Lettera al padre

Schelesen1.
Carissimo papà,
recentemente mi hai chiesto perché sostengo di avere paura di te. Come al solito non ho saputo darti una
risposta, in parte appunto per la paura che mi incuti, in
parte perché a motivare questa paura concorrono troppi dettagli, piú di quanti potrei in qualche modo tenere
insieme parlandone. E se ora tento di risponderti per
lettera, sarà comunque in modo molto incompleto perché anche quando scrivo mi bloccano la paura e ciò che
comporta, e piú in generale perché la vastità dell’argomento supera la mia memoria e la mia intelligenza.
A te la faccenda è sempre parsa molto semplice, per
lo meno quando ne parlavi con me e, in maniera indiscriminata, al cospetto di altri. Grosso modo la presentavi cosí: hai sempre lavorato sodo, sacrificando tutto
per i tuoi figli, e in particolare per me, di conseguenza
io ho potuto «fare la bella vita», ho avuto la assoluta
libertà di studiare ciò che volevo, non ho avuto la preoccupazione di guadagnarmi il pane, quindi non ho avuto preoccupazioni in generale; in cambio non hai mai
preteso gratitudine, della «gratitudine dei figli» ne sai
qualcosa*, ma almeno un minimo di disponibilità, un
segno di simpatia; io invece di fronte a te sono sempre
fuggito per rintanarmi nella mia camera, fra i miei libri,
da amici bizzarri, in idee stravaganti; mai che ti abbia
1
La versione dattiloscritta ha «Caro papà» ed è priva dell’indicazione «Schelesen».
4
franz kafka
parlato apertamente, al tempio non mi mettevo vicino
a te, non sono mai venuto a trovarti a Franzensbad2,
anche per altri versi non ho mai avuto senso della famiglia*, non mi sono occupato del negozio e delle tue
altre faccende, ti ho accollato la fabbrica3 e poi ti ho
abbandonato*, ho appoggiato la testardaggine di Ottla4 e mentre per te non muovo un dito (nemmeno un
biglietto per il teatro ti porto) per gli altri faccio qualsiasi cosa. Se riassumi il tuo giudizio sul mio conto, ne
risulta che non mi rinfacci nulla di disdicevole, nessuna
cattiveria esplicita (fatta eccezione forse per il mio ultimo progetto matrimoniale5), ma indifferenza, estraneità, ingratitudine. E in particolare me le rinfacci come
se la colpa fosse mia, come se io con una sterzata avessi potuto disporre le cose in modo diverso, mentre tu
2
Località termale in Boemia (l’attuale Frantiskové Lazne), dove i Kafka
trascorrevano spesso i mesi estivi.
3
Karl Hermann (1883-1939), era il cognato di Franz Kafka; aveva sposato Gabriele, detta Elli (1889-1941), nel 1910; dal matrimonio nacquero
tre figli: Felix (1911-40), Gerti (1912-72) e Hanna (1920-41). Kafka era
suo socio nei «Prager Asbestwerke Herrmann & Co.», la citata fabbrica per
la produzione di amianto (cfr. Introduzione, p. xii).
4
Ottilie (Ottla, 1892-1943), la sorella minore di Kafka, era fra tutte la
piú indipendente e la sua piú stretta confidente all’interno della famiglia.
Nel 1917, contro la volontà paterna, si trasferí a Zürau (l’attuale Sirem,
in Boemia) per amministrare la tenuta agricola del cognato Karl Hermann;
nel 1920 sposò il ceco cattolico Josef David (1891-1962).
