r u s t i e - Sentireascoltare

digital magazine | settembre 2014 | n. 119
r u s
G r e
t i e
e n
L a n g u a g e
sommario
> > > a r t i c o l i – p. 4
Interpol
M OO S TROO
Ghemon
S e a m u s C at e r
Ben Frost
C o l d M e at I n d u s t r y
Twenty for ‘94
Rustie
G r i m e 2 . 0 P c M u s i c o lt r e
skiantos
> > > r e c e n s i o n i – p. 9 0
> > > r u b r i c h e – p. 1 6 2
#119
settembre
Direttore
Edoardo Bridda
Ufficio Stampa
Alberto Lepri
Coordinamento promo
Gaspare Caliri, Stefano Pifferi
Art director
Nicolas Campagnari
A questo numero di Sentireascoltare hanno contribuito:
Fabrizio Zampighi, Marco De Baptistis, Edoardo Bridda, Christian Panzano, Stefano Pifferi,
Sebastian Procaccini, Stefano Solventi, Diego Ballani, Alessandro Liccardo, Giulio Pasquali,
Gabriele Marino, Stefano De Stefano, Riccardo Zagaglia, Filippo Bordignon, Andrea Tabellini,
Marco Braggion, Marco Boscolo, Federico Pevere, Tommaso Iannini, Gaspare Caliri, Andrea Macrì,
Giulia Antelli, Daniele Rigoli, Elia Galli, Stefano Gaz, Antonello Comunale, Andrea Murgia,
Lorenzo Costa, Alessandro Pogliani, Teresa Greco, Eugenio Goria, Alessia Zinnari,
Marco Frattaruolo
Copertina
Rustie
Guida spirituale
Adriano Trauber (1966-2004)
SentireAscoltare // online music magazine
Registrazione Trib.BO N° 7590 del 28/10/05
Editore: Edoardo Bridda
Copyright © 2014 Edoardo Bridda.
Tutti i diritti riservati. La riproduzione totale o parziale, in qualsiasi forma, su qualsiasi supporto e con qualsiasi mezzo,
è proibita senza autorizzazione scritta di SentireAscoltare.
I n t e r p o l
N u o v i
c o l o r i
s o u n d
d i
p e r
N e w
i l
Y o r k
Quattro anni fa uscì l'ultimo lavoro
degli Interpol con il bassista Carlos
Dengler nella line-up; nel frattempo
Paul Banks ha inciso un disco solista
e la band ha curato una deluxe edition
di "Turn On The Bright Lights" in una
deluxe edition celebrativa. "El Pintor"
segna il ritorno di un gruppo in ottima
forma.
>>>Testo di Alessandro Liccardo
Il chitarrista degli Interpol racconta il nuovo album “El Pintor”, ci anticipa un sideproject che ascolteremo nel 2015 e anticipa
qualcosa del prossimo tour.
Sono passati quattro anni da quando
gli Interpol hanno pubblicato il loro
quarto album omonimo, l’ultimo con il
bassista Carlos Dengler nella line-up.
Paul Banks, il frontman, ha interrotto il
silenzio dando alle stampe il suo secondo album solista (stavolta senza celarsi
dietro l’alter ego Julian Plenti) nel 2012,
anno che ha anche visto la ripubblicazione del primo album Turn On The
Bright Lights in una deluxe edition
celebrativa. La band è tornata in ottima
forma con El Pintor, il materiale inedito più convincente da Our Love To
Admire.
In esclusiva la nostra chiacchierata con
4
Daniel Kessler, chitarrista e membro
fondatore di un gruppo che, in dodici
anni, continua ad essere ancora oggi
un riferimento per l’intera scena indie rock. Ci attende anche un suo side
project, dopo El Pintor? Ecco cosa ci ha
raccontato.
El Pintor è un titolo misterioso, significa “il pittore” in spagnolo ma, pensandoci bene, è anche l’anagramma
del nome del gruppo. Cosa c’è dietro
la sua scelta?
È vero, è l’anagramma di Interpol ma ha
anche un suono suggestivo, e un significato più astratto e arty - avrai notato
sicuramente le mani in primo piano in
copertina. Mi è piaciuto richiamare in
maniera astratta l’immagine del pittore,
anche se poi in realtà è sia una sintesi
di entrambe le ipotesi, sia un modo per
lasciare aperta ogni interpretazione.
Ho trovato il nuovo disco più compatto e coerente rispetto alla vostra
ultima prova in studio, che, al contrario, aveva alcune ottime canzoni ma
funzionava meno bene nel complesso.
Ricorda molto Antics. È cambiato
qualcosa nella scrittura dei brani,
dopo l’uscita di Carlos Dengler?
È un lavoro più “concettuale” e atmosferico rispetto al precedente, e ci piace
l’idea di avventurarci ogni volta in qualche strada mai percorsa in precedenza:
a volte la scrittura può essere lineare,
altre volte va invece in direzione opposta. La scrittura qui è più diretta, ed è
vero che il disco scorre bene dall’inizio
alla fine. È un album “vero”.
C’è una miscela di elementi nuovi e
“classici” del vostro sound, sento una
grande attenzione per le melodie ma
anche per le texture. In studio a New
York hai lavorato con Brandon Curtis dei Secret Machines, Rob Moose
(Bon Iver) e Roger Joseph Manning
jr: queste persone hanno contribuito
a far entrare qualcosa di nuovo nel
sound degli Interpol?
Si tratta di amici con cui abbiamo
collaborato anche dal vivo. Con Roger
ci siamo conosciuti tempo fa ed è un
ottimo tastierista; anche Rob ha dato il
proprio apporto, ma le canzoni avevano
già preso vita quando gli ospiti hanno
registrato i propri contributi. Alcuni
brani risalgono al 2012, altri al 2013. Il
fatto che si sentano molto il basso e la
chitarra è perché volevamo un disco che
suonasse più rock del precedente, che
invece aveva orchestrazioni più complesse e molte tastiere; riesco a suonare
molti brani con la sola chitarra.
Daniel, sei un membro chiave della
band, anche in virtù del tuo precedente lavoro alla Domino. Per un’edizione particolare di questo disco vi
siete rivolti alla piattaforma Pledge
Music; com’è cambiato, da Turn On
The Bright Lights, il modo di proporre nuova musica al pubblico?
Di certo il music business è molto
cambiato, ma quando debuttammo non
sapevamo davvero cosa aspettarci; le
scelte di marketing al tempo furono
molto tradizionali, e riuscimmo a farci spazio lentamente, spesso grazie al
passaparola. Era più facile, nel 2002,
che qualcuno comprasse il disco, anche
per l’artwork; ora si finisce di registrare,
passano quindici giorni ed è tutto già
reperibile in rete… Siamo emersi all’inizio della digital age, in fin dei conti, ma
chiaramente allora non c’erano i social
media e oggi con le piattaforme dedi-
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cate agli streaming è tutto a portata di
mano, non è più indispensabile recarsi
in un negozio di dischi. Come insegna
il caso di In Rainbows dei Radiohead,
molto è cambiato anche nel modo di
proporre e vendere la propria musica.
Da una parte è vero che si vende meno,
dall’altra notiamo che la musica diventa
disponibile più facilmente anche a chi
altrimenti sarebbe propenso ad ascoltare solo i nomi che propongono i grandi
network radiofonici. E la cosa mi piace.
Parlando di social media, quando è
uscito il video di All The Rage Back
Home su SENTIREASCOLTARE ci
siamo accorti di quanto, dopo oltre
dieci anni di attività, un vostro nuovo
disco sia ancora un evento attesissimo. Di certo ne andrete molto orgogliosi. Prima tutti avevano fretta di
incasellarvi, eravate il “nuovo suono
di New York” ma allo stesso tempo
dei post-punk revivalists. Siete diventati un “classico” che ha fatto scuola e
ha influenzato la scena indie-rock per
6
tutto il decennio successivo…
Siamo entusiasti della reazione positiva
dei lettori del vostro magazine in Italia.
Sì, inizialmente ci hanno etichettati in
molti modi, in primis revivalists perché
alcuni suoni, alcune atmosfere, erano
presenti in dischi di un’altra epoca,
soprattutto inglesi ma non solo. Ma è un
qualcosa di cui oggi, davvero, mi curo
assai poco. Non penso molto in termini
di “categorie”, e se ci sono influenze è
perché in fondo quelle rappresentano
ciò che sono e il mio percorso che mi ha
portato fino a qui.
A proposito di Italia, mi sono accorto che alla fine del settimo brano del
nuovo album, Breaker 1, c’è un frammento di una conversazione in italiano con un forte accento del Sud. Da
dove è stato tratto?
Eh, qui se permetti mi piace mantenere
un alone di mistero! È stata una decisione presa all’ultimo minuto, abbiamo
scelto di utilizzare una parte parlata in
italiano perché “musicalmente” ci piace
la vostra lingua. Il frammento ha una
qualità cinematografica, proprio l’effetto che si desiderava trasmettere.
Ci sono molti episodi in El Pintor
con un forte potenziale radiofonico.
A un primo ascolto mi ha colpito My
Blue Supreme così come Everything
Is Wrong e Tidal Wave. È sbagliato, a
tuo avviso, considerare questa nuova
prova discografica meno “dark” e con
più sprazzi di luce rispetto al passato?
Abbiamo cercato di tirar fuori il carattere da ogni singola canzone, da soli e in
gruppo, affinché ognuna avesse una funzione precisa all’interno dell’album. Nel
caso di My Blue Supreme, che hai citato,
volevamo qualcosa quasi di “esotico”, al
contempo potente e interessante, e tutto
è partito da un riff di chitarra che avevo
in testa. Il brano ha preso forma dopo,
ho fatto ascoltare la mia idea ai ragazzi
e loro poi l’hanno trasformata insieme
a me. Ma non è raro che si parta da un
particolare, si tratti di una linea di basso
oppure di un’armonia vocale; e spesso si
tratta proprio delle canzoni che alla fine
amo di più.
El Pintor esce per Matador, come i
vostri primi due album. Our Love To
Admire venne pubblicato da Capitol,
oggi etichetta della Universal; avete
più libertà oggi o non hai avvertito
poi questa grande differenza tra le
due esperienze?
Siamo ancora in ottimi rapporti con lo
staff, fu un lavoro molto curato e ti posso assicurare che non abbiamo mai avuto particolari pressioni. Consegnammo
il terzo disco alla Capitol, loro ci dissero
“ok, thank you very much”. Sapevano
che cosa volevamo. Poi purtroppo ci
sono stati dei cambiamenti all’interno
dell’etichetta, come spesso capita all’interno delle major.
Gli Interpol, dicevamo, sono il “suono
di New York”. Tu però sei londinese,
un Englishman in New York. Quanto
di inglese, e di europeo, c’è nel tuo
background e nella tua cultura musicale?
Non amo categorizzare la musica che
amo in termini di nazionalità. Considera poi che ero ancora un quattordicenne
quando arrivai negli States… e provai
subito interesse per la scena underground.
Gli altri membri degli Interpol hanno
lanciato progetti paralleli o pubblicato dischi solisti. Hai qualcosa in
cantiere anche tu, oltre all’attività
con la band? Ci puoi anticipare qualcosa? Inoltre, visto che a gennaio vi
vedremo sul palco anche a Milano,
sarà dato spazio a tutti gli album o ci
sarà un’enfasi su una particolare fase
della vostra carriera?
Sì, ho anch’io il mio side project. Si
chiama Big Noble, il disco è praticamente pronto e uscirà nel corso del
2015. Si tratta di una collaborazione con
un caro amico, l’artista Joseph Fraioli,
che compone musica elettronica come
Datach’i. Sarà molto strumentale e atmosferico, qualcosa di molto diverso da
ciò che faccio con gli Interpol. La selezione per le future setlist, lo garantisco,
saranno bilanciate: suoneremo brani da
tutti i nostri album.
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M OO S TROO
L'essenzialità dei suoni propagandati dai
Moostroo diventa una sorta di patente per un
messaggio disturbante e che non fa sconti,
tanto abile nel delineare lo squallore di un
certo tipo di modello sociale (il nostro),
quanto capace di arricchire il nucleo postpunk con dettagli inediti e surreali anch'essi.
Abbiamo intervistato la band
>>>Testo di Fabrizio Zampighi
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C e n t r i
g r a v i t a z i o n a l i
d i
p r o v i n c i a
Dalla patchanka band Jabberwocky
al post-punk allargato dei Moostroo:
Dulco Mazzoleni (voce e chitarra),
Francesco Pontiggia (basso) e Igor Malvestiti (batteria) danno vita due anni
fa a un progetto musicale che mescola
suoni taglienti e (auto)critica sociale,
plasmando il tutto nell’omonimo esordio discografico pubblicato nel 2014.
Il punto di vista è peculiare fin dalla
strumentazione, con un compendio di
chitarra classica elettrificata, basso a
due corde e drum kit ridotto all’osso che
fa il paio con le storie a sonagli propagandate dall’album, in cima a tutte una
Silvano Pistola che sembra mimare un
Bowling a Columbine della provincia
bergamasca. L’essenzialità dei suoni diventa una sorta di patente per un messaggio disturbante e che non fa sconti,
tanto abile nel delineare lo squallore
di un certo tipo di modello sociale (il
nostro), quanto capace di arricchire il
nucleo post-punk con dettagli inediti e
surreali anch’essi. Compresa una can-
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zone d’autore tatuata nell’anima e che
non t’aspetti, richiamata alla bisogna
tra un De Andrè riletto in altre sedi e un
songwriting wave di buona attualità. La
nostra intervista al gruppo.
L’idea che ci siamo fatti del vostro
progetto è che tutto orbiti attorno
a una critica sociale “disturbante”
che sembra un po’ il filo conduttore
dell’immaginario (testuale ma anche
sonoro) del gruppo, a partire da una
ragione sociale piuttosto particolare.
E’ così? Chi è il Moostroo?
Per essere onesti con noi stessi possiamo rispondere così: il nostro progetto,
ovvero il trio MOOSTROO, è il centro
gravitazionale intorno a cui ha orbitato
il disco omonimo. In questa formazione
è il primo, ma contiamo di proseguire,
insomma di farci orbitare attorno altri
dischi. Venendo alla domanda, questo primo disco, senza dubbio, ha una
connotazione critica rivolta alla società,
di cui noi – ovviamente – siamo parte.
Ci fa piacere che l’abbiate colta. Quindi potremmo meglio dire che il disco è
anche autocritico: non si limita al piano politico, ha a che fare anche con la
dimensione individuale. Pensiamo che
presumere di poter mettere all’indice
ciò che eticamente non funziona nella
società significhi contemporaneamente guardarsi allo specchio e darsi un
bel ceffone per rinsavire. Ha per noi
la funzione di mantenerci svegli e coi
piedi per terra, perché ciò che ci spaventa è la mostruosità della narcolessia
del quotidiano, degli automatismi e dei
meccanicismi inconsapevoli, della routine sovrapensiero che ci rende miopi,
sordi, facilmente manipolabili e quindi
politicamente impotenti. In sostanza il
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Moostroo siamo noi, ciascuno di noi in
un gioco di specchi.
La provincia bergamasca (che conoscete per ragioni biografiche), ma
in generale anche quella italiana, è
davvero così “mostruosa” come la descrivono brani come Silvano Pistola?
Che influenza ha avuto il luogo da cui
provenite sui contenuti di Moostroo?
L’immaginario di provincia continua ad
essere per noi un tema florido per diverse ragioni, prima fra tutte, il fatto che ci
siamo nati. Associare però il concetto di
mostruosità a quello di provincia è per
molti aspetti profondamente ingiusto.
Poi, purtroppo, i fatti di cronaca trasformano gli immaginari mostruosi in realtà
– posto che i mostri sono ovunque e
agiscono ovunque. La merda (per usare
un francesismo) che subiamo a livello
sociale, politico, ma anche esistenziale,
trova in noi dei sicuri responsabili, già
solo per il fatto di subirla passivamente,
ma dall’altro lato ci è imposta dalle cosiddette stanze del potere centralizzato,
là dove ha più valore il potere dell’umanità. Non c’è niente di nuovo in tutto
ciò. Non siamo certo secessionisti. Facciamo semplicemente musica e cantiamo parole da questa nostra prospettiva,
che fatalmente assomiglia alle prospettive di tante altre provincie d’Italia.
Il fatto di essere lontani dal centro ha
dei vantaggi: si percepisce meglio, perché molto più evidente, l’illusione del
benessere, la retorica della produttività
ed il potere soggiogante dell’ignoranza.
Noi siamo anche orgogliosi di essere
di provincia: gran parte di ciò che è
prodotto nella Popular Music italiana, per noi degno di nota, è figlio della
provincia. Anzi, a ben vedere, la cultura
italiana ha prodotto gran parte dei suoi
capolavori a partire proprio dalla provincia. C’è qualcosa di poco artefatto
e di più genuino lontano dai centri di
produzione. Resta il fatto che il profondo Nord Italia, che è quello che conosciamo meglio, sta perdendo la propria
identità inseguendo ideali di benessere
insostenibili e disumanizzanti.
Basso a due corde, chitarra e batteria: quanto c’è dell’essenzialità creativa del post-punk nel vostro suono
e quanto, invece, di altri linguaggi
musicali? Il giro armonico di Silvano
Pistola, in fondo, potrebbe essere un
blues, i suoni della batteria ricordano
i Nirvana prodotti da Steve Albini,
brani come Autocomplotto suonano
come una sorta di cantautorato new
wave. Cosa ha determinato le scelte che avete fatto sugli strumenti e
sull’estetica del disco?
La line-up del trio non dipende da una
scelta a priori del genere musicale. Post-
punk è una definizione che ci è stata
appiccicata addosso. Post-punk vuol
dire tante cose. Non sappiamo se ciò che
abbiamo prodotto sia ortodossamente
fedele alla linea. E’ l’attitudine, forse,
che ci fa assomigliare di più a quella definizione. Almeno fino ad ora abbiamo
cercato l’essenzialità, nei suoni, nell’arrangiamento, nella scrittura. Abbiamo
avuto un’urgenza di immediatezza (cosa
che sembra andare di moda tra molti
gruppi contemporanei, evidentemente
per motivazioni comuni).
Tutte le osservazioni che ci fai sono
comunque corrette. Il blues c’è (è la
radice), Steve Albini è per noi uno dei
riferimenti quando si entra in produzione e la new-wave è la sorellastra del
post-punk. C’è anche altro, tutto ciò che
ci ha portato collateralmente fino qui:
i Beatles, Dylan, David Byrne, Frank
Zappa. Il risultato finale – come sempre
– dato in pasto alle recensioni, inizia ad
avere un’identità che magari non sogna-
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vi neppure di ottenere. A noi non spetta
recensirci, ma le recensioni sono fondamentali per comprendere che cosa recepiscono gli attenti ascoltatori. Il disco
è venuto fuori così, innanzitutto perché
abbiamo dovuto metabolizzare 15 anni
di precedente progetto in cui noi tre,
insieme ad altri otto (i Jabberwocky),
abbiamo suonato con una ricchezza di
strumenti e arrangiamenti che ora non
ci è più consentita. In secondo luogo,
i testi sono stati scritti in un periodo
scuro, con una visceralità evidente. Ma
oltre a ciò, dalla nostra c’è l’ironia che
è un meraviglioso viatico per ridimensionare l’autocommiserazione e vedere
il Re nudo. Inoltre, abbiamo avuto il
bisogno di essere immediatamente comprensibili, perché l’intenzione è stata
quella di comunicare, e le parole sono
importanti, altrimenti perché usarle? Il
lavoro di arrangiamento ha seguito due
piste: asciuttezza strumentale e urgenza
espressiva. L’estetica segue questa strada: i disegni che accompagnano il disco
o la scenografia che ci portiamo dietro,
ricalcano esattamente tutto ciò, ammorbidendolo con un tocco di ironia naïf.
Negli anni ‘80 il post-punk nasceva
anche come risposta all’edonismo e
alla cultura dell’apparire che l’epoca
thatcheriana/reaganiana aveva imposto a livello mondiale. Paragonati al
momento storico che stiamo vivendo
in cui marketing virale, hype, immagine ed egocentrismo da web 2.0 la
fanno da padrone, quegli anni sembrano però un prototipo nemmeno
troppo riuscito. La musica può avere
un peso “politico” anche in una società come la nostra, in cui tutto viene
bruciato in funzione dell’usa e getta
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“internettaro” e non?
Questa è per noi una domanda difficile.
Apparteniamo alla generazione dei ‘90.
Se consideri che l’icona pop di quegli
anni si è sparato in bocca, puoi immaginarti il cortocircuito che si crea con
l’edonismo contemporaneo. La nostra
difficoltà sta nel fatto che questo bisogno di sovraesposizione “internettara”,
come tu dici, ci sta contagiando. La fruizione della musica è cambiata velocemente. Prima ci si scambiavano audiocassette, passando i pomeriggi a creare
compilation (le compile) o disegnando
le locandine a mano, adesso se non fai
un video e non lo piazzi su qualche
social network nessuno ti presta attenzione.
La musica oggi ci sembra che non abbia
più un peso politico. I musicisti noti
preferiscono tutelare la propria privacy e difficilmente si mescolano al loro
pubblico. Se queste sono le premesse
come possiamo pensare che la Popular Music abbia lo slancio eversivo che
ebbe decenni fa? Adesso è moda, ma
forse lo è sempre stata. Vediamo molta
più politica in coloro che si sbattono per
organizzare eventi, piuttosto che nei
gruppi musicali, ed è da questi ragazzi
che stiamo attingendo idee, energie e
visioni di mondo.
In quegli anni c’era uno zoccolo duro
di ascoltatori che premiava (soprattutto all’estero) certe produzioni,
anche per questioni ideologiche, di
approccio, culturali. Oggi ci si scanna
su facebook (soprattutto in Italia) tra
tifoserie musicali avverse, di solito
per motivi risibili e che poco hanno a
che vedere con la musica. Non è che,
in fondo, l’unico atto sovversivo che
rimane a una band come la vostra (e
in generale all’artista serio) è l’atto
creativo in sé, in un soggettivismo
autistico che nega il senso di “comunità” che si sviluppava un tempo tra
pubblico e band?
Noi facciamo solamente canzoni. Gli
aspetti antropologici di ciò che stiamo
facendo ora non ci interessano (magari
ci interesseranno quando ci si imbiancheranno le barbe). Pensiamo solo che
di sovversivo, in questo grande cerimoniale della Popular Music, non ci sia
più nulla. A volte anche l’atto creativo
è condizionato dalle mode del momento e dall’urgenza di piacere al proprio
pubblico. Io penso che nei rituali legati
al rapporto tra pubblico e band oggi
prevalga il narcisismo edonistico e i veri
atti sovversivi vadano cercati altrove:
in chi occupa le case, in chi si accampa
fuori dalle aziende che esternalizzano
l’intera produzione, in chi coltiva sui
balconi, in chi semina le aiuole pubbliche o va al lavoro in bicicletta… Non
prendiamoci in giro: con le canzoni
non si fanno rivoluzioni, diceva un tale.
Aggiungeremmo però che le canzoni
possono aiutare a farsi delle domande e
sviluppare il senso critico e la capacità
di scelta. Sono già due obiettivi salvifici.
Di informazione oggi ce n’è a profusione, per questo occorre sapersi orientare
per non essere manipolati, anche nelle
scelte estetiche.
La tensione epidermica che sviluppa
il vostro disco mi ricorda quella veicolata dalle ultime cose dei Luminal,
anche se lo stile è differente. Come
vedete la scena musicale italiana e
quali artisti stimate di più al suo interno?
Non abbiamo uno sguardo così acuto da
comprendere tutto ciò che sta girando
in Italia. Conosciamo ciò che ha più
spazio, ma pensiamo ci siano veramente molti progetti che meriterebbero di
emergere, e alcuni li stiamo conoscendo solo ora. In provincia di Bergamo ci
sono moltissimi interessanti progetti
musicali. Per citarne alcuni: Le Capre
a Sonagli, i Gea, Barachetti/Ruggeri. In
Italia seguiamo Capovilla, gli Appaloosa, Calibro 35, i TARM, gli Arbe Garbe…
e molti altri.
Che c’entra Il bombarolo (cover del
brano di Fabrizio De Andrè inserita
nella compilation Storie di un impiegato) con i Moostroo? Che rapporto
avete con il cantautorato nostrano?
Beh, se vuoi cantare in Italia in italiano
di sicuro devi fare i conti con De André,
ma siccome i conti con De André sono
sempre in perdita, ciò che ti puoi limitare a fare è omaggiarlo rammaricandoti
che non sia ancora vivo per regalarti
visioni di mondo veramente sovversive.
E poi, a dirla tutta, uno tra noi ha un
braccio tatuato con le parole di Faber,
essendo cresciuto a pane e De André.
13
G h e m o n
I d e e
e
O r c h i d e e
Album nuovo di zecca per Ghemon, figura importante per
l'hip hop italiano degli ultimi anni. Tra riflessioni sul passato e
approfondimenti sul presente, abbiamo messo sotto torchio
il rapper/cantante di Avellino, in occasione dell'uscita del suo
ultimo album, Orchidee.
>>>Testo di Sebastian Procaccini
14
Ghemon è una figura molto importante del rap in lingua italiana, sia per un
caratteristico approccio conscious, che
per una mai celata voglia di offrire un
approccio elegante e diverso da buona
parte dei colleghi. Tra critiche e apprezzamenti, e collaborazioni anche
di stampo mainstream (si veda l’ultima con Sirya), la carriera di Ghemon
è ormai giunta a una tappa cruciale e
questo ultimo disco sembra esporlo
ulteriormente. Attratti dal suo percorso
e anche dall’illustre schiera di nomi che
hanno collaborato alla realizzazione di
Orchidee, ci siamo soffermati con lui a
parlare di moltissime cose, dalla gestazione del disco alle classificazioni fin
troppo facili a cui viene sottoposta la
sua musica.
Prima di fare questa chiacchierata
ho dato una spulciata a Facebook e
ad altri social network, e ovviamente
ho avuto vari scambi di opinioni con
ascoltatori abituali della tua musica
e dell’hip hop. Mi sembra che l’idea
più diffusa sia quella di considerarti
uscito definitivamente dall’hip hop,
o dal rap che dir si voglia, e con un
taglio netto rispetto a quanto fatto
prima. Qualcosa di simile al percorso di Neffa, insomma. Ora, pur ritenendo da sempre il livore scatenato
contro il primo Neffa “canterino” del
tutto ingiustificato, credo che nel tuo
caso si faccia un po’ di confusione.
Chi ti ascolta da un po’ di tempo sa
che il percorso è stato assolutamente graduale. Ti va di darmi qualche
impressione sulle reazioni scatenate
dal tuo lavoro?
Sì, sono d’accordo, e sono contento che
tu mi faccia questa domanda, è la prima
volta che mi viene posta e mi fa molto
piacere. Al di fuori di ogni polemica,
credo che l’esigenza di mettere la musica in scatole, cioè le classificazioni, sia
tipico di chi ascolta i dischi. Da parte mia
posso dire che conosco esattamente il
mio percorso, come dici tu io ho sempre
cercato di infilare nei miei dischi elementi che mi piacevano, come appunto il
cantato, con tutti i limiti tecnici del caso.
Il cantato appariva già in E all’improvviso impazzire, che risale a 5-6 anni fa;
anche se non c’erano ancora pezzi interamente orientati al canto, i due elementi
si mischiavano. Quindi, sì, questo disco
può anche essere definito trasversale, ma
in fondo i pezzi senza rap sono due, e c’è
un solo brano con un ritornello rappato,
perciò direi che il cambiamento c’è stato
e non c’è stato allo stesso tempo. Va però
detto che di certo non sono il primo: se
prendi Mos Def vedrai che non si è comportato diversamente. Andando invece
in Italia, e tornando alla tua domanda,
posso dire che sono sempre stato accom-
pagnato da falsi miti e improbabili accostamenti: vedi ai miei inizi, in cui venivo
immediatamente associato a Common, e
vedi ora, che si parla di somiglianze con
Neffa. Se mi trovassi a cena con Giovanni (Pellino, cioè Neffa, ndSA), proverei
sicuramente imbarazzo sapendo di
scopiazzarlo spudoratamente, visto che
poi la missione originale dell’hip hop era
appunto quella di non copiare. Capisco
però la necessità dell’accostamento:
altri artisti che abbiano avuto una virata altrettanto black non ce ne sono. Al
massimo si cambia direttamente genere,
mentre direi che in quella direzione forse ci siamo solo io e lui. Se la cosa aiuta a
far capire chi sono e cosa faccio, comunque, direi che posso anche accettarla.
Parlando del disco in sé, mi ha colpito
l’approccio alla scrittura, specie per
le parti cantate, che sono piuttosto
complesse nonostante tu abbia cercato di renderle più melodiche possibili. É stato difficile curare questo
aspetto?
Direi che non è stato difficile come si
potrebbe pensare. La vera difficoltà è
nel trovare una soluzione di continuità tra le due cose, evitare che risultino
completamente disarmoniche. Sicuramente ho concentrato l’attenzione sul
togliere materiale, piuttosto che sull’aggiungerne, dato che il rap tende a farti
eccedere sempre nelle parole; quindi ho
soprattutto lavorato su questo aspetto
e sul mettere al punto giusto le pause,
elemento più che fondamentale nella
musica. Sono andato a tentativi nel corso degli anni, è stato un gioco, impegnativo ma pur sempre un gioco, ed è stato
piacevole.
Passando dalla forma al contenuto,
16
sbaglio o questo disco è anche più
personale degli altri, malgrado possa
essere ascoltato da un pubblico più
ampio?
Sì, certamente è un album molto personale. Ho semplicemente pensato che
raccontare la mia vicenda personale
potesse essere più interessante rispetto
a raccontare vicende altrui, magari mettendomi a parlare di cose come se fossi
lì su un pulpito a giudicare. Dare lezioni
di vita non è uno dei miei obbiettivi,
anche se ammetto che in passato potrei
aver dato questa impressione. É un altro
dei grandi fraintendimenti legati alla
mia persona, ci convivo da sempre, si
tratta più di una foga appassionata tipica del rap, ma ho cercato di togliere quel
tono lamentoso che in passato avevo. In
realtà nemmeno nei dischi precedenti
volevo fare il Gesù Cristo, puntavo piuttosto a dare lezioni a me stesso. Credo
di essere arrivato comunque a un punto
in cui ho abbandonato quell’aspetto,
che ormai non mi interessa più. La
mia posizione, a proposito di un atteggiamento che può essere sembrato da
“predicatore”, è facilmente spiegabile:
trovandomi di fronte a tantissimi che si
presentavano come incazzati, sporchi e
hardcore, sentivo il bisogno di mostrarmi in un modo differente. Per farlo e
per non essere sottovalutato o ignorato,
era necessario che lo rimarcassi anche
con forza, assumendo posizioni forti
che magari potevano far pensare a una
mia presunzione. L’obbiettivo è sempre
stato quello di non proporre qualcosa
di diverso dalla vita di tutti i giorni. Se
sono stati fatti errori, spero vivamente
di non ripeterne.
Dal contenuto al suono, forse il
nucleo di questo album. Chiunque
frequenti un po’ la musica anche al
di fuori dell’hip hop, riconoscerà un
sacco di nomi vedendo i musicisti con
cui hai collaborato (membri dei Calibro 35, Rodrigo D’Erasmo, Patrick
Benifei e altri). Si tratta di artisti con
un percorso particolare, non di semplici turnisti (senza ovviamente nulla
togliere alla categoria). Com’è stato
l’impatto con figure dalla personalità
artistica così spiccata?
L’impatto è stato super. Io ho sempre
17
fatto musica che in qualche modo si è
tirata dietro gli strumenti; è capitato
più volte ai miei concerti che qualcuno
caldeggiasse l’introduzione di questi
elementi nella mia musica. Una cosa,
tuttavia, era immaginare questa innovazione, un’altra era attuarla davvero,
entrando in contatto con l’ego e la visione musicale di altre persone. Ogni volta
che ne parlavo con Tommaso o con Fid
Mella mi sembrava che fosse semplicissimo, ma iniziando a portare il tutto
in una dimensione concreta, ho capito
che tipo di interazione sarebbe stata,
ed è stato davvero magico. Ho avuto a
che fare non con semplici turnisti, ma
con persone che sono state coinvolte
da me e da Tommaso e hanno accettato
con entusiasmo, mettendoci la propria
faccia. Non si fa questo solo per soldi, se
si è raggiunto un certo livello. Il rapporto con loro mi ha arricchito in più di
un’occasione e credo e spero di essere
cresciuto e di poter usare in futuro quello che ho imparato.
Grandi assenti di questo album sono i
feat. con i tuoi colleghi e amici, usanza a cui ci hai abituati nei tuoi lavori
precedenti. Come mai una scelta così
radicale?
Detto in modo pulito, pulito: non me
ne fregava nulla. Ho fatto tonnellate di
brani con artisti o perché erano miei
amici, o perché li stimo, ma questo era
un progetto di tipo diverso. In quel
modo non avrei potuto raccontare le
cose degli ultimi due anni e soprattutto
mostrare quello che è diventato ora il
mio senso dello sviluppo della canzone,
l’essere cioè uscito dalla tipica struttura di strofe da 16 barre con ritornello,
featuring e scratch.
18
Dunque i feat. potrebbero tornare in
un altro progetto o dovremo abituarci alla loro assenza?
Non lo escludo, ma quello che ho ottenuto maggiormente da questo disco è la
spontaneità, il coraggio di fare ciò che
mi va, a patto che non ci sia una pianificazione, con discorsi artistici mirati a
fare scalpore. Non mi sento di escludere
nulla per il futuro, potrebbe accadere
qualsiasi cosa.
Come è andata la gestazione dei brani, dal punto di vista musicale?
Tutta la parte di preproduzione è stata
affidata a Marco Olivi e Fid Mella, ma
come in passato ho avuto il mio ruolo
anche in quell’aspetto. Per quello che
riguarda invece le melodie, il lavoro è
attribuibile in larga parte a me e alla mia
tastierina, su quello non ci sono stati
grandi apporti dall’esterno.
E ansie da prestazione nel collaborare con altri musicisti? Ne hai avute?
No, ma devo dire che è stato soprattutto
grazie a loro se non le ho avute. Hanno
avuto un atteggiamento molto aperto,
sapevano che ero sia appassionato che
preparato, ed è stato possibile avere
un confronto senza che ci fosse alcun
disagio.
Salto di palo in frasca e ti faccio una
domanda che vorrei farti da anni,
visto che si tratta di un elemento fondamentale nel tuo modo di fare il rap:
la pausa. Tu sei bravissimo a farne,
è una cosa che ho sempre ammirato
del tuo approccio. Come ti poni nei
confronti di una scena che tendenzialmente sembra ricevere apprezzamenti più per un flow serratissimo,
che appunto per le pause? In realtà
è una domanda che nasce più da una
mia curiosità personale che da altro…
A parte dirti “bravo” per l’attenzione
ai particolari, ci tengo a dire che non
credo esista un solo modello “giusto”:
nel rap americano posso amare Twista,
l’anti–pausa, così come Q–Tip che invece ne piazza una ogni due parole. A volte, di fronte a chili di parole senza una
pausa, mi trovo tuttavia un po’ a disagio; se pensi che il rap è un’espressione
vicinissima all’idea del jazz, ti accorgi
della differenza nel momento in cui un
musicista fa un’assolo di un’ora senza
una pausa: gli ascoltatori solitamente lo
mandano a cagare, perchè sono preparati. Le pause sono sicuramente importanti, non credo che una sovrabbondanza di parole renda automaticamente
buono un determinato brano.
Sì, siamo d’accordo. Ma da cosa nasce
questa grande precisione? Stavo pensando a un rigoroso computo sillabico ma dimmi tu…
Direi che sicuramente mi hanno aiutato
il tempo e l’ascolto di tanto rap americano. Gli ascoltatori più giovani spesso
non fanno i conti con una grande verità:
il flow è un elemento ritmico. L’inglese
ha delle tronche che aiutano in termini
di ritmicità, con l’italiano le cose si complicano, ed effettivamente ci ho dovuto
lavorare parecchio, anche contando le
sillabe come dici tu. Era una sfida per
andare oltre quelle due o tre soluzioni
che avrei adottato senza studio.
Ti faccio la classica domanda finale,
o quasi: qualcosa da consigliare come
ascolti?
Rischio di essere di parte: Big Joe e
Johnny Marsiglia (compagni di Ghemon
in Unlimited Struggle, NdSA) hanno
una visione dell’hip hop underground
avanzata, stanno facendo un discorso
interessante dal punto di vista sonoro,
adottando spesso soluzioni “squantizzate” come quelle che usavo io o anche
Mista e Shocca. Mi piacciono moltissimo. Po ti direi che mi piacciono un sacco anche gli Smania Uagliuns, soprattutto per attitudine. Infine, per quanto non
abbia bisogno della mia pubblicità, dico
Salmo, artista distantissimo da me ma di
cui apprezzo la coerenza.
Di straniero invece?
Fatima, Yellow Memories, il buon vecchio Prince che non stanca mai, il disco
di Pharaoe Monch, quello dei Roots.
Sono i principali ascolti di questo periodo.
19
S e a m u s
C a t e r
E c u m e n i c o
e
b i z a n t i n o
La sua è una tutela dell'immaginario musicale anglosassone e un
coerente recupero che sfugge al riciclo e alla fredda pattumiera
postmoderna.
>>>Testo di Christian Panzano
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Seamus Cater è un poli-strumentista
inglese che mescola contemporaneità
e tradizione attingendo dalla sua terra
d’origine, da musiche del mondo o da
altri spazi sonori. Ha un’attitudine a
sintetizzare, a rendere all’osso una melodia, un suono, una gamma di perifrasi
che da altre parti troverebbero sfogo
in formule più contorte. Eppure la sua
telegrafica produzione quanto la sua infinita agenda lavorativa non concedono
spazio a pause, risultando degne di un
performer a tutto tondo. Da poco edito
per la sua Anectodal records, Lunora,
oltre ad attestare una peculiarità, è banco di prova per ogni suo vezzo artistico.
Ne abbiamo parlato direttamente con
l’autore.
I tuoi lavori sono spesso un tuffo nel
passato, nella ricerca appassionata
delle radici. Cosa ti spinge a guardare
indietro?
Molte delle canzoni scritte in Anectodes erano ritratti di persone nate tra la
fine dell’800 e i primi del ‘900; è vero
che è stato un tuffo nel passato, ma erano storie stimolanti. Da poche canzoni
che avevo sono diventate una serie, mi
sentivo ispirato e ho cercato di esplorare aneddoti o storie delle loro vite,
vestendo i loro panni e narrando le vicende come se le avessi vissute in prima
persona. Come l’effetto di un’eco, questi
loro aspetti risuonano effettivamente in
quello che cerco di rendere vivo oggi.
Parlami del tuo amore per la concertina. Sembra riesca ad evocare una
musica istintiva e personale…
Sai, molta gente aggiunge sempre più
strati di orchestrazione quando compone, facendo leva su una scala di valori
che tende a sommare più che a sottrar-
re. Io lavoro dal lato opposto della scala:
prendo un elemento, delle parole, uno
strumento o una tecnica, e vi aggiungo
lievi strati fino a quando il pezzo non
sembra funzionare. Poi mi alleno molto
per trovare il giusto tipo di energia o
di movimento, in modo tale da rendere
tutto udibile col minor numero possibile di elementi. Mi sto impegnando
molto nello studio della concertina, la
presenza del suo suono è determinante
e in futuro lo sarà sempre di più.
A cosa o a chi ti ispiri quando fai musica?
Se penso a quello che sto facendo
adesso, è tutto ispirato da una combinazione di musica primitiva e musica
sperimentale. Musica folk britannica,
anche un sacco di roba etnica, africana,
americana, asiatica, musica abbastanza
semplice e con molta energia. Inoltre,
roba sperimentale contemporanea, sia
composta che improvvisata, di solito
piuttosto concettuale a dire il vero. In
questo momento sto ascoltando molta
musica elettronica.
Lunora, il tuo ultimo lavoro, fa esplicito riferimento a J.G. Ballard, scrittore britannico morto di recente.
21
Perché ti sei rifatto a lui?
La vita di Ballard è affascinante e credo
che questa cosa abbia reso la sua scrittura incredibilmente umana ed estrema.
Mi è sempre piaciuto come riesce a descrivere certi stati d’animo, che ad altri
sarebbero probabilmente sfuggiti.
Come è stato lavorare con Uncle
Woody Sullender e Viljam Nybacka?
Come, invece, riesci a lavorare da
solo?
Con Woody abbiamo usato semplicemente i nostri strumenti base, armonica
e banjo, esplorando lo stesso genere
di cose, io ad Amsterdam e Woody a
New York. È avventuto tutto in maniera naturale, abbiamo iniziato partendo
da semplici strutture per poi improvvisare. Con Viljam, invece, ho scritto
le canzoni e insieme abbiamo lavorato
sull’orchestrazione dei brani inseriti
in Anectodes. Volevo trovare un nonbatterista e Viljam era un bassista le cui
abilità erano quelle che cercavo per la
ritmica di batteria. Ora sto preparando
una registrazione in solo: ci lavoro ogni
giorno, anche se le canzoni sono sostanzialmente pronte, e credo che inizierò a
registrare a breve. Ho scoperto che nel
corso del tempo le canzoni cambiano.
Se registro la stessa canzone ogni giorno
per quattro giorni, la sensazione sarà
diversa. A volte, dopo un mese, l’idea
iniziale che avevo viene nettamente
modificata.
Lunora è il risultato di un tour svoltosi in Italia qualche mese fa. Ti è
piaciuta come esperienza?
Ho registrato Lunora al Lift Series di
Attila Faravelli a Milano. Un piccolo
spazio studio, il pubblico era composto
da 20 persone, uno spettacolo molto
22
intenso, soprattutto perchè era la fine
di un tour lungo 5 mila chilometri. Mi
è piaciuta molto l’Italia, ci tornerei, ma
devo imparare meglio la vostra lingua e
poi trovare un concerto base intorno a
cui costruire un nuovo tour.
Hai accennato alla lavorazione di un
tuo prossimo album. Altri progetti
per il futuro?
Sì, sarà un LP di concertina e voce, credo uscirà alla fine di quest’anno. Inoltre,
posso già anticiparti che uscirà a breve
un lavoro con Kai Fagaschinski (The
International Nothing, The Magic I.D.),
bravissimo clarinettista che vive a Berlino con cui collaboro da un po’.
23
B e n
F r o s t
D i s i n t e g r a r s i
n e ll a
m u s i c a
24
All’indomani dell’annuncio
del tour in Italia, il prossimo
novembre, facciamo il punto
con uno dei personaggi più
seguiti e iconici dell’intorno
musica elettronica, postindustrial e contemporanea
>>>Testo di Edoardo Bridda
Ben Frost è certamente uno dei produttori di elettronica più dibattuti degli
ultimi mesi. Ha grandi sostenitori ma,
specialmente dopo la pubblicazione di
A U R O R A, ha sollevato qualche perplessità circa la capacità di rigenerare la
propria produzione dalla pietra miliare
di Theory Of Machines (del 2007).
È quello che succede spesso alle figure che riassumono su di sé una scena
intera, a coloro che diventano, per scelta
o per vicende artistiche e biografiche,
rappresentativi di un periodo, di un
modo di fare musica che raccoglie altri
esponenti. All’indomani dell’annuncio
delle quattro date che vedranno Ben
Frost attraversare l’Italia a inizio novembre – a Bologna per RoBOt Paths, a
Torino per il Club To Club 2014, a Roma
per Europa Festival e a Bari per Time
25
Zones – approfittiamo del momento per
restituire il punto che abbiamo fatto con
il diretto interessato, in un’intervista
che ci vede sviscerare la sensibilità del
musicista e coglierne la spiccata coscienza del proprio ruolo, anche grazie
a paragoni senza protagonismi con
alcuni colleghi (quelli della medesima
koinè di cui Frost fa parte, ma anche
quelli che l’artista ha intercettato nella
sua carriera, da Michael Gira a Oren
Ambarchi).
Ben è un conversatore cortese, disposto
a guardarsi dall’esterno, predisposto
alla maieutica dell’intervistatore. Ci ha
stupito, tra gli altri aspetti, la consapevolezza che ha dei propri limiti – ad
esempio quando si pone nei confronti
di Tim Hecker e ne apprezza la superiorità come creatore di astrazione
elettroniche. Di Hecker Ben invidia la
capacità di lavorare creativamente nel
caos, di scompaginare le carte. È come
se invece Frost vedesse sé stesso come
un musicista quasi-sperimentale: non di
certo reazionario, ma neanche in grado
di mettere in discussione le “regole”
(e a volte i tic) della produzione elettronica odierna. Con grande lucidità,
ma anche con ammirevole e disarmata
consapevolezza, Frost ci svela il trucco
che permette al pubblico di associare un
carattere sperimentale alla sua musica,
nonostante, sotto sotto, stia accondiscendendo e confermando le aspettative
di quello stesso pubblico.
In A U R O R A è chiaro un procedimento che trascina l’ascoltatore nell’onda emotiva del compositore. Ben Frost
ci spiega anche questo: è un romantico, ma trascina perché è lui il primo a
essere trascinato. La musica è spazio
26
di immaginazione emozionale, inteso
come un gesto romantico radicale. Il sogno è risalire a quel momento aurorale
(coerente con il titolo del nuovo album)
dove l’uomo non si era mai visto “fisicamente” dentro, e poteva sperare nella
presenza dell’anima. La sua musica – ci
suggerisce – è una diretta conseguenza
della ricerca di una nuova possibilità
che esista un’intangibile. Per farlo ha bisogno di emozioni umane, riconoscibili
e rassicuranti.
Ben Frost non ha smania del controllo,
non si presenta come un centellinatore
di suoni, per quanto il suo output sia
raffinato. Forse perché non fa musica
per mettere al centro il suo ego, ma per
dimenticarsene, in un processo di condivisione a cui va riconosciuta proprietà di mezzi e linguaggio. Leggendo le
risposte alle nostre domande, ci attraversa il dubbio che non sia uno sforzo
umano di resistere all’indifferenza della
natura. Niente di più lontano dalle avanguardie figlie di Cage, semmai qualcosa
di abbastanza vicino al rituale collettivo
del ballo. A quel ballo a lungo disdegnato ma che di fatto ha dato stimoli basali
alla genesi dell’album, come leggerete. Ma andiamo con ordine, e caliamo
Ben in questa chiacchierata di oltre 40
minuti partendo dall’aspetto più emerso e noto della sua attività, l’imponente
massa sonora dei live.
Hai iniziato il tour di Aurora e suonato al Sónar di Barcellona. Ho letto
che spesso ti si chiede dei volumi da
decollo aereo che utilizzi durante i
live; a me interessa sapere di più sugli
aspetti tecnici con i quali ti presenti
agli show. Siete in tre sul palco giusto?
Beh, per la precisione ci sono 4 persone:
io, il mio ingegnere del suono Daniel
Rejmer, con il quale lavoro da dieci anni
ormai (è un elemento importantissimo
per i miei concerti; sai non è proprio un
sound engineer normale, è proprio uno
della band), poi ho due batteristi, ovvero, Greg Fox e Shahzad Ismaily. Tre sul
palco e uno ai bottoni.
Una curiosità: Aurora nella copertina
del disco è scritto così, con gli spazi
tra le lettere, c’è una ragione particolare dietro a questa scelta?
Non particolarmente è una decisione
della grafica, Rebecca Mendez. Lavoro
con lei da un paio di lavori ormai, ha
un modo molto specifico e personale di
fare le cose. Ci piaceva come era rappresentata la scritta proprio così tutto
in maiuscolo e con gli spazi. Sembrava
avere un qualche tipo di senso.
Prima di intervistarti ho letto un
bel po’ d’interviste. So che l’album è
stato influenzato dalle esperienze e il
lavoro che hai condotto in Congo. Le
session del lavoro sono state influenzate anche dal breve tempo che avevi
per lavorarci e dal fatto che per ricaricare le batterie del laptop dovevi
raggiungere dei potenti generatori
nei villaggi non sempre accessibili.
Come ti ha cambiato la vita quel viaggio?
Wow è un domandone. Durante gli
ultimi anni ho sviluppato un’esigenza
mia. Volevo avere accesso diretto, non
mediato, a tutto ciò che la televisione
mi passava a proposito di differenti tipi
ti culture, lunguaggi, cibo e donne ecc.
Non volevo che la mia comprensione
del mondo fosse un mero risultato del
news feed della BBC. Volevo vede-
re e capire con i miei occhi e le mie
orecchie. Penso che aver trascorso del
tempo nell’Africa centrale mi abbia dato
la possibilità di parlare di una situazione nazionale dal mio punto di vista, di
raccontare un sacco di cose alla gente
che non ha visto e sentito. Inoltre, come
musicista e compositore, dipendere da
un generatore per fare la tua musica ha
senz’altro cambiato la mia prospettiva,
anche solo rispetto all’uso dell’elettricità. Al senso dell’elettricità per un
musicista che fa musica elettronica. Al
fatto che il Congo è ancora una colonia
e io ne sono parte e ne siamo tutti parte
e questa è un’inconfutabile realtà di cui
devo ancora indagare completamente il
significato.
La mia prima intervista è stata con
Michael Gira nel 2002, gli chiesi
qual’era la differenza tra corpo e
anima nella sua musica ma non volle
rispondermi, era un concetto troppo
personale e profondo, al tempo, per
lui. Che ne dici se ti faccio la stessa domanda? Vivi la musica, la tua
musica, in senso più fisico, materiale,
o in un modo più spirituale? Dove ti
collochi? E che tipo di connessione
senti con la musica degli Swans?
Credo che lo scopo della mia musica sia
un disseppellimento della mia identità, come se cercassi di raggiungere un
nucleo di senso interiore dentro di me.
Credo che sia anche la natura di tutte le
arti questa, ma fondamentalmente, ha
anche a che fare con l’incomprensibilità dell’io, il rimuovere il tuo ego dalla
situazione e fare qualcosa che trascenda le banalità della condizione umana.
Questo è ciò che fa ogni buona forma
d’arte, obiettivo che non mi sento parti-
colarmente bravo ad ottenere. Certo, ci
sono dei momenti passeggeri, ma credo
che ci voglia un lungo viaggio per raggiungere dei punti fermi, un equilibrio,
quando vedi nel tuo lavoro qualcosa
che ti riflette ed è più grande di quello
che hai messo dentro tu. Sai, è un po’
come la ricerca di qualche tipo di nuova energia, un combustibile fossile che,
bruciando, ti restituisce sempre più di
quello che è bruciato. C’è sempre un dispendio di energia e quello che cerchiamo facendo arte è esattamente quello
che cerchiamo nella ricerca di nuove
energie: che ci diano di più di quello che
abbiamo investito. Che generino un of
feedback-loop che esista e si potenzi al
di fuori di te.
Per quanto riguarda Michael, penso che
condividiamo alcune idee sulla musica.
Siamo due persone distinte, chiaro. Lui
è più vecchio di me e viene da una condizione socio-politica che non riesco
molto a comprendere, e non pretendo di
averne una conoscenza. Siamo connessi
sonicamente in molti modi ma credo,
ecco, che le ragioni per le quali siamo
qui siano differenti. Credo che il mio
interesse sia per la potenza del suono,
della musica, la parte scientifica e politica di tutto ciò. Sono affascinato dalla
proprietà del suono, il suo potenziale
nel trascendere la sua stessa natura e
condizionare la psiche umana.
Sempre parlando delle differenze
tra te e Gira, credo che lui si metta
al centro della sua arte. Controlla
veramente di tutto ciò che gli accade
attorno. Sentendo Aurora, è come se
tu lasciassi che certe cose accadano e
altre crescano…
Penso che tu abbia ragione. Sin dalla na-
28
scita della musica digitale, l’intera genesi della produzione musicale elettronica
al tempo in cui il computer fu inventato
e portato negli studi di registrazione
ha avuto a che fare con l’amalgamare e
il rimpiazzare la tecnologia analogica
preparando una situazione dove potevamo avere tutto sotto completo controllo.
Tutto diventa un controllare parametri,
che sia sincronizzare un nastro, armonizzare una voce o rendere un ritmo
perfettamente metronomico o una linea
di basso esattamente allineata ecc.
Il punto è che lo abbiamo ottenuto ed
è tutto troppo facile. Quello che vogliamo dalla tecnologia oggi è il caos. Lo
vedi già nei nuovi synth e nelle drum
machine e negli effetti a pedale. Tutto
il feticismo riguardo a queste nuove
macchine non riguarda il controllo ma il
suo opposto, bottoni senza nome, effetti
random, tutte opzioni per rimettere il
caos dentro il sistema. Ed è tutto quello
che rende una musica eccitante alla fine
dei conti.
Capisco quello che dici quando affermi che gli Swans sono la creatura di
Micheal ma è anche vero che si è circondato di gente dall’ego imponente,
ottimi musicisti che non sono sotto il
suo completo controllo. Lui li conduce e
stimola la loro interazione reciproca. Ci
sono un sacco di cose che lui fa per incanalare le cose senza controllarle. Non
voglio parlare per lui ma penso sarebbe
d’accordo con me su questo. Vogliamo
essere sorpresi. E’ quello che ho voluto
fare con Aurora. Portarci dentro gente
senza dirgli esattamente cosa doveva
fare. Volevo il loro contributo. Volevo
la loro ispirazione ed essere sorpreso a
mia volta da loro.
A proposito di sorprese, ho letto su
Wire (che ti ha dato la copertina)
che una notte sei salito su un vulcano in Islanda dove vivi e hai fatto
l’esperienza di un senso di paura
particolare. Questo mi riporta alla
dicotomia della domanda precedente
tra corpo e anima. Mi domando: può
la paura rappresentare l’unica strada
da percorrere per un qualche tipo di
spiritualità in questi giorni? Se sei
religioso, ok, questa cosa la raggiungi per altre vie, immagino, hai altri
strumenti, ma in un mondo come il
nostro, e lo vediamo anche nell’arte,
la gente sta ricercando esperienze
primarie e ancestrali per raggiungere
qualcosa di sconosciuto e più vero.
Avere paura di morire inghiottito
dalla lava potrebbe essere un buon
punto di partenza in questo senso…
Certo, più siamo disincantati e più è
difficile raggiungere qualcosa di sconosciuto e fuori del nostro controllo non
credi? A maggior ragione iniettare caos
è importante in questo mondo plastico e
sterilizzato. Stando in cima ad un vulcano hai una sensazione molto papabile di
essere alla mercè di qualcosa a cui non
frega nulla di te. Non è interessato a te.
Non riguarda te. La cosa che mi impressiona della religione e delle religioni è
quanto infonda narcisismo nella gente.
Quanto siamo ossessionati da noi stessi,
tanto che abbiamo la spocchia di credere che c’è un Dio a cui interessa cosa
29
ci sta accadendo. Ma davvero? E chissenefrega? Proprio come piccole rocce
che girano attorno a piccole stelle nel
mezzo di un fottuto universo infinito,
ripeto, a chi frega qualcosa di ciò che
ci sta accadendo? Siamo così insignificanti, e proprio per questo ci mettiamo
al centro di questa illusione. Siamo così
annichiliti dalla realtà, shockati dal venir dimenticati.
Credo che quest’aspetto sia presente
in Aurora. Ma c’è dell’altro. Ci sono
elementi narrativi, barriere, calma ed
esplosioni di colore nelle tracce. Forse riflettono i colori all’infrared usati
per le foto e il video girato in Congo?
Avevi questi colori in mente quando
componevi?
Certo, assolutamente. Sono una persona
orientata al visivo. Penso per immagini.
Più passo il tempo a parlare con altri
musicisti e più parlo loro della mia musica, più comprendo che il mio modo di
vedere la musica è differente dagli altri.
Per me, vedi, è una cosa profondamente
visiva e fisica. Posso vedere quei suoni,
hanno sfumature, hanno texture e colori. Tutto acquista un certo senso quando
lo tari su questi parametri, arrangi un
certo spazio in questo modo. E’ molto
facile per me pensare in questi termini.
Se hai una palette di colori in testa, poi
la traduci in musica in un certo modo.
Mi viene facile anche se non sempre
funziona. Allo stesso modo cerco e trovo
suoni che danno vita a un certo tipo di
colore, a particolari sfumature.
Mi stai dicendo che hai esperienze
sinestesiche? Certe persone hanno
innate queste capacità. Traducono
senza pensare un suono in un colore…
Beh no, per me non è una cosa così
30
diretta. E’ per ragioni che non riesco a
spiegare. C’è un modo particolare in cui
i suoni devono stare, per aver senso per
me, per star bene e avere un senso preciso. Cercare queste cose nella musica
di altri è sempre frustrante. Ecco perché
faccio quello che faccio. Il mio lavoro è
arrangiato in un modo soddsfacente e
non turba il mio equilibrio interiore.
Argomenti come musica e colori,
mi portano a un altro tema di cui mi
piacerebbe parlare con te, che è il
romanticismo che attraversa la tua
carriera fino all’ultimo album…
Beh, diciamo che l’essenza delle cose
che faccio non è documentaristica, non
è un riflesso di una fottuta mondanità
in cui siamo calati. E’ una manifestazione del mondo immaginata da me, o
forse un nuovo tipo ti spazio, e proprio
quest’ultima affermazione credo racchiuda l’essenza del romanticismo, immaginare spazi e realtà altre. E questo
potrebbe semplicemente ridursi all’immaginare due idee divergenti che esistono nello stesso tempo e spazio, come
si riconciliano queste cose in un unico
spazio. Certo, è un gesto romantico, di
sicuro lo è.
Possiamo anche dire che il romanticismo è l’opposto del caos, così riassumendo i concetti che ci siamo detti
prima, il tentativo è gestire contemporaneamente romanticismo e caos
nella tua musica…
Guarda, io credo che la morte del romanticismo sia accaduta quando abbiamo aperto per la prima volta con un
bisturi il corpo umano. Non è uscito
nessun magico fascio di luce. Non abbiamo anima. Non c’è nessuna fottuta
palla luccicante di luce…
… [tono scherzoso] Ti è per caso
capitato di vedere 2001 Odissea Nello
Spazio di recente? Tipo la scena iniziale con le scimmie: la celebrazione
della fine di uno stato se vuoi romantico che dà l’avvio a una fase dove
belligeranza e progresso sono unite
inscindibilmente…
[ride, NdSA] No, non l’ho visto di recente, ma, ripeto, l’idea è nello smembrare
il corpo. La fine del romanticismo sta lì.
Nel momento in cui iniziamo ad analizzare le ossa dei nostri corpi animali,
facciamo l’esperienza di “hey questo
è soltanto un’altro fottuto animale”.
