capelli. “Io, senza dirgli parola, balzato in piedi più ratto che folgore, di un man rovescio con uno dei
candelieri ch’avea impugnato gliene menai un così fiero colpo su la
tempia diritta, che il sangue zampillò ad un tratto come da una fonte sin sopra il viso e tutta la persona di quel giovane, che mi stava seduto in faccia”. Il giovane spagnolo fa per bloccare l’indiavolato Alfieri, ma in quel mentre giunge la veemente reazione del fiero Elia “che
mi era saltato addosso per picchiarmi; e ben fece.” Lestissimo, Alfieri scivola sotto il suo avversario, e, “saltato su la mia spada”, “posata
su un cassettone”, è pronto a sguainargliela contro. “Ma Elia inferocito
mi tornava incontro, ed io gliela appuntava al petto; e lo Spagnolo a
rattenere ora Elia, ed or me; e tutta la locanda a romore; e i camerieri
saliti, e così separata la zuffa tragicomica e scandalosissima per parte
mia”. Gli animi sono infine rappacificati, con spiegazioni e scuse reciproche, e con l’intervento dell’allibito spagnolo, il più saggio dei tre, il
quale è risoluto a testimoniare riguardo all’Alfieri che “non era impazzito, ma che pure savissimo non era”. Il racconto, esilarante pur nella
sua potenziale gravità, è veramente degno di un grande umorista, nar24
Il Vero e il Bello non son se non uno
rato con la sapienza dello stile ellittico, dietro cui si indovina il grande divertimento dello scrittore. “Così finì quella orribile rissa, di cui io
rimasi dolentissimo, e vergognosissimo, e dissi ad Elia ch’egli avrebbe
fatto benissimo ad ammazzarmi. Ed era uomo da farlo; essendo egli
di statura quasi un palmo più di me che sono altissimo; e di coraggio
e forza niente inferiore all’aspetto”. Ma Elia, fedele alter ego di Alfieri, non conserva rancore e dell’aspro duello, “misto di ferocia e di generosità”, resta come documento solo un paio di fazzoletti inzuppati
di sangue. Stupenda è la riflessione con la quale Alfieri chiude l’episodio. Ricorda di aver avuto altre occasioni, se pur rare, di venire alle
mani con dei servitori, e di essersi sempre augurato di venire ricambiato allo stesso modo, dato che non aveva mai pensato “di battere il
servo come padrone, ma di altercare da uomo ad uomo”.
Da Madrid, Alfieri giunge poi a Lisbona: città che lo attrae non
poco, a vederla da lontano, mentre, inoltrandovisi, egli resta sconvolto nel constatare i segni, ancora evidentissimi, del rovinoso terremoto del 1755, su cui scrissero Voltaire e tanti altri. Il soggiorno a Lisbona vale però sopra tutto a ricordare un altro incontro memorabile per
il giovane piemontese, ancora alla ricerca di vocazione e perciò particolarmente bisognoso di maestri. Egli incontra infatti l’abate Tommaso di Caluso, il quale gli fu sempre carissimo, fino alla morte. Era
questo un uomo “raro per l’indole, i costumi e la dottrina”; fine e coltissimo – Alfieri lo definisce “un Montaigne vivo”- non faceva pesare
mai il suo immenso sapere al giovane ed ancora sprovveduto amico,
al quale invece egli suscita l’interesse per la poesia. Ulteriore conferma di come l’amore per la poesia si accompagni sempre in Alfieri con
il dono dell’amicizia.
Lasciato il Portogallo, si appresta a far ritorno in patria, attraversando la Spagna di cui ricorda Cordova e Valencia; quest’ultima particolarmente, per il “bellissimo azzurro” del suo cielo, per “un non so
che di elastico ed amoroso nell’atmosfera” e naturalmente per le donne bellissime. Ritorna quindi a Torino, appesantito da certi “incomodi
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incettati in Cadice”, per guarire dai quali valgono più i consigli dell’esperto Elia che quelli dell’esoso chirurgo di Montpellier.
Ma ci avviciniamo ormai agli eventi decisivi per la vita di Alfieri, sia
sul piano personale che letterario.
Prime composizioni. L’ultimo “indegno amore” e la crisi.
Apparentemente, i cinque anni di viaggi hanno portato poco frutto al
giovane Alfieri. In realtà, sono stati anni di incubazione, pronti a svelare i loro doni al momento opportuno. Rifiuta ancora offerte generose
di incarichi diplomatici, in nome della “beata indipendenza”; è sempre
alle prese con un “impetuoso intollerante e superbo carattere”. Stringe amicizia con gli antichi compagni d’Accademia, con i quali si lega
in una “società permanente, con admissione od esclusiva ad essa per
via di voti, e regole, e buffonerie diverse, che poteano forse somigliare, ma non erano però, Libera Muratoreria”. In questa consorteria amicale, nascono i primi scritti alfieriani, in francese: “cose facete miste di
filosofia e d’impertinenza”. Si tratta dell’Esquisse du Jugement Universel, operetta satirica influenzata da Voltaire, prima tappa dell’apprendistato letterario di Alfieri23. Scritto di poco conto, il quale ha però il merito di introdurre nella mente dell’autore “qualche lampo confuso di
desiderio e di speranza di scrivere quando che fosse qualcosa che potesse aver vita”. Il giovane sente inizialmente inclinazione per la satira,
presto dissuaso dal momento che questo “fallace genere” “è posto e
radicato assai più nella malignità e invidia naturale degli uomini, gongolanti sempre allorché vedono mordere i loro simili, che non nel merito intrinseco del morditore”. Questo giudizio, tuttavia, appartiene alla
risentita moralità dell’Alfieri maturo, all’auctor, mentre l’Alfieri personaggio, l’agens, ventiquattrenne circondato da lussi ed oziosità, continua a vegetare. Così non può che incappare nuovamente “in un tristo
amore”, il terzo fra i principali ricordati, dal quale uscirà, “dopo infinite
angosce, vergogne e dolori”, con il “vero, fortissimo, e frenetico amo26
Il Vero e il Bello non son se non uno
re del sapere e del fare, il quale d’allora in poi non mi abbandonò mai
più”. Merito altissimo di tale amore fu quello di sottrarlo “dagli orrori della noia, della sazietà e dell’ozio; e dirò di più, dalla disperazione;
verso la quale a poco a poco io mi sentiva strascinare talmente, che se
non mi fossi ingolfato poi in una continua e caldissima occupazione
di mente, non v’era certamente per me nessun altro compenso che mi
potesse impedire prima dei trent’anni dall’impazzire o affogarmi”. Siamo propensi a pensare che Alfieri non esageri in affermazioni simili,
stante il carattere “malinconico” e potenzialmente violento dell’uomo.
Questa “ebrezza d’amore”, che precede l’ultima e definitiva crisi,
è quella di cui l’autore si dispiace più gravemente; non solo perché
fu “veramente sconcia”, ma anche perché durò più a lungo. Maggiore di lui di dieci anni, moglie di un galante avventuriero amico di Casanova, la donna si legò ad Alfieri con un tormentato rapporto che
durò quasi due anni, senza che il giovane piemontese fosse in grado
di staccarsene: “scontento dell’esserci, e non potendo pure non esserci”, afferma con felice sintesi, a definire un legame che ha qualcosa
del catulliano odi et amo.
Questo ultimo “indegno amore” si accompagna, anzi ne è la causa secondo Alfieri, ad una singolare malattia, che ha il sapore di una
cesura. Non a caso, il cap. XIV dell’Epoca terza si intitola “Malattia e
ravvedimento”, come una necessaria endiadi. Legato ancora dalle ultime “catene amorose”, egli intanto spezza quelle militari, rassegnando le dimissioni dall’“infame mestiere delle armi”, che del resto aveva ben poco praticato.
Nel gennaio 1774 egli è ancora un “cavalier servente” della poco
stimata dama e, mentre l’assiste durante una malattia, divorato dal tedio, dà “di piglio a cinque o sei fogli che mi caddero sotto mano”; comincia così “a caso, e senza aver piano nessuno, a schiccherare una
scena di una non so come chiamarla, se tragedia, o commedia, se d’un
sol atto, o di cinque, o di dieci”. L’autore registra con stupore questa
sua “subitanea impresa” che sembra superarlo; ammette, infatti, che
“da circa sei e più anni non aveva mai più scritto una parola italiana,
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Bollettino
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pochissimo e assai di rado con lunghissime interruzioni” ne aveva pur
letto. “Eppure così in un subito, né saprei dire né come né perché, mi
accinsi a stendere quelle scene in lingua italiana ed in versi”. Dietro la
crisi avvertiamo il kairòs, il tempo di grazia, la goethiana Gelegenheit:
rabbia, vergogna e dolore erano i sintomi del desiderio di cambiamento. Punto culminante della vocazione è questo abbandonarsi ad una
forza “altra”, a cui l’uomo, stupito, obbedisce. La capacità di generare
è data infatti da questa originale forma di obbedienza. La prima azione
è una passività, un cedimento allo stupore, a una voce, ad un Amore
che, direbbe Dante, “ditta dentro” (Purg. XXIV, v. 54). È questo il secondo, decisivo momento della storia intima di Alfieri; il primo, come
si ricorderà, era avvenuto cinque anni prima, quando il giovane, invasato, aveva scoperto Plutarco e con esso il proprio mondo interiore; di
seguito, avviene ora la scoperta del fare poetico – non a caso il greco
poiein indica appunto un’azione, un’attività pratica – e con essa l’inizio di una strada, difficile quanto si vuole, ma certa. All’origine di una
vocazione, ma anche di un amore, vi è sempre un urto, un contraccolpo, un “essere colpiti da”, un affici. Infatti, l’autore “comincia”, come
afferma esplicitamente Alfieri, senza averne piena consapevolezza, la
quale arriverà lentamente, nel tempo e non sarà mai completa.
La vocazione si colloca infatti in questo inizio, in questa messa in
moto; è una “citazione”, un “ec-citamento”, così come vuole il verbo
latino excitare24. Il poeta intitola questo capitolo “Liberazione vera”,
da intendere come una “conversione”, termine che l’autore usa una
sola volta in tutto il libro, come a indicare una rinascita dell’io25.
Alfieri riporta quindi questo “abbozzaccio” di tragedia, doverosamente sgrammaticato: si tratta delle prime tre scene della Cleopatra, la
quale sarà la prima opera rappresentata dall’autore nel ’75 a Torino e in
seguito rifiutata. Consapevole dei limiti di tale abbozzo, Alfieri l’abbandona sotto un cuscino di una poltrona in casa della signora; così che,
afferma in un lampo di squisita autoironia, quelle sue “tragiche primizie” giacciono “covate in tal guisa fra la poltroncina e il sedere di molti”.
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Il Vero e il Bello non son se non uno
Per strapparsi al tedio di quella rete amorosa, Alfieri trova la forza
di partire per Milano, ma subito pentitosi, ritorna a Torino attirato dalla sua donna, in piena notte per non essere “la favola di tutti”, scrive,
con eco petrarchesca. Straziato da sentimenti opposti, insoddisfatto
più che mai, riparte per un viaggio che dovrebbe durare un anno ma
ritorna, invece, dopo diciotto giorni, sempre invischiato nelle “vili catene” dell’“odiosamata” signora. Constatato che a nulla valgono i continui spostamenti, egli decide di mettere alla prova “l’ostinazione naturale” del suo “ferreo carattere”, che lo ha reso celebre anche tra il
pubblico vasto dei suoi semi-lettori. Si propone quindi di non muoversi da casa, dirimpettaia a quella dell’amante. Fermo in questo inflessibile proponimento, ne dà notizia a un amico, al quale invia, oltre a una lettera chiarificatoria, una ciocca di capelli (si noti il ritorno
costante di questo “complesso di Sansone”) che aveva reso la sua testa vergognosamente inguardabile.
Trascorsi due mesi in uno stato penoso, afferrato da un’idea nuovamente insorta, prende a comporre un “primo sonetto” (ma non doveva essere il primo, essendocene pervenuto uno datato 1771). Lo
invia al colto amico padre Paciaudi: sia la poesia che la “cortese risposta” del religioso sono riportati nella Vita. L’autore si renderà conto, a
posteriori, della pochezza dei suoi primi versi, tuttavia confessa che i
complimenti ricevuti dal Paciaudi l’avevano incoraggiato a proseguire
i suoi tentativi. Ad un giovane promettente, ma scarsamente fiducioso
in se stesso, basta talvolta una lieve spinta di un sapiente pedagogo
per ripartire. Ed è così che Alfieri riprende in mano la Cleopatra, ritrovandosi nello stesso stato d’animo del protagonista Antonio, lì rappresentato. Eccolo allora a “schiccherar fogli, rappezzare, rimutare, troncare, aggiungere, proseguire, ricominciare, ed insomma a impazzare
in altro modo intorno a quella sventurata e mal nata mia Cleopatra”.
Bellissimo il fervore creativo che si va formando in casa d’Alfieri, trasformata “in una semiaccademia di letterati” a cui chiedere lumi, stante l’ignoranza del giovane autore, sprovveduto ma anche “bramoso
d’imparare”. Si trova quindi a lottare con il suo indocile carattere, tan29
Bollettino
della
Società Letteraria
to da ricorrere a un mezzo che lo renderà celebre per la sua leggendaria ostinazione: farsi legare a una sedia, conservando le mani libere
“per leggere, o scrivere, o picchiarmi la testa”. È il famoso “volli, sempre volli, fermissimamente volli”, forse l’unica frase alfieriana che tutti
conoscono. Fra i tanti rimedi tentati per uscire dalle reti in cui si trova
inviluppato, vi è anche una “mascherata” nel carnevale del ’75 in cui,
vestito da Apollo, strimpellando con la cetra, recita alcuni versi da lui
composti (Alfieri fu anche un buon attore) di una “colascionata”, sorta
di canzone popolare, di cui riporta, senza vergogna, il testo.
Frammiste a queste poco memorabili composizioni, si fa largo nel
giovane un “nuovo bellissimo ed altissimo amore di gloria”, il quale costituisce, com’è noto, una delle cause principali che lo spinsero
all’attività letteraria. Ritorna così a metter mano alla tragedia, il suo interesse più autentico, dopo mesi di “continui consulti poetici, e di logorate grammatiche e stancati vocabolari” (dov’è da notare la forza
espressiva dei participi anticipati rispetto ai sostantivi): è il rifacimento della Cleopatra, di cui allega il primo atto e la risposta del Paciaudi.
Accolte le mende, specialmente ortografiche, proposte dal maestro,
Alfieri corregge nuovamente il testo, che verrà infine rappresentato a
Torino nel giugno del ’75, senza che l’autore ne sia soddisfatto. Subito dopo, preso da una felice ansia sperimentale, Alfieri compone una
“farsetta”, commedia in un atto, intitolata I poeti, anch’essa in parte riprodotta nella Vita. Sia la Cleopatra che I poeti sono rappresentati a
teatro con un discreto successo, grazie anche alla recitazione dell’autore; il quale, nel frattempo “ravveduto e ripentito”, si attiva per impedire altre rappresentazioni.
L’esito più importante di tali giovanili tentativi consiste nel desiderio fattosi più consapevole e maturo in Alfieri di proseguire la strada intrapresa, per cui “mi entrò in ogni vena un sì fatto bollore, e furore di conseguire un giorno meritatamente una vera palma teatrale,
che non mai febbre alcuna di amore mi avea con tanta impetuosità
assalito”.
30
Il Vero e il Bello non son se non uno
Si conclude così l’Epoca di Giovinezza: l’autore si dispone a un
nuovo “cominciamento”, quello della “virilità” e della composizione
delle tragedie.
Note
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Per le complesse vicende redazionali della Vita, si veda l’edizione curata da
Giampaolo Dossena, Torino, Einaudi, 1967; l’edizione critica curata da L.
Fassò, Casa d’Alfieri, Asti 1951, con la stesura definitiva, nel vol. I e la prima redazione inedita nel vol. II. Per il mio lavoro ho tenuto conto dell’edizione procurata da Mario Fubini sugli autografi alfieriani, che ha condotto a
una radicale revisione del testo di Fassò (Vittorio Alfieri, Opere, tomo I, introduzione e scelta di Mario Fubini, testo e commento a cura di Arnaldo Di
Benedetto, Milano-Napoli, Ricciardi, 1978). L’editio princeps della Vita è del
1806 (Firenze, Piatti), ma porta la falsa indicazione Londra 1804.
A. Spadaro, Abitare nella possibilità. L’esperienza della letteratura, Milano,
Jaca Book, 2008, p. 18. Per il metodo di lettura seguito, rinviamo ad alcuni
testi che ci sono cari: oltre al bellissimo libro di Spadaro, G. Steiner, Vere
presenze, Milano, Garzanti, 1999; E. Raimondi, Un’etica del lettore, Bologna, Il Mulino, 2007, T. Todorov, La letteratura in pericolo, Milano, Garzanti, 2008, già discussi nei miei precedenti volumi: Con l’infinito nel cuore, Castelbolognese, Itaca, 2004 e Come un bel giorno, Verona, Cortella,
2009.
G. Debenedetti, Vocazione di Vittorio Alfieri, Roma, Editori Riuniti, 1977.
Id., p. 7.
F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, intr. di R. Wellek, Milano,
BUR Rizzoli, 1983, vol. II, p. 928.
Id., pp. 928-9.
7 Ph. Lejeune, Le pacte autobiographique, Paris, Seuil,1975, trad. it., Il patto autobiografico, Bologna, Il Mulino, 1986. Su tale aspetto si veda anche
M.A. Terzoli, Confessione e verità. Note sulla Vita dell’Alfieri, in “Studi italo-tedeschi /Deutsch-Italienische Studien”, XX, Merano 1999, pp. 115-150.
Si rimanda all’introduzione di Fassò all’edizione critica della “Vita” già citata.
M. Fubini, Introduzione a V. Alfieri, Opere, cit., p. XXVI.
B. Croce, Vittorio Alfieri precursore del Proust, in “La Critica”, XXXV (1937),
pp. 154-5, ora in Pagine sparse, Bari, Laterza, 1960. Il fatto è ricordato da
Leopardi nello Zibaldone (1455).
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M. Fubini, commento a una scelta della Vita, in L. Russo, I classici italiani
(dal Cinquecento al Settecento), II, nuova edizione riveduta, Firenze, Sansoni, 1968, p. 1182. Si noti che l’episodio della rifiutata “prosternazione”
anticipa la nota “genuflessioncella d’uso” che l’autore vide fare a Metastasio nel 1769, così come senza la “storietta puerile” della reticella non si capirebbe “il complesso di Sansone di cui fa le spese il servo Elia”, fa notare
A. Battistini in Lo specchio di Dedalo. Autobiografia e biografia, Bologna, Il
Mulino 1990, p. 90.
Si veda, per esempio, il ricordo tratteggiato da G.B. Giorgini, genero di
Manzoni, citato nel bel volume di Umberto Colombo, Alessandro Manzoni, Roma, Ed. Paoline, 1985, p. 18.
V. Alfieri, Opere, comm. di A. Di Benedetto, cit., p. 41.
Sulla passione di Alfieri per i cavalli cfr. P. Azzolini, Alfieri, “il conte ippofilo
in sommo grado”, in Vittorio Alfieri e Ippolito Pindemonte nella Verona del
Settecento, a cura di G.P. Marchi e C. Viola, Fiorini, Verona 2005, pp. 41-53.
E. Gioanola, Vittorio Alfieri: la malinconia, il doppio in Id., Psicanalisi, ermeneutica e letteratura, Milano, Mursia, 1991, p. 346
Su Giovanni Antonio Francesco Elia (nato nel 1730, ancora vivente nel
1804), fondamentale lo studio di L. Caretti, Il “fidato” Elia e altre note alfieriane, Padova, Liviana, 1961, ma si veda anche M. Corti, Il servo Elia, in
Metodi e fantasmi, Milano, Feltrinelli, 1969, pp. 209-216.
Nel capitolo III delle Osservazioni sulla morale cattolica dirà che Helvètius
“rappresenta la natura umana sotto l’aspetto il più tristo e desolante”. Manzoni passò da un’iniziale ammirazione per Alfieri ad un progressivo distacco, condividendo il giudizio negativo di Fauriel, al quale aveva inviato come omaggio giovanile i libri Della Tirannide, accompagnandoli con
trentasei versi sciolti, resi noti nel 2002 con la pubblicazione Manzoni inedito, premessa di G. Vigorelli, introduzione e commento di F. Gavazzeni,
Centro Nazionale Studi manzoniani, Milano 2002.
Su questo momento della vita di Alfieri, ci permettiamo di rimandare al nostro precedente saggio Vittorio Alfieri: la vita come vocazione, in Come un
bel giorno, cit., pp. 25-32.
V. Alfieri, Del Principe e delle Lettere, L.III, cap. VI.
V. Alfieri, Opere, comm. Di Benedetto, cit., p. 93.
Sul sublime alfieriano, cfr. E. Raimondi, Le pietre del sogno. Il moderno
dopo il sublime, Bologna, Il Mulino, 1985.; S. Contarini, Alfieri e il sublime,
in Metamorfosi dei Lumi, a cura di S. Carpentari Messina, Alessandria, Ed.
Dall’Orso, 2000, pp. 168-199 e A. Di Benedetto, Il dandy e il sublime. Nuovi studi su Vittorio Alfieri, Firenze, Olschki, 2003.
P. Azzolini, Alfieri, “il conte ippofilo…, cit, p. 49.
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Su questo testo si veda E. Raimondi, Giovinezza letteraria dell’Alfieri, in Il
concerto interrotto, Pisa, Pacini, 1979, pp. 65-190.
Per questo aspetto della psicologia alfieriana, rinviamo nuovamente al nostro precedente, già citato, saggio alfieriano in Come un bel giorno, cit., p.
27, e agli scritti, lì considerati, di Luigi Giussani e Giacomo Contri.
Cfr. Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso. Testo e concordanze, a
cura di S. De Stefanis Ciccone e P. Larson, Lucca, Baroni, 1997. Sottolinea
la centralità, anche strutturale e “geometrica” della conversione G. Tellini,
Storia e romanzo dell’io nella “bizzarra mistura” della Vita, in Alfieri in
Toscana, Atti del Convegno internazionale di studi, (Firenze 2000), a cura
di G. Tellini e R. Turchi, Firenze, Olschki, 2001, pp. 203-219.
The search for a vocation in the autobiography “Vita” by Vittorio Alfieri.
The current essay retraces some of the pages from the Vita by Vittorio Alfieri,
since his childhood to the young age. This autobiography was started in 1790,
soon after he had turned 40 years old, in the aftermath of the delusion for the
authoritarian developments of the French Revolution, and was completed by
the author in May 1803, a few months before his death. The need for an autobiographical account was always very strong in this writer from Piemonte
and goes trough his entire literary career. In his Vita, the search for his vocation as a writer plays a dominant role, and will lead him to become the greatest tragic Italian poet of his age. Writing with a style both fresh and original,
the author looks back to all of his life as happily directed towards the objective
of revealing his human and literary destiny: in this way this book become a
kind of novel of adventure and formation, a necessary step towards the “novels of the self” of our greatest writers of the romantic age, i.e., Foscolo, Leopardi and Manzoni. The autobiography by Alfieri displays a wealth of psychological, educational and cultural remarks, and so it acts as a mirror at the same
time faithful and enigmatic of the author and his time.
33
Spiritus da Plauto ed Ennio
fino al I sec. a.C.
Osservazioni lessicali
Francesco Ginelli
Il tempo e il caso poco hanno lasciato del de lingua latina di Varrone.
Dei 25 libri originari, solo quelli dal V al X, insieme a pochi altri frammenti, sono infatti giunti fino ai nostri giorni1. Secondo quanto si evince da alcuni rimandi interni all’opera e dalle testimonianze della tradizione indiretta, Varrone aveva esposto nei primi quattro libri le teorie
contrarie alla scienza etimologica, gli argomenti a favore di essa e l’oggetto della sua ricerca. Solo a partire dal quinto libro l’autore proponeva una rassegna di etimologie riguardanti alcuni vocaboli della lingua latina2. L’erudito reatino era tuttavia conscio che si trattava di uno
studio complesso, caratterizzato da numerose difficoltà dovute all’antichità di alcuni termini e alla distanza semantica tra il valore originario e quello d’uso corrente ai suoi tempi:
Quae ideo sunt obscuriora, quod neque omnis impositio verborum
ex[s]tat, quod vetustas quasdam delevit, nec quae extat sine mendo
omnis imposita, nec quae recte est imposita, cuncta manet (multa
enim verba lit<t>eris commutatis sunt interpolata), neque omnis
origo est nostrae linguae e vernaculis verbis, et multa verba aliud
nunc ostendunt, aliud ante significabant […]3.
Quanto esposto da Varrone si potrebbe applicare anche allo studio
del termine “spiritualità”, nozione alla quale è dedicata la presente
Bollettino della Società Letteraria, 2012, 35-50
Bollettino
della
Società Letteraria
raccolta. Sebbene sia piuttosto intuitivo che il sostantivo italiano affondi le sue radici etimologiche nel latino spiritus4, tuttavia ben più complesso è comprendere il continuo processo di ri-semantizzazione che
ha caratterizzato quest’ultimo termine nella letteratura latina5. Scopo
del presente elaborato sarà pertanto quello di indagare lo spettro semantico di spiritus, analizzandone i vari significati da un punto di vista
diacronico. L’analisi sarà tuttavia limitata ai valori assunti dal sostantivo a partire dalle sue prime attestazioni nella letteratura latina fino al
I sec. a.C. Tale parentesi cronologica permette infatti di focalizzare lo
studio su un momento particolare della storia di spiritus, quando al
valore originario iniziano ad affiancarsi le prime aperture del ventaglio semantico, in un percorso che dalle origini concrete del sostantivo giungerà alle sue evoluzioni astratte6.
Le origini concrete
Le prime attestazioni di spiritus nella letteratura latina risalgono a
Plauto ed Ennio. In questa fase cronologica il termine mantiene sempre un valore concreto, nonostante presenti già molteplici significati.
In Plat. Amph. 233 indica la respirazione umana7:
[…] ferro ferit, tela frangunt, boat
caelum fremitu virum, ex spiritu atque anhelitu
nebula constat […]8.
Spiritus da Plauto ed Ennio fino al I sec. a.C.
In Ennio il valore “respiro” è presente in ann. 539 Skutsch11, mentre in
scaen. 10-11 Vahlen ricorre quello di “soffio”. La medesima oscillazione semantica si rintraccia anche nei secoli seguenti. L’accezione “vento” compare infatti nel II sec. a.C. in Accio12 e in Furio Anziate13, mentre
nel I sec. è attestata negli Aratea di Cicerone14 e nell’Eneide di Virgilio15. Il significato di “fiato/alito” ricorre in Lucr. 6, 1154, in Cic. Verr. 2,
3, 31 e in Hor. carm. 2, 17, 13 e 3, 11, 19. Il valore “respiro” sembra invece essere ben più diffuso rispetto agli altri: tra il II e il I sec. a.C. è attestato in un frammento del poeta comico Lucio Afranio16, mentre nel I
sec. è presente in un frammento di un’orazione di Crasso17, nella Rhetorica ad Herennium18, in Lucrezio19, Varrone20, Cicerone21, nell’oratore
Marco Celio Rufo22, in Nigidio Figulo23, nel poeta Domizio Marso24, in
Tibullo25, Properzio26, Virgilio27, Orazio28 e Tito Livio29.
Sempre nel I sec. a.C. si possono notare ulteriori sviluppi concreti: in
Varrone e in Cicerone spiritus denota anche l’“aria”30, mentre in Cicerone e in Livio viene impiegato per indicare il “tono” della voce31.
Un’ultima considerazione merita Lucr. 3, 222, in cui spiritus ha il significato di “odore, profumo”:
quod genus est, Bacchi cum flos evanuit aut cum
spiritus unguenti suavis diffugit in auras32.
Si tratta di un valore ripreso anche da Prop. 2, 29b, 38, sebbene in un
passo dalla difficile interpretazione lessicale:
mentre in Plaut. mil. 17 e bacch. 10 designa il “soffio”:
Memini; nempe illum dicis cum armis aureis,
cuius tu legiones difflavisti spiritu
quasi ventus folia aut paniculum tectorium9.
Scio spiritum eis maiorem esse multo
quam folles taurini habent, quom liquescunt
petrae, ferrum ubi fit […]10.
36
Aspice ut in toto nullus mihi corpore surgat
spiritus admisso motus adulterio33.
L’evoluzione astratta
Le prime attestazioni di spiritus con valore astratto risalgono al I sec.
a.C., momento in cui il termine assume numerose nuove sfumature,
in concomitanza con l’ampliamento del lessico latino a causa di un
più intenso contatto della cultura romana con quella greca. Per me37
Bollettino
della
Società Letteraria
Spiritus da Plauto ed Ennio fino al I sec. a.C.
glio comprendere i mutamenti lessicali e le nuove accezioni di spiritus, si è pensato di suddividere i significati astratti in diverse grandi
sezioni, all’interno delle quali saranno individuate ulteriori sottocategorie di sfumature lessicali.
ne ricorra anche in altri passi della produzione ciceroniana40, non trova tuttavia una grande diffusione: in poesia è presente in Prop. 2, 13b,
4541 e Hor. carm. 4, 8, 14, mentre in prosa è testimoniato in due passi
di Tito Livio, rispettivamente Liv. 28, 34, 5 e 42, 23, 10.
Campo semantico “vita”
Berge, Spiritus, cit., p. 223 rintraccia una prima relazione tra spiritus e
“vita” in un passo delle Res rusticae di Varrone:
Campo semantico: Superbia, Avidità, Fierezza
Ben più diffuso è l’uso di spiritus nel significato di “superbia, arroganza”. La prima attestazione di tale valore nella letteratura latina tràdita
compare nelle Verrinae di Cicerone. In Verr. 2, 1, 75, l’oratore così si
rivolge a Dolabella:
[…] quo enim spiritus non pervenit ibi non oritur curculio34.
Sebbene in questo caso spiritus mantenga l’accezione di “aria”, tuttavia esso è posto in relazione con la vita animale: dove manca l’aria
non può sorgere la vita. Tale rapporto logico-semantico diviene ancora più esplicito in un passo del de inventione di Cicerone, in cui l’oratore afferma: si spiritum ducit, vivit35. La relazione instaurata da Varrone tra spiritus e la vita animale viene qui applicata da Cicerone agli
esseri umani36. Ormai il passo che separa “spiritus/aria” da “spiritus/
vita” è molto breve.
Tuttavia una più approfondita analisi dei luoghi ciceroniani in cui
compare il sostantivo spiritus permette di identificare, oltre al passo
citato da Berge, un altro possibile punto di contatto tra il significato
concreto e quello astratto. Sempre nel de inventione Cicerone riporta:
[…] non affui, non vidi, non postremam vocem eius audivi, non
extremum spiritum eius excepi37.
Qui spiritus, usato nell’accezione di “respiro”, è posto in relazione
con l’attributo extremum, andando così a indicare “l’estremo respiro/
l’ultimo respiro” che separa l’uomo della vita38. È pertanto possibile
che da questa formula il termine spiritus abbia assunto, per un processo contiguità semantica39, il valore di “vita”. Questo significato, sebbe-
38
Quid ego nunc in altera actione Cn. Dolabellae spiritus, quid
huius lacrimas et concursationes proferam, quid C. Neronis, viri
optimi atque innocentissimi, non nullis in rebus animum nimium
timidum atque demissum?42
Tale accezione ricorre in un altro passo dello stesso gruppo di orazioni, in cui Cicerone si scaglia contro Quinto Aponio, capo degli esattori delle decime, citato in giudizio per la sua riprovevole condotta:
Aspicite, iudices, vultum hominis et adspectum, et ex ea contumacia quam hic in perditis rebus retinet illos eius spiritus Sicilienses
quos fuisse putetis [cogitate ac] recordamini43.
Il valore lessicale qui osservato è presente anche nella restante produzione ciceroniana, soprattutto nelle orazioni, sebbene non manchino
attestazioni anche negli epistolari44. Il significato trova in seguito ampia diffusione in prosa nelle opere di Cesare45, Cornelio Nepote46 e Livio47, mentre in poesia, sebbene più raro, ricorre in Properzio48, Virgilio49 e Orazio50.
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Bollettino
della
Società Letteraria
Campo semantico: Coraggio, Morale
Un significato molto raro di spiritus è quello di “coraggio, ardire”. Così
Liv. 4, 54, 8:
Inritatis utriusque partis animis cum et spiritus plebs sumpsisset
et tres ad popularem causam celeberrimi nominis haberet duces,
patres omnia quaestoriis comitiis ubi utrumque plebi liceret similia
fore cernentes, tendere ad consulum comitia quae nondum
promiscua essent […]51.
Diverso contesto invece in Liv. 2, 35, 8, in cui Gneo Marcio Coriolano,
ormai in esilio, e Attio Tullio vorrebbero convincere i Volsci a riprendere le ostilità contro Roma, sebbene questi fossero fiaccati dalla guerra e abbattuti nell’animo dai recenti insuccessi militari. Qui spiritus assume quasi il valore di “morale”, “disposizione d’animo”:
Haud facile credebant plebem suam impelli posse, ut totiens
infeliciter temptata arma caperent: multis saepe bellis, pestilentia
postremo amissa iuventute fractos spiritus esse52.
Ispirazione divina
Un ulteriore valore di spiritus è testimoniato da Cicerone in un passo
dell’orazione Pro Archia:
Atque sic a summis hominibus eruditissimisque accepimus
ceterarum rerum studia ex doctrina et praeceptis et arte constare,
poetam natura ipsa valere et mentis viribus excitari et quasi divino
quodam spiritu inflari53.
In questo caso spiritus indica l’“ispirazione divina”54, il soffio della divinità che ispira il poeta nell’attività letteraria o l’uomo nell’agire in un determinato modo, valore qui ulteriormente sottolineato
dall’uso del verbo inflare55. Si tratta di un probabile calco semanti40
Spiritus da Plauto ed Ennio fino al I sec. a.C.
co56 dal greco πνεῦμα57 che si ritrova ancora in Properzio58, Orazio59
e in Tito Livio60.
Campo semantico: Anima, Spirito
Nel I sec. a.C. il temine spiritus, oltre al significato di “vita”, assume
anche quello di “anima, spirito”, attestato per la prima volta in Prop.
3, 18, 1061, un’elegia in cui il poeta umbro descrive lo spirito di Marco
Claudio Marcello, nipote di Augusto e marito di sua figlia Giulia, che
si aggira solitario nei pressi dell’infernale Stige, morto a soli vent’anni a Baia:
Hic pressus Stygias vultum demisit in undas,
errat et inferno spiritus ille lacu62.
Spirito divino
Di particolare interesse sono due passi del de natura deorum di Cicerone, in cui a spiritus viene accostato l’attributo divinus:
Haec ita fieri omnibus inter se concinentibus mundi partibus profecto non possent, nisi ea uno divino et continuato spiritu continerentur63.
[…] illud non probabam, quod negabas id accidere potuisse nisi ea
uno divino spiritu contineretur64.
L’intera espressione assume il significato di “spirito divino”. Anche in
questo caso spiritus è calco del greco πνεῦμα e passa a indicare lo spirito che tutto pervade, concetto elaborato dalla filosofia stoica. Così J.
B. Mayor e J. H. Swainson nel loro commento a Cic. nat. deor. 2, 19:
«[…] the Stoic πνεῦμα, as Origen points out, is material: it is the warm
air or ether which penetrates and gives life to all things and connects
them together in one organic whole; just as man’s body is unified by
the living soul, which is also material»65. Il medesimo valore ricorre an41
Bollettino
della
Società Letteraria
che in tre passi dell’opera di Tito Livio, rispettivamente Liv. 5, 15, 10;
5, 22, 5; 5, 43, 8.
Un caso simile è presente anche nel sesto libro dell’Eneide di Virgilio,
dove tuttavia spiritus non è più accompagnato dall’aggettivo divinus:
Spiritus da Plauto ed Ennio fino al I sec. a.C.
Damnatus absens in Volscos exsulatum abiit, minitans patriae
hostilesque iam tum spiritus gerens70.
Conclusioni
Principio caelum ac terras camposque liquentis
lucentemque globum lunae Titaniaque astra
spiritus intus alit, totamque infusa per artus
mens agitat molem et magno se corpore miscet66.
Il valore degli aggettivi
In un’accezione più allargata del termine, spiritus può assumere anche il valore generale di “comportamento, carattere, inclinazione, spirito”67. In questo caso, il significato del sostantivo viene di volta in volta specificato da un attributo. Si può infatti notare come in Rhet. Her.
4, 62 spiritus accompagnato dall’aggettivo rabidus passi a indicare un
comportamento rabbioso:
Iste, qui cot<t>idie per forum medium tamquam iubatus draco
serpit dentibus aduncis, aspectu venenato, spiritu rabido, circum
inspectans huc et illuc […]68.
Un contesto simile si nota in Orazio, in cui spiritus passa a indicare
l’“avidità”:
Al termine di tale analisi è possibile notare il processo di cambiamento
di significato che ha caratterizzato il ventaglio semantico del termine
spiritus. A partire dalle prime accezioni di “aria”, “vento”, “respirazione” e “profumo”, il sostantivo ha affiancato ai valori originari quelli di
“vita”, “anima”, “superbia”, “coraggio”, “spirito”, “spirito divino”, fino a
indicare una più generica “disposizione d’animo” o un modo di comportarsi e agire, la cui sfumatura è di volta in volta specificata dal contesto letterario o da precisi attributi. In tale processo di accrescimento
semantico hanno agito sia fenomeni prettamente linguistici, come la
creazione di nuovi significati tramite metonimia, sia fenomeni culturali, quali il contatto con la cultura greca. Proprio quest’ultima ha operato come forza propulsiva nell’ampliamento del lessico romano astratto
e filosofico, basti pensare all’opera di mediazione e traduzione culturale e filosofica di Cicerone71.
La storia del termine spiritus non si esaurisce nel I sec. a.C., ma è destinata a continuare nei secoli successivi e a ricevere nuovo impulso dall’allora nascente cultura religiosa cristiana72. Tuttavia si tratta di
un’altra storia, cui andrebbe dedicato uno suo particolare studio.
latius regnes avidum domando
spiritum quam si Libyam remotis
Gadibus iungas et uterque Poenus
serviat uni69.
Nella stessa categoria rientra anche Liv. 2, 35, 6, in cui spiritus viene
utilizzato col valore di “ostilità, pensieri ostili” accompagnato dall’aggettivo hostilis:
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Note
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5
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Sulla tradizione del de lingua Latina, cfr. Giorgio Piras, Per la tradizione del «De lingua Latina» di Varrone, in Mario De Nonno, Paolo De Paolis,
Louis Holtz (a cura di), Manuscripts and Tradition of Grammatical Texts
from Antiquity to the Renaissance: Proceedings of a Conference held at Erice, 16-23 October 1997, as the 11th Course of International School for the
Study of Written Records, Cassino, Ed. dell’Università degli Studi di Cassino, 2000, pp. 747-772.
Sulla suddivisione dell’opera di Varrone, cfr. Antonio Traglia, Marco Terenzio Varrone, Opere, Torino, UTET, 1974, 13-24.
Varr. ling. 5, 3. Trad. (ove non esplicitamente segnalato, le traduzioni dei
testi latini sono a cura dell’autore): «Per questo motivo si tratta di questioni
alquanto complesse, dal momento che non tutti i significati originari delle parole sopravvivono, poiché alcuni termini li ha cancellati l’età, mentre
quelli che restano in vita non sono stati tutti fissati senza difetto, né quei
termini che sono stati creati in modo corretto si conservano tutti (infatti
molte parole sono state alterate da lettere mutate d’ordine) né tutta l’origine della nostra lingua deriva da parole indigene, e molte parole hanno
oggi un significato altro rispetto a quello che avevano un tempo». La citazione segue il testo proposto da Leonard Spengel, M. Terenti Varronis De
lingua Latina libri, emendavit apparatu critico instruxit praefatus est Leonardus Spengel; Leonardo patre mortuo edidit et recognovit filius Andreas
Spengel, New York, Arno Press, 1979. Per una panoramica delle teorie linguistiche di Varrone, cfr. Daniel J. Taylor, Declinatio: a Study of the Linguistic Theory of Marcus Terentius Varro, Amsterdam, John Benjamins, 1975;
Id., Varro and the Origins of Latin Linguistic Theory, in Irène Rosier, L’héritage des grammairiens latins, de l’Antiquité aux Lumières: actes du Colloque de Chantilly, 2-4 septembre 1987, Louvain, Paris, Soc. pour l’Information grammaticale, 1988, pp. 37-48. Sugli studi etimologici di Varrone, cfr.
Robert Coleman, Varro as an Etymologist, in Gualtiero Calboli (a cura di),
Papers on Grammar. 6, Bologna, CLUEB, 2001, pp. 61-96; David L. Blank,
Varro and the Epistemological Status of Etymology, «HEL» 30, 2008, 49-73.
Per un primo studio, cfr. Manlio Cortelazzo, Paolo Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, Vol. V, S-Z, Bologna, Zanichelli, 1988, pp.
1254-1255, alla voce “spirito”.
Più in generale, sul fenomeno del mutamento linguistico, argomento ampiamente studiato e al centro di una nutrita bibliografia, cfr. il sempre fondamentale volume Romano Lazzeroni (a cura di), Linguistica storica, Carocci,
Roma, 1990, in particolare i capitoli Id., Il mutamento linguistico, pp. 13-54
e Roberto Gusmani, Interlinguistica, pp. 87-114, con relativa bibliografia.
Spiritus da Plauto ed Ennio fino al I sec. a.C.
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Punto di partenza e di costante riferimento è l’elaborato Damiáo Berge,
Spiritus, «Humanitas» 1950-1951 III, 215-258.
Su questo valore e sulle su sfumature, cfr. Berge, Spiritus, cit., pp. 219-222.
Plaut. Amph. 232-234. Trad.: «Ferisce con la spada, si spezzano le lance; rimbomba il cielo per il tumulto degli uomini, dal respiro e dall’affanno si crea una nube». Si segue qui il testo di Wallace M. Lindsay, T. Macci
Plauti Comoediae, Vol. I, Oxford, Oxford University Press, 1968. Il passo
è un chiaro esempio di parodia dell’epica. Per un commento, cfr. David
Christenson, Plautus, Amphitruo, Cambridge, Cambridge University Press,
2000, p. 188.
Plaut. mil. 16-18. Trad.: «Ricordo; non parli forse di quel tale con le armi
d’oro, le cui legioni tu sbaragliasti con un soffio, come il vento con le foglie o con la paglia dei tetti». Il testo latino è quello di Alfred Ernout, Plaute, Comédie, t. 4, Paris, Société d’Édition “Les Belles Letters”, 19706.
Plaut. bacch. 8-10. Trad.: «So che il suo fiato è di gran lunga più forte di
quello che hanno i mantici di pelle di toro, quando le rocce si sciolgono
nelle miniere di ferro». Il testo latino segue quello dell’edizione di Cesare Questa, T. Maccius Plautus, Bacchides, in appendice ΜΕΝΑΝΡΟΥ ΔΙΣ
ΕΞΑΠΑΤΩΝ, Firenze, Sansoni, 1975.
Enn. ann. 539 Skutsch = 518 Vahlen (il verso è tramandato da Fest. 362).
Acc. fr. 391 Ribbeck, citato in Cic. nat. deor. 2, 89.
Fur. Ant. carm. frg. 5 Morel.
Cic. Arat. frg. 33, 101 = p. 172 Soubiran; frg. 33, 184 = p. 177 Soubiran
(quest’ultimo è riportato anche in Cic. nat. deor. 2, 114). In entrambi i passi compare l’espressione spiritus Austri, letteralmente il “soffio dell’Austro”
(vento caldo del sud) che traduce il greco νότοϚ, cfr. l’originale greco rispettivamente in Arat. Phaen. 320-321 e 402-405.
Cfr. Verg. Aen. 12, 365.
Afran. com. 12 Ribbek.
Crass. or. frg. Cic. de orat. 3, 4 = fr. 41 Malcovati4.
Rhet. 3, 21 (due attestazioni); 4, 18; 4, 45; 4, 62.
Lucr. 1, 37; 6, 1186.
Varr. rust. 2, 1, 22; 2, 3, 5.
Cic. Verr. 2, 5, 118; Manil. 33; Rab. perd. 15; Catil. 1, 15; 4, 7; p. red. ad
Quir. 10; Sest. 79; 80; Pis. 20; Marcell. 28; Phil. 9, 2; 10, 20; 12, 22; 13, 7;
14, 32; inv. 1, 86; 1, 108; de orat. 1, 156; 1, 261 (due attestazioni); 2, 85; 3,
4; 3, 40; 3, 175; 3, 181 (due attestazioni); 3, 182; de orat. 3, 184; Brut. 34;
orat. 130 (per un commento del passo, cfr. John E. Sandys, M. Tulli Ciceronis ad M. Brutum orator, Cambridge, Cambridge University Press, 1885, p.
133 = Rist. 1979); 228; fin. 2, 99; Tusc. 1, 89; 1, 96; 2, 20 (traduzione delle
Trachinie di Sofocle, di cui cfr. in particolare i vv. 1053-1055: πλευραῖσι γὰρ
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προσμαχθὲν ἐκ μὲν ἐσχατάς / βέβρωκε σάρκας, πλεύμονός τ᾽ ἀρτηρίας / ῥοφεῖ
ξθνοικοῦν; 4, 52; nat. deor. 2, 18; 2, 101; 2, 134; 2, 136; 2, 138 (due attestazioni); Arch. 30 (usato però nel senso metaforico di “attimo, una porzione di tempo lunga quanto un respiro”.); Cato 27; 38; div. 2, 99; div. 2, 145;
fam. 10, 1, 1; Att. 9, 19, 2; har. resp. 57.
Cael. orat. 15.
Nigid. fr. 41 Swoboda = fr. 23 Funaioli (tre occorrenze), riportato da Aul.
10, 4, 4.
Dom. Mar. carm. frg. 1 Morel.
Tibull. 1, 8, 58.
Prop. 1, 9, 32; 1, 16, 32.
Verg. georg. 3, 506 (cfr. Richard F. Thomas, Virgil, Georgics, Vol. 2, Books IIIIV, Cambridge, Cambridge University Press, 1988, p. 136, il quale rimanda
a Lucr. 6, 1186 come probabile antecedente); 4, 300.
Hor. epod. 11, 10; 17, 26.
