STEFAN ZWEIG Lettera di una sconosciuta FRASSINELLI Lettera di una sconosciuta Titolo originale Brief einer Unbekannten © 1922 Stefan Zweig © 1987 S. Fischer Verlag GmbH, Frankfurt am Main © 1993 Edizioni Frassinelli Collana Le opere di Stefan Zweig ISBN 8876842578 Scansione di Serenella I racconti Bruciante segreto e Scarlattina sono stati tradotti da Emilio Picco, tutti gli altri da Luisa Coeta Indice Note di copertina...................................................................................................5 1 - Bruciante segreto..............................................................................................6 2 - Scarlattina.......................................................................................................51 3 - Lettera di una sconosciuta..............................................................................91 4 - Primavera al Prater.......................................................................................117 5 - Due anime sole.............................................................................................127 6 - Resistenza della realtà..................................................................................130 7 - Era lui?.........................................................................................................161 8 - Un uomo che non si dimentica.....................................................................185 9 - Conoscenza imprevista di un'arte.................................................................189 Postfazione del curatore dell'edizione originale................................................215 Note bibliografiche............................................................................................220 Note di copertina In questi nove racconti Zweig adopera, come tecnica d'approccio ai personaggi e al loro vissuto individuale, uno psicologismo agganciato in maniera del tutto personale alla rivoluzione Freudiana del primo Novecento. Lo scrittore penetra le passioni "monomaniacali" divoranti, che talora portano alla sublimazione nella morte in una società che ha il tabù del sesso e quindi è incline al fascino rapinoso del proibito. Stefan Zweig nacque a Vienna nel 1881. Fra i protagonisti della cultura europea dei primi decenni del secolo, ne impersonò lo spirito cosmopolita e la fiducia in un mondo fondato su valori intellettuali e sulla comprensione fra le genti. Nel 1940 si rifugiò in esilio negli Stati Uniti e poi in Brasile, dove si suicidò nel 1942, insieme alla giovane seconda moglie, non volendo sopravvivere alla distruzione dell'Europa e al dilagare della barbarie nazista. 1 - Bruciante segreto Il partner La locomotiva diede un fischio rauco: era giunta al Semmering. Per un minuto le carrozze nere sostarono nella luce argentea della sommità, scaricando alcune persone di vario aspetto, fagocitandone altre, un incrociarsi di voci stizzose, poi in testa fischiò di nuovo la macchina rauca e sferragliando trascinò giù nella cavità del tunnel il suo codazzo nero. Nitidamente squadernata, con sfondi trasparenti, ripuliti dal vento umido, tornò a presentarsi la distesa del paesaggio. Uno degli arrivati, giovane, che si distingueva simpaticamente per l'abbigliamento di buona fattura e per una elasticità naturale del passo, precedendo rapido gli altri, prese una carrozzella alla volta dell'albergo. Senza fretta i cavalli macinavano la strada in salita. C'era primavera nell'aria. Nel cielo trascorrevano quelle nuvole bianche, inquiete, che solo maggio e giugno hanno, bianchi compari, giovani anche loro e volubili, in corsa giocosa per la pista azzurra, improvvisamente celandosi dietro alte montagne, si abbracciano e si sfuggono, ora appallottolandosi come fazzoletti, ora sfrangiando a strisce e infine mettendo per burla bianche berrette alle cime. Inquieto era anche, sopra, il vento che scuoteva furioso gli alberi magri, ancora umidi di pioggia, tanto che scricchiolavano piano nelle giunture e schizzavano intorno mille gocce come scintille. A tratti pareva anche giungere fresco dai monti il profumo della neve, e allora nel respiro si sentiva qualcosa che era insieme dolce e pungente. Nell'aria e in terra era tutto un movimento, un fermentare impaziente. Stronfiando appena, i cavalli trottavano di lena sulla strada adesso in discesa, lo strepitio dei campanelli li precedeva di un pezzo. In albergo, per prima cosa, il giovane andò a consultare la lista degli ospiti, che scorse con rapida delusione. Mi chiedo che cosa ci faccio qui, si sentì domandare dentro inquieto. Stare da solo qui in montagna, senza compagnia, è peggio che l'ufficio. Evidentemente sono arrivato troppo presto o troppo tardi. Non ho mai fortuna con le mie vacanze. Non c'è neppure un nome conosciuto tra tutta questa gente. Se almeno ci fosse qualche donna, un piccolo flirt, magari anche innocuo, per non trascorrere in modo troppo triste questa settimana. Il giovane, barone di non molto illustre baronia funzionariale austriaca, impiegato presso il governatorato, si era preso quella piccola vacanza senza voglia alcuna, unicamente perché i suoi colleghi avevano strappato una settimana in primavera e lui non voleva regalare la sua all'ufficio. Sebbene non privo di qualità interiori, era un tipo molto socievole e come tale benvoluto, ben visto in tutti gli ambienti e perfettamente conscio della propria incapacità di stare solo. Non aveva alcuna inclinazione a confrontarsi in solitudine con se stesso e schivava il più possibile simili situazioni, perché non ci teneva affatto a entrare in più intima dimestichezza con la propria persona. Sapeva che aveva bisogno di sfregarsi alla gente, per dare esca ai suoi talenti, al calore e all'euforia del suo cuore, mentre da solo era frigido e inutile a se stesso come un fiammifero nella scatola. Si aggirò contrariato avanti e indietro per la hall deserta, ora sfogliando distrattamente un giornale, ora accennando nella sala della musica un valzer al pianoforte, ma non gli veniva bene il ritmo nelle dita. Alla fine si sedette annoiato, guardando fuori l'oscurità calare lentamente, la nebbia sprigionarsi grigia come vapore dalle abetaie. Ammazzò un'ora così, senza costrutto e nervosamente. Poi si rifugiò nella sala da pranzo. Là erano occupati solo alcuni tavoli, che passò in rassegna tutti con un'occhiata veloce. Invano! Nessun conoscente, soltanto là - rispose con indolenza al saluto - un allenatore, e là una faccia intravista alla Ringstrasse, e basta. Nessuna donna, nulla che promettesse qualche avventura, sia pure fugace. Il suo malumore divenne più impaziente. Era uno di quei giovani favoriti nel successo da una faccia bellina e quindi sempre pronti per un nuovo incontro, per un'altra esperienza, sempre tesi a tuffarsi nell'ignoto di un'avventura, mai sorpresi da nulla, perché oculatamente hanno calcolato tutto, non disposti a trascurare alcunché di erotico, perché già al primo sguardo cercano in ogni donna l'aspetto sensuale, come per saggiare e senza fare differenza tra la moglie dell'amico e la cameriera che apre la porta per accedere a quella. Quando, con un certo sommario disprezzo, gli uomini del genere vengono definiti cacciatori di donne, non ci si rende conto di quanta perspicace verità sia racchiusa in questa parola, perché in effetti tutti gli istinti passionali della caccia, lo scovare, l'eccitazione e la crudeltà interiore guizzano nell'incessante destrezza di questi individui. Sono costantemente alla posta, sempre pronti e decisi a seguire le tracce di un'avventura fino all'orlo dell'abisso. Sono sempre carichi di passionalità, una passionalità che non è quella di chi ama, ma la passionalità del giocatore, fredda, calcolatrice e pericolosa. Tra loro ci sono i pervicaci, per i quali, assai oltre la giovinezza, l'intera esistenza diventa un'eterna avventura, in virtù di questa attesa, e la singola giornata si scompone in cento piccole esperienze sensuali - e l'anno a sua volta in cento di queste giornate, e l'esperienza sensuale è fonte di vita, che scorre e nutre e stimola perennemente. Lì non c'erano partner per un gioco, di questo si rese conto subito lui, che ne era in cerca. E nessuna irritazione è più seccante di quella del giocatore che con le carte in mano, conscio della sua superiorità, siede al tavolo verde e aspetta invano il partner. Il barone si fece portare un giornale. Scorse di malavoglia i testi, ma i suoi pensieri erano fiacchi e incespicavano come ubriachi dietro alle parole. Ed ecco alle sue spalle frusciare un vestito, e una voce lievemente irritata dire con accento affettato: «Mais tais-toi donc, Edgar!» Al suo tavolo, nel passare, crepitò un abito di seta, alta e prosperosa passò come un'ombra una figura e dietro a lei, con un vestito di velluto nero, un ragazzino pallido, che lo sfiorò incuriosito con un'occhiata. I due si accomodarono di fronte, al tavolo riservato, il bambino visibilmente preoccupato di un comportamento corretto che pareva in contrasto con la nera irrequietezza dei suoi occhi. La signora - e solo su lei il giovane barone aveva appuntato la sua attenzione - era molto distinta e vestita con marcata eleganza, un tipo, tra l'altro, che a lui piaceva molto, una di quelle ebree leggermente formose, di età prossima alla piena maturità, chiaramente anche passionale, ma sagace nel celare il proprio temperamento dietro una signorile melancolia. Ancora non gli era riuscito di fissarla negli occhi e si limitava ad ammirare la bella curvatura delle sopracciglia, linea di grande purezza sopra un naso delicato, indicativo sì della sua etnia, ma tale da conferire, con la sua forma nobile, nettezza e interesse al profilo. I capelli, come ogni tratto femminile in quel corpo pieno, erano di un rigoglio straordinario, la sua bellezza sembrava paga e gloriosa nella sicura consapevolezza dei molti ammiratori. Ordinò a voce molto bassa, redarguì il ragazzo che faceva rumore giocando con la forchetta, e ostentava una apparente indifferenza verso lo sguardo cautamente insidioso del barone, che pareva non notare, mentre in realtà era solo la vigile attenzione di lui a imporle quella riservatezza controllata. Il buio nel volto del barone si era illuminato di colpo, come una frustata sotterranea i nervi si animarono, tendendo le pieghe, elettrizzando i muscoli, sicché sentì uno scatto in tutto il corpo, e luci gli balenarono negli occhi. Non dissimile, in questo, dalle donne, alle quali occorre la presenza di un uomo, per sprigionare da sé tutta la loro potenza. Solo uno stimolo sensuale era in grado di imprimere alla sua energia il massimo di forza. Il cacciatore che era in lui fiutò una preda. Con sfida cercò di captare lo sguardo di lei, che a volte lo sfiorava con la sfavillante vaghezza dell'incrocio casuale, ma mai dava apertamente una risposta chiara. Anche intorno alla bocca credette di avvertire a tratti un che di mosso, come di un incipiente sorriso, ma tutto questo era incerto, e proprio questa incertezza lo eccitava. L'unica cosa che gli pareva promettente era quel continuo scansare lo sguardo, perché indicava al contempo resistenza e imbarazzo, e poi il modo stranamente compito di conversare con il bambino, chiaramente mirato a uno spettatore. Proprio la marcata ostentazione di questa calma segnalava - lui lo sentiva - un principio di inquietudine. Anche lui era eccitato: il gioco era cominciato. Prolungò la cena, tenne quasi incessantemente inchiodata con lo sguardo quella donna per mezz'ora, finché non ebbe percorso e ripercorso ogni tratto del suo volto, toccato invisibilmente ogni punto del suo corpo prosperoso. Fuori calava opprimente il buio, i boschi sospiravano di infantile paura, mentre le grosse nuvole cariche di pioggia brancicavano grigie mani verso di loro, sempre più fosche le ombre penetravano nella sala, sempre più lì le persone parevano compresse dal silenzio. Sotto l'incombere di questo silenzio - lui lo avvertiva - la conversazione tra madre e figlio si era fatta sempre più forzata, più artificiosa, presto - lo sentiva - sarebbe terminata. Allora decise di fare una prova. Si alzò per primo e si avviò lentamente alla porta, contemplando a lungo il paesaggio, senza guardare la donna. Arrivato alla porta, voltò di scatto la testa, come se avesse dimenticato qualcosa. E la sorprese, mentre lo seguiva con uno sguardo intenso. La cosa lo eccitò. Attese nella hall. Lei comparve di lì a poco, tenendo per mano il bambino, sfogliò, passando, qualche rivista, mostrò al figlio un paio di illustrazioni. Ma come il barone, quasi per caso, si avvicinò al tavolo, apparentemente in cerca anche lui di una rivista, in realtà con l'intenzione di penetrare più a fondo nell'umido baluginare dei suoi occhi, o magari addirittura di attaccare discorso, lei si distolse, diede un colpetto sulla spalla al figliolo: «Viens, Edgar! Au lit!» e gli passò accanto freddamente. Un po' deluso, il barone la seguì con lo sguardo. Veramente aveva contato di fare conoscenza quella sera stessa, e quei modi bruschi lo delusero. Ma in fondo quella resistenza era seducente, e proprio l'incertezza accese la sua voglia. Comunque: aveva trovato il partner, e il gioco poteva cominciare. Rapida amicizia Quando il barone la mattina dopo entrò nella hall, vide il bambino della bella sconosciuta parlare animatamente con i due ragazzi addetti all'ascensore, ai quali mostrava le illustrazioni di un libro di Karl May. La madre non c'era, evidentemente era ancora intenta a vestirsi. Solo ora il barone osservò il ragazzino. Era un ragazzo timido, non sviluppato, nervoso, di circa dodici anni, con movimenti a scatti e occhi scuri che saettavano intorno inquieti. Come spesso i bambini a quell'età, aveva un'aria intimorita, come se lo avessero proprio allora strappato dal sonno e messo all'improvviso in un ambiente sconosciuto. Il suo volto non era privo di grazia, ma ancora del tutto incerto, la lotta tra l'elemento adulto e quello puerile pareva soltanto agli inizi, ancora tutto in esso era come impastato, privo di forma, nulla configurato a tratti chiari, solamente commisto in modo vago e inquieto. Oltre a ciò era giusto nell'età ingrata in cui i bambini sembrano in prestito nei loro vestiti, con le giunture magre che ballano dentro le maniche e i calzoni penduti, e nessuna vanità ancora li spinge ad avere cura dell'aspetto esteriore. Il ragazzino, nel suo vagare senza costrutto, dava un'impressione piuttosto penosa. In sostanza era d'impaccio a tutti quanti. Ora lo spingeva da parte il portiere, che pareva scocciare con ogni sorta di domande, ora disturbava all'ingresso; evidentemente non trovava nessuno con cui trattenersi amichevolmente. Per cui, nel suo infantile bisogno di chiacchierare, cercava di attaccare discorso con il personale dell'albergo, che, quando aveva tempo, rispondeva, ma subito troncava la conversazione quando spuntava un adulto o bisognava fare qualcosa di sensato. Il barone osservò sorridendo e con interesse il povero ragazzo attratto con curiosità da ogni cosa e da tutti sfuggito con poco garbo. A un certo punto afferrò saldamente uno di questi sguardi curiosi, ma gli occhi neri si ritrassero subito intimoriti, come li colse nella loro cerca, e si nascosero dietro le palpebre abbassate. La cosa divertì il barone. Il ragazzo cominciava a interessarlo, e si chiese se quel bambino, che evidentemente era così timido soltanto per paura, non avrebbe potuto fungere da tramite più breve per un approccio. Comunque, si poteva tentare. Senza dare nell'occhio seguì il ragazzino, che era uscito un'altra volta davanti all'ingresso e nel suo infantile bisogno di tenerezza accarezzava le froge rosa di un cavallo bianco, finché anche lì - proprio non era fortunato - il cocchiere lo redarguì in modo piuttosto brusco. Offeso e annoiato, tornò a bighellonare con il suo sguardo vuoto e un po' triste. E a quel punto il barone gli rivolse la parola. «Allora, giovanotto, ti piace, qui?» attaccò all'improvviso, cercando di dare all'approccio un tono piuttosto gioviale. Il ragazzino divenne rosso come il fuoco e guardò su impaurito. Ritrasse la mano come per timore e si torceva in qua e in là dall'imbarazzo. Era la prima volta che un signore sconosciuto attaccava discorso con lui. «Grazie, molto», riuscì a balbettare appena. L'ultima parola uscì più strozzata che articolata. «Mi stupisce», disse il barone ridendo, «perché in effetti è un posto piuttosto loffio, specialmente per un giovanotto della tua fatta. Che cosa ci fai tutto il giorno?». Il ragazzo era ancora troppo frastornato, per rispondere rapidamente. Come era possibile che quell'elegante signore sconosciuto cercasse di attaccare discorso con lui, che tutti ignoravano? Questo pensiero lo intimidiva e insieme lo rendeva orgoglioso. A fatica si diede un tono. «Leggo, e poi facciamo molte passeggiate. A volte andiamo anche in carrozza, la mamma e io. Sono qui per rimettermi in salute, dopo la malattia che ho fatto. Perciò devo stare anche molto al sole, ha detto il medico.» Pronunciò le ultime parole già con una certa sicurezza. I bambini sono sempre fieri di una malattia, perché sanno che il pericolo li rende doppiamente preziosi ai loro familiari. «Già, il sole è senz'altro indicato per un giovanotto come te, e vedrai che ti abbronzerà come si deve. Però non dovresti startene lì inerte tutto il giorno. Un ragazzo come te dovrebbe muoversi, sfogarsi e anche pazziare un tantino. A me pare che tu sia un po' troppo a modino, e poi hai l'aria di un secchione, con quel tuo grosso libro sotto il braccio. Se penso che razza di briccone ero alla tua età, ogni giorno tornavo a casa con i calzoni strappati. Non bisogna proprio essere troppo timorati!» Istintivamente il ragazzo dovette sorridere, e questo gli tolse la paura. Avrebbe voluto replicare qualcosa, ma gli pareva troppo sfacciato, troppo ardito di fronte a quell'amabile signore sconosciuto, che gli parlava tanto affabilmente. Non era mai stato molto sicuro di sé, anzi piuttosto imbarazzato, per cui ora, dalla gioia e dalla vergogna, entrò nella confusione più tremenda. Gli sarebbe veramente piaciuto continuare la conversazione, ma non gli veniva in mente nulla. Fortunatamente in quel mentre passò di lì il grosso sanbernardo giallastro dell'albergo, fiutandoli entrambi e lasciandosi docilmente accarezzare. «Ti piacciono i cani?» domandò il barone. «Oh, sì, molto. Mia nonna ne ha uno nella sua villa a Baden, e quando stiamo lì, mi fa compagnia tutto il giorno. Ma soltanto in estate, quando ci andiamo in visita.» «Noi a casa, nella nostra tenuta, ne abbiamo, credo, due dozzine. Se qui fai il bravo, te ne regalerò uno. Di pelo bruno, con le orecchie bianche, un cucciolotto. Ti andrebbe?» Il bambino arrossì dalla contentezza. «Sì, certo», gli scappò detto con passione e desiderio. Ma subito spuntò, timoroso e come attonito, il dubbio. «Ma la mamma non lo permetterà. Dice che non vuole cani in casa. Creano troppi fastidi.» Il barone sorrise. Finalmente il discorso era caduto sulla mamma. «É così severa la mamma?» Il ragazzino ci pensò, guardandolo per un istante con aria interrogativa, incerto se poteva già fidarsi di quel signore sconosciuto. La risposta suonò cauta. «No, la mamma non è severa. Adesso, perché sono stato malato, mi concede tutto. Forse mi concederà persino un cane.» «Vuoi che glielo chieda?» «Sì, per piacere, lo faccia», gioì il ragazzo. «Allora la mamma lo permetterà di certo. E come è fatto il cane? Ha le orecchie bianche, vero? É bravo nel riporto?» «Sì, è bravo in tutto.» Al barone venne da sorridere per le scintille ardenti spuntate così rapidamente negli occhi del bambino. D'un tratto l'imbarazzo iniziale era rotto, e la passionalità, frenata dal timore, proruppe. In un lampo il bambino timido e impaurito di prima si era trasformato in un ragazzo disinibito. Magari fosse così anche la madre, pensò istintivamente il barone, così calda dietro lo schermo della paura! Ma già il ragazzo lo assaliva con venti domande: «Come si chiama il cane?» «Karo.» «Karo», esultò il bambino. Ogni parola era per lui fonte di riso e di giubilo, essendo come inebriato dall'inattesa circostanza che qualcuno si occupasse affabilmente della sua persona. Lo stesso barone era stupito del proprio rapido successo e decise di battere il ferro finché era caldo. Invitò il ragazzo a fare due passi in compagnia, e il poveretto, desideroso da settimane di un piacevole contatto umano, accolse con entusiasmo la proposta. Senza malizia spifferò tutto quanto il suo nuovo amico cavava da lui con domande senza peso, in apparenza buttate là casualmente. Ben presto il barone venne a sapere tutto sulla famiglia e in particolare che Edgar era l'unico figlio di un avvocato viennese, evidentemente della ricca borghesia ebraica. E con abili quesiti appurò rapidamente che la madre si era espressa in termini per nulla lusinghieri sul soggiorno al Semmering, lamentando la mancanza di una compagnia simpatica; anzi, dal modo evasivo con cui Edgar rispose alla domanda se la mamma voleva molto bene al papà, credette di poter arguire che i rapporti fra i due non fossero dei migliori. Quasi si vergognava della facilità con la quale riusciva a carpire all'ingenuo ragazzino tutti questi piccoli segreti di famiglia, perché Edgar, molto fiero che qualcosa dei suoi racconti potesse interessare un adulto, inondò, per così dire, di confidenze il nuovo amico. Il suo cuore infantile batteva forte dall'orgoglio - mentre camminavano, il barone gli aveva messo un braccio sulle spalle - di essere visto da tutti in simile intimità con un adulto, e a poco a poco scordò di essere un bambino, chiacchierando in maniera libera e spontanea come se l'altro fosse un coetaneo. Edgar, stando ai suoi discorsi, era molto intelligente, un po' precoce, come quasi tutti i bambini malaticci che hanno vissuto parecchio con gli adulti, e dotato di una emotività affettiva o repulsiva stranamente ipertesa. Con nulla sembrava avere un rapporto tranquillo, di ogni persona o cosa parlava in termini estasiati oppure con un odio così intenso, che esso gli sfigurava sgradevolmente il volto, rendendolo quasi malvagio e repellente. Qualcosa di impetuoso e di sconnesso, forse ancora dovuto alla malattia da poco superata, dava ai suoi discorsi una focosità fanatica, e pareva che la sua goffaggine fosse soltanto paura a stento repressa della propria passionalità. Il barone si conquistò facilmente la fiducia del ragazzo. Gli bastò una mezz'ora, per avere in mano quel cuore ardente percorso da fremiti inquieti. Del resto, si sa, è molto facile ingannare dei bambini, questi esseri senza malizia, il cui amore così raramente viene richiesto. Gli bastò ritornare al passato, e il discorso infantile gli venne così naturale, così spontaneo, che anche il ragazzino vide in lui un suo pari e nel giro di pochi minuti perse ogni sensazione di distanza. Era semplicemente estasiato dalla felicità di aver trovato all'improvviso in quel luogo solitario un amico, e quale amico! Di colpo erano caduti nell'oblio tutti gli amichetti di Vienna, i ragazzini dalle vocette fesse, con le loro chiacchiere insulse, come svanite le loro immagini, in virtù di questo nuovo incontro! Tutta la sua esaltata infatuazione adesso era rivolta al nuovo grande amico, e il cuore gli si allargò dall'orgoglio quando quello, congedandosi, lo invitò a tornare il mattino dopo, e il nuovo amico da lontano gli fece cenni di saluto, proprio come un fratello. Quell'istante forse fu il più bello della sua vita. É così facile ingannare dei bambini. Il barone sorrise, mentre il ragazzo si allontanava di corsa. Il tramite era assicurato. Adesso il ragazzino - ne era certo - avrebbe tormentato fino allo stremo con i suoi racconti la madre, ripetendo tutti i discorsi parola per parola. E si ricordò divertito di avere abilmente intessuto alcuni complimenti all'indirizzo di lei, parlando in continuazione della «bella mamma» di Edgar. Per lui era pacifico che il loquace ragazzino, dai e dai, avrebbe messo in contatto la sua mamma con il nuovo amico. Non doveva muovere un dito, per ridurre le distanze tra sé e la bella sconosciuta, poteva tranquillamente sognare e contemplare il paesaggio, perché sapeva che un paio di ardenti mani infantili gli stavano costruendo la passerella verso il cuore di lei. Terzetto Il piano, come si rivelò qualche ora più tardi, era riuscito perfettamente in ogni minimo particolare. Quando il giovane barone, con un lieve ritardo intenzionale, si presentò nella sala da pranzo, Edgar ebbe uno scatto sulla sedia, salutandolo espansivamente con un sorriso felice e cenni della mano. Intanto tirava per la manica sua madre e le parlava in fretta, eccitato, facendo evidenti gesti in direzione del barone. Lei, arrossendo imbarazzata, lo redarguì per il suo comportamento troppo vivace, ma non poté esimersi dal guardare a un certo punto verso il barone, per accontentare il figliolo, e il barone colse subito l'occasione, accennando un rispettoso inchino. La conoscenza era fatta. Fu costretta a ringraziare, ma da quel momento tenne la faccia più china sul piatto ed evitò accuratamente durante tutto il pranzo di guardare un'altra volta dalla parte del barone. Non così Edgar, che lumava in continuazione verso di lui e una volta cercò persino di parlargli, cosa disdicevole, che la madre provvide a stroncare subito energicamente. Alla fine del pasto gli fu detto di andare a dormire, e un fitto parlottìo si instaurò tra lui e la sua mamma, con il risultato finale che gli venne concesso, per le sue appassionate insistenze, di recarsi all'altro tavolo a salutare il suo amico. Il barone gli disse qualche parola affettuosa, che tornò ad accendere gli occhi del ragazzo, chiacchierando con lui un paio di minuti. Poi all'improvviso, con un'abile mossa, alzandosi, si volse verso l'altro tavolo, complimentandosi con la vicina un po' confusa, per il figliolo intelligente, sveglio, si compiacque della bella mattinata trascorsa insieme a lui - Edgar stava lì, rosso di gioia e di fierezza e infine si informò sulla salute del ragazzo con tali e tante domande specifiche, che la madre fu costretta a rispondere. E così avviarono una conversazione piuttosto lunga, alla quale il ragazzino assistette felice e con una sorta di venerazione. Il barone si presentò e credette di notare che il suo nome altisonante producesse un certo effetto sulla donna vanitosa. A ogni modo lei si mostrò estremamente gentile nei suoi confronti, sebbene non concedesse nulla e addirittura si congedasse presto, per via del bambino, aggiunse a mo' di scusa. Il ragazzino protestò con insistenza di non essere stanco e volentieri sarebbe rimasto in piedi tutta la notte. Ma già sua madre aveva porto la mano al barone, che la baciò rispettosamente. Quella notte Edgar dormì male. In lui c'era una confusione di felicità e di infantile disperazione. Perché durante la giornata era accaduto qualcosa di nuovo nella sua vita. Per la prima volta era intervenuto attivamente nel destino di persone adulte. Già immerso nel dormiveglia, scordò la propria condizione di bambino e all'improvviso gli parve di essere grande. Fino allora, vivendo isolato ed essendo spesso malaticcio, aveva avuto pochi amici. Per tutto il suo bisogno di tenerezza non c'era nessuno all'infuori dei genitori, che poco si curavano di lui, e del personale di servizio. E l'intensità di un amore è sempre valutata in modo errato, se lo si giudica in base alla sua causa occasionale e non sulla scorta della tensione che lo precede, di quel vuoto oscuro di delusione e di solitudine che precede tutti i grandi eventi del cuore. Lì era in attesa un sentimento carico, intatto, e adesso a braccia aperte si precipitava incontro al primo che sembrava meritarlo. Edgar giaceva nell'oscurità, felice e frastornato, voleva ridere e gli venne da piangere. Perché amava quella persona come mai aveva amato un amico, il padre e la madre, e neppure Dio. Tutta la passionalità immatura dei suoi anni si attaccò all'immagine di quella persona, il cui nome due ore prima gli era ancora ignoto. Tuttavia era abbastanza acuto, per non sentirsi a disagio di fronte all'aspetto inatteso e singolare di quella nuova amicizia. Lo turbava soprattutto il senso della propria inadeguatezza e nullità. Sono degno di lui, io, ragazzino di dodici anni, che davanti a sé ha ancora tutti i suoi studi, che la sera viene spedito a letto prima di tutti? si tormentava. Che cosa posso rappresentare per lui, che cosa offrirgli? Proprio questa impossibilità, dolorosamente avvertita, di manifestare in qualche modo il suo sentimento, lo rendeva infelice. Di solito, se un compagno gli era entrato nel cuore, la prima cosa era di dividere con lui i piccoli tesori del suo scrittoio, francobolli e pietre, i puerili averi della fanciullezza, ma tutte queste cose, che ancora il giorno prima rivestivano per lui una grande importanza e un fascino raro, d'un tratto gli parevano prive di valore, insulse e spregevoli. Infatti, come poteva offrire cose del genere a questo nuovo amico, al quale non era neppure pensabile dare del tu? Dove trovare un modo, una possibilità di rivelare i propri sentimenti? Sempre più lo angustiava il fatto di essere piccolo, qualcosa di incompiuto, di immaturo, un ragazzino di dodici anni, e mai finora aveva maledetto con tanta veemenza la sua condizione di bambino, mai desiderato tanto ardentemente di svegliarsi diverso, così come sognava se stesso: grande e forte, un uomo, un adulto al pari degli altri. In questi inquieti pensieri si inserirono presto i primi vividi sogni di quel nuovo mondo della condizione adulta. Finalmente Edgar si addormentò con un sorriso, ma il ricordo dell'appuntamento dell'indomani gli minò il sonno. Già alle sette saltò su con il timore di arrivare troppo tardi. Si vestì in fretta e furia, salutò la madre stupefatta, che solitamente faticava a tirarlo giù dal letto, nella camera di lei, e prima che potesse chiedergli qualcosa, si precipitò da basso. Fino alle nove gironzolò impaziente, dimenticando di fare colazione, unicamente preoccupato di non far attendere a lungo l'amico per la passeggiata. Alle nove e mezzo, come se nulla fosse, il barone finalmente comparve. Naturalmente aveva bell'e scordato l'appuntamento, ma nel vedere il ragazzo volargli incontro smanioso dovette sorridere di tanta passionalità e si mostrò disposto a onorare la sua promessa. Di nuovo prese sottobraccio il ragazzino raggiante, deambulando avanti e indietro, solo che evitò con modi garbati ma fermi di iniziare subito la passeggiata comune. Sembrava in attesa di qualcosa, almeno così si poteva arguire dal suo sguardo che lambiva nervosamente le porte. D'un tratto si impetri. Era entrata la mamma di Edgar e si diresse affabilmente verso i due, rispondendo al saluto. Sorrise consenziente, come apprese della passeggiata in progetto, che Edgar le aveva taciuto come qualcosa di troppo prezioso, ma si lasciò presto convincere a essere della partita, per le insistenze del barone. Edgar apparve subito contrariato e si mordeva le labbra. Che rabbia: proprio ora lei doveva passare di lì! Quella passeggiata apparteneva soltanto a lui, e anche se aveva presentato il suo amico alla mamma, si era trattato solo di una gentilezza da parte sua, ma non per questo intendeva dividerlo con lei. Già spuntava in lui una certa gelosia nel notare l'affabilità del barone verso sua madre. Sicché si avviarono tutti e tre, e la pericolosa sensazione della propria importanza e improvvisa rilevanza fu ulteriormente alimentata nel bambino dall'insolito interesse che i due mostravano nei suoi confronti. Edgar era quasi esclusivamente il tema della conversazione, la madre parlando con preoccupazione un po' finta del suo pallore e nervosismo, mentre il barone minimizzava la faccenda sorridendo e si dilungava in tono elogiativo sui modi simpatici di quello che chiamava il suo «amico.» Per Edgar fu il momento più bello. Aveva acquisito dei diritti che mai gli erano stati riconosciuti nel corso della sua infanzia. Poteva interloquire senza essere subito zittito, addirittura esprimere ogni sorta di desideri peregrini, che fino allora sarebbero stati accolti in sinistra parte. E non sorprende che in lui prendesse corpo a dismisura l'ingannevole sensazione di essere un adulto. Ormai nei suoi sogni a occhi aperti l'infanzia era alle spalle, come un vestito troppo stretto che si butta via. A mezzogiorno il barone, accettando l'invito della sempre più affabile madre di Edgar, sedette al loro tavolo. Il vis-à-vis si era trasformato in un à còte, dalla conoscenza era nata un'amicizia. Era in atto un terzetto, e le tre voci della donna, dell'uomo e del bambino si accordavano in armonia pura. Attacco. Ora all'impaziente cacciatore parve giunto il momento di farsi sotto con cautela alla preda. L'atmosfera famigliare, il coro a tre voci in questa faccenda non gli andava a genio. Certo, non era spiacevole chiacchierare amabilmente in tre, ma, dopo tutto, chiacchierare non era la sua intenzione. E sapeva che il lato mondano, con la mascherata del suo gioco di seduzione, ritarda sempre il contatto erotico tra l'uomo e la donna, togliendo alle parole l'ardore, all'attacco la vampa del fuoco. Era bene che lei non scordasse mai nelle spire della conversazione la sua vera intenzione, che - lo sapeva per certo - era già stata capita da lei. Che i suoi sforzi con quella donna non sarebbero stati vani, era molto probabile. Si trovava in quegli anni decisivi in cui una donna comincia a pentirsi di essere rimasta fedele a un marito che in fondo non ha mai amato, e in cui il purpureo tramonto nella sua bellezza le consente ancora un'ultima urgente scelta tra ruolo materno e femminilità. La vita, che già da un pezzo pareva aver trovato la sua risposta, in quell'istante viene rimessa in questione, un'ultima volta il magico ago della volontà oscilla tra la speranza dell'esperienza erotica e la definitiva rassegnazione. Allora la donna è posta di fronte alla rischiosa decisione di vivere il proprio destino oppure quello dei suoi figli, di essere femmina oppure madre. E il barone, in queste cose acuto, credette di notare in lei appunto questo pericoloso oscillare tra ardente voglia di vivere e sacrificio. Nei suoi discorsi lei dimenticava costantemente di parlare del marito, che evidentemente soddisfaceva soltanto le sue esigenze esteriori, non però il suo snobismo incentivato dal tenore di vita distinto, e in fondo, interiormente, sapeva ben poco del proprio figliolo. Un'ombra di noia, truccata da melancolia negli occhi scuri, aduggiava la sua esistenza e offuscava la sua sensualità. Il barone decise di procedere rapidamente, evitando però al contempo ogni parvenza di fretta. Al contrario, come il pescatore ritrae l'amo per attirare la preda, intendeva da parte sua attribuire a quella nuova amicizia un carattere di esteriore indifferenza, voleva farsi corteggiare, mentre in realtà era lui il corteggiatore. Si prefisse di ostentare una certa spocchia, di sottolineare nettamente la loro differenza di status sociale, e lo seduceva l'idea di poter conquistare quel corpo prosperoso, pieno, bello, unicamente accentuando la propria arroganza, in virtù di un dato esteriore, come un nome nobiliare altisonante e maniere distaccate. Il gioco incandescente cominciava già a eccitarlo, e perciò si costrinse alla cautela. Il pomeriggio rimase in camera, nella gradevole certezza che intanto lo avrebbero cercato, sentendo la sua mancanza. Ma questa assenza fu avvertita non tanto da lei, alla quale in effetti era mirata, quanto dal povero ragazzo, cui era motivo di tormento. Per tutto il pomeriggio Edgar si sentì assolutamente smarrito e perso; con l'attaccamento tenace proprio dei ragazzi passò lunghe ore in attesa spasmodica del suo amico. Andarsene, o fare da solo qualsiasi cosa, gli pareva uno sfregio alla loro amicizia. Gironzolò senza costrutto per i corridoi, e più passava il tempo, più il suo cuore si colmava di infelicità. Nella sua fantasia stravolta andava già vaneggiando di una disgrazia oppure di un'offesa inconsapevolmente inferta, e già era prossimo al pianto dall'impazienza e dall'angoscia. Quando poi la sera il barone si presentò a tavola, fu accolto con tutti gli onori. Edgar, senza badare alle parole dissuasive della madre e allo stupore degli altri commensali, gli corse incontro, stringendogli di slancio il petto con le braccine scarne. «Dove stava? Dove si è cacciato?» esclamò con affanno. «L'abbiamo cercata dappertutto.» La madre arrossì per l'indesiderato coinvolgimento e disse piuttosto dura: «Sois sage, Edgar. Assieds-toi!» (Parlava infatti sempre in francese con lui, sebbene questa lingua non le fosse poi tanto familiare, e nei discorsi un po' complessi si incagliasse facilmente.) Edgar obbedì, ma non smise di interrogare il barone. «Non dimenticare che il signor barone è libero di fare quello che vuole. Forse la nostra compagnia lo annoia.» Adesso fu lei a coinvolgersi, e il barone avvertì con gioia in quelle parole la richiesta di un complimento. In lui si destò il cacciatore. Era inebriato, eccitato, di avere trovato così rapidamente la pista giusta, di sentire la preda vicinissima al colpo fatale. I suoi occhi scintillavano, il sangue gli sfrecciava leggero per le vene, le parole gli fluivano dalle labbra con una facilità che sorprendeva persino lui stesso. Come ogni soggetto dotato di una forte carica erotica, era doppiamente brillante, doppiamente se stesso, quando sapeva di piacere a una donna, come capita a certi attori, che si accendono soltanto quando sentono la platea, la massa che respira, completamente in balia davanti a loro. Era sempre stato uno che sapeva raccontare bene, con immagini corpose, ma quella sera superò se stesso, bevendo, nel mentre, un paio di coppe di champagne, che aveva ordinato in onore della nuova amicizia. Raccontò di certe battute di caccia in India, alle quali aveva partecipato come ospite di un amico appartenente all'alta aristocrazia inglese, scegliendo abilmente questo tema, perché gli era indifferente, e perché d'altro canto avvertiva che tutto ciò che sapeva di esotico e per lei era irraggiungibile, eccitava quella donna. Ma il vero affascinato da questi discorsi era soprattutto Edgar, i cui occhi ardevano di entusiasmo. Si scordò di mangiare, di bere, e con gli occhi fissi si beveva le parole dalle labbra del narratore. Mai avrebbe osato sperare di vedere in carne e ossa uno che aveva vissuto di persona cose tanto sconvolgenti, di cui leggeva nei suoi libri: la caccia alla tigre, la gente di colore, gli indù e la jaggernat, la ruota terribile, che sotto i suoi raggi schiacciava mille persone. Fino ad allora non aveva mai pensato che uomini del genere esistessero per davvero, così come non credeva ai paesi delle fiabe, e in quell'istante si sprigionò in lui per la prima volta un sentimento grande. Non riusciva a staccare gli occhi dal suo amico, fissando con il fiato sospeso le mani, proprio lì davanti a lui, che avevano ucciso una tigre. A stento osava chiedere qualcosa, e allora la sua voce suonava febbrile ed eccitata. La sua rapida fantasia gli evocava di continuo l'immagine corrispondente al racconto, vedeva l'amico in groppa a un elefante con la gualdrappa purpurea, uomini bruni, a sinistra e a destra, con preziosi turbanti, e poi, all'improvviso, la tigre che balzava fuori dalla giungla a zanne scoperte e conficcava gli artigli nella proboscide dell'elefante. Quindi il barone raccontò cose ancora più interessanti sul modo astuto di catturare gli elefanti, adescando nei gabbioni gli animali giovani, selvaggi, indocili, per mezzo di vecchi elefanti addomesticati: gli occhi del bambino sprizzavano faville. Ed ecco la mamma dire improvvisamente, guardando l'orologio: «Neuf heures! Au lit!» E per lui fu come se davanti gli piombasse di colpo una mannaia. Edgar impallidì dallo spavento. Per tutti i bambini l'essere spediti a letto è una sentenza terribile, perché per essi rappresenta la più palese umiliazione di fronte agli adulti, l'ammissione, lo stigma della loro condizione di bambini, di piccoli, del bisogno infantile di dormire. E tanto più tremenda era questa umiliazione in quel momento di estremo interesse, perché lo privava di cose tanto straordinarie. «Solo questa storia ancora, mamma, la storia degli elefanti, fammela sentire, ti prego!» Stava già per mettersi a piangere, ma subito si ricordò della sua nuova dignità di adulto. Accennò soltanto un tentativo. Ma quella sera la madre era stranamente severa. «No, è già tardi. E ora che tu salga! Sois sage, Edgar. Poi ti racconterò per filo e per segno tutte le storie del signor barone.» Edgar esitò. Di solito sua madre lo accompagnava sempre a letto. Ma non voleva mendicare in presenza dell'amico. Il suo orgoglio infantile voleva serbare a quel penoso congedo una parvenza di volontarietà. «Davvero, mamma, mi racconterai tutto, ma proprio tutto? La storia degli elefanti e tutto il resto?» «Sì, figliolo mio.» «E subito? Stasera stessa?» «Sì, certo, ma ora va' a letto. Va'!» Edgar era ammirato di sé, per il fatto che gli riuscisse di dare la mano al barone e alla mamma senza arrossire, sebbene il singhiozzo già gli affiorasse in gola. Il barone gli arruffo affettuosamente i capelli, e questo diffuse ancora un sorriso sul suo volto tirato. Ma poi dovette affrettarsi verso la porta, altrimenti avrebbero visto i lacrimoni scendergli giù per le guance. Gli elefanti La madre restò ancora qualche tempo a tavola con il barone, ma non parlarono più di elefanti e di cacce. Un che di sensualmente greve, rapidi guizzi di imbarazzo si erano introdotti nei loro discorsi, da che il ragazzino li aveva lasciati. Alla fine si trasferirono nella hall e si sedettero in un angolo. Il barone era più in forma che mai, lei stessa leggermente inebriata da un paio di coppe di champagne, per cui la conversazione prese ben presto una piega pericolosa. Il barone non poteva definirsi propriamente bello, era soltanto giovane e aveva un'aria molto virile nel volto bruno scuro, energico, da ragazzo, con i suoi capelli a spazzola, e la incantava per i gesti vivaci e quasi screanzati. Adesso lo osservava con piacere da vicino e non temeva più il suo sguardo. Ma a poco a poco si insinuò nei discorsi di lui un ardire che in qualche modo la turbava, qualcosa come un palpare il suo corpo, un tastare e poi ritrarsi, una inafferrabile concupiscenza che le fiondava il sangue nelle guance. E poi subito rideva spensierato, con naturalezza, come un bambino, e questo dava a tutte quelle piccole avances la svagata parvenza di scherzi infantili. A volte aveva l'impressione di dover troncare decisamente certe parole di lui, ma, essendo civettuola di natura, da quelle piccole arditezze vogliose si sentiva solamente indotta a temporeggiare. E trascinata dal gioco rischioso, alla fine cercò addirittura di imitare l'altro. Lanciò attraverso gli sguardi piccole, maliziose promesse, già concedendosi con le parole e con i gesti, e tollerò persino il suo accostarsi stretto, la vicinanza di quella voce, il cui fiato sentiva a volte come un brivido caldo sulle spalle. Come tutti i giocatori, scordarono il tempo e si persero talmente nelle spire ardenti della conversazione, che riemersero di colpo soltanto verso mezzanotte, quando nella hall si smorzarono le luci. Lei scattò in piedi subito, sull'onda dell'improvviso riscotimento, e d'un tratto avvertì quanto pericolosamente si fosse spinta oltre. A scherzare con il fuoco ci era anche abituata, ma a quel punto il suo istinto eccitato le segnalò che lo scherzo era ormai a un passo dal trasformarsi in una cosa seria. Con un brivido scoprì di non sentirsi più del tutto sicura, che qualcosa in lei aveva preso a slittare e si muoveva paurosamente in direzione del vortice. Nella testa era tutto un mulinare di paura, di vino e di discorsi ardenti, le prese una paura sciocca, assurda, una paura che già alcune volte nella vita aveva provato in simili momenti pericolosi, ma mai in maniera così brutale e vertiginosa. «Buona notte, buona notte. A domattina presto», disse in fretta e fece per andarsene. Non tanto per sottrarsi a lui, quanto piuttosto al rischio di quell'istante e alla insicurezza nuova, strana, che avvertiva dentro di sé. Ma il barone trattenne con tenera fermezza la mano porta per il saluto, la baciò, e non una volta sola, secondo il galateo, ma quattro o cinque volte, passando fremente con le labbra dalle affusolate punte delle dita fin sul polso, mentre lei sentiva con un lieve brivido i suoi baffi ruvidi pungere sul dorso della mano. Una sensazione calda e soffocante da lì irradiò con il sangue per tutto il corpo, paura eruppe bruciante, martellando minacciosa nelle tempie, la sua testa era rovente, la paura, la paura assurda adesso le attraversava spasmodica il corpo intero, e ritirò in fretta la mano. «Rimanga ancora, la prego», sussurrò il barone. Ma già lei si era allontanata con una goffaggine precipitosa che palesava la sua paura e il suo turbamento. Adesso in lei c'era l'eccitazione che l'altro voleva; sentiva che tutto in lei era stravolto. Bruciante, tremenda, la incalzava la paura che l'uomo alle sue spalle potesse seguirla e afferrarla, ma nello stesso tempo, mentre ancora stava fuggendo, già avvertiva il rincrescimento che lui non lo facesse. In quel momento sarebbe potuto accadere ciò che da anni lei inconsciamente desiderava: l'avventura, il cui alito incalzante amava voluttuosamente, sempre sottraendosi a essa fino allora all'ultimo istante, l'avventura grande e rischiosa, non il mero flirt effimero, eccitante. Ma il barone era troppo orgoglioso, per correre dietro all'attimo propizio. Era troppo sicuro della vittoria, per fare sua di rapina quella donna in un momento di debolezza, nei fumi del vino; al contrario, il giocatore leale era attratto solamente dalla lotta e dall'offerta di sé dell'altro in piena coscienza. Tanto, non poteva sfuggirgli. Il veleno le bruciava già nelle vene, ne era certo. In cima alle scale si fermò, premendo la mano sul cuore ansimante. Dovette riprendersi per un attimo. I nervi cedettero. Un sospiro le eruppe dal petto, metà di sollievo, per essere scampata a un pericolo, metà di rincrescimento; ma tutto questo era confuso e seguitava a turbinare nel sangue soltanto come vertigine sopita. Con gli occhi semichiusi, come un'ubriaca, si avviò faticosamente verso la sua porta e provò sollievo nell'afferrare la maniglia fredda. Soltanto allora si sentì al sicuro! Spinse piano la porta nella camera. E già un secondo dopo si ritrasse spaventata. Qualcosa si era mosso nella stanza, proprio in fondo, nell'oscurità. I suoi nervi eccitati ebbero uno scatto acuto, già stava per invocare aiuto, quando da dentro le giunse una voce sommessa, assonnata: «Sei tu, mamma?» «Per l'amor del cielo, che cosa ci fai qui?» Si precipitò verso il divano, dove Edgar giaceva acciambellato, emergendo appunto dal sonno. Il suo primo pensiero fu che il bambino fosse malato o bisognoso di aiuto. Ma Edgar, ancora insonnolito, le disse con lieve rimprovero: «Ti ho aspettato e poi mi sono addormentato». «Ma perché?» «Per via degli elefanti.» «Quali elefanti?» Solo allora capì. Aveva promesso al bambino di raccontargli tutto, ancora quella sera stessa, della caccia e delle avventure. E allora il bambino, questo ragazzino ingenuo, infantile, si era intrufolato nella stanza di lei, aspettando fiducioso che arrivasse, e nel mentre si era addormentato. Quella stravaganza la irritava. O meglio: sentiva rabbia verso se stessa, un sommesso mormorio di colpa e di vergogna, che volle soverchiare strillando. «Vattene subito a letto, razza di maleducato», gli urlò. Edgar la guardò con stupore. Perché era così arrabbiata con lui? Non aveva fatto niente di male. Ma questo stupore irritò ancora di più la madre già agitata. «Vattene subito in camera tua», gridò stizzita, perché sentiva di fargli un torto. Edgar uscì senza dire una parola. Era terribilmente stanco e attraverso le nebbie opprimenti del sonno avvertiva solo confusamente che la madre non aveva mantenuto una promessa e che lo si trattava in modo ingiusto. Ma non gli veniva da ribellarsi. Tutto in lui era intorpidito dalla stanchezza; e poi era molto contrariato di essersi addormentato nella stanza, invece di stare sveglio nell'attesa. Proprio come un bambino piccolo, disse indignato a se stesso, mentre ripiombava nel sonno. Perché da quell'ultima giornata odiava la propria condizione di bambino. Schermaglie Il barone aveva dormito male. E sempre pericoloso andare a letto dopo un'avventura interrotta: una notte agitata dal travaglio di sogni sensuali gli fece presto rimpiangere di non avere colto l'attimo con polso fermo. Quando il mattino dopo arrivò giù ancora assonnato e di pessimo umore, il ragazzino gli balzò incontro da un nascondiglio, abbracciandolo con entusiasmo, e cominciò a tormentarlo con mille domande. Era felice di riavere per sé, anche solo per qualche istante, il suo grande amico e di non doverlo dividere con la mamma. Solo a lui doveva raccontare, non più alla mamma, lo pregò accalorato, perché lei, nonostante la promessa, non gli aveva riferito nulla delle tante cose meravigliose. Il barone, sgradevolmente scosso dall'imboscata e solo a stento capace di nascondere il proprio malumore, fu sommerso da cento molestamenti infantili. In più, alle sue domande il ragazzo mescolò appassionate attestazioni del proprio amore, felice di essere nuovamente solo con l'amico cercato da un pezzo e atteso dal primo mattino. Il barone rispose sgarbatamente. Quel bambino sempre alla posta, le sue domande insulse, e in generale l'attaccamento passionale non richiesto, cominciavano a tediarlo. Era stufo di andare in giro tutto il giorno con un ragazzino di dodici anni, perdendo tempo in chiacchiere inutili. Adesso l'unica cosa che gli importava era battere il ferro finché era caldo e agguantare da solo la madre, il che, proprio per la indesiderata presenza del bambino, diventava un problema. Per la prima volta sentì un certo disagio di fronte a quella affettività imprudentemente suscitata, perché al momento non vedeva alcuna possibilità di disfarsi dell'amico troppo appiccicoso. Comunque, valeva la pena di tentare. Fino alle dieci, ora in cui era d'accordo di vedersi con la madre per la passeggiata, si lasciò sommergere distrattamente dalle chiacchiere appassionate del ragazzo, buttando là ogni tanto qualche parola, per non offenderlo, ma intanto sfogliava il giornale. Finalmente, quando la lancetta era quasi in verticale, come se gli fosse venuto in mente all'improvviso, pregò Edgar di fare un salto all'altro albergo, per chiedere se il conte Grundheim, suo padre, era già arrivato. L'ingenuo ragazzino, felice di poter essere finalmente utile al suo amico in qualche cosa, fiero della propria dignità di messaggero, partì di volata e percorse con tale foga la strada, che la gente si voltava a guardarlo stupita. Ma lui ci teneva a mostrare quanto era svelto, se gli veniva affidata una commissione. Il conte, gli dissero là, non era ancora arrivato, anzi, al momento, non aveva neppure prenotato. Sempre di corsa tornò con la notizia. Ma nella hall, del barone nemmeno l'ombra. Per cui bussò alla porta della sua stanza: invano! Preoccupato, perlustrò di furia tutti gli ambienti, la sala della musica e il caffè, corse agitato dalla mamma, per avere chiarimenti: anche lei era sparita. Il portiere, cui alla fine si era rivolto al colmo della disperazione, gli disse, con suo enorme stupore, che i due se ne erano andati insieme qualche minuto prima! Edgar attese pazientemente. Nel suo candore, non sospettava nulla di male. Tanto, non potevano assentarsi molto - ne era certo -, perché al barone serviva la sua risposta. Ma il tempo dilatava impietoso le sue ore, e in lui cominciò a farsi strada l'inquietudine. In effetti, da quando quell'estraneo seducente era entrato nella sua piccola esistenza innocente, tutto il giorno il ragazzino era teso, braccato, confuso. In un organismo così sensibile, qual è quello dei bambini, ogni passione imprime le sue tracce come nella cera tenera. Tornò a manifestarsi il tremito nervoso delle palpebre, ad accentuarsi il suo pallore. Edgar seguitò ad aspettare, dapprima con pazienza, poi estremamente agitato e alla fine prossimo al pianto. Ma continuava a non nutrire sospetti. La sua cieca fiducia nel meraviglioso amico lo induceva a supporre un malinteso, e lo tormentava il segreto timore di avere magari frainteso l'incarico ricevuto. Strano però che ora, come tornarono finalmente, seguitassero i loro amabili conversari e non mostrassero alcuna sorpresa. Pareva che non avessero avvertito molto la sua mancanza: «Ti siamo andati incontro, sperando di trovarti per strada, Edi», disse il barone, senza informarsi sull'esito della sua missione. E quando il ragazzo, angosciato dal fatto che potessero averlo cercato invano, si premurò di assicurare che lui aveva percorso direttamente la strada alta e volle sapere quale strada avessero preso loro, la mamma troncò seccamente il discorso: «Va bene, va bene! Non è il caso che i bambini parlino tanto». Edgar divenne rosso dalla rabbia. Era già la seconda volta che lei tentava con vile bassezza di screditarlo di fronte al suo amico. Perché faceva questo? Perché cercava sempre di trattarlo da bambino, mentre lui - ne era convinto non lo era più? Evidentemente lei gli invidiava l'amico e mirava a tirarlo dalla sua parte. Già, e certamente era stata lei a portare intenzionalmente il barone per un'altra strada. Ma lui non era disposto a farsi maltrattare da lei: se ne sarebbe accorta. Le avrebbe tenuto testa, e come. E Edgar decise di non rivolgerle quel giorno la parola a tavola, di parlare soltanto con il suo amico. Ma per lui fu dura. Si verificò un fatto assolutamente imprevisto: non fecero caso al suo impuntamento. Anzi, non parvero proprio accorgersi di lui, che pure il giorno prima era al centro del loro stare in compagnia! Parlavano come se non ci fosse, ridendo e scherzando tra loro, quasi che lui fosse sprofondato sotto il tavolo. Il sangue gli montò alle guance, nella gola aveva un groppo che gli mozzava il fiato. Con orrore si rese conto della sua spaventosa impotenza. Sicché avrebbe dovuto sedere lì tranquillo e vedere sua madre portargli via l'amico, l'unica persona che amava, senza neppure potersi difendere, se non con il silenzio? Forse doveva saltare su e pestare all'improvviso i pugni sul tavolo. Soltanto perché lo notassero. Ma cercò di controllarsi, semplicemente posò forchetta e coltello e non toccò più cibo. Ma anche quell'ostinato digiuno non venne notato per un pezzo, solo all'ultima portata la madre ci fece caso e gli domandò se non si sentiva bene. Che schifo, pensò, l'unica cosa che riesce a pensare è questa: se sono malato; per il resto non le importa niente di niente. Rispose laconico che non aveva voglia di mangiare e con ciò lei si diede pace. Nulla li indusse a considerarlo. Il barone sembrava averlo dimenticato, certo è che neppure una volta gli rivolse la parola. Lacrime roventi gli spuntarono negli occhi, e dovette ricorrere all'infantile astuzia di alzare in fretta il tovagliolo, prima che qualcuno potesse accorgersi dei goccioloni che gli rigavano le guance e bagnavano salati le labbra. Alla fine del pasto tirò un sospiro di sollievo. Durante il pranzo sua madre aveva proposto una gita in carrozza a MariaSchutz. Edgar lo aveva sentito con il labbro fra i denti. Dunque nemmeno per un minuto voleva più lasciarlo solo con il suo amico. Ma il suo odio montò furibondo soltanto quando lei, alzandosi, gli disse: «Edgar, finirai per scordare tutto della scuola, dovresti stare a casa per una volta, e ripassare un pochino!» Di nuovo contrasse il piccolo pugno da ragazzino. Lei cercava sempre di umiliarlo di fronte al suo amico, ricordando continuamente in pubblico che lui era ancora un bambino, uno scolaretto, e soltanto tollerato in mezzo agli adulti. Ma stavolta l'intenzione gli parve troppo trasparente. Non rispose per niente, limitandosi a girare di colpo sui tacchi. «VÉ, siamo di nuovo offesi», lei disse sorridendo, e quindi al barone: «Sarebbe proprio così terribile, se per una volta lavorasse un'oretta?» Al che, il barone - e nel cuore del bambino qualcosa divenne di ghiaccio e di pietra -, il barone che pure si dichiarava suo amico, che gli aveva dato del secchione, disse: «BÉ, un'oretta o due non potrebbero certo guastare». Era un complotto? I due si erano effettivamente accordati contro di lui? Negli occhi del ragazzo avvampò la rabbia. «Il mio papà ha proibito che io studi qui. Il papà vuole che qui mi rimetta in salute», proruppe con tutto l'orgoglio della propria malattia, aggrappandosi disperatamente alla parola, all'autorità del padre. Lo pronunciò come una minaccia. E stranamente quelle parole parvero in effetti suscitare nei due un certo disagio. La madre guardò altrove, limitandosi a tamburellare nervosamente sul tavolo con le dita. Un silenzio imbarazzato si instaurò tra loro. «Come vuoi, Edi», disse alla fine il barone con un sorriso forzato. «Non tocca a me fare l'esame, io sono già stato bocciato in tutti quanti.» Ma Edgar non sorrise per la battuta, lo fissò soltanto con uno sguardo indagatore, passionalmente penetrante, quasi volesse scrutargli fin dentro l'anima. Che cosa stava succedendo? Qualcosa era cambiato tra loro, e il ragazzino non sapeva perché. I suoi occhi vagavano intorno inquieti. Nel cuore batteva un piccolo, frenetico martello: il primo sospetto. Bruciante segreto. Che cosa li ha trasformati in quel modo? si chiedeva il bambino, seduto di fronte a loro nella carrozza che procedeva. Perché con me non si comportano più come prima? Perché la mamma evita sempre il mio sguardo, quando lo rivolgo a lei? Perché in mia presenza lui cerca sempre di fare dello spirito, di atteggiarsi a buffone? Tutti e due non parlano più con me come ieri o ieri l'altro, a volte mi pare quasi che abbiano cambiato faccia. La mamma oggi ha le labbra così rosse, che deve averle tinte. Questo, in lei, non l'ho mai visto. E lui continua ad aggrottare la fronte come se fosse offeso. Mica ho fatto loro niente, né detto una parola che li potesse seccare. No, non posso essere io la causa, perché loro stessi si comportano tra loro in modo diverso da prima. É come se avessero fatto qualcosa che non osano dirsi. Non discorrono più come ieri, e nemmeno ridono, sono impacciati, nascondono qualcosa. Tra loro c'è qualche segreto che non vogliono rivelarmi. Un segreto che io devo scoprire a ogni costo. Veramente non mi è nuovo, deve essere lo stesso per cui mi chiudono sempre in faccia la porta, quello di cui si parla nei libri e nei melodrammi, quando gli uomini e le donne cantano con le braccia aperte, si stringono e si respingono. Deve essere più o meno la medesima faccenda della mia insegnante francese, che non andava d'accordo con mio padre e poi fu licenziata. Tutte queste cose sono collegate, lo sento, ma non so in che modo. Ah, se potessi finalmente conoscerlo, questo segreto, avere in mano questa chiave che apre tutte le porte, non essere più un bambino, al quale tutto viene nascosto, non lasciarmi più menare per il naso e ingannare! Ora o mai più! Glielo voglio strappare, questo tremendo segreto. Una ruga si incise sulla sua fronte, quasi vecchio sembrava il gracile dodicenne, mentre così andava elucubrando tra sé con aria seria, senza degnare di uno sguardo il paesaggio che intorno si dispiegava a vividi colori, le montagne con il verde terso dei loro boschi di conifere, le valli con lo splendore ancora tenero della primavera tardiva. Seguitava a guardare soltanto i due sul sedile posteriore di fronte a lui, quasi potesse con quegli sguardi ardenti, come una lenza, strappare il segreto delle profondità scintillanti dei loro occhi. Nulla acuisce maggiormente l'intelligenza di un sospetto appassionato, nulla sviluppa tutte le possibilità di un intelletto immaturo, quanto una pista che si perde nel buio. A volte, infatti, unicamente una sottile porta separa i bambini dal mondo che noi chiamiamo reale, e un fortuito alito di vento gliela spalanca. D'un tratto Edgar sentiva di avere a portata di mano come non mai la cosa ignota, il grande segreto, a un passo soltanto, ancora sigillato e indecifrato, ma vicino, vicinissimo. Questo lo eccitava e gli dava quella improvvisa serietà solenne. Perché inconsciamente intuiva di trovarsi al margine estremo della propria infanzia. I due di fronte avvertivano un sordo impedimento nell'aria, senza immaginare che provenisse dal ragazzo. Si sentivano costretti e inibiti in tre nella carrozza. I due occhi che li fissavano scuri, con guizzi di brace nel fondo, davanti a loro, creavano impaccio. Praticamente non osavano scambiare una parola o uno sguardo. Non riuscivano più a ritrovare la conversazione spigliata, mondana, di prima, già troppo irretiti nel tono delle intimità ardenti, di quelle parole pericolose in cui vibra la carezzevole lascivia di furtivi palpamenti. I loro discorsi si incagliavano sempre su vuoti e interruzioni. La conversazione languiva, cercava di riprendere, ma incespicava di continuo nel cocciuto silenzio del ragazzino. Specialmente per la madre il suo ostinato silenzio era opprimente. Lo osservò cautamente di lato e rimase sgomenta, notando per la prima volta, all'improvviso, nel modo in cui il bambino stringeva le labbra, una somiglianza con suo marito, quando era nervoso o irritato. Le dava disagio essere confrontata con suo marito proprio ora che intendeva giocare a rimpiattino con un'avventura. Come uno spettro, un mentore della coscienza, doppiamente insopportabile lì, nello spazio angusto della carrozza, le appariva il ragazzino, di fronte, a pochi centimetri, con i suoi occhi oscuramente intenti, in agguato dietro la fronte pallida. Per un attimo, improvvisamente, Edgar alzò lo sguardo. Subito abbassarono gli occhi entrambi: si erano resi conto che si stavano spiando, per la prima volta nella loro vita. Fino ad allora avevano nutrito una cieca fiducia nell'altro, ma adesso qualcosa era cambiato di colpo tra madre e figlio, tra lei e lui. Per la prima volta nella loro vita cominciavano a studiarsi, a scindere i loro destini, entrambi già odiandosi in segreto, di un odio che era ancora troppo nuovo, perché osassero ammetterlo di fronte a se stessi. Tutti e tre provarono un grande sollievo quando i cavalli si fermarono di nuovo davanti all'albergo. La gita era riuscita male, ne erano consapevoli tutti, ma nessuno osava dirlo. Edgar smontò per primo. Sua madre accampò la scusa di un mal di testa e salì in camera di volata. Era stanca e voleva stare sola. Edgar e il barone rimasero da basso. Il barone pagò il cocchiere, guardò l'orologio e si avviò nella hall senza curarsi del ragazzino. Gli passò accanto con la sua schiena slanciata, snella, con quella andatura leggera, ritmica, dinoccolata - che tanto affascinava il bambino - per cui già il giorno prima aveva cercato di imitarla. Gli passò accanto senza fare una piega. Evidentemente aveva scordato il ragazzo, piantandolo lì, con il cocchiere e i cavalli, come un estraneo. Qualcosa in Edgar si ruppe nel vedere passare via a quel modo l'uomo che, nonostante tutto, seguitava a idolatrare veramente. Disperazione eruppe dal suo cuore nel vederlo passare via a quel modo, senza sfiorarlo con il soprabito, senza dire una sola parola a lui, che pure non si sentiva minimamente in colpa. La compostezza faticosamente serbata si sbriciolò, il fardello artificiosamente gonfiato della dignità gli scivolò dalle spalle troppo strette, ridivenne un bambino, piccolo e insignificante come il giorno prima, e prima ancora. Si sentì trascinare contro il suo volere. Con passi rapidi e tremanti seguì il barone, e mentre quello stava imboccando le scale, gli sbarrò il passo e disse stravolto, trattenendo a stento le lacrime: «Che cosa le ho fatto, perché lei mi ignori in questo modo? Perché adesso mi tratta sempre così? E la mamma pure? Perché cerca sempre di sbarazzarsi di me? Le do fastidio? Oppure ho fatto qualcosa di male?» Il barone rimase scosso. In quella voce c'era qualcosa che lo turbava e inteneriva. Fu preso da compassione per l'ignaro ragazzino. «Edi, sei proprio uno sciocco! Sai, oggi ero di cattivo umore. E tu sei un caro ragazzo, al quale voglio veramente bene.» E intanto gli arruffava con forza i capelli, tenendo però la faccia un po' voltata, per non dover fissare quegli occhi da bambino, grandi, umidi, imploranti. La farsa che recitava cominciava a diventare imbarazzante. In fondo già si vergognava di aver scherzato in maniera così impudente con l'attaccamento passionale del ragazzino, e quella vocina sottile, incrinata da sotterranei singhiozzi, gli faceva male. «Adesso sali, Edi, va', stasera torneremo ad andare d'accordo, vedrai», disse bonariamente. «Ma non permetterà che la mamma mi spedisca a letto subito, vero?» «No, no, Edi, non lo permetterò», sorrise il barone. «Adesso va', da bravo, devo cambiarmi per la cena.» Edgar se ne andò, lì per lì felice. Ma presto il martello tornò a farsi vivo nel cuore. Nello spazio di un giorno era invecchiato di anni; un estraneo - il sospetto - si era ormai annidato stabilmente nel suo animo infantile. Rimase in attesa. Era in gioco la prova decisiva. Stavano a tavola in compagnia. Erano già le nove, ma la madre non lo mandava a letto. La cosa lo inquietava. Perché proprio quella sera lasciava che stesse lì tanto a lungo, mentre di solito era così precisa? Forse il barone le aveva rivelato il suo desiderio e le cose che si erano dette? All'improvviso si sentì amaramente pentito di essergli corso dietro con il cuore aperto, fiducioso. Alle dieci sua madre si alzò d'un tratto e si congedò dal barone. E stranamente anche lui non parve per nulla stupito di quella precoce conclusione della serata, né, come era solito fare, cercò di trattenerla. Sempre più forte il martello batteva nel petto del bambino. Adesso era arrivato veramente al dunque. Anche lui fece finta di nulla e senza obiettare seguì la madre verso la porta. Ma all'improvviso alzò di scatto gli occhi. Ed effettivamente in quell'attimo captò un'occhiata sorridente che al di sopra della sua testa lei stava giusto lanciando al barone, un'occhiata di complicità, di segreta intesa. Sicché il barone lo aveva tradito. Per questo, dunque, la serata si era conclusa così presto: volevano che si cullasse in una tranquilla sicurezza, perché il giorno dopo non fosse più tra i piedi. «Canaglia», mormorò il ragazzo. «Che cos'hai detto?» domandò la madre. «Niente», sibilò tra i denti. Adesso aveva anche lui il suo segreto. Il suo nome: odio. Odio feroce nei confronti di entrambi. Silenzio Ora l'inquietudine di Edgar era cessata. Finalmente possedeva un sentimento puro, chiaro: odio e inimicizia aperta. Adesso, dal momento che era certo di essere di troppo, la loro compagnia si trasformava per lui in un godimento di complicata perfidia. Si deliziava all'idea di disturbarli, di ostacolarli finalmente con tutta la potenza della sua ostilità. Per prima cosa mostrò i denti al barone. Quando quello scese al mattino e passando lo salutò cordialmente con un «Ciao, Edi», Edgar, senza alzare gli occhi, restando seduto in poltrona, per tutta risposta gli ringhiò un secco «'giorno». «La mamma è già scesa?» Edgar seguitò a leggere il giornale: «Non lo so». Il barone rimase interdetto. Ma che storia era quella, adesso? «Dormito male, Edi, vero?» La battuta intendeva, come al solito, calmare le acque. Ma Edgar si limitò a buttargli là un «No», sprezzante e si immerse di nuovo nel giornale. «Povero scemo», mormorò tra sé il barone, alzò le spalle e passò oltre. La guerra era dichiarata. Anche verso la mamma Edgar dimostrò una fredda cortesia. Frustrò tranquillamente un maldestro tentativo di spedirlo al campo da tennis. Il sorrisino appena accennato sulle labbra, con una lieve punta di amarezza, stava a indicare che non era più disposto a farsi turlupinare. «Preferisco fare una passeggiata con voi, mamma», disse con gentilezza ipocrita, fissandola negli occhi. Chiaramente la risposta non le tornò gradita. Esitò, come se cercasse qualcosa. «Aspettami qui», decise alla fine e andò a fare colazione. Edgar attese. Ma la sua diffidenza era desta. Adesso un istinto inquieto leggeva dietro ogni parola di quei due una segreta intenzione ostile. A volte il sospetto gli conferiva una singolare perspicacia nelle decisioni. E invece di aspettare nella hall, come gli era stato detto, Edgar preferì appostarsi sulla strada, da dove poteva tenere d'occhio non solo l'ingresso principale, ma tutte le porte. Qualcosa in lui fiutava l'imbroglio. Ma stavolta non dovevano più sfuggirgli. Per strada si nascose dietro una catasta di legna, come aveva imparato dai suoi libri sugli indiani. E rise soddisfatto, quando circa mez'ora più tardi vide effettivamente sua madre uscire da una porta laterale con un magnifico mazzo di rose in mano, seguita da quel traditore del barone. Entrambi sembravano molto euforici. Si sentivano già sollevati per il fatto di essergli sfuggiti e di potersi godere da soli il loro segreto? Conversando, ridevano e si accingevano a scendere per il sentiero del bosco. Adesso era arrivato il momento. Come per caso, Edgar uscì bel bello da dietro la catasta. Con tutta calma si avviò verso di loro, prendendosela comoda, molto comoda, per godersi a fondo la loro sorpresa. I due rimasero interdetti e si scambiarono un'occhiata stizzosa. Lentamente, con simulata naturalezza, il ragazzino li raggiunse, senza distogliere da loro lo sguardo irridente. «Ah, ma sei qui, Edi? Ti abbiamo cercato in albergo», disse finalmente la madre. Che bugiarda spudorata, pensò il bambino. Ma le labbra rimasero serrate, a tenere il segreto dell'odio dietro i denti. Tutti e tre stettero lì indecisi. Uno spiava l'altro. «Allora, andiamo», disse rassegnata e contrariata la donna, strappando i petali a una delle splendide rose. Intorno alle narici un lieve tremito, che in lei era indice di rabbia. Edgar rimase lì, come se la cosa non lo riguardasse, guardando per aria e aspettando che se ne andassero, poi si apprestò a seguirli. Il barone fece ancora un tentativo: «Oggi c'è il torneo di tennis. Hai mai assistito a una competizione del genere?» Edgar si limitò a guardarlo con disprezzo. Neanche si prese la briga di rispondergli, storse appena le labbra, come per fischiare. Questo era quanto. Il suo odio mostrava i denti. Sicché la sua indesiderata presenza venne a pesare sui due come un incubo. Così i carcerati seguono il secondino, stringendo i pugni di nascosto. Veramente il bambino non faceva nulla, eppure ogni minuto riusciva loro più insopportabile con i suoi sguardi sornioni, umidi di lacrime, con la musoneria irritata, che frustrava ogni tentativo di avvicinamento. «Ma va' un po' avanti», sbottò a un certo punto con rabbia la madre, preoccupata perché lui drizzava in continuazione l'orecchio. «Non mi ballare sempre davanti ai piedi, mi innervosisce!» Edgar obbediva, ma dopo pochi passi si voltava, fermandosi ad aspettarli, quando erano rimasti indietro, circuendoli mefistofelicamente con il suo sguardo come il barboncino nero e irretendoli nella ragnatela rovente dell'odio, in cui si sentivano inestricabilmente prigionieri. Il suo perfido silenzio corrodeva come un acido il loro buonumore, il suo sguardo guastava a entrambi le parole in bocca. Il barone non osava più pronunciare una sola parola seducente, avvertiva con rabbia che quella donna gli stava di nuovo sfuggendo, che la sua passionalità faticosamente attizzata si andava raffreddando per paura di quell'antipatico e odioso bambino. Cercarono continuamente di riprendere il filo del discorso, ma la conversazione si arenava immancabilmente. Alla fine tutti e tre si rassegnarono a percorrere in silenzio il cammino, altro non udendo, se non il mormorante confricare degli alberi e il loro passo infastidito. Il ragazzino aveva strozzato la loro conversazione. Adesso in tutti e tre c'era una ostilità velenosa. Con sommo godimento il bambino tradito vedeva la loro rabbia montare impotente contro la sua persona che non veniva tenuta in considerazione. Con sguardi ammiccanti di scherno sfiorava ogni tanto la faccia contratta del barone. Lo vedeva digrignare tra i denti ingiurie e costretto a controllarsi, per non rovesciargliene addosso, e nello stesso tempo registrava con gioia diabolica anche la collera montante della madre: entrambi aspettavano soltanto un pretesto per saltargli addosso, per spingerlo da parte o renderlo inoffensivo. Ma lui non forniva l'occasione, il suo era un odio lungamente calcolato e non offriva punti deboli. «Torniamo indietro», disse a un certo punto la madre. Sentiva che non sarebbe riuscita a controllarsi oltre, che avrebbe dovuto fare qualcosa, perlomeno urlare a causa di quella tortura. «Che peccato», disse Edgar serafico, «è così bello.» Entrambi si resero conto che il ragazzino li prendeva in giro. Ma non osarono dire nulla: in due giorni quel tiranno aveva imparato a controllarsi in modo assolutamente meraviglioso. Non un muscolo del volto tradiva l'ironia tagliente. Senza dire una parola rifecero il lungo tragitto. In lei l'irritazione seguitava a covare sorda, quando poi si ritrovò sola con il figlio nella stanza. Buttò da una parte con stizza l'ombrellino e i guanti. Edgar capì subito che i nervi della madre erano tesi e avevano bisogno di scaricarsi, ma lui cercava appunto la scenata e rimase apposta nella stanza, per provocarla. Lei camminava avanti e indietro, tornava a sedersi, tamburellava sul tavolo con le dita, poi scattava in piedi di nuovo. «Sei tutto arruffato, vai in giro tutto sporco! É una vergogna di fronte alla gente. Non ti vergogni, alla tua età?» Senza una parola di replica il ragazzino andò a pettinarsi. Quel silenzio, quel tacere ostinato, freddo, con quell'aria di irrisione sulle labbra, la faceva impazzire di rabbia. Avrebbe voluto riempirlo di botte. «Vattene in camera tua», gli urlò. Non riusciva più a sopportare la sua presenza. Edgar sorrise e uscì. Come tremavano adesso, quei due, davanti a lui! Quanta paura avevano, il barone e lei, di ogni momento da passare in compagnia, della morsa dura, spietata, dei suoi occhi! Più loro si sentivano a disagio, e più lo sguardo del ragazzo sprizzava soddisfazione, più la sua gioia si faceva provocatoria. Ora Edgar tormentava i due inermi con tutta la crudeltà quasi ancora bestiale dei bambini. Il barone riusciva ancora a frenare la propria rabbia, perché sperava di rendergli prima o poi la pariglia e comunque pensava soltanto al suo obiettivo. Ma lei, la madre, perdeva in continuazione le staffe. Per lei era un sollievo poterlo investire in malo modo. «Non giocare con la forchetta», gli sibilava a tavola. «Sei uno screanzato, non meriti proprio di stare a tavola con i grandi.» Edgar si limitava a sorridere, tenendo la testa leggermente piegata da un lato. Sapeva che quello schiamazzo era disperazione, ed era fiero che loro si tradissero in quel modo. Adesso il suo sguardo era assolutamente tranquillo, come quello di un medico. Un tempo forse sarebbe stato maligno, per farla arrabbiare, ma odiando si impara molto e presto. Ora si limitava a tacere, taceva a oltranza, finché lei si metteva a urlare sotto la pressione del suo silenzio. Sua madre era arrivata al limite della sopportazione. Come si alzarono da tavola e Edgar si apprestò nuovamente a seguirli con quel suo naturale attaccamento, lei sbottò furibonda. Dimenticò ogni riguardo e sputò la verità. Torturata dalla presenza subdola del figliolo, si inalberò come un cavallo tormentato dalle mosche. «Perché continui a corrermi dietro come un bambino di tre anni? Non desidero averti sempre appresso. I bambini non devono stare con gli adulti. Tienilo a mente! Occupati una volta tanto di te stesso. Leggi qualcosa oppure fa' quello che ti pare. Lasciami in pace! Mi innervosisci con il tuo strisciare attorno, con la tua odiosa scontrosità.» Finalmente gliela aveva estorta, la confessione! Edgar sorrise, mentre il barone e lei adesso parvero imbarazzati. La madre si voltò e fece per andarsene, in collera con se stessa, per aver confessato al bambino il proprio disagio. Ma Edgar si limitò a dire freddamente: «Papà non vuole che io qui vada in giro da solo. Papà mi ha fatto promettere che sarò prudente e non mi allontanerò da te». Calcò sulla parola «papà», perché già si era accorto che aveva un certo effetto deterrente sui due. Dunque anche suo padre doveva in qualche modo essere coinvolto in quello scottante segreto. Papà doveva avere sui due un qualche segreto potere che lui non conosceva, perché la sola menzione del suo nome metteva loro paura e disagio. Anche stavolta non aprirono bocca. Si erano arresi. La madre si avviò con il barone. Edgar li seguì, ma non deferente come un servitore, bensì duro, severo e inflessibile come un carceriere. Invisibilmente faceva tintinnare la catena da cui loro cercavano di liberarsi, senza riuscire a spezzarla. L'odio aveva temprato la sua forza di bambino, lui, l'ignaro, era più forte di quei due, ai quali il segreto legava le mani. I bugiardi. Ma il tempo stringeva. Al barone restavano soltanto pochi giorni, e bisognava sfruttarli. Si rendevano conto che era inutile opporsi alla testardaggine del ragazzino scatenato e perciò ricorsero alla scappatoia estrema, più ignominiosa: alla fuga, per sottrarsi solamente un'ora o due alla sua tirannia. «Spediscimi alla posta queste lettere raccomandate», disse la madre a Edgar. I due erano nella hall, il barone stava parlando fuori con un fiaccheraio. Edgar prese con malfidenza le due lettere. Aveva visto, prima, un cameriere consegnare a sua madre una missiva. Che stessero magari tramando in combutta qualcosa contro di lui? Esitò. «Dove mi aspetti?» «Qui.» «Sicuro?» «Sì.» «Ma non andartene! Allora tu mi aspetti qui nella hall fino al mio ritorno, capito?» Sentendosi in superiorità, ormai parlava con la madre in tono di comando. Negli ultimi due giorni erano cambiate molte cose. Poi si avviò con le due lettere. Sulla porta si imbatté nel barone. Per la prima volta da due giorni gli rivolse la parola. «Faccio un salto a spedire queste due lettere. Mia mamma mi aspetta finché ritorno. La prego di non andare via prima.» Il barone sgusciò lesto. «Sì, certo, aspetteremo.» Edgar si precipitò all'ufficio postale. Dovette attendere. Un signore davanti a lui si dilungava in una serie di noiosi quesiti. Finalmente riuscì a sbrigare la faccenda e tornò di volata con le ricevute. Giusto in tempo per vedere sua madre e il barone prendere il largo in carrozza. Rimase impietrito dalla rabbia. Per poco non raccattava un sasso e glielo tirava dietro. Dunque gli erano sfuggiti, ma con quale infame e abietta menzogna! Che sua madre mentisse, gli era noto dal giorno prima. Ma che potesse essere così spudorata da infrangere una esplicita promessa, gli tolse ogni residuo di fiducia. Non riusciva più a capire la vita, da quando si era reso conto che le parole, dietro le quali pensava stesse la realtà, erano soltanto bolle di sapone iridescenti, sfere effimere che scoppiando svanivano nel nulla. Ma quanto doveva essere tremendo un segreto che induceva delle persone adulte a ingannare lui, un bambino, e a svignarsela come dei malfattori! Nei libri che aveva letto, la gente uccideva e imbrogliava per conquistare denaro, potere o reami. Ma lì, qual era il motivo, che cosa volevano quei due, perché si nascondevano di fronte a lui, che cosa cercavano di celare dietro cento menzogne? Si torturava il cervello. Oscuramente avvertiva che quel segreto era il catenaccio dell'infanzia, che la sua conquista significava essere un adulto, finalmente un uomo. Ah, poterlo afferrare! Ma non riusciva più a ragionare con chiarezza. La rabbia per il fatto che gli fossero sfuggiti la tormentava e offuscava la sua lucidità. Corse fuori nel bosco, a stento riuscì a riparare nel buio, dove nessuno poteva vederlo, e lì trovò sfogo, in un fiume di lacrime ardenti. «Bugiardi, cani, impostori, farabutti»:, dovette urlare queste parole a voce alta, altrimenti soffocava. La rabbia, l'insofferenza, l'irritazione, la curiosità, l'impotenza e il tradimento degli ultimi giorni, che aveva represso nella sua lotta infantile, nella sua presunzione di essere ormai adulto, a quel punto dilaniarono il petto e divennero lacrime. Era l'ultimo pianto della sua infanzia, l'ultimo pianto senza freno, per l'ultima volta si abbandonava femmineamente alla voluttà delle lacrime. In quel momento di indicibile rabbia scaricò nelle lacrime tutto ciò che aveva dentro: fiducia, amore, credulità, rispetto, tutta la sua infanzia. Il ragazzo che poi tornò in albergo era un altro. Era freddo e agiva con premeditazione. Per prima cosa andò nella sua stanza, si lavò con cura la faccia e gli occhi, per non dare ai due la soddisfazione di vedere le tracce delle sue lacrime. Poi preparò la resa dei conti. E attese paziente, senza il minimo nervosismo. La hall era piuttosto affollata, quando fuori ricomparve la carrozza con i due fuggitivi. Un paio di signori giocavano a scacchi, altri leggevano il giornale, le signore scambiavano quattro chiacchiere. In mezzo a loro sedeva immobile, un po' pallido, con occhio ansioso, il ragazzino. Come la madre e il barone entrarono, un po' imbarazzati di trovarselo davanti così all'improvviso e già accingendosi a farfugliare la scusa preparata, lui li affrontò con calma dignità e disse in tono di sfida: «Signor barone, vorrei dirle una cosa». Il barone si sentì a disagio. Era come se lo avessero colto sul fatto. «Sì, certo, più tardi, senz'altro!» Ma Edgar alzò la voce e disse forte e secco, perché tutti intorno potessero sentirlo: «Ma io le voglio parlare adesso. Lei si è comportato in modo abietto. Lei mi ha mentito. Lei sapeva che mia mamma mi stava aspettando, ed è...» «Edgar!» gridò la madre, vedendo tutti gli occhi fissi su di lei, e gli andò addosso. Ma il ragazzo, come si avvide che volevano tappargli la bocca gridando più forte, si mise a strillare parossisticamente: «Lo ripeto di fronte a tutta la gente. Lei ha mentito in modo infame, e questo è vile, questo è miserabile». Il barone impallidì, i presenti lumavano, certuni ridacchiando. La madre afferrò il bambino che tremava dall'eccitazione. «Vieni subito in camera tua, altrimenti ti pesto qui davanti a tutti», balbettò rauca. Ma Edgar aveva già ritrovato la calma. Gli dispiaceva di aver perso le staffe a quel modo. Era scontento di sé, perché in effetti voleva sfidare il barone con freddezza, ma la rabbia era stata più forte della sua volontà. Tranquillamente, senza fretta, si avviò verso le scale. «Signor barone, la prego di scusare la sua villania. Come ben sa, è un bambino nervoso», farfugliò ancora, confusa dalle occhiate un po' maligne della gente puntate su di lei. Niente al mondo per lei era più terribile di uno scandalo, ed era consapevole che a quel punto doveva darsi un contegno. Invece di prendere il largo, andò prima dal portiere, chiedendo se c'erano lettere e altre cose di poco conto, e poi si avviò di sopra, come se nulla fosse successo. Ma alle sue spalle sciabordava lieve una scia di sussurri e di risa represse. Strada facendo rallentò il passo. Di fronte alle situazioni serie