Lettera di una sconosciuta

STEFAN ZWEIG
Lettera di una
sconosciuta
FRASSINELLI
Lettera di una sconosciuta
Titolo originale Brief einer Unbekannten
© 1922 Stefan Zweig
© 1987 S. Fischer Verlag GmbH, Frankfurt am Main
© 1993 Edizioni Frassinelli
Collana Le opere di Stefan Zweig
ISBN 8876842578
Scansione di Serenella
I racconti Bruciante segreto e Scarlattina sono stati tradotti
da Emilio Picco, tutti gli altri da Luisa Coeta
Indice
Note di copertina...................................................................................................5
1 - Bruciante segreto..............................................................................................6
2 - Scarlattina.......................................................................................................51
3 - Lettera di una sconosciuta..............................................................................91
4 - Primavera al Prater.......................................................................................117
5 - Due anime sole.............................................................................................127
6 - Resistenza della realtà..................................................................................130
7 - Era lui?.........................................................................................................161
8 - Un uomo che non si dimentica.....................................................................185
9 - Conoscenza imprevista di un'arte.................................................................189
Postfazione del curatore dell'edizione originale................................................215
Note bibliografiche............................................................................................220
Note di copertina
In questi nove racconti Zweig adopera, come tecnica d'approccio ai
personaggi e al loro vissuto individuale, uno psicologismo agganciato in
maniera del tutto personale alla rivoluzione Freudiana del primo Novecento.
Lo scrittore penetra le passioni "monomaniacali" divoranti, che talora
portano alla sublimazione nella morte in una società che ha il tabù del sesso
e quindi è incline al fascino rapinoso del proibito.
Stefan Zweig nacque a Vienna nel 1881. Fra i protagonisti della cultura europea
dei primi decenni del secolo, ne impersonò lo spirito cosmopolita e la fiducia in un
mondo fondato su valori intellettuali e sulla comprensione fra le genti.
Nel 1940 si rifugiò in esilio negli Stati Uniti e poi in Brasile, dove si suicidò nel
1942, insieme alla giovane seconda moglie, non volendo sopravvivere alla
distruzione dell'Europa e al dilagare della barbarie nazista.
1 - Bruciante segreto
Il partner
La locomotiva diede un fischio rauco: era giunta al Semmering. Per un
minuto le carrozze nere sostarono nella luce argentea della sommità,
scaricando alcune persone di vario aspetto, fagocitandone altre, un
incrociarsi di voci stizzose, poi in testa fischiò di nuovo la macchina rauca e
sferragliando trascinò giù nella cavità del tunnel il suo codazzo nero.
Nitidamente squadernata, con sfondi trasparenti, ripuliti dal vento umido,
tornò a presentarsi la distesa del paesaggio.
Uno degli arrivati, giovane, che si distingueva simpaticamente per
l'abbigliamento di buona fattura e per una elasticità naturale del passo,
precedendo rapido gli altri, prese una carrozzella alla volta dell'albergo.
Senza fretta i cavalli macinavano la strada in salita.
C'era primavera nell'aria. Nel cielo trascorrevano quelle nuvole bianche,
inquiete, che solo maggio e giugno hanno, bianchi compari, giovani anche
loro e volubili, in corsa giocosa per la pista azzurra, improvvisamente
celandosi dietro alte montagne, si abbracciano e si sfuggono, ora
appallottolandosi come fazzoletti, ora sfrangiando a strisce e infine mettendo
per burla bianche berrette alle cime. Inquieto era anche, sopra, il vento che
scuoteva furioso gli alberi magri, ancora umidi di pioggia, tanto che
scricchiolavano piano nelle giunture e schizzavano intorno mille gocce come
scintille. A tratti pareva anche giungere fresco dai monti il profumo della neve,
e allora nel respiro si sentiva qualcosa che era insieme dolce e pungente.
Nell'aria e in terra era tutto un movimento, un fermentare impaziente.
Stronfiando appena, i cavalli trottavano di lena sulla strada adesso in discesa,
lo strepitio dei campanelli li precedeva di un pezzo.
In albergo, per prima cosa, il giovane andò a consultare la lista degli ospiti,
che scorse con rapida delusione. Mi chiedo che cosa ci faccio qui, si sentì
domandare dentro inquieto. Stare da solo qui in montagna, senza
compagnia, è peggio che l'ufficio. Evidentemente sono arrivato troppo presto
o troppo tardi. Non ho mai fortuna con le mie vacanze. Non c'è neppure un
nome conosciuto tra tutta questa gente. Se almeno ci fosse qualche donna,
un piccolo flirt, magari anche innocuo, per non trascorrere in modo troppo
triste questa settimana. Il giovane, barone di non molto illustre baronia
funzionariale austriaca, impiegato presso il governatorato, si era preso quella
piccola vacanza senza voglia alcuna, unicamente perché i suoi colleghi
avevano strappato una settimana in primavera e lui non voleva regalare la
sua all'ufficio.
Sebbene non privo di qualità interiori, era un tipo molto socievole e come
tale benvoluto, ben visto in tutti gli ambienti e perfettamente conscio della
propria incapacità di stare solo. Non aveva alcuna inclinazione a confrontarsi
in solitudine con se stesso e schivava il più possibile simili situazioni, perché
non ci teneva affatto a entrare in più intima dimestichezza con la propria
persona. Sapeva che aveva bisogno di sfregarsi alla gente, per dare esca ai
suoi talenti, al calore e all'euforia del suo cuore, mentre da solo era frigido e
inutile a se stesso come un fiammifero nella scatola.
Si aggirò contrariato avanti e indietro per la hall deserta, ora sfogliando
distrattamente un giornale, ora accennando nella sala della musica un valzer
al pianoforte, ma non gli veniva bene il ritmo nelle dita. Alla fine si sedette
annoiato, guardando fuori l'oscurità calare lentamente, la nebbia sprigionarsi
grigia come vapore dalle abetaie.
Ammazzò un'ora così, senza costrutto e nervosamente. Poi si rifugiò nella
sala da pranzo. Là erano occupati solo alcuni tavoli, che passò in rassegna
tutti con un'occhiata veloce. Invano! Nessun conoscente, soltanto là - rispose
con indolenza al saluto - un allenatore, e là una faccia intravista alla
Ringstrasse, e basta. Nessuna donna, nulla che promettesse qualche
avventura, sia pure fugace. Il suo malumore divenne più impaziente. Era uno
di quei giovani favoriti nel successo da una faccia bellina e quindi sempre
pronti per un nuovo incontro, per un'altra esperienza, sempre tesi a tuffarsi
nell'ignoto di un'avventura, mai sorpresi da nulla, perché oculatamente hanno
calcolato tutto, non disposti a trascurare alcunché di erotico, perché già al
primo sguardo cercano in ogni donna l'aspetto sensuale, come per saggiare
e senza fare differenza tra la moglie dell'amico e la cameriera che apre la
porta per accedere a quella. Quando, con un certo sommario disprezzo, gli
uomini del genere vengono definiti cacciatori di donne, non ci si rende conto
di quanta perspicace verità sia racchiusa in questa parola, perché in effetti
tutti gli istinti passionali della caccia, lo scovare, l'eccitazione e la crudeltà
interiore guizzano nell'incessante destrezza di questi individui. Sono
costantemente alla posta, sempre pronti e decisi a seguire le tracce di
un'avventura fino all'orlo dell'abisso.
Sono sempre carichi di passionalità, una passionalità che non è quella di
chi ama, ma la passionalità del giocatore, fredda, calcolatrice e pericolosa.
Tra loro ci sono i pervicaci, per i quali, assai oltre la giovinezza, l'intera
esistenza diventa un'eterna avventura, in virtù di questa attesa, e la singola
giornata si scompone in cento piccole esperienze sensuali - e l'anno a sua
volta in cento di queste giornate, e l'esperienza sensuale è fonte di vita, che
scorre e nutre e stimola perennemente.
Lì non c'erano partner per un gioco, di questo si rese conto subito lui, che
ne era in cerca. E nessuna irritazione è più seccante di quella del giocatore
che con le carte in mano, conscio della sua superiorità, siede al tavolo verde
e aspetta invano il partner. Il barone si fece portare un giornale. Scorse di
malavoglia i testi, ma i suoi pensieri erano fiacchi e incespicavano come
ubriachi dietro alle parole.
Ed ecco alle sue spalle frusciare un vestito, e una voce lievemente irritata
dire con accento affettato: «Mais tais-toi donc, Edgar!»
Al suo tavolo, nel passare, crepitò un abito di seta, alta e prosperosa passò
come un'ombra una figura e dietro a lei, con un vestito di velluto nero, un
ragazzino pallido, che lo sfiorò incuriosito con un'occhiata. I due si
accomodarono di fronte, al tavolo riservato, il bambino visibilmente
preoccupato di un comportamento corretto che pareva in contrasto con la
nera irrequietezza dei suoi occhi. La signora - e solo su lei il giovane barone
aveva appuntato la sua attenzione - era molto distinta e vestita con marcata
eleganza, un tipo, tra l'altro, che a lui piaceva molto, una di quelle ebree
leggermente formose, di età prossima alla piena maturità, chiaramente anche
passionale, ma sagace nel celare il proprio temperamento dietro una signorile
melancolia. Ancora non gli era riuscito di fissarla negli occhi e si limitava ad
ammirare la bella curvatura delle sopracciglia, linea di grande purezza sopra
un naso delicato, indicativo sì della sua etnia, ma tale da conferire, con la sua
forma nobile, nettezza e interesse al profilo. I capelli, come ogni tratto
femminile in quel corpo pieno, erano di un rigoglio straordinario, la sua
bellezza sembrava paga e gloriosa nella sicura consapevolezza dei molti
ammiratori. Ordinò a voce molto bassa, redarguì il ragazzo che faceva
rumore giocando con la forchetta, e ostentava una apparente indifferenza
verso lo sguardo cautamente insidioso del barone, che pareva non notare,
mentre in realtà era solo la vigile attenzione di lui a imporle quella
riservatezza controllata. Il buio nel volto del barone si era illuminato di colpo,
come una frustata sotterranea i nervi si animarono, tendendo le pieghe,
elettrizzando i muscoli, sicché sentì uno scatto in tutto il corpo, e luci gli
balenarono negli occhi. Non dissimile, in questo, dalle donne, alle quali
occorre la presenza di un uomo, per sprigionare da sé tutta la loro potenza.
Solo uno stimolo sensuale era in grado di imprimere alla sua energia il
massimo di forza.
Il cacciatore che era in lui fiutò una preda. Con sfida cercò di captare lo
sguardo di lei, che a volte lo sfiorava con la sfavillante vaghezza dell'incrocio
casuale, ma mai dava apertamente una risposta chiara.
Anche intorno alla bocca credette di avvertire a tratti un che di mosso,
come di un incipiente sorriso, ma tutto questo era incerto, e proprio questa
incertezza lo eccitava. L'unica cosa che gli pareva promettente era quel
continuo scansare lo sguardo, perché indicava al contempo resistenza e
imbarazzo, e poi il modo stranamente compito di conversare con il bambino,
chiaramente mirato a uno spettatore. Proprio la marcata ostentazione di
questa calma segnalava - lui lo sentiva - un principio di inquietudine. Anche
lui era eccitato: il gioco era cominciato.
Prolungò la cena, tenne quasi incessantemente inchiodata con lo sguardo
quella donna per mezz'ora, finché non ebbe percorso e ripercorso ogni tratto
del suo volto, toccato invisibilmente ogni punto del suo corpo prosperoso.
Fuori calava opprimente il buio, i boschi sospiravano di infantile paura,
mentre le grosse nuvole cariche di pioggia brancicavano grigie mani verso di
loro, sempre più fosche le ombre penetravano nella sala, sempre più lì le
persone parevano compresse dal silenzio. Sotto l'incombere di questo
silenzio - lui lo avvertiva - la conversazione tra madre e figlio si era fatta
sempre più forzata, più artificiosa, presto - lo sentiva - sarebbe terminata.
Allora decise di fare una prova. Si alzò per primo e si avviò lentamente alla
porta, contemplando a lungo il paesaggio, senza guardare la donna. Arrivato
alla porta, voltò di scatto la testa, come se avesse dimenticato qualcosa. E la
sorprese, mentre lo seguiva con uno sguardo intenso.
La cosa lo eccitò. Attese nella hall. Lei comparve di lì a poco, tenendo per
mano il bambino, sfogliò, passando, qualche rivista, mostrò al figlio un paio di
illustrazioni. Ma come il barone, quasi per caso, si avvicinò al tavolo,
apparentemente in cerca anche lui di una rivista, in realtà con l'intenzione di
penetrare più a fondo nell'umido baluginare dei suoi occhi, o magari
addirittura di attaccare discorso, lei si distolse, diede un colpetto sulla spalla
al figliolo: «Viens, Edgar! Au lit!» e gli passò accanto freddamente. Un po'
deluso, il barone la seguì con lo sguardo. Veramente aveva contato di fare
conoscenza quella sera stessa, e quei modi bruschi lo delusero. Ma in fondo
quella resistenza era seducente, e proprio l'incertezza accese la sua voglia.
Comunque: aveva trovato il partner, e il gioco poteva cominciare.
Rapida amicizia
Quando il barone la mattina dopo entrò nella hall, vide il bambino della
bella sconosciuta parlare animatamente con i due ragazzi addetti
all'ascensore, ai quali mostrava le illustrazioni di un libro di Karl May. La
madre non c'era, evidentemente era ancora intenta a vestirsi.
Solo ora il barone osservò il ragazzino. Era un ragazzo timido, non
sviluppato, nervoso, di circa dodici anni, con movimenti a scatti e occhi scuri
che saettavano intorno inquieti. Come spesso i bambini a quell'età, aveva
un'aria intimorita, come se lo avessero proprio allora strappato dal sonno e
messo all'improvviso in un ambiente sconosciuto.
Il suo volto non era privo di grazia, ma ancora del tutto incerto, la lotta tra
l'elemento adulto e quello puerile pareva soltanto agli inizi, ancora tutto in
esso era come impastato, privo di forma, nulla configurato a tratti chiari,
solamente commisto in modo vago e inquieto.
Oltre a ciò era giusto nell'età ingrata in cui i bambini sembrano in prestito
nei loro vestiti, con le giunture magre che ballano dentro le maniche e i
calzoni penduti, e nessuna vanità ancora li spinge ad avere cura dell'aspetto
esteriore.
Il ragazzino, nel suo vagare senza costrutto, dava un'impressione piuttosto
penosa. In sostanza era d'impaccio a tutti quanti. Ora lo spingeva da parte il
portiere, che pareva scocciare con ogni sorta di domande, ora disturbava
all'ingresso; evidentemente non trovava nessuno con cui trattenersi
amichevolmente. Per cui, nel suo infantile bisogno di chiacchierare, cercava
di attaccare discorso con il personale dell'albergo, che, quando aveva tempo,
rispondeva, ma subito troncava la conversazione quando spuntava un adulto
o bisognava fare qualcosa di sensato. Il barone osservò sorridendo e con
interesse il povero ragazzo attratto con curiosità da ogni cosa e da tutti
sfuggito con poco garbo.
A un certo punto afferrò saldamente uno di questi sguardi curiosi, ma gli
occhi neri si ritrassero subito intimoriti, come li colse nella loro cerca, e si
nascosero dietro le palpebre abbassate. La cosa divertì il barone. Il ragazzo
cominciava a interessarlo, e si chiese se quel bambino, che evidentemente
era così timido soltanto per paura, non avrebbe potuto fungere da tramite più
breve per un approccio. Comunque, si poteva tentare. Senza dare nell'occhio
seguì il ragazzino, che era uscito un'altra volta davanti all'ingresso e nel suo
infantile bisogno di tenerezza accarezzava le froge rosa di un cavallo bianco,
finché anche lì - proprio non era fortunato - il cocchiere lo redarguì in modo
piuttosto brusco. Offeso e annoiato, tornò a bighellonare con il suo sguardo
vuoto e un po' triste. E a quel punto il barone gli rivolse la parola.
«Allora, giovanotto, ti piace, qui?» attaccò all'improvviso, cercando di dare
all'approccio un tono piuttosto gioviale.
Il ragazzino divenne rosso come il fuoco e guardò su impaurito. Ritrasse la
mano come per timore e si torceva in qua e in là dall'imbarazzo. Era la prima
volta che un signore sconosciuto attaccava discorso con lui.
«Grazie, molto», riuscì a balbettare appena. L'ultima parola uscì più
strozzata che articolata.
«Mi stupisce», disse il barone ridendo, «perché in effetti è un posto
piuttosto loffio, specialmente per un giovanotto della tua fatta. Che cosa ci fai
tutto il giorno?».
Il ragazzo era ancora troppo frastornato, per rispondere rapidamente.
Come era possibile che quell'elegante signore sconosciuto cercasse di
attaccare discorso con lui, che tutti ignoravano? Questo pensiero lo intimidiva
e insieme lo rendeva orgoglioso. A fatica si diede un tono.
«Leggo, e poi facciamo molte passeggiate. A volte andiamo anche in
carrozza, la mamma e io. Sono qui per rimettermi in salute, dopo la malattia
che ho fatto. Perciò devo stare anche molto al sole, ha detto il medico.»
Pronunciò le ultime parole già con una certa sicurezza. I bambini sono
sempre fieri di una malattia, perché sanno che il pericolo li rende
doppiamente preziosi ai loro familiari.
«Già, il sole è senz'altro indicato per un giovanotto come te, e vedrai che ti
abbronzerà come si deve. Però non dovresti startene lì inerte tutto il giorno.
Un ragazzo come te dovrebbe muoversi, sfogarsi e anche pazziare un
tantino. A me pare che tu sia un po' troppo a modino, e poi hai l'aria di un
secchione, con quel tuo grosso libro sotto il braccio.
Se penso che razza di briccone ero alla tua età, ogni giorno tornavo a casa
con i calzoni strappati. Non bisogna proprio essere troppo timorati!»
Istintivamente il ragazzo dovette sorridere, e questo gli tolse la paura.
Avrebbe voluto replicare qualcosa, ma gli pareva troppo sfacciato, troppo
ardito di fronte a quell'amabile signore sconosciuto, che gli parlava tanto
affabilmente. Non era mai stato molto sicuro di sé, anzi piuttosto imbarazzato,
per cui ora, dalla gioia e dalla vergogna, entrò nella confusione più tremenda.
Gli sarebbe veramente piaciuto continuare la conversazione, ma non gli
veniva in mente nulla.
Fortunatamente in quel mentre passò di lì il grosso sanbernardo giallastro
dell'albergo, fiutandoli entrambi e lasciandosi docilmente accarezzare.
«Ti piacciono i cani?» domandò il barone.
«Oh, sì, molto. Mia nonna ne ha uno nella sua villa a Baden, e quando
stiamo lì, mi fa compagnia tutto il giorno. Ma soltanto in estate, quando ci
andiamo in visita.»
«Noi a casa, nella nostra tenuta, ne abbiamo, credo, due dozzine. Se qui
fai il bravo, te ne regalerò uno. Di pelo bruno, con le orecchie bianche, un
cucciolotto. Ti andrebbe?» Il bambino arrossì dalla contentezza.
«Sì, certo», gli scappò detto con passione e desiderio. Ma subito spuntò,
timoroso e come attonito, il dubbio. «Ma la mamma non lo permetterà. Dice
che non vuole cani in casa. Creano troppi fastidi.»
Il barone sorrise. Finalmente il discorso era caduto sulla mamma.
«É così severa la mamma?»
Il ragazzino ci pensò, guardandolo per un istante con aria interrogativa,
incerto se poteva già fidarsi di quel signore sconosciuto. La risposta suonò
cauta. «No, la mamma non è severa.
Adesso, perché sono stato malato, mi concede tutto. Forse mi concederà
persino un cane.»
«Vuoi che glielo chieda?»
«Sì, per piacere, lo faccia», gioì il ragazzo. «Allora la mamma lo permetterà
di certo. E come è fatto il cane? Ha le orecchie bianche, vero? É bravo nel
riporto?»
«Sì, è bravo in tutto.» Al barone venne da sorridere per le scintille ardenti
spuntate così rapidamente negli occhi del bambino. D'un tratto l'imbarazzo
iniziale era rotto, e la passionalità, frenata dal timore, proruppe. In un lampo il
bambino timido e impaurito di prima si era trasformato in un ragazzo
disinibito. Magari fosse così anche la madre, pensò istintivamente il barone,
così calda dietro lo schermo della paura! Ma già il ragazzo lo assaliva con
venti domande: «Come si chiama il cane?»
«Karo.»
«Karo», esultò il bambino. Ogni parola era per lui fonte di riso e di giubilo,
essendo come inebriato dall'inattesa circostanza che qualcuno si occupasse
affabilmente della sua persona. Lo stesso barone era stupito del proprio
rapido successo e decise di battere il ferro finché era caldo. Invitò il ragazzo a
fare due passi in compagnia, e il poveretto, desideroso da settimane di un
piacevole contatto umano, accolse con entusiasmo la proposta. Senza
malizia spifferò tutto quanto il suo nuovo amico cavava da lui con domande
senza peso, in apparenza buttate là casualmente.
Ben presto il barone venne a sapere tutto sulla famiglia e in particolare che
Edgar era l'unico figlio di un avvocato viennese, evidentemente della ricca
borghesia ebraica. E con abili quesiti appurò rapidamente che la madre si era
espressa in termini per nulla lusinghieri sul soggiorno al Semmering,
lamentando la mancanza di una compagnia simpatica; anzi, dal modo
evasivo con cui Edgar rispose alla domanda se la mamma voleva molto bene
al papà, credette di poter arguire che i rapporti fra i due non fossero dei
migliori. Quasi si vergognava della facilità con la quale riusciva a carpire
all'ingenuo ragazzino tutti questi piccoli segreti di famiglia, perché Edgar,
molto fiero che qualcosa dei suoi racconti potesse interessare un adulto,
inondò, per così dire, di confidenze il nuovo amico. Il suo cuore infantile
batteva forte dall'orgoglio - mentre camminavano, il barone gli aveva messo
un braccio sulle spalle - di essere visto da tutti in simile intimità con un adulto,
e a poco a poco scordò di essere un bambino, chiacchierando in maniera
libera e spontanea come se l'altro fosse un coetaneo. Edgar, stando ai suoi
discorsi, era molto intelligente, un po' precoce, come quasi tutti i bambini
malaticci che hanno vissuto parecchio con gli adulti, e dotato di una emotività
affettiva o repulsiva stranamente ipertesa. Con nulla sembrava avere un
rapporto tranquillo, di ogni persona o cosa parlava in termini estasiati oppure
con un odio così intenso, che esso gli sfigurava sgradevolmente il volto,
rendendolo quasi malvagio e repellente. Qualcosa di impetuoso e di
sconnesso, forse ancora dovuto alla malattia da poco superata, dava ai suoi
discorsi una focosità fanatica, e pareva che la sua goffaggine fosse soltanto
paura a stento repressa della propria passionalità.
Il barone si conquistò facilmente la fiducia del ragazzo. Gli bastò una
mezz'ora, per avere in mano quel cuore ardente percorso da fremiti inquieti.
Del resto, si sa, è molto facile ingannare dei bambini, questi esseri senza
malizia, il cui amore così raramente viene richiesto. Gli bastò ritornare al
passato, e il discorso infantile gli venne così naturale, così spontaneo, che
anche il ragazzino vide in lui un suo pari e nel giro di pochi minuti perse ogni
sensazione di distanza. Era semplicemente estasiato dalla felicità di aver
trovato all'improvviso in quel luogo solitario un amico, e quale amico! Di colpo
erano caduti nell'oblio tutti gli amichetti di Vienna, i ragazzini dalle vocette
fesse, con le loro chiacchiere insulse, come svanite le loro immagini, in virtù
di questo nuovo incontro! Tutta la sua esaltata infatuazione adesso era rivolta
al nuovo grande amico, e il cuore gli si allargò dall'orgoglio quando quello,
congedandosi, lo invitò a tornare il mattino dopo, e il nuovo amico da lontano
gli fece cenni di saluto, proprio come un fratello.
Quell'istante forse fu il più bello della sua vita. É così facile ingannare dei
bambini. Il barone sorrise, mentre il ragazzo si allontanava di corsa. Il tramite
era assicurato. Adesso il ragazzino - ne era certo - avrebbe tormentato fino
allo stremo con i suoi racconti la madre, ripetendo tutti i discorsi parola per
parola. E si ricordò divertito di avere abilmente intessuto alcuni complimenti
all'indirizzo di lei, parlando in continuazione della «bella mamma» di Edgar.
Per lui era pacifico che il loquace ragazzino, dai e dai, avrebbe messo in
contatto la sua mamma con il nuovo amico.
Non doveva muovere un dito, per ridurre le distanze tra sé e la bella
sconosciuta, poteva tranquillamente sognare e contemplare il paesaggio,
perché sapeva che un paio di ardenti mani infantili gli stavano costruendo la
passerella verso il cuore di lei.
Terzetto
Il piano, come si rivelò qualche ora più tardi, era riuscito perfettamente in
ogni minimo particolare. Quando il giovane barone, con un lieve ritardo
intenzionale, si presentò nella sala da pranzo, Edgar ebbe uno scatto sulla
sedia, salutandolo espansivamente con un sorriso felice e cenni della mano.
Intanto tirava per la manica sua madre e le parlava in fretta, eccitato, facendo
evidenti gesti in direzione del barone. Lei, arrossendo imbarazzata, lo
redarguì per il suo comportamento troppo vivace, ma non poté esimersi dal
guardare a un certo punto verso il barone, per accontentare il figliolo, e il
barone colse subito l'occasione, accennando un rispettoso inchino. La
conoscenza era fatta. Fu costretta a ringraziare, ma da quel momento tenne
la faccia più china sul piatto ed evitò accuratamente durante tutto il pranzo di
guardare un'altra volta dalla parte del barone. Non così Edgar, che lumava in
continuazione verso di lui e una volta cercò persino di parlargli, cosa
disdicevole, che la madre provvide a stroncare subito energicamente. Alla
fine del pasto gli fu detto di andare a dormire, e un fitto parlottìo si instaurò tra
lui e la sua mamma, con il risultato finale che gli venne concesso, per le sue
appassionate insistenze, di recarsi all'altro tavolo a salutare il suo amico. Il
barone gli disse qualche parola affettuosa, che tornò ad accendere gli occhi
del ragazzo, chiacchierando con lui un paio di minuti. Poi all'improvviso, con
un'abile mossa, alzandosi, si volse verso l'altro tavolo, complimentandosi con
la vicina un po' confusa, per il figliolo intelligente, sveglio, si compiacque della
bella mattinata trascorsa insieme a lui - Edgar stava lì, rosso di gioia e di
fierezza e infine si informò sulla salute del ragazzo con tali e tante domande
specifiche, che la madre fu costretta a rispondere. E così avviarono una
conversazione piuttosto lunga, alla quale il ragazzino assistette felice e con
una sorta di venerazione. Il barone si presentò e credette di notare che il suo
nome altisonante producesse un certo effetto sulla donna vanitosa. A ogni
modo lei si mostrò estremamente gentile nei suoi confronti, sebbene non
concedesse nulla e addirittura si congedasse presto, per via del bambino,
aggiunse a mo' di scusa.
Il ragazzino protestò con insistenza di non essere stanco e volentieri
sarebbe rimasto in piedi tutta la notte. Ma già sua madre aveva porto la mano
al barone, che la baciò rispettosamente.
Quella notte Edgar dormì male. In lui c'era una confusione di felicità e di
infantile disperazione. Perché durante la giornata era accaduto qualcosa di
nuovo nella sua vita. Per la prima volta era intervenuto attivamente nel
destino di persone adulte. Già immerso nel dormiveglia, scordò la propria
condizione di bambino e all'improvviso gli parve di essere grande. Fino allora,
vivendo isolato ed essendo spesso malaticcio, aveva avuto pochi amici. Per
tutto il suo bisogno di tenerezza non c'era nessuno all'infuori dei genitori, che
poco si curavano di lui, e del personale di servizio. E l'intensità di un amore è
sempre valutata in modo errato, se lo si giudica in base alla sua causa
occasionale e non sulla scorta della tensione che lo precede, di quel vuoto
oscuro di delusione e di solitudine che precede tutti i grandi eventi del cuore.
Lì era in attesa un sentimento carico, intatto, e adesso a braccia aperte si
precipitava incontro al primo che sembrava meritarlo. Edgar giaceva
nell'oscurità, felice e frastornato, voleva ridere e gli venne da piangere.
Perché amava quella persona come mai aveva amato un amico, il padre e la
madre, e neppure Dio. Tutta la passionalità immatura dei suoi anni si attaccò
all'immagine di quella persona, il cui nome due ore prima gli era ancora
ignoto.
Tuttavia era abbastanza acuto, per non sentirsi a disagio di fronte
all'aspetto inatteso e singolare di quella nuova amicizia. Lo turbava
soprattutto il senso della propria inadeguatezza e nullità. Sono degno di lui,
io, ragazzino di dodici anni, che davanti a sé ha ancora tutti i suoi studi, che
la sera viene spedito a letto prima di tutti? si tormentava. Che cosa posso
rappresentare per lui, che cosa offrirgli?
Proprio questa impossibilità, dolorosamente avvertita, di manifestare in
qualche modo il suo sentimento, lo rendeva infelice. Di solito, se un
compagno gli era entrato nel cuore, la prima cosa era di dividere con lui i
piccoli tesori del suo scrittoio, francobolli e pietre, i puerili averi della
fanciullezza, ma tutte queste cose, che ancora il giorno prima rivestivano per
lui una grande importanza e un fascino raro, d'un tratto gli parevano prive di
valore, insulse e spregevoli. Infatti, come poteva offrire cose del genere a
questo nuovo amico, al quale non era neppure pensabile dare del tu? Dove
trovare un modo, una possibilità di rivelare i propri sentimenti? Sempre più lo
angustiava il fatto di essere piccolo, qualcosa di incompiuto, di immaturo, un
ragazzino di dodici anni, e mai finora aveva maledetto con tanta veemenza la
sua condizione di bambino, mai desiderato tanto ardentemente di svegliarsi
diverso, così come sognava se stesso: grande e forte, un uomo, un adulto al
pari degli altri.
In questi inquieti pensieri si inserirono presto i primi vividi sogni di quel
nuovo mondo della condizione adulta. Finalmente Edgar si addormentò con
un sorriso, ma il ricordo dell'appuntamento dell'indomani gli minò il sonno.
Già alle sette saltò su con il timore di arrivare troppo tardi. Si vestì in fretta e
furia, salutò la madre stupefatta, che solitamente faticava a tirarlo giù dal
letto, nella camera di lei, e prima che potesse chiedergli qualcosa, si precipitò
da basso. Fino alle nove gironzolò impaziente, dimenticando di fare
colazione, unicamente preoccupato di non far attendere a lungo l'amico per la
passeggiata.
Alle nove e mezzo, come se nulla fosse, il barone finalmente comparve.
Naturalmente aveva bell'e scordato l'appuntamento, ma nel vedere il
ragazzo volargli incontro smanioso dovette sorridere di tanta passionalità e si
mostrò disposto a onorare la sua promessa. Di nuovo prese sottobraccio il
ragazzino raggiante, deambulando avanti e indietro, solo che evitò con modi
garbati ma fermi di iniziare subito la passeggiata comune. Sembrava in attesa
di qualcosa, almeno così si poteva arguire dal suo sguardo che lambiva
nervosamente le porte. D'un tratto si impetri. Era entrata la mamma di Edgar
e si diresse affabilmente verso i due, rispondendo al saluto. Sorrise
consenziente, come apprese della passeggiata in progetto, che Edgar le
aveva taciuto come qualcosa di troppo prezioso, ma si lasciò presto
convincere a essere della partita, per le insistenze del barone. Edgar apparve
subito contrariato e si mordeva le labbra. Che rabbia: proprio ora lei doveva
passare di lì! Quella passeggiata apparteneva soltanto a lui, e anche se
aveva presentato il suo amico alla mamma, si era trattato solo di una
gentilezza da parte sua, ma non per questo intendeva dividerlo con lei.
Già spuntava in lui una certa gelosia nel notare l'affabilità del barone verso
sua madre.
Sicché si avviarono tutti e tre, e la pericolosa sensazione della propria
importanza e improvvisa rilevanza fu ulteriormente alimentata nel bambino
dall'insolito interesse che i due mostravano nei suoi confronti. Edgar era
quasi esclusivamente il tema della conversazione, la madre parlando con
preoccupazione un po' finta del suo pallore e nervosismo, mentre il barone
minimizzava la faccenda sorridendo e si dilungava in tono elogiativo sui modi
simpatici di quello che chiamava il suo «amico.» Per Edgar fu il momento più
bello. Aveva acquisito dei diritti che mai gli erano stati riconosciuti nel corso
della sua infanzia. Poteva interloquire senza essere subito zittito, addirittura
esprimere ogni sorta di desideri peregrini, che fino allora sarebbero stati
accolti in sinistra parte. E non sorprende che in lui prendesse corpo a
dismisura l'ingannevole sensazione di essere un adulto. Ormai nei suoi sogni
a occhi aperti l'infanzia era alle spalle, come un vestito troppo stretto che si
butta via.
A mezzogiorno il barone, accettando l'invito della sempre più affabile
madre di Edgar, sedette al loro tavolo. Il vis-à-vis si era trasformato in un à
còte, dalla conoscenza era nata un'amicizia. Era in atto un terzetto, e le tre
voci della donna, dell'uomo e del bambino si accordavano in armonia pura.
Attacco.
Ora all'impaziente cacciatore parve giunto il momento di farsi sotto con
cautela alla preda. L'atmosfera famigliare, il coro a tre voci in questa
faccenda non gli andava a genio. Certo, non era spiacevole chiacchierare
amabilmente in tre, ma, dopo tutto, chiacchierare non era la sua intenzione. E
sapeva che il lato mondano, con la mascherata del suo gioco di seduzione,
ritarda sempre il contatto erotico tra l'uomo e la donna, togliendo alle parole
l'ardore, all'attacco la vampa del fuoco.
Era bene che lei non scordasse mai nelle spire della conversazione la sua
vera intenzione, che - lo sapeva per certo - era già stata capita da lei.
Che i suoi sforzi con quella donna non sarebbero stati vani, era molto
probabile. Si trovava in quegli anni decisivi in cui una donna comincia a
pentirsi di essere rimasta fedele a un marito che in fondo non ha mai amato,
e in cui il purpureo tramonto nella sua bellezza le consente ancora un'ultima
urgente scelta tra ruolo materno e femminilità. La vita, che già da un pezzo
pareva aver trovato la sua risposta, in quell'istante viene rimessa in
questione, un'ultima volta il magico ago della volontà oscilla tra la speranza
dell'esperienza erotica e la definitiva rassegnazione. Allora la donna è posta
di fronte alla rischiosa decisione di vivere il proprio destino oppure quello dei
suoi figli, di essere femmina oppure madre. E il barone, in queste cose acuto,
credette di notare in lei appunto questo pericoloso oscillare tra ardente voglia
di vivere e sacrificio. Nei suoi discorsi lei dimenticava costantemente di
parlare del marito, che evidentemente soddisfaceva soltanto le sue esigenze
esteriori, non però il suo snobismo incentivato dal tenore di vita distinto, e in
fondo, interiormente, sapeva ben poco del proprio figliolo. Un'ombra di noia,
truccata da melancolia negli occhi scuri, aduggiava la sua esistenza e
offuscava la sua sensualità.
Il barone decise di procedere rapidamente, evitando però al contempo ogni
parvenza di fretta. Al contrario, come il pescatore ritrae l'amo per attirare la
preda, intendeva da parte sua attribuire a quella nuova amicizia un carattere
di esteriore indifferenza, voleva farsi corteggiare, mentre in realtà era lui il
corteggiatore. Si prefisse di ostentare una certa spocchia, di sottolineare
nettamente la loro differenza di status sociale, e lo seduceva l'idea di poter
conquistare quel corpo prosperoso, pieno, bello, unicamente accentuando la
propria arroganza, in virtù di un dato esteriore, come un nome nobiliare
altisonante e maniere distaccate.
Il gioco incandescente cominciava già a eccitarlo, e perciò si costrinse alla
cautela. Il pomeriggio rimase in camera, nella gradevole certezza che intanto
lo avrebbero cercato, sentendo la sua mancanza. Ma questa assenza fu
avvertita non tanto da lei, alla quale in effetti era mirata, quanto dal povero
ragazzo, cui era motivo di tormento. Per tutto il pomeriggio Edgar si sentì
assolutamente smarrito e perso; con l'attaccamento tenace proprio dei
ragazzi passò lunghe ore in attesa spasmodica del suo amico. Andarsene, o
fare da solo qualsiasi cosa, gli pareva uno sfregio alla loro amicizia. Gironzolò
senza costrutto per i corridoi, e più passava il tempo, più il suo cuore si
colmava di infelicità. Nella sua fantasia stravolta andava già vaneggiando di
una disgrazia oppure di un'offesa inconsapevolmente inferta, e già era
prossimo al pianto dall'impazienza e dall'angoscia. Quando poi la sera il
barone si presentò a tavola, fu accolto con tutti gli onori. Edgar, senza badare
alle parole dissuasive della madre e allo stupore degli altri commensali, gli
corse incontro, stringendogli di slancio il petto con le braccine scarne. «Dove
stava? Dove si è cacciato?» esclamò con affanno. «L'abbiamo cercata
dappertutto.» La madre arrossì per l'indesiderato coinvolgimento e disse
piuttosto dura: «Sois sage, Edgar.
