COMMENTO 1-6 Nel proemio del carme Gregorio espone la concezione della natura “divina” dell’uomo in quanto creatura di Dio (cfr. Gen. 1,26-27). Vengono così enunciate le prerogative di Dio-Padre celeste e del dio-padre terreno secondo una precisa costruzione simmetrica. Poiché il padre è considerato dai figli un dio, la similitudine dei versi successivi, che introduce la figura di Cristo genitore e reggitore ottimo di tutte le cose, imposta la relazione tra Cristo-genitore celeste e Vitaliano-genitore terreno: come Cristo governa il mondo secondo i suoi grandi disegni, così anche il padre può disporre dei figli (per il paragone padre celestepadre terreno e il suo sostrato giudaico-ellenistico, nonché stoico, cfr. Regali, Datazione, p. 374 nota 7). L’ammissione del “potere” del padre nei confronti dei suoi figli costituisce una sorta di captatio benevolentiae: il riconoscimento e l’accettazione della potestas del genitore che ha portato alla cacciata da casa dell’io loquens e del fratello - come apprenderemo nel corso del carme - sono la condizione per avanzare la richiesta di riconciliazione che sembra costituire il fulcro e la causa prima della composizione del componimento (sebbene nella chiusa del componimento la riconciliazione sia considerata quasi impossibile e rimandata ad una prospettiva post mortem, cfr. infra, v. 352 e nota ad loc.). Demoen, Poet, p. 432 ha esteso il proemio fino al v. 10. 1 Ὦ πάτερ Θεὸς θεὸν ἐνθάδ’ ἔδωκεν Il poliptoto è funzionale a presentare il tema della “deificazione” dell’uomo: Vitaliano (e metonimicamente l’uomo in genere) è considerato un dio in quanto creato da Dio: l’augurio che Nicobulo jr. rivolge al padre nella chiusa di carm. II,2,4 v. 199 Ἀλλά, πάτερ, σῷ παιδὶ πέλοις θεὸς ἀντὶ βροτοῖο, nell’incipit del nostro carme si trasforma in un’affermazione e assume i toni di una vera e propria dichiarazione; cfr. Regali, Declamazioni, pp. 533-534; Moroni, p. 167. Ὦ πάτερ Il carme si apre con la stessa invocazione di carm. II,2,4, apostrofe che ricorre numerose volte nel testo (cfr. vv. 62. 75. 81. 87. 135. 146. 161. 172. 229. 258. 285. 292. 294. 332). Θεὸς θεὸν ἐνθάδ’ ἔδωκεν 67 La dottrina della θέωσις dell’uomo, che si fonda, per Gregorio, sull’Incarnazione e la passione di Cristo e che colloca il suo fondamento dottrinale nel passo biblico di Gen. 1, 26-27: ...καὶ ἐποίησεν ὁ θεὸς τὸν ἄνθρωπον, κατ’ εἰκόνα θεοῦ ἐποίησεν αὐτόν, trova numerosi loci paralleli nell’opera del Nazianzeno. Per un’analisi approfondita della dottrina dell’ὁμοίωσις θεῷ, che ha, come è noto, radici platoniche ed è stata teorizzata per la prima volta da Iren. Haer. 3,19,1, cfr. Moreschini, Gregorio, in particolare pp. 33-35 e 104-105: «la dottrina dell’assimilazione a Dio si incontra più volte in Gregorio e con numerose rielaborazioni, interessanti sul piano letterario, ma sostanzialmente irrilevanti per il contenuto», con particolare attenzione alla mediazione di Origene; Szymusiak, Éléments, passim, p. 27 nota 12; Des Places, pp. 202ss.; Ellverson, pp. 26-27; Girardi, in part. pp. 299-306, che amplia la sua indagine ai tre Cappadoci; Richard, pp. 343ss. e 465ss.; Beeley, pp. 115-122; T. T. Tollefsen, in Børtnes-Hägg, pp. 250-270; Winslow, pp. 171ss.; e non da ultimi θεόω e θέωσις in Lampe s.vv. In carm. I,2,2 vv. 560-561 la “deificazione” dell’uomo è legata alla sua creazione in quanto εἰκὼν Θεοῦ: Εἰ δ’ οὐ σαρκὸς ἄνασσα λόγου φύσις, ὥς μ’ ἐθέωσεν. / Εἰκών, τί πλέον ἡμῖν ὁμοίϊα κινυμένοισιν. In I,1,10 vv. 5-6 l’accento è posto sull’Incarnazione di Cristo: ἐπεὶ γὰρ οὖν ἐγίγνετ’ ἄνθρωπος θεός, / θεὸς τελεῖτ’ ἄνθρωπος εἰς τιμὴν ἐμήν; così come in I,1,11 vv. 9-10: τόσον βροτός, ὅσσον ἔμ’ ἕρδειν / ἀντὶ βροτοῖο θεόν; in I,2,10 vv. 141142: Θεὸς γενέσθαι τῶν πόνων ἕξει γέρας / Θεὸς θετὸς μέν,…; cfr. anche infra, nota al v. 103. In I,2,14 vv. 91-92 Gregorio insiste ancora sulla duplice natura di Cristo, umana e divina: poiché Cristo ha assunto la μορφή umana, ha di conseguenza, con la sua Passione, reso divino l’uomo: Χριστὸς ἑὴν μορφὴν ἡμετέρη κεράσας, / ὥς κεν ἐμοῖς παθέεσσι παθὼν θεὸς ἄλκαρ ὀπάζοι / καί με θεὸν τελέσῃ εἴδεϊ τῷ βροτέῳ; così come ai vv. 14-16 di II,1,1: οἷα Θεός, κρανθεὶς δὲ βροτὸς θνητοῖσιν ἐμίχθης, / — ὧν τὸ μὲν ἦες ἄνωθε, τὸ δ’ ὕστατον ἄμμι φαάνθης —, / ὥς με θεὸν τελέσειας ἐπεὶ βροτός αὐτὸς ἐτύχθης (vedi anche vv. 631-633). In I,1,2 vv. 47-48 la deificazione dell’uomo viene messa in dubbio soltanto se si nega la divinità di Cristo e lo si riduce a mero uomo: τίς δὲ λόγος, σὲ μὲν ἔνθεν ἀφορμηθέντα, φέριστε, / τοῖς Χριστοῦ παθέεσσι Θεὸν μετέπειτα γενέσθαι. La θέωσις dell’uomo si realizza anche attraverso il battesimo, ma senza prescindere dalla figura di Cristo, come afferma Beeley, pp. 153ss., in part. pp. 176-177: «Baptism is the primary and paradigmatic 68 instance of the redivinization that the believer receives through Christ… the presence and work of the Holy Spirit through faith, baptism…is the actual realization of Christ’s divinization in the Church». In I,1,3 vv. 3-4, infatti, l’uomo è reso dio dallo Spirito Santo attraverso il battesimo: Πνεῦμα μέγα τρομέωμεν, ὅ μοί Θεός, ᾧ Θεὸν ἔγνων, / ὃς Θεός ἐστιν ἔναντα, καὶ ὃς Θεὸν ἐνθάδε τεύχει (si noti al v. 5 l’uso dell’avverbio ἐνθάδε che ricorre anche al v. 1 del nostro carme per indicare il “mondo terreno”, cfr. LSJ s.v.); in I,1,9 v. 85 dove la deificazione dell’uomo viene, in un primo momento, negata e riscontriamo lo stesso poliptoto del passo in oggetto, ma con una funzione opposta, poiché Gregorio vuole sottolineare il suo essere “creatura” per dare la massima valenza salvifica al sacramento del battesimo: νῦν δ’ οὐ γάρ με θεὸν τεῦξεν Θεός…; in II,1,11 vv. 163-165 Gregorio grida la sua disperazione per il rischio di morire senza aver ricevuto il battesimo al quale è attribuito il potere di “rendere divini”: ὁ κρυπτὸς ἦν ἔμοιγε φρικωδέστερος. / Καθαρσίων γὰρ οἷς θεούμεθ’ ὑδάτων / ἠλλοτριούμην ὕδασι ξενοκτόνοις; ancora in II,2,1 v. 30 l’attenzione è rivolta allo Spirito Santo: Πνεῦμά θ’ ὃ πατρόθεν εἶσι, νόου φάος ἡμετέροιο, / ἐρχόμενον καθαροῖσι, Θεὸν δέ τε φῶτα τίθησιν. In II,1,34A vv. 8384 l’uomo è reso dio grazie alla Passione di Cristo: καὶ Χριστοῦ παθέων κλέος ἄφθιτον, οἷς μ’ ἐθέωσεν, / ἀνδρομέην μορφὴν οὐρανίῃ κεράσας. / Μέλπω μίξιν ἐμήν… . La deificazione dell’uomo rimanda ad una prospettiva escatologica in I,1,8 vv. 97-100: αὐτὰρ ἐπειδὴ τεῦξεν νέον βροτὸν ἄφθιτος Υἱός, / ὄφρα κε κῦδος ἔχῃσι νέον, καὶ γαῖαν ἀμείψας / ἤμασιν ὑστατίοισι Θεῷ Θεὸς ἔνθεν ὁδεύσῃ (si noti il poliptoto Θεῷ Θεός); e in II,1,72 v. 9 θεὸς θεοῖσι, dove essa si realizza al culmine dell’itinerario spirituale dell’uomo che si compie solo nel regno celeste. Cfr. ancora or. 1,5 Γενώμεθα ὡς Χριστός, ἐπεὶ καὶ Χριστὸς ὡς ἡμεῖς· γενώμεθα θεοὶ δι’ αὐτόν, ἐπειδὴ κἀκεῖνος δι’ ἡμᾶς ἄνθρωπος. … …δούλου μορφὴν ἔλαβεν, ἵνα τὴν ἐλευθερίαν ἡμεῖς ἀπολάβωμεν; or. 29,19: καὶ γενόμενος ἄνθρωπος ὁ κάτω Θεός· ...ἵνα γένωμαι τοσοῦτον θεός, ὅσον ἐκεῖνος ἄνθρωπος; or. 30,3 Τί δὲ μεῖζον ἀνθρώπου ταπεινότητι… γενέσθαι Θεὸν ἐκ τῆς μίξεως…; 30,14: …ὑπὲρ τῆς ἐμῆς σωτηρίας, ὅτι μετὰ τοῦ σώματός ἐστιν, οὗ προσέλαβεν, ἕως ἂν ἐμὲ ποιήσῃ θεὸν τῇ δυνάμει τῆς ἐνανθρωπήσεως, 30,21 ἵνα γένῃ Θεὸς κάτωθεν ἀνελθών, διὰ τὸν κατελθόντα δι’ ἡμᾶς ἄνωθεν; or. 31,4:… πῶς ἐμὲ ποιεῖ θεόν, ἢ πῶς συνάπτει θεότητι (cfr. Gallay-Jourjon, Discours 27-31, p. 283 nota 2) e 28-29: εἰ μὲν γὰρ οὐ 69 προσκυνητόν, πῶς ἐμὲ θεοῖ διὰ τοῦ βαπτίσματος… … Πνεῦμα…θεοῦν; or. 40,45; or. 41,9; epist. theol. 101,21: Θεοῦ μὲν ἐνανθρωπήσαντος, ἀνθρώπου δὲ θεωθέντος… . Significativa la conclusione a cui giunge Richard, pp. 475-476: «La “vocazione” dell’uomo non è altro che la sua divinizzazione il cui germe si trova nella sua creazione a “immagine di Dio”, εἰκὼν θεοῦ: l’uomo è destinato a divenire, sul piano escatologico, un uomo “divinizzato per partecipazione”, rimanendo cioè un essere composto sempre da anima e corpo»; cfr. Zehles-Zamora, pp. 245-247; CrimiKertsch, p. 225; Domiter, pp. 192-194; Bénin, pp. 515ss.; Moreschini-Sykes, pp. 106118-245-262; Jungck, p. 159; Piottante, pp. 93-94; Τuilier-Bady, p. 3; Bernardi, Discours 1-3, pp. 78-79; Gallay-Jourjon, pp. 218-219 nota 1 e 332 nota 1; Trisoglio, Rievocazione, p. 360. Per il termine θεός applicato all’uomo si veda, infine, Moroni, pp. 209-210. 2 οὐ γεγαὼς γεγαῶτα, καὶ οὐ φθινύθων φθινύθοντα Nell’esporre le prerogative di Dio-Padre e del padre-dio, Gregorio si avvale di una studiata struttura simmetrica e antitetica che sfrutta gli stessi termini utilizzando la figura del poliptoto e della litote (cfr. Ruether, pp. 59ss., che analizza l’uso di queste figure retoriche nell’intero corpus del Cappadoce). Un interessante parallelo si riscontra in carm. I,2,1 v. 413 dove, per definire il rapporto Padre-Figlio, il Nazianzeno si avvale delle stesse espressioni: Ἐκγεγαὼς ἀδέτοιο, καὶ ἄφθιτος οὐ φθινύθοντος, usando la medesima costruzione simmetrica che riscontriamo nel verso in oggetto. In II,1,1 vv. 463-464 Gregorio si definisce dio (si noti il poliptoto Θεῷ θεὸν simile al Θεὸς θεὸν di II,2,3): οὔτι βατὴν πολλοῖσι, Θεῷ θεὸν ἦγ’ ἀπὸ γαίης / τυκτὸν οὐ γεγαῶτι καὶ ἄφθιτον ἐκ θανάτοιο; in II,2,7 vv. 51-52 l’attenzione è centrata sul rapporto creaturale dell’uomo rispetto a Dio, per cui l’uomo, in virtù del suo essere “ad immagine di Dio”, non può abbassarsi al culto degli idoli pagani: οὐ θέμις, οὐδ’ἐπέοικε Θεοῦ βροτὸν ἐκγεγαῶτα, οὐρανίοιο Λόγοιο καλὴν καὶ ἄφθιτον εἰκώ; cfr. Sundermann, p. 121; Bénin p. 756. L’uso della negazione per indicare gli attributi di Dio nasce dalla convinzione che Egli non possa essere pienamente conosciuto, ma definito solamente con ciò che non è, come si legge in or. 28,9: τὸ ἀγέννητον, καὶ τὸ ἄναρχον, καὶ τὸ ἀναλλοίωτον, καὶ τὸ ἄφθαρτον: si tratta della cosiddetta “teologia negativa”. Per un approfondimento sull’argomento 70 si rimanda a Beeley, pp. 90ss.; Moreschini, Introduzione, p. 120; Plagnieux, pp. 276ss.; Špidlík, pp. 35ss. οὐ φθινύθων La litote οὐ φθινύθων esprime una prerogativa divina: Dio è imperituro. Il verbo φθινύθω è forma poetica di φθίω - φθίνω, da cui l’aggettivo ἄφθιτος nel significato di “imperituro”, di cui οὐ φθινύθος è variatio; ἄφθιτος come epiteto di Dio Padre, si trova spesso nella poesia gregoriana. Interessante a questo proposito la forbita definizione di Moreschini-Sykes, pp. 112 e 245: «…ἄφθιτος stresses the divinehuman distinction». Cfr. carm. I,1,30 v. 1; I,1,34 v. 14; II,1,2 v. 30; II,1,21 v.1. Ma l’aggettivo è anche riferito al Figlio in carm. I,1,2 v. 83; I,1,8 v. 97; I,1,35 v. 8; all’anima in I,1,8 v. 3; attributo delle schiere angeliche in I,1,34 v. 6; e connesso all’uomo in I,2,9b v. 133 e alla sua “immagine” nel passo già citato di II,2,7 v. 52. Cfr. infine Christ. pat. 1535, 2044, 2100, 2542 e 1925 dove indica sia il Padre che il Figlio: Ἐξ ἀφθίτου γὰρ ἄφθιτον πεφυκότα. Cfr. G. Harder, φθείρω…, in GLNT XIV, coll. 1067-1102. 3 ὥς κεν….ὀπάσσῃ La costruzione è modellata su Hom. Il. 2,364; 6,96. 143. 364; 7,463; 8,508; 9,112; e Od. 2,168; 5,36; 8,467; 15,181; 22,177. Il verso è costruito come un modulo fisso (ὥς κεν….ὀπάσσῃ) e un dativo intercambiabile che occupa la medesima sede metrica, cfr. carm. II,1,19 v. 34 ὥς κεν ἀριστεύσαντι γέρας καὶ κῦδος ὀπάσσῃς; e II,1,42 v. 17 Ὥς κεν ἀεθλεύσαντι γέρας καὶ κῦδος ὀπάσσῃς. È simile in II,2,1 vv. 339-340 …ὥς κεν ὀπάσσῃ / θνητοῖς…; Simelidis, pp. 191-192. Per l’uso del verbo ὀπάζω in Gregorio Nazianzeno, cfr. Domiter, p. 192, comm. a I,2,14 v. 91. Nel nostro carme lo stesso verbo viene ripreso anche ai vv. 147 e 268. Per la iunctura di ὀπάζω con κῦδος cfr. Hom. Il. 7,205; 8,141; 12,255; 14,358; 15,327; 16,730; 17,566; 21,570; Od. 3,57; 15,320; Apoll. Rhod. 1,511; 1,345; Hes. Th. 433. 438; Aristoph. Eq. 200 e ancora Greg. Naz. carm. I,1,27 v. 61; I,2,2 v. 388; II,1,19 v. 90; II,1,95; II,2,1 v. 289; Anth. Pal. 8,80,5. ἐπιχθονίοισι L’uso di questo aggettivo per indicare l’uomo, già presente nella grecità classica, si spiega, oltre che per necessità metriche, anche perché esso sottolinea la materialità dell’uomo e amplifica la portata della sua deificazione: cfr. LSJ s.v.; Richard, p. 298. γέρας καὶ κῦδος 71 Il primo termine deve essere inteso nell’accezione di “dono, privilegio”. Per comprendere in che cosa consista il “dono che Cristo concede ai mortali” cfr. carm. I,1,3 vv. 52-53, in cui appare chiaro che il γέρας coincide proprio con la θέωσις dell’uomo, “the gift of deification”: …τὸ δ’ ἂν ἶσον ἔχοι βροτὸς ὅστις ἀλιτρός, / αὐτὸς ἑὴν θεότητα, Θεοῦ γέρας, ἄνδιχα τέμνων; cfr. Moreschini-Sykes, p. 131. In I,2,9a v. 84 il Θεοῦ γέρας si traduce nella possibilità di sollevare la pesante carne verso l’alto fino alla contemplazione di Dio, θεωρία, dono gratuito col quale Dio “viene in soccorso all’uomo e al suo desiderio di innalzarsi”, ma si veda anche I,2,9b v. 6 μεγάλοιο θεοῦ τόδε δῶρον (la θεωρία della Trinità è rimandata ad una prospettiva escatologica, dopo il giudizio universale, in or. 16,9). Cfr. Crimi, Virtù, p. 16; Palla-Kertsch, pp. 170-171; per I,2,10 v. 142 …τῶν πόνων ἕξει γέρας, il commento di Kertsch, p. 225; Anth. Pal. 9,738,2 ὄπασσε γέρας. — Per aver acquisito questa condizione privilegiata, l’uomo riceve anche la gloria (per κῦδος concesso all’uomo cfr. Greg. Naz. carm. I,1,8 v. 98; I,1,9 v. 84; I,1,27 v. 61; I,2,1 vv. 166 e 349; I,2,2 v. 388; II,1,13 v. 157; II,1,45: II,2,7 v. 186; Sundermann, pp. 195-196; Zehles-Zamora, pp. 157 e 171) da parte di Cristo: γέρας καὶ κῦδος costituiscono, infatti, due termini inscindibili legati alla sfera “dell’oltre”: il premio e la gloria, cioè, rappresentano la salvezza e la remissione dei peccati grazie all’Incarnazione e alla passione di Cristo, il ritorno allo stato originario dell’uomo, εἰκὼν θεοῦ, attraverso la purificazione e l’illuminazione, e l’onore che deriva da questa privilegiata condizione, che i protoplasti già possedevano, ma che hanno perso in seguito al peccato originale: …φάος καὶ κῦδος ὀλέσσας (I,1,4 v. 47). Cfr., per il tema, Meyendorff, p. 187 : «L’Incarnazione è una precondizione della glorificazione finale dell’uomo, la quale è anche la glorificazione dell’intera creazione da intendere, naturalmente, in senso escatologico» (vedi anche Beeley, p. 119). 4 ὡς γὰρ Lo stesso incipit di verso in Hom. Il. 7,53; 8,477; 24,68. 525; Od. 5,41; 8,79; 23,251; Hes. Theog. v. 389; Christ. pat. 753. 1282; e Greg. Naz. carm. I,1,3 v. 24; I,2,1 v. 546 (ὡς γὰρ ὁμοῦ); II,2,7 vv. 184. 298. γενέτης Il termine γενέτης è generalmente attribuito, dal Cappadoce, a Dio Padre, cfr. carm. I,1,1 v. 33; I,1,2 v. 28; I,2,1 v. 26 e 237 (in quest’ultimo passo si riscontra la stessa 72 iunctura, γενέτης πάντων, di II,2,3: cfr. Sundermann, pp. 39-40). In I,1,2 v. 19 esso è riferito al Logos di Dio, mentre in I,2,34 v. 54 si attribuisce al genitore-uomo in generale; in II,1,90 v. 1, così come in Anth. Pal. 8,17,4; 77,1; 83,4 indica Gregorio il Vecchio; in II,2,5 v. 86 rimanda ad Anchise padre di Enea; in II,2,3 ricorre ai vv. 268 e 297 per indicare il destinatario, Vitaliano. Cfr. anche Nonn. Par. 1,53; 3,156; 5,63; 6,156; 8,117; 10,42; 12,194; 13,130 etc. νομεΰς Insieme a γενέτης svolge proletticamente la funzione di predicativo di Χριστός del verso successivo (il verbum è tradizionale epiteto di Cristo, anche con valenza iconografica, cfr. G. Otranto, Tra letteratura e iconografia: note sul Buon Pastore e sull'Orante nell'arte cristiana antica [II-ΙΙΙ secolo], Annali di Storia dell'Esegesi 6, 1989, pp. 15-30). È usato in carm. II,1,45 v. 218 (= Anth. Pal. 8,17,2) per designare Gregorio il Vecchio: ποιμὴν, νῦν δὲ πατὴρ, καὶ νομέων νομέας. Più ricorrente, ma soprattutto nelle opere in prosa del Cappadoce, il sinonimo biblico ποιμήν: per le sue attestazione in poesia cfr. II,1,1 v. 629, quale epiteto di Cristo; II,1,11 v. 56 e Anth. Pal. 8,18,3 (epiteto di Gregorio il Vecchio); ancora II,1,11 vv. 596. 858. 924. 1070, II,1,12 vv. 81. 747, II,1,23 v. 23, II,1,30 v. 189, II,1,68 vv. 47. 59. 101 (per designare i vescovi e/o i sacerdoti che guidano le comunità cristiane, così come Gregorio stesso); etc.; cfr. J. Jeremias, ποιμήν, in GLNT X, coll. 1193-1236; B. Porter Lawerence, Sheep and shepherd: an ancient image of the Church and contemporary challenge, Gregorianum 2001, 82, pp. 51-85, in part. 72-74. τε φέριστος Per questa clausola cfr. Greg. Naz. carm. I,1,18; I,2,1 v. 494; I,2,29 v. 189; Anth. Pal. 8,140,5 5 Χριστὸς ἄναξ Come già sottolineato da Moroni, p. 75 nota a carm. II,2,5 v. 3 e Bénin, p. 502 nota a II,1,1 v. 1, il termine ἄναξ come epiteto della divinità è mutuato da Omero. Degna di nota la fonte biblica rintracciata da Piottante, p. 108, in Gv. 18,37 dove nel colloquio tra Cristo e Pilato risalta il termine βασιλεύς, “re”, che la studiosa intende come sinonimo di ἄναξ, (cfr. anche BP, p. 327). La iunctura ricorre altresì nel nostro carme, nella stessa posizione metrica, ai vv. 126. 222. 293. Cfr., inoltre, carm. 1,1,9 v. 52; I,1,18 v. 12; I,1,20 v. 2 (incipit); I,1,22 v.11 (incipit); II,1,19 vv. 1 e 9; II,1,34B v. 4; 73 II,1,45 v. 223; II,1,55 v. 7 (incipit); II,2,1 v. 272 (incipit); Anth. Pal. 8,141,3 (incipit). 142,6; e, similmente 1,1,2 vv. 25-26 …ἄνακτα / Υἱὸν Πατρὸς ἄνακτος…; I,1,11 v. 1-3: ἄνακτα Λόγον. Per la disamina degli epiteti di Cristo si rimanda a Moroni, pp. 198199. μεγάλοισι νοήμασι Il termine νόημα può essere inteso nel senso di “disegno”, “consiglio”, “pensiero”, cfr. LSJ s.v. e Lampe s.v. Nel nostro carme esso è legato all’operato di Cristo come “pastore” del cosmo. In carm. I,1,1 v. 34, oltre agli epiteti di κοσμοθέτης e νωμεύς, Cristo è definito proprio Πατρὸς… νόημα; in I,1,3 v. 87 e I,2,1 v. 38, νόημα indica il pensiero-disegno comune della Trinità: Τριάδος…ἓν δὲ νόημα; in I,1,4 v. 68 ritroviamo μεγάλοισι νοήμασι nella stessa sede metrica di II,2,3 in relazione alla potenza creatrice di Dio: Κίννυτο καὶ κόσμοιο τύπους οὒς στήσατο λεύσσων / οἶσιν ἐνὶ μεγάλοισι νοήμασι κοσμογόνος νοῦς, e al v. 100 si afferma l’unicità dell’atto creatore di Dio per il mondo sensibile e quello intellegibile: πρῶτος δ’ ὑστάτιός τε Θεοῦ μεγάλοιο λόγοισι; nel passo cit. di I,1,5 v. 36, così come in I,2,1 v. 53, νοήμασι è inserito in un ragionamento affine a quello di II,2,3; cfr. infine il passo cit. di I,1,9 v. 6 che ha δόγμασιν. Il termine νόημα si riscontra ancora in I,2,33 dove i pensieri sono “divini”, θείοις νοήμασι, in quanto indirizzati e ispirati a / da Dio; così come in I,2,1 vv. 160-161; II,1,1 v. 195 e II,1,28 v. 3 vengono definiti οὐρανίοισι; in I,2,1 v. 542, II,1,10 v. 33 e II,1,17 v. 35 sono invece “puri”, καθαροῖσι; in II,1,39 v. 16, in opposizione ai passi precedenti, si tratta di “pensieri terreni”, κάτω νοήμασι; mentre in II,1,50 v. 11 e II,1,55 v. 17 sono quelli oscuri del demonio: ἀνδροφόνοισι δνοφεροῖσι; infine in or. 4,115 in chiave accusatoria e polemica, i μεγάλα νοήματα sono rivolti a Zeus dal cantore Orfeo; cfr. Richard, p. 236 nota 65; Bénin, p. 632; Sundermann, p. 170; Simelidis, p. 166. κόσμον ἑλίσσων Cristo “reggitore” imprime al mondo un moto circolare espresso dall’uso di ἑλίσσω, da intendere, in funzione causativa, “far volgere intorno, far girare” (Caillau, infatti, usa il verbo torqueo), cfr. LSJ s.v. Stessa espressione, κόσμον ἑλίσσων, si riscontra in carm. I,1,3 v. 43; nel già citato passo di I,1,6 al v. 21 il verbo si trova subito dopo l’assunto del “governo” di Dio sul mondo: σοφῶς ἑλίσσων καὶ πλέκων.., passo in cui κόσμον è sottinteso, ma viene esplicitato da Caillau nella traduzione 74 latina in PG: Nobis autem unus Deus regit hanc universitatem, sapienter volvens et nectens…; in I,1,6 vv. 20-21, l’espressione è strettamente legata all’idea che il Logos governi il mondo e lo muova: ἡμῖν δ’ ἄγει μὲν εἷς Θεὸς τὸ πᾶν τόδε, / σοφῶς ἑλίσσων καὶ πλέκων, ὡς ἂν θέλῃ; così come in II,1,42 vv. 18-19: Καὶ γὰρ ἅπαντα κόσμον ἅγεις, μεγάλοισι λόγοις κρυπτοῖσιν ἑλίσσων (si noti come μεγάλοισι λόγοις corrisponda a μεγάλοισι νοήμασι di II,2,3 v. 5). Espressione simile si ritrova ancora in carm. II,2,7 vv. 302-303, dove è presente la metafora della navigazione secondo la quale Cristo è “timone” di tutte le cose: οἴακα παντός, / ᾧ κόσμον μεγάλοιο Θεοῦ Λόγος αἰὲν ἑλίσσει: cfr. Richard, pp. 233-234 che sottolinea, in Gregorio, l’uso del termine κόσμος per indicare “le monde sensible”; Moreschini-Sykes, p. 128. Cfr. ancora or. 28,29 Τίς περιήγαγεν οὐρανόν; carm. Ι,1,5 v. 17 οὐρανὸν ἄλλον ἑλίξεις, con accezione diversa rispetto al passo in questione; I,1,7 v. 3 ἀκτὶς ἠελίοιο πολύχροον ἶριν ἑλίσσει; ma soprattutto I,1,9 v. 98 dove Gregorio descrive il movimento ciclico delle stagioni e quindi il trascorrere del tempo come un moto circolare: …ἅ θ’ ὥρια κύκλος ἑλίσσει, e I,2,1 ὤρας ἑλίσσειν. In I,2,9a v. 15 Gregorio “volge la mente”: Τῇ καὶ τῇ νόον ὠκὺν ἐπὶ στήθεσσιν ἑλίσσω; così come in I,2,14 v. 15 il suo intelletto si “attorciglia” in ragionamenti: ἑλισσομένοιο νόοιο. In II,1,11 v. 1945, ritorna l’idea di Dio che imprime un moto circolare alla vita dell’uomo: …Θεός, / πολλαῖς ἑλίσσων τὴν ἐμὴν ζωὴν στροφαῖς: cfr. Richard, p. 504 nota 41; Schawb, p. 87; Palla-Kertsch, p. 134; Jungck, p. 230. Un interessante parallelo si rileva, infine, in Eus. Const. or. s.c. 18,2 (PG 20,1289) dove nell’acrostico di Cristo in corrispondenza dell’omicron di Θεοῦ si legge: οὐρανὸν εἱλίξει. 6 Ὥς ῥα Per questo nesso incipitario cfr. Hom. Il. 11,419. 482; 12,307; 13,125. 201; 15,365; 18,163 e Od. 20,16; hymn. in Ven. 50; Ps.-Hes. Sc. 44; Greg. Naz.; carm. 1,2,1 v. 283. 506; Anth. Pal. 8,85,2; infra, v. 131 οἷς τεκέεσσι Il dativo eolico τεκέεσσι(ν), spesso accompagnato dall’aggettivo possessivo, in Hom. Il. 3,160 ἡμῖν τεκέεσσι; 4,162; 12,222 e Od. 8,525; 14,244; Τheocr. 6,24; Ibyc. fr. 166, 24; Apoll. Rhod. 2,483; 3,694. Gregorio Nazianzeno usa questa forma negli epigrammi, cfr. Anth. Pal. 8,30,3. 36,2. 119,1; carm. I,1,9 v. 12; I,2,1 v. 127; I,2,2 v. 152; II,1,43 v. 11; II,2,1 v. 159: οἷς τεκέεσσι πατὴρ (stessa iunctura di II,2,3 v. 6); II,2,4 vv. 75 21. 24. 147. 169; II,2,6 vv. 94. 109; II,2,7 v. 79; cfr. anche infra, vv. 11. 38. 58. 76. 82. 163 (stessa iunctura τεκέεσσι πατὴρ) 228. 294. 312. 314. 337. 347. Il Cappadoce, sull’esempio epico, usa frequentemente anche τέκεσσι(ν), cfr. Hom. Il. 5,71 e 535; 13,176; 15,551; 16,265; 17,133; 22,453 e Od. 2,178; 8, 243; 10,61; Ps.-Hes. Sc. 247; Greg. Naz. carm. I,2,1 v. 228; II,2,4 v. 29; II,2,5 vv. 26. 41. 239. Cfr. Chantraine, Grammaire, pp. 204ss.; Zehles-Zamora, p. 100. πατὴρ θεός L’accostamento dei due termini, usato per apostrofare generalmente Dio Padre, in questo contesto indica invece il padre “terreno”, Vitaliano, che nel v. 1 è definito appunto θεός. Il richiamo al verso incipitario fungerebbe da clausula, secondo il principio della Ringkomposition, alla sezione proemiale del carme (vv. 1-6). 6-8 Breve sezione di raccordo che funge da preludio al discorso vero e proprio introdotta dall’apostrofe Ἀλλ’ ἐπάκουσον. La richiesta di ascolto che l'io loquens rivolge al padre si riveste dei contorni di una invocazione a Dio esplicitata dall’uso del verbo ἐπακούω, giacché la propensione all’ascolto che il figlio chiede al genitore è paragonata a quella che Dio ha verso ogni uomo ed è chiarita dal conclusivo: καὶ τὸ Θεοῦ μεγάλοιο (v. 8). — La costruzione ἄλλά con l’imperativo costituisce, già nella letteratura classica, una formula di transizione, ma anche di introduzione ad una preghiera, cfr. J. Denniston, Greek particles, Oxford 1954, pp. 1416. 6 Ἀλλ’ ἐπάκουσον ἐπακούω ricorre spesso nell’A.T. per indicare l’atteggiamento di ascolto di Dio, cfr. Gen. 16,11; 25,21; 30,6; 17,22; 35,3; Prov. 15,29; Ps. 16,6; 18,2; 19,2; 80,8; 98,8; 117,21 e 28; 118,26; Is. 49,8; 1Reg. 7,9; 2Reg. 21,14; 24,25; e, come nel nostro caso, un’invocazione a Dio, cfr. 3Reg. 18,36-37; Ps. 19,10; 59,7; 64,6; 68,14 e 18; 85,1; 107,7; 118,145; 137,3; 142,1; ripreso da Gregorio anche in or. 29,20 ἀλλ’ ἑπακούει; infra, v. 122; cfr. Lampe s.v. Per la costruzione di (ἐπ)ακούω con μῦθον cfr. le simili espressioni di carm. I,2,29 v. 127 …ἐμῶν δ᾽ ἐπέων ἐπάκουσον; ΙΙ,2,5 vv. 6-7, ἀλλ’ ἐσάκουε / μῦθον ἐμόν (richiesta che, per converso, il padre rivolge al figlio nello “scambio epistolare” costituito dai carmi II,2,4-5); II,2,7 v. 178 ἐμῶν μύθων ἐπάκουσον; ma anche Hom. Il. 9,100 e Od. 17,584 ἔπος ἐπακοῦσαι; 19,98 ἔπος 76 ἐπακούσῃ; 24,262 ἐπακοῦσαι ἐμὸν ἔπος; Τeogn. 2,1321 τῶνδ’ ἐπάκουσον ἐπῶν e 2,1366 ἐπάκουσον ἔπη; Soph. Phil. 1417 ἐμῶν μύθων ἐπάκουσον; Knecht, p. 87. 7 μῦθον ἐμὸν…ἄριστον Il valore di questa iunctura, in iperbato al fine di dare enfasi alle singole componenti poste rispettivamente all’inizio e alla fine del verso quasi ne fossero la chiave e il sigillo, apre una prospettiva interessante per la concezione del carme: con questa espressione, infatti, è come se l’io loquens (ma in realtà Gregorio) si auto-elogiasse. Demoen, Poet, pp. 439-440 ha avanzato un’interpretazione del carme che fa propria l’idea dell’auto-celebrazione: secondo lo studioso, cioè, Gregorio sarebbe conscio delle sue “ottime” competenze letterarie, coscienza che trasuderebbe anche da infra, vv. 198-199: …ἀοιδῆς / ἴδρις ἐὼν…, in cui si può sentire l’eco del verso in oggetto. Minimizzando la realtà della vicenda che avrebbe solo ispirato la composizione, Demoen considera il carme un’occasione con la quale il Cappadoce ha la possibilità di dimostrare la sua maestria retorica in un contesto diverso da quello ecclesiastico-pastorale, cioè nel genere epidittico al quale lo studioso ascrive il carme II,2,3: «…At the extradiegetical level, then, this poem is not a specimen of deliberative rhetoric … but rather a piece of epideictic rhetoric. … …Gregor was a self-conscious literary artist…(with this test) he demonstrated his literary and rhetorical mastery…». — È interessante l’uso di μῦθος come sinonimo di λόγος, in conformità al codice epico. Μῦθος indica dunque, in questo caso, il “discorso” che l’io loquens sta rivolgendo al destinatario. Demoen, Exempla, pp. 213ss. analizza i significati del termine suddividendoli in due classi, a) Word(s)- b) Story, fiction, e sottolinea come la prima accezione si riscontra soprattutto in poesia. Egli riporta, inoltre, una serie di passi tratti dalla produzione poetica del Nazianzeno in cui si riscontra il termine nelle varie accezioni, segnalando anche diversi luoghi del nostro carme, come, ad es., v. 51 μῦθον nel senso di “plot, ὑπόθεσις, argumentum”; v. 161 μῦθον come “speaking as act”; v. 338 μῦθον “pronounced words, speech/oration”, come al v. 7 (passo non segnalato). Cfr. LSJ s.v.; nonché G. Stälin, μῦθος, in GLNT VII, coll. 537-630. θείοισιν ἐνὶ σπλάγχνοισι Le viscere vengono definite “divine”, “sante” poiché il padre è chiamato dio, secondo il parallelo Padre celeste - padre terreno e la concezione della deificazione 77 dell’uomo. Sembra opportuno considerare, in questo contesto, il termine σπλάγχνον nel senso di “viscere di misericordia”: esso, infatti, in ambito cristiano (soprattutto nel N.T. e negli scritti paolini) ha ampliato l’accezione metaforicopsicologica di “sentimenti e sede dei sentimenti”, comprendendo anche il significato di “misericordia divina”, cfr. H. Köster, σπλάγχνον, in GLNT XI, coll. 903934. Simili espressioni, nella poesia del Cappadoce, si riscontrano a proposito dell’Incarnazione di Cristo, cfr. carm. Ι,2,1 v. 152 …ὅτ’ ἐν σπλάγχνοισι μίγη Θεὸς ἀνδρομέοισιν e vv. 334-335 καθαροῖσι… ἀνδρομέοισιν…σπλάγχνοισιν, in cui si dice che Cristo ha assunto la “forma mista”, cioè umana e divina insieme; II,1,13 v. 33 Κῦδος ἑὸν θνητοῖσιν ἐνὶ σπλάγχνοισι κενώσας; II,1,19 v. 70 …Θεὸν ἀνδρομέοισιν ἐνὶ σπλάγχνοισι παγέντα; II,2,7 v. 19, ἐν σπλάγχνοισιν θέωσεν, in riferimento allo Spirito Santo che divinizza Cristo nelle viscere della Vergine; cfr. Sundermann, p. 84; Simelidis, p. 205. In I,1,9 v. 46 σεμνοῖς ἐν σπλάγχνοισιν, le “viscere” sono quelle della Madre in cui Cristo si è incarnato; la stessa iunctura in I,2,1 v. 147. Cfr. anche Greg. Nyss. hom. opif. ἀναπνευστικῶν σπλάγχνων; Eus. p.e. 4,19,2-4 σπλάγχνων ζῴων; Ath. h. Ar., 60,3 ἀνελεήμονα σπλάγχνα; Ioh. Chrys. hom. 2 in Phil. σπλάγχνα θερμὰ καὶ διάπυρα….σπλάγχνοις θερμοτέροις (PG 62,189); comm. in Gal. ἀποστολικὰ σπλάγχνα (PG 61,660); hom. 14 in Eph. σπλάγχνα τὰ πνευματικὰ (PG 62,101). Per il termine inteso in senso letterale cfr. Greg. Naz. carm. II,1,17 v. 53 ζοφεροῖσιν ἐνὶ σπλάγχνοισιν sono quelle del cetaceo in cui fu intrappolato Giona; Greg. Nyss. or. catech. 37,11 ἀνθρωπίνων σπλάγχνων. 8 καὶ τὸ Θεοῦ μεγάλοιο La propensione all’ascolto che il figlio chiede al padre con l’invocazione ἀλλ’ ἐπάκουσον viene paragonata a quella di Dio proprio con questa espressione. La nota esplicativa di Caillau in PG conferma questa interpretazione: Quasi dicat: Non est quod alienum a tua dignitate, atque auctoritate putes, aurem nobis praebere. Nam ne ipse quidem Christus Deus verus supplices hominum preces aspernatur. — Che μέγας sia attributo della divinità appare chiaro sin da Omero che usa la iunctura μεγάλοιο Διὸς in Il. 5,721; 6,304; 7,24; 9,502 etc.; Od. 4,27; 6,151; 11,255; 16,403etc.; Hes. Theog. 81, 708, 952 e Op. 4; Apoll. Rhod. 1,1315; 2,289; 3,158, ripresa da Nonn. Dion. 20,367; 44,162. Per la iunctura Θεοῦ μεγάλοιο in Gregorio cfr. carm. I,1,2 v. 7; I,1,4 vv. 1. 6. 100; I,1,7 v. 57; I,1,8 vv. 4. 126; I,1,9 vv. 25. 83; I,1,19 v. 1; I,2,1 vv. 45. 284. 722; I,2,2 vv. 78 73. 450. 645; I,2,9A vv. 20. 76; I,2,9B vv. 6. 12. 52; I,2,29 v. 321; I,2,31 v. 35; II,1,1 vv. 100. 400. 465; II,1,13 v. 2; II,1,34A v. 101; II,1,42 v. 31; II,1,45 v. 9; II,1,50 v. 83; II,1,84 v. 15; II,2,2 v. 361; II,2,5 v. 42; II,2,6 v. 89; II,2,7 vv. 47. 82. 299. 303; ma anche Clem. Alex. prot. 4,50; Sundermann, p. 64; Palla-Kertsch, p. 136. 8-10 Il significato profondo dell’Incarnazione e della passione di Cristo come espressione del grande amore di Dio-Padre nei confronti dell’uomo apre il discorso vero e proprio: …θεὸς βροτὸν οὐκ ἀθερίζει, / ᾧ θάνεν, ὃν συνέγειρε, καὶ ᾧ θεὸς ἵξεται αὖτις. La prospettiva escatologica del giudizio universale, ultimo compimento dell’azione del Figlio nel mondo, suona come una minaccia: è come se il figlio ammonisse il padre in vista del giudizio finale, ἵξεται ὑστατίοισιν ἐν ἤμασι πάντας ἐλέγχων (v. 10). 8 Θεὸς βροτὸν Per l’accostamento, già frequente nell’epica, cfr. Hom. Il. 5,129 θεοὶ βροτὸν; Hes. fr. 30 θεοῖς βροτὸν; Theocr. 20,20. In Gregorio Nazianzeno l’accostamento dei due termini assume una valenza significativa e per niente ossimorica. Il rapporto Diouomo, infatti, nasce da una condizione speciale che si realizza in un primo momento nella creazione dell’uomo come εἰκὼν θεοῦ e si completa con l’Incarnazione di Cristo che assumendo la “forma umana rende divino l’uomo”. In particolare rileviamo che, nell’accostamento dei due termini, βροτός oltre ad essere, come è naturale, applicato all’uomo (cfr. carm. I,1,4 v. 95 θεοῦ βροτός; I,1,9 v. 5 Θεὸς βροτόν; I,1,11 v. 10 βροτοῖο θεόν; I,2,9b v. 52 θεοῦ βροτός [ma anche v. 23 Χριτοῖο… βροτός]; II,1,13 v. 175 Χριστὸς, βροτός; II,2,1 v. 339 βροτῷ θεός; II,2,3 v. 83 θεῷ βροτόν; II,2,7 v. 51 Θεοῦ βροτόν) è anche riferito a Dio-Cristo che ha assunto la forma umana: cfr. carm. I,1,2 vv. 62. 67. 72; I,1,9 v. 52 βροτὸς…καὶ Χριστός; I,1,10 vv. 23 θεὸς τε καὶ βροτὸς, 27 e 54 Λόγος…βροτόν; I,1,11 vv. 3 Λόγον βροτόν, 9, 27; I,2,1 v. 154 βροτὸς…καὶ Χριστός; Ι,2,2 vv. 214. 455; II,1,1 v. 14 θεός,… βροτός; II,1,13 v. 34; II,1,19 v. 88; II,1,30 v. 168 θεοῦ μέγαν βροτόν; II,2,7 v. 181; ma anche I,1,9 v. 48 Θεὸς θνητός; I,1,10 v. 5 ἄνθρωπος θεὸς; I,2,1 v. 149 θεὸς θνητός; Christ. pat. 582; ZehlesZamora, p. 217; Bénin, pp. 515-516; Simelidis, p. 213. Per gli appellativi che fanno riferimento alla natura umana di Cristo cfr. or. 30,21, così come per θεός applicato all’uomo vedi supra, comm. al v. 1. 79 οὐκ ἀθερίζει Dio nutre un sentimento di amore e non di trascuratezza o disprezzo verso l’uomo. L’idea che Dio ami le sue creature e abbia riguardo per tutte si ritrova in Sap. 11,24: ἀγαπᾷς γὰρ τὰ ὄντα πάντα καὶ οὐδὲν βδελύσσῃ ὧν ἐποίησας· οὐδὲ γὰρ ἂν μισῶν τι κατεσκεύασας. Ma la possibilità che Dio odi è contemplata nel V.T., dove in particolare il suo odio è rivolto all’ἀσέβεια, ἀδικία e ὑπερηφανία e a coloro che le praticano, ma non è presente nel N.T.: cfr. O. Michel, μισέω, in GLNT VII, coll. 321352 e infra, v. 16. Un’espressione simile a quella del passo in questione si rileva in carm. II,2,7 v. 216 οὐδὲ γὰρ ὡς στυγέων τεῦξε βροτὸν e in Christ. pat. 827 dove Cristo chiede alla Theotokos: …μηδένα βροτῶν στύγει. Nel N.T. l’amore di Dio verso l’uomo si esplica nella venuta di Cristo sulla terra per salvare l’uomo: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv. 3,16). La convinzione che l’espressione più grande dell’amore e della benevolenza di Dio verso l’uomo si attui nell’Incarnazione e nella passione di Cristo (“Egli ha assunto la forma umana per salvare l’uomo dal peccato”) è espressa dal Nazianzeno in or. 29,19: …ἡ δὲ ἦν τὸ σὲ σωθῆναι τὸν ὑβριστήν…; or. 30, 2 Τίς δὲ τῆς ἀνθρωπότητος, ἣν δι’ ἡμᾶς ὑπέστη Θεός, αἰτία; Τὸ σωθῆναι πάντως ἡμᾶς e § 3 Γέγονε γὰρ ταῦτα ἐνεργείᾳ τοῦ γεννήματος, εὐδοκίᾳ δὲ τοῦ γεννήτορος; carm. I,1,9 v. 8: ἀλλ’ ὅδ’ ἐμῆς λόγος ἐστὶ Θεοῦ φιλέοντος ἀρωγῆς; e I,1,2 vv. 82-83, …χθονίην μορφὴν… / ἣν, σοί γ’ εὐμενέων, μορφώσατο ἄφθιτος Υἱός, assunti che richiamano il v. 9 di II,2,3. In Christ. pat. 1763 la massima espressione dell’amore di Dio si attua nella resurrezione che coinvolge anche l’uomo: οὕτως ἔσεσθαι τοὺς Θεῷ φιλουμένους. 9 ᾧ θάνεν, ὃν συνέγειρε, ᾧ θεὸς ἵξεται αὖτις Un verso simile si rileva in carm. I,1,2 vv. 78-79 …νεκύεσσιν ἐμίχθη, / ἔγρετο δ’ ἐκ νεκύων, νεκροὺς δ’ ἀνέγειρε πάροιθεν; II,1,38 vv. 39-40 Σήμερον ἐκ νεκύων Χριστὸς μέγας, οἷσιν ἐμίχθη, / ἔγρετο καὶ θανάτου κέντρον ἀπεσκέδασε; II,2,7 v. 174 Καὶ θάνε, καὶ νεκύεσσι μίγη, καὶ ἀνέδραμεν αὖθις. Per Cristo che muore per gli uomini cfr. carm. ΙΙ,1,19 v. 87 οὔτ’ ἀγαθοῖσι μόνοισι θάνες, Θεός…; II,1,38 vv. 43-44 …μερόπεσσιν… / ...οἶσι θάνεν… e or. 19,13 τῶν ἀνομιῶν ἡμῶν ἤχθε εἰς θάνατον; infra, v. 102. ― La risurrezione è concepita come un evento che unisce Cristo e l’uomo insieme (συν- ), un dono frutto dell’amore di Dio, come si legge in Eph. 2,4-6: ὁ δὲ θεὸς πλούσιος ὢν ἐν ἐλέει, διὰ τὴν πολλὴν ἀγάπην αὐτοῦ ἣν ἠγάπησεν ἡμᾶς, 80 καὶ συνήγειρεν καὶ συνεκάθισεν ἐν τοῖς ἐπουρανίοις ἐν Χριστῷ Ἰησοῦ, grazie al quale l’uomo è salvato dal peccato: si scopre proprio con Paolo “il nuovo modo di essere in cui i credenti sono entrati insieme col Cristo”; cfr. Moreschini-Sykes, pp. 111-112; Piottante, p. 153; Simelidis, p. 213; Lampe s.v. συνεγείρω; A. Oepke, ἐγείρω in GLNT III, coll. 17-32; Mossay, pp. 169-209. Per l’espressione ᾧ θάνεν, ὃν συνέγειρε cfr. anche carm. I,2,2 vv. 456 καὶ θάνε, καὶ συνέγειρε e 566 Xριστῷ συνθανέειν…συνεγερθῷ; II,1,60 v. 9 ἐμοὶ Θεὸς τέθνηκε, κ’ αὖθις ἔγρετο; ZehlesZamora, pp. 202-203 e 248-249. 9-10 ἵξεται αὖτις….ἵξεται L’anafora usata per collegare i vv. 9-10 sottolinea e amplifica la portata della venuta di Cristo negli ultimi giorni per giudicare l’uomo; cfr. Ruether, p. 62. Si tratta, chiaramente, di una prospettiva escatologica espressa con la forma ἵξεται che sposta il piano del discorso dal passato (θάνεν-συνέγειρε) al futuro. 10 ὑστατίοισιν ἐν ἤμασι Per questa iunctura che colloca temporalmente il giudizio di Cristo cfr. carm. I,1,5 v. 41; I,1,8 v. 99; II,1,13 v. 171; II,2,5 vv. 175-176, ma anche I,2,1 v. 456 ὑστατίοισι χρόνοισι; Moroni, p. 255; Sundermann, p. 137. πάντας ἐλέγχων L’azione giudicatrice di Cristo alla fine dei giorni, con i suoi fondamenti scritturistici (tra gli altri, Is. 10,3; Mt. 25,31-46; 2Tm. 4,1; 1Pt. 4,5) è ampiamente sviluppata dal Cappadoce. Il verbo ἐλέγχω, da intendersi nell’accezione di “to examine” (cfr. Lampe s.v.), è usato sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento e reca in sé una sfumatura di significato che inserisce nell’azione del giudizio di Dio il concetto di disciplina e di educazione, l’idea di correzione che allontana dal peccato e che non si riduce soltanto ad una mera azione punitiva ma che, essendo frutto dell’amore di Dio per l’uomo, mira a indurre alla penitenza: cfr. Ebr. 12,5; Iud. 15,1; Apoc. 3,19; F. Büchsel, ἐλέγχω, in GLNT III, coll. 389-398. In or. 16,8-9 troviamo lo stesso verbo del nostro passo: …ὅταν διελέγχῃ τε πρὸς ἡμᾶς. In numerosi passi della sua opera il Cappadoce predilige il neotestamentario κρίνω, come nella già citata or. 16,9 ...τοῦ κρίνοντος αὐτοὺς λόγου; in or. 21,17 …ὅταν ἀναστῇ κρῖναι τὴν γῆν… (simile espressione in or. 30,4); or. 29,20 …ἥξει κρῖναι ζῶντας καὶ νεκρούς (simile espressione in or. 40,45); or. 32,30 …ὡς καὶ αὐτὸς ἐν τοῖς αὐτοῖς μέτροις 81 κρινόμενος (bisogna giudicare il prossimo considerando che anche l’uomo sarà giudicato); carm. II,1,11 v. 1670 …κρίνειν τῷ τελευταίῳ πυρί (il fuoco finale è immagine del giudizio universale); II,1,40 v. 4 Καὶ πάντ’ ἐλέγχουσ’ ἡμέρα; II,1,72 v. 8 Χριστὸς…κρίνων; Christ. pat. 1805 Θεὸς…σοφῶς κρίνει e 2542-43 σὺ Θεὸς μέγας, κριτής τε πανένδικος ἔρχῃ με κρίνων. Cristo è chiamato giudice in I,1,5 v. 43, Χριστὸς… δικαστής (cfr. Schwab, pp. 104-105); I,2,28 vv. 313-314; epist. theol. 202,15 τὸν κριτὴν τῶν πάντων. Gregorio allude al giudizio universale anche in or. 19,15; cfr. Mossay, pp. 83-109. Sulla figura di Cristo-giudice si veda anche Rudasso, pp. 9294. Cfr., infine, F. Büchsel- V. Herntrich, κρίνω, in GLNT VI, coll. 1021-1110. 11-49 Questa lunga sezione del carme è stata definita da Demoen, Poet, p. 433 come Narratio. Lo studioso, infatti, prendendo le mosse dalla ben consolidata concezione del carme come “epistola in versi”, ne ha sottolineato la forte impostazione retorica, suddividendolo in sezioni che rispecchiano quelle dei classici λόγοι epidittici. 11-13 L’apostrofe iniziata al v. 5 con l’imperativo ἐπάκουσον e rivolta al padre culmina in una serie di tre proposizioni interrogative che si susseguono e che conferiscono al carme un ritmo incalzante. Ciascuna di esse ruota attorno ad una parola-chiave: ὀδούς, per la prima; ποινή, per la seconda; Ἐρινύς per la terza. L’uso del termine ὀδούς, di chiara valenza metaforica, è funzionale ad esprimere sia l’idea della minaccia, ma anche quella della ferita, fisica e morale; il termine ποινή ha tra i suoi significati quello di “vendetta”; la menzione delle Erinni, che viene ripetuta diverse volte all’interno del carme, rimanda ad un ambito ben preciso, quello della discordia familiare appunto, in quanto nella mitologia greca questi esseri erano considerati demoni della vendetta che intervenivano in casi di misfatti, soprattutto omicidi, compiuti in ambito domestico; cfr. Hunger, s.v.; Masson-Vincourt, p. 234. 11 Τίπτε La prima delle tre proposizioni interrogative è introdotta da un avverbio di largo uso nella poesia classica, cfr. Hom. Il. 4,34; 6,254; 7,24 etc.; Od. 1,225; 2,363; 4,312 etc.; hym. in Cer. 114; hym. in Merc. 155; Aeschl. Pers. 555; Ag. 975 Apoll. Rhod. 1,1315; 3,464. 975. Per il nesso incipitario τίπτε τόσον, in forte allitterazione con i 82 successivi elementi del verso, cfr. Bion. fr. 14,2, ma anche Greg. Naz. carm. II,1,19 v. 12 τίπτε τόσοις. τεκέεσσι τεοῖς cfr. supra, nota al v. 6. ἐπέβρισας ὀδόντα Il verbo βρίθω, nella sua accezione di “gravare, pesare”, è usato dal Cappadoce per esprimere il peso esercitato dal corpo verso la terra, mentre trascina con sé l’anima pur con tutta la costante tensione di questa verso verso l’alto: cfr. Sundermann, p. 157; per una forma corradicale si veda A. Nicolosi, Su un hapax di Gregorio di Nazianzo: de humana natura 101 brisaukēn, Paideia 61, 2006, pp. 341-344. Pare che il costrutto (ἐπι)βρίθω+ὀδόντα non trovi parallele attestazioni in altri autori, per cui l’espressione sarebbe conio di Gregorio. Con essa il Cappadoce rappresenterebbe l’atto metaforico di “affondare i denti, di premere con i denti” la carne, per ferire o addirittura uccidere: l'immagine metaforica delle ferite è utilizzata, infatti, al v. 19 per esprimere i contrastivi rapporti tra il genitore e i figli. Sembra interessante, a questo proposito, un passo della visione di Daniele in cui è descritta una «quarta bestia che divorava tutto e calpestava il resto con i piedi»: τότε ἤθελον ἐξακριβάσασθαι περὶ τοῦ θηρίου τοῦ τετάρτου τοῦ διαφθείροντος πάντα καὶ ὑπερφόβου, καὶ ἰδοὺ οἱ ὀδόντες αὐτοῦ σιδηροῖ καὶ οἱ ὄνυχες αὐτοῦ χαλκοῖ κατεσθίοντες πάντας κυκλόθεν καὶ καταπατοῦντες τοῖς ποσί (Dan. 7,7 e 19). Nell’Antico Testamento si ritrova l’immagine metaforica dei “denti dei leoni” con la loro potenzialità omicida, come in Sir. 21,2 ὀδόντες λέοντος οἱ ὀδόντες αὐτῆς ἀναιροῦντες ψυχὰς ἀνθρώπων; Ps. 56,5 υἱοὶ ἀνθρώπων, οἱ ὀδόντες αὐτῶν ὅπλον καὶ βέλη, καὶ ἡ γλῶσσα αὐτῶν μάχαιρα ὀξεῖα; Gl. 1,6 οἱ ὀδόντες αὐτοῦ ὀδόντες λέοντος, καὶ αἱ μύλαι αὐτοῦ σκύμνου. Cfr. ancora Iob 29,17 συνέτριψα δὲ μύλας ἀδίκων, ἐκ δὲ μέσου τῶν ὀδόντων αὐτῶν ἅρπαγμα ἐξέσπασα; Ps. 123,6 εὐλογητὸς κύριος, ὃς οὐκ ἔδωκεν ἡμᾶς εἰς θήραν τοῖς ὀδοῦσιν αὐτῶν, citato da Gregorio in or. 13,2 dove “i denti” sono quelli dei nemici che perseguitarono i martiri Maccabei; Sir. 39,30; Ps. 3,8; Pr. 30,14. Per l’uso del Siracide in Gregorio di Nazianzo cfr. M. Gilbert, Grégoire de Nazianze et le Siracide, Augustinianum 27, 1988, Mémorial J. Gribomont, pp. 307-314. 12 κακόχαρτος 83 Questo aggettivo composto trova la sua prima attestazione in Hes. Op. 28 Ἔρις κακόχαρτος e 196. Il Nazianzeno lo usa anche in carm. I,1,9 additamentum L v. 6 πλοῦτος κακόχαρτος; carm. Ι,2,9a vv. 20 ἁμαρτὰς κακόχατρος e 41; II,1,13 v. 160 φθόνος…κακόχαρτος; cfr. anche Clem. Alex. paed. 3,11,75 ἀφροδίτην κακόχαρτος ἡδονὴν. Sembra interessante notare come la prima accezione di questo aggettivo in iunctura con Ἔρις di Hes. Op. 28 si avvicini molto al nostro contesto, giacché la stesura del carme è connesso proprio ad una “contesa” familiare tra padre e figli, per cui non possiamo escludere che il Nazianzeno lo abbia usato avendo in mente proprio il passo di Esiodo; cfr. Palla-Kertsch, pp. 136-137. ποινή Questo termine è impiegato svariate volte nei carmi di Gregorio nell’accezione di “pena, castigo”, cfr. carm. I,1,8 v. 35; I,2,14 v. 57; I,2,15 v. 104; I,2,29 v. 116; II,1,19 v. 36; II,1,42 v. 12; II,2,5 vv. 113 e 127; Christ. pat. 702. 1581. 1647. Sembra però che in questo contesto debba intendersi nel senso di “vendetta” o in senso negativo di “soddisfazione, compiacimento”: cfr. LSJ s.v. 13 Ἐρινὺς Le Erinni nella mitologia classica erano divinità maligne che intervenivano in casi di misfatti compiuti in ambito familiare. Si ricordi il ruolo centrale svolto nella vicenda dell’uccisione di Clitemnestra da parte del figlio Oreste e la persecuzione che questi demoni attuarono nei confronti del matricida, fil rouge delle due tragedie di Eschilo Coefore ed Eumenidi, e dell’Oreste di Euripide: cfr. anche Aesch. Sept. 1055; Ag. 463; Pr. 516; Soph. Ai. 843. 1034. 1390; El. 112. 491; Ant. 809. 1075; Eur. Med. 1389, Suppl. 836; Apollod. Bibl. 1,1,4; in ambito latino sono chiamate anche Furiae, cfr. Ovid. Met. 4,451. 511; 6,430-431; 8,481-482; Virg. Aen. 2,337. 573; 7,447. 570. Gregorio chiama in causa le Erinni, oltre a II,2,3 vv. 228 e 303, anche in or. 18,31 e Anth. Pal. 8,199,1; cfr. Hunger, s.v.; Masson-Vincourt, p. 196; Moormann-Uitterhoeve, s.v. Il vocabolo, che ha classicamente -ρῑ-, mentre nel passo in oggetto presenta -ρῐ-, si riscontra nella poesia esametrica sempre in clausula con la funzione di raccordare quinto e sesto metron: cfr. Hom. Il. 9,454. 575; 19,87; Od. 15,234; Apoll. Rh. 2,220; 3,704; 4,476; la regula è ripresa da Nonn. Dion. 7,181; 8,293; 31,264 etc; cfr. «Introduzione. Metrica». ἀτάσθαλος 84 Questo aggettivo è attribuito, nel mondo classico, all’uomo o alla sua condotta, cfr. Hom. Il. 22,418; Od. 4,693; 7,60; 8,166 etc.; Hes. Th. 164. 996; Apoll. Rh. 1,815. 1317; 3,390 etc.; Theogn. 1,178; Hdt. 9,116. Gregorio si accorda con la tradizione in carm. I,1,2 v. 38 ἀνθρώπων νόος; I,2,1 v. 36 e 486; I,2,2 v. 432; I,2,29 v. 211; II,1,1 vv. 38 e 67; II,1,17 v. 33; II,1,34A v. 105 (νόον) e II,1,34B v. 37 λόγος; II,1,45 v. 101; II,1,55 v. 9; Anth. Pal. 8,105,1 e 197,3 (ἀνήρ), attribuendolo, solo in questo passo del nostro carme, ad una divinità, Ἐρινύς, modus che potrebbe essere un’eco di hymn. in Apoll. 67 ἀτάσθαλον Ἀπόλλωνα. Si noti inoltre come nella poesia esametrica l’aggettivo occupi sempre, con un’unica eccezione in Hom. Od. 18,139 dove connette I e II metron, la stessa sede metrica, a cavallo, cioè, tra III e IV metron, regula rispettata da Gregorio e ripresa da Nonno in Dion. 11,349 e 456; 44,133 etc.; Par. 7,181. ὄλβον Una vita felice è quella che il figlio sostiene di vivere prima di essere cacciato da casa, insieme al fratello, dal padre Vitaliano: τίς δ’ Ἐρινὺς τόσον ὄλβον ἀτάσθαλος ἐξετίναξεν. Il termine ὄλβος indica propriamente “la felicità, la prosperità” intesa anche in senso materiale tanto da diventare sinonimo di πλοῦτος, come si legge in carm. I,2,2 vv. 152 ss. nel discorso che Ionadàb rivolge ai suoi figli (ripresa di Ger. 35,1-11); qui, in realtà, ὄλβος e πλοῦτος coincidono con Dio, perché la vera ricchezza e felicità corrispondono ad una vita dedicata a Dio: …ὄλβον τὸν ὑπέρετατον ἐν μερόπεσσι…θεῷ ζώοιτε, θεὸν δέ τέ πλοῦτον ἔχοιτε. In I,1,4 v. 83 si legge: ἥδε γάρ ἐστιν ἄνακτος ἐμοῦ φύσις, ὄλβον ὀπάζειν, e Sykes, p. 169, così commenta: «The very essence of God’s rule is beneficent, his generosity… Gregory writes of the blessing of sharing something of the divine nature»; in II,1,1 vv. 93-95 la felicità è un possesso fugace paragonato alle labili tracce di una nave che subito scompaiono, τοίη γὰρ μερόπων γενεή, τοῖος δὲ καὶ ὄλβος, / ὄλβος ἀφαυροτάτοισιν ὁμοίϊος ἴχνεσι νηός; in II,1,43 v. 30 la felicità coincide con Cristo; in Christ. pat. 10161018 la riflessione sulla felicità avanzata dalla Madre di Dio è degna dei più illustri personaggi tragici: Θνητῶν γὰρ οὐδείς ἐστιν ὄλβιος φύσει· / ὄλβου δ’ ἐπιρρυέντος, εὐκλεέστερος / ἄλλου γένοιτ’ ἂν ἄλλος, ὄλβιος δ’ ἂν οὔ; cfr. LSJ s.v.; Zehles-Zamora, pp. 100-102; Bénin, p. 583. 14-19 85 Gregorio fornisce in questi versi importanti informazioni sulla persona del destinatario del carme, Vitaliano che, nonostante le tre brevi missive ai lui rivolte (epist. 75; 193; 194), rimane un personaggio dai contorni incerti (per un breve profilo dell'uomo cfr. Hauser-Meury, pp. 179-180). Apprendiamo, infatti, che questo uomo appartiene ad una famiglia di ottima discendenza (μὲν πατέρων ἀγαθῶν), che gode di una certa reputazione (οὐκ ὀλίγος δέ), e che, tratto saliente, è di fede cristiana (Θεῷ δέ…μεμήλας). Inoltre, comincia a delinearsi la situazione che ha portato alla composizione del carme, cioè la cacciata dei figli dalla casa paterna, poiché l’io loquens accusa il padre Vitaliano di aver commesso un’azione così crudele che lo rende paragonabile a coloro che odiano Dio (ἀλλὰ τέθηπα / πῶς σὺ θεοστυγέεσσιν ὁμοίϊα κήδε’ ἀνέτλης). In particolare i concetti esposti ai vv. 14-17 sembrano assumere, per la loro linearità, le caratteristiche di pseudo-γνῶμαι, poste rispettivamente nelle due sezioni del verso separate dalla cesura. Regali, Declamazioni, p. 530 sottolinea come il tono questi versi (così come quello dei vv. 3437; 248ss.; 268-284; 333; 338-347), dove si esaltano le qualità del padre e la sua felice condizione, si adegui perfettamente all'impostazione retorica di una declamazione, pronunciata da un figlio che vuole riconciliarsi col genitore. 14 La costruzione del verso si articola in due sezioni complementari scandite dalle particelle μέν-δέ. La prima espressione (e informazione) si arresta davanti ad una dieresi bucolica che imprime una forte pausa al verso: ἤτοι μὲν πατέρων ἀγαθῶν ἔφυς, mentre la seconda si prolunga in enjambement al verso successivo. 14 ἤτοι μὲν Per le numerosissime occorrenze del nesso incipitario ἤτοι (ὁ) μέν, cfr. Hom. Il. 3,168 e 213; 4,18; 5,842 etc.; Hes. Th. 116. 1004; Apoll. Rh. 1,74; 2,147; 4,6etc.; Arat. 1,462; Theocr. 25,323; Nic. Ther. 260; Opp. An. Hal. 1,577 e 362; Opp. Ap. Cyn. 1,56; Greg. Naz. carm. I,1,1 v. 20; I,1,7 v. 8; I,2,1 vv. 15 e 65; II,1,45 vv. 77 e 335. πατέρων ἀγαθῶν Elogio delle origini di Vitaliano. L'applicazione del topos della captatio benevolentiae che abbiamo rilevato nei versi incipitari del carme si estende anche alla lode della famiglia di appartenenza, ma l'εὐγένεια, nell'accezione cristiana, interessa e riguarda soprattutto le qualità morali della famiglia (cfr. nell'etica greca Eur. Heracl. 86 297-298: Οὐκ ἔστι παισὶ τοῦδε κάλλιον γέρας / ἢ πατρὸς ἐσθλοῦ κἀγαθοῦ πεφυκέναι). Come già sottolineato da Moroni, p. 203, comm. a carm. II,2,5 v. 18: Παῖς καὶ ἐγὼ γενόμην ἀγαθοῦ πατρός, il tipico avvio di un encomio è l’elogio delle qualità morali che i genitori trasmettono ai figli, tratto ben presente nelle lodi che il Nazianzeno rivolge ai parenti e agli amici (Gregorio il Vecchio, Nonna, Cesario, Gorgonia, Basilio), secondo una prassi presente già nella prima parte di Proverbi che sicuramente il Cappadoce ben conosceva. Per simili espressioni cfr. carm. I,1,27 v. 43 τὸν παιδὶ πατὴρ φίλος ἐσθλὸς ἀρίστῳ (stessa espressione di I,2,2 v. 389); II,1,11 v. 51 ἦν μοι πατὴρ καλός τε κἀγαθὸς…; in II,1,19 v. 4 ὡς δὲ πατὴρ ἀγαθὸς καὶ ἄφρονος υἷος ἑοῖο, si dice che da un padre buono può derivare anche un figlio a volte insensato, come si definisce Gregorio in uno dei suoi sfoghi; II,2,4 v. 38 …ὡς ἀγαθοῖο πατρὸς πάϊς. Al v. 171 del nostro carme l’elogio si estende anche alla madre, Ἡμᾶς δ’, οὓς σὺ φύτευσας ἰῆς ἀπὸ μητρὸς ἀρίστης. Μa come da padre in figlio si trasmettono le buone qualità, così anche le cattive come, in tono polemico, leggiamo al v. 65 κακίῃ μὲν ἐμῆ, κακίῃ δέ τε πατρὸς; cfr. ancora Moroni, p. 105. La nobiltà dei natali, εὐγένεια (topos di derivazione cinica, ripreso anche da Plut. de lib. educ. 1 B Καλὸς οὖν παρρησίας θησαυρὸς εὐγένεια) è criticata aspramente da Gregorio se non è sostenuta da un agire retto, per cui cfr. or. 8,6-7 in cui il Cappadoce afferma che la vera "nobiltà è la conservazione dell'immagine": Εὐγένεια δὲ ἡ τῆς εἰκόνος τήρησις … e polemizza contro coloro che si vantano del loro lignaggio, οἷα μὴ πολλοῖς ῥᾳδίως ὑπάρχει τῶν ἐπ᾽εὐγενείᾳ μέγα κομώντων καὶ φυσωμένων τοῖς ἄνωθεν (cfr. Calvet-Sebasti, Discours 6-12, p. 256 nota 2); 25,3; 26,10; or. 33,12; I,2,8 vv. 41ss.; I,2,26 in particolare v. 17 Ἀλλὰ σὺ χρυσῶν μὲν πατέρων ἔφυς, ὤς σε λέγουσιν da intendere in tono sarcastico, e l’intero carme I,2,27. Di forte impatto è, infine, la sentenza che si legge in I,2,33 vv. 141-144: Κακὸς δ ἀκούων αἱσχούνου, μὴ δυσγενής. / Γένος γάρ εἰσιν οἱ πάλαι σεσηπότες. / γένους προάρχειν κρεῖσσον, ἢ λύειν γένος, / ὦς καλὸν εἶναι, ἢ καλῶν πεφυκέναι; cfr. Regali, Datazione, p. 374; Regali, Declamazioni, p. 533 e nota 41; Moreschini-Gallay, pp. 182-183 nota 2; or. 36,11 cit. infra, nota al v. 278. Per un’analisi del locus de nobilitate all’interno delle opere del Nazianzeno cfr. Werhahn, p. 37 note 32-33. ἔφυς 87 Si segnala ἔφῠς come caso di “false quantity”, che riscontriamo spesso nel Nazianzeno in varie forme di φύω: cfr. Moroni, p. 68 e infra, v. 297. οὐκ ὀλίγος δὲ La buona reputazione di cui gode Vitaliano è espressa con una litote ampiamente sfruttata dagli autori classici che si colloca alla fine del verso, siglato da un monosillabo: cfr. anche Iob 16,20; Act. 12,18 e 19,23; Greg. Naz. carm. I,1,27 v. 15 ὠς ὀλίγος δὲ (clausola); I,2,1 v. 291; I,2,2 v. 521 (incipit); I,2,29 v. 324; II,1,1 v. 494 (clausola); II,1,45 vv. 116. 252; II,1,92 (clausola); II,2,1 v. 18 (incipit); II,2,4 v. 62 (clausola); II,2,7 v. 180; Anth. Pal. 8,112,4; infra, vv. 70. 152.181. 15 ἡμερίοισι Si noti come Gregorio abbia già alternato tre termini diversi per indicare l’uomo, ἐπιχθόνιος, βροτός ed ἡμέριος, segnale di ricercata varietas. Per l’uso di questo aggettivo cfr. carm. I,1,7 v. 26; I,2,1 vv. 234. 420; I,2,14 v. 44; Ι,2,15 v. 4; I,2,29 v. 116; II,1,1 v. 477; II,1,13 v. 71; II,1,45 v. 252; II,2,1 vv. 206. 249; II,2,4 v. 57; Αnth. Pal. 8,35,5; Domiter, p. 121. θεῷ…μέμηλας Gregorio riprende il tema dell’amore e della cura che Dio dimostra nei confronti dell’uomo. Un’espressione simile si riscontra nelle battute di chiusura di carm. I,2,25 v. 542, dove il Cappadoce si rivolge aspramente all’ira minacciandola di stare lontano da chi “è caro a Dio”: Ἡμῶν δ’ ἀπόσχου τῶν Θεῷ μεμηλότων. Cfr. anche epist. 90,3: …πράττομεν γὰρ τῶν μὲν ἀπεγνωσμένων φιλανθρωπότερον, τῶν δὲ μελόντων Θεῷ φορτικώτερον; epist. 200,1, …εἴ γε τῷ θεῷ μέλει τῶν ἡμετέρων; Christ. pat. 1228 βροτῶν μὲν αὐτὸς καὶ θανὼν κήδῃ σαφῶς; anche Eus. Ps. Ἐπειδὴ δὲ τὰ καθόλου καὶ οὐράνιά φασί τινες προνοίᾳ διοικεῖσθαι μόνῃ Θεοῦ, δείκνυσιν ὡς μέλει καὶ τῶν ἀνθρωπίνων αὐτῷ, καὶ νῦν τοὺς ἀσεβεῖς κολάζοντι καὶ τῶν εὐσεβῶν οἰκειουμένῳ τὸ γένος; Ioh Chrys. Stag. 1,2 ὅτι μέλει περὶ πάντων τῷ θεῷ (PG 47, 427); Syn. epist. 5,51-52 ἀλλὰ μέλοι μὲν ὑμῶν τῷ θεῷ, μέλοι δὲ ὑμῖν τοῦ θεοῦ; Oberhaus, p. 193. πάγχυ γε Cfr. Hom. Od. 2,79; 15,327. 16-17 88 L’alleanza tra l’uomo e Dio è racchiusa in due espressioni che occupano le due sezioni del verso 16 segnato dalla cesura trocaica, ὃς φιλέει φιλέοντας, ἀπεχθαίρει δὲ κακίστους. Come ha notato Costa in Gregorio Nazianzeno, Poesie 2, p. 236 nota 4, con il nesso Θεοῦ νόμος Gregorio vuole designare l’Alleanza sancita tra Dio e il popolo ebraico in età antica, τὸ πάροιθε (il decalogo delle leggi emanate da Dio si trova in Ex. 20,7s. e Dt. 5,6s.; per la “riscrittura” dell’Antica legge da parte di Gesù cfr. Mt. 5,20ss.). Il duplice atteggiamento di Dio, amorevole e punitivo, trova numerose attestazioni nel Vecchio Testamento a partire da Ex. 20,5-6 e Dt. 5,9-10 …θεὸς ζηλωτὴς ἀποδιδοὺς ἁμαρτίας πατέρων…τοῖς μισοῦσίν με καὶ ποιῶν ἔλεος εἰς χιλιάδας τοῖς ἀγαπῶσίν με καὶ τοῖς φυλάσσουσιν τὰ προστάγματά μου, ripreso ancora da Dt. 7,9-10; Pr. 6,16s. La costruzione del v. 16 è fondata sulla simmetria strutturale: le diverse componenti si corrispondono perfettamente, separate dalla cesura trocaica, secondo la seguente correlazione: verbo-verbo/oggetto-oggetto: φιλέει-ἀπεχθαίρει /φιλέοντας-κακίστους. 16 φιλέει φιλέοντας Simile gioco di parole fondato oltre che sul poliptoto anche sulla figura etimologica si rileva in carm. I,2,32 v. 28 Φίλοι φιλοῦσι καὶ ἃ τοῖς φίλοις φίλα. La condizione per cui Dio ama colui che Lo ama si riflette nel rapporto tra gli uomini, fondato su un amore scambievole stabilito dalla natura, come Nicobulo senior dice al figlio in II,2,5 v. 80, καὶ τὸ φύσις φιλέειν τοὺς οὐ φιλέοντας ἔρυξε, cfr. la nota ad loc. di Moroni, pp. 220-221. La studiosa rintraccia il modello di φιλέω + participio presente in caso accusativo in Hes. Op. 353 e Archil. frag. 54,14 Tarditi. L’amore reciproco tra Cristo e l’uomo è espresso anche in I,2,1 vv. 561-564 Ὃς ποθέει ποθέοντα, καὶ εἰσορόωντα δέδορκεν, / εἰσορόωντα δέδορκε, καὶ ἀντιάει προσιόντι. / Ὅσσον τις ποθέει, καὶ δέρκεται, ὅσσον ὄπωπεν. / Τόσσον καὶ ποθέει· κύκλος ἀνελίσσεται ἐσθλός; in I,2,2 v. 345 Χριστὸς ἄναξ πελάων τε καὶ ἐν κραδίῃ φιλέοντος; or. 8,19 dove la protagonista è la sorella di Gregorio, Gorgonia: …τὸν ἐρώμενον ἀπολαβεῖν ὅλον – πρωσθήσω δὲ ὅτι καὶ τὸν ἐραστήν–,…, concezione che potrebbe avere la sua origine in Pr. 8,17 ἐγὼ τοὺς ἐμὲ φιλοῦντας ἀγαπῶ; cfr. Sundermann, pp. 175-176; Zehles-Zamora, pp. 153-154; G. Stählin, φιλέω, in GLNT XIV, coll. 1115-1198 (nel nostro caso il verbo φιλέω deve essere inteso come sinonimo di ἀγαπάω e dunque nel significato di “amare”). Per indicare l’amore di Dio verso l’uomo sia V.T. che N.T. prediligono il 89 verbo ἀγαπάω, per cui cfr. G. Quell- E. Stauffer, ἀγαπάω, in GLNT I, coll. 57-146; BP p. 234. ἀπεχθαίρει κακίστους L’odio di Dio è effettivamente contemplato nell’ A.T. dove esso riguarda l’ ἀσέβεια, l’ἀδικία e l’ὑπερηφανία e coloro che le praticano (cfr. infra, v. 8). Per una simile espressione, appartenente ad un contesto diverso, cfr. Theogn. 1,579-581 ἐχθαίρω κακὸν ἄνδρα. Il verbo ἀπεχθαίρω viene usato da Gregorio in carm. I,1,4 v. 48 per designare l’odio di Lucifero verso la stirpe dei mortali dopo la sua “caduta” (stesso verso in II,1,45 v. 325); in I,1,7 v. 61, il soggetto è sempre Lucifero che odia coloro che hanno pensieri prudenti; al v. 80 sono i demoni ad odiare coloro che trascinano con sé; infra, v. 175, il padre odia tanto i figli, τόσσον ἀπεχθαίρεις. Si noti, inoltre, l’accostamento nella parte centrale del verso di due termini di significato opposto, φιλέοντας-ἀπεχθαίρει, ossimoro separato, con forte incidenza, dalla cesura trocaica. Per la stessa iunctura ossimorica cfr. Greg. Naz. carm. II,1,1 v. 23ss. dove viene espresso l’amore degli uomini per Dio: …δηλήμονες ἄνδρες / oἵ ῥα Θεὸν φιλέοντας ἁπεχθαίρουσι μάλιστα; II,1,34B v. 2 ὁὍστις ἀπεχθαίρων ὅς τε φίλα φρονέων, ma vedi anche il supra cit. frag. 54,14 Tarditi di Arch.: τὸν φιλ[έο]ν̣[τα] μὲν φ[ι]λ̣εῖν̣[,/τὸ]ν̣ δ̣’ ἐχθρὸν ἐχθ̣αί̣ρ̣ειν̣ τ̣ε̣ [κα]ὶ κακο̣[; Theogn. 1,874-1092-1094 οὔτε..ἐχθαίρειν οὔτε φιλεῖν; Soph. El. 1362-1363 ἴσθι δ᾽ ὡς μάλιστα σ᾽ ἀνθρώπων ἐγώ / ἔχθηρα καφίλησ᾽ ἐν ἡμέρᾳ μιᾷ; Eur. Herc. 1223 χάριν δὲ γηράσκουσαν ἐχθαίρω φίλων; Mosch. fr. 2,56 Gow ὅσσον...τις ἐμίσεε τὸν φιλέοντα…τόσσον..φιλέων ἠχθαίρετο; Quint. Smyrn. 10,476 καί περ ἀπεχθαίροντα καὶ οὐ φιλέοντα τίεσκεν; Nonn. Dion. 10,286 Ἄμπελος εἰ φιλέει με καὶ ἐχθαίρει με Κρονίων; Bénin, p. 523. 17 θεοῦ νόμος Con questa espressione, in connessione con l’avverbio τὸ πάροιθε, Gregorio vuole designare la legge dell’Antica Alleanza stretta tra Dio e il popolo d’Israele, che egli ricorda spesso nella sua opera: cfr. carm. I,1,15 v. 1 νόμους…Θεὸς δέκα; I,2,1 v. 231 νόμον Θεοῖο παλαίτατον; I,2,8 v. 25 καὶ γὰρ νόμος παλαιὸς εἶξε τῷ νέῳ; or. 15,6 νόμον Θεοῦ…πλάκας θεοχαράκτους; epist. 197,5 Θεοῦ νόμον πάλαι; cfr. Sundermann, p. 36. τοπάροιθε 90 Grafia medievale per τὸ πάροιθε(ν) presente in Hom. Od. 1,322; 2,312; 18,275; etc. Il Cappadoce la usa ampiamente in carm. I,2,1 vv. 238. 298. 680; I,2,2 v. 485; I,2,14 v. 31 (stesso nesso di II,2,7 v. 1); I,2,29 v. 189; II,1,1 vv. 209. 295. 583. 595; II,1,10 v. 34; stesso nesso in clausola, ὡς τοπάροιθεν; II,1,13 v. 68; II,1,17 v. 59; II,1,34B v. 9; II,1,45 v. 23; II,2,2 v. 6; II,2,3 v. 350; II,2,7 v. 79; cfr. Sundermann, pp. 41 e 72; Domiter, p. 100. Per un elenco di avverbi in -θεν derivati da nomi propri cfr. L. Radif, Gli avverbi in - θεν da nomi propri in Omero, Orpheus 18, 1997, pp. 435-441. 17-19 Il dissidio familiare, che ha portato alla cacciata da casa dei figli (cfr. infra, v. 175 τόσσον ἀπεχθαίρεις, καὶ δώματος ἐκτὸς ἐλαύνεις), ha avuto una duplice conseguenza, morale e “fisica”, sulla persona di Vitaliano: in primo luogo l'uomo sopporta, così, dolori e afflizioni pari a quelli sofferti da coloro che “odiano Dio”, θεοστυγέεσσι ὁμοίϊα κήδε’(α); in senso pseudo-fisico, in quanto il padre si ritrova "ferito" dagli stessi colpi che ha inflitto ai figli (in senso metaforico), giacché ha colpito la sua stirpe (δαμνάμενος πληγῇσιν, … αὐτὸς ἑῇσιν). La συμπάθεια padrifigli è confermata da un passo di Sir. 30,7 περιψύχων υἱὸν καταδεσμεύσει τραύματα αὐτοῦ, καὶ ἐπὶ πάσῃ βοῇ ταραχθήσεται σπλάγχνα αὐτοῦ. L'immagine fortemente plastica delle ferite potrebbe collegarsi a quella dei denti che penetrano la carne del v. 11, cfr. supra, nota ad loc. 17 τέθηπα Questa forma di perfetto con valore di presente è posta in clausula già da Hom. Il. 21,64; Od. 23,105; poi in Quint. Smyrn. 4,491; 14,605 e ripresa amcora da Greg. Naz. carm. I,1,3 v. 33; 1,2,1 v. 323. 18 θεοστυγέεσσι Come ha già rilevato Moroni, p. 212 comm. a carm. II,2,5 v. 61 dove ricorre la stessa forma, l’aggettivo θεοστυγής si trova nella tragedia in senso passivo per indicare “colui che è odiato dagli dei”. La “rielaborazione cristiana” che affonda le radici in Rom. 1,30 determina l’avvio dell’uso attivo dell’aggettivo che, come ha ben documentato la studiosa, trova applicazione nei prosatori ecclesiastici e, tra i poeti, solo nel Cappadoce dove occupa sempre la stessa sede metrica, estendendosi, cioè, dalla fine del I fino al III metron. Anche nel passo in oggetto, pertanto, l'aggettivo è da intendersi in senso attivo: Vitaliano, pur essendo tra coloro che sono cari a Dio 91 (cfr. v. 15 Θεῷ δέ γε πάγχυ μέμηλας), col suo comportamento ostile verso i figli dimostra di "odiare Dio". κήδε’ ἀνέτλης La lezione κήδε᾽(α), restituitaci grazie alla tradizione manoscritta, che si può confrontare con Greg. Naz. carm. II,1,42 v. 28, …κήδεα μυρί’ ἀνέτλην, risente dell’influsso di Hom. Od. 14,47 …ὁππόσα κήδε’ ἀνέτλης, posta in clausola, e 11,376 τλαίης…τὰ σὰ κήδεα…; cfr. anche infra, v. 41. 19 δαμνάμενος πληγῇσιν La forte valenza metaforica di questa espressione rappresenta il contrasto padrefiglio in termini bellici. Vitaliano ha colpito i suoi figli infliggendo loro delle ferite (cfr. supra v. 11, in particolare si tratterebbero di ferite da guerra, come il dissidio familiare viene definito al v. 64, cioè ἐνδήμου πολέμοιο). Ma, colpendo i suoi figli, il padre Vitaliano ha colpito anche se stesso, rimanendo vittima delle stesse ferite che ha inflitto, ovvero delle sue mani, come dimostra il confronto con Hes. Op. 152 χείρεσσιν ὑπὸ σφετέρῃσι δαμέντες e Lib. decl. 9,22 ἐκ ποίας μανίας κατ’ ἐμαυτοῦ φέρων τὴν πληγήν, segnalato da Regali, Declamazioni, p. 531 e nota 21. E non sono certo “ferite” educative come quelle raccomandate da Pr. 29,15 che devono regolare il rapporto tra genitori e figli fondato sul rispetto: πληγαὶ καὶ ἔλεγχοι διδόασιν σοφίαν, παῖς δὲ πλανώμενος αἰσχύνει γονεῖς αὐτοῦ. — δαμάζω si trova spesso in costruzione con πληγή già in Ηοm. Ιl. 16,816 πληγῇ δαμασθείς; Od. 4,244 πληγῇσιν δαμάσσας e 18,54 πληγῇσι δαμείω; Hes. Th. 857 δάμασε πληγῇσιν; Aesch. Pers. 906 δμαθέντες πλαγαῖσι; e poi Nic. Ther. 833 πληγῇσιν… δαμέντος; Vis. Dor. 131 πληγῇσι δάμασσον e 314; Quint. Smyrn. 6,265; Nonn. Par. 18,111 πληγῇσιν δαμάζεις; nonché Greg. Naz. carm. II,1,22 v. 5; II,1,45 v. 189. ὃ δὴ φάτις Per questo nesso nella stessa sede metrica cfr. Apoll. Rh. 1,172; Quint. Smyrn. 6,471. 20-37 Priamel dei valori con formula ἄλλοι μὲν - ἐγώ δὲ e locus de fortuna, cfr. Costanza, Scelta, pp. 233ss. e, in part. p. 274 nota 26; Regali, Declamazioni, p. 531. Per un’ampia rassegna sulla figura retorica cfr. W.H. Race, The classical Priamel from Homer to Boethius, Leiden 1982, pp. 17ss. 20-23 92 Nello sviluppare il locus de fortuna, nella sua accezione sia positiva che negativa, Gregorio introduce due idee interessanti: in primo luogo la convinzione del movimento continuo e dunque dell’instabilità della vita umana che nel suo scorrere è sempre mutevole e cangiante: βίου φύσις…/ δονέουσα βροτὸν γένος…/ πολυπλάνεος βιότοιο; in secondo luogo la metafora marina della vita, μέγα κῦμα βιότοιο…/τίς νῆα μέλαιναν ἐμὴν ὑποδέξεται ὄρμος. 20 ἀπροτίοπτα…ἄλγε’(α) Sembra che questa iunctura sia di creazione gregoriana e trovi attestazione solo in questo passo. In particolare l’aggettivo ἀπροτίοπτος è di epoca tarda e si riscontra in Opp. An. Hal. 3,159; Quint. Smyrn. 7,73; 9,417; 11,249; 13,249; nonché in Greg. Naz. carm. I,2,1 v. 289; I,2,2 v. 430; II,1,45 v. 3; cfr. Sundermann, p. 66; Zehles-Zamora, p. 189. 21 τῇ καὶ τῇ Già in Ps.-Ηes. Sc. 210; Apoll. Rh. 3,1312; in Gregorio sempre in posizione incipitaria, cfr. carm. I,2,9a v. 15; I,2,15 v. 56; I,2,29 v. 72; II,1,15 v. 2; II,1,34A v. 106; II,2,4 v. 54 (si noti qui anche lo stesso accostamento del passo in oggetto, τῇ καὶ τῇ δονέουσα). δονέουσα βροτὸν γένος Il tema della vita dell’uomo caratterizzata dalla instabilità è ben presente in Gregorio. Per rendere lo sconvolgimento della vita il Cappadoce usa il verbo δονέω anche in carm. I,2,10 vv. 126-127: ἡ δὲ (scil. ἡ ἐμὴ σύμπηξις) στροφαῖς μὲν ἐνθάδε πλείσταις ἀεὶ / δονεῖτ’ ἄνω τε καὶ κάτω στροβουμένη. L’instabilità della vita è, inoltre, spesso resa con l’immagine della tempesta, come in carm. II,1,85 v. 10: Πάντα κάτω δονέοιτο κακαῖς βιότοιο θυέλλαις (che si connette strettamente alla metafora marina della vita di infra, vv. 21-23). Il Cappadoce impiega questa metafora in I,2,15 vv. 54-56 …βίον, / ὀλκὸν ἀπιστότατον, ῥόον ἄγριον, οἶδμα θαλάσσης, / τῇ καὶ τῇ πυκινοῖς πνεύμασι βρασσόμενον; II,1,12 vv. 792-794 Ἦ τοῦτ’ ἄριστον, ὥσπερ ἐν ζάλῃ τινὶ / πάντα στρεφούσῃ, μικρὸν ἐκκλίναντά τι / πάντων ἄνω τε καὶ κάτω δονουμένων (cfr. Meier, p. 162); pure in II,1,15 vv. 1-2, che riprende espressioni del sopra citato passo di I,2,15, Ἔρχομαι ἐκ βιότοιο λιπὼν μέγα λαῖτμα θαλάσσης, / τῇ καὶ τῇ χαλεποῖς πνεύμασι βρασσόμενον; nella chiusa di II,1,32 dove gli uomini sono paragonati a pedine sballottate nelle alterne vicende del loro rigirarsi, Οἱ δ’ ἄλλοι πεσσοῖσιν ἐοικότες ἔνθα καὶ ἔνθα / πίπτοιεν, πεσσῶν 93 τε κυλίσμασι τέρψιν ἔχοιεν, / ἢ δνοφερὴν σκοτόμαιναν ἑοῖς ἐπικείμενοι ὄσσοις / τοίχους ἀμφαφόωντες ἐπ’ ἀλλήλοισι ἴοιεν. (vv. 57-60). In II,2,4 vv. 53-55 viene usata l’espressione βιότοιο θύελλα, metafora che indica le difficoltà della vita: …πικρὴ βιότοιο θύελλα / τῇ καὶ τῇ δονέουσα κόνιν πάντεσσιν ἄπιστον, dove degna di nota è la connessione con la polvere che rappresenta la materia di cui l’uomo è costituito, che Moroni, pp. 110-111 e 210 connette a II,2,5 v. 46, in cui si ritrova l’idea dell’uomo sballottato qua e là e in balia delle circostanze; vedi anche or. 16,3 πολλὰς στροφὰς ἐχούσης ἡμῶν τῆς κάτω ζωῆς, καὶ τοῦ τῆς ταπεινώσεως σώματος ἄνω καὶ κάτω κινουμένου καὶ μεταπίπτοντος; Crimi-Kertsch, p. 222, dove si rimanda a Dziech, pp. 94ss. Per la matrice classica della tematica cfr. Gregorio Nazianzeno, Poesie 1, p. 145 nota 18. — Per la iunctura βροτὸν γένος in Gregorio, cfr. similmente I,1,9 v. 32; I,2,8 v. 16; I,2,29 v. 189; nella stessa sede metrica del passo in questione, prima, cioè, della dieresi bucolica, II,1,45 v. 173; II,2,5 v. 31. 21-23 Gregorio sviluppa in questi versi la metafora marina della vita, …μέγα κῦμα πολυπλανέος βιότοιο / ἢ τίς νῆα μέλαιναν ἐμὴν ὑποδέξεται ὄρμος. Egli ricorre spesso a metafore legate all’ambito del mare e alla navigazione: cfr. R. Freise, Zur Metaphorik der Seefahrt in den Gedichten Gregors von Nazianz, in AA.VV., II. Symposium Nazianzenum, Louvain-la-Neuve, 25-28 août 1981, Actes édités par J. Mossay, Paderborn 1983, pp. 159s.; B. Lorenz, Zur Seefhart des Lebens in den Gedichten des Gregor von Nazianz, Vigiliae Christianae 33, 1979, pp. 234s. Utile segnalare, a questo proposito, la descrizione poetica di una tempesta marina di or. 26,9-10, dalla cui visione e spettacolo, θέαμα, il Cappadoce è spinto a riflettere sull’instabilità e incertezza della vita umana paragonata al mare: Ἐντεῦθεν οἶδά τι πρὸς φιλοσοφίαν ὠφεληθείς, καὶ — οἷος ἐγὼ πάντα συντείνων πρὸς ἐμαυτόν, καὶ μάλιστα εἰ τύχοιμι πρὸς τι τῶν συμβαινόντων ἰλιγγιάσας, ὃ καὶ νῦν πέπονθα — οὐ παρέργως ἐδεξάμην τὸ ὁρώμενον· καί μοι τὸ θέαμα παίδευμα γίνεται. Ἦ γὰρ οὐκ, ἔφην ἐγώ, θάλασσα μὲν ὁ ἡμέτερος βίος καὶ τὰ ἀνθρώπινα — πολὺ γὰρ κἀν τούτῳ τὸ ἁλμυρὸν καὶ ἄστατον —, πνεύματα δὲ οἱ προσπίπτοντες πειρασμοὶ καὶ ὅσα τῶν ἀδοκήτων; ... Τῶν δὲ πειραζομένων οἱ μὲν ἐδόκουν μοι ὡς τὰ κουφότατα καὶ ἄπνοα παρασύρεσθαι, καὶ οὐδὲ μικρὸν ἀντέχειν πρὸς τὰς ἐπηρείας· οὐδὲ γὰρ ἔχειν ἐν ἑαυτοῖς στερρότητα, καὶ βάρος λογισμοῦ σώφρονος, καὶ τοῖς προσπίπτουσιν ἀντιβαίνοντος· οἱ δὲ εἶναι 94 πέτρα, τῆς πέτρας ἐκείνης ἄξιοι, ἐφ’ ἧς βεβήκαμεν καὶ ᾗ λατρεύομεν, ὅσοι φιλοσόφῳ χρώμενοι λόγῳ καὶ ὑπεραναβεβηκότες τὴν τῶν πολλῶν ταπεινότητα, πάντα φέρουσιν ἀσείστως καὶ ἀτινάκτως, καὶ διαγελῶσι μέν, ἢ ἐλεοῦσι τοὺς σειομένους — τὸ μὲν ὑπὸ φιλοσοφίας, τὸ δὲ ὑπὸ φιλανθρωπίας —; cfr. MossayLafontaine, Discours 24-26, p. 246 nota 1; sul passo vedi anche Ruether, pp. 94-96. 22 μέγα κῦμα…βιότοιο La metafora dell’ "onda della vita" è ampiamente utilizzata dagli scrittori ecclesiastici. Una matrice classica si può rintracciare in Eur. Tr. 103-104 μηδὲ προσίστη πρῶιραν βιότου / πρὸς κῦμα πλέουσα τύχαισιν; Lycoph. fr. 5 (TGF Snell) …κῦμα λοίσθιον βίου, ma l’uso in ambito cristiano di questa metafora è amplissimo a partire da Clem. Alex. str. 1,19,96 συνεκρυεὶς αὖθις εἰς τὰ ἐθνικὰ καὶ ἄτακτα τοῦ βίου κύματα dove le onde sono quelle della vita pagana; Orig. sel. in Ps. (PG 12,1140) ἐν ὕδατι σφοδρῷ τῶν κυμάτων τοῦ βίου; Ps. Orig. fr. Ps. 77 ἐὰν νοήσας τὴν θάλασσαν τοῦ βίου καὶ τὰ κύματα τὰ ἐν τῷ βίῳ; 106 καὶ ἡσυχάσῃ τὰ καθ’ ἡμῶν κύματα τοῦ βίου. Εἰ τὰ κύματά εἰσιν οἱ πειρασμοὶ..; Eus. Ps. (PG 23,637) ὅτε κῦμα τοῦ τῶν ἀνθρώπων βίου, καὶ ἡ τοιαύτη τοῦ θνητοῦ βίου θάλασσα τῆς τῶν ἀνθρώπων κακίας πεπληρωμένη; Greg. Nyss. paup. 2 (GNO 9, p. 127) τὰ λοιπὰ τῆς τοῦ βίου ναυαγίας κακὰ… ἕως ἀκινδύνως διαπλέεις τοῦ βίου τὴν θάλασσαν… ἔτι φέρῃ διὰ τοῦ βίου πελάγιος… πρὸς τὴν προκειμένην τοῦ βίου ναυτιλίαν διευδιάζοντες; Bas. epist. 150 …ἡμεῖς δὲ τοῦ χειραγωγήσοντος ἡμᾶς καὶ ἀσφαλῶς διὰ τῶν ἁλμυρῶν κυμάτων τοῦ βίου παραπέμψοντος; Ioh. Chrys. pasch. (PG 52,772) Οὕτω γὰρ δυνησόμεθα καὶ τὰ κύματα τοῦ παρόντος βίου μετὰ ἀσφαλείας διαδραμεῖν. In Gregorio si trovano simili espressioni in carm. I,1,27 v. 28 ἐνὶ κύμασι τοῦδε βίοιο; II,1,11 v. 176 κυμάτων βίου; …τὴν τοῦ βίου θάλασσα di or. 43,60 che trova numerosissimi paralleli anche in altri autori cristiani. Per l’uso di immagini tratte dal mondo marino si veda anche Ruether, pp. 92ss. Per la locuzione μέγα κῦμα si rimanda a I,2,1 v. 428 e alla nota di Sundermann, p. 126. Si veda anche la sezione conclusiva di I,2,9b vv. 57ss. in cui la vita dell'uomo è paragonata ad una nave sul mare dell'esistenza che navigando deve approdare ad un porto sicuro che è Dio e il comm. ad loc. di Kertsch, pp. 201ss. πολυπλανέος βιότοιο 95 L’idea del costante vagare dell’esistenza umana, espressa poco prima da Gregorio con la locuzione …βίου φύσις /...τῇ καῖ τῇ δονέουσα βροτὸν γένος, si conferma con questa espressione. L’aggettivo πολυπλανής, attribuito a persone, si riscontra altrove: in Eur. Hel. 203 in riferimento alle peripezie di Menelao, marito di Elena; in Arg. Orph. 154 indica lo scorrere del fiume Meandro; in Plat. Pol. 288a è un attributo del τρίτον ἕτερον εἶδος; numerose attestazioni si segnalano, inoltre, in Eusebio p.e. 1,4; h.e. 4,11; d.e. 4,12 etc. In Lib. decl. 1,123 l’aggettivo è epiteto di Odisseo τοῦ πολυπλανοῦς ἀνδρὸς τὴν Ὀδύσσειαν πεποιῆσθαι. Gregorio usa la stessa espressione in clausola in carm. II,1,49 v. 3 alla quale si ricollega in modo singolare Ioh. Chrys. sac. 3,10 τὸ πολυπλανὲς τοῦ βίου…πέλαγος e poi Nonn. Par. 5,115 πολυπλανέος βιοτῆς. 23 Con “nera nave” si intende metaforicamente l’esistenza umana. L'aggettivo ἐμὴν, restituitoci grazie alla tradizione manoscritta, caratterizza in maniera puntuale l'affermazione che potrebbe essere considerata come un'allusione alle peregrinazioni dell'io loquens in seguito alla cacciata da casa, e al destino incerto che dunque lo attende (cfr. infra, vv. 143ss.). È utile riprendere la chiusa di carm. I,1,6 vv. 112-116 in cui la vita è paragonata ad una nave guidata da Dio-timone fino al porto sicuro: Δέον δέχεσθαι πᾶσαν οἴακος στροφήν, / ᾧ μ’ ἐκ πάλης τε καὶ ζάλης διεξάγει, / ἕως ἂν ὅρμοις εὐδίοις προσορμίσῃ· / εἴπερ γε τὴν ναῦν μὴ μάτην ἐπήξατο, / ἀλλ’ εἰς καλόν τε κἀπιδέξιον τέλος. Cfr. anche II,1,22 vv. 1-2 in cui la vita è metaforicamente è paragonata ad una navigazione: Ἄλλοι μὲν εὐπλοοῦσι τῶν Θεῷ φίλων, / ἄλλοι δὲ δυσπλοοῦσιν οὐδὲν χείρονες; per l’immagine, non metaforica, della nave che approda ad un porto tranquillo inserita nel discorso protremptico che Nicobulo sen. rivolge al figlio cfr. carm. II,2,5 vv. 232-233 e il comm. di Moroni, p. 269. 23 νῆα μέλαιναν ἐμὴν μέλαινα è epiteto frequentissimo di ναῦς in Omero: ad es., Il. 1,300; 2,170; 15,423 etc.; Od. 9,322; 12,418; 14,308; 17,249 etc.; anche hymn. in Apoll. 406; Hes. Op. 636; fr. 165 West; Eur. Cycl. 467; Plat. Hipp. Mi. 371c; poi da Quint. Smyrn. 6,65; 7,169; Greg. Naz. carm. I,2,1 v. 258; II,1,45 v. 317. L’assimilazione della vita ad una μέλαινα ναῦς è ripresa anche in II,1,50 vv. 55-56 βίος δέ μοί ἐστιν ἀφαυρός, / νηὸς ἀκιδνότερος e 96 109-110 μήτε με κούφην, / μηδ’ ὑπεραχθομένην νῆα θάλασσα φέροι; cfr. Sundermann, p. 49. Per l’uso di μέλας in Gregorio cfr. Crimi, Colori, p. 351 nota 10. L'attributo μέλας riferito alla vita potrebbe, inoltre, avere una forte valenza connotativa, cioè indicare l’esistenza umana resa scura, ovvero nera, dal peccato, per cui si rimanda a infra, nota al v. 120. ὅρμος La metafora marina della vita trova il suo compimento nell’immagine del porto, luogo di protezione e augurato approdo dopo le perigliose peregrinazioni dell’esistenza. Un interessante parallelo, che mostra anche una tipologia del locus de fortuna, si rileva in carm. II,1,34A vv. 149-150, dove Gregorio paragona lo scorrere della vita alla navigazione di una nave che trova felice rifugio nella protezione del porto: Οὗτος ἐμὸς πλόος ἐστί· σὺ δ’ ἐς πλόον ἄλλον ἐπείγῃ, / ἄλλος ἀπ’ ἀλλοίου πνεύματος ὅρμον ἔχοι. In II,1,39, manifesto programmatico della poesia del Nazianzeno, ai vv. 10-15, la metafora del porto come approdo tranquillo è posta in relazione con le velleità letterarie di certi autori ai quali Gregorio consiglia di attenersi, nello scrivere, alle Sacre Scritture per sfuggire alle tempeste delle vane dottrine: Πάντων μὲν ἂν ἥδιστα καὶ γνώμην μίαν / ταύτην ἔδωκα,… / αὐτῶν ἔχεσθαι τῶν θεοπνεύστων μόνον, / ὡς τοὺς ζάλην φεύγοντας ὅρμων εὐδίων. / Εἰ γὰρ τοσαύτας αἱ Γραφαὶ δεδώκασι / λαβάς, τὸ, Πνεῦμα, τουτί σοι σοφώτερον, / ὡς καὶ τόδ’ εἶναι παντὸς ὁρμητήριον / Λόγου ματαίου τοῖς κακῶς ὁρμωμένοις; in epist. 132,4 il porto sicuro e tranquillo, ὅρμον τινὰ εὔδιον καὶ ἀσφαλῆ, è concretamente e spazialmente collocato nella sua proprietà di Arianzo, dove, come ricorda Gallay, Lettres, p. 153 nota 2, Gregorio si era ritirato dopo l’esperienza constantinopolitana. L’immagine del porto e del “mare della vita” si ritrova anche in or. 16,3 καὶ οἷον ἤδη πρὸς λιμέσιν ὢν τοῦ κοινοῦ τῆς ζωῆς πελάγους, τοῦ πολὺν ἔχοντος ἔτι τὸν πλοῦν ἀσφαλέστερος, καὶ διὰ τοῦτο μακαριώτερος; cfr. Piottante, p. 111 (secondo la studiosa il termine πλόος indicherebbe il percorso dell’uomo nel suo accostamento a Dio; inoltre l’immagine conclusiva del porto marcherebbe la conclusione del carme II,1,34B); Costanza, Gregorio, pp. 226ss.; Lieggi, Motivazioni, pp. 332-333. Cfr., infine, carm. I,1,6 vv. 112ss. dove si dice che Cristo conduce l’uomo ad un porto sicuro. 24-37 97 Locus de fortuna. Avvalendosi della figura retorica della Priamel connessa alla formula ἄλλοι μὲν-ἐγὼ δέ, Gregorio passa in rassegna i possibili pericoli dai quali può essere minacciata la vita dell’uomo. I pericoli in cui l’uomo si imbatte vengono esposti secondo un ragionamento che prende le mosse dall’azione della natura per giungere a quella dell’uomo e per approdare, infine, alla malattia. Gregorio analizza, in primo luogo, il destino di un uomo che affronta un viaggio in mare, πόντος ἀπείριτος, che può concludersi sia con la morte, che con la perdita delle ricchezze; l’elencazione prosegue con l’exemplum della guerra, μόθος, che possiede rispettivamente due conseguenze, la morte durante un combattimento e la prigionia in mani nemiche; la perdita delle proprie ricchezze è vista sotto una molteplice luce, può cioè essere compiuta dai re, o da briganti e da ladri, secondo una scala sociale che si muove dal gradino più alto a quello più basso; ma la vita di un uomo può essere minacciata, oltre che da un pericolo “esterno”, anche da uno “interno”, cioè dalla malattia, νοῦσος, che logora le membra. Un simile elenco dei pericoli che attentano alla vita dell’uomo è delineato in forma negativa in or. 15,9 dove la madre dei martiri Maccabei si vanta del glorioso destino toccato ai suoi figli, protomartiri in nome di Dio, e non caduti a causa del mare, o dell’intervento di briganti, della malattia o della guerra: οὐ κῦμα ἐπέκλυσεν, οὐ λῃστὴς διέφθειρεν, οὐ νόσος διέλυσεν, οὐ πόλεμος παρανάλωσεν,οὐκ ἄλλο οὐδὲν ἢ μικρὸν ἢ μεῖζον τῶν ἀνθρωπίνων. Un elenco più dettagliato e diversificato, ma che contiene gli elementi salienti che sono presenti anche nel passo in oggetto, si rileva ancora in or. 40,14 Ὅσος ὁ περὶ σὲ κίνδυνος· ὅσα τὰ παρ’ ἐλπίδα συμπτώματα· Ἢ πόλεμος παρανάλωσεν, ἢ σεισμὸς συνέχωσεν, ἢ θάλασσα ὑπεδέξατο, ἢ θηρίον ἥρπασεν, ἢ νόσος ἀπώλεσεν, ἢ ψὶξ παραδραμοῦσα, τὸ φαυλότατον (τί γὰρ τοῦ ἀποθανεῖν ἄνθρωπον εὐκολώτερον, κἂν μέγα φρονῇς τῇ εἰκόνι;), ἢ πότος πλεονάσας, ἢ ἄνεμος κρημνίσας, ἢ ἵππος συναρπάσας, ἢ φάρμακον ἐκ προνοίας ἐπιβουλεῦσαν, τυχὸν δὲ καὶ ἀντὶ σωτηρίου φανὲν δηλητήριον, ἢ δικαστὴς ἀπάνθρωπος, ἢ δήμιος ἀπαραίτητος, ἤ τι τῶν ὅσα ταχίστην ποιεῖ τὴν μετάστασιν, καὶ βοηθείας ἰσχυροτέραν. Ma per converso, in tono ironico, in carm. II,1,15 vv. 63ss. δῆρις, πόντος,…λῃΐστορες ἄνδρες sono definiti βίου παίγνια λευγαλέου; cfr. Ruether, pp. 92-94. 24-27 98 Il binomio mare-guerra, πόντος-μόθος, costituisce un caso emblematico tra i pericoli che possono minacciare la vita dell’uomo. Esemplare l’espressione di Tyrt. fr. 12 West, κῦμα μάχης, felice connubio sincretico che amplifica la portata dei singoli elementi. L’accostamento dei due termini per designare il comune destino di morte a cui uomini di diversa origine vanno incontro quando si trovano in queste circostanze si rileva in carm. I,1,5 vv. 21-22 …ἐν δέ τε πόντῳ / καὶ πολέμῳ πλεόνεσσιν ὁμὸς μόρος ἀλλογενέθλοις; in II,2,5 vv. 203-204 il pericolo scampato in una battaglia o in guerra comporta la perdita di tutti i propri beni, Καὶ μῶλον στονόεντα καὶ ἄγριον οἶδμα θαλάσσης / πολλάκις ἀκπροφυγών τις, ἐπὴν Θεὸς ἵλαος εἴη. Cfr. ancora I,2,24 vv. 157ss.; or. 2,100 dove, sfruttando sempre la figura della Priamel, Gregorio afferma di preferire la vita sulla terra, piuttosto che quella in mare, fonte di grandi pericoli nonostante possa fornire elevati guadagni: Ἄλλος μὲν οὖν πλείτω κατ᾽ ἐμπορίαν,… καὶ τὰ μακρὰ διαπεραιούσθω πελάγη καὶ συμφερέσθω τοῖς ἀνέμοις ἀεὶ καὶ τοῖς κύμασι μεγάλα καὶ κερδήσων, ἂν οὕτω τύχῃ, καὶ κινδυνεύσων… ἐμοὶ δ’ οὖν αἱρετώτερον ἐπὶ γῆς ἀνέχοντι… ἢ μακρὸν ἀναρριπτεῖν καὶ μέγαν…κίνδυνον; or. 14,28: πᾶς ὁ πλέων ἐγγύς ἐστι τοῦ ναυαγίου, καὶ τόσῳ μᾶλλον, ὅσῳπερ ἄν τολμηρότερον πλέῃ; or. 40,12 ἕως ἐξ οὐρίας πλεῖς, φοβήθητι τὸ ναυάγιον, καὶ ἧττον ναυγήσεις, τῇ δειλίᾳ βοηθῷ χρώμενος: cfr. Moreschini-Sykes, p. 185; Schwab, pp. 90-91.; Coulie, Richesses, pp. 123 nota 31 e 126. Moroni, pp. 262-263 definisce, in maniera puntuale, il tema della vita in mare e del naufragio un topos letterario ben presente nella tradizione classica latina e greca, adducendo come significativa la pericolosa esperienza vissuta in prima persona da Gregorio durante un viaggio in mare che segnò profondamente la sua personalità e il suo destino di cristiano. Il Cappadoce, infatti, menzionerà questo avvenimento spesso nelle sue opere sia attraverso lunghe esposizioni, sia con brevi accenni (carm. II,1,1 vv. 307ss; II,1,11 vv. 121ss.; or. 18,31). Per un’analisi dei passi più estesi che trattano l’episodio cfr. Coulie, Tempête, pp. 157ss; Crimi, Nazianzenica XIII, pp. 203ss.; Molac, pp. 335-339 e per la ricezione di questa esperienza nel biografo di Gregorio cfr. Crimi, Nazianzenica XIV pp. 29ss. Sul topos del naufragio cfr. ancora Molac, pp. 339-341 che analizza l’epistolario gregoriano; Coulie, Richesses, p. 127 nota 47 che sottolinea il collegamento tra l’esperienza del naufragio e l’avventura 99 vissuta dal profeta Giona, personaggio biblico molto caro a Gregorio (per il legame con Giona cfr. ancora Molac, p. 341). 24 πόντος…ἀπείριτος Questa iunctura è posta nella sede metrica che interessa III e IV metron in Hom. Od. 10,195; Hes. Th. 109; ripresa da Quint. Smyrn. 1,679; 4,78; 5,386 etc.; Nonn. Dion. 27,41. Gregorio rompe con la tradizione e, avvalendosi della figura dell’iperbato, separa il nesso inserendo il verbo, πόντος ὄλεσσεν ἀπείριτος. πόντος ὄλεσσεν Anche in carm. I,2,1 vv. 684-686 all’interno di una breve digressione sul destino, di morte o di salvezza, in cui può incappare colui che naviga in mare Καὶ πόντος τιν’ ὄλεσσεν, ὁ δ’ ἱστία λευκὰ πετάσσας, / πλώει ναυηγοῦ λεύσσων τάφον, ἢ ἀπὸ τύμβου / πείσματα λυσάμενος, πρυμνήσια δ’ ἔνθεν ἀνῆψε; cfr. Sundermann, pp. 223-224. Cfr. anche Anth. Pal. 7,586,1 e 9,85,1 e la simile espressione in Anth. Pal. 9,34,3 ὤλεσεν οὐχὶ θάλασσα. La morte, estrema ma possibile conseguenza del naufragio, è contemplata anche in or. 40,12. κλύσε χέρσῳ Questo nesso allitterante posto in clausula esprime l’idea del “riversare” proprio dell’acqua, cfr. LSJ s.v. Il modello di questa espressione si può rintracciare in Apoll. Rh. 2,680 κλύζεν δ’ ἐπὶ κύματα χέρσῳ. Il verbo κλύζω, che in questo caso ha come soggetto πόντος, è connesso, nella poesia classica, anche con gli altri temini che indicano il mare, come in Hom. Il. 14,392 e Od. 9,541 ἐκλύσθη δὲ θάλασσα; Eur. Iph. Taur. 1193 θάλασσα κλύζει; ma vedi anche Greg. Naz. carm. I,2,14 v. 10 ὕδωρ… ἔκλυζε. 