era sempre smarrita e in fondo aveva paura di quella spiegazione. Non poteva negare di essere in colpa, e poi temeva lo sguardo del figliolo, quello sguardo nuovo, sconosciuto, così strano, che la paralizzava e la rendeva insicura. Per timore, decise di provarci con la dolcezza. Perché sapeva che in caso di scontro aperto quel ragazzino scatenato adesso era il più forte. Aprì piano la porta. Il ragazzo era seduto lì, tranquillo e freddo. Gli occhi che alzò su di lei erano del tutto privi di paura, non esprimevano neppure curiosità. Pareva molto sicuro di sé. «Edgar», cominciò in un tono il più possibile materno, «che cosa ti è saltato in mente? Mi sono vergognata per te. Come si può essere così maleducati? Tanto più, poi, da parte di un bambino verso un adulto! Vedi di fare subito le tue scuse al signor barone.» Edgar guardava fuori dalla finestra. Il «no» lo disse propriamente agli alberi di fronte. La sua sicurezza cominciava a irritarla. «Edgar, ma che cosa ti sta succedendo? Sei così diverso dal solito! Non ti riconosco più. Sei sempre stato un bambino intelligente, educato, con cui si poteva parlare. Di colpo ti comporti come se avessi il diavolo in corpo. Ma che cos'hai contro il barone? Gli eri così affezionato. E lui è sempre stato gentile con te.» «Già. Perché voleva conoscere te.» Si sentì a disagio. «Storie! Che cosa ti salta in mente? Come puoi pensare una cosa simile?» Ma il ragazzino si ribellò. «É un bugiardo, un essere falso. Ogni cosa che fa è calcolo e bassezza. Voleva conoscerti: ecco perché era gentile con me e mi ha promesso un cane. Non so che cosa ha promesso a te e perché è gentile con te, ma certamente anche da te, mamma, vuole qualcosa. Altrimenti non sarebbe così cortese e gentile. E un essere malvagio. Mente. Guarda bene, una volta, i suoi occhi da falso. Ah, io lo odio, quel miserabile bugiardo, quel farabutto...» «Ma Edgar, come puoi dire una cosa simile?» Era sconvolta e non sapeva che cosa rispondere. Dentro di sé avvertiva una sensazione che dava ragione al figliolo. «Sì, è un farabutto, questo non me lo lascio togliere dalla testa. Tu stessa dovresti rendertene conto. Perché ha paura di me? Perché si nasconde davanti a me? Perché sa che io ho capito le sue intenzioni, che l'ho smascherato, quel farabutto!» «Come puoi dire una cosa simile? Come puoi dire una cosa simile?» Il cervello di lei era prosciugato, solo le labbra esangui seguitavano a balbettare queste due frasi. All'improvviso fu presa da una tremenda paura, senza capire se fosse paura del barone oppure del bambino. Edgar vide che il suo avvertimento faceva effetto. E fu tentato di tirarla dalla sua parte, di farsela alleata nell'odio, nell'inimicizia verso il barone. Si accostò teneramente alla madre, la abbracciò, e la sua voce divenne suadente dall'emozione. «Mamma», disse, «tu stessa ti sarai accorta che le sue intenzioni non sono buone. Lui ti ha completamente trasformata. Tu sei cambiata, non io. Lui ti ha messa contro di me, per averti per sé solo. E certo che ti vuole ingannare. Non so che cosa ti ha promesso. So soltanto che non lo manterrà. Dovresti stare in guardia da lui. Chi mente a uno, mente anche all'altro. É un essere malvagio, di cui non ci si deve fidare.» Quella voce tenera e quasi in lacrime le pareva uscire dal proprio cuore. Dal giorno precedente era sorto in lei un disagio che le diceva la medesima cosa: sempre più insistentemente. Ma si vergognava di dare ragione al suo bambino. E, come tanti, dall'imbarazzo di un sentimento travolgente cercò scampo nella rudezza dell'espressione. Si inalberò. «I bambini non capiscono queste cose. Non spetta a te mettere becco in faccende del genere. Tu devi comportarti educatamente. E basta.» La faccia di Edgar tornò a farsi gelida. «Come credi», disse con durezza, «io ti ho avvertito.» «Sicché non intendi scusarti?» «No.» Il contrasto era stridente. Lei si rendeva conto che era in ballo la propria autorità. «Allora mangerai qui in camera. Da solo. E non tornerai a tavola con noi prima di esserti scusato. Ti insegnerò io le buone maniere. Non uscirai da questa stanza, finché non te lo dirò io. Hai capito?» Edgar sorrise. Quel risolino perfido sembrava ormai impresso stabilmente sulle sue labbra. Dentro di sé era arrabbiato con se stesso. Quanto era stato sciocco da parte sua allentare ancora una volta le briglie al cuore, nell'intento di mettere in guardia quella bugiarda. La madre uscì, senza degnarlo di uno sguardo. Temeva quegli occhi taglienti. Il ragazzino la metteva a disagio, da quando si era accorta che teneva gli occhi bene aperti e le diceva ciò che lei non voleva sapere né udire. Per lei era terribile vedere la propria voce interiore, la propria coscienza andare in giro scissa da lei, nelle sembianze di un bambino, del suo bambino, come monito irridente. Fino allora quel bambino era stato un'appendice della sua esistenza, un ornamento, un giocattolo, qualcosa di caro e di familiare, a volte magari anche un peso, ma comunque qualcosa che seguiva il medesimo flusso in sintonia con la sua vita. Adesso per la prima volta si inalberava e recalcitrava al volere di lei. E il ricordo del suo bambino ora era costantemente venato da qualcosa di simile all'odio. E tuttavia, mentre, un poco stanca, scendeva le scale, la voce infantile le risuonava da dentro. «Dovresti stare in guardia da lui.» Non le riusciva di tacitare l'avvertimento. Nel passare le balenò davanti uno specchio, lo fissò interrogativa, a fondo, sempre più a fondo, finché le sue labbra si schiusero in un lieve sorriso e si arcuarono come a formare una parola temeraria. Ancora risuonava dall'interno la voce; ma lei alzò le spalle, quasi per scuotersi di dosso tutti quegli scrupoli invisibili, diede allo specchio un'occhiata luminosa, sollevò il vestito e scese con il gesto deciso di un giocatore che butta sul tavolo la sua ultima sonante moneta d'oro. Tracce al chiaro di luna Il cameriere, che aveva portato il pasto a Edgar nella stanza dove era agli arresti domiciliari, richiuse la porta, facendo scattare la serratura. Il ragazzino ebbe un gesto di stizza: evidentemente la madre aveva disposto che lo si rinchiudesse come una bestia feroce. Cupi pensieri gli affiorarono alla mente. Adesso che cosa succede da basso, mentre io sono rinchiuso qui? Che cosa staranno tramando adesso quei due? Magari proprio ora là accade la cosa segreta, e così non posso essere presente? Ah, questo segreto che io avverto sempre e ovunque, quando mi trovo in mezzo agli adulti, davanti al quale sbarrano la porta di notte, che avvolgono in un parlottare sommesso, se per caso entro, questo grande segreto che da giorni è a un passo da me, a portata di mano, e tuttavia non si lascia afferrare! Che cosa non ho già fatto, per svelarlo! A suo tempo ho sottratto dallo scrittoio di papà certi libri e li ho letti, e dentro c'erano tutte quelle strane cose, solo che io non le ho capite. Deve esserci come un sigillo, che prima va tolto per arrivarci, forse in me, forse negli altri. Ho chiesto alla donna di servizio, l'ho pregata di spiegarmi quei passi dei libri, ma lei mi ha riso in faccia. Terribile, essere un bambino pieno di curiosità e non poter chiedere a nessuno, essere sempre ridicoli agli occhi dei grandi, come qualcosa di sciocco o di inutile. Ma ci arriverò, lo sento, tra poco lo saprò. Una parte è già nelle mie mani, e non desisterò prima di avere scoperto tutto quanto! Tese l'orecchio, per sentire se arrivava qualcuno. Fuori un lieve vento passava tra gli alberi, spezzando in cento schegge baluginanti tra i rami lo specchio immobile del chiaro di luna. Non può essere niente di buono quello che i due hanno in mente di fare, altrimenti non avrebbero escogitato menzogne così miserabili, per togliermi di torno. Certo, ora rideranno di me, quei maledetti, perché finalmente non sono più tra i piedi, ma io riderò per ultimo. Quanto è sciocco da parte mia lasciare che mi rinchiudano qua dentro, dare loro un attimo di libertà, anziché stargli appiccicato, spiando ogni loro mossa. So che i grandi sono sempre imprudenti, e anche loro finiranno per tradirsi. Credono sempre che noi siamo ancora molto piccoli e che la notte dormiamo sempre, dimenticano che si può anche fingere di dormire e stare in ascolto, che si può fare i tonti ed essere molto furbi. Ultimamente, quando mia zia ha avuto un bambino, loro lo sapevano già da un pezzo ma davanti a me hanno fatto la scena di cadere dalle nuvole, come se la cosa li avesse sorpresi. Ma anch'io lo sapevo, perché li ho sentiti parlare, settimane prima, la sera, mentre credevano che io dormissi. E così anche stavolta io li sorprenderò, quegli infami. Ah, se potessi sbirciare attraverso la porta, spiarli ora furtivamente, mentre si credono sicuri! O forse dovrei suonare il campanello, così verrebbe la cameriera, aprirebbe la porta e chiederebbe che cosa desidero. Oppure potrei fare chiasso, spaccare le stoviglie, allora verrebbero ad aprire. E in quell'istante potrei sgusciare fuori e ascoltare di nascosto i loro discorsi. Ma no, questo non lo voglio fare. Nessuno deve vedere con quale bassezza quelli mi trattano. Sono troppo orgoglioso per farlo. Domani gliela farò pagare cara. Da basso scoppiò a ridere una voce di donna. Edgar trasalì: poteva essere sua madre. Quella aveva tutti i motivi per ridere, per farsi beffe di lui, del bambino, della creatura indifesa, che si poteva rinchiudere girando una chiave, quando era d'impiccio, buttare in un angolo come un fagotto di abiti fradici. Si sporse con cautela dalla finestra. No, non era lei, si trattava di certe ragazze sconosciute in vena di scherzi, che prendevano in giro un ragazzotto. E in quell'istante si rese conto che in fondo la sua finestra non era poi tanto alta da terra. E come lo notò, ecco l'idea: saltare giù, mentre quelli si sentivano del tutto sicuri, e spiarli. Era euforico dalla gioia per la sua trovata. Gli pareva di tenere stretto nelle mani il grande, balenante segreto della fanciullezza. Fuori, fuori, lo incitava da dentro un tremito febbrile. Non c'era pericolo. Gente non ne passava, e già era fatto il balzo. Ci fu un leggero rumore di ghiaia smossa, ma non lo sentì nessuno. Appostarsi, spiare, in quei due giorni era diventato la passione della sua vita. E ora sentiva un voluttuoso piacere, misto a un leggero brivido di paura, nel girare intorno all'albergo con passi silenziosi, evitando con cura il riflesso molto intenso delle luci. Per prima cosa, la guancia cautamente premuta contro il vetro, scrutò nella sala da pranzo. Il loro posto consueto era vuoto. Dopo di che continuò la sua indagine, di finestra in finestra. Dentro l'albergo non osò entrare, per timore di trovarseli davanti fortuitamente in qualche corridoio. Dei due, nemmeno l'ombra. Stava già disperando, quando vide due ombre proiettarsi sull'ingresso - si ritrasse di scatto e si acquattò nel buio - e sua madre uscire con l'immancabile accompagnatore. Sicché era arrivato giusto in tempo. Che cosa stavano dicendo? Non riusciva a captarlo. Parlavano sottovoce, e il vento strepitava troppo agitato tra gli alberi. A un certo punto però intese chiaramente una risata, la voce di sua madre. Era una risata che in lei gli riusciva nuova, stranamente acuta, come titillata, eccitata, nervosa, da lui mai udita e tale da spaventarlo. Rideva. Quindi non poteva essere qualcosa di pericoloso, di grande e di eccezionale, quello che gli tenevano nascosto. Edgar era un po' deluso. Ma perché erano usciti dall'albergo? Dove stavano andando ora, da soli, nella notte? Molto in alto dovevano fluttuare con ali smisurate i venti, perché il cielo, un attimo prima ancora limpido e rischiarato dalla luna, adesso si oscurò. Drappi neri, lanciati da invisibili mani, avvolgevano a tratti la luna, e allora la notte diventava così impenetrabile, che a stento si riusciva a scorgere la strada, e poi tornava a splendere luminosa, quando la luna si scopriva. Argento inondava freddo il paesaggio. Era misterioso questo gioco tra luce e ombra, ed eccitante come il gioco di una donna tra nudità e occultamento. Proprio ora il paesaggio tornava a denudare il suo corpo lucente: Edgar, stando di costa sopra la strada, vedeva le sagome procedere, o meglio una sola, perché camminavano stretti stretti, come se una paura interiore li compattasse. Ma dove stavano andando ora, quei due? I pini scricchiavano, nel bosco era tutto uno strepitio sinistro, come se dentro infuriasse una caccia selvaggia. Io li seguo, pensò Edgar, non possono sentire i miei passi in questa agitazione del vento e del bosco. E mentre loro in basso procedevano sulla strada larga, chiara, lui, in lato, nel bosco, balzava quatto da un albero all'altro, da un'ombra all'altra. Li seguiva tenace e inesorabile, benedicendo il vento che copriva il rumore dei suoi passi, e maledicendolo, perché si portava via continuamente le loro parole. Soltanto se fosse riuscito a captare i loro discorsi, era certo di tenere in pugno il segreto. I due in basso camminavano ignari. Si sentivano beatamente soli in quella vasta notte scompigliata e persi nella loro crescente eccitazione. Non immaginavano minimamente che, nell'oscurità intricata di rami, ogni loro passo era seguito e due occhi li artigliavano con tutta la forza dell'odio e della curiosità. D'un tratto si fermarono. Anche Edgar si bloccò all'istante e si appiattì contro un tronco. Fu preso da una paura sconvolgente. E se adesso tornavano indietro, e arrivavano in albergo prima di lui? Se lui non riusciva a mettersi in salvo nella sua stanza, e la madre la trovava vuota? Allora tutto era perduto, allora avrebbero saputo che lui li spiava di nascosto, e non c'era più speranza di strappare loro il segreto. Ma i due indugiarono, evidentemente per una divergenza di opinioni. Per fortuna c'era il chiaro di luna, e lui poté vedere tutto nitidamente. Il barone indicava un viottolo laterale buio e stretto, che portava giù a valle, dove la luce lunare non fluiva piena e ampia come sulla strada, ma filtrava solo a gocce e strani raggi attraverso la boscaglia. Perché vuole scendere per di là? si interrogò Edgar. Sua madre pareva dire di no, ma l'altro cercava di convincerla. Dai suoi gesti si poteva arguire l'insistenza di lui. Il ragazzino prese paura. Che cosa voleva quell'individuo da sua madre? Perché il farabutto cercava di trascinarla al buio? Dai suoi libri, che per lui erano il mondo, affiorarono all'improvviso vividi ricordi di assassinii e rapimenti, di foschi delitti. Certamente quello voleva ucciderla, e per questo aveva tenuto lontano lui e attirato lì da sola lei. Doveva gridare aiuto? Assassino! Il grido gli stava già in cima alla gola, ma le labbra erano prosciugate e incapaci di emettere un suono. I nervi si tesero per l'agitazione, stentava a reggersi in piedi, nel parossismo dell'angoscia cercò un sostegno: e un ramo gli si spezzò in mano. I due si voltarono spaventati, gli occhi fissi nell'oscurità. Edgar restò appoggiato in silenzio all'albero, le braccia strette contro il piccolo corpo celato nell'ombra. Un silenzio di tomba. Eppure parvero spaventati. «Torniamo indietro», sentì dire sua madre. Il suono della voce denotava paura. Il barone, evidentemente allarmato anche lui, acconsentì. Lentamente, tenendosi stretti, ritornarono sui loro passi. Il loro turbamento interiore fu la fortuna di Edgar. A quattro zampe nel sottobosco, graffiandosi a sangue le mani, strisciò fino alla svolta del bosco, poi a tutta velocità, con il fiato mozzo, si precipitò all'albergo e di volata in camera. Fortunatamente la chiave che lo aveva rinchiuso era infilata nella toppa all'esterno, la girò, piombando nella stanza e sul letto. Dovette rilassarsi qualche minuto, perché il cuore gli batteva frenetico nel petto come un battacchio contro il bronzo sonoro della campana. Poi osò alzarsi, si accostò alla finestra e attese che arrivassero. Ci volle molto. Dovevano essere andati pianissimo. Con circospezione spiava dall'apertura in ombra. Ed eccoli arrivare lentamente, chiaro di luna sparso sui vestiti. Il loro aspetto era spettrale in quella luce verde, e di nuovo lo prese un delizioso orrore: se quello era veramente un assassino, quale atroce delitto aveva impedito con la sua presenza. Scorgeva nitidamente i loro volti di gesso. In quello di sua madre c'era un'espressione estatica che in lei gli riusciva nuova, mentre mi aveva un'aria tesa e seccata. Evidentemente, perché le sue intenzioni erano fallite. Ormai erano molto vicini. Solo a due passi dall'albergo le loro figure si scostarono. Avrebbero guardato su? No, non lo fecero proprio. Mi hanno dimenticato, pensò il ragazzino con una rabbia feroce, ma anche con un segreto trionfo, ma io non ho dimenticato voi. Voi pensate certo che io dorma o sia sparito dalla faccia della terra, ma avrete modo di scoprire il vostro errore. Voglio starvi alle costole passo per passo, finché avrò strappato a quel farabutto il segreto tremendo che non mi fa dormire. Farò saltare la vostra congiura. Io non dormo. Lentamente i due varcarono la porta. E mentre entravano uno dietro l'altra, le sagome riflesse si fusero di nuovo per un attimo, come un'unica striscia nera la loro ombra scomparve nella porta illuminata. Poi, sotto il chiaro di luna, lo spiazzo davanti all'albergo tornò lucente come una vasta distesa di neve. L'aggressione Edgar si ritrasse dalla finestra con il respiro affannoso. Era scosso dall'orrore. Mai in vita sua era stato così vicino a qualcosa di analogamente misterioso. Il mondo delle emozioni, delle avventure avvincenti, il mondo dei suoi libri, fatto di assassinii e inganni, nella sua mente si collocava sempre là dove stavano le favole, a un passo dai sogni, nell'irreale e nell'irraggiungibile. Ma adesso di colpo lui pareva capitato in mezzo a quel mondo orribile, e tutto il suo essere era scosso febbrilmente da un incontro così inatteso. Chi era questo personaggio misterioso che all'improvviso era entrato nella loro vita tranquilla? Era veramente un assassino, dato che cercava sempre di appartarsi e di trascinare la madre nei luoghi bui? Sembrava incombere qualcosa di orrendo. Non sapeva che cosa fare. L'indomani avrebbe senz'altro scritto o telegrafato al padre. Ma la cosa non poteva accadere subito, quella sera stessa? Infatti sua madre ancora non era tornata in camera sua, ancora stava con quell'odioso estraneo. Tra la porta interna e quella esterna a tappezzeria, di facile apertura, c'era una adeguata intercapedine, non più grande dell'interno di un armadio per i vestiti. Edgar sgusciò in quel ristretto spazio buio, per spiare i passi della madre sul corridoio. Perché aveva deciso di non lasciarla sola nemmeno un istante. Adesso, a mezzanotte, il corridoio era deserto, illuminato fiocamente da un'unica fiamma. Finalmente - i minuti gli si dilatavano in modo spaventoso - udì salire dei passi circospetti. Tese l'orecchio allo spasimo. Non era l'andatura spedita di chi voglia raggiungere la propria stanza, ma si trattava di passi strascicati, esitanti, molto rallentati, come per salire un sentiero estremamente difficoltoso e ripido. E nel mentre un continuo parlottare e sostare. Edgar tremava dall'eccitazione. Che fossero ancora in due, lui sempre ancora con lei? Il parlottare era troppo distante. Ma i passi, sebbene tuttora incerti, si fecero più vicini. E d'un tratto sentì la voce odiata del barone dire piano qualcosa che non intese, e poi subito quella di sua madre, con rapida ripulsa: «No, non oggi! No». Edgar tremava, i due erano sempre più vicini, e lui doveva sentire tutto. Ogni passo, per quanto felpato fosse, era una fitta al cuore. E come gli pareva orrida la voce, quella voce suadente, ripugnante, dell'odioso farabutto! «Non sia crudele. Lei era così bella stasera.» E l'altra, per risposta: «No, non devo, non posso, mi lasci andare». C'è una tale paura nella voce di sua madre, che il ragazzino si spaventa. Ma che cosa vuole ancora quello da lei? Perché lei ha paura? Intanto si sono avvicinati ancora e adesso devono stare proprio davanti alla sua porta. Tremante e invisibile, Edgar è a un palmo da loro, appena schermato dal sottile riquadro di stoffa. Ora le voci sono a un fiato. «Venga, Mathilde, venga!» Di nuovo sente sua madre gemere, più debolmente ormai, in una resistenza che sta cedendo. Ma che cosa succede adesso? Sono andati oltre nel buio. La madre non è entrata nella sua stanza, ma ha proseguito! Dove la sta trascinando? Perché lei non parla più? Le ha messo un bavaglio, le sta strozzando la gola? Le supposizioni lo fanno impazzire. Con mano tremante apre di una spanna la porta. E nella penombra del corridoio scorge i due. Il barone ha stretto il braccio intorno alla vita della madre e la conduce via quatto, mentre lei sembra già cedere. Adesso si ferma davanti alla sua stanza. La vuole trascinare via, si angoscia il bambino, ora vuole commettere l'atto orrendo. Con uno scatto furibondo, sbatte la porta e si precipita fuori, alla volta dei due. Sua madre caccia un urlo, vedendo qualcosa balzare all'improvviso dal buio verso di loro, sembra svenire, sorretta a stento dal barone. Il quale però nello stesso istante sente in faccia un piccolo, debole pugno, che gli pesta duramente le labbra sui denti, qualcosa che gli si attacca al corpo con gli artigli, come un gatto. Lascia andare la donna atterrita, che scappa in un lampo, e alla cieca risponde a cazzotti, prima ancora di sapere contro chi si stia difendendo. Il ragazzino sa di essere il più debole, ma non desiste. Finalmente è giunto il momento, lungamente atteso, di scaricare emotivamente tutto l'amore tradito, tutto l'odio accumulato. Con i suoi piccoli pugni picchia alla disperata, le labbra contratte in una rabbia febbrile, insensata. Adesso anche il barone lo ha riconosciuto, anche lui è pieno di odio verso quella spia nell'ombra, che gli ha guastato gli ultimi giorni e il gioco; risponde ai colpi senza complimenti, dove capita capita. Edgar geme, ma non molla e non invoca aiuto. Per un minuto lottano in silenzio, accanitamente, nel corridoio buio. A poco a poco il barone si rende conto quanto sia ridicola la sua scazzottatura con un ragazzino, lo afferra di brutto, per scaraventarlo via. Ma il piccolo, sentendo i muscoli venire meno e sapendo che di lì a un attimo avrebbe perso la partita come un cane bastonato, con rabbia feroce addenta quella mano solida, robusta, che cerca di agguantarlo per la nuca. Istintivamente il barone, morso, emette un urlo smorzato e lascia la presa, un attimo soltanto, di cui il bambino approfitta, per scappare in camera sua e tirare il chiavistello. Solamente un minuto è durato questo scontro notturno. Nessuno, a destra e a manca, lo ha sentito. Tutto tace, tutti sembrano immersi nel sonno. Il barone si asciuga la mano insanguinata con il fazzoletto, scrutando ansioso nel buio. Nessuno ci ha fatto caso. Solo in alto tremola un'ultima luce inquieta, che a lui pare beffarda. Tempesta É stato un sogno, un brutto sogno insidioso? si domandò Edgar la mattina dopo, risvegliandosi, con i capelli arruffati, da un nodo di angoscia. La testa gli rintronava sordamente, le giunture sembravano irrigidite, di legno, e come l'occhio gli corse giù sul corpo, si avvide con spavento di essere ancora vestito. Saltò giù dal letto, andò traballante allo specchio e rabbrividì alla vista della propria faccia pallida, stravolta, con un livido arrossato, gonfio, sulla fronte. A fatica cercò di riordinare i pensieri e angosciosamente gli tornò in mente tutto quanto: la zuffa notturna sul corridoio, il precipitoso ritorno in camera, dove poi, in un tremito di febbre, si era buttato sul letto, vestito e pronto a fuggire. Là doveva essersi addormentato, piombando in un sonno greve, spesso, nei cui sogni poi tutto quanto si era ripetuto di nuovo, solo in modo diverso e ancora più tremendo, con un odore umidiccio di sangue fresco, a fiotti. Passi scricchiolavano, in basso, sulla ghiaia, voci giungevano su, a volo, come invisibili uccelli, e il sole penetrava a fondo nella stanza. Doveva essere già mattino inoltrato, ma l'orologio, che consultò stranito, segnava la mezzanotte: nell'agitazione si era dimenticato di ricaricarlo il giorno prima. E questo stato di incertezza, l'idea di fluttuare vagamente nel tempo, lo inquietava, senza contare la sensazione di non sapere che cosa era effettivamente successo. Si rassettò in fretta e scese da basso con apprensione e un vago senso di colpa nel cuore. Nella sala della colazione sua madre sedeva sola al tavolo abituale. Edgar provò sollievo per il fatto che non ci fosse il suo nemico e non dovesse vedere la sua faccia odiosa, che la sera prima, in un accesso di rabbia, aveva preso a pugni. Eppure, accostandosi al tavolo, si sentiva insicuro. «Buon giorno», salutò. La madre non rispose. Neppure lo guardò, contemplando con strana fissità il paesaggio in lontananza. Era molto pallida, aveva gli occhi leggermente cerchiati e intorno alle narici quel tremito nervoso così indicativo della sua irritazione. Edgar strinse le labbra. Quel silenzio lo angustiava. Infatti, non sapeva se la sera prima avesse ferito gravemente il barone, e se lei avesse notizia del loro scontro notturno. E questa incertezza lo tormentava. Ma la faccia della madre rimase talmente rigida, che non tentò nemmeno di guardarla, per timore che gli occhi ora abbassati potessero all'improvviso spalancarsi dietro le palpebre calate e abbrancarlo. Divenne del tutto silenzioso, non osava fare il minimo rumore, con circospezione sollevava la tazza e la rimetteva giù guardando furtivamente le dita della madre che giocherellavano molto nervosamente con il cucchiaio e parevano rivelare nella loro contrazione una rabbia segreta. Per un quarto d'ora sedette lì, in opprimente attesa di qualcosa che non accadeva. Non una sola parola che lo liberasse. E quando poi la madre si alzò, seguitando a ignorare la sua presenza, non sapeva che cosa fare: se restare seduto al tavolo da solo, oppure seguirla. Alla fine si alzò, seguendola sottomesso, mentre lei lo snobbava intenzionalmente, e intanto avvertiva quanto fosse ridicolo quel suo strisciarle appresso. Accorciò progressivamente il passo, per restare sempre più indietro, e la madre, senza farci caso, entrò nella propria stanza. Quando finalmente Edgar arrivò lì, si trovò davanti la porta inflessibilmente sbarrata. Che cosa era successo? Non riusciva più a raccapezzarsi. La sicurezza del giorno prima era svanita. Che avesse magari avuto torto, nel fare quella aggressione? E forse gli stavano preparando una punizione o una nuova umiliazione? Qualcosa doveva succedere, lo sentiva, qualcosa di terribile doveva accadere quanto prima. Tra loro c'era l'oppressione di un temporale in arrivo, la tensione elettrica di due poli carichi, che doveva scaricarsi nella folgore. E questo pesante presentimento se lo portò appresso per quattro ore di solitudine, da una stanza all'altra, finché le sue esili spalle di bambino crollarono sotto l'invisibile soma, per cui a mezzogiorno si presentò a tavola ormai del tutto contrito. «Buon giorno», disse nuovamente. Doveva lacerare quel silenzio minaccioso, tremendo che incombeva su di lui come una nube nera. Di nuovo la madre non rispose, di nuovo ignorò la sua presenza. E con nuovo sgomento Edgar si sentì di fronte a una collera meditata, massiccia, quale mai aveva visto in vita sua. Fino allora le arrabbiature materne erano state soltanto sfoghi collerici più dei nervi che dei sentimenti, rapidamente dissolti in un sorriso di pacificazione. Adesso invece - lo sentiva - aveva suscitato dal più profondo dell'animo di lei un sentimento furibondo, ed era atterrito di fronte a questa violenza incautamente destata. A stento riusciva a mandare giù un boccone. In gola si era formato un groppo arido che rischiava di soffocarlo. La madre non sembrò accorgersi di tutto questo. Soltanto alla fine, alzandosi, si voltò come per caso e disse: «Dopo vieni di sopra, Edgar, ti devo parlare». Il tono della voce non era minaccioso, ma così gelido, che a Edgar vennero i brividi, come se gli avessero messo improvvisamente intorno al collo una catena di ferro. La sua resistenza era infranta. In silenzio, come un cane bastonato, la seguì su in camera. Lei prolungò il tormento del figliolo, tacendo per alcuni minuti, durante i quali lui sentì battere l'orologio e fuori un bambino ridere e dentro di sé il cuore martellare nel petto. Ma anche in lei doveva esserci una grande insicurezza, perché non lo guardava, mentre prese a parlargli, ma gli volgeva le spalle. «Non voglio più parlare del tuo comportamento di ieri. E stato inqualificabile, e mi vergogno ancora adesso, se ci penso. Delle conseguenze devi ringraziare soltanto te stesso. Ora ti voglio dire solamente questo: è l'ultima volta che hai potuto stare liberamente in mezzo agli adulti. Ho scritto adesso al tuo papà che ti ci vuole un precettore o un collegio, per imparare l'educazione. Non intendo più arrabbiarmi per causa tua.» Edgar ascoltava a capo chino. Sentiva che quella era solo una introduzione, una minaccia, e attendeva preoccupato la sostanza. «Ora farai subito le tue scuse al barone.» Edgar ebbe un moto di stizza, ma lei non si lasciò interrompere. «Il barone è partito oggi, e tu gli scriverai una lettera che ti detterò io.» Edgar si agitò nuovamente, ma la madre fu irremovibile. «Non ammetto obiezioni! Eccoti carta e penna, siediti!» Edgar alzò lo sguardo. Gli occhi della madre erano duri, decisi, inflessibili. Non l'aveva mai vista così, così perentoria e calma. Gli venne paura. Si sedette, prese la penna, ma chinò la faccia sul tavolo. «In alto, la data. Ci sei? Prima del destinatario, salta una riga. Bene! Egregio signor barone! Punto esclamativo. Salta un'altra riga. Apprendo ora con rincrescimento - ci sei? - con rincrescimento che lei ha già lasciato il Semmering - Semmering con due emme -, e così mi tocca fare epistolarmente ciò che intendevo fare di persona, cioè - un po' più svelto, non è una prova di calligrafia! - chiederle scusa per il mio comportamento di ieri. Come le avrà detto la mia mamma, sono tuttora convalescente da una grave malattia e molto eccitabile. Per cui spesso vedo le cose con esagerazione e poi subito me ne pento...» La schiena curva sopra il tavolo si drizzò di scatto. Edgar si girò: la sua resistenza si era ridestata. «Questo non lo scrivo, questo non è vero!» «Edgar!» La voce di lei era minacciosa. «Non è vero. Non ho fatto nulla di cui dovrei pentirmi. Non ho fatto niente di male, per cui dovrei chiedere scusa. Io sono soltanto accorso in tuo aiuto, quando tu lo hai invocato!» Le labbra della madre divennero esangui, le narici tese. «Io ho invocato aiuto? Tu sei pazzo!» Edgar si arrabbiò. Balzò in piedi di scatto. «Sì, hai invocato aiuto, là fuori sul corridoio, la notte scorsa, come lui ti ha afferrato. 'Mi lasci, mi lasci', hai gridato. Talmente forte, che l'ho sentito fin dentro la stanza.» «Tu menti, non sono mai stata con il barone qui in corridoio. Mi ha accompagnato soltanto fino alle scale...» A Edgar si bloccò il cuore di fronte a questa spudorata menzogna. La voce gli venne meno, e fissò la madre con occhio vitreo. «Tu... non eri... in corridoio? E lui... lui non ti teneva stretta? Non ti ha abbrancato con la forza?» Lei rise. Un riso freddo, secco. «Te lo sei sognato.» Questo per il ragazzino era troppo. Ormai sapeva che gli adulti mentivano, che avevano mille piccole giustificazioni sfrontate, bugie che sgusciavano attraverso maglie strette, e ambiguità astute. Ma quell'impudente e freddo negare, a faccia a faccia, lo faceva impazzire dalla rabbia. «E questi lividi qua, me li sono sognati anche quelli?» «Chi lo sa con chi ti sei azzuffato? Comunque, non sono tenuta a entrare in discussioni con te. Tu devi obbedire, e basta. Siediti e scrivi!» Era molto pallida e con le ultime forze cercava di tenere in piedi la sua versione fasulla. Ma in Edgar a quel punto qualcosa crollò: un'ultima fiammella di fiducia. Non riusciva a capacitarsi che si potesse semplicemente pestare sotto i piedi la verità come un fiammifero acceso. Tutto dentro di lui si contrasse in un gelo, tutte le sue parole divennero taglienti, cattive, scatenate: «Sicché me lo sarei sognato? Quello che è avvenuto sul corridoio e questo livido qua? E che voi due ieri passeggiavate al chiaro di luna, e che lui voleva portarti giù per il viottolo, magari anche quello? Credi forse che io mi lasci rinchiudere in una stanza come un bambino piccolo? No, non sono così stupido come voi credete. Io la so lunga». La fissò con strafottenza, e questo spezzò la sua forza: vedere la faccia del proprio bambino davanti a sé, sfigurata dall'odio. La rabbia in lei esplose violenta. «Su, avanti, adesso tu scrivi immediatamente! Oppure...» «Oppure che cosa?» Ora la sua voce si era fatta arrogante e provocatoria. «Oppure ti pesto come un bambino piccolo.» Edgar si avvicinò di un passo con aria beffarda, limitandosi a ridere. E già la mano della madre gli era arrivata in faccia. Edgar cacciò un urlo. E come uno che affoga, che fa mulinare le braccia e negli orecchi avverte solo un rombo cupo e negli occhi uno sfarfallio rosso, così picchiò alla cieca con i pugni. Sentì di pestare qualcosa di molle, una faccia, udì un grido... Quel grido lo fece tornare in sé. Di colpo ebbe la percezione e la coscienza dell'atto mostruoso: che stava picchiando sua madre. Fu preso da paura, vergogna e orrore, dalla voglia prepotente di sparire, di sprofondare sotto terra, di fuggire, di scappare, pur di non trovarsi più sotto lo sguardo di quegli occhi. Si precipitò alla porta e di corsa giù per le scale, attraverso l'albergo, in strada - via! via! -, come braccato da una muta inferocita. Prima intuizione Finalmente, dopo un pezzo di strada, si fermò. Dovette appoggiarsi a un albero, talmente tremava in tutto il corpo dalla paura e dall'eccitazione, tale era il rantolo che gli usciva dal petto ansimante. Lo aveva tallonato l'orrore per il suo atto bieco, che ora lo prese per la strozza, scuotendolo come una quartana. Adesso, che cosa doveva fare? Dove fuggire? Perché già lì, nel bosco vicino, a un quarto d'ora appena dall'albergo in cui stava, provò un senso di abbandono. Tutto pareva diverso, più ostile, più astioso, da quando era solo e privo di aiuto. Gli alberi, che ancora il giorno prima gli stormivano intorno fraterni, all'improvviso si addensavano sinistri come una minaccia. E quanto più ostico e più sconosciuto doveva essere, allora, ciò che ancora lo attendeva? Questa solitudine di fronte al vasto mondo ignoto dava le vertigini al bambino. No, non era ancora in grado di sopportarla, di stare del tutto solo. Ma da chi poteva rifugiarsi? Di suo padre aveva paura: era troppo irritabile, poco disponibile, e lo avrebbe rispedito subito indietro. Ma lui non voleva tornarci, meglio allora inoltrarsi nelle sconosciute insidie dell'ignoto; gli sembrava di non potere mai più guardare il volto di sua madre, senza pensare di averlo preso a pugni. Allora gli venne in mente la nonna, quella donna anziana, buona, gentile, che fin da piccolo lo aveva viziato ed era il suo rifugio, quando a casa era nell'aria una punizione o qualche torto. Si sarebbe nascosto da lei, a Baden, finché fosse passata la rabbia iniziale, da lì avrebbe scritto una lettera ai genitori, per scusarsi. Nel giro di un quarto d'ora era già così umiliato soltanto al pensiero di trovarsi solo nel mondo con le sue mani inesperte, da maledire il proprio orgoglio, quello stupido orgoglio che un estraneo gli aveva iniettato nel sangue come una menzogna. Voleva soltanto essere il bambino di prima, obbediente, paziente, senza la presunzione di cui adesso avvertiva tutta la ridicola esagerazione. Ma come arrivarci, a Baden? Come saltare questa distanza di ore? Precipitosamente mise mano al piccolo borsellino di pelle che portava sempre con sé. Grazie al cielo, era ancora lì, lucente, la moneta d'oro da venti corone, nuova di zecca, che gli avevano regalato per il compleanno. Non aveva mai potuto decidersi a spenderla. Ma quasi ogni giorno aveva controllato se ci fosse ancora, deliziandosi alla vista di essa e sentendosi ricco, e poi l'aveva lustrata per bene con il fazzoletto, in uno slancio di tenera gratitudine, finché brillava come un piccolo sole. Ma - l'improvviso dubbio lo angosciò - sarebbe bastata? Tante volte già in vita sua aveva preso il treno, senza porre mente al fatto che, per andarci, bisognava pagare, né, tanto meno, al costo del biglietto, se fosse una corona oppure cento. Per la prima volta avvertiva che esistevano fatti della vita ai quali non aveva mai pensato, che i molti oggetti intorno a lui, capitatigli tra le mani, con cui aveva giocato, erano in qualche modo dotati di un loro proprio valore, di uno specifico peso. Mentre ancora un'ora prima si credeva onnisciente, adesso si rendeva conto di essere passato accanto a mille segreti e questioni senza badarci, e si vergognava che il suo povero sapere inciampasse già sul primo gradino di accesso alla vita. Divenne sempre più titubante, mentre i suoi passi incerti, sempre più piccoli, lo conducevano giù alla stazione. Quante volte aveva sognato quella fuga, immaginato di entrare nella vita a bandiere spiegate, di diventare imperatore o re, soldato o poeta, e ora guardava intimidito il piccolo edificio chiaro, unicamente preoccupato se le sue venti corone sarebbero bastate per arrivare dalla nonna. I binari splendevano a perdersi nel paesaggio, lontano, la stazione era deserta. Edgar si accostò timidamente alla cassa e domandò sottovoce, perché nessuno lo potesse sentire, quanto costava un biglietto per Baden. Una faccia meravigliata spuntò dietro lo sportello scuro, due occhi sorrisero dietro le lenti al bambino impacciato. «Un biglietto intero?» «Sì», balbettò Edgar. Ma senza spocchia, piuttosto con la paura che potesse costare troppo. «Sei corone!» «D'accordo!» Con sollievo allungò la moneta lustra che gli era tanto cara, prese il resto sonante, e di colpo si sentì di nuovo indicibilmente ricco, ora che aveva in mano quel pezzetto di cartone bruno che gli assicurava la libertà, e in tasca risuonava la musica discreta dell'argento. Secondo l'orario, il treno sarebbe arrivato tra venti minuti. Edgar si rintanò in un cantuccio. Sul marciapiede sostavano un paio di persone senza faccende e senza pensieri. Ma al ragazzino inquieto pareva che tutti guardassero soltanto lui, meravigliandosi che un bambino così piccolo viaggiasse già da solo, come se portasse scritto in faccia di essere un fuggitivo e un criminale. Quando finalmente il treno fischiò la prima volta da lontano e sopraggiunse con fragore, Edgar tirò un sospiro di sollievo. Quel treno lo avrebbe portato nel mondo. Solamente nel salire si accorse che il suo biglietto era valido per la terza classe. Fino ad allora aveva sempre viaggiato in prima classe, e di nuovo notò che qualcosa era cambiato: esistevano differenze che a lui erano sfuggite. I compagni di viaggio erano diversi dal solito. Certi lavoratori italiani dalla voce rauca e dalle mani dure, che stringevano vanghe e badili, erano seduti proprio di fronte a lui e guardavano nel vuoto con occhio spento e sconsolato. Evidentemente dovevano aver lavorato sodo sul tracciato, perché alcuni di loro erano stanchi e dormivano con la bocca aperta, appoggiati allo schienale di legno, duro e sporco, nel treno che sferragliava. Avevano lavorato per guadagnare dei soldi, pensò Edgar, ma non riusciva a quantificare l'importo; però sentiva che il denaro era una cosa di cui non sempre si disponeva, che bisognava in qualche modo guadagnare. Per la prima volta si rendeva conto di essere abituato a un'atmosfera di benessere come a un fatto del tutto naturale, mentre da una parte e dall'altra della sua esistenza profondi abissi si spalancavano nel buio, mai toccati dal suo sguardo. D'un tratto notò che esistevano vari mestieri e destini, che attorno alla sua vita si assiepavano dei segreti, a portata di mano eppure sempre trascurati. Edgar imparò molte cose in quell'unica ora da solo, cominciando a vedere tante cose da quell'angusto scompartimento con i finestrini che davano sul mondo. E tacitamente dalla sua angoscia oscura prese a sbocciare qualcosa che non era ancora felicità, però già stupore di fronte alla varietà della vita. Era scappato per paura e viltà, lo avvertiva in ogni istante, e tuttavia per la prima volta aveva agito in modo autonomo, vissuto qualcosa della realtà, cui fino allora non aveva badato. Forse per la prima volta lui stesso era diventato un enigma per la madre e per il padre, come per lui lo era stato sino a quel momento il mondo. Guardava dal finestrino con occhio diverso. E gli sembrava di vedere per la prima volta tutto l'esistente, che un velo fosse caduto dalle cose, per cui ora esse gli mostravano ogni aspetto: l'essenza del loro fine, il nervo segreto del loro agire. Case passavano via, in un volo, come sradicate dal vento, e gli venne fatto di pensare a quelli che le abitavano. Erano ricchi o poveri, felici oppure infelici? Avevano anche loro, come lui, il desiderio appassionato di sapere ogni cosa? E anche lì magari c'erano dei bambini che fino allora, come lui, avevano soltanto giocato con le cose? I casellanti lungo il tracciato, con le loro bandierine, per la prima volta non gli parevano, come un tempo, pupazzi sparsi e giocattoli inanimati, oggetti messi lì dal caso indifferente, ma capiva che quello era il loro destino, la loro lotta contro la vita. Le ruote giravano sempre più in fretta, le serpentine facevano scendere a valle il treno, sempre più dolci apparivano le montagne, più lontane, e già si era al piano. Ancora una volta si girò a guardarle, ed erano già azzurre e indistinte, remote e irraggiungibili, e gli sembrava che là, dove lentamente svanivano nella foschia del cielo, stesse la sua infanzia. Conturbante oscurità Ma poi a Baden, quando il treno si fermò, e Edgar si ritrovò solo sul marciapiede dove già erano accese le luci, e i segnali brillavano verdi e rossi in lontananza, nel multicolore quadro visuale istintivamente si insinuò una improvvisa paura della notte imminente. Di giorno si sarebbe sentito ancora al sicuro, perché intorno c'erano delle persone, ci si poteva riposare, sedere su una panchina o guardare nelle vetrine davanti ai negozi. Ma come avrebbe potuto sopportare la cosa, se la gente si rintanava nelle case; e tutti avevano un letto, quattro parole da scambiare e poi una notte tranquilla, mentre lui doveva stare in giro da solo, con il senso della propria colpa, in un luogo sconosciuto? Ah, che bello poter avere sopra di sé al più presto un tetto, non stare più un minuto all'aperto in un ambiente non familiare! Questa era l'unica sensazione lucida di Edgar. Fece in fretta la strada che gli era nota, senza guardare a destra o a manca, e finalmente arrivò alla villa dove abitava la nonna. Era situata in bella posizione su un ampio viale, ma non esposta alla vista, bensì nascosta dietro rampicanti e edere di un giardino tenuto con cura, splendore immerso in una nuvola di verde, una casa bianca, simpaticamente antica. Edgar scrutò attraverso le sbarre come un estraneo. Dentro non si muoveva niente, le finestre erano sbarrate, evidentemente stavano tutti sul retro nel giardino con degli ospiti. Già stava toccando la maniglia fredda, quando accadde un fatto strano: d'un tratto ciò che da due ore aveva immaginato del tutto facile, ovvio, gli sembrò impossibile. Come poteva entrare, salutare i presenti, come sottostare a tutte le domande e rispondere? Come reggere al primo sguardo, dovendo riferire di essere scappato di nascosto da sua madre? E come spiegare, poi, la mostruosità del proprio gesto, che lui stesso già non riusciva più a comprendere? Dentro si sentì il rumore di una porta. Di colpo gli venne una paura folle che potesse arrivare qualcuno, e proseguì, senza sapere per dove. Davanti al parco pubblico si fermò, perché vide che era buio e probabilmente non c'era nessuno. Forse lì poteva sedersi e riflettere finalmente in pace, riposarsi e meditare sulla sua sorte. Entrò con timida apprensione. Sul davanti erano accesi alcuni lampioni che davano al fogliame ancora tenero uno spettrale scintillio come di acqua trasparente, verde; ma più dietro, dove la collina digradava, tutto era immerso come una massa compatta, cupa, nera, in fermento, nella conturbante oscurità di una notte di primavera precoce. Edgar schivò quatto le poche persone sedute a chiacchierare o a leggere sotto il cono di luce dei lampioni: voleva stare solo. Ma anche in alto, nel buio fitto dei viottoli senza illuminazione, non c'era pace. Tutto era pieno di un sommesso frusciare e parlottare nell'ombra, a volte frammisto all'alitare del vento tra le foglie flessuose, al tramestare di passi lontani, al sussurrare di voci smorzate, a un certo qual genere voluttuoso, sospiroso, angoscioso, che poteva provenire al contempo da esseri umani e da animali e dalla natura in sonno inquieto. Era un'agitazione insidiosa, sorniona, occulta, allarmante ed enigmatica, quella che pulsava lì, un lavorio sotterraneo nel bosco, magari unicamente connesso con la primavera, ma tale da impaurire stranamente il ragazzino spaesato. Si rannicchiò tutto su una panchina in quell'oscurità abissale e cercò di pensare che cosa avrebbe dovuto dire a casa. Ma i pensieri gli sgusciavano via come anguille, prima che potesse afferrarli; senza volerlo era continuamente indotto a captare il suono ovattato, le mistiche voci delle tenebre. Come era spaventosa, questa oscurità, come era conturbante e tuttavia misteriosamente bella! Erano animali o esseri umani oppure soltanto la mano spettrale del vento, a intessere tutto quel mormorio e crepitio, quel ronzio e allettamento? Tese l'orecchio. Era il vento, che si insinuava inquieto in mezzo agli alberi, ma erano anche - adesso lo percepì chiaramente - persone, coppiette allacciate, che salivano dal basso, dalla città illuminata, e animavano con la loro enigmatica presenza l'oscurità. Che cosa cercavano? Non riusciva a capirlo. Non parlavano tra loro, perché non sentiva voci, solo lo scricchiolare rumoroso dei passi sulla ghiaia, e di tanto in tanto vedeva nella radura le loro sagome fluttuare via fugaci come ombre, sempre però strettamente avvinte, come quella volta aveva visto sua madre con il barone. Sicché quel segreto, grande, baluginante e fatale, era presente anche lì. Adesso udiva i passi farsi sempre più vicini e poi anche un ridere soffocato. Temeva che i sopravvenienti potessero scoprirlo in quel posto e si rintanò ancora di più nel buio. Ma i due, che salivano alla cieca per il viottolo nell'oscurità impenetrabile, non lo notarono. Gli passarono davanti avvinghiati, e già Edgar stava tirando un sospiro di sollievo, quando improvvisamente si fermarono a breve distanza dalla panchina. Le loro facce si incollarono, Edgar non riusciva a vedere bene, sentì soltanto un gemito uscire dalla bocca della donna e l'uomo balbettare parole ardenti, folli, e un sensuale presentimento permeò la sua paura con un brivido voluttuoso. Stettero così per un minuto, poi la ghiaia tornò a scricchiolare sotto i loro passi che si allontanarono e presto si persero nel buio. Edgar rabbrividì. Il sangue prese a rifluirgli nelle vene, più caldo di prima. E d'un tratto si sentì irrimediabilmente solo in quella conturbante oscurità, con il prepotente bisogno di una voce amica, di un abbraccio, di una stanza luminosa, di una persona cara. Era come se tutto il buio angoscioso di quella notte confusa gli fosse entrato dentro e gli facesse scoppiare il petto. Balzò in piedi. A casa, adesso, a casa, trovarsi in una stanza, misera oppure luminosa, a contatto con degli esseri umani! Che cosa poteva succedergli? Lo picchiassero e sgridassero pure: non temeva più niente, da quando aveva vissuto quel buio e la paura della solitudine. Era spinto oltre, senza sapere come, e all'improvviso si ritrovò davanti alla villa, con la mano sulla maniglia fredda. Notò che adesso le finestre baluginavano illuminate attraverso il verde, e nella mente vedeva dietro ogni vetro rischiarato l'ambiente familiare con dentro le persone care. Già questo essere a pochi passi lo rendeva felice, questa sensazione finalmente tranquillizzante di trovarsi vicino a persone da cui si sapeva amato. E se indugiava ancora, era soltanto per pregustare più a fondo quella situazione. Ed ecco alle sue spalle una voce esclamare con stridula sorpresa: «Edgar! Ma è qui!» La cameriera della nonna, che lo aveva notato, si precipitò verso di lui e lo prese per mano. La porta venne spalancata dall'interno, un cane gli fece festa, saltandogli contro e abbaiando, dalla casa uscirono con delle luci, sentì tutto uno schiamazzo di giubilo e di spavento, un gioioso tumulto di grida e di passi che si avvicinavano, di persone che riconobbe. In testa la nonna, le braccia protese, e dietro - gli pareva di sognare - sua madre. Con gli occhi pieni di lacrime, tremante e intimidito, si ritrovò in mezzo a questo caldo sfogo di sentimenti appassionati, non sapendo che cosa fare o dire, incerto lui stesso su quello che provava: paura oppure felicità. L'ultimo sogno Era successo questo: lì lo cercavano e attendevano già da un pezzo. Sua madre, spaventata - nonostante l'arrabbiatura - per la precipitosa fuga del bambino stravolto, lo aveva fatto cercare sul Semmering. Già tutti erano in preda alla più tremenda agitazione, e si formulavano sinistre supposizioni, quando un signore riferì di aver visto il ragazzino verso le tre allo sportello della stazione. Là si appurò subito che Edgar aveva acquistato un biglietto per Baden, e senza indugio la madre prese il primo treno per raggiungerlo. La precedevano un telegramma a Baden e uno a Vienna, al padre del bambino, seminando il panico, tanto che da due ore tutti erano in cerca del fuggitivo. Adesso lo tenevano stretto, ma senza violenza. Con smorzato trionfo fu condotto nella stanza, ma stranamente non fece caso a tutte le dure parole di rimprovero che gli erano rivolte, perché nei loro occhi leggeva la gioia e l'amore. E del resto quella sceneggiata, quella finta arrabbiatura durò solo un istante. Poi la nonna tornò ad abbracciarlo tra le lacrime, nessuno parlò più della sua colpa, e si sentì circondato da meravigliose premure. La cameriera gli tolse la giacca e gliene portò una più calda, la nonna gli domandò se aveva fame o se voleva qualche altra cosa, seguitarono a chiedere, a tormentarlo con affettuosa sollecitudine, e come videro il suo imbarazzo, non fecero più domande. Voluttuosamente riassaporò la sensazione - tanto spregiata eppure rimpianta - di essere soltanto bambino e provò vergogna per la presunzione degli ultimi giorni, di voler fare a meno di tutto questo, di cederlo in cambio della ingannevole smania di una propria solitudine. Accanto squillò il telefono. Sentì la voce di sua madre, captò qualche parola: «Edgar... tornato... vieni... ultimo treno», e si meravigliava che lei non lo avesse investito furibonda, limitandosi a fissarlo con uno sguardo stranamente pacato. Sempre più cocente si fece in lui il pentimento, e avrebbe voluto sottrarsi alle premure della nonna e della zia, andando di là, a chiederle scusa, a dirle con tutta umiltà, mentre erano soli, che desiderava essere nuovamente un bambino e obbedire. Ma come fece per alzarsi quatto, la nonna disse piano, allarmata: «Dove vuoi andare?» Ci rimase male. Ormai erano tutti in ansia per lui, se soltanto si muoveva. Li aveva spaventati tutti, adesso temevano che scappasse di nuovo. Come poteva fargli capire che nessuno più di lui era dispiaciuto di quella fuga? La tavola era apparecchiata, e gli servirono una rapida cena. La nonna gli sedette accanto e non distolse gli occhi. Lei, la zia e la cameriera lo chiusero in un invisibile cerchio, e come per incanto si sentì tranquillizzato da quel calore. Lo turbava soltanto il fatto che sua madre non entrasse nella stanza. Se avesse immaginato quanto era contrito, sarebbe venuta certamente! Fuori si sentì un rumore di carrozza, che si fermò davanti alla casa. Gli altri si agitarono talmente, che anche Edgar divenne inquieto. La nonna uscì, voci rimbalzarono nel buio, e d'un tratto si rese conto che era arrivato suo padre. Impaurito, Edgar si avvide di essere rimasto solo nella stanza, e persino quella solitudine da niente lo sconvolse. Edgar tese l'orecchio all'esterno, suo padre sembrava eccitato, parlava a voce alta e adirata. In mezzo, a rabbonire, le voci della nonna e della madre: evidentemente cercavano di indurlo a più miti consigli. Ma la sua voce restò dura, dura come i passi che ora si avvicinavano sempre più, già risuonavano nella stanza accanto, davanti alla porta, spalancata di colpo. Suo padre era molto grande. E indicibilmente piccolo si sentiva adesso Edgar al suo cospetto, quando lui entrò, nervoso e arrabbiato veramente. «Come ti è saltato in mente, disgraziato, di scappare? Come hai potuto spaventare in questo modo tua madre?» La sua voce era irosa, e le mani si agitavano furibonde. Dietro a lui, con passo felpato, era entrata la madre, offuscata in volto. Edgar non rispose. Sentiva di doversi giustificare, ma come poteva raccontare che era stato ingannato e picchiato? Il padre lo avrebbe capito? «Allora, hai perso la lingua? Che cosa è successo? Dillo pure! Qualcosa non ti andava? Ci deve pur essere un motivo, per scappare! Qualcuno ti ha fatto un torto?» Edgar esitava. Il ricordo gli riattizzava la rabbia, stava già per pronunciare un'accusa. Quando vide - e il cuore gli si arrestò - sua madre fare uno strano gesto alle spalle del padre. Un gesto che lì per lì non capiva. Ma poi lei lo guardò con occhi imploranti. E silenziosamente si portò alle labbra un dito, facendo segno di tacere. E allora all'improvviso il bambino sentì qualcosa di caldo, una felicità enorme, sfrenata, per tutto il corpo. Comprese che la madre affidava a lui la custodia del segreto, che sulle sue piccole labbra da bambino era riposto un destino. E un orgoglio di smisurata esultanza lo prese, per il fatto che lei confidasse in lui, una dedizione subitanea, una voglia di aggravare la propria colpa, per dimostrarle quanto fosse già uomo. Si fece forza: «No, no... non c'era motivo. La mamma è stata molto buona con me, ma io sono stato villano, mi sono comportato male... e allora... allora sono scappato, perché avevo paura». Il padre lo guardò stupito. Tutto si era aspettato, tranne quella confessione. La sua collera sbollì. «BÉ, se sei dispiaciuto, allora la cosa è risolta. E adesso non parliamone più. Sono certo che un'altra volta ci penserai un attimo! Che un fatto del genere non si ripeta.» Squadrò il figliolo. E la sua voce si fece più bonaria. «Quanto sei pallido. Ma mi pare che tu sia di nuovo cresciuto. Spero che non commetterai più simili bambocciate; ormai non sei più un ragazzino e potresti comportarti come si deve!» Edgar per tutto il tempo aveva fissato esclusivamente la madre. Gli pareva che qualcosa scintillasse nei suoi occhi. Oppure si trattava soltanto di un riverbero della fiamma? No, c'era in essi uno splendere umido e luminoso, e intorno alla bocca aveva un sorriso di gratitudine. Adesso lo mandarono a letto, ma non era triste che lo lasciassero solo. Aveva tante cose da riconsiderare, un sacco di impressioni caotiche e ricche. Tutto il dolore degli ultimi giorni si dissolse nella potente consapevolezza di quella prima esperienza, si sentiva felice, in un misterioso presentimento di eventi futuri. Fuori, nella fitta oscurità notturna, stormivano gli alberi, ma lui era libero da angosce. Aveva perso ogni impazienza nei confronti della vita, da quando si era reso conto quanto fosse ricca. Gli pareva di averla vista per la prima volta quel giorno nella sua nudità, non più ammantata dalle mille menzogne dell'infanzia, ma in tutta la sua voluttuosa, insidiosa bellezza. Non aveva mai pensato che le giornate potessero essere così piene di molteplici oscillazioni tra la gioia e il dolore, ed era felice al pensiero che ancora tanti di questi giorni lo attendessero, una vita intera, per svelargli i suoi segreti. Aveva acquisito una aurorale intuizione della varietà dell'esistenza, per la prima volta credeva di aver compreso la natura degli esseri umani, che gli uomini avevano bisogno gli uni degli altri, anche quando sembravano nemici, e che era molto dolce essere amati da loro. Era incapace di pensare a qualcosa o a qualcuno con odio, non recriminava nulla, e per lo stesso barone, il seduttore, il suo acerrimo nemico, provava un sentimento nuovo di gratitudine, perché gli aveva schiuso la porta su questo mondo dei primi sentimenti. Era dolce e carezzevole, adesso, pensare al buio tutte queste cose, già soavemente confuse a immagini di sogno, e ormai quasi in sonno. E gli pareva che la porta si fosse aperta all'improvviso, e qualcuno entrasse silenziosamente. Stentava a credere ai propri sensi, e poi era già troppo addormentato per aprire gli occhi. Ed ecco sentì sopra di sé un respiro, un volto sfiorare tenero, caldo e dolce il suo, ed era certo che fosse sua madre a baciarlo, ora, passandogli la mano sui capelli. Sentì i baci e le lacrime, ricambiando dolcemente le tenerezze, e lo intese soltanto come riconciliazione, come gratitudine, perché aveva taciuto. Solo più tardi, molti anni dopo, riconobbe in quelle lacrime silenziose una solenne promessa, da parte della donna avviata al declino, di appartenere in futuro unicamente a lui, al suo figliolo, una rinuncia all'avventura, un addio a tutte le proprie concupiscenze. Non sapeva che anche lei gli era grata, per essersi salvata da una sterile avventura, e che ora, con quell'abbraccio, gli lasciava il dolceamaro fardello dell'amore come un retaggio per la sua vita futura. Tutto questo il bambino di allora non lo comprese, ma sentì che era molto esaltante essere amati in quel modo e che attraverso questo amore era già coinvolto nel grande segreto del mondo. Quando poi la madre ritrasse la mano, staccando le labbra da quelle di lui, e la silenziosa presenza si dileguò, restò ancora un calore, un alito sulle labbra del bambino. E carezzevole lo pervase il desiderio di sentire ancora spesso labbra così morbide e di essere abbracciato così teneramente, ma questo acuto presentimento del tanto agognato segreto era già obnubilato dalle ombre del sonno. Ancora una volta gli passarono davanti vivide le immagini delle ultime ore, ancora una volta si spalancò seducente il libro della sua giovinezza. Poi il bambino si addormentò, ed ebbe inizio il sogno della sua vita, più profondo. 2 - Scarlattina Se vai a Vienna, gli avevano detto a casa gli amici, trovati una stanza nella Josefstadt. E vicina all'università, e tutti gli studenti ci abitano volentieri perché è un quartiere tranquillo, un po' vecchio stile, ormai per tradizione la loro roccaforte. Sicché dalla stazione, dove aveva lasciato in deposito temporaneo il bagaglio, chiedendo alle persone, era andato subito da quella parte attraverso i tanti vicoli sconosciuti e rumorosi, incrociando un sacco di gente frettolosa che si muoveva come braccata sotto la pioggia, e poco disposta a dargli informazioni. Il tempo autunnale era inesorabile. Senza tregua cadeva un piovasco pungente, spazzando dagli alberi ingialliti l'ultimo fogliame tremolante, tamburellando da ogni grondaia e lacerando in milioni di filamenti grigi il cielo malinconico. A volte il vento sospingeva davanti a sé lo scroscio come un panno svolazzante, sbattendolo contro i muri, a mitraglia, e sfasciando gli ombrelli alla gente. Dopo un po', per la strada, si vedevano soltanto le traballanti carrozze nere, con i cavalli che fumigavano, e qua e là l'ombra trasvolante di qualche passante in corsa. Il giovane studente passò di casa in casa, salendo e scendendo molte scale, felice di sottrarsi per qualche minuto alla perfida pioggia. Si fece mostrare una serie di stanze, ma nessuna gli piacque. Forse era colpa della pioggia e della luce grigia, fredda, che faceva apparire opprimente ogni ambiente e come inzeppato di aria asfittica, malsana. Un vago senso di oppressione si destò in lui nel vedere la miseria e la sporcizia di molti alloggi, ai quali arrancava per scale sbilenche e umide, quasi una prima intuizione delle grandi tristezze che si nascondono dietro la facciata di queste piccole case periferiche ingobbite e consunte. La sua ricerca divenne sempre più scoraggiante. Finalmente fece la sua scelta. Prese alloggio nella Josefstadt, non lontano dalla circonvallazione, in una casa molto vecchia, ma solidamente impiantata, con una sua aria confortevole vetero-borghese. La stanza era semplice, più piccola, veramente, di quanto lui avrebbe voluto, ma le finestre si affacciavano su un grande cortile, uno di quei vecchi cortili di periferia, con qualche albero, che ora se ne stava sotto la pioggia in un frusciare lievemente intirizzito. Quell'ultimo timido verde, ricordo sopito dei giardini di casa sua, lo attrasse e poi il fatto che nell'anticamera, come suonò il campanello, un canarino attaccasse a gorgheggiare nella sua gabbia, instancabile nei trilli, mentre lui esaminava la stanza. Questo gli parve di buon auspicio, e gli piacque anche la padrona di casa, una donna in là con gli anni, provata dalla vita, vedova di un impiegato, come lei gli disse. Con la figlioletta si era ridotta in un misero stanzino, accanto c'era la stanza di un altro studente, la cui presenza era segnalata dal biglietto da visita sulla porta di casa. In quel paio d'ore che gli restavano prima di sera cercò di farsi in fretta un'idea della città che non conosceva, da lui sognata nel corso di mille giornate, ma la pioggia fredda, frustata dal vento, ben presto gli fece passare la voglia. Entrò in un caffè, contemplò a lungo, con la mente vuota, la boccia bianca in caccia di quella rossa sul tavolo da biliardo, sentì intorno a sé i discorsi di tanta gente sconosciuta, reprimendo a fatica l'amaro senso di delusione che lentamente gli saliva in gola e cercava sfogo nelle parole. Tentò di nuovo una sortita per le strade, ma la pioggia era troppo tenace. Fradicio fino alle ossa, andò in una trattoria, per una cena rapida e senza appetito, e poi a casa. E quindi si ritrovò nella sua stanza, a guardarsi intorno. Quattro carabattole erano lì, come dimenticate, senza alcuna reale connessione, prive di grazia e di vita: due vecchi armadi pencolanti dalla parete, che gemevano se uno gli andava vicino, un letto dalla coperta stinta, una lampada bianca che oscillava malinconicamente nel buio della stanza oscurata, una decrepita stufa vetero-viennese. Nel mezzo un paio di stampe a colori e qualche fotografia, roba sbiadita, priva di nesso, facce sconosciute, che forse già da anni si fissavano senza conoscersi. Il freddo filtrava dall'impiantito sconnesso, una finestra chiudeva male e sbatteva rumorosamente, quando il vento scaraventava la pioggia contro il vetro. Sentiva brividi di freddo. Stava stranito in mezzo a quel ciarpame d'altri tempi. Chi aveva dormito in quel letto? Chi si era seduto su quelle seggiole? Chi aveva guardato in quello specchio, dal quale ora lo fissava angosciato e quasi piangente il suo pallido volto da bambino? Nulla lì gli ricordava cose passate e vissute, tutto era estraneo, e sentiva un gelo fin dentro il sangue. Era il caso di mettersi già a letto? Erano le nove. Per la prima volta dormiva sotto un tetto che non era il suo. A casa adesso stavano certo seduti intorno al tavolo rotondo, amabilmente immersi nella luce dorata della lampada, in quieti conversari. Tra poco - lo sapeva - Edith, la sua bionda sorella, si sarebbe alzata, andando al pianoforte per eseguire un pezzo, una malinconica sonata oppure un valzer gioioso, a seconda di quello che lui avrebbe chiesto. Ma ora dove stava, lui, che là solitamente era in piedi nella penombra vicino al pianoforte e sognava sull'onda dei suoni, finché lei si alzava e gli augurava affettuosamente la buona notte? No, non riusciva ancora a dormire. Prese la valigia, che nel frattempo aveva fatto ritirare, e ne tolse le sue quattro cose. Tutto era stato messo con cura dai suoi, e nel disfare l'ordine dovette pensare alle mani che per amor suo avevano provveduto a tutto quanto. In mezzo ai libri, con lieta sorpresa, trovò il ritratto della sorella, che lo aveva infilato di nascosto per lui, con una dedica affettuosa. Guardò a lungo quel volto luminoso, sorridente, e poi lo mise sullo scrittoio, perché contemplasse amorevole e consolasse lui, sradicato da casa. Ma gli pareva che il sorriso del ritratto si offuscasse sempre di più, e la sorella, lì nell'oscurità, diventasse triste come lui. A stento osava ancora guardarlo, da tanto già gli sembrava spento. E se fosse uscito un'altra volta da quella stanza tetra e squallida? Come si accostò alla finestra, vide la pioggia colare indefessa. Sui vetri opachi si raccoglievano le gocce, sospese, finché un'altra le portava via, e quindi colavano giù rapidamente, come lacrime sulle guance lisce di un bambino. Altre ne arrivavano senza tregua, e senza tregua scorrevano verso il basso, da ogni parte, quasi che fuori un mondo intero sfogasse la propria tristezza in milioni di lacrime. Rimase lì in piedi, forse una mezz'ora. Quel suono lieve, quel mormorio pieno di cupo dolore, quel perenne scorrere di gocce, la musica incomprensibile degli alberi afflitti - immagine arcana di lacrime sul viso - gli penetrò nel profondo del cuore. Una tristezza atroce lo prese, una smania di pianto. Avrebbe voluto riscuotersi. Era dunque quella la sua prima sera a Vienna? Quante volte già l'aveva pregustata, in sogno, nei discorsi con la sorella e con gli amici. Non immaginando nulla di preciso, ma comunque qualcosa di scatenato e di luminoso, una corsa pazza per le strade scintillanti, avanti, sempre più avanti, come se all'indomani non dovesse più esserci tutta quella magnificenza, come se già il primo istante dovesse portare esperienze indimenticabili. Si era visto in allegri conversari, cantare dall'euforia, lanciare in aria il cappello, con il cuore che batteva forte. E adesso stava lì, davanti a un vetro cieco, con i brividi di freddo, solo, a guardare le gocce che colavano, due e poi tre e altre due ancora, a fissarle, mentre quelle si creavano invisibili rotaie su cui scendevano, e intanto stringeva le palpebre, perché non sgorgassero all'improvviso anche le sue lacrime e cadessero, sulle sue mani fredde. Era questo, che aveva sognato da anni? Come passava lento il tempo. La lancetta sulla cassa di legno del vecchio orologio avanzava in maniera del tutto impercettibile. E sempre più minacciosa avvertiva l'angoscia della sera, l'inesplicabile terrore infantile della solitudine in quella stanza non sua, l'atroce nostalgia di casa, che non riusciva più a soffocare. Era assolutamente solo in quella città enorme, dove battevano milioni di cuori, e nessuno parlava con lui, tranne quella pioggia che scrosciava irridente, nessuno lo ascoltava e lo guardava, mentre lottava con i singhiozzi e con le lacrime, mentre si vergognava di comportarsi come un bambino e tuttavia non era capace di vincere quella angoscia che si annidava dietro l'oscurità e lo fissava inesorabile con occhi d'acciaio. Mai come ora aveva desiderato tanto ardentemente il suono di una parola. Ed ecco, accanto, cigolare una porta e richiudersi sbattendo. Il giovane accovacciato balzò in piedi e tese l'orecchio. Una voce rauca ma ben impostata accennò dall'altra parte una strofa di un canto goliardico, si interruppe, poi si sentì sfregare un fiammifero e un armeggiare con la lampada, che a quel punto evidentemente era stata accesa. Doveva trattarsi del suo vicino, uno studente di giurisprudenza - così gli aveva detto la padrona di casa -, al quale mancavano gli ultimi esami. Tirò un profondo sospiro di sollievo, sentendo per un attimo cessare la propria solitudine. Di là scricchiolavano sull'assito i passi pesanti, energici, dell'altro che andava su e giù, la canzone risuonò sempre più distintamente, e all'improvviso il giovane in ascolto si vergognò di stare lì tutto tremante e teso, e silenziosamente tornò al tavolo, quasi temendo che quello accanto potesse vederlo attraverso la parete. Poi la voce tacque, e anche l'andirivieni venne meno. Evidentemente il vicino si era seduto. Ora il rumore delle gocce tornò a farsi vivo, e la solitudine, con tutta la sua angoscia, rispuntò dal buio. Gli pareva di soffocare in quel luogo angusto. No, adesso non poteva restare solo. Si alzò, attese che le guance non fossero più arrossate dallo stare sdraiato, provò la voce, schiarendosi la gola, poi uscì, avviandosi alla porta del vicino. Ci pensò due volte, ma alla fine bussò con mano esitante alla porta accanto. Ci fu un attimo di silenzio, chiaramente di stupore. Poi risuonò un secco «Avanti!» Aprì la porta. E si trovò in mezzo a un fumo azzurro. La piccola stanza era zeppa di fumo, e lì per lì tutti gli oggetti erano avvolti da una nebbia spessa, che la corrente d'aria fece fluttuare. Il vicino era ritto in piedi e guardò meravigliato l'intruso. Si era già tolto giacca e gilè, la camicia sbottonata mostrava senza pudore un petto largo e peloso, le scarpe erano sparse per terra, una lì e una là. Era un pezzo d'uomo robusto, di solidità contadina, più simile a un operaio che a uno studente, a vederlo piantato lì con la pipa corta in bocca, il cui fumo ora, con un potente sbuffo, soffiò fino alla porta. L'intruso farfugliò qualche parola. «Ho preso alloggio qui oggi e volevo presentarmi a lei come vicino.» L'altro sbatté meccanicamente i talloni. «Molto lieto. Schramek, studente in legge.» A quel punto anche il visitatore, per riparare alla dimenticanza, disse in fretta il proprio nome: «Bertold Berger». Schramek lo esaminò con un'occhiata. «Lei frequenta il primo semestre?» Berger disse di sì e aggiunse che quello era anche il suo primo giorno a Vienna. «Naturalmente studia legge. Tutti ormai studiano soltanto legge.» «No, voglio iscrivermi alla facoltà di medicina.» «Bene, bravo, finalmente uno che... Ma la prego, si accomodi!» L'invito era cordiale. «Posso offrirle una sigaretta, signor collega?» «Grazie, non fumo.» «BÉ... ci arriverà. I non fumatori sono in via di estinzione. Allora, vada per un cognac. Di quelli buoni.» «Grazie... grazie tante.» Schramek alzò le spalle ridendo: «Senta, caro collega, non me ne voglia, ma ho idea che lei sia quello che si è soliti chiamare un pesce lesso. Niente cognac, niente tabacco; è molto sospetto». Berger diventò rosso. Si vergognava di essere stato tanto maldestro da rivelare di primo acchito la propria goffaggine, ma sentiva che un assenso tardivo sarebbe stato ancora più ridicolo. Per dire qualcosa, si scusò nuovamente dell'intrusione notturna. Ma Schramek non gli fece finire il discorso e lo inchiodò con un paio di domande. Erano quasi compaesani, tedesco di Boemia l'uno, moravo l'altro, e presto dalla loro memoria affiorò anche un conoscente comune. La conversazione divenne subito vivace. Schramek parlò dei suoi esami e della sua associazione studentesca, di tutte le mille faccende idiote che per queste nature goliardiche sembrano rappresentare l'essenza dei loro anni di studio. C'era nei suoi racconti una cordialità molto viva, un'allegria un po' chiassosa e una spavalderia compiaciuta, quasi vanesia. Era visibilmente soddisfatto di impressionare un novellino, un provinciale. E la cosa gli riuscì più di quanto lui non si rendesse conto. Berger ascoltava tutti questi discorsi con una curiosità appassionata indescrivibile, perché parevano prefigurare la nuova vita che lo attendeva lì a Vienna, gli piaceva quel parlare deciso, il modo in cui Schramek, fumando, emetteva grosse nuvolette azzurre. Si imprimeva ogni quisquilia, perché quello era il primo vero studente che incontrava, e ai suoi occhi acritici assunse un alone di assoluta perfezione. Anche lui avrebbe voluto raccontargli qualche cosa, ma tutte le cose di casa, di fronte a quelle nuove esperienze, d'un tratto gli sembravano così insignificanti, gli scherzi liceali, i fatti di provincia, così miseri e insulsi, e tutti i propri pensieri e discorsi passati era come se appartenessero all'infanzia, mentre soltanto lì cominciava ogni prestanza virile. Schramek non fece caso al silenzio di Berger, beandosi assai delle timide occhiate di ammirazione da parte della matricola. Sollecitato da lui, Berger passò cautamente con la mano sulle tre cicatrici, tracce rosse, nette, sul cranio rapato di Schramek, e si stupì al racconto dei duelli studenteschi a sciabolate. Si sentì impaurito e insieme eccitato all'idea di trovarsi presto a faccia a faccia con un avversario, e chiese a Schramek di poter prendere in mano per un attimo una delle sciabole che giacevano in un angolo della stanza. Ma che poi solo a stento riuscisse a sollevarla, gli procurò una fitta dolorosa: di nuovo si rese conto di quanto fossero deboli ancora e infantilmente magre le sue braccia, e con improvvisa invidia avvertì la differenza tra sé e quel giovane robusto e ben piantato. Gli pareva inconcepibile che si potesse con una sciabola del genere mulinare nell'aria agevolmente, facendo sibilare la lama, sfondare a tutta forza la parata e sfregiare una faccia altrui. Tutte queste cose usuali gli sembravano eccezionali e mirabili al pari di grandi azioni degne di essere compiute, e la timida ammirazione con cui il novellino ne parlava rese Schramek sempre più loquace e confidenziale. Gli parlava come a un amico, squadernando a forti tinte tutta la storia della sua esistenza, incapace di andare al di là dell'ideale goliardico, ma tale da affascinare Berger, estasiato. In lui aveva trovato l'araldo della sua nuova vita. Finalmente a mezzanotte si salutarono. Schramek strinse calorosamente la mano a Berger, gli diede una pacca sulla spalla e con uno spontaneo sentimento di amicizia, che si prova soltanto a quell'età, gli disse che era «un caro ragazzo», la qual cosa rese immensamente felice il giovane entusiasta. Totalmente inebriato da tutte queste impressioni, tornò nella sua stanza, che d'un tratto non gli pareva più così solitaria e triste, anche se la pioggia seguitava a scrosciare sulla finestra e il freddo filtrava da ogni fessura. Il suo cuore era colmo di tutte quelle cose nuove e splendide, e considerava una straordinaria fortuna aver trovato già il primo giorno un amico. Ma in questa euforia si insinuò presto una punta di amarezza: sentiva quanto fosse debole, infantile, immaturo, rispetto a quel giovane, piantato saldamente nella vita con tutti e due i piedi. Era sempre stato il più fragile, il più malaticcio tra i suoi compagni, sempre rimasto indietro nei giochi e nelle esuberanze, ma soltanto ora avvertiva questo fatto dolorosamente. Sarebbe mai potuto diventare come Schramek: così solido, così forte, così libero? Lo prese un desiderio cocente di riuscire a parlare in modo così spigliato e risoluto, di avere dei muscoli, di affrontare la vita con polso fermo, senza scendere a patti con essa. Ci sarebbe mai riuscito? Contemplò con disappunto nello specchio la sua faccia timida, scarna e imberbe da bambino, e gli tornò in mente che solo a fatica era riuscito a sollevare la sciabola con quel suo braccio delicato senza muscoli. Gli venne in mente che due ore prima quasi aveva pianto, solo perché era buio e freddo e non c'era nessuno vicino a lui. Una tacita angoscia lo pervase: che cosa ne sarebbe stato di lui, così debole, così infantile, in questa città sconosciuta, in questa nuova vita, dove occorrevano forza, coraggio e spavalderia? No - fece appello a tutte le sue energie -, voleva lottare per non essere da meno, diventare come il suo amico, forte e possente, tutto voleva imparare da lui, l'andatura dinoccolata, il modo secco e deciso di parlare, voleva irrobustire i muscoli, diventare un uomo come lui. Tristezza e gioia, speranza e sconforto si intrecciarono, sempre più confuso divenne il suo fantasticare. Solo quando la lampada si mise a fumare, si rese conto che era tardi e andò a letto difilato. Fuori seguitava a tamburellare l'inesorabile pioggia di settembre. Questo fu il primo giorno di Bertold Berger a Vienna. E tali rimasero le cose anche nei giorni successivi: una incessante commistione di tristezza e gioia, di speranza e delusione, una sensazione confusa, ma comunque solamente estraneità e nessuna abitudine. Il fatto grande, sensazionale, nuovo, che si era atteso dalla sua vita autonoma di studente, da Vienna, tardava a realizzarsi. Certo, c'erano singole cose belle: Schònbrunn nel mite splendore settembrino, i viali con gli alberi dorati, in lenta ascesa verso le gloriette, e l'ampia vista panoramica, da lassù, sul parco grandioso e sul palazzo imperiale. Oppure i teatri, con i loro spettacoli, affascinante ritrovo di tanta bella gente, lo sfoggio di eleganza nelle feste, la strada, a volte, luogo di incontro con tante facce belle e singolari, scintillante di mille promesse e lusinghe. Ma era sempre soltanto un guardare e mai un entrarci dentro, come un'avida lettura in un libro aperto, mai l'immediatezza di un discorso, di un'esperienza viva. Già nei primi giorni fece l'unico tentativo di penetrare in questo nuovo mondo. Aveva dei parenti a Vienna, gente distinta, dai quali si recò in visita e fu invitato a pranzo. Si mostrarono molto gentili nei suoi confronti, anche i cugini pressappoco coetanei, ma lui avvertì chiaramente che l'invito era soltanto un modo per liberarsi di un obbligo, sentì sul suo vestito i loro sguardi, accompagnati da sorrisetti repressi di compatimento, si vergognò della propria eleganza provinciale, della sua timidezza, che doveva apparire pietosa di fronte alla sicurezza di sé ostentata dai suoi cugini, non vedendo l'ora di congedarsi. E da loro non tornò più. Per cui tutto concorse a riportarlo verso l'amicizia stabilita quella prima sera, alla quale si abbandonò con tutta la passionalità di un adolescente. Si affidò totalmente a quell'uomo robusto e sano che accettava di buon grado la sua affezione straripante, ricambiandola soltanto con la cordialità sempre disponibile delle persone interiormente indifferenti. Già dopo qualche giorno Schramek gli propose di passare al tu, e Berger arrossì dalla gioia, usandolo per un bel po' con impaccio e imbarazzo, tale era l'enorme rispetto nei confronti della superiorità dell'amico. Spesso, mentre camminavano in compagnia, lo guardava furtivamente di sguincio, per imparare quell'andatura marcata, sicura, e il modo disinvolto con cui abbordava ogni ragazza carina; persino le cafonerie gli piacevano, quel suo roteare il bastone per strada come un'arma, il perenne odore di tabacco dozzinale nei vestiti, lo schiamazzare provocatorio nei locali e gli scherzi spesso idioti. Per ore poteva stare ad ascoltare Schramek, quando quello raccontava le più insignificanti storie di ragazze, di sfide a duello e di brigate; automaticamente tutte queste cose, che pure non lo riguardavano affatto, diventavano importanti anche per lui, si eccitava in proposito, gli parevano la vita reale, vera, e bruciava dalla voglia di condividere simili esperienze. Dentro di sé sperava che un giorno Schramek lo introducesse in un'avventura del genere, ma quello aveva un modo strano di escluderlo dalle faccende importanti. Evidentemente riteneva troppo poco presentabile la faccia infantile e imberbe del coinquilino, perché di rado lo portava con sé, quando esibiva i colori della propria associazione, e perlopiù si vedevano soltanto al caffè o in casa. E toccava sempre a Berger prendere l'iniziativa. Di questo si era accorto ben presto, e per lui era un segreto tormento. Nella sua amicizia, come in ogni amicizia tra persone molto giovani, c'era una sorta di amore: una passionalità impetuosa e una punta di gelosia. Una certa amarezza, che naturalmente non osava manifestare, lo prendeva, nel vedere Schramek trattare con la medesima cordialità riservata a lui, e spesso con espansività anche maggiore, gente del tutto insignificante e insulsa, appena conosciuta. E allora sentiva che in quel paio di settimane di frequentazione non era riuscito ad avvicinarlo di un solo passo rispetto alla prima sera, per quanto intensa fosse la propria dedizione. Gli faceva rabbia che Schramek non mostrasse per i suoi problemi nemmeno un briciolo dell'interesse che lui in maniera così traboccante aveva per quelli dell'amico, che l'altro si limitasse, né più né meno, a un cordiale saluto, passando subito a parlare dei fatti propri, senza ascoltare, quando Berger parlava dei suoi. E poi, amarezza ancora più cocente: da ogni parola Berger avvertiva che Schramek non lo prendeva sul serio. Già il nomignolo che gli aveva appioppato! Invece che Bertold, come aveva fatto all'inizio, adesso lo chiamava sempre «Bubi», ragazzino. Suonava affettuoso e cordiale, ma era una fitta costante. Perché toccava una piaga aperta, che sanguinava in Berger già da anni: che lo prendessero sempre per un bambino. Gli era bruciato per anni, a scuola lo consideravano una femminuccia, tanto appariva a tutti delicato e tanto era timido, e ora, che doveva mostrarsi uomo, sembrava un ragazzino, con tutte le sue pavidità e ipersensibilità nervose. La gente stentava a credere che lui fosse già uno studente. Certo, non aveva ancora compiuto i diciott'anni, ma doveva sembrare molto più giovane, perché tutti lo ritenessero un bambino. Sempre più si consolidò in lui il sospetto che Schramek si vergognasse di fronte ai colleghi unicamente a causa di questo aspetto esteriore. Una sera ne ebbe la risposta certa. Era andato a zonzo lungamente per la città, avvertendo di nuovo dolorosamente l'assoluta solitudine in mezzo al caos delle strade. Sicché fece un salto da Schramek, per una chiacchierata. L'amico lo salutò cordialmente dal divano, senza alzarsi. Sul tavolo c'era il berretto dell'associazione, rosso come il fuoco, che saltò agli occhi di Berger. Il suo desiderio più grande, più segreto, era che Schramek lo introducesse nella sua consorteria, là avrebbe trovato tutto ciò che tanto dolorosamente gli mancava, affabilità di rapporti, una casa, là sarebbe diventato quello che voleva essere: forte, virile, un uomo tutto d'un pezzo. Da settimane aspettava una proposta da Schramek, spesso aveva già tentato allusioni molto velate, caute, che evidentemente non erano state intese. E adesso quel berretto gli abbacinava gli occhi; pareva guizzare sul tavolo come una fiamma ardente, baluginava, un tizzone, stravolgendogli tutta la mente. Non riuscì a trattenersi. «Domani vai alla bisboccia?» «Certo», rispose Schramek, animandosi di botto. «Sarà uno spasso unico. Il battesimo di tre nuove matricole, ragazzi davvero formidabili, in gamba. Come comandante in seconda non posso mancare. Ci divertiremo da matti. Giovedì non mi svegliare prima delle due, sicuramente rientreremo solo all'alba.» «Già, immagino che sia un vero spasso», disse Berger, in attesa. Schramek non disse nulla. A che scopo parlarne ancora? Ma sul tavolo lo ammaliava il berretto, rosso come il fuoco, una vampa... un bagliore di sangue. «Senti... non potresti una volta introdurre anche me... solo come ospite, naturalmente... sai, mi piacerebbe una volta assistere alla faccenda.» «Ma certo, vieni pure. Non domani però. Ma un'altra volta potrai essere della partita, come