Assieds-toi!» (Parlava infatti sempre in francese con lui, sebbene questa
lingua non le fosse poi tanto familiare, e nei discorsi un po' complessi si
incagliasse facilmente.) Edgar obbedì, ma non smise di interrogare il barone.
«Non dimenticare che il signor barone è libero di fare quello che vuole. Forse
la nostra compagnia lo annoia.» Adesso fu lei a coinvolgersi, e il barone
avvertì con gioia in quelle parole la richiesta di un complimento.
In lui si destò il cacciatore. Era inebriato, eccitato, di avere trovato così
rapidamente la pista giusta, di sentire la preda vicinissima al colpo fatale. I
suoi occhi scintillavano, il sangue gli sfrecciava leggero per le vene, le parole
gli fluivano dalle labbra con una facilità che sorprendeva persino lui stesso.
Come ogni soggetto dotato di una forte carica erotica, era doppiamente
brillante, doppiamente se stesso, quando sapeva di piacere a una donna,
come capita a certi attori, che si accendono soltanto quando sentono la
platea, la massa che respira, completamente in balia davanti a loro. Era
sempre stato uno che sapeva raccontare bene, con immagini corpose, ma
quella sera superò se stesso, bevendo, nel mentre, un paio di coppe di
champagne, che aveva ordinato in onore della nuova amicizia. Raccontò di
certe battute di caccia in India, alle quali aveva partecipato come ospite di un
amico appartenente all'alta aristocrazia inglese, scegliendo abilmente questo
tema, perché gli era indifferente, e perché d'altro canto avvertiva che tutto ciò
che sapeva di esotico e per lei era irraggiungibile, eccitava quella donna. Ma
il vero affascinato da questi discorsi era soprattutto Edgar, i cui occhi
ardevano di entusiasmo. Si scordò di mangiare, di bere, e con gli occhi fissi si
beveva le parole dalle labbra del narratore. Mai avrebbe osato sperare di
vedere in carne e ossa uno che aveva vissuto di persona cose tanto
sconvolgenti, di cui leggeva nei suoi libri: la caccia alla tigre, la gente di
colore, gli indù e la jaggernat, la ruota terribile, che sotto i suoi raggi
schiacciava mille persone. Fino ad allora non aveva mai pensato che uomini
del genere esistessero per davvero, così come non credeva ai paesi delle
fiabe, e in quell'istante si sprigionò in lui per la prima volta un sentimento
grande. Non riusciva a staccare gli occhi dal suo amico, fissando con il fiato
sospeso le mani, proprio lì davanti a lui, che avevano ucciso una tigre. A
stento osava chiedere qualcosa, e allora la sua voce suonava febbrile ed
eccitata. La sua rapida fantasia gli evocava di continuo l'immagine
corrispondente al racconto, vedeva l'amico in groppa a un elefante con la
gualdrappa purpurea, uomini bruni, a sinistra e a destra, con preziosi turbanti,
e poi, all'improvviso, la tigre che balzava fuori dalla giungla a zanne scoperte
e conficcava gli artigli nella proboscide dell'elefante. Quindi il barone raccontò
cose ancora più interessanti sul modo astuto di catturare gli elefanti,
adescando nei gabbioni gli animali giovani, selvaggi, indocili, per mezzo di
vecchi elefanti addomesticati: gli occhi del bambino sprizzavano faville. Ed
ecco la mamma dire improvvisamente, guardando l'orologio: «Neuf heures!
Au lit!» E per lui fu come se davanti gli piombasse di colpo una mannaia.
Edgar impallidì dallo spavento. Per tutti i bambini l'essere spediti a letto è
una sentenza terribile, perché per essi rappresenta la più palese umiliazione
di fronte agli adulti, l'ammissione, lo stigma della loro condizione di bambini,
di piccoli, del bisogno infantile di dormire. E tanto più tremenda era questa
umiliazione in quel momento di estremo interesse, perché lo privava di cose
tanto straordinarie.
«Solo questa storia ancora, mamma, la storia degli elefanti, fammela
sentire, ti prego!»
Stava già per mettersi a piangere, ma subito si ricordò della sua nuova
dignità di adulto. Accennò soltanto un tentativo. Ma quella sera la madre era
stranamente severa. «No, è già tardi. E ora che tu salga! Sois sage, Edgar.
Poi ti racconterò per filo e per segno tutte le storie del signor barone.»
Edgar esitò. Di solito sua madre lo accompagnava sempre a letto. Ma non
voleva mendicare in presenza dell'amico. Il suo orgoglio infantile voleva
serbare a quel penoso congedo una parvenza di volontarietà.
«Davvero, mamma, mi racconterai tutto, ma proprio tutto? La storia degli
elefanti e tutto il resto?»
«Sì, figliolo mio.»
«E subito? Stasera stessa?»
«Sì, certo, ma ora va' a letto. Va'!» Edgar era ammirato di sé, per il fatto
che gli riuscisse di dare la mano al barone e alla mamma senza arrossire,
sebbene il singhiozzo già gli affiorasse in gola. Il barone gli arruffo
affettuosamente i capelli, e questo diffuse ancora un sorriso sul suo volto
tirato. Ma poi dovette affrettarsi verso la porta, altrimenti avrebbero visto i
lacrimoni scendergli giù per le guance.
Gli elefanti
La madre restò ancora qualche tempo a tavola con il barone, ma non
parlarono più di elefanti e di cacce. Un che di sensualmente greve, rapidi
guizzi di imbarazzo si erano introdotti nei loro discorsi, da che il ragazzino li
aveva lasciati. Alla fine si trasferirono nella hall e si sedettero in un angolo. Il
barone era più in forma che mai, lei stessa leggermente inebriata da un paio
di coppe di champagne, per cui la conversazione prese ben presto una piega
pericolosa. Il barone non poteva definirsi propriamente bello, era soltanto
giovane e aveva un'aria molto virile nel volto bruno scuro, energico, da
ragazzo, con i suoi capelli a spazzola, e la incantava per i gesti vivaci e quasi
screanzati. Adesso lo osservava con piacere da vicino e non temeva più il
suo sguardo. Ma a poco a poco si insinuò nei discorsi di lui un ardire che in
qualche modo la turbava, qualcosa come un palpare il suo corpo, un tastare
e poi ritrarsi, una inafferrabile concupiscenza che le fiondava il sangue nelle
guance. E poi subito rideva spensierato, con naturalezza, come un bambino,
e questo dava a tutte quelle piccole avances la svagata parvenza di scherzi
infantili. A volte aveva l'impressione di dover troncare decisamente certe
parole di lui, ma, essendo civettuola di natura, da quelle piccole arditezze
vogliose si sentiva solamente indotta a temporeggiare. E trascinata dal gioco
rischioso, alla fine cercò addirittura di imitare l'altro. Lanciò attraverso gli
sguardi piccole, maliziose promesse, già concedendosi con le parole e con i
gesti, e tollerò persino il suo accostarsi stretto, la vicinanza di quella voce, il
cui fiato sentiva a volte come un brivido caldo sulle spalle. Come tutti i
giocatori, scordarono il tempo e si persero talmente nelle spire ardenti della
conversazione, che riemersero di colpo soltanto verso mezzanotte, quando
nella hall si smorzarono le luci.
Lei scattò in piedi subito, sull'onda dell'improvviso riscotimento, e d'un tratto
avvertì quanto pericolosamente si fosse spinta oltre. A scherzare con il fuoco
ci era anche abituata, ma a quel punto il suo istinto eccitato le segnalò che lo
scherzo era ormai a un passo dal trasformarsi in una cosa seria. Con un
brivido scoprì di non sentirsi più del tutto sicura, che qualcosa in lei aveva
preso a slittare e si muoveva paurosamente in direzione del vortice. Nella
testa era tutto un mulinare di paura, di vino e di discorsi ardenti, le prese una
paura sciocca, assurda, una paura che già alcune volte nella vita aveva
provato in simili momenti pericolosi, ma mai in maniera così brutale e
vertiginosa. «Buona notte, buona notte. A domattina presto», disse in fretta e
fece per andarsene. Non tanto per sottrarsi a lui, quanto piuttosto al rischio di
quell'istante e alla insicurezza nuova, strana, che avvertiva dentro di sé. Ma il
barone trattenne con tenera fermezza la mano porta per il saluto, la baciò, e
non una volta sola, secondo il galateo, ma quattro o cinque volte, passando
fremente con le labbra dalle affusolate punte delle dita fin sul polso, mentre
lei sentiva con un lieve brivido i suoi baffi ruvidi pungere sul dorso della
mano. Una sensazione calda e soffocante da lì irradiò con il sangue per tutto
il corpo, paura eruppe bruciante, martellando minacciosa nelle tempie, la sua
testa era rovente, la paura, la paura assurda adesso le attraversava
spasmodica il corpo intero, e ritirò in fretta la mano.
«Rimanga ancora, la prego», sussurrò il barone. Ma già lei si era
allontanata con una goffaggine precipitosa che palesava la sua paura e il suo
turbamento. Adesso in lei c'era l'eccitazione che l'altro voleva; sentiva che
tutto in lei era stravolto. Bruciante, tremenda, la incalzava la paura che l'uomo
alle sue spalle potesse seguirla e afferrarla, ma nello stesso tempo, mentre
ancora stava fuggendo, già avvertiva il rincrescimento che lui non lo facesse.
In quel momento sarebbe potuto accadere ciò che da anni lei inconsciamente
desiderava: l'avventura, il cui alito incalzante amava voluttuosamente,
sempre sottraendosi a essa fino allora all'ultimo istante, l'avventura grande e
rischiosa, non il mero flirt effimero, eccitante. Ma il barone era troppo
orgoglioso, per correre dietro all'attimo propizio. Era troppo sicuro della
vittoria, per fare sua di rapina quella donna in un momento di debolezza, nei
fumi del vino; al contrario, il giocatore leale era attratto solamente dalla lotta e
dall'offerta di sé dell'altro in piena coscienza. Tanto, non poteva sfuggirgli. Il
veleno le bruciava già nelle vene, ne era certo.
In cima alle scale si fermò, premendo la mano sul cuore ansimante.
Dovette riprendersi per un attimo. I nervi cedettero. Un sospiro le eruppe
dal petto, metà di sollievo, per essere scampata a un pericolo, metà di
rincrescimento; ma tutto questo era confuso e seguitava a turbinare nel
sangue soltanto come vertigine sopita. Con gli occhi semichiusi, come
un'ubriaca, si avviò faticosamente verso la sua porta e provò sollievo
nell'afferrare la maniglia fredda. Soltanto allora si sentì al sicuro!
Spinse piano la porta nella camera. E già un secondo dopo si ritrasse
spaventata. Qualcosa si era mosso nella stanza, proprio in fondo,
nell'oscurità. I suoi nervi eccitati ebbero uno scatto acuto, già stava per
invocare aiuto, quando da dentro le giunse una voce sommessa, assonnata:
«Sei tu, mamma?»
«Per l'amor del cielo, che cosa ci fai qui?» Si precipitò verso il divano, dove
Edgar giaceva acciambellato, emergendo appunto dal sonno.
Il suo primo pensiero fu che il bambino fosse malato o bisognoso di aiuto.
Ma Edgar, ancora insonnolito, le disse con lieve rimprovero: «Ti ho
aspettato e poi mi sono addormentato».
«Ma perché?»
«Per via degli elefanti.»
«Quali elefanti?»
Solo allora capì. Aveva promesso al bambino di raccontargli tutto, ancora
quella sera stessa, della caccia e delle avventure. E allora il bambino, questo
ragazzino ingenuo, infantile, si era intrufolato nella stanza di lei, aspettando
fiducioso che arrivasse, e nel mentre si era addormentato. Quella
stravaganza la irritava. O meglio: sentiva rabbia verso se stessa, un
sommesso mormorio di colpa e di vergogna, che volle soverchiare strillando.
«Vattene subito a letto, razza di maleducato», gli urlò. Edgar la guardò con
stupore. Perché era così arrabbiata con lui? Non aveva fatto niente di male.
Ma questo stupore irritò ancora di più la madre già agitata. «Vattene subito in
camera tua», gridò stizzita, perché sentiva di fargli un torto. Edgar uscì senza
dire una parola. Era terribilmente stanco e attraverso le nebbie opprimenti del
sonno avvertiva solo confusamente che la madre non aveva mantenuto una
promessa e che lo si trattava in modo ingiusto. Ma non gli veniva da ribellarsi.
Tutto in lui era intorpidito dalla stanchezza; e poi era molto contrariato di
essersi addormentato nella stanza, invece di stare sveglio nell'attesa. Proprio
come un bambino piccolo, disse indignato a se stesso, mentre ripiombava nel
sonno. Perché da quell'ultima giornata odiava la propria condizione di
bambino.
Schermaglie
Il barone aveva dormito male. E sempre pericoloso andare a letto dopo
un'avventura interrotta: una notte agitata dal travaglio di sogni sensuali gli
fece presto rimpiangere di non avere colto l'attimo con polso fermo. Quando il
mattino dopo arrivò giù ancora assonnato e di pessimo umore, il ragazzino gli
balzò incontro da un nascondiglio, abbracciandolo con entusiasmo, e
cominciò a tormentarlo con mille domande. Era felice di riavere per sé, anche
solo per qualche istante, il suo grande amico e di non doverlo dividere con la
mamma. Solo a lui doveva raccontare, non più alla mamma, lo pregò
accalorato, perché lei, nonostante la promessa, non gli aveva riferito nulla
delle tante cose meravigliose. Il barone, sgradevolmente scosso
dall'imboscata e solo a stento capace di nascondere il proprio malumore, fu
sommerso da cento molestamenti infantili. In più, alle sue domande il ragazzo
mescolò appassionate attestazioni del proprio amore, felice di essere
nuovamente solo con l'amico cercato da un pezzo e atteso dal primo mattino.
Il barone rispose sgarbatamente. Quel bambino sempre alla posta, le sue
domande insulse, e in generale l'attaccamento passionale non richiesto,
cominciavano a tediarlo. Era stufo di andare in giro tutto il giorno con un
ragazzino di dodici anni, perdendo tempo in chiacchiere inutili.
Adesso l'unica cosa che gli importava era battere il ferro finché era caldo e
agguantare da solo la madre, il che, proprio per la indesiderata presenza del
bambino, diventava un problema. Per la prima volta sentì un certo disagio di
fronte a quella affettività imprudentemente suscitata, perché al momento non
vedeva alcuna possibilità di disfarsi dell'amico troppo appiccicoso.
Comunque, valeva la pena di tentare. Fino alle dieci, ora in cui era
d'accordo di vedersi con la madre per la passeggiata, si lasciò sommergere
distrattamente dalle chiacchiere appassionate del ragazzo, buttando là ogni
tanto qualche parola, per non offenderlo, ma intanto sfogliava il giornale.
Finalmente, quando la lancetta era quasi in verticale, come se gli fosse
venuto in mente all'improvviso, pregò Edgar di fare un salto all'altro albergo,
per chiedere se il conte Grundheim, suo padre, era già arrivato.
L'ingenuo ragazzino, felice di poter essere finalmente utile al suo amico in
qualche cosa, fiero della propria dignità di messaggero, partì di volata e
percorse con tale foga la strada, che la gente si voltava a guardarlo stupita.
Ma lui ci teneva a mostrare quanto era svelto, se gli veniva affidata una
commissione. Il conte, gli dissero là, non era ancora arrivato, anzi, al
momento, non aveva neppure prenotato. Sempre di corsa tornò con la
notizia. Ma nella hall, del barone nemmeno l'ombra. Per cui bussò alla porta
della sua stanza: invano! Preoccupato, perlustrò di furia tutti gli ambienti, la
sala della musica e il caffè, corse agitato dalla mamma, per avere chiarimenti:
anche lei era sparita.
Il portiere, cui alla fine si era rivolto al colmo della disperazione, gli disse,
con suo enorme stupore, che i due se ne erano andati insieme qualche
minuto prima!
Edgar attese pazientemente. Nel suo candore, non sospettava nulla di
male. Tanto, non potevano assentarsi molto - ne era certo -, perché al barone
serviva la sua risposta. Ma il tempo dilatava impietoso le sue ore, e in lui
cominciò a farsi strada l'inquietudine. In effetti, da quando quell'estraneo
seducente era entrato nella sua piccola esistenza innocente, tutto il giorno il
ragazzino era teso, braccato, confuso. In un organismo così sensibile, qual è
quello dei bambini, ogni passione imprime le sue tracce come nella cera
tenera. Tornò a manifestarsi il tremito nervoso delle palpebre, ad accentuarsi
il suo pallore. Edgar seguitò ad aspettare, dapprima con pazienza, poi
estremamente agitato e alla fine prossimo al pianto. Ma continuava a non
nutrire sospetti. La sua cieca fiducia nel meraviglioso amico lo induceva a
supporre un malinteso, e lo tormentava il segreto timore di avere magari
frainteso l'incarico ricevuto.
Strano però che ora, come tornarono finalmente, seguitassero i loro amabili
conversari e non mostrassero alcuna sorpresa. Pareva che non avessero
avvertito molto la sua mancanza: «Ti siamo andati incontro, sperando di
trovarti per strada, Edi», disse il barone, senza informarsi sull'esito della sua
missione. E quando il ragazzo, angosciato dal fatto che potessero averlo
cercato invano, si premurò di assicurare che lui aveva percorso direttamente
la strada alta e volle sapere quale strada avessero preso loro, la mamma
troncò seccamente il discorso: «Va bene, va bene! Non è il caso che i
bambini parlino tanto».
Edgar divenne rosso dalla rabbia. Era già la seconda volta che lei tentava
con vile bassezza di screditarlo di fronte al suo amico. Perché faceva questo?
Perché cercava sempre di trattarlo da bambino, mentre lui - ne era convinto non lo era più? Evidentemente lei gli invidiava l'amico e mirava a tirarlo dalla
sua parte. Già, e certamente era stata lei a portare intenzionalmente il barone
per un'altra strada. Ma lui non era disposto a farsi maltrattare da lei: se ne
sarebbe accorta. Le avrebbe tenuto testa, e come. E Edgar decise di non
rivolgerle quel giorno la parola a tavola, di parlare soltanto con il suo amico.
Ma per lui fu dura. Si verificò un fatto assolutamente imprevisto: non fecero
caso al suo impuntamento. Anzi, non parvero proprio accorgersi di lui, che
pure il giorno prima era al centro del loro stare in compagnia!
Parlavano come se non ci fosse, ridendo e scherzando tra loro, quasi che
lui fosse sprofondato sotto il tavolo. Il sangue gli montò alle guance, nella
gola aveva un groppo che gli mozzava il fiato. Con orrore si rese conto della
sua spaventosa impotenza. Sicché avrebbe dovuto sedere lì tranquillo e
vedere sua madre portargli via l'amico, l'unica persona che amava, senza
neppure potersi difendere, se non con il silenzio? Forse doveva saltare su e
pestare all'improvviso i pugni sul tavolo. Soltanto perché lo notassero. Ma
cercò di controllarsi, semplicemente posò forchetta e coltello e non toccò più
cibo. Ma anche quell'ostinato digiuno non venne notato per un pezzo, solo
all'ultima portata la madre ci fece caso e gli domandò se non si sentiva bene.
Che schifo, pensò, l'unica cosa che riesce a pensare è questa: se sono
malato; per il resto non le importa niente di niente. Rispose laconico che non
aveva voglia di mangiare e con ciò lei si diede pace. Nulla li indusse a
considerarlo. Il barone sembrava averlo dimenticato, certo è che neppure una
volta gli rivolse la parola. Lacrime roventi gli spuntarono negli occhi, e dovette
ricorrere all'infantile astuzia di alzare in fretta il tovagliolo, prima che qualcuno
potesse accorgersi dei goccioloni che gli rigavano le guance e bagnavano
salati le labbra. Alla fine del pasto tirò un sospiro di sollievo.
Durante il pranzo sua madre aveva proposto una gita in carrozza a MariaSchutz. Edgar lo aveva sentito con il labbro fra i denti. Dunque nemmeno per
un minuto voleva più lasciarlo solo con il suo amico. Ma il suo odio montò
furibondo soltanto quando lei, alzandosi, gli disse: «Edgar, finirai per scordare
tutto della scuola, dovresti stare a casa per una volta, e ripassare un
pochino!» Di nuovo contrasse il piccolo pugno da ragazzino. Lei cercava
sempre di umiliarlo di fronte al suo amico, ricordando continuamente in
pubblico che lui era ancora un bambino, uno scolaretto, e soltanto tollerato in
mezzo agli adulti. Ma stavolta l'intenzione gli parve troppo trasparente. Non
rispose per niente, limitandosi a girare di colpo sui tacchi.
«VÉ, siamo di nuovo offesi», lei disse sorridendo, e quindi al barone:
«Sarebbe proprio così terribile, se per una volta lavorasse un'oretta?»
Al che, il barone - e nel cuore del bambino qualcosa divenne di ghiaccio e
di pietra -, il barone che pure si dichiarava suo amico, che gli aveva dato del
secchione, disse: «BÉ, un'oretta o due non potrebbero certo guastare».
Era un complotto? I due si erano effettivamente accordati contro di lui?
Negli occhi del ragazzo avvampò la rabbia. «Il mio papà ha proibito che io
studi qui. Il papà vuole che qui mi rimetta in salute», proruppe con tutto
l'orgoglio della propria malattia, aggrappandosi disperatamente alla parola,
all'autorità del padre. Lo pronunciò come una minaccia. E stranamente quelle
parole parvero in effetti suscitare nei due un certo disagio. La madre guardò
altrove, limitandosi a tamburellare nervosamente sul tavolo con le dita. Un
silenzio imbarazzato si instaurò tra loro. «Come vuoi, Edi», disse alla fine il
barone con un sorriso forzato. «Non tocca a me fare l'esame, io sono già
stato bocciato in tutti quanti.»
Ma Edgar non sorrise per la battuta, lo fissò soltanto con uno sguardo
indagatore, passionalmente penetrante, quasi volesse scrutargli fin dentro
l'anima. Che cosa stava succedendo? Qualcosa era cambiato tra loro, e il
ragazzino non sapeva perché. I suoi occhi vagavano intorno inquieti. Nel
cuore batteva un piccolo, frenetico martello: il primo sospetto.
Bruciante segreto.
Che cosa li ha trasformati in quel modo? si chiedeva il bambino, seduto di
fronte a loro nella carrozza che procedeva. Perché con me non si
comportano più come prima? Perché la mamma evita sempre il mio sguardo,
quando lo rivolgo a lei? Perché in mia presenza lui cerca sempre di fare dello
spirito, di atteggiarsi a buffone? Tutti e due non parlano più con me come ieri
o ieri l'altro, a volte mi pare quasi che abbiano cambiato faccia. La mamma
oggi ha le labbra così rosse, che deve averle tinte.
Questo, in lei, non l'ho mai visto. E lui continua ad aggrottare la fronte
come se fosse offeso. Mica ho fatto loro niente, né detto una parola che li
potesse seccare. No, non posso essere io la causa, perché loro stessi si
comportano tra loro in modo diverso da prima. É come se avessero fatto
qualcosa che non osano dirsi. Non discorrono più come ieri, e nemmeno
ridono, sono impacciati, nascondono qualcosa. Tra loro c'è qualche segreto
che non vogliono rivelarmi. Un segreto che io devo scoprire a ogni costo.
Veramente non mi è nuovo, deve essere lo stesso per cui mi chiudono
sempre in faccia la porta, quello di cui si parla nei libri e nei melodrammi,
quando gli uomini e le donne cantano con le braccia aperte, si stringono e si
respingono. Deve essere più o meno la medesima faccenda della mia
insegnante francese, che non andava d'accordo con mio padre e poi fu
licenziata. Tutte queste cose sono collegate, lo sento, ma non so in che
modo. Ah, se potessi finalmente conoscerlo, questo segreto, avere in mano
questa chiave che apre tutte le porte, non essere più un bambino, al quale
tutto viene nascosto, non lasciarmi più menare per il naso e ingannare! Ora o
mai più! Glielo voglio strappare, questo tremendo segreto. Una ruga si incise
sulla sua fronte, quasi vecchio sembrava il gracile dodicenne, mentre così
andava elucubrando tra sé con aria seria, senza degnare di uno sguardo il
paesaggio che intorno si dispiegava a vividi colori, le montagne con il verde
terso dei loro boschi di conifere, le valli con lo splendore ancora tenero della
primavera tardiva. Seguitava a guardare soltanto i due sul sedile posteriore di
fronte a lui, quasi potesse con quegli sguardi ardenti, come una lenza,
strappare il segreto delle profondità scintillanti dei loro occhi. Nulla acuisce
maggiormente l'intelligenza di un sospetto appassionato, nulla sviluppa tutte
le possibilità di un intelletto immaturo, quanto una pista che si perde nel buio.
A volte, infatti, unicamente una sottile porta separa i bambini dal mondo che
noi chiamiamo reale, e un fortuito alito di vento gliela spalanca.
D'un tratto Edgar sentiva di avere a portata di mano come non mai la cosa
ignota, il grande segreto, a un passo soltanto, ancora sigillato e indecifrato,
ma vicino, vicinissimo. Questo lo eccitava e gli dava quella improvvisa serietà
solenne. Perché inconsciamente intuiva di trovarsi al margine estremo della
propria infanzia.
I due di fronte avvertivano un sordo impedimento nell'aria, senza
immaginare che provenisse dal ragazzo. Si sentivano costretti e inibiti in tre
nella carrozza. I due occhi che li fissavano scuri, con guizzi di brace nel
fondo, davanti a loro, creavano impaccio. Praticamente non osavano
scambiare una parola o uno sguardo. Non riuscivano più a ritrovare la
conversazione spigliata, mondana, di prima, già troppo irretiti nel tono delle
intimità ardenti, di quelle parole pericolose in cui vibra la carezzevole lascivia
di furtivi palpamenti. I loro discorsi si incagliavano sempre su vuoti e
interruzioni. La conversazione languiva, cercava di riprendere, ma
incespicava di continuo nel cocciuto silenzio del ragazzino.
Specialmente per la madre il suo ostinato silenzio era opprimente. Lo
osservò cautamente di lato e rimase sgomenta, notando per la prima volta,
all'improvviso, nel modo in cui il bambino stringeva le labbra, una somiglianza
con suo marito, quando era nervoso o irritato. Le dava disagio essere
confrontata con suo marito proprio ora che intendeva giocare a rimpiattino
con un'avventura. Come uno spettro, un mentore della coscienza,
doppiamente insopportabile lì, nello spazio angusto della carrozza, le
appariva il ragazzino, di fronte, a pochi centimetri, con i suoi occhi
oscuramente intenti, in agguato dietro la fronte pallida. Per un attimo,
improvvisamente, Edgar alzò lo sguardo. Subito abbassarono gli occhi
entrambi: si erano resi conto che si stavano spiando, per la prima volta nella
loro vita. Fino ad allora avevano nutrito una cieca fiducia nell'altro, ma adesso
qualcosa era cambiato di colpo tra madre e figlio, tra lei e lui. Per la prima
volta nella loro vita cominciavano a studiarsi, a scindere i loro destini,
entrambi già odiandosi in segreto, di un odio che era ancora troppo nuovo,
perché osassero ammetterlo di fronte a se stessi.
Tutti e tre provarono un grande sollievo quando i cavalli si fermarono di
nuovo davanti all'albergo. La gita era riuscita male, ne erano consapevoli
tutti, ma nessuno osava dirlo. Edgar smontò per primo. Sua madre accampò
la scusa di un mal di testa e salì in camera di volata.
Era stanca e voleva stare sola. Edgar e il barone rimasero da basso. Il
barone pagò il cocchiere, guardò l'orologio e si avviò nella hall senza curarsi
del ragazzino. Gli passò accanto con la sua schiena slanciata, snella, con
quella andatura leggera, ritmica, dinoccolata - che tanto affascinava il
bambino - per cui già il giorno prima aveva cercato di imitarla. Gli passò
accanto senza fare una piega. Evidentemente aveva scordato il ragazzo,
piantandolo lì, con il cocchiere e i cavalli, come un estraneo.
Qualcosa in Edgar si ruppe nel vedere passare via a quel modo l'uomo
che, nonostante tutto, seguitava a idolatrare veramente. Disperazione eruppe
dal suo cuore nel vederlo passare via a quel modo, senza sfiorarlo con il
soprabito, senza dire una sola parola a lui, che pure non si sentiva
minimamente in colpa. La compostezza faticosamente serbata si sbriciolò, il
fardello artificiosamente gonfiato della dignità gli scivolò dalle spalle troppo
strette, ridivenne un bambino, piccolo e insignificante come il giorno prima, e
prima ancora. Si sentì trascinare contro il suo volere. Con passi rapidi e
tremanti seguì il barone, e mentre quello stava imboccando le scale, gli
sbarrò il passo e disse stravolto, trattenendo a stento le lacrime: «Che cosa le
ho fatto, perché lei mi ignori in questo modo? Perché adesso mi tratta sempre
così? E la mamma pure? Perché cerca sempre di sbarazzarsi di me? Le do
fastidio? Oppure ho fatto qualcosa di male?»
Il barone rimase scosso. In quella voce c'era qualcosa che lo turbava e
inteneriva. Fu preso da compassione per l'ignaro ragazzino. «Edi, sei proprio
uno sciocco! Sai, oggi ero di cattivo umore. E tu sei un caro ragazzo, al quale
voglio veramente bene.» E intanto gli arruffava con forza i capelli, tenendo
però la faccia un po' voltata, per non dover fissare quegli occhi da bambino,
grandi, umidi, imploranti. La farsa che recitava cominciava a diventare
imbarazzante. In fondo già si vergognava di aver scherzato in maniera così
impudente con l'attaccamento passionale del ragazzino, e quella vocina
sottile, incrinata da sotterranei singhiozzi, gli faceva male. «Adesso sali, Edi,
va', stasera torneremo ad andare d'accordo, vedrai», disse bonariamente.
«Ma non permetterà che la mamma mi spedisca a letto subito, vero?»
«No, no, Edi, non lo permetterò», sorrise il barone. «Adesso va', da bravo,
devo cambiarmi per la cena.»
Edgar se ne andò, lì per lì felice. Ma presto il martello tornò a farsi vivo nel
cuore. Nello spazio di un giorno era invecchiato di anni; un estraneo - il
sospetto - si era ormai annidato stabilmente nel suo animo infantile.
Rimase in attesa. Era in gioco la prova decisiva. Stavano a tavola in
compagnia. Erano già le nove, ma la madre non lo mandava a letto. La cosa
lo inquietava. Perché proprio quella sera lasciava che stesse lì tanto a lungo,
mentre di solito era così precisa? Forse il barone le aveva rivelato il suo
desiderio e le cose che si erano dette?
All'improvviso si sentì amaramente pentito di essergli corso dietro con il
cuore aperto, fiducioso. Alle dieci sua madre si alzò d'un tratto e si congedò
dal barone. E stranamente anche lui non parve per nulla stupito di quella
precoce conclusione della serata, né, come era solito fare, cercò di
trattenerla. Sempre più forte il martello batteva nel petto del bambino.
Adesso era arrivato veramente al dunque. Anche lui fece finta di nulla e
senza obiettare seguì la madre verso la porta. Ma all'improvviso alzò di scatto
gli occhi. Ed effettivamente in quell'attimo captò un'occhiata sorridente che al
di sopra della sua testa lei stava giusto lanciando al barone, un'occhiata di
complicità, di segreta intesa. Sicché il barone lo aveva tradito. Per questo,
dunque, la serata si era conclusa così presto: volevano che si cullasse in una
tranquilla sicurezza, perché il giorno dopo non fosse più tra i piedi.
«Canaglia», mormorò il ragazzo.
«Che cos'hai detto?» domandò la madre.
«Niente», sibilò tra i denti. Adesso aveva anche lui il suo segreto. Il suo
nome: odio. Odio feroce nei confronti di entrambi.
Silenzio
Ora l'inquietudine di Edgar era cessata. Finalmente possedeva un
sentimento puro, chiaro: odio e inimicizia aperta. Adesso, dal momento che
era certo di essere di troppo, la loro compagnia si trasformava per lui in un
godimento di complicata perfidia. Si deliziava all'idea di disturbarli, di
ostacolarli finalmente con tutta la potenza della sua ostilità. Per prima cosa
mostrò i denti al barone. Quando quello scese al mattino e passando lo
salutò cordialmente con un «Ciao, Edi», Edgar, senza alzare gli occhi,
restando seduto in poltrona, per tutta risposta gli ringhiò un secco «'giorno».
«La mamma è già scesa?»
Edgar seguitò a leggere il giornale: «Non lo so».
Il barone rimase interdetto. Ma che storia era quella, adesso? «Dormito
male, Edi, vero?» La battuta intendeva, come al solito, calmare le acque. Ma
Edgar si limitò a buttargli là un «No», sprezzante e si immerse di nuovo nel
giornale.
«Povero scemo», mormorò tra sé il barone, alzò le spalle e passò oltre.
La guerra era dichiarata.
Anche verso la mamma Edgar dimostrò una fredda cortesia. Frustrò
tranquillamente un maldestro tentativo di spedirlo al campo da tennis.
Il sorrisino appena accennato sulle labbra, con una lieve punta di
amarezza, stava a indicare che non era più disposto a farsi turlupinare.
«Preferisco fare una passeggiata con voi, mamma», disse con gentilezza
ipocrita, fissandola negli occhi.
Chiaramente la risposta non le tornò gradita. Esitò, come se cercasse
qualcosa. «Aspettami qui», decise alla fine e andò a fare colazione.
Edgar attese. Ma la sua diffidenza era desta. Adesso un istinto inquieto
leggeva dietro ogni parola di quei due una segreta intenzione ostile. A volte il
sospetto gli conferiva una singolare perspicacia nelle decisioni. E invece di
aspettare nella hall, come gli era stato detto, Edgar preferì appostarsi sulla
strada, da dove poteva tenere d'occhio non solo l'ingresso principale, ma
tutte le porte. Qualcosa in lui fiutava l'imbroglio. Ma stavolta non dovevano
più sfuggirgli. Per strada si nascose dietro una catasta di legna, come aveva
imparato dai suoi libri sugli indiani. E rise soddisfatto, quando circa mez'ora
più tardi vide effettivamente sua madre uscire da una porta laterale con un
magnifico mazzo di rose in mano, seguita da quel traditore del barone.
Entrambi sembravano molto euforici. Si sentivano già sollevati per il fatto di
essergli sfuggiti e di potersi godere da soli il loro segreto?
Conversando, ridevano e si accingevano a scendere per il sentiero del
bosco.
Adesso era arrivato il momento. Come per caso, Edgar uscì bel bello da
dietro la catasta. Con tutta calma si avviò verso di loro, prendendosela
comoda, molto comoda, per godersi a fondo la loro sorpresa. I due rimasero
interdetti e si scambiarono un'occhiata stizzosa. Lentamente, con simulata
naturalezza, il ragazzino li raggiunse, senza distogliere da loro lo sguardo
irridente. «Ah, ma sei qui, Edi? Ti abbiamo cercato in albergo», disse
finalmente la madre. Che bugiarda spudorata, pensò il bambino. Ma le labbra
rimasero serrate, a tenere il segreto dell'odio dietro i denti.
Tutti e tre stettero lì indecisi. Uno spiava l'altro.
«Allora, andiamo», disse rassegnata e contrariata la donna, strappando i
petali a una delle splendide rose. Intorno alle narici un lieve tremito, che in lei
era indice di rabbia. Edgar rimase lì, come se la cosa non lo riguardasse,
guardando per aria e aspettando che se ne andassero, poi si apprestò a
seguirli. Il barone fece ancora un tentativo:
«Oggi c'è il torneo di tennis. Hai mai assistito a una competizione del
genere?» Edgar si limitò a guardarlo con disprezzo. Neanche si prese la
briga di rispondergli, storse appena le labbra, come per fischiare. Questo era
quanto. Il suo odio mostrava i denti.
Sicché la sua indesiderata presenza venne a pesare sui due come un
incubo. Così i carcerati seguono il secondino, stringendo i pugni di nascosto.
Veramente il bambino non faceva nulla, eppure ogni minuto riusciva loro più
insopportabile con i suoi sguardi sornioni, umidi di lacrime, con la musoneria
irritata, che frustrava ogni tentativo di avvicinamento. «Ma va' un po' avanti»,
sbottò a un certo punto con rabbia la madre, preoccupata perché lui drizzava
in continuazione l'orecchio. «Non mi ballare sempre davanti ai piedi, mi
innervosisce!» Edgar obbediva, ma dopo pochi passi si voltava, fermandosi
ad aspettarli, quando erano rimasti indietro, circuendoli mefistofelicamente
con il suo sguardo come il barboncino nero e irretendoli nella ragnatela
rovente dell'odio, in cui si sentivano inestricabilmente prigionieri.
Il suo perfido silenzio corrodeva come un acido il loro buonumore, il suo
sguardo guastava a entrambi le parole in bocca. Il barone non osava più
pronunciare una sola parola seducente, avvertiva con rabbia che quella
donna gli stava di nuovo sfuggendo, che la sua passionalità faticosamente
attizzata si andava raffreddando per paura di quell'antipatico e odioso
bambino. Cercarono continuamente di riprendere il filo del discorso, ma la
conversazione si arenava immancabilmente.
Alla fine tutti e tre si rassegnarono a percorrere in silenzio il cammino, altro
non udendo, se non il mormorante confricare degli alberi e il loro passo
infastidito. Il ragazzino aveva strozzato la loro conversazione.
