XXX domenica TO A 2014

XXX domenica TO A
Es 22,20-26; Sal 17; 1Ts 1,5-10; Mt 22,34-40
Prima Lettura Es 22,20-26
Se maltratterete la vedova e l'orfano, la mia collera si
accenderà contro di voi.
Dal libro dell’Èsodo
Così dice il Signore:
«Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché
voi siete stati forestieri in terra d’Egitto.
Non maltratterai la vedova o l’orfano. Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l’aiuto, io darò
ascolto al suo grido, la mia ira si accenderà e vi farò morire di spada: le vostre mogli saranno
vedove e i vostri figli orfani.
Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti comporterai
con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse.
Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole,
perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi dormendo?
Altrimenti, quando griderà verso di me, io l’ascolterò, perché io sono pietoso».
Seconda Lettura 1 Ts 1,5c-10
Vi siete convertiti dagli idoli, per servire Dio e attendere il suo Figlio.
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési
Fratelli, ben sapete come ci siamo comportati in mezzo a voi per il vostro bene.
E voi avete seguito il nostro esempio e quello del Signore, avendo accolto la Parola in mezzo a
grandi prove, con la gioia dello Spirito Santo, così da diventare modello per tutti i credenti della
Macedònia e dell’Acàia.
Infatti per mezzo vostro la parola del Signore risuona non soltanto in Macedònia e in Acàia, ma
la vostra fede in Dio si è diffusa dappertutto, tanto che non abbiamo bisogno di parlarne.
Sono essi infatti a raccontare come noi siamo venuti in mezzo a voi e come vi siete convertiti
dagli idoli a Dio, per servire il Dio vivo e vero e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha
risuscitato dai morti, Gesù, il quale ci libera dall’ira che viene.
Vangelo Mt 22,34-40
Amerai il Signore tuo Dio, e il tuo prossimo come te stesso.
Dal vangelo secondo Matteo
In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducèi, si riunirono
insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro,
nella Legge, qual è il grande comandamento?».
Gli rispose: «“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta
la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello:
“Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge
e i Profeti».
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La prima lettura (Es 22,20-26) ci propone la «piccola Torah umanitaria», fondata sulla memoria
dell’identità di Israele e di Dio. Nel corso della storia della salvezza, Israele ha sperimentato infinite volte la
sconfinata misura dell’amore misericordioso di Dio: dinanzi al rischio dell’oblio il popolo eletto è chiamato a
ricordare le meraviglie di cui è stato testimone, affinché la memoria possa trasformarsi in solidarietà.
Es 22,20: [Così dice il Signore:] «Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi
siete stati forestieri in terra d’Egitto (wügër lö´-tônè wülö´ tilHäceºnnû Kî|-gërîm héyîtem Bü´eºrec
micräºyim, lett. «E forestiero non maltratterai e non opprimerai lui, poiché forestieri foste in terra di Egitto»).
- voi siete stati forestieri in terra d’Egitto (gërîm héyîtem Bü´eºrec micräºyim). Le quattro prescrizioni contenute
in Es 22,20-26 derivano dalla memoria della condizione di Israele in Egitto. Collocato idealmente al centro
del cosiddetto Codice dell'alleanza (Es 20,22-23,33), il nostro brano racchiude quattro precetti che richiamano
l’attenzione alle categorie deboli della società: lo straniero residente in Israele (gër); la vedova e l’orfano
(´almänâ wüyätôm); il debitore (|`änî). Proprio per questa sua indole garantista, il testo - al pari del suo
parallelo di 23,9-12 - è stato giustamente definito come «una Torah di umanità, di giustizia e di rettitudine»
(I. Lewy), dal momento che i precetti sono tutti tesi alla salvaguardia e alla protezione di coloro che hanno
meno risorse per poter vedere tutelati i propri diritti in ambito sociale.
La prima legge riguarda il gër «forestiero» residente in Israele. Da un punto di vista etimologico, la radice
gùr (da cui il sostantivo gër / gërîm) serve a indicare la condizione di un forestiero che si è stabilito per un
certo tempo in un determinato paese e gode di una speciale configurazione giuridica: in tal senso si
distingue dai termini più generici nokrì o zar, gli stranieri in genere. La condizione del gër corrisponde a
quella del rifugiato. Da un punto di vista sociale, il forestiero residente non può possedere un territorio e
non ha un clan familiare a cui fare riferimento. I figli di Israele, gërîm in Egitto, non hanno goduto di alcuna
garanzia e ridotti in schiavitù hanno condotto una vita molto amara (cf Es 1,14). Da questa condizione li ha
liberati Dio. É dunque la memoria dell’Esodo a costituire il fondamento su cui poggia la legislazione di
garanzia nei confronti del forestiero residente in Israele; non si tratta dunque, di un’istanza di carattere
etico, filantropico, ma di una ragione di carattere teologico. In conclusione, il metro di misura della fedeltà
di Israele alla storia della salvezza è la solidarietà usata nei confronti dei bisognosi.
22,21: Non maltratterai la vedova o l’orfano (Kol-´almänâ wüyätôm lö´ tü`annûn, lett. «Ogni vedova e
orfano non umilierete»).
- la vedova o l’orfano (Kol-´almänâ wüyätôm). La seconda delle leggi di garanzia nei confronti di categorie
socialmente deboli ha come oggetto la tutela della vedova e dell’orfano. Nella Bibbia ebraica per undici
volte i termini gër «forestiero», ´almänâ «vedova» e yätôm «orfano» vengono presentati insieme, quasi a
formare una «triade di sventurati».