25-26 Pur conservando la vita (ζωὸν) dopo un naufragio, l’uomo si ritrova in uno status di miseria, οἰκτρὸν ἀλήτην, data la perdita dei propri beni, per sineddoche indicati con “veste” ed abito” - ἄτερ σπείροιο καὶ εἵματος- e di conseguenza della prosperità, τὸν πρόσθεν πολύολβον. 25 ἄτερ σπείροιο καὶ εἵματος In questa espressione Gregorio si avvale della figura retorica dell’endiadi che consiste nel menzionare congiuntamente due parole di simile significato; ἄτερ σπείρου si rileva già in Hom. Od. 2,102; 19,147; 24,137 dove indica la tela che 100 Penelope tesseva in attesa del ritorno di Odisseo, ma cfr. ancora la simile espressione χιτῶνά τε εἵματα di Od. 10,542; 14,341; 15,338; 16,79; 22,487 e la serie enumerativa di Od. 6,214 e 7,234 φαρός τε χιτῶνά τε εἵματα. ἀλήτην La condizione per eccellenza di vagabondo dopo un naufragio non può non essere quella di Odisseo; questi, infatti, è definito e si definisce ἀλήτης, in senso spregiativo, in Hom. Od. 17,420. 483. 576. 578; 18,18; 19,76; 21,400 quando dopo essere tornato ad Itaca assume le fattezze di un mendicante e prepara il suo trionfale rientro a casa: in tutti questi passi il termine si trova in clausola come nel passo in oggetto. In Aesch. Ag. 1282 e Choeph. 1042 si riferisce invece a Oreste che, dopo aver vendicato la morte del padre, sarà costretto a vagare per il mondo; in Soph. OC 59-746 è anche epiteto di Edipo. Gregorio attribuisce il termine ad Odisseo in carm. I,2,10 v. 403 e II,2,5 v. 209; cfr. Crimi-Kertsch, p. 270; Moroni, pp. 261-262. Numerosissime, inoltre, le occorrenze del termine in entrambe le opere di Nonno dove è collocato sempre in clausola. Per la ricezione e l'uso, in Gregorio, dell’esperienza e della figura di Ulisse che, nonostante il naufragio e la perdita di tutti i beni non ha perduto la virtù ed riuscito a conquistare la fiducia di Nausica, cfr. D’Ippolito, Ulisse, pp. 201ss.; D’Ippolito, Tetrafarmaco, pp. 391ss. 26 La condizione miserevole dell’uomo dopo un naufragio stride fortemente con l’agiata vita che egli conduceva precedentemente, πρόσθεν, espressa da πολύολβος che Gregorio usa anche al v. 257 del nostro carme in opposizione a ἄνολβος. Una situazione opposta si delinea invece in Eur. fr. 326,3 Nauck: ἆρ’ οἶσθ’ ὁθούνεχ’ οἱ μὲν εὐγενεῖς βροτῶν πένητες ὄντες οὐδὲν ἀλφάνουσ’ ἔτι, οἳ δ’ οὐδὲν ἦσαν πρόσθεν, ὄλβιοι δὲ νῦν. ἃ δ᾽ ἤγετο, κεύθεται ἅλμῃ Come già accennato prima, la vita in mare è irta di pericoli e può determinare la perdita di tutti i beni: cfr., a questo proposito, quanto afferma Coulie, Richesses, pp. 122ss. in part. p. 123: «Grégoire insite sur theme des vents ou de la tempête en mer où se perdent le cargaisons…». Su questo argomento, un passo da confrontare è stato rilevato da Moroni, p. 262 a comm. di carm. II,2,5 vv. 203ss., in Amph. Ic. Seleuc. 24ss. dove si ammette miseramente la possibile perdita in mare delle proprie 101 sostanze in seguito a naufragio, ma non dei buoni costumi: Σὺ τοίνυν, ᾦ παῖ, τοῖς τρόποις πλουτῶν ἀεὶ / θησαυρὸν ἕξεις οὐ κλοπαῖς συλώμενον / οὐ συκοφάνταις ἐν μέσῳ προκείμενον, / οὐδ’ αὖ τυράννων χερσὶν ἐξαντλούμενον / ἢ βαρβάρων ὅπλοισιν ἐκπορθούμενον, / … οὐδ’ αὖ καλύψει κῦμα ποντίου σάλου. Il tema è quello dell’ἀρετή quale unico possesso che non può perdersi, argomentato anche da Gregorio in I,2,10 vv. 396ss., in riferimento alla figura di Ulisse, per cui si rimanda al comm. di Kertsch, pp. 269-270. Tale concezione è presente, in misura simile, anche nelle parole di Stilpone di Megara riportate da Diogene Laerzio, con le quali il filosofo afferma che niente e nessuno lo avrebbe privato della paideia: …ἔφη (scil. Στίλπων) μηδὲν τῶν οἰκείων ἀπολωλεκέναι· παιδείαν γὰρ μηδένα ἐξενηνοχέναι, τόν τε λόγον ἔχειν καὶ τὴν ἐπιστήμην (D. L. 2,115); assunto riportato e adattato al contesto da Plutarco dove è affermata l'idea che l'ἀρετή non può essere depredata dalla guerra che tutto sconvolge: …παιδεία δὲ τῶν ἐν ἡμῖν μόνον ἐστὶν ἀθάνατον καὶ θεῖον… … …ὅ γε μὴν πόλεμος χειμάρρου δίκην πάντα σύρων καὶ πάντα παραφέρων μόνην οὐ δύναται παιδείαν παρελέσθαι. καί μοι δοκεῖ Στίλπων ὁ Μεγαρεὺς φιλόσοφος ἀξιομνημόνευτον ποιῆσαι ἀπόκρισιν, ὅτε Δημήτριος ἐξ ανδραποδισάμενος τὴν πόλιν εἰς ἔδαφος κατέβαλε καὶ τὸν Στίλπωνα ἤρετο μή τι ἀπολωλεκὼς εἴη. καὶ ὅς “οὐ δῆτα,” εἶπε, “πόλεμος γὰρ οὐ λαφυραγωγεῖ ἀρετήν.” (Ps.-Plut. lib. educ. 5 E-F): il fine a cui mirare, per Pluratco, è proprio la virtù che può essere conseguita esclusivamente attraverso l'educazione. 27-28 Il destino dell’uomo che partecipa ad una battaglia può essere altrettanto funesto quanto quello del viaggio in mare. Gregorio prospetta, infatti, due possibilità, entrambe nefaste: in primo luogo, la morte, per cui cfr. Quint. Smyrn. 10,95, ἐσσυμένως ὀλέεσθαι ὑπ’ ἀργαλέου πολέμοιο; in secondo luogo la cattura da parte dei nemici. 27 δηριόωντα Forme del verbo con diectasi si rilevano in Hom. Od. 8,78; Apoll. Rh. 1,752; 4,1729; Quint. Smyrn. 6,278; 4,176; 10,14 etc.; Opp. An. Hal. 2,555 e 4,375; Opp. Ap. Cyn. 2,247; nonché Greg. Naz. carm. I,1,4 v. 2; II,1,16 v. 45; Nonn. Dion. 17,253 e 36,466. μόθος 102 In carm. I,1,4 vv. 30 e 35 Gregorio si esprime usando questo termine per indicare il contrasto insito nell’uomo tra le sue componenti costitutive, anima e corpo; in I,2,5 v. 12 κακοῦ μόθος è la lotta contro il maligno; ma in II,1,83 v. 23 κακὸς μόθος è la lotta del maligno contro l’uomo; ancora al v. 231 del nostro carme quella che sta ingaggiando il padre contro i suoi figli è proprio una lotta, πατρὸς μόθος (al v. 64 il dissidio familiare è definito anche ἐνδήμου πολέμοιο e al v. 348 ἀργαλέου πολέμοιο); per converso in II,2,5 vv. 28-29 sono i genitori ad essere disposti a lottare per i figli, legge naturale che vale anche per il mondo animale: Τοὔνεκα καὶ μόθον αἰνὸν ἑοῖς περὶ παισὶ τοκῆες / ἵσταντ᾽... . 28 δουριαλῆ Sembra che questo aggettivo composto sia conio di Gregorio poiché si riscontra, a quanto consta, solo nelle sue opere. Gregorio altre volte lo usa come attributo del popolo ebreo durante la cattività babilonese (cfr. 2Re 24,14ss.), come in carm. II,1,1 v. 355; II,1,16 v. 68. In II,1,21 v. 5 è riferito al Cappadoce stesso che sta parlando in prima persona (sempre richiamando comunque l’episodio veterotestamentario); cfr. Bénin, pp. 716-717. χείρεσσιν ὕπ’ ἀνδροφόνοισιν Questa espressione ricalca l’omerico χεῖρας ἐπ’ ἀνδροφόνους di Il. 17,638; 23,18; 24,478, ripreso da Phil. Spec. 3,120 Τὸν μὴ ἑκουσίῳ γνώμῃ τοῦ κτείναντος ἀναιρεθέντα φησὶν ὁ ἱερὸς νόμος παραδεδόσθαι ὑπὸ θεοῦ χερσὶν ἀνδροφόνοις; Lib. decl. 40,2; Athan. fug. 8,3. In Greg. Naz. carm. I,1,27 v. 77 è inserita all’interno della ripresa della parabola del Buon Samaritano di Lc. 10,30-37. Variatio è la iunctura ἀνδροφόνος+παλάμη di Anth. Pal. 8,230-b,1 (così è definita quella che deturpa le tombe) e in carm. I,1,15 con l’applicazione della figura retorica dell’enallage ἀνδροφόνον παλάμης ἄγος; cfr. anche Nonn. Dion. 47,147. 29-30 La condizione di un uomo può cambiare nello stesso giorno, αὐτῆμαρ, se si presuppone l’intervento di un sovrano a cui viene attribuita la prerogativa di incidere sul destino dell’uomo. Tale potere è, nella concezione classica, nelle mani di Zeus colto nell'atto di pesare sulla bilancia il destino dell'uomo e la sua fortuna: Ζεὺς γάρ τοι τὸ τάλαντον ἐπιρρέπει ἄλλοτε ἄλλωι, / ἄλλοτε μὲν πλουτεῖν, ἄλλοτε 103 μηδὲν ἔχειν (Theogn. 1,157-158); per la metafora della bilancia si veda anche infra, nota ai vv. 216ss. 29 ἄλλον δ᾽ αὖ βασιλῇες ἐνόσφισαν Per un concetto simile cfr. Them. or. 229b: Ἄνωθέν τοι, βασιλεῦ, ἡ πολιτεία τò τῆς θειότητος ὄνομα ὑμῖν ἐπεφήμισεν, …οὐδ’ ὅτι πλούσιον ἐκ πένητος παραχρῆμα ποιῆσαι ῥᾳστώνη ὑμῖν... . Ma in or. 42,5 Gregorio dice: …ὁ πτωχίζων καὶ πλουτίζων Θεός, calco di 1Re 2,7; per un’ulteriore prospettiva cfr. H. Kleinknecht, βασιλεύς, in GLNT II, coll. 134-137. 30 αὐτῆμαρ χθαμαλόν τε καὶ ὄλβιον ἄνδρα L’accostamento antitetico dei termini che indicano il ricco e il povero o in generale la ricchezza e la povertà è molto presente nelle opere del Cappadoce soprattutto all’interno di un artificio retorico chiamato enumeratio o congeries di cui il Nostro si avvale spesso, cfr. Coulie, Richesses, pp. 153-170 e infra, vv. 256-257. Un ulteriore caso di accostamento antitetico, in un contesto diverso rispetto al passo in oggetto, si registra in carm. I,2,17 v. 25, ὄλβιος, ὃν πτωχὸν, dove, in realtà, ὄλβιος è inteso come sinonimo del μακάριος di Mt. 5,3. Per il tema del cambiamento repentino della condizione dell’uomo cfr. anche Plut. de Stoic. 1058B: δοῦλος καὶ πένης καὶ ἄπορος αὐθημερὸν ἀνίσταται [καὶ] βασιλεὺς καὶ πλούσιος καὶ ὄλβιος γεγονώς, acuta ed ironica polemica che Plutarco confeziona contro gli Stoici e le loro convinzioni. In particolare si noti la presenza dell’avverbio αὐθημερόν che si riconnette a αὐτῆμαρ del passo in oggetto, ad indicare la rapidità del processo di cambiamento di stato. 31-32 La minaccia che deriva dalle imboscate di ladri e predoni può avere un effetto altrettanto negativo sulla vita di un uomo e Gregorio, consapevole dell’exemplum evangelico (Lc. 10,30-37), non può non tenerla ben presente. 31 ληϊστῆρες ἀπηνέες…ἤ… φῶρες Le due figure qui menzionate svolgono attività simili e spesso interscambiabili. La cattiva fama del brigante è rinomata già in Hom. Od. 3,73 e 9,254 dove questi personaggi sono definiti κακὸν φερόντες. In ambito cristiano non si può non far riferimento alla parabola neotestamentaria del buon Samaritano (Lc. 10,30-37) intervenuto a prestare soccorso ad un uomo assalito dai briganti. In carm. II,1,1 vv. 104 367ss., rielaborazione della parabola, coloro che assalgono l’uomo sono chiamati da Gregorio φῶρες…κακοὶ. L’azione congiunta di ladri e predoni è negata in carm. I,2,8 vv. 60-61 in presenza di una vita povera che non sollecita l’attenzione di queste figure: ἄλλων ὁ λῃστὴς,… / ὁ φὼρ ἐχόντων·…; cfr. anche Nonn. Par. 10,26 …φῶρες ἔσαν δολόεντες ὅθεν· ληίστορι φωνῇ…; cfr. Bénin, pp. 722ss. È più ricorrente la coppia λῃστής – κλέπτης che si riscontra in Plat. Res. 351c; Arist. EN 1134a; ma anche in contesto biblico Os. 7,1; Abd. 5,2; Gv. 10,1-8. Negli autori ecclesiastici il dittico è presente in Clem. Alex. str. 1,17 che attribuisce entrambi i termini al demonio: λῃστὴς καὶ κλέπτης ὁ διάβολος λέγεται; Greg. Nyss. Ar. et Sab. (GNO 3,71); Ioh. Chrys. hom. 59 in Jo (PG 59,323) etc.; nonché Greg. Naz. or. 14,6 εἴτε λῃστῶν μιαιφονίαν, εἴτε κλεπτῶν ἀπληστίαν; or. 16,19 λῃστῶν, καὶ τυράννων, καὶ κλεπτῶν θησαυρίσματα; or. 26, 3; epist. 61,7. 32 ἠματίῃ κακότητι καὶ οῤφναίοισι δόλοισιν L’aziοne dei ladri si compie generalmente di notte, come leggiamo in Plat. Leg. 874c: νύκτωρ φῶρα εἰς οἰκίαν εἰσιόντα…; Lib. decl. 51,1 …φῶρες ἐπιόντες νυκτὸς…; ma anche nel passo veterotestamentario già citato di Abd. 5,2 εἰ κλέπται εἰσῆλθον πρὸς σὲ ἢ λῃσταὶ νυκτός, e in Christ. pat. 2347 Ὁ κλὼψ ἐν ὄρφνῃ παντὶ πάμμεγα σθένει. Per la menzione congiunta di aggettivi che riguardano il giorno e la notte cfr. Sundermann, p. 214; infra, nota al v. 283; e in particolare, per l’aggettivo ὀρφναῖος si veda Crimi, Colori, p. 352 nota 24. 33 L’ultimo pericolo che può minacciare la vita dell’uomo e che interessa il suo intimo, sia carnale che spirituale, è la malattia, νοῦσος. Con gli stessi termini del passo in questione essa viene definita in carm. II,1,50 vv. 15-16: Ἀλλά με καὶ στυγερὴ κατεδάσσατο δάπτρια νοῦσος, / τηκεδανὴ μελέων. In particolare l’aggettivo δάπτριος, deverbativo di δάπτω, è verbum novum coniato dal Nazianzeno e ricorre soltanto in questi due passi della sua produzione poetica. La presenza congiunta del verbo καταδατέομαι e dell’aggettivo δάπτριος, che rimandano ad un simile campo semantico, amplifica la risonanza dell’espressione che acquista in questo modo una forte consistenza. In Gregorio usuali attributi della malattia sono στυγερή: cfr. carm. I,1,22 v. 15; II,1,10 v. 16; II,1,19 v. 62; II,1,26 v. 65; II,1,45 v. 6; II,1,50 v. 15; II,1,87 v. 10; II,2,1 v. 135; e πικρός come si nota in carm. I,1,10 v. 3; II,1,34B v. 25; II,1,46 v. 47; 105 Anth. Pal. 8,36,4; cfr. anche Simelidis, p. 203. L’azione distruttrice della malattia a danno delle membra è espressa anche in carm. I,2,9a vv. 24-25 λώβη… / …νοῦσος μέλων, nonché l’immagine delle membra consunte, attraverso l’espressione δαπτομένων μελέων, si ritrova in diversi contesti, come in I,2,2 v. 514; II,2,1 v. 308: cfr. Zehles-Zamora, p. 229. νοῦσος Con questo termine Gregorio indica sia l’infermità fisica che quella morale. Numerosissime le occorrenze del termine nella sua vasta produzione letteraria: in tutto il carme I,2,25 l’ira, per esempio, è chiamata νόσος, come alcuni vizi di cui Gregorio fornisce un breve elenco al v. 76; in I,1,28 la brama di ricchezze è apostrofata come νόσος; in I,2,29 v. 172 l’eccessiva cura per il proprio corpo, tipica della donna che si agghinda per compiacere l’uomo, è definita una malattia; in II,1,1 vv. 327ss. vengono raccontati due episodi in cui il Cappadoce fu colpito da una νόσος: relativamente ai problemi di respirazione, e quando accidentalmente si punse l’angolo dell’occhio con un giunco che gli impedì di celebrare i sacri riti. Gregorio, in questo stato, si definisce “impuro” a causa della malattia, ψαύειν μὴ καθαρῷ γὰρ ἀγνοῦ κακόν… (v. 334): la malattia fisica, dunque, non invaliderebbe solo il corpo, ma anche lo spirito. In II,1,11 v. 816 νόσος indica il male dell’invidia di cui era affetto Massimo, e il vocabolo è usato figurativamente anche al v. 1152 dove νόσοι τῶν δογμάτων sono le eresie che minacciavano l’ortodossia difesa dal Cappadoce; e al v. 1745 la malattia fisica che colpisce il vescovo durante il Concilio di Costantinopoli che presiedeva è addirittura vista come un fatto positivo perché gli permetterà di abbandonare le sedute e definitivamente la città, ἐμοῦ δὲ καλῶς ἡ νόσος προεστάτει. In II,1,50 v. 86 la malattia fisica è fonte di purificazione per lo spirito: νοῦσος καὶ νοερῷ καὶ τινα ῥύψιν ἕχει. Si tratta ancora di malattia fisica in II,1,83 vv. 17-18 che colpisce la carne …δυσαλθέος ἕνδοθι σαρκός, / νόσος σχεθεῖσα…; in or. 14 il morbo per eccellenza è la lebbra; in or. 27,7 la καινὴ νόσος è la cattiva loquacità che è propria delle dottrine pagane e eretiche; cfr. Bénin, pp. 704ss; Trisoglio, Rievocazione, p. 367. Sul tema si legga U. Criscuolo, Terapia dell’anima e terapia del corpo nei Padri di Cappadocia, in E. Dal Covolo-I. Giannetto (a cura di), Cultura e promozione umana: la cura del corpo e dello spririto dai primi secoli cristiani al Medioevo: contributi e attualizzazioni ulteriori, Convegno Internazionale di studi Oasi 106 Maria Santissima di Troina 29 Ottobre - 1 Novembre 1999, Troina 2000, pp. 315-328; e il recente contributo di Č. Milovanovic, "Here I am a Breathing Corpse": Did Gregory of Nazianzus suffer from Leprosy?, Analecta Bollandiana 2009, pp. 273-297, che vede nella malattia di Gregorio i segni della lebbra; nonché A. Oerke, νόσος, in GLNT VII, coll. 1419-1440; 34-39 La conclusione del locus de fortuna è esplicitata dal nesso σοὶ δ’. In questi versi è possibile rintracciare la presenza di un elemento costante rappresentata dal verbo (κατα)νεύω che ricorre tre volte nel giro di pochi versi (vv. 34. 35. 38). L’iterazione del verbo non è certo casuale: se infatti esso va inteso nel senso di “accordare, concedere”, la presenza del preverbio κατὰ indica la direzione dell'azione dall’alto verso il basso, cioè da Dio verso l’uomo. L’atteggiamento dell'io loquens si muove dalla speranza che Dio risparmi il padre da tutti i mali che egli ha enumerato sopra - σοὶ δ’ ὦν μὲν κατέλεξα, θεὸς κατένευσε γαλήνην / πάντων… - all'amara e ironica constatazione che il genitore non ha ricevuto dal Signore quella pietas nei confronti dei figli e non svolge nei loro confronti la stessa funzione tutelare che compiono le palpebre a favore della pupille: ἒν δὲ τόδ’ οὐ κατένευσεν, ἑοῖς τεκέεσσιν ἀρήγειν / ὡς γλήνην βλεφάροισιν ὐπ᾽ εὐκύκλοισι φυλάσσον. 34 Θεὸς κατένευσε La benignità divina nei confronti dell’uomo, espressa da questa costruzione, è presente anche, in diversi contesti, in Orac. Syb. 12,27; Phil. De post. Cain. 169,1; Ant. Jud. 8,276-3,7; Greg. Nyss. v. Mos. 2,232; Ιοh. Chrys. exp. in Ps. (PG 55,370 e 495); hom. 45 in Gen. (PG 54,421); ma cfr. anche Theocr. epigr. 437 Beckby: νεύοι δ εὐμενέως ὁ θεός; e Bion fr. 8,8; Ael. Aristid. or. 33 Jebb; Artem. 5,71. γαλήνην L’uso del termine γαλήνη potrebbe essere inteso in senso metaforico in contrapposizione all'immagine della vita umana sballottata qua e là, che si legge nei primi versi del locus de fortuna. L’augurio che l’io loquens rivolgerebbe al destinatario sarebbe quello di trovare, durante la navigazione della vita, la tranquillità e la bonaccia, lontano dai rischi e pericoli sopra esposti. Il termine γαλήνη indica, propriamente, lo status di quiete in mare come si legge in Hom. Od. 5,391; 10,94 etc.; Arist. Top. 108a-b γαλήνη ἐν θαλάσσῃ; Theocr. 22,19 λιπαρὴ δὲ 107 γαλήνη / ἂμ πέλαγος; Plut. vit. Cam. 8,6 γαλήνη τῆς θαλάσσης; ma anche, in senso figurato, di tranquillità dell'animo per cui cfr. Soph. El. 899; Plat. Leg. 791a γαλήνην ἡσυχίαν τε ἐν ψυχῇ. L’accezione marina del termine si riscontra anche nel N.T. all’interno del racconto della tempesta sedata di Mt. 8,26, Mc. 4,39 e Lc. 8, 24. I Padri hanno acquisito il significato classico del termine e ampliato l’accezione di “serenità interiore, di calma soprattutto dalle passioni”, caratteristica anche della vita contemplativa e ritirata nella quale rifugiarsi per sfuggire alle tempeste della vita attiva (cfr. Lampe, s.v.), per cui si veda Bas. hom. 2 (Attende tibi ipsi) ἔνδον γαλήνη περὶ τὴν ψυχὴν; hom. 1 in Ps. ψαλμὸς γαλήνη ψυχῶν etc.; Greg. Nyss. or. in Mel. (GNO 9,446) τῶν ὀμμάτων γαλήνη; bapt. diff. (PG 46,425) ἐν σχολῇ καὶ γαλήνῃ τοῦ βίου etc.; Ioh. Chrys. hom. 2 in Gen. γαλήνη τῶν ἡμετέρων ψυχῶν (PG 53,27) etc.; nonché Greg. Naz. carm. I,2,2 v. 657 ἐν πελάγεσσι γαλήνη; I,2,34 v. 167 Βίου γαλήνη δ’ ἔστιν, εἰρήνη φίλη; II,1,11 vv. 1516 e 1619; or. 4,34; or. 17,6; or. 24,5; or. 25,8; or. 26,8; or. 28,1; or. 42,5; or. 43,29; Zehles-Zamora p. 272. 35 ὄμμασιν εὐμενέεσσι L’immagine della benevolenza divina nei confronti dell’uomo si rende manifesta attraverso lo sguardo. Per la iunctura di ὄμμα con l'aggettivo εὐμενής cfr. Bas. epist. 148,1; Marc. Aur. 11,15 εὐμενὴς ἐν τοῖς ὀμμασιν; nonché Greg. Naz. Anth. Pal. 8,248,2; Ps.-Greg. Liturg. Εὐμενεῖ προσώπῳ καὶ γαληνῷ ὄμματι (PG 36,728). Per gli “occhi di Dio” cfr. Deut. 11,12; Iud. 6,17; Prov. 15,3; Sir. 15,19; Am. 9,8; Is. 1,15; Iob 10,4 e W. Michaelis ὀφθαλμός, in GLNT VIII, coll. 1055-1063. 36-37 τά τε ἔνδοθεν… ἔκτοθεν Con questo nesso Gregorio vuole indicare ciò che appartiene all’uomo, sia internamente che esternamente. Per le altre occorrenze cfr. carm. I,2,2 v. 269; II,1,17 v. 14; II,1,33 v. 4; ma anche la simile espressione ἔνδον… ἐκτός in carm. I,2,25 vv. 349-350; or. 43,33; epist. 34,6; e ἔνδοθι…ἔκτοθι in carm. I,2,29 v. 42; Anth. Pal. 8,25,5. 37 οὗ δέ τίς ἐστι δύη Espressione simile anche ai vv. 145 e 158, risonanza di 2Cor. 12,9 ἀρκεῖ σοι ἡ χάρις μου· ἡ γὰρ δύναμις ἐν ἀσθενείᾳ τελεῖται. κάρτος ὄπασσεν 108 Questa stessa costruzione si trova in clausola anche in carm. I,2,9b v. 14 (κάρτος ὀπάζει) e II,1,27 v. 3; ma cfr. anche Quint. Smyrn. 5,266; 6,370; 12,273. La forma con metatesi - κράτος- si ritrova con il verbo ὀπάζω in Anth. Pal. 9,385,13; Aesch. Eum. vv. 530-531, …τὸ κράτος θεὸς /ὤπασεν… . Analogo l'accostamento di ὀπάζω con βία di Hom. Il. 7,205; Opp. An. Hal. 2,52 βίην θεὸς ὤπασεν; Vis. Dor. 296; e infine Bacchil. Dith. 1,61 δύναμιν…ὤπασεν; cfr. Palla-Kertsch, p. 178. 38-39 In questi versi Gregorio instaura una similitudine tra la protezione che un padre dovrebbe garantire ai propri figli e la funzione tutelare dell’occhio, in particolare delle palpebre, a vantaggio della pupilla: ἓν δὲ τόδ’ οὐ κατένευσεν, ἑοῖς τεκέεσσιν ἀρήγειν / ὡς γλήνην βλεφάροισιν ὑπ᾽ εὐκύκλοισι φυλάσσον. L’immagine della pupilla bisognosa di protezione, anche in un contesto di richiesta di aiuto a Dio, trova numerosi riscontri nella Sacra Scrittura, in particolare in Deut. 32,10 διεφύλαξεν αὐτὸν ὡς κόραν ὀφθαλμοῦ; Ps. 17,8 φύλαξόν με ὡς κόραν ὀφθαλμοῦ (passi che costituiscono l'evidente modello del φύλασσω gregoriano). Ma, come accennato sopra, l'io loquens biasima il padre per non aver protetto i suoi figli, come invece avrebbe dovuto fare. 40-41 Dio non permette che un uomo si vanti di avere tutto e possa considerarsi perfetto: ὡς μή τις βιότοιο περῶν πλόον ὡδ’ ἀγορεύσῃ·/ μοῦνος ἐγὼ κακότητα βίου καὶ κήδε’ ἄλυξα. A questo proposito il Cappadoce richiama l' esemplare vicenda di Policrate di Samo esposta nei versi successivi, quale prova dell'impossibilità di sfuggire al proprio destino. 40 βιότοιο περῶν πλόον Ritorna l’immagine della “navigazione della vita” che trova il suo sostrato in Plat. Leg. 803b: …συνόντες τὸν βίον ἄριστα διὰ τοῦ πλοῦ τούτου τῆς ζωῆς διακομισθησόμεθα e Phaed. 85d. Gregorio usa la stessa espressione in carm. I,2,1 v. 629 e II,1,73 v. 1; ma cfr. anche I,2,33 v. 39 καὶ πλέεις οὐ πᾶν ἅμα; II,1,2 v. 13 πέτρης ἠπεδανῆς πείσματ’ ἀναψάμενος; cfr. supra, comm. ai vv. 21ss.; Sundermann, p. 208; Piottante pp. 68 e 111. ― περάω congiunto con πλόος ha per modello Apoll. Rh. 4,496 e Xen. Oec. 21,3. 41 κακότητα βίου καὶ κήδε᾽ ἀλύξα 109 La constatazione che la vita sia attanagliata dalle disgrazie e dai dolori è un fil rouge che attraversa molte opere di Gregorio. κακότης congiunto con βίος potrebbe risentire dell’influsso di Or. exc. in Pr. ἐκ πάσῃς κακότητι τοῦ βίου (PG 17,188), ma si riscontra anche in Theogn. 1,193 βίον ἐν κακότητα. In Gregorio ritorna in carm. I,1,36 κακότητος ἀμιγέα σοι βίον ἕλκων. La possibilità di scampare alle disgrazie di una cattiva sorte o addirittura alla morte ricalca Apoll. Rh. 3,608, κακότητος ἀλύξῃ, ma cfr. anche Hom. Od. 5,414 ἐκφυγέειν κακότητα. 42-45 La vicenda di Policrate, tiranno di Samo, annoverato tra gli uomini più fortunati ma a cui toccherà una morte ingrata e indecorosa, è raccontata in Hdt. 3,40ss. e 122ss. L’episodio risulta funzionale a Gregorio per affrontare il tema dell’invidia, φθόνος, che nella vicenda di Policrate è centrale. Il felice tiranno samio, infatti, proprio per sfuggire l’invidia degli dèi a causa della sua grande fortuna, dietro consiglio dell’amico Amasi getta in mare un sigillo a lui molto caro, soffrendo molto per questa perdita. Il ritrovamento del monile dentro un pesce donato al tiranno da un pescatore segna in maniera inequivocabile il destino dell’uomo: il tentativo di scampare alla sorte fissata risulta vano. Il Cappadoce richiama la vicenda anche in carm. II,1,34B vv. 43-54 con un intento diverso: se infatti nel nostro carme l’esperienza di Policrate svolge una funzione dimostrativa in II,1,34B invece Gregorio vuole perseguire le orme del tiranno samio autoinfliggendosi un dolore e una punizione, imponendosi cioè il silenzio, per allontanare l’invidia degli uomini. Nel nostro carme il racconto dell’aneddoto erodoteo è molto snellito rispetto a II,1,34B: Gregorio non insiste sulla funzione punitiva della perdita dell’oggetto prezioso, …τοῖον ἄχος… οὐδὲ θέλων εὕρατο κεῖνος ἄχος, e sorvola completamente sulle modalità di ritrovamento dell’anello ingoiato dal pesce. Per il minuzioso commento al passo cfr. Piottante, pp. 132ss. L’analisi sinottica dei due passi in questione - carm. II,1,34B vv. 43-50 e II,2,3 vv. 43-46 - rivela l’uso dei medesimi termini e delle stesse espressioni. 42 σὺ Πολύκρατες, οἷον ἐμήσω L’apostrofe a Policrate, oltre l’appellativo Σαμίων ἄναξ che ritroviamo anche in II,1,34B v. 43, apre la citazione erodotea. L’espressione οἷον ἐμήσω del passo in oggetto corrisponde a μήσατο τοῖον ἄχος di II,1,34B v. 44. Demoen, Exempla, p. 98 110 classifica questo riferimento a Policrate come un «pagan exemplum ἀπὸ μείζονος πράξεως». ― Per l’uso, in Gregorio, della figura dell’apostrofe si veda Ruether, p. 74ss. 43 δείσας εὐτυχίης δρόμον ἄσχετον Questa costruzione costituisce una variatio di δείσας εὐδρομίην di II,1,34B v. 44. Sembra che la iunctura δρόμον ἄσχετον sia di creazione gregoriana. L’aggettivo ἄσχετος, nell’accezione di “incontrollabile”, ricorre spesso in Gregorio come attributo negativo della condotta di vita dell’uomo, che è senza controllo, come fa notare Piottante, p. 103. Per δρόμος come "percorso di vita" cfr. carm. I,1,6 v. 83 τοῦ βίου εὔδρομον; I,2,1 vv. 444-445 Ῥευστὸς γὰρ ῥευστοῖο διεκπεράας βιότοιο, / βαιὸν ἐφαπτόμενός τε παρατροχάων τροχάοντα; I,2,33 v. 37; II,1,12 v. 9; cfr. Sundermann, pp. 133-134. ἔμβαλες ἅλμῃ L’atto di gettare in mare in mare l’anello, πόρκη, che in Erodoto è definito σφραγίς, è reso da questa espressione, mentre in II,1,34B v. 45 leggiamo ἔμβαλε πόντῳ, calco di Hom. Il. 14,258: cfr. Piottante, p. 133. 44 L’incipit πόρκην, ὃν φιλέεσκες trova perfetta rispondenza in II,1,34B v. 45 dove occupa la stessa posizione metrica. L’altra sezione del verso, ὅπως φθόνον ἐξαρέσαιο, è parallelo di φθόνον ὡς ἀρέσαιτο di II,1,34B v. 43. 45 Quello di Policrate è un exemplum dall’evidente funzione dimostrativa: nessuno può sfuggire alla sua sorte e nessuno può affermare di essere in tutto e per tutto felice. καὶ τὸν μὲν πάλιν εἶχες Come accennato sopra, comm. ai vv. 42-45, Gregorio non si sofferma sulla sezione del racconto erodoteo che riguarda il fortunoso ritrovamento dell’oggetto prezioso, che invece in carm. II,1,34B è ampiamente trattato, ma si limita a questa semplice espressione che avvia alla conclusione il breve excursus su Policrate. μόρον οὐχ ὑπάλυξας Secondo la tecnica della Ringkomposition, l'espressione richiama, in senso opposto, il v. 41 siglando la breve ripresa della storia del tiranno di Samo che non riuscì ad evitare i suo destino, così come recita una delle battute conclusive dell’Antigone di 111 Sofocle: “non si può scampare la sorte fissata”, ὡς πεπρωμένης / οὐκ ἔστι θνητοῖς συμφορᾶς ἀπαλλαγή (1337-1338). ― Per la costruzione di (ὑπ)αλύσκω con μόρος cfr. Greg. Naz. carm. II,1,13 v. 206 μόρον αἰνὸν ἀλύξω, eco di Soph. Ant. 488-489 …οὐκ ἀλύξετο / μόρου κακίστου…; ma cfr. ancora Hom. Od. 10,269 ἀλύξαιμεν κακὸν ἦμαρ, e 17,547 θάνατον…ἀλύξει etc.; Apoll. Rh. 3,64 κακὸν οἶτον ἀλύξας; Quint. Smyrn. 10,37. 262 e Anth. Pal. 9,17,3. 46 Una considerazione sull’invidia chiude, ragionevolmente, la breve digressione su Policrate di Samo dove, come è noto il vitium gioca un ruolo portante. L'io loquens, alla luce della felicità che caratterizza la sua casa (cfr. supra, v. 13) tristemente constata che, da parte della sua famiglia, l’invidia non ha ricevuto alcuna ricompensa (a differenza di Policrate che donò, anche se vanamente, l'anello) ἡμῶν δ’ οὐδὲν ἔχει φθόνος, pertanto, non c'è da meravigliarsi se la sua impronta si è abbattuta sulla sua casa, riversandovi un po' di caligine; e al v. 215, in un momento di sconforto e rassegnazione affermerà: δώσω καὶ τόδε σοι, μογερὲ φθόνε. In altro contesto Gregorio, amaramente, constata che nessuno può facilmente sfuggire all'invidia: Ἔσκε τι καὶ παρ᾽ ἡμῖν ὁ φθόνος, ὃν οὐδεὶς ῥᾳδίως διέφυγεν (epist. 183,1). ― La stessa iunctura del verso in oggetto, ἔχω + ἄποινον, si riscontra in Hdt. 6,79, ma cfr. anche Hom. Il. 1,13 φέρων...ἄποινα. φθόνος Il tema dell’invidia è ampiamente trattato da Gregorio al quale dedica interi componimenti come i carm. II,1,8. 9. 14. 18. 40. Una definizione di questo sentimento si può leggere in carm. I,2,34 v. 71 Φθόνος δὲ τῆξις εὐροούντων τῶν πέλας; la sua funzione distruttiva è espressa in Christ. pat. 434 …πολλάκις φθόνος / ἔβλαψε πολλούς… . Gregorio afferma spesso di essere stato oggetto di invidia, cfr. carm. I,2,15 vv. 163-164; II,1,11 vv. 679. 855. 1506; II,1,63 v. 4 οἴμοι φθονεῖσθαι δ᾽ ὁ φθόνος πέπεικέ με (con riferimento alla cacciata dei protoplasti, e si noti l’impiego della figura etimologica); II,1,89 v. 26, così come Cristo è stato crocifisso per invidia; Christ. pat. 509. 1117. 1425 etc. L’invidia è, inoltre, una prerogativa del demonio, insieme alla superbia (Sap. 2,24), per cui cfr. I,2,4 v. 54; I,2,14 v. 58; II,1,15 v. 16; or. 36,5 e infra, comm. ai vv. 83ss. Si ricordi, infine, il ruolo giocato dall’invidia nell’imposizione del silenzio a cui Gregorio si sottopone nella Quaresima del 382, 112 silenzio che “trova sfogo finale” nella composizione dei carm. II,1,34A-B: il Nazianzeno si impone il silenzio proprio per allontanare l’invidia degli uomini (da qui la menzione della vicenda di Policrate di Samo che rappresenta per il Cappadoce un exemplum da imitare nel suo tentativo di allontanare questo vitium). Per le basi scritturistiche di questo sentimento si veda soprattutto or. 36,5 dove Gregorio rintraccia numerosi luoghi della Scrittura in cui l’invidia ha giocato un ruolo negativo (cfr. Moreschini-Gallay, Discours 32-37, p. 251 nota 1); Moroni, pp. 263-264. Per una rapida rassegna delle numerose apostrofi all’invidia nelle opere del Nazianzeno, cfr. Piottante, p. 131; mentre, limitatamente all’epistolario, cfr. Molac, pp. 417-420. 46-49 Il rapporto tra padre è figli si è deteriorato. La nebbia e le tenebre hanno oscurato la felice vita familiare, ponendosi nel mezzo, μέση, tra padre e figli (si noti la posizione dell'aggettivo μέση, che si riferisce a ὄρφνη del verso precedente, volta a segnare, anche sintatticamente, la separazione tra τεκέων e πατρὸς ἀρίστου), e ingoiandola in un abisso pari a quello della notte. 46 οὐ μέγα θαῦμα Cfr. II,1,34B v. 50 dove, per converso, occupa la posizione incipitaria (Piottante, p. 134); ma si veda anche I,2,9a v. 46 e Palla-Kertsch, p. 158. 47 ἐπήχλυσεν ἡμετέροισιν Il soggetto del verbo ἐπαχλύω è l’invidia, φθόνος. L'io loquens qui afferma che “l’invidia ha oscurato la sua casa”. Sull’azione offuscatrice dell’invidia cfr., anche, carm. II,1,13 vv. 158-159 Τόσσος ἔρως φαέσσιν ἐπήχλυσεν ἡμετέροισιν / …φθόνος αἰνὸς (si noti la stessa iunctura del passo in oggetto ἐπήχλυσεν ἡμετέροισιν). 48 ἀχλὺς...ἠέ τις ὄρφνη La nebbia e l’oscurità ottenebrano i rapporti parentali. Il sostantivo ἀχλύς è usato da Gregorio anche in carm. Ι,1,7 v. 28 per indicare la nebbia che offusca la vista, e che in I,2,9a v. 24 ha un’azione distruttrice anche per l’aere; in I,1,29 v. 102 ἀχλύς è la tenebra paragonata al male; infine, in II,1,45 v. 82 la vita che dipende dalla carne “si riveste di un’oscura caligine”, ostacolando la comprensione della verità, come Gregorio afferma in or. 28,4. Per la quantità della υ cfr. Piottante, p. 66. Si noti, inoltre, la figura etimologica ἐπαχλύω - ἀχλὺς. ― Il sostantivo ὄρφνη, che indica 113 l’oscurità della notte è collocato, nella poesia epica, sempre in posizione clausulare come nel passo in oggetto, a partire da Apoll. Rh. 3,750; Theocr. 24,46; poi Man. Apot. 5,99; Quint. Smyrn. 2,614; Nonn. Dion. 7,307; etc., e ricorre solo in questo luogo dell'opera del Cappadoce. Si noti, infine, la posizione di rilevanza occupata da ἀχλύς e ὄρφνη, collocati nei punti strategici del verso, cioè incipit e clausola. 50-64 Sezione “mitica” del carme. Gregorio passa in rassegna quattro famose storie della mitologia che hanno come protagonisti Narciso, Medea, Agave e Atteone. Gli exempla mitici citati hanno un chiaro valore apotropaico. Si tratta di «exempla as ἀποτροπή», come sostiene Demoen, Exempla, pp. 86-87 sottolineando il δεσμός tra la situazione in cui versa la famiglia di Vitaliano e gli episodi mitici brevemente accennati, perché «family conflicts may end tragically», come le vicende assunte a paradigma. L’io loquens adducendo tali episodi tenta di convincere il padre a placare la sua ira verso i figli, scongiurando un epilogo nefasto della vicenda familiare; l’intento, in un certo senso, richiama quello della tragedia, consistente nell’imitazione di azioni terribili e pietose dalle quali dovrebbe scaturire la catarsi (cfr. Arist. Poet. 1449B; 1452A-B). 50-51 Quando Gregorio deve introdurre un racconto o un exemplum si avvale generalmente della formula Πυνθάνομαι ὡς…, come nota Piottante, p. 133, ma non nel passo in questione (così come non l’ha fatto supra, vv. 42-45 per introdurre la digressione su Policrate di Samo ricorrendo, invece, all’apostrofe). 50 Τί τάδε θρηνήσειε γόων πολύϊδρις ἀοιδός; Lo stesso verso si riscontra in carm. II,1,13 v. 195, al termine di una sezione che ricorda eventi dell’Antico Testamento. πολύϊδρις ἀοιδός Demoen, Exempla, p. 87 nota 163 ipotizza, flebilmente, che l’ἀοιδός che “canterebbe” i μῦθοι della sezione, ad esclusione di quello di Narciso richiami Euripide — ma in questo senso sarebbe più opportuno parlare di un τραγῳδός —, sulla base della connessione tra le vicende narrate: la storia di Agave e Penteo costituisce la trama delle Baccanti, l’uccisione dei figli da parte di Medea, l’apice dell’omonimo dramma, mentre la triste vicenda di Atteone viene ricordata da 114 Cadmo, nelle Baccanti, come triste modello da non imitare (tra l’altro Atteone è cugino di Penteo perché figlio di Autonoe, sorella di Semele); cfr. Masson-Vincourt, p. 185. — La iunctura πολύϊδρις + ἀοιδός è posta in clausola anche in Theocr. 15,97, ma cfr. anche Anth. Pal. 15,39,1 πολύιδρις ἀοιδῆς, nonché Greg. Naz. carm. I,2,29 vv. 145-146 …ἴδρις ἀοιδῆς / ἴδριν ἀοιδοσύνης… (cfr. Knecht, p. 91) e infra, vv. 198-199 …ἴδρις / ἀοιδῆς… . θρηνήσειε γόων La funzione dell’aedo, oltre ad essere quella di cantare gesta eroiche di valorosi uomini è anche quella di intonare lamenti funebri, cfr. Hom. Il. 24,720-722, παρὰ δ’ εἷσαν ἀοιδοὺς / θρήνων ἐξάρχους, οἵ τε στονόεσσαν ἀοιδὴν οἳ μὲν ἄρ’ ἐθρήνεον e Hes. fr. 305 West-Merkelbach ἀοιδοὶ …θρηνοῦσιν. Si noti l’accostamento di due termini, θρηνήσειεν γόων, che rimandano ad uno stesso campo semantico, accostamento utilizzato anche da Aesch. fr. 749a Mette e 291 Radt: θρηνεῖ δὲ γόον τὸν ἀηδόνιον; Soph. El. 104, λήξω θρήνων στυγερῶν τε γόων; Eur. Hec. 434 θρήνοισι μητρὸς τήνδε τ’ ἐκτήκω γόοις; Εur. Med. 1211, ἐπεὶ δὲ θρήνων καὶ γόων ἐπαύσατο (stesso verso in Christ. pat. 1231); nonché Greg. Naz. carm. I,2,25 v. 213 Θρήνοις τε πολλοῖς ἀνακαλεῖ καὶ γόοις, e ancora Christ. pat. 2296 Τίς ἐστιν ὃς θρηνῶν γοῶν τ’ ἔξω στένει; LSJ s.v.; Oberhaus, p. 114. ― I lamenti intonati dall' ἀοιδός potrebbero richiamare quelli dei due figli di Vitaliano che al v. 154 sono definiti "gementi", γοάοντας. 51 μῦθον Come afferma Demoen, Exempla, p. 213, il termine μῦθος deve essere inteso nel senso di “plot, ὑπόθεσις, argumentum”, ma più specificatamente esso indica in questo caso le “vicende mitiche” che Gregorio si accinge a trattare nei versi successivi; cfr. LSJ s.v. μῦθον…ἐδώκαμεν Per questa iunctura cfr. Greg. Naz. carm. II,1,93 v. 4 ἀμφήκη μῦθον ἔδωκε Λόγος; or. 43,8; nonché Aesch. Pr. 826 δοὺς μύθων ἐμῶν; Him. or. 9 …δῶ…μῦθον ἐρωτικόν; Plut. Mor. de Her. mal. 855d τοῖς μύθοις δίδονται; Them. or. Περὶ φιλίας 279b Harduin: διδοὺς μῦθον. 52-61 115 Sebbene Gregorio evochi i miti pagani per denunciarne l’immoralità, quali exempla da non seguire, egli si serve anche di essi per mostrare, per converso, i principi della morale cristiana: la missione del predicatore cristiano non si limita alla denuncia dei falsi valori, ma è diretta all’affermazione di quelli veri ai quali un cristiano deve appellarsi. È questo il caso degli exempla mitici chiamati in causa in questa sezione del carme: la mitologia pagana ci insegna che in preda ad una passione, alla follia, alla vendetta, o all’invasamento divino si commettono azioni efferate ai danni di persone care, ma il versetto biblico addotto a commento mostra il valore su cui si fonda la morale cristiana, cioè l’amore filiale, e della “propria carne” (da intendere, lato sensu, come parte o propagazione di sé): σάρκας δ’ οὔ ποθ ἑάς τις ἀπέστυγε (v. 54, cfr. Eph 5,29); Masson-Vincourt, pp. 159 e 180. Val la pena notare, infatti, che Gregorio utilizza un versetto biblico a commento di un racconto mitologico. Questa è una dimostrazione dell’acquisita "neutralità" del mito diventato comune patrimonio culturale e letterario (anche se in questo caso i protagonisti non sono dèi) e possibile oggetto di riuso; per questa tematica cfr. Masson-Vincourt, pp. 212ss. I protagonisti dei μῦθοι trattati in questa sezione del carme sono legati da un sottile fil rouge: tutti fanno del male a qualcosa o a qualcuno che è loro caro, che amano e appartiene loro, così come afferma il versetto paolino: Narciso, nell’estrema edonistica ammirazione di sé, arriva ad uccidersi; Agave, in preda all’invasamento bacchico uccide il figlio Penteo; Medea, per folle vendetta e gelosia verso il marito, sacrifica i propri figli; i cani di Atteone, istigati da Artemide, dilaniano il loro padrone; cfr. Masson-Vincourt, pp. 232ss. È questo che l'io loquens aborrisce: il padre non deve comportarsi come i protagonisti di questi μῦθοι, maltrattare, cioè, i suoi figli. 52-53 In questi due versi Gregorio fa riferimento al mito di Narciso richiamato anche in carm. I,2,29 vv. 153-156 all’interno di un breve excursus nel quale esso è legato al mito della ninfa Eco: πυνθάνομ’, ὡς κενεὴν, καὶ ἀνείδεον ὑστερόφωνον / ἠχώ τις ποθέων πλάζεθ’ ὑπὲρ σκοπέλων. / καὶ μορφῆς τις ἑῆς ποτ’ ἐράσσατο, καὶ κατὰ πηγῆς / ἥλατ’ ἐπ’ εἰδώλῳ κάλλεος οὐλομένου. In I,2,29 l’εἴδωλον di cui si innamora il giovane Narciso è paragonato al viso truccato della donna e considerato in senso negativo, come qualcosa, cioè, appartenente all’effimero mondo delle apparenze e 116 dunque pericoloso, come vuole la fonte rappresentata da Plot. Enn. I,6,8, cfr. Knecht, pp. 92-93. Il mito di Narciso è entrato a far parte della cultura europea sulla base del racconto di Ovidio Met. 3,339-510, come sottolinea Pellizer, il quale afferma inoltre che «la storia di Narciso non sembra potersi definire un mito greco, mentre nelle assai più ridotte forme in cui lo troviamo narrato in lingua greca, a partire dalla fine del I sec. a. C., non appare propriamente nemmeno un mito, ma un racconto eziologico…», cfr. M. Bettini-E. Pellizer, Il mito di Narciso. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi, Torino 2003 pp. 37ss., in part. pp. 73-76 e 109-111; LIMC VI, s.v. Narkissos. Come già si è detto, Gregorio nel passo in oggetto (come in carm. I,2,29) segue la “versione plotiniana” che non riporta il nome del fanciullo, ma definisce il racconto un μῦθος, e soprattutto fornisce una “variante” riguardo la tragica morte del ragazzo che avviene, secondo la fonte, per annegamento: …Εἰ γάρ τις ἐπιδράμοι λαβεῖν βουλόμενος ὡς ἀληθινόν, οἷα εἰδώλου καλοῦ ἐφ’ ὕδατος ὀχουμένου, ὁ λαβεῖν βουληθείς, ὥς πού τις μῦθος, δοκῶ μοι, αἰνίττεται, δὺς εἰς τὸ κάτω τοῦ ῥεύματος ἀφανὴς ἐγένετο (Plot. Enn. I,6,8): per un’analisi delle fonti letterarie del mito cfr. anche F. Frontisi-Ducoux e J.-P. Vernant, Ulisse e lo specchio. Il femminile e la rappresentazione di sé nella Grecia antica, trad. it. a cura di C. Donzelli, Roma 1997, pp. 161ss. Tra gli scrittori cristiani troviamo, inoltre, la menzione del mito anche in Clem. Alex. paed. 3,2,11 Ἡμῖν δὲ ὁ λόγος παραινεῖ «μὴ σκοπεῖν τὰ βλεπόμενα, ἀλλὰ τὰ μὴ βλεπόμενα· τὰ γὰρ βλεπόμενα πρόσκαιρα, τὰ δὲ μὴ βλεπόμενα αἰώνια». Ὃ δὲ καὶ πέρα τῆς ἀτοπίας προβέβηκεν, τῆς ἐπιπλάστου μορφῆς τῆς ἑαυτῶν οἷον ἀνδραγαθήματός τινος ἢ ἐπανορθώματος κάτοπτρα ἐπινενοήκασιν, ἐφ’ ἧς ἀπάτης μάλιστα κάλυμμα ἐπιτιθέναι ἐχρῆν· οὐδὲ γάρ, ὡς ὁ μῦθος Ἑλλήνων ἔχει, Ναρκίσσῳ προεχώρησεν τῷ καλῷ τῆς ἑαυτοῦ εἰκόνος γενέσθαι: Clément d’Alexandrie, Le Pedagogue III, SCh 158, Paris 1970, pp. 30-33; Clemente Alessandrino, Il Protrettico, il Pedagogo, a cura di M.G. Bianco, Torino 1971, p. 392 nota 17. Mi discosto dall’interpretazione del mito di Narciso fornita da Masson-Vincourt, p. 185, che vede in esso un esempio da seguire in opposizione alle vicende di Medea e Agave: secondo la studiosa, infatti, Gregorio, interpreterebbe il gesto di Narciso, il gettarsi, cioè, nella fonte, come l’espressione di una volontà che non perde la propria carne, ma si sacrifica per essa. Mi sembra, invece, che il versetto paolino posto a commento non può che condannare la 117 vicenda: in primo luogo perché Narciso è in preda ad una passione amorosa, dunque, la sua volontà di azione è offuscata e deviata (come anche negli altri exempla); in secondo luogo si potrebbe forse pensare che Gregorio intenda la vicenda come un caso, in un certo senso, di suicidio - μιν ἔσοπτρον ἀπώλεσεν- e sebbene il Cappadoce, pare, non si è mai espresso chiaramente sulla vicenda, la sua disapprovazione non può essere messa in dubbio: sull’argomento cfr. L. Giordano, Sull’etica giuridica e Sacra Scrittura nel IV sec.: il problema del suicidio, in AA.VV., L’Etica cristiana nei secoli III e IV: Eredità e Confronti, Studia Ephemeridis Augustinianum 53, 1996, pp. 131-150, in part. pp. 140ss. 52 Stesso verso di carm. I,2,29, 155, in enjambement col successivo. μορφῆς Tra le fonti della storia di Narciso in lingua greca ritroviamo un breve racconto di Conone conservato in Phot. Bibl., coll. 134b 35-36. Sebbene la vicenda di Narciso in Conone abbia una funzione eziologica, in quanto fa derivare la nascita del fiore omonimo dal luogo dove si uccise il giovane, sembra interessante notare la presenza del termine μορφῆς: Ὁ δὲ Νάρκισσος ἰδὼν αὑτοῦ τὴν ὄψιν καὶ τὴν μορφὴν…; termine che si riscontra anche in Callistr. Descr. 5,3 …τὸν Νάρκισσον, ὃν ἐπὶ πηγὴν ἐλθόντα τῆς μορφῆς αὐτῷ καθ’ ὑδάτων ὀφθείσης… . ― La costruzione di ἐράω con μορφή è presente anche in Xen. Symp. 8,29 Ζεύς… μορφῆς ἠράσθη, e in Corp. Herm. Poim. 12,4 ὁ θεὸς ἠράσθη τῆς ἰδίας μορφῆς. κατὰ πηγῆς / ἥλατο La costruzione ἅλλομαι + κατὰ e il genitivo è utilizzata nell’epos per esprimere generalmente moto da luogo, o provenienza, cfr. Hom. Il. 5,111 καθ’ ἵππων ἆλτο χαμᾶζε; 18,616 ἆλτο κατ’ Οὐλύμπου; Apoll. Rh. 2,286 κατὰ δ’ αἰθέρος ἆλτο οὐρανόθεν. Nel passo in oggetto la presenza della preposizione κατὰ indica, in particolare, un movimento verso il basso; per un’espressione simile cfr. Ach. Tat. 5,7,5 …ἁλέσθαι κατὰ τῆς θαλάσσης. 53 Gregorio, come anticipato, segue la “variante plotiniana” del μῦθος che prevede la morte per annegamento del giovane dopo aver visto la sua μορφή riflessa nell’acqua. L’espressione καὶ μιν ἔσοπτρον ἀπώλεσεν εἴδεος ἐσθλοῦ trova una 118 perfetta rispondenza con il cit. v. 156 di carm. I,2,29 ἐπ’ εἰδώλῳ κάλλεος οὐλομένου. ἔσοπτρον Lo “specchio d’acqua”- ἔσοπτρον- in cui Narciso vede riflessa la propria immagine lo conduce alla morte, μιν ἔσοπτρον ἀπώλεσεν. Il termine, usato qui metonimicamente per indicare l’immagine riflessa, ricorre anche in or. 5,22 dove Gregorio richiama un episodio della vita di Atena secondo il quale la dea, mentre suonava il flauto che aveva ella stessa creato, vide in uno specchio d’acqua la sua immagine deformata e ne rimase tanto disgustata che gettò via lo strumento: Τὴν Ἀθηνᾶν δὲ οὐκ ἤκουε τὴν ἑαυτοῦ θεόν, ὅτι καὶ τοῖς αὐλοῖς κατηράσατο οἷς ἐνασχημονοῦσαν ἑαυτὴν κατεμάνθανεν, ἀντ’ ἐσόπτρου χρησαμένη τῷ ὕδατι (cfr. Apoll. Bibl. I,4,2). Il potere “negativo” che può esercitare un’immagine riflessa dallo specchio viene polemicamente indicato dal Cappadoce come τέχνη in carm. I,2,2 vv. 620-623 relativamente alle capacità degli storni di emettere suoni simili alle parole umane: Ψῆρες μὲν λαλέουσιν ὁμοίϊον ἀνθρώποισι, / φωνῆς ἀλλοτρίης ζηλήμονες, ἣν ἐδίδαξεν / εἴδωλον ξεστοῖο κατ’ εἰσόπτροιο φαανθὲν / ψηρός, κρυπταδίην τε ἱεὶς ὄπα κερδαλέος φώς; e ribadito in II,2,4 vv. 84-85 …ἀληθείης ἰνδάλματα τηλόθε λεύσσων, / ὥστε δι᾽ εἰσόπτροιο…; ma cfr. anche Ant. Pal. 11,77,5 ἢν ἐθέλῃς τὸ πρόσωπον ἰδεῖν ἐς ἔσοπτρον ἑαυτοῦ; Lugaresi, Oratio V, p. 221; Zehles-Zamora, p. 262; Moroni, p. 124. Per il tema dello specchio legato al mito di Narciso si leggano i contributi di E. Pellizer, Narciso e le figure della dualità - G. Guidorizzi, Lo specchio e la mente: un sistema di intersezioni- M. Bettini, Narciso e le immagini gemelle, in M. Bettini (a cura di), La maschera, il doppio e il ritratto: strategie dell'identità , Roma-Bari 1992, pp. 13-60. εἴδεος ἐσθλοῦ La stessa iunctura viene usata da Gregorio in carm. II,1,1 vv. 53-54 …εἴδεϊ…/ ἐσθλῷ; cfr. Bénin, p. 548. 54 Richiamo esplicito a Eph. 5,29 οὐδεὶς γάρ ποτε τὴν ἑαυτοῦ σάρκα ἐμίσησεν; BP, p. 377. 54-55 δ’ ἄκουσα / ὡς 119 Formula introduttiva che Gregorio usa anche in carm. I,2,15 v. 29; II,1,13 v. 117; II,1,22 v. 15; II,1,34A vv. 101-102. 55-57 Agave e Penteo. Sebbene il nome dei protagonisti non venga esplicitamente menzionato, la history che si evince da questi versi avalla qualsiasi dubbio: è questo il caso (come nell'evocare gli altri personaggi mitici della sezione), come sottolinea Demoen Exempla, p. 148, in cui Gregorio si avvale della tecnica dell’allusion per utilizzare un episodio come exemplum. Punto cruciale del mito è, come è noto, l’uccisione di Penteo da parte della madre Agave in preda al furore bacchico. La storia è sintetizzata e scandita in tre momenti o tempi della narrazione: l’uccisione di Penteo, che Gregorio sottolinea con l’iterazione del verbo κτείνω, connessa e contemporanea al tempo della “visione”: ὡς μήτηρ φίλον υἷα κατέκτανε μαργοσύνῃσι/ κτεῖνε μέν, ὥς τινα θῆρα, τὸ δέρκετο; il rinsavimento della donna e la presa di coscienza dell’azione compiuta, ὡς δ’ ἐνόησε; infine la disperazione per l’orrendo misfatto μύρατο οὐκέτι θῆρα, πάϊν δ’ ὑπὸ χερσὶ δαμέντα. La fonte principale della vicenda è costituita da Eur. Bacch. 1043ss. (cfr. anche Apollod. Bibl. 3,5,2). 55 ὡς μήτηρ φίλον υἷα κατέκτανε Il verso riprende perfettamente la disperata preghiera che Penteo rivolge alla madre Agave: ὦ μῆτέρ με, μηδὲ…/παῖδα σὸν κατακτάνῃς (Eur. Bacch. 1120-1121). — Per un simile incipit in Gregorio cfr. carm. II,1,51 v. 6 Kαὶ μήτηρ φίλον υἷα. φίλον υἷα κατέκτανε La costruzione trova il suo modello in Hom. Il. 13,259 φίλον υἷα κατέκτανον e un interessante parallelo in Ephr. Abr. et Is. p. 223,4: ἀποκτεῖναι τὸν φίλτατον υἱόν e pulch. Ios. p. 292,4. — La iunctura φίλος + υἱός deriva da Hom. Il. 2,564; 5,377; 10,50; 13,249; 15,111; 23,289 (stessa posizione metrica del passo in oggetto); 24,333 etc.; Od. 2,17; 3,64; 14,317; 16,11; 24,151 etc.; hym. in Ven. 196; Hes. fr. 26,28 e 70,15 West & Merkelbach; utilizzata anche in Batrach. 261; Soph. OC. 1073; Callim. hymn. in Del. 58; Theocr. 13,8; 25,54-160; Orph. Arg. 503; Quint. Smyrn. 2,391; 3,628; 10,241 etc.; Or. Cels. 5,49; Eus. comm. in Ps. 61,11; Greg. Nyss. Eun. 3,2,107; Nonn. Par. 11,18; Anth. Pal. 7,343-615; nonché Greg. Naz. carm. I,2,1 vv. 419. 490; II,1,1 v. 440; II,1,16 v. 70; II,1,51 120 v. 6; II,2,1 v. 152; Anth. Pal. 8,27,4; Christ. pat. 616. 760; cfr. Sundermann, p. 122; Bénin, p. 748. μαργοσύνῃσι Tra le poche attestazioni del termine un posto rilevante spetta alla poesia di Gregorio. Il Cappodoce lo usa sia nel significato di “lascivia”, che di “follia”: cfr. carm. I,2,2 v. 499; I,2,14 v. 72; II,1,28 v. 12; II,1,1 v. 481; II,1,45 v. 100; II,1,46 v. 19; II,2,7 v. 95; LSJ s.v.; cfr. Zehles-Zamora, p. 220; Domiter, p. 165. 56 La costruzione circolare del verso è cadenzata dalla particelle μέν...δέ che occupano simmetricamente posizione iniziale e finale, scandendo i momenti chiave della narrazione: κτεῖνε μὲν… ὡς δ’ ἐνόησε. Il momento espresso dalla costruzione ὥς τινα θῆρα, τὸ δέρκετο, costituisce il fulcro dell’azione: la visione è, infatti, un elemento chiave nella vicenda euripidea, e Gregorio mostra di conoscerne bene la centralità. Sul tema, recentemente riproposto all'attenzione, cfr. G. Guidorizzi, Il corpo di Dioniso e il volto di Penteo: modelli di identità nelle Baccanti di Euripide, in F. Conca (a cura di), Ricordando Raffaele Cantarella. Miscellanea di studi, Milano 1999, pp. 187ss., in part. p. 189; C. Thumiger, Visione e identità nelle Baccanti di Euripide, Acme 60, 2007, pp. 3ss. 56 θῆρα In Omero e in Esiodo il termine θήρ indica un animale terrestre feroce, cfr. Il. 3,449 e Op. 277. Come si apprende dal racconto del nunzio in Eur. Bacch. 1043ss., Penteo, travestito da menade, si reca sul monte Citerone per spiare le Baccanti, ma scambiato per una belva (un “leone selvatico”, ὡς ὀρεστέρου λέοντος 1140-1141 o “cucciolo di leone”, λεοντοφυᾶ 1196) viene ucciso dalle donne invasate da Dioniso e guidate dalla madre del re, Agave. Ed è lei stessa a definire, non riconoscendolo, il figlio come θῆρα ai vv. 1106ss.: ἔλεξ’ Ἀγαύη· Φέρε, περιστᾶσαι κύκλῳ / πτόρθου λάβεσθε, μαινάδες, / τὸν ἀμβάτην θῆρ’ ὡς ἕλωμεν; cfr. anche vv. 1183; 1190; 1210, ma il dato interessante è che, prima, al v. 435 è invece Dioniso ad essere definito θήρ dal servo che lo ha appena catturato e lo ha portato al cospetto di Penteo: Πενθεῦ, πάρεσμεν τήνδ’ ἄγραν ἠγρευκότες ἐφ’ ἣν ἔπεμψας,… / ὁ θὴρ δ’ ὅδ’ ἡμῖν πρᾶος… . τὸ δέρχετο 121 Come anticipato il tema della visione, centrale nelle Baccanti euripidee, deve essere analizzato da due prospettive: da un lato, quella di Penteo, che mosso da uno spasmodico desiderio di spiare i riti delle Baccanti, travestito da donna, si reca sul Citerone, cercando di non farsi scoprire, come apprendiamo dal racconto del nunzio: πρῶτον μὲν οὖν ποιηρὸν ἵζομεν νάπος, …. ὡς ὁρῷμεν οὐχ ὁρώμενοι (10481050); poi non riuscendo a vedere bene le menadi sale su un abete: Πενθεὺς δ’ ὁ τλήμων θῆλυν οὐχ ὁρῶν ὄχλον ἔλεξε· … οὐκ ἐξικνοῦμαι μαινάδων ὄσσοις νόθων (1058-1060); e viene visto dalle donne: ὤφθη δὲ μᾶλλον ἢ κατεῖδε μαινάδας (1075); dall’altro quella della madre Agave (questa è la prospettiva che interessa a Gregorio) che vede, ma non riconosce il figlio … ὥς νιν γνωρίσασα μὴ κτάνοι / τλήμων Ἀγαύη… (1116-1117), perché ha le pupille stravolte διαστρόφους / κόρας (1122-1123) ἐν διαστρόφοις / ὄσσοις (1166-1167); che incita il coro e il padre Cadmo a “guardare” il trofeo della sua infausta caccia: ….νέον ἶνιν / ὡς ὁρᾶν πάρα (11741175) e φέρω δ’ ἐν ὠλέναισιν, ὡς ὁρᾶις, τάδε / λαβοῦσα τἀριστεῖα (1238-1239); che vuole “vedere” il figlio: τίς αὐτὸν δεῦρ’ ἂν ὄψιν εἰς ἐμὴν / καλέσειεν, ὡς ἴδηι με τὴν εὐδαίμονα; (1257-1258), ma che quando comprende ciò che è accaduto “vede” la triste sventura: ἔα, τί λεύσσω;… ὁρῶ μέγιστον ἄλγος ἡ τάλαιν’ ἐγώ (1280-1282). ὡς δ’ ἐνόησε Ci sembra che in questo caso il verbo νοέω debba intendersi come sinonimo del φρονέω euripideo: ἣ δ’… / οὐ φρονοῦσ’ ἃ χρὴ φρονεῖν (1123) afferma il nunzio, e nelle parole di Cadmo: φεῦ φεῦ· φρονήσασαι μὲν οἷ’ ἐδράσατε / ἀλγήσετ’ ἄλγος δεινόν (1259-1260). 57 θῆρα, πάϊν L’accostamento di questi due termini traduce il riconoscimento, da parte della madre Agave, del figlio Penteo scambiato per una fiera. Ci sembra interessante sottolineare, inoltre, la presenza, in questo verso, di B2, che va a cadere proprio tra questi due termini, quasi a sottolinearne l’inconciliabilità. ὑπὸ χερσὶ δαμέντα Locuzione molto comune, mutuata da Hom. Il. 2,860. 974; 3,352; 5,559. 564; 6,368; 8,334; 10,310. 397. 452; 16,420. 452; 20,94. 143; 23,675; Od. 18,156; Hes. Op. 152 (vedi supra, nota al v. 19). Cfr. anche Hes. Th. 490; Pind. Pith. 2,8; Aesch. Ag. 1495-1519; Dion. Chrys. or. 2,50; Or. Syb. 14,162; Nic. Col. Alex. 227; Quint. Smyrn. 1,393; 2,413; 122 5,566 etc.; ripresa da Greg. Naz. carm. I,1,27 v. 77; II,1,1 v. 550; II,1,45 v. 315; II,2,6 vv. 27-28; Anth. Pal. 8,147,2; 16,61,3 e 105; Nonn. Dion. 21,242; 45,12; Par. 18,148-149; cfr. Bénin, p. 785. 58-59 L’altra μήτερ che tradizionalmente è l’emblema della furia contro i figli è Medea. La fonte principale è, naturalmente, costituita dalla tragedia euripidea (cfr. anche Apollod. Bibl 1,9,28). Gregorio si concentra sull’aspetto fondamentale del vasto μῦθος che interessa la vita della donna, quello che gli è funzionale, cioè l’uccisione dei figli in preda all’ira e alla vendetta. Il termine, infatti, su cui volge il discorso è proprio ἀμφιχολωσαμένη: l’ira può portare a compiere azioni orribili, quali l’uccisione dei propri figli; la menzione della vicenda della donna barbara deve servire, dunque, da monito per allontanare istinti simili. Nel corso del poema, infatti, l’io loquens si rivolge più volte al padre intimandogli di “placare la sua ira”: δάμασον θυμὸν μέγαν (v. 134). Tra i numerosi studi sulla Medea euripidea una prospettiva interessante è portata alla luce da Rizzini, pp. 197ss. che analizza la vicenda sotto la precisa angolazione del tema dello sguardo che connota tutta la tragedia; e, tra gli altri, B. Gentili, La Medea di Euripide, e M.G. Fileni, Norme di comportamento e valori etici, in B. Gentili e F. Perusino (a cura di), Medea nella letteratura e nell’arte, Venezia 2000, pp. 29-41 e pp. 83-99. 58 μήτηρ τεκέεσσιν L'accostamento è mutuato da Theocr. 27,66 ed è ripreso in carm. II,2,1 v. 138; Anth. Pal. 8,38,4. φάσγανον ἧκεν L’atto di “affondare la spada” è reso tramite questa espressione omerica di Od. 22,84, che Gregorio utilizza ancora in carm. I,2,1 v. 668 (cfr. Sundermann, p. 220); cfr. anche Anth. Pal. 7,234,5; ma la presenza di φάσγανον rende esplicito il richiamo a Eur. Med. 39-40: δειμαίνω τέ νιν/ μὴ θηκτὸν ὤσηι φάσγανον δι’ ἥπατος, sventura preannunciata dalla nutrice nel prologo della tragedia e ripetuta da Medea stessa (379), φάσγανον che poi diventa ξίφος: ἄγ’, ὦ τάλαινα χεὶρ ἐμή, λαβὲ ξίφος (1244). — Il termine φάσγανον, tra l’altro, è molto usato in tragedia, cfr. Soph. Ai. 899; Tr. 930; Eur. Andr. 1074; Cycl. 456; El. 1222; Hec. 718; Hel. 95; Herc. 319; Or. 1481; Phoen. 123 1404; Lyc. Alex. 328; etc; nel verso gregoriano occupa la sedes del V metron, cfr. Hom. Il. 22,306. 311; 23,824; 10,145; 11,82; 22,79 etc. 59 ἀμφιχολωσαμένη λεχέων καὶ πατρὸς ἔροτως Il verso costituisce un adattamento delle battute della sticomitia tra Medea e Egeo: {Αι.} πότερον ἐρασθεὶς ἢ σὸν ἐχθαίρων λέχος; {Μη.} μέγαν γ’ ἔρωτα· πιστὸς οὐκ ἔφυ φίλοις (697-698). Per l’ira della madre nel modo animale cfr. Opp. An. Hal. 1,721 …μητρὸς χόλον…. ἀμφιχολωσαμένη Sembra che il verbo sia di coniazione gregoriana, cfr. LSJ s.v., ma il tema dell’ira è reiterato e insistito in tutto il dramma. Sin dalle prime battute la nutrice attribuisce la disperazione e il comportamento di Medea a questo sentimento: {Τρ} οὐδὲ παύσεται / χόλου, σάφ’ οἶδα, πρὶν κατασκῆψαί τινι (93-94) … μήτηρ / κινεῖ κραδίαν, κινεῖ δὲ χόλον (98-99); …οὐκ ἔστιν ὅπως ἔν τινι μικρῶι / δέσποινα χόλον καταπαύσει (171-172); tesi confermata da Giasone: …οὐδὲ νῦν τολμᾶις μεθεῖναι καρδίας μέγαν χόλον (589590) e dal coro δειλαία, τί σοι φρενοβαρὴς / χόλος προσπίτνει…; (1265-1266); e Medea stessa finge di aver placato la sua “collera”:… οὐκ ἀπαλλαχθήσομαι / θυμοῦ; (878-879) e ancora σπονδαὶ γὰρ ἡμῖν καὶ μεθέστηκεν χόλος (899), poi, preparandosi ad uccidere i figli, afferma: θυμὸς δὲ κρείσσων τῶν ἐμῶν βουλευμάτων, / ὅσπερ μεγίστων αἴτιος κακῶν βροτοῖς (1079-1080). λεχέων Con questo termine Gregorio riprende la motivazione principale dell’ira di Medea, cioè il tradimento di Giasone. Il tema del talamo nuziale tradito è ricordato spesso nella tragedia, a partire dal secondo stasimo dove si parla di …ἑτέροις ἐπὶ λέκτροις; alle accuse di Medea: …καινὰ δ’ ἐκτήσω λέχη, / παίδων γεγώτων· εἰ γὰρ ἦσθ’ ἄπαις ἔτι, /συγγνώστ’ ἂν ἦν σοι τοῦδ’ ἐρασθῆναι λέχους (489-491) e σὺ δ’ οὐκ ἔμελλες τἄμ’ ἀτιμάσας λέχη (1354), alle battute del coro: εἰ δὲ σὸς πόσις καινὰ λέχη σεβίζει (155) e μεταστένομαι δὲ σὸν ἄλγος, ὦ τάλαινα παίδων / μᾶτερ, ἃ φονεύσεις / τέκνα νυμφιδίων ἕνεκεν λεχέων (997-999); e alla disperazione di Giasone εὐνῆς ἕκατι καὶ λέχους σφ’ ἀπώλεσας (1338) e λέχους σφε κἠξίωσας οὕνεκα κτανεῖν; (1367). Una γνώμη generale è affermata dallo stesso Giasone: οὐδ’ ἂν σὺ φαίης, εἴ σε μὴ κνίζοι λέχος. / ἀλλ’ ἐς τοσοῦτον ἥκεθ’ ὥστ’ ὀρθουμένης / εὐνῆς γυναῖκες πάντ’ ἔχειν νομίζετε, / ἢν δ’ αὖ γένηται ξυμφορά τις ἐς λέχος, / τὰ λῶιστα καὶ κάλλιστα 124 πολεμιώτατα /τίθεσθε…(568-570); per una particolare prospettiva sull’argomento si legga B. Gentili, Il ‘letto insaziato’ di Medea e il tema dell’ ‘adikia’ a livello amoroso nei lirici e nella Medea di Euripide, in Studi Classici e Orientali 21, 1972, pp. 60-72. πατρὸς ἔρωτος Sul tema dell’ ἔρως πατρός in altro contesto, cfr. Plat. Symp. 199d: …πότερόν ἐστι τοιοῦτος οἷος εἶναί τινος ὁ Ἔρως ἔρως, ἢ οὐδενός; ἐρωτῶ δ’ οὐκ εἰ μητρός τινος ἢ πατρός ἐστιν— γελοῖον γὰρ ἂν εἴη τὸ ἐρώτημα εἰ Ἔρως ἐστὶν ἔρως μητρὸς ἢ πατρός— ἀλλ’ ὥσπερ ἂν εἰ αὐτὸ τοῦτο πατέρα ἠρώτων… . 60-61 A concludere la rassegna è il μῦθος di Atteone. La vicenda vede il cacciatore, scambiato per una cerva, sbranato dai suoi stessi cani. A differenza dei μῦθοι precedenti Gregorio non riporta alcuna motivazione che stia alla base del triste destino dell’uomo, ma in clausola colloca un nesso da lui molto sfruttato, ἃς φιλέεσκε, che potrebbe costituire, in un certo senso, la chiave di lettura non solo del racconto in questione, ma dell’intera “sezione mitica” del carme (vv. 52-61): come già anticipato, i quattro exempla mitici menzionati sono legati da un comune denominatore: i protagonisti delle leggende arrecano la morte o la subiscono a/da persone a loro care, tra le quali c’è un rapporto di consanguineità, o di affetto, come tra l’io loquens e il destinatario del carme, Vitaliano, figlio e padre (cfr. infra, v. 61 ἃς φιλέεσκε). Numerose sono le fonti da cui il Cappadoce ha potuto conoscere il racconto: Eur. Bacch. 337-341; Callim. hymn. 5,107-116; Apollod. Bibl. 3,4,4, e differenti sono le versioni del mito, che attribuiscono al cacciatore la colpa di essersi vantato di essere superiore nella caccia ad Artemide, o di averla sorpresa al bagno (cfr. i frammenti di Hes. Cat. 158a e Stesich. 236), ma comune la punizione, cioè l’essere sbranato dai propri cani; cfr. LIMC I, s.v. Aktaion; L. R. Lacy, Aktaion and a lost “bath of Artemis”, Journal of Hellenic Studies 110, 1990, in part. pp. 26-36. Una rapida menzione di Atteone si legge anche in Greg. Naz. or. 43,8. 60 θηρητῆρα κατ’ οὔρεος Come argomentato da Moroni, p. 134 a comm. di carm, II,2,4 v. 105, il termine θηρητήρ, presente solo nell’Iliade, sarà poi ripreso dai poeti tardi. In Gregorio è usato, oltre al passo in questione e in quello cit., anche in carm. I,2,9a v. 36 dove, all’interno di una “metafora della caccia”, indica, in chiave moraleggiante, il 125 venatorem virtutis, l’uomo di fede, cioè, che cerca il bene, καλός, combattendo contro le insidie della belva / demonio che tenta di sviarne le tracce: …Πολλάκι δ’ αὖτε / ἐσθλοῦ τ’ ἠδὲ κακοῖο διάκρισιν ἐχθρὸς ἄμερσεν, / ὡς θὴρ κερδαλέος τις ἐπ’ ἴχνεσιν ἴχνια βάλλων / ὥς κεν θηρητῆρα καλοῦ πλάγξειε δόλοισιν (33-36); cfr. Palla-Kertsch, p. 146. In Nonn. Dion. 44,316-317 il sostantivo designa proprio l’uomo Atteone: τίς νέμεσίς ποτε τοῦτο, κυνοσσόος εἰ παρὰ παστῷ / ἤθελε θηρητῆρα λαγωβόλον υἷα λοχεῦσαι, / εἴκελον Ἀκταίωνι φιλοσκοπέλῳ τε Κυρήνῃ, / μητρῴων ἐλάφων ἐποχημένον ὠκέι δίφρῳ; — Per il nesso κατά + ὄρος vedi Hom. Il. 4,452; 11,493; 21,485; per la connessione tra il θηρατήρ e l’ ὄρος cfr. Opp. Ap. Hal. 1,710711; Them. or. Βασανιστὴς ἢ φιλόσοφος Harduin p. 238c; Quint. Smyrn. 1,616-617; 2,372; Nonn. Dion. 5,325-326. ἀντ’ ἐλάφοιο / ὠκείης Un’espressione simile si legge in carm. II,1,11 v. 863 nella sezione dedicata alla tentata usurpazione di Massimo: …ἔλαφος ἀντὶ παρθένου, proverbio derivato dal mito di Ifigenia che «veniva applicato agli scambi inattesi e svantaggiosi», cfr. Trisoglio, Autobiografia, p. 194; Jungck, p. 189. Per il rapporto tra il θηρατήρ e l’ἔλαφος cfr. Opp. An. Hal. 1,238; Quint. Smyrn. 1,616; 2,372. Per l’immagine del “cervo sui monti” cfr. Hom. Il. 11,475; 16,757; 21,486; 22,189; Xen. Cyn. 9,11; Opp. Ap. Cyn. 2,235; Quint. Smyr. 4,221. Altro è il contesto e differente il significato dell’immagine biblica del “cervo sui monti” che si legge in Ct. 2,8-9 e Ps. 103,18: ὄρη τὰ ὑψηλὰ ταῖς ἐλάφοις (citato da Greg. Naz. in or. 32,9 per asserire l’ordine che regna nel cosmo). — Omerica, inoltre, è la iunctura ἐλάφοιο / ὠκείης (cfr. Od. 6,104) ripresa anche da Nonn. Dion. 5,298 nel passo relativo alla vicenda di Atteone. 61 ἐδάσαντο θοαὶ κύνες Il modello della iunctura θοαὶ κύνες si può rintracciare in Eur. Bacch. 977: ἴτε θοαὶ Λύσσας κύνες, ἴτ’ εἰς ὄρος. Nella poesia esametrica precedente a Gregorio essa occupa, come nel passo in questione la stessa posizione metrica usata dal nostro autore, cioè prima della dieresi bucolica, cfr. Eumel. fr. 9,2 Kinkel; Apoll. Rh. 3,1373; 4,1666; Callim. hymn. in Dian.17. — Per la costruzione di δατέομαι con κύων vedi Hom, Il. 22,354; 23,21 etc.; Quint. Smyrn. 8,144. Per il destino dei cani di Atteone cfr. A. Casanova, Il mito di Atteone nel catalogo esiodeo, Rivista di Filologia e di Istruzione 126 classica, 97, 1969, pp. 31-46; A. Colonna, I cani di Atteone in Esiodo, Sileno 1, 1975, pp. 297-300. ἃς φιλέεσκε Per questo nesso vedi supra, v. 44, ma cfr. la clausola di Eur. Bacch. 338 dove, in riferimento ai cani di Atteone, si legge:… σκύλακες ἃς ἐθρέψατο. 62-64 Riallacciandosi all’exordium della sezione mitica, l’io loquens richiama in causa l’ἀοιδός di v. 50 e si augura che il padre non venga da lui annoverato insieme ai personaggi sopra citati, Narciso, Medea, Agave e Atteone: μή σε, πάτερ, τούτων τίν’ ἀριθμήσειεν ἀοιδός (62). L’atteggiamento è fortemente critico e accusatorio: l'io loquens rimprovera al padre di essersi mostrato malvagio verso i suoi figli, ἀοιδός / μνωόμενος πατέρων κακίης…(62-63) e di aver fatto scoppiare una “guerra interna” alla famiglia, …καὶ πήματ’ ἀείδων / ἐνδήμου πολέμοιο καὶ αἵματος ἀντιβίοιο (6364). A questo proposito Demoen Exempla, p. 88 nota 163 avanza la flebile ipotesi di poter intravedere, in questi versi, un riferimento a qualche tragedia euripidea che abbia come sfondo dissidi familiari, come l’Alcesti, l’Antigone, le Fenicie o le Supplici. Si noti, infine, la circolarità del v. 63 con i due participi posti in posizione incipitaria e clausolare il cui soggetto è l’ἀοιδός di v. 62, in enjambement con il successivo, e la figura etimologica ἀοιδός… ἀείδων. 62 Il verso ribadisce, ancora una volta, le negatività degli exempla mitologici supra citati, che Demoen, Exempla, p. 97 ha classificato come «mythological histories ἀπ’ ἐναντίου» rispetto alla vicenda che sottende il carme. Inoltre lo studioso classifica l’espressione τούτων τιν’ ἀριθμήσειεν ἀοιδός come una formula perifrastica atta a connettere «terms of comparison» (p. 157). Per ἀριθμέω vedi anche infra, v. 115. 63 μνωόμενος πατέρων κακίης La costruzione μνωόμενος πατέρων riprende vividamente Theocr. epigr. 7,4 Gow (= Anth. Pal. 7,659,4). — Stessa espressione di v. 65 …κακίῃ δέ τε πατρὸς, ma cfr. anche Lys. 1Theom. 28,7; Or. Cels. 2,47; Eus. Ps. 145 …ἐν κακίᾳ πατέρα (PG 24,65); Is. 16,9; Lib. decl. 39,1 (ma cfr. anche decl. 8,1 κακία γὰρ παιδὸς αἰσχύνη πατρός); or. 33,13; Greg. Nyss. hom. 4 in Cant. (GNO 6,115); Ioh. Chrys. serm. in Gen. IX,5 (PG 54,627); fr. in Jer. 6,13 (PG 64,825). ― Per κακία vedi infra, vv. 65. 68. 127 64 La struttura chiastica del verso fa sì che i termini πολέμοιο e αἵματος occupino un ruolo centrale e il singolare accostamento tradisce un’aspra considerazione della vicenda familiare: l’odio in famiglia genera una guerra. Anche Plutarco, nell'operetta de fraterno amore sostiene la positività della concordia familiare, in particolare tra fratelli, come fondamento della prosperità della casa: …οὕτως ἀδελφῶν ὁμοφροσύνῃ καὶ γένος καὶ οἶκος ὑγιαίνει καὶ τέθηλε…(479A), precetto che potrebbe connettersi ai vv. 165ss. del nostro carme in cui l'io loquens si esprime, con un certo rammarico, sul diverso trattamento che il genitore ha riservato alle figlie femmine, rispetto a quello serbato ai figli maschi, cfr. infra, nota ad. loc. Com’è noto, le rappresentazioni di una στάσις familiare, lato sensu, hanno costituito il fulcro di numerose tragedie divenendo un materiale privilegiato della rappresentazione tragica (si veda, per esempio, l’Orestea, I Sette contro Tebe, l’Antigone e l’Edipo a Colono). Ma non solo: gli scontri familiari hanno fornito numerosi spunti alla speculazione filosofica (Platone e Aristotele) e all’oratoria (Lisia, Isocrate, Demostene), tanto da superare i topoi del caso e poter affermare che «se la famiglia è il luogo dove l’odio è il più terribile, ciò avviene perché bisogna vedere in essa la fonte di ogni valore». È questa la conclusione a cui giunge Loraux, pp. 5 ss., analizzando, sulla base delle fonti supra citate, le ripercussioni che una stasis familiare genera nella città – la famiglia diventa la fonte della guerra civile - e viceversa. ἐνδήμου πολέμοιο Il dissidio tra padre e figli è definito con termini bellici: Gregorio non esita ad usare una parola molto forte, πόλεμος, per descrivere i correnti rapporti familiari (cfr. anche supra, v. 19 e infra, vv. 231. 348). Termini simili sono utilizzati anche da Plutarco a proposito dello scontro tra fratelli per accaparrarsi l'eredità del defunto genitore: …ἐπὶ δὲ τὴν νέμησιν τῶν πατρῴων μὴ καταγγείλαντας ἀλλήλοις πόλεμον ὥσπερ οἱ πολλοί… (de fraterno amore 483 C-D). Agostino, rievocando lo scontro tra Davide e il figlio Assalonne (l'episodio biblico è richiamato anche infra, vv. 318ss., come exemplum di pietas paterna nei confronti del figlio ribelle), parla di un bellum domesticum: in regnorum libris nouimus hoc factum esse, exstitisse inimicum abessalon patri suo, gessisse contra illum non solum ciuile, uerum etiam domesticum bellum (Enarr. in 128 Psal. 142,1); nonché un simile concetto ricorre nelle declamazioni di Libanio che trattano il tema dell'ἀποκήρυξις, cfr. decl. 10,22: …τοῖς γένεσι δὲ οὐ πολεμοῦντα. ἥττης γὰρ οἶμαι τῆς ἐν πολέμῳ τέλος διασπᾶσθαι γονέας ἀπὸ τέκνων; 47, 25. 52. 58. 63; 48,9; e in Luc. Abdic. 18 …ὢ μάχης ἣν ἐσάγεις, πάτερ, τοῖς νόμοις κατὰ τῆς φύσεως. — Una iunctura simile a quella del passo in oggetto si rileva, in altro contesto, in Dion. Hal. Ant. Rom. 8,83 dove l’autore si avvale della figura dell’endiadi attestata dalla presenza dell’aggettivo connotativo ἔμφυλος: ἐμφυλίους τε καὶ ἐνδήμους…πολέμους: i due attributi designano una realtà molto vicina alla famiglia/stirpe/tribù, un microcosmo, in cui si intrecciano profondi legami, tanto da poter essere considerati sinonimi (cfr. il Lexicon di Esichio s.vv. e Chantraine, Dictionnaire, pp. 273 e 1233). Lo spettro semantico che interessa simili espressioni è molto vasto: esse, infatti, sono attestate, nelle diverse accezioni, in tutta la letteratura classica e oltre. Per ἐμφύλιος / ἔμφυλος + πόλεμος, nei diversi contesti, cfr. Sol. fr. 4,19 West; Demost. de falsa legatione 255,29; Ael. NA 7,10; Athen. Deipn. 12,18 Kaibel; Plut. Caes. 57,1 etc.; Phil. Alex. fug. et inv. 174,5; spec. leg. 3,16; quaest. in Gen. 3,7 etc.; e in ambito cristiano, cfr. Eus. v. C. 2,49; Ioh. Chrys. exp. in Ps. 136,1 ἐμφυλίων αἰμάτων καὶ πολέμων (PG 55,379). Molto ricorrente, inoltre, anche la iunctura di οἰκείος con πόλεμος con varie accezioni, per cui cfr. Hdt. 5,23. 7,235; Thuc. 1, 118; 4,64; Eur. Her. 419 e fr. 173 Nauck; Is. Pan. 168,3; Plat. Menex. 243e e Resp. 521a; Arist. Rhet. 1360a Bekker; Ael. Arist. Ἀθηνᾶ p. 16,14 Jebb; App. bell. civ. 5,3,27; Dion. Hal. Ant. Rom. 6,23; ma vedi ancora Bas. hom. Spir. 30,78 ἡμῖν δὲ ὁ χαλεπώτατος πόλεμος πρὸς τοὺς οἰκείους ἐστί; Ioh. Chrys. exp. in Ps. 6,12 ἐκεῖνος μὲν γὰρ ἔξωθεν ὁ πόλεμος, αὕτη δὲ ἔνδον ἐστὶν ἡ μάχη (PG 55,58); hom. 50 in Ac. ἐμφύλιος ἔμελλεν ἡ μάχη εἶναι, οἰκεῖος ὁ πόλεμος (PG 60,348) etc.; e, similmente, Hdt. 8,3 στάσις ἔμφυλος; Dio Chrys. or. 17,10 ἐμφύλους ἔριδας; Eus. d.e. 3,7 ἐμφυλίους στάσεις: Loraux, pp. 8-11 e 14ss.; Regali, Carme, p. 531 e nota 23. ― Si vedano, inoltre, le espressioni usate da Gregorio che giocano sull'opposizione concettuale dentro/fuori come, per esempio, quella sulla guerra contro l’imperatore Giuliano, τὸν μὲν ἔξωθεν… πόλεμον, e contro le passioni per cui si parla di τὸν ἔνδον καὶ ἐν ἡμῖν αὐτοῖς (scil. πόλεμον) di or. 2,87. 91; sulla lotta contro l’eresia apollinarista definita ζυγομαχίαν ἀδελφικήν che porta scompensi interni alla Chiesa (or. 22,13-15) e sull’eresia ariana e il conseguente scontro con gli 129 Eunomiani, ὁ πρὸς ἀλλήλους πόλεμος (or. 27,6, cfr. Gallay-Jourjon, Discours 27-31, p. 86 nota 1); e ancora l' espressione …τὸν ἐν ἡμῖν πόλεμον (or. 22,15). Si veda, infine, O. Bauernfeind, πόλεμος, in GLNT X, coll. 1235-1272. αἵματος ἀντιβίοιο L’uso metonimico di αἷμα nel significato di “parentela” è ampiamente attestato nell’epica omerica e nella tragedia: cfr. Hom. Il. 19,11; Od. 4,611; 8,583; Aesch. Sept. 141; Eum. 606; Soph. Ai 1305; OC 245; ma vedi anche Pind. Nem. 6,36; 11,34; e l’espressione αἷμ’ἐμφύλιον di Soph. OT 1406; ripreso da Gregorio in carm. II,2,5 vv. 163. 281; or. 8,7. 12; 16,20; 25,3; 26,10; epist. 103,5; 174,4; Anth. Pal. 8,121,2; e infra, v. 181; Moroni, p. 279; LSJ s.v.; J. Behm, αἷμα, in GLNT I, coll. 461-476. — La iunctura qui analizzata sembra essere creazione gregoriana, mentre l’aggettivo ἀντίβιος si trova legato a πόλεμος in Hom. Il. 3,435; Ps.-Hes. Sc. 150 e 163; Loraux, pp. 11-14 e nota 23; infra, v. 303. Per i difficili rapporti padre-figli nella tragedia si veda E. Avezzù, I figli di Edipo e la revoca della paternità, in E. Avezzù - O. Longo (a cura di), KOINON AIMA. Antropologia e lessico della parentela greca, Bari 1991, pp. 127ss. in part. pp. 134-138 con riferimento alla pratica dell’ἀποκήρυξις. 65-69 Ritorna, in negativo, l’idea della condivisione e dellla trasmigrazione delle qualità morali da padre in figlio: la discendenza patrilineare determina un passaggio di consegne che si verifica sia nel bene che nel male. Il figlio afferma che da un genitore ἀγαθός o κακός che sia, discende un figlio degno del padre, dunque vengono trasmesse sia le buone qualità che quelle cattive: κακίῃ μὲν ἐμῇ, κακίῃ δέ τε πατρός (v. 65), cfr. supra v. 14. Ma c’è di più: l’età avanzata del genitore e il possesso di illustri costumi fanno pendere il piatto della bilancia a sfavore del padre, perché il possesso di queste due componenti aggrava la κακίῃ δέ τε πατρός: πατρὸς δ’ εἰσέτι μᾶλλον, ἐπεὶ καὶ φέρτερός ἐστιν / ἀμφότερον πολιῇ τε καὶ ἤθεσι κυδαλίμοισιν (66-67); cfr. Regali, Datazione, p. 374 nota 7. I due versi successivi costituiscono una specificazione della κακίη, a cui si aggiunge la δυσωνυμίῃ δ’ ἀλεγεινῇ: la malvagità del padre culmina nell'atto di riversare sul figlio una "dolorosa ignominia", capace di colpire anche un ἐσθλὸν ἐόντα…φῶτα: εἴ τοι μὴ κακίῃ γε, δυσωνυμίῃ δ’ ἀλεγεινῇ, / ἥ τε καὶ ἐσθλὸν ἐόντα χαμαὶ βάλε πολλάκι φῶτα (vv. 68-69). 130 65 κακίῃ… κακίῃ L’iterazione di questo sostantivo traduce un atteggiamento convinto e insistente dell’io loquens (il termine verrà ripetuto anche al v. 68) che nasconderebbe un tentativo di trasferire la responsabilità della vicenda dai figli a Vitaliano stesso, sebbene anche l'io loquens sia colpevole di una κακίη, cfr. McLynn, Olympias, p. 235 e infra, nota ai vv. 89ss. In Lib. decl. 48,38 l'io loquens rifiuta fermamente l'accusa di πονηρίας che viene mossa da un ipotetico interlocutore: "Ἀλλὰ πονηρός φησιν ἐκεῖνος ἐγένετο καὶ ταῦτα παθεῖν ἄξιος." … δυστυχὴς μὲν ὁ νεανίσκος, πονηρὸς δὲ οὐδαμῶς … e § 43 ἡ μὲν γὰρ σημεῖον ἦν πονηρίας σοῦ παιδὸς…; e si veda anche Luc. Abdic. 11 "Εἰ πονηρὸς οὗτος ἦ καὶ τοῦ ἀποκηρυχθῆναι ἄξιος… . Una “definizione” di κακίη è offerta da Gregorio in carm. I,1,4 vv. 41-43 dove si legge che la malvagità, messa in relazione con la tenebra, consiste nel violare il precetto divino: …τὸ δὲ σκότος…/ …ἡμετέρη δὲ / τοῦτο πέλει κακίη. κακίη δέ τε λῦσις ἐφετμῆς (si noti l’anafora); ma si veda anche Plat. Crat. 415c dove la κακία si oppone all’ἀρετὴ: … τοῦτ’ οὖν φαίνεται τὸ κακῶς ἰέναι δηλοῦν, τὸ ἰσχομένως τε καὶ ἐμποδιζομένως πορεύεσθαι, ὃ δὴ ψυχὴ ὅταν ἔχῃ, κακίᾳ μεστὴ γίγνεται. εἰ δ’ ἐπὶ τοιούτοις ἡ “κακία” ἐστὶν τοὔνομα, τοὐναντίον τούτου ἡ “ἀρετὴ” ἂν εἴη…; Porph. in Cat. Οἷον ἡ ἀρετὴ τῇ κακίᾳ ἐναντίον ἐστίν, ἡ δὲ ἀρετὴ καὶ ἡ κακία ἕξις (= 4,1 p. 114 Busse). In ambito cristiano, interessante il parallelo con Greg. Nyss. Apoll. εἰ οὖν ἐν κακίᾳ τὸ ἄδοξον, κακία δὲ προαιρέσεως αἶσχός ἐστι… (GNO 3,164); PsInscr.: ἴδιον δὲ σημεῖον ἑκατέρου τῶν βίων, τοῦ ἐν ἀρετῇ τε καὶ κακίᾳ, τοῦτο προλαβόντες ἐπέγνωμεν, ὅτι διὰ μὲν τῆς κακίας κολακεύεται ἡμῶν τὰ τῆς σαρκὸς αἰσθητήρια; e ὁ οὖν καταλύσας ἐν τῷ ἰδίῳ βίῳ τοῦ τοιούτου τὴν δύναμιν, ὃς τιμωρεῖται τὸν ἐν κακίᾳ γενόμενον δι’ αὐτοῦ τοῦ μετασχεῖν τῆς κακίας (GNO 5,63 e 123) etc.; Ioh Chrys. exp. in Ps. 9,9 οὐχὶ νῦν μὲν ἐν ἀρετῇ, νῦν δὲ ἐν κακίᾳ, ἀλλ’ ἀεὶ ἐν κακίᾳ... . Cfr. Moreschini-Sykes, p. 157. Cfr. W. Grundmannn, κακός, in GLNT IV, coll. 1401-1454, in part. κακία coll. 1440-1445. 66-67 …φέρτερός ἐστιν / ἀμφότερον πολιῇ τε καὶ ἤθεσι κυδαλίμοισιν Il binomio vecchiaia-saggezza ha, nel passo in oggetto, un sapore aspro: invece di aver raggiunto, con l’età, un maggiore grado di sapienza, il figlio accusa il padre Vitaliano di aver sviluppato un più alto livello di κακίη. I fondamenti biblici di questa concezione sono innegabili: già nel Vecchio Testamento agli anziani viene associata l’idea di saggezza, cfr. Pr. 16,31; Sir. 6,34;32,9, in particolare è 131 fondamentale il comandamento sui genitori, più volte ribadito, cfr. Es. 20,12; Dt. 5,16; Lv. 19,3 e Pr. 20,20: D. Garrone, La vecchiaia nella Bibbia ebraica, in AA.VV., SENECTUS, La vecchiaia nell’antichità ebraica e cristiana, a cura di U. Mattioli IIIEbraismo e Cristianesimo, Bologna 2007, in part. pp. 38-47; ma l’atteggiamento non rimane così perentorio nella Bibbia greca e nel Nuovo Testamento dove non è più «l’anzianità di per sé a determinare il valore di persone e principi», sebbene si faccia ancora affidamento sul contributo degli anziani «per la trasmissione alle nuove generazioni dei valori morali e religiosi essenziali per la vita e la crescita della comunità» (così C. Mazzucco, Il Nuovo Testamento, in AA.VV., Senectus III, cit. supra, in part. pp. 197ss.). In questo filone si colloca il pensiero di Gregorio che dedica al tema della vecchiaia numerose riflessioni passando, per esempio, dall’acuto disprezzo per gli indegni comportamenti dei vescovi anziani che partecipavano al Concilio si Costantinopoli, cfr. carm. II,1,11 vv. 1688-1689), all’importante insegnamento pastorale che un anziano può fornire (cfr. or. 36,6), fino alla sua personale esperienza, caratterizzata dal dovere filiale della cura dei genitori anziani che godevano di πολιῇ τε καὶ ἤθεσι κυδαλίμοισιν (carm. II,1,45 v. 213). Un’analisi dei loci che affrontano la tematica è stata condotta da I. Camellini, Gregorio Nazianzeno, in AA.VV., Senectus III, cit. supra, pp. 370-386. Per le posizioni in merito alla questione assunte dagli altri due Padri Cappadoci si leggano i contributi di S. Amaducci, Basilio; Gregorio di Nissa, in AA.VV., Senectus III, cit. supra, pp. 336-369 e 387-425. Si veda ancora Greg. Naz. carm. II,2,5 v. 8 e il commento di Moroni, pp. 199-200. — Per il rispetto dovuto ai genitori si veda anche Plut. de fraterno amore 479F, e infra, nota al v. 298. — Per la costruzione clausolare φέρτερός ἐστιν si rimanda al comm. a II,2,5 v. 11 di Moroni, p. 201. 68 …κακίῃ γε, δυσωνυμίῃ δ᾽ ἀλεγεινῇ L'espressione in oggetto potrebbe alludere all'infamia che sembra conseguente al ripudio di cui sono vittime anche l'io loquens e il fratello. In Luc. Abdic. 31, il figlio che è stato rinnegato per la seconda volta perché si era rifiutato di curare la matrigna, si giustifica di non aver compiuto il suo dovere di medico con la paura del fallimento della cura e delle conseguenze che ne sarebbero derivate: … οὐκ ἂν οὐδὲ οὕτω ῥᾳδίως προσηψάμην οὐδ᾽ αὖ προχείρως φάρμακον ἐγχέαι ἐτόλμησα, δεδιὼς τὴν τύχην καὶ τὴν παρὰ τῶν πολλῶν δυσφημίαν. ὁρᾷς ὡς οἴονται πάντες 132 εἶναί τι μῖσος πρὸς τοὺς προγόνους πάσαις μητρυῖαις… . Così, similmente, in una declamazione di Seneca il Vecchio che tratta un simile caso, il figlio ripudiato per la seconda volta per essersi rifiutato di curare la matrigna, afferma: Timeo fortunam… (contr. 4,5). — Sembra che la iunctura δυσωνυμίῃ ἀλεγεινῆ sia un conio gregoriano. In particolare, il sostantivo δυσωνυμίη appare come un neologismo del Cappadoce, giacché ricorre solo in questo luogo della sua produzione e dell’intera letteratura greca. Per la valenza spregiativa del prefisso δυσ- si veda Chantraine, Dictionnaire, p. 302; G. Santana, Los compuestos con el prefijo δυσ- en griego antiquo, Emerita 61, 1993, pp. 299-319. — L’aggettivo ἀλεγεινός si trova spesso in clausola nella poesia epica sin da Hom. Il. 2,787; 10,402; 17,76 etc.; Od. 3,296; 12,26; 10,78 etc.; Apoll. Rh. 3,582; 4,191; e poi Arat. Phaen. 1,291; Quint. Smyr. 3,271; 7,616; 10,144 etc.; Opp. Ap. Cyn. 3,249 etc.; Opp. An. Hal. 5,342 etc.; nonché Greg. Naz. carm. I,2,2 v. 251; II,1,17 v. 43; etc. 69 ἐσθλὸν ἐόντα χαμαὶ βάλε…φῶτα Il verso è modellato su espressioni omeriche: in particolare, per la costruzione di ἐσθλός con εἰμί, cfr. Hom. Il. 6,444; 11,471; 16,627 etc.; Od. 8,582; 15,557; 24,311 etc.; ma anche Phoc. Sent. fr. 13; Sim. fr. 37 Page; Thogn. El. 1,21 τοὐσθλοῦ παρεόντος e 570 ἐσθλὸς ἐὼν etc.; Aesch. Coeph. 147 ἴσθι τῶν ἐσθλῶν; Soph. Aiax 1399; OC 1080 εἴμ’ ἐσθλῶν; fr. 931 Radt; Eur. Hec. 307; IA 625; IT 819; Ion 856; fr. 334 Nauck e fr. 75 Nauck ἐσθλὰ γίγνεσθαι; fr. 661 Nauck πεφυκὼς ἐσθλός; Plat. Prot. 339d etc.; e ancora Pind. Isth. 8,60 ἐσλὸν φῶτα; nonché Greg. Naz. carm. I,2,29 vv. 173-174; II,2,7 vv. 101102; Anth. Pal. 8,27,3 ἐσθλὸν… φωτός ἐόντα; infra, v. 90; Quint. Smyrn. 2,67; 5,476; 12,75 (φωτὶ…ἐσθλῇ); etc. — Per la perifrasi χαμαὶ βάλε cfr., ancora, Hom. Il. 5,588; 9,541; 21,51; Od. 17,490; 22,188; ma vedi anche hymn. in Merc. 298; Aristot. HA 611b Bekker; ripresa da Greg. Naz. carm. I,2,9a v. 27; Anth. Pal. 8,181,3; 223,2. 70-74 Passo di difficile interpretazione. Preceduto da una sententia sulla ricerca della vanagloria terrena (vv. 70-71), troviamo l'augurio del figlio che il padre si affermi in ogni campo (ἅπαντ’ ἐθέλω πάντων κρατέειν γενετῆρα, v. 72), così da guadagnarsi una fulgida gloria tra gli uomini (κλέος ἐσθλὸν ἔχοντα μετ’ἀνδράσι, v. 74): è questo ciò che la natura esorta a fare (ἐπεὶ φύσις ὧδε κελεύει, v. 73), nonostante il rancore che il giovane nutre verso il padre (καὶ μάλα χωόμωνός περ…). L'affermazione di 133 carattere gnomico dei vv. 70-71 potrebbe nascondere un'allusione a trascorsi spiacevoli di Vitaliano da collegare, forse, a quelle "cattive compagnie" di cui parla Gregorio nell' epist. 75, indirizzata a Vitaliano: qui il Nostro si rammarica di non frequentare più l’uomo a causa delle sue poco raccomandabili frequentazioni, Οὐ συνεχῶς ὁμιλοῦμέν σοι. Τὸ δὲ αἴτιον, ὅτι πολλοὶ περὶ σέ, καὶ οἷς ἥκιστα χαίρομεν, e lo esorta ad allontanarsene per abbracciare la virtù cristiana, Εἰ δ’ ἀνακαθήραις σαυτὸν τῶν πολλῶν καὶ σύνοικον ἔχοις τὴν ἀρετήν: nei πολλοὶ di epist. 75,1 potremmo, in primo luogo, scorgere i πολλοὶ μὲν… οὐκ ὀλίγοι δὲ del passo in oggetto (l’espressione οὐκ ὀλίγοι realizza una litote), quell’entourage di Vitaliano alla ricerca di vanagloria terrena, che il Cappadoce non apprezzava. In particolare, l’augurio che il figlio rivolge al genitore potrebbe veicolare non solo l’esortazione ad abbracciare la virtú cristiana, ma anche ad abbracciare la vita ascetica per, dopo aver rinunciato alla δόξα terrena prima agognata, conquistare, invece, il κλέος ἐσθλὸν: in epist. 194,2, infatti, Gregorio esorta Vitaliano a dedicarsi a Dio per trarre profitto, insieme a lui, della filosofia, da intendere quale rinuncia al mondo e appartenenza totale a Dio - τῆς φιλοσοφίας δὲ ἡμεῖς ἀπολαύσομεν, ἐπειδὰν Θεῷ συσταλῇς καὶ ὅλως τῶν ἄνω γένῃ - decisione, evidentemente al momento della composizione dell'epistola, ancora disattesa o rinviata da parte di Vitaliano. Il κλέος ἐσθλὸν potrebbe consistere, proprio, nell’accostarsi a Dio, abbracciando l'ascesi cristiana (ai vv. 269ss. l'io loquens traccia il quadro delle esperienze del padre, passando in rassegna le diverse tappe del cammino ascetico, e afferma: οἶόν σοι κλέος ἐστὶ Θεὸς μέγας, cfr. infra, nota ad loc.), così come si legge in carm. I,2,9b v. 67: ὁσσάτιον κλέος ἐσθλὸν ἐπὴν θεότητι πελάζω (cfr. la nota ad loc. di Kertsch, p. 217, che segnala la ricorrezza di una simile concezione in II,2,7 vv. 41-42, Ἀλλ᾽ οὔπω τοιόνδε τοσόνδε τε κῦδος ὄπωπα, / ὅσσον ἐπουρανίοιο Θεοῦ θεότητι πελάσσαι). A questo proposito, un passo parallelo può essere rilevato anche in carm. I,2,2 vv. 355357, dove il Cappadoce esorta la vergine a non essere troppo superba, per non perdere quella gloria eccellente visibile anche agli uomini: Λίην εὐσεβέειν, λίην δέ τε μὴ βλεμεαίνειν. / Κύδεος ἱμείρουσα, τάχ’ ἂν κλέος ἐσθλὸν ὀλέσσαις, / ἀνδράσι τὸ περίφαντον… (cfr. Zehles-Zamora, p. 157) - si noti la presenza del termine ἀνδράσι che richiama il nesso μετ’ἀνδράσι del passo in oggetto - così come al v. 350 di I,2,2, per indicare l’accostamento della vergine a Dio, Gregorio usa l’espressione ὕψι 134 φέρηαι, parallela a ὕψι φέρεσθαι del nostro carme (tale espressione richiama, ancora, la supra citata epist. 