Adesso in tutti e tre c'era una ostilità velenosa. Con sommo godimento il
bambino tradito vedeva la loro rabbia montare impotente contro la sua
persona che non veniva tenuta in considerazione. Con sguardi ammiccanti di
scherno sfiorava ogni tanto la faccia contratta del barone. Lo vedeva
digrignare tra i denti ingiurie e costretto a controllarsi, per non rovesciargliene
addosso, e nello stesso tempo registrava con gioia diabolica anche la collera
montante della madre: entrambi aspettavano soltanto un pretesto per saltargli
addosso, per spingerlo da parte o renderlo inoffensivo. Ma lui non forniva
l'occasione, il suo era un odio lungamente calcolato e non offriva punti deboli.
«Torniamo indietro», disse a un certo punto la madre. Sentiva che non
sarebbe riuscita a controllarsi oltre, che avrebbe dovuto fare qualcosa,
perlomeno urlare a causa di quella tortura. «Che peccato», disse Edgar
serafico, «è così bello.»
Entrambi si resero conto che il ragazzino li prendeva in giro. Ma non
osarono dire nulla: in due giorni quel tiranno aveva imparato a controllarsi in
modo assolutamente meraviglioso. Non un muscolo del volto tradiva l'ironia
tagliente. Senza dire una parola rifecero il lungo tragitto. In lei l'irritazione
seguitava a covare sorda, quando poi si ritrovò sola con il figlio nella stanza.
Buttò da una parte con stizza l'ombrellino e i guanti. Edgar capì subito che i
nervi della madre erano tesi e avevano bisogno di scaricarsi, ma lui cercava
appunto la scenata e rimase apposta nella stanza, per provocarla. Lei
camminava avanti e indietro, tornava a sedersi, tamburellava sul tavolo con le
dita, poi scattava in piedi di nuovo. «Sei tutto arruffato, vai in giro tutto sporco!
É una vergogna di fronte alla gente. Non ti vergogni, alla tua età?» Senza
una parola di replica il ragazzino andò a pettinarsi. Quel silenzio, quel tacere
ostinato, freddo, con quell'aria di irrisione sulle labbra, la faceva impazzire di
rabbia. Avrebbe voluto riempirlo di botte. «Vattene in camera tua», gli urlò.
Non riusciva più a sopportare la sua presenza. Edgar sorrise e uscì.
Come tremavano adesso, quei due, davanti a lui! Quanta paura avevano, il
barone e lei, di ogni momento da passare in compagnia, della morsa dura,
spietata, dei suoi occhi! Più loro si sentivano a disagio, e più lo sguardo del
ragazzo sprizzava soddisfazione, più la sua gioia si faceva provocatoria. Ora
Edgar tormentava i due inermi con tutta la crudeltà quasi ancora bestiale dei
bambini. Il barone riusciva ancora a frenare la propria rabbia, perché sperava
di rendergli prima o poi la pariglia e comunque pensava soltanto al suo
obiettivo. Ma lei, la madre, perdeva in continuazione le staffe. Per lei era un
sollievo poterlo investire in malo modo.
«Non giocare con la forchetta», gli sibilava a tavola. «Sei uno screanzato,
non meriti proprio di stare a tavola con i grandi.» Edgar si limitava a sorridere,
tenendo la testa leggermente piegata da un lato. Sapeva che quello
schiamazzo era disperazione, ed era fiero che loro si tradissero in quel modo.
Adesso il suo sguardo era assolutamente tranquillo, come quello di un
medico. Un tempo forse sarebbe stato maligno, per farla arrabbiare, ma
odiando si impara molto e presto. Ora si limitava a tacere, taceva a oltranza,
finché lei si metteva a urlare sotto la pressione del suo silenzio.
Sua madre era arrivata al limite della sopportazione. Come si alzarono da
tavola e Edgar si apprestò nuovamente a seguirli con quel suo naturale
attaccamento, lei sbottò furibonda. Dimenticò ogni riguardo e sputò la verità.
Torturata dalla presenza subdola del figliolo, si inalberò come un cavallo
tormentato dalle mosche. «Perché continui a corrermi dietro come un
bambino di tre anni? Non desidero averti sempre appresso. I bambini non
devono stare con gli adulti. Tienilo a mente!
Occupati una volta tanto di te stesso. Leggi qualcosa oppure fa' quello che
ti pare. Lasciami in pace! Mi innervosisci con il tuo strisciare attorno, con la
tua odiosa scontrosità.»
Finalmente gliela aveva estorta, la confessione! Edgar sorrise, mentre il
barone e lei adesso parvero imbarazzati. La madre si voltò e fece per
andarsene, in collera con se stessa, per aver confessato al bambino il proprio
disagio. Ma Edgar si limitò a dire freddamente: «Papà non vuole che io qui
vada in giro da solo. Papà mi ha fatto promettere che sarò prudente e non mi
allontanerò da te».
Calcò sulla parola «papà», perché già si era accorto che aveva un certo
effetto deterrente sui due. Dunque anche suo padre doveva in qualche modo
essere coinvolto in quello scottante segreto. Papà doveva avere sui due un
qualche segreto potere che lui non conosceva, perché la sola menzione del
suo nome metteva loro paura e disagio. Anche stavolta non aprirono bocca.
Si erano arresi. La madre si avviò con il barone. Edgar li seguì, ma non
deferente come un servitore, bensì duro, severo e inflessibile come un
carceriere. Invisibilmente faceva tintinnare la catena da cui loro cercavano di
liberarsi, senza riuscire a spezzarla.
L'odio aveva temprato la sua forza di bambino, lui, l'ignaro, era più forte di
quei due, ai quali il segreto legava le mani.
I bugiardi.
Ma il tempo stringeva. Al barone restavano soltanto pochi giorni, e
bisognava sfruttarli. Si rendevano conto che era inutile opporsi alla
testardaggine del ragazzino scatenato e perciò ricorsero alla scappatoia
estrema, più ignominiosa: alla fuga, per sottrarsi solamente un'ora o due alla
sua tirannia.
«Spediscimi alla posta queste lettere raccomandate», disse la madre a
Edgar. I due erano nella hall, il barone stava parlando fuori con un
fiaccheraio.
Edgar prese con malfidenza le due lettere. Aveva visto, prima, un
cameriere consegnare a sua madre una missiva. Che stessero magari
tramando in combutta qualcosa contro di lui?
Esitò.
«Dove mi aspetti?»
«Qui.»
«Sicuro?»
«Sì.»
«Ma non andartene! Allora tu mi aspetti qui nella hall fino al mio ritorno,
capito?» Sentendosi in superiorità, ormai parlava con la madre in tono di
comando. Negli ultimi due giorni erano cambiate molte cose.
Poi si avviò con le due lettere. Sulla porta si imbatté nel barone. Per la
prima volta da due giorni gli rivolse la parola.
«Faccio un salto a spedire queste due lettere. Mia mamma mi aspetta
finché ritorno. La prego di non andare via prima.»
Il barone sgusciò lesto. «Sì, certo, aspetteremo.»
Edgar si precipitò all'ufficio postale. Dovette attendere. Un signore davanti
a lui si dilungava in una serie di noiosi quesiti. Finalmente riuscì a sbrigare la
faccenda e tornò di volata con le ricevute. Giusto in tempo per vedere sua
madre e il barone prendere il largo in carrozza.
Rimase impietrito dalla rabbia. Per poco non raccattava un sasso e glielo
tirava dietro. Dunque gli erano sfuggiti, ma con quale infame e abietta
menzogna! Che sua madre mentisse, gli era noto dal giorno prima.
Ma che potesse essere così spudorata da infrangere una esplicita
promessa, gli tolse ogni residuo di fiducia. Non riusciva più a capire la vita, da
quando si era reso conto che le parole, dietro le quali pensava stesse la
realtà, erano soltanto bolle di sapone iridescenti, sfere effimere che
scoppiando svanivano nel nulla. Ma quanto doveva essere tremendo un
segreto che induceva delle persone adulte a ingannare lui, un bambino, e a
svignarsela come dei malfattori! Nei libri che aveva letto, la gente uccideva e
imbrogliava per conquistare denaro, potere o reami. Ma lì, qual era il motivo,
che cosa volevano quei due, perché si nascondevano di fronte a lui, che cosa
cercavano di celare dietro cento menzogne? Si torturava il cervello.
Oscuramente avvertiva che quel segreto era il catenaccio dell'infanzia, che la
sua conquista significava essere un adulto, finalmente un uomo. Ah, poterlo
afferrare!
Ma non riusciva più a ragionare con chiarezza. La rabbia per il fatto che gli
fossero sfuggiti la tormentava e offuscava la sua lucidità.
Corse fuori nel bosco, a stento riuscì a riparare nel buio, dove nessuno
poteva vederlo, e lì trovò sfogo, in un fiume di lacrime ardenti.
«Bugiardi, cani, impostori, farabutti»:, dovette urlare queste parole a voce
alta, altrimenti soffocava. La rabbia, l'insofferenza, l'irritazione, la curiosità,
l'impotenza e il tradimento degli ultimi giorni, che aveva represso nella sua
lotta infantile, nella sua presunzione di essere ormai adulto, a quel punto
dilaniarono il petto e divennero lacrime. Era l'ultimo pianto della sua infanzia,
l'ultimo pianto senza freno, per l'ultima volta si abbandonava femmineamente
alla voluttà delle lacrime. In quel momento di indicibile rabbia scaricò nelle
lacrime tutto ciò che aveva dentro: fiducia, amore, credulità, rispetto, tutta la
sua infanzia.
Il ragazzo che poi tornò in albergo era un altro. Era freddo e agiva con
premeditazione. Per prima cosa andò nella sua stanza, si lavò con cura la
faccia e gli occhi, per non dare ai due la soddisfazione di vedere le tracce
delle sue lacrime. Poi preparò la resa dei conti. E attese paziente, senza il
minimo nervosismo.
La hall era piuttosto affollata, quando fuori ricomparve la carrozza con i due
fuggitivi. Un paio di signori giocavano a scacchi, altri leggevano il giornale, le
signore scambiavano quattro chiacchiere.
In mezzo a loro sedeva immobile, un po' pallido, con occhio ansioso, il
ragazzino. Come la madre e il barone entrarono, un po' imbarazzati di
trovarselo davanti così all'improvviso e già accingendosi a farfugliare la scusa
preparata, lui li affrontò con calma dignità e disse in tono di sfida: «Signor
barone, vorrei dirle una cosa».
Il barone si sentì a disagio. Era come se lo avessero colto sul fatto.
«Sì, certo, più tardi, senz'altro!»
Ma Edgar alzò la voce e disse forte e secco, perché tutti intorno potessero
sentirlo: «Ma io le voglio parlare adesso. Lei si è comportato in modo abietto.
Lei mi ha mentito. Lei sapeva che mia mamma mi stava aspettando, ed è...»
«Edgar!» gridò la madre, vedendo tutti gli occhi fissi su di lei, e gli andò
addosso.
Ma il ragazzo, come si avvide che volevano tappargli la bocca gridando più
forte, si mise a strillare parossisticamente: «Lo ripeto di fronte a tutta la gente.
Lei ha mentito in modo infame, e questo è vile, questo è miserabile».
Il barone impallidì, i presenti lumavano, certuni ridacchiando.
La madre afferrò il bambino che tremava dall'eccitazione. «Vieni subito in
camera tua, altrimenti ti pesto qui davanti a tutti», balbettò rauca.
Ma Edgar aveva già ritrovato la calma. Gli dispiaceva di aver perso le staffe
a quel modo. Era scontento di sé, perché in effetti voleva sfidare il barone
con freddezza, ma la rabbia era stata più forte della sua volontà.
Tranquillamente, senza fretta, si avviò verso le scale.
«Signor barone, la prego di scusare la sua villania. Come ben sa, è un
bambino nervoso», farfugliò ancora, confusa dalle occhiate un po' maligne
della gente puntate su di lei. Niente al mondo per lei era più terribile di uno
scandalo, ed era consapevole che a quel punto doveva darsi un contegno.
Invece di prendere il largo, andò prima dal portiere, chiedendo se c'erano
lettere e altre cose di poco conto, e poi si avviò di sopra, come se nulla fosse
successo. Ma alle sue spalle sciabordava lieve una scia di sussurri e di risa
represse.
Strada facendo rallentò il passo. Di fronte alle situazioni serie era sempre
smarrita e in fondo aveva paura di quella spiegazione. Non poteva negare di
essere in colpa, e poi temeva lo sguardo del figliolo, quello sguardo nuovo,
sconosciuto, così strano, che la paralizzava e la rendeva insicura. Per timore,
decise di provarci con la dolcezza. Perché sapeva che in caso di scontro
aperto quel ragazzino scatenato adesso era il più forte.
Aprì piano la porta. Il ragazzo era seduto lì, tranquillo e freddo. Gli occhi
che alzò su di lei erano del tutto privi di paura, non esprimevano neppure
curiosità. Pareva molto sicuro di sé.
«Edgar», cominciò in un tono il più possibile materno, «che cosa ti è saltato
in mente? Mi sono vergognata per te. Come si può essere così maleducati?
Tanto più, poi, da parte di un bambino verso un adulto! Vedi di fare subito le
tue scuse al signor barone.»
Edgar guardava fuori dalla finestra. Il «no» lo disse propriamente agli alberi
di fronte.
La sua sicurezza cominciava a irritarla.
«Edgar, ma che cosa ti sta succedendo? Sei così diverso dal solito! Non ti
riconosco più. Sei sempre stato un bambino intelligente, educato, con cui si
poteva parlare. Di colpo ti comporti come se avessi il diavolo in corpo. Ma
che cos'hai contro il barone? Gli eri così affezionato. E lui è sempre stato
gentile con te.»
«Già. Perché voleva conoscere te.»
Si sentì a disagio. «Storie! Che cosa ti salta in mente? Come puoi pensare
una cosa simile?»
Ma il ragazzino si ribellò.
«É un bugiardo, un essere falso. Ogni cosa che fa è calcolo e bassezza.
Voleva conoscerti: ecco perché era gentile con me e mi ha promesso un
cane. Non so che cosa ha promesso a te e perché è gentile con te, ma
certamente anche da te, mamma, vuole qualcosa. Altrimenti non sarebbe
così cortese e gentile. E un essere malvagio. Mente. Guarda bene, una volta,
i suoi occhi da falso. Ah, io lo odio, quel miserabile bugiardo, quel
farabutto...»
«Ma Edgar, come puoi dire una cosa simile?» Era sconvolta e non sapeva
che cosa rispondere. Dentro di sé avvertiva una sensazione che dava
ragione al figliolo.
«Sì, è un farabutto, questo non me lo lascio togliere dalla testa. Tu stessa
dovresti rendertene conto. Perché ha paura di me? Perché si nasconde
davanti a me? Perché sa che io ho capito le sue intenzioni, che l'ho
smascherato, quel farabutto!»
«Come puoi dire una cosa simile? Come puoi dire una cosa simile?» Il
cervello di lei era prosciugato, solo le labbra esangui seguitavano a
balbettare queste due frasi. All'improvviso fu presa da una tremenda paura,
senza capire se fosse paura del barone oppure del bambino.
Edgar vide che il suo avvertimento faceva effetto. E fu tentato di tirarla
dalla sua parte, di farsela alleata nell'odio, nell'inimicizia verso il barone. Si
accostò teneramente alla madre, la abbracciò, e la sua voce divenne
suadente dall'emozione.
«Mamma», disse, «tu stessa ti sarai accorta che le sue intenzioni non sono
buone. Lui ti ha completamente trasformata. Tu sei cambiata, non io. Lui ti ha
messa contro di me, per averti per sé solo. E certo che ti vuole ingannare.
Non so che cosa ti ha promesso. So soltanto che non lo manterrà. Dovresti
stare in guardia da lui. Chi mente a uno, mente anche all'altro. É un essere
malvagio, di cui non ci si deve fidare.»
Quella voce tenera e quasi in lacrime le pareva uscire dal proprio cuore.
Dal giorno precedente era sorto in lei un disagio che le diceva la medesima
cosa: sempre più insistentemente. Ma si vergognava di dare ragione al suo
bambino. E, come tanti, dall'imbarazzo di un sentimento travolgente cercò
scampo nella rudezza dell'espressione. Si inalberò.
«I bambini non capiscono queste cose. Non spetta a te mettere becco in
faccende del genere. Tu devi comportarti educatamente. E basta.»
La faccia di Edgar tornò a farsi gelida. «Come credi», disse con durezza,
«io ti ho avvertito.»
«Sicché non intendi scusarti?»
«No.»
Il contrasto era stridente. Lei si rendeva conto che era in ballo la propria
autorità.
«Allora mangerai qui in camera. Da solo. E non tornerai a tavola con noi
prima di esserti scusato. Ti insegnerò io le buone maniere. Non uscirai da
questa stanza, finché non te lo dirò io. Hai capito?»
Edgar sorrise. Quel risolino perfido sembrava ormai impresso stabilmente
sulle sue labbra. Dentro di sé era arrabbiato con se stesso. Quanto era stato
sciocco da parte sua allentare ancora una volta le briglie al cuore, nell'intento
di mettere in guardia quella bugiarda.
La madre uscì, senza degnarlo di uno sguardo. Temeva quegli occhi
taglienti. Il ragazzino la metteva a disagio, da quando si era accorta che
teneva gli occhi bene aperti e le diceva ciò che lei non voleva sapere né
udire. Per lei era terribile vedere la propria voce interiore, la propria coscienza
andare in giro scissa da lei, nelle sembianze di un bambino, del suo bambino,
come monito irridente. Fino allora quel bambino era stato un'appendice della
sua esistenza, un ornamento, un giocattolo, qualcosa di caro e di familiare, a
volte magari anche un peso, ma comunque qualcosa che seguiva il
medesimo flusso in sintonia con la sua vita. Adesso per la prima volta si
inalberava e recalcitrava al volere di lei. E il ricordo del suo bambino ora era
costantemente venato da qualcosa di simile all'odio.
E tuttavia, mentre, un poco stanca, scendeva le scale, la voce infantile le
risuonava da dentro. «Dovresti stare in guardia da lui.» Non le riusciva di
tacitare l'avvertimento. Nel passare le balenò davanti uno specchio, lo fissò
interrogativa, a fondo, sempre più a fondo, finché le sue labbra si schiusero in
un lieve sorriso e si arcuarono come a formare una parola temeraria. Ancora
risuonava dall'interno la voce; ma lei alzò le spalle, quasi per scuotersi di
dosso tutti quegli scrupoli invisibili, diede allo specchio un'occhiata luminosa,
sollevò il vestito e scese con il gesto deciso di un giocatore che butta sul
tavolo la sua ultima sonante moneta d'oro.
Tracce al chiaro di luna
Il cameriere, che aveva portato il pasto a Edgar nella stanza dove era agli
arresti domiciliari, richiuse la porta, facendo scattare la serratura. Il ragazzino
ebbe un gesto di stizza: evidentemente la madre aveva disposto che lo si
rinchiudesse come una bestia feroce. Cupi pensieri gli affiorarono alla mente.
Adesso che cosa succede da basso, mentre io sono rinchiuso qui? Che cosa
staranno tramando adesso quei due? Magari proprio ora là accade la cosa
segreta, e così non posso essere presente? Ah, questo segreto che io
avverto sempre e ovunque, quando mi trovo in mezzo agli adulti, davanti al
quale sbarrano la porta di notte, che avvolgono in un parlottare sommesso,
se per caso entro, questo grande segreto che da giorni è a un passo da me,
a portata di mano, e tuttavia non si lascia afferrare! Che cosa non ho già
fatto, per svelarlo! A suo tempo ho sottratto dallo scrittoio di papà certi libri e li
ho letti, e dentro c'erano tutte quelle strane cose, solo che io non le ho capite.
Deve esserci come un sigillo, che prima va tolto per arrivarci, forse in me,
forse negli altri. Ho chiesto alla donna di servizio, l'ho pregata di spiegarmi
quei passi dei libri, ma lei mi ha riso in faccia. Terribile, essere un bambino
pieno di curiosità e non poter chiedere a nessuno, essere sempre ridicoli agli
occhi dei grandi, come qualcosa di sciocco o di inutile. Ma ci arriverò, lo
sento, tra poco lo saprò. Una parte è già nelle mie mani, e non desisterò
prima di avere scoperto tutto quanto! Tese l'orecchio, per sentire se arrivava
qualcuno. Fuori un lieve vento passava tra gli alberi, spezzando in cento
schegge baluginanti tra i rami lo specchio immobile del chiaro di luna. Non
può essere niente di buono quello che i due hanno in mente di fare, altrimenti
non avrebbero escogitato menzogne così miserabili, per togliermi di torno.
Certo, ora rideranno di me, quei maledetti, perché finalmente non sono più tra
i piedi, ma io riderò per ultimo. Quanto è sciocco da parte mia lasciare che mi
rinchiudano qua dentro, dare loro un attimo di libertà, anziché stargli
appiccicato, spiando ogni loro mossa. So che i grandi sono sempre
imprudenti, e anche loro finiranno per tradirsi. Credono sempre che noi siamo
ancora molto piccoli e che la notte dormiamo sempre, dimenticano che si può
anche fingere di dormire e stare in ascolto, che si può fare i tonti ed essere
molto furbi.
Ultimamente, quando mia zia ha avuto un bambino, loro lo sapevano già
da un pezzo ma davanti a me hanno fatto la scena di cadere dalle nuvole,
come se la cosa li avesse sorpresi. Ma anch'io lo sapevo, perché li ho sentiti
parlare, settimane prima, la sera, mentre credevano che io dormissi. E così
anche stavolta io li sorprenderò, quegli infami. Ah, se potessi sbirciare
attraverso la porta, spiarli ora furtivamente, mentre si credono sicuri! O forse
dovrei suonare il campanello, così verrebbe la cameriera, aprirebbe la porta e
chiederebbe che cosa desidero. Oppure potrei fare chiasso, spaccare le
stoviglie, allora verrebbero ad aprire.
E in quell'istante potrei sgusciare fuori e ascoltare di nascosto i loro
discorsi. Ma no, questo non lo voglio fare. Nessuno deve vedere con quale
bassezza quelli mi trattano. Sono troppo orgoglioso per farlo.
Domani gliela farò pagare cara.
Da basso scoppiò a ridere una voce di donna. Edgar trasalì: poteva essere
sua madre. Quella aveva tutti i motivi per ridere, per farsi beffe di lui, del
bambino, della creatura indifesa, che si poteva rinchiudere girando una
chiave, quando era d'impiccio, buttare in un angolo come un fagotto di abiti
fradici. Si sporse con cautela dalla finestra. No, non era lei, si trattava di certe
ragazze sconosciute in vena di scherzi, che prendevano in giro un
ragazzotto.
E in quell'istante si rese conto che in fondo la sua finestra non era poi tanto
alta da terra. E come lo notò, ecco l'idea: saltare giù, mentre quelli si
sentivano del tutto sicuri, e spiarli. Era euforico dalla gioia per la sua trovata.
Gli pareva di tenere stretto nelle mani il grande, balenante segreto della
fanciullezza. Fuori, fuori, lo incitava da dentro un tremito febbrile. Non c'era
pericolo. Gente non ne passava, e già era fatto il balzo. Ci fu un leggero
rumore di ghiaia smossa, ma non lo sentì nessuno.
Appostarsi, spiare, in quei due giorni era diventato la passione della sua
vita. E ora sentiva un voluttuoso piacere, misto a un leggero brivido di paura,
nel girare intorno all'albergo con passi silenziosi, evitando con cura il riflesso
molto intenso delle luci. Per prima cosa, la guancia cautamente premuta
contro il vetro, scrutò nella sala da pranzo. Il loro posto consueto era vuoto.
Dopo di che continuò la sua indagine, di finestra in finestra. Dentro l'albergo
non osò entrare, per timore di trovarseli davanti fortuitamente in qualche
corridoio. Dei due, nemmeno l'ombra. Stava già disperando, quando vide due
ombre proiettarsi sull'ingresso - si ritrasse di scatto e si acquattò nel buio - e
sua madre uscire con l'immancabile accompagnatore. Sicché era arrivato
giusto in tempo. Che cosa stavano dicendo? Non riusciva a captarlo.
Parlavano sottovoce, e il vento strepitava troppo agitato tra gli alberi.
A un certo punto però intese chiaramente una risata, la voce di sua madre.
Era una risata che in lei gli riusciva nuova, stranamente acuta, come titillata,
eccitata, nervosa, da lui mai udita e tale da spaventarlo. Rideva. Quindi non
poteva essere qualcosa di pericoloso, di grande e di eccezionale, quello che
gli tenevano nascosto. Edgar era un po' deluso.
Ma perché erano usciti dall'albergo? Dove stavano andando ora, da soli,
nella notte? Molto in alto dovevano fluttuare con ali smisurate i venti, perché il
cielo, un attimo prima ancora limpido e rischiarato dalla luna, adesso si
oscurò. Drappi neri, lanciati da invisibili mani, avvolgevano a tratti la luna, e
allora la notte diventava così impenetrabile, che a stento si riusciva a
scorgere la strada, e poi tornava a splendere luminosa, quando la luna si
scopriva. Argento inondava freddo il paesaggio. Era misterioso questo gioco
tra luce e ombra, ed eccitante come il gioco di una donna tra nudità e
occultamento. Proprio ora il paesaggio tornava a denudare il suo corpo
lucente: Edgar, stando di costa sopra la strada, vedeva le sagome procedere,
o meglio una sola, perché camminavano stretti stretti, come se una paura
interiore li compattasse. Ma dove stavano andando ora, quei due? I pini
scricchiavano, nel bosco era tutto uno strepitio sinistro, come se dentro
infuriasse una caccia selvaggia. Io li seguo, pensò Edgar, non possono
sentire i miei passi in questa agitazione del vento e del bosco. E mentre loro
in basso procedevano sulla strada larga, chiara, lui, in lato, nel bosco,
balzava quatto da un albero all'altro, da un'ombra all'altra. Li seguiva tenace e
inesorabile, benedicendo il vento che copriva il rumore dei suoi passi, e
maledicendolo, perché si portava via continuamente le loro parole. Soltanto
se fosse riuscito a captare i loro discorsi, era certo di tenere in pugno il
segreto. I due in basso camminavano ignari. Si sentivano beatamente soli in
quella vasta notte scompigliata e persi nella loro crescente eccitazione. Non
immaginavano minimamente che, nell'oscurità intricata di rami, ogni loro
passo era seguito e due occhi li artigliavano con tutta la forza dell'odio e della
curiosità. D'un tratto si fermarono. Anche Edgar si bloccò all'istante e si
appiattì contro un tronco. Fu preso da una paura sconvolgente. E se adesso
tornavano indietro, e arrivavano in albergo prima di lui? Se lui non riusciva a
mettersi in salvo nella sua stanza, e la madre la trovava vuota? Allora tutto
era perduto, allora avrebbero saputo che lui li spiava di nascosto, e non c'era
più speranza di strappare loro il segreto. Ma i due indugiarono,
evidentemente per una divergenza di opinioni. Per fortuna c'era il chiaro di
luna, e lui poté vedere tutto nitidamente. Il barone indicava un viottolo laterale
buio e stretto, che portava giù a valle, dove la luce lunare non fluiva piena e
ampia come sulla strada, ma filtrava solo a gocce e strani raggi attraverso la
boscaglia. Perché vuole scendere per di là? si interrogò Edgar. Sua madre
pareva dire di no, ma l'altro cercava di convincerla.
Dai suoi gesti si poteva arguire l'insistenza di lui. Il ragazzino prese paura.
Che cosa voleva quell'individuo da sua madre? Perché il farabutto cercava di
trascinarla al buio? Dai suoi libri, che per lui erano il mondo, affiorarono
all'improvviso vividi ricordi di assassinii e rapimenti, di foschi delitti.
Certamente quello voleva ucciderla, e per questo aveva tenuto lontano lui e
attirato lì da sola lei. Doveva gridare aiuto? Assassino! Il grido gli stava già in
cima alla gola, ma le labbra erano prosciugate e incapaci di emettere un
suono. I nervi si tesero per l'agitazione, stentava a reggersi in piedi, nel
parossismo dell'angoscia cercò un sostegno: e un ramo gli si spezzò in
mano.
I due si voltarono spaventati, gli occhi fissi nell'oscurità. Edgar restò
appoggiato in silenzio all'albero, le braccia strette contro il piccolo corpo
celato nell'ombra. Un silenzio di tomba. Eppure parvero spaventati.
«Torniamo indietro», sentì dire sua madre. Il suono della voce denotava
paura.
Il barone, evidentemente allarmato anche lui, acconsentì. Lentamente,
tenendosi stretti, ritornarono sui loro passi. Il loro turbamento interiore fu la
fortuna di Edgar. A quattro zampe nel sottobosco, graffiandosi a sangue le
mani, strisciò fino alla svolta del bosco, poi a tutta velocità, con il fiato mozzo,
si precipitò all'albergo e di volata in camera. Fortunatamente la chiave che lo
aveva rinchiuso era infilata nella toppa all'esterno, la girò, piombando nella
stanza e sul letto. Dovette rilassarsi qualche minuto, perché il cuore gli
batteva frenetico nel petto come un battacchio contro il bronzo sonoro della
campana.
Poi osò alzarsi, si accostò alla finestra e attese che arrivassero. Ci volle
molto. Dovevano essere andati pianissimo. Con circospezione spiava
dall'apertura in ombra. Ed eccoli arrivare lentamente, chiaro di luna sparso
sui vestiti. Il loro aspetto era spettrale in quella luce verde, e di nuovo lo prese
un delizioso orrore: se quello era veramente un assassino, quale atroce
delitto aveva impedito con la sua presenza.
Scorgeva nitidamente i loro volti di gesso. In quello di sua madre c'era
un'espressione estatica che in lei gli riusciva nuova, mentre mi aveva un'aria
tesa e seccata. Evidentemente, perché le sue intenzioni erano fallite.
Ormai erano molto vicini. Solo a due passi dall'albergo le loro figure si
scostarono. Avrebbero guardato su? No, non lo fecero proprio. Mi hanno
dimenticato, pensò il ragazzino con una rabbia feroce, ma anche con un
segreto trionfo, ma io non ho dimenticato voi. Voi pensate certo che io dorma
o sia sparito dalla faccia della terra, ma avrete modo di scoprire il vostro
errore. Voglio starvi alle costole passo per passo, finché avrò strappato a
quel farabutto il segreto tremendo che non mi fa dormire. Farò saltare la
vostra congiura. Io non dormo.
Lentamente i due varcarono la porta. E mentre entravano uno dietro l'altra,
le sagome riflesse si fusero di nuovo per un attimo, come un'unica striscia
nera la loro ombra scomparve nella porta illuminata.
Poi, sotto il chiaro di luna, lo spiazzo davanti all'albergo tornò lucente come
una vasta distesa di neve.
L'aggressione
Edgar si ritrasse dalla finestra con il respiro affannoso. Era scosso
dall'orrore. Mai in vita sua era stato così vicino a qualcosa di analogamente
misterioso. Il mondo delle emozioni, delle avventure avvincenti, il mondo dei
suoi libri, fatto di assassinii e inganni, nella sua mente si collocava sempre là
dove stavano le favole, a un passo dai sogni, nell'irreale e nell'irraggiungibile.
Ma adesso di colpo lui pareva capitato in mezzo a quel mondo orribile, e tutto
il suo essere era scosso febbrilmente da un incontro così inatteso. Chi era
questo personaggio misterioso che all'improvviso era entrato nella loro vita
tranquilla? Era veramente un assassino, dato che cercava sempre di
appartarsi e di trascinare la madre nei luoghi bui? Sembrava incombere
qualcosa di orrendo. Non sapeva che cosa fare. L'indomani avrebbe
senz'altro scritto o telegrafato al padre. Ma la cosa non poteva accadere
subito, quella sera stessa? Infatti sua madre ancora non era tornata in
camera sua, ancora stava con quell'odioso estraneo.
Tra la porta interna e quella esterna a tappezzeria, di facile apertura, c'era
una adeguata intercapedine, non più grande dell'interno di un armadio per i
vestiti. Edgar sgusciò in quel ristretto spazio buio, per spiare i passi della
madre sul corridoio. Perché aveva deciso di non lasciarla sola nemmeno un
istante. Adesso, a mezzanotte, il corridoio era deserto, illuminato fiocamente
da un'unica fiamma. Finalmente - i minuti gli si dilatavano in modo
spaventoso - udì salire dei passi circospetti. Tese l'orecchio allo spasimo.
Non era l'andatura spedita di chi voglia raggiungere la propria stanza, ma si
trattava di passi strascicati, esitanti, molto rallentati, come per salire un
sentiero estremamente difficoltoso e ripido. E nel mentre un continuo
parlottare e sostare. Edgar tremava dall'eccitazione. Che fossero ancora in
due, lui sempre ancora con lei? Il parlottare era troppo distante. Ma i passi,
sebbene tuttora incerti, si fecero più vicini. E d'un tratto sentì la voce odiata
del barone dire piano qualcosa che non intese, e poi subito quella di sua
madre, con rapida ripulsa: «No, non oggi! No».
Edgar tremava, i due erano sempre più vicini, e lui doveva sentire tutto.
Ogni passo, per quanto felpato fosse, era una fitta al cuore. E come gli
pareva orrida la voce, quella voce suadente, ripugnante, dell'odioso farabutto!
«Non sia crudele. Lei era così bella stasera.» E l'altra, per risposta: «No, non
devo, non posso, mi lasci andare».
C'è una tale paura nella voce di sua madre, che il ragazzino si spaventa.
Ma che cosa vuole ancora quello da lei? Perché lei ha paura?
Intanto si sono avvicinati ancora e adesso devono stare proprio davanti alla
sua porta. Tremante e invisibile, Edgar è a un palmo da loro, appena
schermato dal sottile riquadro di stoffa. Ora le voci sono a un fiato.
«Venga, Mathilde, venga!» Di nuovo sente sua madre gemere, più
debolmente ormai, in una resistenza che sta cedendo.
Ma che cosa succede adesso? Sono andati oltre nel buio. La madre non è
entrata nella sua stanza, ma ha proseguito! Dove la sta trascinando?
Perché lei non parla più? Le ha messo un bavaglio, le sta strozzando la
gola? Le supposizioni lo fanno impazzire. Con mano tremante apre di una
spanna la porta. E nella penombra del corridoio scorge i due. Il barone ha
stretto il braccio intorno alla vita della madre e la conduce via quatto, mentre
lei sembra già cedere. Adesso si ferma davanti alla sua stanza. La vuole
trascinare via, si angoscia il bambino, ora vuole commettere l'atto orrendo.
Con uno scatto furibondo, sbatte la porta e si precipita fuori, alla volta dei
due. Sua madre caccia un urlo, vedendo qualcosa balzare all'improvviso dal
buio verso di loro, sembra svenire, sorretta a stento dal barone. Il quale però
nello stesso istante sente in faccia un piccolo, debole pugno, che gli pesta
duramente le labbra sui denti, qualcosa che gli si attacca al corpo con gli
artigli, come un gatto.
Lascia andare la donna atterrita, che scappa in un lampo, e alla cieca
risponde a cazzotti, prima ancora di sapere contro chi si stia difendendo.
Il ragazzino sa di essere il più debole, ma non desiste. Finalmente è giunto
il momento, lungamente atteso, di scaricare emotivamente tutto l'amore
tradito, tutto l'odio accumulato. Con i suoi piccoli pugni picchia alla disperata,
le labbra contratte in una rabbia febbrile, insensata. Adesso anche il barone
lo ha riconosciuto, anche lui è pieno di odio verso quella spia nell'ombra, che
gli ha guastato gli ultimi giorni e il gioco; risponde ai colpi senza complimenti,
dove capita capita. Edgar geme, ma non molla e non invoca aiuto. Per un
minuto lottano in silenzio, accanitamente, nel corridoio buio. A poco a poco il
barone si rende conto quanto sia ridicola la sua scazzottatura con un
ragazzino, lo afferra di brutto, per scaraventarlo via. Ma il piccolo, sentendo i
muscoli venire meno e sapendo che di lì a un attimo avrebbe perso la partita
come un cane bastonato, con rabbia feroce addenta quella mano solida,
robusta, che cerca di agguantarlo per la nuca.
Istintivamente il barone, morso, emette un urlo smorzato e lascia la presa,
un attimo soltanto, di cui il bambino approfitta, per scappare in camera sua e
tirare il chiavistello.
Solamente un minuto è durato questo scontro notturno. Nessuno, a destra
e a manca, lo ha sentito. Tutto tace, tutti sembrano immersi nel sonno.
Il barone si asciuga la mano insanguinata con il fazzoletto, scrutando
ansioso nel buio. Nessuno ci ha fatto caso. Solo in alto tremola un'ultima luce
inquieta, che a lui pare beffarda.
Tempesta
É stato un sogno, un brutto sogno insidioso? si domandò Edgar la mattina
dopo, risvegliandosi, con i capelli arruffati, da un nodo di angoscia. La testa
gli rintronava sordamente, le giunture sembravano irrigidite, di legno, e come
l'occhio gli corse giù sul corpo, si avvide con spavento di essere ancora
vestito. Saltò giù dal letto, andò traballante allo specchio e rabbrividì alla vista
della propria faccia pallida, stravolta, con un livido arrossato, gonfio, sulla
fronte. A fatica cercò di riordinare i pensieri e angosciosamente gli tornò in
mente tutto quanto: la zuffa notturna sul corridoio, il precipitoso ritorno in
camera, dove poi, in un tremito di febbre, si era buttato sul letto, vestito e
pronto a fuggire. Là doveva essersi addormentato, piombando in un sonno
greve, spesso, nei cui sogni poi tutto quanto si era ripetuto di nuovo, solo in
modo diverso e ancora più tremendo, con un odore umidiccio di sangue
fresco, a fiotti.