22,22: Se tu lo maltratti, quando invocherà da me l’aiuto, io darò ascolto al suo grido (´im`annË tü`annè ´ötô Kî ´im-cä`öq yic`aq ´ëlay šämöª` ´ešma` ca`áqätô, lett. «Se umiliare umilierai lui, se gridare
griderà a me, ascoltare ascolterò grido di lui»),
- io darò ascolto al suo grido (šämöª` ´ešma` ca`áqätô). In Es 20,21-23, Dio stesso si fa garante della protezione
della vedova e dell’orfano, affinché nessuno possa umiliarli approfittando della situazione critica nella
quale versano a causa della morte del capofamiglia. Il grido di aiuto dell’orfano e della vedova non rimarrà
inascoltato (cf Es 2,23-24).
22,23: la mia ira si accenderà e vi farò morire di spada: le vostre mogli saranno vedove e i
vostri figli orfani (wüHärâ ´aPPî wühäragTî ´etkem BeHäºreb wühäyû nüšêkem ´almänôt ûbünêkem
yütömîm, lett. «e si accenderà ira mia e ucciderò voi con spada, e saranno donne vostre vedove e figli vostri orfani»).
- la mia ira si accenderà (wüHärâ ´aPPî). Il verbo Härâ «bruciare, ardere, incendiare» è associato al sostantivo
´aP, aph «ira, rabbia, sdegno, collera» per descrivere la reazione di Dio dinanzi all'ingiustizia. Chi opprime
la vedova e l’orfano verrà passato a fil di spada e la sua famiglia si troverà a subire il contrappasso della
colpa di cui egli si è macchiato. È sempre la memoria delle gesta che Dio ha compiuto in favore di Israele a
motivare la pratica della solidarietà nei confronti delle categorie più deboli e svantaggiate.
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22,24: Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che sta con te, non ti
comporterai con lui da usuraio: voi non dovete imporgli alcun interesse (´im-Keºsep Talwè
´et-`ammî ´et-he|`änî `immäk lö´-tihyè lô Künöšè lö|´-tüSîmûn `äläyw neºšek, lett. «Se argento presti a popolo
mio, al povero con te, non sarai per lui come usuraio: non metterete su di lui interesse»).
- Se tu presti denaro (´im-Keºsep Talwè). Le ultime due leggi contenute nel nostro brano riguardano obblighi di
giustizia nei confronti del prossimo. La prima concerne il prestito di denaro (Keºsep). Tale operazione non
era priva di inconvenienti. Non di rado, infatti, i creditori non si fidavano di persone non appartenenti al
proprio clan, specie se indigenti e, per timore dell’insolvenza, negavano i prestiti. In altri casi, approfittando
della necessità di chi si trovava a chiedere il prestito, imponevano al malcapitato l'interesse, in netto
contrasto con la legge (cf Lv 25,35-38; Dt 23,20). Nel Vicino Oriente antico l’istituto del prestito a interesse era
ben attestato e i tassi erano elevati. Rashì (1040 - 1105) commenta così: «L’interesse rassomiglia al morso del
serpente che infligge una piccola ferita nel piede di una persona; una ferita di cui nemmeno ci si accorge al
principio, ma poi tutto in una volta si gonfia e il veleno invade tutto il corpo, sino alla testa». La suggestiva
immagine qui utilizzata è suggerita dall’etimologia della parola neºšek «interesse», che in ebraico alla lettera
significa «morso», mentre nachàš è il serpente. Infatti, le conseguenze di un prestito a interesse potevano
rivelarsi letali per chi non fosse stato in grado di risarcire il proprio creditore, causando la perdita del
patrimonio personale o, nella peggiore delle ipotesi, la riduzione in schiavitù per debiti del soggetto e
dell’intera sua famiglia. In conclusione, la legge contenuta in Es 22,24 mette in guardia Israele
dall’approfittare della situazione di difficoltà di un membro del popolo eletto, chiamato non a caso
«qualcuno del mio popolo», per sottolineare la comune appartenenza del debitore e del creditore ad ha-Shem,
Dio di Israele, che fa del suo popolo un’unica grande famiglia. La consapevolezza di questa realtà impone
che sia il valore supremo della solidarietà a ispirare l’etica e la condotta degli israeliti, che dinanzi a un
fratello bisognoso dovranno ricordarsi che Dio è l’unico Padre di tutti e dovranno comportarsi di
conseguenza. Ancora una volta, dunque, il binomio memoria-solidarietà ritorna come uno dei principi
ispiratori dell’agire morale di Israele.
22,25: Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto
del sole (´im-Häböl TaHBöl Salmat rë`eºkä `ad-Bö´ haššeºmeš Tüšîbeºnnû lô, lett. «Se impegnare impegnerai
mantello del prossimo tuo, fino a tramontare del sole farai tornare esso a lui»),
- Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo (´im-Häböl TaHBöl Salmat rë`eºkä). La quarta «legge umanitaria»
concerne il Häböl «pegno». La legislazione biblica prevedeva una chiara regolamentazione dell’esercizio di
questo istituto onde evitare abusi da parte del creditore, come pure per scongiurare il rischio che il debitore
impegnasse cose necessarie alla propria sussistenza: ad esempio, era tassativamente proibito ai creditori
prendere in pegno il torchio o la mola giacché erano considerati degli elementi indispensabili per la vita
quotidiana di qualsiasi famiglia (cf Dt 24,6). Il pegno, inoltre, rimaneva proprietà del debitore e il creditore
era obbligato a restituirlo a debito rifuso: in Ez 18,12.16 si biasima il comportamento di creditori che non
danno indietro il pegno. L'esempio che qui si riporta è il Salmat «mantello», un indumento di particolare
importanza dal momento che veniva utilizzato per difendersi dalle intemperie e per coprirsi durante la
notte. Proprio per questi tratti di indispensabilità, la legge impone che il mantello preso in pegno venga
restituito al debitore al calar del sole. Questa norma intendeva appellarsi alla compassione e alla
misericordia del creditore nei confronti del suo prossimo in difficoltà.