Non siamo differenti dal maiale che sta
nel tavolo accanto. C’è un modo molto
romantico e umano di sentenziare la
morte del romanticismo. Voglio dire,
prendi un uomo, lo fai a brandelli, quando finisce la sua umanità? Continuiamo
ad arrovellarci su queste cose mentre
non abbiamo ancora trovato un equilibrio in questo crescente caos sistemico
di intelligence e consapevolezza. Non
credo che il caos della natura e l’organizzazione siano concetti divergenti,
sono randomizzati semmai. Come non
credo che il romanzo possa esistere solo
nell’assenza di caos.
Altri musicisti con i quali sei stato paragonato, come Christian Fennesz e
Tim Hecker – con il quale hai lavorato – hanno affrontato alcuni di questi
stessi temi durante la loro carriera.
Cosa ammiri nel loro lavoro e come
vedi il tuo lavoro in rapporto al loro?
Penso che il percorso di Tim sia un po’
più avanti rispetto al mio. Ha lavorato
più di me. Si è spostato in un mondo
d’astrazione. Non ho ancora abbastanza
appigli per provare a fare qualcosa del
genere. Tim è un maestro in questo. E’
un signore del caos! Proprio come il
sistema con il quale s’approccia alla musica, è come se fosse in guerra, è una fottuta battaglia a terra con lui che traffica
con teconologie che non vogliono essere
controllate. E’ una cosa impressionante
da vedere in evoluzione, esserne stato
parte è stato importante per me. Non ho
altro che ammirazione per lui.
Per quanto riguarda Christian, beh i
suoi primi lavori sono incredibilmente
importanti. Sono dei landmark nella
musica digitale.
All’inizio della tua carriera suonavi la
chitarra e usavi i layer proprio come
Fennesz. Proprio lui mi raccontava
in un’altra intervista alcune strategie
che aveva usato per sabotare la tecnologia…
Veniamo da differenti background.
Il mio uso della chitarra al tempo era
il gioco di un ragazzo che veniva da
ascolti dei Metallica. L’inizio della mia
avventura digitale è coincisa con me
che, stanco di provare a convincere altre
persone a formare una band, iniziavo a
fare la mia musica in solitaria. Dunque
è stata una necessità, più che una scelta. Ed inoltre non è stata un’evoluzione
personale partita dal movimento dance,
aspetto quest’ultimo che mi distingue
dalla grande maggioranza dei producer
e act con i quali mi trovo a dividere il
palco.
Hai suonato in una band con Oren
Ambarchi però. Suonavi con lui nel
passato giusto?
Beh quella era la sua band. E sì, abbiamo suonato assieme un periodo. Vorrei
tornare a fare qualcosa con lui ma le
distanze influenzano molto. Lui vive
31
ancora in Australia, io in Islanda. Non è
proprio facile.
Tornando all’album e in un certo
senso alla dance culture accennata
prima, è vero che per quest’ultimo
lavoro ti sei costretto ad usare soltanto synth da mercatino al posto del
piano e della chitarra? Ho letto anche
che lo hai fatto in reazione ad anni di
dance music che ti sei sorbito nei festival ai quali ai partecipato in veste
di musicista in questi anni…
Beh la musica complessa ha spesso
origini semplici. E questo è un fatto con
Aurora. All’inizio ero io che provavo a
fare qualcosa di dance, è iniziato tutto
così per poi evolversi in qualcosa di
molto differente e complicato. Quella
semplice idea è diventata una piccola parte di un immagianrio molto più
grande.
Hai comprato roba nuova? Hai usato
dei plug-in?
Ho un sacco di differenti abiti, all’inizio
trafficavo con tutto ciò che mi capitava
facendomi prestare anche strumenti da
altra gente. Non ho rispetto per alcuno
strumento, neanche quelli vecchi. Non li
feticizzo e idolatro, sono solo strumenti,
mezzi per far musica.
Provavi a fare dance music… lecito
chiederti se hai iniziato a frequentarla a qualunque livello…
Penso che ci siano molte regole non
scritte nella musica di qualsiasi genere.
C’è gente che fa dance o rock e non mette mai in discussione nessuna di queste regole tacite. Come dire: una drum
machine deve stare a un certa frequenza
e tempo, la techno deve avere certi bpm.
Ci sono così tanti pre-set nella musica
contemporanea che veramente poca
32
gente ha intenzione di metterli in discussione senza entrare in un mondo di
un certo tipo di sperimentazione, quello
cioé dove un ascoltatore deve attraversare un ponte verso un qualcosa di alienante e disturbato. Non credo che il mio
lavoro sia particolarmente ostico ed è
sempre sorprendente apprendere come
venga descritto dalla gente come qualcosa di massicciamente sperimentale.
Non credo proprio che sia un’osservazione accurata. Piuttosto credo che
sia un tentativo d’ingannare l’orecchio,
presentargli una cosa che non è. Con la
gente che allo stesso tempo reagisce a
questa musica a un livello viscerale.
Hai sempre sottolineato in altre interviste il valore della sottomissione
al suono e i tuoi live hanno volumi
non proprio bassi. Penso anche all’uso che i Throbbing Gristle fecero
dei loro impianti per mandar via un
accampamento di nomadi o agli esperimenti dei Pan Sonic nei bunker.
Sono da sempre molto affascinato da
questo approccio alla musica…
Sono un grande fan dei Pan Sonic e
adoro ascoltarli. Dei TG ho un grande
rispetto ma non sono per nulla legato a
quell’idea belligerante e sadica dell’esperienza sonora. Quello che cerco di
fare nella mia musica è trascendere lo
spazio, tendere all’estasi a un certo punto, creare qualcosa che sia più grande
di quando è iniziata. Che cresca anche
al di fuori di me e dell’audience e che
nei suoi momenti più belli esista al di
fuori del tempo. Voglio perdermi nella
musica. La sottomissione è tanto dalla
mia parte, quando da quella di chiunque
altro. Non voglio vedermi al centro di
quella musica. Voglio disintegrarmi in
essa.
Puoi raccontarmi qualcosa dei tuoi
lavori per le compagnie di danza?
Sono sempre stato interessato dalla
danza e dal corpo. In un altro mondo
forse, avendo fatto altre scelte, probabilmente avrei potuto essere anch’io un
ballerino. Ho soltanto trovato un altro
modo di esprimermi. Ho fatto qualcosa
per Ewan Mcgregor e Akron Kahn. C’è
qualcosa di rigoroso nei loro lavori, un
tipo di astrazione fisica ma applicata
al mondo reale. Il loro è un lavoro che
ha un’interazione diretta con il corpo
e la gente. E’ una cosa che mi affascina
molto. Loro puntano alle stesse cose:
la disintegrazione dell’io in favore di
qualcosa di più grande, e di sicuro all’interno di restrizioni. Ad esempio quelle
dettate dal corpo stesso, limiti che cercano sempre di valicare. E’ affascinante
far parte di tutto questo. Vedere come la
mia musica possa lavorare con o contro
queste situazioni o creare un dialogo
che abbia effetto sull’audience in un
modo mai banale.
Quando ti è stato commissionato di
arrangiare sezioni d’archi come te la
sei cavata? E’ un processo veloce per
te comporre questa musica?
No, sono un terribile musicista in quel
senso. E sono anche un scarso compositore. Ecco perché chiedo aiuto a un
sacco di gente per molti di questi aspetti. E’ un po’ come dire: arrangiare archi
non è proprio la mia lingua madre. Non
la parlo fluentemente. D’altro canto ho
le mie idee, so come dovrebbe funzionare questa cosa. So cosa vorrei dire e
posso avvalermi di un buon numero di
amici che sanno occuparsi degli aspetti
tecnici molto meglio di me, per cui chie-
dere aiuto è la cosa più giusta da fare.
Non sono solo su un’isola. E questo vale
anche musicalmente. Non sono quel
compassato genio solitario che ha bisogno di far tutto da solo. Sono un collaboratore. Riconosco tutti i miei errori, che
sono molti, ed ecco perché amo lavorare
con gente che è migliore di me. Penso
di aver costruito una carriera circondandomi di gente migliore di me. Non
voglio essere il tipo in vista, piuttosto un
piccolo lavoratore. Mi stimola a lavorare
più duramente. E rende anche le cose
più dure.
33
C o l d M e a t
I n d u s t r y
( 1 9 8 7 - 2 0 1 4 )
R . I . P.
34
La label svedese Cold Meat
Industry, stando alle parole del
suo fondatore Roger Karmanik
(Roger Karlsson), ha cessato
definitivamente le sue attività.
Ne ripercorriamo storia e
successi.
>>>Testo di Marco De Baptistis
La label svedese Cold Meat Industry,
stando alle parole del suo fondatore
Roger Karmanik (Roger Karlsson), ha
cessato definitivamente le sue attività.
In questo articolo ripercorreremo la
storia e i successi che hanno portato
l’etichetta ad essere un faro per tutti
gli appassionati di musica industriale e
post-industriale. Vedremo anche come
l’influenza imprescindibile degli artisti della CMI, ancora tutti in attività,
sia viva e pulsante anche oggi in molte
realtà musicali dedite a sonorità Noise,
Industrial, Neofolk, Martial Industrial,
Dark Ambient e non solo.
Di seguito, il comunicato ufficiale di
Roger Karmanik sulla fine della CMI
uscito il 07 febbraio 2014: “Cold Meat
Industry is Dead! I thought you ought to
officially announce this…, and I should
have told you long before…. But briefly:
it has been hard to admit it… and to let it
go! I am confident of my decision. I had
a lots of fun during the years of creating
CMI and I’ve learned it made a massive impact on the music scene. Being in
the middle of this creative storm I got
personally drained, it emptied my body
35
of strength, and happiness. It caused me
deep depression, alcoholism, and misery. I, who thought I was invincible… It
was hard to admit to me, and also to all
people around me. Now, I am finding
the way back to my innerself, and exploring life again – and music! I am proud
of what I have done, but will not rest
with that! Ashes to ashes, dust to dust,
the Familygrave is sealed!”
[La Cold Meat Industry è morta! Ho
pensato di annunciarlo ufficialmente...
e avrei dovuto dichiararlo molto prima... ma è stato difficile ammetterlo...
e lasciarla andare! Ho fiducia nella mia
decisione. Mi sono diverto molto durante gli anni della creazione della CMI, la
quale ha avuto un impatto enorme sulla
scena musicale. Essere nel mezzo di
questa tempesta creativa mi ha personalmente svuotato, mi ha lasciato senza
forze e infelice. Mi ha anche causato
profonda depressione, alcolismo e miseria. Io che pensavo d’esser invincibile
... è stato difficile ammetterlo, anche per
tutte le persone attorno a me. Ora, io sto
ritrovando me stesso, voglio esplorare
di nuovo la vita - e la musica! Sono orgoglioso di quello che ho fatto, ma non
mi fermerò a questo punto! Cenere alla
36
cenere, polvere alla polvere, la tomba di
famiglia è sigillata!]
Vi sono label che hanno fatto la storia
della musica alternativa e certo non
si esagera affermando che la svedese Cold Meat Industry, fondata nella
piccola cittadina di Linköping (solo
94.298 abitanti), sia stata una di queste.
Se pensate a ciò che è stata la musica
industrial e post-industrial negli anni
‘90, il peso internazionale che ha avuto
la “fabbrica della carne fredda” risulta subito evidente: Arcana, Brighter
Death Now, Coph Nia, Deutsch Nepal, In Slaughter Natives, Folkstorm,
Ordo Rosarius Equilibrio, Puissance,
Raison d’être, Rome, solo per citare
un po’ di nomi, spaziando tra Industrial
Noise, Power electronics, Neofolk,
Martial Industrial/Neoclassical e Dark
Ambient, che hanno esordito e/o hanno affidato alla label svedese i loro più
oscuri capolavori.
Lontanissimi anni luce dalla deriva
commerciale dell’Industrial Metal americano o dall’Harsh EBM/Aggrotech più
plastificato, la CMI ha rappresentato
la resistenza dello spirito underground
della musica industriale nordeuropea,
nei suoi aspetti più radicali e senza
compromessi; una forma di resistenza
anarchica, alternativa sia al mondo della
musica mainstream, sia al bel mondo
della musica post-rock e “indie” patinata che piace tanto a una certa critica
musicale.
La CMI ha rivoluzionato anche il modo
di concepire la musica industriale e non
solo. Dall’esordio della label svedese
nell´ormai lontano 1987, sino alla sua
recentissima dipartita nel 2014, la CMI
ci ha regalato una serie di capolavori
immortali e, soprattutto, ha mostrato il
lato oscuro che alberga nel cuore di tutti
noi, costringendoci a guardare in faccia
le nostre paure e i nostri desideri più
nascosti. Da questo punto di vista, tutti
gli artisti della label hanno introiettato – e se possibile anche estremizzato
– lo spirito della provocazione presente
nella prima ondata industriale (Throbbing Gristle, SPK, Monte Cazazza
etc.) mettendo in luce che “il Male” non
è sempre “banale” come spesso viene
mostrato dai mass media. La messa in
scena d’immaginari cruenti, nelle mani
di artisti veri, può mostrarci altri mondi, persino aprire gli occhi sul nostro
esser(ci) al mondo, avendo magari anche una salvifica funzione catartica.
Nella terra socialdemocratica del
“politicamente corretto” (il paese del
“lagom”, che in svedese significa “attitudine media e moderata che rifiuta gli
estremi”) la CMI ha rappresentato un
bellissimo rogo luminoso nella notte in
cui tutti i gatti sembravano grigi; basti
solo pensare alle provocazioni estreme
cui ci ha esposto, nel corso degli anni,
Brighter Death Now, progetto solista
Noise/Power Electronics di Roger Karmanik, fondatore e anima tormentata
della label svedese.
La prima uscita dell´etichetta è proprio
un sette pollici di Karmanik (in questo caso sotto l’alias di Lille Roger),
Undead del 1987, che mette subito in
chiaro che non si faranno prigionieri.
Ascoltando i classici dei Brighter Death
Now come la trilogia Great Death, o
Innerwar del 1996, si capisce subito
quale sia stata la forza “eversiva” della
CMI: temi scomodi come dittatura, pedofilia, sadismo e psicosi, urlati in faccia
all’ascoltatore su un tappeto di musica
distorta oltre ogni umana sopportazione
o affogati in un mare di funereo e tetro
Dark Ambient. Non a caso, s’incominciò a parlare di “Death Industrial” per
descrivere la musica prodotta da Karmanik e soci.
La CMI non si è limitata solo a sonorità
noise estreme ma ha cercato sempre di
far evolvere il suono industriale, accogliendo anche sonorità e iconografie di
derivazione Black Metal, una forma di
espressione musicale ed esistenziale
che in quegli anni attraversava e metteva a ferro e fuoco (letteralmente) le
terre scandinave. Henrik “Nordvargr”
Björkk (già fondatore del gruppo EBM
svedese Pouppée Fabrikk) con i suoi
Maschinenzimmer 412, poi Mz.412,
riuscì a mettere insieme harsh noise
industriale, ambient rituale e atmosfere Black degne di Burzum in cattività,
regalandoci perle indimenticabili come
Burning The Temple Of God del 1996.
Oltre ad una “pars destruens” noise/nichilista (ma quanto è molto più nichilista e inconsapevole di esserlo la società
(post)moderna e – come si diceva una
volta – “piccolo borghese”, nascosta dietro le sue ipocrite maschere democrati-
37
Deutsch Nepal
che?) nella CMI c’era anche una “pars
construens” aperta a forme di spiritualità che affondavano le mani nel passato,
nella storia, nella tradizione e nei miti
dei popoli scandinavi e non solo.
Al di là del versante noise “oltranzista”,
degnamente rappresentato da Brighter
Death Now, Megaptera, Folkstorm,
IRM, etc, nella CMI c’era anche un lato
gothic noir-folk con gruppi seminali
come gli Arcana di Peter Bjärgö, dediti
ad evocative atmosfere medieval-ambient e neoclassiche (il loro debutto per
la CMI del 1996 Dark Age Of Reason, è
diventato una pietra miliare della musica “gothic”), e gli Ordo Rosarius Equilibrio (Tomas Pettersson e Rose-Marie
Larsen), uno dei gruppi neofolk svedesi
38
più famosi, molto apprezzati anche in
Italia, soprattutto per le loro collaborazioni con gli Spiritual Front di Simone
Salvatori.
Gli Ordo Rosarius Equilibrio, come molti artisti della CMI, con la loro unione di
elementi contrastanti, tra sacro e profano, sembrano aver fatto loro la celebre
legge di Thelema, elaborata dal mago e
occultista britannico Aleister Crowley:
“Do what thou wilt shall be the whole
of the Law. Love is the law, love under
will”. Il nome del gruppo deriva anche
dall’Ordo Templi Orientis, organizzazione religiosa iniziatica fondata nel
1979, dedita alla preservazione e alla
diffusione del sistema magico-religioso
di Thelema.
La CMI dopo aver scoperto e fatto
conoscere all´estero diversi gruppi
svedesi, fa esordire molti altri progetti
neofolk europei come gli ormai celebri
Rome del lussemburghese Jérôme Reuter, pubblicando i suoi primi tre album
Nera (2006) Confessions D’Un Voleur
D’Ames (2007) e Masse Mensch Material (2008).
Altra uscita degna di nota, è stata il progetto del danese Thomas Bøjden, Die
Weisse Rose che esordisce nel 2009
proprio per la CMI con A Martyrium
Of White Roses. Come Rome, anche
loro si concentrano su temi attinenti la
storia del Novecento e sugli eventi tragici della seconda guerra mondiale.
Da menzionare, sempre in ambito neofolk, l’imprescindibile live dei Blood
Axis, Blót: Sacrifice In Sweden (1998),
registrato dal vivo in Svezia nel 1997
per il decimo anniversario della nascita
della CMI, uno dei massimi picchi del
genere, con l’indimenticabile copertina
che riporta il celebre dipinto di Carl
Larsson “Midvinterblot”, realizzato
nel 1915 per la sala della scala centrale
del Nationalmuseum di Stoccolma. Il
dipinto raffigura una leggenda dalla
mitologia norrena che narra di come il
re svedese Domalde fu sacrificato dagli
Dei, all’interno del tempio di Uppsala,
per porre fine ad una lunga carestia; un
mito che è sempre bene non dimenticare in tempi di crisi.
La CMI è divenuta famosa anche per
aver prodotto diversi capolavori Dark
Ambient. Uno dei principali baluardi
del genere, nonché fonte di ispirazione
per molti musicisti svedesi ed internazionali che si sono dedicati a queste
particolari sonorità, è sicuramente stato
(ed è tutt’ora) Peter Andersson, meglio
conosciuto come Raison d’être, grande appassionato di filosofia orientale,
buddismo tibetano e tecniche di meditazione. Enthralled By The Wind Of
Loneliness, uscito nel 1994, è stata una
delle massime vette del genere, un disco
intenso e metafisico come pochi.
Raison d’être
Mortiis, alias Håvard Ellefsen, ex
bassista del gruppo norvegese Black
Metal Emperor, realizzerà in Svezia (tra
il 1994 e il 1995) due dischi per la CMI
di atmosferico dark ambient inquietante e malinconico, Ånden Som Gjorde
Opprør e Keiser Av En Dimensjon
Ukjent, influenzando diversi musicisti
che si dedicheranno a forme eteree di
Ambient Black Metal. Mortiis era membro del famigerato “Black Metal Inner
Circle” che in quegli anni riempiva le
pagine della cronaca nera locale e approdò alla CMI dopo la sua precipitosa
fuga dalla Norvegia per problemi giudiziari. I paesaggi evocati da Mortiis sono
quelli delle terre scandinave in inverno:
freddi, affascinanti e in gran parte disabitati dall’essere umano; ottimi posti
per stare da soli con se stessi, ascoltando la voce di quello che nella mitologia
nordica si chiamerebbe “hugr”, ovvero,
il nucleo essenziale del proprio essere,
del proprio spirito, che può incarnarsi, a
volte, anche in forme animali.
Progetto importante è anche quello
dei Desiderii Marginis di Johan Levin, capaci di spaziare dall´ambient più
oscuro ad atmosfere liriche e contemplative. Altro fronte “freddo” della CMI
da non dimenticare, è quello “Martial
Industrial” che annovera gruppi seminali come i Puissance di Henry Möller
39
(proveniente anch’egli dall’ambiente
Black Metal e, in seguito, fondatore degli Arditi assieme a Marten Björkman)
e Frederik Söderlund, con il loro capolavoro Back in Control del 1998.
Fondamentali per l’evoluzione del Martial Industrial, sono stati anche gli In
Slaughter Natives di Jouni Havukainen, e i Coph Nia di Aldenon Sartorial:
entrambi propongono robuste e decise
ritmiche marziali con atmosfere apocalittiche, temi medievali ed esoterici. Il
nome Coph Nia deriva dal “Liber AL vel
Legis” (ll Libro della Legge) scritto nel
1904 da Aleister Crowley, il principale
testo sacro del Thelema. The Dark Illuminati: A Celestial Tragedy In Two
Acts del 2007 fotografa bene gli interessi di Coph Nia, tra citazioni di Crowley
e inni a Lucifero visto come “Stella del
mattino” e angelo ribelle.
Molto importante è stata anche la collaborazione dei Ordo Rosarius Equilibrio
con i tedeschi Triarii, una “liaison”
martial-neofolk, in equilibrio tra amore e guerra, che darà vita al progetto
TriOre con il buon disco Three Hours
del 2009.
Quella della CMI è musica che non
sfigurerebbe come colonna sonora de
“Det sjunde inseglet” (Il settimo sigillo) di Ingmar Bergman, il cui finale con
la “danza della morte” viene rievocato
anche nel layout del CD del 2004 di In
Slaughter Natives, Resurrection, curato da Karmanik, come tutti gli aspetti
grafici della label, dalle copertine, alle
locandine, sino ai flyer.
Infine, come non citare Deutsch Nepal, ovvero Peter Andersson (non la
stessa persona dietro al progetto Raison
d’être! – gli svedesi non hanno molta
40
fantasia con i nomi, e ancor meno con i
cognomi, ma, in compenso, hanno molta
creatività con i soprannomi) alias “Lina
Der Baby Doll General”, co-fondatore
assieme a Karmanik della Cold Meat
Industry. Il suo lavoro come Deutsch
Nepal consiste in un affascinante ambient industriale con sensuali venature
marziali e derive etno-psichedeliche,
accompagnato da ritmiche ipnotiche e
coinvolgenti, da campionamenti vari e
dalla particolare voce dello stesso “Lina
Baby Doll”; celebri, del resto, anche le
sue collaborazioni con gruppi come The
Moon Lay Hidden Beneath A Cloud
e Der Blutharsch. Il nome “Deutsch
Nepal” viene dal brano omonimo realizzato nel 1972 dal famoso gruppo
tedesco di krautrock Amon Düül II,
come a sancire un fecondo connubio tra
sonorità kraut e industriali, le cui tracce affiorano abbastanza evidenti nelle
composizioni dell’artista svedese.
Ma il vero motivo per cui è doveroso
oggi ricordare la label svedese (oramai
definitivamente chiusa, stando alle
parole del fondatore Karmanik) è che
la CMI è stata una sorta di ponte che
ha avuto l’indiscutibile merito di collegare l’industrial degli esordi, con tutto
il suo spirito iconoclasta e dissacratorio, con il lavoro di molte piccole label
indipendenti di oggi, come ad esempio
la canadese Cyclic Law che continua a
pubblicare i nuovi dischi di molti artisti
della CMI.
In Svezia piccole realtà indipendenti
come, ad esempio, Beläten e Ideal Recordings, hanno ammesso di avere più
di un debito con l´esperienza della Cold
Meat Industry. Joachim Nordwall,
musicista poliedrico, fondatore della
Ideal e anche membro dei The Skull
Defekts, ad esempio, ha dichiarato
proprio in un’intervista apparsa recentemente su una webzine italiana, d’essere stato molto influenzato dagli artisti
della Cold Meat Industry, soprattutto
per i suoi lavori solisti (Ignition 2010 e
Psychic Propaganda 2013) o in coppia
con Mika Vaino dei Pan Sonic (Monstrance del 2013).
Anche all’estero etichette come Black
Horizons, Aufnahme + Wiedergabe
e Posh Isolation, hanno fatto tesoro
dell’oscura resistenza industriale portata avanti negli anni ‘90 dalla label svedese, riuscendo, anche per questo, a cavalcare molto bene la nuova onda Noise/
Dark Occult/Low-fi. In Italia Atrax
Morgue, alias Marco Corbelli, uno dei
musicisti italiani noise/industrial più famosi e conosciuti all’estero (purtroppo
prematuramente scomparso nel 2007),
fu un grandissimo estimatore della Cold
Meat Industry. Sempre in Italia, oggi
piccole e pregevoli label come la romana Angst (Negativeself, A Happy Death, Compoundead, L.C.B.), portano
avanti l’ardente fiaccola della famosa e
stimatissima (sempre all’estero) scuola
industriale italiana (Maurizio Bianchi,
Mauthausen Orchestra, Sigillum S,
etc etc.) ma devono moltissimo anche
alle sonorità di Brighter Death Now e di
tutta la scena Noise Industrial scandinava, soprattutto nell’attitudine e nello
spirito provocatorio/iconoclasta. In un
certo senso, il cerchio sembra chiudersi, dato che molti artisti svedesi della
Cold Meat Industry erano grandi appassionati della scena Industrial italiana degli anni Ottanta e delle cassette,
come quelle prodotte dalla “Old Europa
Cafe” nei suoi primissimi anni di attività. Volendo, persino in alcuni artisti
“mediterranei” odierni, nei progetti più
oscuri dell’Italian Occult Psychedelia
(come Mai Mai Mai, Heroin in Tahiti,
etc), si potrebbero trovare delle tracce
dell’ascolto di gruppi provenienti dal
profondo nord, come Deutsch Nepal
e un certo Dark Ambient svedese stile
Raison d’être…
I semi piantati sembrano stiano dando i loro frutti: una nuova era oscura
(Another Dark Age per citare il titolo di
un famoso pezzo degli SPK) sta forse
arrivando? Nonostante la chiusura della
CMI, molti gruppi storici sono ancora
in piena attività, compreso il famigerato
e sempre estremo progetto di Karmanik
Brighter Death Now; niente revival per
loro, dato che hanno continuato imperterriti e senza particolari interruzioni
nel corso delle loro lunghe carriere.
Molti gruppi della defunta label vengono apprezzati da un pubblico di appassionati sostenitori nelle loro (sempre
troppo rare) coinvolgenti performance
live, capaci di provocare e far discutere
i benpensanti. Nuove leve, ispirate dalla
label svedese, sono al lavoro: speriamo
che non sia solo un’infatuazione superficiale e “iconografica” per certe sonorità estreme, ma questo si scoprirà solo
con il passare del tempo. La Cold Meat
Industry è morta? Lunga vita alla Cold
Meat Industry e a chi ne continuerà
l’opera!
41
T w e n t y
f o r ‘ 9 4
I v e n t i
m i gl i o r i
a lb u m
d e l
1 9 9 4
Venti dischi usciti nel ‘94 per celebrare il ventennale di un anno
ricco di ottimi album
42
Venti dischi per un ventennale. Il 1994 ha rappresentato un anno
chiave in quel decennio fondamentale nello snodo musicale tra
mainstream e underground. L’apertura del primo nei confronti del
secondo – sì, c’entra Nevermind e l’esplosione del grunge –, accolto
dagli AandR di mezzo mondo come un grasso pollo da spennare,
si tramutò da subito in una sorta di inconsapevole cavallo di Troia
pronto a far compiere il primo passo verso il baratro del non-ritorno
all’industria musicale.
Innegabile, però, che ci siano stati dei vantaggi in questa dinamica
di “accoglienza” nei canali di diffusione standard delle numerose
tendenze dell’underground. In primis, la possibilità di far circolare artisti e dischi in maniera capillare e worldwide a fronte di una
inevitabile chiusura nei circuiti di genere; cosa che nel mondo preinternet non era così scontata. In secondo luogo, l’esplosione di una
serie di fenomeni discografici che rendevano evidente il fatto che
il livello medio degli album fosse cresciuto a dismisura, specie per
questioni quantitative e non solo qualitative. Allargando la platea
di potenziali gruppi e dischi, aumentava di conseguenza anche il
numero di ottimi lavori.
Così, guardandoci indietro – proprio come facemmo per il decennio intero col Back To The 90s pubblicato un paio di mesi addietro
– eccoci di nuovo a “giocare” con quello che è un listone, più che
una classifica, ma pur sempre arbitrario e sindacabilissimo, dei 20
migliori dischi usciti nel 1994. Scelta ardua, dato che quell’anno fu
particolarmente prolifico su vari versanti, tra conferme più o meno
43
piacevoli ed esordi indubbiamente da ricordare, anch’essi nel
bene o nel male. Nella prima categoria da ricordare Il Communication dei Beastie Boys, il morbido Experimental Jet Set… dei
Sonic Youth, il fondamentale Let Love In di Nick Cave, Toward
the Within dei Dead Can Dance, Selfless dei Godflesh, Far
Beyond Driven dei Pantera, l’epitaffio Sky Valley dei Kyuss, il
fiacco Betty degli Helmet, I Could Live in Hope dei Low, Under the Pink di Tori Amos, No Need to Argue dei Cranberries,
Same as It Ever Was degli House Of Pain, Brutal Youth di Elvis
Costello, la doppietta ISDN / Lifeforms dei Future Sound of
London, i Manic Street Preachers di The Holy Bible, Lisa Germano di Geek The Girl, Loved dei Cranes, il pesantissimo Sleeps with Angels di Neil Young and the Crazy Horse, American
Recordings di Johnny Cash, etc… mentre nella seconda come
non inserire il discusso Portrait of an American Family della
macchietta Marilyn Manson, l’omonimo dei crossoveristi Korn
e quello degli Ska-P, Burn My Eyes dei Machine Head, Blunted
On Reality dei Fugees, il manifesto del black metal De Mysteriis di Mayhem, il più che buono Ruby Vroom dei Soul Coughing, Sixteen Stoone dei finti Bush, il disco blu dei Weezer, i
Lambchop di I Hope You’re Sitting Down, i Sunny Day Real
Estate di Diary, Ready to Die dello sfortunato Notorius BIG,
Emmerdale dei Cardigans, tanto per fare dei nomi.
Nello stesso fluviale modo, anche le tendenze cominciavano a
mischiarsi, facendo emergere sul versante chitarristico riesumazioni plasticose e television-friendly (il punkettino più o meno
annacquato di Dookie dei Green Day e Smash degli Offspring,
contrapposto a quello altrettanto gioioso ma più “integro” di
Punk in Drublic dei NOFX e How to Clean Everything dei
Propagandhi), e traiettorie post-grunge di un certo interesse
(l’Unplugged in New York dei Nirvana, Live Through This
delle Hole, Jar of Flies degli Alice in Chains, Vitalogy dei Pearl
Jam, Purple degli Stone Temple Pilots, Hungry for Stink delle
riot grrrls L7, ecc…) che avrebbero presto cortocircuitato underground e mainstream, mostrando al secondo mondo le potenzialità commerciali e radiofoniche del primo. Non è un caso che
in quell’anno videro la luce colonne sonore made in Hollywood
come quelle de Il Corvo, Natural Born Killers, Pulp Fiction e
Clerks. L’underground era ormai, e lo sarebbe stato sempre di
più, questione da mainstream.
Insomma, il 1994, di carne al fuoco – per ogni fuoco, fosse esso
crossover o alternative, radio-friendly o di ricerca – ne mise
44
moltissima. Tocca a noi vedere ora, quali e quanti dischi hanno
resistito al passare del tempo, quanti hanno segnato traiettorie
ancora in auge vent’anni dopo, quanti sono stati sopravvalutati
o sottovalutati con una cernita (soffertissima) da cui abbiamo
scelto 20 album esposti rigorosamente in ordine alfabetico.
Piccola nota a margine prima di concludere: visto che ci piace
giocare non solo con la musica, ma pure con le parole, ecco che il
titolo Twenty For ‘94 diventa per assonanza anche “twentyfour”,
dato che ai venti titoli dell’anno che abbiamo scelto per questo
divertissement aggiungiamo anche una piccola sezione da bonus
tracks contenente quattro album usciti in quell’anno all’interno
dei confini italici, altrettanto importanti per comprendere gli
sviluppi “rock” di casa nostra. (SP)
A phex Twin – Selected Ambient Works
Volume II
SAW2 è un totem osannato sia dai seguaci dell’elettronica, che
dai rockers più incalliti. Non appartiene a nessun genere, svolazza sulle pianure dell’ambient, dello stupore IDM e del ricordo
dell’era del rave, che proprio in quell’anno veniva abortita dal Public Order Act. L’ordinanza inglese costrinse gli organizzatori di
party all’aperto a chiudere o a ridimensionare le dimensioni delle
proposte, destinandole a trasformarsi in un prodotto mainstream
e più blindato, e consegnando la carica rivoluzionaria delle zone
temporaneamente autonome all’oblio del ricordo.
La spensieratezza di Aphex Twin viaggia su uno stadio prenatale, amniotico, puntando su sensazioni indefinite che risolvono la
trance rave con un autismo di contemplazione, uno sballo postumo di rilassamento continuo. Per alcuni il disco è l’apice della
carriera del musicista (peraltro non ancora conclusa), per altri è
un tradimento alle sperimentazioni più acide che aveva portato
avanti fino a quell’anno (e che poi avrebbe comunque portato
avanti con la serie Analord).
Ascoltandolo oggi sembra che il tempo non sia passato, il disco
mantiene la sua aura di classico ed esce dal tempo. Le tracce senza nome (a parte una) poi rinominate dai fan sui forum, la cura
del design di copertina che impone il logo di Aphex come un marchio di fabbrica e molti altri particolari costruiscono una qualità
che fa alzare l’asticella della reputazione del musicista non solo
per quanto riguarda la parrocchia extra-colta, ma anche sui lidi
della classica tout court. Le sensazioni di quest’album verranno
riprese in seguito da molte delle correnti dell’elettronica, siano
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esse ambient, chill, electro, new age o anche dubstep. Indefinibile, magico, spiazzante e sempre attuale: SAW2 non stanca mai,
chiede solo di essere ascoltato con l’innocenza della prima volta.
Stupefacente. (MB)
Bark Psychosis – Hex
Per lo meno in termini di vendite, questo esordio (e insieme quasi
epitaffio) targato Bark Psychosis è un disco minore. Ma è anche
un disco di indubbia rilevanza, a guardarlo a venti anni di distanza. In primo luogo per il suo innegabile status di culto che ancora
oggi lo rende punto di riferimento sotterraneo. In secondo luogo per essere stato indiretto responsabile – ma manco troppo, a
leggere in giro le dichiarazioni dei quattro, specie in merito alla
dicotomia vuoto/pieno e all’interesse per il silenzio e la sottrazione – della nascita di una definizione di genere (non di un genere
musicale, si badi bene, ma di una tra le tante definizioni con le
quali cataloghiamo le musiche) che è ben presto divenuta una
tra le più utilizzate e storicizzate degli ultimi decenni. È infatti
nella recensione di Hex apparsa nel numero di marzo ‘94 di Mojo
che un giovane scribacchino di nome Simon Reynolds coniò il
termine “post-rock” per identificare una musica che era sì, rock,
in quanto prodotta da un quartetto (grosso modo) standard, ma
superava il rock per cristallizzarsi in forme sfuggenti e volatili
(“using rock instrumentation for non-rock purposes”, ad esser
precisi).
Le osservazioni di Reynolds erano ovviamente centrate, dato che
ci si trovava di fronte ad un disco notturno e gloomy, umorale e
ondivago, evanescente e urbano, sfuggente e sfumato; concentrato sulla rarefazione piuttosto che sull’aggregazione di suoni, ma
al contempo in grado di costruire visionarie microsuite (manco
tanto, a giudicare dal minutaggio: sette tracce per più di 50 minuti) del calibro di The Loom, Absent Friend o della splendida
chiosa pastorale di Pendulum Man.
Sfortunatamente, Hex fu insieme capolavoro e canto del cigno,
raggrumando in sé un destino beffardo simile a pochi altri lavori
in tutta la storia del rock. (SP)
B eck – Mellow G old
Con un singolo intitolato Loser (già pubblicato off-album, con
poca convinzione e in poche copie viniliche, nel marzo 1993), introdotto da un riff di chitarra slide (mandato in loop), con dentro
un inserto di sitar e una batteria breakbeat ante litteram (cam-
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pionata da un brano di ruvido, paludoso southern rock), il tutto
guidato da un rapping svagato e da lyrics non-sense (ma con un
inciso corale che recita cristallino “Soy un perdedor / I’m a loser
baby / so why don’t you kill me?”), Beck Hansen non poteva finire
che con l’essere identificato, a partire da questo suo primo album
per una major (una costola della Geffen), come una delle figure
più emblematiche della popular music degli anni Novanta. Gli
elementi chiave dell’epoca, quando ancora – per poco: c’era già
stato il 1991 – l’indie era un’alternativa al mainstream, ci sono tutti: lo scazzo slacker (ma a Beck l’associazione con la Generazione
X non è mai piaciuta), l’alt-folk (Out of Range di Ani DiFranco
esce qualche mese dopo), le suggestioni esotico-psichedeliche
(sintetizzate qualche anno dopo dai Cornershop con la complicità di Fatboy Slim), la metabolizzazione bianca dell’estetica hip
hop (l’hardcore newyorkese aveva già partorito i Beastie Boys di
Rick Rubin), la patina lo-fi (l’esperienza dei Pussy Galore di Jon
Spencer era terminata nel 1990), ma anche la – ubiqua – lezione arty/cantautorale dei Velvet Underground. Beck continuerà
a definire il suono dei Novanta con Odelay (1996) e Mutations
(1998), proiettandosi poi, sempre all’insegna del sincretismo, nei
Duemila (Midnite Vultures, 1999), decennio che ha in qualche
modo preparato, ma non dominato. (GM)
B lur – Parklife
Pochi dischi hanno saputo raccontare uno spaccato dell’Inghilterra come Parklife. Assimilati i postumi dalla sbronza post
Stone Roses di Leisure e dopo il più convincente Modern Life Is
Rubbish, che iniziava pian piano a farci capire con chi avevamo a
che fare, i Blur bevono l’elisir di lunga vita con la terza carta. Un
ritratto a volte autentico e a volte caricaturale di Londra, tinteggiato con il pennello ironico e corrosivo di Damon Albarn, (che
infatti cita come ispirazione il romanzo London Fields di Amis):
sedici trame che dipingono gli usi e i costumi della middle class
britannica, tramite l’utilizzo di personaggi inventati eppure così
veritieri. Dallo storico giro di basso di Alex James sulle tastiere di
Girls and Boys, che narra il “vizietto” sessuale di tanti inglesi in
vacanza, al riff killer della title track con la presenza del simbolo dei mods Phil Daniels aka Jimmy di Quadrophenia, tra strofe
parlate in marcato accento cockney e un ritornello devastante
che canta la bellezza della vita all’aperto, possibilmente con tante
persone, ovviamente mano nella mano. Un viaggio nella tube,
che vede anche soste più malinconiche come la splendida To
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The End, l’epica This is A Low e la riflessiva Clover Over Dover.
Appoggiati fedelmente da Stephen Street (uno che ha lavorato
con gli Smiths, mica chiacchiere), stupendo regista di una produzione al limite dell’impeccabile, i quattro non si lasciano sfuggire
qualche momento di goliardico divertissement come il trapano di
Magic America e le rovinose pistole giocattolo su Jubilee. Il vero
bignami del Britpop, che vede nelle note a piè di pagina i Kinks del periodo d’oro, gli XTC (Tracy Jacks e London Loves) e il
David Bowie berlinese (Trouble In The Message Centre), prontissimo a tracciare il solco con i rivali Oasis: solo un anno più tardi
arriveranno a sfidarsi per decretare il migliore in terra d’Albione.
Anche nei viaggi più belli però arriva l’ultima fermata, questa volta dal nome Lot 105, una rapida ed esilarante strumentale dai toni
ska per avvertirci che è ora di scendere. Poco male, sediamoci ed
aspettiamo che ripassi il treno. (DR)
J eff Buckley – G race
La storia di Grace inizia nel settembre del ‘93, con Jeff Buckley,
Mick Grondhal (basso) e Matt Johnson (batteria) che si danno
appuntamento per le prime sessioni programmate al Bearsville Recording studio di Woodstock. Finisce un anno dopo con la
pubblicazione e un milione di dollari di costi di lavorazione sulle
spalle di Don Lenner della Columbia. Altri ospiti sono Gary Lucas, coautore delle prime due tracce, e il chitarrista jazz Michael
Tighe, presente in So real. Ne esce fuori un bulbo di canzoni tese
fra il senso accorato della spiritualità e la dissociazione nell’amore terreno. Buckley non volle lasciare nulla al caso e curò ossessivamente le parti vocali, facendo sua la chanson, il soul, le reminiscenze classiche combinate al cantautorato jazz, da ultimo il rock.
Levigando ogni brano riuscì nell’intento di conquistare una trama
lirica fuori dal comune e difatti il disco possiede ancora oggi
una forza seduttiva che in pari modo indaga brandelli di abissi e
processi di luce; brani come Halleluijah, con l’allungo finale che
diventa preghiera recondita, So real, un manifesto esile, o la stessa Grace che sottende il disinganno dell’amore e il brivido degli
anni. In altre tracce si può palpare il feeling che il gruppo toccò
in tutte quelle sessioni: Dream Brother è il trip raga cedevole con
tabla di Misha Masud, Eternal Life il morso grunge-rock, Lover,
You should’ve Come Over, col prologo d’organo di Loris Holland,
un madrigale accorato, Lilac wine, un oblio beato, Corpus Christi Carol l’epitome scolpita nel marmo dei secoli, l’incantevole e
fiammingo contrappunto di melodie. Cosa resta? Mojo Pin, Last
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Goodbye e Forget Her hanno il pregio di essere canzoni senza
un particolare peso, tra psichedelia e pop rock. Profumano però
degli attimi migliori di una vita e testimoniano i passi, purtroppo
perduti, di un grande interprete. (CP)
C odeine – The White Birch
È l’ultimo album per un gruppo che ha avuto il merito di definire un genere come lo slow core e ha influenzato diversi illustri
colleghi, a partire dai Low, che nello stesso 1994 pubblicavano
l’ottimo I Could Live in Hope. E come il genere anche i Codeine si
posizionano sostanzialmente in area “post-rock”, con la differenza che il trio di Stephen Immerwahr e John Engle non rinnega la
forma canzone e il canto, ma dilata i tempi e le armonie dall’interno delle canzoni, al punto di avvicinarle alle dinamiche astratte di
gruppi prevalentemente strumentali. L’iniziale Sea, che si protrae
per la durata di sette minuti, potrebbe essere una super ballatona grunge al rallentatore o un brano alla Slint con l’aggiunta del
canto, spesso catatonico e in balia delle progressioni strumentali.
È al punto d’incontro tra la canzone folk e qualcosa di diverso
che i Codeine colgono la chiave per trasformare la materia del
rock nell’immagine di una nuova ansia espressiva, evocando stati
mesmerici e un vago senso di trance nel portare avanti – più che
nello sviluppare in senso stretto – le loro melodie, e lasciando ai
crescendo strumentali il compito di sublimare un certo impeto
trascendente, arrivando a riff che sfiorano l’hard rock. Rispetto all’esordio Frigid Stars, uscito per Sub Pop ma lontanissimo
dal rock di Seattle (anche dall’eccezione degli ultralenti Earth e
Melvins),White Birch ha brani meno statici, e questo lo rende più
classico in tutti i sensi del termine, ideale tanto per rappresentare
un lavoro pionieristico, quanto per renderlo più potabile. (TI)
d E US – Worst Case Scenario
Una delle più evidenti prove di quella apertura citata in apertura
d’articolo furono indubbiamente i belgi dEUS. La formazione di
Anversa, capitanata da Tom Barman, proveniva infatti dalla periferia di un rock all’epoca ancorato ad una dimensione prevalentemente anglosassone; ciò tuttavia non impedì loro la giusta esplosione, ratificata oltre che dalla critica, anche da un buon successo
di pubblico, non solo nel natio Belgio dove WCS fu disco d’oro.
L’apertura, fatta eccezione per una breve Intro, era affidata a
Suds and Soda, il cui violino strapazzato spezzò cuori dal primo
passaggio in tv, facendo intuire da subito l’accattivante melange
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in cui il quintetto – oltre al citato Tom Barman a voce, chitarra e
piano, in formazione c’erano Rudy Trouvé, Stef Kamil Carlens,
Klaas Janzoons e Julle de Borgher e uno stuolo di ospiti a viole,
violini, piano, ecc. – trasformava le influenze più disparate: l’indie-rock coevo, ovviamente, ma anche spruzzate di Velvet, follia
strumentale, sguardi ai sixties, folk atipico, iniezioni noise-rock,
svisate jazzistiche, retrogusto prog, slanci mitteleuropei, reminiscenze da cabaret e ambientazioni circensi in un frullatone arty
che univa ricerca e easy listening, con una certa attenzione per la
reiterazione ciclica e una evidente impronta minimale.
Perle come la malinconica Hotellounge (Be The Death Of Me)
con quel pathos da spleen che caratterizzerà molto indie dell’epoca a venire, la caracollante e oscuramente velvettiana W.C.S.
(First Draft), il sing-a-long acceso di Via o l’ossessivamente emotiva Let’s Get Lost sono, a vent’anni di distanza, non solo una ottima testimonianza del tempo che fu, ma anche un piccolo bignami
del suono un tempo detto “alternative”. Peccato si siano persi un
po’ per strada, limando le asperità arty che contraddistinguevano
W.C.S. per rendersi più intelligibilmente indie. (SP)
M ark Lanegan – Whiskey For T he H oly G host
Non era facile smarcarsi dal dominio estetico e stilistico del grunge in quei primi Novanta, soprattutto per chi del grunge era tra i
principali attori. Eppure tra il ‘90 e il ‘94 Mark Lanegan licenziò
due album che, pur non ostentando la sfacciata intenzione di
prendere le distanze dal Seattle sound, ne rappresentarono una
coniugazione palpitante e aliena. Tuffandosi in una dimensione
assieme intima, archetipa e acida, il vocalist degli Screaming
Trees gettò il cuore oltre le proprie dipendenze (tra droghe e alcool non si faceva mancare nulla, a quanto pare) e s’incarnò in un
Buckley sanguigno ed etereo per The Winding Sheet, concedendo il bis tre anni più tardi con un Whiskey for the Holy Ghost
infarcito di dannazioni appena più terrene, quel tanto che bastava
ad indicare la via verso la ricerca nel ventre scuro dell’Americana
che caratterizzerà i suoi anni migliori da solista (fino al capolavoro Field Songs del 2001), elevandolo a musicista di riferimento
degli anni Zero ed oltre. (SS)
M assive Attack – P rotection
Era chiaro sin da subito che non sarebbe stato facile incidere il
seguito di Blue Lines, l’album con il quale il collettivo di Bristol
inaugurò gli anni Novanta all’insegna di un’innovativa miscela di
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rap, soul, dance e reggae. Così, per Protection, i Massive Attack decidono di riscrivere subito le regole: se la squadra vince,
almeno un po’ la si cambia. L’artwork conserva alcuni elementi
dell’esordio seminale, a partire dai font; ma se resta Horace Andy,
in Spying Glass e in una caotica versione live di Light My Fire,
al posto di Shara Nelson ci sono due altrettanto gradite ospiti.
Tracey Thorn (che qui anticipa di un anno il nuovo corso degli
Everything But The Girl verso sonorità più dancefloor-friendly)
ha la classe infinita che da sempre la contraddistingue nella titletrack – malinconica e sinistra, che prosegue per oltre sette minuti
tra tappeti di tastiere e un indovinato sample di James Brown – e
Better Things – elettronica, jazzata, semplice e lussuriosa, a metà
strada tra Sade (Love Deluxe) e la coetanea It Could Be Sweet dei
Portishead. Nicolette dona un’interpretazione sognante in Three
e convince ancora di più in Sly, che Craig Armstrong riproporrà
insieme a Weather Storm nel proprio album The Space Between
Us pochi anni dopo e che scrive le coordinate che porteranno al
successo la Bjork di Isobel e di Homogenic, gli Hooverphonic e
i primi Morcheeba. MTV si innamora del video di Karmacoma,
eccentrico e noir, con le voci di Tricky e Robert del Naja che si alternano al microfono nel pezzo più ipnotico dell’intero lavoro, ma
non sfigurano Euro Child, pronta per una di quelle serie TV che
ci avrebbero appassionato negli anni a venire, e Heat Miser, il tipo
di strumentale che farà la fortuna di Moby qualche anno dopo,
introdotto da Armstrong con una melodia al piano che ricalca Tubular Bells e Profondo rosso. Protection ha ancora oggi un fascino
meno sfacciato del predecessore, ma è invecchiato meglio ed è da
considerare un tassello fondamentale per capire l’evoluzione del
sound, ancora più cupo e cinematografico, che avremmo ascoltato in Mezzanine; si tratta anche di un album di grande successo
commerciale, che conquista le masse e spinge Madonna a lavorare con loro per una cover di I Want You di Marvin Gaye (AL)
M otorpsycho – T imothy’s Monster
È esistita una scena grunge europea? Ovviamente non c’è nulla che si possa paragonare a Seattle nel nostro continente. Però
l’ondata rock alternativa/mainstream d’oltreoceano ha ispirato
risposte originali anche su suoli più vicini al nostro rispetto al
Nordovest americano. Oltre ai belgi dEUS, sono stati i norvegesi
Motorpsycho a filtrare in maniera efficace e personale quel suono
duro e sporco ma armonico, arricchendolo con un eclettismo che
superava i confini del genere, e che li ha portati a spaziare lungo
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tutto l’arco della carriera con un’ispirazione qualche volta altalenante ma spesso felice. Timothy’s Monster, per contenere la cui
inventiva è stato necessario un doppio CD di materiale inedito,
mesi prima che Billy Corgan sganciasse il suo Mellon Collie and
the Infinite Sadness, è la summa del primo periodo del gruppo
di Trondheim. Va un passo oltre il Demon Box uscito appena nel
‘93 non solo nel rifrangere mille sfumature caleidoscopiche sullo
stesso canovaccio psych(o)hard che ha influenzato pure Kyuss et
similia (dai Black Sabbath agli Hawkwind), ma anche nello svariare con una leggerezza inusuale per un gruppo di rock pesante.
Si esalta la capacità camaleontica del complesso scandinavo nel
replicare e mescolare un buon numero di stili: folk rock, pop acido, indie rock, prog, psichedelia retro’, ballate moderne (Wearing
Yr. Smell) e le solite sfuriate hard. Ci ammorbano piacevolmente
con una pièce de resistance intitolata The Wheel e si destreggiano tra ruvidezze armoniche e timbriche e immediatezza melodica. (TI)
Nine Inch Nails – T he Downward Spiral
Non è un fulmine a ciel sereno il successo di The Downward
Spiral in ambito industrial rock. Le prime avvisaglie del potenziale commerciale insito nel genere erano già arrivate con Skinny
Puppy e Ministry, da cui Trent Reznor trae ispirazione accoppiandoci l’eclettismo targato Foetus e le dichiarate influenze
Bowie periodo Low. Ma un boom del genere rimane comunque
inaspettato. D’altronde, oltre la musica, qui rimane impressa moltissima cultura 90s: primo il disagio esistenziale autoreferenziale
che sarà un must della decade (vedi i Korn e il new metal in generale), e poi le citazioni cyberpunk che proprio in quel periodo
iniziavano ad assurgere con i connotati di pop culture. Questo è il
quadro generale. Nello specifico, invece, The Downward spiral
è un concept album sul rapporto uomo-macchine, uomo-sistema,
uomo-autodistruzione, che non lesina un estremismo dai tratti
sensazionalistici. Così è per il porno-singolo dal trucco funk Closer (i want to fuck you like an animal i want to feel you from the
inside), per l’anti-religiosità di Heresy, passando per l’anarchia
della serratissima March of The Pigs e una Big Man With a Gun
che farà la fortuna del primo Marilyn Manson. E’ però nel finale
che viene alla luce il talento poliedrico di Reznor: l’ambient di A
Warm Place, le de-strutturazioni di Eraser e The Dowward Spiral
che sono già base per il successivo The Fragile e ancora per la
velenosissima Reptile, prima della catarsi finale di Hurt, materia
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buona anche per Johnny Cash, a dimostrazione di come questo
album sia entrato a pieno titolo tra gli American Recordings dello
scorso secolo. (SG)
Oasis – D efinitely Maybe
Sugli Oasis se ne possono dire tante: egocentrici, scontrosi, arroganti come pochi. Eppure nessuno può mettere in dubbio che
Definitely Maybe sia stato uno degli esordi più folgoranti della
storia della musica. I fratelli-coltelli Gallagher, rudi componenti
della workin’ class di Manchester, hanno dato voce al sentimento di una “gioventù perduta” che vedeva un presente senza eroi,
ma senza cadere nel nichilismo autodistruttivo di un grunge che
dava gli ultimi colpi di coda. Si appropriano dei fasti del passato
senza nascondersi, ma lo fanno bene. Suonano in ogni traccia con
devozione totale verso i Beatles, rigurgitando i flussi punk dei
Sex Pistols (Columbia). Noel è uno che con la penna ci sa fare,
non ha l’ironia borghese di Damon Albarn, e neanche l’aristocratico humour di Jarvis Cocker, eppure scrive in maniera quasi
imbarazzante una mole di classici. Prende senza permesso il riff
di Get It On dei T-Rex, e lo trasforma nella devastante Cigarettes And Alcohol, unica filosofia di tanti giovani che non avevano
nulla da chiedere alle loro giornate. Ha un taglio spesso no sense
(Shakermaker, Supersonic), è capace di fare una dichiarazione
d’amore (Slide Away), ma non disdegna episodi meno impegnati
(Married With Children). Gli Oasis sanno cosa vogliono, non ci
girano intorno: Rock’n’Roll Star è una dichiarazione d’intenti, e
dalla teoria alla pratica stavolta il passo è davvero breve. Non inventano e non spostano nulla, tecnicamente non sono delle cime
e la differenza artistica con i rivali Blur è evidente, ma hanno al
microfono un certo Liam Gallagher, vocalmente impeccabile su
Live Forever, ancora oggi inno che ha segnato una generazione.
Il successivo (What’s the Story) Morning Glory? sarà il passo
definitivo, per poi iniziare una parabola discendente da cui non si
riprenderanno mai più. Potranno essere bistrattati, ipercriticati,
ma con la loro voglia di riscatto, con uno sguardo alla realtà ma
aggrappandosi con forza al potere dei sogni, sono diventati un
simbolo: cinque disoccupati, cresciuti facendo a botte con la vita,
che nonostante tutto ce l’hanno fatta. (DR)
Pavement – Crooked R ain, Crooked Rain
Quando esce nel 1994 Crooked Rain, Crooked Rain, i Pavement
sono già passati attraverso la piccola tempesta economica (inte-
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sa come scarsità di mezzi) dell’estetica lo-fi. La band di Stephen
Malkmus ha già tirato fuori un album come Slanted and Enchanted, manifesto di un modus operandi che usa l’estetica dello
scazzo per porgere piccole gemme di songwriting annegate in
feedback e registrazioni poco curate. Al secondo album, avviene
un piccolo passo che germina un capolavoro. Fuori da un suono
povero ma non del tutto (Fillmore Jive e Hit The Plane Down
portano ancora quei segni), i Pavement tirano fuori un album che
è un omaggio ad un modo nuovo e scintillante di fare canzoni. Le
melodie, ad esempio, ci sono e sono splendide, ma vengono spesso destrutturate in cambi di tempo (Silence Kit) o in derive post
rock (Stop Breathin’), la voce porta con sé sia dolcezza che debolezza, le chitarre sono sia armi (Unfair) che rifugi (Heaven Is A
Truck). Ci sono ironia a palate e giustapposizioni testuali al limite
del nonsense. C’è – più di tutto – un modo di fare musica non
ancora lasciatosi andare alla deriva fantasiosa-forse-troppo del
successivo Wowee Zowee, ma che regala perle che stanno lassù,
tra le vette del migliore indie rock così com’era un tempo. (AM)
P lastikman – Musik
Plastikman, leggendaria creatura techno del dj e produttore
Richie Hawtin, nasce nel 1993. Siamo agli antipodi rispetto a
molti grandi, che costruiscono mistero rimanendo nel completo
anonimato, immaginando storie e mondi paralleli oppure giocando a manipolare la propria identità, come Drexciya, Aphex Twin,
Daft Punk. Hawtin è figura essenziale, trasparente. Aiutato dalle
sue esibizioni dal vivo, sempre più imponenenti, dici Hawtin e
nello stesso istante vedi l’immagine – un uomo, senza maschere
– e senti la musica. Musik segue Sheet One, pubblicato l’anno
prima, e un paio di EP solidissimi. Quelle marcate Plastikman
sono storie techno di seconda generazione detroitiana, sprazzi
acidi su ritmiche austere, scintille di TR-303 tra guizzi luminosi e
giochi di oscillatori. Le percussioni ossessive, già spedite in orbita
con la seminale Spastik (1993), tornano in Fuk, e si intersecano
alla cassa dritta, quasi ad unire idealmente Africa e cosmo, passato e futuro, radici e utopie (Koception, Ethnik, Kriket). Marbles
è techno pura, marziale, che si distende sull’arpeggio nascosto
dai filtri. Le macchine risorgono a nuova vita, parlano (Outbak),
poi disegnano ritmi spezzati e nuovi fraseggi sintetici (Plastique,
Lasttrack). Stockhausen, nella celebre intervista per BBC Radio
3, prevedeva una parabola commerciale molto breve per le suggestioni del canadese, costruite su ripetizioni poco sofisticate,
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estremamente votate alla pista. Si sbagliava. La vena creativa di
Hawtin continuerà, almeno fino alla fine dei Novanta, e con rinnovata prospettiva – non da tutti apprezzata – produce risultati
ancora oggi. (EG)
P ortishead – Dummy
Un disco che entra ed esce dal trip hop senza allontanarsi mai
dal suo centro focale, e cioè il downbeat. I Portishead sono la
cantante Beth Gibbons e Geoff Barrow, un tutto fare fra rhodes,
hammond, batteria e programmazioni. A loro si aggiungerà anche
il chitarrista/bassista jazz Adrian Utley che apporterà non pochi
lumi alla stesura dei brani. A riascoltarlo dopo anni si ha la stesso
presagio di gioco onirico indotto dal Bristol dub, di sradicamento
narcotico dato dal basso umbratile (Pedestal) e dall’idea di orchestrazione d’archi (Roads) perorata da Barrow e dallo stesso
Utley nonchè da Dave Mcdonald, il tecnico del suono responsabile delle registrazioni. Merito al canto che si misura con un soul
à la 4AD con tracce di timida consonanza (It Could Be Sweet, It’s
Fire ), carico di angst (Mysterons), di vacuità chimica e teatralità
(Numb), sciantoso, noir e sempre in bolla (Sour Times). Ma il resto lo fanno i vari scratches, i tanti samples presenti in Glory Box,
in Strangers, in Wandering Star e via dicendo, che a lungo andare
incidono sull’espressione. Barrow trafuga mezza discografia di
casa e vi riversa il suo infinito amore per i compositori di colonne sonore degli anni Settanta in B movies, per il campionario di
junky style e per il twang. Ne scaturisce una radiografia sporca
di quei retromaniaci primi anni ‘90 e un disco/compendio a dir
poco seminale per le future generazioni. (CP)
S hellac – At Action Park
Minimalismo, noise, destrutturazione, paranoia, claustrofobia:
sono questi gli strumenti con cui si analizza spesso la musica
degli Shellac (of North America), creatura del chitarrista, cantante e vate dell’underground statunitense, Steve Albini. La verità è
che non bastano quelle categorie a rendere giustizia ad un disco
che ha anche altre frecce nel proprio arco. Al di là del rumore, ciò
che fa spavento degli Shellac è la coesione, quella di un suono allo
stesso tempo compatto eppure distinto: ogni strumento riesce
sempre a distinguersi dall’altro, eppure ognuno riesce a fondersi in una muraglia che è anche mitraglia. Ed è un miracolo, se si
pensa a quanto suono noise spesso “la butti in caciara” perché
impossibilitato alla compattezza. E infatti molti preferiscono, e
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preferivano, fare rumore nei limiti temporali dell’hardcore.