Passi scricchiolavano, in basso, sulla ghiaia, voci giungevano su, a volo,
come invisibili uccelli, e il sole penetrava a fondo nella stanza.
Doveva essere già mattino inoltrato, ma l'orologio, che consultò stranito,
segnava la mezzanotte: nell'agitazione si era dimenticato di ricaricarlo il
giorno prima. E questo stato di incertezza, l'idea di fluttuare vagamente nel
tempo, lo inquietava, senza contare la sensazione di non sapere che cosa
era effettivamente successo. Si rassettò in fretta e scese da basso con
apprensione e un vago senso di colpa nel cuore.
Nella sala della colazione sua madre sedeva sola al tavolo abituale.
Edgar provò sollievo per il fatto che non ci fosse il suo nemico e non
dovesse vedere la sua faccia odiosa, che la sera prima, in un accesso di
rabbia, aveva preso a pugni. Eppure, accostandosi al tavolo, si sentiva
insicuro.
«Buon giorno», salutò.
La madre non rispose. Neppure lo guardò, contemplando con strana fissità
il paesaggio in lontananza. Era molto pallida, aveva gli occhi leggermente
cerchiati e intorno alle narici quel tremito nervoso così indicativo della sua
irritazione. Edgar strinse le labbra. Quel silenzio lo angustiava. Infatti, non
sapeva se la sera prima avesse ferito gravemente il barone, e se lei avesse
notizia del loro scontro notturno.
E questa incertezza lo tormentava. Ma la faccia della madre rimase
talmente rigida, che non tentò nemmeno di guardarla, per timore che gli occhi
ora abbassati potessero all'improvviso spalancarsi dietro le palpebre calate e
abbrancarlo. Divenne del tutto silenzioso, non osava fare il minimo rumore,
con circospezione sollevava la tazza e la rimetteva giù guardando
furtivamente le dita della madre che giocherellavano molto nervosamente con
il cucchiaio e parevano rivelare nella loro contrazione una rabbia segreta. Per
un quarto d'ora sedette lì, in opprimente attesa di qualcosa che non
accadeva. Non una sola parola che lo liberasse. E quando poi la madre si
alzò, seguitando a ignorare la sua presenza, non sapeva che cosa fare: se
restare seduto al tavolo da solo, oppure seguirla. Alla fine si alzò, seguendola
sottomesso, mentre lei lo snobbava intenzionalmente, e intanto avvertiva
quanto fosse ridicolo quel suo strisciarle appresso. Accorciò
progressivamente il passo, per restare sempre più indietro, e la madre, senza
farci caso, entrò nella propria stanza. Quando finalmente Edgar arrivò lì, si
trovò davanti la porta inflessibilmente sbarrata.
Che cosa era successo? Non riusciva più a raccapezzarsi. La sicurezza del
giorno prima era svanita. Che avesse magari avuto torto, nel fare quella
aggressione? E forse gli stavano preparando una punizione o una nuova
umiliazione? Qualcosa doveva succedere, lo sentiva, qualcosa di terribile
doveva accadere quanto prima. Tra loro c'era l'oppressione di un temporale
in arrivo, la tensione elettrica di due poli carichi, che doveva scaricarsi nella
folgore. E questo pesante presentimento se lo portò appresso per quattro ore
di solitudine, da una stanza all'altra, finché le sue esili spalle di bambino
crollarono sotto l'invisibile soma, per cui a mezzogiorno si presentò a tavola
ormai del tutto contrito.
«Buon giorno», disse nuovamente. Doveva lacerare quel silenzio
minaccioso, tremendo che incombeva su di lui come una nube nera.
Di nuovo la madre non rispose, di nuovo ignorò la sua presenza. E con
nuovo sgomento Edgar si sentì di fronte a una collera meditata, massiccia,
quale mai aveva visto in vita sua. Fino allora le arrabbiature materne erano
state soltanto sfoghi collerici più dei nervi che dei sentimenti, rapidamente
dissolti in un sorriso di pacificazione.
Adesso invece - lo sentiva - aveva suscitato dal più profondo dell'animo di
lei un sentimento furibondo, ed era atterrito di fronte a questa violenza
incautamente destata. A stento riusciva a mandare giù un boccone. In gola si
era formato un groppo arido che rischiava di soffocarlo. La madre non
sembrò accorgersi di tutto questo. Soltanto alla fine, alzandosi, si voltò come
per caso e disse: «Dopo vieni di sopra, Edgar, ti devo parlare».
Il tono della voce non era minaccioso, ma così gelido, che a Edgar vennero
i brividi, come se gli avessero messo improvvisamente intorno al collo una
catena di ferro. La sua resistenza era infranta. In silenzio, come un cane
bastonato, la seguì su in camera.
Lei prolungò il tormento del figliolo, tacendo per alcuni minuti, durante i
quali lui sentì battere l'orologio e fuori un bambino ridere e dentro di sé il
cuore martellare nel petto. Ma anche in lei doveva esserci una grande
insicurezza, perché non lo guardava, mentre prese a parlargli, ma gli volgeva
le spalle.
«Non voglio più parlare del tuo comportamento di ieri. E stato
inqualificabile, e mi vergogno ancora adesso, se ci penso. Delle conseguenze
devi ringraziare soltanto te stesso. Ora ti voglio dire solamente questo: è
l'ultima volta che hai potuto stare liberamente in mezzo agli adulti. Ho scritto
adesso al tuo papà che ti ci vuole un precettore o un collegio, per imparare
l'educazione. Non intendo più arrabbiarmi per causa tua.»
Edgar ascoltava a capo chino. Sentiva che quella era solo una
introduzione, una minaccia, e attendeva preoccupato la sostanza.
«Ora farai subito le tue scuse al barone.»
Edgar ebbe un moto di stizza, ma lei non si lasciò interrompere.
«Il barone è partito oggi, e tu gli scriverai una lettera che ti detterò io.»
Edgar si agitò nuovamente, ma la madre fu irremovibile.
«Non ammetto obiezioni! Eccoti carta e penna, siediti!»
Edgar alzò lo sguardo. Gli occhi della madre erano duri, decisi, inflessibili.
Non l'aveva mai vista così, così perentoria e calma. Gli venne paura. Si
sedette, prese la penna, ma chinò la faccia sul tavolo.
«In alto, la data. Ci sei? Prima del destinatario, salta una riga. Bene!
Egregio signor barone! Punto esclamativo. Salta un'altra riga. Apprendo
ora con rincrescimento - ci sei? - con rincrescimento che lei ha già lasciato il
Semmering - Semmering con due emme -, e così mi tocca fare
epistolarmente ciò che intendevo fare di persona, cioè - un po' più svelto, non
è una prova di calligrafia! - chiederle scusa per il mio comportamento di ieri.
Come le avrà detto la mia mamma, sono tuttora convalescente da una grave
malattia e molto eccitabile. Per cui spesso vedo le cose con esagerazione e
poi subito me ne pento...»
La schiena curva sopra il tavolo si drizzò di scatto. Edgar si girò: la sua
resistenza si era ridestata.
«Questo non lo scrivo, questo non è vero!»
«Edgar!»
La voce di lei era minacciosa.
«Non è vero. Non ho fatto nulla di cui dovrei pentirmi. Non ho fatto niente di
male, per cui dovrei chiedere scusa. Io sono soltanto accorso in tuo aiuto,
quando tu lo hai invocato!»
Le labbra della madre divennero esangui, le narici tese.
«Io ho invocato aiuto? Tu sei pazzo!»
Edgar si arrabbiò. Balzò in piedi di scatto.
«Sì, hai invocato aiuto, là fuori sul corridoio, la notte scorsa, come lui ti ha
afferrato. 'Mi lasci, mi lasci', hai gridato. Talmente forte, che l'ho sentito fin
dentro la stanza.»
«Tu menti, non sono mai stata con il barone qui in corridoio. Mi ha
accompagnato soltanto fino alle scale...»
A Edgar si bloccò il cuore di fronte a questa spudorata menzogna. La voce
gli venne meno, e fissò la madre con occhio vitreo.
«Tu... non eri... in corridoio? E lui... lui non ti teneva stretta? Non ti ha
abbrancato con la forza?»
Lei rise. Un riso freddo, secco.
«Te lo sei sognato.»
Questo per il ragazzino era troppo. Ormai sapeva che gli adulti mentivano,
che avevano mille piccole giustificazioni sfrontate, bugie che sgusciavano
attraverso maglie strette, e ambiguità astute. Ma quell'impudente e freddo
negare, a faccia a faccia, lo faceva impazzire dalla rabbia.
«E questi lividi qua, me li sono sognati anche quelli?»
«Chi lo sa con chi ti sei azzuffato? Comunque, non sono tenuta a entrare in
discussioni con te. Tu devi obbedire, e basta. Siediti e scrivi!»
Era molto pallida e con le ultime forze cercava di tenere in piedi la sua
versione fasulla.
Ma in Edgar a quel punto qualcosa crollò: un'ultima fiammella di fiducia.
Non riusciva a capacitarsi che si potesse semplicemente pestare sotto i piedi
la verità come un fiammifero acceso. Tutto dentro di lui si contrasse in un
gelo, tutte le sue parole divennero taglienti, cattive, scatenate: «Sicché me lo
sarei sognato? Quello che è avvenuto sul corridoio e questo livido qua? E
che voi due ieri passeggiavate al chiaro di luna, e che lui voleva portarti giù
per il viottolo, magari anche quello? Credi forse che io mi lasci rinchiudere in
una stanza come un bambino piccolo? No, non sono così stupido come voi
credete. Io la so lunga».
La fissò con strafottenza, e questo spezzò la sua forza: vedere la faccia del
proprio bambino davanti a sé, sfigurata dall'odio. La rabbia in lei esplose
violenta.
«Su, avanti, adesso tu scrivi immediatamente! Oppure...»
«Oppure che cosa?» Ora la sua voce si era fatta arrogante e provocatoria.
«Oppure ti pesto come un bambino piccolo.» Edgar si avvicinò di un passo
con aria beffarda, limitandosi a ridere.
E già la mano della madre gli era arrivata in faccia. Edgar cacciò un urlo. E
come uno che affoga, che fa mulinare le braccia e negli orecchi avverte solo
un rombo cupo e negli occhi uno sfarfallio rosso, così picchiò alla cieca con i
pugni. Sentì di pestare qualcosa di molle, una faccia, udì un grido...
Quel grido lo fece tornare in sé. Di colpo ebbe la percezione e la coscienza
dell'atto mostruoso: che stava picchiando sua madre. Fu preso da paura,
vergogna e orrore, dalla voglia prepotente di sparire, di sprofondare sotto
terra, di fuggire, di scappare, pur di non trovarsi più sotto lo sguardo di quegli
occhi. Si precipitò alla porta e di corsa giù per le scale, attraverso l'albergo, in
strada - via! via! -, come braccato da una muta inferocita.
Prima intuizione
Finalmente, dopo un pezzo di strada, si fermò. Dovette appoggiarsi a un
albero, talmente tremava in tutto il corpo dalla paura e dall'eccitazione, tale
era il rantolo che gli usciva dal petto ansimante. Lo aveva tallonato l'orrore
per il suo atto bieco, che ora lo prese per la strozza, scuotendolo come una
quartana. Adesso, che cosa doveva fare? Dove fuggire? Perché già lì, nel
bosco vicino, a un quarto d'ora appena dall'albergo in cui stava, provò un
senso di abbandono.
Tutto pareva diverso, più ostile, più astioso, da quando era solo e privo di
aiuto. Gli alberi, che ancora il giorno prima gli stormivano intorno fraterni,
all'improvviso si addensavano sinistri come una minaccia. E quanto più ostico
e più sconosciuto doveva essere, allora, ciò che ancora lo attendeva? Questa
solitudine di fronte al vasto mondo ignoto dava le vertigini al bambino. No,
non era ancora in grado di sopportarla, di stare del tutto solo. Ma da chi
poteva rifugiarsi? Di suo padre aveva paura: era troppo irritabile, poco
disponibile, e lo avrebbe rispedito subito indietro. Ma lui non voleva tornarci,
meglio allora inoltrarsi nelle sconosciute insidie dell'ignoto; gli sembrava di
non potere mai più guardare il volto di sua madre, senza pensare di averlo
preso a pugni.
Allora gli venne in mente la nonna, quella donna anziana, buona, gentile,
che fin da piccolo lo aveva viziato ed era il suo rifugio, quando a casa era
nell'aria una punizione o qualche torto. Si sarebbe nascosto da lei, a Baden,
finché fosse passata la rabbia iniziale, da lì avrebbe scritto una lettera ai
genitori, per scusarsi. Nel giro di un quarto d'ora era già così umiliato soltanto
al pensiero di trovarsi solo nel mondo con le sue mani inesperte, da maledire
il proprio orgoglio, quello stupido orgoglio che un estraneo gli aveva iniettato
nel sangue come una menzogna. Voleva soltanto essere il bambino di prima,
obbediente, paziente, senza la presunzione di cui adesso avvertiva tutta la
ridicola esagerazione.
Ma come arrivarci, a Baden? Come saltare questa distanza di ore?
Precipitosamente mise mano al piccolo borsellino di pelle che portava
sempre con sé. Grazie al cielo, era ancora lì, lucente, la moneta d'oro da
venti corone, nuova di zecca, che gli avevano regalato per il compleanno.
Non aveva mai potuto decidersi a spenderla. Ma quasi ogni giorno aveva
controllato se ci fosse ancora, deliziandosi alla vista di essa e sentendosi
ricco, e poi l'aveva lustrata per bene con il fazzoletto, in uno slancio di tenera
gratitudine, finché brillava come un piccolo sole. Ma - l'improvviso dubbio lo
angosciò - sarebbe bastata?
Tante volte già in vita sua aveva preso il treno, senza porre mente al fatto
che, per andarci, bisognava pagare, né, tanto meno, al costo del biglietto, se
fosse una corona oppure cento. Per la prima volta avvertiva che esistevano
fatti della vita ai quali non aveva mai pensato, che i molti oggetti intorno a lui,
capitatigli tra le mani, con cui aveva giocato, erano in qualche modo dotati di
un loro proprio valore, di uno specifico peso. Mentre ancora un'ora prima si
credeva onnisciente, adesso si rendeva conto di essere passato accanto a
mille segreti e questioni senza badarci, e si vergognava che il suo povero
sapere inciampasse già sul primo gradino di accesso alla vita. Divenne
sempre più titubante, mentre i suoi passi incerti, sempre più piccoli, lo
conducevano giù alla stazione. Quante volte aveva sognato quella fuga,
immaginato di entrare nella vita a bandiere spiegate, di diventare imperatore
o re, soldato o poeta, e ora guardava intimidito il piccolo edificio chiaro,
unicamente preoccupato se le sue venti corone sarebbero bastate per
arrivare dalla nonna. I binari splendevano a perdersi nel paesaggio, lontano,
la stazione era deserta. Edgar si accostò timidamente alla cassa e domandò
sottovoce, perché nessuno lo potesse sentire, quanto costava un biglietto per
Baden. Una faccia meravigliata spuntò dietro lo sportello scuro, due occhi
sorrisero dietro le lenti al bambino impacciato.
«Un biglietto intero?»
«Sì», balbettò Edgar. Ma senza spocchia, piuttosto con la paura che
potesse costare troppo.
«Sei corone!»
«D'accordo!»
Con sollievo allungò la moneta lustra che gli era tanto cara, prese il resto
sonante, e di colpo si sentì di nuovo indicibilmente ricco, ora che aveva in
mano quel pezzetto di cartone bruno che gli assicurava la libertà, e in tasca
risuonava la musica discreta dell'argento.
Secondo l'orario, il treno sarebbe arrivato tra venti minuti. Edgar si rintanò
in un cantuccio. Sul marciapiede sostavano un paio di persone senza
faccende e senza pensieri. Ma al ragazzino inquieto pareva che tutti
guardassero soltanto lui, meravigliandosi che un bambino così piccolo
viaggiasse già da solo, come se portasse scritto in faccia di essere un
fuggitivo e un criminale. Quando finalmente il treno fischiò la prima volta da
lontano e sopraggiunse con fragore, Edgar tirò un sospiro di sollievo. Quel
treno lo avrebbe portato nel mondo. Solamente nel salire si accorse che il
suo biglietto era valido per la terza classe. Fino ad allora aveva sempre
viaggiato in prima classe, e di nuovo notò che qualcosa era cambiato:
esistevano differenze che a lui erano sfuggite. I compagni di viaggio erano
diversi dal solito. Certi lavoratori italiani dalla voce rauca e dalle mani dure,
che stringevano vanghe e badili, erano seduti proprio di fronte a lui e
guardavano nel vuoto con occhio spento e sconsolato. Evidentemente
dovevano aver lavorato sodo sul tracciato, perché alcuni di loro erano stanchi
e dormivano con la bocca aperta, appoggiati allo schienale di legno, duro e
sporco, nel treno che sferragliava. Avevano lavorato per guadagnare dei
soldi, pensò Edgar, ma non riusciva a quantificare l'importo; però sentiva che
il denaro era una cosa di cui non sempre si disponeva, che bisognava in
qualche modo guadagnare. Per la prima volta si rendeva conto di essere
abituato a un'atmosfera di benessere come a un fatto del tutto naturale,
mentre da una parte e dall'altra della sua esistenza profondi abissi si
spalancavano nel buio, mai toccati dal suo sguardo.
D'un tratto notò che esistevano vari mestieri e destini, che attorno alla sua
vita si assiepavano dei segreti, a portata di mano eppure sempre trascurati.
Edgar imparò molte cose in quell'unica ora da solo, cominciando a vedere
tante cose da quell'angusto scompartimento con i finestrini che davano sul
mondo. E tacitamente dalla sua angoscia oscura prese a sbocciare qualcosa
che non era ancora felicità, però già stupore di fronte alla varietà della vita.
Era scappato per paura e viltà, lo avvertiva in ogni istante, e tuttavia per la
prima volta aveva agito in modo autonomo, vissuto qualcosa della realtà, cui
fino allora non aveva badato. Forse per la prima volta lui stesso era diventato
un enigma per la madre e per il padre, come per lui lo era stato sino a quel
momento il mondo. Guardava dal finestrino con occhio diverso. E gli
sembrava di vedere per la prima volta tutto l'esistente, che un velo fosse
caduto dalle cose, per cui ora esse gli mostravano ogni aspetto: l'essenza del
loro fine, il nervo segreto del loro agire. Case passavano via, in un volo, come
sradicate dal vento, e gli venne fatto di pensare a quelli che le abitavano.
Erano ricchi o poveri, felici oppure infelici? Avevano anche loro, come lui, il
desiderio appassionato di sapere ogni cosa? E anche lì magari c'erano dei
bambini che fino allora, come lui, avevano soltanto giocato con le cose? I
casellanti lungo il tracciato, con le loro bandierine, per la prima volta non gli
parevano, come un tempo, pupazzi sparsi e giocattoli inanimati, oggetti messi
lì dal caso indifferente, ma capiva che quello era il loro destino, la loro lotta
contro la vita. Le ruote giravano sempre più in fretta, le serpentine facevano
scendere a valle il treno, sempre più dolci apparivano le montagne, più
lontane, e già si era al piano. Ancora una volta si girò a guardarle, ed erano
già azzurre e indistinte, remote e irraggiungibili, e gli sembrava che là, dove
lentamente svanivano nella foschia del cielo, stesse la sua infanzia.
Conturbante oscurità
Ma poi a Baden, quando il treno si fermò, e Edgar si ritrovò solo sul
marciapiede dove già erano accese le luci, e i segnali brillavano verdi e rossi
in lontananza, nel multicolore quadro visuale istintivamente si insinuò una
improvvisa paura della notte imminente. Di giorno si sarebbe sentito ancora
al sicuro, perché intorno c'erano delle persone, ci si poteva riposare, sedere
su una panchina o guardare nelle vetrine davanti ai negozi. Ma come
avrebbe potuto sopportare la cosa, se la gente si rintanava nelle case; e tutti
avevano un letto, quattro parole da scambiare e poi una notte tranquilla,
mentre lui doveva stare in giro da solo, con il senso della propria colpa, in un
luogo sconosciuto? Ah, che bello poter avere sopra di sé al più presto un
tetto, non stare più un minuto all'aperto in un ambiente non familiare! Questa
era l'unica sensazione lucida di Edgar.
Fece in fretta la strada che gli era nota, senza guardare a destra o a
manca, e finalmente arrivò alla villa dove abitava la nonna. Era situata in
bella posizione su un ampio viale, ma non esposta alla vista, bensì nascosta
dietro rampicanti e edere di un giardino tenuto con cura, splendore immerso
in una nuvola di verde, una casa bianca, simpaticamente antica. Edgar scrutò
attraverso le sbarre come un estraneo. Dentro non si muoveva niente, le
finestre erano sbarrate, evidentemente stavano tutti sul retro nel giardino con
degli ospiti. Già stava toccando la maniglia fredda, quando accadde un fatto
strano: d'un tratto ciò che da due ore aveva immaginato del tutto facile, ovvio,
gli sembrò impossibile. Come poteva entrare, salutare i presenti, come
sottostare a tutte le domande e rispondere? Come reggere al primo sguardo,
dovendo riferire di essere scappato di nascosto da sua madre? E come
spiegare, poi, la mostruosità del proprio gesto, che lui stesso già non riusciva
più a comprendere? Dentro si sentì il rumore di una porta.
Di colpo gli venne una paura folle che potesse arrivare qualcuno, e
proseguì, senza sapere per dove.
Davanti al parco pubblico si fermò, perché vide che era buio e
probabilmente non c'era nessuno. Forse lì poteva sedersi e riflettere
finalmente in pace, riposarsi e meditare sulla sua sorte. Entrò con timida
apprensione. Sul davanti erano accesi alcuni lampioni che davano al fogliame
ancora tenero uno spettrale scintillio come di acqua trasparente, verde; ma
più dietro, dove la collina digradava, tutto era immerso come una massa
compatta, cupa, nera, in fermento, nella conturbante oscurità di una notte di
primavera precoce. Edgar schivò quatto le poche persone sedute a
chiacchierare o a leggere sotto il cono di luce dei lampioni: voleva stare solo.
Ma anche in alto, nel buio fitto dei viottoli senza illuminazione, non c'era pace.
Tutto era pieno di un sommesso frusciare e parlottare nell'ombra, a volte
frammisto all'alitare del vento tra le foglie flessuose, al tramestare di passi
lontani, al sussurrare di voci smorzate, a un certo qual genere voluttuoso,
sospiroso, angoscioso, che poteva provenire al contempo da esseri umani e
da animali e dalla natura in sonno inquieto. Era un'agitazione insidiosa,
sorniona, occulta, allarmante ed enigmatica, quella che pulsava lì, un lavorio
sotterraneo nel bosco, magari unicamente connesso con la primavera, ma
tale da impaurire stranamente il ragazzino spaesato.
Si rannicchiò tutto su una panchina in quell'oscurità abissale e cercò di
pensare che cosa avrebbe dovuto dire a casa. Ma i pensieri gli sgusciavano
via come anguille, prima che potesse afferrarli; senza volerlo era
continuamente indotto a captare il suono ovattato, le mistiche voci delle
tenebre. Come era spaventosa, questa oscurità, come era conturbante e
tuttavia misteriosamente bella! Erano animali o esseri umani oppure soltanto
la mano spettrale del vento, a intessere tutto quel mormorio e crepitio, quel
ronzio e allettamento? Tese l'orecchio.
Era il vento, che si insinuava inquieto in mezzo agli alberi, ma erano anche
- adesso lo percepì chiaramente - persone, coppiette allacciate, che salivano
dal basso, dalla città illuminata, e animavano con la loro enigmatica presenza
l'oscurità. Che cosa cercavano? Non riusciva a capirlo. Non parlavano tra
loro, perché non sentiva voci, solo lo scricchiolare rumoroso dei passi sulla
ghiaia, e di tanto in tanto vedeva nella radura le loro sagome fluttuare via
fugaci come ombre, sempre però strettamente avvinte, come quella volta
aveva visto sua madre con il barone. Sicché quel segreto, grande,
baluginante e fatale, era presente anche lì. Adesso udiva i passi farsi sempre
più vicini e poi anche un ridere soffocato. Temeva che i sopravvenienti
potessero scoprirlo in quel posto e si rintanò ancora di più nel buio. Ma i due,
che salivano alla cieca per il viottolo nell'oscurità impenetrabile, non lo
notarono. Gli passarono davanti avvinghiati, e già Edgar stava tirando un
sospiro di sollievo, quando improvvisamente si fermarono a breve distanza
dalla panchina. Le loro facce si incollarono, Edgar non riusciva a vedere
bene, sentì soltanto un gemito uscire dalla bocca della donna e l'uomo
balbettare parole ardenti, folli, e un sensuale presentimento permeò la sua
paura con un brivido voluttuoso. Stettero così per un minuto, poi la ghiaia
tornò a scricchiolare sotto i loro passi che si allontanarono e presto si persero
nel buio.
Edgar rabbrividì. Il sangue prese a rifluirgli nelle vene, più caldo di prima. E
d'un tratto si sentì irrimediabilmente solo in quella conturbante oscurità, con il
prepotente bisogno di una voce amica, di un abbraccio, di una stanza
luminosa, di una persona cara. Era come se tutto il buio angoscioso di quella
notte confusa gli fosse entrato dentro e gli facesse scoppiare il petto.
Balzò in piedi. A casa, adesso, a casa, trovarsi in una stanza, misera
oppure luminosa, a contatto con degli esseri umani! Che cosa poteva
succedergli? Lo picchiassero e sgridassero pure: non temeva più niente, da
quando aveva vissuto quel buio e la paura della solitudine.
Era spinto oltre, senza sapere come, e all'improvviso si ritrovò davanti alla
villa, con la mano sulla maniglia fredda. Notò che adesso le finestre
baluginavano illuminate attraverso il verde, e nella mente vedeva dietro ogni
vetro rischiarato l'ambiente familiare con dentro le persone care. Già questo
essere a pochi passi lo rendeva felice, questa sensazione finalmente
tranquillizzante di trovarsi vicino a persone da cui si sapeva amato. E se
indugiava ancora, era soltanto per pregustare più a fondo quella situazione.
Ed ecco alle sue spalle una voce esclamare con stridula sorpresa: «Edgar!
Ma è qui!»
La cameriera della nonna, che lo aveva notato, si precipitò verso di lui e lo
prese per mano. La porta venne spalancata dall'interno, un cane gli fece
festa, saltandogli contro e abbaiando, dalla casa uscirono con delle luci, sentì
tutto uno schiamazzo di giubilo e di spavento, un gioioso tumulto di grida e di
passi che si avvicinavano, di persone che riconobbe. In testa la nonna, le
braccia protese, e dietro - gli pareva di sognare - sua madre. Con gli occhi
pieni di lacrime, tremante e intimidito, si ritrovò in mezzo a questo caldo sfogo
di sentimenti appassionati, non sapendo che cosa fare o dire, incerto lui
stesso su quello che provava: paura oppure felicità.
L'ultimo sogno
Era successo questo: lì lo cercavano e attendevano già da un pezzo. Sua
madre, spaventata - nonostante l'arrabbiatura - per la precipitosa fuga del
bambino stravolto, lo aveva fatto cercare sul Semmering. Già tutti erano in
preda alla più tremenda agitazione, e si formulavano sinistre supposizioni,
quando un signore riferì di aver visto il ragazzino verso le tre allo sportello
della stazione. Là si appurò subito che Edgar aveva acquistato un biglietto
per Baden, e senza indugio la madre prese il primo treno per raggiungerlo. La
precedevano un telegramma a Baden e uno a Vienna, al padre del bambino,
seminando il panico, tanto che da due ore tutti erano in cerca del fuggitivo.
Adesso lo tenevano stretto, ma senza violenza. Con smorzato trionfo fu
condotto nella stanza, ma stranamente non fece caso a tutte le dure parole di
rimprovero che gli erano rivolte, perché nei loro occhi leggeva la gioia e
l'amore. E del resto quella sceneggiata, quella finta arrabbiatura durò solo un
istante. Poi la nonna tornò ad abbracciarlo tra le lacrime, nessuno parlò più
della sua colpa, e si sentì circondato da meravigliose premure. La cameriera
gli tolse la giacca e gliene portò una più calda, la nonna gli domandò se
aveva fame o se voleva qualche altra cosa, seguitarono a chiedere, a
tormentarlo con affettuosa sollecitudine, e come videro il suo imbarazzo, non
fecero più domande.
Voluttuosamente riassaporò la sensazione - tanto spregiata eppure
rimpianta - di essere soltanto bambino e provò vergogna per la presunzione
degli ultimi giorni, di voler fare a meno di tutto questo, di cederlo in cambio
della ingannevole smania di una propria solitudine.
Accanto squillò il telefono. Sentì la voce di sua madre, captò qualche
parola: «Edgar... tornato... vieni... ultimo treno», e si meravigliava che lei non
lo avesse investito furibonda, limitandosi a fissarlo con uno sguardo
stranamente pacato. Sempre più cocente si fece in lui il pentimento, e
avrebbe voluto sottrarsi alle premure della nonna e della zia, andando di là, a
chiederle scusa, a dirle con tutta umiltà, mentre erano soli, che desiderava
essere nuovamente un bambino e obbedire. Ma come fece per alzarsi quatto,
la nonna disse piano, allarmata: «Dove vuoi andare?»
Ci rimase male. Ormai erano tutti in ansia per lui, se soltanto si muoveva.
Li aveva spaventati tutti, adesso temevano che scappasse di nuovo. Come
poteva fargli capire che nessuno più di lui era dispiaciuto di quella fuga?
La tavola era apparecchiata, e gli servirono una rapida cena. La nonna gli
sedette accanto e non distolse gli occhi. Lei, la zia e la cameriera lo chiusero
in un invisibile cerchio, e come per incanto si sentì tranquillizzato da quel
calore. Lo turbava soltanto il fatto che sua madre non entrasse nella stanza.
Se avesse immaginato quanto era contrito, sarebbe venuta certamente!
Fuori si sentì un rumore di carrozza, che si fermò davanti alla casa.
Gli altri si agitarono talmente, che anche Edgar divenne inquieto. La nonna
uscì, voci rimbalzarono nel buio, e d'un tratto si rese conto che era arrivato
suo padre. Impaurito, Edgar si avvide di essere rimasto solo nella stanza, e
persino quella solitudine da niente lo sconvolse.
Edgar tese l'orecchio all'esterno, suo padre sembrava eccitato, parlava a
voce alta e adirata. In mezzo, a rabbonire, le voci della nonna e della madre:
evidentemente cercavano di indurlo a più miti consigli. Ma la sua voce restò
dura, dura come i passi che ora si avvicinavano sempre più, già risuonavano
nella stanza accanto, davanti alla porta, spalancata di colpo.
Suo padre era molto grande. E indicibilmente piccolo si sentiva adesso
Edgar al suo cospetto, quando lui entrò, nervoso e arrabbiato veramente.
«Come ti è saltato in mente, disgraziato, di scappare? Come hai potuto
spaventare in questo modo tua madre?»
La sua voce era irosa, e le mani si agitavano furibonde. Dietro a lui, con
passo felpato, era entrata la madre, offuscata in volto.
Edgar non rispose. Sentiva di doversi giustificare, ma come poteva
raccontare che era stato ingannato e picchiato? Il padre lo avrebbe capito?
«Allora, hai perso la lingua? Che cosa è successo? Dillo pure! Qualcosa
non ti andava? Ci deve pur essere un motivo, per scappare! Qualcuno ti ha
fatto un torto?» Edgar esitava. Il ricordo gli riattizzava la rabbia, stava già per
pronunciare un'accusa. Quando vide - e il cuore gli si arrestò - sua madre
fare uno strano gesto alle spalle del padre. Un gesto che lì per lì non capiva.
Ma poi lei lo guardò con occhi imploranti. E silenziosamente si portò alle
labbra un dito, facendo segno di tacere.
E allora all'improvviso il bambino sentì qualcosa di caldo, una felicità
enorme, sfrenata, per tutto il corpo. Comprese che la madre affidava a lui la
custodia del segreto, che sulle sue piccole labbra da bambino era riposto un
destino. E un orgoglio di smisurata esultanza lo prese, per il fatto che lei
confidasse in lui, una dedizione subitanea, una voglia di aggravare la propria
colpa, per dimostrarle quanto fosse già uomo. Si fece forza: «No, no... non
c'era motivo. La mamma è stata molto buona con me, ma io sono stato
villano, mi sono comportato male... e allora... allora sono scappato, perché
avevo paura».
Il padre lo guardò stupito. Tutto si era aspettato, tranne quella confessione.
La sua collera sbollì.
«BÉ, se sei dispiaciuto, allora la cosa è risolta. E adesso non parliamone
più. Sono certo che un'altra volta ci penserai un attimo! Che un fatto del
genere non si ripeta.»
Squadrò il figliolo. E la sua voce si fece più bonaria.
«Quanto sei pallido. Ma mi pare che tu sia di nuovo cresciuto. Spero che
non commetterai più simili bambocciate; ormai non sei più un ragazzino e
potresti comportarti come si deve!»
Edgar per tutto il tempo aveva fissato esclusivamente la madre. Gli pareva
che qualcosa scintillasse nei suoi occhi. Oppure si trattava soltanto di un
riverbero della fiamma? No, c'era in essi uno splendere umido e luminoso, e
intorno alla bocca aveva un sorriso di gratitudine.
Adesso lo mandarono a letto, ma non era triste che lo lasciassero solo.
Aveva tante cose da riconsiderare, un sacco di impressioni caotiche e
ricche. Tutto il dolore degli ultimi giorni si dissolse nella potente
consapevolezza di quella prima esperienza, si sentiva felice, in un misterioso
presentimento di eventi futuri. Fuori, nella fitta oscurità notturna, stormivano
gli alberi, ma lui era libero da angosce. Aveva perso ogni impazienza nei
confronti della vita, da quando si era reso conto quanto fosse ricca. Gli
pareva di averla vista per la prima volta quel giorno nella sua nudità, non più
ammantata dalle mille menzogne dell'infanzia, ma in tutta la sua voluttuosa,
insidiosa bellezza. Non aveva mai pensato che le giornate potessero essere
così piene di molteplici oscillazioni tra la gioia e il dolore, ed era felice al
pensiero che ancora tanti di questi giorni lo attendessero, una vita intera, per
svelargli i suoi segreti. Aveva acquisito una aurorale intuizione della varietà
dell'esistenza, per la prima volta credeva di aver compreso la natura degli
esseri umani, che gli uomini avevano bisogno gli uni degli altri, anche quando
sembravano nemici, e che era molto dolce essere amati da loro. Era
incapace di pensare a qualcosa o a qualcuno con odio, non recriminava
nulla, e per lo stesso barone, il seduttore, il suo acerrimo nemico, provava un
sentimento nuovo di gratitudine, perché gli aveva schiuso la porta su questo
mondo dei primi sentimenti.
Era dolce e carezzevole, adesso, pensare al buio tutte queste cose, già
soavemente confuse a immagini di sogno, e ormai quasi in sonno. E gli
pareva che la porta si fosse aperta all'improvviso, e qualcuno entrasse
silenziosamente. Stentava a credere ai propri sensi, e poi era già troppo
addormentato per aprire gli occhi. Ed ecco sentì sopra di sé un respiro, un
volto sfiorare tenero, caldo e dolce il suo, ed era certo che fosse sua madre a
baciarlo, ora, passandogli la mano sui capelli.
Sentì i baci e le lacrime, ricambiando dolcemente le tenerezze, e lo intese
soltanto come riconciliazione, come gratitudine, perché aveva taciuto. Solo
più tardi, molti anni dopo, riconobbe in quelle lacrime silenziose una solenne
promessa, da parte della donna avviata al declino, di appartenere in futuro
unicamente a lui, al suo figliolo, una rinuncia all'avventura, un addio a tutte le
proprie concupiscenze. Non sapeva che anche lei gli era grata, per essersi
salvata da una sterile avventura, e che ora, con quell'abbraccio, gli lasciava il
dolceamaro fardello dell'amore come un retaggio per la sua vita futura. Tutto
questo il bambino di allora non lo comprese, ma sentì che era molto esaltante
essere amati in quel modo e che attraverso questo amore era già coinvolto
nel grande segreto del mondo.
Quando poi la madre ritrasse la mano, staccando le labbra da quelle di lui,
e la silenziosa presenza si dileguò, restò ancora un calore, un alito sulle
labbra del bambino. E carezzevole lo pervase il desiderio di sentire ancora
spesso labbra così morbide e di essere abbracciato così teneramente, ma
questo acuto presentimento del tanto agognato segreto era già obnubilato
dalle ombre del sonno. Ancora una volta gli passarono davanti vivide le
immagini delle ultime ore, ancora una volta si spalancò seducente il libro
della sua giovinezza. Poi il bambino si addormentò, ed ebbe inizio il sogno
della sua vita, più profondo.
2 - Scarlattina
Se vai a Vienna, gli avevano detto a casa gli amici, trovati una stanza nella
Josefstadt. E vicina all'università, e tutti gli studenti ci abitano volentieri
perché è un quartiere tranquillo, un po' vecchio stile, ormai per tradizione la
loro roccaforte. Sicché dalla stazione, dove aveva lasciato in deposito
temporaneo il bagaglio, chiedendo alle persone, era andato subito da quella
parte attraverso i tanti vicoli sconosciuti e rumorosi, incrociando un sacco di
gente frettolosa che si muoveva come braccata sotto la pioggia, e poco
disposta a dargli informazioni.