ospite, naturalmente. Ma non credo che ti piacerà, Bubi, perché spesso la cosa degenera. Comunque, se proprio ci tieni...» Berger sentì un groppo salire alla gola. Quel berretto, quel sogno rosso ammaliatore, all'improvviso lo vedeva come attraverso una nebbia. Erano lacrime? Sbottò incontenibile, in un singhiozzo: «Perché non dovrebbe piacermi? Ma per chi mi prendi? Sono un bambino?» Nel tono della voce doveva esserci qualcosa di strano, perché Schramek balzò in piedi. Si avvicinò a Berger con fare estremamente cordiale e gli diede una pacca sulla spalla. «No, Bubi, non te la devi prendere, non intendevo offenderti. Ma, per quanto ti conosco, non credo che tu sia tagliato per queste faccende. Sei troppo fine, troppo a modino, troppo perbene, per cose del genere. Bisogna essere brutali, dei tipacci, gente che incute rispetto agli altri, fosse anche soltanto in fatto di bevute. Ti ci vedi, coinvolto in una sbevazzata generale o in una rissa, di quelle che adesso avvengono ogni momento nell'aula magna? No, vero? Non è mica una sciagura, semplicemente non fa per te.» No, non faceva per lui; in questo, se ne rendeva conto, Schramek aveva ragione. Ma che cosa faceva per lui? In che cosa la vita aveva bisogno di lui? Non sapeva se prendersela con Schramek o essergli grato per quella schietta spiegazione. Il quale Schramek, naturalmente, un istante dopo aveva già bell'e dimenticato tutto, riprendendo a chiacchierare, ma in Berger si andava radicando sempre più l'idea che gli altri lo considerassero un essere inferiore. Il berretto rosso là sul tavolo lo fissava come un malocchio. Quella sera non rimase più a lungo e si ritirò nella sua stanza, dove restò seduto ben oltre la mezzanotte, con le mani appoggiate sul tavolo, fissando immobile la lampada. Il giorno dopo, Bertold Berger commise una sciocchezza. Non aveva chiuso occhio tutta la notte, tanto gli rodeva dentro che Schramek lo ritenesse un essere inferiore, un vile, un bambino. E allora aveva deciso di dimostrare a tutti che non gli difettava il coraggio. Avrebbe cercato una lite, provocato un duello, per far vedere all'altro che lui non aveva paura. La cosa non gli riuscì. Frequentando Schramek, aveva appreso dai suoi discorsi come andavano innescate queste faccende. Nel piccolo locale della trattoria fuori porta, dove consumava i pasti, dì fronte a lui sedevano ogni giorno alcuni studenti delle associazioni goliardiche. Non era difficile attaccare briga con loro, dato che passavano tutto il tempo a disquisire e ragionare sulla casistica del cosiddetto leso onore. Nel passare accanto al loro tavolo, toccò dentro con intenzione e rovesciò una sedia. Proseguì come se niente fosse, senza scusarsi. Il cuore gli batteva forte nel petto. E subito alle sue spalle risuonò, minacciosa e tagliente, una voce. «Non può stare attento?» «Lei veda un po' di redarguire qualcun altro!» «Che insolenza!» Al che, tornò indietro, chiese il biglietto da visita e porse il suo, felice che non gli tremasse la mano. Tutta la faccenda era durata un attimo. Come uscì con orgoglio, sentì quelli al tavolo ridere e uno dire divertito: «VÉ, che femminuccia!» E questo gli guastò l'orgoglio. Dopo di che, tornò a casa di corsa. Con le guance in fiamme, balbettando dalla gioia, irruppe nella stanza di Schramek, che si era appena alzato, e gli raccontò tutto, tacendo, ovviamente, la battuta finale e anche il fatto che aveva rovesciato la sedia intenzionalmente. A quel punto, naturalmente, Schramek avrebbe dovuto fargli da padrino. Aveva sperato che Schramek gli desse una pacca sulla spalla e si complimentasse con lui, per essere stato tosto. Invece l'amico esaminò pensoso il biglietto da visita, sibilò tra i denti e disse contrariato: «Ma proprio quello ti dovevi scegliere? É uno forte come un toro, uno dei nostri migliori spadaccini. Quello ti fa a pezzi come niente». Berger non si spaventò. Che lo ferissero, lo aveva messo in conto, dato che non aveva mai maneggiato una sciabola. Quasi pregustava un bello sfregio sulla faccia, così gli altri non gli avrebbero più chiesto se era uno studente. Mentre lo inquietava il comportamento di Schramek, il quale, con il biglietto in mano, seguitava ad andare su e giù, mormorando: «Non sarà una cosa facile. Ha detto insolenza, vero?» Poi Schramek finì di vestirsi e disse a Berger: «Faccio un salto alla nostra associazione e ti trovo il secondo padrino. Non ti preoccupare, vedrai che sistemerò la faccenda». E in effetti Berger non si preoccupava affatto. Provava una gioia sfrenata, quasi esaltata, di essere per la prima volta trattato ufficialmente da studente, da uomo, di avere anche lui la sua brava vertenza. Di colpo gli sembrava quasi di avere forza nelle giunture, e come sollevò la sciabola, facendola mulinare, gli pareva quasi voluttuoso menare fendenti. Per tutto il pomeriggio, andando avanti e indietro senza posa, sognò del duello, e la certezza, che avrebbe perso non gli doleva affatto. Al contrario, proprio così poteva dimostrare a Schramek e agli altri di non essere un pavido, voleva restare impassibile, anche se il sangue gli colava sulla faccia e negli occhi, non fare una piega, anche se loro cercavano di trascinarlo via. Allora gli avrebbero offerto spontaneamente il berretto rosso. Nel mentre gli si era scaldato il sangue. Quando Schramek tornò alle sette della sera, Berger gli corse incontro agitatissimo! Anche Schramek era molto su di giri. «E allora, Bubi. Tutto a posto, la faccenda è sistemata.» «Quando si va in pedana?» «Ma Bubi, non penserai mica che ti lasceremo duellare con quello? Ovvio che la vertenza è stata composta.» Berger diventò pallido come un morto, le mani gli tremavano, dentro gli montò una rabbia, annebbiando di lacrime gli occhi. Avrebbe voluto dare un pugno in faccia a Schramek, come quello soggiunse: «Certo non è stato facile, e un'altra volta sii più accorto! Mica sempre finisce così bene!» Invano Berger cercò di spiccicare una parola. Troppo tremenda era la delusione. Finalmente, il pianto nella strozza, disse: «Comunque, ti ringrazio molto. Ma un piacere non me lo hai fatto di certo». E uscì. Schramek lo guardò allibito. Attribuì quello strano comportamento all'agitazione del novellino e non si perse in ulteriori elucubrazioni. Berger cominciò a guardarsi attorno. La sua vita desiderava finalmente un punto di appoggio. Adesso era lì già da parecchie settimane e non aveva fatto un passo avanti rispetto al primo giorno. Come nuvole che si sfilacciano, una visione dopo l'altra di dissolveva lentamente in lontananza, le fantasiose attese dell'infanzia sbiadivano e svanivano nella nebbia. Era veramente Vienna, quella, la grande città, il sogno di tanti anni, forse già vagheggiata dal giorno in cui per la prima volta aveva tracciato sulla carta, a lettere rigide e maldestre, la parola Vienna? Forse allora aveva pensato soltanto a un mucchio di case e che le giostre dovevano essere più grandi e più sgargianti di quella che impiantavano sulla piazza del mercato per la festa del patrono. E poi a poco a poco aveva attinto dai tanti libri i tocchi di colore, affollato le strade di donne civettuole, seducenti, desiderabili, popolato le case di spericolati avventurieri, riempito le notti di scatenate compagnie e immerso il tutto nel turbinoso vortice che ha nome giovinezza e vita. E che cosa era rimasto? Una stanza angusta e spoglia, da cui scappava al mattino, per trascorrere un paio di ore in qualche aula sudaticcia; una trattoria, dove trangugiava in fretta il suo pasto; un caffè, dove ammazzava il tempo con l'occhio fisso sui giornali e sulla gente; un vagare senza meta per le strade rumorose, finché era stanco e tornava a casa, nella stanza angusta e spoglia. Una volta o due andò anche a teatro, ma per lui era regolarmente un'esperienza amara. Perché, stando pigiato nella ressa del loggione, in mezzo a tutta quella gente che di lui non sapeva nulla, giù in platea o nei palchi vedeva i signori eleganti e disinvolti, le signore affascinanti nello splendore dei gioielli e dei décolleté, li vedeva tutti salutarsi e intrattenersi con euforiche risate. Tutti si conoscevano, tutti erano affini. I libri non avevano mentito. Lì si concretavano tutte quelle avventure, della cui realtà spesso aveva dubitato, perché non si presentavano a lui, lì era il mondo, che solitamente si rintanava nelle case mute, lì era la vita vissuta, l'avventura, il destino. Sentiva che lì per molti pozzi si arrivava all'oro della vita. Mentre lui era lì da spettatore e non poteva arrivarci. Davvero la sua infanzia aveva visto giusto: lì la giostra sgargiante, luccicante, era più grande che a casa, più sonora e chiassosa la musica, più vorticosa la rotazione, che mozzava il respiro. Ma lui era soltanto uno spettatore e non partecipava alla giostra. Non era soltanto la sua timidezza, a relegarlo in disparte. Anche la povertà gli legava le mani. Che da casa ricevesse il necessario, per lui era troppo poco. Bastava giusto a preservarlo dall'indigenza, era appena sufficiente per quella vita quotidiana oscura e senza pretese, ma mai sarebbe bastato a una espansività prodiga, dissipatrice, che pure è l'anima della giovinezza. Non sarebbe stato capace di usare il denaro, ma lo umiliava la coscienza che a lui fosse negato ciò che confusamente avvertiva come molto bello ed esaltante: sfrecciare per il Prater in carrozza, a corsa pazza, o passare una notte in qualche locale elegante con donne e amici, bevendo champagne, sbattere via una volta, senza micragna, i soldi, per un capriccio folle. Lo nauseavano quelle bestiali bisbocce studentesche nelle birrerie piene di fumo, e sentiva sempre più forte e ardente il desiderio di lanciarsi per una volta in una trasgressione, di riparare dallo squallido trantran quotidiano in un sentimento più vivo, in cui vibrasse qualcosa del grande ritmo della vita, dell'irrefrenabile ritmo della giovinezza. Ma tutto questo gli era negato, e ogni giorno si concludeva con quel triste ritorno, la sera, nella odiosa stanza angusta, dove le ombre diffuse parevano sparse da mani maligne, dove lo specchio mandava riflessi gelidi, dove alla sera paventava il risveglio del mattino e al mattino la lunga, sonnolenta, grigia, monotona giornata fino a sera. In quel periodo cominciò a dedicarsi con enorme impegno allo studio, in una sorta di disperazione. Era il primo ad arrivare nelle aule e nei laboratori, e l'ultimo a uscire, lavorava con una voracità ottusa, senza curarsi dei compagni, ai quali divenne presto antipatico. Con questa applicazione sfrenata cercava di reprimere il desiderio di altre cose, e ci riuscì anche. La sera era così spossato, che spesso non aveva più voglia di parlare con Schramek. Seguitava a lavorare ciecamente, senza ambizione alcuna, solo per stordirsi e non pensare alle tante cose cui doveva rinunciare. Si rendeva conto che c'era un meraviglioso segreto in quella febbre, con cui tanta gente dissimulava l'inutilità e il vuoto della propria esistenza, e in tal modo sperava di poter dare un senso anche alla sua, dimenticando, però, che la prima giovinezza non vuole un senso della vita, ma la vita stessa, nella sua totalità e molteplicità. Un pomeriggio, tornando a casa dal lavoro un po' più presto del solito, mentre passava davanti alla porta dell'amico, gli venne in mente di non averlo visto da quattro giorni. Bussò. Nessuno gli rispose. Ma con Schramek ci era abituato, perché quello spesso dormiva ancora la sera, quando aveva fatto bisboccia tutta la notte con gli amici. Sicché aprì la porta, e la stanza buia gli sembrava vuota. Ma ecco muoversi qualcosa sulla poltrona vicino alla finestra: ridendo, scattò in piedi una ragazza alta, che era seduta in grembo a Schramek. Berger fece per ritirarsi all'istante. Evidentemente non avevano sentito bussare, e lui era molto imbarazzato. Ma Schramek balzò in piedi, prese per il braccio l'amico che recalcitrava, e lo trascinò dentro. «Ecco, lo vedi, lui è fatto così. Ha paura di una ragazza, come se fosse un ragno. No, caro, adesso non te la svigni. Sicché, Karla, lo vedi, questo è Bubi, di cui ti ho già parlato.» «Io non vedo proprio niente», rise una voce sonora, un po' alta. E in effetti era troppo buio. Berger vedeva solo vagamente balenare nella penombra i denti bianchi e due occhi ridenti. «Allora: sia fatta la luce», disse Schramek e si mise a trafficare con la lampada. Berger era molto a disagio, sentiva il cuore battere inquieto, ma svignarsela non era più possibile. Aveva già sentito parlare di questa Karla. Era l'amante di Schramek da qualche settimana, una commessa di negozio, una ragazza piena di allegria. Spesso dalla sua stanza aveva sentito i due ridere e parlottare, ma, timido com'era, aveva fatto in modo di non incontrarla mai. La luce si accese. E allora la vide lì in piedi, alta e carina, una ragazza ben piantata, solida, sana, formosa, con i capelli rossi come il fuoco e grandi occhi ridenti. Aveva un'aria grossolana, un po' da serva, ed era anche trasandata nel vestire e nell'acconciatura; o magari li aveva appena messi in disordine Schramek? Non era escluso. Simpatico era, però, il modo disinvolto e spiccio con cui gli andò incontro, gli porse la mano e disse: «Ciao!» «Allora, ti piace?» domandò Schramek. Lo divertiva da matti mettere in imbarazzo Berger. «BÉ, più carino di te è di certo», rise Karla. «É solo un peccato che sia così muto.» Berger arrossì, cercando di spiccicare qualche parola, per cui Karla sbottò a ridere e corse da Schramek. «Ehi, questo diventa rosso, se uno gli parla.» «Lascialo in pace», disse Schramek. «Lui non sopporta le ragazze. Sai, è molto timido, ma tu gli darai sicuramente una mossa.» «Certo, non sarebbe male. Venga un po' qua, non la mordo mica.» Lo prese per il braccio con decisione, per costringerlo a sedere. «Ma signorina...» balbettò Berger confuso. «Hai sentito? Signorina. Ha detto signorina. Senta, caro signor Bubi, signorina, a me, non lo dice nessuno. Il mio nome è Karla, se lo tenga per detto.» I due scoppiarono a ridere sonoramente. Schramek e Karla. Doveva aveva l'aria dell'allocco, si rese conto Berger e, per rimediare alla penosa figura, si unì al coro delle risate. «Sai che cosa ti dico?» disse Schramek. «Ci facciamo portare del vino. Allora forse perderà un po' la timidezza. Dai, Bubi, su, offri una bottiglia, o meglio due. Ci stai?» «Certo», disse Berger. A poco a poco si sentiva rinfrancare, lì per lì lo avevano colto di sorpresa. Uscì, chiamò la padrona di casa, e quella andò a prendere del vino, portò dei bicchieri, e quindi sedettero tutti e tre intorno al tavolo, chiacchierando e ridendo. Karla si era messa accanto a Berger e beveva alla sua salute. Lui aveva preso visibilmente coraggio. Qualche volta, mentre lei parlava con Schramek, osava guardarla senza timore. Adesso gli piaceva di più. I capelli rossodorati sulla nuca assolutamente candida formavano un contrasto seducente. E poi era affascinato dalla vivacità spontanea, dalla vitalità prorompente, robusta, piena di temperamento, e magneticamente attratto dalla sua bocca rossa e sensuale, che si schiudeva nella risata, mostrando i denti solidi, bianchi come la neve. A un certo punto Karla, girandosi all'improvviso verso di lui, per fargli una domanda, lo aveva sorpreso mentre la fissava. «Ti piaccio?» rise nella sua esuberanza. «Anche tu mi piaci!» Lo disse senza malizia, con schiettezza, ma a Berger la cosa piacque, e per un attimo ne rimase come inebriato. Divenne sempre più vivace. E a poco a poco, come una sorgente calda, tutta l'euforia sommersa degli anni liceali si ridestò in lui, cominciò a raccontare, a fare lazzi; i suoi discorsi, sulle ali del vino, scintillavano di una giovanile spavalderia a lui del tutto ignota. Anche Schramek era stupito. «Ma Bubi, che cosa ti succede? Ecco, così dovresti essere sempre, mica un pesce lesso!» «Già», rise Karla, «ti avevo detto, no, che gli avrei sciolto la lingua.» La padrona di casa dovette andare a prendere dell'altro vino. L'allegria dei tre divenne sempre più chiassosa. Berger, che in genere non beveva quasi mai, si sentiva meravigliosamente trasportato da quella insolita euforia, rideva e scherzava in continuazione, perdendo ogni timidezza. Alla terza bottiglia, Karla cominciò a cantare e quindi propose a Berger di darle del tu. «Schram, tu lo permetti, vero? E un così caro ragazzo!» «Ma certo. Su! Datevi il bacio della fratellanza.» E prima che Berger potesse raccapezzarsi, sentì due labbra umide sulla sua bocca. La sensazione, né sgradevole né gradevole, si dissolse senza lasciare traccia nell'allegria sfrenata e già lievemente annebbiata, che lo dondolava su e giù come un'altalena. Desiderava unicamente che continuasse quel delizioso vortice disinibito, quell'impalpabile ebbrezza che emanava dalla ragazza e dal vino e dalla propria giovane età. Anche Karla aveva le guance arrossate e a volte rideva verso Schramek, strizzandogli l'occhio. D'un tratto Schramek disse a Berger: «Hai già visto la mia nuova sciabola?» Berger non era incuriosito. Ma Schramek lo tirò in disparte. E mentre si chinavano, gli disse sottovoce: «Bene, e adesso sparisci, Bubi. A questo punto sei di troppo». Berger lo guardò, per un istante, sbalordito. Poi comprese, e augurò la buona notte. Come si ritrovò nella sua stanza, avvertì un leggero ondeggiamento sotto i piedi. In alto, sulla fronte, martellava il sangue, e la stanchezza lo buttò ben presto a letto. Il giorno dopo saltò per la prima volta le lezioni, non essendosi svegliato in tempo. Comunque quell'incontro, per quanto occasionale fosse, gli aveva irradiato nel sangue un tacito balenio di eccitazione. Sordamente andava elucubrando se quella sete di amicizia non fosse per caso un errore, una segreta menzogna, se in quell'anelare della solitudine verso un'intimità coinvolgente non covasse un altro desiderio faticosamente occultato. Riandava ai giorni trascorsi con la sorella. Pensava a quelle sere azzurre, quando sedevano nel giardino immerso nella penombra vespertina e non scorgeva più i tratti di lei, soltanto ancora il riflesso bianco del vestito dall'oscurità, un tenue lucore, come a volte una nuvola barbaglia appena nel cielo già invaso dalla notte. Che cosa, allora, lo rendeva tanto felice, quando quella voce giungeva nel buio con le parole soavi, argentina e sommessa, spesso balenando lampi di riso e poi di nuovo piena di tenerezza, quando quella musica volava al suo cuore come un carezzevole alito di vento o un uccello addomesticato? Era veramente soltanto intimità fraterna, oppure non vi si celava - nel più profondo, e sublimato dall'amicizia priva di concupiscenza - un piacere della donna, un tenerissimo e dolcissimo sentimento della femminilità? E tutto ciò che ora confusamente desiderava non era forse un alone luminoso, una traccia smarrita dell'anima femminile al di sopra della sua vita? Da quella sera si era reso conto con certezza di desiderare molto una donna. Non tanto una relazione, un amore, ma semplicemente un tacito contatto con le donne. Tutte le cose sconosciute e meravigliose da lui sognate non erano forse connesse con le donne, non erano loro le custodi di ogni segreto, seducenti e piene di promesse, vogliose e concupite a un tempo? Adesso cominciò a osservare più attentamente le donne per strada. Ne notò molte che erano giovani e belle e avevano negli occhi luminosi lo sfolgorio rivelatore di tante cose. Di chi erano quelle che camminavano ancheggiando e parevano danzare, che si guardavano intorno fiere, erette, come regine, che si adagiavano voluttuosamente nelle carrozze e sfioravano con sguardo noncurante i passanti stupiti e ammirati? Non c'era anche in loro il desiderio, e dietro le migliaia di porte, dietro le innumerevoli finestre della grande città, accuratamente schermate e appassionatamente spalancate, non dovevano esserci molte donne pervase anch'esse da un desiderio simile al suo e in attesa di lui, a braccia aperte? Non era giovane come loro, e non era radicato in tutte uno stesso desiderio? Adesso frequentava meno le lezioni e si aggirava più spesso per le strade. Era come se dovesse finalmente incontrare una donna capace di decifrare i segni tremolanti dei suoi occhi, come se un caso fortuito dovesse intervenire in suo favore, accadere un fatto imprevisto. Vedeva con invidia e cocente bramosia certi giovanotti agganciare, a due passi da lui, delle ragazze, vedeva coppiette teneramente allacciate perdersi la sera nei parchi, e sempre più pressante si fece in Berger il desiderio di vivere anche lui la propria esperienza. Certo, non vagheggiava nulla di sconvolgente, ma una donna tenera e dolce come sua sorella, soave e affettuosa, di infantile attaccamento e con quella meravigliosa voce sommessa nelle ombre della sera. Questa immagine occupava i suoi sogni. Ogni giorno, tornando a casa all'ora di pranzo per la Floriangasse, incontrava sciami di ragazzine quindicenni, sedicenni, reduci da scuola, a piccoli gruppi vocianti, con il passo saltellante delle adolescenti, intente a guardarsi intorno inquiete, ridacchiando, facendo ciondolare i libri. Ogni giorno vedeva da lontano quelle facce fresche, ridenti, i corpi snelli nelle gonne corte, le anche che ondeggiavano leggere, vedeva l'allegria spensierata, ancora infantile, con un cocente desiderio di imparare da quella gioventù il sorriso e la serenità tersa. Ogni giorno le vedeva. E loro ormai lo conoscevano. Come arrivava, si davano di gomito alla maniera plateale delle adolescenti, ridevano sonoramente e lo fissavano con occhi strafottenti, di sfida, mentre lui ogni volta guardava subito altrove e passava via in fretta. E quando poi notarono il suo turbamento, la sua timidezza, quell'arrossire e schivare il loro sguardo, si fecero di giorno in giorno sempre più ardite, senza che lui riuscisse mai a rivolgere loro la parola. Non erano più monellesche, più virili di lui? Nella sua stupida timidezza non era come una ragazzina, altrettanto confuso e infantile? Gli tornò in mente uno scherzo che sua sorella aveva fatto a casa qualche anno prima. Lo aveva furtivamente vestito da ragazzina e presentato alle sue amiche, le quali lì per lì non lo riconobbero e poi lo attorniarono con mille lazzi, divertite. Lui, all'epoca ancora un ragazzo, era rimasto lì tremante e rosso in faccia e non osava aprire gli occhi e guardare nello specchio che gli avevano portato. Già allora era timido e pavido, ma allora era ancora piccolo. Adesso era quasi un uomo e ancora non era capace di reggere a uno sguardo ridente, non sapeva essere forte e brutale, come la vita esigeva. Perché non era in grado di essere come Schramek o come tutti gli altri? Era veramente un essere inferiore, veramente come un bambino? Sempre gli tornava in mente la volta in cui, travestito da ragazzina, si era trovato in mezzo a quelle ragazzette che ridevano scatenate, e non osava alzare lo sguardo. Nel frattempo, che cosa erano diventate? Sapevano baciare, conoscevano l'amore, portavano vestiti lunghi, molte avevano già marito e figli. Tutte dalla stanza di allora, dalla fanciullezza, si erano lanciate fuori nella vita. Solo lui era ancora lì, ragazza più che uomo, un bambino rosso in volto nella stanza deserta, confuso, con gli occhi bassi, e non osava alzare lo sguardo... Un giorno, verso la fine di gennaio, si rifece vivo da Schramek. Adesso ci andava più raramente, da quando il solitario vagabondare per le strade gli dava una voluttà sottile e affascinante. Il tempo era pessimo. La neve degli ultimi giorni si era sciolta, ma il vento seguitava teso e tagliente, pretendendo in esclusiva le strade. Nuvole galoppavano per il cielo grigio, che guatava come cieco dall'alto. Cominciò una pioggia intensa e pungente, che si ficcava nella pelle come spilli di ghiaccio. Schramek stentò a salutarlo. Era sempre brusco e villano, quando nelle sue faccende qualcosa non andava. Si aggirava avanti e indietro agitato, continuando ad accendere la pipa. A volte ritornava di qualche passo, come se volesse domandare qualcosa. «Maledetta storia», ringhiò tra i denti. Berger stava zitto. Non osava chiedergli che cosa fosse successo. Schramek avrebbe parlato, ne era certo. E infatti, alla fine, sbottò: «Che tempo schifoso! Ci mancava solo quello. E a me tocca correre in giro per delle fesserie!» Riprese a camminare su e giù con rabbia, menando fendenti in aria, secchi, sibilanti, con un righello. Solo a quel punto Berger domandò cauto: «Ma che cosa è successo?» «Quello scemo del mio attendente l'altro ieri ha attaccato briga con due tizi. Oggi alle quattro inizia la giostra e domani si ricomincia. Ma io fra una settimana ho l'esame e veramente avrei ben altro da fare. In più il cretino se li è scelti dal mazzo, i due, che lo scanneranno sicuramente, quel pezzo di idiota. Adesso se mi bocciano è finita, mi tocca ripetere l'anno e aspettare, come i ragazzini a scuola. Come si fa a non andare in bestia?» Berger non disse nulla. Non ci aveva messo molto a scoprire la stupidità di tutti questi duelli goliardici sotto l'inconsistente patina di fascino che li indorava. Da quando aveva assistito a una bisboccia e aveva visto le facce pallide e grigie degli studenti ubriachi alla luce dell'alba, dopo tutti i rituali delle loro cerimonie, da quando, fuori porta, in una saletta angusta, sporca, aveva visto un duello, gli era rimasto soltanto un tacito risolino per la seriosità con cui si facevano queste cose, gli era venuto meno qualsiasi interesse interiore per queste faccende. Certo, non aveva mai osato confessarlo a Schramek, perché quello ce l'aveva nel sangue. Adesso erano seduti lì entrambi in silenzio, ognuno intento ai propri pensieri, mentre fuori strepitava sempre più forte il vento. Ed ecco suonare il campanello. E subito dopo bussarono alla porta. Entrò Karla, il cappello di sghimbescio, ciocche di capelli bagnati sulla faccia ridente. «Sono conciata proprio bene, vero? No? Ciao.» Si avvicinò a Schramek e lo baciò. Lui la scansò di malumore. «Hai paura che ti bagni con la mia giacca, scimunito?» Poi notò Berger. «Ciao, Bubi!» Si tolse la giacca e la buttò sul divano. Nessuno apriva bocca. Berger si sentiva in qualche modo a disagio. Dalla sera in cui aveva siglato con una bevuta il loro passaggio al tu, aveva rivisto Karla un paio di volte, senza però ritrovare quella disinvolta atmosfera cameratesca. L'onda erotica calda, che da allora aveva investito la sua vita, lo rendeva inquieto ed eccitato in presenza di una donna. Aveva quasi paura della propria passionalità. Anche Schramek taceva. Era di pessimo umore, la vertenza e il suo esame non gli uscivano dalla testa. Il silenzio si protraeva in modo imbarazzante. Karla mostrò una certa irritazione. «A quanto pare, reco disturbo all'egregio signorino. Sicché mi sono liberata dal lavoro questo pomeriggio, per vedervi dormire a occhi aperti. Siete davvero gentili, lasciatemelo dire.» Schramek si alzò e prese la sua giacca invernale. «Tesoro mio, tu non mi disturbi mai, lo sai bene. Solo che adesso non è il momento. Devo uscire, sono le tre e mezzo, e alle quattro Fix va in pedana a Ottakring.» «Ben gli sta, a quel villanzone. Perché è sempre così insolente con tutti quanti? Allora tu te ne vai. E io, intanto, che cosa faccio? Con questo tempaccio, dovrei forse stare per strada?» «Tesoro mio, io non tornerò prima delle sette. Se vuoi, puoi restare qui.» «Per fare che cosa? Dormire? Grazie tante, l'ho già fatto dalle nove di ieri sera a stamattina presto. Portami con te. Mi piacerebbe vedere Fix conciato per le feste.» «Non è possibile. Che cosa ti salta in mente?» «Allora, se è così, me ne starò qui ad aspettarti. Mi farà compagnia Bubi. Vero, Bubi?» Berger non sapeva che cosa rispondere. Di fronte a simili uscite improvvise era disarmato. Non osava nemmeno guardarla. I due scoppiarono a ridere. «Certo», disse Schramek, che aveva ritrovato il suo buonumore. «Così dovrei lasciare soli voi due? Hai idea di che falsone sia Bubi?» «Macché Bubi! E una ragazzina, no?» Risero entrambi nuovamente. Quanto lo disprezzavano, pensò Berger. Perché non riusciva a ridere con loro, perché era così beota da non trovare una parola, una battuta di spirito, nulla, assolutamente nulla? Gli montò una grande rabbia, dentro. «D'accordo, allora», disse Schramek. «Voglio correre questo rischio. Ma come la mettiamo, se voi due combinate qualcosa?» «Per questo bisogna essere in due.» «BÉ, sai... ecco... su di te non me la sentirei proprio di giurare.» «Ma io non alludevo mica a me.» E ancora una volta i due sbottarono a ridere, con quella risata piena, gioiosa, del vivere sano, priva di malevole intenzioni, che tuttavia a Berger bruciava dentro come una scarica di frustate. Avvertiva solo, oscuramente, un desiderio: essere altrove, lontano, a mille, a diecimila miglia da lì. O dormire. Oppure poter essere allegro come loro. Ma non starsene lì muto. Non essere confuso come un timido babbeo, come un bambino, non farsi compatire. Schramek si mise il berretto. «Bene, facciamo questa prova. Ma guai a voi, se... Alle sette sarò di ritorno. Bubi, comportati a modo! Te lo leggo negli occhi, se hai combinato qualcosa. E non mi annoiare questa povera ragazza. Ciao!» Abbrancò con forza Karla per i fianchi, tanto che lei si torceva squittendo, le diede due di baci profondi, salutò Berger con la mano e uscì. Fuori, la porta di casa si richiuse seccamente. Adesso erano soli, Berger e Karla. Il vento danzava per la strada con la pioggia, e a volte si sentiva crepitare dentro la stufa, come se si stesse spaccando qualcosa. Nella stanza si diffuse un silenzio sempre maggiore, già si poteva udire il tenue battito della pendola della stanza accanto. Berger stava seduto lì, come se stesse dormendo. Senza alzare gli occhi, avvertiva che lei lo guardava sorridendo. Sentiva quello sguardo come un formicolio elettrico che partiva impercettibilmente dai capelli e poi scendeva fino ai piedi. Gli pareva di soffocare. Lei sedeva con le gambe accavallate e aspettava. A un certo punto si chinò in avanti, accennando un sorriso. E improvvisamente, rompendo il silenzio, disse: «Bubi, hai paura?» Era così, effettivamente. Come aveva fatto a capirlo? Aveva paura, soltanto paura, una stupida paura infantile. Ma si fece forza e proruppe: «Paura? Paura di chi? Di te, forse?» Suonava villano, sebbene non fosse nelle sue intenzioni. E di nuovo il silenzio vibrò per la stanza. Karla si alzò, lisciò il vestito, riordinò davanti allo specchio i capelli arruffati e vide i suoi occhi che ridevano. Poi si girò a metà. «Detto con franchezza, Bubi, sei un vero strazio. Su, raccontami qualcosa.» Berger sentiva crescere sempre più acre la rabbia nei confronti di lei e verso se stesso, per il fatto di essere tanto imbranato. Stava già per darle un'altra risposta sgarbata, ma lei gli andò vicino, affettuosa e dolce, si sedette accanto a lui, mendicando come un bambino. «Dai, raccontami qualcosa. Una cosa qualsiasi, intelligente o stupida. Passate tutto il giorno sui libri, sicché dovreste sapere qualche cosa.» Gli si appoggiò addosso decisamente. Era il suo modo disinvolto di trattare confidenzialmente tutti quanti. Ma quel braccio morbido, caldo, sul suo lo mise in confusione. «Non mi viene in mente nulla.» «Mi pare che a te non venga in mente mai nulla di intelligente. Si può sapere che cosa fai tutto il santo giorno? Gironzolare, se non sbaglio. Ultimamente ti ho visto alla Josefstâdterstrasse, ma eri di fretta oppure hai fatto finta di non vedermi. Mi è parso che tu facessi la posta a qualche ragazza.» Berger cercò di protestare. «Su, dai, non c'è niente di male. Di' un po', Bubi, hai una relazione?» Gli rise in faccia, godendo da matti per il suo imbarazzo. «VÉ, adesso diventa tutto rosso. L'ho pensato subito, che avevi la ragazza, caro falsone. Mi piacerebbe vederla, una volta. Come è fatta?» Nella sua confusione, gli restava un solo modo per cavarsela, sempre quello: la villania. «Sono fatti miei. Non ti riguarda. Tu impicciati delle tue relazioni.» «Ma Bubi, perché strilli tanto? Quasi quasi mi metti paura.» Finse di essere terribilmente spaventata. Lui saltò in piedi. «E poi non chiamarmi sempre Bubi. Non lo sopporto.» «Ma anche Schramek ti chiama così.» «É diverso.» Karla rise. Berger le piaceva un sacco nella sua collera infantile. «Allora te lo dico apposta. Bubi, Bubi, Bubi. Ecco, l'ho detto tre volte!» Gli tremavano le narici. «Smettila, ti ho detto. Non lo sopporto.» «Ma Bubi, Bubi!» Berger strinse i pugni. Il sangue gli avvampò alla faccia. Era a un passo di fronte a lei. Karla lo sentiva ansimare, vedeva gli occhi balenare minacciosi. Istintivamente si ritrasse. Ma poi fu ripresa dalla spavalderia. Le mani appoggiate sui fianchi, ridendo, con i denti che scintillavano, disse, come a se stessa: «Santo cielo! Adesso Bubi, il bimbo, diventa cattivo». Al che, le saltò addosso. Il dileggio lo colpì come una nerbata. Voleva pestarla, picchiarla, darle una lezione, perché non lo schernisse più. Ma la ragazza, solida e robusta, con abile mossa bloccò i suoi pugni e li piegò giù a forza. Berger sentiva dolorosamente i suoi polsi nella morsa ferrea di lei. Era immobilizzato come un bambino, Karla lo teneva inchiodato al pari di un giocattolo. I loro volti si fissavano a un passo di distanza: quello di lui, sfigurato dalla rabbia, gli occhi gonfi di lacrime imminenti, quello di lei, sorpreso, consapevole della propria forza, della propria superiorità, quasi sorridente. Per un minuto lei lo tenne discosto da sé a quel modo, come un cagnolino in vena di morsicare. In quello successivo, Berger, martoriato ai polsi, sarebbe crollato in ginocchio. Allora lei mollò la presa e lo scostò senza rudezza. «Ecco. E adesso torna a fare il bravo.» Ma lui tornò alla carica. Era infuriato dal fatto che lei lo avesse tenuto in pugno come uno straccio. Ora doveva stenderla, domarla. Non doveva ridere di lui. La afferrò di scatto alla vita, per buttarla a terra. E quindi ansimarono entrambi, petto contro petto, lei, sorpresa e divertita per la rabbia incomprensibile del ragazzo, lui, con rancore parossistico e digrignando i denti. Le sue mani artigliarono sempre più tenacemente il corpo agile della ragazza, priva di corsetto, pronto a schivare abilmente, facendo forza sui fianchi larghi, puntellati solidamente. Mentre lottavano, la sua faccia toccò le spalle e il seno di lei, e Berger percepì confusamente un profumo morbido, caldo, inebriante, che gli fiaccava sempre più le braccia; a tratti sentiva il battito sonoro, lento, del cuore e il riso che saliva gorgogliando dal profondo del petto avvinghiato, e gli pareva che i suoi muscoli si paralizzassero. Scuoteva come un tronco quel solido corpo contadino, che a volte cedeva un pochino, ma non si lasciava mai piegare e sembrava acquistare sempre più vigore nel contrasto. A un certo punto la cosa le venne a noia, e con due o tre mosse si svincolò. Lo spinse via bruscamente, come un fuscello. «Adesso piantala!» La voce di Karla era arrabbiata e quasi minacciosa. Berger indietreggiò. Il suo viso era in fiamme, gli occhi iniettati di sangue, e tutto vorticava rosso, come una vampa, davanti al suo sguardo. Tornò alla carica una terza volta, ciecamente, fuori di sé, con le braccia che svolazzavano, come un ubriaco. E di colpo qualcosa era cambiato. Quel selvaggio alone di profumo, quel frusciare del vestito di lei, il contatto caldo con quel corpo flessuoso lo facevano impazzire. Non voleva più picchiarla o infierire, ma possedere quella donna che aveva eccitato i suoi sensi. La tirò a sé con forza, si tuffò tutto nelle sue forme roventi, con mani febbrili abbrancò tutto il corpo, adunghiando smanioso il vestito, nell'intento di stenderla. Lei seguitava a ridere, come solleticata dai toccamenti del ragazzo, ma nella sua risata adesso c'era un suono strano, rauco. Tutto in lei appariva più agitato, il petto palpitava forte, il suo corpo nella lotta premeva con più veemenza contro quello di Berger, le sue mani robuste tremavano sempre più nervosamente. I capelli si erano sciolti e svolazzavano sulle spalle, massa greve dal profumo sensuale. Il suo volto divenne sempre più acceso. Nel corpo a corpo la camicetta si aprì un poco, schizzò via un bottone, e improvvisamente il delirante avversario vide balenare affannoso il suo candido seno. Berger gemeva nello sforzo supremo. Sentiva che lei non intendeva affatto opporre resistenza, che voleva soltanto essere piegata, stesa, ma nemmeno a questo bastavano le sue forze. Il suo brancicamento era impotente. A un certo punto pareva che volesse cadere da sola. Reclinò la testa voluttuosamente, e lui vide lampeggiare nei suoi occhi un bagliore improvviso, mai visto. E come una tenerezza, come un gemito incontenibile, prepotente, suonò la sua esclamazione: «Ma Bubi, Bubi!» Allora la strattonò, e quando si rese conto che lei non andava al tappeto sotto la presa delle sue deboli mani tremanti da bambino, improvvisamente afferrò voglioso i capelli rossi sciolti, per mandarla a terra con uno strappo. Karla cacciò un urlo di rabbia e di dolore. Con una spinta violenta, furibonda, scaraventò via da sé quel corpo senza nerbo, facendolo volare per la stanza come un fagotto di stracci. Barcollando a ritroso, Berger inciampò. E cadde con fracasso in un angolo, in mezzo alle sciabole che giacevano lì. Una fitta lacerante gli corse dalla mano su per il braccio. Restò disteso per un minuto, come intontito. E poi arrivò lei, tremando ancora un poco per l'eccitazione, ma visibilmente preoccupata: «Ti sei fatto male?» Berger non rispose. Lo aiutò a rialzarsi e nel mentre lo accarezzava. Non c'era in lei alcuna cattiveria. Si tirò su a fatica. Aveva infatti infilato la mano sinistra nella tasca della giacca, perché lei non si accorgesse che si era ferito. Non voleva confessarlo. Come un fuoco gli bruciava dentro la rabbia per la propria penosa debolezza, per non essere stato capace di piegare nemmeno una consenziente. Per un attimo fu tentato di tornare alla carica. Ma in tasca sentiva il sangue sgorgare caldo, a fiotti, dalla ferita. Avanzò incespicando, senza guardarla, mentre lei cercava di aiutarlo spaventata. Negli occhi aveva una nebbia di lacrime. A stento vedeva la porta attraverso quel velo umido. Tutto in lui era completamente vuoto, assolutamente indifferente. Nella tasca gocciolava il sangue. Lo avvertiva confusamente. Per il resto, dentro, era tutto spento. Puntò malfermo, alla cieca, davanti a sé... verso la porta... fuori... per raggiungere la sua stanza. Là si lasciò cadere sul letto. Il braccio ferito penzolava fuori del bordo. Sanguinava ancora, e ogni tanto una goccia finiva pesantemente sul pavimento. Berger non ci faceva caso. In lui era un subbuglio che pareva soffocarlo. E finalmente eruppe: un pianto spasmodico, tremendo, un singhiozzare irrefrenabile, atroce, che soffocò nei cuscini. Per lunghi minuti il suo corpo infantile e febbricitante ne fu scosso. Poi si sentì liberato. Tese l'orecchio verso la stanza accanto. Di là, Karla si muoveva con passo intenzionalmente rumoroso. Lui restò immobile. Poi i passi cessarono. E quindi lei si mise a sbattere gli armadi, a tamburellare sul tavolo, per farsi sentire. Evidentemente aspettava che lui tornasse. Berger continuò a stare in ascolto. Il suo cuore martellava sempre più forte, ma lui non fece una piega. Karla andò su e giù ancora un poco. Poi fischiò un valzer, battendo il ritmo con le dita. A poco a poco si zittì. Dopo un po' Berger sentì lo scatto della porta accanto e quella di casa chiudersi rumorosamente. Per tutta la lunga notte senza fine e la mattina seguente Berger aveva atteso che arrivasse Schramek, a chiedergli conto di quanto era accaduto tra lui e Karla. Non dubitava, infatti, che Karla avrebbe riferito subito ogni cosa a Schramek, però non sapeva se dal racconto di lei risultasse una aggressione proditoria oppure un ridicolo e assurdo ghiribizzo. Passò la notte intera a pensare che cosa doveva rispondere a Schramek, elaborò lunghi discorsi a botta e risposta, già premeditando certi gesti, per troncare di netto la discussione, qualora si fosse trovato alle strette. E una cosa sapeva per certo: che ora l'amicizia era in bilico, che tutto era finito oppure doveva ricominciare da capo su nuove basi. Ma attese invano. Schramek non si fece vivo, neppure nei giorni successivi. Veramente la cosa non era poi tanto strana, dato che Schramek in genere lo cercava soltanto quando aveva bisogno di un piacere o doveva sfogare qualche rospo, altrimenti toccava sempre a Berger andare da lui, se voleva vederlo. Solo che stavolta, avendo Berger la coda di paglia, gli pareva che quel silenzio fosse intenzionale, e non cercò l'amico, aspettando con un'ostinazione tacita e accanita che lo straziava. In quei giorni era assolutamente solo. Nessuno lo cercava, e Berger avvertiva più che mai l'umiliante sensazione di non essere necessario a nessuno, che nessuno lo amava, nessuno aveva bisogno di lui. E con ciò si rendeva conto doppiamente di quanto contasse ancora per lui quell'amicizia, a dispetto di tutte le delusioni e umiliazioni. Questa situazione si protrasse per una settimana. Quand'ecco che un pomeriggio, mentre era seduto allo scrittoio e cercava di lavorare, udì dei passi rapidi avvicinarsi alla porta. Riconobbe subito l'andatura di Schramek, balzò in piedi, e già la porta si spalancò e si richiuse di botto, e Berger si trovò davanti Schramek con il fiatone, che ridendo lo strinse con entrambe le braccia, scuotendolo come un fuscello. «Ciao, Bubi! Beato chi ti vede. Gli altri c'erano tutti, solo tu mancavi, perché devi sgobbare tutto il giorno. Comunque, è andata. Sì, ce l'ho fatta e, grazie a Dio, era il mio ultimo esame. Tra una settimana mi dovrai chiamare signor dottore.» Berger era allibito. Aveva immaginato mille cose, tranne il fatto che si sarebbero rivisti in quel modo. Riuscì giusto a farfugliare qualche parola di felicitazione. Ma Schramek lo interruppe. «Sì, certo, va bene, non ti sforzare. E adesso muoviti, dai, vieni nella mia stanza, dobbiamo festeggiare come si deve, e poi ti devo raccontare tutto. Su, andiamo. Karla è già di là.» Berger trasalì. Di colpo ebbe paura di trovarsi a tu per tu con Karla, perché lei lo avrebbe sbeffeggiato, e lui sarebbe stato lì un'altra volta, tutto rosso, come uno scolaretto, in mezzo a loro due. Cercò di sottrarsi all'incontro. «Mi devi scusare, Schramek, ma non posso proprio venire, davvero. Ho un mucchio di cose da fare.» «Da fare? Da fare che cosa, manigoldo, quando io ho superato il mio ultimo esame? Rallegrarti, devi, e venire con me. Non hai proprio null'altro da fare. Avanti, muoviti.» Lo prese per il braccio e lo trascinò via. Berger si sentiva troppo debole per resistere. Confusamente avvertiva soltanto quale potere avesse ancora su di lui Schramek. Lo stava portando via come una ragazza, e per la prima volta Berger capì perfettamente perché una donna dovesse lasciarsi sopraffare da un essere così forte, allegro e vitale, contro la propria volontà, per un mero senso di ammirazione della forza, che svuotava la sua resistenza. E in quell'istante anche la donna doveva pensare dell'uomo allo stesso modo in cui lui, ora, pensava di Schramek: avere odio, rabbia, e tuttavia la dolce sensazione di essere sopraffatta da una persona forte. Berger non aveva la percezione di andare, non sapeva che cosa stesse succedendo, e improvvisamente si ritrovò nella stanza di Schramek. E lì c'era Karla. Come lo vide, gli andò incontro con uno sguardo stranamente caldo che lo avvolse come un'onda dolce, e gli porse la mano senza dire una parola. E ancora una volta lo guardò con curiosità, come un estraneo e tuttavia in modo diverso. Schramek trafficava al tavolo. Aveva bisogno di fare qualcosa e di parlare, la vitalità prepotente del suo sentimento euforico cercava uno sfogo. Quando era preso da una cosa, aveva bisogno del prossimo, per riversare il proprio entusiasmo; altrimenti, di solito, era indifferente e piuttosto chiuso. Ma quel giorno tutto il suo essere era una frenesia di movimento e di fanciullesca gioia sfrenata. «Allora, che cosa beviamo? Con la gola secca non riesco a raccontarti nulla. Niente vino, direi. Altrimenti stasera non ne abbiamo più voglia, mentre stasera dobbiamo fare sfracelli. Facciamoci un tè. Un noiosissimo tè bello caldo. Ci state?» Karla e Berger erano d'accordo. Stavano seduti al tavolo uno accanto all'altra, ma Berger non le rivolgeva la parola. Un pensiero gli turbinava nella testa, come una falena si aggira ronzando per una stanza chiusa: si era sognato di aver lottato come un disperato con quella donna che gli stava accanto? Non osava guardarla e sentiva soltanto l'aria intorno a lui farsi soffocante, la gola strozzarsi. Fortunatamente Schramek non se ne accorse. Sbatacchiava piatti e tazze, fischiando e chiacchierando. Gli dava gusto fare da cameriere ai due, servendoli con bella euforia, dopo di che si buttò comodo e beato nella scricchiolante poltrona di fronte a loro e cominciò a raccontare. «Allora, che io non abbia mai studiato molto, non c'è bisogno di dirlo a voi due. E come mi avvio all'aula dell'esame con il mio vestito da beccamorto, incontro un vecchio amico, Karl - lo conosci, no? -, e lui, vedendomi con la fifa addosso, cerca di farmi animo in tutti i modi. Ma io, nella mia paura - non avete idea di quanto diventi meschina un'ora prima dell'esame la persona più rispettabile - gli chiedo soltanto se è difficile e quali domande gli hanno fatto due anni prima. Come mi dice la prima, io non ne ho la più pallida idea, e mi vengono le gambe molli. Io lo prego di spiegarmi in fretta la faccenda - si trattava di una questione costituzionale - e lui me la ficca in testa e poi viene ad assistere al mio massacro.» Ma che cosa andava dicendo, quello? Berger non riusciva a prestargli orecchio, era come un suono che giungesse da lontano, un suono di parole senza senso. In lui seguitava a vibrare unicamente il pensiero che accanto gli sedeva la donna che aveva lottato con lui, che lo aveva steso, e che questa donna non mostrava irrisione nei suoi confronti, ma lo aveva guardato con quello sguardo dolce, avvolgente, scintillante... Improvvisamente trasalì. Sulla sua mano, distrattamente appoggiata sul tavolo, un dito scorreva piano lungo la cicatrice che ancora formava come una striscia rossa, di fuoco. E nel trasalire, Berger colse una domanda negli occhi di Karla, una domanda quasi tenera e compassionevole. Un fuoco gli avvampò fino alle tempie, dovette reggersi alla sedia. Dall'altra parte Schramek continuava a raccontare. «E, pensate un po', come mi siedo, la prima domanda è proprio quella che Karl mi ha spiegato. Alle mie spalle sento tossire e ridacchiare, ma io d'un tratto ero così sollevato, da non legarmela al dito, e attacco con la parlantina, sciolta come un burro fuso. E una volta preso lo slancio, non ti ferma più nessuno. Ho parlato e parlato, che quasi mi venivano i crampi alla lingua, dicendo Dio sa quali scempiaggini, ma comunque ho parlato.» Berger non ascoltava una parola. Sentiva soltanto il dito passare un'altra volta sulla cicatrice, e gli pareva che la ferita venisse dolorosamente riaperta da quel gesto furtivo. Il suo corpo era percorso da uno spasmo, e bruscamente ritrasse dal tavolo la mano, come da una piastra rovente. Dentro, gli montava un turbamento rabbioso. Ma, mentre guardava la ragazza, notò che le sue labbra chiuse si muovevano come nel sonno e la sentì mormorare piano: «Povero Bubi». Era soltanto a fior di labbra, parola senza suono, oppure Karla lo aveva detto veramente? Dall'altra parte sedeva Schramek, amante di lei e amico di Berger, e seguitava imperterrito a raccontare, e intanto... Un lieve tremito lo prese, un capogiro, e si sentì sbiancare. Ed ecco Karla prendere sotto il tavolo con tacita tenerezza la mano di lui nella sua e appoggiarla sul ginocchio. Allora Berger sentì di nuovo tutto il sangue avvampargli la faccia e poi ristagnare nel cuore e poi irradiarsi e scottare nella sua mano. E sentì un ginocchio morbido, rotondo. Voleva ritirare la mano, ma i muscoli non gli obbedivano. La mano rimase lì come un bimbo addormentato, a riposare su un soffice giaciglio, nell'oblio di un sogno meraviglioso. E lì di fronte - ah, quanto era lontana quella voce in mezzo al fumo continuava a raccontare uno che era suo amico e che ora lui stava ingannando: parlava e parlava della propria fortuna con spensierata allegria. «La cosa che più mi ha divertito è il fatto che quello spudorato di Fix ci abbia rimesso i soldi. Quello, pensate un po', scommette con tutti quanti che mi bocceranno, e poi, come me la cavo, non sapeva più che cosa fare. Gli è toccato mostrare gioia e insieme provare rabbia, non vi dico la faccia che ha fatto, che faccia... ma che cosa avete? Mi sembrate addormentati tutti e due.» Karla non mollava la mano. E Berger seguitava a pensare una sola cosa: la mano... la mano... il ginocchio... la mano di lei. Ma Karla protestò ridendo. «BÉ, come si fa a non restare senza parole, se un poltrone come te riesce a diventare dottore? Vorrei proprio sapere come è fatto un trombato, deve essere perlomeno idrocefalo.» I due risero. Berger tremava sempre più, preso da un arcano orrore per la simulazione della ragazza. La quale continuava a stringere con la sua mano quella di lui, premendo così forte che l'anello si impresse a sangue nel dito del ragazzo. E furtivamente spinse la propria gamba soda contro quella del vicino. E intanto seguitava a parlare tranquilla, così tranquilla, da fargli venire la pelle d'oca. «Sicché adesso di' un po' come va festeggiato un simile miracolo divino. Se non ci scappa una baldoria come si deve, sei soltanto un miserabile spilorcio, caro dottore di fresca nomina. Comunque, sarà una robetta da niente, a confronto di quando diventerà dottore Bubi. Allora vedrai che sfracelli.» E nel mentre il fianco di Karla era appoggiato contro quello di Berger, che sentiva il morbido calore del corpo di lei. Tutto quanto si era messo a vacillare davanti ai suoi occhi, da tanto era eccitato. E da dentro la fronte premeva dolorosamente il sangue. Ed ecco la pendola battere le ore. Sette volte una vocetta tenue fece sentire indistintamente il suo cucù... cucù. Questo lo fece tornare in sé. Balzò in piedi, farfugliando qualche parola. Poi diede la mano a qualcuno, a lui o a lei, non ricordava più, una voce - probabilmente quella della ragazza - disse «Arrivederci», dopo di che, con una sensazione di sollievo e di liberazione, la porta si era chiusa alle sue spalle. E poi, già un istante più tardi, come si ritrovò nella sua stanza, tutto gli apparve chiaro: aveva perso l'amico. Se non voleva derubarlo, non poteva più frequentarlo, perché sentiva che non avrebbe saputo resistere all'attrazione di quella strana ragazza. Il profumo dei suoi capelli, lo spasmo frenetico e passionale nelle sue membra, la forza prepotente della concupiscenza era un fuoco che gli bruciava dentro, e sapeva che non sarebbe stato capace di resistere, se lei lo avesse guardato come quel giorno, con quel tacito sorriso seducente. Come mai era divenuto improvvisamente per lei così attraente, da indurla a tradire Schramek, quel giovane robusto, bello, sano, che lui segretamente invidiava tanto? Non riusciva a capirlo e non provava né orgoglio né gioia. Solo una cocente tristezza, perché in futuro era costretto a evitare l'amico, per non comportarsi da farabutto nei suoi confronti. Certo, l'amicizia con Schramek non si era realizzata come lui aveva sperato, su molte cose si era disincantato, aprendo gli occhi su tanti aspetti che lì per lì lo avevano abbagliato, ma adesso, che era finita, tutto questo gli pareva una ricchezza enorme. Perché era l'unica cosa che gli era rimasta a Vienna. Tutto era svanito, prima le speranze e la curiosità, poi il piacere dello studio e l'applicazione, e ora anche l'ultima cosa rimasta: quell'amicizia. Si rese conto che adesso non aveva più nulla. Ed ecco dalla stanza accanto giungere dei rumori. Un ridacchiare sommesso e poi più forte. Tese l'orecchio, con le mani sul petto che martellava. Ridevano di lui? Karla aveva spifferato tutto? Era stato magari tutto un gioco combinato, per indurlo in tentazione? Stette in ascolto. No, era un riso diverso, un alternarsi di baci a schiocco e ridacchiamenti eccitati. E poi parole, tenerezze, di cui non provavano vergogna. Le sue mani si contrassero istintivamente, si buttò sul letto, premendo il cuscino sugli orecchi, per non sentire più nulla. Lo prese una sensazione tremenda, un disgusto furibondo, rabbioso, una nausea tale, che avrebbe voluto vomitare. Disgusto dell'amico, di quella puttana, di se stesso, che per poco non era cascato in quel gioco schifoso, un disgusto parossistico, mortalmente stanco, spaventoso, impotente, nei confronti di tutta la vita. In quei giorni di tristezza scrisse una lettera alla sorella. Carissima sorella, ti devo ancora ringraziare per la tua lettera in occasione del mio compleanno. Per me è stata dura in questi giorni. Come è arrivata e mi ha svegliato e mi ha detto che adesso avevo diciott'anni, io ho letto questo e mi è parso che non mi riguardasse affatto, che non fosse vero. Perché tutte quelle parole sulla mia felice condizione di libertà e giovinezza le avrei intese come una presa in giro, se non mi fossero venute dalla tua cara mano e dalla scrittura a me familiare fin dall'infanzia. Perché tutto qui è così diverso nella mia vita, così totalmente diverso da quanto tu possa immaginare e così diverso dalle mie speranze. Mi addolora scriverti queste cose, ma qui non ho più nessuno. Da giorni non ho più parlato con nessuno. A volte seguo la gente per la strada e ascolto i loro discorsi, solo per sapere che suono hanno le parole. Non conosco nulla, non so nulla, non faccio nulla. Sto crepando dall'inutilità. Per giorni interi non vivo assolutamente nulla, non incontro una faccia nota, e tu non sai che cosa significa essere soli in mezzo a mille persone. Anche con Schramek è tutto finito. É accaduto un fatto, non te lo posso raccontare, perché non lo capiresti. Io stesso non riesco a capirlo, perché né io né lui abbiamo colpa, solo che tra noi c'è qualcosa come una lama a doppio taglio. E solamente ora, che l'ho perduto, so che lui era quanto di più caro mi era rimasto a Vienna. E un'altra cosa ancora posso dire solo a te, che non lo dici a nessuno. Non studio più. Da settimane non frequento più le lezioni, i miei libri sono coperti di polvere. Non so perché, ma non riesco più a studiare, sono diventato apatico, nessuna professione mi attrae qui, perché niente mi aiuta a uscire da questo terribile senso di solitudine, che mi opprime. Io qui non voglio più nulla, tutto mi disgusta. Odio ogni pietra su cui metto piede, odio la mia stanza, la gente che incontro, respiro con ripugnanza l'aria inquinata, umida e gelida. Tutto qui mi schiaccia, mi sento crepare. Affondo come in un pantano. Forse sono ancora troppo giovane e certamente troppo debole. Non ho polso, non ho volontà, sono come un bambino in mezzo a tutta questa gente indaffarata. E una sola cosa so: che devo tornare a casa. Non sono ancora in grado di vivere da solo, forse ci riuscirò tra qualche anno. Ma attualmente ho ancora bisogno di te e dei genitori, ho bisogno di persone che mi vogliono bene, che mi stanno intorno e mi aiutano. Sì, è puerile, è la paura di un bambino in una stanza buia, ma non so che farci. Devi dire ai nostri genitori che voglio lasciare gli studi e tornare a casa, fare il contadino o lo scrivano o che so io. Tu glielo dirai, vero? Glielo spiegherai. Ti prego, fallo presto, qui sento la terra bruciarmi sotto i piedi. Non mi ero mai reso conto bene che tutto mi risospinge a casa, ma ora, mentre scrivo, tutto si ridesta con tanta nostalgia, e so che non posso fare diversamente, che devo tornare da voi. E una fuga, una fuga di fronte alla vita, e non è la prima che faccio. Ricordi quando mi hanno portato al liceo, e per la prima volta sono entrato nell'aula sotto lo sguardo incuriosito, spocchioso, divertito e sorpreso di sessanta ragazzi sconosciuti? Anche allora sono scappato a casa e ho pianto tutto il giorno, rifiutandomi di tornarci. E ancora oggi sono il bambino di allora, ho la stessa stupida paura e la stessa bruciante nostalgia di voi e di tutti quelli che mi vogliono bene. Devo assolutamente andarmene. Ora, che a fatica sono riuscito a prendere questa decisione, sento che non posso più tirarmi indietro. So che molti sorrideranno e rideranno, vedendomi tornare a casa come un fallito, come uno che la vita ha rifiutato, so che in questo modo crolla per i miei genitori una cara speranza, so che questa debolezza è infantile e vile, ma non posso farci niente, sento soltanto che qui non posso più vivere. Nessuno saprà mai quello che ho sofferto qui negli ultimi giorni, nessuno potrà disprezzarmi più di quanto io disprezzi me stesso. Mi sento come un marchiato, un malato, uno storpio, perché sono del tutto diverso dagli altri e lo sento tra le lacrime - peggiore, inferiore, più inutile, io sono... Si arrestò, spaventato dall'irrefrenabile sfogo del proprio dolore. Solamente ora, che la penna esprimeva rapida il suo stato d'animo febbrile, si era accorto di quanto dolore si fosse accumulato in lui, che adesso voleva erompere a fiumi vasti e travolgenti. Poteva scrivere questo, sconvolgere le uniche persone che gli erano rimaste, opprimere con un peso che nessuno gli poteva togliere un tenero cuore di fanciulla? Come da una distanza nebulosa vedeva il caro volto della sorella, i suoi occhi limpidi, percorsi a volte dal balenare di un sorriso, e vedeva la bocca contrarsi sgomenta, un tremito espandersi per i suoi tratti, e lacrime colare esitanti sulle guance impallidite. Perché sconvolgere anche quella esistenza, metterla in ansia con un grido di aiuto? Se qualcuno doveva soffrire, quello voleva essere lui stesso e lui soltanto. Aprì la finestra, stracciò la lettera e sparse nel buio i pezzetti. No, meglio perire lì in silenzio, piuttosto che invocare aiuto. Non aveva forse appreso che la vita distruggeva tutto ciò che era debole e inadeguato? Sarebbe stata giusta anche nei suoi confronti e non lo avrebbe risparmiato... I frammenti bianchi svolazzarono lentamente giù in cortile, affondando come sassi chiari in un'acqua senza fondo. Il cielo era notturno e senza stelle. A tratti delle nuvole passavano più chiare sulla volta oscura, e il vento gettava un'aria umida e frusciante contro le case in sonno. C'era in tutto questo una tacita irrequietezza. Il costante spirare del vento era come un respiro e dalle finestre che gemevano, dagli alberi tremolanti emanava un mormorio, come se uno stesse parlando piano nel buio da un brutto sogno. E sempre più forte divenne il vento, come bagliori diffusi le nuvole trascorrevano più rapide sul manto nero del firmamento, e all'improvviso il giovane in ascolto riconobbe in tutta quella agitazione stranamente eccitata la febbre delle prime meravigliose notti che preludono alla primavera. E poi arrivò la primavera, molto lentamente, come un ospite titubante. Berger stentava a riconoscerla in quella città, che non era la sua. Quali sensazioni provava in passato, quando per la prima volta il vento del disgelo spirava per le bianche distese dei campi, quando le zolle nere schiudevano dalla neve, e l'aria era impregnata del loro odore? Dove era finita la paura inconsulta, repentina, che spesso lo induceva ad alzarsi dal letto e spalancare la finestra, per sentire sul petto nudo il vento e ascoltare il gemere degli alberi desiderosi del loro fogliame? Dove era la gioiosa euforia di fronte alle mille piccole cose: il grido di un uccello in lontananza e il galoppare delle nuvole bianche, captare il crepitio e scricchiolio dentro la terra, un colare sottile, il crescere di piccole gemme appiccicose sulla punta dei rami in giardino, da cui poi si schiudevano timide foglie e un unico fiore ancora privo di colore? Dove era l'irrequietezza che covava nel profondo del sangue, dove la voluttà incontenibile, allegra, di buttare via il cappotto e camminare con gli scarponi sulla terra umida, ammollata, di salire di corsa su una altura, lanciando all'improvviso grida di giubilo, senza senso, come un uccello a perpendicolo nell'aria scintillante? Ah, quanto era inerte lì la primavera, priva di ogni carica. Oppure era dentro di lui quella stanchezza, quel senso di torpore, quella tristezza che gli impediva di vivere con gioia qualsiasi cosa: il sole teneramente dorato che scaldava i tetti, le strade più luminose e piene di vita? Perché tutto questo lo toccava talmente poco, che neppure una volta fece una puntata al Prater o al Kahlenberg, che vedeva soltanto da lontano eppure come ravvicinato dall'aria trasparente? Il suo raggio d'azione era molto limitato, non usciva mai dal quartiere. Divenne sempre più stanco. Sedeva nel piccolo parco Schònborn, in genere frequentato soltanto da bambini e da qualche persona anziana, con l'intenzione di studiare o di leggere, ma non apriva il libro, limitandosi a guardare i bambini che giocavano, e c'era in lui un desiderio di giocare insieme a loro, di ritornare a quella serena spensieratezza. Aveva smesso di studiare da un pezzo. Ormai vegetava soltanto tacitamente, osservando le cose senza alcuna partecipazione. Una volta si era fatto forza ed era andato all'ospedale; e come mise piede nel vasto cortile pieno di alberi che germogliavano e si cullavano tranquilli nella grande quiete, quasi fossero ignari delle sorti tremende e misteriose attorno a loro, gli accadde di scordare se stesso e di sedersi su una panchina. E allo stesso modo dei malati, che nei loro lunghi camicioni azzurri di lino uscivano con il passo incerto del convalescente e si mettevano seduti a riposare, con le mani immobili e spente, senza un sorriso o una parola, totalmente assorbiti da una senso sordo e inerte di risveglio della vita, Berger sedeva in mezzo a loro, lasciando che il sole fluisse caldo sulle dita, in una assenza stanca, come di sogno. Aveva dimenticato il motivo per cui si trovava in quel posto, percepiva soltanto che lì c'erano delle persone e là, dietro l'arco del portone, una strada piena di frastuono, solo il lento trascorrere delle ore e l'impercettibile allungarsi delle ombre. Quando ai malati fu dato il segnale di rientrare, si riscosse. Non era rimasto seduto lì come uno di loro, non era magari più malato e più vicino alla morte di tutti costoro? Nulla, stranamente, desiderava di più, che starsene seduto lì e vedere il tempo dileguarsi. Certo, a volte, la sera, si accendevano in lui guizzi perversi. A poco a poco andava alla deriva, bazzicava donne che disprezzava, perché doveva comprarle, passava molte notti apaticamente al caffè, senza piacere né voglia, solo per una sorda angoscia della solitudine priva di scampo. Da quando non parlava più con nessuno, una piega cattiva gli segnava le labbra, ed evitava di guardarsi allo specchio. Un paio di volte aveva cercato di scuotersi, ma regolarmente, come schiacciato dal peso della solitudine accumulatasi in lui, era ricaduto nel suo letargo trasognato e senza prospettive. Ma ci pensò la vita, a farlo tornare in sé. Una notte, rientrando a ora tarda, stanco, scontento e con dentro l'angoscia della stanza muta che lo aspettava, si accorse che doveva aver perso per strada la chiave di casa. Suonò, anche a rischio che ad aprirgli non venisse la padrona di casa, bensì Schramek. Ma già si sentirono dei passi frettolosi, strascicati: la padrona di casa aprì la porta e sollevò la lampada a petrolio, per vedere chi voleva entrare. E come la luce cadde sui capelli in disordine e sul volto della donna, che a lui era quasi sconosciuto, Berger notò che aveva le palpebre arrossate e molto stanche e una piega amara intorno alla bocca. E si domandò spaventato il motivo per cui quella donna era in piedi alle due di notte. Cercò di informarsi, ansioso. «Ma come, non lo sa, signor dottore? La Mizzi, mia figlia, ha la scarlattina. E sta male, molto male!» Ricominciò a piangere silenziosamente. Berger rimase scosso. Non ne sapeva nulla. A stento sapeva che quella donna avesse una figlia. Un paio di volte nell'anticamera buia, uscendo o entrando, gli era sgusciata accanto con un «Riverisco!» una ragazzetta mingherlina di dodici o tredici anni, ma lui non le aveva mai rivolto una parola o anche soltanto uno sguardo. D'un tratto gli pesò come una pietra sul cuore, che da mesi, a pochissima distanza, separate solo da una parete, vivessero delle persone che lui non aveva mai guardato, che si compissero destini a due passi dalla sua esistenza, e lui non ne avesse idea. Quanto aveva desiderato che gli altri gli dessero confidenza, e intanto aveva dormito come un animale, mentre accanto la morte voleva stroncare una bambina. Cercò di confortare la donna che piangeva. «Vedrà che tutto finirà bene... stia tranquilla...» E poi, più esitante: «Potrei dare un'occhiata a sua figlia? Veramente, ancora non me ne intendo molto... sono un principiante, ma comunque...» Di colpo gli si ridestò una nostalgia cocente dei propri studi, avrebbe voluto andare nella sua stanza, aprire i libri e riprendere il lavoro. La donna lo condusse in punta di piedi dalla malata. Era un angusto stanzino sul cortile, soffocante e affumicato dalla lampada a petrolio con la fiammella bassa; di fronte stava un muro cieco. Lì, della primavera, non si vedeva l'ombra, e del sole si percepivano soltanto i pallidi riflessi che a volte riverberavano dalle finestre illuminate dai suoi raggi. Adesso naturalmente neanche si vedeva quanto fosse misero il locale, perché tutto era calato nella penombra incerta, solo in un angolo, dove stava il letto, baluginava un poco di luce gialla. La ragazzina era immersa in un sonno agitato. Le sue guance erano arrossate dalla febbre, un braccio scarno penzolava fuori del bordo, come dimenticato, le labbra erano ritratte, e nulla nel volto carino rivelava a prima vista la malattia, solo il respiro era roco e a volte in affanno. La donna parlava sottovoce, continuamente interrotta dal pianto. «Oggi è passato di nuovo il dottore, l'ha visitata, ma non mi ha detto nulla. É la terza notte che passo al capezzale, di giorno devo andare al lavoro. E vero che la vicina mi dà una mano e sta qui durante il giorno, ma ora sono già tre notti che veglio, e la bambina non migliora. Per l'amor di Dio, lo faccio volentieri, purché non accada il peggio.» Di nuovo i singhiozzi frantumarono le parole. Una disperazione cupa pervadeva tutti i suoi discorsi. In Berger si produsse una sensazione meravigliosa. Sentiva che per la prima volta poteva aiutare una creatura umana, per la prima volta avvertiva con gioia il fascino della sua professione. «Cara signora, così non può andare avanti. Lei si distrugge e in questo modo non è di aiuto alla bambina. Adesso si metta a letto, resterò io stanotte con sua figlia.» «Ma signor dottore!» Alzò le mani sgomenta, come se non potesse crederci. «Adesso lei vada a dormire, ha bisogno di riposo. Lasci fare a me.» «Ma signor dottore... no... no... non sarebbe giusto che lei... no, non è possibile...» Berger sentì crescere dentro la sicurezza, una consapevolezza di sé spazzò la massa di detriti che si era accumulata nel suo animo durante gli ultimi mesi. «É la mia professione e il mio dovere.» Lo disse con orgoglio, con gioia, anche, per aver ritrovato all'improvviso in quel notturno frangente, nel lampo di un attimo, il senso e lo scopo di tutta la sua vita perduta. Non discussero a lungo. La donna era stanchissima, il sonno le pesava sugli occhi, e perciò si arrese ben presto. Berger cercò di evitare che gli baciasse la mano in un prorompente slancio di gratitudine devota, poi la condusse nella propria stanza, dove la adagiò sul divano. Nelle ultime notti, da quando la figliola era malata, aveva dormito su un materasso in cucina. Tutte queste cose insignificanti e tuttavia tremende nella loro tragicità, delle quali era all'oscuro, gli fecero apparire il suo intervento non come una buona azione, bensì come l'espiazione di una colpa amara. E quindi si ritrovò seduto al capezzale della ragazzina. In lui c'era una sensazione indescrivibile; la sua esistenza pareva più sommessa, più tranquilla, come quel respiro che adesso andava e veniva in un soffio lieve. Soltanto ora osservò meglio quel volto incorniciato da un tenue alone di luce. Mai, da quando si trovava a Vienna, aveva potuto vivere così profondamente la presenza di un altro essere umano, mai contemplare così a lungo i suoi tratti, mai captare tutto ciò che si celava nei lineamenti del suo viso. Mentre la guardava, gli si ridestò un ricordo, intorno a quelle labbra scarne aleggiava come una vaga somiglianza con sua sorella, solo che quel volto era più infantile, non ancora sbocciato e intristito. Lo incuriosiva come fossero gli occhi, se corrispondessero a quelli della sorella, e si rimproverava per non averci mai fatto caso in precedenza. Perché si era disinteressato così distrattamente di quella ragazzina e della madre, perché non aveva mai pensato a quelle due creature che gli vivevano accanto? Perché quella bocca non gli aveva mai sorriso? Perché gli erano sconosciuti quegli occhi, chiusi nello scrigno delle palpebre? Perché non sapeva nulla di ciò che si agitava in quell'esile petto infantile che si alzava e si abbassava nel ritmo dolce del respiro? Con circospezione prese la mano esangue della bambina, che penzolava fuori del bordo, e la posò sulla coperta. Il suo gesto era tenero come una carezza. E poi stette lì immobile a contemplarla, pensando con dolore al tempo perso, agli studi trascurati, e nell'intimo si ripromise di cominciare da capo una nuova vita. Già nella fantasia prendevano corpo immagini di sogno, vedeva se stesso medico, uno che porta aiuto, e il sangue acquistò calore per quelle prospettive seducenti. E di continuo il suo sguardo abbracciava quel volto tenero, pallido, di bambina, lo teneva stretto, quasi potesse con lo sguardo preservarne la sorte e trattenere la sua vita in pericolo. Improvvisamente la ragazzina si mosse e aprì gli occhi: grandi, lucidi di febbre, scintillanti di un balenio come di lacrime. Tutto il volto divenne d'un tratto luminoso. Dapprima vagarono intorno, quasi dovessero forare la nuvola di febbre e le ombre notturne del sogno. Poi di colpo, come spaventati, si fermarono sul viso di Berger. Ne tastarono, interrogativi, i tratti, e quindi si attaccarono allo sguardo del giovane. Le labbra riarse si muovevano in modo incomprensibile. Berger balzò in piedi, asciugò la fronte che scottava dalla febbre, e le diede da bere. La bambina piegò in avanti la testa, bevve avidamente e ricadde spossata sui cuscini, gli occhi fissi su Berger. A lui quello sguardo non pareva del tutto lucido, cosciente, eppure al suo stupore era commista una punta di gratitudine. La ragazzina lo guardava in continuazione. E quando Berger, un poco tremando per quello sguardo profondo, enigmatico, si distolse e armeggiò nella stanza, sentiva, senza guardare, che gli occhi grandi, umidi, lucenti, della bambina lo seguivano ovunque. E come poi ritornò al capezzale, erano tutti spalancati, e mentre lui si chinava, la bocca accennò un movimento, non capiva se volesse parlare oppure sorridere. Poi le palpebre si chiusero, la luminosità si spense sul suo volto. E riprese a dormire, muta e pallida, con un respiro ora più disteso. All'improvviso, nel silenzio di morte, Berger sentì il suo cuore battere forte. C'era in lui una sensazione di felicità, che montava irrefrenabile. Per la prima volta nella sua vita si vedeva inserito operosamente nel contesto degli altri, era come se qualcuno gli avesse detto una parola grata e affettuosa, come se qualcosa di grande e di bello gli fosse capitato in quel paio di ore. Quasi con tenerezza contemplava quella ragazzina, quella bambina, la prima creatura che gli era affidata, che doveva riacquistare alla vita, e che aveva riportato alla vita lui stesso. Seguitò a guardare la piccola che dormiva, e le lunghe ore gli parvero lievi. Rimase sorpreso, quando la lampada all'improvviso, con un subitaneo guizzo, si spense, e trovò dissolta l'oscurità e il mattino già in attesa davanti alla finestra con il suo primo tenue chiarore. In mattinata il medico venne a visitare la malata. Berger si presentò a lui come studente di medicina e gli chiese, non senza avvertire in gola un penoso imbarazzo per la propria ignoranza, se c'era ancora pericolo. «Non credo», disse il medico. «La crisi mi sembra superata. Stranamente i bambini sono molto più resistenti degli adulti a queste malattie, è come se in loro la forza della vita non ancora vissuta si opponesse alla morte e la vincesse. Così avviene per quasi tutte le malattie infantili: i bambini le superano, mentre gli adulti ci lasciano la pelle.» Visitò la bambina. Berger gli stava accanto, commosso. Nel vedere quanto lui stesso pendesse da ogni parola di quell'uomo, ne spiasse ogni gesto, sentiva nell'intimo il meraviglioso potere della professione che aveva scelto ciecamente e a lungo trascurato. Come un sole repentino gli apparve tutta la bellezza di potersi accostare così a un letto e deporvi, quasi fosse un dono, speranza, promessa e magari anche guarigione. In quell'istante intuì lucidamente lo scopo di tutta la sua vita: doveva essere operoso e utile, così non sarebbe più stato estraneo a tutti né solo. Cominciò con l'occuparsi a tempo pieno dell'assistenza alla ragazzina. Senza prescrivere nulla in proprio, si limitava a controllare le fasi della malattia, trascorrendo al capezzale della malata la notte e anche buona parte della giornata. Quella notte era stata effettivamente la svolta critica. La febbre diminuì, adesso poteva parlare con la bambina e lo faceva volentieri. Quando usciva, le portava dei fiori e le parlava della primavera che nel parco Schònborn, dove lei andava sempre a giocare, cominciava a rivestire piano di verde gli alberi, mentre le altre ragazzine indossavano già vestiti chiari. Parlava del sole radioso che ora splendeva fuori, raccontava ogni sorta di storie, le leggeva dei libri, le prometteva che sarebbe guarita presto, e nulla gli dava maggior piacere che vederla allegra. Quei discorsi ingenui, volutamente infantili, gli procuravano un senso di totale liberazione, e a volte, con grande stupore, scoppiava a ridere sonoramente, divertito. E la pallida ragazzetta giaceva sui cuscini, limitandosi a sorridere. Era un sorriso molto debole, una linea dolce, evanescente, si disegnava intorno alle labbra e subito si dileguava come un alito. Ma quando guardava Berger, il suo sguardo, l'occhio profondo, dai riflessi grigi, sottilmente radioso e splendente fino alle intime fibre, posava sul volto del giovane, ormai senza stupore e senza estraneità, attaccandosi caldo e greve a lui, come un bambino al collo della madre. Ora poteva già parlare e presto perse il timore iniziale di rivolgergli la parola. Più di tutto voleva che le parlasse della sorella. Come era fatta, se era grande oppure piccola, come vestiva, e se era brava a scuola. E se aveva i capelli biondi come lui. E se non poteva fare in modo che la sorella venisse una volta a Vienna, certamente molto più bella della piccola città dal nome ostico, che ogni volta la faceva ridere. E se anche lei era già stata così male. Insomma: escogitava un mucchio di domande puerili, ingenue e sempre nuove. Ma non stancavano Berger. Le rispondeva volentieri, e gli faceva piacere poter parlare una volta con affetto della sorella, che era per lui la cosa più cara al mondo. E quando la ragazzina glielo chiese, le portò anche la fotografia che teneva sul suo scrittoio. Lei strinse con curiosità il ritratto tra le esili mani infantili, ancora tutte trasparenti. «Ecco», disse, passandoci sopra delicatamente con l'unghia, «è tutta la sua bocca. Solo che lei spesso ci mette intorno una piega arcigna, e allora assume un aspetto del tutto diverso. Prima, quando la vedevo, avevo sempre paura, dalla faccia che faceva.» «E ora?» Berger sorrise dolcemente. «Ora non più. Ma mi dica, anche sua sorella ha gli occhi come i suoi?» «Credo di sì.» «Ed è alta come lei, vero? Deve essere molto bella, sua sorella. Ecco, guardi, porta i capelli proprio come me, intrecciati a corona. In principio la mamma non voleva che li portassi in questo modo, diceva che mi faceva troppo vecchia. Ma io non sono più una bambina, ho già fatto la cresima.» Gli restituì la fotografia, e Berger la guardò a lungo, senza dire una parola. Per la prima volta non riusciva più a ritrovare perfettamente nel ritratto i lineamenti che aveva nella memoria. Impercettibilmente i tratti della sorella e quelli pallidi e sottili della bambina si erano come fusi nella sua visione interiore, non era più in grado di distinguerli. Il sorriso e la voce di entrambe formavano un tutt'uno dentro di lui, così come ora entrambe erano congiunte anche nella sua vita, essendo le uniche due creature femminili che avevano fiducia in lui e amavano la sua compagnia. Il personaggio di Karla era totalmente svanito dalla sua memoria, in tutti quei giorni nemmeno una volta aveva pensato a lei e al loro scontro, che adesso ricordava senza angoscia come una ubriacatura da vino, una sbornia, una sciocchezza commessa in uno stato di collera. E già aveva scordato i giorni brutti di apatia che aveva passato in quel luogo. Una sola cosa sentiva: che gli era capitata una grande fortuna. Era come se per lungo tempo avesse camminato nelle tenebre, addentrandosi nella notte, e all'improvviso, con gioia repentina, avesse visto risplendere in lontananza una luce bianca come una stella, la luce di una casa, dove poteva riposare e dove era accolto come ospite gradito. Che cosa era andato cercando dalle donne, lui, un essere infantile, un debole, un imbranato? Alle esperte doveva apparire troppo sciocco, alle candide troppo codardo, e del resto era ancora impacciato, un incompiuto, un sognatore. Era arrivato troppo presto, troppo presto si era accostato a loro, che desideravano solo il frutto maturo della vita. Mentre lì quella bambina, nella quale la donna stava appena germogliando, vicina a sbocciare e tuttavia ancora in sonno, una creatura ancora tenera, priva di superbia e di concupiscenza, non era come un destino che poteva educare per sé, un cuore che incoscientemente già si piegava dalla sua parte? Un sogno, più dolce di tutti i precedenti eppure più reale dei confusi fantasmi delle sue ore vuote, gli fluiva nel petto come un'ondata calda. E quindi, quanto più la guardava, quanto più la conosceva, e ora, passata la malattia, le sue guance riprendevano pieno colore e abbellivano il volto fresco, in Berger si diffuse una tenerezza molto schiva e del tutto priva di concupiscenza. Una mera tenerezza fraterna, per la quale era già una grande gioia poter accarezzare le mani scarne e vedere il sorriso fiorire sulle labbra. Un giorno la ragazzina era nel letto quieta, in silenzio. Nessuno dei due aveva detto una parola. E improvvisamente Berger fu preso da un desiderio che lui stesso non riusciva a comprendere. Si accostò al letto, credendo che lei dormisse. Ma era semplicemente lì, immobile, e lo fissava in modo così strano. La bocca muta pareva un pallido petalo di rosa arrotolato. E d'un tratto Berger seppe che cosa voleva: toccare una volta con le sue labbra quelle di lei, sfiorarle appena, delicatamente. Si chinò. Ma persino di fronte a quella bambina malata gli mancava il coraggio. Lei alzò gli occhi verso di lui: «A che cosa sta pensando, adesso?» Allora rimase sopraffatto, non fu più in grado di tacere. Disse in un soffio: «Vorrei darti un bacio. Posso?» La piccola giaceva immobile, limitandosi a sorridere. Con i suoi occhi chiari, raggianti, sorrideva fino al profondo del cuore di Berger, non più come una bimba, ma già come una donna... Allora si chinò e baciò piano la tenera bocca innocente da bambina. Qualche giorno più tardi la malata poté alzarsi per la prima volta. Stava seduta nella poltrona che le avevano accostato alla finestra, molto felice di essere scampata al letto. Berger le sedeva accanto e la guardava con orgoglio, vagamente consapevole di avere collaborato alla sua salvezza, che era dovuto anche a lui, se ora la piccola era tornata alla vita. Pareva cresciuta durante la malattia, si era spogliata tacitamente del tratto infantile: sedeva lì come una ragazza matura, e la sua gioia non era più traboccante, fanciullesca, ma già molto riflessiva e profondamente sentita. A un certo punto toccò la finestra, dietro la quale l'aria splendeva tiepida, e disse: «Sarebbe bello che la primavera entrasse in casa, dal momento che io non posso ancora uscire». A Berger parve un piccolo miracolo, una mai provata delizia dell'esistenza. E non provava più vergogna di fronte a se stesso di essere innamorato di una ragazzina tredicenne, perché sapeva che era in un certo qual modo fantastico e irripetibile tutto ciò che viveva in quei giorni di convalescenza. E meravigliosamente lo commuoveva la cordiale confidenza non ancora turbata dal pudore della donna adulta, la profonda e serena affezione che lei gli dimostrava. Spesso ora lo chiamava per nome, punzecchiandolo, e in questa euforia Berger avvertiva l'intensa felicità di non sentirsi più solo. Il riso rispuntò dal suo animo, riemergendo come un linguaggio dimenticato dell'infanzia. E poi, quando era solo, vagheggiava tenere fantasticherie, la vedeva diventare donna, saggia, seria, assennata. E vedeva se stesso coinvolto in queste immaginazioni e si rendeva conto che sarebbe cresciuta e diventata donna per lui. Ma anche per altri versi la sua solitudine ebbe termine. C'era la madre della ragazzina, che lo guardava con adorazione come un dio. Pareva intenta tutta la giornata a escogitare il modo di potergli dimostrare la propria gratitudine. E ora, che si intratteneva spesso con lei, Berger capiva che quella donna priva di mezzi aveva molto sofferto per le avversità della sorte e, nonostante le umiliazioni e delusioni, aveva conservato una bontà commovente. Adesso si pentiva di aver trattato con arroganza queste persone di ceto inferiore al suo ed era lieto di aver saldato il proprio debito. E anche con Schramek ritrovò dimestichezza. Un giorno Berger lo incontrò sul corridoio e rimase meravigliato della serenità e disinvoltura con cui riusciva a parlargli. Parlarono anche di Karla, e quel nome non gli procurava più nessuna angoscia. C'era troppa letizia dentro di lui, un senso di leggerezza, di liberazione, che si trasmetteva fino nel passo, nell'andatura eretta ed elastica. La vita sembrava permearlo da ogni parte, tutto combaciava, e l'unico desiderio ardente che sentiva era quello di riaprire i libri impolverati e riprendere gli studi. Adesso la sua professione lo attraeva con auree lusinghe. Voleva attendere soltanto ancora qualche giorno, finché la ragazzina fosse del tutto guarita, assaporare fino in fondo quel primo successo, la gioia prepotente provata in ogni istante di quei giorni radiosi. Per due settimane praticamente Berger non era uscito di casa, salvo qualche rapida corsa, dalla stanza della malata, a procurarsi questo o quello. Ora, come tornò a passare lentamente per la prima volta sul selciato che sfavillava di sole, avvertì in tutta la sua pienezza la primavera, il cui alito fresco, profumato, spirava come un tremolio