22,26: perché è la sua sola coperta, è il mantello per la sua pelle; come potrebbe coprirsi
dormendo? Altrimenti, quando griderà verso di me, io l’ascolterò, perché io sono pietoso»
(Kî hiw´ (küsûtâ) [küsûtô] lübaDDäh hiw´ Simlätô lü`örô Bammè yišKäb wühäyâ Kî|-yic`aq ´ëlay
wüšäma`Tî Kî|-Hannûn ´äºnî, lett. «Poiché esso (è la) coperta di lui solo essa, quello mantello di lui per pelle di lui: in
cosa giacerà? E sarà quando griderà a me ascolterò, poiché pietoso io (sono)»).
- io l’ascolterò, perché io sono pietoso (wüšäma`Tî Kî|-Hannûn ´äºnî). Solo chi ha fatto esperienza concreta della
misericordia di Dio può comportarsi in modo solidale e compassionevole nei confronti del prossimo che
versa in situazioni di difficoltà. Tale appello alla misericordia sulla bocca di Dio si traduce in un appello
struggente: «è la sua sola coperta». Ma è soprattutto l’evocazione della natura compassionevole di ha-Shem a
rappresentare un monito per il credente: Dio, che si è rivelato a Mosè come raHûm wüHannûn
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«misericordioso e compassionevole» (Es 34,6), ascolterà il grido che sale a lui dal povero a cui non vengono
riconosciuti i propri diritti e ne difenderà la causa.
Avere la memoria corta è tipico della condizione dell’uomo. Perciò può accadere che colui che ha vissuto un’esperienza di precarietà, una volta raggiunta la prosperità e l’abbondanza, finisce ben
presto col dimenticare la propria situazione precedente, segnata da provvisorietà e affanni. Una simile
dimenticanza può produrre effetti devastanti, sia per la persona stessa che per il suo prossimo: per la
persona, perché chi non apprende nulla dalle esperienze che ha vissuto può essere condannato a riviverle; per
il suo prossimo, perché il non fare memoria delle sofferenze subite nei momenti difficili può far sì che colui
che un tempo era stato oppresso dall’indifferenza e dalla superficialità altrui si tramuti in oppressore nei
confronti di coloro che occupano la posizione che prima era la sua. Di qui l’importanza di una memoria viva
ed efficace che, partendo dal vissuto e facendone tesoro, assuma i tratti della solidarietà verso le persone che
si trovano in condizioni disagiate.
La seconda lettura (1Ts 1,5c-10) ci mostra come la comunità cristiana di Tessalonica, avendo
rinnegato gli idoli morti per servire il Dio vivo e vero, ha accolto il dono della Parola in mezzo a grandi prove. Il
frutto di questa conversione, divenuta possibile per aver seguito l'esempio di Paolo e del Signore, è una fede
vivace accompagnata dalla gioia dello Spirito Santo. Poiché la migliore predicazione è la propria vita, la fede
dei Tessalonicesi è divenuta modello per tutti i credenti. Anche oggi siamo chiamati a offrire il nostro esempio,
coerente con il mistero pasquale di Cristo.
1Ts 1,5c: [Fratelli,] ben sapete come ci siamo comportati in mezzo a voi per il vostro bene
(καθὼς οἴδατε οἷοι ἐγενήθημεν ὑμῖν δι’ ὑμᾶς).
- ben sapete come ci siamo comportati (καθὼς οἴδατε οἷοι ἐγενήθημεν). Il verbo ἐγενήθημεν è ind. aor. pass. di
γίνομαι «vengo, divento, sono, mi comporto». Per rispettare la sintassi greca, bisognerebbe tradurre: «come
sapete quali siamo stati».
- in mezzo a voi per il vostro bene ([ἐν] ὑμῖν δι’ ὑμᾶς). Il gioco di parole: «tra di voi per voi» mette in risalto la
dedizione degli apostoli. La versione CEI indebolisce il gioco di parole. Si ha in aggiunta una clausola
metrica: i prosatori spesso concludevano i periodi con successioni studiate di sillabe lunghe e brevi; qui
abbiamo il doppio trocheo (in poesia, elemento della metrica greca e latina).
1,6-7: E voi avete seguito il nostro esempio e quello del Signore, avendo accolto la Parola
in mezzo a grandi prove, con la gioia dello Spirito Santo, 7così da diventare modello per
tutti i credenti della Macedonia e dell’Acaia (καὶ ὑμεῖς μιμηταὶ ἡμῶν ἐγενήθητε καὶ τοῦ κυρίου,
δεξάμενοι τὸν λόγον ἐν θλίψει πολλῇ μετὰ χαρᾶς πνεύματος ἁγίου, 7ὥστε γενέσθαι ὑμᾶς τύπον πᾶσιν
τοῖς πιστεύουσιν ἐν τῇ Μακεδονίὰ καὶ ἐν τῇ Αχαΐᾳ, lett. «E voi imitatori di noi diveniste e del Signore, avendo
ricevuto la parola fra tribolazione molta con gioia di Spirito santo, 7cosicché diveniste voi modello a tutti i credenti nella
Macedonia e nell'Acaia»).
- E voi avete seguito il nostro esempio e quello del Signore (καὶ ὑμεῖς μιμηταὶ ἡμῶν ἐγενήθητε καὶ τοῦ κυρίου).