194,2 dove si legge ὅλως τῶν ἄνω γένῃ). Cfr. Gallay, Lettres I, p. 93 - II, p. 85; Regali, Datazione, pp. 375-376. McLynn, Olympias, pp. 236-238 e nota 42 collocando Vitaliano «in a jealously competitive society» interpreta letteralmente il passo come espressione di intricati rapporti sociali. ― Per la legge di natura, si veda H. Köster, φύσις, in GLNT XV, coll. 207-278 e infra, nota al v. 128. 70-71 Sul rapporto tra ἀλήθεια divina cristiana e δόξα (vanità) terrena, Gregorio si è espresso anche in altri luoghi della sua vasta opera. Nella polemica con l’imperatore Giuliano, riscontriamo lo stesso tono aspro del passo in oggetto, dove i due termini della questione si oppongono: …εἰ δόξης ἐπιθυμίᾳ κινδυνεύειν ἡμᾶς, ἀλλὰ μὴ τῆς ἀληθείας, ὑπέλαβε (or. 4,59); così come nel discorso di addio ai costantinopolitani (or. 42,13) Gregorio afferma che i cristiani combattono in difesa della vera dottrina di Cristo e non per desiderio di fama: Οὔτε εἰρηνεύομεν κατὰ τοῦ λόγου τῆς ἀληθείας, ὑφιέντες τι διὰ δόξαν ἐπιεικείας —οὐ γὰρ κακῶς τὸ καλὸν θηρεύομεν. Di altro significato è invece il binomio presente nel discorso funebre in onore della defunta sorella Gorgonia, dove Gregorio afferma che cantare la gloria della donna coincide con il proclamare la verità, cfr. or. 8,1: Ὥστε οὐ τοῦτον ἐγὼ φοβοῦμαι τὸν φόβον μή τι τὴν ἀλήθειαν ὑπερδράμωμεν, ἀλλὰ τοὐναντίον μή τι τῆς ἀλήθειαν ὑπερδράμωμεν ἐλλείπωμεν, καὶ παρὰ πολὺ τῆς ἀξίας ἐλθόντες, ἐλαττώσωμεν τὴν δόξαν τοῖς ἐγκωμίοις· (nell’incipit dell’orazione il Cappadoce afferma, con convinzione, la veridicità del suo racconto, cfr. Calvet-Sebasti, Discours 6-12, p. 248 nota 2); cfr. F. Trisoglio, La verità in Gregorio Nazianzeno: concetto e importanza, in C. Moreschini-G. Menestrina (a cura di), Gregorio Nazianzeno teologo e scrittore, EDB 1992, pp. 49ss., in part. 55-59 e 63-65 (= F. Trisoglio, Gregorio contemporaneo, pp. 211ss.). 70 πολλοὶ μὲν… ὀλίγοι δὲ Schema tradizionale molto usato dagli autori di tutte le epoche in diversi contesti, a partire da Theogn. 1,636; Hdt. 2,63; 3,61 etc.; Thuc. 8,9; Plat. Euth. 307a; Aristot. EN 1098b Bekker; Pol. 1279a etc.; Polyb. hist. 18,53; Luc. Hist. conscr.; e in ambito cristiano a partire dal V.T. Nm. 13,18; 1Mac. 3,18; e nel N.T. Mt. 22,13 (passo citato numerose volte dagli autori cristiani a partire da Clem. Alex. strom. 5,3; Or. hom. 4 in 135 Jer; Eus. Ps. 104; d.e. 2,3 etc.; Bas. renunt. 9 etc.); ma vedi anche Greg. Naz. or. 28,2 e infra, vv. 152 e 181; Joach. Jeremias, πολλοί, in GLNT X, coll. 1329-1354. ἴσασιν ἀληθέα Sulla conoscenza della verità già Platone aveva affermato: θεὸς δέ που οἶδεν εἰ ἀληθὴς οὖσα τυγχάνει (Resp. 517b); espressione che troviamo simile in Phil. dec. 18,2 τὰς γὰρ ἀληθεῖς οἶδεν θεὸς ὁ μόνος; ma vedi anche Syn. epist. 44 e 50: τὸ μὲν ἀληθὲς εἶδέ τε καὶ οἶδεν ἡ Δίκη; Eus. h.e. 6,25 τὸ μὲν ἀληθὲς θεὸς οἶδεν (= or. fr. in Hebr.); l.C. 12,1 τοῦτον μόνον ἀληθῆ θεὸν εἰδέναι τὰ θεῖα λόγια παιδεύει. Il modello gregoriano può essere rintracciabile in 1Gv. 2,20-21, dove ἀλήθεια indica la “rivelazione”: οὐκ ἔγραψα ὑμῖν ὅτι οὐκ οἴδατε τὴν ἀλήθειαν, ἀλλ’ ὅτι οἴδατε αὐτήν; cfr. G. Quell- G. Kittel- R. Baultmann, ἀλήθεια, in GLNT I, coll. 625-674, in part. 661; Molac, pp. 403ss. Sulla conoscenza della verità come testimonianza di fede si veda ancora Gv. 19,35. 71 δόξαν ἐποπτεύουσιν Nota critica sulla brama di gloria terrena che ritorna spesso nelle opere del Cappadoce, come in or. 2,77 …δόξαν πατῆσαι τὴν κάτω μένουσαν; 26,5 ἐπειδὴ καὶ δόξης ἕνεκεν οἱ πολλοὶ… ἐπιτηδεύουσι; carm. Ι,2,3; v. 91; I,2,10 v. 439ss. (cfr. CrimiKertsch, p. 276); I,2,18 v. 9; II,1,13 v. 159; II,1,17 v. 30; II,1,39 vv. 27 e 81; etc. Si veda inoltre G. Kittel- G. von Rad, δόξα, in GLNT II, coll. 1348-1398. 72 ἅπαντ’ ἐθέλω πάντων κρατέειν γενετῆρα L’idea del primato del genitore è affermato da Gregorio in or. 8,5 dove si riferisce ad entrambi i suoi genitori: …ἴσον μὲν μήκει βίου καὶ πολιαῖς, ἴσον δὲ φρονήσει καὶ λάμψει, καὶ ἀλλήλοις ἁμιλλωμένους καὶ τῶν λοιπῶν ὑπαραίροντας·; in 18,16 la superiorità del padre, Gregorio il Vecchio, riguarda la pietà: εὐσεβείᾳ πάντων ἐκράτει; il padre di Basilio in or. 43,10 si ergeva su tutti per virtù, e fu superato solo dal figlio: Τίς οὐκ οἶδε τὸν τούτου πατέρα, Βασίλειον, τὸ μέγα παρὰ πᾶσιν ὄνομα… Παντὸς γὰρ κρατῶν ἀρετῇ, παρὰ τοῦ παιδὸς κωλύεται μόνου τὸ πρωτεῖον ἔχειν (identica costruzione del passo in oggetto, cfr. anche Bernardi, Discours 42-43, p. 134 nota 1); e in carm. II,2,5 v. 13 dove Nicobulo senior afferma che «un padre si rallegra di essere superato da un figlio eccellente, anche più di aver potere su tutti» χαίρει γάρ τε πατὴρ ἡσσώμενος υἱέος ἐσθλοῦ, / καὶ πλέον ἢ πάντων κρατέων (cfr. Moroni, p. 175). L’accostamento di ἀπάς/πάς con κρατέω è utilizzato dal Cappadoce anche 136 in or. 24,6 per riassumere i caratteri della superiorità di Cipriano: …πᾶσι δὲ πάντων ἐκράτει; in or. 25,3 in riferimento alla città di Alessandria che aveva dato i natali al filosofo Massimo del quale, il Cappadoce, sta stendendo l’elogio: …τῆς Ἀλεξανδρέων πόλεως… ἧς πᾶσι πάντων κρατούσης…; e in epist. 38,1. — L'accostamento di ἐθέλω e κρατέω è presente, in diversi contesti e accezioni, già in Hom. Il. 1,288; Sol. fr. 33,6 (= Plut. Sol. 14,9); Eur. Hypp. 1017; Aristoph. Vesp. 537; Sext. Sent. 550; Dio Chrys. or. 2,5; Clem. Alex. strom. 3,3; 5,3; Greg. Naz. carm. II,1,11 vv. 546. 1929; Anth. Pal. 15,23,1. — Per θέλω si veda G. Schrenk, θέλω, in GLNT IV, coll. 259-283. 73 καὶ μάλα χωόμενός περ Locuzione di matrice omerica: cfr. Bacci, p. 95, a proposito di carm. II,2,6 v. 30 in cui ricorre in forma simile; infra, v. 148. ἐπεὶ φύσις ὧδε κελεύει Simile clausola in Greg. Naz. carm. II,1,15 v. 37: ἐπεὶ θεὸς ὧδε κελεύει. Per l’accezione di φύσις come legge naturale stabilita da Dio, cfr. infra, nota al v. 128. 74 κλέος ἐσθλὸν ἔχοντα μετ’ἀνδράσι Il tema della gloria positiva affonda le sue radici nel mondo dell'epica omerica, dove κλέος indica la fama che l'eroe conquista durante il combattimento e con la morte valorosa, cfr. Hom. Il. 2,486; 6,446 etc., e che costituisce materia del canto, cfr. F. Bertolini, Il palazzo: l'Epica, in Lo Spazio Letterario della Grecia antica, I, I, pp. 132133. L’espressione è modellata su Hom. Od. 1,95 κλέος ἐσθλὸν ἐν ἀνθρώποισιν ἔχῃσιν, di cui μετ’ἀνδράσι costituisce variatio; cfr. anche Od. 3,78; ma anche Il. 17,143 κλέος ἐσθλὸν ἔχει; Aristoph. Nub. 461-462 κλέος… ἐν βροτοῖσιν ἕξεις. — ἔχω con κλέος trova svariati riscontri nella letteratura classica e in quella successiva, cfr. Hom. Od. 13,423; e poi Pind. Phyt. 3,111; Ibyc. fr. 1a Page; Eur. Hec. 1225; Ion 1588; Or. 1151; Thuc. 1,25; Agath. fr. 3; Aristoph. Ran 1035; Theocr. 16,54; Men. Sent. 7,10; Long. 2,15; Plut. Phoc. 3,3; Jos. Flav. Ant. Jud. 7,14; Or. Sib. 2,41; Athen. Deip. 12,37 Kaibel; Heliod. Aeth. 2,35; Const. App. 3,1; Lib. decl. 11,15; Greg. Naz. carm. I,1,7 v. 90; I,2,1 vv. 375. 472; I,2,5 v. 10; I,2,10 v. 760; II,1,1 v. 169; Anth. Pal. 9,360. 472. 550; 15,40; infra, v. 312. — La sola iunctura κλέος ἐσθλὸν si rileva, oltre che in Hom. Il. 5,3; 9,415; 17,16 etc.; anche in Tyrt. fr. 12 West; nonché, ancora, Greg. Naz. carm. I,2,2 vv. 356. 447; I,2,9b v. 67; Zehles-Zamora, p. 157. ὕψι φέρεσθαι 137 La fonte di questo nesso può essere rintracciata in Hes. Op. 204. Gregorio colloca il costrutto, in poesia, sempre in posizione clausolare come in carm. I,2,2 vv. 236. 350; I,2,17 v. 6; II,1,50 v. 72; II,2,7 v. 13; cfr. anche infra, v. 101 ὐψόσε ἀείρειν. 75-101 Questa lunga sezione presenta una struttura ad anello nella quale vengono affrontati i temi della φιλοξενία, dell’ἀγάπη filiale e dell’amore per il prossimo: il comportamento di un genitore adirato con i suoi figli non potrà essere valutato bene da un occhio "esterno" che avanzerebbe delle perplessità sull’ἀγάπη dell’uomo (vv. 75-76). Questa concezione sarà ripresa nelle battute finali della sezione dove il discorso si allargherà anche al comportamento da tenere non solo verso gli stranieri e/o estranei, ma anche nei confronti degli uomini malvagi, soprattutto se tra questi sono da annoverare i figli (vv. 98-101). Essa è, inoltre, fortemente propugnata anche da Plutarco nell'operetta de fraterno amore, dove l'Autore afferma che se non si onora la πρώτη φιλία, che è quella che la natura ha istillato nel cuore dei figli per i genitori e dei fratelli per i fratelli, non si può dare prova agli estranei della propria benevolenza: ἣν (scil. πρώτην φιλίαν) παισί τε πρὸς γονεῖς ἡ φύσις ἀδελφοῖς τε πρὸς ἀδελφοὺς ἐμπεποίηκε, κἀκείνην ὁ μὴ σεβόμενος μηδὲ τιμῶν ἆρά τινα πίστιν εὐνοίας τοῖς ἀλλοτρίοις δίδωσιν (479D). 75-80 L’ira del padre nei confronti dei figli da lui generati viene visto come innaturale. L’amore paterno che spinge un genitore a invocare Dio affinché gli conceda una discendenza è stato ottenebrato da un forte χόλος, τοσσάτιον τεκέεσσι χολούμενον, οὓς ἐφύτευσας …/… /… Aὐτὰρ χόλος, καὶ πάντα λέλασται (vv. 76 e 80). 75 ξείνῳ Il termine ξένος potrebbe essere, qui, inteso nella duplice accezione di estraneo in rapporto alla famiglia, e di straniero in senso proprio. Il rispetto e la φιλοξενία nei confronti degli stranieri/estranei si configura come una sentenza in carm. I,2,31 v. 57 ξεινῶν ἡμεδαπῶν περιφείδεο, ma tale atteggiamento ha radici profonde per cui cfr. G. Stählin, ξένος, in GLNT VIII, coll. 6-102, in part. 48-72. Sulla concezione cristiana dell’uomo, straniero in questa terra perché la vera patria è la Gerusalemme celeste, si veda Greg. Naz. or. 33,11-12; carm. I,2,30 v. 14 ξένον σεαυτὸν ἴσθι, καὶ τίμα ξένους; I,2,34 v. 166 φιλόξενος δ’ ὃς οἶδεν αὐτὸς ὢν ξένος; 138 per il concetto di ξενιτεία, anche in rapporto alla figura del monaco e del sacerdote in Gregorio, si rimanda a Gautier, Retraite, pp. 9-24. Per un’analisi dei loci biblici sull’atteggiamento di Gesù nei confronti degli stranieri si legga E. Manicardi, Gesù e gli stranieri, Ricerche Storico Bibliche 8, 1996, pp. 197-231; e in generale J. Schreiner - R. Kampling, Il prossimo, lo straniero, il nemico, EDB 2002. ἐνηέα φῶτα Per questa iunctura cfr. Triph. 579; ma anche Apoll. Rh. 1,1338 ἐνέηος ἀνδρὸς; Opp. An. Hal. 5,425 δελφῖνες ἐνηέες ἀνδράσι. 76 Per l’ira del padre nei confronti dei figli vedi infra, vv. 174-175 υἱῆας…/ …τόσσον ἀπεχθαίρεις; una simile iunctura è usata, inoltre, da Quint. Smyrn. 2,294 υἱὸς… χολωθείς; 3,202; e poi Nonn. Dion. 33,307 χολώεαι υἱάσιν. Per il nesso clausolare οὓς ἐφύτευσας cfr. infra, v. 171. 77 Nell’invocazione a Dio di ricevere in dono dei figli non si può non sentire l’eco della personale esperienza di Gregorio. Dai carmi autobiografici del Cappadoce (ma un breve accenno si legge anche in or. 2,77) apprendiamo, infatti, che la madre Nonna, desiderosa di un figlio maschio, pregò il Signore affinché gliene concedesse uno con la promessa di consacrarlo al Suo servizio: la preghiera fu esaudita con la nascita di Gregorio: cfr. carm. II,1,1 vv. 424-432; II,1,11 vv. 69-81 (dove si noti la presenza del termine κλῆσις al v. 78 per indicare il nome del Cappadoce); II,1,45 vv. 187-202; II,1,87 vv. 1ss: sull’argomento si legga A. Casanova, Gregory of Nazianzus, De rebus suis 424ff. and De vita sua 68ff.: Echoes of Epic and Dramatic Poetry in his Mother’s Prayer, in Prayer and Spirituality in Early Church, ed. by P. Allen, W. Mayer and L. Cross II, Eventon Park 1999, pp. 145ss. in part. pp. 148-151; Bénin, pp. 740-742; Jungck, p. 154. Di altro tono è, invece, la maledizione che il padre di Fenice scaglia contro il figlio in Hom. Il. 9,453-456, augurandogli di non avere figli da poter far sedere sulle sue ginocchia: πατὴρ δ’ ἐμὸς…/ πολλὰ κατηρᾶτο, στυγερὰς δ’ ἐπεκέκλετ’ Ἐρινῦς, / μή ποτε γούνασιν οἷσιν ἐφέσσεσθαι φίλον υἱὸν / ἐξ ἐμέθεν γεγαῶτα. ἐπὶ γούνασι θεῖναι Costruzione di matrice omerica cfr. Il. 6,92. 273. 303; 19,401; 21,55; Batrach. 3; ma anche Eur. Troad. 1307; Aeschn. de fals. leg. 28; Xen. Anab. 7,3; Callim. Aet. fr. 1,21; 139 Strab. Geog. 13,1; Athen. Deipn. 11,1 Kaibel etc.; Syn. calv. 20,15. Nel N.T. si rileva la costruzione di τίθημι con γόνυ per indicare la genuflessione: cfr. Mt. 15,19; Lc. 22,41; At. 7,60; 9,40; 20,36; 21,5 e poi in alcuni scrittori ecclesiastici come Herm. Past. 9,5; Bas. reg. moral. 12,4; Eus. h.e. 5,5 etc.; cfr. H. Schlier, γόνυ, in GLNT II, coll. 593-600. Come anticipato, Gregorio utilizza la stessa espressione del passo in oggetto, anche nel cit. passo di carm. II,1,1 v. 425 in un contesto simile cioè, nel ricordare il voto della madre. 78 κληινῇσι γέρηρας ἐπωνυμίῃσι Val la pena notare come Gregorio sembra insistere sul tema del nome. L’espressione in oggetto, infatti, si oppone a quanto era stato affermato pochi versi prima quando l'io loquens, per definire i correnti rapporti familiari, ha parlato di δυσωνυμίῃ ἀλεγεινῇ (v. 68); e nel verso successivo saranno, appunto, menzionati i nomi dell’io loquens e del fratello; cfr. anche Αnth. Pal. 8,129,6 κλεινὴν ἐπωνυμίῃ. Per la simile iunctura κλεινὸν ὄνομα cfr. Soph. Electr. 694; Eur. Troad. 1278; Syn. epist. 136. Per la costruzione di γεραίρω con ὄνομα cfr. Plut. an seni respublica gerenda sit 789F τὸ γεραίρειν ὄνομα σεμνόν; Lib. or. 5,29 ὀνόματι γεραίρουσι; Greg. Nyss. Ar. et Sab. δυσὶν ὀνόμασι γεραίρειν (GNO 3,1,71). McLynn, Olympias, nota 30 sottolinea l’alta frequenza di γεραίρω all’interno del nostro carme con un incidenza pari a quasi la metà delle occorrenze presenti nell’intera produzione poetica del Cappadoce (cfr. anche infra, v. 97). Per l’importante carattere connotativo del nome si legga H. Bietenhard, ὄνομα, in GLNT VIII, coll. 793-600; Lurker, pp. 131-132. 79 Φωκὰς ἐγώ S. Foca era un giardiniere originario di Sinope, giustiziato probabilmente sotto Diocleziano per il quale Asterio di Amasea compose un panegirico (PG 40,299-314) intorno al 400. Anche Giovanni Cristostomo, nello stesso periodo, compose un'operetta dedicata al Santo, in occasione della traslazione delle sue reliquie a Costantinopoli (PG 50,699-706). Ma il culto del santo sembra essere già affermato precedentemente nel Ponto; il dies natalis è stato fissato il 22 Settembre, cfr. DPAC s.v.; BS V, s.v. — L'accentazione Φωκάς, anziché Φωκᾶς (grafia consueta del nome), si rende necessaria per ragioni metriche. 79-80 Χριστοῖο μαθητῶν / κλήσιες 140 L’origine dell’espressione Χριστοῖο μαθητῶν, rintracciabile in Mt. 11,2, è usata da Gregorio in chiusa di verso anche in carm. II,1,16 v. 59; vedi anche or. 2,51 dove l’espressione indica Pietro e Paolo; 14,15; 19,13; 21,3; 24,2; 32,18 dove i soggetti sono Paolo e Giovanni etc.; 41,11; 42,32. La iunctura μαθητῶν κλήσιες è usata dagli scrittori ecclesiastici per indicare la “chiamata dei discepoli” da parte di Cristo, cfr. Eus. d.e. 1,1,4 κλῆσίν τε μαθητῶν αὐτοῦ; 2,3,150 τῶν ἀποστόλων καὶ μαθητῶν αὐτοῦ τὴν κλῆσιν (= Ps. 68, PG 23,725); Epiph. haer. 3,318; etc.; K.L. Schmidt, κλῆσις, in GLNT IV, coll. 1464-1471. 80 ἔπειτα χόλος, καὶ πάντα λέλασται La causa del dissidio tra padre e figli è attribuito all’ira paterna (ma anche l'io loquens è irato contro il padre per la presente situazione, cfr. supra, v. 73). Uno degli effetti ovvero dei sintomi di questo vizio, al quale Gregorio ha dedicato un intero carme (I,2,25) è quello di dimenticare cosa si è fatto o detto prima: Λέγει κακὸν τὸ μέν τι, τοῦδ’ ὁρμὴν ἔχει, / τῷδε στενοῦται, καὶ παραυτίκ’ ἀγνοεῖ (vv. 115-116). Analoga, dunque, sembra la situazione qui descritta: l’ira del padre nei confronti dei figli ha fatto cadere nell’oblio i giorni felici trascorsi prima, come l’io loquens affermerà nei versi successivi (81-82). πάντα λέλασται Cfr. Hom. Od. 7,220-221 (in enjambement); Erin. fr. 1b Diehl (clausola); Opp. An. Hal. 5,458 (clausola); nonché Greg. Naz. carm. I,2,2 v. 142 dove l’espressione indica la morte (clausola). 81-82 Studiatissima la struttura di questi versi caratterizzati da una forte allitterazione della dentale τίς… τόσον τεκέεσσιν, dall’iperbato πάτερ, ὡς σύ, φέριστε (v. 81) e dalla costruzione del v. 82 come tetracolon. In essi l'io loquens si lamenta del mutato atteggiamento del padre, dapprima benevolo verso i figli appena nati, poi adirato (ἤπιος ἀρτιγόνοισιν, ἀεξωμένοισι δ’ἀπηνής). 82 La struttura chiastica di questo tetracolon (è il primo del genere che si riscontra nel componimento, cfr. «Introduzione. Μetrica») tradisce la perfetta corrispondenza dei termini che la compongono: sono posti in relazione i due aggettivi che esplicano l’atteggiamento del padre, prima ἤπιος, poi ἀπηνής collocati in posizione 141 incipitaria e clausolare del verso; così come le espressioni che indicano le età dei figli che occupano la sezione centrale, ἀρτιγόνοισιν - ἀεξομένοισι. Parallelamente si noti la presenza di B2 volta a separare i due momenti e l’allitterazione degli ultimi tre membri del verso. Simili espressioni ricorrono infra, v. 163: ἄλλοις μὲν τεκέεσσι πατὴρ καὶ ἤπιος ἐσσὶ (si noti in particolare la iunctura πατήρ…ἤπιος). ἀρτιγόνοισιν L’aggettivo ἀρτιγόνος sembra un hapax in Gregorio che, generalmente, usa il sinonimo νεογνός, come in carm. II,2,4 v. 24 τεκέεσσι νεογνοῖς; cfr. anche Nonn. Dion. 3,395 ἀρτιγόνων… τέκνων. 83-85 L'assurdità della contesa dei figli con i genitori, così come quella degli uomini con Dio è intesa da Regali, Declamazioni, pp. 531-532 come critica dell'ἀποκήρυξις e del ripudio: «il rapporto padre terreno- figlio, in quanto proiezione del rapporto tra Padre celeste e le sue creature, non può essere guastato dall'odio e dal rancore (cfr. supra, nota ai vv. 1ss.,; e vi si può leggere anche un riferimento alla guerra che il figlio Assalonne mosse contro il padre Davide, rimanendo tragicamente ucciso, episodio veterotestamentario richiamato infra, ai vv. 318ss., dove, in realtà, l'accento è posto sulla magnanimità del genitore che, nonostante l'arroganza del figlio, si mostrò mite nei suoi cnfronti e ne vendicò la morte, cfr. nota ad loc.). L’emblematico tentativo di misurarsi con Dio, fu intrapreso da Lucifero mosso da superbia e dal desiderio di ottenere la stessa gloria divina e che, punito, perse il suo splendore e cadendo negli inferi e nell’ombra (Is. 14,12-15). La superbia è dunque la colpa dell’angelo di Dio che trascinò con sé nel peccato anche i protoplasti come si legge in carm. I,1,7 vv. 55ss. (cfr. Moreschini-Sykes, p. 206ss.) e infra, vv. 289-290; in or. 36,5 Οὗτος καὶ τὸν Ἑωσφόρον ἐσκότισε, καταπεσόντα δι’ ἔπαρσιν — οὐ γὰρ ἤνεγκε, θεῖος ὤν, μὴ καὶ θεὸς νομισθῆναι — καὶ τὸν Ἀδὰμ ἐξέβαλε τοῦ παραδείσου, δι’ ἡδονῆς κλέψας καὶ γυναικός. Ἐπείσθη γάρ, ὡς θεὸς εἶναι βασκαίνεται, τοῦ τῆς γνώσεως ξύλου τέως εἰργόμενος (Lucifero viene accusato anche di essere invidioso: l'invidia è la conseguenza della superbia). Gregorio lo taccia ancora di superbia anche in or. 38,9: …ὁ διὰ τὴν λαμπρότητα Ἑωσφόρος, σκότος διὰ τὴν ἔπαρσιν καὶ γενόμενος… (= or. 45,5); cfr. anche carm. I,2,14 vv. 117-118; I,2,34 vv. 6-7; etc. Per la caduta dei protoplasti si legga or. 38,12 (= or. 45,8); Domiter, pp. 236-238; Richard, 142 pp. 358-360 (anche in riferimento all’invidia di Satana, per cui vedi anche supra nota al v. 44). Di altro tenore è l’episodio biblico della lotta di Giacobbe con Dio di Gen. 32,25-29, che Gregorio ricorda in or. 28,18 per affermare il principio dell’inconoscibilità di Dio e dell’inferiorità dell’uomo nel «confronto tra l’eccellenza umana e Dio»: Ἰακὼβ δὲ… καὶ ὡς ἀνθρώπῳ τῷ θεῷ προσπαλαίει — ἥτις ποτέ ἐστιν ἡ πάλη Θεοῦ πρὸς ἄνθρωπον, ἢ τάχα τῆς ἀνθρωπίνης ἀρετῆς πρὸς θεὸν ἀντεξέτασις; — καὶ σύμβολα τῆς πάλης ἐπὶ τοῦ σώματος φέρει, τὴν ἧτταν παραδεικνύντα τῆς γενητῆς φύσεως, καὶ ἆθλον εὐσεβείας τὴν μεταβολὴν τῆς προσηγορίας λαμβάνει, μετονομασθεὶς ἀντὶ Ἰακὼβ Ἰσραήλ, τοῦτο δὴ τὸ μέγα καὶ τίμιον ὄνομα· ἐκεῖνο δὲ οὔτε αὐτὸς οὔτε τις ὑπὲρ αὐτὸν μέχρι σήμερον ἐκαυχήσατο τῶν δώδεκα φυλῶν, ὧν πατὴρ ἦν, ὅτι Θεοῦ φύσιν ἢ ὄψιν ὅλην ἐχώρησεν; vedi anche or. 43,71; Moreschini, Filosofia, p. 145. Per l’impossibilità di opporsi a Dio cfr. ancora carm. II,1,19 v. 52 οὐκ ἔστ’ οὐδ’ ἐπέοικε Θεοῦ θεσμοῖσι παλαίειν e Simelidis, p. 200. 83 εἰ μὲν δὴ θέμις ἠὲ θεῷ βροτὸν ἀντιφερίζειν L’idea di misurarsi con qualcuno, opponendosi, espressa dalla costruzione ἀντιφερίζω + dativo si trova già in Hom. Il. 21,357: il contesto divino è relativo alla possibilità degli dèi del pantheon tradizionale di sfidarsi tra loro: Ἥφαιστ’, οὔ τις σοί γε θεῶν δύνατ’ ἀντιφερίζειν. Una simile costruzione viene usata da Gregorio, in ambito teologico, anche in carm. I,1,4 v. 26 relativamente alla polemica contro la tenebra dei manichei: …οὐ γὰρ ἔοικε Θεῷ κακὸν ἀντιφερίζειν; e in I,1,27 dove, invece, si riferisce all’equilibrato intervento di Dio: Τίς φθόνος, εἰ μόχθοισι πόθον Θεὸς ἀντιφερίζει; LSJ s.v.; Moreschini-Sykes, p. 153. Per l’accostamento θεῷ βροτὸν vedi supra, v. 8 e relativo commento. ― Per il nesso εἰ μὲν δὴ cfr. I,2,1 v. 470 e la nota ad loc. di Sundermann, p. 143. 84-85 μῦθον … / ἠμετέροις παθέεσσιν ἀρηγόνα Simile costruzione in carm. II,1,1 vv. 503-504 …λόγοισι / …οἴ παθέεσσιν ἀρηγόνες (cfr. Bénin, p. 771); ma cfr. anche ΙΙ,1,11 vv. 113-114 λόγους /… βοηθούς; 1142 βοηθὸν τὸν λόγον; or. 8,7 …καὶ ἄλλος ἄλλο τι… βοηθείτω τῷ λόγῷ. — Ricorrente nelle opere di Gregorio la iunctura di ἡμέτερον con πάθος, cfr. or. 2,34; 14,32; 30,3; 35, 44,4; epist. 102,9; carm. I,1,2 v. 2; II,1,17 v. 24; anche I,2,14 v. 91 ἐμοῖς παθέεσσι; Moreschini-Sykes, p. 95. 143 86 ῥήξομεν…ἔπος L’espressione trova un parallelo nella costruzione di ῥήγνυμι con λόγος che Gregorio usa diverse volte, cfr. carm. I,1,1 v. 8; I,1,20 v. 12 οὐ λαλέων ῥήξε λόγον; II,1,11 v. 1057; II,1,13 v. 19 (= infra, v. 177); Moreschini-Sykes, p. 80. Si noti, inoltre, l'uso del termine ἔπος per designare, contestualmente, il componimento. 86-104 Sebbene il discorso sia centrato sull’opposizione tra le categorie etiche del κακός e dell’ἀγαθός (κάκιστοι…ἀγαθοί vv. 86-87; καλὸς…κάκιστος v. 89; κάκιστον…ἀγαθὸν vv. 97-98; ἄριστον… κακίστῳ v. 100), il legame tra padre e figli deve prescindere dai comportamenti ed dovrebbe essere speculum dell’incondizionato amore che Dio nutre verso tutti gli uomini che ha portato al sacrificio del Suo unico Figlio per salvare l'umanità caduta nel peccato. Per l’ideale di φιλαντρωπία di Dio verso gli uomini, si legga C. Moreschini, L’amore nei Padri Cappadoci (Gregorio di Nazianzo), in AA.VV., Dizionario di Spiritualità Biblico-Patristica. I grendi temi della S. Scrittura per la “Lectio divina” 3, Amore-Carità-Misericordia, Roma 1993, pp. 281-284. Ma, in diversi contesti, nel delineare la sua dottrina morale, Gregorio, conferisce una fondamentale importanza al comportamento, per cui si veda F. Trisoglio, La dottrina morale in S. Gregorio di Nazianzo, in Id., Gregorio contemporaneo, pp. 94-104. 86-87 …εἴτε κάκιστοι, /σοὶ, πάτερ, εἴτ’ ἀγαθοί. τοῦ σπέρματος ὁ σταχυς ἔστω Gregorio ricorre alla metafora del seme e della spiga per indicare l’indissolubile legame che lega genitori e figli: come la spiga non può essere recisa dal seme dal quale proviene, così i figli non possono essere separati dal padre. Il Cappadoce si avvale di questa metafora a seconda della tesi che vuole sostenere: in carm. I,2,1, a più riprese afferma che, diversamente dall'agricoltore che da un buon seme raccoglie una buona spiga, l'uomo buono o cattivo non conosce la natura della sua prole: Καὶ στάχυν ἐξ ἀγαθοῖο γεωμόρος ἐσθλὸν ἄμησε / σπέρματος οὐδ’ ἀτύχησε τέλους πόθος, οἷον ἐώλπει / θνητὸς δ’ οὐ σάφα οἶδε γόνου φύσιν, εἰς ὅ τι λήξει, /οὐ κακός, οὐδὲ μὲν ἐσθλός· ὁ δ’ εὔχεται ἐσθλὸς ἀρείω (vv. 481-484); ma poco oltre per descrivere, per converso, l’evoluzione e il miglioramento della progenie umana rettifica: Οὐκ ἀΐεις ὅτι πάντες, ὅσους κατέλεξας ἀρίστους, / ἐκ τοκέων, τοκέων δὲ δικαιότεροι καὶ ἀρείους; /…/ Καὶ στάχυς ἐξ ὀλίγου μέν, ἀτὰρ στάχυς ἐβλάστησε / σπέρματος (vv. 691-692 e 696-697); Sundermann, pp. 146; 224-226. Cfr. ancora, con 144 diverse accezioni, I,2,2 v. 277: Φεύγειν σπέρμα πονηρόν, ὅπως στάχυν ἐσθλὸν ἀγείρῃς (cfr. Zehles-Zamora, p. 134); I,2,25 v. 311 Τὸ σπέρμ’ ἀναιρῶν, τὸν στάχυν κεκώλυκε (cfr. Oberhaus, p. 131). La metafora del seme e della spiga è molto cara agli scrittori ecclesiatici cfr. Or. hom. 5 in Jer. Ταῦτα τὰ σπέρματα οἰκονομεῖται ὑπὸ θεοῦ οὐκ αἰφνίδιον γενέσθαι στάχυς…; Greg. Nyss. anim. et res. Οὐδὲ γὰρ ἐν τῷ σπέρματι σῖτος εὐθὺς κατὰ τὸ φαινόμενον στάχυς ἐστὶ…; ἀλλὰ τῆς γῆς αὐτὸν ταῖς καταλλήλοις τιθηνουμένης τροφαῖς, στάχυς ὁ σῖτος γίνεται, οὐκ ἐξαλλάσσων ἐν τῇ βολῇ τὴν φύσιν, ἀλλ’ ἐμφαίνων ἑαυτὸν καὶ τελειοῦν τῇ τῆς τροφῆς ἐνεργείᾳ. /…/ Ἐπειδὴ γὰρ τὸ κατ’ ἀρχὰς οὐχ ὡς στάχυς ἀπὸ τοῦ σπέρματος, ἀλλ’ ἐκεῖθεν τὸ σπέρμα· μετὰ ταῦτα δὲ οὗτος τῷ σπέρματι περιφύεται, ἡ τοῦ ὑποδείγματος ἀκολουθία σαφῶς ἐπιδείκνυσι, τὸ πᾶσαν τὴν διὰ τῆς ἀναστάσεως ἀναβλαστήσουσαν ἡμῖν μακαριότητα, πρὸς τὴν ἐξ ἀρχῆς ἐπανιέναι χάριν; Ioh. Chrys. hom. 18 in Jo Ἐπὶ μὲν γὰρ τῶν σπερμάτων, ὅταν ὁ στάχυς ἀπαρτισθῇ καὶ τὴν οἰκείαν ἰσχὺν ἀπολάβῃ, καὶ ἐρυσίβης καὶ αὐχμοῦ καὶ τῶν ἄλλων ἁπάντων εὐκόλως καταφρονεῖ (PG 59,113); etc. Per la metafora della spiga come espressione della progenie umana, cfr. anche Moroni, p. 95 con gli altri passi di Gregorio ivi segnalati; Regali, Carme, p. 533 e nota 44 che ne attesta l'uso nella poesia classica. 88-89 La concezione secondo la quale padri e figli sono accomunati dalla stessa sorte che comporta la condivisione sia dell’onore che del disonore, risente certamente di Sir. 3,10-11 μὴ δοξάζου ἐν ἀτιμίᾳ πατρός σου, οὐ γάρ ἐστίν σοι δόξα πατρὸς ἀτιμία· ἡ γὰρ δόξα ἀνθρώπου ἐκ τιμῆς πατρὸς αὐτοῦ, καὶ ὄνειδος τέκνοις μήτηρ ἐν ἀδοξίᾳ (si noti la presenza del termine ὄνειδος che ritroviamo anche nel passo in oggetto) e Pr. 17,6 στέφανος γερόντων τέκνα τέκνων, καύχημα δὲ τέκνων πατέρες αὐτῶν; cfr. McLynn, Olympias, p. 236. Un passo parallelo può essere rintracciato in carm. II,2,4 vv. 147-148, nelle parole che il figlio Nicobulo junior rivolge al padre: κῦδος γὰρ τοκέεσσι τέκνων κλέος, ὡς τεκέεσσιν / ὧν τοκέων· ξυνὴ δὲ χάρις καὶ ξυνὸν ὄνειδος (cfr. Moroni, p. 150). Su altri livelli il colloquio tra Mente/Atena e Telemaco (Hom. Od. 1,123-251), nel quale la dea tenta di infondere nel figlio di Odisseo, per dargli coraggio, la consapevolezza della sua somiglianza col padre e dell’alto livello del proprio lignaggio, per cui si legga G. Arrighetti, EOIKOTA TEKNA ΓΟΝΕΥΣΙ. Etica eroica e continuità genealogica nell’epos greco, SIFC 84, 1991, pp. 133ss. E il passaggio della 145 qualità buone e cattive da padre in figlio è anche sostenuto dallo Ps.-Plut. lib. educ. 1C: λέγων ὁ ποιητής φησι «δουλοῖ γὰρ ἄνδρα, κἂν θρασύσπλαγχνός τις ᾖ, ὅταν συνειδῇ μητρὸς ἢ πατρὸς κακά. » ὥσπερ ἀμέλει μεγαλαυχίας ἐμπίπλανται καὶ φρυάγματος οἱ γονέων διασήμων (nel passo l'Autore cita Eur. Hipp. 424-425). Ma si veda anche Lib. decl. 48,63 … ἀλλ᾽ ἀξιώσας εἰς τὸ γέρας υἱεῖ πατέρα συναλλάξαι αἰσχρῶς καὶ ἀτίμως ἐπεστομίσθη… (parole di un filius) e infra, nota al v. 206. — Per il superlativo μακάρτατος quale attributo di Vitaliano, cfr. Moroni, p. 212 nota a II,2,5 v. 60. 89ss. Benevolenza verso gli uomini: pietas e χάρις. L’affermazione dell’io loquens sembra risentire della riscrittura dei comandamenti da parte di Cristo: il messaggio evangelico del Figlio raccomanda non solo di amare l’amico, ma anche il nemico: Ἠκούσατε ὅτι ἐρρέθη, Ἀγαπήσεις τὸν πλησίον σου καὶ μισήσεις τὸν ἐχθρόν σου. ἐγὼ δὲ λέγω ὑμῖν, ἀγαπᾶτε τοὺς ἐχθροὺς ὑμῶν καὶ προσεύχεσθε ὑπὲρ τῶν διωκόντων ὑμᾶς, ὅπως γένησθε υἱοὶ τοῦ πατρὸς ὑμῶν τοῦ ἐν οὐρανοῖς, ὅτι τὸν ἥλιον αὐτοῦ ἀνατέλλει ἐπὶ πονηροὺς καὶ ἀγαθοὺς καὶ βρέχει ἐπὶ δικαίους καὶ ἀδίκους. ἐὰν γὰρ ἀγαπήσητε τοὺς ἀγαπῶντας ὑμᾶς, τίνα μισθὸν ἔχετε (Mt. 5,43-46). È come se il figlio di Vitaliano facesse un’ammissione di colpa, riconoscendo di essere stato κακός, ma cfr. supra, vv. 65ss. dove l'io loquens parla di una κακίη che però condivide col genitore, sul quale viene riversata una maggiore responsabilità, e le considerazioni di McLynn, Olympias, p. 235. Gli exempla riportati di seguito, infatti, specificano e chiariscono meglio il messaggio: il medico non prescrive farmaci ad una persona sana (vv. 91-92); né qualcuno può mostrare compassione per un uccello che vola libero in cielo, ma per quello a cui è toccata la misera sorte di essere catturato da uno sparviero (vv. 92-96). 90 κακῷ δ’ ὑπὸ χεῖρας ἐρείδειν L’immagine delle mani è spesso utilizzata da Gregorio in riferimento alla creazione dell’uomo da parte di Dio: l’uomo è stato onorato dalla mano del Signore e dall’essere Sua immagine: ὁ ἄνθρωπος… χειρὶ θεοῦ καὶ εἰκόνι τετιμημένος (or. 44,4), passo certamente modellato su Iob 10,8; ma vedi anche Clem. Alex. paed. 1,3,7,1 etc.; Richard, pp. 277-278 e nota 298. Il verbo ἐρείδω in regime con χείρ trova un modello in Hom. Il. 5,309; 11,355 etc.; Apoll. Rh. 3,1160; Callim. Aet. fr. 43; Theocr. 146 7,104; 25,266; e poi Nonn. Dion. 39,55 (= 42,430) etc.; Anth. Pal. 6,83,6; cfr. anche Pr. 30,28; 31,19; Greg. Naz. carm. II,1,1 v. 618; or. 8,9, ma anche carm. II,2,1 v. 38 παλάμῃ παισὶν ἐρειδόμενοι. Si veda infine E. Lohse, χείρ, in GLNT XV, coll. 661-691; Lurker, pp. 121-122. 91-92 Chiaro riferimento a Mt. 9,12 Οὐ χρείαν ἔχουσιν οἱ ἰσχύοντες ἰατροῦ ἀλλ’ οἱ κακῶς ἔχοντες; cfr. anche carm. II,1,50 v. 68; II,1,89 vv. 4-6; BP, p. 264. — Per νόσος con τείρω cfr. carm. II,1,45 v. 6. Gregorio parla di malattia (in senso morale) e somministrazione di farmaci anche nell’exordium di carm. I,2,28 relativamente al vizio della cupidigia: Κακόν τι λήψῃ πρόσθεν, ἢ πείσεις λέγων, / ὡς φαρμάκων χρῄζουσι τῆς ἀῤῥωστῖας. / Τίς γάρ, νομίζων μὴ νοσεῖν, ἀλλ’ εὐσθενεῖν, / ἢ φαρμακεύετ’, ἢ ζητεῖ σωτηρίαν; / τοῦτ’ ἔστι τοῦ νοσοῦντος, ἀλλὰ μετρίως. / Ὅστις δὲ τὸν δίκαιον οἴεται νοσεῖν, / πότ’ ἂν δέξαιτο τοῦ πάθους παρήγορον (vv. 13-20); Beuckmann, pp. 43-45; II,2,2 vv. 355-356 ἐπεὶ πολὺ λωϊόν ἐστι / φάρμακον, ἠὲ πόνον, τοῖς νόσεουσι φέρειν; e in or. 2,18 (passo segnalato da Ruether, pp. 88-89). Per l’identificazione Cristo-ἰατρός si legga cfr. S. Fernández, Cristo médico según Origenes: la actividad médica como metáfora de la acción divina, (Studia Ephemeridis Augustinianum 64) Roma 1999; E. Testa, Le malattie e il medico secondo la Bibbia, Rivista Biblica 43, 1995, pp. 253ss.; cfr. anche supra, nota al v. 33. 92-96 Gregorio ricorre spesso ad immagini tratte dalla natura, cfr. Ruether, pp. 96ss. Numerosi sono, per esempio, i riferimenti al mondo animale che si leggono in carm. I,2,15 vv. 7ss.; II,2,4 vv. 6ss. (cfr. il comm. di Moroni, pp. 96ss.); vedi anche or. 28,23ss. (la natura come espressione della grandezza e magnificenza di Dio creatore, cfr. Richard, pp. 35ss.); 44,10-11; infra, vv. 129ss. Per un particolare aspetto si veda C. Crimi, Le api sapienti di Gregorio Nazianzeno, in AA.VV., La cultura scientificonaturalistica nei Padri della Chiesa (I-V sec.), (Studia Ephemeridis Augustinianum 101), Roma 2007, pp. 233-240. 92-93 …ὄρνιν / … ἠέρι… ἱέντα L’immagine dell’uccello che si slancia nel cielo ha riscontro in Apoll. Rh. 2,933-935 ἠύτε τίς τε δι’ ἠέρος ὑψόθι κίρκος / ταρσὸν ἐφεὶς πνοιῇ φέρεται ταχύς, οὐδὲ τινάσσει / ῥιπήν, εὐκήλοισιν ἐνευδιόων πτερύγεσσιν, e potrebbe potrebbe 147 costituire un riecheggiamento della Parabola del grano di senapa di Mt. 13,31-32 … ὥστε ἐλθεῖν τὰ πετεινὰ τοῦ οὐρανοῦ, ripresa da Greg. Naz. carm. I,1,27 vv. 15ss. ὀρνίθεσσι… ἐηρίοισι; ma cfr. anche I,2,9b v. 21; I,2,15 vv. 19-20; II,1,88 vv. 74-75. In II,1,11 è lo stesso Gregorio a definirsi un uccello che si leva in alto: πτηνὸν γάρ εἰμι ῥᾳδίως μετάρσιον (v. 377). — Per εἶμι con αήρ cfr. hym. hom. in Cer. 383; Theocr. 25,92; Apoll. Rh. 2,684; Quint. Smyrn. 12,118; etc. 93 κλαδεῶνι Τra le pochissime attestazioni del termine (Orph. Arg. 925; Anth. Pal. 9,78,3), un posto rilevante spetta alla poesia di Gregorio: cfr. carm. I,2,2 vv. 280. 523; I,2,15 v. 34; LSJ s.v. Sembra interessante, inoltre, rilevare l’immagine degli uccelli che stanno sui rami riportata in Dan. 4,12 (Theodotionis versio): ἐν τοῖς κλάδοις αὐτοῦ κατῴκουν τὰ ὄρνεα τοῦ οὐρανοῦ. ἠέρι ταρσόν Iunctura di larga applicazione in Nonn. Dion. 4,407; 12,350; 23,119 etc.; ma cfr. anche Or. Sib. fr. 43,10; Anth. Pal. 9,287,3. 94 Per la locuzione avverbiale ἀπὸ τῆλε cfr. Hom. Il. 17,301; 22,467 etc.; Od. 3,313; 5,315; Hes. fr. 43a West-Merkelbach; Apoll. Rh. 1278; Quint. Smyrn. 2,49; 5,447 etc.; Anth. Pal. 7,40,2; Greg. Naz. carm. I,1,1 v. 8; I,1,8 v. 126 (ἀπὸ τῆλε πεσόντες); I,1,27 vv. 30. 50 (ἀπὸ τῆλε πέσοιμι); I,2,2 v. 396 (ἀπὸ τῆλε πέσοιμι) etc. — Per la iunctura φίλης…καλιῆς cfr. Greg. Naz. carm. II,2,4 v. 9 e il comm. di Moroni, p. 97. Per la menzione congiunta dell’uccello e del nido vedi anche I,2,2 v. 461 (καλιῆς è posto in clausola come nel passo in oggetto); I,2,33 v. 128; II,1,16 vv. 73-74; II,1,70 v. 3. 95 Il verso è quasi interamente modellato su Hes. Op. 205 …γναμπτοῖσι πεπαρμένη ἀμφ’ ὀνύχεσσι. 97-98 Questi due versi presentano una struttura molto ricercata, vicina allo schema chiastico, che ruota attorno al rapporto tra χάρις e πατρὸς νόμος (posti rispettivamente all’inizio e alla fine del passo), a cui fa da pendant la contrapposizione tra le categorie etiche del κακός e dell’ἀγαθός (in opposizione anche ai vv. 86-89). L’io loquens afferma che l’amore che lega genitori e figli, 148 definito νόμος, deve essere incondizionato e indipendente dal comportamento della prole, tanto che se elargito ugualmente nei confronti di un figlio cattivo, acquisisce una maggiore connotazione e un più alto significato tanto da essere definito χάρις, e diventare speculum della θεοῦ χάρις che si esplica nel sacrificio dell'Unico figlio (vv. 102ss.). Il passo in oggetto presenta molte convergenze terminologiche e concettuali con alcuni luoghi dello scambio epistolare costituito dai carm. II,2,4-5 di Gregorio. Moroni, pp. 96; 99 etc. ha già sottolineato i numerosi loci paralleli tra questi componimenti e il nostro carme, che affrontano particolari aspetti del rapporto genitori-figli: nell’exordium di carm. II,2,4 vv. 1-36, per esempio, il giovane Nicobulo considera il principio del generare e dell’allevare figli come un favore modesto, βαιὴ χάρις, espressione di una mera legge naturale che trova numerose affinità col mondo animale (qui χάρις è inteso nello stesso senso del beneficium di Sen. ben. 3,30ss., e si veda anche Quint. decl. 368,1 : Beneficium dedit: vitam donavit. Magnum beneficium est lucem dare: ideo sunt parentes carissimi…), mentre la risposta del padre, Nicobulo senior, sposta l’oggetto della questione dal piano della necessità, χρέος, a quello del beneficio e della gratuità, χάρις, in senso più elevato (cfr. II,2,5 vv. 30ss.): cfr. comm. ad loc. di Moroni, pp. 93ss. e 204-205. — Per il rapporto tra χάρις e νόμος con accezione diversa da quella del passo in oggetto, si veda or. 2,97; 4,67 (Legge giudaica-grazia divina); 30,220; 32,23 (Legge giudaicagrazia divina); carm. I,2,1 vv. 201-202 (leggi della carne-grazia divina); I,2,25 v. 326; etc. 97-104 Esplicazione del concetto di χάρις. Si realizza, in particolare, un duplice livello di interpretazione, umano e divino: con l’espressione σὴ χάρις Gregorio, infatti, intenderebbe quella forma di benevolenza che, pur esplicandosi a livello “umano”, può diventare speculum di quella divina, σὴ χάρις ὄντα κάκιστον… γεραίρειν (v. 97), giacché la Θεοῖο χάρις si realizza non nel τὸν ἄριστον ἔχειν πέλας, ἀλλὰ κακίστῳ εὐμενέειν (vv. 100-101). In realtà, la Θεοῖο χάρις trova la sua massima rivelazione nell’Incarnazione e Passione di Cristo che è venuto a salvare gli uomini che erano caduti a causa del peccato originale (vv. 102-104), secondo quanto è affermato in Tt. 2,11-14 Ἐπεφάνη γὰρ ἡ χάρις τοῦ θεοῦ σωτήριος πᾶσιν ἀνθρώποις, … προσδεχόμενοι τὴν μακαρίαν ἐλπίδα καὶ ἐπιφάνειαν τῆς δόξης τοῦ μεγάλου θεοῦ 149 καὶ σωτῆρος ἡμῶν Ἰησοῦ Χριστοῦ, ὃς ἔδωκεν ἑαυτὸν ὑπὲρ ἡμῶν…; ma si veda anche Gv. 3,16-17, "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito … Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di Lui". L'uomo, dunque, può tentare di avvicinarsi a tale forma di χάρις manifestando la propria benevolenza non solo con τὸν ἄριστον ἔχειν πέλας, ma soprattutto con κακίστῳ εὐμενέειν. Tale considerazione può, pertanto, essere letta come una parenesi a Vitaliano affinché si mostri benevolo nei confronti dei figli, soprattutto se sono κακίστοι. Singolarmente, nel discorso di un filius ἀποκηρυττόμενος la richiesta che egli rivolge al padre, pur esulando dal sentire cristiano, è quella di ricevere χάρις: …δὸς ἡμῖν, ὦ πάτερ, χάριν μετρίαν… (Lib. decl. 46,47); così come, un giovane che chiede al genitore e ai giudici di essere ἀποκηρυττόμενος si esprime con queste parole: …ἀλλὰ δότε, ὦ ἄνδρες, δότε μοι τὴν δευτέραν χάριν, … ἐκβάλετε τῆς πατρῴας οἰκίας… (Lib. decl. 48,64) 97 Sulla base del confronto col supra cit. passo di carm. II,2,4 e II,2,5, con il termine χάρις Gregorio potrebbe intendere una forma di benevolenza posta ad un livello superiore rispetto alla βαιὴ χάρις di carm. II,2,4 v. 1 che Nicobulo junior rinfaccia al padre, e che coincide con la …χάρις ἐστὶν ὅ κεν πατρὸς υἱὸς ἕλῃσι di carm. II,2,5 v. 36 che si realizza nell’amare un figlio anche se è malvagio; cfr. Lampe s.v. χάρις; H. Conzelmann-W. Zimmerli, χάρις, in GLNT XV, coll. 528-606. — Per il nesso ἑοῖς σπλάγχνοισι da intendere come “viscere di misericordia” cfr. supra, nota al v. 7. 98 ποῦ πατρὸς …νόμος; La legge paterna a cui allude l'io loquens si esplica nell'amore incondizionato nei confronti dei figli, siano essi buoni o cattivi, ed anticipa la γραπτῶν γὰρ βασίλεια νόμων ἀδίδακτος ἀνάγκη di v. 305 che spinge i genitori ad essere miti verso la loro prole, cfr. infra, nota ad loc. Essa, dunque, non si limita all’ εἷς νόμος, agli ἀδιδάκτοισι νόμοισι e al πόθου νόμος di cui parla Nicobulo junior in carm. II,2,4 vv. 2, 22 e 27 che regolamentano il naturale rapporto di amore che i genitori nutrono verso i figli, anche nel mondo animale, (cfr. Moroni, pp. 94 e 101), ovvero al φύσεως νόμος ripreso e in un certo senso ribaltato dalla risposta di Nicobulo senior in carm. II,2,5 vv. 79-80 secondo la quale «se la natura dà ai figli l’amore dei genitori, la natura impedisce anche di amare coloro che non ci amano» εἴ γε φύσις τεκέεσσι 150 πόθον πόρσυνε τοκήων, / καὶ τὸ φύσις φιλέειν τοὺς οὐ φιλέοντας ἔρυξε: cfr. Moroni, pp. 179 e p. 202. In or. 36,3, per esempio, Gregorio, rivolgendosi alla comunità dell'Anastasia che mostrava tanta benevolenza nei suoi confronti, afferma che è naturale essere benevoli verso tutto ciò che ci sta vicino o ci appartiene, come la prole, per quella forma di benevolenza spontanea che è insita nel genitore, Φύσις δὲ αὕτη πρὸς τὸ οἰκεῖον ἅπαν εὐμενῶς ἔχειν, εἴτε κτῆμα, εἴτε γέννημα, εἴτε λόγον, καὶ δι’ εὐνοίας ἑκουσίου χειροῦσθαι τοῖς ἑαυτῶν προβλήμασιν. 98-101 Comportamento nei confronti degli stranieri/estranei e dei nemici. In questi versi l'io loquens ritorna sul corretto atteggiamento da assumere nei confronti degli stranieri/estranei e degli uomini malvagi, che è quello della φιλοξενία, secondo il precetto evangelico di Mt. 25,35: ξένος ἤμην καὶ συνηγάγετέ με, e dell’amore verso il nemico e l’uomo malvagio (cfr. supra, v. 90 dove si rimanda al comandamento di Cristo di Mt. 5,43-46). Da notare, inoltre, l’insistenza sulle categorie etiche che vedono l’opposizione tra l’ἄριστος e il κακός: οὐδὲ Θεοῖο ἥδε χάρις τὸν ἀριστον ἔχειν πέλας,/ ἀλλὰ κακίστῳ εὐμενέειν… (vv. 99-101). 100-101 Per la locuzione ἔχειν πέλας cfr. Apoll. Rh. 3,1236; Aesch. Suppl. 210; Soph. El. 551; Eur. Hec. 486; Greg. Naz. carm. II,1,1 v. 258; Anth. Pal. 6,175,5. 9,650,1. 16,378,1. — Per la costruzione κακίστῳ εὐμενέειν cfr. Eur. Alc. 211. 101 L’immagine è certamente biblica, come si evince da Ps. 112,7 ὁ (scil. θεός) ἐγείρων ἀπὸ γῆς πτωχὸν καὶ ἀπὸ κοπρίας ἀνυψῶν πένητα (vedi anche infra, vv. 116-117), ma la costruzione è modellata quasi interamente su Hom. Il. 20,325: …ἀπὸ χθονὸς ὐψόσ’ αἐίρας; vedi anche 14,349 (ἀπὸ χθονὸς ὐψόσ’); Od. 8,375 e 12,249 χεῖρας ὕπερθεν / ὑψόσ’ ἀειρομένων; Greg. Naz. carm. I,1,9 additamentum L v. 36; I,2,2 vv. 7-8; II,1,19 v. 47; Simelidis, p. 199. — Per ἀείρω costruito col dativo di χείρ nel senso di “sollevare con le mani (con l’aiuto delle mani)” cfr. Hom. Il. 14,429; hymn. in Merc. 295; Soph. Ant. 264; El. 54. 813; Eur. Hec. 528; Suppl. 772; fr. 495 Nauck; Aristoph. Ec. 264; Orph. Arg. 1021; Apoll. Rh. 4,222; Quint. Smyrn. 1,775; 4,318; 14,445 etc.; Greg. Naz. carm. II,1,11 v. 1784 (= or. 33,3); II,1,68 v. 97 (= or. 43,41); Anth. Pal. 9,797,1; Nonn. Dion. 151 1,319; 43,116; ma vedi anche Ps. 91,12 (= Mt. 4,6 e Lc. 4,11) ἐπὶ χειρῶν ἀροῦσιν. Varie accezioni presenta la forma ἀείρω (αἴρω) costruita con l’accusativo di χείρ presente nella Sacra Scrittura: Ps. 27,2: "alzare la mani per chiedere aiuto", ripresa da Greg. Naz. carm. II,1,11 v. 1784 (= or. 33,3); II,1,68 v. 97 (= or. 43,41); Iob 15,25, in "opposizione a Dio"; Ap. 10,5 come espressione di potenza; Ez. 44,12 "sollevare la mano contro qualcuno, percuotere", per cui si veda anche infra, vv. 303 e 317. — Per il nesso ἀπὸ χθονὸς ὐψόσ’(ε) cfr. Hom. Il. 17,222-223 ἀπὸ χθονὸς.../ ὕψι… e infra, v. 219. 102-104 Professione di fede. Il gradino più elevato della Θεοῖο χάρις trova la sua massima rivelazione nell’Incarnazione e Passione di Cristo a favore dell’umanità caduta a causa del peccato del primo uomo. Il passo in oggetto presenta una complessa articolazione caratterizzata da un lato, dalla simmetrica costruzione dei vv. 102 e 104 (si noti anche l’opposizione οὐδὲ γὰρ ἀπτώτοισι…/ ἀλλὰ χαμαιπετέεσσι…); dall’altro, dal poliptoto θάνεν … θάνον. Fondamento scritturistico e chiave di lettura per le dinamiche del rapporto tra Dio (scil. Cristo) e Adamo, figura del Salvatore (Ἀδάμ, ὅς ἐστιν τύπος τοῦ μέλλοντος) è la lunga pericope di Rm. 5,12ss., che presenta numerose affinità terminologiche col passo in questione: Διὰ τοῦτο ὥσπερ δι’ ἑνὸς ἀνθρώπου ἡ ἁμαρτία εἰς τὸν κόσμον εἰσῆλθεν καὶ διὰ τῆς ἁμαρτίας ὁ θάνατος, καὶ οὕτως εἰς πάντας ἀνθρώπους ὁ θάνατος διῆλθεν, ἐφ’ ᾧ πάντες ἥμαρτον. … Ἀλλ’ οὐχ ὡς τὸ παράπτωμα, οὕτως καὶ τὸ χάρισμα· εἰ γὰρ τῷ τοῦ ἑνὸς παραπτώματι οἱ πολλοὶ ἀπέθανον, πολλῷ μᾶλλον ἡ χάρις τοῦ θεοῦ καὶ ἡ δωρεὰ ἐν χάριτι τῇ τοῦ ἑνὸς ἀνθρώπου Ἰησοῦ Χριστοῦ εἰς τοὺς πολλοὺς ἐπερίσσευσεν. … εἰ γὰρ τῷ τοῦ ἑνὸς παραπτώματι ὁ θάνατος ἐβασίλευσεν διὰ τοῦ ἑνός, πολλῷ μᾶλλον οἱ τὴν περισσείαν τῆς χάριτος καὶ τῆς δωρεᾶς τῆς δικαιοσύνης λαμβάνοντες ἐν ζωῇ βασιλεύσουσιν διὰ τοῦ ἑνὸς Ἰησοῦ Χριστοῦ. Ἄρα οὖν ὡς δι’ ἑνὸς παραπτώματος εἰς πάντας ἀνθρώπους εἰς κατάκριμα … ὥσπερ γὰρ διὰ τῆς παρακοῆς τοῦ ἑνὸς ἀνθρώπου ἁμαρτωλοὶ κατεστάθησαν οἱ πολλοί, οὕτως καὶ διὰ τῆς ὑπακοῆς τοῦ ἑνὸς δίκαιοι κατασταθήσονται οἱ πολλοί. νόμος δὲ παρεισῆλθεν ἵνα πλεονάσῃ τὸ παράπτωμα· οὗ δὲ ἐπλεόνασεν ἡ ἁμαρτία, ὑπερεπερίσσευσεν ἡ χάρις, ἵνα ὥσπερ ἐβασίλευσεν ἡ ἁμαρτία ἐν τῷ θανάτῳ, οὕτως καὶ ἡ χάρις βασιλεύσῃ διὰ δικαιοσύνης εἰς ζωὴν αἰώνιον διὰ Ἰησοῦ Χριστοῦ τοῦ κυρίου ἡμῶν. Si può anche 152 risentire l’eco di Mt. 9,13 … οὐ γὰρ ἦλθον καλέσαι δικαίους ἀλλὰ ἁμαρτωλούς (cui farebbe da pendant l’opposizione οὐδὲ γὰρ ἀπτώτοισι…/ ἀλλὰ χαμαιπετέεσσι…); di Lc. 5,32 e Phil. 2,6-8 ὃς ἐν μορφῇ θεοῦ ὑπάρχων οὐχ ἁρπαγμὸν ἡγήσατο τὸ εἶναι ἴσα θεῷ, ἀλλὰ ἑαυτὸν ἐκένωσεν μορφὴν δούλου λαβών, ἐν ὁμοιώματι ἀνθρώπων γενόμενος· καὶ σχήματι εὑρεθεὶς ὡς ἄνθρωπος ἐταπείνωσεν ἑαυτὸν γενόμενος ὑπήκοος μέχρι θανάτου, θανάτου δὲ σταυροῦ. Gregorio insiste spesso sulla portata salvifica dell’Incarnazione di Cristo a favore dei peccatori e non dei giusti. 102-103 οὐδὲ γὰρ ἀπτώτοισι θάνεν Θεός, εὖτ’ ἐπὶ γαῖαν / ἤλυθε… Quasi lo stesso segmento si legge in carm. II,1,19 vv. 87-88 οὔτ’ ἀγαθοῖσι μόνοισι θάνες, Θεός, εὖτ’ ἐπὶ γαῖαν / ἤλυθες… (cit. anche supra, comm. al v. 9). 102 οὐδὲ γὰρ ἀπτώτοισι θάνεν Θεός Con ἄπτωτος, corradicale di πίπτω, Gregorio indica quelli che non sono “caduti” nel peccato a causa del primo uomo. Il verbo πίπτω e i vocaboli corradicali designano spesso, nell’opera del Nostro, il comportamento di Adamo e le conseguenza della sua trasgressione. In carm. II,1,1 v. 384 Adamo è, infatti, chiamato “principio della polvere e della caduta”: ὥσπερ Ἀδὰμ τὸ πρόσθε χοὸς καὶ πτώσιος ἀρχήν; in I,1,9 v. 44 si legge: καὶ γὰρ ὅλος πέπτωκεν Ἀδὰμ…; II,1,68 Ἀδὰμ πεπτωκότος; or. 45,13 τοῦ Ἀδὰμ… τοῦ πρώτου πεσόντος ὑπὸ τὴν ἀμαρτίαν; cfr. ancora I,1,8 vv. 126-129 ὣς ἡμεῖς μεγάλοιο Θεοῦ ἀπὸ τῆλε πεσόντες, /…/ τοίη πρωτογόνοιο νεόσπορος ἤλυθεν ἄτη / δειλοῖσιν μερόπεσσιν, ὅθεν στάχυς ἐβλάστησε; I,1,10 vv. 69-72 …αὐτὸν προσφέρειν Θεῷ, / ἵν’ αὐτὸς ἡμᾶς τοῦ κρατοῦντος ἁρπάσῃ, / λάβῃ τε ἀντάλλαγμα τοῦ πεπτωκότος (scil. Ἀδὰμ) / τὸν Χριστόν…; or. 17,7 Εἶς Χριστός, αλλ’ εἰς πτῶσιν κεῖται καὶ ἀνάστασιν; or. 2,25; 45,12 …ἐπειδὴ πεσόντας ἡμᾶς ἐκ τῆς ἁμαρτίας τὸ ἀπ’ ἀρχῆς; e vedi, infine, Hipp. antichr. 64,14 ἐκεῖ (scil. ἐν παραδείσω) γὰρ Ἀδὰμ ἀπατηθεὶς πέπτωκεν; Bénin, p. 727; Moreschini-Sykes, p. 250; Richard, p. 299. — La costruzione allitterante θάνεν Θεός (si noti, con ἀπτώτοισι, l’allitterazione della dentale) richiama i vv. 9-10 Θεός…/ ᾧ θάνεν (scil. βροτῷ)…, dove riscontriamo qualcosa di simile. Per la portata della venuta di Cristo sulla terra, oltre i loci paralleli segnalati supra nella nota ad loc., cfr., ancora, carm. I,2,8 vv. 106-108 μύρου δὲ παντὸς Χριστὸς εὐωδέστερος / ἡμῖν κενωθείς, ὡς λύσῃ δυσωδίας, / ἧς νεκρότης μ’ ἔπλησε τῆς ἁμαρτίας (cfr. Werhahn, p. 52). Per la caduta di Adamo cfr. anche Ellverson, pp. 52ss. 153 102-103 …ἐπὶ γαῖαν / ἤλυθε… Per le espressioni che indicano la venuta di Cristo sulla terra vedi carm. I,2,1 v. 149 Ἦλθε θεὸς θνητός τε…; II,1,86 vv. 5-6 …καὶ γὰρ ἦλθον ἐνθάδε (scil. Λόγος) / ἄνω σε θήσων τὸν πεσόνθ’ ἁμαρτίᾳ; or. 39,18. — Per l’accostamento di γαῖα con ἔρχομαι in enjambement cfr. Ηοm. Il. 2,785-786; 22,483-484; Od. 10,563-564; Ps.-Hes. Sc. 2-3; Choer. fr. 1,2-3; Theogn. El. 1,784-785; e ancora Greg. Naz. carm. I,2,26 vv. 37-38; II,2,1 vv. 149-150; Nonn. Dion. 8,64-65; Anth. Pal. 16,185,5-6. 103 θεότητι ἐὸν βροτὸν ἀμφὶς ἔπεξεν Incarnazione di Cristo. Il mistero dell’Incarnazione di Cristo trova il suo fondamento nella congiunzione e mescolanza della sostanza divina con la natura umana (in tale accezione va inteso πήγνυμι, cfr. Lampe s.v.), dottrina cardine della fede cristiana, argomentata molto spesso da Gregorio in numerosissimi luoghi della sua vasta opera. In termini simili il Cappadoce si esprime per combattere l'eresia apollinarista in carm. I,1,10 v. 54 Λόγος δ’ ἑαυτῷ πήγνυτ’ ἔνδοθι βροτὸν; I,1,11 v. 7 Ἦν Θεὸς, ἀλλ’ ἐπάγη Πατρὸς Λόγος ἡμέτερος φὼς; II,1,19 v. 70 …Θεὸν ἀνδρομέοισιν ἐνὶ σπλάγχνοισι παγέντα; e più frequentemente si avvale del campo semantico legato alla μῖξις e alla κρᾶσις, per cui si veda I,1,9 vv. 50-52 ὧν Θεὸς ἡ μὲν ἕην, ἡ δ’ ὕστατον ἄμμιν ἐτύχθη. / εἷς Θεὸς ἀμφοτέρωθεν, ἐπεὶ θεότητι κερασθεὶς, / καὶ βροτὸς ἐκ θεότητος ἄναξ καὶ Χριστὸς ὑπέστη (passo che coincide quasi perfettamente con I,2,1 vv. 152-155 …ὅτ’ ἐν σπλάγχνοισι μίγη Θεὸς ἀνδρομέοισιν· / εἷς Θεὸς ἀμφοτέρωθεν· ἐπεὶ θεότητι κερασθεὶς, / καὶ βροτὸς ἐκ θεότητος ἄναξ καὶ Χριστὸς ὑπέστη. / Καινὴ δ’ ἔπλετο μίξις, ἐπεὶ προτέρην ἀθέριξα); I,1,10 vv. 12 Οὗτος θεοῦ σοι τοῦ μεμιγμένου λόγος; I,1,11 vv. 8 ὥς κε Θεὸν μίξε, μικτὸς ἐὼν χθονίοις (tramite l’assunzione della natura umana da parte di Cristo, l’uomo è reso dio) e 11 …Τί δ’ ἔμοιγε νόον, καὶ μίξιν ἅφραστον; I,2,1 vv. 334-336 Καὶ Χριστὸς καθαροῖς μὲν, ἀτὰρ σπλάγχνοισιν ἐμίχθη / ἀνδρομέοις, μνηστῆς δὲ διωλίσθησε γυναικὸς, / ἥμισυ συζυγίης μίξας βροτέης θεότητι; I,2,14 v. 91 Χριστὸς ἑὴν μορφὴν ἡμετέρῃ κεράσας; II,1,13 v. 34 καὶ μίχθη μερόπεσσι, θεὸς βροτός εἰς ἒν ἀγερθείς; ma vedi anche II,1,1 vv. 14-16 cit. supra, comm. al v. 1, dove centrale è il concetto di μίξις, in Cristo, della natura divina con quella umana e ΙΙ,2,1 v. 337 …καὶ Χριστὸς μερόπεσσι,… ἐμίχθη (= II,2,2 v. 15); II,2,7 vv. 216-217 dove i termini θεότης e βροτός si riferiscono all’essere umano e alla sua natura divina, giacché l’uomo fu creato ad immagine e 154 somiglianza di Dio: Οὐδὲ γὰρ ὡς στυγέων (scil. θεός) τεῦξε βροτὸν, ἧς θεότητος / μάρτυρα, καὶ μεδέοντα κάτω, καὶ εὖχος Ἄνακτος; infine, in or. 30,3 il mistero della μίξις è ancora indissolubilmente legato alla “divinizzazione” dell’uomo (cfr. supra, comm. al v. 1): Tί δὲ μεῖζον ἀνθρώπου ταπεινότητι ἢ Θεῷ πλακῆναι, καὶ γενέσθαι θεὸν ἐκ τῆς μίξεως…; 38,13; 39,13 etc. Cfr. Moreschini-Sykes pp. 257-258; Sundermann, p. 84; Beeley, pp. 122ss.; Rudasso, pp. 52ss.; Winslow, pp. 73ss; Simelidis, p. 205; Richard, pp. 465-471. 104 χαμαιπετέεσσι Interessante il parallelo con Eus. h. e. 7,27 τούτου (scil. Παύλου) δὲ ταπεινὰ καὶ χαμαιπετῆ περὶ τοῦ Χριστοῦ παρὰ τὴν ἐκκλησιαστικὴν διδασκαλίαν φρονήσαντος ὡς κοινοῦ τὴν φύσιν ἀνθρώπου γενομένου; e p. e. 2,3,104 «ὑμεῖς ἐστε τὸ φῶς τοῦ κόσμου»· τῶν δὲ γηγενῶν καὶ χαμαιπετῶν ἄμμῳ γῆς παραβαλλομένων. Il senso metaforico dell’aggettivo porta in sé spesso una connotazione negativa, soprattutto quando è inserito nella figura dell’endiadi: cfr. Eus. d.e. 6,13 …ταπειναῖς καὶ χαμαιπετέσιν διανοίαις…; Greg. Nyss. anim. et res. …εἴπερ ἐντεῦθεν δι’ ἀρετῆς πτεροφυήσασαι μετεωροποροῦσιν, ἐκεῖθεν δὲ διὰ κακίας τῶν πτερῶν ἐκπιπτόντων χαμαιπετεῖς πρόσγειοι γίνονται, τῇ παχύτητι τῆς ὑλικῆς καταμιγνύμεναι φύσεως (PG 46,113); Greg. Naz. or. 29,11 …τοῖς μὴ… χαμαιπετέσι καὶ ὑλικοῖς τὴν διάνοιαν e 18 …τὸ τῶν δογμάτων σου σαρκικὸν καὶ χαμαιπετὲς…; Ioh. Chrys. virg. 49 …ταπεινούς καὶ χαμαιπετεῖς… (= hom. 26 in 2 Cor., PG 61,581); hom. 4 in I Cor. χαμαιπετεῖς ὄντες καὶ χαμαίζηλοι (PG 61,38); ma vedi anche Iust. 2 apol. 11,7 ἡ γὰρ κακία… δουλαγωγεῖ τοὺς χαμαιπετεῖς τῶν ἀνθρώπων; Luc. somnium sive vita Luciani 13 …χαμαιπετὴς καὶ χαμαίζηλος καὶ πάντα τρόπον ταπεινός…; cfr., infine, Lampe e LSJ s.v. οἳ θάνον ἐξ Ἀδάμοιο Il peccato del primo uomo ha causato la morte dell’intera umanità (cfr. Rm. 5,12) che può essere espiata solo dal sacrificio di Cristo, come si evince da 1Cor. 15,22 ὥσπερ γὰρ ἐν τῷ Ἀδὰμ πάντες ἀποθνῄσκουσιν, οὕτως καὶ ἐν τῷ Χριστῷ πάντες ζωοποιηθήσονται; concezione ripresa ancora da Greg. Naz. or. 38,4 …ἐν τῷ Ἀδὰμ ἀπεθάνομεν; or. 38,12 (= 45,8); BP, p. 359; cfr. anche infra, vv. 289-291; Molac, pp. 98101. Inoltre, la caduta dell’uomo ha osteggiato la sua divinizzazione che può essere 155 restaurata solo con l’Incarnazione e la Passione di Cristo, cfr. Beeley, p. 120 (per il concetto di θέωσις vedi supra, comm. ai vv. 1ss.) 105-125 Sezione biblica. I riferimenti scritturistici di questa sezione (il figliol prodigo, la pecorella smarrita, il fariseo e il pubblicano, Manasse, Ninive e il pubblicano Zaccheo) sono stati inglobati da Demoen, Exempla, pp. 186-187 in un cosiddetto fixed cluster, un gruppo accomunato da una coerenza funzionale al contesto che è stata individuata nella forgiveness divina nei confronti dei peccatori (per la loro funzione esemplare vedi, ancora, Demoen, Exempla, p. 86). Gli stessi riferimenti biblici sono inseriti, dal Cappadoce, in una sequenza di proposizioni interrogative in carm. II,1,46 vv. 41ss.: Τίς σκολιὸν βασιλῆα γόοις ἐκάθηρε Μανασσῆ; /… τίς χθαμαλὴν θρήνοισιν ἰδὼν ἐσάωσε Νινευΐ; / τίς δ’ ἐπὶ παιδὶ βάλεν δάκρυον ὁπλοτέρῳ; / τίς χαίρων καθαροῖσιν, ἑκὰς βάλεν οὐδὲ τελώνας; / τίς πρόβατόν τ’ ὤμοις ἄνθετο πλαζόμενον. 105-115 Parabola del figliol prodigo e della pecorella smarrita: parenesi a Vitaliano affinché imiti la Misericordia di Dio. Le due parabole della Misericordia trattate in questa sezione, il figliol prodigo e la pecorella smarrita, sono espressione dell’amore straordinario di Dio per coloro che si “sono persi”. Entrambi i racconti sono accomunati all’esperienza dell’io loquens da un allontanamento sensu lato dei “personaggi” che determina uno squilibrio nell’unità originaria, in un secondo momento ricomposta: il figlio che si allontana dalla casa paterna, ma che poi pentitosi, vi fa ritorno; la pecorella che si perde, ma che viene ritrovata dal pastore e reintegrata nel gregge. Nelle due parabole è stata già sottolineata la comune sequenza perdere-ritrovare che vede, però, un’inversione di rotta: se, cioè, è lo stesso figliol prodigo a ritornare a casa (ma la conditio sine qua non resta, comunque, la benevolenza e l'accoglienza del padre); nel caso della pecorella è il pastore che va a cercarla (sull’argomento si veda V. Fusco, Narrazione e dialogo nella parabola detta del figliol prodigo (Lc. 15,11-32), in G. Galli [a cura di], Interpretazione e invenzione: la parabola del figliol prodigo tra interpretazioni scientifiche e invenzioni artistiche. Atti dell’VIII colloquio sull’Interpretazione (Macerata 17-18 Marzo 1986), Genova 1987, pp. 28-29. L’intento parenetico è così chiarito: avvalendosi di questi esempi, l’io 156 loquens esorta il padre a mostrare, nei confronti dei figli che ha cacciato da casa, la stessa misericordia mostrata da Dio verso i peccatori che si sono allontanati da Lui, anzi a prodigarsi lui stesso per il ritorno dei figli; cfr. Demoen, Exempla, pp. 148-149. La componente del pentimento e della conversione di chi ha errato, comune ai due racconti evangelici e fondamentale nella vicenda del figliol prodigo di Lc. 15,18-20, ma anche nel ritrovamento della pecorella smarrita (Lc. 15,7), è ridotta quasi al minimo nella rielaborazione gregoriana: per la parabola del figliol prodigo viene, infatti, condensata nell’espressione γούνασι κάμπφθη; per quella della pecorella, assolutamente omessa. Questo modus scribendi può essere letto sotto una duplice luce: da un lato, il Cappadoce, catalizzerebbe, così, l’attenzione sulle figure del padre e del pastore, specula Dei e modelli di comportamento per Vitaliano; dall’altro, minimizzerebbe la responsabilità e la “colpa” sia del figliol prodigo, che della pecorella (in particolar modo quest’ultima si è, in un certo senso, allontanata inconsapevolmente dal gregge) a cui sono assimilabili l’io loquens e il fratello. Silenzio ancora più pregnante se messo in relazione con la successiva sezione del carme in cui il poeta affronta, proprio, il tema del pentimento e della conversione presentando, con intento chiaramente parenetico, alcuni exempla auctoritatis ai quali Vitaliano dovrebbe ispirarsi. A questo proposito interessante appare, in particolare, l'applicazione esegetica origeniana delle “Parabole della Misericordia” che pone il processo confessione-pentimento-conversione in una prospettiva soteriologica, in relazione, cioè, con la venuta di Cristo e la redenzione del cristiano caduto nel peccato (così come, nel nostro carme, la ripresa delle parabole segue proprio il riferimento all’Incarnazione di Cristo e alla sua portata salvifica): cfr. P. Siniscalco, Mito e Storia della salvezza. Ricerche sulle più antiche interpretazioni di alcune parabole evangeliche, Torino 1971, pp. 168 e 183-184. 105-110 Parabola del figliol prodigo (Lc. 15,11-32). La parabola rappresenta l’exemplum per eccellenza della pietas paterna, funzionale alla vicenda umana che sta alla base del carme. Il perdono e la misericordia che il padre mostra al figlio che si era “perduto”, allontanandosi da casa e sperperate tutte le ricchezze, deve rappresentare un modello di comportamento per Vitaliano che ha cacciato i figli dalla casa paterna (vedi anche infra, v. 147). Gregorio ripercorre solo la prima 157 sezione del racconto lucano che prevede la partenza del figlio minore e il suo ritorno dopo aver trascorso un periodo di vita dissoluta, tralasciando la sezione relativa al colloquio tra il padre e il figlio maggiore, evidentemente non funzionale al suo intento: cfr. Hultgren, pp. 84-101. Ricorrono riferimenti alla parabola anche in carm. I,1,26 v. 16; I,1,27 vv. 82-85; e II,1,46 v. 44. Il passo in oggetto può essere suddiviso in due sezioni: una prima, riguardante il comportamento del figlio, scandito in quattro momenti (vv. 105-108); una seconda che ha, invece, come protagonista il padre misericordioso (vv. 109-110). 105 Verso con incipit omerico (οὐκ αΐεις): cfr. Il. 10,160; 15,130. 248; 18,11; (anche in Theocr. 24,37; Nonn. Dion. 26,14; Anth Pal. 9,570,7). In Gregorio si trova in carm. I,2,1 v. 691 (cit. supra, comm. al v. 87); I,2,29 v. 129: Knecht, p. 87. — La iunctura υἱῆα νεώτερον ricalca perfettamente quella usata nel testo evangelico (Lc. 15,13). — Per il nesso ἀπὸ πατρός in clausola cfr. Hes. Theog. 180; Soph. OT 417; Apoll. Rh. 4,985; etc. 106 Il verbo πλάζω è collocato in posizione incipitaria anche poco oltre per indicare l’allontanamento della pecorella dal gregge (parabola della pecorella smarrita vv. 111-115): πλαζομένην (scil. οἶν) εὕρῃσιν… v. 114; ma anche le peregrinazioni dell’io loquens, cacciato di casa dal padre Vitaliano insieme al fratello: Ἡμεῖς δ’ ἦμαρ ἐπ’ ἦμαρ…/ …ἔνθα καὶ ἔνθα / πλαζόμεθ’(α) (vv. 143-145). — Con l’astratto μαχλοσύνῃσι Gregorio rende la perifrasi evangelica ζῶν ἀσώτως (Lc. 15,13), cfr. anche carm. I,2,2 v. 88; I,2,29 v. 77 in connessione all’imbellettarsi delle donne; e Clem. Alex. paed. 3,3,23 Τί τοίνυν οὐκ ἂν ἐπιτηδεύσειαν αἱ γυναῖκες αἱ εἰς μαχλοσύνην σπεύδουσαι, τοιαῦτα τολμῶσιν ἐνοπτριζόμεναι τοῖς ἀνδράσιν. — La clausola πάντα λαφύξας è di chiara matrice omerica: cfr. Il. 11,176; 17,64; e poi Anth. Pal. 5,239,5. Si noti, infine, la forte allitterazione di π in πλάγχθη…πατρώϊα πάντα (per l’uso di πατρώϊος sempre in riferimento alla parabola, cfr. anche carm. I,2,27 v. 84). 107 λιμὸς ἔτειρε ἀλήμονα Λιμὸς ἔτειρε è mutuato da Hom. Od. 4,369; 12,332; è anche in Triphiod. 188; Orac. Sibyl. 5,469; Quint. Smyrn. 9,369; λιμός è presente anche nel dettato evangelico: δαπανήσαντο δὲ αὐτοῦ πάντα ἐγένετο λιμὸς ἰσχυρὰ κατὰ τὴν χώραν ἐκείνην (Lc. 158 15,14). — La condizione di vagabondo, ἀλήμων, è propria anche dell’io loquens che spera di poter essere riammesso nella casa paterna, cfr. infra, v. 350 …ἀλησόμεθ’ ὡς τοπάροιθεν. — Per la clausola ἐπὶ δῶμα cfr. Greg. Naz. carm. II,1,17 v. 71, ma anche I,1,27 v. 84 …πατρώϊον ἐς δόμον… . 108 παλίνορσος ἔβη, καὶ γούνασι κάμφθη Cfr. Greg. Naz. carm. I,1,27 vv. 83-84 …τὸν (scil. πάιν) δ’ ὑπὸ ποσσὶν / οἰκτρὸν ὑποστρέψαντα… . La perifrasi παλίνορσος ἔβη, nella medesima sede metrica, si legge in Opp. Ap. Cyn. 4,377; ma vedi anche Nonn. Par. 4,194. — La scena che delinea l’inginocchiamento del figlio, quale espressione di pentimento, che non trova alcun riscontro nel testo evangelico, dove è il padre a correre incontro al ragazzo e ad abbracciarlo (Lc. 15,20), reca un forte significato simbolico. La iunctura di γόνυ con κάμπτω ha una risonanza classica, cfr. Hom. Il. 7,118; 19,72; Od. 5,453; Aesch. Pr. 396; Eur. Hec. 1150; Apoll. Rh. 1,1174 (clausοla); 4,116 (clausοla); Callim. Hec. fr. 311,1, ma anche biblica, cfr. Is. 45,23 (=Rm. 14,11); 1Cr. 29,20; Eph. 3,14; Phil. 2,10; e poi Syn. hym. 2,234; ripresa anche in Greg. Naz. carm. I,1,2 v. 66 (clausοla); I,1,30 v. 45; I,1,34 v. 14 (clausοla); II,1,1 v. 577; II,1,11 v. 1071 (clausοla); II,1,45 v. 127; II,1,50 v. 58; II,2,7 v. 70 (clausοla); Nonn. Dion. 25,95; 48,70; 10,377 etc. 109 αἶψα Spessissimo in posizione incipitaria nella poesia epica, cfr. Hom. Il. 1,303; 2,664; 4,118 etc.; Od. 2,6; 5,320; 8,394 etc.; Hes. Theog. 87. 161; Op. 45. 185 etc.; Theogn. 1,663; Callim. hymn. in Dian. 87; Apoll. Rh. 1,15; 2,119; 4,1535; Theocr. 22,19; e poi Opp. An. Hal. 1,344; 2,266; Opp. Ap. Cyn. 2,242; 3,428; Quint. Smyrn. 3,710; 5,402 etc.; Greg. Naz. carm. I,1,18 v. 50. πατὴρ ἐλέηρε κακὸν πάϊν L’espressione κακὸν πάϊν - che prescinde dal testo biblico dove l’υἱός è definito νεκρὸς ... καὶ ἀπολωλώς – crea un collegamento con la precedente sezione del carme (vv. 86-101) dove è stata già segnalata la forte occorrenza di aggettivi inerenti categorie morali: κάκιστοι…ἀγαθοί vv. 86-87; καλὸς…κάκιστος v. 89; κάκιστον…ἀγαθὸν vv. 97-98; ἄριστον… κακίστῳ v. 100. Il figliol prodigo della parabola, quindi, pur essendo κακός è ritenuto degno di misericordia e perdono; pertanto, anche il presunto comportamento dei due sventurati figli di Vitaliano che sperano di ricevere la stessa benevolenza elargita dal padre evangelico, dovrebbe 159 esserlo: cfr. anche carm. I,1,26 v. 16 πατήρ τε παίδων τῷ πεσόντι συμπαθής; e infra, v. 126 Χριστὸς ἄναξ ἐλέηρε. Cfr. R. Bultmann, ἔλεος, in GLNT III, coll. 399-420. Per simili espressioni in diverso contesto vd. Hom. Il. 6,407-408 …ἐλεαίρεις / παῖδα; Syn. hymn. 1,586 ἐλέαιρε, πάτερ; Nonn. Dion. 38,216 …καὶ παῖδα πατὴρ ἐλέαιρε...; 47,246 …πατὴρ ἐλέαιρεν… . 109-110 …αὐχένι χεῖρας / πλέξατο… Espressione fortemente plastica che richiama l’evangelica ἐπέπεσεν ἐπὶ τὸν τράχηλον (Lc. 15,20). Una simile iunctura in clausola si legge in carm. II,1,11 v. 137, χειρὸς αὐχένες, ma vedi anche Opp. An. Hal. 2,414-415 …αὐχένα χερσὶ δαφοιναῖς / εἷλε ἐπιβρίσας… . — La costruzione di χείρ con πλέκω in enjambement ricorre anche in Anth. Pal. 9,14,3-4 …χεῖρας / πλέξασθαι… . 110 δάκρυα χεῦε καὶ εἰλαπίνῃσι γέρηρε Sintagmi paralleli con costruzione oggetto + verbo. Il pianto del padre come espressione di riconciliazione è una condizione che si augura anche l’io loquens, seppur in una prospettiva post mortem, a conclusione del carme: δάκρυα πατρὸς ἕχοιμεν (v. 352). Il riferimento alle lacrime, speculum della commozione del dettato evangelico (ἐσπλαγχνίσθη, Lc. 15,20), è presente anche in carm. I,1,27 v. 93 e II,1,46 v. 44 (βάλεν δάκρυον), cfr. Demoen, Exempla, p. 169 nota 336; per le lacrime connesse all’espiazione del peccato, cfr. infra, v. 119. Il modello dell’espressione δάκρυα χεῦε è rintracciabile in Hom. Il. 7,426; 16,3; 18,17; Od. 4,523; 10,570; 24,46 etc.; ma anche Eur. Tr. 38; Hel. 654; Cycl. 405; Iph. Aul. 40; Bacchyl. dith. 3,95; Apoll. Rh. 1,1067; 4,34; e ancora Bion. epith. Ad. 64; Greg. Nyss. Mos. 2,91; Greg. Naz. carm. I,1,24 v. 16; I,2,9a v. 45; II,1,50 v. 46; Quint. Smyrn. 1,301; 3,491; Nonn. Dion. 5,414; 12,132; Joh. Chrys. virg. 64,4; Anth. Pal. 7,280,4 etc. — L’espressione εἰλαπίνῃσι γέρηρε condensa la sezione lucana riguardante i festeggiamenti per il ritorno del giovane (Lc. 15,25); ma vedi anche supra, v. 78 …γέρηρας ἐπωνυμίῃσι…; Quint. Smyrn. 9,488. 111-115 Parabola della pecorella smarrita. Duplice è la fonte evangelica dalla quale il Cappadoce ha tratto il racconto: Lc. 15,4-7 e Mt. 18,12-14. Si deve peraltro notare l’allusione al Buon Pastore di Gv. 10,1ss. (cfr. Hultgren, pp. 63-77). Per una prospettiva sull’esegesi della parabola negli altri Padri, cfr. M. Dulaey, La parabole de 160 la brebis perdue dans l’Église ancienne: de l’exégèse à l’iconographie, Revue des Études Augustiniennes 39, 1993, pp. 3-22. Ulteriori riferimenti alla parabola, nell’opera del Cappadoce, si segnalano in carm. I,1,24 v. 10; I,1,26 v. 15; I,1,27 vv. 82-85; e II,1,46 v. 46. La vicenda narrata dalla parabola presenta, come quella precedente, una situazione opposta rispetto a quella vissuta dall’io loquens: se infatti è la pecorella, che tradizionalmente rappresenta il peccatore, che si allontana volontariamente dal gregge-comunità di Cristo-pastore il quale si adopera con tutti i mezzi per ritrovarla e reinserirla nel computo perfetto, il caso del protagonista vede un allontanamento forzato dalla famiglia, in seguito alla decisione del padre. 111-112 ποιμὴν ὀΐων…/ ἐσθλὸς La presenza di ποιμήν (con l’attributo ἐσθλός in forte iperbato e in posizione incipitaria per esaltarne la valenza) potrebbe essere un richiamo a Gv. 10,11 ποιμὴν ὁ καλός (sia in Matteo che in Luca si parla, infatti, di ἄνθρωπος). La iunctura ποιμὴν ὀΐων è calco di Hom. Il. 5,137 (cfr. anche Theocr. 8,9); usato ancora in Greg. Naz. carm. II,1,45 vv. 217-218; mentre la iunctura ποιμὴν… ἐσθλός trova la sua fonte in Eur. Suppl. 191. Ma ἐσθλός potrebbe anche riferirsi a Vitaliano con chiara intenzione di captatio benevolentiae. 112 λεῖψεν ἅπαντα, μετ’ ἴχνια ἤλυθε Anche in Lc. 15,4 è presente il verbo λείπω: …οὐ καταλείπει τὰ ἐνενήκοντα ἐννέα.. . Per λείπω con ἅπας/πάς cfr. Theocr. 1,139; Greg. Naz. carm. II,1,15 vv. 114. 160; II,1,31 v. 58; Anth. Pal. 8,107,3; 133,3; 193,1; Opp. An. Hal. 2,524; Anth. Pal. 15,31,2 etc. — Per la perifrasi μετ’ ἴχνια ἤλυθε cfr. Callim. epigr. 1,11 Pfeiffer (= Anth. Pal. 7,89,11 Beckby) ἔρχεο … μετ’ ἴχνια… . 113 κατὰ πρῶνας… καθ’ ὕλας La ricerca della pecorella subisce un’amplificazione spaziale nel racconto gregoriano, estendendosi dalle “alture” alle “selve” (in Μt. 18,12 si parla solo di “monti”, ἐπὶ τὰ ὄρη). Per il nesso κατὰ πρῶνας cfr. Aesch. Pers. 878. — Per καθ’ ὕλας cfr. Hom. Il. 3,151; 10,184; 13,102 (clausola come nel passo in oggetto); Eur. Andr. 849; Bacch. 688; Iph. Aul. 1048; Opp. Ap. Cyn. 2,530; 3,391; ma anche Sir. 28,10. 113-114 ἢν… / …εὕρῃσιν La particella ἢν richiama ἐάν di Mt. 18,13 ed è volta a denotare l’incertezza del ritrovamento della pecora. 161 ἑοῖς ὤμοισιν ἀείρας L’immagine del pastore che porta sulle spalle la pecora è certamente mutuata da Lc. 15,5 καὶ εὑρὼν ἐπιτίθησιν ἐπὶ τοὺς ὤμους (manca, infatti, in Matteo). Per simili espressioni cfr. ancora Greg. Naz. carm. I,1,24 v. 10 αἰρόμενόν τ’ ὤμοις πλαζόμενον πρόβατον; I,1,26 v. 15 …εὑρέσει, καὶ θρέμματος; II,1,46 v. 46 Tίς πρόβατόν τ᾽ ὤμοις ἄνθετο πλαζόμενον. — Per ἀείρω/αἴρω con ὦμος si possono citare precedenti biblici: cfr. Ez. 12,12; Is. 46,7. 60,4. 66,12; Nm. 7,9; vedi anche Aes. fab. 60,3. 278,4; Callim. hymn. in Dian. 58; Greg. Naz. carm. II,2,5 v. 85 (cfr. Moroni, p. 224). 115 καγχαλόων La gioia in seguito al ritrovamento della pecorella è ben presente in entrambi i dettati evangelici, per cui cfr. Mt. 18,13 χαίρει e Lc. 15,6 χαίρων; cfr. anche Greg. Naz. carm. I,1,26 v. 15 χαρά… . Per la forma con diectasi di καγχαλάω cfr. Hom. Il. 3,43; 6,514 (incipit); 10,565 (incipit); Od. 23,1; Apoll. Rh. 3,124. 4,996; e poi Greg. Naz. carm. I,1,27 v. 44; I,2,1 v. 600; I,2,2 vv. 390. 483. 670; II,1,10 v. 31; Sundermann, p. 193; Zehles-Ζamora, p. 172. δεκάδεσσι La ricomposizione del numero cento è centrale nel messaggio evangelico, come nota A. Quacquarelli che, sottolineando la forte connessione tra la loquela digitorum e l’esegesi evangelica, afferma: «Gli autori cristiani per indicare il massimo e la perfezione si rifacevano al cento o meglio al segno con cui si indicava tale numero … Alle 99 pecore bisogna aggiungere una, quella smarrita, per avere il 100, il numero della perfezione, il regno dei cieli», cfr. A. Quacquarelli, Recupero della numerologia per la metodica dell’esegesi patristica, Annali di Storia dell’Esegesi 2, 1985, pp. 235-249, in part. pp. 242-243. ἐνηρίθμησε φίλῃσι Gregorio usa un’espressione simile (sempre in riferimento alla parabola) anche in carm. I,2,27 v. 85 …ἀριθμήσειας ἐν …θρέμμασι. ἀριθμέω associato all’aggettivo φίλος ha un paralleo in Eur. Bacch. 1317; cfr. anche Flav. Jos. Ant. Jud. 14,195; Bas. epist. 86,1; Greg. Naz. or. 7,10; Greg. Nyss. hom. Tunc et ipse filius (GNO 3.2,27); Lib. epist. 298,2; or. 24,13; Joh. Chrys. hom. 37 in Jo (PG 59,160); hom. 2 in Ac. princ. (PG 51,86); etc. Per ἀριθμέω cfr. anche supra, comm. al v. 62. 116-126 162 Giustificazione dell’uomo da parte di Dio. Riconoscimento della colpa e perdono divino. La confessione delle colpe e il pentimento di colui che ha errato costituiscono lo stadio preliminare per la salvezza: in quest’ottica devono essere letti gli exempla biblici di questa sezione: la parabola del fariseo e del pubblicano; le vicende storiche del re Manasse e della città di Ninive; il comportamento del pubblicano Zaccheo. La giustificazione è effetto dell’amore sconfinato e della misericordia di Dio verso l’uomo, Χριστὸς ἄναξ ἐλέηρεν ὀδυρομένους κακότητα (v. 126). Ma c’è da chiedersi chi debba essere iustificatus e per quale colpa. Si può ipotizzare che l’io loquens voglia alludere, più o meno esplicitamente, al comportamento di Vitaliano, “colpevole” di aver cacciato i figli da casa e dunque lo esorti a riconoscere lo sbaglio e ritornare sulle proprie decisioni (ἐξαγόρευσις ἁμαρτάδος), cosi come mostrano gli exempla biblici citati. McLynn, Olympias, p. 237, sottolinea la portata di questo passaggio nella vicenda: «Vitalianus was now unable to forgive his sons without acknowledging, to any who had read the poem, that he had been at fault». E nei precedenti versi 65-67 se, da un lato, l’io loquens aveva ammesso la propria responsabilità nella vicenda, dall'altro aveva anche addossato al padre maggiori responsabilità dovute alla maggiore età e all’altezza del suo status sociale (cfr. supra, nota ad loc.). 116-120 Allusione alla parabola del fariseo e del pubblicano (Lc. 18,9-14). La parabola rientrerebbe nella classificazione dei “racconti esemplari”, indicanti, cioè, quei modelli di comportamento da seguire e imitare· cfr. Hultgren, pp. 126ss. La misericordia divina non può trovare il suo campo di applicazione senza una sincera ammissione e confessione del peccato e delle colpe. La contrapposizione tra la superbia del fariseo e l’umiltà del pubblicano è messa bene in luce da Gregorio che fonda il fulcro del Χριστοῖο μέγας νόμος (per la “legge di Cristo” vedi anche supra, v. 17) nella misericordia divina nei confronti dei peccatori che riconoscono le proprie colpe, e nel disprezzo verso i superbi, sulla base della γνώμη finale di Lc. 18,14 ὅτι πᾶς ὁ ὑψῶν ἑαυτὸν ταπεινωθήσεται, ὁ δὲ ταπεινῶν ἑαυτὸν ὑψωθήσεται. Nel corso delle citazioni, allusioni o riferimenti alla parabola, Gregorio sottolinea sempre il divario tra gli atteggiamenti dei due protagonisti, caratterizzati l’uno (il fariseo) dalla superbia, l’altro (il pubblicano) dall’umiltà: cfr. carm. I,2,17 vv. 39-40; 163 II,1,1 vv. 393-413; II,1,19 v. 92; or. 19,8; or. 39,17; or. 43,64. Cfr. anche Demoen, Exempla, p. 169 nota 336 (allusione alla parabola e generalizzazione del messaggio attraverso l’uso dell’avverbio πολλάκις). 116-117 Gregorio usa simili espressioni in enjambement in carm. II,1,1 vv. 365-366 ...ὃς χθαμαλοῖσιν / εὐμενέων πάντεσσιν ὑπερφιάλους ἀθερίζει, ma si veda anche I,2,2 vv. 8-9 …Θεῷ τάδε τέθμια κεῖται, / εὐμενέειν γοεροῖσιν, ὑπερφιάλους δὲ κολούειν (Zehles-Zamora, pp. 38-39). Il duplice atteggiamento di Cristo, benevolo nei confronti degli umili e sprezzante verso i superbi, trova le sue radici in numerosissimi passi della Sacra Scrittura, cfr. Ps. 137,6: ὅτι ὑψηλὸς κύριος καὶ τὰ ταπεινὰ ἐφορᾷ καὶ τὰ ὑψηλὰ ἀπὸ μακρόθεν γινώσκει; 146,6 ἀναλαμβάνων πραεῖς ὁ κύριος, ταπεινῶν δὲ ἁμαρτωλοὺς ἕως τῆς γῆς; Pr. 3,34 κύριος ὑπερηφάνοις ἀντιτάσσεται, ταπεινοῖς δὲ δίδωσιν χάριν; Lc. 1,51-52 διεσκόρπισεν ὑπερηφάνους διανοίᾳ καρδίας αὐτῶν. καθεῖλεν δυνάστας ἀπὸ θρόνων καὶ ὕψωσεν ταπεινούς, ai quali lo scrittore si ispira anche in or. 23,5 …ταπεινοῖς δίδωσι χάριν ὁ Κύριος ταπεινοῖ δὲ ὑψηλοὺς ἄχρι γῆς (cfr. anche supra, v. 16). Sull’opposizione superbiaumiltà si è espresso anche Aug. serm. 70/a de humilitate dove l’Ipponate, puntando sull’umiltà di Cristo che ha assunto la “forma” umana, esorta il cristiano ad allontanare la superbia: Quis sicut Dominus Deus noster, qui in altis habitat, et humilia respicit? Respiciens te, humilem te inveniat, ne damnet te. Ipse dixit, ipse contionatus est, ipse ad hanc salutem genus humanum vocavit: Discite a me, inquit, non creare creaturam; discite quoniam mitis sum et humilis corde. In principio erat: quid excelsius? Verbum caro factum est : quid humilius? Imperat mundo: quid excelsius? Pendet in ligno: quid humilius? Quando ille ista propter te, tu quid adhuc erigeris, adhuc tumes, follis inflatus? Deus est humilis, et tu superbus? Forte, quoniam dixit: Excelsus est Dominus, et humilia respicit, dicis tu: "Me non respicit". Quid te infelicius, si non respicit, sed despicit? Respectio miserationem habet, despectio contemptum. Sed forte, quia Dominus humilia respicit, latere te putas, quia tu humilis non es, excelsus es, superbus es. Non lates hic oculos Dei; al quale si può connettere Greg. Naz. or. 40,27 οὔπω τοσοῦτον ταπεινοφρονήσεις ὅσον Χριστός,… ὃς διὰ σὲ καὶ δούλου μορφὴν ἐδέξατο. — Per la costruzione ὑπερφιάλους ἀθερίζων in clausola, cfr. anche Anth. Pal. 5,216,5. — Per 164 l’opposizione tra l’atteggiamento di umiltà e quello della superbia vd. ancora carm. I,2,9b vv. 42ss. — Si noti, infine, come il v. 117 sia un tetracolon. 116-117…ὃς χθαμαλοῖσιν/ εὐμενέει πάντεσσιν… Questi versi riprendono un concetto già affermato supra, ai vv. 100-101: la χάρις θεοῖο si esplica nel κακίστῳ / εὐμενέειν (si noti la simile costruzione del nostro passo sempre in enjambement), cfr. nota ai vv. 92-104. L’attenzione che Dio rivolge agli umili e ai peccatori si realizza, metaforicamente, attraverso lo sguardo, come si legge in Ps. 112,5-6 τίς ὡς κύριος ὁ θεὸς ἡμῶν ὁ ἐν ὑψηλοῖς κατοικῶν καὶ τὰ ταπεινὰ ἐφορῶν ἐν τῷ οὐρανῷ καὶ ἐν τῇ γῇ; 137,6 ὅτι ὑψηλὸς κύριος καὶ τὰ ταπεινὰ ἐφορᾷ καὶ τὰ ὑψηλὰ ἀπὸ μακρόθεν γινώσκει; ma si veda anche Lc. 1,52 καὶ (scil. ὀ θεός) ὕψωσεν ταπεινούς (= Iob 5,11); la lunga pericope di Sir. 3,17ss. e Ps. Sal. 9,8 καὶ ἡ χρηστότης σου ἐπὶ ἁμαρτάνοντας ἐν μεταμελείᾳ. È interessante notare come l’atteggiamento di benevolenza di Dio, espresso dal verbo εὐμενέω (vedi anche supra, v. 101), sia richiesto anche a Vitaliano nelle battute finali del carme che si chiude proprio con l’espressione …πατρὸς…εὐμενέοντος. Tutto il carme, infatti, è fondato sull’esortazione alla benevolenza che il padre deve mostrare nei confronti dei figli. L'invito che l'io loquens rivolge a Vitaliano sarebbe, dunque, quello di non mostrarsi ὑπερφίαλος, ma dare atto di pentimento, riaccogliendo presso di sé i figli. 117 ὑπερφιάλους ἀθερίζων La condanna della superbia da parte di Dio è espressa anche in carm. I,2,9b vv. 24ss., in part. v. 31 καί ῥ’ ὑπεροπλίῃσι Θεὸς κοτέει μεγάλῃσι. 118-120 Il carattere gnomico di questi versi, evidenziato dall’avverbio πολλάκις, sviluppa il processo penitenza-confessione-compunzione. Il pentimento per i peccati commessi deve essere accompagnato dalla confessione, dalla penitenza e dalla compunzione se si vuole ottenere il perdono divino (può essere rilevato un riferimento all’atteggiamento penitente del pubblicano che non osava neppure alzare gli occhi al cielo, Lc. 18,12, ma si veda soprattutto or. 39,17-18 e infra, vv. 265266). La realizzazione dell’espiazione del peccato attraverso la confessione e le lacrime è presente in tutti i Padri Cappadoci, per cui cfr. C. Moreschini, La penitenza nei Padri Cappadoci, in AA.VV., Dizionario di Spiritualità Biblico-Patristica. I grandi temi della S. Scrittura per la “Lectio Divina” 9: Conversione-Penitenza- 165 Riconciliazione, Roma 1995, pp. 228-230; ma cfr. anche Ioh. Chrys. hom. 37 in Mt., ἡ δὲ ἁμαρτία τοσαύτην ἐντίθησι κηλῖδα, ὡς μηδὲ μυρίαις πηγαῖς ἐκκαθᾶραι ταύτην δύνασθαι, ἀλλὰ μόνοις δάκρυσι καὶ ἐξομολογήσεσιν (PG 57,526); hom. 20 in Rom. Ἥμαρτες σήμερον; ἐπαλαίωσάς σου τὴν ψυχήν; Μὴ ἀπογνῷς μηδὲ ἀναπέσῃς, ἀλλ’ ἀνακαίνισον αὐτὴν μετανοίᾳ καὶ δάκρυσι καὶ ἐξομολογήσει καὶ τῇ τῶν ἀγαθῶν ἐργασίᾳ (PG 60,598). 118 ἐξαγόρευσις ἀμαρτάδος Confessione dei peccati. La confessio peccatorum affonda, come è noto, le sue radici nella Sacra Scrittura a partire da Ps. 31,5: τὴν ἁμαρτίαν μου ἐγνώρισα καὶ τὴν ἀνομίαν μου οὐκ ἐκάλυψα· εἶπα Ἐξαγορεύσω κατ’ ἐμοῦ τὴν ἀνομίαν μου τῷ κυρίῳ· καὶ σὺ ἀφῆκας τὴν ἀσέβειαν τῆς ἁμαρτίας μου. Per indicare la confessio peccatorum, gli autori cristiani greci, sulla base dell’usus biblico, utilizzano principalmente il binomio ἐξομολογεῖσθαι/ἐξαγορεύειν (e i connessi sostantivi ἐξομολόγησις e ἐξαγόρευσις): per un’ampia analisi della terminologia (riguardante anche la c. laudis, e la c. fidei sia latina che greca) si rimanda a E. Valgiglio, Confessio nella Bibbia e nella letteratura cristiana antica, Torino, 1980, in part. pp. 17-60 e 296-309. Per il Nisseno la pubblica confessio peccatorum ha un valore pedagogico perché, generando nell’uomo il pudore e la vergogna, lo esorta a non ricadere più nell’errore: λέγω δὲ τὴν περὶ τῶν μὴ κατὰ λόγον γεγενημένων ἐξομολόγησιν, ἣ τὸ τῆς αἰσχύνης ἐμποιεῖ τῇ ψυχῇ πάθος διὰ τῆς τῶν ἀτόπων ἐξαγορεύσεως; infatti, poco oltre, afferma: οὕτως ὁ στηλιτεύσας ἑαυτὸν διὰ τῆς τῶν κρυφίων ἐξαγορεύσεως τῇ μνήμῃ τοῦ κατ’ αἰσχύνην πάθους πρὸς τὸν ἐφεξῆς παιδαγωγηθήσεται βίον. È questo il μάθημα che lo scrittore vuole trarre dall’interpretazione dell’esperienza di Salomone: καλῶς ἐστιν ἴδιον μάθημα τῆς ἐκκλησίας ἡγήσασθαι τὸ διὰ τῆς ἐξαγορεύσεως τῶν πεπλημμελημένων κατόρθωμα· … Tαῦτα τοίνυν ἐστίν, ἃ διὰ τῆς νῦν ἀναγνώσεως τῶν ἐν τῷ ἐκκλησιαστῇ γεγραμμένων ἡ ἐκκλησία παιδεύεται (hom. 3 in Eccle, GNO 5,315-317). E confessio e vergogna pubblica sono poste in relazione anche in Greg. Naz. or. 40,27 Μὴ ἀπαξιώσῃς ἐξαγορεῦσαί σου τὴν ἁμαρτίαν, εἰδὼς ὅπως Ἰωάννης ἐβάπτισεν, ἴνα τὴν ἐκεῖθεν αἰσχύνην τῇ ἐνταῦθα φύγῃς… καὶ δείξῃς ὅτι τὴν ἁμαρτίαν ὄντως μημίσηκας, παραδειγματίσας αὐτὴν…; ma vedi anche or. 32,30 a proposito della necessità di essere indulgenti con il prossimo se si vuole ricevere la misericordia divina: Οὕτω δοκίμαζε τὸν ἀδελφόν σου, ὡς καὶ αὐτὸς ἐν τοῖς αὐτοῖς 166 μέτροις κρινόμενος … ἔτι τοῦ Δεσπότου δεήθητι, μὴ ἐκκόψαι, μηδὲ μιμῆσαι τὴν ἄκαρπον συκῆν καὶ ἀνόνητον… τὴν δι’ ἐξαγορεύσεως, καὶ τῆς εἰς τὸ φανερὸν αἰσχύνης καὶ ἀτιμοτέρας ἀγωγῆς ἐπανόρθωσιν (cfr. anche or. 40,9); e 4,32 dove nell’esperienza di Davide è presente la triade peccato-umiliazione-conversione: ἁμαρτία μὲν γὰρ ταπεινώσεως μήτηρ, ἐπιστροφῆς δὲ ταπείνωσις. Eusebio, giocando sul binomio sinonimico ἐξαγόρευσις-ἐξομολόγησις, afferma che solo dopo la confessione dei peccati si diventa puri e si può lodare Dio (confessio peccatorum/confessio laudis): Ἐξομολογεῖσθε τῷ Κυρίῳ, καὶ ἐπικαλεῖσθε τὸ ὄνομα αὐτοῦ. Διπλῆς οὔσης ἐν τῇ γραφικῇ συνηθείᾳ τῆς κατ’ ἐξομολόγησιν σημασίας, καὶ νῦν μὲν τὴν ἐξαγόρευσιν, αὖθις δὲ τὴν εὐχαριστίαν ἐνδεικνυμένης, ἐξαγόρευσιν, αὖθις δὲ τὴν εὐχαριστίαν ἐνδεικνυμένης, ἐνταῦθα κατ’ ἀμφοτέρας τὰς ἐννοίας πρὸς τὸν κατ’ἀρετὴν βίον χειραγωγούμεθα· ἥ τε γὰρ ἐξαγόρευσις χωρισμόν τινα καὶ ἀλλοτρίωσιν τῶν κακῶν ἀπεργάζεται, … Ἂν γὰρ ἐξομολογήσῃ, φησὶ, καὶ ἀποθῇς τὰ ἁμαρτήματα, δυνήσῃ, μετὰ παρρησίας τὸ ὄνομα αὐτοῦ καλέσας, μεγάλα ἐργάσασθαι ἀγαθά. Οὐ μάτην δὲ ἐξομολογεῖσθαι πρότερον, καὶ δεύτερον ἐπικαλεῖσθαι βούλεται· ἀλλ’ ἵνα, καθαροὶ διὰ τῆς ἐξαγορεύσεως γενόμενοι, ἐκ καθαροῦ ὀργάνου τὸν ὕμνον προσενέγκωμεν (Ps. 104,1), passo al quale si collega fino a combaciare in alcuni punti Greg. Nyss. Inscr. Ps. II,6: Ἐν οἷς δὲ ἡ ἐξομολόγησις πρόσκειται, ταῦτα παρὰ τῆς φωνῆς διδασκόμεθα· διπλῆς οὔσης ἐν τῇ γραφικῇ συνηθείᾳ τῆς κατὰ τὴν ἐξομολόγησιν σημασίας, καὶ νῦν μὲν τὴν ἐξαγόρευσιν, αὖθις δὲ τὴν εὐχαριστίαν ἐνδεικνυμένης, ἐνταῦθα κατ’ ἀμφοτέρας τὰς ἐννοίας πρὸς τὸν κατ’ ἀρετὴν βίον χειραγωγούμεθα. ἥ τε γὰρ ἐξαγόρευσις χωρισμόν τε καὶ ἀλλοτρίωσιν τῶν κακῶν ἀπεργάζεται, τό τε πρὸς τὴν εὐχαριστίαν πρόθυμον πλεονάζει τὴν παρὰ τοῦ εὐεργέτου χάριν ἐπὶ τῶν εὐαισθήτως δεχομένων τὰς εὐποιΐας. πρόκειται οὖν ὁ ψαλμὸς Εἰς ἐξομολόγησιν οὕτως, εἰ μέν τις ἁμαρτίας ὑποσμύχει σε μνήμη συμβουλεύων τὸ διὰ τῆς μετανοίας καθάρσιον. εἰ δέ σοι πρὸς τὸ κρεῖττον εὐοδοῦται ὁ βίος, βεβαίαν σοι ποιεῖ διὰ τῆς πρὸς τὸ θεῖον εὐχαριστίας τὴν ἀμείνω προαίρεσιν (GNO 5,89); e vedi ancora Eus. Is. 2,25: καλὴ γὰρ ἡ μνήμη τῶν προτέρων ἁμαρτημάτων δι’ ἐξομολογήσεως ἐξαγορευομένη. Il termine che Gregorio usa per indicare la confessio peccatorum, ἐξαγόρευσις è presente nel V.T., ma non nel N.T. per poi ricomparire presso gli scrittori cristiani: cfr. ἐξαγόρευσις e ἐξoμολόγησις in Lampe s.vv. Per ἐξαγόρευσις ovvero ἐξαγορεύω con ἁμάρτημα cfr. 167 Bas. serm. 11 (PG 31,625); reg. br. 229; Εus. d. e. 1,3,37ss.; Greg. Nyss. hom. 4 in Eccle. (GNO 5,339); Eun. 3,9,58; etc. — Per ἀμαρτάς sinonimo di ἁμάρτημα/ἁμαρτία da intendere come singolo atto umano, “trasgressione verso Dio, con accentuazione dell’elemento colpa, cioè del peccato”, si veda G. Stählin-W. Grundmann, ἁμαρτάνω, ἁμάρτημα e ἁμαρτία, in GLNT I, in part. coll. 791-858; LSJ e Lampe s.v.; ma anche Clem. Alex. Strom. 2,15,62-64 (distinzione tra ἀτύχημα, ἁμάρτημα e ἀδίκημα). 