Il tempo autunnale era inesorabile. Senza tregua cadeva un piovasco
pungente, spazzando dagli alberi ingialliti l'ultimo fogliame tremolante,
tamburellando da ogni grondaia e lacerando in milioni di filamenti grigi il cielo
malinconico. A volte il vento sospingeva davanti a sé lo scroscio come un
panno svolazzante, sbattendolo contro i muri, a mitraglia, e sfasciando gli
ombrelli alla gente. Dopo un po', per la strada, si vedevano soltanto le
traballanti carrozze nere, con i cavalli che fumigavano, e qua e là l'ombra
trasvolante di qualche passante in corsa.
Il giovane studente passò di casa in casa, salendo e scendendo molte
scale, felice di sottrarsi per qualche minuto alla perfida pioggia. Si fece
mostrare una serie di stanze, ma nessuna gli piacque. Forse era colpa della
pioggia e della luce grigia, fredda, che faceva apparire opprimente ogni
ambiente e come inzeppato di aria asfittica, malsana. Un vago senso di
oppressione si destò in lui nel vedere la miseria e la sporcizia di molti alloggi,
ai quali arrancava per scale sbilenche e umide, quasi una prima intuizione
delle grandi tristezze che si nascondono dietro la facciata di queste piccole
case periferiche ingobbite e consunte. La sua ricerca divenne sempre più
scoraggiante.
Finalmente fece la sua scelta. Prese alloggio nella Josefstadt, non lontano
dalla circonvallazione, in una casa molto vecchia, ma solidamente impiantata,
con una sua aria confortevole vetero-borghese. La stanza era semplice, più
piccola, veramente, di quanto lui avrebbe voluto, ma le finestre si
affacciavano su un grande cortile, uno di quei vecchi cortili di periferia, con
qualche albero, che ora se ne stava sotto la pioggia in un frusciare
lievemente intirizzito. Quell'ultimo timido verde, ricordo sopito dei giardini di
casa sua, lo attrasse e poi il fatto che nell'anticamera, come suonò il
campanello, un canarino attaccasse a gorgheggiare nella sua gabbia,
instancabile nei trilli, mentre lui esaminava la stanza. Questo gli parve di buon
auspicio, e gli piacque anche la padrona di casa, una donna in là con gli anni,
provata dalla vita, vedova di un impiegato, come lei gli disse. Con la figlioletta
si era ridotta in un misero stanzino, accanto c'era la stanza di un altro
studente, la cui presenza era segnalata dal biglietto da visita sulla porta di
casa.
In quel paio d'ore che gli restavano prima di sera cercò di farsi in fretta
un'idea della città che non conosceva, da lui sognata nel corso di mille
giornate, ma la pioggia fredda, frustata dal vento, ben presto gli fece passare
la voglia. Entrò in un caffè, contemplò a lungo, con la mente vuota, la boccia
bianca in caccia di quella rossa sul tavolo da biliardo, sentì intorno a sé i
discorsi di tanta gente sconosciuta, reprimendo a fatica l'amaro senso di
delusione che lentamente gli saliva in gola e cercava sfogo nelle parole.
Tentò di nuovo una sortita per le strade, ma la pioggia era troppo tenace.
Fradicio fino alle ossa, andò in una trattoria, per una cena rapida e senza
appetito, e poi a casa. E quindi si ritrovò nella sua stanza, a guardarsi intorno.
Quattro carabattole erano lì, come dimenticate, senza alcuna reale
connessione, prive di grazia e di vita: due vecchi armadi pencolanti dalla
parete, che gemevano se uno gli andava vicino, un letto dalla coperta stinta,
una lampada bianca che oscillava malinconicamente nel buio della stanza
oscurata, una decrepita stufa vetero-viennese. Nel mezzo un paio di stampe
a colori e qualche fotografia, roba sbiadita, priva di nesso, facce sconosciute,
che forse già da anni si fissavano senza conoscersi.
Il freddo filtrava dall'impiantito sconnesso, una finestra chiudeva male e
sbatteva rumorosamente, quando il vento scaraventava la pioggia contro il
vetro.
Sentiva brividi di freddo. Stava stranito in mezzo a quel ciarpame d'altri
tempi. Chi aveva dormito in quel letto? Chi si era seduto su quelle seggiole?
Chi aveva guardato in quello specchio, dal quale ora lo fissava angosciato e
quasi piangente il suo pallido volto da bambino?
Nulla lì gli ricordava cose passate e vissute, tutto era estraneo, e sentiva
un gelo fin dentro il sangue.
Era il caso di mettersi già a letto? Erano le nove. Per la prima volta dormiva
sotto un tetto che non era il suo. A casa adesso stavano certo seduti intorno
al tavolo rotondo, amabilmente immersi nella luce dorata della lampada, in
quieti conversari. Tra poco - lo sapeva - Edith, la sua bionda sorella, si
sarebbe alzata, andando al pianoforte per eseguire un pezzo, una
malinconica sonata oppure un valzer gioioso, a seconda di quello che lui
avrebbe chiesto. Ma ora dove stava, lui, che là solitamente era in piedi nella
penombra vicino al pianoforte e sognava sull'onda dei suoni, finché lei si
alzava e gli augurava affettuosamente la buona notte?
No, non riusciva ancora a dormire. Prese la valigia, che nel frattempo
aveva fatto ritirare, e ne tolse le sue quattro cose. Tutto era stato messo con
cura dai suoi, e nel disfare l'ordine dovette pensare alle mani che per amor
suo avevano provveduto a tutto quanto. In mezzo ai libri, con lieta sorpresa,
trovò il ritratto della sorella, che lo aveva infilato di nascosto per lui, con una
dedica affettuosa. Guardò a lungo quel volto luminoso, sorridente, e poi lo
mise sullo scrittoio, perché contemplasse amorevole e consolasse lui,
sradicato da casa. Ma gli pareva che il sorriso del ritratto si offuscasse
sempre di più, e la sorella, lì nell'oscurità, diventasse triste come lui. A stento
osava ancora guardarlo, da tanto già gli sembrava spento.
E se fosse uscito un'altra volta da quella stanza tetra e squallida?
Come si accostò alla finestra, vide la pioggia colare indefessa. Sui vetri
opachi si raccoglievano le gocce, sospese, finché un'altra le portava via, e
quindi colavano giù rapidamente, come lacrime sulle guance lisce di un
bambino. Altre ne arrivavano senza tregua, e senza tregua scorrevano verso
il basso, da ogni parte, quasi che fuori un mondo intero sfogasse la propria
tristezza in milioni di lacrime. Rimase lì in piedi, forse una mezz'ora. Quel
suono lieve, quel mormorio pieno di cupo dolore, quel perenne scorrere di
gocce, la musica incomprensibile degli alberi afflitti - immagine arcana di
lacrime sul viso - gli penetrò nel profondo del cuore. Una tristezza atroce lo
prese, una smania di pianto.
Avrebbe voluto riscuotersi. Era dunque quella la sua prima sera a Vienna?
Quante volte già l'aveva pregustata, in sogno, nei discorsi con la sorella e
con gli amici. Non immaginando nulla di preciso, ma comunque qualcosa di
scatenato e di luminoso, una corsa pazza per le strade scintillanti, avanti,
sempre più avanti, come se all'indomani non dovesse più esserci tutta quella
magnificenza, come se già il primo istante dovesse portare esperienze
indimenticabili. Si era visto in allegri conversari, cantare dall'euforia, lanciare
in aria il cappello, con il cuore che batteva forte. E adesso stava lì, davanti a
un vetro cieco, con i brividi di freddo, solo, a guardare le gocce che colavano,
due e poi tre e altre due ancora, a fissarle, mentre quelle si creavano invisibili
rotaie su cui scendevano, e intanto stringeva le palpebre, perché non
sgorgassero all'improvviso anche le sue lacrime e cadessero, sulle sue mani
fredde. Era questo, che aveva sognato da anni?
Come passava lento il tempo. La lancetta sulla cassa di legno del vecchio
orologio avanzava in maniera del tutto impercettibile. E sempre più
minacciosa avvertiva l'angoscia della sera, l'inesplicabile terrore infantile della
solitudine in quella stanza non sua, l'atroce nostalgia di casa, che non
riusciva più a soffocare. Era assolutamente solo in quella città enorme, dove
battevano milioni di cuori, e nessuno parlava con lui, tranne quella pioggia
che scrosciava irridente, nessuno lo ascoltava e lo guardava, mentre lottava
con i singhiozzi e con le lacrime, mentre si vergognava di comportarsi come
un bambino e tuttavia non era capace di vincere quella angoscia che si
annidava dietro l'oscurità e lo fissava inesorabile con occhi d'acciaio. Mai
come ora aveva desiderato tanto ardentemente il suono di una parola. Ed
ecco, accanto, cigolare una porta e richiudersi sbattendo. Il giovane
accovacciato balzò in piedi e tese l'orecchio. Una voce rauca ma ben
impostata accennò dall'altra parte una strofa di un canto goliardico, si
interruppe, poi si sentì sfregare un fiammifero e un armeggiare con la
lampada, che a quel punto evidentemente era stata accesa. Doveva trattarsi
del suo vicino, uno studente di giurisprudenza - così gli aveva detto la
padrona di casa -, al quale mancavano gli ultimi esami.
Tirò un profondo sospiro di sollievo, sentendo per un attimo cessare la
propria solitudine. Di là scricchiolavano sull'assito i passi pesanti, energici,
dell'altro che andava su e giù, la canzone risuonò sempre più distintamente,
e all'improvviso il giovane in ascolto si vergognò di stare lì tutto tremante e
teso, e silenziosamente tornò al tavolo, quasi temendo che quello accanto
potesse vederlo attraverso la parete.
Poi la voce tacque, e anche l'andirivieni venne meno. Evidentemente il
vicino si era seduto. Ora il rumore delle gocce tornò a farsi vivo, e la
solitudine, con tutta la sua angoscia, rispuntò dal buio.
Gli pareva di soffocare in quel luogo angusto. No, adesso non poteva
restare solo. Si alzò, attese che le guance non fossero più arrossate dallo
stare sdraiato, provò la voce, schiarendosi la gola, poi uscì, avviandosi alla
porta del vicino. Ci pensò due volte, ma alla fine bussò con mano esitante
alla porta accanto.
Ci fu un attimo di silenzio, chiaramente di stupore. Poi risuonò un secco
«Avanti!»
Aprì la porta. E si trovò in mezzo a un fumo azzurro. La piccola stanza era
zeppa di fumo, e lì per lì tutti gli oggetti erano avvolti da una nebbia spessa,
che la corrente d'aria fece fluttuare. Il vicino era ritto in piedi e guardò
meravigliato l'intruso. Si era già tolto giacca e gilè, la camicia sbottonata
mostrava senza pudore un petto largo e peloso, le scarpe erano sparse per
terra, una lì e una là. Era un pezzo d'uomo robusto, di solidità contadina, più
simile a un operaio che a uno studente, a vederlo piantato lì con la pipa corta
in bocca, il cui fumo ora, con un potente sbuffo, soffiò fino alla porta.
L'intruso farfugliò qualche parola. «Ho preso alloggio qui oggi e volevo
presentarmi a lei come vicino.»
L'altro sbatté meccanicamente i talloni. «Molto lieto. Schramek, studente in
legge.»
A quel punto anche il visitatore, per riparare alla dimenticanza, disse in
fretta il proprio nome: «Bertold Berger».
Schramek lo esaminò con un'occhiata. «Lei frequenta il primo semestre?»
Berger disse di sì e aggiunse che quello era anche il suo primo giorno a
Vienna.
«Naturalmente studia legge. Tutti ormai studiano soltanto legge.»
«No, voglio iscrivermi alla facoltà di medicina.»
«Bene, bravo, finalmente uno che... Ma la prego, si accomodi!»
L'invito era cordiale.
«Posso offrirle una sigaretta, signor collega?»
«Grazie, non fumo.»
«BÉ... ci arriverà. I non fumatori sono in via di estinzione. Allora, vada per
un cognac. Di quelli buoni.»
«Grazie... grazie tante.»
Schramek alzò le spalle ridendo: «Senta, caro collega, non me ne voglia,
ma ho idea che lei sia quello che si è soliti chiamare un pesce lesso.
Niente cognac, niente tabacco; è molto sospetto».
Berger diventò rosso. Si vergognava di essere stato tanto maldestro da
rivelare di primo acchito la propria goffaggine, ma sentiva che un assenso
tardivo sarebbe stato ancora più ridicolo. Per dire qualcosa, si scusò
nuovamente dell'intrusione notturna. Ma Schramek non gli fece finire il
discorso e lo inchiodò con un paio di domande. Erano quasi compaesani,
tedesco di Boemia l'uno, moravo l'altro, e presto dalla loro memoria affiorò
anche un conoscente comune. La conversazione divenne subito vivace.
Schramek parlò dei suoi esami e della sua associazione studentesca, di tutte
le mille faccende idiote che per queste nature goliardiche sembrano
rappresentare l'essenza dei loro anni di studio.
C'era nei suoi racconti una cordialità molto viva, un'allegria un po'
chiassosa e una spavalderia compiaciuta, quasi vanesia. Era visibilmente
soddisfatto di impressionare un novellino, un provinciale. E la cosa gli riuscì
più di quanto lui non si rendesse conto. Berger ascoltava tutti questi discorsi
con una curiosità appassionata indescrivibile, perché parevano prefigurare la
nuova vita che lo attendeva lì a Vienna, gli piaceva quel parlare deciso, il
modo in cui Schramek, fumando, emetteva grosse nuvolette azzurre. Si
imprimeva ogni quisquilia, perché quello era il primo vero studente che
incontrava, e ai suoi occhi acritici assunse un alone di assoluta perfezione.
Anche lui avrebbe voluto raccontargli qualche cosa, ma tutte le cose di
casa, di fronte a quelle nuove esperienze, d'un tratto gli sembravano così
insignificanti, gli scherzi liceali, i fatti di provincia, così miseri e insulsi, e tutti i
propri pensieri e discorsi passati era come se appartenessero all'infanzia,
mentre soltanto lì cominciava ogni prestanza virile. Schramek non fece caso
al silenzio di Berger, beandosi assai delle timide occhiate di ammirazione da
parte della matricola.
Sollecitato da lui, Berger passò cautamente con la mano sulle tre cicatrici,
tracce rosse, nette, sul cranio rapato di Schramek, e si stupì al racconto dei
duelli studenteschi a sciabolate. Si sentì impaurito e insieme eccitato all'idea
di trovarsi presto a faccia a faccia con un avversario, e chiese a Schramek di
poter prendere in mano per un attimo una delle sciabole che giacevano in un
angolo della stanza. Ma che poi solo a stento riuscisse a sollevarla, gli
procurò una fitta dolorosa: di nuovo si rese conto di quanto fossero deboli
ancora e infantilmente magre le sue braccia, e con improvvisa invidia avvertì
la differenza tra sé e quel giovane robusto e ben piantato. Gli pareva
inconcepibile che si potesse con una sciabola del genere mulinare nell'aria
agevolmente, facendo sibilare la lama, sfondare a tutta forza la parata e
sfregiare una faccia altrui. Tutte queste cose usuali gli sembravano
eccezionali e mirabili al pari di grandi azioni degne di essere compiute, e la
timida ammirazione con cui il novellino ne parlava rese Schramek sempre più
loquace e confidenziale. Gli parlava come a un amico, squadernando a forti
tinte tutta la storia della sua esistenza, incapace di andare al di là dell'ideale
goliardico, ma tale da affascinare Berger, estasiato. In lui aveva trovato
l'araldo della sua nuova vita.
Finalmente a mezzanotte si salutarono. Schramek strinse calorosamente la
mano a Berger, gli diede una pacca sulla spalla e con uno spontaneo
sentimento di amicizia, che si prova soltanto a quell'età, gli disse che era «un
caro ragazzo», la qual cosa rese immensamente felice il giovane entusiasta.
Totalmente inebriato da tutte queste impressioni, tornò nella sua stanza,
che d'un tratto non gli pareva più così solitaria e triste, anche se la pioggia
seguitava a scrosciare sulla finestra e il freddo filtrava da ogni fessura. Il suo
cuore era colmo di tutte quelle cose nuove e splendide, e considerava una
straordinaria fortuna aver trovato già il primo giorno un amico. Ma in questa
euforia si insinuò presto una punta di amarezza: sentiva quanto fosse debole,
infantile, immaturo, rispetto a quel giovane, piantato saldamente nella vita
con tutti e due i piedi. Era sempre stato il più fragile, il più malaticcio tra i suoi
compagni, sempre rimasto indietro nei giochi e nelle esuberanze, ma soltanto
ora avvertiva questo fatto dolorosamente. Sarebbe mai potuto diventare
come Schramek: così solido, così forte, così libero? Lo prese un desiderio
cocente di riuscire a parlare in modo così spigliato e risoluto, di avere dei
muscoli, di affrontare la vita con polso fermo, senza scendere a patti con
essa. Ci sarebbe mai riuscito?
Contemplò con disappunto nello specchio la sua faccia timida, scarna e
imberbe da bambino, e gli tornò in mente che solo a fatica era riuscito a
sollevare la sciabola con quel suo braccio delicato senza muscoli. Gli venne
in mente che due ore prima quasi aveva pianto, solo perché era buio e freddo
e non c'era nessuno vicino a lui. Una tacita angoscia lo pervase: che cosa ne
sarebbe stato di lui, così debole, così infantile, in questa città sconosciuta, in
questa nuova vita, dove occorrevano forza, coraggio e spavalderia? No - fece
appello a tutte le sue energie -, voleva lottare per non essere da meno,
diventare come il suo amico, forte e possente, tutto voleva imparare da lui,
l'andatura dinoccolata, il modo secco e deciso di parlare, voleva irrobustire i
muscoli, diventare un uomo come lui. Tristezza e gioia, speranza e sconforto
si intrecciarono, sempre più confuso divenne il suo fantasticare. Solo quando
la lampada si mise a fumare, si rese conto che era tardi e andò a letto difilato.
Fuori seguitava a tamburellare l'inesorabile pioggia di settembre.
Questo fu il primo giorno di Bertold Berger a Vienna. E tali rimasero le cose
anche nei giorni successivi: una incessante commistione di tristezza e gioia,
di speranza e delusione, una sensazione confusa, ma comunque solamente
estraneità e nessuna abitudine. Il fatto grande, sensazionale, nuovo, che si
era atteso dalla sua vita autonoma di studente, da Vienna, tardava a
realizzarsi. Certo, c'erano singole cose belle: Schònbrunn nel mite splendore
settembrino, i viali con gli alberi dorati, in lenta ascesa verso le gloriette, e
l'ampia vista panoramica, da lassù, sul parco grandioso e sul palazzo
imperiale. Oppure i teatri, con i loro spettacoli, affascinante ritrovo di tanta
bella gente, lo sfoggio di eleganza nelle feste, la strada, a volte, luogo di
incontro con tante facce belle e singolari, scintillante di mille promesse e
lusinghe. Ma era sempre soltanto un guardare e mai un entrarci dentro, come
un'avida lettura in un libro aperto, mai l'immediatezza di un discorso, di
un'esperienza viva.
Già nei primi giorni fece l'unico tentativo di penetrare in questo nuovo
mondo. Aveva dei parenti a Vienna, gente distinta, dai quali si recò in visita e
fu invitato a pranzo. Si mostrarono molto gentili nei suoi confronti, anche i
cugini pressappoco coetanei, ma lui avvertì chiaramente che l'invito era
soltanto un modo per liberarsi di un obbligo, sentì sul suo vestito i loro
sguardi, accompagnati da sorrisetti repressi di compatimento, si vergognò
della propria eleganza provinciale, della sua timidezza, che doveva apparire
pietosa di fronte alla sicurezza di sé ostentata dai suoi cugini, non vedendo
l'ora di congedarsi. E da loro non tornò più.
Per cui tutto concorse a riportarlo verso l'amicizia stabilita quella prima
sera, alla quale si abbandonò con tutta la passionalità di un adolescente. Si
affidò totalmente a quell'uomo robusto e sano che accettava di buon grado la
sua affezione straripante, ricambiandola soltanto con la cordialità sempre
disponibile delle persone interiormente indifferenti. Già dopo qualche giorno
Schramek gli propose di passare al tu, e Berger arrossì dalla gioia, usandolo
per un bel po' con impaccio e imbarazzo, tale era l'enorme rispetto nei
confronti della superiorità dell'amico. Spesso, mentre camminavano in
compagnia, lo guardava furtivamente di sguincio, per imparare quell'andatura
marcata, sicura, e il modo disinvolto con cui abbordava ogni ragazza carina;
persino le cafonerie gli piacevano, quel suo roteare il bastone per strada
come un'arma, il perenne odore di tabacco dozzinale nei vestiti, lo
schiamazzare provocatorio nei locali e gli scherzi spesso idioti. Per ore
poteva stare ad ascoltare Schramek, quando quello raccontava le più
insignificanti storie di ragazze, di sfide a duello e di brigate; automaticamente
tutte queste cose, che pure non lo riguardavano affatto, diventavano
importanti anche per lui, si eccitava in proposito, gli parevano la vita reale,
vera, e bruciava dalla voglia di condividere simili esperienze. Dentro di sé
sperava che un giorno Schramek lo introducesse in un'avventura del genere,
ma quello aveva un modo strano di escluderlo dalle faccende importanti.
Evidentemente riteneva troppo poco presentabile la faccia infantile e
imberbe del coinquilino, perché di rado lo portava con sé, quando esibiva i
colori della propria associazione, e perlopiù si vedevano soltanto al caffè o in
casa. E toccava sempre a Berger prendere l'iniziativa.
Di questo si era accorto ben presto, e per lui era un segreto tormento.
Nella sua amicizia, come in ogni amicizia tra persone molto giovani, c'era
una sorta di amore: una passionalità impetuosa e una punta di gelosia. Una
certa amarezza, che naturalmente non osava manifestare, lo prendeva, nel
vedere Schramek trattare con la medesima cordialità riservata a lui, e spesso
con espansività anche maggiore, gente del tutto insignificante e insulsa,
appena conosciuta. E allora sentiva che in quel paio di settimane di
frequentazione non era riuscito ad avvicinarlo di un solo passo rispetto alla
prima sera, per quanto intensa fosse la propria dedizione. Gli faceva rabbia
che Schramek non mostrasse per i suoi problemi nemmeno un briciolo
dell'interesse che lui in maniera così traboccante aveva per quelli dell'amico,
che l'altro si limitasse, né più né meno, a un cordiale saluto, passando subito
a parlare dei fatti propri, senza ascoltare, quando Berger parlava dei suoi.
E poi, amarezza ancora più cocente: da ogni parola Berger avvertiva che
Schramek non lo prendeva sul serio. Già il nomignolo che gli aveva
appioppato! Invece che Bertold, come aveva fatto all'inizio, adesso lo
chiamava sempre «Bubi», ragazzino. Suonava affettuoso e cordiale, ma era
una fitta costante. Perché toccava una piaga aperta, che sanguinava in
Berger già da anni: che lo prendessero sempre per un bambino. Gli era
bruciato per anni, a scuola lo consideravano una femminuccia, tanto appariva
a tutti delicato e tanto era timido, e ora, che doveva mostrarsi uomo,
sembrava un ragazzino, con tutte le sue pavidità e ipersensibilità nervose. La
gente stentava a credere che lui fosse già uno studente. Certo, non aveva
ancora compiuto i diciott'anni, ma doveva sembrare molto più giovane,
perché tutti lo ritenessero un bambino.
Sempre più si consolidò in lui il sospetto che Schramek si vergognasse di
fronte ai colleghi unicamente a causa di questo aspetto esteriore.
Una sera ne ebbe la risposta certa. Era andato a zonzo lungamente per la
città, avvertendo di nuovo dolorosamente l'assoluta solitudine in mezzo al
caos delle strade. Sicché fece un salto da Schramek, per una chiacchierata.
L'amico lo salutò cordialmente dal divano, senza alzarsi.
Sul tavolo c'era il berretto dell'associazione, rosso come il fuoco, che saltò
agli occhi di Berger. Il suo desiderio più grande, più segreto, era che
Schramek lo introducesse nella sua consorteria, là avrebbe trovato tutto ciò
che tanto dolorosamente gli mancava, affabilità di rapporti, una casa, là
sarebbe diventato quello che voleva essere: forte, virile, un uomo tutto d'un
pezzo. Da settimane aspettava una proposta da Schramek, spesso aveva già
tentato allusioni molto velate, caute, che evidentemente non erano state
intese. E adesso quel berretto gli abbacinava gli occhi; pareva guizzare sul
tavolo come una fiamma ardente, baluginava, un tizzone, stravolgendogli
tutta la mente. Non riuscì a trattenersi.
«Domani vai alla bisboccia?»
«Certo», rispose Schramek, animandosi di botto. «Sarà uno spasso unico.
Il battesimo di tre nuove matricole, ragazzi davvero formidabili, in gamba.
Come comandante in seconda non posso mancare. Ci divertiremo da matti.
Giovedì non mi svegliare prima delle due, sicuramente rientreremo solo
all'alba.»
«Già, immagino che sia un vero spasso», disse Berger, in attesa.
Schramek non disse nulla. A che scopo parlarne ancora? Ma sul tavolo lo
ammaliava il berretto, rosso come il fuoco, una vampa... un bagliore di
sangue.
«Senti... non potresti una volta introdurre anche me... solo come ospite,
naturalmente... sai, mi piacerebbe una volta assistere alla faccenda.»
«Ma certo, vieni pure. Non domani però. Ma un'altra volta potrai essere
della partita, come ospite, naturalmente. Ma non credo che ti piacerà, Bubi,
perché spesso la cosa degenera. Comunque, se proprio ci tieni...»
Berger sentì un groppo salire alla gola. Quel berretto, quel sogno rosso
ammaliatore, all'improvviso lo vedeva come attraverso una nebbia.
Erano lacrime? Sbottò incontenibile, in un singhiozzo: «Perché non
dovrebbe piacermi? Ma per chi mi prendi? Sono un bambino?»
Nel tono della voce doveva esserci qualcosa di strano, perché Schramek
balzò in piedi. Si avvicinò a Berger con fare estremamente cordiale e gli
diede una pacca sulla spalla.
«No, Bubi, non te la devi prendere, non intendevo offenderti. Ma, per
quanto ti conosco, non credo che tu sia tagliato per queste faccende.
Sei troppo fine, troppo a modino, troppo perbene, per cose del genere.
Bisogna essere brutali, dei tipacci, gente che incute rispetto agli altri, fosse
anche soltanto in fatto di bevute. Ti ci vedi, coinvolto in una sbevazzata
generale o in una rissa, di quelle che adesso avvengono ogni momento
nell'aula magna? No, vero? Non è mica una sciagura, semplicemente non fa
per te.»
No, non faceva per lui; in questo, se ne rendeva conto, Schramek aveva
ragione. Ma che cosa faceva per lui? In che cosa la vita aveva bisogno di lui?
Non sapeva se prendersela con Schramek o essergli grato per quella schietta
spiegazione. Il quale Schramek, naturalmente, un istante dopo aveva già
bell'e dimenticato tutto, riprendendo a chiacchierare, ma in Berger si andava
radicando sempre più l'idea che gli altri lo considerassero un essere inferiore.
Il berretto rosso là sul tavolo lo fissava come un malocchio. Quella sera non
rimase più a lungo e si ritirò nella sua stanza, dove restò seduto ben oltre la
mezzanotte, con le mani appoggiate sul tavolo, fissando immobile la
lampada.
Il giorno dopo, Bertold Berger commise una sciocchezza. Non aveva
chiuso occhio tutta la notte, tanto gli rodeva dentro che Schramek lo ritenesse
un essere inferiore, un vile, un bambino. E allora aveva deciso di dimostrare
a tutti che non gli difettava il coraggio. Avrebbe cercato una lite, provocato un
duello, per far vedere all'altro che lui non aveva paura.
La cosa non gli riuscì. Frequentando Schramek, aveva appreso dai suoi
discorsi come andavano innescate queste faccende. Nel piccolo locale della
trattoria fuori porta, dove consumava i pasti, dì fronte a lui sedevano ogni
giorno alcuni studenti delle associazioni goliardiche. Non era difficile
attaccare briga con loro, dato che passavano tutto il tempo a disquisire e
ragionare sulla casistica del cosiddetto leso onore.
Nel passare accanto al loro tavolo, toccò dentro con intenzione e rovesciò
una sedia. Proseguì come se niente fosse, senza scusarsi. Il cuore gli
batteva forte nel petto. E subito alle sue spalle risuonò, minacciosa e
tagliente, una voce. «Non può stare attento?»
«Lei veda un po' di redarguire qualcun altro!»
«Che insolenza!»
Al che, tornò indietro, chiese il biglietto da visita e porse il suo, felice che
non gli tremasse la mano. Tutta la faccenda era durata un attimo. Come uscì
con orgoglio, sentì quelli al tavolo ridere e uno dire divertito: «VÉ, che
femminuccia!» E questo gli guastò l'orgoglio.
Dopo di che, tornò a casa di corsa. Con le guance in fiamme, balbettando
dalla gioia, irruppe nella stanza di Schramek, che si era appena alzato, e gli
raccontò tutto, tacendo, ovviamente, la battuta finale e anche il fatto che
aveva rovesciato la sedia intenzionalmente. A quel punto, naturalmente,
Schramek avrebbe dovuto fargli da padrino.
Aveva sperato che Schramek gli desse una pacca sulla spalla e si
complimentasse con lui, per essere stato tosto. Invece l'amico esaminò
pensoso il biglietto da visita, sibilò tra i denti e disse contrariato: «Ma proprio
quello ti dovevi scegliere? É uno forte come un toro, uno dei nostri migliori
spadaccini. Quello ti fa a pezzi come niente».
Berger non si spaventò. Che lo ferissero, lo aveva messo in conto, dato
che non aveva mai maneggiato una sciabola. Quasi pregustava un bello
sfregio sulla faccia, così gli altri non gli avrebbero più chiesto se era uno
studente. Mentre lo inquietava il comportamento di Schramek, il quale, con il
biglietto in mano, seguitava ad andare su e giù, mormorando: «Non sarà una
cosa facile. Ha detto insolenza, vero?» Poi Schramek finì di vestirsi e disse a
Berger: «Faccio un salto alla nostra associazione e ti trovo il secondo
padrino. Non ti preoccupare, vedrai che sistemerò la faccenda».
E in effetti Berger non si preoccupava affatto. Provava una gioia sfrenata,
quasi esaltata, di essere per la prima volta trattato ufficialmente da studente,
da uomo, di avere anche lui la sua brava vertenza. Di colpo gli sembrava
quasi di avere forza nelle giunture, e come sollevò la sciabola, facendola
mulinare, gli pareva quasi voluttuoso menare fendenti. Per tutto il pomeriggio,
andando avanti e indietro senza posa, sognò del duello, e la certezza, che
avrebbe perso non gli doleva affatto. Al contrario, proprio così poteva
dimostrare a Schramek e agli altri di non essere un pavido, voleva restare
impassibile, anche se il sangue gli colava sulla faccia e negli occhi, non fare
una piega, anche se loro cercavano di trascinarlo via. Allora gli avrebbero
offerto spontaneamente il berretto rosso.
Nel mentre gli si era scaldato il sangue. Quando Schramek tornò alle sette
della sera, Berger gli corse incontro agitatissimo! Anche Schramek era molto
su di giri.
«E allora, Bubi. Tutto a posto, la faccenda è sistemata.»
«Quando si va in pedana?»
«Ma Bubi, non penserai mica che ti lasceremo duellare con quello? Ovvio
che la vertenza è stata composta.»
Berger diventò pallido come un morto, le mani gli tremavano, dentro gli
montò una rabbia, annebbiando di lacrime gli occhi. Avrebbe voluto dare un
pugno in faccia a Schramek, come quello soggiunse:
«Certo non è stato facile, e un'altra volta sii più accorto! Mica sempre
finisce così bene!»
Invano Berger cercò di spiccicare una parola. Troppo tremenda era la
delusione. Finalmente, il pianto nella strozza, disse: «Comunque, ti ringrazio
molto. Ma un piacere non me lo hai fatto di certo». E uscì.
Schramek lo guardò allibito. Attribuì quello strano comportamento
all'agitazione del novellino e non si perse in ulteriori elucubrazioni.
Berger cominciò a guardarsi attorno. La sua vita desiderava finalmente un
punto di appoggio. Adesso era lì già da parecchie settimane e non aveva
fatto un passo avanti rispetto al primo giorno. Come nuvole che si sfilacciano,
una visione dopo l'altra di dissolveva lentamente in lontananza, le fantasiose
attese dell'infanzia sbiadivano e svanivano nella nebbia. Era veramente
Vienna, quella, la grande città, il sogno di tanti anni, forse già vagheggiata dal
giorno in cui per la prima volta aveva tracciato sulla carta, a lettere rigide e
maldestre, la parola Vienna? Forse allora aveva pensato soltanto a un
mucchio di case e che le giostre dovevano essere più grandi e più sgargianti
di quella che impiantavano sulla piazza del mercato per la festa del patrono.
E poi a poco a poco aveva attinto dai tanti libri i tocchi di colore, affollato le
strade di donne civettuole, seducenti, desiderabili, popolato le case di
spericolati avventurieri, riempito le notti di scatenate compagnie e immerso il
tutto nel turbinoso vortice che ha nome giovinezza e vita.
E che cosa era rimasto? Una stanza angusta e spoglia, da cui scappava al
mattino, per trascorrere un paio di ore in qualche aula sudaticcia; una
trattoria, dove trangugiava in fretta il suo pasto; un caffè, dove ammazzava il
tempo con l'occhio fisso sui giornali e sulla gente; un vagare senza meta per
le strade rumorose, finché era stanco e tornava a casa, nella stanza angusta
e spoglia. Una volta o due andò anche a teatro, ma per lui era regolarmente
un'esperienza amara. Perché, stando pigiato nella ressa del loggione, in
mezzo a tutta quella gente che di lui non sapeva nulla, giù in platea o nei
palchi vedeva i signori eleganti e disinvolti, le signore affascinanti nello
splendore dei gioielli e dei décolleté, li vedeva tutti salutarsi e intrattenersi con
euforiche risate. Tutti si conoscevano, tutti erano affini. I libri non avevano
mentito. Lì si concretavano tutte quelle avventure, della cui realtà spesso
aveva dubitato, perché non si presentavano a lui, lì era il mondo, che
solitamente si rintanava nelle case mute, lì era la vita vissuta, l'avventura, il
destino. Sentiva che lì per molti pozzi si arrivava all'oro della vita. Mentre lui
era lì da spettatore e non poteva arrivarci.
Davvero la sua infanzia aveva visto giusto: lì la giostra sgargiante,
luccicante, era più grande che a casa, più sonora e chiassosa la musica, più
vorticosa la rotazione, che mozzava il respiro. Ma lui era soltanto uno
spettatore e non partecipava alla giostra.
Non era soltanto la sua timidezza, a relegarlo in disparte. Anche la povertà
gli legava le mani. Che da casa ricevesse il necessario, per lui era troppo
poco. Bastava giusto a preservarlo dall'indigenza, era appena sufficiente per
quella vita quotidiana oscura e senza pretese, ma mai sarebbe bastato a una
espansività prodiga, dissipatrice, che pure è l'anima della giovinezza. Non
sarebbe stato capace di usare il denaro, ma lo umiliava la coscienza che a lui
fosse negato ciò che confusamente avvertiva come molto bello ed esaltante:
sfrecciare per il Prater in carrozza, a corsa pazza, o passare una notte in
qualche locale elegante con donne e amici, bevendo champagne, sbattere
via una volta, senza micragna, i soldi, per un capriccio folle. Lo nauseavano
quelle bestiali bisbocce studentesche nelle birrerie piene di fumo, e sentiva
sempre più forte e ardente il desiderio di lanciarsi per una volta in una
trasgressione, di riparare dallo squallido trantran quotidiano in un sentimento
più vivo, in cui vibrasse qualcosa del grande ritmo della vita, dell'irrefrenabile
ritmo della giovinezza. Ma tutto questo gli era negato, e ogni giorno si
concludeva con quel triste ritorno, la sera, nella odiosa stanza angusta, dove
le ombre diffuse parevano sparse da mani maligne, dove lo specchio
mandava riflessi gelidi, dove alla sera paventava il risveglio del mattino e al
mattino la lunga, sonnolenta, grigia, monotona giornata fino a sera.
In quel periodo cominciò a dedicarsi con enorme impegno allo studio, in
una sorta di disperazione. Era il primo ad arrivare nelle aule e nei laboratori, e
l'ultimo a uscire, lavorava con una voracità ottusa, senza curarsi dei
compagni, ai quali divenne presto antipatico. Con questa applicazione
sfrenata cercava di reprimere il desiderio di altre cose, e ci riuscì anche. La
sera era così spossato, che spesso non aveva più voglia di parlare con
Schramek. Seguitava a lavorare ciecamente, senza ambizione alcuna, solo
per stordirsi e non pensare alle tante cose cui doveva rinunciare. Si rendeva
conto che c'era un meraviglioso segreto in quella febbre, con cui tanta gente
dissimulava l'inutilità e il vuoto della propria esistenza, e in tal modo sperava
di poter dare un senso anche alla sua, dimenticando, però, che la prima
giovinezza non vuole un senso della vita, ma la vita stessa, nella sua totalità
e molteplicità.
Un pomeriggio, tornando a casa dal lavoro un po' più presto del solito,
mentre passava davanti alla porta dell'amico, gli venne in mente di non averlo
visto da quattro giorni. Bussò. Nessuno gli rispose. Ma con Schramek ci era
abituato, perché quello spesso dormiva ancora la sera, quando aveva fatto
bisboccia tutta la notte con gli amici.