Il tema dell'imitazione (μίμησις) è tipicamente paolino. In 1Tessalonicesi è esplicito in 1,6 e in 2,14: esso si
produce nell'atto stesso dell'accoglienza del Vangelo (1,6) e non consiste solo nella volontà d'imitare, ma si
dà nei fatti: la Chiesa dei Tessalonicesi imita quelle della Giudea nel patire (2,14). Si tratta di somiglianza
nell'annuncio del Vangelo: gli apostoli lo ricevono da Dio e lo trasmettono ai Tessalonicesi che a loro volta lo
diffondono, diventando τύπος «modello» per altri. Allo stesso modo gli apostoli esortano (4,1-2; 5,12.14) e i
Tessalonicesi trasmettono l'esortazione all'interno della Chiesa, gli uni agli altri (4,18; 5,11.12-14). La
2Tessalonicesi torna sull'imitazione nell'ultima parte, con il verbo μιμέομαι, miméomai «imito, seguo
l'esempio» (3,7.9; il verbo ricorre anche in Eb 13,7; 3Gv 11). Paolo esorta a essere suoi μιμηταί, «imitatori» in
1Cor 4,16 e συμμιμηταί, «coimitatori» in Fil 3,17; in 1Cor 11,1 aggiunge: μιμηταί μου γίνεσθε καθὼς καγὼ
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Χριστοῦ «diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo»; Ef 5,1: Γίνεσθε οὖν μιμηταὶ τοῦ θεοῦ «fatevi
dunque imitatori di Dio» (cf anche 1Cor 10,6; 1Tm 4,12; Tt 2,7; Eb 6,12; 1Pt 5,3).
- con la gioia dello Spirito Santo (μετὰ χαρᾶς πνεύματος ἁγίου). C'è una variante poco attestata (codice
Vaticano [B] e alcuni manoscritti della Vulgata) che aggiunge un καὶ: «con gioia e con Spirito Santo», che lega
meno strettamente la gioia e lo Spirito.
- così da diventare modello (7ὥστε γενέσθαι ὑμᾶς τύπον). È al singolare in alcuni manoscritti, tra cui il codice
Vaticano (B), e al plurale (τύπους «modelli») in altri, tra cui il codice Sinaitico e il codice Alessandrino (A),
oltre al testo bizantino: il singolare è da preferire come lezione più difficile. Qui il termine indica il modello
da imitare in senso morale.
- per tutti i credenti della Macedonia e dell’Acaia (πᾶσιν τοῖς πιστεύουσιν ἐν τῇ Μακεδονίὰ καὶ ἐν τῇ Αχαΐᾳ).
Sono provincie romane; l'Acaia corrisponde alla Grecia.
1,8: Infatti per mezzo vostro la parola del Signore risuona non soltanto in Macedonia e in
Acaia, ma la vostra fede in Dio si è diffusa dappertutto, tanto che non abbiamo bisogno
di parlarne (ἀφ’ ὑμῶν γὰρ ἐξήχηται ὁ λόγος τοῦ κυρίου οὐ μόνον ἐν τῇ Μακεδονίᾳ καὶ Ἀχαΐᾳ, ἀλλ’ ἐν
παντὶ τόπῳ ἠ πίστις ὑμῶν ἡ πρὸς τὸν θεὸν ἐξελήλυθεν, ὡστε μὴ χρείαν ἔχειν ἡμᾶς λαλεῖν τι, lett. «Da voi
infatti ha risuonato la parola del Signore non soltanto nella Macedonia e nell'Acaia, ma in ogni luogo la fede di voi quella verso
Dio si è divulgata, tanto che non necessità abbiamo noi di dire qualcosa»).
- Infatti per mezzo vostro la parola del Signore risuona (ἀφ’ ὑμῶν γὰρ ἐξήχηται ὁ λόγος τοῦ κυρίου). Il verbo
ἐξήχηται, ind. perf. pass. di ἐξηχέω «faccio risuonare, echeggiare» ricorre solo qui nel NT. La frase è
ambigua sicché si può tradurre: «a partire da voi la parola è echeggiata» o «da voi è fatta echeggiare». La
versione CEI segue la prima possibilità.
- risuona … si è diffusa (ἐξήχηται … ἐξελήλυθεν). La frase antitetica in greco ha un andamento concentrico:
verbo «risuona», soggetto «la parola del Signore», luogo «in Macedonia e in Acaia», luogo «dappertutto», soggetto
«la vostra fede», verbo «si è diffusa».
- la vostra fede in Dio (ἠ πίστις ὑμῶν ἡ πρὸς τὸν θεὸν). Si può tradurre «fede in Dio» o «verso Dio» per
indicare i credenti che portano il Vangelo, o la fama della loro fede, o la personificazione della fede che si
diffonde, perché altri, grazie ai Tessalonicesi, credano in Dio.
- si è diffusa (ἐξελήλυθεν). Il verbo ἐξελήλυθεν è ind. perf. att. di ἐξέρχομαι «esco, vado, vengo fuori,
scorro, mi diffondo». Si potrebbe rendere «la vostra fede è uscita» per insistere sul movimento: la parola
riecheggia, la fede non rimane a Tessalonica, ma ne esce. Il verbo «uscire» si può usare per la diffusione di
notizie (Mc 1,28; Lc 7,17).
- dappertutto (ἐν παντὶ τόπῳ). L'uso dell'iperbole non esclude la realtà della diffusione del Vangelo a partire
da Tessalonica.