119 μούνη La posizione incipitaria conferisce all’aggettivo, in iperbato con ἐξαγόρευσις, un risalto particolare: una sola confessione del peccato è sufficiente per la salvezza e la redenzione. La presenza dell’aggettivo potrebbe creare un collegamento con il citato passo di Rm. 5,12ss. nel quale si può notare la perfetta corrispondenza tra le espressioni δι’ ἑνὸς e οἱ πολλοὶ: la caduta di uno solo, cioè Adamo, ha determinato la rovina di molti, così come il sacrificio di uno solo, cioè Cristo, ha salvato tutti gli uomini; così, nel nostro caso, Gregorio crede nel potere salvifico anche di un’unica confessione (cfr. anche Aug. de peccatorum meritis et remissione 1,12-15). Il Cappadoce impiega questo stilema anche in or. 40,19 sempre in riferimento alla parabola del fariseo e del pubblicano: καὶ τὸν τελώνην ἓν ὕψωσεν, ἡ ταπείνωσις, οὐδὲν ἄλλο μαρτυρηθέντα, e poco sopra si legge καὶ Ῥαὰβ τὴν πόρνην ἓν ἐδικαίωσε μόνον, ἡ φιλοξενία, τἄλλα οὐκ ἐπαινουμένην. Nel commento origeniano all’Epistola ad Romanos, pervenuto nella traduzione latina di Rufino, la menzione della Parabola del Fariseo e del Pubblicano è connessa ad altri passi evangelici lucani, come quello del ladrone crocifisso con Gesù, per dimostrare l’inutilità delle opere della legge per ottenere la giustificazione: ma, sebbene il contesto sia diverso dal nostro – non sembra, infatti, che Gregorio voglia qui pronunciarsi sulla superiorità della giustificazione per fede o di quella grazie alle opere, focalizzando l’attenzione, invece, sulla validità e necessità assoluta della confessio- la presenza dell’espressione sed sola confessione iustificatum, in questo specifico caso, confessio fidei, per ottenere la giustificazione e la salvezza, mi sembra debba essere messa in risalto: Per fidem enim iustificatus est hic latro sine operibus legis: … sed sola confessione iustificatum (scil. latronem) (Or. Comm. in Rom. 3,9, PG 14,952-953), passo segnalato da F. Cocchini, Interpretazione origeniana della parabola del fariseo e del pubblicano nel 168 commento alla Lettera ai Romani, Studi Storico Religiosi 1980, pp. 305ss., in part. pp. 308-309. δακρύοισιν ἀπέκλυσε πήματα πικροῖς La validità del pentimento e della conversione è corroborata se accompagnata dalle lacrime capaci di lenire i dolori e di cancellare i peccati. Un passo parallelo può essere rilevato in carm. II,1,1 vv. 346-349 dove è espressa la potenza purificatrice del pianto capace di detergere le anime rese scure dal peccato: τίς δώσει κεφαλῇ πηγῆς ῥόον ἢ βλεφάροισιν / ὡς δακρύων ὀχετοῖσι μολύσματα πάντα καθήρω, / κλαύσας ὡς ἐπέοικεν ἁμαρτάδας; ἦ γὰρ ἄριστον / δάκρυόν ἐστι βροτοῖσιν ἄκος, ψυχαῖς τε μελαίναις; ma vedi anche la simile espressione di v. 334 ἔκλυσα δάκρυσι πῆμα. L’immagine delle lacrime viene usata spesso da Gregorio per esprimere l’atteggiamento penitente del pubblicano dell’omonima parabola elemento, però, assente, nel dettato lucano (cfr. Simelidis, p. 214); cfr. ancora le espressioni di I,1,27 v. 92 δάκρυσιν οἴκτον ἔχοιμι…; II,1,1 v. 399 …ὁ δακρυχέων… (scil. τελώνης); II,1,19 v. 92 …δάκρυα λείψας (scil. τελώνης). Il peccato, la conversione e le lacrime amare sono posti in connessione ancora in or. 39,17 in cui Gregorio parla di un quinto battesimo, τὸ (scil. βάπτισμα) τῶν δακρύων, richiamando, poco oltre, il pentimento di Manasse, la conversione degli abitanti di Ninive e quella del pubblicano (cfr. anche infra, nota ai vv. 265-266); e Bas. hom. Attende tibi ipsi p. 28 Μέγα καὶ χαλεπὸν τὸ ἁμάρτημα· πολλῆς σοι χρεία τῆς ἐξομολογήσεως, δακρύων πικρῶν, συντόνου τῆς ἀγρυπνίας, ἀδιαλείπτου νηστείας. Le lacrime di compunzione sono un elemento costante nell’esercizio ascetico, per cui cfr. or. 8,13 …δάκρυον ῥύπου καθάρσιον ἐν καρδίᾳ συντετριμμένῃ καὶ πνεύματι ταπεινώσεως (in riferimento alla virtù di Gorgonia, cfr. Calvet-Sebasti, Discours 6-12, p. 275 nota 3); carm. Ι,2,1 v. 358 καὶ δακρύων πηγῇσι, καὶ εὐαγέεσσι καθαρμοῖς; II,1,12 v. 583, καὶ δακρύων ἔσμηξε πηγαῖς τοὺς σπίλους (cfr. Meier, p. 136); II,1,46, v. 27 ἐλθέ μοι, ὧ δακρύων τε καθάρσιε νειόθι πηγή; ma per converso cfr. I,2,9a v. 45 δάκρυα θερμὰ χέων, ἡ δ’ οὐ συνέρευσεν δ’ ἁμαρτάς; infra, v. 265: cfr. Zehles-Ζamora, p. 231 e Moroni, p. 247 per altri luoghi tratti dall'opera gregoriana e i relativi riferimenti bibliografici. Per i diversi aspetti della vasta tematica delle "lacrime e del pianto" nel mondo cristiano antico si rimanda a P. Adnès, Larmes in DSp 9, coll. 287-303; B. Amata, La compunzione del cuore e le lacrime in alcuni autori cristiani, Salesianum 2007, pp. 217-238; H. Hunt, 169 Joy-bearing Grief. Tears of Contrition in the Writings of the Early Syrian and Byzantine Fathers, Leiden-Βoston 2004; ma soprattutto ai contributi raccolti nel recentissimo volume di Th. Fögen (ed.), Tears in the Graeco-Romano World, Göttinghen-Berlin, 2009, in particolare, I. Ramelli, Tears of Pathos, Repentance and Bliss: crying and salvation in Origen and Gregory of Nyssa, pp. 367ss.; 120 ψυχὴν ἐκάθηρε Purificare l’anima annerita attraverso la confessione del peccato è un’immagine presente nei Salmi di Salomone: …καθαριεῖς ἐν ἁμαρτίαις ψυχὴν ἐν ἐξομολογήσει (9,6), ma stadio preliminare è ancora l’umiliazione come si legge in Greg. Naz. or. 24,12: ἵνα φιλοσοφήσῃ τὸ ταπεινὸν εἰς κάθαρσιν τῆς προτέρας ἀλαζονείας… . Poiché Gregorio è convinto che l’uomo sia stato creato da Dio tutto intero, cioè formato da anima e corpo (vd., tra gli altri, carm. II,1,45 vv. 59ss.), anche l’anima, dunque, ha bisogno di essere purificata insieme al corpo, come si legge in carm. I,1,4 v. 96 in vista della deificazione dell’uomo: …νόον καὶ σάρκα καθήρας, sulla scorta di 2Cor. 7,1 καθαρίσωμεν ἑαυτοὺς ἀπὸ παντὸς μολυσμοῦ σαρκὸς καὶ πνεύματος: questa è la precondizione della θέωσις dell’uomo, cfr. Moreschini-Sykes, p. 171 (la sede dell’εἰκὼν θεοῦ è attribuita all’anima, per cui cfr. Richard, p. 264 e nota 233); cfr. anche or. 27,3; 39,8 …σαρκὸς καθάρσις, τοῦ ἐπιπροσθοῦντος τῇ ψυχῇ νέφους καὶ οὐκ ἐῶντος καθαρῶς ἰδεῖν τὴν θείαν ἀκτῖνα… . E la purificazione è preliminare alla contemplazione di Dio, cfr. or. 20,1-2. 12; 27,3; Richard, pp. 270. 288; Gregorio Nazianzeno, Orazioni, p. 1304 nota 16; Plagnieux, pp. 81ss.; Moreschini, Filosofia, pp. 23ss. Per la concezione del peccato e la sua purificazione si veda anche Špidlík, Introduction, pp. 75-82. Per un’analisi del linguaggio della purificazione nella Sacra Scrittura si veda Beeley, p. 76 e nota 39. μελαινομένην κακότητι Oscurità e malvagità: il peccato annerisce l'anima. La caduta di Lucifero ha determinato una separazione da Dio che si traduce in una perdita di luminosità (cfr. Is. 14,12-15), perché Dio è la luce suprema, Θεὸς μέν ἐστι φῶς τὸ ἀκρότατον… (or. 40,5): Satana (che etimologicamente è "il portatore di luce", Lucifer) è divenuto oscurità e poiché è lui che “ha architettato il male”, τῆς κακίας ὁ σοφιστής (or. 39,13, ma si veda anche carm. I,1,7 v. 95 …κακῶν γεννήτορι…), allora il male è oscurità: …ὁ μὲν πρώτιστος ἐν οὐρανίοισι φαέεσσιν / ᾗς ὐπεροπλίῃσι φάος καὶ 170 κῦδος ὀλέσσας /…/ ἥδε μὲν ὀψιγόνοιο κακοῦ φύσις, ἧς περ ἐκεῖνος / ἔστι πατήρ… (carm. I,1,4 vv. 46-52); cfr. ancora or. 30,20 Εἰ γὰρ σκότος… καὶ ἡ ἁμαρτία; 33,4; carm. I,2,9b vv. 66 …μελανομέναις πραπίδεσσιν e 72… σκιόεντος ἐν ἤματι τοῦδε βίοιο (cfr. le note ad loc. di Kertsch, pp. 216 e 221); Lampe, s.v. μελαίνω; W. Michaelis, μέλας in GLNT VI, coll. 1485ss.; nonché infra, vv. 178 e 266; Richard, pp. 101-102; 115 nota 360; 342-343; 347-349 e nota 214 (il modello di tale concezione può essere rintracciato in Or. hom. Gen. 14,4); vedi anche F. Trisoglio, Il male, il peccato, il maligno nei Padri Cappadoci, in Id., Gregorio contemporaneo, pp. 122-129. — La purificazione, allora, è strettamente legata all’illuminazione perché permette all’uomo, che è definito τρίτον φῶς (or. 40,5) di riacquistare quella luce che aveva perso a causa del peccato originale: οὗ δὲ κάθαρσις ἔλλαμψις (or. 39,8); per una summa sul linguaggio della purificazione e dell’illuminazione legata al battesimo si veda or. 39,20. Per l’oscurità legata al peccato e alle passioni vd., ancora, or. 40,19: …οὗ μὴ ἔστιν ἁμαρτία μηδὲ μελάνωσις…; carm. II,1,1 v. 162 …ἀμπλακίῃσι μελαίνεσθαι φίλον ἦτορ; 496 κάκη… μέλαινα; II,1,45 vv. 183-184 μέλαιναν…αμλπλακίην; infra, v. 266 (in rif. all’εἰκών); Beeley, pp. 90ss.; Moreschini, Filosofia, pp. 31-33. 69-72 e 100; Špidlík, Intoduction, pp. 15-23. Si veda, non da ultimo, Crimi, Luci, pp. 145ss. in particolare pp. 155-158. ― L'idea che la malvagità sia connessa al colore nero si riscontra anche nel commento che lo Ps.-Plutarco correda ad una massima tradizionalmente attribuita al filosofo Pitagora, e citata da molti autori di epoche successive: “Μὴ γεύεσθαι μελανούρων,” alla quale lo scrittore di Cheronea aggiunge: τουτέστι μὴ συνδιατρίβειν μέλασιν ἀνθρώποις διὰ κακοήθειαν (lib. educ. 12E); cfr. anche supra, comm. al v. 23. 121 ἑπτάκι πολλάκι τόσσον Il riferimento a Mt. 18,21-22 conferma la volontà del Cappadoce di sottolineare, ancora una volta, l’importanza della misericordia e del perdono secondo una prospettiva sia divina che umana: il perdono che l’uomo elargisce al suo prossimo è riflesso di quello divino, e prima bisogna concederlo al fratello se lo si vuole ottenere da Dio. In or. 22,15, infatti, Gregorio afferma: Καὶ τὸν μὲν Θεὸν παριέναι κελεύειν καὶ τοῖς ἁμαρτάνουσιν εἰς ἡμᾶς μὴ ὅτι ἑπτάκις, ἀλλὰ καὶ πολλάκις τοσοῦτον, ὡς τοῦ ἀφιέναι τὸ ἀφίεσθαι προξενοῦντος, ἡμᾶς δὲ καὶ τοῖς οὐδὲν ἀδικοῦσι προθυμότερον ἐπηρεάζειν…; ma vedi anche 39,18.. προεισφέρω τοῦ ἐλέου τὸν ἔλεον … e ancora τοὺ (scil. Ἰησοῦ) ἑβδομηκοντάκις ἑπτὰ συγχωροῦντος τὰ 171 ἁμαρτήματα. Per un’analisi della ricca simbologia del numero sette si rimanda all’or. 41,3-4 in cui Gregorio passa in rassegna i riferimenti scritturistici atti a dimostrare l’onore riconosciuto a tale numero. Per il valore di πολλάκι si veda supra, comm. al v. 118. Ἄναξ μειλίσσετο La stessa iunctura, in diverso contesto, è ripresa da Nonn. Dion. 18,17, ma vedi anche 9,59 θεὸς μειλίξατο, e interessante il parallelo con Eur. Hel. 1339 Ζεὺς μειλίσσων στυγίους; così come la coppia μειλίσσεo μηδ’ ἐλεαίρων di Hom. Od. 3,96 nelle parole rivolte a Telemaco da Nestore. Per la misericordia di Dio verso i peccatori, ἀλιτροῖς, si veda anche carm. II,1,1 v. 408 in riferimento alla preghiera del pubblicano della omonima parabola (Lc. 18,9ss.): ἣν μούνην δειλοῖσιν, ἄναξ, πόρες ελπίδ’ ἀλιτροῖς. 122 λογίων…Θεοῦ, καὶ Πνεῦμ’ ἐδίδαξε La iunctura di λόγιον con θεός è mutuata da Eb. 5,12; ma cfr. ancora Greg. Naz. or. 2,96 τοῦ Θεοῦ λογίοις; 8,11 τῶν θείων λογίων; carm. I,1,12 v. 1 Θείοις ἐν λογίοισι. La costruzione Πνεῦμ’ ἐδίδαξε ricalca Lc. 12,12 e Gv. 14,26, usata da Gregorio in posizione clausolare anche in carm. I,1,7 v. 96. 123-125 Exempla auctoritatis: le esperienze di Manasse, degli abitanti di Ninive e del pubblicano Zaccheo offrono testimonianza di μετάνοια e purificazione. Le due vicende veterotestamentarie sono già accomunate, come paradigma di conversione, in Const. App. 2,22 Ὅτι μέγα παράδειγμα μετανοίας πρόκειται Δαβίδ, καὶ Νινευῖται, Ἐζεχίας τε καὶ ὁ τούτου υἱὸς Μανασσῆς; ma ancora in Greg. Naz. or. 39,17 … μιμεῖται τὴν ἐπιστροφὴν Μανασσῆ καὶ τὴν τῶν Νινευϊτῶν ἠλεημένην ταπείνωσιν (exempla di purificazione attraverso la penitenza); carm. II,1,46 vv. 41-43 Τίς σκολιὸν βασιλῆα γόοις ἐκάθηρε Μανασσῆ; /… τίς χθαμαλὴν θρήνοισιν ἰδὼν ἐσάωσε Νινευΐ (si noti la presenza del verbo καθαίρω per indicare la purificazione, e la simile sequenza di proposizioni interrogative del passo in oggetto). Ε ancora connesso alla purificazione è il richiamo al comportamento del pubblicano Zaccheo espresso in I,2,10 v. 578 …ῥύπου καθαίρεται (scil. Ζακχαῖος); Crimi-Kertsch, p. 300. Il processo è così descritto da Beeley, pp. 70-71: «Purification thus consists in a moral reform according to the commandments of Scripture»; e richiamando l’incontro 172 tra Gesù e il pubblicano Zaccheo (Lc. 19,1-10): «The practical disciplines of Christian ascesis help to bring about purification of both body and soul». 123 Μανασσῆ βασιλῆος…χερείων Sulla μετάνοια di Manasse (2 Cr. 33,1-20) cfr. anche Ioh. Chrys. fr. in Jer. 15: Ὁρᾷς τῆς μετανοίας τὴν ἰσχύν; οὗτος ὁ Μανασσῆς δι’ ὃν πανταχοῦ τῆς οἰκουμένης διασπείρονται Ἰουδαῖοι· καὶ οὔτε Μωϋσῆς, οὔτε Σαμουὴλ ἱκανοὶ αὐτοὺς ἐξελέσθαι· οὗτος διὰ μετανοίας ἑαυτὸν ἐξείλετο, καὶ κατήλλαξε τῷ Θεῷ (PG 64,901). — La stessa proposizione interrogativa in Ioh. Chrys. hom. 67 in Mt. Τί γὰρ τοῦ Μανασσῆ χεῖρον (PG 58,637); e ancora Gregorio pone l’accento sulla confessione in or. 19,8 τοῦ Μανασσῆ τὴν ἐξαγόρευσιν (= 13,1). 124 Νίνου μεγάλοιο πόληος Sulla μετάνοια della città di Ninive (Gn. 3,1ss.) cfr. Or. Cels. 8,57 Ἰωνᾶν, τὸν κηρύξαντα μετάνοιαν μιᾷ πόλει τῇ Νινευή; Bas. poenit. 2: Οὐ κατεστράφη Νινευΐ· μετενόησε γάρ (PG 31, 1497): hom. 8 (homilia dicta tempore famis et siccitatis) Ὁρᾷς, ὡς καὶ Νινευΐται τῇ μεταμελείᾳ τὸν Θεὸν δυσωποῦντες, καὶ πενθοῦντες ἐπὶ τοῖς ἁμαρτήμασιν, ἃ μετὰ τὴν θάλασσαν καὶ τὸ κῆτος Ἰωνᾶς ἐξεβόησεν, οὐ τὰ βρέφη μόνον εἰς τὴν μετάνοιαν προεστήσαντο (PG 31,312); mor. 8,9 Τοιαύτη ἡ ἐμμελὴς τῶν Νηνευϊτῶν μετάνοια (PG 32,1233); Ps.-Bas. jej. Εὐγνώμονες ἁμαρτωλοὶ οἱ Νινευῖται, ἀκούσαντες τοῦ Ἰωνᾶ κηρύσσοντος τὴν καταστροφὴν, τῷ τρόπῳ τῆς νηστείας ἔστησαν τὴν ἀπειλὴν, καὶ τῷ φαρμάκῳ τῆς ἐξομολογήσεως καὶ προσευχῆς ἐπεσπάσαντο τὴν σωτηρίαν (PG 31,1509); etc. — Per la "città di Nino", cfr. Hdt. 1,193; Eus. p.e. 10,9,10. Per la iunctura Νίνου μεγάλοιο si veda Plut. mor. Amatorius 753D Νίνου δὲ τοῦ μεγάλου βασιλέως. 125 Allusione all’episodio relativo l’incontro tra Gesù e il pubblicano Zaccheo e alla sua conversione (Lc. 19,1ss.); cfr. anche or. 14,4, in merito al giusto peso da dare alla ricchezza: Ζακχαῖος… μικροῦ πάντα καρποφορήσας· ὁ δὲ (scil. Χριστός) τῷ πλουσίῳ τὸ τέλειον ἐν τούτῳ περιορίσας; 20,4; 39,9. Zaccheo è considerato un personaggio positivo: Gregorio stesso, infatti, si augura di essere assimilato a lui in carm. II,1,19 vv. 91-93: τρεῖς βίβλοισι τεῇσι μεγακλέες εἰσὶ τελῶναι, Ματθαῖός τε μέγας, νηῷ τ’ ἔνι δάκρυα λεῖψας Ζακχαῖος τ’ ἐπὶ τοῖσι· ὁ τέτρατος αὐτὸς ἔοιμι; o esorta ad essere come lui: γενοῦ Ζακχαῖος (cfr. II,1,12 v. 457 e Meier, p. 124), …ὁ χθὲς τελώνης, καὶ 173 σήμερον μεγαλόψυχος (or. 40,31). Sulla μετάνοια del personaggio si esprime anche Ioh. Chrys. hom. 34 in I Cor. 7 (PG 61,296)… οὐκ ἂν Ζακχαῖος ἔσχε προθεσμίαν μετανοίας…; cfr. Molac, pp. 254-255; Simelidis, p. 214. O. Michel, τελώνης, in GLNT I, coll. 1055-1104, in part. 1096ss. Vedi anche il riferimento alla parabola del fariseo e del pubblicano dei vv. 116-120. τελωναίης ἀμέτρου χερός L’immagine della mano connessa all’attività del pubblicano è usata anche in carm. II,2,1 dedicato all’esattore Ellenio: il Cappadoce si augura che la mano con la quale l’esattore deve stabilire la giusta misura dei tributi sia simile a quella irreprensibile di Dio: …μέτρα δίκαια… /…στήσαι μεγάλοιο θεοῦ σὺν ἁμύμονι χειρί (vv. 360-361); in carm. I,1,7 v. 98, infatti, Dio è definito misura assoluta, μέτρον δ’ αὖ θεός ἐστιν (Moreschini-Sykes, p. 214); cfr. anche il carme II,2,2 dedicato ad un altro esattore delle imposte, Giuliano (destinatario, inoltre, dell’or. 19), al quale il Cappadoce, usando l’immagine della bilancia, chiede l’equità nella riscossione dei tributi: σοὶ δὲ Θεὸς χείρεσσι φόρων ἐνέθηκε τάλαντον (v. 5), di mostrarsi pietoso nei confronti degli indigenti e di offrire loro la sua mano come se fosse quella di Dio: φείδεό μοι πτωχῶν…/ …οὓς νόσος ἠΐστωσε…/ …τόδε σοι πάντων πλέον…/ χεῖρα Θεοῖο φέρειν τοῖς ἀτάφοις νέκυσι (vv. 8 e 29-30). — Sembra che l'hapax τελωναίος sia stato forgiato da Gregorio. — Per una iunctura simile a quella del passo in oggetto cfr. carm. I,2,28 v. 62 ἀμέτρως χερσὶ. Il tema del μέτρον e della μεσότης è molto caro al Cappadoce: cfr., per es. I,1,4 v. 86 μέτρα φέρειν γὰρ ἄριστον, ἀμετρίη δὲ κάκιστον (cfr. Moreschini-Sykes, p. 170); la chiusa di I,2,9a: …βροτοῖς δέ τε μέτρ’ ἐπικείσθω (v. 84) e I,2,9b καὶ γὰρ δή μέτροισι βίου καὶ μέτρα Θεοῖο ἔσπεται, ὤς δὲ μέτροισι βίου καὶ μέτρα Θεοῖο (vv. 68-69) e il relativo commento di Crimi, Virtù, p. 17 e nota 29; I,2,31 v. 42; or. 43,19, dove il Nazianzeno afferma l’importanza di perseguire la giusta misura e stabilisce una connessione tra il καιρός e il μέτρον: …ἔξω τοῦ καιροῦ καὶ τοῦ μέτρου φερόμενος (cfr. anche il § 71 dove è postulato il confronto tra la misura umana e l’altezza di Dio, …τοῦ ἀνθρωπείου μέτρου πρὸς τὸ θεῖον ὕψος… in riferimento alla lotta di Giacobbe di Gen. 28,12ss.); carm. II,1,11 v. 1239 μέτρον τ᾽ ἄριστον; o, in merito alla libertà di parola, l’espressione di or. 19,11 ἢ τό γε μετριώτατον εἰπεῖν; cfr. Plagnieux, pp. 225ss.; Trisoglio, Autobiografia, p. 203; 174 Moroni, pp. 129-130; Trisoglio, La dottrina morale in S. Gregorio Nazianzeno, in Id., Gregorio contemporaneo, p. 95. 126 Χριστὸς ἄναξ ἐλέηρεν ὀδυρομένους Espressioni simili in carm. II,1,1 v. 386 ἄναξ, ἐλέαιρε, e v. 409 (riferimento alla parabola del fariseo e del pubblicano) Θεὸς… ἐλέηρεν; supra, v. 109 πατὴρ ἐλέηρε; Hom. Il. 24,23 …ἐλεαίρεσκον μάκαρες θεοὶ; Od. 1,19 θεοὶ δ’ ἐλέαιρον. — Omerica è la costruzione ἐλέηρε ὀδυρομένους, come si evince da Od. 4,828 Παλλὰς Ἀθηναίη· σὲ δ’ ὀδυρομένην ἐλεαίρει. — Un accostamento simile a quello in oggetto, ὀδυρομένους κακότητα, si legge anche in Bas. epist. 204,7 …ὀδυρόμενος τοῦ καιροῦ τὴν κακότητα… . 127-136 L’amore che lega genitori e figli segue una legge naturale che trova applicazione anche nel mondo animale. Questa sezione, che presenta numerosissimi punti di contatto con Greg. Naz. carm. II,2,4 vv. 6-34, già messi in risalto da Moroni, pp. 96ss. (si noti, in particolare, v. 12 in cui Gregorio usa l’espressione “vincolo d’amore” per esprimere il legame genitori-figli: Φίλτρῳ γὰρ συνέδησε φύσις τοκέας τε γόνους τε), è fondata sull’idea dell’indissolubile legame tra genitori e figli: τόν (scil. πόθον) ῥα φύσις τοκέεσσιν ἐπήξατο ἀμφὶ γενέθλης (v. 128), ed è caratterizzata dal richiamo al comportamento delle bestie del mondo animale: καὶ θῆρες φιλέουσιν ἐὸν γόνον…/ παρδάλιάς τε σύας τε βοῶν τ’ ἀγέλην ἑλικώπων (vv. 129-130), che si battono fino alla morte pur di difendere i loro cuccioli, ὥς ῥα περιτρομέουσι, καὶ ὡς περὶ δῆριν ἔχουσι (vv. 131-132). Si noti, inoltre, l’uso del poliptoto, θῆρες … θηρσὶν … θηρῶν (vv. 129. 132. 133) e μερόπεσσιν … μερόπων (vv. 132. 134). L’amore dei genitori per i figli è un sentimento spontaneo e naturale come si legge in Aristot. Eth. Nic. VIII,12 p. 1161b Bekker: οἱ γονεῖς μὲν γὰρ στέργουσι τὰ τέκνα ὡς ἑαυτῶν τι ὄντα, τὰ δὲ τέκνα τοὺς γονεῖς ὡς ἀπ’ ἐκείνων τι ὄντα. μᾶλλον δ’ ἴσασιν οἱ γονεῖς τὰ ἐξ αὑτῶν ἢ τὰ γεννηθέντα ὅτι ἐκ τούτων, καὶ μᾶλλον συνωκείωται τὸ ἀφ’ οὗ τῷ γεννηθέντι ἢ τὸ γενόμενον τῷ ποιήσαντι· τὸ γὰρ ἐξ αὐτοῦ οἰκεῖον τῷ ἀφ’ οὗ, οἷον ὀδοὺς θρὶξ ὁτιοῦν τῷ ἔχοντι· ἐκείνῳ δ’ οὐδὲν τὸ ἀφ’ οὗ, ἢ ἧττον. καὶ τῷ πλήθει δὲ τοῦ χρόνου· οἳ μὲν γὰρ εὐθὺς γενόμενα στέργουσιν, τὰ δὲ προελθόντος χρόνου τοὺς γονεῖς, σύνεσιν ἢ αἴσθησιν λαβόντα; cfr. anche Eur, fr. 345 Nauck ἐγὼ νομίζω πατρὶ φίλτατον τέκνα παισίν τε τοὺς τεκόντας, οὐδὲ συμμάχους ἄλλους γενέσθαι φήμ’ ἂν 175 ἐνδικωτέρους; supra, vv. 76ss. e Greg. Naz. carm. II,2,5 v. 79 εἴ γε φύσις τεκέεσσι πόθον πόρσυνε τοκήων (cfr. la nota di Moroni, p. 220). Rimane, infine, da ricordare la presenza di questo elemento nelle varie esercitazioni retoriche legate all'ἀποκηρύξις, alle quali il carme è stato connesso, come ha già evidenziato Regali, Declamazioni, p. 531 e note 29-31 (ma si veda anche, limitatamente all'amore tra genitori e figli Luc. Abdic. 18 καίτοι γε ἡ φύσις τοῖς πατράσιν τοὺς παῖδας μᾶλλον ἢ τοῖς παισὶν τοὺς πατέρας ἐπιτάττει φιλεῖν); nonché la critica avanzata da Ambrogio, Hexam. 6,4,22, contro l'abdicatio, che sia avvale del paragone tra l'uomo e gli animali per affermare il naturale amore che i genitori nutrono verso i propri figli: Quod nobis Scriptura adfert, quae dicit: filii, diligite patres vestros; parentes, nolite ad iracundiam provocare filios vestros, natura hoc bestiis infundit, ut catulos proprios ament fetus suos diligant… Quid dicit homo qui mandatum neglegit, naturam obliterat, filius patrem despicit, pater abdicat filium; et hoc putant jus esse, ubi damnatur foecunditas: se potius pater damnat, qui facit irritum esse genuit… . Si veda, infine, le relazioni con Opp. An. Hal. 1,702-733 e Opp. Ap. Cyn. 3,129-133 segnalate da Wyss, Gregor II, coll. 854. 127 βροτέοιο πόθοιο Con questa espressione Gregorio vuole indicare l’amore tra gli uomini ispirato da una legge di natura (in carm. II,2,4 v. 27 si parla di πόθου νόμος). La stessa iunctura, ma con sapore diverso, in carm. I,2,2 v. 509, dove indica i desideri sessuali degli uomini: Τί δ’ ἄπιστον ἔρον Χριστοῦ βασιλῆος / εὐνάζειν βροτέους τε πόθους καὶ σαρκὸς ἐρωὰς (cfr. Zehles-Ζamora, p. 227). Il sostantivo πόθος ricopre, in Gregorio, una vasta gamma di accezioni e sfumature: per esempio, in carm. II,1,11 v. 235 indica lo stretto rapporto di amicizia instaurato dal Nostro con Basilio ad Atene: πλέον συνεσφίγγημεν ἀλλήλοις πόθῳ (concetto che ritorna simile in or. 43,25); in or. 43,13 l’anelito della λογικὴ φύσις a ricongiungersi con Dio, essendo stata creata a sua immagine; ancora in carm. I,2,1 v. 275 ἐν ἀλλήλοις πόθῳ indica l’amore coniugale; in I,2,2 v. 530 l’ardente amore per Cristo Re (cfr. Zehles-Ζamora, p. 235); etc. — Per l’amore di Cristo nei confronti dell’uomo si veda il denso passo di carm. I,2,1 vv. 561-564, cit. supra, nota al v. 16 fondato sulla ricorrenza di πόθος/ποθέω. 128 φύσις Con questo termine Gregorio indica la “legge di natura”. Essa deve essere intesa come dono di Dio, e da Lui stabilita come si legge anche in Greg. Nyss. Eun. 2,1,252 176 νυνὶ δὲ τῶν μὲν πραγμάτων ἡ φύσις ἅτε δὴ παρὰ τοῦ θεοῦ πεπηγυῖα μένει ἀκίνητος. Cfr. ancora Greg. Naz. carm. I,2,25 vv. 354-357, in cui, a proposito della possibilità di sconfiggere l’ira, è affermata l’azione congiunta di Dio e della natura: Τί δ᾽ οὐ φύσις δέδωκε, φησί, τὸν χόλον; / Kαὶ τὸ κρατεῖν γε τοῦ χόλου… / θεὸς τὰ πάντα καὶ φύσις, πλὴν εἰς καλόν; e or. 32,7-9 dove la φύσις è legata alla τάξις che caratterizza l’universo e al principio razionale, λόγος, che lo governa; Molac, pp. 31ss.; Oberhaus, p. 144. γενέθλης Usato, da Gregorio, solo in poesia e sempre in posizione clausolare. Per il nesso ἀμφὶ γενέθλης cfr. anche Greg. Naz. carm. I,1,9 v. 60; I,2,1 v. 390; Sundermann, p. 116. 129 θῆρες φιλέουσιν ἑὸν γόνον L’amore che le bestie nutrono per la loro progenie è inserito in una γνώμη generale, che comprende anche uomini e dèi, in un frammento euripideo: εἷς γάρ τις ἔστι κοινὸς ἀνθρώποις νόμος καὶ θεοῖσι τοῦτο δόξαν, ὡς σαφῶς λέγω, θηρσίν τε πᾶσι, τέκνα τίκτουσιν φιλεῖν (fr. 346 Nauck). εἴ ποτ’ ἄκουσας Per questa formula si veda supra, vv. 105 e 122. 130 παρδαλιάς τε σύας τε βοῶν τ’ ἀγέλην ἑλικώπων Stesso primo emistichio segnato da B1 in Quint. Smyrn. 5,248 παρδαλιάς τε σύας τε… . ― Omerica la iunctura βοῶν ἀγέλην: cfr. Il. 11,696; 15,323; 18,573; Od. 12,299; ripresa da Hes. fr. 180,9 West & Merkelbach; Xen. Mem. 3,11,5; Long. 2,35; Dio Chrys. or. 1,17; Eus. Is. 1,47; Greg. Naz. carm. II,1,1 v. 78; infra, v. 329; ma vedi anche Pind. pyth. 4,149 βοῶν ξανθὰς ἀγέλας. — L’epiteto ἑλίκωψ è tradizionalmente attribuito a persone, in particolare figure femminili, cfr. Hom. Il. 1,98 ἐλικώπιδα κούρην (= Hes. Theog. 998, cfr. anche 298 dove è concordato con νύμφην); Pind. P. 6,1 ἑλικώπιδος Ἀφροδίτας; Soph. OT 1108 Νυμφᾶν ἑλικωπίδων; infra v. 187; ma si riferisce anche agli Achei, ἑλίκωπες Ἀχαιοὶ, in Hom. Il. 1,389; 3,190 etc., cfr. LSJ s.v., Chantraine, Dictionnaire, s.v.; per cui l’accostamento ad un animale, in questo caso le "mucche", sarebbe di creazione gregoriana. 131 ὥς ῥα περιτομέουσι… περὶ δῆριν ἔχουσι 177 Simile incipit in Greg. Naz. carm. II,1,1 v. 273; ma vedi anche II,2,4 v. 207 ...περιτρομέουσι τοκῆες (clausola). — Il modulo περὶ δῆριν ἔχουσι trova il suo modello in Hom. Od. 24,515; cfr. anche Ps.-Hes. Sc. 241 δῆριν ἔχοντες; nonché Greg. Naz. carm. I,2,14 v. 16 δῆριν ἔχων; II,1,13 v. 145; Nonn. Dion. 35,147 μετὰ δῆριν ἔχων (=43,139); Domiter, p. 77. 132 μερόπεσσιν ἀπεχθέσιν Per questa iunctura si veda, con diversa accezione, Greg. Naz. carm. I,2,2 v. 574 …μερόπεσσιν ἀπεχθέα… . ἀντιόωντες Forma con diectasi sempre in posizione clausolare in Gregorio; cfr. anche Hom. Il. 21,151; Apoll. Rh. 4,405. 859; Anth. Pal. 5,23,4; 9,300,3; 16,287,2 etc. 133 Con questo verso, che Demoen, Exempla, p. 177 ha definito stadio finale di una climax discendente, si chiude la lunga sezione del carme in cui sono passati in rassegna diversi exempla tratti dalla Sacra Scrittura, e con riferimenti anche dal mondo animale (vv. 105-132). La costruzione clausolare ἔπλετο θυμός trova paralleli in Hom. Il. 7,31 ἔπλετο θυμῷ (=10,531; 11,520 etc.); Od. 8,571; 13,145; 20,304 etc.; Quint. Smyrn. 14,94 ἐκ θυμοῖο πέλοντο (incipit); 4,122. 134-136 Breve sezione di passaggio. L’appello che l’io loquens rivolge al genitore si avvale, ancora una volta di citazioni omeriche, tra le quali campeggia il riferimento all’ira di Achille, e proietta in una nuova sezione del carme che offre un’interessante descrizione di uno spaccato di vita “reale”. Avvalendosi di una metafora naturalistica, l'io loquens si rammarica per la durezza di cuore dimostrata dal padre che diventa, così, paragonabile a quella propria dell'acciaio ovvero del diamante (cfr. Lurker, pp. 72-73). ― In termini simili si esprime Gregorio in carm. II,1,30, mostrandosi fortemente contrariato e amareggiato per le eresie che minacciano la sua chiesa di Nazianzo, dinanzi alle quali il suo atteggiamento non può essere indifferente, quale quello di un uomo insensato o allevato dalle quercie e dalle rocce: πῶς δ᾽ οὐχί; καὶ τίς μετρίως / ταῦτ᾽ ἂν πάθοι φρονῶν; / οὐ γὰρ τις δρῦς, τὶς ἢ λίθος / μόνον μ᾽ ἐθρέψατο (vv. 193-196). 134 Δάμασον θυμὸν μέγαν 178 Allusione alla μῆνις di Achille, cfr. Hom. Il. 9,496; 16,34-35; Wyss, Gregor II, pp. 840841; Demoen, Exempla, p. 395 nota 49; infra, v. 291; ma vedi anche Ap. 12,7 ὁ διάβολος ἔχων θυμὸν μέγαν; F. Büchsel, θυμός, in GLNT IV, coll. 589-592. — Una simile espressione si legge, inoltre, in Theogn. 2,1234 Ὦ παῖ, ἄκουσον ἐμεῦ δαμάσας φρένας. 134-135 …πέτραι / ἠλίβατοι θρέψαντο… ἤ σε θάλασσα Gregorio attinge, ancora una volta, da Omero per dare voce e pregnanza ad un concetto che vuole esprimere: la durezza di cuore che Vitaliano mostra di possedere è paragonata a quella di un uomo che si immagina allevato dalle rocce o dal mare (come simboli di uno status senza leggi né regole), come si legge nel discorso che Patroclo rivolge ad Achille per esortarlo a placare la sua ira (si noti la variatio sintattica applicata dal Nazianzeno rispetto alla fonte): …γλαυκὴ δέ σε τίκτε θάλασσα / πέτραι τ’ ἠλίβατοι, ὅτι τοι νόος ἐστὶν ἀπηνής (Il. 16,34-35); passo iliadiaco ripreso anche da Libanio in or. 27,24 dove il padre che ha ripudiato il figlio perché si era messo a ridere nel vedere il genitore cadere accidentalmente a terra, manifesta la sua ira contro le ipotetiche richieste di clemenza che gli sono state avanzate, affermando di non avere parenti, ma di essere stato allevato dalle rocce e di poter annoverare solo queste nella sua parentela: …ἠγανάκτησα… …. ….οὐδενὸς ἀνθρώπων ἐγὼ συγγενής. ἐκ τῶν πετρῶν ἀνέφυν. ἐκεῖναί μοι φίλαι, ἐκεῖναί μοι συγγενεῖς. ἐκεῖναι μόνον αὐτόν, εἰ φθέγξαιντο, παραιτήσονται, ἀνθρώπων δὲ οὐδὲ εἷς. ἀλλ᾽ ὅσῳ μᾶλλον προσίοι τις, τοσούτῳ μᾶλλον ὀργίζομαι. πέτραι / ἠλίβατοι Omerica anche questa iunctura, cfr. Il. 15,273. 618 (in enjambement, come nel passo in oggetto) etc.; Od. 9,243; 10,87 etc.; hym. in Merc. 404; presente anche in Hes. Th. 675. 786; Theogn. 1,176; Aesch. Supp. 351; unica menzione, a quanto consta, nell’opera di Gregorio. 136 Il verso ritorna quasi identico in Greg. Naz. carm. II,1,34B v. 5 dove al posto di μῆνιν c’è πίστιν. La qualità della durezza espressa dall’aggettivo στερρός è attribuita all’ἀδάμας anche in Greg. Naz. carm. I,2,2 vv. 98-99 (cfr. Zehles-Ζamora, pp. 77-78) e epist. 206,11. Per un approfondimento sulle parti costitutive del verso si rimanda a Piottante, p. 115. 179 137-157 Lunga sezione che offre un interessante spaccato di vita "reale". Le parole dell’io loquens offrono un’importante testimonianza delle dinamiche della "buona" società del IV secolo, caratterizzate da banchetti, incontri conviviali, benefiche elargizioni. È il quadro di una società urbana di elevata condizione: cfr. P. Brown, Povertà e leadership nel tardo impero romano, trad. it. di R. Petrella, Roma-Bari, 2003, in part. pp. 111ss.. La ricchezza di Vitaliano e la sua condizione di benessere attira personaggi di tutti i generi nella sua casa (vv. 138-139), dalla quale, però, sono stati scacciati i figli. Per descrivere queste dinamiche, Gregorio ricorre ancora una volta alla figura della Priamel, che vede l’esclusione dei figli di Vitaliano dal sostentamento e dalla vita sociale che caratterizza la casa paterna (Ἄλλοι μὲν … Ἡμεῖς δὲ) e ai riferimenti biblici e mitologici (il giardino di Alcinoo e la vicenda biblica di Lazzaro e del ricco epulone, vv. 140 e 150-151). In particolare, la tematica che sottilmente scorre in questi versi è ancora quella della generosità e della carità cristiana, la χάρις del v. 152, una tematica costante che ricorre spessissimo nel corso del carme, cfr. supra, comm. ai vv. 97ss. Degna di nota è qui la ripetuta presenza, nel giro di pochi versi, di τράπεζα: …ἡ δὲ τράπεζα, καὶ ἄλσος Ἀλκινόοιο/ τερπνοτέρη (vv. 140-141) …. Ἀλλὰ τραπέζαις / ἡμεθ’ ἐπὶ σχεδίῃσι (vv. 148-149) … ὑπερφιάλοιο τραπέζης / ψῖχας ἀφαρπάζοντες (vv. 150-151). Sul tema della ricchezza in Gregorio, si rimanda allo studio di Coulie, Richesses, in part. pp. 170ss. 137 La particolare cura nella costruzione del verso risalta dall’allitterazione della dentale, κτεάτεσσι τεοῖς… τέρψιν e dall’anastrofe di ἐπί. La costruzione di τέρψις con ἔχω ha precedenti in Ps.-Hes. Sc. 273 τέρψιν ἔχον; Aesch. fr. 145 Mette; Soph. OT 1477 τέρψιν ἥ σ’ εἴχεν; Eur. Bacch. 422-423; Med. 202; fr. 897 Nauck τέρψιν ἔχων; ripresa, ancora, da Greg. Naz. carm. I,2,10 v. 486; II,1,1 v. 73; II,1,32 v. 58; II,1,50 v. 44 (posizione incipitaria); II,2,4 v. 158 (clausola). — Per κτεάτεσσι in questa sedes metrica cfr. II,1,1 vv. 72. 151; II,1,13 v. 79. — L’esclusione dei figli a cui è stata inflitta l’ἀποκήρυξις dal godimento dei beni paterni, e come stadio finale la diseredazione, sembra una costante conseguenza dell’allontanamento da casa: cfr. Wurm, p. 41 che si riferisce a Lib. decl. 27,9 e 48,74, a cui si aggiungano le battute finali di decl. 48,73, dove un figlio che chiede di essere ἀποκηρυττόμενος si rivolge 180 al padre dicendo: …εὐωχοῦ δὴ καὶ πῖνε μεθ᾽ ἡδονῆς καὶ τρέφε κληρονόμους ἀντὶ τῶν υἱέων τοὺς κόλακας — l'allontanamento dalla mensa paterna, τράπεζα, è menzionata come una delle ingiuste espressioni di patria potestas criticate da un figlio che afferma l'inesistenza di una legge antica che giustifichi tale comportamento, cfr. Lib. decl. 39,23 …καὶ τραπέζης ἀπελαύνειν…; cfr. infra, nota ai vv. 315ss.. 138 Il verso è costruito su coppie oppositive che ritraggono diversi tipi di personaggi che popolano la società locale e frequentano la casa di Vitaliano. La menzione congiunta di ξεῖνοι e ἡμεδαποὶ si legge anche in Greg. Naz. carm. II,1,16 v. 84 dove i termini occupano la stessa posizione del passo in oggetto; II,1,19 v. 14. ― Per ἡμεδαπός col valore di attributo di ξένος si veda carm. I,2,31 v. 57, cit. supra, comm. al v. 75. — θεουδής è riferito da Gregorio alla Vergine Maria in carm. I,2,1 v. 198 e alla madre Nonna in Anth. Pal. 8,95,1; ma si veda anche Nonn. Dion. 3,435 ξείνοιο θεουδέος. Per la lezione ἀφραδέοντες si rimanda al comm. di Moroni, p. 155; cfr., infine, infra, vv. 294 e 330. Sull’uso dell’enumeratio congiunta all’antitesi vd. Coulie, Richesses, in part. pp. 162-165. 139-140 ξυνὸς … λιμὴν…/ σὸς δόμος La metafora della casa come porto e rifugio sicuro è espressa sfruttando una ricercata disposizione delle parole con l’aggettivo ξυνός, trait d’union dei due elementi, posto ad incipit di verso, λιμὴν in posizione mediana subito dopo B2 e δόμος in enjambement all’inizio del verso successivo in forte iperbato. La metafora del porto è usata da Gregorio anche in or. 10,2 dove il porto è connesso alla vecchiaia: γῆρας… λιμὴν ἀσφαλέστερος; in or. 11,1 l’amico fidato è un porto di frescura, Φίλος πιστὸς λιμὴν ἀναψύξεως; in or. 16,4 l’immagine è intrecciata alla metafora marina della vita, καὶ οἷον ἤδη πρὸς λιμέσιν ὢν τοῦ κοινοῦ τῆς ζωῆς πελάγους; in or. 18,3 è paragonato al passaggio alla vita celeste, luogo di tranquillità dopo le tempeste della vita terrena: καὶ ὅπερ ἐστὶ τοῖς πλέουσι λιμὴν εὔδιος, τοῦτο τοῖς ἐνταῦθα χειμαζομένοις ἡ ἐκεῖσε μετάστασις καὶ μετάθεσις. Nella chiusa di carm. II,1,45 v. 348 Gregorio prega il Signore affinché lo conduca nel porto tranquillo del Suo regno: εὔδιον ἐς λιμένα σῆς βασιλεῖας ἄγοις; in II,2,6 v. 44, nel definire i compiti della buona moglie, il Cappadoce auspica che la donna diventi un porto per 181 il marito: ἀνδρὶ γὰρ ἀσχαλόωντι λιμὴν εὔορμος ἄκοιτις (cfr. Bacci, p. 101, che rimanda a Costanza, Scelta, p. 277 nota 37). Per l’uso di tale metafora nel mondo classico, si veda, tra gli altri Eur. Med. 768ss. in riferimento alla promessa di Egeo di accogliere Medea: οὗτος γὰρ ἁνὴρ ᾗ μάλιστ᾽ ἐκάμνομεν / λιμὴν πέφανται τῶν ἐμῶν βουλευμάτων. Per la rileborazione della tematica in altri autori cristiani si legga L. Schimme, Hafen, in RLAC XIII, coll. 297-305; L. Brottier, Le port, la tempête et le naufrage: sur quelques métaphores paradoxales chez Jean Chrysostome, Revue des Sciences Religieuses 68, 1994, pp. 145ss. Per la iunctura ξυνός λιμήν si veda, ancora, Greg. Naz. carm. II,2,2 v. 21. Per la metafora marina della vita cfr. supra, nota ai vv. 21-23. 140-150 Il giardino di Alcinoo (quale exemplum di locum amoenus) e la vicenda biblica di Lazzaro e del ricco epulone. È singolare, come ha sottolineato Masson-Vincourt, pp. 183ss., che Gregorio attinga dalla mitologia classica per mostrare l’exemplum positivo da seguire: la tavola (e la casa) di Vitaliano reca, iperbolicamente, più diletto del giardino di Alcinoo; e la carità cristiana esorta a essere generosi con i bisognosi a differenza di come è stato il ricco epulone nei confronti di Lazzaro: Vitaliano deve mostrarsi, pertanto, caritatevole e generoso soprattutto verso i figli e sostenerli nella difficoltà. Sulla tecnica della comparazione cfr. Demoen, Exempla, pp. 159-160 e nota 311. 140-141 τράπεζα … / τερπνοτέρη Non è chiaro se la descrizione della mensa riccamente addobbata sia posta in una luce negativa, dato che i figli non possono prenderne parte, o debba essere percepita come una semplice ἔκφρασις — cfr. anche Pherecr. fr. 190 Kock, βριθομένης πάντων ἀγαθῶν ἐπίμεστα τραπέζης. Da non dimenticare, comunque, i ripetuti accenni di disprezzo che Gregorio dedica, per riflesso, all’ingordigia e ai piaceri del ventre (indicazioni sulla tematica propria della diatriba cinico-stoica in Sundermann, p. 196, che segnala numerosi loci che trattano il topos), come in carm. I,2,28 vv. 86-89 Ὄγκον τραπέζης, καὶ στενοῦ λαιμοῦ χάριν, / εἰς ὃν τὰ πάντα συντρέχει φροντίσματα, / οἴδημα γαστρὸς, τὴν κόρου τ’ ἀρρωστίαν / (οὗτοι γάρ εἰσιν οἱ τόκοι τῆς πλησμονῆς); vedi anche I,2,8 vv. 120ss.; Beuckmann, pp. 62-63; Werhahn, pp. 54ss. L’immagine della mensa è, poi, spesso inserita nella Priamel dei 182 valori o catalogo del lusso come elementum da rifiutare insieme agli altri beni terreni, come in I,2,2 vv. 129ss. dove si noti l’espressione Ἀλκινόοιο τράπεζαν (richiamata anche in epist. 5,2 e posta in connessione con τὴν ἐλεεινὴν ἐκείνην καὶ ἄτροφον πανδαισίαν ἐφ’ ἣν ἀπὸ Καππαδοκίας ἐκλήθημεν, οὐχ ὡς Λωτοφάγων πενίαν ἀλλ’ ὡς Ἀλκινόου τράπεζαν, ἡμεῖς οἱ νέοι ναυαγοί τε καὶ τλήμονες) e il successivo riferimento al racconto evangelico di Lazzaro e del ricco epulone (menzionato anche nei versi successivi del nostro carme): Οὐδ’ εἴ μοι χρυσοῖο, καὶ ἠλέκτροιο τάλαντα, / καὶ πεδία χλοάοντα καὶ εὐρέα πώεα δοίης, / καὶ δόμον αἰγλήεντα, καὶ Ἀλκινόοιο τράπεζαν, / οὐδ’ εἴ μοι βίον ἄλλον ἀγήραον ἀντὶ παρόντος, / οὐδέ κεν ὣς λιπόχριστον ἐγὼ βίον αἰσχρὸν ἑλοίμην. / Ἄρτος ἐμοὶ στείνοιτο, ποτὸν τὸ ὕδωρ ποθέοιτο· / φύλλα συκῆς μ’, ὡς πρόσθεν Ἀδὰμ Εὐάν τε, καλύπτοι / καὶ σήραγγας ἔχοιμι πετρῶν δόμον, ἤ τινα φηγοῦ / κευθμῶνα, σχέδιόν τε βίον, καὶ θηρσὶν ὁμοῖον· / ἤ τινα πὰρ πυλεῶνα βεβλημένος, ἄχθος ἀρούρης, / ἀνδρὸς ὑπερφιάλοιο, πένης, καὶ Λάζαρος ἄλλος, / ἕλκοιμι ζωήν τε λυγρὴν καὶ σῶμα πονηρόν (per il commento al passo si rimanda a Zehles-Ζamora, pp. 89ss.); e II,1,82 vv. 1-2 Ἄλλοι χρυσὸν, οἵδ’ ἄργυρον, οἵδε τράπεζαν / τιμῶσι λιπαρὴν, παίγνια τοῦδε βίου. In II,1,1 vv. 63ss. alla mensa abbondante Gregorio ne preferisce una semplice e improvvisata: oὔ με γάμος δ’ ἐπέδησε, βίου ῥόος, ὅν τε μέγιστον / δεσμὸν ἐπ’ ἀνθρώποις ὕλη βάλεν, ἄχθεος ἀρχήν, / οὐδ’ εἷλεν σηρῶν καλὰ νήματα οὐδὲ τράπεζαν / ἠγάσθην λιπαρήν, πολυχανδέα γαστέρα βόσκων, / μαχλοσύνης μήτειραν ἀτάσθαλον,… /…/ …σχεδίη τε τράπεζα; stessa affermazione che si legge in I,2,1 v. 609 Σοὶ βέβριθε τράπεζα, τρύφος δ’ ἐμὲ μικρὸν ἔθρεψεν; e II,1,12 v. 297, λιτὴ τράπεζα πολλάκις μοι φιλτέρα; cfr. Costanza, Scelta, p. 270 nota 13. Si veda, inoltre, la metafora della mensa applicata alla creazione che appare in II,2,5 vv. 68ss., in part. v. 73 …ὅσσα Θεὸς προύθηκεν ἐμοῖς φαέεσσι τράπεζαν (cfr. il comm. di Moroni, pp. 217-218); nonché il significato teologico del termine in L. Goppelt, τράπεζα, in GLNT XIII, coll. 1367-1384. ἄλσεος Ἀλκινόοιο Il giardino di Alcinoo è considerato exemplum positivo di prosperità e abbondanza. La forma Ἀλκινόοιο si trova quasi sempre in posizione clausolare in Omero, come nel passo in oggetto, cfr. Od. 6,17; 7,70; 8,2; 13,20 etc. La menzione del re dei Feaci si legge anche in Bas. epist. 74,1; Eus. p.e. 11,35,2. 183 141-142 Ricchezza della tavola, piena di amici e vivande di ogni tipo. Si noti l’anafora di πλήθω costruito con i dativi φίλοις e ἐδωδῇ, le cui specificazioni si leggono al v. 142 ἠερίων, χθονίων τε καὶ ὁππόσα νήχεται ὕδωρ. La forma φίλοις potrebbe anche essere intesa come un dativo di vantaggio a cui opporre i figli di Vitaliano che invece sono stati esclusi dalla mensa paterna. Per la costruzione di πλήθω con φίλος cfr. Plut. Cam. 15,6 πλήθει φίλων (= Cato maior 6,2); Anth Pal. 4,3,98 φίλης πέπληθε γαλήνης. — La costruzione di πλήθω con ἐδωδή si rileva anche in Greg. Thaum. Eccl. 9 (PG 10,1012). 142 La tavola di Vitaliano è riccamente colma con cibi di tutti i generi provenienti dal mondo animale. Simili elenchi di creature si leggono in Opp. Ap. Cyn. 1,47-48: Τριχθαδίην θήρην θεὸς ὤπασεν ἀνθρώποισιν, / ἠερίην χθονίην τε καὶ εἰναλίην ἐρατεινήν; ma anche nello stesso Gregorio come in carm. II,2,4 vv. 72-73 ἠερίων, χθονίων τε καὶ εἰναλίων φύσιν εὗρον, / οὐρανίων…; e II,2,7 vv. 51-55 dove l’espressione ha una funzione spregiativa e polemica nei confronti degli uomini antichi che adoravano gli elementi della natura come dèi: οὐ θέμις, οὐδ’ ἐπέοικε Θεοῦ βροτὸν ἐκγεγαῶτα, / οὐρανίοιο Λόγοιο καλὴν καὶ ἄφθιτον εἰκώ, / τὴν νοερήν, νοερῶν τε δαήμονα, ὑψικέλευθον, / εἰδώλοις κενεοῖσιν ὑποκλίνεσθαι ἀθέσμως / εἰναλίων, χθονίων τε καὶ ἠερίων πετεηνῶν. Di altro tenore, la descrizione degli elementi della creazione condotta da Gregorio per esprimere, sulla scorta di una lunga tradizione letteraria cristiana, la grandezza e la magnificenza di Dio creatore, cfr. or. 28,23ss. e 44,10-11; anche Bas. hex. 3,10; 6,2; 7,5; 8,7; 9,3; cfr. Gregorio Nazianzeno, Poesie 2, p. 277 nota 9. — Si noti, infine, la variatio terminologica usata per indicare le singole creature: se, cioè, Gregorio adotta degli aggettivi per nominare sia gli uccelli che le bestie che vivono sulla terra, ἠρίων, χθονίων, si serve, poi, di una perifrasi per le creature acquatiche: ὁππόσα νήχεται ὕδωρ: per quest'ultima espressione, non strettamente riferita ai pesci, cfr. anche Ps.-Hes. Sc. 317 νῆχον… ὕδωρ; Nonn. Dion. 1,94 νήχεται… δι᾽ ὕδατος; ma vedi anche Emped. epigr. 209,2 (=Anth. Pal. 5,209,2) …ἐν χαροποῖς κύμασι νηχομένην; Anth. Pal. 12,156,8 …κύματι νηχόμεθα etc.; Greg. Naz. I,1,27 v. 28 νηχομένους πικροῖς ἐνὶ 184 κύμασι…; Hom. Od. 23,236-237 …πολιῆς ἁλὸς…/ νηχόμενοι; Callim. Hec. fr. 248,2 εἰν ἁλὶ νήχεσθαι…; Quint. Smyrn. 5,96 δ᾽ ἁλὸς οἶδμα νηχομένοις. 143-152 Seconda parte della Priamel. La condizione dei due giovani, l’io loquens e il fratello, è paragonata a quella dei vagabondi e dei mendicanti (ἐπ᾽ ἀλλοτρίῃσι θύρῃσι) e puntualizzata, seppur, genericamente, sia temporalmente, ἦμαρ ἐπ’ ἦμαρ, che spazialmente, ἔνθα καὶ ἔνθα: essi sono stati, infatti, cacciati da casa dall'iroso genitore, come l'io loquens afferma al . 175, cfr. infra, nota ad loc. 143 ἦμαρ ἐπ’ ἦμαρ ἐπ᾽ ἀλλοτρίῃσι θύρῃσι Per il nesso ἦμαρ ἐπ’ ἦμαρ si rimanda a Apoll. Rh. 1,861 ἦμαρ ἀεὶ ἐξ ἤματος; 2,473; 4,1634 ἐπ’ ἦμαρ καὶ ἐπ’ ἤματι; Theocr. 11,69; ma anche Soph. OT …αἰὲν ἐπ᾽ ἤματι; Opp. An. Hal. 5,472; Greg. Naz. carm. I,2,15 v. 123; I,2,31 v. 9; II,1,43 v. 12; II,1,45 v. 345; Anth. Pal. 9,499,6; 10,79,1; Nonn. Dion. 42,175. — La ricerca di ospitalità a cui sono costretti l’io loquens e il fratello è espressa attraverso l’immagine, per sineddoche, della “porta”: per la stessa espressione, ἐπ᾽ ἀλλοτρίῃσι θύρῃσι, cfr. Man. 6,581 (posizione incipitaria); Ach. Tat. 1,9,2 ἐπ᾽ ἀλλοτρίας θύρας. Ma vedi anche Bas. hom. II in Ps. XIV, Μὴ βάδιζε ἐπ᾽ ἀλλοτρίας θύρας (PG 29,269). 144 Come già si è accennato, Gregorio ricorre spesso allo schema dell’accumulazione, cfr. supra comm. al v. 138. Una serie di aggettivi ricorre simile, per esempio, in carm. II,2,1 v. 221 in riferimento ai monaci (ma anche II,2,5 vv. 145ss.), tra cui è presente anche il termine αὐαλέος: νήλιποι, αὐαλέοι, πενθήμοντες, οἰοχίτωνες; vedi anche I,2,1 v. 344 dove esso è riferito alla verginità e II,2,5 v. 128 alla “via mediana”; Sundermann, p. 89. — Per il nesso omerico ἔνθα καὶ ἔνθα e per le sue attestazioni nell’opera di Gregorio si rimanda a Sundermann, p. 104 e Zehles-Zamora, p. 146. πλαζόμεθ᾽(α) Lo stesso verbo, come già detto, viene usato per indicare le peregrinazioni del figliol prodigo e della pecorella smarrita ai quali viene accomunato, in tal modo, l’io loquens, cfr. supra, comm. ai vv. 106 e 114. 145-148 Il tema della lontananza è strettamente connesso a quello della visione: i due fratelli desiderano vedere, da molto tempo, il volto del padre che, però, è loro 185 precluso a causa della grande ira del genitore. Si noti, a questo proposito la simmetrica opposizione degli stati di sofferenza - ira espressa dalle coppie δύη … πόνος e χολόω … χώομαι: …ουδὲ τίς δύης ἄκος,… /…εὖτ᾽ ἐχολώθης, /…/ …χωόμενός περ, ὃ δὴ πόνος. 145 δύης ἄκος La iunctura è mutuata da Apoll. Rh. 1,907 dove occupa la stessa sede metrica del passo in oggetto, cioè prima della dieresi bucolica. Per il concetto di sofferenza, δύη, che ritorna anche al v. 158 si rimanda supra, comm. al v. 37. Si veda, inoltre, la simile espressione φάρμακον ἄλγεος di carm. II,2,6 v. 42 e la relativa nota di Bacci, p. 100. 145-146 …πρόσωπον / σεῖο, πάτερ, λεύσσοντες… Dietro il desiderio di vedere il volto del padre si cela, più o meno velatamente, la richiesta di essere riammessi giuridicamente allo status di filii: trovarsi al cospetto del padre (e vederne il volto) potrebbe, allora, significare il ripristino degli onori e dei privilegi, non solo familiari, ma anche sociali di cui i figli di Vitaliano, un uomo di un certo rango sociale, potevano godere. In 2Re 25,19 vedere la faccia del re diventa un titolo, infatti “coloro che vedono la faccia del re” sono privilegiati, tanto da diventare funzionari di corte: ἄνδρας τῶν ὁρώντων τὸ πρόσωπον τοῦ βασιλέως; inoltre, sempre nell’Antico Testamento, si legge che Dio rifiuta il suo volto quando ritira la sua grazia: Deut. 32,20; Ps. 12,2. 28,4. 43,25; ma, per converso, quando è irato, rivolge il suo sguardo a coloro che fanno del male, cfr. Ps. 33,17; Lev. 20,3. 6; 26,17; Ez. 14,8; 15,7. L'immagine del volto di Dio ripresa anche da Gregorio in chiave escatologica per profetizzare il giudizio divino sul peccato umano: …κατὰ πρόσωπον ἡμῶν ἱστὰς τὰ ἁμάρτηματα… (or. 16,8): E. Lohse, πρόσωπον, in GLNT XI, coll. 405-438. — Numerosissime le occorrenze della iunctura πρόσωπον τοῦ πατρός che si rilevano nella Sacra Scrittura a partire da Gen. 31,5 ὁρῶ ἐγὼ τὸ πρόσωπον τοῦ πατρὸς ὑμῶν…; e poi Μt. 18,10 οἰ ἄγγελοι … βλέπουσιν τὸ πρόσωπον τοῦ πατρὸς μου…; etc. 147 ὃ καὶ δμώεσσιν ὀπάζεις Allusione alla parabola del figliol prodigo, cfr. supra, comm. ai vv. 105ss. 148-149 τραπέζαις /… ἐπὶ σχεδίῃσι 186 Per questa iunctura in forte iperbato, cfr. carm. II,1,1 v. 74, cit. supra, comm. ai vv. 140-141. 148-151 L’allontanamento del figlio dalla mensa paterna come misura punitiva conseguente al ripudio è un dato presente nelle declamazioni diQuintiliano (decl. 291) e di Libanio (decl. 10,21; 47,12 e 42; 48,27) come sottolinea Regali, Carme, p. 530 che ipotizza anche che il passo in oggetto possa essere stato ispirato dal quadro della triste sorte riservata all’orfano, tracciato da Andromaca in Il. 10,490ss. Il sostentamento che un padre deve garantire ai figli è consigliato e sentito come un dovere anche in un’operetta morale di Plutarco, che fonda il rapporto genitori-figli su un amore naturale e disinteressato, cfr. De amore prolis 497a: αλλ᾽ ὅμως οὐ παύονται (scil. γονεῖς) παῖδας τρέφοντες μάλιστα δ᾽ οἱ παίδων ἤκιστα δεόμενοι. 148-151 Lazzaro e il ricco epulone (Lc. 16,19-31). Demoen, Exempla, p. 112 nota 218 ha attribuito a questo riferimento biblico una funzione sia ornamentale che dissuasiva: la punizione eterna dell’uomo ricco che non è stato generoso nei confronti del povero Lazzaro deve servire da monito a Vitaliano ad essere misericordioso verso i suoi figli e a riaccoglierli presso la casa e la mensa paterna. Ma, in realtà, sembra che Gregorio voglia, nel passo in oggetto, focalizzare l’attenzione sulla sezione “terrena” della parabola, e lontanamente adombrare le prospettive escatologiche. In altri luoghi della sua opera il Cappadoce ricorre spesso alla menzione del “seno di Abramo”, cfr. or. 41,12; 19,11; ma si veda anche, per es. Greg. Nyss. hom. 6 in Eccle dove la figura di Lazzaro è modello di ricompensa nella vita celeste, dopo le afflizioni subite in quella terrena: per l’interpretazione della parabola in relazione all’apocatastasi si rimanda a J. Daniélou, L’essere e il tempo in Gregorio di Nissa, trad. it. a cura di P. Lunghi, Roma 1991, pp. 289ss. 149-151 Il dettato è fondato e giocato sul concetto di quantità: alle poche briciole che i due giovani non riescono neanche ad afferrare, si oppone l’abbondanza della mensa, …ὀλίγας περ/ …ὑπερφιάλοιο τραπέζης/ ψῖχας ἀφαρπάζοντες. Si noti, in particolare il forte iperbato di ὀλίγας e il tono altamente dispregiativo dell’aggettivo ὑπερφίαλος riferito a τράπεζα che realizza, così, un'enallege adiectivi (in carm. I,2,2 v. 187 139 l'aggettivo designa, invece, il ricco epulone: ἀνδρὸς ὑπερφιάλοιο: ZehlesΖamora, p. 94). Sembra che la iunctura ὑπερφιάλοιο τραπέζης sia di creazione gregoriana, così come l’espressione ὀλίγας /…/ ψῖχας ἀφαρπάζοντες (cfr. anche I,2,2 v. 14 δὸς ψῖχας ἀλλοτρίας e or. 19,11 μέχρι καὶ τῶν ἀπὸ τραπέζης ψιχίων). — Gregorio rispetta la tradizione epica collocando l’aggettivo δυσάμμορος prima della dieresi bucolica, cfr. Hom. Il. 19,315; 22,428; 24,727; Apoll. Rh. 1,253; 3,809; 4,83 etc.; Greg. Naz. carm. I,2,9a v. 62. 150 Λάζαρος ὥς τις ἐκεῖνος La menzione esplicita del nome del personaggio della parabola neotestamentaria è un dato ricorrente nell’opera del Cappadoce: cfr. carm. Ι,1,26 v. 18; I,1,27 v. 90; I,2,2 v. 139 Λάζαρος… ἄλλος (= or. 40,31); I,2,28 vv. 365 e 369; or. 26,6; 36,12; Beuckmann, pp. 124-125; Zehles-Ζamora, p. 94. 151 δαῖτα φέροντες L’espressione, che ricorre solo in questo luogo dell’opera del Cappadoce, trova la sua fonte in Hom. Od. 10,124 δαῖτα φέροντο, dove occupa la posizione clausolare; cfr. anche hym. in Merc. 480; Opp. An. Hal. 3,231 (incipit); Nonn. Dion. 26,111; Par. 4,152; Anth. Pal. 9, 122,2. 580,8 etc. 152-157 Il personaggio di Vitaliano sembra godere di sentimenti e considerazioni contrastanti nell'entourage in cui vive, condizione che si ripercuote sui figli che ricevono disprezzo e onore a causa del genitore. Che l'onore dei figli dipenda da quello del padre si legge non solo in Sir. 3,10-11: μὴ δοξάζου ἐν ἀτιμίᾳ πατρός σου, οὐ γάρ ἐστίν σοι δόξα πατρὸς ἀτιμία· ἡ γὰρ δόξα ἀνθρώπου ἐκ τιμῆς πατρὸς αὐτοῦ, καὶ ὄνειδος τέκνοις μήτηρ ἐν ἀδοξίᾳ, e Pr. 17,6 στέφανος γερόντων τέκνα τέκνων, καύχημα δὲ τέκνων πατέρες αὐτῶν; ma emerge ampiamente anche dalla tradizione classica nelle parole, per esempio, del personaggio tragico, Iolao: οὐκ ἔστι τοῦδε παισὶ κάλλιον γέρας / ἢ πατρὸς ἐσθλοῦ κἀγαθοῦ πεφυκέναι (Eur. Her. 296-297). È per questo che l'io loquens, in tono fortemente ironico, si meraviglia di recare onore al padre, pur essendo stato da lui disprezzato, Μέγα θαῦμα, πατρὸς γέρας υἷες ἄτιμοι (v. 153). Diversamente, nel delineare i rapporti tra Padre e Figlio, il Teologo afferma: πατρὸς γὰρ κλέος ἐστὶ πάϊς μέγας… (carm. I,1,2 v. 9). McLynn, Olympias, p. 236 e nota 35 sostiene che coloro che offrono sostentamento ai due giovani sono i 188 nemici di Vitaliano (richiamati anche al v. 331 con l'espressione ἀνδράσι δυσμενέεσσι), personaggi dai contorni poco chiari che vengono definiti χερείους (mentre i giovani sono gli ἀρειοτέροις), e sono in grado di offrire solo un piccolo ristoro, κοτύλη βαιή ai ragazzi. Ed effettivamente, un simile concetto è espresso anche in Lib. decl. 48,73, dove un figlio che chiede di essere ἀποκηρυττόμενος afferma: Πάντα ἐπαινῶ τῆς ἀποκηρύξεως πλὴν ἑνός· ἡδίους ποιήσει τοὺς πολεμίους. — Sulla circolazione della fama, positiva e negativa, esemplare appare il ritratto delineato in Verg. Aen. 4,174ss. …Fama, malum quo non aliut velocius ullum: / mobilitate viget virisque adquirit eundo; / parva metu primo, mox sese attollit in auras / ingrediturque solo caput inter nubila condit. / … / … / Nocte volat caeli medio terraeque per umbram / stridens nec dulci declinat lumina somno; / luce sedet custos aut summi culmine tecti, / turribus aut altis et magnas territat urbes, / tam ficti pravique tenax quam nuntia veri. Si vedano, infine, anche le battute finali del carme in cui l'io loquens, con tono fortemente ironico, afferma che la fama positiva del genitore si trasformerà in infamia se egli lascerà morire i figli nell'abbandono, non cedendo alla loro richiesta di riconciliazione: σὸν κλέος, εἴτε λιποίμεθ᾽ ἀκηδέες, εἴτε θάνοιμεν (v. 351). 152-153 Πολλοὶ μὲν στυγέουσι… οὐκ ὀλίγοι δὲ / τίουσιν Gregorio si esprime similmente in carm. II,1,1 v. 186 per polemizzare contro quanti si contendevano le ricchezze del fratello Cesario: πρίν τι λαβεῖν τίουσιν, ἀτὰρ στυγέουσι λαβόντες: cfr. Bénin, p. 629. Per lo schema πολλοὶ μὲν… οὐκ ὀλίγοι δὲ si veda supra, nota al v. 70. 153 τίουσιν … ἄτιμοι Ιl tema dell'onore, ma soprattutto del disonore svolge ruolo cardine nella vicenda, sia nella prospettiva dei figli che in quella, nelle battute finali del carme, del genitore Vitaliano: l'ἀτιμία sembra, infatti, contraddistinguere colui che è caduto in disgrazia in quanto vittima dell'ἀποκήρυξις (cfr. Wurm, p. 41, e Lib. decl. 48,28. 62. 63. 70 e 73, Luc. Abdic. 1); cfr. anche supra, v. 68 e nota ad loc., e infra, v. 206 dove l'io loquens si lamenta di non aver avuto l'onore di intonare il canto nuziale in occasione delle nozze della sorella e si definisce, pertanto, ἀγέραστος e ἄναυδος, e nota ad loc. — Si noti, nel verso in oggetto, l'impiego di due termini appartenenti alla stessa famiglia semantica (cfr. Chantraine, Dictionnaire, s.vv. τιμή e τίω) posti in 189 rilievo per la posizione che occupano nel verso, cioè incipitaria e clausolare. Per simili espressioni, in Gregorio, soprattutto con l'applicazione della figura etimologica, cfr. carm. I,2,10 v. 847 σεμνῶς ἀτίμων συμβόλοις τιμώμεναι; I,2,29 v. 193 κῦδος ἀτιμοτάτοισιν, ἀτιμίη δέ τ’ ἀρίστοις (cfr. Knecht, p. 102); or. 2,72 …ὡς καὶ ὀλίγη μερὶς τιμία πολλῆς κτήσεως ἀτίμου καὶ σφαλερᾶς; 7,13 πειδὴ καὶ ἡμᾶς ἠξίωσε τιμῆσαι τῇ κοινωνίᾳ τῆς ἀτιμίας; 11,6 μηδ᾽ἀτίμως τὰ τίμια; 15,6 Οὐ γὰρ τιμησόμεθα τοῖς ἀτίμοις; 22,13 …ἀλλ’ ἐνταῦθα μόνον τιμώμενος, οὗ τὸ τῆς τιμῆς ἀτιμία…; 23,7 Οὐδὲ γὰρ ἐπαινοῦμέν τι τῶν μετὰ τὸν λαιμὸν ὁμοτίμων, μᾶλλον δὲ, ἀτίμων ὁμοίως καὶ ἀποβλήτων; 36,8 οὐχ ὅτι ἀτιμαζόμεθα μᾶλλον, ἢ ὅτι ἐσμὲν ἀτιμίας ἄξιοι; 39,13 καὶ ἀτιμίᾳ τῷ καὶ τιμῆς ἁπάσης ὑψηλοτέρῳ; 40,18 Οὐ γὰρ, ἐπεὶ ἡ παρθενία τιμιωτέρα, ἐν τοῖς ἀτίμοις ὁ γάμος; epist. theol. 101,26: …ἵνα τιμηθῇ διὰ τῆς ἀτιμίας. Il disonore è, inoltre, una delle condizioni proprie di Lucifero, dopo la caduta, cfr. I,1,7 v. 59: καὶ πέσεν ἐνθάδ’ ἄτιμος, ὅλον σκότος ἀντὶ Θεοῖο (scil. Ἑωσφόρος). Cfr. McLynn, Olympias, p. 234; Joh. Schneider, τιμή, in GLNT XIII, coll. 1269-1300. μέγα θαῦμα Come ha già notato Piottante, p. 134, la iunctura è molto ricorrente nei carmi di Gregorio, e trova la sua fonte nel corpus omerico. Ai passi segnalati dalla studiosa si possono aggiungere numerosi altri: carm. I,1,4 v. 30; I,1,20 v. 31; I,1,36 v. 6; I,2,1 vv. 68. 103. 314; vv. 185. 191; I,2,9a vv. 23. 55; I,2,10 v. 828; I,2,14 v. 62; I,2,29 v. 161; II,1,12 v. 196; II,1,13 v. 99; II,1,19 v. 88; II,2,7 v. 280; Anth. Pal. 8,52,3; etc. Cfr. supra, v. 46; Domiter, p. 145; Meier, p. 96; Zehles-Zamora, p. 110; Simelidis, p. 213. πατρὸς γέρας υἷες ἄτιμοι Concetto simile in Lib. decl. 48,63: …ἀλλ’ ἀξιώσας εἰς τὸ γέρας υἱεῖς πατέρα συναλλάξαι αἰσχρῶς καὶ ἀτίμως… . ― La iunctura πατρὸς γέρας troverebbe la sua fonte in Soph. Phil. 1365. — In diverso contesto, il Cappadoce elogia l'onore che la ἀρητὴ dei figli conferisce ai genitori, τέκνων γὰρ ἀρετὴ δόξα πατέρων (epist. 3,1). 154 οὓς κοτύλη βαιή τις ἀναψύξει γοάοντας Simile è in Greg. Naz. or. 15,11 οὓς ἄγγελλος ἀνέψυχεν ἐν πυρί. ― L’immagine della tazza, in questo contesto, è reale e concreta, come similmente in carm. II,1,88 vv. 127-128 Ὕδωρ, κρατὴρ ἀείρρους, / ποτὸν μέθης ἄποιον, / ἀκλήματον γάνυσμα; ma essa è usata anche in senso metaforico, come è quella nella quale trovare ristoro di 190 or. 4,84, τῇ ψυχροφόρῳ κύλικι, all'interno del racconto delle macchinazioni dell'imperatore Giuliano contro i cristiani. L'immagine della piccola tazza si legge anche in Bas. hom. in Ps. 115 ὅτι ῥᾷόν ἐστι κοτύλῃ μικρᾷ τὴν πᾶσαν θάλασσαν ἐκμετρῆσαι (PG 30,105). ― Parallelamente, numerose sono, inoltre, le forme della simbologia della coppa/calice, soprattutto in ambito biblico, come nota Moroni, p. 270, a comm. di II,2,5 vv. 240-241, dove si parla di "coppa dell'eloquenza", κρητὴρ δὲ λόγων; cfr. C. Ising, Glas in RLAC XI, coll. 45-48; Lurker, pp. 32-33. ― I gemiti emessi dai due figli di Vitaliano, conseguenza dell'attuale situazione, potrebbero connettersi a quelli che dovrebbe intonare l'ἀοιδός di v. 50, per cui si rimanda a supra, nota ad loc. 155 Affermazione di carattere gnomico. È dolore per i migliori (l’io loquens e il fratello) che i peggiori li aiutino (presunti nemici di Vitaliano). Ricevere forme di aiuto e sostentamento da parte di persone connotate, probabilmente in senso etico e sociale, quali χερείους costituisce un’altra fonte di dolore, ἄλγος, così come supra, ai vv. 145 e 148, Gregorio aveva parlato di δύη e di πόνος. ― Come ha notato Piottante, p. 77 i comparativi ἀρειοτέροις e χερείους sono poetici e derivanti dalla stessa radice degli aggettivi ἀρείων e χείρων. Termini simili, ma in una costruzione diversa e di altro senso, ricorrono in carm. II,2,7 v. 109 nella polemica contro gli dèi pagani e i loro fedeli definiti difensori della loro malvagità: Ὡς κεῖνοι σφετέροισιν ἀρηγόνες εἰσὶ κακοῖσιν. 156-157 …Aἰδέομαι γὰρ / φράζειν καὶ γενετῆρα… Nel loro vagabondare i due giovani giungono anche in zone lontane e sconosciute dove la fama, positiva e negativa, del genitore non è giunta, pertanto essi mostrano delle reticenze a svelare la loro origine per timore di ricevere spiacevoli trattamenti. Una simile affermazione, riferita, però, alla madre, si rileva in Eur. Or. 557 …μητέρ’ αἰδοῦμαι λέγειν. Per simili costruzioni, ma con altri significati e accezioni, si veda Luc. dial. deorum 3,2 e 9,2 …ᾐδούμην λέγειν…; Plut. de fortuna Roman. 319B ᾐδέσθην ἄν εἰπεῖν; ma anche Or. comm. in Mt 16,8 …ὃς οὐκ ᾐδέσθη τῷ σωτῆρι εἰπεῖν…; Clem. Alex. protr. 2,20 αἰδοῦμαι καὶ λέγειν; nonché Greg. Naz. or. 4,72 …αἰδοῦμαι καὶ εἰπεῖν πεδεραστίας. 157-160 191 Questa breve sezione si conclude con delle affermazioni di carattere gnomico sull'indole umana e sulle leggi che regolamentano i rapporti tra gli uomini: la benevolenza, εὐμένεια, dell'essere umano è, per il Cappadoce, dettata da un lato, dalla necessità e dalla speranza di sfuggire e allontanare la sventura (in senso apotropaico), φύγωσι δύην; dall’altro, dal bisogno di trovare sostegno nel vicino paragonando le proprie miserie a quelle altrui, ἄλκαρ ἔχωσι πήμασι ἐν σφετέροισιν… /… ἀλλοτρίῃσιν ἐὴν τίοντες ὀϊζύν. Gli stessi termini chiave del passo in oggetto, appaiono in Apoll. Rh. 4,1387-1488 ...δύην γε μὲν ἢ καὶ ὀιζύν / τίς κ’ ἐνέποι, τὴν κεῖνοι ἀνέπλησαν μογέοντες; ma anche in Orph. L. 3: ὅπως ἂν ἔχοιμεν ὀϊζύος ἀτρεκὲς ἄλκαρ. 158 ὄφρα κεν φύγωσι δύην La congiunzione ὄφρα, in incipit, da cui dipendono, in questo caso, due proposizioni si trova in unione con il congiuntivo già in Hom. Il. 10,44; 24,431; Od. 2,204; 4,588; 10,298 etc.; stilema ripreso largamente da Nic. Alex. 196; Opp. Ap. Cyn. 1,103; Arg. orph. 73; nonché Greg. Naz. carm. I,1,3 v. 59; I,1,2 v. 24; I,1,8 v. 98; I,2,2 v. 178; II,2,4 v. 205; Nonn. Dion. 2,594; Par. 4,171; Anth. Pal. 1,24,4; etc. infra, v. 309. La costruzione di ὄφρα con una forma di φεύγω affonda le radici, ancora, in Hom. Od. 3,175 ὄφρα …φύγοιμεν; e poi Athen. Deipn. 8,10 Kaibel ὄφρα φύγοι νιν; Nonn. Dion. 2,677 (= 32,217) ὄφρα φύγῃς; 33,344; etc.; Anth. Pal. 5,247,4 ὄφρα… φύγῃς. ἢ ἄλκαρ ἔχωσι πήμασιν ἐν σφετέροισι Seconda proposizione finale retta da ὄφρα. La costruzione di ἄλκαρ con ἔχω risale a Heliod. Trag. 6 ἄλκαρ ἔχουσιν (= fr. 472,6); si veda poi Greg. Naz. carm. I,2,29 v. 40 …ἄλκαρ ἔχειν (posizione clausolare) e il simile verso in 1,1,27 v. 89 Ὥς κεν χρηΐζων ποτ’ ἐς ὕστερον ἄλκαρ ἔχοιμι. Il bisogno di trovare una difesa dalle sventure si legge, con la stessa terminologia del passo in oggetto, anche in Quint. Smyrn. 5,514 …σὺ γὰρ ἔπλεο πήματος ἄλκαρ e 6,119-120: Τοῖσι δ’ ἐελδομένοισι θεοὶ μέγα πήματος ἄλκαρ / ἤγαγον…; e ancora Greg. Naz. carm. I,2,1 v. 290 ἄλκαρ παθέων (cfr. Sundermann, p. 67). 159-160 ὅτ᾽ ἀντία κυμαίνῃσι / δαίμων La figura del demonio è inserita all'interno della metafora marina e descritta come un'onda che travolge l'uomo gettandolo nella sventura. Simili immagini sono utilizzate anche in carm. II,1,45 vv. 317-324 dove Belial è rappresentato come un 192 uragano che si abbatte sull'esistenza umana, paragonata ad una nera nave, con l'intento di fare schiantare gli uomini contro gli scogli: Μηδ’ ὡς νῆα μέλαιναν, ἐΰπλοον, ὀρθὰ θέουσαν, / ἤδη καὶ λιμένων πλησίον ἱπταμένην, / λαίφεσι πεπταμένοισιν ἐπαΐξασα θύελλα / λευγαλέων ἀνέμων, ἐξαπίνης ὀπίσω / πέμψειεν παλίνορσον ἐπ’ εὐρέα νῶτα βίοιο, / ἔνθα καὶ ἔνθα κακοῖς βρασσόμενον μεγάλοις, / μή που δὲ κρυπτῇσι ποτὶ σπιλάδεσσιν ἐάξῃ. / Τοῖος γὰρ Βελίου τοῦ φθονεροῖο νόος. Il demonio, infatti, «non è mai colui che costruisce, è colui che avversa», per far precipitare l'uomo nel male: cfr. F. Trisoglio, Il demonio in Gregorio di Nazianzo, in AA.VV., L'autunno del Diavolo. "Diabolos, Dialogos, Daimon": convegno di Torino 17/21 ottobre 1988, vol. I a cura di E. Corsini e E. Costa, Milano 1990, pp. 249ss., in part. p. 252 e nota 31. — La costruzione di δαίμων con κυμαίνω è stata ripresa da Nonn. Dion. 8,285 e 48,371. L'accostamento della forma avverbiale ἀντίa con una voce di κυμαίνω è usato da Gregorio in posizione incipitaria anche in carm. II,1,13 v. 251. — Il termine δαίμων è epiteto di Satana anche infra, vv. 190 e 200; cfr. F. Foerster, δαίμων…, in GLNT II, coll. 741-790. 161-162 Formula di raccordo funzionale al passaggio alla sezione successiva. L'io loquens manifesta spesso la necessità di pronunciare il discorso: numerose sono, infatti, le locuzioni che esprimono il disperato bisogno di instaurare un dialogo con il destinatario conferendo al dettato, in un certo senso, un’impressione di spontaneità, cfr. supra, vv. 6-7 Ἀλλ᾽ ἐπάκουσον / μῦθον ἐμὸν...; vv. 85-86 …νῦν δὲ τόδ᾽ οἶον / ῥήξομεν ἡμετέρων στομάτων ἕπος…; infra, vv. 177-178 φθέγξομαι οὐκ ἐθέλων μὲν, ἀτὰρ λόγον ἔκτοθι ῥήξω, / ὄφρα με μὴ ῥήξειεν ἐεργόμενος πραπίδεσσιν. Tale formula è presente, similmente, anche nel discorso che un filius ἀποκηρυττόμενος rivolge al padre: …ἀλλὰ τί φημι; λόγον ἁπλοῦν καὶ δίκαιον. σὺ δὲ πρᾴως ἄκουσον… (Lib. decl. 46,34). 161 Εἴπω μείζονα μῦθον· ἀτὰρ, πάτερ, ἵλαος εἴης Lo stesso primo emistichio in carm. I,2,1 v. 333 (cfr. Sunderman, p. 83); il secondo emistichio, invece, trova una perfetta corrispondenza con quello di v. 164: … πατὴρ καὶ ἤπιος ἐσσί. — La iunctura di πατήρ con ἵλαος si legge anche in Eus. p. e. 7,8,10 ὡς ἵλεω καὶ ἀγαθοῦ πατρός riferita, naturalmente a Dio Padre, come ricorre ancora in altri luoghi delle poesie del Cappadoce, nelle invocazioni rivolte al Creatore, cfr. 193 carm. I,1,29 vv. 36 e 48, Πάτερ, ἵλεως γενοῦ μοι; I,1,34 v. 19 Ἀλλὰ σύ… ἐλέους Πάτερ, ἵλαος ἔσσο; II,1,11 v. 510 ὡς ἵλεώ γε τοῦ μόνου πατρὸς τύχοις; e infra, vv. 338-339 nella εὐχή finale che l'io loquens rivolge a Dio Padre e a Cristo Signore: …Ἄναξ Πάτερ, / Υἱὲ μέγιστε, δός χέρα, καὶ νεύσειας ἐμοὶ πατέρ᾽ ἵλαον εἶναι. Per la medesima clausola si veda, infine, carm. I,2,1 v. 354 e la nota di Sundermann, p. 98 con gli altri loci ivi riportati; nonché F. Büchsel, ἵλεως…, in GLNT IV, coll. 951ss. 162 ἄκος παθέεσσι πόροις Per l'accostamento di ἄκος e πάθος nella poesia del Cappadoce si rimanda ai passi segnalati da Moroni, p. 256; cfr. anche l'espressione φάρμακον ἐν παθέεσσι di carm. I,2,14 v. 3; τοῦ πάθους τὰ φάρμακα di I,2,25 v. 304; φάραμακα τοῖς πάθεσιν di I,2,36 v. 2; Domiter, pp. 58-59. 163-176 Il quadro di carattere sociologico dei versi precedenti lascia il posto all'analisi delle dinamiche della vita familiare che si svolge dentro le mura della casa paterna. La sezione è ancora una volta fondata sullo schema retorico della Priamel (ἄλλοις μὲν, v. 163 … ἡμᾶς δ᾽(ε), v. 171), le cui componenti sono costruite simmetricamente e introdotte dalla coppia correlativa τόσσον … ὅσον (v. 164) / τόσσον … ὁσσάτιον (vv. 175-176). Da questi versi emergono ulteriori informazioni sulla famiglia dei protagonisti della vicenda; in particolare si apprende che Vitaliano ha anche delle figlie femmine, la cui educazione, morta la madre, fu affidata ad una donna indicata tramite il ricorso alla figura retorica della paronomasia, θηλυτέρης Χείρωνος; cfr. Demoen, Exempla, p. 165. 163-164 La prima parte della Priamel riprende motivi già trattati nelle sezioni precedenti concernenti la benevolenza e la pietas paterna nei confronti dei figli (cfr. vv. 75ss.), così come la dottrina della generazione dell'uomo da parte di Dio Padre (vv. 1ss.). Come assunto e γνώμη dell'imparziale e univoco comportamento che un genitore dovrebbe tenere verso i figli, di riferimento appare quanto Gregorio afferma, in un contesto diverso, cioè in contesto nuziale, in epist. 230,5 Εὔνοια γὰρ πατρὸς τέκνοις ὁμότιμον. 163 πατήρ…ἤπιος 194 La iunctura ricalca l'espressione dei vv. 81-82 per cui cfr. supra, comm. ad loc.; si veda anche infra, v. 222 …πατέρ᾽ ἤπιον εἶναι. 164 ἐπέοικε θεοῦ Πατρὸς ἐκγεγαῶτα L'uomo assurge al rango di figlio di Dio se accoglie il Logos: è questa la conclusione del prologo giovanneo che proclama la generazione dell'uomo da parte di Dio (il fondamento resta sempre Gen. 2,7): ὅσοι δὲ ἔλαβον αὐτόν (scil. Λόγον), ἔδωκεν αὐτοῖς ἐξουσίαν τέκνα θεοῦ γενέσθαι, τοῖς πιστεύουσιν εἰς τὸ ὄνομα αὐτοῦ, οἳ οὐκ ἐξ αἱμάτων οὐδὲ ἐκ θελήματος σαρκὸς οὐδὲ ἐκ θελήματος ἀνδρὸς ἀλλ᾽ ἐκ θεοῦ ἐγεννήθησαν (Gv. 1,12-13). Il passo in oggetto ricorre simile nel già citato luogo di carm. II,2,7 v. 51 per cui si rimanda a supra, comm. al v. 2; ma si veda anche l'espressione clausolare di I,2,1 v. 341 …πατέρων γε μὲν ἐξεγένεσθε, che chiude la tesi in favore della vita matrimoniale; II,1,1 v. 460 dove Gregorio indica, così, se stesso: …ὅλον θεοῦ ἐκγεγαῶτα e II,2,7 vv. 59-60 luogo in cui il Cappadoce sostiene la creazione da parte di Dio degli astri (l'affermazione è inserita nella polemica antipagana che considerava gli astri degli dèi): …τὰ μὴ θεοὶ, ἐκ δὲ Θεοῖο / κτίστορος ἐξεγένοντο… (scil. οὐρανίοι); cfr. anche la chiusa di II,2,6 v. 111 τῷπερ δὴ γενόμεσθα… (scil. θεός); cfr. Bénin, pp. 756-757. Per la ripresa, nell'opera di Gregorio, dell'explicit del citato prologo giovanneo cfr. or. 1,2 …τοῖς κατὰ Θεὸν γεννωμένοις; 43,71 τῶν κατὰ θεὸν γεννηθέντων (scil. πρωβάτων); e cfr., infine, sulla generazione del Figlio anche epist. theol. 102,4, …τὸν Υἱὸν τοῦ Θεοῦ, τὸν γεννηθέντα ἐκ τοῦ Πατρὸς…; or. 40,45 …Λόγον, τὸν γεννηθέντα ἐκ τοῦ Πατρὸς… . 165-167 Educazione dei figli. Il processo educativo deve, necessariamente, essere avviato in tenera età allorché le menti dei bambini sono più malleabili e inclini ad essere modellate dai genitori (cfr. Sir. 7,23 τέκνα σοί ἐστιν; παίδευσον αὐτὰ καὶ κάμψον ἐκ νεότητος τὸν τράχηλον αὐτῶν. Sull'educazione si vedano anche le prescrizioni del cap. 30). Di tale concezione tradizionale Gregorio si mostra ben consapevole usando, in senso traslato e in chiave metaforica, l'aggettivo δροσώδης per designare le "fresche" fanciulle. Per gli antecedenti di tale concezione, un riferimento è costituito, tra gli altri, da Ps.-Plut. lib. educ. 3 E-F, ὥσπερ γὰρ τὰ μέλη τοῦ σώματος εὐθὺς ἀπὸ γενέσεως πλάττειν τῶν τέκνων ἀναγκαῖόν ἐστιν, ἵνα ταῦτ’ ὀρθὰ καὶ ἀστραβῆ φύηται, τὸν αὐτὸν τρόπον ἐξ ἀρχῆς τὰ τῶν τέκνων ἤθη ῥυθμίζειν 195 προσήκει. εὔπλαστον γὰρ καὶ ὑγρὸν ἡ νεότης, καὶ ταῖς τούτων ψυχαῖς ἁπαλαῖς ἔτι τὰ μαθήματα ἐντήκεται· πᾶν δὲ τὸ σκληρὸν χαλεπῶς μαλάττεται. καθάπερ γὰρ σφραγῖδες τοῖς ἁπαλοῖς ἐναπομάττονται κηροῖς, οὕτως αἱ μαθήσεις ταῖς τῶν ἔτι παιδίων ψυχαῖς ἐναποτυποῦνται (si noti l'uso del termine ὑγρὸν). L'operetta di Giovanni Crisostomo, de educandis liberis, in cui vengono elargiti consigli sull'educazione dei figli, mostra delle tematiche consonanti al passo in oggetto: si noti, in primo luogo, ancora la concezione della malleabilità del bambino che in tenera età può essere plasmato dal genitore così come la perla di mare viene modellata non appena raccolta: Λέγονται οἱ μαργαρῖται, ὅταν εὐθέως ληφθῶσιν, ὕδωρ εἶναι. Ἄν μὲν οὖν ἔμπειρος ᾖ ὁ δεχόμενος, ἐπὶ τῆς χειρὸς θεὶς τὴν σταγόνα ἐκείνην καὶ τὴν χεῖρα διακινήσας δεχόμενος ὑπτία τῇ χειρὶ ἐπὶ τοῦ θέναρος καὶ περιστρέφων εἰς ἀκρίβειαν ἀποτορνεύνει καὶ ποιεῖ σφόδρα στρογγύλον. Ἐπειδὰν δὲ τύχῃ τυπωθῆναι, οὐκέτι κύριός ἐστι διατυπῶσαι. Τὸ μὲν γὰρ ἁπαλὸν πρὸς πᾶν ἐπιτήδειόν ἐστι τὴν ἕξιν τὴν οἰκείαν οὐδέπω πεπηγυῖαν ἔχον· διόπερ εὐκόλως πρὸς πάντα ἕλκεται· τὸ δὲ σκληρὸν ὥσπερ ἀπολαβόν τινα διάθεσιν τὴν σκληρότητα οὐκ εὐκόλως αὐτῆς ἐξίσταται, οὐδὲ πρὸς ἑτέραν μετοικίζεται διάθεσιν (cap. 21); in secondo luogo, interessante, al fine di una consonanza col nostro testo, appare il precetto di raccontare ai bambini le storie veterotestamentarie di Caino e Abele e di Giacobbe e Esaù, che come è noto costituiscono casi di invidia tra fratelli, sentimento che è fortemente aborrito dal nostro (cfr. infra v. 165, οὐ φθόνος· οὐ γὰρ ἔοικε κασιγνήτῃσι μεγαίρειν), per cui cfr. capp. 39-46 e in part. 40,563 [ὁρᾷς] ὅσον κακόν ἐστι φθονεῖν ἀδελφῷ: cfr. O. Pasquato, La priorità dell'educazione morale in Giovanni Crisostomo, in S. Felici (a cura di), Crescita dell'uomo nella catechesi dei Padri (età postnicena), Roma 1988, pp. 191ss. ― Per le fonti veterotestamentarie sull'invidia tra consanguinei cfr. Gen. 4,1,16 (Caino e Abele); Gen. 25,29-34 e 27,1-45 (Giacobbe ed Esaù); Gen. 37ss. (storia di Giuseppe). La concordia tra fratelli è, inoltre, fortemente sostenuta anche da Plutarco nell'operetta dedicata proprio all'amore fraterno come fondamento, per traslato, della floridezza della casa, cfr. Plut. de fraterno amore 479A cit. supra, nota al v. 64, a cui si aggiungano le considerazioni riportate in 485D-E, sempre a proposito dell'aborrita invidia tra fratelli, …εἴτε δὴ πᾶσι περινοστεῖ (scil. ὀ αδελφός) φθονῶν εἴτε μόνος ἐν τοσούτοις 196 εὐτυχοῦσιν ὁ φίλτατος ἀνιᾷ καὶ συγγενέστατος, ὑπερβολὴν ἑτέρῳ κακοδαιμονίας οὐ λέλοιπεv … καίτοι μάλιστα μὲν ἔδει μηδ᾽ ἄλλῳ φθονεῖν, εἰ δὲ μή, τρέπειν ἔξω… . 165 οὐ φθόνος Per questa locuzione cfr. Aristoph. Lys. 1192; Agathon, fr. 24 οὐκ ἦν ἂν ἀνθρώποισιν ἐν βίῳ φθόνος TGF Snell; Plat. Philebus 50a; Phaedr. 253b; Diot. 7,733; Plot. Enn. 3,2,11; nonché Clem. Alex. protr. 2,13; paed. 3,7; strom. 1,27; Bas. hom. 11 (PG 31,376); Greg. Nyss. v. Macr. 11,21; hom. XV in Cant. (GNO 6,440); Eus. p. e. 2,3,9; etc.; Greg. Naz. carm. I,2,2 v. 246 (posizione incipitaria come nel passo in oggetto, cfr. ZehlesΖamora, p. 125); I,2,9a v. 30 Τίς ὀ φθόνος (cfr. Palla-Kertsch, p. 142); I,2,37 v. 43 (posizione clausolare); or. 34,4; Nonn. Dion. 25,353; Anth. Pal. 5,123,4; 7,733,6. κασιγνήτῃσι μεγαίρειν Il verbo μεγαίρω occupa, nella poesia epica, quasi sempre la posizione clausolare a partire da Hom. Il. 13,563; 15,473; Od. 2,235; 3,55; 8,206; Apoll. Rh. 3,485; 4,419; Theocr. 7,101; Callim. hymn. in Del. 163; e poi Greg. Naz. carm. I,2,2 v. 480 (cfr. Zehles-Ζamora, p. 210); II,1,1 v. 134; II,1,13 v. 43; II,1,54 v. 5; ad eccezione di Hom. Il. 23,865; Apoll. Rh. 1,289; 4,167; Callim. hymn. in Jov. 59. Nel significato di “to envy” è costruito, come nel passo in oggetto, sempre col dativo: cfr. LSJ s.v. ― Anche il sostantivo κασίγνητη occupa, spesso, nella poesia epica la stessa posizione del passo in oggetto, per cui cfr. Hom. Il. 16,432; 18,138; Apoll. Rh. 3,46; 2,824 etc.; hymn. hom. in Ven. 40; Nonn. Dion. 8,151; 42,395; infra, v. 191. Per un'analisi della terminologia della parentela nel mondo antico si vedano i contributi raccolti in E. Avezzù - O. Longo (a cura di), KOINON AIMA, cit. supra, ai quali si può aggiungere S. Grimaudo, Κασίγνητος καὶ ὄπατρος. Su alcuni aspetti della consanguineità in Omero, Orpheus 17, 1996, pp. 348ss. ― Per la condanna dell'invidia da parte del Nostro si rimanda a supra, comm. al v. 46; e si veda anche or. 44,7 Μὴ φθονήσῃς τῷ κατορθοῦντι, ὁ φθονηθεὶς, καὶ φθονεῖσθαι πεισθεὶς, καὶ διὰ τοῦτο κατενεχθείς. Relativamente all'invidia tra fratelli in ispirito, precisamente monaci, si veda il passo delle regulae basiliane in cui il vescovo afferma: Τάχα ὅπου καὶ οἱ ἐξ ἀριστερῶν σταθέντες ἀπελθεῖν προσετάχθησαν, οἵτινες ἐπὶ ἀργίᾳ τῶν καλῶν ἐνεκλήθησαν. Πᾶς δὲ ὁ φθονῶν τῷ ἀδελφῷ χείρων ἐστὶ τοῦ ἀργοῦ, τῆς Γραφῆς ἔθος ἐχούσης πολλαχοῦ μετὰ τοῦ φόνου τάσσειν τὸν φθόνον (Bas. reg. br. 255); e connesso alla vicenda veterotestamentaria di Giuseppe: Τί τὸν γενναῖον Ἰωσὴφ 197 δοῦλον ἐποίησεν; Οὐχ ὁ φθόνος τῶν ἀδελφῶν (Bas. hom. 11,4, PG 31,377): sul tema dell'invidia in questa omelia basiliana si legga V. Limberis, The eyes infected by evil: Basil of Cesareas's homily on envy, Harvard Theological Review 84, 1991, pp. 163-184. Cfr., ancora, Ioh. Chrys. hom. 10 in Gen., μὴ φθονήσητε τοῖς ἀδελφοῖς τοῖς ὑμετέροις (PG 53,90). Che l'invidia abbia per oggetto, spesso e volentieri, parenti e consanguinei è affermato da Plutarco, de invidia et odio 538E: πολλοὺς γὰρ οἱ φθονοῦντες τῶν συνήθων καὶ οἰκείων ἀπολέσθαι μὲν οὐκ ἄν ἐθέλοιεν οὐδὲ δυστυχῆσαι, βαρύνονται δ᾽ εὐτυχοῦντας· καὶ κολούουσι μέν, εἰ δύνανται, τὴν δόξαν αὐτῶν καὶ λαμπρότητα…, Plutarco, L'invidia e l'odio. Introduzione, testo critico, traduzione e commento a cura di S. Lanzi, Napoli 2004, pp. 90 e 120 nota 60. 166-170 In questi versi l'io loquens descrive il comportamento del padre Vitaliano nei confronti delle figlie femmine. L'istruzione delle fanciulle è stata affidata, morta la madre (cfr. infra, vv. 171-173) a un'istitutrice che ne ha plasmato il comportamento all'insegna della virtù …ἔργ᾽ ἐδίδαξας / εὐγενέος παλάμῃσι, διέπλασας ἤθεα κεδνὰ, / θηλυτέρης Χείρωνος… (vv. 166-168). All'avvicinarsi delle nozze il padre ha concesso le figlie a uomini valenti, ὑπὸ προπόδεσσι γάμοιο / ἐσθλοὺς ἄνδρας ὄπασσας (vv. 168-169), onorando i giovani sposi nella città, ἐνὶ πτολίεσσι γερήρας (v. 169); infine il genitore ha donato alle fanciulle, con mano ricca, parte dei suoi beni, μοῖραν ἑῶν κτεάνων ἀπεδάσσαο χειρὶ παχείῃ (v. 170). 166-168 Il passo presenta significativi punti in comune con carm. II,2,6 vv. 97ss., messi in luce da Bacci, pp. 125ss., comm. ad loc. In particolare, al v. 99 ricorre l'espressione θηλυτέρη Χειρωνίς che indica Teodosia, sorella di Anfilochio di Iconio e cugina, dunque, del Nazianzeno che sarebbe stata la precettrice di Olimpiade: Ἔστι τοι, ὦ χαρίεσσα, Θεοῦ δόσις. Ἥδε προκείσθω / παντός σοι μύθοιο καὶ ἔργματος ἔμπνοος εἰκών, / θηλυτέρη Χειρωνίς, ὑπὸ προπόδεσσι γάμοιο, / ἥ σ᾽ ἐκ πατρὸς ἔδεκτο καὶ ἔπλασεν ἤθεσι κεδνοῖς, αὐτοκασιγνήτη μέγ᾽ ἀμύμονος ἀρχιερῆος / Ἀμφιλόχου… (II,2,6 vv. 97-101), quasi identica a quella che troviamo al v. 168 del nostro carme che indica l'educatrice delle figlie di Vitaliano (θηλυτέρης Χείρωνος). A questo proposito, McLynn, Olympias pp. 229ss., ha distinto due donne col nome di Olimpiade: la prima, la diaconessa amica del Crisostomo che con i due carmi del 198 Nazianzeno qui citati non avrebbe nulla a che fare, e l'altra, la figlia di Vitaliano, destinataria di II,2,6 e delle cui nozze si parla nell'epist. 193. Tale distinzione, secondo lo studioso, presuppone in primo luogo un diverso inquadramento spaziale dei personaggi protagonisti dei carmi (II,2,6 e II,2,3) e delle lettere ad essi connesse (epist. 193-194), che li riconduce alla cittadina di Nazianzo e ai suoi territori limitrofi; spostamento che interessa, conseguentemente, anche la figura di Teodosia, contro la tesi di Bernardi, Perspectives, p. 355 e nota 4, che la vuole operante a Constantinopoli. L'uso dello stesso epiteto, tuttavia, potrebbe non indicare necessariamente una coincidenza di identità tra la precettrice di Olimpiade di II,2,6 (sulla cui identità non ci sono dubbi) e l'istitutrice delle figlie di Vitaliano di II,2,3: tale espressione, cioè, potrebbe avere una valenza generica che si fonda sulla paradigmatica e universale figura tutelare svolta dal centauro Chirone. — Demoen, Exempla, p. 165 e nota 326 ammette, per l'espressione in oggetto, un caso di antonomasia Vossiana che riguarda la menzione di Chirone, sottolineando il problema di identificazione che tale espressione crea e la «prosopographical aporia» che la menzione del nome della donna determina. ― Si noti, inoltre, la costruzione chiastica delle espressioni clausolari dei vv. 166, ἔργ᾽ ἐδίδαξας e 167 διέπλασας ἤθεα κεδνὰ. ― Sul tema dell'educazione, di riferimento rimane il saggio di Marrou, pp. 411ss., in part. 411-429. Sull'educazione femminile votata, naturalmente nel mondo cristiano, al conseguimento della virtù, e nella quale giocano un ruolo fondamentale le madri quali garanti della fede cristiana (si pensi al ruolo svolto da Macrina senior nella famiglia di Gregorio Nisseno, o a alla figura di Nonna nell'esperienza religiosa della famiglia del Nazianzeno), si veda anche il contributo di V. Novembri, L'educazione delle donne nel cristianesimo antico: fra modelli tradizionali e nuovi paradigmi, in Storia delle donne 1 (2005), pp. 187ss., in part. 191ss. e la bibliografia ivi riportata, consultato all'indirizzo http: // www.fupress.net/index.php/sdd/article/viewFile/2018/1940, in data 14/01/2011; Teja, p. 101. 166 δροσώδεας Il termine è usato in senso traslato e metaforico per apostrofare le sorelle dell'io loquens colte nella loro infanzia, accezione che l’aggettivo δροσώδης porta in sé a partire dall’uso che ne fa Aesch. Ag. 141 δρόσοις ἀέπτοις μαλερῶν λεόντων, 199 "cuccioli di leone". Sembra, inoltre, che esso sia un hapax nell'intero corpus del Cappadoce. In senso proprio, tra gli autori cristiani si riscontra in Greg. Nyss. hom. 11 in Cant. per qualificare la pioggia, …δροσώδεις εἰσὶ ψεκάδες…, ma anche poco oltre, …ὅτι ψεκάς τίς ἐστι δροσώδης ὁ λόγος οὗτος… (GNO 6,326); ma si veda anche hom. 2 in Cant. σκιερὸς δὲ γίνεται ἡμῖν καὶ δροσώδης ὁ βίος (GNO 6,53); or. dom. 5 εἰς πνεῦμα δροσῶδες; Chantraine, Dictionnaire, s.v. δρόσος; LSJ s.v. ἔργ᾽ ἐδίδαξας Gli ἔργα a cui allude Gregorio non sembrano gli ἔργα γάμοιο dei quali è patrona e ispiratrice la dea Afrodite, come afferma Zeus: οὔ τοι τέκνον ἐμόν, δέδοται, πολεμήϊα ἔργα, / ἀλλὰ σύ γ᾽ ἱμερόεντα μετέρχεο ἔργα γάμοιο (Hom. Il. 5,428-429), espressione ripresa da Gregorio in carm. I,2,2 v. 327, con una tenue accezione spregiativa che si giustifica, se si presuppone quale fonte il passo omerico, e che designa, così, quelle "pratiche del matrimonio" dalle quali la donna vergine deve tenersi lontana (cfr. Zehles-Zamora, pp. 149-150); bensì, probabilmente, l'ispirazione del passo in oggetto sarebbe da rintracciare in Hom. Od. 22,421-423 dove per ἔργα si intendono i lavori di casa: πεντήκοντά τοί εἰσιν ἐνὶ μεγάροισι γυναῖκες / δμῳαί, τὰς μέν τ’ ἔργα διδάξαμεν ἐργάζεσθαι, / εἴριά τε ξαίνειν καὶ δουλοσύνην ἀνέχεσθαι (si noti la costruzione simile). Per gli ἔργα cui deve assolvere la donna che si occupa della gestione della casa (si tratta di ἔργα ἔνδον), si veda il quadro tracciato da Xen. Oec. 7,22-23 e 32ss. — Si vedano, nelle diverse accezioni di ἔργον, le simili costruzioni di διδάσκω con ἔργον in Hes. Op. 64 ἔργα διδασκῆσαι, πολυδαίδαλον ἱστὸν ὑφαίνειν; fr. 43a West & Merkelbach ἣ]ν ἔργα διδάξατο Παλλὰς Ἀθήνη; hymn. hom. in Ven. 15 ἀγλαὰ ἔργ’ ἐδίδαξεν ἐπὶ φρεσὶ θεῖσα ἑκάστῃ; Tyrt. fr. 11 West ἔρδων δ’ ὄβριμα ἔργα διδασκέσθω πολεμίζειν; Phoc. sent. fr. 15: χρὴ παῖδ’ ἔτ’ ἐόντα καλὰ διδάσκειν ἔργα (citata anche da Ps.-Plut. lib. educ. 3F); Aristoph. Eccles. 514 …σὸν δ’ ἔργον τἄλλα διδάσκειν; Xen. Oec. 15,9 …δίδασκέ με αὐτὰ τὰ ἔργα τῆς γεωργίας; Jos. Fl. Ant. Jud. 8,162: ὥστε διδάσκειν αὐτοὺς τὰ ἔργα καὶ τὰς πραγματείας; in poesia, la stessa posizione clausolare del passo in oggetto ricorre in Callim. Aet. fr. 115 Pfeiffer …ἔργα διδασκόμενοι; e Arg. Orph. 162. Simili costruzioni si riscontrano, ancora, nei diversi contesti, in Anth. Pal. 9,418,8 …ἔργα διδασκόμεθα (posizione clausolare); 9,95,6; 12,192,2; Nonn. Dion. 20,372; Par. 10,113; etc. Sull'educazione dei figli da parte dei genitori si esprime, nel dialogo socratico 200 Protagora, anche Platone utilizzando la medesima espressione del passo in oggetto: … καὶ μήτηρ … καὶ αὐτὸς ὁ πατὴρ περὶ τούτου διαμάχονται, ὅπως ὡς βέλτιστος ἔσται ὁ παῖς, παρ’ ἕκαστον καὶ ἔργον καὶ λόγον διδάσκοντες καὶ ἐνδεικνύμενοι ὅτι τὸ μὲν δίκαιον, τὸ δὲ ἄδικον, καὶ τόδε μὲν καλόν, τόδε δὲ αἰσχρόν, καὶ τόδε μὲν ὅσιον, τόδε δὲ ἀνόσιον, καὶ τὰ μὲν ποίει, τὰ δὲ μὴ ποίει. καὶ ἐὰν μὲν ἑκὼν πείθηται (Plat. Protag. 325d). 167 εὐγενέος L'aggettivo anticipa proletticamente il sostantivo a cui si riferisce, θηλυτέρης Χείρωνος, spezzando fortemente il ritmo della sezione. Sul concetto di nobiltà nell'opera del Cappadoce si rimanda a supra, nota al v. 14. παλάμῃσι Gli ἔργα sono strettamente legati alle mani. Il lavoro delle mani è tratto essenziale nell’elogio della perfetta padrona di casa di Prov. 31,10ss., della quale vengono minuziosamente descritti i compiti e i benefici del suo operato: ...μηρυομένη ἔρια καὶ λίνον ἐποίησεν εὔχρηστον ταῖς χερσὶν αὐτῆς … θεωρήσασα γεώργιον ἐπρίατο, ἀπὸ δὲ καρπῶν χειρῶν αὐτῆς κατεφύτευσεν κτῆμα … χεῖρας δὲ αὐτῆς διήνοιξεν πένητι, καρπὸν δὲ ἐξέτεινεν πτωχῷ … δότε αὐτῇ ἀπὸ καρπῶν χειρῶν αὐτῆς, καὶ αἰνείσθω ἐν πύλαις ὁ ἀνὴρ αὐτῆς. In carm. II,1,16 vv. 4-5 Gregorio definisce la piccola chiesetta dell'Anastasia "οpera delle sue mani": Τοὔνεκ’ Ἀναστασίαν μιν ἐπίκλησιν καλέουσι / νηὸν, ἐμῆς παλάμης ἔργον ἀριστοπόνου; cfr. anche Anth. Pal. 16,8,3: οὐδ’ ἔτι σαῖς παλάμαις Τριτωνίδος ἔργον Ἀθάνας. διέπλασας ἤθεα κεδνὰ Educazione votata alla virtù e all'integrità morale. L'emistichio è riscontrabile in altri luoghi dell'opera del Cappadoce, come ha già segnalato Bacci, p. 128, comm. a II,2,6 v. 100. ― Per l'espressione clausolare ἤθεα κεδνὰ, di cui Bacci ha esplicitato la fonte in Hes. op. 699, ai passi riportati dalla studiosa si aggiunga Anth. Pal. 9,504,10. 168 θηλυτέρης Χείρωνος Per l'utilizzo della figura del centauro Chirone, precettore di Achille, nell'opera del Cappadoce si rimanda a Bacci, pp. 125-126. ὑπὸ προπόδεσσι γάμοιο Per questa locuzione, che ricorre anche in carm. II,2,6 v. 99, si rimanda alla nota di Bacci, p. 128. 201 169 ἐσθλοὺς ἄνδρας ὄπασσας Il padre Vitaliano ha concesso in spose le figlie a uomini bennati, di adeguata condizione sociale. La precisazione potrebbe risentire della prescrizione di Sir. 7,25 in cui si dice che è opportuno far sposare le figlie a uomini assennati, ἔκδου θυγατέρα, καὶ ἔσῃ τετελεκὼς ἔργον μέγα, καὶ ἀνδρὶ συνετῷ δώρησαι αὐτήν. Da notare, la simile espressione nel discorso encomiastico che Odisseo rivolge a Nausicaa, in cui l'eroe si augura che gli dèi esaudiscano i desideri della giovane principessa tra cui quello di prendere marito: σοὶ δὲ θεοὶ τόσα δοῖεν ὅσα φρεσὶ σῇσι μενοινᾷς, / ἄνδρα τε καὶ οἶκον καὶ ὁμοφροσύνην ὀπάσειαν / ἐσθλήν… (Hom. Od. 6,180-182). Cfr. anche Nonn. Dion. 8,184 …ὤπασεν ἀνδρὶ γυναῖκα / οἷα πατήρ…; Man. Apot. 77-78 …τοῖς δ’ αὖτ’ ἀλόχων γάμον ἐσθλῶν / ὤπασεν… ἐνὶ πτολίεσσι γερήρας Festeggiamenti in onore dei giovani sposi. Si noti l'opposizione concettuale tra le figlie femmine che vengono onorate dal genitore, e i figli maschio che sono invece ἄτιμοι. In carm. II,1,11 è Gregorio stesso a definirsi un γέρας da concedere alla città di Costantinopoli, quale vescovo consacrato e riconosciuto dall'imperatore Teodosio: τοῦτ’ ἂν γενέσθαι πρὸ θρόνων πόλει γέρας / ἡμᾶς δοθῆναι τῷ θρόνῳ τοῦ ἄστεος (vv. 1375-1376). 