Sicché aprì la porta, e la stanza buia gli sembrava vuota. Ma ecco
muoversi qualcosa sulla poltrona vicino alla finestra: ridendo, scattò in piedi
una ragazza alta, che era seduta in grembo a Schramek.
Berger fece per ritirarsi all'istante. Evidentemente non avevano sentito
bussare, e lui era molto imbarazzato. Ma Schramek balzò in piedi, prese per
il braccio l'amico che recalcitrava, e lo trascinò dentro. «Ecco, lo vedi, lui è
fatto così. Ha paura di una ragazza, come se fosse un ragno.
No, caro, adesso non te la svigni. Sicché, Karla, lo vedi, questo è Bubi, di
cui ti ho già parlato.»
«Io non vedo proprio niente», rise una voce sonora, un po' alta. E in effetti
era troppo buio. Berger vedeva solo vagamente balenare nella penombra i
denti bianchi e due occhi ridenti.
«Allora: sia fatta la luce», disse Schramek e si mise a trafficare con la
lampada. Berger era molto a disagio, sentiva il cuore battere inquieto, ma
svignarsela non era più possibile.
Aveva già sentito parlare di questa Karla. Era l'amante di Schramek da
qualche settimana, una commessa di negozio, una ragazza piena di allegria.
Spesso dalla sua stanza aveva sentito i due ridere e parlottare, ma, timido
com'era, aveva fatto in modo di non incontrarla mai.
La luce si accese. E allora la vide lì in piedi, alta e carina, una ragazza ben
piantata, solida, sana, formosa, con i capelli rossi come il fuoco e grandi
occhi ridenti. Aveva un'aria grossolana, un po' da serva, ed era anche
trasandata nel vestire e nell'acconciatura; o magari li aveva appena messi in
disordine Schramek? Non era escluso. Simpatico era, però, il modo disinvolto
e spiccio con cui gli andò incontro, gli porse la mano e disse: «Ciao!»
«Allora, ti piace?» domandò Schramek. Lo divertiva da matti mettere in
imbarazzo Berger.
«BÉ, più carino di te è di certo», rise Karla. «É solo un peccato che sia così
muto.»
Berger arrossì, cercando di spiccicare qualche parola, per cui Karla sbottò
a ridere e corse da Schramek. «Ehi, questo diventa rosso, se uno gli parla.»
«Lascialo in pace», disse Schramek. «Lui non sopporta le ragazze. Sai, è
molto timido, ma tu gli darai sicuramente una mossa.»
«Certo, non sarebbe male. Venga un po' qua, non la mordo mica.»
Lo prese per il braccio con decisione, per costringerlo a sedere.
«Ma signorina...» balbettò Berger confuso.
«Hai sentito? Signorina. Ha detto signorina. Senta, caro signor Bubi,
signorina, a me, non lo dice nessuno. Il mio nome è Karla, se lo tenga per
detto.»
I due scoppiarono a ridere sonoramente. Schramek e Karla. Doveva aveva
l'aria dell'allocco, si rese conto Berger e, per rimediare alla penosa figura, si
unì al coro delle risate.
«Sai che cosa ti dico?» disse Schramek. «Ci facciamo portare del vino.
Allora forse perderà un po' la timidezza. Dai, Bubi, su, offri una bottiglia, o
meglio due. Ci stai?»
«Certo», disse Berger. A poco a poco si sentiva rinfrancare, lì per lì lo
avevano colto di sorpresa. Uscì, chiamò la padrona di casa, e quella andò a
prendere del vino, portò dei bicchieri, e quindi sedettero tutti e tre intorno al
tavolo, chiacchierando e ridendo. Karla si era messa accanto a Berger e
beveva alla sua salute. Lui aveva preso visibilmente coraggio. Qualche volta,
mentre lei parlava con Schramek, osava guardarla senza timore. Adesso gli
piaceva di più. I capelli rossodorati sulla nuca assolutamente candida
formavano un contrasto seducente. E poi era affascinato dalla vivacità
spontanea, dalla vitalità prorompente, robusta, piena di temperamento, e
magneticamente attratto dalla sua bocca rossa e sensuale, che si schiudeva
nella risata, mostrando i denti solidi, bianchi come la neve.
A un certo punto Karla, girandosi all'improvviso verso di lui, per fargli una
domanda, lo aveva sorpreso mentre la fissava. «Ti piaccio?» rise nella sua
esuberanza. «Anche tu mi piaci!» Lo disse senza malizia, con schiettezza,
ma a Berger la cosa piacque, e per un attimo ne rimase come inebriato.
Divenne sempre più vivace. E a poco a poco, come una sorgente calda,
tutta l'euforia sommersa degli anni liceali si ridestò in lui, cominciò a
raccontare, a fare lazzi; i suoi discorsi, sulle ali del vino, scintillavano di una
giovanile spavalderia a lui del tutto ignota. Anche Schramek era stupito. «Ma
Bubi, che cosa ti succede? Ecco, così dovresti essere sempre, mica un
pesce lesso!»
«Già», rise Karla, «ti avevo detto, no, che gli avrei sciolto la lingua.»
La padrona di casa dovette andare a prendere dell'altro vino. L'allegria dei
tre divenne sempre più chiassosa. Berger, che in genere non beveva quasi
mai, si sentiva meravigliosamente trasportato da quella insolita euforia, rideva
e scherzava in continuazione, perdendo ogni timidezza.
Alla terza bottiglia, Karla cominciò a cantare e quindi propose a Berger di
darle del tu.
«Schram, tu lo permetti, vero? E un così caro ragazzo!»
«Ma certo. Su! Datevi il bacio della fratellanza.»
E prima che Berger potesse raccapezzarsi, sentì due labbra umide sulla
sua bocca. La sensazione, né sgradevole né gradevole, si dissolse senza
lasciare traccia nell'allegria sfrenata e già lievemente annebbiata, che lo
dondolava su e giù come un'altalena. Desiderava unicamente che
continuasse quel delizioso vortice disinibito, quell'impalpabile ebbrezza che
emanava dalla ragazza e dal vino e dalla propria giovane età. Anche Karla
aveva le guance arrossate e a volte rideva verso Schramek, strizzandogli
l'occhio.
D'un tratto Schramek disse a Berger: «Hai già visto la mia nuova
sciabola?»
Berger non era incuriosito. Ma Schramek lo tirò in disparte. E mentre si
chinavano, gli disse sottovoce: «Bene, e adesso sparisci, Bubi. A questo
punto sei di troppo».
Berger lo guardò, per un istante, sbalordito. Poi comprese, e augurò la
buona notte.
Come si ritrovò nella sua stanza, avvertì un leggero ondeggiamento sotto i
piedi. In alto, sulla fronte, martellava il sangue, e la stanchezza lo buttò ben
presto a letto. Il giorno dopo saltò per la prima volta le lezioni, non essendosi
svegliato in tempo.
Comunque quell'incontro, per quanto occasionale fosse, gli aveva irradiato
nel sangue un tacito balenio di eccitazione. Sordamente andava elucubrando
se quella sete di amicizia non fosse per caso un errore, una segreta
menzogna, se in quell'anelare della solitudine verso un'intimità coinvolgente
non covasse un altro desiderio faticosamente occultato.
Riandava ai giorni trascorsi con la sorella. Pensava a quelle sere azzurre,
quando sedevano nel giardino immerso nella penombra vespertina e non
scorgeva più i tratti di lei, soltanto ancora il riflesso bianco del vestito
dall'oscurità, un tenue lucore, come a volte una nuvola barbaglia appena nel
cielo già invaso dalla notte. Che cosa, allora, lo rendeva tanto felice, quando
quella voce giungeva nel buio con le parole soavi, argentina e sommessa,
spesso balenando lampi di riso e poi di nuovo piena di tenerezza, quando
quella musica volava al suo cuore come un carezzevole alito di vento o un
uccello addomesticato? Era veramente soltanto intimità fraterna, oppure non
vi si celava - nel più profondo, e sublimato dall'amicizia priva di
concupiscenza - un piacere della donna, un tenerissimo e dolcissimo
sentimento della femminilità? E tutto ciò che ora confusamente desiderava
non era forse un alone luminoso, una traccia smarrita dell'anima femminile al
di sopra della sua vita? Da quella sera si era reso conto con certezza di
desiderare molto una donna. Non tanto una relazione, un amore, ma
semplicemente un tacito contatto con le donne. Tutte le cose sconosciute e
meravigliose da lui sognate non erano forse connesse con le donne, non
erano loro le custodi di ogni segreto, seducenti e piene di promesse, vogliose
e concupite a un tempo? Adesso cominciò a osservare più attentamente le
donne per strada. Ne notò molte che erano giovani e belle e avevano negli
occhi luminosi lo sfolgorio rivelatore di tante cose.
Di chi erano quelle che camminavano ancheggiando e parevano danzare,
che si guardavano intorno fiere, erette, come regine, che si adagiavano
voluttuosamente nelle carrozze e sfioravano con sguardo noncurante i
passanti stupiti e ammirati? Non c'era anche in loro il desiderio, e dietro le
migliaia di porte, dietro le innumerevoli finestre della grande città,
accuratamente schermate e appassionatamente spalancate, non dovevano
esserci molte donne pervase anch'esse da un desiderio simile al suo e in
attesa di lui, a braccia aperte? Non era giovane come loro, e non era radicato
in tutte uno stesso desiderio?
Adesso frequentava meno le lezioni e si aggirava più spesso per le strade.
Era come se dovesse finalmente incontrare una donna capace di decifrare i
segni tremolanti dei suoi occhi, come se un caso fortuito dovesse intervenire
in suo favore, accadere un fatto imprevisto. Vedeva con invidia e cocente
bramosia certi giovanotti agganciare, a due passi da lui, delle ragazze,
vedeva coppiette teneramente allacciate perdersi la sera nei parchi, e sempre
più pressante si fece in Berger il desiderio di vivere anche lui la propria
esperienza. Certo, non vagheggiava nulla di sconvolgente, ma una donna
tenera e dolce come sua sorella, soave e affettuosa, di infantile attaccamento
e con quella meravigliosa voce sommessa nelle ombre della sera. Questa
immagine occupava i suoi sogni.
Ogni giorno, tornando a casa all'ora di pranzo per la Floriangasse,
incontrava sciami di ragazzine quindicenni, sedicenni, reduci da scuola, a
piccoli gruppi vocianti, con il passo saltellante delle adolescenti, intente a
guardarsi intorno inquiete, ridacchiando, facendo ciondolare i libri. Ogni
giorno vedeva da lontano quelle facce fresche, ridenti, i corpi snelli nelle
gonne corte, le anche che ondeggiavano leggere, vedeva l'allegria
spensierata, ancora infantile, con un cocente desiderio di imparare da quella
gioventù il sorriso e la serenità tersa.
Ogni giorno le vedeva. E loro ormai lo conoscevano. Come arrivava, si
davano di gomito alla maniera plateale delle adolescenti, ridevano
sonoramente e lo fissavano con occhi strafottenti, di sfida, mentre lui ogni
volta guardava subito altrove e passava via in fretta. E quando poi notarono il
suo turbamento, la sua timidezza, quell'arrossire e schivare il loro sguardo, si
fecero di giorno in giorno sempre più ardite, senza che lui riuscisse mai a
rivolgere loro la parola. Non erano più monellesche, più virili di lui? Nella sua
stupida timidezza non era come una ragazzina, altrettanto confuso e
infantile?
Gli tornò in mente uno scherzo che sua sorella aveva fatto a casa qualche
anno prima. Lo aveva furtivamente vestito da ragazzina e presentato alle sue
amiche, le quali lì per lì non lo riconobbero e poi lo attorniarono con mille
lazzi, divertite. Lui, all'epoca ancora un ragazzo, era rimasto lì tremante e
rosso in faccia e non osava aprire gli occhi e guardare nello specchio che gli
avevano portato. Già allora era timido e pavido, ma allora era ancora piccolo.
Adesso era quasi un uomo e ancora non era capace di reggere a uno
sguardo ridente, non sapeva essere forte e brutale, come la vita esigeva.
Perché non era in grado di essere come Schramek o come tutti gli altri? Era
veramente un essere inferiore, veramente come un bambino?
Sempre gli tornava in mente la volta in cui, travestito da ragazzina, si era
trovato in mezzo a quelle ragazzette che ridevano scatenate, e non osava
alzare lo sguardo. Nel frattempo, che cosa erano diventate?
Sapevano baciare, conoscevano l'amore, portavano vestiti lunghi, molte
avevano già marito e figli. Tutte dalla stanza di allora, dalla fanciullezza, si
erano lanciate fuori nella vita. Solo lui era ancora lì, ragazza più che uomo,
un bambino rosso in volto nella stanza deserta, confuso, con gli occhi bassi,
e non osava alzare lo sguardo...
Un giorno, verso la fine di gennaio, si rifece vivo da Schramek. Adesso ci
andava più raramente, da quando il solitario vagabondare per le strade gli
dava una voluttà sottile e affascinante.
Il tempo era pessimo. La neve degli ultimi giorni si era sciolta, ma il vento
seguitava teso e tagliente, pretendendo in esclusiva le strade.
Nuvole galoppavano per il cielo grigio, che guatava come cieco dall'alto.
Cominciò una pioggia intensa e pungente, che si ficcava nella pelle come
spilli di ghiaccio.
Schramek stentò a salutarlo. Era sempre brusco e villano, quando nelle
sue faccende qualcosa non andava. Si aggirava avanti e indietro agitato,
continuando ad accendere la pipa. A volte ritornava di qualche passo, come
se volesse domandare qualcosa. «Maledetta storia», ringhiò tra i denti.
Berger stava zitto. Non osava chiedergli che cosa fosse successo.
Schramek avrebbe parlato, ne era certo.
E infatti, alla fine, sbottò: «Che tempo schifoso! Ci mancava solo quello. E
a me tocca correre in giro per delle fesserie!»
Riprese a camminare su e giù con rabbia, menando fendenti in aria,
secchi, sibilanti, con un righello. Solo a quel punto Berger domandò cauto:
«Ma che cosa è successo?»
«Quello scemo del mio attendente l'altro ieri ha attaccato briga con due tizi.
Oggi alle quattro inizia la giostra e domani si ricomincia. Ma io fra una
settimana ho l'esame e veramente avrei ben altro da fare. In più il cretino se li
è scelti dal mazzo, i due, che lo scanneranno sicuramente, quel pezzo di
idiota. Adesso se mi bocciano è finita, mi tocca ripetere l'anno e aspettare,
come i ragazzini a scuola. Come si fa a non andare in bestia?»
Berger non disse nulla. Non ci aveva messo molto a scoprire la stupidità di
tutti questi duelli goliardici sotto l'inconsistente patina di fascino che li
indorava. Da quando aveva assistito a una bisboccia e aveva visto le facce
pallide e grigie degli studenti ubriachi alla luce dell'alba, dopo tutti i rituali
delle loro cerimonie, da quando, fuori porta, in una saletta angusta, sporca,
aveva visto un duello, gli era rimasto soltanto un tacito risolino per la seriosità
con cui si facevano queste cose, gli era venuto meno qualsiasi interesse
interiore per queste faccende. Certo, non aveva mai osato confessarlo a
Schramek, perché quello ce l'aveva nel sangue. Adesso erano seduti lì
entrambi in silenzio, ognuno intento ai propri pensieri, mentre fuori strepitava
sempre più forte il vento.
Ed ecco suonare il campanello. E subito dopo bussarono alla porta.
Entrò Karla, il cappello di sghimbescio, ciocche di capelli bagnati sulla
faccia ridente. «Sono conciata proprio bene, vero? No? Ciao.» Si avvicinò a
Schramek e lo baciò. Lui la scansò di malumore. «Hai paura che ti bagni con
la mia giacca, scimunito?» Poi notò Berger. «Ciao, Bubi!»
Si tolse la giacca e la buttò sul divano. Nessuno apriva bocca. Berger si
sentiva in qualche modo a disagio. Dalla sera in cui aveva siglato con una
bevuta il loro passaggio al tu, aveva rivisto Karla un paio di volte, senza però
ritrovare quella disinvolta atmosfera cameratesca.
L'onda erotica calda, che da allora aveva investito la sua vita, lo rendeva
inquieto ed eccitato in presenza di una donna. Aveva quasi paura della
propria passionalità.
Anche Schramek taceva. Era di pessimo umore, la vertenza e il suo esame
non gli uscivano dalla testa. Il silenzio si protraeva in modo imbarazzante.
Karla mostrò una certa irritazione. «A quanto pare, reco disturbo all'egregio
signorino. Sicché mi sono liberata dal lavoro questo pomeriggio, per vedervi
dormire a occhi aperti. Siete davvero gentili, lasciatemelo dire.»
Schramek si alzò e prese la sua giacca invernale. «Tesoro mio, tu non mi
disturbi mai, lo sai bene. Solo che adesso non è il momento. Devo uscire,
sono le tre e mezzo, e alle quattro Fix va in pedana a Ottakring.»
«Ben gli sta, a quel villanzone. Perché è sempre così insolente con tutti
quanti? Allora tu te ne vai. E io, intanto, che cosa faccio? Con questo
tempaccio, dovrei forse stare per strada?»
«Tesoro mio, io non tornerò prima delle sette. Se vuoi, puoi restare qui.»
«Per fare che cosa? Dormire? Grazie tante, l'ho già fatto dalle nove di ieri
sera a stamattina presto. Portami con te. Mi piacerebbe vedere Fix conciato
per le feste.»
«Non è possibile. Che cosa ti salta in mente?»
«Allora, se è così, me ne starò qui ad aspettarti. Mi farà compagnia Bubi.
Vero, Bubi?»
Berger non sapeva che cosa rispondere. Di fronte a simili uscite improvvise
era disarmato. Non osava nemmeno guardarla. I due scoppiarono a ridere.
«Certo», disse Schramek, che aveva ritrovato il suo buonumore. «Così
dovrei lasciare soli voi due? Hai idea di che falsone sia Bubi?»
«Macché Bubi! E una ragazzina, no?»
Risero entrambi nuovamente. Quanto lo disprezzavano, pensò Berger.
Perché non riusciva a ridere con loro, perché era così beota da non trovare
una parola, una battuta di spirito, nulla, assolutamente nulla?
Gli montò una grande rabbia, dentro.
«D'accordo, allora», disse Schramek. «Voglio correre questo rischio. Ma
come la mettiamo, se voi due combinate qualcosa?»
«Per questo bisogna essere in due.»
«BÉ, sai... ecco... su di te non me la sentirei proprio di giurare.»
«Ma io non alludevo mica a me.»
E ancora una volta i due sbottarono a ridere, con quella risata piena,
gioiosa, del vivere sano, priva di malevole intenzioni, che tuttavia a Berger
bruciava dentro come una scarica di frustate. Avvertiva solo, oscuramente,
un desiderio: essere altrove, lontano, a mille, a diecimila miglia da lì. O
dormire. Oppure poter essere allegro come loro. Ma non starsene lì muto.
Non essere confuso come un timido babbeo, come un bambino, non farsi
compatire.
Schramek si mise il berretto. «Bene, facciamo questa prova. Ma guai a voi,
se... Alle sette sarò di ritorno. Bubi, comportati a modo! Te lo leggo negli
occhi, se hai combinato qualcosa. E non mi annoiare questa povera ragazza.
Ciao!»
Abbrancò con forza Karla per i fianchi, tanto che lei si torceva squittendo, le
diede due di baci profondi, salutò Berger con la mano e uscì. Fuori, la porta di
casa si richiuse seccamente.
Adesso erano soli, Berger e Karla. Il vento danzava per la strada con la
pioggia, e a volte si sentiva crepitare dentro la stufa, come se si stesse
spaccando qualcosa. Nella stanza si diffuse un silenzio sempre maggiore, già
si poteva udire il tenue battito della pendola della stanza accanto. Berger
stava seduto lì, come se stesse dormendo. Senza alzare gli occhi, avvertiva
che lei lo guardava sorridendo. Sentiva quello sguardo come un formicolio
elettrico che partiva impercettibilmente dai capelli e poi scendeva fino ai piedi.
Gli pareva di soffocare.
Lei sedeva con le gambe accavallate e aspettava. A un certo punto si chinò
in avanti, accennando un sorriso. E improvvisamente, rompendo il silenzio,
disse: «Bubi, hai paura?»
Era così, effettivamente. Come aveva fatto a capirlo? Aveva paura,
soltanto paura, una stupida paura infantile. Ma si fece forza e proruppe:
«Paura? Paura di chi? Di te, forse?» Suonava villano, sebbene non fosse
nelle sue intenzioni.
E di nuovo il silenzio vibrò per la stanza. Karla si alzò, lisciò il vestito,
riordinò davanti allo specchio i capelli arruffati e vide i suoi occhi che
ridevano. Poi si girò a metà. «Detto con franchezza, Bubi, sei un vero strazio.
Su, raccontami qualcosa.»
Berger sentiva crescere sempre più acre la rabbia nei confronti di lei e
verso se stesso, per il fatto di essere tanto imbranato. Stava già per darle
un'altra risposta sgarbata, ma lei gli andò vicino, affettuosa e dolce, si sedette
accanto a lui, mendicando come un bambino. «Dai, raccontami qualcosa.
Una cosa qualsiasi, intelligente o stupida. Passate tutto il giorno sui libri,
sicché dovreste sapere qualche cosa.» Gli si appoggiò addosso
decisamente. Era il suo modo disinvolto di trattare confidenzialmente tutti
quanti. Ma quel braccio morbido, caldo, sul suo lo mise in confusione.
«Non mi viene in mente nulla.»
«Mi pare che a te non venga in mente mai nulla di intelligente. Si può
sapere che cosa fai tutto il santo giorno? Gironzolare, se non sbaglio.
Ultimamente ti ho visto alla Josefstâdterstrasse, ma eri di fretta oppure hai
fatto finta di non vedermi. Mi è parso che tu facessi la posta a qualche
ragazza.»
Berger cercò di protestare.
«Su, dai, non c'è niente di male. Di' un po', Bubi, hai una relazione?»
Gli rise in faccia, godendo da matti per il suo imbarazzo. «VÉ, adesso
diventa tutto rosso. L'ho pensato subito, che avevi la ragazza, caro falsone.
Mi piacerebbe vederla, una volta. Come è fatta?»
Nella sua confusione, gli restava un solo modo per cavarsela, sempre
quello: la villania. «Sono fatti miei. Non ti riguarda. Tu impicciati delle tue
relazioni.»
«Ma Bubi, perché strilli tanto? Quasi quasi mi metti paura.» Finse di essere
terribilmente spaventata.
Lui saltò in piedi. «E poi non chiamarmi sempre Bubi. Non lo sopporto.»
«Ma anche Schramek ti chiama così.»
«É diverso.»
Karla rise. Berger le piaceva un sacco nella sua collera infantile.
«Allora te lo dico apposta. Bubi, Bubi, Bubi. Ecco, l'ho detto tre volte!»
Gli tremavano le narici. «Smettila, ti ho detto. Non lo sopporto.»
«Ma Bubi, Bubi!»
Berger strinse i pugni. Il sangue gli avvampò alla faccia. Era a un passo di
fronte a lei. Karla lo sentiva ansimare, vedeva gli occhi balenare minacciosi.
Istintivamente si ritrasse. Ma poi fu ripresa dalla spavalderia. Le mani
appoggiate sui fianchi, ridendo, con i denti che scintillavano, disse, come a se
stessa: «Santo cielo! Adesso Bubi, il bimbo, diventa cattivo».
Al che, le saltò addosso. Il dileggio lo colpì come una nerbata. Voleva
pestarla, picchiarla, darle una lezione, perché non lo schernisse più.
Ma la ragazza, solida e robusta, con abile mossa bloccò i suoi pugni e li
piegò giù a forza. Berger sentiva dolorosamente i suoi polsi nella morsa
ferrea di lei. Era immobilizzato come un bambino, Karla lo teneva inchiodato
al pari di un giocattolo. I loro volti si fissavano a un passo di distanza: quello
di lui, sfigurato dalla rabbia, gli occhi gonfi di lacrime imminenti, quello di lei,
sorpreso, consapevole della propria forza, della propria superiorità, quasi
sorridente. Per un minuto lei lo tenne discosto da sé a quel modo, come un
cagnolino in vena di morsicare. In quello successivo, Berger, martoriato ai
polsi, sarebbe crollato in ginocchio. Allora lei mollò la presa e lo scostò senza
rudezza. «Ecco. E adesso torna a fare il bravo.»
Ma lui tornò alla carica. Era infuriato dal fatto che lei lo avesse tenuto in
pugno come uno straccio. Ora doveva stenderla, domarla. Non doveva ridere
di lui. La afferrò di scatto alla vita, per buttarla a terra. E quindi ansimarono
entrambi, petto contro petto, lei, sorpresa e divertita per la rabbia
incomprensibile del ragazzo, lui, con rancore parossistico e digrignando i
denti. Le sue mani artigliarono sempre più tenacemente il corpo agile della
ragazza, priva di corsetto, pronto a schivare abilmente, facendo forza sui
fianchi larghi, puntellati solidamente. Mentre lottavano, la sua faccia toccò le
spalle e il seno di lei, e Berger percepì confusamente un profumo morbido,
caldo, inebriante, che gli fiaccava sempre più le braccia; a tratti sentiva il
battito sonoro, lento, del cuore e il riso che saliva gorgogliando dal profondo
del petto avvinghiato, e gli pareva che i suoi muscoli si paralizzassero.
Scuoteva come un tronco quel solido corpo contadino, che a volte cedeva un
pochino, ma non si lasciava mai piegare e sembrava acquistare sempre più
vigore nel contrasto. A un certo punto la cosa le venne a noia, e con due o tre
mosse si svincolò. Lo spinse via bruscamente, come un fuscello. «Adesso
piantala!» La voce di Karla era arrabbiata e quasi minacciosa.
Berger indietreggiò. Il suo viso era in fiamme, gli occhi iniettati di sangue, e
tutto vorticava rosso, come una vampa, davanti al suo sguardo.
Tornò alla carica una terza volta, ciecamente, fuori di sé, con le braccia che
svolazzavano, come un ubriaco. E di colpo qualcosa era cambiato. Quel
selvaggio alone di profumo, quel frusciare del vestito di lei, il contatto caldo
con quel corpo flessuoso lo facevano impazzire.
Non voleva più picchiarla o infierire, ma possedere quella donna che aveva
eccitato i suoi sensi. La tirò a sé con forza, si tuffò tutto nelle sue forme
roventi, con mani febbrili abbrancò tutto il corpo, adunghiando smanioso il
vestito, nell'intento di stenderla. Lei seguitava a ridere, come solleticata dai
toccamenti del ragazzo, ma nella sua risata adesso c'era un suono strano,
rauco. Tutto in lei appariva più agitato, il petto palpitava forte, il suo corpo
nella lotta premeva con più veemenza contro quello di Berger, le sue mani
robuste tremavano sempre più nervosamente. I capelli si erano sciolti e
svolazzavano sulle spalle, massa greve dal profumo sensuale. Il suo volto
divenne sempre più acceso. Nel corpo a corpo la camicetta si aprì un poco,
schizzò via un bottone, e improvvisamente il delirante avversario vide
balenare affannoso il suo candido seno. Berger gemeva nello sforzo
supremo. Sentiva che lei non intendeva affatto opporre resistenza, che
voleva soltanto essere piegata, stesa, ma nemmeno a questo bastavano le
sue forze. Il suo brancicamento era impotente.
A un certo punto pareva che volesse cadere da sola. Reclinò la testa
voluttuosamente, e lui vide lampeggiare nei suoi occhi un bagliore
improvviso, mai visto. E come una tenerezza, come un gemito incontenibile,
prepotente, suonò la sua esclamazione: «Ma Bubi, Bubi!» Allora la strattonò,
e quando si rese conto che lei non andava al tappeto sotto la presa delle sue
deboli mani tremanti da bambino, improvvisamente afferrò voglioso i capelli
rossi sciolti, per mandarla a terra con uno strappo. Karla cacciò un urlo di
rabbia e di dolore. Con una spinta violenta, furibonda, scaraventò via da sé
quel corpo senza nerbo, facendolo volare per la stanza come un fagotto di
stracci.
Barcollando a ritroso, Berger inciampò. E cadde con fracasso in un angolo,
in mezzo alle sciabole che giacevano lì. Una fitta lacerante gli corse dalla
mano su per il braccio.
Restò disteso per un minuto, come intontito. E poi arrivò lei, tremando
ancora un poco per l'eccitazione, ma visibilmente preoccupata: «Ti sei fatto
male?»
Berger non rispose. Lo aiutò a rialzarsi e nel mentre lo accarezzava.
Non c'era in lei alcuna cattiveria. Si tirò su a fatica. Aveva infatti infilato la
mano sinistra nella tasca della giacca, perché lei non si accorgesse che si era
ferito. Non voleva confessarlo. Come un fuoco gli bruciava dentro la rabbia
per la propria penosa debolezza, per non essere stato capace di piegare
nemmeno una consenziente. Per un attimo fu tentato di tornare alla carica.
Ma in tasca sentiva il sangue sgorgare caldo, a fiotti, dalla ferita.
Avanzò incespicando, senza guardarla, mentre lei cercava di aiutarlo
spaventata. Negli occhi aveva una nebbia di lacrime. A stento vedeva la porta
attraverso quel velo umido. Tutto in lui era completamente vuoto,
assolutamente indifferente. Nella tasca gocciolava il sangue. Lo avvertiva
confusamente. Per il resto, dentro, era tutto spento. Puntò malfermo, alla
cieca, davanti a sé... verso la porta... fuori... per raggiungere la sua stanza.
Là si lasciò cadere sul letto. Il braccio ferito penzolava fuori del bordo.
Sanguinava ancora, e ogni tanto una goccia finiva pesantemente sul
pavimento. Berger non ci faceva caso. In lui era un subbuglio che pareva
soffocarlo. E finalmente eruppe: un pianto spasmodico, tremendo, un
singhiozzare irrefrenabile, atroce, che soffocò nei cuscini. Per lunghi minuti il
suo corpo infantile e febbricitante ne fu scosso. Poi si sentì liberato.
Tese l'orecchio verso la stanza accanto. Di là, Karla si muoveva con passo
intenzionalmente rumoroso. Lui restò immobile. Poi i passi cessarono. E
quindi lei si mise a sbattere gli armadi, a tamburellare sul tavolo, per farsi
sentire. Evidentemente aspettava che lui tornasse.
Berger continuò a stare in ascolto. Il suo cuore martellava sempre più forte,
ma lui non fece una piega.
Karla andò su e giù ancora un poco. Poi fischiò un valzer, battendo il ritmo
con le dita. A poco a poco si zittì. Dopo un po' Berger sentì lo scatto della
porta accanto e quella di casa chiudersi rumorosamente.
Per tutta la lunga notte senza fine e la mattina seguente Berger aveva
atteso che arrivasse Schramek, a chiedergli conto di quanto era accaduto tra
lui e Karla. Non dubitava, infatti, che Karla avrebbe riferito subito ogni cosa a
Schramek, però non sapeva se dal racconto di lei risultasse una aggressione
proditoria oppure un ridicolo e assurdo ghiribizzo. Passò la notte intera a
pensare che cosa doveva rispondere a Schramek, elaborò lunghi discorsi a
botta e risposta, già premeditando certi gesti, per troncare di netto la
discussione, qualora si fosse trovato alle strette. E una cosa sapeva per
certo: che ora l'amicizia era in bilico, che tutto era finito oppure doveva
ricominciare da capo su nuove basi.
Ma attese invano. Schramek non si fece vivo, neppure nei giorni
successivi. Veramente la cosa non era poi tanto strana, dato che Schramek
in genere lo cercava soltanto quando aveva bisogno di un piacere o doveva
sfogare qualche rospo, altrimenti toccava sempre a Berger andare da lui, se
voleva vederlo. Solo che stavolta, avendo Berger la coda di paglia, gli pareva
che quel silenzio fosse intenzionale, e non cercò l'amico, aspettando con
un'ostinazione tacita e accanita che lo straziava. In quei giorni era
assolutamente solo.
Nessuno lo cercava, e Berger avvertiva più che mai l'umiliante sensazione
di non essere necessario a nessuno, che nessuno lo amava, nessuno aveva
bisogno di lui. E con ciò si rendeva conto doppiamente di quanto contasse
ancora per lui quell'amicizia, a dispetto di tutte le delusioni e umiliazioni.
Questa situazione si protrasse per una settimana. Quand'ecco che un
pomeriggio, mentre era seduto allo scrittoio e cercava di lavorare, udì dei
passi rapidi avvicinarsi alla porta. Riconobbe subito l'andatura di Schramek,
balzò in piedi, e già la porta si spalancò e si richiuse di botto, e Berger si
trovò davanti Schramek con il fiatone, che ridendo lo strinse con entrambe le
braccia, scuotendolo come un fuscello.
«Ciao, Bubi! Beato chi ti vede. Gli altri c'erano tutti, solo tu mancavi, perché
devi sgobbare tutto il giorno. Comunque, è andata. Sì, ce l'ho fatta e, grazie a
Dio, era il mio ultimo esame. Tra una settimana mi dovrai chiamare signor
dottore.»
Berger era allibito. Aveva immaginato mille cose, tranne il fatto che si
sarebbero rivisti in quel modo. Riuscì giusto a farfugliare qualche parola di
felicitazione. Ma Schramek lo interruppe.
«Sì, certo, va bene, non ti sforzare. E adesso muoviti, dai, vieni nella mia
stanza, dobbiamo festeggiare come si deve, e poi ti devo raccontare tutto.
Su, andiamo. Karla è già di là.»
Berger trasalì. Di colpo ebbe paura di trovarsi a tu per tu con Karla, perché
lei lo avrebbe sbeffeggiato, e lui sarebbe stato lì un'altra volta, tutto rosso,
come uno scolaretto, in mezzo a loro due. Cercò di sottrarsi all'incontro.
«Mi devi scusare, Schramek, ma non posso proprio venire, davvero. Ho un
mucchio di cose da fare.»
«Da fare? Da fare che cosa, manigoldo, quando io ho superato il mio
ultimo esame? Rallegrarti, devi, e venire con me. Non hai proprio null'altro da
fare. Avanti, muoviti.»
Lo prese per il braccio e lo trascinò via. Berger si sentiva troppo debole per
resistere. Confusamente avvertiva soltanto quale potere avesse ancora su di
lui Schramek. Lo stava portando via come una ragazza, e per la prima volta
Berger capì perfettamente perché una donna dovesse lasciarsi sopraffare da
un essere così forte, allegro e vitale, contro la propria volontà, per un mero
senso di ammirazione della forza, che svuotava la sua resistenza. E in
quell'istante anche la donna doveva pensare dell'uomo allo stesso modo in
cui lui, ora, pensava di Schramek: avere odio, rabbia, e tuttavia la dolce
sensazione di essere sopraffatta da una persona forte. Berger non aveva la
percezione di andare, non sapeva che cosa stesse succedendo, e
improvvisamente si ritrovò nella stanza di Schramek.
E lì c'era Karla. Come lo vide, gli andò incontro con uno sguardo
stranamente caldo che lo avvolse come un'onda dolce, e gli porse la mano
senza dire una parola. E ancora una volta lo guardò con curiosità, come un
estraneo e tuttavia in modo diverso.
Schramek trafficava al tavolo. Aveva bisogno di fare qualcosa e di parlare,
la vitalità prepotente del suo sentimento euforico cercava uno sfogo. Quando
era preso da una cosa, aveva bisogno del prossimo, per riversare il proprio
entusiasmo; altrimenti, di solito, era indifferente e piuttosto chiuso. Ma quel
giorno tutto il suo essere era una frenesia di movimento e di fanciullesca gioia
sfrenata.
«Allora, che cosa beviamo? Con la gola secca non riesco a raccontarti
nulla. Niente vino, direi. Altrimenti stasera non ne abbiamo più voglia, mentre
stasera dobbiamo fare sfracelli. Facciamoci un tè. Un noiosissimo tè bello
caldo. Ci state?»
Karla e Berger erano d'accordo. Stavano seduti al tavolo uno accanto
all'altra, ma Berger non le rivolgeva la parola. Un pensiero gli turbinava nella
testa, come una falena si aggira ronzando per una stanza chiusa: si era
sognato di aver lottato come un disperato con quella donna che gli stava
accanto? Non osava guardarla e sentiva soltanto l'aria intorno a lui farsi
soffocante, la gola strozzarsi.
Fortunatamente Schramek non se ne accorse. Sbatacchiava piatti e tazze,
fischiando e chiacchierando. Gli dava gusto fare da cameriere ai due,
servendoli con bella euforia, dopo di che si buttò comodo e beato nella
scricchiolante poltrona di fronte a loro e cominciò a raccontare.
«Allora, che io non abbia mai studiato molto, non c'è bisogno di dirlo a voi
due. E come mi avvio all'aula dell'esame con il mio vestito da beccamorto,
incontro un vecchio amico, Karl - lo conosci, no? -, e lui, vedendomi con la
fifa addosso, cerca di farmi animo in tutti i modi. Ma io, nella mia paura - non
avete idea di quanto diventi meschina un'ora prima dell'esame la persona più
rispettabile - gli chiedo soltanto se è difficile e quali domande gli hanno fatto
due anni prima. Come mi dice la prima, io non ne ho la più pallida idea, e mi
vengono le gambe molli.
Io lo prego di spiegarmi in fretta la faccenda - si trattava di una questione
costituzionale - e lui me la ficca in testa e poi viene ad assistere al mio
massacro.»