1,9-10: Sono essi infatti a raccontare come noi siamo venuti in mezzo a voi e come vi siete convertiti
dagli idoli a Dio, per servire il Dio vivo e vero 10e attendere dai cieli il suo Figlio, che egli ha
risuscitato dai morti, Gesù, il quale ci libera dall’ira che viene (αὐτοὶ γὰρ περὶ ἡμῶν ἀπαγγέλλουσιν
ὁποίαν εἴσοδον ἔσχομεν πρὸς ὑμᾶς, καὶ πῶς ἐπεστρέψατε πρὸς τὸν θεὸν ἀπὸ τῶν εἰδώλων δουλεύειν
θεῷ ζῶντι καὶ ἀληθινῷ 10καὶ ἀναμένειν τὸν υἱὸν αὐτοῦ ἐκ τῶν οὐρανῶν, ὃν ἤγειρεν ἐκ [τῶν] νεκρῶν,
Ἰησοῦν τὸν ῥυόμενον ἡμᾶς ἐκ τῆς ὀργῆς τῆς ἐρχομένης, lett. «essi stessi infatti di noi riferiscono quale ingresso
avemmo verso di voi, e come vi rivolgeste verso Dio dagli idoli per servire al Dio vivente e vero, 10 e per aspettare il Figlio di
lui dai cieli, che risuscitò dai morti, Gesù il liberante noi dall'ira veniente»).
- essi infatti (αὐτοὶ γὰρ). Si riferisce genericamente a persone diverse dagli apostoli: si tratta di abitanti della
Macedonia, dell'Acaia e di «ogni luogo» (1,7-8).
- Come ... e come (ὁποίαν … πῶς). L'italiano «come» rende due diverse parole greche: ὁποῖος «tale quale, così
come» è aggettivo correlativo e πῶς «come? in che modo?» è avverbio interrogativo.
- ci libera (τὸν ῥυόμενον). Il verbo part. pres. med. di ῥύομαι, «strappo, riscatto, libero» nel NT è più raro del
sinonimo σώζειν «salvare» che è usato in 1Ts 2,16. I destinatari della lettera hanno abbandonato i culti dei
diversi dèi per il culto del Dio d'Israele (v. 9): si tratta quindi di pagani, o meglio, in termini biblici, di
appartenenti ai popoli diversi da Israele; un caso differente sono i «timorati di Dio», che conoscevano il Dio
d'Israele e dal Vangelo accoglievano solo il riconoscimento di Gesù come Cristo. Se ne ricava che la Chiesa
dei Tessalonicesi era costituita da questi convertiti, più che da Israeliti o timorati di Dio; all'opposto, la
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narrazione di Atti mette l'accento sulla sinagoga e sugli Israeliti. Il termine εἴδωλα «idoli» indica gli oggetti
di culto dedicati a dèi diversi dal Dio d'Israele o gli dèi stessi e in questo senso la parola greca è usata solo a
partire dalla Settanta (Sal 113 [TM 115]; 134 [TM 135]; Dn 14; Sap 15). Agli idoli falsi e morti si contrappone il
Dio vivo e vero. «Servire Dio» può alludere sia al culto sia alla vita secondo il Vangelo e riassume lo scopo
della liberazione dall'Egitto nel libro dell'Esodo. L'accento nella nostra lettera è sulla speranza: l'attesa del
Figlio, di cui si professa la risurrezione dai morti (v. 10). L'azione salvifica è descritta come sottrazione
all'«ira», giusta reazione di Dio al peccato (5,9; cf Rm 1,18-32): attraverso il Vangelo, accolto nella fede, Dio
trasforma la vita dei credenti, in modo che siano irreprensibili nel giudizio e perciò non soggetti alla
punizione, ma accolti nella vita con il Signore (3,13; 5,23; 4,17; 5,10). Brevemente, oltre alla fede nell'unico
Dio e al servizio, si ricordano punti fondamentali della fede: la risurrezione di Gesù, l'attesa del suo ritorno,
la salvezza; questi versetti ci riportano ai temi della primissima predicazione cristiana.
Il vangelo (Mt 22,34-40) riprende la terza machaloqet «disputa, conflitto di opinioni, controversia»
sostenuta da Gesù, che viene interrogato da un dottore della Legge, fariseo, su quale fosse il grande e primo
comandamento della Torà.
Mt 22,34: Allora i farisei, avendo udito che egli aveva chiuso la bocca ai sadducei, si
riunirono insieme (Οἱ δὲ Φαρισαῖοι ἀκούσαντες ὅτι ἐφίμωσεν τοὺς Σαδδουκαίους συνήχθησαν ἐπὶ τὸ
αὐτό).
- i farisei … si riunirono insieme (Οἱ δὲ Φαρισαῖοι … συνήχθησαν ἐπὶ τὸ αὐτό). In Mc 12,28 Gesù è avvicinato
da uno scriba benevolo; in Lc 10,25 l'interlocutore è un dottore della Legge. Matteo trasforma l'episodio in un
dibattito con i farisei. Nella descrizione del loro «radunarsi insieme» si potrebbe celare un'allusione al Sal
2,2: «i prìncipi congiurano insieme contro il Signore e contro il suo consacrato». Nel verbo συνάγω, synágō
«riunirsi» si può riconoscere un riferimento alla sinagoga.
22,35: e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: (καὶ
ἐπηρώτησεν εἷς ἐξ αὐτῶν νομικὸς πειράζων αὐτόν).
- un dottore della Legge (νομικὸς). La presenza di questa specificazione è incerta, perché assente in molti
testimoni greci (tutti i minuscoli della «famiglia 1») e nel codice Sinaitico siriaco (sys), ma soprattutto perché
Matteo usa il termine νομικός, nomikós «dottore della legge, legisperito, giureconsulto» solo qui, mentre si
trova sei volte in Luca.
22,36: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?» (διδάσκαλε, ποία ἐντολὴ
μεγάλη ἐν τῷ νόμῳ;).