sulla città che sembrava illuminata a festa. E gli pareva di vedere per la prima volta quel giorno la città, quasi fosse emersa scintillando su un'umida e tetra coltre di nebbia. Adesso quelle case vetuste della Josefstadt, che gli erano sempre parse fatiscenti e sporche, grafie alla limpidità azzurra del cielo, che profilava con nettezza i contorni dei tetti e dei comignoli, le percepiva nella loro familiarità bonaria, e il Kahlenberg, che spuntava in lontananza dietro i larghi viali con il suo verde ancora del tutto pallido, era come un saluto. Tutte le persone gli sembravano avere facce più luminose, e a volte era come se dagli occhi delle donne, mentre passavano, balenasse uno sguardo amico. Oppure era soltanto la sua luce interiore, riflessa da ogni cosa, dalla pupilla scura e dalle finestre lampeggianti, dal bagliore tremolante delle strade e dallo splendore acceso dei fiori ridesti dietro le vetrate? Tutto quanto non pareva più circondarlo in modo ostile ed estraneo, ma si offriva come un frutto che matura, pieno di promesse e di colori, come imminente possesso e già meraviglioso presentimento di voluttuoso piacere. Una sempre nuova pienezza seguitava a irradiare da ogni cosa intorno, come un'onda da cui uno si sentiva trasportare. Berger si abbandonò totalmente a questa sensazione di felicità. Presto avvertì un lieve stordimento. Era come ubriaco, sentiva i piedi pesare, un cerchio di piombo intorno alla testa. All'improvviso lo prese questa spossatezza, come un malanno di primavera. Dovette sedersi su una panchina dalle parti della Ringstrasse. Davanti a lui, sulle sue mani, su tutto il corpo percorso da un lieve brivido di freddo, splendeva il sole, non ancora filtrato dallo spesso fogliame degli alberi, ma carico e rovente, con una forza tale, che era costretto a chiudere gli occhi. Sul selciato era uno sfrecciare fragoroso - passava molta gente ma qualcosa lo obbligava a tenere gli occhi chiusi e restare immobile sulla panchina dura. Stette seduto così per due o tre ore. Soltanto al crepuscolo, con il calare della frescura, si riscosse e tornò a casa faticosamente, come un malato. Passò via davanti alla stanza in cui si trovava la ragazzina. Sentiva il bisogno di stare solo con se stesso, di sedimentare finalmente la massa di nuove esperienze che lo avevano cambiato durante quelle settimane. Si sedette allo scrittoio, per mettere ordine nei libri e nelle sue carte. L'indomani voleva riprendere gli studi. E tra le mani gli capitò un grosso quaderno con le pagine bianche, che riconobbe a stento. Lo aveva destinato a diario del suo soggiorno viennese. E aveva seguitato ad attendere un'esperienza di vita, un evento, che gli consentisse di riempire degnamente la pagina iniziale. Una lunga attesa, e alla fine, come le giornate si erano fatte sempre più monotone, se ne era totalmente scordato. Adesso gli pareva un segno del destino. Perché solo adesso era cominciata la sua vita, adesso le stelle cominciavano a splendere sopra le squallide tenebre notturne. Doveva diventare un diario delle cose vissute e - lo avvertiva in modo incerto - forse anche d'amore. Infatti in lui c'era una voce e pareva dirgli che l'affezione per quella bambina un giorno si sarebbe trasformata in amore per una donna... Alzò la fiamma della lampada. E poi prese l'inchiostro, nero e rosso, e varie penne, e cominciò a tracciare sulla pagina iniziale, con una serie di svolazzi e arabeschi, il motto dantesco Incipit vita nova, Inizia una nuova vita. Fin da bambino amava questo gioco calligrafico, e persino ora, che si accingeva a fissare sulla carta il suo futuro e il suo passato, ricamò le lettere con belle volute, di colore rosso e nero: «Inizia una nuova vita». Doveva splendere come il sangue! Ma ecco... si interruppe nella scrittura... una macchia di inchiostro sulla sua mano. Una piccola macchia rossa, tonda. Fece per cancellarla. Non andava via. Prese dell'acqua e sfregò. La macchia non andava via... strano... Ci riprovò. E nuovamente invano. Allora un pensiero lo attraversò come una folgore improvvisa. Sentì il sangue bloccarsi. Ma che cosa era, quello?... Forse?... Esitante, pieno di paura, tirò su la manica. E sentì gelare la mano che scopriva il braccio: anche lì c'erano delle macchie rosse, tonde, una, due, tre. D'un tratto si spiegò la stanchezza e pesantezza di prima. Il quadro era chiaro. Le tempie martellavano sempre più forte, la gola era strozzata. E sotto il tavolo sentiva i piedi gelidi, grevi come ciocchi estranei. Si alzò barcollando, schivò lo specchio con occhio atterrito. No, non lo doveva guardare proprio! Né fare cosa alcuna, urlare o piangere, sperare o nutrire illusioni, dato che il responso era inesorabile. E in fondo del tutto naturale. Si era contagiato. Aveva la scarlattina. La scarlattina... e come se uno parlasse ad alta voce nella stanza, gli giunse all'improvviso quello che il medico aveva detto sulle malattie infantili e la scarlattina: «I bambini le superano più facilmente, mentre gli adulti ci lasciano la pelle». La scarlattina... morire... a lui suonava come una fatale connessione. La scarlattina: una malattia infantile! Non era un simbolo di tutta la sua vita il fatto che lui, anche da adulto, avesse seguitato a patire cose unicamente riservate ai bambini e all'infanzia? E per gli adulti era più duro superarle che per i bambini: come gli riusciva meravigliosamente chiaro all'improvviso! Ma morire: troppe cose si rivoltavano in lui contro questa sorte. Tre settimane prima se ne sarebbe andato più che volentieri, uscendo di scena in silenzio, con discrezione, dato che nessuno gli dava ascolto o gli rivolgeva la parola. Ma ora? Perché la vita si prendeva gioco di lui a quel modo, mostrandogli all'ultimo minuto tutto il suo fascino, per rendergli gravoso il distacco? Perché proprio ora, che aveva ristabilito un legame con degli esseri umani, quando più d'uno forse avrebbe sofferto, magari anche più di lui stesso? Poi lo sopraffece la stanchezza, una rassegnazione muta, smarrita. Fissò le macchie rosse, finché presero a ballargli davanti agli occhi come scintille. Tutto gli si stravolse. Sentiva unicamente che era stato un sogno: la felicità o l'infelicità, le persone o la solitudine, il passato o le cose a venire. Non desiderava più nulla. Era già morire pensò dolorosamente - quell'ammutolire in un momento del genere? Volle soltanto ancora prendere congedo. Entrò nella stanza dove la ragazzina dormiva. Diede solamente uno sguardo ai tratti distesi, a lui tanto familiari. Non aveva sognato che lì avrebbe preso corpo il suo destino? E non si era realizzato in virtù di lei, solo in modo del tutto diverso da quanto pensasse, come morte e non come vita? Accarezzò teneramente con gli occhi quei tratti. E si portò via sulle labbra il sorriso che nel sonno aleggiava tacito intorno alla bocca della bambina. Certo, come rientrò nella sua stanza, era già una smorfia amara, come un fiore appassito. Stracciò ancora alcune lettere, scrisse un indirizzo su un pezzo di carta. Poi suonò e attese. La padrona di casa accorse subito. Era sua costante premura essere di aiuto a lui, che venerava immensamente. «Io», dovette riprendere da capo, perché la voce suonava malferma, «io non mi sento molto bene. Per favore, mi sistemi il letto e chiami il medico. Se le cose si mettono male, mandi un telegramma a mia sorella, ecco l'indirizzo.» Due ore più tardi aveva la febbre alta. Una febbre tremenda gli ardeva nel sangue. Era come se tutta la carica dell'esistenza non ancora vissuta, la passione mai consumata lo bruciasse nei due giorni che ancora gli restavano di una lunga vita. In casa erano sconvolti. La ragazzina si aggirava con gli occhi disfatti dal pianto e non osava guardare in faccia nessuno, quasi temesse di essere incolpata. La madre, disperata, si prostrava davanti al crocifisso nell'anticamera e pregava singhiozzando per la salvezza del morente. Anche Schramek andò più volte nella stanza dell'amico, assicurando a tutti, con inossidabile fiducia, che tutto sarebbe finito bene. Il medico era di diverso avviso e spedì il telegramma alla sorella di Berger. Per due giorni la febbre tenne avvinghiato il giovane che aveva perso conoscenza, scaraventandolo su e giù nei suoi marosi rossi. Una volta ancora si ridestò. Il sangue si era acquietato. Giaceva lì, immobile, con le mani esangui e le palpebre abbassate. Ma era perfettamente sveglio. Sentiva che adesso la stanza doveva essere molto luminosa, perché sulle palpebre c'era come una nebbia rosata. Rimase immobile. Ed ecco che, accanto, prese a cinguettare un uccello. Dapprima esitante, come per prova. Poi attaccò deciso, con trilli di giubilo, una melodia si inerpicò, altalenando. Il malato tese l'orecchio. Gli venne in mente vagamente che adesso doveva essere primavera. Il canto dell'uccello risuonava sempre più forte: quasi gli faceva male con il suo giubilo. Gli pareva che l'uccello avesse il nido proprio vicino al letto e gli trillasse nell'orecchio i suoi gorgheggi acuti... Ma no... Adesso lo udiva appena, molto lontano. Doveva stare su un albero, fuori nella primavera. Il canto divenne sempre più tenue, sempre più tenero, come un suono di flauto, come una voce di bambina. O forse non era affatto un uccello, ma la voce sottile, duttile, argentina, di una fanciulla, una voce dolce e limpida di bambina? Una fanciulla, una bambina... Un ricordo tornò su ali incerte e gli toccò il cuore. Lentamente rammentò ogni cosa, ma non come sequenza vera e propria, bensì per immagini staccate. Il volto sorridente di bambina riemerse dal buio dell'oblio e quindi, vago e tuttavia dolce, quell'unico bacio furtivo. E la malattia, la madre, tutta quanta la casa: il cerchio del vissuto si dipanò a ritroso e di colpo Berger si rese conto che era a letto malato e forse doveva morire. Spalancò le palpebre grevi. Sì, ecco la stanza. E lui era solo. L'uccello, accanto, non cantava più, e muto era anche l'orologio che solitamente ticchettava solerte, si erano dimenticati di ricaricarlo. Lentamente le palpebre si chiusero di nuovo, senza che lui se ne accorgesse. Vedeva la stanza come remota e se stesso seduto lì, la prima notte passata a Vienna, mentre fuori scrosciava la pioggia, a piangere nella sua solitudine. E poi gli tornò in mente ogni cosa, i rapporti con Schramek, e le altre faccende alla rinfusa, ma tutto era già completamente irreale... così estraneo... una sensazione non gradevole, ma neppure dolorosa... qualcosa che scorreva via, che si perdeva nella grande spossatezza oscura. Ed ecco... all'improvviso... sentì sbattere una porta accanto. E poi dei passi. Li conosceva: era Schramek. Sì, era la sua voce. Con chi parlava? Il sangue cominciò a battergli nelle tempie... non era Karla, che adesso rideva di là? Ah, quanto faceva male quella risata. Che tacesse, adesso! Voleva avere pace... silenzio... Quiete. Ma che cosa stavano facendo? Li sentiva ridere. E d'un tratto, come attraverso un vetro, vide nella stanza accanto. C'era Schramek, che la abbrancava e la baciava. E lei curvava indietro i fianchi, con occhi ridenti, come allora, proprio come allora... Le sue mani erano percorse dalla febbre. Perché quelli di là ridevano così pazzamente? A lui faceva male. Non sapevano che lì voleva morire, che lì stava morendo, del tutto solo, senza un amico? Sentiva che gli venivano le lacrime, qualcosa ribolliva nel suo petto, mulinò intorno con le mani. Non potevano aspettare che fosse morto? Ma ecco... una sedia sbatté per terra con fracasso... vedeva tutto: lei che cercava di sfuggirgli. E poi lui, che le correva dietro, ah, quanto era focoso, quanto era forte, come la abbrancava dall'altra parte del tavolo, tirandola verso di sé... E poi era sparita nuovamente... dove?... Sì, si era nascosta... e ora si davano la caccia a perdifiato. La stanza cominciò a tremare... adesso non rimbombava tutta la casa?... Sì, tutta la casa ballava, l'aria era piena di un chiasso orrendo. Perché non rispettavano la sua ultima ora, quei maledetti?... No, continuavano a rincorrersi, ecco, adesso lui l'aveva presa. Perché strilli a quel modo, nella tua paura e foia?... Il malato gemette amaramente. Adesso Schramek l'aveva abbrancata, la capigliatura rossa, sciolta, fluiva giù come sangue... adesso le strappava via la giacca... bianca splendeva la camicia... tutta bianca, lei stessa, e nuda... E così si rincorrevano intorno al tavolo, da una parte all'altra, avanti e indietro... e lei come rideva! e lei come rideva!... E ora - come fu, come non fu? - era piombata nella sua stanza attraverso la parete e stava davanti a lui... davanti al suo letto... bianca, abbagliante, nuda... Oppure... Oppure - cercò a fatica di sollevare le palpebre grevi - oppure... non era sua sorella nel vestito bianco, lì, davanti a lui? Non era la mano di lei, amorevole e fresca, sulla sua fronte?... Due ore ancora arse il fuoco. Poi tutto si spense. Accanto al suo letto c'erano la sorella, la bambina e Schramek, i tre esseri cui andava il suo amore, che adesso, accomunati come non li aveva mai visti, significavano tutta la sua vita. Tutti e tre non dissero una parola. La ragazzina singhiozzava sommessamente, e a poco a poco si spense anche quell'ultimo suono di lamento. Nella stanza si diffuse un silenzio grande, tutti e tre erano compresi di sacralità e di dolore, e nulla si udiva, se non fuori, davanti alle finestre, la voce irosa, concitata, della grande città estranea, che seguitava a rintronare senza requie e non si curava della morte o della vita. 3 - Lettera di una sconosciuta Quando, dopo un'escursione tonificante di tre giorni in montagna, il famoso romanziere R. fece ritorno a Vienna di primo mattino e alla stazione si comperò un quotidiano, non appena sorvolò la data con lo sguardo, si rammentò che era il suo compleanno: il quarantunesimo, si sovvenne istantaneamente, e la constatazione non gli fece bene ma neanche male. Scorse alla svelta le pagine fruscianti del giornale e tornò a casa con un'automobile a nolo. Il domestico lo relazionò sulle due visite ricevute nel periodo della sua assenza, nonché su alcune telefonate, e sopra un vassoio gli porse la posta che si era accumulata. Con aria indolente egli diede un'occhiata alla corrispondenza in arrivo, lacerò qualche busta interessato dal mittente, mentre accantonò per il momento una lettera che esibiva una grafia a lui sconosciuta e che dava l'impressione di essere quanto meno voluminosa. Nel frattempo era stato servito il tè. Si allungò comodamente in poltrona, sfogliò di nuovo il giornale e alcuni stampati, quindi si accese un sigaro e solo allora prese la lettera che aveva messa in disparte. Erano circa due dozzine di pagine vergate frettolosamente con un' inquieta, ignota scrittura femminile, un manoscritto piuttosto che una lettera. Involontariamente tastò la busta un'altra volta, se mai non vi fosse rimasto un foglio dimenticato con qualche rigo di accompagnamento. Ma era vuota e, come del resto le pagine, non recava né mittente né firma. Strano, pensò, e riprese la lettera in mano. «A te che non mi hai mai conosciuta», era scritto in alto a mo' di avviso, di intestazione. Sorpreso, si bloccò: quello scritto era diretto a lui o a un uomo immaginario? La sua curiosità si era destata all'improvviso, sicché cominciò a leggere. «Mio figlio è morto ieri - per tre giorni e tre notti ho lottato contro la morte per il possesso di questa piccola, tenera vita, per quaranta ore, mentre la spagnola squassava il suo povero corpo febbricitante, sono rimasta seduta al suo capezzale. Gli ho messo panni freschi sulla fronte rovente, ho tenute giorno e notte le sue piccole mani irrequiete. La terza sera sono crollata. I miei occhi non ce l'hanno fatta più, si sono chiusi senza che me ne accorgessi. Ho ceduto al sonno per tre o quattro ore e intanto la morte se l'è portato via. Ora è sdraiato là, il dolce, povero bambino, nel suo lettuccio di fanciullo, esattamente come è morto; soltanto gli occhi gli sono stati chiusi, i suoi occhi scuri e intelligenti, le mani gliele hanno giunte sulla camicia bianca e quattro ceri ardono alle quattro estremità del letto. Non oso guardare da quella parte, non oso muovermi perché, ogni volta che tremolano le candele, ombre guizzano sul suo viso e sulla bocca chiusa, sicché i suoi lineamenti paiono muoversi, e io potrei pensare che non sia morto, che si risvegli e mi rivolga frasi fanciullescamente affettuose con la sua voce squillante. Ma io so che è morto. Non voglio più guardare da quella parte per non sperare ancora di essermi sbagliata. Lo so, lo so, mio figlio è morto ieri - adesso non ho altri che te al mondo, solo te. E tu non sai nulla di me, ignaro di tutto giochi o ti trastulli con cose e persone. Ho soltanto te, che non mi hai mai conosciuta e che ho sempre amato. «Ho preso la quinta candela e l'ho accostata al tavolo dove ti scrivo. Perché non posso rimanere sola con il mio bambino morto senza vomitare l'anima dallo strazio, e a chi dovrei parlare in quest'ora tremenda se non a te che sei stato, e sei, tutto per me? Forse non riuscirò a parlarti in modo chiaro, forse tu non mi capirai - sono stordita, sento battere e martellare intorno alle tempie, le gambe e le braccia mi fanno male. Credo di avere la febbre, fors'anche la spagnola, che ora striscia passando di porta in porta; e sarebbe un bene: allora me ne andrei con mio figlio e non sarei costretta a infierire contro la mia persona. Di tanto in tanto mi si annebbia la vista e probabilmente non riuscirò nemmeno a scrivere fino alla fine questa mia lettera, ma voglio raccogliere tutte le forze per parlarti una volta, questa unica volta, amore che non mi hai mai conosciuta. «A te solo voglio parlare, raccontarti tutto per la prima volta. Devi conoscere l'intera mia vita che ti è sempre appartenuta e della quale non sapevi nulla. Ma verrai a conoscenza del mio segreto solo quando sarò morta, quando non mi potrai più rispondere, quando la causa del freddo e del caldo che mi stanno scuotendo sarà davvero la fine. Se invece dovrò continuare a vivere, strapperò questa lettera e tacerò come ho sempre taciuto. Perciò se la terrai in mano, sappi che una morta ti ha raccontato la sua vita, la sua vita che è stata tua dalla prima all'ultima ora da viva. Non avere timore delle mie parole; una donna morta non vuole più nulla, non vuole amore, non vuole compassione e neanche consolazione. Solo questo voglio da te: che tu mi creda, che tu creda a tutto quello che il mio dolore, fuggendo verso di te, ti confessa. Credermi è la sola mia preghiera: non si mente nell'ora della morte dell'unico figlio. «Ti svelerò tutta la mia vita, che veramente è cominciata il giorno in cui ti ho conosciuto. Prima non era altro che qualcosa di opaco e informe in cui il mio ricordo non si è mai più immerso, una specie di cantina piena di cose e persone impolverate, nascoste sotto le ragnatele e sorde, delle quali il mio cuore non ha serbato alcuna memoria. Quando sei arrivato, avevo tredici anni e abitavo nella stessa casa dove tu abiti adesso, nella stessa casa in cui tieni in mano questa lettera, l'ultimo mio alito di vita. Abitavo sullo stesso pianerottolo, proprio di fronte alla porta del tuo appartamento. Certamente non ti ricorderai più di noi, della povera vedova del consigliere della Corte dei conti (vestiva sempre a lutto) e della sua magra figlia adolescente - eravamo dei vicini molto silenziosi, immersi nella nostra indigenza piccolo-borghese. Forse non hai mai udito il nostro nome perché non avevamo la targa sull'uscio e non veniva nessuno, nessuno chiedeva di noi. Ma è passato tanto tempo, quindici, sedici anni, no, sicuramente non ti rammenti di noi, amore, mentre io, oh sì, io ricordo appassionatamente ogni dettaglio, ricordo come se fosse oggi il giorno, ma che dico il giorno: ricordo l'ora in cui ho sentito parlare di te per la prima volta, ti ho visto per la prima volta; e come potrebbe essere diversamente dal momento che il mondo per me è iniziato in quell'istante? Sopporta, amore, che ti racconti tutto dal principio, non stancarti, ti supplico, di sentire parlare per un quarto d'ora di me che non mi sono mai stancata di amarti per una vita. «Prima che tu traslocassi in casa nostra, dietro la tua porta abitava gente brutta, cattiva, litigiosa. Poveri com'erano, odiavano soprattutto la povertà della porta accanto, non volendo condividere con nessuno il proprio squallore proletario, sceso così in basso. Il marito era un ubriacone e picchiava la moglie; capitava spesso che ci svegliassimo in piena notte per il fracasso di sedie rovesciate e di piatti rotti. Una volta la donna, sanguinante per le percosse e tutta scarmigliata, corse giù dalle scale e dietro di lei l'uomo ubriaco urlante, finché tutti gli inquilini uscirono dalle porte e lo minacciarono di chiamare la polizia. Sin da principio mia madre aveva evitato qualunque rapporto con loro e mi proibì di parlare ai figli, i quali si vendicarono su di me a ogni occasione. Quando mi incontravano sulla strada, mi lanciavano degli insulti e una volta mi colpirono con una gragnuola di palle di neve così dure che mi colò il sangue dalla fronte. Per un istinto solidale tutto il caseggiato odiava quella gente e il giorno che accadde qualcosa credo che l'uomo fosse stato portato in galera per un furto - e quelli dovettero sloggiare con la loro robaccia, noi tutti tirammo un sospiro di sollievo. Per qualche giorno, di sotto, sul portone, fu appeso un cartello con scritto 'Affittasi', poi venne tolto e almeno i mobili pesanti, e ora portavano una dopo l'altra le cose più piccole. Io rimasi impalata sulla porta ad ammirare ogni pezzo perché tutte le tue cose erano stranamente diverse da quelle che ero abituata a vedere. C'erano idoli indiani, sculture italiane, grandi quadri dalle tinte sgargianti e poi, alla fine, arrivarono i libri, tanti libri e così belli che per me erano inimmaginabili. Furono impilati tutti vicino alla porta d'ingresso e lì li prese in consegna il cameriere che li batté con un bastone e li spolverò accuratamente a uno a uno con un piumino. Incuriosita, aggirai il mucchio sempre più grande, il tuo domestico non mi scacciò, ma nemmeno mi incoraggiò, sicché non osai toccarne uno solo per quanto mi sarebbe piaciuto sentire al tatto il cuoio morbido di parecchie rilegature. Sogguardai timidamente solo i titoli: c'erano libri francesi, libri inglesi, ma parecchi erano scritti in lingue che non capivo. Credo che sarei rimasta a guardarli ore e ore: ma la mamma mi chiamò. «Per tutta la sera non potei fare a meno di pensare a te; ancor prima di conoscerti. Personalmente possedevo solo una dozzina di libri economici con le copertine di cartone sgualcito, che amavo più di qualunque altro mio avere e che leggevo e rileggevo. Mi assillava il pensiero di come fosse l'uomo che possedeva e aveva letto tutti quei libri meravigliosi, conosceva tante lingue, era così ricco e insieme così colto. Una specie di riverenza soprannaturale si collegò, dentro di me, all'idea di quei libri, di così tanti libri. Cercai di immaginarti concretamente: eri un vecchio signore con gli occhiali e una lunga barba bianca, simile al nostro professore di geografia, soltanto molto più buono, bello e mite non so come mai già allora fossi sicura della tua bellezza, pur pensandoti vecchio. Quella notte e senza conoscerti, ti ho sognato per la prima volta. «Tu traslocasti l'indomani ma io, benché facessi la posta, non riuscii a scorgerti - e questo non fece che accrescere la mia curiosità. Il terzo giorno finalmente ti vidi, e la sorpresa mi sconvolse. Perché eri assolutamente diverso, senza alcuna relazione con l'immagine infantile di Dio padre. Avevo sognato un vegliardo bonario con gli occhiali e invece sei arrivato tu, lo stesso uomo che sei ora, un uomo immutabile, sul quale gli anni scivolano pigramente. Indossavi un delizioso completo sportivo beige e salisti di corsa le scale alla tua inconfondibile agile maniera di intramontabile adolescente: sempre due gradini alla volta. Il cappello lo tenevi in mano e così, con una sorpresa indescrivibile, vidi il tuo viso luminoso, vivace con i capelli chiari. E vero, mi spaventai tanto ero stupita di vederti giovane, avvenente, snello ed elegante. Non è una reazione nient' affatto strana: in quel primo istante avvertii con estrema chiarezza ciò che io stessa e gli altri immancabilmente percepiamo come la tua singolarità, non senza provare una certa sorpresa a ogni conferma: la compresenza in te, in un certo senso, di due nature distinte: il giovane passionale, spensierato, incline al gioco e all'avventura, accanto all'uomo - nella sua arte - impietosamente serio, coscienzioso, infinitamente erudito e colto. A livello inconsapevole avvertii ciò che chiunque coglieva in te, ossia la tua doppia vita: una vita con una faccia limpida, scopertamente rivolta al mondo e una vita molto oscura che solo tu conosci - questa duplicità profonda, il mistero della tua esistenza, la percepii a tredici anni, magicamente sedotta, al primo sguardo. «Comprendi allora, amore, quale miracolo, quale enigma seducente sei stato per me, per una bambina? Scoprire all'improvviso nell'uomo, davanti al quale si prova venerazione perché scrive libri, perché è famoso nel gran mondo, un giovane di venticinque anni elegante, spensierato come un ragazzo! Non mi pare necessario dirti che a partire da quel giorno in casa nostra e in tutto il mio mondo infantile niente mi interessava più di te e che non feci altro che accerchiare la tua vita, la tua esistenza con tutta l'ostinazione e la perspicace perseveranza di una tredicenne. Ti osservai, osservai le tue abitudini, osservai le persone che venivano da te, e questo, anziché attenuare la mia curiosità, la accresceva poiché per l'appunto la duplicità della tua natura si rifletteva specularmente nell'eterogeneità delle tue visite. Ti venivano a trovare giovani, tuoi compagni con i quali ridevi e ti scatenavi, studenti malvestiti e poi altre signore, sempre a bordo di automobili con chauffeur. Un giorno arrivò il sovrintendente dell'Opera, il grande direttore d'orchestra che io avevo visto sul podio da lontano, quindi di nuovo altre giovani ragazze che andavano ancora alla scuola commerciale e, impacciate, s'infilavano in casa tua. In genere molte, anzi moltissime donne. Io non mi facevo certo idee strane, neanche quella mattina che, uscendo per andare a scuola, vidi allontanarsi una signora con la faccia interamente velata. Avevo solo tredici anni e la curiosità viscerale, con cui ti spiavo e sorvegliavo, impediva alla bambina - perché ero ancora una bambina - di capire che era già amore. «Ricordo però esattamente, amore mio, il giorno e l'ora in cui mi innamorai perdutamente di te. Avevo fatto una passeggiata con una compagna di scuola e stavamo chiacchierando davanti al portone. Arrivò un'automobile, si fermò e tu scendesti spiccando un balzo dal predellino alla tua solita maniera impaziente ed elastica, che ancor oggi mi affascina, e facesti l'atto di infilarti dentro il portone. Io ti sbarrai la strada, e ci mancò poco che non ci urtassimo, e tu mi fissasti con quello sguardo caldo, morbido e avvolgente come una carezza, mi sorridesti teneramente - non posso dire altro - e con una voce appena udibile e quasi confidenziale mi dicesti: 'Grazie mille, signorina'. «Tutto qui, amore, ma da quel secondo, da quando percepii su di me il tuo sguardo morbido, affettuoso, mi sentii interamente tua. Certo, più tardi, anzi presto ho esperimentato di persona che riservi quello sguardo che ti abbraccia e ti cattura, quello sguardo che ti avvolge e insieme ti spoglia, insomma lo sguardo del seduttore nato, a ogni donna che ti sfiori, a ogni commessa che ti serva in una bottega, a ogni camerierina che ti apra la porta, so che non è uno sguardo consapevole, l'espressione di una volontà, di un'inclinazione, e che è per l'appunto la tua tenerezza verso le donne a renderlo morbido e caldo. Ma io, la bambina appena tredicenne, non lo intuivo: mi sentivo come tuffata in un incendio. Credevo che la tenerezza fosse riservata a me sola, unicamente a me, e in quel secondo la donna, nascosta nell'adolescente, si è destata e quella donna ti appartenne, per sempre. 'Chi era?' chiese la mia amica. Non riuscii a risponderle subito. Mi era impossibile pronunciare il tuo nome: mi divenne sacro già in quel breve attimo, era diventato il mio segreto. 'Ah, un signore che abita qui nella casa' balbettai maldestra. 'Ma perché sei arrossita quando ti ha guardata?' mi canzonò l'amica con tutta la cattiveria di una bambina curiosa. E allora, proprio perché sentii che la compagna aveva sfiorato il mio segreto con un'intenzione canzonatoria, il sangue mi avvampò di nuovo le guance. Per l'imbarazzo diventai villana. 'Cretina' sbottai: ma avrei preferito strozzarla. Lei invece rise ancor più forte non nascondendo una punta di scherno, sicché mi sentii spuntare le lacrime agli occhi e sconvolgere da una rabbia impotente. La piantai in asso e corsi di sopra. «Ti ho amato da quel secondo. So che le donne te l'hanno detto spesso perché sei il loro beniamino, ma credimi: nessuna ti ha mai amato con la dedizione di una schiava, di una cagna quale sono stata e sono rimasta per te. Sulla Terra, infatti, niente somiglia all'amore nascosto, coltivato nel buio da una bimba. É un amore così disperato, servile, succube, un amore così sospettoso e totale come non lo è mai quello concupiscente e inconsciamente pretenzioso di una donna adulta. Esclusivamente le bambine sole sanno mantenere in vita la loro passione: le altre frantumano il proprio sentimento a furia di ciance in compagnia, lo consumano nelle confidenze, hanno udito e letto molto sull'amore e sanno che è un destino comune, ci giocano come con un giocattolo, se ne vantano come i ragazzini si vantano della prima sigaretta. «Mentre io non avevo nessuno con cui confidarmi, nessuno mi aveva istruita e messa in guardia, ero inesperta e ignara: mi tuffai nel mio destino come in un baratro. Ogni nuovo sentimento che germogliasse e divampasse nel mio intimo conosceva un unico confidente: te, l'immagine onirica della tua persona. Mio padre era morto da tempo e mia madre mi era estranea, chiusa com'era nell'eterna cupezza della depressione, assorbita dalle ansietà di chi vive della sola pensione; le compagne di scuola, già parzialmente guaste, mi respingevano proprio perché esse giocavano con quella che per me era invece la passione definitiva. Sicché buttai ciò che altrimenti si frantuma e smembra, gettai incontro a te il mio essere appena assemblato e tuttavia impaziente di rinnovarsi. Tu eri come faccio a dirtelo? ogni paragone è insufficiente - eri davvero tutto, eri la mia vita. Tutto esisteva in funzione tua, tutto nella mia esistenza aveva significato purché fosse collegato alla tua immagine. Hai trasformato la mia vita. Fino a quel momento indifferente e mediocre a scuola, diventai di colpo la prima della classe, lessi migliaia di libri fino a notte fonda perché sapevo che tu li amavi. Meravigliando mia madre, cominciai a esercitarmi al pianoforte con una costanza prossima quasi alla cocciutaggine perché credevo che tu amassi la musica. Spazzolavo e cucivo i miei vestiti solo per avere un aspetto gradevole e decente ai tuoi occhi; che il mio vecchio grembiule di scuola (ricavato da un abito da casa della mamma) avesse a sinistra una macchia quadrangolare incastonata era per me disgustoso. Temevo che tu potessi notarla e disprezzarmi; per questa ragione stringevo sempre la cartella al petto ogni volta che salivo di sopra tremante di paura, sicura che avresti visto l'ignominia. Ma com'ero sciocca! Tu non mi hai mai, quasi mai guardata. «E, nondimeno, praticamente passavo la giornata ad aspettarti e a spiarti. Nella nostra porta c'era un piccolo spioncino d'ottone con un'apertura circolare dalla quale si poteva vedere perfettamente la tua. Questo spioncino - no, non ridere, amore! Ancor oggi, ancor oggi non mi vergogno di quelle ore! - era il mio occhio sul mondo e là, nell'anticamera gelida, temendo che la mamma sospettasse qualcosa, rimasi seduta in quei mesi e anni, un libro in mano, per interi pomeriggi facendoti la posta: tesa come la corda di uno strumento musicale, vibrando non appena la tua presenza la sfiorasse. Ero costantemente occupata da te, in tensione, in movimento; ma tu non potevi accorgerti, così come non percepivi la tensione della lancetta dell'orologio che tieni in tasca, la quale conta e misura al buio le tue ore, accompagna i tuoi percorsi con un battito impercettibile e sulla quale, in milioni di ticchettii, il tuo sguardo frettoloso cade una sola volta. Sapevo tutto di te, conoscevo ciascuna delle tue abitudini, ogni tua cravatta, ogni tuo abito, impiegai poco tempo a riconoscere e distinguere i tuoi conoscenti e li suddivisi in due gruppi: quelli che mi erano cari e quelli che mi ripugnavano. Dai tredici ai sedici anni ho vissuto ogni secondo in te. Quante scempiaggini ho commesso! Baciavo la maniglia della porta che la tua mano aveva toccata, rubavo il mozzicone della sigaretta che avevi gettato prima di entrare, e quel mozzicone era un oggetto sacro per me essendo stato sfiorato dalle tue labbra. Di sera - e il fatto si ripeté centinaia di volte - con una scusa correvo di sotto sul vicolo, solo per vedere in quale stanza del tuo alloggio fosse accesa la luce e, più edotta, sentire la tua presenza, la tua presenza invisibile. Nelle settimane in cui eri in viaggio - il cuore mi si fermava sempre dalla paura ogni volta che vedevo il buon Johann portare da basso la tua borsa gialla -, in quelle settimane la mia vita era come spenta e priva di senso. Andavo in giro imbronciata, annoiata, cattiva e dovevo sempre stare attenta che la mamma non si accorgesse della mia disperazione notando che avevo gli occhi arrossati dal pianto. «So che ti sto raccontando solo esaltazioni grottesche, insulsaggini puerili. Dovrei vergognarmene, ma non mi vergogno perché il mio amore non è stato mai più puro e travolgente che in quegli eccessi infantili. Potrei raccontarti per ore e per giorni come allora sono vissuta con te che mi conoscevi di sfuggita. Infatti, incontrandoti sulla scala e non potendoti evitare, mi mettevo a correre per paura del tuo sguardo bruciante, la testa bassa, e ti passavo vicino come se stessi per cadere in acqua, augurandomi solo che l'incendio non mi liquefacesse. Per ore, per giorni potrei raccontarti di quegli anni per te ormai svaniti da tempo, srotolare il calendario della tua vita, ma non voglio annoiarti, non voglio tormentarti. Desidero confidarti solamente l'esperienza più bella della mia infanzia, e ti prego di non deridermi: è stato un episodio senza importanza, ma per me è durato un'eternità. Doveva essere una domenica. Tu eri partito e il tuo domestico stava trascinando nell'appartamento i pesanti tappeti che aveva battuto, lasciando la porta aperta. Faceva fatica, il buon uomo, e, in un accesso di audacia, mi avvicinai e gli chiesi se potevo aiutarlo. Si stupì ma mi lasciò fare. Fu così che - potrei solo dirti con quale adorazione piena di devoto rispetto ho visto l'interno della tua casa, il tuo mondo, la tua scrivania dove eri solito sederti, sulla quale c'erano dei fiori in un vaso di cristallo azzurro. I tuoi armadi, i tuoi quadri, i tuoi libri. É stato solo uno sguardo fugace e furtivo nella tua vita perché il fedele Johann mi avrebbe sicuramente proibito un'analisi più circostanziata; ma con quell'unico sguardo riuscii a suggere l'atmosfera e mi procurai alimento per i miei infiniti sogni nel sonno e nella veglia. «Questo minuto, un minuto veloce, è stato il più felice della mia adolescenza. Te l'ho voluto raccontare perché tu, che ancora non mi conosci, possa finalmente cominciare a intuire fino a che punto la mia vita sia trascorsa in simbiosi emotiva con te. Ho voluto raccontartelo, così come ti voglio raccontare l'ora più terribile, purtroppo cronologicamente così vicina a quell'attimo di felicità. A causa tua te l'ho già detto - trascuravo tutto, non badavo a mia madre e non mi preoccupavo di nessuno. Sicché non mi accorsi del signore anziano - era un commerciante di Innsbruck, imparentato alla lontana con la mamma che veniva piuttosto spesso a casa nostra e si tratteneva abbastanza a lungo; personalmente non avevo nulla in contrario, anzi: ogni tanto portava la mamma a teatro e in quelle occasioni potevo stare da sola, pensare a te, spiarti, il che era per me l'unica e impareggiabile beatitudine. Un giorno la mamma mi chiamò in camera sua con un giro di parole alquanto prolisso, dicendo che mi doveva parlare seriamente. Impallidii e sentii il cuore in gola: aveva intuito o scoperto qualcosa? Il mio primo pensiero eri stato tu, insomma era il segreto che mi legava al mondo. Mia madre era a sua volta impacciata, mi baciò (cosa che non faceva mai) affettuosamente una, anzi due volte, mi attrasse a sé sul sofà e con una certa titubanza e un discreto pudore cominciò a raccontarmi che il parente, essendo vedovo, le aveva chiesto di sposarla e che, pensando soprattutto a me, era decisa ad accettare la proposta di matrimonio. Sentii un tuffo al cuore: solo un pensiero rispose dentro di me: il pensiero di te. 'Ma resteremo qui?' riuscii a stento a balbettare. 'No, ci trasferiamo a Innsbruck. Ferdinand ha una bella villa a Innsbruck.' Non udii altro. Mi si annebbiò la vista. Più tardi venni a sapere di essere svenuta: all'improvviso ero arretrata allargando le mani - lo udii raccontare alla mamma dal patrigno che aspettava dietro l'uscio -, quindi mi ero accasciata come un sacco di patate. Sono incapace di descriverti il prosieguo degli eventi e la mia strenua difesa - ero ancora una bambina e assolutamente impotente contro la loro volontà superiore; adesso, mentre ti scrivo, mi trema ancora la mano. Non potevo rivelare il mio segreto e quindi la mia resistenza veniva presa per cocciutaggine, per cattiveria, per un dispetto. Nessuno parlò più con me, tutto si svolse alle mie spalle: approfittavano delle ore in cui ero a scuola per traslocare. Ogni volta che rincasavo, un altro pezzo mancava: trasferito o venduto. Vidi la mia casa e quindi la mia vita cadere a mano a mano a pezzi e un giorno, rientrando per il pranzo, trovai che gli imballatori avevano finito e si erano portati via tutto. Nelle stanze vuote c'erano le valigie chiuse e due brande per la mamma e per me. Lì avremmo dormito per una notte, l'ultima notte, e l'indomani saremmo partite per Innsbruck. «L'ultimo giorno mi resi conto, con una chiarezza improvvisa, che non avrei potuto vivere senza la tua vicinanza. Eri la mia unica salvezza. Non saprò mai dire che cosa abbia pensato e se fossi in grado di formulare dei pensieri in quelle ore di infinita disperazione, ma una cosa è certa: a un tratto - la mamma era uscita - con ancora addosso il grembiule di scuola venni di là da te. No, non camminai: una forza misteriosa mi spinse magneticamente fino alla tua porta, muovendo le mie gambe anchilosate. Tremavo tutta. Ti ho già detto che non mi era chiaro che cosa volessi - se buttarmi ai tuoi piedi e pregarti di tenermi con te, come una serva, come una schiava e temo che sorriderai di fronte al fanatismo innocente di una quindicenne - ma forse non sorrideresti se sapessi come è andata lì fuori sul pianerottolo gelido: paralizzata dalla paura e nondimeno sospinta in avanti da una forza inspiegabile, e come dire, strappai il braccio dal corpo tant'è che si sollevò e - fu una lotta durata l'eternità di secondi spaventevoli - premetti il dito sul pulsante della maniglia. Ancor oggi mi rintrona nell'orecchio quella scampanellata stridula seguita dal silenzio in cui il cuore mi si fermò, la circolazione del sangue si interruppe per ascoltare se stavi avvicinandoti. «Ma tu non venisti. Non venne nessuno. Evidentemente quel pomeriggio eri andato via e Johann era uscito per qualche commissione. Allora me ne tornai tastoni, il suono morto del campanello che continuava a rintronarmi nell'orecchio, nel nostro alloggio devastato e vuoto, sfinita mi buttai su un plaid, stanca dei quattro passi come se avessi camminato per ore e ore nella neve alta. Ma sotto quello sfinimento ardeva ancora, non soffocabile, la risolutezza di vederti, parlarti, prima che mi portassero via. Non c'era, te lo giuro, alcun pensiero erotico, ero ancora inesperta appunto perché non pensavo ad altro se non a te: volevo solamente vederti, vederti un'altra volta, aggrapparmi a te. Per tutta la notte, quella lunga notte spaventosa, ti ho aspettato, amore. Non appena mia madre si fu sdraiata e addormentata, uscii piano piano in anticamera per tendere l'orecchio e non perdermi l'istante in cui saresti rincasato. Ho aspettato tutta la notte ed era una gelida notte di gennaio. Ero stanca, mi dolevano le membra e non c'era più una poltrona dove sedermi. Così mi distesi sul pavimento freddo, sul quale soffiava la corrente d'aria filtrata dalla porta. Con addosso solo il mio vestitino leggero, rimasi supina sull'ammattonato gelido, che faceva male perché non avevo preso la coperta; ma non volevo avere caldo per paura di assopirmi e non udire il tuo passo. Ero dolorante, stringevo i piedi l'uno contro l'altro spasmodicamente, mi tremavano le braccia. Dovetti alzarmi in continuazione, tanto freddo faceva nel buio terrificante. Ma aspettai, aspettai, ti aspettai come se tu fossi il mio destino. «Finalmente - dovevano essere già le due o le tre del mattino - udii girare la chiave del portone di sotto e poi dei passi sulla scala. Il freddo era scomparso come staccatosi, un alito caldo mi investì e senza far rumore aprii la porta per lanciarmi incontro a te, cadere ai tuoi piedi... Ah, non so davvero che cosa avrei fatto in quel momento, pazza com'ero. I passi si avvicinarono, un lume guizzò spostandosi sempre più in alto. Tremante tenni la maniglia. Ma eri tu che stavi salendo? «Sì, amore, eri tu. Ma non eri solo. Udii un risolino provocato dal solletico, il fruscio forse di un abito di seta e, in sottofondo, la tua voce. Tornavi a casa con una donna... «Non so davvero come sia sopravvissuta a quella notte. Il giorno dopo, alle otto, mi portarono di peso a Innsbruck; non ebbi più la forza di reagire.» «Mio figlio è morto ieri notte. Sarò di nuovo sola se è destino che continui a vivere. Domani verranno uomini sconosciuti, neri, grossolani, e porteranno una cassa e lì lo deporranno, il mio povero unico bambino. Forse verranno anche alcuni amici e porteranno delle corone, ma a che cosa servono i fiori su una bara? Mi consoleranno e diranno qualche parola, parole, parole, ma mi potranno aiutare? So che rimarrò inevitabilmente sola un'altra volta, e non esiste nulla di più terrificante della solitudine mentre si sta tra la gente. Ho capito che cosa sia questo essere soli in quei due anni interminabili a Innsbruck, in quegli anni tra il sedicesimo e il diciottesimo compleanno, quando vissi in mezzo ai miei famigliari come una prigioniera, come una proscritta. Il patrigno era un uomo molto tranquillo di poche parole. Con me era buono, e mia madre, come per farsi perdonare chissà quale torto, sembrava disposta a soddisfare qualunque mio desiderio. C'erano parecchi giovani interessati a me, ma io li respinsi con un'arroganza viscerale. Non volevo essere felice, vivere contenta distante da te, e così mi seppellii con le mie mani in un mondo buio scandito dall'espiazione e dall'isolamento voluti da me stessa. I nuovi abiti colorati che loro mi comperavano non li indossavo, mi rifiutavo di andare ai concerti e di frequentare i teatri o di partecipare a escursioni in allegra compagnia. Non sono quasi mai scesa in strada. Mi credi, amore, se ti dico che di questa piccola città, nella quale sono vissuta due anni, non conosco neanche dieci vie? Ero derelitta e volevo esserlo. Mi inebriai di ogni rinuncia a cui mi sottoponevo oltre a quella di non poterti vedere. E poi: non volevo farmi distrarre dalla voluttà di vivere in te. Me ne stavo a casa tutta sola per ore e ore, perfino per intere giornate, e non facevo nient'altro che pensarti, richiamare alla memoria gli stessi innumerevoli piccoli ricordi, ogni incontro, ogni attesa, rivivere quegli episodi insignificanti come se fossi a teatro. E proprio perché ho ripetuto ognuno dei secondi passati infinite volte, anche la mia infanzia ha serbato nella memoria una vivezza così bruciante, che sento ogni minuto di quegli anni caldo e importante come se avesse attraversato il mio sangue solo ieri. «In passato non ho vissuto che per te, in te. Comperai tutti i tuoi libri e se il tuo nome compariva sul giornale, era un giorno di festa. Mi credi se ti dico che so a memoria ogni riga dei tuoi libri avendoli letti e riletti? Se qualcuno mi svegliasse in piena notte e mi recitasse un passo scelto a caso di un tuo romanzo, ancor oggi, a tredici anni di distanza, lo saprei continuare, come in sogno: perché ogni parola era per me vangelo e preghiera. Il mondo esisteva solo in relazione a te: sui giornali di Vienna leggevo i concerti e le prime teatrali riflettendosi quali ti avrebbero potuto interessare e, quando arrivava la sera, ti accompagnavo da lontano: adesso entra nella sala, adesso si siede. Sognai la scena mille volte, e ti avevo visto al concerto una sola volta. «Ma a che scopo raccontarti tutto quanto, questo fanatismo folle e autolesionista, tragicamente disperato, il fanatismo di una fanciulla abbandonata? Perché raccontarlo a un uomo che non ne ha mai avuto il minimo sospetto e non sapeva niente? Ma a quel tempo ero veramente ancora una bambina? Compii sedici anni, ne compii diciotto - i giovanotti cominciarono a voltarsi per la strada, ma mi infastidivano soltanto. Infatti l'amore, o anche solo il gioco con l'amore, riferiti a qualcuno che non fosse te mi parevano enigmatici, così inspiegabilmente strani, anzi la semplice tentazione mi sarebbe sembrata delittuosa. La mia infatuazione per te restò eguale, senonché il mio corpo era mutato, i miei sensi si erano svegliati divenendo più caldi, più fisici, più femminili. E la realtà, che la volontà della bambina non aveva ancora intuito, della bambina che aveva suonato il tuo campanello, si trasformò in un'idea fissa: donarmi, darmi a te. «Le persone che mi vivevano intorno supponevano che fossi schiva, mi definivano timida (avevo taciuto ostinatamente il mio segreto). Mentre dentro di me stava prendendo forma una volontà ferrea. Ogni mia azione, ogni mio pensiero e progetto avevano imboccato una sola direzione: tornare a Vienna, tornare da te. Estorsi la vittoria, per quanto la mia volontà sembrasse assurda e incomprensibile agli altri. Il mio patrigno era benestante e mi considerava sua figlia, eppure con una caparbietà esacerbata insistetti di volermi guadagnare la vita con le mie sole forze e alla fine ottenni di andare a Vienna: sarei vissuta da una parente e mi sarei impiegata in un grande laboratorio di confezioni. «É necessario che ti dica quale strada percorsi per prima quando, in una sera nebbiosa di autunno, arrivai - finalmente! finalmente! - a Vienna? Lasciai le valigie alla stazione, mi precipitai su un tram - e mi pareva che non camminasse nemmeno, ogni fermata mi dava ai nervi - e raggiunsi di corsa la casa. Le tue finestre erano illuminate, il mio cuore cantava. Solo quella sera la città, che finora mi aveva avvolta con il suo mugghiare così estraneo e assurdo, solo allora cominciò a rivivere poiché ti intuivo vicino, tu, il mio eterno sogno. Non capivo che in realtà, anche al di là di valli, monti e fiumi, ero stata altrettanto estranea alla tua coscienza come adesso che soltanto il sottile vetro lucente della tua finestra si frapponeva tra te e il mio sguardo raggiante. Non feci altro che guardare in su, verso l'alto: c'era luce, la casa, c'eri tu, c'era il mio mondo. Per due anni avevo sognato quel momento, e finalmente mi veniva regalato. Rimasi sotto le tue finestre per tutta la sera, una sera lunga, morbida, velata, finché la luce si spense. Solo allora cercai la casa in cui avrei alloggiato. «Tornai ogni sera. Fino alle sei ero occupata al negozio, un lavoro duro e impegnativo. Ma mi era caro perché l'irrequietezza che lo contrassegnava faceva sentire meno dolorosa la mia. E non appena le serrande avvolgibili si abbassavano rumorosamente alle mie spalle, correvo di filato a quella che era la mia meta più cara. Vederti una volta, incontrarti anche una volta sola era il mio unico desiderio. Abbracciare con lo sguardo il tuo volto da lontano. All'incirca una settimana dopo accadde che ti incontrassi, e in un momento in cui non lo avrei supposto: mentre stavo sorvegliando, spiando, le tue finestre, tu arrivasti percorrendo trasversalmente la strada. All'improvviso tornai a essere la bambina, la tredicenne, e sentii il sangue avvamparmi le guance; involontariamente, frenando l'iniziale impulso più profondo che aveva nostalgia di sentire i tuoi occhi, abbassai la testa e, correndo come un fulmine, come braccata, ti passai vicino. Dopo mi vergognai di questa fuga pavida da scolaretta, essendo ormai chiaro quel che volevo: incontrarti. Infatti ti cercai, desideravo che tu mi riconoscessi dopo tanti anni nostalgicamente svaniti, volevo avere la tua attenzione, essere amata. «Ma tu non mi notasti per molto tempo ancora, per quanto ogni sera, anche se infuriava una bufera di neve o se soffiava il vento viennese, forte e tagliente, ero sempre lì, nel tuo vicolo. Sovente aspettai invano ore e ore, spesso uscivi, finalmente, in compagnia di conoscenti, due volte ti vidi con delle donne e allora compresi il mio essere ormai adulta, riconobbi la diversità, la novità del mio sentimento verso di te, dall'improvviso sussulto del mio cuore, che mi squarciava l'anima ogni volta che vedevo una donna sconosciuta avanzare stretta al tuo braccio. Non ero sorpresa. Conoscevo le tue eterne visitatrici dai giorni dell'infanzia, ma ora avvertivo quasi un dolore fisico, qualcosa dentro di me si tendeva, un'ostilità e nel contempo una rivendicazione, ribellandomi a quell'intimità palese e carnale. Un giorno puerilmente orgogliosa com'ero, e come forse sono rimasta tuttora - me ne andai via: ma quella sera di ribellione e di rifiuto fu così vuota, così terribile. L'indomani, alla medesima ora, ero infatti già là, davanti a casa tua, ad aspettarti di nuovo remissiva, come se per tutta la mia esistenza avessi atteso davanti alla tua vita chiusa a chiave. «E finalmente una sera ti accorgesti di me. Ti avevo già intravisto in lontananza, sicché mi concentrai per non schivarti. Il caso volle che la strada fosse quasi sbarrata da un carro, in sosta per scaricare della merce, obbligandoti a passarmi vicino. Il tuo sguardo distratto mi sfiorò involontariamente per diventare subito, appena incontratosi con l'attenzione del mio, per ridiventare - dentro di me il ricordo ebbe un sobbalzo dallo spavento! - quel tuo sguardo sensibile al sesso femminile, quello sguardo delicato, avvolgente e insieme capace di denudarti, quello sguardo che abbraccia e cattura, lo stesso che mi aveva risvegliato trasformando la bambina in una donna innamorata. Per uno o due secondi quel tuo sguardo resistette al mio, il quale non poteva né voleva staccarsi, quindi mi superasti. Avevo il cuore in gola e per forza maggiore fui costretta a rallentare l'andatura e quando, per una curiosità incontrollabile, mi volsi, vidi che ti eri fermato e che mi stavi guardando. E, dal modo curiosamente interessato in cui mi osservavi, compresi istantaneamente che non mi avevi riconosciuta. «Non mi hai riconosciuta né quella volta né mai. Come posso descriverti a parole, amore, la delusione di quel secondo - allora era la prima volta che subivo il destino di non essere riconosciuta da te, lo stesso uomo con cui ho convissuto per una vita e con cui muoio: non essere mai riconosciuta da te. Come faccio a descrivertela, quella delusione! Vedi, nei due anni a Innsbruck, nei quali non passava ora senza che pensassi a te e non feci altro che immaginare il nostro primo incontro a Vienna, avevo escogitato le possibilità più folli, a seconda dell'umore. Ogni evenienza era stata, come si dice, verificata mentalmente, nell'immaginazione: nei momenti più disperati mi ero prefigurata troppo brutta, troppo insistente. Tutte le forme del tuo sfavore le avevo trasformate in visioni appassionate - ma neppure nei moti più tetri del mio animo, neppure nella più palese consapevolezza della mia inferiorità ho preso in considerazione questa ipotesi, la più mostruosa: che tu non ti fossi minimamente avveduto della mia esistenza. Oggi lo capisco - sei stato tu a insegnarmelo! Ho capito che la faccia di una ragazza, di una donna, rappresenta, inevitabilmente, qualcosa di immensamente mutevole per un uomo, essendo perlopiù un semplice specchio vuoi di una passione, vuoi di una fanciullaggine o semmai di una spossatezza, sicché questa faccia appunto, come un'immagine riflessa nello specchio, si dissolve con tale facilità che, di conseguenza, proprio l'uomo può smarrire il ricordo di un volto femminile tanto più facilmente perché in quel viso l'età si combina con luci e ombre, perché l'abbigliamento ne è la cornice di volta in volta differente. Coloro che si rassegnano sono i veri saggi, mentre io, la ragazza di allora, non sono mai riuscita a comprendere la labilità della tua memoria. Infatti se, in un certo senso, il mio incondizionato, incessante interesse per te mi ha portato alla pazzia, è impensabile che anche tu non ti rammenti spesso di me e non mi attenda ogni tanto. Dimmi, come avrei fatto anche solo a respirare con la certezza di essere meno di niente per te e che neppure il minimo ricordo della mia persona ti sfiora? E questo risveglio davanti al tuo sguardo, il quale mi ha rivelato che nulla in te mi riconosceva e neppure il minimo filo di ricordo arrivava dalla tua alla mia vita, ha segnato il primo traumatico ritorno alla realtà, il primo presagio del mio destino. «Allora non mi hai riconosciuta. E quando, due giorni dopo, a un nuovo incontro il tuo sguardo mi ha avvolto con una sorta di confidenza, non hai riconosciuto in me la ragazza che ti ha amato e che tu hai risvegliato, ma solo la diciottenne carina incontrata casualmente quarantotto ore prima nello stesso luogo. Mi guardasti con un'aria favorevolmente sorpresa, un accenno di sorriso apparve intorno alla tua bocca. Di nuovo mi superasti rallentando il passo. Io tremai, gioii, pregai che mi rivolgessi la parola. Ebbi la percezione di essere, per la prima volta, una persona viva per te: anch'io rallentai il passo, non ti evitai, e all'improvviso, senza voltarmi, ti sentii dietro di me, ebbi la certezza che di lì a poco avrei udito la tua cara voce parlarmi. L'attesa mi produsse una specie di paralisi e quasi temetti di dovermi fermare, tanto forte mi batteva il cuore. Tu arrivasti al mio fianco, mi rivolgesti la parola alla tua maniera lieve e gaia, come se fossimo amici da tempo - e pensare che non hai mai presagito nulla di me, non hai mai sospettato che esistessi! - ma mi hai parlato con un tono deliziosamente disinvolto talché sono riuscita persino a risponderti. Percorremmo insieme tutto il vicolo, quindi tu mi domandasti se volevo cenare in tua compagnia. Dissi di sì. Avrei potuto osare di dirti di no? «Cenammo insieme in un piccolo ristorante - ricordi dov'era? Ah, no, tu non distingui certamente quella dalle tante altre sere analoghe, perché chi ero per te? Una delle cento, un'avventura di una catena senza soluzione di continuità. Del resto, perché avresti dovuto ricordarti di me? Parlai infatti poco essendo immensamente felice di averti vicino e di sentirti parlare. Non volevo sprecare neanche un istante ponendo una domanda o dicendo magari una sciocchezza. Riconoscente per quell'ora, non dimenticherò come hai colmato la mia venerazione e passione, come sei stato tenero, lieve, pieno di tatto, evitando l'indiscrezione e quelle affettuosità affrettate e facili; fin dal primo momento ti sei comportato con una familiarità così sicura e amichevole, che mi avrebbe conquistata anche se non fossi stata tua da lungo tempo con tutta la mia volontà e con tutto il mio essere. Ah, non sai che hai riparato a una mostruosità non deludendo cinque anni di attesa infantile? «Si fece tardi e ci alzammo. Sulla porta del ristorante mi hai domandato se avessi fretta o ancora un po' di tempo. Come avrei potuto tacerti che ero pronta! Dissi di avere ancora tempo. Superando una lieve titubanza, mi hai allora chiesto se non avessi voglia di salire da te a fare due chiacchiere. 'Volentieri' dissi, poiché solo quella risposta rispecchiava l'autenticità del mio sentimento e notai subito che eri rimasto impressionato, in un certo senso penosamente - o invece ne eri contento? - dalla rapidità del mio assenso; in ogni caso eri visibilmente sorpreso. Oggi capisco questa tua sorpresa; so che, nel caso delle donne, anche qualora il desiderio di concedersi sia ardente, è usuale negare la propria disponibilità, fingere una certa reazione di spavento o di indignazione, placabile, tuttavia, solo dopo suppliche insistenti, menzogne, giuramenti e promesse. So che forse soltanto le professioniste dell'amore, le sgualdrine per intenderci, rispondono a un invito di questo genere con un pieno e rapido consenso, fors' anche con gioia, o le ragazzine ingenue ancora adolescenti. Nel mio caso invece e come potevi immaginarlo? - era semplicemente la volontà che si traduceva in parola, la nostalgia, accumulatasi in mille singole notti, che irrompeva. Comunque eri rimasto colpito: dunque cominciavo a interessarti. Ebbi chiara la sensazione che, mentre camminavamo e parlavamo, tu mi scrutassi piegando la testa. La tua sensibilità, la tua sensibilità, magicamente sicura nella sfera umana, aveva fiutato un qualcosa di inconsueto, un mistero, nella ragazza graziosa e così disponibile al tuo fianco. L'uomo curioso in te si era destato e dal modo in cui ponevi le domande - mi accerchiavi, saggiavi - mi resi conto che, procedendo a tastoni, stavi indagando sul mistero. Ma io scansai i tuoi assalti: preferivo apparire sciocca piuttosto che svelarti il mio segreto. «Salimmo da te. Scusa, amore, se ti dico che non puoi capire che cosa fossero per me l'androne e la scala: che vertigine, che confusione e che gioia, una gioia folle, tormentosa, quasi mortale! Adesso non riesco neanche a ripensare a quel momento senza scoppiare in lacrime, e non ne ho più. Non hai che da immaginare questo particolare: lì ogni cosa era permeata del mio amore, ogni cosa era il simbolo della mia nostalgia: il portone, davanti al quale ti ho aspettato mille volte; la scala dalla quale il mio orecchio attendeva il tuo passo e dove ti ho visto per la prima volta; il pertugio che mi costava l'anima per lo sforzo di spiarti; lo zerbino davanti alla tua porta sul quale balzavo in piedi abbandonando la mia postazione. La mia fanciullezza si è come annidata in quei pochi metri, in quel piccolo spazio c'era tutta la mia vita e in quel momento essa mi investì con la violenza di una bufera perché i miei sogni si stavano avverando: entravo assieme a te, nella tua, nella nostra casa. Pensa - è banale, ma non trovo altre parole -, il breve tratto fino alla porta del tuo appartamento era la mia unica realtà, è stato per anni il mio mondo quotidiano incolore e lì ha avuto inizio il paese delle meraviglie della mia infanzia, il regno di Aladino. Pensa che quella sera ho varcato barcollando la soglia di casa tua perché era la stessa che avevo fissato mille volte finché gli occhi non mi bruciavano. E puoi intuire - solo intuire vagamente, amore, non lo saprai mai veramente - quanto della mia vita abbia spazzato via quell'istante tanto precipitoso. «Sono rimasta da te tutta la notte. Non potevi supporre che, prima, nessun uomo mi avesse sfiorata, nessuno avesse sentito o visto il mio corpo. E come avresti potuto, amore? Non ti ho posto alcuna resistenza, ho represso ogni titubanza prodotta dal pudore affinché tu non scoprissi il segreto del mio amore, che sicuramente ti avrebbe spaventato. Difatti tu ami solo ciò che è leggero, giocoso, incorporeo, temi di innestarti in un destino. Per così dire, preferisci sprecarti e il mondo, tutti, possono esserne la causa; non vuoi sacrifici né vittime. Quindi, mentre ti dico che ero vergine quando mi sono data a te, ti supplico di non fraintendermi. Infatti non ti accuso, tu non mi hai allettata né ingannata, non mi hai sedotta - sono stata io a insinuarmi, a buttarmi fra le tue braccia, a lanciarmi incontro al mio destino. Mai, lo giuro, ti accuserò, di converso ti sarò sempre riconoscente. Com'è stata scintillante di gioia, sospesa in un mare di beatitudine, quella notte! Quando aprii gli occhi, era buio e ti sentii al mio fianco, mi sorpresi che sopra la mia testa non brillassero le stelle. Percepivo la vicinanza del cielo. No, non mi sono mai pentita, amore, del tempo trascorso con te. Ricordo ancora che mentre tu dormivi e io udivo il tuo respiro, sentivo il tuo corpo, ho pianto di felicità nel buio. «Il mattino seguente me ne andai di buon'ora. Non potevo mancare in negozio e volevo uscire prima che arrivasse il cameriere: non doveva vedermi. Vestita, ero in piedi davanti a te, e tu mi abbracciasti. Mi fissasti a lungo: un ricordo, oscuro e lontano, ondeggiava dentro di te oppure ero io che, semplicemente, ti sembravo bella e felice? Felice lo ero. Poi mi hai baciata sulla bocca. Mi liberai dall'abbraccio piano piano e feci per andarmene e fu proprio allora che tu mi chiedesti: 'Non vuoi prendere qualche fiore?' Dissi di sì, e tu sfilasti quattro rose bianche dal vaso di cristallo azzurro sulla scrivania (lo conoscevo dal giorno in cui lanciai quella furtiva occhiata infantile). Me le porgesti. Per giorni e giorni le ho baciate. «Ci eravamo già dati appuntamento per un'altra sera. Venni e fu di nuovo una serata meravigliosa. Mi hai regalato anche una terza notte, poi mi dicesti che saresti partito - li odiavo fin dall'infanzia i tuoi viaggi! - e mi promettesti di farti sentire al ritorno. Ti ho dato un indirizzo fermo posta, non volevo dirti il mio nome. Ho serbato il mio segreto. Congedandoti, anche quella volta mi desti delle rose. «Ogni giorno, per due mesi, ho chiesto... ma no, a che scopo descriverti il supplizio infernale dell'attesa? Ma non ti accuso. Ti amo per quello che sei: passionale e smemorato, fervido e infedele. Ti amo come sei stato e come sei tuttora. Eri tornato da parecchio, lo vidi dalle finestre illuminate del tuo appartamento, ma tu non mi hai scritto. Nemmeno una riga ho ricevuto, neanche una riga dall'uomo al quale ho dato la mia vita. Disperata, ho continuato ad aspettare. Ma tu non mi hai chiamata, non mi hai scritto una sola riga... neppure una riga...» «Mio figlio è morto ieri. Era anche tuo figlio. Era anche il tuo bambino, amore. Il frutto di una delle tre notti, te lo giuro. Non si mente all'ombra della morte. Era nostro figlio, te lo giuro, poiché nessun uomo mi ha toccata dopo quelle ore in cui sono stata tua. Più tardi ce ne sono stati altri perché con il mio corpo ho lottato e vinto. Le tue carezze lo avevano santificato, sicché come avrei potuto dividermi tra te, che significavi tutto, e altri che sfioravano appena la mia vita? Era nostro figlio, il figlio del mio amore consapevole e della tua tenerezza spensierata, prodiga e quasi inconscia. Ma adesso, ti chiederai - forse spaventato, forse solo sorpreso -, ti domanderai, perché per tutti questi anni ho tenuto nascosto questo figlio e te ne parlo soltanto oggi, ora che è steso al buio, addormentato, addormentato per sempre, e pronto per andarsene e non tornare mai più, mai più. Non mi avresti creduta. Io ero la sconosciuta, l'amante anche troppo disponibile di tre notti, che ti si era data senza resistenza, anzi con desiderio. Non avresti mai creduto che una donna senza nome, dopo un breve incontro, dimostrasse fedeltà a chi è infedele per natura, non avresti mai riconosciuto come tuo questo figlio senza diffidenza, quand'anche la mia parola ti avesse offerto una probabilità di smantellare il tacito sospetto che avessi tentato di attribuire a un uomo benestante come te il figlio di un amore mercenario. Mi avresti sospettata di menzogna, e un'ombra sarebbe rimasta tra te e me, un'ombra mobile e timida di diffidenza. Questo non lo volevo e poi ti conosco. Ti conosco meglio di quanto tu non conosca te stesso e so che, amando la spensieratezza, ciò che è lieve e gaio, ti sarebbe riuscito penoso diventare padre all'improvviso ed essere improvvisamente responsabile di un'altra vita. Tu, che ami respirare in libertà, ti saresti sentito in un certo senso legato a me, mi avresti - lo so che lo avresti fatto anche contro la tua volontà - mi avresti odiato per questo legame. Forse solo per ore, forse solo per pochi minuti ti sarei apparsa fastidiosa, detestabile. Orgogliosa com'ero, desideravo che tu pensassi a me senza ansietà per il resto della vita. Preferivo sobbarcarmi l'intero carico piuttosto che esserti di peso e, tra tutte, essere Tunica donna alla quale pensavi con amore e gratitudine. Ma certo tu non hai mai pensato a me, tu mi hai dimenticata. «Non ti accuso, amore, no, non ti accuso. Perdonami se a volte una goccia di amarezza cola dalla penna, perdonami, ma mio figlio, nostro figlio, è morto e giace fra il tremolio delle candele. Ho imprecato contro Dio con i pugni stretti, l'ho chiamato assassino. Ma ora i miei sensi sono opachi e confusi. Perdonami questo lamento, perdonami! So che sei buono e caritatevole nel tuo intimo, aiuti chiunque ti tenda la mano, anche chi con conosci. Ma la tua bontà è stravagante, è disponibile di fronte all'uomo che prende a piene mani; è magnifica e infinitamente grande, la tua bontà, ma essa - scusami - è pigra. Tu aiuti quando ti chiamano e ti pregano, aiuti per vergogna, per debolezza, non per gioia. Non preferisci - lasciatelo dire apertamente la persona che pena e soffre al fratello che gioisce, e si fa fatica a pregare gli uomini come te, perfino i più generosi. Una volta, ero ancora una bambina, ti ho visto attraverso lo spioncino - dare qualcosa a un mendicante che aveva suonato alla tua porta: glielo hai dato con un gesto velocissimo - e gli hai dato addirittura molto, ancor prima che egli ti pregasse - ma glielo hai porto quasi con paura, con precipitazione, come sperando che se ne andasse alla svelta, quasi temessi di guardarlo negli occhi. Questo modo di aiutare, inquieto, timido, pronto a fuggire davanti a un segno di gratitudine, non l'ho mai dimenticato e perciò non mi sono mai rivolta a te. Certo, so che allora mi saresti stato vicino anche senza essere sicuro che il bambino fosse tuo figlio. Mi avresti consolata, dato del danaro, ma sempre con la segreta impazienza di chi vuole allontanare da sé una scomodità, anzi credo che mi avresti addirittura persuasa a liberarmi prematuramente del bambino. E io temevo più di tutto questa evenienza perché: che cosa avrei fatto se tu non lo avessi desiderato? Come avrei potuto rifiutarti qualcosa? Ma quel bambino era tutto per me, era tuo figlio. Un'altra volta tu, ma non l'uomo felice, l'uomo spensierato che non riuscivo a trattenere: mi venivi dato per sempre - almeno pensavo - nella tua integralità, imprigionato dentro di me, nel mio corpo, legato alla mia vita. Ti avevo finalmente catturato, potevo sentirti crescere nelle mie vene, nutrirti, darti da bere, accarezzarti, baciarti ogniqualvolta la mia anima avvampasse di desiderio. Vedi, amore, per questa ragione, quando ho saputo di aspettare un figlio tuo, mi è sembrato di toccare il cielo con un dito e per questo motivo ti ho taciuto la verità: non mi saresti più sfuggito. «Naturalmente, amore, non sono stati mesi solo beati, come pregustavo mentalmente all'inizio: sono stati anche mesi di orrore e di tormento, pieni di disgusto per la bassezza della gente. Incontrai difficoltà di ogni genere. Al negozio non ci potei più andare negli ultimi mesi: non volevo che i parenti notassero il mio stato e ne dessero notizia a casa. A mia madre non volevo chieder soldi e tirai avanti fino al parto vendendo i pochi gioielli che avevo. Mancava una settimana quando mi furono rubate da una lavandaia le ultime corone dall'armadio, per cui fui costretta ad andare a partorire all'ospedale. Lì è nato il bambino, tuo figlio, nel luogo in cui, allo stremo delle forze, si trascinano le ragazze senza un quattrino, ripudiate e dimenticate dal mondo, in mezzo ai rifiuti della miseria. Era micidiale quel posto: tutti ti erano ostili, noi stesse, le ricoverate, eravamo nemiche, piene di odio verso le compagne, eppure eravamo finite in quella sala sordida rigurgitante di cloroformio e di sangue, di urla e lamenti per le stesse pene e per la stessa povertà. In quel sito ho dovuto patire l'insopportabile, toccare il fondo della miseria con le sue umiliazioni, l'abbrutimento fisico e morale, conoscere la promiscuità di sgualdrine, di donne malate che elevavano la comunanza della sorte a volgarità, sopportare il cinismo dei giovani medici che, con il sorriso ironico di quelle creature impotenti, sfioravano le lenzuola e le palpavano fingendo di farlo in nome della scienza e l'avidità delle sorveglianti - oh, in quel luogo il pudore di un essere umano viene crocifisso con gli sguardi e fustigato con le parole. Solo la targa con il tuo nome indica che sei tu: nel letto c'è solo un pezzo di carne, palpato dai curiosi, un oggetto messo in mostra, un oggetto di studio. Le donne che regalano dei figli al marito, in trepida attesa all'interno delle loro case, non sanno che cosa voglia dire partorire un bambino da sola, indifesa, come dire sul tavolo operatorio. E se oggi m'imbatto per caso nella parola inferno, leggendo un libro, penso immancabilmente, anche contro la mia volontà, a quella camerata stipata all'inverosimile, piena di esalazioni maleodoranti, di gemiti, di risate e di grida insanguinate, nella quale ho patito pene indescrivibili, a quello scannatoio vergognoso. «Perdonami se te ne parlo. Ma lo faccio solo oggi, poi non lo farò mai più. Per undici anni ho taciuto e fra poco ammutolirò per l'eternità: una volta ho dovuto gridare, urlare e dire a che prezzo l'ho pagato, quel figlio che è stato la mia gioia e che ora è steso di là senza più respirare. Le avevo già dimenticate, quelle ore, me le avevano fatte dimenticare il sorriso e la voce di quel bambino, ma adesso che è morto il tormento rivive, e io non posso trattenerlo dentro di me, lo devo sputar fuori dall'anima adesso, almeno questa volta. Però non accuso te: accuso semmai solo Dio che ha reso assurdi quei patimenti. Non ti accuso, te lo giuro, non mi sono mai ribellata a te in uno sfogo di collera. Persino nell'ora in cui il mio corpo si torse per le doglie e bruciò di vergogna sotto le occhiate scrutatrici degli studenti, persino nel secondo in cui il dolore mi strappò l'anima, non ti ho mai accusato e Dio mi è testimone. Mai mi sono pentita di quelle notti, né mai ho recriminato il mio amore per te. Ti ho sempre amato, sempre ho benedetto l'ora in cui ti ho incontrato e lo rifarei, lo rifarei mille volte pur sapendo che dovrei attraversare di nuovo l'inferno, pur sapendo in anticipo che cosa mi aspetterebbe.» «Nostro figlio è morto - tu non lo hai mai conosciuto. Mai, neanche in un casuale incontro fugace, questa piccola creatura fiorente, la tua creatura, ha sfiorato il tuo sguardo passandoti vicino. Non appena venne al mondo, mi sono tenuta nascosta e tu non mi vedesti per molto tempo. La mia nostalgia, del resto, si era fatta meno dolorosa, anzi credo di averti amato meno appassionatamente e se non altro di non avere sofferto come in passato per via del mio amore, da quando mi fu donato il bambino. Non ho voluto dividermi tra te e lui e difatti non mi sono data a te, all'uomo felice che mi viveva distante, ma mi sono data a questo figlio che aveva bisogno di me, che dovevo nutrire e che potevo baciare e abbracciare. Sembravo salva dal frenetico bisogno di te, la mia fatalità, salvata dall'altro piccolo 'tu' che invece era veramente mio solo raramente, molto raramente, il mio sentimento si spingeva con umiltà sotto casa tua. Lo facevo una sola volta l'anno: per il tuo compleanno ti inviavo un fascio di rose bianche, esattamente identiche a quelle che mi avevi regalato dopo la nostra prima notte di amore. In questi dieci, undici anni ti sei mai chiesto chi te le mandasse? E ti sei forse ricordato della ragazza alla quale tanto tempo prima le avevi regalate? Non lo so e non conoscerò mai la tua risposta. Porgertele semplicemente, come dall'oscurità, far rifiorire il ricordo di quell'ora d'amore una volta all'anno, mi bastava. «Tu non lo hai mai conosciuto, il nostro povero bambino, e oggi mi accuso di avertelo tenuto nascosto. Lo avresti amato. Non lo hai mai conosciuto, povero ragazzino, non lo hai mai visto sorridere mentre sollevava piano le palpebre e poi con i suoi intelligenti occhi scuri erano i tuoi occhi! - inondava me e chiunque, il mondo intero, con un fiotto di luce chiara e gaia. Ah, era così sereno e caro: la leggerezza della tua natura si era ripetuta, su scala infantile, e anche la tua fantasia rapida e agile si era rinnovata nel figlio; poteva giocare per ore appassionatamente con degli oggetti, come tu giocavi con la vita, e subito dopo si rituffava nella lettura inarcando i sopraccigli. Ti somigliò sempre di più; anche in lui cominciò a prendere forma visibile quella duplicità che ti è propria, quella convivenza di serietà e gioco, e quanto più ti assomigliava tanto più lo amavo. Studiava bene, parlava francese come una piccola gazza, i suoi quaderni erano i più ordinati della classe e com'era grazioso ed elegante nel suo vestitino di velluto nero o nella giacca bianca alla marinara. Era sempre il più elegante dovunque andasse: a Grado, sulla spiaggia, dove andammo insieme, le donne si fermavano e gli accarezzavano i lunghi capelli biondi, sul Semmering la gente si voltava per vederlo scendere sullo slittino. Era così grazioso, così tenero e affettuoso. L'anno scorso, quando entrò nel convitto del Theresianum, indossò l'uniforme con lo spadino, tanto che sembrava un paggio del diciottesimo secolo - ora non indossa altro che la camiciola, il poverino, ed è disteso là, le labbra pallide e le mani giunte. «Forse mi vuoi domandare come abbia potuto allevarlo nel lusso, come sia riuscita a garantirgli questa vita spensierata e serena dei figli dell'alta società. Caro, ti parlo dal buio e, senza vergogna - te lo voglio dire, ma non spaventarti - ti confesso che mi sono venduta. Non sono diventata quella che viene chiamata una ragazza di strada, una prostituta, ma ugualmente mi sono venduta. Avevo amici facoltosi, amanti ricchi. All'inizio ero io a cercarli, poi furono loro a cercare me. Ero infatti - non te ne sei mai accorto? - ero molto bella. Tutti gli uomini a cui mi sono data mi hanno trovata simpatica, mi hanno serbato riconoscenza, mi si sono affezionati, mi hanno amata - solo tu no, solo tu no, amore mio! «Adesso mi disprezzi perché ti ho rivelato che mi sono venduta? No, so che non mi disprezzi, so che comprendi tutto e comprenderai anche che l'ho fatto solo per te, per l'altra parte di te, per tuo figlio. Nella camerata dell'ospedale avevo toccato con mano l'aspetto più orribile della miseria e quindi sapevo che il povero è sempre il vinto, l'umiliato, la vittima e non volevo, a nessun costo, che tuo figlio, quel bambino solare e bello, crescesse là, in basso, assieme alla feccia dell'umanità, nella sordidezza e volgarità dei vicoli, nell'aria appestata dei cortili interni. La sua bocca delicata non avrebbe dovuto conoscere la lingua delle fogne, il suo corpo candido la biancheria umida e stropicciata della miseria. Tuo figlio avrebbe dovuto avere tutto, la ricchezza, la soavità della Terra, sarebbe dovuto risalire fino a te, nella tua sfera. «Per questa ragione, solo per questa ragione, amore, ho venduto il mio corpo. Non è stato alcun sacrificio perché ciò che comunemente s'intende per onore e disonore mi era inessenziale: tu non mi amavi - e il mio corpo era appartenuto soltanto a te - e quindi qualunque cosa gli fosse capitata non mi importava. Le carezze degli uomini, persino le loro brame più nascoste, mi lasciavano indifferente nel mio intimo, quand'anche parecchi fossero individui stimabili e la compassione per il loro amore non corrisposto, ricordando il mio stesso destino, mi avesse sovente fatto male. Sono stati tutti buoni con me gli uomini che ho conosciuto, tutti mi hanno stimata. Ne ricordo uno in particolare, un anziano conte dell'aristocrazia imperiale rimasto vedovo, lo stesso che, per così dire, si scorticò le mani a furia di bussare alle porte dei funzionari imperiali per ottenere che il piccolo orfano - tuo figlio fosse accettato al Theresianum. Mi amava come una figlia e mi chiese di sposarlo almeno tre o quattro volte; oggi potrei essere contessa, padrona di un delizioso castello in Tirolo, potrei non avere pensieri perché il bambino avrebbe avuto un padre affettuoso che lo adorava e io un marito discreto, distinto e buono al mio fianco. Ho detto di no, non l'ho fatto per quanto egli avesse insistito e a me rincrescesse umiliarlo con un rifiuto. Probabilmente è stata una stoltezza - infatti sarei vissuta da qualche parte protetta e calma e assieme a me il piccino che tanto amavo ma -, e perché non dovrei confessartelo? - non desideravo alcun legame, volevo essere libera in qualunque momento. Nel profondo del mio essere, nel subconscio, l'antico sogno infantile continuava a vivere: la speranza che mi avresti chiamata, magari solo per un'ora. E per un'ora ipotetica ho gettato al vento tutto, soltanto per essere libera al tuo richiamo. L'intera mia vita non era stata altro che un'attesa, l'attesa di un tuo volere. «Quell'ora è infatti arrivata. Ma tu non sai quale sia stata, non lo immagini neppure, amore mio! Anche in quell'ora però non mi hai riconosciuta - tu non mi hai riconosciuta! In precedenza ti avevo incontrato spesso, a teatro, al concerto, al Prater o per strada; ogni volta sentivo un tuffo al cuore, ma tu passavi oltre. Esteriormente ero cambiata, la ragazzina timida era diventata una donna, una bella donna, dicevano, avvolta in abiti costosi, circondata da uno stuolo di ammiratori: come potevi sospettare che fossi la ragazza timida che era stata nella penombra della tua camera da letto? A volte un signore in mia compagnia ti salutava, tu ringraziavi e alzavi gli occhi verso di me: ma il tuo sguardo esprimeva una cortese freddezza, ancorché di approvazione, ma non mi riconobbe mai: sempre estraneo, terribilmente estraneo. Una volta me ne ricordo ancora - questo tuo non riconoscermi, al quale, a quel tempo, ero quasi abituata, mi causò una tortura bruciante. Ero seduta in un palco del Teatro dell'Opera con un amico e tu in quello accanto. Iniziata l'ouverture, si spensero le luci e non riuscii più a vedere la tua faccia: sentivo solo il tuo respiro vicino a me come quella notte. Sulla balaustra di velluto che divideva i nostri due palchi era aggrappata la tua mano. La tua mano elegante e delicata. A un tratto mi sopraffece il desiderio di chinarmi e baciare umilmente quella mano scostante e insieme tanto amata; già in passato avevo sentito la delicatezza della sua presa. Mi avvolgeva l'onda conturbante della musica e il mio desiderio si fece via via più irresistibile. Mi dovetti riprendere dallo spasimo, alzarmi con uno scatto brusco, tanto violentemente le mie labbra erano attratte dalla tua mano. Al termine del primo atto pregai l'amico di accompagnarmi a casa. Non sopportavo più di averti accanto a me e così distante. «Ma l'ora sopraggiunse, arrivò ancora una volta, un'ultima volta nella mia vita incenerita. É stato esattamente un anno fa, il giorno successivo al tuo compleanno. Strano: avevo pensato a te tutto il tempo poiché festeggiavo sempre il tuo anniversario come se fosse una festa. Il mattino presto ero uscita e avevo comperato le rose bianche che ti facevo mandare ogni anno in ricordo di un incontro che tu avevi dimenticato. Il pomeriggio ero uscita con il bambino, lo avevo portato a Demel in pasticceria e la sera a teatro. Volevo che anch'egli considerasse quel giorno, pur non sapendone il significato, quasi come una festività rituale e mistica della giovinezza. L'indomani mi incontrai con il mio amante di quel tempo, un industriale di Brno, giovane e ricco, con il quale convivevo già da un anno; mi adorava, mi viziava e mi voleva sposare come gli altri, ma anche a lui avevo risposto di no, apparentemente senza alcun motivo, benché ricoprisse me e il bambino di regali e fosse amabile nella sua bontà leggermente ottusa e servile. Andammo a sentire un concerto, incontrammo un gruppo di amici allegri e insieme cenammo in un ristorante sulla Ringstrasse. A tavola, mentre si rideva e chiacchierava, feci la proposta di trasferirci in una sala da ballo, in un tabarin. Quel genere di locali con la loro sistematica allegria, provocata dall'alcol, mi disgustava, come mi ripugnava «far tardi» la notte. In genere rifiutavo, invece quella sera fu una forza magica, imperscrutabile a farmi lanciare, tutt'a un tratto e inconsciamente, quella proposta, suscitando l'allegria e l'eccitazione degli altri - ne ebbi un desiderio repentino come se nel locale notturno mi stesse aspettando qualcosa di particolare. Abituati a essere compiacenti verso di me, tutti si alzarono veloci e passammo di là, bevemmo champagne e all'improvviso mi assalì un'allegria incontenibile, quasi dolorosa, che peraltro mi era ignota. Bevvi come una pazza, cantai con gli altri le solite canzonette di cattivo gusto e poco ci mancò che mi buttassi nel vortice delle danze e facessi chiasso anch'io. Senonché a un tratto un'inspiegabile sensazione di freddo o di caldo, che mi paralizzava il cuore, mi scosse: al tavolo vicino eri seduto tu in compagnia di qualche amico e mi stavi osservando con uno sguardo di ammirazione mista a desiderio, con quello sguardo che sempre mi ha sconvolta fisicamente. Per la prima volta da dieci anni mi osservavi di nuovo con tutto l'inconscio potere passionale del tuo essere. Tremai. Per un miracolo il bicchiere non mi cadde di mano e fortunatamente gli amici seduti al tavolo non si accorsero del mio turbamento, che si perdeva nel frastuono delle risa e della musica. «Il tuo sguardo si fece sempre più rovente e mi tuffò come in un fuoco. Mi avevi riconosciuta finalmente? Mi avevi riconosciuta oppure mi desideravi di nuovo? Ti sembravo un'altra? Il sangue mi imporporò le guance, risposi distrattamente agli amici seduti al mio stesso tavolo. Certamente ti accorgesti che il tuo sguardo mi aveva confusa. Con un movimento del capo, non raccolto dagli altri, mi facesti un cenno come pregandomi di uscire, nell'ingresso, per un istante. Poi pagasti con ostentazione, salutasti i tuoi compagni non senza però avermi lanciato un altro segnale per confermarmi che mi avresti aspettata fuori. Tremai come se avessi freddo, come se avessi la febbre, assolutamente incapace di rispondere e di dominare il sangue stanato bruscamente. Per caso, proprio in quel preciso momento, una coppia di neri, battendo la punta delle scarpe e lanciando grida, acute, iniziò una nuova danza strana. Tutti i presenti fissarono i due e io approfittai di quel secondo. Mi alzai, dissi al mio amico che sarei tornata subito e ti seguii. «Eri in piedi, nell'ingresso, davanti al guardaroba, aspettandomi: quando uscii, i tuoi occhi si rischiararono. Mi venisti incontro sorridendo. Vidi subito che non mi avevi riconosciuta, che non avevi riconosciuto la bambina di un tempo e nemmeno la ragazza, insomma ero per te una sconosciuta. 