Liv. 1, 25, 5; 21, 58, 4; 22, 51, 8; 40, 16, 1; 40, 27, 7; 42, 16, 3.
Cfr. Varr. rust. 1, 57, 2; 1, 59, 3; 3, 16, 8; Cic. S. Rosc. 72; 131; Verr. 2, 5, 23;
orat. 107; nat. deor. 2, 134; 2, 136 (cinque attestazioni); nat. deor. 2, 138
(spiritu per arterias, ma cfr. anche le altre due ricorrenze nello stesso passo col valore di respiro); 3, 35; carm. fr. 34, 8 Morel.
Cic. de orat. 3, 216; orat. 110; Liv. 2, 61, 7.
Lucr. 3, 221-222. Trad.: «Lo stesso avviene quando l’aroma di Bacco è svanito o quando il soave profumo di un unguento si diffonde nell’aria». Il testo latino è quello di Alfred Ernout, Lucrèce, De la nature, Paris, Société
d’édition “Les Belles Lettres”, 1990.
Prop. 2, 29b, 37-38. Trad.: «Guarda, da tutto il corpo non esala alcun odore che confessi un commesso adulterio». Il testo proposto è quello stabilito da Paolo FEDELI, Sexti Properti elegiarum libri IV, Stuttgart, Teubner,
1984. Sul significato del passo, cfr. Paolo Fedeli, Properzio, Elegie, Libro
II, Introduzione, testo e commento, Cambridge, Francis Cairns, 2005, pp.
838-839.
Varr. rust. 1, 57, 2. Trad.: «Infatti dove non giunge l’aria, lì non nasce il punteruolo». Il testo latino è quello di Jacques Heurgon, Varron, Économie rurale, Livre I, Paris, Société d’édition “Les Belles Lettres”, 1978.
Cic. inv. 1, 86. Trad.: «Se respira, vive». Il testo latino, qui e altrove, è quello proposto da Eduard Ströbel, M. Tullius Cicero, Rhetorici libri duo de inventione, Stuttgart, Teubner, 1965. Sulla diffusione dell’espressione spiritum ducere, cfr. TLL V coll. 2149, 76-2150, 53.
Per altri passi simili in Cicerone, cfr. Berge, Spiritus, cit., p. 223.
Cic. inv. 1, 108. Trad.: «Non fui presente, non vidi, non udii le sue ultime
parole, non colsi il suo ultimo respiro».
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Casi simili in Cicerone si ritrovano anche in Sest. 79; 80 (nella variante reliquum spiritum); Phil. 9, 2; 12, 22; 14, 32; fin. 2, 99; Tusc. 1, 89; 1, 96.
Sulla natura del mutamento semantico e in particolare sui mutamenti causati da metafora, metonimia, etimologia popolare ed ellissi, cfr. Lazzeroni,
Il mutamento linguistico, cit., pp. 26-30.
Cic. Phil. 11, 24; 12, 21; de orat. 2, 73 (per un commento del passo, cfr. Anton D. Leeman, Harm Pinkster, Hein L.W. Nelson, M. Tullius Cicero, De oratore libri 3, Bd. 2: Buch 1, 166-265; Buch 2, 1-98, Heidelberg, Carl Winter,
1985, p. 280); off. 3, 32.
Su cui cfr. Fedeli, Properzio, Elegie, Libro II, cit., p. 402.
Cic. Verr. 2, 1, 75. Trad.: «Che cosa dovrei dire dell’arroganza di Dolabella nel secondo dibattito, che cosa delle lacrime e dell’andirivieni di questi, che cosa di Gaio Nerone, uomo oltremodo degno e senza colpa, ma
dall’animo troppo timoroso e debole in talune situazioni?». Per il testo latino delle Verrinae si è seguito qui e altrove l’edizione Loeb di Leonard H.G.
Greenwood, The Verrine orationes, Vol. I, London-Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1966. Sul passo cfr. T.N. Mitchell, Cicero: Verrines
II.1, with Translation and Commentary, Warminster, Aris & Phillips 1986,
p. 87, il quale traduce spiritus con “aggressiveness”.
Cic. Verr. 2, 3, 22. Trad.: «Guardate, o giudici, l’aspetto e l’espressione di
quest’uomo, e da quella fierezza che mantiene qui in momenti disperati,
considerate quale fosse la sua superbia in Sicilia, [pensateci e] ricordatevene».
Cic. Manil. 66; Cluent. 109; leg. agr. 2, 93; Sull. 27 (su quest’ultimo passo, cfr. D.H. Berry, Cicero, Pro P. Sulla Oratio, Edited with Introduction
and Commentary, Cambridge, Cambridge University Press, 1996, p. 195,
n. 27.4); Flacc. 53; Phil. 8, 24; 13, 4; Att. 9, 5, 1; Ad Q. fr. 1, 2, 6.
Caes. Gall. 1, 33, 5; 2, 4, 3; civ. 3, 72, 1.
Nep. Dion. 5, 5.
Liv. 1, 31, 6; 2, 61, 6; 4, 42, 5; 7, 40, 8; 21, 1, 5; 24, 22, 8; 26, 24, 5; 35, 18, 6.
Prop. 2, 3a, 2.
Verg. Aen. 5, 648. Ma cfr. Berge, Spiritus, cit., p. 232, il quale riconnette l’espressione al linguaggio sacrale dell’ispirazione divina.
Hor. serm. 2, 3, 311.
Liv. 4, 54, 8. Trad.: «Irritatisi gli animi di entrambe le parti, dopo che la plebe aveva preso coraggio e aveva come comandanti tre uomini molto famosi nel sostenere la causa del popolo, i patrizi, capendo che tutti i comizi, in
cui la plebe poteva scegliere tra i candidati di entrambe le parti, sarebbero stati simili ai comizi per l’elezione dei questori, si impegnavano nei comizi consolari […]».
Liv. 2, 35, 8. Trad.: «Credevano che non sarebbe stato per nulla facile indurre il suo popolo a riprendere ostilità già tante volte tentate con insuc-
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cesso: gli animi erano depressi per la gioventù perduta nelle molte guerre
e da ultimo per la pestilenza». Il testo latino si basa su quello dell’edizione
di Robert S. Conway, Charles F. Walters, Titi Livi Ab Urbe condita, Tomus 1,
Libri 1-5, Oxford, Oxford University Press, 1969. Nell’opera di Livio sono
presenti altri casi simili, cfr. Liv. 6, 18, 4; 30, 11, 3; 30, 30, 15, in cui il significato di spiritus oscilla tra “ardire, ambizione, ardore”.
Cic. Arch. 18. Trad.: «Inoltre da uomini eminenti e di grande cultura riceviamo questa lezione, che lo studio delle altre discipline è composto dalla dottrina, da insegnamenti e da abilità tecnica, il poeta si basa sul talento
naturale ed è stimolato dalle forze della mente ed è ispirato da un afflato
quasi divino». Il testo latino è quello dell’edizione di Peter Reis, M. Tullius
Cicero, Pro Archia, Stuttgart, Teubner, 1949, edita nello stesso volume con
l’orazione Pro Sulla cura di Helmut Kasten.
Cfr. Berge, Spiritus, cit., pp. 230-232.
Cfr. TLL VII col. 1467, 4-1467, 23.
Per un’introduzione al fenomeno del calco semantico, cfr. Gusmani, Interlinguistica, cit. pp. 89-91.
Più in generale, sui molteplici valori di πνεῦμα, cfr. la rassegna bibliografica proposta da Berge, Spiritus, cit., p. 216, n. 1.
Prop. 3, 17, 40.
Hor. carm. 2, 16, 38; 4, 6, 29.
Liv. 5, 15, 10; 5, 22, 5; 5, 43, 8.
Così Berge, Spiritus, cit., p. 226-229. L’autore aveva identificato una prima
connessione di spiritus con “anima” già in Prop. 2, 13b, 45.
Prop. 3, 18, 9-10. Trad.: «Oppresso volse lo sguardo verso le onde dello
Stige, e quello spirito si aggira nella laguna infernale». Per un commento
del passo, cfr. William A. Camps, Propertius, Elegies, Book III, Bristol, Bristol
Classical Press, 1966, p. 140, il quale traduce “spirit, soul” e rimanda a Ov.
trist. 3, 3, 61-62 e Val. Max. 4, 5, 6.
Cic. nat. deor. 2, 19. Trad.: «Queste cose armoniosamente connesse con
tutte le parti del mondo di sicuro non potrebbero avvenire se non fossero composte da uno spirito divino ininterrotto». Il testo latino è quello
proposto da Arthur S. Pease, M. Tulli Ciceronis De natura deorum: libri 3,
Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1968. Cfr. in questa edizione la nota a uno…spiritu a p. 598, con un elenco dei passi greci simili a
quello ciceroniano. Su questo particolare valore di spiritus, cfr. Berge, Spiritus, cit., pp. 241-242.
Cic. nat. deor. 3, 28. Trad.: «Non approvavo l’altra [scil. affermazione], che
negavi che ciò non avrebbe potuto avvenire se non fosse composto da un
unico spirito divino».
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Joseph B. Mayor, John H. Swainson, Cicero, De Natura Deorum Libri Tres,
With Introduction and Commentary, Vol. II, Cambridge, Cambridge University Press, 1883, p. 106.
Verg. Aen. 6, 724-727. Trad.: «Innanzitutto uno spirito interno porta vita al
cielo e alla terra e alle liquide distese e alla lucente sfera della luna e all’astro titanio e l’anima infusa attraverso le membra muove tutta la massa e
si mescola con il grande corpo». Il testo latino è quello dell’edizione di Ettore Paratore (a cura di), Virgilio, Eneide, Vol. III, Libri V-VI, Trad. di Luca
Canali, Milano, Fondazione Lorenzo Valla, 2001, alla quale si rimanda per
l’ampia contestualizzazione del passo contenuto alle pp. 326-329. Per un
breve commento, cfr. anche Eduard Norden, Vergilius, Aeneis, Buch 6,
Stuttgart, Teubner, 1984, il quale riconnette il passo a Cic. nat. deor. 2, 41.
Su tale valore di spiritus, cfr. Berge, Spiritus, cit., pp. 237-238.
Per una panoramica generale, cfr. Berge, Spiritus, cit., 245-247.
Rhet. Her. 4, 62. Trad.: «Costui, che quotidianamente striscia attraverso il
foro proprio come un drago crestato con i denti ricurvi, uno sguardo velenoso, un animo rabbioso, guardando qua e là […]». Il testo latino è quello
proposto da Guy Achard, Rhétorique à Herennius, Paris, Société d’édition
“Les Belles Lettres”, 1989.
Hor. carm. 2, 2, 9-12. Trad.: «Con il dominio dell’animo avido avrai un regno più vasto di quanto se congiungessi la Libia con la remota Cadice e se
ti fosse sottomesso sia l’uno che l’altro punico». Si accoglie il testo latino di
D.R. Shackleton Bailey, Q. Horati Flacci Opera, Stuttgart, Teubner, 19953.
Liv. 2, 35, 6. Trad.: «Condannato mentre era assente, se ne andò in esilio
presso i Volsci, minacciando la patria e meditando già allora pensieri ostili».
Per un’introduzione generale sullo studio e la creazione del lessico filosofico romano da parte di Cicerone, cfr. Claudio M. Moreschini, Osservazioni
sul lessico filosofico di Cicerone, ASNP 1979, 99-178; Gisela Striker, Cicero
and Greek Philosophy, HSPh 1995, 53-61; Jonathan G.F. Powell (a cura di),
Cicero the Philosopher: Twelve Papers, Oxford, Oxford University Press,
1999.
Per una panoramica generale, cfr. Berge, Spiritus, cit., 255-258.
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The following paper inspects the semantic evolution of the latin word spiritus
since the first quote in Plautus and Ennius, when it has only concrete meanings (air, breath, smell), until the I century b.C., when this substantive begins
to have new abstract significations (life, arrogance, courage, soul, spirit, deity, moral disposition).
Necessità dello s(S)pirito oggi
Il punto di vista credente
Giancarlo Grandis
«L’assoluto è lo spirito: questa è la più alta definizione dell’assoluto.
Trovare questa definizione e comprenderne il significato e il contenuto è
stata la tendenza di ogni cultura e di ogni filosofia; a questo punto
ha mirato coi suoi sforzi ogni religione e ogni scienza;
solo questo impulso spiega la storia del mondo»
(Georg Wilhelm Friedrich Hegel).
«L’uomo è strutturalmente in movimento; […] l’autentico movimento
dell’uomo è quello che lo porta allo spirituale allontanandosi dal sensibile,
e con ciò anche dal corpo e dall’esserci storico che nel corpo si realizza»
(Romano Guardini).
Una delle caratteristiche dello spirito umano è di rendere il cuore inquieto e di mettere la mente in continua ricerca del vero. Solo la verità rende liberi e capaci di intessere legami di fraternità tra gli uomini a
partire dalla comune umanità, e su questa strada costruire una società di ospitalità e di pace.
Ciò che accumuna gli uomini e li mette in dialogo tra loro è la
continua ricerca dei “frammenti” di verità, una verità che pur indagata fuori, in realtà abita in loro, e quindi è una verità non scritta, e tuttavia capace di orientare il cammino della propria vita. È soprattutto
questo ciò di cui abbiamo bisogno oggi: trovare l’orizzonte, il cammino, la direzione, la meta.
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Bollettino della Società Letteraria, 2012, 51-62
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L’attenzione per la vita spirituale della vita è oggi sollecitata dal rischio che l’uomo venga inesorabilmente risucchiato dall’abisso del
materialismo e da una visione nichilista dell’esistenza. La spiritualità è
una luce che abita l’interiorità dell’uomo e accende lo sguardo a percepire le bellezza dell’essere. «In un mondo ossessivamente materialista – ha affermato in suo editoriale su La Stampa lo scrittore Massimo
Gramellini – la vera trasgressione è la spiritualità»1.
Alla domanda se lo spirito costituisca una necessità per l’uomo
d’oggi, si può rispondere almeno in tre diversi modi: o affermativamente, o negativamente, o non pronunciandosi affatto perché si ritiene la domanda insignificante.
La mia risposta è per un sì netto. La vita dell’uomo è vissuta a livello della sua dignità solo quando è vissuta secondo lo spirito. L’uomo, infatti, è spirito, seppur uno spirito incarnato o corpo informato
di uno spirito, che fin dalla antichità i pensatori hanno cercato di argomentare come immortale2. Che l’uomo sia chiamato a vivere secondo
lo spirito è un dato che troviamo implicato nella stessa famosa terzina di Dante: «Considerate la vostra semenza / fatti non foste per vivere come bruti / ma per seguir virtute e conoscenza»3. La virtù e la conoscenza sono attività dello spirito.
Espongo la mia personale riflessione attraverso tre modulazioni.
Nella prima cercherò di mostrare che la domanda sulla necessità dello
spirito è una domanda che riguarda più a monte l’identità dell’uomo,
domanda, questa, che accompagna tutta la storia del pensiero umano
e tutto l’arco della propria esistenza personale, dall’uso di ragione in
poi: chi è l’uomo? Dove sta il fondamento del suo essere?
Nella seconda modulazione cercherò di mettere in evidenza come
l’uomo sia, tra i viventi, l’essere che è capace di porre la domanda sul
soggetto stesso che pone la domanda. L’uomo, fin da Aristotele, è definito “zoon loghicon”, animale razionale o, meglio, vivente che possiede il logos/verbum/parola. Ponendo la domanda sull’essere, a cui si
relaziona inizialmente con i propri sensi, egli è capace di conoscerli
non solo nella loro estensione, sensibilmente, fisicamente (oggi si di52
Necessità dello s(S)pirito oggi
rebbe “scientificamente”), ma anche meta-fisicamente, vale a dire al di
là della loro materialità. È capace di conoscerne la natura. L’uomo, in
quanto essere intelligente, è in grado di percepire quelli che sono definiti i trascendentali dell’essere: la verità, la bontà e la bellezza. L’uomo, quindi, è capax veritatis, capax boni, capax pulchri. L’uomo non
vive solo biologicamente, non vive di solo pane, ma anche spiritualmente. Vive di verità, vive di bontà, vive di bellezza. Questo significa vivere spiritualmente. Questo in fondo dà senso alla nostra esistenza ed è fonte di gioia.
Infine, nella terza modulazione cercherò di esporre quella che è
la caratteristica fondamentale dello spirito: la libertà di movimento. Lo
spirito, paragonato al vento, al soffio, rende dinamici. L’uomo non è
un essere statico, ma in movimento. Il movimento è necessario per il
divenire dell’uomo, per il divenire se stessi. Lo spirito testimonia la libertà come facoltà del proprio divenire. L’uomo diventa ciò che liberamente vuole. Pur dipendendo dai suoi meccanismi biologici, egli
è chiamato a trascenderli. Proprio per questo egli è un essere etico
(homo ethicus). Questa terza modulazione mi permette di mostrare
come lo spirito orienti il cammino dell’uomo verso il mistero, la cui
soglia può essere attraversata con la fede, vale a dire con un atto della
ragione che non può basarsi solo sulla dimostrazione, ma su l’affidamento, perché il Mistero – ed è questo il passaggio più delicato della
mia riflessione – è una persona, la persona di Dio che si rivela all’uomo attraverso l’esperienza dell’incontro.
In questo cammino che ho brevemente delineato appare già sbozzato il contenuto del mio pensiero sul tema. Riprendo ad una ad una
le tre modulazioni per dare ulteriormente qualche altra pennellata e
sviluppare così più dettagliatamente la mia riflessione.
1. “Ed io che sono?”. Heidegger affermava che «la domanda è la forma
più alta del sapere». A rispondere alla domanda “chi è l’uomo”? sono
certamente impegnate le scienze, oggi soprattutto le neuroscienze che
indagano sui meccanismi conoscitivi del cervello; ma sono impegnate
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Bollettino
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Società Letteraria
anche la filosofia, la teologia e le religioni. È impegnata ancora la poesia che formula spesso tale domanda con la forma dell’“invocazione”.
Poeticamente emozionante è quella che troviamo nella versi di Leopardi del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: «Dimmi, o
luna: a che vale / al pastor la sua vita, […] / dimmi; ove tende / questo
vagar mio breve, […] / ed io che sono? / Così meco ragiono»4.
L’uomo pone la domanda sulla propria identità sempre di fronte a
qualcosa o a qualcuno. Leopardi la pone contemplando la luna in ciel.
La domanda sulla propria identità, vale a dire sulla propria verità, può
essere solo una domanda dialogica, una domanda relazionale. Questa domanda egli può porla in una relazione orizzontale, con un tu
che egli incontra accanto a sé; può porla in una relazione discendente verso il cosmo quale base della propria corporeità e dell’immanenza dello spirito umano al mondo; può infine porla dentro una relazione ascendente verso l’Assoluto, a partire dalla luce e dalla parola che
albergano in lui, sulla base dell’apertura che costituisce la sua identità di essere spirituale5.
In forza di questa triplice relazionalità, sia credenti che non credenti possono convenire nel ritenere che l’uomo è il centro e il vertice di tutto ciò che esiste sulla terra. Il pensiero ebraico-cristiano definisce l’uomo “re del creato”, colui cui è affidato il compito di prendersi
cura di sé e del mondo attraverso la conoscenza e l’azione. La sua collocazione nell’universo porta a comprendere che egli è in “io” che, in
quanto corpo, unisce in sé la dimensione materiale del mondo e, in
quanto spirito, ciò che trascende la materia. La tradizione del nostro
pensiero occidentale ha dato all’uomo prevalentemente una interpretazione “dualista” (corpore et anima unus). Accanto a questa sono esistite anche interpretazioni moniste, sia di segno materialista, che riducono l’essere umano alla sua biologia, sia di segno spiritualista, che
identificano la sua essenza col solo suo spirito. La modernità ha vissuto e vive tuttora – complice Cartesio con la sua separazione tra res cogitans e res extensa – dentro un insanabile dualismo, con ricadute assai problematiche nel campo dell’etica.
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Necessità dello s(S)pirito oggi
Il pensiero ebraico-cristiano non conosce una interpretazione dualista dell’uomo, ma una interpretazione che potremmo definire comunionale, in quanto egli riflette in sé l’essere del proprio Creatore che è
allo stesso tempo uno e trino. Il pensiero cristiano, infatti, pensa l’uomo triadicamente come unità di spirito-anima-corpo.
Spirito, anima e corpo presiedono ai tre fondamentali dinamismi
dell’esperienza umana che trovano il loro punto di raccordo nell’io,
che è il soggetto unitario dei dinamismi stessi tra loro interdipendenti. Nell’uomo ci sono dinamismi biologici, legati al corpo, dinamismi
psicologici, legati alla dimensione della psiche e dinamismi spirituali,
legati allo spirito. Lasciando tra parentesi il dinamismo psichico – che
è stato studiato solo recentemente – se compariamo tra loro i dinamismi spirituali e quelli biologici notiamo una netta differenza e irriducibilità.
Il dinamismo biologico tende a realizzarsi in modo omologante,
assorbendo l’oggetto nel soggetto, quindi distruggendolo, secondo la
legge del più forte. L’esempio dell’assimilazione del cibo lo mostra
chiaramente.
Il dinamismo spirituale, al contrario, è caratterizzato da due proprietà che rivelano qualcosa di sorprendente in relazione alla identità della persona umana. Esso infatti si relazione all’oggetto secondo la
dimensione della gratuità e della alterità. Mediante il dinamismo spirituale la persona umana si relaziona all’altro da sé in quanto “altro”.
Il dinamismo spirituale non assorbe l’oggetto nel soggetto, ma lo rispetta nella sua alterità. Tramite lo spirito, l’uomo è capace di una relazione comunionale, con la quale egli rimane in “com-unione”, ma
senza “con-fusione”. I due che entrano in relazione fanno esperienza
di unità, ma nella alterità. Questo si vede molto bene nella originaria relazione tra il maschile e il femminile che caratterizza la bipolarità asimmetrica della persona umana.
A partire dall’analisi dei tre dinamismi possiamo dire che la persona umana non può essere definita come la semplice somma dei suoi
dinamismi, ma come io, come un “soggetto” titolare dei tre dinami55
Bollettino
della
Società Letteraria
smi, in una parola come unità sostanziale di spirito-anima-corpo. È
soprattutto l’esperienza etica dell’io agisco che testimonia dell’unità
della persona umana come soggetto.
Possiamo da ciò desumere che il dinamismo spirituale è quello che
rivela la verità profonda dell’uomo come soggetto, cioè come unità di
spirito, psiche, corpo. Il bene della persona umana sta proprio in questa unità. L’unità, infatti, esprime la perfezione dell’essere personale.
San Tommaso afferma che la persona è ciò che di più perfetto esiste
in natura. «Persona significat id quod est perfectissimum in tota natura, scilicet substantia in natura rationalis»6. Persona, dunque, indica una sostanza dinamicamente in relazione, aperta a ciò che è altro
da sé. Fa parte di questa stessa tradizione l’affermazione di Kant che
colloca la persona umana tra il regno dei fini e non in quello dei soli
mezzi, elaborando qui la prima traduzione dell’imperativo categorico:
«Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia nella
persona di ogni altro, sempre anche al stesso tempo come scopo, e mai
come semplice mezzo»7.
Lo spirito rivela così che l’uomo non è un essere chiuso in se stesso, ma aperto a ciò che è altro da sé in una relazione di amore, vale
a dire in una relazione caratterizzata da gratuità e alterità. Lo spirito
è come una feritoia che permette di sbirciare fuori dal proprio involucro corporeo, vale a dire conoscere.
2. I trascendentali dell’essere. Lo spirito si esprime in un linguaggio
tramite il quale l’uomo entra in dialogo con la realtà, non tanto per
misurarne l’estensione e comprendere i meccanismi di funzionamento, quanto per conoscerne il tessuto, quella che Teilhard de Chardin
chiamava la stoffa dell’essere, la sua vera natura, ciò che la sola ragione calcolante non è in grado di raggiungere.
In una realtà in costante evoluzione, lo spirito attesta una costante nella esistenza umana. Esso testimonia di una humanitas perennis
che permane nel cambiamento. Lo spirito è capace di sentire l’armonia della natura come l’insieme di leggi immutabili.
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Necessità dello s(S)pirito oggi
Ciò che rimane immutabile negli esseri sono tre caratteristiche che
solo lo spirito umano è in grado di percepire intellettualmente, vale
a dire la verità come oggetto della mente, il bene come oggetto della
volontà, e il bello come armonia, come relazione delle parti. Il vero, il
buono e il bello infatti convergono in unum, nell’unità.
Notiamo che in una cultura che riduce il conoscere alla sola conoscenza scientifica, verità, bontà, bellezza sono oggetti che non possono essere colti dalla ragione calcolante, ma solo dalla ragione contemplativa, ciò di cui oggi l’uomo ha estremo bisogno per non cadere in
quella tristezza esistenziale che Sartre ha definito la nausea del vivere.
A solo 17 anni di età, la grande pensatrice ebrea Simone Weil scriveva:
«L’uomo vive secondo tre modalità: pensando, contemplando, agendo.
Quindi, ritenendo che nell’universo qualcosa corrisponda a queste tre
modalità, si forma le idee del vero, del bello e del bene»8.
Il mondo dello spirito a cui l’uomo partecipa rivela a quale livello
egli è chiamato a vivere. In quanto essere allo stesso tempo materiale
e spirituale egli è soggetto a una duplice legge. La legge della gravità che lo spinge in basso, verso la caduta, e perdutezza. Ma in quanto spirito c’è il lui la legge del germoglio che lo fa crescere verso l’alto. La gravità ci attira inesorabilmente verso l’abisso a caduta libera. La
legge del germoglio ci spinge verso l’alto vincendo ogni ostacolo, con
la stessa forza con cui il filo d’erba è capace di rompere lo strato d’asfalto per correre verso la luce e la vita.
3. In cammino verso il Mistero. Nell’uomo, lo spirito è guida interiore che orienta il suo cammino verso se stesso, verso la comprensione
della specificità del proprio essere. Più che nella scienza e nella tecnica, la specificità umana va ricercata proprio nell’attività dello spirito.
Uno dei grandi guadagni della modernità, che ha portato alla scoperta della soggettività umana, è quello di aver introdotto il tema di
una distanza qualitativa dell’uomo e di Dio rispetto al mondo, superando il vecchio naturalismo metafisico immanente proprio della filosofia antica e anche delle religioni.
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Bollettino
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Società Letteraria
Il cammino verso la modernità è un cammino della fuoruscita
dell’antropologia dalla cosmologia. Questa fuoriuscita è stata ben teorizza dal più grande pensatore della modernità, Immanuel Kant, là
dove riduce le tre fondamentali domande: 1. Che cosa posso conoscere? 2. Che cosa debbo fare? 3. Che cosa mi è consentito di sperare?
alla domanda sull’uomo su: che cosa è l’uomo? Tutto infatti può rientrare nell’antropologia «dal momento che le prime tre domande si rapportano all’ultima»9.
Questa fuoruscita, definita anche la svolta antropologica del pensiero moderno, rivela che l’uomo, in quanto soggetto spirituale, si
identifica in definitiva con la sua libertà, vale a dire nella cosciente e
libera disposizione di sé. Il cammino dell’uomo è un cammino di libertà dai propri condizionamenti; una libertà tuttavia che necessita di
un solido fondamento per non rimanere sospesa nel vuoto. La libertà
“da” (libertà negativa) postula infatti una libertà “per” (libertà positiva) e anche un libertà “con” (libertà relazionale). E qui sta il nodo critico della concezione moderna libertà, che alcuni vorrebbero “assoluta”, senza legami, quindi senza ancoraggio ad un fondamento, ciò che
ha conseguenze etiche assai problematiche.
Uno dei più grandi pensatori credenti dell’epoca illuminista, Antonio Rosmini, aveva compreso che la modernità nel suo rivolgersi verso l’uomo non nasceva antireligiosa, non comportava necessariamente un voltare le spalle a Dio, ma poteva costituire, per il
cristianesimo, una grande opportunità per una sua rinnovata autocomprensione, come religione non dedotta né dalla contemplazione del mondo, come facevano le religioni cosmiche, né dalla natura dell’uomo. «Esso – come afferma il teologo von Balthasar – è un
fenomeno che poggia interamente sul fatto storiografico della comparsa di Gesù Cristo»10, confessato dai suoi discepoli come il Dio incarnato, il Dio che si rende visibile e prossimo all’uomo, un Dio,
quindi vicino e non più lontano, un Dio che va incontro, un Dio
che fa vedere il suo volto, si “ri-vela”, abbassandosi a livello del volto dell’uomo.
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Necessità dello s(S)pirito oggi
Rosmini, nella sua opera rimasta incompiuta, la Teosofia, così segnala la nuova stagione in cui era entrata la riflessione filosofica nel
ripensare la triade cosmo-uomo-Dio. La filosofia – dice – è sorta come
attività dello spirito, vale a dire della mente umana tesa a conoscere la
natura degli enti reali. Ora gli enti reali «si riducono principalmente e
finalmente a due Dio e l’uomo», per cui la filosofia fu da sempre definita «la scienza delle cose divine ed umane»11.
Lo spirito rende l’uomo nomade alla ricerca di ciò che può compiere il suo desiderio di infinito, un desiderio (come dice etimologicamente la parola de-sidera: mancanza di stelle nel cielo) che non viene
generato dal basso, ma dall’alto, e quindi è verso l’alto che esso indirizza il suo sguardo. Il cammino dell’uomo è sempre verso l’orizzonte,
che è il punto dove il cielo e la terra si incontrano senza confondersi.
Per concludere. Il tema dello spirito offre oggi una opportuna e feconda agorà per discutere, credenti e non credenti, quella che è la madre
di tutte le questioni: la questione dell’uomo, della sua origine e presenza sulla terra, del senso della sua esistenza, del suo destino votato, dal punto di vista fenomenologico, alla morte12. Il pensiero cristiano pone questa domanda di fronte a Dio. L’uomo – secondo Levinas
– non è Sum ma ad-sum13.
Vorrei chiudere richiamando un breve saggio di Martin Buber, un
vero gioiello, intitolato Il cammino dell’uomo. Inizia parlando di Rabbi Sheneur Zalman, il Rav della Russia, incarcerato a Pietroburgo per
le sue dottrine e la sua condotta. Un giorno, prima che fosse condotto al processo, il comandante delle guardie entra nella sua cella. Lo
trova assorto nei suoi pensieri. Il comandante comincia a conversare
con lui e gli pone una domanda che si era posta leggendo la Scrittura.
E gli chiede: «Come bisogna interpretare che Dio Onnisciente dica ad
Adamo: “dove sei?”. “Credete voi – risponde il rabbino – che la scrittura è eterna e che abbraccia tutti i tempi, tutte le generazioni e tutti
gli individui?”. “Sì, lo credo”, disse. “Ebbene – riprese il rav – in ogni
tempo Dio interpella ogni uomo: “Dove sei nel tuo mondo? Dei gior59
Bollettino
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ni e degli anni a te assegnati ne sono già trascorsi molti: nel frattempo tu fin dove sei arrivato nel tuo mondo”?»14.
La domanda iniziale: chi è l’uomo? si trasforma qui nella domanda: dove sei, uomo? L’uomo postmoderno è un uomo smarrito, che rischia di perdere la memoria della propria origine. «Nessuna epoca –
afferma Martin Heiddeger – ha saputo conquistare tante e così svariate
conoscenze sull’uomo come la nostra (…). Eppure nessuna epoca ha
conosciuto l’uomo così poco come la nostra. Mai l’uomo è apparso
tanto misterioso»15. L’uomo che non sa più chi è non sa nemmeno verso dove deve andare. L’uomo di oggi – che affoga nel mare dei bisogni, spesso indotti, e dei consumi – ha estremo bisogno di ritrovare se
stesso ascoltando la voce dello spirito che è in lui e lo invita a prendere il largo.
Lo spirito, c’è chi l’ha definito un ultrasuono dell’anima, una feritoia verso l’infinito, un recobòt (cercatore), uno spazio sconfinato dove
si rispecchia e si rifrange la verità, la bellezza, l’amore senza cui l’uomo non può vivere, una terra di libertà, dove egli si scopre cercatore
di Dio, discepolo e pellegrino.
Il pensiero cristiano pone l’origine della fede come un’esperienza
di incontro tra due libertà: la libertà di Dio che offre la sua amicizia
all’uomo e la libertà dell’uomo che accoglie questa offerta. È qui che
l’uomo scopre il senso ultimo della sua esistenza e della sua preziosità. Un testo del Concilio Vaticano II esprime in maniera perfetta questa consapevolezza del credente che non si sente umiliato e schiacciato dalla rivelazione, ma esaltato. Il testo dice così: «In realtà solamente
nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo.
Adamo, infatti, il primo uomo, era figura di quello futuro (Rm. 5,14) e
cioè di Cristo Signore. Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando
il mistero del Padre e del suo amore svela anche pienamente l’uomo a
se stesso e gli manifesta la sua altissima vocazione»16.
Benedetto XVI, ora papa emerito, ha affermato nella sua prima enciclica: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o
una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Per60
Necessità dello s(S)pirito oggi
sona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva»17.
Nell’esperienza di questo incontro che cambia il corso dell’esistenza sta il nodo vitale della fede cristiana e il luogo dove, l’uomo, seduto sulla soglia della propria anima, assetato d’infinito e con lo sguardo
sempre rivolto verso di esso18 può rispondere alla domanda della propria identità di “unità sostanziale” di «spirito e corpo».
Note
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2
3
4
5
6
7
8
9
10
11
12
13
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15
16
17
18
La stampa, 21-07-13, p. 24.
Cfr. Il Fedone di Platone.
Inferno, canto XXVI, 116-120.
G. Leopardi, Canti, Garzanti, Milano 200218, pp. 205-206, 210.
Cfr. Hans Urs von Balthasar, La domanda di Dio dell’uomo contemporaneo, Queriniana, Brescia 2013, p. 49.
Summa Theologiae, I, q. 28, a. 3.
I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, Rusconi, Milano 1982,
p. 126.
<https://it-it.facebook.com/permalink.php?story_fbid=252930291427154&
id=252390644814452> (ultima consultazione: 14 ottobre 2012).
Cit. M. Buber, Il problema dell’uomo, Marietti 1890, Genova 20042, p. 6.
von Balthasar, La domanda di Dio dell’uomo contemporaneo, cit., p. 17.
«theìon te kaì anthropìnon pragmàton epistème» (A. Rosmini, Teosofia, Città
Nuova, Roma 1998, vol. 12, p. 70, n° 35).
Cfr. Heidegger: sein zum tode (essere verso la morte).
Cfr M. Neusch, I cristiani e la loro visione dell’uomo, Brescia, Queriniana
1988, p. 23.
M. Buber, Il cammino dell’uomo, Qiqajon, Magnano (VC) 1990, p. 18.
Cit. in J. Gevert, Il problema dell’uomo, LDC, Torino 1981, p. 8.
Gaudium et spes, n° 22.
Deus caritas est, n° 1.
Cfr Leopardi, L’infinito, cit., p. 119.
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Bollettino
della
Società Letteraria
The restlessness of man’s heart is evidence of a spiritual essence, which drives
him towards the object of his boundless desire. This essay aims at showing,
both from the point of view of faith and of reason, the necessity for man to
rediscover his spiritual nature, apart from his bodily one.
The first section deals with the anthropological basis of man's necessity; the
second section points out how the spiritual essence can perceive what our
philosophical tradition defines as the transcendental basis of being, that is the
true, the good and the beautiful; the last and third section shows how the basic
feature of the spiritual essence is to act not out of necessity but out of freedom,
which directs man both towards his true self and Transcendence.
La Resurrezione di Gustav Mahler
Nicola Guerini
«Muori e divieni»
Goethe
Il cammino verso la Luce
«La nascita spirituale è molto simile a quella carnale […]. L’artista rappresenta in ogni caso l’elemento femminile fecondato dal genio, al
quale egli si vota completamente in segno di devozione e amore, custodendo nel proprio intimo il suo seme, nutrendolo e portandolo a
maturazione, finché non viene alla luce nell’opera compiuta».
Meglio nota come Resurrezione, la Seconda Sinfonia di Gustav
Mahler, è sicuramente, con l’Ottava, tra le più complesse e affascinanti opere del compositore austriaco.
Per Mahler “scrivere sinfonie significa creare un mondo con tutti i
mezzi disponibili” e in questa, in particolare, assistiamo ad un vero e
proprio viaggio iniziatico che porta dalla morte alla vita dopo la morte, dal buio delle tenebre al bagliore del celeste, dallo smarrimento
delle coscienze fino all’abbraccio del perdono universale. Un travaglio
continuo verso una redenzione in cui pulsa incessante la ricerca disperata dell’uomo moderno, attratto sempre più verso una spiritualità
che lo accolga per rigenerarlo.
Con questo sentimento va letto il messaggio di Mahler, con tutte le
sue certezze e ripensamenti, le commozioni e le irrequietudini ma so62
Bollettino della Società Letteraria, 2012, 63-84
Bollettino
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Società Letteraria
prattutto con quella volontà di “cercare” che lo hanno reso così moderno per noi e inattuale per il suo tempo. La scrittura, l’organico e la
complessità della forma concentrano in questa partitura le caratteristiche della sinfonia insieme ai richiami stilistici della cantata e dell’oratorio con significati metafisici, richiami simbolici e riflessioni spirituali
che danno vita ad una grandiosa architettura musicale aperta alle diverse letture e al dialogo e di chi ne vive i contenuti.
Se la Seconda Sinfonia si può considerare un’«opera laica», perché
pensata come riscatto ideale dell’umanità attraverso la natura, è innegabile che il centro poetico dell’intera composizione sia nel profondo
messaggio di fede di una nuova vita oltre la morte. Henry-Louis de La
Grange scrive a proposito del temperamento di Malher: «La sua opera
non rende conto né di una realtà né di un sogno, ma si sforza di far
coincidere la realtà con il sogno. Il compositore austriaco ha fatto delle proprie esperienze vissute e delle speculazioni filosofiche la materia
viva della sua arte come più volte lui stesso ha sottolineato: «Ciò che
conta, nell’opera d’arte, è innanzitutto ciò che essa comprende di misterioso, di incommensurabile!» Per Gustav Mahler, la creazione musicale è un «atto essenzialmente mistico».
«All’insaputa di se stessi, si costruisce spesso qualcosa che non si riesce più a comprendere una volta l’opera venuta al mondo… Accade
talvolta che una forza misteriosa e incosciente ci governi».
Così, per tutta la vita, Mahler sarà affascinato dai misteri dell’arte, della condizione umana e dell’aldilà. Gli amici lo descrivevano in
questo modo: «Cercava Dio. Con un incredibile fanatismo, con una
dedizione unica, con una passione incrollabile era sempre alla ricerca del divino nell’uomo, in ogni persona. Considerava se stesso come
portatore di una missione ed era tutto preso da essa. Una natura tutta completamente religiosa in senso mistico, ma non dogmatico […].
L’abbondanza dell’invenzione, il rigore del mestiere sono insufficienti.
[…] La legge fondamentale della musica è l’eterno divenire, lo sviluppo perpetuo, così come l’universo non cessa mai di trasformarsi e di
rinnovarsi. […] Ecco quindi che ha condotto Mahler a introdurre nel64
La Resurrezione di Gustav Mahler
la sua musica questa indispensabile «particella d’infinito», ad assegnarle non soltanto una dimensione epica e un respiro cosmico, ma anche
una ricchezza e una complessità interna degne dell’uomo del XX secolo, di quest’ uomo di Freud e di Joyce che si è aperto al mondo e
su se stesso, che presta attenzione ai segni della coscienza quanto ai
misteri dell’inconscio». Insieme all’amore infinito per la vita e all’ambiguità della natura, nella scrittura di Mahler abita, infatti, anche un sentimento ironico nei confronti degli eventi, capace di travolgere e mettere insolentemente in dubbio ciò che è stato appena affermato; una
dimensione presente nelle sue sinfonie che mostra come le “certezze”
dell’esistenza, conquistate attraverso forti conflitti, si perdono quando
l’esperienza della vita ci svela nuove verità. Mahler ci insegna questo:
i suoi pensieri si commuovono, scavano lunghi cunicoli nella mente,
perdonano le piaghe provocate dai ripetuti assalti all’intimità più fragile del cuore e ci accompagnano verso un orizzonte che è già luce.
Genesi
«Le mie due Sinfonie esauriscono il contenuto di tutta la mia vita»
Mahler compose la sua Seconda Sinfonia in do minore fra il 1887 e il
1894, quando era direttore del Teatro dell’Opera di Budapest e di Amburgo.
Si tratta della prima delle quattro sinfonie in cui è previsto l’intervento della voce e la prima delle tre Wunderhorn Symphonie in cui
egli utilizza i testi della raccolta di canti medioevali tedeschi intitolati Des Knaben Wunderhorn (Il corno magico del fanciullo), curati da
Achim von Arnim e Clemens Brentano.
La gestazione dell’opera coincide con la conclusione della Prima
Sinfonia in re maggiore (marzo 1888), creando una sorta di legame
ideale per il primo movimento della Seconda, portato a termine di getto il 10 settembre 1888. Pensata come movimento iniziale di una Sin-
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Bollettino
della
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fonia, la partitura fu provvisoriamente considerata finita con il titolo
Totenfeier (Rito funebre) e strutturata con l’idea di un poema sinfonico nel quale l’eroe, celebrato nel finale della Prima Sinfonia, veniva accompagnato alla tomba. Per quanto non avesse mai rinunciato al
progetto di una Sinfonia, Totenfeier troverà un seguito solo nel 1893.
Impegnatissimo come direttore d’orchestra, Mahler riprenderà il lavoro compositivo nel corso dell’estate 1893, completando altri tre movimenti: l’Andante moderato, lo Scherzo e un Lied per orchestra sempre dal Wunderhorn, dal titolo Urlicht (Luce primordiale), già scritto
in precedenza come pezzo autonomo.
A proposito del secondo e terzo movimento Natalie BauerLechner, violista e grande amica del compositore dal 1902, riporta una spiegazione preziosa di Mahler, risalente all’estate del 1893:
«I due temi che oggi ho ricavato dall’abbozzo per l’Andante della
mia Seconda sono meravigliosi e con l’aiuto di Dio spero di finirli,
come pure lo Scherzo» disse Mahler il quale, dopo aver composto,
per un po’ rimaneva in uno stato di rapimento e considerava le proprie cose con distacco, come se appartenessero a un estraneo. […]
Mahler completò il suo Andante in sette giorni e lui stesso disse di
avere di che rallegrarsi». […] Chiesi a Mahler come era accaduto che
la Fischpredigt, (La predica ai pesci di Sant’Antonio da Padova), fosse diventato il vigoroso Scherzo della Seconda Sinfonia, senza che
lui inizialmente ci avesse pensato o l’avesse voluto. Mi rispose: «È
uno strano meccanismo! All’inizio non sai dove stai andando ma ti
senti via via sempre più spinto a trascendere la forma originaria, che,
inconsapevole, nasconde in sé un contenuto più ricco, come il seme
racchiude in sé la sua pianta […]. Il testo non è altro che un’allusione
ai contenuti più profondi che se ne possono ricavare, al tesoro che
va portato alla luce. «È così che io mi raffiguro la vita, come il grido del bambino che domanda il pane (nella poesia che ho didascalicamente intitolato Das irdische Leben) mentre la madre continua a
rassicurarlo con le sue promesse: rimandiamo il necessario, di cui il
corpo e lo spirito hanno bisogno per crescere, finché è troppo tardi,
66
La Resurrezione di Gustav Mahler
come per il bambino morto. E credo che questo venga espresso in
modo emblematico e terribile nell’inquietante risuonare dell’orchestra che infuria come una tempesta, nello straziante grido di terrore
del bambino e nella lunga e monocorde risposta della madre – il destino, che non sente alcun bisogno di affrettarsi nell’esaudire la nostra richiesta di pane.
Nella Fischpredigt, al contrario, domina un umorismo più agrodolce, come in Das himmlische Leben (La vita celeste). Sant’Antonio predica ai pesci, e le sue parole si trasformano immediatamente nella loro
lingua, che suona confusa, impastata (nel clarinetto), finché tutti nuotano verso di lui. È un brulichio cangiante: anguille, carpe e lucci con
le teste appuntite.
Mentre scrivevo le mie note, mi sembrava di vederli sollevarsi sui
colli rigidi, immobili, per guardare Antonio, con le loro facce sciocche,
tanto che mi sono messo a ridere ad alta voce […]
“Non appena terminata la predica, l’adunata si disperde:
Die Predigt hat g’fallen Sie bleiben wie alle ma La predica è piaciuta loro
sono rimasti gli stessi
«e i pesci non hanno acquistato neanche in briciolo di saggezza in
più, nonostante l’esibizione del santo. La satira implicita sul genere
umano, però, la capiranno in pochi».
Alla metà del 1893 Mahler interruppe nuovamente la stesura della partitura poiché non gli era chiaro come avrebbe disposto i brani
nella Sinfonia ma soprattutto sapeva che, dopo l’impiego di un’orchestra colossale e l’articolazione frenetica dei primi tre movimenti, spettava alla “parola” redentrice il compito di completare e trascendere il
significato dell’idea musicale. Urlicht, per voce sola era un passo importante in quella direzione, ma non sufficiente per definirne il significato metafisico di ascesa. In una lettera al Dr. Arthur Seidl, il compositore scrisse «che perlustrava l’intera letteratura mondiale fino alla
Bibbia per trovare la parola liberatrice».
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Nel marzo del 1894 Mahler fu presente alla cerimonia funebre in
onore di Hans von Bülow, il celebre direttore d’orchestra che tanto
lo aveva sostenuto e incoraggiato nel periodo amburghese: «Lo stato d’animo in cui mi trovavo stando là seduto e i pensieri che rivolgevo allo scomparso erano nello spirito del lavoro che portavo dentro di me. In quel momento il coro accompagnato dall’organo intonò
il corale su testo di Klopstock ‘Auferstehen!’. Mi colpì come una folgore e tutto apparve limpido e chiaro alla mia anima! Chi crea attende questo lampo, è questo il ‘sacro concepimento’! L’esperienza che
allora vissi dovetti crearla in suoni. Eppure, se non avessi già portato
in me quell’opera, come avrei potuto vivere tale esperienza? […] Così
è sempre per me: soltanto se vivo un’esperienza, compongo, soltanto
se compongo, la vivo!…».