5
All’inizio del 1919, durante un breve periodo di vacanza a Schelesen,
Kafka aveva inziato a frequentare la ventottenne Julie Wohryzek (18911944). I due avevano poi continuato a vedersi a Praga e nel novembre
dello stesso anno avviato le pratiche in vista del matrimonio. Kafka aveva tardato a informare i genitori, ben sapendo che la promessa sposa non
avrebbe suscitato il loro entusiasmo: era di umile estrazione sociale e su di
lei circolavano voci di una condotta di vita un po’ troppo «spensierata». Il
progetto matrimoniale provocò l’aspro conflitto fra padre e figlio che fu la
causa immediata della stesura della Lettera. In un primo momento Kafka
non si lasciò dissuadere dal suo proposito, ma cambiò idea quando, poco
prima del giorno fissato per le nozze, l’appartamento scelto dai futuri sposi fu affittato ad altri: la cerimonia venne rinviata e in seguito Kafka non
intraprese piú niente per fissare una nuova data, anche se il fidanzamento
non venne ufficialmente sciolto (sulla questione cfr. Appendice, p. 63). Al
destinatario la Lettera non fu mai consegnata; è invece ragionevole pensare
che l’abbia letta Ottla, per il rapporto di fiducia che la legava al fratello;
Brod afferma inoltre che venne consegnata alla madre dello scrittore e che
fu lei a trattenerla (cfr. Max Brod, Franz Kafka cit., p. 23), ma l’ipotesi oggi viene considerata poco attendibile.
lettera al padre
5
non hai la minima colpa, se non quella di essere stato
troppo buono con me.
Considero giusta questa tua ricorrente interpretazione solo nel senso che anch’io credo che tu non abbia alcuna colpa della nostra estraneità. Ma sono senza
colpa anch’io. Se potessi indurti a riconoscerlo, allora
sarebbe possibile non certo una nuova vita, per la quale siamo entrambi davvero troppo vecchi, ma una sorta
di pace, non certo la fine ma almeno un’attenuazione
dei tuoi continui rimproveri.
È strano, ma una qualche idea di ciò che intendo ce
l’hai. Di recente ad es. mi hai detto: «Ti ho sempre voluto bene, anche se esteriormente non ero come sono
soliti essere gli altri padri, proprio perché non so fingere come gli altri». Ora, papà, nel complesso io non
ho mai dubitato della tua bontà nei miei confronti, ma
considero sbagliata questa osservazione. Non sai fingere, è vero, ma affermare solo per questo che invece
gli altri padri fingono è o una semplice prepotenza di
cui è inutile discutere oppure – e penso che questa sia
la realtà – una larvata espressione del fatto che fra di
noi c’è qualcosa che non va e che tu ne sei corresponsabile, ma senza colpa. Se è questo che pensi davvero,
allora siamo d’accordo.
Naturalmente non dico di essere diventato ciò che
sono solo per via della tua influenza. Sarebbe davvero esagerato (e anzi io sono incline a questa esagerazione). Anche se fossi cresciuto senza subirla in alcun
modo, non avrei forse comunque potuto soddisfare le
tue aspettative. Probabilmente sarei in ogni caso stato gracile, timoroso, esitante, inquieto, né un Robert
Kafka, né un Karl Hermann6, e tuttavia del tutto diverso da come in effetti sono, e noi due avremmo potuto andare d’amore e d’accordo. Sarei stato felice di
averti come amico, come capo, come zio, come nonno,
persino (anche se già con qualche esitazione) come suo6
Robert Kafka (1882-1922) era figlio di Philipp (1846-1914), il fratello
maggiore di Hermann Kafka, e quindi cugino di Franz Kafka.
6
franz kafka
cero. Solo appunto come padre sei stato troppo forte
per me, soprattutto perché i miei fratelli sono morti da
piccoli7, le sorelle sono arrivate molto tempo dopo, e io
ho dovuto quindi reggere da solo il primo impatto*, e
per questo ero troppo debole.
Basta metterci a confronto: io, per dirla in estrema
sintesi, un Löwy8 con un certo fondo kafkiano che tuttavia non è attivato dalla volontà di vivere, dal senso
degli affari, dalla sete di conquiste dei Kafka, bensí da
un pungolo löwiano* che agisce in una direzione diversa, in modo piú riservato, timoroso, e che spesso viene
a mancare del tutto. Tu invece un autentico Kafka per
forza, salute, appetito, intensità della voce, eloquenza, autocompiacimento, senso di superiorità, tenacia,
presenza di spirito, conoscenza degli uomini, per una
certa generosità, e naturalmente anche per tutte le debolezze e tutti gli errori, tipici di questi pregi, in cui
ti trascinano il temperamento e talvolta l’irascibilità.