'Ha un'ora anche per me?' mi domandasti in tono confidenziale - e dalla tua sicurezza ebbi la percezione che mi avevi presa per una di quelle donne, per una che si vende per una sera. 'Sì', risposi e fu lo stesso sì palpitante e insieme l'assenso ovvio e naturale che, un decennio prima, la ragazza ti aveva detto per strada. 'E quando potremmo vederci?' mi chiedesti. 'In qualunque momento vuolÉ, risposi - non provavo alcun senso di pudore dinanzi a te. Tu mi guardasti un poco stupito, palesando la medesima sorpresa di allora - un misto di curiosità e di diffidenza - quando la rapidità della mia risposta affermativa ti aveva stupito. 'Adesso potrebbe?' mi domandasti con una lieve esitazione. 'Sì', dissi, 'andiamo!' «Feci per dirigermi al guardaroba e ritirare il soprabito. «Mi venne in mente che la contromarca dei nostri due cappotti l'aveva il mio compagno. Tornare indietro e chiedergliela era impossibile senza una spiegazione circostanziata, d'altro canto non volevo a nessun costo rinunciare all'ora di intimità sospirata da anni. Così non ho indugiato neanche un secondo: mi sono buttata lo scialle sopra l'abito da sera e sono uscita nella notte umida di nebbia senza curarmi del cappotto, senza preoccuparmi dell'amico, buono e affettuoso, che mi manteneva da anni e che avevo mortificato agli occhi dei suoi amici facendolo passare per un ridicolo babbeo al quale scappi l'amante al primo fischio di un estraneo. Certo, ero perfettamente consapevole della viltà, dell'ingratitudine, dell'infamia che commettevo nei confronti di un amico sincero, sentivo di trattarlo in maniera inverosimile e di umiliare mortalmente, con la mia follia, una persona gentile, sentivo di mandare a pezzi la mia vita ma che cos'era per me l'amicizia, che cosa significava l'esistenza di fronte alla frenesia di sentire le tue labbra, di udire il suono molle delle tue parole che si rivolgevano a me? Perché ti ho amato così e te lo posso dire adesso che tutto è finito. Anzi sono convinta che, se tu ora mi chiamassi, ora, sul letto di morte, mi tornerebbero le forze, mi alzerei e verrei via con te. «Un taxi sostava davanti all'uscita. Lo prendemmo per andare a casa tua. Udii di nuovo la tua voce, sentii la tua tenera vicinanza, ero stordita, confusa per una felicità puerile, esattamente come allora. Salii le scale, la prima volta dopo oltre dieci anni - no, non ti posso descrivere come tutto, in quei secondi, mi sembrasse doppio, duplicato, tempo passato e presente, e tuttavia in tutto non c'era nessun altro che te. In camera tua poco era cambiato: qualche quadro in più, parecchi nuovi libri, qua e là un mobile sconosciuto, ma per il resto tutto mi salutò con familiarità. E sulla scrivania c'era il vaso con le rose, le mie rose, che ti avevo mandato il giorno prima per il tuo compleanno perché ti ricordassero una donna che tu non ricordi, non ricordavi nemmeno in quel momento in cui ti era così vicina, la sua mano nella tua, le sue labbra a contatto delle tue. Nondimeno: mi fece bene vedere che ti prendevi cura dei fiori, pur sempre un alito della mia vita, un soffio del mio amore. «Mi stringesti fra le braccia e nuovamente rimasi da te tutta la notte, una notte meravigliosa. Ma neppure dal corpo nudo mi riconoscesti. Estasiata, lasciai che le tue mani sapienti mi accarezzassero e vidi che in te l'eros non fa distinzione tra l'amante e la sgualdrina: ti abbandoni interamente al desiderio con la totalità, sconsiderata e dissipatrice, del tuo essere. Eri così dolce e lieve verso di me, pure avendomi prelevata da un locale notturno, eri così signorile e affettuosamente rispettoso e tuttavia appassionato mentre traevi piacere dalla donna. Di nuovo, inebriata dall'antica felicità, percepii la singolare duplicità del tuo essere - la passione conscia, spirituale, sincronica a quella sensuale - che aveva reso succube anche la bambina. Mai nell'intimità con un uomo ho conosciuto questa dedizione all'attimo, una simile esplosione e irraggiamento della natura più profonda (certamente per spegnersi subito nell'oblio infinito e quasi disumano). Ma anch'io dimenticai me stessa: chi c'era nel buio vicino a te? Ero la bambina innamorata di un tempo? La madre di tuo figlio? La sconosciuta? Ah, tutto era così familiare, come rivissuto e nel contempo così inebriante e nuovo in quella notte di passione! Pregai che non avesse mai fine. «Invece il mattino sopraggiunse. Ci alzammo tardi. Mi invitasti a restare per la colazione. Bevemmo insieme il tè, che una servizievole mano invisibile aveva preparato con discrezione in sala da pranzo, e conversammo. Di nuovo mi parlasti con quella affettuosa, aperta confidenza tipica della tua natura, di nuovo senza pormi domande indiscrete, senza mostrare curiosità alla persona che in effetti ero. Non mi chiedesti come mi chiamavo, dove abitavo, dunque ero per te un'altra volta un'avventura, un oggetto anonimo, un incontro passionale che si dissolve nella nebbia dell'oblio. Mi raccontasti di essere in partenza per un lungo viaggio, due o tre mesi in Nordafrica. All'apice della felicità tremai, poiché sentii come un martellio nelle orecchie: finito, passato, dimenticato! In quel momento mi sarei voluta buttare ai tuoi piedi e gridare: 'Portami con te in modo che tu mi riconosca finalmente, finalmente dopo tanti anni!' Ma io ero così timida, così codarda, così succube e debole al tuo cospetto che dissi solamente: 'Peccato'. Tu mi guardasti sorridendo: 'Davvero ti dispiace?' «Mi sopraffece un subitaneo furore incontenibile. Mi alzai, ti fissai a lungo, lo sguardo fermo, quindi dissi: 'Anche l'uomo che amo è sempre in viaggio. Ti guardai fisso nelle pupille: adesso, adesso mi riconoscerà! Tremai e tanti pensieri si affollarono nella mia mente. Invece tu mi sorridesti e in tono consolatorio aggiungesti: 'Ma poi si ritorna. 'Sì', ribattei, 'si torna ma si dimentica anche.' «Nel modo in cui avevo detto quelle parole deve esserci stato qualcosa di strano, di passionale perché anche tu ti alzasti e mi guardasti visibilmente sorpreso e molto affettuoso. Mi prendesti per le spalle: 'Non si dimentica il bene. Non ti dimenticherò', dicesti, e il tuo sguardo si sprofondò dentro di me, come se volessi imprimerti quell'immagine. E mentre mi sentivo penetrare da quello sguardo che frugava, saggiava, suggeva il mio essere, credetti di avere finalmente spezzato il potere magico della cecità. Mi riconoscerà, mi riconoscerà! La mia anima tremò a quel pensiero. «Ma tu non mi riconoscesti. No, non mi riconoscesti, anzi non ti sono stata mai così estranea come in quel secondo, perché altrimenti altrimenti non avresti mai potuto fare ciò che invece hai fatto pochi minuti più tardi. Mi avevi baciata, un'altra volta appassionatamente, sicché fui costretta a sistemarmi i capelli che si erano scompigliati. Ero davanti allo specchio quando, per l'appunto nello specchio, ti vidi - e credetti di sprofondare dalla vergogna e dal disgusto - quando ti vidi infilare discretamente nel mio manicotto alcune banconote di grosso taglio. Come sia riuscita a non lanciare un urlo, a non picchiarti in piena faccia non lo so. Dunque per quella notte mi pagavi, pagavi la donna che ti amava fin dalla fanciullezza, la madre di tuo figlio! Una puttana da tabarin ero dunque per te, nient'altro, e mi avevi pagata! Non bastava essere dimenticata: mi dovevi anche umiliare. «Raccattai alla svelta le mie cose: volevo andarmene il più in fretta possibile. La ferita mi faceva troppo male. Afferrai il cappello. Era sulla scrivania vicino al vaso con le rose bianche, le mie rose. Lo stesso desiderio mi sopraffece prepotente, irresistibile: ancora una volta pensai di tentare di richiamare la mia immagine alla tua memoria. 'Non vorresti darmi una delle tue rose bianche?' 'Volentieri', dicesti, e la prendesti subito. 'Ma forse ti sono state date da una donna, da una donna che ti ama?' dissi. 'ForsÉ, rispondesti. 'Non lo so. Mi sono state mandate e non so da chi. Per questo mi piacciono tanto.' Ti guardai. 'Forse sono di una donna che hai dimenticato!' «Mi lanciasti un'occhiata stupita. Io ti fissai. 'Riconoscimi, riconoscimi una buona volta!' urlò il mio sguardo. Ma i tuoi occhi mi sorrisero: un sorriso amichevole, ignaro. Mi baciasti, ma non mi riconoscesti. «Raggiunsi la porta velocemente poiché sentivo che mi spuntavano le lacrime agli occhi e non volevo che mi vedessi piangere. In anticamera tanto in fretta ero uscita - ci mancò poco che mi scontrassi con Johann, il tuo maggiordomo. L'uomo, ormai un vecchio, mi scansò timidamente con un precipitoso balzo laterale, spalancò la porta per lasciarmi uscire e proprio nell'istante in cui lo guardai - lo guardai con gli occhi pieni di lacrime - una luce improvvisa guizzò nel suo sguardo. In quel secondo - mi senti? - in quella frazione di secondo, il vecchio, che non mi vedeva dai giorni della mia infanzia, mi ha riconosciuta. Avrei potuto inginocchiarmi ai suoi piedi perché mi aveva riconosciuta e baciargli le mani, invece mi limitai a sfilare dal manicotto, con un gesto brusco, le banconote con cui mi avevi frustata e gliele misi in tasca. L'uomo tremò, alzò gli occhi spaventato e forse in quell'attimo aveva capito di me più di quanto tu avessi capito in una vita. Tutti, tutte le persone mi hanno viziata, tutti sono stati gentili con me - solo tu, soltanto tu mi hai dimenticata, solo tu, soltanto tu non mi hai mai riconosciuta.» «Il mio bambino è morto, nostro figlio - adesso non ho più nessuno al mondo da amare tranne te. Ma tu chi sei per me se non mi riconosci mai, se mi passi vicino come si passa vicino a un corso d'acqua, mi calci come quando si incespica in un sasso, continui a camminare, a camminare e mi lasci aspettare eternamente? In passato ho supposto di riuscire a trattenere il fuggitivo: nel bambino. Ma anche il bambino era tuo figlio: nel breve spazio di una notte se n'è andato in un modo crudele, anche lui è partito per un viaggio, mi ha dimenticata e non tornerà più. Sono nuovamente sola, più sola di prima: non ho nulla, nulla di te, non ho più un bambino, una parola, un rigo, un ricordo, e se qualcuno pronunciasse il mio nome al tuo cospetto, tu cadresti dalle nuvole. E perché non dovrei essere contenta di morire se sono già morta? Perché non andare avanti dal momento che te ne sei andato? No, amore, non ti rinfaccio niente, non voglio rovesciare il mio cordoglio nella tua casa serena. Non temere che ti infastidisca, anzi perdonami, ma ho dovuto dar sfogo alla mia anima in quest'ora, mentre il mio bambino è di là disteso, morto e derelitto. Ho dovuto parlarti oggi, poi me ne tornerò nel buio senza parlare, muta come sono sempre stata. Non udirai questo mio urlo fintantoché vivrò. Solo quando sarò morta, riceverai codesto testamento, il testamento di una donna che ti ha amato più di chiunque altro, che tu non hai riconosciuta, che ti ha atteso e che tu non hai chiamato. Forse, forse allora mi chiamerai, e io non ti sarò fedele, per la prima volta, non ti sentirò più dalla morte. Non ti lascio né ritratti, né altri segni come tu non li hai lasciati a me. Non saprai mai chi sono. Questo è stato il mio destino in vita, che lo sia anche nella morte! Non ti chiamerò a partecipare alla mia ultima ora, me ne vado senza che tu conosca il mio nome e la mia faccia. Non mi costa morire perché tu, da lontano, non te ne accorgerai. Se ti facessi soffrire morendo, non lo farei. «Non ce la faccio più a scrivere... ho la testa stordita... credo che sia meglio che mi sdrai subito. Forse finirà alla svelta, forse il destino sarà benevolo con me, e io non dovrò vedere quando porteranno via il bambino. Non riesco più a scrivere. Addio, amore, addio, ti ringrazio... É stato bello, nonostante tutto... voglio ringraziarti fino all'ultimo respiro. Sono contenta: ti ho detto tutto, adesso sai, no, intuisci semplicemente quanto ti abbia amato e questo amore non ti sarà di alcun peso. Non ti mancherò - ciò mi consola. Niente cambierà nella tua vita così bella e luminosa... non ti nuoccio con la mia morte... questo mi consola, amore. «Ma chi... adesso chi ti manderà le rose bianche il giorno del tuo anniversario? Il vaso sarà vuoto, anche il breve respiro, il breve alito della mia vita, che una volta all'anno spirava intorno a te, anch'esso svanirà! Amore, ascoltami, è la mia prima e ultima preghiera che ti rivolgo... fallo per me: il giorno del tuo compleanno - è un giorno in cui si pensa a se stessi: prendi delle rose e mettile nel vaso. Fallo, amore, fa' questo come altri fanno dire una messa per una persona cara defunta. Io non credo più in Dio e non voglio messe, credo solo in te, amo solo te e voglio continuare a vivere in te... solo un giorno all'anno, silenziosa, molto silenziosa, come lo sono stata accanto a te. Ti prego, fallo, amore... è la mia prima preghiera e l'ultima... Grazie... ti amo, ti amo... addio.» Egli pose la lettera lasciandola cadere dalle mani tremanti. Poi rifletté a lungo. Un ricordo di una bambina del vicinato, di una ragazza, di una donna nel locale notturno affiorò confusamente, un ricordo, tuttavia, indistinto e sfocato come un sasso che scintilla e tremola informe sul fondo di un'acqua corrente. Fluirono verso la forma anonima alcune ombre, ma l'immagine non si ricompose. Egli percepì dei ricordi emotivi, ma non si ricordò. Ebbe la sensazione di avere sognato tante figure, di averle sognate spesso e intensamente, ma di averle solo sognate. Il suo sguardo, allora, cadde sul vaso azzurro davanti a sé sulla scrivania. Era vuoto per la prima volta da anni il giorno del suo compleanno. Rabbrividì: gli parve che all'improvviso una porta si fosse invisibilmente spalancata e una corrente d'aria fredda spirasse da un altro mondo. Avvertì la percezione della morte, la sensazione di un amore immortale: qualcosa, dentro di sé, nella sua anima, si schiuse ed egli pensò alla donna invisibile, incorporea e appassionata, come a una musica lontana. 4 - Primavera al Prater Novella Si precipitò in casa come un turbine. «Il mio vestito è già arrivato?» «No, signorina», rispose la cameriera, «e non credo che arrivi più oggi.» «Naturale, la conosco quella pigrona», esclamò con una voce in cui vibrava un singhiozzo soffocato. «Sono le dodici e all'una e mezzo sarei dovuta scendere giù al Prater, per il derby. Per colpa di quella stupida non ci posso andare! Ci mancava solo il bel tempo!» Visibilmente contrariata, si buttò come una furia sullo stretto sofà persiano strabordante di coperte e di frange in un angolo del boudoir, un ambiente arredato in maniera fantasiosa ma assolutamente priva di gusto. Il suo corpo tremava dalla rabbia di non potere andare alle corse dei cavalli e non farsi vedere in un'occasione mondana alla quale una famosa bella donna come lei non poteva mancare. Calde lacrime le scivolarono tra le dita inanellate. Rimase nella stessa posizione per un paio di minuti, quindi eresse leggermente il busto per arrivare con la mano al piccolo tavolino inglese dove sapeva che c'erano i suoi cioccolatini. Con un gesto meccanico se li infilò in bocca, uno dopo l'altro, lasciandoli squagliare lentamente. E la grande stanchezza, la notte insonne, la fresca penombra della stanza e il grande rammarico fecero sì che pian piano si addormentasse. Per un'ora circa dormì quel particolare sonno leggero, senza sogni, in cui il dormiente serba una parziale coscienza della realtà. Era molto graziosa anche se gli occhi, che costituivano la sua più forte attrattiva per la loro gaia irrequietezza, erano chiusi. Solo le sopracciglia, sottolineate da un sottile tratto di matita, le assicuravano un aspetto mondano, mentre per il resto la si sarebbe presa per una fanciulla addormentata, tanto i suoi lineamenti erano fini e regolari, ai quali il sonno aveva tolto il dolore di essere stata privata di una gioia. Verso l'una si svegliò un po' stupita di avere dormito e a mano a mano si ricordò di quanto era accaduto. Suonò con vigore, ripetendo il gesto nervosamente, finché ricomparve la cameriera. «E arrivato il mio vestito?» «No, signorina!» «Quella miserabile! Sa che mi occorreva. Adesso non c'è più niente da fare: senza il vestito nuovo non posso andare al derby.» E, eccitata, si alzò di scatto, percorse lo stretto boudoir varie volte avanti e indietro, dopodiché sporse la testa dalla finestra per vedere se fosse arrivata la carrozza. Naturalmente era arrivata. Tutto sarebbe filato liscio se soltanto quella maledetta sarta si fosse presentata. Così era obbligata a restarsene a casa e, con il passare dei minuti, si fissò nell'idea di essere mortalmente infelice come nessun'altra donna al mondo. Senonché traeva quasi piacere dall'essere triste, intravedeva inconsciamente un fascino nel suo macerarsi e, in questo slancio di autopunizione, dette ordine alla ragazza di mandar via la carrozza; l'ordine fu accolto con gioia smodata dal vetturino perché poteva fare affari d'oro il giorno del derby. Ma la ragazza non aveva neanche fatto a tempo a vedere l'elegante calessino lanciarsi al trotto che già si era pentita di avere impartito quell'ordine; e lo avrebbe richiamato volentieri personalmente dalla finestra se non si fosse sentita imbarazzata. Abitava infatti nel quartiere più distinto di Vienna, per l'appunto al Graben. Così era bell'e che spacciata: consegnata come un soldato a cui sia interdetto di lasciare la caserma per punizione. Girellò imbronciata, non tollerando l'idea di restare rinchiusa nello stretto boudoir stipato all'inverosimile - e senza alcun criterio e stile - di oggetti impensabili, di ciarpame di dubbia qualità e di opere d'arte raffinate. E poi quell'odore, un miscuglio di una ventina di essenze diverse, e quell'aroma di sigarette che impregnava qualunque cosa. Per la prima volta tutto le apparve ripugnante; persino i volumi gialli dei romanzi di Prévost avevano perso il loro fascino, quel giorno infatti pensava sempre e solo al Prater, al suo Prater, alla distesa erbosa con i suoi mille piaceri dove si svolgevano le corse dei cavalli. E tutto solo perché non aveva una toilette elegante! C'era da piangere. Indifferente a ogni pensiero, si abbandonò nella poltrona e desiderò di addormentarsi nuovamente, tanto per ammazzare il pomeriggio. Ma niente da fare: le sue palpebre si alzavano di scatto desiderando la luce. Allora andò alla finestra e guardò di sotto il marciapiede del Graben che, scaldato dal sole, era un unico sfarfallio, e osservò le persone che vi camminavano frettolose. Ma il cielo era così azzurro, l'atmosfera così tiepida, che la sua nostalgia di aria libera si fece sempre più irresistibile e impellente, raccogliendo altre voci acute. Tutt'a un tratto le venne l'idea di andarsene da sola giù al Prater, non volendo rinunciare almeno al passeggio ora che non poteva partecipare alle corse. Per questo non aveva bisogno di una toilette signorile, anzi era meglio un vestito semplice, essendo preferibile non farsi riconoscere. Il progetto si trasformò rapidamente in una decisione. Aprì l'armadio per scegliersi l'abito. Colori sgargianti, luminosi, sfacciati, urlanti la fissarono restituendole l'immagine del loro tripudio cromatico, al tocco della mano un fruscio di seta quando si accinse a scegliere. Ma la scelta le costò una vera fatica, trattandosi quasi esclusivamente di toilette che si prefiggevano di richiamare su di sé l'attenzione _ ed era per l'appunto quello che quel giorno lei voleva evitare. Finalmente, dopo una ricerca piuttosto lunga, un sorriso infantile e gaio le illuminò la faccia: proprio nell'angolo aveva scovato, impolverato e stazzonato, un vestito semplice, quasi modesto; ma non fu solo il reperto a farla sorridere, bensì il passato che questo souvenir richiamava in vita. Pensò al giorno in cui era scappata dalla casa paterna con l'amante indossando esattamente quel vestitino, pensò all'infinita felicità che aveva conosciuto, quindi riandò con la memoria al tempo in cui lo aveva sostituito con ricche toilette, essendo diventata l'amante di un conte, poi di un altro e infine di parecchi uomini... Non si capacitò di possederlo ancora, ma ne fu contenta e, quando, cambiatasi, si guardò nel pesante specchio veneziano, non riuscì a trattenere il riso: com'era costumata, un'ingenua borghesuccia, simile alla Gretchen goethiana... Dopo altro rovistare trovò anche il cappello che faceva pendant con l'abito, lanciò un'occhiata divertita nello specchio, nel quale una giovane signorina borghese, agghindata a festa, le ricambiò il sorriso, quindi se ne andò. Con un sorriso sulle labbra uscì in strada. A tutta prima ebbe l'impressione che chiunque si accorgesse che non era quella che faceva mostra di essere, ma le sparute persone, che nel caldo di mezzogiorno le sfrecciavano ai lati, perlopiù non avevano tempo di guardarla. Sicché via via si adattò alla nuova situazione e, assorta, scese lungo la Rotenturmstrasse. Tutto era immerso nella luce solare, brillante e fluorescente. L'atmosfera domenicale si era trasferita dalle persone, vestite a festa e allegre, agli animali e alle cose: tutto lampeggiava, riluceva, gioiva e le inviava un saluto al suo passaggio. La giovane donna fissò l'andirivieni colorato che, in effetti, non aveva mai notato - come un melangolo, si disse mentre, distratta da tanto guardare e osservare, stava per essere travolta da un veicolo. Allora prestò un po' più di attenzione ma, imboccando la strada del Prater, l'antica baldanza zampillò di nuovo fresca dentro di lei. In un'elegante carrozza, che avanzava a pochissima distanza, aveva scorto infatti uno dei suoi ammiratori, anzi era così vicino che avrebbe potuto tirargli addirittura le orecchie; e le sarebbe davvero piaciuto. L'uomo però non l'aveva vista, essendo elegantemente sprofondato sul sedile posteriore con aria indolente. La giovane donna scoppiò allora in una risata così forte, che il giovane signore si volse e, se lei non avesse premuto il fazzoletto sulla faccia con un gesto precipitoso, forse non sarebbe riuscita a sfuggirgli. Proseguì con la medesima allegria e in breve venne a trovarsi al centro di una gran ressa: perché di domenica la gente si reca a frotte in processione al santuario nazionale viennese, raggiunge i viali del Prater che sono posti come travi bianche in un'unica distesa erbosa in mezzo ai prati rivieraschi ricchi di boschi e privi di sentieri. La sua baldanza, inavvertitamente, si spense nell'allegria della folla. La letizia domenicale, combinata a un istintivo entusiasmo, faceva dimenticare a chiunque i sei giorni feriali polverosi e gravosi che circondano la domenica. Si lasciò portare dalla folla come un'onda isolata nel mare, senza progetti e traguardi e tuttavia spumeggiante, rovesciandosi nell'esultanza collettiva, robusta e consapevole. Quasi si rallegrò che la sarta si fosse dimenticata del suo vestito: si sentiva infatti così beata, così libera. Nella sua vita lo era stata solo nell'infanzia quando aveva conosciuto il Prater per la prima volta. E tutti i ricordi e le immagini ritornarono, ma circonfusi di quella loro gaiezza, come orlati da una cimasa d'oro lucente. Pensò di nuovo al primo amore, ma non con il triste dispetto con cui si pensa a qualcosa che si sfiori di malavoglia, piuttosto vi scorse un destino che si vorrebbe rivivere una seconda volta: era l'amore che si dona e non si vende... Assorta nei sogni, continuò a camminare, e il vociare della gente le parve il sordo mugghiare delle onde, di cui non poteva percepire i singoli suoni. Era sola con i propri pensieri, più di quanto riuscisse a essere quando se ne stava inattiva nella sua camera, sdraiata sullo stretto divano persiano soffiando anelli di fumo di sigaretta nell'aria calma e stagnante... All'improvviso alzò lo sguardo. Di prim' acchito non seppe perché. Aveva semplicemente avvertito un'oscura sensazione, la quale stese improvvisamente un velo sui suoi pensieri, un velo inestricabile. Ora, guardando meglio, scorse due occhi fissi su di lei. Il suo istinto femminile, per quanto al primo momento non li avesse notati, aveva tuttavia interpretato giustamente quegli sguardi che avevano interrotto i suoi sogni. Quegli sguardi provenivano da una coppia di occhi scuri alloggiati in un viso giovanile che riusciva simpatico per la sua espressione infantile, rimasta integra malgrado la folta barbetta. Dalla foggia dell'abito lo si sarebbe detto uno studente; anche la coccarda, fissata nell'occhiello del bavero, confermava tale supposizione. Il cappello che, messo leggermente di traverso, ombreggiava i lineamenti morbidi e regolari, conferiva alla sua testa quasi comune un qualcosa che lo faceva assomigliare a un poeta e lo circondava di un alone di idealità. Il suo primo moto fu di stringere sprezzantemente le sopracciglia e di stornare lo sguardo con arroganza. Che cosa voleva da lei quell'individuo banale? Non era una ragazza di periferia: era... La giovane si bloccò e lo stesso sorriso spavaldo di poc'anzi le illuminò gli occhi. Si era sentita ridiventare temporaneamente la donna di mondo, dimenticando di essersi mascherata da ragazza borghese. Fu però contenta che il travestimento fosse riuscito bene. Il giovane, invece, interpretando il suo sorriso come un incoraggiamento, le andò appresso, fissandola insistentemente; intanto si sforzò invano di conferire ai propri tratti somatici un'espressione virile e vincente che, però, veniva immediatamente vanificata dalla titubanza e dall'indecisione. Erano per l'appunto questi i connotati di cui lei sentiva la mancanza perché la discrezione e la riservatezza da parte degli uomini erano lati che ignorava. L'infantile spontaneità, non ancora sbiadita nel giovane uomo, le offriva un aspetto sconosciuto, una sensazione nuova, ineffabile, tanto era naturale. Era per lei uno spettacolo divertente, umoristico osservare come lo studente predisponesse le labbra per parlarle e, ogni volta, nel momento decisivo le richiudesse, sopraffatto dalla paura e da un'ansietà pudica. Sicché dovette mordersi le proprie per non ridergli in faccia. Tra le qualità apprezzabili del giovane contava la perspicacia: difatti non gli sfuggì il tremito eloquente agli angoli sensibili della bocca della donna di fronte a lui, e questo accrebbe il suo coraggio. Insospettatamente uscì nella domanda gentile: «Non posso accompagnarla?» senza peraltro addurre alcun motivo per la ragione semplicissima che, per quanto avesse riflettuto, non ne aveva trovati di validi. Nonostante la prolissità dell'approccio, nel momento critico della domanda anche lei si era stupita. Doveva accettare l'offerta? E perché no? L'essenziale era di non pensare a come la storia sarebbe finita ancor prima che cominciasse. Giacché ne indossava il costume, volle anche impersonarne il ruolo, e desiderò andare a spasso nel Prater, come ogni ragazza borghese, in compagnia del suo corteggiatore. Magari era anche divertente. Decise insomma di accettare la proposta e gli rispose: «La ringrazio, ma non si scomodi ad accompagnarmi perché perderebbe troppo tempo». La risposta affermativa, in questo caso, era implicita nella proposizione causale. Anch'egli lo capì subito e le si mise al fianco. Di lì a poco prese avvio la conversazione. Era un giovane studente spensierato, sfuggito da non troppi anni al liceo dal quale si era portato nella vita un bel po' di baldanza. Complessivamente non era granché esperto, certo aveva amato moltissimo come qualunque adolescente, ma di «avventure», delle avventure tanto desiderate dalla maggior parte dei giovani, ne aveva avute molto poche, per non dire nessuna, facendogli difetto quella sfacciataggine aggressiva che è la condizione necessaria per esperienze di questo genere. L'amore, nel suo caso, si era fermato ai sospiri, che di solito si ammirano con prudenza a distanza e si perdono in poesie e in sogni. La ragazza, viceversa, si meravigliò di essere diventata all'improvviso una chiacchierona e di interessarsi a cose prima impensabili per lei tra l'altro si stupì di essere passata all'improvviso al dialetto viennese che non aveva più parlato fors' anche da cinque anni; non solo parlava ma addirittura pensava in dialetto. Ed ebbe la sensazione che i cinque anni di vita elegante e sfrenata fossero spariti senza lasciare alcuna traccia, insomma sprofondati nell'oblio come se fosse tornata a essere la fanciullina di periferia, gracile e assetata di vita, che amava il Prater e il suo incanto. Senza che se ne fosse accorta, si erano pian piano allontanati dal sentiero, erano sfuggiti alla fiumana rumoreggiante dei visitatori, finendo sui lontani prati rivieraschi del Prater dove era sbocciata la primavera. Erano ormai d'un bel verde intenso i castagni centenari che si levavano come giganti allargando le loro grosse braccia. E si udiva un sussurrio, come tra gli innamorati, quando lasciavano fremere l'uno contro l'altro i rami sovraccarichi di fiori, cosicché i fiocchi bianchi di petali sottili si spandevano, come neve, sull'erba verde cupo nella quale i fiori colorati avevano tessuto stravaganti ricami. Un greve profumo dolciastro sgorgava dalla terra e si disperdeva a ondate molli, aderendo ai corpi, in maniera così forte e sicura che non si percepiva più l'inconfondibile consapevolezza del godimento, ma si aveva soltanto la vaga sensazione di un gusto dolce, amabile, soporifero. Come uno zaffiro, il cielo si inarcava sopra gli alberi: azzurro, lucente e puro. Il sole diffondeva la sua generosa colata d'oro sulla propria creazione stupenda, immortale e indimenticabile: la primavera al Prater. La primavera al Prater! La parola era formalmente sospesa nell'aria. Tutti avvertivano il profondo incanto che li avvolgeva, ma anche dentro ciascuno era insorta la sensazione della germogliazione di ricchi fiori. A braccetto, le coppiette di innamorati avanzavano sui prati sconfinati, irraggiando felicità, mentre nei bambini, ancora ignari di questa gioia, si era risvegliata una pulsione incontenibile che li costringeva a saltare, a ballare e a esultare, disperdendo nel vento e nel bosco le loro voci gaie. Come un'aureola, la primavera del Prater incoronava la moltitudine di individui felici e finalmente liberati dal lavoro. I due non si erano accorti che l'incantesimo era prossimo a irretire lentamente anche le loro anime, ma a mano a mano nella loro inclinazione allo scherzo ilare si era insinuata una intimità affettuosa, un ospite inatteso ma ben accetto. Avevano stretto amicizia. Il giovane era estasiato dalla bellezza, dalla vivacità e dall'allegria della ragazza e lei, nella sua sovrana spavalderia, sembrava una principessa travestita che si stesse innamorando del bel ragazzo. La commedia con il giovane, inscenata casualmente, aveva assunto toni più seri: indossando l'abito di un tempo, provava nostalgia della felicità e della beatitudine del primo amore... Era come se volesse rivivere quell'emozione adesso per la prima volta, quella scherzosa ammirazione, quel desiderio nascosto e quella gioia semplice e muta. Piano egli aveva spinto il proprio braccio sotto il suo senza che lei si schermisse, anzi la ragazza sentì il suo respiro caldo nei capelli, le mille cose che le raccontava, della sua giovinezza, delle sue avventure. Venne a sapere che si chiamava Hans e che studiava all'università. Un po' scherzosamente, un po' seriamente il ragazzo le fece una dichiarazione d'amore e alle sue parole lei tremò dalla gioia e dalla contentezza. Ne aveva già udite almeno un centinaio, forse espresse magari con frasi più belle, ne aveva esaudite molte, ma nessuna le aveva fatto avvampare le guance di un rosso così brillante come le parole di quella lingua semplice, fervida, affettuosa che suonava come un sussurro alle sue orecchie e vibrava appena di eccitazione interiore. Quelle parole, pronunciate con voce emozionata, avevano il suono di un dolce sogno che si aneli di veder realizzato e il loro fremito passò nel corpo della giovane donna, lo percorse finché la fece rabbrividire dalla beatitudine. Poi, come inebriata, sentì la pressione del suo braccio contro il proprio farsi sempre più forte per una tenerezza forsennata, ebbra. Ormai avevano raggiunto i prati periferici dove arrivava soltanto l'eco del rumore delle carrozze, poco più di un fievole ronzio in sottofondo. Erano praticamente soli. Qua e là, nel verde uniforme, brillavano dei vestiti estivi chiari, farfalle bianche che proseguivano per la loro strada, e soltanto di rado giungeva fino a loro il suono di una voce umana. Ogni cosa sembrava sprofondata in un sonno profondo, come stanca di sole... Solo la voce dell'uomo non si stancò di sussurrare mille tenerezze, una più affettuosa e bizzarra dell'altra. Lei ascoltava come prima di addormentarsi si ascolta un brano musicale in lontananza senza percepire le singole note, ma solo il ritmo e la melodia. Non si difese nemmeno quando il giovane studente trasse a sé la sua testa tenendola fra le mani e la baciò: un lungo bacio affettuoso nel quale echeggiavano infinite parole d'amore segrete. Quel bacio dissipò ogni altro ricordo, le sembrò il primo bacio della sua esistenza. E il gioco che ella voleva giocare con il giovane uomo traboccava di vita e di sensibilità. Si era radicato dentro di lei un profondo affetto che le faceva dimenticare il passato, come l'attore che, nei momenti in cui la sua arte raggiunge i livelli più alti, si sente un re o un eroe e dimentica il mestiere. Le sembrò di rivivere il primo amore, per un miracolo... Per qualche ora avevano vagabondato senza meta a braccetto, persi nel dolce inebriamento dell'amore. Il cielo si era tinto di rosso fuoco nel quale le cime degli alberi s'infilavano come mani nere. I contorni e i profili si sbiadirono e divennero sempre più incerti nella luce crepuscolare, mentre la brezza della sera frusciava tra le foglie. Hans e Lise - di solito lei preferiva farsi chiamare Lizzie, ma il nome dell'infanzia le apparve improvvisamente caro e familiare; infatti fu quello che disse all'uomo - erano tornati indietro e si stavano dirigendo al Volksprater, al Wurstlprater, la zona dei divertimenti che in lontananza si faceva preannunciare da zaffate di odori. Una fiumana variopinta fluiva a ridosso dei baracconi illuminati a vivaci colori: soldati con le fidanzate, giovani, bambini che non si saziavano di vedere tante meraviglie. Insieme un caos spaventevole di suoni: bande militari e altri suonatori che cercavano di sopraffarsi, organetti, imbonitori che decantavano i loro tesori con la voce roca, spari dei fucili del tirassegno e voci infantili di ogni tonalità. Tutto il popolo si era radunato qui con i suoi rappresentanti più tipici e con i suoi desideri che i padroni delle baracche e delle osterie esaudivano facendo del loro meglio. Una massa compatta in cui dalla molteplicità nasce l'unità. Per Lise questa zona del Prater era il paese dell'infanzia riscoperto o, meglio, ritrovato. Conosceva ormai solo il viale principale con l'orgogliosa sfilata delle carrozze, l'eleganza e la nobiltà, ma ora trovava deliziosa qualunque cosa proprio come un bambino che, condotto in un negozio di giocattoli, desideri e tocchi ogni balocco. Era tornata a essere spavalda e allegra; l'atmosfera sognante, quasi lirica, si era dissipata. Come due fanciulli sbrigliati ridevano e si scatenavano nel grande mare di gente. Si fermavano davanti a ogni baraccone e si sollazzavano alle grida monotone, ciarlatanesche dei proprietari dei chioschi che vantavano la «donna cannone» o «il più piccolo uomo del continente», uomini serpente, indovine, prodigi della natura e mostri marini con le espressioni più gustose. Salirono sulla giostra, si fecero predire il futuro, non persero nessuna occasione di divertirsi ed erano così lieti e felici, che la gente si voltava per seguirli con gli occhi tant'era meravigliata. Dopo un po' di tempo Hans trovò che anche lo stomaco aveva i suoi diritti. Lise fu d'accordo ed entrarono in una trattoria fuori mano, distante dalla baraonda. Nel locale il frastuono giungeva attutito: un ronzio intermittente, sempre più fioco e debole. Si sedettero l'uno vicino all'altra tenendosi abbracciati. Il giovane le raccontò centinaia di storielle spassose e in ciascuna sapeva infilare abilmente qualche complimento e tener desta l'allegria della ragazza. Le trovò nomignoli gustosi che la facevano ridere a crepapelle, si esibiva in bambinate che la esaltavano. E anche lei, che altrimenti serbava un autocontrollo distinto e compassato, si era sfrenata. Episodi dell'infanzia, dimenticati da tempo, le tornarono in mente, figure scomparse dalla sua memoria riaffiorarono in superficie e riacquistarono consistenza in maniera umoristica. Era come ammaliata, diversa, ringiovanita. Chiacchierarono a lungo. Da tempo la notte era giunta con i suoi veli scuri, ma non aveva portato via l'afa della sera. L'aria opprimente esercitava un potere magico e in lontananza si vedevano lampi di caldo che interrompevano il silenzio ormai totale. A mano a mano le lampade si spensero e la gente si sparpagliò in varie direzioni. Ognuno se ne tornava a casa. Anche Hans si alzò. «Vieni, Lise, andiamo!» Lei lo seguì e, sempre abbracciati, i due giovani uscirono dal Prater che continuò a fissarli enigmatico dall'oscurità. Come vividi occhi di tigre, gli ultimi lampioncini colorati lampeggiavano tra gli alberi che stormivano appena. Percorsero il viale del Prater rischiarato dalla luna. Era ormai quasi tranquillo, non c'era più molta gente. Ogni passo risuonava sul selciato e dai lampioni, che inviavano con indifferenza la loro luce modesta, le ombre sgusciavan via con una fretta timorosa. Non si erano detti dove pensavano di andare, ma Hans prese il comando come per tacito accordo. Lei intuì che la meta era casa sua ma non volle parlare. Camminarono quasi in silenzio. Superarono il ponte sul Danubio e, passato il Ring, proseguirono in direzione dell'ottavo distretto, il quartiere viennese degli studenti, rasentando l'imponente edificio di pietra fosforescente dell'università, quindi il municipio e si addentrarono nei vicoli più angusti e miseri. E all'improvviso Hans cominciò a parlarle. Le disse parole piene di fuoco e di calore, e le annunciò il suo desiderio, il suo giovanile desiderio di amore, con le tinte più ardenti che solamente l'attimo dell'esplosione dell'appetito carnale suggerisce. Nelle sue parole si era depositato l'incontenibile struggimento di ogni giovane esistenza che cerca la felicità e il godimento, la meta più ricca dell'amore. E le sue parole fluivano come un torrente di desiderio, erano fiamme avide che salivano guizzando; la virilità si era potenziata raggiungendo l'apice. Supplicò il suo amore come un mendicante... Sotto il fiotto delle sue parole il corpo di Lise vibrò. Dal suo orecchio il beato scroscio di parole e di canti sfrenati straripava. Non comprese il suo discorso, ma lo stesso assillo montò dentro di lei e si protese incontro al suo. Offrendogli un regalo fiabesco prezioso e impareggiabile, gli promise quello che a cento altri aveva elargito come la carità a un questuante. Egli si fermò davanti a una vecchia casa stretta e suonò mentre nei suoi occhi ardeva la fiamma della beatitudine. Dopo poco la porta si aprì. Prima percorsero un passaggio angusto, freddo e umido, poi molti, molti scalini consunti che salivano a spirale. Ma lei non si accorse di nulla. Lui l'aveva infatti sollevata sulle sue braccia robuste come se fosse la pallina di un volano, e il tremito impaziente delle sue mani l'aveva contagiata mentre saliva sempre più in alto, quasi trasognata. Il giovane si arrestò in cima alla scala e aprì una piccola stanzetta. Era un locale angusto e scuro dove solo a fatica si distinguevano gli oggetti perché i raggi luminosi della luna si disperdevano rifratti da una tendina bianca lisa, che copriva la finestrella dell'abbaino. La lasciò scivolare adagio finché lei appoggiò i piedi per terra, ma solo per abbracciarla ancor più impetuosamente. Il calore dei baci le colò nelle vene e il suo corpo fu percorso da un tremito a contatto con quello dell'uomo; mentre le sue parole si spensero in un sussurro nostalgico... L'ambiente è buio e angusto. Ma una felicità infinita allarga le sue ali in una calma silenziosa e appagata. Nel buio totale filtra la luce solare dell'amore... É ancora l'alba, forse sono solo le sei. Lizzie è appena entrata in casa, nel suo elegante boudoir. Il suo primo gesto è spalancare le due finestre per inspirare l'aria fresca del mattino. L'odore dolciastro e stantio di profumo che le rammenta la sua vita attuale la disgusta. Prima l'aveva accettata come era - cieca e fatalistica - con indifferenza e senza darsi pensiero, ma l'esperienza del giorno innanzi, intrufolatasi nella sua quotidianità come un sogno giovanile limpido e gaio, ha improvvisamente destato in lei il bisogno di amore. Si avvede di non potere tornare indietro. Fra poco si sarebbe presentato uno dei suoi spasimanti, quindi un altro. Rabbrividisce al pensiero e teme il giorno che a poco a poco si fa più chiaro e nitido. Ma a mano a mano comincia a riflettere e a pensare al giorno precedente, calato, come un raggio di sole sperdutosi, nella sua vita così buia e fosca, e dimentica ciò che sarebbe accaduto. Sulle sue labbra gioca il sorriso di una fanciulla che il mattino si risveglia felice da un sogno stupendo. 5 - Due anime sole Come un ampio fiume scuro, la massa frettolosa degli operai si accalcò per varcare il cancello della fabbrica. Fuori, sulla strada, la folla ristagnò per un attimo: vennero scambiati saluti e fugaci strette di mano, dopodiché i singoli reparti si avviarono in direzione dei rispettivi luoghi di residenza per sbriciolarsi, cammin facendo, in parti ancor più minute. Solo sulla larga strada maestra, che portava in città, procedettero tutti insieme, una fitta matassa colorata dalle voci gaie e squillanti che morivano in un unico rumore sordo. Le limpide risate delle ragazze si staccavano come note alte e nitide e vagavano nel silenzio della sera simili a campane d'argento. Piuttosto distante, alle spalle del gruppo compatto, un operaio avanzava tutto solo. Non era vecchio e nient' affatto cagionevole di salute: semplicemente non riusciva a tenere il passo degli altri perché era claudicante e il piede non gli consentiva un'andatura sostenuta. Da lontano echeggiava ancora un allegro vociare. L'uomo lo ascoltò senza provare la serenità dei compagni ma avvertendo un senso di dolore. La menomazione lo aveva abituato da tempo a starsene solo e, nella solitudine, era divenuto un filosofo taciturno che guardava alla vita con l'indifferenza di chi si è assuefatto alle rinunce. Procedeva zoppicando lentamente. Dai campi scuri in lontananza giungeva il profumo sazio e caldo della prossima maturazione delle messi senza che la fredda nebbia serale riuscisse a soffocarlo. L'eco delle risate si era spenta. Di tanto in tanto un grillo solitario strideva, altrimenti c'era ovunque silenzio, quel silenzio triste nel quale i pensieri soffocati cominciano a parlare. Tutt'a un tratto egli tese l'orecchio. Ebbe la sensazione di udire dei singhiozzi. Scrutò il silenzio. Non c'erano rumori come nel sonno senza sogni. Ma l'istante successivo udì nuovamente gli stessi gemiti ancor più forti e dolorosi e nella luce incerta del crespuscolo scorse una figura sul ciglio della strada. Era seduta su un mucchio di rotaie accatastate. Piangeva. Di prim' acchito decise di passar oltre senza badarle ma, quando le fu arrivato vicino, riconobbe la ragazza che piangeva a dirotto. Era un'operaia della stessa fabbrica dove lavorava lui. La conosceva avendola vista sul posto di lavoro. Tutti conoscevano «Jula la racchia». Era la sua bruttezza, peraltro vistosa, ad averle fruttato il soprannome che portava fin dalla prima infanzia. Aveva una faccia grossolana e irregolare, per giunta di un colore giallastro sporco, disgustoso. E non era tutto: si aggiungeva la disarmonia della figura: il busto magro e infantile era sostenuto da due fianchi larghi e un po' storti. Belli erano soltanto gli occhi calmi e lucenti che rispecchiavano gli sguardi di disprezzo e di disgusto con mitezza e rassegnazione. L'uomo aveva patito in cuor suo troppi dolori perché potesse andare oltre senza provare compassione. E difatti le si avvicinò e le pose la mano sulla spalla come per acquietarla. La ragazza sobbalzò quasi che fosse stata svegliata bruscamente da un sogno: «Non toccarmi!» Non sapeva a chi parlava; aveva persino urlato, tanto esacerbato era il suo dolore. Ora invece, riconoscendo l'uomo, si calmò. Lo aveva notato anche in fabbrica poiché era uno dei pochi che non l'avessero mai schernita. Continuò a sussurrare, come sulla difensiva: «Lasciami! Ce la faccio da sola!» L'uomo non disse nulla ma si sedette al suo fianco. Allora la ragazza ricominciò a piangere più forte, anzi più spasmodicamente di prima, sinché lui le disse in tono consolatorio: «Non far così, Jula! Piangendo non si migliora la situazione». Jula tacque e l'uomo le domandò cauto: «Che cos'altro ti hanno fatto?» La domanda la fece tornare in sé. Il sangue le imporporò le guance e le uscì di bocca un torrente di parole tanto si arrabbiava: «Al termine del lavoro, mentre stavamo per tornarcene a casa, loro hanno cominciato a parlare di domani, che è domenica, dicendo che se ne volevano andare in campagna, in qualche villaggio. Uno ha fatto la proposta e tutti erano d'accordo. E quando si fa la conta dei partecipanti, sono così scema che dico: ci sto anch'io. Naturalmente tutti scoppiano a ridere e ricominciano a lanciarmi le solite cattiverie e a canzonarmi. Allora non so davvero che cosa mi sia successo - ho perso la pazienza e ho detto loro in faccia che erano degli svergognati. E così mi hanno... mi hanno picchiata...» Scoppiò di nuovo in un pianto dirotto. L'uomo era commosso nel profondo del suo cuore e sentì il bisogno di dire qualche parola alla povera creatura. Per rincuorarla, iniziò a raccontarle i propri patimenti. «Guarda, Jula, non bisogna prendersela in casi del genere. Domani te ne vai da sola in campagna. Ci sono altre persone che la domenica non ce la fanno, non riescono a fare un solo passo fuori di casa perché i piedi li reggono a malapena dalla fabbrica in città. Non hanno una vita facile neppure questi poveretti che sono obbligati a saltellare in eterno e per giunta da soli perché chiunque altro si annoia a camminare con loro. Non puoi prendertela a male solo a causa di qualche stupido, Jula!» Lei gli rispose concitatamente, non volendo affatto lasciare che il proprio dolore si assottigliasse e rinunciare al vittimismo, alla soddisfazione dei martiri, che ogni sofferente prova. «Non sono loro che mi umiliano. É tutto il resto, la vita. A volte, pensando a me stessa, mi vien quasi la nausea. Perché sono così brutta? Non ne ho colpa, eppure mi porto addosso questa infamia da tutta la vita. Fin da piccola ho sentito che mi deridevano. Per questa ragione non ho mai voluto giocare con gli altri: perché li temevo e li invidiavo!» L'uomo ascoltò tremando la ragazza che gli rivelava le sue pene. Egli le capiva. Difatti la sofferenza immagazzinata in mille e mille ore di angoscia, che credeva già sepolta, si ridestava. Da tempo aveva dimenticato come consolare gli altri. Le raccontò la propria sorte, quasi involontariamente, avendo per caso trovato chi la comprendeva. A bassa voce cominciò: «C'era una volta un bambino che voleva giocare con i suoi coetanei, ma non poté. Ogni volta che quelli si scatenavano e correvano, lui li inseguiva zoppicando e arrivava sempre troppo tardi. Anzi era incapace di difendersi e goffo, cosicché i compagni lo canzonavano. Forse a lui è andata ancor peggio che a te. Tu hai le gambe buone e il mondo intiero ti appartiene». La sua commozione, invece, crebbe a dismisura. Sentì il dolore della propria esistenza scaturire da profondità insondabili. «No, a nessuno può essere andata peggio che a me. Non ho mai conosciuto una madre, nessuno mi ha mai detto una buona parola. Mentre ogni ragazza va a passeggio con l'innamorato, io sono sola. E intanto sento che sarà sempre così, inevitabilmente, anche se si è sensibili come chiunque altro. Dio mio, se solo sapessi perché è così!» Ciò che non avevano mai detto a nessuno, non appena lo ammisero a se stessi, i due, per quanto si conoscessero solo di vista, se lo confessarono. Ogni grido della loro anima trovò un'eco, poiché erano apparentati dalla sofferenza. L'uomo raccontò alla donna di non avere mai avuto un'innamorata perché non era mai riuscito a parlare con una ragazza per via del piede claudicante e perché nessuna voleva camminare al suo fianco facendo attenzione alla strada. Dunque, le disse, era destinato a dare in pasto il suo salario settimanale alle sudicie sgualdrine? Ogni giorno si sentiva più triste e stanco. Un rumore di passi interruppe le loro confessioni dolorose. Alcune persone li superarono, ma le loro ombre, essendo poco nitide, non erano facilmente riconoscibili. Quando i passanti si allontanarono, l'uomo disse alla donna con voce schietta, come pregandola: «Vieni!» Lei andò con lui. Si era fatto molto buio. Egli non poté più vedere il viso della ragazza e la ragazza, mite e persa nella sua pena, non si rese conto di uniformare la propria andatura alla sua. Camminarono a fianco a fianco lentamente. Un cieco senso di comprensione era disceso sulle due anime sole, come una benedizione, colmandole di felicità. Le loro voci erano diventate sempre più affettuose e fievoli ed essi dovettero camminare vicinissimi per potersi capire. E a un tratto lei si accorse, provando una confusa sensazione di felicità, che con una tenerezza soave la mano dell'uomo si posava sul suo fianco largo e malformato toccandolo piano piano... 6 - Resistenza della realtà «Finalmente!» Con le braccia protese, quasi larghe, le andò incontro. «Finalmente», ripeté, e la sua voce salì la scala tonale sempre più alta, dalla sorpresa alla felicità, mentre uno sguardo affettuoso abbracciava la figura amata: «Ho temuto che non venissi!» «Veramente fai così poco affidamento su di me?» Ma soltanto il suo labbro giocò sorridendo con il lieve rimprovero: dalle pupille, che una luce chiara illuminava, si irradiava un'azzurra fiducia. «No, non che avessi dubitato - c'è qualcosa di più attendibile della tua parola a questo mondo? - Ma pensa, sono stato uno sciocco! Questo pomeriggio all'improvviso, davvero inaspettatamente, non so nemmeno perché, mi ha afferrato uno spasimo di paura assurda, ho temuto che sarebbe potuto capitarti qualcosa. Ero sul punto di telegrafarti, volevo venire da te e, ora, a mano a mano che il tempo passava e non ti vedevo ho sentito come una lacerazione dentro di me all'idea che potessimo non incontrarci un'altra volta. Ma, grazie a Dio, ora sei qui.» «Sì, sono qui», sorrise; di nuovo le sue pupille di un azzurro cupo si illuminarono. «Ora sono qui e sono pronta. Andiamo?» «Sì, andiamo!» ripeterono inconsciamente le sue labbra. Ma il corpo inerte non mosse un passo; lo sguardo affettuoso continuava ad avvolgere la realtà incredibile della sua presenza. Sopra le loro teste, a destra e a sinistra, i binari della stazione centrale di Francoforte vibravano riproducendo il suono del ferro e del vetro scossi; i fischi tagliavano il chiasso dell'atrio invaso dal fumo; su venti tabelloni l'orario imponeva dispoticamente ore e minuti; mentre lui non vedeva che lei al centro della folla che ruotava sbattuta da un frullino: era come uscito dal tempo e dallo spazio in uno stato strano di trance, di stordimento emozionale. Sicché lei dovette esortarlo: «Non c'è più tempo, Ludwig, e non abbiamo ancora i biglietti». Solo allora il suo sguardo prigioniero si liberò, e le prese il braccio con un'aria che esprimeva affettuosa venerazione. L'espresso della sera per Heidelberg era insolitamente molto affollato. Delusi - perché avevano sperato di poter star soli grazie al biglietto di prima classe - dopo una ricerca inutile si risolsero per uno scompartimento dove c'era un solo signore anziano semiaddormentato in un angolo. Pregustando la gioia, pensarono agli ormai prossimi discorsi confidenziali, quando, poco prima del fischio di partenza, tre signori con grosse cartelle in mano entrarono ansimando nello scompartimento: evidentemente degli avvocati ancora eccitati dal processo appena conclusosi; la loro discussione infatti si protrasse come uno scroscio, demolendo la possibilità di qualunque conversazione. Così i due se ne stettero seduti l'uno di fronte all'altra rassegnati, senza neppure tentare di dire una parola. Solo ogniqualvolta uno di loro alzava gli occhi, scorgeva, avvolto da una nube scura solcata dall'ombra incerta della lampadina, lo sguardo tenero dell'altro rivolto verso di sé con amore. Il treno si mise in movimento con un morbido sobbalzo. Lo sferragliare delle ruote attutì e frantumò la conversazione degli avvocati riducendola a puro e semplice rumore. Ma poi gli urti e gli scossoni si trasformarono gradualmente in un dondolio ritmico: una culla d'acciaio ondeggiante in uno spazio onirico. Mentre sotto i loro piedi le ruote ronzanti procedevano invisibilmente in avanti, i pensieri di entrambi, ciascuno con contenuti diversi, fluttuavano a ritroso verso il passato, persi nei sogni. Si erano conosciuti oltre nove anni prima e, quasi subito separati da una distanza incolmabile, avvertivano questo primo riavvicinamento muto con una forza quadruplicata. Sant'Iddio, come sono lunghi, estesi, nove anni! Quattromila giorni, quattromila notti fino a quel giorno e a quella notte! Quanto tempo, quanto tempo perduto, eppure in quell'istante ogni pensiero ritornava all'inizio dell'inizio. Ma com'era stato? Egli se ne ricordava con precisione: a ventitré anni era entrato per la prima volta in casa di lei, il labbro già nitidamente intagliato sotto la blanda lanugine della barba incipiente. Sfuggito precocemente a un'infanzia umiliata dalla povertà, cresciuto alle mense gratuite, campando come pedagogo o come ripetitore, esacerbato prematuramente dalle rinunce e dagli stenti, di giorno sudando i centesimi per i libri, nottetempo seguendo gli studi con i nervi stanchi e tesi fino allo spasimo, si era laureato in chimica riuscendo a essere il primo del corso e, raccomandato dal suo professore, era arrivato al famoso consigliere segreto G., il quale dirigeva la grande fabbrica nelle adiacenze di Francoforte sul Meno. Lì, inizialmente, gli assegnarono incombenze subalterne in laboratorio, ma dopo breve tempo, accortosi della serietà e della tenacia del giovane, il quale si incaponiva nel lavoro con la forza immagazzinata di un arrivismo fanatico, il consigliere segreto prese a interessarsi a lui. A titolo di prova gli affidò lavori di sempre maggiore responsabilità e il giovane, scorgendovi la via per sfuggire alle opprimenti volte degli scantinati della miseria, colse avidamente l'opportunità. Quanto più lo si caricava di lavoro, con tanto maggiore energia la sua volontà si rianimava, sicché in un breve arco di tempo da aiutante ordinario fu nominato assistente di esperimenti delicati, insomma divenne il «giovane amico», come il consigliere segreto amava chiamarlo benevolmente. Infatti, senza che egli lo sapesse, un occhio vigile lo osservava, per incarico superiore, da dietro la porta imbottita dell'ufficio del capo e, mentre il giovane presumeva di svolgere il suo lavoro quotidiano - e lo faceva con il solito accanimento -, il superiore quasi sempre invisibile ne preordinava il futuro. Costretto in casa da una dolorosa sciatalgia, anzi spesso obbligato a letto, da anni l'uomo ormai in su negli anni si guardava in giro per trovare un segretario personale che fosse assolutamente affidabile e intellettualmente abbastanza dotato, con il quale discutere i brevetti segretissimi e gli esperimenti portati avanti nella necessaria segretezza, e alla fine gli sembrò di averlo trovato. Difatti, un giorno il consigliere segreto fece all'assistente strabiliato l'insospettabile proposta di disdire la camera ammobiliata in periferia e di alloggiare, tanto per essergli più vicino, nella loro spaziosa villa. Il giovane si stupì di fronte a un'offerta quanto meno insospettabile, ma più di lui si stupì il consigliere segreto allorché l'assistente, scaduto il termine di un giorno concessogli per riflettere, rifiutò la proposta lusinghevole, mascherando abbastanza maldestramente il suo brutale «No», sotto un cumulo di pretesti traballanti. Eminente come studioso, il consigliere segreto era viceversa troppo inesperto nelle faccende spirituali per scoprire la vera ragione di quel diniego; e fors' anche il giovane caparbio non confessò fino in fondo nemmeno a se stesso i propri sentimenti. I quali altro non erano che un orgoglio tenuto spasmodicamente nascosto, il pudore offeso di un'infanzia trascorsa nella povertà più amara. Cresciuto nelle case dei ricchi, spesso di parvenu insensibili che non si curavano di offendere il precettore dei figli, dunque un essere anfibio tra il cameriere e il coinquilino, per questo, e non solo per questo, ornamento come le magnolie sul tavolo che si mettono o si tolgono a seconda dell'occorrenza, aveva l'anima stracolma di livore verso chi stava in vetta alla gerarchia sociale e la rispettiva sfera, odiava i mobili pesanti e massicci, le stanze ridondanti di oggetti, i pranzi smodatamente abbondanti, per intenderci le esibizioni di ricchezza nelle quali era semplicemente tollerato. In quelle case aveva avuto ogni esperienza pensabile: aveva conosciuto le offese di ragazzi sfrontati, la compassione ancor più offensiva delle padrone di casa che, alla fine del mese, gli infilavano in tasca qualche banconota, gli sguardi ironici e beffardi delle serve, sempre crudeli con gli altri dipendenti di rango superiore, vedendolo entrare nella nuova famiglia con in mano il rozzo baule di legno, tant'è che ogni volta doveva chiedere in prestito una scatola per l'unico vestito, per la biancheria rammendata con il filo grigio: gli inconfondibili segni della sua innegabile povertà. No, mai più, aveva giurato a se stesso, in casa d'altri, mai più tornare a contatto con la ricchezza altrui, finché non fosse stata sua, mai più lasciarsi spiare nella propria indigenza e ferire da regali offerti in maniera ignobile, Mai più, mai più. Adesso naturalmente, il titolo di dottore, un mantello andante ma impenetrabile, copriva - almeno esteriormente - la modestia della sua posizione e in ufficio il rendimento celava la ferita purulenta della sua giovinezza oltraggiata e infettata dalla povertà e dall'elemosina. No, a nessuna cifra era disposto a vendere la manciata di libertà che si era conquistata, l'impenetrabilità della sua vita. E perciò respinse l'invito rispettabile anche a rischio di mettere a repentaglio la carriera con una motivazione evasiva. Senonché di lì a poco una serie di imprevisti non gli lasciò più libertà di scelta: la salute del consigliere segreto peggiorò a tal punto che per un periodo piuttosto lungo il superiore fu obbligato a letto senza neanche potere raggiungere il telefono per comunicare con l'ufficio. L'assunzione di un segretario particolare era ormai una necessità inderogabile, e il giovane assistente non poté non assecondare le ripetute profferte del suo protettore, a meno che non volesse perdere anche il posto di lavoro. Il trasferimento fu un calvario: si rammentava ancora esattamente il giorno in cui aveva suonato per la prima volta il campanello di quella elegante villa in antico stile francone, sulla strada maestra, la Bockenheimer Candstrasse. La sera prima, con gli scarsi risparmi - la vecchia madre e due sorelle vivevano del suo misero stipendio in una sperduta cittadina di provincia - si era comperato in fretta e furia della biancheria pulita, un vestito nero passabile e delle scarpe nuove, per non svelare troppo smaccatamente le proprie ristrettezze, e almeno stavolta, un domestico, affittato per l'occasione, lo precedette con l'orribile baule di legno, contenente i suoi averi, che gli riusciva odioso per i tanti ricordi legati a quel bagaglio. Nondimeno il disagio gli montò in gola come una pappa quando gli aperse, rispettando le formalità, un cameriere in guanti bianchi e persino l'atrio gli sbatté in faccia l'esalazione densa e sazia della ricchezza. Tappeti che inghiottivano mollemente il passo, erano in attesa e, già tutt'intorno al vestibolo, erano appesi arazzi che pretendevano uno sguardo ufficiale; le porte, adorne di intagli, avevano pesanti maniglie di bronzo, visibilmente destinate a non essere aperte dalla mano dell'ospite, ma a venire spalancate dal cameriere servile con la gobba: tutto pesò immediatamente sul suo rancore indispettito trasmettendogli ripugnanza e stordimento. E quando il domestico lo condusse nella camera degli ospiti a tre finestre, che gli era stata assegnata come alloggio fisso, prevalse nel suo intimo la chiara sensazione di essere importuno e un intruso: proprio lui che fino al giorno prima alloggiava ancora nella stanzetta esposta alle correnti al quarto piano sul retro dell'edificio, dormiva in un letto di legno e si lavava nella catinella di latta, avrebbe dovuto sentirsi a suo agio in quel locale dove ogni utensile ostentava ricchezza, coscienza del proprio valore venale e irrideva a chi, come lui, veniva semplicemente tollerato. Ciò che aveva portato con sé, dunque se stesso con addosso il vestito, si raggrinzì miseramente in quella camera ampia e luminosa. La sua giacca penzolava buffamente come un impiccato nell'armadio capiente e ingombrante, i suoi pochi capi di biancheria e soprattutto il rasoio consumato sembravano rifiuti o attrezzi da lavoro dimenticati da un capomastro sulla toilette spaziosa rivestita di marmo. Con un gesto irriflessivo, nascose il tozzo baule rigido sotto un tendaggio invidiandolo perché era riuscito a rintanarsi e a mimetizzarsi, mentre egli se ne stava in piedi nella stanza chiusa a chiave come uno scassinatore colto in flagrante. Invano tentò di dar fiato a quella sua sensazione di nullità carica di stizza e di vergogna assicurando a se stesso di essere stato pregato e richiesto. Nondimeno la paciosità degli oggetti intorno a lui schiacciò ogni argomentazione: egli si sentì ridiventare insignificante, mortificato e vinto dal peso del mondo del denaro supponente e vanaglorioso: un cameriere, un servo, un leccapiatti, un mobile umano, comperato e affittabile, derubato della propria identità. Ma in quel momento il domestico, sfiorando l'uscio con una lieve pressione della nocca, la faccia impassibile e il busto rigido, gli annunciò che la signora pregava il signor dottore di raggiungerla nelle sue stanze. Mentre percorreva esitante la fuga delle sale, il giovane si sentì, per la prima volta dopo anni, come rinsecchito: le sue spalle sporgevano in avanti, pronte all'inchino servile, e dopo anni l'insicurezza e la confusione dell'adolescenza ripresero vigore. Ma, appena le andò vicino, lo spasimo interiore si rilassò e, ancora prima che il suo sguardo, rialzandosi dall'inchino, si fermasse sul volto e sulla figura della signora, che intanto gli aveva rivolto la parola, aveva già subito il fascino irresistibile della sua voce. Erano parole di ringraziamento, pronunciate con tale schiettezza e naturalezza che la nube di malumore si dissipò, sfiorando contiguamente la sfera emotiva aperta all'ascolto. «La ringrazio infinitamente, dottore», e gli porse cordialmente la mano, «di avere dato seguito all'invito di mio marito e mi auguro che mi sia consentito di dimostrarle presto quanto le sono riconoscente. Non le deve essere stato facile: non si rinuncia volentieri alla propria libertà, ma forse la può tranquillizzare la consapevolezza di avere legato a sé due persone con l'obbligo di riconoscenza. Dal canto mio posso solo procurare - e lo farò di buon grado - di farle sentire come sua questa casa.» Una parte di lui stava ascoltando attentamente. Come aveva fatto a sapere della libertà venduta malvolentieri? Come mai, subito dopo la prima parola, aveva toccato ciò che era stato ferito e scorticato dentro di lui, il ganglio più sensibile della sua natura, fino a giungere al punto pulsante per la paura di perdere la libertà e non essere altri che l'individuo sopportato, affittato, pagato? Come mai era riuscita, al primo gesto della mano, a spazzare via questo suo timore? Involontariamente egli alzò gli occhi, percependo solo allora uno sguardo caldo e partecipe che aspettava il suo con fiducia. Quel volto emanava qualcosa che sicuramente era soavità, una serena autocoscienza tranquillizzante; la schiettezza si irradiava dalla fronte pura, giovanilmente lucida che, prematuramente, aveva adottato la seria foggia della capigliatura della matrona - la massa scura dei capelli, prima raccolta, scendeva in un'arcata di onde profonde - mentre, a partire dal collo, un abito della stessa tinta avvolgeva le spalle piene. Grazie all'accostamento cromatico, quel viso sembrava brillare di luce propria ormai placata. Somigliava a una Madonna borghese con qualcosa della suora, suggerito forse dal vestito accollato; era per l'appunto la benevolenza a dare a ogni gesto un'aura di maternità. Poi si avvicinò di un passo con un movimento molle. Sulle labbra esitanti del giovane il sorriso spense il ringraziamento. «Un'unica preghiera, la più urgente. So che, quando non ci si conosce da molto, la convivenza è sempre un problema. In casi del genere è di aiuto una cosa sola: la sincerità. Perciò, se in qualche occasione lei dovesse sentirsi oppresso, intralciato da un qualsivoglia atteggiamento o chissà mai da un'iniziativa, la prego di dirmelo liberamente. Lei è l'aiutante di mio marito e io sono la moglie. Questo duplice dovere ci lega, sicché cerchiamo di essere sinceri.» Egli le prese la mano: il patto era stretto; e dal primo momento si sentì legato a quella casa. Il lusso dell'arredo non lo disponeva più all'ostilità, al contrario lo interpretò come la cornice necessaria alla distinzione che qui mitigava ciò che esteriormente aggrediva, proprio perché ostile, caotico e contraddittorio, elevandolo ad armonia. A poco a poco scoperse un senso artistico pressoché squisito che aveva subordinato la preziosità a un ordine superiore e si rese conto di come inavvertitamente quel ritmo smorzato di vita stesse penetrando anche nella propria esistenza, anzi nelle sue stesse parole. Si sentì stranamente tranquillizzato: tutti i sentimenti spigolosi, veementi e passionali perdettero la loro cattiveria e irritabilità, quasi che i soffici tappeti, le pareti rivestite di stoffe, la tende colorate succhiassero segretamente la luce e il frastuono del vicolo. Nel medesimo tempo avvertiva che quell'ordine sospeso nell'aria non nasceva da sé, senza un contenuto, ma derivava dalla presenza di quella donna taciturna, come avvolta entro il proprio sorriso buono. Della magia, percepita intuitivamente nei primi minuti, prese via via beneficamente coscienza nelle settimane e nei mesi seguenti: con un tatto discreto la donna lo introdusse a poco a poco nel cerchio più vitale e intimo della casa, senza tuttavia costringerlo. Protetto ma non sorvegliato, egli si avvide di un'attenzione empatica che da lontano si interessava a lui: i suoi piccoli desideri venivano soddisfatti non appena egli vi facesse accenno, in un modo discreto come per opera degli gnomi dei boschi, rendendo impossibile qualunque ringraziamento. Se per caso una sera, sfogliando una cartella di preziose litografie, ne aveva ammirata una in particolare, il pugno di Rembrandt per esempio, due giorni dopo trovava la riproduzione già incorniciata sopra la scrivania. E se aveva menzionato un libro, che un amico aveva elogiato, nei giorni successivi lo trovava in biblioteca. Inconsciamente la stanza si uniformò ai suoi desideri e alle sue abitudini: spesso, al primo sguardo, il giovane non si accorgeva delle singole modificazioni, ma si rendeva conto che era diventata più confortevole, più colorata e più calda. In seguito, scoprì che la coperta dell'ottomana assomigliava a quella che aveva ammirata in una vetrina oppure che la luce della lampada filtrava attraverso uno schermo di seta color lampone. Era l'atmosfera ad affascinarlo sempre di più: ormai usciva malvolentieri da quella casa dove strinse una calorosa amicizia con un ragazzino di dodici anni e amava accompagnare il figlio e la madre a teatro o a un concerto. Senza saperlo, prediligeva ormai trascorrere le ore libere dopo il lavoro nella mite luce lunare della sua tranquilla presenza. Aveva amato quella donna fin dal primo incontro, ma per quanto questo sentimento lo travolgesse persino nei sogni, gli mancava nondimeno la chiarezza definitiva, capace di un effetto sconvolgente, ovverosia la nozione consapevole di ciò che era ormai realtà: il trasporto che, trovando un pretesto davanti a se stesso, egli continuava a nascondere sotto varie denominazioni ammirazione, venerazione o devozione - era già amore, un amore fanatico, una passione sfrenata e totale. Ma un certo servilismo superstite gli restituiva più vaga la percezione: perché gli appariva lontana, troppo in alto, troppo distante - quella donna radiosa, illuminata da una luce stellare, corazzata dalla ricchezza - rispetto a ogni sua precedente esperienza della femminilità. Gli sarebbe sembrato blasfemo, ai suoi stessi occhi, ritenere anche lei subordinata al sesso e all'identica legge a cui avevano ubbidito le poche donne che la sua gioventù asservita gli aveva permesso: le serve alla masseria che avevano aperto la porta al maestro, curiose di vedere se mai uno che aveva studiato ne sapesse di più del cocchiere e dello stalliere, oppure le ricamatrici incontrate, rincasando, nella penombra dei lampioni. Quella donna irradiava la luce della sfera dell'intangibilità: era pura, intoccabile e nessuno poteva desiderarla; del resto neppure il più passionale dei suoi sogni ebbe l'ardire di denudarla. Ancora confuso come l'adolescente, il giovane era ammaliato dal profumo della sua presenza, godendo ogni gesto quasi fosse stata una musica, felice della sua fiducia e incessantemente terrorizzato di lasciar trapelare qualcosa del sentimento traboccante che lo eccitava: un sentimento tuttora senza nome, eppure già formato e ardente ancorché mascherato. Ma l'amore è verace solo nell'attimo in cui si palesa, qualora non ondeggi più, allo stato embrionale e oscuro, all'interno del corpo, ma osi trovare un nome per sé con il respiro e con il labbro e rivelarsi. Per quanto codesto sentimento si rinchiuda ostinatamente dentro la crisalide, arriva pur sempre l'istante nel quale esso fora repentinamente l'intricato tessuto del bozzolo e, cadendo da altezze infinite sul fondale più basso, precipita con doppia violenza nel cuore intimorito. Questo accadde, abbastanza tardi, nel secondo anno della coabitazione. Una domenica il consigliere segreto aveva chiamato l'assistente in camera sua. Il fatto stesso che, dopo un fugace saluto, chiudesse la porta imbottita alle loro spalle, contravvenendo alle consuetudini, e ordinasse nel ricevitore del telefono domestico che si evitasse di disturbarlo, indicava significativamente che si trattava di una comunicazione particolare. Il vecchio signore gli offrì un sigaro, lo accese con meticolosità, come per guadagnare tempo per una conversazione evidentemente già pensata nei dettagli. Prese l'avvio da un circostanziato ringraziamento per i servigi prestati. «Da ogni punto di vista lei ha superato se stesso e la mia fiducia. Mai mi sono pentito di averle affidato, pur essendole legato da così breve tempo, anche questioni molto personali. Ieri, deve sapere, è giunta alla nostra azienda d'oltremare l'importante notizia che non esito a comunicarle: il nuovo esperimento chimico, di cui lei è a conoscenza, richiede grandi quantità di certi minerali e proprio ora un telegramma mi ha avvertito che abbondanti presenze per l'appunto di codesti minerali sono state rilevate in Messico. L'importante, a questo punto, è la rapidità con cui li si fanno avere all'azienda; perciò occorre organizzare in loco l'estrazione e lo sfruttamento prima che le società americane approfittino dell'occasione. Ciò necessita di un uomo di fiducia, ma anche giovane ed energico. Per me personalmente sarà un duro colpo e un dolore rinunciare a un assistente fidato e intimo, ma ho ritenuto mio dovere proporla nella seduta del consiglio di amministrazione, essendo lei il dipendente più zelante e l'unico adatto all'incarico. Sarà indennizzato equamente, insomma le garantiamo di assicurarle un futuro splendido. A due anni dall'installazione, non solo potrà contare su un piccolo patrimonio grazie alla ricca retribuzione, ma al suo ritorno le verrà riservata, inoltre, una mansione dirigenziale nell'impresa. In ogni caso», concluse tendendo la mano per felicitarsi, «ho il presentimento che lei siederà di nuovo su questa sedia e che alla fine sarà lei a dirigere ciò che io, ormai vecchio, ho iniziato tre decenni or sono.» Un incarico del genere, piovutogli a ciel sereno, perché non avrebbe dovuto confondere anche un uomo ambizioso come lui? Eccola finalmente la porta - e come spalancata da un'esplosione - che lo avrebbe fatto uscire dallo scantinato della povertà, dal mondo buio del servaggio e dell'ubbidienza, riscattandolo da anni di inchini come chiunque sia costretto a comportarsi e a pensare con umiltà: lo sguardo avido, fissò le carte e i dispacci sui quali, dalla massa dei geroglifici, prese gradualmente forma l'imponente progetto dai contorni enormi ma ancora imprecisi. Numeri e numeri turbinarono all'improvviso sopra di lui, migliaia, centinaia di migliaia, milioni da amministrare, da calcolare, da guadagnare: l'atmosfera infuocata del potere e del comando. Egli venne a trovarsi all'improvviso, stordito e con il cuore in gola, esattamente in quest'atmosfera, come su una mongolfiera fantastica a bordo della quale sarebbe salito in alto, abbandonando il servilismo e l'opacità della propria sorte. E poi: non solo denaro, non solo affari, iniziative, gioco e responsabilità, no, non solo questo: a tentarlo era un'altra prospettiva disomogeneamente allettante. Inventare, creare dal nulla, affrontare compiti impegnativi, estrarre il minerale dalle montagne, dove era rimasto da millenni in un sonno assurdo sotto la corteccia della Terra, trivellare pozzi, pianificare città, vedere crescere nuove case, spuntare nuove strade, udire il rumore delle scavatrici e delle gru. Dietro lo spoglio groviglio dei calcoli cominciavano a fiorire, come ai tropici, forme fantastiche e tuttavia plastiche, a sorgere fattorie, fabbriche, silos, un nuovo pezzo di mondo umano che egli doveva collocare in uno spazio ancora vuoto, comandando e impartendo ordini. L'aria di mare, disinfettata dall'ebbrezza della lontananza, penetrò improvvisamente nella piccola stanza imbottita, i numeri si ammonticchiarono originando una somma iperbolica. E nella vertigine sempre più accalorata dell'entusiasmo, che conferiva a ogni deliberazione la forma guizzante del volo, tutto fu deciso a grandi linee e anche il lato pratico venne concordato. All'improvviso nella sua mano frusciò un assegno di una cifra inattesa per le spese in previsione del viaggio, e, dopo un nuovo giuramento, la partenza su un piroscafo della linea del Sud fu fissata entro dieci giorni. Ancora eccitato dal turbinio dei numeri e frastornato dal vortice delle possibilità smosse, era quindi uscito dalla porta dello studio. Un secondo di sconcerto per guardarsi attorno inebetito, come per sincerarsi che la conversazione non fosse stata solo una fantasmagoria evocata dal desiderio sovreccitato. Un colpo d'ala lo aveva riportato, dal fondo, nella sfera scintillante della realizzazione. Gli bolliva ancora il sangue a causa della precipitosa risalita e, per un istante, fu costretto a chiudere gli occhi. Li chiuse, come si trattiene il respiro, unicamente per prendere coscienza di sé e godere l'io interiore tenendolo più distinto e cogliendone la potenza. Ciò durò un minuto: dopodiché, come riaprì le palpebre, il suo sguardo, frugando nel vestibolo a lui noto, venne catturato fortuitamente dal dipinto che era appeso sopra la grande cassapanca: il suo ritratto. Lei lo fissava, le labbra appena inarcate e morbidamente strette, sorridente e nel medesimo tempo pensosa, come se avesse compreso ogni parola del suo monologo interiore. E in quel secondo lo fulminò il pensiero, ormai dimenticato, che abbandonare il posto di lavoro significava anche lasciare quella casa. Dio mio, lasciare lei! Come una lama il pensiero fendette la vela orgogliosamente gonfiata dalla gioia e nell'attimo di disattenzione, in cui lo stupore lo sopraffece, l'intera impalcatura di finzioni, artificiosamente eretta, crollò sul suo cuore. Il muscolo cardiaco ebbe un brivido repentino, ed egli intuì che la prospettiva di rinunciare a quella donna lo stava lacerando: una sofferenza insopportabile. Dio, lasciare quella donna! Come aveva potuto solamente pensare a una simile ipotesi, solamente prendere una simile decisione! Ormai non apparteneva più a se stesso: con tutte le graffe e le radici del suo animo, egli era invece legato lì, alla sua presenza. Violentemente, con una forza elementare, un improvviso dolore fisico vibrante e inconfondibile esplose percorrendogli trasversalmente tutto il corpo dalla calotta cranica fino in fondo al cuore, una fenditura che, come il fulmine nel cielo notturno, illuminò ogni cosa: in quella luce accecante era impossibile non vedere che in ogni nervo e in ogni fibra germogliava l'amore per lei, per la donna che amava. E non appena pronunciò, senza parlare, la parola magica, con quella velocità inspiegabile che, sola, aizza la paura, innumerevoli piccole associazioni e ricordi gli trafissero la coscienza, rischiarando con una luce abbagliante ogni suo sentimento e, insieme, i dettagli che finora non aveva mai osato confessare o spiegare. Solo allora seppe di appartenerle da mesi. Non era stato nella settimana di Pasqua che, quando lei era andata in visita dai suoi parenti, egli aveva brancicato, come se si fosse smarrito, di stanza in stanza, incapace di leggere un libro, sconvolto, senza nemmeno sapere il perché - e poi, nella notte in cui lei sarebbe dovuta tornare, non aveva aspettato fino all'una di udire il suo passo? E un'impazienza nervosa non lo aveva spinto giù dalla scala almeno mille volte prematuramente, pensando che la carrozza fosse arrivata? Si sovvenne anche del brivido di freddo, che dalle mani gli salì alla nuca, quella volta che a teatro la propria mano aveva inavvertitamente sfiorato quella di lei. Cento di questi ricordi insignificanti, semplici inezie, di cui non si era quasi avveduto, si rovesciarono con un boato dalle saracinesche della diga sulla sua coscienza, nel suo sangue, e ciascuno gli colpì direttamente il cuore. Con un gesto involontario si portò una mano contro il petto, tanto forte sentiva battere il cuore. A quel punto niente gli fu di aiuto e, quasi senza difendersi, confessò a se stesso la verità, che un istinto timido e insieme devoto aveva oscurato con ogni tipo di diaframma: senza la sua presenza non sarebbe riuscito a vivere. Due anni, due mesi, due settimane senza quella luce soave sulla sua strada, senza i discorsi gentili nelle due ore della sera, no, non erano sopportabili. E il programma che, solo dieci minuti prima, lo aveva riempito di orgoglio, la missione in Messico, l'ascesa al potere creativo, perse consistenza. Era scoppiato come una bolla di sapone fosforescente, si era ridotto ormai all'idea di lontananza, di assenza, di carcere, di esilio, di distruzione, al pensiero di un distacco al quale non si sopravvive. No, impensabile! E già la sua mano tremava abbassando la maniglia. Era deciso a tornare nella stanza del consigliere segreto per comunicargli che rinunciava, che non si sentiva all'altezza dell'incarico e preferiva restare a casa. Ma la paura gli disse ammonendolo: non ora! Non confessare prematuramente un segreto che solo adesso cominci a smascherare. Con un gesto stanco staccò la mano febbricitante dal metallo freddo. Osservò di nuovo il ritratto: gli occhi, gli parve, lo fissavano sempre più insistentemente, solo il sorriso intorno alla bocca gli sfuggiva: non lo trovò più. La donna lo stava guardando dal quadro con un'aria seria, anzi quasi con tristezza, come se volesse dirgli: «Stavi per dimenticarmi?» Non sopportò oltre quello sguardo, semplicemente dipinto sulla tela e tuttavia così vivo. Tornò barcollante in camera sua, lasciandosi cadere sul letto, come in deliquio, con una strana sensazione di orrore misto a dolcezza. Avidamente ripensò a ciò che aveva vissuto in quella casa dal primo istante e tutto, anche il particolare più insignificante, gli sembrò che acquistasse un peso diverso e una luce diversa. Ogni sua esperienza era illuminata dalla luce interiore della conoscenza, era leggero e si sollevava nell'aria surriscaldata della passione. Si rammentò delle testimonianze della sua gentilezza e ne scorse i segni intorno a sé. Con lo sguardo sfiorò gli oggetti che la sua mano aveva toccati. Ciascuno riverberava la felicità della sua presenza, anzi quella donna era lì, in quegli oggetti, ed egli ne sentiva i pensieri amichevoli lasciati ovunque. La certezza che la sua bontà gli fosse destinata gli trasmise un entusiasmo travolgente: ma sul fondo di questa corrente era rimasto, dentro di lui, qualcosa che opponeva resistenza come una pietra, qualcosa che non era stato rialzato e andava rimosso, affinché il suo sentimento potesse fluire liberamente. Con infinita cautela si avvicinò a questa macchia scura depositatasi nello strato più basso del sentimento: intuiva già che cosa significava, ma non osò toccarla. Ma la corrente lo ricacciava indietro, sempre e soltanto a quel punto e a quell'unica domanda: in tante piccole attenzioni c'era, da parte sua, se non altro - non osava pronunciare la parola amore - simpatia e un tenue affetto, seppur privo di passione, in quel suo modo di essere presente, pronto all'ascolto ma subito smentito? La domanda vagò dentro di lui. Pesanti onde nere di sangue la risollevavano di continuo mugghiando, senza però riuscire a capovolgerla. «Se riuscissi almeno a ricordare chiaramente!» si diceva, ma troppo passionali i suoi pensieri ondeggiavano mischiandosi a sogni e a desideri confusi, e poi c'era quella sofferenza costantemente rivangata che lo spingeva nel fondo del baratro. Forse per un'ora o per due giacque sul letto insensibile, sfuggito alla sua coscienza, inebetito da un miscuglio narcotizzante di sensazioni, finché un delicato picchiettio contro l'uscio lo fece sobbalzare, un tamburellare con nocche caute ed esili, che egli credette di riconoscere. Scattò in piedi e si precipitò verso la porta. Era davanti a lui sorridente. «Ma, dottore, perché non viene? Il gong ha suonato già due volte per la cena.» Aveva pronunciato quelle parole in un tono quasi arrogante, come se fosse per lei una piccola gioia sorprenderlo mentre