Il compositore ceco Josef Bohuslav Foerster narra che un coro di
voci bianche cantò, su una musica rimasta sconosciuta, i versi dell’ode
di Klopstock Aurersteh’n, ja aufersteh’n wirst du, mein Staub, nacli
kurzer Ruh! (Risorgerai, certo, risorgerai, dopo breve riposo, mia polvere!). Durante l’estate del 1894 Mahler lavorò intensamente al Finale,
utilizzando dell’inno di Klopstock soltanto i primi otto versi del testo
originale, con alcune modifiche, proseguendo poi liberamente, secondo la propria intenzione poetica e spirituale. Si completava quindi il
viaggio iniziato dal rito funebre di un eroe e compiuto con la Resurrezione, passando attraverso il mondo ingenuo e incantato del Wunderhorn, il Giudizio Universale e la metafora del “muori e diventa”, attraverso il quale è necessario che il soggetto (l’eroe e l’uomo) debba
morire se vuole rinascere dopo aver sensibilmente percepito la gioia
del perdersi e del ritrovarsi. Conclusa una genesi sofferta tra numerosi ripensamenti, la Sinfonia fu ultimata nella strumentazione il 18 dicembre 1894.
La struttura formale della partitura, si compone di tre grandi blocchi – il primo movimento, i tre movimenti centrali e il Finale e si realizza attraverso proporzioni e organico grandiosi: 4 flauti (3 e 4 anche ottavino), 4 oboi (3 e 4 anche corno inglese), 3 clarinetti (3 anche
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La Resurrezione di Gustav Mahler
clarinetto basso), 2 clarinetti piccoli, 4 fagotti (4 anche controfagotto),
10 corni (dal 7 al 10 anche “in lontananza”), 10 trombe (4 “in lontananza”), 4 tromboni, basso tuba, timpani, grancassa, piatti, triangolo,
2 tam-tam, frusta, Glockenspiel, 3 campane, arpa, archi, organo soprano, contralto, coro misto.
Una sinfonia a programma
In una testimonianza del 1893 Natalie Bauer-Lechner ci riporta qualche dettaglio importante:
«Ho riflettuto molto sul titolo da dare alla mia sinfonia, disse Mahler,
perché vorrei che racchiudesse un minimo accenno al contenuto e almeno una parola di commento sul mio intento.
Ma che si chiami “Sinfonia” e basta! Perché la denominazione come
“poema sinfonico” sono ormai logore, senza essere mai state corrette, e fanno pensare alle composizioni di Liszt, in cui ogni movimento
illustra qualcosa di per sé, senza che ci sia un legame più profondo.
Nelle prime due sinfonie c’è tutta la mia vita; ciò che ho messo
dentro è stato vissuto e sofferto, verità e poesia in suoni. E a chi sa
leggerle, la mia vita dovrebbe apparire assai trasparente».
L’esecuzione diretta da Mahler a Berlino il 4 marzo 1895, limitata
ai soli primi tre movimenti, fu accolta dal pubblico con atteggiamento freddo e sconcertato, mentre un maggior successo arrivò alla prima esecuzione completa, diretta da Mahler sempre a Berlino il 13 dicembre 1895.
Dopo la seconda esecuzione berlinese, Mahler volle precisare al
critico musicale, Max Marschalk che: «nella concezione di quest’opera non ho mai inteso descrivere dettagliatamente un evento, ma tutt’al
più un modo interiore di sentire». In una lettera successiva del 1896,
sempre a Marschalk, scrisse: «In quanto a me, so che non farei certo musica sulla mia esperienza vissuta finché la posso riassumere in
parole. La mia esigenza di esprimermi musicalmente, sinfonicamen69
Bollettino
della
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te, inizia solo là dove dominano le oscure sensazioni, sulla soglia che
conduce all’altro mondo»; il mondo in cui le cose non si scompongono più nel tempo e nello spazio. Come trovo banale inventare musica su un programma, così considero insoddisfacente e sterile voler
dare un programma a un’opera musicale. Con ciò non cambia il fatto
che l’occasione per un’immagine musicale è certamente un’esperienza
dell’autore, dunque pur sempre qualcosa di abbastanza concreto per
poter essere rivestito di parole». E poi: «Dall’essenza della musica è facile comprendere che poi spesso in diversi singoli passi io immagino
che davanti a me si svolga un evento reale, al modo, per così dire, di
una rappresentazione drammatica». Attraverso queste parole si legge
come Mahler intendesse con ambiguità un legame tra sinfonia e poema sinfonico, ma soprattutto tra sinfonia e scena drammatica. Per la
prima esecuzione berlinese del 1896, cedendo alle insistenze del critico Max Maschalk, Mahler scrisse un programma propedeutico all’ascolto della Seconda Sinfonia, poi omesso nella pubblicazione dell’opera una volta chiarita la sua funzione di guida.
Programma di sala
In realtà il timore che il pubblico si perdesse durante l’ascolto della
Sinfonia portò Mahler a stendere almeno tre versioni del “programma”, a volte divergenti ma con le stesse intenzioni drammaturgiche, in
cui veniva offerta una chiave di lettura per accompagnare l’ascoltatore durante il viaggio («una carta astronomica, per comprendere il cielo
notturno con i suoi mondi lucenti», secondo le sue stesse parole). La
terza versione, che Mahler incluse in una lettera alla fidanzata, Alma
Schindler, riporta il testo del programma di sala di Dresda del 1901:
Primo movimento. Siamo accanto alla bara di una persona amata.
Ripercorriamo col pensiero ancora una volta, un’ultima volta, la sua
vita, le sue lotte, quel che ha sofferto e quel che ha voluto. E ora, in
questo momento grave e profondamente commovente, in cui ci libe70
La Resurrezione di Gustav Mahler
riamo, come di una benda, di tutto quel che nella vita di ogni giorno
ci distrae e ci degrada, una voce terribilmente seria che non percepiamo mai nell’agitazione assordante dei giorno, ci colpisce fin nel profondo del cuore: e ora? Che cos’è la vita? Cos’è la morte? Esiste per noi
una continuazione nell’aldilà? Tutto ciò è solo un sogno disordinato,
oppure vita e morte hanno un senso? E dobbiamo trovare una risposta a questa domanda se vogliamo continuare a vivere. I tre tempi seguenti sono concepiti come Intermezzi.
Secondo movimento. Andante. Descrive un momento felice della
vita del defunto a noi caro e fa rivivere il mesto ricordo della sua gioventù e della sua innocenza perduta.
Terzo movimento. Scherzo. Lo spirito dell’incredulità, della negazione si è impossessato di lui, egli affonda lo sguardo nel brulichio dei
fenomeni e, insieme con la purezza dell’animo infantile, perde il saldo
punto d’appoggio che solo l’amore può dare; dispera di sé e di Dio. Il
mondo e la vita diventano per lui una ridda sconclusionata; il disgusto di tutto ciò che è e diviene lo stringe come in un pugno di ferro e
lo incalza fino a strappargli un urlo di disperazione.
Quarto movimento. Urlicht (solo di contralto). La voce commovente della fede ingenua risuona al nostro orecchio. «Vengo da Dio e voglio tornare a Dio! Il Buon Dio mi darà un lumicino, mi illuminerà la
strada che porta alla vita eterna e beata!».
Quinto movimento. Ci troviamo di nuovo di fronte a tutti i paurosi interrogativi; e nello stesso stato d’animo della fine del primo tempo. Si ode la voce di Colui che chiama: l’ora della fine è scoccata per
tutti gli esseri viventi – il Giudizio Finale sovrasta, è sopravvenuto il
terrore dell’Ultimo Giorno. La terra trema, le tombe si scoperchiano, i
morti si alzano e procedono in un corteo infinito. I grandi e i piccoli
della Terra – i re e i mendicanti, i giusti e i senza Dio – tutti vogliono
avanzare – l’invocazione di misericordia e di grazia risuona spaventosa al nostro orecchio. La marcia del corteo si fa sempre più terrificante – tutti i nostri sensi vengono meno, vien meno la nostra coscienza nell’avvicinarsi dello Spirito eterno. Risuona il “Grande Appello”
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– echeggiano le trombe dell’Apocalisse; nel silenzio raccapricciante
sembra di sentire un usignolo lontano, come un’ultima eco tremolante
della vita terrena! Si innalza, tenue, un coro di santi e di creature celesti: «Risorgerai, sì, risorgerai. E ora appare Iddio nella Sua gloria! Una
luce meravigliosa, soave, penetra fino al nostro cuore – tutto è pace
e beatitudine! E vedi: non c’è giudizio, non c’è peccatore, né giusto,
né grande, né piccolo – non c’è punizione né premio! Una sensazione irresistibile d’amore pervade e illumina tutto il nostro essere di una
consapevole beatitudine».
Anche se Mahler esclude ogni sorta di un “programma” di sostegno
per l’ascolto della sua musica, in queste note troviamo suggerito il rapporto che intercorre tra il primo e l’ultimo movimento e la funzione di
sospensione, legata al ricordo, dei tre movimenti centrali. Una visione
in cui Mahler non parla soltanto del suo eroe, la cui scomparsa sublima la vicenda individuale, ma dell’umanità intera che riscatta la propria sofferenza attraverso la luce accecante della redenzione e il cammino come meta ideale.
Sotto il profilo compositivo, insieme alla Marcia funebre e il Corale del primo movimento, emergono due elementi che diventano stilemi nel corso della Sinfonia: l’intervallo di seconda minore intonato dal corno inglese (che ricorda la figura caratteristica del lamento) e
un soggetto affidato ai corni che scolpisce, nelle prime quattro note,
la sequenza del Dies irae. Nel secondo movimento, Andante moderato (Molto comodo), Mahler disegna, nella forma del Landler, una retrospettiva della propria vita attraverso i ricordi: l’eroe visto da se stesso. Il terzo movimento (In movimento tranquillamente scorrevole) che
Mahler definiva «uno strano pezzo di spaventevole grandezza» è scritto nella forma dello Scherzo, con una sezione centrale di Trio (A B A).
Un doppio colpo di timpano in fortissimo apre la scena che si sviluppa in un clima di sarcasmo dove l’alternarsi del ritmo di danza macabra con quello di una grottesca fanfara mette in rilievo il prezioso intervento del clarinetto piccolo in mi bemolle dal passo mit Humor e
quello della tromba, dagli accenti sinistri: il movimento termina sospe72
La Resurrezione di Gustav Mahler
so su una sola nota di contrabbassi, arpe, tam-tam, corni e controfagotto dal timbro spettrale come “grido d’orrore”.
Segue senza interruzione il quarto movimento (Molto solenne ma
con semplicità – come un Corale) con il Lied dai Des Knaben Wunderhorn, Urlicht. Raddoppiata dagli archi, la voce di contralto intona
O Röschen roth! (O rosellina rossa!) dall’andamento e pulsazione che
vede l’alternarsi di un ritmo binario con quello ternario. Si ode la voce
ed ecco la svolta! L’atto di purificazione è in atto: un ponte immaginario tra il passato (ricordi) dei movimenti precedenti e il riscatto verso la Redenzione del Finale. Dirompente è il gesto teatrale che apre il
quinto movimento (Prorompendo selvaggiamente) che, con una violenta e prepotente scala ascendente dei bassi, ci riporta al clima del
primo tempo. Sono riconoscibili il tema di Corale, il motivo del Dies
irae del primo movimento e l’intervallo di seconda minore con il suo
carattere di lamento e insieme supplica sulla parola “credo”.
È il Giudizio Universale. Una marcia macabra rielabora il tema del Corale e il Dies irae, richiamando i “morti che si alzano e procedono in un
corteo infinito”. Dopo lo stingersi della scena esausta, fino al pianissimo,
si ode il “Grande Appello”, introdotto dai corni e da quattro trombe che
suonano in direzioni diverse e fuori dall’orchestra. Il colore è cambiato e
tutto sembra seguire la direzione per l’ascesa finale. Rispondono prolungati gli interventi del flauto e ottavino come “suoni di natura” che si fanno udire nell’ora estrema, sotto i quali Mahler annota «come la voce di un
uccello». Quando però anche la natura si spegne, attacca in pianissimo il
coro a cappella, lento e misterioso. Qui si concreta, nella commozione,
la purificazione di tutto ciò che si è ascoltato e vissuto prima, mentre tutti gli elementi si completano nel rinnovamento dell’anima. Non più dolori, non più tensioni ma l’inizio della lunga salita, bagnata da una luce
sacra. Il tema della Resurrezione (una quinta discendente seguita da un
disegno ascendente per gradi congiunti), riveste tutta la scena con grande espansione del suono e sacrale intenzione, conducendo all’epilogo,
“con la massima forza”, un’orchestra rinnovata anche nel timbro per l’intervento di tre campane dal suono grave e dell’organo in fortissimo.
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Cinque minuti di pausa
Al termine del primo movimento, dopo il pizzicato in pianissimo,
Mahler indica in partitura Hier folgt eine Pause von mindestens 5 minuten (Qui di seguito almeno una pausa di cinque minuti), per assicurarsi un ‘incisiva separazione dall’immane Totenfeier rispetto ai successivi movimenti.
Che valore ha questa pausa? Certamente non si tratta di un’interruzione del flusso della composizione, intesa come termine di un viaggio, ma una sorta di spazio acustico che provoca una riflessione guidata dallo stesso Mahler. Il silenzio diventa un parametro importante
nella lettura globale della partitura e insieme il pannello sonoro che
raccoglie gli echi e i respiri del movimento appena ascoltato. In questa
oasi il respiro diventa attesa per riprendere il cammino verso l’ascesa. Un caleidoscopio dove le immagini si sovrappongono nei ricordi,
staccandosi dalla pulsazione fisica per diventare energia rivolta all’anima. Se le sorti del primo movimento sono destinate alla liberazione del Finale, sarebbe auspicabile omettere gli applausi anche dopo
l’ultima nota esultante della Sinfonia per ritrovare un silenzio nuovo nello spirito, già chiesto nel primo movimento, e ora testimone di
un viaggio vissuto nella musica e purificato in una nuova dimensione del sentire.
La Seconda di Mahler a Vienna 9 aprile 1899
(dalla Mahleriana, diario di un’amicizia di Natalie Bauer-Lechner)
«Mahler ha permesso ad alcuni degli amici più cari di assistere di nascosto alle prove della sua Seconda Sinfonia. Ieri sono stati provati i
primi tre movimenti, oggi quarto e quinto.
Anche questa volta in un primo momento l’orchestra è parsa allibita e incapace di comprendere, poi progressivamente più coinvolta.
Tranne rare eccezioni, tutti hanno fatto il possibile per essere all’altez74
La Resurrezione di Gustav Mahler
za dell’arduo compito. Gli oppositori di Mahler che ho citato in precedenza hanno tentato fino all’ultimo di mandare all’aria il concerto. È di
nuovo apparso un articolo ingiurioso in un giornale antisemita, ispirato,
come la volta scorsa, da alcuni calunniatori appartenenti all’orchestra.
Come alla valigia del primo concerto filarmonico, cercarono di tendere a Mahler una trappola, nella speranza di realizzare nei confronti
del compositore quel che non era loro riuscito ai danni del direttore
dei concerti filarmonici. Ma i migliori elementi dell’orchestra si schierarono dalla parte di Mahler, e gli altri, che avevano protestato contro
l’esecuzione della sinfonia, tacciata di essere “un’opera che fino ad ora
è stata bocciata e fischiata ovunque”, dovettero rassegnarsi.
In una settimana, con non più di quattro prove a disposizione,
Mahler riuscì nel miracolo di inculcare agli orchestrali, che non avevano mai suonato niente di suo, quell’opera tremenda e al loro profondamente estranea. Ho già parlato del mondo e dell’intensità con
cui Mahler conduceva le prove in occasione del concerto berlinese.
Anche in questo caso al timpanista spettava una parte alquanto difficile, e a causa sua ci furono parecchie interruzioni. In particolare,
non riusciva a essere abbastanza veloce e a suonare abbastanza forte; e quando Mahler, nel punto in cui le tombe si spalancano, richiese la massima potenza, replicò che la membrana del timpano si sarebbe strappata (a Berlino era accaduto lo stesso). Mahler gli rispose
allora di lasciare che accadesse, e non cedette di un millimetro; durante una delle prove, poi, uno dei timpani si squarciò effettivamente in due. Anche i piatti spesso non venivano colpiti abbastanza forte,
e Mahler, una volta, rimproverò il percussionista aspramente. E quando l’uomo, colpendoli con tutte le sue forze, chiese: «Così è abbastanza forte?» Mahler rispose: «No, ancora più forte!» Il percussionista, allora, batté i piatti con la massima violenza di cui era capace, e con gli
occhi pareva dire: «Stavolta neanche il diavolo mi frega più!». E Mahler
gridò: «Bravo, così va bene! E adesso, ancora più forte!».
La domenica la sinfonia ebbe in successo superiore alle nostre
aspettative. Il solo fatto che il Musikvereinsaal fosse tutto pieno, a par75
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te un paio di posti, mostrava l’interesse nei confronti di Mahler. Dopo
il primo movimento ci fu un applauso deciso e pressoché unanime.
Il secondo, già noto a una parte del pubblico fin dall’anno precedente (nell’esecuzione di Loewe), fu, come sempre, il più applaudito: anche i filistei battevano il tempo con le loro anguste teste e approvavano le “belle melodie”. I musicisti, però, e in particolare i violoncelli,
con la loro meravigliosa melodia, che Mahler desiderava suonassero
in modo quieto, trattenuto, e non troppo sdolcinato, erano incontenibili e completamente travolti dalla musica. Lo Scherzo, con il suo macabro umorismo, risultò forse il più incomprensibile per il pubblico, e
il finale giunse così inaspettato, che per un momento tutti rimasero in
silenzio, finché si levò qualche applauso isolato.
Grande fu l’impatto di Urlicht, a lungo applaudito, tanto che Mahler
acconsentì a ripeterlo – ma non per l’applauso, quanto piuttosto perché desiderava che il terzo, il quarto e il quinto movimento venissero
eseguiti senza interruzione, e in questo modo avrebbe almeno salvato la continuità tra gli ultimi due. Poi fu la volta dell’ultimo movimento, con il suo tremendo grido in apertura e le urla di paura e di orrore di tutte le anime; la marcia con cui le schiere dei defunti si avviano
brulicando verso il luogo del giudizio; e infine, contro tutte le aspettative, la liberazione e la redenzione del coro Auferstehen, che si eleva sublime nelle altezze: tutto questo ebbe un impatto enorme sulla
maggior parte del pubblico. Anche gli altri spettatori, che non si erano convertiti, o erano addirittura inorriditi, e recavano scritta in volto tutta la loro perplessità, non osarono comunque esprimerla con fischi o insulti, com’era accaduto in passato. Il concerto si chiuse quindi
con grida di giubilo e applausi scroscianti, che richiamarono Mahler
in scena un’infinità di volte e lo seguirono nel foyer, sulle scale e persino in strada. Mahler fu molto soddisfatto dell’accoglienza riservata
alla sua sinfonia, e a tavola, dopo il concerto – come pure nei giorni
precedenti, dopo le prove – era in quello stato d’animo estasiato ed
entusiasta in cui si trovava solo quando poteva far rivivere le proprie
opere. A strapparlo da quella sorta di paradiso furono le critiche sulla
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La Resurrezione di Gustav Mahler
sua sinfonia che apparvero il giorno seguente e che non si mostrarono meno ottuse di quelle di Berlino. Questo spiacevole contatto con il
“mondo esterno” e, soprattutto, il ritorno alle tribolazioni dell’Opera,
gli procurarono una forte depressione. Per riprendersi, avrebbe desiderato allontanarsi dall’Opera e dal trambusto cittadino e rifugiarsi in
montagna, in solitudine. A proposito della Seconda Sinfonia, Mahler
disse una volta: «Un difetto della Sinfonia in Re minore è il contrasto
troppo brusco (e dunque non artistico) tra l’Andante, con il suo allegro ritmo di danza, e il primo movimento. La ragione è che ho creato i
due movimenti indipendentemente, senza pensare di unirli. Altrimenti avrei almeno potuto cominciare l’Andante con la melodia dei violoncelli, facendo poi seguire l’attuale inizio. Ma ormai non è più possibile rimetterci mano».»
L’esecuzione di Mahler a Monaco 17 ottobre 1900
(dalla Mahleriana, diario di un’amicizia di Natalie Bauer-Lechner)
«La sera del 15 ottobre Justi e io accompagnammo Mahler a Monaco
per le prove e l’esecuzione della sua Seconda Sinfonia in occasione
della cerimonia di inaugurazione dell’Hugo Wolf Verein.
Mahler, così poco abituato a sentirsi richiedere le proprie opere,
che continuavano a essere eseguite molto raramente (o a non esserlo affatto, nella maggioranza dei casi), fu molto felice quando gli si
presentò quell’occasione, e non lesinò alcun sacrificio o spesa pur di
dare il suo contributo.
Eppure ogni volta per lui era un supplizio dover dare vita alla propria opera in un posto nuovo, affrontando tutte le sofferenze dovute
al fatto di agire su un terreno estraneo, poco preparato, e imporla a
un pubblico diffidente e refrattario.
Anche in quell’occasione, tuttavia, si dedicò all’impresa con tutta
l’energia e lo zelo di cui era capace. Dovette letteralmente raccattare i
solisti in tutta la città, perché Possart (l’intendente generale), invidioso
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e furente per i suoi successi all’Opera di Vienna (dove era stato introdotto anche un palcoscenico girevole) non gli concesse una cantante
in grado di fare da soprano solista, e l’altra cantante era così scadente
che Mahler dovette “sbarazzarsene”. Fra tutte queste ricerche e tentativi si giunse all’ultima prova, in cui finalmente la Stavenhagen si disse disponibile a subentrare. Mahler dovette allora prepararla in fretta e
furia, e lei cantò nonostante tutto in modo incantevole. L’altra cantante, la Feinhals, eseguì il ben più importante assolo del soprano (in Urlicht) con una voce di rara bellezza, ma in modo così poco espressivo
e musicale che non rese a Mahler un gran servizio. «Per quel ruolo» ci
disse lui in quell’occasione «mi occorrono la voce e l’immediatezza di
un fanciullo, perché immagino che al rintocco della campanella l’anima, che in cielo si trova nella condizione di una crisalide, prenda vita
nelle vesti di un bambino».
A destare le preoccupazioni maggiori era il coro. Le donne, per
quanto non fossero brave come a Berlino, erano comunque molto
meglio che a Vienna, e fin dal primo momento, conquistate da Mahler
e dalla sua opera, si impegnarono al massimo. Ma le condizioni dei
tenori erano disperate:
erano pochi e scadenti, e in più sempre diversi nelle varie prove; in
quella generale, cantarono talmente male, sbagliando ripetutamente e
mostrandosi del tutto incapaci di eseguire una complessa sequenza di
note, che persino Mahler, che sapeva sempre come cavarsela, rimase
per un attimo sconcertato. Dopo aver interrotto l’esecuzione di quel
passaggio per tre volte, esclamò sconsolato: «No, così non va!» e io
compresi dal modo in cui chinava il capo, profondamente assorto, che
– non volendo mettere a repentaglio la sua opera – stava considerando se non fosse preferibile annullare il concerto o se ci fosse ancora
la possibilità di salvare la situazione. Ma un attimo dopo rialzò la testa
e disse con un tono gentile e rassicurante, con il quale sapeva infondere coraggio quando tutto vacillava, che aveva trovato una soluzione
e che l’avrebbe comunicato loro in seguito (perché in quel momento
in sala erano presenti diversi spettatori). Al termine della prova, con78
La Resurrezione di Gustav Mahler
clusa tralasciando provvisoriamente quel passaggio, Mahler illustrò la
sua strategia di salvataggio: nella battute più insidiose avrebbe fatto
suonare clarinetti (che aggiunse immediatamente anche nelle partiture), che erano collocati accanto ai tenori. In questo modo, sebbene a
malincuore, fu costretto a rinunciare al coro a cappella, da lui auspicato. Inoltre, subito dopo quella prova durata tre ore e mezza, ne fece
un’altra solo per i tenori, che convocò anche per il mattino seguente,
nel giorno del concerto, pagandoli di tasca propria. Quel giorno provò a lungo con l’orchestra anche lo Scherzo, che nella prova generale
sembrava ancora troppo confuso e poco scorrevole.
A proposito della Seconda Sinfonia, il professor Guido Adler, che
era venuto a Monaco per l’esecuzione di Mahler, raccontò che in un
punto del primo movimento Muck, Strauss e Kienzl, che avevano assistito a un’altra esecuzione, si erano comportati come segue: il primo
aveva riso a crepapelle, Kienzl si era commosso e Strauss aveva esclamato di aver imparato qualcosa di nuovo, di cui – come aveva affermato lo stesso Mahler – si era servito anche nelle sue opere, con l’unica differenza che lui utilizza la cacofonia, che in Mahler è rigidamente
condizionata dalla polifonia, senza alcuna necessità, per il puro piacere di risultare stravagante. «Mentre io mi sforzo in ogni modo di evitare
le asprezze, e di eliminarle anche in seconda battuta, per quanto mi è
possibile (come per esempio in questo passaggio, dove sono riuscito
a rimuoverle del tutto), lui inventa dei suoni stridenti in modo intenzionale, solo per attirare l’attenzione e sembrare spinto».
In quei giorni Mahler disse di nuovo che avrebbe voluto spostare
l’Andante della Seconda Sinfonia, perché troppo discordante rispetto
all’atmosfera generale. «Avevo già pensato di mettere lo Scherzo dopo
il primo movimento, seguito dall’Andante, che verrebbe quindi a trovarsi prima di Urlicht.
Ma l’economia dell’opera non reggerebbe questo spostamento,
perché con questa disposizione l’Andante e l’Urlicht verrebbero eseguiti l’uno di seguito all’altro e non sono sufficientemente contrastanti. In quel modo anche le tonalità che si avvicendano sarebbero trop79
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po legate mentre ora si trovano nel giusto rapporto. Con la Terza e la
Quarta Sinfonia non mi sarebbe più potuto succedere niente del genere perché adesso, oltre alla successione dei movimenti, abbozzo
fin dal principio anche le sequenze delle tonalità. È stato principalmente a causa dell’eccessiva somiglianza delle tonalità in movimenti contigui che ho deciso di eliminare l’Andante Blumine dalla Prima
Sinfonia». Mahler, che ci portò con sé solo alle prove conclusive, ci
disse subito, già dopo la prima prova: «L’orchestra non è paragonabile
ai Wiener Philarmoniker, quindi l’esecuzione sarà inferiore alla loro.
Ma qui sentirete la cosa più importante: la conclusione, che a Vienna
non avete praticamente potuto ascoltare a causa del pessimo livello
del coro e dell’assenza dell’organo (che non si riusciva a distinguere).
Qui, dunque, sebbene un dito del piede sinistro i la punta del pollice
della mano destra siano meno belli, vedrete la statua con la testa, che
a Vienna mancava del tutto». A proposito dell’organico dell’orchestra
di Monaco, Mahler si lamentava del ridotto numero degli archi (dodici
primi violini). «Non c’è alcuna proporzione con i fiati, che in quest’opera sono così potenti. Una volta mi piacerebbe avere trenta violini,
diciotto violoncelli e sedici contrabbassi, e poi vedreste quanto ne risulterebbe potenziato l’effetto». Nonostante le difficoltà con il coro,
i solisti e l’orchestra, il successo dell’esecuzione fu immenso, e molto superiore rispetto a Vienna grazie alla conclusione. Il primo movimento venne se non altro compreso, il secondo fu molto applaudito
e durante i tre movimenti successivi, che Mahler eseguì senza interruzione, la tensione e la suggestione crebbero al punto che, nel momento in cui si spense il verso dell’uccello della morte, non si sentiva volare una mosca. Con l’entrata del coro, che Mahler fece iniziare
da seduto per poi farlo alzare nell’ultima strofa, in modo che si sentisse più forte, corse un brivido per tutta la sala. Ma quando attaccarono l’organo e l’accompagnamento delle campane fu davvero come
se il cielo si fosse spalancato e le schiere angeliche rapissero gli ascoltatori per condurli nell’eternità. A proposito della conclusione Mahler
disse: «Comprendo ora per la prima volta quali immense onde sono80
La Resurrezione di Gustav Mahler
re si liberino e quanto potrebbero risultare devastanti se la progressione non fosse così graduale, e non riprendesse sempre da capo, se
non fosse così intimamente radicata, al punto che è l’orecchio a sollecitarla come massimo piacere. Se si rivelasse a qualcuno che i passaggi più potenti del primo non sono che un bambino in confronto a
quelli dell’ultimo, questi avrebbe ragione di temere per i suoi timpani». Poi aggiunse: «L’estrema importanza che in un’opera come questa
riveste il senso della musica potrà essere compresa soltanto da chi ne
domini la struttura e l’organizzazione. Chissà che effetto avrei potuto
ottenere se avessi inserito prima il coro e l’organo! Ma volevo tenerli
in serbo per il momento culminante e ho quindi rinunciato a essi nelle altre fasi dell’opera». I festeggiamenti e i ringraziamenti entusiastici del pubblico nei confronti di Mahler non accennavano a spegnersi.
Tutti si accalcavano verso il podio e lui dovette rientrare almeno una
decina di volte. Le signore sventolavano i loro fazzoletti e non volevano lasciare la sala.
Quando quell’onda si fu calmata e l’assembramento di persone
disperso, ci riunimmo con Mahler e un piccolo gruppo di conoscenti
al Park Hotel. Lui, eccitato per l’esito positivo della serata, era in uno
stato d’animo gioioso ed espansivo, si informò calorosamente sugli
sviluppi di qualunque cosa e si fece carico delle spese del rinfresco.
Si espresse soprattutto contro ogni sorta di musica a programma e
contro i fraintendimenti e gli equivoci, negando decisamente che le
sue opere avessero qualcosa a che spartire con quel genere di musica. A incoraggiare quei sospetti era stato un articolo scritto con le
migliori intenzioni da Arthur Seidl, che si trovava tra i presenti. Vi
era inclusa una lettera che Mahler gli aveva scritto anni prima, nella quale, più per delicatezza nei confronti di Seidl e Strauss che per
esprimere la sua reale opinione, egli sembrava stimare le opere di
quest’ultimo più di quanto non le reputasse in verità. Spiacevolmente sorpreso di ritrovarsi davanti quella lettera, mi disse: «Vedi come
ti si ritorce contro il non essere completamente sincero e il fare anche la minima concessione in nome dell’affetto che hai per qualcu81
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no! Adesso mi prendono in parola e passo per essere un sostenitore
di Strauss e della sua musica a programma, che dovrei invece osteggiare nella maniera più aperta e aspra possibile». Per rimediare, almeno a posteriori, confessò che riteneva l’impresa di scrivere musica
seguendo un programma un gravissimo errore dal punto di vista musicale e artistico. «Uno che riesce a fare una cosa del genere non è un
artista! Altra cosa è quando la composizione di un maestro ci appare
così brillante e vivace che involontariamente crediamo di scorgervi
una trama, un evento; o quando l’artista, a posteriori, tenta di spiegare a se stesso la propria opera ricorrendo a questa o a quell’immagine, come accade sempre a me; oppure quando la propria materia
si innalza ad altezze eccelse e assume forme tali che al compositore
non bastano più le note ed egli tende dunque alla massima forma di
espressione, che può conseguire solo con il ricorso alla voce umana
e alla parola poetica, articolata, come accade nella Nona di Beethoven o nella mia Sinfonia in Do minore. Ma tutto questo non ha niente a che vedere con il proposito banale e ingannevole di scegliersi una trama limitata e ben circoscritta e seguirla passo dopo passo,
programmaticamente». Mahler si era addirittura rifiutato di prendere
in considerazione un programma per la sua Seconda Sinfonia, che
alcuni dei suoi “amici” avevano scritto e fatto stampare in occasione
di questo concerto, senza nemmeno conoscere il contenuto (perché
non aveva voluto leggerlo). «Le cose devono parlare da sole» disse;
«tutto ciò che, ascoltandole, ci passa per la mente di alto e universale, si comunica già così, come nelle parole alla fine della Seconda
Sinfonia. E ciò che c’è da capire – almeno a grandi linee – apparirà
più chiaro, specie quando uno è morto. Prima di tutto, però dovrebbero considerarla solo ed esclusivamente musica!».»
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La Resurrezione di Gustav Mahler
Bibliografia - Fonti primarie
Natalie Bauer-Lechne, Mahleriana, Diario di un’amicizia, Milano, Il Saggiatore, 2011
Gustav Mahler, Il mio tempo verrà (a cura) di Gaston Fournier-Facio, Milano,
Il Saggiatore, 2010
Also known as Resurrection, Gustav Mahler’s Second Symphony undoubtedly
figures among the Austrian composer’s more complex and fascinating works.
From a dramatic and spiritual point of view it represents a crucial step in his
artistic output. According to Mahler, «Writing symphonies means to create a
world with all means available» and in this Symphony, in particular, we take
part in a real initiation progress, leading from death to life after death, from
dismaying darkness to the dazzling light of the sun, from the decline of the
individual conscience to an embrace of universal forgiveness.
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Il cielo attraverso la poesia
Ernesto Guidorizzi
Im blauen Raum
(Goethe)
Immagini ed infinità
È bene, durante le epoche confuse, ascoltare sempre più intensamente i limpidi echi lontani della poesia, i quali si fanno udire come sorgenti luminose: mi torna grato chiamarli “quanti” di luce, che la scienza della natura ha scoperti insieme con onde d’infinità, cui volgere gli
sguardi meravigliati. Ad istanti luminosi, largiti dalla natura e dalla lettura insieme, sono dedicate pertanto queste mie pagine, ovvero ai bagliori più forti di ogni trama.
Mi rivedo così nell’atto ripetuto, lungo i miei giorni, di raccogliere
ed adunare le immagini più terse della vita, quali foglie amate che rimiro attraverso l’incanto dell’estate, frondosi i rami, ed attraverso l’incanto dell’inverno, spogli i rami. Alle foglie cammino accanto, quando
mi lambiscono esse il volto, e quando vi cammino accanto, pur cadute esse e rosseggianti, come il tramonto e come l’aurora.
… nello spazio azzurro, scrive Goethe. Ho ripetuto la frase come
epigrafe a questo scritto, scioltosi dalle immagini rilevate lungo i giorni, lungo i libri di poesia e negli istanti degli sguardi all’alto.
Tanto tempo addietro un pastore udiva le foglie smosse ed era
canto, di là dal folto, che giovani donne scioglievano. Sarebbero state chiamate le Muse.
Bollettino della Società Letteraria, 2012, 85-102
Bollettino
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Figlie della Memoria e dello stesso Zeus, le Muse sono splendenti.
Rileggo la parola ἀγλαός in Solone.
Splendenti sono le parole che evocano immagini limpide; i colori
che esprimono paesaggi ampi; i suoni che manifestano echi di fronde; i marmi che stagliano figure nell’azzurro. Letteratura, pittura, musica, scultura: quanta la riconoscenza dovuta alle Muse, figlie della
Memoria!
La Memoria, quale brezza tra le foglie, ridona la stella alta contemplata da un bambino; il volto lontano contemplato da un ragazzo; la
carezza felice ricevuta da un giovane; il mare ammirato da un uomo,
e largiva esso i riflessi del cielo.
Un frammento
Sono quattro versi, scritti forse da Guido Guinizzelli, e tramandati Francesco da Barberino. Si leggono insieme con una voce della
Provenza.
Donna, il cantar soave (F I).
Mi è grato soffermarmi su tale verso iniziale, essendo nella primavera della lirica italiana la donna ad apparire quale sorgente della poesia. Lei affiora accanto al modulare armonioso, che alla fantasia regala immagini felici.
Si donava la visione della donna al poeta di quel tempo, ora per la
via assolata, mentre lei incedeva; ora alla finestra fiorita, mentre lei vi
si affacciava; ora nella sala, mentre le andava incontro colui che l’amava.
È la donna di sempre, che rivedo anch’io per strada, mentre si ammira nel cristallo di una vetrina rilucente; mentre si volge all’incontro
per lei raggiante; mentre saluta, svelando desiderio al cielo sereno. È
la donna che sorride tra le foglie ed accetta di levare il vino insieme
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Il cielo attraverso la poesia
con l’uomo amato. È la donna che narra di sé nel prato alto, quando
guardava da bambina l’orizzonte perennemente azzurro.
Viene da lei il cantar soave, ossia poetico, che racconta la sua figura e quanto si amplia di là da essa: memoria di colori, suoni e profumi e di quanto non si può spiegare, perché meravigliosamente vago;
com’è vago il trascorrere alto della nube lieve, i cui bordi dorati fluiscono nel celeste della bella giornata.
È il cantar soave
che per lo petto mi mise la voce
È il cantar soave che ha dato suono al mio cuore.
Si agisce per sopravvivere, faticando talvolta, addolorandosi talvolta; ma altro porge la vita, ed è la realtà eterea, la quale non accetta di
essere definita, affidando alla poesia soltanto il proprio racconto: realtà lieve, imprecisa, sfuggente e pur fonte della felicità unica, data in
sorte ai mortali.
Si disse che il racconto della realtà eterea viene dal cuore, oppure
dallo spirito, oppure dall’ispirazione; ma non ha lei un posto determinato, giungendo con la brezza dal verde, con il flutto del mare, con
l’aroma dell’erba, con lo sguardo stesso della donna amata, che è corporeo e non è corporeo, così la luce.
È il cantar soave
che spegne ciò che nuoce
È il cantar soave che la molestia estingue.
Scordo ogni cura, quando mi apparto sotto la finestra, la quale apre
alle colline fra i petali, e mi abbandono alle immagini della poesia.
Prediligo alcuni libri preziosi, rilegati in rosso e con incisioni in
oro. Appartengono ad una collana, detta bene I Diamanti, e come i
diamanti li ammiro. Mi tolgono pensieri, che sono banditi dall’incanto
dei versi, raccolti nelle pagine pregiate.
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Bollettino
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Società Letteraria
Sollevo il segnalibro di seta egualmente rossa. Leggo e rileggo,
sembrandomi partecipi il sole alla mia felicità silenziosa, assorta e luminosa come un pomeriggio di giugno.
È il cantar soave che
pensieri in gioia e gioia in vita m’have
È il cantar soave che i pensieri mi cambia nella gioia e la gioia nella vita.
Rifletto, medito, considero ma anche ricordo, aspiro, amo. Mi sono
dedicato alle immagini e meno ai concetti, alla memoria e non ai calcoli. Mi sono consacrato alla nostalgia, che i versi diletti mi raccontano, affinché vada il pensiero alla felicità e la felicità al vivere.
Traggo gioia dai paesaggi, le figure e le cose e ricevo dalle pagine favorite il conforto di una scelta e lo sprone agli istanti, alle ore,
ai giorni.
Una ballata
Si volge la poesia ad una particolare della vita e ne trae immagini dal
respiro universale, così il bosco narrato da Guido Cavalcanti in una
ballata (XLVIa), la quale inizia con il verso fiabesco:
In un boschetto trova’ pastorella
È quel boschetto ogni luogo in cui accada di vedere la figura femminile, che subito chiama lo sguardo preso dall’incanto. È pur il bosco
di una passeggiata, quando appare nel sentiero la villeggiante e sorridendo saluta. Sembra rischiararsi la penombra allora, sia per quella visione sia perché si apre il sentiero al sole. E può essere quel boschetto
la frasca, sotto la quale invita e muove al tavolo la giovane accogliente, recando poi il cibo e la sua bellezza insieme. Può essere quel bo88
Il cielo attraverso la poesia
schetto il giardino della villa, dove vaga l’ospite e chiamare si sente da
colei che lo ha invitato, onde si avvicini alla loggia fiorita dov’è atteso.
E quale figura femminile dona la pastorella alla fantasia? È la giovane che accompagna il piccolo cane fedele lungo il viale e gli parla
dolcemente, anticipando le frasi con le quali si rivolgerà una giorno a
colui che amerà. È la giovane che si china sul germoglio, lo carezza e
leva gli sguardi al sereno. È la giovane che reca un ramo nella mano,
serbando il ricordo del verde dov’è stata e dove ritornerà un giorno
non più sola.
più che la stella – bella, al mi’ parere
Quando la figura femminile risplende, va la memoria ad altri splendori subito: a quelli alti delle stelle, durante il passeggiare insieme
dell’uomo e la donna. Brillano gli occhi di lei insieme con i lumi della notte serena, insieme con i flutti calmi che si adagiano nella spiaggia, insieme con le luce della festa, da loro due lasciata per andare
lungo il mare.
Si riserva la bellezza a chi la sappia riconoscere, secondo un parere che è sorgente di felicità eletta.
Cavelli avea biondetti e ricciutelli
I capelli aveva la pastorella chiari e smossi.
La memoria regala una donna al vento limpido dell’inverno e
scompigliata ed ondulata era la chioma, che la mano non ricomponeva pur lambendo. Puro era il sorriso, prima del rientro quando si sarebbe acceso il caminetto ed avrebbe posato lei il capo sulle ginocchia dell’uomo amato, che a sua volta le avrebbe carezzato i capelli
chiari e smossi ancora.
e gli occhi pien d’amore, cera rosata
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Si riconoscono istantaneamente gli occhi pien d’amore, i quali circondano il viso rosato. Hanno la luce irrorata dalla lacrima commossa; hanno la dolcezza illuminata dalla felicità libera; hanno la gioia vivida della confidenza dolce.
con sua verghetta pasturav’ agnelli
È quadro antico la giovane che tiene nella mano il ramo ed accompagna il gregge candido fra il verde. Dove posso rivederla? La rivedo
nel campo mentre porge erba all’agnello e gli parla, sapendo di esservi ascoltata. Si allarga frattanto il sole per il declivio.
[di] scalza, di rugiada era bagnata
Teneva nella mano i sandali dorati colei che scalza andava per la
spiaggia, avendo lasciata la festa, e come rugiada erano le gocce del
mare che le bagnavano i piedi. Così la rugiada sull’erba, dove scendeva la giovane contadina per raccogliere i fiori, onde si sarebbe adornata. E scalza ama stare la donna quando gira per casa cantando, e
scegliendo poi l’abito per l’incontro vagheggiato prima e certo poi.
cantava come fosse ’namorata
Sentivo cantare un tempo le donne, spalancate le finestre alle giornate di aprile; e si mandavano i canti da una casa vicina ad un’altra,
innamorate mi pareva della primavera arrivata, quando contente erano le faccende per la stagione finita e per la stagione iniziata. Sentii
cantare un tempo la bambina giù nel giardino e mi sembrava l’ascoltasse anche l’amichetto fra il verde, suggerendo l’amore. Sentii cantare
un tempo la giovane al principio della notte, e la rividi nell’orto, che
raccoglieva le erbe buone per la tavola dell’indomani, quando lieti si
sarebbero raccolti i coetanei, uno era da lei amato, e sonore avrebbero mandate voci le cicale.
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Il cielo attraverso la poesia
er’ adornata – di tutto piacere
Adorna era delle bellezze tutte.
Quando sono lambite, ricordano le chiome femminili le onde del
mare sotto il sereno intenso; quando sono amati, ricordano gli occhi
femminili i riverberi delle gocce al sole; quando è amata, ricorda la figura femminile la statua stagliata sul promontorio della Grecia antica
e vi arrideva l’azzurro sia del cielo sia del mare.
D’amor la saluta’ imantenente
Con frasi d’amore la salutai subito.
È il saluto mormorato dopo la sorpresa dinanzi alla donna, riapparsa tra le foglie di un bel luogo. È il saluto manifestato anche nel silenzio, essendo gli sguardi capaci di esprimere l’ammirazione e con essa
l’amore. È il saluto rappresentato dal gesto della mano maschile che
sfiora il volto femminile e la promessa rivela di un incontro ancora.
e domandai s’avesse compagnia;
È la domanda vissuta nell’ansia dolce di una presenza precedente
all’incontro. Preme l’ansia perché intruso diverrebbe allora chi pone
la domanda; ma è dolce la domanda, perché sarà egli accolto tuttavia,
contando poco la presenza precedente. Svanirà essa dinanzi all’amore nuovo, non comparabile con alcuno del passato. No, non ha compagnia la donna capace di conoscere sé stessa, ovvero di rinunciare ai
mediocri tutti, di prediligere la solitudine propria al confronto dei cedimenti fatali, cause poi di disinganni, amarezze e lacrime. No, non ha
compagnia la donna migliore, se non quella dell’amore vero.
ed ella mi rispose dolcemente
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Risponde dolcemente la donna che ha saputo attendere l’amore
vero, e lo fa senza reticenza, illuminata come si trova dalla sincerità
perché certa del premio che la sua attesa ha meritato. Quanto poetico tale verso di Guido Cavalcanti! Quale racconto ispira sulla bellezza femminile, mentre riconosce lei l’uomo aspettato da sempre e vi si
dona grazie alla soavità della risposta più grata! Lei
che sola per lo bosco gìa
Lei, che sola per il bosco andava.
e disse: “Sacci, quando l’augel pia
E disse: “Sappi, quando l’uccello pigola …
È suono fra i rami, è canto al quale vorrebbe accompagnarsi la
voce femminile se lieta, se innamorata.
Quando ascolto la femminile voce innamorata? Quando risponde alla frase dell’amore e le splende il volto; quando s’intrattiene per
qualche istante con chi le è pur estraneo ma presente è alla sua felicità; quando parla al passero che le si è posato vicino, le saltella intorno, le pigola frasi a sua volta d’amore e limpido è il cielo.
allor disïa – ’l me’ cor drudo avere”
Allora desidera – il mio cuore avere l’innamorato.
È incline la donna all’amore, sapendo che la natura, alla quale lei
è più affine dell’uomo, sospinge agli sguardi, alle carezze e agli abbracci.
Dal paesaggio in Provenza era giunta la parola “drudo”. Grata scorre la fantasia ai declivi profumati verso il mare di quella terra, nella
quale l’amore regnava accanto alla cortesia. E come sorgente fra il verde vi scaturì la poesia, diramandosi alle terre che l’accoglievano, così
l’italiana penisola rifiorita.
