Sylvia Plath La campana di vetro

Sylvia Plath
La campana di vetro
“Se mi avesse anche dato un biglietto per l'Europa o per una crociera intorno al
mondo, non avrebbe fatto nessunissima differenza per me, perché dovunque sedessi o
sul ponte di una nave oppure ad un caffè all'aperto di Parigi o Bangkok, sarei
sempre rimasta là seduta sotto la medesima campana di vetro soffocando nella mia
stessa aria viziata”.
Sono queste le parole con cui Sylvia Plath descrive uno dei momenti di massimo
sconforto del suo personaggio, Esther Greenwood, brillante ragazza brava negli
studi, ma estremamente confusa riguardo alla direzione da prendere nella vita che,
dopo una serie di delusioni riguardo ad alcune persone e sulle proprie capacità,
comincia a cadere nella spirale della depressione e a pensare costantemente all'idea
del suicidio, un parallelo che si dimostrò purtroppo fin troppo realistico ad un mese
dalla pubblicazione del romanzo, nel 1963, stampato sotto lo pseudonimo di Victoria
Lucas, quando la stessa Sylvia Plath si suicidò, appena trentenne, lasciando due
bambini, a pochi mesi dalla separazione dal marito Ted Hughes poiché questi aveva
una relazione con un'altra donna. Solo dopo la morte di Sylvia Plath, nota già come
poetessa, il suo primo e unico romanzo fu ristampato con il suo vero nome, ma
sembra che contenesse tanti realistici dettagli della vita privata delle persone citate,
talora con il loro stesso vero nome o facilmente riconoscibili all'epoca, da aver
provocato più di un problema personale fra coloro che vi erano descritti e da aver
spinto la madre e il marito a tentare di impedirne la pubblicazione negli Stati Uniti.
La diciannovenne Esther ricorda inizialmente il periodo di apprendistato presso una
rivista femminile, vinto tramite una borsa di studio, dopo il quale anziché trovare
conferme della propria bravura, come durante il corso di studi, si trova invece in
preda ad un forte disorientamento, nel quale l'unica cosa chiara sembra essere il
desiderio di scrivere poesia. Sul lato privato, Esther sente una netto distacco da
Buddy Willard, un ragazzo un tempo molto ammirato e che sembra desiderarla, ma di
cui ora percepisce in pieno la falsità e il desiderio sotterraneo di minimizzare le sue
capacità ed annullarla come persona. Quando ad Esther viene rifiutato un posto in un
corso di scrittura tenuto da uno scrittore famoso, la ragazza comincia
progressivamente a cadere in una spirale autodistruttiva, divenendo incapace di fare
proprio ciò che più ama, e cominciando a pensare in maniera ossessiva al suicidio.
Inizia quindi un tour di cure che comprende trattamenti brutali come l'elettroshock e
la terapia con insulina allo scopo di provocare una reazione nell'organismo, tutte
tecniche che oggi verrebbero viste come pura barbarie, descritte però con una sorta di
ironico distacco, come se anche le più strane azioni od osservazioni appartenessero a
qualcuno sconosciuto, di cui raccontare le gesta per darne in qualche modo una
interpretazione. Sebbene Esther, che racconta in prima persona, ci lasci intuire la sua
caduta, non ci parla di lacrime o di segni vistosi di dolore, ma di un senso di
ottundimento, di un'aria soffocante sotto la sua campana di vetro, dove le si chiede di
essere una donna interessata all'apparenza e alla superficialità dell'esistenza (trucchi,
abiti, un marito da esporre come conquista sociale), ma non alla sua sostanza, alle
cose che contano per lei, come ad esempio l'amatissima poesia o la capacità di
mostrare un lato vero della propria personalità, come sembra incapace di fare ad
esempio Buddy Willard, ipocrita patentato, sotterraneamente in rivalità con la stessa
Esther. Un triste destino sembra essere riservato alle donne nel matrimonio, secondo
quello che ha appurato Sylvia Plath, appena reduce da una sfortunata avventura
matrimoniale, tanto che la scrittrice può far dire alla giovanissima Esther:
“E sapevo che malgrado tutti i mazzi di rose e i baci e i pranzetti al ristorante che un
uomo faceva piovere abbondantemente su una donna prima di sposarla, quello che
egli segretamente voleva, appena fosse terminato il servizio nuziale, era di
schiacciarla ben bene sotto i piedi come il tappetino della cucina della Willard”.