Se ti metto a confronto con zio Philipp, con Ludwig,
con Heinrich9, non sei forse un vero Kafka secondo la
tua generale concezione del mondo. È una cosa strana che neanche io capisco del tutto. In fondo nel complesso erano piú allegri, piú vivaci, piú disinvolti, piú
spensierati, meno severi di te. (Da tale punto di vista
peraltro da te ho ereditato molto e questa eredità l’ho
amministrata fin troppo bene, senza però avere nella
mia indole i necessari contrappesi che tu invece possiedi). In questo senso hai attraversato fasi diverse, forse
eri piú allegro prima che i tuoi figli, io in particolare, ti
deludessero e ti angustiassero fra le mura domestiche
7
Dopo il primogenito, i coniugi Kafka avevano avuti altri due figli maschi, Georg (1885-86) e Heinrich (1887-88).
8
Julie Löwy (1856-1934), la madre di Franz Kafka, era figlia di una
benestante famiglia di produttori di birra; aveva tre fratelli (Alfred [18521923], Richard [1857-1938] e Josef [1858-1932]) nonché due fratellastri:
Rudolf (1861-1921) e Siegfried (1867-1942), il «medico di campagna», lo
zio prediletto di Franz Kafka.
9
Philipp (1846-1914), Ludwig (1857-1911) e Heinrich (1856-86) erano tre dei cinque fratelli di Hermann Kafka. L’ultimo, Franz Kafka non lo
aveva conosciuto di persona.
lettera al padre
7
(in presenza di estranei eri diverso) e visto che i nipoti
e il genero10 ti ridanno un po’ di quel calore che i figli,
tranne Valli, non riuscivano a darti, forse adesso sei
di nuovo piú allegro.
A ogni modo eravamo cosí diversi e in questa diversità cosí pericolosi l’uno per l’altro che se fosse stato
possibile prevedere il reciproco comportamento del
bambino che maturava piano, io, e dell’uomo fatto e
finito, tu, si sarebbe potuto supporre che mi avresti
semplicemente schiacciato, che di me non sarebbe rimasta traccia. Ma non è avvenuto, la vita non è prevedibile, però forse è avvenuto qualcosa di peggio*. Ma
ti prego di non dimenticare che non ho mai, neanche
alla lontana, pensato a una tua colpa. Hai influito su
di me come dovevi influire, solo dovresti smetterla di
considerare una mia particolare cattiveria il fatto che,
subendo questa influenza, mi sia arreso.
Ero un bambino timoroso, ma ero senza dubbio anche cocciuto, come lo sono i bambini, senza dubbio la
mamma mi viziava, ma non posso credere che fossi particolarmente poco docile, non posso credere che con una
parola gentile, con uno sguardo benevolo, prendendomi tranquillamente per mano, non sarei stato indotto
a concedere ciò che mi si chiedeva. Ora, tu sei in fondo una persona buona e tenera (quanto dirò in seguito
non lo smentisce, perché parlo solo dell’impressione
che facevi al bambino), ma non tutti i bambini hanno
la costanza e il coraggio di cercare sino a quando non
trovano la bontà. Tu sai trattare un bambino solo in
base alla tua indole, con forza, chiasso e irascibilità, e
nel caso specifico questo metodo ti sembrava inoltre
molto adatto perché di me volevi fare un ragazzo forte e coraggioso.
Oggi non riesco naturalmente piú a descrivere in
maniera diretta i tuoi metodi educativi nei primissimi
10
All’epoca della stesura della Lettera, Hermann Kafka aveva quattro
nipoti, di età compresa fra i quattro e gli otto anni; Franz Kafka pensa in
particolare a Felix, nominato poco sotto, il piú grande e l’unico maschio. Il
genero è il citato Karl Hermann.
8
franz kafka
anni, ma sono in grado di ricostruirli in qualche modo,
desumendoli dagli anni successivi e da come tratti Felix.