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Il cielo attraverso la poesia
Po’ che mi disse di sua condizione
Diletta alla domanda maschile giunge la risposta femminile, la quale confessa l’attesa dell’amore, la solitudine onde si svolgevano i sogni, il vagheggiare talora fiducioso e talora incredulo, come troppo
alto si dimostrasse l’anelito.
e per lo bosco augelli audìo cantare
Ed ascolta allora il canto tra le foglie anche l’uomo, chiamato all’amore. Ascolta suoni non uditi prima, come donasse l’amore un senso
nuovo, capace di cogliere meraviglie prima nascoste e svelate poi insieme con la felicità raggiunta. L’amore dona immagini più colorate,
musiche più toccanti, aromi più intensi: andando così per il bosco la
voce dei passeri immersi nel verde.
fra me stesso diss’i’: “Or è stagione
Quale la stagione, ossia il tempo dell’amore? Può essere anche l’inverno aspro, se riscaldato dalla frase affettuosa e dal sorriso femminile che splende nel volto infreddolito. Può essere anche nella pioggia
violenta, se corrono insieme al riparo coloro che si amano ed insieme
sospirano scrollandosi il bagnato. Ora è stagione, può affermare chi
ama, ed è il tempo di sempre, se profondo è l’amore.
di questa pasturella gio’ pigliare”
Pigliare gioia dalla donna amata vuol dire goderne gli sguardi, i gesti, le carezze, le frasi e gli abbracci; vuol dire vivere nella sfera più alta
possibile, come alta è la vetta dove si dona l’aria limpida al respiro puro.
Merzè le chiesi sol che di basciare
ed abracciar, – se le fosse ’n volere
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Le domandai la grazia soltanto di baciare ed abbracciare, se fosse
nella sua volontà.
La cortesia maschile è rispetto grande del desiderio femminile, essendo soltanto nell’accettare di lei la gioia del bacio e dell’abbraccio,
non altrimenti. Si celebra così l’amore e la nobiltà insieme, non potendosi essi separare mai: il garbo, il tatto, il riguardo innalzano la riconoscenza infinita dell’uomo verso la donna, poiché non vi è gratitudine adeguata, dinanzi al dono che fa lei di sé.
Per man mi prese, d’amorosa voglia,
e disse che donato m’avea il core
Mi prese per mano, desiderando l’amore, e disse che mi aveva donato il cuore.
“Mi prese per mano”: lo fa la donna mirabilmente risoluta, quando
il rispetto timido dell’uomo non consente il gesto desiderato ed a lei
rivolto. “Mi disse il suo amore”: lo fa la donna profondamente innamorata, quando non si è fatta sentire ancora la frase dell’uomo. Viene
egli indotto a sciogliere così il sentimento, strette già la mano femminile e la mano maschile insieme.
menòmmi sott’una freschetta foglia,
là dov’i’ vidi fior’ d’ogni colore
Non pochi si aprono agli innamorati i posti vagheggiati, ed uno
può essere il fogliame fresco, dove la donna conduce, poiché là era
stata sola e là aveva sognato.
In quella penombra, dove l’amore, ossia la donna, lo ha accompagnato, l’uomo innamorato vede fiori colorati: i fiori non visti mai prima, i colori non visti mai prima.
È il fogliame fresco, che ritrovo oggi ancora, nello spiazzo verde
dove un’ospitalità pittorica ha disposto alcuni tavoli sotto la frasca, e
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Il cielo attraverso la poesia
adornati con fiori vengono mostrati alla coppia che vi si è avvicinata. È il fogliame fresco nella terrazza altrettanto fiorita, propria del paesaggio mediterraneo, dove scendono i due sguardi al mare laggiù,
mentre regna l’estate. È il fogliame fiorito di una finestra, per la quale
entra il sole e coglie il viso della donna e dell’uomo, lieti dopo gli abbracci e lieti di sorridere insieme.
e tanto vi sentìo gioia e dolzore,
che ’l die d’amore – mi parea vedere
E tanto vi sentii gioia e dolcezza, che il dio dell’amore mi pareva
di vedere.
Sono concordi la gioia e la dolcezza, come il volo per l’azzurro della fantasia, la quale soavemente va nella levità, cui aspirano gli animi
eletti. Vanno la gioia e la dolcezza di là dalle cose e dai corpi, che tuttavia le indicano, così le foglie, che sono cose esse stesse e sono anche la levità per l’aria che le smuove e ne trae il fresco aroma al sereno.
Attraverso la gioia e la dolcezza, come si porge oggi il dio dell’amore? Con quali travestimenti egli si presenta? È il maitre che accoglie la coppia da lui ammirata, sapendone l’angolo prediletto, aprendo
il vino prescelto, offrendo il cibo preferito, tanto da far intendere che
le foglie stesse del luogo da lui diretto aspettassero di rivedere l’uomo e la donna innamorati. È il dio dell’amore, il contadino che invita al riposo la coppia andata per i sentieri della montagna ed è giunta al casolare dove chiama l’ombra sotto la frasca. È il bambino che
interrompe il gioco nella spiaggia al tramonto, si avvicina all’uomo e
alla donna, domanda loro che cosa vi sia di là dall’orizzonte ultimo.
Risponde l’uomo che vi è l’azzurro. Risponde la donna che vi è l’amore. Ringrazia allora il bambino e guarda lontano.
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La ghirlanda
Se ne ornavano le figure femminili, celebrando la primavera con fiori
e foglie intorno. Era il risveglio della natura colorata e profumata; era
il risveglio dell’amore, quando usciva la donna per via e sorrideva alla
stagione ritornata. Sorrideva anche il sereno, invitando ai prati della
musica, dei canti e delle danze.
Il poeta scopriva l’affinità tra i petali, le foglie e la bellezza femminile, così Dante nella sua ballata:
Per una ghirlandetta
ch’io vidi, mi farà
sospirare ogni fiore
Il vedere la donna adorna muove il sospiro, ampio come nel prato e profondo come nel bosco.
Attraverso le foglie ed i fiori ricordo una valle folta di verde, dove
incontrai, tanto tempo addietro, una compagnia di giovani. Le ragazze recavano nelle mani foglie e fiori ed immaginai il ritorno loro alle
ville, quando si sarebbero preparate alla musica della sera, splendendo la vegetazione raccolta nei vasi dorati. Rivedo colei che mi si accompagnava in un’altra sera ed era il colore rosato della luna lo stesso della sua figura felice, ed era del fiore che raccolsi per lei. Rivedo
il vaso di fiori sulla balaustra della terrazza assolata e mi veniva incontro colei che amava baciare un petalo prima dell’abbraccio durante l’ora di giugno.
Io vidi a voi, donna, portare
ghirlandetta di fior gentile
Dante avrà sorpreso colei che portava la ghirlanda in un luogo di
Firenze con il sole sopra le pietre; o per il declivio di un colle e splendida era la primavera; o in un giardino intenso di verde. E se non la
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Il cielo attraverso la poesia
ghirlanda, reca un fiore ancora la donna gentile, la quale va per la via
e sorride a chi la saluta. È la giovane, fiore nei capelli; è l’altra giovane, fiore nella mano; è l’altra giovane ancora, fiore nell’abito d’estate.
Sofferma la donna il passo leggero dinanzi al banco dei fiori, accettando felice il fiore che l’uomo amato le porge.
e sovr’a lei vidi volare
un angiolel d’amore umile
E sopra di lei vidi volare un piccolo, dolce angelo d’amore.
È forse il dolce angelo d’amore la rondine che si avvicina volando
al viso femminile e sfreccia via; è forse l’allodola che veleggia in alto
e sembra chiamare là nell’azzurro la bellezza femminile, la quale vi si
volge; è forse il petalo che plana sulla donna, la quale lo trattiene per
un attimo e lo rilascia al sereno, dove lei stessa si sente invitata.
e ’n suo cantar sottile
dicea: “Chi mi vedrà
lauderà ’l mio signore”
E nel suo canto delicato diceva: “Chi mi vedrà loderà il mio signore”, ossia l’amore.
Quali suoni, ovvero quale cantare delicato si fa udire intorno alla
bellezza femminile? È lo stormire delle foglie, se respira lei le fronde
di un luogo eletto per l’ora della confidenza dolce; è la canzone nella sera d’estate, quando muove lei alla danza e le sorridono le aperte finestre ampie; è la frase poetica che lei legge e ridice all’uomo che
ama. E loderà lui l’amore, il quale reca felicità con i suoni melodici
della vita.
Se io sarò là dove sia
Fioretta mia bella a sentire
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Se io sarò la dove Fioretta, la mia donna bella, ad ascoltare …
Fioretta è forse un senhal, ovvero un’immagine nella quale si cela
soavemente colei che ha data visione vera al poeta. Egli auspica di
trovarsi nel luogo dove sia la donna ammirata ad udire quanto le vorrà egli confessare e sarà amore sempre.
L’uomo innamorato rivela alla donna cose non dette ad altri: immagini lontane, desideri indefiniti, pensieri riposti, le sorgenti ovvero del sentimento da lui vissuto dinanzi a lei, che gli pone attenzione sognante.
allor dirò la donna mia
che port’in testa i miei sospire
Dirò allora della mia donna, la quale porta nel capo tra i fiori e le
foglie della ghirlanda, i miei sospiri.
Sono i desideri che la donna presagisce con facilità amabile e lieta
vi consente quando ama. E come esprimeva la ghirlanda di un tempo
intorno al capo la primavera e la gioia, serba lei nel pensiero il sospirare che le si rivolge, ed è omaggio, è ossequio, è promessa di felicità. Echi delle confidenze ascoltate sono i sospiri dell’uomo, svelati tra
altri fiori ed altre foglie, oltre a quelle della ghirlanda.
Ma per crescer disire
mïa donna verrà
coronata da Amore
Ma per accrescere il desiderio, la mia donna verrà incoronata
dall’amore.
L’amore incorona la donna quando lei scopre nella figura maschile, che le si è avvicinata, una dolcezza vagheggiata da sempre, un rispetto ambito da sempre, una sentimento sognato da sempre. E vi risponde, suggellando il legame più profondo e raggiante dato in sorte
ai viventi. Come la ghirlanda di un tempo, così l’armonia venutasi a
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Il cielo attraverso la poesia
creare: foglie e fiori nella bella giornate, foglie e fiori nell’animo di entrambi, la donna che vi s’incorona, l’uomo che vi si eleva.
Le parolette mie novelle,
che di fiori fatto han ballata
Le mie parole fresche, le quali hanno creato una ballata.
Sempre fresche, ossia semplici, dovrebbero risuonare le parole e
non discostarsi dall’uso delle ore e dei giorni; ma nuovi sempre dovrebbero essere i rimandi agli aspetti delle ore e dei giorni, che non
si ripetono mai uguali.
Nella sua ballata, Dante ha scelto il motivo dei fiori e nemmeno
essi germogliano uguali l’uno all’altro, alla luce della varietà, onde si
lascia contemplare e narrare la vita.
Vedo due fiori, incantevoli entrambi, uniti nel medesimo regno vegetale. Simili sono nei colori e nel profumo, ma si erge l’uno verso il
cielo, si china l’altro verso la zolla; si schiude l’uno, si raccoglie l’altro.
Penso ad una figura, guardando l’uno, penso ad un’altra figura, guardando l’altro. Ed anche il medesimo fiore non mi appare mai uguale,
ma vario a seconda del mio sguardo ora lieto, ora pensoso, ora nostalgico, ora desideroso.
Sono guardati sempre per la prima volta un fiore, una figura, una
cosa, un paesaggio, ed è detta per la prima volta sempre una parola:
novelle si porgono allora le parole poetiche e le immagini che le fanno sciogliere, così la lirica, così la ballata.
[…]
per leggiadria …
Mi soffermo sulla parola leggiadria e mi torna alla memoria colei
che aveva messo orecchini rifulgenti nella sera, riverberando essi i cristalli, le posate, le stelle; o mi torna alla memoria a riveder gli occhi
leggiadri, onde scrive Petrarca (XLVII), suggerendomi il ricordo degli
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occhi femminili che s’inumidirono commossi perché una frase era stata mormorata e un destino felice aveva avuto principio.
[…]
però siate pregata,
qual uomo la canterà,
che li facciate onore
Perciò vi prego, chiunque la canterà, di fare alla ballata onore.
È consegna, è affidamento alla donna, affinché ascolti, legga, si
soffermi sui versi, onorando così l’opera.
Porgere il foglio scritto alla mano gentile che lo accoglie e agli occhi lo rimette, per dire poi quanto è accaduto nell’animo, significa innalzare la poesia alla sorte migliore. È tutto il pubblico eletto la donna amata.
È raggiunto lo scopo magnifico della poesia, quando piace alla
donna amata non spiace a chi ha scritto. Che bella giornata è quella
sempre del regalo poetico!
Solitudine
Solo et pensoso i più deserti campi
vo mesurando a passi tardi et lenti
È la lirica di Francesco Petrarca diletta a colui il quale ama la solitudine, vedendo in sé stesso i paesaggi ampi degli anni, le cose rilucenti dei giorni, le figure mirabili degli istanti.
Cerca la solitudine colui il quale dedica gli sguardi alla siepe e di
là da essa; alla fragranza dell’erba dopo la pioggia; alla nube che trascorre e chiama una memoria lontana; alla canzone sentita nella sera
e un volto femminile riappare al ricordo. Va il solitario per i luoghi de-
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Il cielo attraverso la poesia
serti e pensa, evoca, vagheggia. Possono aprirsi i luoghi deserti anche
nella città affollata, purché abbia scelto l’isolarsi, lui che va stimando
il proprio andare, fecondo d’immagini.
Egli non ha fretta, perché meraviglioso è il piccolo sasso che il passo lento sfiora, e sembra sia stato aspettato; perché meravigliosa è la
foglia che scende da un balcone e dice la foresta dai mille riflessi; perché meravigliosa è colei che pur sconosciuta ringrazia per il gesto cortese e sembra domandare un ritrovarsi.
et gli occhi porto per fuggire intenti
Necessario è fuggire da ogni banalità e volgarità, così la voce stridula, così il rumore greve, così il fatto offensivo. Feconda è la fuga da
tutti quanti i banali ed i volgari; e vanno gli sguardi fuggendo là dove
si offre un colore, si regala un suono, si diffonde un aroma.
ove vestigio human la rena stampi
Andare per la spiaggia, dove non vi sia orma altrui, ma soltanto le
linee lasciate dalle onde; là dove la musica si sente del mare; là dove
saluta il gabbiano altrettanto solitario; là occorre muovere il passo non
rapido, intento lo sguardo a tanta bellezza.
Altro schermo non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti
Altro riparo non trova il poeta, che lo salvi dall’accorgersi palese
degli altri, i quali scrutano, indagano, giudicano. È meta importante
nella vita tralasciare i processi, onde gli altri spiano, controllano, condannano. È meta importante godere di sé stessi e migliorarsi senza infliggersi pene assurde perché sterili. È meta importante.
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[…]
sì ch’io mi credo omai che monti et piagge
et fiumi et selve sappian di che tempre
sia la mia vita ch’è celata altrui
Va il solitario per le alture accoglienti, dove sentieri si fanno camminare, perché molti vi sono i fiori e le foglie. E va per luoghi estesi, dove ampia è la vista. Giunge accanto a fiumi, dove scorre il desiderio alla volta del mare. S’inoltra nei boschi, dove molti sono le voci
del verde. Sanno tutti questi luoghi di quale natura sia il poeta, intento ai passi tardi et lenti. Ma non possono saperlo gli altri, consacratisi a cose diverse.
Leggendo i poeti, tralascio le loro pene d’amore. Attingo, invece,
quanto seppero scrivere sulla felicità, così Petrarca sotto il bel titolo
De vita solitaria.
Surgit solitarius … “Si leva l’uomo solitario e calmo, felice, ricreatosi da un riposo moderato …”. E Petrarca narra il canto che il solitario ascolta, e mirum dictu, “mirabile a dirsi”, la nostalgia e la gioia che
egli sente. Guarda il cielo e le stelle, si regala letture grate. Vive insieme con la libertà la giornata serena, venuta dall’azzurro alto.
Italian literature flourished with unequal and uninterrupted brilliancy from
the thirteenth century on, as Ugo Foscolo has written. The voice of the first poets of the past came from heaven and from love: heaven to be seen and love to
be lived may be considered as the poetic prelude by Dante and Petrarca, the
two founders of Italian literature.
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Le sfide della libertà
Padre Laurent Mazas
Il tema della libertà è fondamentale per capire il senso profondo
dell’essere umano. Oggi, l’artista rivendica il suo diritto alla libertà
assoluta nella creazione, fino a provocare con la blasfemia se lo giudica necessario. A questo proposito, pensiamo, per esempio, al “Piss
Christ” di Andrès Serrano o al “Golgota Picnic” di Rodrigo Garcia.
L’economista della “City”, a Londra, impone la libertà come principio
politico supremo insieme alla responsabilità individuale, esigendo la
limitazione del potere del principe. Lo scienziato è convinto che l’innovazione nasca dalla libertà e rifiuta una valutazione delle sue ricerche da parte dello Stato o della religione.
Sono tante, oggi, “Le sfide della liberta”! Di fronte a un tema cosi
ampio, utilizzerò la tecnica dell’impressionismo, alla stregua di Monet
o Renoir, cercando, tramite dei piccoli tratti di colore, di suggerire riflessioni ulteriori. Come responsabile del “Cortile dei Gentili” cercherò
di mettere in contrapposizione il pensiero dell’ateismo moderno con
l’insegnamento della Bibbia. Sarebbe necessario molto più di un semplice intervento per sviluppare un pensiero articolato adatto a illuminare situazioni complesse a livello economico, politico e sociale, in un
mondo globalizzato eppure ricco di sfaccettature. Le sfide della libertà
non sono le stesse per chi vive oggi in Siria o sui “barconi della morte”
di Lampedusa, oppure nel cuore della “City” a Londra.
Bollettino della Società Letteraria, 2012, 103-112
Bollettino
della
Società Letteraria
Il “Cortile dei Gentili” è questa iniziativa del Pontificio Consiglio
della Cultura che ho cercato di sviluppare sotto la guida del Cardinale
Ravasi, accogliendo un suggerimento di Benedetto XVI espresso durante un discorso alla Curia Romana. Diceva il Papa:
«Considero importante il fatto che anche le persone che si ritengono agnostiche o atee, devono stare a cuore a noi come credenti. Quando parliamo di una nuova evangelizzazione, queste persone forse si
spaventano. Non vogliono vedere se stesse come oggetto di missione,
né rinunciare alla loro libertà di pensiero e di volontà. Ma la questione
circa Dio rimane tuttavia presente pure per loro, anche se non possono credere al carattere concreto della sua attenzione per noi»1.
Le sfide della libertà
stenza di Dio e come la religione sia stata definita alienazione dell’uomo. Ritengo sufficiente richiamare i due estremi dell’ateismo moderno, Feuerbach e Sartre, che nell’arco di un secolo, confondendo i concetti di autonomia e libertà, sono giunti al rigetto di Dio e dell’altro.
In un secondo passaggio faremo riferimento alla Bibbia, “il grande
Codice della nostra cultura Occidentale”, attingendo alcuni elementi
fondamentali che ci aiutano a capire la vera sfida della libertà che è,
non la ricerca dell’autonomia e il rifiuto dell’altro, ma la liberazione
interiore che ci porta alla felicità eterna.
1. Dio come negazione della liberta dell’uomo.
Da questo discorso è nata questa sorprendente iniziativa di dialogo,
di scambi e di azioni comuni fra credenti e non credenti. L’ambizione
è di contribuire a far sì che i grandi interrogativi dell’esistenza umana,
soprattutto quelli di carattere spirituale, siano presi in considerazione
e dibattuti seriamente nelle nostre società grazie a una riflessione razionale comune. Papa Ratzinger poneva questo dialogo tra credenti e
non credenti come complementare al dialogo interreligioso2, e lo caratterizzava attraverso la nozione di “ricerca”. Ricordo il suo magnifico
discorso a Parigi, al Collège des Bernardins, dove sviluppò l’idea che
il monachesimo occidentale, e con esso la cultura occidentale, nacque dalla “ricerca di Dio”. Ed esortava: «Dobbiamo cercare di tenere
desta tale ricerca; dobbiamo preoccuparci che l’uomo non accantoni
la questione su Dio come questione essenziale della sua esistenza.
Preoccuparci perché egli accetti tale questione e la nostalgia che in
essa si nasconde».
Proprio in questo spirito di ricerca, il “Cortile” invita credenti e non
credenti a riflettere sulle grandi sfide della cultura odierna, sulle ragioni profonde delle tante crisi che producono una situazione molto preoccupante, denunciata con forza e convinzione da Papa Francesco.
Attraverso un breve excursus sulla filosofia moderna, vorrei, ora,
illustrare il concetto di “libertà” utilizzato dai filosofi per negare l’esi104
Feuerbach (1804-1872) rappresenta un momento chiave nella filosofia
moderna proponendo la sua teoria dell’alienazione: Se siamo creati
da Dio, allora non siamo liberi e Dio appare come l’alienazione fondamentale dell’uomo, una falsa proiezione degli attributi umani in
un soggetto che non esiste. L’uomo, cioè, invece di riflettere su sé
stesso, inventa un Dio proiettando in esso le caratteristiche migliori
dell’umanità, tra le quali svetta la libertà. Attraverso questa dinamica
“religiosa”, inconsapevolmente, il soggetto umano si aliena, anche se
la religione può essere considerata vera in quanto è una prima forma
di autocoscienza dell’uomo, pur essendo, in realtà, falsa.
Nella sua opera critica “L’essenza del cristianesimo”, Feuerbach intende esporre una nuova filosofia che nasce dalla religione: «Non sono
io ma la religione che adora l’uomo». Perché il filosofo deve partire
dalla religione? Perché essa rivela i tesori nascosti dell’uomo. E cos’è
l’uomo? È la sua coscienza, ma egli si comporta come un bambino che
vede al di fuori di sé la propria essenza. Perciò si deve “convertire”, e
considerare che quello che si era contemplato in Dio sarà conosciuto
ormai come umano.
Per Feuerbach, non c’è nessuna differenza tra i predicati dell’essere
umano e quelli dell’essere divino, tra l’essere di Dio e l’essere dell’uo105
Bollettino
della
Società Letteraria
mo. Se “Dio è morto”, allora “l’uomo è Dio”; sarà l’uomo a essere per
se stesso l’Essere supremo. La vera filosofia «costringe Dio a trasformarsi in un uomo».
Un secolo dopo, Sartre (1905-1980) sviluppa un pensiero sul tema
della libertà nel suo famoso “L’essere e il nulla”. Per il filosofo francese, il pensiero teologico distoglie l’uomo dalla propria libertà perché
trasforma la sua esistenza in destino. “Essere” per l’uomo significa,
secondo Sartre, “essere libero”, causa sui. E ciò implica il rifiuto di
Dio. L’ateismo di Sartre si contrappone alla Provvidenza divina, la
quale priverebbe l’uomo della sua libertà deresponsabilizzandolo.
Sartre confessa un ateismo pratico, etico, “una verità concreta” che
si conquista lentamente. Dimostra cosi che il suo ateismo è prima di
tutto – lo diceva Francis Jeanson: «un’ossessione degli altri portata ad
un assoluto». Infatti, vede nell’altro un limite alla sua liberta: «L’enfer,
c’est les autres» (l’inferno sono gli altri) scrive nel famoso Huit clos.
«Dio mi vede; cosa sono per Lui? La risposta, lentamente conquistata è: nulla. Dio non mi conosce, non sono nulla ai suoi occhi. Egli è
il vuoto sopra la mia testa, l’assenza, il silenzio; ci sono solo io. Infatti,
se Dio esiste, l’uomo non è niente. Dio e l’uomo sono come due estremi che si escludono. Perché essere, per l’uomo, significa essere libero».
«Esistere per l’uomo vuol dire essere libero. Se dunque dipende da
un maestro, da un creatore, non è nessuno. Per affermare se stesso
deve rifiutare Dio». Ecco perché l’uomo deve uccidere Dio: per essere
totalmente responsabile di sé e della propria esistenza. Si impone questa esigenza di restituire la libertà originale all’uomo. Siamo di fronte
all’affermazione del primato assoluto della libertà.
Scopriamo, nel pensiero di Sartre, una concezione della libertà
totalmente opposta a quella di Cartesio per il quale, invece, la libertà
è come il sigillo di Dio nell’intimo della persona, la traccia della sua
presenza segreta nella più profonda intimità dell’uomo, la prova della
sua esistenza. Per Sartre invece la libertà, quando è consapevolezza di
sé, esige il rifiuto di tutto ciò che non ha a che fare con essa, e dunque
106
Le sfide della libertà
la libertà rigetta gli altri e l’Altro. Ponendo un limite alla mia libertà,
gli altri e l’Altro sono per me “l’inferno”. Infatti, per Cartesio la libertà
rappresenta l’infinito in una creatura limitata, per Sartre questo infinito
esige l’assoluta autonomia e dunque l’esclusione degli altri e di Dio.
2. La liberta nell’Antico Testamento
Il tema della libertà è una delle caratteristiche principali dell’antropologia biblica. All’inizio della Bibbia, in Genesi (2-3) troviamo l’uomo
libero di fronte all’albero della conoscenza del bene e del male, pronto a stendere la mano per prendere il frutto. Può decidere di farlo da
solo, manifestando la volontà di costruire autonomamente la legge
morale; oppure potrebbe accogliere in dono da Dio la legge-guida
per la sua esistenza, riconoscendo la qualità trascendente della morale
stessa: «Io pongo davanti a te la vita e il bene, la morte e il male… la
benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita» (30, 15.19). Tutti
conosciamo la storia: l’uomo, con la disobbedienza, si ritrova nudo,
impaurito dietro una foglia di fico, e poi cacciato dal paradiso terrestre.
Nell’Antico Testamento, dall’Esodo in poi, la questione della libertà
viene trattata fondamentalmente in rapporto all’emancipazione dalla
schiavitù. L’Esodo narra l’evento della liberazione dalla schiavitù d’Egitto, uno dei momenti salienti della vita del popolo d’Israele. Questa esperienza fondamentale di Israele è l’evento fondante di tutta la
storia della salvezza, la chiave di lettura dell’esperienza di fede degli
Ebrei. Si può notare che il testo non utilizza il termine “liberazione”:
YHWH è il “salvatore” più che il “liberatore”.
Certo, facendo uscire il suo popolo dalla terra della schiavitù, Mosè
spezza il vincolo sociale della schiavitù. Ma l’“esodo” dall’oppressione
faraonica diviene il cuore stesso della fede biblica tant’è vero che la
frase «il Signore ci ha fatto uscire dall’Egitto» viene vista come la confessione di fede originaria di Israele. In realtà, la liberazione d’Israele
107
Bollettino
della
Società Letteraria
non è un’emancipazione totale: è piuttosto un passaggio di proprietà
dall’essere schiavi del Faraone all’essere schiavi di Dio. Gli Ebrei godono della libertà servendo Dio. Osserviamo questo movimento: il
Grande Esodo degli schiavi dall’Egitto finisce sul Monte Sinai, dove
riceveranno la Torah, cioè una legge sotto forma di alleanza con
YHWH. Se l’Egitto rappresenta la schiavitù, il Monte Sinai simboleggia
la libertà.
Per Israele, la liberazione sta nella legge. La Torah è considerata un
dono di Dio agli schiavi appena liberati. Offre una cornice per la loro
libertà, permettendole di perdurare nel tempo, anzi, di non essere più
soggetta ad altre forme di schiavitù deleterie per l’uomo.
Per i figli di Israele tutti gli eventi di salvezza e di libertà divengono
chiave interpretativa della loro vita, come se fossero anch’essi usciti
dall’Egitto. Il “memoriale” della Pasqua è celebrato per riattualizzare la
presenza e l’effetto liberatorio dell’evento iniziale, l’intervento di Dio
liberatore che assicura il dono supremo della libertà.
Una riflessione sulla libertà nell’Antico Testamento non può prescindere dal menzionare la figura di Abramo, il “padre dei credenti”.
Se la sua storia preannuncia quella di Cristo, è, contemporaneamente,
quella di un padre, di uno sposo, di un pellegrino che si scontra con
le contingenze della vita.
La figura d’Abramo mette in luce la realizzazione della libertà
nell’obbedienza. Ci fa capire che la relazione di Dio con l’uomo è
basata sulla fiducia. Dio è un “essere di parola”, e stabilisce una relazione con Abramo a partire da una triplice promessa: una discendenza
numerosa; la benedizione, tramite lui, di tutti i popoli della Terra; la
promessa di un territorio per la sua discendenza. La fede di Abramo è
radicata nella speranza, caratterizzata da una fiducia tale che lo rende
capace d’obbedire ad una richiesta terribile come è il sacrificio del suo
unico figlio. L’obbedienza, l’accettazione di una volontà più grande
della sua lo rende libero. La fede di Abramo è legata alla speranza. Dio
comincia con lui una storia che lo supera e va oltre la sua esistenza.
108
Le sfide della libertà
3. La liberta nei Vangeli.
Nella visione cristiana, il limite della creatura viene assunto da Dio
nel mistero dell’Incarnazione: «Il Verbo si fece carne». Nella carne del
Figlio unigenito, Dio “conosce” il dolore fisico e le lacrime, sperimenta l’odio e la solitudine e persino il silenzio di suo Padre. Più ancora,
condivide l’esperienza della morte dell’uomo. Così, Dio affronta il
dramma della libertà – pensiamo alle tentazioni subite da Gesù da
parte del diavolo. Tuttavia Cristo non cessa di essere Dio ed è la ragione per cui egli depone nella nostra condizione umana un seme di
luce e di vita che sono sorgente e principio della nostra vita liberata
e gloriosa.
La parola eleutheria (libertà) è totalmente assente dai Vangeli Sinottici, seppur il suo concetto sia sempre presente. Difatti, Gesù libera
gli uomini, sciogliendoli da qualunque vincolo li tenesse prigionieri,
soprattutto le catene del peccato. Infatti, un po’ meno della metà dei
racconti delle azioni di Gesù riguardano miracoli, guarigioni da malattie e liberazione degli spiriti impuri.
Perché questi gesti sono una Buona Novella? Perché per gli Ebrei i
peccati sono “debiti”. La guarigione operata da Gesù è una liberazione
concessa perché cancella i debiti del peccato. Il risultato è il perdono
dei peccati. Dunque il Vangelo non è solo proclamato da Gesù, ma
è realizzato. Ogni guarigione è, per chi viene guarito, un esodo, un
passaggio dal peccato alla legge dell’amore, del perdono, della misericordia.
Nel Vangelo di San Giovanni, il tema della libertà assume un ruolo
centrale: «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (8,32). Non si
tratta di libertà politica, ma di Gesù stesso: Lui è la verità (14,6), porta
la verità (1,17), testimonia la verità (18,37), proclama la verità che ha
udito dal Padre (8, 45-46). Essendo il Figlio, è una cosa sola col Padre,
il quale è pieno di verità (1,14), la sua parola è verità (17,17) e manda
lo Spirito di verità (14,17).
109
Bollettino
della
Società Letteraria
Per san Giovanni, Gesù stesso e la Rivelazione che Egli porta sono
ciò che libera e consentono a colui che è liberato di agire secondo la
verità e di pregare in spirito e verità. Il liberato appartiene alla verità
e in essa è consacrato: «Se il Figlio vi libererà, sarete veramente liberi»
(8,36).
Ovviamente, l’esperienza della Croce è centrale nella teologia del
“discepolo amato”. La Crocifissione rappresenta il vero Sinai, l’espressione più alta dell’amore di Dio per gli uomini. Vittima di espiazione
il Figlio ottiene dal Padre il perdono dei peccati del mondo. Grande Liberatore, il suo atto finale è l’unica e vera emancipazione degli
schiavi, i suoi discepoli. Forse non è necessario ribadire che anche
davanti al male più spaventoso, il suo rispetto delle scelte libere degli
uomini è assoluto. Nella passione Cristo non si serve della forza o di
un prodigio, non vuole eliminare la libertà di scelta perché aspetta
dal credente un’adesione del cuore, senza costrizioni. Se l’atto di liberazione sulla Croce si opera nel silenzio assoluto, nel più profondo
della sua relazione con il Padre e lo Spirito, anche l’accettazione di
questa liberazione richiede il “segreto”, la libera adesione. Quello che
necessita è il rispetto assoluto della coscienza come legge primaria,
memore del principio dell’obiezione di coscienza.
4. San Paolo teologo della libertà.
Bisogna ricordare che Paolo conosce le controversie ellenistiche sulla libertà e le adatta per inserirle nella sua proclamazione della fede
in Cristo. Sarà proprio lui a insistere sul rapporto tra legge e libertà
e a dichiarare il Monte Sinai «monte della schiavitù». Se secondo il
Nuovo Testamento gli Ebrei liberati dalla schiavitù sono condotti sul
Monte Sinai per ricevere la Torah, perché la legge fornisce il quadro
dell’esercizio della libertà, Paolo provoca una rottura radicale con la
tradizione insegnando che la vera libertà portata da Cristo presuppone
una liberazione dalla legge.
110
Le sfide della libertà
Per Paolo libertà e amore vanno di pari passo. La libertà vera è
quella guidata dallo Spirito. Scrive Paolo nella Lettera ai Galati (5,1):
«Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non
lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù». Paolo si riferisce
alla legge antica, che imponeva la circoncisione e l’osservanza di alcuni aspetti della legge, privando i discepoli di Gesù della libertà donata
loro dal Signore: «Ecco, io Paolo vi dico: se vi fate circoncidere, Cristo
non vi gioverà a nulla», cioè questo precetto vi farà piombare nuovamente nella schiavitù. Proclamare Gesù Crocifisso significa molto di
più della semplice osservanza di una legge, si tratta di una rivoluzione, della liberazione da ogni forma di schiavitù.
Questa dottrina paolina sulla libertà non deve essere interpretata come licenza morale: Paolo è un cristiano radicale, ma non è un
anarchico né un immorale. Per lui, la risposta dell’uomo a Dio che
lo libera obbliga al rispetto di quello che è dovuto a Dio. In questo
senso, anche per Paolo libertà significa cambiamento di proprietà: i
credenti liberati dal peccato e dalla morte sono insieme «schiavi di Dio
e di Cristo» e, così, schiavi della giustizia. Non c’è libertà se non ci si
inserisce in una condotta giusta e, dunque, morale.
Per concludere questo breve percorso biblico sulle “Sfide della
libertà”, vorrei sottolineare un’ultima caratteristica della libertà contenuta negli scritti dell’Apostolo dei Gentili. Paolo sostiene che la libertà
concede la “parresia” ossia la “franchezza del parlare”. Anche nell’antica letteratura cristiana, il tema della “parresia” ci porta ai racconti
degli Atti dei martiri. Il martire dimostra “parresia” nei confronti dei
persecutori, ma anche “fiducia totale” (cf Abramo) nei confronti di
Dio. Anche il martire vivente, cioè il confessore, gode già di questa
“parresia”, in cui è radicata la possibilità di intercedere per gli altri.
La “franchezza del parlare” ci riporta a Papa Francesco. Non che
i suoi predecessori non abbiano avuto il coraggio di parlare con franchezza! Ma osserviamo che il modo di esprimersi e di agire di Francesco, con franchezza e sincerità, apre una nuova stagione nel rapporto
111
Bollettino
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Società Letteraria
della Chiesa con il mondo odierno. Il mondo, oggi, ha più che mai
bisogno di uomini e donne che siano testimoni della “parresia”, della
libertà nella quale l’uomo di fede e di speranza affronta le sfide odierne nel cuore di una congerie culturale che rischia di smarrire il senso
della vera libertà.
Il paesaggio e il sacro
Raffaela Gabriella Rizzo
Note
Benedetto XVI, Discorso di Natale alla Curia Romana, 21 dicembre 2013.
“Al dialogo con le religioni deve oggi aggiungersi soprattutto il dialogo con
coloro per i quali la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto e che, tuttavia, non vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio,
ma avvicinarlo almeno come Sconosciuto”, Ibid.
1
2
Introduzione
The challenges of freedom are many today, but for those who are looking for
it on the “death boats” of Lampedusa they are not the same as for those working in the heart of the City of London. In the spirit of the Courtyard of the Gentiles, atheism and the Bible are brought to meet. Modern philosophy, inspired
by Feuerbach’s theory of alienation, has raised the absolute primacy of liberty
to deny the existence of God, and gone even as far as Sartre’s scandalous affirmation, “Hell is others”. All of biblical anthropology is marked by the theme
of liberty. Here some of the challenges of liberty in the Old Testament are highlighted with the themes of liberation from slavery (Exodus), the law as guarantor of liberty (Moses) and the freedom of obedience (Abraham). In the New
Testament, liberty is placed before the theme of sin and temptation. In St John,
it is the Truth that sets us free. Jesus Christ, God Incarnate, is the great Liberator: his Crucifixion is the true Sinai. With St Paul, there is a radical breakdown: true liberty brought by Christ presupposes a liberation from the law.
Paesaggio e sacro: esiste un legame tra questi due concetti? Una liaison decodificabile attraverso le categorie concettuali/tassonomie della
Geografia? Prendendo in esame la loro definizione:
· il sostantivo sacro viene “connesso all’esperienza di una realtà totalmente diversa, rispetto alla quale l’uomo si sente radicalmente inferiore, subendone l’azione e restandone atterrito e insieme affascinato”1 e al contempo “indica sia ciò che è stato investito da un evento
superiore – che lo sottrae dalla sua precedente identità oggettiva –
sia l’evento superiore stesso”2.
· Il vocabolo paesaggio rientra in una categoria concettuale che ha
dato ampio spazio ad un effervescente dibattito tra gli studiosi delle discipline più diverse3 prima di raggiungerne una univoca quale quella della Convenzione Europea del Paesaggio che tutt’oggi è,
comunque, ancora assai discussa4. Si riportano qui alcune definizioni di paesaggio, tra le molteplici esistenti, al solo fine di introdurre
l’argomento:
· “determinata parte di territorio, così come percepito dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e/o umani
e dalle loro interrelazioni” (Convenzione Europea del Paesaggio, art.
1), definizione rimarcata anche nel Codice dei Beni culturali e del pa-
112
Bollettino della Società Letteraria, 2012, 113-126
Bollettino
della
Società Letteraria
esaggio5 “territorio espressivo di identità, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali, umani e dalle loro interrelazioni” (art. 31);
· “teatro-mondo della nostra recitazione”6 con la consapevolezza
che, al tempo stesso, “vediamo il paesaggio che desideriamo vedere, che non disturba la nostra idea di paesaggio (ciò ovviamente in
modo diverso passando dall’insider all’outsider)”7;
· “il risultato visibile di un’alleanza tra uomo e terra, derivante a
sua volta da una simbolizzazione della collocazione dell’uomo nel
cosmo”8;
· “prodotto dell’interazione tra esigenze concrete e spirituali che si
snodano tra passato, presente e futuro”9;
Oggi, dopo aver superato varie fasi di concettualizzazione10, il paesaggio sottende uno stretto legame di interrelazioni uomo-natura. Ciò
implica che nel difficile tentativo di accostarlo all’esperienza del sacro
non si può prescindere dal tener presente come il sacro nel paesaggio
non consideri solo il paesaggio degli “ambienti naturali” (ovvero non
antropizzati), ma quel paesaggio che ha in sé una connotazione di sacro
che gli deriva dalla relazione, sacra per l’appunto, che all’uomo un dato
territorio promana. Ecco allora che in questo scritto, sulla scia dell’ultimo insegnamento di Adalberto Vallega, ci si propone di analizzare nel
rapporto paesaggio-sacro lo schema interpretativo relazionale “paesaggio/segno11/significato”12 alla luce di diversi contesti territoriali legati da
un lato alla morfologia del paesaggio dall’altro alla cultura dei luoghi.
Il paesaggio e il sacro
Le forme che sottendono un paesaggio rappresentano il punto di partenza per la sua genesi, nonché per il suo successivo sviluppo/cambiamento14. Si tratta di un punto di partenza oggettivo in stretta relazione con i lineamenti dell’ecumene e quindi non legato alla sola
percezione che il singolo individuo può avere di un dato paesaggio15.
Si pensi, a titolo di esempio, agli altipiani carsici dell’Italia nord-orientale16, alle colline moreniche del Lago di Garda17, ai caratteristici terreni scuri dei basalti colonnari della Val d’Alpone nel veronese orientale18, agli isolotti e barene che affiorano nella laguna veneziana19…
Siti tutti con evidenti, particolari caratteristiche morfologiche che spesso lasciano spazio – in una società come quella odierna basata sulla stridente contrapposizione desacralizzazione dei territori20/ricerca
di luoghi sacri per ritrovare la propria spiritualità – a manifestazioni
del sacro connesse (in modo non sempre consapevole) alla bellezza
di alcuni tratti morfologici del territorio al quale appartengono. Queste “tracce morfologiche”, inglobate nei paesaggi, da un lato li rendono qualcosa di unico e dall’altro consentono all’osservatore (outsider e/o insider rispetto allo scenario paesaggistico21) di sperimentare i
luoghi come “contenitori” di ierofanie22 ovvero di concrete manifestazioni del sacro non dipendenti da una qualche forma di devozione religiosa. Ecco che qui di seguito si espliciteranno alcune riflessioni sul
sacro nel paesaggio prendendo come spunto due particolari condizioni con un forte connotato simbolico: il rilievo e l’acqua; scelta dovuta
all’impossibilità di soffermarsi sugli innumerevoli paesaggi che, grazie
ad una data morfologia di un preciso territorio, consentono di riflettere sul tema paesaggio e sacro.
1. Il sacro e la (geo)morfologia del paesaggio
L’esperienza umana del sacro nel paesaggio è legata a più fattori tra i
quali due principali: il tempo (o meglio l’azione del tempo sul paesaggio) e la morfologia (geo-morfologia). Quest’ultima – associata all’entità temporale – è alla base dell’evolversi di un paesaggio, della sua
personalità e di quella dei luoghi che lo caratterizzano13.
114
1.1 Il rilievo e il sacro
L’esperienza dell’uomo con il sacro ha nell’incontro con “l’alto” un canale privilegiato attraverso il quale raggiungere il ganz Anderes23 (totalmente Altro). L’altitudine consente di allentare la distanza tra terra e cielo, tra ciò che è finito e ciò che non ha limiti, tra la materialità
dell’uomo e ciò che lo trascende24. I luoghi sacri (che spesso, ma non
115
Bollettino
della
Società Letteraria
necessariamente, coincidono con luoghi di culto) si riscontrano in territori di non sempre facile accesso, ma con un forte richiamo e fascino verso una realtà diversa da quella umana. Nel salire verso la cima
di una vetta, ad esempio, si anela – non sempre consapevolmente – a
qualcosa d’Altro25 che, una volta raggiunta la meta, sembra poter creare una porta per entrare in contatto con le corde più intime dell’individuo (paesaggio interno, identità)26. E, come ha affermato Giovanni
Paolo II, “queste montagne suscitano il senso dell’infinito, con il desiderio di sollevare la mente verso ciò che è sublime”. Inoltre, spesso
sulla sommità di un monte si trovano segni di una qualche devozione: croci, cippi, pietre sacre, statue del Divino, steli… Tali elementi si
riscontrano anche su versanti ripidi o all’interno di grotte. Caratterizzati in tempi passati – ma spesso ancora oggi – da difficili accessi, in
quest’ultimi hanno trovato costruzione santuari, templi votivi, abbazie… Essi emergono da e in luoghi isolati che, una volta conquistati,
creano paesaggi del/col sacro. Da essi vi è quasi sempre la possibilità
di lasciar spaziare lo sguardo verso altro27. Si tratta di paesaggi del sacro incorniciati nella montagna (e avvolti nella vegetazione circostante) che creano atmosfere e che da esse sono impregnati. Diventano,
così, meta di devozione, pellegrinaggi28, turismo religioso29 e culturale.
Si pensi, ad esempio, al Santuario di San Romedio a Coredo in Val di
Non (figura 1) o al Santuario di Madonna della Corona a Spiazzi (Verona) edificato sul “terrazzo di una parete a strapiombo sulla Val d’Adige a 774 metri sul livello del mare” come il toponimo stesso esplica: Madonna della Corona ovvero Madonna della roccia30 e che Padre
Flavio Roberto Carraro con una descrizione definibile di geografia del
paesaggio così introduce:
Il Santuario della Madonna della Corona è certamente il più conosciuto e il più frequentato tra i numerosi Santuari veronesi dedicato con diverso titolo alla Vergine Maria.
Questa constatazione probabilmente si spiega anche per il fascino
del luogo dove è situata la piccola chiesa, arroccata su una roccia
116
Il paesaggio e il sacro
Figura 1 - Il Santuario di San Romedio a Coredo in Val di Non. Il rilievo crea un’aspettativa di sacro già nella fase di avvicinamento all’edificio stesso che sembra
stagliarsi verso il cielo. Foto: Andrea Sambugaro, febbraio 2013.
impervia come un nido d’aquila, a cui si può accedere, a piedi da
Brentino con un’ora abbondante di faticoso cammino, oppure più
comodamente in macchina fino a Spiazzi…
Fin dai tempi lontani quel luogo montagnoso, difficile da raggiungere, fu meta di pellegrinaggi. Può sembrare strano, ma è un fatto che si ripete: i santuari che si raggiungono con fatica sono amati e ricercati…31
1.2 L’acqua e il sacro
Il fascino del trascendente godibile da una quota elevata può essere accostato a quello del sacro sperimentabile nelle morfologie e ambienti geografici riconducibili all’elemento acqua. L’acqua è un elemento simbolico, mitologico e di culto per molti popoli e culture32.
117
Bollettino
della
Società Letteraria
Elemento del quale l’uomo è in parte composto e dal quale non può
prescindere per la sua stessa sopravvivenza. L’acqua dà vita a sorgenti e a fiumi dai corsi sinuosi, ma – se regolamentata – lascia spazio a
itinerari regolari come, ad esempio, la fitta trama di canali irrigui e di
scolo che caratterizza i territori della Bassa Pianura veronese. Diventa sconfinata negli oceani e limitata nei bacini dei laghi, grandi o piccoli che essi siano. Dalle coste di mari33 e laghi o dagli argini dei fiumi lo sguardo può spaziare verso l’orizzonte. E qui l’uomo – in base
alle diverse condizioni meteorologiche – può rifugiarsi per ritrovare la
calma interiore grazie, ad esempio, ad un paesaggio marino con l’acqua che, per la marea, ritmicamente sale o scende. Come in montagna
anche qui i segni di culto religioso creano momenti di raccoglimento. Edifici, edicole, statue, croci… (costruite spesso con materiali del
luogo) diventano un punto di riferimento nella mappa mentale delle
persone, siano esse autoctone o provenienti da altre località. Si pensi,
per citarne uno, al santuario mariano dell’isola di Barana nella laguna di Grado. In quest’ambiente di acqua salmastra e salata emergono
tra canali e strisce di sabbia isolotti di varie dimensioni, spesso corredati da canneti e dai tipici casoni. In uno di essi, l’isola di Barana appunto, sorge in un’oasi di silenzio: il santuario neoromanico che ospita numerosi ex-voto alla Santa Vergine.