Ma non è tutto qui: c’è anche la grandezza di un album che non
ha altro da dire che sé stesso, portatore di un’estetica che non è
estetica, in cui non vi è chiacchiericcio ma ruggine, in cui non vi
è sovrastruttura ma solo naturalezza (è suonato live). E in cui – e
questo in pochi paiono dirlo – c’è una scrittura che, per come unisce suoni, arrangiamenti, ritmo e atmosfera, ha pochi eguali negli
anni Novanta, per complessità e risultati. Sempre sia lodata. (AM)
S oundgarden – Superunknown
Il germe di Superunkown – classico imprescindibile nell’epopea
grunge – è Spoonman, brano inserito nella colonna sonora di Singles, (discutibile) film del ‘92 diretto da Cameron Crowe e ambientato a Seattle, con una colonna sonora giocoforza strepitosa.
Rielaborando un bel riff hard rock Cornell e soci si sono superati:
un’impresa, considerando l’eredità ingombrante del precedente
Badmotorfinger. Le session per l’album, licenziato da AandM
Records e celebrato quest’anno con una ricca ristampa con inediti
e demo, si tengono ai Bad Animals Studio di Seattle sotto la guida
– severa – del producer Michael Beinhorn: “Non era un sergente
di ferro – ricorda il chitarrista Kim Thayil – ma di sicuro era un
vero rompipalle. Se ci ha motivato è riuscito a farlo senza influenzarci troppo.” Alla quarta prova in studio i Soundgarden hanno
raggiunto l’apice della loro carriera. Dopo, reunion a parte, solo il
colpo di coda di Down On the Upside, un testamento sonico più
schizoide ma meno incisivo.
Superunknown, concentrato perfetto di hard rock, psichedelia,
orientalismi e affini, si apre con Let Me Drown, una botta d’adrenalina sorretta dai riff incendiari di Thayl. Dopo la parentesi
heavy di My Wave, c’è il blues di Seattle di Fell on Black Days,
sofferto emblema dello spleen del cantante, mentre Mailman
rallenta i battiti, ibernando il drumming di Matt Cameron sotto
una cappa densa di heavy metal (l’influenza dei Sabbath e dei Led
Zep è innegabile) che si dissipa per una manciata di secondi nel
riuscito chours. In ogni episodio Cornell regala interpretazioni
perfette, urlando la propria rabbia (The Day I Tried to Live). In
questo senso Limo Wrech è una prova di forza incredibile, con
una maestosità malata e disturbante. Il disco regala anche Like
Suicide (una seducente suite di 7 minuti, un sinistro crescendo
culminato con un assolo di rara bellezza), 4th of July (ballad nera
intrisa di disperazione e sofferenza) e Black Hole Sun, la canzone
più conosciuta della band. (LC)
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T ortoise – Tortoise
Tra il 1994 e gli anni immediatamente successivi le due capitali
del post-rock a stelle e strisce, Louisville e Chicago, non fanno che
scambiarsi continuamente il testimone delle proposte più innovative, impegnate a ridefinire il rock nella sua dinamica compositiva
e strumentale. Nel 1991 è stato Spiderland degli Slint a dare per
primo le coordinate del suono post-rock americano. Tre anni dopo
a Chicago i Tortoise rimescolano le carte e offrono una propria
ipotesi allo stesso tempo affine e diversa. Rispetto ai portabandiera
di Lousville (dai Rodan ai June of 44), i Tortoise, così come i Gastr
del Sol, allentano i legami con il post-hardcore da cui pure erano
partiti – al nucleo originario formato da John Herndon e Douglas
Mc Combs si sono aggiunti infatti Bundy K. Brown e John McEntire, sezione ritmica degli ottimi Bastro di David Grubbs, un gruppo che partendo dalla scia Big Black era arrivato a intavolare una
prima ipotesi di math – schierando sulla carta una formazione con
ben due bassisti e tre batteristi/percussionisti e allargando il campo in maniera più eclettica e, oseremmo dire, progressiva. Magnet
Pulls Through, per esempio, riprende l’andamento strumentale di
un brano degli Slint mettendo in primo piano la sezione ritmica,
invece della chitarra. Grande protagonista il basso che arpiona sul
riff di Spiderwebbed, punto di riferimento per l’intero disco (genere?) con il suo intreccio di minimalismo alla Steve Reich, postpunk e percussioni afrobeat. Ai picchi chitarristici del dopo Slint
i Tortoise preferiscono un’eleganza noir e swingata (Ry Cooder)
o divagazioni ambientali condite di tracce tech-dance sconnesse
e assoli di batteria (Onions Wrapped in Rubber); nel complesso
è qualcosa di più atmosferico e indefinibile, una miscela di jazz,
funk, dub e pulsazioni elettroniche che prima di diventare di
maniera li porterà sulle vette di Millions Now Living Will Never
Die. (TI)
T he Prodigy – Music For The Jilted
Generation
Nel 1991 i Prodigy erano già uno dei gruppi di hardcore rave inglese più importanti insieme a N-Joi, Bizarre Inc e Shades of Rhythm.
Con questo secondo disco escono dalla nicchia di genere utilizzando le tecniche ravey (voci in elio, tastierine in ostinati iperveloci, percussioni d’n’b) e imbastardendole con qualche gigioneria
pseudopolitico-rivoluzionaria per attirare il teen disorientato, con
l’hip-hop e soprattutto con i chitarroni distorti, che riportano il
rock sul dancefloor e consegneranno qualche anno dopo la band
57
alla storia pop con Smack My Bitch Up e Firestarter. Secondo il
frontman della band, Liam Howlett, la generazione jilted (letteralmente: piantati in asso) è quella che è cresciuta con la Tatcher
e che non aveva altro per cui vivere se non la droga e la musica
dance. A detta di Simon Reynolds, in Inghilterra la cosiddetta
generazione E (per Exstasy) sarebbe l’equivalente americano del
grunge, e questo disco ne costruisce di fatto la colonna sonora.
L’album oggi suona un po’ datato, ma i quattro singoli di punta –
Poison, Voodoo Dance, One Love e soprattutto, per chi scrive, No
Good (Start The Dance) – restano una testimonianza indimenticabile di un suono storicizzato e taggato indelebilmente come
anni Novanta. Un “come eravamo” necessario per capire lo zeitgeist del tempo. (MB)
Underworld – Dubnobasswithmyheadman
Primo album degli Underworld post-folgorazione dance. Karl
Hyde e Rick Smith suonano synth-pop come Freur fino al 1987.
Diventano Underworld al giro di decennio, ma il progetto sembra
naufragare. Poi, l’incontro con il dj Darren Emerson, e la decisiva svolta verso un ibrido tipicamente britannico tra elettronica e
rock, ritmi tribali e slanci techno. Dubnobasswithmyheadman
è successo di critica e vende bene (numero dodici in classifica
UK). C’è la cassa regolare, l’intento della pista mai nascosto, ci
sono i sintetizzatori e le chitarre effettate, i testi surreali destinati
a diventare marchio di fabbrica. Mmm Skyscraper… I Love You,
Dirty Epic e Dark and Long sono viaggi mistici, fraseggi persi
in un apparente stream of consciousness, sorretti da strutture
ritmiche solidissime, quasi a tenere a bada le intromissioni schizofreniche di Hyde. Poi Cowgirl, agitazioni da steroidi sull’arpeggio distorto, le atmosfere intime a bassa battuta di River Of Bass,
gli umori electro-pop di M.E., le desolazioni pastorali di chitarra
in delay e vocoder di Tongue. L’album che apre la stagione degli
Underworld in trio, dagli stessi ribattezzata fase MK2, è un lavoro
di portata assoluta. È materia progressive house monumentale,
epica, in perfetto equilibrio tra fragilissime costruzioni emotive
e violenti rilasci di tensione. Continui rimandi a storie diverse, al
punk, ai rave, agli infiniti meticci elettronici d’oltremanica. Crossover fondamentale per avvicinare certo pubblico rock al mondo
del dancefloor. (EG)
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Bonus Tracks:
CSI - Kodemondo
Il passaggio di cui all’introduzione (e quello “geopolitico) è ben
identificato dall’esordio dei CSI (Consorzio Suonatori Indipendenti, ma anche Comunità degli Stati Indipendenti dell’ex URSS).
Dall’irriverente punk filosovietico dei CCCP a Ko De Mondo, in
cui la trasformazione sintetizza al meglio le aperture di Epica,
Etica, Etnica e Pathos, facendo assurgere Ferretti and Co. a leader spirituali di una certa ala del non più underground italiano.
Tante piccole gemme che reggono benissimo il passare del tempo
e che, volenti o nolenti, hanno segnato il rock italiano a venire.
(SP)
Marlene Kuntz – Catartica
Il disco d’esordio (n.1 anche del Consorzio Produttori Indipendenti) e forse il migliore, per genuinità e mancanza di “poserismo”, di una band cresciuta a “gioventù sonica e cattive sementi”
capace di sintetizzare ruvidezza e poesia. In Catartica Godano
e soci infilano melodie e chitarre rumorose che filano via come
un treno, tra ballatone elettriche (Trasudamerica) e piccoli inni
generazionali (Festa Mesta, Sonica) per il nascente “rock alternativo italiano”. Allora, c’era ancora una fiammella di speranza. (SP)
Fluxus – Vita in un pacifico mondo nuovo
Il rovescio della medaglia del rock in italiano è un concentrato di
chitarre e impegno socio-politico di raro impatto e potenza. Una
chiamata alle armi a forza di anthem e chitarre, tante chitarre
e tutte taglienti e rovinose, messo su da una formazione spesso
a tripla chitarra come a dimostrare la voglia di sputare in faccia
all’ascoltatore rabbia e disillusione, disagio e rivendicazioni. Un
lavoro che è esemplare nell’unire impatto strumentale con testi
nettamente al di sopra della media e ideale trait d’union tra integrità hc e nuove forme espressive. (SP)
Sangue Misto – SxM
Con un nome eloquente biglietto da visita preso dai Napoli Centrale, i bolognesi d’adozione Deda, Neffa e Gruff fotografano i
pigliati male, i cani sciolti che nel clima di tensione dell’Italia
xenofoba post-yuppie/pre-Berlusconi si rifugiano nelle posse,
nella fattanza della porra. Questi grezzi, narcotici blues urbani
incarnano una prima idea matura di hip hop italiano: è il dopoJovanotti. Neffa, già batterista punk, uno dei più originali rapper
nostrani, passerà poi al pop da classifica. Fino a prendere un Due
di picche con Suor Cristina. (GM)
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R u s t i e
60
Raggiungiamo Rustie al telefono a Parigi al press day per il suo nuovo album,
“Green Language”. In mezzora di chiacchiere il producer ci racconta di musica
e amici, influenze e di una vita passata davanti ad un laptop
>>>Testo di Edoardo Bridda
G r e e n
L a n g u a g e
Rustie, ovvero Russell Whyte, per trasversalità e abilità nel
miscelare ritmi e melodia, è senz’altro uno dei producer più
rappresentativi di questi anni. La sua musica è stata al centro dei
crocevia più interessanti della musica elettronica e per l’esordio,
Glass Swords, possiamo già tranquillamente spendere le parole
di “uno degli album più importanti di quest’ anni ‘10 in perenne
transizione”.
Eppure all’interno di questi ampi e interessanti scacchieri e in
riferimento alla più classica delle domande, ovvero “dove sta
andando la musica elettronica?”, Whyte, che raggiungiamo via
Skype alla press day parigina di Green Language, suo secondo
album atteso per fine agosto, è forse la persona meno indicata a
rispondere.
Ragazzo piuttosto timido e riservato cresciuto a Glasgow in una
famiglia di musicisiti e appassionati di musica, Rustie è quel tipo
di nerd che ha trascorso almeno gli ultimi dieci anni della sua vita
davanti a uno schermo LCD. La sua prima produzione ufficiale,
61
ci ricorda, è del 2007 ma, non ancora pubbliche o tolte da myspace, “esistono tracce della metà degli anni ‘00” in cui, ci dice, “già
armeggiavo con simulatori e compressioni timbriche alla 808”, e
questo molto prima delle produzioni di Lex Luger, Waka Flocka
Flame e compagnia.
Rustie ha inoltre un trascorso di interviste davvero telegrafiche
con la stampa. E’ cordiale, dicono quelli di Fact e Dummy, ma non
spiccica più di una o due frasi per ogni risposta alle domande che
gli vengono fatte. Parliamo ovviamente di qualche anno fa ormai
e, di fatto, il ragazzo nella nostra chiacchierata mostra di aver fatto decisi passi avanti. Non sarà diventato un chiacchierone come
FaltyDL o Zomby, tantomeno un’intellettuale come Ben Frost o
Synkro degli Akkord ma, di sicuro, oltre alla proverbiale disponibilità, al nostro dialogo aggiunge quel minimo d’affabilità che
rende la chiacchierata ben di più di un gentile interrogatorio.
Russell è un glaswegiano e producer britannico doc, ovvero, uno
che davanti a limitazioni di budget e tecnologia, zitto zitto ha
cercato, trovato e poi sviluppato un suo modo di mettere assieme
i suoni e le influenze musicali. Già dagli esordi, mentre lo spirito
affine Joker si inventa il purple sound, lui – che raggiunge grossomodo allo stesso tempo una sufficiente autonomia stilistica –
parla di aquacrunk o crunk, insomma, della sua roba. Citiamo il
bristoliano non a caso perché i modi di Rus e di Liam sono complementari a un elettronica basata su synth colorati e melodici
circondati da ritmi sincopati dai forti legami con l’hip hop (chiamateli, se volete, wonky).
Dunque, parlare degli aspetti esterni alla musica, di dove va que-
62
Attivo dal 2007 e, fin dagli
esordi, autore di un preciso
incastro melodico ritmico, Russell Whyte, in arte
Rustie, è uno dei principali
protagonisti di una colorata
elettronica laptop based che
sa far ballare l’intellighenzia
wonky / hip hop quanto catturare l’attenzione dei dreamer da cameretta cresciuti
a videogiochi, retromania e
sovraesposizione mediatica.
Il suo approccio, che Simon
Reynolds ha ricondotto, tra
le altre cose, al calderone
massimalista che ha contraddistinto molte produzioni
elettroniche a cavallo tra
noughties e primi anni ’10, è
pop come hip hop, melodico
ed emotivo, senza rinunciare alla padronanza dei ritmi
di estrazione britannica (i
continuum, la dubstep, il bass
sound, la narrativa grime) ma
anche americana (la scena
di Los Angels capitanata da
Flying Lotus e, indietro, il
southern hip hop e la miami
bass).
Whyte inizia a produrre e dilettarsi nel fare il dj all’età di
15 anni, prima ancora era un
indie kid innamorato dei My
Bloody Valentine e dei compaesani Mogwai. Dunque,
prima di Fruity Loops, c’è
stata una chitarra e il sogno
da rock band, anche perché
la famiglia, come afferma lui
sta o quella corrente, è esattamente ciò che non ha senso fare con
Rustie, oltre al fatto che nessuno meglio di lui può raccontarci nei
fatti come inseguire passioni di lungo corso coltivate in famiglia
e miscelate con gli stimoli provenienti dagli amici – spesso incontrati non fisicamente, ma via MySpace e Skype – e una buona
dose di talento, possa portare molto lontano, contribuendo realmente ad accellerare o addirittura a cambiare certi corsi sonici.
E’ successo, nel 2012 per esempio, quando un essential mix del
Nostro catalizza un montante di fermenti che sta per far dilagare
la trap del citato Luger (e produzioni a lui legate come Flockaveli
di Waka Flocka Flame) in un cavallone di produzioni dancefloor
internazionali. In quella scaletta finiscono brani ancora inediti di
TNGHT (ovvero gli amici di Rus Hudson Mohawke e il canadese Lunice) e altri virus altramente contagiosi come la Harlem
Shake di Baauer e la City Car dello stesso Whyte, che formano un
set ideale per una deflagrante modalità d’intendere le serpentine,
gli scalci della 808 e profondi bassi.
“Tutta questa musica è parte di quello che faccio da parecchio
tempo… …già nel primo EP che ho pubblicato, Jagz The Smack
c’era Response, una traccia che mescolava quell’effetto su un ritmo dubstep e grime. Poi l’ho utilizzato nella collaborazione con
Joker nel pezzo Tempered e svariate altre volte”, ci racconta “Al
tempo tutto quel fermento stava giusto per esplodere, un po’ per
l’accumulazione di tutti i differenti stili coinvolti, un po’ perché
era nell’aria. Riguardo al mix, Radio 1 è un grande amplificatore,
una grossa piattaforma che molti dj ascoltano assiduamente, e
quel mix riassumeva per la prima volta molte di quelle produzioni, tutte assime in una volta sola”.
Riguardo all’EDM trap – ma possiamo allargare il discorso anche
all’altro grande caso discografico, ovvero il wonky, e prima di esso
alla dubstep – Russell si è trovato al posto giusto nel momento
giusto, non per calcolo, ma per una serie di concause e situazioni
dove gusto e sensibilità personali hanno sempre giocato un ruolo
fondamentale. Con gli amici del giro della Numbers, serata che ha
messo assieme molte persone con gusti e idee simili in città, e un
po’ con i tipi di LuckyMe, stanziati più che altro ad Edimburgo, e
quindi sentiti via internet, Rustie non parla di grandi discussioni
ma di un “hey listen to this or listen to that” e, allo stesso modo, i
suoi live, da sempre, si compongono al 90% di produzioni proprie
e per il restante 10% di un misto di rap americano mainstream
come underground, qualche produzione delle citate label locali
scozzesi (ad esempio S-Type) e qualcun’altra di Darq E Freaker,
stesso a Dummy, è da sempre
dentro la musica; il padre era
un chitarrista e la madre una
grande appassionata e collezionista di prog e fusion, generi quest’ultimi che influenzeranno direttamente alcune
produzioni future (“Amo la
Mahavishnu Orchestra e la
fusion, e il prog in generale.
John McLaughlin, i King
Crimson di Robert Fripp
e i Soft Machine di Allan
Holdsworth sono tra i miei
chitarristi preferiti - quest’ultimo è anche il preferito di
Eddie Van Halen - La band
preferita di mia madre sono
gli Yes, e sono un grande fan
anche di loro” ha dichiarato a
Fact nel 2010).
La prima produzione ufficiale di Rustie risale al 2007 e
s’intitola Jagz The Smack. La
traccia omonima è una take
tech-step con un alito sci fi
sullo sfondo, il resto si muove tra hip hop, glitch, grime
e electro, tracce a cui Rustie
affibbia la tag aquacrunk (anche semplicemente crunk)
e che vengono accolte tra gli
addetti ai lavori con un autentico boato. Modeselektor,
Plastician, Anthony “Shake”
Shakir, Flying Lotus e Alex
Smoke vanno letteralmente
in visibilio per questo 12”
prodotto in sole 400 copie. Su
Bookmat lo fotografano come
“un perfetto mix tra gli stru-
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grime producer britannico che, mi ricorda Rustie, “è parte del
collettivo Nu Brand Flexxx e ha prodotto la famosa traccia Blueberry con il feat. di Danny Brown”.
Del resto, quale miglior esempio di Glass Swords, l’acclamato
esordio sulla lunga distanza, per misurare la distanza di Rustie
dalle mode e dal mondo. Il disco, nel 2012, si guadagna il podio
di molte classifiche dell’anno per un misto di influenze prog e
fusion passate ai videogiochi, un portato d’ascolti ed esperienze che si riavvolge fino all’infanzia, agli ascolti in famiglia e alla
passione per Allan Holdsworth dei Soft Machine, suo chitarrista
preferito. Un lavoro pensato con una modalità se vogliamo rock
e che appunto per questo riceve paragoni con altre icone transdance come Daft Punk, pur ancorandosi saldamente a un’urgenza
dallo stampo assolutamente riconoscibile, tra cangianti melodie e
contaminazioni di ritmi US come UK.
Green Language, il suo secondo ed atteso lavoro in uscita sempre via Warp il 25 agosto 2014, prosegue lungo queste traiettorie
mettendo ancor più l’accento sulla libertà d’espressione. “E’ un
lavoro molto più personale questo” mi confessa “anche perché ho
avuto il controllo totale di fare ciò che volevo quando per Glass
Swords, al contrario, ci sono stati lunghi botta e risposta con la
label. [I tipi della Warp] mi dicevano ciò che a loro non piaceva e
ciò che volevano sentirci o dovevo sottolineare”, sbotta serioso,
ma senza troppe polemiche Whyte, uno che oltre a voler fare a
modo proprio ama non rivoluzionare troppo il proprio impianto
di lavoro, a partire dagli strumenti che sono ancora una volta uno
e uno solo, il laptop.
Nonostante un lavoro che presenta vari ospiti al canto, anche
in questa occasione – sembra incredibile – tutto è avvenuto via
skype. Con Danny Brown, ad esempio, per il quale Rustie ha
prodotto alcune tracce del suo ultimo Old, ed è ospite nel singolo
più potente del disco, Attak, l’incontro dal vivo si riassume finora
in una volta sola, ad un concerto. La norma, ci racconta, a parte
per il giro locale di LuckyMe e Numbers, è lavorare scambiandosi
file via internet. Anche con Joker, alcuni anni fa, a parte un’unica
session dal vivo e assieme, è andata così.
Continuando a fare di testa propria, Rustie finirà – chissà – per
essere inserito in un’ondata di produzioni più ambientali e minimali, come ad esempio quelle uscite più o meno in contemporanea a Green Language come Joined Ends di Dorian Concept
e In The Wild e FaltyDl. E sempre parlando di paralleli, ad
esempio con il sound dei My Bloody Valentine di cui la press fa
64
mentali di Dabrye e Flying
Lotus, gli sviluppi bass della
dubstep e le furbate ritmiche
dei Modeselektor” e c’è da
dar loro ragione.
Numbers, che all’epoca è una
club night di Glasgow che si
occupa anche di mix (e non
ancora label), inizia da subito
a dare eco al nuovo fenomeno. E sulla coda di quest’entusiasmo, alla fine del 2007,
esce un mix per Andrew
Meza su BTS Radio che, oltre
a editi di Dabrye, J Dilla e
Flying Lotus, Jay Z, Usher e
Snoop Dogg, contiene anche
inediti e remix dello spirito
affine Hudson Mohawke e
dello stesso Rustie.
Nel 2008, Rustie e HudMo
sono già oggetto di un discreto hype anche al di fuori della
cerchia degli addetti ai lavori.
Martin Clark (Blackdown
della Keysound) scrive un
articolo su Pitchfork dove li
elogia e inserisce all’interno
del microcosmo wonky, una
nuova/vecchia etichetta che
cerca di riassumere un trasversale movimento di producer al di qua come al di la
dell’Atlantico. Nel frattempo,
il ragazzo ha prodotto l’ottimo remix per Zomby (Spliff
Dub), quello per Rod Lee
(Let Me See What U Workin’
With) – entrambi con tocchi
trap – e soprattutto quello
per i Modeselektor – la cui
menzione (band di cui Whyte è un gran fan), il Nostro parla di
un “more atmospheric sort of sound, more washed out reverb”,
ovvero di un suono che, soprattutto nelle parti strumentali, è
maggiormente atmosferico, dai riverberi sbiaditi ma organici. In
più l’accento sulla produzione è stato posto su un sound hyperreale, “ben rappresentato dalla copertina”, mi suggerisce, ovvero
con meno insistenza su “suoni sintetici e noise” abusati in passato
in favore di un “escapismo verso qualcosa di più naturale… …come
quando per rilassarti un attimo spegni il telefono e vai a farti un
giro in un parco”. “Mi sento così quando penso al fare musica
The Black Block riceve un
trattamento acquacrunk –
e ancora il Jamie Lidell di
Another Day vestita di purple
sound. Il tutto con un occhio
ben attento a ciò che si muove in ambito allargato wonky.
Sempre dello stesso anno è
l’entrata nel giro LuckyMe,
etichetta di base sempre in
città che inaugura il catalogo
proprio con un 12” dell’amico (HudMo ‎– Ooops), e la
prima collaborazione con il
bristoliano Joker, autore di
un personale sound, il citato
purple sound appunto (o purple wow), un altro ragazzo
con il quale Russell condivide
la passione per l’hip hop, i
trucchetti da overload di 8bit,
e la melodia ai sintetizzatori,
oltre che per il funk e la soul
music degli 80s. Sull’etichetta di quest’ultimo esce il 12”
Play Doe / Tempered, due
tracce sospese tra i debiti
all’electro funk degli ’80s del
primo e l’acqua (nel senso
proprio di rubinetto che
gocciola) crunk del secondo,
che condisce con guizzanti
bassoni grime. A completamento dell’annata: un 12”
sull’etichetta di Jackmaster
Wireblock (Zig Zag), per la
quale è stato co-prodotto
anche l’esordio di HudMo, e
una collaborazione con il duo
215 The Freshest Kids formato dai rapper Buddy Leezle e
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in questo momento”, mi fa sereno. In questa direzione, vanno
senz’altro i field recording utilizzati per alcuni suoni del disco
e, peraltro, mi specifica, “utilizzati per la prima volta”, come a
volermi rimarcare che qualche cambiamento di metodo è contemplato.
E’ probabile che questa piccola transizione sia dovuta al ri-trasferimento da Londra alla natia Glasgow. E le ragioni del ritorno
a casa sono semplici: il costo astronomico degli affitti nella capitale, unito a uno stile di vita casalingo al pc o in tour, si possono
agevolmente convertire in una residenza magari più grande e più
vicina alla famiglia e agli amici. E come dargli torto. La nostra
chiacchierata prosegue in libertà tra un banale ma sempre efficace “Producer e tracce preferite al momento?”. A cui lui risponde
con un trittico di 808 Mafia, Young Chop e ancora Lex Luger,
il gusto nel fare i remix (“Mi piacciono molto anche perché non
devi pensarci su troppo, puoi sperimentare cose nuove, e puoi
pure sbagliare, fare cose che normalmente non faresti”) e un’interessante parentesi sulla footwook, dato che Whyte ha di recente
editato (e bene) la Back Seat Ho di Machinedrum.
“Seguo la footwork da un po’, diciamo da 3 o 4 anni e mi è dispiaciuto molto apprendere della morte di Rashad”, mi confessa,
“penso che Rashad e Dj Spinn siano incredibilmente bravi e mi
abbiano influenzato molto. Certo non è un’influenza diretta ma
credo pure che ciò che hanno fatto sia stato molto importante”.
“Ti piacerebbe fare qualcosa a 160bpm?”, gli faccio, “Om Unit,
66
Cerebral Vortex, prime tracce
che vedono la presenza di
vocalist nella sua discografia
(Cafe De Phresh).
Il 2009 è l’anno del wonky
ma anche un periodo di
transizione per un vasto
schieramento di produttori che gravitano attorno al
mondo dubstep. Il glaswegiano firma per Warp (etichetta
alla quale consegna, per una
compilation, la traccia Inside
Pikachu’s Cunt pubblicata in
origine sul suo My Space),
sforna in free download un
ottimo re-fix della r’n’b starlette Keyshia Cole (Shoulda
Let You Go) e inizia a preparare le tracce per l’esordio.
Quell’anno esce soltanto
Bad Science, un 12” con 3
sincopati inediti dal taglio
hip hop, tastieroni saturi e
cascate d’effettistica 8bit. Si
chiamano Tar, Bad Science e
Shadow Enter e in quest’ultima è evidente il tocco (simulato) della drum machine
Roland 808, un portato di
lungo corso dell’analogica del
ghetto tipica del trap rap, del
sounthern rap e ancor prima
della Miami Bass. Lex Luger,
giusto qualche mese dopo,
ne innescherà una rinascita
– tutta plugin laptop e bassi – attraverso la produzione
del Flockaveli di Waka Flocka Flame a cui seguiranno
decine di altre produzioni.
mescolando jungle e footwork,
ha tracciato interessanti vie
per la musica elettronica non
credi? “Ho fatto tracce così”,
mi risponde con il solito accento scozzese “ma non le ho mai
pubblicate. Non voglio pestare
i piedi a nessuno se comprendi
quel che dico. E poi non voglio
sembrare quello che copia le
cose di qualcun’altro”.
La nostra chiacchierata si
conclude con l’inevitabile botta
e risposta su futuri live nel
nostro Paese (oltre al Club To
Club, sono previste altre date
italiane? “Forse, forse a settembre” mi fa) e una piccola, gentile, provocazione: Non è che
per caso eri in uno dei co-co-co
producing credit di Yeezus di
Kanye West, un album al quale
hanno partecipato connazionali come Hudson Mohwake e un
Evian Christ? “Purtroppo non
è ancora successo”, fa Rustie
in tono standard, “mi sarebbe
piaciuto, ma non è accaduto”.
“Non è accaduto, ancora…”,
rimbotto sardonico. Entrambi
scoppiamo a ridere. Quindi un
“good luck with your album” e
la nostra mezzoretta di conversazione finisce nel migliore dei
modi.
Qualcuno le criticherà come parodie del trap stesso, ma questi
espedienti produttivi sono il perfetto combustibile per l’affamato
dancefloor EDM.
Sunburst EP, pubblicato nel 2010, segna l’ingresso ufficiale del
producer nel roster Warp, una svolta non solo contrattuale per
Rustie. Rispetto al materiale uscito precedentemente, l’accento
si sposta sull’assolo e la melodia. Bucano il mix possenti tastiere
(o pseudo tali) dall’appeal rock/fusion o fatte di nervoso minimalismo che, passate sotto divertite spoglie videogioco, si ricollegano direttamente agli ascolti prog fatti durante l’adolescenza
in famiglia, un aspetto questo che caratterizzerà la cifra stilistica
del Nostro presso gli appassionati d’elettronica della storica label, da anni ormai spostata su un asse di contaminazioni a 360°.
Eppure brani come Neko o Beast Night, con i riff da guitar hero
in dialogo fusion, oppure l’ancor più maschio singolo Dragonfly
con il suo farfuglio di note grezze, non perdono il contatto con i
sincopati, le vocine in elio e gli altri trucchi produttivi del sempre più osannato giro di LuckyMe, Numbers e, dall’altra parte
dell’Atlantico, Brainfeeder, l’etichetta di Flying Louts, pure lui,
come Hudson Mohawke, accasati su Warp da qualche anno.
Quelle di Sunburst sono le prove generali per l’esordio lungo,
un lavoro che, dopo un faticoso botta e risposta con Warp (che
valuta e rispedisce più volte indietro il materiale con consigli
e ammonizioni) arriva finalmente nei negozi nel 2011. Alla sua
uscita, Glass Swords viene paragonato a Discovery dei Daft Punk
e, di fatto, i paralleli con certi aspetti e approccio dei due parigini
– elettrock, pop, assoli, 80s, disco, l’uso del vocoder, cultura cartoon – sono fattibili come è indubbio che la scrittura di Rustie,
da queste parti, abbia raggiunto un nuovo livello di padronanza e
qualità. Fermo restanto tutto ciò che finora il producer ha portato avanti, troviamo nella tracklist una maturata sensibilità pop
e padronanza nel trattare la materia della fine degli anni ’70 e il
principio degli ’80. Paragonato a un altro disco massimalista e citazionista come il Cosmogramma di Flying Lotus, Glass Swords
finisce in molte classifiche di fine anno e per Simon Reynolds è
uno dei migliori esempi di musica fatta al laptop onnivora, colorata e luccicante, tipica di una generazione digitale e internettara
agli antipodi con il minimalismo e l’oscurità di techno, dubstep
e di molta elettronica da ballo. Nel disco, non manca un dialogo
con il nascente fermento trap che sta divampando negli USA,
con una City Star in grado d’unire l’ardkore britannico con la
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possanza del ghetto americano. Un episodio isolato all’interno di
un album che è già un instant classic degli anni ’10.
Nel 2012, a partire dalla primavera, la nuova trap innescata da
Luger divampa e sia Rustie che HudMo passano il producer
americano nei loro dj set. Rustie, che da sempre omaggia l’estetica del southern rap, e qualche mese prima aveva remixato a suo
modo la Brand New di Gucci Mane senza rincorrere ai popolari
trucchi produttivi, viene additato come propulsore della scena.
E i motivi ci sono tutti: le intuizioni del brano City Star, riproposto nell’essential mix pubblicato ad aprile per la BBC assieme
a cruciali dubplate come Harlem Shake di Baauer e Goooo di
TNGHT, sono i collanti autoriali di un fenomeno che, a partire
da giugno, viene assorbito da grossi potentati come Mad Decent
e oggetto di survey da parte del giro AEI media (All Trap Music).
L’annata è comunque trascorsa in giro per il mondo a suonare,
su modello del citato mix, prevalentemente proprie produzioni e l’esordio Glass Swords. Niente live, solo missato. A livello
produttivo non molte uscite: una nuova versione di Surph (storpiatura di surf, traccia dal retrogusto daftpunkiano contenuta
nell’album) con il feat. della fidanzata Nightwave, l’inedito After
The Light con il feat. di Aluna George e un altro paio di remix
sempre di brani cantati, Love in Motion di SebastiAn feat. Mayer
Hawthorne e Lose Yourself (Rustie Remix) di Surkin con feat.
di Ann Saunderson. E grosso modo va così anche nel 2013 dove,
oltre al remix della Trouble on My Mind di Pusha T con il feat.
di Tyler, The Creator, e due produzioni commissionate da Danny Brown per l’album Old, di Rustie esce comunque un ottimo
singolo per Numbers con Triadzz / Slasherr, due nuovi brani che
sembrano ricondurre l’ondata EDM trap nell’alveo rave britannico.
Arriviamo al 2014 ed è tempo di un nuovo album composto
interamente a Glasgow – dove il Nostro è tornato ad abitare
dopo una costosa, a suo dire, parentesi a Londra – e senza impedimenti da parte di Warp. Il lavoro arriva a fine agosto dopo un
remix di un pezzo footwork di Machinedrum (Back Seat Ho),
genere che Rustie ama e privatamente compone, come ci rivela
lui stesso in un’intervista telefonica. Green Language viene presentato come un lavoro molto più personale del precedente, e di
fatto al massimalismo dell’esordio, soprattutto negli strumentali,
subrentra un approccio più disteso e trasognato, e persino minimalista. In Paradise Stone sembra di sentire i Tortoise innamo-
68
rati di Steve Reich e anche il
brano omonimo ricorda certa
folkronica onirica. Nel nuovo
album però, oltre alla take
daftpunkiana Velcro, dove
tornano gli assoli chitarristici, sono i 4 brani cantati,
posti al centro della scaletta,
a rappresentarne il cuore
ritmico. Gli ospiti sono perlopiù rapper, il duo Gorgeous
Children, Danny Brown e D
Double E (quest’ultimo molto
simile a Brown è un rapper
conosciuto ai tempi di My
Space), ma non mancano i
feat. in area r’n’b con Redinho
e un’altra ospite non accreditata (Dream On), tutta gente
con la quale, come di consueto, Rustie ha scambiato mail e
file. L’unica novità tecnica, ci
racconta Whyte, si riassume
nell’utilizzo di alcuni – invisibili – field recording che
conferiscono alla tracklist un
profumo bucolico e campestre, ma anche nuovi strati in
saturazione. Green Language
non avrà lo stesso eco e peso
di Glass Swords, ma fotografa
un producer con il dono della
comunicatività emotiva e
senz’altro il brano con il feat.
di Danny Brown finisce in
antologia.
G r i m e 2 . 0
P c M u s i c
o lt r e .
Dall’ambient cinematica ai flauti di pan sintetici,
dall’r’n’b all’r’n’g, l’ondata della new wave of grime
non si placa. Anzi, abbraccia la sfida melodica per
trovare nuova linfa e ispirazione. D’altro canto c’è
già chi mette lo sguardo su un ampio spettro di
possibilità, unendo - in un mix - la cinematica di
Kuedo alle giovani leve della post-ringtone music.
>>>Testo di Edoardo Bridda
“Certamente c’è stata vita
prima del Boxed”, sentenzia
beffardo il comunicato del
Fabric che accompagna il mix
introduttivo di Murlo alla sua
grand entré live, l’8 agosto
2014, al Fabric di Londra. Lui
in consolle sale sponsorizzato
dai ragazzi della crew Butterz
capitanata da Elijah & Skilliam,
etichetta, slot fisso su Rinse e
soprattutto faro della comunità
grime londinese (e britannica
tutta) prima che la citata serata
di culto, nata lo scorso anno,
scuotesse vingorosamente, rinvigorendolo e ringiovanendolo,
l’intero comparto. Già perché
alcuni dei tune più rappresentativi di questa entusiasmante
nuova ondata grime 2.0, analizzata in uno speciale su queste
pagine, “alcuni dei pezzi più
carismatici”, continua pimpante la nota, “che Slackk, Mr
Mitch e Logos hanno passato
nelle loro serate”, sono proprio
di questo ragazzo.
Il toni sono ovviamente propagandistici ma non lontani dalla
realtà: a parte Mumdance, che
69
è un po’ il fuoriclasse della
situazione, il ragazzo delle
Midlands è uno dei nomi più
caldi emersi negli ultimi mesi
tra le serate del club dell’East
London e le pagine di Fact
Magazine. Se c’è da fare un
nome è proprio il suo. L’altro, a
ruota, è Dark0, e naturalmente
ce ne sarebbero anche altri che
esulano dalla nostra analisi.
Restringiamo qui il campo ai
citati e a Inkke, Slackk, Mr.
Mitch, Moleskin, con le relative uscite, perché, a nostro
avviso, sono i più rappresentativi di ciò che si sta muovendo
in ambito allargato grime e, ciò
che più conta, i più indicativi
riguardo ai segnali più forti che
provengono dalla sempre affollata e competitiva scena.
Ancora Murlo è importante per
essersi posto nel mix in questione - e in quello pubblicato
per Fact a inizio anno - come
un ponte tra i progressisti del
Boxed e Butterz, e dunque
tra grime, UK funky e radici
garage correlate. Da un forte
impianto di UK funky, del resto, vengono moltissimi nuovi
producer come Beneath, Alex
Coulton e, non a caso, Inkke,
Slackk, Murlo. Diverso il caso
di Moleskin, che in passato si è
dato anche a rivistazioni Baltimore oltre che refix di Wiley,
e qui, con Satin House, rientra
perfettamente nel cerchio. Tra
i suoi trascorsi, peraltro, anche
70
l’r’n’g (unione di r’n’b e grime,
sub genere che condivide con i
ragazzi della sua Goon Club Allstar - vedi anche MissingNO)
e, su quest’ultimo versante,
torniamo a citare Dark0, altro
appassionato di hip hop e storie americane.
L’aspetto più interessante che
accomuna tutte queste energie e, in media, buoni (se non
ottimi) dischi, è il gusto per
un’esplorazione melodica ai
sintetizzatori che travalica gli
steccati di genere e apre nuove
prospettive, strade personali
d’espressione, via all’immaginazione oltre che alla memoria.
E’ musica che parte dal grime
e magari qui ritorna - perché è
salutare sapere da dove vieni e
dove puoi tornare - ma è anche
musica che semplicemente
diventa espressione di sé e
non solo ricerca del pezzo che
spacca all’interno di un noto
gioco di regole. Ecco perché
non risulta affatto azzardato
tracciare ponti con le narrative
idm e lo sci fi dei 90s, con la
musica dei 70s già ripresa da
Kuedo o con quella degli 80s
inforcata da Mike Paradinas e,
proseguendo lungo lo spettro,
con quel lungo e inesorabile
avvicinamento all’r’n’b e al pop
americano (vedi anche Hyperdub 10.2) che possiamo grossomodo far iniziare con Timbaland e la fine dei ‘90.
Paradinas torna nella nostra
analisi sia per un 12’’ sotto
Mu-Ziq, Rediffusion, sunto
di un mixtape uscito nel 2013
ricco di ottime melodie sotto
forma di ricordi d’infanzia, e
soprattutto per un mix pubblicato per XLR8R, il 12 agosto di
quest’anno, che non solo contiene tracce inedite del citato
Mr. Mitch e Kuedo (entrambi
anche sotto Planet Mu tra le
altre cose), ma apre a tutta una
serie di proposte che dalle trasognate spiagge (post-) glo-fi,
portano al post-ringtone, alla
soundcloud label Pc Music e
alla candy pop music da cameretta, musica quest’ultima fatta
da giovani producer laptop
dipendenti che hanno trovato
nel giro di Glasgow - e magari
nella trap fanciullesca dei Purity Ring - una via immediata
alla pennata melodica sporcata d’elettronica cheap e trash
(manca Sophie, chiaro, ma per i
ritorni a Window Licker ci sarà
spazio più avanti...).
Dal sinogrime e dalle riprese
dell’eski del 2012-2013, arriva
dunque una nuova fase per il
grime schiumato dal Boxed e
da label quali Glacial Sound,
Lost Codes, Oil Gang, Goon
Club Allstar e Gobstopper, una
lingua che parla ancora di flauti di pan sintetici à la Fatima Al
Qadiri, carica ancora varie armi
e pistolame su sincopati molto
dodge, ma torna con molta più
attenzione al discorso melodico, alle possibilità narrative e al
melange r’n’pop.
Palm Tree Fire di Slackk, il
producer che negli ultimi mesi
si è più documentato sui nuovi producer grime sfornando
mix a cadenza mensile, è una
stanza di specchi, un labrinto
di etniche flore e cinematiche
faune, la più solida e matura tra
le proposte qui trattate. 16 episodi in esplorazione ad ampio
spettro tra oriente sinogrime e
i 70s, dalla uk funky alla vaporwave, il tutto pensato per
bene, lasciato sendimentare.
Un disco di sintetiche melodie
e ritmi spezzati, senza tempo,
non facile e fuori dalle mode
(7.1/10).
Sempre sul versante world
citiamo Grime Light di Jt The
Goon, producer di cui si sa davvero poco, che su Twin Warriors EP (7.0/10) sperimenta
tocchi sitar e altre perlustrazioni attorno al mondo a base
di r’n’g. Succede anche nell’EP
collaborativo con Murlo, Garden of Eden EP (7.0/10). Inkke,
invece, è piuttosto eclettico
passa da pezzi synth sci fi a
pastoralismi gansta nel buon
Crystal Children EP (7.0/10).
E spostando lo sguardo e le
orecchie dove la melodia è
sempre più in primo piano,
ecco che Strict Face propone
un buon dittico di sognanti pa-
esaggi: Fountains / Highbury
Skyline (7.1/10). Per questa via,
Dark0, con Fate, un EP ispirato
da hip hop e videogame, non
può mancare in discografia
quest’anno. Ottimo il lavoro sui
suoni della tracklist tra l’altro.
Il suo è uno dei 12’’ meglio
prodotti in quest’ambito finora
ed inoltre, grazie al suo distinto
gioco ritmico grimey, l’avvicinamento alle rotondità pop,
alla cinematica e al continuum
idm melodico, è l’ideale ponte
per tornare sul mix di Paradinas (7.2/10).
Il boss di casa Planet Mu è
uno che quattro anni fa accendeva la miccia footwork e
oggi - anche con la moglie in
Heterotic - è immerso nelle
possibilità del linguaggio dei
synth e nei profumi del pop
degli 80s. In scaletta, tra le
arie adulte di Konx-om-Pax
(l’inedito Last Jam Forever) e
Kuedo (con ben 5 brani inediti) in cui s’inserisce perfettamente la pensosa proposta
simil-overture dell’EP Satis
House di Moleskin, in uscita
su Keysound, non sorprende
trovare gli zuccheri “o li ami o
li odi” di Pc Music, cricca che
sta alzando un certo buzz negli
ultimi mesi e che qui comprende quattro produzioni di A. G.
Cook (Close Your Eyes), Hannah DiAmond (Attachment e
Pink and Blue), Danny L. Harle
(Broken Flowers). Un terreno
d’azione su perno pop assaltato
da break-sincopati, elettronica
giocosa e infantile, house memorabilia FM come se dietro
agli schermi LCD ci fossero i
corrispettivi femminili di Rustie e, al posto dei continuum
elettronici dei ragazzi, ci fosse
un misto di twee, karaoke à la
Lost In Translation ed elettronica commerciale dei 90s.
La post-ringtone è in un certo
senso il complemento del grime 2.0, un disimpegno comprensibilmente fastidioso ma
anche un sano momento frivolo/distensivo all’ingegno dei
grimer di nuova generazione.
71
Skiantos
Sbagliando nota. Parte quarta
72
L’ultima parte della storia degli Skiantos
vede il gruppo fare un doppio album, riunirsi
estemporaneamente con i vecchi membri,
andare in tv, continuare a litigare con i
discografici, riprovare inutilmente ad andare a
Sanremo, e infine sciogliersi. Intanto il leader,
Freak Antoni, ha una figlia, si innamora di Satie,
finisce in radio, fonda una nuova band a suo
nome, prova inutilmente ad andare a Sanremo
e infine lascia questa valle di tante lacrime e
poche risate.
Testo di Giulio Pasquali
T roppo avanti
La parte conclusiva della storia segue binari ormai chiari: i Nostri
continuano ad essere un gruppo “di tabernacolo”, che fa buoni
dischi ma che fatica a farli ascoltare, che continua a litigare con i
discografici (più con chi non li promuove: a cambiarli, ormai, non
ci prova più nessuno), fa concerti seguito da fan e curiosi, mentre
i titoli in discografia aumentano non tanto per gli album in studio (tre più 2 EP), quanto per raccolte celebrative, live (benché il
revival li abbia toccati poco: meno per esempio di Federico Fiumani) e i vari progetti di un Freak Antoni sempre “incontenibile”.
Un andazzo da normale fase tarda di carriera, finché nel 2012 non
arriva la notizia-bomba che Freak Antoni, per la seconda e definitiva volta, è uscito dal gruppo.
Andando con ordine, dopo l’infelice progetto di Skiantologia vol.
1, il silenzio discografico dura fino al 1999, quando esce addirittura un doppio album: dopo sei anni e il disco mancato per Mescal,
il repertorio ammonta a una quarantina di canzoni (e una decina
rimangono fuori). Preceduto dal singolo Gratis (con Nicola Arigliano), sigla dell’omonima trasmissione, e con un blister con due
supposte (che altro?) in copertina, Doppia dose (Alabianca-Stile
Libero/CGD) si divide in due dischi. Per il Disc-one – Il solito
trionfo i Nostri chiamano a raccolta amici, colleghi, compagni di
strada degli anni ruggenti di Bologna ed estimatori vari: Samuele Bersani per la bella Non sono un duro (guarda come piango),
73
Michele Serra per Ero buono (notevole rilettura del vecchio classico) e altri, da Marco Carena ai Montefiori Cocktail, ai Gang
(ovviamente Canzone per Che, che degli Skiantos ha pochissimo),
a Shel Shapiro, al ritrovato Johnson Righeira, persino Vasco e
Lucio Dalla ai cori di un pezzo. Il risultato è un lavoro piacevolmente eterogeneo che a partire dal groove rock della spaccona
Troppo avanti passa dalla house alle ballate (la gucciniana Io
dentro), dalla techno (Il sesso è peccato farlo male, coi Datura) a
un omaggio a Petrolini (Uomo peso), con qualche puntata negli
usuali canoni rock. Né mancano satira e sguardo tra allarme e
profezia, con Nuovo Medioevo, Polli (notevole performance della
Banda Osiris) e I ragazzi del coro (sul conformismo e il neooscurantismo contemporaneo). Gli anni di pausa sono evidentemente
serviti a raccogliere e focalizzare le idee, al cui servizio troviamo,
anche grazie alle collaborazioni, la più ampia varietà musicale
riscontrata in un loro album.
Sul “Disc-one secondo” invece la formula è più classica, ma c’è
un motivo: M’hai cotto il razzo è infatti realizzato dai membri
della formazione ‘77ina del gruppo, riunita estemporaneamente.
Riascoltiamo così Stefano Sbarbo che si sdilinquisce in Kommessa e lo svenevole Jimmy Bellafronte nella geniale Non serve
(devi morire), fatalistica seconda puntata del filone escatologico
scandita da cori da stadio, nonché in Diventa geometra (un passo
avanti rispetto a “diventa demente”? Chissà…), alla fine della quale
compare un carabiniere che lo arresta per crimini contro il bel
canto. Il piacere di ritrovarsi dà benzina ai neuroni, e il canovaccio rock alla Stones con tanto di variazioni soul e funky (Ti frugo
nel frigo, o la scorretta Amore istantaneo) e puntate psichedeliche
(Gran viaggione), viene svolto a dovere con la giusta sfrontata
freschezza. Il R’n’B polemico di Sono 2000 è (giustamente) più
Sergio Caputo che James Brown, e non manca l’oltraggio di
turno alla ballata romantica con Pene d’amore, né una ghost-track
di rara turpitudine (Body music). In generale, qualche veniale
caduta di tono qua e là nell’arco dei due dischi non cancella lo
splendore di un’ispirazione che regge bene la lunga durata.
Dandy and Freak su Doppia dose:
Nel disco si sente anche una grandissima varietà musicale,
dovuta credo in parte anche agli ospiti…
Dandy: “Sì soprattutto a questo, ma anche per il fatto che era un
momento in cui stavo molto attento a quello che succedeva, allora
mi piaceva un po’ tutto quello che ascoltavo. Non tutto, ma avevano
cominciato a piacermi tutti i generi musicali, se erano fatti bene,
74
ero in quella fase lì (nella quale sono ancora, peraltro), per cui è
venuto fuori un disco molto eterogeneo. Però c’è un filo conduttoreSkiantos in tutto il disco, che lega tutto. Io esagero ma secondo me
è uno dei più bei dischi che abbiamo fatto. Ci abbiamo lavorato su
otto-nove mesi. A fasi alterne, man mano che gli ospiti arrivavano
modificavamo… per esempio un pezzo in cui canta Luca Carboni:
ne ho sei versioni, prima di trovare il vestito a quella canzone lì ci
abbiamo messo una vita… mi sono sfogato, insomma. Ho lavorato
come un assassino, per cui alla fine io ero sempre in studio e gli altri
Skiantos arrivavano a fare le loro cose.
Nuovi, vecchi…
Dandy:”Con quelli vecchi no, abbiamo fatto proprio alla vecchia:
in una settimana abbiamo registrato e mixato tutto. Il disco dove
ci sono gli Skiantos attuali, quello è stato molto più elaborato, ci
abbiamo messo molto più tempo a farlo. E’ un disco molto curato,
mi era preso così”.
Freak: “Un disco con ospiti clamorosi come Lucio Dalla che canta insieme a noi, Samuele Bersani, Luca Carboni, Shel Shapiro dei
Rokes, veramente… Enzo Iacchetti, Vasco Rossi che rilascia una
dichiarazione per noi, insomma un disco ricchissimo di contributi senza la minima promozione, senza il minimo lancio, senza il
minimo sostegno. Questa è la nostra storia, veramente. A volte è
come lottare contro un gigante che è dieci volte la nostra statura,
75
come nuotare controcorrente, come lottare contro i mulini a vento:
è faticosissimo”.
Ancora sovversivi
Come dichiara Freak Antoni, però, le cose vanno come al solito: poca promozione, successo relativo, fine del rapporto con
l’etichetta (né ha aiutato, nel momento in cui Gratis passava in
tv, metterne sull’album solo una versione strumentale lasciando
quella cantata al singolo). E silenzio discografico, interrotto nel
2002 dall’EP Virus (Sonicrocket/Venus), quattro tracce carine
ma non indimenticabili, tra cui la richiesta di un Vitalizio, cui il
gruppo ritiene di avere diritto dopo 25 anni di onorata carriera
(era già ghost track di Il solito trionfo). È anche l’ultimo disco
che vede al basso Marmo Nanni, col gruppo dal 1990 e sostituito
da “Maxmagnus”.
Poi a un certo punto gli Skiantos sembrano finalmente aver trovato, se non il porto sicuro, perlomeno un’etichetta discografica
decisa a lavorare con loro come si deve: si tratta de Latlantide, un
nome appropriato visto che trovarne una con queste caratteristiche sembrava un’impresa da romanzo di fantasia. I Nostri si aggiungono così alla lista (che comprende nomi di culto come XTC,
Violent Femmes, Stan Ridgway, da un po’ addirittura i Toto)
dei gruppi che, scottati/scaricati da grandi e medie etichette, decidono di rivolgersi a quelle indipendenti per lavorare magari con
meno mezzi, ma con molta più tranquillità. La nuova etichetta
parte subito bene, celebrando finalmente in modo degno la storia
del gruppo con l’antologia La Krema (Latlantide, 2002). All’interno l’inedito in stile house-Doppia Dose Perché la notte m’inviti
a casa tua e poi mi lasci dormire sul sofà, la rara Natale è (ripescata
da un’oscura compilation del ‘96, di nuovo le feste) e una buona
scelta di classici, sia pure con qualche stranezza (vedi le scelte da
Doppia Dose, ma anche Frontale, certo non il pezzo migliore di
Saluti…): nonostante il titolo, infatti, dal famigerato Ti spalmo la
crema c’è Canzone per l’estate ma non il brano omonimo…
Il lavoro sul passato prosegue, e nel 2004 rovistando tra cassetti
e compilations, i Nostri mettono insieme Rarities (Latlantide,
2004). Tra i reperti, l’incriminata Fischia il vento, una Bocca di
rosa che non avrà fatto i fans di De Andrè molto più felici dei
partigiani, la tirata (ma un po’) retorica Pacifisti oltranzisti, la
declamazione blues di Invasione di campo di Sgalambro, un road
rock canonico e vagamente d’atmosfera come Tormento al tramonto, un omaggio completamente folle a Sandro Pertini con
76
Babbo rock del 1983, l’elegia sulla decadenza di Bologna di Angolo
B (insieme a Claudio Lolli, scritta dieci anni prima ma invecchiata zero) e un affettuoso omaggio (ma “oltraggio” sarebbe più esatto, e “affettuoso” non sembra, checché ne dicano loro…) ai “nemici” Elio e le Storie Tese con una cover di Mio cuggino (col testo
cambiato, va da sé) decisamente ostile. Una riuscita “collezione
di sabbia” non priva comunque di una certa unità, che include
anche qualche interessante testimonianza (stavolta davvero) live:
scopriamo per esempio una Signore dei dischi blues e ascoltiamo
una Italiano ridens dal vivo col pubblico coinvolto.
In apertura del disco c’è anche la nuova Col mare di fronte, un
notevole r’n’r con una batteria stile Lust for Life e uno stacchetto
di cori byrdsiani che, con penna ispirata, prende di nuovo di mira
le vacanze. Si prova a sfruttare le buone potenzialità di questa
canzone, che farà anche da sigla a Colorado Cafè Live, facendone un EP (con ulteriori rarità, come una Gelati dal vivo dall’88
– con bell’assolo di sax di Carlo “Charlie Molinella” Atti – e come
ghost-track una testimonianza di Freak Antoni che declama dal
vivo alcuni dei suoi epigrammi con tanto di risposte del pubblico) e inserendola nella compilation Demential Rock vol. 1 (nella
quale, riuniti sotto la sigla Prosthathas, tornano nomi noti quali
Stefano Cavedoni, Andrea Setti e Andrea Della Valle con una Sono
giovane che a livello di ispirazione conferma il suo titolo; purtroppo l’esperimento non ha un avuto seguito).
Ma, singolo a parte, nessun segno di materiale nuovo.
L’ incontenibile Freak Antoni
In realtà anche Latlantide lavora su nuovo materiale: lo stesso
anno Freak Antoni unisce la sua voce recitante al piano d’avanguardia di Alessandra Mostacci e incide IroniKontemporaneo
(Latlantide, 2004), poesie sue su musiche di giovani compositori
contemporanei (a parte la notevole Furgoncino di Di Bernardo,
recitata su una gymnopedia di Satie). Operazione insolita e felice
di unione tra una musica per lo più delicata (poco somigliante
all’idea comune di “musica d’avanguardia”) e la poetica del Nostro, la cui espressività è messa ulteriormente in evidenza dall’inedito contesto musicale. Piano e voce ci conducono tra omaggi
a John Cage (Ouverture) e al maestro Luigi Mostacci, padre di
Alessandra, e il gioco dadaista di – per l’appunto – Dadaismi. Particolarmente interessante la sequenza che vede in fila Cito Majakovskij e sogghigno (dove Antoni cita anche se stesso), unico pezzo senza la pianista e uno dei vertici del disco, cui segue appunto
77
La blusa del bellimbusto di Majakovskij (poesia citata in Pompeo),
e di conseguenza Disforica Uno, dedicata a Andrea “Pompeo”
Pazienza. Anche la scelta dei testi, in gran parte già apparsi sul
libro Non c’è gusto…, risulta azzeccata nell’alternanza tra la
ricerca di strade nuove e la rielaborazione di temi già usati (Eroe
senz’eroina e i suoi giochi verbali, la satira passivo-aggressiva di
Scusami se esisto).
Freak: “IroniKontemporaneo è un progetto che parte dalla suggestione della musica contemporanea, la mia nuova scommessa.