Come aggravante bisogna considerare che all’epoca eri
piú giovane, dunque piú vigoroso, piú impetuoso, piú
spontaneo, ancora piú incurante di oggi e inoltre tutto
preso dal negozio, di giorno ti facevi vedere di rado, e
tanto piú profonda era quindi l’impressione che quasi
mai si appiattí nell’abitudine.
Dei primi anni ricordo un unico episodio in modo
diretto, forse lo ricordi anche tu. Una notte non avevo
fatto altro che piagnucolare per avere dell’acqua, non
certo per la sete, ma verosimilmente un po’ per dare
fastidio, un po’ per divertirmi. Dopo che alcune sostanziose minacce non erano servite, mi sollevasti dal letto,
mi portasti sul ballatoio e per un po’ mi lasciasti lí in
camicia da notte davanti alla porta chiusa. Non voglio
dire che fosse un’ingiustizia, forse allora non c’era altro modo per ristabilire il riposo notturno, però voglio
descrivere i tuoi metodi educativi e l’effetto che avevano su di me. All’epoca, sarò certo diventato ubbidiente, ma intanto ne avevo riportato un danno interiore. Per mia natura, non sono mai riuscito a mettere
nella giusta relazione quell’assurdo, ma per me ovvio,
chiedere-l’acqua, e il terrificante essere-portato-fuori.
Anni dopo, mi angustiava ancora la tormentosa idea
che quell’uomo gigantesco, mio padre, l’ultima istanza, quasi senza motivo potesse venire in piena notte
per portarmi dal letto al ballatoio e che quindi io per
lui potessi essere una tale nullità.
Quello fu solo un primo inizio, ma il sentimento di
nullità che spesso mi sovrasta (un sentimento da un altro punto di vista anche nobile e fecondo) è per molti
versi generato dalla tua influenza. Avrei avuto bisogno
di un po’ di incoraggiamento, di un po’ di gentilezza,
che qualcuno mi aprisse un po’ il cammino, mentre tu
me lo sbarravi, anche se con la buona intenzione di farmene seguire uno diverso. Ma non ero portato per questo. Ad es. mi incoraggiavi quando marciavo e facevo
bene il saluto militare, ma io non ero un futuro soldato,
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oppure mi incoraggiavi quando riuscivo a mangiare a
sazietà e addirittura a bere birra, o quando riuscivo
a ripetere canzoni che non capivo e a scimmiottare i
tuoi modi di dire preferiti, ma niente di tutto ciò faceva
parte del mio futuro. Ed è significativo che anche oggi
in fondo mi incoraggi solo quando sei coinvolto anche
tu, quando è in gioco il tuo orgoglio che io ferisco (ad
es. con il mio progetto matrimoniale) o che viene ferito in me (ad es. quando Pepa11 mi insulta). Allora mi
incoraggi, mi ricordi il mio valore, mi indichi i partiti
ai quali potrei aspirare e Pepa viene condannato senza
mezzi termini. Ma a prescindere dal fatto che alla mia
età sono ormai quasi insensibile agli incoraggiamenti, a
cosa potrebbero mai servirmi se si verificano solo quando non sono io al centro della questione?
Allora, e soprattutto allora, avrei avuto bisogno di
incoraggiamento. Ero schiacciato già dalla tua sola presenza fisica. Ricordo ad es. le frequenti occasioni in cui
ci siamo cambiati insieme nella stessa cabina. Io magro,
debole, sottile, tu vigoroso, alto, grosso. Già nella cabina mi facevo pena e non solo al tuo cospetto, ma al
cospetto del mondo intero, perché per me tu eri la misura di ogni cosa. Quando poi, uscendo ci mescolavamo alla gente, io, condotto per mano, uno scheletrino,
i piedi scalzi incerti sull’assito, intimorito dall’acqua,
incapace di imitare i movimenti del nuoto che tu, con
le migliori intenzioni, ma in realtà con mia profonda
vergogna, mi mostravi incessantemente, la mia disperazione era al culmine e in quei momenti tutte le mie
peggiori esperienze in tutti gli ambiti si armonizzavano a meraviglia. La situazione in cui mi sentivo meglio
era quando ti spogliavi per primo e io potevo stare solo nella cabina e rimandare la vergogna dell’uscita in
pubblico sino al momento in cui venivi a controllare e
mi facevi uscire*. Ti ero grato per il fatto che non sem11
Valerie, detta Valli (1890-1942), la seconda sorella di Franz Kafka,
nel 1913 aveva sposato Josef Pollak (detto Pepa, 1882-1942); dal matrimonio
nacquero due figlie, Marianne (1913-2000) e Lotte (1914-31).