Certo questa è una visione nata da una esperienza infelice, ma negli anni '60 forse
accomunava non poche donne. “La campana di vetro” è uno strano, ma bellissimo
romanzo che riesce a mescolare allo stesso tempo ironia e disperazione, dolore e
scene buffe, attraverso la voce di Esther, così distaccata dal proprio senso di
afflizione, in contrasto con un desiderio di vita che le fa dire, all'inizio del romanzo,
“Volevo cambiamenti ed entusiasmo e partire io stessa in tutte quante le direzioni,
come le frecce colorate da un razzo del 4 Luglio.”, da descrivere ciò che le accade e
la trascina nella depressione come se fosse osservato dall'esterno, descrivendo tutto
con scientifica precisione, quasi che esistessero due donne differenti a vivere la stessa
vita nel medesimo corpo: una desiderosa di affrontare con entusiasmo e curiosità
l'esistenza, l'altra continuamente in cerca della morte.
Il finale è aperto, ma quello che accadrà poi ad Esther è in realtà intuibile fin dalle
prime righe, in cui essa cita un fiore, preso da uno dei doni ricevuti durante un suo
stage, ed utilizzato per un bambino, si suppone il suo. Il libro, che non a caso inizia
citando un caso di condanna a morte, quello dei Rosenberg, mediante l'uso della sedia
elettrica, per istituire un parallelo fra ciò a cui sono sottoposti i malati e chi è invece
giudicato autore di un crimine (in entrambi i casi sottintendendo però l'innocenza ) è
anche una vera e propria denuncia contro l'uso di mezzi come l'elettroshock nella
cura delle malattie psichiatriche, capaci essi stessi di diventare fonte di estrema
infelicità e terrore, anziché curare.
“La campana di vetro” è paragonata a “Il giovane Holden” di Salinger, un parallelo
che sembra essere molto comune nella critica ufficiale: in effetti ci sono molte
somiglianze nello stile, come ad esempio l'ammiccamento al lettore con scene
divertenti, ma in cui la protagonista agisce in maniera che potrebbe essere giudicata
scorretta, ma a rendere vicini Holden e Esther è soprattutto il loro senso di
smarrimento, il loro rifiutare di seguire i cartelli giganti e ben visibili lungo
l'autostrada del conformismo per tentare di essere qualcuno che non è uguale a nessun
altro, cioè se stessi. Quello di Holden è il conflitto, forse transitorio, di ogni
adolescente per raggiungere la vita adulta, e lascia quindi ampio spazio alla speranza,
quella di Esther invece è una guerra che sembra destinata a durare, di quelle che
hanno già provocato molte sconfitte e il cui esito resta fino alla fine sempre incerto
(da qui il finale aperto).
(L’angolo di Jane, 6
maggio 2013)
Sono verticale
Ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero con la radice nel suolo
che succhia minerali e amore materno
per poter brillare di foglie ogni marzo,
e nemmeno sono la bella di un'aiola
che attira la sua parte di Ooh, dipinta di colori stupendi,
ignara di dover presto sfiorire.
In confronto a me, un albero è immortale,
la corolla di un fiore non alta, ma più sorprendente,
e a me manca la longevità dell'uno e l'audacia dell'altra.
Questa notte, sotto l'infinitesima luce delle stelle,
alberi e fiori vanno spargendo i loro freschi profumi.
Cammino in mezzo a loro, ma nessuno mi nota.
A volte penso che è quando dormo
che assomiglio loro più perfettamente i pensieri offuscati.
L'essere distesa mi è più naturale.
Allora c'è aperto colloquio tra il cielo e me,
e sarò utile quando sarò distesa per sempre:
forse allora gli alberi mi toccheranno e i fiori avranno
tempo per me.
Sylvia Plath (28 marzo 1961)