Musica contemporanea della quale io sono stato edotto per merito
di questa pianista, concertista classica che è appunto Alessandra
Mostacci, la quale mi ha aperto uno spiraglio su questo mondo. Che
sembra un po’ un pleonasma nel titolo, perché la musica contemporanea di per sé ha molte valenze ironiche, no? Si voleva sempre
ribadire però questo approccio abbastanza divertito, e possibilmente divertente, alla musica contemporanea, anche se è un disco
piuttosto serio. Ma è il punto di partenza di un percorso che stiamo
ancora facendo. Pesca a piene mani dalla suggestione delle avanguardie storiche, dal lavoro fatto da tutte le avanguardie contemporanee, quindi il lavoro di tutti i musicisti contemporanei ci ha molto
ispirato, ci ha addirittura elettrizzato ed eccitato in molti casi.
Parlo per me e per la pianista Alessandra Mostacci, che è diplomata al conservatorio, da anni fa concerti di musica classica, però
ha sempre avuto questo orecchio aperto ed interessato alla musica
contemporanea, passione che mi ha trasmesso. E io direi che ho
aderito soprattutto per la parte sperimentale, nel senso che mi sto
ancora documentando, quindi è un work in progress, è un lavoro che
si sta ancora svolgendo, sull’opera dei contemporanei.
La sequenza che dici era voluta, certo. Gli omaggi ad Andrea “Pompeo” Pazienza e a Majakovskij sono molto accorati, molto sinceri,
molto onesti e molto sentiti. Perché Majakovskij è stato un poeta
a me molto caro, io ritengo che sia stato una figura di intellettuale importantissima per il mondo legato all’ex-Unione Sovietica,
per quel mondo credo che rappresenti quello che da noi è il mito di
Che Guevara: voglio dire sono entrambi due grossi miti che hanno
pagato fino in fondo il prezzo della loro onestà, il prezzo della loro
utopia e della loro ricerca. E poi naturalmente al grande Andrea
Pazienza che ha saputo, con la sua arte, raccogliere perfettamente
l’immaginario di una generazione, ha saputo riprodurre perfettamente un’epoca, uno stile, un periodo, quello appunto del movimento studentesco fine anni ‘70-inizio anni ‘80”.
Nel 2007 uscirà anche il secondo volume, che prosegue nel
78
tentativo non solo di “spiegare l’avanguardia alle masse” (vedi
il Manifesto tendenzialista), ma anche di far capire che la stessa
avanguardia può essere giocosa e divertente, con musiche sia dei
giovani italiani del primo volume, sia dei contemporanei “storici”
(Ligeti, Satie e Cage), e uno brano della stessa Mostacci (l’Hal
9000 di Videogame 2001). Oltre a proporre la ripresa di Cito
Majakovskij e sogghigno, accompagnata stavolta dal piano, il disco
spiega bene l’origine primonovecentesca dell’ironia di Freak
Antoni, e presenta accenni a una maggiore varietà strumentale.
In Leggero (su Le onde di Ludovico Einaudi), il gioco tra ironia
e delicatezza raggiunge anche un certo pathos, un po’ inatteso in
un progetto come questo, che si snoda tra la turpe Il gigante e il
nano e le ricette dada di Poesia tendenzialista. Tra i vertici, l’omaggio di Freak a sua figlia con Margherita blues, che si distacca
nettamente dalla tradizione delle canzoni dedicate ai figli (che
raramente evitano quel velo di retorica), e la teologia sui generis
di Giuda.
Un C olorado al centro di Milano
Nel 2004 succede anche di rivedere gli Skiantos in TV: vengono
infatti chiamati a partecipare a Colorado Cafè Live, di cui curano
anche varie sigle (una darà il titolo al nuovo disco). Esperienza
79
buona finché dura.
Freak Antoni: “È stata molto positiva, ci siamo trovati molto
bene. A partire dalla richiesta di partecipazione, che abbiamo saputo poi è venuta da alcuni estimatori Skiantos interni a Mediaset che
ci ha lusingato, ci siamo sentiti apprezzati fin dall’inizio, ma anche
per il rapporto ottimo, intenso, di reciproco rispetto e stima che ha
comportato uno stimolo a vicenda nel lavoro con gli altri cabarettisti: poiché noi lavoriamo da sempre sull’ironia, sulla comicità, sul
sarcasmo e sull’autoironia, di conseguenza ci siamo trovati benissimo con i comici di Colorado Cafè Live.
Poi però… noi abbiamo partecipato a tutte le edizioni e per tutte
ci hanno detto “ragazzi, l’Auditel ci gratifica con risultati sempre
in crescita, quindi vedrete: arriveremo alla prima serata e sarà un
premio per tutti”. Quando poi è successo, datosi la smania di continui cambiamenti, non ci hanno riconfermati, così come non hanno
confermato altri cabarettisti e il programma è diventato una specie
di varietà patinato da sabato sera un po’ miserino, ed è andato molto male. Noi facevamo le nostre canzoni in forma di assaggio, non
potevamo fare altro perché era una trasmissione di cabaret e noi
eravamo ospiti musicali, quindi non potevamo avere spazi enormi.
La trasmissione aveva come assunto base un ritmo veloce, non ci si
poteva soffermare ad ascoltare una canzone di tre o quattro minuti,
per cui erano tutti scampoli di brani ma queste erano le regole che
noi abbiamo accettato fin dall’inizio”.
Sullo stesso tono Dandy Bestia: “Sono stati loro a chiamarci, con
gran nostro stupore, credo che fosse stato proprio il direttore di
rete Tiraboschi a volerci. All’inizio, è stato molto divertente anche
perché ci hanno lasciato abbastanza libertà. Chiaramente non ti
concedevano di fare canzoni come “Largo all’avanguardia, pubblico di merda”, poteva essere offensivo, però in generale ci hanno
lasciato molto liberi. È stato, finché è durato, carino. Poi come tutte
le belle cose, eh eh, finiscono, perché hanno voluto fare il salto in
prima serata. Era così carina quella trasmissione, perché ci si poteva permettere di dire molte cose perché andava in onda tardi, verso
le 11-11 e mezza, a volte anche mezzanotte. E quindi a quell’orario
puoi fare un pochino quello che vuoi, è stato bello anche per questo. Poi il salto in prima serata, e noi ovviamente non siamo stati
più chiamati, anche perché in prima serata ci voleva qualcosa di
più nazional-popolare. E infatti poi lo è diventato: ho visto qualche
puntata dell’ultima tornata ed è né peggio né meglio di tutti questi
varietà e contenitori televisivi che ci sono adesso in giro, tipo Zelig
o compagnia bella. Finché era in onda in tarda serata, lo ripeto, era
80
più divertente”.
Essendo i Nostri in TV, la EMI si fa convincere da Guido Elmi a
produrre il loro primo album completamente nuovo dai tempi di
Doppia dose. Sei anni dopo, però, la dote è singola e il gruppo,
se si escludono gli ultimi due brani, ha abbandonato la sfavillante varietà musicale del doppio per tornare al rock classico. In
un decennio in cui, revival ‘80 a parte, mancano dei veri generi
dominanti, i Nostri, che alla musica dei tempi erano sempre stati
piuttosto sensibili, a chi cercava segnali rispondono in questi termini: barra dritta sul rock, al limite qualche ballata (genere che
comunque in quella tradizione c’è sempre stato) e, appunto, un
paio di deviazioni.
I risultati di Sogno Improbabile (EMI – “che non ha fatto niente per promuoverlo”, 2005) sono buoni, nonostante qua e là la
trovata di costruire del buon rock prendendone in giro i luoghi
comuni funzioni meno (Riprendiamoci la Corsica è manierismo
Skiantos e Troppo toasti per te è carente anche come testo). E se
le satire/provocazioni di Canzone contro i giovani (sugli accordi
di Wonderwall o, visto che parla di giovani, di Boulevard of Broken
Dreams) e de La ballata del cantautore triste, pur dense di spunti
81
interessanti, in qualche punto
sembrano perdersi, La maggior
parte degli artisti e la potentissima apertura di Lardo ai giovani risultano più centrate. Ma
il disco non risparmia davvero
momenti memorabili: vedi,
oltre a quelli citati, la geniale
Sanissimo (terzo capitolo sulla
morte), il surrealismo lirico
della bellissima title-track e di
Fossile del Pleistocene, l’esplosiva Il proibizionista, nonché
il folle pastiche musicale che
oscura qualche crepa del testo
di Diverso delirio. Mentre solo
la classe della band, il tono
della recitazione e la musica
tra Mertens e Sakamoto (?!?)
riesce a fare di Tarzanelli qualcosa di più e di meglio della
goliardata che avrebbero tratto
dall’argomento, per dire un
nome a caso, Elio e le Storie
Tese. E forse queste due ultime canzoni, pur rimanendo nel
campo di un’avanguardia gia
vista, una qualche risposta sul
futuro riescono a suggerirla.
Dandy Bestia:”Certo, è più
rock, perché poi alla fine l’amore
fondamentale è quello. Ma è pieno di rock anche Doppia Dose,
non è che non ci sia del rock: ci
sono più variazioni, ci sono più
tentativi, più esperimenti, ma di
fondo è il rock che la fa da padrone comunque, sempre, anche
perché è il linguaggio che conosciamo meglio, quello attraverso
il quale ci esprimiamo meglio”.
Freak Antoni:”I due brani
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terminali (sic), appunto Tarzanelli e l’altro, Diverso delirio, sono
state proposte mie che provengono da quell’esperienza di IroniKontemporaneo, del parlato sul musicale, per sperimentare una strada
un po’ diversa, una strada inusuale anche per gli Skiantos”.
Ma ancora una volta si ripete il copione del rapporto tra il gruppo e le major, e il breve legame con la EMI termina tra le recriminazioni. Freak sui discografici: “I discografici appena sentono
odore di interesse alzano i prezzi e come! Non gliene frega niente del
prodotto, lo lasciano marcire nei loro archivi, però appena c’è uno
che mostra un minimo d’interesse le sparano grossissime. Faccio
un esempio: noi abbiamo collaborato, così, in forma di complicità
musicale con un film che si chiama Fratelli d’Italia, autoprodotto
da un regista bolognese che si chiama Roberto Quagliano, che si
era innamorato del nostro disco, era stato incaricato da Guido Elmi
di venire a videoregistrare alcune nostre performances in studio
mentre registravamo. È venuto, ha sentito i pezzi del disco, gli sono
piaciuti parecchio, e ha trovato una sintonia con il suo film. Per cui
ha chiesto di poter utilizzare quel materiale e noi tutti gli abbiamo
detto di sì (tra l’altro lo abbiamo visto tutti e ci è piaciuto, un film
molto ruvido sul problema dell’handicap). Dopo di che si è messa in
mezzo la EMI che ha subito chiesto cinquemila euro per l’utilizzo di
due canzoni, per l’utilizzo di tutto il disco diecimila, cifre che il regista, essendo una produzione indipendente, non aveva. Alla fine si è
messo in mezzo Elmi, tira, tratta, alla fine il regista ha pagato mille
euro per due canzoni. E il film era veramente bello, noi lo abbiamo
sostenuto a spada tratta, abbiamo chiesto che la EMI non facesse
ostruzionismo, eppure niente, alla fine si è accontentata – dicono i
dirigenti – di mille euro, che per una piccola produzione non è una
cifra insignificante.
E questo quando la EMI non ha fatto niente, assolutamente NIENTE, per promuovere questo disco, proprio nulla di nulla. I signori della EMI si erano in qualche modo entusiasmati perché quel
furbone del produttore Guido Elmi aveva fatto intravedere loro la
possibilità della promozione televisiva attraverso Colorado Cafè.
A un certo punto noi dovevamo fare un video, un tour radiofonico
promozionale: poi, quando per l’ultima edizione la direzione di Colorado Cafè ha pensato bene di non rinnovarci il contratto, la EMI
ha perso ogni interesse e non ha più fatto nulla e si è rimangiata
in un attimo le promesse con la massima nonchalance, compreso
il produttore Guido Elmi che non ha fatto una piega, è passato ad
altro, e quindi il disco non ha avuto promozione.
I discografici sono veramente la morte della musica, purtroppo
83
è così. Noi infatti abbiamo scelto di lavorare con una piccola etichetta, che è Latlantide, perché almeno sono giovani ma onesti:
forse quando hanno iniziato erano un po’ inesperti, ma certamente
molto civili e sinceri, e in quest’ambiente la sincerità e l’onestà sono
proprio impagabili, perché sono tutti squali, squaletti, piovre dedite al loro solo guadagno e al menefreghismo più totale per quanto
riguarda il resto. Quindi è un ambiente allucinante quello della
discografia in Italia, non ci si deve meravigliare che sia in una crisi
irreversibile anche a livello internazionale perché si muove facendo
passi maldestri con un’arroganza e con una supponenza che forse
gli deriva dagli incassi degli anni ‘60 e ‘70, che oggi non esistono
più né potranno mai tornare, ma se non lo capiscono loro… del resto
è un settore in crisi, quindi i manager migliori non si indirizzano
nella discografia ma vanno in altri settori della produzione, quindi
noi lavoriamo sempre con delle teste molto mediocri. Così, questa è
la nostra esperienza personale”
A zzeccando nota
Conoscendo un po’ la storia del gruppo, le schermaglie con la
EMI potevano essere ampiamente prevedibili. Quello che inve-
84
ce sorprende davvero è il disco del 2006 (ma registrato prima di
Sogno improbabile): Skonnessi 1977-2005 (Latlantide) è nientemeno che uno sfavillante unplugged, dagli splendidi suoni rotondi di chitarra, sitar, dobro, basso acustico, contrabbasso, spazzole
e altre bellezze, non ultima l’ariosità bilanciata delle dinamiche e
soprattutto il modo in cui il gruppo suona e riarrangia.
Per la scaletta, accanto ai classici (anche un medley tra Eptadone
e Permanent Flebo), la scelta si orienta verso le “canzoni” vere
e proprie: tre pezzi da Troppo rischio…, non a caso (tra cui una
Blues degli orti metropolitani perfettamente a suo agio in questo
contesto), il filosofeggiare di Io dentro (con tanto di introduzione
con citazione di Seneca) e di Non hai vinto ritenta e Pene d’amore,
ma viene anche ripescata Meglio un figlio ladro che un figlio frocio
in versione Bo Diddley. Dei nuovi arrangiamenti non beneficiano
soltanto quelle canzoni a loro tempo penalizzate dalla produzione (per quanto il confronto tra questa versione di Ti voglio così
e l’originale, o la versione di Skiantologia, sia impietoso): anche
Gelati levita riletta così sommessamente e con la lunga, suggestiva, coda strumentale, come del resto Nostalgia della miseria,
e Gran viaggione è un altro brano che dà modo al gruppo e agli
strumenti di esprimersi e suonare come sanno. Così, tra citazioni di Celentano (finale improvvisato di Sbagliando nota), Lou
Reed (in Pene d’amore) e Nino Rota (Col mare di fronte), il disco,
con l’inedito Sesso pazzo in linea col resto (un’altra confessione
ironica di inadeguatezza con momenti notevoli e altri meno),
scorre illuminando da un angolo nuovo la carriera degli Skiantos
e rivelandone sfumature inedite.
Esce anche un DVD (con la registrazione di un unico concerto,
mentre il disco selezionava e mescolava varie serate), decisamente interessante non solo per i brani in più (Io ti amo da matti e
Non sopporto il Capodanno): intanto vale la pena vedere questo
“Frac” Antoni in versione elegante, appurato che dal video poi
non sono stati tagliati né i momenti di interazione con il pubblico,
né le poesie di Freak, né l’introduzione in cui Dandy Bestia dice
infine esplicitamente che Permanent Flebo e Eptadone sono praticamente uguali. Sono stati lasciati anche quei due-tre errori che,
invece di smentire l’idea che il gruppo suoni bene, danno un’aura
di genuinità informale al tutto: in fondo sono sempre gli Skiantos
e non i Toto, e l’imprecisione fa parte del rock dal vivo.
Dandy Bestia: “Skonnessi è un esperimento venuto bene. Pensa
che io non ci credevo granché, poi Freak mi ha rotto talmente tanto
i coglioni… “facciamo ‘sto acustico” e io “ma non siamo un gruppo
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da acustico” “ma proviamo”, ci siam messi lì e alla fine mi ci sono
appassionato anch’io, è venuto molto bene in effetti”.
Ma questa cosa degli strumenti forniti dai negozi?
Dandy Bestia: “Avendo da sempre pochi soldi… dovendo fare un
disco live acustico c’è in realtà bisogno di più materiale che per un
disco elettrico, ci voleva una varietà di strumenti seria, tutta una
serie di cose che noi non avevamo e che comprare sarebbe costato
una fortuna. Per cui mi misi a cercare fra tutte le case di produzione
e i negozi di strumenti musicali che conosco, e ne conosco parecchi,
degli sponsor: gli ho detto “guarda, ti cito in copertina, se mi presti
questa cosa qua ti metto in copertina, ti pago al limite un noleggio”.
E trovai le porte tutte aperte, per cui facemmo questa cosa, grazie
anche all’interessamento di Stanzani, Tomassone e di Fontanot
Verona, e di Davoli a Parma, insomma una serie di amici che conoscevo da una vita e si sono prestati… ci hanno prestato – la maggior
parte delle volte assolutamente gratis, devo dire, devo ringraziarli
ancora – gli strumenti che hanno fatto sì che potessimo realizzare
il disco con i suoni che ci volevano, perché secondo me i suoni sono
molto belli. Le chitarre sono molto belle perché sono chitarre molto buone, strumenti notevoli. Conta anche il gruppo, sono suonati
molto bene, perdonami la poca modestia”.
Quindi alla fine li avete restituiti…
Dandy Bestia: “Alcuni sono stato così pazzo da comprarli”.
C ontinuando allegro a fischiettar
Mentre Freak Antoni finisce in radio tra i conduttori di Pane burro e rock’n’roll e su fumetto con Freak (miniserie in 5 numeri in
cui disegnatori diversi illustrano una strana storia in cui si mescola biografia di Antoni e un’indagine su un serial killer di cantanti
famosi), mentre il Nostro collabora qua e là con gruppi vari (tra
cui gli Altera, coi quali realizzerà la sua ultima registrazione),
proseguono sia i suggestivi concerti di Ironikontemporaneo con
Alessandra Mostacci, sia l’attività del gruppo principale, che riceve un inatteso aiuto nientemeno che da una ditta di cioccolato di
Cremona, la Wal-Cor. I proprietari, infatti, grandi appassionati di
rock, dopo essere entrati nella produzione di alcune tournée italiane di Lou Reed, decidono di organizzare non solo una reunion
live dei vecchi Skiantos con tanto di scaletta d’epoca (benché quei
pezzi non siano mai mancati ai concerti) e piena di ospiti (tra cui
una disfida-chiarimento con Elio), ma anche di co-produrre il
nuovo album, che beneficia addirittura della distribuzione Universal e che conferma l’ultima frase espressa da Freak Antoni in
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un’intervista a Guglielmi del Mucchio, e cioè che gli Skiantos moderni continuano a fare dischi interessanti cui dare una chance.
Per Dio ci deve delle spiegazioni (possibilmente convincenti),
(Universal, 2009) rimandiamo alla recensione, osservando che,
oltre alla buona ispirazione, il disco conferma la scelta rock di
Sogno improbabile, con le sperimentazioni liscio-metal di Senza vergogna, una potentissima versione funk-rock della Merda
d’artista già in Ironikontemporaneo 2 e un inno come Odio il
brodo, nato in ambito basket e che contiene un distico tra i più
belli dell’opera di Freak: “non sopporto il detestarmi / ma detesto
il sopportarmi”, che nell’apparente demenza in realtà esprimono
quella ricerca e quello slancio di cui parlerà la figlia di Antoni
nella già ricordata orazione funebre. Lo stesso anno esce anche
l’EP Phogna – The dark side of the Skiantos (Universal, 2009):
si tratta di 4 canzoni che, secondo le note, non hanno trovato posto in Dio… perché di tematica “seria”. La cosa viene presentata
come una novità (quando in realtà già Troppo rischio… aveva segnato un passo del genere), e in realtà non manca l’ironia neanche
qui (come d’altra parte non mancava la serietà nella demenza).
È questo l’ultimo vero disco degli Skiantos, e se sembra una conclusione minore, quella vera lo è ancora di più.
Una vita spesa …
A questo punto, infatti, iniziano i dissapori anche con Latlantide:
il gruppo contesta la copertina coi pinguini di Sesso pazzo, l’etichetta sostiene che le ristampe in vinile di MONOtono e Kinotto
della Spittle non sono autorizzate perché la licenza è loro – secondo gli Skiantos la licenza è scaduta – e in generale il gruppo è
scontento non solo dell’etichetta, ma anche della fatica che fa in
generale, tra la label di Vasco che non risponde alle richieste di licenza per ristampare i tre dischi di fine anni ‘80, un management
di cui la band non è soddisfatta e un nuovo tentativo, ovviamente
fallito, di andare a Sanremo. La canzone proposta è Allegretto
ma non troppo, riflessione esistenziale insieme amara e divertita
come da titolo, la cui articolata struttura melodica è opera della
Mostacci: una chiusura di carriera più che degna, se si guarda alla
canzone in sé, ma il modo in cui viene pubblicata è indicativo di
qualche questione in ballo al momento.
Latlantide la pubblica sull’EP Balla la pace (2009) e su La Kreme (1977-2010): il primo è un EP che oltre a due versioni di Allegretto… ne contiene tre di Shalom Salam, una canzone dance con
testo pacifista realizzata secondo una vecchia ingenuità di certe
posse di inizio anni ‘90, ovvero
la convinzione che un testo
impegnato su ritmi ballabili
possa portare i frequentatori
delle discoteche verso le buone
cause. Il pezzo a tratti funziona
anche, ma è un’idea talmente
semplicistica che si fatica a
credere sia uscita dalla testa
del buon Freak – e forse non lo
è.
Il secondo disco, invece, è
un’operazione che giustifica
i malumori del gruppo verso
l’etichetta: si tratta infatti di
una nuova antologia con titolo
e copertina identici a quella del
2002 (tanto per confondere),
ma dove l’altra era stata realizzata chiedendo le licenze delle
canzoni alle etichette originali,
qui si fa tutto in casa. Gli album
classici, infatti, sono già di
Latlantide; per il resto, si copre
l’arco cronologico indicato nel
titolo usando le versioni live o
alternative uscite su Rarities
o su Skonnessi: infatti non c’è
nulla né da Sogno… né da Dio…
e al 2010 ci si arriva appunto
con Allegretto…. L’unica cosa
che salva la compilation è il
prezzo davvero basso, visto che
la musica contenuta merita:
ma è un’operazione talmente
sgraziata e opinabile che, a suo
modo, rappresenta una conclusione appropriata di una
carriera passata a litigare con i
discografici.
87
P referisco morire ( scherzavo)
Nel 2010, Freak annuncia la nascita della Freak Antoni Band:
con lui e Alessandra Mostacci ritroviamo Granito Morsiani alla
batteria, più un paio di giovani voci femminili, tra cui Sofia Buconi (anche lei provano a mandarla a Sanremo, poi tenterà X-Factor) – e qui le cose iniziano un po’ a intrecciarsi. Esce infatti un
disco del neonato gruppo, Dinamismi plastici (Ansaldi Records,
2011), con l’idea di voler fare qualcosa di diverso dal demenziale
ma che in realtà non si discosta troppo dai binari freakkiani, anzi
li sintetizza e li riassume: Il governo ha ragione viene da L’incontenibile… (il testo, perché la musica è nuova), il rock allegrotto di
Con un filo di gas poteva stare su Kinotto, Filastrocca della mamma mette in musica una lettera di Mozart (sboccata come Freak
non è mai stato) in pura modalità-Ironikontemporaneo, come la
majakovskiana Compagno Dio (che però mixa del metal), La merda è meglio dell’arte è la terza versione dello stesso pezzo con un
altro titolo, poi ci sono anche Salam Shalom (buon arrangiamento
ma continuano le perplessità) e Allegretto….Un menu piuttosto
composito, sia come fonti che come musica: il pregio principale
del disco è la mescolanza degli stili, anche all’interno della stessa
canzone (vedi una notevole Sciare, dove però a Freak sfugge una
rima “cuore/amore” in tono serio…), ma i due lenti, quelli scritti
per mandare la Buconi in Riviera, non c’entrano niente neanche
così.
A questo punto Freak ha tre progetti le cui scalette si intrecciano in più punti (nei concerti di Ironikontemporaneo suona sia
canzoni di questo disco, che degli Skiantos, e in quelli della FAB
idem) e purtroppo si è già manifestata la malattia: nonostante
tutto il Nostro si rimette in piedi e continua ad andare in giro per
concerti, anche ospite di Baccini canta Tenco (e infatti Una brava
ragazza, di cui Freak loda la modernità, finirà anche nelle sue
scalette), continua ogni tanto a prestare la sua voce a qualche piccola band, riceve il Premio Tenco alla carriera nel 2010, interpreta insieme a sua figlia il film Freakbeat (nel quale interpreta un
detective che indaga su presunti nastri hendrixiani), poi esce dal
gruppo. Sì, così a sorpresa: dichiarerà di essersi stancato di tutte
le difficoltà e dei pochi riconoscimenti riscossi dagli Skiantos, e
inizialmente vorrebbe impedire agli altri di usare il nome della
band (mentre Dandy inizialmente dichiara che il gruppo va avanti
con lui alla voce e Andrea “Jimmy Bellafronte” Setti a scrivere i
testi), ma i toni immediatamente successivi all’annuncio fanno
pensare che, se pure le difficoltà non sono nuove, la decisione sia
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stata presa e annunciata in tempi piuttosto rapidi.
A questo punto c’è tempo per un EP – Però quasi (CNI, 2012)
con una grande title track e qualche buona rielaborazione del
passato insieme a nomi inattesi -, per il documentario BiograFreak, per un’ulteriore gruppo (la Freak Flag Band, con cui si esibirà
l’ultima volta); poi, il 12 febbraio 2014, la notizia che il tumore
all’intestino ha vinto.
Finisce così una storia umana e artistica all’insegna dell’irriverenza, della ricerca dello slancio, del dialogo/conflitto coi propri
tempi, sia musicali, sia nel senso più generale dello zeitgeist;
quasi sempre caratterizzata dalle difficoltà, affrontate comunque
sempre con l’arma dell’intelligenza arguta.
Per questo, come epilogo, preferiamo ricordare non tanto il concerto dedicatogli nel giorno in cui avrebbe compiuto 60 anni, che
è stato bello ma in occasione del quale è venuta fuori l’esistenza
di ostilità serie tra Margherita Antoni e Alessandra Mostacci
(almeno a sentire Dandy Bestia, che su Facebook rispondeva a chi
chiedeva perché la pianista non fosse stata invitata); meglio piuttosto ricordare la sua ultima apparizione: mentre legge Pascoli
nel documentario Pascoliana dedicato al poeta. Anzi, al collega.
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Genere: pop, art
Non è sempre facile distinguere il genio vero,
una pulsante vena creativa e le sperimentazioni
realmente genuine dall'inutilmente pretenzioso, dall'esercizio di stile fine a se stesso e dal
"famolo strano un po' a caso che magari abboccano". È ancora meno facile quando ad imporsi
su questa pericolosa linea di confine immaginaria è un gruppo al debutto discografico, per
di più in un periodo storico in cui un certo tipo
di pop dalle elevate velleità art è ormai stato
sdoganato ed è diventato più digeribile anche
per il grande pubblico.
Loro si chiamano Adult Jazz, sono in quattro
(Harry Burgess, Tom Howe, Tim Slater e Steven Wells) e provengono da Leeds. Li abbiamo
segnati senza indugi in agenda fin dal primo
singolo Springful pubblicato ad inizio anno,
colpiti da un tutt'altro che timido incrocio tra
le ritmiche spezzate dei Dirty Projectors e
l'operato targato Alt-J.
Se i Wild Beasts sono un po' i numi tutelari, gli
Everything Everything i fratellastri, gli AltJ i discendenti più in vista, i Glass Animals
quelli più orecchiabili e Cosmo Sheldrake ed
i Febueder quelli ancora nell'ombra, gli Adult
Jazz sono coloro che fino ad oggi hanno spinto
più in là le complessità ritmiche avventurandosi spesso e volentieri in vortici di poliritmie, in
intrecci di gesta vocali e in strutture free-form.
Che sia il frutto di freddi calcoli per essere cool
in quanto ostici o se sia veramente il risultato
di un flusso incontrollabile di estro e fantasia,
90
non ci è dato saperlo, ma poco importa, perchè
una volta fatto partire l'esordio lungo Gist Is è
difficile non rimanere prima incuriositi e poi
catturati da una sottile tela che avvolge lentamente, beat dopo beat, intuizione dopo intuizione.
Il "jazz" sbandierato fin dal nome è presente,
ma in modo diverso dalle sfumature smooth
degli ultimi Antlers: l'aspetto jazzy di Gist Is
è quello che non concede spazio alla prevedibilità e che porta tutto ad un intricato livello
all'apparenza quasi randomico. Rispetto ai
colleghi gli Adult Jazz inoltre arricchiscono la
proposta con scale cromatiche prese in prestito
dalla world music (afro, calypso…) più tradizionale rese possibili da soluzioni mantriche e da
una grande varietà strumentale.
Un lungo labirinto di misure composte e dissonanze melodiche interpretate da un Harry
Burgess che compensa un timbro vocale meno
carismatico rispetto a quello di Hayden Thorpe
o di Joe Newman con slanci eclettici e continui
saliscendi. Ma se fosse solamente un discorso
di caos al limite del cacofonico, non saremmo
di certo qui a promuovere queste nove – lunghe – tracce: gli Adult Jazz sanno anche come
entrare in testa e lo fanno in modo subdolo:
nell'ottima opener Hum con le frasi ripetute
e con un improbabile effetto sulla voce preso
in prestito dalle avanguardie elettroniche, con
il ritmo acustico e con la cantilena del "ritornello" di Bonedigger o anche con la cadenza
sbilenca pseudo-hip hop del beat di Springful.
Quantità debordanti di micro dettagli stratificati si alternano ad introspezioni minimali
r e c e n s i o n i
s e t t e m b r e
Adult Jazz - Gist Is (Spare
Thought,2014)
e i momenti più solari si plasmano con passaggi che si fanno apprezzare maggiormente
di notte, con la luce spenta; è proprio questo
equilibrio, che si nasconde sotto a tonnellate di
voli pindarici musicali, a rendere Gist Is uno
di quei rari debutti in grado già di sorprendere
per maturità.
7/10
Riccardo Zagaglia
Genere: avant
Non inventa nulla Alessandra Novaga, è lei
stessa ad anticiparcelo sulle pagine di Musica
Jazz "Non credo in un'innovazione…ognuno è
libero di fare quel che vuole, basta che non racconti che sta innovando". Chitarrista originaria
di Latina e residente a Milano da anni, Alessandra coniuga sperimentazione musicale e teatro.
Pur provenendo da una formazione classica
sullo strumento, viene letteralmente fulminata dall'incontro con i newyorkesi Bang On A
Can, che le schiudono molteplici interazioni
col cosmo elettrico e fungono da spartiacque
per i suoi propositi. Nella sua biografia spunta
anche, come momento cardine (tanto da farla
convertire allo studio della chitarra elettrica
preparata), Trash tv trance di Fausto Romitelli. Dunque è riduttivo un semplice richiamo a
milieu quali John Zorn, anche se da lei stessa
reinterpretato, o Mauricio Kagel per il teatro
musicale. Piuttosto, come emerge dalla recente
interpretazione di Foliage di Elliott Sharp o nel
progetto Hurla Janus, Novaga ha un approccio
sempre solare che si diffonde in una multiprogrammazione. Per certi versi può apparire
scontato, ma nella sua etica è determinante il
contagio coi sensi temperati.
Nell'ultimo lavoro edito per Setola di maiale e
intitolato La chambre des jeux sonores l'artista, grazie anche all'aiuto di più compositori
Christian Panzano
American Splendor - Crash
(GoatMan,2014)
Genere: drone, post-rock, ambient
Nemmeno mezzora di musica, per questo mini
d'esordio a nome American Splendor, la sigla
dietro cui si cela Maria Teresa Soldani (chitarre, drones, voce) in combutta col 3quietmen
Ramon Moro (tromba). Dimensione visivo-filmica e immaginativa a go-go partendo da nome
(il riferimento al fumettista Harvey Pekar è
evidente) e titolo (altrettanto evidenti i rimandi
cronenberghiani), che stanno lì ad evidenziare
come le musiche di questi sei brani siano cinematiche ed evocative, avvolte da quella bruma
umorale che risalta anche nella splendida immagine "specchiata" che fa da artwork.
Musiche dunque al crinale tra un post-rock
composto e trasognato, spesso inquieto e
suggestivo – la splendida e massimovolumiana opener See, impreziosita dalle trame della
tromba di Ramon Moro e dalla voce recitata
di Michele Sarda (New Adventure In Lo-Fi)
91
s e t t e m b r e
r e c e n s i o n i
Alessandra Novaga - La chambre des
jeux sonores (Setola Di Maiale,2014)
(Zago, Mussida, Matthusen, Just e Gagliardi)
indaga quotidianità – un roboare d'aereo (Untitled, January) – e fiction – il gracchiare di un
carillon, il rintocco di campane (In memoria),
il battere di una macchina da scrivere – in un
riuscito schema dove le dinamiche si stendono
su lunghi bordoni (Collaborating Objects) in
climax e gradazioni negative, così da evitare
boriosi minimalismi.
La sperimentazione è sostenuta da piccole
iterazioni plastiche in cui si cerca un sensibilità groove-tattile (International Hush Ring) e
il carattere risiede nella capacità di attrarre al
timbro. La voglia di eludere le strutture "giocando" con la Fender è solo un orlo di tessuto
molto più luminoso di quello che si potrebbe
intravedere in superficie.
7/10
Genere: shoegaze
Sea When Absent, il capitolo numero quattro della saga A Sunny Day
In Glasgow, è tanto impegnativo quanto spiazzante. Bello quanto complesso e schizoide. Il quartetto, che ha vissuto diversi cambi di formazione negli anni, approda a una forma canzone pop in cui confluiscono
tantissime suggestioni tanto da disegnare una traettoria non facilmente
inquadrabile. Due voci femminili (quelle di Jen Goma e Annie Fredrickson), chitarre ora distorte ora sognanti, sintetizzatori che predispongono un'altalena sonora fatta di chiaroscuri, l'immancabile Ben
Daniels a dirigere l'astronave (perché è di questo che si parla).
Dagli ultimi Slowdive ai Cocteau Twins, dagli Animal Collective ai Beach House, si tratta qui
di definire una forma di art pop accessibile ai più: ci limiteremo a dire che il territorio di riferimento è quello del dream pop imparentato alla lontana con lo shoegaze e l'elettronica. L'impianto
sonoro è decisamente rock, il wall of sound costruito con le distorsioni chitarristiche e la corposità
del basso fa il paio con il massiccio utilizzo dei sintetizzatori; le voci non danno mai riferimenti,
sono volutamente tenute sotto in alcuni casi, per poi emergere minacciosamente nella loro eterea
bellezza.
A Sunny Day In Glasgow sono maestri nel creare atmosfere di chiara derivazione tardi Eighties/
primi Nineties senza scendere però al facile compromesso della tradizione. Anzi, arricchendolo
con una formula allo stesso tempo precisa e originale; sarà la scrittura, l'impasto tra le due diverse
vocalità femminili, l'utilizzo diverso e innovativo delle tastiere che svecchia il sistema, fatto sta
che un brano come In Love With Useless (The Timeless Geometry In The Tradition Of Passing),
posto così all'inizio di Sea When Absent, fornisce la chiave di lettura esatta del discorso.
Canzoni che al di là del proprio interessantissimo involucro sonoro presentano grossi hooks: è il
caso ad esempio di MTLOV (Minor Keys) – probabilmente uno dei momenti migliori dell'album –
o dell'accoppiata The Body, It Bends e Crushin'. Per l'appunto, due autentiche gemme pop, piazzate a 100 metri sopra le nostre teste, morbide nei suoni e dove una melodia cristallina tratteggia stati umorali dolceamari; oppure di un brano come Double Dutch, un perfetto e brevissimo esempio
di moderno e tosto dream pop, catchy al punto giusto e guidato da un basso sporco e potentissimo.
A chiusura dell'album, Golden Waves offre, come da titolo, onde sonore all'interno delle quali le
voci dialogano tra loro senza emergere più di tanto, offrendo il fianco all'impalcatura rock dell'intera faccenda. I dischi importanti sono quelli inizialmente ostici, che richiedono diversi ascolti
prima di essere visti nella loro disarmante bellezza e complessità: per spiegarlo in modo chiaro,
Sea When Absent.
7.3/10
Stefano De Stefano
92
r e c e n s i o n i
s e t t e m b r e
A Sunny Day in Glasgow - Sea When Absent (Lefse,2014)
– altre volte romantico e struggente come un
tramonto in solitaria (Mouth, con la voce di
Enrico Viarengo sempre dei New Adventure…)
o come una sorta di dissolvenza nostalgica e
struggente (A Minor Tune, voce di Simone
Stefanini dei Verily So). Come chiosa, i riverberi e loop della chitarra della Soldani affidati
a Laminates sono il giusto arrivederci per una
musica tanto intima quanto emotivamente
feroce e stordente, in attesa di una prova sulla
lunga distanza.
6.8/10
Stefano Pifferi
Genere: pop, art, synthpop
Un esordio di altissima levatura nel '78 con
Masturbati, una rinascita in grande stile nel
2010 con Siamo nati vegetali e poi, per il cantautore siciliano Andrea Tich, una strana fase
d'arresto con questo doppio album a titolo Una
cometa di sangue. Il perché è probabilmente
un affare personale. Analizzandone attentamente approccio musicale e lyrics si respira
aria di una qualche conversione misticheggiante o per lo meno l'avvento di uno stato di grazia
emozionale che rende il cielo più azzurro e i
fiori più profumati.
Roba del genere l'ha sperimentata in maniera
certamente diversa un altro grande outsider
italiano, quello Juri Camisasca che, licenziato
un capolavoro come La finestra dentro (1974),
qualche anno più tardi scelse di prendere i voti
e sparire dal mondo della canzone popolare.
Risorse artisticamente nei '90 con l'ingombrante spiritualità de Il carmelo di Echt e
capitombolò malamente nel '99 con il naif artrock di Arcano enigma.
Talvolta, una grazia ricevuta suona come una
vera e propria disgrazia. La cometa del Nostro
non lascia dietro se una scia sanguinolenta: si
s e t t e m b r e
r e c e n s i o n i
Andrea Tich - Una cometa di sangue
(Snowdonia,2014)
parla piuttosto di amore che guarisce (Biodiversi) con un linguaggio più facile che semplice, ricco di immagini abusate da tanti prima di
Tich. Pur non mancano sprazzi di originalità
bella e buona, quale la chitarra simil Durutti
Column su Sono solo i tuoi occhi, azzoppata
purtroppo da versi come "amore, il paradiso/è
il tuo sorriso".
Il sound è una new-new wave (cioè una wave
letta all'ombra dell'anno in svolgimento) e dunque sostanzialmente digitale, precisina, fredda
più che algida e perciò non destinata a ficcarsi come un pungolo nel cuore di chi ascolta.
Manca in primis il manipolo di sessionmen
fornito dalla Cramps nell'ottimo esordio ma
pure canzoni davvero necessarie, nonostante
i 24 tentativi di un album lungo e non sempre
a fuoco. Le interpretazioni vocali gravitano
troppe volte attorno a un cantato-recitato quasi
identico da un brano all'altro, sicché spesso si
ricorre all'espediente di conferire alla voce un
discreto filtro sintetico, giusto per differenziare
il ritornello dalla strofa (si ascolti a proposito la
vecchia volpe di Morgan che in questo escamotage è abile maestro).
Una cometa di sangue è lavoro che tanto promette a partire dal titolo e mantiene non molto,
colmato com'è di ninnananne quasi adulte e
divagazione sul tema della luce. Il ritratto di un
uomo sereno che vuole comunicarlo al prossimo mediante il mezzo musicale.
6.2/10
Filippo Bordignon
Artemoltobuffa - Las Vegas nel bosco
(Lavorare stanca,2014)
Genere: folk
Si era nel pieno degli anni Zero sulla sponda
del torrente indie ad aspettare qualcosa che
settimana dopo settimana puntuale arrivava. Un rifiorire di sensibilità e versatilità, un
ridefinire gli ambiti dell'espressione mentre
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s e t t e m b r e
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simi, cucendosi addosso una normalità appena
sfasata che sa cogliere l'uggia esistenziale del
quotidiano (Fino a lunedì, I terrapieni), priva
di intellettualismi e solo in rari casi preda del
didascalico (Tenere assieme). In questo quadro
non sorprende troppo l'inclusione in scaletta
de Il crepuscolo, rilettura in italiano di Grace
Cathedral Park dei Red House Painters, forse
i più laconici tra i cantori dello spaesamento
generazionale post-80s. Anche in quel caso, la
semplicità di modi e forme non implicava affatto banalità espressiva. Tutt'altro.
6.9/10
Stefano Solventi
BANKS - Goddess (Harvest,2014)
Genere: pop, art, rnb, elettronica
"Oltre 30.000 like su Facebook ma al momento
ancora nessuna pagina su Wikipedia": così presentavamo Banks all'interno della recensione
dell'EP London. Oggi, circa un anno più tardi,
i fan su Facebook sono più di 235.000 e finalmente è disponibile una dettagliata pagina Wikipedia: per Jillian Banks – Los Angeles, 1988
– gli ultimi dodici mesi sono stati un ricettacolo
di soddisfazioni, sia per l'inclusione all'interno
di decine di liste sugli ones to watch 2014 (la
nostra, ma anche BBC Sound Of, iTunes, MTV,
Spin ecc…), sia per i numerosi apprezzamenti
ricevuti un po' ovunque.
Come per altri colleghi baciati da dosi – forse
eccessive – di hype pre-debutto lungo, la prova
più difficile per Banks è però quella di riuscire
a confermare tutto il clamore con un primo album intitolato Goddess. La scelta di marketing
è stata quella di continuare a pubblicare singoli
durante tutta la prima parte dell'anno – Brain,
Goddess, Drowning, Beggin for Thread – con
il risultato che, da un lato, la Nostra è riuscita a
mantenere alta per mesi l'attenzione sulla sua
produzione e parallelamente, dall'altro lato,
abbiamo a che fare con un album d'esordio
r e c e n s i o n i
i tempi volgevano alla confusione cupa con
venature apocalittiche. In questo quadro fece la
sua comparsa Artemoltobuffa, progetto di neo
cantautorato sensibile e inevitabilmente indie
di Alberto Muffato, due album tra il 2004 e il
2007 (Stanotte Stamattina e L'Aria Misteriosa) che solleticarono attenzioni grazie ad
un'agilità schiva, la forza della timidezza arguta
che sa nuotare di traverso tenendo la testa fuori
dalla mediocrità, combinando parole e melodia
in una trama di suoni e "suonini" che decollano dalla cameretta con la sicumera aggraziata
dell'introverso che ha ben decifrato il codice
delle frequenze radio.
A tutte queste belle cose però è seguito un
silenzio che a dire il vero sembrava abbastanza
consequenziale e definitivo. Tipo che si fosse
sgonfiata quell'onda epocale lasciando a secco
in parecchi, tra i quali il buon Muffato. Invece
no. Dopo l'eternità di un settennato conduce in
porto il fatidico terzo album, spalleggiato tra gli
altri dal fido Massimiliano Bredariol (Valentina Dorme) e coadiuvato alla produzione da
Fabio De Min (Non Voglio Che Clara). L'approccio è quello che ricordavamo, tra l'arguzia
serafica e allusiva di Samuele Bersani e l'estro
radiante e sornione di un Badly Drawn Boy,
come mette subito in chiaro la opening Il bello
delle onde tutta acidula luminosità. C'è inoltre
quel senso di strisciante nostalgia per un l'altro
ieri già sfuggito tra le dita, gioco di palpitazioni
tenui che raccoglie le residue particelle Elliott
Smith col retino di un Cristicchi (I testoni),
oppure impasta con nonchalance Perturbazione e Grandaddy (Las Vegas nel bosco Pt. 1).
La scaletta è un carosello agrodolce di inquietudini a media intensità che raggiunge pienezza di senso in virtù della coerenza delle parti.
Intendo quel rimpallo di tastiere sfrangiate,
tremolio di chitarre, trapassi acustici verso il
sintetico con febbricole elettriche, uno stare tra
le cose insomma senza clamore, senza virtuosi-
r e c e n s i o n i
raggiungibile. In questo senso un disco come
Goddess finisce per suonare – per utilizzare
un brutto termine – "normale", sospeso in un
limbo dai contorni indefiniti tra fruibilità di
massa e attitudini e gusti più ricercati.
Ad ognuno il suo: chi reputa dischi come LP1 e
Cut 4 Me troppo ostici e privi di hook immediati e chi trova Ultraviolence incredibilmente
ripetitivo e noioso, troverà in Goddess il perfetto compromesso da ascoltare e riascoltare
durante i prossimi mesi. Fossero tutti così i
dischi pop…
6.8/10
Riccardo Zagaglia
Basement Jaxx - Junto (Atlantic
Records,2014)
Genere: house, elettronica
Tornano dopo cinque anni Felix Buxton e Simon Ratcliffe. Difficile per loro come per molti
dei gruppi nati alla fine degli anni Novanta
misurarsi ancora una volta con il verbo stantìo
della house, un colosso monolitico che alterna
viaggi su carrozzoni da stadio o buie caverne
per pochi iniziati. Il duo di Brixton ha sempre
risolto l'eterno dilemma pop vs. underground
con un massimalismo onnicomprensivo che
stava in piedi grazie a un edonismo e una voglia
di fare festa appaganti molteplici palati.
Il nuovo disco mantiene la linea dei precedenti,
però dopo qualche minuto si percepisce una
patina di già sentito imbarazzante. In Junto i
nostri provano a bazzicare cioè su tutti i generi
più o meno mainstream per il pubblico del dancefloor, modificandoli con nuances piacione.
In particolar modo chi si è stancato dell'EDM e
cerca la deep (vedi i suoni della Kompakt degli
ultimi tempi o il verbo dei GusGus post-2010)
qui troverà pane per i propri denti.
In generale, c'è meno allegria e meno scazzo
ibizenco, rispetto ai noughties: non impressioniamoci, quindi, se nel calderone troviamo sia
s e t t e m b r e
composto – nella sua versione standard – da
quattordici tracce di cui ben otto già conosciute, lanciate a dovere e consumate da una non
così piccola fetta di pubblico.
Ritroviamo quindi alcuni dei brani simbolo
della fin qui breve carriera della ventiseienne
americana – su tutti Waiting Game, ancora
oggi una gemma – e alcuni dei produttori con
i quali ha avuto la fortuna di lavorare in passato, in particolare il lanciatissimo SOHN (qui
presente anche con l'inedita Alibi) e Totally
Enormous Extinct Dinosaurs, il quale figura
nel ruolo di co-autore e produttore in Fuck Em
Only We Know (oltre che nella già apprezzata Warm Water). Non un dettaglio da poco, in
quanto – è inutile nasconderlo – fino ad oggi
l'operato targato Banks si è distinto più per
la qualità della produzione che per il risultato
complessivo.
Goddess non fa eccezione: in Brain mister
Shlohmo plasma un beat decisamente solido, in
Drowning Shux – già dietro alla hit planetaria
Empire State of Mind di Jay-Z – compie un gran
lavoro di rifinitura tra i sample, mentre nella
ballatona piano-voce You Should Know Where I'm Coming From è chiara l'influenza della
produzione di Justin Parker, un vero maestro –
quanto, forse, limitato – in questo tipo di soluzioni (Lana Del Rey, Laura di Bat For Lashes e
Straight for the Knife nell'ultimo di Sia).
Sia chiaro, Banks è dotata anche di un'ottima
voce, ipnotica e capace di muoversi trasversalmente (si ascoltino Stick e Under The Table per avere i due opposti) tra le sfumature
e le ritmiche della pop music; la sua sfortuna
è stata forse quella di uscire in un periodo in
cui tutti gli occhi sono puntati su FKA Twigs,
personaggio che estremizza molte delle caratteristiche vincenti della californiana (produzione, beat dalle tonalità spesso oscure, tecnica
vocale, dialogo tra elettronica, art pop e profumi r'n'b) portandole a un livello difficilmente
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Genere: impro, freejazz
Injuries, ultima fatica degli Angles, prova a sciogliere il ghiaccio con una
cremagliera bianca di vibrafono. E difatti European Boogie appartiene a
Mattias Stahl, anche se la pattuglia fiati composta da Magnus Broo, Mats
Aleklint, Goran Kajfes e Eirick Hegdal, con Martin Kuchen in testa a
disegnare una declamatoria fusiforme, risulta solitamente decisiva ai fini
critici. Sul passamano di Kuchen è stampigliato Trespass trio, Trondheim
Jazz Orchestra e la sequenza folle degli "angoli" (6,8,9).
Il volto collettivo/politico è palese: in Eti si coglie la melodia del piano
di Alexander Zethson che corre pensile sopra l'udito arrendevole, decimando ogni pelo di faglia, ogni dubbio di vuoti a perdere tribali, per poi imboscarsi nel fortunale
di fiati finale. Zethson si diverte a tracciare il tema base di Compartmentalization, atto che chiude
il lotto, con una sestina di piano ad accenti irregolari, badminton per un free dinoccolato. Inoltre
dona un fascino blues agli screziati di Ubabba, brano che incanta. Invece la title track lo coglie in
un'embrionale sottrazione fra i tasti che sembrano petriere lanciate dopo la rivoluzione messicana, fra mariachi sotto mentite spoglie di sax, trombone e sopranino. A desert On Fire, A Forest/
I'Ve Been Lied To - dietro i suoi quasi 23 minuti di larga attesa – non fa che trasecolare, gemmare,
ridestare tra robinie e dèjà vu certificati senza appallottolarsi mai; una suite maliarda a direzione
collettiva sia nelle inflessioni di caduta, come nella ricca serie di scene solipsistiche.
La ritmica storta quando il tempo è sostenuto, cisposa quando il tempo tende a dilatarsi, è diretta
da 2/3 dei Fire!, Johan Berthling e Andreas Werliin. Manca Mats Gustafsson, ma non si desti
sospetto visti i ripetuti flirt fra i rispettivi band leader e la comune patria. In Our Midst è avvolgente e calda come lo fu due anni fa Today Is Better Than Tomorrow, ritracciabile nella formazione a 8 registrata al Ljubijana Jazz. Un'indocile melodia si staglia verso il quarto minuto e conduce
per mano il gioco degli altri fiati, che come fratelli minori seguono l'argine fischiando il dramma,
a volte mediterraneo a volte arabo o solamente ispanico, e le secche chiuse di battuta che come
scene madri piangono una solitudine, un urlo.
7.6/10
Christian Panzano
suoni samba (Rock This Road, ma ricordate il
singolo Samba Magic della fine dei Novanta,
con addirittura l'intervento di DJ Sneak?) che
dubstep, voci '80 femminili mescolate a nerissimi bassi (What's The News) e funk (Summer
Dem). Il tutto viene poi condito dalla solita
pletora di stop-and-go e bassi squadrati, che
conosciamo a menadito.
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Ben prodotto, certo, ma il duo inglese gioca
veramente troppo facile e si butta sul caleidoscopio di emozioni per attirare consensi, più che
per studiare un prodotto che non passi di moda.
Fra quanto ci saremo scordati di questo ennesimo lavoro? Una mezza delusione. Peccato.
5/10
Marco Braggion
r e c e n s i o n i
s e t t e m b r e
Angles 9 - Injuries (Clean Feed,2014)
Genere: psych, indie, synthpop
Si deve dar atto a Jon Philpot di non essere
un artista prevedibile. A molti la sua voce può
apparire spettrale, a tratti distaccata, persino
svogliata, ma è perfettamente funzionale a una
proposta che album dopo album ha saputo
fondere krautrock, sonorità indie e new wave
(nei primi due dischi) e un synth-pop aggiornato quanto basta (in I Love You, It's Cool del
2012); si è sempre evoluto e spiazza di nuovo,
con Time Is Over One Day Old, una sintesi
convincente degli elementi cardine di quella
che è stata la musica dei Bear in Heaven in
dieci anni d'attività ma che non rinuncia affatto
a pochi, ma importanti, elementi di novità. Non
male per una band che, pur coccolata da riviste
specializzate e forte di un seguito live crescente, all'inizio era sempre rimasta all'ombra dei
più conosciuti Animal Collective.
Tutto sta nel capire se si vuole essere travolti
dal tempo che passa, e quindi adagiarsi fino
a divenire irrilevanti a causa dell'inevitabile
cambio di gusti e di tendenze del pubblico, o
se si vuole imparare a domarlo; i Bear in Heaven hanno scelto di percorrere, per fortuna,
la seconda strada. Prima di tutto c'è un nuovo musicista nella line-up, il batterista Jason
Nazary, che grazie alla propria preparazione
classica e jazzistica abbinata a un'attenzione
rivolta tanto al ritmo quanto alla qualità delle
melodie, ha saputo mettere in riga i più indisciplinati colleghi Jon e Adam Wills in studio
d'incisione; eppure, strano a dirsi, questo nuovo lavoro è molto meno ordinato e "studiato"
del precedente, con materiale nato spesso dopo
jam session che hanno liberato la creatività
del trio. Una nuova consapevolezza, quella del
less is more, ha convinto Philpot (produttore
dell'intero disco) a usare meno strumenti e a
concentrarsi su ogni singola traccia, a partire
da synth gentili che però sanno guadagnarsi,
quando necessario, il centro della scena.
Una produzione più frugale ma anche più
"a fuoco" fa funzionare il trittico iniziale – il
suono caldo del sintetizzatore che accompagna la voce e la sezione ritmica in Autumn,
quasi una versione più eterea dei New Order
di Get Ready; il primo singolo Time Between
dal ritornello semplice e scandito, l'incidere
saltellante, vagamente alla Clash, di If I Were
To Lie – e rende interessante, senza appesantirla, They Dream. Qui la voce eterea di Philpot
è sullo sfondo, quasi a confondersi con i pad,
fino a quando il ritmo rallenta e si dilata in una
nube ambient à-la Tangerine Dream; il ritornello di The Sun and the Moon and the Stars
è un sussurro su una base che fa coesistere
malinconiche chitarre trattate e un'elettronica
avvolgente, con rimandi ai primi Air. Non sono
scomparse le pulsioni dance-pop di due anni fa,
lo si nota in una Way Off che in secondo piano
presenta un riff rubato con scaltrezza ai primi
Talk Talk di Today; giusto Demons e Dissolve
the Walls possono essere considerati pezzi da
sgrezzare ulteriormente e riscrivere in parte,
in particolare il secondo, che suona come una
lunga introduzione al brano conclusivo I Don't
Need The World. Piccoli incidenti di percorso che si possono tranquillamente perdonare
a una band che, arrivata al quarto album, ha
saputo non solo rimanere "rilevante" ma anche
rimescolare intelligentemente le carte.
7/10
s e t t e m b r e
r e c e n s i o n i
Bear In Heaven - Time Is Over One Day
Old (Dead Oceans,2014)
Alessandro Liccardo
Beck - Beck Song Reader
(Capitol,2014)
Genere: cantautori, folk
Comunque vada ci ricorderemo di questa
iniziativa di Beck, che forse solo uno come
Beck (in combutta con l'arguto scrittore Dave
Eggers ed il suo progetto di cultura alternativa
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profetica. Invece, ecco queste canzoni, di per
sé mediamente valide con pochi momenti di
eccellenza, per giunta non riscattate da interpretazioni piuttosto formali. Ai Fun ad esempio manca il languore obliquo di un Rufus
Wainwright per decollare dal cono di luce
broadwayano (Please Leave A Light On When
You Go), così come a Bob Forrest non riesce
di dosare la giusta inquietudine nella fin troppo
accademica mistura The Band (Saint Dude).
Nomi grossi come Norah Jones (Just Noise) e
Jack White (I'm down) timbrano il cartellino
nel più scontato dei modi e senza neanche bisogno di fare la doccia. Quanto al buon Tweedy (alle prese con The Wolf Is On The Hill),
non è altro che questo: tipico Tweedy acustica
più slide che non scalza nessuna ballata tweediana dalla memoria. Idem dicasi per l'onorevole Loudon Wainwright III, che spedisce Do
We? We Do come una solenne cartolina illustrata country, banjo, chitarra, fiddle, armonica
e tutto il resto. Son cose che pesano quando tiri
le somme. E non ho messo in conto l'orrido pop
latino di Juanes (Don't Act Like Your Heart
Isn't Hard), degno di abbellire la soundtrack di
una Violetta a caso.
Non resta che consolarsi con alcuni momenti
effettivamente azzeccati che per forza devono
esserci: tipo una Eleanor Friedberger (Old
Shanghai) che gioca a fare la vestale tra miraggi
spacey e tremori vintage, il calore basico del
blues nero imbastito da Swamp Dogg (America, Here's My Boy) e, ok, un Jason Isbell bravo
a irrorare Now That Your Dollar Bills Have
Sprouted Wings di acidità ed energia degna dei
primi Black Keys. Rubricate come apprezzabili le prove orchestrali di Marc Ribot (cinematico in senso Nino Rota via Morricone) e
Gabriel Kahane, resta da dire di un Jarvis Cocker che fa il Brian Ferry spolpato (Eyes That
Say 'I Love You), di David Johansen (Rough
On Rats) sempre più macchietta tra Waits ed il
r e c e n s i o n i
McSweeney's) poteva permettersi. In soldoni:
prima pubblicare un libretto di composizioni
su carta, quindi far uscire un disco di cover di
canzoni mai incise. Non parliamo di una situazione inedita, anzi, però non accadeva da un
bel pezzo e non avremmo mai detto che sarebbe successa di nuovo. Invece, vedi come le magnifiche sorti del progresso determinino corsi e
ricorsi sorprendenti, estremi che avvolgendosi
a spirale in una rincorsa frenetica finiscono per
collassare l'uno nell'altro.
Nella fattispecie, lo sfruttamento del pezzo
registrato ha subito una svalutazione verticale
che torna a farci riflettere sul valore dell'edizione, della sheet music. Perciò un paio d'anni
fa Beck si concesse il lusso di mandare alle
stampe un libro di spartiti contenente venti
canzoni inedite che ognuno avrebbe potuto realizzare (arrangiare, suonare, cantare) da sé. In
questo senso, l'operazione fece molto riflettere
e discutere, ponendoci di fronte a questa specie di eclissi sonora come fosse il riflesso sullo
specchio nero del futuro imminente. Un'ipotesi. O una minaccia. Dipende. In ogni caso, la
vicenda si chiude oggi con una festa, celebrata
da un autentico carosello di amici e colleghi,
con effetto complessivo fin troppo patinato.
Consentitemi: c'è qualcosa che stona. E non mi
riferisco certo alle performance, tutte puntuali,
esercizi di professionismo partecipe e a tratti
intenso.