10
franz kafka
bravi notare la mia disperazione, e poi ero orgoglioso
del corpo di mio padre. Del resto questa differenza tra
noi due sussiste assai simile ancora oggi.
A tutto ciò corrispondeva poi anche il tuo potere
spirituale. Avevi fatto tanta strada contando sulle tue
sole forze, e di conseguenza avevi una fiducia illimitata
nelle tue opinioni. Tutto sommato ne ho sofferto piú
da giovane adolescente che non da bambino. Dalla tua
poltrona governavi il mondo. La tua opinione era giusta, ogni altra assurda, stravagante, pazza, anormale.
E la fiducia che avevi in te stesso era cosí grande che
anche quando non eri coerente non smettevi di avere ragione. Capitava anche che su una certa questione
non avessi nessuna opinione e allora tutte le opinioni
possibili sul tema dovevano senza eccezione essere sbagliate. Potevi ad es. imprecare contro i cechi, poi contro
i tedeschi, poi contro gli ebrei e non su alcuni aspetti
specifici ma sotto ogni punto di vista e alla fine non si
salvava nessuno, solo tu. Ti guadagnasti quell’enigmaticità che hanno tutti i tiranni il cui diritto è fondato sulla
loro persona non sul pensiero. O almeno cosí mi pareva.
Il fatto è che in realtà con me avevi ragione con sorprendente frequenza: era scontato nelle occasioni in cui
parlavamo, perché accadeva di rado, ma lo era anche
nella realtà. Anche questo però era del tutto comprensibile. Perché tutti i miei pensieri subivano l’enorme
pressione che tu esercitavi, anche quelli che non corrispondevano ai tuoi, anzi soprattutto quelli. Tutti questi
pensieri all’apparenza indipendenti da te erano sin dal
principio gravati del tuo giudizio sfavorevole; era pressoché impossibile sopportare questa situazione sino al
momento in cui il pensiero era stato elaborato in modo
compiuto e durevole. Non sto parlando di un qualche
pensiero elevato, ma di qualsiasi piccola impresa infantile. Bastava essere felici, entusiasti di qualcosa, tornare a casa, parlarne, e la risposta era un sospiro ironico,
una scrollata di testa, un tambureggiare con le dita sul
tavolo: «Ho visto di meglio» oppure «Affari tuoi» oppure «Non starei tanto tranquillo» oppure «Che avve-
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nimento!» oppure «Non vale una cicca!» Ovviamente non si poteva pretendere che tu, con i tuoi tormenti
e le tue preoccupazioni, provassi entusiasmo per ogni
bambocciata. E poi non si trattava di questo. Ma del
fatto che a causa della tua indole portata ad accentuare
i contrasti dovevi sempre e per principio infliggere queste delusioni al bambino, inoltre che con l’accumularsi
del materiale questo contrasto via via si intensificava
– tanto che alla fine si affacciava per abitudine anche
quando una volta tanto eri della mia stessa opinione –
e che, infine, queste delusioni del bambino non erano
le consuete delusioni inflitte dalla vita, ma colpivano
in profondità poiché provenivano da te che eri il metro di ogni cosa. Se tu eri contrario, o quando la tua
ostilità poteva essere anche solo ipotizzata – e credo la
si potesse ipotizzare per quasi tutto ciò che facevo – il
coraggio, la decisione, la fiducia, la gioia per questa o
quella cosa non resistevano sino in fondo.