2. Il sacro e la mano dell’uomo
Data la definizione di paesaggio emanata per legge sia a livello europeo sia nazionale34, si vuole qui affrontare il legame sacro-paesaggio
prendendo in considerazione la connotazione “umana” dello stesso.
Risulta così necessario effettuare ulteriori riflessioni oltre a quelle indicate nel paragrafo precedente (agire del tempo e geomorfologia) prendendo in considerazione l’azione e la percezione dell’individuo e delle collettività sul – e del – sacro nel paesaggio. Per fare ciò si ritiene,
per motivi legati alla brevità del presente contributo, di esaminare al118
Il paesaggio e il sacro
cuni spazi della vita quotidiana che presentano connotazioni coinvolgenti il sacro e il paesaggio partendo dalla città.
2.1 Il sacro e il paesaggio urbano
In Italia, paese dei beni culturali per eccellenza, ogni comune anche piccolo (e frazione di esso) annovera tra il proprio edificato almeno un elemento legato alla spiritualità del luogo: chiese, abbazie,
piccole cappelle (spesso private), edicole, croci… La storia religiosa della nostra penisola, con le attuali 225 diocesi, ci ha dotati di oltre 63.000 chiese35 i cui campanili costituiscono un geosegno36 di riferimento nella conoscenza (e mobilità) delle persone all’interno del
paesaggio urbano. Considerando i centri urbani italiani maggiori lo
skyline è un alternarsi di torri campanarie di diverse altezze. Spesso
le chiese – o comunque gli edifici religiosi in genere – consentono di
effettuare un’esperienza del sacro (come insider al paesaggio) che va
oltre quello che si può considerare il “sacro religioso”, cioè devozionale. In quest’ottica conventi diventano scenari per concerti di musica classica37, alle pievi vengono associati musei di archeologia38, chiese diventano biblioteche… e questo solo per citare qualche esempio
di connubio luogo sacro consacrato/cultura, considerando quest’ultima nelle sue diverse anime (arte, musica, pittura, etc.). Non sono da
tralasciare, però, nemmeno tutte le numerose chiese sconsacrate che
permettono di creare un legame tra la sacralità dell’architettura religiosa e quella della cultura. Spesso – una volta terminata la funzione
di luogo di culto – esse diventano biblioteche con annessi luoghi di
studio39, archivi, luoghi di incontro per associazioni culturali che organizzano eventi quali mostre e/o momenti di formazione40, luoghi di
spettacolo con la messa in scena di rassegne teatrali o balletti41, luoghi
dedicati a mostre di pitture42… In un certo senso l’involucro architettonico eleva la sacralità connessa al concetto di cultura e porta il geosegno del paesaggio urbano “chiesa” a rientrare nella sfera del paesaggio della percezione e, usando le espressioni del Vallega, ad essere
il luogo che vive nella sfera spirituale e che connota le condizioni esi119
Bollettino
della
Società Letteraria
Il paesaggio e il sacro
stenziali del soggetto singolo43, in questo caso considerando sia la cultura in generale sia l’architettura sacra come espressione della necessità di un qualcosa di superiore44 che riesce ad elevare l’individuo dalla
sua condizione umana.
2.2 Il sacro nel paesaggio abitualmente vissuto
Il paesaggio urbano è uno dei tanti contesti che coinvolgono l’individuo nella sua esperienza di sacralità. Ogni persona, però, ha cari
dei paesaggi legati ai luoghi da essa stessa vissuti e nei quali si rifugia per sperimentare il ganz Anderes, l’oltre se stessa, che non necessariamente si riferiscono ad un ambiente urbano. A volte si tratta di
paesaggi nei quali è immersa di sovente, altre di paesaggi del passato (della memoria e/o della giovinezza45), altre ancora di scenari paesaggistici consueti, ma che d’improvviso assumono una veste diversa
e vengono guardati e/o percepiti come qualcosa di sacro o con qualcosa di sacro.
Se si percorrono gli argini del fiume Adige nei comuni meridionali
della provincia di Verona si nota come essi siano in tempi recenti stati ripensati per una fruibilità legata al tempo libero: vengono utilizzati per effettuare passeggiate o come percorsi per mountain bike, roller, trekking… e mentre si effettuano queste attività si ha la possibilità
di godere del sinuoso scorrere del fiume sorvolato non di rado da uccelli acquatici (anatre, aironi, garzette…). Ai lati opposti del fiume l’itinerario è fiancheggiato da campi regolari inframmezzati da attività
produttive (quali, ad esempio, cave di ghiaia) e centri abitati. In questo scenario, spesso isolati rispetto agli insediamenti, sorgono elementi del sacro quali edicole, capitelli, piccoli santuari… geosegni questi
che fanno parte della vita del luogo e la connotano, anche se ormai
sempre più sovente non sono più utilizzati come elementi di devozione, ma che restano nell’imprinting collettivo come aspetti/elementi
del sacro (o del sacro popolare) immediatamente riconoscibili da tutti.
È ravvisabile così in questo contesto del vissuto quotidiano la possibilità di soffermarsi ad apprezzare e godere paesaggi del sacro che sve120
Figura 2 - L’immagine mostra sulla sinistra uno dei tanti scorci del fiume Adige
che attraversa la pianura veronese. Sulla destra il Santuario della Madonna di San
Tomaso a Bonavigo in località Orti (Verona) situato a ridosso dell’argine dell’Adige,
oggetto di devozione popolare nei secoli scorsi come dimostrato dagli ex-voto che
ricoprono le pareti della chiesetta. Foto: argine dell’Adige: Raffaela Gabriella Rizzo,
2008; Santuario della Madonna di San Tomaso: Andrea Sambugaro, 2013.
lano un connubio tra elemento naturale “imbrigliato” – il fiume Adige – e elemento del sacro: Santuario della Madonna di San Tomaso di
Bonavigo46 (figura 2).
Note conclusive
Le riflessioni su “il paesaggio e il sacro” lascerebbero spazio ad una
trattazione certamente più dettagliata ed esaustiva di quanto dedicato
in questo scritto. Ciò a causa della natura stessa della categoria geografica paesaggio che coinvolge il territorio (o meglio una parte di) in
svariate sfaccettature47 legandosi in modo significativo anche alle scelte di governo dello stesso che necessariamente influenzano i paesaggi e di conseguenza il sacro riscontrabile in essi. In questo scritto si è
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cercato in ogni modo di fornire degli esempi di percorsi paesaggistici del e nel sacro. L’Italia si presenta con innumerevoli e diversificati
quadri ambientali che si traducono in una altrettanto ricca opportunità di paesaggi che possono evocare il sacro. Inoltre, anche grazie alla
storia religiosa che la caratterizza, è costellata di geosegni del sacro religioso di qualunque epoca giunti fino a noi ed oggi considerati a pieno titolo oggetto del patrimonio culturale della nazione.
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Note
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http://www.treccani.it/vocabolario/tag/sacro/
(ultima
consultazione:
01/09/2013). Nel caso di homo religiosus si veda Olivier Carrè, Dario M.
Cosi et al., Metamorfosi del sacro, Milano, Jaca Book, 2009, vol. X. Costituisce il volume conclusivo del Trattato di antropologia del sacro diretto da Julien Ries iniziato con il I volume pubblicato nel 1989 e conclusosi
vent’anni dopo.
Carlo Mazza, Turismo religioso. Un approccio storico-culturale, Bologna,
Edizioni Dehoniane Bologna, 2007, p. 10.
Qui si citano solo i principali geografi (italiani) che si sono dedicati al tema
“paesaggio”. Si vedano gli scritti di: Giuliana Andreotti, Renato Biasutti,
Giacomo Corna Pellegrini, Girolamo Cusimano, Giuseppe De Matteis, Cesare Emmanuel, Franco Farinelli, Lucio Gambi, Fabio Lando, Maria Mautone, Elio Manzi, Peris Persi, Massimo Quaini, Giuseppe Rocca, Leonardo
Rombai, Paola Sereno, Aldo Sestini, Eugenio Turri, Adalberto Vallega, Maria Chiara Zerbi.
Carlo Da Pozzo, “Ambiente e Geografia”, in Franca Canigiani e Leonardo
Rombai (a cura di), Paesaggio, ambiente e geografia. Scritti in onore di Giuseppe Barbieri, Firenze, Società di Studi Geografici, 2006, p. 212.
Decreto Legislativo 22 gennaio 2004, n. 42.
Eugenio Turri, Il paesaggio e il silenzio, Venezia, Marisilio, 2004, p. 144.
Id., p. 79.
Luisa Bonesio, Geofilosofia del paesaggio, Milano, Mimesis, 2001, p. 14.
Maria Mautone e Maria Ronza, “La dimensione culturale come risorsa innovativa nella lettura del paesaggio”, in Girolamo Cusimano (a cura di), Luoghi e turismo culturale, Bologna, Pàtron, 2006, p. 95.
A tal proposito, oltre al cap. 8 del volume Fondamenti di Geosemiotica di
Adalberto Vallega, si veda lo scritto di Giuseppe Rocca, Il paesaggio dei ge-
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ografi e dei giuristi, “Lingua e Diritto. La Lingua della Legge, la Legge della Lingua, Plurifarum”, 8, 2013, p. 2 (http://plurifarum.farum.it/ezine_articles.php?id=262, consultato il 04/10/2013).
Si legga qui “segno del sacro”.
Adalberto Vallega, Fondamenti di Geosemiotica, Roma, Memorie della Società Geografica Italiana, Vol. LXXXIV, 2008, cap. 8, pp. 219-220. Il pensiero di Vallega, in ogni caso, non può essere seguito senza tenere in dovuta
considerazione proposte/provocazioni precedenti quali quella di Giuseppe Dematteis sul senso comune del paesaggio, e sul paesaggio come entità
mentale (Giuseppe Dematteis, “Un geografia mentale, come il paesaggio”,
in Girolamo Cusimano (a cura di), La costruzione del paesaggio siciliano: geografi e scrittori a confronto, Palermo, La Memoria – Annali della Facoltà
di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo, 1999, pp. 155-164) o quella
di Massimo Quaini di paesaggio come accumulatore di metafore (Massimo
Quaini, L’ombra del paesaggio. L’orizzonte di un’utopia conviviale, Reggio
Emilia, Diabasis, 2006, p. 12.
Adalberto Vallega, op. cit., p. 221.
“Quella dei geografi è una percezione che deriva da un apposito addestramento […] la percezione di cogliere le forme (del rilievo piuttosto che delle strutture agrarie o dell’habitat) e di risalire alla genesi del paesaggio sia
esso fisico che umano” (Maria Chiara Zerbi, “Percezione ambientale e paesaggio”, in Id., Paesaggi della Geografia, Torino, G. Giappichelli Editore,
1993, pp. 102-103).
Giuseppe Campione afferma “avvicinarsi all’oggetto paesaggio significa afferrare attraverso i sensi ciò che la realtà ci svela mediante immagini della cosa stessa. Percepire è un modo di proiettarsi su una realtà,
introiettarla e rappresentarla attraverso lo spazio ed il tempo […] è il proprio io che con i suoi percorsi mentali, con i suoi codici, che costruisce
il reale” (Giuseppe Campione, “Segni del paesaggio e sentire soggettivo:
la “pianura proibita” e il tempo ritrovato”, in Girolamo Cusimano (a cura
di), Luoghi e turismo culturale, Bologna, Pàtron, 2006, pp. 86-87 e p. 89).
Va ricordato, però, che già nel 1993 Maria Chiara Zerbi dedicava un intero capitolo del suo volume Paesaggi della Geografia al tema della percezione ambientale e del paesaggio (cfr. Maria Chiara Zerbi, op. cit., pp. 85119).
Ugo Suaro (a cura di), “Carsismo”, in Istituto Geografico Militare (a cura
di), Atlante dei tipi geografici, Firenze, Istituto Geografico Militare, 2004,
cfr. tav. 58-63, pp. 299-319.
Monica Bianchi, Emilio Crosato, Il lago d Garda e le colline moreniche. Un
patrimonio da salvare, Mantova, Edizioni Il Cartiglio Mantovano, 2004.
Luca Ciancio, La Fucina segreta di Vulcano. Naturalisti veneti e aristocrati-
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ci britannici del Settecento alla scoperta del territorio veronese, Soave (VR),
Consorzio Tutela Vini Soave e Recioto di Soave, 2010.
Olinto Marinelli, “Lagune Vive”, Id., Atlante dei tipi geografici, Istituto Geografico Militare, Firenze, 1922, tav. 41. Tommaso De Pippo, “Lagune e stagni costieri”, in Maria Gemma Grillotti Di Giacomo, Atlante tematico delle
acque d’Italia, Genova, Brigati, 2008, pp. 71-74.
Luisa Bonesio, op. cit., p. 40.
Maria Chiara Zerbi, op. cit., pp. 104.
Domenico Luciani (a cura di), Il luogo e il sacro. Contributi all’indagine sul
linguaggio simbolico dei luoghi, Treviso, Edizioni Fondazione Benetton
Studi Ricerche con Canova, 2012, pp. 9-19.
Franco Cardini, “Il sacro e i luoghi santi”, in Domenico Luciani (a cura di),
op. cit., pp. 45-57.
Carlo Mazza, op. cit., p. 9. In ogni caso basti pensare a come nelle religioni le apparizioni del divino sono spesso ricondotte al tema del rilievo: Dio
dona a Mosè i 10 comandamenti sul Monte Sinai (Thomas Matus, “Religioni, ambiente e paesaggio”, in Amilcare Barbero e Stefano Piano (a cura di),
Religioni e sacri monti, Atti del Convegno Internazionale, Torino, Moncalvo, Casale Monferrato, 12-16 ottobre 2004, Centro di Documentazione dei
Sacri Monti Calvari e Complessi devozionali europei, 2006, p. 67).
Paesaggio esterno, alterità e/o paesaggio desiderato oppure un’Entità sacra
superiore.
Per un’interessante disamina sui “percorsi del sacro attivati dal paesaggio”
si rimanda a Paolo Castelnovi, Il senso (del sacro) del paesaggio, in http://
www.landscapefor.eu/index.php?option=com_k2&view=item&id=32:il-senso-del-sacro-del-paesaggio&Itemid=123 (ultima consultazione: 26/09/2013).
Massimo Venturi Ferriolo, “Leggere il mondo”, in Id., Etiche del paesaggio.
Il progetto del mondo umano, Roma, Editori Riuniti, 2002, pp. 105-112.
Giovanna Rech, I santuari e i pellegrinaggi, 2011, in http://www.treccani.
it/enciclopedia/i-santuari-e-i-pellegrinaggi_(Cristiani_d’Italia)/ (ultima consultazione: 26/10/2013).
Anna Trono, (ed.) Sustainabe religiuos tourism. Commandments, Obstacles & Challanges, 26th-28th October 2012, Monteroni di Lecce, Edizioni
Esperidi, 2012.
Dario Cervato, La Madonna della Corona. Storia del primo santuario mariano della diocesi di Verona, Santuario della Madonna della Corona, Ferrara di Monte Baldo (Verona), 2005, II ed.
Id., op. cit., p. 3.
Peris Persi, Paola Marazzini, Annarita Luongo, “Acqua e sacralità”, in Maria
Gemma Grillotti Di Giacomo, Atlante tematico delle acque d’Italia, Genova, Brigati, 2008, pp. 147-148.
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Il tema è senz’altro di interesse. Esso, infatti, è stato il tema del III Convegno Internazionale I santuari e il mare, 15-17 aprile 2013, Santuario di Santa Maria di Monte Berico – Vicenza.
Si rimanda alla definizione esplicitata nella premessa del presente scritto.
Il dato è tratto dal Censimento delle chiese delle diocesi italiane (settembre
2013) voluto dall’Ufficio Nazionale dei Beni Culturali Ecclesiastici. Si veda
il sito del progetto CeiA al seguente link: http://www.chieseitaliane.chiesacattolica.it/chieseitaliane/; Raffaela Gabriella Rizzo, Luca Simone Rizzo, Religious geo-data and geo-information: representation and visualization on
the web, IV EUGEO Congress “Europe, what’s next? Changing geographies
and geographies of change, http://www.eugeo2013.com/call-for-papers.
Adalberto Vallega, op. cit., cap. 4, cap. 8 e p. 236.
Si citano ad esempio la chiesa del Convento di San Bernardino e la Chiesa
di San Fermo a Verona. Per un approfondimento si rimanda all’opera curata da Giorgio Borelli, Chiese e monasteri a Verona, Verona, Banca Popolare di Verona, 1980.
Uno splendido esempio è la Pieve di San Giorgio di Valpolicella di stile romanico (denominata anche Pieve di San Giorgio Ingannapoltron). Annesso al chiostro della stessa vi è il museo comprendente una sezione etnografica e una archeologica.
La Biblioteca Arturo Frinzi dell’Università di Verona ha trovato spazio nella
ex chiesa dedicata a San Francesco di Paola. Ristrutturata, oggi la chiesa viene utilizzata come biblioteca, emeroteca, luogo di studio e per momenti di
incontri con l’autore grazie all’organizzazione di presentazione di volumi.
La chiesa di Santa Maria in Chiavica di Verona è oggi sede del Centro Turistico Giovanile di Verona che la utilizza come sala (dotata dei prestigiosi
affreschi del Turone) per convegni, conferenze, concerti.
Si pensi al Teatro Camploy di Verona oggi di proprietà del Comune di Verona, un tempo chiesa dedicata a San Francesco d’Assisi come descritto nel
volume a cura di Sergio Signorini, Il Teatro Camploy a Verona, Milano, Skira editore, 1998.
Come nella Chiesa dei Padri Domenicani dedicata a Santa Maria di Monte
Santo nella città murata di Soave (Verona).
Adalberto Vallega, op. cit. p. 236.
Si veda la definizione di sacro nella premessa al presente scritto.
Maria Grazia Bellorini, “Realtà e sacralità del paesaggio”, in Maria Grazia
Bellorini, Gianfranca Balestra et al., W.H. Auden. Riti della parola, Vita e
Pensiero, Milano, 1985, pp. 3-38.
Francesco Occhi, Augusto Garau (a cura di), Alla scoperta di pievi e oratori, Pro loco Basso Veronese, 2001, pp. 30-31.
Paesaggio come parte di un territorio naturale, rurale, urbano, antropico…
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The paper aims to answer the following question: is there a link between the
concepts of landscape and sacred? If that is the case, could the conceptual categories used in Geography help us to better understand it?
The author intends to reflect on the above (from a geographical perspective),
paying attention in particular to the relationship “human being-territory” that
is at the basis of each landscape. Such connection is going to be read following the interpretative relational frame “landscape/sign/meaning” suggested by
Adalberto Vallega. This will lead the author to examine the sacred with regard
to both morphological aspects of landscapes and human actions/decisions impacting on them.
La mia anima vive
Paola Tonussi
Parla Dio delle Visioni, parla per me
E dì perché io ho scelto te! (PEB 110)
Tanto senza speranza è il mondo fuori
Doppiamente caro m’è il mondo interiore (PEB 108)
Nella semioscurità dell’alba che seguiva una mezzanotte color porpora, il villaggio di Haworth udì il colpo di pistola oltre il cimitero e seppe che il parroco Patrick Brontë, o meglio sua figlia Emily, annunciava
l’inizio di un nuovo giorno: mentre per Patrick la vecchiaia avanzava,
da anni era proprio quella ribelle figlia poeta a proseguirne, in effetti,
la bizzarria giovanile.
Grigio e gelido di neve si mostrava l’orizzonte dalla canonica, la dimora più alta di Haworth, una scena nebulosa e sfuggente oltre il muro
del cimitero perché, dopo aver spogliato le colline dell’erica, l’autunno
dorato aveva già lasciato il posto ai regni candidi dell’inverno.
Che il proiettile fosse andato a piantarsi, insieme con gli altri, sulla
torre del campanile o fosse piuttosto ricaduto a terra dal cielo, Emily
non vi pensò più e rientrò in casa.
Con la consuetudine di quel colpo di pistola, la vita parve sempre
la stessa al villaggio. Eppure, non sarebbe mai più potuta esser tale, né
per Emily né per gli altri abitanti della casa di pietra, esposta al vento
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Bollettino della Società Letteraria, 2012, 127-150
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in cima al villaggio desolato, premuta dalle tombe, aperta alla distesa
illimitata delle brughiere sul retro. Nulla sarebbe più stato lo stesso
nemmeno per un’intera civiltà letteraria, ché qualcosa di totalmente
imprevisto era successo e le tre sorelle Brontë stavano per diventare
i tre fratelli Bell: una mattina dell’ottobre precedente Charlotte aveva,
infatti, scoperto per caso e poi letto le poesie della sorella Emily.
Emily era stata impegnata a copiare una poesia, l’unica dell’estate,
nel quaderno di Gondal, la saga che sin da bambina andava scrivendo con Anne: Julian M – and A.G. Rochelle –. Lasciava poi lo scrittoio
aperto e incustodito sul tavolo del soggiorno, forse dimenticandosi di
riporlo o forse perché chiamata altrove in casa. Il legno di rosa, con la
madreperla che cerchiava la serratura e la fodera di velluto porpora,
conteneva molti fogli.
Charlotte entrò in soggiorno e vide il quaderno aperto con la grafia minuscola di Emily. Lo raccolse. Lesse tutte le poesie della sorella,
assentatasi abbastanza a lungo. Tornò alla prima: lo scenario era una
delle tante guerre che insanguinavano Gondal, terra di ribelli in fuga
dalla giustizia e storie d’amore violento. L’incipit dava una descrizione
quasi diaristica, l’attesa di qualcuno che vegliava nella notte come,
notte dopo notte, la stessa Emily attendeva sveglia che il fratello Branwell tornasse a casa, barcollante per i troppi gin, solo, malato e in
preda alla disperazione. E tuttavia nei dialoghi, nel ritmo, nella scelta
delle parole e nei colori del paesaggio, simile a quello delle brughiere
che amava, Emily ricreava un’ambientazione medievale dai toni smaglianti, affine alla riserva di Medio Evo vittoriano di Keats:
Silenziosa è la Casa – tutti sono immersi nel sonno;
Una, soltanto, scruta fuori oltre i banchi di neve profonda;
Sorveglia ogni nuvola, trema ad ogni brezza
Che turbina nei cumuli rabbiosi e piega gli alberi gementi –
La fiamma è vivace, soffice il pavimento coperto di stuoie,
Non un soffio di gelo trapassa porte e finestre
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La mia anima vive
La piccola lampada brucia dritta; i raggi getta forti e lontani
Io spunto il lucignolo che sia stella guida all’Errante –
Lasciata ogni allusione al quotidiano vissuto, il racconto si stabilisce subito e con chiarezza a Gondal, il reame favoloso nato dalla
fantasia di due bambine.
Il protagonista Julian vaga nelle «segrete delle prigioni», «incurante
delle vite che là si consumano». Sente le preghiere della reclusa Rochelle schernite dal «carceriere torvo», nella desolazione d’ascendenza byronica («Avrei potuto risparmiarmi la preghiera vana -/Risero
freddamente» i carcerieri in The Prisoner of Chillon, Il prigioniero di
Chillon, VII, vv. 158-9).
Nell’oscurità gelida della cella, abbandonata da tutti, Rochelle narra a Julian la propria storia. Nessuno sa «Quale angelo percorra ogni
notte il deserto di neve invernale», ma una presenza la visita spesso,
avvicinandosi a lei nel buio:
«Un messaggero di Speranza viene da me ogni notte
«E offre, per una breve vita, eterna libertà –
Portandole la libertà, chiedendole in pegno la vita, il Messaggero
ripete una volta ancora le molte visitazioni misteriose che costellano
la poesia di Emily Brontë. E Rochelle intona dunque il suo canto, che
l’intensità quasi liturgica dissemina di temi e parole talismano:
«Viene con il vento dell’ovest, con le brezze erranti della sera,
«Con quel chiaro crepuscolo del cielo che porta le stelle più fitte;
«I venti prendono un tono pensoso e le stelle un più tenero fuoco
«E visioni si levano e mutano che mi uccidono di desiderio –
Nel magico paesaggio serale il vento d’occidente, simbolo shelleyano, dà voce alla meditazione che, nel crepuscolo lungo del nord,
parla all’osservatrice con accenti pensierosi mentre le stelle l’incanta129
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no con il loro splendore «tenero»: Rochelle se ne lascia avvincere, fino
a scivolare in fantasie di visioni infinite, che l’«uccidono di desiderio».
È un desiderio forte per l’innocenza andata, quando ignoti erano lacrime e dolore a venire; un desiderio di passione, indistintamente
abbacinato di sole o scuro di tempesta; un desiderio violento di morte
che vuol essere soddisfatto, quale ne sia il prezzo, lo stesso per cui
Heathcliff potrà raggiungere infine l’amata Catherine, ma solo dopo
diciotto anni di tortura: «La felicità della mia anima uccide il mio corpo
ma non si soddisfa» (Wuthering Heights, WH, XXXIV).
Con un’immagine strepitosa Rochelle distende, quasi letteralmente, il proprio cuore davanti agli occhi di Julian e ricorda i sentimenti
giovanili, quando il «cielo dello spirito» splendeva di «lampi caldi», che
potevano dare tepore ma anche ustionare. Ripete quindi con fierezza
la stimmata regale, la parola incantatrice, «desiderio…»:
La mia anima vive
suo essere si concentra sulle sensazioni e l’apice della visione porta
il più straordinario senso di sicurezza, quasi lo spirito stia tornando
a casa, nel “porto”: simile allo spettro di Catherine che piange alla
finestra di Cime tempestose perché la lascino entrare, Rochelle è un
essere sperduto tra i due mondi, quello dei vivi e quello dei morti.
Per fondersi con l’“Invisibile” deve diventare lei stessa invisibile e
disfarsi di ogni costrizione corporea, nell’identico spasimo per l’unione disperatamente voluta da Heathcliff con Catherine ormai morta: «sarebbe come tu ordinassi un uomo che si dibatte nell’acqua di
riposare nei pressi della riva! Prima devo raggiungerla, poi riposerò»
(WH, XXXIV).
L’affilato, scintillante linguaggio del desiderio di Heathcliff è, prima
di lui, adoperato da Rochelle, la quale parla come in sogno con toni
oracolari da Sibilla, il silenzio fattosi denso intorno a lei:
«Desiderio di cose ignote ai miei anni più maturi
«Quando la gioia impazziva di terrore a contare le lacrime future;
«Quando, se il cielo del mio spirito era pieno di lampi caldi,
«Io non sapevo se fossero di sole oppure di tempesta;
«Ma prima un respiro di pace, una calma senza suoni discende;
«Si placa poi la lotta del dolore e dell’impazienza fiera;
«Musica muta il cuore m’acquieta – inespressa armonia
«Che mai potei sognare finché ebbi vita sulla terra.
Il desiderio si carica d’attesa quasi spasmodica che si disperde nel
fulgore del lampo, prima del tonfo, la ricaduta nella consapevolezza,
il rientro non voluto nella realtà: la cattività della prigioniera – adesso
il cammino è stagliato – si fa metafora della cattività dell’anima nel
corpo. Andando incontro all’illuminazione, Rochelle ne riproduce i
segnali fisici, li descrive ad uno ad uno sino al momento dell’estasi e
parla allora in tono di sfida, sollevata dalla terra e più vicina al cielo,
tratta ad una lotta per conseguire una vita, un modo di essere oltre
la morte, in cui l’esperienza mistica libera la felicità del volo verso
l’esterno.
«Appare allora l’Invisibile, il Non visto la sua verità rivela;
«I miei sensi esteriori s’accecano; l’essenza interiore sente «Le sue ali sono quasi libere, la sua casa, il suo porto ha trovato;
«Misurando l’abisso s’inarca e osa il balzo finale!
Un altro passo. Ecco la discesa estatica della quiete e la cessazione del conflitto: la giovane è giunta alla rivelazione interiore, l’intero
130
«Pace» e «calma» si diffondono nel cuore che prende a sentire una
musica, sebbene «muta», ovvero armonia non detta perché Rochelle,
che si sta avvicinando all’estasi, sta simultaneamente abbandonando
ogni misura o parametro umano. Cessa di sentire e di vedere. Cessa
di respirare. Tutto ciò che vive in questa terra verde – l’«armonia» –
può scomparire di attimo in attimo e per sempre; eppure il cuore
continua a farle sospirare la terra, anche quando essa non si vede più,
o l’«armonia» sia rimasta «inespressa». Solo allora, l’istante della rivela131
Bollettino
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zione si apre e, al pari di una vestale in un rito iniziatico, Rochelle è
pronta per l’incontro con l’«Invisibile», con il «Non visto».
L’immagine grandiosamente metafisica dell’uccello-anima che si
raccoglie in sé prima di spalancare le ali e spiccare il volo nel vuoto
è una chiara eco del Paradiso perduto di Milton, opera custodita da
Patrick Brontë nel proprio studio: «Con un balzo lieve oltrepassò
ogni confine/Di Collina o Muro altissimo…» (IV, vv. 181-2). Emily
Brontë si appropria sempre, tuttavia, delle fonti in maniera affatto
originale, dosandole con sapiente capacità poetica, perché in Milton
l’animale favoloso è in effetti un lupo che, entrato nel giardino, si
trasforma in cormorano sull’Albero della Vita. Assente è la connotazione universale infusavi con l’accostamento delle due dimensioni:
la creatura alata e l’anima. Più congeniale è lo «Spirito» universale
agli albori del mondo:
Spirito […] sin dall’inizio
Eri, e con vaste ali spalancate
Come colomba ti librasti sul vasto Abisso,
E lo rendesti pregno (Paradise Lost, I, vv. 17-22)
Come sospesa nel vuoto, per raggiungere la soddisfazione l’anima
di Rochelle si affretta a saltare oltre l’abisso nella figura dell’uccello
imprigionato e pure dalle «ali quasi libere», che deve «misurare» il baratro per conquistare la salvezza. Sembrerebbe un punto cruciale. La
soddisfazione produce all’opposto la delusione inevitabile, la perdita
della follia visionaria – i «sensi s’accecano; l’essenza interiore sente» – e
l’anima retrocede al punto di partenza, il mondo della ragione in cui
l’illuminazione, proprio in quanto limitata dai sensi, si svuota.
Emily Brontë, e Rochelle per lei, non prova mai pudore nel narrare
la violenza dei sensi, la passione della materia – solo l’ipocrisia le appare blasfema – ma, nella transitorietà della coscienza unificata i sensi
legano, nondimeno, l’anima al corpo in una specie di ponte invisibile
per accedere al «mondo interiore». Sciolti ritmi sussultanti prendono
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La mia anima vive
così a descrivere l’agonizzante non dignità della ricaduta nella consapevolezza, la luce invadente della coscienza dopo il dispiegarsi graduale della rivelazione e il suo ritrarsi.
Solo nel romanzo Emily riuscirà a portare alla luce, intricata e complessa, la «visione», l’«esistenza oltre se stessi» di Catherine (WH, IX).
Rochelle confessa intanto lo «spasimo» del ritorno, il riappropriarsi doloroso della corporeità che condanna alla carne e al sangue, all’udito
e alla vista; tenta di ridire il senso di vuoto assoluto e astruso provato
dall’anima, quindi la volontà di perseguire ad ogni costo la visione,
fosse anche un’ultima volta, nell’incontro con la morte:
«Oh, tremendo è il ritorno – intenso lo spasimo
«Quando l’orecchio inizia a sentire e l’occhio inizia a vedere;
«Quando il polso inizia a pulsare, il cervello ancora a pensare,
«L’anima a sentire la carne e la carne a sentir le catene!
«Pure non cederei un aculeo, non vorrei minore tortura;
«Più quel tormento infierisce più presto m’avrà benedetta;
«E vestita di fiamme d’Inferno, o splendente di luce celeste
«Se è messaggera di Morte, quella visione è divina”
(Julian M – and A.G. Rochelle, 9 ottobre 1845, PEB 123).
Di frequente incontrato nei versi di Emily Brontë, il visitatore è
portatore di desiderio e insieme araldo di morte, sebbene non sarà la
morte a liberare la veggente prigioniera bensì Julian, il quale l’aiuta a
fuggire e, con pazienza «che sfida il mondo», conquista infine da lei
«un amore pari» al suo.
«Quella visione è divina» sono le ultime parole di Rochelle. Forse,
quando Emily Brontë scriveva questi versi, il tramonto di Haworth si
frantumava contro le colline coperte di neve, nella quiete della notte
azzurra. Forse, alcune stelle erano rimaste in alto, incuneate tra le nuvole superstiti nel buio: nella sua stanza piccola al primo piano della
canonica le avrebbe presto viste più grandi, distesa nel letto posto
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Bollettino
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Società Letteraria
sotto la finestra, proprio per essere più vicina agli astri luminosi che le
portavano quelle «visioni divine».
Il poeta, secondo Ruskin, è un «commentatore dell’infinito» e nell’«infinito» il sortilegio della poesia si rinnova ogni qualvolta qualcuno
veda, racconti e, in quel racconto, riponga la propria anima: accanto
e dentro ciò che scrive.
Ecco la lirica, sconvolgente per molte ragioni, che Charlotte aveva
trovato sul tavolo del soggiorno, una mattina d’ottobre. La redenzione
di Rochelle – balzo dell’anima ed evasione fisica – fondava una tra
le più sconcertanti, tra le più provocatorie affermazioni poetiche di
Emily Brontë: la narrazione del tocco divino e il suo manifestarsi, la
cronaca di un’esperienza estatica di cui anche i mistici religiosi narrano, ma qui del tutto indifferente ad ogni implicazione teologica e resa
in un clima di sensualità pregnante, un filo sempre legato alla realtà:
il suo polso che batteva.
In una lingua controllatissima, un’esperienza visionaria eccezionale
era stata trasposta con estremo riserbo fantastico, che non la poteva
rendere se non più vivida e impressionante. Nello sforzo di descrivere il processo della visione, anche le parole parevano ceppi, perché
non formulate per quel tipo conoscenza, inadeguate a contenerla e
quindi a comunicarla. La vaghezza diventava forza, l’indeterminazione
nostalgia.
Il brano riepilogava i termini poetici chiave di Emily Brontë: il
vento dell’ovest, emblema della la primavera che lega le due parti
dell’anno; le stelle, la tenerezza, l’oscurità, con la sera mediatrice tra il
giorno e la notte; il rimpianto per i sentimenti perduti dell’infanzia, il
timore per le lacrime future; l’intimo regno celeste, il diffondersi della
pace nello spirito sconvolto; la perdita della consapevolezza esterna
e la concretezza della terra, la musica del silenzio interiore, lo svelarsi
del regno divino.
Pur sapendo d’incorrere nell’ira della sorella, Charlotte non era
riuscita a smettere di leggere, una dopo l’altra, tutte le poesie trascritte
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La mia anima vive
nel quaderno. Per lei era stata una folgorazione: ne era emersa sbalordita, quasi stordita d’ammirazione. Là, nella loro casa, Emily scriveva
una poesia d’incantesimo, profumata d’erica e del respiro delle brughiere, tra la cui musica era nata. Mentre lei si straziava a Bruxelles
tendendo invano il cuore a Monsieur Héger, il suo professore, Emily
era stata sveglia, la notte, nella sua stanza minuscola e aveva raggiunto uno spazio infinito di là dal mondo visibile, dove la sua anima si era
liberata e perduta. Sua sorella era un poeta mistico e visionario, che
rivelava le proprie visioni: quella era matura poesia perfetta.
Emily non aveva mai nemmeno accennato a cosa vedesse, nelle
sue notti lunghe di veglia. Charlotte pensava scrivesse solo Gondal.
L’effetto prodotto dalla lettura fu elettrizzante al punto da accecarla
sulle conseguenze. Vide una cosa soltanto, distinse una cosa soltanto:
lo splendore della mente della sorella, la grandezza della sua poesia.
Non si accorse che quella poesia non era scritta per occhi altrui e
domandava di rimanere segreta, proprio per la sua «musica singolareselvaggia, malinconica e che elevava lo spirito», come lei stessa avrebbe scritto dopo la morte di Emily (Biographical Notice 1850).
Non riuscendo a frenare l’entusiasmo, Charlotte correva da Emily
per dichiararle la sorpresa, la meraviglia, la commozione provate nel
leggere i suoi versi: si scontrava con un viso di marmo. Negli occhi profondi brillava la collera: per qualche istante, Emily odiò Charlotte con tutto il suo essere. Charlotte amava Emily profondamente,
ne conosceva la reticenza, la propensione alla solitudine, la rinuncia
di aprirsi anche con coloro che le erano accanto. Emily, lo sapeva,
non era fatta di «materiale flessibile o comune» (a William Smith Williams, settembre 1848): si aspettava impazienza per l’indiscrezione,
mai avrebbe potuto immaginare la reazione che la sua imprudenza
stava causando. La statua indignata la fissava fremente: niente riusciva
a placarla.
A Patrick Brontë giunse dal soggiorno la voce di Emily, quella di
Charlotte che rispondeva, le chiedeva scusa, non voleva offenderla;
poi di nuovo Emily, più forte. Patrick chiuse il libro, chiedendosi cosa
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Bollettino
della
Società Letteraria
stesse succedendo tra le ragazze. Parve sul punto d’intervenire, ma il
tatto gli suggerì di lasciare che se la sbrigassero da sole. Inoltre, Emily
era in uno stato d’animo impossibile da affrontare. Lei non parlava
più. Un colpo alla porta: era andata in cucina. Un secondo colpo: era
uscita, lontana, per i campi, scomparsa sulle colline.
Dopo giorni di trattative, consentiva a pubblicare quelle che, in segno di disprezzo, iniziò da allora in poi a chiamare “le rime”. Charlotte
era riuscita nell’intento che perseguiva da anni, ovvero tentare di conseguire un nome come autrici: i Poems by Currer, Ellis and Acton Bell, i
Versi firmati dagli pseudonimi maschili, stavano per vedere la luce.
Mentre Currer, Ellis e Acton Bell attendevano dall’editore le bozze
delle “rime”, il 25 gennaio 1846 Emily trascriveva nel quaderno No
coward soul is mine, Non vile è la mia anima, la prima poesia scritta
dopo la scoperta di Charlotte. E, tre mesi dopo Rochelle, toccava la
vetta della sua visione e del suo pensiero contemplativo.
Professione di fede e asserzione di una vita interiore inviolabile dal
tempo, dal mutamento e persino dalla morte, i versi segnavano il punto di svolta di un cammino spirituale: la giovane che intuiva fuggevoli
bagliori d’eternità in un ramoscello d’erica o nella forma di una nuvola
si era trasformata in un poeta mistico sicuro, consapevole dell’unione
completa con il «Cuore Infinito» dell’universo. A questo stadio del suo
pellegrinaggio verso il cielo, solo la morte poteva dare giusta ricompensa ad una vita proiettata, ormai, sullo sfondo dell’eterno.
Non vile è la mia anima era Emily Brontë al suo stato più puro e
potente. In versi che sprigionavano un senso ineguagliabile di definitivo, lei chiudeva risoluta con ogni controversia religiosa per entrare
nell’aperto spazio sacro di un credo sussurrato al vento, l’unico tempio
per lei concepibile: l’anima si sperdeva in una fusione completa con
Dio, adesso raggiunto per sempre, perché trovato infine dentro di sé.
Il cielo con la sua gloria splendente per l’uomo poteva rammentare
in principio il cosmo cristiano ma se ne distaccava presto perché, proprio nell’immensità della natura, nella casa ideale e terrestre delle bru136
La mia anima vive
ghiere, Emily Brontë non solo commetteva, bensì addirittura esaltava
il proprio peccato d’orgoglio: dov’era lei, là era anche Dio. Le molte
confessioni degli uomini non avrebbero mai potuto suscitare dubbio
alcuno in chi, serenamente, riconosceva Dio ovunque: l’eroismo si
fortificava volgendosi all’eternità, che lo spirito univa al tempo; abolita
ogni barriera, fisica e materiale, così accettata la mortalità apparente,
l’essere si sollevava al cielo: la sua splendida arroganza poetica e intellettuale di panteista non poteva essere più esplicita.
Paragonata alla forza terribile di questa poesia, ogni religione dogmatica sembra vanità: al pari di Blake, Emily Brontë aveva conquistato la libertà dalle catene mentali dell’ortodossia cristiana e di ogni
ortodossia. Fulgida come quella del cielo, la sua fede personale dichiarava una volta di più dedizione assoluta e senza compromessi al
divino adorato nella natura, al contempo immanente e trascendentale:
la mutua dipendenza tra divino e umano creava un equilibrio perfetto,
il senso di un Dio dentro di sé, l’illuminazione visionaria di un Dio
esistente fuori e oltre il sé.
Manifestandosi con modi e un panteismo del tutto originale, i versi
celebravano una divinità accessibile per quanto vaga, il desiderio di
una vita e di un mondo che costituissero un’alternativa a quelli vissuti
sulla terra eppure, se possibile, a quelli identici. Oltre il rifiuto della
religione convenzionale, con una trionfante affermazione di fede individuale Emily Brontë dava anche una sorta di lascito spirituale: la
convinzione che la traccia della divinità poteva mostrarsi ugualmente
in una foglia, in un albero o in una delle bestiole che, ferite sulle brughiere, lei portava a casa e curava.
Già Virgilio ricordava il grande principio panteista, secondo cui lo
spirito divino percorreva tutta la terra, le plaghe del mare e il cielo
profondo, mentre la natura intera diventava per l’uomo un immenso
altare dinanzi a cui pregare; nell’Eneide, da Emily tradotta, egli ripeteva il soffio di vita che alimentava il cielo e la terra, i piani liquidi del
mare e gli astri dell’«anima» diffusa ovunque, che muoveva, rendeva
vivo e composito l’infinito:
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Bollettino
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Società Letteraria
Primamente e cielo e terra e le piane del mare,
E della luna le sfere lucenti e le stelle titanie,
Vivifica l’intimo spirito, e per le membra diffusa
L’anima muove la mole del mondo e al gran corpo s’unisce. (VI, vv. 724-7)
Curandone l’edizione postuma, Charlotte dichiarò: «Questi sono gli
ultimi versi scritti da mia sorella Emily» e, scrivendo “Tu” sempre in
maiuscolo, volle dare l’idea che si rivolgesse al Dio della chiesa. No
coward soul veniva copiato nel quaderno di Gondal e, come sempre
in Emily, poteva anche non riferirsi ad un’esperienza personale in
senso stretto: ma all’epoca Charlotte era già impegnata in quel che
considerava un “dovere” verso la sorella, scomparsa senza aver visto
compresi né i propri versi né tanto meno il romanzo straordinario dal
titolo stesso intriso di natura, che è Wuthering Heights, Cime tempestose.
Il genio e il riserbo di Emily avevano sconcertato Charlotte, in
futuro ritrovatasi nella posizione tragica e strana di vedersi affidata l’edizione della sua opera: la consapevolezza crescente della grandezza
di Emily, soprattutto l’incomprensione totale e i fraintendimenti desolanti sul romanzo non la rendevano cieca a quelle che considerava
le sue crudezze: «La sua forza mi riempie di rinnovata ammirazione;
e ciò nonostante sono oppressa: al lettore non è quasi concesso un
momento di gioia pura; ogni raggio di sole attraversa neri lembi di
nuvole minacciose; ogni pagina è sovraccarica d’una sorta di elettricità
morale» (a William Smith Williams, 29 settembre 1850).
Dovendo scrivere la prefazione a Wuthering Heights, affermava di
aver avuto per la prima volta «una nozione chiara di come esso appaia
ad altri», ovvero a lettori non abituati al suo sfondo e alle sue atmosfere, da rintracciarsi indietro nella saga di Gondal. Charlotte intensificava l’opinione che Emily fosse una «domestica ragazza di campagna»;
riconosceva che il suo romanzo potesse «apparire un prodotto primitivo e strano», «costruito in un laboratorio selvaggio»; ne ammetteva
la «rusticità»: «sa di brughiera, è selvaggio e nodoso come una radice
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La mia anima vive
d’erica […], l’autrice essendo lei stessa originaria e figlia delle brughiere», ma le descrizioni del paesaggio di Ellis Bell erano “tutto ciò che
dovrebbero essere». Su gran parte – ammetteva – «aleggia “un orrore
di grande oscurità” […] e nella sua atmosfera elettrica e accesa di tempesta sembriamo a volte respirare il lampo» (Prefazione a WH 1850).
Non smettendo mai, nonostante tutto, di credere nel genio di
Emily, mentre ne scriveva la difesa Charlotte assumeva su di sé molta
della sua intrattabilità e intransigenza e, se da un lato le restituiva la
statura eroica da “Titano” riconosciuta in vita, dall’altro creava un mito
letterario mendace. Ricordava entrambe le sorelle creature molto particolari, ma sulla loro cultura il ritratto non rispondeva al vero:
Né Emily né Anne erano colte; […] scrivevano sempre sotto l’impulso della natura, i dettami dell’intuizione e le riserve d’osservazione
che l’esperienza limitata consentiva loro […] per gli estranei non erano
niente, per osservatori superficiali meno di niente; ma per chi le conosceva da sempre nell’intimità di rapporti stretti, erano genuinamente
buone e veramente grandi.
Questa Nota è stata scritta perché sentivo un sacro dovere cancellare la polvere dalle loro lapidi, e riscattare i loro cari nomi da ogni
macchia. (Biographical Notice 1850, BN)
Come lei stessa e Branwell, Emily ed Anne disponevano di vaste
letture e conoscenze non sistematiche, forse, ma profonde e sviluppate in varie arti, di là dalla letteratura. Con Wuthering Heights Emily
aveva turbato Charlotte, sino a farla dubitare della sua ragione. E
Charlotte s’impegnò a riscrivere il carattere, la vita e persino l’opera di
Emily per renderli accettabili al lettore medio. Lei, che era stata il capo
di tutti loro da bambini e nell’avventura della pubblicazione, adesso
era proprietaria della reputazione di Ellis e di Acton: provava così
l’illusione di averle ancora con sé, come quando faceva loro da insegnante, le guidava e dava loro consigli. Poiché l’interesse per l’opera
dei Bell cresceva con la celebrità di Currer, volle coprire le singolarità
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Bollettino
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sconcertanti del temperamento, anche letterario, di Emily: ad ogni
costo, fino a mentire.