Semmai è proprio l'atmosfera da parterre de
rois, l'adesione entusiastica alla giostra per la
maggior gloria dell'ex-loser promosso al rango
di guru radical-chic di un'epoca musicalmente (e non solo) al crepuscolo. Semplicemente,
questa cosa non andava fatta. Non così. Il senso
era rimanere su carta, oppure uscirne "naturalmente", con versioni sbocciate spontanee nel
corso del tempo, di cui magari a gioco lungo
fare antologia, raccogliendo così i frutti di
un processo innescato con intelligenza forse
Reed più gigione, di una Laura Marling (Sorry) che si disimpegna ruvidella e sfrangiata.
Quanto al padrone di casa Mr. Hansen, sfodera una Heaven's Ladder che è ibrido George
Harrison con spolverata di pepe power pop,
in linea con l'ultimo buon Morning Phase ma
senza quel trasporto abbacinante e amniotico.
Il punto è proprio questo: detto di come l'idea di partenza meritasse ben altro sviluppo,
c'è questo disco che vale più o meno come un
album tributo tra i tanti, privo di sensibilità
portante, di una visione che determini tensione
e forma, proprio quello che ha reso eccellente
l'ultimo Beck oltre le sue attuali capacità di autore. Accettiamolo come monito: il concetto di
album ha ancora un senso, che va oltre la carta.
5.5/10
Bleachers - Strange Desire (RCA,2014)
Genere: pop
Protagonisiti di uno dei casi discografici più
imprevedibili e assurdi degli ultimi anni, i fun.
durante la stagione 2012/2013 sono stati portabandiera di un compromesso sfacciatamente
commerciale tra alcuni degli ingredienti meno
digeribili dell'attuale panorama musicale: l'esuberanzia fake-indie, il teen rock di casa Fueled
by Ramen, il Glee-pop più becero ed un pacchianissimo immaginario featuring tra Queen
e Mika. Il risultato? Due hit planetarie (We
Are Young e Some Nights), tre milioni di copie
dell'album Some Nights, un paio di Grammy
Awards e chi più ne ha più ne metta.
Da una costola dei fun. – precisamente dal
chitarrista Jack Antonoff – è nato il progetto
Bleachers, una scelta che non solo particolare
considerato che la main band ha già suonato
materiale nuovo (Harsh Lights) ed ha annunciato che tornerà in studio tra pochissimo per
registrare il successore di Some Nights, ma
anche potenzialmente scomoda alla luce dei
s e t t e m b r e
r e c e n s i o n i
Stefano Solventi
positivi riscontri commerciali che Jack Antonoff sta avendo negli ultimi mesi, ovvero da
quando dal nulla a febbraio è stato rilasciato il
singolo I Wanna Get Better.
Ascoltando le tracce di Strange Desire, l'album di debutto a nome Bleachers, è facile intuire chi sia il principale responsabile dell'immediatezza melodica dei fun. Si prenda per
l'appunto I Wanna Get Better, c'è tutto ciò che
ha fatto la fortuna del suo gruppo: la tastiera a
dirigere, il beat corposo e il ritornello corale.
La formula è piuttosto standardizzata e priva di
particolari rischi ma rispetto alla proposta del
suo gruppo i toni, per quanto radio-friendly e
spensierati, assumono connotazioni dal retrogusto nostalgico rafforzato, oltre che dall'apprezzabile timbro del nostro, dalla produzione
di Vince Clarke (Depeche Mode, Erasure,
Yazoo) in grado di trasformare buona parte del
repertorio targato Bleachers in materiale che
non sfigurerebbe in una qualsiasi compilation
one shot '80.
Strange Days non è solo composto da brani ad
alta concentrazione di synth ma anche da pezzi
guitar-driven, è il caso di Rollecoaster (heartland rock in versione party, come You're Are
Still a Mystery del resto) di Wake Me e della
vagamente talkingheadsiana Shadow. Passaggi
minori i fugaci featuring di Grimes (Take Me
Away) e Yoko Ono (I'm Ready To Move On),
mentre poco inquadrabile Reckless Love: strofa
ad altezza The National in formato top40 e
ritornello inqualificabile.
Personaggio inseritissimo nello showbiz – la
sua attuale compagna è Lena Dunham – a cui
però piace mantenere contatto con il circuito
"indie" più in vista (probabile che nella collaborazione con Janelle Monae su We Are Young
ci fosse il suo zampino), Jack Antonoff senza
prendersi troppo sul serio confeziona undici (o
quasi) "all killers no fillers" che rendono Strange Desire un lavoro furbo ma non stupido e
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Genere: psych, art, lo-fi, noise, folk
Lepers Productions continua a sfornare a cadenza regolare album in free
download, mescolando le carte tra i nomi del roster come se fosse tutto un carosello situazionista con cui mettere a ferro e fuoco la banalità.
Insomma, c'è fermento da quelle parti, è bene tenerlo presente. Così se
capita un gioiello come questo omonimo debutto per i Centauri magari
non ce lo perdiamo. Artefice del progetto (scusate il termine) è il versatile Superfreak, ben noto a chi frequenta queste pagine, spalleggiato da
due compagni di scorribande come Massimo De Luca e Tab Ularasa (chapeau allo pseudonimo).
Un trio insomma che in otto tracce per circa venticinque minuti di durata sbraita a livelli cosmici
e con attitudine low-fi nevrastenia vaudeville strattonata psych. L'effetto che producono è strano:
è come se trasformassero una bettola in un battello stellare e poi su quello decollassero per un
viaggio ebbro tra scorie noise e malinconie inacidite, mescolando teatralità e trasporto, goliardia e
mistero, visioni e abbandono. La opening Two Sun infila il fantasma di Barrett nel tritacarne Flaming Lips col condimento dEUS, poi Speak To Your Dead caracolla febbricitante come dei Black
Heart Procession col vibrione Julie's Haircut.
Dopodiché è un darci dentro di suite che spiana pianoforte, theremin, tromba in un vento di agra
e spersa follia (Alfa Centauri A), come un cabaret sul lato scuro di una luna di cartapesta (Alfa
Centauri B) che va a smorzarsi tra le braccia di un languido abbandono free (Proxima Centauri). È
musica suonata con urgenza liberatoria e un pizzico di sana disperazione, aggrappata ad un pungolo amaro di provincia profonda che forse sogna di lasciarsi anni luce alle spalle, come dimostrano il barcamenarsi waitsiano in un'orgia caciarona e triste di Find Me! I Got Lost, la verve bucolica
in levare di On The Road e infine il mormorio oppiaceo della conclusiva Always The Same.
Disco bizzarro, sbrigliato, intenso, meravigliosamente breve: buon decollo (e ritorno).
7.4/10
Stefano Solventi
generalmente degno di una considerazione
maggiore non solo rispetto all'operato brandizzato fun ma propabilmente anche rispetto
all'esercito di band power-pop in viste pseudoindie (Magic Man, Smallpools, Basic Vacation,
Colourist, Bad Suns…) sul trampolino di lancio.
6/10
Riccardo Zagaglia
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Blonde Redhead - Barragán
(Kobalt,2014)
Genere: pop, rock, indie, wave
Sono passati quasi quattro anni dall'ultimo
disco del trio italo-giapponese di stanza a New
York. Allora Penny Sparkle sembrava un oggetto elegante ma parzialmente irrisolto, figlio
tardivo della sterzata a metà con l'approdo in
4AD di Misery Is A Butterfly ormai dieci anni
fa. Se quest'ultimo era stato uno spartiacque
nella parabola della band, Barragán, album
r e c e n s i o n i
s e t t e m b r e
Centauri - Centauri (Lepers Produtcions,2014)
Marco Boscolo
r e c e n s i o n i
BROODS - Evergreen (Capitol,2014)
Genere: pop
I Broods "dimostrano di essere già in grado di
piazzare potenziali hit (Bridges, Coattails), pur
faticando a distinguersi all'interno di un panorama art-pop elettronico sempre più saturo".
Con queste parole a inizio anno sintetizzavamo
l'omomino EP di debutto del duo neozelandese: con il supporto mediatico reso possibile
dalla doppia firma in formato major – Capitol
in USA e Polydor in UK – il progetto formato
dai fratelli Georgia e Caleb Nott non ha tardato
a trovare ottimi riscontri di pubblico durante
i primi mesi del 2014 (Broods EP è arrivato
fino alla 2° posizione in patria e in top 30 in
Australia), grazie ad un singolo vincente come
Bridges (incluso nella nostra compilation SA
Presents: Tracks from EPs 2014 – first half ).
Con questo curriculum il duo si presenta alla
prova del nove – l'album d'esordio Evergreen
– con tutti i pronostici favorevoli del caso, ulteriormente agevolati dall'aiuto di Joel Little (già
al lavoro con Lorde) nel ruolo di produttore e
co-autore in tutti i brani del disco, tra i quali
figura – oltre a Bridges – anche Never Gonna
Change, altro singolo ben arrangiato, dall'hook
melodico convincente plasmato su sonorità che
possono ricordare quelle proposte da BANKS.
L'universo in cui il progetto si muove è quello
iperbattutto del synth-pop a battuta lenta che
predilige l'atmosfera (sempre più iperprodotta
e plastificata) agli slanci ritmici. In questo senso funzionano comunque a dovere gli slow motion di Killing You e Medicine, dove troviamo
anche la sorella minore Olivia ai cori. Nelle rare
incursioni in zona uptempo, invece, vengono
a bussare i fantasmi del pop svedese (il chorus
della scomposta L.A.F.), ma il vero limite di un
disco come Evergreen è che i due elementi di
fondo non possono vantare lo stesso fascino di
alcuni colleghi: il timbro della ventenne Georgia è ancora privo di grossa personalità (siamo
s e t t e m b r e
numero nove, è in perfetta continuità con 23 e
Penny Sparkle (e di questo è dichiarato seguito). Si è così equiparato il numero di album più
schiettamente post-no wave/noise dei 90s con
quelli più arty-pop dell'ultimo decennio.
Quindi è forse giunto il momento di smettere
di leggere la produzione dei Blonde Redhead
di oggi cercando continuità o discontinuità con
la band degli esordi, perché sembra oramai del
tutto evidente che, eccezion fatta per Misery
Is A Butterfly, le due parentesi sono complementari: una chiusa nel 2004 e una ancora
aperta. E stando alle loro parole (vedi intervista
durante il tour del 2010), i dischi più recenti sono, più degli altri, i dischi di Kazu (che
qui cura anche l'artwork). Rispetto al recente
passato c'è un maggior interesse per il field
recording e l'ambient, che emerge in tanti dettagli del disco. Ma c'è anche qualche influenza
"krauta" (Mind To Be Had, cantata da Amedeo)
e un tocco bucolico (la titletrack e il suo flauto
che sa di Canterbury).
Non ci si scosta molto da atmosfere arty (Defeatist Anthem (Harry and I)), pop astratto
(No More Honey) e nenie infantili (Cat on Tin
Roof ). Di nuovo c'è un interesse verso il beat
(Dripping), seppure sempre declinato attraverso una personale interpretazione (Penultimo).
Interesse, forse, figlio anche della collaborazione con il produttore Drew Brown (Beck,
Radiohead, The Books).
Nonostante il passare degli anni, i Blonde
Redhead rimangono sempre riconoscibili,
seppure le loro canzoni difficilmente lascino
davvero il segno. Si ha come l'impressione di
essere di fronte a un ottimo profumo: ogni
volta che lo metti lo riconosci e lo apprezzi, ma
dopo poche ore è già evaporato dalla pelle.
7.1/10
101
Riccardo Zagaglia
Cabaret Voltaire - #7885 (Electropunk
to Technopop 1978 – 1985)
(Mute,2014)
Genere: wave, industrial
I Cabaret Voltaire sono il punto di partenza per
qualunque discorso sulla contaminazione tra
il rock, la musica industriale, la dance e l'elettronica che voglia partire da una prospettiva
storica. Nel laboratorio del gruppo di Sheffield
sono passate a livello embrionale molte dinamiche della musica pop contemporanea, a
partire dall'industrial, che i CV hanno tenuto a
battesimo con tattiche non meno d'avanguardia
anche se non così shockanti o estreme come
quelle dei Throbbing Gristle, per arrivare alla
fusione tra dance elettronica e rumore rock
che ha lastricato la via per act come Ministry o
Nine Inch Nails.
Già ampiamente antologizzata in diversi volumi in base a momenti spartiacque – quello
che ci interessa in questo caso è il 1982, con la
svolta verso sonorità più ritmiche e rotonde da
102
dancefloor –, la loro produzione si arricchisce
di una nuova raccolta. Non migliore o peggiore,
semplicemente diversa, visto il taglio dato da
Richard H. Kirk in persona – non compilatore
qualsiasi – che lascia appena un brano a testa
dagli album del periodo e dà la precedenza ai
singoli (in particolare a diversi sette pollici
remixati del periodo '83-'85).
Electropunk to technopop ha un'icastica capacità di sintesi già nel titolo, con cui, in una sola
frase ad effetto, offre uno spaccato dell'evoluzione del sound del gruppo. Già dediti alle sperimentazioni elettroniche dal 1973, influenzate
da tecniche d'avanguardia come il cut-up e il
collage dadaista, i Cabaret Voltaire applicavano
un assunto ancora più punk di quello dei tre accordi ispirandosi, da seguaci dei Roxy Music,
alla teoria di Brian Eno secondo cui il futuro
sarebbe appartenuto ai non musicisti. Non era
più necessario neppure suonare uno strumento
con una grammatica ridotta come avrebbero
insegnato i Sex Pistols, ma la nuova musica
sarebbe stata fatta con nastri e congegni elettronici.
Quando arrivò il punk fu comunque uno stimolo a riprendere gli strumenti e non solo, considerando quanto il garage – cos'è Nag Nag Nag
se non una nugget futurista – fosse una pietra
d'angolo delle loro visioni insieme alla psichedelia e al kraut rock. The Set Up, Nag Nag
Nag e On Every Street – che rappresentano
gli esordi di Kirk, Mallinder e Chris Watson
fino a Mix Up – vivono di groove ipnotici e di
atmosfere claustrofobiche-surreali-indefinibili
in tensione tra quanto è rimasto della forma
rock e il suo superamento in derive sperimentali con un approccio psichedelico al rumore e
all'elettronica. I brani del biennio '80-'81 – Silent Command, Kneel To The Boss e Second
Too Late – si spingono verso una proto-house
ambientale creando un proprio terreno di coltura tra la musique concrète, il post-punk e le
r e c e n s i o n i
s e t t e m b r e
sull'ormai consueto mix tra etereo e sensuale)
mentre i beat, per quanto puliti, non brillano di
fantasia – ad esclusione forse di Sober e L.A.F.
– svolgendo principalmente un ruolo – funzionale – di contorno.
Neanche il songwriting lascia segni indelebili e
spesso cade in soluzioni poco apprezzabili. Tre
esempi su tutti, Everytime e il suo ritornello
decisamente prevedibile (e per questo motivo
poco longevo), Superstar (furbo incrocio tra
Lorde e Lana del Rey) e Four Walls, inconcludente quanto ripetitiva.
I Nostri Hanno aperto per Ellie Goulding e
Sam Smith ma hanno ancora tanto da dimostrare, soprattutto su un formato, quello dell'album, che non perdona la mancanza di sostanza
e di forti individualità.
5.9/10
Tommaso Iannini
Camilla Sparksss - For You The Wild
(Africantape,2014)
Genere: pop, electro
Dopo una serie di sette pollici sparsi come le
briciole di Pollicino, Camilla Sparksss, l'a.k.a.
dietro il quale si cela la svizzero-canadese Barbara Lenhoff (già parte degli art-rockers Peter
Kernel), ci fa ripercorrere quelle brevi tracce
disperse, qui compilate, per farci giungere al
primo album sulla lunga distanza. Ed è subito
una sorpresa.
Come una M.I.A. mitteleuropea, una sorta di
EMA in botta, altezza primo disco, ma cresciuta nel vecchio continente, una specie di
Diva senza paillettes e terzomondismi vari ma
zeppa di caligini post-punk/industrial dei decenni che furono, Camilla mischia un (bel) po'
di elettronica, qualche ritmo (ehm) ballabile
(casse dritte, ma di un fastidio…) che si direbbe
figlio bastardo dell'electroclash, molti input disparati tra synth multidimensionali, noise bipolare, aperture da cold-wave, sporcizia lo-fi da
cameretta 2.0 e astrattismi vari, in un calderone
di sonorità eterogenee il cui minimo comune
multiplo è una botta di disagio diremmo quasi
da zona grigia. Anzi, è proprio quell'uso atipico
e bastardo dell'elettronica a caratterizzare le
musiche di questo spin-off che tanto spin-off
non è: ipnotico e sporco, disturbante e malato,
seppur inserito in un contesto tutto sommato
intelligibile e formalmente "pop".
Si prenda il concetto nel senso più ampio del
termine, come nel caso della chiosa di White
Cat: commissionata a Camilla nell'ambito di
un progetto di sonorizzazione filmica live per
il Centre Culturel Suisse di Parigi, è un fluire
di archi ambientali solcato all'improvviso da
ondate di white noise da cui riemergono le
note trasognate che rappresentano il tributo
alla famosa scena degli elicotteri di Apocalypse
Now. Come a dire, l'immaginario popular più
disturbante e fastidioso reso in forme dialetticamente ancor più estreme.
7/10
Stefano Pifferi
s e t t e m b r e
r e c e n s i o n i
ritmiche dance, in cui la fisicità di Breath Deep
(tratta da 2×45) rappresenta uno spartiacque
per la produzione successiva, più orientata a
un synth-pop aggressivo (Sensoria) e al technofunk che James Brown, Kino e Big Funk rappresentano in tutta la sua tagliente rotondità,
se ci possiamo permettere l'ossimoro.
Nel suo essere un riassunto di una vicenda
molto più complessa, questa nuova antologia
è un agile compendio per capire le dinamiche
di un gruppo che ha lasciato moltissime spore
nella scena musicale a cavallo tra diversi generi. Ma richiede necessariamente un approfondimento, soprattutto perché non abbiamo di
fronte una band da greatest hits. E il confronto
con dischi come Mix Up o Red Mecca è ineludibile.
7/10
Casa - Una fine continua (Dischi
Obliqui,2014)
Genere: avant, freejazz
"Applausi, esternazioni di dissenso […] vi
preghiamo di riservarli alla fine del quarto e
ultimo movimento", negozia la voce dei Casa
prima della suite strumentale Life in Ser.T, brano centrale di Una fine continua, primo album
dal vivo della compagine, che vede un altro
avvicendamento alla chitarra (Matteo Scalchi
al posto di Marco Papa).
Come volevasi dimostrare, anche dal vivo i
Casa ripescano le "mille avanguardie" di cui si
nutrono i dischi in studio. Composizioni con
tempi obliqui più che dispari, nella ricerca
eterna di concedere una possibilità di scrittura autoriale in italiano (quasi vietato parlare
di cantautorato) a strutture non "pop". Quelle
103
Genere: house, elettronica
Questa volta Falty Dl, ovvero Drew Cyrus Lustman, producer perennemente alla ricerca di un'identità, l'ha fatta grossa. Non che in passato non
avesse mai cercato di cambiare le carte in tavola, anzi. Il newyorchese,
a partire da una forte passione per la uk garage, si è sempre mosso ondivago, al di sopra dei generi e attraversando le mode. Molta della sua
produzione è, di fatto, una falty dial, ovvero una chiamata sbagliata, un
banchetto che ci ha lasciati sempre a pancia piena, e spesso anche troppo
colmi, ingolfati dalla botta multisensoriale, dalle timbriche rotonde, dai
giri per il mondo immersivi e, via via, sempre più afosi e cangianti, come le grafiche di Hardcourage. D'altro canto, questo è anche il bello di Lustman: un eccentrico newyorchese alle prese con
l'elettronica britannica (a partire dal buon esordio Love Is A Liability del 2009), un fornaio di
house, jazz, lounge e campionamenti r'n'b/soul/rave.
In The Wild, anticipato da un trittico di brani tra cui uno che apriva alla jungle, Heart and Soul,
e che pareva coerentemente convogliare il nuovo lavoro in una naturale declianazione poliritmica, parte da altri interessanti presupposti. Grazie a una iniziale commissione del regista Terrence
Malick, che aveva chiesto al producer alcuni minuti di sound design fornendogli anche una corposa libreria di campionamenti, si sviluppa una ricca tavolozza sonica dagli appigli e dalle etichette
per nulla scontati. L'aspetto interessante è che ritroviamo tutte le passioni di Lustman e, in particolare, il trittico di etnica, esotismo e jazz in emersione inedita. Le tappe del viaggio: in alcuni
casi è la folktronica di Kim Hiorthøy a venire in mente con i suoi minimalismi e incastri pastorali (Untitled 12, Rolling), in altri sembra di ascoltare musica per la danza contemporanea (New
Heaven) o soundtrack per film di – ehm – Terrence Malick (Nine con richiami Residents), in altri
ancora è il tribalismo psych di Robert Rich e Steve Roach a darti appigli e sfumature interessanti
(l'"orchestrata" Greater Antilles Part 1 ispirata, a suo dire, dal film Hunger di Steve McQueen).
In The Wild è lo specchio deformato del solito scarruffato ed eccentrico Falty Dl, sound designer
che inebria, droga, tenta di sedurti (con ironia, ascoltate il ritornello di Do Me o i trailer fatti con
l'artista inglese Chris Shen) ed è in grado di riempirti la stanza di un mondo di fragranti frivolezze. Arrivare alla fine di un disco del genere è un po' come tornare da una vacanza senza guide e
backpack. Un lavoro generoso e imprevedibile, espressione matura di un uomo in perenne ricerca
e dotato di grande spontaneità nel dosare e amalgamare luoghi, ritmi e fascinazioni.
7.4/10
Edoardo Bridda
104
r e c e n s i o n i
s e t t e m b r e
FaltyDL - In The Wild (Ninja Tune,2014)
Gaspare Caliri
Chris Robinson Brotherhood Phosphorescent Harvest (Silver
Arrow,2014)
r e c e n s i o n i
uomo del nostro tempo. Come non lo sono Neil
Young (omaggiato fin dal titolo dell'album) e
Jerry Garcia: i due santini sul comodino. Ma
con vent'anni in meno (e nel caso di Garcia,
vent'anni dopo la dipartita). Eppure è la "California freak" (definizione sua) quello che
Phosphorescent Harvest, terza fatica per la
"Fratellanza", voleva mettere in scena. Un rock
che più rock non si può: semplici linee melodiche che si vestono delle cavalcate lisergiche,
degli arrangiamenti ora più bluesy, ora più
country, del sapore di mille miglia percorse nel
solleone per una vita da romantica rockstar.
Quello proposto dal confondatore dei Black
Crowes (messi in naftalina anche dopo la
reunion di metà 2000), assieme ai fratelli Neal
Casal (già collaboratore di Ryan Adams), Adam
MacDougall, Mike Dutton e George Sluppick è
un classic rock ammantato di LSD e di tutti gli
stilemi romantici della vita rock'n'roll. Ci sono i
muscoli delle chitarre e del basso grasso (Shore Power), c'è l'honky tonky da saloon (Meanwhile the Gods…), la ballatona (Wanderer's
Lament), esperienze "cosmiche" (Humboldt
Windchimes), il sound circa Sun-era (Beggar's
Moon).
Come dice l'adagio, "nulla di nuovo sotto il
sole": una simpatica macchina del tempo che
ci riporta alla Summer of Love e ai successivi
70s, con il loro rock da radio FM, i raduni di
hippies, l'amore cosmico e una sana quantità
di mitologia rock. In fondo quello che voleva
Chris Robinson era solo un altro "viaggio".
Fosforescente. Al quale pensiamo che molti,
nostalgici o meno, vorranno unirsi anche fuori
tempo massimo.
6.9/10
s e t t e m b r e
mille e una notte della musica intellettuale
sono, nel disco live della formazione vicentina,
principalmente orientate in alcune direzioni:
verso il primato della voce, con l'istrionico Bordignon che cerca di tirarsi dietro la band – ma
funziona meglio quando si mette sullo stesso
piano, come nel bel finale di Dal caso alla possibilità; e soprattutto con orizzonte free form
(meglio dire: free jazz), con approccio meno
gagliardo che intellettuale (leggi: più Settanta
che Novanta), quindi sempre un po' distante da
sé, viene da pensare.
Guardarsi e descriversi è la fine continua dei
Casa, che a volte hanno bisogno di un aiuto
retorico, di costellarsi di statement (a proposito di Parti time – Una razza inferiore veniamo
avvisati che "il brano nasce dalla constatazione
che in un mondo in cui anche la più mediocre
cover band sa andare a tempo, andare a tempo
non è più auspicabile"). Mi ricordo di quella
volta che vidi i Casa dal vivo e trovai molto
divertente un esercizio di ribaltamento che il
solito Bordignon propose al pubblico: alla fine
della canzone, fateci gli applausi se il brano vi
ha fatto schifo, insultateci se vi ha entusiasmato. Un momento patafisico semiserio, divertente, ma capace di illuminare le meccaniche
automatiche del rapporto tra band e pubblico.
Questi Casa come quei Casa sono più convincenti quando alleggeriscono la presunzione di
serietà, con giochi di testa che sanno reggere
come pochi altri.
6.5/10
Marco Boscolo
Genere: rock, rocknroll, psych, blues
Nostalgico. Reduce. Irriducibile. Rimasto.
Romantico. Chiamatelo come volete, ma sempre lì si va a parare: Chris Robinson non è un
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Genere: pop, art, rnb, elettronica
Ne è passata di acqua sotto i ponti dai primi passi – non danzerecci – di
Tahliah Barnett aka Twigs prima e FKA Twigs poi. Ricordiamo con passione gli esordi nella South London degli AlunaGeorge avvolti in una spessa
coltre di mistero e un EP d'esordio (EP) per certi versi clamoroso con la conseguente inclusione all'interno della playlist Female-Pop 2012 Compilation e
della lista Ones To Watch per l'anno 2013. Il resto è storia nota: videoclip di impatto distribuiti con
la precisione di un orologio svizzero ed un secondo EP – EP2 – in grado di confermare tutto ciò
che di buono avevamo potuto gustare in precedenza.
Si è mossa con astuzia e con gli impeccabili movimenti di una ballerina, Tahliah, nel processo d'avvicinamento all'attesissimo album di debutto. Poteva inserirsi nell'onda lunga della stagione art/
future-pop 2k12 dominata da Grimes e Purity Ring e invece, giustamente, ha preferito aspettare
il suo grande momento. Ora FKA Twigs ha potenzialmente in mano il mondo perché, dalla sua,
continua ad avere un fortissimo appeal "hip" e contemporaneamente iniziano a farsi sempre più
chiari i segnali di una possibile – ed in parte cercata – esplosione su larga scala. Ma, soprattutto, il
movimento che ha rivoluzionato l'r'n'b negli ultimi anni fino ad oggi non ha ancora scovato il personaggio femminile definitivo e trasversale in grado di trovare istintivi apprezzamenti anche tra
un pubblico più vicino alla cultura black. C'è Janelle Monáe, ma sembra guardare – con enorme
talento – più al passato che al futuro.
L'operato di FKA Twigs è merce che conosciamo già piuttosto bene ma ai piani alti è materiale ancora tutto da scoprire. Per questo motivo un singolo – e video annesso – come Two Weeks
raggiunge l'obiettivo: mantiene tutto il fascino sensuale dei brani precedenti ma lo traduce in un
formato meno astratto e in un'estetica al limite del glitterato (ad un certo punto si sfiora Beautiful
Nightmare di Beyoncé).
Nell'album di debutto LP1 ritroviamo le imponenti scelte stilistiche che differenziano la Nostra da
tutta la concorrenza: strutture scomposte, le decelerazioni sinuose già marchio di fabbrica (l'effetto di Pendulum è simile a quello di Hide, ugualmente fascinoso quello di Video Girl), i vocalizzi
(l'iniziale Preface praticamente riprende l'intro di Water Me) e tutto l'immaginario sospeso tra
contesto urbano e velleità futuriste. Per questo motivo la scelta di escludere dalla tracklist brani
contenuti nei primi due EP è coraggiosa ma in parte perdente: lungo i dieci passaggi il songwriting
non sempre sembra del tutto ispirato e in alcune occasioni si ha l'impressione di trovarsi di fronte
a tracce nate da un rimpasto di idee già espresse. Riproporre una Ache o una Water Me, in questo
senso, poteva aumentare una densità di pezzi da novanta a dire la verità non elevatissima.
I rimandi ai territori r'n'b più canonici ma pur sempre eleganti (viene in mente l'ultima Aaliyah)
continuano ad aumentare ma indubbiamente il fascino di FKA Twigs è soprattutto legato alla
commistione tra i suoi sussurri e un reparto elettronico assolutamente contemporaneo (si pensi
alla produzione di Arca sul secondo EP), protagonista quanto quello dei lavori targati Kelela o
Roses Gabor. Non mancano gli hook melodici – in Lights On azzardiamo un remember di Carmen Queasy di Skin e Maxim ad un certo punto – ma a vincere sono ancora gli episodi che suona-
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r e c e n s i o n i
s e t t e m b r e
FKA Twigs - LP1 (Young Turks,2014)
no come ottimi pretesti per far scattare – anche sul palco – quel binomio audio-visivo tanto caro
a miss Barnett. Numbers, ad esempio, sembra creata appositamente per evidenziare le movenze
della Nostra.
LP1 esplora in lungo e in largo le insenature del sound di FKA Twigs, dall'art-r'n'b più sofisticato
(Give Up) alle vette celestiali (Closer è materiale etereo che veleggia su basi liquide) passando per
il fascino esotico sprigionato dai gemiti da brividi lungo la schiena incasellati su beat glitchati che
vanno per i fatti loro, rendendo ancora più avvincente l'ascolto (Hours, con l'aiuto di Dev Hynes).
Tutti elementi che puntano ad una perfezione stilistica e che modellano un universo apparentemente ancora inesplorato, nonostante le punte di harmonizer ad altezza Imogen Heap di Pendulum e alcuni contatti con il migliore trip-hop di due decenni fa (Video Girl e un attitudine sul
palco che a volte ricorda Tricky).
Poteva giocarsi qualche carta più spiazzante? Certamente. LP1 è comunque un importante esordio
su formato lungo che non delude le attese grazie ad una proposta ancora affascinante e, almeno
per qualche anno, in anticipo sui tempi del carrozzone mainstream. (Anche) per non cadere all'interno dello stereotipo del "erano meglio gli EP", lo promuoviamo a pieni voti.
7.4/10
Clap! Clap! - Tayi Bebba (Black
Acre,2014)
Genere: juke_footwork
Dopo il promettente EP Tambacounda, pubblicato su Black Acre a febbraio, Clap! Clap!,
ovvero il nuovo progetto di Digi G'Alessio,
torna con Tayi Bebba, un vero e proprio album,
anzi, concept album, andando così ad ampliare
la palette di soluzioni future di un già corposo
e tecnicamente sempre più cesellato impasto di
footwork, dubstep, UK funky e wonky.
Con la licenza di raccontare vita e vicende in
un'isola immaginaria, Tayi Bebba è una sorta
di summa, per esplosioni di ritmi e profluvi
d'etnicità futurista, di ciò che a Cristiano Crisci
viene meglio in studio. Rispetto ai suoi muscolosi set – vedi Dancity 2014 – qui troviamo una
tracklist super meticciata, tra l'urbano e il rurale, l'africano, il mediterraneo e (perché no?) il
punjab, sospesa tra debiti alla fabbrica di ritmi
UK e un poco di US, un bass sound pervasivo,
terrigno, ricco di voci e quei campionamenti
(Sahkii (Xirhuu)) che formano la cifra matura
di questo coinvolgente producer.
Lavoro super pensato, intarsiato, riflettuto,
jazzato anche. A perderci è l'istinto, ma non il
fascino, per un disco da esplorare, mappare e
scoprire ascolto dopo ascolto. Del resto, per chi
lo volesse più pop, c'è il Night Safari di Populous, in arrivo a fine settembre.
7/10
s e t t e m b r e
r e c e n s i o n i
Riccardo Zagaglia
Edoardo Bridda
clipping. - CLPPNG (Sub Pop,2014)
Genere: hiphop
Premi play e parte una Intro fatta praticamente di niente, solo una distorsione che viene
leggermente modulata e su cui Daveed Diggs
sputa fuori un flow fantastico che, per contrasto, costituisce la parte più musicale del brano.
Questo minuto e rotti spiega molto (ma non
tutto) del secondo disco dei clipping., trio che
107
Genere: industrial, post
Davvero instancabili, i German Army, duo nascosto tra le montagne di
San Bernardino (a due passi da Los Angeles) che negli ultimi tre anni ha
dato vita a una produzione forsennata di CD, cassette e vinili, una ventina
secondo Discogs, con risultati constanti e di ottimo livello.
Non fa eccezione questo Jivaro Witnesses, lavoro retro futurista (profumi di VHS, abrasioni analogiche, hauntologie synth-robotiche) equamente diviso tra allucinazioni tribali e fantascienza sociopatica, con il
fine ultimo di raggiungere la totale alienazione dal reale. La Burka for Everybody, che patrocina
il motto the future is analog, sarà andata in brodo di giuggiole. Un po' come in tutte le produzioni
German Army, al di là delle radici industrial e dei primitivismi post dub che sono già marchio di
fabbrica, l'estetica è quella del collage e degli esperimenti targati Cabaret Voltaire, Novy Svet,
Negativland, anche se qui troviamo un'armonia nuova, un filo dark capace di assemblare questi
dodici frammenti con un'apatia non lontana dai fantasmi Suicide (Chilili), passando con fluidità
dall'estatica Sunken Words alle tetraggini di Six Leg Counterpart, dallo space ambient di Flogged
Ritual ai rituali di Communal Peace.
C'è chi potrebbe considerare Jivaro Witnesses un disco dallo sguardo pop, come un Red Mecca
per i Cabaret Voltaire o come i Dark Day – altro gruppo vicino al duo – rispetto ai Dna, e chi una
poltiglia di suoni sospesa in qualche angolo remoto dell'universo. In fondo è una lezione di funambolismo e doppio gioco più che benvenuta.
7.4/10
Stefano Gaz
oltre all'MC già citato include i due produttori
Jonathan Snipes e William Huston. Copertina
minimale, etichetta Sub Pop, e dopo questo
pezzo ci troviamo in un'atmosfera che pare voler toccare più aspetti dell'hip hop degli ultimi
anni, e soprattutto l'eterna lotta tra radicalità e
pop.
Non si tratta di rap fatto per incantare il pubblico e intenzionalmente puntare ai grandi
numeri, eppure si permette mutanti figli di
gangsta e raga come Work Work che, depurati
di alcuni suoni e dotati di giusto packaging,
sarebbero hit perfette. Ci sono gli esperimenti
perfettamente riusciti, come la chiacchieratissima Get Up, in cui il suono della sveglia è
108
la base per un duetto tra cantato maschile e
femminile toccante. E poi momenti in cui le
basi diventano industrial e un attimo dopo ci si
ritrova in una giungla di scratch e voci di bambini (Dominoes) o assalti che ricordano per
impatto i tempi in cui rock e hip hop cominciavano a guardarsi negli occhi e a piacersi.
Dove il disco però perde forza è in alcuni episodi forse non troppo a fuoco, quasi riempitivi,
che cercano di mantenere alta l'attenzione
usando gli stessi espedienti già sfruttati nei
pezzi migliori. Pare in alcuni tratti di ascoltare
EL-P ma con più senso della misura, minimale e depurato della componente sci-fi, eppure
la stanchezza affiora. La componente soul ed
r e c e n s i o n i
s e t t e m b r e
German Army - Jivaro Witnesses (Burka For Everybody,2014)
emotiva di un Kendrick Lamar o di un Frank
Ocean non c'è, e sembra che proprio questo
manchi in alcuni momenti al disco per decollare definitivamente.
Chi ha parlato di capolavoro in altre sedi, cartacee e digitali, ha giustificato questo giudizio
con la capacità del trio di unire sperimentazione e numeri da pop a presa rapida. Vero, ma
la sperimentazione non è così radicale, e gli
hook irresistibili ci sono ma non nella totalità
della tracklist. Ergo, nessun disco epocale, ma
un buon album – in alcuni tratti buonissimo e
con idee brillanti. E che va comunque apprezzato principalmente per questi ultimi, e per la
tensione verso la ricerca che non dimentica il
lato umano.
6.6/10
Cold Specks - Neuroplasticity
(Mute,2014)
Genere: soul, folk
La canadese Cold Specks – al secolo Al Spx –
torna sulla scena con Neuroplasticity, secondo album dopo un buon esordio, I Predict A
Graceful Expulsion, che l'aveva fatta conoscere al pubblico come stella emergente tra le voci
black e soul contemporanee. I paragoni che
erano fioccati all'epoca in molti magazine di
settore – in primis Adele -, oltre alla presunta
nascita di un nuovo genere, il doom soul, non
rendevano tuttavia giustizia al talento cantautorale dell'artista, limitandone l'ottima capacità
vocale alla semplice interpretazione di un genere – il soul, per l'appunto – oggi largamente
rivisitato e spesso ridotto a quella patina revivalista tanto cara alle classifiche e ai nostalgici
del vintage.
Certo, la componente pop non manca affatto
nella musica di Cold Specks, ma è tutt'altro
che un limite: se già il primo disco aveva fatto
intravedere una certa consapevolezza dei pro-
s e t t e m b r e
r e c e n s i o n i
Andrea Macrì
pri mezzi, nonché una sensibilità interpretativa
già riconoscibile, Neuroplasticity ha invece il
compito di raccontare la maturità consolidata
della singer/songwriter, che non si accontenta
di ridurre la propria voce ai soli stilemi soul e
funk. C'è infatti un'interessante commistione
di generi, che spazia dal pop anomalo di Bodies
At Bay e Absisto al torbido incedere dell'opening A Broken Memory: atmosfere notturne,
striscianti e soprattutto elettrificate, che la
avvicinano più ad Anna Calvi che non alle già
citata Adele, a voler forse esprimere anche l'intenzione della Nostra di non voler far parte di
una precisa "cerchia" soul e gospel. La matrice
black ricorre giocoforza nell'interpretazione
e nella voce, entrambe a buonissimi livelli, ora
declinate a pulsazioni ambient ed contaminazioni electro (A Quiet Chill, Let Loose The
Dogs) ora alla classic ballad con risvolti jazzy
(A Season Of Doubt).
In tutti i brani domina un sapore noir e senza
tempo che conferisce al risultato complessivo
una spinta in più, rendendo Neuroplasticity una prova senz'altro riuscita, anche se con
qualche margine di miglioramento. L'appunto che possiamo fare a Cold Specks è infatti
quello di non aver ancora mostrato un vero e
proprio focus emotivo, di non essersi lasciata
andare a quella tensione sotterranea lasciata
presagire dalla voce ma non ancora riversata
appieno sulla scrittura delle canzoni. Dunque,
abbiamo già un'ottima interprete, adesso attendiamo la vera cantautrice.
6.9/10
Giulia Antelli
Dilaila - Tutorial (Niegazowana,2014)
Genere: pop, rock
Se un gruppo si chiama come il titolo di un
classico del pop passionale degli anni '60 ma
scritto come si pronuncia, non è strano trovare nei suoi dischi una poetica fatta di vintage
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s e t t e m b r e
110
quest'ultima viene in mente nel beat di L'amore
in fuga – o qualche chitarra in stile Gilmour…),
o al limite cita direttamente (i battistiani "cieli
immensi" ben in evidenza nel ritornello di Fiori
urlanti, altro beat dal gusto "Malanima").
Questo approccio verbale spregiudicato evita
che il gruppo ingrossi il filone dei "contemplatori del proprio ombelico" (e la conclusiva Il
gran sole di Hiroshima , pur senza denuncia
and impegno, lo conferma) e la compattezza
non significa che manchi la varietà (vedi i cambi di tempo di una I mostri sotto al letto che,
nonostante qualche classicità di troppo, azzarda una struttura che di solito nei pezzi scelti
per i video si evita).
La maturità c'era già nel precedente disco, qui
si conferma con un passo in avanti: sarà finalmente ora di scoprirli davvero?
7.2/10
Giulio Pasquali
Dorian Concept - Joined Ends (Ninja
Tune,2014)
Genere: funk, elettronica, hiphop, jazz
La prima volta che avvistai Dorian Concept,
ovvero l'austriaco Oliver Thomas Johnson,
fu in un mix di Rustie e non a caso. Johnson,
classe '84, è un primo della classe stile Jon
Hopkins, con il quale, peraltro, condivide gli
studi di pianoforte classico; è tastierista live
per Flying Lotus, ha collaborato a vario titolo
con la Cinematic Orchestra e Tom Chant, gode
da diverso tempo dell'endorsement di Benji
B, può vantare alcuni premi vinti in madrepatria a partire dalla metà degli anni Duemila
e, soprattutto, è autore di un'elettronica per
laptop e tastiere, massimalista, melodica e bella
luccicante come tante produzioni dello stesso
Russell Whyte e giro Brainfeeder.
Nel 2010 Ninja Tune, che assieme a un'altra etichetta britannica come Warp tiene sott'occhio
questo tipo di evoluzioni, lo assolda per il box
r e c e n s i o n i
e ironia. Ma non manca neanche la passione:
la band guidata da Paola "Dilaila" Colombo,
infatti, non somiglia a Tom Jones, ma nei suoi
testi usa le armi del postmoderno (la suddetta
ironia, le citazioni, la mescolanza di registri
e livelli culturali diversi) per parlare di ansie,
problemi e appunto passioni, sia quelle dell'oggi che quelle di sempre: un verso come "La
nostra verità, scritta sul Fluimucil", ampiamente citato nelle recensioni, rende bene l'idea che
in questo disco il gioco è serissimo (e l'ironia
nemmeno c'è sempre).
È una conferma di quanto mostrato nei 16 anni
di carriera e tre album precedenti, rispetto ai
quali questo nuovo Tutorial abbandona qualche lungaggine di Musica per robot (2005)
e un po' della varietà del precedente Ellepi
(2010), per compattare lo stile intorno a un vintage rock che a tratti può ricordare, anche per
le sdrucciole cantate con l'accento sull'ultima,
una versione (apparentemente) sbarazzina dei
Baustelle, come in una Non ci prenderanno
mai che, a conferma che il pop è sempre più un
frullatore, mescola alla melodia bastreghiana
un po' di doo-wop, il Fluimucil di cui prima
e un ritornello che riecheggia sia il Marco
Parente di Lamiarivoluzione che i 99 posse de
L'anguilla.
Rispetto ai toscani, però, l'approccio vintage è
di diverso colore; le chitarre non vengono usate
a muro (i fratelli Cicolin preferiscono infatti
arpeggi come quelli Thalia Zedek di Se io fossi
la notte); e poi manca quella vena vagamente
lugubre che Bianconi si porta nella voce (e che
riusciva un po' ad evitare soltanto ai tempi del
Sussidiario). Soprattutto, questo e i tanti altri
paragoni possibili non rendono l'idea di uno
stile peculiare e padroneggiato con sicurezza,
che più che somigliare, evoca (certi Smiths
passatisti nel fraseggio che apre il disco nell'ariosa Storia di una scema che diventò farfalla,
un'aria generale vagamente Pravo-Nada -
r e c e n s i o n i
da queste parti è sia l'eccessiva maniera, sia che
il messaggio arrivi troppo sottovetro. Non mancano però le eccezioni: Trophies e 11/5/2012,
ottimi esempi di trasporto e sintesi tra house,
ricordo e "sinfonismo" psych.
7/10
Edoardo Bridda
Dry The River - Alarms In the Heart
(Cooperative Music,2014)
Genere: pop, rock, folk
A volte il motto "il secondo difficile album" è
utilizzato a sproposito: purtroppo non è il caso
dei Dry The River. La band inglese infatti ha
raccolto meno di quanto era lecito aspettarsi dopo l'hype pre-debutto lungo (inclusione
nella lista BBC Sound 2012 per dirne una) e lo
ha fatto con un disco, Shallow Bed, che per
quanto ampolloso e fin troppo melodrammatico conteneva almeno tre o quattro canzoni con
la "C" maiuscola.
Top 30 e 5.900 copie in UK nella prima settimana sono sicuramente risultati che buona
parte delle band inglesi può solo sognare, ma
all'album di Peter Liddle e compagni è mancato
il fattore fondamentale: quella longevità che –
per fare un esempio vicino per hype, pre-album
e per coordinate temporali – ha regalato ad An
Awesome Wave degli Alt-J parecchie soddisfazioni, dopo un debutto in classifica da appena 6.700 copie. E dire che ai Dry The River
non mancava quasi nulla, in primis una forte
componente folk (in quel periodo dominante
nella sua versione più radiofonica) convogliata
in modo convincente anche in dimensione live
,dove i Nostri si sono dimostrati fin da subito
abili operai capaci di alternare momenti corali
a sfuriate rock.
Gioco che non vince… si cambia. Ecco quindi
che per il secondo album, intitolato Alarms In
The Heart, i Dry The River si presentano in
una veste rinnovata, senza l'importante appor-
s e t t e m b r e
set del ventennale, Ninja Tune XX, dove viene inserito Her Tears Taste Like Pears, brano
che, a stretto giro, dà il nome anche a un EP di
quattro brani in cui troviamo alcune specialità
del musicista: un dinoccolato spacey jazz per
tastiere circondate dal solito partèrre d'elettronica, ambient come in 4/4, da acquario sonico
in salsa prog. Beninteso, Dorian Concept, non
fa assoli à la Van Halen o kitcherie 80s, afrofuturismi ecc., preferisce, anzi, un ben più navigato stile lounge per soundtrack dal retrogusto
un po' retrò, e più indietro nelle sue produzioni
troviamo eccentriche rivisitazioni house e rave
(Trilingual Dance Sexperience).
Joined Ends, disco che arriva a ben tre anni di
distanza dall'esordio su Ninja Tune – intervallati da una soundtrack commissionta da Chant
– è una bestia completamente diversa. Parallelamente a un altro lavoro/svolta stilistica sulla
label che è In The Wild di Falty Dl, Johnson
sceglie la metafora del viaggio "in un paese delle meraviglie sintetico", dice lui, per comporre
un album che a grandi linee rappresenta un
ritorno alla folktronica più eclettica dei noughties aggiornata agli smalti pop scoloriti e alle
voci suonate alle tastiere dei 10s. Nel disco non
manca neanche qualche momento minimalista
– nel senso di ripetizione e variazione di vibrafoni e vetri e altre soluzioni world dalle parti
dell'ultimo Phillip Glass – che abbiamo sentito
anche nella traccia omonima del nuovo disco di
Rustie.
In generale, il disco è un lavoro ben intarsiato,
dove la narrativa soundtrack, oltre ai sapori
vintage, si serve di gentilezze ma anche robustezze psych à la Caribou (Clap Track 4) per
innescare profumata malinconia e avvicendamenti di poliritmiche e bassi. Sul lato jazz e
su quello soundtrack, viene chiamato in causa
un'altro lavoro Ninja Tune, ovvero Ghosts Of
Then and Now di Illum Sphere e, come avrete
capito dal giro di rimandi, il rischio che si corre
111
s e t t e m b r e
112
chorus troppo telefonato per poter resistere
alla lunga.
Va apprezzato il tentativo di evoluzione e continuano ad ammaliare alcune trovate melodiche, ma a conti fatti Alarms In The Heart non
è altro che una collezione di tracce incapaci di
lasciare il segno.
6.1/10
Riccardo Zagaglia
Fedora Saura - La via della salute
(Pulver Und Asche,2014)
Genere: post-punk, avant
Con La via della salute gli svizzeri Fedora
Saura arrivano al secondo disco – il primo è
Muscoli in musica/Scelta degli uguali del
2011 – incagliandosi in un post punk spigoloso
e mitteleuropeo in bilico tra "anti-capitalismo
e anti-cristianesimo". In realtà il messaggio è
meno immediato di quel che potrebbe sembrare: lontani gli slogan taglienti e intellettuali di
un Ferretti giovanile abbozzato in certi passaggi dell'album (Soma Pneumatico), rimane solo
l'intellettuale solipsista Marko Miladinovic,
impegnato a declamare un teatro di parole
riflesse su se stesse (o riflessioni che dir si
voglia…). C'è una sorta di concezione free sia
nel sillabare i testi fiume, sia in una musica
che parla dei PIL – Peso/Mondo (della civiltà
civetta) – con vaghi accenti deraglianti sfibrati
da uno schematismo nelle geometrie, essenziale, ripetitivo, quasi mantrico (chitarra, basso,
percussioni e qualche piano, la strumentazione
di base, con Zeno Maspoli, Giovanni Cantani,
Marco Guglielmetti e Claudio Büchler a completare la formazione e il duo Giubbonsky /
Sandra Ranisavljević – sax e voce – ad ampliarla).
Gli obiettivi sono ambiziosi e sfociano in una
musica a metà strada tra "popolo" e avanguardia, che perde in termini di potenza di messaggio quello che guadagna in intelligenza musica-
r e c e n s i o n i
to del violinista Will Harvey ma con una serie
di produttori di spicco: Charlie Hugall (Florence and The Machine, Ed Sheeran), Peter
Miles e Paul Savage, batterista dei Delgados,
producer per svariate band scozzesi (Franz
Ferdinand, Mogwai, Arab Strap) e dolce metà
di Emma Pollock (voce dei Delgados, qui presente nel brano Roman Candle).
Nonostante il contributo in termini di arrangiamenti di un manipolatore etereo come Valgeir
Sigurðsson (Ben Frost, Sigur Rós, Björk, Tim
Hecker), Alarms In The Heart è un disco
diretto che regala poche emozioni in termini
prettamente musicali, a causa di un impianto
chitarra/basso/batteria piuttosto ordinario,
privo di grosse intuizioni – e delle dosi folkish
del primo disco – su cui Peter Liddle impone il
suo timbro riconoscibile e armonioso (a volte
quasi stucchevole).
Più "elettrico" e chitarristico di Shallow Bed,
Alarms In The Heart in realtà rifiuta comunque gli eccessi sonici, preferendo limitarsi
all'ordinarietà di un generico pop-rock dagli
angoli smussati. Fortunatamente i quattro
sembrano prendersi meno sul serio rispetto
ai primi tempi e anche dai videoclip traspare
una vena quasi (auto)ironica che ti aspetteresti semmai da un gruppo power-pop, non dagli
autori di un anthem malinconico come No
Rest. Il gioco riesce per metà: se Gethsemane
– i riferimenti biblici continuano ad essere un
leitmotiv – funziona e non si discosta troppo
dalle sonorità e dalle armonie con cui i Nostri
si sono fatti conoscere e Everlasting Light –
più patinata ma orecchiabile – non fa rimpiangere più di tanto l'operato precedente, altrove
ci si trova invece in acque stagnanti composte
da brani piatti e senza caratteristiche peculiari. Lo confermano Hidden Hand e la titletrack
– dove troviamo qualche residuo folk-rock
nello strumming – mentre Med School, pur
vantando un bel cambio di ritmo, presenta un
le. Filosofia e riferimenti letterari si mescolano
a una critica del reale che pare più deduttiva,
che induttiva, ovvero non abbastanza "a pelle"
per attivare un feedback empatico immediato
in chi ascolta, ma sufficientemente ricercata
da meritarsi un livello di attenzione molto alto.
Le cose migliori si ascoltano nel reggae ossessivo de La Natura (l'uomo per primo), in Soma
Pneumatico, nella no-wave del singolo Tenete
buoni quei cani (col folle video allegato al brano) e nei 17 minuti della visionaria Ex Europa
Samba I II III (Est Eruoba Sampa Xigareta).
Manca forse ancora un po' di senso pratico e
di concisione alla band, ma le premesse sono
ottime.
6.9/10
Fhloston Paradigm - The Phoenix
(Hyperdub Records,2014)
Genere: techno, dance, soul, elettronica
Eclettico, e capace di sondare i più diversi terreni elettronici, King Britt torna su Hyperdub.
Prima di questa messa a fuoco, la saga Fhloston
Paradigm era stata delineata da un paio di EP
(Charlie Sleeps, 2009, RCRD LBL, e Fiction
Science, 2011, Saturn Never Sleeps), un mix
per Fact Magazine e Chasing Rainbows, altro
extended play, esordio del produttore di Filadelfia sull'etichetta di Kode9.
Con The Phoenix, King Britt lascia per la
prima volta da parte il suo storico alias e si
trasforma definitivamente in Fhloston Paradigm. House che mescola soul, ritmi spezzati, arpeggi sintetici, impressioni dal cuore di
mondi contrapposti, se non altro in termini di
spazio e luce, come cosmo e profondità marine.
Colonna sonora alternativa del Quinto Elemento di Luc Besson, film di fantascienza del 1997,
o probabilmente solo vago riferimento alle
sensazioni di questo (nella pellicola, Fhloston
Paradise è il resort futuristico oggetto della
Elia Galli
Francesca Sortino - Francy's Kicks
(Abeat Records,2014)
Genere: jazz
Se non conoscete Francesca Sortino non è del
tutto colpa vostra. È che il jazz in Italia non
lo sentiamo troppo, se non per qualche meteora che inevitabilmente si mescola con il pop
(Gualazzi, Biondi, etc.). Dietro a questi nomi
c'è invece un sottobosco di artisti, arrangiatori,
musicisti e fan che vivono nell'anonimato (vedi
ad esempio la discussione di qualche estate fa
sulla nuova scuola jazz italiana).
Quando esce una voce dal coro come quella della Sortino dovremmo essere contenti,
sia per l'ottima qualità, sia per il monito che
ricorda a noi giornalisti come non si viva di
solo rock o di sola elettronica (o di soli talent
show). Già presente in Join The Dance di
Frisina da noi recensito qualche anno fa, Francesca torna sulla lunga distanza con un disco
piacevole e ascoltabilissimo. Per costruire una
raccolta del genere va sul sicuro e si affida agli
arrangiamenti del trombonista Roberto Rossi
(insegnante presso il conservatorio di Verona
e collaboratore, fra gli altri, di Renato Zero,
Jovanotti, George Michael, Paolo Conte, Lu-
s e t t e m b r e
r e c e n s i o n i
Fabrizio Zampighi
visita di Bruce Willis), il disco segue il preciso
disegno dei prequel. Un'anima elettronica, da
pista, gentilmente sfregiata da schegge acide e
distorsioni (i 9 minuti di The Phoenix), rilassata su vocalizzi eterei (la finale Light On Edge),
presa in prestito da uno sciamano e lanciata
verso un viaggio infinito tra le galassie (Tension Remains).
Lavoro impegnativo, si sfiora l'ora di musica,
ma le immagini sci-fi costruite da King Britt
non risentono di eccessivi cali di tensione, nè
devono usare troppa forza per inserirsi con
dignità all'interno del discorso Hyperdub.
6.8/10
113
Genere: rock
Ormai è chiaro che il vero J Mascis, l'artista dai lunghi capelli d'argento giunto alla soglia dei 50,
è sempre più facile rintracciarlo negli album solisti piuttosto che nei lavori pubblicati con i Dinosaur Jr. Se con questi ultimi, infatti, è ancora prigioniero di un ruolo da noisemaker scientemente
ritagliatosi nel corso degli anni, è quando rimugina in solitaria che può finalmente abbandonarsi a
quella soave elegia che con l'avanzare dell'età gli è sempre più consona.
Anche quando poteva dirsi (suo malgrado) giovane, Mascis si è sempre mostrato incline alla meditazione malinconica, all'uggia solipsista. Nel 2011, con l'acustico Several Shades Of Why era un
po' come se si mostrasse al mondo con i vestiti da casa, immerso in una naturale classicità che ne
metteva in risalto il tocco vellutato, le innate doti da songwriter e lo metteva al riparo da un mesto
autocompiacimento. Tied To a Star non riprende solo il discorso di Several Shades, ma ne potenzia le intuizioni più felici, finendo per suonare come il suo album più maturo e personale.
A questo punto ci sarebbe da citare la schiera di ospiti che impreziosisce l'album: Pall Jenkins,
Mark Mulcahy, Ken Maiuri, fino al melodioso duetto con Chan Marshall (Cat Power) su Wide
Awake. La verità, è che la personalità del Nostro ne esce talmente rafforzata e definita, da non
concedere l'onore dei riflettori a nessuno fuorché a se stesso. Ha quella capacità di suonare familiare all'istante, grazie alla voce fragile e al tiro spigliato di una Every Morning, che se avesse
appena qualche watt in più, la si potrebbe collocare agevolmente fra gli episodi più spensierati dei
Dinosauri.
Contestualmente c'è la voglia di spingersi verso territori nuovi ma contigui, per merito di un
chitarrismo che fa sembrare semplici anche le costruzioni più ardite e ad un modo peculiare di
descrivere il mistero del quotidiano. Una psichedelia a bassa intensità che arde delicatamente nel
finale organistico di Me Again, nell'arcano folk zeppeliniano di Drifter e che colpisce basso proprio quando sembra accadere poco o nulla. Quando il ritmo rilassato di Trailing Off si increspa e
la pennata si fa irregolare, ad esempio. Oppure quando, nella circolarità minimale di Better Plane,
irrompe una chitarra appena elettrificata, languida e fluida. Si attorciglia intorno alle budella e ci
lascia l'ingrato compito di dipanare tutta questa densa matassa di sentimenti.
7.4/10
Diego Ballani
cio Dalla). In più Fabrizio Bosso (tromba in
Inside Art), Franco Piana (flicorno in What's
Around) e Pietro Tonolo (sax tenore in All An'
All) aggiungono una componente di classe non
indifferente.
Il lavoro non è per fortuna l'ennesima raccolta
di standard jazz. Le tracce sono tutte inedite (a
parte Theme for Malcom di Donald Brown) e
114
non restano impigliate nel classico stile "songbook" su cui è facile inciampare. La proposta
è varia, sempre nei difficili limiti dell'ascoltabilità anti-skip, ma sembra pur guardare mondi
diversi dalla solita struttura A-B-A. Si incontrano infatti tracce come Next Time nelle quali si
sconfina pure un po' sul free, si passa anche per
lo spoken word che ricorda atmosfere proto-
r e c e n s i o n i
s e t t e m b r e
J Mascis - Tied to a Star (Sub Pop,2014)
rap con qualche puntino di elettronica (Inside Art, una delle più convincenti del disco),
si va a finire sui fumi delle colonne sonore di
Chet Baker (What's Around) per chiudere con
l'electro-lounge del maestro Frisina.
Una voce che meriterebbe molto di più. Malleabile a numerosi paesaggi, la Sortino con questo disco torna al suo grande amore: il jazz (che
aveva abbandonato momentaneamente per il
pop in The Music I Play del 2008). Alle volte
la lunga meditazione porta all'illuminazione.