- Il grande comandamento (ἐντολὴ μεγάλη). Il testo greco non ha l'articolo «il». L'espressione ha il valore di un
superlativo: «il più grande». Nelle scuole ebraiche antiche era frequente interrogarsi su quale fosse il kelal
gadol ha-Torah, il «più grande comandamento della Torah». Ricordiamo alcune risposte divenute celebri:
«Non fare al tuo prossimo ciò che non vuoi si faccia a te. Ecco tutta la Torà». Ma al pagano frettoloso che lo
interrogava, Hillèl (60 a.C - 7 d.C.) aggiunse subito: «Va e studia!» (b.Shab 31a). Rabbì Aqivà (50-135 d.C.)
insegnava: «Amerai il prossimo tuo come te stesso: è tutta la Torà» (jTalmud, Nedarim 94; cf Rom 13,9s). I
maestri dicono che «amare con tutto il cuore» non basta. Bisogna amare come fa Dio, con raHámim,
«grembo, viscere» superando ogni ragione umana. Ben Azzaj (II sec. d.C.) così commentava Gen 5,1:
«Questo è il libro della discendenza di Adamo. Nel giorno in cui Dio creò l’uomo, lo fece a somiglianza di Dio». Il più
grande comandamento è che l’uomo diventi come Dio. Ben Zomà ha detto: «Ho trovato un versetto che
contiene tutta la Torà: Ascolta Israele, il Signore è nostro Dio, il Signore è Uno» (Dt 6,4). Ben Nanas (II sec.
d.C. Tannà della seconda generazione, contemporaneo di R. Ishmael e R. Aqivà) ha detto: «Ho trovato un
versetto che contiene tutta la Torà: amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lev 19,18). Ben Pazi ha detto:
«Ho trovato un versetto che contiene tutta la Torà: sacrificherai un agnello al mattino e l’altro al
crepuscolo» (Es 29,39). E Rabbì, il loro maestro, si alzò e decise: la legge è secondo Ben Pazi».
In tempi successivi, i rabbini hanno riconosciuto taryag mitzvot «613 precetti», ordinati da Dio e riportati nel
Talmud. Questo numero è variamente spiegato.
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Rabbi Chanina disse: «Torah secondo il significato numerico delle sue lettere ebraiche equivale a 611, se
si aggiungono i primi due comandamenti enunciati sul Sinai e che noi abbiamo sentito sulla bocca stessa
dell’Eterno, ciò fa 613» (Mishnà, IV Ordine Neziqim «Danni», Trattato Makkoth «Percosse» 23b). Rashì
commentando Nm 15,39 scrive: «Il valore numerico delle consonanti della parola tzitzioth è 600, più gli
otto fili e i cinque nodi, ciò fa 613».
Le micwöt,
micwöt, i «precetti» si distinguono in negativi e positivi: 365 sono negativi, quanti sono i giorni dell’anno.
Ogni singolo giorno dice all’uomo: lo taasè «non devi fare». Maimonide (1138 - 1204) precisa che ogni
giorno ricorda: «Non compiere in me una trasgressione»; 248 sono positivi, quante sono le membra del
corpo dell’uomo: asè «devi fare». Le micwöt (sing. micwâ) compongono la halakà, cioè la «via» dell'amore
totale per Dio e i fratelli, segno che l'uomo davvero è a immagine di Dio. Le micwöt sono come l’aria e il
cibo. Ogni giorno che passa senza praticare la Torah è perduto non solo per gli ebrei, ma per il mondo
intero. I 613 precetti furono suddivisi, dalla scuola di rabbi Hillèl, in precetti piccoli e grandi, o mizwot qalot
«leggeri» e chamurot «gravi» (PA 11,1; Detti di Rabbini, p. 75). Tra i comandamenti «leggeri» c'è il precetto sui
nidi degli uccelli (Dt 22,6-7), mentre tra i comandamenti «gravi» c'è quello di onorare i genitori (Dt 5,16).
Entrambe le categorie dovevano essere prese sul serio e la ricompensa per la loro osservanza era la stessa per
entrambe.
22,37: Gli rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e
con tutta la tua mente (ὁ δὲ ἔφη αὐτῷ• ἀγαπήσεις κύριον τὸν θεόν σου ἐν ὅλῃ [τῇ] καρδίᾳ σου καὶ ἐν
ὅλῃ τῇ ψυχῇ σου καὶ ἐν ὅλῃ τῇ διανοίᾳ σου).
- Amerai il Signore tuo Dio (ἀγαπήσεις κύριον τὸν θεόν σου). In Matteo non si trova l'inizio dello šüma`
presente invece nel brano parallelo di Mc 12,29: «Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore...» (cf Dt
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6,4-5: šüma` yiSrä´ël yhwh(´ädönäy) ´élöhêºnû yhwh(´ädönäy ´eHäd
wü´äºhabTä ´ët yhwh(´ädönäy)
´élöhʺkä Bükol-lübäbkä ûbükol-napšükä ûbükol-mü´ödeºkä), probabilmente perché era noto ai lettori, che
lo recitavano due volte al giorno. Alla fine della citazione Matteo abbrevia il testo di Marco, fermandosi a ἐν
ὅλῃ τῇ διανοίᾳ σου «con tutta la tua mente» e tralasciando ἐξ ὅλης τῆς ἰσχύος σου «con tutta la tua forza»,
cioè amarlo con tutto ciò che si possiede, anche col denaro (Mc 12,30; Lc 10,27). Il testo ebraico parla di
ûbükol-mü´ödeºkä «con tutta la tua forza»; la LXX ἐξ ὅλης τῆς δυνάμεώς σου. I Sinottici aggiungono al testo
originale di Dt 6,5 la parola διάνοια, díanoia, «mente», per sottolineare che Dio si deve amare con il cuore,
con l'anima e anche con l'impegno intellettivo.