Ma che cosa andava dicendo, quello? Berger non riusciva a prestargli
orecchio, era come un suono che giungesse da lontano, un suono di parole
senza senso. In lui seguitava a vibrare unicamente il pensiero che accanto gli
sedeva la donna che aveva lottato con lui, che lo aveva steso, e che questa
donna non mostrava irrisione nei suoi confronti, ma lo aveva guardato con
quello sguardo dolce, avvolgente, scintillante...
Improvvisamente trasalì. Sulla sua mano, distrattamente appoggiata sul
tavolo, un dito scorreva piano lungo la cicatrice che ancora formava come
una striscia rossa, di fuoco. E nel trasalire, Berger colse una domanda negli
occhi di Karla, una domanda quasi tenera e compassionevole. Un fuoco gli
avvampò fino alle tempie, dovette reggersi alla sedia.
Dall'altra parte Schramek continuava a raccontare. «E, pensate un po',
come mi siedo, la prima domanda è proprio quella che Karl mi ha spiegato.
Alle mie spalle sento tossire e ridacchiare, ma io d'un tratto ero così
sollevato, da non legarmela al dito, e attacco con la parlantina, sciolta come
un burro fuso. E una volta preso lo slancio, non ti ferma più nessuno. Ho
parlato e parlato, che quasi mi venivano i crampi alla lingua, dicendo Dio sa
quali scempiaggini, ma comunque ho parlato.»
Berger non ascoltava una parola. Sentiva soltanto il dito passare un'altra
volta sulla cicatrice, e gli pareva che la ferita venisse dolorosamente riaperta
da quel gesto furtivo. Il suo corpo era percorso da uno spasmo, e
bruscamente ritrasse dal tavolo la mano, come da una piastra rovente.
Dentro, gli montava un turbamento rabbioso. Ma, mentre guardava la
ragazza, notò che le sue labbra chiuse si muovevano come nel sonno e la
sentì mormorare piano: «Povero Bubi».
Era soltanto a fior di labbra, parola senza suono, oppure Karla lo aveva
detto veramente? Dall'altra parte sedeva Schramek, amante di lei e amico di
Berger, e seguitava imperterrito a raccontare, e intanto... Un lieve tremito lo
prese, un capogiro, e si sentì sbiancare. Ed ecco Karla prendere sotto il
tavolo con tacita tenerezza la mano di lui nella sua e appoggiarla sul
ginocchio.
Allora Berger sentì di nuovo tutto il sangue avvampargli la faccia e poi
ristagnare nel cuore e poi irradiarsi e scottare nella sua mano. E sentì un
ginocchio morbido, rotondo. Voleva ritirare la mano, ma i muscoli non gli
obbedivano. La mano rimase lì come un bimbo addormentato, a riposare su
un soffice giaciglio, nell'oblio di un sogno meraviglioso.
E lì di fronte - ah, quanto era lontana quella voce in mezzo al fumo
continuava a raccontare uno che era suo amico e che ora lui stava
ingannando: parlava e parlava della propria fortuna con spensierata allegria.
«La cosa che più mi ha divertito è il fatto che quello spudorato di Fix ci abbia
rimesso i soldi. Quello, pensate un po', scommette con tutti quanti che mi
bocceranno, e poi, come me la cavo, non sapeva più che cosa fare. Gli è
toccato mostrare gioia e insieme provare rabbia, non vi dico la faccia che ha
fatto, che faccia... ma che cosa avete? Mi sembrate addormentati tutti e
due.»
Karla non mollava la mano. E Berger seguitava a pensare una sola cosa: la
mano... la mano... il ginocchio... la mano di lei. Ma Karla protestò ridendo.
«BÉ, come si fa a non restare senza parole, se un poltrone come te riesce a
diventare dottore? Vorrei proprio sapere come è fatto un trombato, deve
essere perlomeno idrocefalo.»
I due risero. Berger tremava sempre più, preso da un arcano orrore per la
simulazione della ragazza. La quale continuava a stringere con la sua mano
quella di lui, premendo così forte che l'anello si impresse a sangue nel dito
del ragazzo. E furtivamente spinse la propria gamba soda contro quella del
vicino. E intanto seguitava a parlare tranquilla, così tranquilla, da fargli venire
la pelle d'oca. «Sicché adesso di' un po' come va festeggiato un simile
miracolo divino. Se non ci scappa una baldoria come si deve, sei soltanto un
miserabile spilorcio, caro dottore di fresca nomina. Comunque, sarà una
robetta da niente, a confronto di quando diventerà dottore Bubi. Allora vedrai
che sfracelli.»
E nel mentre il fianco di Karla era appoggiato contro quello di Berger, che
sentiva il morbido calore del corpo di lei. Tutto quanto si era messo a vacillare
davanti ai suoi occhi, da tanto era eccitato. E da dentro la fronte premeva
dolorosamente il sangue.
Ed ecco la pendola battere le ore. Sette volte una vocetta tenue fece
sentire indistintamente il suo cucù... cucù. Questo lo fece tornare in sé. Balzò
in piedi, farfugliando qualche parola. Poi diede la mano a qualcuno, a lui o a
lei, non ricordava più, una voce - probabilmente quella della ragazza - disse
«Arrivederci», dopo di che, con una sensazione di sollievo e di liberazione, la
porta si era chiusa alle sue spalle.
E poi, già un istante più tardi, come si ritrovò nella sua stanza, tutto gli
apparve chiaro: aveva perso l'amico. Se non voleva derubarlo, non poteva
più frequentarlo, perché sentiva che non avrebbe saputo resistere
all'attrazione di quella strana ragazza. Il profumo dei suoi capelli, lo spasmo
frenetico e passionale nelle sue membra, la forza prepotente della
concupiscenza era un fuoco che gli bruciava dentro, e sapeva che non
sarebbe stato capace di resistere, se lei lo avesse guardato come quel
giorno, con quel tacito sorriso seducente. Come mai era divenuto
improvvisamente per lei così attraente, da indurla a tradire Schramek, quel
giovane robusto, bello, sano, che lui segretamente invidiava tanto?
Non riusciva a capirlo e non provava né orgoglio né gioia. Solo una
cocente tristezza, perché in futuro era costretto a evitare l'amico, per non
comportarsi da farabutto nei suoi confronti. Certo, l'amicizia con Schramek
non si era realizzata come lui aveva sperato, su molte cose si era
disincantato, aprendo gli occhi su tanti aspetti che lì per lì lo avevano
abbagliato, ma adesso, che era finita, tutto questo gli pareva una ricchezza
enorme. Perché era l'unica cosa che gli era rimasta a Vienna. Tutto era
svanito, prima le speranze e la curiosità, poi il piacere dello studio e
l'applicazione, e ora anche l'ultima cosa rimasta: quell'amicizia. Si rese conto
che adesso non aveva più nulla.
Ed ecco dalla stanza accanto giungere dei rumori. Un ridacchiare
sommesso e poi più forte. Tese l'orecchio, con le mani sul petto che
martellava. Ridevano di lui? Karla aveva spifferato tutto? Era stato magari
tutto un gioco combinato, per indurlo in tentazione? Stette in ascolto. No, era
un riso diverso, un alternarsi di baci a schiocco e ridacchiamenti eccitati. E
poi parole, tenerezze, di cui non provavano vergogna. Le sue mani si
contrassero istintivamente, si buttò sul letto, premendo il cuscino sugli
orecchi, per non sentire più nulla. Lo prese una sensazione tremenda, un
disgusto furibondo, rabbioso, una nausea tale, che avrebbe voluto vomitare.
Disgusto dell'amico, di quella puttana, di se stesso, che per poco non era
cascato in quel gioco schifoso, un disgusto parossistico, mortalmente stanco,
spaventoso, impotente, nei confronti di tutta la vita.
In quei giorni di tristezza scrisse una lettera alla sorella.
Carissima sorella, ti devo ancora ringraziare per la tua lettera in occasione
del mio compleanno. Per me è stata dura in questi giorni. Come è arrivata e
mi ha svegliato e mi ha detto che adesso avevo diciott'anni, io ho letto questo
e mi è parso che non mi riguardasse affatto, che non fosse vero. Perché tutte
quelle parole sulla mia felice condizione di libertà e giovinezza le avrei intese
come una presa in giro, se non mi fossero venute dalla tua cara mano e dalla
scrittura a me familiare fin dall'infanzia. Perché tutto qui è così diverso nella
mia vita, così totalmente diverso da quanto tu possa immaginare e così
diverso dalle mie speranze. Mi addolora scriverti queste cose, ma qui non ho
più nessuno. Da giorni non ho più parlato con nessuno. A volte seguo la
gente per la strada e ascolto i loro discorsi, solo per sapere che suono hanno
le parole. Non conosco nulla, non so nulla, non faccio nulla. Sto crepando
dall'inutilità. Per giorni interi non vivo assolutamente nulla, non incontro una
faccia nota, e tu non sai che cosa significa essere soli in mezzo a mille
persone.
Anche con Schramek è tutto finito. É accaduto un fatto, non te lo posso
raccontare, perché non lo capiresti. Io stesso non riesco a capirlo, perché né
io né lui abbiamo colpa, solo che tra noi c'è qualcosa come una lama a
doppio taglio. E solamente ora, che l'ho perduto, so che lui era quanto di più
caro mi era rimasto a Vienna.
E un'altra cosa ancora posso dire solo a te, che non lo dici a nessuno.
Non studio più. Da settimane non frequento più le lezioni, i miei libri sono
coperti di polvere. Non so perché, ma non riesco più a studiare, sono
diventato apatico, nessuna professione mi attrae qui, perché niente mi aiuta a
uscire da questo terribile senso di solitudine, che mi opprime. Io qui non
voglio più nulla, tutto mi disgusta. Odio ogni pietra su cui metto piede, odio la
mia stanza, la gente che incontro, respiro con ripugnanza l'aria inquinata,
umida e gelida. Tutto qui mi schiaccia, mi sento crepare. Affondo come in un
pantano. Forse sono ancora troppo giovane e certamente troppo debole. Non
ho polso, non ho volontà, sono come un bambino in mezzo a tutta questa
gente indaffarata.
E una sola cosa so: che devo tornare a casa. Non sono ancora in grado di
vivere da solo, forse ci riuscirò tra qualche anno. Ma attualmente ho ancora
bisogno di te e dei genitori, ho bisogno di persone che mi vogliono bene, che
mi stanno intorno e mi aiutano. Sì, è puerile, è la paura di un bambino in una
stanza buia, ma non so che farci. Devi dire ai nostri genitori che voglio
lasciare gli studi e tornare a casa, fare il contadino o lo scrivano o che so io.
Tu glielo dirai, vero? Glielo spiegherai. Ti prego, fallo presto, qui sento la terra
bruciarmi sotto i piedi. Non mi ero mai reso conto bene che tutto mi
risospinge a casa, ma ora, mentre scrivo, tutto si ridesta con tanta nostalgia,
e so che non posso fare diversamente, che devo tornare da voi.
E una fuga, una fuga di fronte alla vita, e non è la prima che faccio.
Ricordi quando mi hanno portato al liceo, e per la prima volta sono entrato
nell'aula sotto lo sguardo incuriosito, spocchioso, divertito e sorpreso di
sessanta ragazzi sconosciuti? Anche allora sono scappato a casa e ho pianto
tutto il giorno, rifiutandomi di tornarci. E ancora oggi sono il bambino di allora,
ho la stessa stupida paura e la stessa bruciante nostalgia di voi e di tutti quelli
che mi vogliono bene.
Devo assolutamente andarmene. Ora, che a fatica sono riuscito a prendere
questa decisione, sento che non posso più tirarmi indietro. So che molti
sorrideranno e rideranno, vedendomi tornare a casa come un fallito, come
uno che la vita ha rifiutato, so che in questo modo crolla per i miei genitori
una cara speranza, so che questa debolezza è infantile e vile, ma non posso
farci niente, sento soltanto che qui non posso più vivere.
Nessuno saprà mai quello che ho sofferto qui negli ultimi giorni, nessuno
potrà disprezzarmi più di quanto io disprezzi me stesso. Mi sento come un
marchiato, un malato, uno storpio, perché sono del tutto diverso dagli altri e lo sento tra le lacrime - peggiore, inferiore, più inutile, io sono...
Si arrestò, spaventato dall'irrefrenabile sfogo del proprio dolore.
Solamente ora, che la penna esprimeva rapida il suo stato d'animo febbrile,
si era accorto di quanto dolore si fosse accumulato in lui, che adesso voleva
erompere a fiumi vasti e travolgenti.
Poteva scrivere questo, sconvolgere le uniche persone che gli erano
rimaste, opprimere con un peso che nessuno gli poteva togliere un tenero
cuore di fanciulla? Come da una distanza nebulosa vedeva il caro volto della
sorella, i suoi occhi limpidi, percorsi a volte dal balenare di un sorriso, e
vedeva la bocca contrarsi sgomenta, un tremito espandersi per i suoi tratti, e
lacrime colare esitanti sulle guance impallidite.
Perché sconvolgere anche quella esistenza, metterla in ansia con un grido
di aiuto? Se qualcuno doveva soffrire, quello voleva essere lui stesso e lui
soltanto.
Aprì la finestra, stracciò la lettera e sparse nel buio i pezzetti. No, meglio
perire lì in silenzio, piuttosto che invocare aiuto. Non aveva forse appreso che
la vita distruggeva tutto ciò che era debole e inadeguato? Sarebbe stata
giusta anche nei suoi confronti e non lo avrebbe risparmiato...
I frammenti bianchi svolazzarono lentamente giù in cortile, affondando
come sassi chiari in un'acqua senza fondo.
Il cielo era notturno e senza stelle. A tratti delle nuvole passavano più
chiare sulla volta oscura, e il vento gettava un'aria umida e frusciante contro
le case in sonno. C'era in tutto questo una tacita irrequietezza. Il costante
spirare del vento era come un respiro e dalle finestre che gemevano, dagli
alberi tremolanti emanava un mormorio, come se uno stesse parlando piano
nel buio da un brutto sogno. E sempre più forte divenne il vento, come
bagliori diffusi le nuvole trascorrevano più rapide sul manto nero del
firmamento, e all'improvviso il giovane in ascolto riconobbe in tutta quella
agitazione stranamente eccitata la febbre delle prime meravigliose notti che
preludono alla primavera.
E poi arrivò la primavera, molto lentamente, come un ospite titubante.
Berger stentava a riconoscerla in quella città, che non era la sua.
Quali sensazioni provava in passato, quando per la prima volta il vento del
disgelo spirava per le bianche distese dei campi, quando le zolle nere
schiudevano dalla neve, e l'aria era impregnata del loro odore?
Dove era finita la paura inconsulta, repentina, che spesso lo induceva ad
alzarsi dal letto e spalancare la finestra, per sentire sul petto nudo il vento e
ascoltare il gemere degli alberi desiderosi del loro fogliame? Dove era la
gioiosa euforia di fronte alle mille piccole cose: il grido di un uccello in
lontananza e il galoppare delle nuvole bianche, captare il crepitio e
scricchiolio dentro la terra, un colare sottile, il crescere di piccole gemme
appiccicose sulla punta dei rami in giardino, da cui poi si schiudevano timide
foglie e un unico fiore ancora privo di colore? Dove era l'irrequietezza che
covava nel profondo del sangue, dove la voluttà incontenibile, allegra, di
buttare via il cappotto e camminare con gli scarponi sulla terra umida,
ammollata, di salire di corsa su una altura, lanciando all'improvviso grida di
giubilo, senza senso, come un uccello a perpendicolo nell'aria scintillante?
Ah, quanto era inerte lì la primavera, priva di ogni carica. Oppure era
dentro di lui quella stanchezza, quel senso di torpore, quella tristezza che gli
impediva di vivere con gioia qualsiasi cosa: il sole teneramente dorato che
scaldava i tetti, le strade più luminose e piene di vita?
Perché tutto questo lo toccava talmente poco, che neppure una volta fece
una puntata al Prater o al Kahlenberg, che vedeva soltanto da lontano eppure
come ravvicinato dall'aria trasparente? Il suo raggio d'azione era molto
limitato, non usciva mai dal quartiere. Divenne sempre più stanco. Sedeva
nel piccolo parco Schònborn, in genere frequentato soltanto da bambini e da
qualche persona anziana, con l'intenzione di studiare o di leggere, ma non
apriva il libro, limitandosi a guardare i bambini che giocavano, e c'era in lui un
desiderio di giocare insieme a loro, di ritornare a quella serena
spensieratezza.
Aveva smesso di studiare da un pezzo. Ormai vegetava soltanto
tacitamente, osservando le cose senza alcuna partecipazione. Una volta si
era fatto forza ed era andato all'ospedale; e come mise piede nel vasto cortile
pieno di alberi che germogliavano e si cullavano tranquilli nella grande quiete,
quasi fossero ignari delle sorti tremende e misteriose attorno a loro, gli
accadde di scordare se stesso e di sedersi su una panchina. E allo stesso
modo dei malati, che nei loro lunghi camicioni azzurri di lino uscivano con il
passo incerto del convalescente e si mettevano seduti a riposare, con le mani
immobili e spente, senza un sorriso o una parola, totalmente assorbiti da una
senso sordo e inerte di risveglio della vita, Berger sedeva in mezzo a loro,
lasciando che il sole fluisse caldo sulle dita, in una assenza stanca, come di
sogno. Aveva dimenticato il motivo per cui si trovava in quel posto, percepiva
soltanto che lì c'erano delle persone e là, dietro l'arco del portone, una strada
piena di frastuono, solo il lento trascorrere delle ore e l'impercettibile
allungarsi delle ombre. Quando ai malati fu dato il segnale di rientrare, si
riscosse. Non era rimasto seduto lì come uno di loro, non era magari più
malato e più vicino alla morte di tutti costoro? Nulla, stranamente, desiderava
di più, che starsene seduto lì e vedere il tempo dileguarsi.
Certo, a volte, la sera, si accendevano in lui guizzi perversi. A poco a poco
andava alla deriva, bazzicava donne che disprezzava, perché doveva
comprarle, passava molte notti apaticamente al caffè, senza piacere né
voglia, solo per una sorda angoscia della solitudine priva di scampo. Da
quando non parlava più con nessuno, una piega cattiva gli segnava le labbra,
ed evitava di guardarsi allo specchio. Un paio di volte aveva cercato di
scuotersi, ma regolarmente, come schiacciato dal peso della solitudine
accumulatasi in lui, era ricaduto nel suo letargo trasognato e senza
prospettive.
Ma ci pensò la vita, a farlo tornare in sé.
Una notte, rientrando a ora tarda, stanco, scontento e con dentro
l'angoscia della stanza muta che lo aspettava, si accorse che doveva aver
perso per strada la chiave di casa. Suonò, anche a rischio che ad aprirgli non
venisse la padrona di casa, bensì Schramek. Ma già si sentirono dei passi
frettolosi, strascicati: la padrona di casa aprì la porta e sollevò la lampada a
petrolio, per vedere chi voleva entrare. E come la luce cadde sui capelli in
disordine e sul volto della donna, che a lui era quasi sconosciuto, Berger notò
che aveva le palpebre arrossate e molto stanche e una piega amara intorno
alla bocca. E si domandò spaventato il motivo per cui quella donna era in
piedi alle due di notte. Cercò di informarsi, ansioso.
«Ma come, non lo sa, signor dottore? La Mizzi, mia figlia, ha la scarlattina.
E sta male, molto male!» Ricominciò a piangere silenziosamente.
Berger rimase scosso. Non ne sapeva nulla. A stento sapeva che quella
donna avesse una figlia. Un paio di volte nell'anticamera buia, uscendo o
entrando, gli era sgusciata accanto con un «Riverisco!» una ragazzetta
mingherlina di dodici o tredici anni, ma lui non le aveva mai rivolto una parola
o anche soltanto uno sguardo. D'un tratto gli pesò come una pietra sul cuore,
che da mesi, a pochissima distanza, separate solo da una parete, vivessero
delle persone che lui non aveva mai guardato, che si compissero destini a
due passi dalla sua esistenza, e lui non ne avesse idea. Quanto aveva
desiderato che gli altri gli dessero confidenza, e intanto aveva dormito come
un animale, mentre accanto la morte voleva stroncare una bambina.
Cercò di confortare la donna che piangeva. «Vedrà che tutto finirà bene...
stia tranquilla...» E poi, più esitante: «Potrei dare un'occhiata a sua figlia?
Veramente, ancora non me ne intendo molto... sono un principiante, ma
comunque...» Di colpo gli si ridestò una nostalgia cocente dei propri studi,
avrebbe voluto andare nella sua stanza, aprire i libri e riprendere il lavoro.
La donna lo condusse in punta di piedi dalla malata. Era un angusto
stanzino sul cortile, soffocante e affumicato dalla lampada a petrolio con la
fiammella bassa; di fronte stava un muro cieco. Lì, della primavera, non si
vedeva l'ombra, e del sole si percepivano soltanto i pallidi riflessi che a volte
riverberavano dalle finestre illuminate dai suoi raggi. Adesso naturalmente
neanche si vedeva quanto fosse misero il locale, perché tutto era calato nella
penombra incerta, solo in un angolo, dove stava il letto, baluginava un poco
di luce gialla. La ragazzina era immersa in un sonno agitato. Le sue guance
erano arrossate dalla febbre, un braccio scarno penzolava fuori del bordo,
come dimenticato, le labbra erano ritratte, e nulla nel volto carino rivelava a
prima vista la malattia, solo il respiro era roco e a volte in affanno.
La donna parlava sottovoce, continuamente interrotta dal pianto. «Oggi è
passato di nuovo il dottore, l'ha visitata, ma non mi ha detto nulla. É la terza
notte che passo al capezzale, di giorno devo andare al lavoro.
E vero che la vicina mi dà una mano e sta qui durante il giorno, ma ora
sono già tre notti che veglio, e la bambina non migliora. Per l'amor di Dio, lo
faccio volentieri, purché non accada il peggio.»
Di nuovo i singhiozzi frantumarono le parole. Una disperazione cupa
pervadeva tutti i suoi discorsi.
In Berger si produsse una sensazione meravigliosa. Sentiva che per la
prima volta poteva aiutare una creatura umana, per la prima volta avvertiva
con gioia il fascino della sua professione.
«Cara signora, così non può andare avanti. Lei si distrugge e in questo
modo non è di aiuto alla bambina. Adesso si metta a letto, resterò io stanotte
con sua figlia.»
«Ma signor dottore!»
Alzò le mani sgomenta, come se non potesse crederci.
«Adesso lei vada a dormire, ha bisogno di riposo. Lasci fare a me.»
«Ma signor dottore... no... no... non sarebbe giusto che lei... no, non è
possibile...»
Berger sentì crescere dentro la sicurezza, una consapevolezza di sé
spazzò la massa di detriti che si era accumulata nel suo animo durante gli
ultimi mesi.
«É la mia professione e il mio dovere.» Lo disse con orgoglio, con gioia,
anche, per aver ritrovato all'improvviso in quel notturno frangente, nel lampo
di un attimo, il senso e lo scopo di tutta la sua vita perduta.
Non discussero a lungo. La donna era stanchissima, il sonno le pesava
sugli occhi, e perciò si arrese ben presto. Berger cercò di evitare che gli
baciasse la mano in un prorompente slancio di gratitudine devota, poi la
condusse nella propria stanza, dove la adagiò sul divano. Nelle ultime notti,
da quando la figliola era malata, aveva dormito su un materasso in cucina.
Tutte queste cose insignificanti e tuttavia tremende nella loro tragicità, delle
quali era all'oscuro, gli fecero apparire il suo intervento non come una buona
azione, bensì come l'espiazione di una colpa amara.
E quindi si ritrovò seduto al capezzale della ragazzina. In lui c'era una
sensazione indescrivibile; la sua esistenza pareva più sommessa, più
tranquilla, come quel respiro che adesso andava e veniva in un soffio lieve.
Soltanto ora osservò meglio quel volto incorniciato da un tenue alone di luce.
Mai, da quando si trovava a Vienna, aveva potuto vivere così profondamente
la presenza di un altro essere umano, mai contemplare così a lungo i suoi
tratti, mai captare tutto ciò che si celava nei lineamenti del suo viso. Mentre la
guardava, gli si ridestò un ricordo, intorno a quelle labbra scarne aleggiava
come una vaga somiglianza con sua sorella, solo che quel volto era più
infantile, non ancora sbocciato e intristito. Lo incuriosiva come fossero gli
occhi, se corrispondessero a quelli della sorella, e si rimproverava per non
averci mai fatto caso in precedenza. Perché si era disinteressato così
distrattamente di quella ragazzina e della madre, perché non aveva mai
pensato a quelle due creature che gli vivevano accanto? Perché quella bocca
non gli aveva mai sorriso? Perché gli erano sconosciuti quegli occhi, chiusi
nello scrigno delle palpebre? Perché non sapeva nulla di ciò che si agitava in
quell'esile petto infantile che si alzava e si abbassava nel ritmo dolce del
respiro? Con circospezione prese la mano esangue della bambina, che
penzolava fuori del bordo, e la posò sulla coperta. Il suo gesto era tenero
come una carezza. E poi stette lì immobile a contemplarla, pensando con
dolore al tempo perso, agli studi trascurati, e nell'intimo si ripromise di
cominciare da capo una nuova vita. Già nella fantasia prendevano corpo
immagini di sogno, vedeva se stesso medico, uno che porta aiuto, e il sangue
acquistò calore per quelle prospettive seducenti. E di continuo il suo sguardo
abbracciava quel volto tenero, pallido, di bambina, lo teneva stretto, quasi
potesse con lo sguardo preservarne la sorte e trattenere la sua vita in
pericolo.
Improvvisamente la ragazzina si mosse e aprì gli occhi: grandi, lucidi di
febbre, scintillanti di un balenio come di lacrime. Tutto il volto divenne d'un
tratto luminoso. Dapprima vagarono intorno, quasi dovessero forare la nuvola
di febbre e le ombre notturne del sogno. Poi di colpo, come spaventati, si
fermarono sul viso di Berger. Ne tastarono, interrogativi, i tratti, e quindi si
attaccarono allo sguardo del giovane. Le labbra riarse si muovevano in modo
incomprensibile.
Berger balzò in piedi, asciugò la fronte che scottava dalla febbre, e le diede
da bere. La bambina piegò in avanti la testa, bevve avidamente e ricadde
spossata sui cuscini, gli occhi fissi su Berger. A lui quello sguardo non pareva
del tutto lucido, cosciente, eppure al suo stupore era commista una punta di
gratitudine. La ragazzina lo guardava in continuazione. E quando Berger, un
poco tremando per quello sguardo profondo, enigmatico, si distolse e
armeggiò nella stanza, sentiva, senza guardare, che gli occhi grandi, umidi,
lucenti, della bambina lo seguivano ovunque. E come poi ritornò al
capezzale, erano tutti spalancati, e mentre lui si chinava, la bocca accennò
un movimento, non capiva se volesse parlare oppure sorridere. Poi le
palpebre si chiusero, la luminosità si spense sul suo volto. E riprese a
dormire, muta e pallida, con un respiro ora più disteso.
All'improvviso, nel silenzio di morte, Berger sentì il suo cuore battere forte.
C'era in lui una sensazione di felicità, che montava irrefrenabile. Per la prima
volta nella sua vita si vedeva inserito operosamente nel contesto degli altri,
era come se qualcuno gli avesse detto una parola grata e affettuosa, come
se qualcosa di grande e di bello gli fosse capitato in quel paio di ore. Quasi
con tenerezza contemplava quella ragazzina, quella bambina, la prima
creatura che gli era affidata, che doveva riacquistare alla vita, e che aveva
riportato alla vita lui stesso. Seguitò a guardare la piccola che dormiva, e le
lunghe ore gli parvero lievi. Rimase sorpreso, quando la lampada
all'improvviso, con un subitaneo guizzo, si spense, e trovò dissolta l'oscurità e
il mattino già in attesa davanti alla finestra con il suo primo tenue chiarore.
In mattinata il medico venne a visitare la malata. Berger si presentò a lui
come studente di medicina e gli chiese, non senza avvertire in gola un
penoso imbarazzo per la propria ignoranza, se c'era ancora pericolo.
«Non credo», disse il medico. «La crisi mi sembra superata. Stranamente i
bambini sono molto più resistenti degli adulti a queste malattie, è come se in
loro la forza della vita non ancora vissuta si opponesse alla morte e la
vincesse. Così avviene per quasi tutte le malattie infantili: i bambini le
superano, mentre gli adulti ci lasciano la pelle.»
Visitò la bambina. Berger gli stava accanto, commosso. Nel vedere quanto
lui stesso pendesse da ogni parola di quell'uomo, ne spiasse ogni gesto,
sentiva nell'intimo il meraviglioso potere della professione che aveva scelto
ciecamente e a lungo trascurato. Come un sole repentino gli apparve tutta la
bellezza di potersi accostare così a un letto e deporvi, quasi fosse un dono,
speranza, promessa e magari anche guarigione. In quell'istante intuì
lucidamente lo scopo di tutta la sua vita: doveva essere operoso e utile, così
non sarebbe più stato estraneo a tutti né solo.
Cominciò con l'occuparsi a tempo pieno dell'assistenza alla ragazzina.
Senza prescrivere nulla in proprio, si limitava a controllare le fasi della
malattia, trascorrendo al capezzale della malata la notte e anche buona parte
della giornata. Quella notte era stata effettivamente la svolta critica. La febbre
diminuì, adesso poteva parlare con la bambina e lo faceva volentieri. Quando
usciva, le portava dei fiori e le parlava della primavera che nel parco
Schònborn, dove lei andava sempre a giocare, cominciava a rivestire piano di
verde gli alberi, mentre le altre ragazzine indossavano già vestiti chiari.
Parlava del sole radioso che ora splendeva fuori, raccontava ogni sorta di
storie, le leggeva dei libri, le prometteva che sarebbe guarita presto, e nulla
gli dava maggior piacere che vederla allegra. Quei discorsi ingenui,
volutamente infantili, gli procuravano un senso di totale liberazione, e a volte,
con grande stupore, scoppiava a ridere sonoramente, divertito.
E la pallida ragazzetta giaceva sui cuscini, limitandosi a sorridere.
Era un sorriso molto debole, una linea dolce, evanescente, si disegnava
intorno alle labbra e subito si dileguava come un alito. Ma quando guardava
Berger, il suo sguardo, l'occhio profondo, dai riflessi grigi, sottilmente radioso
e splendente fino alle intime fibre, posava sul volto del giovane, ormai senza
stupore e senza estraneità, attaccandosi caldo e greve a lui, come un
bambino al collo della madre. Ora poteva già parlare e presto perse il timore
iniziale di rivolgergli la parola.
Più di tutto voleva che le parlasse della sorella. Come era fatta, se era
grande oppure piccola, come vestiva, e se era brava a scuola. E se aveva i
capelli biondi come lui. E se non poteva fare in modo che la sorella venisse
una volta a Vienna, certamente molto più bella della piccola città dal nome
ostico, che ogni volta la faceva ridere. E se anche lei era già stata così male.
Insomma: escogitava un mucchio di domande puerili, ingenue e sempre
nuove. Ma non stancavano Berger. Le rispondeva volentieri, e gli faceva
piacere poter parlare una volta con affetto della sorella, che era per lui la
cosa più cara al mondo. E quando la ragazzina glielo chiese, le portò anche
la fotografia che teneva sul suo scrittoio.
Lei strinse con curiosità il ritratto tra le esili mani infantili, ancora tutte
trasparenti.
«Ecco», disse, passandoci sopra delicatamente con l'unghia, «è tutta la
sua bocca. Solo che lei spesso ci mette intorno una piega arcigna, e allora
assume un aspetto del tutto diverso. Prima, quando la vedevo, avevo sempre
paura, dalla faccia che faceva.»
«E ora?» Berger sorrise dolcemente.
«Ora non più. Ma mi dica, anche sua sorella ha gli occhi come i suoi?»
«Credo di sì.»
«Ed è alta come lei, vero? Deve essere molto bella, sua sorella. Ecco,
guardi, porta i capelli proprio come me, intrecciati a corona. In principio la
mamma non voleva che li portassi in questo modo, diceva che mi faceva
troppo vecchia. Ma io non sono più una bambina, ho già fatto la cresima.»
Gli restituì la fotografia, e Berger la guardò a lungo, senza dire una parola.
Per la prima volta non riusciva più a ritrovare perfettamente nel ritratto i
lineamenti che aveva nella memoria. Impercettibilmente i tratti della sorella e
quelli pallidi e sottili della bambina si erano come fusi nella sua visione
interiore, non era più in grado di distinguerli. Il sorriso e la voce di entrambe
formavano un tutt'uno dentro di lui, così come ora entrambe erano congiunte
anche nella sua vita, essendo le uniche due creature femminili che avevano
fiducia in lui e amavano la sua compagnia. Il personaggio di Karla era
totalmente svanito dalla sua memoria, in tutti quei giorni nemmeno una volta
aveva pensato a lei e al loro scontro, che adesso ricordava senza angoscia
come una ubriacatura da vino, una sbornia, una sciocchezza commessa in
uno stato di collera. E già aveva scordato i giorni brutti di apatia che aveva
passato in quel luogo.
Una sola cosa sentiva: che gli era capitata una grande fortuna. Era come
se per lungo tempo avesse camminato nelle tenebre, addentrandosi nella
notte, e all'improvviso, con gioia repentina, avesse visto risplendere in
lontananza una luce bianca come una stella, la luce di una casa, dove poteva
riposare e dove era accolto come ospite gradito. Che cosa era andato
cercando dalle donne, lui, un essere infantile, un debole, un imbranato? Alle
esperte doveva apparire troppo sciocco, alle candide troppo codardo, e del
resto era ancora impacciato, un incompiuto, un sognatore. Era arrivato troppo
presto, troppo presto si era accostato a loro, che desideravano solo il frutto
maturo della vita. Mentre lì quella bambina, nella quale la donna stava
appena germogliando, vicina a sbocciare e tuttavia ancora in sonno, una
creatura ancora tenera, priva di superbia e di concupiscenza, non era come
un destino che poteva educare per sé, un cuore che incoscientemente già si
piegava dalla sua parte? Un sogno, più dolce di tutti i precedenti eppure più
reale dei confusi fantasmi delle sue ore vuote, gli fluiva nel petto come
un'ondata calda.
E quindi, quanto più la guardava, quanto più la conosceva, e ora, passata
la malattia, le sue guance riprendevano pieno colore e abbellivano il volto
fresco, in Berger si diffuse una tenerezza molto schiva e del tutto priva di
concupiscenza. Una mera tenerezza fraterna, per la quale era già una grande
gioia poter accarezzare le mani scarne e vedere il sorriso fiorire sulle labbra.
Un giorno la ragazzina era nel letto quieta, in silenzio. Nessuno dei due
aveva detto una parola. E improvvisamente Berger fu preso da un desiderio
che lui stesso non riusciva a comprendere. Si accostò al letto, credendo che
lei dormisse. Ma era semplicemente lì, immobile, e lo fissava in modo così
strano. La bocca muta pareva un pallido petalo di rosa arrotolato. E d'un
tratto Berger seppe che cosa voleva: toccare una volta con le sue labbra
quelle di lei, sfiorarle appena, delicatamente.
Si chinò. Ma persino di fronte a quella bambina malata gli mancava il
coraggio.
Lei alzò gli occhi verso di lui: «A che cosa sta pensando, adesso?»
Allora rimase sopraffatto, non fu più in grado di tacere. Disse in un soffio:
«Vorrei darti un bacio. Posso?»
La piccola giaceva immobile, limitandosi a sorridere. Con i suoi occhi chiari,
raggianti, sorrideva fino al profondo del cuore di Berger, non più come una
bimba, ma già come una donna...
Allora si chinò e baciò piano la tenera bocca innocente da bambina.
Qualche giorno più tardi la malata poté alzarsi per la prima volta.
Stava seduta nella poltrona che le avevano accostato alla finestra, molto
felice di essere scampata al letto. Berger le sedeva accanto e la guardava
con orgoglio, vagamente consapevole di avere collaborato alla sua salvezza,
che era dovuto anche a lui, se ora la piccola era tornata alla vita. Pareva
cresciuta durante la malattia, si era spogliata tacitamente del tratto infantile:
sedeva lì come una ragazza matura, e la sua gioia non era più traboccante,
fanciullesca, ma già molto riflessiva e profondamente sentita. A un certo
punto toccò la finestra, dietro la quale l'aria splendeva tiepida, e disse:
«Sarebbe bello che la primavera entrasse in casa, dal momento che io non
posso ancora uscire».
A Berger parve un piccolo miracolo, una mai provata delizia dell'esistenza.
E non provava più vergogna di fronte a se stesso di essere innamorato di una
ragazzina tredicenne, perché sapeva che era in un certo qual modo
fantastico e irripetibile tutto ciò che viveva in quei giorni di convalescenza. E
meravigliosamente lo commuoveva la cordiale confidenza non ancora turbata
dal pudore della donna adulta, la profonda e serena affezione che lei gli
dimostrava. Spesso ora lo chiamava per nome, punzecchiandolo, e in questa
euforia Berger avvertiva l'intensa felicità di non sentirsi più solo. Il riso
rispuntò dal suo animo, riemergendo come un linguaggio dimenticato
dell'infanzia. E poi, quando era solo, vagheggiava tenere fantasticherie, la
vedeva diventare donna, saggia, seria, assennata. E vedeva se stesso
coinvolto in queste immaginazioni e si rendeva conto che sarebbe cresciuta e
diventata donna per lui.
Ma anche per altri versi la sua solitudine ebbe termine. C'era la madre
della ragazzina, che lo guardava con adorazione come un dio. Pareva intenta
tutta la giornata a escogitare il modo di potergli dimostrare la propria
gratitudine. E ora, che si intratteneva spesso con lei, Berger capiva che
quella donna priva di mezzi aveva molto sofferto per le avversità della sorte
e, nonostante le umiliazioni e delusioni, aveva conservato una bontà
commovente. Adesso si pentiva di aver trattato con arroganza queste
persone di ceto inferiore al suo ed era lieto di aver saldato il proprio debito.