Andate a recuperarvelo.
7.1/10
Marco Braggion
Genere: pop, cantautori, folk
Un cantautorato-folk di sponda, fatto di mezze luci e di domeniche mattine passate tra le
lenzuola: Francesco Cerchiaro sta più o meno
tra un Ivano Fossati meno istituzionale, il
passo fluido e giocoso del miglior Finardi e
un Frei ugualmente minimale e ironico. Tolte certe reminiscenze del De André periodo
Bubola (Il ritorno di Rebecca), il resto è un
programma musicale originale e solido nei testi
quanto in musiche con ascendenze pop alte, in
cui certi valzer solcati da trombe desertiche in
stile primi La Crus (Ultimo valzer a Teheran)
fanno il paio con pianoforti appena accarezzati
che parlano d'amore (Le bugie della domenica
(mattina)), ma in un modo tutt'altro che banale.
Nella poetica di Cerchiaro c'è un po' di ciò
che ha reso De Gregori quello che è, ovvero il
saper costruire piccoli mondi poetici, credibili
e autosufficienti, in cui chiunque possa identificarsi (Filastrocche per bambini) senza troppa
fatica. Quello che è il tratto distintivo dell'artista, e cioè una voce raccolta, calda, da monolocale arredato, diventa però alla lunga l'unico
elemento potenzialmente ripetitivo, in un disco
Fabrizio Zampighi
Fulvio Buccafusco - A Short Story
(Fitzcarraldo Records,2013)
Genere: jazz
Un jazz dai suoni rotondi, caldi, fluidi, in cui il
collettivo prende il sopravvento sulle singole
parti, il suono corale determina lo scalpiccio
degli assoli. A dar man forte al contrabbassista
palermitano Fulvio Buccafusco titolare del
disco e responsabile della scrittura dei brani, ci
sono Stan Sulzmann (sassofonista inglese con
alle spalle collaborazioni con Gil Evans, Mike
Gibbs e moltissimi altri), il piano di Nikki Iles
e la batteria di Ettore Fioravanti (sodale di
Paolo Fresu in più di un'occasione), amicizie
collezionate dal Nostro in una vita di peregrinazioni in Italia ma soprattutto in Nord Europa. Dall'interplay impeccabile racchiuso nelle
otto tracce della scaletta emerge un mood in
cui le tensioni si stemperano a favore di certe
cadenze coltraniane (periodo Blue Train) ampie e lavorate (Keep Smiling), oppure di accenti
riflessivi à la Dexter Gordon (Blue Butterfly),
sempre col timone rivolto verso un'eleganza
formale mai forzata, capace di sembrare immediata anche quando complica la grammatica.
Disco di sostanza fatto di mezze luci ma non
per questo banale, abituato ai cambi di ritmo e
di armonia (Where Should I Go) ma non troppo
talebano in questo senso. Un lavoro adatto anche ai palati poco abituati alle circonvoluzioni
teoriche (e pratiche) del jazz più avanguardista.
6.9/10
s e t t e m b r e
r e c e n s i o n i
Francesco Cerchiaro - A piedi nudi
(Dischi Soviet Studio,2014)
che funziona nonostante qualche passaggio
melodico forse un tantino monocorde. Eppure
c'è onestà e passione, oltre che la capacità di
forgiare un songwriting che non vive solo di
luce riflessa.
6.8/10
Fabrizio Zampighi
115
Genere: rock, garagerock
Il calcio in bocca assestato da A Good Father, tre minuti e mezzo di
devastazione noise-core d'altri tempi in crescendo parossistico, annulla
lo iato pluriennale targato Lucertulas, riprendendo le fila di un discorso interrotto con The Brawl nel 2010 e contraddistinto da riflessioni in
seno alla formazione veneta. L'ingresso di Luca Bottigliero (Mesmerico,
One Dimensional Man) alla batteria in sostituzione di Massimo Cettolin e quello di Federico Dionisi alla seconda chitarra, specie in sede live,
sono gli elementi principali su cui si basa la rifondazione strutturale della band e si vanno ad unire
ad una riflessione più ampia sul suono che sposta ulteriormente i paletti già estremizzati dai lavori
precedenti. Il tutto, verso lande aggressive e prive di qualsiasi concessione, come capita nel furibondo trittico iniziale, la citata A Good Father e le sorelle Sailor e Sickness, tutto un fiorire di spie
al rosso, contorsioni chitarristiche, sezione ritmica modello pandemonio in una continua trance
agonistica che non conosce soste né ostacoli. È la filiera AmRep, dopotutto, mischiata con quelle
lande da bastardi senza gloria che fu la texana Trance Syndicate, a segnare la via ai Lucertulas da
tempi immemori.
Accanto però a questa tendenza fulminante e straight in your face, si accodano i restanti tre pezzi.
Più lunghi, meno aggressivi, ma non per questo meno disturbanti, come insegna Beggars, che da
proto-punk-noise si slancia e sfilaccia nei suoi sei minuti verso dimensioni "altre" alla maniera di
ciò che fecero, o tentarono di fare, gruppi strambi e fuori fase come gli Hammerhead, per citarne
uno: il pulviscolo del noise più materico tra reiterazioni e ciclicità. Il bello è che nelle conclusive
7 e Caronte, con annessa ghost track, ciò riesce appieno, dimostrando come i tre – anzi, i quattro
– non tradiscano di un centimetro l'orizzonte di riferimento, ma sappiano continuamente ondeggiarvi all'interno, mai stanchi, mai domi.
Edizione al solito strepitosa nella "Aluminium Serie" di MacinaDischi, con l'istituzione RobotRadio che cura la versione in CD.
7.2/10
Stefano Pifferi
GB Husband And The Ungrateful Sons Full Of Love (Ill Sun,2014)
Genere: blues, folk
Immaginate un "merge" tra due band di estrazione hard psych, i garage Funny Dunny e gli
stoner Tom Bosley. Il sestetto in questione
cosa dovrebbe e potrebbe fare? Il trabocchetto
è nell'aria, lo avrete capito, ma siete autorizzati
a stupirvi ugualmente: ne esce infatti un folk
116
speziato di ombre e deserto, di caligini uggiose
e torpori bluesy, di languore esotico e mestizia
sorniona. I G.B. Husband And The Ungrateful
Sons da Avellino esistono da un paio d'anni e
finalmente approdano all'album d'esordio con
questo Full Of Love che sembra fatto apposta
per mollare gli ormeggi, staccare la connessione, appoggiare la testa e abbandonarsi una
ballata via l'altra.
r e c e n s i o n i
s e t t e m b r e
Lucertulas - Anatomyak (Macina Dischi,2014)
r e c e n s i o n i
Stefano Solventi
Giardini di Mirò - Rapsodia Satanica
(Santeria,2014)
Genere: post-rock
C'è sempre stata molta celluloide nella calligrafia dei Giardini di Mirò. Non stupisce insomma
che negli ultimi dieci anni abbiano alternato ai
dischi "canonici" progetti legati al mondo del
cinema: prima la OST di Sangue – La morte
non esiste (2006) e poi (nel 2009) la sonorizzazione de Il fuoco, classico del muto firmato
da Giovanni Pastrone quasi un secolo fa. Ci
ricascano oggi con Rapsodia satanica, commento musicale alla pellicola di Nino Oxilia
risalente al 1917, i cui viluppi faustiani erano
stati a suo tempo già benedetti da una partitura
ad hoc ad opera di Mascagni nientemeno. La
sensazione è che, facendo perno su questa modalità compositiva, la band di Cavriago riesca a
focalizzare al meglio la propria cifra espressiva,
come se il vincolo di questa funzione gli consentisse di svincolarsi dalle schermaglie indie
col suo corollario di "opinioni divise", così da
approdare ad una dimensione nella quale il
background post rock è una risorsa adeguata
anzi necessaria.
Sei tracce per sei movimenti (ovviamente)
strumentali che stemperano apprensioni
morriconiane, solennità Dirty Three, sabbia
Calexico e tremori GY!BE, disimpegnandosi
con accorta perizia tra pulsioni digitali e miraggi cameristici. Se VII si candida al titolo di
episodio meglio congegnato (battito grave, trilli
esotici e scansioni visionarie che spingono la
carovana verso una dissolvenza stranamente
mitteleuropea), alla incalzante XVII riesce di
abbozzare appeal ai limiti del radiofonico col
suo languore in sella ad un meccanismo wave.
Detto questo, è però la solidità dell'insieme a
convincere, la padronanza con cui stratificano elementi (pianoforte, archi, armonica, saz,
campane, impalpabili ghirigori sintetici di
sfondo…) e modulano influenze mantenendo
alta la tensione, gli occhi incollati allo schermo
come in un sortilegio consapevole.
Naturalmente c'è un limite, ed è quello fisiologico di chi sceglie di muoversi in un ambito per
cogliere le implicazioni del quale l'ascolto da
solo non basta. Tuttavia, considerato il percorso dei GDM e la loro collocazione nel presente,
mi sembra che si tratti di una scelta ampiamente condivisibile. Forse perfino inevitabile.
6.7/10
s e t t e m b r e
Si rileva la presenza di caligini Clientele in
Thin Ice, c'è aria di frontiera Calexico nella
peraltro laneganiana Quietness, si rende omaggio a John Martyn nella title track e in Lonely
Road, spiccia intimismo crepuscolare come
certe trepidazioni Lambchop la conclusiva
Weepin' (And Weepin'), e via discorrendo. Suonato con la chiara intenzione di tessere trame
acustiche su cui il ricamo elettrico agisca con la
forza della misura (spiccando ove necessario,
come in quella Despedida che si permette un
crescendo surf ) e fidando nella pastosa duttilità del vocalist Angelo Di Falco, Full Of Love
è un buon disco. Certo, è uno di quelli che non
spostano i parametri e che raramente trovi
citato nei consuntivi di fine anno, cui peraltro
non mancano i difetti (in un paio di occasioni
– Magic Inside e Lonely Roads – inciampa nel
didascalico e persino nell'autoindulgente), ma
a parte questo ci senti solo onestà e passione.
6.7/10
Stefano Solventi
Panzanellas - Comete (Lepers
Produtcions,2014)
Genere: freejazz, jazz-core, punkjazz
Delle uscite targate Lepers spesso si sa poco o
nulla. Un po' perchè la label agisce nel sottobosco, un po' perchè ai "lebbrosi" piace agire nel
sottobosco. Insomma, scordatevi press sheet o
117
s e t t e m b r e
118
concetto di "comete" in maniera leggermente
diversificata. C'è più un'idea di combo versatile
o di collettività free in capo alle effusioni dei
Lounge Lizards o degli stessi Squarcicatrici
(Chepleri Celesti), con un maggiore ricovero di
spiriti runici. Spazio più che infinito solletica
però una filosofia che in Italia solo i Vonneumann sanno traslare. Entrambi gli animi li
rendono bipolari e scomposti al giusto grado
di gassosità. Se esistesse veramente un genere
così, verrebbe da chiamarlo poltergeist, altro
che jazzcore. Ebbene, in tutto questo marasma
di deiezioni spirituali e fantascientifiche, sarebbe bello capire in futuro come si muoverà la
navicella abitata dai nostri eroi e se e quando ci
toccherà aspettarli ridiscendere in troposfera.
6.8/10
Christian Panzano
Goat - Commune (Rocket
Recordings,2014)
Genere: rock, psych, art, crossover, afrobeat
Inutile negare che l'arrivo improvviso di
World Music sul panorama abbastanza piatto delle musiche underground d'oggi fu un
piacevolissimo e sorprendente fulmine a ciel
sereno. Vuoi le ben architettate leggende sulla
provenienza del misterioso gruppo, vuoi l'alone
di mistero e le speculazioni intorno ai membri, vuoi la voglia di terzomondismo weird che
ultimamente sembra toccare lidi insospettabili
– unite ad un sentire musicale coinvolgente e
letteralmente posseduto, come nelle migliori
tradizioni voodoo e/o afro-beat – hanno fatto
di quell'esordio un vero e proprio caso discografico, così come dei concerti del collettivo
svedese, quanto di più trascinante e simile agli
happening free dei tempi che furono.
Facile anche che la risacca da eccesso di stupore abbia fatto dubitare i più sul reale portato
dei Goat, attesi al varco del secondo album –
non fa testo il live Live Ballroom Ritual che
r e c e n s i o n i
curricula, qui si gioca d'ingegno, meglio mettersi subito l'anima in pace. Gli Putridissimi
and Panzanellas si sono uniti a dispetto delle
distanze che dovrebbero separarli (è dunque
l'unico dato anagrafico che ci permette di ipotizzare un patto di non belligeranza sud-nord
contro le barriere della terracquea inettitudine)
per fomentare la lotta che spinge pochi umanoidi ionizzati nel mezzo interstellare. In questo
quadro di inusitata bruttezza covano le prime
testimonianze di una parabola jazz che fa il paio
col core o col punk. È scoccata l'ora della tenzone intergalattica, le stelle stiano pure a guardare.
Ecco, provate voi a capirci qualcosa, io mi sono
arrestato a concepire solo un blando paragone
fra questi nove brani e qualche film sci fi, prima
di rendermi conto dell'enorme cretinaggine in
atto. Eppure la Lepers e tutti i suoi figliocci intonano quel canto fin da sempre e a ragione tentano di svelare misteri musicali e non con un po'
di fantasia in più rispetto alla media nazionale
ponderata. Comete ha tratti molto interessanti
che giocano spesso con intuizioni già avute da
altri, forse più blasonati, eroi del genere. Diciamo pure che l'esperimento è condotto in maniera accattivante, con punte beffarde. Nella loro
etica c'è poco di sibillino, di sordinato. Tutto è
sbobinato con una certa logica. Si scova un jazz
fraterno, tribale, un jazz modale che sa di calli e
di poche note blu e lunghe. Una lunghezza che
poi si dirama nel core o nel math con costanza (Far East) e disinvoltura (Li Puma Playing
Briscola On Schwassmann-wachmann 3), e se è
peregrino parlare di Ayler nelle elucubrazioni
del sax dei Panzanellas, aggredito da Francesco
Li Puma, allora giudicate voi, da diretti interessati. Ayler è sempre un metro di confronto, più
che per la critica in sé, per gli autori stessi che
spesso si trovano ad affrontare una didascalia
personale già improntata decenni fa da uno che
aveva già visto lungo.
Gli Putridissimi invece approcciano con il
r e c e n s i o n i
Rote), eppure solo oggi lo troviamo a pubblicare con il suo vero nome nell'etichetta di famiglia, quell'Orindal che produce anche il lavoro
del fratello Owen Ashworth a.k.a. Advance
Base.
La novità di S.T.L.A. è la svolta verso il linguaggio del folk, o meglio, di un drone-raga-folk dove
piano, banjo, chitarre e field recordings si intrecciano in un monolite amorfo che per ammissione dello stesso Ashworth diventa specchio della
sua anima ("take it or leave it: this is who i am").
Come succede nei migliori casi, dietro il coming
out interiore – peraltro interamente strumentale – c'è musica bellissima. Delle cinque tracce
presenti il fulcro è rappresentato dalla due lunghe suite centrali Suite for Broken Sex e To Be the
Man I Want to Be, la prima dominata dai drones
e da un malinconico piano-raga, la seconda
invece che pare salire le strade polverose e traditional degli Appalachi, con un banjo desolato in
sottobosco di field recordings che trova naturale
appendice in una chiusura cupa come Desperate
and Indebted, dove è ancora la sensibilità del
fingerpricking a dominare
Forte dei tanti anni di carriera sul groppone,
Ashworth sa benissimo dove cercare ispirazione e sceglie il meglio: i Pelt pre Ayahuasca,
Jack Rose e il sound Takoma, l'Ensemble
Economique, tutti nomi tutelari di un S.T.L.A.
che si rivela compendio di vita e di poetica, ma
soprattutto disco di grande intensità.
74/10
Stefano Pifferi
Stefano Gaz
Gordon Ashworth - S.T.L.A.
(Orindal,2014)
Genere: folk
E' da oltre un decennio che Gordon Ashworth,
californiano di stanza nell'Oregon, gira l'underground americano nelle sue più svariate forme
tra act drone/ambient/noise (Caen, Concern,
Oscillating Innards) e black metal (Knelt
s e t t e m b r e
ne coglieva in maniera fedele l'energia on stage,
in quanto appartenente alla grande famiglia del
"batti il ferro finché è caldo" – quasi coi fucili
spianati. E la congrega svedese risponde da par
suo con questo Commune, nomen omen tanto
quanto lo fu quel riferimento alla world music
nell'esordio: non nel senso "new age" o ridicolmente frivolo del termine, quanto come una
sincera rivendicazione di appartenenza.
Meno massimaliste e ridondanti e più asciutte e centrate, le nove tracce di Commune
trasudano al solito bombe di energia e freakettonismo a dismisura, ma non inondano
né stordiscono col flusso da trance collettiva
dell'esordio: nonostante la linea da sabba sia
sempre ben evidente, qui si riesce a entrare
dentro l'ascoltatore in maniera più raffinata, giungendo lo stesso molto in profondità.
I grooves sono al solito acidi, l'impianto mai
staticamente tribaloide e la psichedelia vibra a
profusione, mischiando funk, afro-beat, sixties
rock e quant'altro e trasformando tracce come
Talk To God, The Light Within, Goatslaves
in piccole bombe esplosive ma perfettamente
calibrate.
Se all'epoca di World Music si finiva esausti ed
ebbri di quel sabba sonoro che molto aveva di
fisico ed erotico, ora, levata la fanfara e ridotta
(quasi) all'osso la polpa, se ne gode appieno e si
ha voglia di premere repeat più volte. Di questi
tempi, non è affatto poco.
7.5/10
Grumbling Fur - Preternaturals
(The Quietus Phonographic
Corporation,2014)
Genere: psych, electro
Nemmeno per due eminenze dell'avant rock
anni 2000 come Daniel O'Sullivan e Alexander Tucker, era scontato arrivare alla terza
pubblicazione come Grumbling Fur. Il disco
119
Genere: rock
Dopo trent'anni di carriera, nove album solisti e innumerevoli collaborazioni, non ci siamo ancora stancati di Mr. Mark Lanegan. A confermarlo
è questa ultima uscita, un EP dal titolo No Bells On Sunday, che, per
stessa ammissione del Nostro, anticipa il prossimo full-length Phantom
Radio, atteso per novembre.
Parliamo di attesa perché, almeno per chi scrive, l'attenzione che sta
attorno ad ogni nuovo lavoro di Lanegan è sempre accompagnata da un
comprensibile timore, ovvero che il passaggio da personaggio di culto a vera e propria leggenda lo
abbia spinto negli ultimi anni a concentrarsi più sulle attività extra-soliste che sui propri album.
Un'ansia largamente smentita, prima, da quel ritorno in grande stile che è stato Blues Funeral,
e dallo splendido Imitations poi, che ce lo hanno restituito al meglio della forma e tutt'altro che
adagiato sul solo carisma della voce. In altre parole, se in un paio di episodi la collaborazione si è
limitata più che altro ad una presenza fin troppo ingombrante (Black Pudding, con Duke Garwood), è anche vero che, da solo, Mark Lanegan continua a non sbagliare un colpo, come ci dimostra
ancora No Bells On Sunday.
Quasi a voler ripetere, dieci anni dopo, l'eccezionale ritorno annunciato da Here Comes That
Weird Chill e concretizzato poi con Bubblegum nel 2004, i cinque brani di No Bells On Sunday presentano l'ennesima direzione della parabola laneganiana: ritornano infatti le pulsazioni
sintetiche che avevano caratterizzato Blues Funeral, qui presenti nell'opening Dry Iced e nella
conclusiva Smokestack Magic. Pezzi che sintetizzano al meglio le visioni cantautorali di adesso:
le onnipresenti radici blues amalgamate alle pulsazioni electro, la simbologia biblica ed esoterica
unita ad un certo gusto per synth e drum machine, a voler ribadire che il songwriting di Lanegan
è tanto radicato nel passato quanto perfettamente in grado di muoversi nel presente, evitando ancora una volta il rischio di fossilizzarsi in quei miasmi acid-folk che da The Winding Sheet in poi
ce lo hanno fatto apprezzare come unica presenza autorevole nel deserto post-grunge. Un passato
che lui non rinnega, ma che anzi riemerge prepotente con Sad Lover, che sembra riportarlo (voce
compresa) all'irrequietezza psych e garage dei primi album con gli Screaming Trees.
E' proprio quando la voce si mescola agli archetipi della tradizione che il buon Mark dà il meglio
di sé, ad esempio nella cantilena dark di Jonas Pap, e, soprattutto, nella title-track, a cui va una
menzione speciale. No Bells On Sunday è infatti un brano che si fa classico già dai primi ascolti,
e che condensa tre decenni di attività cantautorale ed eccezionalità vocale: in altre parole, è il
continuum della tensione elettronica e del paradigma folk/blues, dove il punto d'incontro è naturalmente un'interpretazione flemmatica, sensuale, e ovviamente inconfondibile. Profondità blues
e fascinazioni cibernetiche che presumibilmente ritroveremo in Phantom Radio, e che non tradiranno le aspettative di chi considera Mark Lanegan ancora una figura di spicco nel panorama
musicale passato e presente.
7.3/10
Giulia Antelli
120
r e c e n s i o n i
s e t t e m b r e
Mark Lanegan - No Bells on Sunday EP (Heavenly,2014)
Antonello Comunale
r e c e n s i o n i
Gui Boratto - Abaporu (Kompakt,2014)
Genere: techno, house, dance
Dopo aver passato un po' di tempo a sfornare singoli per la sub-label K2 della Kompakt
(raccolti nell'antologico The K2 Chapter dello
scorso anno) e a seguire il duo Elekfantz per la
sua label D.O.C., Gui Boratto si rimette in pista
e sforna un quarto disco al di sopra delle aspettative. Se è vero che Kompakt sta diventando
sempre più un classico della tech-house che
molte volte guarda un po' troppo al downsizing pop, è vero anche che ogni tanto la label
di Cologna ci prende. E come lo scorso anno
aveva centrato il giusto limite fra bassi caldi e
minimalismo con 1977 di Kölsch, anche qui
raggiunge una tensione che convince. Certo
non siamo ai livelli di Chromophobia (in top
100 sui migliori album del decennio '00-'10,
secondo Resident Advisor), e non potremmo
chiedere un'affiliazione così pesante al minimalismo, dato che oggi non va più come nel
2007, ma anche con questo Abaporu Boratto
c'è e ci fa sentire di aver raggiunto un'importante maturità.
L'artista, nelle note di stampa, dice di essersi ispirato ai quadri della pittrice modernista brasiliana Tarsila Do Amaral e alle teorie
estetiche (il cosiddetto Manifesto Antropógafo,
ovvero cannibale) del marito e poeta Oswald
De Andrade. Un modernismo che dovrebbe
riflettersi anche nel sound del disco, e quindi usare il passato per rinvigorire il presente
attraverso un ripensamento creativo. E non
potrebbe che essere così, ormai: ingabbiati
in una palette di suoni (in questo caso, quelli
caldi della Kompakt), di trucchi compositivi e
di altre caselle dove scrivere le note, gli artisti
house non possono che essere modernisti. Per
ovviare ai vituperati schematismi, per cercare
di rivisitare creativamente, Boratto usa il suo
stile finissimo, tagliando i suoni con l'accetta
della produzione, puntando su bassi ovattati e
s e t t e m b r e
d'esordio del 2011, Furrier, era l'ennesima
variante psych-ambient arrivata in un momento storico di iper-saturazione del settore, ma a
ridestare un minimo di interesse aveva provveduto il lavoro dell'anno scorso, Glynnaestra,
con la sua "krautedelia" pop.
Questo Preternaturals va ad inserirsi doverosamente lungo questo stesso sentiero, riprendendo il discorso esattamente da dove i due lo
avevano interrotto con His Moody Face e scoprendo, se possibile, anche quelle poche carte
che ancora rimanevano nascoste. Pertanto,
ecco ulteriori coloratissimi tasselli pop come
All the Rays, e la super catchy Lightsinisters
dove appare come ospite nientemeno che Tim
Burgess dei Charlatans. In brani come Feet
Of Clay e Secrets Of The Earth la costruzione
è raffinatissima: da un lato il lavoro della longa
mano di O'Sullivan sembra prendere il sopravvento, perché la densa matrice post, con viola
e motorick elettro pop, dimostra chiare ascendenze da certi Guapo; dall'altro le doppie voci
e la linea melodica che sa tanto di soft gothic,
rimanda più a Tucker. Nei momenti migliori i
Grumbling Fur sembrano una fusione futurista tra certi Gastr del Sol (Camofluer) e certi
Depeche Mode (Violator).
La finale Pluriforms riassume tutto il disco
e si pone come paradigma di due autori che,
a dispetto ancora di qualche bozzolo ambient (l'omaggio a Genesis P-Orridge di Neil
Megson Fanclub), hanno trovato il modo di
sperimentare anche sulla formula, piuttosto
che perdersi in eccessive elucubrazioni sulla
forma, cosa che li avrebbe stretti in un angolo
senza ossigeno. Facile prevedere che ci saranno
altri lavori come Grumbling Fur. Il meccanismo
ormai è ben lubrificato e quando questo avviene, due professionisti del genere non possono
che sfruttarlo fino alle estreme conseguenze.
7/10
121
Marco Braggion
Indigo Mist - That The Days Go By And
Never Come Again (RareNoise,2014)
Genere: impro, jazz
Trombettista e cantante attivo da più di
vent'anni, Cuong Vu ha legato fondamentalmente il suo nome ai funamboli della chitarra
Pat Metheny e Bill Frisell, non disdegnando
collaborazioni con personaggi del calibro di
David Bowie e Laurie Anderson. Attirato dalla
musica classica contemporanea e alle tecnologie elettroacustiche, Vu è andato a bussare
a casa di Richard Karpen, uno dei massimi
esperti di nuove tecnologie applicate alla musica contemporanea: da lì il passo verso la formazione di un progetto è stato breve.
That The Days Go By And Never Come Again
è il risultato di più di un anno di alacre lavoro
in studio di registrazione, in cui il già esistente
Cuong Vu Trio (completato dal bassista Luke
Berman e dal batterista Ted Poor) si fonde con
i patches algoritmi di Karpen, andando a sperimentare e a rileggere alcuni temi di Duke Elling-
122
ton (In A Sentimental Mood e Mood Indigo) e
Billy Strayhorn (A Flower Is A Lovesome Thing
e Lush Life). Nove tracce interconnesse da
ascoltare senza pause, in cui colpisce il livello di
affiatamento raggiunto dai musicisti e la naturalezza con cui il lato jazz di Cuong Vu si è fuso
con quello classico di Karpen.
Non proprio commestibile da tutti, That The
Days Go By And Never Come Again è un
lavoro complesso e curato (la produzione è
eccellente), che porta una ventata di freschezza
nel free contemporaneo.
7.2/10
Andrea Murgia
Interpol - El Pintor (Matador,2014)
Genere: rock
Segnali di vita in casa Interpol, che con l'ultimo e omonimo album, sembravano diretti
verso una necrosi creativa da cui non pareva
esservi ritorno. C'era bisogno di lasciare ad
ognuno il tempo di ripensarsi come artista, di
dedicarsi a progetti solisti per tornare con un
album che sapesse aggiornare una formula logora. Un cosa che nessuno dei campioni dell'indie rock dello scorso decennio ha saputo fare in
modo convincente.
A ben vedere gli Interpol sono rimasti gli unici
a cui pubblico e stampa hanno voluto concedere il beneficio del dubbio. Merito di un esordio che col trascorrere del tempo ha assunto
i connotati della pietra miliare e, perché no,
di un'immagine che non ha smesso di essere
fascinosa e impermeabile allo scorrere del
tempo. Oggi la parola d'ordine sembra essere quella del cambiamento nella continuità.
Pertanto nessuno stravolgimento; piuttosto si
percepisce da subito il ruolo di secondo piano
a cui è stato relegato il basso. In questo senso il
singolo apripista All The Rage Back Home, detta l'agenda dell'album: gli uptempo, l'interplay
ossessivo delle chitarre, la maggiore dinamica.
r e c e n s i o n i
s e t t e m b r e
sensazioni positive (altro che paura dei colori),
su un feeling in certi casi balearico, in certi casi
pop (vedi la coda di canzoni cantate che non
finiranno nel vinile).
Per non soccombere ad una facile mutazione
pop, Boratto punta tutto sulla qualità del suono
e, con pochi ingredienti (l'eterno ritorno minimal mittel), approda a un album completo, mai
troppo tagliente, nè troppo esagerato. Una di
quelle cose che potrebbero piacere sia al banger da pre-pogo che all'over 40 con il cocktail
in mano a bordo pista. Una via di mezzo fra Booka Shade (Take Control), Röyksopp (Indigo)
e GusGus (Joker, Get the Party Started), il tutto
condito da un savoir faire sudamericano che
scalda (Please Don't Take Me Home). Bravo,
Gui.
7.1/10
r e c e n s i o n i
Capita più spesso che il trio cada nella facile
trappola dell'autocompiacimento, perdendosi
in divagazioni superflue che fanno perdere
brillantezza al prodotto finale; una sorta di
apnea tecnico-compositiva che offusca la vista
e che rende più pesante l'ascolto di alcuni passaggi (Alexa), facendo perdere scorrevolezza
al disco. Ottimi alcuni brani: l'iniziale Doozy
Mugwump Blues, dominata dalla chitarra di
Young, funziona e convince come Wonderfall,
traccia che strizza l'occhio al maestro Morricone con la citazione del tema di Indagine su
un cittadino al di sopra di ogni sospetto. C'è
spazio anche all'omaggio a Zappa in Frank'll
Fix It, una delle maggiori ispirazioni della
band.
Pur essendo un buon lavoro, Arise soffre ogni
tanto di qualche amnesia che mina la sua riuscita finale, risultando in alcuni passaggi troppo verboso e confuso. Promosso con debito.
6.1/10
Diego Ballani
Genere: impro, jazz, freejazz
Archiviati momentaneamente i progetti
Plymouth e Slobber Pup, Joe Morris e Jamie
Saft tornano con Red Hill, nuovo progetto in
compagnia di Balazs Pandi (Obake e i recentemente riformati Zu) e di uno dei pilastri del
free jazz contemporaneo: Wadada Leo Smith.
Frutto di recording sessions votate all'improvvisazione più spinta, Red Hill mostra un
ensemble compatto e in stato di grazia che fa
quadrato attorno alla figura carismatica di Leo
Smith, senza però mostrare timore reverenziale o sudditanza.
La opening track Gneiss, dominata dal fraseggio pungente e senza fronzoli di Wadada, serve
come antipasto la prova incredibile di Saft al
pianoforte, strumento preferito nella quasi
Interstatic - Arise (RareNoise,2014)
Genere: blues, jazz
Autori nel 2012 di un discreto omonimo disco,
gli Interstatic tornano con il nuovo Arise,
confermando quanto di buono visto nel precedente lavoro ma ripetendo alcuni degli errori
che lo avevano caratterizzato. Dotato di altissimo tasso tecnico, l'ensemble formato da Roy
Powell (già dietro ai tasti dei Naked Truth),
il chitarrista Jacob Young e Jarle Vespestad –
batterista apprezzatissimo di molte produzioni
della ECM – passa dal blues al jazz radicale con
facilità, mescolandoli con il prog di scuola canterburiana e con l'ambient, ma riuscendo solo
in alcuni episodi a convincere pienamente.
Andrea Murgia
Wadada Leo Smith - Red Hill
(RareNoise,2014)
s e t t e m b r e
Era qualcosa di cui la band sembrava non essere più capace.
Oggi si rivede la luce grazie al complesso reticolo sonoro di My Desire, all'incredibile affiatamento che sta dietro il tour de force chitarristico di Anywhere. Fondamentale è il mood
dell'intero lavoro. Paul Banks e soci sembrano
divertirsi di più, di conseguenza si diverte
anche chi li ascolta. Lo si percepisce nel modo
che hanno di giocare con i riff, di svilupparli e
deformarli, specie quello che fa da perno alla
bella Same Town New Story.
C'è un canovaccio che sta alla base di ogni brano e che prevede la ripetizione di un pattern,
che viene stressato, ingigantito e reso epico.
È un'idea di psichedelia metropolitana, al cui
sviluppo ha contributo il lavoro fatto da Paul
Banks nel progetto Julian Plenti e che ha portato alla rottamazione di elementi del passato,
quali le analogie con Joy Division e Psychedelic
Furs, e le influenze emocore. Il risultato è che
El Pintor è l'album più personale mai realizzato dagli Interpol. Non male per chi, fino a poco
tempo fa, era dato artisticamente per spacciato.
7.1/10
123
Genere: psych, kraut, ambient
Massimo Ruberti lavora per ispirazioni forti, siano esse letterarie o
cinematografiche. E non potrebbe essere altrimenti, visto che produce
una musica visuale come poche altre, capace di traghettarti in galassie
mentali spaziose e multistrato, come di fare da colonna sonora per installazioni artistiche e video. Come un Jean Michel Jarre più krautrock,
con The City Without Sun il musicista pensa a una colonna sonora per
il romanzo di Michel Grimaud, La Ville Sans Soleil, confezionando un lavoro oscuro in cui far convivere Kraftwerk, Air e Suicide (la bellissima title track), ma anche un
reiterare ritmico che ha più di un punto di contatto col motorik di certi corrieri cosmici tedeschi
(Darklands).
Laptop e sintetizzatori analogici sono gli ingredienti base di una ricetta che somma atmosfere
sognanti a macchine percussive "molli", in un viaggio ipnotico e "alterato" in cui il ripetersi delle strutture fa spazio a certi slanci à la Carpenter (Last Bird In The Valley), sembra voler citare
l'elettronica dei primi Daft Punk (Antipol / Propol), ma si concede anche parentesi "altre". Come
ad esempio il beat quasi trip-hop su accordi di pianoforte di Aldo and Lea, la disco moroderiana
di Mass Technology Against Mass Manipulation, l'ambient disturbato di Smog e quello celestiale/
psichedelico (vicino a certe cose di Wendy/Walter Carlos) di The Wind.
Il disco – successore dell'Autor De La Lune del 2010, ma a nostro modo di vedere molto più a
fuoco e coerente – è un episodio nostalgico ma riuscito, in grado di disperdere un'ipnosi inquieta
focalizzata sui crescendo e, in generale, su una trance narrativa in cui la dinamica dei suoni e i singoli dettagli degli strumenti guadagnano un peso specifico di non poco conto. L'album esce sotto
licenza creative commons per la netlabel Nostress e il consiglio è di non farselo sfuggire.
7.3/10
Fabrizio Zampighi
totalità delle tracce di questo episodio al caro
Fender Rhodes. La sezione ritmica formata da
Morris e Pandi costruisce strutture solide e
convincenti (la seconda parte di Janus Faces
è emblematica), adattandosi perfettamente ai
continui cambi di direzione di Smith e Saft. Nel
suo essere profondo e multisfaccettato, Red
Hill è un bel lavoro sotto tutti i punti di vista,
ma richiede tempo e pazienza per essere assimilato e apprezzato al meglio.
7/10
Andrea Murgia
124
jj - JJ – V (Secretly Canadian,2014)
Genere: pop
Tornano i due svedesi, questa volta con le "j"
maiuscole. Un simbolo di maturità acquisita (o
per lo meno esibita)? Lo shifting hipster d'ordinanza? O è solo una trovata di marketing?
A sentire Joakim Benon, V avrebbe dovuto
rapppresentare il meglio della loro produzione:
"Abbiamo lavorato a questo disco per tutta la
vita; è la cosa che abbiamo sempre voluto fare.
Sento che abbiamo lavorato su questo album sin
da quando abbiamo iniziato a registrare musi-
r e c e n s i o n i
s e t t e m b r e
Massimo Ruberti - The City Without Sun (NoStress Netlabel,2013)
Marco Braggion
r e c e n s i o n i
John Garcia - John Garcia
(Napalm,2014)
Genere: rock
Molto di più. Molto più successo, molti più
soldi, molta più notorietà. La carriera di John
Garcia, seppur incredibile, non è stata – commercialmente parlando – all'altezza delle
aspettative. Di dollaroni ne ha fatti decisamente di più il collega/rivale Josh Homme dei
Queens Of The Stone Age, sdoganando certe
sonorità nel mainstream. Nel suo "piccolo",
tuttavia, Garcia ha intrapreso un percorso artistico che nella coerenza ha trovato il proprio
punto di forza. La voce meno addomesticata
del deserto, dopo il black out con i Kyuss, ha realizzato album di pregevole fattura con Unida,
Hermano, Slo Burn e prodotti nel complesso
piacevoli, come Peace dei Vista Chino (ovvero
dopo una disputa legale, gli ex Kyuss Lives!),
senza contare ospitate estemporanee in altri
progetti.
Questa volta però Garcia ha deciso di fare tutto
da solo, come dichiarato con fierezza nel primo
(ottimo) singolo intitolato My Mind, canzone
in cui il Nostro ruggisce al microfono "I'm all
alone, I'm all alone, I'll be alone". Un termine
che ritorna subito nella successiva Rolling Stoned (cover dei canadesi Black Mastiff ), aperta
da un riff poderoso. In queste undici canzoni è
condensata una buona dose di paranoie, ma anche di aspettative, certezze, convinzioni e speranze, sensazioni, raccolte da anni e riportate
a galla dopo una lunga cernita tra gli appunti,
i testi e le musiche messe nel cassetto dall'ex
Kyuss in oltre vent'anni. Un periodo in cui,
come dicevamo poc'anzi, è successo di tutto. La
sintesi di questo processo è un disco granitico,
incorniciato dal meraviglioso feat di Robbie
Krieger dei Doors – sue le chitarre acustiche
nella sognante Her Bullet Energy, placevole
resa che placa la rabbia di cui è intriso questo
Lp. Una firma d'autore, quella di Krieger, con
s e t t e m b r e
ca. Non abbiamo mai avuto nessun altro piano
se non quello di farlo uscire e allo stesso tempo
non abbiamo mai saputo cosa fosse. È cresciuto
a modo suo, e ora che l'abbiamo finito, guardando indietro possiamo capire cosa sia veramente,
cosa abbiamo fatto, perché è qualcosa che non
decidi, anche se l'hai fatto tu. Le canzoni… non
le scriviamo, facciamo solo il nostro meglio per
catturarle per sempre, davvero".
In realtà il disco è pop allo stato puro, con inserti
di elettronica che aumentano il tiro quel tanto
che basta per essere inseriti in qualche compilation di remix ibizenca superpatinata (già
accaduto al singolo pseudo-tribal Fågelsången)
o su qualche spot che deve far salire l'emozione
(possiamo scommettere qualche contratto con
Apple o con qualche casa di prodotti per bambini). Dal lontano 2009 del promettente ma troppo furbo esordio jj n°2 ne è passato di tempo e
oggi il palco è definitivamente caduto. Abbiamo
capito che le costruzioni mimetiche, quel negarsi in un'indistinta aura di mistero nordico
ha stancato e il risultato è solo un'altro clone di
quell'hipsterismo che vorrebbe simulare lo stile
di Lana Del Rey, ma purtroppo non ci riesce.
Il duo ha sì qualche carta da giocare, come ad
esempio il buon uso dei tappeti di archi, i crescendo atmosferici e la voce di Elin Katlander
che culla e lega bene le melodie (Full, Be Here
Now), ma precipita su banalità che mimano i
peggiori Coldplay (Dynasti), romanticismi melensi (Dean and Me) o qualche scimmiottamento della già ricordata Lana (When I Need You).
Delusione per la scuderia Sincerely Yours (che,
ricordiamo, ha in catalogo pure CEO). Il disco
vorrebbe essere una testimonianza di amori
andati male, di storie tormentate, ma diventa
buono solo per qualche selfie da teenager brufolosi e sudati in camerette con condensa alle
finestre. Per tutti gli altri, c'è sicuramente altro.
5/10
125
Genere: cantautori, blues, country, folk
Pete Molinari è il perfetto trait d'union tra la musica folk americana e il
beat inglese. Riesce a mischiare in una forma pressochè perfetta la scuola cantautorale degli anni Sessanta a stelle e strisce e la ruvidità inglese
della terra di Albione; la voce nasale, squillante e così old fashioned lo
rende un menestrello fuori dal tempo. Theosophy è il suo quarto album
in studio (esce per Cherry Red Records) e vede la produzione di un certo
Dan Auerbach, ossia metà dei Black Keys, in un processo di svecchiamento di certi stilemi del blues. Il risultato è coerente e coeso al suo interno sin dall'inizio con la
potente Hang My Head in Shame; sono tantissimi i riferimenti che delineano gli spigoli vivi di
un artista che non fa mistero della propria fede verso un certo tipo di scrittura e di sonorità: Bob
Dylan, Woody Guthrie, Hank Williams e CCR da un lato, The Kinks, Small Faces, i Beatles del
biennio 64/66 (Love For Sale non si chiama così a caso) e Procol Harum dall'altro. La missione è
chiara: regalare un viaggio attraverso gli anni Sessanta rivisitandoli e rivivendoli in lungo e largo
attraverso un gusto pop molto marcato nel songwriting.
Qui non c'è la minima intenzione di suonare moderni, anzi: ascoltando l'album ad occhi chiusi,
potrebbe sembrare di aver pescato un vecchio album da una cantina fatiscente piena di memorabilia del passato. A differenza di alcuni esponenti del recente folk revival (leggi Jake Bugg), qui
la sensazione è di avere davanti un talento genuino e non costruito, che percorre ormai da anni il
suo sentiero in modo fiero e a testa alta. Dal lisergico slow blues di So Long Gone alle reminiscenze
in stile John Fogerty di When Two Worlds Collide, passando per il country rock di I Got Mine e il
rhytm'n'blues rurale di Mighty Son of Abraham (che richiama Son of a Preacher Man non solo nel
titolo), è tutto un fluire logico attraverso un decennio storico della popular music. La dedizione
quasi filologica di Pete Molinari è maniacale e nulla viene lasciato al caso. Un cenno a parte merita la sublime ballata Dear Marie (You Made a Fool of Me) che è un colpo di gran classe con una
sapiente costruzione armonica e l'uso di strumenti come pianoforte e banjo che enfatizzano l'alto
tasso melodico del brano.
Per carità, nessuno grida al miracolo e tutto è stato già detto e sentito. Ma l'onestà intellettuale
dell'artista, unitamente alla capacità di sguazzare con cognizione e classe nel passato, lo rendono
più che perdonabile e promosso a pieni voti anche con questo nuovo album.
7.5/10
Stefano De Stefano
cui Garcia si congeda nel migliore dei modi. La
canzone rappresenta un'eccezione rispetto al
tenore complessivo di un lavoro maggiormente
incline all'energia di Saddleback e alla consapevolezza hard rock di Flower.
126
Altri ospiti del disco sono Nick Olivieri e
Danko Jones (sua 5000 Miles, insolita dichiarazione di affetto per la famiglia causata dal
senso di nostalgia dei tour). Di grande appeal
il chours di His Bullet Energy, una scorciatoia
r e c e n s i o n i
s e t t e m b r e
Pete Molinari - Theosophy (Cherry Red Records,2014)
che conduce a una piccola oasi melodica dopo
aver percorso un sentiero intricato e tortuoso
tra riff serrati. Garcia si toglie altra polvere di
dosso in All These Walls – ennesima ottima
prova – rivendicando, con forza, il proprio ruolo nel panorama stoner rock americano.
6.9/10
Lorenzo Costa
Genere: soul
C'erano riusciti i Daft Punk recentemente e
felicemente, in quell'opera di recupero di certe
sonorità derivate pari pari dai Seventies. E
anche gli Hot Chip avevano avuto una facile
vittoria. Ora è il turno dei Jungle, un collettivo capitanato da Josh Lloyd-Watson e Tom
McFarland che esce oggi per XL Recordings;
tra guizzi new soul, propensione a una dance
minimalista e un forte debito nei confronti di
Marvin Gaye, il risultato è tanto efficace quanto furbo. Riuscire ad essere tremendamente
(post)moderni quanto canonici nell'osservare
alcuni canovacci di genere, filtrare e flirtare
con il vintage ma ostentando la propria appartenenza agli anni Zero: è questa la prima sensazione che si ricava dall'omonimo debutto degli
attesissimi Jungle, complice una produzione
calibrata e cesellata, perfettamente sagomata
sulle esigenze di mercato e la generale tendenza del momento.
Il singolo The Heat è micidiale con quel basso
vecchio di 40 anni e le doppie voci in falsetto
che chiamano Prince e Bee Gees; siamo già in
medias res, tra soul, neo-funk, alt. dance, campionamenti e sintetizzatori. Voci nere. Un vero
e proprio richiamo alla tradizione che si presenta alle orecchie con tutti gli abbellimenti del
caso, anche se alla base c'è indubbia sostanza.
Busy Earnin' è un altro dei momenti migliori
dell'intero disco, guidata dalla progressione armonica e dalle tastiere che creano gli spazi per
s e t t e m b r e
r e c e n s i o n i
Jungle - Jungle (XL,2014)
un basso quanto mai padrone della situazione;
la bluesy ballad Drops fa invece capire attraverso il suo approccio minimal che c'è spazio anche per un altro tipo di mood, virando verso un
easy listening notturno e pieno di groove che
richiama certi momenti di James Blake (come
anche Lucky I Got What I Want presente nel
finale del disco).
Samples, drum machine, forti hooks: un disco
del passato totalmente immerso nel presente
che si costituisce come prodotto assolutamente
pop; a pensarci bene tutto ciò che c'è intorno lo
è, dalle manovre virali sui social alle iniziative
fuori dal palco tese a creare mistero intorno
all'uscita dell'album, fino allo sfruttamento
dell'iconografia di genere. Jungle è oggi l'ennesimo esperimento di rivitalizzazione dello
storico r'n'b che ha dato i suoi frutti in passato
e che continuerà a farlo anche nei decenni a
venire, integrando i vari spunti ed elementi che
i trend artistici e di mercato suggeriranno: ma a
pensarci bene potrebbe essere soltanto la retromania che sposa il business. Difficile bocciarlo
solo per questo: tutto funziona alla perfezione
e forse per questo il dubbio che si possa finire
vittime di una trappola esiste e resiste.
6.9/10
Stefano De Stefano
King Creosote - From Scotland With
Love (Domino,2014)
Genere: cantautori, folk
Kenny Anderson è un artista scozzese molto prolifico, che con lo pseudonimo di King
Creosote ha realizzato oltre quaranta lavori
discografici, sempre mantenendosi nell'ambito di un alternative folk rock pieno di suggestioni direttamente collegate alla sua terra
natia. From Scotland With Love è un disco
di undici canzoni che fanno da colonna sonora
a un documentario della regista neozelandese
Virginia Heat, commissionato dalla BBC e che
127
Genere: cantautori, rock, soul, country, folk
Che cos'è psichedelia oggi? Chiedetelo a Ray LaMontagne, più di uno
fra i tanti songwriter disseminati per il continente americano; un cielo
lavanda, un sole da cogliere e un "ti ricordi quando ci siamo sentiti in
quel modo?" dilatato negli effetti sul tono vocale, espanso dallo stumming
dell'acustica e nel riff dell'elettrica (Lavender). Sono i suoi Beatles, il suo
Donovan, i suoi Mamas and Papas.
Ray è nativo di Nashua, New Hampshire, è figlio d'arte anche se non
avrebbe mai voluto esserlo visti i cattivi rapporti col padre fin dalla tenera età. Dopo gli studi si
trasferisce a Lewiston nel Maine e inizia a lavorare come uno schiavo per una fabbrica che produce scarpe. Una bella mattina, prima della sveglia del gallo, riceve in dono la buona novella via
radio: Treetop Flyer di Stephen Stills, ed è subito amore. Decide di dare una sterzata ad una vita
che era diventata come un grosso treno vuoto in fuga verso il nulla, donandosi in tutto e per tutto
alla musica.
E ancora viene da chiederci che cosa sia country jazz oggi, "seduto a Landis Hill, fissando Beverly
Hills, ognuno si muove così velocemente, ti senti quasi come parte di un passato" (Airwaves); vi
risponderà sempre lo stesso barbuto quarantunenne con l'aplomb di chi conosce il palco quanto le
strade percorse. E se poi volete sentire una bella canzone rock scritta come ai vecchi tempi, dovrete ascoltarvi Julia o Supernova, brani che regalano testi scolpiti per chi li vuol tradurre e tormentoni per giorni e giorni. E non finisce qui: "Sono stato un salvatore, un sacrestano, uno straniero/
ferito dalla rabbia/bruciato dalla legge/sperso come nient'altro" è la prima strofa di Ojai. Come
non rimanerne innamorati?
Ray è al quinto lavoro in studio, con Dan Auerbach dei Black Keys in produzione (oltre che su
vari strumenti fra chitarre, basso e mellotron), il cantautore Richard Swift alle percussioni e
ai cori, Leon Michels al piano Wurlitzer, glockenspiel e harpsichord. Solo per fare alcuni nomi.
Oggi Ray gioca di marezzato e imperla di curatela produzione e arrangiamenti, forse fra i migliori
dell'anno in ambito country-folk, quando in passato propose ruvidezza pastorale (Trouble), grinta
sociale stile southern soul (Gossip In The Grain) e un esemplare di stile come pochi, di quelli che
si sentono una volta in due lustri, quattro anni fa (God Willin'and The Creek Don't Rise).
Un portato soprattutto delle sue abilità vocali, che prendono d'infilata ogni insicurezza, e della
sua scrittura così pregna di stati d'animo narrativi. Supernova rammenta le migliori stagioni del
cantautorato stagionato fra i due oceani, senza cadere mai nel autoindulgenza e mostrando meglio
il colore degli occhi quando si deve e quando si può.
7.5/10
Christian Panzano
128
r e c e n s i o n i
s e t t e m b r e
Ray LaMontagne - Supernova (RCA,2014)
r e c e n s i o n i
mazioni culturali ed economiche. Il quadro che
ne esce è pressochè perfetto per intensità.
7.3/10
Stefano De Stefano
La banda di Palermo - Lo sguardo di
rame (Qanat Records,2014)
Genere: world_etnica
Danza e avvenimento. Elementi quasi sempre
posti in evidenza dal gruppo isolano che da alcuni anni si fa chiamare La banda di Palermo,
ex M.I.L. Proviamo a considerarli un tutt'uno:
debutto nell'ormai lontano 1996 con La fame,
un sound che, nel gettonato terzomondismo
che fu, poteva accostarsi a quello della partenopea Polosud. Seguito l'anno dopo da Matrimonio, lavoro infarcito di un total kolo e una
cura avant. Ne fanno le spese i ritmi serrati.
Drip Drop è il metro di paragone della loro
storia artistica. Appena varcato il millennium
bug, i siciliani riacciuffano il rogue folk per
riqualificarlo in un alveo murder ballad, per
non dire zydeco. Ma spesso l'istinto è punk; che
sia su registri Klezmer per Fel Shara Kannet,
successore di Drip Drop, o rocksteady per K.,
qualche anno dopo, l'attacco iniziale di ogni
battuta è una dichiarazione di fede al punk
screziato.
Lo sguardo di rame è il loro ultimo lavoro in
studio per Qanat e coglie in pieno una maturità per nulla espiata. C'è una maggiore increspatura dell'essere un gruppo siciliano oggi,
maggiore identità à la Roy Paci tanto per intenderci (La canzone dell'avvelenato, Mi votu e
mi rivotu, Uno due tre). Curioso l'inserto wave
(La fiera) e la trama dreamy rock (Dalla scatola
sono uscite due bolle), che pur racchiusi in se
stessi, adulano, rapiscono e meravigliano. La
title track e La canzone di Charms sono manifesto di scrittura che travalica l'underground,
andando a toccare con ardore la cinematica, il
miglior dub e la mesmerica world con quel toc-
s e t t e m b r e
affronta la situazione politico-sociale ed economica della Scozia all'inizio del XX secolo.
I bozzetti che King Creosote riesce a confezionare sono estremamente efficaci nel tratteggiare un percorso narrativo tipico di un film
incentrato su un preciso periodo storico. L'opening track Something To Believe In indossa
un vestito epico, appartenente ad altre epoche
e dotato di una melodia efficacissima che fa il
paio con la successiva Cargill, un brano cantato in duetto che esplora la vita dei marinai di
Perthshire costretti ad allontanarsi dalle proprie famiglie senza sapere quando precisamente tornare a casa. Il tempo di una inaspettata
polka con Largs e si torna nei territori della
delicata ballata di stampo folk, gentilmente
sostenuta da una sezione di archi e un piano
elettrico: è il caso di Miserable Strangers. For
One Night Only invece presenta una variazione
sul tema: chitarre acustiche piene di effetto che
sembrano provenire da lontano per descrivere
ampi spazi e aprirsi poi in un pezzo rock, diretto e arricchito da vivacissimi violini che ricorda
certe cose di Ian Hunter.
C'è un gusto per la melodia molto sviluppato
e valorizzato da arrangiamenti minimali ma
allo stesso decisamente ragionati e sviluppati
in modo tale da mantenere un legame stretto
con l'immaginario che si va a rendere in note;
uno dei momenti migliori arriva verso la fine,
con la ballata dalle venature Sixties One Floor
Down che a tratti ricorda i Travis più delicati
e romantici. Va a Pauper's Dogh però lo scettro
di momento più alto dell'intero disco: un brano
che parte in sordina e che finisce in un crescendo epico e corale per raccontare i sentimenti
di rivalsa e giustizia sociale e politica: fuori dal
tempo e da ogni compromesso.
Questo è un album che regala una sensazione
di appartenenza a un'età emotiva e storicamente appartenuta ad un popolo: quello scozzese di
cento anni fa, in bilico tra resistenze e trasfor-
129
Genere: industrial, ambient
Perfection and Permanance di Trepaneringsritualen è un mesmerico
ed apocalittico viaggio alla fine dei tempi, sospeso tra Death Industrial
e Ritual Ambient. Uscito per la label inglese Cold Spring, quest'album
si conferma come uno dei migliori e più significativi lavori realizzati
dall'artista svedese.
Trepaneringsritualen (abbreviato anche in T × R × P) è il progetto principale di Thomas Martin Ekelund, musicista già attivo come Dead Letters
Spell Out Dead Words, Nullvoid, Teeth e Th. Tot. Il nome Trepaneringsritualen deriva dall'arte
antica di trapanazione del cranio, sia come metodo curativo, sia come esperienza spirituale e magico/religiosa. Dal vivo, l'artista mette in scena dei veri e propri rituali, accompagnato da immagini mitiche, sacre e religiose, presentandosi sul palco ricoperto di sangue animale e cerone bianco
sul volto.
Nel suo album l'artista svedese è riuscito a catturare appieno lo spirito delle sue violente e dissacranti performance che, pur muovendosi in ambito Death Industrial, rimandano come "attitudine
spirituale" a contenuti simili a quelli espressi nei lavori di gruppi Death e Black Metal scandinavi,
rigorosamente old school e underground, di cui Ekelund è un sincero e convinto estimatore. Volendo, si potrebbe trovare un antesignano di queste sonorità "Black Industrial" nel lavoro di Maschinenzimmer 412 (MZ 412), progetto di Henrik "Nordvargr" Björkk, uscito per l'ormai defunta
label svedese Cold Meat Industry.
In tutto il disco si respira un'atmosfera opprimente realizzata attraverso l'uso di frequenze, rumori metallici e stratificazioni vocali pregne di effetti per trasformare la sua voce in una sorta
fantasmatica presenza inumana proveniente dall'aldilà. Il lavoro mostra un'ottima produzione ed
una grande cura nella ricerca sonora, pur mantenendo un aspetto volutamente "low-fi", grezzo e
brutale come carta vetrata strofinata sulla pelle di un neonato.
Venerated and Despised è l'inizio del viaggio, tra voci che si rincorrono quasi indistinte, avvolte
in una sorta di liquido amniotico torbido e soffocante. A Black Egg è un inno ad una Dea pagana,
forse Isis, (madre e figlia, vergine e prostituta, come recita il testo) che sta per uscire da un grande uovo nero. Castrate Christ è un vero inno al dolore ed alla sofferenza umana, in cui un Cristo
impotente viene seviziato con sadismo tipicamente umano, tra onde di distorsioni e riverberi che
implodono su sé stessi: uno dei punti di maggiore violenza del disco. Segue la strumentale Liken
Ingen Jord Vill Svälja, per poi concludere la prima parte dell'LP con Alone/A/Cross/Abyss, un
concentrato di pulsanti bordate psichiche in cui le molte voci di Trepaneringsritualen si sovrappongono e si sfaldano magmatiche.
Dopo il lento interludio di 39 Lashes è la volta di The Seventh Man, uno dei pezzi più riusciti
dell'album, con il suo accattivante riff in cui T × R × P grida: "Body, Mind, Desire, Will. Perfection
and Permanece!". È il puro trionfo della Volontà e dello Spirito sulla materia. Ritorna successivamente la metafora cristologica in Konung Krönt I Blod (Re incoronato nel sangue), ma il brano
suona anche come un riferimento/maledizione a Eiríkr inn sigrsæli, Eric VI il Vittorioso, re sve-
130
r e c e n s i o n i
s e t t e m b r e
Trepaneringsritualen - Perfection and Permanence (Cold Spring,2014)
r e c e n s i o n i
Marco De Baptistis
co da bassa America che diventa sempre meno
contrappunto revenant e sempre più leitmotiv
di tutta la baracca (April, Il municipio, Kanonen Song).
6.8/10
Christian Panzano
La Roux - Trouble in Paradise
(Polydor,2014)
Genere: synthpop
I La Roux erano Elly Jackson e Ben Langmaid,
un duo che ha costruito una buona fetta del
sound pop post-millennial. Dopo il successo
dell'esordio omonimo, galvanizzato da otto
milioni di copie vendute, due candidature ai
Grammy (di cui uno vinto per il Best Electronic/
Dance Album) e da un remix di Skream per il
singolo d'apertura In For The Kill, Ben se ne va
nel marzo 2012 e inizia a lavorare con Kanye
West. Pazzo? Il produttore ha rivelato che la
ragione per cui ha lasciato Elly (e per cui non le
parla da due anni) è stata la presenza nel gruppo
di Ian Sherwin (l'ingegnere del suono che ha
lavorato anche all'ultimo disco dei My Bloody
Valentine), che il Nostro ha bollato come "idiota". Il solito litigio fra primedonne galvanizzato
pure dalla scomparsa della Jackson dai palchi.
La cantante e musa pop aveva vissuto in maniera negativa lo stardom, tanto che il successo le
aveva causato attacchi di ansia e sedute psicanalitiche, e quindi negato l'accesso alle esibizioni
dal vivo per mancanza di voce. Quella voce un
po' roca che è il suo marchio di fabbrica.