Il tuo atteggiamento riguardava tanto i pensieri quanto gli esseri umani. Era sufficiente che mostrassi un
minimo interesse per qualcuno – per mia indole non
accadeva molto spesso – e senza alcun riguardo per ciò
che sentivo e senza rispetto per il mio giudizio, tu ti
intromettevi con insulti, diffamazioni, umiliazioni. Ne
facevano le spese persone incolpevoli, infantili, come
ad es. l’attore yiddish Löwy12. Senza nemmeno conoscerlo, lo paragonasti, con parole terrificanti che ho già
dimenticato, a un insetto, e come spesso avveniva con
persone alle quali volevo bene ti venne spontaneo usare il proverbio dei cani e delle pulci. Ricordo in special
modo l’attore perché all’epoca annotai le tue invettive, aggiungendo: «Del mio amico (che nemmeno conosce) mio padre parla cosí solo perché è mio amico.
Potrò sempre rinfacciarglielo quando mi rimprovere12
Jizchak Löwy (1887-1942) che dal settembre 1911 al gennaio dell’anno successivo recitò a Praga con una compagnia teatrale yiddish proveniente
da Lemberg (Lwiw), in Ucraina. Fu uno dei primi contatti di Franz Kafka,
che si definiva il piú occidentale degli ebrei occidentali, con le tradizioni
dell’ebraismo orientale.
12
franz kafka
rà l’assenza di gratitudine e di amore filiale*»13. Non
sono mai riuscito a capire la tua totale mancanza di
sensibilità per il dolore e la vergogna che potevi procurarmi con le parole e i giudizi, sembrava che tu non
avessi la minima idea del tuo potere. Anch’io ti avrò
certamente ferito spesso con le parole, ma ogni volta
ne ero consapevole, mi dispiaceva ma non riuscivo a
dominarmi, non riuscivo a trattenerle, me ne pentivo già mentre le pronunciavo. Tu invece con le tue
parole colpivi alla cieca, non avevi compassione per
nessuno, non durante, non dopo, in tua presenza si
era completamente indifesi.
Ma cosí era tutto il tuo modo di educare. Hai, credo,
la stoffa dell’educatore; a un individuo che ti somigli
attraverso l’educazione saresti senza dubbio stato utile;
avrebbe accettato la ragionevolezza di quanto dicevi,
non si sarebbe occupato d’altro e avrebbe fatto tranquillamente quel che doveva. Per me bambino invece tutto
ciò che mi prescrivevi era addirittura comandamento
divino, non lo dimenticavo piú, diventava lo strumento piú importante per giudicare il mondo, soprattutto
per giudicare te: e in questo senso eri un fallimento
completo. Poiché da bambino ti vedevo specialmente
a tavola, le tue erano soprattutto lezioni su come ci si
comporta durante i pasti. Ciò che veniva in tavola doveva essere mangiato, della qualità del cibo non si poteva
parlare: tu invece lo giudicavi spesso immangiabile, lo
definivi «sbobba», che quella «bestia» (la cuoca) aveva rovinato. Dato che avevi sempre una gran fame e ti
piaceva mangiare in fretta, a grossi bocconi e quando
le pietanze erano ancora bollenti, il bambino doveva
affrettarsi, mentre a tavola regnava un tetro silenzio,
intervallato da ammonimenti del tipo: «Prima si mangia, poi si parla», «Dài forza, spicciati», oppure «Vedi,
io ho già finito tutto». Non era consentito rosicchiare le ossa, ma tu lo facevi. Non era consentito lappare
13
La considerazione non è nei Diari; qualcosa di simile in data 31 ottobre 1911 (cfr. Appendice, p. 60).
lettera al padre
13
l’aceto, ma tu lo facevi. Era di primaria importanza affettare diritto il pane; ma non importava se tu lo facevi
con un coltello che grondava sugo. Si doveva stare attenti che non finissero sul pavimento resti di cibo, ma
sotto il tuo posto alla fine ce n’erano piú che altrove.