170 μοῖραν ἑῶν κτεάνων ἀπεδάσσαο L'amore paterno trova la sua esplicazione anche nelle generose donazioni in favore delle fanciulle. Come ha già segnalato Moroni, p. 205 a comm. di II,2,5 v. 35 dove si riscontra una simile espressione (Tίς μοῖραν κτεάνων ἀποδάσσεται…), la fonte della iunctura di μοῖρα con κτέανον è da rintracciare in Hes. fr. 257,5. Non mi sento di concordare, però, con l'interpretazione del passo in oggetto avanzata dalla studiosa, che ne vede un exemplum di generosità di Vitaliano verso i suoi concittadini. Mi sembra, invece, che esso, inserito a conclusione della descrizione del comportamento del padre verso le figlie femmine (al quale si opporrà nei versi successivi quello contrastivo nei confronti dei figli maschi) indichi proprio le elargizioni dotali del genitore a favore delle fanciulle. Per alcune consonanze terminologiche si veda Hom. Od. 16,384-385 (parole dei Proci che insidiano la casa di Odisseo): …βίοτον δ’ αὐτοὶ καὶ κτήματ’ ἔχωμεν, / δασσάμενοι κατὰ μοῖραν ἐφ’ 202 ἡμέας…; 3,66 μοίρας δασσάμενοι…; 19,423; Anth. Pal. 14,128,2 οὐχ ὁσίῃ μοίρῃ πατρικὰ δασσάμενος. χειρὶ παχείῃ La iunctura, da intendere in senso metaforico per indicare l'autorità del genitore, ricalca, anche nella posizione clausolare in cui è collocata, quella di Hom. Il. 3,376; 5,309; 7,264 etc.; Od. 6,128; 20,299 etc.; Batrach. 299; ripresa da Theocr. 25,145; Opp. An. Hal. 4,367; etc. Si noti, inoltre, come essa si opponga, concettualmente, a quella di v. 125 che indica, metaforicamente, l'attività del pubblicano, ἀμέτρου χερός. 171-176 La seconda parte della Priamel si apre con il ricordo della madre defunta dei due giovani, compianta sentitamente anche dal marito Vitaliano. La menzione della madre, di cui l'io loquens traccia le lodi definendola μητρὸς ἀρίστης, εὐσεβέος, e πάντεσσιν ἐπιχθονίοισιν ἀγητῆς assolverebbe l'intento di addolcire l'atteggiamento fortemente irato del genitore, τόσσον ἀπεχθαίρεις, che ha spinto il padre a cacciare da casa i figli maschi, καὶ δώματος ἐκτὸς ἐλαύνεις, opposto a quello benevolo mostrato verso le figlie femmine, ὀσσάτιον κείνῃσιν ἐνηέα θυμὸν ἔδειξας (v. 176). Così, nei versi conclusivi del carme (344-347) il figlio chiederà l'intercessione della defunta madre, affinché con le sue preghiere addolcisca l'animo del marito e lo persuada a mostrarsi pio nei confronti dei figli. 173 εὐσεβέος L'aggettivo riferito alla madre dell'io loquens si pone in connessione, anche per la posizione incipitaria in cui è collocato, con quello di v. 167 εὐγενέος attribuito alla "Chirone in vesti femminili" che, sostituendo la madre, si è occupata dell'educazione delle figlie di Vitaliano. E εὐγενής è attributo anche della madre dei martiri Maccabei in Greg. Naz. or. 15,4 μητρὸς εὐγενοῦς. Sul tema dell'εὐσέβεια negli scritti del Cappadoce, cfr. Mossay-Lafontaine, Discours 20-23, p. 229 nota 3. πάντεσσι ἐπιχθονίοισι ἀγητῆς La figura dell'amplificatio contraddistingue questa espressione che ricorre anche in carm. II,1,1 v. 228, in riferimento ai due fratelli defunti di Gregorio, Cesario e Gorgonia, …πάντεσσι ἐπιχθονίοισιν ἀγητούς (cfr. Bénin, p. 649); mentre in II,1,45 v. 211 designa i canuti genitori; ma si veda anche Quint. Smyrn. 12,155 ἐπιχθονίοισι ἀγητόν; 13,338 ἐσσομένοισιν ἀγητόν /ἀνθρώποις. Per la costruzione di ἀγητός (che 203 nella poesia epica occupa sempre la posizione clausolare) con il dativo di un sostantivo, cfr. Apoll. Rh. 1,284 Ἀχαιιάδεσσιν ἀγητή; Theocr. 1,126 μαχάρεσσιν ἀγητόν; Man. Apot. 2,224 ἐν πολίεσσι ἀγητούς etc.; Opp. Ap. Cyn. 1,364 ἐν μαχάρεσσι ἀγητοί; Quint. Smyrn. 1,666 ἐν φθιμένοισι ἀγητήν; 14,453 ἀθανάτοισι ἀγητήν; Bacci, p. 83. 174 πρωτογόνους υἱῆας, ὃ πατράσιν ἐστὶ μέγιστον Di ascendenza biblica la concezione del primato dei figli primogeniti (il termine usato nell' A.T. e nel N. T. è πρωτότοκος) ai quali spetta un onore maggiore allorché essi sono consacrati al Signore, come si legge in Ex. 13,1-2: Εἶπεν δὲ κύριος πρὸς Μωυσῆν λέγων: Ἁγίασόν μοι πᾶν πρωτότοκον πρωτογενὲς διανοῖγον πᾶσαν μήτραν ἐν τοῖς υἱοῖς Ισραηλ ἀπὸ ἀνθρώπου ἕως κτήνους· ἐμοί ἐστιν; 22,28 τὰ πρωτότοκα τῶν υἱῶν σου δώσεις ἐμοί. Si pensi, inoltre, alla 10a piaga che il Signore mandò per liberare il suo popolo dalla schiavitù egiziana realizzatasi nella morte dei primogeniti del paese (Ex. 12,29-34); alle prescrizioni sul diritto di primogenitura stabilite in Dt. 21,15-17; e alla vicenda supra citata dello scontro tra Giacobbe ed Esaù per la benedizione paterna. Soprattutto veterotestamentario l’accostamento di πρωτοτόκος e υἱός, cfr. Gen. 25,25; Ex. 4,22; Nm. 3,41; 1Cr. 9,36 etc.; ma anche Lc. 2,7: W. Michaelis, πρωτότοκος, in GLNT XI, coll. 676-703. — Il verso è, inoltre, da mettere in relazione con Greg. Naz. carm. II,2,4 vv. 191-193 (come ha già evidenziato Moroni, pp. 165-166) per la consonanza tematica del primato della primogenitura: Πολλῶν τοι κτεάνων προφερέστερος εὔχομαι εἶναι, / πρωτότοκος καὶ πρῶτος ἐς οὔνομα πατρὸς ἀείρας, / εἴ τινα καὶ τόδ᾽ ἔχει γενέταις χάριν, ὥσπερ ὀΐω. 175 τόσσον ἀπεχθαίρεις, καὶ δώματος ἐκτὸς ἐλαύνεις In questo particolare passo del carme (siamo a metà del componimento) l'io loquens afferma, esplicitamente e chiaramente, di essere stato cacciato da casa insieme al fratello. Da richiamare, a questo proposito, le parole di Paride che contengono gli stessi elementi del passo in oggetto, cioè l'ira del padre e l'allontanamento da casa: Στρόφιος ἤλασέν μ’ ἀπ’ οἴκων φυγάδα θυμωθεὶς πατήρ (Eur. Or. 765). Che il carme, presenti dei forti punti di contatto con le declamationes connesse all'istituto dell'ἀποκήρυξις è stato già notato da Regali, Declamazioni, pp. 529ss. che ha segnalato le numerose consonanze del nostro testo con l'Ἀποκηρυττόμενος di 204 Luciano e con alcune declamazioni di Libanio, alle quali mi sembra interessante aggiungere l'uso del verbo ἐλαύνω per esprimere la cacciata del figlio da casa da parte del padre, che ricorre in Lib. decl. 27,1 ἐξωλῶ… τῆς οἰκίας; 33,4, …ἐξελῶ τῆς οἰκίας; 34,2,1 ἀπελάσασθαι τοῦτον τῆς οἰκίας ἐθέλων e § 4; 46,3 …ἐμὲ δὲ ἐξελαυνόμενον…; 47,18 …ἔγωγέ φησιν ἐξελῶ καὶ ἀποκηρύξω; 48,3; …εἰ οὓς ὁ πατὴρ ἐλαύνει, τούτους αὐτὸς ἀγάγοι καὶ πάλιν οἴκαδε; 50,23 ἀλλ’ ἀποκηρύττων, ἀλλ’ ἐξελαύνων τῆς οἰκίας; a cui si aggiunga l'ironica esortazione di un padre che ha cacciato il figlio, col quale non ha comunione di vedute: Μὴ γὰρ ἐγώ σε νῦν ἀπελαύνω; σαυτὸν ἐβέβληκας. … φεῦγε τὴν ἐμὴν οἰκίαν, ὡς καὶ τὸν τρόπον (33,4849); in Luc. Abdic. 18 (cfr. Wurm, p. 41); e che ricorre anche in D.H. Anth. Rom. 2,26, a proposito delle leggi emanate da Romolo che regolamentavano i rapporti parentali, prescrivendo il rispetto che i figli dovevano tributare al padre, a cui l'autore connette le disposizioni degli antichi legislatori greci: τιμωρίας τε κατὰ τῶν παίδων ἔταξαν, ἐὰν ἀπειθῶσι τοῖς πατράσιν, οὐ βαρείας ἐξελάσαι τῆς οἰκίας ἐπιτρέψαντες αὐτοὺς καὶ χρήματα μὴ καταλιπεῖν, περαιτέρω δὲ οὐδέν. Lo stesso concetto espresso, con simile terminologia, anche in Aristoph. Nub. 123 ἀλλ’ ἐξελῶ σ’ ἐς κόρακας ἐκ τῆς οἰκίας (imprecazione del padre contro il figlio). Si vedano, infine, anche le simili espressioni di Lib. decl. 47,1: …παρακελεύτεταί γε ὑμῖν τῇ ψήφῳ τῆς οἰκίας ἐκβαλεῖν… e 60 …ἀλλὰ δεῖ με πάντως τῆς οἰκίας ἐκπεσεῖν…; decl. 48,3 ὁ πατὴρ ἔδωκε τὴν χάριν ἐκβαλών με τῆς οἰκίας (richiesta di un figlio che chiede al padre di essere ἀποκηρυττόμενος), 25. 53 τὸ γὰρ ἐκπεσεῖν με τῆς οἰκίας… e 67 …ἐκβάλετέ με τῆς πατρῴας οἰκίας; Luc. Abdic. 1. — Il nesso δώματος ἐκτὸς è uguale a Hom. Il. 15,143; ripreso, anche, da Nonn. Par. 18,182 (incipit); infra, v. 227. — Per la costruzione di δώμα con ἐλάυνω cfr. la chiusa di Greg. Naz. carm. II,2,5 v. 229, con senso opposto a quello del passo in oggetto: πρὸς δώματ᾽ ἐλαύνει, e la simile espressione clausolare ἐκ δόμων ἐλαύνομεν di Aesch. Eum. 210 e 421; Soph. fr. 442,4 Radt ἐξελαύνεις δωμάτων. Per la stessa fine di verso cfr., infine, Greg. Naz. carm. II,1,85 v. 3 ἐκτὸς ἐλαύνεις. 176 ἐνηέα θυμὸν ἔδειξας Gregorio gioca abilmente sulla vox media θυμός che nel nostro carme è quasi sempre usato nell'accezione peggiorativa di ira (del padre nei confronti dei figli maschi), mentre in questo passo, accompagnato dall’aggettivo ενηής indica 205 l'animus benevolo del genitore verso le figlie femmine; cfr. LSJ s.v.; supra, comm. al v. 134. Per la costruzione di δείκνυμι con θυμός (nelle diverse accezioni del termine) cfr. Lib. or. 32,20 …παρ’ ἐμοῦ θυμόν τε ἐδείκνυ…; epist. 1266,2 καὶ φήσας κρείττων ἔσεσθαι τοῦ θυμοῦ νικῶντα τὸν θυμὸν ἔδειξας; Ioh. Chrys. hom. XVI in Ac. Ὁρᾷς, πῶς μετὰ ἐπιεικείας διαλέγεται, καὶ πῶς δείξας τὸν θυμὸν ἐπ’ ἐκείνου… in riferimento all'ira del Signore (PG 60,130). — Sembra, inoltre, che la iunctura di ἐνηής con θυμός sia di creazione gregoriana non essendo stata riscontrata nessuna altra occorrenza precedente al passo in oggetto (essa, a quanto consta, non ricorre, inoltre, in nessun altro luogo dell'opera del Cappadoce). 177-178 Breve sezione funzionale al passaggio ad una successiva sezione del carme. Si è già notato come in transizioni del genere ricorrano spesso espressioni volte ad affermare la necessità di pronunciare il discorso, λόγος, cfr. supra vv. 85-86 e 161. Il v. 177 ricorre identico in Greg. Naz. carm. II,1,13 v. 19. 177 Φθέγξομαι οὐκ ἐθέλων μέν, ἀτὰρ λόγον ἔκτοθι ῥήξω Di maniera appare il ricorso alla figura retorica della praeteritio/παράλειψις (cfr. Ruether, pp. 77-79), usata anche nel discorso di un figlio ἀποκηρυττόμενος: …λέξω καὶ διηγήσομαι ἄκων μέν, ἄκων, νὴ τοὺς θεούς, ἐρῶ δ᾽ οὖν ὡς ἂν οἷός τε ὦ (Lib. decl. 46,6). Per simili espressioni cfr. Theocr. 22,116-117 …ἐγὼ δ’ ἑτέρων ὑποφήτης / φθέγξομαι ὅσσ’ ἐθέλεις σὺ καὶ ὅππως τοι φίλον αὐτῇ; Οr. schol. in Lc. …καὶ πάντων ἐφθέγξαντο ὅσα ἠθέλησαν (PG 17,309); Lib. epist. 909 Εἴ με ἐθέλεις καὶ φθέγγεσθαι καὶ χορὸν ἔχειν καὶ λόγους ποιεῖν…; Ioh. Chrys. exp. in Ps. 44 τὸν μὲν γὰρ λόγον τοῦτον φθεγγόμεθα ὅτε θέλομεν, καὶ λέγομεν, καὶ κατέχομεν (PG 55,183); e si veda anche Eur. IT 1072-1073 τί φάτε; τίς ὑμῶν φησιν ἢ τίς οὐ θέλειν — / φθέγξασθε — ταῦτα; nonché Greg. Naz. carm. II,2,4 v. 197 φθέγξομαι, οὐκ ἐθέλων μέν, ἀτὰρ… . — Ricorrente, inoltre, nel Cappadoce, è la costruzione di ρήγνυμι con λόγος enfatizzata dal poliptoto, ῥήξω… / …ῥήξειεν del verso suvvessivo e dall'avverbio ἔκτοθι; cfr. supra, comm. al v. 86. Diversamente, in carm. II,2,5 vv. 111ss., Nicobulo senior invita il figlio a tenere dentro si sé parole poco opportune, che se pronunciate risuonano molto sgradevoli, giacché la parola trattenuta sulle labbra non è dannosa come la prole di vipera che squarcia il ventre della madre, uccidendola, Οὐδεὶς γὰρ πόνος ἐστὶ μένειν ὑπὸ χείλεσι μῦθον· / οὐ γὰρ ἐχιδναῖός τε 206 γόνος διὰ γαστέρα ῥήξει / μετρὸς ἀναβρώσκων, ποινὴν πατρὸς ὀλλυμένοιο (sul passo si veda il comm. di Moroni, pp. 231-232). — Per la costruzione del verso in due emistichi corrispondenti φθέγξομαι…μὲν, ἀτὰρ… si veda anche carm. I,2,1 v. 475 e Sundermann, p. 144. 178 ἐεργόμενος πραπίδεσσι Il soggetto, che si ricava da verso precedente, è λόγος. Simili costruzioni, indicanti il discorso precluso o trattenuto che prorompe dal cuore, in Eus. ecl. 4…καὶ ἔτι γε εἴργων αὐτοὺς ὁ θεῖος λόγος (PG 22,1192); Greg. Naz. carm. I,2,32 v. 14 Ἀργὸς δὲ παντάπασιν εἰργέσθω λόγος. — Si noti, infine, la caratterizzazione spregiativa dell'animus (la forma plurale deve intendersi poetica, cfr. Moroni, p. 141) usata in carm. I,2,9b v. 66 ….μελαινομέναις πραπίδεσσιν che potrebbe richiamare l'espressione ψυχὴν… μελαινομένην di v. 120 (cfr. supra, comm. ad loc.), a cui contrapporre il cor candidum, λευκότεραι πραπίδες di II,2,1 v. 192; ma si veda anche infra, v. 266. 179-206 Descrizione del banchetto nuziale. L'articolazione della sezione sembra seguire alcune delle norme dettate da Menandro Retore sulla costruzione di un γαμήλιος λόγος, che a partire dal προοίμιον di stampo formale deve elogiare la coppia di sposi se è di ceto elevato (cfr. Men. Rhet. p. 134, Russell-Wilson) ― ai vv. 181-183 del nostro testo vengono presentati i commensali che danno lustro al banchetto nuziale ―, per poi proseguire con l'elogio della bellezza dello sposo e della sposa (cfr. Men. Rhet. p. 142 Russell-Wilson), che trova corrispondenza, nel nostro carme, con i vv. 185-187 per lo sposo, e con i vv. 202-204 per la bellezza della sposa, con la descrizione del suo volto: Menander Rhetor, edited with translation and commentary by D.A. Russel and N.G. Wilson, Oxford, 1981; Cataudella, Derivazioni da Saffo in Gregorio Nazianzeno, pp. 66-69; Regali, Epitalamio, pp. 87ss., in part. pp. 92-96; Demoen, Poet, pp. 434-436. ― Gregorio descrive una cerimonia nuziale anche in carm. I,2,2 vv. 491ss., in cui sono presenti elementi comuni alla sezione in oggetto, quali l'atmosfera festosa, la camera nuziale, le danze corali, il banchetto, anche se lì il Cappadoce ammonisce, visti il contesto e la destinazione di quel componimento, di non abbandonarsi troppo ai divertimenti del matrimonio: Εἰ δέ γε συζυγίῃ μὲν ὅλην φρένα χεῖρα τε δοίης, / καὶ στήσαις θαλάμους τε, χοροιτυπίας τε, πότους τε / 207 καγχαλόων… (cfr. la nota ad loc. di Zehles-Ζamora, p. 210). La sezione in oggetto sembra, invece, assumere la connotazione di una digressione letteraria, nella quale è ben presente anche un’ispirazione saffica (cfr. Wyss, Gregor II, p. 844), dove non mancheranno gli aspri toni di stizza dell'io loquens escluso, forzatamente, dalle nozze della sorella (vv. 190ss.). ― Una parte della sezione, vv. 181-197 è costruita secondo lo schema della Priamel, Πολλοὶ μὲν … Ἡμεῖς δὲ (vv. 181 e 189), all'interno della quale si rileva una sottosezione (vv. 185-188) che si avvale, ancora, della struttura della Priamel, οἰ μὲν … Αἱ δ᾽(ε), una sorta di composizione a "scatole" di grandezza decrescente nelle quali sono racchiusi e articolati i versi in oggetto. Sebbene non sia possibile affermarlo con certezza, il matrimonio descritto in questi versi, sarebbe quello della "seconda figlia" di Vitaliano, al quale il Cappadoce non partecipò, inviando una breve lettera di scuse (epist. 194), cfr. supra, "Introduzione 1"; Demoen, Gift, p. 8 nota 26; McLynn, Olympias, p. 233. 179 Ricercata appare la costruzione del verso composta da tre unità indipendenti, ciascuna formata da due elementi, e dalla corrispondenza chiastica della prima e della terza unità: ἦν θάλαμος … πάντα γεγήθει. — Sembra che la iunctura δεῖπνα γαμήλια non trovi altra attestazione, al di fuori di questo passo e nell'intera letteratura in lingua greca. Ma si vedano le simili espressioni di Pind. P. 3,16 …τράπεζαν νυμφίαν; Ps.-Clem. hom. 6,14 dove l'autore indica, manifestamente, le nozze di Peleo e Teti: τὸ δὲ συμπόσιον τὸ γαμήλιον, ἔνθα τὸ δεῖπνον ἐτέλει Ζεὺς ὑπέρ τε τῆς Νηρηίδος Θέτιδος καὶ τοῦ καλοῦ Πηλέως… ; Plut. mor. (quaest. conv. 666F‑667A) …ἡ δὲ γαμήλιος τράπεζα κατήγορον ἔχει τὸν ὑμέναιον…; nonché Greg. Naz. carm. I,2,2 v. 671 …δαῖτα γαμήλιον… (= II,2,6 v. 63 - per le occorrenze dell'aggettivo γαμήλιος nelle poesie del Cappadoce cfr. Bacci, p. 131 comm. a ΙΙ,2,6 v. 108); si veda ancora infra, v. 183 δαῖτα γάμου che insieme a δεῖπνα γαμήλια potrebbe richiamare i γάμοι… εἰλαπίναι τε di Hom. Il. 18,491. πάντα γεγήθει Atmosfera festosa delle nozze. In carm. II,2,6 il Cappadoce sconsiglia fortemente a Olimpiade e, implicitamente, a tutte le donne la partecipazione ai banchetti nuziali e ai conviti in genere, durante i quali la troppa allegria può condurre alla tentazione anche quelle più oneste: Μηδὲ μὲν ἢ ἐπὶ δαῖτα γαμήλιον ἠὲ γενέθλης / 208 σπεύδειν, ἔνθα πότοι τε χοροιτυπίαι τε γέλως τε / καὶ χάρις οὐ χαρίεσσα·…(vv. 63ss., per il commento al passo e i riferimenti sul giudizio di altri Padri si rimanda a Bacci, p. 108 nota ad. loc. e la bibliografia ivi riportata). La locuzione in oggetto trova un parallelo, in altro contesto, in Quint. Smyrn. 14,67 …πάντες ἐγήθεον…; Greg. Nyss. op. hom., 1: Ἐγεγήθει δὲ πάντα κατὰ τὸ εἰκός (PG 44,132) in riferimento alla creazione. 180 ἕδνα λόγοι θαλάμων Costruzione con asindeto del primo emistichio chiuso B1. L’accostamento di ἕδνον con θάλαμος si registra anche in Nonn. Dyon. 34,186; 39,176; 42,414; cfr. anche la simile espressione di Hom. Od. 1,277-278 che assume la veste di una γνώμη sul dovere dei genitori di dotare, con molta generosità, la propria figlia: οἱ δὲ γάμον τεύξουσι καὶ ἀρτυνέουσιν ἔεδνα / πολλὰ μάλ’, ὅσσα ἔοικε φίλης ἐπὶ παιδὸς ἕπεσθαι (= Od. 2,196-197), discorso che potrebbe connettersi col v. 170 del nostro carme in cui l'io loquens allude proprio alle donazioni del padre in favore delle figlie nubende, cfr. supra comm. ad loc.; e gli ἕδνα sono anche quelli che Ettore offrì quando prese in sposa Andromaca, cfr. Il. 22,471-472 …ἠγάγεσθ᾽ Ἕκτωρ ἐκ δόμου Ἠετίωνος, ἐπεὶ πόρε μυρία ἕδνα (si noti il richiamo a tale episodio nel fr. 44 Voigt di Saffo che presenta delle consonanze con questa sezione del carme, cfr. infra); cfr. ancora Pher. fr. 24; …καὶ λαμβάνει πρὸς γάμον Ἰφιάνασσαν, ἕδνον αὐτὴν τῶν ἰατρειῶν καρπωσάμενος; Theocr. 27,33 ἕδνον… γάμου; Strab. Geogr. 10,2,19; Paus. 10,31,10; Ach. Tat. 5,5,4; Greg. Nyss. virg. 20,4; Nonn. Dyon. 4,39; 5,227; Anth. Pal. 9,451,3; etc; nonché Greg. Naz. carm. I,2,15 (il tono è fortemente polemico contro i piaceri lascivi); II,1,12 v. 703 (riferimento alla fabula esopica della gatta innamorata, cfr. Meier, p. 153). — La iunctura λόγοι θαλάμων introduce, in modo manieristico, la sezione "epitalamica" del carme richiamando, ad arte, l'incipit dei precetti menandrei sulla costruzione di un λόγος γαμήλιος: Ὁ ἐπιθαλάμιος λέγεται ὑπό τινων καὶ γαμήλιος, λόγος δ᾽ ἐστὶν ὑμνῶν θαλάμους… (Men. Rhet. p. 134 RussellWilson); ma potrebbe, secondo Regali, Epitalamio, p. 93 alludere a quei topoi sul matrimonio che Gregorio espone nei carm. I,2,1-2 e che, probabilmente, sarebbero stati elencati dall'io loquens nel canto che avrebbe voluto intonare in onore della sorella. Si veda anche la iunctura di λόγος con γάμος in Eur. fr. Phaet. 59-60, ὅταν δ’ ὕπνον γεραιὸς ἐκλιπὼν πατὴρ / πύλας ἀμείψῃ καὶ λόγους γάμων πέρι λέξῃ πρὸς 209 ἡμᾶς…(= fr. 773 Nauck); Iph. Aul. 842; Plut. fr. 85 Sandbach: Τοῦτο μετὰ τοὺς περὶ γάμου λόγους προοίμιόν ἐστι τῶν ῥηθησομένων παιδευμάτων…; Men. Sam. 64-65; Ael. VH. 10,2; Long. 3,26; Clem. Alex. str. 3,7,58; Greg. Nyss. Macr. 5,6; Ioh. Chrys. virg. 47; etc. ἀθύρματα τερπνὰ γάμοιο Il sostantivo ἄθυρμα compare anche nell'Epitalamio di Ettore e Andromaca (fr. 44 Voigt), come ha notato Cataudella, cit. supra, p. 66, forse in un'accezione diversa da quella da accogliere nel nostro carme, cioè come "doni di nozze o gioielli", mentre qui si dovrebbe, forse, intendere con "divertimenti, piacevolezze" (Bill. 3 traduce con ludicra); LSJ s.v. La iunctura ἀθύρματα τερπνὰ si rileva anche in Anth. Pal. 9,567,4 …τερπνὸν ἄθυρμα… . 181-184 Grande era il numero dei presenti alle nozze della fanciulla, menzionati secondo un ordine ben preciso, di progressiva "distanza affettiva" dai giovani sposi e posti su due livelli, "profano e sacro": parenti, vicini, conoscenti di altro lignaggio partecipano e onorano il banchetto nuziale (livello "profano"), mentre gli illustri sacerdoti sanciscono l'unione religiosa (livello "sacro"). ― Le nozze costituiscono sempre un evento di grande partecipazione, come si evince anche da Sapph. Epitalamio di Ettore e Andromaca: ..παῖς ὄχλος (fr. 44 Voigt). 181 Per il verbo θαλέθω, da intendersi in questo luogo in senso metaforico, cfr. carm. I,2,1 v. 399; I,2,29 v. 85; II,1,1 v. 539; Anth. Pal. 8,133,4; 165,3; Bénin, p. 780. 182 οἵ τε ἄνακτος ἐν ἕρκεσι κῦδος ἔχοντες Se si considera plausibile la tesi di McLynn che colloca la vicenda del nostro carme in Cappadocia, e identificando «the territory of Nazianzus itself as the most likely location for Vitalianus's home» (McLynn, Olympias, pp. 229-230 e 241), non deve affatto stupire che Vitaliano, un personaggio, a quanto pare, influente nell’ambiente locale, godesse, al matrimonio della figlia, della presenza di personaggi di alto rango, probabilmente notabili locali che tenevano legami con il governo centrale. Per un'ampia panoramica sulle dinamiche e le relazioni tra potere centrale e amministrazioni ed élites locali, di riferimento è il saggio di P. Brown, Potere e Cristianesimo nella tarda antichità, trad. it. di M. Maniaci, Roma-Bari 210 1995; Gautier, pp. 250-256. ― La perifrasi in oggetto trova una singolare corrispondenza in carm. II,1,1 v. 85, οὐ μέγα πὰρ βασιλῆος ἔχειν γέρας ἔνδοθεν αὐλῆς, che si caratterizza per un tono fortemente spregiativo e polemico che non può essere, però riconosciuto nel nostro passo (che l'aspirazione di Gregorio non fosse quella di intraprendere una carriera civile nell'amministrazione imperiale è manifesto, cfr. il comm. ad loc. di Bénin, pp. 578-579); così come in II,2,1 vv. 127-129, dove Gregorio gioca sulla duplice accezione di κῦδος (gloria terrena/gloria celeste) per descrivere la vita del monaco Cledonio: Καὶ χθονίου ποτ’ ἄνακτος ἐν αὐλαῖς κύδεϊ γαίων, / μεῖζον ἐν ἡμετέρῳ ἕρκεϊ κῦδος ἔχει· / Χριστῷ γὰρ βασιλῆϊ παρίσταται… . ― Per il modulo ἄνακτος ἐν ἕρκεσι cfr. Apoll. Rh. 3,215 ἕρκ᾽ ἄνακτος, ma si veda anche Greg. Naz. carm. II,1,1 v. 245 …βασιλῆος ἐν ἕρκεσι μοῖραν ἔχοντες; Anth. Pal. 8,113,3. ― κῦδος retto da ἔχω si riscontra (nell’accezione di gloria terrena, cfr. LSJ s.v.) in Bacchyl. E. 1,160; Pind. O. 9,88 ἔσχεσθε κῦδος ἀνδρῶν; Apoll. Rh. 1,287; poi Orac. Sib. 12,24. 213; nonché in Greg. Naz. carm. I,1,7 v. 58; I,1,8 v. 98; II,1,1 v. 515; II,1,45 vv. 186. 350; II,2,4 v. 152; II,2,5 v. 149 (in particolare, in quest’ultimo verso Gregorio punta sull'opposizione tra κῦδος, gloria terrena e κλέος gloria celeste, usando, così, due espressioni simili, ma antitetiche: κῦδος ἓν οἶον ἔχοντες, ἅπαν κλέος ἐνθάδ᾽ ἀτίζειν, cfr. la nota di Moroni, p. 250); la locuzione è in posizione clausolare in Ps.-Hes. Sc. 339; Simonid. epigr. 7,254; ed è ripresa ancora da Gregorio in I,1,3 v. 89; I,1,4 v. 80; II,1,13 v. 157; II,1,84 v. 5; II,2,1 v. 218; II,2,7 v. 60; Man. Apot. 2,258; κῦδός τε κατὰ πτόλιας μεγ᾽ ἔχουσιν (espressione che potrebbe connettersi al v. 169 del nostro carme, ἐνὶ πτολίεσσι γερήρας, cfr. supra comm. ad loc.); Anth. Pal. 7,254,1; 11,363,2; ma cfr. anche Hom. Il. 23,401 …κῦδος ἔθηκε. Per ἔχω con κλέος si rimanda supra, nota al v. 74. 183 δαῖτα γάμον La iunctura richiama i δεῖπνα γαμήλια di v. 179 (cfr. supra, nota ad loc.). I due termini sono posti in connessione, in tono spregiativo e altamente polemico, dalla dea Atena per apostrofare i festini che i Proci organizzano a casa di Odisseo: τίς δαίς, τίς δὲ ὅμιλος ὅδ’ ἔπλετο; τίπτε δέ σε χρεώ; / εἰλαπίνη ἦε γάμος; ἐπεὶ οὐκ ἔρανος τάδε γ’ ἐστίν (Hom. Od. 225-226). ― L’ accostamento di τίεσκον con ἀγακλειτός con accezione diversa, anche in Quint. Smyrn. 7,677 …τίεσκον ἀγακλειτοῖς… . 183-184 …ἀγακλειτοί θ᾽ ἱερῆες / …ὁμοζυγίην συνάγοντες 211 Presenza di sacerdoti alle feste nuziali. Da come il Cappadoce si esprime in epist. 232,2 sembra che egli sia più propenso a non approvare la presenza di sacerdoti ai banchetti nuziali. In particolare, Gregorio prescrive che alle nozze non si mescoli ciò che non deve essere mescolato, e non si trovino insieme vescovi e buffoni, preghiere e applausi, salmodie e concerti musicali: …οὕτως, ὡς μὴ τὰ ἄμικτα μίγνυσθαι, μηδὲ εἰς ταὐτὸν ἄγειν ἐπισκόπους καὶ γελωτοποιούς, εὐχὰς, καὶ κρότους, ψαλμῳδίας καὶ συναυλίας, cfr. Regali, Epitalamio, p. 91. Inoltre, in quattro delle cinque epistole di argomento "nuziale" (193, 194, 231, 232), Gregorio si scusa di non poter prendere parte al festoso avvenimento sottolineando, comunque, la sua presenza spirituale che si manifesta nelle preghiere che il vescovo eleva in onore della coppia di sposi, cfr. epist. 193,3 inviata a Vitaliano in occasione delle nozze di Olimpiade, alle quali il Cappadoce non partecipa, Ἐπεὶ τῷ γε βούλεσθαι καὶ πάρειμι καὶ συνεορτάζω… … …κατὰ τὰς κοίνας ἡμῶν εὐχάς; McLynn, Olympias, pp. 230-233. Più critica e polemica è la posizione che emerge da carm. II,1,17 vv. 67-70, dove il Cappadoce dichiara di non voler partecipare a banchetti di ogni genere, crassi avvenimenti fonte di peccato: οὐδ᾽ ἱερὴν ἐπὶ δαῖτα, γενέθλιον, ἠὲ θανόντος, / ἥ τινα νυμφιδίην σὺν πλεόνεσσι θέων, / πάντα τά μὲν γναθμοῖσιν ἑλώρια, τὰ δ᾽ ἄρα ὀπεδοῖς / θήσομαι… . Νel passo in oggetto, la funzione svolta dai sacerdoti sarebbe quella, loro propria, di celebrare e onorare l'unione nuziale con le preghiere, e dunque sembra essere legittimata. Sottolineata è la presenza di una folla di sacerdoti anche alle nozze di Olimpiade, καὶ παρῆν ἐπισκόπων ὅμιλος (epist. 193,1). ― Attributi positivi sono associati alla figura del sacerdote quando Gregorio deve apostrofare se stesso, come in carm. II,1,38 v. 3 dove egli si auto-definisce ἁγνοτάτου ἱερῆος, e Anth. Pal. 8,82,3 ἱερῆα μέγαν; ma si veda anche Anth. Pal. 8,161,5 ἱερῆες ἀγακλέες in riferimento ai figli di Emmelia. ― Tra le pochissime attestazioni del termine ὁμοζυγίη, da intendersi come "unione coniugale", cfr. Anth. Pal. 8,148,4, nonché infra, v. 346 …ὁμοζυγίης τ᾽ ἐρατεινῆς. ― Sulla frequentazione da parte di sacerdoti della casa di Vitaliano cfr. infra, vv. 235ss. e le considerazioni di McLynn, Olympias, p. 238. ― L'idea espressa dalla costruzione di συνάγω con ὁμοζυγίη, cioè "sancire l'unione coniugale", può essere messa in relazione con quella simile di συνάγω con γάμος di Xen. Symp. 4,64: …οὗτος ἄν μοι δοκεῖ καὶ πόλεις δύνασθαι φίλας ποιεῖν καὶ γάμους ἐπιτηδείους συνάγειν… ; Lib. decl. 8,1 …σὺ δέ με ἠξίους καὶ 212 τοὺς θεοὺς ἐπὶ τούτους συνάγειν τοὺς γάμους καὶ τὸν Ἀπόλλω παρακαλεῖν ἐπ’ ᾠδήν…; ma si veda anche Ioh. Chys. hom. 24 in I Cor.: Καὶ ἐπειδήπερ ἐξαρχῆς δύο τινὲς ἐδόκουν εἶναι, ὅρα πῶς αὐτοὺς συγκολλᾷ πάλιν καὶ εἰς ἓν συνάγει διὰ τοῦ γάμου· Ἀντὶ τούτου γὰρ καταλείψει, φησὶν, ἄνθρωπος τὸν πατέρα αὑτοῦ καὶ τὴν μητέρα, καὶ προσκολληθήσεται πρὸς τὴν γυναῖκα αὑτοῦ, καὶ ἔσονται οἱ δύο εἰς σάρκα μίαν (PG 61,289). εὐχαῖς καὶ στεφέεσσιν Preghiere e corone del rito nuziale. I due elementi, quasi a formare un dittico di genere, sono menzionati anche in epist. 231,4 nella quale Gregorio, comunicando di non poter partecipare alle nozze della figlia di un tal Eusebio, invia il suo ἐπιθαλάμιος: Ἐγὼ δὲ ὑμῖν προσᾴσω τὸν ἐμὸν ἐπιθαλάμιον· Εὐλογήσαι Κύριος ὑμᾶς ἐκ Σιών, καὶ αὐτὸς ἁρμόσαι τὴν συζυγίαν, καὶ ἴδοις υἱοὺς τῶν υἱέων, οὐ πολὺ δ’ εἰπεῖν ὅτι καὶ κρείσσονας. … e conclude la missiva soffermandosi circa i "ruoli" dei padri, naturale e spirituale della sposa: al padre "naturale" spetta il compito di porre la corona sul capo della figlia, mentre al sacerdote quello di sancire l'unione nuziale con le preghiere, …Τοῦτο καὶ παρὼν ἐπηυξάμην ἂν ὑμῖν καὶ νῦν ἐπεύχομαι. Τἄλλα δὲ ὑμῖν μελέτω καὶ στεφανούτω πατήρ, ὡς εὔξατο. Τοῦτο γὰρ καὶ εἴ που γάμοις παραγεγόναμεν, ἐτυπώσαμεν· ἐκείνων μὲν εἶναι τοὺς στεφάνους, ἡμῶν δὲ τὰς εὐχάς, ἃς οἶδα μὴ τόποις ὁριζομένας (il tema della preghiera, εὐχή, è costantemente presente nelle altre missive del corpus gregoriano composte in occasione di nozze di figli di personaggi in rapporti col nostro autore, cfr. epist. 193,3 οὕτω δὴ καὶ τὴν συζυγίαν ἐπὶ παντὶ βελτίστῳ γενέσθαι καὶ κατὰ τὰς κοινὰς ἡμῶν εὐχάς; 194,3 Καὶ νῦν δὲ τοῖς γάμοις συνεισφέρομεν τὰς εὐχάς, εἰ δεῖ δωροφορεῖν ὑμῖν τὸ κάλλιστον; 230,6 …Πλὴν επεύχομαι ὑμῖν ἐπὶ παντὶ βελτίστῳ γενέσθαι τὴν συζυγίαν καιλ οἵαν εἰκός, Θεοῦ συναρμόζοντος; 232,1-2 …καὶ ἐπευχόμενοι πᾶν ὑμῖν ὃ κάλλιστον … Ἓν δὲ τῶν καλῶν, παρεῖναι Χριστὸν τοῖς γάμοις … οὕτως, ὡς μὴ τὰ ἄμικτα μίγνυσθαι, μηδὲ εἰς ταὐτὸν ἄγειν ἐπισκόπους καὶ γελωτοποιούς, εὐχὰς καὶ κρότους…): sull'assimilazione di elementi pagani, quali la corona, nella cerimonia cristiana delle nozze, cfr. J.-M. Torres, La tradición nupcial pagan en el matrimonio cristiano según Gregorio de Nacianzo, Studia Historica (Historia Antiqua) 8, 1990, pp. 55-60. — I due elementi, i voti e le corone, in ambito cristiano, sono anche connessi al martirio in Greg. Nyss. mart. 2: Δράμε πρὸς τὸν σὸν Πατέρα, 213 μὴ καταλειφθῇς παρὰ τῶν ὁμηλίκων, μὴ δεύτερος ἐπὶ τὸν στέφανον ἔλθῃς, μὴ ἀτελῆ ποιήσῃς μητρῴαν εὐχήν (PG 46,769); Ioh. Chrys. pan. Ign. Ἐξεπέμψατε γὰρ ἐπίσκοπον, καὶ ἐδέξασθε μάρτυρα· ἐξεπέμψατε μετ’ εὐχῶν, καὶ ἐδέξασθε μετὰ στεφάνων (PG 50,594); diversamente David 3,9: …ἀπελθόντων δὲ τοὺς παῖδας θεραπεύων, ἵνα παρὰ τοῦ Θεοῦ πολλὴν ἐπισπάσῃ τὴν εὔνοιαν, καὶ μυρίους ἀναδήσῃ στεφάνους, καὶ μυρίας δέξῃ παρὰ πάντων εὐχὰς…; e si veda anche, in altro contesto, Lib. epist. 239,3 …οἱ τῆς ἱερᾶς Ἀγκύρας, πρέποι γὰρ ἂν αὐτῇ τοῦτ’ ἀκούειν, ᾧ κοσμεῖ τὰς Ἀθήνας Ὅμηρος, οὗτοι δὴ οἱ ταύτης οἰκήτορες ἐμοί τε εὐεργέται καὶ σοὶ καὶ στεφάνων ἄξιοι καὶ εὐχῶν… . 185-188 La descrizione della scena dei festeggiamenti nuziali si articola in tre quadri distinti, ma simultanei, che hanno come protagonisti il giovane sposo, νυμφίος, festeggiato dalle danze dei compagni (vv. 185-186); il gruppo di donne che adornano la sposa (vv. 187-188) e il padre della fanciulla che si compiace della prole e dell'avvenimento (v. 188). Una simile rappresentazione in quadri scenici (gruppo degli uomini e gruppo delle donne) si legge anche nell'Epitalamio di Ettore e Andromaca (fr. 44,13ss. Voigt), nel corteo che segue gli sposi e nella descrizione di una parte dello scudo forgiato da Efesto dove sono rappresentati banchetti di nozze (Hom. Il. 18,491-496). 185-186 Rappresentazione del corteo di giovani che danzano intorno allo sposo. 185 …οἱ μὲν πάλλοντo καλὸν περὶ κοῦρον ἑταῖροι Il verso sembra ridisegnare il quadro dei giovani danzatori omerici che volteggiano intorno agli sposi, nella festosa rappresentazione dei banchetti nuziali sullo scudo di Achille: κοῦροι δ᾽ ὀρχηστῆρες ἐδίνεον…(Hom. Il. 18,494). 186 νυμφίον ὑμνείοντες ἐοικότα ἔρνεϊ καλῷ Lode dello sposo. Il giovane νυμφίος paragonato ad un bel virgulto risente certamente, come ha dimostrato Cataudella, Derivazioni, pp. 66-67, di Sapph. fr. 115,2 Voigt: τίῳ σ᾽ , ὦ φίλε γάμβρε, κάλως ἐικάσδω; / ὄρπακι βραδίνῳ σε μάλιστ᾽ ἐικάσδω; riferimento segnalato anche da Wyss, Gregor II, p. 844; cfr. anche Demoen, Poet, pp. 434-435 e note 11-12 dove si segnala la prescrizione di Menandro Retore di citare Saffo all'interno di un epitalamio (p. 402,17-18 Russell-Wilson). Interessante 214 appare, inoltre, il parallelo con Hom. Od. 6,163ss. dove Odisseo paragona Nausicaa ad un "giovane virgulto di palma": φοίνικος νέον ἔρνος ἀνερχόμενον ἐνόησα· /…/ ὡς δ᾽ αὔτως καὶ κεῖνο ἰδὼν ἐτεθήπεα θυμῷ / δήν, ἐπεὶ οὔ πω τοῖον ἀνήλυθεν ἐκ δόρου γαίης, / ὡς σέ, γύναι, ἄγαμαί τε τέθηπά τε...: tale passo (compreso in una più ampia sezione che si estende dal v. 149 al v. 185) è stato considerato come «connotato da una tonalità imenaica» da C. Nobili, Motivi della poesia nuziale in Odissea VI 149-185, Rendiconti dell'Istituto Lombardo. Classe di Lettere e Scienze Morali e Storiche, vol. 140 (2006), pp. 59ss., in part. pp. 71ss. e nota 40, in cui l'autrice segnala l'uso di ἔρνος, in contesto erotico, anche in Alcmane fr. 3,68 Page (Astimelousa viene definita χρύσιον ἔρνος) e in Greg. Nyss. Pulch. in riferimento agli sposi: εἶδον ἐγὼ καὶ τὸ ὑψηλὸν ἔρνος, τὸν ὑψίκομον φοίνικα (GNO 9,463), come ulteriore prova del ruolo di modello che il passo omerico dell’Odissea rappresentava all'interno di descrizioni di genere. ― La iunctura di ἔρνος con καλόν si legge, in diverso contesto, anche in Plut. mor. de Iside et Osiride 357A; Ioh. Chrys. Anna 3 (PG 54,656). Cfr. infine Hom. Il. 18,493 …πολὺς δ᾽ ὑμέναιος ὀρώρει. 187 παρθενικὴν ἑλικώπιδα L'aggettivo ἑλικῶπις ricorre, in maniera singolare, anche nell'Epitalamio di Ettore e Andromaca di Sapph. fr. 44,5 Voigt riferito ad Andromaca. Esso, utilizzato da Gregorio solo nel nostro carme quale attributo di βοῶν (cfr. supra, nota al v. 130) potrebbe istituire un richiamo dell'aggettivo βοῶπις, tradizionale epiteto di Era (cfr. Hom. Il. 1,551; 14,159; 18,239 etc.): cfr. Chantraine, Dictionnaire, s.v. βοῦς. 188 ἐς γάμον ἱμερόεντα La iunctura ricorre anche nel cosiddetto Epitalamio di Peleo e Teti attribuito ad Esiodo, fr. 211,6 West-Merkelbach, considerato un vero e proprio imeneo a partire da R. Reitzenstein, Die Hochzeit des Peleus und der Thetis, Hermes 35, 1900, pp. 73ss.; ma cfr. anche hymn. hom. in Ven. 141; Hes. fr. 37,6; Phoc. sent. fr. 2,8; Theogn. 2,1293; poi Quint. Smyrn. 4,131; Nonn. Dion. 16,291. πατὴρ δ᾽ ἐπετέρπετο παισίν Il compiacimento di Vitaliano potrebbe essere paragonato a quello sollecito del padre dell' Epitalamio di Ettore e Andromaca: ὀτραλέως δ᾽ ἀνόρουσε πάτ[η]ρ φίλος (Sapph. fr. 44,11 Voigt). 189-192 215 Seconda parte della Priamel iniziata al v. 181 che descrive, per converso, la miserevole condizione dei due fratelli ai quali è stata preclusa la partecipazione alle nozze della sorella (la cacciata da casa apparterrebbe, pertanto, ad un momento successivo alle nozze). La scena, che inquadra i giovani dietro una porta sbarrata nell'atto di imprecare contro il loro triste destino richiama il genere del paraclausithyron, canto che tradizionalmente l'innamorato intonava dietro la porta della donna amata, la cui vista gli era preclusa. Il nostro contesto non è certamente quello amoroso, ma una partecipazione affettiva dell' io loquens non si può, di certo, negare, coinvolgimento che si collega anche all'onore, negato, di intonare l'epitalamio in onore della sposa e di elogiarne la bellezza (cfr. vv. 198ss.), che, sempre secondo Menandro Retore (p. 134 Russell-Wilson), spetterebbe ad un consanguineo: cfr. Regali, Epitalamio, p. 95. Per il genere del paraclausithyron/komos cfr. Cairns, pp. 6; 152; 158; 231-232. 189 Ἡμεῖς δ᾽, ὡς θήρεσσιν ἐοικότης ἠὲ σύεσσιν L'accostamento alle bestie è usato, in questo luogo, in tono altamente spregiativo per indicare una condizione di svantaggio che, in un altro passo dell'opera del Cappadoce nobilita, in una prospettiva futura, invece, la condizione volutamente distaccata dal mondo civile dei monaci a cui è riferita: Ἄλλοι δ’ αὖ θήρεσσιν ὁμοίϊα δώμασι τυτθοῖς / εἱρχθέντες, βροτέης οὐδ’ ὀπὸς ἠντίασαν (carm. II,2,1 vv. 61-62). Così come in altro contesto e di altro significato è da intendersi il simile passo di or. 33,5 …ὡς θῆρες εἰρχθέντες ἐν ἀφεγγέσιν οἴκοις… . θήρεσσιν ἐοικότες ἠὲ σύεσσιν La menzione congiunta di θήρες e σύες rafforza l’idea della totale emarginazione dei giovani dal consesso umano. ― Per la costruzione di ἔοικα rispettivamente con θήρ, cfr. Ηom. Il. 3,449 θηρὶ ἐoικὼς (= 11,546); 15,586; Od. 14,21 θήρεσσιν ἐοικότες (= Apoll. Rh. 4,672); Aristot. HA 578b, ἐῴκει θηρί; e con ὗς cfr. Hom. Il. 5,782-783 …λείουσιν ἐοικότες ὠμοφάγοισιν / ἢ συσὶ κάπροισιν… (= 7,256-257); 12,146 ἀγροτέροις σύεσσιν ἐοικότες; Lib. or. 1,263 ἐοικότα συὶ; si veda, in altro senso, anche Bas. Lac. 3 dove il vir iracundus è paragonato ad uno ὗς: Ἐὰν ἴδῃς τὸν θυμούμενον τοὺς ὀδόντας παραθήγοντα, ἐνθυμήθητι, ὅτι συῒ ἔοικεν ὁ τοιοῦτος, τὸν ἔνδοθεν θυμὸν διὰ τῆς τῶν ὀδόντων παρατρίψεως ὑπεκφαίνων (PG 31,1444), così come in mor. 17,4 (PG 32,1336). 216 190 μορφὴν ὀλέσαντες L'espressione, che ricorre simile in Anth. Pal. 8,100,1 dove esprime la bellezza delle forme (…ὤλεσε μορφὴν), così come supra, v. 52 in riferimento a Narciso (cfr. la nota ad loc.) indica, in questo contesto, “l’immagine” sociale e dunque la rispettabilità (cfr. v. 205 ἀγέραστος) che i due giovani perdono nel momento in cui vengono esclusi dal banchetto nuziale (cfr. v. 191) e cacciati da casa (cfr. v. 175). — Il termine μορφή è ampiamente utilizzato dal Cappadoce anche quale sinonimo di εἰκών, per indicare il modello divino sul quale l'uomo è stato creato, e dunque la sua "componente celeste", per cui si veda la simile costruzione di carm. II,1,45 vv. 78 Ὅσσον ἐγὼ ψυχὴν ὀλοφύρομαι αἰνὰ παθοῦσαν, / (φεῦ τάλας) ὀλλυμένης εἰκόνος οὐρανίης; e, più propriamente, I,1,8 vv. 70-72: …μοῖραν ἑλὼν (scil. Νοῦ Λόγος) νεοπηγέος αἴης, / χείρεσιν ἀθανάτῃσιν ἐμὴν ἐστήσατο μορφήν, / τῇ δ’ ἄρ’ ἑῆς ζωῆς μοιρήσατο… e 76-77, τοὔνεκα καὶ βίοτων τὸν μὲν στέργω διὰ γαῖαν, τοῦ δ’ ἔρον ἐν στήθεσσιν ἔχω θείαν διὰ μοῖραν (cfr. la nota ad loc. di Sykes, p. 241); I,2,2 vv. 111113: Πῶς αὖθις σάρκεσσιν ὁμὸν βίον αἰνήσασα, / νυμφίον ἱμερόεντα τεῆς ζηλήμονα μορφῆς / αἰσχύνεις…; I,2,8 vv. 14-15, θεὸς πατήρ μοι καὶ θεῷ συνεζύγην, / μορφῆς ποθῶ μίμησιν, ἧς ἀπερρύην; nonché, esplicatrice di tale concezione, risulta la iunctura Θεοῦ μορφὰς che leggiamo in I,2,29 v. 3 (cfr. la nota di Kneckt, p. 60); II,1,1 v. 33 θεοειδέα μορφὴν e II,1,34A v. 84 ἀνδρομέην μορφὴν οὐρανίῃ κεράσας (cfr. Piottante, pp. 94-95); in or. 8,10, infine, la θεία μορφή è quella di Gorgonia plasmata dal Creatore. Interessante appare, inoltre, l'espressione μορφὴν ἐτέραν… τὴν τοῦ ὄφεως per indicare le fattezze acquisite dall'uomo dal momento che ha ceduto al peccato (or. 33,12). Sotto una duplice accezione il termine indica, inoltre, sia l'aspetto umano che il Figlio ha assunto al momento dell'Incarnazione, mescolandolo alla propria θεία εἰκών, per cui cfr. I,2,14 v. 90, Χριστὸς ἑὴν μορφὴν ἡμετέρῃ κεράσας (cfr. Domiter, pp. 189-190), e l'espressione δούλου μορφή (l'ispirazione biblica è Phil. 2,6-7 ὃς ἐν μορφῇ θεοῦ ὑπάρχων οὐχ ἁρπαγμὸν ἡγήσατο τὸ εἶναι ἴσα θεῷ, ἀλλὰ ἑαυτὸν ἐκένωσεν μορφὴν δούλου λαβών, ἐν ὁμοιώματι ἀνθρώπων γενόμενος) molto ricorrente nell'opera di Gregorio come in or. 4,78; 12,4; 14,4; 24,2; 30,3 — in tal modo Cristo ha nobilitato la natura umana come si legge in I,1,2 vv. 82-83: κείνη δὲ χθονίην μορφὴν ἐρικυδέα τεύχει, / ἣν, σοί γ᾽ εὐμενέων, μορφώσατο, ἄφθιτος Υἱός; sia in senso proprio, come in or. 32,18 dove 217 Gregorio afferma che Cristo ha voluto mostrare ai discepoli le sue vere sembianze e la sua divinità: Ἀναβῆναι δὲ εἰς τὸ ὄρος ἐδέησεν τρεῖς, ἵνα τῇ μορφῇ λάμψῃ, καὶ τὴν θεότητα παραδείξῃ καὶ γυμνώσῃ τὸν ἐν τῇ σαρκὶ κρυπτόμενον (cfr. Mc. 9,2-8); 40,27; 43,64; carm. I,2,21 vv. 12-14; epist. 249,16 ὁ μονογενὴς υἱὸς…, ὁ ἐν μορφῇ Θεοῦ ὑπάρξων; Kurmann, p. 266; Μoreschini-Sykes, p. 112; Ζehles-Zamora, pp. 79-80. Sull'accezione di μορφή come sinonimo di εἰκών a partire dal N.T. si legga D. H. Wallace, A note on μορφή, Theologische Zeitscrhift 22, 1966, pp. 19-25; nonché J. Behm, μορφή, in GLNT VII, coll. 477ss., in part. 503-509. ἀπηνέϊ δαίμονος αἴσῃ La costruzione clausolare δαίμονος αἴσῃ può derivare da Hom. Od. 11,61 …δαίμονος αἶσα κακὴ…; ma è usata anche da Stes. fr. S15, col2 Page; in fine di verso si ritrova in hymn. hom. in Cer. 300; Apoll. Rh. 1,443; poi Quint. Smyr. 1,104 etc. ― La iunctura di ἀπηνής con αἶσα sembra essere di creazione gregoriana, ma si veda la simile costruzione di κακός con αἶσα di Hom. Il. 1,418; 5,209; Od. 9,52; 15,61; 19,259; Apoll. Rh. 2,66; ripresa da Man. Apot. 6,20; Quint. Smyrn. 2,236 etc. εἰρχθέντες κατὰ δῶμα Simile costruzione in carm. II,2,1 vv. 61-62 per indicare la vita isolata di alcuni monaci; cfr. anche Eur. fr. 453 Nauck τὰν δ’ ἐχθρὰν στάσιν εἶργ’ ἀπ’ οἴκων τὰν μαινομέναν τ’ ἔριν… . ― Tradizionale nella poesia esametrica la posizione del nesso κατὰ δῶμα che interessa III e IV metron, come si evince dal confronto con Hom. Il. 4,386; 14,257; Od. 1,228; 2,247; 3,248 etc.; Theocr. 24,40; Apoll. Rh. 1,974; 2,497; cfr. anche Eur. Ph. 813; etc. ἠρώμεσθ᾽ , ὅτι Biblico può essere il riferimento di questa costruzione da riscontrare in Nm. 22,6: καὶ νῦν δεῦρο ἄρασαί μοι τὸν λαὸν τοῦτον, ὅτι ἰσχύει οὗτος ἢ ἡμεῖς. λυπρόν ἐσήλθομεν οἶδμα βίοιο L’espressione ci riconduce al tema del mare come metafora della vita, ampiamente sviluppata dal Cappadoce, per cui si rimanda supra, nota ai vv. 21-23. Si noti la ricercata costruzione dell'espressione λυπρὸν …οἶδμα βίοιο che sembra essere di paternità gregoriana contenendo in sè le figure dell'iperbato e dell'ipallage. Da segnalare, inoltre, le simili iuncturae ἄγριον οἶδμα di carm. II,1,1 v. 21; οἶδμα κακὸν di II,1,45 v. 124 (= Anth. Pal. 7,392,2); ma anche ἐν λυπρῷ βίῳ di Ι,2,10 v. 29 (il cui 218 modello è Eur. Med. 598); II,1,12 v. 791 λυπρόν… βίον; II,1,43 v. 10 ζωήν… λυπρὴν; e Eur. Alc. 940 λυπρὸν… βίοτον (= Med. 1037), ripresa da Gregorio in carm. II,1,1 v. 45 λυπροῦ … βιότου. ― La costruzione ἐσήλθομεν οἶδμα può trovare un parallelo biblico, da interpretare letteralmente, nell'attraversamento delle acque del Mar Rosso del popolo di Israele in fuga dall'Egitto di Ex. 14,16 καὶ εἰσελθάτωσαν οἱ υἱοὶ Ισραηλ εἰς μέσον τῆς θαλάσσης; Gs. 24,6. 193ss. In questi versi l'io loquens articola e dà sfogo, con maggiori dettagli, all'ἀρά avviata al v. 193 che esprime il desiderio di non essere mai stati generati per non soffrire i mali dell'esistenza, οὐκ ἂν ἔγωγε τόσοις ἐνέκυρσα κακοῖσιν (v. 197). Demoen, Poet, p. 435 e nota 13 suggerisce l'ispirazione teognidea della sezione in oggetto che assume, secondo lo studioso, le fattezze di una «paraphrase of a famous elegy by Theognis»: Πάντων μὲν μὴ φῦναι ἐπιχθονίοισιν ἄριστον / μηδ’ ἐσιδεῖν αὐγὰς ὀξέος ἠελίου, / φύντα δ’ ὅπως ὤκιστα πύλας Ἀίδαο περῆσαι / καὶ κεῖσθαι πολλὴν γῆν ἐπαμησάμενον (I,425-428 Diehl-Young); ma non si può trascurare l’eco della riflessione di Edipo, μὴ φῦναι τὸν ἅπαντα νι-/ κᾷ λόγον· τὸ δ’, ἐπεὶ φανῇ, / βῆναι κεῖθεν ὅθεν περ ἥ-/ κει πολὺ δεύτερον ὡς τάχιστα. (Soph. OC 1224-1228); così come Bacchyl. 5,160-162 …θανατοῖσι μὴ φῦναι φέριστον / μηδ᾽ ἀελίου προσιδεῖν / φέγγος…; e la chiusa di un epigramma di Posidippo, ἦν ἄρα τοῖν δισσοῖν ἑνὸς αἵρησις, ἢ τὸ γενέσθαι / μηδέποτ᾽ ἢ τὸ θανεῖν αὐτίκα τικτόμενον (Anth. Pal. 9,359,910). — L'io loquens ripercorre le tappe del naturale percorso che conduce alla nascita in una climax ascendente che prende avvio dall'atto del concepimento: ὡς ὄφελον μὴ μητρὸς ἐνὶ σπλάγχνοισι παγῆναι (v. 193), per proseguire con la fase intermedia delle doglie della gravida, ἠὲ θανεῖν ἀτέλεστος ἐν ὠδίνεσσι τεκοῦσης (v. 194), e concludersi con la nascita del bambino di cui si augura che il primo vagito, tradizionale segno di vita, diventi un pianto di morte, κλαυθμὸν ἐμοὶ τὸν πρῶτον ἐμοῦ θανάτοιο γενέσθαι / δάκρυον… (vv. 196-197). Di altro tenore è, invece, la predizione di Cristo relativa al tradimento di Giuda: ὁ μὲν υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου ὑπάγει καθὼς γέγραπται περὶ αὐτοῦ, οὐαὶ δὲ τῷ ἀνθρώπῳ ἐκείνῳ δι’ οὗ ὁ υἱὸς τοῦ ἀνθρώπου παραδίδοται· καλὸν ἦν αὐτῷ εἰ οὐκ ἐγεννήθη ὁ ἄνθρωπος ἐκεῖνος (Mt. 26,24 = Mc. 14,21). Note di pessimismo attraversano trasversalmente l'opera del Nazianzeno, come in carm. I,2,14 vv. 45ss.: …ἐξότε κόλπων / μητρὸς ὀλισθήσας 219 πρῶτον ἀφῆκα δάκρυ, / ὁσσατίοις οἵοις τε συναντήσεσθαι ἔμελλον / πήμασι, δάκρυ χέων πρὶν βιότοιο θίγω; II,1,87 vv. 1ss. dove egli si rivolge alla madre Nonna rimproverandola per averlo generato e destinato ad una vita piena di affanni, lui la cui sorte è Dio e la contemplazione della Trinità: sul carme si veda G. Lozza, Lettura di Gregorio Nazianzeno, carme II,1,87, in A. Garzya (a cura di), Metodologie della ricerca sulla tarda antichità: Atti del primo convegno dell'Associazione di studi tardo antichi, Napoli 1989, pp. 451-459. Per un esaustivo quadro della tematica si rimanda a Domiter, pp. 118ss. e note 5-6. 193 ὡς ὄφελον ἐνὶ σπλάγχνοισι παγῆναι Esclamazioni che fanno esplodere e traducono il male di vivere o il desiderio della morte sono spesso presenti nella letteratura classica a partire da Hom. Il. 6,345ss. nelle parole di Elena ad Ettore: ὥς μ᾽ ὄφελ᾽ ἤματι τῷ ὅτε με πρῶτον τέκε μήτηρ / οἴχεσθαι προφέρουσα κακὴ ἀνέμοιο θυέλλα / εἰς ὄρος ἢ εἰς κῦμα πολυφλοίσβοιο θαλάσσης, / ἔνθα με κῦμ᾽ ἀπόερσε πάρος τάδε ἔργα γενέσθαι; 22,481 …ὡς μὴ ὤφελλε τεκέσθαι; Οd. 8,312 … τὼ μὴ γείνασθαι ὄφελλον; Hes. op. 174-175: Μηκέτ’ ἔπειτ’ ὤφελλον ἐγὼ πέμπτοισι μετεῖναι / ἀνδράσιν, ἀλλ’ ἢ πρόσθε θανεῖν ἢ ἔπειτα γενέσθαι. Ma il pessimismo del Nazianzeno ha, di certo, anche un fondamento biblico la cui fonte è Iob 3,11-12 διὰ τί γὰρ ἐν κοιλίᾳ οὐκ ἐτελεύτησα, ἐκ γαστρὸς δὲ ἐξῆλθον καὶ οὐκ εὐθὺς ἀπωλόμην; ἵνα τί δὲ συνήντησάν μοι γόνατα; ἵνα τί δὲ μαστοὺς ἐθήλασα e 10,18-19 ἵνα τί οὖν ἐκ κοιλίας με ἐξήγαγες, καὶ οὐκ ἀπέθανον, ὀφθαλμὸς δέ με οὐκ εἶδεν, καὶ ὥσπερ οὐκ ὢν ἐγενόμην; διὰ τί γὰρ ἐκ γαστρὸς εἰς μνῆμα οὐκ ἀπηλλάγην, e Ier. 20,14-18, in part. 17: ὅτι οὐκ ἀπέκτεινέν με ἐν μήτρᾳ μητρὸς καὶ ἐγένετό μοι ἡ μήτηρ μου τάφος μου καὶ ἡ μήτρα συλλήμψεως αἰωνίας, a cui Gregorio si ispira in or. 14,11 Ἵνα τί γὰρ ἐπλάσθης ἐν κοιλίᾳ μητρὸς, ἐκ γαστρὸς δὲ ἐξῆλθες, καὶ οὐκ εὐθὺς ἀπώλου, ὡς συνδραμεῖν τῇ γεννήσει τὸν θάνατον; ἵνα τί δὲ οὐκ ἀπῆλθες ἄωρος, πρὶν γεύσασθαι τῶν τοῦ βίου κακῶν; Ἵνα τί δέ σοι συνήντησε γόνατα; Τί δέ σοι τὸ θηλάσαι μαστοὺς, ἀθλίως ζήσεσθαι μέλλοντι, καὶ ζωὴν θανάτου χαλεπωτέραν; ma anche Sir. 23,14, a proposito della facilità con la quale si giura che può condurre a dire sciocchezze di cui pentirsi, maledicendo, così, il giorno natale; cfr. anche carm. I,2,15 vv. 131-132: Αἲ θάνον, εὖτέ με μητρὸς ἐνὶ σπλάγχνοισιν ἔδησας, / εὐθὺς ἐμοὶ σκοτίη δάκρυον ἀρχομένῳ. Sulla tematica cfr. E. Rapisarda, Il pessimismo di Gregorio Nazianzeno, Atti dell'VIII Congresso 220 internazionale di Studi Bizantini, Roma 1953, pp. 189-201. Si vedano anche le simili espressioni di Hom. Il. 17,686 ἣ μὴ ὤφελλε γενέσθαι (= 18,19); Lib. progymn. 11,9 …ὡς μή ποτ’ ὤφελον μήτηρ εἶναι, ἣ ἐγενόμην εὐτυχής… . ― ὡς ὄφελον a inizio di verso è di matrice epica, cfr. Hom Il. 11,30; Od. 1,217; 5,380; 11,540 etc.; Αpoll. Rh. 3,773; ripreso da Greg. Naz. ad incipit di verso in carm. I,2,29 v. 99; II,1,1 v. 260; II,1,13 v. 149; II,1,43 v. 25; Quint. Smyrn. 4,30; 5,206 etc. ― In II,1,19 v. 70 ricorre una clausola simile a quella del passo in oggetto, ἐνὶ σπλάγχνοισι παγῆναι, in riferimento all'Incarnazione del Figlio che ha assunto sembianze umane, οἳ Θεὸν ἀνδρομέοισιν ἐνὶ σπλάγχνοισι παγέντα (cfr. Simelidis, p. 70), e si veda anche, sempre in relazione all'Incarnazione di Cristo, II,2,7 v. 190 Αὐτὰρ ἐπεί μιν ἔπηξε, καὶ ἐν σπλάγχνοισι θέωσεν. Il nesso ἐνὶ σπλάγχνοισι(ν) è riscontrabile a partire da Emped. fr. 4,6; Eur. fr. 403,4; nonché Greg. Naz. carm. I,2,9a v. 40 e I,2,9b v. 43; II,1,1 v. 7; II,1,13 v. 33; II,1,17 v. 53; supra, v. 7; Palla-Kertsch, p. 203. Per l'occorrenza della forma σπλάγχνοισι nelle opere del Cappadoce si veda la nota di Sunderman, p. 84 a I,2,1 v. 334. ― Per le viscere della madre cfr. Aesch. Sept. 1031-1032 δεινὸν τὸ κοινὸν σπλάγχνον οὗ πεφύκαμεν, μητρὸς ταλαίνης…; Pind. N. 1,35; e, tra gli scrittori ecclesiastici, Bas. epist. 6,1; Eus. Is. 2,36; nonché Greg. Naz. carm. II,1,1 v. 424; Anth. Pal. 2,1,127 …ἔτι μητρὸς ἐνὶ σπλάγχνοισιν ἐόντα. Per una somiglianza terminologica si veda, infine, Eur. Or. 1244-1245: …δίκη μία / ἢ ζῆν ἅπασιν ἢ θανεῖν ὀφείλεται. 194 ἠὲ θανεῖν ἀτέλεστος ἐν ὠδίνεσσι τεκούσης L'infinito di θνήσκω dipende sintatticamente dall'ὄφελον del verso precedente. Simili costruzioni in Hom. Il. 22,246 …ὡς ὄφελον θανέειν; Od. 5,308 ὡς δὴ ἐγώ γ᾽ ὄφελον θανέειν… (=14,274); Callim. Hec. fr. 326,1; Greg. Naz. II,1,34A v. 66 αἴθ᾽ ὄφελε θνῄσκειν…; cfr. ancora Hom. Il. 3,428 … ὡς ὤφελες αὐτόθ᾽ ὀλέσθαι; 24,764 …ὡ πρὶν ὤφελλον ὀλέσθαι; Od. 14,68 …ὡς ὤφελλ᾽ Ἑλένης ἀπὸ φῦλον ὀλέσθαι; 18,401-402a αἴθ᾽ ὤφελλ᾽ ὁ ξεῖνος ἀλώμενος ἄλλοθ᾽ ὀλέσθαι / πρὶν ἐλθεῖν… . ― La costruzione di ὠδίς con il participio τίκτουσα può rimandare a Ps. 48,7 ἐκεῖ ωδῖνες ὡς τικτούσης (= Os. 13,13; Mi. 4,9; Jer. 6,24 etc.); Is. 13,8 ὠδῖνες ὡς γυναικὸς τικτούσης. La iunctura di ὠδίς con μήτηρ è in Sir. 7,27; nonché Eur. fr. 696 Nauck (=17 Page); Ael. VH τῆς μητρὸς… ἐν ὠδῖσιν 12,1; Lib. epist. 371,4; Bas. mor. 11 (PG 32,1957); Greg. Nyss. Macr. 12,3; Greg. Naz. carm. I,1,17 v. 12; or. 14,11. 221 195 εἰ δὲ πύλας ἐπέρησα Varcare le porte dell'esistenza, perifrasi per indicare la nascita. In carm. I,2,15 vv. 101-104 il Cappadoce afferma, come nel nostro testo, che sarebbe meglio non entrare a far parte della vita per scamparne i dolori e le sofferenze: λώϊον, εἰ βιότοιο πύλας, κακέ, μὴ σὺ πέρησας, / εἰ δ’ ἐπέρησας, ὅλος, θήρεσιν ἶσα, λύθης, / ἢ ὅτε κἀνθάδ’ ἔχεις τόσσ’ ἄλγεα, καὶ μετόπισθεν / ποινὴ χειροτέρη τῶν ὅσα ἐνθάδ’ ἔχεις. Simile costruzioni, ma con diversa specificazione, in Hom. Il. …πύλας Ἀίδαο περῆσαι 5,646; 23,71, ripresa da Theogn. 1,427; cfr. anche Nonn. …πύλας ἐπέρησα Ὀλύμπου; nonché Athan. ep. Epict. 9,25 τὰς οὐρανίους διέβη πύλας. Di chiara matrice biblica la metafora della porta che introduce nelle due diverse condotte di vita: la porta larga conduce alla via della perdizione, mentre quella porta stretta alla "vera vita": Εἰσέλθατε διὰ τῆς στενῆς πύλης· ὅτι πλατεῖα ἡ πύλη καὶ εὐρύχωρος ἡ ὁδὸς ἡ ἀπάγουσα εἰς τὴν ἀπώλειαν, καὶ πολλοί εἰσιν οἱ εἰσερχόμενοι δι’ αὐτῆς· τί στενὴ ἡ πύλη καὶ τεθλιμμένη ἡ ὁδὸς ἡ ἀπάγουσα εἰς τὴν ζωήν, καὶ ὀλίγοι εἰσὶν οἱ εὑρίσκοντες αὐτήν (Mt. 7,13-14); cfr. anche Greg. Nyss. de mortuis non esse dolendum διὰ τοῦτο ἥ τε πλεονεξία πλατείαις ταῖς πύλαις τῇ ἀνθρωπίνῃ ζωῇ εἰσεκώμασεν (GNO 9,59). εἵλκυσα πνεῦμα μόροιο La costruzione di ἕλκω con πνεῦμα risente di un'ispirazione teologica che trova il suo sostrato veterotestamentario in Ps. 119,131, τὸ στόμα μου ἤνοιξα καὶ εἵλκυσα πνεῦμα, ὅτι τὰς ἐντολάς σου ἐπεπόθουν, che il Cappadoce riprende in or. 2,95; 12,1; 28,6; 44,6. ― La iunctura πνεῦμα μόροιο porta in sé una valenza ossimorica: interpretando, infatti, πνεῦμα nell'accezione di "breathing of life, respiration" (cfr. LSJ e Lampe s.v.) essa troverebbe un confronto oppositivo nell'espressione πνεῦμα ζωῆς molto ricorrente nell'A.T. a partire da Gn. 6,17; 7,15; ma anche nel N.T. in Rm. 8,2; Apoc. 11,11. Si veda, inoltre, la simile espressione πνεῦμα θανάτου di Eus. d. e. 10,2,13. Cfr. ancora Ps.-Or. fr. in Ps. 118,131 Pitra, πνεῦμά ἐστιν καὶ ζωή ἐστιν. Καὶ τὴν αἰτίαν δὲ ἀποδέδωκε τοῦ εἱλκυκέναι εἰς τὸ στόμα αὐτοῦ πνεῦμα, εἰπών; Greg. Naz. carm. I,2,2 v. 198 ἐς μόρον ἑλκομένην…., in riferimento all'episodio veterotestamentario di Susanna (cfr. la nota ad loc. di Zehles-Zamora, p. 113); nonché H. Kleinknecht-F. Baumgärtel-W. Bieder, πνεῦμα…, in GLNT X, coll. 7671099. 222 196-197 κλαυθμὸν… ἐμοῦ θανάτοιο… / δάκρυον Il vagito del bambino come segno di morte. L'ἀδύνατον di questi versi conclude lo "sfogo" dell'io loquens. Il desiderio di non essere mai stati generati si spinge fino ad augurarsi che il primo pianto del neonato, tradizionale segno di inizio della vita, si trasformi, invece, in un pianto di morte. Si noti, a questo proposito, l'insistenza e la forza di tale asserzione sostenuta dalla figura dell'endiadi: κλαυθμὸν… δάκρυον. ― Tradizionale la congiunzione tra morte e pianto nella classicità, per cui si rimanda a E. De Martino, Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento pagano al pianto di Maria. Introduzione di C. Gallini, Torino 2008; cfr. anche il supra cit. volume Tears in the Graeco-Romano World (Ed. by Th. Fögen), in particolare i contributi di S. Föllinger, Tears and Crying in Archaic Greek Poetry (especially Homer), pp. 17-36; D. Šterbenc Erker, Women's Tears in Ancient Roman Ritual, pp. 135-160. ― Sebbene nell'A.T. si riscontrino connessioni tra la morte e le lacrime, come in Is. 25,8 κατέπιεν ὁ θάνατος ἰσχύσας, καὶ πάλιν ἀφεῖλεν ὁ θεὸς πᾶν δάκρυον ἀπὸ παντὸς προσώπου; in Sir. 38,16-20, la prescrizione è quella di lasciarsi andare al dolore per il defuntο in conformità al suo onore e quindi di consolarsi presto, perché il dolore del cuore svilisce e logora la forza dell'uomo: Τέκνον, ἐπὶ νεκρῷ κατάγαγε δάκρυα καὶ ὡς δεινὰ πάσχων ἔναρξαι θρήνου, … πίκρανον κλαυθμὸν καὶ θέρμανον κοπετὸν καὶ ποίησον τὸ πένθος κατὰ τὴν ἀξίαν αὐτοῦ ἡμέραν μίαν καὶ δύο χάριν διαβολῆς καὶ παρακλήθητι λύπης ἕνεκα· ἀπὸ λύπης γὰρ ἐκβαίνει θάνατος, καὶ λύπη καρδίας κάμψει ἰσχύν. … μὴ δῷς εἰς λύπην τὴν καρδίαν σου, ἀπόστησον αὐτὴν μνησθεὶς τὰ ἔσχατα. La venuta di Cristo e la Sua vittoria sulla morte con la Resurrezione inaugura una nuova concezione cristiana della morte quale evento che permette il congiungimento con Dio e l'inizio della vera vita, eterna, in Cristo. L'atteggiamento dei Padri, dunque, sembra essere quello di rigettare le tradizionali forme di lamentazione, di dolore e di pianto. Nell’epitafio in onore del fratello Cesario, Gregorio, pur riprendendo il citato passo di Sir. 38,16, afferma di non volersi abbandonare allo strazio e alle lacrime per la dipartita del congiunto, ma di volerne tessere l'encomio, occupando una posizione equilibrata tra l'insensibilità e la dismisura nella quale si può facilmente cadere quando si elogia una persona: Οἴεσθέ με ἴσως, ὦ φίλοι καὶ ἀδελφοὶ καὶ πατέρες – τὸ γλυκὺ καὶ πρᾶγμα καὶ ὄνομα –, θρήνους ἐπιβαλοῦντα τῷ ἀπελθόντι καὶ ὀδυρμούς, ὑποδέχεσθαι προθύμως τὸν 223 λόγον, ἢ μακροὺς ἀποτενοῦντα καὶ κομψοὺς λόγους, οἷς οἱ πολλοὶ χαίρουσι. καὶ οἱ μὲν ὡς συμπενθήσοντες καὶ συνθρηνήσοντες παρεσκεύασθε, ἵν’ ἐν τῷ ἐμῷ πάθει τὰ οἰκεῖα δακρύσητε, ὅσοις τι τοιοῦτόν ἐστι, καὶ σοφίσησθε τὸ ἀλγοῦν ἐν φιλικοῖς πάθεσιν, οἱ δὲ ὡς τὴν ἀκοὴν ἑστιάσοντες καὶ ἡδίους ἐσόμενοι. … Μηδαμῶς, μὴ τοῦτο περὶ ἡμῶν ὑπολάβητε εἴ τι ὑπολαμβάνειν βούλεσθε δεξιόν. Οὔτε γὰρ θρηνήσομεν τὸν ἀπελθόντα πλέον ἢ καλῶς ἔχει, οἵ γε μηδὲ τῶν ἄλλων τὰ τοιαῦτα ἀποδεχόμεθα, οὔτε ἐπαινεσόμεθα πέρα τοῦ μέτρου καὶ πρέποντες… … …καὶ μεταθήσομεν τὴν λύπην ἀπὸ τῆς σαρκὸς καὶ τῶν προσκαίρων ἐπὶ τὰ πνευματικὰ καὶ ἀΐδια (or. 7,1). Al successivo § 20 il Cappadoce esorta a piangere non per Cesario, ma per i propri peccati: Μὴ τοίνυν πενθῶμεν Καισάριον, οἵων ἀπηλλάγη κακῶν εἰδότες, ἀλλ’ ἡμᾶς αὐτούς, οἵοις ὑπελείφθημεν, καὶ οἷα θησαυρίσομεν…; o ancora in carm. I,2,15, al termine di una lunga sezione nella quale passa in rassegna lo stile di vita di diverse specie di animali (ai quali opporrà nei versi successivi e in senso negativo, la condotta umana), ne descrive la morte in seguito alla malattia, senza affanno, né dolore, né lamenti, a differenza di quella umana, caratterizzata da manifeste lamentazioni dei congiunti (in tale espressione è possibile intravedere una sottile critica a tali movenze): …ἢν δὲ δαμάσσῃ / νοῦσος, ἀπενθεῖς ἄλκιμον ἆσθμα λίπον. / Οὐ γοεροῖς μελέεσσι περισταδὸν, ἄλλοθεν ἄλλος, / μύροντ’, οὐδὲ φίλοι κέρσαν ἄπο πλοκάμους. / Εἴπω μείζονα μῦθον· ἀταρβέες ἐνθάδ’ ὄλοντο, / οὐδὲν ὑποτρομέει θὴρ κακὸν, εὖτε θάνῃ. (vv. 35-40). L'atteggiamento di Gregorio Nisseno al momento della morte della sorella Macrina, nonostante sembri "giustificare" il cordoglio espresso dalla comunità delle vergini per la morte della donna (cordoglio al quale si abbandona egli stesso), può essere interpretato quale espressione della perdita dell'esempio tangibile di verginità e δεσμός con Cristo nel quale la comunità delle vergini ha riposto tutte le speranze per la salvezza delle proprie anime: Ἐμοὶ δὲ διχόθεν ἐγίνετο πάρετος ἡ ψυχὴ καὶ οἷς τὸ φαινόμενον ἔβλεπον καὶ οἷς τὴν ἀκοὴν διὰ τῆς γοερᾶς τῶν παρθένων οἰμωγῆς περιηχούμην. Τέως μὲν γὰρ ἐν ἡσυχίᾳ διεκαρτέρουν ἐκεῖναι, τῇ ψυχῇ τὴν ὀδύνην ἐγκατακλείουσαι, καὶ τὴν τῆς οἰμωγῆς ὁρμὴν τῷ πρὸς αὐτὴν φόβῳ κατέπνιγον, ὥσπερ δεδοικυῖαι καὶ σιωπῶντος ἤδη τοῦ προσώπου τὴν ἐπιτίμησιν, μή που παρὰ τὸ διατεταγμένον αὐταῖς φωνῆς τινος παρ’ αὐτῶν ἐκραγείσης λυπηθείη πρὸς τὸ γινόμενον ἡ διδάσκαλος. Καὶ οἱονεὶ πυρός τινος ἔνδοθεν αὐτῶν τὰς ψυχὰς 224 διασμύχοντος, ἐπεὶ οὐκέτι κατακρατεῖσθαι δι’ ἡσυχίας τὸ πάθος ἠδύνατο, ἀθρόως πικρός τις καὶ ἄσχετος ἀναρρήγνυται ἦχος, ὥστε μοι μηκέτι μένειν ἐν τῷ καθεστηκότι τὸν λογισμόν, ἀλλὰ καθάπερ χειμάρρου τινὸς ἐπικλύσαντος ὑποβρύχιον παρενεχθῆναι τῷ πάθει καὶ τῶν ἐν χερσὶν ἀμελήσαντα ὅλον τῶν θρήνων εἶναι. Καί μοι δικαία πως ἐδόκει καὶ εὔλογος ἡ τοῦ πάθους ἀφορμὴ ταῖς παρθένοις εἶναι (Grégoire de Nysse, Vie de Sainte Macrine. Introduction, texte critique, traduction, notes et index par P. Maraval, Paris 1971, Sch 178 par. 26,1-15, pp. 229-230), e in tale prospettiva è inquadrata la figura di Macrina "as mediator of salvation for him and for the community" da J. Warren Smith, A just and reasonable grief: the death of a holy woman in Gregory of Nyssa's Life of Macrina, Journal of Early Christian Studies 12, 2004, pp. 57-84. Ancora in Aug. Conf. 9,12,29ss. si legge il forte dissidio interiore di un uomo lacerato dal dolore per la perdita della cara madre Monica, che tenta di frenare le lacrime e mitigare il dolore, nella cristiana consolazione nella grande misericordia di Dio e di una prospettiva di resurrezione e vita eterna: Premebam oculos eius, et confluebat in praecordia mea maestitudo ingens et transfluebat in lacrimas, ibidemque oculi mei violento animi imperio resorbebant fontem suum usque ad siccitatem, et in tali luctamine valde male mihi erat. … Neque enim decere arbitrabamur funus illud questibus lacrimosis gemitibusque celebrare, quia his plerumque solet deplorari quaedam miseria morientium aut quasi omnimoda exstinctio. At illa nec misere moriebatur nec omnino moriebatur. Hoc et documentis morum eius et fide non ficta rationibusque certis tenebamus… . Ma si veda anche 9,12,33: Atque inde paulatim reducebam in pristinum sensum ancillam tuam conversationemque eius piam in te et sancte in nos blandam atque morigeram, qua subito destitutus sum, et libuit flere in conspectu tuo de illa et pro illa, de me et pro me. Et dimisi lacrimas, quas continebam, ut effluerent quantum vellent, substernens eas cordi meo; et requievit in eis, quoniam ibi erant aures tuae, non cuiusquam hominis superbe interpretantis ploratum meum. Et nunc, Domine, confiteor tibi in litteris. Legat qui volet et interpretetur, ut volet, et si peccatum invenerit, flevisse me matrem exigua parte horae, matrem oculis meis interim mortuam, quae me multos annos fleverat, ut oculis tuis viverem, non irrideat, sed potius, si est grandi caritate, pro peccatis meis fleat ipse ad te, patrem omnium fratrum Christi tui. Per la connessione tra pianto e morte si veda ancora Hom. Il. 9,570-571; Ps.-Hes. Sc. 132 πρόσθεν μὲν θάνατόν τ’ εἶχον καὶ δάκρυσι μῦρον; Callim. epigr. 2,1 Pfeiffer, Εἶπέ τις, Ἡράκλειτε, 225 τεὸν μόρον, ἐς δέ με δάκρυ / ἤγαγεν (= Anth. Pal. 7,80,1 Beckby). ― Per la tematica delle lacrime come segno di compunzione legato all'espiazione del peccato si rimanda a supra, nota ai vv. 119-120. 197 οὐκ ἂν ἐγωγε τόσοις ἐνέκυρσα κακοῖσιν Il desiderio di non essere mai stati generati ha per fine evitare i mali dell'esistenza, per cui cfr. Greg. Naz. carm. II,1,1 vv. 339-341: ἀλλ’ οὔπω τοιοῖσδε κακοῖς πάρος ἀντεβόλησα / οἵοισιν πυμάτοισιν ἐμὴ ἐνέκυρσε τάλαινα / ψυχὴ…; Quint. Smyrn. 9,504 …κακῇ ἐνέκυρσε κελεύθῳ; ma si veda anche la simile costruzione di ἔτλην con κακός, sempre in riferimento alle sofferenze della vita, che il Cappadoce utilizza in II,1,1 v. 307 ἀλλ᾽ οὔπω τοιόνδε τοσόνδε τε ἄλγος ἀνέτλην, per cui cfr. Eur. HF. 1411 …ἔτλην κακά (= Or. 376); Ph. 1511 ἔτλα κακῶν; ripresa anche da Quint. Smyr. 14,561; Anth. Pal. 7,389,1. 198 Ἓν δὲ τόδ᾽ αἰάζω περιώσιον Il verbo onomatopeico αἰάζω conferisce maggiore intensità all'espressione. Cfr. le simili espressioni di carm. II,1,1 v. 297 τοὔνεκεν αἰάζω… (= II,1,13 v. 139; II,1,42); II,1,43 v. 28 ἓν δὲ τόδ᾽ αἰάζω… . 198-215 La sezione presenta, ancora, spunti che sfiorano il genere epitalamico, come l'elogio della bellezza della giovane sposa (vv. 202-204) e la menzione di Hesperus e Lucifer (v. 205). Singolare appare, inoltre, l'alta frequenza di termini relativi alla sfera semantica del canto e della voce, ἀοιδή, posti in clausola di verso per farne risaltare la valenza (vv. 198 ἀοιδῆς, 199 ἀεῖσαι, 202 ἄεισε, 205 ἄεισεν, 206 ἄναυδος, 208 ἀοιδάς, 209 αὐδήν, 210 ἀείσω, 212 ἀοιδή, 215 ἀοιδαί), che culmina nella rievocazione delle vicende mitologiche di Eco e Pan (vv. 207-209), nella menzione delle βίβλοι πολυηχέες e delle Muse (v. 211) e del potere della cetra di Orfeo (vv. 213-214). 198-202 La costernazione e la rabbia dell'io loquens trova il suo culmine nell'impossibilità, perché negata, di intonare l'epitalamio in occasione delle nozze della sorella. Costernazione acuita dalla consapevolezza di essere un ἀοιδῆς ἴδρις, da contrapporre all'οὐδ᾽ ἀγαθός τις ἀοιδός (v. 206) che ha, in sua vece, eseguito il canto nuziale. Tale espressione dà adito, secondo Demoen, Poet, pp. 439ss., ad una 226 possibile chiave interpretativa del carme la quale riduce al minimo la realtà della vicenda che ne sta alla base, mettendone in vista il carattere di gioco retorico: per un approfondimento sulla questione si rimanda alle considerazioni avanzate supra, nota al v. 7. Il profondo rammarico del figlio è fomentato, inoltre, dalla speranza, ormai svanita, di poter placare, col canto, l'ira del genitore. 198-199 …ἀοιδῆς / ἴδρις ἐὼν… Per tale iunctura riscontrabile anche in Choeril. fr. 2,1 Bernabé, cfr. supra, nota al v. 50. 199 …ποθέων τε γάμον καὶ λέκτρον ἀεῖσαι Passi comparabili si trovano in Theogn. 1,15-16: Μοῦσαι καὶ Χάριτες, κοῦραι Διός, αἵ ποτε Κάδμου / ἐς γάμον ἐλθοῦσαι καλὸν ἀείσατ’ ἔπος; Eur. Ion. 1090-1093: ὁρᾶθ’, ὅσοι δυσκελάδοι- / σιν κατὰ μοῦσαν ἰόντες ἀείδεθ’ ὕμνοις / ἁμέτερα λέχεα καὶ γάμους / Κύπριδος ἀθέμιτος ἀνοσίους; Callim. fr. 392 Pfeiffer Ἀρσινόης ὦ ξεῖνε γάμον καταβάλλομ’ ἀείδειν; Him. or. 9, …ἐπῇσε τι καὶ μέλος γαμήλιον… … εἰκός τε καὶ χρὴ τὸν γάμον ᾄσομεν, ἐκεῖσε τὸν λόγον ἀναβιβάσαντες, ὅθεν θάλαμος καὶ γάμος ἤρξατο… … …καλὰ μὲν οὖν καὶ ταῦτα τοῦ γάμου, καὶ τὰ λοιπὰ δὲ πάντα, ὅσα ποιηταὶ ᾄδουσι καὶ νόμος θαλάμοις ἐπιφημίζεσθαι; Opp. Cyn. 1,341 ἐς θάλαμον βαίνησιν ὑμὴν ὑμέναιον ἀείδων; Nonn. Dion. 47,404 καὶ τεὸν ἱμερόεντα γάμων ὑμέναιον ἀείσω. ― Frequente la iunctura γάμον καὶ λέκτρον, soprattutto in ambito tragico per cui cfr. Eur. Hipp. 14 ἀναίνεται δὲ λέκτρα κοὐ ψαύει γάμων; Phoen. 59 λέκτρα μητρώιων γάμων; Tr. 745 ὦ λέκτρα τἀμὰ δυστυχῆ τε καὶ γάμοι; fr. 503 Nauck μετρίων λέκτρον, μετρίων δὲ γάμων; Lyc. 60 λέκτρων θ’ ἕκατι τῶν τ’ ἐπεισάκτων γάμων; Man. Apoth. 2,236-237 ἠδὲ γάμους δῶκεν φιλίους, καὶ λέκτρα γυναικῶν / ὤπασεν εὐθαλάμων, λέκτροις δέ τε δῶκε γυναικῶν; Opp. Ap. Cyn. 3,154 ἄρκτος δ’ ἱμείρουσα γάμου στυγέουσά τε λέκτρον; e poi anche Mus. ἔστι γάμος καὶ λέκτρα… . 200 πάντων ὀλοώτατε δαῖμων Slancio di invettiva contro il demonio causa di tutte i mali dell'uomo. Sembra che la iunctura ὀλοώτατε δαῖμον sia di creazione gregoriana. Per gli epiteti dispregiativi attribuiti al demonio nell'opera del Nazianzeno si veda carm. I,1,22 v. 13 δαίμονα… πικρόν; II,1,11 v. 730 δαῖμον βάσκανε; II,1,15 v. 251 φθωνερῷ δαίμονι; II,1,50 v. 57 227 βαρύστονε δαῖμον; epist. 195,6 …τὸν πονερὸν δαίμονα. Per gli appellativi di Satana si rimanda a supra, nota al v. 160, ma si veda anche II,1,55 vv. 1ss.. 201 L'io loquens sperava di poter placare, col canto, l'ira del genitore. Sul potere della parola da intendere nelle varie accezioni dι λόγος/μῦθος, (cfr. Demoen, Exempla, pp. 213ss.) che comprende anche la poesia, μέλος, e sulla connotazione psicagogica che la caratterizza, Gregorio si esprime in carm. II,2,5 vv. 182ss. dove menziona, come nel nostro carme (cfr. infra, vv. 213-214), il cantore Orfeo e le proprietà magiche della sua cetra: Μῦθοι καὶ παθέεσσιν ἄκος μέγα· τοῖσι δαμάζω / θυμὸν ὑπερζείοντα, νόου νέφος· … / … / (scil. μῦθος) καὶ μόθον αἰχμάζει, πρηῢν δέ τε φῶτα τίθησι, / μαλθάσσων ἁπαλοῖσι καὶ αἱμυλίοισι λόγοισι, / καὶ κρατερόν περ ἐόντα,… / Ὀρφείη κιθάρη μῦθος πέλεν, ὥσπερ ἐΐσκω, / πάντας ἄγων μελέεσσιν, ὁμῶς ἀγαθούς τε κακούς τε, per cui si rimanda alla nota di Moroni, pp. 256ss. e agli altri passi, anche di altri autori, ivi riportati che confermano tale concezione "tradizionale". Sulla funzione della parola, λόγος quale cura, φάρμακον, dell'ira si veda Men. fr. 380 Koch: οὐκ ἔστιν ὀργῆς, ὡς ἔοικε, φάρμακον ἀλλ’ ἢ λόγος σπουδαῖος ἀνθρώπου φίλου; sent. 46 Jäkel, Ἆρ’ ἐστὶ θυμοῦ φάρμακον χρηστὸς λόγος; 476 Jäkel, Μέγιστον ὀργῆς ἐστι φάρμακον λόγος; ma cfr. anche Ioh. Chrys. hom. 28 in Gen., dove si afferma che l'ira può essere placata cantu spiritualium admonitionum: κἂν θυμὸς πρὸς ὀργὴν διεγείρῃ, καταστέλλωμεν τὴν φλεγμονὴν τῇ ᾠδῇ τῶν πνευματικῶν παραινέσεων, δεικνύντες τοῦ πάθους τὸν ὄλεθρον (PG 53,260); e in altro contesto Them. or. 7, p. 98c Downey-Schenkl: φάρμακον δὲ ὀργῆς οἰδαινούσης τὸ μὲν αὐτίκα λόγος ἐστίν… . θαλάμου μελέεσσι Per simili espressioni cfr. Eur. Tr. 352 μέλεσι…γαμηλίοις; Aristoph. Av. 1728-1729 ἀλλ’ ὑμεναίοις / καὶ νυμφιδίοισι δέχεσθ’ ᾠδαῖς; Lib. decl. 46,2 καὶ μὴν τοῖς γε ποιηταῖς σύνηθες ᾄδειν ἐπὶ θύραις νυμφίων μέλη; Him. or. 9,26 ..ἠχῆσαι μέλος γαμήλιον; 69 ἐπῇσε τι καὶ μέλος γαμήλιον; etc. πατρὸς χόλον ἐξακέσασθαι Il χόλον ἐξακέσασθαι della clausola è modellato su Hom. Od. 3,145 ὡς τὸν Ἀθηναίης δεινὸν χόλον ἐξακέσαιτο; cfr. anche Him. or. 16,9 ἀλλά τις λόγος ἡδὺς καὶ πάνσοφος, φαρμάκου δίκην σβέσαι δυνάμενος θυμὸν ἐκ μέσης καρδίας ζέοντα; Plut. 228 Pomp. 49,2 …ὅπως ἂν ἐξακέσαιτο τῆς βουλῆς καὶ τῶν ἀρίστων τὴν πρὸς αὐτὸν ὀργήν; e le simili espressioni di Hom. Il. 9,678 κεῖνός γ᾽ οὐκ ἐθέλει σβέσσαι χόλον…; Lib. decl. 9,1 σβέσον τὴν ὀργήν; or. 16,46 σβέσετε τὴν ὀργήν; or. 54,38; Quint. Smyrn. 3,374 ἔσβεσε πάντα χόλος…; Ioh. Chrys. hom. 15 in Ac., σβεσθήσεται ἡ ὀργή (PG 60,125); stat. 8, τῆς ὀργῆς σβεσθείσης, καὶ θυμοῦ χαλασθέντος (PG 49,101); hom. 4 in Col. (PG 62,330) etc.; hom. 19 in Matth. τὸν θυμὸν σβεννύς (PG 57,281) etc; e Aristoph. Vesp. 727 τὴν ὀργὴν χαλάσας; Them. or. 1 p. 15c Downey-Schenkl …χαλᾷ τὴν ὀργὴν… ὁ δεσπότης; nonché Greg. Naz. carm. II,1,68 v. 90 …χαλῶν ὀργῆς τι; infra, vv. 304 …τοῖσι (scil. τεκέεσσι) πατὴρ χόλον ἐσθλὸς ἔπεψε e 314 …τεκέεσσι πατρὸς χόλος αὐτίκα λήγων. ― Si noti la radice etimologica del verbo in oggetto, denominativo da ἄκος, che esprime significativamente l'idea della cura, in senso psicofisico, di una νόσος, quale è l'ira, χόλος, così come Gregorio la apostrofa in carm. I,2,25, passim, per cui si veda supra, nota al v. 33; cfr. Chantraine, Dictionnaire, s.v. ἄκος. 202 καὶ τοῦδ᾽, ὥς τις ἀλιτρός, ἀπήμπλακον L'io loquens si considera alla stregua di un ἀλιτρός per essere stato privato dell'onore di intonare l'epitalamio per la sorella (al v. 206 si autodefinisce ἀγέραστος). L’uso del verbo (ἀπ)αμπλακίσκω conferisce una forte impronta tragica all’espressione, giacché esso si riscontra soprattutto in tragedia, costruito con il genitivo, come nel passo in oggetto, e nel significato di “ tolose, be bereft of” (cfr. LSJ s.v.), per cui cfr. Aesch. Suppl. 916 τί δ’ ἠμπλάκηται τῶνδ’ ἐμοὶ δίκης ἄτερ; Soph. Ant. 910-911 εἰ τοῦδ’ ἤμπλακον, μητρὸς δ’ ἐν Ἅιδου καὶ πατρὸς κεκευθότοιν etc.; Eur. Alc. 418. 1083 γυναικὸς ἐσθλῆς ἤμπλακες…; IA 124; fr. 1076 Nauck. Ma si veda ancora Aesch. Ag. 1222 …ὡς τάδ’ ἤμπλακον; Anth. Pal. 7,147,9 …τάδ’ ἄμπλακεν…; 7,510. Nel significato di "to fall" è usato da Gregorio in carm. II,1,10 v. 21, dove si noti, anche, la figura etimologica: ἀμπλακίη δ’ ὅτι μηδὲν ὁμοίϊον ἤμπλακον ἄλλοις (cfr. la nota di Simelidis, pp. 162-163); anche I,2,13 v. 3. 202-207 Il contrastivo rapporto tra i due "cantori", l'ignoto ἀοιδός che ha eseguito l'epitalamio in onore della sposa, e l'io loquens rimasto, invece, ἄναυδος, è realizzato, ancora una volta, attraverso il modello della Priamel: …Ἄλλος ἄεισεν /…/ … εἴρυσεν ἄλλος … ἄλλος ἄεισε, /…/ e …ἐγὼ δ᾽ (vv. 202. 205. 206). 202-204 229 L'elogio della bellezza della sposa costituisce, come prescrive Menandro Retore (pp. 142-144 Russell-Wilson) un topos portante del genere epitalamico, insieme a quello dello sposo cui Gregorio ha alluso ai vv. 185-186 (cfr. supra, nota ad loc.). Cataudella, Derivazioni, p. 67, a proposito di questo passo, scrive: «i versi hanno una bella luminosità di colori che par ignota al Nazianzeno», e richiama, inoltre, un luogo del partenio di Alcmane, fr. 1,55 Page, in cui si riscontra l'espressione τὸ τ᾽ ἀργύριον πρόσωπον, simile a quella di v. 204, ἀργυρέῃσι παρειαῖς, del nostro carme. ― La descrizione della beltà della sposa si focalizza sul volto, seguendo un percorso discendente che procede dall'alto della bionda chioma (ξανθοῖσι πλοκάμοισι), proseguendo verso le nere ciglia (μέλαιναν ὀφρὺν) che si stagliano sulle pallide gote (ἀργυρέῃσι παρειαῖς). Si noti, inoltre, la costruzione simmetrica dei tre elementi (chioma, ciglia e gote) che ricalca il modulo aggettivo + sostantivo con l'anafora di ὑπό, qualificati e connotati, ciascuno, da un aggettivo che ne indica il colore. L'assenza della descrizione degli occhi, in questo luogo, può essere, probabilmente, giustificata dall’accenno fattone al v. 187, dove la fanciulla viene definita παρθενικὴν ἑλικώπιδα. Tale piccola ἔκφρασις dei tratti femminili segue lo schema di un topos retorico codificato tipico della Seconda Sofistica, come si evince da un confronto con Lib. Descr. 30,12-14 Foerster: εἶδον γὰρ κάλλους καλὸν ὄμμα προσμειδιῶν καὶ ταῖς διαλόξοις στροφαῖς χαριτούμενον, ὀφρῦν ἑλικοειδῆ τὴν ἀψῖδα περιτορνεύουσαν, παρειὰς τῷ συμμέτρῳ τῆς χροιᾶς καὶ μηλέας ὑπεραυγαζούσας τὸ φοίνιγμα, βόστρυχον πρὸς τὼ ὦτε περικλώμενον παρασύροντα τοὺς ἀνθέρικας κἀκείνους οὔλους καὶ χρυσοειδὲς ἐπαυγάζοντας. τὸ δὲ τῆς κόμης ξάνθουλον <ἐν> ταῖς παρειαῖς εὐναζόμενον πρὸς μὲν τὸ συγγενὲς τοῦ φοινίγματος καί τι χρυσαυγίζον ἐμίγνυε, πρὸς δέ γε τὸ λευκόχρουν χρυσοειδῆ τὰ πάντα παρέτεινεν, ἐδέχετο δὲ καὶ αὐτὸ ἐκ τῆς τῶν ἐκεῖθεν χρωμάτων αὐγῆς καί πως ἀντέχρωζεν ἡδέως πρὸς ἕκαστα. καὶ παράδεισος ἀνθέων ἐδόκει τὸ πρόσωπον. εἶδον καὶ χείλη καὶ νῦν λειποθυμῶ πρὸς τὴν ἔκφρασιν; Philostr. VA 7,28; Her. 725; Philostr. Jun. Im. 856. Si veda, anche, Opp. Ap. Cyn. 3,25-27 πάσσονα μὲν φορέουσι δέρην, μεγάλην δέ τε κόρσην, / ὄμματα δ’ αἰγλήεντα καὶ ὀφρύας ὕψι βαθείας, / ἀμφιλαφεῖς ἐπὶ ῥῖνα κατηφέας…; a cui si aggiunga il singolare quadro delineato da Theocr. 20,23-27, che applica gli stessi stilemi e le stesse espressioni che designano i lineamenti femminili ad un uomo, un giovane bovaro: χαῖται δ’ οἷα σέλινα περὶ 230 κροτάφοισι κέχυντο, / καὶ λευκὸν τὸ μέτωπον ἐπ’ ὀφρύσι λάμπε μελαίναις· / ὄμματά μοι γλαυκᾶς χαροπώτερα πολλὸν Ἀθάνας, / τὸ στόμα δ’ αὖ πακτᾶς ἁπαλώτερον, ἐκ στομάτων δέ / ἔρρεέ μοι φωνὰ γλυκερωτέρα ἢ μέλι κηρῷ. E si veda, ancora, Ach. Tat. 1,4,3: ὄμμα γοργὸν ἐν ἡδονῇ· κόμη ξανθή, τὸ ξανθὸν οὖλον· ὀφρὺς μέλαινα, τὸ μέλαν ἄκρατον· λευκὴ παρειά, τὸ λευκὸν εἰς μέσον ἐφοινίσσετο καὶ ἐμιμεῖτο πορφύραν, εἰς οἵαν τὸν ἐλέφαντα Λυδία βάπτει γυνή· τὸ στόμα ῥόδων ἄνθος ἦν, ὅταν ἄρχηται τὸ ῥόδον ἀνοίγειν τῶν φύλλων τὰ χείλη. La ricezione di tale topos retorico, che gioca sulla descrizione del viso, è accolta e rielaborata, in ambito cristiano e patristico, anche in diversi luoghi dell'opera di Gregorio Nisseno: in epist. 19,1-2, per esempio, con toni polemici che sono ignoti al passo in oggetto, egli critica l'arte del pittore capace di far apparire bello ciò che non lo è, alterando e stravolgendo i tratti naturali della persona che assume, così, nuove, ma finte fattezze: ...ὡς οὖν ἐπ’ ἐκείνων κέρδος οὐκ ἔστιν οὐδὲν κόμη ξανθὴ καὶ βαθεῖα ἐπικυρτουμένη τῷ μετώπῳ καὶ περιστίλβουσα καὶ τὸ ἐπὶ τοῦ χείλους ἄνθος καὶ τὸ ἐπὶ τῆς παρειᾶς ἐρύθημα βλεφάρων τε κύκλος καὶ ἀκτὶς ὀμμάτων καὶ ὀφρύες ἐν τῷ μέλανι στίλβουσαι καὶ ἐπιλάμπον τῇ ὀφρύι τὸ μέτωπον, καὶ εἴ τι ἄλλο τοιοῦτο τὴν τῆς μορφῆς ὥραν συναπεργάζεται — ἐὰν γὰρ μὴ παρὰ τῆς φύσεως ἔχῃ ταῦτα ὁ τῷ ζωγράφῳ προτεθεὶς εἰς τὴν μίμησιν, οὐδὲν ἀπώνατο τῆς τοιαύτης φιλανθρωπίας, ἀλλ’ ὁ μὲν πίναξ ἡδύ τι καὶ περιηνθισμένον τὸ διὰ τῆς ζωγραφίας πρόσωπον ἔδειξεν, ἐλέγχει δὲ τὸ περιττὸν τῆς φιλοτιμίας ἄλλο δεικνύμενον τοῦ φίλου τὸ πρόσωπον — … la “falsa” operazione del pittore, mosso dall’intento di gratificare l’amico è, inoltre, paragonata a quella di colui che, per affetto, ne tesse lodi eccessive: il quadro raffigura, così, un uomo che rasenta la perfezione, ma che corre il pericolo di smentire, con le sue azioni, le parole che lo hanno prima elogiato: κατὰ τὸν αὐτὸν τρόπον, δοκεῖ μοι, καὶ εἴ τις ὑπὸ φιλίας ἐπαίνων ὑπερβολὰς τῷ ἀγαπωμένῳ χαρίζοιτο καὶ ἀναπλάσσοι τῷ λόγῳ μὴ οἷός ἐστιν, ἀλλ’ οἷον εἶναι προσήκει τὸν ἐν παντὶ τὸ τέλειον ἔχοντα; così come in virg. 3,3 οἷον ὀφθαλμὸν τοῖς βλεφάροις λάμποντα καὶ ὀφρῦν περικεχυμένην τῷ ὄμματι καὶ παρειὰν ἐν ἡδεῖ καὶ γλαφυρῷ μειδιάματι καὶ χεῖλος ἐπηνθισμένον τῷ φυσικῷ ἐρυθήματι, κόμην τε χρυσομιγῆ καὶ βαθεῖαν τῷ ποικίλῳ τῆς ἐμπλοκῆς τῇ κεφαλῇ περιστίλβουσαν καὶ πᾶσαν τὴν πρόσκαιρον ἀγλαΐαν ἐκείνην (SCh. 119, pp. 280-282); beat. 1 ᾧ κόμη τε τοιάδε, καὶ ὀφθαλμῶν κύκλοι, καὶ ὀφρύων περιγραφαὶ, καὶ παρειῶν θέσις, καὶ τὰ 231 καθ’ ἕκαστον πάντα δι’ ὧν συμπληροῦται ἡ εὐμορφία (PG 44,1197); Pulchr. ὅταν μὴ καθ’ ὥραν ἐν γήρᾳ συμπέσῃ ὁ θάνατος, ἀλλ’ ἐν τῇ πρώτῃ ἡλικίᾳ κατασβεσθῇ μὲν τῷ θανάτῳ ἡ ὥρα, καλυφθῇ δὲ τοῖς βλεφάροις ἡ τῶν ὀμμάτων ἀκτίς, μεταπέσῃ δὲ εἰς ὠχρότητα τῆς παρειᾶς τὸ ἐρύθημα, κρατηθῇ δὲ τῇ σιωπῇ τὸ στόμα, μελαίνηται δὲ τὸ ἐπὶ τοῦ χείλους ἄνθος (GNO 9,464): cfr. Maraval, p. 245 nota 2. Consuonano con le affermazioni del Nisseno circa l'uso distorto e ingannatore dell'arte pittorica le considerazioni del Cappadoce in carm. II,1,17 vv. 1-4: Ζωγράφος ἐστὶν ἄριστος, ὃς ἐν πινάκεσσι χαράσσει / μορφὰς ἀτρεκέας, ἔμπνοα δερκομένας· / οὐχ ὃς χρώματα πολλὰ καὶ εὔχροα μὰψ ἐπιμίξας, / λειμῶνα γραπτὸν δείκνυσιν ἐκ πινάκων; cfr. Crimi, Colori, p. 357 e Crimi, Luci, p. 146. ― Per un esempio negativo di ritrattistica letteraria legata alla fisiognomica, di riferimento appare il ritratto dell'imperatore Giuliano che Gregorio delinea in or. 5,23 (cfr. Lugaresi, Oratio V, pp. 71-79 e 221-225 sulla fisiognomica cfr. M.M. Sassi, Fisiognomica, in Lo spazio letterario della Grecia Antica I, II, Roma 1993, pp. 431-448). 203 κάλλος ἐμόν Il possessivo ἐμόν trasuderebbe il risentimento del giovane di non poter intonare l'epitalamio in onore della sorella, onore che, sempre secondo Men. Rhet. p. 134 Russell-Wilson, spetterebbe ad un parente (cfr. supra, nota ai vv. 189-192); Reitzenstein, cit. supra, p. 95; Cataudella, Derivazioni, p. 67; Regali, Epitalamio, p. 95. ξανθοῖσι ὐπὸ πλοκάμοισι La iunctura di ξανθός con πλόκαμος richiama Eur. IA 758; ma anche El. 1071 ξανθὸν κατόπτρωι πλόκαμον ἐξήσκεις κόμης; Anth. Pal. 6,217,10; 7,528,2. Si vedano anche le simili iuncturae dello stesso aggettivo con κόμη in Hom. Il. 1,197 ξανθῆς κόμης; Pherecr. fr. 189 Koch ὦ ξανθοτάτοις βοτρύχοισι κομῶν; Sapph. fr. 98a Voigt; Theogn.1,828; Bacchyl. E. 9,24 ξανθὰν…κόμαν; Eur. Bacch. 235 ξανθοῖσι βοστρύχοισιν εὔοσμος κόμην; Hel. 1224 …βοστρύχους ξανθῆς κόμης; IA 691; IT 51-52 …κόμας / ξανθὰς…; Anth. Pal. 5,26,2; etc; con θρίξ, per cui cfr. Hom. Il. 13,399; Od. 13,431; Arch. fr. S478a Page; Eur. fr. 14 Page; Men. fr. 610 Koch; e nell'A.T., in Lv. 13,36 τριχὸς τῆς ξανθῆς; Clem. Alex. paed. 1,6,44. In Greg. Naz. carm. II,1,11 v. 754 si legge l'ossimorica espressione ξανθὸς μελάνθριξ in riferimento spregiativo al cinico Massimo; etc; e con χαίτη attestata, ancora, in Hom. Il. 141; Eur. Cyc. 75; El. 232 515; Hipp. 220; IT 176. Sulle occorrenze dell'aggettivo ξανθός nella poesia del Cappadoce, cfr. Crimi, Colori, p. 351 e nota 13. 203-204 …μέλαιναν / ὀφρὺν ὑπερτέλλουσαν… Per la iunctura di ὄφρυς con μέλας cfr. Bacchyl. dith. 3,17 μέλαν δ᾽ ὐπ᾽ ὀφρύων; Theocr. 20,24 ἐπ᾽ ὄφρύσι…μελαίνας; Αch. Tat. 1,4,3; Philostr. Im. 2,9,6 αἱ ὀφρύες ὑπὸ λευκῷ τῷ μετώπῳ μέλαιναι; Crimi, Colori, p. 352 nota 20. Sembra che la costruzione ὀφρὺν ὑπερτέλλουσαν sia opera del Nazianzeno, ma si veda anche Lucianus Im. 7,20 …ὀφρύων τὸ ἐπιπρεπὲς καὶ παρειῶν τὸ ἐνερευθὲς…; nonché lo stesso Gregorio in carm. I,2,29 v. 236 οὐ γραπτῶν βλεφάρων ὀφρὺν ὕπερθε φέρειν e la nota di Knecht, p. 113: «ὕπερθε φέρειν ist zwar räumlich zu verstehen». L'espressione che ricorre in II,2,6 v. 21 ὀφρὺν ἀείρειν è da intendersi in chiave metaforica come segno di superbia, accezione che Gregorio impiega diverse volte attraverso l'immagine dell'ὄφρυς, per cui si rimanda alla nota di Bacci, p. 91 e agli altri riferimenti ivi riportati. 204 ὑπ᾽ ἀργυρέῃσι παρειαῖς Sembra che la iunctura di ἀργυρέος con παρειά sia di creazione gregoriana. Παρειά si trova spessissimo in posizione clausolare nella poesia epica predente. Ma si vedano le simili espressioni di Soph. Anth. 1239 λευκῇ παρειᾷ…; nonché Greg. Naz. carm. I,2,25 v. 96, ὠχρὰ παρειὰ… . 205 Altro topos nell'evento nuziale è la menzione di Ἔσπερος / Ἐωσφόρος, inneggiato alternativamente dal coro delle vergini che temono Hesperus per l'avvicinarsi della notte e dell'amplesso, ma cantano l'astro, Lucifer, che annuncia l'aurora. Val la pena notare la studiatissima articolazione del verso, esamentro olodattilico inciso da B2, che vede le due stelle, Ἔσπερος … Ἐωσφόρος, collocate in posizione incipitaria degli emistichi, a cui fa da pendant la combinazione chiastica delle due costruzioni: εἴρυσεν ἄλλος … ἄλλος ἄεισεν. Si aggiunga, infine, l'anadiplosi di ἄλλος. Ἔσπερον εἴρυσεν …Ἐωσφόρον… ἄεισεν I due termini designano, tradizionalmente, lo stesso astro, come si evince da Eratosth. Cat. 2,43 ὁ δὲ τέταρτος Φωσφόρος, Ἀφροδίτης, λευκὸς τῷ χρώματι. πάντων δὲ μέγιστός ἐστι τούτων τῶν ἄστρων. ὃν καὶ Ἕσπερον καὶ Φωσφόρον καλοῦσιν; e si veda anche la citazione in D. L. 8,14 di una massima di Parmenide (fr. 233 1 Diels-Kranz) πρῶτόν τε Ἕσπερον καὶ Φωσφόρον τὸν αὐτὸν εἰπεῖν, ὥς φησι Παρμενίδης. La menzione congiunta dei "due" astri si legge anche in Plat. Leg. 821 C …ἐν γὰρ δὴ τῷ βίῳ πολλάκις ἑώρακα καὶ αὐτὸς τόν τε Ἑωσφόρον καὶ τὸν Ἕσπερον καὶ ἄλλους τινὰς οὐδέποτε ἰόντας εἰς τὸν αὐτὸν δρόμον ἀλλὰ πάντῃ πλανωμένους…; Him. or. 48 σὲ μὲν πολλάκις Ἑωσφόρος ἤγαγεν ἐπὶ τὰ δίκης ἀνάκτορα, Ἕσπερος δὲ πάλιν ἐκεῖθεν προὔπεμψε…; nonché Nonn. Dion. 2,185-186 ἀντολίην ἐδόκευεν Ἑωσφόρος, Ἕσπερος ἀστὴρ / ἑσπερίην,…; 38,365 Ἕσπερον ἀντικέλευθον Ἑωσφόρος ὤθεεν ἀστήρ. Infine, si veda anche la proverbiale definizione di Aristot. Eth. Nic. 1129b: καὶ οὔθ’ ἕσπερος οὔθ’ ἑῷος οὕτω θαυμαστός; e Anth. Pal. 7,670,1-2, Ἀστὴρ πρὶν μὲν ἔλαμπες ἐνὶ ζωοῖσιν Ἑῷος· / νῦν δὲ θανὼν λάμπεις Ἕσπερος ἐν φθιμένοις; e in ambito latino Ov. Met. 5,437-438 illam non udis veniens Aurora capillis / cessantem vidit, non Hesperus…; Prop. carmen 3a,40-41, sive illam Hesperiis, sive illam ostendet Eois, / uret et Eoos, uret et Hesperios; Varro 3,5,17 intrinsecus sub tholo stella lucifer interdiu, noctu hesperus… ; Col. 10,287-288 Sic micat aut rutilus Pyrois aut ore corusco / Hesperus, Eoo remeat cum Lucifer ortu; Sen. Phaedr. 739742 talis est, primas referens tenebras, / nuntius noctis, modo lotus undis / hesperus, pulsis iterum tenebris lucifer idem; apocol. 4,1,5 qualis discutiens fulgientia Lucifer astra / aut qualis surgit redeuntis Hesperus astris, / qualis, cum primum tenebris Aurora solutis / induxit rubicunda diem,…; Ps.-Sen. epigr. 427,3 Hesperus hoc videat, Lucifer hoc videat. ― La stella, definita "la più bella che sta in cielo" da Hom. Il. 22,318 ἕσπερος, ὃς κάλλιστος ἐν οὐρανῷ ἵσταται ἀστήρ, è legata al contesto nuziale già in Sapph. fr. 104a Voigt Ἔσπερε πάντα φέρῃς ὄσα φαίνολις ἐσκέδασ᾽ αὔως. / †φέρεις ὄιν, φέρεις† αἶγα, φέρεις ἄπυ μάτερι παῖδα, a cui sembra connettersi l'isolato fr. 104b che confermerebbe, così, l'elogio omerico, ἀστέρων πάντων ὀ κάλλιστος; ma si veda anche Men. Rhet. p. 148 Russell-Wilson. Il contesto epitalamico trova una corrispondenza anche, in ambito latino, in Catull. 62, in cui il coro inneggia varie volte all'astro; interessanti appaiono, in particolare, i vv. 34-36 nocte latent fures, quos idem saepe revertens, / Hespere, mutato comprendis nomine Eous. / at lubet innuptis ficto te carpere questu; cfr. anche 64,328-329: D. A. Kidd, Hesperus and Catullus LXII, Latomus 33, 1974, pp. 22-33. ― Unisono, cioè proveniente dallo stesso coro, sembra essere il canto da cui scaturisce la menzione di Hesperus / Lucifer, secondo Cataudella, Derivazioni, pp. 67-68, che, basandosi su un confronto con l’Hekale di 234 Callimaco, ἑσπέριον φιλέουσι, ἀτὰρ στυγέουσιν ἑῷον [291,3 Pfeiff.]), così interpreta l’espressione: «Le vergini odiano Vespero, ma cantano l'astro che porta l'aurora». Lo studioso intendendo, dunque, εἴρυσεν = κατείρυσεν, come corrispondente a detraxit, carpsit, così coglieva il senso del verso: «altri biasimò Espero, altri lodò Lucifero»; cfr. anche Wyss, Gregor II, p. 850; Regali, Epitalamio, pp. 94-95; Demoen, Poet, p. 436 e nota 14. L'atteggiamento ambivalente del coro nei confronti delle diverse apparizioni della stessa stella, oltre a trovare conferma nel supra citato frammento callimacheo, potrebbe trovare un parallelo in un passo del poema pseudo-virgiliano Ciris vv. 351-2: quem pavide alternis fugitant optantque puella / (Hesperium vitant, optant ardescere Eoum). 206 οὐδ᾽ ἀγαθός τις ἀοιδός. Ἐγὼ δ᾽ ἀγέραστος, ἄναυδος L'esametro in oggetto, connotato da B2, oppone all'ignoto ἀοιδός che ha eseguito l'epitalamio, l'io loquens. L'espressione che apostrofa il presunto cantore dell'epitalamio, οὐδ᾽ ἀγαθός τις ἀοιδός, richiama e si oppone a quella in enjambements dei vv. 198-199 …ἀοιδὴς / ἴδρις ἐὼν… con la quale l'io loquens si autodesignava, e alla quale è da contrapporre la condizione di ἀγέραστος e ἄναυδος che invece, ormai, lo caratterizza. Fortemente connotativa appare, inoltre, la presenza della categoria etica dell'ἀγαθός e del γέρας, che designano rispettivamente i due personaggi. ― L'aggettivo ἀγέραστος sembra da riferirsi, in questo luogo al disonore di non aver intonato l'epitalamio, ma cfr. supra, nota al v. 153. Esso è usato anche in carm. II,2,7 v. 58 in riferimento all’ ἥμισυ corporeo e carnale dell'uomo non degno, dunque, di onore; ma si veda anche I,2,9b v. 100; nonché, per una consonanza terminologica, Hes. Th. 395 …ὅστις ἄτιμος… ἀγέραστος. Sulla tematica del disonore nel mondo classico si veda D.L. Cairns, AIDŌS. The Psychology and Ethics of Honour and Shame in Ancient Greek Literature, Oxford 1993. ― L'aggettivo ἄναυδος designa anche Gregorio stesso in II,1,1 v. 364, dove occupa la stessa posizione clausolare del passo in oggetto; così come in II,1,17 v. 61 (cfr. la nota di Simelidis, p. 195). Si noti, infine, l'allitterazione dell'α che cadenza tutto il verso. 