Tra i fogli delle sorelle, Charlotte trovò di certo anche il secondo
romanzo di Emily. Se anch’esso era un ennesimo affondare nelle acque perigliose di Gondal o esprimeva le idee audaci delle ultime composizioni gondaliane – politicamente sovversive, o panteiste e quindi
religiosamente eretiche –, lo reputò un «errore assoluto». Pubblicarlo
avrebbe solo provocato nuove accuse di radicalismo o paganesimo e,
questo, Charlotte non poteva permetterlo.
Convinta che «un interprete» dovesse frapporsi tra il carattere difficile di Emily e il mondo, sentì un «sacro dovere» evitare d’esporre al
mondo ciò che il mondo non avrebbe ancora capito e accettato; se
il contenuto di quel secondo romanzo non era tale da mostrarne il
valore, volle proteggere la sorella e fare, in suo nome, un’ultima concessione all’esterno: il manoscritto scomparve. Forse Charlotte eseguiva ordini impartiti da Emily prima della morte, più verosimilmente la
decisione fu sua, il che spiegherebbe anche la cospirazione di silenzio
intorno ad un romanzo mai stampato.
Secondo la “sua” versione, Emily poteva invece apparire davvero
come un «dio bambino», una promessa che in Wuthering Heights non
si era ancora espressa pienamente, perché Charlotte riteneva che la
sorella angolosa e recalcitrante sarebbe maturata: «Se fosse vissuta, la
sua mente sarebbe cresciuta in un albero forte, più alto, più diritto
[…]; su quella mente solo il tempo e l’esperienza avrebbero potuto
agire: non era malleabile all’influsso altrui» (BN). Dimenticava gli arbusti intristiti, miseramente protesi verso il sole delle Heights, la cui
grandezza e dignità stavano proprio nel loro sfidare il vento delle
brughiere, che avrebbe potuto strapparli ad ogni momento.
Charlotte si fece interprete della sorella presso il mondo, ma lo privò della sua opera. Distruggere anche solo una riga di Emily dovette
causarle molti dubbi solitari e molto dolore: nel fuoco del camino, i
pezzi di carta annerita sembrarono tante farfalle, mandate a morire.
Essendo anche lei scrittrice, il rimorso non l’abbandonò più.
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La mia anima vive
Quando Emily Brontë copiava No coward soul is mine, nel gennaio
del 1845, la scomparsa del suo secondo romanzo era ancora, nondimeno, di là da venire.
Con fertile mente meditativa il poeta in lei aveva a lungo riflettuto
e, in un poema acutamente filosofico, dalla concentrazione e dalla
nitidezza strofica estreme esprimeva certezze, forza, l’apice di una
maturità poetica eccezionali. In manoscritto, il testo subiva diverse
alterazioni e ostentava una mancanza assoluta di punteggiatura, quasi
l’ispirazione fosse incontenibile a soffrirla e la parola poetica pretendesse di spingersi avanti, di là da sé, con l’identica violenza del vento
del nord che si ha l’impressione di ascoltare leggendo.
Nessun dogma poteva contenere o frenare la voce sacrale portata
dal vento, «Pellegrino dell’Eterno» secondo la definizione meravigliosa
di Shelley, un altro figlio dell’infinito per il quale la poesia discendeva
dal cielo a dare al poeta «un’eco e una luce verso l’eternità» (Adonais,
I, v. 9). Quell’eco nell’orecchio e l’Eterno sullo sfondo, nessuna chiesa – scriveva Emily Brontë – avrebbe potuto racchiudere l’anima di
chi s’affidava al potere della poesia, si smarriva e si confondeva con il
divino, in versi rapidi e fluenti come le raffiche che s’abbattevano sulle
brughiere e annullavano ogni confine tra umano e divino, tra interno
ed esterno, tra la terra e il cielo:
Non vile è la mia anima
Non trema nella sfera tempestosa del mondo
Vedo risplendere le glorie del Cielo
E la Fede risplende ugualmente armandomi contro la Paura
Oh Dio dentro il mio petto
Onnipotente onnipresente Divinità
Vita, che in me riposa
Come io, – Vita Immortale, ho forza in te
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Vane sono le mille credenze
Che muovono il cuore degli uomini, indicibilmente vane,
Senza forza come erba avvizzita
O la più pigra schiuma sul mare sconfinato
Di suscitare dubbi in chi
Si tiene fede così stretta alla tua infinità
Così sicuramente ancorata
Alla salda roccia dell’Immortalità
Con amore che tutto abbraccia
Il tuo Spirito anima anni eterni
Pervade e si libra in alto,
Muta, sostiene, dissolve, crea e infonde la vita
Se Terra e luna scomparissero
E soli e universi cessassero di essere
E Tu soltanto rimanessi
Ogni Esistenza esisterebbe in te
Non vi è spazio per la Morte
Né atomo che il suo potere possa annientare
Poiché tu sei Essere e Respiro
E ciò che sei non potrà mai venir distrutto (PEB 125)
Simile all’aria ghiacciata della landa, che investiva Wuthering
Heights nell’implorazione di Catherine a Nelly di spalancare la finestra: «Fammelo sentire – viene dritto dalla brughiera – fammene respirare un soffio!» (WH, XII), la lirica lasciava quindi l’impressione di
verità difficili ed elusive, esclusivamente catturate da una rete incantata di parole: un essere fedele all’aria pura del cielo vi si era sollevato
attraversando l’aria sporca della terra.
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La mia anima vive
La fiducia platonica nella reincarnazione dell’anima e la poetica
affermazione di fede dei versi sembravano parafrasare passi del romanzo, penetrarne la gestazione in una sorta di proemio: la medesima
atmosfera pervadeva entrambi, i temi e i motivi che dell’uno ispiravano anche gli altri. Emily aveva forse intuito che un tema tanto vasto
doveva essere ampliato oltre la dimensione compressa della poesia,
nella narrazione più estesa e ondulante della prosa che, rivelando di
più, riesce spesso, in realtà, a celare di più.
La fedeltà a se stessi era sempre stata, per lei, la virtù primaria. La
lirica assicurava con gioiosa insolenza l’unità indivisibile del sé ma il
suo gemello poetico, Wuthering Heights, doveva al contrario vedere il
Dio nel petto dei protagonisti penosamente diviso: sostituito l’amore
umano all’amore divino, là Catherine soltanto si faceva depositaria e
portavoce della «Vita Immortale», sognata «incomparabilmente al di là
e sopra tutti voi» (WH, XV):
Se tutto il resto scomparisse, e lui rimanesse, io continuerei ancora
ad esistere; se tutto il resto rimanesse, e lui perisse, l’Universo si trasformerebbe in un possente straniero. Io non sembrerei farvi parte.
(WH, IX)
Le parole di Catherine per Heathcliff parevano quasi ripetere i versi, nei quali l’invocazione trovava però una formula di straordinaria
pace interiore e certezza spirituale:
Se Terra e luna scomparissero
E soli e universi cessassero di essere
E Tu soltanto rimanessi
Ogni Esistenza esisterebbe in te
No cowards soul is mine dimostrava che la materia equivaleva allo
spirito e, se l’uomo avesse saputo superarla, si faceva spirito essa
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Bollettino
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Società Letteraria
stessa. L’universo illimitato andava verso l’Uno, mentre la sfera del
trascendentale continuava a rimanere nel cerchio della vita, intorno e
sopra la terra: Emily l’aveva osservato quasi ogni giorno tutto ciò, tra
l’erba lunga dell’estate, sulle colline popolate dagli uccelli di brughiera
che viravano in volo, le nuvole che davano un appoggio esile alle loro
ali. Un foglio di carta e una matita in mano, erica porpora a sostenerle
il capo, sopra di lei un fanello emetteva un lungo grido dolce e altri
gli si posavano intorno sulle rocce, come se davvero nel loro mondo
non esistesse alcun male, alcuna ferita cui riparare. Nella concordia
sublime della natura era impossibile negare una prosecuzione della
vita dopo la morte: l’essere intero lo chiedeva, lo presentiva.
La natura sprigionava la certezza dell’immenso divino sempre presente. Ciò che vibrava nel cuore, ed era una sensazione fervida di
meraviglia e riconoscenza per la bellezza del mondo, sarebbe proseguito anche oltre quel che le stava intorno, nella «quieta terra» con le
campanule su cui ronzavano le farfalle, oppure in alto, tra le nuvole
nella «spenta luce color ambra» del cielo (WH, XXXIV).
Lo stesso Lockwood, il visitatore assurdo e fuori posto all’inizio
di Wuthering Heights, al termine della vicenda riconosceva che la
brughiera aveva riportato infine a casa i propri figli, seppellendoli in
sé, accolgliendoli nella propria materia. Restava nella chiusa un senso
splendido di pace e di nostalgia infinita e queste toccavano anche lui,
mentre distingueva le tombe di Catherine, di Heathcliff e di Linton:
Indugiai fra di esse, sotto quel cielo benigno; guardavo le falene
che svolavano tra l’erica e le campanule, ascoltavo il vento dolce che
frusciava tra l’erba; e mi stupivo che qualcuno potesse mai immaginare sonni inquieti per coloro che dormivano in quella terra quieta.
Molti erano gli antecedenti o i miti poetici, cui Emily Brontë si riferiva nella lirica. Percy Bysshe Shelley, espulso da Oxford per «ateismo
e materialismo», scriveva in uno dei frammenti pubblicati postumi, O
Thou Immortal Deity:
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O tu immortale divinità
Il cui trono è nella profondità del pensiero umano,
Io imploro il tuo potere e te
Per tutto ciò che l’uomo può essere e per ciò che non è,
Per tutto ciò che è stato e deve essere ancora.
L’uomo s’affidava interamente con fiducia piena al divino “immortale”: ma Shelley era un fanciullo che cantava come fanno le creature alate, anche se sono soltanto le fronde ad ascoltarle. In Wuthering Heights
Catherine era l’unica cui venisse dato trionfare sulla scissione dell’esistenza fisica degli esseri: tema della poesia matura di Emily Brontë, il
sentimento della riparazione, del risarcimento interiore attraverso l’espiazione andava a costituire anche il vertice di un pensiero filosofico.
Il tema era invocato da Shelley nell’Ode to the West Wind, l’Ode
al vento d’occidente, insieme con la vitalità del vento trascinato, lui
stesso, dall’«impulso della tua forza […] incontrollabile», nel «tumulto
delle tue possenti armonie». Il poeta si rivolgeva al vento come ad un
compagno umano, dallo «spirito» bensì «selvaggio», con il quale «vagabondare per il Cielo» in «azzurra corsa» (IV):
Tu, dalla cui invisibile presenza le morte foglie
Vengono sospinte, come spettri in fuga da un mago…
Spirito selvaggio, che ti muovi per ogni dove;
Distruttore e Preservatore (I)
Sentendosi «Troppo simile a te: indomabile, veloce e splendido»
(IV), egli chiedeva alla forza del vento di rendergli la sua stessa sostanza aerea e diventarne la voce: «Fa di me la tua lira…» (V).
Amico fraterno del poeta fanciullo e per Emily vero e proprio mito,
Byron aveva dato immagini affini nel Childe Harold, l’ennesima versione del «Pellegrino dell’Eterno». Quasi a ribadire l’intima fratellanza
poetica sull’eternità dello spirito invisibile e alato, che non cessava
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Bollettino
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d’infondere vita anche in quanto era scomparso, in versi celeberrimi
Byron aveva cantato, contemporaneamente, anche il proprio destino:
Ma io ho vissuto, e non ho vissuto invano:
La mia mente potrà perdere la sua forza, il sangue il suo fuoco,
E il mio corpo perire persino tentando di sottomettere il dolore;
Ma vi è qualcosa in me che riuscirà a fiaccare
Strazio e Tempo, e respirerà ancora quand’io morrò;
Qualcosa ch’essi trascurano d’ultra terreno,
Come il suono rammentato d’una lira muta
Scenderà sul loro spirito, e muoverà
In cuori ora di pietra l’ultimo rimorso dell’amore. (IV, 137)
Accostandolo sempre alla musica, Rochelle ripeteva l’aggettivo
«muta»: l’opposizione tra dolore fisico ed eroismo interiore, il risuonare angelico, la sfera sublime e la voce che aveva già varcato la soglia
del regno delle ombre, tutto suggellava l’affinità personale e letteraria.
Byron dava inoltre simbolo all’Immortalità che, pur figlia del tempo,
sola può sopravvivere nella poesia o nello spirito «ultraterreno» e che
sfiora l’uomo come in sogno con il «suono rammentato d’una lira
muta», sopito ma non dimenticato: lo stesso che, sulla spiaggia di
Livorno, di lì a non molto egli avrebbe udito guardando bruciare il
corpo di Shelley, annegato in mare.
Dell’amato Shelley, Emily echeggiava il topos delle foglie morte
ma pronte a rinnovarsi ad ogni primavera, con la rinascita del ciclo
naturale («Guida i miei morti pensieri sopra l’universo/Come foglie
avvizzite ad una nuova nascita!», Ode to the West Wind, V). O ancora
ricordava l’Adonais: «Gli splendori del firmamento del tempo/Possono
essere eclissati, non mai estinti…» (XLIV, vv. 388-9). Riconosceva in sé
la concezione shelleyana del poeta, mitica e divina, unica essenza o
voce primigenia della rivelazione spirituale: «una presenza che si sente
e si conosce/Nell’oscurità e nella luce, nella pianta e nella pietra,/[…]
Che guida il mondo con inesausto amore» (XLII, vv. 373-8). Parafrasa146
La mia anima vive
va il difficile Epipschidion, là dove i versi di Shelley rievocavano «un
intenso/Diffondersi, un’Onnipresenza serena» (vv. 94-6) e lo spirito
poetico diventava «L’immagine di qualche lucente Eternità» (v. 5).
Nella Biographia Literaria, Coleridge definiva d’altronde l’immaginazione secondaria un principio «essenzialmente vitale», che «dissolve,
diffonde, dissipa al fine di ricreare […], sempre lotta per idealizzare e
unificare» (XIII).
In No coward soul tornava a farsi sentire la voce dell’amato Virgilio,
dall’Ecloga VII delle Bucoliche, quando Tirsi temeva di apparire a Coridone «più vile d’un’alga rigettata dal mare» (v. 42), ispirazione per la
vacuità delle fedi umane, assimilate all’inerte schiuma marina. Lo stile
della lirica, un’alchimia di linguaggio panteista e oracolare combinato, per contrasto, al lessico scientifico e filosofico si doveva infine, in
parte ad Epitteto: l’opera, nota ad Emily, abbondava di riferimenti alle
entità interne («Tu sei un frammento di Dio. Hai in te stesso una parte
di lui […] che nel tuo intimo tutto osserva e tutto ascolta»; o insisteva
sul timore di morire: «per l’uomo il colmo d’ogni male, dell’ignobiltà
[…], non è la morte, bensì la paura della morte […] Contro questo
timore esercitati […] e ti renderai conto che soltanto così gli uomini
acquistano la libertà», Diatribe, II, 8; III, 26).
La serie di riferimenti letterari – comunque superflua da proseguire
– dimostra il raggio delle letture dell’autrice e palesemente smentisce
la Biographical Notice di Charlotte.
No coward soul is mine fu l’ultima lirica copiata da Emily Brontë
nel quaderno: da quel momento in poi la sua poesia tacque. All’opera nuova e molto vicina all’esperienza poetica Emily dedicò ogni
energia: lungo sedici mesi fino all’uscita del romanzo, i versi vennero,
infatti, accantonati. Wuthering Heights era diventato per lei una sorta
di splendida ossessione.
La sera continuava a star sveglia e a porre una candela accesa alla
finestra, perché Branwell la vedesse e riuscisse a tornare a casa nel
buio. Al chiarore della lampada lo aspettava in soggiorno e scriveva,
147
Bollettino
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vergando i fogli con la mano sottile. A notte fonda, ubriaco, il fratello
rientrava, dopo aver incespicato a lungo tra le lapidi del cimitero. Spalancava la porta e il vento gelido entrava con il suo sguardo attonito.
Imprecava, singhiozzava il suo amore perduto e un altro giorno, in cui
l’avanzare delle ombre era stato feroce. Fissava Emily con l’immensità
della sua disperazione e gridava di aver udito la sorella Maria, morta
da bambina, implorare alla porta della canonica, tra le raffiche violente del vento, implorare tutti loro perché la facessero entrare.
Emily posava la penna d’oca. Sosteneva Branwell, gli intimava di
tacere, lo aiutava a salire di sopra. Poi scendeva di nuovo e aspettava
ancora, poiché la sciabola porpora nel riquadro della finestra indicava
un’alba nuova, prossima ad affiorare dagli abissi del cielo. Riponeva
con cura le pagine scritte. Estraeva dal cassetto la pistola del padre.
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La mia anima vive
Bibliografia - Fonti primarie
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Press, 1995 (EJB, PEB).
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WH).
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Londra, Aylott & Jones, 1846.
Charlotte Brontë, Biographical Notice of Ellis & Acton Bell 1850 (BN).
Charlotte Brontë, Prefazione a Wuthering Heights 1850, Editor’s Preface.
Juliet Barker, The Brontës, Londra, Weidenfeld and Nicolson, 1994.
George Noel Gordon Byron, Byron’s Works, Londra, John Murray, 1852.
John Lock e Canon W.T. Dixon (a cura di), A Man of Sorrow: the Life,
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Oxford, Shakespeare Head Press, 1934.
149
Bollettino
della
Società Letteraria
Many of Emily Brontë’s poems disclose her conviction that in nature lies the
only possible and real union between the human and the divine worlds, which
Spinoza defines as Deus sive Natura. Glorious pantheistic sparks, the thirst for
harmony even through sorrow, the will to look at death not as a mere end,
but rather as a transformation and a passage towards a different life form,
all these themes correlate both Emily Brontë’s verse and novel. The love for
nature, the unshakeable faith in nature’s divine substance and the belief in
the sacredness of the imagination are central points in the pantheistic vision
of Wuthering Heights’s author.
Oltre l’orizzonte della materia
Le basi concettuali della fisica quantistica.
Interpretazioni e prospettive
Yves Gaspar
Caratteristiche strutturali della fisica pre-quantistica e presagi della
nascita di una nuova scienza.
La fisica quantistica corrisponde a quella parte della fisica che è nata
dallo studio del mondo microscopico, ossia di tutti i fenomeni che si
manifestano su scala atomica o subatomica. È una teoria fisica le cui
basi concettuali ci lasciano perplessi perché sembrano incompatibili
con ciò che accade normalmente su scala macroscopica umana. Tuttavia, la fisica quantistica è fino ad oggi confermata in modo eccelso
dagli esperimenti. Inoltre, è la chiave per la comprensione dei meccanismi studiati da tutta la chimica fisica ed è applicata con notevole successo in numerose forme di tecnologia: basti pensare ai transistori, ai CD, ai dispositivi che incorporano le CCD (Charge Coupled
Devices), alle applicazioni dei raggi laser, alla tecnologia di medicina
nucleare inerente alla Magnetic Resonance Imaging (MRI), alle carte
magnetiche bancarie, alle celle fotovoltaiche etc. Infatti, circa un terzo dell’economia mondiale è legata alle applicazioni tecnologiche della fisica quantistica. Tuttavia, proprio perché la fisica quantistica funziona così bene, si corre il rischio di banalizzare o velare il profondo
messaggio che essa contiene sulla natura della materia e dell’energia.
Occorre distinguere tra scienza e tecnologia in modo chiaro: la scienza è caratterizzata dal suo metodo di ricerca, mentre la tecnologia è
150
Bollettino della Società Letteraria, 2012, 151-182
Bollettino
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applicazione o proiezione della scienza. In altri termini, non possiamo confondere un libro con la sua ombra su una superficie bidimensionale.
Per portare il messaggio della fisica quantistica fuori dall’ombra, è
necessario risalire all’origine di questa parte della scienza.
Partiamo, innanzitutto, con una breve analisi inerente alla fisica di
Aristotele (384 a.C. o 383 a.C. - 322 a.C.) per quanto riguarda la natura del movimento.
Nel quadro di questa antica visione, non è concepibile che un corpo materiale possa mantenere il suo stato di movimento se non vi è
l’azione costante di una forza esterna. Infatti, immaginiamo una persona che desidera generare il moto di un sasso sulla sabbia: per mantenere lo stato di movimento, la persona dovrà continuamente esercitare una forza sul sasso, altrimenti esso si fermerà velocemente. In un
contesto diverso, potremmo dire che un’automobile non permane nel
suo stato di movimento senza che vi sia l’azione costante del motore:
qualora esso venisse spento, la macchina raggiungerebbe lo stato di
quiete. Secondo questa visione, assenza di forza significa quindi necessariamente stato di quiete.
Tali idee, sostenute da Aristotele, non corrispondono alla realtà fisica. Galileo Galilei (1564-1642) comprese l’incompletezza nell’analisi aristotelica e intuì il principio d’inerzia, il quale afferma che se un
corpo non subisce l’azione di forze esterne, allora esso permane nel
suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme – questa forma del
principio d’inerzia risale a René Descartes (1596-1650) e Isaac Newton (1642-1727). Se Aristotele avesse trascorso un periodo significativo
nel nord dell’Europa, avrebbe con ogni probabilità constatato che un
sasso spinto un’unica volta sulla superficie liscia ed estesa di un lago
gelato si muove lungo un linea retta per distanze lunghe senza che vi
sia nessuna azione costante sul sasso.
Notiamo che è necessaria un’iniziale azione sul corpo per generare il movimento. Però il principio d’inerzia asserisce che il moto per152
Oltre l’orizzonte della materia
siste anche in assenza della forza che ha trasmesso l’impulso iniziale. Galilei comprese che in assenza di attriti, il corpo proseguirebbe il
suo moto uniforme ad infinitum. L’aspetto cruciale che desideriamo
sottolineare è che questo moto inerziale, potenzialmente infinito nello
spazio ed eterno nel tempo, è un movimento la cui continuità o persistenza non ha causa: infatti, secondo il principio d’inerzia, anche se è
assente una forza o causa che agisce sul corpo, esso può trovarsi nello stato di moto rettilineo uniforme, ossia a velocità costante. Nel suo
testo “Unità della conoscenza” del 1954 (vedi Bohr 2012), Niels Bohr
(1885-1962) scrive
“Ritornando alla dibattuta questione di che cosa si debba richiedere da un’interpretazione fisica, va tenuto presente che già la meccanica classica aveva rinunciato a individuare una causa per il
moto uniforme…”
Di seguito vedremo che anche in fisica quantistica è necessario tener conto dell’esistenza di fenomeni atomici che non ammettono una
descrizione causale nel senso meccanicistico del termine, ossia causato dall’azione di forze.
Per migliorare l’orientamento delle idee sul principio d’inerzia, è
utile ricorrere anche ad un’analogia nel mondo della musica che consiste nel ruolo che svolge il silenzio negli intervalli di tempo durante
o alla fine di determinate composizioni: il ruolo del silenzio è cruciale
quanto lo è quello dei suoni, perché nonostante il fatto che la causa o
sorgente dei suoni non è più attiva, l’informazione inerente alla composizione viene comunque trasmessa o amplificata ed esiste quindi un
persistente trasporto musicale a traverso il “vuoto sonore”.
Per evidenziare ulteriormente l’esistenza di segni premonitori di
una crisi strutturale interna della meccanica classica, consideriamo il
fatto che questa parte della fisica si basa essenzialmente su tre principi, il primo dei quali è proprio il principio d’inerzia, il secondo corri153
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sponde all’equazione fondamentale della meccanica, mentre il terzo
esprime la relazione tra azione e reazione.
Il secondo principio assume la validità del primo ed asserisce che
se un corpo subisce l’azione di una determinata forza, allora esso acquisisce un’accelerazione la cui grandezza è direttamente proporzionale alla grandezza della forza. In particolare, se la forza dovesse
annullarsi, allora anche l’accelerazione sarebbe nulla. Ora, se l’accelerazione è nulla, la velocità dev’essere costante, ma non necessariamente pari a zero: quindi, dato che il corpo non è necessariamente
nello stato di quiete in assenza di una forza esterna, possiamo affermare che il secondo principio incorpora il principio d’inerzia.
Vale la pena notare che l’equazione fondamentale della meccanica
classica, ossia la relazione di proporzionalità tra accelerazione e forza, assume “paradossalmente” l’esistenza del moto uniforme per cui
non viene individuato una causa. In altri termini, la “scienza della causazione meccanica” assume l’esistenza del “moto non causato”: questo costituisce un primo velato segno premonitorio di una futura crisi interna della descrizione meccanicistica e che prepara in qualche
modo l’accettazione di nuovi irriducibili enti primitivi nel seno della
fisica quantistica.
Alla luce di questa breve analisi, è opportuno introdurre il concetto
di massa in fisica newtoniana. La massa viene definita in tre modi distinti: ossia come “quantificazione” dell’inerzia di un corpo, come sorgente di gravitazione e come proprietà di un corpo che risente la forza di gravità.
Soffermiamoci brevemente sulla prima modalità: essa appare naturale alla luce della seguente fenomenologia, sperimentabile spesso
nella vita quotidiana: maggiore è la massa, detta appunto “inerziale”,
di un corpo, maggiore sarà l’inerzia che esso tende ad opporre a cause esterne che cercano di modificare lo stato di quiete o di moto. La
massa inerziale risulta essere, quindi, la misura quantitativa della capacità che può possedere un corpo di persistere nello stato di quiete o
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Oltre l’orizzonte della materia
nello stato di moto uniforme non causato. Dato che lo stato di quiete
è un moto uniforme particolare (velocità nulla ma costante), si giunge alla conclusione che il quadro concettuale meccanicistico necessario per definire la massa inerziale deve anch’esso assumere l’esistenza
del moto non meccanicisticamente causato.
Le due altre modalità legano il concetto di massa alla gravitazione. Nell’ambito della fisica newtoniana, il modo in cui la gravitazione
dipende dalle caratteristiche del sistema viene espresso da un’equazione matematica, vale a dire la legge della gravitazione universale di
Newton.
Tuttavia, per quanto riguarda la natura stessa della gravitazione, la
fisica newtoniana non dice nulla: l’unica informazione sulla gravitazione corrisponde al fatto che essa agisce a distanza tra i corpi e a traverso lo spazio vuoto.
Riportiamo le parole dello stesso Newton, scritte in una lettera a
Richard Bentley (1662-1742), che esprimono la sua perplessità sulla gravitazione, la quale deve propagarsi nel vuoto, senza mediazione materiale:
“It is inconceivable, that inanimate brute Matter, should without ye
mediation of something else which is not material, operate upon &
affect other matter without mutual contact; as it must if gravitation
in the sense of Epicurus, be essential & inherent in it.
And this is one reason why I desired you not to ascribe innate gravity to me. That gravity should be innate & essential to matter so
yet one body may act upon another at a distance through a vacuum without the mediation of anything else & by & through which
their action and force may be conveyed from one to another is to
me such an absurdity that I believe no man who has in philosophical matters any competent faculty of thinking can ever fall into it.
Gravity must be caused by an agent acting constantly according to
certain laws, but whether this agent be material or immaterial is a
question I left to ye consideration of my readers”.
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Bollettino
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Società Letteraria
Quindi, anche la definizione di massa in relazione alla gravitazione non viene chiarita concettualmente nell’ambito della fisica newtoniana, ma viene soltanto inclusa sotto forma numerica nelle equazioni
matematiche che mettono in relazione concetti diversi. È interessante notare che un passo fondamentale e rivoluzionario nella comprensione della gravitazione è stato compiuto da Albert Einstein, il quale, tramite una profonda riflessione sui concetti di inerzia e di gravità,
ha elaborato le teorie della relatività speciale e generale: quest’ultima
lega la gravitazione alla geometria dello spazio e del tempo.
I segni premonitori di cui abbiamo parlato, ossia il moto non causato, la definizione della massa ed il problema della natura della gravitazione nel contesto della meccanica newtoniana, non sono direttamente legati all’origine della fisica quantistica, ma sono piuttosto da
collegare alle due teorie della relatività sopra menzionate. Tuttavia,
gli assunti “non meccanici” della meccanica corrispondono ad un lato
oscuro della struttura della meccanica stessa e trovano una chiara risonanza concettuale nel quadro epistemologico della fisica quantistica, la quale presentiamo nei paragrafi successivi.
Prima di procedere in tale direzione, è utile descrivere brevemente un’altro importante aspetto della meccanica newtoniana, ovvero il
determinismo. Per qualsiasi sistema, l’equazione fondamentale della
meccanica (il secondo principio) rende possibile in principio la conoscenza dell’intero passato e dell’intera evoluzione futura del sistema
a partire dalla conoscenza della posizione e della velocità del sistema ad un istante di tempo determinato. In altri termini, se è misurabile la configurazione del sistema in un unico istante di tempo, allora le configurazioni passate e future sono note per qualsiasi istante di
tempo: basterebbe risolvere l’equazione fondamentale della dinamica.
Notiamo che in fisica newtoniana si presuppone che siano misurabili e conoscibili simultaneamente la posizione e la velocità delle particelle. Questo comporta che per ogni corpo è definibile e determinabi156
Oltre l’orizzonte della materia
le in modo non ambiguo la traiettoria, ovvero l’insieme di tutti i punti
raggiunti dal corpo nello spazio con una precisa e determinata velocità. In altri termini, se è nota la traiettoria, allora per ogni punto che
definisce la posizione nello spazio del corpo in un istante di tempo, è
nota anche la velocità del corpo in quel punto.
Vedremo che il fondamentale concetto di traiettoria perde il suo significato in fisica quantistica e non vi sarà più applicabile: quindi, anche il determinismo meccanicistico, che rende problematica la compatibilità tra descrizione meccanicistica e libertà intrinseca degli esseri
umani, non è applicabile ai fenomeni quantistici.
Luce ed atomi: la nascita della fisica quantistica.
La dualità onda-particella.
Dopo numerosi tentativi, e con “un atto di disperazione” finale, il fisico Max Planck (1858-1947) introdusse un’ipotesi molto particolare
sull’interazione tra luce e materia per spiegare la radiazione elettromagnetica emessa da un corpo caldo portato ad una determinata temperatura. Quell’ipotesi contraddice tutto ciò che era ritenuto certezza
sulla natura della luce nel quadro della teoria dell’elettromagnetismo
classico: vale a dire, la luce è un fenomeno ondulatorio ed è concepita come vibrazione o onda del campo elettromagnetico.
Quando il modello ondulatorio classico della luce viene unito alla teoria atomica classica della materia, risulta impossibile spiegare la radiazione emessa dai corpi caldi. L’ipotesi di Planck introduce per la prima volta in fisica il quanto d’azione, o costante di Planck, e permette
di comprendere, con ottimo accordo con i dati sperimentali, la radiazione termica dei corpi.
Prima di approfondire il concetto di quanto d’azione, soffermiamoci brevemente sullo sviluppo della teoria atomica della materia. La co157
Bollettino
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noscenza dell’esistenza in natura di due tipi di carica elettrica, positiva e negativa, ha portato il fisico Joseph John Thompson (1856-1940)
a proporre un modello specifico per l’atomo, la più piccola particella di materia chimicamente indivisibile. In questo modello atomico, la
carica elettrica positiva è uniformemente distribuita nell’atomo, mentre la particella portatrice di carica negativa, ossia l’elettrone scoperto
da Thompson, è localizzato in punti precisi come i grani d’uva secca
immersi in una pasta “positiva” di un panettone.
Successivamente, gli esperimenti di Ernest Rutherford dimostrarono
l’incompatibilità tra il modello di Thompson e alcuni fenomeni studiati
in laboratorio. Gli esperimenti di Rutherford consistevano nel bombardare degli atomi con particelle alfa, ossia con nuclei di atomi di elio. I
dati dimostrarono che alcune particelle alfa venivano retro-diffuse: risultato molto sorprendente, analogo alla situazione dove alcuni proiettili sparati da un fucile su un panettone “rimbalzano” e vengono mandati
indietro. Rutherford comprese che il modello “a panettone” di Thompson è inadeguato e propose un nuovo modello atomico, che è probabilmente ancora oggi l’immagine più diffusa dell’atomo: la carica positiva è concentrata in un piccolissimo spazio, chiamato nucleo atomico,
mentre gli elettroni portatori di carica negativa ruotano intorno al nucleo descrivendo traiettorie chiuse esterne. Il motivo per cui gli elettroni rimangono nell’atomo legati al nucleo corrisponde al fatto che la forza elettrica esistente tra nucleo positivo e elettroni negativi è attrattiva.
La nascita della fisica quantistica è legata ai problemi che emergono nei modelli classici quando essi tentano di descrivere ogni fenomeno che coinvolge l’interazione tra luce e materia, ovvero quando vengono utilizzati unitamente il modello ondulatorio della luce nel
contesto dell’elettromagnetismo classico ed il modello atomico di Rutherford: in particolare, il problema sopramenzionato inerente allo
studio della radiazione emessa da un corpo caldo non è risolvibile in
questo contesto classico.
L’ipotesi di Planck consiste nel supporre che la materia e la radiazione scambiano tra di loro energia in modo discreto, ovvero in “pac158
Oltre l’orizzonte della materia
chetti o quanti”. L’energia scambiata è quindi una variabile discreta,
vale a dire che l’energia può assumere solo un insieme determinato
di valori, ma non i valori intermedi. Se questo non fosse il caso, allora non si potrebbe spiegare in modo soddisfacente perché un pezzo
di ferro, che viene progressivamente scaldato nel fuoco, emette prima
una radiazione di colore rosso, poi arancione, giallo e cosi via, man
mano che la temperatura cresce. L’ipotesi di Planck, che spiega invece benissimo questo fenomeno, postula che l’energia di interazione
tra luce e materia è una variabile discreta: per chiarire il concetto possiamo considerare l’esempio della variabile che corrisponde al numero di persone in una determinata aula. Questo numero potrà assumere soltanto i valori 1, 2, 3, 4, 5, 6,… ma nessuno dei valori intermedi,
dato che non ha senso parlare di 3,6 persone in aula. Se consideriamo 1 come l’unità di base, allora tutti gli altri valori possono esprimersi come multipli dell’unità: 1*1, 1*2, 1*3, 1*4, 1*5, 1*6, … Secondo l’elettromagnetismo classico, l’energia scambiata dovrebbe essere invece
una variabile continua: come esempio possiamo considerare la temperatura dell’aula, la quale può assumere i valori 20 gradi, 21 gradi,
22 gradi, …In tal caso, anche qualsiasi valore intermedio è ammissibile, ad esempio 21,34 gradi. Notiamo che nel caso della variabile continua, non esiste un unità di base tale da poter esprimere tutti i possibili valori come multiplo di questa unità.
L’irriducibile unità fondamentale, che nel contesto della fisica
quantistica viene denominato quanto d’azione, non vale 1, ma è pari
alla costante di Planck h = 6,62. 10^(-34) J.s, dove J=Joule è l’unità di
misura dell’energia, mentre s=secondo è l’unità di misura del tempo
nel sistema internazionale.
La relazione formulata da Planck per l’energia scambiata tra radiazione e materia corrisponde a E=h.f, dove E rappresenta l’energia ed
f corrisponde alla frequenza associata alla radiazione.
Vale la pena sottolineare come questa relazione implica un radicale
conflitto con il modello ondulatorio della luce, nel quale l’energia veicolata dall’onda luminosa è proporzionale al quadrato dell’ampiezza
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Bollettino
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dell’onda. Questo fatto è essenziale, dato che al variare della frequenza, cambia l’energia nella formula di Planck, mentre se cambia la frequenza nel modello classico, l’energia rimane costante.
Max Planck, tuttavia, non prese sul serio la sua ipotesi al livello fisico, ma piuttosto la considerava una risoluzione tecnica che poteva ammettere una interpretazione classicamente soddisfacente e forse rassicurante.
A quell’epoca, il giovane Albert Einstein (1879-1955) prese sul serio l’ipotesi di Planck per risolvere un altro problema, ovvero quello posto dallo studio dell’effetto fotoelettrico. Questo fenomeno nasce
quando un metallo viene illuminato dalla radiazione elettromagnetica. Si osserva che la radiazione traferisce energia agli elettroni del metallo in modo che questi possono essere “strappati” e liberati. Inoltre,
si rileva che il numero di elettroni strappati è proporzionale all’intensità della radiazione e che la velocità con cui gli elettroni si muovono quando essi sono strappati è proporzionale alla frequenza della radiazione. Entrambe queste proprietà osservate non ammettono una
spiegazione nel quadro del modello ondulatorio della luce. Einstein
si rese conto che l’ipotesi di Planck rappresenta una chiave adeguata per la comprensione del fenomeno. Però, Einstein considerò come
vera l’ipotesi di Planck non solo per gli scambi di energia tra materia e
luce, ma anche per la luce stessa, vale a dire egli assunse che l’energia
associata ad un raggio di luce avente determinata frequenza è una variabile discreta: l’energia complessiva è un multiplo intero di un energia fondamentale data dalla relazione di Planck E=h.f, la quale rappresenta l’energia posseduta da ogni singolo “quanto di luce”, chiamato
fotone. Un raggio composto da 12 fotoni di frequenza f avrà un’energia complessiva pari 12h.f, un raggio composto da 13 fotoni avrà un’energia complessiva pari a 13h.f e cosi via. Nella spiegazione di Einstein il fotone si comporta come una particella, nel senso che quando
esso interagisce con l’elettrone avviene un fenomeno paragonabile
ad una collisione tra due palle di biliardo: il fotone incidente entra in
collisione con l’elettrone, gli trasferisce energia in modo da provoca160
Oltre l’orizzonte della materia
re l’espulsione dell’elettrone con una determinata velocità o energia
di movimento, detta energia cinetica. Riportiamo le parole dello stesso Einstein del 1905 (vedi Rosenblum and Kuttner):
“According to the presently proposed assumption, the energy in a
beam of light emanating from a point source is not distributed continuously over larger and larger volumes of space but consists of a
finite number of energy quanta, localized at points of space which
move without subdividing and which are absorbed and emitted
only as units”.
Nella prospettiva di queste ipotesi di Einstein sul comportamento
dei raggi luminosi, appaiono naturali le caratteristiche dell’effetto fotoelettrico. In effetti, l’aumento dell’intensità equivale all’aumento del
numero di fotoni: quindi cresce in proporzione anche il numero di
elettroni strappati. Inoltre, l’aumento della frequenza della radiazione
comporta, secondo l’equazione di Planck, l’aumento dell’energia veicolata da ogni fotone, quindi aumenta anche l’energia trasferita agli elettroni: questo spiega l’aumento della velocità degli elettroni strappati.
Anche sulla base di altri studi, Einstein sostenne che la luce corrisponde ad flusso di fotoni, e non ad un fenomeno ondulatorio. Pochi erano
quelli che presero sul serio queste idee, compreso lo stesso Planck. Uno
dei motivi è che il modello che potremmo chiamare di Einstein-Planck
sulla radiazione entra in conflitto con il modello ondulatorio, il quale
è stato confermato mirabilmente da numerosissimi esperimenti, detti di
interferenza. I più noti sono quelli di Thomas Young (1773-1829) e di
Augustin-Jean Fresnel (1788-1827). La versione più famosa degli esperimenti di Thomas Young corrisponde a quelli con “doppia fenditura”.
Figura 1 - Principio di un esperimento di interferenza.
161
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Nella figura 1 viene riportato uno schema di base degli esperimenti di interferenza. A partire dalla sinistra, le onde luminose monocromatiche (caratterizzate da un’unica frequenza) attraversano un primo
schermo avente un unico foro e si propagano poi in tutte le direzioni verso il secondo schermo, nel quale vi sono due fenditure. Queste
fenditure si comportano come due sorgenti luminose secondarie che
emettono le onde verso un ultimo schermo, fotograficamente sensibile. Non si osservano sullo schermo due macchie chiare in corrispondenza dei due fori, ma bensì una serie di strisce chiare e scure alternate, dette frange di interferenza e che vengono spiegate benissimo
con il modello ondulatorio della luce. Infatti, nelle zone chiare dello schermo avviene l’interferenza costruttiva: le onde che provengono
dai due fori vi arrivano in coerenza di fase, ovvero il massimo (o cresta d’onda) dell’una corrisponde al massimo dell’altra ed i due moti
ondulatori si sommano (in questi punti luce + luce = luce). Nei punti
scuri dello schermo avviene l’interferenza distruttiva: le onde vi arrivano in opposizione di fase, ovvero il massimo dell’una corrisponde al
minimo (o ventre d’onda) dell’altra ed i due moti ondulatori si annullano (in questi punti luce + luce = buio). Una proprietà fondamentale
consiste nel fatto che la distanza tra due zone chiare (o tra due zone
scure) dipende dalla separazione esistente tra i due fori: minore è la
distanza tra i fori, maggiore sarà la separazione tra le macchie chiare
o scure. Se immaginiamo la luce come un fascio di fotoni o “particelle di luce”, allora ci si aspetta di osservare sullo schermo fotografico
due macchie di “impatti” in corrispondenza delle due fenditure, perché classicamente immaginiamo che un singolo fotone attraversa sia
la fenditura superiore, sia quella inferiore, ma non entrambe come lo
farebbe un’onda. Invece, gli esperimenti di interferenza che sono stati realizzati anche con singoli fotoni dimostrano che si formano delle
frange di interferenza sullo schermo fotografico.
Emerge a questo punto una caratteristica essenziale della fisica
quantistica, che corrisponde alla dualità onda-particella per la luce.
Negli esperimenti che coinvolgono l’effetto fotoelettrico, la luce si
162
Oltre l’orizzonte della materia
comporta come un flusso di particelle. Notiamo che anche l’esperimento di Arthur Compton, che consiste nello studio dell’interazione
tra luce ed elettroni, dimostra che la luce si comporta come un flusso di fotoni, i quali, quando entrano in collisione con gli elettroni, si
comportano proprio come piccole palle da biliardo localizzate. Invece, negli esperimenti di interferenza, la luce si comporta come fenomeno ondulatorio ed esibisce un comportamento incompatibile con il
modello corpuscolare. In fisica quantistica, si afferma che la luce non
esiste di per sé nello stato di onda o nello stato di particella: invece,
è l’esperimento stesso che seleziona una delle due possibilità. Nel testo “L’unità della conoscenza” del 1954 (vedi Bohr 2012), N. Bohr afferma che
“Il fatto che l’interazione tra gli strumenti di misura ed il sistema fisico in studio sia parte integrante del fenomeno quantico, non solo
ha rivelato una limitazione inattesa della concezione meccanicistica della natura, caratterizzata dall’attribuzione di proprietà autonome ai sistemi fisici, ma ci ha forzati a prestare, nel predisporre
le esperienze, alle condizioni di osservazione”.
Le proprietà della luce non esistono autonomamente, ma sono intrinsecamente legate all’atto di osservazione o al tipo di esperimento che viene eseguito. Nonostante il fatto che il carattere ondulatorio
o corpuscolare della luce sono incompatibili nello stesso esperimento, essi costituiscono secondo Bohr proprietà complementari, le quali
emergono in situazioni sperimentali diverse e forniscono assieme una
descrizione completa del fenomeno chiamato luce.
L’atomo quantistico.
Niels Bohr ha contribuito alla risoluzione degli enigmi inerenti alla fisica atomica. In particolare, il problema posto dagli spettri di emissione o di assorbimento degli elementi non ammette spiegazioni in un
quadro teorico basato sull’atomo di Rutherford e sull’elettromagneti163
Bollettino
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smo classico. In sostanza, si tratta del problema del colore dei corpi,
illuminati o riscaldati. Ad esempio, il colore blu del cielo durante il
giorno ed il colore giallo intenso emesso dal sale quando cade su una
fiamma, non sono spiegabili dalla teoria classica. Ogni sostanza sembra emettere un insieme caratteristico ben definito di colori, e quindi
di radiazione con precisa lunghezza d’onda o frequenza. Invece, secondo il modello classico, una sostanza riscaldata dovrebbe irradiare
una gamma molto vasta di colori: infatti, quando un elettrone nell’atomo di Rutherford oscilla, e quindi accelera periodicamente, l’elettromagnetismo classico prevede che esso debba emettere radiazioni
elettromagnetiche. Considerato il fatto che, nella descrizione meccanicistica, le oscillazioni sono influenzate dalle innumerevoli collisioni
ed azioni di forze, ne risulta che l’insieme di frequenze delle onde generate, e quindi dei colori emessi, è molto ampio e incompatibile con
i dati sperimentali della spettroscopia.
Ispirato dall’ipotesi di Planck, Niels Bohr postula che i livelli di energia degli elettroni nell’atomo devono essere descritti mediante una variabile discreta. L’elettrone può occupare solo un insieme discreto di
livelli di energia ed i stati intermedi non sono ammissibili, anzi non
esistono. L’elettrone può compiere una transizione da un livello all’altro, realizzando ciò che viene chiamato salto quantistico, emettendo
un fotone la cui energia è pari alla differenza tra i due livelli di energia: la relazione di Planck implica che la frequenza della radiazione
associata è ben determinata e che quindi il colore prodotto è ben definito.
Con questo modello atomico, Bohr risolve un altro grave problema che riguarda la stabilità del modello di Rutherford. Infatti, un elettrone in orbita attorno al nucleo accelera continuamente, dato che la
direzione della velocità varia in ogni istante di tempo. Secondo l’elettromagnetismo classico, un elettrone accelerato deve emettere radiazione elettromagnetica, e così facendo esso perderebbe energia. Questo implica che l’elettrone non può permanere sulla sua traiettoria
circolare intorno al nucleo atomico e che, di conseguenza, deve ca164
Oltre l’orizzonte della materia
dere sul nucleo stesso. L’esistenza di un livello di energia minimo non
nullo postulato da Bohr, unito alla sua ipotesi secondo la quale un
elettrone, appartenente ad un determinato livello di energia, non irradia onde di luce (in contraddizione con l’elettromagnetismo classico),
permette di rendere conto della stabilità degli atomi.
Il principio di incertezza
Il fisico Werner Heisenberg (1901-1976) studiò anch’esso i problemi
posti dalla spettroscopia ai modelli atomici. Egli giunse alla conclusione che è necessario rinunciare al concetto di traiettoria per descrivere
il comportamento degli elettroni nell’atomo. In coerenza con le idee
di Bohr, si deduce che, se non esiste la traiettoria, allora non ha effettivamente senso di parlare di accelerazione dell’elettrone e, quindi,
nemmeno di radiazione emessa. Bohr e Heisenberg insistettero molto
nel dire che, per descrivere il salto quantistico, non è applicabile una
descrizione spazio-temporale: inoltre, il salto quantistico non ammette una descrizione causale meccanicistica. Infatti, l’elettrone, per poter compiere un salto quantistico, deve emettere un fotone: tuttavia,
come fa l’elettrone a “conoscere” la frequenza, e quindi l’energia, del
fotone che deve emettere prima di fare il salto, dato che essa equivale
alla differenza tra i livelli finali ed iniziali? Notiamo che anche il sopramenzionato moto uniforme in meccanica classica non è causato meccanicisticamente e che, quindi, vi è un punto di incontro con il quadro epistemologico della fisica quantistica.