A tavola si doveva pensare solo a mangiare, ma tu ti
pulivi e tagliavi le unghie, temperavi matite, ti nettavi
le orecchie con lo stuzzicadenti. Ti prego, papà, cerca
di capirmi, di per sé sarebbero stati dettagli del tutto
privi di importanza, diventavano insopportabili solo
per il fatto che tu, la persona per me cosí terribilmente autorevole, non rispettavi i comandamenti che mi
imponevi. Il mondo mi appariva cosí diviso in tre parti, uno in cui vivevo io, lo schiavo, sottoposto a leggi
inventate solo per me e alle quali inoltre, senza sapere
le ragioni, non potevo mai ottemperare del tutto, poi
c’era un secondo mondo, infinitamente lontano da me,
nel quale vivevi tu, occupato a governare, a emanare
ordini e ad arrabbiarti quando non venivano eseguiti,
e infine un terzo mondo dove vivevano tutti gli altri,
felici e liberi da ordini e ubbidienza. Io vivevo sempre
nella vergogna: provavo vergogna se eseguivo i tuoi ordini, perché valevano solo per me; provavo vergogna
se mi opponevo, perché come potevo oppormi a te, oppure se non riuscivo a starti dietro – e questa era però
la vergogna principale – ad es. perché non avevo la tua
forza, non il tuo appetito, non la tua abilità, sebbene tu
lo pretendessi da me, considerandolo ovvio. In questo
modo si mettevano in movimento non le riflessioni ma
i sentimenti del bambino.
La mia situazione di allora risulterà forse piú chiara se
la metto a confronto con quella di Felix14. Tratti anche
lui in modo simile, anzi con lui utilizzi uno strumento
educativo particolarmente spaventoso, perché quando
ad esempio a tavola fa qualcosa che non consideri decente non ti limiti a dire, come all’epoca dicevi a me:
«Sei davvero un porco», ma aggiungi: «Un Hermann
Il citato nipote.
14
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fatto e finito» oppure «Identico a tuo padre». Ora forse
– piú che «forse» non si può dire – a Felix questo non
nuoce affatto, perché per lui non sei che un nonno, anche se molto importante, non sei tutto come invece sei
stato per me, e inoltre Felix ha un carattere tranquillo,
già ora per cosí dire virile, una voce tonante potrà forse
sorprenderlo ma non ne riporterà un’impressione durevole, e soprattutto ti frequenta relativamente poco,
subisce anche altri influssi, ti considera piuttosto una
sorta di amabile curiosità, dalla quale può scegliere ciò
che vuole prendere. Per me tu non eri una curiosità, io
non potevo scegliere, dovevo prendere tutto.
E senza poter mai controbattere perché per principio non riesci a parlare in modo tranquillo di un argomento con cui non sei d’accordo o che semplicemente
non parte da te; il tuo temperamento autoritario non lo
ammette. Da qualche tempo a questa parte, lo spieghi
con la tua nevrosi cardiaca, ma non mi pare che tu sia
mai stato molto diverso, tutt’al piú consideri la nevrosi cardiaca uno strumento per esercitare con maggiore
severità il potere, perché nell’interlocutore, avere presente la tua condizione non può che soffocare l’ultima replica. Non ti sto rimproverando niente, constato
solo un dato di fatto15. «Con lei non si può nemmeno
parlare, ti salta subito agli occhi», mentre in realtà lei
non salta per niente; confondi la cosa con la persona;
la cosa ti salta agli occhi e tu la giudichi subito senza
prestare ascolto alla persona; qualsiasi altra successiva
considerazione ti irriterà ulteriormente, senza mai poterti convincere. A quel punto, il tuo unico commento
è: «Fai quello che vuoi; sei libero di decidere; sei maggiorenne; non ho consigli da darti», e tutto con quella orribile punta roca nella voce in cui si esprimevano
collera e condanna senza appello che oggi mi fa tremare meno di quando ero ragazzo solo perché l’esclusivo
senso di colpa del bambino è stato in parte sostituito
dalla cognizione della nostra impotenza.
Nella versione dattiloscritta segue la frase: «Di Ottla ad esempio dici:».