207 πένθεος ἑσσάμενος κείμην νέφος Simile verso in carm. II,1,45 all'interno di una simbologia coloristica fondata sulla comparazione del corpo ad una nube che oscura, ostacolandola, la contemplazione 235 della luce divina: …ἀλλὰ μέσον νέφος ἵστατο ὄσσε καλύπτον / σὰρξ ἐπανισταμένη πνεύματι σὺν χθονίῳ (vv. 39-40); per tale concezione si veda anche or. 21,2 ᾯτινι μὲν οὖν ἐξεγένετο, διὰ λόγου καὶ θεωρίας διασχόντι τὴν ὕλην καὶ τὸ σαρκικὸν τοῦτο, εἴτε νέφος χρὴ λέγειν εἴτε προκάλυμμα, Θεῷ συγγενέσθαι, καὶ τῷ ἀκραιφνεστάτῳ φωτὶ κραθῆναι καθόσον ἐφικτὸν ἀνθρωπίνῃ φύσει,…; I,2,10 vv. 9395 con l'espressione in enjambement …νέφος / σαρκὸς παχείας… per cui si rimanda alla nota ad loc. di Kertsch, p. 94; e Špidlík, Intoduction, p. 45. Nel passo in oggetto, l'immagine metaforica della nuvola di dolore che avvolge la persona dell'io loquens deve essere vista in un'accezione negativa legata cioè agli affanni, come si legge in Hom. 17,591 Ὣς φάτο, τὸν δ’ ἄχεος νεφέλη ἐκάλυψε μέλαινα; Bacchyl. Ε. 13,3031…καὶ ὅταν θανάτοιο / κυάνεον νέφος καλύψῃ…; Eur. Herc. 1216-1217 οὐδεὶς σκότος γὰρ ὧδ’ ἔχει μέλαν νέφος / ὅστις κακῶν σῶν συμφορὰν κρύψειεν ἄν. Essa richiama e si collega allo status metaforico di oscurità e caligine che ha offuscato, a causa del dissidio familiare, la casa Vitaliano, come viene affermato ai vv. 47-49, cfr. supra, nota ad loc., e si oppone, in un parallelismo contrastivo, a quella della nube con la quale si ricopre il padre Vitaliano per distaccarsi dal mondo terreno, per cui si veda infra, nota al v. 275. La costruzione di ἔννυμι con νέφος sembra ispirarsi a Hom. Il. 14,350 …ἐπὶ δὲ νεφέλην ἕσσαντο / καλὴν χρυσείην…, descrizione dell'amplesso di Zeus ed Era; 15,307-308 …πρόσθεν δὲ κί’ αὐτοῦ Φοῖβος Ἀπόλλων / εἱμένος ὤμοιιν νεφέλῃ… (= 20,150); ma si vedano anche le simili espressioni di Apoll. Rh. 1,218 λυγαίοις… περὶ νεφέεσσι καλύψας; nonché Greg. Naz. or. 34,7 …τὴν θάλασσαν, καὶ χειροποιήτῳ νέφει κεκαλυμμένην…; epist. 223,6 …ὥσπερ νέφει τῇ λύπῃ καλύπτεσθαι,…; Quint. Smyrn. 8,488 …νεφέεσσι …κεκάλυπτο etc.; Nonn. Dion. 2,20 …καλυπτομένου νεφέων… . 207-215 Il rammarico dell'io loquens di non aver potuto intonare l'epitalamio, culmina nell’iperbole di paragonare la sua "potenziale" poesia ai canti di Eco e di Orfeo: il canto dell'io loquens, con il quale egli sperava di placare l'ira del genitore (cfr. supra, v. 201 καὶ θαλάμου μελέεσσι πατρὸς χόλον ἐξακέσασθαι), non ha assunto le fattezze neppure di un controcanto simile a quello riecheggiante di Eco (οὐδ᾽ ὅσον Ἠχώ /…/ …ὑστερόφωνον…χέον αὐδήν), che si ode quando Pan intona i canti pastorali sui monti; e anche se egli avesse avuto la stessa potenza persuasiva della cetra di Orfeo, 236 poiché il suo canto è rimasto inespresso e non ha raggiunto le orecchie del padre (cfr. v. 212 τίς χάρις, εἰ μὴ πατρὸς ἐν οὔασι κείσετ᾽ ἀοἰδή) risulto vano e illusorio. Si assiste, pertanto, ad un rigetto della poesia (Ἔρρετε μοι, βίβλοι πολυηχέες· ἔρρετε, Μοῦσαι), per allontanare l’invidia causata dalle capacità poetiche dell'io loquens: la scelta del silenzio diventa, così, necessaria per allontanare questo vitium e tentare di sanare il dissidio col padre (δώσω καὶ τόδε σοι, μογερὲ φθόνε. Λήξατ᾽, ἀοιδαί). Dietro tale affermazione non si può fare a meno di scorgere il riflesso speculare della personale esperienza del Cappadoce che, proprio per allontanare l'invidia dei nemici attirata dalla sua forbita loquela, si impose, nella Quaresima del 382 il silenzio: esperienza che trova testimonianza nella composizione di carm. II,1,34 A-Β. — Sulla tecnica della σύγκρισις applicata a questo passo, come ai vv. 140-141 (menzione del giardino di Alcinoo), cfr. Demoen, Exempla, pp. 150-160 e nota 310. 207-209 Pan ed Eco. L'exemplum mitologico è rievocato anche in carm. I,2,29 vv. 153-154, dove troviamo gli stessi stilemi del passo in oggetto (per cui cfr. la nota ad loc. di Knecht, pp. 92-93), per sostenere la tesi dell'assurdità dell'amore, in coppia a quello di Narciso che nel nostro carme è richiamato supra, ai vv. 152ss.: πυνθάνομ’, ὡς κενεὴν καὶ ἀνείδεον, ὑστερόφωνον / ἠχώ τις ποθέων, πλάζεθ’ ὑπὲρ σκοπέλων. 208 ποιμενίας μέλποντος ἐν οὔρεσι Πανὸς ἀοιδάς La costruzione del verso sembra essere sapientemente studiata. Si noti, in primo luogo, il forte iperbato che separa la iunctura ποιμενίας … ἀοιδάς, collocandone le componenti nei punti strategici del verso, incipit e clausola, iperbato che caratterizza, inoltre, la costruzione μέλποντος … Πανὸς. ― L'aggettivo ποιμένιος sembra essere soprattutto di uso tardo rispetto al corradicale ποιμενικός: si veda, a questo proposito, lo stesso Gregorio in Anth. Pal. 8,22,1 Ποιμενίην σύρριγγα τεαῖς ἐν χερσὶν ἔθηκα; e carm. II,1,19 v. 65 dopo l'emendamento dell'editore Simelidis, ποιμενίην σύρριγγα (cfr. la nota ad loc. p. 204); e, ancora, Anth. Pal. 16,153,1-2 Ποιμενίαν ἄγλωσσος ἀν’ ὀργάδα μέλπεται Ἀχὼ / ἀντίθρουν πτανοῖς ὑστερόφωνον ὄπα; LSJ s.v. 209 …ὑστερόφωνον… χέον αὐδήν L’io loquens non si produce in un canto riecheggiante e solitario, alla stregua di Eco, che farebbe almeno da ὑστερόφωνον a quello dell’ignoto cantore. Per il canto e il 237 suo riecheggiamento, ὑστερόφωνον, legato alla vicenda di Pan ed Eco si veda anche Nonn. Dion. 16,287-289 καὶ μέλος ἠνεμόφοιτον ὀρεσσαύλων ὑμεναίων / αἰδομένοις στομάτεσσιν ἀμείβετο παρθένος Ἠχώ, / Πανιὰς ὑστερόφωνος…; 32,130-131 Πᾶνα δὲ καλλείψασα καὶ ὑστερόφωνον ἀοιδὴν / φθόγγῳ μαινομένῳ μυκήσατο δύσθροος Ἠχώ; 47,177; 48,494; nonché lo stesso Gregorio che definisce il suono "un prolungamento dell'eco", …τὸ τῆς ἠχοῦς ὑστερόφωνον (or. 43,77). Knecht, a comm. di I,2,29 v. 153, interpreta l’espressione di Ov. Met. 3,358 resonabilis Echo come una possibile resa latina dell’aggettivo in oggetto. ― La costruzione clausolare, χέον αὐδήν, ricalca quella di Ps.-Hes. Sc. 396; e si veda anche Hom. Od. 19,521 …χέει πολυδευκέα φωνήν; Bacchyl. E. 5,15 δὲ γᾶρυν ἐκ στήθεων χέων; Ael. Arist. or. 45 Dindorf p. 98 Jebb τῷ μὲν ἐπὶ γλώσσῃ γλυκερὴν χείουσιν ἀοιδὴν; nonché Nonn. Dion. 8,29-30 αὐλομανὲς μίμημα, καὶ αὐτοδίδακτον ἀοιδὴν / ἡμιτελὴς κελάδησε χέων ὑποκόλπιον ἠχώ; Anth. Pal. 16,226 …σύρριγγι χέων μέλος… . ἄκρων… ἀπὸ σκοπέλων Il nesso è modellato su Apoll. Rh. 4,926 ἄκρων ἐκ σκοπέλων πυριθαλπέος ὑψόθι πέτρης, e fa da pendant a quello di v. 213 …ἐν Ὀδρυσίοις σκοπέλοις. 210-211 Le parole dell'io loquens, rivestite della figura dell'iperbole, acquistano un sapore molto aspro: in esse prende vita una recusatio della poesia cui l'io loquens si era dedicato. L'espressione κλαύσω πρωτοτόκων ἐπέων μόρον indicherebbe i versi composti dal giovane che, seppur nati per primi, sono rimasti, però, inespressi. 211 βίβλοι πολυηχέες Sono quelli della poesia epica. Si noti come l'aggettivo πολυηχής contenga un chiaro rimando alla figura di Ἠχώ e al suo canto. Esso, quale attributo della "voce" dell'usignolo nel supra citato passo di Hom. Od. 19,521, assume una connotazione negativa in Greg. Naz. carm. II,1,34A v. 117 γλώσσης πολυηχέος, dove la lingua è definita "pettegola": cfr. Piottante, p. 103. Sull'apprezzamento di Gregorio nei confronti di Omero, cfr. Wyss, Gregor II, pp. 839-841. Μοῦσαι In tale contesto puntuale sembra essere la menzione delle Muse, tradizionalmente ispiratrici di poesia. Un passo interessante da accostare, mi sembra, quello di carm. I,2,10 v. 42, in cui Gregorio elogia la "musa omerica": κἂν τὴν Ὁμήρου μοῦσαν ἐν 238 στέρνοις ἔχῃς, per cui cfr. la nota di Kertsch, p. 198. In tono polemico esse sono richiamate in II,1,41 vv. 15-16 contro le presunte velleità letterarie del cinico Massimo: Mὴ καὶ σὺ μουσόπνευστος ἡμῖν ἀθρόως, / ὥσπερ λέγονται τῶν πάλαι σοφῶν τινες; cfr. anche Anth. Pal. 8,108,1. 126,3. 127,1. 128,1. 134,3. 212-214 Il rammarico dell’io loquens nasce dalla dolorosa consapevolezza di non poter placare l’ira del padre col suo canto. Anche se la sua poesia (ἀοιδή) avesse le stesse proprietà persuasive della cetra del mitico cantore Orfeo, capace di attirare a sé le pietre, le belve e gli uccelli da lontano (εἰ…Ὀρφείη… / λᾶας ἄγοι, καὶ θῆρας ἀπόπροθε, καὶ πετεηνά), giacché è rimasta inespressa, essa non giungerà mai alle orecchie paterne. 213-214 Rievocazione dei poteri della poesia di Orfeo. Una simile menzione del personaggio si legge nel supra citato passo di carm. II,2,5 vv. 182ss., in part. 193-194 (cfr. nota al v. 201). Orfeo viene menzionato in altri luoghi dell'opera del Cappadoce segnalati da Moroni, p. 259 e Gautier, Retraite, p. 205 nota 6, a cui si può aggiungere un passo delle historiae dello Ps.-Nonno, in part. comm. in or. IV hist. 77 Ὀρφεὺς γέγονε μουσικός, Θρᾷξ τὸ γένος, ὃς λέγεται ὅτι οὕτω προσηνῶς ᾖδεν ὥστε ἐπακολουθεῖν τῇ ᾦδῇ αὐτοῦ τὰς δρῦς καὶ τῶν ζῴων τὰ ἄλογα, καὶ τοὺς λίθους, καὶ τοὺς ποταμούς. … (cfr. Nimmo-Smith, p. 149), e Kurmann p. 389 che segnala il passo di Clem. Alex. Protr. 1,1. 214 Ὀρφείη Aggettivo sostantivato, denominativo da Ὀρφεύς (cfr. LSJ s.v.), che potrebbe sottintendere la κιθάρη di carm. II,2,5 v. 193 (presumibilmente modellata su Apoll. Rh. 2,161 Ὀρφείῃ φόρμιγγι): sulla formazione di queste "morphological insertion forms", nell'opera del Cappadoce cfr. Demoen, Exempla, p. 162 e nota 319. ἐν Ὀδρυσίοις σκοπέλοισι L’aggettivo Ὀδρύσιος sarebbe conio del Cappadoce. Il Lexicon dei carmi del Nostro glossa il termine con θρᾳκικοῖς (epsilon, lemma 204,1), richiamando, cioè, i monti della Tracia di cui il mitico cantore sarebbe originario, cfr. Hunger s.v. 215 239 La concessione che l'io loquens farebbe all'invidia sarebbe, dunque, quella di rinunciare alle proprie velleità letterarie e poetiche che hanno suscitato questo sentimento. Similmente al passo in oggetto (σοι, μογερὲ φθόνε), attraverso l'espediente retorico della personificazione, Gregorio in carm. II,1,34B si rivolge direttamente a questo vitium, per opporgli, contrastivamente all'ostilità dei nemici, il silenzio assoluto: …Ὦ φθόνε, καὶ σὺ / ἐξ ἐμέθεν τι λάβοις. Ἴσχεο, γλῶσσα φίλη, / βαιὸν δ᾽ ἴσχεο, γλῶσσα·… (vv. 39-41 e cfr. la nota di Piottante, pp. 126-131). 216-228 L'immagine della bilancia connota questa sezione del carme. L'io loquens teme che Dio punisca Vitaliano con le stesse sofferenze che il genitore sta infliggendo ai figli maschi (vv. 216-217), giacché l'uomo dimostra una condotta non equilibrata nei confronti della prole (al v. 163 il figlio aveva accusato il genitore di mostrarsi benevolo nei confronti degli altri figli). Cristo non può permettere, infatti, che un padre assuma un atteggiamento non univoco nei confronti dei suoi figli, dimostrandosi con alcuni benevolo, ostile verso altri (vv. 221-223). Sembra che la prospettiva sia, qui, quella terrena e non alluda al giudizio finale sulle azioni dell'uomo, dopo la morte: l'io loquens, infatti, si augura che Cristo giudice degli esseri umani, per riequilibrare la "bilancia del comportamento" di Vitaliano, che in questo momento pende a sfavore dei figli maschi, non faccia spostare l'ira del genitore anche sulle figlie femmine (vv. 223‐225). — Già antica la bilancia quale immagine del giudizio sull'uomo: è presente in Hom. Il. 8,69ss. dove Zeus pesa il destino dei combattenti durante la guerra di Troia, per stabilire la loro sorte, καὶ τότε δὴ χρύσεια πατὴρ ἐτίταινε τάλαντα· / ἐν δ’ ἐτίθει δύο κῆρε τανηλεγέος θανάτοιο / Τρώων θ’ ἱπποδάμων καὶ Ἀχαιῶν χαλκοχιτώνων, / ἕλκε δὲ μέσσα λαβών· ῥέπε δ’ αἴσιμον ἦμαρ Ἀχαιῶν; e cfr. anche la bella similitudine di 12,433ss. che presenta, come posti su una bilancia perfettamente in equilibrio, i due eserciti nemici, il troiano e l'acheo: ἀλλ’ ἔχον ὥς τε τάλαντα γυνὴ χερνῆτις ἀληθής, / ἥ τε σταθμὸν ἔχουσα καὶ εἴριον ἀμφὶς ἀνέλκει / ἰσάζουσ’, ἵνα παισὶν ἀεικέα μισθὸν ἄρηται· / ὣς μὲν τῶν ἐπὶ ἶσα μάχη τέτατο πτόλεμός τε; 16,58 …γνῶ γὰρ Διὸς ἰρὰ τάλαντα; 19,223-224 …ἐπὴν κλίνῃσι τάλαντα / Ζεύς…; 22,209; ma anche Arch. fr. 91 West; Theogn. 1,357 (cit. supra, nota al v. 30). La metafora della bilancia della giustizia è concepita, in Omero, quale metro di misura e giudizio sul destino 240 dell'uomo ancora in vita, e non delle anime dopo la morte, nell'oltretomba, tradizione di origine egiziana che attraverso varie mediazioni è giunta al cristianesimo: cfr. A. Setaioli, L'immagine delle bilance e il giudizio dei morti, Studi italiani di Filologia Classica 44, 1972, pp. 38‐54, con citazione di passi di autori latini cristiani. 216-217 Μή σοι …Θεός, μηδ᾽ ὅστις ἑταῖρος / ἀντιταλαντεύσειε… In Gregorio, come in altri autori cristiani, l’immagine della bilancia è sfruttata anche per rappresentare il giudizio di Dio alla fine dei tempi, quando Egli peserà i comportamenti degli uomini, dando a ciascuno le ricompense che gli spettano: …ἕως ἡ χρηστότης τοῦ Θεοῦ κρύπτεται καὶ τὰ μεγάλα ταμιεῖα τῶν ὕστερον ἑκατέροις ἀποκειμένων ἡνίκα καὶ λόγος καὶ πρᾶξις καὶ διανόημα τοῖς δικαίοις σταθμοῖς τοῦ Θεοῦ ταλαντεύεται· ὅταν ἀναστῇ κρῖναι τὴν γῆν, τὴν βουλὴν καὶ τὰ ἔργα συνάγων καὶ γυμνῶν τὰ ἐσφραγισμένα παρ’ αὐτῷ καὶ σωζόμενα (or. 21,17); sulla stessa bilancia, infatti, saranno pesati tutti i mortali che la morte pareggia: ὀψὲ μέν, ἔμπα δὲ πᾶσιν ἴσον θνητοῖσι τάλαντον (carm. II,1,32 v. 43); e anche lo stesso Gregorio, come si legge in II,1,73 vv. 7-8, dove utilizza l'espressione "bilancia della giustizia" Πολλὰ πάθον, καὶ τάρβος ἔχω φρενί, μή με διώκειν / τῆς σῆς ἤρξατ’, Ἄναξ, αἰνὰ τάλαντα δίκης; si veda anche or. 40,45. ― Il verbo (ἀντι)ταλαντεύω è usato dal Cappadoce in una pericope sul destino dell'uomo malvagio, quale è stato l'imperatore Giuliano, la cui malvagità verrà soppesata nei τοῦ Θεοῦ σταθμία (cfr. Pr. 16,11) e troverà la giusta punizione al momento opportuno per opera del Logos: …τοῖς εἰρημένοις προσθεῖναι τὰ δίκαια τοῦ Θεοῦ σταθμία καὶ οἷς ἀντιταλαντεύεται πονηρία, τοῖς μὲν αὐτόθεν ἀπαντῶσα, τοῖς δὲ καὶ μικρὸν ὕστερον, ὅπως ἄν, οἶμαι, τῷ τεχνίτῃ Λόγῳ δοκῇ, καὶ ταμίᾳ τῶν ἡμετέρων, ὃς οἶδε συμφορὰν μὲν ἐπικόπτειν ἐλέῳ, θράσος δὲ ἀτιμίᾳ σωφρονίζειν καὶ μάστιξιν οἷς αὐτὸς ἐπίσταται μέτροις παιδεύσεως (or. 5,1, cfr. Lugaresi, Oratio V, p. 174); e si veda anche carm. I,2,15 dove Gregorio pesa sui piatti della bilancia i mali e i beni riscontrando, così, la pesantezza e la maggiore quantità dei primi, che fanno pendere verso terra il piatto su cui sono posti, εἰ γάρ κεν ὅσα τερπνὰ καὶ ὁππόσα λυγρὰ βίοιο / ἀντιταλαντεύοις, μέσσα τάλαντ’ ἐρύων, / πολλόν κεν βρίθουσα κακῶν ἐπὶ γαῖαν ἴκοιτο / πλάστιγξ, ἡ δ’ ἀγαθῶν, ἔμπαλιν ὕψι θέοι (vv. 59-62); e, ancora, Gregorio stesso chiede al Signore di bilanciare le pene in rapporto alla sua 241 capacità di sopportazione: Ἀντιταλαντεύοις τίσιν ἀπημοσύνῃ (II,1,50 v. 112). Il Cappadoce usa, inoltre, questa immagine in II,2,1 per esprimere l'idea della giusta misura da applicare, in riferimento all'attività del funzionario Ellenio, cui aveva chiesto di estendere l'immunità dalle imposte a singoli membri del clero di Nazianzo, …εἰ γὰρ ἅπασιν / ἶσα ταλαντεύσαις, ὄμμα μέγα τρομέων, / τυτθὴ μὲν πόλις ἐσμέν, ἀτὰρ πολὺ σεῖο, φέριστε, / δώσομεν ἀνθρώποις, ἡ Διοκαισαρέων, / οὕνομα,… (vv. 363-366); cfr. anche I,2,1 vv. 651ss. dove, dopo aver vagliato le caratteristiche dei due stili di vita, quello matrimoniale e quello verginale, Gregorio li pone sulla bilancia, per dimostrare come la scelta propenda a favore della verginità: Ταῦτα ταλαντεύοι τις, ὅπη πλάστιγγος ἐρωὴ / δερκόμενος, καὶ πολλὸν ἐμὸς βίος ὕψος ἀνέλκοι / πρὸς Θεὸν ὑψιμέδοντα, πᾶσι περίφαντος ἀρίστοις. 217 …Δέος δέ μέ καὶ τόδ᾽ ὀρίνει Il verbo ὀρίνω, che è usato nella tradizione classica per rappresentare lo sconvolgimento del mare, cfr. Hom. Il. 9,4; 11,298; Od. 7,273; etc. (ripreso in tal senso da Gregorio in carm. I,1,20 v. 18; II,1,1 v. 12), potrebbe richiamare, in questo luogo la nota metafora marina della vita, ampiamente presente nel nostro carme (cfr. supra, vv. 20ss. e relativo commento). Esso è usato in senso metaforico, come nel passso in oggetto, anche in II,2,4 v. 49 …τὸ καὶ πλέον ἦτορ ὀρίνει (cfr. la nota di Moroni, pp. 109-110); e si veda anche Nonn. Par. 14,107 μὴ κλόνος ὑμετέρην κραδίην, μὴ τάρβος ὀρίνῃ. 218-219 L'io loquens rivolge al padre della accuse molto pesanti che mettono in dubbio l'amore che il genitore nutre verso le figlie femmine (nei confronti dei maschi Vitaliano ha già dato dimostrazione di carenza di affetto paterno, cacciandoli da casa) tenute, invece, in grande conto e considerazione e trattate con grande cura (per il contrastivo atteggiamento di Vitaliano nei confronti dei diversi figli si veda anche supra, vv. 163ss. e relativo commento). 219 ἐν παλάμῃ φέρεις, καὶ ὑψόσ᾽ ἀείρεις Le due immagini in oggetto, dall'evidente valore metaforico, racchiudono lo stesso significato: tenere qualcuno in palmo di mano o sollevarlo in alto vuol dire attribuirgli onore e considerazione, e anche garantirgli protezione e difesa: qualcosa di simile in Ps. 91,11-12: ὅτι τοῖς ἀγγέλοις αὐτοῦ ἐντελεῖται περὶ σοῦ τοῦ 242 διαφυλάξαι σε ἐν πάσαις ταῖς ὁδοῖς σου· ἐπὶ χειρῶν ἀροῦσίν σε, μήποτε προσκόψῃς πρὸς λίθον τὸν πόδα σου. Per simili espressioni, ma con diverse accezioni, si veda supra, nota al v. 101; cfr., anche, Quint. Smyrn. 13,529-530 …οἵ σε φίλῃσιν ἀειράμενοι παλάμῃσιν / οἴσομεν… . 220-221 L'io loquens lamenta di essere stato escluso dalla casa paterna (cfr. supra, v. 175 τόσσον ἀπεχθαίρεις, καὶ δώματος ἐκτὸς ἐλαύνεις), così come anche ai vv. 145-146 aveva già manifestato il suo rammarico per l'impossibilità di vedere il padre, …οὐδὲ πρόσωπον / σεῖο, πάτερ, λεύσσοντες ἐπὶ χρόνον εὖτ᾽ ἐχολώθες (cfr. anche v. 191 εἰρχθέντες κατὰ δῶμα…). L'elemento della vista e dello sguardo, negati, potrebbe costituire una possibile chiave di lettura della vicenda umana che si trova alla base della composizione del carme. Il desiderio, mostrato dall'io loquens di vedere il volto del padre, tradurrebbe il disperato bisogno di instaurare un dialogo e un confronto col genitore ― il termine πρόσωπον indica, come è noto, sia il volto, ma basilarmente ciò che sta πρὸς τὴν ὄψιν "dinanzi agli occhi", un volto dinanzi ai nostri occhi che a sua volta ci guardi frontalmente e nel quale rispecchiarsi: cfr. Chantraine, Dictionnaire, s.v.; C. Mugler, Dictionnaire historique de la terminologie optique des Grecs. Douze siècles de dialogue avec la lumière, Paris 1964, s.v. (in 2Re 25,19 vedere la faccia del re diventa un titolo, infatti “coloro che vedono la faccia del re” sono i funzionari di corte: ἄνδρας τῶν ὁρώντων τοῦ βασιλέως). Rizzini, pp. 110 e nota 11; 114 e note 24 e 26, ha riscontrato, nella cultura greca, l'attribuzione di una funzione cardine all'occhio, al quale si assegnava il ruolo di strumento, condizione e tramite del contatto tra un individuo e il mondo esterno: lo scambio di sguardi rappresentava, così, la precondizione e l'essenza dell’atto comunicativo, poiché la comunicazione verbale può essere definita un atto in praesentia il cui presupposto risiede nel contatto oculare. Se lo scambio reciproco e palese degli sguardi era segno di un rapporto bilaterale, in cui i soggetti erano impegnati in modo dichiarato e paritario, uno sguardo sbilanciato o nascosto, rifiutato, siglava, antiteticamente, un rapporto unilaterale, improntato a quella non condivisione che si identifica con la voluntas di dominio, di aggressività, di inganno: cfr. anche L. M. Napolitano Valditara, Platone e le ragioni dell’immagine: percorsi filosofici e deviazioni tra metafore e miti, Milano 2007, pp. 57 e 98-99; Ead., Lo sguardo nel buio. Metafore visive e 243 forme greco antiche della razionalità, Roma 1994, pp. 56ss. Il rifiuto a mostrare il volto e il sottrarsi allo sguardo dell’altro sembrano realizzare, allora, il venir meno delle condizioni di una relazione franca e frontale: tale prospettiva, a mio avviso, potrebbe applicarsi anche al nostro testo laddove, il rifiuto del padre di vedere i figli genera uno squilibrio e un’asimmetria assimilabile al negare la comunicazione. Indicative, a questo proposito, sono le numerose allocuzioni che cadenzano il carme, che attestano la necessità e il bisogno di "pronunciare il discorso" (cfr. vv. 6-7 e 177-178). Se l’atteggiamento, dunque, che tipicamente si associa alla scelta del silenzio è quello del rifiuto dell’interazione visiva, la volontà di non comunicare verbalmente viene espressa innanzitutto evitando di porsi in relazione con l’altro anche a livello dello sguardo. Nel sottolineare lo stretto legame tra retorica e fisiognomica I. Rizzini, L’occhio parlante. Per una semiotica dello sguardo nel mondo antico, Venezia 1998, pp. 81ss. ha evidenziato, inoltre, sulla base di un confronto con le rappresentazioni vascolari dell'ambasceria ad Achille - che mostrano l'eroe in preda all'ira con lo sguardo fisso a terra o avviluppato e coperto da un manto, colto, dunque, nella non disponibilità ad ascoltare e a lasciarsi convincere, ostinato nel suo rifiuto al dialogo che si concretizza nel non rivolgere lo sguardo all'interlocutore - l’associazione tra l’ira e il silenzio, nonché la corrispondenza simbolica tra il rifiuto della parola e il rifiuto dello sguardo (la studiosa nota che anche negli scolii ai vv. 436-437 del Prometeo eschileo una causa del silenzio dei personaggi tragici è imputabile all'ira). Tali dinamiche potrebbero adattarsi anche alle vicende del nostro carme, laddove il destinatario, Vitaliano, si mostra fortemente adirato con i suoi figli e si sottrae, così, al loro sguardo, recidendo ogni possibilità di dialogo e riconciliazione, nel tentativo di annullare quel rapporto riflessivo che si genera naturalmente tra genitori e figli (la somiglianza tra genitori e figli è confermata anche, nella Scrittura, da Sir. 30,4 ἐτελεύτησεν αὐτοῦ ὁ πατήρ, καὶ ὧς οὐκ ἀπέθανεν· ὅμοιον γὰρ αὐτῷ κατέλιπεν μετ’ αὐτόν). Quella tra padri e figli è, infatti, una relazione speculare nella quale i padri, rappresentando un modello e un esempio costante per i figli, offrono loro un comportamento di riferimento che i bambini ammirano come in uno specchio e che cercano di emulare e incarnare (Gregorio si mostra ben consapevole di tale concezione come si evince dai vv. 65-67 e 86-89 del nostro carme, per cui si rimanda supra, note ad. 244 loc.; e si veda anche Ps.-Plut. lib. educ. 14A, dove si consiglia ai padri di offrire un esempio positivo e di non cadere negli stessi errori che rimproverano ai figli, πρὸ πάντων γὰρ δεῖ τοὺς πατέρας τῷ μηδὲν ἁμαρτάνειν ἀλλὰ πάνθ’ ἃ δεῖ πράττειν ἐν αργὲς αὑτοὺς παράδειγμα τοῖς τέκνοις παρέχειν, ἵνα πρὸς τὸν τούτων βίον ὥσπερ κάτοπτρον ἀποβλέποντες ἀποτρέπωνται τῶν αἰσχρῶν ἔργων καὶ λόγων. ὡς οἵτινες τοῖς ἁμαρτάνουσιν υἱοῖς ἐπιτιμῶντες τοῖς αὐτοῖς ἁμαρτήμασι περιπίπτουσιν, ἐπὶ τῷ ἐκείνων ὀνόματι λανθάνουσιν ἑαυτῶν κατήγοροι γιγνόμενοι). La relazione di somiglianza si caratterizza, inoltre, per la specularità non solo tra il modello e il suo riflesso, ma tra il riflesso e il suo modello, il padre e il figlio, che plasma le proprie attitudini su quel prototipo, ma che in virtù di fisiologiche assimilazioni le incarna già: per questa tematica si veda F. Frontisi-Ducroux, J. P. Vernant, Ulisse e lo specchio. Il femminile e la rappresentazione di sé nella Grecia antica, Roma 2003, p. 99. 221 τὰς… πᾶσιν ἔθηκας ἀπεχθέας L'adirato atteggiamento di Vitaliano nei confronti dei figli maschi ha avuto delle ripercussioni sulla comune considerazione delle figlie femmine dell'uomo che appaiono, di conseguenza, invise a tutti. L'espressione πᾶσιν potrebbe anche intendersi, in senso classico, nel significato di "per tutti, a generale giudizio" sulla base di un confronto con Hom. Il. 2,285; Soph. OC 1446; OT 8, cfr. LSJ s.v.; ma anche con l'affermazione che lo stesso io loquens fa, poco oltre, ai vv. 229-230: Σοὶ δέ, πάτερ, πάντες μὲν ὅσοι τελέθουσι τοκῆες / καὶ παῖδες, κοτέουσιν ἀμείλιχον ἧτορ ἔχοντι. 221-223 Cristo Signore non consente che un genitore si comporti in maniera diversa nei confronti dei figli, mostrandosi mite a favore di uno, τῷ μὲν πατέρ᾽ ἤπιον εἶναι, e avverso ad un altro, τῷ δὲ βαρυφρονέοντα. La costruzione πατέρ᾽ ἤπιον εἶναι ricorre anche supra, v. 163 (cfr. nota ad loc). Il verbo βαρυφρονέω, da intendersi nel senso di "haten Sinnes sein", sembra essere stato forgiato da Gregorio, cfr. LBG s.v. 223-225 Ritorna l'immagine della bilancia sapientemente amministrata da Cristo, Figlio dell'Eterno che regola, riequilibrandoli, i rapporti tra il genitore e i figli. L'io loquens si augura che Cristo non aggravi di malizia chi è amato, cioè non faccia ricadere sulle figlie di Vitaliano le colpe del genitore, attirando su di queste la collera di Dio: 245 per tale concezione di matrice arcaica, presente soprattutto nella tragedia cfr. A. M. Storoni Piazza, Padri e figli nella Grecia antica, Roma 1991, in part. pp. 109ss.; nonché nell'A.T. Es. 20,5 (=34,7); poi dopo la stipulazione della Nuova Alleanza Ps. 79,8; Ier. 31,29-34; Ez. 18,1-20; ect. Gregorio riprende questa concezione, per esempio, nel discorso sulla verginità, cfr. carm. I,2,1 vv. 446-448: Ἤδη καὶ τοκέεσσιν ἐγὼ μυθήσομ’ ἄριστα, / ὧν βίος ἐν χείρεσσι, καὶ αἴσχεα, καὶ κλέος ἐσθλὸν / παρθενικῶν…; infra, nota ai vv. 312-313. ― Per l'espressione στάθμος Θεοῦ si veda or. 24,1. 223 ἀντιρέποντι ταλάντῳ L'espressione in oggetto è volta ad affermare l'idea dell'equilibrio anche attraverso l'uso del preverbio ἀντί che rende, così come al v. 217 ἀντιταλαντεύσειε, la concezione della contropartita e del bilanciamento. Il verbo ἀντιρρέπω, che nel passo in oggetto subisce lo scempiamento di una ρ metri causa, è legato all'immagine della bilancia già in Aesch. Ag. 571 νικᾶι τὸ κέρδος, πῆμα δ’ οὐκ ἀντιρρέπει; in Phil. Alex. vita Mosis 2,228 per descrivere l'atteggiamento vacillante di Mosè, …ἐπαμφοτερίζων δὲ τὴν γνώμην καὶ ὥσπερ ἐπὶ πλάστιγγος ἀντιρρέπων ‐ τῇ μὲν γὰρ ἐταλάντευεν ὁ ἔλεος καὶ δίκαια, τῇ δ᾽ ἀντέβριθεν ὁ νόμος τῆς τῶν διαβατηρίων θυσίας… . Ma si veda soprattutto la forma semplice, ῥέπω, di Bacchyl. dith. 3,24-26 Ὅ τι μὲν ἐκ θεῶν Μοῖρα παγ- / κρατὴς ἄμμι κατένευσε καὶ Δίκας / ῥέπει τάλαντον… dove, secondo Setaioli, cit. supra p. 47 nota 2, la "bilancia di Dike" sembra associata all'idea di destino, μοῖρα, in senso omerico, piuttosto che all'idea di giustizia; anche in Aristoph. fr. 488 Edmonds ὅταν γὰρ ἱστῇς (scil. Πλούτων), τοῦ ταλάντου τὸ ῥέπον /κάτω βαδίζει, τὸ δὲ κενὸν πρὸς τὸν Δία; Luc. dial. mort. 21,1 ἀλλὰ καὶ ὁ Πύθιος αὐτὸς… τὰ τάλαντα ποτὲ μὲν ἐπὶ τοῦτον, νῦν δ’ ἐπ’ ἐκεῖνον ἔρρεπε; e Opp. An. Hal. 5,229 θὴρ… / ….ῥέψῃ δὲ μόρου στυγεροῖο τάλαντα; nonché Greg. Naz. carm. I,2,2 v. 630. ― Come già argomentato supra, nota ai vv. 216-228, l'immagine della bilancia è presente nell'opera del Cappadoce, connessa sia all'idea del giudizio divino post mortem, come in carm. I,2,10 v. 151 φεῦ τοῦ ταλάντου τῶν τ᾽ ἐκεῖθεν μαστίγων, al quale Gregorio allude anche per se stesso chiedendo a Dio di mostrarsi misericordioso nei suoi confronti, giacché il piatto della bilancia dove sono poste le malvagità che egli ha commesso è per la maggior parte vuoto: …Μή με κρίνῃς ἀξίως. / Κένου, κένου δὲ τοῦ ταλάντου τὸ πλέον 246 (II,1,69 vv. 7-8); sia all'idea di equilibrio, come mostra la bella metafora con la quale il figlio Gregorio descrive il rapporto coniugale dei suoi genitori, rappresentato come una bilancia perfettamente in equilibrio τάλαντον ἀρρεπές (II,1,11 v. 58). La metafora della bilancia ricorre, ancora, puntualmente nei due carmi dedicati ai due esattori delle imposte ai quali Gregorio chiede di condurre la propria attività con equità e perseguendo la giusta misura, cfr. II,2,1 vv. 330-331 e II,2,2 vv. 5-12; e si veda anche II,2,7 v. 35 dove ricorre l'espressione "bilancia delle giustizia" sulla quale Nemesio, governatore delle Cappadocia, soppesa l'attività dei Cappadoci; cfr. infine Anth. Pal. 8,110,1. 196,4. 224 ἐπιβρίθει κακότητα Il verbo βρίθω è connesso all'immagine della bilancia già in Aesch. Pers. 344-345 ἀλλ’ ὧδε δαίμων τις κατέφθειρε στρατὸν / τάλαντα βρίσας οὐκ ἰσορρόπωι τύχηι, dove un demone pesa il destino delle flotte nemiche, persiana e greca, per stabilirne la sorte nello scontro; così come anche in Gregorio, nel supra citato passo di carm. I,2,15 vv. 59-62. L'idea che la malvagità abbatta l'uomo verso la terra, annullando la sua tensione verso il cielo ricorre nel Cappadoce in II,1,1 all'interno di una sezione che rielabora la Parabola del fariseo e del pubblicano: l'atteggiamento remissivo e penitente di quest'ultimo, col quale il Cappadoce si identifica, si esplica nell'umile preghiera rivolta al Signore affinché abbia pietà di lui che è gravato dalla malvagità, …ἵλαος εἴης, / ἵλαθι σῷ θεράποντι, βοῶν, βρίθοντι κακοῖσιν (vv. 402-403); cfr. anche supra, v. 13 e nota ad loc. 225 Υἱὸς Ἀνάρχου La iunctura in oggetto occupa la posizione clausolare anche in carm. I,1,1 v. 31; I,1,2 v. 71; e si veda anche I,2,1 vv. 21-22 …Ἐκ μὲν ἀνάρχου / Πατρὸς Υἱὸς ἄναξ,… . Per ἄναρχος quale tradizionale attributo di Dio, molto ricorrente nei Padri (cfr. Greg. Naz. or. 30,19; 33,17; 42,15; etc.; Greg. Niss. Eun. 1,1,640 [GNO 1,210]) etc. si veda Lampe s.v. 226-228 L'io loquens scongiura che si realizzi quanto affermato nei versi precedenti, cioè che la collera di Dio si abbatta sulle figlie femmine a causa delle colpe del padre, provocando altro dolore: è già abbastanza che l’Erinni gravi sui figli primogeniti. 226 Ταῦτα μὲν ἐς πόντοιο πέσοι βυθόν 247 Stessa locuzione in carm. II,2,7 v. 168 per designare i racconti mitologici che Nemesio dovrebbe rigettare a favore della verità del cristianesimo. L'espressione πέσοι ἐς βυθόν risente del racconto evangelico di Mt. 8,28ss., Mc. 5,1,ss., Lc. 8,26ss., la cosiddetta "legione di spiriti", ampiamante richiamata nell'opera del Nazianzeno come, per esempio, nelle battute finali di carm. I,2,25 vv. 540-541: qui Gregorio, avvalendosi della figura della personificazione, si rivolge all'ira/demonio, chiamandola "legione di spiriti" e intimandole di riempire le profondità dei porci, animali degni di accoglierla, per poi gettarsi nel profondo del mare: Τῶν σῶν συῶν πλήρωσον εἰσελθὼν βάθη· / δέξονθ’ ἑτοίμως εἰς βυθὸν πεσούμενον: il parallelismo tra i due passi è avvalorato non solo dalla consonanza terminologica, ma soprattutto dall'intreccio tematico e concettuale che si realizza nel riferimento all'ira che, com'è ormai chiaro, risulta essere il vitium di cui è affetto Vitaliano. Le stesse parole sono rivolte a Satana in carm. II,1,56 vv. 4-5, e si veda anche II,1,55 v. 9 Χριστὸς ἄναξ κέλεταί σε φυγεῖν ἐς λαῖτμα θαλάσσης, dove l'espressione λαῖτμα θαλάσσης è prestito da Hom. Od. 4,504; Hes. Op. 164 etc. ― La costruzione di πίπτω + εἰς/ἐς βυθόν si legge, per la prima volta, in Soph. Aj. 1083, ἐξ οὐρίων δραμοῦσαν εἰς βυθὸν πεσεῖν. ― La iunctura in iperbato ἐς πόντοιο…βυθόν è anche in II,1,1 v. 519, simile a ἐν βυθοῖς θαλάσσης di Ps. 67,23, ampiamente ripresa dai vari scrittori ecclesiastici come Phil. Alex. spec. leg. 3,114; Clem. Alex. strom. 5,14,131; Eus. h.e. 8,14 etc; Greg. Nyss. hom. 8 in Eccle (GNO 5,318) etc.; nonché Greg. Naz. or. 16,16; carm. I,2,28 vv. 346-347; e si veda anche Callim. hymn. in Dem. v. 89 …ἐς βυθὸν οἷα θαλάσσας. ― Si noti, infine, l'allitterazione in πόντοιο πέσοι. 227 δώματος ἐκτὸς ἔοι, μηδ᾽ ἄλγεσιν ἄλγος ἕποιτο Il verso in oggetto è caratterizzato dall'allitterazione della ε e dal poliptoto di ἄλγος la cui matrice è duplice, sia cristiana, che classica: essa si riscontra, infatti in Lam. 1,12 ἐπιστρέψατε καὶ ἴδετε εἰ ἔστιν ἄλγος κατὰ τὸ ἄλγος μου, ὃ ἐγενήθη; e, nella letteratura classica, soprattutto in tragedia come si evince dalle occorrenze rilevabili in Eur. Alc. 1039 ἀλλ’ ἄλγος ἄλγει τοῦτ’ ἂν ἦν προσκείμενον; Phoen. 371 ἀλλ’, ἐκ γὰρ ἄλγους ἄλγος αὖ, σὲ δέρκομαι; Tr. 596. 1310; e Hes. fr. 204 WestMerkelbach; Apoll. Rh. 1,297 δάκρυσιν, ἀλλ’ ἔτι κεν καὶ ἐπ’ ἄλγεσιν ἄλγος ἄροιο. 228 248 La menzione dell'Erinni, demone classico della vendetta legato soprattutto a contesti familiari, si riconnette a quanto l'io loquens aveva affermato al v. 13 accennando allo sconvolgimento che si era abbattuto sulla sua casa, cfr. la nota ad loc. 229-230 La constatazione che connota questi due versi ha il sapore di una sententia, ma, in realtà, funge anche da preludio alla γνώμη vera e propria che si sviluppa nei versi successivi: tutti coloro che sono genitori e figli sono sdegnati con Vitaliano che mostra di avere un animo spietato per il suo comportamento nei confronti dei due giovani. Si noti la costruzione circolare dei versi in oggetto che vede la concordanza, sintattica e concettuale, tra le parole poste in incipit σοὶ (v. 229) e in clausola ἔχοντι (v. 230), che si riferiscono a Vitaliano; nonché l'allitterazione in πάτερ πάντες e τελέθουσι τοκῆες (v. 229). 230 ἀμείλιχον ἦτορ ἔχοντι Di origine omerica la costruzione in oggetto, anche per la posizione clausolare in cui è collocata, cfr. Hom. Il. 9,572 …ἀμείλιχον ἦτορ ἔχουσα; hymn. in Min. 2; ma anche Hes. fr. 76 West-Melkelbach. Si veda, infine, Quint. Smyrn. 9,149 κατὰ θυμὸν ἀμείλιχον. 231-232 Studiatissima l'articolazione dei versi in oggetto che riprendono la già utilizzata metafora bellica della quale il figlio si serve per definire i correnti rapporti col padre Vitaliano (cfr. supra, v. 64 e nota ad loc.). Lo sconvolgimento nella casa che l'ira di Vitaliano ha causato è simile al tumulto in combattimento, μόθος, che genera una frattura, ῥῆξις, all'interno della famiglia. Il Nazianzeno gioca, inoltre, con l'opposizione tra l'idea della frattura espressa dai termini ῥῆξις e ἐκέδασσε, e quella dell'unione espressa da συνέδησε e συζυγίη. 231 Si noti la costruzione chiastica dei termini posti nella prima parte del verso segnato dalla cesura C2, ῥῆξις βιότοιο πατρὸς μόθος; nonché l'opposizione concettuale delle parole collocate come incipit e clausola del verso, ῥῆξις … συνέδησε. 232 συζυγίη τε πόθος 249 I termini συζυγίη e πόθος sono usati insieme dal Cappadoce anche in carm. I,2,1 vv. 269-270 in riferimento alla sfera matrimoniale: di essi Gregorio si serve per descrivere le dinamiche della vita nuziale: κληῒς δ’ ἀμφοτέροισι σαοφροσύνης τε πόθων τε / συζυγίη, καὶ σφρηγὶς ἀναγκαίης φιλότητος (cfr. Sundermann, pp. 54ss.). Non si può escludere, in tal modo, un riferimento alle recenti nozze della sorella dell'io loquens, dalle quali il giovane è stato escluso. ― La costruzione ἐκέδασσε Ἐνυώ è ripresa da Nonno Dion. 20,59. κακὴ …Ἐνυώ La menzione dell'omerica dea della guerra (cfr. Il. 5,333. 592; e Hes. th. 273; Aesch. Sept. 45) connotata negativamente attraverso l'aggettivo κακή, si giustifica alla luce della ben nota metafora bellica, della quale l'io loquens si serve per designare i contrasti col genitore, cfr. supra, note ai vv. 64 e 231. Tale riferimento mitologico costituisce un unicum nell'opera del Cappadoce. 233-257 Cosa intenda Gregorio quando parla di "compiere" e "patire" qualcosa che sia θεοῦ ἐπάξιον è chiarito nel corso della sezione dopo una serie di interessanti argomentazioni, alcune delle quali forniscono importanti indicazioni sui circuiti sociali dell'uomo Vitaliano, sulle frequentazioni della sua casa, sul suo ambivalente atteggiamento nei confronti dei suoi ospiti sacerdoti (vv. 235-239), in primo luogo Gregorio che si presenta insieme agli amici vescovi Gregorio di Nissa, Bosporio e Anfilochio, che presumibilmente facevano parte dell'entourage dell'uomo (ma potrebbe anche trattarsi di una fictio letteraria), quali instancabili baluardi della Trinità (vv. 240-244). Il metodo col quale l'io loquens scevra, rendendole manifeste, le dinamiche della condotta del padre Vitaliano, oltre a far emergere un interessante spaccato di un ambiente provinciale del IV secolo, procede su un duplice livello di interpretazione che si realizza nell'opposizione tra la categoria dell'esteriorità e quella dell'interiorità: sebbene Vitaliano si comporti da zelante cristiano onorando, cioè, i martiri della Chiesa con esteriori manifestazioni di fede che si concretizzano in generose donazioni di denaro (μεγάλῃ καὶ ἀπείρονι χειρί), nella costruzione di altari votivi (βήμασι), in donativi (δώροισι), nel corso di banchetti, con cori (εἰλαπίνῃσι χορείαις), arricchiti da molti crateri colmi della soave bevanda (κτρατῆρσι μεθύσματος ἡδυπότοιο) e da grandi giacigli (μεγάλαις 250 στιβάδεσσι) [livello esteriore]; tutto ciò, secondo l'io loquens, significa disonorare la legge di Dio (v. 250): dare grandi manifestazioni di fede attraverso questi atti, ma donarsi al Signore con animo impuro (νόῳ ῥυπόωντι), non è preferibile ad una condotta umile e dimessa (vv. 251-252) [livello interiore]. Tali espressioni di fede non sono, dunque, θεοῦ ἐπάξιον. Veramente θεοῦ ἐπάξιον è consacrarsi a Lui con l'anima purificata e monda da ogni peccato (v. 256), condizione interiore che permette anche al povero di superare il ricco nella corsa verso la beatitudine e la salvezza (vv. 256-257). 233-234 Breve sezione che presenta i tratti di una sententia, utile formula di transizione al prosieguo del carme: tutti coloro che hanno compiuto o sopportato qualcosa che fosse degna di Dio provano grande compassione verso gli altri. Gregorio si avvale di un gioco di parole per affermare, con forza, il concetto di misericordia, οἶκτος, che Vitaliano, da zelante cristiano quale si atteggia, dovrebbe possedere e mostrare nei confronti dei figli. Su un duplice livello si realizzano le possibili manifestazioni della propria fede: il livello del "compiere" potrebbe trovare applicazione nelle figure dei sacerdoti menzionati ai vv. 240-244, nonché in tutta quella serie di opera caritatis di cui il cristiano Vitaliano darebbe sfoggio ogni anno, nel corso delle celebrazioni in onore dei santi martiri, passate in rassegna ai vv. 246-250; il livello del πάσχειν si esplica, oltre che nelle personali esperienze dei sacerdoti, nelle figure dei μάρτυρες, richiamati attraverso l'espressione metaforica ἀθλοφόροι, che offrono testimonianza vivente di quella imitatio Christi, sia a livello spirituale che a livello carnale (v. 246). 233 δὴ μέγαν οἶκτον ἐνὶ σπλάγχνοισι Il termine οἶκτος deve essere considerato vicino a quella χάρις che un padre, sulla scorta dell'esempio divino, deve mostrare verso il prossimo e soprattutto ai suoi figli, e che si traduce, come esplicato supra, ai vv. 97ss., nell'onorare, nelle "viscere di misericordia", il proprio figlio, soprattutto se si dimostra cattivo (σὴ χαρις ὄντα κάκιστον ἑοῖς σπλάγχνοισι γεραίρειν, v. 97); giacché la Θεοῖο χάρις non consiste nell’ aver vicino all'ottimo (Οὐδὲ Θεοῖο / ἥδε χάρις τὸν ἄριστον ἔχειν πέλας, vv. 99100), ma nel mostrarsi indulgente nei confronti dell'uomo malvagio (ἀλλὰ κακίστῳ εὐμενέειν, vv. 100-101). Per l'accostamento sinonimico dei due termini, οἶκτος e 251 χάρις, si veda carm. II,1,1 vv. 407-408, parole di supplica che il remissivo pubblicano rivolge a Dio: σὴ δὲ χάρις, σὸς δ’ οἶκτος ἐμοὶ στάξειε βεβήλῳ, / ἣν μούνην δειλοῖσιν, ἄναξ, πόρες ἐλπίδ’ ἀλιτροῖς. ― La locuzione ἐνὶ σπλάγχνοισι è da intendersi come "viscere di misericordia", così come è stato rilevato supra, nota al v. 7. Qualcosa di simile in carm. I,2,17 v. 29 ὃς σπλάγχνοισιν ἑοῖσι Θεοῦ μέγαν οἶκτον ἐφέλκει. 234 τι Θεοῦ…ἐπάξιον Gregorio impiega un simile nesso anche in carm. II,1,1 v. 418, a conclusione della rielaborazione della parabola del fariseo e del pubblicano (nella nota precedente abbiamo rilevato la connessione col passo in oggetto fondata sul concetto di οἶκτος): il Cappadoce supplica il Signore di concedergli la stessa misericordia elargita al pubblicano alla luce delle preghiere, delle lacrime e dei gemiti, dei sacrifici e delle donazioni con i quali i suoi genitori hanno onorato Dio, giacché egli non ha compiuto nulla che possa considerarsi "degno di Dio", λίσσομαι, εἴ ποτε δή σε πατὴρ καὶ πότνια μήτηρ / δάκρυσι καὶ στοναχῇσι καὶ εὐχωλῇσιν ἔτισαν / ἤ τινά τοι κτεάνων τυτθὴν ἀπὸ μοῖραν ἔνειμαν / ἢ θυσίαις καθαρῇσι καὶ εὐαγέεσσι γέρηραν, / — οὐ γὰρ ἐγώ ποτε σεῖο ἐπάξιον οὐδὲ ἔρεξα —, / τῶν μνῆσαι, καὶ ἄλαλκε,… (vv. 416-419). Il confronto con questo passo chiarisce e fornisce un'ulteriore testimonianza su cosa significa, secondo il Cappadoce, "compiere qualcosa che sia degno di Dio". ἤ …ῥέξαντες …ἠὲ παθόντες Εsiste una stretta corrispondenza tra il "fare" e il "patire", già attestata, nei diversi contesti, nella letteratura classica dove risuona come una sententia, cfr. Pind. N. 4,32 …ἐπεί / ῥέζοντά τι καὶ παθεῖν ἔοικεν; Callim. fr. 528a Pfeiffer ἠλεὰ μὲν ῥέξας, ἐχθρὰ δὲ πεισόμενε; Aristot. E.N. 1132b εἴ κε πάθοι τά τ’ ἔρεξε, δίκη κ’ ἰθεῖα γένοιτο; Anth. Pal. 16,251,3 ὥς κε πάθῃ, τά γ’ ἔρεξεν…; ma si veda anche lo scambio di battute nella sticomitia tra il coro ed Edipo: {Χο.} ἔπαθες— {Οι.} ἔπαθον ἄλαστ’ ἔχειν. {Χο.} ἔρεξας— {Οι.} οὐκ ἔρεξα (Soph. OC 538-539). 235-244 Anche gli ἱερῆες qui menzionati, dapprima genericamente, poi nominando precise persone (il Nazianzeno stesso, il Nisseno, Bosporio e Anfilochio) costituiscono uno specimen di coloro che nutrono misericordia nel cuore, giacché "hanno fatto o patito qualcosa che sia ἐπάξιον θεοῦ": il livello del "patire" è legato alle singole 252 personalità, ma quello del "fare" è condiviso e unanime e si esplica nella solenne lode e celebrazione delle tre Persone della Trinità, distinte ma unite nella divinità (vv. 241 e 244). Rintracciare, nelle variegate esperienze del Nazianzeno, il "livello del patire" risulta assai agevole, se si pensa, per esempio, all'episodio della tentata lapidazione durante le sacre celebrazioni della notte di Pasqua del 379, mentre si trovava nella chiesa dell'Anastasia a Costantinopoli, ricordato diverse volte dal Cappadoce (per la puntuale trattazione della vicenda e le implicazioni che ebbe sulla vita del Nostro, cfr. Crimi, Nazianzenica VII, pp. 211ss.). L'esperienza del Nisseno è caratterizzata dall'esilio: il vescovo fu arrestato e costretto ad abbandonare la sua sede episcopale di Nissa dal 375 al 378, da un sinodo di vescovi ariani, durante le persecuzioni contro i vescovi niceni volute dall'imperatore ariano Valente (sull'episodio si veda soprattutto la testimonianza di Bas. epist. 225, 231). Durante questo periodo il Nazianzeno invia all'amico due lettere (epist. 72. 74), con le quali cerca di incoraggiarlo nella lotta contro gli eretici: μὴ σφόδρα δάκνου τοῖς λυπήροις. Ἁν γὰρ ἧττον λυπώμεθα, ἧττόν ἐστι λυπηρά. Οὐδὲν δεινὸν εἰ ἀνεθάλφθη-σαν οἱ αἱρετικοὶ καὶ τῷ ἔαρι θαρροῦσι τῶν φωλεῶν ἐξερπύσαντες, ὡς γράφεις. Μικρὰ συριοῦσιν, εὖ οἶδα, εἶτα καταδύσονται, καὶ τῇ ἀληθείᾳ καὶ τῷ καιρῷ πολεμούμενοι, καὶ τόσῳ μᾶλλον ὅσῳπερ ἂν τῷ Θεῷ τὸ πᾶν ἐπιτρέπωμεν (epist. 72); e, ancora, …ὅτι πάντα κατὰ νοῦν ὑμῖν ἐκβήσεται καὶ ἡ καταιγὶς εἰς αὔραν λυθήσεται καὶ τοῦτον ὑμῖν ὁ Θεὸς τῆς ὀρθοδοξίας δώσει μισθὸν τὸ τοὺς ἐπηρεάζοντας ὑπερσχεῖν… …Ἐρρωμένους ὑμᾶς καὶ τοῖς πᾶσιν εὐθύμους ὁ ἀγαθὸς Θεὸς χαρίσαιτο, τῆς Ἐκκλησίας τὸ κοινὸν ἔρεισμα (epist. 74,1-2). Nel caso di Bosporio di Colonia si può addurre, quale testimonianza, l'accusa di eresia che subì nel periodo tra la fine del 383 e l'inizio del 384 (la fonte di tali vicende è costituita da tre epistole del Nazianzeno, 183. 184. 185, vedi infra, nota al v. 242) e dunque la menzione del personaggio in questo luogo del carme potrebbe essere funzionale a ristabilirne la buona fama all'insegna dell'ortodossia. La figura di Αnfilochio pone qualche perplessità, giacché non sembra che egli abbia dovuto affrontare ardue prove come quelle dei suoi amici, dal momento del suo ritiro dagli affari mondani, alla consacrazione vescovile. Che Gregorio alluda all'affare infamante in cui il cugino fu coinvolto durante gli anni giovanili quando esercitava ancora come avvocato a Costantinopoli, in seguito al quale fu costretto a "lasciare la vita mondana" e a 253 ritirarsi a Ozizala dove si mise al servizio del padre — Gregorio stesso si prodigò per scagionare l'amato cugino, inviando delle missive ad alti funzionari civili affiché intervenissero in favore del parente (cfr. epist. 25. 26. 27. 28) — non è facile da ammettere, anche se in seguito a questa esperienza e al ritiro dagli "affari civili" egli si convertì al cristianesimo e manifestò intenzioni ascetiche, testimoniate da un'epistola di Basilio, presso il quale Anfilochio inviò l'amico Eraclide per ricevere dal vescovo di Cesarea insegnamenti e regole da seguire per iniziare la nuova vita da cristiani (cfr. epist. 150); ma si ricordi, inoltre, il merito che sembra attribuirsi Gregorio stesso nella conversione del congiunto, come si può evincere da carm. II,2,6 v. 103 dove Anfilochio è definito ἄγγελον ἀτρεκίης ἐριηχέα, κῦδος ἐμεῖο (vedi infra, nota al v. 242). 235-236 δώροις γεραίρεις, / καὶ τίεις μεγάροισιν L'idea dell'onore e del rispetto che Vitaliano rivolgerebbe ai membri del clero che frequentano la sua domus è realizzata attraverso la figura dell'endiadi (i verbi γεραίρω e τίω sono latori di simili significati). Per simili espressioni cfr. Xen. Cyr. 4,8 τούτοις μὲν χώραν τε ἄλλην προστίθησι καὶ δώροις κοσμεῖ καὶ ἕδραις ἐντίμοις γεραίρει; Quint. Smyrn. 7,677-678 Τοὔνεκά μιν τίεσκον ἀγακλειτοῖς γεράεσσιν / ἄσπετα δῶρα διδόντες ἅ τ’ ἀνέρι πλοῦτον ὀφέλλει. 236-237 ἀτιμάζεις δ᾽ ἀπέοντας, / πολλάκι καὶ παρέοντας Il superbo atteggiamento di Vitaliano nei confronti di quei membri del clero locale, al quale appartiene anche Gregorio, con i quali intrattiene rapporti e frequentazioni si spinge fino alle critiche manifeste, non solo nei confronti dei sacerdoti che non partecipano alle occasioni conviviali nella sua casa, ma anche verso coloro che ne prendono parte. A conferma di tali dinamiche sono anche le epist. 193-194 che Gregorio indirizza all'uomo. In entrambe le missive, che si possono considerare quali risposte ad inviti di Vitaliano (cfr. McLynn, Olympias, p. 238), in posizione incipitaria (e non è un caso) Gregorio esplicita le possibili critiche e i rimproveri che il Vitaliano muoverebbe al Vescovo per la sua assenza ai due avvenimenti nuziali, mentre il Nostro adduce, invece, quale motivazione le sue cattive condizioni di salute: Αἰσθάνομαί σοῦ τῶν ἐγκλημάτων καὶ σιωπῶντος. Γάμους εἱστιῶμεν, ἴσως ἐρεῖς, καὶ ταῦτα τῆς χρυσῆς Ὀλυμπιάδος καὶ σῆς, καὶ παρῆν ἐπισκόπων ὅμιλος· σὺ δὲ ἀπῆς ἡμίν, ὁ γεννάδας, ἢ ἀπαξιώσας, ἢ κατοκνήσας (epist. 254 193,1). A questo proposito, sembra interessante notare la perizia stilistica del Nazianzeno che si avvale del discorso diretto per dare enfasi e vivacità ai toni aspri e polemici delle presunte parole di Vitaliano. Lo stesso mezzo stilistico del discorso diretto è presente anche nella successiva lettera, dove il tono, però, appare più tenue e moderato: Ἀργοὶ δ᾽ ἡμεῖς, ὡς ἂν αὐτὸς εἴποις· ὡς δὲ ὁ ἀληθὴς λόγος, ἀσθενεῖς, οὐκ ἀργοί (epist. 194,1); cfr. McLynn, Olympias, p. 243. ― La figura etymologica realizzata con due composti di εἰμί, πάρειμι e ἄπειμι, è artificio retorico molto ricorrente nell'opera del Cappadoce, cfr. or. 3,1 …καὶ βελτίους ἐφάνητε ποθεῖν ἀπόντας ἢ ἀπολαύειν παρόντων…; 24,19 ταῦτα καὶ παρὼν ἐφιλοσόφει τῷ βίῳ, καὶ ἀπὼν πᾶσι διακελεύεται διὰ τῆς ἡμετέρας φωνῆς; 40,25 Ἐὰν μὲν παρῶσιν, ἀγαπητέον· ἐὰν δὲ ἀπῶσι, μὴ ἀναμείνῃς; carm. II,1,12 vv. 131-132, οὗτοί με καὶ παρόντα εἶχον ἐν λόγῳ / καὶ νῦν ἀπόντος αἰτιῶνται τοὺς κακούς; II,2,6 v. 68 ἀνέρος ἢ παρεόντος ἀμύμονος ἢ ἀπεόντος; epist. 6,8; 79,11; 82,2; 117,1; 126,3; 128,1; 133,2; si vedano ancora or. 5,13; 19,4; 34,4; etc.; ma essa ricorre già nella poesia classica, come in Eur. El. 245 ἀπὼν ἐκεῖνος, οὐ παρὼν ἡμῖν φίλος; fr. 519 Nauck ἀριθμόν, ἀλλ’ ἄπεισι κἂν παρῶσ’ ὅμως. Da segnalare, infine, l'allitterazione della vocale α in ἀτιμάζεις ἀπέοντας e quella della labiale π in πολλάκι παρέοντας che si estende anche a παρφασίῃσιν cadenzando, così, tutto il v. 237. 237-239 Attraverso una climax, l'io loquens passa in rassegna le diverse movenze che i sacerdoti impersonano alla presenza di Vitaliano: si distingue, da un lato, un tipo di atteggiamento compiacente che si esplica nel molle consilium, i cui connotati possono assumere i toni della lusinga (παρφασίῃσιν μαλακῇσι - l'aggettivo μαλακός potrebbe avere qui un'accezione negativa) e dello sguardo benevolo (εὐμενέουσι προσώποις); ma non possono mancare le manifestazioni di asperitas (ἐπιστύφουσι λόγοισι). Si noti, in particolare, il parallelismo delle tre espressioni, παρφασίῃσιν μαλακῇσι - εὐμενέουσι προσώποις - στερεοῖσν λόγοισι, accomunate dalla combinazione del sostantivo insieme ad una specifica connotazione, dal caso dativo, e dalla posizione clausolare dei sostantivi, nonché l'insistenza sullo stretto legame tra comunicazione e sguardo (i termini παρφασίη e λόγος appartengono evidentemente alla sfera dicendi, il termine πρόσωπον a quella videndi — per la presenza di tale connessione nel nostro carme si veda supra, nota ai vv. 220-221). 255 237-238 …παρφασίῃσιν / …μαλακῇσι Il termine παρφασίη sembra essere un neologismo del Cappadoce (cfr. anche carm. I,2,29 v. 132 e II,2,1 v. 13), modellato sulle varianti poetiche παραίφασις / παράφασις / πάρφασις (cfr. Il. 11,793; 14,217), che Gregorio impiega alternativamente nella sua opera sulla base delle diverse esigenze metriche (cfr. Knecht, pp. 87-88; ZehlesΖamora, p. 35; Bacci, p. 76). Non si può escludere che la iunctura in oggetto possa veicolare un leggera sfumatura polemica e negativa (cfr., in diverso contesto, Pind. N. 8,32 …ἐχθρὰ δ᾽ ἄρα πάρφασις ἦν καὶ πάλαι). In carm. I,1,8, per esempio, παραιφασίη ha una forte accezione spregiativa, perché indica il nefasto inganno del serpente camuffato dalla dolce loquela della progenitrice Eva, θηλυτέροιο λόγοιο παραιφασίῃσιν… (v. 113); così come in II,1,45 vv. 99-100 …μητρὸς ἀλιτρὴν / πάρφασιν… . In II,2,6 v. 25 μύθοισιν μαλακοῖσι, con parole dolci e compiacenti la donna deve rivolgersi al marito quando egli è in preda all'ira, cfr. Bacci, p. 94 nota ad loc., dove la studiosa rileva l'origine omerica delle simili iuncturae di μαλακός con ἔπος e λόγος; cfr. anche Moreschini-Sykes, pp. 247-248; LSJ s.v. Si noti, infine, il forte iperbato dei termini in oggetto. 238 εὐμενέουσι προσώποις Con lo sguardo benevolo che accompagna le blande esortazioni dei sacerdoti si conferma lo stretto rapporto tra vista e comunicazione. Il concetto di εὐμένεια è da considerarsi elemento chiave nella vicenda umana che sta alla base del carme, o meglio ne rappresenta il fine da raggiungere: il componimento si chiude, infatti, con la speranza, manifestata dall'io loquens, che il padre diventi benevolo nei confronti dei figli, e il termine che sigla il poema è proprio εὐμενέοντος (scil. πατρὸς). Εspressioni simili a quella in oggetto si riscontrano, sempre in posizione clausolare, al v. 35 con la quale si indica lo sguardo di Dio, ὄμμασι εὐμενέεσσι, e al v. 343 εὐμενέουσαν ὀπωπήν, dove si riferisce, invece, a quello di Vitaliano. La vista è, nei luoghi qui segnalati, da considerarsi metafora di una predisposizione interiore volta alla benevolenza e alla riconciliazione, che si esplica, secondo i principi della fisiognomica, in una corrispondenza tra immagine esteriore e atteggiamento interiore. ― Simili espressioni anche in Bas. Liturgia … εὐμενεῖ προσώπῳ, καὶ γαληνῷ ὄμματι…(PG 31,1653); Lib. epist. 720,3 …σὺ δ’ εὐμενεῖ τε λόγῳ καὶ 256 προσώπῳ…; nonché lo stesso Gregorio in carm. II,1,1 v. 103, dove si indica l'atteggiamento ingannevole del demonio; Ps.-Greg. Lit. (PG 36,729). 239 στερεοῖσιν ἐπιστύφουσι λόγοισι La iunctura di στερέος con λόγος trova riscontro, nella letteratura classica, in Dio Chrys. or. 33,15; Aristot. de caelo 309b; si veda poi anche Iren. ad haer. (lib. 5), fr. 16,2; ripresa da Gregorio in carm. I,1,27 v. 66 e I,2,2 v. 401: in quest’ultimo luogo l'aggettivo στερέος è legato alla metafora dell'alimentazione del cristiano di Eb. 5,12, dove si dice che il neoconverito, essendo ancora "bambino" nella fede, non può nutrirsi del cibo solido della dottrina cristiana, riservato a coloro che hanno acquisito la maturità nella comprensione della verità, cfr. Zehles-Zamora, p. 174. Per simili espressioni si veda, inoltre, Hom. Il. 12,267 στερεοῖς ἐπέεσσι; hymn. in Cer. 330 …στερεῶς ἀναίνητο μύθοις. ― Il verbo ἐπιστύφω, da intendersi nel senso di “to reprove” (cfr. LSJ s.v.), è connesso ad un verbum dicendi anche in Orig. fr. 168 in Lc. (in catenis) ὁ οἶνος εἰς τὸν διδασκαλικὸν καὶ ἐπιστύφοντα λόγον; ma si veda anche Ioh. Chrys. hom. 26 in Rom. Ταῦτα δὲ καὶ ἐκεῖνον ἱκανὰ ἐπιστύψαι τὰ ῥήματα (PG 60,638); exp. in Ps., πολλῷ μᾶλλον ὑπὲρ τῶν ἔργων καὶ τῶν ῥημάτων ἐπιστύφειν δεῖ τὴν ψυχήν (PG 55,51). 240-244 I due Gregori, Bosporio e Anfilochio. La sezione assume i contorni di un piccolo e prezioso medaglione in cui oltre a menzionare se stesso e i suoi cari e vecchi φίλοι, Gregorio coglie l'occasione per fare una professione di fede e affermare la loro incrollabile devozione nella Trinità, colta nella sua Unità (v. 241 συζυγέα στοματεσσιν ἐρευγομένω θεότητα, e cfr. García Guillén, pp. 226-227). I quattro ἐπίσκοποι, infatti, essendo tutti sottoscrittori del concilio costantinopolitano del 381 si qualificano a buon diritto quali campioni di una ortodossia riaffermata con forza e proclamata saldamente. Per l'identificazione nel duale Γρηγορίω … ἐρευγομένω del Nazianzeno e del Nisseno si veda «Introduzione. Data di composizione». 240 Γρηγορίω… ὁμωνυμίῃ τε βίῳ Chi sono "i due Gregori che col nome e la vita fanno prorompere dalla bocca la concorde Trinità"? Da un lato, infatti, essi possono essere identificati con lo stesso Nazianzeno e col padre, Gregorio il Vecchio (sul profilo del personaggio cfr. 257 Hauser-Meury, pp. 88-90), morto all'inizio del 374. Dall'altro, vi si possono scorgere sempre il Nazianzeno, e, insieme, Gregorio di Nissa, amico del Cappadoce, nonché fratello di Basilio di Cesarea. Sebbene l'identificazione "dell'altro" Gregorio con Gregorio il Vecchio coinciderebbe all'incirca con la nomina di Bosporio e di Anfilochio al soglio episcopale, rispettivamente di Colonia e di Iconio nel 374, va detto che, probabilmente, il Nostro si sarebbe espresso diversamente se avesse voluto porgere al genitore, morto da poco tempo, un tributo di affetto. Più plausibile sembra, invece, l'identificazione del "secondo" Gregorio col Nisseno, cui il Nazianzeno scrive diverse lettere (11, 72, 73, 74, 76, 81, 182, 197) e cui indirizza l'or. 11, pronunciata in occasione della visita che il neo vescovo di Nissa gli fece, nel corso dell'estate del 372, probabilmente per convincerlo, per conto di Basilio, a prendere possesso della sede episcopale di Sasima. In questo discorso, al termine di un elogiativo ritratto dell'amico e vescovo, Gregorio Nisseno viene definito τὸν ὁμώνυμον ἐμοὶ καὶ ὁμόψυχον (or. 11,2), locuzione che consuona con il Γρηγορίω πρώτιστον ὁμωνυμίῃ τε βίῳ τε, che leggiamo in carm. II,2,3 v. 40; cfr. HauserΜeury, pp. 91-92; Calvet-Sebasti, p. 96. 240-241 L'esplicita menzione del nome è funzionale al Cappadoce per giocare con la sua etimologia che racchiudeva e preannunciava, sin dal principio, il ruolo che egli avrebbe svolto quale "custode" della divinità una e trina (sulle circostanze relative alla nascita di Gregorio, al voto della madre Nonna che promise di consacrare a Dio il proprio figlio si rimanda supra, nota al v. 77), e si veda, inoltre, epitaph. 96,2 (= Anth. Pal. 8,81,3) che Gregorio scrive per se stesso, definendosi τῆς ἱερῆς Τριάδος Γρηγόριος θεράπων; ma anche l'epigramma in onore del padre, Gregorio il Vecchio, in cui si legge: …καὶ δῶχ᾽ ἱερῆα / Γρηγόριον καθαρῇ λαμπόμενον Τριάδι (Anth. Pal. 8,15,1-2). Gregorio si autonomina diverse volte all’interno della sua vasta opera (cfr. epist. 46,3; 58,5; 94,1; 97,1; etc.; or. 5,39; 43,80; carm. I,2,17 v. 66; II,1,17 v. 60; II,1,37 v. 12; ΙΙ,2,6 v. 1; Anth. Pal. 8,8,11. 80. 82. 84 etc.), ma si avvale anche della tecnica dell'allusione che viene resa attraverso l'uso di perifrasi, come in carm. II,2,4 vv. 89-94 dove viene richiamato quale exemplum di erudizione letteraria da imitare: Nicobulo junior lo apostrofa con l'espressione μητρὸς ἐμῆς μήτρων μέγαν (v. 89), ricordandone la vasta formazione culturale, la fama che egli si è guadagnato 258 tra gli uomini e la scelta cristiana che ha compiuto ponendo Cristo quale sigillo dei suoi studi: Δέρκεο μητρὸς ἐμῆς μήτρων μέγαν, ὃς περὶ πάντων / μύθοισι πυκινοῖσι κεκασμένος, οὓς συνάγειρεν / ἐκ περάτων, γλώσσῃσί τ’ ἐνὶ πλεόνεσσι καθίζων, / ὑστάτιον κληῗδα λόγων ποιήσατο, Χριστὸν / καὶ βίον αἰπήεντα… (cfr. il comm. di Moroni, pp. 126-129); così come in clausola di II,2,5 Nicobulo senior, richiamando le parole del figlio, si avvale ancora del mezzo allusivo per richiamare la figura di Gregorio, che molto singolarmente sigla, in tal maniera, il dittico rappresentato dai carmina II,2,4-5 come una σφραγίς d'autore: …ὅντιν᾽ ἔλεξας ἀφ᾽ αἵματος ἡμετέροιο (ΙΙ,2,5 v. 281 e Moroni, p. 279). Si veda, inoltre, la singolare espressione di epist. 171,2, un biglietto di ringraziamento inviato ad Anfilochio dopo la guarigione da una malattia: Gregorio ringrazia l’amico di aver pregato per la sua salute, giacché "la lingua di un prete che celebra il Signore fa risollevare anche i malati", e promette di ricambiare la sua cortesia “vegliando” su di lui, condizione che gli è propria grazie all’etimologia del suo nome: Ἐμοὶ γὰρ καὶ ἐγρηγορότι καὶ καθεύδοντι μέλει τὰ κατὰ σέ (cfr. Gallay, Lettres, p. 60 e nota 7). Secondo McLynn, Olympias, p. 237 l'automenzione di Gregorio, quale espressione di referenzialità, deve essere vista anche come indice del ruolo da lui assunto quale «the boys' principal supporter»; cfr. anche Regali, Datazione, p. 377. — Per un breve profilo sul Nisseno, soprattutto quale emerge dalle opere del Nazianzeno, cfr. Hauser-Μeury, pp. 91-92. 241 La vita e l'opera di Gregorio furono l'espressione della sua incrollabile fedeltà nell'ortodossa dottrina trinitaria di cui, come è noto, egli fu uno dei principali teorizzatori tanto da meritarsi l'appellativo di ὁ θεολόγος: per i commenti sulla speculazione teologica e trinitaria del Nazianzeno cfr., tra gli altri, Trisoglio, Trinità, pp. 712ss.; Piottante, p. 91. ― La particolare struttura del verso, un tetracolon, concorre a metterne in rilievo il messaggio in esso veicolato. Si noti il forte iperbato della iunctura συζυγέα … θεότητα, da intendersi in riferimento alle Persone della Trinità, funzionale a risaltare i singoli termini posti nei punti chiave del verso, incipit e clausola. Tale iunctura sembra essere conio di Gregorio non trovando altro riscontro al di fuori del passo in oggetto; si vedano le simili espressioni di epist. theol. 102,2 …ὅτι μιᾶς θεότητος εἰδέναι χρὴ τὸν Πατέρα καὶ τὸν 259 Υἱὸν καὶ τὸ Πνεῦμα τὸ ἅγιον, Θεὸν καὶ τὸ Πνεῦμα γινώσκοντας; or. 28,31 …καὶ τῆς μιᾶς ἐν τοῖς τρισὶ θεότητος; 31,9; etc. In or. 24,13 Gregorio espone brevemente la dottrina trinitaria, attribuendone, in modo fittizio, la speculazione a quel martire, Cipriano, al quale dedica l'orazione: …καὶ τῆς ἀρχικῆς καὶ βασιλικῆς Τριάδος τὴν θεότητα τεμνομένην, ἔστι δὲ ὑφ’ ὧν καὶ συναλειφομένην, εἰς τὸ ἀρχαῖον ἐπανήγαγεν, ἐν ὅροις μείνας εὐσεβοῦς ἑνώσεώς τε καὶ συναριθμήσεως (si noti la costruzione Τριάδος τὴν θεότητα e cfr. Mossay-Lafontaine, Discours 24-24, p. 70 nota 1); cfr. ancora carm. II,1,2 v. 7 …Τριάδος θεότητα… φαεινῆς… ; II,1,17 v. 47 Λᾶες ἐμοί, κείνων δὲ Τριάς, θεότης νεόπηκτος. In epist. 185,6 Gregorio si annovera tra gli ἀκριβεῖς τῆς Θεότητος κήρυκας; cfr. Lampe, s.v. συζυγής. — La costruzione στομάτεσσι ἐρευγομένω potrebbe risentire dell'eco di Mt. 13,35: Ἀνοίξω ἐν παραβολαῖς τὸ στόμα μου, ἐρεύξομαι κεκρυμμένα ἀπὸ καταβολῆς κόσμου, che riprende Ps. 78,2 ἀνοίξω ἐν παραβολαῖς τὸ στόμα μου, φθέγξομαι προβλήματα ἀπ’ ἀρχῆς; ma in uno scolio ad Il. 16,162 Heyne si legge: ἀπὸ ἄκρου τοῦ στόματος ἐρευγόμενοι. Εssa trova, inoltre, una corrispondenza in Cyr. Jo. 2,116 …καὶ ἀπυλώτῳ στόματι τὴν ἐκ τοῦ διαβόλου κακίαν ἠρεύγετο κατὰ Χριστοῦ; Nonn. Par. 7,57-58 …εἰρομένοις δὲ / θεσπεσίοις στομάτεσσιν ἄναξ ἠρεύγετο φωνήν; Dion. 19,193 etc. 242 Βοσπόριος Bosporio era vescovo di Colonia, nonché amico del Nazianzeno: per un profilo sul personaggio cfr. Hauser-Meury, pp. 45-47. Dopo il suo ritorno a Nazianzo nella seconda metà del 381, al termine dell'esperienza costantinopolitana, il Cappadoce viene ripetutamente esortato da Bosporio ad assumere la gestione della chiesa della sua cittadina che, dopo la morte di Gregorio il Vecchio, era rimasta priva di una guida, ma Gregorio rifiuta, in un primo momento, l'invito attirandosi le critiche del collega e degli altri vescovi della regione. Egli assumerà successivamente la guida della chiesa "paterna", ma non si lascerà sfuggire l'occasione per mostrare all'amico la sua disapprovazione, come in epist. 153,1 Δίς ἤδη τοῦτο ἐπτέρνισμαι παρ᾽ ὑμῶν καὶ ἠπάτημαι (οἶδας ὃ λέγω), cfr. Gallay, Lettres, p. 45 e nota 2, e in epist. 138,1 dove il Cappadoce esordisce pretendendo delle scuse dall'amico in relazione alle avvenimenti intercorsi: Ἐνόμιζον μὲν καὶ ὑπὲρ τῶν προτέρων χρεωστεῖσθαί μοι παρ᾽ ὑμῶν ἀπολογίαν, οὕτως ἀρχαῖός τίς εἰμι καὶ μάταιος (la lettera è datata 260 "fin de 382" quando Gregorio era a già capo della comunità di Nazianzo, cfr. Gallay, Lettres, p. 26 e nota 2); si vedano anche carm. II,1,30; II,1,68; epist. 89; Gallay, Vie, pp. 227-228 e nota 8; McGuckin, pp. 384-387. — L'inserimento di Bosporio nel trittico dei "sostenitori della Trinità" è stato collegato all'accusa di eresia, …Βοσπόριον… …περὶ τὴν πίστιν κακόν (epist. 183,9) che gli venne mossa tra la fine del 383 e l'inizio del 384, come si apprende da una serie di epistole (183, 184, 185) in cui il Cappadoce prende le difese dell'amico, adducendo la propria testimonianza, τὴν μαρτυρίαν τὴν ἡμετέραν (epist. 183,9) e πάντων μάλιστα τὸν ἄνδρα γινώσκων (epist. 185,2). Tale collegamento e sincronismo è stato messo in luce da McLynn, Olympias, p. 244 e note 69-74, quale prova della datazione tarda del nostro carme da ascrivere, presumibilmente, al periodo successivo al ritiro del Nostro dalle attività pastorali a Nazianzo (post 383). Il Nazianzeno si prodigò, dunque, per scagionare l'amico dalle infamanti accuse, inviando le tre citate missive con le quali chiede ai destinatari di intervenire nella questione. La prove da lui addotte a favore di Bosporio prendono le mosse dal sottolinearne l'età avanzata ἐῶ γὰρ τὸν μακρὸν χρόνον (epist. 183,9), ὁ χρόνος τοῦ ἀνδρὸς καὶ ὁ βίος (epist. 184,2), πολιτεία καὶ χρόνος βεβαιοῖ τὸ αἰδέσιμον (epist. 185,2), ma anche ne ricordano l’intensa attività pastorale e il lodevole pregio di aver ricondotto nel seno della madre Chiesa coloro che erano caduti nell'errore, οἵ τε ἐκ τῆς πλάνης ἐπαναχθέντες καὶ προστεθέντες τῷ κοινῷ τῆς Ἐκκλεσίας (epist. 184,2), e Σήμερον ἡμῖν κακόδοξος ὁ θεοφιλέστατος ἐπίσκοπος Βοσπόριος; Σήμερον πολιὰ ταλαντεύεται τοῦ τοσούτους μὲν ἐκ τῆς πλάνης ἐπαναγογόντος, τοσαύτην δὲ ἀπόδειξιν δεδωκότος ὀρθοδοξίας, διδασκάλου δὲ πάντων ἡμῶν; (epist. 185,5); nonché la comunione di intenti e di dottrina dei tre ἐπίσκοποι che appare chiaramente dalla missiva che il Nostro invia ad Anfilochio, proprio con la richiesta di testimoniare a favore di Bosporio: ἡμεῖς οἱ πολλάκις τὰ αὐτὰ καὶ ἀκούσαντες παρ᾽ αὐτοῦ καὶ διδάξαντες… (epist. 184,2); cfr. McGuckin, pp. 379-380. Non sembra esserci testimonianza, nel carteggio gregoriano, dell’evoluzione e conclusione della questione. Ἀμφίλοχος Anfilochio era cugino e amico del Nazianzeno (cfr. Hauser-Meury, pp. 30-32) che lo ricorda anche in carm. II,2,6 vv. 101-103 lodandolo insieme alla sorella Teodosia e definendolo ἄγγελον ἀτρεκίης ἐριηχέα, κῦδος ἐμεῖο (v. 103) e affermando così, il 261 ruolo che egli svolse nella vocazione sacerdotale del cugino, grazie all'intercessione di S. Tecla (per le minuziose argomentazioni sulla discussa interpretazione del passo, si rimanda a Bacci, pp. 128-130 nota ad loc.). La figura e la personalità di Anfilochio emergono, oltre che dalle sue stesse opere, anche dall'epistolario di Gregorio, ma soprattutto dal carteggio di Basilio, che lo innalzerà alla sede vescovile e farà di lui un suo discepolo nell'affermazione della dottrina trinitaria (cfr. capp. 1 e 30 del De spiritu Sancto): per l'analisi delle lettere che Basilio invia all'Iconiense, espressione del rapporto e della collaborazione che si instaura tra i due cfr. R. Bouchet, Basile le grand et son universe d'amis d'apres sa correspondance. Une stratégie de communication, Roma 1992, pp. 405-438;; D. K. Holl, Amphilochium vom Ikonium in seinem Verhältnis zu den groβen Kappadoziern, Tübingen-Leipzig, 1904, pp. 5-42. Di Amfilochio sono i Iambi ad Seleucum che contiene, ai vv. 192-199 e 210-213, un' esposizione della dottrina trinitaria e una lode delle ipostasi divine:…τὸν ἀληθῆ καὶ μόνον θεὸν σέβειν. / Μονὰς γάρ ἐστι καὶ τριὰς ἀίδιος, /πατὴρ σὺν υἱῷ καὶ παναγίῳ πνεύματι, / τριὰς προσώποις εὐκρινής, μονὰς φύσει. / μήτ’ οὖν ἀριθμῷ συγχέῃς ὑποστάσεις, / μήτ’ αὖ θεὸν σὺ προσκυνῶν τέμῃς φύσιν. / φύσει γὰρ ὄντως ἡ τριὰς οὐ τέμνεται. / μία τριὰς γάρ, εἷς θεὸς παντοκράτωρ. / τοῦτ’ ἐστι λεπτὸν εὐσεβὲς μυστήριον … /…/ συνάπτεται γὰρ ἡ τριὰς ἀσυγχύτως, / ὥσπερ ἀτμήτως ἡ μονὰς χωρίζεται. / ἡ γὰρ φύσις ἄτμητος, αἱ δ’ ὑποστάσεις / ἀεὶ μένουσι παντελῶς ἀσύγχυτοι. μεγαθύμω L'epiteto μεγάθυμος già in Omero (cfr. Il. 2,53; 4,464; 5,577 etc.; Od. 3,366; 7,16; 15,2 etc.), e altrove (cfr. Hes. Th. 734; Ps.-Hes. Sc. 17; fr. 165. 195 West-Merkelbach etc.; Bacchyl. E. 13,158) sembra ricorrere questa sola volta nel corpus del Nazianzeno. 243-244 Il pronome relativo οἷς, in posizione incipitaria, è dativo di vantaggio da riferirsi ai due Gregori, a Bosporio e ad Anfilochio. Gli ἱερῆες non si sono lasciati piegare dalle afflizioni della malattia, grazie alla loro salda fede nella Trinità, alle preghiere, alle lodi e alle offerte votive. 243 στυγερὴ νούσων ὑποδάμνατ᾽ ἀνίη Un simile verso si legge in un epitafio di Gregorio in memoria della madre Nonna (= Anth. Pal. 8,50,1-2): Οὐ νόσος οὐδέ σε γῆρας ὁμοίιον, οὔ σέ γ’ ἀνίη, / καίπερ 262 γηραλέην, μῆτερ ἐμή, δάμασεν. Per la costruzione di ἀνία con (ὑπο)δαμνάω/δάμνημι e δαμάζω cfr. Quint. Smyrn. 1,243 …μάλα γάρ οἱ ἐδάμνατο θυμὸν ἀνίη; 11,25 δάμναθ’ ὑπ’ ὠδίνεσσι πολυτλήτοισιν ἀνίη, ma si vedano anche le simili espressioni di Zeno fr. 5,21 οὐ φλὸξ ἠελίοιο δαμάζεται, οὐ νόσος αἰνή; Nic. Alex. 296-296 …πολλάκι νούσῳ / δαμναμένη δύσποτμον ὑπὲκ γόνον ἔκχεε γαίῃ; Man. Apot. 365 αὐτοὺς δ’ ἐν νούσοις δολιχαῖς ἄταις τ’ ἐδάμασσεν; Clem. Alex. div. 34,3 καὶ νόσος ἀκμάζουσα δαμάζεται; Anth. Pal. 7,233,6 Αὐτὸς ἑκὼν ἐδάμην, μὴ νόσος εὖχος ἔχῃ. In termini simili il Nazianzeno stesso loda la virtù paterna capace di placare la malattia del ventre e la sua voracità, Καὶ γαστρὸς νόσον, καὶ ἀπληστίαν δαμάζων μέν, εἰ καί τις ἄλλος, οὐ δοκῶν δέ (or. 18,23); e in riferimento alla vita delle fiere …ἢν δὲ δαμάσσῃ / νοῦσος, ἀπενθεῖς ἄλκιμον ἆσθμα λίπον (carm. I,2,15 vv. 35-36). — L'aggettivo στυγερός si trova in iunctura con ἀνία già in Apoll. Rh. 3,264265 …Ὁ μὲν θνῄσκων στυγερὰς ἐπετέλλετ᾽ ἀνίας / ἠμετέρῃ κραδίῃ·…; poi Quint. Smyrn. 3,763; 10,276; 14,164 etc.; esso, in Gregorio, è inoltre usuale epiteto di νόσος (cfr. supra, nota al v. 33). — Da notare, infine, l'accostamento di ἀνία con νόσος rilevabile già in Plat. Prot. 353e Οὐκοῦν νόσους ποιοῦντα ἀνίας ποιεῖ, καὶ πενίας ποιοῦντα ἀνίας ποιεῖ; Nic. Ther. 496 ἀλθήσῃ νούσοιο κατασπέρχουσαν ἀνίην. 244 εὐχαῖς τε Τριάδος τε σεβάσματι, καὶ θυέεσσι I vocaboli in questione si leggono anche in Anth. Pal. 8,53, un epigramma in onore della madre Nonna. 245ss. Vitaliano non si lascia addolcire né dalle preghiere, né dai sacrifici legati al culto dei martiri che egli stesso, di anno in anno darebbe prova di onorare con esteriori manifestazioni di fides (generose offerte, donativi, banchetti, cori, dolci bevande, sontuosi giacigli), ma conservando un cuore superbo, disonora, così, la legge di Dio. 245 οὔτ᾽ εὐχωλὴ… οὔτε θυηλή L'accostamento dei termini in oggetto è gia in Hom. Il. 9,499 καὶ μὲν τοὺς θυέεσσι καὶ εὐχωλῇς ἀγανῇσι. — Per il sostantivo θυηλή si veda Piottante, p. 150, nota a carm. II,1,38 v. 29. Si noti l'uso dei termini εὐχωλὴ … καὶ θυηλή, corradicali a quelli di v. 244 εὐχαῖς τε καὶ θυέεσσι. κάμπτει φρένας 263 La costruzione di κάμπτω con φρήν (cfr. Agath. fr. 26 Snell) trova attestazione, nella poesia di Gregorio, anche in carm. I,2,25 v. 90; e II,2,5 v. 105. 246-250 Riferimento alle annuali (ἐις ἔτος ἐξ ἔτεος, v. 247) celebrazioni dei martiri. Di tali solennità si trova testimonianza, oltre che in Greg. Naz. or. 11,3ss.; 19,4ss. etc., anche nell'epistolario basiliano, dal quale emerge la solerzia con cui il vescovo di Cesarea organizzava i sinodi in occasione di queste commemorazioni, alle quali invitava i vescovi delle regioni limitrofe, lamentandosi nel caso in cui essi disertassero l'avvenimento (cfr. epist. 142). Tra gli invitati c'è anche il "discepolo" Amfilochio al quale, per esempio, nell'epist. 176 Basilio chiede di anticipare il suo arrivo per onorare, con la sua presenza, la festa patronale, cfr. Girardi, Martiri, pp. 159-164. Sulle festività in onore dei martiri si veda anche lo studio, seppur datato ma ancora di riferimento, di H. Delehaye, Les origines du culte des martyrs, Bruxelles 1933. 246 ἀθλοφόροισι L'epiteto ἀθλοφόρος, che già nella tradizione classica designava i vincitori negli agoni pagani (cfr. Hom. Il. 9,124; 11,699; Pind. O. 7,7 etc.), indica presso gli scrittori ecclesiastici i martiri cristiani (si veda anche l’apocrifo libro IV dei Maccabei 15,20 …τοῦ… ἀγῶνος ἀθλοφόρε): cfr. LSJ e Lampe, s.v.; P. Brown, The Cult of the Saints: its Rise and Function in Latin Christianity, Chicago 1981, in part. pp. 1-22; nonché H. Strathmann, μάρτυς…, in GLNT VI, coll. 1269ss. in part. 1313ss.; ma anche E. Stauffer, ἀγών, in GLNT I, coll. 361-378; e E. Stauffer, ἄθλέω…, in GLNT I, coll. 449451. Sulla distinzione, nella lingua greca, tra ἆθλος, ἆθλοι (certamen) e ἆθλον, ἆθλα (praemium) si veda C. O. Pavese, ἂθλοι e ἆθλα, Studi Italiani di Filologia Classica 89, 1996, pp. 3-9. — Il Nazianzeno manifesta esplicitamente questa relazione in diversi epigrammi: πάντα δ’ ἔθηκεν ἄνω, Μάρτυρες ἀθλοφόροι (Anth. Pal. 8,102,2); Μαρτύρομ’, ἀθλοφόροι καὶ μάρτυρες… (Anth. Pal. 8,169,1); e ancora 8,167. 170. 175. In or. 24,19 Gregorio oppone ai praemia che conquistano gli atleti pagani il proprio, che consiste nel λόγος celebrativo che ha appena pronunciato, che diventa, poiché egli è ministro del Λόγος, un τοῦ Λόγου δῶρον: Αὗταί σοι τῶν ἐμῶν λόγων αἱ ἀπαρχαὶ, ὦ θεία καὶ ἱερὰ κεφαλή· τοῦτό σοι καὶ τῶν λόγων γέρας καὶ τῆς ἀθλήσεως οὐ κότινος ὀλυμπιακός, οὔτε μῆλα δελφικὰ παίγνια, οὐδὲ ἰσθμικὴ πίτυς, οὐδὲ 264 Νεμαίας σέλινα, δι’ ὧν ἔφηβοι δυστυχεῖς ἐτιμήθησαν· ἀλλὰ λόγος, τὸ πάντων οἰκειότατον τοῖς Λόγου θεραπευταῖς· εἰ δὲ καὶ τῶν σῶν ἄθλων καὶ λόγων ἄξιον, τοῦ Λόγου τὸ δῶρον. E in carm. II,1,50 il Nostro ricorda con rimpianto il periodo constantinopolitano in cui onorava la memoria dei martiri, Οὐκέτι δ’ ἀθλοφόροισι φίλην ἵστημι χορείην, / εὐφήμοισι λόγοις τίμιον αἷμα σέβων (vv. 51-52). In senso proprio, e non indicando il martire cristiano, il termine è usato in carm. II,1,17 v. 81; cfr. Sundermann, pp. 73-74. ἀθλοφόροισι δίδως χάρις… γεραίρων Pur onorando i martiri, Vitaliano non concede loro la grazia di piegare il suo cuore alla misericordia. Mostrare devozione e tributare onori ai martiri è signum fidei fondamentale per il popolo di Dio. Gregorio nell'or. 24, che compose per commemorare un martire di nome Cipriano, in cui confluiscono tratti propri del vescovo di Cartagine e di un individuo di Antiochia (cfr. Mossay-Lafontaine, Discours 24-26, pp. 12ss.), afferma l'importanza di riconoscere i giusti onori a questi testimoni della fede (cfr. § 3-4). Di tale importanza è ben cosciente anche Basilio di Cesarea che richiama, in primo luogo, i vescovi a dare atto e dimostrazione del culto e dell'onore che bisognava conferire a questi imitatori di Cristo, quale esempio da dare al popolo, cfr. epist. 252 e Girardi, Martiri, pp. 161-163. εἰς ἔτος ἐξ ἔτεος Le celebrazioni in onore dei martiri venivano indette ogni anno in corrispondenza del dies natalis. Il nesso in oggetto caratterizzato dal poliptoto è mutuato da Apoll. Rh. 4,1774 (incipit); ma si veda anche Soph. Ant. 340 ἔτος εἰς ἔτος; Eur. Hel. 776 ἔτεσι διῆλθον ἑπτὰ περιδρομὰς ἐτῶν; nonché Greg. Naz. carm. II,1,50 v. 16 (clausola). μεγάλῃ καὶ ἀπείρονι χειρί L'esuberante e lauta generosità di Vitaliano viene simbolicamente rappresentata con l'immagine della mano. Per simili metaforiche corrispondenze cfr. supra, nota al v. 170, in riferimento alla generosità dello stesso Vitaliano in favore delle figlie femmine. La iunctura di ἀπείρων con χείρ sarà ripresa da Nonn. Dion. 2,502. 248-250 Grandi culti in riferimento alle celebrazioni dei martiri. La sezione in oggetto testimonia le dinamiche delle festività in onore dei martiri cristiani. Le testimonianze sulle ἀγαπαί durante le celebrazioni dei martiri sono attestate sin 265 dai primi autori cristiani (cfr., tra gli altri, Tert. Apol. 39) e nella prima era cristiana esse non avevano ancora perso il loro carattere liturgico. Ma già nel IV secolo i "banchetti funebri" in onore dei martiri erano degenerati trasformandosi, spesso, in occasioni di pagano divertimento, e scatenando l'aspro biasimo dei Padri. Il limen che separava tali solenni celebrazioni da mere occasioni conviviali era, evidentemente, molto sottile e facile da superare. Anche dal vescovo Gregorio proviene la condanna esplicita sull'argomento, attraverso l'affermazione Θεοῦ νόμον ὧδ᾽ ἀθερίζεις (v. 250, per la "legge di Dio" cfr. vv. 17 e 116), così come in diversi luoghi della sua opera, come in or. 11,5, seppur genericamente, al termine di una lunga pericope, il Nostro avverte di non compiere cose che i martiri non chiedono, …πλὴν οὐ ταῦτα παρ᾽ ἡμῶν ἀπαιτοῦσι οἱ μάρτυρες…; ma soprattutto, e più precisamente, in carm. I,2,29 invita la donna a non presentarsi alle feste in onore dei martiri tutta imbellettata, così da rischiare di attirare l'interesse della folla, distogliendone la partecipazione alla solenne celebrazione, πῶς δὲ σύ γ’ ἀθλοφόροισιν, ὅσοις ἵστησι χορείην / λαὸς πασσυδίῃ τίμιον αἷμα σέβων, / εἶδος ἄγεις πολλῶν θελκτήριον, ὡς ἀγορῆτις / πληθὺν ἐφελκομένη ἐν μεσάτῳ πτολίων (vv. 301-304). Non è facile, comunque, chiarire la portata delle circostanze del nostro testo se, cioè, esse si svolgano nella casa di Vitaliano o siano da lui stesso organizzate, dato che si sta parlando della sua magnanimità, o se egli semplicemente vi partecipi. Il biasimo dei Padri nei confronti di queste dinamiche appare chiaro e prorompente: Basilio di Casarea, per esempio, critica aspramente simili degenerazioni, come si evince da un'omelia pronunciata all'indomani della veglia pasquale, in cui biasima le vergini che provocano con i loro atteggiamenti lascivi gli uomini, in prossimità dei santuari dei martiri, intonando cori e danze (Ebr. 1, PG 31,445-448): sebbene, come nota Girardi, Martiri, pp. 202-203, «l'indecoroso spettacolo non nasce dalla sconvolgimento di una festa per l'anniversario di un martire», ma in occasione della Pasqua che segnava la conclusione di un periodo di privazioni e digiuni, «fa riflettere che come luogo per questa liberazione esplosiva … vengano scelti i santuari dei martiri … che erano diventati per antonomasia i luoghi della festa» (lo studioso esclude che questi "spettacoli" si svolgessero dentro i martyria, come invece è attestato in Aug. serm. 311,3,5 dove vengono, comunque, condannati: sulla critica posizione di Agostino in 266 merito a questa problematica si veda anche conf. 6,2,2; epist. 22,1,6; 29,9; civ. Dei, 8,27). Cfr. Gregorio Nazianzeno, Poesie 1, pp. 238-239 note 74-75; Knecht, p. 127; Gregorio Nazianzeno, Orazioni, p. 1235 nota 46. 248 βήμασι Altari costruiti in onore dei martiri. In tale accezione Gregorio usa il termina βῆμα anche in or. 7,15 dove descrive le solenni esequie tributate al fratello Cesario, il cui corpo fu portato in processione agli altari dei martiri, …μαρτύρων βήμασι πομπευομένος (cfr. Calvet-Sebasti, Discours 6-12, p. 218 nota 2). La concezione dei martiri quali intercessori presso Dio per la salvezza degli uomini si riscontra in Aug. serm. 285,5, dove l'Ipponense spiega che la Chiesa non prega per i martiri, giacché loro si trovano già nella gloria di Dio dal momento della loro passione, ma li prega e li onora affinché essi diventino gli avvocati degli uomini presso Dio: Martyrum perfecta iustitia est, quoniam in ipsa passione perfecti sunt. Ideo pro illis in Ecclesia non oratur. Pro aliis fidelibus defunctis oratur, pro martyribus non oratur: tam enim perfecti exierunt, ut non sint suscepti nostri, sed advocati. Cfr. anche Greg. Naz. or. 44,12 Νῦν μάρτυρες αἰθριάζουσι, καὶ πομπεύουσι, καὶ λαμπροῖς τοῖς βήμασι συγκαλοῦσι λαὸν φιλόχριστον. καὶ τοὺς ἄθλους δημοσιεύουσι; cfr. Lampe, s.v.; V. Saxer- S. Ηeid, Martirio, in DPAC (F-O), coll. 3076-3097. — Sull'edificazione di santuari martiriali su commissione di Basilio di Cesarea si veda Girardi, pp. 200-201 e note 101-102. εἰλαπίνῃσι Banchetti. Tradizionale era l'usanza di portare cibo e bevande sull'altare dei martiri, durante le festività, affinché venissero da loro santificati, per poi, spesso, essere in seguito distribuiti ai poveri, cfr. Aug. Civ. 8,27 Quicumque etiam epulas suas eo deferunt (quod quidem a Christianis melioribus non fit, et in plerisque terrarum nulla talis est consuetudo); tamen quicumque id faciunt, quas cum apposuerint, orant et auferunt, ut vescantur vel ex eis etiam indigentibus largiantur, sanctificari sibi eas volunt per merita martyrum in nomine Domini martyrum. Ma manifesta e fortemente polemica appare la vis con la quale l'Ipponense rifiuta tale modus agendi, anche in altri luoghi della sua opera, cfr. epist. 22,1,3; 29,2-11. Per la lotta che il vescovo africano condusse, fino ad ottenere che tali banchetti venissero proibiti (concilio di Ippona del 393, confermato da quello di Cartagine del 397, canone 30; cod. can. eccles. afr. 42), cfr. 267 L. Leclercq, Martyr, in DACL 10, coll. 2359-2512, in part. 2458-2462 (cap. XXVIII, Les banquets des martyrs). χορείαις Per i cori legati alle celebrazioni in onore dei martiri cfr. Greg. Naz. carm. I,2,29 v. 301, cit. supra, nota ai vv. 248-250; II,1,50 v. 51; Ps.-Αthan. proph. (PG 28,1072); Ioh. Chrys. stat. 19,1 (PG 49,187). 249 κρατῆρσι μεθύσματος ἡδυπότοιο L'espressione in oggetto ricorre quasi identica in carm. I,2,2 v. 674, nella chiusa, dove Gregorio loda la donna vergine che attende Cristo-sposo, il quale allestirà per lei un banchetto nuziale tra cori e canti celesti, e disporrà crateri di soave vino. 250 μεγάλαις στιβάδεσσι Il temine στιβάς potrebbe indicare i comodi giacigli sui quali si banchettava. Dalle testimonianze archeologiche (Chiesa di Cirta e cimitero di Domitilla a Roma) sembra attestato l'uso di triclinia durante i "banchetti dei martiri", cfr. L. Leclercq, Martyr, cit. supra nota al v. 248. Gregorio usa il termine in senso dispregiativo per polemizzare contro le dissolutezze legate al ventre in or. 38,5: per festeggiare la Teofania non bisogna abbandonarsi a dissoluti divertimenti, organizzando feste e banchetti, potenziali fonti di peccato: Μὴ στιβάδας ὑψηλὰς πηξώμεθα σκηνοποιοῦντες τῇ γαστρὶ τὰ τῆς θρύψεως (la iunctura στιβάδας ὑψηλὰς potrebbe risentire dell’influsso di Rm. 13,13); sia in senso generico per indicare un giaciglio semplice e improvvisato dove trovare riposo, come in carm. I,2,1 v. 618; II,1,45 v. 145; or. 2,9. 251-257 La critica che l’io loquens muove a Vitaliano verte sulla disposizione interiore dell’uomo (κραδίην … νόῳ ῥυπόωντι). L’opposizione tra i due atteggiamenti è resa tramite lo schema Κρεῖσσον … ἢ: è preferibile consacrarsi a Dio con animo umile e dimesso (βαιὰ φέροντα …κραδίην), piuttosto che onorarlo con l'intelletto insozzato (νόῳ ῥυπόωντι). Si noti l'uso di simili espressioni latrici di significati affini, Θεῷ…ἱερεύειν (v. 251) e πᾶσιν θυέεσσι …γεραίρειν (v. 252), ma anche καθαρὸν θύος (v. 257), varietas stilistica che rivela la volontà di insistere su un preciso aspetto della vicenda: sebbene, dunque, Vitaliano tenti di dare sincere manifestazione della sua fede (cfr. supra, vv. 245-250), la sua anima è lorda, pertanto tale atteggiamento 268 non è Θεοῖο ἐπάξιον; ciò che è, invece, veramente degno di Dio è il solo sacrificio dell'anima purificata, μούνης δὲ ψυχῆς καθαρὸν θύος (si noti, ancora, la correlazione oppositiva espressa dalle particelle μέν … δέ, οὐ μὲν τι Θεοῖο ἐπάξιον… /…/ μούνης δὲ ψύχῆς καθαρὸν θύος…, vv. 253 e 256). Τale insistenza potrebbe alludere al crudele comportamento del genitore nei confronti dei figli, in tal senso disapprovato dal Cappadoce, che andrebbe ad inficiare la scelta compiuta dall'uomo di abbracciare, insieme a Gregorio, la vita ascetica, cfr. infra, vv. 269ss. In altre parole, Gregorio potrebbe, qui, ammonire Vitaliano a purificare il suo animo (insozzato anche dal male che egli infligge ai suoi figli) per onorare sinceramente Dio, e consacrarsi completamente a Lui; cfr. Regali, Datazione, p. 376. 