Anche se cinque delle nove canzoni sono state
scritte da Jackson e Langmaid, la distanza
dall'esordio si nota nei riferimenti e nella loro
traduzione nell'arrangimento/produzione.
Non più semplice pop ultrapatinato e pulito,
s e t t e m b r e
dese colpevole di aver tradito per primo l'originale retaggio pagano dei popoli scandinavi per la
nuova religione cristiana (sembra che in punto di morte si sia pentito dell'orrendo crimine compiuto!). La strumentale A Ceaseless Howling evoca un freddo paesaggio artico attraverso un cupo
dark ambient, prima della conclusione nel rumore (e nel dolore) di He Who Is My Mirror.
Perfection and Permanance si pone una spanna sopra i molti progetti Noise Industrial contemporanei, perché è denso di riferimenti e contenuti (non solo riferimenti superficiali ed affettazioni,
come capita purtroppo con molti lavori contemporanei che vorrebbero avvicinarsi a tematiche
"occulte"). In questi anni T × R × P è riuscito a creare un universo tanto coerente, quanto spietato
ed estremo.
Dal punto di vista grafico, il lavoro si presenta in un elegante bianco e nero, una forma che fa
apprezzare le doti grafiche di Ekelund, responsabile, è ben ricordarlo, anche della label svedese
"Beläten", etichetta che si muove in ambito rigorosamente underground e DIY, realizzando, a partire dal 2012, ottime uscite solo su cassetta (in omaggio ad un certa tradizione "old school industrial") in ambito post-industrial, noise, e dark-cold wave, pubblicando artisti come Veil Of Light,
German Army, Xiu, Distel, Blitzkrieg Baby e molti altri.
Non per niente, Trepaneringsritualen ha battezzato se stesso come "Götisk Dödsindustri", che in
svedese suona come "Gotica industria della morte": mai soprannome fu più appropriato.
7.5/10
131
s e t t e m b r e
Marco Braggion
Haley Bonar - Last War (Memphis
Industries,2014)
Genere: indie, wave, shoegaze
Sesto album per Haley Bonar, classe '83 cresciuta tra Manitoba, South Dakota e Minnesota, da
qualche anno però stanziale e attiva in quel di
Minneapolis. L'imprinting è chiaramente altcountry, con ampie concessioni all'easy listening
132
e guizzi di apprezzabile intensità (in Lure the
Fox del 2006 tra gli ospiti troviamo non a caso
Alan Sparhawk). Almeno questa era l'idea che
potevi farti fino al predecessore Golder, risalente a tre anni fa. Nel frattempo però, doppiati
i trenta e avviato un side project (i Gramma's
Boyfriend) per sbrigliare la vena post-punk che
evidentemente le covava dentro, ha deciso che
non era il caso di insistere nel gioco della nipotina imbronciata di Lucinda Williams.
Eccoci quindi a Last War, un album stringato
(nove pezzi per circa mezz'ora di durata) col
quale va ad immischiarsi con trame new wave,
power pop e persino shoegaze, azzeccando un
ibrido forse non abbastanza solido eppure vivace, forte di una leggerezza dolente e a tratti impetuosa. Dopo una opening come Kill The Fun
che confeziona indie guarnendolo di chitarrina
Cure e synth luccicosi, è tutta una sarabanda
asprigna e dreamy tra cupezze Joy Division,
cromatismi Ultravox e trasporto Yo La Tengo
(la title track, Woke Up In My Future), tumulti
spiraliformi My Bloody Valentine caramellati New Pornographers (Heaven's Made For
Two, No Sensitive Man), languore spiegazzato
a nervo scoperto dalle parti dei primi Radiohead (Bad Reputation) per approdare alla sobrietà vibrante Low di Eat For Free.
La ragazza può vantare grinta, intensità e
ispirazione sufficiente a produrre marchingegni intriganti, anche se pare fisiologicamente
confinata in una dimensione radiofonica, più
appeal che peso specifico. In ogni caso, ha un
suo perché.
6.8/10
Stefano Solventi
Les Big Byrd - They Worshipped Cats (A
Recordings,2014)
Genere: psych, kraut
Terra di randr, pop di gran classe e del più
grande tennista di tutti i tempi, la Svezia ha
r e c e n s i o n i
bensì voglia di ricordo '80 più caldo, magari
con qualche sbirciata anche ai tardi '70. Vedi
ad esempio l'iniziale riferimento alle chitarre
(e al look) di Let's Dance di David Bowie o al
dancehall londinese in Tropical Chancer. In
più, riferimenti alle Bananarama (Kiss And Not
Tell), Kate Bush (The Feeling) e a una retrofilia
non fine a se stessa. I singoli più interessanti
sono la già ricordata Uptight Downtown (con
un richiamo nemmeno troppo nascosto alle
Brixton riots del 2011) e la stupenda ballad
Let Me Down Gently. Il resto fila via che è un
piacere, ma il ripiegarsi in una rilettura degli
anni '80 fa capire che se l'esordio non aveva
ancora risentito degli effetti della crisi ed era in
sostanza un album propositivo votato al ballo,
qui il tempo inizia a mordere.
Dopo tutti gli alti e bassi, dalla Jackson non
potevamo che aspettarci un disco riflessivo,
malinconico e più intimo, meno pronto per
il remix, più da ascolto. Un disco che cresce rispetto al precedente dal punto di vista
dell'introspezione, che va più indietro per i
riferimenti, proponendo un classico cocooning
diaristico. Ciò non deve spaventare, perché lo
fa con un'onestà e con un trasporto unici. Niente di lezioso o di troppo patinato.
Alle volte anche il pop può essere un "affaire"
molto serio. La Roux lo testimonia con una
delle migliori prove di genere dell'anno. Bentornata.
7.2/10
r e c e n s i o n i
musica. Chiudono i giochi 1,2,3,4 Morte e Back
to Bagarmossen, conclusivo viaggio psichedelico nel quale ritornano germanicità e 4/4 .
Buon esordio discografico, questo They
Worshipped Cats, suonato bene, vario, scorrevole e curioso, con ottimi pezzi (le già citate
Just One Week e Indus Wave) e molte traiettorie aperte tutte da esplorare nelle prossime
prove.
7/10
Andrea Murgia
Loris Vescovo - Penisolati (Nota
Music,2014)
Genere: cantautori
Quarta prova discografica per Loris Vescovo,
artista girovago in una geografia di migrazione
e confini mai così stretti e mai così di casa. Ideatore meta teatrale e radiofonico, oltre che documentarista, il Nostro traccia in quest'ultimo
suo studio agonie e gioie significative di terre
tagliate dalla Storia con la S maiuscola. Penisolati si mette in fila indiana davanti a lavori
passati quali Borderline (2008) e Stemane
Ulive (2002), raccontando storie dalla s minuscola, che vivono sotto mattonelle pulsanti di
passi o dentro vicoli e osterie dove germogliano
i pensieri migliori.
Come è risaputo c'è tutta una scena del cantautorato friulano devota al folk inglese, da
quello jazzy a quello psichedelico, e anche
Vescovo non si sottrae a questo destino. Ascoltandolo, si rinviene un John Martyn qua o un
Nick Drake là, ma in Penisolati la vibrazione
si scioglie in alcune pulsazioni bluesy, come
nell'accattivante Aghe e aset, una Al trist dei
nostri giorni, in canzoniere (Barcarolo) o in
frammenti comedy come la title track. Partendo quindi da una sensibilità propria può magicamente capitare che un cenno madrigalesco
dia la stura ad un soffice tappeto jazz (Benandanti), che la raganiza diventi funk (Recessio)
s e t t e m b r e
sempre dimostrato di portare in dote una
sensibilità raffinatissima per la musica tutta,
caratteristica che le ha permesso negli ultimi
cinquant'anni di sfornare band e musicisti di
assoluto livello e di conquistare il gradino più
basso del podio dei produttori di musica mondiale. Un rapporto strettissimo e che ha radici
lontane, quello tra il paese scandinavo e la musica, vuoi per l'attenzione alla didattica musicale che viene impartita obbligatoriamente sin
dalle scuole primarie, vuoi per quell'appeal che
la nazione ha sempre avuto per i musicisti sin
dagli anni Sessanta, quando un gruppo di transfughi del jazz radicale americano capeggiato
da Don Cherry ed Ed Blackwell la scelse come
base operativa; una piccola isola felice in cui
poter vivere da uomini, prima che da musicisti,
senza odio e pregiudizi razziali.
Fire! Orchestra, The Thing e Les Big Byrd
sono figli legittimi di quella fortunata e prestigiosa stagione musicale. Fulminati sulla via di
Damasco dal kraut e dal suo monolitico apache
beat, i Les Big Byrd si formano nel 2011 dopo
varie esperienze in gruppi come Teddybears
e Fireside, ma è nel 2013 che la loro carriera
prende una svolta, precisamente dopo l'incontro in un negozio di dischi con Anton Newcombe, che, incuriosito, li porta nel suo studio
di Berlino e li segue nelle registrazioni co-firmando anche due brani in scaletta.
Il risultato è They Worshipped Cats, quarantadue minuti scarsi per nove canzoni e belle
sorprese: superato il blocco iniziale formato
da Indus Wave e Tinnitus Ætérnum, entrambi
brani dalle forti connotazioni kraut, il disco si
apre a sonorità morbide e sognanti (Just One
Week sfiora il dream-pop) in cui è evidente
la mano del frontman dei Brian Jonestown
Massacre, brillante setacciatore di talenti
(Peter Hayes dei Brmc e Bobby Hecksher dei
Warlocks sono sue creature) ma ancor più
raffinato domatore di suoni e conoscitore di
133
o bozzetto caudillo (Vilote), che certo Messico
possa rosseggiare d'Italia solo per raccontare
il Ventennio (Velilla) e che la villotta declinata
antifonale debba smarrirsi nel lounge fragoroso
come una cateratta (Ce mai sarà).
6.8/10
Christian Panzano
Genere: pop, alt, wave
Che musica fa, Marc Almond? Ecco una tra
quelle domande cui è davvero difficile dare una
risposta. Lo era già negli anni Ottanta, quando
partendo dal synth-pop dei Soft Cell l'artista
di Southport si ritrovò presto alle prese con
canzonieri eccentrici (Syd Barrett, Peter Hammill) e di lusso (Jacques Brel, Scott Walker, Lou
Reed) in compagnia dei Mambas, ad anticipare di un decennio il ritorno dell'orchestra nel
pop con i Willing Sinners, a fare il crooner e ad
arrivare primo in classifica con una hit di Gene
Pitney ricantata con l'interprete originale, ad
esplorare la canzone francese per poi tornare
al pop elettronico con l'ex compare Dave Ball
e Trevor Horn in Tenement Symphony. Senza
sosta, tra trionfi e insuccessi, sono poi arrivati
due dischi di canzoni dell'ex Unione Sovietica, un album di poesie musicate con Michael
Cashmore, cover di brani amati in gioventù,
materiale originale e tantissime collaborazioni.
Eppure una lacuna nel suo curriculum c'era,
piuttosto vistosa per un fan di Marc Bolan e
David Bowie come lui: non era mai entrato in
uno studio di registrazione con Tony Visconti.
C'erano riusciti all'inizio degli anni Duemila i
Prefab Sprout, ci riuscì Morrissey con Ringdleader of the Tormentors, ma lui no. Dev'essere stato un momento magico, emozionante,
quando i due hanno iniziato a lavorare sulle
prime due canzoni che troviamo in questo The
Dancing Marquis: più di un EP, poco meno
134
r e c e n s i o n i
s e t t e m b r e
Marc Almond - The Dancing Marquis
(Cherry Red Records,2014)
di un album, è una sorta di mini-compilation,
un album di fotografie che tenta di mettere in
risalto le varie anime di Mr. Almond.
Il passato e il presente, l'amore per il glam e la
consapevolezza di saper ancora scrivere una
canzone pop che si rispetti (grazie anche all'ormai collaudatissima partnership con Neal X dei
Sigue Sigue Sputnik) si fondono alla perfezione
nei due pezzi in apertura. La trascinante title
track è un omaggio a Henry Cyril Paget, quinto
marchese d'Anglesey – narcisista e sessualmente ambiguo, stravagante "pecora nera" della
sua famiglia, amante del teatro e della bella
vita, del ballo e del cross-dressing, che si spense a soli trent'anni – e a tutte "le stelle ribelli",
incluso se stesso: a dirigere l'orchestra c'è un
vecchio amico, il violoncellista Martin McCarrick, già tra i musicisti di Torment and Toreros del collettivo Marc and the Mambas e in
seguito alla corte di Siouxsie and the Banshees
e dei Therapy. Ma è Burn Bright il vero classico da antologia, una ballad dalla scintillante
malinconia e dal chiaro DNA bowieano arrangiata magistralmente da Visconti e con la
presenza di Gini Ball, ex moglie del tastierista
dei Soft Cell, al violino. La sfilata di presenze
direttamente dal passato continua in Tasmanian Tiger – con il fedele Martin Watkins al
pianoforte e all'Hammond e l'arrangiamento di
Tris Penna, personalità chiave nella riuscita del
brillante The Stars We Are del 1988 – quando
all'improvviso il clima cambia e arriva Worship
Me Now, una collaborazione inedita con Jarvis Cocker. È firmata dal frontman dei Pulp,
presente anche ai cori, ma suona più almondiana che mai: sulla carta poteva essere un
ritorno alla dirompente freschezza dell'erotic
cabaret dei bei tempi, in pratica mette in fila un
po' troppi cliché. Carl Barat è un altro "nuovo arrivato" – ma fino a un certo punto, visto
che l'ex Libertines era tra gli attori di Pop'pea
(la sua parte era quella di Nerone) insieme a
Alessandro Liccardo
r e c e n s i o n i
Marcel Dettmann - Fabric 77
(Fabric,2014)
Genere: techno, elettronica
Il caso vuole (ma sarà davvero un caso?) che,
proprio nella stessa settimana in cui Ostgut
Ton decide di dismettere il CD come supporto
per le proprie compilation, mettendo a disposizione il nuovo mix Panorama Bar 06 in download gratuito, il 153° episodio della dance-opera
a cura del club londinese (inesorabilmente dal
novembre 2001 un CD al mese, alternativamente firmato Fabric – house, techno e tutto ciò
che c'è in mezzo – o FabricLive – serie tendenzialmente dedicata al mondo d'n'b' e dubstep) sia stato affidato a Marcel Dettmann,
nome indissolubilmente legato al Berghain
di Berlino, del quale il trentaseienne tedesco
è resident DJ da sempre (dal 1999, quando la
technomecca si chiamava ancora Ostgut).
Non è la prima volta che un berghainiano doc
viene inserito negli elenchi del Fabric: già
Ben Klock, nell'ottobre 2012, aveva firmato
un ottimo numero 66 ("il carattere è forte e
deciso, ma si stende come un piacere soffuso e
ti porta via con la propria apertura alare. Questa mano può esser ferro e può esser piuma",
ne diceva C. Affatigato in sede di recensione).
Il confronto viene quindi naturale: entrambe
prove eclettiche e trasudanti sapienza, i due
amici hanno scelto d'approcciare l'argomento
techno da posizioni complementari, con Klock
più aperto ed estroverso e Dettmann più dub e
notturno. Nella sfida alla concentrazione (dovendosi scontrare con il limite del minutaggio
disponibile per i compact disc, tipicamente le
release Fabric si risolvono più in dichiarazioni
d'intenti che non in veri e propri dj set), Klock
batte Dettmann 24 pezzi a 19 (in settantantré
minuti): non si tratta peraltro in nessun caso di
mix nervosi, anzi è proprio dalla loro fluidità e
pulizia che deriva la particolare piacevolezza
all'ascolto.
s e t t e m b r e
Marc (Seneca) – ma se la cava molto meglio,
con la sua Love Is Not On Trial che dimostra
un certo talento nel cimentarsi con stili per lui
inconsueti e nel confezionare un anthem epico.
Bolan dei T-Rex è il destinatario dell'omaggio
di Death of a Dandy, quarta e ultima canzone
già presente nell'EP Tasmanian Tiger.
Non è la qualità dei brani il problema di The
Dancing Marquis, e nemmeno quella delle
performance (sempre all'altezza). È nella sua
natura frammentaria, nella difficile coabitazione tra stili e suggestioni troppo differenti e
nel finale affrettato (So What's Tonight e Idiot
Dancing, dalla produzione più grezza e confusa
rispetto al resto del materiale). Dei due remix
di Worship Me Now è il primo, firmato Starcluster, a funzionare meglio. Marc Almond è
sempre andato in più direzioni, anche in contrasto tra loro, e in tempi recenti ha partecipato
a un progetto discografico di John Harle, The
Tyburn Tree, e ha pubblicato Ten Plagues,
complesso ciclo di canzoni sulla peste nel Seicento (con riferimenti all'isteria sull'AIDS degli
anni '80) composte da Conor Mitchell. Sarebbe
stato meglio concentrarsi su un progetto alla
volta, ma ormai è andata così: uno dei performer più coraggiosi e vocalmente dotati che
l'Inghilterra ci ha donato negli ultimi decenni
consegna l'ennesima prova cui manca qualcosa. The Dancing Marquis è per i fan che non
hanno acquistato le release in vinile in edizione
limitata tra il 2013 e l'inizio del 2014 e pochi
altri; per i non adepti, si resta in attesa di una
retrospettiva (nei piani da tempo, puntualmente prima rimandata e poi cancellata) che riesca
a presentare finalmente il meglio dell'opera solista di Almond in maniera ordinata e fruibile.
6/10
135
s e t t e m b r e
136
Altro pilastro: il remix di Byetone di Radar, da
Dettmann II, evidenzia i profondi e turbolenti
synth che scuotono le fondamenta del dancefloor. RSPCT (di ROD, la faccia minimal di
Benny Rodriguez), da almeno tre anni in possesso di Dettmann, viene ora sfoderata per il
punto più caldo del mix, accostandola alla sua
riedizione di un altro tuffo nella seconda onda
detroitiana: l'inusuale dub pescato da The
Secret Tapes Of Dr. Eich (1996) di Paperclip People (uno dei più fortunati moniker di
Carl Craig). Con BB 1.0 dell'amicone Norman
Nodge torniamo in Europa; Rising del parigino François X porta al remix trascendente di
Lightworks (sempre da Dettmann II) da parte
di Ø [Phase], e da lì alla cerebrale dub techno
di Lockertmatik, producer-label di Dresda,
fino ai synth collosi dello svizzero Wincent
Kunth, della scuderia MDM (Carlre, altro inedito). L'off house di Joey Anderson (producer
da New Jersey, da tenere assolutamente d'occhio) viene rieditata in una versione più squadrata ma mantenendone l'oscura irrequietezza,
per un'atmosfera inquieta confermata da Flash
del francese Marcelus, ultima carta coperta
del mazzo di Dettmann. Con la ambient techno
di Vril (Torus XXXII) la partita si chiude, ma
viene voglia di giocarne subito un'altra, ripartendo dalla traccia n.1.
7.2/10
Alessandro Pogliani
Mark Dresser Quintet - Nourishments
(Clean Feed,2013)
Genere: jazz
Basterebbe citare autori e label per zittire i
più restii. Rudresh Mahanthappa al sax alto,
il suono di un gigante che stende il sacrificio
Veda a New York: quando vuole romantico,
quando deve virtuoso, quando può alla ricerca
di venti perduti e senza più nomi. Tom Rainey
e Michael Sarin alla batteria, il loro suono è
r e c e n s i o n i
La maggioranza dei pezzi di Fabric 77 provengono dalla posta in entrata di Dettmann:
inedite tracce-demo non ancora pubblicate ma
che, a detta del producer tedesco, lo saranno
a breve. In questo senso il mix, pur svolgendo
in pieno il compito assegnato (suonare "as if"
per il dancefloor), viene furbescamente utilizzato anche come appetizer di progetti in via
di release presso MDR, l'etichetta personale.
Tre pezzi, inseriti da Dettmann in posizione
strategica come cariatidi in grado di sostenere
tutto l'impianto, sono versioni remixate di suoi
pezzi, altri due sono remix suoi: il controllo è
totale.
L'intro è lunga, non c'è fretta. La cassa dritta
prende forma solo nel passaggio dalla prima
traccia (l'inedita ambientale Arthure Iccon di
Ryan James Ford, 35enne canadese di stanza a
Berlino) alla seconda (Sun Position, del veterano The Persuader, alias lo svedese Jesper
Dahlbäck, sorretta da plurilayer di secchi snare
drums). Atmosfera tesa, d'attesa: "Don't you
feel the fear?". Inside Of Me è un altro inedito,
e farà parte del prossimo album del francese
Terence Fixmer. Arriva il primo pilastro: la
reinterpretazione darkside (fresca di conio
MDR) della dettmanniana Apron da parte di
Planetary Assault Systems (Luke Slater),
suonata anche in occasione dell'eccellente
Essential Mix di due ore commissionato da
BBC Radio 1, on air il 19 aprile 2014. Su Apron
si innesta la prima potente spazzolata alla
pista data attraverso il protegé Answer Code
Request, seguita da corsi e ricorsi andataritorno a Detroit con le percussioni analogiche
e i synth sporchi di Nearlin by Dario Zenker,
la nuova, nostalgica release dell'UR-maestro
Robert Hood (il suo Film firmato Monobox è
il pezzo tenuto su più a lungo di tutto il mix) e
la minimal retrotechno da manuale dell'esperto
Kevin Kennedy (alias FBK: It's Not The Point è
un ulteriore inedito pronto per MDR).
r e c e n s i o n i
vuol dire rivisitazione), capita che nella mischia alcuni brani facciano un tantino sbadigliare, sia per muscoli che per lungaggine (Telemojo, Canales Rose), eppure in alcune parti
riescono comunque a lasciare il segno.
Certi momenti, se non proprio per intero
almeno nelle fessure più poste in rilievo, sono
da incorniciare, anzi no, da esporre. Para Waltz
è un valzerino jazzato che ama attendere su
microcosmi di tono, Aperitivo si apre ad un
sentimento effimero che gira attorno ad un do
minore blues su cui Mahanthappa può sfoggiare il tiro e Dessen la commedia spinta. Il
divertimento che si precisa in Rasaman è quasi
bandistico. Inizialmente scritto per sitar, qui
cresce nel sesso armonico, modulato dai battimenti percussivi, espanso nel gioco di tempi fra
orchestrazione e basso. Un prodotto imprescindibile.
7.3/10
Christian Panzano
Massaroni Pianoforti - Non date il
salame ai corvi (Musicraiser,2014)
s e t t e m b r e
tondo come una bevuta di mate e flesso fra gli
elementi. Michael Dessen al trombone, una
trama filamentosa e uno sviluppo purpureo che
si perde in lava di spifferi. Denman Maroney
all' hyperpiano – cioè un piano preparato – di
una caratura contemporanea e mai aleatoria. E
poi il deus ex machina, Mark Dresser, che rilegge traiettorie e ritmica da basso flirtando col
miglior Mingus, ma pure con tutta un'ombra di
muro avant, figliastra del cool, e di free, figlio
del be-bop.
Dunque veniamo ai padroni di casa, parliamo
di Clean Feed, di quel Portogallo che affina e
alimenta saudade e tessiture. Anzi no, non parliamone, lasciamo che il tempo faccia respirare
le mura di questa bella casa di un'aria sempre
rinfrescante. Mark Dresser Quintet ha inciso l'anno scorso queste fascinose sette tracce
al Tedesco Recording Studio, pied à terre di
Joe Lovano, Dave Holland, Anthony Braxton e
William Parker (ma la lista potrebbe non finire
qui). Una specie di comune jazz nascosta tra
le 25 mila anime di Paramus, New Jersey, Stati
Uniti d'America. Prima di tutto il nome da dare
al tutto, Nourishments, e una copertina che
rafforza il concetto espresso nel titolo. Voglia di
nutrimento. E infatti una traccia ha un esplicito
riferimento culinario, visto che è dedicata al
famoso cuoco californiano Paul Canales (Canales Rose).
Ma non è solo questo, visto che questi brani
dovrebbero portare in dote certi vissuti del
quintetto, specialmente nella tenzone fra tecniche di estensione ed elettroacustica. Invece
a tal proposito è proprio Dresser a smentirci
nelle note di presentazione. Nourishments
nasce dall'idea di poter far rivivere la tradizione del jazz sotto una propria lente, estendibile
a chiunque volesse darne versione: armonia,
contrappunto, swing, libero pensare in libera
metrica, timbro, forma e sentimento. Perciò,
essendoci di mezzo tanta tradizione (che non
Genere: cantautori
Nel 2009 esce L'amore altrove, disco di buoni
contenuti che intercetta il mondo major per
poi essere scaricato a causa dell' "impossibilità
di sostenere promozionalmente" il percorso
concordato dalle parti. Gianluca Massaroni non
si perde d'animo e continua a provarci: cambia ragione sociale (prendendola in prestito
dalla ditta di famiglia) e lancia una campagna
di crowdfunding su MusicRaiser per finanziare il nuovo disco. L'operazione ha talmente
successo e il materiale piace a tal punto che
Giovanni Gulino (cantante dei Marta Sui Tubi
e co-creatore di MusicRaiser) ne cura la supervisione artistica, mentre Cesare Malfatti (La
Crus) firma parte delle registrazioni. Il risultato è Non date il salame ai corvi (distribuzione
Universal), ovvero un bel bignami della mi-
137
s e t t e m b r e
Fabrizio Zampighi
Massimo Falascone - Variazioni
Mumacs. 32 Short Mu-pieces About
Macs (Public Eyesore,2014)
Genere: avant, impro
Lavoro tanto pretenzioso quanto ricercato e
riuscito, quello che Massimo Falascone affida
a Variazioni Mumacs, il cui sottotitolo è più
138
di una introduzione ed esplicazione del processo e degli intenti messi in atto dal sassofonista milanese. 32 Short Mu-Pieces About
Macs è infatti una sorta di visionaria rivisitazione "strutturale" elaborata all'intersezione
tra le Variazioni Goldberg di Bach e alle visioni offerte da "Thirty-Two Short Films About
Glenn Gould", da cui parte una sorta di libera
e incosciente interpretazione in coabitazione
tra acustico e elettronico, digitale e analogico,
composto e improvvisato, voluto e trovato. Ad
accompagnare Falascone in questo eterodosso
percorso "pubblicamente intimo" o "intimamente pubblico", uno stuolo di amici e collaboratori – da Bob Marsh a Marcello Magliocchi, fino a John Hughes e Fabrizio Spera, ma
la lista è veramente ampia – che addensano
strumentazione (chitarre classiche e fiati,
piano ed elettronica, field recordings e violini)
e sensazioni, affinità e influenze, suggestioni
e slanci, sotto la sua direzione. Una direzione
onnivora, fuori dal tempo (recuperati frammenti di composizioni inedite addirittura più
che ventennali dello stesso Falascone) e terribilmente affascinante nel suo essere ondivaga
e umorale, divagante da un centro ben evidente – l'ossessione Gouldiana – ma pur sempre
centrata e convergente verso una musica in
apparenza sfatta, disossata, fratturata e frantumata, ma in realtà ben in grado di fornire il
suo punto di (s)vista.
In soldoni, 32 microsuite di elettroacustica
costruite per assonanze o divergenze tra impro,
avant e jazz, attraverso i vari contributi che i
colleghi hanno fornito seguendo le indicazioni,
a volte fumose, a volte assai ben individuate, di
Falascone, su un canovaccio inesistente se non
nella testa del musicista lombardo. Un lavoro
superbo che porta a compimento il tragitto
percorso da Falascone accanto al fantasma di
Gould, dopo anni e anni di rincorse fatte di
accumulo di idee, riflessioni, fonti sonore e
r e c e n s i o n i
gliore canzone d'autore italiana di sempre. La
lezione di Battisti, Dalla, Cocciante, Fossati
e compagnia ripresa con gusto e capacità, in
aggiunta a una naturalezza nella scrittura che
impressiona davvero, pur non inventando praticamente nulla.
Una parte fondamentale, nell'album, la giocano
gli arrangiamenti, talmente dinamici e curati
da accrescere il fascino di undici brani che in
una veste più convenzionale avrebbero forse
perso parte del loro potenziale. A dimostrazione, una Una buona occasione che innerva
il Battisti dei Settanta con una bella carica di
elettricità, una Alla fermata del 33 che ricorda
il duo Baglioni-Bertè (anche nel timbro della
voce) su un pianoforte che sembra preso in
prestito da John Lennon, il Lucio Dalla di
Provinciale, o magari una Carlo (Il passato è
passato) che inizialmente sembra omaggiare la
Fiori Rosa Fiori di Pesco del Lucio nazionale,
per poi imbastardire in un funk in minore con
certe elettriche che non sarebbero dispiaciute
ai Pink Floyd di The Wall.
L'autore, dalla sua, aggiunge una vena pop
irresistibile e testi fiume tutt'altro che improvvisati, a comporre una formula che nonostante
i rimandi continui, riesce a convincere più di
quanto non avesse fatto nel disco precedente.
Un album di ottima caratura con giusto qualche caduta di tono (Lavanderia a gettoni) che
shakera cinquanta anni di canzone d'autore
"seria" in un batter d'occhio.
7.1/10
divagazioni sul canovaccio e che ci lascia soddisfatti.
7.4/10
Stefano Pifferi
Genere: pop, alt
Vanno dritti per la loro strada, i Merchandise, forse pentendosi di ciò che è stato, forse,
semplicemente, accarezzando volontariamente
idee sonore diverse da quelle del precedente
Total Nite. Al primo disco su 4AD, mantengono la promessa che il leader Carson Cox aveva
annunciato tempo fa, e cioè quella di trasformarsi in una band pop.
Ad un primo ascolto, la scelta pare non catalogabile, sia per lo stacco deciso rispetto al
passato, sia per una volontà melodica che pare
voler toccare più punti, troppi: dalla ballata
alle venature synth pop, dalla melodia rurale
degli Xtc altezza Grass al funk-soul di scuola
Prince, fino a certi tratti epico-emozionali
del miglior britpop. Eppure tutta quella che a
un primo ascolto pare semplice dispersione,
racchiude fili invisibili che tengono insieme
più che degnamente un disco che abbandona le
fascinazioni shoegaze per abbracciare un'idea
di pop simile, ad esempio, all'ultimo War On
Drugs, depurato dalle sfaccettature psych e più
addentro alle questioni del pop inteso come "la
melodia al centro".
E' infatti la melodia la sovrastruttura di brani
che fanno del mood malinconico la loro base
di partenza. È musica attaccata, come referenze, sia al passato che al presente. Carson Cox
e i suoi, infatti, non si fanno mancare nulla: in
episodi come Green Lady (ottimo brano) paiono rifare a modo loro il verso proprio a Prince,
soprattutto nell'incipit, ed è un indizio che
ricompare anche in certi tratti di Telephone.
In altri paiono, oltre a dei R.E.M. pastorali che
s e t t e m b r e
r e c e n s i o n i
Merchandise - After The End
(4AD,2014)
scoprono il vigore e la velocità di questi anni,
degli Horrors senza la spinta cosmica-garage.
Il cuore del disco è la bellissima Looking Glass
Waltz, che parte quasi in medias res, con un
organo celestiale e un incedere letargico, cori
ovattati ma autentici sullo sfondo, e un suono
trafitto dalle emozioni della possente voce di
Cox e da una fisarmonica che impasta il suono
di quelli che potrebbero essere degli U2 senza
epica.
Al di là dei singoli episodi, è più l'idea del volersi confrontare con un suono meno possente
e più introspettivo. Pop da queste parti, dunque, non è una parolaccia da plasticosa classifica, ma roba seria e priva di sberleffi, pur non
risultando mai torva. Fuori dalle secche di un
post-punk fuori tempo massimo, la band regala
melodie riflessive, nonostante alcuni momenti
paiano sfociare nel facile (vedi Enemy, pezzo
Suede senza glam e con molta disillusione),
non perdendo comunque mai la retta via e
continuando ad andare, appunto, dritta per la
propria strada.
7/10
Andrea Macrì
Mike Cooper - Trout Steel (Paradise Of
Bachelors,2014)
Genere: folk
Chitarrista eclettico e dotato di tecnica sopraffina, Mike Cooper è stato uno dei nomi
più luminosi del movimento folk sperimentale inglese degli anni Settanta, tanto da essere
considerato dai chitarristi contemporanei – un
nome su tutti: Keith Moliné dei Pere Ubu – alla
stregua di un vero e proprio guru delle sei corde. Trout Steel – primo capitolo della trilogia
avant composta a partire dal 1970 e che comprende Places I Know (1971) e The Machine
Gun Co. with Mike Cooper (1972) – rientra
nel programma di remaster dell'etichetta Paradise of Bachelors che, con un lavoro certo-
139
s e t t e m b r e
Andrea Murgia
140
Moiré - Moiré – Shelter (Ninja
Tune,2014)
Genere: techno, elettronica
Quando ad agosto dello scorso anno, ancora
senza volto, emerse dalla nebbia del piccolo
buzz cucitogli addosso dalla Werk Discs, Moiré si presentò con un mix per Fact catalogato
dal popolare magazine come una raccolta per
"night smokers and stargazers". Ora che Ninja
Tune co-firma il suo debutto Shelter le carte
sono scoperte, si conosce il suo volto e soprattutto c'è un sound umbratile e sporcato che ha
chiari debiti con il sound dell'etichetta – e con
il suo boss Actress – ma anche sufficienti gradi
d'autonomia.
Alla stregua di Ghettoville o Hazyville, di certi
taglia e cuci vocali dello Zomby degli esordi,
delle casse lente tagliate sugli snares di un
Andy Stott chiarificato e delle produzioni sexy
detroitiane di Jimmy Edgar e della sua Ultramajic, ritroviamo da queste parti una techno
basale come house reinterpretata, però, secondo noti tepori e asfalti UK londinesi. Così,
come da tradizioni e riferimenti contemporanei, abbiamo un equilibrato mix tra soul sottopelle e felpate casse rigorosamente in 4/4, con
il producer che non vuole rivoluzionare alcun
canone dando comunque in cambio una buona
miscela e interpretazione.
Due gli ospiti del lavoro: in Dali House c'è un
seducente Bones, mentre in Rings un cadaverico Charlie Tappin, due facce della stessa medaglia, ovvero old school techno per flessioni
funk spalmate su umbratili vocalizzi house.
L'intro, Attitude, inoltre, ricorda certa anthemica sottotraccia di casa Four Tet / Caribou e,
anche qui, il richiamo ai primi Novanta – Carl
Craig in primis - è funzionale a una reinterpretazione ricca di dettagli e di stratificazioni
chiaroscurali, dove gli snare luccicano nel buio
e dove il groove equivale a qualcosa di avvol-
r e c e n s i o n i
sino durato ben due anni, è riuscita a ripulire
le tracce originali e a ridonar loro il lustro che
meritavano.
Lavoro complesso e multisfaccettato, Trout
Steel anticipa molte delle avanguardie che di
lì a breve sarebbero esplose con il movimento
psichedelico e prog, pescando dalla tradizione
folk statunitense, destrutturandola e miscelandola – con risultati interessanti – con il jazz
sperimentale della New Thing. Proprio attorno
al free jazz Mike Cooper ha costruito amicizie
importanti, andando a collaborare prima con
Michael Chapman – session man con Sonny
Sharrock e Pharoah Sanders – per poi avvicinarsi al free di estrazione europea, entrando a
far parte della The Machine Gun Band di Peter
Brötzmann, esponente di spicco del movimento Fluxus e, a tutt'oggi, ancora uno dei più
attivi (le collaborazioni con Hamid Drake, Ken
Vandermark e Mats Gustafsson sono frequenti e di assoluto valore) e grandi interpreti del
genere.
Parlare di Cooper solo come un dotatissimo
chitarrista sarebbe, oltre che un delitto, del
tutto fuorviante: la sua voce potente infatti si
colloca a metà strada tra il Tim Buckley più
sperimentale (I've Got Mine) e Graham Nash
(la title track Trout Steel), tenendo a bada
tecnicismi ma mirando al centro dell'obiettivo.
Trout Steel, a distanza di ben quarantaquattro anni, suona ancora fresco e attualissimo, e
questa riedizione estesa e rimasterizzata aiuta
a mantenerlo giovane e appetibile per quelle
generazioni che non hanno potuto, per motivi
anagrafici, apprezzarlo all'uscita. Consigliatissimo.
7.5/10
gente eppur incerto, tentatore e traditore (No
Gravity). Nessuna traccia killer, non è cercata
né voluta; l'intero Shelter è, si può dire, un
personale concept, un disco registrato perlopiù
ai Synthesiser Studio di Amburgo con diverso
materiale hardware che ha dato smalti e timbriche decisivi. Un lavoro da ascoltare a notte
fonda composto da un producer lucido e preparato, il cui lato migliore sembra spendersi
in lussuosi ambienti dove spazi e trame sono
gestiti alla perfezione.
7.1/10
Edoardo Bridda
Genere: grime
Occhio a Moleskin, ragazzo dal doppio passaporto iraniano/inglese, già avvistato da
Blackdown della Keysound (che lo ha intervistato l'anno scorso sul suo blog) e comproprietario assieme a due amici dell'etichetta Goon
Club Allstar per la quale era uscito l'EP di
debutto di MissingNo. Occhio non solo perché
la sua carriera di producer l'ha inaugurata con
un remix bombastico (e arabo) di Eskimo che
rappresenta a tuttora la miglior ricontestualizzazione nu della mitologica Eskimo di Wiley,
e neanche soltanto per la sua presenza in una
compilation oramai altrettanto paradigmatica
come This Is How We Roll, dove il Nostro
ribalta l'approccio e spalma una marmellata di
stelle e maliconia r'n'b (leggi randg). Occhio
perché se una come Fatima Al Qadiri da un
abbinamento semplice – ricontestualizzare la
vaporwave in narrative grime strumentali – ha
ottenuto un risultato superiore alle parti coinvolte, il Moleskin EP che sostanzialmente lo
ricombina con il sound dei club americani di
Baltimore e New Jersey rischia di innescare un
processo similare.
Conosciamo poco le scene locali americane, e
s e t t e m b r e
r e c e n s i o n i
Moleskin - Moleskin EP (Goon Club
Allstars,2014)
se le conosciamo la nostra esperienza è sicuramente condizionata della Mad Decent che con
l'infornata trap e uk funky (vedi a questo proposito il primo Mumdance) aveva praticamente
re-innervato tutto il comparto infilandoci tutto
quel che poteva. Del resto per stessa ammissione di Felix Yoosefinejad, che ha vissuto a
sua volta queste scene di riflesso, è l'intuizione
quella che conta: combinare grime e Baltimore,
ardkore britannico e New Jersey poteva venir
bene.
E così ecco queste 5 tracce. Adrenalina pura,
ironia e creatività. L'incedere persiano grime, le sparate di bassi e i guizzanti campioni
Baltimore di We Been Ready, lo uk funky di
Clemency e Chain che si trasformano in una
spremuta di eski e/o breakbeat in ping pong
tamarro con il New Jersey, e poi Turnt On, in
sorpresa/campione disco 70s, e Chips, entrambe con incastri ritmo/bassi che sembrano
proseguire le intuizioni del Rashad di We On
1 ricontestualizzando il tutto su un discorso di
pulsante eski.
Diplo avrà già mobilitato i suoi. Vedremo se
saranno altrettanto bravi come Moleskin.
7.3/10
Edoardo Bridda
Moro - Home Pastorals (Gamma
Pop,2014)
Genere: pop, folk
Dischi come questi, nei dintorni dei Duemila,
li avremmo catalogati senza esitazioni sotto
l'etichetta New Acoustic Movement; nell'Anno
Domini 2014 Moro intitola il suo nuovo album
Home Pastorals racchiudendo (involontariamente?) al suo interno non solo quello stesso
immaginario, ma anche il materiale migliore di
tutta la sua produzione. Un percorso artistico
che non prova il colpo di teatro in questa terza
fatica, essendo da sempre legato a un sentire
folk con più di un punto di contatto con Albio-
141
s e t t e m b r e
Fabrizio Zampighi
My Brightest Diamond - None More
Than You EP (Asthmatic Kitty
Records,2014)
Genere: rock, indie, folk
None More Than You di My Brightest Dia-
142
mond, alias di Shara Worden, rappresenta bene
le misture arty pop chamber dell'artista polistrumentista americana, che vanta, tra le altre,
collaborazioni con Sufjan Stevens, Decemberists, David Byrne. Trattasi di cinque pezzi
più o meno inediti esclusi dal nuovo album
This Is My Hand in uscita l'11 settembre prossimo.
L'opener Dreamin Awake (in origine un duetto registrato con Colin Stetson), qui in due
versioni (Son Lux Mix e Jason Jar Mix), è una
ninnananna che diventa elettronica nel primo
mix e orchestrale nel secondo, e in entrambi i
casi mette in risalto la voce potente e suadente
di Shara. Whoever You Are è puro concentrato
Kate Bush Ottanta, testi da Walt Whitman e
ispirazione dai film di Matthew Barney, in
cui la Worden ha recitato, cantato e collaborato
alle musiche (Khu, The River Of Fundament).
Dreams Don't Look Alike in origine era parte
di una sonorizzazione live realizzata da Shara
per il muto The Balloonatic di Buster Keaton, un suo tipico incedere pop; infine That
Point When, inizialmente arrangiata per essere
cantata con The Orchestra For The Next Century, è lirica e orchestrale, e conclude in modo
sognante questo breve antipasto del disco che
verrà. Le premesse sono ottime.
7.2/10
Teresa Greco
Neil Young - A Letter Home (Third Man
Records,2014)
Genere: cantautori, country, folk
Ancora lontano dalla pensione, Neil Young
continua a essere un vulcano di sorprese.
Pochissimo tempo fa la rockstar canadese
promuoveva Pono, un innovativo lettore musicale portatile che permette di memorizzare un
buon numero di album con una qualità audio
superiore persino a quella del CD. E ora la stessa mano firma il disco che alcuni critici hanno
r e c e n s i o n i
ne e tutto il suo portato stilistico e musicale,
ma riesce comunque a sintetizzare in maniera
esemplare la propria poetica.
Ad aprire le danze i saliscendi pentatonici e
i battiti di mani di una City Pastoral che da
sola ha i crismi del classico istantaneo, roba da
loopare senza ritegno da qui alla fine dell'anno;
il resto del programma è una gimkana curatissima e fondamentalmente acustica tra certi I'm
Kloot velati da trasparenze acide e avvitati su
un bel circuito melodico (You Deserve), una
Blamelessness che sarebbe potuta uscire dalla
penna dei primi Turin Brakes, i Beatles meno
radiofonici immalinconiti Beach Boys (altezza
Pet Sounds) di Down, una Golden che paga
pegno a Nick Drake ma anche a certe cadenze
di Vashti Bunyan, il Badly Drawn Boy scompigliato di Holy Darkness.
C'è poi l'estrema delicatezza con cui Moro (e
The Silent Revolution, ovvero Lorenzo Gasperoni, Francobeat, Denis Valentini, Paola Venturi, Elisa Piraccini), nei brani citati e in tutti gli
altri, fa propri gli input stilistici, la naturalezza
con cui li mette in fila, la grazia rispettosa ma
non servile che riesce a tirar fuori dai circa 45
minuti di programma. Non è cosa da tutti far
digerire (senza annoiare) suoni ormai istituzionalizzati e con cinque lustri sulle spalle, ma il
musicista forlivese riesce nell'intento grazie a
una sensibilità evidente e a una scrittura senza
cedimenti. Un disco da ascoltare e riascoltare,
che forse non cambierà le sorti della musica
contemporanea, ma ha ben chiaro a cosa corrisponda, in musica, il concetto di "qualità".
7.1/10
r e c e n s i o n i
zione, vediamo poi un Neil Young fatto solo di
chitarra acustica, poco pianoforte e l'immancabile armonica, come in alcuni momenti chiave
della sua produzione, e che ancora una volta
conferma una vicinanza artistica alla folk music americana che difficilmente può deludere.
C'è personalità nell'esecuzione di ogni brano,
e a volte ci si dimentica persino che si tratti di
una cover. D'altro canto però, il disco propone
poco o niente che già non si conoscesse, e a
così breve distanza da Americana, altro disco
dedicato ai traditional a stelle e strisce, forse
ci si poteva aspettare qualcosa in più. Se lì i rifacimenti erano avvalorati dal sound acido dei
Crazy Horse, un'opera così minimale risente
un po' di un certo vuoto contenutistico.
In definitiva, i materiali sono molto buoni, così
come lo è l'idea di confezionarli in una veste
particolare e retrò, e il tocco di Young si può
dire non sia mai banale. Manca forse un po' di
ispirazione, che avrebbe potuto trasformare A
Letter Home da un album per appassionati
di Neil Young, o al limite di folk music, in una
proposta cantautorale davvero coinvolgente.
7/10
s e t t e m b r e
definito l'album "più low-fi mai prodotto da
una major".
Scatti, distorsioni del suono e un costante fruscio accompagnano le dodici cover di A Letter
Home, album interamente acustico che ripercorre alcuni momenti chiave del cantautorato
inglese e americano. Certo, confrontarsi con
una musica incisa con un vecchissimo registratore amatoriale non è facilissimo nell'era dell'elettronica e dell'alta fedeltà, ma con questo
gesto, Young sembra voler dire al suo pubblico
che il viaggio nel passato è lungo e tortuoso per
chi vuole affrontarlo, e che alcune forme musicali sono ormai documenti storici, ricoperti
da un'indelebile patina di polvere. La scelta dei
brani rivela infatti una certa minuzia e voglia di
scavare a fondo: accanto a brani certamente più
noti, tra cui sicuramente Girl from the North
Country (Bob Dylan) e My Hometown (Bruce
Springsteen), riscopriamo nomi come quello
di Phil Ochs, le cui ballate sono state raccolte
nel corpus di folk music dello Smithsonian,
e di cui Young ci regala una bella versione di
Changes, o quello di Tim Hardin, con Reason
to Believe, o ancora il compatriota canadese
Gordon Lightfoot, autore di If You Could
Read My Mind.
Tra gli aspetti migliori del disco, sicuramente
i riferimenti, che tutti insieme formano una
costellazione di artisti che devono aver avuto tanta parte nell'ispirazione di Neil Young
(anche se molti dei brani di A Letter Home
hanno visto la luce quando l'interprete era già
piuttosto famoso). Piuttosto, in questi fruscii
e in questo gracchiare sembra di rivedere la
stessa bassa qualità delle storiche registrazioni
dell'Anthology of American Folk Music, questa sì, un po' più anziana di Young e determinante per la sua produzione futura. Se vogliamo, dunque, A Letter Home si pone come una
nuova antologia di autori ormai relegati a un
passato lontano. Dal punto di vista dell'esecu-
Eugenio Goria
People - 3xaWoman (Telegraph
Harp,2014)
Genere: pop, art, wave
Scegliendosi una sigla tanto generica quanto
musicalmente specifica, i tre People hanno fatto una scelta di campo: quella cioè di spiazzare
ad ogni passaggio pur rimanendo nell'ambito
della normalità, essere la nota stonata ed extraordinaria nel mare magnum dell'ordinario e del
quotidiano. Preparati da una discreta carriera pregressa sia dei singoli che del trio – un
paio d'album alle spalle (l'omonimo esordio e
Misbegotten Man) e un consenso crescente da parte della critica, pronta a cantare le
lodi del trio anche per evidente rispetto del
143
s e t t e m b r e
Stefano Pifferi
144
Perc and Truss - Two Hundred (EP)
(Perc Trax,2014)
Genere: industrial, techno, hardcoretechno
Ultimamente le produzioni di Ali Wells aka
Perc traggono particolare giovamento dalla
frequentazione dei fratelli Russell. Ci è voluto
Tessela (Ed Russell) per distillare sostanza e
sudore da The Power and The Glory ("specchietto per le allodole" secondo E. Bridda), con
il personale remix di Take Your Body Off. Ci
vuole il fratello maggiore Tom, aka Truss, per
scatenare il lato più istintivo e sanguigno del
fondatore della Perc Trax, peraltro da sempre
territorio di caccia privilegiato per chi è attratto dagli afrori techno più off (nel catalogo
della label spiccano, oltre ai Nostri, nomi come
Mondkopf e Forward Strategy Group). I due
si conoscono da tempo e hanno già dimostrato
di potersi completare l'un l'altro. Già con il precedente EP Spiker, pubblicato nell'agosto 2013
sempre per la Perc Trax, il "London brutalist
dream team" aveva mostrato i muscoli e digrignato i denti, utilizzando la formula del "buona
la prima" ripresa in questo nuovo 12″.
E' proprio nella loro immediatezza che le
quattro tracce di Two Hundred traggono forza
persuasiva, andando oltre l'esercizio di stile.
In diretta, senza pre né post produzioni, Perc
and Truss fanno rombare i motori delle loro
macchine analogiche su piste hardcore che da
ormai da decenni collegano i Due Mondi: dalla
European Body Music anni ottanta alla New
York di Joey Beltram, dal filone belga R and
S alle più recenti riprese Downwards, fino
alle ultime evoluzioni L.I.E.S. dirette da Ron
Morelli, brooklyniano ora di stanza a Parigi.
Ed è proprio lo spirito di quest'ultimo che viene direttamente evocato nella traccia che dà il
titolo all'EP: un violento crossover acid e noise,
con un marziale kick drum saturato a 127 bpm,
la 303 trattenuta, sample vocali incazzosi e
altre sporcizie. Judd, con la sua malsana pro-
r e c e n s i o n i
background dei singoli – ci si accinge, dunque,
all'ascolto di 3xaWoman con la consapevolezza di beccarsi un continuo di spigoli e curve
a gomito, claudicanze e autismi sonori vari
messi al servizio di una musica genericamente
"pop", sia nel formato che nelle soluzioni. E
invece questo terzo album comincia, guarda
caso, spiazzando, con un piglio da ferale marching band che farebbe felici i vari Roy Paci
sparsi per il globo e innamorati della musica da
funerale: per inciso, Prolegomenon prevede il
supporto fiatistico di Peter Evans, Sam Kulik e Dan Peck, a dimostrazione del ruolo del
terzetto nell'underground avant e impro-jazz
della Grande Mela.
Così le già sbilenche sfumature arty del trio
– l'interplay claudicante delle corde storte di
Mary Halvorson (chitarra e voce) e di Kyle Forester (basso) e il drumming fluviale, ormai ben
noto a chi traffica con l'underground newyorchese, di Kevin Shea (Talibam!, Mostly Other
People Do The Killing e Storm and Stress
dovrebbero bastare) – assumono nuove sfaccettature, gonfiandosi e arricchendosi di ulteriori screziature. I tre (più tre) collezionano in
3xaWoman – guardatevi le foto promozionali
per rendervi conto di quanto sono bruciati –
quattordici pezzi di follia art/avant-pop sfasata
e ubriaca, con un terzo delle tracce condensato
in piccoli schizzi sotto il minuto (il solo fiati di
Zwichenspiel, il folk voce/chitarra di Reinterpreting Confusing Lyrics To Popular Songs, tra
le altre) e il grosso affidato ad una sorprendente capacità di rendere semplice l'articolato e
viceversa. Ennesima curva a gomito, ennesimo
lavoro spiazzante ed ennesimo centro.
7.2/10
gressione on-the-run, va a scavare ancora più
in profondità nelle radici kraut dell'industrial
techno. In Forever Your Girl fanno capolino i
synth mentasmici anni novanta da rave anthem
olandesi (a proposito: si veda la recente esibizione del duo all'Awakenings Festival per avere
conferma dell'impatto live di Perc and Truss
nella patria della gabber…). La mordace Van
Der Walk è la traccia più dritta e minimale, focalizzata a fare il maggior numero di prigionieri nel dancefloor. Quattro tracce e quattro punti
esclamativi. L'EP è disponibile in pre-ascolto
full su Bandcamp.
7.2/10
São Paulo Underground - Pharoah and
The Underground – Spiral Mercury
(Clean Feed,2014)
Genere: jazz, freejazz
Cercare di stare dietro a tutti i progetti e le
uscite discografiche di Rob Mazurek diventa
di giorno in giorno sempre più arduo. Eclettico e irrequieto, il cornettista di Chicago ha
sviluppato una sensibilità musicale ed intellettuale senza pari che gli permette di leggere ed
analizzare perfettamente il momento storico e
musicale in cui vive, riuscendo ad essere sempre un passo avanti ai suoi "colleghi".
Spiral Mercury, pur non essendo composto
interamente da brani inediti, è la giusta sintesi
del pensiero mazurekiano. Registrato durante
l'edizione 2013 del festival portoghese Jazz
Em Agosto,è la fusione di tre dei suoi progetti (Chicago Underground Duo, Saõ Paulo
Undeground e Pulsar Quartet meno John
Herndon dei Tortoise), con la partecipazione di un ospite d'eccezione: Pharoah Sanders.
Sassofonista attivo dal '61, il faraone (titolo
guadagnato durante la sua permanenza nella
Arkestra di Sun Ra) ha legato il suo nome a
musicisti cardine della New Thing, apparendo
s e t t e m b r e
r e c e n s i o n i
Alessandro Pogliani
su dischi come Ascension e Meditations di
John Coltrane e Symphony for Improvisers
di Don Cherry.
C'è una bella chimica tra Mazurek e Sanders
(la prima collaborazione tra i due risale al
2010) e si sente sin dalle prime battute di Gna
Toom, con i due che si cercano e si intrecciano creando positivissime tensioni, o nella title
track Spiral Mercury, in cui Chad Taylor e
Matthew Lux, rispettivamente batteria e basso,
danno vita a una sezione ritmica di devastante
concretezza. Molti i saliscendi emozionali in
Spiral Mercury: si passa da momenti estremamente spigolosi (Pigeon) ad altri delicati e
raffinati (Asasumamehn), senza perdere mai
colpi o accusare stanchezza e cali di attenzione. Impeccabile.
Rob Mazurek non sbaglia più un colpo e lo
dimostra la pletora di uscite di altissimo livello
degli ultimi anni, dai Pulsar Quartet ai Chicago
Undeground, passando per Saõ Paulo e Exploding Star Orchestra. Cosa ci regalerà la prossima volta? A noi non rimane che aspettare, con
la convinzione che se continuerà ad attorniarsi
di musicisti e artisti di questo livello, non ci
sarà da preoccuparsi.
7.2/10
Andrea Murgia
Plasma Expander - Otra Vez (Wallace
Records,2014)
Genere: avant, noise, kraut, math-rock
Continua per gemmazione la discografia dei
sardi Plasma Expander. Come Live3 era una
versione rivista e ripensata – catturata ovviamente in sede live – di alcune tracce presenti
in Cube, questo Otra Vez – che (ri)prende il
nome proprio dalla traccia conclusiva del lavoro precedente (anche qui presente in chiosa)
– è la sua elaborazione condivisa da parte di
spiriti affini ai tre Plasma.
Spiriti affini piuttosto vari, a giudicare da curri-
145
Stefano Pifferi
Rustie - Green Language (Warp
Records,2014)
Genere: elettronica
Piacciano o no, l'esordio di Rustie Glass
Swords e Cosmogramma di Flying Lotus,
sono due album fondamenali e ineludibili per
gli anni '10. Hanno marchiato a fuoco una nuova fase anche sociologica nel fare e intendere
la musica digitale, invertito la polarità rispetto
ad anni di musica elettronica scura e minimale,
e magnificato, attraverso un giocoso massimalismo, il concetto di retromania, costruendo
sopra a una serie di ritmi radicati nell'hip hop
(e non solo) un dedalo infinito di rimandi a
epoche, generi e stili della storia della musica
del '900.
Per il debutto del timido Russell Whyte da Glasgow, in particolare, sono stati spesi fiumi di
inchiostro, attivati potenti paralleli (primo tra
tutti quello con il Discovery dei Daft Punk),
mobilitate molteplici indagini prospettiche e
contestuali e, non ultimo, evidenziato quando,
146
dagli esordi nel 2007 all'allora 2011, il ragazzo
avesse portato avanti un suo modo di fare le
cose, ben contestualizzabile all'interno di ampi
movimenti elettronici (vedi il wonky, il boom
bap, i continuum britannici) ma ascrivibile a
signature unica, ovvero a una musica giovane
e colorata, complessa nei rimandi ma perfettamente melodica nello svolgimento. Una discoteca liquida fatta tanto di prog e fusion quanto
di hip hop, grime, r'n'b e di tutto quello che vi
può passar per la mente ripensando agli ultimi
10 anni.
Apparentemente, riuscire a dare un seguito a
un caso discografico del genere non dev'esser stata impresa facile, per uno come Rustie,
perennemente attaccato al laptop e sporadicamente allacciato alla rete, se non per scambiarsi .wav con colleghi musicisti. E' bastato
calibrare la rotta, tornare ad abitare a Glasgow
per stare vicino alla famiglia e amici e puntare all'essenza delle cose. Rispetto a Hudson
Mohawke e Lunice, che hanno progressivamente affinato le proprie armi avendo sempre
il dancefloor come controparte, il glaswegiano
vive da sempre la musica come un'esperienza
totalizzante: da una parte c'è l'estasi sensoriale,
dall'altra la passione per l'hip hop, due aspetti
che possono coesistere o procedere separati.
Abbiamo così un album non sconvolgente –
non poteva esserlo – piuttosto un lavoro ispirato negli stumentali, generalmente più distesi e
trasognati, persino minimalisti, debordante in
due dei tre brani rappati (Attak, la bomba trap
con il solito affabulante e gracchiante Danny
Brown, Up Down con un D Double E, molto
simile a Brown, conosciuto ai tempi di My Space, la pacata He Hate Me con il duo Gorgeous
Children), e non indispensabile, ma comunque generoso, nei tagli più morbidi in area
r'n'b (vedi la Lost con il nuovo divo LuckyMe
Redinho e Dream On con un'altra ospite non
accreditata, il brano più debole).
r e c e n s i o n i
s e t t e m b r e
culum e discografie, tanto che è facile pensare
che le musiche dei Plasma siano in grado di
travalicare i confini di genere – math? noise?
kraut? kosmische? – per approdare su lande
minimal-techno (il Pulse Remix di Claudio
PRC), avant-rock (Zeno Remix a firma Mattia
Coletti), avant-noise tribale (l'Oneida Remix
di Barry London), techno-industrial (il lavoro di Simon Balestrazzi in Alpha Centauri
Remodel) o finendo col far emergere l'anima
più chitarrista insita nelle origini della band
(il Fuzz Remix opera di Luca Ciffo della Fuzz
Orchestra).
Un frullatone, insomma, che declina la stessa
canzone sotto gli infiniti punti di vista offerti
dai molteplici input che la formano. Varietà e
omogeneità, in una battuta.