Dallo studio delle questioni atomiche, Heisenberg giunge al principio
di incertezza o di indeterminazione, il quale afferma che non è possibile conoscere simultaneamente con precisione arbitraria il valore
di due grandezze coniugate, tali velocità e posizione di una particella
oppure energia scambiata ed istante di tempo corrispondente. L’esperimento che consente di determinare con precisione la posizione di
una particella comporta un incertezza elevata sulla velocità. Vice versa, un esperimento che determina con precisione la velocità, non consente di determinare precisamente la posizione di una particella. Bohr
165
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asserisce che i due tipi di esperimenti o di atti di osservazione, che ontologicamente definiscono posizione e velocità di una particella, sono
complementari. Ne risulta l’inapplicabilità del concetto di traiettoria,
dato che esso presuppone l’esistenza “autonoma” di punti precisi nello spazio per i quali è definita la velocità della particella. Quindi, anche il determinismo della meccanica classica non è applicabile, per il
motivo che la conoscenza simultanea di posizione e velocità sono requisiti essenziale per poter determinare la traiettoria “autonoma”, la
quale è inconcepibile in fisica quantistica. Notiamo che il principio di
incertezza non è legato all’imperfezione tecnica dei strumenti di misura: anche una ipotetica civiltà infinitamente avanzata dal punto di vista tecnologico non può aggirare il principio di Heisenberg, il quale è
una caratteristica intrinseca della natura.
La meccanica ondulatoria.
Il fisico francese Louis de Broglie estese la dualità onda-particella della luce a tutte le particelle della natura: se le onde luminose si comportano anche come corpuscoli, allora ogni particella di materia potrebbe
comportarsi come un onda? La risposta di Louis de Broglie è affermativa e anche l’elettrone, il protone ed il neutrone possono manifestarsi
come onde. Di conseguenza, l’elettrone nell’atomo corrisponde ad un
onda: essa, tuttavia, deve esistere nello spazio limitato che corrisponde
all’orbita occupata dall’elettrone e per questo motivo è di tipo stazionario, analoga all’onda generata dalla vibrazione di una corda di uno
strumento musicale. La concezione dell’elettrone come onda stazionaria
nell’atomo spiega il modello atomico di Bohr. Infatti, in uno strumento musicale la frequenza delle onde generate dalla vibrazione di una
corda, avente lunghezza determinata, può assumere soltanto un insieme discreto di valori: solo variando la lunghezza della corda si produce
una nota musicale di altezza diversa. Quindi, dato che nell’atomo l’orbita dell’elettrone è di lunghezza determinata, anche la frequenza e l’energia associata possono assumere soltanto valori discreti, i quali corrispondono proprio ai livelli di energia quantizzati dell’atomo di Bohr.
166
Oltre l’orizzonte della materia
Il carattere ondulatorio dell’elettrone fu dimostrato sperimentalmente
dall’esperimento di Clinton Joseph Davisson (1881-1958) e Lester Germer (1869-1971), nel quale la diffrazione di un fascio di elettroni su
un cristallo produce una figura di interferenza analoga a quella rappresentata nella figura 1 e che può essere spiegata solo ricorrendo ad
un modello ondulatorio. Successivamente, numerosi esperimenti di
interferenza “a doppia fenditura” hanno confermato la dualità ondaparticella per altre particelle materiali: lo schermo con due fori è stato
attraversato da singoli elettroni, neutroni, protoni, atomi interi, da singole molecole (composte addirittura da 60 atomi di carbonio), e sullo schermo fotografico sono state osservate in ogni caso delle frange
di interferenza.
In fisica, ogni moto ondulatorio viene descritto da un’equazione,
la quale viene chiamata equazione d’onda. Ad esempio, le onde luminose sono descritte dalle equazioni di Maxwell. Qual è l’equazione
che descrive le “onde di materia” di de Broglie? Fu Erwin Schrödinger
(1887-1961) a scoprire tale equazione, la quale è alla base della cosiddetta meccanica ondulatoria.
Inizialmente, Schrödinger pensò di poter interpretare la funzione
d’onda, ossia la soluzione della sua equazione, come un onda di tipo
classico, in modo da rendere possibile una spiegazione causale della
dinamica degli elettroni nell’atomo e di liberare la fisica dal concetto
discontinuo e a-causale di salto quantistico, a proposito del quale egli
stesso dichiarò (vedi Rosenblum and Kuttner):
“If we are still going to put up with these damn quantum jumps, I
am sorry that I ever had anything to do with quantum mechanics”
Schrödinger tentò di concepire la funzione d’onda come reale distribuzione nello spazio di materia o di carica elettrica. Tuttavia, se un
particella ha le sue proprietà di massa e carica distribuite nello spazio,
non si riesce a spiegare in modo soddisfacente il fatto che, durante
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Bollettino
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un’interazione con un’altra particella o durante un atto di osservazione, tali proprietà si manifestano istantaneamente su scala locale: tutta
la carica elettrica distribuita nello spazio dovrebbe manifestarsi in un
punto, e tale meccanismo dovrebbe coinvolgere un’azione che si propaga nello spazio più velocemente della luce. In tal caso, si ricorre ad
un’azione istantanea, discontinua, in tutto lo spazio, di natura contraria a ciò che Schrödinger stesso cercò di introdurre in fisica: la continuità dei processi dinamici.
L’interpretazione corretta e coerente della funzione d’onda fu elaborata dal fisico Max Born (1882-1970), il quale suggerì che il valore
assoluto al quadrato della funzione d’onda corrisponde alla probabilità di osservare una particella in un determinato punto dello spazio
e ad un dato istante di tempo. La fisica quantistica è quindi essenzialmente probabilistica.
È imperativo soffermarci sul concetto di probabilità in fisica quantistica per evitare alcune possibili confusioni. Innanzitutto, è un errore importante dire che la funzione d’onda corrisponde alla probabilità
che una particella si trova in un determinato punto ad un dato istante: l’ambiguità corrisponde alle parole “una particella si trova”. Infatti,
prima dell’atto di osservazione, non ha senso dire che la particella si
trova in un punto: è l’atto di misura o di osservazione stesso che definisce o conferisce realtà alla posizione nello spazio della particella.
Prima dell’atto di osservazione, non ha senso il concetto di posizione
della particella. Notiamo, in questo contesto, che la linearità dell’equazione di Schrödinger implica il principio di sovrapposizione: se una
soluzione descrive la particella nello stato A, ed un’altra soluzione descrive la particella nello stato B, allora la somma delle due soluzioni è
anch’essa una soluzione dell’equazione di Schrödinger. In fisica classica, una particella può trovarsi soltanto in uno dei due stati A o B,
non in due stati diversi contemporaneamente. Invece, in fisica quantistica, la particella può trovarsi in uno stato di sovrapposizione di tutte
le possibilità, ed è l’atto di misura o di osservazione che riduce o “collassa” la funzione d’onda complessiva ad una delle possibilità classi168
Oltre l’orizzonte della materia
che osservabili. Ad esempio, nell’esperienza di interferenza una particella è descritta da una sovrapposizione di due possibilità: la particella
passa attraverso il foro superiore (A), e la particella passa attraverso il
foro inferiore (B). In fisica classica, invece, ha senso parlare solo della particella che passa attraverso il foro superiore, oppure della particella che passa attraverso il foro inferiore.
In fisica quantistica, finché non è esplicitamente osservato il passaggio della particella in prossimità di uno dei due fori, la particella è come un onda che li attraversa “simultaneamente”. Esperimenti che dimostrano queste predizioni della fisica quantistica sono stati
realizzati, ad esempio ponendo immediatamente dietro il foro A uno
strumento di misura che rileva il passaggio di una particella: se lo
strumento rileva il passaggio dopo il foro A, allora si potrà dire con
certezza che la particella è passata attraverso il foro A. Se lo strumento non rileva la particella, allora si potrà concludere con certezza che
la particella è passata a traverso il foro B. Questo sembrerebbe rendere possibile una falsificazione della fisica quantistica, però in modo
realmente sorprendente, gli esperimenti realizzati mostrano che, qualora uno strumento di misura è posto dietro uno dei due fori, la figura
di interferenza scompare e si formano sullo schermo due macchie di
impatti in prossimità dei due fori, come ci si aspetterebbe da una visione classica. Se si rimuove lo strumento di misura, si formano sempre le frange di interferenza. L’atto di misura stesso definisce la natura del fenomeno in questione. In assenza di esplicita osservazione, la
traiettoria della particella (attraversare A o B) non esiste: in tal caso la
particella si comporta come onda e genera una figura di interferenza.
Un’altra caratteristica importante della descrizione quantistica da
tenere presente corrisponde al fatto che il concetto di probabilità è
fondamentalmente distinto da quello della statistica classica. Un esempio semplice potrà chiarire queste idee: immaginiamo un gioco nel
quale qualcuno nasconde un dado sotto un bicchiere non trasparente rovesciato su un tavolo, e che vi sono due bicchieri: un osservatore esterno dovrà indovinare sotto quale dei due bicchieri si trova il
169
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dado. L’osservatore sa che vi è una probabilità pari a 50% che il dado
venga osservato sotto uno dei due bicchieri. Però, immaginiamo un
altro osservatore posto sotto il tavolo che supponiamo essere trasparente: egli osserva il dado e sa sotto quale bicchiere si trova. Quindi,
per quest’ultimo osservatore la probabilità di trovare il dado in un bicchiere sarà pari a 100%, mentre per l’altro bicchiere la probabilità sarà
pari a 0%. Questo implica che la probabilità della statistica classica è
soggettiva, dato che essa dipende sempre dall’osservatore: la probabilità è semplicemente legata al livello di conoscenza degli osservatori
sul fenomeno. Se trasportiamo questo esempio nel mondo della fisica
quantistica, la situazione sarebbe completamente diversa. Infatti, prima di qualsiasi atto di osservazione, il dado è in uno stato di sovrapposizione delle due possibilità, ossia quella di essere osservato sotto
il bicchiere (A) e quella di essere osservato sotto l’altro bicchiere (B).
Non ha senso fisico parlare del dado già esistente sotto A o sotto B.
Tuttavia, l’atto di osservazione della persona che si trova sotto il tavolo riduce o “collassa” la funzione d’onda ad una delle due possibilità A o B. Quindi, dopo questo atto di osservazione, il dado esiste sotto uno dei due bicchieri: in modo obiettivo, e non più soggettivo, la
probabilità di osservare il dado sotto uno dei due bicchieri è di 100%,
mentre la probabilità di osservare il dado sotto l’altro bicchiere è pari
a 0%, anche per il primo osservatore che guarda sopra il tavolo e per
qualsiasi altro osservatore del mondo. Se la funzione d’onda viene ridotta in un punto, allora essa è “collassata” in tutto l’universo. La riduzione della funzione d’onda è legata ontologicamente al fenomeno,
non solo alla mancanza di conoscenza.
Un altro aspetto importante che riguarda il “collasso” della funzione d’onda corrisponde alla casualità “selvaggia” associata all’esito di
un atto di misura o di osservazione. Prima che avviene tale atto, una
particella si trova in un stato di sovrapposizione di tutte le possibilità
A, B, C ecc., e la misura o l’osservazione seleziona una di queste possibilità in modo irriducibilmente casuale. Questa casualità non ammet170
Oltre l’orizzonte della materia
te un’interpretazione legata al caos deterministico dei sistemi meccanici e viene quindi designata con il termine “selvaggia”. Albert Einstein
espresse la sua perplessità sulla casualità intrinseca della fisica quantistica con una frase ben nota: “Dio non gioca ai dadi”. Tuttavia, la sua
reale e più profonda preoccupazione riguardava il concetto stesso di
realtà nell’ambito della fisica quantistica, che discuteremo nella sezione successiva.
Sviluppi dell’interpretazione di Copenhagen della fisica quantistica.
L’interpretazione di Copenhagen della fisica quantistica è dovuta essenzialmente a Niels Bohr ed è caratterizzata dai seguenti concetti principali: la dualità onda-particella e la complementarità, il principio di indeterminazione o di incertezza di Heisenberg, il principio di
corrispondenza, il principio di sovrapposizione e l’atto di osservazione o di misura.
Dopo una breve presentazione di queste importanti caratteristiche,
affronteremo alcuni tentativi di sviluppo o di precisazione dell’interpretazione di Copenhagen, essenzialmente tramite il concetto di informazione.
La dualità onda-particella, la complementarità.
Le particelle della natura non possiedono in modo “autonomo” le loro
proprietà. Senza l’inclusione dello specifico strumento di misura nella descrizione del fenomeno, la luce non è soltanto onda, o soltanto particella (fotone): in alcuni esperimenti, la luce si comporta come
un flusso di particelle, in altri la luce produce effetti descrivibili unicamente in termini del modello ondulatorio. Lo stesso vale per qualsiasi
particella materiale: elettroni, protoni, neutroni, atomi, ecc. Il compor171
Bollettino
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tamento corpuscolare e quello ondulatorio sono aspetti incompatibili nel medesimo esperimento o atto di misura: tuttavia, essi sono
proprietà complementari. Entrambi gli aspetti rendono possibile la
completa descrizione del sistema, anche se il verificarsi dell’uno esclude il verificarsi dell’altro. Bohr ricorre, nel suo bellissimo testo “Unità
della conoscenza” (vedi Bohr 2012), ad un’analogia inerente alla sfera della psicologia: l’essere umano possiede (almeno) due atteggiamenti, ossia quello emotivo e quello analitico-razionale. Ora, quando
una persona si trova in uno stato emotivo, non è possibile l’auto-analisi razionale di questo stato, dato che l’essere razionale è incompatibile con l’essere emotivo. Il verificarsi dell’uno esclude il verificarsi
dell’altro: tuttavia, entrambi gli aspetti sono essenziali caratteristiche
della persona umana e la loro descrizione fornisce un modello completo dei comportamenti.
Il principio di incertezza o di indeterminatezza di Heisenberg
Questo principio asserisce che non è possibile la conoscenza simultanea di posizione e velocità di una particella, oppure di istante di tempo
ed energia coinvolta in un processo. Il quanto fondamentale d’azione,
ovvero la costante di Planck, vincola l’incertezza sul valore delle variabili coniugate: matematicamente, il prodotto tra le incertezze sulle due
grandezze non dev’essere inferiore alla costante di Planck. Ad esempio, facendo passare un fotone attraverso uno schermo con un piccolissimo foro, si potrebbe ricavare una conoscenza precisa della posizione del fotone al momento del passaggio. Tuttavia, è esclusa una
conoscenza precisa della velocità, per il motivo ben noto che la luce,
quando attraversa un piccolo foro, subisce il fenomeno della diffrazione e si propaga in tutte le direzioni come un onda: quindi è incerta la
velocità “direzionale” della luce al passaggio attraverso il foro.
Nel contesto del principio di incertezza, viene talvolta affermato che
l’atto di misura o di osservazione altera o modifica il sistema osservato
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Oltre l’orizzonte della materia
o misurato. Tale affermazione comporta un sostanziale grado di ambiguità: in effetti, non è appropriato parlare di perturbazione del sistema, dato che non è concepibile un sistema che esiste prima dell’atto di misura. L’atto è parte integrante del fenomeno o sistema stesso.
Non ha senso una concezione di fenomeno “autonomo” non misurato o non osservato.
Il principio di corrispondenza.
Tale principio asserisce che, per i grandi numeri quantici, il sistema è
descrivibile con la fisica classica. Quando i corpi sono macroscopici,
il comportamento tende ad essere classico, non-quantistico.
Nell’interpretazione di Copenhagen, l’aspetto classico non è obsoleto o secondario: costituisce un aspetto essenziale. Infatti, per Bohr
un fenomeno può essere considerato tale solo assieme al processo di
misura, nel quale sono coinvolti corpi o strumenti macroscopici che
possiedono un comportamento classico e che sono tali da rendere
possibile la comunicazione in termini di linguaggio classico dei risultati della misura ad un altro osservatore. Per Bohr, non ha senso parlare di un fenomeno se non vi è la possibilità di raccontare a qualcun
altro cosa è stato osservato, e questo richiede un linguaggio adatto,
ossia basato sulla classicità. Svolgono quindi un ruolo essenziale i corpi macroscopici classici, con i quali la particella quantistica interagisce: questa interazione con lo strumento di misura produce il “collasso” della funzione d’onda ad una delle possibilità classiche. Usando le
parole del fisico François Lurçat (vedi Lurçat 1990), non si capiscono
le cose della natura solo “con il cervello” (e le sue astrazioni), ma anche con il corpo (macroscopico e classico). Il ruolo della “corporeità
classica” corrisponde al rendere possibile un conferimento semantico
all’essere del fenomeno.
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Bollettino
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Il principio di sovrapposizione e l’atto di osservazione o di misura.
L’atto di osservazione o di misura, il quale corrisponde secondo Bohr
ad un atto irreversibile di amplificazione dal microscopico al macroscopico, è la causa del “collasso” della funzione d’onda: questa causalità ha una risonanza ontologica non locale che si ripercuote in tutto
l’universo. Questa causazione non è fisico-meccanica: non è originata
dall’azione di forze e si manifesta a distanza in modo istantaneo, violando la relatività speciale, la quale suppone che la velocità della luce
sia la velocità massima in fisica. Ci ricordiamo della persistenza non
meccanicisticamente causata del moto rettilineo uniforme in meccanica e del problema della gravitazione in fisica newtoniana: sono dei
problemi epistemologicamente precursori di quelli della fisica quantistica. La causa in atto nel problema dell’osservazione o della misura
in fisica quantistica corrisponde ad un “influenza semantica”, la quale
è assente nei quadri della fisica classica: dopo un’unica osservazione,
non si possono più “dire” le stesse cose sul sistema.
Riflessioni sul ruolo del concetto di informazione in fisica quantistica.
Aage Bohr (1922-2009), uno dei figli di Niels Bohr, sviluppò un’interpretazione “estrema” della fisica quantistica a partire dall’interpretazione di Copenhagen (vedi Rosenblum and Kuttner). In questa visione,
gli atomi, i fotoni ed altre particelle non hanno realtà fisica: sono dei
concetti astratti che introduciamo nelle nostre descrizioni degli eventi
quantistici, i quali corrispondono alle interazioni tra diversi strumenti di misura macroscopici. Anche la cosiddetta interpretazione di Ithaca (vedi Rosenblum and Kuttner), proposta dal fisico David Mermin,
nega la realtà delle usuali proprietà fisiche delle particelle, e considera invece come reali soltanto le correlazioni tra gli enti nei processi di interazione e di misura. Da entrambe queste interpretazioni risulta un ribaltamento dell’approccio riduzionista delle scienze fisiche:
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Oltre l’orizzonte della materia
le particelle non sono i costituenti fondamentali o ultimi che spiegano le proprietà dei corpi macroscopici. Soltanto i corpi macroscopici sono gli enti reali e fondamentali, e le loro interazioni o correlazioni soddisfano le leggi della fisica quantistica. La descrizione di queste
interazioni ricorre ad una nozione astratta non-reale: la particella, l’atomo, il fotone ecc.
Il contesto di queste interpretazioni richiama una concezione filosofica proposta da Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646-1716): i costituenti fondamentali del mondo sono le “monadi”, ciascuna delle quali
riflette, in modo proprio, ogni altra. Le monadi non trasmettono segnali “fisici” tra di loro, però il fatto che contengono informazioni su
tutte le altre monadi rende possibile la percezione, da parte di un osservatore, di correlazioni tra di esse. Un modello fisico corrisponde
alle riflessioni generate tra (almeno) tre sfere perfettamente riflettenti le une nelle altre, e che generano infinite sequenze complesse di
riflessioni. La natura di queste sequenze infinite è studiata matematicamente nel libro di David Mumford (medaglia Fields in matematica)
et al. (vedi Mumford), nel quale viene presentata tutta la complessità, non classicamente computabile con un algoritmo recursivo, delle
possibili sequenze di riflessioni di una sfera nelle altre. L’unica differenza tra questa incarnazione fisica del mondo di Leibniz e l’universo
delle monadi è che le riflessioni si generano tramite raggi di luce che
viaggiano incessantemente tra le sfere riflettenti, mentre nell’universo
delle monadi non avviene nessuno scambio fisico tra di esse. Questo
fatto è analogo alla natura non meccanicista della causazione dei processi quantistici, i quali corrispondono piuttosto a influenze semantiche: l’osservazione di particolari sequenze di correlazioni fa emergere
uno stato ristretto o limitato che corrisponde al “collasso” della funzione d’onda ad una delle possibilità classiche. Nel modello fisico che
prende in considerazione le sfere riflettenti, l’atto di osservazione potrebbe corrispondere all’intromissione di una placca fotografica non
riflettente e non trasparente tra due o più sfere: in tal modo, parte dei
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Bollettino
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raggi vengono bloccati dalla placca stessa. Per chiarire il concetto, basti considerare due specchi piani paralleli l’uno di fronte all’altro: non
è possibile osservare le infinite riflessioni generate tra di essi, poiché
la necessaria intromissione dell’osservatore non trasparente blocca il
processo di riflessione dei raggi di luce tra i due specchi. L’immagine
registrata sulla placca fotografica (il nostro osservatore o strumento di
misura) non contiene le infinite riflessioni che contengono tutte le sfere: la complessità legata alla sovrapposizione di tutte le sfere nelle infinite sequenze di riflessioni è stata ridotta o “collassata” ad una delle infinite possibilità, la quale acquisisce un significato interpretabile
classicamente. Riconosciamo in questo contesto la natura dell’atto di
osservazione o di misura della fisica quantistica: la sequenza finita o
ristretta delle riflessioni non esiste esplicitamente finché non è intromessa la placca fotografica.
Una visione meno estrema è stata sviluppata dal fisico John Archibald Wheeler (1911-2008), il quale ha descritto efficacemente l’universo quantistico, facendo emergere le differenze fondamentali con il
mondo classico newtoniano. In quest’ultimo, gli osservatori sono essenzialmente passivi: subiscono una trama cosmica deterministica. Invece, nell’universo quantistico gli osservatori sono anche “partecipatori”: gli atti di misura o di osservazione contribuiscono alla definizione
della base ontologica della realtà. Inoltre, l’atto di osservazione può
determinare il sistema presente, ma anche la sua storia passata. Per
illustrare meglio questo concetto, consideriamo i cosiddetti “delayed
choice experiments” proposti da Wheeler. Immaginiamo una sorgente di fotoni distante dalla terra un miliardo di anni luce. Questo vuole
dire che la luce emessa dalla sorgente celeste impiega un miliardo di
anni per viaggiare attraverso lo spazio fino alla terra. Inoltre, consideriamo che in questo esperimento ideale uno schermo con due fori è
stato posto in prossimità della terra, in modo che la distanza tra i due
fori sia pari a un miliardo di anni luce. L’esperimento consiste nel disporre dietro ad uno dei due fori uno strumento in grado di rilevare il
176
Oltre l’orizzonte della materia
passaggio di un fotone. Però, questo strumento di misura viene posto
dietro uno dei fori (scelto a caso) soltanto un po’ prima dell’arrivo del
fotone emesso dalla sorgente. Secondo la fisica quantistica, la traiettoria del fotone esiste solo in relazione all’atto di osservazione. Quindi,
la traiettoria verso uno dei due fori seguita dal fotone, emesso un miliardo di anni fa, è stata “definita” al momento della registrazione nello
strumento di misura. Un atto di misura odierno, in questo caso, definisce una realtà inerente ad un processo dinamico avvenuto un miliardo di anni fa, in modo istantaneo: l’influenza semantica corrispondente trascende non solo lo spazio, ma anche il tempo.
Le considerazioni precedenti mettono in luce il ruolo cadine del
concetto di informazione nei processi quantistici. Infatti, negli esperimenti di interferenza “a doppia fenditura”, è cruciale la presenza di
uno strumento di misura in prossimità di uno dei due fori per ricavare l’informazione sulla traiettoria della particella. Invece, se non è presente lo strumento di misura, non è possibile estrarre, dalle frange di
interferenza che si formano, l’informazione sulla traiettoria: essa non
ha realtà fisica. Quindi, il tipo di informazione che si ottiene dall’osservazione corrisponde ad una determinata realtà fisica: se si vuole ottenere informazione sulla traiettoria, avremo a che fare con un comportamento corpuscolare. Invece, se si vuole ottenere l’informazione
che conferma o meno se vi è un impatto sullo schermo fotografico,
senza sapere nulla sulla traiettoria, allora avremo a che fare con un
comportamento ondulatorio.
Il fisico Anton Zeilinger (vedi Zeilinger 2004) propone un’interpretazione della fisica quantistica che corrisponde ad una precisazione
dell’interpretazione di Copenhagen: egli sostiene che non vi è nessun
modo pratico o sperimentale che ci permetterebbe di distinguere tra
realtà e informazione sulla realtà. Zeilinger ci rammenta che nell’evoluzione della fisica, il numero di concetti distinti diminuisce sempre,
e che ogni significativo progresso è accompagnato da una particolare unificazione dei concetti delle teorie preesistenti. La fisica quantisti177
Bollettino
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ca indica una direzione di ricerca nella quale non vi è differenza essenziale tra sistema e informazione sul sistema. In questa prospettiva,
la struttura fondamentale del reale non sono le particelle, la massa, la
carica elettrica ecc., ma è l’informazione.
Per rendere più chiaro il ruolo fondamentale dell’informazione,
presentiamo ora due tipi di idee generali: la prima corrisponde al problema dell’arresto della macchina di Alan Turing, mentre la seconda si
riferisce allo studio degli insiemi di verità del filosofo Patrick Grim, e
allo studio dei numeri trasfiniti di Georg Cantor (1845-1918).
Indecidibilità e macchina di Turing.
Alan Turing ideò una “macchina matematica astratta”, detta macchina
di Turing, le cui operazioni imitano i passi compiuti da un essere umano che cerca di eseguire un calcolo. Questa macchina è il precursore concettuale del computer moderno e consiste essenzialmente di un
nastro infinitamente lungo, suddiviso in quadrati, ciascuno dei quali può contenere un simbolo estratto da un determinato alfabeto finito. La macchina ha una testa di lettura che può scorrere sul nastro, un
quadrato alla volta, e può scriverci sopra un nuovo simbolo oppure
lasciarlo inalterato. Inoltre, vi è un insiemi di istruzioni, ossia un programma, che dice alla testa quale simbolo stampare oppure se spostarsi di un quadrato a destra o a sinistra sul nastro.
Ad esempio, una macchina di Turing può essere programmata per ricercare dei controesempi all’ipotesi di Riemann, la cui verità o falsità non è ancora dimostrata al giorno d’oggi. La macchina può essere
impostata in modo tale da fermarsi solo se trova un controesempio.
Alan Turing si chiese se poteva esistere una procedura per dimostrare se la macchina di Turing si ferma oppure no, per qualsiasi configurazione iniziale della macchina: questo quesito corrisponde al “problema dell’arresto”. Turing ha dimostrato che il problema dell’arresto
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Oltre l’orizzonte della materia
è indecidibile: non si può dimostrare la verità o la falsità della proposizione “Per questa configurazione iniziale, la macchina di Turing
si fermerà dopo un dato numero di computazioni”. In realtà, se fosse possibile “decidere” questo problema, allora sarebbe possibile dimostrare “meccanicamente” la verità o falsità dell’ipotesi di Riemann.
Inoltre, sarebbe possibile in principio dedurre o dimostrare meccanicamente tutti i possibili teoremi della matematica. Il grande matematico di Cambridge Godfrey Harold Hardy (1877-1947) dichiarò a proposito di queste idee (vedi Casti 2005):
“è del tutto ovvio che non può esservi un teorema del genere, e questa è una fortuna, dal momento che se vi fosse, avremmo un insieme di regole meccaniche per la soluzione di tutti i problemi della
matematica, sicché i matematici resterebbero senza lavoro!”
Quindi, l’indecidibilità del problema dell’arresto implica che il ruolo della creatività nella ricerca matematica è fondamentale.
Torniamo alla nostra macchina di Turing impostata per trovare un
controesempio all’ipotesi di Riemann: l’unico modo per sapere se la
macchina si arresterà oppure no consiste nell’osservare la macchina.
In altre parole, la macchina dovrebbe esistere ed essere osservabile:
l’osservazione dell’arresto “collasserebbe” lo stato di indecidibilità, e
coincide con un guadagno di informazione sulla verità dell’ipotesi di
Riemann. Ritroviamo quindi un legame unificante tra informazione,
esistenza ed osservazione del sistema, inerente alla fisica quantistica.
Nel quadro di queste idee, i sistemi naturali non sono “orologi” o
macchine deterministiche newtoniane, ma sono piuttosto delle macchine di Turing calcolanti, il cui comportamento (arresto o meno) non
è meccanicamente computabile: solo l’osservazione genera informazione reale.
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Insiemi di verità, il paradosso di Patrick Grim e gli infiniti di Cantor
Se il tessuto fondamentale della realtà è l’informazione, allora l’argomentazione seguente fa emergere la natura della fisica quantistica in
un modo nuovo, compatibile con l’interpretazione di Zeilinger.
Se un sistema coincide concettualmente con l’informazione, allora il
sistema può essere rappresentato da un insieme di bits di informazione. Infatti, ogni questione che riguarda una proprietà del sistema ha
come risposta ultima un si oppure un no, ossia verità o falsità, rappresentabili rispettivamente con un 1 oppure un 0: quindi, un sistema è
un insieme di bits di informazione, ossia un insieme di verità. Ora, seguendo l’argomentazione di Grimm, supponiamo che esiste un insieme, chiamiamolo I, che contiene tutta la verità su un determinato sistema. Vi è in questo caso il seguente paradosso. Consideriamo tutti
i sotto-insiemi dell’insieme I: un teorema importante, dovuto a Georg
Cantor, dimostra che il numero di sotto-insiemi di I è strettamente superiore al numero di elementi I, anche quando il numero di elementi di I è infinito. Nel caso semplice di un insieme che contiene tre elementi, A, B e C, l’insieme dei sotto-insiemi contiene, in più di A, B e
C, gli insiemi AB, AC e BC.
Cantor dimostrò rigorosamente che, usando questo teorema, a patire da un insieme infinito A, si può sempre costruire un insieme B il
cui numero di elementi è pari ad un infinito strettamente superiore al
numero infinito di elementi di A. L’argomentazione di Cantor può essere ripetuta ad infinitum, e si dimostra quindi l’esistenza di un infinità di infiniti non equivalenti.
Ora, se il numero di sotto-insiemi di I è superiore al numero di elementi di I, nasce la seguente singolarità. Considerando una verità v
appartenente ad I, possiamo porre, per ogni sotto-insieme di I, la questione di sapere se la verità v appartiene al sotto-insieme considerato.
La risposta (vero o falso) corrisponde ad una verità V, rappresentata
con un bit di informazione. Tuttavia, dato che vi sono più sotto-insiemi che elementi di I, il numero di tutte le verità di tipo V è superio180
Oltre l’orizzonte della materia
re al numero di elementi di I. Quindi, l’insieme I non contiene tutte le
verità sul sistema in considerazione.
Se tutto è informazione, questa argomentazione giustifica il fatto che non è concepibile una realtà deterministica che contiene in
sé tutte le verità e, quindi, tutta l’informazione in modo meccanicistico: l’informazione relativa ai sotto-insiemi, generati da correlazioni o configurazioni AB, AC e AC, … tra gli elementi A, B, C, ecc.,
non è contenuta nell’insieme o sistema originale: le proprietà di un
ente quantistico non esistono “autonomamente” nel sistema originale.
Sono piuttosto “potenzialità” aristoteliche, che possono diventare “attuali” tramite l’atto di osservazione o di misura.
Le concezioni della fisica classica, che suppongono che le proprietà dei sistemi esistono in modo “autonomo”, e che deducono i comportamenti passati e futuri a partire dall’informazione sullo stato del
sistema in un unico istante di tempo, non sono applicabili nell’universo reale – al “mondo della vita”, come direbbe Edmund Husserl (18591938). La materia è simile ad un orizzonte che delimita un paesaggio:
dipende dall’osservatore, il quale può innalzarsi e ricevere l’informazione che risiede oltre l’orizzonte.
La concezione della natura come universo matematico è sempre
possibile, però è necessario adattare il linguaggio classico della matematica per includervi nuovi caratteri che possono arricchire la semantica, in modo da percepire la dinamica della natura oltre l’orizzonte
della materia, cogliendo le sottigliezze del mondo della fisica quantistica.
La riflessione scientifica in questo contesto non si allontana dalle
discipline umanistiche, filosofiche e teologiche, ma apre, anzi spalanca, le proprie porte al dialogo con le altre sfere della conoscenza per
offrire i suoi preziosi frutti nella prospettiva di sviluppare l’unità del
sapere e promuovere la crescita intellettuale e spirituale della persona umana.
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Bibliografia
Niels Bohr, I quanti e la vita – unità della natura, unità della conoscenza, Torino, Bollati Boringhieri Editore, 2012, p. 58-76
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Editore, 2005, p. 9
Solo l’ideale è vero:
la voce ritrovata di Ida Vassalini
Elisabetta Zampini
I. Le mie parole come un viatico
In this work the foundations of quantum mechanics will be discussed, in order to show how the concepts of matter and energy have undergone a very
profound transformation through the birth and evolution of quantum theory.
These modern concepts define an epistemological frame which is fundamentally different from the one inherent to Newtonian mechanics and classical
electromagnetism. In particular, the Copenhagen interpretation of quantum
mechanics, essentially due to Niels Bohr, is explored in terms of information
theory in order to enhance the understanding of the nature of the interactions
between quantum systems: these processes are not described in terms of mechanical forces but rather in terms of “semantic influences”.
Ida Vassalini nacque a Verona il primo novembre del 1891 da Bartolomeo Vassalini ed Itala Abati. Durante gli studi compiuti al liceo “Maffei” manifestò interesse per la filologia classica e orientale, assieme
alla passione per la filosofia e la poesia, quest’ultima sostenuta specialmente dal professore di lettere Antonio Belloni che la incoraggiò,
più tardi, alla pubblicazione dei suoi versi. Proseguì gli studi letterari e di filologia classica all’Università di Padova, conseguendo poi una
seconda laurea in filosofia all’Università di Milano.
Si fermò dunque a vivere a Milano, insegnando in varie scuole e in
modo particolare al Ginnasio “Calchi Taeggi”, al Ginnasio “Carducci” e
al Liceo “Manzoni”. Pubblicò saggi ed interventi in riviste che si occupavano di filologia, filosofia, spiritualità, temi morali, sociali e politici,
esprimendo un profondo rigore negli studi ed adesione alle questioni
umane, che attraversavano la prima metà del Novecento. Manifestava
una splendida indipendenza di giudizio, un animo libero, raffinatezza
e sensibilità. Indugiava su un peculiare scetticismo costruttivo, ovvero su una poetica del dubbio che, preservando la dignità del pensiero, si liberava dalle presunte verità convenzionali, aprendosi all’azione, alla vita morale, alla bellezza, all’ideale, al cammino nella ricerca
della Verità.
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Bollettino della Società Letteraria, 2012, 183-208
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Tali aspetti sono ricordati da coloro che le furono amici e confidenti, pur dinanzi ad un’indole appartata e schiva, la quale poteva essere talvolta fraintesa e non capita per la severità nella quale pareva
esprimersi; ma era soprattutto la sua coerenza e la distanza da inconciliabili compromessi. Occorre affermare che rischiò di perdere il lavoro, unica nella sua scuola, non avendo aderito all’Associazione Nazionale Fascista. Non a caso nel 1945, chiamata dall’assemblea dei soci,
Ida Vassalini contribuì a riformare lo Statuto della prestigiosa Società Letteraria di Verona; il sodalizio doveva diventare, nell’Italia finalmente libera, un «focolare di intellettualità» capace di diffondere «i suoi
raggi su quanti vi aderiscono con intelletto d’amore»1. Tuttavia quando venne eletta Viceblibliotecaria, nella prestigiosa Società Letteraria
di Verona, rifiutò l’incarico: il rispetto, più forte di ogni ambizione, le
impediva di accettare un impegno che non avrebbe potuto onorare
adeguatamente, data la sua residenza in un’altra città.
***
I suoi maestri furono i filosofi Giuseppe Rensi e Piero Martinetti:
straordinarie figure di pensatori che posero la loro coscienza di là da
ogni esterna imposizione, fosse politica o religiosa. Erano accumunati dal rispetto radicale della dignità umana e della natura e coltivarono il pensiero orientale, con il quale intrattennero un dialogo fecondo2. Così studiava così Ida Vassalini che, tra 1933 e il 1943, tradusse
in esametri dal sanscrito il poema filosofico indiano Bhagavad Gītā, Il
Canto del Beato.
Negli ultimi anni della sua vita, dopo essersi dedicata alla lingua
pali, completò anche la versione poetica del Dhammapada, “gli insegnamenti del Buddha”: espressione del Buddismo più antico. Nel
1919 aderì alla “Lega Femminile Internazionale per la Pace e la Libertà” (WILPF) che aveva sede a Ginevra e vi partecipò attivamente, fino
a che nel 1927, a seguito dell’esecuzione di Sacco e Vanzetti contro la
quale la Lega non prese posizione, decise di allontanarsi.
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Solo l’ideale è vero: la voce ritrovata di Ida Vassalini
Nel 1923 tradusse Nazionalismo di Tagore, nel quale il poeta indiano condanna qualsiasi forma di nazionalismo, in quanto contrario
al bene degli individui ed alla fratellanza e cooperazione tra i popoli.
Ida Vassalini espresse la sua adesione al Movimento europeista, condividendo le posizioni di Carlo Sforza. Mantenne una corrispondenza con Aldo Capitini.
Lungo tutti questi accadimenti rimase appassionato il suo insegnare agli studenti che sarebbero poi diventati compagni di pensiero. Era
convinta che la scuola deve ispirare l’impegno consapevole ed energico nel compito di modificare la realtà, secondo una esperienza autentica verso un orizzonte di libertà e giustizia universale. Ad una sua
studentessa che avrebbe iniziato gli studi di medicina scrisse:
Hai davanti a te tutto un mondo. Spirito e natura sono così stranamente interdipendenti che filosofia e medicina ti appariranno ancora come un unico campo, cui rivolgere tutte le tue cure. Forse,
nei primi tempi, ti sembrerà prevalga la materia: ma, procedendo,
vedrai come incerto finisca con l’essere il limite che separa il corpo dalla psiche. Ed il mistero tremendo ti attirerà con un fascino
suo singolare. Ma sai che non tutto è come dovrebbe essere: e perciò devi sempre inalzarti su te stessa e in te stessa, pensando che realmente solo l’ideale è vero. Accogli queste mie parole come un viatico…3.
Ida Vassalini concluse la sua vita a Milano, nella notte del 21 dicembre 1953.
Le pagine che seguono raccontano di lei e del tempo in cui visse.
Appariranno nomi e volti noti ed altri poco conosciuti, eppure importanti da ricordarsi, anche solamente alla luce di un’immagine o di una
semplice frase in una nota. Visibili o invisibili, essi sono stati tutti parte di una compresenza profetica: segni talora nascosti, poco gridati, di
libertà, giustizia e purezza. È il ricordo di un’epoca non lontana, che
lambisce ancora le nostre rive.
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Ida Vassalini si tendeva oltre ogni concetto fossilizzato, sognando
l’unione dell’Occidente con l’Oriente, vivendone il mistero solenne.
Queste pagine sono dedicate a coloro che ci hanno preceduti, ovvero
alla famiglia dei nostri antenati spirituali, i quali hanno compiuto passi lungo un unico, meraviglioso sentiero, che è la strada dell’uomo.
II. Il paese da cui venne un tempo la luce
Vi è un unico rimedio alla separazione e alla lontananza: l’amore. Tagore dedica un capitolo dell’opera Sadhana alla comprensione nell’amore. Ed inizia la sua riflessione ed il suo narrare per immagini poetiche dall’apparente lontananza tra l’infinito ed il finito, tra gli opposti
che si manifestano nel mondo, tra l’Uno ed il Tutto. È il suo uno
sguardo meravigliato nel legame continuo fra le cose, dove «di fatto
noi attraversiamo l’infinito ad ogni passo4». Da questa consapevolezza
l’amore si mostra quale intima verità del mondo, gioia della creazione, libertà dal bisogno, rinnovata visione dell’uomo:
Certamente l’uomo è utile al suo simile, il corpo umano è una meravigliosa macchina, e la mente un organo di sorprendente efficienza.
Ma l’uomo è anche spirito, e lo spirito si rivela nella sua verità solo
attraverso l’amore. Quando apprezziamo un uomo in base al valore
commerciale che contiamo di ricavarne, noi ne abbiamo una conoscenza imperfetta, e tale limitazione ci rende facilmente ingiusti verso di lui. Quindi ci rallegreremo come di un trionfo se riusciremo, in
virtù di nostra crudele superiorità, a strappargli molto più di quanto
gli avremo dato. Ma quando lo conosceremo come essere spirituale,
lo consideriamo parte di noi stessi; e immediatamente comprendiamo che il male fatto a lui è fatto a noi stessi, che voler rimpicciolire il
nostro simile è defraudare la nostra umanità, che cercando di servircene unicamente per il nostro tornaconto, acquistiamo semplicemente in ricchezze ed agi che perdiamo in conoscenza della verità5.
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Solo l’ideale è vero: la voce ritrovata di Ida Vassalini
Goethe, amato da Tagore, ridice quell’unione che trascende la legge, ovvero la dimensione pratica, per raggiungere il possibile, di là da
ogni lontananza:
Anche se sei diviso dall’amata
come l’Oriente dall’Occidente,
corre il cuore per plaghe deserte,
ha in sé la scorta per la sua strada,
per gli amanti Bagdad non è lontana6.
Ida Vassalini riprende le pagine di Sadhana volendo «rimeditare su
la lettera e lo spirito di una delle più belle e profonde pagine upanisadiche». E per quanto anch’esse non raggiunsero una «Verità inalterabile
e perfetta», tuttavia quella saggezza «ancora ci attrae col fascino di una
visione la cui luce mai s’oscurò». Tagore avvertiva che «le parole possono piuttosto indicare che esprimere perfettamente i pensieri dell’uomo7», ma ugualmente, prendendo pur dimora nell’incertezza, ha valore tentar di comprendere nel modo migliore le Upanishad, così come
espressero in forma di parabola l’unità dell’Essere, sotto l’apparente
molteplicità dei fenomeni. Come? Con lo studio e con il grande amore.
Amore che cerca il luogo dove si incontrano le parole, dove scaturisce la luce e si ricompone l’universo, prende forma e senso anche il
dolore, si apre la forza della speranza nella suprema armonia.
L’intento filosofico ed umano di Ida Vassalini si è sempre volto verso l’ideale di unità e di armonia. E, nonostante la non facile vita e l’animo non poco dolente, vi rimase fedele. Così come non rinunciò
ad interpellare la saggezza dell’India antica, nonostante l’insufficienza
delle parole. Così come non rinunciò a credere in una possibile unità
tra gli uomini, oltre i confini geografici, culturali e religiosi.
Credeva nel suo sentiero d’amore, nonostante le smentite e le cadute. Ed è quello spirito che rimane oltre il tempo e torna a farsi sentire in visioni e volti nuovi. Sempre. E per sempre. Lo spirito della verità e della possibilità. Idealista venne definito Tagore. Idealista è stata
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chiamata Ida Vassalini. Ma proprio nell’ideale si rivelava il loro autentico sentire: l’aspirazione verso una umanità rinnovata da un profondo mutamento interiore.
***
La responsabilità della propria esistenza tornava dunque nelle mani
dell’uomo, passando per gli insegnamenti del Buddismo, e prendeva
le distanza dalle consuetudini, indotte ed esterne, fossero esse sociali,
politiche o religiose. Lungo questo sentiero nasce l’immagine di un incontro tra l’Oriente e l’Occidente, si mostra il sogno di un mondo senza
guerra, si china lo sguardo di compassione verso il condannato a morte.
Ida Vassalini dialoga allora direttamente con il poeta filosofo indiano e ne traduce in italiano l’opera Nazionalismo, pubblicata nel 1923.
La prima edizione inglese però risale al 1917 e, insieme al volume Personality, raccoglie le conferenze pubbliche tenute da Tagore durante i viaggi in Giappone e negli Stati Uniti. Il tempo presente, nel quale l’India tentava una via per affrancarsi dal governo inglese e nella
quale l’Europa ed il mondo erano diventati luogo inospitale di guerra, portava Tagore verso una sempre più partecipata presenza ai problemi sociali e civili. Amico profondo di Gandhi, non ne condivideva tuttavia la posizione radicale. Tagore infatti era più incline ad una
strada moderata dove l’indipendenza dell’India doveva seguire ad un
graduale programma di riforme, le quali avrebbero eliminato le ingiustizie e le disparità sociali. Riforme non solo sancite dalla legge ma
accolte nel cuore dell’uomo: la vera dimora della giustizia che richiede, però, un lungo cammino, incrollabile fiducia e, non di rado, solitudine. Nazionalismo non divenne mai tra i libri più popolari di Tagore, anzi venne contestato sia dalla stampa americana, sia da gruppi di
nazionalisti bengalesi. Tagore denunciò i modi in cui si manifestava il
nazionalismo occidentale per il quale l’uomo non era più il fine dell’agire bensì un anonimo mezzo e invitava l’ammiratissimo Giappone a
non seguirne l’esempio.
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Solo l’ideale è vero: la voce ritrovata di Ida Vassalini
Le parole di Tagore riportano lo sguardo sul mondo, sulla storia,
sulla modernità, in una dimensione interiore che è apertura al divino. Lo sguardo alto nella vita, la coscienza di un bene etereo e invisibile che unisce le cose e gli uomini divengono motivo di un nuovo
agire. Sono, ancora, i temi cari ad Ida Vassalini, che fa brillare nelle
pagine dell’Introduzione proprio le frasi del poeta, le quali dicono la
tensione luminosa verso l’ideale: «Basta vivere per la verità finale che
ci emancipa dal dominio della terra e ci dà i tesori, non della materia
ma della luce interiore, non del potere ma dell’amore8».