L'amore è una conseguenza del dono ricevuto da Dio; alcuni fanno notare come nella parola ´ähábâ
«amore» sia contenuta havah, che significa «dona!». Il Targum, «traduzione» in aramaico, sviluppa una
riflessione sul verbo ebraico raHam, «provare misericordia, sentire pietà, provare tenerezza, commuoversi,
amare (teneramente)». Per capire il significato originario di racham bisogna comunque risalire al sostantivo
reHëm
re
Hëm , che significa «grembo, utero, matrice», cioè la capacità dell’utero di concepire l’embrione. L’amore
sarebbe dunque la capacità di socchiudersi, di fare un vuoto all’interno della pienezza della persona, di
concepire l’altro in sé o di aprirsi all’altro da sé. Questo desiderio dell’altro, che scava invece di colmare, è
una dimensione insospettata, che il Targum svela con la propria traduzione. Il verbo «amare» (ebr. aheb, gr.
ἀγαπάω) non è più inteso nella sua dimensione affettiva, sentimentale. Spezzando questa interiorità
narcisistica, il suo significato si diffrange per incarnarsi prima nella memoria (Dt 6,6) e infine nell’ambito
cittadino (Dt 6,9), passando per l’insegnamento ai bambini, lo studio o il dialogo nel nucleo familiare, per la
strada e in qualsiasi momento della giornata: «quando ti coricherai e quando ti alzerai» (Dt 6,7); con
l’adeguamento o l’adattamento di azioni e pensieri (Dt 6,8) e infine con la propria influenza sulle abitudini
sociali (Dt 6,9) (cf Banon, La lettura infinita, 162-164). Amare Dio significa dunque semplicemente sapere ciò
che va fatto nella mia relazione con l’altro. Per mezzo e all’interno di questa relazione, io amo Dio.
L'amore di Dio concretamente si manifesta come amore per l’uomo. L’amore esige il dono dei propri beni
(Targum Onqelos), il servizio di Dio (Targum Yonatan), lo studio della sua Legge (Targum Neophyti), la
realizzazione dei suoi insegnamenti (Sifre, Rashì). La necessità di amare Dio deriva dalla Sua unicità (Ibn
Ezra, Toledo 1092-1167), con la «felicità» che si aggiunge come sovrappiù (Abdia Sforno, Cesena 1470 o 1475
- Bologna 1550; rabbino italiano, esegeta biblico, filosofo). L’amore dell’altro non costituisce una deviazione
sulla via per la trascendenza; «il viso dell’altro reca la traccia del movimento più diretto, più breve, più
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urgente» (Lévinas, 1906-1995). In conclusione, non esiste strada diretta verso Dio che possa fare a meno della
svolta costituita dall’altro. Per la «mentalità» ebraica amare significa sapere ciò che si deve fare.
22,38: Questo è il grande e primo comandamento (αὕτη ἐστὶν ἡ μεγάλη καὶ πρώτη ἐντολή).
Il Deuteronomio è stato definito «il centro della teologia biblica» (S. Hermann). Si può dire che lo šüma` (Dt
6,4ss) costituisce a sua volta il fulcro spirituale del Deuteronomio (D. McBride). Della sua importanza
testimonia sia la tradizione ebraica, che ne ha fatto la quotidiana preghiera e la fondamentale professione di
fede, sia quella cristiana, che in Dt 6,4s riconosce il più grande dei comandamenti.
22,39: Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso (δευτέρα [δὲ]
ὁμοία αὐτῇ• ἀγαπήσεις τὸν πλησίον σου ὡς σεαυτόν).
La risposta di Gesù alla domanda dei farisei attinge al cuore della Torah, ponendo insieme il comandamento
di amare Dio (Dt 6,5: šüma` ) e quello di amare il prossimo (Lv 19,18). L'amore di Dio e l'amore del prossimo
(ahavàt rè’a) non sono la stessa cosa ma hanno lo stesso peso. I 13 attributi che Dio rivela sul Sinai (Es 34,6s)
sono in realtà 13 precetti diretti all’uomo: nel cuore della Torah c’è Dio, ma un Dio che è immagine,
modello per l’uomo: wü´ä|habTä lürë`ákä Kämôºkä ´ánî yhwh(´ädönäy) «Amerai il tuo prossimo come te
stesso» o «Amerai il tuo prossimo è te stesso. Io sono il Signore» (Lv 19,18) (cf DE BENEDETTI, Introduzione
al Giudaismo, 35). La motivazione dell’amore del prossimo è anche in questo caso l’obbedienza a Dio che lo
comanda: ´ánî yhwh(´ädönäy) «Io sono il Signore», non si tratta di una motivazione etica, ma teologica. Per
Abulafia (1240 - ?) i due termini ´ähábâ «amore» ed ´eHäd «uno», in gematriyyah, hanno entrambi il valore
numerico di 13. Il valore numerico del Tetragramma è 26, perciò è la sintesi dei due «amori» e di due
unità: Dio e l'uomo. Si tratta di un caso interessante di unione mistica attraverso l’amore e l’intellezione (filos.
l’intendere, l’afferrare con la mente un concetto). L’amore umano, durante o attraverso la relazione erotica
con il divino, viene divinizzato, ma anche lo spirito, l’intellezione o l’amore umano e divino possono essere
concepiti come parti di un’unità più completa. La fusione dei due «amori» o delle due «unità» può indicare
la restaurazione della completezza del Tetragramma, al quale manca qualche cosa senza la componente
umana. Ama il prossimo tuo come te stesso significa: «Sii responsabile d’altri, come sei responsabile di te
stesso» (Lévinas, 1906-1995). Lv 19,18 è citato nel NT in Rm 13,9; Gal 5,14; Gc 2,8.