6.5/10
Certo, non mancano neppure gli agganci alla
palette di colori del passato a partire da Raptor,
accecante "laserata" tecnicolor su canvas in
4/4, e Velcro, dove, a partire da un crescendo
riconoscibilissimo, la citazione ai Daft Punk è
più evidente che mai. Sorprende, e ci piace parecchio, il parallelo che si può tracciare in Paradise Stone con il minimalismo in area Tortoise/
Reich come quello con certa folkronica onirica
nel brano omomimo. Tirando le somme, un
lavoro più che buono.
7.2/10
Edoardo Bridda
Genere: psych, garagerock, beat
Trio da Mola ad alta gradazione psych i Santa
Muerte, chitarra-basso-batteria (nell'ordine
che preferite) ad intrecciare trame aspre e
desertiche su cui la voce ricama graffiti aciderrimi. In casi del genere – repetita juvant – non
è l'originalità il punto quanto semmai il punto
di fusione tra attitudine e flagranza, la capacità
di schiaffare nel presente elementi d'immaginario pescati dal pozzo degli archetipi, scorie
e sporcizia incluse. C'è da dire che per essere
esordienti, i Nostri hanno il tiro ben tornito e
un sound strutturato, soprattutto sono bravi a
non lasciare che la foga prevarichi sulla padronanza.
Questo Age Of Sorrow EP si consuma quindi
tra farneticazioni nervose 13th Floor Elevator avariate surf (Mountains) e tumulti beat
carburati di peyote Count Five (Ten Arrows),
facendo balenare en passant deliranti spiritelli
Floyd che cavalcano la corrente spazio/tempo
fino a certe vampe Fuzztones, per allungarsi
addirittura dalle parti del britpop lisergico anni
'90. Alle quattro tracce in scaletta si aggiunge
come bonus track una interessante Machine
Gun che rimaglia arpeggi ipnotici e riffone di-
Stefano Solventi
Spoon - They Want My Soul (Loma
Vista,2014)
Genere: rock, art
A quattro anni dall'ultimo disco – passati a
curare progetti alternativi (Britt Daniel ha
collaborato con i Divine Fits) o attività collaterali (Jim Eno ha lavorato come produttore
artistico) – gli Spoon tornano con un disco
"spoonish" fino al midollo. Quando si parla della band di Austin, infatti, il punto centrale del
discorso è sempre lo stesso, e riguarda il perfezionismo che la caratterizza quando entra in
sala di ripresa: il chiacchieratissimo Ga Ga Ga
Ga Ga era un sunto di buone canzoni e tricks
da studio di registrazione, talmente efficaci da
spedire la formazione ai piani alti della discografia indiepiùqualcosa e da fossilizzarne la
personalità musicale nell'immaginario comune;
il successivo Transference mostrava invece
come la produzione dei Nostri, anche asciugata
da tutta la sovrastruttura e dagli orpelli, fosse
capace di reggersi bene sulle proprie gambe (se
non di spiccare ancora di più), pur non convincendo a tutte le latitudini.
They Want My Soul ripropone il solito dilemma: meglio gli Spoon "ingrassati" a suon di
effetti, overdub e echoes o meglio quelli più
elementari? Difficile rispondere. Certo è che
il Dave Fridmann coinvolto nella produzione
del disco dà più di un indizio sulla direzione
intrapresa da alcuni dei dieci brani in scaletta, anche se aspettarsi dagli Spoon sbandate
flaminglipsiane (visti i trascorsi di Fridmann)
s e t t e m b r e
r e c e n s i o n i
Santa Muerte - Age Of Sorrow EP (Mia
Cameretta,2014)
storto tra ululati hard vorticosi come ti aspetti
da gente che la sa lunga.
Tra strattonate festaiole e derapage minacciosi,
il totale del programma non raggiunge neanche
il quarto d'ora, però è di quelli che a fine giornata ricordi con piacere.
6.9/10
147
s e t t e m b r e
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Fabrizio Zampighi
Anna Calvi - Strange Weather
(Domino,2014)
Genere: rock
Non è passato neppure un anno dall'acclamato One Breath, il suo secondo album, che già
ritroviamo Anna Calvi ancora sulla scena con
un nuovo lavoro: per la precisione, un EP di
cinque brani, intitolato Strange Weather, a cui
partecipa anche David Byrne.
Oltre alla presenza dell'ex leader dei Talking
Heads – ormai votato a mentore delle migliori
interpreti femminili degli ultimi anni -, un altro
tratto saliente di Strange Weather è il suo essere nientemeno che una raccolta di cover. Un
esperimento che, a quanto pare, sarebbe nato
su iniziativa dello stesso Byrne, il cui compito
è stato quello di suggerire alla Calvi le canzoni
più adatte alle sue corde. Una collaborazione
che si è concretizzata in una scelta eclettica e
affatto banale, oltre che nel contributo vocale
in due brani. Così, Strange Weather funziona
meravigliosamente per quello che è, senza tradire le attese generate dall'alto livello raggiunto
dall'autrice: in altre parole, pur ammettendo
tutto il divertimento e la curiosità create dal
cimentarsi con un repertorio particolare e distante da lei (figurano, tra gli altri, FKA Twigs
e Suicide), la qualità e l'impegno sono gli stessi
dei due album solisti precedenti.
Grazie a interpretazioni riflessive e intense, più
vicine a One Breath che all'impeto rock dell'esordio, i pezzi mettono in primo piano la voce,
con la ricchezza degli arrangiamenti addomesticata in favore di un ruolo di cantante di alto
livello. Papi Pacify (della già citata FKA Twigs),
ad esempio, diventa una murder ballad oscura
e spettrale, ma in grado di riprendere e riprodurre in maniera brillante la stessa sensualità
strisciante della versione originale. Interpretazioni in grado non soltanto di reggere il con-
r e c e n s i o n i
sarebbe quantomeno poco realistico. Il contributo del produttore (qui in co-abitazione
con un Joe Chiccarelli già al lavoro con gli
Strokes e tutt'altro che marginale) lo si evince
più da qualche synth onirico piazzato in punti
strategici (Inside Out), da certe chitarre tremolanti (Rainy Taxi) e da un mix decisamente
compresso e "in primo piano", più che da una
vena sperimentale e psichedelica aliena. Insomma, niente di destabilizzante, anche se le
dinamiche nate in studio tra gruppo e produttore devono essere state qualcosa di intrigante,
viste certe dichiarazioni dei musicisti reperibili
in rete (Jim Eno a NPR: "[il nostro rapporto
con Fridmann] potrebbe essere sintetizzato
in questi termini: 'pensi che questo suono sia
troppo distorto?' Lui risponderebbe: 'sono la
persona sbagliata a cui chiederlo'").
Nonostante le premesse, l'ottavo disco del
gruppo americano è un album à la Spoon in
tutto e per tutto, senza grossi rischi e senza impennate verso estremismi sonori di sorta. C'è il
solito groove impeccabile – a titolo di esempio,
valga il giro di basso che ammicca al testo base
Gimme Some Lovin' in Rainy Taxi – e c'è quel
soul bianco e ruvido da sempre tratto distintivo
della voce di Daniel (la cover quasi coraliania/
lennoniana – non a caso ripresa anche dai Beatles – della I Jus't Don't Understand cantata in
origine da Ann Margret è esemplare, in questo
senso), ma soprattutto c'è una scrittura che non
è mai meno che buona. Certo, rimane l'impressione che la band abbia concesso non poco alle
aspettative di pubblico, radio e certa critica
– piattezze Libertines/Strokes come Do You
o They Want My Soul lasciano il tempo che
trovano – barattando l'immediatezza ricercata
dell'episodio precedente con un suono paradossalmente più rassicurante e riconoscibile.
Nulla di scandaloso, per un disco che funziona
pur senza stupire.
6.9/10
r e c e n s i o n i
Giulia Antelli
Sudden Infant - Wölfli's Nightmare
(Voodoo Rhythm,2014)
Genere: industrial, noise, blues
Tutta l'iconoclastia e il disagio degli Swans
condensati in un uomo solo. Potremmo esordire così per recensire questo Wölfli's Nightmare, ma saremmo intellettualmente disonesti,
poiché questo è in effetti il primo lavoro in un
quarto di secolo in cui mr. Sudden Infant, aka
lo svizzero Joke Lanz – trapanatore di cervelli,
perforatore di padiglioni auricolari ed eccessivo sound artist e performer, col suo noise
di matrice industrial – si fa accompagnare da
una band al completo. Anzi, è proprio la sigla
Sudden Infant a essere diventata una band
e non più un progetto solista, con l'ingresso
post-registrazione di Christian Weber al basso
e Alexandre Babel alla batteria.
Quello che il trio mette in scena in questo
ottimo lavoro ispirato agli incubi del pittore art
brut Adolf Wölfli è un guazzabuglio nero pece
di industrial minimal blues for the iron youth,
giusto per parafrasare altri personaggi ambigui
d'area (grossomodo) grigia, con tracce che si
muovono con la delicatezza dei citati Swans in
una cristalleria blues (la title track o Hold Me
– Prawn Version), come ipotesi di Birthday
Party nativi di Sheffield e sommersi da colate
di cemento (l'ossessiva Endless Night) o come
dei Cramps cresciuti a pane e Einstürzende
Neubauten (la rendition di Human Fly toglie
ogni dubbio sul cortocircuito tra r'n'r sguaiato e cataclismi noise), non dimenticando la
stramberia irriverente e quasi dada (la sinfonia
cameristico-dadaista di Kiss) che ha sempre
contraddistinto la sigla, ma aggiungendovi
grosse infiltrazioni di industrial-rock e noise
90s (vedi alla voce Girl) che non guasta affatto,
anzi.
Non è un caso, insomma, per chiudere il cerchio, che a produrre il tutto sia quel Roli Mosimann che spesso è stato rintracciato tra i credits non solo della band di Michael Gira (di cui
fu anche batterista), ma anche di grossa fetta
dei più disturbanti musicisti da un trentennio
in qua, e che il marchio sia quello della svizzera Voodoo Rhythm, garanzia di weirdness e di
una via personale, eclettica e rumorosissima al
blues.
7.2/10
s e t t e m b r e
fronto con i classici originali – a questo proposito, impossibile non citare la solenne maestria
di Lady Grinning Soul di David Bowie -, ma
soprattutto di creare atmosfere nuove con
grande classe ed eleganza, senza tuttavia
concedersi un grammo di auto-compiacenza.
Colpisce anzi la timida riverenza che la bella
Anna sembra dedicare ad ogni traccia, a voler
omaggiare ogni artista presente nella selezione: lo dimostra al meglio la title-track, brano
della singer/songwriter israeliana Keren Ann
eseguito insieme a Byrne.
Sintesi di un talento poliedrico e in continuo
mutamento, Strange Weather ci consegna
l'immagine di una musicista matura e consapevole dei propri mezzi, ma ancora curiosa di
tentare soluzioni originali e di esplorare nuovi
spazi sonori.
7.2/10
Stefano Pifferi
Tessela - Rough 2 (R and S
Records,2014)
Genere: techno, jungledrumnbass
Finora il 2014 per Ed Russell aka Tessela è
stato anno di raccolta dopo aver seminato e fatto crescere nelle stagioni precedenti rigogliose
piante sul terreno breakbeat, con una proposta
che non ha mai nascosto i riferimenti alla rave
techno anni Novanta inglese e che, giusta al
momento giusto, ha sfruttato il generoso humus jungle e la scia di fertilizzanti false memo-
149
s e t t e m b r e
150
la jungle "rave-vivaleggiante" di Nancy's Pantry,
dall'altro ne estremizza il coté noisy e fai-da-te.
Nella title track c'è subito esibizione di grande personalità, con il breakbeat che chiama a
raccolta, multilayer di hi-hat affilati e smanettamenti di synth retrofuturisti. Butchwax gioca
in pieno territorio morelliano, con un approccio industrial più realista del re, sporco e immediato, che sarà apprezzato nei peggiori dancefloor (di Caracas). C'mon, Let's Slow Dance è
esperimento più estremo: i bpm si dimezzano,
i crescendo rumoristi non si sfogano mai ma
rimangono sospesi, tra progressive bordate di
synth e handclap distorti, per una costruzione
tanto precisa quanto cattiva. Bye bye jungle?
7.2/10
Alessandro Pogliani
The Black Angels - Clear Lake Forest
(Blue Horizon Records,2014)
Genere: rock, psych, hardrock, garagerock
Magari è ancora presto per dire se per i Black
Angels si è definitivamente chiuso un ciclo,
quello che corrisponde alla fase ascendente
della loro parabola creativa. Di certo l'eccellenza
di Phosphene Dream (2010) è ancora lontana.
Se con il precedente lavoro Alex Maas e soci
avevano perso in monoliticità per abbracciare
un ventaglio di influenze più ampio e variopinto,
Clear Lake Forest prosegue sulla solita direttrice compiendo però due aggiustamenti di tiro
che lo rendono superiore. Tanto per cominciare
azzarda escursioni in anfratti ancora inesplorati
dell'immaginario 60s. Non sempre riuscite, va
detto. Se il ritmo sincopato di An Occurrence At 4507 South Third Street occhieggia agli
esperimenti pre kraut dei Silver Apples e The
Executioner suona come una versione space
doom dei primi Pink Floyd, il finale velvetiano
di Linda's Gone non è né più e né meno che una
calligrafica interpretazione di European Son. Un
po' poco per chi, in passato ha saputo imporre il
r e c e n s i o n i
ries e slow/fast sound.
I due EP fatti uscire nel 2013 (le energiche staffilate Hackney Parrot, primo e finora unico
prodotto in catalogo della sua nuova label Poly
Kicks, e Nancy's Pantry, esordio per la R and
S, l'etichetta belga che dal 1984, con il glorioso
payoff "In order to dance", è parte della storia
dell'elettronica – vedi ad esempio alla voce
Aphex Twin) hanno contribuito a mettere Tessela sotto i riflettori dell'hype, fino ad aprirgli
le porte della residency BBC Radio 1, che lo
trova inserito in un palinsesto di nomi come
James Blake e SOHN, ma anche Steve Angello e
Martin Garrix.
A compulsare le tracklist delle quattro puntate di un'ora ciascuna condotte da febbraio a
maggio dal ventiquattrenne Russell si trovano
i principali riferimenti bibliografici dell'enciclopedia tesseliana: c'è Pearson Sound e la sua
Hessle Audio, c'è Special Request, ma anche
Untold e Perc (per il quale Tessela ha realizzato in aprile un ottimo e personale remix di Take
Your Body Off ), c'è un remix inedito del fratello maggiore Truss (con il quale a gennaio ha
incrociato i piatti in un godibile back-to-back
firmato Boiler Room), ci sono tanti rimandi alla
scena di Bristol (Peverelist, Asusu), fa capolino anche Andy Stott (insieme Miles Whittaker, come Millie and Andrea), ma spiccano le
tante manifestazioni di stima per due etichette
all'estetica lo-fi delle quali il Nostro sta facendo
sempre più riferimento, The Trilogy Tapes
(in particolare le recenti release di A Made
Up Sound e Minor Science) e (soprattutto)
L.I.E.S. Records.
Ed effettivamente se Rough 2 fosse stato pubblicato dalla label di Ron Morelli invece che
dall'etichetta belga dal cavallino rampante non
si sarebbe alzato alcun sopracciglio. L'EP da un
lato prosegue sulla strada dei due precedenti,
riprendendo lo stop and go dell'amen break
interructus di Hackney Parrot /Helter Skelter e
proprio marchio con forte personalità. Il peggio
arriva con l'organo didascalico che trasforma
The Flop, nel brano più scolastico firmato dai
Black Angels. L'altro aggiustamento riguarda
la qualità della produzione. E qui le cose vanno
decisamente meglio. Quella di Indigo Meadow
era un'alta fedeltà che rendeva il sound della
band sin troppo lucido e affettato. Il mid-fi di
Tired Eyes e Diamond Eyes si sposa con alcuni
dei loro temi più melodici e dinamici di sempre.
La band si stacca dai toni dark per inanellare due gioiellini jangle psichedelici, affini per
potenza ed eleganza alle pagine migliori degli
Screaming Trees, e in virtù dei quali è possibile
coltivare speranze riguardo ad un soddisfacente
proseguo artistico dell'esperienza Black Angels.
6.7/10
The Bug - Angels and Devils (Ninja
Tune,2014)
Genere: elettronica, grime
Ben accolto dalla stampa internazionale (disco
del mese per "Mojo"), il nuovo album di Kevin Martin a nome The Bug, progetto che dal
2008 – dall'exploit di London Zoo – si è misurato sulla distanza del singolo e dell'EP, conferma l'impressione suggerita dalle ultime prove,
ovvero la fusione in un unico corpo degli assalti
grime caratteristici del progetto e dei "velluti
su macerie urbane" dei King Midas Sound
(il progetto dub/soul messo in piedi nel 2009
assieme al poeta Roger Robinson e alla compagna, ora madre di suo figlio, Kiki Hitomi).
Martin ha voglia di fare sintesi e, se dal vivo
continua a tendere timpani e plessi solari ai
limiti, pretendendo sempre e comunque un impianto da sonic warfare, qualsiasi sia il vocalist
con cui si accompagna (lo abbiamo visto con
Robinson il 14 dicembre 2013 a Milano), qui
presenta una urban in toni di grigio, atmosferica e trattenuta anche negli episodi più "rap-
s e t t e m b r e
r e c e n s i o n i
Diego Ballani
pusi" o screziati di retrogusti industriali (per
esempio, la conclusiva Dirty, con Killa P e il
fido Flowdan).
Scheletriche strutture ritmiche si fanno strada
tra sfrigolii e crepitii da contatore Geiger, cinte
da pulsanti bassi post-punk, a costruire brani
austeri e asciutti volàno perfetto per i remix
che seguiranno. Gusto, expertise e qualità sono
fuori discussione (bastino la intro Void, con i
suffumigi vocali di Liz Harris/Grouper; un
riempitivo di lusso come Pandi, tra incenso,
Penderecki e Vangelis; e un luccicante monolite spoken grime come Fat Mac), alcuni numeri
prendono subito e tanto (Fall, con Inga Copeland, singolo non a caso) e gli ospiti sono perfettamente mimetici nel mondo di Martin (su
tutti Gonjasufi in Save Me, praticamente un
apocrifo King Midas, se Robinson in persona ci
ha confermato che Sumach "è come un fratello
proveniente da un altro pianeta"). Ma in generale non ci si strappa i capelli e la tensione
dell'attacco scema con la seconda metà del
disco, che soffre un po' troppo di stanchezza da
routine grime, per quanto d'autore e di classe.
6.8/10
Gabriele Marino
The Raveonettes - Pe'Ahi (Self
Released,2014)
Genere: rock
Con una mossa che potremmo definire bowiana (ma anche beyoncéiana), ovvero senza
annunci, anteprime o altro, i Raveonettes pubblicano il loro settimo album. Il comunicato
stampa parla di un ritorno alle origini, probabilmente riferendosi ai passaggi verso il vintage di Pretty In Black (2005) e a quelli verso il
dream-pop di Raven In The Grave (2011).
In realtà è già dallo scorso Observator che i
Nostri hanno invertito la rotta e, pur mantenendo le vocalità eteree, le hanno semplicemente aggiunte alla palette stilistica disponibi-
151
s e t t e m b r e
Giulio Pasquali
piede a Berlino e uno ad Amsterdam. Sul suo
sito si legge che "riflessi, vibrazioni infrasonore, otoemissioni acustiche" sono sua materia
d'indagine da più di 10 anni a questa parte. Nel
suo caso, tuttavia, ciò che il Serge per le sue
qualità indaga viene spesso sottoposto a sforzi
ulteriori, forzature del suono come tagli netti
sui segnali proprio per ottenere oscillazioni
composte su piedistalli elettroacustici.
Con un pedigree che vanta split importanti
(Jim O'Rourke, Phill Niblock) e live degni di
nota (Utrecht nel 2010 è prova lampante che
la sua proposta non perde filigrana se esposta
al sole), in questo suo ultimo lavoro edito per
Touch Ankersmit allinea intuizioni coraggiose che non sempre convincono al 100%, ma
lasciano comunque un'idea abbastanza netta
del tutto. Ad esempio, Se si volesse prescindere dal senso ottico affidandosi esclusivamente
all'udito, allora questo Figueroa Terrace riuscirebbe a suggestionare, sia per le dinamiche
fantasmatiche, che per i passaggi di colore da
musique concrète, anche chi si affida solo al
tatto. Il Serge aiuta ad allineare pieni analogici,
febbricitanti e concitati, a vuoti mai immobili
su un medesimo punto. Il glitch diventa un
collaudo meccanico di parti che fanno il paio
fra risultati e volontà. Rimangono da illuminare
alcuni punti che pur impeccabili nella forma,
provocano più di uno sbadiglio nella sostanza,
repliche di drones e nubi di suoni "lunghi" che
ripercorrono tappe già vissute dalle parti di un
Oren Ambarchi meno ipnotico.
6.5/10
Christian Panzano
Thomas Ankersmit - Figueroa Terrace
(Touch Records,2014)
Genere: elettroacustica
Virtuso del Serge, sintetizzatore modulare brevettato nei primi anni settanta dal compositore
russo statunitense Serge Tcherepnin, Thomas
Ankersmit è un musicista olandese con un
152
To Rococo Rot - Instrument (City
Slang,2014)
Genere: post-rock, kraut
Proseguendo lungo i binari di Speculation,
album che aveva messo in atto una a lungo
posticipata strategia organica basata sull'utiliz-
r e c e n s i o n i
le, già ampiamente analizzata in occasione dei
dischi precedenti: i Jesus and Mary Chain, un
po' di MBV, retaggi Lee Hazelwood (Wake Me
Up parte come la cover di Bang Bang dell'Equipe 84) ma anche '50s (l'innocenza di The
Rains of May), un po' di breakbeat umanizzati
dal resto con risultati baggy (la notevole Killer
In The Streets) o mescolati al noise con risultati mid-90s in Kill! (dalle parti dei Senser) e la
generale aria psych-pop. Surf pochino, nonostante i due Raveonettes vivano in California
e nonostante il titolo del disco richiami una
spiaggia hawaiana: ma essendo quella in cui
Sune ha rischiato di annegare, va da sé che le
armonie dei Beach Boys sì, lo spirito e l'allegria un po' meno, benché il disco sia frizzante
come al solito.
A questi elementi i due sostengono di averne
aggiunti altri, quali gli staccato di chitarra e
strutture compositive complesse, che in effetti
si sentono in When Night Is Almost Done (e
c'è anche una reminescenza Doors, la batteria
che apre il disco da sola è praticamente quella
di Break On Through). Ne risulta la conferma
di uno stile consolidato da tempo, che nelle
dieci canzoni, per poco più di mezz'ora, dispiega le sue possibilità con buona ispirazione.
Non sarà il capolavoro di cui un po' di tempo fa
lamentavamo l'assenza dalla discografia della
band, ma non è nemmeno il caso di dare troppo
per scontati dischi di carattere e fluidità come
questo.
7/10
r e c e n s i o n i
tro (suonata da/à la Arto). Da segnalare anche
Pro Model, tra febbrili krautismi e una sintetica
in punta di acid.
6.8/10
Edoardo Bridda
Tom Petty and The Heartbreakers Hypnotic Eye (Reprise,2014)
Genere: rock
Lo ammetto: quando mi hanno proposto di
recensire questo disco, sulle prime ho storto
il naso. Non perché abbia nulla contro il caro
Tom Petty, ma perché, per tutta una serie di
motivi – soprattutto, l'impressione di avere a
che fare con ere musicali troppo distanti dalla
mia, e, in secondo luogo, una certa avversione
per i dinosauri della chitarra degli anni '70 -,
credevo che mi sarei trovata di fronte all'ennesimo ritorno di un personaggio dalla carriera
discografica infinita (e perciò, difficilmente riassumibile), rimasto per molto tempo all'ombra
di altri grandi (Dylan, Reed, Young).
Insomma, mi chiedevo se ci fosse stato bisogno
di un disco come Hypnotic Eye, e, per me, la
risposta era tutt'altro che positiva. Ebbene,
sbagliavo. Tom Petty e i suoi Heartbreakers
hanno confezionato un lavoro – a quattro anni
di distanza dalle profondità blues di Mojo –
solido e corposo, che non deluderà né i (molti)
seguaci di Petty, né gli amanti del genere immortale per eccellenza, ovvero il rock. Parliamo di un rock classico al cento per cento, puro,
prodotto in maniera efficace da un musicista
che fa parte direttamente di quell'Olimpo. Le
canzoni, a cominciar dal rombo grintoso dell'opening American Dream Plan B, sono un "commento alla disillusione che c'è in America", sintetizzato dai versi amari del testo ("American
dream, political scheme/ I'm gonna find out for
myself someday"), ma anche un tributo sincero
e vitale al rock and roll.
L'intenzione della band era infatti quella di
s e t t e m b r e
zo di un tradizionale impianto rock integrato
con macchine analogiche, il trio To Rococo
Rot torna con un nuovo lavoro che rappresenta
l'ennesimo, adulto, tentativo di azzeramento e
ripartenza.
Stefan Schneider (synth) e fratelli Robert
(chitarra) e Ronald Lippok (batteria, effetti)
conoscono bene la proprie posizioni e i propri
limiti: sostanzialmente il progetto si è sempre
basato sull'incastro e la sperimentazione di
nuove soluzioni, ma è anche vero che quel mix
di post-rock, kraut, techno, dub e sound design
messo a punto in album indimenticabili come
An Amateur View e prima Veiculo, rivive
qui alle stesse condizioni, con la differenza di
un taglio più psichedelico e un approccio più
fisico e diretto.
In Instrument non c'è nulla che avvicinerà
nuovi fan alla band, eppure, grazie ai tre cameo
di Arto Lindsay, fan di lunga data del gruppo
la cui voce aggiunge un tocco d'etereo pop a
tre episodi (Many Descriptions, Classify e The
Longest Escalator in the World), il qui presente
è un disco coerente e riuscito, per nulla trincerato dietro all'inedito inserto del cantato. Il
taglio è psych si diceva, ottenuto con l'"unique
handmade minimalism" della casa, per ripetere
le parole di Robert Lippok, una mossa che si
traduce in un riavvolgimento verso i laboratori
chicagoani di sempre senza forzature o nostalgie.
Dopo ABC, l'ultima prova dei Kreidler, in cui
Schneider militava, Instrument è un altro
buon e possibile disco kraut per gli anni '10, da
non sottovalutare o interpretare diversamente
da quello che è: un'appassionate jam session
che ti trasporta a mezz'aria coinvolgendoti con
garbo e passione per una trentina di minuti,
regalandoti sul finale una splendida Longest
Escalator in the World, brano degno del miglior
David Grubbs con il canto a picco di Lindsay,
un drone immortale e la chitarra noisey di ve-
153
s e t t e m b r e
Giulia Antelli
Trans AM - Volume X (Thrill
Jockey,2014)
Genere: kraut
Ruderi di colonne con foglie di acanto sui
capitelli, sullo sfondo un cielo minaccioso: già
dalla copertina, il decimo disco del trio Nathan
Means-Philip Manley-Sebastian Thomson
vuole essere un compendio di un determinato
suono (quello che un tempo si definiva postrock) e della stessa band. È un'immagine che,
assieme ai suoni che porta dentro/dietro, urla:
154
"Noi siamo qui, magari invecchiati, mentre
attorno s'avvicina l'inferno".
Registrato in tre anni incastrando gli impegni
dei componenti, Volume X si presenta sicuramente come un disco che ha dalla sua la voglia
di non crogiolarsi nel manierismo, proprio per
non cedere a quell'inferno. Ovvio, sono pur
sempre i Trans Am, quindi si sa già cosa aspettarsi: un ventaglio sonoro vasto, ogni pezzo
dalle coordinate completamente diverse da
quello che lo ha preceduto, scarsa omogeneità
di fondo. Ma questo quadro disgregato è ormai diventato il loro marchio di fabbrica: un
elemento tipico che paradossalmente rende
coerente la loro carriera, come una linea che
unisce i punti, dove i punti sono i dischi.
Sulla base di queste premesse, per il disco sono
arrivate stroncature che paiono ingiustificate:
questi sono i Trans Am, prendere o lasciare,
soprattutto vista la lunghezza della loro carriera. Meglio magari concentrarsi su ciò che
davvero conta: la scrittura, la brillantezza degli
arrangiamenti, il modo in cui ogni pezzo riesce
o meno a dare spunti alle orecchie. E da questo
punto, per chi scrive, Volume X fa il suo dovere.
Il biglietto da visita è la bella Anthropocene: un
pezzo doom, area Sleep, ma con una componente meno psichedelica e dura e più angelica
(e no, non siamo dalle chiesastiche parti degli
Om, nonostante l'organo faccia di tanto in tanto
una comparsa). Pubblicato ovviamente dalla
compagna di sempre Thrill Jockey, la scaletta propone all'ascoltatore, da qui in poi, suoni
disparati: Nightshift, ad esempio, è quella del
lotto con più motorik sound in corpo, dove però
il ritmo non prende mai la tangente per via di
un minutaggio breve, pur restando coinvolgente per il buon lavoro sui timbri che rendono il
groove affascinante. Ci sono i vocoder, ma non
hanno la preminenza che avevano avuto in
Thing, e si infilano in momenti di synthpop che,
r e c e n s i o n i
registrare un album che fosse "rock dall'inizio
alla fine", e l'obiettivo è andato a segno, con
brani che spaziano dall'irruenza sixties/garage
(Fault Lines) a veri e propri anthem perfetti
per le radio (All You Can Carry). Ma troviamo
anche buoni episodi di artigianato pop, come
dimostra il languido incedere di Full Grown
Boy – piano sofisticato e risvolti jazzati ben almagamati con la voce nasale di Petty, ancora in
grado (a 63 anni) di saper dosare in modo originale stili e intonazioni – e brume bluesy, ad
esempio in Burn Out Town: old blues d'annata,
classico e tradizionale senza essere polveroso,
un viaggio a ritroso immersi nella nostalgia
dei sentieri d'America, a confermare la classe
del musicista nel saper giocare con le epoche,
muovendosi indietro e avanti nel tempo senza
cadere in una retromania dolciastra e consumata.
In altre parole, ritroviamo i medesimi trasporto
e calore delle altre prove, nonché una figura
leggendaria che, senza essere ripetitiva, rimane perfettamente fedele a se stessa. Hypnotic
Eye, dunque, suona come un disco genuino e
senza tempo, che, probabilmente, non riuscirà
a convertire gli scettici, ma si rivela sicuramente all'altezza di un compito nient'affatto facile:
restituirci un Tom Petty ispirato.
6.7/10
r e c e n s i o n i
ckyiano: trip-hop leggermente sporco (Lonnie
Listen), ballad soul (Something In The Way,
uno dei pezzi più ispirati, che ricorda Tracey
Thorn) e blues-hop sensuale (Keep Me In
Your Shake, I Had A Dream). Si spazia infine
anche sull'elettronica un po' dark (Nicotine
Love, Right Here) e pure sul rap (Gangster
Chronicle, con sample dei Massive Attack):
un mix di stili che ci fa capire come Tricky
vada benissimo come arrangiatore di pezzi, più
che come interprete.
La voce dell'uomo si è persa infatti in un mugugno biascicante, privo della forza degli
esordi e oggi oltremodo pleonastico, dato che i
momenti migliori sono proprio quelli in cui il
Nostro lascia spazio alle giovani leve. La carriera del cantante è a uno snodo fondamentale:
da interprete sarebbe ormai giunto il momento
di diventare produttore tout court, per non
scimmiottare solo i bei tempi andati. Per questa volta gli interventi vocali non cadono nel
ridicolo, ma la prossima potrebbe essere troppo
tardi. Fermati ora, Adrian.
6/10
Andrea Macrì
Marco Braggion
Tricky - Adrian Thaws (!K7,2014)
Genere: triphop
Tricky è sempre stato molto bravo a gestire basi
trippy con un controcanto di voci angeliche
preferibilmente femminili. Il basso vocale graffiante accompagnato dalla grazia di soprani più
o meno adeguati, inseriti sulle sue visioni, è alla
base anche di questo undicesimo album. Adrian
Thaws (il vero nome del musicista inglese) si
avvale dell'aiuto di Francesca Belmonte e Nneka (già presenti nel precedente False Idols),
della cantante inglese Tirzah, del musicista
britannico Blue Daisy e della danese Oh Land.
In più troviamo anche le spinte hip-hop di Bella
Gotti (aka Nolay) e Mykki Blanco.
Il mood sonoro varia nel ben noto range tri-
s e t t e m b r e
quando pare debbano cadere nell'anonimato o
nella noia, mantengono uno squarcio melodico
che li redime (il refrain battente che spunta in
Reevalutations ne è esempio). C'è la dolcezza
dei Kraftwerk che ballano un lento con Gary
Numan in I'll Never, c'è l'assalto metal come un
aggancio timido alla jungle, c'è l'elettronica dei
Glass Candy e c'è Moroder, lo space hard rock e
il folk sinfonico. C'è tutto questo, ed è quasi sempre al punto giusto, anche nei momenti in cui
generi diversi riescono finalmente a convivere
nella struttura di uno stesso brano.
Al netto di alcuni brevi momenti in cui forse il
suono non è a fuoco, Volume X è un lavoro che
si fa ascoltare con estremo piacere. Non avrà
l'effetto-sorpresa, nè suggerimenti per il futuro, né hype, ma queste sono cose secondarie: i
Trans Am volano mediamente alti, lasciandosi
dietro i tentativi di coesione forzata dei dischi
precedenti e procedendo con naturalezza.
Quanto mestiere ci sia in una band alle soglie
dei venticinque anni poco importa, se questi
sono i risultati.
6.7/10
Tru West - The DOWC Part 2
(Marmo,2014)
Genere: avant, impro
Il declino della "western civilization" non è più
alle porte, ma in corso d'opera. Quello che The
DOWC Part 1 ipotizzava con un mix di suoni
analogici, musica concreta e jazz atomizzato,
The DOWC Part 2 rende ancora più esplicito,
pur giocando con le stesse variabili musicali.
Un ribollire di suoni in cui il free del clarinetto
fa il paio con disturbi sotterranei, voci campionate, reiterazioni autistiche, contrappunti
deraglianti. Il secondo EP in vinile – a doppia
velocità (lato A 33 giri, lato B 45 giri) – dei Tru
West scandaglia un tribalismo "sbarellato" e
minaccioso (A Rock In A Cop), che sfocia in
155
Fabrizio Zampighi
Ty Segall - Manipulator (Drag
City,2014)
Genere: indie, garagerock
Eccoci qui con l'ormai classica uscita sotto
l'ombrellone di Ty Segall. Dopo l'acustico Sleeper dello scorso agosto e l'autunnale Gemini
che ha svuotato cassetti e scrivanie di nastri e
demo, Manipulator riparte dai luoghi di sempre, il binomio garage-hard rock, i chitarroni
(la press ci segnala entusiasta: SO many guitars!) e da una impostazione stile greatest hits.
In effetti con Manipulator si riassumono un
po' tutte le piccole scommesse che il Nostro
ha vinto negli anni e che gli hanno permesso
di diventare personaggio di spicco della scena
garage americana e non: i passaggi dall'elettrica all'acustica e ritorno, il lo-fi dei tre accordi
contro l'odierno fuzz sguaiato ma arrangiato, i
travagli temporali tra i binomi Reatard/Thee
Oh Sees e Black Sabbath/Hawkwind con in
mezzo gli Stooges e gli Stones. Senza contare
17 tracce in scaletta che fanno di Manipulator il
156
disco più lungo di Segall, offrendo ottimi spunti (tra i molti meritano citazione almeno Feel,
the clock) ed evitabili cali di tensione specie
quando l'idea revival si fa troppo vivida (Green
Belly, Mister Main).
Insomma Ty Segall continua con la barra a
dritta, accompagnato dagli amici di sempre
ovvero la Ty Segall Band di Mootheart, Epstein
e Cronin che per l'occasione ha arrangiato –
bene – le chitarre, e sforna un disco a metà tra
il facile e il naturale, ottimo per chi volesse avvicinarsi ex novo al personaggio e amabile per
i fan di vecchia data. Per l'appunto la missione
dei greatest hits.
7/10
Stefano Gaz
Ugostiglitz - Ugostiglitz EP
(Autoprodotto,2014)
Genere: rock
Samuele Pedrazzani, Thomas Baruffaldi e
Davide Chiari si conoscono dai banchi delle
elementari, fanno quindi trio per una vita senza
incidere niente, almeno stando alle poche cose
che si possono appurare via rete. Negli ultimi
tempi la fregola di mettere su disco qualcosa
diventa determinante e, persuasi magari dalla new entry alla batteria Riccardo D'Errico,
registrano varie tracce buona la prima al TUP
di Brescia, quattro delle quali aprono e chiudono rapidamente questo esordio dal moniker
acchiappesco. Basso e chitarra sbrodolano giri
corposi sostenuti da qualche fiato fra i bridge
rock-ska (Joco), un sano hard psichedelico
pigia fino a chiudere in fuzz (Inutili cose),
heavy swamp e rhythm, cincischiando un po'
troppo di Litfiba/Negrita (Metamorfosi), e poi
un punk rock filo telefonato ma che ci sta alla
grande (La bomba).
Italiani brava gente che non sbaglia una sola
battuta, efficaci ed essenziali. Fan di Kafka on
the Shore e Quiet Confusion, affrettatevi, c'è
r e c e n s i o n i
s e t t e m b r e
uno scenario post bomba H ventoso e deprimente (We Have Your Money, What Can You
Do Now?) in cui i fiati parlano di solitudini e i
contributi concreti azzardano una condizione
umana primitiva e disperata.
Eppure "il lato B potrebbe sorprendervi, dopo
aver sperimentato il lato A". E infatti, con Mass
Prod's Tru Western Mix ci si trova di fronte a
una techno inquietante e muscolare, solida e
glaciale, fatta di quelli che sembrano reverse
recordings (ma che forse non lo sono). Con una
chiusura di album riservata a una Harmonious
Thelonious' Sunset Liturgy Remix che odora di
trip-hop per poi affidarsi a poliritmie assortite,
vaghi aromi industriali e ripetizioni mantriche.
Disco che parla il linguaggio dell'immaginazione, senza facili conformismi.
7/10
un altro bel gruppo da sostenere.
6.5/10
Christian Panzano
Genere: garagerock
Agli affezionati della formicolante scena musicale della costa occidentale a stelle e strisce, il
nome di Tim Presley potrebbe suonare familiare. Insieme a Ty Segall (che reincontreremo più volte nel corso di questa recensione)
il buon Presley di fatto rappresenta l'anima di
quel suono psych-rock che in questi ultimi anni
è riuscito a creare un bel chiacchericcio intorno a sé. Difficile quindi non aver mai sentito
parlare di questo giovanotto dall'aria spavalda
che nel corso della sua carriera, oltre ad aver
dato alle stampe dal 2010 ad oggi ben cinque
album sotto il "marchio" White Fence, ha fatto
parte di numerosi progetti (Darker My Love,
The Nerve Agents, The Strange Boys) e
collaborazioni (la più nota, quella con il sopracitato Segall che nel 2012 ha fruttato l'apprezzabilissimo Hair).
Prodotto, manco a dirlo, da Ty Segall, For The
Recently Found Innocent arriva a poco più di
un anno di distanza da Cyclops Reap e conferma, una volta per tutte, la speciale ispirazione
creativa del songwriter Californiano. Nel disco,
la formula magica resta fondamentalmente
aderente a quella dei precedenti lavori, e ciò
che ne scaturisce sono quattordici tracce di
puro psych-rock velato da quell'effetto nostalgia che negli ultimi tempi ha caratterizatto
molte delle opere di altri gruppi della scena
neo-psichedelica, quali Pond, Foxygen e Temples (solo per citarne alcuni).
Presley, dal canto suo, vaga con estrema naturalezza tra territori ora più rock'n'roll (Arrow
Man, in cui in nemmeno tre minuti vengono
centrifugati Steppenwolf, T-Rex e Kinks; The
Marco Frattaruolo
White Hex - Gold Nights (Felte,2014)
Genere: pop, synthpop, post-punk
Sgombriamo subito il campo da un equivoco: quello che intendono Tara Green e Jimi
Kritzler per "high fashion", evidentemente non
comprende l'accessorio "scarpa". Altrimenti
non si spiegherebbe l'insistere su passerelle,
l'immagine vogue laccatissima e Karl Lagerfeld, se poi si indossano per la copertina delle
zeppacce trasparenti buone forse per il burlesque.
Detto, quindi, che ai nostri fashionisti italioti la
cover art non farà che sollevare il sopracciglio,
un disco come il secondo full length (sempre
sotto la mezz'ora, però, come pure l'esordio
del 2012) sottolinea come il territorio racchiuso nel recinto synth pop, italo disco e minimal
techno possa ancora riservare sorprese. Basti
prendere la penultima traccia, quella Burberry
Congo che ancora una volta strizza l'occhio al
catwalk: su un incedere da dancefloor anni '90,
i synth di Jimi disegnano una trama in levare
che fonde improvvisamente il gelo sintetico in
bianco e nero che ammanta tutto il disco con il
calore di Africa e Giamaica. Questo cercarsi e
prendersi tra estremi, questi ossimori già pre-
s e t t e m b r e
r e c e n s i o n i
White Fence - For The Recently Found
Innocent (Drag City,2014)
Light, dall'eco velvetundergroundiano), ora più
lisergici (Anger! Who Keeps You Under? pare
uscire direttamente da The Madcap Laughs;
Paranoid Bait), mantenendo sempre ben saldo
il controllo della sua sghemba zattera, anche
quando questa sembra prendere il largo verso isolotti country/folk (Goodbye Law, Fear,
Afraid Of What It's Worth) e lo-fi pop (Hard
Water).
For The Recently Found Innocent consacra
White Fence come la vera anima della festa
psych californiana, insieme all'altra simpatica
canaglia, Ty Segall. Come poterne fare a meno?
7/10
157
s e t t e m b r e
Marco Boscolo
Zoe Muth - World of Strangers
(Signature Sounds Recordings
Inc.,2014)
Genere: pop, cantautori, country
Zoe Muth è una cantautrice country che, grazie al forte taglio pop, finisce inevitabilmente
per svecchiare il genere: ma fino a un certo
punto. Originaria di Seattle ma trasferitasi a
158
Austin in Texas, è considerata la Emmylou
Harris della costa nord-orientale americana,
e infatti i paragoni fioccano con facilità anche
con l'altra grande ispirazione, Iris DeMent.
Dopo due dischi con la sua vecchia band Lost
High Rollers, la Nostra decide di proseguire da sola e così si affida, una volta in Texas,
al produttore e bassista George Reiff, che in
breve tempo mette su una squadra di musicisti
al suo servizio, tra cui anche Martie Maguire
delle Dixie Chicks. E il gioco è fatto. World of
Strangers è un disco di country mainstream da
classifica, dove lap steel, chitarre slide e scintillanti pianoforti si sprecano.
Le variazioni sui temi di Hank Williams non
sempre lasciano il segno, tanto pop disseminato
sotto i tappeti dei saloon dove melodie immediate vengono sciorinate come in un rosario nel
nome dell'honky tonk. Che sia adult contemporary, americana o alternative country, il prodotto è decisamente ben definito e levigato: forse
quello che manca è proprio la caratura della
scrittura. Non c'è nessuna cosa fuori posto ma è
probabilmente questo il punto: nessuna canzone emerge rispetto alle altre ed è tutto molto
standardizzato sui parametri di un mercato da
classifica di genere. In alcuni momenti sembra
quasi di ascoltare una versione edulcorata di
gente come Sheryl Crow o Shania Twain, ma
siamo perfettamente consapevoli di dove il
disco voglia andare a parare; molto più immediata di una Lucinda Williams, Zoe Muth non
riesce però a tenere alta l'attenzione per tutta
la durata del programma.
Al di là delle sonorità, curatissime e calibrate,
gli album sono fatti di canzoni, ed è questa la
carenza grave, al di là della eventuale limitatezza di manovra all'interno di un genere così
definito. I momenti migliori arrivano praticamente alla fine con il valzer rurale di Waltz
Of The Wayward Wind, realmente efficace e
intenso nel suo incedere terzinato, e la solida
r e c e n s i o n i
senti in quell'Heat scheggia post punk di due
anni fa, sono ancora una volta cifra stilistica e
via d'uscita da un cul de sac apparente.
Paradise, singolo-manifesto, è una macchina
del tempo tra Giorgio Moroder e l'europop
dei Beloved (a cui sembra aver rubato la linea
di synth e il pattern di drum machine); United
Colours of KL gioca con il kitsch potenziale di
molta dancefloor music dell'underground berlinese/tedesco, uscendone vincitrice: perché si
sente che Tara Green riesce nella delicata operazione di essere credibile, credibilissima, pur
mantenendo un distacco, una lontananza che
è cifra stilistica di tutta l'operazione del duo.
L'equilibrio è perfetto in In the Nights, che
oltre a tutto il resto gioca con l'indie notturno
slavatamente blues, per una nenia claustrofobica e scura degna di un Robert Smith senza
autoironia.
La capacità dei White Hex di passare dall'esordio post punk a questa miscela più sintetica
e danzabile è ammirevole, e possibile grazie
solamente a una forte idea estetica di fondo
che passa per la decadenza metropolitana e la
monocromia. Visto come hanno sterzato fin
qui, come proseguirà quest'avventura discografica che loro stessi definiscono trilogia? Con
le sue tinte kraute e la voce di Tara Green in
primo piano senza (troppi) effetti, la chiusura
di Battleground è forse la strada per un futuro
da crooner dei White Hex.
7/10
ballata acustica Taken All You Wanted. Di rilievo anche la chiusura con What Did You Come
Back Here For?, ma ormai è troppo tardi. Fino
a quel momento il disco rimane piatto: un po'
poco per la Emmylou di Seattle.
6/10
s e t t e m b r e
r e c e n s i o n i
Stefano De Stefano
159
G imme
S o me
I nc h es # 5 1
Questo mese andiamo di cassette e sette pollici
per Grizzly Imploded e Gene, Simon Balestrazzi
e Uncodified, Bob Corn e My Dear Killer, Shantih
Shantih, Futeisha, Ultravixen e Blind Shake
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Ricominciamo la stagione col consueto giro tra i formati minori, pur consapevoli che
quest’anno di “stacco” ce ne è stato veramente poco, al punto che anche i tormentoni estivi
hanno, per nostra fortuna, latitato lasciando il posto a dischi che di estivo hanno ben poco.
Ci riferiamo, entrando subito nel merito di questo numero autunnale, all’infornata di cassette pubblicata dalla ormai consolidata Old Bicycle. Di Futeisha – uscito in collaborazione con Brigadisco – dicemmo a suo tempo grazie allo streaming in esclusiva, ma trastullarsi con la splendida tape di Dannato e non scriverne due righe sarebbe un peccato. Dunque,
psych deviata, esotica ed esoterica, dicevamo in sede di presentazione, perfetta per questa
fine di una estate mai vissuta; mezzora di malinconie varie miste a follia gratuita e gusto
per l’alterità che non guasta mai. Ce ne fossero di dischi dannati come quello messo su dal
sedicente Juan Francisco Scassa aka Dedalo 666 and friends.
Sempre made in OBR lo split-tape, questo sì, decisamente autunnale, tra Simon Balestrazzi e Uncodified (aka Corrado Altieri) che celebra il n.10 della Tape Crash series in collaborazione con Under My Bed. Due lunghissime tracce, una per lato: l’ex T.A.C. va di omaggio
al Minotauro di Durrenmatt, tanto che ci si perde nel labirinto minaccioso orchestrato
con sapienza da Balestrazzi: un labirinto fatto inizialmente di droni montanti e tesissimi,
di una parte centrale più isolazionista ma non meno sinistra ed un chiosa lancinante. Non
da meno il sodale, che sembra offrire un corrispettivo “pieno” e in overdrive del senso di
latente spaesamento di cui sopra. Caterve di suoni noise in accumulo, accenni harsh corrosivi, flutti di rumore bianco materico e tangibile. Proprio come la paura evocata da Balestrazzi e mostrata da Altieri.
Ammorbidendo i toni ma non la cupezza, segnaliamo l’ultimo nastro made in Switzeland
con lo split tra i due menestrelli malinconici Bob Corn e My Dear Killer. Il nastro – al
solito bellissimo l’artwork messo su dalla OBR in combutta con Under My Bed – è stato
catturato live da Yed Viganò and friends a Varano Borghi, in occasione di un “Sottovoce”,
i “concerti fatti in casa” che tanto ci piacciono. E la dimensione intima è quella più congeniale alla coppia, dato che lo scorrere delle dita sui tasti, il rimbombare delle voce nella
cassa armonica, il fuoriuscire del sentimento più puro di fronte ad ascoltatori silenziosi e
attenti, è quanto di meglio si possa chiedere ad un live. Canzoni In Silenzio rende al meglio quella atmosfera, casalinga ma non dilettantesca, sia chiaro, in cui lo struggente cantato e la sofferenza delle corde di MDK ben si coniugano con le corde più eterogenee ma non
# 5 1
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meno malinconiche di Bob Corn, al solito più menestrello, capace di catturare l’audience e
più vario nella proposta (cover da Belle and Sebastien e Hüsker Dü, per dire), ma sempre
con quella nota di tristezza a incrinare voce e note.
Ammorbidendo un po’ i toni, ma non la weirdness, passiamo alla romana Geograph che
rilascia il nastro The Wheel Of Need, opera prima di Gene a.k.a. il kazako Jevgenij Turovskiy. “Avant-pop” trasversale, irregolare e abbastanza strambo tra chitarrine sixties
trasfigurate e ambientazioni fumose e notturne, cantilene ubriache irresistibili e rumorii
sotterranei, biascicare impastato da crooner fuori tempo massimo e ipnotiche evoluzioni di
blues ferale: tutto nella miglior tradizione off, sia dell’etichetta, che di molti irregolari del
pentagramma, da Barrett e “Cuordibue” in poi.
Ultimo nastro di questa sessione estivo/autunnale è il migliore del lotto autunnale made in
Sincope (tra cui spiccano gli ottimi SUTT, il duo Jabber Garland e Pale Sister). Scegliamo i
partenopei Grizzly Imploded con Threatening Fragments From Four Boulders per il
loro essere marginalmente “rock”: come al solito urticanti e sfrangiati col loro impro-noise
a doppia chitarra+ batteria, Maurizio Argenziano, Francesco Gregoretti e Sergio Albano
viaggiano spericolati in quattro tracce per i venti minuti del nastro, tra chitarre corrosive
che si scontrano ed incontrano, rincorrendosi e abbandonandosi, vuoti ipnotici ed esplosioni (a)ritmiche a movimentare un suono che è tutto nervo e spasmo. Ascolto impegnativo, ma ad averne di impegni del genere.
Poco sopra mentivamo quando parlavamo di dischi autunnali. Il sette pollici – e qui siamo
transitati nella sezione “vinili piccoli” – d’esordio delle Shantih Shantih, americane dal
cuore italico – Anna Barattin dei dispersi Vermillion Sands è il deus ex machina di questo
quartetto all-female made in Atlanta – è la release n.20 per Shit Music For Shit People ed
è un concentrato di solare fuzz sixties di quello che riempie il cuore. Più polverosa e lievemente malinconica la title track Ruby, con evidenti richiami all’hangover della Summer of
Love, più accesa Something Else To Drink sul lato opposto. Il nome prende spunto dalla
pace interiore dei buddisti e la musica viene di conseguenza. Aspettiamo il full-length.
Per la serie “toh chi si rivede” tornano gli UltraviXen anni dopo Avorio Erotic Movie,
con un 7” che anticipa il nuovo lavoro Il Riskio. Novità in formazione, l’ingresso del quarto Dario Blatta a synth e chitarra, e nella scelta della lingua italica al posto dell’inglese: in
soldoni, sempre grossissima energia avant-punk sferragliante e devastante, grossi incroci
noise’n’roll nelle chitarre, sezione ritmica al solito al fulmicotone. Acrobatici Equilibri è
una botta in faccia a base di noise targato AmRep che caca in testa a vari frontmen italiani
troppo boriosi con un cantato che è insieme melodico e aggressivo; Le Cose Più Belle rallenta il tiro e sembra rinverdire i fasti dell’indie-rock dei 90s, quello più sanguigno e accattivante. Buon viatico, in tutta sincerità.
La veronese Depression House pubblica invece il 7” dei Blind Shake da Minneapolis. Nomen omen e provenienza geografica a far da garanzia per una shakerata clamorosa a base
di noise-punk aggressivo e senza compromessi. Brickhouse Burro e Get Youth vivono di
staffilate di chitarre hc, ruinismo e attitudine punk e velocità d’esecuzione che ci ricordano
come nel catalogo AmRep circolassero nuove forme di punk. Tutto si risolve in 5 minuti
scarsi, come a dire live fast, die young.
Stefano Pifferi
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Ramones
classic
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Ramones (Sire, 1976)
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Nel giugno di quest’anno il primo album dei Ramones è diventato disco d’oro raggiungendo le
500.000 copie. Stupisce che lo abbia fatto soltanto ora, a quasi quarant’anni dall’uscita, perché in
termini di influenza sulla scena rock non sono certo tanti i dischi che possono vantare lo stesso
impatto. Una notizia che, tra l’altro, si accompagna tristemente alla scomparsa di Tommy Ramone,
ultimo superstite della prima formazione.
Per capire la portata epocale del primo disco punk rock propriamente detto, o giù di lì, bisogna pensare inevitabilmente a tutto quello che è venuto dopo. Pensare a che cosa non sarebbe stato o sarebbe stato diverso. Il punk. Di conseguenza l’hardcore, con tutta la sua scia. E gruppi come Hüsker
Dü, Jesus & Mary Chain o Nirvana. Bisogna pensare anche a quello che c’era prima, uno scenario
un po’ piatto in cui il rock and roll aveva perso il roll e anche un bel po’ del rock, si era imbolsito,
annacquato, ingigantito, aveva smarrito lo smalto e l’esuberanza degli anni ’50 e ’60. Un’iniezione
di energia doveva venire dal basso e così fu. Da una scena circoscritta alla squallida Bowery e a un
buco fetido come il CBGB’s partiva la rivoluzione che nel giro di un paio d’anni avrebbe ribaltato
come un calzino il mondo della musica popolare.
La botta di vita non poteva arrivare dalle superstar ma da quattro outsider, capaci di suonare gli
strumenti giusto il tanto/poco che bastava, sì. Joey, Johnny, Dee Dee, Tommy. Quattro ragazzotti
del Queens a cui piacevano gli Stooges. Joey con trascorsi in manicomio, Dee Dee con trascorsi
in carcere. Johnny a cui «interessavi solo se eri davvero fuori». E gli altri due lo erano. Dee Dee fa
l’addetto alla posta, e Johnny l’operaio in un cantiere. Un venerdì, giorno di paga, Johnny compra
una chitarra Mosrite, Dee Dee un basso Danelectro, due degli strumenti più a buon mercato in
circolazione. I due chiamano Joey per formare una band. Joey all’inizio suona la batteria ma i suoi
compagni vanno troppo veloce. Dee Dee gli chiede di passare alla voce e alla batteria finisce Tommy, titolare della sala prove che non l’aveva mai suonata in vita sua. Le prime date al CBGB’s, dove
i Ramones vanno ad aggiungersi a Patti Smith, ai Television, ai Talking Heads, sono leggendarie.
Salgono sul palco come una gang, un vero commando: giubbotti di pelle nera, t-shirt, jeans lisi o
stracciati e scarpe da ginnastica d’ordinanza e attaccano con velocissime schegge di rock and roll da
due minuti, tanti piccoli popper a distanza di un 1-2-3-4. È il garage rock che ritorna in una formula
nuova. Tutti potevano farlo e questo era il segreto. Era un invito all’azione. Per chiunque.
Registrato per un costo irrisorio di seimilaquattrocento dollari, l’album suona a dir poco grezzo (c’è
chi trova superiori i demo). Blitzkrieg Bop è il brano che meglio si presta a diventare il manifesto
della band e di uno stile musicale. Due minuti di rock and roll suonato in maniera elementare quanto ipercinetica, con la chitarra (che macina tre accordi in barré con le sole pennate in giù) e il basso
(che suona in sincrono le fondamentali, non una nota in più né una in meno) a rimbalzarsi il riff
da un canale all’altro (Dee Dee è tutto a sinistra Joey tutto a destra, secondo una vecchia tecnica di
registrazione sixties). La batteria è metronomica e Joey canta a metà tra un accento inglese di ritorno e il suo naturale del Queens. Niente di più, niente di meno. Talmente minimalista da diventare
concettuale. Il rock basico, come dovrebbe essere. «Vent’anni di storia del rock in tre accordi, ogni
volta riciclati e ogni volta risuonati in maniera più primitiva» ha scritto Lester Bangs riscostruendo
la linea evolutiva del punk a partire da Blitzkrieg Bop e facendola risalire a La Bamba attraverso No
Fun degli Stooges, You Really Got Me dei Kinks e Louie Louie dei Kingsmen.
Un’altra tendenza che ha inaugurato Ramones è il salto all’indietro di una generazione, un iter
che ha visto periodicamente il rock fare ritorno alle proprie radici per ripartire verso nuovi lidi. È
punk rock, la cosa nuova, sì, ma rumina Chuck Berry, il garage di Nuggets, i gruppi vocali femminili, il surf e i Beach Boys, anche se al doppio della velocità degli originali, tra i brandelli di doo-wop
schizzati di Judy Is a Punk e Chainsaw, le romanticherie bubblegum di I Wanna Be Your Boyfriend,
la cover di un pezzo del ’62, Let’s Dance, o la cantilena stoogesiana di 53rd & 3d. E le canzoni corte,
adrenaliniche, sono autenticamente poppettare, da Beat on the Brat a Now I Wanna Sniff Some
Glue, in una sorta di suono sixties stilizzato, riempito di iperboli da fumetto e anfetamine.
I testi sono talmente brevi da diventare astratti, filastrocche surreali al limite del nonsense, flash
di vita di strada con storie di prostitute o di ragazzi che vogliono sniffare colla e riferimenti quasi
postmoderni a una cultura popolare fatta di droghe fai da te, fumetti e b-movies (con uno sballato
proclama pseudonazi come Today Your Love, Tomorrow the World a chiudere giusto, per non farsi
mancare nulla). Un concentrato che ha fatto epoca e rimarrà più o meno lo stesso fino al 1996. Se
Leave Home e Rocket to Russia non sono da meno, e anzi leggermente superiori per la qualità delle
canzoni, la fondamenta del mito poggiano qui. E non solo di quello.
Il 4 luglio 1976 i Ramones debuttano alla Roundhouse di Londra. Sembra che il Regno Unito li accolga meglio dell’America dove non sono così conosciuti al di fuori della loro tana. Soprattutto, tra il
pubblico ci sono i membri di Clash e Sex Pistols. Che guardano e qualcosina imparano.
Tommaso Iannini
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