A conferma di ciò è il paesaggio desolato delle officine, fatto di
fuoco e di strepiti, che mai mutano in lumi di festa e musica; mentre
la bellezza e la grazia sono il segno principale della creazione quando il creatore ne è soddisfatto, quando colui che vive e opera prova
dunque la felicità dell’esserci.
La felicità, la vita, la libertà sono l’esito di un perfezionamento interiore che riguarda ogni uomo in ogni angolo della terra; esso cambia
la percezione del supposto nemico, anzi avvicina gli esseri tra di loro,
sciolte le apparenze facili del capro espiatorio. È chiara l’adesione di
Ida al sentire di Tagore quando riconosce che egli «non può predicare
ai suoi compatriotti la lotta cruenta contro i disgraziati che, in veste di
oppressori, l’imperialismo inglese manda oppressi tra gli oppressi. Per
lui, i popoli che hanno conquistato la libertà politica non sono necessariamente liberi: “essi sono soltanto più potenti”».
La vera libertà è la libertà dell’anima. Ad essa si appella Tagore,
così come fece nei versi del Gitanjali che risuonavano nell’anima dei
lettori occidentali. Perché nell’Occidente vibra un’anima viva che ripudia il muoversi violento e chiuso delle organizzazioni politiche e
di commercio, le quali distruggono ogni fede nell’umanità. Lo spirito
dell’Occidente ha saputo difendere gli ideali della libertà di coscienza, di pensiero e di azione e di uguaglianza di tutti gli uomini. Questo
spirito può incontrare l’Oriente ed insieme contrastare «i lupi affamati
dell’era moderna, che fiutano sangue umano e urlano contro il cielo»:
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In ogni paese, Egli dice, vi sono uomini che cercano la verità, ed
essi, di solito, sono i reietti come fu un reietto Gesù Cristo. Eppure
sono essi che conservano l’anima dell’umanità. Bisogna fare una
lega di reietti, una fratellanza d’uomini di Dio! 9
Risuonavano in Ida Vassalini le parole di Pascoli, quando si rivolgeva alla sorella Maria, nell’Introduzione ai Primi Poemetti:
Vorrei che pensaste con me che il mistero, nella vita, è grande, e che
il meglio ci sia da fare, è quello di stare stretti più che si possa agli
altri, cui il medesimo mistero affanna e spaura10.
Così “i paesi da cui venne un tempo la luce”, l’Oriente, sono chiamati ancora a dare il loro contributo alla storia della civiltà verso un’ascensione umana che riconosca l’altro come fratello, come parte del
medesimo mistero e del medesimo sogno, verso la pace e non la
guerra, verso l’unione e non la divisione:
Il popolo, il cui libro sacro è il Bhagavad-gita, deve sentire come l’umiliazione, che è imposta al debole dall’orgoglio e dai particolari interessi del più forte avvilisca la stessa umanità del superbo e
dell’egoista: e a tale sentimento del popolo indiano dovrebbe finalmente rispondere, con vibrazioni di simpatia, il cuore di coloro
che, soltanto per una assurda e mostruosa aberrazione, il Vangelo
di Cristo poterono sommettere alla spada11.
L’Introduzione si chiude con la stupenda immagine che pone al
centro del mondo quanti sono chiamati “i reietti”. Essi, custodi dell’amore, recano la salvezza per tutti:
A tutti i nazionalisti i quali, in nomi della Scienza, dicono che gli
«inetti a organizzarsi, – abbiano pur vissuto e sofferto, amato e
adorato, pensato con profondità e agito con dolcezza – devono pe-
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Solo l’ideale è vero: la voce ritrovata di Ida Vassalini
rire», il Tagore, in nome della Verità, risponde che quegli inetti “vivranno” anche per la salvezza di chi li vorrebbe votati alla morte12.
Parole importanti, le quali si stagliano oltre il tempo in cui vennero
scritte; esse ripongono la rinascita e la salvezza dell’uomo nel piccolo, nel poco visibile, nel rifiutato. La voce di un bambino, lo sguardo
indifeso di un animale, il silenzio, l’incanto, il riposto, il sentiero paziente. Lì dove sgorga la chiara purezza del vivere, dove le stelle lontane non si vergognano di sembrare piccole lucciole.
Sono le voci «della gente piccola e vocale», nelle Myricae di Pascoli. Sono il sale della terra.
L’immagine evangelica è scelta come titolo dell’opera postuma di
Giuseppe Rensi e raccoglie riflessioni sull’anima, la saggezza, l’arte, la
religione, la storia, la libertà. Ida Vassalini, che riceve in dono il libro
dalla famiglia del filosofo, vi dedicherà un lungo saggio13. Esso diviene significativo perché, nel ripercorrere il pensiero di Rensi, Ida esprime se stessa, la propria visione sulla vita e sul mistero, un anno prima
che vi prendesse dimora anche lei e per sempre.
Rensi si sofferma su di un celebre verso di Carducci, chi le farfalle
cerca sotto l’arco di Tito14?, ponendo però l’accento sull’estremo solitamente trascurato, le farfalle. Carducci celebrava la bellezza di Roma
che risplendeva d’antico nell’azzurro del cielo. Vedeva il piccolo e il
grande, il quotidiano e l’eterno. Decideva di volgersi a ciò che non
passa e non muore. Il dittatore che inseguiva ambizioni di gloria ripeteva spesso quel verso; lo utilizzava quale vanto della sua figura. Intendeva così suggestionare gli italiani, entusiasmarli della sua azione
vitalistica, del suo puntare sicuro al dominio e alla vittoria. Sceglieva
tronfio l’arco di Tito, trascurava sprezzante le farfalle. Moriva la poesia di Carducci.
Rensi invece, ed insieme con lui Ida Vassalini, cerca le farfalle sotto l’arco di Tito, si sofferma sul loro fragile volo. «La politica dalle linee grandiose», «le opere esterne e concrete, magnifiche e spettacolari», osserva Rensi, sono considerate essenziali, mentre i fatti iniqui che
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sempre le accompagnano, ovvero i delitti contro l’umanità, sono «farfalle sotto l’arco di Tito, piccole ombre secondarie, inevitabili in ogni
grande avvenimento storico […] ombre inevitabili nella grandezza del
quadro, che in questa scompaiono15».
Non scompaiono però le piccole ombre, così come il granello di
sale dona il sapore alla terra e come il breve volo della farfalla è la
gioia del fiore. Riemerge quel sentire comune, quel modo di camminare nella vita, che unisce Tagore, Pascoli, Rensi, Vassalini ed anche
Gozzano, il poeta innamorato delle farfalle. Si compie per vie interiori quell’unione di anime tanto auspicata da Tolstoij. Per le stesse vie
può realizzarsi un mondo nuovo, rinnovato che supera le “ragioni della storia” e che tende alla unità e alla pace negli uomini. Ida Vassalini postilla la prima pagina del saggio di Rensi sia con il riferimento
noto al Vangelo di Matteo (5, 13-16), sia al capitolo terzo della Seconda lettera ai Corinzi. Lì il dono interiore dello Spirito prende il posto
della Legge scritta sulle tavole di pietra. Un battito d’ali prende il posto di un arco di pietra. In nome di quel lieve volo può essere sognato un mondo di pace e di giustizia, fondato sulla libertà, in un tempo
di guerra, di vessazioni e di angustie.
***
Ida Vassalini esprime chiaramente il suo pacifismo nelle pagine della rivista «La Vita Internazionale», fondata a Milano nel 1898 da Ernesto
Teodoro Moneta. Ida, ponendosi tra gli «individualisti e pacifisti intransigenti16», nega l’ineluttabilità della guerra; essa infatti non è il punto
d’arrivo dell’umanità né tantomeno la sua manifestazione migliore.
Gli uomini ricorrono ancora allo strumento bellico, nell’illusione di
false ed ingiuste prospettive, perché sullo spirito continua a prevalere
la natura e sul puro dovere l’interesse. Così la guerra rappresenta
l’ingiustizia e l’immoralità somma; gli Stati, imponendo un’unica
ragione a tutti i cittadini, costringono la gioventù migliore alla rinuncia
della liberà e della vita:
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Solo l’ideale è vero: la voce ritrovata di Ida Vassalini
Gli Stati, che foggiano la loro dottrina politica sull’egoismo dell’intero ordine fisico del mondo, non devono reggersi sulle azioni che
sono pura espressione della rinuncia del proprio io.
Il pacifismo non è, dunque, una moda o una malattia dello spirito, ma è il frutto d’una concezione filosofica profonda e austera: la
vita di un umile soldato non è l’atomo di un atomo, il nulla di un
nulla dei nazionalisti; ogni vita è sacra e la sua inviolabilità non è
da relegare tra le vecchie favole, nel patrimonio degli idealismi sentimentali degli uomini del passato17.
Si tratta allora di rendere «luminoso quel presentimento oscuro che
in ciascuno di noi ci avverte di ciò che è equo e di ciò che è iniquo18»
ed accogliere i versi ultimi di Giacomo Leopardi. La ginestra cresciuta
alle pendici del vulcano suggerisce «l’ombra del destino ignoto» che ci
circonda e che «non può non far sorgere il vero amore»:
Pertanto, chi, come noi, non nega la Giustizia obiettiva, perché
non si nega il sole neppure quand’è celato dalle nebbie più fitte od
oscurato dalle nuvole più dense e minacciose, può, anzi deve aver
fede anche nel trionfo della pace fra tutti gli esseri […] il pacifismo
nostro, dinamico e non utopico, vede il simbolo del suo destino del
Prometeo shelleayno, il quale alla divinità riesce a rapire, con il
fuoco sacro del sapere che non conosce né confini né odi, anche il
mistero dell’armonia suprema, per cui la Forza serve come schiava
all’Eroe, – più che Dio sapiente e buono –, animato dalla Saggezza,
dal Coraggio e dall’Amore19.
Ida Vassalini, già a partire dal 1922, coordina le attività nella sezione milanese della “Lega Internazionale Femminile per la Pace e la Libertà” (WILPF).
L’organizzazione, transnazionale e non governativa, con sede a Ginevra, si proponeva di sostenere una riforma economica basata su relazioni internazionali più giuste dove la mutualità si sostituisse alla
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competizione; si opponeva ad ogni forma di violenza e tentava di diffondere una cultura di pace. Lavorava inoltre per la risoluzione dei
conflitti attraverso la mediazione e l’arbitrato; promuoveva la partecipazione femminile alle decisioni di politica estera. Gli intenti della
Lega erano stati definiti in pieno tempo di guerra, durante il Congresso internazionale dell’Aia del 1915. Le aderenti vi avevano partecipato, affrontando le difficoltà del viaggio e l’incomprensione dei propri
governi che non risparmiarono loro l’accusa di tradimento. Anche la
sezione italiana nacque nel 1915, con un centro direttivo a Milano ed
uno a Roma. Il gruppo originario era quella di Milano, sostenuto e diretto da Rosa Genoni20, la quale dovette poi interrompere i rapporti
con Ginevra per questioni di sicurezza. Il periodo difficile che accompagnò le vicende italiane dal primo dopoguerra al fascismo, non favorì l’espandersi del movimento pacifista femminile, il quale era identificato ora con il socialismo destabilizzante ed ora condannato come
antipatriottico. Nell’opinione pubblica infatti non era ancora maturato un nuovo ideale patriottico che escludesse il militarismo, la guerra
e non esigesse un nemico per riconoscersi uniti, in una patria minacciata. Perciò le donne aderenti alla Lega erano tenute sotto controllo dalle autorità21. Tuttavia il 13 dicembre del 1922 Ida Vassalini scrive
alla segretaria internazionale della Lega, Vilma Glücklich, riallacciando così i rapporti con Ginevra. Si rammarica, anche a nome di Rosa
Genoni, di non aver potuto partecipare alla Conferenza dell’Aia da
poco conclusa. Nella Conferenza, la Lega chiedeva la revisione dei
trattati di pace, i quali avevano creato un clima di risentimento, umiliando i vinti, dividendo i paesi, ponendo le premesse per nuovi scontri violenti. Ida Vassalini informa inoltre sull’operato della sezione italiana per divulgare gli intenti della Lega, sia a Milano sia a Verona, e
lascia trasparire quanto fosse difficile in Italia trovare notizie relative
ai lavori congressuali: «Solo oggi, sull’“Avanti!” c’era un breve cenno22».
Esprime inoltre il desiderio di vedere in Italia Jane Addams, presidente
della Lega, figura importante, dedita ad opere di promozione sociale
negli Stati Uniti e, come ricorda Ida, «fervida ammiratrice di Mazzini23».
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Il rigore etico di Ida e, nello stesso tempo, il suo sguardo coerente, la scelta dell’equilibrio sull’estremismo, la profonda autonomia di
pensiero si mostrano chiaramente anche in diverse lettere inviate alla
Segreteria internazionale di Ginevra.
Ida infatti non condivide posizioni femministe o di «assurdo comunismo» che, in nome di una giustizia sociale, vogliono portare ad una
eguaglianza «in tutto e per tutto». Ma «più ingiusto», precisa Ida, è «il livellamento di tutti gli individui24». La donna inoltre, pur nelle legittime rivendicazioni, non si pone in lotta contro l’uomo. È invece la sua
compagna, devota e necessaria:
Sino ad ora, l’Uomo ha pensato che solo la Forza crei il Diritto: ma
ormai la Donna – amica e non rivale – vuol porsi risoluta al suo fianco – per devozione alla santità d’una Vita veramente umana e non
per sommissione bruta ad istinti inferiori, – e scorgere, alla luce di
più alti Veri, la via migliore per l’Umanità che lotta, soffre e spera25.
La pace, per Ida Vassalini, è essenzialmente una questione morale.
Riguarda l’uomo, la sua parte più profonda e sacra, e può essere favorita da una educazione nuova. Anzi, l’educazione è la via maestra
verso la pace. Non tecniche rivoluzionarie o inedite teorie pedagogiche ma una visione che vede nel bambino la speranza dell’uomo. Nel
1926, non potendo essere presente alla Conferenza di Parigi, manda
un lungo scritto dove illustra il suo pensiero. L’incontro sarebbe stato
dedicato al tema del disarmo, quale tappa importante verso la concordia tra le nazioni. Ida, pur partendo da questo punto, allarga le sue riflessioni amare sul tempo presente dove pochi segni sembrerebbero
garantire la pace reale, dove le più alte manifestazioni della spiritualità vengono strumentalizzate: «To-day that holy of holies, the Saint of
Love, is glorofied by those who call violence sacred». E per quanto non
si possa dichiarare ottimista, Ida ribadisce la forza dell’ideale: «We feel
clearly and strongly the aspiration to achieve something that will be for
the good of mankind26».
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Chiede una riforma dell’educazione dei bambini e delle bambine e
che questa riforma sia affidata alle donne le quali sapranno difendere
i diritti immateriali, primo fra tutti la libertà di giudizio. La purezza che
rinasce nei bambini e l’ideale che mai non muore si stagliano oltre le
contraddizioni del presente ed oltre lo sconforto: «In this way, women
must add to the purity and goodness of early childhood “the comfort of
the everlasting olive tree”27».
L’ulivo verdeggiante è nella casa di Dio, canta il Salmo 52, e si abbandona a Lui, fiducioso, ora e sempre. L’ulivo, cantava Giovanni Pascoli, «non vuole / per crescere, ch’aria, che sole / che tempo…[…]
Noi mèsse pei figli, / noi, ombra pei figli de’ figli, / piantiamo l’ulivo28!»
L’olivo ed il bambino dimorano nel regno nei cieli, apertura grande verso ogni possibilità: le parole di Ida prendono congedo accanto alla lampada che diffonde «a brighter light» su una nuova strada per
una nuova umanità.
Qualche anno più tardi, dopo che le sue scuole vennero chiuse da
Mussolini, Maria Montessori parlava in India dell’educazione che asseconda la vita e vede ogni cosa creata, vivente e non vivente, parte
del “Piano Cosmico”. La maestra, accanto al bambino, assiste alle manifestazioni dello spirito, all’agire da sé, al volere da sé, al pensare da
sé. Conosce così il segreto del bambino, ovvero dell’uomo, ritrova la
sua dignità e «forse comprende ora per la prima volta che cosa sia realmente l’amore»:
In passato la sua maggiore soddisfazione era forse quella di ricevere il più alto stipendio possibile, lavorando solo lo stretto necessario; trovava anche un certo appagamento nell’esercitare il suo potere e la sua influenza, e la sua massima aspirazione era quella di
diventare direttrice o ispettrice. Ma non vi è gioia in tutto questo, e
volentieri vi si rinuncerebbe in cambio della felicità spirituale, tanto più alta ed intensa, che il bambino può dare, perché «di loro è il
regno dei cieli»29.
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Come si posano le ali della farfalla sul fiore, così la poesia dell’Oriente incontra il pensiero e la pratica educativa che veniva dall’Occidente: nascono in India le scuole Tagore-Montessori.
Ida Vassalini ritrova lungo le rive del Gange e del Giordano, dove
furono già dette da secoli «le più sublimi parole di vita», l’idea giustificatrice «del dovere nostro di non rimanere estranei al dolore dei nostri fratelli», le vive radici della pieta’, «la quale è la manifestazione più
umana dell’amore»:
Non v’è alcuna libera intelligenza cui sia concesso illudersi di avere scoperto il supremo piegatore dell’enorme mistero dell’universo;
ma alla pietà verso tutte le creature potrà assurgere ogni cuore che
non accetti restrizione veruna nel vivere le nobilissime intuizione
delle Upanishad e i sublimi precetti del Vangelo di Cristo: intuizioni
e precetti che comprendono e ispirano l’idea della necessità di una
completa trasformazione di tutto l’uomo naturale. Non si può certo
sperar di migliorare gli uomini dicendo che tutte le loro azioni sono
il semplice effetto di un malessere e di una inquietudine.
Crediamo noi pure che sia una virile e fiera compiacenza guardare
in faccia il Vero; ma, appunto perché sentiamo che il Vero è di tanto superiore a tutte le nostre povere piccole cose, pensiamo sia sempre un errore inescusabile il prendere per cielo il nostro cervello30.
Il piano cosmico diviene per Ida Vassalini una «sovrabbondanza d’energia» che si dispiega come segno di libertà e di azione non
comprensibile entro i confini dell’utile, della sopravvivenza, del bisogno. Ogni atto vivente è disposizione verso l’infinito, verso il mistero di un’armonia che tutto e tutti comprende. Anche l’attività creatrice dell’artista, «una delle più alte manifestazioni dello spirito umano»,
è sovrabbondanza di energia:
Solo chi si rinchiuda nei limiti di un istante e perda di vista il fine
lontano da raggiungere sente la noia dei singoli sforzi e stima pic197
Bollettino
della
Società Letteraria
colo e inutile ciò che con l’immaginazione non ha saputo rendere grande e importante; invece, per l’uomo dotato di fantasia, l’atto
presente si trasfigura e appare come una pietra dell’edificio intero31.
III. Il paese della libertà
Nel 1926 Ida Vassalini scrive tre lunghe lettere a Madeleine Doty, segretaria generale della WILPF. Il clima in Italia si fa sempre più opprimente e chiuso. Viene meno la libertà come viene meno l’aria pura.
Un’immagine esprime il suo malessere che, partendo dall’animo, diviene fisico: «[…] la pesantezza dell’aria di Milano nuoce al mio organismo; ché io nacqui e passai la mia infanzia e la giovinezza tra le colline del Veneto e del Lago di Garda32».
Milano rappresenta l’Italia ed anche tutto ciò che impedisce di
esprimere se stessi, senza essere in balia della prepotenza cieca, del
compiaciuto abuso di potere o della grigia indifferenza.
Piero Martinetti lasciava parole dolorose sullo stato presente,
dove le anime luminose si vedevano negata la libertà, nel consenso generale:
Il dispotismo crea a poco a poco una restrizione dell’orizzonte intellettuale. Nessuna informazione perviene più al popolo che attraverso il controllo dello stato o per mezzo dei giornali, organi dello
stato, che mentiscono ogni giorno con un cinismo senza esempio.
La vita individuale, gioia dell’uomo, scompare: la solitudine, la
meditazione diventano impossibili. Non vi sono più che piaceri in
comune. Tutto deve servire alla propaganda e alla educazione di
stato. Non vi è più libertà di pensiero, non vi è più pensiero33.
Già nel gennaio del 1926 Ida Vassalini espone alla segreteria di Ginevra l’impossibilità «di efficacemente agire per il nostro ideale» e con
amarezza aggiunge: «I miei articoli non vengono accettati perché tutti
198
Solo l’ideale è vero: la voce ritrovata di Ida Vassalini
sono dei pavidi e dei pusilli […] Io temo, dunque, proprio che la mia
collaborazione si debba ridurre quasi a zero34».
Le preoccupazioni di Ida si mostrano più evidenti nella successiva
lettera di aprile e riguardano il suo stesso destino. Riferisce di un «cumulo enorme di occupazioni e di preoccupazioni» accompagnato da
«una non lieve depressione nervosa». Teme per il suo lavoro di insegnante: «Unica, nella mia scuola, non mi sono iscritta all’Associazione
Nazionale Fascista fra gli insegnanti: e non è escluso che questo mio
atteggiamento mi valga la perdita della cattedra».
Accentua il senso di separazione tra sé e pochi e altri ed il resto
delle donne e degli uomini italiani:
Sono veramente mortificata di non aver ancora potuto dare una risposta alla richiesta del numero delle aderenti al nostro movimento
in Italia: ma le assicuro che, nel nostro paese, di ben poche persone ci possiamo veramente fidare. E, quindi, non è possibile credere
alla probabilità di un efficace prossimo movimento verso la pace.
In Italia, le donne sono fanatiche per il Duce: e tutto contribuisce
a mantenerle in uno stato di sovra eccitazione morbosa per colui
e per coloro che credono “i salvatori della patria”. Mentre io sento
che da nessuno fu più atrocemente insultata la sacra memoria di
mio fratello, caduto diciannovenne nell’infausto ottobre 1916, sulla Bainsizza35.
L’aria, nel frattempo, a Milano si era fatta ancora più pesante pur
a causa di una vicenda che, forse, influenzò lo stato d’animo di Ida.
Non poco tempo prima che fosse inviata questa lettera, infatti, si era
inaugurato a Milano il VI Congresso filosofico nazionale, organizzato
da Piero Martinetti su incarico della Società Filosofica Italiana. Le giornate di studio però vennero bruscamente interrotte dall’autorità, in seguito a disordini innescati dai cattolici di Agostino Gemelli e dai fascisti. Tra i relatori invitati figurava Benedetto Croce, il quale si era già
esposto con la pubblicazione del contro-manifesto degli intellettuali
199
Bollettino
della
Società Letteraria
antifascisti. Egli aveva inizialmente meditato di non partecipare a causa «del senso di oppressione» provato «per l’ambiente che si è formato
in Italia», provocandogli una certa riluttanza «a comparire in pubblico,
a parlare». Tuttavia acconsente in nome di un bagliore per quanto remoto: «Ma poi ho pensato che bisogna pure fare uno sforzo su se stessi e continuare la vita come se si vivesse in un paese civile36».
I cattolici, inoltre, si erano messi in agitazione per la presenza tra i
principali relatori di Ernesto Buonaiuti, studioso modernista, che ricevette la scomunica vitando da parte del Santo Uffizio nell’imminenza
del Congresso. Piero Martinetti tuttavia non volle negare a Buonaiuti
il diritto di partecipare all’incontro.
Da questo momento in poi si mettono in atto polemiche ed azioni
discreditanti nei confronti di Martinetti, colpevole di sentirsi «cittadino
di un mondo nel quale non vi sono né persecuzioni né scomuniche»
e di non poter accogliere l’intolleranza provocatrice dei cattolici, «la
quale sotto il pretesto del rispetto della religione, mira a rendere impossibile l’esplicazione di qualunque altro pensiero37».
I cattolici si ritirarono sdegnosamente dal Congresso e i fascisti presero a pretesto alcune dichiarazioni per accendere violente discussioni durante gli incontri. Il Prefetto così ordinò lo scioglimento del Congresso per motivi di ordine pubblico.
Il principio di autorità pretendeva di negare l’autonomia dello spirito e agiva con il suo apparato di burocrazia e di leggi per infierire su
chi viveva dello spirito, come l’aria pura.
Nel dicembre del 1926 Ida scrive una nuova lettera a Miss Doty.
Teme di non ricoprire in modo adeguato l’incarico di segretaria della sezione italiana; si sente isolata e avverte sempre di più una distanza dai molti:
[…] ma che vale la povera fierezza nostra, che troppo spesso deve rinunciare ai suoi sogni più belli per la misera realtà dell’indispensabile pane quotidiano? Ancora oggi, io mai dissimulo la mia ostilità ai principii di un governo che offende pur la libertà dello spirito,
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Solo l’ideale è vero: la voce ritrovata di Ida Vassalini
ma la maggioranza è paurosa e vile: ed è soprattutto per colpa di
questa massa grigia, senza ideali e senza dignità, che si possono
sancire le leggi più inique. Nelle conversazioni particolari, nessuno
approva il regime: ma, apertamente, nessuno sa manifestare il proprio dissenso da chi è al potere38.
Le giungeva dall’Inghilterra un manifesto contro il servizio militare
obbligatorio. Era stato sottoscritto da Norman Angell, Romain Rolland,
Bertrand Russell, Albert Einstein, Annie Besant, Herbert George Wells,
Tagore e Gandhi. Non compariva e non sarebbe comparso nessun
nome italiano, per quanto Ida avesse tentato di coinvolgere due intellettuali italiani di cui non rivela l’identità, forse per rispetto della loro
posizione. È probabile tuttavia che uno dei due fosse lo stesso Martinetti. In ogni caso questo fatto diviene per Ida un segno ancora di una
solitudine, di un dibattersi in un mare di silenzio dove i migliori cercavano rifugio in un ritiro interiore, libero e vasto, per dare così respiro
ad un anima troppo fiaccata da battaglie e ambizioni altrui. Non erano
tempi facili, per le anime luminose. Difficile anche capire quale strada
fosse quella più conforme alla propria natura. Vi furono molte vittime.
Alcune conclamate, altre impensate. D’Annunzio tra queste: trascinato ora dalle immagini vitaliste dell’impresa di Fiume ora dalla lacerante nostalgia per i luoghi mesti d’Abruzzo che scendono al mare. Non
è facile neppure per noi comprendere i vari moti di quelli anime. Tuttavia è comune, in ogni tempo, il desiderio di vedere il compimento
fecondo della propria vita. Non qui, altrove:
Io penso sempre con desiderio a codesto paese benedetto di libertà;
e credo che costì mi sarebbe possibile essere veramente me stessa, e
produrre quanto confusamente mi ferve nell’intelletto e nel cuore39.
La Svizzera e, in particolare, l’International Fellowship School di
Gland, la scuola nata sulle rive del lago di Ginevra e ispirata ad una
nuova pedagogia di pace, erano per Ida l’immagine della salubri201
Bollettino
della
Società Letteraria
tà dell’aria e dell’esistenza. Immagine contrapposta al paese chiuso e
sterile dove «ci si sente soffocare» e da cui pure non riesce a partire.
Come mai? Si possono considerare diversi impedimenti a questo
desiderio; burocratici, economici, di salute soprattutto. Ma non da ultimo quel sentirsi separata, lontana, quell’«amore per la libertà e per
la giustizia» che non trovava una condivisione sincera, profonda, affine. Una visione grande dell’ideale che la faceva sperare e soffrire ad
un tempo. Volgersi con fiducia agli altri e ritrarsi delusa: «Certo ch’io
sono, per natura, fra gli intransigenti: ma non mi nascondo anche il
lato debole di questo mio perenne atteggiamento40».
La volubilità di un animo nobile e sensibile può essere sostenuta,
liberata ed anche ammorbidita solo da un amore grande e confidente.
Talvolta, per certe indoli, basta il gesto di una mano che apra la porta ed inviti ad andare. Serve quel gesto che sciolga il monologo dei
pensieri e dei timori. Serve un incontro che faccia compiere il primo
passo. Basta un primo passo. E lo sciogliersi felice di una esistenza.
Per la medesima natura intransigente, Ida un anno più tardi lascerà
la Lega. La visione del paese della libertà non muore. Si spegne però
il miraggio della Svizzera e con esso la fiducia nel movimento femminile per la pace e la libertà.
***
Un delitto infatti veniva commesso, contro la giustizia e contro
l’uomo. Ed ancora la figura femminile ne è l’estrema testimone: «Vanzetti regretted that his sister had come from Italy to be with him in his
last moments of agony».
I cronisti del «New York Times» rendono noto, momento per momento, l’ultimo giorno di vita di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. I
due italiani, immigrati, anarchici, incolpati di una rapina e dell’uccisione di due persone, sono destinati alla morte. Dopo sette anni di agonia giudiziaria. Innocenti, come riconoscerà pubblicamente il governatore del Massachussets, cinquant’anni più tardi. Erano stati i capri
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Solo l’ideale è vero: la voce ritrovata di Ida Vassalini
espiatori di deliri politici, di allucinazioni sociali sullo spettro comunista e della diffidenza nei confronti degli immigrati italiani. La vicenda colpì l’opinione pubblica mondiale, con manifestazioni e pressioni
perché venisse concessa loro la grazia, viste le nebulose conduzioni dei processi. Inutilmente. Così Luigia Vanzetti lascia l’Italia per stare accanto al fratello, nell’ultimo suo giorno. Era l’agosto del 1927. Il
viso della donna, dolente, con i capelli raccolti sulla nuca, compare
ben presto sui quotidiani americani. Così la sua foto accanto a Rosa,
la moglie di Nicola Sacco. Tre volte le due donne andarono a visitare il fratello ed il marito, prima dell’esecuzione. Si salutarono per sempre alle sette della sera.
Ida Vassalini rimane molto colpita dalla sorella di Bartolomeo Vanzetti e i primi giorni di agosto scrive alla Lega, perché non sia inascoltato il grido di Luigia. Chiede alle “sorelle” un’azione di giustizia e di
pietà: «…per l’inaudito martirio degli italiani Sacco e Vanzetti, noi invochiamo dalla nostra Lega un diretto intervento presso le Autorità degli Stati Uniti perché non si commetta un delitto senza nome».
Sacco e Vanzetti sono due sventurati, straziati nei corpi e nelle anime, ed «anche se non fossero innocenti, avrebbero ormai diritto all’umana pietà41». Il 16 agosto Ida scrive ancora domandandosi se il sentimento della pietà potrà alla fine vincere sull’«inumana ferocia del
governatore Fuller». Ha sperato su un buon esito delle «universali proteste» più evidenti tra gli altri popoli che «nel paese dei due in felicissimi […] per salvare dalla morte due uomini, forse innocenti che pur
hanno ormai orrendamente espiato pure il più grande delitto». Pertanto Ida rinnova l’invito alla Lega di «farsi iniziatrice di un movimento internazionale contro la pena di morte42».
Ida si trova nella dimora dolce davanti al Lago di Garda. Attende
un segno di pietà dall’America. Attende anche un segno di libertà dalla Svizzera, una chiamata dalla scuola di Gland. Una rinascita. L’una
all’altra, le due speranze si intrecciano. Ma verranno entrambe deluse. Almeno in quel preciso momento della storia e della vita. Ida scrive l’ultima lettera il giorno dopo l’esecuzione di Sacco e Vanzetti. Rie203
Bollettino
della
Società Letteraria
vocando le parole del nipote del poeta Longfellow, sa «che non tutta
l’America era con Fuller. Il delitto è consumato…evitiamo che si rinnovi». A nome della sezione italiana, chiede nuovamente al Comitato
Esecutivo della WILPF di promuovere l’abolizione della pena di morte, perché ora «ogni indugio diventa una colpa43». Suggerisce inoltre
di coinvolgere la contessa Marie-Laure de Noailles, mecenate, figura
originale e di spicco negli ambienti culturali ed artistici, promotrice di
una petizione contro la pena di morte negli USA.
Il Comitato Esecutivo, nella seduta tenutasi a Ginevra agli inizi di
settembre, votò in effetti una risoluzione contro la pena di morte, quale forma di assassinio legalizzato, disonore per la civiltà moderna44.
Tuttavia la mancata presa di posizione ufficiale della Lega per aiutare Sacco e Vanzetti unitamente a una delusione personale per le poche, se non nulle, prospettive concrete di poter lasciare l’Italia, convinsero Ida Vassalini ad allontanarsi e a rinunciare al suo incarico di
segretaria. Ritornerà agli studi, cercherà di nuovo in Oriente quella
fonte che potesse dare senso e significato alle umane contraddizioni,
al dolore, alla sofferenza dell’innocente.
Andrà molto lontano per comprendere sé stessa ed il suo tempo: tenterà la traduzione della Bhagavad Gītā: l’essenza delle antiche
scritture indiane.
Solo l’ideale è vero: la voce ritrovata di Ida Vassalini
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Note
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Baù A., Gli Statuti della Società Letteraria di Verona (1808-1951), in Storia
della Società Letteraria di Verona tra Otto e Novecento, Verona, Società
Letteraria di Verona 2007, Vol. II, p. 238.
È opportuno rammentare che, dopo la morte di Piero Martinetti, venne
considerata l’ipotesi di pubblicare tutte le sue opere. Gioele Solari, mentre
lavorava al progetto, in una lettera ad Antonio Banfi parla esplicitamente
di Ida Vassalini, «che ha coltivato soprattutto la filosofia indiana» e «sarebbe
indicata per gli studi del Martinetti sul pensiero filosofico indiano» (Lettera
del 9 agosto 1944 in L’eredità contestata. Lettere di Antonio Banfi e Gioele
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Solari, a c. di Amedeo Vigorelli, «Rivista di storia della filosofia», 2005, n.4.,
p. 776). Nello stesso scambio epistolare tra Ida Vassalini e Gioele Solari
viene approfondita la figura di Martinetti, attraverso memorie personali
e le opere del maestro (Archivio Martinetti, Cartella 18, Accademia delle
Scienze di Torino). Gioele Solari, filosofo del diritto e figura di spicco
nell’ambiente intellettuale torinese, fu uno dei più attivi collaboratori della
«Rivista di filosofia», ispirata segretamente da Piero Martinetti e nella quale
anche Ida Vassalini lasciò il suo contributo. La rivista, per quanto non
nominasse direttamente Mussolini ed il suo regime, offrì insieme con «La
Critica» di Benedetto Croce l’opposizione culturale più ferma al fascismo.
Rosetta Del Conte, Ida Vassalini: in memoriam, «Historica», Anno VIII, 1955,
n. 4-5, p. 160. Rosa Del Conte, all’epoca docente di lingua e letteratura
romena presso l’Università Cattolica di Milano, ha scritto un ritratto molto
profondo di Ida Vassalini, frutto sicuramente di un’amicizia coltivata. La
studiosa, importante divulgatrice della cultura rumena in Italia, è stata
autrice di pregevoli studi e traduzioni degli autori T. Arghezi, L. Blaga, V.
Voiculescu, M. Eminescu, A.E. Bakonski.
Rabindranath Tagore, Sadhana, trad. it., Roma, Carabba, 1965, p. 83.
Ivi, p. 95.
Johann Wolfgang Goethe, Anche se sei diviso dall’amata, Divano
Occidentale Orientale, trad. it., Milano, Mondadori, 1997, p. 253.
Ida Vassalini, Tat tvam asi, A proposito dell’interpretazione delle sezioni
9 e 10 della VI lettura della Chāndogya-Upanisad, «Rendiconti del Reale
Istituto Lombardo di scienze e lettere», 1935, serie II, vol. 68, fasc. 6-10, pp.
440-441.
Rabindranath Tagore R., Nazionalismo, traduzione e introduzione di Ida
Vassalini, Lanciano, Carabba, 1923, p. I.
Ivi, pp. III-IV.
Giovanni Pascoli, Primi Poemetti, Firenze, Paggi, 1897 - Bologna, Zanichelli,
1904. Ora in PASCOLI, Tutte le poesie, 5. ed., Roma, Newton Compton
Editori, 2013, p. 101.
Tagore, Nazionalismo, cit., p. 5.
Ibid.
Ida Vassalini, Verso un’occulta armonia suprema?, «Historica», 1952, n. 3,
pp. 91-104.
Giosuè Carducci, Roma, Odi Barbare, Libro I, Bologna, Zanichelli, 1877.
Giuseppe Rensi, Il sale della vita, Varese, dall’Oglio editore, 1951, p. 250.
Ida Vassalini, Pacifismo e scetticismo. Rileggendo i “Lineamenti di Filosofia
scettica” di Giuseppe Rensi, «La Vita Internazionale», Anno XXVI, n. 3, p. 40.
Ivi, p. 41.
Ivi, p. 40
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della
Società Letteraria
Ivi, p. 42.
Rosa Genoni era insegnante e direttrice nella scuola tessile femminile
della “Società Umanitaria” di Milano. Oltre all’appassionato lavoro di
stilista, costante fu il suo impegno per migliorare le condizioni del lavoro
femminile.
Maria Grazia Suriano, Donne, pace, non-violenza fra le due guerre mondiali.
La Women’s International League for Peace and Freedom e l’impegno per
il disarmo e l’educazione, Tesi di Dottorato in Storia d’Europa: Identità
Collettive, Cittadinanza e Territorio, Università degli Studi di Bologna,
2007, p. 407 e seguenti, <http://amsdottorato.cib.unibo.it/623/1/SurianoTesi_Dottorato_XIX_ciclo.pdf>
Le lettere di Ida Vassalini sono conservate negli archivi della biblioteca
dell’Università del Colorado Boulder. Si fa pertanto riferimento alla loro
catalogazione. WILPF, Series III, Box 22, Folder 474, National Sections,
Italy 1922-1925.
Lettera del 18 dicembre 1922, ibid.
Lettera del 22 luglio 1924, WILPF, Series III, Box 22, Folder 474, National
Sections, Italy 1923-1924.
Ida Vassalini, Per il congresso di Washington della “Lega Internazionale
Femminile per la Pace e la Libertà”, «La Vita Internazionale», Anno XXVII,
n. 7-8, p. 104. La Lega aveva convocato a Washington, nel maggio del
1924, il IV Congresso internazionale. Ida Vassalini era stata scelta quale
delegata per l’Italia ma ragioni di salute l’avevano costretta a rinunciare.
Venne sostituita dalla scrittrice fiorentina Virginia Piatti Tango, in arte Agar.
Il saggio è allegato alla lettera del 29 gennaio 1926, WILPF, Series III, Box
22, Folder 474, National Sections, Italy 1925-1927.
Ibid.
Giovanni Pascoli, La canzone dell’ulivo, Canti di Castelvecchio, Zanichelli,
Bologna 1907. Ora in Pascoli, Tutte le poesie, cit., p. 330.
Maria Montessori, Educazione per un mondo nuovo, Milano, Garzanti, 1991,
pp. 146-147. Maria Montessori soggiornò in India dal 1939 al 1946. Partita
inizialmente per diffondere il suo metodo educativo, venne trattenuta
come prigioniera dal governo inglese, quando l’Italia entrò in guerra a
fianco della Germania. Tuttavia poteva continuare la sua attività formativa
e strinse rapporti di amicizia e di collaborazione con Tagore: nacquero in
India diverse scuole Tagore-Montessori.
Ida Vassalini, La pietà (Leggendo “Dolore e azione” del Regàlia), «La Vita
Internazionale», Anno XXVI, n. 15-16, p. 230.
Ivi, p. 229.
Lettera del 30 aprile 1926, WIPF, Series III, box 22 Folder 476, National
Sections, Italy 1925-1927.
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Il Vero e il Bello non son se non uno
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Amedeo Vigorelli, Piero Martinetti, La metafisica civile di un filosofo
dimenticato, Bruno Mondadori, Milano, 1998, pp. 297-298.
Lettera del 7 gennaio 1926, WILPF, Series III, Box 22, Folder 476, Nationals
Sections, Italy 1925-1927.
Lettera del 30 aprile 1926, ibid.
Vigorelli, Piero Martinetti, cit. p. 249.
Ivi, pp. 253; 255.
Lettera del 17 dicembre 1926, WILPF, Series III, Box 22, Folder 476,
Nationals Sections, Italy 1925-1927.
Ibid.
Lettera del 30 aprile 1926, WILPF, Series III, Box 22, Folder 476, Nationals
Sections, Italy 1925-1927.
Lettera del 5 agosto 1927, WILPF, Series III, Box 22, Folder 476, Nationals
Sections, Italy 1925-1927.
Lettera del 16 agosto 1927, ivi.
Lettera del 25 agosto 1927, ivi.
Resolution on Death Penalty, Minutes of the International Executive
Committee Meeting, Geneva, September 9-13, 1927, WILPF Series I, Box
6, Executive Committee and Business Materials, Folder 28, Executive
Business 1927.
In the world of art, the importance someone deserves is often achieved only
when all has been lost, including life. This is the case of Ida Vassalini (Verona 1891 - Milan 1953). After being buried into oblivion for many years, it is
never an easy task to portray a character with so many eclectic interests. At
the beginning of the last century, she was committed to peace, to a genuine religious experience and to an harmonious meeting between the East and the
West; similarly to Maria Montessori, she believed in a new childhood education. The vastness of her culture is surprising and correspondence with important figures of the time (for instance, Aldo Capitini and Gioele Solari) can be
found in different archives. Inspired by the philosophers Piero Martinetti and
Giuseppe Rensi, “the doubt” became her way to look towards life, so as to release the thought from every authoritarian view. She wrote essays and poems,
translated the Bhagavad Gītā from Sanskrit and the Dhammapada from Pali.
She served as secretary for the Italian Section of the Women’s International
League for Peace and Freedom, devoting herself to the United States of Europe
and against the death penalty.
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Notizie sugli autori dei testi
Carlo Bortolozzo. Insegnante di Lettere presso il Liceo delle Scienze Umane
“C. Montanari”. Saggista e critico letterario, si è occupato prevalentemente di
letteratura italiana moderna e contemporanea, raccogliendo i suoi contributi
in due raccolte di saggi: “Con l’infinito nel cuore” (Itaca 2004) e “Come un bel
giorno” (Cortella 2009). Collabora con vari giornali e riviste. Dal 2007 è presidente del Centro di Cultura Europea Sant’Adalberto di Verona.
Francesco Ginelli. Laureatosi in Tradizione e Interpretazione dei Testi letterari
presso l’Università degli Studi di Verona, è attualmente Dottorando di Ricerca
in Lingua e Letteratura Latina presso la medesima Università.
Giancarlo Grandis. Presbitero della diocesi di Verona e Vicario episcopale per
la cultura. Dottore in teologia morale, è docente presso lo “Studio Teologico San Zeno”, affiliato alla facoltà teologica del Triveneto. Ha pubblicato un
saggio sul pensiero antropologico del Antonio Rosmini dal titolo Il dramma
dell’uomo. Eros/Agape e Amore/carità nel pensiero antropologico di Antonio
Rosmini Serbati (1797-1855), San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2003.
Nicola Guerini. Nato a Verona, ha studiato Pianoforte, Organo e Composizione organistica, Direzione d’orchestra e Composizione Principale al Conservatorio C. Pollini di Padova e al Conservatorio G. Verdi di Milano. Si perfeziona presso l’Accademia Chigiana, Scuola di Alto perfezionamento di Fiesole,
l’Accademia Pescarese e la Musikhochschule a Lugano (Svizzera) dove consegue il Master of Arts in Music Conducting con Giorgio Bernasconi e Arturo Tamayo. La sua attività artistica lo vede impegnato con orchestre prestigiose tra le quali la Wurttembergergische Philarmonie Reutlinger, la Zagreb-HRT
Symphony Orchestra, la Sofia Philarmonie, i Berliner Symphoniker. Dal 2012
è Presidente del Fondo “Peter Maag”.
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Bollettino
della
Società Letteraria
Ernesto Guidorizzi. Ha insegnato “Teoria della Letteratura” presso l’Università
Ca’ Foscari di Venezia. Autore di molti saggi, è Vice-Presidente della Società
Letteraria di Verona.
Padre Laurent Mazas è Direttore esecutivo del Cortile dei Gentili. Dottore in filosofia e Aiutante di Studio al Pontificio Consiglio della Cultura dall’anno 2000.
Di nazionalità francese, è cresciuto in ambienti culturali diversi: Giappone,
Grecia, Francia, Svizzera, Cameroun, Italia, Santa Sede. È anche esperto della Santa Sede al Consiglio d’Europa e all’UNESCO per le questioni culturali.
Raffaela Gabriella Rizzo. Dottore di Ricerca in Geomatica e Sistemi Informativi Geografici, si occupa di temi legati alla Geografia e Cartografia, in particolare con ricerche inerenti il paesaggio, la geografia culturale, del turismo e
dell’agroindustria. Ha collaborato in qualità di giovane ricercatrice e di assegnista di ricerca con l’Università degli Studi di Trieste (Centro di Eccellenza per
la Ricerca TeleGeomatica), di Verona ed ora di Brescia. Ha all’attivo una cinquantina di pubblicazioni ed è stata relatrice a numerosi convegni e congressi in Italia e all’estero. È membro del Comitato Scientifico dell’Associazione
Italiana di Cartografia e della redazione della relativa rivista.
Paola Tonussi si occupa di letteratura europea e americana tra Ottocento e
Novecento. Ha scritto La voce della brughiera, un’ampia monografia su Emily
Brontë, In Stile inglese, Dimore e paesaggi, Pagine lette, T.S. Eliot e Dante, Parole e Canto, il tête à tête tra scrittore e lettore e i racconti di Calle del paradiso,
la sua prima prova narrativa. Nel 2013 le è stato assegnato il Premio Vassalini
dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti di Venezia per “il miglior studio
letterario dell’ultimo quinquennio”.
Yves Gaspar. Ha conseguito la Laurea in Fisica teorica all’Università di Liegi
(Belgio) nel 1995. Nel 2002 ha conseguito il Dottorato di Ricerca (PhD) presso l’Università di Cambridge (UK) con una tesi nell’ambito della cosmologia
matematica. Attualmente è docente del corso di cosmologia e astrofisica del
Dipartimento di Matematica e Fisica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
a Brescia. Per l’anno accademico 2011-2012 e per l’anno accademico 20122013 è stato nominato docente per il corso di Fondamenti e Didattica della
Fisica per il corso di Scienze della Formazione Primaria – Università di Padova – sezione di Verona.
Elisabetta Zampini. Insegnante a Verona. Autrice di Riverberi, raccolta poetica. Ha curato una monografia su Ida Vassalini, presenza eminente nella storia letteraria e civile italiana.
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Stampato nel mese di
aprile 2014
a cura di Scripta edizioni
via Albere 18, Verona
www.scriptanet.net