22,40: Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti» (ἐν ταύταις ταῖς
δυσὶν ἐντολαῖς ὅλος ὁ νόμος κρέμαται καὶ οἱ προφῆται).
- dipendono (κρέμαται). Il verbo κρέμαται, krématai è ind. pres. med. di κρεμάννυμι «sospendo, appendo,
dipendo»; traduce il verbo ebraico talà, che prospetta l'immagine di una voluminosa massa sospesa in aria
mediante due corde o tiranti.
- tutta la Legge (ὁ νόμος). Qui il greco νόμος, nómos è preferibile tradurlo con Torà che significa di più che
«Legge». È vero che i saggi invitati ad Alessandria dal re Tolomeo (II sec. a.C.) a tradurre in greco la Bibbia
ebraica scelsero il termine νόμος per rendere l'ebraico Torà, ma questa significa «insegnamento,
rivelazione» di Dio e rappresenta il più grande dono fatto al popolo di Israele. Sarebbe stato possibile
tradurre νόμος anche con «insegnamento», proprio sulla falsariga del titolo in greco di quel documento
giudeocristiano tanto vicino al primo vangelo, la Didaché (I sec. d.C.). Matteo precisa che da questi due
grandi precetti dipendono tutti gli altri insegnamenti della Torah (22,40). La dichiarazione riassuntiva di
Gesù è perfettamente tradizionale e ortodossa. In essa si trovano combinati due comandamenti positivi
della Torah: «Amerai il Signore tuo Dio (Dt 6,5)... il prossimo tuo come te stesso (Lv 19,18)». Se c'è un minimo di
originalità nella risposta di Gesù, essa consiste nella combinazione di questi due comandamenti. Il
comandamento dell'amore proclamato da Gesù va alla radice delle cose e rappresenta un principio coerente
per poter apprezzare e osservare gli altri comandamenti.
Con la distruzione del Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C. e la perdita del controllo politico sul
paese da parte dei Giudei, la Torah era diventata ancora più importante per la vita giudaica di quanto non lo
fosse mai stata. L'autore di 2Baruc esprime bene il concetto: «Sion ci è stata tolta e ora non abbiamo niente
all'infuori dell'Onnipotente e della sua Legge» (85,3). In 22,34-40 Matteo ci presenta il punto di vista
cristiano riguardo alla Torah sotto forma di una dichiarazione riassuntiva di Gesù. Il luogo comune,
secondo cui gli Ebrei si riconoscano nella Legge mentre i cristiani nell'amore, non ha fondamento. Per
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Matteo i comandamenti dell'amore di Dio e del prossimo offrono uno strumento coerente per l'osservanza
della Torah.
La terza disputa: il grande comandamento (22,34-40). Questa diàtriba teologica si apre con
Gesù interrogato dai suoi avversari: viene ancora messo alla prova, come in occasione della prima machaloqet
«disputa» (22,18: il tributo a Cesare). Chi gli sta davanti è uno dei farisei, che si rivolge al Maestro confortato
dal fatto che questi ha appena ammutolito i loro avversari sul piano dottrinale: i sadducei.
La questione sottoposta a Gesù è tipica delle discussioni tra esperti della Torà: esiste o no un
comandamento tra i 613 precetti, dal quale dipendono tutti gli altri? Nell'Antico Testamento sono già
presenti diverse formulazioni di precetti in forma sintetica: nel Sal 15 sono elencati 11 comandi, in Is 33,1516 ce ne sono 6. La scuola di rabbi Hillèl li suddivise in precetti piccoli e grandi, «leggeri» (mizwot qalot) o
«gravi» (chamurot) (PA 11,1; Detti di Rabbini, p. 75). Anche Gesù in Mt 5,19 riconosce tale distinzione,
invitando a non trascurare i precetti minimi, senza anteporli a quelli «più gravi»: giustizia, misericordia e
fedeltà (Mt 23,23).
La prima parte della risposta di Gesù rimanda alla preghiera dello šüma` (cf Dt 6,4-5). Questa
formula che condensa il credo di Israele non solo serviva per la preghiera, ma era oggetto di studio e di
discussione, come è testimoniato dal martirio di rabbi Aqivà (cf bTalmud, I Ordine Zeraim «Semi», Trattato
Berakhot «Benedizioni» 61).
La seconda parte della risposta è invece meno scontata, perché, a guardar bene, mentre il fariseo gli
chiede di un solo comandamento, Gesù risponde citandone un altro, quello sull'amore del prossimo: lö|´tiqqöm wülö|´-ti††ör ´et-Bünê `ammeºkä wü´ä|habTä lürë`ákä Kämôºkä ´ánî yhwh(´ädönäy), «Non ti vendicherai
e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore» (Lv
19,18). L'amore per Dio e il prossimo rappresentava la sintesi di tutta la Torà anche per rabbi Hillèl
(Babilonia, 60 a.C. circa – Gerusalemme, 7 d.C., primo dei tannaim, i Maestri della Mishnah). Per Gesù i due
precetti uniscono il cielo alla terra, l'uomo a Dio e l'uomo all'uomo: l'amore «verticale» (amare Dio) e
quello «orizzontale» (amare il prossimo) non possono essere più separati. Da questa risposta, pertanto,
sembra che non possa esistere l'amore per Dio senza quello per il prossimo. Il primo comandamento
implica il secondo e il secondo presuppone il primo.
Le parole con cui Gesù risponde ai farisei riflettono la sua esperienza di vita, infatti anche lui ha
amato il prossimo e i suoi nemici. La frase di Lv 19,18 sul comando di amare il prossimo, nel primo vangelo,
è il testo anticotestamentario più citato: si trova anche in 5,43 e 19,19.
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