15
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L’impossibilità di un rapporto tranquillo ebbe anche
un ulteriore esito, in fondo del tutto naturale: disimparai a parlare. Probabilmente non sarei comunque diventato un grande oratore, però del normale, corrente
linguaggio umano avrei potuto impadronirmi. Ma tu hai
iniziato presto a vietarmi di parlare. La tua minaccia
«Non voglio sentire obiezioni!» e quella mano alzata
mi accompagnano da sempre. In tua presenza – quando
si tratta di questioni che ti riguardano sei un oratore
eccellente – iniziai a parlare incespicando, balbettando,
ma consideravi troppo anche questo, infine ho taciuto,
all’inizio per ostinazione, poi perché davanti a te non
riuscivo né a pensare né a parlare. E poiché eri il mio
vero educatore tutto ciò si ripercosse su ogni aspetto
della mia vita. È comunque uno strano errore se credi che non mi sia mai sottomesso. Nel rapporto con
te non mi sono davvero mai fatto guidare dal «sempre
contraddire», come invece pensi e mi rinfacci. Al contrario: ti avessi seguito meno, saresti senza dubbio molto piú soddisfatto di me. Tutte le tue misure educative
hanno in realtà colto nel segno; non sono mai sfuggito
alla presa; cosí come sono (a prescindere, è ovvio, dalle
disposizioni naturali e dagli influssi della vita) sono il
risultato della tua educazione e della mia docilità. Che
questo risultato ti sia lo stesso sgradito, che inconsciamente ti rifiuti di riconoscerlo come esito della tua educazione, dipende appunto dal fatto che la tua mano e il
mio materiale erano tanto estranei l’una all’altro. Dicevi
«Non voglio sentire obiezioni!» e volevi cosí mettere
a tacere le forze antagoniste sgradevoli che c’erano in
me, ma questo intervento era troppo forte, ero troppo
ubbidiente, ammutolivo del tutto, mi rintanavo e osavo muovermi solo quando ero cosí lontano che il tuo
potere, almeno direttamente, non mi raggiungeva piú.
Tu invece eri lí davanti e tutto ti sembrava di nuovo
«contro», mentre in realtà era solo la naturale conseguenza della tua forza e della mia debolezza.
Gli strumenti verbali che utilizzavi – efficacissimi
e, almeno nei miei confronti, mai fallimentari – erano
16
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le ingiurie, le minacce, l’ironia, le risate sarcastiche e
– strano a dirsi – l’autocommiserazione.
Non ricordo che tu mi abbia insultato in modo diretto e con ingiurie esplicite. Del resto non era necessario, avevi tanti altri strumenti, e poi nelle conversazioni in casa e soprattutto in negozio le ingiurie intorno a me piombavano sugli altri con tale frequenza che
da ragazzino talvolta ne ero quasi stordito e non avevo
motivo per non riferirle anche alla mia persona, perché
quelli che insultavi non erano certo peggiori di me e di
loro non eri certo meno scontento. E anche in queste
occasioni c’era di nuovo la tua enigmatica innocenza e
inattaccabilità, insultavi senza mai fartene un problema, mentre condannavi, e vietavi, le ingiurie negli altri.
Rafforzavi le ingiurie con minacce, e questo invece
riguardava anche me. Era spaventoso ad es. quel «ti
straccio come un pesce», sebbene sapessi che non ci sarebbero state conseguenze tremende (da piccolo però
non lo sapevo), ma crederti capace persino di questo
corrispondeva grosso modo all’idea che mi ero fatto
del tuo potere*. Per il bambino era spaventoso anche
quando correvi gridando intorno al tavolo per prenderlo, non volevi certo farlo davvero, però facevi finta e
alla fine la mamma in apparenza lo salvava. Anche in
questo caso, a lui sembrava di avere salvato la vita per
tua grazia e continuava a vivere considerandola un tuo
regalo non meritato. In questo contesto si inseriscono
anche le minacce per le conseguenze della disubbidienza.
Quando mi mettevo a fare qualcosa che non ti andava
a genio e tu per minacciarmi prevedevi un insuccesso,
rispettavo a tal punto la tua opinione che l’insuccesso,
anche se magari rinviato nel tempo, si presentava immancabilmente. Persi la fiducia nelle mie azioni. Ero
incostante, pieno di dubbi. Piú diventavo grande, piú
aumentava il materiale che potevi produrre per dimostrare la mia inettitudine; con l’andar del tempo
iniziasti in un certo senso ad avere davvero ragione.