commetteva una negligenza. Ma non appena vide la faccia del giovane, i capelli umidi a ciocche, gli occhi sfuggenti confusi e timorosi, impallidì. «Per l'amor di Dio, che cosa le è successo?» fece balbettando, e questo tono diverso, impaurito, lo inondò di piacere. «Niente, niente», ribatté l'assistente riavendosi alla svelta, «ero assorto nei miei pensieri. Tutta la faccenda mi è saltata addosso troppo alla svelta.» «Che cosa? Quale faccenda? Parli!» «Non lo sa? Il consigliere segreto non l'ha informata?» «No, no», insistette impaziente, quasi confusa dal suo sguardo svagato, caldo, elusivo. «Che cosa è successo? Me lo dica, su!» Allora compresse i muscoli per guardarla con uno sguardo sicuro e senza arrossire. «Il signor consigliere è stato così gentile da affidarmi un compito delicato e di grande responsabilità. Fra dieci giorni parto per il Messico. Per due anni.» «Per due anni! Santo cielo!» Il suo sgomento scaturiva, precipitoso e appassionato, da una sorpresa profonda, era un grido più che una parola. E, come per difendersi, involontariamente, allargò le mani all'indietro; ma fu inutile che nell'attimo successivo si sforzasse di smentire il sentimento lasciato uscire, anzi scaraventato fuori: egli le aveva già preso le mani (ma com'era accaduto?) - subito ritratte per paura, stringendole nelle sue e, prima che si rendessero conto, i loro corpi tremanti si urtarono incendiandosi e in un lungo bacio placarono le infinite ore e i giorni di sete e di desiderio. Nessuno dei due aveva tratto l'altro a sé: si erano come buttati l'uno tra le braccia dell'altra, quasi che una bufera li avesse violentemente riuniti precipitandoli insieme, fusi, in uno stato di incoscienza infinita; e quello sprofondare assomigliò a un deliquio dolce e tuttavia infuocato. Un sentimento stivato da troppo tempo si scaricò, acceso dal magnete dell'accidentalità, in un solo secondo. A poco a poco, quando le loro labbra si staccarono, ancora barcollando incredulo, egli guardò dentro i suoi occhi dove una luce ignota si era nascosta dietro la delicata oscurità. In quel momento lo sopraffece la certezza che ormai da lungo tempo, da settimane, da mesi, da anni quella donna lo amasse in un delicato silenzio avvampando di un amore materno, quindi prima ancora che quell'istante le avesse spaccato l'anima. E per l'appunto l'intuizione di un evento incredibile lo inebriò: era amato, amato da lei, dall'inavvicinabile: un cielo sorse, pervaso di luce e infinito, un radioso meriggio della sua vita, benché già nell'istante successivo si disintegrasse lanciando schegge taglienti. Infatti riconoscersi significò per loro l'addio. Trascorsero i dieci giorni fino alla partenza in uno stato di esaltazione, di ebbrezza e di follia. L'improvvisa esplosione del loro sentimento confessato aveva fatto saltare, con l'impetuosa violenza del conseguente spostamento d'aria, dighe e ostacoli, riserve morali e precauzioni: come animali avidi e in fregola si avventarono l'uno sull'altra a ogni casuale incontro in un corridoio buio, in un angolo, nella breve frazione di secondo tra due minuti. La loro mano voleva sentire una mano, le labbra altre labbra, il sangue eccitato il sangue fraterno. Ogni loro fibra era febbricitante e agognava il contatto, ogni nervo bruciava dal bisogno di sentire sensualmente qualunque parte viva del corpo divorato dal desiderio, piede, mano, abito che fosse. In casa, però, dovettero simultaneamente controllarsi: lei davanti al marito, al figlio, alla servitù, lui per essere intellettualmente all'altezza dei calcoli matematici, delle riunioni, dei preventivi di cui era responsabile. Ghermivano secondi, attimi vibranti, furtivi, pericolosi perché spiati, solo con le mani o con le labbra. Con gli sguardi o con un bacio arraffato avidamente riuscivano ad avvicinarsi di sfuggita, e la vicinanza nebbiosa, afosa, soffocante dell'altro, altrettanto inebriato, li inebriava. Ma non si saziavano mai. Lo sapevano entrambi. E allora si scrissero bigliettini ardenti di passione, come scolaretti si passavano lettere confuse e infuocate. La sera lui, insonne, le trovava fruscianti sotto il cuscino, lei nella tasca del soprabito. Ogni scritto terminava nel grido disperato di un identico infelice interrogativo: come sopportare la lontananza, un mare, un mondo, mesi infiniti, settimane infinite, due anni frapposti al sangue e agli sguardi? Non pensavano ad altro, non sognavano altro e nessuno sapeva trovare la risposta. Soltanto le mani, gli occhi, le labbra, ignari servi del loro amore, erano pronti a scattare, desiderando la congiunzione e il vincolo più intimo. Perciò gli attimi rubati per un abbraccio convulso fra due porte accostate erano istanti trepidi, straripanti di piacere dionisiaco e nel contempo di ansietà. Senonché a lui, allo spasimante, non fu mai concesso il completo possesso del suo corpo e nondimeno, dietro l'insensibile diaframma della veste, egli lo sentiva impennarsi eccitato dalla frenesia, lo sentiva caldo e nudo premere incontro al proprio. Nella casa troppo illuminata, sempre sorvegliata e spiata da vigili orecchie umane, egli non andò mai veramente vicino a questa soglia. Solo l'ultimo giorno quando, adducendo il pretesto di aiutarlo a fare i bagagli, in realtà per dirgli addio, lei entrò nella sua camera già sgomberata e, aggredita cupidamente dal giovane uomo e quasi travolta dall'energia del suo slancio contro l'ottomana, barcollò e cadde mentre i baci maschili si spingevano sotto l'abito e le sovreccitavano il petto inarcandolo e scivolavano sulla pelle bianca e calda verso il punto in cui le si sentiva il cuore battere affannosamente, forse in quegli attimi di cedevolezza stava davvero per essere sua con l'offerta del proprio corpo ma, come riavendosi dall'emozione, balbettò un ultimo supplichevole: «Non ora! Non ora! Ti prego». Il suo sangue ubbidì e si lasciò soggiogare dalla devozione che serbava da tanto tempo alla donna amata quasi religiosamente. Ritrasse i suoi sensi già liberati e si scostò. Lei si rialzò visibilmente stordita e si nascose la faccia tra le mani. Anch'egli vacillava, in balia di una dolorosa delusione. Ma non le sfuggì quanto il giovane soffrisse a causa sua, a causa di un amore inappagato, e, di nuovo padrona del proprio sentimento, gli andò vicina. A voce bassa lo consolò: «Qui non potevo, non potevo farlo in casa mia, in casa sua. Ma, quando tornerai, in qualunque momento». Il treno si arrestò con grande strepito, cigolando tra le ganasce dei freni tirati. Come un cane si sveglia a una frustata, anche il suo sguardo riemerse dal sogno. Ma - e la scoperta lo colmò di gioia - la vide davanti a sé: era lei, la donna perdutamente amata, che troppo a lungo gli era stata lontana. Sedeva tranquilla, a un soffio. L'ala del cappello le ombreggiava la faccia lievemente abbandonata all'indietro. Ma poi, forse perché aveva inconsciamente capito che l'uomo avvertiva un desiderio nostalgico del suo volto, rizzò il busto offrendogli un dolce sorriso. «Darmstadt», disse guardando fuori, «ancora una fermata.» Egli non rispose. Stava seduto e la osservava. Tempo impotente, pensò tra sé e sé, impotenza del tempo contro il nostro sentimento: nove anni da allora e neanche un suono della sua voce è cambiato, né un solo nervo del mio corpo le presta ascolto con un'attenzione diversa. Nulla è perduto, niente è svanito. Dolce felicità la sua presenza, come allora. Appassionatamente guardò la sua bocca dal sorriso pacato - non riuscendo quasi più a ricordare di averla baciata -, poi guardò le sue mani che, in una calma lieve, sembravano splendere di luce propria, posate in grembo. Sentì un infinito desiderio di abbassarsi e sfiorarle appena con le labbra o di racchiuderle, così giunte, fra le proprie solo per un secondo, un breve secondo! Senonché i signori ciarlieri avevano cominciato a scrutarlo con curiosità e così, per non tradire il suo segreto, si rilasciò sullo schienale, comunque non parlò. Se ne stettero sempre l'uno di fronte all'altra senza un segno o una parola. Solo i loro sguardi si baciavano. Fuori risuonò un fischio, il convoglio si rimise in marcia, rollando, e la monotonia del suo beccheggio, come una cuna di acciaio, lo cullò finché si perse nella memoria: anni bui e infiniti tra allora e adesso, un mare grigio tra sponda e sponda, tra cuore e cuore! Com'era stato possibile? Qualche ricordo c'era, ma egli non lo voleva toccare, non voleva ricordare l'ora dell'addio sul marciapiede della stazione della stessa città dove poc'anzi l'aveva attesa con un senso di sollievo. No, basta, è passato, finito, non pensare più a quei momenti, è stato troppo terribile! Ma i pensieri volarono molto più indietro: altro paesaggio, altro tempo si dischiuse nella visione onirica riavvicinatasi al ritmo rapido delle ruote che sferragliavano. Era partito per il Messico, l'anima lacerata. I primi mesi, le prime spaventose settimane, finché non ricevette sue notizie, riuscì a sopportarli solo riempiendosi il cervello di numeri e di progetti, sfiancandosi a furia di cavalcare, di spedizioni in lungo e in largo per il paese, di ricerche, di trattative portate a termine con risolutezza. Dal mattino a notte fonda si rinchiudeva nella casa-macchina dell'azienda, casa e macchina parlante, scrivente, urlante, frenetica, dove il martellio dei numeri rintronava la testa; e lo faceva solo per udire la voce interiore chiamare disperatamente un nome, il suo nome. Si stordì di lavoro come se fosse alcol o un veleno solo per ottundere i sentimenti, così prepotenti. Ma ogni sera, per quanto stanco, si sedeva e, una pagina via l'altra, incurante del passare delle ore, annotava ciò che aveva fatto di giorno e con qualsivoglia mezzo postale inviava plichi e plichi di questi fogli, scritti con mano tremante, a un indirizzo di comodo convenuto in maniera che l'amata lontana, come a casa, partecipasse alla sua vita, ora per ora, ed egli sentisse il suo mite sguardo vegliare, presago, sulla propria giornata lavorativa con un balzo di mille e mille miglia marine, varcando colline e orizzonti. Le lettere che riceveva erano riconoscenti. Grafia verticale, parole calme, lasciando nondimeno trasparire il fuoco della passione, ma in forma asciutta, anch'esse lo relazionavano seriamente, pur senza lamentele, del decorso dei giorni, tant'è vero che egli aveva la sensazione di sentire l'azzurro occhio sicuro volto su di lui; solo il sorriso gli mancava, quel sorriso leggermente conciliante, che toglieva a ogni accadimento serio la sua pesantezza. Quelle lettere erano divenute la bevanda e il nutrimento del giovane rimasto solo: le portava con sé in viaggio nelle pianure desertiche e sulle montagne; nella sella si era fatto cucire delle tasche protette contro gli improvvisi scrosci di pioggia e l'acqua dei fiumi che doveva attraversare durante le esplorazioni. Le aveva lette e rilette tante volte che nelle piegature la carta era diventata trasparente; alcune parole erano state addirittura cancellate dai baci e dalle lacrime. A volte, quando era solo o sapeva che non c'era qualcuno nei paraggi, le tirava fuori per leggerle, parola per parola, con l'intonazione di voce della donna lontana a evocarne la presenza come per magia. A volte, invece, si alzava all'improvviso nel cuore della notte se per caso gli era sfuggita una parola, una frase o la formula usata come chiusura: accendeva il lume per ritrovare i passaggi in questione e dalla scrittura ricavare l'effigie della sua mano, quindi, partendo da questa, risalire al braccio, alla spalla e alla testa finché davanti a sé compariva l'immagine della sua figura trasferita al di là di terre e mari. Come un taglialegna nella foresta vergine, a colpi d'ascia infieriva con furia e forza per fare a pezzi un passato impenetrabile, violento e tuttora minaccioso, impaziente di vedere sorgere un futuro luminoso, il ritorno, il viaggio, la scena - simulata mille volte - dell'attesa prima copula. Nella baracca di legno con il tetto di lamiera, costruita in gran velocità, nella colonia operaia di recente istituzione, sopra il tavolaccio aveva appeso un calendario sul quale cancellava i giorni trascorsi - spesso già a mezzogiorno tirava un rigo sulla giornata lavorativa, tant'era impaziente - e contava e ricontava la fila rossa e nera, sempre più breve, di quelli ancora da sopportare: 420, 419, 418 giorni fino al ritorno. Perché, a differenza degli altri uomini da che mondo è mondo, egli non incominciava dall'inizio, ma partiva dalla fine, cioè dal giorno previsto per il rimpatrio. E ogni volta che il lasso di tempo mancante corrispondeva a una cifra tonda, 400, 350, 300, o era il suo compleanno, il suo onomastico, o, anche, una di quelle ricorrenze intime e segrete l'anniversario del primo incontro o della prima volta che lei gli aveva confessato il proprio amore -, dava una specie di festa invitando quelli che gli stavano intorno ed essi erano strabiliati essendo all'oscuro delle ragioni dei festeggiamenti o facevano un sacco di domande; regalava soldi ai bambini sudici dei meticci e acquavite agli operai perché si divertissero e saltassero come puledri selvatici dal mantello baio; si metteva il vestito della domenica, mandava a prendere il vino e le migliori conserve. Una bandiera sventolava su un pennone alzato con le sue stesse mani, perché fungesse da vessillo della gioia, e se poi arrivavano numerosi i vicini e gli aiutanti spinti dalla curiosità di sapere per quale santo o per quale strana occasione lo straniero facesse baldoria, egli si limitava a sorridere e a dire: «E a voi che cosa importa? Piuttosto divertitevi con me!» Così se ne andarono settimane e mesi, un anno si sfiancò fino a morire e poi un altro semestre. Ormai non mancavano che sette piccole, minuscole, misere settimane al ritorno. Da tempo smaniava dall'impazienza: aveva calcolato l'ora della partenza con una barca e, meravigliando i booker, aveva prenotato e pagato la cabina sull'Arkansas cento giorni prima, quando sopraggiunse la catastrofe che non solo stracciò il suo calendario senza nessuna pietà, ma con assoluta indifferenza straziò milioni di destini e di pensieri. Giorno catastrofico: all'alba il geometra con due capisquadra, e al seguito uno stuolo di servi, era partito con cavalli e muli, lasciando la piana color zolfo alla volta delle montagne per ispezionare il luogo di una nuova trivellazione, in cui si supponeva esistesse un giacimento di magnesite. I meticci lavorarono di martello, scavarono, bussarono e ricercarono per due giorni sotto i raggi di un sole impietoso a perpendicolo, che la nuda pietra rifletteva un'altra volta. Ma come un invasato egli spronava gli operai, non concedeva neppure alle loro lingue assetate di fare cento passi fino alla polla d'acqua da scavare in fretta: voleva arrivare in tempo all'ufficio postale per vedere se mai c'era la sua lettera, le sue parole. E al terzo giorno, pur non essendo stato raggiunto il fondo del pozzo senza effettuare la prova definitiva, fu sopraffatto dal desiderio parossistico e insensato di un suo messaggio, da una smania così pazzesca di ricevere sue notizie, che decise di tornare da solo, a cavallo nella notte, semplicemente per ritirare la lettera che presumeva fosse giunta con la posta del giorno prima. Insensibile, lasciò gli altri nella tenda, montò in sella e, accompagnato da un solo servo, cavalcò su un sentiero buio e pericoloso sul ciglio di strapiombi fino alla stazione ferroviaria. Ma il mattino, arrivati finalmente nella piccola località, infreddoliti dalle basse temperature sulle montagne rocciose, appena smontarono dai cavalli fumanti si presentò loro una visione insolita. I pochi coloni avevano abbandonato il lavoro e, in mezzo a uno stuolo di meticci e di nativi urlanti che facevano domande e guardavano con occhi imbambolati, accerchiavano la stazione. Ce ne volle per farsi strada tra la folla eccitata. Ma all'ufficio vennero a sapere una notizia insospettabile: dalla costa erano pervenuti telegrammi con l'annuncio che in Europa era scoppiata la guerra: la Germania contro la Francia, l'Austria contro la Russia. Non credette alle proprie orecchie: conficcò gli speroni nei fianchi del povero ronzino quasi zoppo con tale livore che l'animale spaventato si inalberò nitrendo e partì come una saetta alla volta del palazzo del governo. Lì egli udì una notizia ancor più costernante: era la pura verità ma la situazione, se si può dire, era ancor meno rosea: anche l'Inghilterra era entrata in guerra, e l'oceano era precluso ai tedeschi. Tra l'uno e l'altro continente era calata, a tempo indeterminato, la cortina di ferro come una lama tagliente. Inutile battere il pugno chiuso sul tavolo quasi a colpire un nemico invisibile: come lui, altri milioni di uomini impotenti si avventavano contro il muro del fato che li imprigionava. Istantaneamente egli valutò tutte le vie praticabili per giungere dall'altra parte, con la violenza o con l'astuzia, e mettere in scacco il destino: ma il console inglese, che casualmente era lì e gli era amico, gli lasciò intendere, con un monito discreto, di avere ricevuto l'ordine di tenerlo sotto sorveglianza da quel momento. Dunque, stando così le cose, lo poteva consolare solo la speranza - la stessa che di lì a poco avrebbe deluso milioni di persone - che una simile follia non sarebbe durata a lungo e che entro poche settimane, al massimo mesi, il tiro birbone di diplomatici e generali scatenati sarebbe finito. Dette vigore a quel briciolo di speranza un altro elemento ancor più fertile e narcotizzante: il lavoro. Tramite cablogrammi via Svezia ricevette dalla ditta l'ordine di rendere autonoma l'impresa e, per evitare il rischio di un sequestro, di farla dirigere da alcuni prestanome come se fosse una compagnia messicana. La realizzazione di questo progetto richiedeva estrema energia e grande efficienza, ma anche la guerra, altro imprenditore dispotico, aveva bisogno di minerale di ferro delle miniere: dunque occorreva accelerare l'estrazione e potenziare l'azienda. E l'intento pretese un enorme dispiego di forze ponendo in sott'ordine qualunque pensiero personale. Egli lavorò dodici, quattordici ore al giorno con accanimento fanatico, per poi crollare alla sera stanco morto sul letto, demolito da quella catapulta di numeri. Nondimeno: mentre supponeva di provare i sentimenti di sempre, la tensione passionale si era allentata dall'interno. Non è insito nella natura umana vivere esclusivamente di ricordi: viceversa, come le piante e qualunque forma vegetale hanno bisogno del potere nutritivo del terreno e dell'aria del cielo filtrata e purificata affinché i loro colori non impallidiscano e le loro corolle non si defoglino appassendo, anche i sogni, perfino i sogni, seppure apparentemente irreali, abbisognano di un certo nutrimento che provenga dalla sfera sensibile, e di un delicato sostegno per il ricambio delle immagini, sennò il loro sangue si raggruma e la loro lucentezza sbiadisce. Il medesimo fenomeno accadde anche all'uomo passionale e prima che ne prendesse coscienza: allorché per settimane, quindi per mesi, poi per un anno e infine addirittura per un secondo anno non gli giunse un solo messaggio, una sola parola scritta o un segno, quell'immagine cominciò a trascolorare. Ogni giorno bruciato nel lavoro posava qualche piccolo granello di cenere sul suo ricordo; in realtà esso continuava ad avvampare come rossa brace sotto le concrezioni rugginose, ma la membrana grigia finì con l'essere sempre più spessa. Soleva talvolta togliere ancora dallo stipo le lettere, ma l'inchiostro si era stinto, le parole non risuonavano più nel suo cuore e una volta rabbrividì finanche alla vista della sua fotografia non riuscendo a rammentare il colore degli occhi. E sempre più raramente si teneva vicino quei documenti, in passato così preziosi e magicamente tonificanti, essendo ormai stanco - pur non sapendolo - di quell'eterno silenzio e del proprio insensato parlare con un'ombra, la quale non gli dava mai risposta. E poi l'impresa, sorta alla svelta, aveva portato nuovi uomini e compagni. Egli cercò compagnia, cercò amici, cercò donne, e il terzo anno di guerra, quando un viaggio d'affari lo portò in casa di un grande commerciante tedesco, a Vera Cruz, e ne conobbe la figlia, una bionda tranquilla di carattere casalingo, lo sopraffece l'angoscia di una solitudine così pervicace che si prefigurava tanto meno sopportabile in un mondo dilaniato dalla guerra, dall'odio e dalla follia e ormai prossimo al crollo. Si decise alla svelta e sposò la ragazza. Venne un figlio e poi un altro, due fiori viventi e rigogliosi ai bordi della tomba dimenticata del suo amore. Il cerchio si era chiuso: all'esterno l'attività chiassosa, all'interno la pace domestica; e dell'uomo che era stato in passato, dopo quattro, cinque anni non si ricordò più. Solo un giorno, un giorno di scampanii e di strepiti, durante il quale i fili del telegrafo vibrarono come impauriti e in tutte le strade urla e lettere grosse come pugni annunciarono la notizia improcrastinabile della pace, gli inglesi e gli americani del luogo strombazzarono dalle finestre la sconfitta della sua patria con indelicati urrah - quel giorno, squarciato dai ricordi del proprio paese amato di nuovo nel momento della sfortuna, anche quella figura riaffiorò alla sua memoria, entrò a viva forza nel suo animo. Ma com'era vissuta in quegli anni di miseria e di rinunce su cui i giornali locali si diffondevano in lungo e in largo tanto per divertirsi e indulgere al gusto delle lungaggini tipico dell'insolenza giornalistica? La sua casa, la loro casa era stata risparmiata dalle rivolte di piazza e dai saccheggi? Suo marito e suo figlio vivevano ancora? Nel cuore della notte egli balzò dal letto, dove giaceva al fianco del respiro della moglie, accese la luce e per cinque ore, fino all'alba, le scrisse un'interminabile lettera per raccontarle, monologando con se stesso, la propria vita dell'ultimo quinquennio. Due mesi dopo - si era già scordato della propria lettera - arrivò la risposta: con una certa indecisione soppesò tra le mani la busta voluminosa e inquietante per via della scrittura familiare: non osò rompere subito il sigillo quasi che quell'involucro chiuso custodisse, come un vaso di Pandora, un segreto. Per due giorni se la portò, sempre intonsa, nel taschino interno della giacca e di tanto in tanto sentiva il cuore batterle contro. Ma, finalmente aperta, si rivelò una lettera priva di intimità invadenti e tuttavia rispettosa della fredda formalità. Nei placidi caratteri della scrittura egli inspirò quella delicata simpatia spontanea che sempre lo aveva colmato di gioia. Il marito era morto nei primi giorni di guerra, ma non ne compiangeva la scomparsa, persuasa che gli fossero stati risparmiati dolori, quali i rischi corsi dalla ditta, l'occupazione della città e la miseria di un popolo prematuramente inebriato dalla vittoria. Lei e il figlio godevano buona salute, e com'era felice di leggere che la sorte gli era stata benigna più di quanto aveva raccontato della propria. Si felicitava del matrimonio con parole sincere: ma involontariamente egli ne colse la diffidenza per quanto nessun accento, sottinteso o malizioso, offuscasse la limpida intonazione complessiva. Tutto era stato detto in modo pulito, senz'alcuna esagerazione ostentata o commozione sentimentale, il passato si era dissolto in una partecipazione costante, l'amore si era luminosamente chiarito diventando amicizia adamantina. Dalla sua signorilità d'animo egli non si era mai aspettato niente di diverso, nondimeno, cogliendo il modo chiaro e sicuro (credette a un tratto di guardare dentro i suoi occhi), serio e insieme sorridente, nel riverbero della bontà, si sentì pervaso da una specie di commozione riconoscente. Si sedette all'istante, le scrisse a lungo in modo particolareggiato e, dopo la lunga privazione, l'abitudine allo scambio reciproco di notizie personali si instaurò di nuovo per un tacito accordo - ma lì, in Messico, l'improvviso abbassamento termico del mondo non era riuscito a distruggere alcunché. Con profonda riconoscenza egli riconobbe la forma chiara della propria esistenza. Il successo era arrivato, l'azienda prosperava, in casa i figli crescevano trasformandosi a mano a mano da fiori delicati in balocchi parlanti dagli sguardi amichevoli, che allietavano le sue sere. Dal passato, dall'incendio della sua giovinezza, quando le sue notti e i suoi giorni si consumavano nello strazio, giungeva ormai solo un bagliore, una calma luce benevola senza richieste e pericoli. Sicché, allorquando due anni più tardi fu incaricato da una compagnia americana di trattare certi brevetti chimici a Berlino, gli parve naturale scambiare un saluto di persona con la donna amata tempo addietro e ora buona amica. Appena giunto a Berlino, in albergo chiese anzitutto una comunicazione telefonica con Francoforte e gli parve una coincidenza simbolica che il numero non fosse cambiato in quegli anni. Un buon auspicio, niente allora è mutato, pensò, mentre sul tavolo l'apparecchio già trillava sfacciatamente. Fu colto da un tremito presagendo di udire la sua voce dopo anni e anni, come scaraventata al di là di prati, campi, case e ciminiere, richiamata dalla propria, di nuovo vicina, superate miglia e miglia di tempo, di acqua e di terra. Pronunciato il proprio nome e aggredito dal suo: «Ludwig, sei tu?» un grido di sorpresa sceso prima nei suoi sensi in ascolto e poi, bussando, fin dentro la stiva stracolma del sangue, mentre il suo cuore si fermava, in quel momento un'emozione repentina lo tenne sospeso come su un fuoco: fece fatica a parlare, il leggero ricevitore oscillò nella sua mano. Il timbro limpido della voce che esprimeva stupore e sorpresa, quello squillo di gioia, doveva avere colpito chissà quale nervo nascosto della sua vita poiché sentì il sangue ronzargli intorno alle tempie. Fece fatica a capire le sue parole e, senza esserne consapevole e volerlo, quasi che qualcuno glielo suggerisse, le fece una promessa, che non avrebbe desiderato di fare: di lì a due giorni sarebbe andato a Francoforte. Con quella promessa anche la sua tranquillità venne meno: sbrigò gli affari in modo febbrile, si fece scarrozzare in lungo e in largo in automobile per perfezionare le trattative a una velocità raddoppiata e l'indomani mattina, appena sveglio, riordinando il sogno della notte ebbe la certezza di averla sognata per la prima volta dopo quattro anni. Due giorni più tardi, fattosi precedere da un telegramma, mentre si avvicinava alla sua casa - era mattina e per tutta la notte era stato squassato da brividi di freddo - notando i propri piedi si disse: ma questo non è il mio passo, come oltreoceano, il mio passo sicuro e continuo. Perché cammino nuovamente come il ventitreenne di allora che, con le dita tremanti, scrollava la polvere dall'abito liso, vergognandosene, e s'infilava i guanti nuovi prima di sfiorare il campanello? Perché mi batte il cuore e sono così impacciato? A quel tempo per una misteriosa intuizione presagivo che dietro a quella porta di rame fosse in agguato il destino, pronto ad afferrarmi, gentile o malvagio che fosse. Ma ora perché mi rimpiatto e un'inquietudine crescente disperde la mia sicurezza? Invano tentò di rammentarsi com'era stato fino a poco tempo prima, di evocare il ricordo della moglie, dei figli, della sua casa, dell'azienda e del paese straniero, ma tutto si era offuscato, come spazzato via da una nebbia spettrale. Si sentì solo e un questuante simile al ragazzetto goffo poco distante. La mano, che in quel momento egli posò sulla maniglia di metallo, tremava e scottava. Viceversa, appena entrato, la sensazione di estraneità svanì nel vedere il vecchio domestico, smagrito e curvo, con le lacrime agli occhi. Difatti lo accolse, balbettando e inghiottendo un singhiozzo, con l'esclamazione: «Ah, il signor dottore!» Ulisse, dovette avere pensato il vecchio altrettanto emozionato, i cani ti riconoscono. Ti riconoscerà anche la padrona? Ma proprio in quell'istante la porta veniva scostata ed ecco la signora andargli incontro allargando le braccia. Per un attimo, mentre le loro mani rimasero l'una nell'altra, si guardarono: breve e tuttavia magica pausa di raffronto, di osservazione, di assaggio, di riflessione accesa, di gioia pudica e di sguardi che già nascondevano la felicità appena gustata. Poi l'interrogativo si perse in un sorriso, lo sguardo in un saluto confidenziale. Sì, era la stessa donna, forse solo un po' invecchiata; a sinistra una ciocca argentea si intrometteva nei capelli sempre spartiti dalla scriminatura. Il riflesso rendeva più calmo di una tonalità, più grave il viso mite e franco. Bevendo la sua voce che lo salutava, quella voce soave, resa assai familiare dall'uso del dialetto melodioso, egli avvertì la sete di anni interminabili. «Come sei stato gentile a venire a trovarmi.» Il timbro, puro e libero, sembrava la nota di un diapason appena percosso. Il discorso acquistò il tono e le pause giuste, sicché anche le domande e il racconto proseguirono come mani che si incontrino sulla tastiera. Il senso di pesantezza e di disagio era stato fugato dalla prima sua parola, e fintantoché lei parlò ogni pensiero dell'uomo le ubbidì. Difatti non appena tacque, forse sopraffatta dall'emozione e perciò pensierosa, e le palpebre abbassate nell'attimo della riflessione nascosero gli occhi, un'improvvisa domanda lo percorse guizzando lieve come un'ombra. «Non sono le stesse labbra che ho baciato?» Poi lei fu chiamata al telefono lasciandolo solo nella stanza. Una folla scomposta di ricordi si avventò su di lui. Fino a quando la sua luminosa presenza aveva dominato, quel richiamo incerto si era tenuto nascosto: ora invece ogni poltrona, ogni quadro aveva proprie labbra lievi e ciascun oggetto gli si rivolgeva: un mormorio non percepibile, solo a lui noto e chiaro. In quella casa, pensò, ho vissuto e qualcosa di me è rimasto, qualcosa di quegli anni. Allora non è vero che sono completamente là, oltreoceano, in quello che presumo sia il mio mondo. Lei tornò, ovviamente serena, e di nuovo gli oggetti si rintanarono. «Rimani a mezzogiorno, Ludwig?» disse con la sua serena naturalezza. E lui rimase, rimase tutto il giorno al suo fianco e, conversando, essi riandarono insieme agli anni passati. Solo allora, da quando lei ne parlava in quella stanza, quegli anni gli sembrarono reali, realmente veri e infine, allorché la porta si richiuse alle sue spalle, dopo essersi finalmente congedato e avere baciato la sua mano soffusa di una soavità materna, ebbe la sensazione di non essere mai partito. Di notte, invece, rimasto solo nella scostante camera d'albergo, nient'altro che il ticchettio dell'orologio vicino a sé e nel petto un cuore che batteva ancor più forte, il senso di tranquillità venne meno. Non riuscì a prendere sonno, si alzò e accese la luce, la spense subito, per poi rimanere sdraiato senza dormire. Pensava soltanto alle sue labbra, le ricordava diverse da quelle che aveva visto muoversi durante la conversazione confidenziale. E tutt'a un tratto capì che fra loro quella pacatezza, quella maniera calma di conversare, era solo una menzogna e che nel loro rapporto c'era ancora qualcosa che non si era riscattato e sciolto, l'amicizia non era altro che una maschera applicata artificiosamente sulla faccia nervosa, distratta e confusa dall'inquietudine e dalla passione. Troppo a lungo, per troppe notti, attorno al bivacco nella baracca dell'accampamento, per troppi anni, per troppi giorni si era immaginato diversamente quell'incontro: cadere l'uno nelle braccia dell'altra, stringersi, darsi totalmente, lasciar scivolare a terra i vestiti. Quell'essere amici, invece, quel chiacchierare e informarsi non potevano essere veritieri. Un attore, si disse, e un'attrice, l'uno di fronte all'altra. Eppure nessuno dei due aveva mentito. Sicuramente neanche lei avrebbe dormito quella notte. La mattina seguente, quando si recò in quella casa, il suo modo di fare distratto e la sua mancanza di controllo, il suo sguardo inafferrabile non le sfuggirono. Infatti, dopo le prime parole ancora confuse lei non trovò più il solito equilibrio agile nella conversazione: il tono si alzava, si abbassava, c'erano pause e tensioni che dovevano essere scacciate con una violenta pressione. Fra loro si era frapposto un qualcosa contro cui le domande e le risposte urtavano ma ne erano subito inspiegabilmente respinte come pipistrelli da un muro. Entrambi si avvidero di rasentare o scavalcare un invisibile intralcio mentre parlavano, e il discorso, ubriacato da quel cauto girare intorno e aggirare le parole, alla fine languì. Egli intravide il rischio e, quando lei lo invitò di nuovo a pranzo, addusse a pretesto un urgente colloquio in città. Lei se ne dispiacque sinceramente, e dalla sua voce osò trasparire di nuovo il timido calore della cordialità. E tuttavia non lo trattenne: lo accompagnò fuori scambiando uno sguardo nervoso. I loro nervi infatti erano come elettrizzati, il discorso era incespicato contro la barriera invisibile che li aveva accompagnati di stanza in stanza, di parola in parola, e ormai affaticava loro il respiro. Perciò fu un sollievo quando lui, buttatosi il cappotto sulle spalle, arrivò sulla soglia. Ma improvvisamente si volse di scatto verso di lei. «Veramente volevo chiederti un favore prima di andarmene.» «Tu mi chiedi un favore? Volentieri!» e gli sorrise, raggiante di potere soddisfare ancora una volta un suo desiderio. «Forse è sciocco da parte mia», disse con un'occhiata esitante, «ma sicuramente tu capirai. Vorrei rivedere la camera, la mia camera, nella quale ho vissuto due anni. Sono sempre stato da basso, nei saloni, nei locali dove si ricevono gli estranei, e, vedi, se adesso partissi per sempre, non avrei avuto la sensazione di essere stato a casa. Invecchiando, si cerca la propria giovinezza e i piccoli ricordi allietano, magari stupidamente.» «Tu parli di ricordi e di invecchiare, proprio tu, Ludwig», ribatté con un tono quasi arrogante. «Non sarai per caso diventato vanitoso! Guardami, piuttosto, guarda questa ciocca grigia nei miei capelli. Sei un ragazzino in confronto a me e parli già di invecchiare. Lasciami almeno questo privilegio! Ma come ho potuto dimenticare di accompagnarti subito nella tua stanza! Infatti è sempre camera tua. Non troverai nulla di cambiato: in questa casa non cambia nulla.» «Spero che anche tu non cambi», tentò di scherzare ma, fissandola, il suo sguardo si fece involontariamente affettuoso e caldo. Lei arrossì lievemente. «Si invecchia ma si rimane gli stessi.» Salirono in camera sua. Mentre stavano entrando, accadde un piccolo contrattempo increscioso: aprendo, lei era indietreggiata per lasciargli la precedenza, ma entrambi avevano compiuto lo stesso movimento contemporaneamente con la medesima intenzione, cosicché le loro spalle si urtarono leggermente nel riquadro della porta. Entrambi fecero un istintivo passo indietro, ma fu sufficiente che i loro corpi si sfiorassero per provare imbarazzo. Senza parlare, ancor più sensibile nell'ambiente vuoto immerso nel silenzio, allora lei ovviò a uno spiacevole inconveniente: armeggiò intorno ai tiranti della finestra per alzare le tendine e illuminare l'umiliata oscurità delle cose. Ma, non appena l'improvviso fiotto di luce abbagliante entrò, parve che tutt'a un tratto anche gli oggetti ci vedessero e si agitassero inquieti e spaventati. Si fecero avanti, l'uno dopo l'altro, e narrarono il proprio ricordo: l'armadio che la sua mano premurosa provvedeva a riordinare, la libreria che si riempiva accortamente assecondando i desideri momentanei dell'ospite, la coperta allargata sul letto sotto la quale egli aveva nascosto infiniti sogni, e là nell'angolo - e il pensiero lo fece avvampare - l'ottomana dove lei gli era sfuggita. Ovunque, acceso da una passione bruciante e viva, l'uomo riconobbe i segni e i messaggi della donna, la stessa che ora gli era accanto calma, violentemente estranea, distraendo lo sguardo enigmatico. Proprio il silenzio che giungeva da quei lontani anni e si era depositato nella stanza, formando uno strato spesso e sotterraneo, ora si gonfiò prepotentemente, quasi stanato dalla loro stessa presenza: come la pressione atmosferica, esso premeva sui loro polmoni e sul loro cuore depresso. In quel momento qualcosa doveva essere detto, doveva spazzare via quel silenzio affinché non opprimesse più. Entrambi se ne resero conto. Lo fece lei, girandosi all'improvviso. «É tutto come prima, non ti pare?» iniziò con l'intenzione di fare un'osservazione anonima e insignificante (ciononostante la sua voce tremò come coperta da una patina). Egli non raccolse il tono, in realtà impegnativo, della conversazione e strinse i denti. «Sì, è vero.» Una rabbia amara, esplosa all'improvviso, gli uscì tra i denti. «Tutto è come prima, solo noi no!» Un morso. La frase si avventò su di lei. Spaventata, si volse. «Che cosa intendi dire, Ludwig?» Ma non trovò il suo sguardo. Gli occhi dell'uomo infatti non cercavano quelli della donna, ma fissavano, muti e febbricitanti, le sue labbra che da anni non sfiorava e che un tempo gli avevano bruciato la carne, quelle labbra che aveva sentite umide e familiari come un frutto. Imbarazzata, lei capì che quel modo di guardarla era intriso di erotismo, e il suo viso si soffuse di un lieve rossore, che stranamente la ringiovanì; sicché a lui sembrò la stessa donna di allora, come nel momento del commiato, proprio in quella stanza. Ma, cercando di allontanare da sé lo sguardo pericoloso che la stava risucchiando, lei tentò intenzionalmente di negare l'evidenza. «Che cosa intendi dire, Ludwig?» ripeté, senonché era una supplica - la preghiera che non si spiegasse - piuttosto che la richiesta di una risposta. Egli fece un gesto risoluto, fermo: con tutto il suo vigore maschile le catturò lo sguardo. «Tu non vuoi capire, ma io so che mi capisci. Ricordi questa stanza e la promessa che, proprio qui, mi hai fatto... non appena sarei tornato...» Le sue spalle tremavano, ma cercò di difendersi ancora: «Lascia perdere, Ludwig... E una storia vecchia, non rivanghiamola. Ma dov'è il tempo?» «Dentro di noi», rispose sicuro, «nella nostra volontà. Ho aspettato nove anni stringendo i denti. Ma non ho dimenticato nulla. E adesso ti domando: ricordi la promessa?» «Sì», e lo osservò più calma, «anch'io non ho dimenticato nulla.» «E vuoi», dovette prendere fiato perché le sue parole ritrovassero forza, «vuoi mantenerla?» Il rossore le imporporò le guance e montò fin sotto i capelli. Gli andò vicino conciliante. «Ludwig, rifletti! Dicevi che non hai dimenticato nulla, ma non dimenticare che ora io sono quasi una donna vecchia. Quando vengono i capelli grigi, non si ha più niente da desiderare, non si ha niente da dare. Ti prego, non toccare il passato.» Senonché si impossessò di lui il piacere di essere duro e deciso. «Tu mi sfuggi», disse con insistenza, «ma io ho aspettato troppo tempo e adesso ti chiedo: ricordi la tua promessa?» La sua voce vacillò a ogni parola. «Perché me lo chiedi? Non ha senso che io te lo dica adesso, adesso che è troppo tardi. Ma ti rispondo, se pretendi una risposta. Non sono mai stata capace di rifiutarti alcunché, sono sempre stata tua dal giorno che ti ho conosciuto.» Egli la fissò: com'era sincera anche in un attimo di turbamento, limpida, autentica, senza alcuna viltà, senza pretesti, sempre lei, l'amata, stupendamente coerente in ogni momento, discreta e insieme aperta. Istintivamente le andò appresso ma lei, non appena scorse irruenza nel suo movimento, si mise sulla difensiva, già supplicandolo. «Vieni, Ludwig, adesso vieni. Non restiamo qui, scendiamo da basso. É mezzogiorno e da un momento all'altro la cameriera può venire a cercarmi. Non possiamo rimanere qui ancora.» E così la forza del suo essere piegò irresistibilmente la volontà dell'uomo. Esattamente come allora, egli le ubbidì senza parlare. Scesero nel salone, passando dal vestibolo e arrivando fino alla porta d'ingresso, senza arrischiare una sola parola e senza guardarsi. Sulla soglia egli si girò di scatto verso di lei. «Ora non riesco a parlarti, perdonami. Voglio scriverti.» Lei gli sorrise visibilmente grata. «Sì, scrivimi, Ludwig, è meglio così.» E, rientrato nella sua camera d'albergo, si mise immediatamente a tavolino. Scrisse una lunga lettera, lasciandosi trasportare dalla forza sempre meno resistibile di una passione ripudiata per una reazione inattesa. É il mio ultimo giorno in Germania, me ne andrò per mesi, per anni, forse per sempre e non posso partire /poetando con me la menzogna di una fredda conversazione, in un incontro formale costretto all'insincerità. Voglio, devo parlarti un'altra volta da sola, fuori di casa, senza patemi e ricordi, sottratta alla cupezza di ambienti sorvegliati e scostanti. Quindi ti propongo di accompagnarmi a Heidelberg con il treno della sera, dove siamo stati entrambi un decennio fa per un breve soggiorno,, ancora estranei l'uno all'altro e nondimeno animati dal presagio di una vicinanza più intima. Oggi sarà però l'addio, l'ultimo e il più autentico. Ti chiedo questa sera, questa notte. Sigillò la lettera alla svelta e la fece recapitare da un fattorino. Costui fu di ritorno in un quarto d'ora con una piccola busta sigillata con la ceralacca gialla. Egli la lacerò con la mano che gli tremava. Conteneva un biglietto, poche parole scritte con la sua grafia ferma e decisa, magari in fretta ma con vigore. Ciò che mi chiedi è una follia, ma non ho mai potuto né mai potrò rifiutarti alcunché. Vengo. Il treno rallentò l'andatura: una stazione, tutta illuminata, lo aveva costretto a frenare la marcia. Lo sguardo del sognatore uscì, sollevandosi, dalla visione interiore e si protese in avanti a tentoni per rivedere la figura appena sognata, dirimpetto a lui e sprofondata nella penombra. Sì, era lei, la donna fedele e innamorata come sempre pur nel silenzio. Era venuta con lui, da lui ed egli abbracciava la sua presenza reale. Come se quella investigazione e quel tocco timido e carezzevole avessero scoperto qualcosa nel suo intimo, lei si alzò e si mise a guardare attraverso il vetro del finestrino, dietro il quale stava scivolando un paesaggio incerto, umido e primaverilmente scuro come acqua luccicante. «Presto saremo arrivati», disse quasi a se stessa. «Sì», le rispose traendo un profondo sospiro, «è durato molto.» Nemmeno lui seppe se, con quel gemito d'impazienza, avesse inteso il viaggio oppure i lunghi anni fino a quel momento: l'indecisione, sospesa tra irrealtà onirica e concretezza reale, lo confuse. Sentiva sotto di sé lo sferragliare delle ruote che correvano verso qualcosa, incontro a un attimo che, riaffiorando da una strana sorda oscurità, egli non seppe visualizzare. No, non pensare all'attimo fuggente, lasciati trasportare da questa misteriosa forza fino al momento magico, senza provare alcun senso di responsabilità, le membra rilassate. C'era in lui una specie di attesa nuziale, dolce e sensuale, ma anche oscuramente accompagnata dal timore presago dell'appagamento, dal brivido mistico che sopraggiunge allorquando l'oggetto del desiderio si avvicina al cuore stupito. Adesso non pensare a nulla, non volere, non desiderare nulla, resta così, trascinato come in sogno nell'incerto, portato da una corrente ignota, non sfiorandosi e tuttavia sentendosi, desiderandosi e non raggiungendosi, interamente in balìa del destino e insieme restituiti alla propria identità. Restare così, ancora per ore, per un'eternità in codesta alba, circondati dai sogni: ma già, come una lieve ambascia, si annunciò il pensiero che tutto finisse. Eppure nella valle, come miriadi di lucciole, tremolavano scintille elettriche sempre più luminose, lanterne velocissime si disponevano in file doppie parallele, le rotaie si incrociavano stridendo e dall'oscurità si sollevava una pallida cupola di vapore più chiaro. «Heidelberg», disse, alzandosi in piedi, uno dei signori agli altri. Tutti e tre riempirono le loro gonfie borse da viaggio e, onde arrivare primi all'uscita, si affrettarono fuori dallo scompartimento. Le ruote, trattenute dai freni, si incastrarono incespicando e sferragliando nello scambio della stazione. Ci fu uno scossone secco e violento, quindi la corsa si arrestò e le ruote ripresero a frignare come animali torturati. Per un secondo rimasero seduti da soli, l'uno di fronte all'altra, entrambi spaventati dall'improvvisa realtà. «Siamo già arrivati?» Una domanda involontariamente angosciata. «Sì», rispose lui e si alzò. «Posso aiutarti?» Ma lei si schermì e lo precedette. Si fermò tuttavia sul predellino della carrozza: il suo piede esitò a scendere come temendo l'acqua gelida. Poi prese lo slancio ed egli la seguì. Per alcuni attimi rimasero fermi sul marciapiede: l'uno vicino all'altra, sconcertati, perplessi, emozionati, e la piccola valigia gli pesò nella mano oscillando. Fu proprio in quel momento che la locomotiva sbuffante espulse un getto di vapore lucente a pochi passi da loro. Lei rabbrividì e, pallida, lo guardò con occhi confusi e insicuri. «Che cos'hai?» «Peccato, era così bello. Si va, si va, nient'altro. Mi sarebbe piaciuto continuare così per ore e ore.» Egli tacque. Aveva avuto lo stesso pensiero. Ma ora il viaggio era finito: qualcosa doveva accadere. «Non vogliamo muoverci?» le chiese prudente. «Sì, sì, andiamo», sussurrò lei con un mormorio appena udibile. Invece rimasero placidamente l'uno accanto all'altra; pareva che qualcosa si fosse rotto dentro di loro. Poi, finalmente (egli però si dimenticò di prenderle il braccio), s'incamminarono verso l'uscita un po' indecisi e turbati. Uscirono dalla stazione ferroviaria, ma appena varcarono le porte, un frastuono, simile a un temporale, interrotto da rulli di tamburi e sovrastato da fischi, li aggredì. Uno strepito pazzesco, assordante. Era una manifestazione di associazioni di combattenti e di studenti. Un muro che camminava. Scaglioni di quattro file con bandiere e gagliardetti. Uomini in divisa militare marciavano a passo di parata all'unisono, tanto che il rombo sembrava prodotto da un solo uomo: il collo rigido all'indietro, una micidiale determinazione, la bocca spalancata per cantare, un'unica voce, un unico passo, un'unica cadenza. Aprivano il corteo generali, vegliardi canuti sovraccarichi di medaglie, affiancati dalla squadra giovanile: giovani atletici, rigidi come fusi, reggevano bandiere gigantesche perfettamente verticali, sventolando teste da morto, croci uncinate, antichi vessilli imperiali, busto in fuori, testa alta, come se andassero incontro alle batterie nemiche. Masse geometriche, ordinate, avanzavano, pareva, al segnale di un pugno che dava il tempo, tenendo il passo e rispettando la distanza calcolata con il compasso, ogni nervo teso dalla serietà dell'impegno, uno sguardo feroce in faccia, e ogni volta che un nuovo scaglione - veterani, gioventù, studenti sfilava sotto il palco sopraelevato, dove con caparbietà un frastornante congegno a orologeria frantumava ritmicamente l'acciaio su un invisibile incudine, una scossa percorreva, con linearità militare, la moltitudine di teste: i colli si buttavano a sinistra, mossi dalla medesima volontà, con movimenti coordinati; le bandiere, azionate da fili, sussultavano al cospetto del capo dell'esercito il quale, una faccia di pietra, prendeva in consegna la parata dei civili. C'erano sbarbati, imberbi, butterati, rugosi, operai, studenti, soldati o ragazzi: tutti, in quel secondo, avevano la stessa faccia dallo sguardo duro, deciso e furente, il mento dell'arroganza e il gesto di chi, non visto, impugna la spada. Plotone dopo plotone, il ritmo dei tamburi, un rombo esemplare nella sua monotonia, martellava le schiene irrigidendole, induriva gli occhi: la fucina della guerra, della vendetta, era stata montata su una pacifica piazza in un cielo spazzato con dolcezza da nuvole miti. «Una follia», incredulo balbettò a se stesso barcollando. «Una follia! Che cosa vogliono? Che cosa vogliono? Un'altra volta, un'altra volta?» Ancora una guerra, la stessa che gli aveva già mandato in frantumi la vita? Scosso da uno strano brivido, egli guardò dentro le giovani facce, fissò la massa nera avanzante, quattro file per volta, una pellicola quadrata che si srotolava fuoriuscendo da una strada stretta di una scatola buia. E ogni volta che ne coglieva una, era una faccia altrettanto rigida, astiosa e determinata: una minaccia, un'arma. Perché questa minaccia inastata con un boato in una mite sera di giugno, incuneata in una sognante e amichevole città? «Che cosa vogliono? Che cosa vogliono?» La domanda lo strozzava. Aveva appena visto il mondo chiaro e tintinnante come vetro, soleggiato dalla tenerezza e dall'amore, si era addormentato cullato da una melodia piena di bontà e di fiducia e ora il passo ferreo di una massa brancicava e calpestava ogni cosa. Cinturoni militari, mille voci e mille modi e tuttavia un unico urlo pulsante nel grido e nello sguardo: odio, odio, odio. Con un gesto istintivo le afferrò il braccio per sentire qualcosa di caldo, amore, passione, bontà, affetto, un sentimento tenero e tranquillizzante. Ma con il loro baccano i tamburi gli fracassarono il silenzio interiore e subito le migliaia di voci intonarono un frastornante e incomprensibile canto di guerra. La terra, percossa dai passi battuti a tempo, tremò, l'aria, trafitta dall'improvviso urrah gridato dall'enorme branco umano, esplose. Egli ebbe la sensazione che, dentro di sé, un suono delicato si spegnesse al terribile urlo montante della realtà. Una lieve pressione al fianco lo fece sussultare: la mano inguantata di lei lo ammoniva a non stringere il pugno così furiosamente. Sicché egli volse lo sguardo tuttora catturato dalla parata, mentre lei lo fissava con un'aria supplichevole senza parlare. Avvertendo solo sul braccio una lieve insistenza, mormorò: «Sì, andiamo», come concentrandosi. Alzò le spalle quasi a difendersi da un pericolo invisibile e si dette uno slancio violento per attraversare la massa umana gelatinosa, stipata e fumante, che osservava inebetita, muta come lui e altrettanto ammaliata dall'interminabile avanzata delle legioni militari. Non sapeva dove andare una volta apertosi un varco, sapeva soltanto questo, doveva allontanarsi dall'assordante tumulto, via di lì, da quella piazza, dove un mortaio stritolava a un ritmo impietoso la lievità e il sogno ammassati al suo interno. Andare via, essere solo con lei, con lei sola, nel buio, sotto un tetto, sentirne il respiro, per la prima volta da dieci anni non sorvegliato, guardare indisturbato nei suoi occhi, godere il dono di stare insieme, evocato in tanti sogni e ora come spazzato via dall'ondata umana inarrestabile. Il suo sguardo graffiò nervosamente le case, tutte quante pavesate; in mezzo, tuttavia, ce n'erano alcune dove un seguito di lettere d'oro annunciava una ditta commerciale o una locanda. All'improvviso percepì la leggera trazione della valigetta, che nella mano lo avvisava: fermati in qualunque luogo, anche isolato ma sicuro! Comperati una manciata di pace, qualche metro di spazio! E, come rispondendogli, su un'alta facciata di pietra spiccò il nome sfavillante di un albergo. Il portale si inarcò dinanzi a loro. I suoi passi si fecero brevi, il respiro affannoso. Si arrestò, quasi sorpreso, e istintivamente il suo braccio si staccò da quello di lei. «Dev'essere un buon albergo: me lo hanno raccomandato.» Il nervosismo e il disagio lo fecero mentire. Lei arretrò spaventata. Il sangue le inondò il viso pallido e le sue labbra si mossero per dire qualcosa - forse le stesse parole di dieci anni prima, quel precipitoso strappato «Non ora! Non qui!» Ma proprio in quell'istante intercettò lo sguardo dell'uomo, fisso su di lei, uno sguardo ansioso, turbato, irrequieto, sicché abbassò la testa consenziente e lo seguì a piccoli passi scoraggiati fin su davanti all'ingresso. Nell'angolo, dove c'era la réception dell'albergo, con un berretto colorato in testa e l'aria boriosa del capitano di una nave dall'alto della coffa, il portiere sostava giocherellando dietro il tramezzo che gli assicurava il necessario distacco. Non mosse un passo verso la coppia che entrava con una certa esitazione; solo uno sguardo, fugace e già sprezzante, si fermò di striscio sulla piccola ventiquattr'ore per una rapida stima. Aspettò che i due si avvicinassero e all'improvviso sembrò riassorbito dalle pagine aperte dell'enorme brogliaccio. Solo quando il facente richiesta gli fu a pochi centimetri, sollevò uno sguardo freddo e, ai fini di un esame serio e concreto, chiese: «I signori hanno prenotato?» per rispondere al diniego quasi colpevole cominciando a sfogliare daccapo. «Temo che sia tutto occupato. Oggi abbiamo avuto la consacrazione delle bandiere ma...» aggiunse compiacente, «vedrò quel che si può fare.» Gli spaccherei il grugno, se potessi, a questo becero tronfio, pensò umiliato con amarezza, sentendosi ridiventare un questuante, un mendico e un intruso come un decennio prima. Senonché il borioso aveva intanto terminato la sua puntigliosa verifica. «La 27 si è liberata proprio adesso, una camera doppia, sempre che le interessi.» Non gli rimase altro da fare che aggiungere un rapido «Va bene», in tono risentito, mentre la mano inquieta afferrava già la chiave che le veniva porta, impaziente di frapporre pareti mute tra sé e l'uomo. Il supplizio non era però finito: alle sue spalle una voce grave ripeté con insistenza: «La registrazione, per favore», e gli fu sottoposto un foglio quadrangolare spezzettato in dieci, dodici caselle da riempire: nome, cognome, età, provenienza, luogo di nascita e nazionalità. Il questionario ufficiale per ogni essere vivente. La pratica disgustosa fu espletata con un lapis volante. Solo mentre scriveva il nome di lei mentendo perché lo unì al proprio come se fosse sua moglie (ed era stato il suo segreto più recondito) _ la matita leggera tremò goffamente nella mano. «E qui la durata del soggiorno», reclamò l'altro, spietato, controllando quello che era stato scritto e puntando il dito carnoso sulla casella ancora vuota. «Un giorno», registrò il lapis furente. Si sentì la fronte madida di sudore dall'eccitazione e fu costretto a togliersi il cappello. L'aria estranea gli era insopportabile. «Primo piano a sinistra», spiegò, accorrendo prontamente in aiuto, un cameriere esperto in cortesie, allorquando l'ospite dette segno di essere esausto e si volse a guardare da un lato. Ma egli cercava solo lei: durante l'interminabile procedura era rimasta in piedi immobile a osservare, con interesse spasmodico, un affisso che annunciava la serata schubertiana di una famosa cantante; eppure, mentre sembrava assorbita dalla lettura, un'onda tremolante, come vento che increspasse un prato, era scivolata sulle sue spalle. Vergognandosi, egli aveva notato la sua eccitazione, controllata con un grande sforzo, e quasi istintivamente aveva pensato: ma perché l'ho strappata alla sua pace, portandola qui? Ma era una via senza ritorno. «Vieni», insistette a bassa voce. Allora, senza guardarlo in faccia, si staccò dall'affisso e lo precedette su per la scala, lentamente, faticosamente, a passi pesanti: come una vecchia, gli venne fatto di pensare. Lo aveva pensato per un secondo mentre, la mano sulla balaustra, la donna saliva i pochi gradini a fatica. Ma poi aveva scacciato il cattivo pensiero. A quella sensazione, rimossa alla svelta, si era sostituito un senso di freddo che gli provocava dolore. Erano finalmente arrivati di sopra, nel corridoio: un'eternità i due minuti di silenzio. Una porta aperta, era la loro stanza. La cameriera, che armeggiava con uno straccio della polvere e una scopa, si scusò: «Un attimo, mi sbrigo subito. La camera è stata appena liberata, ma i signori possono già entrare. Devo solo portare le lenzuola pulite». Entrarono. L'aria era stagnante e dolciastra. L'ambiente non areato sapeva di saponetta al gusto di oliva e di fumo di sigarette stantio; in un certo senso era rimasta la scia amorfa di estranei. Occupava il centro del locale il letto matrimoniale sfatto, sfrontato e fors'anche ancora caldo: ma ne era lo scopo e il senso palese. Egli si sentì disgustato di fronte a tale smaccata evidenza e, con un moto istintivo, corse fino alla finestra. La spalancò: un'aria molle e umida, mescolata al rumore svaporato della strada, fluì lentamente rasentando le tende che ondeggiavano arretrando. Restò davanti alla finestra aperta e osservò intensamente i tetti ormai scuri. Com'era brutta quella stanza, com'era umiliante essere lì e deludente lo stesso trovarsi insieme sospirato da anni ma che né lui né lei avevano voluto così inaspettatamente e vergognosamente nudo! Tre, quattro, cinque inspirazioni - le contò - e poi guardò fuori non riuscendo per viltà a trovare la prima parola. E allora no, non importa. Esattamente come aveva previsto, come aveva temuto, si era irrigidita, una pietra, nel suo soprabito grigio, le braccia flosce, spezzate. Era ferma al centro della camera quasi fosse una cosa che non appartenesse a quel luogo, ma fosse finita lì, in quell'ambiente osceno, per cause di forza maggiore, per sbaglio. Si era sfilata i guanti, evidentemente con l'intenzione di levarli, ma doveva avere provato quasi un senso di nausea all'idea di posarli in un punto qualsiasi di quella stanza: sicché penzolavano nelle sue mani, due involucri vuoti. I suoi occhi si erano bloccati come dietro a un velo spesso e rigido: ma quando egli si voltò, si spinsero fino a lui come per supplicarlo. Egli capì. «Non vogliamo», e la sua voce incespicò nel respiro trattenuto, «non vogliamo andare a fare una passeggiata?... É così squallido e triste qui.» «Sì, sì.» La voce sgorgò come finalmente liberata - piuttosto erano state tolte le catene alla sua angoscia. La sua mano stava già afferrando la maniglia. Egli la seguì più adagio e la osservò: le sue spalle tremavano come quelle di un animale sfuggito alla micidiale presa degli artigli. La strada aspettava calda e percorsa da ondate umane: il flusso torrentizio era agitato dall'acqua mossa nella scia della sfilata ufficiale. Svoltarono nei vicoli laterali, più tranquilli, verso il sentiero nel bosco che, dieci anni prima, li aveva condotti al Castello in un'escursione domenicale. «Ricordi? Era domenica», disse lui involontariamente ad alta voce, e lei, intrattenuta dallo stesso ricordo, rispose sommessamente: «Non ho dimenticato nulla se c'eri tu. Otto parlava con il suo compagno di scuola, quasi correvano ed erano avanti un bel pezzo da noi - li stavamo per perdere nel bosco. Lo chiamai più volte perché tornasse indietro. Ma non ero sincera: mi premeva di rimanere sola con te; e pensare che allora non ci conoscevamo nemmeno». «Anche oggi», tentò di scherzare. Ma lei tacque. Non avrei dovuto dirglielo, e per un'oscura percezione si domandò: che cosa mi spinge a confrontare sempre il passato e il presente? Come mai oggi non mi riesce di dirle una sola parola? Immancabilmente si frappone tra noi il passato, un tempo ormai scaduto. Salirono in silenzio verso la vetta. Sotto di loro le case si stringevano, come rintanandosi nella luce diafana, mentre dalla valle in penombra fuoriusciva il profilo sinuoso del fiume più chiaro. Lassù, intanto, gli alberi stormivano e inviavano il buio sui due passanti. Non venne loro incontro nessuno, davanti a loro avanzavano in silenzio solo le loro ombre. E quando un lampione illuminava obliquamente le loro figure, le ombre si liquefacevano come se si abbracciassero, si protendevano l'una verso l'altra spinte da un desiderio nostalgico, diventavano un'unica immagine, essendosi i loro corpi fusi, poi si staccavano e subito si riabbracciavano. Essi procedevano stanchi, dilatando i polmoni. Ammaliato dal gioco stravagante, lui osservò il fuggire, il trovarsi e abbandonarsi delle sagome inanimate - corpi umbratili che nondimeno erano il riflesso dei propri, con una curiosità malata e dimenticò quasi la figura viva al suo fianco, la quale avanzava sopra la nera fantasmagoria fluida e inconsistente. Non pensò ad alcunché di preciso e tuttavia percepì, per il momento in modo vago, che il timido gioco gli additava qualcosa, forse un fiotto che scaturiva dentro di sé e zampillava crescendo ansiosamente, come se il secchio della memoria si avvicinasse inquieto e minaccioso. Che cos'era? Sollecitò i propri sensi per capire che cosa gli rammentasse il movimento delle ombre nel bosco addormentato: dovevano essere parole, una situazione, parte del suo vissuto, qualcosa che aveva udito avvolto da una melodia, ma seppellito molto in fondo e che non aveva sfiorato per anni. E all'improvviso si aprì una fenditura, una fessura lampeggiante nelle tenebre dell'oblio: erano parole, una poesia letta da lei una sera nella sala. Una poesia, sì, una poesia francese. Ne sapeva le parole: come portati da un vento caldo, i versi dimenticati di una poesia straniera avevano scavalcato un decennio. Li udì sempre letti dalla sua voce: Dans le vieux parc solitaire et glacé Deux spectres cherchent le passé Non appena quei versi rifulsero nella sua mente, una visione si ricompose velocemente come per incanto: la lampada con la sua luce dorata nel salone oscurato dove lei, una sera, gli aveva letto la poesia di Verlaine. La vide schermata dall'ombra del lume, seduta come allora e come allora vicina e insieme lontana, amata e irraggiungibile. Sentì il proprio cuore di allora martellare dall'eccitazione, udì la voce di lei fluttuare sull'onda melodiosa del verso, pronunciare, come nella poesia - anche se non soltanto nella poesia parole come «nostalgia» e «amore», pensate in una lingua straniera per stranieri, parole tuttavia inebrianti perché dette da quella voce, la sua. Come aveva potuto dimenticare, per tanti anni, quella poesia e quella sera in cui, soli in casa e confusi nel ritrovarsi soli, erano fuggiti dal discorso scabroso nelle più socievoli contrade della letteratura dove, a volte, dietro le parole e la melodia, si scorgeva la spiegabile confessione di un sentimento piuttosto intimo, quasi un bagliore nel roveto, ineffabilmente lucente e nondimeno capace di infondere gioia senza altre presenze. Come aveva potuto dimenticare per tanto tempo? Ma, anche, come mai quella poesia perduta era tornata? Inconsciamente pronunciò e tradusse per sé i versi: Nell'antico parco solitario e innevato due spettri vagavano cercando il passato e ne comprese il significato: ora, nella sua mano c'era la chiave, pesante e luminosa, l'associazione che aveva strappato un ricordo nitido, concreto, chiaro alla miniera sonnecchiosa. Non erano state le ombre sulla strada a urtare le antiche parole e a risvegliarle? Sì, ma c'era dell'altro. Rabbrividendo, egli colse l'inatteso senso dell'intuizione appena stanata, parole dal significato divinatorio: non erano state loro, le ombre, a cercare il passato, a porre domande oscure a un «allora» non più reale? Ombre che desideravano tornare a vivere, ma che non potevano rivivere, né loro né lui nell'istante in cui le ricercava e intanto, in una vana fatica, cercava se stesso, fuggendo da sé e tuttavia trattenendosi con sforzi irreali ed esangui, spettri neri davanti ai loro piedi? Forse, inconsciamente, egli emise un gemito. Lei si volse a guardarlo: «Che cos'hai, Ludwig? A che cosa stai pensando?» Si schermì con la mano. «Niente, niente!» e tese l'orecchio per udire dentro di sé il suo subconscio, richiamare il tempo trascorso, se mai quella voce, la voce profetica della memoria, gli volesse parlare un'altra volta e, assieme al passato, svelargli il presente. 7 - Era lui? Personalmente sono sicura che sia stato lui, l'assassino, ma mi manca l'ultima prova, quella inconfutabile. «Betsy», mi dice sempre mio marito, «sei una donna intelligente, hai una vista acuta e rapida, ma ti lasci fuorviare dal tuo carattere e spesso dai giudizi avventati.» In fin dei conti, mio marito mi conosce da trentadue anni e forse, anzi probabilmente, ha ragione con il suo ammonimento. Dunque, devo costringermi a viva forza a essere più accorta, mancandomi per l'appunto l'ultima prova che scacci qualunque mio sospetto. Ma, ogniqualvolta lo incontro e lui viene verso di me, bonario e amichevole, mi si ferma il cuore e una voce interiore mi dice: è stato lui l'assassino, nessun altro. Perciò tenterò di ricostruire lo svolgimento dei fatti davanti ai miei occhi e per me sola. Circa sei anni fa mio marito finì di prestare servizio nelle colonie - era un alto funzionario del governo - e insieme decidemmo di ritirarci in una piccola località della provincia inglese i nostri figli sono sposati da lungo tempo -, dove vivere in pace gli ultimi giorni, ormai un po' freddi come sul far della sera, godendo le piccole gioie della vita, quali i fiori e i libri. La nostra scelta cadde su un piccolo centro di campagna nelle vicinanze di Bath. Dopo la vecchia venerabile città, dopo essere passato serpeggiando sotto vari ponti, uno stretto placido corso d'acqua si inoltra nella verde vallata di Limpley Stoke: è il canale Kenneth-Avon. Questa via d'acqua, dispendiosa e pittoresca, era stata costruita oltre mezzo secolo prima, e dotata di chiuse di legno e di stazioni di rifornimento idrico, per il trasporto del carbone da Cardiff a Londra. Sulla stretta sterrata, a destra e a sinistra del canale, i cavalli trainavano, con fatica, i larghi barconi neri, e il tragitto era lungo. Per un'epoca nella quale il tempo aveva ancora scarso valore, era stato un progetto ambizioso. Senonché poi venne la ferrovia che fece arrivare nella capitale i carichi neri più alla svelta e comodamente, ma anche con minor spesa. Allora il traffico ristagnò, i guardiani delle chiuse furono licenziati, il canale perse la sua vivacità e si impaludò, ma per l'appunto questo abbandono e inutilità lo rendono oggi così romantico e incantevole. Nell'acqua stagnante scura le alghe crescono dal fondo fitte fitte, sicché la superficie liscia ha riflessi fosforescenti verde scuro come la malachite e, nella sua immobilità sognante, rispecchia i pendii fioriti, i ponti e le nuvole, con una fedeltà fotografica, fra le ninfee colorate che si lasciano cullare. Di tanto in tanto si vede sulla riva, in parte sprofondata e ricoperta di vegetazione variopinta, una vecchia chiatta in rovina a testimonianza di un passato solerte. I chiodi di ferro delle chiuse sono arrugginiti ormai da tempo e rivestiti dai muschi folti. Nessuno si cura più dell'antico canale, non lo conoscono neppure gli ospiti delle terme di Bath, e quando noi due vecchietti passeggiavamo sul sentiero piano lungo le ripe, da dove un tempo i cavalli trainavano con le funi i barconi, per ore e ore non incontravamo nessuno fuorché una coppietta di innamorati che nascondeva il proprio amore, fintantoché non fosse sancito anche dal fidanzamento o dalle nozze, in questi posti fuori mano, lontani dalle chiacchiere dei vicini. Proprio quel corso d'acqua, placido e romantico, al centro di un paesaggio dolce e collinoso, ci piacque oltre misura. Acquistammo un terreno in un tratto in cui la collina di Bathampton digrada dolcemente verso il canale in un bel prato rigoglioso; l'appezzamento sembrava situato nel vuoto. In cima costruimmo una piccola casa di campagna; dal giardino si scendeva al canale su comodi sentierini tra la frutta, la verdura e i fiori e quindi, quando ci sedevamo sulla nostra piccola terrazza aperta ai bordi dell'acqua, potevamo vedervi riflessi il nostro prato, la casa e il giardino. La casa era tranquilla e comoda più di quanto avessi sognato e mi lamentavo solo che fosse un po' isolata, senza vicini. «Verranno», mi consolava mio marito, «aspetta soltanto che si accorgano di come si sta bene qui.» E difatti, i nostri peschi e susini non avevano ancora messo le radici che un giorno fecero la loro apparizione i messaggeri della costruzione vicina: prima, agenti immobiliari, poi geometri e infine muratori e carpentieri. In dodici settimane, una casetta con il berrettino di coppi rossi si piazzò gentilmente a fianco della nostra; poi arrivò strombazzando il furgone con il mobilio. Sentivamo, nella pace dell'aria, martellare senza sosta, battere e picchiare, ma non avevamo ancora visto in faccia i nostri vicini. Una mattina udii bussare all'uscio. Una donna esile e carina con un paio di occhi svegli e cordiali, di ventotto, ventinove anni a dir tanto, si presentò come la vicina e chiese in prestito una sega perché, disse, gli artigiani l'avevano dimenticata. Attaccammo discorso. Lei raccontò che il marito era impiegato in una banca di Bristol ma che da tempo desideravano trasferirsi nel verde, lontano dalla città; una domenica, mentre passeggiavano lungo il canale, si innamorarono subito della nostra casa. «Certo», fece la donna, «per mio marito un'ora di viaggio al mattino e una alla sera sono un bel disagio, ma saprà trovarsi la compagnia e si abituerà alla svelta.» L'indomani noi contraccambiammo la visita. La donna era sempre sola in casa e ci raccontò che il marito sarebbe venuto a lavoro finito: prima non serviva e in fin dei conti non c'era fretta. Non so perché, ma l'indifferenza, anzi la contentezza con cui parlava dell'assenza del marito non mi piacque affatto. Quando tornammo a casa, seduti a tavola, osservai che secondo me a quella, a giudicare almeno dalle apparenze, non importava granché del coniuge. Mio marito mi rimproverò ripetendomi di non tranciare giudizi così precipitosi; a suo parere era invece una donna simpatica, intelligente e gradevole e sperava che anche il marito fosse come la moglie. Ebbene, non trascorse molto che lo conoscemmo. Era un sabato e uscimmo per la consueta passeggiata serale. A un tratto udimmo dei passi affrettati e pesanti che ci seguivano, e, voltandoci, vedemmo un uomo grande e grosso alle nostre spalle, il quale ci tendeva una mano larga, arrossata e lentigginosa. «Sono il vostro vicino», disse, «e ho sentito che siete stati molto gentili con mia moglie. Ovviamente è assai sconveniente da parte mia avervi rincorsi in maniche di camicia, invece di farvi una visita di cortesia secondo tutti i crismi, ma, che cosa volete, mia moglie mi ha intessuto tanti elogi sul vostro conto che non ho saputo pazientare un solo minuto e sono venuto a ringraziarvi. Sono io, mi chiamo John Charleston Limpley e non è stupendo che abbiano intitolato la valle a Limpley Stoice ancor prima che io volessi venirvi ad abitare? BÉ, adesso sono qui e spero di restarci finché Dio mi consentirà di vivere. Lo trovo un posto meraviglioso, più bello di qualunque altro al mondo e vi giuro, con la mano sul cuore, di essere un buon vicino discreto.» Parlava così veloce, se si può dire come un treno, che non ebbi mai l'opportunità di interromperlo, ma almeno mi rimase il tempo sufficiente di osservarlo a fondo. Quel Limpley era un pezzo d'uomo, alto a dir poco un metro e ottanta e con due spalle quadrate da far invidia a un facchino, ma, come accade spesso ai giganti, era di una bonarietà fanciullesca. Strizzava gli occhi stretti e leggermente acquosi con le ciglia rossastre a chiunque esprimendo fiducia e, parlando, rideva e scopriva i denti bianchi e lucidi; delle grosse, pesanti mani non sapeva bene che cosa farsene, stentava a tenerle ferme e si capiva che gli sarebbe piaciuto batterle cameratescamente sulla spalla di chi incontrava, tanto che, per sfogare la sua forza, faceva scricchiare, se non altro, le giunture delle dita. Ci domandò se poteva accompagnarci nella nostra passeggiata così com'era in maniche di camicia e, quando noi assentimmo, si mise al nostro fianco. Ci raccontò per filo e per segno di essere originario della Scozia da parte materna, ma di essere cresciuto in Canada e, intanto che parlava, additava o un albero rigoglioso o un bel pendio commentando: «E meraviglioso, davvero stupendo!» Parlò, rise e si entusiasmò senza mai una pausa. Da quell'uomo imponente, sano e vitale sgorgava una benefica corrente di forza e di felicità che, senza accorgerti, ti travolgeva. Quando si accomiatò, noi due ci sentimmo come riscaldati. «A dir la verità, è da tanto che non incontro una persona così cordiale e vivace», disse mio marito il quale, come ho già avuto modo di notare, era sempre molto cauto e riservato nel giudicare la gente. Ma dopo qualche tempo il nostro iniziale entusiasmo per il nuovo vicino cominciò a descrescere sensibilmente. Sotto il profilo umano non c'era nulla da ridire sul conto di Limpley: era d'animo buono, partecipe e servizievole ma spesso si era costretti a rifiutare le sue insistenti offerte -, era educato, onesto, leale e nient'affatto stupido. Senonché con il passare dei giorni non si riuscì più a sopportarne i modi esuberanti di essere permanentemente felice. I suoi occhi acquosi sprizzavano sempre soddisfazione per tutto e tutti. Qualunque cosa possedesse e chiunque incontrasse erano persone o cose meravigliose, wonderful: sua moglie era la migliore donna del mondo, le sue rose le più belle, la sua pipa la migliore con il tabacco migliore. Passava persino un quarto d'ora a convincere mio marito che la pipa si caricava solo nel modo in cui la caricava lui e che il suo tabacco costava un penny meno pur essendo più buono anche di quello di marche costosissime. Sfogando l'eccedente entusiasmo per inezie, cose davvero insignificanti e ovvie, non resisteva alla tentazione di dimostrare e spiegare dettagliatamente le tante delizie. Il suo motore scoppiettante non si fermava mai. Limpley non poteva lavorare in giardino senza cantare a squarciagola, senza parlare, ridere e gesticolare, non poteva leggere il giornale senza balzare in piedi alla prima notizia che lo eccitasse e correre di qua da noi. Le sue mani larghe e coperte di lentiggini erano aggressive come il suo cuore generoso: non solo batteva sul collo di ogni cavallo che vedeva e accarezzava ogni cane, ma anche mio marito, sebbene fosse più vecchio di lui di ben venticinque anni, doveva adattarsi alle sue manate sul ginocchio per cameratismo e in nome della disinvoltura canadese, ogniqualvolta sedevano a conversare amabilmente. Siccome partecipava a ogni evento con il suo cuore caldo e strabocchevole di sentimento, riteneva ovvio e naturale che gli altri gli dimostrassero la stessa partecipazione, e furono necessarie cento piccole astuzie per difendersi dalla sua insistenza. Non rispettava né il riposo né il sonno altrui perché, avendo energie da sprecare, non immaginava che un altro potesse essere stanco o di malumore, e dentro di sé ci si augurava che una iniezione quotidiana di bromuro fosse sufficiente a riportare a un livello normale la sua vitalità pressoché intollerabile. Più di una volta ho sorpreso mio marito mentre spalancava istintivamente la finestra dopo che Limpley era stato da noi un'ora - ma egli non se ne stava seduto come tutti: scattava in piedi a ogni pie sospinto e vagava per la saletta come un indemoniato - quasi che il locale fosse stato surriscaldato dalla presenza di quell'individuo dinamico, per non dire un barbaro. Fintantoché gli si sedeva di fronte e si guardavano i suoi occhi chiari e buoni, stracolmi di bontà, non si portava alcun rancore a quell'uomo: soltanto dopo, misurando la propria spossatezza, lo si mandava al diavolo. Né mai, prima di conoscere Limpley, avevamo immaginato che proprio qualità del genere, la bonarietà, la cordialità, l'espansività e il calore, se presenti in misura eccessiva, potessero spingere una persona alla disperazione, in particolare dei vecchi. Solo allora compresi ciò che all'inizio mi era riuscito incomprensibile: quando sua moglie si era espressa quasi con soddisfazione a proposito della lontananza del marito, non era vero che la donna non provasse affetto nei suoi confronti, era vero piuttosto il contrario: era lei la prima vittima dell'intemperanza di Limpley. Non che non la amasse: la amava appassionatamente, come amava qualunque cosa gli appartenesse o facesse parte di sé. Era commovente vedere con quale tenerezza la circondasse, con quale premura la proteggesse. Bastava che lei tossisse perché l'uomo corresse a prenderle il cappotto o si precipitasse a frugacchiare nel camino per ravvivare il fuoco e, ogni volta che la moglie si recava in città, le dava mille consigli quasi che dovesse intraprendere un viaggio pieno di pericoli. Non ho mai udito che si dicessero una parola sgarbata, anzi lui amava elogiarla e decantarne i meriti fino a diffondersi sulle quisquilie. Anche in nostra presenza non poteva fare a meno di darle una carezza, passarle la mano sulla testa e soprattutto elencarne tutte le doti possibili e immaginabili. «Avete visto che graziose unghiette ha la mia Ellen?» diceva, magari senza alcuna ragione; e la donna, malgrado le proteste, era costretta e mostrare le mani. A me toccava ammirare con quanta abilità sapesse affrancarsi le forcine nei capelli e, naturalmente, dovevamo assaggiare ogni più piccolo vasetto di marmellata che lei aveva fatto e che, a giudizio dell'uomo, era incomparabilmente migliore di tutte le marmellate delle più famose fabbriche d'Inghilterra. In simili occasioni penose la donna, modesta e tranquilla, se ne stava seduta tenendo gli occhi bassi dalla costernazione. Dava l'impressione di avere ormai rinunciato a difendersi dal contegno imprevedibile di quel torrente in piena che era il marito. Lo lasciava parlare, raccontare e ridere, limitandosi e intervenire tutt'al più con un flebile «ah», o semmai con «davvero». «Non ha una vita facile», osservò una volta mio marito mentre rincasavamo. «Tuttavia non si può volergliene. É un uomo profondamente buono e lei può dirsi felice con lui.» «Al diavolo, che felicità vuoi che sia?» sbottai furente. «E una sfacciataggine ritenersi felici con tale ostentazione e mettere all'asta i propri sentimenti senza alcun pudore. Io impazzirei di fronte a tale eccesso o difetto di convenienza. Non vedi piuttosto come rende infelice quella povera donna con la sua boria e la sua micidiale vitalità?» «Non esagerare sempre!» mi biasimò mio marito e, a ben guardare, aveva ragione. La moglie di Limpley non era affatto infelice o, meglio, non era neanche infelice. Era semplicemente incapace di provare qualunque sentimento con chiarezza: era paralizzata ed esausta da quella vitalità smodata. La mattina, quando Limpley se ne andava in ufficio e dal cancello del giardino le giungeva sfocato il suo ultimo «hallo» di saluto, vedevo che per prima cosa si sedeva, o si stendeva, senza far niente, solo per godere quello stato inconsueto, ossia il silenzio totale intorno a sé, e anche durante la giornata nei suoi movimenti si coglieva quasi una traccia di stanchezza. Non era facile attaccar discorso con lei perché negli otto anni di matrimonio la poverina aveva quasi disimparato a parlare. Una volta mi raccontò come fosse arrivata al matrimonio. Abitava con i genitori in campagna quando, un giorno, l'uomo si trovò a passare di lì per caso durante un'escursione: con il suo solito eccesso si era fidanzato e poi l'aveva sposata senza che lei sapesse bene chi fosse e quale mestiere facesse. La donna così garbata e discreta non mi accennò mai, né con una parola né con una sillaba, di non essere felice e tuttavia, dal suo modo sfuggente, così femminile peraltro, ho intuito quale fosse la croce del suo matrimonio. Nel corso del primo anno avevano aspettato un bambino, e la stessa cosa era accaduta nel secondo e nel terzo, poi, dopo sei-sette anni, avevano rinunciato alla speranza di avere figli, senonché le sue giornate erano ormai troppo vuote e le sue sere troppo piene per via della turbolenza del marito e dello strepito che faceva. La soluzione migliore, pensai in cuor mio, sarebbe quella di prendersi in casa un bambino senza genitori o di praticare uno sport, insomma trovarsi un'occupazione qualsiasi. Perché quello starsene seduta inerte e silenziosa non può che condurre alla malinconia e la malinconia a una specie di odio per la provocante allegria del marito che sfinisce qualunque persona normale. Dovrebbe esserci intorno a lei qualcuno o qualcosa, sennò la tensione diventa troppo forte. Il caso volle che da settimane dovessi restituire una visita a un'amica che abitava a Bath. Conversammo piacevolmente per un po', dopodiché lei si rammentò di volere mostrarmi una cosa deliziosa e mi condusse fuori in cortile. In un granaio, a prima vista, scorsi delle forme strane e piccolissime sulla paglia, che si azzuffavano, si scavalcavano e gattonavano freneticamente mescolandosi. Erano quattro cuccioli di bulldog di sei-sette settimane che brancicavano goffamente sulle zampe larghe e di tanto in tanto arrischiavano un piccolo guaito lagnoso. Erano deliziosi: volendo uscire dalla cesta dove l'imponente madre era accovacciata con un'aria diffidente, incespicavano. Ne sollevai uno prendendolo per la pelle morbida in eccedenza. Era marrone, a chiazze bianche e con il suo nasino camuso faceva davvero onore al nobile pedigree espostomi dalla sua padrona. Non mi trattenni dal giocare con il piccolo bulldog: lo feci arrabbiare, lo stuzzicai e lasciai che mi mordicchiasse le dita. La mia amica mi chiese se desiderassi portarmelo a casa: amava molto i cani ed era pronta a regalarli purché si fidasse della famiglia a cui li avrebbe dati. Io esitai sapendo che mio marito aveva giurato a se stesso di non affezionarsi mai più a un altro cane dopo la perdita del suo adorato spaniel. Mi domandai se una bestiola così graziosa non avrebbe potuto essere una compagnia ideale per Mrs. Limpley e promisi all'amica di farle avere una risposta l'indomani. La sera stessa feci ai Limpley la proposta. La moglie tacque non essendo abituata a esprimere un'opinione, mentre il marito si dichiarò d'accordo con il consueto slancio. «E davvero l'unica cosa che non abbiamo. Una casa non è una casa senza un cane», e, nell'euforia, mi avrebbe costretto ad andare a Bath la sera stessa, fare irruzione in casa della mia amica e prelevare l'animale, se io non mi fossi ribellata a una simile follia. Solo il giorno dopo il giovane bulldog, imbronciato e stranito a causa del viaggio inatteso, venne recapitato a casa dei Limpley. Il risultato fu sostanzialmente diverso da quello che avevamo previsto. Era mia intenzione assicurare una compagnia alla signora Limpley, di solito quasi sempre sola nella sua casa vuota durante le ore del giorno. Mi ero sbagliata: fu invece lo stesso Limpley ad avventarsi sul cane perché soddisfacesse il proprio inesauribile bisogno di affetto. Il suo entusiasmo per il buffo animaletto fu inaudito e, come sempre nel suo caso, esagerato e un po' ridicolo. Va da sé che Ponto - fu chiamato così chissà per quale imperscrutabile motivo - fosse il cane più bello e intelligente della Terra e non c'era giorno, anzi ora, in cui non gli scoprisse qualche nuovo fascino e talento. Senza risparmiare, gli furono acquistati tutti gli articoli da toilette per quadrupedi più esclusivi che il mercato offrisse - guinzaglio, cesta, museruola, ciotoline, giochi, palle e ossetti - e Limpley sfogliò i giornali per rintracciare articoli o annunci che si occupassero di toilette o dieta canina, e per acquisire conoscenze specifiche più solide si abbonò persino a una rivista del settore; la colossale industria, che viveva esclusivamente grazie alla dabbenaggine dei cinofili, si fece un nuovo