252 νόῳ ῥυπόωντι Intelletto sudicio (a causa del peccato). Tale stato si trova spesso connesso, negli scrittori cristiani, alla necessità di purificazone, cfr. Greg. Nyss. ascens. (GNO 9,325): καὶ μηδεμιᾷ πονηρᾷ πράξει ῥυπούμενος, καθαρὸς δὲ τῇ καρδίᾳ πρὸς οὐδὲν μάταιον τὴν ψυχὴν ἑαυτοῦ φέρων μηδέ τινα δόλον τῷ πλησίον ἐξαρτυόμενος; or. dom. 5 τίς καυχήσεται, καθὼς ἡ Σοφία φησὶν, ἁγνὴν ἔχειν καρδίαν; τίς κεκαθάρισται ἀπὸ ῥύπου; ma si veda lo stesso Greg. Naz. or. 8,14 ἢ δάκρυον ῥύπου καθάρσιον ἐν καρδίᾳ συντετριμμένῃ…; Ephr. Sermo alius compunctorius: Οἴμοι τῷ ἁμαρτωλῷ τῷ ῥυπώσαντι τὸ καθαρὸν τῆς καρδίας μου τῇ ἐμαυτοῦ χαυνότητι (Phrantzoles p. 391); Cyr. hom. div. 14 Οἱ καθαροὶ τῇ καρδίᾳ ὁρῶσι τὴν τοῦ Θεοῦ δόξαν· οἱ δὲ ἐῤῥυπωμένοι τὸν νοῦν, ἐνοπτρίζονται τὸν διάβολον (PG 77,1085); Ps. Τάχα δὲ καὶ ὡς ῥυπώσης τῆς ἁπάντων καρδίας, διὰ τῆς ἐν Ἀδὰμ παραβάσεως καὶ τῆς εἰς τὸ φαῦλον παρατροπῆς… (PG 69,1100). Ma anche, semplicemente, ricorre la concezione dell’anima resa sudicia dal peccato, cfr. Clem. Alex. protr. 6,69,3 τὰ μὲν γὰρ ἄδικα καὶ ἄνισα εἴδωλα οἴκοι ἐν τῷ μαρσίππῳ καὶ ἐν τῇ ὡς ἔπος εἰπεῖν ῥυπώσῃ ψυχῇ κατακέκρυπται; Or. Jo 32,2,13 ἀδύνατον γὰρ οἶμαι μηδὲν ῥυπωθῆναι τῆς ψυχῆς μηδὲ τὰ τελευταῖα καὶ τὰ κατωτάτω αὐτῆς; Bas. Jej. hom. 2 Οὐ γὰρ μὴ εἰσέλθῃ νηστεία καὶ δέησις εἰς ψυχὴν ῥυπωθεῖσαν ὑπὸ τῆς μέθης (PG 31,189); Eus. h. e. 10,4,60 αὖθις καὶ διὰ τούτων τὰς μικρῷ πρόσθεν ἐρρυπωμένας ψυχὰς ὕλης τε παντοίας καὶ χώματος ἀσεβῶν ἐπιταγμάτων συμπεφορημένας ὄρυξι καὶ δικέλλαις ταῖς πληκτικαῖς τῶν μαθημάτων διδασκαλίαις ἐξεκάθηρέν τε καὶ ἀπέσμηξεν; Ioh. Chrys. anom. 6 τῆς δὲ 269 ψυχῆς ἠμελημένης, ῥυπώσης,… (PG 48,755) etc.; infine, si veda anche supra, nota al v. 120. 253-255 Dio creatore dell'universo. Gregorio si avvale della figura retorica della litote per affermare ciò che non è Θεοῖο ἐπάξιον: non sono degni di Dio né i prodotti della terra, né quanto si trova nel cielo e nel mare (dei quali il Signore è l'artefice e, dunque, il Cappadoce coglie l'occasione per rievocarne la creazione e affermare, così, la potenza di Dio): οὐ μὲν γάρ τι Θεοῖο ἐπάξιον, οὐδ᾽ ὁπόσα χθὼν / ἥδε φέρει μερόπεσσι, καὶ οὐρανός, ἠδὲ θάλασσα. / Καὶ γὰρ ἅπαντα Θεοῖο… (253-255). In termini simili egli si esprime in or. 38,7ss. dove, dopo aver proclamato le prerogative e gli attributi di Dio Padre, passa in rassegna le tappe della creazione, da quella del "mondo intelligibile" e delle sostanze angeliche, a quella del mondo materiale e dell'uomo che è βασιλεύς (scil. ἄνθρωπον) τῶν ἐπὶ γῆς. In particolare il § 10 (creazione del mondo materiale) presenta qualche consonanza col passo in oggetto: qui Gregorio asserisce che Dio ha mostrato di essere capace di creare non solo la natura a Lui affine, ma anche quella a Lui estranea, Οὕτω μὲν οὖν ὁ νοητὸς αὐτῷ καὶ διὰ ταῦτα ὑπέστη κόσμος, ὡς ἐμὲ γοῦν περὶ τούτων φιλοσοφῆσαι, μικρῷ λόγῳ τὰ μεγάλα σταθμώμενον. Ἐπεὶ δὲ τὰ πρῶτα καλῶς εἶχεν αὐτῷ, δεύτερον ἐννοεῖ κόσμον ὑλικὸν καὶ ὁρώμενον, καὶ οὗτός ἐστι τὸ ἐξ οὐρανοῦ καὶ γῆς καὶ τῶν ἐν μέσῳ σύστημά τε καὶ σύγκριμα, ἐπαινετὸν μὲν τῆς καθ’ ἕκαστον εὐφυΐας, ἀξιεπαινετώτερον δὲ τῆς ἐξ ἁπάντων εὐαρμοστίας καὶ συμφωνίας, ἄλλου πρὸς ἄλλο τι καλῶς ἔχοντος καὶ πάντων πρὸς ἅπαντα, εἰς ἑνὸς κόσμου συμπλήρωσιν· ἵνα δείξῃ μὴ μόνον οἰκείαν ἑαυτῷ φύσιν, ἀλλὰ καὶ πάντη ξένην ὑποστήσασθαι δυνατὸς ὤν. Οἰκεῖον μὲν γὰρ θεότητος αἱ νοεραὶ φύσεις καὶ νῷ μόνῳ ληπταί ξένον δὲ παντάπασιν, ὅσαι ὑπὸ τὴν αἴσθησιν, καὶ τούτων αὐτῶν ἔτι πορρωτέρω, ὅσαι παντελῶς ἄψυχοι καὶ ἀκίνητοι…, pertanto, si potrebbe aggiungere quanto dichiara il nostro testo, cioè "tutto appartiene a Dio", ἅπαντα Θεοῖο· τί κεν βροτὸς ἔκτοθεν εὕροι (v. 255). 253-255 La menzione congiunta dei diversi elementi del creato (χθών, οὐρανός, θάλασσα, cfr. Gen. 1,1ss.) trova riscontro in vari luoghi della Bibbia dove è atta a proclamare, così, la potenza di Dio Creatore, cfr. Ps. 146,5-6 …ἡ ἐλπὶς αὐτοῦ ἐπὶ κύριον τὸν θεὸν 270 αὐτοῦ τὸν ποιήσαντα τὸν οὐρανὸν καὶ τὴν γῆν, τὴν θάλασσαν καὶ πάντα τὰ ἐν αὐτοῖς…; Is. 45,12 ἐγὼ (scil. ὁ Θεός) ἐποίησα γῆν καὶ ἄνθρωπον ἐπ’ αὐτῆς, ἐγὼ τῇ χειρί μου ἐστερέωσα τὸν οὐρανόν, ἐγὼ πᾶσι τοῖς ἄστροις ἐνετειλάμην; Am. 9,6 ὁ οἰκοδομῶν εἰς τὸν οὐρανὸν ἀνάβασιν αὐτοῦ καὶ τὴν ἐπαγγελίαν αὐτοῦ ἐπὶ τῆς γῆς θεμελιῶν, ὁ προσκαλούμενος τὸ ὕδωρ τῆς θαλάσσης καὶ ἐκχέων αὐτὸ ἐπὶ πρόσωπον τῆς γῆς· κύριος ὁ θεὸς ὁ παντοκράτωρ ὄνομα αὐτῷ; Gn. 1,9 καὶ εἶπεν πρὸς αὐτούς Δοῦλος κυρίου ἐγώ εἰμι καὶ τὸν κύριον θεὸν τοῦ οὐρανοῦ ἐγὼ σέβομαι, ὃς ἐποίησεν τὴν θάλασσαν καὶ τὴν ξηράν… . E nel N.T., cfr. At. 4,24 …Δέσποτα, σὺ ὁ ποιήσας τὸν οὐρανὸν καὶ τὴν γῆν καὶ τὴν θάλασσαν καὶ πάντα τὰ ἐν αὐτοῖς (= 14,15); Apoc. 14,7 …προσκυνήσατε τῷ ποιήσαντι (scil. ὁ Θεός) τὸν οὐρανὸν καὶ τὴν γῆν καὶ θάλασσαν καὶ πηγὰς ὑδάτων. Ma si veda ancora Ps. 24,1-2 Τοῦ κυρίου ἡ γῆ καὶ τὸ πλήρωμα αὐτῆς, ἡ οἰκουμένη καὶ πάντες οἱ κατοικοῦντες ἐν αὐτῇ· αὐτὸς ἐπὶ θαλασσῶν ἐθεμελίωσεν αὐτὴν καὶ ἐπὶ ποταμῶν ἡτοίμασεν αὐτήν. Tutto, dunque appartiene a Dio, γὰρ ἅπαντα Θεοῖο (v. 255), giacché Egli ne è il creatore: in termini simili al passo in oggetto Gregorio si esprime in or. 39,13 …ἵνα πληρωθῇ τὰ πάντα δόξης Θεοῦ, ἐπεὶ καὶ Θεοῦ,… . 256-257 Offrire a Dio la propria anima. Seguendo le tappe di una climax ascendente, finalmente, il Cappadoce proclama cosa sia veramente Θεοῖο ἐπάξιον: degno di Dio sarebbe il puro sacrificio della sola anima attraverso il quale il povero è in grado di superare il ricco nella corsa verso la perfezione cristiana e la salvezza, μούνης δὲ ψυχῆς καθαρὸν θύος, ᾧ τις ἄνολβος / πολλάκι καὶ πολύολβον ἐπιθρέξας παράμειψεν. 256 μούνης δὲ ψυχῆς καθαρὸν θύος Sacrificio spirituale dell'anima. Il passo in oggetto potrebbe ispirarsi a Ps. 51,19 θυσία τῷ θεῷ πνεῦμα συντετριμμένον, καρδίαν συντετριμμένην καὶ τεταπεινωμένην ὁ θεὸς οὐκ ἐξουθενώσει. In termini simili Gregorio si esprime in carm. I,1,3 v. 70, dove offrire a Dio un sacrificio puro, dentro di sé, significa, come afferma Moreschini, Discorsi Teologici, p. 242 nota 6, "offrire un pensiero secondo la fede cristiana": ἀλλ’ ὧδ’ ἂν φρονέων καθαρὸν θύος ἔνδοθι ῥέζοις (l'espressione richiamerebbe i sacrifici spirituali di Ps. 4,6, cfr. Moreschini-Sykes, p. 137 nota ad loc.); ma si veda anche II,1,1 vv. 130-131 in riferimento all'attività sacerdotale di 271 Gregorio il Vecchio, …καθαροῖς τε τελέσμασι καὶ θυέεσσιν / ἡμετέροις οἷά τε θύει νόος ἔνδοθεν ἁγνός; II,1,83 v. 4 …καλὸν γὰρ τὸ φρενὸς μόνης θύος; e due epigrammi dedicati alla madre Nonna, ἐκ καθαρῆς κραδίης ἁγνὸν θύος… (Anth. Pal. 8,40,3), e ὑστάτιον ψυχὴν δῶκας ἁγνὴν θυσίην (Anth. Pal. 8,42,2). Per la semplice iunctura di καθαρόν con θύος cfr. carm. I,2,9b v. 3; II,1,27 v. 2; Anth. Pal. 8,28,4; ma anche II,1,28 v. 10 οὐρανίων θυέων μὴ καθαρὸν παρέχει; Palla-Kertsch, p. 172. In maniera singolare, l'idea di purificazione è presente anche nell'epist. 75, dove il Cappadoce manifestando disapprovazione nei confronti delle frequentazioni di Vitaliano e decidendo, pertanto, di sospenderne i rapporti, si dichiara pronto a riallacciarli nel momento in cui l'interlocutore si sarà purificato dalle sue cattive compagnie e avrà assunto come compagna la virtù: …Εἰ δ᾽ ἀνακαθήραις σαυτὸν τῶν πολλῶν καὶ σύνοικον ἔχοις τὴν ἀρετήν… . 256-257 …ἄνολβος / …πολύολβον… Il povero e il ricco. Le due figure sono spesso menzionate insieme nella Sacra Scrittura, soprattutto nel V.T., cfr. Ex. 30,15; Iob 34,19; Pr. 13,7. 14,20. 18,23. 19,21. 22,2. 28.6; Sir. 10,30. e più volte nel cap. 13. etc.; ma anche nel N. T., in particolare Gc. 2, per cui si rimanda al recentissimo volume di U. Berges - R. Hoppe, Il povero e il ricco nella Bibbia, EDB 2011. Nel nostro testo le tematiche della povertà e della ricchezza si aprono ad un duplice livello di interpretazione alla luce, sia dell'elaborazione dei versi precedenti (magnanimità di Vitaliano e predisposizione interiore), che sulla base di una duplice fonte scritturistica dalla quale il passo in oggetto potrebbe trarre ispirazione. In particolare, l'antitesi "povertà vs ricchezza" potrebbe collocarsi sia su un piano materiale, con implicazioni interiori - il riferimento scritturistico sarebbe la pericope di Mt. 19,16ss. -, sia su un ordine spirituale - in cui si può sentire l'eco del discorso sulle Beatitudini di Mt. 5,3 e Lc. 6,20. La pericope matteana, nella quale Cristo prescrive le condizioni da seguire per diventare un perfetto cristiano e ottenere la salvezza, che si realizzano nel rispetto dei Comandamenti e nella rinuncia alle ricchezze materiali, è richiamata diverse volte dal Cappadoce nel corso della sua opera, ma interessanti, nella prospettiva di una consonanza col nostro testo, appaiono le applicazioni del dettato evangelico in cui ricorre l'idea di un processo e di un fine da raggiungere (tematica che è presente nel passo in oggetto nei verbi ἐπιθρέξας e παράμειψεν, v. 257), come in or. 272 14,4 Καλὸν ἡ ἀκτημοσύνη καὶ χρημάτων ὑπεροψία· … ὁ δέ (scil. Χριστός) τῷ πλουσίῳ τὸ τέλειον ἐν τούτῳ περιορίσας e 39 καὶ τὴν τοῦ νέου τελείωσιν ἐν τῷ τὰ ὄντα δοῦναι πτωχοῖς ὁρισθεῖσάν τε καὶ νομοθετηθεῖσαν. La povertà materiale sarebbe dunque la condizione propedeutica per il raggiungimento della perfezione cristiana e della salvezza che il povero sarebbe in grado di conseguire più facilmente rispetto al ricco - si ricordi l'opera di Clemente Alessandrino, Quis dives salvetur, che affronta, sulla base del racconto evangelico di Mt. 19,16ss., la problematica della conciliabilità e della penetrazione di tale messaggio cristiano nei ranghi elevati della societas: cfr. AA.VV. Per foramen acus. Il cristianesimo antico di fronte alla pericope evangelica del 'giovane ricco', Milano 1986. — Il discorso sulle Beatitudini è oggetto di un intero carme gregoriano (carm. I,2,17) nel quale il Cappadoce fa propri, rielaborandoli, i precetti evangelici (si noti la chiusa del carme Γρηγορίοιο νόμοι, v. 66). Come i "poveri in spirito" di Mt. 5,3 e Lc. 6,20 sono assimilati, da Gregorio, a "coloro che sono poveri di peccati", ὄλβιος, ὃν πτωχὸν παθέων μέγα Πνεῦμ᾽ ἀνέδειξεν (I,2,17 v. 25), così anche il "nostro" povero compiendo, a livello interiore e spirituale, il sacrificio puro della sola anima (μούνης δὲ ψυχῆς καθαρὸν θύος v. 256), può acquisire quella condizione che si rivela, veramente, Θεοῖο ἐπάξιον. …ἄνολβος / …πολύολβον… Da notare la figura etimologica utilizzata in questo accostamento che non sembra trovare altrove attestazioni: cfr. anche carm. I,2,2 v. 451 ὅστις… ἐναρίθμιος, ὅστις ἄνολβιος; I,2,15 vv. 95-96 …ὅστις ἄνολβος / ὅστις ἐρικτήμων… . Di altro tenore le simili espressioni antitetiche all'interno del dialogo tra Solone e il re Creso sulla conciliabilità della ricchezza con la felicità nella vita umana di Hdt. 1,32: Οὐ γάρ τι ὁ μέγα πλούσιος μᾶλλον τοῦ ἐπ’ ἡμέρην ἔχοντος ὀλβιώτερός ἐστι, εἰ μή οἱ τύχη ἐπίσποιτο πάντα καλὰ ἔχοντα εὖ τελευτῆσαι τὸν βίον. Πολλοὶ μὲν γὰρ ζάπλουτοι ἀνθρώπων ἀνόλβιοί εἰσι, πολλοὶ δὲ μετρίως ἔχοντες βίου εὐτυχέες. Ὁ μὲν δὴ μέγα πλούσιος, ἀνόλβιος δέ, δυοῖσι προέχει τοῦ εὐτυχέος μοῦνον, οὗτος δὲ τοῦ πλουσίου καὶ ἀνολβίου πολλοῖσι· ὁ μὲν ἐπιθυμίην ἐκτελέσαι καὶ ἄτην μεγάλην προσπεσοῦσαν ἐνεῖκαι δυνατώτερος, ὁ δὲ τοῖσδε προέχει ἐκείνου· ἄτην μὲν καὶ ἐπιθυμίην οὐκ ὁμοίως δυνατὸς ἐκείνῳ ἐνεῖκαι, ταῦτα δὲ ἡ εὐτυχίη οἱ ἀπερύκει, ἄπηρος δέ ἐστι, ἄνουσος, ἀπαθὴς κακῶν, εὔπαις, εὐειδής· εἰ δὲ πρὸς τούτοισι ἔτι τελευτήσει τὸν βίον 273 εὖ, οὗτος ἐκεῖνος τὸν σὺ ζητέεις, <ὁ> ὄλβιος κεκλῆσθαι ἄξιός ἐστι· πρὶν δ’ ἂν τελευτήσῃ, ἐπισχεῖν μηδὲ καλέειν κω ὄλβιον, ἀλλ’ εὐτυχέα. πολλάκι…πολύολβον ἐπιθρέξας παράμειψεν La metafora dell'esistenza = corsa, oltre ad avere una matrice classica, per cui cfr N. Bruyère-Demoulin, La vie est une course. Comparaisons et métaphores dans le littérature grecque-ancienne, L'Antiquité classique 45, 1976, pp. 446-463, è ampiamente ricorrente, com'è noto, nell'epistolario paolino, cfr. Tm. 4,7; Fil. 3,12-21 etc.; Rm. 13,12; 1Cor. 9,24-27; 15,31-32; Gal. 2,2; Col. 1,28-29; etc. Cfr. H. Bauernfeind, τρέχω, δρόμος, πρόδρομος in GLNT XIII, coll. 1411-1438, in part. 1425ss. — Si noti, infine, l'allitterazione della labiale π. 258-259 Queste parole vanno lette in relazione ai successivi vv. 269ss. nei quali Gregorio espone le tappe del cammino ascetico. La coraggiosa decisione, μεγαλήτορα βουλήν, che Vitaliano avrebbe preso, potrebbe riferirsi alla volontà di abbracciare la vita ascetica, così come si accenna nell'epist. 194,2 del Nazianzeno (cfr. supra, nota ai vv. 70-74). Questa condizione gli permetterebbe di "superare molti uomini" nella corsa verso la salvezza, così come il figlio, al v. 72, si augura che il genitore si affermi su tutto e tutti, …ἅπαντα ἐθέλω πάντων κρατέειν γενετῆρα (il verbo παρέθρεξας richiama il corradicale ἐπιθρέξας di v. 257, cfr. supra, nota ad loc.). 259 ὑπ᾽ ἐννεσίῃσι Θεοῖο Il modello del nesso in oggetto è Apoll. Rh. 2,1110 …ὑπ᾽ ἐννεσίῃσιν θεῶν…: cfr. Lampe, s.v ὑπεννησία. La iunctura ricalca, anche per la posizione clausolare, ancora Apoll. Rh. 4,1445 … ἐννεσίῃσι θεοῖο; hymn. hom. in Cer. 30 Διὸς ἐννεσίῃσι. La locuzione è ripresa da Gregorio in carm. I,1,35 v. 7 Πατρὸς ὑπ᾽ ἐννεσίῃσιν…; cfr., infine, Quint. Smyrn. 7,92; 13,549. 260-268 Triplice generazione dell’uomo. Gregorio distingue tre tipi di generazione: la prima è legata alla carne e al sangue e proviene dai genitori (ἐρχομένη σαρκῶν τε καὶ αἵματος … τὴν μὲν ἔχεις πατέρων ἄπο…, vv. 261 e 267); la seconda è opera dello Spirito Santo per mezzo del battesimo, con il quale gli uomini vengono purificati dai peccati e avvolti dallo splendore divino (…ἔπειτα δὲ Πνεύματος ἁγνοῦ, / εὖτε λοεσσαμένοισι δι᾽ ὕδατος ἤλυθεν αἴγλη … τὴν δὲ Θεοῖο, vv. 263-264 e 267); la terza, 274 della quale è artefice l'uomo stesso, è legata alla penitenza, δακρύων τε καὶ ἄλγεος, attraverso la quale si può mondare l'immagine di Dio impressa nell'uomo, insozzata dalla malvagità (εἰκόν᾽ ἀποξύουσα μελαινομένην κακότητι, v. 266). Lo stesso nei capitoli di apertura di or. 40, dedicata al sacramento del Battesimo dove Gregorio, sulla base delle fonti scritturistiche, distingue tre tipi γέννησις: la prima, quella che ha origine dai corpi, è connotata negativamente quale opera della notte e della passione; la seconda, che proviene dal battesimo, è opera del giorno e della luce, ed è purificatrice; la terza è inquadrata in una prospettiva escatologica, giacché riguarda la resurrezione e il giudizio finale degli uomini: Τρισσὴν γέννησιν ἡμῖν οἶδεν ὁ λόγος· τὴν ἐκ σωμάτων, τὴν ἐκ βαπτίσματος, καὶ τὴν ἐξ ἀναστάσεως. Τούτων δὲ ἡ μὲν νυκτερινή τέ ἐστι καὶ δούλη, καὶ ἐμπαθής· ἡ δὲ ἡμερινὴ, καὶ ἐλευθέρα καὶ λυτικὴ παθῶν, πᾶν τὸ ἀπὸ γενέσεως κάλυμμα περιτέμνουσα καὶ πρὸς τὴν ἄνω ζωὴν ἐπανάγουσα· ἡ δὲ φοβερωτέρα καὶ συντομωτέρα, πᾶν τὸ πλάσμα συνάγουσα ἐν βραχεῖ τῷ πλάστῃ παραστησόμενον καὶ λόγον ὑφέξον τῆς ἐνταῦθα δουλείας καὶ πολιτείας, εἴτε τῇ σαρκὶ μόνον ἐπηκολούθησεν, εἴτε τῷ Πνεύματι συνανῆλθε καὶ τὴν χάριν ᾐδέσθη τῆς ἀναπλάσεως… (§ 2). Una formulazione più concisa, che si sofferma solo sulle prime due generazioni, si legge anche in or. 41,14 Δημιουργεῖ Πνεῦμα δὲ τὴν πνευματικὴν ἀναγέννησιν, καὶ πειθέτω σε τὸ, «Μηδένα δύνασθαι τὴν βασιλείαν ἰδεῖν ἢ λαβεῖν, ὅς τις μὴ ἄνωθεν ἐγεννήθη Πνεύματι», καὶ τὴν προτέραν ἐκαθαρίσθη γέννησιν, ἣ νυκτός ἐστι μυστήριον, ἡμερινῇ καὶ φωτεινῇ διαπλάσει, ἣ καθ’ ἑαυτὸν ἕκαστος διαπλάττεται. In apparente difformità con i precedenti dettati è or. 8,11 dove Gregorio, per sottolinearne il comune intendimento cristiano, elogia le qualità della sorella Gorgonia, exemplum di pietas cristiana come i suoi genitori "secondo la carne e secondo lo spirito", giacché da essi, oltre la vita, ella ha ricevuto "l'illuminazione": …τῆς δὲ φρονήσεως καὶ τῆς εὐσεβείας οὐκ ἔστιν ὅστις ἂν ἐφίκοιτο λόγος ἢ πολλὰ ἂν εὑρεθείη τὰ παραδείγματα, πλὴν τῶν ἐκείνης καὶ κατὰ σάρκα καὶ κατὰ πνεῦμα πατέρων, πρὸς οὓς μόνους ὁρῶσα, καὶ ὧν οὐδὲν ἐλαττουμένη τὴν ἀρετήν, ἑνὶ τούτῳ καὶ μόνον ἡττᾶτο καὶ πάνυ πρόθυμως, ὅτι παρ᾽ ἐκείνων τὸ ἀγαθόν, κἀκείνους ῥίζαν καὶ ᾔδει καὶ ὡμολόγει τῆς οἰκείας ἐλλάμψεως. In or. 26,10, invece, l'elaborazione si fonda sul locus de nobilitate, distinguendo γένος τρισσόν: il primo, legato alla crezione dell'uomo ad immagine e somiglianza di Dio, rende gli uomini tutti nobili; il 275 secondo, connesso alla carne, determina l'affermazione della corruzione; il terzo, si distingue in base al vizio o alla virtù che gli uomini scelgono di perseguire. A questi Gregorio ne aggiunge un quarto, che consiste in titoli e decreti, di cui si rifiuta di parlare, giacché non lo ritiene degno (cfr. Mossay-Lafontaine, Discours 24-26, p. 250 nota 1). — Nel passo in oggetto, il primo livello, quello della carne e del sangue, è rappresentato dalla generazione della quale sono artefici i genitori. In carm. I,2,1 vv. 392ss., Gregorio afferma che un mortale non è padre dell'uomo intero, ma solo della carne e del sangue che sono destinati a perire; mentre l'anima, sede dell'immagine divina, è soffio del potente Dio. Per questo, il padre e la madre si preoccupano solo del corpo del figlio e non della sua anima, poiché sono genitori del solo corpo e non dell'anima: Οὐχ ὅλου ἀνθρώποιο πατὴρ βροτός, ὡς ἐνέπουσιν, / ἀλλ’ ὅσσον σαρκός τε καὶ αἵματος, ἀμφοτέρων μὲν / ὀλλυμένων. Ψυχὴ δὲ Θεοῦ κρατέοντος ἄημα / ἔκτοθεν εἰσπίπτουσα πλάσει χοός. Οἶδεν ὁ μίξας, / πῶς τὸ πρῶτον ἔπνευσε, καὶ εἰκόνα μίξατο γαίῃ. / Μάρτυς ἐμῶν ἐπέων καὶ σὸς πόθος. Ἡμιτελὴς γάρ, / στέργων οὐ ψυχὰς τεκέων, τὰ δὲ σώματα μοῦνα, / οἷς δάκνῃ μογέουσι, καὶ οἷς θαλέθουσι γέγηθας. / Πλείονα γὰρ τυτθῇσι πατὴρ καὶ πότνια μήτηρ / ὧν τεκέων λώβῃσιν ἑὸν καταδάμναται ἦτορ, / ἢ μεγάλαις ψυχῶν κακίαις καὶ χείροσι λώβαις. / Τῶν μὲν γὰρ τοκέες, τῶν δ’ οὐ τελέθουσι τοκῆες (cfr. la nota di Sundermann, p. 118). In carm. II,2,4 v. 207, poiché la carne è assimilata al πηλός secondo il racconto di Gen. 2,7 - ricorre l’espressione “genitori del fango”, …μηδὲ μόνον πηλοῖο —τὸ πέρ τισιν εὔαδε λέξαι, / φρασσαμένοις ὅτι σαρξὶ περιτρομέουσι τοκῆες (cfr. Moroni, p. 170). Anche Agostino distingue tra una prima generazione, quella "della carne", che l'uomo riceve dai propri genitori, foriera di fatica, lacrime e morte; e una seconda nascita, della quale Padre è Dio e madre è la Chiesa, con cui si cancella l'antica colpa e si conquistano la gioia, l'amore e la felicità: l'Ipponense, allora, esorta i cristiani ad amare ciò che diventeranno, cioè figli di Dio, figli di adozione e ad anelare verso di Lui che riconosce coloro che lo cercano con cuore puro e umile: Amate quod eritis. Eritis enim filii Dei, et filii adoptionis. Hoc vobis gratis dabitur, gratisque conferetur. In quo largius uberiusque abundabitis, quanto plus grati ei a quo haec accepistis, fueritis. Ad eum ambite, qui novit qui sint eius. Tunc autem non dedignabitur vos inter eos qui eius sunt nosse, si nominantes nomen Domini, ab iniustitia recedatis. Parentes carnis vestrae habetis, vel habuistis in saeculo, qui vos in laborem atque 276 ad poenam mortemque genuerunt: sed quia feliciori orbitate potest unusquisque vestrum de talibus dicere: Pater meus et mater mea dereliquerunt me; illum Patrem, christiane, agnosce, qui illis relinquentibus suscepit te ex utero matris tuae, cui quidam fidelis fideliter dicit: De ventre matris meae tu es protector meus. Pater Deus est, mater Ecclesia. Longe aliter ab his generabimini, quam ab illis geniti fueratis. Hos partus, non labor, non miseria, non fletus, non mors; sed facilitas, felicitas, gaudium, vitaque suscipiet. Per illos lamentabilis generatio; per hos optanda generatio est. Illi nos generando in aeternam poenam generant, propter veterem culpam: isti regenerando, nec poenam faciunt remanere, nec culpam. Haec est illa regeneratio quaerentium eum, quaerentium faciem Dei Iacob (serm. 216,8). — Il secondo livello di rinascita è legato al sacramento del battesimo che determina la purificazione tramite l’acqua e lo Spirito Santo che è Dio, per cui cfr. anche carm. I,1,3 vv. 41ss. …ἴη φύσις ἐστίν, ἄμετρον, / … / εἷς Θεὸς ἐν τρισσοῖς ἀμαρύγμασι κόσμον ἑλίσσων. / τοῖσιν ἐγὼ νέος ἄλλος ἐγείρομαι, εὖτε λοετρῷ / θαπτομένου θανάτοιο παλίσσυτος ἐς φάος ἔλθω·/ τρισσὴ γὰρ θεότης με φαεσφόρον ἐξανέτειλεν. / οὔ σε, κάθαρσι φίλη, οὐ ψεύσομαι. εἰ θεότητι / λουσάμενος θεότητα διατμήξαιμι φαεινήν, / λώϊον ἦν… (cfr. Moreschini-Sykes, pp. 128-130); or. 40,8:… ὃ τῆς πρώτης γενέσεως ἐπικουρία… . Per la dottrina della purificazione legata alla luce, nell'opera di Gregorio, si veda C. Moreschini, Luce e purificazione nella dottrina di Gregorio Nazianzeno, Augustinianum 13, 1973, pp. 535-549 (= Moreschini, Gregorio, pp. 69ss.); Crimi, Luci, pp. 145ss.; Špidlík, Intoduction, pp. 119-121. — Il terzo stadio di generazione si realizza nelle lacrime e nei dolori, con i quali si raschia la nera sozzura che ha ottenebrato l'immagine di Dio, attuando una forma di purificazione realizzata attraverso la penitenza, cfr. or. 40,8-9; supra, nota ai vv. 119-120 (nei versi successivi, 269ss., l'io loquens passa in rassegna le tappe che caratterizzano questo cammino di purificazione che coincide con il cammino ascetico); Gregorio Nazianzeno, Orazioni, p. 1362 nota 31. Quest’ultimo livello è strettamente connesso al libero arbitrio dell'uomo che lo rende in grado di scegliere tra il bene e il male, come lo era già Adamo: per tale concezione si veda or. 2,15-17; or. 38,12 = 45,8; carm. I,2,10 vv. 118ss. e Crimi-Kertsch, pp. 220-221; I,2,11 v. 9; Ellverson, pp. 57-58 e 62-66. L'uomo è, dunque, padrone del suo destino e libero di poter conferire all’esistenza una determinata direzione. 260 οὐκ…γενέθλη 277 Si noti l'insistenza con la quale viene sottolineata la non unicità della γενέθλη che caratterizza i μερόπεσσιν δειλοῖσι, attraverso la litote οὐκ οἴη e l'aggettivo ἴη. — La iunctura μερόπεσσιν δειλοῖσι sembra essere esclusiva del Nazianzeno, cfr. anche carm. I,1,8 v. 129; I,2,15 v. 41, μερόπων δειλὸν γένος; II,1,1 v. 31. Per questa espressione Gregorio avrà tratto, presumibilmente, ispirazione dalle simili iuncturae, di origine classica, di δειλός con ἄνθρωπος ricorrenti in Bacchyl. E. 1,161; Theogn. 1,1151; Aristoph. Ran. 486; (anche in Deut. 20,8); di δειλός con βροτός in Hom. Od. 15,408; Hes. Op. 686; etc.: infine di δειλός con ἀνήρ di Hom. Il. 13,278; Hes. Op. 713; Τheogn. 1,612; 2,1377; Eur. fr. 519 Nauck; etc.; Bénin, p. 529. 261-263 Generazione della carne e del sangue e caducità della vita umana. La prima generazione è quella terrena e materiale (ἐνθάδε), legata alla carne e al sangue che gli uomini ricevono dai propri genitori (cfr. infra, v. 267 Τάων τὴν μὲν ἔχεις πατέρων ἄπο…; in carm. II,2,5 vv. 65-67 Nicobulo senior afferma la necessità di rispettare i genitori che hanno donato ai figli la luce della vita: cfr. Moroni, p. 214), e che è destinata ad estinguersi assai velocemente (τάχιστα). Il tema dell'avvicendarsi delle vite umane rivestite di un alone di caducità, si esprime in Sir. 14,18 con la metafora della foglia che cade lasciando il posto alla nascita di altre: ὡς φύλλον θάλλον ἐπὶ δένδρου δασέος, τὰ μὲν καταβάλλει, ἄλλα δὲ φύει, οὕτως γενεὰ σαρκὸς καὶ αἵματος, ἡ μὲν τελευτᾷ, ἑτέρα δὲ γεννᾶται; in 1Pt. 1,24-25, πᾶσα σὰρξ ὡς χόρτος, καὶ πᾶσα δόξα αὐτῆς ὡς ἄνθος χόρτου· ἐξηράνθη ὁ χόρτος, καὶ τὸ ἄνθος ἐξέπεσεν, alla quale si oppone l'eternità della Parola di Dio che rimane per sempre, τὸ δὲ ῥῆμα κυρίου μένει εἰς τὸν αἰῶνα. Il tema, peraltro, percorre l'intera letteratura antica a partire dal discorso iliadiaco di Glauco (Hom. Il. 6,146-149), dove ricorre la stessa metafora vegetale: οἵη περ φύλλων γενεή, τοίη δὲ καὶ ἀνδρῶν. / φύλλα τὰ μέν τ᾽ἄνεμος χαμάδις χέει, ἄλλα δέ θ᾽ ὕλη / τηλεθόωσα φύει, ἔαρος δ᾽ ἐπιγίγνεται ὥρη· / ὣς ἀνδρῶν γενεὴ ἡ μὲν φύει ἡ δ᾽ ἀπολήγει (cfr. D. Susanetti, Foglie caduche e fragili genealogie, Prometheus 45, 1999, pp. 97-116, in part. pp. 97108) ; Mimn. fr. 2 West. 261 σαρκῶν τε καὶ αἵματος Il passo è intessuto di riferimenti biblici che si intrecciano e sostengono il periodare gregoriano che da essi trae linfa. Nella Scrittura leggiamo, infatti, che la 278 carne e il sangue costituiscono il fondamento materiale e vitale dell'essere umano che anche Cristo ha dovuto assumere per vincere il peccato e la morte: ἐπεὶ οὖν τὰ παιδία κεκοινώνηκεν αἵματος καὶ σαρκός, καὶ αὐτὸς παραπλησίως μετέσχεν τῶν αὐτῶν, ἵνα διὰ τοῦ θανάτου καταργήσῃ τὸν τὸ κράτος ἔχοντα τοῦ θανάτου, τοῦτ’ ἔστιν τὸν διάβολον (Eb. 2,14); l'uomo in tale stato soggetto alla corruzione (φθορά) non può accogliere l'incorruttibilità del regno di Dio, Τοῦτο δέ φημι, ἀδελφοί, ὅτι σὰρξ καὶ αἷμα βασιλείαν θεοῦ κληρονομῆσαι οὐ δύναται, οὐδὲ ἡ φθορὰ τὴν ἀφθαρσίαν κληρονομεῖ (1Cor. 15,50); pertanto coloro che hanno creduto in Cristo non sono stati generati né da carne, né da sangue, né da volere di uomo, ma da Dio, οἳ οὐκ ἐξ αἱμάτων οὐδὲ ἐκ θελήματος σαρκὸς οὐδὲ ἐκ θελήματος ἀνδρὸς ἀλλ’ ἐκ θεοῦ ἐγεννήθησαν (Gv. 1,13); cfr. F. Baumgärtel- R. Meyer- E. Schweizer, σάρξ… in GLNT XI, coll. 1265ss., in part. 1328ss. Il nesso in oggetto viene usato da Gregorio anche in carm. II,1,45 v. 75 all'interno dell'argomentazione sulla duplice legge che governa l'uomo che, composto di spirito e carne, è governato da due principi opposti, uno che segue Cristo, l'altro che è trascinato da Belial: Ἔστι γάρ, ἔστιν ἐμοὶ διπλοῦς νόμος· ὧν ὁ μὲν ἐσθλός, / ἑσπόμενός τε καλῷ· αὐτὰρ ὁ χειρότερος, / ἑσπόμενός τε κακοῖσιν· ὁ μὲν νόος ἐστὶν ἕτοιμος / πείθεσθαι Χριστῷ, πρὸς φάος ἐρχόμενος· / ἄλλος δ’ αὖ σαρκός τε καὶ αἵματος, ἔστι δὲ πρόφρων / δέχνυσθαι Βελίαν, πρὸς ζόφον ἑλκόμενος (vv. 71-76). 261-262 …βροτοῖσιν / …τικτομένοισι καὶ ὀλλυμένοισι In I,2,1, a più riprese, ricorre la concezione dell'avvicendarsi delle vite umane che, come vengono generate in un flusso continuo, così muoiono: Τόφρα δὲ καὶ δυὰς ἦεν ἐν ἀνθρώποισιν ἀρίστη, /καὶ γάμος, ἀνδρομέης γενεῆς φύσις, ἄλκαρ ὀλέθρου. / Ὥς κεν ἀπολλυμένων τε καὶ ἐρχομένων μετόπισθεν / ἕλκηται μερόπων τρεπτὸν γένος, οἷα ῥέεθρον, / ἄστατον ἐκ θανάτοιο, καὶ ἱστάμενον τεκέεσσιν (vv. 123-127); poco oltre, con la stessa terminologia del passo in oggetto, si legge: Καί ῥ’ ὁ μὲν ὣς ὑπόειξεν, ὁ δ’ ἔγρετο κόσμος ἀρείων, / καὶ μόρος ἀρχεγόνοιο λυτῆς διὰ σαρκὸς ὁδεύων, / ῥοιῇ τικτομένοισι, καὶ ὀλλυμένοισι γενέθλῃ (vv. 424-426), cfr. Sundermann, pp. 124-126. — Per la giunzione ossimorica di τίκτω e ὄλλυμι si veda anche Hom. Od. 11,318 ἀλλ’ ὄλεσεν Διὸς υἱός, ὃν ἠύκομος τέκε Λητώ; Eur. IT 556 οὐκ ἔστι· παῖς νιν ὃν ἔτεκ’ αὐτὸς ὤλεσεν; Theocr. 27,31 ἀλλὰ τεκεῖν τρομέω, μὴ καὶ χρόα καλὸν ὀλέσσω. Da notare, inoltre, τίκτω accostato a θνῄσκω, di Greg. Naz. 279 carm. I,2,2 vv. 526-527 Ὡς δ’ ὄρνιν φοίνικα φάτις θνήσκοντα νεάζειν / ἐν πυρὶ τικτόμενον… (cfr. Zehles-Zamora, pp. 234.235), che si può confrontare con Eur. Andr. 9 θανόντ’ ἐσεῖδον, παῖδά θ’ ὃν τίκτω πόσει e 413; e Callim. hymn. in Dian. 128129; Anth. Pal. 8,37,5. 263-266 La seconda e la terza γενέθλη si esplicano nel battesimo e nella penitenza, e sono entrambe legate all'idea di purificazione (λοεσσαμένοισι δι᾽ ὕδατος e εἰκον᾽ ἀποξύουσα) e di illuminazione (ἤλυθεν αἴγλη e βιότῳ φάως ἐσθλὸν ὀπάζων). Evidente appare la portata catartica del battesimo che comporta la remissione delle colpe e degli errori commessi nei quali non bisogna ricadere, cfr. Greg. Naz. or. 39,14: Καὶ γὰρ εἰ ἄφεσιν ἔχει τῶν παρελθόντων τὸ χάρισμα - χάρισμα γάρ-, αλλὰ τότε μᾶλλον εὐλαβείας ἄξιον, μὴ πρὸς τὸν αὐτὸν ἔμετον ἐπανέλθωμεν, e poco oltre nel passare in rassegna le cinque forme di battesimo, Gregorio parla di un "battesimo delle lacrime" del quale ammette la difficoltà di realizzazione per la buona riuscita della purificazione, giacché esso è legato alla penitenza, e non è dono concesso per grazia divina, Οἶδα καὶ πέμπτον ἔτι, τὸ τῶν δακρύων· ἀλλ᾽ ἐπιπονώτερον, ὡς ὁ λούων καθ᾽ ἑκάστην νύκτα τὴν κλίνην αὐτοῦ καὶ τὴν στρωμνὴν τοῖς δάκρυσιν… (§17, ma si veda, soprattutto il § 18); e ancora in or. 40,8, il Cappadoce distingue tra una "prima rigenerazione" che è quella del battesimo e una "seconda rigenerazione", legata ai molti gemiti e alle molte lacrime, della quale è meglio non avere bisogno perché è molto più faticosa da conseguire, rispetto alla prima: …οὐκ οὔσης δευτέρας ἀναγεννήσεως … κἄν ὅτι μάλιστα ἐπιζητῶμεν ταύτην ἐν πολλοῖς στεναγμοῖς τε καὶ δάκρυσιν,… …πλὴν μὴ δευτέρας δεηθῆναι καθάρσεως ἀλλὰ στῆναι μέχρι τῆς πρώτης ἄμεινον, ἣ κοινὴν οἶδα πάσι καὶ ἄμοχθον καὶ ὁμότιμον…; in maniera apparentemente diversa, in carm, II,1,12, polemizzando aspramente contro i falsi sacerdoti che, dopo aver ricevuto il χάρισμα battesimale commettono malvagità e nefandezze, afferma che non esiste una seconda purificazione (la prima è rappresentata dal battesimo), e l'unico farmaco per i peccati rimangono le lacrime di penitenza che a mala pena cicatrizzano le ferite: ὧν ἠδικήκαμεν γάρ, οὐχ ὧν πταίομεν, / τὸ λουτρὸν ἐξάλειψις· ὥστε παντελῶς / σαυτὸν καθαίροις·… /…/ εἰ δ’ οὐδὲ τὸ λουτρὸν ἐκκαθαίρει παντελῶς / τοὺς, ὥσπερ εἶπον, τὴν χάριν δεδεγμένους / (θεὸν γὰρ οὔποτ’ οὐδὲ εἶς σοφίζεται / τὸν 280 συνδέοντα καὶ σοφοὺς σοφωτέροις·) / τίς ἂν καθήραι τῶν μετὰ χρίσιν κακῶν / τοὺς αὖθις ἐγχρωσθέντας ἰλύος βάθει / καὶ τῆς ἄνωθεν εἰκόνος τὴν ἀξίαν / καθυβρίσαντας… /…/ οὐδὲν γάρ ἐστι δεύτερον καθάρσιον. / ἅπαξ γεγέννημ’, εἶτ’ ἀνεπλάσθην θεῷ· / τυχόν τιν’ ἄλλην ὕστερον πλασθήσομαι / πλάσιν καθαρθεὶς τῷ φιλανθρώπῳ πυρί. / νῦν δ’ οὐδὲν οἶδα φάρμακον πλὴν δακρύων, / ἐξ ὧν συνούλωσις μὲν ἔρχεται μόγις, / οὐλαὶ δ’ ὅμως μένουσιν, ὡς ἐμὸς λόγος· / τῶν πρὶν κακίστων τραυμάτων κατήγοροι (vv. 475-499, cfr. Meier, pp. 125-127). 263-264 La (ri)nascita che proviene dalla Spirito Santo, che è Dio, è rappresentata dal sacramento del battesimo che, attraverso l'acqua, purifica l'uomo circondandolo di uno splendore divino (cfr. anche or. 31,28 Καὶ παρὰ μὲν τοῦ Πνεύματος ἡμῖν ἡ ἀναγέννησις· παρὰ δὲ τῆς ἀναγεννήσεως ἡ ἀνάπλασις·… e 39,15 ὥσπερ ἦν [scil. Ἰησοῦς] πνεῦμα καὶ σὰρξ, οὕτω Πνεύματι τελειῶν καὶ ὕδατι). L'ispirazione di Gregorio sarebbe costituita dalle parole del dialogo giovanneo tra Gesù e Nicodemo (Gv. 3,3-7): la nascita ἐξ ὕδατος καὶ πνεύματος del racconto scritturistico rappresenta una παλιγγενεσία, una rinascita "dall'alto", con la quale l'uomo è in grado di entrare nel Regno dei cieli, via che è preclusa a coloro che sono nati solo "dalla carne". Così, è lo Spirito che dona all'uomo la vera vita, mentre la carne non serve a nulla: τὸ πνεῦμά ἐστιν τὸ ζῳοποιοῦν, ἡ σὰρξ οὐκ ὠφελεῖ οὐδέν· τὰ ῥήματα ἃ ἐγὼ λελάληκα ὑμῖν πνεῦμά ἐστιν καὶ ζωή ἐστιν (Gv. 6,63). Si veda, ancora, in Rm. 8,4-14, la distinzione tra coloro che vivono secondo la carne e quelli che vivono, invece, secondo lo Spirito. Lo Spirito, pertanto, è artefice della rinascita spirituale e rimedio "alla nostra" prima generazione, ὃ (scil. κάθαρσις διὰ Πνεύματος) τῆς πρώτης γενέσεως ἐπικουρία…., come afferma il Nostro in or. 40,8; cfr. ancora or. 39,2; 41,14. In termini simili si esprime anche Basilio nella sua opera sul Battesimo, … οὕτω μὲν οὖν ὁ κύριος διά τε ἑαυτοῦ καὶ διὰ τοῦ ἀποστόλου τοὺς γεννηθέντας ἐκ Πνεύματος πνεῦμα γίνεσθαι ἐδίδαξεν. Καὶ ἐν τούτῳ δὲ πάλιν μιμησόμεθα τὴν κατὰ σάρκα γέννησιν· πρῶτον μὲν τὸ τόπον μεταλλάξαντες καὶ τὸν τρόπον μετασχηματισθέντες, διὰ τοῦ κραταιωθῆναι τὸν ἔσω ἄνθρωπον Πνεῦματι… (bapt. I,2 PG 31,1561). Per un excursus sul sacramento battesimale si veda anche ΑΑ.VV., Dizionario di spiritualità biblico-patristica. I grandi temi della S. Scrittura per la «lectio divina» - 6 Battesimo-Purificazione-Rinascita, Roma 1993: nonché H. 281 Kleinknecht- F. Baumgärtel- W. Bieder- E. Schweizer, πενῦμα…., in GLNT X, coll. 767ss., in part. 947ss. 264 λοεσσαμένοισι δι᾽ ὕδατος Il battesimo è tradizionalmente legato all'acqua con la quale si lava, simbolicamente, il peccato ottenendo, così, la purificazione dell'uomo che entra a far parte della comunità cristiana: cfr., tra gli altri, At. 22,16 καὶ νῦν τί μέλλεις; ἀναστὰς βάπτισαι καὶ ἀπόλουσαι τὰς ἁμαρτίας σου ἐπικαλεσάμενος τὸ ὄνομα αὐτοῦ. Si vedano le simili espressioni utilizzate da Gregorio in or. 40,3 …κατακλυσμὸς ἁμαρτίας… e …βάπτισμα δέ, ὡς συνθαπτομένης τῷ ὕδατι τῆς ἁμαρτίας (§ 4); nonché l'uso dello stesso verbo λούω (che a partire da Just. 1 Apol. 65 è usato nel significato di "to baptize", cfr. Lampe s.v.), per indicare il battesimo di Cristo, λούσατο, (scil. Χριστός) ἀλλ᾽ ἐκάθηρεν ἁμαρτάδας, ἀλλ᾽ ἐβοήθη / πνεύματι βρονταίης φωνῆς ὕπο Υἱὸς Ἀνάρχου (carm. I,1,2 vv. 70-71 e Moreschini-Sykes, p. 110); II,1,11 v. 1104 ἐξ οὗ λέλουμαι Πνεύματος χαρίσματι; L. Goppelt, ὕδωρ, in GLNT XIV, coll. 53ss., in part. 91ss. — Il passo ha confronto terminologico sia con Hom. Il. 23,282 χαιτάων κατέχευε λοέσσας ὕδατι λευκῷ; e poi Callim. Aet. fr. 110,63 Pfeiffer ὕδασι λουόμενόν με παρ᾽ ἀθανάτου ἀνίοντα; Apoll. Rh. 3,860 ἑπτὰ μὲν ἀενάοισι λοεσσαμένη ὑδάτεσσιν; sia con Ex. 29,4; Lev. 11,40; 14,8; 15,18; 17,16; 22,6 etc; Nm. 17,15; Dt. 23,12; Ebr. 10,22. Si veda anche, in diverso contesto, Eur. Alc. 159-160 …ὕδασι ποταμίοις λευκὸν χρόα ἐλούσατ’,…; Anth. Pal. 9,618,3 εἰ γὰρ ἅπαξ καθαροῖσι λοέσσεται ὕδασιν ἀνήρ. — Si noti, infine, la forma epica λοεσσαμένοισι mutuata da Hom. Il. 21,560; Od. 1,310; Hes. Op. 522; Apoll. Rh. 3,877; etc. ἤλυθεν αἴγλη Lo splendore scende su coloro che ricevono il battesimo, giacché si accostano a Dio che è "prima luce" (1Gv. 1,5). In termini simili Gregorio si esprime in or. 40,11: il sacramento battesimale fortifica dagli assalti del demonio che ha osato tentare anche Cristo, e come, alla fine, si è allontanato da Lui che è la prima luce, così si allontanerà anche da coloro che sono stati da Lui illuminati: Ἀπελεύσεται (scil. ὁ δαίμων) … ὥσπερ ἀπὸ Χριστοῦ τοῦ πρώτου φωτὸς οὕτω τῶν ἀπ᾽ ἐκείνου πεφωτισμένων. Τοιαῦτα τὸ λουτρὸν τοῖς ᾐσθημένοις αὐτοῦ χαρίζεται…; (si veda anche § 3). Cfr., anche, in or. 18,13, il racconto del battesimo di Gregorio il Vecchio che fu avvolto da una luce mentre riceveva il χάρισμα: τῷ δὲ Γρηγόριος πᾶς ὁ ἐν 282 μέσῳ βίος παρασκευὴ τῆς ἐλλάμψεως ἦν καὶ πρὸ τῆς καθάρσεως κάθαρσις… …ἵνα ἡ τελειότης τῇ καθαρότητι πιστευθῇ… … Ἐξέλθοντα δὲ αὐτὸν ἐκ τοῦ ὕδατος, φῶς περιαστράπτει…; e, ancora, in or. 39,14, spiegando il significato del battesimo di Gesù, Gregorio esorta i fedeli con queste parole: Χριστὸς φωτίζεται, συναναστράψωμεν. Χριστὸς βαπτίζεται, συγκατέλθωμεν, ἵνα καὶ συνανέλθωμεν. — Si veda, ancora, la iunctura Πνεύματος αἴγλη di carm. I,2,2 v. 73. Per la terminologia dell'illuminazione legata al battesimo cfr., anche, or. 40,36, con Gregorio Nazianzeno, Orazioni, p. 1273 nota 38; Moreschini-Gallay, Discours 38-41, pp. 62-70 e p. 199 nota 1. 265-266 Nascita che proviene dalle lacrime e dal dolore: purificazione attraverso la penitenza e l'esercizio ascetico. Tale stadio di rinascita, come già rilevato, oltre ad essere caratterizzato da un'elevata difficoltà di realizzazione, giacché è connesso all’espiazione del peccato attraverso la penitenza – si tratta, presumibilmente della cosiddetta penitenza secunda per cui cfr. H. Karpp, La Penitenza. Fonti sull'origine della penitenza nella Chiesa antica, ed. it. a cura di D. Devoti, Torino 1975, in part. pp. XIXXXI e Bas. moral. I – dipende strettamente dalla personale condotta dell'uomo (τῆς δ᾽ αὐτὸς γενέτης) che decide di conferire una luce nobile alla propria esistenza (βιότῳ φάος ἐσθλὸν ὀπάζων): e la più alta manifestazione di tale scelta sembra rappresentata dalla volontà di abbracciare uno stile di vita dedito all'ascesi cristiana, sulla base dei successivi vv. 269ss. nei quali Gregorio passa in rassegna le tappe del cammino ascetico. Il passo in oggetto presenta, inoltre, notevoli consonanze con i vv. 119-120 del nostro carme, dove l'io loquens analizza, menzionando tre exempla scritturistici (il re Marasse, gli abitanti di Ninive e il pubblicano Zaccheo) il processo penitenza-confessione-compunzione (cfr. supra, nota ai vv. 118-120). Il δεσμός tra le due sezioni è rappresentato dal binomio sinonimico δακρύοισιν-πήματα (v. 119) e δακρύων-ἄλγεος (v. 265), nonché dalla simile articolazione sintattico-lessicale, καὶ ψυχὴν ἐκάθηρε μελαινομένην κακότητι (v. 120) e εἰκόν᾽ ἀποξύουσα μελαινομένην κακότητι (v. 266). 265 δακρύων τε καὶ ἄλγεος Come già rilevato supra, nota al v. 119, le lacrime di compunzione sono un elemento costante nel processo di pentimento in vista della purificazione (cfr. anche or. 39,18), nonché nell'esercizio ascetico (si vedano gli altri passi di Gregorio ivi 283 riportati e i relativi riferimenti bibliografici). La iunctura in oggetto è mutuata da Hom. Od. 5,83 (= 187); Aesch. Pers. 539-540; Apoll. Rh. 1,297; ma si veda anche Joh. Chrys. hom. 45 in Ac. Ἀλλ’ οἱ μὲν ἔκλαιον, αὐτὸς δὲ παρεκάλει, ἀλγῶν ἐπὶ τοῖς δάκρυσι τοῖς ἐκείνων (PG 60,315). 266 Il verso, un tetracolon, ricalca la struttura sintattico-lessicale di v. 120. La terza γενέθλη si realizza nella purificazione dell'εἰκών insozzata dal peccato in seguito alla caduta. Per rappresentare il processo di purificazione, Gregorio usa sia il verbo ἀποξύω che è presente in Lev. 14,41-43; sia ἀποξέω, che appartiene allo stesso campo semantico (cfr. Chatraine, Dictionnaire, s.vv.), quando, per esempio, allude alla purificazione dell'animo prima di abbracciare la missione sacerdotale: …ἀλλ’ ὅπως ἂν αὐτὸς τὴν ἐρχομένην ὀργὴν διαφύγοιμι καὶ μικρόν τι τοῦ ἰοῦ τῆς κακίας ἐμαυτὸν ἀποξέσαιμι. Καθαρθῆναι δεῖ πρῶτον, εἶτα καθᾶραι, σοφισθῆναι, καὶ οὕτω σοφίσαι, γενέσθαι φῶς, καὶ φωτίσαι, ἐγγίσαι Θεῷ, καὶ προσαγαγεῖν ἄλλους, ἁγιασθῆναι, καὶ ἁγιάσαι, χειραγωγῆσαι μετὰ χειρῶν, συμβουλεῦσαι μετὰ συνέσεως (or. 2,71); ma anche in riferimento alla buona condotta umana prima della purificazione battesimale, che cancella i peccati ma non le buone azioni, …Ἐν τούτοις, βελτίους μὲν τῶν παντάπασι πονηρῶν οἱ τῆς κακίας τι ὑφιέμενοι· βελτίους δὲ τῶν μικρόν τι ὑφιεμένων οἱ σπουδαιότεροι καὶ προσαρώσαντες ἑαυτοὺς τοῦ βαπτίσματος· ἔχουσι γάρ τι πλέον, τὴν ἐργασίαν. Οὐ γὰρ, ὥσπερ τῶν ἁμαρτημάτων ἐξάλειψιν ἔχει τὸ λουτρὸν, οὕτω καὶ τῶν κατορθωμάτων ἀναίρεσιν. Τούτων δὲ αὐτῶν βελτίους οἱ καὶ γεωργοῦντες τὸ χάρισμα, καὶ ὅτι μάλιστα εἰς κάλλος ἑαυτοὺς ἀποξέοντες (or. 40,22) e § 34, Εἰ λέπραν ἔβρυες τέως τὴν ἄμορφον πονηρίαν, ἀπεξέσθης δὲ τῆς κακῆς ὕλης καὶ τὴν εἰκόνα σώαν ἀπέλαβες, δεῖξον ἐμοὶ τῷ ἱερεῖ σου τὴν κάθαρσιν, ἵνα γνῶ, πόσον τῆς νομικῆς αὕτη τιμιωτέρα. Si veda anche carm. I,1,2 v. 60: οὔτε τι γὰρ θεότητος ἀπέξεσε, καὶ μ᾽ ἐσάωσεν, e Moreschini-Sykes, p. 107. Lo stesso verbo è usato da Basilio all'interno della metafora che paragona l'uomo battezzato ad una tavola dove, dopo essere stata raschiata ogni impurità e resa non più scabra ma levigata, viene impresso l'indissolubile disegno dell'immagine del Re, così da coprire la diversità della materia e conservare, sempre, la perfetta somiglianza col modello: Ἀναγκαῖον γὰρ καὶ ἀκόλουθον τὸν γεννηθέντα καὶ ἐνδύσασθαι· μόνον ἐὰν, ὥσπερ ἡ σανὶς ἐξ ὁποιασδήποτε ὕλης οὖσα, ἀποθεμένη τὸ 284 ἀνώμαλον καὶ ἀποξυσθεῖσα τὸ τραχὺ οὕτως ἐνδύεται τὴν γραφὴν τῆς εἰκόνος τοῦ βασιλέως, καὶ τότε οὐκ ἐν τῇ τοῦ ξύλου ἢ χρυσοῦ ἢ ἀργύρου διαφορᾷ γνωρίζεταί τις διαφορὰ τῆς εἰκόνος, ἐν δὲ τῇ ἀκριβείᾳ τῆς ὁμοιότητος πρὸς τὸ ἀρχέτυπον μετ᾽ ἐπιμελείας πολλῆς κατ᾽ ἐπιστήμην ἀξιολόγως καθορθωθεῖσα, κρύπτει μὲν τὴν διαφορὰν τῆς ὕλης κἂν πολλῷ τῷ μέσῳ διειστήκει, πρὸς δὲ τὴν δόξαν ἑαυτῆς τοὺς ὁρῶντας ἐπάγεται, καὶ γίνεται ἐντιμοτέρα πάσης ἀρχῆς καὶ ἐξουσίας. Οὕτω καὶ ὁ βαπτιζόμενος,… (bapt. Ι,2, PG 31,1564). Cfr. Lampe s.v. ξέω. εἰκόν᾽ (α) …μελαινομένην κακότητι Per la concezione dell'immagine di Dio impressa nell'anima umana (Gen. 1,26-27) nelle opere di Gregorio, cfr. Crimi-Kertsch, pp. 194-195, con gli altri passi di Gregorio e i riferimenti bibliografici ivi riportati; Bacci, p. 123; Beuckmann, pp. 6465; Oberhaus, p. 97; Moreschini-Sykes, pp. 216-217; Palla-Kertsch, p. 136; Sundermann, pp. 117; Zehles-Ζamora, pp. 246-247; Domiter, p. 163; Ellverson, pp. 24-25; Richard, pp. 263-264; 269-271; 275-278; 461-463; nonché G. von Rad- G. Kittel, εἰκών, in GLNT III, coll. 139-186. — Per μελαινομένην κακότητι in clausola si rimanda a supra, nota al v. 120. 268 Con la terza γενέθλη, che è strettamente dipendente dalla volontà umana (τῆς δ᾽ αυτὸς γενέτης), l'uomo può conferire alla sua vita una bella luce (βιότῳ φάος ἐσθλὸν ὀπάζων), intraprendendo il cammino ascetico, e dunque avvicinandosi a Dio (cfr. García Guillen, p. 338). Similmente si esprime Gregorio nel carme protrettico dedicato al governatore Nemesio (II,2,7) dove, prima di sviluppare un logos convincente sulla persona di Cristo, afferma di preferire allo stile vita attiva avviluppato nei vari avvenimenti e nelle circostanze mondane, la vita luminosa propria dell'asceta: …μάλα περ ποθέων βίον ἄργυφον…, come Bacci intende la iunctura βίον ἄργυφον, così traducendo: «per quanto io desideri molto una luminosa vita monastica», cfr. L. Bacci, Influssi filosofici in scritti di Gregorio Nazianzeno, Rendiconti dell’Istituto Lombardo 2004, 138, p. 177. — φάος retto da ὀπάζω si legge anche in Procl. hymn. 1,40 ψυχῇ μὲν φάος ἁγνὸν ἐμῇ πολύολβον ὀπάζοις; cfr., inoltre, Anth. Pal. 9,521,1 Οὐκ ἄρα σοί γε ὄλιζον ἐπὶ κλέος ὤπασε Μοῖρα; Nonn. Dion. 30,233 …ὤπασεν αἴγλην; nonché Greg. Naz. carm. I,2,2, v. 388 …σέλας καὶ κῦδος ὀπάζει (cfr. Zehles-Zamora, pp. 171-172); H. Conzelmann, φῶς…, 285 in GLNT XV, coll. 361ss. — L'accostamento clausolare dell'aggettivo ἐσθλός col verbo ὀπάζω, oltre ad essere di matrice omerica (cfr. Od. 15,310), è usato dal Cappadoce anche in carm. I,2,29 v. 199; II,1,19 vv. 65. 77; II,1,73 v. 5; II,2,6 v. 1 (cfr. Bacci, p. 76). 269-286 Precetti di vita ascetica. In questi versi, l'io loquens passa in rassegna le tappe del cammino ascetico che realizzano la terza γενέθλη. Il figlio traccia, dunque, il quadro delle esperienze del padre Vitaliano al quale manca, solo, di vincere l'ira (cfr. v. 287 μοῦνος δ᾽ ἐντὸς ἔμεινε χόλος…). I versi in oggetto costituirebbero, pertanto, la realizzazione di quell'intenzione che emerge dall’epist. 194,2 (cfr. supra, nota ai vv. 70-74), nonché l'esplicazione delle modalità di realizzazione della μεγαλήτορα βουλήν (v. 258) che consiste nell'intraprendere il cammino ascetico, attraverso il quale realizzare la terza generazione. Riferimenti all'ascesi cristiana e alle sue pratiche sono largamente presenti nell'opera del Nostro, cfr., tra gli altri, carm. I,2,2 vv. 517ss.; I,2,10 vv. 617-675; II,2,5 vv. 144-153; or. 8,14 stile di vita di Gorgonia simile a quello di un asceta; etc.; Zehles-Zamora, pp. 230ss.; CrimiKertsch, pp. 308ss.; Moroni, pp. 244ss.; Plagnieux, Vie monastique, pp. 115ss.; sullo stile di vita proprio del monaco-asceta si veda anche or. 4,71 e Lugaresi, pp. 323-325; Gautier, pp. 29-82. 269-270 Il primo stadio del cammino di perfezione ascetica è rappresentato dal distacco dalla vita mondana, ῥήξας δεσμὰ βίοιο, e dalla separazione da tutto ciò che è legato alla carnalità, espressa dal termine ἰλύς che indica la materia della quale è composto l'uomo. Da un punto di vista stilistico si noti l'enjambement del nesso σὸν πόδα strettamente legato a ἔθηκας del verso precedente di cui costituisce l'oggetto, nonché la costruzione circolare del v. 269 con i due verbi, ῥήξας e ἔθηκας, posti nei punti chiave, cioè in posizione incipitaria e clausolare. ῥήξας δεσμὰ βίοιο Necessità di recidere ogni legame col mondo nella prospettiva di avvicinarsi a Dio. Il contesto ascetico della locuzione è garantito da un passo simile di Basilio di Cesarea: Λυθῆναι οὖν δεῖ τῶν δεσμῶν τῆς προσπαθείας τοῦ βίου τόν γε ἀληθινῶς τῷ Θεῷ ἀκολουθήσειν μέλλοντα· (reg. fus. 2, PG 31,921). Il termine δεσμός è 286 presente, inoltre, anche in epist. 194,2, dove Gregorio esorta Vitaliano a trarre profitto, insieme a lui, dalla filosofia e a dedicarsi interamente a Dio, rompendo ogni legame col mondo e sollevandosi al di sopra di esso: …τῆς φιλοσοφίας δὲ ἡμεῖς ἀπολαύσομεν, ἐπειδὰν θεῷ συσταλῇς καὶ ὅλως τῶν ἄνω γένῃ, μηδενὶ δεσμῷ κατεχόμενος. — La costruzione di ῥήγνυμι con δεσμός (connessa, a volte, alla metafora ippica) è usata da Gregorio, con diversa accezione, anche in or. 43,24 per descrivere i vincoli personali che lo avevano trattenuto ancora ad Atene, pur avendo completato il suo corso di studi, determinando la separazione da Basilio che, invece, lasciò la città, …ἀλλ’ ἐπιμείναντά με ταῖς Ἀθήναις χρόνον οὐχὶ συχνόν ποιεῖ τὸν Ὁμηρικὸν ἵππον ὁ πόθος, καὶ τὰ δεσμὰ ῥήξας τῶν κατεχόντων κροαίνω κατὰ πεδίων καὶ πρὸς τὸν σύννομον ἐφερόμην (apprendiamo, infatti, da carm. II,1,11 vv. 264ss. che Gregorio, lusingato dalle insistenti richieste degli studenti, rimase qualche tempo nella città greca ad insegnare, cfr. Tuilier-Βady, p. 149 nota 50 e p. 150 nota 53; Gallay, Vie, pp. 62-63; McGuckin, pp. 35ss.). Per simili espressioni con diverse accezioni si veda, ancora, I,1,19 v. 13 …λύσατο δεσμῶν; II,1,1 vv. 589-590 …δεσμά τε γλώσσης / ῥήξειας… (cfr. Bénin, pp. 797-798); e in altri autori, cfr. Luc. DDeor. 21,1 …ὁ δὲ Ἄρης τὰ μὲν πρῶτα διαφυγεῖν ἐπειρᾶτο καὶ ἤλπιζε ῥήξειν τὰ δεσμά,…; Opp. Ap. Cyn. 1,226 ἵππος ἐν ὑσμίνῃ ῥῆξεν ποτὲ δεσμὰ σιωπῆς; Nonn. Par. 11,177. — La iunctura di δεσμός con βίος è usata anche per esprimere la dipartita dal mondo, e dunque la morte, cfr. Eus. d. e. 1,9,14; Greg. Nyss. Pulch. (GNO 9,471); nonché nello stesso Gregorio in II,1,49 v. 7, nella supplica che egli rivolge a Dio affinché lo liberi dai dolori dell'esistenza, Ἀλλά με λῦσον, Ἄναξ, λῦσον χθονίων ἀπὸ δεσμῶν; così come nell'epitaph. dedicato a Naucrazio, Ναυκράτιος πλεκτοῖο λίνου δεσμοῖσιν ἐλυσθεὶς / δεσμῶν τοῦδε βίου ἐξ ἁλίης ἐλύθη (=Anth. Pal. 8,158,1-2) — sull'esemplarità del personaggio divenuto paradigma della vita ascetica si veda M. Corsano, La morte di Naucrazio in Gregorio Nazianzeno, Bollettino della Badia Greca di Grottaferrata 2001, pp. 13-21 — I,2,10 vv. 415-416 e Crimi-Kertsch, p. 271. Diversamente, ritorna a proposito del matrimonio e dei legami della vita mondana dai quali la verginità riesce ad affrancarsi, così da elevarsi in alto, Δὴ τότε παρθενίη στράψεν μερόπεσσι φαεινή, / λυομένη κόσμοιο, λύουσά τε κόσμον ἀφαυρόν, / τοσσάτιον προφέρουσα γάμου βιότοιό τε δεσμῶν (carm. I,2,1 vv. 203-205); così, ancora, indica il matrimonio in II,2,6 v. 23 Πάντα γὰρ ἀμφοτέροισι βίου ξυνώσατο 287 δεσμός (cfr. la nota di Bacci, p. 92). Si veda, infine, or. 40,3 dove δεσμῶν ἔκλυσις indica il battesimo. Per il termine δεσμός in relazione alla σάρξ, cfr. Zehles-Zamora, pp. 233-234. 269-270…ἰλύος ἐκτὸς ἔθηκας / σὸν πόδα… L'immagine metaforica che emerge dal passo in oggetto esprime l'idea di un movimento che si realizza dal basso verso l'alto. Con il termine ἰλύς (cfr. LSJ s.v.), sinonimo di πηλός e di βόρβορος (cfr. carm. II,1,46 v. 7), si deve intendere, infatti, spesso in senso spregiativo la parte carnale dell'uomo dalla quale bisogna sollevarsi e separarsi se si desidera avvicinarsi a Dio. In tale accezione spregiativa Gregorio lo usa anche in carm. I,2,1 v. 130 per indicare, metonimicamente, i primi uomini dediti alla malvagità, alla dissolutezza e alla sfrenatezza dei costumi, Αὐτὰρ ἐπεὶ κόλποι τε καὶ εὐρέα πείρατα γαίης, / ἀντολίη τε, δύσις τε, νότου πλευρή, βορέου τε / πλῆσθεν ἐφημερίων, ὕβριν δ’ ἐξέζεσεν ἰλὺς,… (vv. 128-130) a cui segue l'elenco delle punizioni che Dio inflisse loro, tra le quali spicca il riferimento alla distruzione della ciτtà di Sodoma con le "pioggie di fuoco", πυρὸς ὄμβροις (l'episodio biblico è menzionato, nel nostro carme, nei versi immediatamente successivi, 270-272); così, ancora, in or. 27,3 leggiamo che solo chi si è prima purificato e allontanato dal "fango" esteriore e si è lasciato guidare dall'intelletto è in grado di τὸ περὶ Θεοῦ φιλοσοφεῖν: ἡνίκα ἂν σχολὴν ἄγωμεν ἀπὸ τῆς ἔξωθεν ἰλύος καὶ ταραχῆς, καὶ μὴ τὸ ἡγεμονικὸν ἡμῶν συγχέηται τοῖς μοχθηροῖς τύποις καὶ πλανωμένοις…. In or. 8,19 raccontando la dipartita della sorella Gorgonia, il Nostro attribuisce alla donna la virtù di essersi liberata dalle catene del corpo e dal "fango" che impediscono la visione spirituale e l'ascesi, …ὡς ἐκείνη τὰς πέδας ἀπορρίψασα ταύτας, καὶ τὴν ἰλὺν ὑπερβᾶσα, μεθ’ ἧς βιωτεύομεν, μετὰ τοῦ καλοῦ καθαρῶς γενέσθαι…; la stessa terminologia in carm. I,2,10 vv. 16-17 ὅτι σοι μέγα πρὸς ὕψος ἡ ψυχὴ βλέπει / καὶ τὴν ὀμίχλην, ἣ τὸν ἐνταυθοῖ βίον / ἡμῶν καλύπτει πάντα κείμενον χαμαὶ, / ταύτην διασχὼν καὶ ὑπερκύψας βραχὺ / ἰλύν θ’ ὑπερβὰς καὶ πέδας τοῦ συνθέτου. Cfr. ancora ΙΙ,1,12 v. 487; II,2,7 vv. 151-152 e Meier, p. 126. Anche il Crisostomo si esprime similmente in hom. 19 in Gen. (PG 53,166). — L'immagine del "piede", sinnedoche per indicare l’intera persona, che realizza plasticamente l'idea dell'uscita dal "fango", è utilizzata anche in carm. I,2,2 v. 55 all'interno della rievocazione della distruzione della città di Sodoma (cfr. infra, nota ai vv. 270-272); 288 ma si veda anche carm. I,2,9a vv. 26-27: Πολλάκι ταρσὸν ἄειρα πρὸς αἰθέρα, καὶ με βαρεῖα / τηκεδανή τε μέριμνα χαμαὶ βάλη·…; Zehles-Zamora, p. 59; Palla-Kertsch, pp. 139-140; K. Weiss, πούς in GLNT XI, coll. 5-26. 270-272 Rievocazione della distruzione della città di Sodoma e della fuga di Lot, (cfr. Gen. 19,15ss.), la cui menzione potrebbe essere letta nella prospettiva della "terza nascita", di cui è artefice l'uomo stesso. Se la rinascita alla vita in Cristo è nelle possibilità, infatti, dell'uomo (cfr. supra, v. 268 τῆς δ᾽ αὐτὸς γενέτης), anche in tale prospettiva può essere letto il riferimento alla fuga di Lot dalla città di Sodoma e alla sua volontà di non voltarsi indietro. Con questo intendimento, volto cioè ad affermare il libero arbitrio umano, l'episodio biblico è menzionato in Prud. ham. 723-776, quale exemplum della volontà umana a cui è stato concesso il privilegio di scegliere la via da intraprendere. Non è questa la sede per riportare la lunga rielaborazione prudenziana del racconto che verte sull'opposizione tra la debolezza femminile della moglie di Lot voltatasi indietro a guardare la distruzione della città e per questo trasformatasi in una statua di sale (nel nostro passo non c'è alcun riferimento al personaggio e alla sua metamorfosi), e la risolutezza del marito, saldo nella volontà di rispettare il comando divino ricevuto che gli garantirà la salvezza, per cui si rimanda al puntuale commento di Palla, Hamartigenia, pp. 275ss., e alle successive precisazioni in R. Palla, Stat mulier, sicut steterat prius… . La metamorfosi della moglie di Loth nell'Hamartigenia di Prudenzio, in V. Zimmerl-Panagl, D. Weber (HG.), Text und Bild. Tagungsbeiträge, Wien 2010, pp. 223235. Altrove Gregorio rievoca l'episodio veterotestamentario per lodare la virtù e la fermezza di colui che ha deciso di intraprendere la retta via e di non voltarsi indietro, κεῖνος δ’ ἐστὶν ἄριστος ὃς ἰθείην ὁδὸν ἕλκει / οὐδὲ μεταστρέφεται Σοδόμων ἐπὶ τέφραν ἐρήμην, / ἣν διὰ μαργοσύνην ξείνῳ πυρὶ δηϊωθέντων, / φεύγει δ’ ἐσσυμένως πρὸς ὄρος, πάτρης δὲ λέλησται, / μὴ μῦθος καὶ λᾶας ἁλὸς μετόπισθε λίπηται (carm. II,1,1 vv. 479-483 e cfr. Bénin, pp. 762-764). L'episodio di Lot è da leggere in chiave paradigmatica: come questi scampò alla distruzione della città grazie alla sua integra condotta, rispettando il divieto di non voltarsi verso la città in fiamme, così Vitaliano, che si è distaccato dai piaceri e dalle dissolutezze del mondo, ha mostrato la sua volontà di abbracciare uno stile di vita elevato. Il 289 percorso intrapreso prevede, pertanto, uno spostamento dal basso verso l'alto, dai terreni e crassi desideri della carne, all'elevata purezza della vita all'insegna della virtù, ripercorrendo il cammino di Lot che fugge dalle valli pianeggianti sede di perdizione, χθαμαλῶν πεδίων, per trovare rifugio nella città di Σηγώρ. Sulla figura paradigmatica di Lot nell'esegesi patristica si rimanda a M. Dulaeye, Le salut de Lot. Gen 19 dans l'Eglise ancienne, AnnSE 14, 1997, pp. 327-353. Sulla concezione del libero arbitrio in Gregorio cfr. I,2,10 vv. 90ss. e Richard, p. 25 270 ἔφυγες πυρόεεσσαν ἀπειλήν L'accostamento di πυρόεις con ἀπειλή si riscontra qui per la prima volta. Gregorio, rievocando l'episodio veterotestamentario, congiunge ἀπείλη con πῦρ: Μηδὲ σύ γ’ ἐκ Σοδόμων προφυγὼν, καὶ τέφραν ἀλύξας / τοῦδε βίου, θείου τε πυρὸς στονόεσσαν ἀπειλὴν, / εἰς Σόδομα βλέψειας, ἐπεὶ λίθος αἶψα παγήσῃ, / στήλη καὶ κακίης, καὶ ἀργαλέου θανάτοιο. / Μηδ’ ἐκ μὲν Σοδόμων κλέψῃς πόδας, ἐν πεδίοις δὲ / γείτοσι δηθύνειν ἆσσον πυρὸς, ἀλλὰ τάχιστα / σώζεσθαι πρὸς ὄρος, μή σε πυρὸς ὄμβρος ἐπίσσῃ (carm. I,2,2 vv. 51-57 e Zehles-Zamora, pp. 58-59); lo stesso, in or. 2,87; 19,5. — Per la rievocazione della distruzione di Sodoma, con una terminologia simile a quella del passo in oggetto, si veda, ancora, or. 16,14 κἂν ἐξέλθωμεν Σόδομα, προσβῶμεν τῷ ὄρει, καταφύγωμεν εἰς Σήγωρ,…; 40,19 φύγε Σόδομα, φύγε τὸν ἐμπρησμόν· μὴ παγῇς λίθος ἁλός· ἐς τὸ ὄρος σῴζου, μὴ συμπαραληφθῇς. Cfr. F. Lang, πῦρ… in GLNT XI, coll. 821-888. 271 φίλη Σηγώρ Secondo il racconto di Gen. 19,17ss. Lot, non riuscendo a raggiungere velocemente la montagna, prima che Sodoma fosse distrutta, si rifugiò in una cittadina vicina, chiamata poi Zoar che, sebbene fosse stata in un primo tempo destinata ad essere, anch'essa, distrutta, fu risparmiata per accogliere l'uomo in fuga con le figlie. Secondo M. Corsano, Gregorio, in questo luogo, ha inteso sottolineare questo aspetto, cioè la funzione protettiva che la città svolse a favore di Lot, attraverso l'uso dell'aggettivo φίλη: cfr. M. Corsano, Lot e il destino di Zoar, Orpheus 22, 2001, pp. 26-38, in part. p. 38 nota 55. 272 μηκέτι παπταίνοντα 290 Si ricorda così il divieto espresso a Lot di voltarsi durante la fuga verso Sodoma che veniva distrutta dalla pioggia di fuoco. Gregorio sembra qui ricalcare Hes. Op. 444 μηκέτι παπταίνων μεθ’ ὁμήλικας, ἀλλ’ ἐπὶ ἔργῳ; (cfr. anche Pind. O. 1,114). πρὸς ἄστεα τεφρωθέντα Il verbo τεφρόω è usato nel N.T. proprio in riferimento alla distruzione della città di Sodoma: καὶ πόλεις Σοδόμων καὶ Γομόρρας τεφρώσας κατέκρινεν, ὑπόδειγμα μελλόντων ἀσεβέσιν τεθεικώς (2Pt. 2,6), costruzione similmente ripresa, da Gregorio, anche in or. 43,67; Nonn. Dion. 25,60. — La costruzione di παπταίνω con la preposizione πρός che regge un complemento in caso accusativo risente certamente di Hom. Od. 22,24; Theocr. 6,29. 273-274 Rinuncia delle ricchezze e di tutti i beni terreni: l'unico possesso deve essere Cristo. La sezione si ispira a Mt. 13,45-46 dove il regno dei cieli è paragonato ad una perla preziosa che un mercante è disposto a comprare a prezzo di vendere tutti i suoi beni, Πάλιν ὁμοία ἐστὶν ἡ βασιλεία τῶν οὐρανῶν ἀνθρώπῳ ἐμπόρῳ ζητοῦντι καλοὺς μαργαρίτας· εὑρὼν δὲ ἕνα πολύτιμον μαργαρίτην ἀπελθὼν πέπρακεν πάντα ὅσα εἶχεν καὶ ἠγόρασεν αὐτόν. L'unico vero Bene (reso dal Nazianzeno con ἐσθλός) da acquisire è Cristo perla preziosa, al quale congiungere l'intelletto purificato (…Χριστόν τε νόον τε σὸν ἁγνὸν ἀγείρας, v. 274). La pericope matteana è rievocata, con la stessa terminologia del passo in oggetto, in carm. I,1,24 vv. 7-8 …καὶ μαργαρίτην πολύτιμον, / ἔμπορος ὃν πάντων ἐπρίατο κτεάνων; si veda anche I,2,17 v. 5 e Simelidis, pp. 129-130; e anche Bas. reg. fus. 8 (PG 31,940). — L'immagine della perla, nell'opera di Gregorio, è spesso riferita a Cristo: cfr. carm. I,1,27 vv. 17-22; II,1,38 v, 34 Ῥεύσω μαργάρεον… e la nota di Piottante, p. 152; or. 17,7. In or. 19,1 Gregorio, allontanato dalla meditazione e dal silenzio nei quali si era ritirato, e costretto a pronunciare il discorso, si paragona a quel mercante neotestamentario che, venduti tutti i suoi beni gode del possesso dell'unica ricchezza, cioè Cristo, stabile e sicura; cfr., infine, F. Hauck, μαργαρίτης, in GLNT VI, coll. 1265-1270; Lurker, pp. 150-151. 274 ἐσχατιῇ Il vocabolo riflette, forse, l'interpretazione esegetica che Origene diede a Mt. 19,30, Πολλοὶ δὲ ἔσονται πρῶτοι ἔσχατοι καὶ ἔσχατοι πρῶτοι: in comm. in Mt. 15,26, infatti, 291 l'Alessandrino spiega che gli ἔσχατοι sono coloro che si sono convertiti al Cristianesimo nell'età senile, ἀμφότεροι γὰρ διδαχθέντες τὸ πολλοὶ ἔσονται πρῶτοι ἔσχατοι καὶ ἔσχατοι πρῶτοι ὑπομνησθήσονται μήτε ἐπὶ τῷ νομίζειν εἶναι πρῶτοι μέγα φρονεῖν μήτε συστέλλεσθαι καὶ ταπεινοῦσθαι, ὡς ἔλαττόν <τι> ἔχοντες τῶν προτέρων διὰ τὸ ἔσχατοι ἐκείνων τὰ τοῦ Χριστιανισμοῦ παρειληφέναι δόγματα. Anche Vitaliano si è, dunque, volto in età adulta all' ascesi, Χριστόν τε νόον τε σὸν ἁγνὸν ἀγείρας Congiungere Cristo e l'intelletto puro. Una simile costruzione, fortemente visiva, data l'immagine di movimento che evoca la forma verbale ἀγείρας, si legge in carm. II,1,1 v. 265 … οἴῳ τε Θεῷ νόον ἁγνὸν ἀείρων (cfr. Bénin, p. 666). La iunctura di νόος con ἁγνός ricorre anche in carm. I,1,8 v. 62 (= I,2,1 v. 84); I,2,2 v. 72; II,1,1 v. 131; II,1,34 B v. 7. La costruzione di ἀγείρω con νόος è usata dal Cappadoce, in senso, spregiativo, per apostrofare quegli uomini la cui mente è ancora legata ai vincoli del mondo materiale in II,1,13 v. 209: Ὧν ὅδε δεσμὸς ἔχει πλάγκτην νόον ἔνδον ἀγείρας. Sul tema della purificazione dell’intelletto, quale precondizione per accostarsi a Dio, si veda Piottante, p. 97; Špidlík, Intoduction, pp. 26-27; cfr., anche, F. Huck, ἁγνός…, in GLNT I, coll. 327ss., in part. 330-331. 275-276 L'immagine metaforica della nuvola proveniente dall'alto (καθύπερθεν), di cui si riveste Vitaliano, va letta come opposta alla nube di lutto di v. 207 in cui s' avvolge il figlio-io loquens. Nel passo in oggetto essa apre ad una prospettiva e ad una visuale diverse, giacché dà vita ad un quadro fortemente simbolico e immaginifico che ritrae l'uomo protetto da essa (l'accezione sarebbe, dunque, positiva), νεφέλην καθύπερθεν ἐφέσσαο, nell'atto di distaccarsi dal mondo materiale (…ἄνδιχα κόσμου / τεμνόμενος χθονίοιο…), ergendo, nello spazio frapposto, un muro nel mezzo per marcare tale separazione (…μέσον δέτε τεῖχος ἐγείρας). Si noti, a questo proposito la varietas avverbiale che connota ciascuna delle tre immagini, καθύπερθεν, ἄνδιχα e μέσον. 275 νεφέλην καθύπερθεν ἐφέσσαο L'immagine della nuvola, νεφήλη, ampiamente presente nella Scrittura (cfr. A. Oerke, νεφέλη, νέφος in GLNT VIII, coll. 905-928; Lurker, p. 135) sembra richiamare Mc. 9,7 dove essa, inserita nella pericope della trasfigurazione di Gesù, avvolge Dio e 292 i due profeti Elia e Mosè. Tale riferimento, in contesto ascetico, può essere giustificato attraverso il parallelismo con carm. II,1,11 vv. 353-356: qui Gregorio racconta che, dopo la tirannia del padre che gli impose l'ordinazione sacerdotale, fuggì nel Ponto dall'amico Basilio che si era dedicato all'ascesi, «esercitava infatti colà l'intima unione con Dio, avvolto in una nube come uno degli antichi sapienti» (traduzione di Trisoglio, Autobiografia, p. 67), ἐκεῖ γὰρ ἤσκει τὴν Θεοῦ συνουσίαν, / νέφει καλυφθεὶς ὡς σοφῶν τις τῶν πάλαι. / Bασίλειος οὗτος ἦν, ὃς ἐν ἀγγέλοις τὰ νῦν. / Τούτῳ τὸ λυποῦν ἐξεμάλθασσον φρενός. Tuttavia non si può escludere l'eco di 1Thess. 4,17; così come di 1Cor. 10,2 (per l'interpretazione di questo luogo scritturistico in relazione alla presenza nel Battesimo dello Spirito Santo che si manifesta nella nuvola, cfr. M. A.G. Haykin, "In the cloud and in the sea": Basil of Caesarea and the exegesis of 1 Cor 10:2, Vigiliae Christianae 40, 1986, pp. 134-144). — Per la costruzione di ἐφέννυμι con l'accusativo di νεφέλη cfr. supra, nota al v. 207. — L'avverbio καθύπερθε(ν) accostato alla iunctura ζωῆς βροτέης allude alla morte in un epigramma in onore di Gregorio il Vecchio (cfr. Anth. Pal. 8,12,1); ma si veda il corradicale ὕπερθεν che, in contesto ascetico, esprime, come nel passo in oggetto, la separazione dal mondo materiale e carnale: …ζώοντες ἐπὶ χθονὶ σάρκὸς ὕπερθεν (II,2,5 v. 145 e la nota di Moroni, p. 245). L'immagine della nube che scende dall'alto si legge anche in Quint. Smyrn. 9,263-264 …δνοφερὸν δὲ νέφος καθύπερθε Κρονίων / εὖτ’ ὀμίχλην διέχευε… . 275-276 …ἄνδιχα κόσμου / τεμνόμενος χθονίοιο… Il passo in oggetto riprende, con parole diverse, quanto già espresso al v. 269 con ῥήξας δεσμὰ βίοιο, se si considera che τέμνω e ῥήγνυμι sono latori di significati affini, cfr. LSJ s.vv. L'accostamento di τέμνω con ἄνδιχα è anche in Anth. Pal. 9,657,1 Ὁππόθι τεμνομένης χθονὸς ἄνδιχα πόντον ἀνοίγει; 11,262,2; nonché in Gregorio in carm. I,1,3 v. 53; I,1,27 v. 29. 277 γαστέρος ὕβριν ἔπαυσας Una costruzione simile a quella del passo in oggetto si legge anche in carm. II,1,12 v. 592, καὶ γαστρὸς ὕβριν ἐνδεεῖ καθύβρισεν (cfr. Meier, p. 138) e II,1,34B v. 13 γαστρὶ μὲν ὕβριν ἔπαυσα κόρου… . Le privazioni del ventre costituiscono un punto saldo della vita ascetica e dei labores monachi (cfr. i passi segnalati da Moroni, p. 249 a comm. di carm. II,2,5 v. 148, ἀγάστορες). Gregorio riserva al ventre e ai suoi 293 desideri un biasimo e un disprezzo dai toni molto asprι, per cui si rimanda ai numerosi loci segnalati da Moroni, pp. 242-243 a comm. di II,2,5 v. 141). Il rifiuto a soddisfare i piaceri del ventre si trova inserito anche nella cosiddetta Priamel dei valori, come in carm. II,1,1 vv. 63ss. dove il Nostro destina una forte critica al ventre definito "scellerato genitore di lussuria" (i suoi bisogni sono spesso connessi ai piaceri del sesso, per cui cfr. Piottante, p. 119, nota a II,1,34B v. 13), …πολυχανδέα γαστέρα βόσκων, / μαχλοσύνης μήτειραν ἀτάσθαλον·… (vv. 66-67, e cfr. Bénin, p. 561). Il controllo sul ventre costituisce, in generale, anche una della condizioni per una perfetta disciplina, come Gregorio raccomanda ad Olimpiade, invitandola a non organizzare in casa lauti conviti per soddisfare le voglie del ventre: Μηδὲ μὲν οἰκιδίους τε πότους κατὰ δώματ’ ἀγείρειν, / ἀνέρος ἢ παρεόντος ἀμύμονος ἢ ἀπεόντος. / Γαστὴρ μέτρα φέρουσα τάχ’ ἂν παθέεσσιν ἀνάσσοι (II,2,6 vv. 67-70 e cfr. la nota di Bacci, pp. 111-112). ἀπληρώτοιο βερέθρου La iunctura in oggetto, apposizione di γαστέρος (si noti, a questo proposito la posizione incipitaria e clausolare dei due termini coordinati), sembra essere di coniazione gregoriana, ma l'aggettivo ἀπλήρωτος si trova riferito al ventre già in Phil. alleg. 3,148, dove viene descritta l'immagine dell'anima sedotta dalla passione e schiava degli insaziabili piaceri del ventre: … ἀπληρώτους καὶ ἀκορέστους ἕξει τὰς γαστρὸς ἡδονὰς καὶ ἐπιθυμίας…; e si veda ancora Luc. Merc. Cond. 39,20; Alciphr. 2,32; nonché Greg. Naz. or. 14,17, τὸ βαρὺ φορτίον καὶ ἀρχέκακον, τὸ ἀπληστότατον θηρίον καὶ ἀπιστότατον, τὴν καταργουμένην αὐτίκα σὺν τοῖς καταργουμένοις βρώμασι (scil. γαστέρα); cfr. anche εἰς βυθόν di I,2,10 v. 595 e il comm. di Kertsch, pp. 304-305. — L'immagine della voragine associata al ventre è stata confrontata da Moroni, p. 242 a quella della palude senza fondo di carm. II,2,5 v. 141, per cui si rimanda alle argomentazioni della studiosa sulle sue possibili derivazioni classiche. Si noti, infine la forma epica βέρεθρον che rispetta l'origine anche nella posizione clausolare in cui è collocata, cfr. Hom. Il. 8,14; Od. 12,94. 278 θώκους ὀφρυόεντας ἀπέπτυσας La separazione dal mondo materiale comprende anche il rifiuto e il disprezzo per le alte cariche rappresentate dagli alti scranni, θώκος e il sinonimo θρόνος, che nel Nazianzeno compaiono spesso in contesti relativi agli effimeri beni dell'esistenza 294 terrena, cfr. carm. II,1,11 vv. 1901. 1922; II,1,16 v. 99; II,1,17 vv. 96ss.; II,1,32 vv. 51-56 e il relativo comm. di Simelidis, pp. 242-244; e or. 36,11. — Il termine ὀφρῦς e i suoi corradicali sono usati spesso da Gregorio in senso metaforico per esprimere un atteggiamento connesso alla superbia (cfr. Bacci, p. 91, Simelidis, p. 238): per questo le alte cattedre vengono chiamate, qui, ὀφρυόεντας, superbe dando, così, vita ad un'ardita immagine che carica le espressioni di una valenza spregiativa molto forte. Una simile realizzazione è presente anche in epist. 173,7 (composta nell'estate del 383 quando, dopo aver guidato la chiesa di Nazianzo, Gregorio decide di ritirarsi a vita privata e di dedicarsi all'ascesi): Οὐ γὰρ ὥσπερ τῶν θρόνων καὶ τῆς ὀφρύος τοῖς βουλομένοις, οὕτω καὶ τῆς εὐσεβείας παρεχωρήσαμεν; nonché in I,2,16 v. 9 dove il trono è definito "una superbia di sogni" …ὁ δὲ θρόνος, ὀφρὺς ὀνείρων; e II,1,11 v. 1922. Per l'accezione metaforica del verbo ἀποπτύω si veda anche II,1,34B v. 23, dove Gregorio lo usa a proposito del rigetto delle ricchezza, …κτεάνων βαρὺν ὄγκον ἀπέπτυσα…, e la nota ad loc. di Piottante che rileva la fonte di tale significato traslato in Hes. op. 726; cfr. anche καταπτύων di I,2,10 v. 600. 279-280 οἰδαλέον τε ὄγκον ἀγηνορίης κενεαυχέα Disprezzo dell’orgoglio e dell’arroganza: esaltazione dell’umiltà. Il termine ὄγκος si riveste in questo luogo di un’accezione negativa e metaforica (dignity, pride, cfr. LSJ, s.v.; ma anche W. Michaelis, ὄγκος, in GLNT VIII, coll. 115-118). Per il verbum usato, nell'opera del Cappadoce, in contesti dove si parla di ricchezza si veda Piottante, p. 119 nota a II,1,34 B v. 23; per l'accezione positiva, da intendere cioè come "sicurezza di sé e del proprio valore" cfr. II,2,6 v. 20 e la nota ad loc. di Bacci, p. 90. — L'aggettivo οἰδαλέος è connesso all'ira in II,1,34A v. 135, mentre in I,2,9a v. 54 in iunctura con κῦμα tradisce la sua matrice classica, rintracciabile in Arch. fr. 10 Tarditi (cfr. Palla-Kertsch, p. 158). —L'aggettivo κενεαυχής (cfr. Hom. Il. 8,230) è usato dal Cappadoce sempre in senso dispregiativo, come in carm. I,2,29 v. 287 dove connota il trucco delle donne (cfr. Knecht, p. 124 che lo assimila al prosastico κενόδοξος); in II,1,1 v. 468 nell'esclamazione ὦ θνητοὶ κενεαυχέες; e in II,2,7 v. 287 attribuito ad Aristea di Proconneso (= Anth. Pal. 8,29,2), cfr. le osservazioni di Costa in Gregorio Nazianzeno, Poesie 2, p. 289 nota 70. — Il termine ἀγηνορίη, che ricorre già in Hom. Il. 9,77; 12,46; 22,457; Apoll. Rh. 2,481, viene usato dal Cappadoce anche in II,1,19 v. 48 per esprimere il disprezzo divino nei confronti della boria (cfr. la nota 6 295 di Crimi che rileva i riferimenti biblici ispiratrici dell'espressione in Gregorio Nazianzeno, Poesie 2, p. 126; Simelidis, p. 199). — L'unione di una forma del verbo ῥίπτω con l'avverbio ἔραζε sembra mutuata da Theocr. 25,265: ῥίψας τόξον ἔραζε πολύρραπτόν τε φαρέτρην; e si veda anche Opp. Ap. Cyn. 4,281 καὶ μελεϊστὶ τάμεν νέκυας δ’ ἔρριψεν ἔραζε. Un simile concetto con terminologia sinonimica a quella del passo in oggetto si legge anche in II,1,17 v. 87 Οὐ τύφον οἰδαίνοντα διδάγμασιν ἐς χθόνα ῥίψας. 280 οἶόν σοι κλέος ἐστὶ Θεὸς μέγας Unica gloria è per te il grande Dio: affermazione che possiede una valenza prescrittiva. L'unica gloria da conseguire è quella di accostarsi a Dio, come il Nostro afferma anche in carm. I,2,9b v. 67 cit. supra, nota ai vv. 70ss. Ιn questa prospettiva il passo in oggetto potrebbe essere posto in connessione con v. 74 dove ricorre l'espressione κλέος ἐσθλὸν ἔχοντα e proseguire, così, l'augurio che il figlio rivolge al padre, consistente nel definitivo conseguimento dell'οἶον κλέος, perseguibile con l’adesione alla vita ascetica. La gloria che deriva dall'adesione alla vita in Cristo presuppone il disprezzo di tutti gli onori "terreni", come si legge in II,2,5 v. 149, dove Gregorio, giocando con i termini κῦδος e κλέος, latori di simili significati, afferma che i monaci κῦδος ἓν οἶον ἔχοντες, ἅπαν κλέος ἐνθάδ᾽ ἀτίζειν. Ε, in riferimento alla sua esperienza personale, il Nostro, congedandosi dai lavori del concilio costantinopolitano del 381, chiede di condurre una vita senza cattedre, senza gloria terrena e senza pericoli, ἡμῖν δὲ συγχωρήσατ᾽ ἄθρονον βίον, / τὸν ἀκλεῆ μέν, ἀλλ᾽ ὅμως ἀκίνδυνον (II,1,11 vv. 1671-1672). 280-281 ἀνδρομέου τε αἵματος εὐσεβέες μέγ᾽ ἀρείονες L'espressione in oggetto si riveste dei toni di una γνώμη. In particolare vi si può leggere un riferimento al tradizionale locus de nobilitate, o meglio una critica ad esso: alla nobiltà di nascita Gregorio oppone la superiore nobilitas che si consegue attraverso la pratica dell’εὐσέβεια (per tale tematica negli scritti del Cappadoce si veda Mossay-Lafontaine, Discours 20-23, p. 229 nota 3). Pertanto, sebbene Vitaliano goda di nobili origini (cfr. supra, nota al v. 14), la vera εὐγένεια si realizza nelle qualità morali ispirate dal cristianesimo. — La iunctura di ἀνδρομέος con αἷμα che riflette Hom. Od. 22,19; e Ps.-Hes. Sc. 257, è ripresa da Gregorio, con una accezione generica, in carm. I,2,1 v. 224 Ἀνδρομέης γενεῆς, καὶ αἵματος ἡμετέροιο (parole 296 pronunciate dalla personificazione del matrimonio nella tenzone che lo vede opposto alla verginità), cfr. Sundermann, p. 33; Quint. Smyrn. 3,365; ma si veda anche Nonn. Par. 15,78 …ἀνδρομέης οὐ γνήσιον αἷμα γενέθλης. 281-282 Esaltazione della portata salvifica del sacrificio di Cristo sulla croce: cfr. or. 45,12 dove Gregorio, rivolgendosi al serpente, afferma: Τῷ σταυρῷ βέβλησαι, τῷ ζωοποιῷ τεθανάτωσαι. Similmente, con l'imperativo ὑπόεικε Gregorio intima al maligno di sottomettersi alla croce, per la quale egli vive e che rappresenta la sua sola gloria: …Ἀλλ’ ὑπόεικε, / μή σε βάλω σταυρῷ, τῷ πᾶν ὑποτρομέει. / Σταυρὸν ἐμοῖς μελέεσσι φέρω, σταυρὸν δὲ πορείῃ, / σταυρὸν δὲ κραδίῃ· σταυρὸς ἐμοὶ τὸ κλέος (carm. II,1,55 vv. 9-12); cfr. Joh. Schneider, σταυρός…, in GLNT XII, coll. 969ss. 282 Il verso in oggetto ricorda concettualmente Gal. 6,14: ἐμοὶ δὲ μὴ γένοιτο καυχᾶσθαι εἰ μὴ ἐν τῷ σταυρῷ τοῦ κυρίου ἡμῶν Ἰησοῦ Χριστοῦ, δι’ οὗ ἐμοὶ κόσμος ἐσταύρωται κἀγὼ κόσμῳ. Il riferimento a questo passo paolino ritorna, nell’opera del Nostro, anche in carm. II,1,1 v. 202 e II,2,1 v. 2, in un contesto, per così dire, “ascetico” dove, cioè, Gregorio parla del distacco dal mondo materiale. Il termine ληΐστωρ è utilizzato anche quale sinonimo di λῃστής, che è un epiteto di satana, in or. 45,22 (oltre a richiamare i ladroni crocifissi con Gesù, di Mt. 27,38; Mc. 15,27) – per una rassegna dei “nomi” che Gregorio usa per apostrofare il diavolo, cfr. carm. II,1,55 vv. 3-4. 283 ὕμνοις παννυχίοισι καὶ ἠματίῃσιν ἀοιδαῖς Salmodie in onore della Trinità. Il verso in oggetto si presenta come una riscrittura poetica di Eph. 5,19 ...λαλοῦντες ἑαυτοῖς [ἐν] ψαλμοῖς καὶ ὕμνοις καὶ ᾠδαῖς πνευματικαῖς, ᾄδοντες καὶ ψάλλοντες τῇ καρδίᾳ ὑμῶν τῷ κυρίῳ; e Col. 3,16 διδάσκοντες καὶ νουθετοῦντες ἑαυτοὺς ψαλμοῖς, ὕμνοις, ᾠδαῖς πνευματικαῖς ἐν χάριτι ᾄδοντες ἐν ταῖς καρδίαις ὑμῶν τῷ θεῷ; (si veda anche 1Mac. 13,51 …καὶ ἐν ὕμνοις καὶ ἐν ᾠδαῖς…). Simili iuncturae ricorrono, in Gregorio, in contesti in cui si parla dei labores monachi o degli asceti, come in carm. I,2,2 v. 519 νυχίῃσι καὶ ἠματίῃσιν ἀοιδαῖς; I,2,10 v. 650: ἀγρυπνίαις τε παννύχοις θ᾽ ὑμνῳδίαις; ΙΙ,1,1 vv. 279-281: εὐχαί τε στοναχαί τε φίλαι, καὶ νύκτες ἄϋπνοι, / ἀγγελικοί τε χοροὶ, ψαλμοῖς Θεὸν οἵ γ’ ἐρέθουσιν, / ἱστάμενοι, ψυχάς τε Θεῷ πέμποντες ἐν ὕμνοις; 297 II,1,34Β v. 19 (stessa iunctura del verso in oggetto, ὕμνοις παννυχίοισι); II,2,1 vv. 31 ὕμνοις παννυχίοισι καὶ ἠματίοισι e 309 Δὸς χάριν ἠματίοισι πόνοις, νυχίῃσί τ’ ἀοιδαῖς; cfr. Zehles-Zamora, p. 231; Crimi-Kertsch, p. 315; Piottante, pp. 123-124. Cfr. anche Greg. Nyss. res. I,4 (GNO 9,309); Ioh. Chrys. hom. 8 in Mt. (PG 57,88). — ὕμνος e ἀοἰδή sono di frequente accostati anche nella poesia classica, per cui cfr. Hom. Od. 8,429; Hes. fr. 357,2 West-Merkelbach; Eur. IT 179; Aristoph. Av. 907. Si noti, infine, la costruzione chiastica e fondata sull'antitesi "notturni/diurni" delle due coppie di iuncturae in oggetto. 284 οὐρανίοιο τριλαμπέα πνεύματος αἴγλην Alternata l'articolazione delle due iuncturae che compongono il verso che procede per coppie simmetriche (aggettivo-aggettivo, οὐρανίοιο τριλαμπέα e sostantivosostantivo, πνεύματος αἴγλην). L'aggettivo οὐράνιος in riferimento allo Spirito Santo ricorre anche in Athen. leg. 31,4; Clem. Alex. prot. 12,118,3; Eus. Ps. (PG 23,516); Greg. Nyss. Apoll. (GNO 3,1, p. 146); Nonn. Par. 13,95; nonché Greg. Naz. carm. I,1,3 v. 11. Come già argomentato, lo splendore è tratto associato, dal Nostro, all'azione dello Spirito Santo, tanto che di creazione gregoriana sembra essere la iunctura di αἴγλη con πνεῦμα che ricorre frequentemente nella sua opera, cfr. carm. I,1,7 v. 96; I,2,2 v. 73; II,1,1 v. 326; II,1,19 v. 56; II,1,45 v. 180; II,2,7 v. 20; Anth. Pal. 8,20,1. Sembra, inoltre, che l'aggettivo τριλαμπής sia conio di Gregorio, cfr. Lampe s.v. e ΙΙ,1,88 vv. 173-174 …Θεοῦ μεγίστου, / φάους ἑνὸς τριλαμποῦς: lo Spirito Santo appare, pertanto, come uno dei tre splendori che viene emanato dalla Trinità — per la terminologia della luce legata alla Trinità si veda anche or. 37,18 dove la Trinità è paragonata ad una gemma che riluce in maniera uguale in tutte le sue parti; I,1,4 v. 65 τρισσοφαοῦς Θεότητος ὁμὸν σέλας ἰσοφέριστον; II,1,1 vv. 198ss. …Τριάδος δὲ φάος περίλαμψεν… /… / … ξυνόν τε σέλας καὶ ἄφραστον ἱείσης…; II,1,12 v. 118 Τριάδ᾽ ἔλαμψα…; II,1,42 v. 31; II,1,85 v. 14 …ἔστ’ ἂν ἴδω Τριάδος σέλας εἰς ἓν ἰούσης; ΙΙ,1,87 v. 16 ἰσοφάους Τριάδος λάμψις ἐπουρανίης; cfr. Moroni, pp. 125-126; Piottante, p. 91. 285-286 Il fine supremo per ogni cristiano è la θεωρία θεοῦ, la riacquisizione di quello status originario precedente alla caduta, conseguibile, in prospettiva escatologica, solo dopo la liberazione dai vincoli della vita terrena. La visione che l'uomo sulla terra 298 ha di Dio è parziale e confusa, ed come uno specchio, come vuole l'eco paolina di 1Cor. 13,12 che affiora dal v. 286. Il passo in oggetto va accostato a or. 32,15 dove il Cappadoce afferma che l'uomo può conoscere Dio solo in maniera parziale e graduale, Dio che è luce suprema che si rivela all'intelletto purificato dell'uomo per gradi e in maniera completa solo quando egli avrà conseguito la virtù: Φῶς μὲν ὁ Θεὸς, καὶ φῶς τὸ ἀκρότατον, οὗ βραχεῖά τις ἀπορροή καὶ ἀπαύγασμα κάτω φθάνον, φῶς ἅπαν, κἂν ὑπέρλαμπρον φαίνηται· ἀλλ’ ὁρᾷς, γνόφον πατεῖ τὸν ἡμέτερον, καὶ ἔθετο σκότος ἀποκρουφὴν αὐτοῦ, μέσον αὐτοῦ τε καὶ ἡμῶν θεὶς, … φῶς δὲ ὁμιλήσῃ φωτὶ, ἀεὶ πρὸς τὸ ὕψος ἕλκοντι διὰ τῆς ἐφέσεως, καὶ νοῦς πλησιάσῃ τῷ καθαρωτάτῳ κεκαθαρμένος, καὶ τὸ μὲν ἄρτι φανῇ, τὸ δὲ ὕστερον, ἆθλον ἀρετῆς καὶ τῆς ἐντεῦθεν πρὸς αὐτὸ νεύσεως, εἴτουν ἐξομοιώσεως. Βλέπομεν γὰρ ἄρτι, φησὶ, δι’ἐσόπτρου καὶ ἐν αἰνίγματι, τότε δὲ πρόσωπον πρὸς πρόσωπον· ἄρτι γινώσκω ἐκ μέρους, τότε δὲ ἐπιγνώσομαι καθὼς καὶ ἐπεγνώσθην. Καὶ τὸ ταπεινὸν ἡμῶν ὅσον καὶ ἡ ἐπαγγελία πηλίκη· γνῶναι Θεὸν τοσοῦτον, ὅσον ἐγνώσμεθα; cfr. anche epist. 165,8; per la θεωρία θεοῦ si veda Moreschini, Gregorio, pp. 86-89. In carm. II,2,4 vv. 77ss. Nicobulo junior afferma, invece, che si potrà rivolgere alla contemplazione della verità, cioè della Trinità, solo dopo aver compiuto l'iter studiorum classicopagano, e sotto la guida di Cristo e con l'animo e lo sguardo purificato, in modo da non vedere più fantasmi di verità, pallidi come attraverso uno specchio: Αὐτὰρ ἐπὴν δὴ ταῦτα διεξελάσω νεότητι, / πνεύματι θειοτέρῳ δώσω φρένας, ἅσσα κέκευθε / καλὰ ἀνιχνεύων τε καὶ ἐς φάος αἰὲν ὁδεύων / καὶ στάθμην βιότοιο φέρων κινήμασι θείοις, / ὥς κεν ἀοσσητῆρα, συνέμπορον, ἡγεμονῆα / Χριστὸν ἔχων, κούφῃσι σὺν ἐλπίσιν ἔνθεν ἀερθῶ, / καὶ ζωῆς καθαρῆς τε καὶ ἀλήκτοιο τύχοιμι, / μηκέτ’ ἀληθείης ἰνδάλματα τηλόθε λεύσσων, / ὥστε δι’ εἰσόπτροιο καὶ ὕδατος ἀδρανέοντα, / αὐτὴν δ’ ἀπλανέως θηεύμενος ὄμμασιν ἁγνοῖς, / ἧς πρῶτον πύματόν τε Τριὰς θεότης μονόσεπτος, / ἓν φάος ἐν τρισσοῖς ἀμαρύγμασιν ἰσοθέοισι (cfr. la nota ad loc. di Moroni, pp. 119ss.). Per l'azione offuscatrice e ottenebrante della carne che come caligine impedisce all'intelletto la contemplazione della verità, cfr. II,1,1 vv. 204ss. 285 …τέρματος ἆσσον ἀρίστου La costruzione di ἆσσον in funzione di preposizione impropria con il genitivo di τέρμα è anche in carm. I,2,9b v. 27; II,1,34A v. 107 dove il τέρμα da conseguire è 299 Cristo; cfr. Palla-Kertsch, p. 188 e Piottante, p. 101. — Per la iunctura di τέρμα con un aggettivo qualitativo si veda anche I,1,36 v. 33 …ἐσθλὸν ἐπὶ τέρμα… . Si noti, inoltre, l’impiego dell’anadiplosi e del poliptoto in …τέρματος… / τέρμα… . 286 … οὐκέτ᾽ ἔσοπτρον Il verso è modellato su 1Cor. 13,12 βλέπομεν γὰρ ἄρτι δι’ ἐσόπτρου ἐν αἰνίγματι, τότε δὲ πρόσωπον πρὸς πρόσωπον· ἄρτι γινώσκω ἐκ μέρους, τότε δὲ ἐπιγνώσομαι καθὼς καὶ ἐπεγνώσθην; per la rievocazione del passo paolino si veda, anche, I,2,2 v. 675 e Zehles-Zamora, p. 279; or. 2,55; 20,1; 24,19; 27,10 etc.; Richard, p. 261. — Il verbo νοέω, che qui significa "contemplare", si trova costruito anche con la Persona del Figlio, Υἱὸς νοούμενός τε καὶ ὁρώμενος (carm. I,1,11 v. 24); cfr. ancora I,2,10 v. 973 …Θεὸν νοούμενον. Sulla difficoltà di contemplare (νοῆσαι) Dio, Il Nostro si pronuncia in or. 28,4: Ἀρκτέον οὖν οὕτω πάλιν· Θεὸν νοῆσαι μὲν χαλεπόν, φράσαι δὲ ἀδύνατον, … Ἀλλὰ φράσαι μὲν ἀδύνατον, ὡς ὁ ἐμὸς λόγος, νοῆσαι δὲ ἀδυνατώτερον… (si veda anche § 20); II,1,87 v. 14 …ἐπεὶ θεὸν οὔτε νοῆσαι. 287-292 Il termine χόλος, presente ben tre volte in pochi versi (vv. 287. 289. 292), costituisce il leit motiv di questa breve sezione. Il grosso ostacolo che impedisce a Vitaliano il completamento di tale cammino ascetico è rappresentato dal vitium dell'ira che ancora lo affligge interiormente (ἔντός), ossimoricamente designata come "piacevole rovina" (ἡδὺς ὄλεθρος), e metaforicamente assimilata alla ruggine che corrode il ferro, in maniera occulta, perché agisce internamente. L'ira è, pertanto, definita "dolce distruzione" perché agisce silenziosamente e in profondità; oppure pesantemente minacciosa perché resa tale dall'ira del Serpente (cfr. vv. 289-291). 287 μοῦνος … χόλος καὶ ἡδὺς ὄλεθρος Si noti l'accurata disposizione delle parole del verso μοῦνος e ὄλεθρος che occupano i punti chiave, cioè incipit e clausola, riferendosi a χόλος, posto dopo la cesura femminile (B2). La definizione dell'ira come una "una dolce rovina" risente fortemente di quella omerica che si legge in Il. 18,109· ὅς τε πολὺ γλυκίων μέλιτος καταλειβομένοιο. In or. 18,42 il peccato è definito "rovina dell'anima", ἡ ἁμαρτία· ψυχῆς γὰρ ὄλεθρος. 288 δάπτων, οἷα σίδηρον ἀτειρέα λάθριος ἰός 300 Il paragone con la ruggine che corrode il ferro è mutuato dalla letteratura classica, cfr. Plat. R. 609a; Plb. 6,10,3; e ripreso anche da altri scrittori cristiani, come Clem. Alex. strom. 4,12,88; Bas. hom. 11 (PG 31,373); Greg. Nyss. infant. (GNO 3,2 p. 69); virg. 12,2; Ioh. Chrys. ep. 13,3; etc. In Gregorio è presente, con la stessa terminologia del verso in oggetto in carm. II,1,1 …μηδὲ βαρεῖαι / μέρμηραι δονέοιεν ἐμὸν νόον ἃς ὅδε κόσμος / καὶ κόσμου μεδέων δειλοῖς μερόπεσσιν ἐγείρει, / δάπτων, οἷα σίδηρον ἰὸς, θεοειδέα μορφὴν / ἔνδοθι… (vv. 29-33), per connotare, negativamente, i gravi tormenti che consumano l'immagine divina che Dio ha impresso nell'uomo; cfr. anche or. 43,40; Bénin, pp. 527-530. Si veda, inoltre, I,1,4 v. 52, ...λώβη μὲν ἰὸς κρατεροῖο σιδήρου, in riferimento al peccato originale di cui si rese responsabile il primo uomo. — Per la quantità della ῑ di ἰός, cfr. Moreschini-Sykes, p. 159. — La iunctura di σίδηρος con ἀτειρής è modellata su Aesch. fr. 199b Mette; mentre, quella di ἰός con λάθριος non ha altri esempi, sebbene si possa confrontare con Eus. v. C. 2,1,2 …κρύπτων δὲ τῆς κακίας τὸν ἰὸν λαθραίας καὶ μερικὰς… . Si noti, infine, la costruzione chiastica delle due iuncturae in oggetto, σίδηρον ἀτειρέα e λάθριος ἰός. 289-291 Rievocazione del peccato dei protoplasti e della loro cacciata dal paradiso terrestre a causa delle insidie del Serpente (Gen. 3,1-15). Il racconto veterotestamentario è ripreso diverse volte dal Cappadoce: cfr. carm. I,1,4 vv. 48-54 (cfr. Moreschini-Sykes, p. 159 che rimanda a I,1,8 v. 114 e sottolinea la derivazione omerica dell’uso traslato del verbo γεύω (a cui si connette il sostantivo γεῦσις del passo in oggetto) che nell’esperienza di Adamo deve essere inteso anche letteralmente); I,1,7 vv. 66ss.; I,1,8 vv. 107ss.; I,2,1 vv. 119ss.; II,1,13 vv. 42ss.; II,1,45 vv. 98ss.; II,1,54 vv. 6ss.; II,1,55 vv. 5ss.; II,2,1 vv. 5ss.; or. 19,14; 38,17; 45,8 etc. — Degna di nota è, inoltre, l'articolazione del periodo che si legge in I,2,1 vv. 120-121, dove si noti la costruzione Βασκανίῃ τε δράκοντος ἀδευκέος…, simile a quella del passo in oggetto, χόλῳ… ἀπιστοτάτοιο δράκοντος. Sebbene Vitaliano, dunque, dedicandosi alla vita ascetica si sia avvicinato a Dio, l'ira che nutre ancora nel cuore lo allontana da Lui e lo spinge in una condizione sottoposta a Satana serpente. 