cliente affezionato. In casa Limpley, inoltre, si chiamava il veterinario alla minima occasione, ma per descrivere le infinite stranezze, che l'inattesa passione procreava a un ritmo parossistico, ci vorrebbero volumi e volumi. A volte udivamo un violento latrato, ma non era il cane che abbaiava: era il suo padrone. Steso a pancia in giù sul pavimento e imitando l'idioma canino, tentava di invogliare il suo beniamino a un dialogo inintelligibile per qualunque terrestre. Il vitto della bestiola viziata lo occupava più del proprio, poiché valevano alla lettera le prescrizioni dietetiche dei professori del ramo, insomma Ponto mangiava in modo più signorile di Limpley e della moglie, e la volta che il quotidiano scrisse di un certo tifo - ma in tutt'altra provincia - gli diedero da bere solo acqua minerale. Se poi capitava che un'irrispettosa pulce si prendesse la libertà di rendergli visita, avvilendo così l'«inavvicinabile» a grattarsi la zampa o a un furioso inseguimento a morsi, era Limpley in persona a sobbarcarsi il pietoso affaire della caccia alle pulci: in maniche di camicia, chino sul mastello dell'acqua sterile, lavorava di pettine e spazzola per ore finché l'ultimo dei fastidiosi ospiti non fosse stato ammazzato. Per lui la fatica non era mai troppa, né la degradazione troppo avvilente quando si trattava del suo cane, e il reuccio non avrebbe potuto essere assistito con maggiore affetto e avvedutezza. Tra tante stramberie un fatto positivo, tuttavia, ci fu: a seguito dell'assorbimento totale delle energie sentimentali di Limpley da parte del nuovo oggetto, la moglie e anche noi fummo notevolmente sollevati dalla sua impetuosità; per ore e ore se ne andava a spasso con il cagnetto, lo convinceva a non annusare, ma lui - e la pelle dura ce l'aveva davvero - se ne faceva un baffo. La moglie di Limpley stava a guardare sorridendo e per nulla gelosa che il marito adempisse al quotidiano rito idolatrico ai piedi dell'altare a quattro zampe. Ciò che egli le sottraeva non era altro che un opprimente e inopportuno sovrappiù, ma le restava pur sempre affetto in abbondanza. Innegabilmente il nuovo inquilino aveva reso il loro matrimonio, se possibile, ancor più felice. Intanto Ponto cresceva a vista d'occhio. Le grasse pieghe puerili del pelo si riempirono di carne soda, dura, muscolosa e diventò un cane forte, il petto largo, la dentatura robusta e natiche toste ben strigliate. Di indole buona, nondimeno si fece via via antipatico non appena si rese conto della propria posizione dominante dentro casa, grazie alla quale assunse un contegno arrogante e dispotico. L'animale, intelligente e perspicace, non aveva tardato a capire che il suo signore, o piuttosto il suo schiavo, scusava qualunque sua maleducazione e, all'inizio solo disubbidiente, Ponto si permise presto maniere tiranniche, ribellandosi per principio a qualunque imposizione il cui soddisfacimento fosse interpretabile come un segno di sottomissione. Anzitutto non tollerò alcun genere di riservatezza entro le pareti domestiche. Niente doveva accadere in sua assenza e senza il suo espresso consenso. Ogni volta che arrivavano visite, si lanciava imperiosamente contro la porta, sicuro che lo zelante Limpley sarebbe balzato in piedi ad aprirgli, e subito, senza degnare gli ospiti di uno sguardo, saltava sulla poltrona per far capire a tutti che in quella casa il vero padrone era lui e che quindi gli spettavano soprattutto ammirazione e riverenza. Che nessun cane potesse osare avvicinarsi soltanto alla staccionata era ovvio e naturale, ma anche certe persone, alle quali aveva annunciato, fin dalla prima volta, la propria avversione con un mugugno: per esempio, il portalettere o il lattaio si vedevano costretti a posare i loro pacchi e le loro bottiglie fuori della porta, anziché consegnarle nelle mani dei proprietari. E così, quanto più Limpley, travolto dalla sua infantile passione amorosa, si degradava, tanto più veniva bistrattato dall'insolente bestiola, anzi, per quanto la cosa abbia dell'incredibile, Ponto aveva perfezionato addirittura un sistema per dimostrargli di abbassarsi fino a tollerare carezze e slanci, ma di non sentirsi affatto obbligato a tributare riconoscenza per il dovuto ossequio giornaliero. Inoltre non c'era volta che non lo facesse aspettare quando Limpley lo chiamava. A mano a mano il bulldog divenne un vero maestro nell'arte della finzione. Era diabolico. Di giorno infatti era un normale cane di razza: scorrazzava nei dintorni, rincorreva i polli, sguazzava nell'acqua, divorava qualunque cosa di commestibile trovasse sulla sua strada e si compiaceva nell'abbandonarsi al suo divertimento preferito - sfrecciare proditoriamente nel prato, con l'impeto di un petardo, fin giù al canale e qui con violente testate malvage rovesciare in acqua ceste e mastelli e con un urlo di trionfo ballare intorno alle donne e alle ragazze affrante, che poi dovevano ripescare il bucato un panno dopo l'altro ma, scoccata l'ora in cui Limpley tornava dall'ufficio, il raffinato commediante si levava la maschera dell'arroganza e si metteva quella del sultano. Pigramente sdraiato e senza il minimo cenno di benvenuto, aspettava il padrone che si precipitava su di lui con un rintronante «hallo, Ponty», ancor prima di salutare la moglie e di togliersi la giacca. Ponto non agitava nemmeno la punta della coda per contraccambiare il saluto. Qualche sera aveva la compiacenza di lasciarsi girare sulla schiena e grattare la pelle morbida e setosa della pancia, ma anche in quei momenti di misericordia si guardava bene dall'emettere uno sbuffo o un grugnito soddisfatto che tradissero il proprio compiacimento e la propria gratitudine per le carezze ricevute: lo schiavo succube avrebbe dovuto piuttosto vedere, senza alcun fraintendimento, che quelle affettuosità erano pur sempre una concessione. Difatti, con un brontolio, che pressappoco significava: «Adesso basta!» si rigirava all'improvviso mettendo definitivamente fine al gioco. Si faceva supplicare finanche per inghiottire le fettine di fegato che Limpley gli porgeva accostandogli alla bocca un pezzettino dopo l'altro. A volte si limitava ad annusarli e li lasciava sprezzantemente, malgrado i consigli, soltanto per dimostrare che non sempre si degnava di prendere i pasti se a servirglieli era il servo bipede. Invitato poi a una passeggiata, prima si rotolava e poi si alzava di malavoglia sbadigliando e protraeva lo sbadiglio finché gli si vedeva tutta la trachea nera a chiazze; ogni volta comunque non si muoveva prima di avere fatto capire, con un comportamento insolente, di non avere nessun interesse ad andare a passeggio e di scendere dal divano solo per compiacere Limpley. Insomma, ormai viziato e perciò sfacciato, con centinaia di analoghi stratagemmi costringeva il suo padrone a comportarsi come un mendicante e un questuante; veramente si dovrebbe definire «cinica», vale a dire cagnesca, la passionalità di Limpley e non il comportamento di un animale impertinente, il quale recitava il ruolo del pascià orientale con eccezionale bravura artistica. Noi due, mio marito e io, non riuscimmo a tollerare oltre le sfacciataggini di quel tiranno. Ponto, intelligente com'era, si accorse della nostra disposizione d'animo non più rispettosa nei suoi confronti e, dal canto suo, si industriò a dimostrarci il suo disprezzo ricorrendo anche ai modi più villani. Che avesse carattere era innegabile; dal giorno in cui la nostra domestica lo scacciò dal giardino perché il cane aveva lasciato una traccia inequivocabile del suo passaggio nell'aiola delle rose, Ponto non scavalcò più la folta siepe che delimitava pacificamente il nostro terreno, e si rifiutò addirittura di varcare la nostra soglia nonostante i consigli e le suppliche di Limpley. Rinunciammo con piacere alle sue visite, mentre ci spiaceva che, incontrando Limpley in sua compagnia per strada o davanti a casa, non potessimo scambiare neppure due parole con il nostro vicino, bonario e ciarliero, perché quel dispotico cane ce lo impediva con il suo comportamento provocatorio: non erano neanche passati due minuti da quando ci eravamo fermati che cominciava a uggiolare, a bofonchiare rabbiosamente o a dare dei cozzi indecorosi con la testa contro la gamba di Limpley; era il chiaro segnale per comunicargli: «Adesso basta! Smettila di chiacchierare con simile gente odiosa». A questo riguardo devo riferire, vergognandomene, che Limpley si inquietava in quelle occasioni. Prima tentava di rabbonire lo screanzato, dicendogli: «Subito! Subito! Veniamo subito», ma poi, non riuscendo a tacitare il tiranno, il pover'uomo succube si accomiatava, per quanto umiliato e confuso. Certo, il presuntuoso animale, raggiante di gioia per averci fornito l'ennesima prova del suo illimitato potere, partiva al trotto alzando orgogliosamente le chiappe. Non sono una donna violenta, ma mi prudevano le mani dalla voglia di prendere a frustate quel mascalzone e cocco di mamma, almeno una volta, una volta sola. Fino a questo punto infatti Ponto, un cane assolutamente comune, era riuscito a raffreddare i nostri rapporti, che in passato erano stati di amicizia. Limpley dava a vedere che ne pativa, non potendo più precipitarsi da noi a ogni pie sospinto, mentre la moglie era, a sua volta, imbarazzata perché si avvedeva di quanto il marito si coprisse di ridicolo lasciandosi schiavizzare da un cane. Tra piccole schermaglie del genere passò un anno durante il quale l'animale diventò, se possibile, sempre più insolente, dispotico e soprattutto più raffinato nell'infliggere umiliazioni a Limpley, finché un giorno si determinò una svolta che colse tutti di sorpresa, ovviamente alcuni in modo superficiale e altri, coloro che ne erano i diretti interessati, in maniera addirittura tragica. Non avevo potuto fare a meno di mettere a parte mio marito di una mia sensazione: da due o tre settimane, almeno mi pareva, la signora Limpley mi scansava con una certa timidezza, temendo quasi di lasciarsi coinvolgere in una conversazione troppo lunga. Difatti eravamo buone vicine e quindi accadeva che occasionalmente ci prestassimo vuoi questa vuoi quella cosa e ogni volta ne approfittavamo per una bella chiacchierata. A me quella donna, tranquilla e modesta, piaceva. Recentemente, invece, mi sembrò che chissà per quali scrupoli preferisse non avvicinarmi, tant'è che mandava la domestica se le occorreva qualcosa; mentre, se ero io a rivolgerle la parola, si mostrava impacciata ed evitava che la guardassi negli occhi. Mio marito, il quale aveva una particolare simpatia per la signora Limpley, mi convinse ad andare da lei a chiederle, senza tanti giri di parole, se inconsapevolmente la avessimo offesa. «Bisogna badare a che, tra vicini, non insorgano malintesi; forse è proprio esattamente il contrario di quel che temi, forse - e io ne sono convinto - vuole domandarti qualcosa e non ne ha il coraggio.» Feci mio il consiglio, andai di là e la trovai seduta sulla poltrona da giardino quasi in trance, tant'è che non mi udì nemmeno arrivare. Le posi una mano sulla spalla e le dissi con voce schietta: «Signora Limpley, sono una donna vecchia e non ho bisogno di avere timori. Lasci che sia io a cominciare. Se per caso prova un po' di rancore verso di noi, mi dica chiaramente il perché e il percome». La povera, piccola donna sobbalzò spaventata. «Come fa a pensare una cosa simile! Non sono venuta soltanto perché...» Arrossì invece di continuare a parlare e scoppiò a piangere, ma era, se posso dire così, un pianto benefico, felice. Alla fine mi confessò tutto. Dopo nove anni di matrimonio aveva rinunciato alla speranza di diventare madre e persino nelle ultime settimane, quando aumentarono i sospetti che accadesse ciò in cui non sperava più, non ebbe il coraggio di credervi. Due giorni prima era stata dal medico in gran segreto e ormai ne aveva la certezza. «Ma finora non ce l'ho fatta a dare l'annuncio a mio marito», proseguì. «Lo conosco e ho quasi paura dell'eccesso di gioia che può travolgerlo. A questo punto non sarebbe meglio - fino a oggi non ho avuto il coraggio di chiedervi questo favore - se foste voi ad assumervi l'incarico, almeno di prepararlo?» Mi dichiarai disponibile. Mio marito quasi si divertì e risolse per il meglio la faccenda con fare allegro. Lasciò a Limpley un biglietto nel quale lo pregava di venire subito da noi non appena fosse tornato dall'ufficio. Naturalmente il brav'uomo, data la sua stupenda solerzia, venne di qua senza neppure concedersi il tempo di levarsi il soprabito. Era visibilmente preoccupato e insieme felice di farci un piacere. Ma non venne semplicemente, farei meglio a dire: si precipitò come una furia. Era senza fiato quando entrò in casa nostra. Mio marito lo pregò di sedersi al tavolo, e quella ufficialità lo tranquillizzò. Come sempre non sapeva dove mettere le grosse pesanti mani lentigginose. «Limpley», attaccò mio marito, «ieri sera ho pensato a lei e mentre leggevo un libro, ho riflettuto che la gente non desidera mai molto, ma solo una cosa, insomma ha un unico desiderio. E allora mi son detto: che cosa potrebbe desiderare, per esempio, il nostro buon vicino se un angelo o una fata o magari qualcuno di quegli amabili esserini gli domandasse: 'Limpley, che cosa ti manca? Ti concedo di esprimere un solo desiderio.'» Limpley lo guardò sbalordito. La faccenda lo divertiva ma non ci credeva troppo. Non riusciva a reprimere la sensazione inquietante che dietro la convocazione ufficiale si nascondesse chissà che cosa. «Ebbene, Limpley, provi a immaginarsi che io sia quella fata gentile», fece mio marito cercando di attenuare lo sbalordimento dell'ospite. «Non ha nessun desiderio?» Limpley, mezzo serio e mezzo divertito, si grattò la testa tra i capelli rossastri tagliati a zero. «A essere sincero neanche uno», confessò dopo una pausa. «Ho tutto ciò che voglio: una casa, una moglie, un posto di lavoro sicuro e un...» mi resi conto che stava per aggiungere «un cane», ma all'ultimo momento l'ammissione gli parve disadatta in quel momento. «...Sì, effettivamente ho tutto.» «Allora non ha un desiderio da esprimere all'angelo o alla fata?» Limpley sembrò sempre più sereno: si sentiva al settimo cielo all'idea di potere finalmente dire senza remore quanto fosse felice. «No, non... ne ho, nemmeno uno.» «Peccato», disse mio marito, «peccato davvero che non le venga in mente niente», e tacque. Sotto lo sguardo investigatore del partner, Limpley si sentì un po' a disagio. Credeva di doversi scusare. «Certo, qualche soldo in più mi servirebbe... una piccola promozione... ma, come ho detto, sono soddisfatto... Non saprei che cosa desiderare.» «Povero angelo», disse mio marito simulando un tono solenne. «Così dovrà tornarsene indietro a mani vuote perché Mr. Limpley non ha più nulla da desiderare. Per fortuna non è partito subito, il buon angelo gentile, e ha fatto a tempo a rivolgere la stessa domanda a Mrs. Limpley e, come sembra, con lei ha avuto più fortuna.» Limpley si bloccò stupefatto. Il brav'uomo con i suoi occhi acquosi e la bocca semiaperta sfoderò un'aria candida e sprovveduta, ma subito si riebbe e disse quasi seccato: «Non riesco a capacitarmi che chi mi appartiene non sappia essere soddisfatto. Mia moglie? Ma che cos'altro può desiderare ancora?» «Bè, magari qualcosa di diverso da un cane.» Adesso Limpley capì. Fu un lampo: come colto dal panico, spalancò le palpebre, tant'è che al posto delle pupille si vide il globo oculare bianco. Prese lo slancio e si alzò. Corse fuori, dimenticando il cappotto e senza neanche scusarsi, e si precipitò nella camera della moglie come impazzito. Noi due scoppiammo a ridere, ma non ci meravigliammo: conoscevamo bene Limpley. Qualcun altro invece si meravigliò. Qualcun altro che se ne stava comodo sul sofà con gli occhi socchiusi e tuttavia vigili, aspettando la dovuta riverenza - o presunta tale - da parte del padrone: Ponto, tirannico come sempre, il pelo ben spazzolato. Ma che cosa stava succedendo? Senza salutarlo, senza vezzeggiarlo, l'uomo gli era sfrecciato davanti ed era sparito in camera da letto. Il cane udì una risata, un pianto, poi chiacchierare e singhiozzare. Passò del tempo, molto tempo e nessuno si curò di lui benché, per diritto e costume, gli spettasse il primo saluto affettuoso. Trascorse un'ora. La ragazza gli portò i piatti con la cena. Con aria sprezzante non toccò cibo. Era abituato a sentirsi pregare, supplicare e imboccare. Un ringhio feroce all'indirizzo della ragazza. Avrebbero dovuto vedere con i loro occhi che con lui non ci si sbrigava tanto alla svelta. Ma in quella sera di grande eccitazione nessuno si accorse che non aveva mangiato un solo boccone. Era stato dimenticato e continuava a esserlo. Limpley parlava senza sosta alla moglie, la colmava di prescrizioni preoccupate e la adulava. Malgrado l'innata esuberanza, non lo degnò di uno sguardo e l'animale superbo era troppo orgoglioso per essere lui a fare il primo passo. Restò accucciato in un angolo e attese; ma non poteva che trattarsi di un equivoco, di una eccezionale dimenticanza anche se imperdonabile. Aspettò invano. Anche la mattina seguente: Limpley, avendo perso tempo con le raccomandazioni alla giovane moglie perché non si affaticasse, per poco non perdeva la corriera e quindi si precipitò fuori di casa schizzandogli davanti senza salutarlo. Era indubbiamente un cane intelligente, ma la metamorfosi improvvisa andava al di là delle sue capacità intellettive. Mi trovavo per caso vicino alla finestra nell'istante in cui Limpley salì sulla corriera e, non appena l'uomo ne fu inghiottito, vidi Ponto sgattaiolare fuori di casa molto lento - vorrei dire pensieroso - e seguire con lo sguardo il veicolo che si allontanava rollando. Rimase immobile per mezz'ora, evidentemente come se si aspettasse che il padrone ricomparisse e riparasse alla dimenticanza commessa, dopodiché tornò sui suoi passi. Per tutto il giorno non giocò e tanto meno si scatenò: fece dei giri intorno alla casa adagio e sovrappensiero. Forse - ma chi può dire in che modo e fino a che livello si formino le associazioni di immagini in un cervello animale? - rimuginò nella sua mente se magari non fosse stato lui stesso, per inettitudine, a causare l'inspiegabile infrazione all'usanza del saluto. Verso sera, circa mezz'ora prima del consueto ritorno di Limpley, divenne palesemente nervoso: continuava a spingersi quatto quatto fino allo steccato, le orecchie mosce, per spiare la strada e non lasciarsi sfuggire l'arrivo della corriera; ma, com'era naturale, si guardò bene dal mostrare di attendere con impazienza e difatti, non appena l'automezzo apparve all'ora abituale, s'infilò nella saletta, si accomodò sul divano e attese. Ma anche allora aspettò invano. Anche allora Limpley gli passò davanti di corsa. La stessa cosa si ripeté ogni giorno. Solo una volta o due Limpley si accorse di lui, gridò un rapido: «Ah, sei tu, Ponto», e lo accarezzò passandogli vicino: ma era una carezza indifferente e distratta, non erano più l'antico corteggiamento e la disponibilità servizievole, mancavano i vezzeggiativi, gli inviti al gioco e alle passeggiate, mancava tutto, tutto. Di questa dolorosa indifferenza Limpley, un uomo buono nel profondo dell'anima, non era francamente colpevole: oramai non aveva altro pensiero, altra preoccupazione se non la moglie. Appena tornato dalla città, accompagnava la donna ovunque volesse, o a fare una passeggiata, calcolando al secondo la durata e tenendola premurosamente sottobraccio perché non facesse un passo affrettato o incauto; sovrintendeva al cibo e si faceva fare dalla ragazza l'esatta relazione di ogni ora del giorno. A tarda sera, quando lei si era già ritirata, egli veniva immancabilmente di là da noi per chiedere un consiglio o avere conforto da una donna esperta come me. Facendo il giro degli empori, comperò fin da allora il corredino per il nascituro e compiva ogni azione in uno stato di eccitazione costante e tuttavia solerte. Non si poteva più dire che avesse una vita propria: a volte dimenticava di radersi per due giorni e spesso arrivava in ritardo in ufficio perché perdeva la corriera dilungandosi nelle raccomandazioni. Perciò, se trascurava di portare a passeggio Ponto o di occuparsi di lui, non era affatto per malevolenza o infedeltà: era il disordine mentale di un temperamento passionale o monomaniacale che lo obbligava ad applicarsi a una cosa sola con tutti i sensi, pensieri e sentimenti. Ma se già individui normali, dotati di un intelletto idoneo al pensiero logico retroattivo e irretroattivo, non sono quasi capaci di scusare senza rancore una mancanza a loro scapito, ci si domanda come un animale ottuso potesse tollerare il torto subito. Di settimana in settimana Ponto diventò sempre più nervoso e irascibile. Il suo amor proprio non sopportava che si prescindesse dalla sua presenza in una casa di cui era stato il padrone e che lo si degradasse al rango di coinquilino. Se fosse stato un essere ragionevole, si sarebbe riavvicinato a Limpley supplicandolo e adulandolo, sinché l'antico protettore si fosse ravveduto rammentandosi delle proprie omissioni: ma Ponto era ancora troppo orgoglioso per strisciare sulla pancia. Doveva essere il suo padrone, non lui, a compiere il primo passo per giungere alla riconciliazione, sicché decise di attirare su di sé l'attenzione ricorrendo a vari stratagemmi. Nel corso della terza settimana cominciò all'improvviso a zoppicare e a strascicare la gamba posteriore sinistra come se fosse anchilosata. In circostanze normali Limpley lo avrebbe visitato subito con affetto e apprensione per vedere se non gli si fosse magari conficcata una spina nella zampa, lo avrebbe commiserato, avrebbe telefonato al veterinario spiegandogli che era una cosa urgente, si sarebbe alzato senz'altro di notte, almeno due o tre volte, per accertarsi delle sue condizioni di salute. Quella volta, invece, né lui né altri di casa tennero conto della buffa menomazione e a Ponto non restò altro da fare che dare un taglio, pur seccato, alla sceneggiata. Ci riprovò qualche settimana dopo con lo sciopero della fame: per due giorni non toccò cibo accettando il sacrificio di buon grado, ma nessuno si curò della sua inappetenza; e pensare che in passato se per caso, in un rigurgito di dispotismo, non finiva di leccare la sua minestrina fino all'ultima cucchiaiata, Limpley correva a prendergli speciali biscotti o una fetta di salsicciotto. Alla fine, però, la fame animale ebbe il sopravvento sulla volontà, e Ponto spazzolò d'un fiato il suo pasto in tutta segretezza senza nemmeno gustarlo; ma gli rimorse la coscienza. Poi tentò nuovamente di attirare l'attenzione su di sé nascondendosi per intere giornate: cautelativamente si rincantucciava nelle vicinanze, per esempio nella vecchia legnaia fuori uso, da dove avrebbe potuto udire con compiacimento una voce apprensiva gridare: «Ponto! Ponto!» Invece nessuno gridò, nessuno notò la sua assenza o si agitò per essa. La sua tirannide era stata spezzata e si sentiva detronizzato, denigrato, dimenticato senza neanche sapere perché. Credo di essere stata la prima ad accorgersi del cambiamento intervenuto nel cane in quelle settimane. Dimagrì e assunse un'altra andatura: anziché camminare impettito e spavaldo con le natiche tirate in fuori, andava in giro mogio come se lo avessero bastonato; il pelo, dianzi spazzolato quotidianamente con la massima accuratezza, aveva perso la lucentezza della seta. Ogni qualvolta lo incontrassi, abbassava la testa, non lasciando nemmeno vedere gli occhi, e filava via in fretta. Ma, per quanto lo avessero umiliato senza alcuna pietà, il suo antico orgoglio non era stato ancora spezzato: non si vergognava affatto vedendoci e la sua rabbia si sfogava raddoppiando gli assalti alle ceste del bucato; in una settimana ne buttava nel canale non meno di tre per dimostrare in maniera violenta di esistere e di aver diritto al rispetto. Ma anche le aggressioni ai mastelli non sortirono alcun effetto apprezzabile se non di far infuriare le serve, che lo minacciavano con i bastoni. Anche ogni artificio, i sotterfugi, i digiuni, le finte di zoppicare e sparire, nonché quel suo spiare si rivelarono inutili, e la sua pesante testa quadrata si tormentò altrettanto inutilmente. Poi un giorno accadde qualcosa che egli non capì e che modificò il ritmo e le persone della casa. Con viva disperazione si rese conto di non avere alcun potere contro la congiura ordita in quel frangente o già prima. Chiaro: qualcuno lo osteggiava, un'ignota forza malvagia. Lui, Ponto, aveva un nemico più potente ed era un nemico invisibile, sfuggente. Impensabile agguantarlo, stritolarlo e spezzargli le ossa: era un avversario abietto, astuto e vile, essendo riuscito a spodestarlo. Inutile annusare tutti gli usci, spiare, rizzare le orecchie, inutile lambiccarsi il cervello, fare la posta: era e restava invisibile il suo antagonista: un diavolo, un ladro. In quelle settimane Ponto si aggirò senza sosta nelle adiacenze della siepe come un pazzo, nella speranza di scoprire almeno un'orma dell'«invisibile», di quel demonio, ma i suoi sensi eccitati gli trasmisero unicamente la sensazione che, all'interno della casa, si stesse preparando qualcosa di grave che non capiva ma che, senz'altro, aveva a che fare con l'acerrimo nemico. Innanzitutto era arrivata all'improvviso una donna anziana - la madre della signora Limpley - e di notte dormiva sul sofà in sala da pranzo, il «suo» sofà, sul quale era solito oziare qualora non gradisse la grande cesta imbottita. E poi portarono un'infinità di cose, pacchi e roba di lino e - perché? - il campanello suonava senza sosta e, soprattutto, spesso compariva un signore occhialuto vestito di nero che sapeva di un odore nauseabondo, di tinture forti, disumane. La porta della camera da letto della signora continuava ad aprirsi e chiudersi e dentro si sentiva un indefesso parlottio; o invece si sedeva il gruppo delle donne che facevano tintinnare gli aghi da calza. Che cosa significava quel tramestio e perché lo escludevano e spodestavano? A Ponto, a furia di ponzare, venne lo sguardo fisso, quasi vitreo. Quel che differenzia l'intelligenza animale da quella umana è che nella prima avviene esclusivamente la separazione tra passato e presente, mentre la seconda non sa immaginare o calcolare il futuro; e difatti ciò che la povera bestia percepiva era un qualcosa in divenire e prossimo ad accadere, un impedimento contro cui non poteva lottare né difendersi. Ci vollero, giorno più giorno meno, sei mesi prima che il superbo, iattante e viziato animale, fiaccato dall'estenuante lotta impari, accettasse l'umiliazione della resa incondizionata. E stranamente venne a deporre le armi ai miei piedi. Era una domenica sera e, mentre mio marito disponeva le carte sul tavolo per il suo solitario, mi ero seduta un po' in giardino. All'improvviso sentii una cosa calda, lieve ed esitante appoggiarsi sul mio ginocchio. Era Ponto, lo stesso Ponto che, nel suo orgoglio ferito, non aveva più messo piede nel nostro giardino da un anno e mezzo: ora, invece, nella sua costernazione, cercava un rifugio e pensò di trovarlo da me. Era probabile che in quelle settimane, quando gli altri lo trascuravano, lo avessi chiamato passando di lì o gli avessi dato una carezza. Pertanto, al colmo della disperazione, si era rammentato di me. Non dimenticherò mai lo sguardo penetrante e supplice con cui mi guardò, anzi credo che proprio lo sguardo di un cane che si trovi in estrema difficoltà sia molto più commovente - sono quasi tentata di dire parlante - di quello di un essere umano; perché noi cediamo gran parte dei nostri sentimenti e pensieri alla mediazione della parola, mentre l'animale, non possedendo il linguaggio, è obbligato a concentrare l'espressione nella pupilla. Non ho mai visto un senso di sconforto tanto commovente e totale come quella sera nello sguardo non facilmente descrivibile di Ponto, intanto che la sua zampa piativa grattandomi l'orlo della sottana. Mi chiedeva, e lo capii fino a commuovermi: Spiegami, che cos'ha il mio padrone, che cos'hanno tutti contro di me? Che cosa sta succedendo in quella casa perché nessuno mi ami più? Aiutami tu, dimmi che cosa devo fare. Francamente rimasi impacciata di fronte alla sua commovente supplica. Lo accarezzai e a mezza voce sussurrai: «Mio povero Ponto, il tempo della felicità è scaduto per te. Dovrai abituarti come noi ci dobbiamo abituare a molte cose e a molti dolori». All'udire le mie parole, Ponto rizzò le orecchie, le pieghe della fronte si contrassero come per un tormento; mostrando di volere capire, raschiò il terreno con la zampa. Un gesto di impazienza e di intolleranza quasi per dire: «Non ti capisco: spiegamelo! Aiutami!» Sapevo che non potevo aiutarlo. Gli passai più volte la mano sulla pelliccia per calmarlo. Senonché ebbe la percezione che da me non avrebbe avuto l'atteso conforto: si alzò tranquillo e sparì. Non si fece vedere per un giorno e per una notte; se fosse stato un essere umano si sarebbe temuto il suicidio. Riapparve la sera del giorno successivo: sporco, affamato, inselvatichito e malconcio; i segni di vari morsi lasciavano supporre che avesse aggredito altri cani con furia cieca. Ma una nuova umiliazione lo stava aspettando. La domestica, infatti, fu categorica nel vietargli di entrare in casa e gli pose la ciotola del cibo fuori della porta senza neppure badargli. Era un'offesa francamente rozza, ma era stata imposta dalle circostanze. Il lieto evento era ormai imminente, e la casa si riempì di gente indaffarata. Limpley si spostava da una stanza all'altra, sconcertato; aveva la faccia rossa e tremava tant'era eccitato. La levatrice, assistita dal dottore, correva avanti e indietro, la suocera si era seduta accanto al letto della figlia, la cameriera non aveva mai una mano libera. Anch'io ero andata di là e aspettai in sala da pranzo pronta ad agire se qualcuno avesse richiesto il mio aiuto. In quel trambusto, la presenza di Ponto non avrebbe causato altro che disturbo e fastidio ma, ditemi voi, avrebbe potuto capire con il suo piccolo cervello di cane? L'animale irrequieto comprese soltanto che per la prima volta lo avevano scacciato di casa dalla sua casa - come un estraneo, un mendicante, un guastafeste e lo estromettevano perfidamente da un evento, senz'altro importante, che si svolgeva a porte chiuse. Divorato da un furore parossistico, azzannò e sbriciolò con i suoi denti robusti gli ossi che gli erano stati buttati, come se si fosse trattato del collo del suo invisibile nemico, poi cominciò ad annusare dappertutto. Il suo olfatto allenato fiutò la presenza in quella casa - nella sua casa - di persone estranee, e fiutò sull'ammattonato la nota scia dell'odioso occhialuto vestito di nero. Ma anche altri facevano parte della combriccola e che cosa ci facevano? Irrequieto, rizzò le orecchie per cogliere il minimo suono e, tenendosi aderente al muro, udì voci forti e voci flebili, gemiti e grida, quindi uno sciabordio, passi frettolosi, oggetti che venivano spinti, tintinnio di bicchieri e rumore di metallo urtato e finalmente qualcosa accadde: qualcosa a lui avverso, intuì d'istinto, insomma lo stesso enigma che aveva causato la sua umiliante estromissione e degradazione. L'infame invisibile nemico, vile e abietto, adesso era lì, adesso si era tolto la maschera, lo si poteva agguantare e dargli finalmente il colpo di grazia. Con i muscoli tesi e vibranti per l'eccitazione il poderoso animale si acquattò fuori dalla porta d'ingresso per essere pronto allo scatto, se si fosse aperta. Ora non gli sarebbe sfuggito, il nemico insidioso e usurpatore dei suoi diritti e privilegi, l'assassino della sua pace! Di quanto accadeva fuori, noi all'interno della casa non sospettavamo nulla. Eravamo eccitati e impegnati. A me toccò il compito - e non era una fatica da poco - di tranquillizzare e consolare Limpley, al quale il medico e la levatrice avevano vietato l'accesso in camera da letto; soffocato dalla sua stessa mostruosa compassione, Limpley patì, in quelle due ore, forse di più della puerpera. Ma alla fine fu dato l'annuncio, e qualche minuto più tardi l'uomo fu ammesso in camera da letto per vedere il neonato - una femmina, come aveva comunicato poco prima la levatrice - e la madre. Barcollava di gioia e insieme di paura. Si trattenne a lungo e noi, la suocera e io, avendo entrambe già vissuto parecchi di quei momenti, appena lasciate sole ci scambiammo lunghi ricordi in tono confidenziale. Finalmente l'uscio si spalancò e comparve Limpley, seguito dal medico. Reggeva la bambina nel port-enfant, per mostrarcela con legittimo orgoglio. Sembrava un sacerdote che portasse l'ostensorio. La sua faccia onesta, larga e magari un poco ingenua appariva quasi bella, riverberata dalla felicità. Le lacrime abbondanti gli rigavano le guance, ma non poteva asciugarle perché teneva la piccina con entrambe le mani, come se fosse un oggetto incredibilmente prezioso e fragile. Il medico dietro di lui, abituato a scene del genere, si stava intanto infilando il cappotto. «Non ho più niente da fare qui», rise e si diresse verso la porta senza alcuna malizia. Nell'istante, meno di un secondo, in cui aprì la porta, il medico sentì sfrecciare una specie di proiettile che gli rasentò le gambe. Ponto, che aveva aspettato accovacciato fuori dell'uscio con i muscoli ben tesi, era ormai al centro della stanza e la riempì con un latrato pazzesco. Aveva visto subito che Limpley teneva in braccio un oggetto nuovo, che egli non conosceva, una cosa piccola, rossa e viva che gemeva come un gatto e aveva un inconfondibile odore umano: dunque lui, il nemico nascosto, imboscatosi, a lungo cercato, lo stesso che gli aveva rubato il potere e la libertà! Sbranalo, dilanialo, gli suggerì l'istinto bestiale e, digrignando i denti, spiccò un balzo per strappare la bambina dalle braccia di Limpley. Suppongo che tutti avessimo lanciato simultaneamente un grido. Il balzo della grossa bestia era stato così violento e improvviso, che, all'urto micidiale l'uomo, pur pesante e tarchiato, aveva perso l'equilibrio barcollando e finendo contro la parete; ma all'ultimo momento aveva sollevato il port-enfant con la bambina in modo che non le succedesse alcun male. Difatti, prima che Limpley crollasse a terra, riuscii ad afferrare il cuscino. Il cane si avventò allora su di me, ma per fortuna il dottore - era rientrato richiamato dai nostri strilli - con notevole presenza di spirito scaraventò una pesante poltrona contro l'animale furibondo. Si sentì uno scricchiolio di ossa. Ponto aveva gli occhi iniettati di sangue e la bava alla bocca. Si lamentò dal dolore e per un attimo retrocesse, ma subito dopo mi aggredì in un nuovo accesso di rabbia incontenibile. Quell'attimo, tuttavia, fu sufficiente a Limpley per riprendersi e rialzarsi: ma, acceso da un'ira, orrendamente simile a quella del suo cane, si avventò su di lui. Ebbe inizio una lotta terribile. Limpley, tarchiato, pesante e forte, si gettò con tutto il suo peso su Ponto per strozzarlo con le sue stesse mani. Formarono un'unica massa, lottarono a corpo a corpo rotolandosi sul pavimento. Ponto tentava di azzannare, Limpley di strangolare, il ginocchio puntato contro il petto dell'animale, il quale riusciva sempre a svincolarsi dalla sua micidiale presa. Noi donne anziane fuggimmo nella stanza accanto per mettere in salvo la bambina. Il medico e la ragazza invece si lanciarono contro la bestia inferocita. Usarono qualunque cosa capitasse loro in mano per fracassargliela addosso. Si udirono i rumori di vetro rotto e di legno spezzato. Ma lo colpirono anche con gragnuole di pugni e gli saltarono sopra, in tre, pestando i piedi con forza finché i latrati furibondi si attutirono spegnendosi via via in un rantolo ansimante. Alla fine il dottore, la ragazza e mio marito, accorso all'udire il baccano, legarono per le zampe anteriori e posteriori, con il suo stesso guinzaglio di cuoio, l'animale che ormai respirava a fatica, quasi a singhiozzo, ed era stremato; usarono la tovaglia strappata dal tavolo come bavaglio. Resolo finalmente inoffensivo e semistordito, lo trascinarono fuori dalla sala. Sulla soglia lo buttarono come se fosse un sacco. Solo allora il medico rientrò per prestare il suo aiuto. Limpley, barcollando come un ubriaco, si era strascicato nell'altra stanza per informarsi della figlia. La piccina era incolume e lo guardò con i suoi occhietti assonnati. Anche la moglie, che era stata svegliata da un sonno pesante causato dallo spossamento del parto, non aveva corso rischi, e, ancora un po' affaticata ma affettuosa, si volse dalla parte del marito che le accarezzò le mani. Solo allora Limpley pensò a sé. Aveva un aspetto orribile: la faccia cadaverica, gli occhi spiritati, il colletto strappato, gli indumenti sgualciti e polverosi. Sopraffatti dallo spavento, ci avvedemmo che dalla manica destra a brandelli grondava e gocciolava il sangue macchiando il pavimento: furente com'era, non si era accorto che l'animale, nella sua disperata difesa, gli aveva conficcato i denti nelle carni per ben due volte. Gli togliemmo la camicia e il medico accorse per la fasciatura. Nel frattempo la ragazza gli portò un cognac. Limpley era davvero sfinito, aveva perso molto sangue e sembrava che stesse per svenire da un momento all'altro. A fatica riuscimmo a distenderlo sul divano e lì il poveretto, che per due notti non aveva quasi chiuso occhio nell'eccitazione dell'attesa, cedette al sonno. A quel punto ci consultammo su che cosa fare con Ponto. «Abbatterlo», saltò su mio marito facendo l'atto di tornare di là a prendere la sua rivoltella. Ma il medico spiegò che era suo dovere portarlo, senza perdere un minuto, in un centro di osservazione dove avrebbero analizzato la saliva dell'animale per diagnosticare se aveva la rabbia o meno; nel caso in cui fosse stato accertato che il cane era idrofobo, anche per la ferita di Limpley erano necessarie precise precauzioni, peraltro previste dai regolamenti sanitari. «Caricherò Ponto sulla mia automobile», disse. Uscimmo tutti a dare una mano al dottore. Era là, fuori della porta - una vista che non dimenticherò mai assolutamente inoffensivo per via dei lacci. Appena ci sentì arrivare, il suo occhio iniettato di sangue si sporse violentemente, quasi che volesse saltar fuori dalle palpebre. Arrotò i denti, si strozzò, deglutì per sputare il bavaglio, mentre i muscoli si tesero come funi: tutto il suo corpo si torse, percorso da un brivido spasmodico. Confesso apertamente che tutti noi, l'uno non meno dell'altro, indugiammo prima di afferrarlo, per quanto sapessimo che era stato legato in modo affidabile. In vita mia non avevo mai visto tanta ira concentrata e carica di tutti gli istinti malvagi, né mai tanto odio in un occhio iniettato di sangue e sanguinario. Mi assalì la paura e mi chiesi se non avesse avuto ragione mio marito proponendo di abbatterlo con un colpo di rivoltella. Ma il dottore insistette per l'immediato trasporto e difatti la bestia immobilizzata fu caricata sull'auto e portata via malgrado la sua resistenza impotente. Con questa uscita di scena poco onorevole Ponto sparì dalla nostra vista abbastanza a lungo. Occasionalmente mio marito venne a sapere che fu tenuto in osservazione per parecchi giorni al reparto Pasteur ma che non venne accertato il minimo sintomo di idrofobia perniciosa; siccome però era da escludere il suo ritorno nel luogo del famigerato episodio, era stato regalato a un macellaio di Bath, che era alla ricerca di un robusto mastino. Così smettemmo di pensare a lui e anche Limpley, che aveva dovuto portare il braccio al collo per due o tre giorni, lo dimenticò; la sua passionalità e le sue premure, appena la moglie uscì dal puerperio, si concentrarono sulla minuscola figlia e non ho certo bisogno di ricordare che erano caratterizzate dallo stesso fanatismo ed esagerazione come ai tempi di Ponto anzi, se possibile, erano addirittura più risibili. L'uomo pesante e corpulento si inginocchiava davanti alla piccola culla della bambina come uno dei Re Magi davanti al presepe, nei dipinti dell'antica pittura italiana. Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto scopriva altre meraviglie nella rosea creaturina, di per sé deliziosa. La moglie, sempre soave e modesta, sorrideva di fronte all'adorazione paterna come, a suo tempo, aveva sorriso di fronte all'assurdo culto del quadrupede pretenzioso; e anche per noi arrivarono parecchi momenti felici perché, si sa, la felicità, se splende incontaminata e senza nubi nella casa dei vicini, irradia una luce gentile anche sulla propria. Di Ponto, come ho già detto, ci eravamo completamente dimenticati quando una sera fui costretta a ricordarlo in una maniera davvero traumatica. Ero tornata a notte fonda da Londra con mio marito, dove avevamo ascoltato un concerto diretto da Bruno Walter. Inspiegabilmente non riuscivo a prendere sonno. Erano forse le melodie della Jupiter che mi risuonavano nell'orecchio e che mi sforzavo inconsciamente di richiamare alla memoria? O era la bianca, dolce notte estiva di novilunio? Non lo so. Fatto sta che mi alzai - dovevano essere già le due o le tre - e guardai dalla finestra. La luna veleggiava in alto nel cielo con una propria lieve forza, come sospinta da un vento invisibile, attraverso un crespo di nubi argentee rischiarate dalla sua luce e, ogni volta che affiorava pura e splendente, il giardino riluceva e pareva immerso nella neve. Il silenzio era totale ed ebbi la sensazione che, se si fosse mossa una sola foglia, me ne sarei accorta. Perciò quasi rabbrividii notando all'improvviso qualcosa muoversi nel silenzio assoluto vicino alla siepe tra i nostri due giardini: una macchia nera che risaltava, appena un po' inquieta, sul prato illuminato dalla luna. Inconsciamente interessata, sforzai la vista. Non era qualcosa di vivo e di corporeo che si muoveva: era un'ombra. Solo un'ombra. Ma doveva essere l'ombra di un essere vivente che, coperto dalla siepe, avanzava guardingo, quasi di soppiatto: l'ombra di un uomo o di un animale. Probabilmente non so esprimermi in modo appropriato, ma la subdola insidiosità, l' innaturalezza, la silenziosità di quel movimento infido erano in un certo qual modo inquietanti; mi venne fatto di pensare a uno scassinatore o a un assassino - le donne ne hanno sempre paura - e il cuore mi arrivò in gola. Ma ecco che l'ombra si era già spostata dalla siepe sulla terrazza naturale del nostro giardino, quella più in alto, dove cominciava la staccionata. Poi strisciò, rasentando le sbarre, una dopo l'altra, stranamente accucciata, la massa viva prima dell'ombra. Un cane. Lo riconobbi immediatamente: era Ponto. Molto lento, molto prudente e tuttavia - lo si vedeva - pronto a scappare al minimo rumore, si avvicinò alla casa di Limpley non smettendo un istante di annusare. Pareva che si fosse prefisso - non so perché mi sia balenata quest'idea - di condurre un'indagine personale. Non era infatti il modo libero e disinvolto in cui fiuta un cane che insegua una pista. Nel suo comportamento c'era, piuttosto, l'intenzione, forse solo parziale, di chi stesse infrangendo un divieto o covasse un disegno perfido. Non teneva il muso rasente il terreno, non si muoveva con i muscoli rilassati, ma, il ventre quasi interamente premuto sulla terra per non farsi scorgere, si spingeva in avanti, a palmo a palmo come un cane da caccia che stia braccando la preda. D'istinto mi sporsi per osservarlo meglio, senonché inavvertitamente devo avere urtato la finestra e prodotto un rumore, sia pure lieve, perché con un balzo assolutamente atono Ponto si dileguò nel buio. Mi parve di avere sognato: il giardino, vuoto, bianco, brillante, immobile era di nuovo inondato dalla luce della luna. Non so per quale ragione ma mi vergognai di parlarne a mio marito; forse era stata veramente un'illusione ottica. Eppure, l'indomani mattina, incontrando per strada la domestica dei Limpley, le chiesi incidentalmente se avesse visto Ponto negli ultimi tempi. La ragazza non nascose una certa inquietudine e imbarazzo, ma io la incoraggiai a parlare. Allora mi confessò di averlo incontrato più volte in strane circostanze e ammise di avere avuto paura scorgendolo ma di non sapersi spiegare il perché. «Quattro settimane fa sono andata a Bath con la carrozzina e la piccola. Stavo camminando quando all'improvviso ho udito un latrato mostruoso: Ponto era sul furgone del macellaio, che stava passando di lì proprio in quel momento, e ha cominciato ad abbaiare contro di me o piuttosto contro la carrozzina con la bambina, almeno credo. Stava già per spiccare un salto, ma per fortuna il furgone procedeva ad andatura sostenuta sicché non ha rischiato. Ma quel suo modo iroso di abbaiare mi ha fatto gelare il sangue nelle vene. Naturalmente non ne ho fatto parola con Mister Limpley perché lo avrei solo allarmato inutilmente e poi ho pensato che il cane era a Bath dove lo tengono d'occhio. Però recentemente, era un pomeriggio, mentre andavo a prendere qualche ciocco per il camino nella vecchia baracca di legno, ho visto qualcosa che si muoveva nel buio. Per poco non ho lanciato un urlo dalla paura. Infatti l'avevo riconosciuto. Era Ponto che era venuto a nascondersi lì. Poi è scappato infilandosi nella siepe del giardino. Da quel giorno, comunque, le confesso di aver il sospetto che si nasconda qui spesso e che si aggiri nei pressi della casa di notte perché pochi giorni fa, dopo quel terribile temporale, la mattina ho visto delle orme nella sabbia bagnata. Erano impronte di un cane, non mi sono sbagliata, ma questo vuol dire che gira intorno alla casa. Comunque non si è fatto mai vedere ma, se appena è sicuro che nessuno lo sorprenda, si intrufola passando dalla nostra siepe o da quella dei vicini. Mi viene male al pensiero che ritorni. Mister Limpley non lo fa di certo entrare, mai più, e senz'altro la fame non la patisce da un macellaio; altrimenti sarebbe venuto in cucina a chiedermi del cibo. Insomma non capisco proprio il perché di queste incursioni notturne. Lei non pensa che lo dovrei dire a Mister Limpley o almeno alla signora?» Discutemmo la faccenda e ci lasciammo convenendo su due punti: primo, se si fosse fatto vedere un'altra volta, avremmo informato il nuovo padrone, cioè il macellaio, in modo che mettesse fine alle sue strane visite nel nostro giardino; secondo, per il momento non avremmo detto una parola a Limpley per non rammentargli l'esistenza della bestia che sicuramente odiava. Credo che sia stato un errore, il nostro. Forse, se avessimo parlato, si sarebbe potuto evitare ciò che accadde la domenica dopo, in quell'orribile indimenticabile domenica. Ma chi può dirlo? Mio marito e io eravamo andati di là dai Limpley e ci eravamo messi a chiacchierare seduti sulle leggere poltroncine da giardino della piccola terrazza, quella più in basso, dove comincia il ripido pendio fin giù al canale. Vicino a noi, sul prato pianeggiante, c'era la carrozzina, e mi pare superfluo dire che il padre, essendo letteralmente rimbecillito, scattava in piedi ogni cinque minuti, non importa se eravamo nel bel mezzo di un discorso, per correre dalla figlia e deliziarsi alla sua vista. In effetti era diventata una bella bimba e in quel pomeriggio di sole era più che mai deliziosa: all'ombra del tettuccio rialzato della carrozzina, rideva al cielo strizzando gli occhietti azzurri e con le tenere mani, se si vuole ancora un po' goffe, cercava di afferrare i cerchi del sole sul rivestimento interno del soffietto. Il padre impazzì di gioia, dubitando che si fossero mai visti simili prodigi di intelligenza, e noi ci mostrammo compiacenti e facemmo finta di non avere mai assistito a un miracolo del genere. Quella vista, l'ultima ancora felice, mi si è impressa nella memoria. Poco dopo la signora Limpley ci chiamò per il tè dalla terrazza più in alto, che riceveva ombra dalla veranda della casa. Limpley tranquillizzò la piccina come se capisse: «Torniamo subito! Subito!» Lasciammo la carrozzina sulla bella piazzuola tenuta a prato, sotto un bersò rivestito di fogliame che attutiva il caldo cocente del sole, e ci incamminammo lentamente - erano pochi passi, neanche venti metri, tra una terrazza e l'altra, e un pergolato di rose rampicanti le separava verso il solito posto ombreggiato in cui si soleva bere il tè, continuando a chiacchierare. Senza soffermarmi sui dettagli, dirò che Limpley era molto sereno. Ma la sua stupefacente serenità non era disarmonica rispetto all'azzurro terso del cielo, alla pace domenicale all'ombra della casa benedetta dal Signore: come a dire, era lo specchio umano di una rara giornata d'estate. Un frastuono improvviso ci fece sobbalzare: dal canale ci giunsero urla di terrore, voci di bambini e grida femminili angosciate. Ci precipitammo giù dal pendio, preceduti da Limpley. Il nostro primo pensiero fu per la bambina. Ma la terrazza più bassa, dove avevamo lasciato la carrozzina con la piccola serenamente appisolata solo pochi minuti prima, era vuota e dal canale salivano strida sempre più forti e concitate. Scendemmo di corsa. Sulla sponda opposta un fitto gruppo di donne con i bambini appresso gesticolavano e fissavano il canale. Proprio sul pelo dell'acqua galleggiava la carrozzina rovesciata, che avevamo lasciata al sicuro sulla terrazza bassa neppure dieci minuti prima. Un uomo aveva già slegato una barca e un secondo si era tuffato. Ma ogni intervento fu tardivo. Riuscirono a estrarre la piccola salma dall'acqua limacciosa e verdastra e dall'intrico di alghe solo un quarto d'ora più tardi. Non posso descrivere la disperazione degli infelici genitori o, piuttosto, non voglio neppure tentare di descriverla perché non vorrei ripensare mai più a quei terribili momenti fino alla fine dei miei giorni. Avvisato telefonicamente, si presentò un commissario della polizia municipale per compiere gli accertamenti del caso, ricostruire la dinamica della tragedia e appurare se fosse imputabile a una negligenza da parte dei genitori, se si trattasse di una disgrazia o di un omicidio. La carrozzina, ripescata dalle acque del canale, era già stata portata, per disposizione dello stesso commissario, nel punto esatto in cui era stata lasciata, e il capo della polizia in persona fece la verifica delle varie ipotesi. Si procedette con l'imprimere una leggera spinta alla carrozzella per vedere se rotolasse per inerzia lungo il declivio: invece le ruote non si mossero quasi nell'erba alta e folta. Dunque era escluso che un eventuale colpo di vento l'avesse spostata sul tratto pianeggiante della terrazza fin sul bordo della stessa e successivamente giù dalla discesa. Il commissario ripeté la prova e aumentò l'intensità della spinta: ma la carrozzina fece un mezzo passo, quindi si arrestò; e pensare che, come dimostravano le tracce sul terreno, si trovava a sicura distanza dalla china - la terrazza infatti era larga non meno di sette metri. Solo quando l'uomo prese lo slancio e la urtò violentemente, essa discese dalla collina finché prese a rotolare senza più fermarsi. Dunque qualcosa che non poteva essere previsto le aveva impresso la necessaria accelerazione. Ma chi o che cosa? Questo era dunque il mistero. Il commissario della polizia della contea si tolse il berretto dalla fronte sudata e, sempre più pensieroso, si grattò fra i capelli incolti, come se non venisse a capo dell'intricata faccenda. Allora chiese se qualcuno avesse visto un oggetto - magari un semplice pallone - rotolare dal bordo della terrazza. «No! Mai!» assicurarono tutti. «Qualche bambino si è soffermato nelle vicinanze del giardino? Un bambino che per scherzo si è poi messo a giocare con la carrozzina?» «No!» «C'era qualcuno nei dintorni?» «No! Nessuno!» Gli fu assicurato altresì che il portoncino del giardino era chiuso a chiave e che nessuno fra quanti stavano passeggiando lungo il canale si era allontanato dai sentieri. L'unico testimone oculare poteva essere ritenuto l'operaio che, senza esitare, si era buttato in acqua per salvare la bambina. Ma questi, ancora grondante d'acqua e sconvolto, non seppe far altro che lo scarno resoconto: «Stavo passeggiando calmo e placido sulla riva in compagnia di mia moglie quando all'improvviso una carrozzina si è messa a scendere a rotta di collo dal giardino in forte pendenza, sempre più alla svelta, sempre più alla svelta. In acqua si è capovolta e, siccome mi è sembrato di vedere sott'acqua un bambino nuotare, mi sono avvicinato di corsa, mi sono tolto la giacca e ho tentato di mettere in salvo il piccino, ma non ce l'ho fatta ad afferrarlo subito, come speravo. C'erano tante alghe. Non so altro». Il commissario appariva sempre più sconcertato; non gli era mai toccato di risolvere un caso così astruso. «Non riesco letteralmente a immaginarmi come una carrozzina sia potuta rotolare senza che nessuno l'abbia spinta. L'unica possibilità ragionevole è che il bambino si sia alzato o spostato lateralmente con un movimento brusco e che la carrozzella abbia perso l'equilibrio. Ma è un'ipotesi assai poco credibile. Io, almeno, non ci credo. A questo punto vi chiedo», e rivolse la domanda agli astanti: «Qualcuno di voi ha un'altra supposizione da avanzare?» Inconsapevolmente fissai la domestica. I nostri sguardi si incontrarono. Nello stesso istante venne a tutte e due il medesimo pensiero. Entrambe sapevamo che il cane odiava mortalmente la bambina. Sapevamo che negli ultimi tempi si era nascosto spesso subdolamente in giardino. Sapevamo che aveva spinto nel canale un'infinità di ceste del bucato con un ruzzo perfido. Ambedue - e me ne resi conto vedendo le sue labbra pallide e tremanti avevamo lo stesso sospetto: l'animale, ormai scaltro e incattivito, intuendo che gli si presentava l'occasione della vendetta, aspettò che lasciassimo sola la bambina, uscì di soppiatto dal suo nascondiglio, diede un cozzo violento e fulmineo alla carrozzina contenente l'odiata rivale, la spinse verso il canale e subito se la squagliò senza far rumore. Non ci scambiammo però il sospetto. Sapevo che Limpley sarebbe uscito pazzo al semplice pensiero che, se allora avesse ucciso l'animale inferocito, avrebbe salvato la sua bambina, ma sapevo anche che, a dispetto degli indizi logici, mancava la prova definitiva e concreta: né noi né altri avevamo visto il cane avvicinarsi o scappare quel pomeriggio. La baracca di legno, il suo nascondiglio preferito - me ne accertai subito - era vuota, sul terreno asciutto non c'era la minima orma e non avevamo udito quei latrati bestiali con cui Ponto accompagnava la caduta delle ceste nel canale. Non potevamo essere certe che fosse stato lui. Era solo una supposizione straziante, una supposizione terribile e angosciosa. Era un sospetto legittimo, terribilmente legittimo, ma non la verità incontrovertibile. E nondimeno l'orrendo sospetto continuò a tormentarmi, anzi assunse maggiore consistenza, forse divenne certezza nei giorni successivi. Una settimana dopo - la povera bambina riposava da tempo nel camposanto, i Limpley avevano lasciato la casa non riuscendo a sopportare la vista del canale - accadde un episodio che mi scombussolò. Ero andata a Bath per fare alcune piccole compere per la casa. All'improvviso, e rabbrividii, a fianco del furgone del macellaio c'era Ponto; non avevo pensato che a lui nello strazio di quelle ore. Lo vidi avanzare in tutta calma. Mi riconobbe e si fermò. Anch'io mi fermai. Fu un attimo. Mentre dal giorno in cui erano iniziate le sue umiliazioni lo avevo visto turbato, stornare lo sguardo, schivare gli incontri timidamente, appiattire la schiena, ora nello stesso istante in cui mi vide, alzò la testa imperturbato e mi guardò ostentando - non esiste altra espressione un'orgogliosa e superba impassibilità: in un battibaleno era ridiventato l'animale altezzoso e iattante di un tempo. Conservò il contegno provocatorio per un minuto, dopodiché riprese ad avanzare verso di me, ondeggiando sui fianchi e quasi danzando, con un'affabilità scherzosa. Si arrestò a un passo, come se volesse dire: «Son qui! Che cos'hai da dire sul mio conto?» Mi sentii come paralizzata. Non ebbi la forza di respingerlo ma, soprattutto, non ebbi la forza di tollerare il suo sguardo presuntuoso e - vorrei quasi dire compiaciuto. Scappai. Non vorrei mai, con l'aiuto di Dio, accusare ingiustamente un animale e tanto meno un essere umano, ma da quel momento non mi abbandona più l'orribile pensiero che sia stato lui. 8 - Un uomo che non si dimentica Storia vera. Sarebbe un'ingratitudine, da parte mia, dimenticare l'uomo che mi ha insegnato due fra le cose più importanti della vita: da un lato che non ci si deve asservire al più forte potere del mondo, al potere del denaro, ma ribellare a questa schiavitù con la sola forza del proprio animo, e dall'altro lato che tra i nostri simili dobbiamo vivere in concordia senza crearci un solo nemico. Conobbi quell'uomo singolare in uno dei modi più semplici. Un pomeriggio allora abitavo in una piccola città - portai con me lo spaniel in una passeggiata. A un tratto il cane cominciò a comportarsi in maniera strana: a rotolarsi per terra, a grattarsi contro gli alberi, non smettendo mai di uggiolare o di ringhiare. Ancora meravigliato, perché non immaginavo che cosa la bestiola potesse avere, mi accorsi che qualcuno mi camminava di fianco: era un uomo di circa trent'anni, vestito miseramente, senza colletto né cappello. Un mendicante, pensai facendo l'atto di infilare la mano in tasca, ma l'amico mi sorrise pacificamente con i suoi occhi azzurri, come se fossimo conoscenti di vecchia data. «La povera bestia ha qualcosa», disse e mi additò il cane. «Vieni qui, ce ne liberiamo subito.» Mi dette del tu, come se fossimo buoni amici, ma tutto il suo essere esprimeva un'affabilità così calorosa, che non me la presi per il tono confidenziale. Lo seguii fino a una panchina e mi sedetti accanto a lui. Egli chiamò il cane con un fischio acuto. A quel punto accadde un fatto davvero strabiliante: il mio Kaspar, di solito diffidente verso gli estranei, si avvicinò e, ubbidiente, posò la testa sul ginocchio dell'uomo. Il quale cominciò a ispezionare il pelo dell'animale con le sue lunghe dita sensibili, finché uscì con un «Ecco, lo dicevo», di soddisfazione. Quindi intraprese un'operazione molto dolorosa all'apparenza poiché Kaspar riprese a gemere, senza tuttavia fare l'atto di divincolarsi. Poi l'uomo lo lasciò libero. «Ce l'abbiamo fatta», disse ridendo e sollevò qualcosa. «Ora puoi ricominciare a saltare, cagnolino.» Mentre la bestiola se ne andava, il forestiero si alzò, disse «arrivederci» con un cenno del capo e proseguì per la sua strada. Si allontanò così alla svelta che non feci nemmeno in tempo a pensare di dargli qualcosa per il suo disturbo e, tanto meno, a ringraziarlo. Scomparve con la stessa naturale determinatezza con cui era venuto. Rincasato, continuai a riflettere sullo strano comportamento dell'uomo e misi a parte dell'incontro la mia vecchia cuoca. «Era Anton», disse. «Ha il bernoccolo di queste cose.» Le domandai quale fosse il suo mestiere e che cosa facesse per campare. Quasi che la mia domanda l'avesse sorpresa, mi rispose: «Niente. Un mestiere? Non saprebbe che cosa farsene di un mestiere». «Va bè», commentai, «ma si deve pure avere un'occupazione per sbarcare il lunario.» «L'Anton non ne ha bisogno», disse. «A lui tutti danno quel poco che gli occorre. Non dà alcun valore ai soldi. Non gli servono.» Francamente un caso strano. Nella piccola città, come in qualunque altra piccola città di questo mondo, bisognava pagare ogni tozzo di pane e ogni bicchiere di birra. Bisognava pagare per un alloggio per la notte e per vestirsi. Anche un uomo modesto come lui, con addosso un paio di pantaloni logori, come faceva ad aggirare una legge così ferrea e vivere per giunta felice e contento, libero da qualsiasi preoccupazione? Decisi di scoprire l'arcano e in breve tempo ebbi la conferma che la mia cuoca aveva ragione: quell'Anton non aveva davvero un mestiere preciso. Si accontentava di vagabondare per le vie della città dall'alba al tramonto, apparentemente senza meta, in realtà invece con gli occhi ben aperti. Niente gli sfuggiva: fermava il vetturino di una carrozza e, per esempio, gli segnalava che il cavallo non era stato bardato bene. Oppure si accorgeva che il palo di una staccionata era marcito e allora ne chiamava il proprietario e gli consigliava di far riparare la recinzione. La gente, perlopiù, affidava a lui i lavori di manutenzione, ben sapendo che non si danno mai consigli per pura avidità, ma solo per sincera amicizia. L'ho visto metter mano a un'infinità di lavoretti. Non ci si immagina neanche quanta gente glieli commissionasse! Una volta lo trovai nella bottega di un ciabattino a riparare delle scarpe, un'altra lo vidi in veste di aiutante cameriere in un trattenimento e un'altra ancora portare a passeggio dei bambini. Mi resi conto che la gente si rivolgeva a lui in caso di bisogno. Difatti un giorno lo riconobbi tra le donne del mercato: vendeva mele e mi dissero che la padrona della bancarella, dovendo partorire, lo aveva pregato di sostituirla. Certamente in tutte le città ci sono persone che sanno fare qualunque lavoro, ma nel caso di Anton il fatto davvero insolito era che, per quanto si trattasse di lavori duri, si rifiutava categoricamente di accettare più denaro dello stretto indispensabile per vivere una giornata; se ne aveva già abbastanza, non voleva neanche essere pagato. «Ci vediamo», diceva, «non appena avrò veramente bisogno di qualche cosa.» In breve tempo mi fu chiaro che lo strano piccolo uomo, servizievole e lacero com'era, aveva messo a punto un proprio sistema economico, basato sull'onestà del prossimo: al posto di un deposito bancario preferiva che la gente contraesse debiti morali, di riconoscenza, nei propri confronti. Con il tempo aveva infatti accumulato un piccolo patrimonio in crediti per così dire invisibili. Perfino le persone più dure di cuore non riuscivano a non sentirsi obbligate verso un uomo che aveva dimostrato loro benevolenza solo per amicizia, senza pretendere alcuna ricompensa. Era sufficiente incontrarlo sulla pubblica strada per capire in quale conto lo tenessero i suoi concittadini. Tutti lo salutavano calorosamente e gli stringevano la mano, sicché l'omino semplice e altruista con il suo vestito consunto girava per la città come se fosse un latifondista che si curasse delle sue proprietà fondiarie con generosità e maniere affabili. Tutte le porte gli erano aperte e poteva sedersi a qualunque tavola, tutti e tutto a sua completa disposizione. Non ho mai capito bene, se non nel caso di Anton, quale potere immenso eserciti chi non pensa al domani ma vive confidando semplicemente nella Provvidenza. Però devo confessare che nei primi tempi mi stizzii perché, dopo la storia con il cane, Anton, incontrandomi, mi salutava con un cenno del capo, come se fossi un estraneo. Era evidente che non desiderasse essere ringraziato per un piccolo servigio, mentre personalmente mi sentivo escluso dal grande sodalizio cittadino, come mi confermava il suo contegno disinvolto e a malapena cortese nei miei confronti. Perciò alla prima occasione - si doveva riparare una grondaia dalla quale gocciolava acqua - incaricai la cuoca di chiamare Anton. «Quello non lo si chiama semplicemente: non si trattiene mai a lungo nello stesso luogo. Comunque glielo farò sapere.» Questa fu la risposta della donna. Lo strano uomo non aveva dunque una casa, mi dissero, ma non c'era niente di più facile che raggiungerlo: una telefonia senza fili, infatti, sembrava collegarlo con tutta la città. Bastava dire alla prima persona che si incontrava: «Potrei avere bisogno di Anton», perché la commissione passasse di bocca in bocca finché qualcuno lo incontrava di persona. Difatti lo stesso pomeriggio si presentò a casa mia. Lasciò vagare il suo sguardo esperto in ogni dove, mentre attraversava il giardino disse che la siepe aveva bisogno di essere sostenuta e che si doveva trapiantare un giovane alberello, ma alla fine notò la gronda e si mise al lavoro. Due ore dopo mi spiegò che il guasto era stato riparato e se ne andò, di nuovo prima che riuscissi a ringraziarlo. Ma quella volta avevo almeno incaricato la cuoca di ricompensarlo degnamente. Sicché domandai se Anton fosse rimasto soddisfatto. «Ma certo», mi rispose la donna. «Lui è sempre soddisfatto. Volevo dargli sei scellini, ma ne ha presi solo due. 'Però', ha detto, 'se il signor dottore avesse magari un vecchio pastrano...'» Fui davvero contento di poter soddisfare almeno un desiderio di quell'uomo, il primo e l'unico nella sfera delle mie conoscenze che prendesse di meno di quanto gli si offriva. Lo rincorsi. «Anton, Anton», gridai scendendo dalla discesa, «ho un cappotto per te!» I miei occhi incontrarono un'altra volta il suo sguardo luminoso e calmo. Non era affatto stupito che lo avessi rincorso, anzi fu per lui la cosa più ovvia e naturale del mondo che una persona che avesse numerosi cappotti ne regalasse uno a chi ne aveva urgente bisogno. Ordinai alla cuoca di fare la cernita dei miei vecchi indumenti. Anton dette un'occhiata al mucchio, sfilò un cappotto, se lo provò e disse con voce tranquilla: «Questo mi andrebbe bene!» Aveva pronunciato quelle parole con l'espressione di un signore che faccia la sua scelta fra le tante cose mostrategli. Dopodiché diede un'occhiata anche agli altri indumenti. «Queste scarpe le potresti regalare a Fritz di Salsergasse. Gli occorre davvero un nuovo paio! E quelle camicie a Joseph dell'Hauptstrasse; potrebbe sistemarsele. Se non hai niente in contrario, porto io la roba.» Enunciò il suo parere con il tono caloroso di chi desiderasse fare spontaneamente un piacere. Mi parve doveroso ringraziarlo dal momento che si prestava a recapitare la mia roba a persone che non conoscevo. Impacchettò le scarpe e le camicie insieme e soggiunse: «Sei davvero un tipo dabbene. Regalare tutta 'sta roba!» E scomparve. Nemmeno la critica più lusinghiera a uno dei miei libri mi aveva riempito di tanta gioia come quel semplice complimento. Anche negli anni successivi ho pensato spesso ad Anton con riconoscenza. Nessuno infatti mi ha mai dato tanto aiuto morale. E a volte, in occasione di piccole seccature per questioni di denaro, mi sono ricordato di quell'uomo che viveva tranquillamente alla giornata poiché accettava solo quanto gli serviva appunto per un giorno. Il suo esempio mi portò sempre alla stessa considerazione: se tutti avessero fiducia negli altri, non ci sarebbero né gendarmi, né tribunali, né prigioni... e nemmeno il denaro. La nostra complicata vita economica non andrebbe forse meglio se tutti vivessero come quell'uomo che, pur dandosi da fare, non accettava neanche un centesimo in più di quanto gli fosse strettamente necessario? Per parecchi anni non ho sentito più nulla sul conto di Anton, ma non mi sono mai immaginato nessuno più sereno di lui: Dio infatti non lo abbandonerà e, ciò che è ancora più raro, neppure i suoi simili lo abbandoneranno. 9 - Conoscenza imprevista di un'arte Stupenda, in quell'incredibile giornata di aprile del 1931, era l'aria stessa, ancora bagnata ma già intiepidita dal sole: setosa come una caramella, aveva un gusto dolce, fresco, umido e scintillante, primavera filtrata, ozono genuino. Colti di sorpresa, al centro del boulevard de Strasbourg si inspirava profumo di prati sbocciati e di mare. Aveva compiuto l'incantevole miracolo un acquazzone, uno di quei capricciosi piovaschi d'aprile con i quali la primavera suole annunciarsi spesso in maniera assai screanzata. Già in viaggio il nostro treno si era lasciato alla spalle un orizzonte tetro che dal cielo si incuneava, come una banda nera, nei campi, ma solo in prossimità di Meaux, quando i dadi delle case periferiche si sparsero nella campagna, i primi cartelloni pubblicitari s'impennarono urlanti fuoriuscendo dal verde indispettito e l'inglese attempata, sedutami di fronte nello scompartimento, cominciò ad arraffare le sue quattordici borse, boccette e astucci da viaggio, solo allora la nube spugnosa, gonfia, plumbea e arcigna, che aveva gareggiato con la nostra locomotiva fin da Epernay, scoppiò. Dette il segnale un piccolo lampo pallido e subito masse d'acqua guerresche si abbatterono sul nostro treno in marcia con uno strepito di trombe, per spandervi un fuoco bagnato di artiglieria. Gravemente feriti, i vetri dei finestrini piangevano sotto i colpi battenti della grandine, e la motrice, arrendendosi, abbassò fino a terra il suo pennacchio di fumo grigio. Non si vide più nulla, non si udì più nulla se non uno sgocciolante scroscio di acciaio e vetro, mentre il convoglio, torturato come un animale, correva sulle rotaie lucide per sfuggire al diluvio. Ma, felicemente arrivati, sostavamo sotto la pensilina della Gare de l'Est in attesa di un facchino, quand'ecco il prospetto del boulevard brillare già chiaro dietro la graticcia grigia della pioggia, intanto che un violento raggio di sole infilava un tridente nella massa nuvolosa in fuga e le facciate delle case luccicavano come ottone lucidato. Il cielo scintillava nel blu marino. Nuda come Afrodite Anadiomène uscita dalle onde, la città si liberava del mantello della pioggia, ormai scivolatole dalle spalle: una visione divina. Immediatamente, a destra e a sinistra, la gente sbucò come frecce da centinaia di rifugi e nascondigli, si scrollò, rise e proseguì per la sua strada. Il traffico ristagnatosi riprese a rollare, a cigolare e a sbuffare: un amalgama frullato di migliaia di veicoli. Tutto respirava di nuovo e gioiva alla luce ritrovata. Perfino gli alberi tisici del viale, inchiavardati nell'asfalto duro, seppure bagnati e coperti di gocce, protendevano le piccole dita appuntite dai germogli nel cielo nuovo d'un azzurro sazio e tentavano di mandare un lieve aroma. Ci riuscirono, veramente. Ormai i miracoli non si contavano più. Ora, per qualche minuto, si sentì nitidamente il respiro sottile, ansioso dei fiori dei castagni nel cuore di Parigi, in boulevard de Strasbourg. E, altra meraviglia di quel benedetto giorno di aprile, non avevo, appena arrivato, alcun appuntamento fino al pomeriggio. Nessuno dei quattro milioni e mezzo di parigini sapeva di me o mi aspettava. Ero divinamente libero di fare ciò che volevo. Potevo, a mio piacimento, andare a spasso o leggere il giornale, stare seduto al caffè o mangiare, visitare un museo, vedere le vetrine o i libri sulle rive del fiume. Potevo telefonare agli amici o fissare semplicemente l'aria mite e dolce. Ma fortunatamente guidato da un istinto sapiente, scelsi la cosa più intelligente: non fare niente. Non feci alcun progetto, mi concessi una vacanza, staccai ogni contatto a termine e spostai i miei passi sul disco rotante del caso, insomma mi lasciai portare dove la strada mi portava: rilassato sui lungosenna abbagliati di negozi, più veloce oltre le rapide dei passaggi pedonali. Poi la marea mi spinse giù sui grandi boulevard e, gradevolmente stanco, approdai sulla terrazza di un cafre, boulevard Haussmann angolo rue Drout. Finalmente sono tornato, pensai, abbandonandomi sulla cedevole poltroncina di vimini e accendendo un sigaro. Parigi! Sono due anni che non ci vediamo, eppure siamo vecchi amici. Ora fissiamoci negli occhi. Su, comincia tu, Parigi, mostrami che cosa hai imparato nel frattempo, forza, inizia, proiettami il tuo film insuperabile Les boulevards de Paris, capolavoro di luci, colori, movimenti, con le sue migliaia di impagabili comparse non pagate, e suona intanto la musica inimitabile, frastornante e lieve delle tue strade! Non fare economia, batti il tempo, mostra ciò che sai, mostra chi sei, fai funzionare il tuo grande orchestrion con le melodie da strada atonali, pantonali, lascia che le tue auto sfreccino, i tuoi venditori ambulanti strillino, i tuoi manifesti scoppino, i tuoi clacson echeggino, i tuoi negozi scintillino e i tuoi abitanti corrano! Tanto sono seduto qui, assolutamente disponibile, ho tempo e voglia di osservarti e di ascoltarti finché gli occhi mi si riempiono di sfarfallii e il cuore rimbomba. Su, su, non risparmiarti, non controllarti, dà di più, sempre di più, scatenati: grida, urli, strombettii sempre diversi e nuovi, suoni frantumati, tanto non mi stancano perché i miei sensi sono tutti per te. Forza, forza, datti completamente, anch'io sono pronto a concedermi, città inconoscibile e tuttavia sempre prodiga di nuovi incanti! Infatti - ed era la terza meraviglia di quella straordinaria mattinata da un certo pizzicore ai nervi sentivo che era una delle mie giornate di curiosità, le quali sopraggiungono perlopiù dopo un viaggio o una notte insonne. In quelle giornate mi sento, come dire, due volte me stesso, se non addirittura mille volte. Non mi basta la mia vita personale circoscritta: un'inspiegabile forza urge dall'interno, mi trasmette l'incontenibile bisogno di uscir fuori dalla mia pelle, come la farfalla dalla crisalide. Ogni poro si spande, ogni nervo si torce a mo' di uncino o di puledro elegante e focoso. Una fantastica finezza di udito e di vista s'impadronisce di me, una lucidità quasi misteriosa che mi dilata la pupilla e la membrana del timpano. Ciò che sfioro con lo sguardo si fa enigma. Per ore e ore posso osservare lo stradino mentre spacca l'asfalto con il trapano elettrico e, alla semplice osservazione, ho già una percezione così forte del suo lavoro che ogni movimento delle sue spalle vibranti passa inconsciamente nelle mie. Posso sostare all'infinito davanti a una finestra e immaginarmi il destino della persona sconosciuta che forse vi abita o potrebbe abitarvi. Né mi stanco di guardare e seguire un passante: magneticamente, assurdamente trascinato dalla curisiosità e nondimeno consapevole che quel che faccio riuscirebbe incomprensibile e folle a chiunque per caso mi vedesse; tuttavia, tale piacere ludico e gioco della fantasia sono per me più inebrianti di qualunque dramma teatrale messo in scena e di qualunque avventura narrata in un libro. Può darsi che questa sovreccitazione e questa chiaroveggenza dipendano, com'è molto naturale, dal trasferimento improvviso e non siano altro che l'effetto dello sbalzo di pressione atmosferica e della conseguente variazione chimica del sangue; ma non ho mai cercato di spiegarmi questa misteriosa eccitabilità. Eppure, ogniqualvolta ne avverto l'insorgenza, la mia vita consueta si identifica con lo stato intermedio tra sonno e veglia e le giornate normali mi appaiono prosaiche e vuote. Soltanto in attimi come questi ho l'esatta percezione di me stesso e della fantastica poliedricità della vita. Altrettanto smanioso di giocare, teso, estroflesso mi sentii anche in quella beata mattina di aprile, mentre sedevo sulla mia seggiolina lungo il bordo della marea umana: aspettavo e non sapevo che cosa. Ma aspettavo con il lieve tremito freddo del pescatore in attesa di quel certo strappo, sapevo istintivamente che avrei incontrato qualcosa o qualcuno, essendo così ebbro, pronto al baratro e cupido di procacciare qualcosa alla mia curiosità, perché giocasse. Inizialmente la strada non mi lanciò alcun segnale e dopo una mezz'ora i miei occhi si stancarono del passaggio vorticoso di masse e masse che parevano sospinte da un turbine di vento. Non distinsi quasi più nulla: le persone che il viale vomitava cominciarono a non possedere più delle facce, si fusero in un'ondata sbiadita di berretti, cappelli e chepì gialli, marrone, neri, grigi, di ovali vuoti, truccati male, in una sciacquatura noiosa di sporco umano che, quanto più la osservavo con sguardi stanchi, tanto più diventava incolore e grigiastra. Ero ormai sfinito come se stessi vedendo la copia malriuscita, confusa e traballante di un film. Mentre feci l'atto di alzarmi, finalmente lo scovai. Mi balzò all'occhio anzitutto perché continuava a sparire dal mio campo visivo. Tutte le altre migliaia e migliaia di persone, che quella mezz'ora mi aveva riversato addosso, si disperdevano presto, come strappate via da nastri invisibili, mostravano frettolosamente un profilo, un'ombra, un contorno, ma poi venivano risucchiate dalla corrente. Solo quest'uomo, invece, tornava sempre nello stesso punto. Lo notai proprio per questo. Come la risacca, per un'incomprensibile ostinazione, getta un'unica alga sporca sulla spiaggia e immediatamente la inghiottisce di nuovo, per risputarla e riprendersela senza sosta, anche questa figura si faceva depositare dalla marea a intervalli quasi regolari sempre nel medesimo luogo, sempre con lo stesso sguardo mortificato e stranamente velato. Un misirizzi verticale, non certo un'attrattiva, un corpo secco, emaciato, malamente avvolto da un soprabito giallo canarino, certamente non tagliato su misura perché le sue mani sparivano sotto le maniche sovrabbondanti. Gli stava largo, il cappottino giallo di una moda antidiluviana, di una taglia spropositata, ipertrofico per la sua faccia da sorcio con due labbra pallide, quasi spente, sulle quali tremolava ansiosamente una spazzolina bionda. Un povero diavolo a cui tutto andava storto e largo. Aveva le spalle sbilenche, due gambe sottili, sembrava un clown. L'espressione preoccupata, fuoriusciva dal gorgo ora a destra, ora a sinistra, si bloccava apparentemente perplesso, si guardava intorno come un leprotto spaventato, fiutava, si stringeva nelle spalle e scompariva nella calca. Inoltre - e fu la seconda cosa che mi colpì - l'omino scarnito e spolpato, che in certo qual modo mi ricordava un impiegato di un racconto di Gogol, sembrava molto miope o se non altro particolarmente goffo. Infatti, due, tre, quattro volte vidi alcuni passanti più lesti e risoluti speronare, anzi quasi travolgere quel minuscolo rifiuto stradale. Ma il fatto non parve invece preoccuparlo granché: si scansava con umiltà, si acquattava e sgusciava in avanti, eppure era sempre lì, nello stesso punto, per la decima o dodicesima volta in quella mezz'ora scarsa. Ebbene, mi interessò o, piuttosto, al primo momento mi arrabbiai s'intende con me stesso che pure in quella giornata ero così curioso perché non ero riuscito a indovinare che cosa facesse lì quell'uomo; e quanto più mi sforzavo di capire, tanto più la mia curiosità si caricava di stizza. Accidenti, ma che cosa stai cercando, ragazzo! Che cosa, chi aspetti? Non sei un mendicante perché un mendicante non è così balordo da piazzarsi in mezzo a una ressa spaventosa, dove nessuno ha tempo di mettere la mano in tasca. Non sei nemmeno un operaio: ti pare che gli operai abbiano l'opportunità di venire a ciondolare da queste parti alle undici e mezzo di mattina? Non aspetti neppure una ragazza, mio caro, perché un manico di scopa come te non se lo prende neanche la più vecchia e scalcinata. Quindi, facciamola finita! Che cosa fai qui? Magari sei uno dei tanti ciceroni sospetti che, quatti quatti, si fan sotto a un turista e, con l'abilità del prestidigitatore, fanno uscire dalla manica qualche fotografia oscena e promettono al provinciale le meraviglie di Sodoma e Gomorra purché gli dia la mancia? Ma no, tu sei il tipo che non rivolge la parola a nessuno, anzi, al contrario, te la squagli tenendo lo sguardo basso stranamente mortificato. Va' al diavolo, allora! Vigliacco, chi sei? Che cosa trami nella mia riserva di caccia? Lo presi di mira e in cinque minuti la mia era già passione e piacere ludico: dovevo scoprire a tutti i costi che cosa stesse facendo quel misirizzi in mezzo al boulevard. Lo capii tutt'a un tratto: era un detective. Un detective, un poliziotto in borghese. Lo dedussi da un piccolo particolare: da quel modo di guardare sbieco con cui investigava i passanti, uno dopo l'altro. Era lo sguardo di chi ha il compito dell'identificazione, e ogni gendarme lo impara fin dal primo anno di corso. Non è uno sguardo facile perché, per un verso, dev'essere rapido e, come un coltello, salire dal basso in alto, seguire tutto il corpo lungo la cucitura fino alla faccia e, contemporaneamente, con il faro a intermittenza cogliere la fisionomia, mentre, per un altro verso, deve saper confrontare mentalmente i caratteri somatici con la segnaletica di noti delinquenti ricercati. In secondo luogo - e questo, forse, è ancora più difficile - lo sguardo deve accendersi senza che nessuno se ne accorga, poiché chi spia non può rivelare all'altro la propria identità. Ebbene, il mio uomo aveva superato il corso con i massimi voti. Infatti, intontito come un sognatore, si introduceva nella calca mostrando indifferenza, si lasciava urtare e spingere senza reagire, ma di tanto in tanto spalancava, sempre all'improvviso, le palpebre flosce sembrava l'occhio dell'otturatore di una macchina fotografica - e lanciava l'arpione. Nessuno, almeno così pareva, lo osservava nello svolgimento dell'incarico d'ufficio, e anch'io non mi sarei accorto di nulla se quella benedetta mattina d'aprile non fosse stata per fortuna una delle giornate in cui mi abbandono alla curiosità e se non mi fossi appostato rabbiosamente ormai da un bel pezzo. Ma, francamente, il misterioso poliziotto doveva essere un vero maestro nella sua materia se, come faceva mostra, nel travestimento aveva messo a frutto un'arte particolarmente raffinata e se, ai fini del servizio in veste di uccellatore, aveva capito l'importanza di imitare il contegno, l'andatura, l'abbigliamento, anzi gli stracci del barbone. I poliziotti in borghese si riconoscono a cento metri di distanza con un inessenziale margine di errore: sono omoni che, per quanto si travestano, non si decidono a deporre l'ultimo resto di dignità professionale, non imparano mai, fino a raggiungere un grado di perfezione che inganni, l'abbattimento fisico e morale un po' timido e ansioso, che con estrema naturalezza confluisce nel passo di chi sente sulle proprie spalle il peso di un'annosa povertà. Quest'uomo aveva addirittura visualizzato la depravazione del girovago anche olfattivamente e riconosciuto fin nei minimi dettagli la maschera del vagabondo. Psicologicamente corretto era che lo spolverino giallo canarino e il cappello marrone, messo leggermente di traverso, rimarcassero una certa eleganza, magari un po' forzata, mentre i pantaloni sfilacciati, in basso, e la giacchetta ripugnante, in alto, lasciavano intravedere la miseria in tutta la sua nudità: da esperto cacciatore di uomini qual era, egli aveva notato come la povertà, vorace topo di fogna, cominci a rosicchiare i vestiti dagli orli. Con quello squallido guardaroba si accordavano, contribuendo alla caratterizzazione dell'individuo, anche la fisionomia da morto di fame, la sottile barbetta (probabilmente appiccicata), la cattiva rasatura, i capelli arruffati e cincischiati che avrebbero fatto giurare a qualunque osservatore non prevenuto che il poveraccio aveva passato l'ultima notte su una panchina o su un tavolaccio del commissariato di polizia. A completare l'immagine, il continuo tossicchiare con la mano contro la bocca, il perenne stringersi nel soprabito per i brividi di freddo, l'andatura strascicata, sorniona, come se le membra pesassero più del piombo. Per Dio, era l'esibizione perfetta di un trasformista che aveva riprodotto l'immagine clinica di un tisico all'ultimo stadio! Non mi vergogno di ammetterlo: mi sono entusiasmato all'eccezionale occasione di vedere all'opera - in separata sede - un segugio della polizia, quantunque in un altro strato della mia coscienza giudicassi spregevole che, proprio in una giornata così tersa e sotto un sole d'aprile così gentile, un funzionario statale travestito, ormai in età pensionabile, stesse dando la caccia a un povero diavolo per trascinarlo in chissà quale tugurio, sottraendolo a quella luce primaverile vibrante di sole. In ogni caso era eccitante seguirlo. Sempre più teso, osservai ogni suo gesto e mi rallegrai nel riconoscere nuovi dettagli. Ma la gioia per tante scoperte si liquefece come ghiaccio al sole: nella mia diagnosi non tutti i conti tornavano, qualcosa non mi convinceva. Persi la mia sicurezza. Davvero era un detective? Quanto più tenevo d'occhio lo strano passante, tanto più si rafforzava il sospetto che quella povertà ostentata fosse un briciolo troppo autentica e troppo vera perché fosse un semplice specchietto per le allodole escogitato dalla polizia. Fu soprattutto - prima fase - il colletto della camicia a insospettirmi. Un indumento così lercio non lo si leva dal mucchio di pattume per metterselo intorno al collo prendendolo con la punta delle dita; lo si indossa semmai quando si tocca il fondo della disperazione e dell'abbandono. Poi - secondo motivo di contrasto - venivano le scarpe, sempre che fosse lecito chiamare ancora calzature un insieme penoso di brandelli di cuoio in totale sfascio. Lo stivale destro, anziché con lacci neri, era legato con dello spago grossolano, in quello sinistro la suola staccata ciabattava come il muso di una rana. Un paio di calzature così non lo si inventa e costruisce nemmeno per unirsi a un corteo di maschere. Da escludere, non c'erano più dubbi: quello spaventapasseri traballante e strisciante non era un gendarme, la mia diagnosi era un puro sillogismo sbagliato. Ma, se non era un poliziotto, allora chi era? Perché quell'eterno va e vieni, quel tornare immancabilmente allo stesso punto? E perché quel modo di guardare, come scaraventato dal basso per spiare, cercare, accerchiare? Mi assalì una sorta di collera: non mi spiegavo come mai non avessi riconosciuto subito che individuo era e in quel momento mi sarebbe piaciuto agguantarlo per le spalle e dirgli: «Che cosa vuoi, minchione? E che cosa fai qui?» Tutt'a un tratto, come se una miccia si incendiasse correndomi lungo i nervi, sobbalzai: la nuova certezza aveva colpito nel segno. Di colpo fui sicuro che tutto era ormai definitivo e inderogabile. No, non era un detective, come avevo potuto lasciarmi turlupinare? Era, se si può dire, l'esatto contrario di un gendarme: era un borsaiuolo, un vero, perfetto borsaiuolo addestrato, professionale, genuino, che veniva sul boulevard a sgraffignare portafogli, orologi, borsette da signora e qualunque altro bottino. Stabilii la sua appartenenza alla specifica categoria dei ladri solo allorquando lo vidi arrancare verso la folla esattamente dove la ressa era più forte. Simultaneamente compresi la sua apparente balordaggine, quel suo continuo urtare e spingere i passanti. La situazione mi divenne sempre più chiara e inequivocabile. Il fatto che si fosse scelto come postazione il tratto di strada antistante il cafre e vicino all'incrocio aveva una sua ragione, la stessa che aveva indotto l'astuto proprietario di un negozio a escogitare un particolare espediente per la sua vetrina. Va detto che la mercanzia venduta in quella bottega era un insieme di cianfrusaglie di scarso interesse e poco allettanti: noci di cocco, dolciumi turchi e vari caramellati variopinti. Senonché all'uomo venne l'idea luminosa di arredare gli spazi espositivi non solo con palme finte e fondali tropicali che ricreavano ambienti esotici, ma addirittura di lasciarvi scorrazzare tre scimmiette. L'idea si rivelò eccezionale: le bestiole vive volteggiavano dietro il vetro assumendo le posizioni più strambe e buffe, digrignavano i denti, si spulciavano, sghignazzavano, facevano chiasso e si comportavano disinvoltamente alla maniera delle scimmie, cioè in modo indecente. Il furbo negoziante aveva fatto bene i suoi conti e difatti grappoli di persone di passaggio rimanevano con il naso appiccicato alla vetrina; soprattutto le donne, seppure dopo urla e strepiti, sembravano divertirsi allo spettacolo. Lo stesso fece il mio amico: ogniqualvolta un buon numero di passanti curiosi si ammassava, lui accorreva di soppiatto. Delicatamente, anzi simulando un fare modesto, spingeva finché riusciva a infilarsi in mezzo agli altri che si accalcavano parimenti a spinte; ma dell'arte del borseggio finora poco studiata e, per quanto ne sappia, non degnamente descritta, so soltanto che i ladruncoli, per fare colpi apprezzabili, hanno anzitutto bisogno di un consistente assembramento di persone - come le aringhe per deporre le uova - perché, solo nel pigia pigia e fra gli spintoni la vittima non sente la mano insidiosa che le frega il portafogli o l'orologio. Inoltre - ed è un'acquisizione recente - un colpo da maestro abbisogna di un diversivo che narcotizzi, per un breve intervallo, l'inconscia vigilanza con cui ogni essere umano tutela le sue proprietà. Provvedevano ad assicurare l'auspicata distrazione le tre scimmie con il loro inimitabile comportamento buffo o francamente spassoso. In questo caso gli spelacchiati omuncoli ridanciani erano gli inconsapevoli complici e manutengoli del mio nuovo amico. A questa scoperta mi sentii, mi si perdoni, addirittura entusiasta per il semplice fatto che in vita mia non avevo mai visto un ladro o, piuttosto, per non tradire la sincerità a cui tengo, ne avevo visto uno a Londra durante un periodo di studi. Al fine di migliorare il mio inglese, mi recavo abbastanza spesso in tribunale per assistere alle udienze (lo scopo era allenarmi all'ascolto) e una volta feci in tempo ad assistere alla scena di un ragazzo foruncoloso con i capelli rossicci che veniva condotto davanti al giudice tra due policemen. Sul tavolo c'era il corpus delicti, ovvero il portamonete. Alcuni testimoni parlarono e giurarono, il giudice bofonchiò una litania in inglese e il rosso si beccò - se non ho capito male - sei mesi. Quello è stato il primo borsaiuolo che ho visto ma - e qui sta la differenza personalmente non avevo potuto accertare se lo fosse davvero. Soltanto i testimoni, infatti, ne sostennero la colpevolezza. Soggettivamente avevo presenziato alla ricostruzione giuridica del reato, non al reato. Avevo visto solo un imputato e un condannato, non il ladro. Il furto è un furto solo nell'istante in cui il reo lo compie, non due mesi dopo quando il suo reato viene portato davanti al giudice. Analogamente il poeta è sostanzialmente un poeta mentre crea e non, per esempio, due anni più tardi quando legge al microfono la sua poesia. Il reo è reo unicamente nell'attimo del reato. Senonché mi veniva offerta l'occasione di verificare la strana faccenda in termini reali: vedere un borsaiulo all'opera, nel momento più caratteristico della sua attività, insomma nel momento della verità, nel breve spazio di un secondo non facile da cogliere, come la procreazione e la nascita. Il pensiero stesso di questa possibilità mi eccitava. Naturalmente ero deciso a non perdermi un'occasione effettivamente grandiosa, né a lasciarmi sfuggire un solo particolare della preparazione del reato e del reato medesimo. Liberai subito la mia seggiolina al tavolino del caffè, dove mi sentivo molto svantaggiato: il campo visivo, infatti, non era perfetto. Mi serviva una postazione mobile dalla quale osservare senza alcun ostacolo. Dopo alcune prove scelsi un chiosco di giornali dov'erano affissi i manifesti dei teatri parigini. Potevo fingere di essere assorbito dalla lettura mentre in realtà, protetto dalla colonna rotonda, avrei seguito qualsiasi suo movimento. Con una tenacia, che oggi non mi riesce più comprensibile, osservai il povero diavolo accingersi a dar seguito all'impresa in sé difficile e rischiosa, non mi persi neanche un dettaglio ed ero più teso, se non ricordo male, che a teatro o durante la proiezione di un film seguendo l'artista. La realtà, nel momento della sua massima condensazione, supera ampiamente qualsiasi forma artistica. Vive la réalité! Quell'ora, dalle undici alle dodici di mattina sul boulevard di Parigi, mi passò veramente velocissima, quantunque - o proprio perché fu piena di continue tensioni, di numerose piccole decisioni eccitanti e di contrattempi. Potrei descriverla per ore e ore, quell'ora, tanto era carica di energia nervosa e stimolante per la rischiosità stessa del gioco. Fino a quel giorno non avevo mai immaginato, neppure in modo approssimativo, che il borseggio fosse un mestiere incredibilmente difficile e pressoché non apprendibile, anzi: che arte terribile e orrendamente provocatoria è lo scippo sulla pubblica strada e alla luce del sole! Fino a quel giorno all'idea di borseggio non avevo legato altro che un concetto vago di impudenza e di grande destrezza manuale, avevo considerato questo mestiere come una semplice questione di dita agili, in sostanza non diversamente dalla perizia di cui danno prova i giocolieri e i prestidigitatori. Dickens, in una scena di Oliver Twist, ha descritto come avveniva l'iniziazione al furto: un ladro esperto insegnava ai piccoli potenziali ladruncoli a sfilare un fazzoletto dalla giacca senza che si facessero accorgere. Sul taschino era fissato un campanellino che suonava quando il neofita estraeva il fazzoletto non con la dovuta lievità di tocco, sicché il gesto veniva giudicato sbagliato e troppo grossolano. Ma Dickens, me ne rendo conto soltanto ora, aveva badato al lato tecnico della questione, all'agilità delle dita e probabilmente non aveva mai assistito a uno scippo in corpore vivo: non aveva mai avuto l'opportunità (che a me veniva concessa per un caso fortunato) di notare come, in un borsaiuolo che agisca alla luce del sole, non sia indispensabile solamente una mano svelta, ma si richiedano altresì presenza di spirito, autocontrollo, intuito psicologico allenato, freddo e insieme fulmineo e, soprattutto, un coraggio pazzesco se non addirittura folle. Un ladruncolo - e l'avevo capito fin da allora - dopo sessanta minuti di apprendistato deve possedere la rapidità decisionale del chirurgo che si accinga a effettuare una sutura al cuore - l'indugio anche solo di un secondo può rivelarsi fatale. Ma, nel caso di un'operazione chirurgica, il paziente è almeno sotto narcosi, non può muoversi, non può difendersi. Qui, invece, l'intervento, subitaneo ancorché lieve, avviene su un corpo perfettamente sveglio e per di più in una zona vicina al portafogli dove la gente è particolarmente sensibile. Mentre sferra il colpo, mentre la sua mano penetra con la velocità di un lampo, appunto nel momento di massima tensione ed eccitazione, il borsaiuolo deve dominare esemplarmente ogni nervo e muscolo della faccia, in sostanza agire con indifferenza, fingendosi quasi annoiato. Non gli è permesso di svelare il proprio eccitamento e, a differenza del criminale e dell'omicida, non può lasciar trapelare nella pupilla il furore di un gesto folle: mentre la sua mano sta avanzando, il borsaiuolo deve opporre alla vittima uno sguardo schietto e affidabile e, nell'attimo della collisione, saper pronunciare in tono umile e con voce discreta il suo: «Pardon, Monsieur. Ma non gli basta essere accorto, vigile e lesto nell'istante cruciale: ancora prima dell'affondo, egli deve dar prova di intelligenza, di padronanza psicologica, da psicologo e fisiologo deve appurare l'idoneità delle vittime. Sono infatti da mettere nel conto soltanto i distratti, i meno diffidenti e, tra costoro, vanno privilegiati rigorosamente solo quelli che non abbottonano la giacca in alto e non hanno un passo troppo sostenuto, dunque soltanto i pochi a cui sia possibile avvicinarsi senza insospettirli. Su cento, cinquecento persone che in quell'ora procedevano sul viale, ne ho contate una, due al massimo che rientrassero nel campo di tiro. Un borsaiuolo ragionevole, pertanto, avrebbe arrischiato il colpo con un numero assai esiguo di vittime, ma anche con queste poche il successo non era assicurato al cento per cento: potevano sopraggiungere mille imprevisti e proprio all'ultimo momento. Per questo mestiere (posso testimoniarlo) è necessario un colossale bagaglio di esperienze umane, di oculatezza e autocontrollo. E non va trascurato un altro particolare nient' affatto secondario: il ladro, mentre sta scegliendo i soggetti più idonei e si fa sotto con i sensi vigili, deve nel medesimo tempo azionando allora un altro dei suoi sensi tenuti spasmodicamente sotto pressione - badare di non essere visto a sua volta. Chissà mai che un gendarme o un investigatore non si sia appostato proprio all'angolo, ma può vederlo anche uno dei tanti curiosi, sempre troppi, che popolano le strade! Tutto era da tener d'occhio, e se una vetrina, sfuggitagli nella fretta, avesse riflesso la sua mano smascherandolo? Se dall'interno di un negozio o da dietro una finestra qualcuno avesse osservato le sue manovre? Lo sforzo a cui è sottoposto un borsaiuolo è mostruoso e nient' affatto proporzionale al rischio. Un semplice passo falso o un errore possono mandare all'aria tre, quattro anni di lavoro su un boulevard di Parigi, un piccolo tremito alle dita, un tocco nervoso, prematuro può costare la libertà. Il borseggio in pieno giorno e su un viale - in quel momento ne avevo la certezza - rappresentava una prova inimmaginabile di coraggio e da allora considero un'ingiustizia che i quotidiani liquidino questa categoria di ladri nella rubrica della cosiddetta piccola criminalità, riservando loro tre righe. Tra tutti i mestieri, tra quelli leciti e quelli illeciti del nostro mondo, questo è senz'altro uno dei più difficili e pericolosi. Ma il borseggio, nelle sue espressioni più raffinate, merita, quasi a pieno titolo, di chiamarsi arte. Posso affermarlo e sono in grado di fornirne le prove, essendo stato testimone oculare e un attivo compartecipe in quella mattina di aprile. Un compartecipe attivo: non esagero se lo dico. Difatti solo all'inizio, solo nei primi minuti sono riuscito a osservare l'uomo, mentre svolgeva il suo mestiere, con obiettività e distacco. Ma, si sa, la lunga passionale osservazione suscita sempre sentimenti e i sentimenti, a loro volta, creano legami. Inevitabilmente, senza avvedermi e volerlo, cominciai a identificarmi con il ladro, a mettermi, come dire, nei suoi panni, nella sua pelle e nelle sue mani. Da semplice osservatore diventai a poco a poco suo complice a livello spirituale. Il processo di commutazione ebbe inizio dopo un quarto d'ora di attenta osservazione: cominciai subito, con mia viva sorpresa, a scrutare i passanti, a uno a uno, e a catalogarli come idonei e non idonei a subire il furto. Portavano la giacca abbottonata o aperta? Avevano lo sguardo disattento o vigile? Lasciavano supporre di avere un bel portafogli gonfio? Insomma, mi posi le domande del caso per accertare se meritavano che il mio amico se ne occupasse. In breve tempo riconobbi di non essere più neutrale nell'ormai prossima battaglia, ma di augurarmi vivamente in cuor mio che finalmente gli riuscisse un colpo, anzi precipitosamente dovetti reprimere finanche l'impulso di dargli una mano nel suo lavoro. Come tutti gli impiccioni di questa Terra sono tentati dalla voglia di segnalare al giocatore la carta giusta con una leggera gomitata, anch'io mi sentii morire ogni volta che il mio amico si lasciava sfuggire l'occasione favorevole e non stetti più nella pelle dal desiderio di segnalargliela con una strizzatina d'occhio: quello va bene! Il grassone con il grande fascio di fiori in braccio! Mi parve addirittura che fosse mio dovere lanciargli un segnale quando vidi un poliziotto veleggiare all'angolo della strada nell'esatto istante in cui si era lasciato risucchiare dalla ressa. Lo spavento mi fece tremare le ginocchia, come se potessero acciuffarmi, anzi sentii la pesante zampa del gendarme sulla sua, sulla mia spalla. Invece trassi un sospiro di sollievo: scorsi l'omino minuto sgusciar fuori dall'assembramento e, libero e giocondo, passar davanti al pericoloso piedipiatti. Erano momenti di suspense, ma ancora insufficienti: quanto più mi immedesimavo nel mio ladro, cominciando - dalla ventina di tentativi andati a vuoto - a capirne il mestiere, tanto più ero divorato dall'impazienza non capacitandomi perché non attaccasse ancora e proseguisse con le prove e gli assaggi. Provai una rabbia sacrosanta di fronte a quell'eterno e ridicolo tentennare e indietreggiare. Diavolo, spicciati, attacca una buona volta! Abbi più coraggio! Prendi quello, quello là! Ma falla finita! Per fortuna l'amico, che non sapeva né presagiva nulla della mia partecipazione non richiesta, non si lasciò minimamente confondere dalla mia ansietà. Comunque c'è una bella differenza tra il vero artista esperto e il principiante, l'amatore e il dilettante! L'artista conosce per esperienza la legge del successo e la fatale necessità di uno spazio intermedio da destinare agli sforzi vani, è allenato ad aspettare e a pazientare fino all'ultima chance, quella definitiva. Come il poeta trascura mille idee apparentemente allettanti e fruttuose e passa oltre con indifferenza (solo il dilettante le afferra subito con mano temeraria) per economizzare le forze in vista dell'impegno finale, analogamente l'omuncolo malandato non tenne conto di centinaia di opportunità, che io, da dilettante, ritenevo promettenti. Egli saggiava, avanzava tastoni, compiva tentativi, si faceva sotto e sicuramente aveva già sfiorato con la mano centinaia di borse e cappotti. Eppure non attaccava: instancabile nel pazientare, percorreva e ripercorreva gli stessi trenta passi fino alla vetrina, cercando di non dare nell'occhio, misurando tutte le possibilità con uno sguardo diagonale e confrontandole con presunti pericoli, che un principiante come me non intuiva. Nella sua inaudita, pacata ostinazione c'era qualcosa che mi elettrizzava malgrado l'impazienza e mi offriva una sorta di garanzia circa il successo finale. Del resto, l'energia inesauribile, di cui dava prova, ne rendeva esplicita la volontà di non cedere prima del colpo vincente. Anch'io ero fermamente deciso ad abbandonare il campo solo dopo avere assistito alla sua vittoria. Aspettai fino a mezzanotte. Ormai era mezzogiorno, Fora dell'alta marea quando strade e straducole, scalinate e cortili riversano altrettanti torrenti di persone nell'ampio alveo del boulevard. Dalle officine, dalle botteghe artigiane, dagli uffici pubblici e privati, dalle scuole gli artigiani, le cucitrici e i commessi dei numerosi laboratori, stipati al secondo, al terzo e al quarto piano, si precipitano all'aperto quasi provocando un'onda d'urto. La massa, finalmente libera, zampilla sull'acciottolato come un vapore nero sfaldato: operai in blusa bianca o in camice; midinettes ciarliere a braccetto, a coppie o a gruppi di tre, un mazzolino di violette affrancato sul vestito; modesti impiegati con le giacchette lustre o l'immancabile cartella di cuoio sottobraccio; facchini; soldati in bleu d'horizon; insomma, le innumerevoli, indefinibili figure dell'invisibile operosità sotterranea della metropoli. Tutti sono stati seduti a lungo, troppo a lungo in stanze soffocanti. Ora distendono le gambe, corrono, sciamano, inspirano lunghe boccate d'aria, espirano fumo di sigari, un eterno pigia pigia. Per un'ora la strada riceve dalla simultanea presenza di tante persone un soffio violento di vitalità e di allegria. Un'ora soltanto, poi debbono tornare su, dietro alle finestre chiuse, lavorare al tornio o cucire, martellare sulle macchine per scrivere, addizionare colonne di numeri, stampare, confezionare vestiti e scarpe. Lo sanno, nel corpo, i muscoli e i tendini, per questo si rilassano forti e lieti. Lo sa l'anima che si gode in serenità quell'ora calcolata all'osso: curiosa, parte alla ricerca di luce e di ilarità. Le vanno bene tutti per la storiella giusta e per una battuta frettolosa. Non c'è da stupirsi che proprio la vetrina delle scimmie approfitti di questo bisogno di divertimento gratuito. A frotte si affollano intorno alla vetrata lusinghiera, le midinettes in testa - si ode il loro cinguettio acuto e stridulo come fuoriuscito dalla baruffa di una voliera - e dietro di loro si accalcano operai e flaneurs dal motteggio salace pronto e la presa sicura. A mano a mano che gli spettatori diventavano un grumo solido sempre più spesso e compatto, anche il mio pesciolino rosso nel suo soprabito giallo nuotava più gaio e veloce e riaffiorava ora qui ora là dalla calca. Adesso non c'era più motivo di trattenersi oltre nell'osservatorio passivo: bisognava, da vicino, puntare gli occhi sulle dita per conoscere finalmente il vero colpo dell'artista. Ma questo costava molta fatica perché il segugio addestrato aveva una sua particolare tecnica nel rendersi scivoloso e insinuarsi come un'anguilla nelle più piccole intercapedini di un assembramento. Mentre poc'anzi era ancora tranquillo accanto a me, all'improvviso lo vidi sparire come per magia e quasi nello stesso istante riemerse là, davanti alla vetrina. Con una spinta doveva avere scavalcato tre o quattro file. Lo seguii né poteva essere diversamente perché temevo che scomparisse un'altra volta, a destra o a sinistra, immergendosi alla sua maniera, prima che io arrivassi alla vetrina. E invece no: era là che aspettava calmo, stranamente calmo. Attenzione! Questa calma deve avere un significato, mi dissi subito e passai in rassegna i suoi vicini. Di lato c'era una donna straordinariamente grassa, una poveraccia, a giudicare dall'aspetto. Nella mano destra teneva con delicatezza una ragazzina di circa dodici anni, nella sinistra una borsa della spesa aperta di cuoio andante, dalla quale sporgevano due filoni di pane francese; era evidente che nella sporta era stata sistemata la colazione per il marito. La brava popolana - senza cappello, uno scialle sgargiante su un vestito a quadri di cotonina grossolana che si era cucito da sé - era estasiata allo spettacolo delle scimmiette. Una reazione indescrivibile: il corpo largo, tumido era scosso dalle risa tanto che perfino i pani bianchi oscillavano, emetteva veri scoppi di risa e di giubilo accompagnati da un gorgoglio, sicché di lì a poco fu lei a offrire agli astanti un'occasione di ilarità non inferiore a quella delle scimmie. Si divertiva allo stravagante spettacolo provando l'ingenua gioia primordiale delle nature elementari e la stupenda gratitudine di chi ha poco dalla vita. Già, solo i poveri sanno essere veramente riconoscenti, perché essi godono quando il divertimento non costa nulla e viene loro donato, come dire, dal cielo. Di tanto in tanto, quella bonaria creatura si chinava sulla bambina, assicurandosi che riuscisse a vedere e non si perdesse nessuna mossa faceta delle bestiole. «Rrregarrde doonc, Maargueriite», spronava con un forte accento meridionale la ragazzina che rideva poco, intimidita da tanta gente sconosciuta. Era stupenda quella donna: una madre, una vera figlia di Gea, stirpe primigenia della Terra, sano frutto rigoglioso del popolo francese; veniva voglia di abbracciarla tanto era perfetta nella sua gioia chiassosa, serena e spensierata. Ma tutt'a un tratto avvertii quasi un senso di apprensione: mi ero accorto infatti che la manica del soprabito giallo canarino penzolava sempre più vicina alla borsa della spesa, lasciata aperta con noncuranza (solo i poveri sono incuranti). Misericordia, non vorrai per caso rubare dalla sporta il borsellino a questa povera brava donna, incredibilmente buona e allegra? Di colpo qualcosa dentro di me si ribellò. Finora avevo osservato il borsaiuolo con una gioia che definirei sportiva: immedesimandomi nel suo corpo e nella sua anima, pensando con la sua testa, avevo sperato, anzi desiderato che, in cambio di tanta fatica, di tanto coraggio e pericolo, alla fine un piccolo colpo gli riuscisse. Ma ora, vedendo concretamente non solo il tentativo di furto, ma in carne e ossa la persona che sarebbe stata derubata - una donna commovente tant'era ingenua e invidiabile per la sua beata spensieratezza, una donna che con ogni probabilità si era guadagnata qualche soldo lavando pavimenti e fregando scale per ore e ore - mi sentii assalire dall'ira. Furfante, fila! mi sarebbe piaciuto gridargli, cerca qualcun altro che non sia quella squattrinata! Mi feci largo a spinte e mi avvicinai risoluto alla donna, per proteggere la borsa in pericolo. Ma, mentre mi aprivo la strada senza troppi riguardi, il giovanotto si volse e, per superarmi, mi schiacciò quasi. «Pardon, Monsieur», si scusò, sfiorandomi, una vocetta fine e mortificata (era la prima volta che la udivo). Il cappottino giallo si era intanto defilato lasciandosi inghiottire dalla folla. Istantaneamente, ebbi la sensazione che il colpo lo avesse già perpetrato e pensai di inseguirlo. Difatti, mentre un signore alle mie spalle imprecava perché gli avevo pestato un piede, uscii brutalmente dal risucchio facendo in tempo a distinguere il cappottino giallo che svoltava l'angolo del boulevard e imboccava svolazzando una stradina laterale. Inseguilo, inseguilo! Tallonalo, stagli alle calcagna! Fui costretto a cambiare bruscamente andatura: l'omino, che avevo osservato da un'ora, si era di colpo - e non credetti ai miei occhi trasformato. Mentre dianzi vacillava e pareva timido e finanche stordito, adesso sfrecciava svelto come una lepre rasentando il muro con il passo ansioso tipico di un impiegatuccio che abbia perso l'omnibus e si affretti per non giungere in ritardo in ufficio. Non avevo più dubbi: era il portamento a reato compiuto, andatura numero due, per allontanarsi dal luogo del misfatto il più rapidamente possibile e senza destare sospetti. Chiaro: il manigoldo aveva rubato il borsellino a quella poveraccia sfilandoglielo dalla sporta. Avvampando di rabbia, stavo quasi per dare il segnale d'allarme e urlare: «Au voleur!» Ma mi venne a mancare il coraggio: non lo avevo visto nell'attimo in cui compiva il furto e perciò non potevo accusarlo senza prove. Eppoi ci vuole un bel fegato per abbrancare un individuo e fare giustizia in rappresentanza di Dio. Non ho mai avuto il coraggio di accusare e denunciare qualcuno e so quanto la giustizia sia fragile e che presunzione sia arrogarsi questo diritto, ricavandolo da un unico caso, per giunta dubbioso, in un mondo così confuso come il nostro. Tuttavia, mentre continuavo a correre all'impazzata e intanto riflettevo sul da farsi, una nuova sorpresa mi stava aspettando: due strade più avanti, il sorprendente individuo innestò un'altra marcia, andatura tre. All'improvviso sospese il passo affrettato, non si acquattò e rannicchiò però come prima, ma prese a camminare pacificamente, insomma ad andare a passeggio come un privato cittadino. Era evidente che si era accorto di essere ormai uscito dalla zona di pericolo: nessuno lo inseguiva e pertanto non correva più il rischio di essere denunciato. Capii che, dopo i momenti di paurosa tensione, desiderava finalmente tirare il fiato. In un certo senso era un borsaiuolo fuori servizio, un uomo che vive di rendita dopo anni di professione, insomma uno dei tanti pensionati - a Parigi ce ne sono parecchie migliaia - che vanno a spasso per la città in santa pace, la sigaretta appena accesa fra le labbra. Ostentando un'imperturbabile innocenza, ad andatura rilassata, comoda e indolente il piccolo uomo smilzo superò la chaussée d'Antin e per la prima volta ebbi l'impressione che osservasse le donne e le ragazze che passavano per accertarne la bellezza e la disponibilità. E adesso, uomo dalle mille sorprese, dove stai andando? Raggiunse la piazzetta davanti alla Trinité, orlata da cespugli d'un verde tenero. Perché proprio qui? Ah, capisco! Ti vuoi riposare per qualche minuto su una panchina, e chi te lo vieta? L'incessante caccia e quell'andirivieni senza un attimo di sosta ti hanno sfiancato. E invece no: l'uomo dalle mille sorprese non si sedette su una delle panchine ma si diresse risoluto verso una piccola costruzione riservata - chiedo venia - a funzioni private in pubblico e scrupolosamente ne chiuse la larga porta dietro di sé. Di primo acchito sbottai in una risata: anche gli artisti più geniali finiscono nel più umano dei luoghi! O la paura, amico, ti ha sconvolto le budella? Viceversa, dovetti constatare un'altra volta che la realtà, pur così burlona, finisce sempre con l'inventare l'arabesco più sollazzevole, essendo più audace di qualunque scrittore di talento. La realtà, infatti, osa accostare senza esitazione l'evento straordinario all'episodio ridicolo e, malignamente, porre ciò che è umano accanto a ciò che stupisce. Mentre, seduto su una panchina - e che cos'altro mi restava da fare? - aspettavo che quello uscisse dalla casupola grigia, ragionai e mi convinsi che l'incallito maestro nell'arte del furto, procuratosi quattro sicure pareti intorno a sé, agiva semplicemente secondo la logica scontata del suo mestiere: stava controllando il profitto. Inoltre, un ladro professionista prevede in tempo come disfarsi delle prove senza lasciare traccia (sul particolare avevo già riflettuto prima), il che è invece una difficoltà imponderabile per noi profani. In una città eternamente sveglia e vigile, perché ha mille occhi, nulla è infatti più difficile che trovare le quattro pareti dietro alle quali nascondersi. Anche chi legge raramente la cronaca giudiziaria, ogni volta si meraviglia nel constatare quanti testimoni oculari si presentino perfino nel caso più banale, e tutti dotati di una memoria diabolicamente infallibile. Prova a strappare una lettera per la strada e a gettarla in un chiusino: dozzine di persone ti avranno osservato senza che tu te ne sia accorto e neanche cinque minuti dopo apparirà un giovanetto sfaccendato che si divertirà a ricomporla pezzetto dopo pezzetto. Ma fa' anche quest'altra verifica: apri il portafogli, per controllarne il contenuto, nel sottoscala e puoi essere certo che l'indomani, nel caso in cui ne venga rubato uno in questa città, si precipiterà alla polizia una donna, che tu non hai mai vista né conosciuta, la quale fornirà una descrizione completa della tua persona, come se fosse Balzac. Fermati in una locanda e vedrai che il cameriere, al quale non hai neppure fatto caso, ha notato non solo il tuo abbigliamento, le scarpe e il cappello che porti, ma anche il colore dei tuoi capelli e perfino se le tue unghie sono tonde o a punta. Dietro ogni finestra, ogni vetrina, ogni tenda e vaso di fiori ci sono occhi che guardano e, quand'anche giurassi di avere passeggiato tutto solo inosservato, non dubitare che erano presenti a decine e ciascuno immancabilmente pronto a testimoniare. La curiosità tallona la tua esistenza come una rete a maglie fittissime che si rinnovi quotidianamente. Perciò, esimio artista, hai avuto un'idea brillante a comperarti per cinque centesimi quattro pareti ermetiche con l'usufrutto di cinque minuti. Nessuno può spiarti mentre sbudelli il borsellino che hai vinto, come dire, ai dadi e fai sparire l'involucro accusatorio. Nemmeno io, il tuo doppio e complice che ora se ne sta qui ad aspettare soddisfatto e insieme deluso, nemmeno io so calcolare quanto hai guadagnato. Questo era quello che avevo pensato. Le cose, invece, presero ben altra piega. Non appena sollevò la maniglia con le sue dita sottili, ebbi la certezza, come se avessi contato i soldi nel portamonete assieme a lui, che era stato sfortunato. Dal modo in cui spingeva in avanti i piedi abbacchiato - un uomo stanco, esausto, le palpebre afflosciate e intorpidite sullo sguardo basso capii tutto. Sei stato scalognato, hai sgobbato tutta la mattina inutilmente. Nel borsellino rubato (te lo avrei potuto pronosticare io) non c'era niente di buono, tutt'al più due o tre banconote spiegazzate da dieci franchi, troppo, troppo poco per un mostruoso impiego di professionalità e un rischio suicida. Rappresentava molto solo per la donna a mezzo servizio che adesso, a Belleville, sta presumibilmente raccontando per la settima volta la sua disavventura alle vicine accorse ai suoi pianti e impreca contro quella miserabile canaglia e, disperata, continua a mostrare la sporta depredata con le mani che le tremano. Mentre per il ladro altrettanto povero - e mi bastò un'occhiata - la caccia era stata un fiasco, e ne ebbi la conferma dopo alcuni minuti: ridotto a un mucchio di stracci, sfinito fisicamente e spiritualmente, si fermò davanti a una piccola calzoleria e con uno sguardo nostalgico passò in rassegna le scarpe più andanti in esposizione. Di scarpe, di scarpe nuove, ne aveva davvero bisogno per sostituire i brandelli bucherellati che aveva ai piedi. Ne aveva bisogno più lui delle centinaia di migliaia di persone che quel giorno avevano camminato nelle strade di Parigi con suole buone e intere o molleggiandosi sulla gomma; ne aveva bisogno addirittura per svolgere il suo sordido mestiere. Ma lo sguardo cupido e sconfortato nello stesso tempo diceva inequivocabilmente che per quel paio di scarpe, esposte in vetrina, sfavillanti e contrassegnate da una cifra - cinquantaquattro franchi - il colpo non aveva fruttato abbastanza. Con le spalle pesanti come piombo si allontanò dalla vetrina che lo rifletteva e proseguì. Avanti, ma dove? Tornare alla caccia suicida di prima? Rischiare un'altra volta di perdere la libertà per un bottino così miserevole e insufficiente? Non ne vale la pena, meschino! Adesso, piuttosto, riposati un poco. Difatti, come se per un fluido magnetico avesse sentito il mio desiderio, svoltò in un vicolo laterale e si fermò davanti a una trattoria popolare a buon prezzo. Per me fu più che naturale seguirlo perché - ero deciso - volevo sapere tutto di quell'uomo con il quale vivevo ormai da due ore con le vene che mi pulsavano e una tensione che mi dava il tremito. Per precauzione, ossia per potermi trincerare meglio, mi comperai un giornale. Calcatomi volutamente il cappello sulla fronte, entrai nella sala e mi sedetti a un tavolo alle sue spalle. Precauzione inutile: al pover'uomo non erano rimaste nemmeno le forze per la curiosità. Svuotato e spento, fissava il coperto bianco con uno sguardo ottuso e solo quando il cameriere portò il pane le sue mani magre e ossute si svegliarono e ne presero un pezzo con avidità. Dalla furia con cui cominciò a masticare, compresi tutto e ne rimasi sconvolto: il poveretto aveva fame, fame vera, fame sincera, dal mattino o fors' anche dal giorno prima. Provai una pietà lacerante per quell'uomo quando il cameriere gli portò da bere. Si era ordinato una bottiglia di latte. Un ladro beve latte? Sono sempre le inezie, i particolari che, come un fiammifero acceso, rischiarano fulmineamente le profondità di uno spazio spirituale. Nell'attimo in cui lo vidi, lui il borsaiuolo, bere la più innocente e infantile delle bevande, lo vidi bere latte bianco e soave, egli cessò di essere un ladro. Non era altro che uno dei tanti poveri, dei tanti emarginati, malati, infelici di questo mondo mal costruito. Di colpo mi sentii legato a lui in uno strato più profondo di quello della curiosità. In tutte le forme della comune condizione terrena, nella nudità, nel freddo, nel sonno, nella stanchezza, nelle sofferenze del corpo, le barriere divisorie cadono e si estinguono le categorie artificiali che suddividono l'umanità in giusti e ingiusti, in rispettabili e delinquenti. Rimane unicamente l'eterno povero animale, la creatura terrestre che patisce la fame, la sete, la stanchezza e ha bisogno di sonno come me, come te, come tutti. Lo fissai ammaliato mentre beveva il latte denso a piccoli sorsi avidi e poi riuniva le briciole di pane raschiando il tavolo. Nel medesimo tempo mi vergognai di averlo reso un oggetto di studio, mi vergognai di avere fatto correre l'infelice, il reietto come un cavallo da corsa per soddisfare la mia curiosità, incurante di quanto la sua strada fosse buia e senza tentare di trattenerlo o perlomeno di soccorrerlo. Mi invase il desiderio incommensurabile di andargli vicino, parlargli, offrirgli qualcosa. Ma come iniziare l'approccio? Come avviare il discorso? Provando una sofferenza infinita, cercai, indagai per trovare una scusa, un pretesto, ma non rintracciai alcunché che fosse utilizzabile. Siamo fatti così! Discreti fino alla meschinità laddove si tratti della scelta decisiva, audaci nel proposito e tuttavia penosamente pusillanimi qualora serva sfondare il sottile diaframma che ci separa dal nostro simile pur sapendolo nel bisogno. Ma non esiste niente di più arduo che aiutare qualcuno, sempre che non ne si oda la richiesta di aiuto. Ma chi tace si preserva l'ultimo avere umano: l'orgoglio; non lo si può ferire mostrando indiscrezione. Soltanto i mendicanti ci facilitano il compito e dovremmo serbare loro riconoscenza perché non ci sbarrano la strada. Ma costui era fiero, uno di quelli che preferiscono mettere a repentaglio la libertà individuale, correndo magari gravi rischi, piuttosto che mendicare, scelgono di rubare anziché intascare l'elemosina. Lo avrei spaventato a morte se mi fossi avvicinato con un pretesto qualsiasi? Dal modo in cui sedeva si capiva che era stanchissimo: il minimo disturbo sarebbe stato un'indelicatezza se non addirittura una crudeltà. Aveva spinto la sedia contro il muro sicché il corpo era appoggiato allo schienale e la testa alla parete. Le palpebre livide si erano chiuse per un attimo. Capii, ebbi la sensazione, che desiderava soltanto dormire, solo dieci, solo quindici minuti. La sua stanchezza, il suo sfinimento divennero miei. Il colore terreo della sua faccia non era forse l'ombra bianca della cella tinteggiata a calce di una prigione? E il foro nella manica, che lampeggiava al minimo movimento, non era il segno dell'assenza di una donna nella sua esistenza, di una donna che si prendesse cura di lui e lo amasse? Cercai di prefigurarmi la sua vita: quinto piano, un sottotetto, un letto di ferro nella stanza non riscaldata, una conca di metallo foracchiata per lavarsi, l'unica proprietà una valigetta e compagna la paura di udire, nel locale angusto, il passo pesante di un gendarme che saliva i gradini cigolanti. Vidi questi squarci di miseria nei due o tre minuti in cui, per la grande spossatezza, egli aveva abbandonato contro il muro il corpo piccolo e scarno e la testa già senile. Ma sopraggiunse il cameriere per sbarazzare i tavoli dai coltelli e dalle forchette usate, sottolineando la propria antipatia per i clienti tardivi e lenti. Pagai per primo e uscii a passi rapidi per evitare il suo sguardo. Quando, qualche minuto dopo, uscì nella strada, lo seguii; a nessun costo volevo abbandonare a se stesso il pover'uomo. Perché ora non era più la curiosità scherzosa e patologica della mattina a tenermi incollato a lui e nemmeno il desiderio affettato di conoscere un mestiere sconosciuto: avvertivo fino in gola una sorda angoscia, una sensazione opprimente. Anzi, il senso di oppressione arrivò quasi a strozzarmi non appena vidi l'uomo imboccare la strada per il boulevard. Santo cielo, non vorrai tornare davanti alla vetrina delle scimmiette? Non commettere stupidaggini! La donna avrà ormai avvisato la gendarmeria e certamente saranno là ad aspettarti e ti acciufferanno riconoscendoti dal soprabitino leggero. E poi piantala oggi! Non fare altri tentativi, non sei in forma. Non hai più energia né slancio, sei stanco e nell'arte qualunque lavoro iniziato con addosso la stanchezza riesce male. Riposati piuttosto, mettiti a letto, meschino! Astieniti per oggi! Basta per oggi! Difficile spiegare perché mi avesse assalito quel pensiero angoscioso, una sorta di allucinazione per la quale ero certo che lo avrebbero colto in flagrante al primo tentativo. La mia apprensione si fece sempre meno tollerabile a mano a mano che ci avvicinavamo al viale. Si udiva ormai il boato della sua cataratta indomabile. No, mai più davanti a quella vetrina! Non lo tollero! Sei pazzo! Gli ero già alle spalle e la mia mano era pronta ad afferrargli il braccio per trattenerlo. Ma, quasi che avesse udito un'altra volta il mio tacito ordine, l'uomo cambiò strada inaspettatamente: in rue Drout, la via prima del boulevard, attraversò la carreggiata e prese a incedere con un portamento più sicuro come se abitasse proprio lì. Riconobbi subito l'edificio al quale si stava dirigendo: era l'Hôtel Drout, la più famosa casa d'aste di Parigi. Per l'ennesima volta - non so neppure quante fossero - lo stupefacente omino mi sbalordì: mentre mi sforzavo di indovinare come fosse la sua vita, qualcosa dentro di lui, forse una forza misteriosa, si oppose probabilmente ai miei desideri. Per l'appunto quella mattina mi ero riproposto di recarmi all'albergo di via Drout perché, tra le centinaia di migliaia di edifici della strana città di Parigi, è il sito che mi offre le ore più eccitanti, istruttive e insieme divertenti. Più vivace di un museo e in taluni giorni altrettanto ricco di tesori, in ogni caso sempre vario, nuovo e tuttavia identico, proprio l'Hotel Drout, esteriormente poco appariscente, mi piace, lo ritengo un capolavoro perché, a mio giudizio, riproduce su scala ridotta la poliedrica realtà parigina. Mentre le abitazioni racchiudono, ciascuna, un cosmo organico a sé stante, qui tutto viene esposto spezzettato e frantumato in infinite piccole unità, come il corpo di un animale enorme in una macelleria, e nel medesimo tempo il più comune dei denominatori comuni accomuna gli oggetti esposti, dal più esotico al più contraddittorio, dal più sacro al più vile: lo scopo di ciascuno è quello di trasformarsi in denaro. Letti, crocifissi, cappelli, tappeti, orologi, lavamani, statue di marmo di Houdon, posate Tombale, miniature persiane, scatole argentate per le sigarette, biciclette infangate accanto alle prime edizioni di Paul Valéry, grammofoni vicino a madonne gotiche, dipinti di van Dyck e nella parete di fianco brutte oleografie, sonate di Beethoven a lato di stufe rotte, il necessario e il superfluo, il kitsch più triviale e l'arte più preziosa, grande e piccolo, vero e falso, vecchio e nuovo, insomma ciò che la mano e lo spirito umano hanno creato, l'oggetto sublime e quello più sciocco, tutto affluisce all'incanto in questo canale di scolo che, con crudele indifferenza, inghiottisce e risputa tutti i valori della gigantesca città. In questo impietoso scalo si opera la monetizzazione di qualunque oggetto, in questa colossale fiera delle vanità e dei bisogni umani, in questo luogo fantasmagorico si afferra meglio che altrove la sconvolgente eterogeneità del nostro mondo materialistico: qui la necessità può vendere tutto e il ricco impossessarsi di tutto. Ma non si comperano soltanto oggetti: si acquistano cognizioni e visuali. L'individuo attento può approfondire qualunque materia ascoltando e vedendo, acquisire nozioni di storia dell'arte, archeologia, bibliofilia, un metodo per la valutazione dei francobolli, conoscenze di numismatica e perfino di antropologia. Infatti, se innumerevoli sono le cose che, uscendo da queste sale, passano in altre mani e desiderano riposarsi per un breve lasso di tempo dalla schiavitù del possesso, altrettanto numerose sono le razze e le classi umane che si accalcano intorno ai tavoli, dove si batte l'asta, sedotte dalla curiosità e dalla bramosia dell'acquisto, gli occhi stravolti dalla prospettiva dell'affare e dalla misteriosa passione del collezionismo. In queste sale i grandi commercianti in pelliccia e con la bombetta ben spazzolata siedono al fianco di piccoli sordidi antiquari e rigattieri dei bric-àbrac della Rive Gauche che mirano a riempire fino all'inverosimile le loro botteghe. Di tanto in tanto svolazzano e cianciano i piccoli trafficanti e gli intermediari, gli agenti, gli imbonitori, i raccailleurs - le immancabili iene di ogni campo di battaglia pronti ad acchiappare l'oggetto il cui prezzo sta crollando o a scambiare strizzatine d'occhio con il collezionista che hanno visto incapricciarsi di questo o quel pezzo costoso. Arrancano fin qui anche bibliotecari incartapecoriti, con gli immancabili occhiali sul naso, e s'intrufolano ovunque come tapiri assonnati, quindi entrano schiamazzando gli uccelli del paradiso dal piumaggio variopinto, signore elegantissime con le perle al collo, le quali si sono fatte precedere dai loro lacchè perché tenessero libero un posto in prima fila al tavolo dell'asta. In un angolo, in piedi come le gru, sostano in silenzio, lo sguardo scostante, i veri intenditori, ovvero la massoneria dei collezionisti. Alle spalle di questa tipologia fissa, che partecipa con vero interesse, attratta vuoi dall'affare, vuoi dall'amore per l'arte, ondeggia una massa casuale di semplici curiosi che approfittano per scaldarsi, essendo il riscaldamento gratuito' o che si sollazzano di fronte alle fontane scintillanti che sparano zampilli di numeri. Eppure chi viene qui indulge sempre a una passione autentica anche se inconfessata - dal collezionismo al gioco d'azzardo e alla brama di possesso o più semplicemente soddisfa bisogni immediati, quale appunto la necessità di un po' di caldo e di tepore. E un assembramento caotico di persone che si lascia catalogare secondo i più svariati caratteri fisionomici. Una sola specie che non avevo mai vista rappresentata nelle sale dell'Hôtel Drout, e alla quale peraltro non avevo pensato, era la gilda dei borsaiuoli. Ora però, vedendo il mio amico intrufolarsi con istinto sicuro, non dubitai che il luogo fosse la riserva di caccia più fornita, anzi in assoluto quella ideale di tutta Parigi. Non mancava nemmeno un solo ingrediente necessario alla riuscita di un colpo sicuramente condotto ad arte come nel suo caso: la ressa c'era e, se non bastasse, era disgustosa e quasi intollerabile, mentre il procedimento della vendita all'incanto garantiva che il pubblico si sarebbe distratto in misura più che sufficiente, ed era il secondo punto. Terzo: una cosiddetta casa delle aste era ormai quasi l'ultimo luogo al mondo, oltre alle corse dei cavalli, in cui si pagava in contanti, sicché era presumibile che sotto ogni giacca si arrotondasse il tumore di un portafogli gonfio. Dunque qui o mai più. Era la grande occasione per chi aveva la mano svelta come il mio amico. La prova mediocre della mattinata non era stata che un semplice allenamento, mentre ora - lo capivo - si stava preparando al vero capolavoro. E tuttavia avrei preferito tirarlo per la manica intanto che saliva pigramente i gradini fino al primo piano. Sant'Iddio, ma non vedi l'affisso in tre lingue: Beware of pickpockets! - Attention aux pickpockets! - Attenzione ai borsaioli! Non lo vedi o sei un babbeo? Guarda, in un luogo come questo sanno tutto sul tuo conto e, nascosti tra la folla, ci saranno certamente dei detective, una dozzina o forse più. E poi, te lo ripeto, oggi non sei in forma! Ma, lasciando scivolare lo sguardo freddo sul manifesto che senz'altro conosceva, l'incallito intenditore della situazione salì con calma la scala, una decisione tattica sulla quale convenivo. Infatti nelle sale del pianterreno si vendevano suppellettili di buon comando, arredamenti, cassettoni e armadi, e vi si assiepava e turbinava la massa improduttiva e scortese dei rigattieri i quali, seguendo la buona usanza dei contadini, si legavano il malloppo sulla pancia; perciò non era consigliabile né vantaggioso tentare un colpo con tipi del genere. Nelle sale del primo piano, dove la licitazione prevedeva oggetti piuttosto fini, quadri, preziosi, libri, autografi, gioielli, non sarebbero mancati, viceversa, le tasche piene e i compratori più rilassati. Sudai per star dietro al mio amico. Difatti vogava a destra; e a manca partendo dall'ingresso principale e, addentrandosi nelle sale, tornava sui suoi passi per valutare le opportunità di ciascuna. Paziente e ostinato come il buongustaio che legge un particolare menu, anch'egli leggeva di tanto in tanto i cartelli appesi alle pareti. Alla fine si decise per la sala sette, dove sarebbe stata venduta all'asta...la célèbre collection de porcelaine chinoise et japonaise de Mme. la Comtesse Yves de G... Una buona giornata, indubbiamente! Roba sensazionale, costosa e tanta gente. Entrando, non si riusciva nemmeno a vedere il tavolo dell'asta tanti erano i cappotti e i cappelli. Un muro compatto di persone, almeno venti o trenta file, bloccava la vista del lungo tavolo verde, ma dal nostro posto vicino all'ingresso si potevano ancora cogliere al volo i gesti buffi dell'ufficiale, il commissairepriseur, che dal suo podio sopraelevato dirigeva con un martelletto bianco le operazioni d'asta come un direttore d'orchestra e, superando pause angosciosamente lunghe, sapeva però come riprendere i ritmi eccitanti quali un «prestissimo». Probabilmente, come altri modesti impiegati residenti a Ménilmontant o in qualche sobborgo della cintura urbana, due stanze, fornello a gas, un grammofono come unico possedimento prezioso, alcuni vasi di geranio sul davanzale della finestra, nella sala dell'Hôtel Drout davanti a un pubblico illustre, il suo bel tight magro e i capelli impomatati spartiti dalla scriminatura perfetta, si godeva l'inaudito piacere di monetizzare i pezzi più preziosi di Parigi per tre ore al giorno, il piccolo martello in mano. Con la grazia affettata dell'acrobata, afferrava al volo da destra e da sinistra, dal tavolo e dal fondo della sala le varie offerte «Sixcents, six-centscinq, six-cents-dix» - come palline colorate e rilanciava le stesse cifre, sempre sublimato, arrotondando le vocali e staccando le consonanti. Ogni tanto interpretava il ruolo dell'entraìneuse: quando un'offerta non veniva raccolta, spronava con un sorriso accattivante: «.Personne à droite? Personne à gauche?» o, spingendo una piccola ruga drammatica fra le sopracciglia e sollevando il determinante martelletto d'avorio, minacciava: «.J'adjuge» oppure sorrideva con un bonario: «Voyons, Messieurs, c'est pas du tout cher». Ogni tanto si interrompeva per salutare, con l'aria da buon intenditore, un conoscente, strizzava l'occhio a taluni offerenti per un furbesco incitamento e dal tono asciutto con cui dava la comunicazione necessariamente incolore di un nuovo pezzo, «le numero trente-trois», la sua voce tenorile, con sempre maggiore consapevolezza, passava a tonalità drammatiche a mano a mano che il prezzo aumentava. Godeva visibilmente nel constatare come per tre ore trecento o quattrocento persone fissassero avidamente, trattenendo il fiato, ora le sue labbra ora il magico martelletto nella sua mano. L'ingannevole illusione di essere lui a decidere, quando invece non era altro che lo strumento delle offerte puramente casuali, gli trasmetteva un orgoglio che lo inebriava: come un pavone, azionava le sue ruote vocaliche non impedendomi tuttavia di concludere dentro di me che con i suoi gesti esagerati svolgeva la stessa funzione distraente delle tre buffe scimmiette della mattina. Il mio valente amico non poteva ancora trarre alcun vantaggio da questo aiuto complice giacché eravamo sempre irrimediabilmente fermi nell'ultima fila e ogni tentativo di incunearci nella massa umana compatta, calda e tenace fino al tavolo dell'asta sembrava quanto meno vano e disperato. Eppure mi resi conto di essere un dilettante effimero in quel mestiere interessante. Il mio compagno, maestro e tecnico esperto, sapeva invece da tempo che nell'istante in cui il martello si abbassava definitivamente - il tenore aveva appena esultato settemiladuecentosessanta franchi - in quel breve intervallo di distensione la barriera si sarebbe smossa e allentata. E così avvenne: le teste eccitate si abbassarono, i mercanti si annotarono i prezzi sui cataloghi, uno dei curiosi si allontanò e per un secondo un soffio d'aria percorse la folla stipata. Egli approfittò di questo momento con una rapidità geniale, per avanzare a testa bassa come una torpedine: di colpo riuscì a oltrepassare quattro-cinque file di persone; mentre io, avendo giurato a me stesso che non avrei più lasciato solo l'imprudente, mi ritrovai all'improvviso nella calca senza nemmeno la sua presenza. Certo, avevo fatto anch'io qualche passo in avanti ma poi l'asta si era rimessa in marcia, il muro si era richiuso, sicché ero rimasto incastrato nella ressa più soda come un carretto nella palude. Quella pressa bollente e appiccicaticela era spaventevole: dietro, davanti, a sinistra, a destra corpi estranei, vestiti altrui e talmente addosso, che il minimo colpo di tosse del vicino mi scuoteva. Anche l'aria era insopportabile, sapeva di polvere, di muffa, di acido e soprattutto di sudore, come dovunque quando siano in gioco i soldi. Scoppiando di caldo, tentai di sbottonarmi la giacca per afferrare il fazzoletto. Impossibile: ero troppo stretto, schiacciato come una sardina. Comunque non mi persi d'animo: piano, ma senza mollare, continuai ad avanzare, prima una fila, poi un'altra, tuttavia, arrivai davanti al tavolo troppo tardi: il soprabito giallo canarino era già sparito, nascosto chissà dove in mezzo alla folla, volatilizzato. Nessuno sapeva della sua presenza pericolosa, solo io lo sapevo e mi tremavano i nervi per la paura mistica che potesse capitare qualcosa di orribile al povero diavolo. Ogni secondo che passava mi aspettavo che qualcuno gridasse: «Au voleur!» Sarebbe scoppiato un parapiglia, un alterco, lo avrebbero trascinato fuori afferrandolo per tutte e due le maniche del cappottino; non so come mai mi avesse assalito la certezza che proprio quel giorno e proprio lì avrebbe fatto fiasco. Viceversa non accadde nulla, né un grido né un urlo. Eppure il chiacchiericcio, lo strusciamento e il ronzio cessarono di colpo: tutt'a un tratto la sala piombò nel silenzio, come se quelle duecento-trecento persone trattenessero il respiro per tacito accordo. La tensione crebbe e tutti gli sguardi si puntarono sul commissaire-priseur che arretrò di un passo sotto il lampadario, tant'è che la sua fronte splendette grazie alla luce particolare dell'ufficialità. Era arrivato il turno del pezzo principale della licitazione, un gigantesco vaso che l'imperatore della Cina aveva inviato come presente al re di Francia con un'ambasceria ma che, come molte altre cose, aveva misteriosamente preso il volo da Versailles durante la Rivoluzione. Quattro inservienti in livrea alzarono il prezioso oggetto - bordo arrotondato bianco con venature azzurre - posandolo sul tavolo con particolare cautela ma nel medesimo tempo con intenzione dimostrativa. Il commissario d'asta, schiaritosi solennemente la gola, annunciò il prezzo di base: «Centotrentamila franchi! Centotrentamila franchi!» Un riverente silenzio rispose alla cifra santificata da molti zeri. Nessuno osò fare subito una controfferta, nessuno osò parlare o solo spostare un piede: la massa umana, assiepata e incuneata senza lasciar libero il benché minimo interstizio, formò un unico blocco irrigidito dal rispetto. Finalmente, dopo un po', un piccolo signore canuto, all'estremità sinistra del tavolo, sollevò la testa e veloce, con un fil di voce e impacciato, disse: «Centrotrentacinquemila franchi», al che il commissaire-priseur gli rilanciò risoluto: «Centoquarantamila». Ebbe inizio un gioco eccitante: il rappresentante di una grande casa d'aste americana si limitava ad alzare un dito - a quel segno, come in un orologio elettrico, la cifra saliva subito di cinquemila franchi - e, dall'altra estremità del tavolo, il segretario personale di un noto collezionista (si bisbigliava il nome) raddoppiava la posta. Gradualmente- l'asta si trasformò in un dialogo tra i due che sedevano di fronte in diagonale ed evitavano caparbiamente di guardarsi: entrambi indirizzavano le loro comunicazioni soltanto al commissaire-priseur, il quale le riceveva con evidente soddisfazione. Alla fine, quando si era ormai a duecentosessantamila, l'americano non alzò più il dito; la cifra annunciata penzolò vuota nell'aria come un suono che si fosse congelato. La tensione crebbe. Il commissario ripeté quattro volte: «Duecentosessantamila... duecentosessantamila», e, alla maniera dei falchi quando si alzano in volo per catturare la preda, lanciò in alto la cifra. Quindi attese, guardò a destra e a sinistra tirato e leggermente deluso (gli sarebbe piaciuto continuare a giocare!): «Nessuno offre di più?» Silenzio, un lungo silenzio. «Nessuno offre di più?» La domanda suonò disperata. Il silenzio cominciò a vibrare, come la corda afona di uno strumento. Il martello si sollevò lentamente. In quell'istante trecento cuori si fermarono. «Duecentosessantamila e uno... e due... e...» Come un macigno il silenzio si posò sopra la sala ammutolita. Nessuno respirò più. Il commissario alzò il martelletto di avorio sulla folla muta. Minacciò per la seconda volta: «J'adjuge.» Nulla, neanche una risposta. E poi disse: «...e tre». Il martello cadde con un colpo secco e cattivo. Basta! Duecentosessantamila franchi! Il muro umano ondeggiò e a quel piccolo colpo secco si sgretolò, lasciando riapparire le singole facce vive. Tutti si agitarono, respirarono, gridarono, gemettero, si raschiarono la gola. La folla compatta, come un solo corpo, si mosse e si distese in un'onda irrequieta, come sospinta da un solo urto che si perpetuasse all'infinito. L'urto arrivò fino a me, più esattamente da un gomito sconosciuto che mi colpì in pieno petto. Nello stesso istante qualcuno sussurrò: «Pardon, Monsieur». Sobbalzai. Quella voce! Miracolo, era lui, lo scomparso a lungo cercato. L'ondata, che aveva alleggerito la tensione, lo aveva travolto spingendolo fino a me per una coincidenza fortunata. Grazie a Dio, lo avevo di nuovo vicinissimo, adesso lo potevo finalmente sorvegliare e proteggere. Va da sé che mi guardai bene dal fissarlo; mi limitai a lanciargli una mezza occhiata non tanto per vedere la sua faccia quanto per scrutare le mani, lo strumento del suo lavoro. Le sue mani, però, erano stranamente scomparse: si era stretto le maniche del cappottino contro il corpo e, come le persone freddolose (me ne accorsi dopo poco), aveva ritratto le dita al riparo dei polsi in modo che diventassero invisibili. Perciò, se ora pensava di palpeggiare una vittima, la vittima non avrebbe avvertito altro che il casuale sfregamento di una stoffa morbida e innocua. La mano pronta al colpo era nascosta dalla manica come l'artiglio all'interno della vellutata zampa del felino. Idea eccellente, dissi ammirato. Usando parecchia cautela ma volendo conoscere chi avesse intorno, notai un signore segaligno, perfettamente abbottonato alla sua destra, e un secondo con spalle larghe, inespugnabili, sicché dedussi che non avrebbe avuto successo con nessuno dei due. Ma, avvertendo una lieve pressione sul ginocchio, rimasi come fulminato dal sospetto che quell'assaggio fosse destinato a me. Un brivido gelido mi fece trasalire. Allora sei così stupido da tentare con la sola persona che ti conosce in questa sala e sa tutto di te e io dovrei provare sul mio stesso corpo che cosa sai fare? Mi mancava solo quest'ultima lezione, indubbiamente la più sconvolgente! Senonché era vero. Pareva che lo sventurato avesse scelto proprio me, il suo doppio spirituale, l'unico che ormai conoscesse a fondo il suo mestiere. Non c'erano dubbi: la prossima vittima ero io, non dovevo illudermi oltre. La certezza era inequivocabile: sentivo già il gomito vicino premermi leggermente il fianco e la manica con la mano nascosta avanzare a palmo a palmo decisa a giungere, al primo segno di irrequietudine della folla, probabilmente tra la giacca e il gilè per l'affondo finale velocissimo. In effetti, mi sarei potuto ancora difendere con un piccolo movimento di contrasto, mi sarebbe bastato girarmi da un lato o allacciare la giucca, ma stranamente non ne ebbi la forza: tutto il mio corpo era ipnotizzato dall'inquietudine e dall'attesa, ogni nervo, ogni muscolo era bloccato, anzi congelato. Mentre aspettavo, paralizzato dall'eccitazione assurda, pensai a quanto avessi nel portafogli e, intanto che pensavo al portafogli, ne sentii (perché ogni parte del nostro corpo si sensibilizza non appena si pensi a essa; capita con un dente, con un alluce, un nervo) la pressione ancora calda e pacata contro il petto. Il portafogli era dunque temporaneamente al suo posto e, essendo preparato, ero in grado di sostenere l'aggressione. Non c'era ragione di preoccuparsi. Ma, ed era stranissimo, non sapevo se desiderassi o no quell'evenienza. Ero completamente sconvolto e quasi a pezzi. Per un verso, infatti, mi auguravo, per lui, che il folle rinunciasse staccandosi da me, per altro verso, con la stessa terribile tensione che assale dal dentista quando il trapano si sta avvicinando al punto dolente, attendevo la prova della sua arte, l'affondo decisivo. Ma, quasi che mi volesse punire per la mia curiosità, egli non si affrettò: continuò a fermarsi, tuttavia sempre all'erta. Con circospezione si spingeva in avanti, a palmo a palmo, e, benché i miei sensi fossero come catalizzati dal contatto insistente, grazie a un altro senso udivo nitidamente le offerte in crescendo provenienti dal tavolo dell'asta: «Tremilasettecentocinquanta... nessuno offre di più? Tremilasettecentosessanta... settecentosettanta... ottanta... nessuno offre di più? Nessuno offre di più?» Allora il martello si abbassò e, dopo il colpo, si ripeté l'urto leggero che percorse la folla rilassandola; nello stesso momento sentii l'ondata avvicinarsi. L'attacco non era reale, piuttosto somigliava allo strisciare del serpente, un alito fisico che scivolasse lieve e rapido. (Non lo avrei mai percepito se la mia curiosità non si fosse appostata in quel luogo rischioso.) Solo una piega, prodotta da una ventata casuale, increspò il mio cappotto: percepii quasi il delicato passaggio di un uccello e... E all'improvviso accadde ciò che non mi sarei aspettato: la mia mano si era spostata di scatto dal basso in alto e aveva afferrato la mano sconosciuta sotto la giacca. Non avevo mai progettato una difesa tanto brutale. Fu il riflesso istintivo dei muscoli a determinarne il movimento, che colse di sorpresa anche me, per puro istinto di difesa la mia mano era automaticamente scattata verso l'alto e ne ero meravigliato e atterrito. Il mio pugno stringeva il polso di una mano fredda e tremante. Non era questo ciò che avevo voluto. Non posso descrivere quel secondo. Ero paralizzato dallo spavento e, sorprendentemente, trattenevo con forza un pezzo di carne viva e fredda di un essere sconosciuto, altrettanto impietrito. Non avevo la forza e la presenza di spirito di lasciar libera la sua mano; ma neanche lui aveva il coraggio e la presenza di spirito di toglierla. «Quattrocentocinquanta... quattrocentosessanta... quattrocentosettanta», cantava a squarciagola lassù il commissaire-priseur in tono patetico. Continuavo a tenere saldamente la mano ladresca percorsa da brividi gelidi. «Quattrocentottanta... quattrocentonovanta...» Nessuno si era ancora accorto di che cosa stesse accadendo fra noi due, nessuno intuiva che fra due uomini si era stabilita una mostruosa, fatidica tensione; una lotta indicibile era in pieno svolgimento solo tra noi due, solo tra i nostri nervi paurosamente tesi. «Cinquecento... cinquecentodieci... cinquecentoventi...» I numeri erompevano sempre più rapidi, «cinquecentotrenta... cinquecentoquaranta... cinquecentocinquanta...» Il tutto non era durato più di dieci secondi. Mi ritornò il respiro e rilasciai la mano ignota che, immediatamente, scivolò all'indietro e sparì nella manica del cappottino giallo. «Cinquecentosessanta... cinquecentosettanta... cinquecentottanta... seicento... seicentodieci...» Lo strepito proseguì, e noi eravamo sempre vicini, complici di un misterioso reato, entrambi irretiti dalla medesima esperienza. Percepivo tuttora il suo corpo caldissimo aderente al mio e, allorché mi tremarono le ginocchia in seguito al cedimento della tensione, sentii che il medesimo lieve fremito aveva contagiato le sue. «Seicentoventi... trenta... quaranta... cinquanta... sessanta... settanta...» Eravamo sempre lì, incatenati insieme entro lo stesso cerchio gelido dell'orrore. Trovai la forza di girare almeno la testa e guardai dalla sua parte. Simultaneamente anch'egli mi guardò. Intercettai il suo sguardo. Pietà, pietà! Non mi denunciare! sembravano supplicare i piccoli occhi acquosi. L'infinita paura della sua anima schiacciata, la paura ancestrale della creatura terrestre scaturì dalle pupille rotonde e la barbetta prese a tremare risucchiata dalla bufera del raccapriccio. Non scorsi altro che gli occhi sbarrati. Il volto dietro di essi si era dissolto in un'espressione spaventata quale non avevo mai visto in un uomo né vidi mai più. Mi vergognai di avere causato quel suo sguardo supplice da schiavo, da animale, come se avessi avuto potere di vita e di morte. Egli aveva capito. Sapeva che non lo avrei mai denunciato. La sicurezza gli ridiede la forza: dandosi una leggera spinta, piegò il corpo da un lato per allontanarsi. Sentii che voleva staccarsi da me per sempre. Prima mi si liberò il ginocchio pressato dal suo, poi il mio braccio ebbe la sensazione che il calore diminuisse all'interruzione del contatto e repentinamente - insieme con la percezione di essere stato privato di un qualcosa che mi appartenesse - mi avvidi che il posto vicino a me era vuoto. Il mio compagno di sventura aveva tolto il disturbo tuffandosi come un palombaro. Di prim'acchito provai un senso di sollievo alla sensazione di avere nuovamente un po' d'aria intorno, ma nell'istante successivo trasalii: che cosa avrebbe fatto, povero com'era? Ma gli occorrevano dei soldi e io, suo complice mio malgrado, gli dovevo almeno un grazie per quelle ore avvincenti, non potevo non aiutarlo. Di corsa mi buttai all'inseguimento. Maledizione! Lo sventurato fraintese le mie buone intenzioni. Mi temette scorgendomi in cima al corridoio. Prima che potessi lanciargli un segnale che lo tranquillizzasse, il soprabito giallo canarino svolazzava già scendendo le scale. Mentre egli optava per l'inaccessibilità della strada invasa dalla marea umana, il mio apprendistato terminava insospettabilmente così com'era iniziato. Postfazione del curatore dell'edizione originale «La poesia mi ricorda il processo dello sviluppo delle fotografie: prima viene la lastra vuota, poi applichiamo un velo di linee e tutto diviene più chiaro, visibile e nitido.» La riproduzione così ottenuta di un mondo realmente visto in una nuova dimensione porta spesso alla luce dettagli di cui non si è tenuto conto, ma soprattutto restituisce integralmente l'impressione complessiva, il che non è scontato in linea di principio qualora ci si concentri su particolari singoli. I testi del presente volume - il quale affronta una nuova organizzazione della narrativa di Stefan Zweig, compresi gli inediti - ruotano intorno a un unico tema: l'illustrazione di precisi frammenti della vita, dall'esperienza del dodicenne a quella dello studente o dell'uomo ormai maturo sia professionalmente sia psicologicamente. Fanno da sfondo tanto la città quanto la provincia. Concetti quali la gelosia, la nostalgia, la curiosità o lo spirito di avventura stendono una specie di reticolo grossolano sui racconti, ora raccolti in volume, i quali costituiscono in effetti studi psicologico-letterari, per quanto non escludano l'esperienza soggettiva dell'autore; sarebbe d'altro canto sicuramente scorretto cercare, di volta in volta, il corrispettivo nella biografia di Stefan Zweig. Nondimeno questo o quel riscontro può condurre a una comprensione più attiva e fors'anche perfino più personale dei testi, non da ultimo perché l'entusiasmo che lo scrittore manifesta nello scrivere coinvolge in prima persona i lettori. La valutazione estetica, riportata in apertura, fu scritta da Stefan Zweig all'inizio del 1911 in una lettera all'amico Paul Zech. Il 1911 fu l'anno in cui venne pubblicata la seconda raccolta di prose Prima esperienza di vita, considerata dallo stesso Zech, nella sua recensione, una testimonianza delle capacità ormai raggiunte e un «tutto perfettamente omogeneo». Nella raccolta era compreso Bruciante segreto ripubblicato nel 1914 in edizione singola da Insel Verlag, che, presumibilmente, fece conoscere Zweig a un pubblico più vasto. Grazie all'intensità della descrizione di un sentire infantile per l'appunto in un'età in cui il fanciullo non desidera altro che il riconoscimento da parte degli adulti, il lettore ricorda le proprie esperienze nella stessa fase dell'evoluzione psicologica. Zweig trasmette questa sensibilità in maniera suggestiva proprio perché, a sua volta, rammenta la peculiare atmosfera della casa paterna, così ricca di esigenze sociali e pervasa dall'inconfondibile aura fin de siècle. Zweig - e fu lui stesso a scriverlo già allora - non è Edgar e tuttavia Edgar deve superare identiche lotte interiori, o sé non altro affini, a quelle che lo scrittore dovette a suo tempo superare. Provò analoghe emozioni anche Rainer Maria Rilke che «elogiò molto» questo racconto, come Zweig annota nel diario nel 1913. Vent'anni più tardi invece, nel 1933, quando «ebbe inizio un periodo orribile», ma «forse migliore di quello che verrà» (Stefan Zweig alla moglie Friderike), si cominciò ad associare a Bruciante segreto una ben diversa realtà fattuale. Robert Siodmak, per esempio, aveva tratto «liberamente dalla novella di Stefan Zweig» il film omonimo con Willi Forst: la pellicola fu proiettata nei cinematografi berlinesi nel gennaio del 1933 ma il 27 febbraio, il giorno dell'incendio del Reichstag, i cartelloni pubblicitari vennero tolti in fretta e furia e poco tempo dopo fu vietata la proiezione del film nei locali pubblici. In una lettera non datata a Joseph Roth, presumibilmente dell'agosto 1934, Stefan Zweig menziona che tutte le copie del racconto esistenti in commercio un'edizione aveva raggiunto 170.000 copie - furono confiscate perché con lo stesso titolo circolava un pamphlet comunista. In Germania Bruciante segreto fu ristampato solo nel 1954 e diede il titolo a una nuova raccolta di prose brevi. Lo scrittore austriaco Franz Theodor Csokor, appena finì di leggere Bruciante segreto, confessò all'amico Stefan Zweig che, dopo Sturmische Morgen (Mattino tempestoso) di Heinrich Mann, «nessun'altra opera sull'oscura e pericolosa età puberale lo aveva mai avvinto con tale forza». Quanto sia difficile uscire da questa fase evolutiva, anzi liberarsene, lo esemplifica il racconto Scarlattina, scritto nell'estate del 1902, quando l'autore si era trasferito per un semestre a Berlino, dove aveva continuato gli studi di filosofia e storia della letteratura iniziati a Vienna. Nella capitale della Germania conobbe la bohème della vita studentesca, ma nel racconto proiettò l'esperienza nella sua città natale, per l'esattezza nel quartiere dove aveva vissuto da studente. E ipotizzabile che, nella prima settimana a contatto con il nuovo clima berlinese, Zweig si sia sentito un provinciale come il suo Bertold Berger. Qualche tempo dopo la stesura, non tutto lo persuase del nuovo racconto, anzi si suppone che lo ritenesse troppo «privato». Lo testimonia un passo di una lettera a Hermann Hesse del dicembre 1903: «Una mia novella è stata accettata dalla Neue Freie Presse e da un anno e mezzo aspetta di essere stampata. Non è però una cosa per il pubblico». Il carattere intimo e biografico di Scarlattina fu probabilmente una delle ragioni per le quali il testo non venne compreso in uno dei successivi volumi di racconti scelti da Zweig stesso; comunque nel 1908 lo cedette alla rivista Osterreichische Rundschau. La donna che più tardi sarebbe diventata sua moglie fu invece di tutt'altro parere. Lesse la novella nel giugno del 1913 - i due si conoscevano da quasi un anno - «con mille occhi e tutta la mia anima», e espresse questo giudizio: «L'inizio, la seconda parte dell'inizio, non è forse abbastanza vivace. Il tuo attuale ritmo riuscirebbe forse a risolvere meglio questa indubbia pesantezza. Ma, guarda, proprio per la bellezza del finale (ineguagliabile la soluzione di far sì che il ragazzo 'riceva' la morte dalle labbra della donna amata!) non puoi lasciare la novella nel tuo cassetto ad ammuffire finché la pubblicheranno». Il dato autobiografico confluisce sempre in qualche modo nella narrazione, consapevolmente o inconsapevolmente. In Lettera di una sconosciuta i riferimenti all'autore sono palesi, anzi «più chiari, più visibili e netti». Quando riceve la lettera, il romanziere R. ha la stessa età di Zweig nel periodo in cui scrive la novella, cioè quarantun anni, ma altre circostanze esteriori li accomunano: il fatto che l'appartamento sia situato a un piano abbastanza alto di una grande casa in affitto (nel 1911-12 - in questi anni è ambientata la vicenda - Zweig abitava a Vienna nell'VIII distretto, Kochgasse-8, secondo piano); il maggiordomo, anche i nomi non coincidono (il domestico di Zweig si chiamava Josef, non Johann); i frequenti viaggi che portano entrambi a considerare l'alloggio un pied-à-terre piuttosto che un'abitazione fissa, per quanto la dotino di tutti i comfort, e che in un certo senso legittimano la stima da parte degli inquilini per i personaggi dello stesso condominio con una professione inconsueta e personali abitudini di vita. Al di là di queste coincidenze, Lettera di una sconosciuta è uno specchio critico ma non negativo del carattere di Zweig, visto retrospettivamente. Come Donald Prater si domanda nella sua biografia, dietro la trama narrativa potrebbe celarsi la reminiscenza del modo in cui lo scrittore conobbe la futura moglie: Friderike, nel luglio del 1912, gli scrisse, come peraltro facevano parecchie sue ammiratrici (lo stesso accade anche al romanziere R.) senza tuttavia rivelare il proprio nome, incitando a risponderle «nel caso in cui la cosa le facesse piacere» (ma, a differenza della sconosciuta, Friderike aveva solo un anno meno di Zweig). Inoltre, nei primi tempi della loro amicizia la figlia di primo letto di Friderike - al riguardo non c'è concordanza si ammalò gravemente di polmonite, ma nel complesso la relazione ha sicuramente suggerito alcune associazioni che poi hanno seguito «linee» proprie. La sconosciuta, per esempio, menziona l'esperienza che Friderike fece durante la sua convivenza con Zweig e dice espressamente: «Anche l'uomo che amavo era sempre in viaggio». Dopo la morte di Zweig, nel 1947, un critico scrisse in occasione della prima edizione di Impazienza del cuore avvenuta nell'immediato secondo dopoguerra: «...non si libera mai dall'erotismo e dall'erotomania che seducono magneticamente chi cerca la psiche e la interpreta», definendo un motivo sempre ricorrente nella sua opera. Nella novella Primavera al Prater (1900), una delle prime a essere stata pubblicata, a quanto ci è dato sapere, il dato erotico compare subito nelle prime fasi ed è implicito nella stessa posizione sociale della signorina, che dispone per l'appunto di un «boudoir», mentre nel racconto di poco posteriore, Due anime sole, esso viene rovesciato nella compassione per quanti sono derubati della bellezza dalla natura; il motivo dello svantaggio fisico ritorna, nel 1938, in Impazienza del cuore. Non è facile seguire nei dettagli in che misura le esperienze soggettive dell'autore abbiano -influito sulla genesi dei personaggi e delle «storie» di questi due racconti. La medesima considerazione vale anche per Resistenza della realtà, racconto inedito pubblicato per la prima volta nella presente raccolta. Sicuramente fu concepito nel marzo del 1924, nel periodo in cui Stefan Zweig lavorava al saggio su Hòlderlin per il volume la lotta col demone della serie «costruttori del mondo»; ne sono una conferma la scelta della città, Francoforte sul Meno, e l'indirizzo, Bockenheimer Landstrasse, dove risiedevano i Gontard, ossia l'holderliniana Diotima; esplicito è anche il riferimento alla professione del poeta che nel racconto viene prestata a Ludwig: anch'egli si è guadagnato da vivere facendo il «precettore e ripetitore» prima di entrare nella fabbrica chimica del consigliere segreto G. Inoltre: «Una soavità tranquillizzante e insieme una serena consapevolezza» emanavano dal volto della signora G., è detto espressamente dopo il primo incontro con il giovane Ludwig. «E una mostruosa forza che Hòlderlin deriva da quella donna: consolazione», scrive sempre Zweig nel saggio sul poeta tedesco, precisando l'impressione che Susette Gontard esercita su di lui. Si suppone che Zweig abbia interrotto a un certo punto la stesura di Resistenza della realtà: conferma l'ipotesi la pubblicazione di una parte del racconto nel 1929 - con il titolo Fragmentaus einer Novelle (Frammento di una novella) in Das Buch des Gesamtverbandes schaffender Kunstler Osterreichs - dove l'incontro della coppia dopo nove anni di lontananza è ambientato nel 1933 quando, a Heidelberg, marciano uomini in divisa militare... che «reggono gigantesche bandiere perfettamente verticali, sventolando teste da morto, croci uncinate e antichi vessilli imperiali»... La crescente inquietudine politica in Europa in seguito all'avvento al potere dei fascisti in Italia e dei nazionalsocialisti in Germania costringe Stefan Zweig a lasciare Salisburgo nel 1933 e a considerare seriamente l'ipotesi di espatriare. «Se penso al luogo che meglio ti si adatti, dico l'Inghilterra», gli aveva consigliato l'amico di gioventù, Camill Hoffmann. In effetti, la mentalità della gente dell'isola gli piaceva e si recò varie volte in Gran Bretagna, anche con Friderike, ma si stabilì definitivamente a Londra da solo nel 1935. Nel luglio del 1939 traslocò a Bath insieme a Lotte Altmann, che diventerà più tardi la sua seconda moglie. Bath è lo scenario paesistico di Era lui? Fino a quel momento gli animali non avevano mai trovato posto nei suoi racconti. «In realtà Zweig non era un amico degli animali anche se amava molto il suo pastore tedesco Rolf», precisa Donald Prater. L'esperienza del rapporto cane-padrone si deposita, nella cornice narrativa, in quello tra John Charleston Limpley e Ponto presumibilmente negli anni 1940-1941. Nell'ottobre del 1920 - Rolf era stato appena acquistato Zweig, impegnato in un giro di conferenze in Germania, non dimenticava quasi mai di aggiungere un saluto per l'animale quando scriveva alla famiglia: «Salutami la casa, la bambina e il cane», «Saluta Suse e Rolf», e in una lettera si legge perfino: «Salutami Suse ma solo se dà diligentemente da mangiare a mio figlio Rolf». La simpatia per il pastore era presente nel suo ricordo quando lavorò alla stesura della novella e si rinnovò anche per lo spaniel Kaspar, per quanto talvolta si sentisse infastidito da una certa «invadenza» (A Friderike Zweig); questa razza di cane trova una propria collocazione letteraria in Un uomo che non si dimentica. Per il sessantesimo compleanno, nel 1941 a Petropolis, gli fu regalato un fox-terrier, per «rasserenare un po' la sua solitudine»; in una lettera lo scrittore stesso precisa che «un animale è comunque un buon succedaneo in tempi in cui l'umanità diviene ripugnante» (29 novembre 1941 a Friderike Zweig). Ci furono tuttavia anche periodi nei quali lo scrittore si sentiva bene fra la gente, soprattutto quando poteva muoversi liberamente senza essere importunato. In questi casi amava addirittura osservare la folla, fissarne l'immagine e i comportamenti come se avesse avuto in mano una macchina fotografica, e si divertiva perfino a seguire un amico in una passeggiata per le strade di Parigi, come accade in Conoscenza imprevista di un'arte. Nei Ricordi a Emile Verhaeren scrive: «Lo riconoscevo già a una strada di distanza... preferivo però, stranamente curioso e teso, spiarlo prima per tutta la sua camminata. Si fermava davanti ai bouquinistes, sfogliava i libri, proseguiva, si arrestava di nuovo davanti all'imbarcadero... ogni dettaglio lo interessava. Per una mezz'ora soggiaceva allo straordinario fanatismo dell'interesse che nutriva sia per le cose animate sia per quelle inanimate. Poi riprendeva a camminare e, superato il ponte, si spingeva fino ai boulevard. Solo allora gli rivolgevo la parola. Rideva quando gli confessavo che lo avevo osservato...» Entrambi sapevano quanto fosse importante serbare l'impressione dell'attimo per convertirlo in poesia al momento debito e averlo a disposizione «per il pubblico» - uno dei grandi misteri della creazione artistica. Knut Beck Note bibliografiche Bruciante segreto: pubblicata per la prima volta in Erstes Erlebnis. Vier Geschichten aus Kinderland (Prima esperienza di vita. Quattro storie del paese dell'infanzia), Insel-Verlag, Lipsia 1911. Prima edizione singola Insel-Verlag, Lipsia 1913. Scarlattina: pubblicata per la prima volta su Osterreichische Rundschau, Vienna, Anno XV, n. 5, 1° maggio 1908, pp. 336-356 e n. 6, 15 giugno 1908, pp. 415-432. Lettera di una sconosciuta: pubblicata per la prima volta su Neue Freie Presse, Vienna, 1° gennaio 1922, poi in Amok. Novellen einer Leidenschaft (Amok. Novelle di una passione), Insel-Verlag, Lipsia 1922. Prima edizione singola, Lehmannsche Verlagshandlung, Dresda 1922 (facsimile del secondo manoscritto). Primavera al Prater: pubblicata per la prima volta su Stimmen der Gegenwart, rivista mensile di letteratura moderna e critica, Eberswalde, Anno I, n. 7, ottobre 1900, pp. 121126, e n. 8, novembre 1900, pp. 146-151. Due anime sole: pubblicata per la prima volta su Stimmen der Gegenwart, idem, Anno II, n. 12, novembre 1901, pp. 330-332. Resistenza della realtà: pubblicata per la prima volta in Praterfruhling, S. Fischer Verlag GmbH, Francoforte 1987. Pubblicazione parziale con il titolo Fragment einer Novelle (Frammento di una novella), Das Buch des Gesamtverbandes schaffender Kiinstler Osterreichs, Vienna, Anno I (1929) e con varianti minime, a cura di E. Fitzbauer per le edizioni della Stefan-ZweigGesellschaft, Vienna 1961 (edizione singola con litografie di Hans Fronius, 500 copie numerate). Era lui?: pubblicata per la prima volta in Praterfruhlìng, S. Fischer Verlag GmbH, Francoforte 1987. In lingua portoghese (traduzione di O. Galloti e E. Davidovich) con il titolo Seria elei in As Très Paioes. Très Novelas de Stefan Zweig, Rio de Janeiro. Prima edizione in lingua italiana nel presente volume. Un uomo che non si dimentica: pubblicata per la prima volta in lingua inglese con il titolo Anton, Friend of All the World. The Most Unforgettable Character I Ever Met su The Reader's Digest, New York, vol. 35, n. 210, ottobre 1939, pp. 6972. Una pubblicazione, abbreviata di un capoverso, non è stata identificata, mentre un frammento del racconto, probabilmente una pagina di antologia, è stato ritrovato negli scritti postumi e pubblicato in Das Stefan Zweig Buch, S. Fischer Verlag GmbH, Francoforte 1981, pp. 82-86. Il testo riprodotto nel presente volume è la traduzione del brano omonimo pubblicato in Praterfrühling, S. Fischer Verlag GmbH, Francoforte 1987, che a sua volta si attiene a Das Beste aus Reader's Digest (II meglio di Reader's Digest), Stoccarda, Anno I, novembre 1948, pp. 50-54. Conoscenza imprevista di un'arte, pubblicata per la prima volta su Neue Freie Presse, Vienna, 20 maggio 1934. Compreso in Kaleidoskop, Herbert Reichner Verlag, Vienna, Lipsia, Zurigo 1937, pp. 7-45.320
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