289 χόλῳ βαρύποτμος ἀπιστοτάτοιο δράκοντος Singolare appare l'accostamento dell'aggettivo βαρύποτμος (che sembra essere hapax legomenon in Gregorio) che si concorda con ὄλεθρος di v. 287, a χόλῳ di cui, 301 come abbiamo già affermato, ὄλεθρος costituisce un'apposizione, χόλος ..ἡδὺς ὄλεθρος (in carm. I,2,25 v. 1 l'ira è chiamata δαίμων, θυμῷ… τῷ συνοίκῳ δαίμονι, cfr. Oberhaus, pp. 41-42). — L'attributo ἄπιστος è usato, genericamente, per connotare una fiera in carm. II,1,45 v. 122 …θηρὸς ἀπιστοτάτοιο…; ma si veda anche l'espressione Ὦ δαιμόνων ἀπιστότερε, in riferimento a quelli che propugnavano false dottrine sulla natura di Cristo (or. 38,15= 45,27). Per gli appellativi di satana cfr. supra, nota al v. 282. 290 βάλεν ἐκ παραδείσου Una simile costruzione riferita al demonio si legge in Ps.-Ioh. Chrys. hom. jej. 1, Ἐπειδὴ γὰρ εἶδεν ὁ Θεὸς ἐκ παραδείσου πολυτραυμάτιστον τὸν Ἀδὰμ βληθέντα… (PG 60,711); Ath. Ar. 2, Ὕπαγε ὀπίσω μου, Σατανᾶ· καὶ οὕτως ἔξω τοῦ παραδείσου τυγχάνει βαλλόμενος εἰς τὸ πῦρ τὸ αἰώνιον(PG 26,293); nonché in Gregorio stesso in carm. I,1,7 v. 65 …το καὶ βάλεν ἐκ παραδείσου; I,1,9 v. 9: λυσσήεις ὅτε πρῶτον Ἀδὰμ βάλεν ἐκ παραδείσου, ripresa similmente in I,2,29 v. 131 ἤπαφεν εὐθαλέος τε ἄφαρ βάλεν ἐκ παραδείσου; II,1,13 v. 44 Ἐξέτι τοῦ ὅτε πρῶτον Ἀδὰμ βάλες ἐκ παραδείσου (=II,1,54 v. 6); or. 36,5 καὶ τὸν Ἀδὰμ ἐξέβαλε τοῦ παραδείσου…; epist. 203,3 καὶ ἡμᾶς τοῦ παραδείσου διὰ τῆς Εὔας ἐκβέβληκας; cfr. Knecht, p. 87. 290-291 γεύσει… / βαιῇ… Il sostantivo γεῦσις, che indica l'azione dell'assaggiare o gustare qualcosa, ha sempre valenza negativa, perché si riferisce all'assggio del frutto proibito da parte dei protoplasti. Le più frequenti connotazioni, in Gregorio, sono πικρός, cfr. or. 8,14; 19,14; 29,20; 33,14 etc.; carm. II,1,1 v. 458; ὀλίγος, cfr. I,2,2 v. 288; ἀλιτρός, cfr. I,1,9 v. 44; I,2,1 v. 121; ma si veda anche II,1,11 v. 960 …ὡς Ἀδὰμ γεύσει κακῇ; ZehlesZamora, p. 137. Si noti, infine, il forte iperbato che separa i due termini della iunctura in oggetto. 291 …καὶ θεότητος ἐνόσφισεν, ἧς πέσεν αὐτός L'uomo, a causa del peccato originale, fu privato della θεότης ricevuta da Dio al momento della crezione "a sua immagine e somiglianza", prerogativa lontano dalla quale anche Lucifero era caduto, a causa della ribellione contro il Creatore. Il verso può essere accostato, anche per la consonanza terminologica, a carm. I,1,7 vv. 63-64, dove il demonio οὐδ’ ἐθέλει θεότητος, ὅθεν πέσεν, ἆσσον ἱκέσθαι / πλάσμα Θεοῦ… . Per la possibilità di riacquisire l'eccellenza perduta, in prospettiva escatologica, si 302 veda supra, nota ai vv. 1 e 3. — Per l'uso del verbo πίπτω in riferimento alla caduta dell'uomo si veda Ps.-Or. fr. in Ps. 81,1 τί δὲ ποιεῖ ἡμᾶς ἀνθρώπους πεσόντας ἀπὸ τῆς θεότητος; nonché Greg. Naz. or. 19,14 …καὶ τοῦ παραδείσου διέπεσον…; e supra, nota al v. 102. 292 Ἀλλὰ, πάτερ, δάμασον δεινὸν χόλον… La locuzione in oggetto funge da formula di chiusura della sezione, ricalcando la costruzione di v. 134, per cui si rimanda a supra, nota ad loc. 292-296 L'io loquens chiede al padre di mostrargli la stessa benevolenza che egli si aspetterebbe di ricevere da Cristo (…χατέεις δὲ καὶ αὐτὸς ἐϋμενέοντος), e di comportarsi, nei confronti dei suoi figli che sono ancora sventati (τοῖος σοῖς πέλοις, πάτερ, τεκέεσσι … ἀφραδέουσιν), nello stesso modo in cui egli spera di trovare Dio nelle sue afflizioni (οἷον ἂν ἀρήσαιο Θεὸν σέο πήμασιν εὑρεῖν), nel caso una funesta pena si abbattesse su di lui (εἴ ποτέ σοι βαρύμηνις ἀπαντήσειεν ἀνίη). La sezione si riveste dei contorni di una preghiera/supplica anche per i verbi coniugati all'ottativo con valore desiderativo (πέλοις, ἀρήσαιο ἀπαντέσειεν). 293 Per Cristo εὐμενής si veda supra, nota al v. 117, ma anche carm. I,1,2 v. 83 …σοί γ’ εὐμενέων, μορφώσατο ἄφθιτος Υἱός; II,1,1 v. 338 …Θεὸς τείρων τε καὶ εὐμενέων…; II,1,73 vv. 5-6. Così come Cristo è εὐμενής, anche Vitaliano deve mostrarsi tale nei confronti dei suoi figli, sulla base del parallelismo Padre celeste-padre terreno istituito nei versi iniziali del carme; ma si veda anche la chiusa del componimento siglato dall’espressione …πατρὸς …εὐμενέοντος (cfr. v. 352). 294 τεκέεσσι … ἀφραδέουσιν La connotazione dei figli come "sventati" potrebbe riflettere Hom. Od. 294 αἰεὶ γάρ τε νεώτεροι ἀφραδέουσιν. La concezione dell'insensatezza giovanile è ripresa, da Gregorio, anche in carm. II,1,13 v. 167 nell'espessione …οὐκ αφραδέος νεότητος. — Per le altre attestazioni poetiche delle varie forme del verbo ἀφραδέω, soprattutto nella poesia del Cappadoce, si rimanda a Moroni, p. 155 nota a II,2,4 v. 156. Cfr., anche, infra, v. 330, dove l'io loquens afferma di non essersi comportato, insieme al fratello, come gli ἀφραδέοντες. Si noti, infine, l'allitterazione della dentale in τοῖος … τεκέεσσι e della labiale in πέλοις πάτερ. 303 296 … σοι βαρύμηνις ἀπαντήσειεν ἀνίη La possibilità che una qualche afflizione si abbatta sull'uomo è espressa, con la stessa terminologia del verso in oggetto, anche in carm. II,1,13 v. 140. L'aggettivo βαρύμηνις, che richiama la μῆνις di cui è afflitto Vitaliano, sembra un hapax nell'intera opera del Nostro. 297ss. Conciliare padri e figli: analisi del rapporto parentale. L’io loquens abbassa le pretese del padre attraverso la constatazione che i rapporti conflittuali tra genitori e figli appartengono al vivere comune; pertanto il dissidio che caratterizza la sua famiglia non costituisce un’eccezione (vv. 297-300). La naturale pietas paterna fa si che i genitori siano clementi nei confronti dei comportamenti sbagliati dei figli (vv. 299-300). Nell'annuncio della venuta di Giovanni Battista, tra i suoi compiti, si legge: ἐπιστρέψαι καρδίας πατέρων ἐπὶ τέκνα… (Lc. 1,17), a cui potrebbe fare da pendant la prescrizione paolina sulla condotta domestica di Eph. 6,1-4: Τὰ τέκνα, ὑπακούετε τοῖς γονεῦσιν ὑμῶν ἐν κυρίῳ, τοῦτο γάρ ἐστιν δίκαιον. τίμα τὸν πατέρα σου καὶ τὴν μητέρα, ἥτις ἐστὶν ἐντολὴ πρώτη ἐν ἐπαγγελίᾳ, ἵνα εὖ σοι γένηται καὶ ἔσῃ μακροχρόνιος ἐπὶ τῆς γῆς. Καὶ οἱ πατέρες, μὴ παροργίζετε τὰ τέκνα ὑμῶν, ἀλλὰ ἐκτρέφετε αὐτὰ ἐν παιδείᾳ καὶ νουθεσίᾳ κυρίου. L'equilibrio nei rapporti parentali, fondato sulla corrispondenza dell'amore e del rispetto, si esplica anche in carm. II,2,5 vv. 79ss., nella pietas che il figlio deve mostrare nei confronti del genitore, assistendolo nella vecchiaia: εἴ γε φύσις τεκέεσσι πόθον πόρσυνε τεκήων, / καὶ τὸ φύσις φιλέειν τοὺς οὐ φιλέοντας ἔρυξε. / Κρεῖσσον ἀτασθαλέοντα φέρειν πατέρ᾽ … (vv. 79-81): cfr. Moroni, pp. 219ss. 297-303 L'argomentazione espressa qui istituisce un collegamento con un tratto caratteristico delle declamationes retoriche connesse all'istituto giuridico dell'ἀποκήρυξις, come ha notato Regali, Declamazioni, p. 530 e note 14 e 16, segnalando, nei versi in oggetto, «l'affermazione da parte dei figli di non aver commesso colpe realmente gravi e il successivo elenco dei comportamenti veramente meritevoli di ripudio, come lo sperpero dei propri averi al gioco, gli amori illeciti, le percosse ai genitori», menzionati nelle opere di Luciano e Libanio, che sono riconducibili alla negligenza nella cura del padre (Luc. Abdic. 21. 22; Lib. 304 decl. 46,24); alla condotta di vita malvagia e immorale, oppure all'alcolismo (Lib. decl. 27,10); all'eccessiva dedizione al gioco dei dadi (Lib. decl. 27,10; 33,97; 34,30; 46,22); all’esagerazione nel mangiare e bere (Lib. decl. 33,97; 34,30; 46,22); al furto domestico (Lib. decl. 46,22): …ταῦτα ἐπίδειξον καὶ μικρὰν ἡγοῦμαι δίκην τὴν ἀποκήρυξιν (parole di un filius ἀποκηρυττόμενος, in Lib. decl. 46,3): cfr. Wurm, p. 40. Ma già lo Ps.-Plutarco lib. educ. 12 B, annoverava tali comportamenti degeneri tra le colpe della prima giovinezza, la cui impulsività i genitori devono tenere imbrigliata e sotto controllo: τὰ δὲ τῶν ἤδη νεανισκευομένων ἀδικήματα πολλάκις ὑπερφυᾶ γίνεται καὶ σχέτλια, ἀμετρία γαστρὸς καὶ κλοπαὶ πατρῴων χρημάτων καὶ κύβοι καὶ κῶμοι καὶ πότοι καὶ παρθένων ἔρωτες καὶ γυναικῶν οἰκοφθορίαι γαμετῶν. — In realtà, nei versi successivi l'io loquens afferma che simili sregolatezze giovanili, pur suscitandone l'ira, possono essere facilmente perdonate dai padri; mentre ai vv. 327ss. l'elenco di misfatti che ricalcano alcuni di quelli compiuti da Assalonne ai danni del padre David e di cui l'io loquens precisa di non essersi macchiato, possono ragionevolmente giustificare l'ira paterna, ταῦτα γὰρ εἴ τι χόλοιο φέρει, πάτερ, οὐ νεμεσητόν (v. 332). 298 παῖδες … ἀπειθέες Onta per i genitori è avere figli degeneri, come si legge in Sir. 22,3 αἰσχύνη πατρὸς ἐν γεννήσει ἀπαιδεύτου, θυγάτηρ δὲ ἐπ’ ἐλαττώσει γίνεται; pertanto la ribellione dei figli viene punita duramente, secondo le prescrizioni di Deut. 21,18-21 Ἐὰν δέ τινι ᾖ υἱὸς ἀπειθὴς καὶ ἐρεθιστὴς οὐχ ὑπακούων φωνὴν πατρὸς καὶ φωνὴν μητρὸς καὶ παιδεύσωσιν αὐτὸν καὶ μὴ εἰσακούῃ αὐτῶν, καὶ συλλαβόντες αὐτὸν ὁ πατὴρ αὐτοῦ καὶ ἡ μήτηρ αὐτοῦ καὶ ἐξάξουσιν αὐτὸν ἐπὶ τὴν γερουσίαν τῆς πόλεως αὐτοῦ καὶ ἐπὶ τὴν πύλην τοῦ τόπου αὐτοῦ καὶ ἐροῦσιν τοῖς ἀνδράσιν τῆς πόλεως αὐτῶν Ὁ υἱὸς ἡμῶν οὗτος ἀπειθεῖ καὶ ἐρεθίζει, οὐχ ὑπακούει τῆς φωνῆς ἡμῶν, συμβολοκοπῶν οἰνοφλυγεῖ· καὶ λιθοβολήσουσιν αὐτὸν οἱ ἄνδρες τῆς πόλεως αὐτοῦ ἐν λίθοις, καὶ ἀποθανεῖται· καὶ ἐξαρεῖς τὸν πονηρὸν ἐξ ὑμῶν αὐτῶν, καὶ οἱ ἐπίλοιποι ἀκούσαντες φοβηθήσονται (si noti la iunctura υἱὸς ἀπειθὴς; il fondamento rimane il rispetto che i figli devono tributare ai genitori, per cui cfr. Pr. 19,26; 23,22; 30,17). Un'analisi del rapporto padre-figlio, soprattutto alla luce dell'educazione che il genitore deve impartire, è puntualmente delineata, ancora, in Sir. 30,1ss., dove si prescrive al πατήρ di educare con durezza la prole sin dalla più tenera età, 305 per evitare l'insorgere dell'insolenza: μὴ δῷς αὐτῷ ἐξουσίαν ἐν νεότητι· θλάσον τὰς πλευρὰς αὐτοῦ, ὡς ἔστιν νήπιος, μήποτε σκληρυνθεὶς ἀπειθήσῃ σοι. παίδευσον τὸν υἱόν σου καὶ ἔργασαι ἐν αὐτῷ, ἵνα μὴ ἐν τῇ ἀσχημοσύνῃ αὐτοῦ προσκόψῃς (11-13). — La stessa iunctura del passo in oggetto si riscontra a proposito della descrizione degli opposti mores degli Ateniesi e dei Romani riportata da D. H. 20,13,3: se i primi consideravano res privata ciò che accadeva dentro le mura delle loro case, diversamente, i Romani aprivano al censore le porte delle loro alcove, affinché controllasse che i padroni non fossero troppo crudeli con gli schiavi, i padri troppo permissivi nell’educazione dei figli, i mariti molto severi con le mogli, i figli disobbedienti nei confronti dei loro genitori: …Ῥωμαῖοι δὲ πᾶσαν ἀναπετάσαντες οἰκίαν καὶ μέχρι τοῦ δωματίου τὴν ἀρχὴν τῶν τιμητῶν προαγαγόντες ἁπάντων ἐποίησαν ἐπίσκοπον καὶ φύλακα τῶν ἐν αὐταῖς γινομένων, οὔτε δεσπότην οἰόμενοι δεῖν ὠμὸν εἶναι περὶ τὰς τιμωρίας οἰκετῶν οὔτε πατέρα πικρὸν ἢ μαλθακὸν πέρα τοῦ μετρίου περὶ τέκνων ἀγωγὰς οὔτε ἄνδρα περὶ κοινωνίαν γαμετῆς γυναικὸς ἄδικον οὔτε παῖδας γηραιῶν ἀπειθεῖς πατέρων… . In ambito cristiano, al Logos di Dio è attribuito il potere di far riconciliare i figli ribelli col Padre: cfr. Clem. Alex. protr. 1,6,2, Τί δὴ οὖν τὸ ὄργανον, ὁ τοῦ θεοῦ λόγος, ὁ κύριος, καὶ τὸ ᾆσμα τὸ καινὸν βούλεται; … υἱοὺς ἀπειθεῖς διαλλάξαι πατρί… . Ma i figli di Vitaliano, seppur ἀπειθέες, non sono certo τοὺς υἱοὺς τῆς ἀπειθείας sui quali si abbatterà l'ira di Dio, annunciata da Eph. 5,6 (cfr. anche 2,2). 300 παιδὸς ἀτασθαλέοντος Per le attestazioni verbo ἀτασθαλέω variante, presumibilmente metri causa, di ἀτασθάλλω quale conio del Cappadoce si rimanda a Moroni, p. 221 nota a carm. II,2,5 v. 81, dove è riferito al padre Nicobulo senior. 300-303 I comportamenti degeneri dei figli vengono annoverati quale espressione di ἀμετρία, quella mancanza di misura che è, in generale, un κακόν spesso aborrito dal Padre Cappadoce (cfr. supra, nota al v. 125). Essi si caratterizzano nell'eccessivo attaccamento al gioco (πεσσοῖσι), nella degenerazione nel bere (ὀλοοῖσι πότοισι), nella dedizione agli amori illeciti (αἰθομένοισιν ἔρωσιν), nel trattare il padre con parole ostili (ἀντιβίοις ἐπέεσσι) e nelle percosse al genitore (χέρας δ᾽ ἤειρεν). 300 πεσσοῖσι 306 Il termine πέσσος potrebbe qui rappresentare, metonimicamente, κύβος. L'eccessiva dedizione alla κυβεία è, infatti, annoverata tra i comportamenti degeneri dei figli che spingono i padri a ricorre alla pratica dell'ἀποκήρυξις in Lib. decl. 27,10 οὐδὲ κυβείᾳ προσέχω τὸν νοῦν; 34,30 οὐ γέγονας περὶ κύβους ἐκμανής; 46,24 κυβεύοντα. Molto ironicamente, in decl. 33,31-32 dove un padre avaro disereda il figlio che come premio per la vittoria ha chiesto una corona di ulivo, e non ingenti ricchezze, alla ipotetica obiezione del giovane di non aver sperperato le ricchezze paterne con i dadi e il cibo, il padre risponde che si sarebbe augurato invece che il figlio si fosse comportato così, giacché questi comportamenti non sono meritevoli dell'applicazione dell'ἀποκήρυξις: οὔ, φήσιν, οὔτε γὰρ κατακεκύβευκά τι τῶν σῶν οὔτε κατωψοφάγηκα. … εἰ γὰρ ὤφελες ταῦτα εἶναι τετολμηκώς, εἰ γὰρ ἡμμένος τῶν ἔνδον. οὐκ ἂν ἐδέησε τῆς νῦν ἀποκηρύξεως. — In diverso contesto, Gregorio impiega il gioco dei dadi in chiave metaforica per rappresentare la mutevolezza della vita e della sorte umana soggetta al caso, cfr. carm. I,2,1, vv. 503-504; I,2,2 v. 363; II,1,11 v. 1728; II,1,12 v. 396; II,1,14 v. 54; Jungck, p. 222; Sundermann, p. 153. 301-302 Da punire sono i figli che si abbandonano all'ubriachezza e agli illeciti amori che minano la stabilità della casa e del patrimonio (οἷς δόμον ἐξαλάπαξαν). Si noti l'accurata costruzione chiastica delle iuncturae del v. 301, ὀλοοῖσι πότοισι e αἰθομένοισιν ἔρωσιν. — Per la condanna dell'ubriachezza e della frequentazione di prostitute (in tale accezione potrebbe essere intesa, in particolare, l'espressione …ἀιθομένοισιν ἔρωσιν, / οἷς δόμον ἐξαλάπαξαν), quali comportamenti giovanili degeneri, cfr. Lib. decl. 27,10 οὐδὲ πορνοκόπος εἰμὶ; decl. 34,30 οὐ περὶ μέθην ἠσχόλησαι, οὐ πρὸς ἑταίρας βλέπεις. ἀγαπᾷς τῶν αισχρῶν οὐδὲ ἕν; 46,24 πόρνην ἔχοντα; ἀλλ᾽ εἰς σαυτόν τι πεπαρῴνηκα, e 42 οὐχ ὁρᾷς τοὺς μὲν οἴνῳ, τοὺς δὲ ἑταίρας προσκειμένους; Luc. Abid. 21 τίνας πότους ἀκαίρους … τίς πορνοβοσκὸς ὕβρισται. — Il disprezzo per il bere smodato è anche in carm. II,2,6 vv. 65-67, dove Gregorio sconsiglia ad Olimpiade di organizzare conviti in casa durante i quali si beve a volontà: cfr. la nota ad loc. di Bacci, pp. 109-110 e M. Bettini, Affari di famiglia: la parentela nella letteratura e nella cultura antica, Bologna 2009, pp. 229-258. Cfr., ancora, l'apostrofe all'anima caratterizzata dall'esortazione a saziarsi di acqua 307 invece che di vino, Θέλεις πιεῖν; βρύει σοι / ὕδωρ, κρατὴρ ἀείρρους, / ποτὸν μέθης ἄποιον, / ἀκλήματον γάνυσμα (II,1,88 vv. 125-128). Per la condanna della πορνεία, modello e riferimento di etica cristiana risulta 1Cor. 12ss. 302-303 Rivolgersi al padre con parole ostili è un comportamento riprovevole, come pure alzare su di lui le mani. L'impudenza, verbale e fisica, di un figlio nei confronti del padre è vista, ancora, come presupposto dell'ἀποκήρυξις in Lib. decl. 46,24 κακῶς εἶπων; … πληγὰς ἠπείλησα; 46,42 τοὺ δὲ τοῖς ἀπαντῶσι πληγὰς ἐντείνοντας. — Lo scontro verbale tra figlio e padre può anche degenerare nelle percosse, come si evince dalle battute finali delle Nuvole di Aristofane (vv. 1321ss.), dove il padre Strepsiade viene picchiato, dopo un contrasto verbale, dal figlio Fidippide, che giustificherà la legittimità del suo irrispettoso gesto grazie all'educazione socratica ricevuta, capace di sovvertire le più comuni regole del vivere civile. — Il rispettoso comportamento che i figli devono tenere nei confronti dei genitori è raccomandato nella Scrittura, per cui si veda Lv. 20,9; Dt. 27,16; Sir. 3,14; ma anche nell'etica classica, cfr. Eur. frr. 852. 949 Nauck; Men. fr. 805 Kock. Parallelamente, Gregorio loda la μακροθυμία di un padre che accoglie con mitezza le audaci parole di un figlio, cfr. carm. II,1,19 vv. 4-5, cit. infra, nota ai vv. 307ss. 303 ἀντιβίοις ἐπέεσσι Iunctura di matrice omerica anche nella posizione in cui è collocata, cfr. Il. 1,304; 2,378; Od. 18.415; 20,323. Si veda anche supra, v. 64 αἵματος ἀντιβίοιο e carm. II,1,1 v. 550 μή με λίπῃς χείρεσσιν ὑπ’ ἀντιβίῃσι δαμῆναι (cfr. Bénin, p. 785). χέρας δ᾽ ἤειρεν Ἐρινύς Il riferimento all’ Erinni, presente anche supra ai vv. 13 e 228, ricorre anche in Lib. decl. 47,59, declamatio di un filius ἀποκηρυττόμενος: τίς Ἐριννὺς ἄρα συνεφήψατο σοι τῶν γάμον e 48,20 τὴν Ἐριννὺν τῆς οἰκίας (passo segnalato da Regali, Declamazioni, p. 531 e nota 20). — Per la costruzione di χείρ con ἀείρω, in questo luogo da intendere nell'accezione di "alzare le mani contro qualcuno, ovvero percuotere", cfr. supra, nota al v. 101; lo stesso anche infra, v. 317. 304ss. Il mite atteggiamento dei genitori nei confronti dei figli si motiva grazie al vincolo d'amore col quale la natura li ha congiunti. Essi sono, dunque, in grado di 308 sopportare i gravosi fastidi provocati dall'impudente comportamento della prole, grazie al naturale affetto che nutrono verso la loro progenie. In termini simili Gregorio si esprime, per bocca di Nicobulo junior in carm. II,2,4 vv. 12-14, parlando di un πόθου νόμος: φίλτρῳ γὰρ συνέδησε φύσις τοκέας τε γόνους τε, / μησαμένη τοκέων τόδε φάρμακον, ὥς κε βαρείας / κουφοτάτοισι πόθοισιν ἐλαφρίζωσιν ἀνίας (cfr. la nota di Moroni, p. 97). Tale innato comportamento, molto evidente anche nel mondo animale dove le madri lottano fino alla morte pur di difendere i loro piccoli, è definito dal Cappadoce, poco oltre, οἶστρος γὰρ τόδ᾽ ἔπεισεν ἀδιδάκτοισι νόμοισι (cfr. v. 22 e Moroni, p. 101). Cfr. anche supra, nota ai vv. 127-136. 304-306 Esistenza di una superiore legge di necessità (γραπτῶν γὰρ βασίλεια νόμων ἀδίδακτος ἀνάγκη) che fa smaltire l'ira del padre nei confronti dei figli (…καὶ τοῖσι πάτερ χόλον ἐσθλὸς ἔπεψε e …καὶ τοκέεσσι ἐφ᾽ υἱάσι θυμὸν ἰαίνει). Il dissidio padrefiglio è condannato, in modo non dissimile, anche da Ambr. exam. 4,4,10 tu, o homo, docuisti abdicationes patruum in filios, separationes odio offensas, disce quae sit parentis e filii necessitudo (passo segnalato da Regali, Datazione, p. 532). Alla base di questa concezione sta l'amore naturale e reciproco che sussiste tra padri e figli, cfr. I,2,2 vv. 241ss.: Εἰ μέν σοί γε πατὴρ ζώει φίλος, ὅς σε φάωσδε / ἤγαγεν, ἢ μήτηρ γλυκερή, καὶ φίλτρον ἀμεμφὲς (cfr. Zehles-Zamora, p. 124). 304 ἀλλ᾽ ἔμπης Per questo nesso formulare di larghissimo impiego in poesia, cfr. Sundermann, p. 112. χόλον…ἔπεψε La costruzione in oggetto muove i passi da Hom. Il. 4,513 …χόλον θυμαλγέα πέσσειν; 9,565 …χόλον θυμαλγέα πέσσων, sebbene nella fonte il verbo πέσσω sia da intendersi nel senso di "to brood over", mentre qui l'accezione sarebbe quella di "to ripen": cfr. LSJ s.v.. Si veda anche infra, v. 320 a proposito del mite atteggiamento di Davide nei confronti del figlio Assalonne. 305 βασίλεια …ἀδίδακτος ἀνάγκη Il rapporto padre-figlio è descritto in termini di necessità: una forza imperiosa, superiore alle leggi scritte, regola i naturali rapporti parentali. L'idea dell’ἀνάγκη ritorna in simili contesti familiari, con una leggera sfumatura negativa che appare 309 estranea al passo in oggetto: dopo la morte del fratello Cesario, per esempio, Gregorio si sente "costretto" ad assistere il padre nella gestione delle faccende legate all'eredità del fratello, ὅμως δ’ ἀνάγκη πάντα τῷ καλῷ πατρὶ / συνδιαφέρειν,… (carm. II,1,11 vv. 378-379); oppure, a proposito del generare e allevare figli, in tono fortemente polemico Nicobulo junior "rinfaccia" al padre di averlo generato contro la sua volontà e, di conseguenza, di essere stato costretto ad allevarlo, Οὐκ ἐθέλοντα τέκες με, τεκὼν δ’ ἔθρεψας ἀνάγκῃ (II,2,4 v. 40). In realtà il νόμος ἀναγκαῖος si giustifica non solo col naturale amore che lega insieme genitori e figli, ma anche con le norme divine stabilite da Dio e regolate dal Logos (cfr. II,2,4 vv. 12ss. e II,2,5 vv. 25ss., cit. supra, nota ai vv. 304ss.). — Per la iunctura clausolare ἀδίδακτος ἀνάγκη si veda anche Opp. An. hal. 4,38. Cfr., infine, W. Grundmann, ἀναγκάζω, ἀναγκαῖος, ἀνάγκη, in GLNT I, coll. 931-938. γραπτῶν νόμων La iunctura richiama a livello concettuale, sebbene la forma sia opposta, la tesi espressa da Antigone sulla necessità di tributare gli onori funebri al fratello Polinice: l'amore fraterno che spinge l'eroina a contravvenire ai βασιλεῖοι νόμοι del re Creonte (cfr. Soph. Ant. 382) si fonda sul rispetto delle leggi non scritte e immutabili degli dèi, …ὥστ᾽ ἄγραπτα κἀσφαλῆ θεῶν / νόμιμα… (454-455, la replica di Antigone verte anche sull'opposizione terminologica tra i κηρύγματα emanati dallo zio e i νόμοι sacri). — La iunctura in oggetto, nei diversi contesti, viene altrove usata dal Cappadoce per indicare l'antica Legge ebraica, cfr. carm. I,2,1 v. 133 καὶ γραπτοῖο νόμοιο διδάγμασιν...; I,2,14 v. 89 αὐτὰρ ἔπειτα νόμος, γραπτὸν ἄκος,…; or. 40,6; 45,13; cfr. Domiter, pp. 188-189. 306 …θυμὸν ἰαίνει La costruzione in oggetto, che fa da pendant a quella clausolare di v. 304, χόλον…ἔπεψε, è, ancora, mutuata da Omero, cfr. Il. 24,321. 147; Od. 15,379; e usata anche da altri autori spesso in posizione clausolare, cfr. Theogn. 1,1122; Apoll. Rh. 2,306; 4,24; Theocr. 7,29; ripresa da Opp. Ap. Cyn. 1,357; Quint. Smyrn. 4,114. 299; 7,692; Anth. Pal. 6,332,9; nonché Greg. Naz. carm. I,2,1 v. 271; II,1,1 v. 69; II,1,10 v. 13; etc.; cfr. Sundermann, p. 59; Bacci, p. 87. 307ss. 310 In Eph. 6,4 si legge l'invito ai genitori alla mitezza e alla benevolenza verso i figli: Καὶ οἱ πατέρες, μὴ παροργίζετε τὰ τέκνα ὑμῶν, ἀλλὰ ἐκτρέφετε αὐτὰ ἐν παιδείᾳ καὶ νουθεσίᾳ κυρίου (eredità veterotestamentaria di Ps. 103,13). La pazienza di un padre nei confronti delle sfrontatezze verbali del figlio è ben rappresentata anche nelle parole di Nicobulo senior in carm. II,2,5, dove l'autore ricorre all'immagine metaforica della mano protesa, in senso di conciliazione, κρεῖσσον… / …θνητοῖσι δὲ πατρὸς μόνον ἐς χέρα λεύσσειν (vv. 81-82) e ἤδη δ᾽ αὖ μύθοισι τεὸν δειδίξομ᾽ ἔρωτα, πατρὸς ἐνηείῃ παιδὸς θράσος ἠέρι πάσσων (vv. 114-115); così come in II,1,19 vv. 4-5 ὡς δὲ πατὴρ ἀγαθὸς καὶ ἄφρονος υἷος ἑοῖο / πολλάκις ἀμφαδίων ἐπέων θράσος ἠχ᾽ ὑπέδεκτο; cfr. Moroni, p. 234; Simelidis, p. 176. 307-308 La concreta manifestazione della pazienza paterna si realizza in un comportamento moderato e non troppo severo nei confronti delle colpe dei figli, che possono essere facilmente perdonate. Si noti l'accurata costruzione dei versi che manifestano questo concetto, caratterizzata dalla figura etimologica (λεύσσουσιν … ἄλευστα), dalla corrispondenza di πολλὰ μὲν e πολλὰ δ(έ) in incipit di verso, nonché dall'articolazione chiastica delle espressioni-chiave, λεύσσουσιν … ἄλευστα e ἀνηκούστησαν ἐν οὔασιν ἔχοντες. Nei capitoli conclusivi di Ps.-Plut. lib. educ. si rileva la stessa concezione del passo in oggetto: qui l’autore, non approvando l'eccessiva rigidità e intransigenza dei padri consiglia al genitore di far finta di ignorare alcune mancanze dei figli, avvalendosi di quei difetti di vista e di udito tipici della vecchiaia: καλὸν δὲ καὶ ἔνια τῶν ἁμαρτημάτων μηδ’ εἰδέναι δοκεῖν, ἀλλὰ τὸ τοῦ γήρως ἀμβλυῶττον καὶ δύσκωφον ἐπὶ τὰ γιγνόμενα μεταφέρειν, ὡς ἔνια τῶν πραττομένων ὁρῶντας μὴ ὁρᾶν καὶ μὴ ἀκούειν ἀκούοντας (13 E). 307 λεύσσουσιν… ἄλευστα Gregorio realizza una figura etimologica coniando un verbum novum, ἄλευστος, che sembra avere quest'unica attestazione, oltre alla menzione nel lessico esichiano (alpha 2908). Si veda, inoltre, il simile gioco di parole nel passo pseudo-plutarcheo citato nella nota precedente che si avvale del poliptoto, ὁρῶντας μὴ ὁρᾶν. 308 ἀνηκούστησαν ἐν οὔασιν Il verbo ἀνηκουστέω è usato solo in questo luogo dell'intera opera del Cappadoce. Pochissime le attestazioni poetiche, per cui cfr. Hom. Il. 15,236 e 16,676 dove è usato 311 per designare l'ubbidienza di Apollo ai comandi del padre Zeus, Ὣς ἔφατ’, οὐδ’ ἄρα πατρὸς ἀνηκούστησεν Ἀπόλλων; e, con accezione diametralmente opposta a quella omerica, in Aesch. Prom. vinct. 40 …ἀνηκουστεῖν δὲ τῶν πατρὸς λόγων; cfr. LSJ s.v. — Il nesso ἐν οὔασιν è collocato nella stessa posizione metrica del passo in oggetto, cioè dopo la cesura femminile, già in Apoll. Rh. 3,457; si veda anche supra, v. 212. 309-311 La sezione in oggetto si fonda sulla ridondanza e sull'insistenza terminologica che tradiscono la volontà di rendere più incisivo il discorso. L'apparente atteggiamento remissivo del genitore, che finge di trascurare le manchevolezze e gli errori dei figli, serve a non far scoppiare, attraverso la riprensione (ἔλεγχος), l'insolenza giovanile (θράσος αἰνὸν), affinché non si metta alla prova quel rispetto che è un buon alleato per i genitori (αἰδὼ τὴν τοκέων ἐσθλὴν ἐπίκουρον ἐλέγξας – si noti il gioco verbale costruito con la figura etimologica ἔλεγχος … ἐλέγξας, posti, entrambi, in posizione clausolare). La violenza dei genitori sui figli, infatti, genera sfrontatezza (τίκτει γὰρ θράσος ὕβρις), mentre la mitezza produce il rispetto (ἐνηείη φειδώ). 309 θράσος Gregorio richiama l'insolenza giovanile anche in carm. II,1,13, a proposito dell'efficacia del suo discorso rivolto ai vescovi, dove si augura che le sue parole non siano vanificate dall'insolenza dei giovani o da vane loquele simili al gracchiare delle cornacchie: Εἰ μὲν δὴ πεπίθοιμεν, ὀνησόμεθ’· εἰ δὲ καλύπτοι / μῦθον ἐμὸν πολιήν τε νέων θράσος, ἠὲ κολοιῶν / οὖλον ἐπικρώζοντες ἐμοὶ νέφος ἀφραδίῃσι (vv. 199-201). Così come in II,2,5, attraverso l'impiego di un Wortspiel, Nicobulo senior rimprovera il figlio di non pronunciare parole dettate dal θράσος, Τῷ, μή μοι τοίοισιν ἀμείβεσθαι γενετῆρα / θαρσαλέως· καὶ θάρσος ἔφυ θράσος, ἔκτοθι μέτρου (cfr. vv. 75-76 e la nota di Moroni, p. 219). 310 αἰδὼ Il rispetto da tributare ai genitori discende dal comandamento veterotestamentario "onora il padre e la madre" di Es. 20,12. Gregorio parla, inoltre, di un αἰδοῦς νόμον tra i princìpi che regolano i rapporti tra padri e figli (cfr. carm. II,2,5 vv. 16ss.): per tale tematica e per le diverse accezioni del termine αἰδώς si rimanda alla nota ad loc. di Moroni, p. 203, con i riferimenti ivi riportati che testimoniano la presenza di 312 tale concezione anche nell'etica classica; nonché R. Bultmann, αἰδώς, in GLNT I, coll. 453-462. Il vocabolo αἰδώς si trova connesso a θάρσος, in un diverso contesto, per descrivere la personalità del vescovo di Antiochia, caratterizzata da un coraggio misto a riservatezza, ...θάρσος αἰδοῖ σύγκρατον (II,1,11 v. 1516). 311 τίκτει γὰρ θράσος ὕβρις, ἐνηείη δέ τε φειδώ Il primo emistichio del verso in oggetto si configura come un adattamento di Theogn. 1,153 Τίκτει τοι κόρος ὕβριν… (= Solon fr. 6,3 West). Un'ulteriore consonanza terminologica è con Eur. fr. 438,1 ὕβριν τε τίκτει πλοῦτος ἢ φειδὼ βίου; nonché con Greg. Naz. carm. I,2,25 vv. 192-193 φειδοῖ προσήγονθ’ ὡς τὸ Φαραὼ θράσος, / ἕως ἐπεκλύσθησαν ἐκ τῆς ὕβρεως (cfr. Oberhaus, p. 110); Wyss, Gregor II, p. 843. θράσος… ἐνηείη Questi due termini figurano connessi anche nelle parole di Nicobulo senior che, dando prova della sua benevolenza, si dichiara disposto ad esaudire il desiderio del figlio di conseguire un'educazione letteraria: Ἤδη δ’ αὖ μύθοισι τεὸν δειδίξομ’ ἔρωτα. / πατρὸς ἐνηείῃ παιδὸς θράσος ἠέρι πάσσων. (vv. 114-115, passo cit. anche supra, nota ai vv. 307ss.). φειδώ Per il rispetto da tributare ai genitori si veda anche Lib. decl. 42,32, …ἀλλ’ αὐτὸ τὸ πρὸς τοσαύτην ἰσχὺν ἀντᾶραι φειδοῖ τοῦ παιδὸς τὸν πατέρα τοῦ παιδὸς ἐπὶ τὴν πρᾶξιν παρεκάλει; nonché supra, nota al v. 310 e Greg. Naz. carm. II,1,11 v. 509 ὁ δοὺς ἔχει σε· τέκνον, μὴ μ᾽ ἀτιμάσῃς (parole di Gregorio il Vecchio al figlio). 312-313 Le percosse nell’educazione dei figli non sono affatto formative. Una simile concezione ritorna in Ps.-Plut. lib. educ. 8 F- 9 Α, dove si biasima la durezza dei metodi educativi che ricorrono alla forza, ai quali si prescrive di sostituire e alternare, alla stregua di Plat. Leg. 5, 730 B, elogi e rimproveri: Κἀκεῖνό φημι, δεῖν τοὺς παῖδας ἐπὶ τὰ καλὰ τῶν ἐπιτηδευμάτων ἄγειν παραινέσεσι καὶ λόγοις, μὴ μὰ Δία πληγαῖς μηδ’ αἰκισμοῖς. δοκεῖ γάρ που ταῦτα τοῖς δούλοις μᾶλλον ἢ τοῖς ἐλευθέροις πρέπειν· ἀποναρκῶσι γὰρ καὶ φρίττουσι πρὸς τοὺς πόνους, τὰ μὲν διὰ τὰς ἀλγηδόνας τῶν πληγῶν, τὰ δὲ καὶ διὰ τὰς ὕβρεις. ἔπαινοι δὲ καὶ ψόγοι πάσης εἰσὶν αἰκίας ὠφελιμώτεροι τοῖς ἐλευθέροις, οἱ μὲν ἐπὶ τὰ καλὰ παρορμῶντες 313 οἱ δ’ ἀπὸ τῶν αἰσχρῶν ἀνείργοντες. Sul valore diseducativo delle percosse si veda anche Quint. Inst. or. I,3,14-16. — Lo Ps.-Plutarco, inoltre, alla luce del naturale interesse che i padri hanno per la buona reputazione dei figli (tale concezione è presente anche nel nostro testo nell’espressione ἐπεὶ κλέος ἐγγὺς ἔχοντες), già dall'incipit dell'operetta, raccomanda ai padri di scegliere con cura la futura madre dei loro figli, affinché le eventuali macchie dei genitori non intorbidiscano, come accade, anche la fama della prole: τοῖς τοίνυν ἐπιθυμοῦσιν ἐνδόξων τέκνων γενέσθαι πατράσιν ὑποθείμην ἂν ἔγωγε μὴ ταῖς τυχούσαις γυναιξὶ συνοικεῖν, … τοῖς γὰρ μητρόθεν ἢ πατρόθεν οὐκ εὖ γεγονόσιν ἀνεξάλειπτα παρακολουθεῖ τὰ τῆς δυσγενείας ὀνείδη παρὰ πάντα τὸν βίον καὶ πρόχειρα τοῖς ἐλέγχειν καὶ λοιδορεῖσθαι βουλομένοις (1 A-B). 312 ἐγγὺς ἔχοντες L'accostamento di una forma del verbo ἔχω con l'avverbio ἐγγύς ha, qui, un valore traslato, ed è usata anche in carm. I,2,2 v. 644 (stessa posizione clausolare del passo in oggetto, cfr. Zehles-Zamora, p. 267); II,1,12 v. 121; Anth. Pal. 8,14,4; Nonn. Dion. 35,69. 313 χερὸς… βίῃ I termini χείρ e βία, nei diversi contesti, formano già dalla poesia omerica un dittico, cfr. Il. 3,431. 12,135; Od. 12,246; 21,315; poi Hes. Op. 148; Th. 490. 321; Pind. N. 5,19; Bacchyl. E. 11,91; Eur. Hec. 225-226; IA 315; Med. 335; Apoll. Rh. 1,505; etc. L’accostamento è ripreso anche da Gregorio soprattutto in relazione all'immagine del ramo piegato, per cui si veda carm. II,1,34A v. 121 e la nota di Piottante, pp. 103104, che segnala gli altri passi dell'opera del Cappadoce in cui ricorre tale iunctura. πειθοῦς… δεσμοῖς L'accostamento di πείθω con δεσμός sembra peculiare del Cappadoce, così come πείθω si trova in iunctura con βία in carm. II,1,12 v. 120 a proposito dell'operato pastorale del vescovo a favore dell'ortodossia, durante il periodo constantinopolitano, κέκλημ’, ἔπηξα λαὸν ἐν μέσῳ λύκων, / ποίμνην ἄνυδρον τοῖς λόγοις ἐπήγασα, / ἔσπειρα πίστιν τῷ θεῷ ῥιζουμένην, / τριάδ’ ἔλαμψα τοῖς πρὶν ἐσκοτισμένοις, / ὀπός τις ἤμην ἐν γάλακτι, φάρμακον / πειθοῦς βιαίας. τοὺς μὲν ἤδη δεσμίους, / τοὺς δ’ ἐγγὺς εἶχον,… (vv. 115-121, si noti la stessa terminologia del passo in oggetto, cfr. Meier, p. 89); e in or. 2,15, in chiave oppositiva, per descrivere 314 il modus agendi di un buon δεσπότης che, per attirare i più verso la giustizia, non si avvale della violenza, ma della persuasione, …εἴπερ μέλλοι τῷ περιόντι τῆς ἀρετῆς ἕλξειν τοὺς πολλοὺς εἰς τὸ μέτριον, καὶ μὴ βίᾳ κατάρξειν, ἀλλὰ πειθοῖ προσάξεσθαι. Cfr. anche R. Bultmann, πείθω…, in GLNT IX, coll 1351-1382. 314 L'accostamento metaforico dell'ira del genitore ad una fiamma che divampa è anche in Ps.-Plut. lib. educ. 13 E: lo scatto d'ira provocato dagli errori dei figli deve essere presto placato e non covato a lungo dentro l'animo del genitore, che così prova un rancore molesto che non si concilia affatto con l'amore filiale: …καὶ μάλιστα μὲν εὐκόλως φέρειν τὰς ἁμαρτίας, εἰ δὲ μή γε, πρὸς καιρὸν ὀργισθέντας ταχέως ἀποφλεγμῆναι. μᾶλλον γὰρ ὀξύθυμον εἶναι δεῖ τὸν πατέρα ἢ βαρύθυμον, ὡς τό γε δυσμενὲς καὶ δυσκατάλλακτον μισοτεκνίας οὐ μικρὸν τεκμήριόν ἐστι. La rappresentazione dell'ira con una fiamma ardente affonda le radici nella Scrittura, soprattutto nella manifestazione della collera divina di Is. 66,15: Ἰδοὺ γὰρ κύριος ὡς πῦρ ἥξει καὶ ὡς καταιγὶς τὰ ἅρματα αὐτοῦ ἀποδοῦναι ἐν θυμῷ ἐκδίκησιν καὶ ἀποσκορακισμὸν ἐν φλογὶ πυρός; e ibid. 30,30: καὶ ἀκουστὴν ποιήσει ὁ θεὸς τὴν δόξαν τῆς φωνῆς αὐτοῦ καὶ τὸν θυμὸν τοῦ βραχίονος αὐτοῦ δείξει μετὰ θυμοῦ καὶ ὀργῆς καὶ φλογὸς κατεσθιούσης; 13,8 etc.; Ez. 22,31 etc.; Ps. 88,47; Ger. 4,4; Dt., 32,22; Sir. 36,8; Ps. Sal. 15,4. Tale metafora è utilizzata da Gregorio a più riprese nel carme che dedicò alla condanna di questo vitium, cfr. I,2,25 vv. 17-21. 55. 246. 412 e la nota di Oberhaus, pp. 49ss.; ma anche in II,1,1 v. 238 πυρόεντι χόλῳ; or. 4,88. Cfr., infine, Lib. decl. 47,52, ὡς οὐκ ὀρθῶς καὶ ψυχὴν ἕτοιμον εἰς ὀργὴν παροξύνειν καὶ πῦρ ἐπάγειν πυρί; nonché F. Lang, πῦρ…, in GLNT XI, coll. 821-876. 314 φλὸξ καλάμης L'immagine del fuoco che si propaga facilmente nella stoppia e presto si estingue ritorna in diversi luoghi dell'opera del Cappadoce che attinge all'ampia tradizione sia classica che biblica, per cui si rimanda ai passi riportati da Zehles-Ζamora, p. 63; Moroni, p. 166 nota al v. 196, dove l'eccessivo πόθος del padre nei confronti del figlio è definito da Nicobulo junior più caratteristico della donna e pari ad un fuoco di paglia che velocemente si consuma: Εἰ δὲ σέ γ’ ἢ κτεάνων αἴροι πόθος, ἢ σέ γε παιδὸς / θηλύτερος, μαλακὸς, μητρώϊος ἐγγύθι πίπτων / - φλὸξ καλάμης ἀνιοῦσα, μαραινομένη τε τάχιστα (carm. II,2,4 vv. 194-196). 315 χόλος…λήγων Per una simile espressione si veda Greg. Naz. or. 15,12 τοῦ θυμοῦ λήξαντος; Lib. decl. 10,40 cit. infra, nota ai vv. 315-317; 48,12 cit. infra, nota al v. 332. 315ss. Continua l'esortazione alla mitezza di un padre nei confronti dei figli, che culmina nell'exemplum del re Davide dimostratosi pio anche verso Assalonne che gli si era rivoltato per impossessarsi del regno di Israele. La descrizione dell'atteggiamento di un padre mosso dall'ira fa da pendant a quella del comportamento del figlio disubbidiente sviluppata ai vv. 302-303: come un παῖς ἀτασθαλέων si rivolge al padre con parole ostili e solleva le mani contro di lui (ὁ δ᾽ ἤλυθε καὶ κατὰ πατρὸς / ἀντιβίοις ἐπέεσσι, χέρας δ᾽ ἤειρε Ἐριννύς), così un padre irato impreca contro il figlio e lo percuote (ἀρὴν ἐκπροέηκε… e ἄχθει χεῖρας ἄειρε…; cfr. anche v. 313 …χερὸς…βίῃ). Le minacce verbali e le percosse, insieme all'allontanamento dalla mensa paterna, sono elencati come ingiusta espressione di patria potestas da un figlio che, ferito dal padre che gli ha sedotto la moglie, afferma l'inesistenza di una legge antica che giustifichi tali comportamenti: οὐδεὶς τῶν παλαιῶν νόμων πατέρα πεποίηκε κύριον τῆς τῶν παίδων ψυχῆς, ἀλλὰ τύπτειν μὲν καὶ τραπέζης ἀπελαύνειν καὶ μὴ διαλέγεσθαι καὶ ῥήμασι χαλεποῖς ἀνιᾶν καὶ τὰ τοιαῦτα δέδοται τῷ πατρὶ… (Lib. decl. 39,23); così come discorsi duri e sfoghi d'ira sono stati tra i comportamenti del padre di Temistocle che ha ripudiato il figlio e che dopo la battaglia di Salamina chiede l'annullamento della pratica: Ναί φησιν, ἀλλ’ ἐξῆν ἄλλως ἐπανορθοῦν, ῥήμασι πικροῖς, λόγοις ἀνιαροῖς, ὀργῇ μεγάλῃ, θυμῷ πολλῷ… (decl. 9,29). 315-317 Sebbene l'ira paterna trovi sfogo nella licenza verbale e nelle percosse (θυμὸς γλῶσσαν ἔφλεξεν…; ἀρὴν ἐκπροέηκε…; ἄχθει χεῖρας ἄειρε…) la compassione, la ragione e la pena per l'atto compiuto intervengono per placare il risentimento e sanare il dissidio (…ὁ δ᾽ ἔσβεσεν οἶκτος ὑποφθάς; …νόος δ᾽ ἐφθέγξατο ἀρωγήν; …καὶ ἄλγεϊ). Si noti la simmetrica costruzione dei versi in oggetto per coppie oppositive segnate da B2. — L'idea dello sfogo verbale del padre contro il figlio reso mediante la metafora del fuoco, sembra richiamare carm. II,2,5 vv. 77-78 dove Nicobulo senior spera di non doversi mai rivolgere al figlio, Nicobulo junior, con parole dettate 316 dall'ira, Μὴ σοί τις καὶ τοῖος ἀπ᾽ οὔατος ἡμετέροιο, / τέκνον, θερμοτέροιο πατρὸς πάρα μῦθος ἵκηται (per questa interpretazione del passo si veda la nota di Moroni, pp. 219-220). Per la menzione congiunta dei due atteggiamenti (ira e pietas) si veda anche Lib. decl. 10,40 …καὶ τούτου δεομένη λῆξαι τοῦ θυμοῦ καὶ μὴ τυγχάνουσα οἴκτου καὶ τὴν ψυχὴν ἅμα δάκρυσιν ἀφιεῖσα,… . 315 θυμὸς γλῶσσαν ἔφλεξεν Un effetto dell'ira è l'assenza di freni nella lingua. Tale concezione presente è nella morale cristiana come si rileva in Or. exp. in Pr. (PG 17,216): Στόμα καὶ γλῶσσαν καὶ νοῦν, θυμὸν καὶ ἐπιθυμίαν ὃς φυλάσσει, διατηρεῖ ἐκ τῆς ἐν κρίσει θλίψεως τὴν ψυχὴν αὐτοῦ; Bas. hom. 10 (PG 31,356): Διὰ θυμὸν ἀχάλινοι γλῶσσαι, καὶ ἀπύλωτα στόματα. Nelle ricorrenti riflessioni gregoriane sulla necessità di misurare gli istinti e moderare gli eccessi i due elementa si trovano accostati: cfr. or. 2,77, …οἷον θυμὸν μετρῆσαι καὶ γλῶσσαν χαλινῶσαι…; 11,5 Ἐνέγκωμεν θυμὸν ὡς θηρίον, καὶ γλῶσσαν ὡς τομὸν ξίφος,…; carm. I,2,30 vv. 8-9 Θυμὸν χαλίνου, μὴ φρενῶν ἔξω πέσῃς. / Ἵστη μὲν ὄμμα, γλῶσσα δὲ στάθμην ἔχοι; II,1,1 vv. 284-285 γλώσσης τ’ ἀτρεμίη τε καὶ ὄμματος ἠδὲ χόλοιο / μαινομένοιο χαλινά… (cfr. Bénin, pp. 681-682); II,1,2 vv. 21-22: εἰ δὲ χόλῳ πλήθοντι πέσοι νόος, εἰ δ’ ἀχάλινος / γλῶσσα θέοι… . In II,1,45 alcune delle manifestazioni dell'ira si verificano proprio attraverso la γλῶσσα: Πολλὰ δ’ ἐπὶ γλώσσῃ κέαται κακὰ φάρμακ’ ὀλέθρου. / γλῶσσα γὰρ ἀνθρώποις ἥμισυ τῆς κακίης, / θυμὸν ἐρευγομένη, γυμνὸν κακὸν, ὅς τε μάλιστα / λάβρος ἐπιζείων, ἐκ νοὸς ἄνδρα φέρει, / ἣ δολερὸν κεύθουσα ἐνὶ στήθεσσι νόημα, / Λεῖα δ’ ἄρ’ ἐξ ἁπαλοῦ φθεγγομένη στόματος (vv. 45-50). Sul controllo della lingua si veda, infine, Gc. 1,27; Plut. de cohibenda ira 456 D: ὡς ἀγαθὸν μέν ἐστιν ἐν πυρετῷ κρεῖττον δ’ ἐν ὀργῇ τὴν γλῶτταν ἁπαλὴν ἔχειν καὶ λείαν; Ps.-Plut. lib. educ. 10 B (un buon giovane deve essere in grado si saper frenare la lingua e dominare l'ira). Cfr., infine, J. Behm, γλῶσσα, in GLNT II, coll. 543-563. οἶκτος La compassione, a livello umano, è definita da Gregorio il più dolce tra tutti i moti dell'animo, οἶκτος, ὅτις παθέων ἀγανώτατός ἐστιν ἁπάντων (carm. II,1,1 v. 270 e cfr. Bénin, p. 668). Essa, insieme alla χάρις è un prerogativa divina, cfr. II,1,1 v. 407 (cfr. Bénin, p. 734). 316 317 Per il termine ἀρωγή usato in contesto familiare si veda anche carm. I,2,2 vv. 243ss. Εἰ σὺ κασιγνήτοισιν ἐρείδεαι εὐμενέουσιν, / ἢ τοκέων τοκέεσσιν ἀρηγόσιν, ἢ καὶ ἀρωγῆς / δευομένοις… (si noti la figura etimologica ἀρηγόσιν … ἀρωγῆς). Esso figura, inoltre, solo nelle poesie del Cappadoce e sempre in posizione clausolare. 317 Percosse e riconciliazione. Per la costruzione di χείρ con una forma di ἀείρω nel senso di "percuotere" si veda supra, nota al v. 101. La coppia sinonimica e assonante ἄχθος - ἄλγος ricorre, con accezione diversa, anche in carm. II,1,50 v. 14. Il conciliante atteggiamento del genitore potrebbe richiamare quello del padre della Parabola del Figliol prodigo, ripresa supra, ai vv. 105ss., …αὐχένι χεῖρας πλήξατο, δάκρυα χεῦε,… (vv. 109-110). 318-324 La mitezza di un genitore raggiunge il massimo grado nella pietas nei confronti di un figlio ribelle, così come testimonia l'exemplum biblico di Davide che si mostrò mite con Assalonne che aveva congiurato contro di lui per conquistare il regno d'Israele (tale riferimento è classificato da Demoen, Exempla, p. 99 come un exemplum “ἀπὸ μείζονος προσώπου”). La vicenda biblica narrata in 2 Sam. 15-19, è brevemente richiamata dal Cappadoce anche in carm. I,2,25 vv. 210ss. Τί δεῖ λέγειν τὸν υἱὸν ὡς ἠνέσχετο, / τὸν πατροφόντην, καὶ τύραννον ἀπρεπῆ; / ὅπου γ’ ἐκεῖνον καὶ κλάει τεθνηκότα, / θρήνοις τε πολλοῖς ἀνακαλεῖται καὶ λόγοις, / τὸν μηνυτήν τε τοῦ πάθους ἀμύνεται, / ὥσπερ λαβών τιν’ ἐχθρὸν, οὐκ εὐάγγελον (cfr. la nota di Oberhaus, pp. 113-114). Lo stesso episodio biblico è, dunque, ricordato in due carmi accomunati dal tema dell'ira: I,2,25 che a questo vitium è interamente dedicato e II,2,3, dove si ripete più volte che il destinatario ne è afflitto. L'episodio biblico è richiamato anche in or. 22,1, dove viene sempre posto l'accento sulla pietas del re e sull'incondizionato amore paterno che la natura inspira nei genitori nei confronti della loro progenie, capace di vincere sull'odio, Ὁ δὲ (scil. Δαβὶδ) … ἀπολογεῖται ὡς οὐδὲν ἠδικηκότι τῷ πατροφόνῳ καὶ τῷ νεκρῷ σπένδεται· ἴσως καὶ κατὰ τοῦτο ὑπεραλγῶν τοῦ παιδὸς ὅτι κατὰ τοῦ πατρὸς ἀνετείνατο χεῖρας. Τοιοῦτο γὰρ καὶ ὁ πατήρ· ὃν ὡς ἐχθρὸν ἠμύνατο πολεμοῦντα, ὡς φίλον ποθεῖ τεθνηκότα· καὶ νικᾷ τὴν ἔχθραν ἡ φύσις, ἧς οὐδὲν βιαιότερον. 318 318 Per l'eccezionalità del re Davide (cfr. Ps. 132,1), appellato spesso da Gregorio come ὁ θεῖος, si veda anche or. 43,73 …Δαβὶδ ἐν βασιλεύσιν αοίδιμος, espressione simile in carm. I,2,1 v. 320 Δαβὶδ ἐν βασιλεῦσιν ἀοίδιμος ἦεν ἅπασι (cfr. Sundermann, p. 79). Per la figura di David come modello di regalità nella storiografia ecclesiastica tardoantica cfr. P. Pellegrini, David come modello per l'imperatore nella Tarda Antichità, Mediterraneo Antico 6, 2003, pp. 235-263. — Pare che l'aggettivo denominativo Ἀβραμίδης sia conio di Gregorio che lo usa anche in carm. I,1,18 v. 72 come attributo di Isacco, formato sulla scorta dei patronimici omerici in –ιδας/ιδης, per cui si veda P. Dardano, I patronimici in -ίδᾱς del greco antico tra conservazione e innovazione, Res Antiquae 8, 2011, pp. 41-62, in part. pp. 41-54 e nota 36. 319 Pietas di David nei confronti del figlio Assalonne che si era ribellato a lui per conquistare il potere: καὶ ἐνετείλατο ὁ βασιλεὺς τῷ Ιωαβ καὶ τῷ Αβεσσα καὶ τῷ Εθθι λέγων Φείσασθέ μοι τοῦ παιδαρίου τοῦ Αβεσσαλωμ (2Sam. 18,5). L'aggettivo ἤπιος ricorre frequentemente nel nostro carme nelle invocazioni alla mitezza che l'io loquens rivolge al padre, cfr. supra, vv. 163; 222. La mitezza del re nei confronti del figlio viene sottolineata anche nella trattazione prudenziana dell'episodio biblico: Gignimus omne malum proprio de corpore nostrum, / ut genuit Dauid, alias pater optimus, unum / crimen Abessalon. Taetrum pater ille sed unum / innocuas inter suboles genuit patricidam, / ausus in auctorem generis qui stringere ferrum / (a pietas!) signis contraria signa paternis / egit et unius commisit sanguinis arma (Prud. hamart. 562-573); cfr. Palla, Hamartigenia, p. 251ss. Nella breve omelia che Basilio di Cesarea dedica all'ira, invece, viene elogiata la mitezza di Davide nei confronti delle maledizioni di Sameì (2Sam. 16,5ss.), cfr. hom. 10 (PG 31,364); così come nella figura del re che sa sopportare l'umile mormorio del servo, che appare nell'incipit di carm. II,1,19, seguita da quella del padre che si dimostra benevolo di fronte alle parole audaci del figlio, Simelidis ha intravisto la personalità del re David che dà manifestazione di μακροθυμία sia nei confronti del comportamento ribelle del figlio Assalonne, che davanti alle maledizioni lanciategli da Sameì: …καὶ γάρ τις ἄναξ θεράποντος ἔνεικε / δούλιον ἐν στομάτεσσι λαλεύμενον ἠρέμα τρυσμόν, / ὡς δὲ πατὴρ ἀγαθὸς καὶ ἄφρονος υἷος ἑοῖο / πολλάκις ἀμφαδίων ἐπέων θράσος ἦχ᾽ ὑπέδεκτο (cfr. vv. 2-5 e Simelidis, pp. 174-175). 319 320 πατροφόνοισι L'aggettivo, qui in funzione di sostantivo, è usato per apostrofare Assalonne anche in carm. I,2,25 v. 211 e or. 22,1 sulla base di 2Sam. 15,14: καὶ εἶπεν Δαυιδ πᾶσιν τοῖς παισὶν αὐτοῦ τοῖς μετ’ αὐτοῦ τοῖς ἐν Ιερουσαλημ Ἀνάστητε καὶ φύγωμεν, ὅτι οὐκ ἔστιν ἡμῖν σωτηρία ἀπὸ προσώπου Αβεσσαλωμ·; e … καὶ εἶπεν Δαυιδ πρὸς Αβεσσα καὶ πρὸς πάντας τοὺς παῖδας αὐτοῦ Ἰδοὺ ὁ υἱός μου ὁ ἐξελθὼν ἐκ τῆς κοιλίας μου ζητεῖ τὴν ψυχήν μου,… (16,11); cfr. Oberhaus, p. 113. Si veda anche il passo prudenziano citato nella precedente nota in cui si legge …patricidam… (Prud. hamart. 564); ma anche Ambr. Apol. Dav. 3,12 Genuit (scil. Dauid) ex se filios, unum incestum et alium parricidam… (molte volte Assalonne è appellato come parricida nell'opera dl vescovo di Milano, cfr. epist. 4,12; de obitu Valentiniani 46,351; etc.); Paul. Nol. epist. 23,20. — Per la figura di Assalonne si veda P. Monat, Absalon: une chevelure, plusieurs visages, in AA.VV., Rois et reines de la Bible au miroir des Pères, Strasbourg 1999, pp. 65-74. χόλον καὶ κήδεα πέσσειν Sebbene Davide fosse minacciato dal figlio per la congiura da questi ordita, placò la sua collera (χόλος) e la pena (κήδεα) procurategli dall'usurpatore. Per χόλος con πέσσω si veda supra, nota al v. 304. Di origine omerica è, inoltre, l'accostamento di κῆδος con πέσσω, per cui cfr. Il. 24,617. 639, costruzione che ricorre solo in questo luogo dell'opera del Cappadoce. 321 Τεκμαίρου βασιλῆϊ· Per un simile incipit quale formula introduttiva di exempla famosi, cfr. Moroni, p. 263 nota a carm. II,2,5 v. 208 (Τεκμαίρου δ᾽ Ὀδυσῆϊ,). 322 Il verso in oggetto descrive la tragica morte di Assalonne che, mentre cavalcava un mulo, rimase impigliato con la folta chioma nel ramo di un terebinto, καὶ Αβεσσαλωμ ἐπιβεβηκὼς ἐπὶ τοῦ ἡμιόνου αὐτοῦ, καὶ εἰσῆλθεν ὁ ἡμίονος ὑπὸ τὸ δάσος τῆς δρυὸς τῆς μεγάλης, καὶ ἐκρεμάσθη ἡ κεφαλὴ αὐτοῦ ἐν τῇ δρυί, καὶ ἐκρεμάσθη ἀνὰ μέσον τοῦ οὐρανοῦ καὶ ἀνὰ μέσον τῆς γῆς, καὶ ὁ ἡμίονος ὑποκάτω αὐτοῦ παρῆλθεν (2Sam. 18,9) e fu ucciso dalle frecce di Ioab e dei suoi scudieri. La posizione incipitaria di ὄζῳ ricalca Hom. Il. 2,312; 6,39; Ps.-Hes. Sc. 394. La iunctura clausolare δάσκιον ὕλην è modellata, ancora, su Hom. 15,273 …δάσκιος ὕλη (= Od. 320 5,470); e, in unione con una preposizione (nel nostro passo c'è ὑπὸ) cfr. Bacchyl. E. 11,93 …κατὰ δάσκιον… ὕλαν. 323 θρήνοισιν ἐκλαύσατο Il dolore di Davide, che si manifesta già durante la sua fuga da Gerusalemme, καὶ Δαυιδ ἀνέβαινεν ἐν τῇ ἀναβάσει τῶν ἐλαιῶν ἀναβαίνων καὶ κλαίων… (2Sam. 15,30), trova massimo sfogo in seguito alla notizia della morte di Assalonne (cfr. 2Sam. 19,1ss.). Per una costruzione simile a quella in oggetto cfr. Eur. Hec. 212, κλαίω πανδύρτοις θρήνοις; Lam. 1 tit. (LXX): …Ιερεμιας κλαίων καὶ ἐθρήνησεν τὸν θρῆνον τοῦτον ἐπὶ Ιερουσαλημ καὶ εἶπεν…; Nonn. Par. 16,69 κλαύσετε καὶ θρήνους ἐπαείσετε…; nonché Greg. Naz. or. 22,1 θρήνοις καὶ δάκρυσιν; carm. I,2,25 vv. 212213: Ὅπου γ’ ἐκεῖνον καὶ κλάει τεθνηκότα, / θρήνοις τε πολλοῖς ἀνακαλεῖται καὶ λόγοις, cit. anche supra, nota ai vv. 318-324 . 324 Non solo Davide si dispera per la morte del figlio ribelle, ma la vendica giustiziando il messaggero che gliene aveva recato l'annuncio. In questi termini si conclude la breve ripresa gregoriana dell'episodio veterotestamentario dove, in realtà, non c'è traccia dell'uccisione del messaggero. La motivazione per cui il Nazianzeno ha applicato alla morte di Assalonne la notizia dell'uccisione di messaggeri che si legge, invece, in 2Sam. 1,13-16 (annuncio della morte di Saul) e 4,8-12 (annuncio della morte di Is-Bàal) è da attribuirsi ad un caso di lapsus memoriae: il Nostro ha esteso all'assassinio di Assalonne quanto leggeva a proposito di simili episodi relativi a Davide (la medesima conclusione è applicata anche in carm. I,2,25 v. 215, Ὥσπερ λαβών τιν’ ἐχθρὸν, οὐκ εὐάγγελον; e si veda anche Ambr. Apol. Dav. 6,29: Fleuit (scil. David) et magno luctu deplorauit exitum parricidae dicens: Filius meus Abessalon, quis dabit mihi mortem pro te, filius meus Abessalon? Vindicandum putabat eum qui pro paternae uindicta pietatis occiderat. — Ampiamente ricorrente tra gli scrittori greci, sia pagani che cristiani, soprattutto in prosa, la costruzione di una forma del verbo ἐπιτίθημι con δίκη, per cui cfr. Plat. Ap. 28 c; Leg. 861 c; Resp. 610 d; Xen. Hel. 2,3,28; Plut. Lys. 8,2; Clem. Alex. paed. 1,8,67; str. 1,27,171; Eus. h. e. 9,11,6; Lib. progymn. 2,20; decl. 46,40; Ioh. Chrys. catech. 2 (PG 49,231); etc.; per l'occorrenza in poesia cfr. Eur. Or. 500; Anth. Pal. 9,408,6. 325ss. 321 La rievocazione dell'episodio biblico di David e Assalone è atto a istituire un paragone contrastivo con Vitaliano: a differenza del re David che perdonò e pianse il figlio ribelle che aveva tentato di usurpare il trono, anche attentando alla sua vita, come se fosse stato un figlio modello e un uomo ottimo (ai vv. 327ss. vengono passate in rassegna alcune della colpe di cui si macchiò Assalonne), Vitaliano non ha dovuto sopportare una tale malvagità, né cattive azioni che possano giustificare l'ira pervicace che egli nutre nei confronti dei figli. 325 L'aggettivo κακόβουλος spezza il tono conciliante che in larga misura caratterizza il carme, cadenzato da apostrofi positive indirizzate al destinatario, mosse dal tentativo di captatio benevolentiae per addolcire l'animo del genitore, cfr. vv. 81. 135. 216. 218. 327. 336. Esso sembra, inoltre, un hapax legomenon nell'opera del Nostro. — La locuzione clausolare …κακὸν, ἢ τί πεπονθώς potrebbe risentire di Aristoph. Thesm. 534 …ἢ κακόν τι μέγα πεπόνθατ’ ἄλλο. L'accostamento di una forma del verbo πάσχω con κακός, che ricorre similmente in carm. I,2,10 v. 457 πλείω τε πασχέτωσαν ὧν δρῶσιν κακῶν, I,2,28 vv. 123 …κακῶς πεπονθότων e 268 κακοῖς πεπονθότος, è mutuata presumibilmente da Hom. Od. 2,134; 17,284; 18,132 etc.; e attestata spesse volte sia in tragedia che in commedia (anche in posizione clausolare): cfr. Soph. Phil. 999; Eur. Αndr. 1214; Cycl. 587; Hel. 22; Aristoph. Lys. 714; Nub. 1085. 1022; Lycoph. Alex. 1228 Men. Epitr. 854; fr. 543,2 Kock; etc.; è anche nella Scrittura: 2 Mac. 9,28. 326 χόλον ἀδάμαστον ἐνὶ φρεσὶ…ἀέξεις Questa connotazione dell'ira quale indomita e inflessibile ricorre anche supra, v. 136 (cfr. la nota ad loc.). Piottante, p. 127 nota come l'aggettivo ἀδάμαστος sia spesso utilizzato da Gregorio per esprimere la corporeità dell'uomo (cfr. carm. I,2,2 v. 58; II,2,6 v. 86; ΙΙ,2,7 v. 231) e le sue passioni, come nel passo in oggetto e in I,2,14 v. 93 Ἀλλ’ ἔμπης ἀδάμαστον ἔχω μένος,… (cfr. Domiter, p. 204), sulla base di Hes. Th. 239b ἀδάμαντος ἐνὶ φρεσὶ θυμὸν ἔχουσαν; e Op. 147 ἀλλ᾽ ἀδάμαντος ἔχον κρατερόφρονα θυμόν. Esso è, inoltre, attributo positivo di Cristo in I,1,2, v. 67 e dell'uomo, qualora fosse privato del suo essere mortale, nel senso di "immutabile" (cfr. I,1,9 v. 82; e I,2,14 v. 51). — Per il nesso ἐνὶ φρεσὶ in questa sede metrica cfr. 322 Piottante, p. 115. — La costruzione di ἀέξω con χόλος, che esprime l'idea di accrescere la collera, è ripresa da Nonn. Dion. 8,104; 26,154. 327ss. I versi in oggetto s'accostano allo schema della Priamel: all'elencazione di comportamenti degeneri, anticipati dalla negazione che viene ripetuta anaforicamente in incipit di verso (cfr. vv. 327 οὔτε…, 328 οὐδὲ.., 329 οὐδὲ…, 330 οὐδὲ…, 331 οὐδὲ...), s'oppone l'unica colpa dei due giovani (ἔν … κάκιστον) quella, cioè, di apparire inferiori rispetto al virtuoso genitore (…ἀρειοτέροιο τοκῆος / χείρονες ἐξεφάνημεν…, vv. 333-334). — Un simile elenco di malefatte giovanili viene stilato da Ps.-Plut. lib. educ. 13 F: Φίλων ἁμαρτήματα φέρομεν· τί θαυμαστὸν εἰ τέκνων; ... Ἐφείσω ποτέ, ἀλλὰ καὶ χορήγησον· ἠγανάκτησάς ποτε, ἀλλὰ καὶ σύγγνωθι· ἐβουκόλησέ ποτε δι᾽ οἰκέτου· τὴν ὀργὴν κατάσχες. Ἐξ ἀγροῦ ποτε ζεῦγος ἀφείλετο, ἦλθέ ποτε χθιζῆς μέθης ἀποπνέων, ἀγνόησον· μύρων ὄζων, σίγησον. Οὕτω σκιρτῶσα νεότης πωλοδαμνεῖται.. — Per una simile Priamel, che ha come avvio la ripetizione anaforica della negazione, cfr. carm. II,1,34B vv. 29ss. e la nota ad loc. di Piottante, p. 128. 327-331 In questi versi si può recuperare il riferimento ad alcuni dei malvagi comportamenti di Assalonne, anche grazie ad un confronto con il commentario ai carmi di Gregorio, redatto da Cosma di Gerusalemme. In esso sono oggetto di esegesi solo i vv. 327. 328. 330. 331, a causa della grossa lacuna nel codice che lo conteneva. I versi commentati vengono citati per esteso e sono preceduti da una porzione di testo in cui l'esegeta ricorda la mitezza del re Davide nei confronti di Saul, del quale si rievocano gli ultimi momenti di vita, trattazione che si giustifica, probabilmente, con il riferimento ai vv. 318ss. dove Gregorio rievoca la vicenda di Davide e Assalonne: cfr. Lozza, Cosma, p. 176 e note 900-902. Si noti come l'elenco stilato in questi versi faccia da pendant a quello degli errati comportamenti giovanili presente supra ai vv. 300-303, che sembrano essere considerati dall' io loquens più gravi se l'ira paterna che susciterebbero non è νεμεσητόν. 327 πατρῴης ἀπεμέρσαμεν…τιμῆς Il verso in oggetto è commentato da Cosma di Gerusalemme che menziona due casi di ἀτιμία compiuta dai figli nei confronti dei genitori: quello di Zeus che detronizzò 323 Crono e quello di Assalonne che si ribellò a Davide: Ὁ γὰρ Ζεὺς τὸν ἴδιον πατέρα ἐκ τῶν οὐρανῶν ῥίψας, … τῆς βασιλικῆς αὐτὸν τιμῆς ἀπεμέρισε καὶ τὸν Δαβὶδ τυραννήσας Ἀβεσσαλὼμ τῆς βασιλείας ἐδίωξεν, cfr. Lozza, Cosma, p. 177 e note complementari 907-908. — Come già argomentato, la tematica dell'onore, τιμή, è portante nel nostro carme, cfr. note ai vv. 152ss.; 206; 351. Anche Libanio parla di τοῦ πατρὸς ἀτιμία (decl. 50,20). — Di attestazione tarda il verbo ἀπαμέρδω che ricorre anche in Quint. Smiyrn 1,263; 4,422; 11,56; Man. Apot. 3,26; 6,337 etc.; in Gregorio si trova solo qui: cfr. LSJ s.v. 328-329 Ι furti di sostanze paterne, tra cui denaro e animali della campagna, sono annoverati da Ps.-Plut. lib. educ. 12 B tra le bravate giovanili che un genitore dovrebbe perdonare: …κλοπαὶ πατρῴων χρημάτων… (cit. anche supra, nota ai vv. 297-303) e Ἐξ ἀγροῦ ποτε ζεῦγος ἀφείλετο (13 E). 328 Il verso richiama 2 Sam. 14,29ss. (Assalonne fa incendiare il campo di Ioab), così come sottolinea anche il commento di Cosma di Gerusalemme, Τοῦ μὲν Ἰωὰβ τὸν ἀμητὸν ἐνέπρησεν Ἀβεσσαλώμ… . 329 βοῶν ἀγέλαις…πώεσιν…ἵπποις Il trittico buoi, pecore e cavalli si ritrova già in Hom. Il. 11,678ss. πεντήκοντα βοῶν ἀγέλας, τόσα πώεα οἰῶν /…/ ἵππους δὲ ξανθὰς ἑκατὸν καὶ πεντήκοντα; ma più ricorrente la coppia buoi-pecore, per cui cfr. Hom. Il. 11,696 ...ἀγέλην τε βοῶν καὶ πῶϋ μέγ’ οἰῶν (= 15,323); 12,129 …βοῶν ἀγέλαι, τόσα δ’ οἰῶν πώεα καλά; 18,528; Od. 11,402; 24,112; Hes. fr. 180,9 West-Merkelbach; ripresa da Gregorio anche in carm. II,1,1 v. 78 nel cosiddetto "catalogo del lusso" che egli rifiuta, οὐδὲ βοῶν ἀγέλαι καὶ πώεα πίονα μήλων (cfr. Bénin, p. 570); II,1,13 v. 53; Nonn. Dion. 34,174; 37,52. 330 οὐδὲ λέχους ἐπέβημεν La locuzione, intesa nel senso di non "profanare il letto paterno" (in tale direzione la metrica versio di Bill. 3: nec vetitum conscendimus incestumque cubile), allude alla violenza di Assalonne ai danni delle concubine di David che il re aveva lasciato a custodia della reggia d'Israele (cfr. 2Sam. 16,20ss.). In tale direzione anche il commento di Cosma (Τὰς μὲν παλλακὰς τοῦ Δαβὶδ πατρὸς Ἀβεσσαλὼμ ἐταπείνωσεν, ἐντρέψαι τὸν πατέρα βουλόμενος καὶ τῆς πατρῴας τιμῆς ἀποχωρίσαι 324 κατεπειγόμενος) che rievoca il simile episodio dell'incesto di Ruben, figlio di Giacobbe (cfr. Gen. 35,21): Ῥουβεὶμ δὲ τοῦ Ἰακὼβ ὁ πρωτότοκος τὴν παλλακὴν τοῦ πατρὸς αὐτοῦ Βάλλαν ἐταπείνωσεν, αἰσχύνην τοῦ πατρὸς καταχέας … . — Si ricordi, inoltre, il simile caso (non veritiero) del figlio che disonora il letto paterno, presente nell'Ippolito euripideo, palesato dalle parole di Teseo, …ὅστις ἐξ ἐμοῦ γεγὼς / ᾔσχυνε τἀμὰ λέκτρα… (Eur. Ipp. 943-944) e κομίζετ᾽ αὐτόν, ὡς ἰδὼν ἐν ὄμμασιν / τὸν τἄμ᾽ ἀπαρνηθέντα μὴ χρᾶναι λέχη (1265-1266). — La costruzione in oggetto risente certamente di hymn. hom. in Ven. 161 …λεχέων…ἐπέβησαν; Ps.-Hes. Sc. 16 πρὶν λεχέων ἐπιβῆναι…; Anth. Pal. 5,275,3. Per λέχος quale "letto matrimoniale" si veda Bacci, p. 87 e supra, v. 59 (letto di Medea). 331 οὐδὲ δόλον φρασάμεσθα L'idea di ordire inganni ai danni del genitore evoca, ancora, gli intrighi di Assalonne e la sua rivolta contro il padre David (cfr. 2Sam. 15,1ss.). Il commento di Cosma a questo verso richiama, brevemente, la vicenda di Giuseppe e dei suoi fratelli (Gen. 37-42), siglata dal riferimento ad Assalonne (Δόλον δὲ τῷ Δαβὶδ σὺν τῷ Ἀχιτόφελ καὶ Ἀβεσσαλὼμ ἐβουλεύσατο). Tali macchinazioni sono, inoltre, annoverate tra le insolenze dei giovani figli, cfr. Ps.- Plut. lib. educ. 13 C: ἐβουκόλησέ ποτε δι᾽ οἰκέτου· τὴν ὀργὴν κατάσχες (cit. anche supra, nota ai vv. 327ss.). La costruzione in oggetto (anche in carm. II,1,34B v. 30 …οὐ δόλον ἐφρασάμην) è modellata su Apoll. Rh. 3,19-20 …ἀλλά τοι οὔπω / φράσσασθαι νοέω τοῦτον δόλον…; ed è presente in Quint. Smyrn. 12,70 ….δόλον φραζώμεθα… . σὺν ἀνδράσι δυσμενέεσσι I δυσμενεῖς qui menzionati potrebbero essere identificati con dei presunti nemici di Vitaliano (si veda anche supra, nota ai vv. 152-157); il termine δυσμενής è associato a ἐχθρός in carm. II,1,33 v. 16 …δυσμενεῖς ἐχθρῶν… . Per la iunctura di δυσμενής con ἀνήρ cfr. Hom. Il. 3,90; 6,453 (stessa posizione clausolare del passo in oggetto); 10,221. 395; 13,263; 24,288 etc.; Od. 4,246; 6,200; 22,234; etc.; Bacchyl. D. 4,6; Pind. N. 9,38; Tyrt. fr. 12,31 West; Soph. Aj. 18; Ant. 187; Aristoph. Vesp. 1160; Apoll. Rh. 4,397; Opp. An. Hal. 4,656; nonché, in Gregorio, I,1,35 v. 7. 332 Ταῦτα γὰρ εἴ τι χόλοιο φέρει, πάτερ, οὐ νεμεσητόν L'io loquens ammette e riconosce che i comportamenti supra elencati - che richiamano quelli di cui si è macchiato, in parte, Assalonne - sarebbero, a ragione, 325 motivo di ira per un genitore. In termini simili si esprime Nicobulo junior in carm. II,2,4 vv. 141ss., dove addirittura autorizza il padre a cacciarlo lontano qualora si compiacesse di azioni malvagie: …εἰ δὲ κακοῖσι / τερποίμην, παίδων με τεῶν ἄπο τηλόθι ῥῖψον (cfr. Moroni, pp. 148-149). — Il modulo εἴ τι χόλοιο φέρει…οὐ νεμεσητόν risente di Hom. Il. 9,523 …πρὶν δ᾽ οὔ τι νεμεσσητὸν κεχολῶσθαι, nelle parole che Fenice rivolge ad Achille per convincerlo a deporre il suo risentimento; stilema che ritorna anche in Od. 22,59, a proposito delle offese che i pretendenti di Penelope hanno fatto ad Odisseo, occupando indebitamente la sua casa. — L'ira del genitore è un elemento costante nei casi, a carettere fittizio, di ἀποκήρυξις del figlio da parte del padre, trattati nelle declamazioni di Libanio, come si vede da decl. 9,40 …ἴσθι δὲ καὶ τῇ τοῦ πατρὸς ὀργῇ. καὶ νόμιζε σπέρμα τούτων γενέσθαι τὴν ἀποκήρυξιν (le decl. 9 e 10 formano un dittico d'ispirazione storica, giacché trattano le vicende di Temistocle che si oppone all'annullamento dell'ἀποκήρυξις che il padre chiedeva dopo la battaglia di Salamina, cfr. Wurm, p. 42) e poco oltre, poiché il genitore vuole riammettere il figlio in casa dopo il rinnegamento, gli chiede di placare la sua ira, σβέσον τὴν ὀργήν, γνώρισον τὸν πατέρα. πατὴρ ἐγὼ σός… (§ 43); 46,2 οἶμαι σὺν θεοῖς εἰπὼν τόν τε πατέρα τῆς ὀργῆς παύσειν ὑμᾶς τε διδάξειν ὡς οὐκ ἄξιός εἰμι ταῦτα παθεῖν ἐφ’ οἷς εἰσῆγμαι (parole di un figlio ἀποκηρυττόμενος; cfr. anche § 12 e 26); 47,2. 16 …καὶ ὁ πατήρ, εἰ πρὸ τῆς ὀργῆς διαθήκας ἔγραφε e 48; 48,12 καίτοι μέμνησαι, ὦ πάτερ, ὁσάκις σοι πρὸς τὰ γόνατα πεσόντα με καὶ δεόμενον λῆξαι τῆς ὀργῆς ἀπεκρούσω (si vedano anche § 11, 20, 38, 46); 50,4; e cfr. anche Luc. Abdic. 16, e in relazione all'abdicatio Calp. decl. XVIII, dove si parla di ira domestica. 333-337 Dopo aver negato di aver compiuto le azioni malvagie elencate ai vv. 327-331, implicitamente paragonabili a quelle di Assalonne, l'io loquens esplicita in cosa consista la "colpa" dei figli: di apparire inferiori, cioè, rispetto all'ottimo genitore che primeggia per aspetto e figura (ἓν σέο παισὶ κάκιστον, ἀρειοτέροιο τοκῆος / χείρονες ἐξεφάνημεν, ὃς οὔ τινι πρῶτα λέλοιπας / εἶδός τε μέγεθός τε…, vv. 333335). Μe egli si discolpa subito (Τίπτ᾽ ἤλιτον;) e, applicando il tropo dell’ironia, accusa il padre di non aver voluto concedere alla prole una natura migliore (…ἢ σύ, φέριστε, / οὐκ ἐθέλων τεκέεσσιν ἀρείονα φύσιν ὀπάσσαι;, vv. 336-337). Che il 326 rapporto genitori-figli sia fondato dapprima sulla somiglianza e sulla specularità (cfr. supra, nota ai vv. 220-221), per poi evolversi nel miglioramento e nel superamento di quelle qualità che si ricevono in eredità dai genitori, appare chiaro sin dall'etica greca, come abbiamo già evidenziato supra, nota ai vv. 88-89 (Regali, Declamazioni, p. 533 parla di «aspirazione e, in un certo senso, dovere che un figlio ha di superare il padre»). Similmente si esprime Gregorio, per bocca di Nicobulo senior, che si augura che il figlio diventi eccellente e migliore di lui, in ragione di quelle leggi divine sulle quali Dio ha fondato questo universo: Tέκνον ἐμόν, τὰ μὲν ἄλλα πατρὸς καὶ φέρτερος εἴης· / χαίρει γάρ τε πατὴρ ἡσσώμενος υἱέος ἐσθλοῦ, / καὶ πλέον ἢ πάντων κρατέων, θείοισι νόμοισιν / οἷς τόδε πᾶν συνέδησε Πατὴρ μέγας,… (vv. 11-14). Commentando questo passo Moroni, p. 201, segnala la presenza di questo ideale anche in epitaph. 58,5 (= Anth. Pal. 8,16,1), a cui possiamo aggiungere quello per la morte di Amfìloco, ...τέκνα λέλοιπας / κρείσσονα καὶ τοκέων (Anth. Pal. 8,131,5-6). Ambivalente diventa il discorso in carm. I,2,1, dove la verginità afferma che se da un lato l'uomo buono anche se non conosce la natura della sua prole (così come quello cattivo), spera cose migliori: Θνητὸς δ’ οὐ σάφα οἶδε γόνου φύσιν, εἰς ὅ τι λήξει, / οὐ κακός, οὐδὲ μὲν ἐσθλός· ὁ δ’ εὔχεται ἐσθλὸς ἀρείω· (vv. 483-484), poco oltre riportando alcuni esempi di figli sia buoni che malvagi nati dagli stessi genitori, come Caino ed Abele, Giacobbe ed Esaù, constata che, nell'ambito dell'unione coniugale, può non verificarsi la desiderata somiglianza coi genitori, Οὐ γὰρ ζευγνυμένοις καταθύμιος ἕσπεται εἰκών (v. 502). Oppure, rivolgendosi, ancora, all'unione coniugale di cui si definisce figlia, si vanta di essere migliore del genitore, così come Cristo è migliore di Maria o la spiga che, pur provenendo da un piccolo seme, diventa più grande di esso: Οὐκ ἀΐεις ὅτι πάντες, ὅσους κατέλεξας ἀρίστους, / ἐκ τοκέων, τοκέων δὲ δικαιότεροι καὶ ἀρείους; / καὶ Χριστὸς Μαρίης μέν, ἀτὰρ πολὺ φέρτερός ἐστιν, /…/ καὶ στάχυς ἐξ ὀλίγου μέν, ἀτὰρ στάχυς ἐβλάστησε / σπέρματος,… (vv. 691ss.): cfr. Sundermann, pp. 146. 153. 225226; B. Schouler, Dépasser le père, Revue des Études grecques 93, 1980, pp. 1-24. — Da notare, infine, come in Plut. de cohibenda ira 461A, una delle cause dell'ira è attribuita all'eccessivo amore di sé, φιλαυτία: Καὶ μὴ τάς γε συνεχεῖς καὶ πυκνὰς καὶ κατὰ μικρὸν ἐν τῇ ψυχῇ συλλεγομένας ὀργὰς μάλιστα φιλαυτία… . 335 εἶδός τε μέγεθός τε 327 Ιl dittico realizza una specificazione personale già in Hom. Il. 2,58 (incipit di verso); Od. 5,217; 6,152; 11,337 etc.; hymn. in Cer. 275; hymn. in Ven. 82; Hes. Th. 619-620 (in enjambement); Ps.-Hes. Sc. 5; esso ricorre, inoltre, spesse volte nei ritratti dei personaggi plutarchei delle Vitae, cfr. Ages. 34,7; Alc. 9,1; Caes. 68,10. Per l'allungamento di sillaba aperta finale davanti a consonante nasale (τε̄ μέγεθος) si veda la nota di Moroni, p. 142, a carm. II,2,4 v. 122. 335-336 λόγος δ᾽οὐκ εὔδρομος ἡμῖν· / γλῶσσα δὲ δεσμὸν ἔχει Queste parole sono state viste da Regali, Declamazioni, pp. 532-533 come una reale specificazione dell'inferiorità dei figli che non godrebbero di quella forbita loquela in grado di competere con l'élite sociale frequentata dal padre Vitaliano. I due giovani sarebbero, pertanto, così rozzi da far sfigurare il loro genitore che li ha allontanati da sé e da casa, per non minare la sua onorabilità. Le due accuse, secondo lo studioso, darebbero a Gregorio la possibilità di ritornare su un ideale tipico del mondo greco consistente nella naturale aspirazione che un figlio ha di superare il padre, il cosiddetto locus de nobilitate che ritorna diverse volte e con diverse angolazioni nell'opera del Cappadoce. In realtà, alla luce di quella che si può chiamare "sezione epitalamica" (vv. 198ss.) in cui l'io loquens si definisce un esperto cantore (ἀοιδῆς / ἴδρις ἐὼν, vv. 198-199) che non ha avuto la possibilità di intonare l'epitalamio in onore della sorella, col quale sperava di placare l'ira del genitore, giacché è stato rinchiuso da questi dentro casa (cfr. v. 191), rimanendo, così, senza parole (ἄναυδος, v. 206), tale lettura risulta difficile da accettare. Qualora fosse così, forse, Gregorio avrebbe fatto parlare l'io loquens con un tono diverso e magari, con la speranza della riconciliazione, il giovane avrebbe potuto chiedere di risolvere il dissidio intraprendendo quello stesso cursus studiorum, quella stessa educazione letteraria, a cui aspira Nicobulo junior in carm. II,2,4. Queste parole devono, invece, essere lette come espressione di un momento di commozione, di incertezza e di timore, che l’io loquens prova prima di affermare la sua innocenza (Tιπτ᾽ ἤλιτον) e di accusare, seppur ironicamente, il padre di non avergli voluto accordare una natura migliore (ἢ σύ, φέριστε, / οὐκ ἐθέλων τεκέεσσιν ἀρείονα φύσιν ὀπάσσαι), a cui segue la volonta di arrestare il discorso (στήσομεν ἐνθάδε μῦθον, v. 338). — La iunctura di λόγος con εὔδρομος ritorna, in senso positivo, in or. 43,14 a proposito dell'encomio che Gregorio facilmente sta 328 tessendo in onore di Basilio. — L’espressione γλῶσσα δὲ δεσμὸν è costante, invece, nell’esplicitare la necessità di porre un freno alla lingua, come emerge da carm. II,1,34 A-B (Gregorio si impone il silenzio nel periodo quaresimale del 382); così come, nell'accezione di non parlare troppo, in or. 2,71 in relazione delle reticenze che Gregorio ebbe di fronte all'impegno sacerdotale; mentre in or. 36,5 il Nostro dice che è l'invidia a mettere una catena alla lingua degli uomini (la fonte è Mc. 7,35 che racconta la guarigione del sordomuto che riacquistò la parola, cfr. I,1,21 vv. 1314 e II,1,1 vv. 589-590, Bénin, pp. 791ss.). Essa potrebbe, inoltre, risentire dell'eco di Hes. fr. 239,3-4 West-Merkelbach …τε δέει γλῶσσάν τε νόον τε / δεσμοῖς ἀφράστοισι…; nonché di Sapph. fr. 31,7-9 Page: ὠς γὰρ ἔς σ’ ἴδω βρόχε’ ὤς με φώναι/ σ’ οὐδ’ ἒν ἔτ’ εἴκει, / ἀλλ’ ἄκαν μὲν γλῶσσα †ἔαγε λέπτον (la lingua è legata a causa degli spasmi amorosi). 336 Τίπτ᾽ ἤλιτον; Il tentativo di discolparsi espresso dall'io loquens figlio appare anche nelle declamationes latine connesse all'abdicatio, cfr. Quint. decl. min. 300,2 … fortasse erraverim?...; 330,1 Ecquid peccavi?; 368,8 …ergo peccavi?; 371,1 Quid peccavi cur abdicer?; Ps.-Quint. decl. 9,12: …peccavi, veniam peto;… … …quantumlibet peccaverim, quid amplius iratissimus dominus exigeret?; e si veda, similmente, anche Lib. decl. 33,31 …Ἀλλ’ ἐάσας, ὦ τάν, τὸ τρόπαιον δίδαξον τούτους ὅτι με οὐδὲν ἀδικεῖς (parole del padre che ha diseredato il figlio); 46,25 …εἰ μὲν ἠδίκησα, λάμβανε δίκην·…; 47,22: Τί οὖν ἀδικῶ τούτων…; 48,7: πιστεύω γὰρ ὑμῖν δόξειν ἢ μηδὲν ἠδικηκέναι ἢ ἄκων ἡμαρτηκέναι (il figlio si rivolge ai giudici) . 336-337 …ἢ σύ, φέριστε, / οὐκ ἐθέλων τεκέεσσιν ἀρείονα φύσιν ὀπάσσαι; L'accusa che l’io loquens rivolge al padre, attribuendogli la responsabilità della sua inferiorità giacché non ha voluto concedergli una natura migliore, realizza la figura dell'adynaton: come si deduce ragionevolmente, infatti, tale prerogativa non è nella capacità di un genitore, pertanto l'espressione è da intendersi in senso fortemente ironico e, forse, nella coscienza e consapevolezza di non poter e voler dire di più. Il tropo dell'ironia è realizzato, in questo luogo, attraverso la dissimulatio, per mezzo della immutatio grammaticale (la cosiddetta "ironia socratica") che, come spiega Lausberg, pp. 237-240, fa parte della "ironia di azione tattica", ed esprime la volontà di colui che parla di non voler affermare la propria opinione di parte (cfr. anche P. 329 Chiron, L'ironie, entre philosophie et réthorique, in L. Calboli Montefusco [a cura di], Papers on rhetoric VII, Roma 2006, pp. 49-66). Per l'uso dell'ironia nell'opera del Cappadoce cfr. C. Macé, L'ironie dans les Discours de Grégoire de Nazianze, in E. Amato (a cura di), Approches, pp. 469-476. — La costruzione di ὀπάζω con φύσις è presente anche in carm. I,1,33 vv. 10. 338 στήσομεν ἐνθάδε μῦθον Con questo modulo, per cui cfr. anche carm. I,2,1 v. 472, l’io loquens si avvia alla conclusione del discorso. 338-343 Avvalendosi della struttura della Ringkomposition, Gregorio riprende la relazione Padre celeste-padre terreno istituita nei versi iniziali del carme, usando gli stessi stilemi: come invoca Cristo di porgergli, metaforicamente, la mano in soccorso (Δὸς χέρα, v. 339), così avanza la stessa richiesta a Vitaliano (Δὸς χέρα, v. 343), al quale i due giovani toccano la barba e le ginocchia in senso di supplica, come se fossero quelle di Dio (ἠνίδε καὶ χείρεσσι γενείαδος, ἠνίδε γούνον / ἁπτόμεθ᾽ ὡστε θεοῖο); e, come spera di poter incontrare lo sguardo, misericordioso, di Dio (Θεοῦ δ᾽ ὀπὸς ἀντιάσαιμεν), così chiede al genitore di mostrargli il suo volto benevolo (εὐμενέουσαν ὀπωπήν). 339 καὶ νεύσειας ἐμοὶ πατέρ᾽ ἵλαον εἶναι L'io loquens supplica Cristo di infondere nel genitore quella benevolenza atta a sanare il dissidio familiare (e nei versi conclusivi invoca anche l'intercessione della defunta madre, usando lo stesso modulo espressivo del verso in oggetto, …σοῖς τεκέεσσι τεὸν πόσιν ἵλαον εἶναι, v. 347). — Si segnala l'uso di νεύω, che ricorre anche supra, vv. 34-35 e 38, sempre a connotare la propensione divina a favore dell'uomo: cfr. supra, nota ai vv. 34-39. — Per la costruzione ἐμοὶ πατέρ᾽ ἵλαον εἶναι si veda anche infra, v. 347 e supra, nota al v. 222. 340-343 L'atteggiamento dell'io loquens (che parla anche a nome del fratello) è realizzato con immagini fortemente plastiche e immaginifiche, come quella di toccare la barba e le ginocchia del padre, nel tradizionale senso di supplica (vv. 340-341). Il figlio non chiede al padre di contrarre matrimoni, né ricchezze, né una casa sontuosa (οὐ γάμον, οὐδέ γε πλοῦτον ἐοικότα, οὐ δόμον αἰπὺν / αἰτέομεν), ma di 330 porgergli la mano e concedergli lo sguardo benevolo, in senso di riconciliazione (δὸς χέρα καὶ εὐμενέουσαν ὀπωπήν, v. 343). Il passo in oggetto va singolarmente e in modo contrastivo accostato a carm. II,1,11 vv. 499ss. dove, avvalendosi dell'artificio del discorso diretto, Gregorio mette in bocca al vecchio padre una richiesta di aiuto che si avvale degli stessi stilemi: Gregorio il Vecchio supplica il figlio, toccandogli la barba, affinchè lo assista nella guida della chiesa di Nazianzo; non chiede né oro, né pietre preziose, né argento: …συνελαφρίζειν πόνους, / …τῆσδε τῆς γενειάδος / ἁπτόμενος, τοίοις πρός με χρώμενος λόγοις. / Πατήρ σε λίσσεθ’, υἱέων ὦ φίλτατε, / πατὴρ ὁ πρέσβυς τὸν νέον, τὸν οἰκέτην / ὁ δεσπότης φύσει τε καὶ διπλῷ νόμῳ. / οὐ χρυσὸν αἰτῶ σ’, οὐ λίθους οὐδ’ ἄργυρον, / οὐ γῆς ἀρούρας, τέκνον, οὐδ’ ὅσα τρυφῆς. 340-341 ἠνίδε καὶ χείρεσσι γενειάδος, ἠνίδε γούνων / ἁπτόμεθ᾽ Toccare la barba e le ginocchia. Per la costruzione di ἅπτω con γενειάς si veda carm. II,2,4 v. 100 e la nota di Moroni, pp. 131-132, ma anche similmente (mani che toccano le ginocchia) Hom. Il. 8,371 …ἔλλαβε χειρὶ γενείου; 10,454-455 Ἦ, καὶ ὃ μέν μιν ἔμελλε γενείου χειρὶ παχείῃ / ἁψάμενος λίσσεσθαι, (si noti l'enjambement del verbo come nel passo in oggetto); Eur. Andr. 573-574 …χειρὶ δ’ οὐκ ἔξεστί μοι / τῆς σῆς λαβέσθαι φιλτάτης γενειάδος; Heracl. 226-227; IT 362; etc. L'immagine di toccare le ginocchia trova una fonte in Eur. Hec. 245 ἥψω δὲ γονάτων; e si veda anche, relativamente all'ἀποκήρυξις, Lib. decl. 48,12, cit. supra, nota al v. 332; 50,18 ὅπου γὰρ ἦν ἅψασθαι γενείου καὶ γονάτων; 51,20 τὸ ἅψασθαι καὶ χειρὸς καὶ γενείου; 63,18 καὶ πάλιν ἂν ἥπτοντο τῶν χειρῶν, ἴσως δ’ἂν καὶ γονάτων. Si noti, infine, la geminatio ἠνίδε… ἠνίδε che è attestata anche in Anth. Pal. 9,373,5. 341 ὥστε θεοῖο L'io loquens tocca la barba e le ginocchia del genitore come se fossero quelle di Dio, sulla base del già citato parallelismo Padre-celeste/padre-terreno. Il nesso in oggetto, legato all'idea di supplicare qualcuno toccandogli le ginocchia potrebbe risentire dell'eco di Hom. Od. 13,230ss.: ...σοὶ γὰρ ἐγώ γε / εὔχομαι ὥς τε θεῷ καί σευ φίλα γούναθ’ ἱκάνω. Θεοῦ δ᾽ ὀπὸς ἀντιάσαιμεν Avvalendosi, ancora della similitudine Padre-celeste/padre-terreno, l'io loquens spera di incontare lo sguardo di Dio, così come chiede al genitore di mostrare il suo 331 volto benevolo (cfr. v. 343). — La costruzione di ἀντιάω con ὄψ ricorre, sempre in posizione clausolare, anche in carm. II,2,1 v. 62; cfr. similmente anche II,2,7 v. 260. Per lo "sguardo di Dio" si veda supra, nota al v. 35. Sull'impossibilità di avere una visione completa di Dio, sulla base della testimonianza delle Scritture, cfr. or. 28,18. — Si noti, infine, il poliptoto θεοῖο Θεοῦ segnato dalla cesura femminile (B2). 342-343 οὐ γάμον, οὐδὲ πλούτον… οὐ δόμον αἰπὺν / αἰτέομεν L'io loquens non chiede al padre di contrarre matrimoni, né di ricevere ricchezze, né una casa sontuosa. Il trittico nozze - ricchezza - dimora sontuosa realizza una delle tante forme di Priamel dei valori e delle scelte di vita che caratterizzano frequentemente l'opera del Cappadoce, per cui si rimanda ai numerosi passi analizzati da Costanza, Scelta, pp. 233ss. (ai lussi, alle ricchezze e agli onori il Nostro preferisce una vita semplice e totalmente dedita a Dio). — Le nozze sono viste da Ps.-Plut. lib. educ. 13 E, per esempio, come un rimedio agli ardori giovanili e definite il vincolo più sicuro per la giovinezza, Πειρατέον δὲ τοὺς τῶν ἡδονῶν ἥττους καὶ πρὸς τὰς ἐπιτιμήσεις δυσηκόους γάμῳ καταζεῦξαι· δεσμὸς γὰρ οὗτος τῆς νεότητος ἀσφαλέστατος. — Per l'accostamento di γάμος con δεσμός si rimanda a Bacci, p. 92 nota a II,2,6 v. 23. — Per l'atteggiamento del Nostro di fronte alla ricchezza si veda Coulie, Richesses, passim. — La iunctura δόμον αἰπὺν è modellata su Apoll. Rh. 3,238 αἰπύτεροι δόμοι, e ricorre anche in Ant. Pal. 6,123,3, nonché Greg. Naz. carm. II,2,7 v. 67. Il rifiuto di abitare in una casa sontuosa è espresso da Gregorio anche in II,1,1 vv. 67-69 …οὐδὲ δόμοισι / ναίειν ἐν μεγάλοισι καὶ αἰγλήεσσι φίλησα (cfr. Bénin, pp. 560-561); II,1,88 v. 141. 343 Il figlio chiede al padre di porgergli la mano e di concedergli il suo sguardo benevolo. La mano protesa e lo sguardo del padre in segno di benevolenza dovrebbero essere rappresentazioni di quella benevolenza che è speculum della χάρις divina verso l'uomo, come si vede da v. 339 (Δὸς χείρα, supplica che l'io loquens rivolge al Signore) e 35 (ὄμμασιν εὐμενέεσσι sono quelli con i quali Dio concede all'uomo la γαλήνη da tutti i mali, cfr. supra, nota ad loc.). L'immagine della mano tesa del padre è usata anche in carm. II,2,5 v. 82, dove Nicobulo senior afferma che è cosa buona per gli uomini guardare solo verso le mani dei genitori e non ricevere benefici da altri (cfr. la nota di Moroni, p. 221 che segnala il significato 332 simbolico delle mani che designano, nel linguaggio biblico, l'azione divina che protegge e dà aiuto, concezione ripresa da Gregorio anche in I,2,1 v. 586; cfr. anche supra, nota al v. 90). — Offrire uno sguardo benevolo al figlio tradurrebbe una volontà conciliante e bendisposta a sanare il dissidio familiare, sulla base della stretta corrispondenza tra confronto verbale e reciproca visione argomentata supra, nota ai vv. 145-146; 220-221; 238. 344ss. Dopo aver invocato l'aiuto di Dio Padre e di Cristo, l'io loquens supplica la defunta madre affinché, durante i sogni notturni, intervenga per temperare l'ira paterna con le preghiere (λιταῖς χόλον ἐγκεράουσα), rievocando nel marito il ricordo della loro felice unione coniugale (μνωομένη λεχέων τε ὁμοζυγίης τ᾽ ἐρατεινῆς). La figura della madre come benevolo intermediario compare anche nei versi finali di carm. II,2,4 vv. 204-208, chiamata in causa dal figlio Nicobulo junior. 344 ἐννυχίοισιν ὀνείροις La iunctura in oggetto è modellata su Apoll. Rh. 4,1732 ὀνείρατος ἐννυχίοιο, per ritornare nelle poesie del Cappadoce anche in carm. II,1,1 v. 290 e II,1,10 v. 29. Il tema del sogno è centrale in II,1,45 vv. 229ss. dove Gregorio narra dell’apparizione della Temperanza e della Castità personificate che lo esortano ad abbracciare la vita verginale Per la tematica onirica nel cristianesimo si veda il volume di AA.VV. Sogni, visioni e profezie nell’antico cristianesimo. XVII Incontro di studiosi dell’antichità cristiana, Institutum patristicum Augustinianum 5-7 Maggio 1988, Roma 1989; e S. F. Kruger, Il sogno nel Medioevo, Milano 1996, in part. pp. 67-99. 345 λιταῖς χόλον ἐγκεράουσα Una espressione molto vicina si legge in carm. II,1,11 v. 1329, a proposito dell'atteggiamento della folla presente nella cattedrale constantinopolitana al momento dell'arrivo dell'imperatore Teodosio e dell'insediamento di Gregorio come vescovo della città: …ὀργῇ καὶ λιταῖς μεμιγμένος. Per le preghiere che i genitori elevano per i figli si veda anche II,2,5 v. 223 …τοκέων τε λιταῖς καὶ σῇσι πιθήσας. 347 τεκέεσσι τεὸν πόσιν ἵλαον εἶναι Per questo modulo espressivo cfr. carm. II,1,11 v. 510 ὡς ἵλεώ γε τοῦ μόνου πατρὸς τύχοις; supra, nota al v. 339. 333 348-352 Queste versi conclusivi sono caratterizzati da un amarissimo tono di rassegnazione, nonostante il modo ottativo con valore desiderativo in cui sono coniugati i verbi della sezione (πεπίθοιμι, ἀπιθήσαις, λιποίμεθ᾽, θάνοιμεν, ἔχοιμεν). Avvalendosi ancora della metafora bellica, l'io loquens definisce il dissidio col padre come un ἀργαλέος πόλεμος e confida nella grande misericordia divina, qualora questo suo canto (μολπή) non svolgesse la funzione persuasiva per la quale è stato concepito (πεπίθοιμι… ἀπιθήσαις). 348 μολπῆς κόρος …καὶ ἀργαλέου πολέμοιο Il verso risente, a livello terminologico, di Hom. Il. 13,636-637 πάντων μὲν κόρος ἐστὶ καὶ ὕπνου καὶ φιλότητος / μολπῆς τε γλυκερῆς καὶ ἀμύμονος ὀρχηθμοῖο, di cui si rintraccia l'eco anche in or. 22,4: Ὥστε τροφῆς μὲν καὶ ὕπνου καὶ ᾠδῆς κόρος ἐστὶ καὶ τῶν αἰσχίστων, ὡς λέγουσι,… . Per il concetto di κόρος in Gregorio si veda Coulie, Richesses, p. 160; Bacci, pp. 89-90. — La iunctura di πόλεμος con ἀργαλέος è calco di Hom. Il. 14,87 ἀργαλέους πολέμους; Od. 24,531; Hes. Op. 229; Tyrt. fr. 11,8 West. Essa designa in termini bellici il dissidio familiare tra Vitaliano e i suoi figli, come al v. 64 si legge ἐνδήμου πολέμοιο, alla cui nota si rimanda. 349 εἰ μὲν δὴ πεπίθοιμι…ἀπιθήσαις Il verso si articola in due costruzioni simmetriche contraddistinte dalla figura etimologica, εἰ μὲν πεπίθοιμι … εἰ δ᾽ ἀπιθήσαις. L'accostamento dei verbi πείθω e ἀπιθέω (ἀπειθέω) è presente già in Aesch. Ag. 1049, nell'esortazione all'ubbidienza che il corifeo muove a Cassandra, πείθοι’ ἄν, εἰ πείθοι’· ἀπειθοίης δ’ ἴσως; artificio retorico ripreso da Gregorio anche in carm. I,2,24 v. 165 Πείθειν νομίζει τῷ ἀπειθεῖσθαι πλέον. — Il nesso κακῶν ἅλις è modellato su Eur. Alc. 907 κακὸν ἅλις; Ion. ἅλις κακά. 350 καὶ τεκέων θεός…τὸ πάροιθεν L'io loquens confida nella misericordia divina qualora il padre non dovesse lasciarsi persuadere a mettere da parte il risentimento nei suoi confronti. L'espressione καὶ τεκέων Θεός ἐστιν, legata a εἰ δ᾽ ἀπιθήσαις del verso precedente, realizza una sorta di sospensione, quasi a voler esprimere la speranza della riconciliazione. — La forma ἀλησόμεθ᾽ richiama la parabola del Figliol prodigo rievocata ai vv. 105ss. dove ricorre l'aggettivo ἀλήμων, quale epiteto del figlio vagabondo. La vita insicura 334 che attende il figlio ripudiato sembra essere, inoltre, un tratto tipico della pratica dell'ἀποκήρυξις, come afferma Regali, Declamazioni, p. 530 e nota 18 istituendo un confronto con i dati che emergono da Lib. decl. 47,36; 48,12 e 72. — Per il nesso ὡς τὸ πάροιθεν cfr. supra, nota al v. 17. 351 σὸν κλέος…θάνοιμεν Ritorna il concetto di κλέος, leit motiv nel carme, in senso fortemente ironico. Giocando con l'ambivalente significato del termine, l'io loquens afferma che la fama a cui aspira il genitore potrebbe trasformarsi in infamia sulla base del comportamento che egli deciderà di assumere nei confronti dei figli, cioè sia se li lascerà nell'abbandono, sia se li lascerà morire. Κλέος finisce, qui, per assumere una connotazione negativa giacché, utilizzato con una forte intonazione ironica, diventa infamia, la cattiva reputazione, che si abbatte su un padre che abbandona i figli. Tale accezione del verbum è certamente più rara, ma ben attestata già nella letteratura antica, ma non in Omero, cfr. Pind. N. 8,36 Ζεῦ πάτερ, ἀλλὰ κελεύθοις / ἁπλόαις ζωᾶς ἐφαπτοίμαν, θανὼν ὡς παισὶ κλέος / μὴ τὸ δύσφαμον προσάψω...; Eur. Hel. 135 οὔ πού νιν Ἑλένης αἰσχρὸν ὤλεσεν κλέος; e nella duplice accezione sia positiva che negativa Thuc. 2,45: εἰ δέ με δεῖ καὶ γυναικείας τι ἀρετῆς, ὅσαι νῦν ἐν χηρείᾳ ἔσονται, μνησθῆναι, βραχείᾳ παραινέσει ἅπαν σημανῶ. τῆς τε γὰρ ὑπαρχούσης φύσεως μὴ χείροσι γενέσθαι ὑμῖν μεγάλη ἡ δόξα καὶ ἧς ἂν ἐπ’ἐλάχιστον ἀρετῆς πέρι ἢ ψόγου ἐν τοῖς ἄρσεσι κλέος ᾖ. — Il verso può essere accostato, in modo contrastivo, infine alle parole di Nicobulo senior di carm. II,2,5 vv. 25ss., dove il padre afferma che, in virtù del naturale vincolo d'amore, i genitori non generano i figli per la morte, trascurando la loro progenie, ma sono disposti a lottare per essi, come avviene nel mondo animale, καὶ θανάτῳ τίκτωμεν, ἀκηδέες ὧν τεκόμεσθα (v. 27). 352 δάκρυα πατρὸς…εὐμενέοντος L'εὐμένεια del genitore è, così, rimandata ad una prospettiva post mortem, insieme alle lacrime come gioiosa espressione di riconciliazione che richiamano quelle versate dal padre della Parabola del Figliol prodigo, nella rielaborazione dei vv. 105ss. (in part. v. 110, cfr. la nota ad loc). 335
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