E anche con Schramek ritrovò dimestichezza. Un giorno Berger lo incontrò
sul corridoio e rimase meravigliato della serenità e disinvoltura con cui
riusciva a parlargli. Parlarono anche di Karla, e quel nome non gli procurava
più nessuna angoscia. C'era troppa letizia dentro di lui, un senso di
leggerezza, di liberazione, che si trasmetteva fino nel passo, nell'andatura
eretta ed elastica. La vita sembrava permearlo da ogni parte, tutto
combaciava, e l'unico desiderio ardente che sentiva era quello di riaprire i libri
impolverati e riprendere gli studi. Adesso la sua professione lo attraeva con
auree lusinghe. Voleva attendere soltanto ancora qualche giorno, finché la
ragazzina fosse del tutto guarita, assaporare fino in fondo quel primo
successo, la gioia prepotente provata in ogni istante di quei giorni radiosi.
Per due settimane praticamente Berger non era uscito di casa, salvo
qualche rapida corsa, dalla stanza della malata, a procurarsi questo o quello.
Ora, come tornò a passare lentamente per la prima volta sul selciato che
sfavillava di sole, avvertì in tutta la sua pienezza la primavera, il cui alito
fresco, profumato, spirava come un tremolio sulla città che sembrava
illuminata a festa. E gli pareva di vedere per la prima volta quel giorno la città,
quasi fosse emersa scintillando su un'umida e tetra coltre di nebbia. Adesso
quelle case vetuste della Josefstadt, che gli erano sempre parse fatiscenti e
sporche, grafie alla limpidità azzurra del cielo, che profilava con nettezza i
contorni dei tetti e dei comignoli, le percepiva nella loro familiarità bonaria, e il
Kahlenberg, che spuntava in lontananza dietro i larghi viali con il suo verde
ancora del tutto pallido, era come un saluto. Tutte le persone gli sembravano
avere facce più luminose, e a volte era come se dagli occhi delle donne,
mentre passavano, balenasse uno sguardo amico. Oppure era soltanto la
sua luce interiore, riflessa da ogni cosa, dalla pupilla scura e dalle finestre
lampeggianti, dal bagliore tremolante delle strade e dallo splendore acceso
dei fiori ridesti dietro le vetrate?
Tutto quanto non pareva più circondarlo in modo ostile ed estraneo, ma si
offriva come un frutto che matura, pieno di promesse e di colori, come
imminente possesso e già meraviglioso presentimento di voluttuoso piacere.
Una sempre nuova pienezza seguitava a irradiare da ogni cosa intorno, come
un'onda da cui uno si sentiva trasportare. Berger si abbandonò totalmente a
questa sensazione di felicità.
Presto avvertì un lieve stordimento. Era come ubriaco, sentiva i piedi
pesare, un cerchio di piombo intorno alla testa. All'improvviso lo prese questa
spossatezza, come un malanno di primavera. Dovette sedersi su una
panchina dalle parti della Ringstrasse. Davanti a lui, sulle sue mani, su tutto il
corpo percorso da un lieve brivido di freddo, splendeva il sole, non ancora
filtrato dallo spesso fogliame degli alberi, ma carico e rovente, con una forza
tale, che era costretto a chiudere gli occhi.
Sul selciato era uno sfrecciare fragoroso - passava molta gente ma
qualcosa lo obbligava a tenere gli occhi chiusi e restare immobile sulla
panchina dura. Stette seduto così per due o tre ore. Soltanto al crepuscolo,
con il calare della frescura, si riscosse e tornò a casa faticosamente, come un
malato.
Passò via davanti alla stanza in cui si trovava la ragazzina. Sentiva il
bisogno di stare solo con se stesso, di sedimentare finalmente la massa di
nuove esperienze che lo avevano cambiato durante quelle settimane. Si
sedette allo scrittoio, per mettere ordine nei libri e nelle sue carte.
L'indomani voleva riprendere gli studi.
E tra le mani gli capitò un grosso quaderno con le pagine bianche, che
riconobbe a stento. Lo aveva destinato a diario del suo soggiorno viennese. E
aveva seguitato ad attendere un'esperienza di vita, un evento, che gli
consentisse di riempire degnamente la pagina iniziale.
Una lunga attesa, e alla fine, come le giornate si erano fatte sempre più
monotone, se ne era totalmente scordato. Adesso gli pareva un segno del
destino. Perché solo adesso era cominciata la sua vita, adesso le stelle
cominciavano a splendere sopra le squallide tenebre notturne.
Doveva diventare un diario delle cose vissute e - lo avvertiva in modo
incerto - forse anche d'amore. Infatti in lui c'era una voce e pareva dirgli che
l'affezione per quella bambina un giorno si sarebbe trasformata in amore per
una donna...
Alzò la fiamma della lampada. E poi prese l'inchiostro, nero e rosso, e varie
penne, e cominciò a tracciare sulla pagina iniziale, con una serie di svolazzi e
arabeschi, il motto dantesco Incipit vita nova, Inizia una nuova vita. Fin da
bambino amava questo gioco calligrafico, e persino ora, che si accingeva a
fissare sulla carta il suo futuro e il suo passato, ricamò le lettere con belle
volute, di colore rosso e nero: «Inizia una nuova vita». Doveva splendere
come il sangue!
Ma ecco... si interruppe nella scrittura... una macchia di inchiostro sulla sua
mano. Una piccola macchia rossa, tonda. Fece per cancellarla.
Non andava via. Prese dell'acqua e sfregò. La macchia non andava via...
strano... Ci riprovò. E nuovamente invano.
Allora un pensiero lo attraversò come una folgore improvvisa. Sentì il
sangue bloccarsi. Ma che cosa era, quello?... Forse?...
Esitante, pieno di paura, tirò su la manica. E sentì gelare la mano che
scopriva il braccio: anche lì c'erano delle macchie rosse, tonde, una, due, tre.
D'un tratto si spiegò la stanchezza e pesantezza di prima. Il quadro era
chiaro. Le tempie martellavano sempre più forte, la gola era strozzata. E sotto
il tavolo sentiva i piedi gelidi, grevi come ciocchi estranei.
Si alzò barcollando, schivò lo specchio con occhio atterrito. No, non lo
doveva guardare proprio! Né fare cosa alcuna, urlare o piangere, sperare o
nutrire illusioni, dato che il responso era inesorabile. E in fondo del tutto
naturale. Si era contagiato. Aveva la scarlattina.
La scarlattina... e come se uno parlasse ad alta voce nella stanza, gli
giunse all'improvviso quello che il medico aveva detto sulle malattie infantili e
la scarlattina: «I bambini le superano più facilmente, mentre gli adulti ci
lasciano la pelle».
La scarlattina... morire... a lui suonava come una fatale connessione.
La scarlattina: una malattia infantile! Non era un simbolo di tutta la sua vita
il fatto che lui, anche da adulto, avesse seguitato a patire cose unicamente
riservate ai bambini e all'infanzia? E per gli adulti era più duro superarle che
per i bambini: come gli riusciva meravigliosamente chiaro all'improvviso!
Ma morire: troppe cose si rivoltavano in lui contro questa sorte. Tre
settimane prima se ne sarebbe andato più che volentieri, uscendo di scena in
silenzio, con discrezione, dato che nessuno gli dava ascolto o gli rivolgeva la
parola. Ma ora? Perché la vita si prendeva gioco di lui a quel modo,
mostrandogli all'ultimo minuto tutto il suo fascino, per rendergli gravoso il
distacco? Perché proprio ora, che aveva ristabilito un legame con degli esseri
umani, quando più d'uno forse avrebbe sofferto, magari anche più di lui
stesso?
Poi lo sopraffece la stanchezza, una rassegnazione muta, smarrita. Fissò
le macchie rosse, finché presero a ballargli davanti agli occhi come scintille.
Tutto gli si stravolse. Sentiva unicamente che era stato un sogno: la felicità o
l'infelicità, le persone o la solitudine, il passato o le cose a venire. Non
desiderava più nulla. Era già morire pensò dolorosamente - quell'ammutolire
in un momento del genere? Volle soltanto ancora prendere congedo.
Entrò nella stanza dove la ragazzina dormiva. Diede solamente uno
sguardo ai tratti distesi, a lui tanto familiari. Non aveva sognato che lì avrebbe
preso corpo il suo destino? E non si era realizzato in virtù di lei, solo in modo
del tutto diverso da quanto pensasse, come morte e non come vita?
Accarezzò teneramente con gli occhi quei tratti. E si portò via sulle labbra il
sorriso che nel sonno aleggiava tacito intorno alla bocca della bambina.
Certo, come rientrò nella sua stanza, era già una smorfia amara, come un
fiore appassito.
Stracciò ancora alcune lettere, scrisse un indirizzo su un pezzo di carta.
Poi suonò e attese.
La padrona di casa accorse subito. Era sua costante premura essere di
aiuto a lui, che venerava immensamente.
«Io», dovette riprendere da capo, perché la voce suonava malferma, «io
non mi sento molto bene. Per favore, mi sistemi il letto e chiami il medico. Se
le cose si mettono male, mandi un telegramma a mia sorella, ecco
l'indirizzo.»
Due ore più tardi aveva la febbre alta. Una febbre tremenda gli ardeva nel
sangue. Era come se tutta la carica dell'esistenza non ancora vissuta, la
passione mai consumata lo bruciasse nei due giorni che ancora gli restavano
di una lunga vita. In casa erano sconvolti. La ragazzina si aggirava con gli
occhi disfatti dal pianto e non osava guardare in faccia nessuno, quasi
temesse di essere incolpata. La madre, disperata, si prostrava davanti al
crocifisso nell'anticamera e pregava singhiozzando per la salvezza del
morente. Anche Schramek andò più volte nella stanza dell'amico,
assicurando a tutti, con inossidabile fiducia, che tutto sarebbe finito bene. Il
medico era di diverso avviso e spedì il telegramma alla sorella di Berger.
Per due giorni la febbre tenne avvinghiato il giovane che aveva perso
conoscenza, scaraventandolo su e giù nei suoi marosi rossi. Una volta
ancora si ridestò. Il sangue si era acquietato. Giaceva lì, immobile, con le
mani esangui e le palpebre abbassate. Ma era perfettamente sveglio. Sentiva
che adesso la stanza doveva essere molto luminosa, perché sulle palpebre
c'era come una nebbia rosata.
Rimase immobile. Ed ecco che, accanto, prese a cinguettare un uccello.
Dapprima esitante, come per prova. Poi attaccò deciso, con trilli di giubilo,
una melodia si inerpicò, altalenando. Il malato tese l'orecchio. Gli venne in
mente vagamente che adesso doveva essere primavera.
Il canto dell'uccello risuonava sempre più forte: quasi gli faceva male con il
suo giubilo. Gli pareva che l'uccello avesse il nido proprio vicino al letto e gli
trillasse nell'orecchio i suoi gorgheggi acuti...
Ma no... Adesso lo udiva appena, molto lontano. Doveva stare su un
albero, fuori nella primavera. Il canto divenne sempre più tenue, sempre più
tenero, come un suono di flauto, come una voce di bambina. O forse non era
affatto un uccello, ma la voce sottile, duttile, argentina, di una fanciulla, una
voce dolce e limpida di bambina? Una fanciulla, una bambina... Un ricordo
tornò su ali incerte e gli toccò il cuore.
Lentamente rammentò ogni cosa, ma non come sequenza vera e propria,
bensì per immagini staccate. Il volto sorridente di bambina riemerse dal buio
dell'oblio e quindi, vago e tuttavia dolce, quell'unico bacio furtivo. E la
malattia, la madre, tutta quanta la casa: il cerchio del vissuto si dipanò a
ritroso e di colpo Berger si rese conto che era a letto malato e forse doveva
morire.
Spalancò le palpebre grevi. Sì, ecco la stanza. E lui era solo.
L'uccello, accanto, non cantava più, e muto era anche l'orologio che
solitamente ticchettava solerte, si erano dimenticati di ricaricarlo.
Lentamente le palpebre si chiusero di nuovo, senza che lui se ne
accorgesse. Vedeva la stanza come remota e se stesso seduto lì, la prima
notte passata a Vienna, mentre fuori scrosciava la pioggia, a piangere nella
sua solitudine. E poi gli tornò in mente ogni cosa, i rapporti con Schramek, e
le altre faccende alla rinfusa, ma tutto era già completamente irreale... così
estraneo... una sensazione non gradevole, ma neppure dolorosa... qualcosa
che scorreva via, che si perdeva nella grande spossatezza oscura.
Ed ecco... all'improvviso... sentì sbattere una porta accanto. E poi dei
passi. Li conosceva: era Schramek. Sì, era la sua voce. Con chi parlava?
Il sangue cominciò a battergli nelle tempie... non era Karla, che adesso
rideva di là? Ah, quanto faceva male quella risata. Che tacesse, adesso!
Voleva avere pace... silenzio... Quiete. Ma che cosa stavano facendo? Li
sentiva ridere. E d'un tratto, come attraverso un vetro, vide nella stanza
accanto. C'era Schramek, che la abbrancava e la baciava. E lei curvava
indietro i fianchi, con occhi ridenti, come allora, proprio come allora...
Le sue mani erano percorse dalla febbre. Perché quelli di là ridevano così
pazzamente? A lui faceva male. Non sapevano che lì voleva morire, che lì
stava morendo, del tutto solo, senza un amico? Sentiva che gli venivano le
lacrime, qualcosa ribolliva nel suo petto, mulinò intorno con le mani. Non
potevano aspettare che fosse morto? Ma ecco... una sedia sbatté per terra
con fracasso... vedeva tutto: lei che cercava di sfuggirgli. E poi lui, che le
correva dietro, ah, quanto era focoso, quanto era forte, come la abbrancava
dall'altra parte del tavolo, tirandola verso di sé... E poi era sparita
nuovamente... dove?... Sì, si era nascosta... e ora si davano la caccia a
perdifiato. La stanza cominciò a tremare... adesso non rimbombava tutta la
casa?... Sì, tutta la casa ballava, l'aria era piena di un chiasso orrendo.
Perché non rispettavano la sua ultima ora, quei maledetti?... No,
continuavano a rincorrersi, ecco, adesso lui l'aveva presa. Perché strilli a quel
modo, nella tua paura e foia?... Il malato gemette amaramente. Adesso
Schramek l'aveva abbrancata, la capigliatura rossa, sciolta, fluiva giù come
sangue... adesso le strappava via la giacca... bianca splendeva la camicia...
tutta bianca, lei stessa, e nuda... E così si rincorrevano intorno al tavolo, da
una parte all'altra, avanti e indietro... e lei come rideva! e lei come rideva!... E
ora - come fu, come non fu? - era piombata nella sua stanza attraverso la
parete e stava davanti a lui... davanti al suo letto... bianca, abbagliante,
nuda... Oppure...
Oppure - cercò a fatica di sollevare le palpebre grevi - oppure... non era
sua sorella nel vestito bianco, lì, davanti a lui? Non era la mano di lei,
amorevole e fresca, sulla sua fronte?...
Due ore ancora arse il fuoco. Poi tutto si spense. Accanto al suo letto
c'erano la sorella, la bambina e Schramek, i tre esseri cui andava il suo
amore, che adesso, accomunati come non li aveva mai visti, significavano
tutta la sua vita. Tutti e tre non dissero una parola. La ragazzina singhiozzava
sommessamente, e a poco a poco si spense anche quell'ultimo suono di
lamento. Nella stanza si diffuse un silenzio grande, tutti e tre erano compresi
di sacralità e di dolore, e nulla si udiva, se non fuori, davanti alle finestre, la
voce irosa, concitata, della grande città estranea, che seguitava a rintronare
senza requie e non si curava della morte o della vita.
3 - Lettera di una sconosciuta
Quando, dopo un'escursione tonificante di tre giorni in montagna, il famoso
romanziere R. fece ritorno a Vienna di primo mattino e alla stazione si
comperò un quotidiano, non appena sorvolò la data con lo sguardo, si
rammentò che era il suo compleanno: il quarantunesimo, si sovvenne
istantaneamente, e la constatazione non gli fece bene ma neanche male.
Scorse alla svelta le pagine fruscianti del giornale e tornò a casa con
un'automobile a nolo. Il domestico lo relazionò sulle due visite ricevute nel
periodo della sua assenza, nonché su alcune telefonate, e sopra un vassoio
gli porse la posta che si era accumulata.
Con aria indolente egli diede un'occhiata alla corrispondenza in arrivo,
lacerò qualche busta interessato dal mittente, mentre accantonò per il
momento una lettera che esibiva una grafia a lui sconosciuta e che dava
l'impressione di essere quanto meno voluminosa. Nel frattempo era stato
servito il tè. Si allungò comodamente in poltrona, sfogliò di nuovo il giornale e
alcuni stampati, quindi si accese un sigaro e solo allora prese la lettera che
aveva messa in disparte. Erano circa due dozzine di pagine vergate
frettolosamente con un' inquieta, ignota scrittura femminile, un manoscritto
piuttosto che una lettera. Involontariamente tastò la busta un'altra volta, se
mai non vi fosse rimasto un foglio dimenticato con qualche rigo di
accompagnamento. Ma era vuota e, come del resto le pagine, non recava né
mittente né firma. Strano, pensò, e riprese la lettera in mano. «A te che non
mi hai mai conosciuta», era scritto in alto a mo' di avviso, di intestazione.
Sorpreso, si bloccò: quello scritto era diretto a lui o a un uomo immaginario?
La sua curiosità si era destata all'improvviso, sicché cominciò a leggere.
«Mio figlio è morto ieri - per tre giorni e tre notti ho lottato contro la morte
per il possesso di questa piccola, tenera vita, per quaranta ore, mentre la
spagnola squassava il suo povero corpo febbricitante, sono rimasta seduta al
suo capezzale. Gli ho messo panni freschi sulla fronte rovente, ho tenute
giorno e notte le sue piccole mani irrequiete.
La terza sera sono crollata. I miei occhi non ce l'hanno fatta più, si sono
chiusi senza che me ne accorgessi. Ho ceduto al sonno per tre o quattro ore
e intanto la morte se l'è portato via. Ora è sdraiato là, il dolce, povero
bambino, nel suo lettuccio di fanciullo, esattamente come è morto; soltanto gli
occhi gli sono stati chiusi, i suoi occhi scuri e intelligenti, le mani gliele hanno
giunte sulla camicia bianca e quattro ceri ardono alle quattro estremità del
letto. Non oso guardare da quella parte, non oso muovermi perché, ogni volta
che tremolano le candele, ombre guizzano sul suo viso e sulla bocca chiusa,
sicché i suoi lineamenti paiono muoversi, e io potrei pensare che non sia
morto, che si risvegli e mi rivolga frasi fanciullescamente affettuose con la
sua voce squillante. Ma io so che è morto. Non voglio più guardare da quella
parte per non sperare ancora di essermi sbagliata. Lo so, lo so, mio figlio è
morto ieri - adesso non ho altri che te al mondo, solo te. E tu non sai nulla di
me, ignaro di tutto giochi o ti trastulli con cose e persone. Ho soltanto te, che
non mi hai mai conosciuta e che ho sempre amato.
«Ho preso la quinta candela e l'ho accostata al tavolo dove ti scrivo.
Perché non posso rimanere sola con il mio bambino morto senza vomitare
l'anima dallo strazio, e a chi dovrei parlare in quest'ora tremenda se non a te
che sei stato, e sei, tutto per me? Forse non riuscirò a parlarti in modo chiaro,
forse tu non mi capirai - sono stordita, sento battere e martellare intorno alle
tempie, le gambe e le braccia mi fanno male. Credo di avere la febbre,
fors'anche la spagnola, che ora striscia passando di porta in porta; e sarebbe
un bene: allora me ne andrei con mio figlio e non sarei costretta a infierire
contro la mia persona. Di tanto in tanto mi si annebbia la vista e
probabilmente non riuscirò nemmeno a scrivere fino alla fine questa mia
lettera, ma voglio raccogliere tutte le forze per parlarti una volta, questa unica
volta, amore che non mi hai mai conosciuta.
«A te solo voglio parlare, raccontarti tutto per la prima volta. Devi
conoscere l'intera mia vita che ti è sempre appartenuta e della quale non
sapevi nulla. Ma verrai a conoscenza del mio segreto solo quando sarò
morta, quando non mi potrai più rispondere, quando la causa del freddo e del
caldo che mi stanno scuotendo sarà davvero la fine. Se invece dovrò
continuare a vivere, strapperò questa lettera e tacerò come ho sempre
taciuto. Perciò se la terrai in mano, sappi che una morta ti ha raccontato la
sua vita, la sua vita che è stata tua dalla prima all'ultima ora da viva. Non
avere timore delle mie parole; una donna morta non vuole più nulla, non
vuole amore, non vuole compassione e neanche consolazione. Solo questo
voglio da te: che tu mi creda, che tu creda a tutto quello che il mio dolore,
fuggendo verso di te, ti confessa. Credermi è la sola mia preghiera: non si
mente nell'ora della morte dell'unico figlio.
«Ti svelerò tutta la mia vita, che veramente è cominciata il giorno in cui ti
ho conosciuto. Prima non era altro che qualcosa di opaco e informe in cui il
mio ricordo non si è mai più immerso, una specie di cantina piena di cose e
persone impolverate, nascoste sotto le ragnatele e sorde, delle quali il mio
cuore non ha serbato alcuna memoria. Quando sei arrivato, avevo tredici
anni e abitavo nella stessa casa dove tu abiti adesso, nella stessa casa in cui
tieni in mano questa lettera, l'ultimo mio alito di vita. Abitavo sullo stesso
pianerottolo, proprio di fronte alla porta del tuo appartamento. Certamente
non ti ricorderai più di noi, della povera vedova del consigliere della Corte dei
conti (vestiva sempre a lutto) e della sua magra figlia adolescente - eravamo
dei vicini molto silenziosi, immersi nella nostra indigenza piccolo-borghese.
Forse non hai mai udito il nostro nome perché non avevamo la targa
sull'uscio e non veniva nessuno, nessuno chiedeva di noi. Ma è passato tanto
tempo, quindici, sedici anni, no, sicuramente non ti rammenti di noi, amore,
mentre io, oh sì, io ricordo appassionatamente ogni dettaglio, ricordo come
se fosse oggi il giorno, ma che dico il giorno: ricordo l'ora in cui ho sentito
parlare di te per la prima volta, ti ho visto per la prima volta; e come potrebbe
essere diversamente dal momento che il mondo per me è iniziato in
quell'istante? Sopporta, amore, che ti racconti tutto dal principio, non
stancarti, ti supplico, di sentire parlare per un quarto d'ora di me che non mi
sono mai stancata di amarti per una vita.
«Prima che tu traslocassi in casa nostra, dietro la tua porta abitava gente
brutta, cattiva, litigiosa. Poveri com'erano, odiavano soprattutto la povertà
della porta accanto, non volendo condividere con nessuno il proprio squallore
proletario, sceso così in basso. Il marito era un ubriacone e picchiava la
moglie; capitava spesso che ci svegliassimo in piena notte per il fracasso di
sedie rovesciate e di piatti rotti. Una volta la donna, sanguinante per le
percosse e tutta scarmigliata, corse giù dalle scale e dietro di lei l'uomo
ubriaco urlante, finché tutti gli inquilini uscirono dalle porte e lo minacciarono
di chiamare la polizia.
Sin da principio mia madre aveva evitato qualunque rapporto con loro e mi
proibì di parlare ai figli, i quali si vendicarono su di me a ogni occasione.
Quando mi incontravano sulla strada, mi lanciavano degli insulti e una volta
mi colpirono con una gragnuola di palle di neve così dure che mi colò il
sangue dalla fronte. Per un istinto solidale tutto il caseggiato odiava quella
gente e il giorno che accadde qualcosa credo che l'uomo fosse stato portato
in galera per un furto - e quelli dovettero sloggiare con la loro robaccia, noi
tutti tirammo un sospiro di sollievo. Per qualche giorno, di sotto, sul portone,
fu appeso un cartello con scritto 'Affittasi', poi venne tolto e almeno i mobili
pesanti, e ora portavano una dopo l'altra le cose più piccole. Io rimasi
impalata sulla porta ad ammirare ogni pezzo perché tutte le tue cose erano
stranamente diverse da quelle che ero abituata a vedere. C'erano idoli
indiani, sculture italiane, grandi quadri dalle tinte sgargianti e poi, alla fine,
arrivarono i libri, tanti libri e così belli che per me erano inimmaginabili.
Furono impilati tutti vicino alla porta d'ingresso e lì li prese in consegna il
cameriere che li batté con un bastone e li spolverò accuratamente a uno a
uno con un piumino.
Incuriosita, aggirai il mucchio sempre più grande, il tuo domestico non mi
scacciò, ma nemmeno mi incoraggiò, sicché non osai toccarne uno solo per
quanto mi sarebbe piaciuto sentire al tatto il cuoio morbido di parecchie
rilegature. Sogguardai timidamente solo i titoli: c'erano libri francesi, libri
inglesi, ma parecchi erano scritti in lingue che non capivo. Credo che sarei
rimasta a guardarli ore e ore: ma la mamma mi chiamò.
«Per tutta la sera non potei fare a meno di pensare a te; ancor prima di
conoscerti. Personalmente possedevo solo una dozzina di libri economici con
le copertine di cartone sgualcito, che amavo più di qualunque altro mio avere
e che leggevo e rileggevo. Mi assillava il pensiero di come fosse l'uomo che
possedeva e aveva letto tutti quei libri meravigliosi, conosceva tante lingue,
era così ricco e insieme così colto. Una specie di riverenza soprannaturale si
collegò, dentro di me, all'idea di quei libri, di così tanti libri. Cercai di
immaginarti concretamente: eri un vecchio signore con gli occhiali e una
lunga barba bianca, simile al nostro professore di geografia, soltanto molto
più buono, bello e mite non so come mai già allora fossi sicura della tua
bellezza, pur pensandoti vecchio. Quella notte e senza conoscerti, ti ho
sognato per la prima volta.
«Tu traslocasti l'indomani ma io, benché facessi la posta, non riuscii a
scorgerti - e questo non fece che accrescere la mia curiosità. Il terzo giorno
finalmente ti vidi, e la sorpresa mi sconvolse. Perché eri assolutamente
diverso, senza alcuna relazione con l'immagine infantile di Dio padre. Avevo
sognato un vegliardo bonario con gli occhiali e invece sei arrivato tu, lo
stesso uomo che sei ora, un uomo immutabile, sul quale gli anni scivolano
pigramente. Indossavi un delizioso completo sportivo beige e salisti di corsa
le scale alla tua inconfondibile agile maniera di intramontabile adolescente:
sempre due gradini alla volta. Il cappello lo tenevi in mano e così, con una
sorpresa indescrivibile, vidi il tuo viso luminoso, vivace con i capelli chiari. E
vero, mi spaventai tanto ero stupita di vederti giovane, avvenente, snello ed
elegante.
Non è una reazione nient' affatto strana: in quel primo istante avvertii con
estrema chiarezza ciò che io stessa e gli altri immancabilmente percepiamo
come la tua singolarità, non senza provare una certa sorpresa a ogni
conferma: la compresenza in te, in un certo senso, di due nature distinte: il
giovane passionale, spensierato, incline al gioco e all'avventura, accanto
all'uomo - nella sua arte - impietosamente serio, coscienzioso, infinitamente
erudito e colto. A livello inconsapevole avvertii ciò che chiunque coglieva in
te, ossia la tua doppia vita: una vita con una faccia limpida, scopertamente
rivolta al mondo e una vita molto oscura che solo tu conosci - questa duplicità
profonda, il mistero della tua esistenza, la percepii a tredici anni,
magicamente sedotta, al primo sguardo.
«Comprendi allora, amore, quale miracolo, quale enigma seducente sei
stato per me, per una bambina? Scoprire all'improvviso nell'uomo, davanti al
quale si prova venerazione perché scrive libri, perché è famoso nel gran
mondo, un giovane di venticinque anni elegante, spensierato come un
ragazzo! Non mi pare necessario dirti che a partire da quel giorno in casa
nostra e in tutto il mio mondo infantile niente mi interessava più di te e che
non feci altro che accerchiare la tua vita, la tua esistenza con tutta
l'ostinazione e la perspicace perseveranza di una tredicenne. Ti osservai,
osservai le tue abitudini, osservai le persone che venivano da te, e questo,
anziché attenuare la mia curiosità, la accresceva poiché per l'appunto la
duplicità della tua natura si rifletteva specularmente nell'eterogeneità delle tue
visite.
Ti venivano a trovare giovani, tuoi compagni con i quali ridevi e ti scatenavi,
studenti malvestiti e poi altre signore, sempre a bordo di automobili con
chauffeur. Un giorno arrivò il sovrintendente dell'Opera, il grande direttore
d'orchestra che io avevo visto sul podio da lontano, quindi di nuovo altre
giovani ragazze che andavano ancora alla scuola commerciale e, impacciate,
s'infilavano in casa tua. In genere molte, anzi moltissime donne. Io non mi
facevo certo idee strane, neanche quella mattina che, uscendo per andare a
scuola, vidi allontanarsi una signora con la faccia interamente velata. Avevo
solo tredici anni e la curiosità viscerale, con cui ti spiavo e sorvegliavo,
impediva alla bambina - perché ero ancora una bambina - di capire che era
già amore.
«Ricordo però esattamente, amore mio, il giorno e l'ora in cui mi innamorai
perdutamente di te. Avevo fatto una passeggiata con una compagna di
scuola e stavamo chiacchierando davanti al portone. Arrivò un'automobile, si
fermò e tu scendesti spiccando un balzo dal predellino alla tua solita maniera
impaziente ed elastica, che ancor oggi mi affascina, e facesti l'atto di infilarti
dentro il portone. Io ti sbarrai la strada, e ci mancò poco che non ci urtassimo,
e tu mi fissasti con quello sguardo caldo, morbido e avvolgente come una
carezza, mi sorridesti teneramente - non posso dire altro - e con una voce
appena udibile e quasi confidenziale mi dicesti: 'Grazie mille, signorina'.
«Tutto qui, amore, ma da quel secondo, da quando percepii su di me il tuo
sguardo morbido, affettuoso, mi sentii interamente tua. Certo, più tardi, anzi
presto ho esperimentato di persona che riservi quello sguardo che ti
abbraccia e ti cattura, quello sguardo che ti avvolge e insieme ti spoglia,
insomma lo sguardo del seduttore nato, a ogni donna che ti sfiori, a ogni
commessa che ti serva in una bottega, a ogni camerierina che ti apra la
porta, so che non è uno sguardo consapevole, l'espressione di una volontà,
di un'inclinazione, e che è per l'appunto la tua tenerezza verso le donne a
renderlo morbido e caldo. Ma io, la bambina appena tredicenne, non lo
intuivo: mi sentivo come tuffata in un incendio. Credevo che la tenerezza
fosse riservata a me sola, unicamente a me, e in quel secondo la donna,
nascosta nell'adolescente, si è destata e quella donna ti appartenne, per
sempre.
'Chi era?' chiese la mia amica. Non riuscii a risponderle subito. Mi era
impossibile pronunciare il tuo nome: mi divenne sacro già in quel breve
attimo, era diventato il mio segreto. 'Ah, un signore che abita qui nella casa'
balbettai maldestra. 'Ma perché sei arrossita quando ti ha guardata?' mi
canzonò l'amica con tutta la cattiveria di una bambina curiosa. E allora,
proprio perché sentii che la compagna aveva sfiorato il mio segreto con
un'intenzione canzonatoria, il sangue mi avvampò di nuovo le guance. Per
l'imbarazzo diventai villana. 'Cretina' sbottai: ma avrei preferito strozzarla. Lei
invece rise ancor più forte non nascondendo una punta di scherno, sicché mi
sentii spuntare le lacrime agli occhi e sconvolgere da una rabbia impotente.
La piantai in asso e corsi di sopra.
«Ti ho amato da quel secondo. So che le donne te l'hanno detto spesso
perché sei il loro beniamino, ma credimi: nessuna ti ha mai amato con la
dedizione di una schiava, di una cagna quale sono stata e sono rimasta per
te. Sulla Terra, infatti, niente somiglia all'amore nascosto, coltivato nel buio
da una bimba. É un amore così disperato, servile, succube, un amore così
sospettoso e totale come non lo è mai quello concupiscente e
inconsciamente pretenzioso di una donna adulta.
Esclusivamente le bambine sole sanno mantenere in vita la loro passione:
le altre frantumano il proprio sentimento a furia di ciance in compagnia, lo
consumano nelle confidenze, hanno udito e letto molto sull'amore e sanno
che è un destino comune, ci giocano come con un giocattolo, se ne vantano
come i ragazzini si vantano della prima sigaretta.
«Mentre io non avevo nessuno con cui confidarmi, nessuno mi aveva
istruita e messa in guardia, ero inesperta e ignara: mi tuffai nel mio destino
come in un baratro. Ogni nuovo sentimento che germogliasse e divampasse
nel mio intimo conosceva un unico confidente: te, l'immagine onirica della tua
persona. Mio padre era morto da tempo e mia madre mi era estranea, chiusa
com'era nell'eterna cupezza della depressione, assorbita dalle ansietà di chi
vive della sola pensione; le compagne di scuola, già parzialmente guaste, mi
respingevano proprio perché esse giocavano con quella che per me era
invece la passione definitiva.
Sicché buttai ciò che altrimenti si frantuma e smembra, gettai incontro a te
il mio essere appena assemblato e tuttavia impaziente di rinnovarsi. Tu eri come faccio a dirtelo? ogni paragone è insufficiente - eri davvero tutto, eri la
mia vita. Tutto esisteva in funzione tua, tutto nella mia esistenza aveva
significato purché fosse collegato alla tua immagine. Hai trasformato la mia
vita. Fino a quel momento indifferente e mediocre a scuola, diventai di colpo
la prima della classe, lessi migliaia di libri fino a notte fonda perché sapevo
che tu li amavi. Meravigliando mia madre, cominciai a esercitarmi al
pianoforte con una costanza prossima quasi alla cocciutaggine perché
credevo che tu amassi la musica. Spazzolavo e cucivo i miei vestiti solo per
avere un aspetto gradevole e decente ai tuoi occhi; che il mio vecchio
grembiule di scuola (ricavato da un abito da casa della mamma) avesse a
sinistra una macchia quadrangolare incastonata era per me disgustoso.
Temevo che tu potessi notarla e disprezzarmi; per questa ragione stringevo
sempre la cartella al petto ogni volta che salivo di sopra tremante di paura,
sicura che avresti visto l'ignominia. Ma com'ero sciocca! Tu non mi hai mai,
quasi mai guardata.
«E, nondimeno, praticamente passavo la giornata ad aspettarti e a spiarti.
Nella nostra porta c'era un piccolo spioncino d'ottone con un'apertura
circolare dalla quale si poteva vedere perfettamente la tua.
Questo spioncino - no, non ridere, amore! Ancor oggi, ancor oggi non mi
vergogno di quelle ore! - era il mio occhio sul mondo e là, nell'anticamera
gelida, temendo che la mamma sospettasse qualcosa, rimasi seduta in quei
mesi e anni, un libro in mano, per interi pomeriggi facendoti la posta: tesa
come la corda di uno strumento musicale, vibrando non appena la tua
presenza la sfiorasse. Ero costantemente occupata da te, in tensione, in
movimento; ma tu non potevi accorgerti, così come non percepivi la tensione
della lancetta dell'orologio che tieni in tasca, la quale conta e misura al buio le
tue ore, accompagna i tuoi percorsi con un battito impercettibile e sulla quale,
in milioni di ticchettii, il tuo sguardo frettoloso cade una sola volta. Sapevo
tutto di te, conoscevo ciascuna delle tue abitudini, ogni tua cravatta, ogni tuo
abito, impiegai poco tempo a riconoscere e distinguere i tuoi conoscenti e li
suddivisi in due gruppi: quelli che mi erano cari e quelli che mi ripugnavano.
Dai tredici ai sedici anni ho vissuto ogni secondo in te. Quante scempiaggini
ho commesso! Baciavo la maniglia della porta che la tua mano aveva
toccata, rubavo il mozzicone della sigaretta che avevi gettato prima di
entrare, e quel mozzicone era un oggetto sacro per me essendo stato sfiorato
dalle tue labbra. Di sera - e il fatto si ripeté centinaia di volte - con una scusa
correvo di sotto sul vicolo, solo per vedere in quale stanza del tuo alloggio
fosse accesa la luce e, più edotta, sentire la tua presenza, la tua presenza
invisibile. Nelle settimane in cui eri in viaggio - il cuore mi si fermava sempre
dalla paura ogni volta che vedevo il buon Johann portare da basso la tua
borsa gialla -, in quelle settimane la mia vita era come spenta e priva di
senso. Andavo in giro imbronciata, annoiata, cattiva e dovevo sempre stare
attenta che la mamma non si accorgesse della mia disperazione notando che
avevo gli occhi arrossati dal pianto.
«So che ti sto raccontando solo esaltazioni grottesche, insulsaggini puerili.
Dovrei vergognarmene, ma non mi vergogno perché il mio amore non è stato
mai più puro e travolgente che in quegli eccessi infantili.
Potrei raccontarti per ore e per giorni come allora sono vissuta con te che
mi conoscevi di sfuggita. Infatti, incontrandoti sulla scala e non potendoti
evitare, mi mettevo a correre per paura del tuo sguardo bruciante, la testa
bassa, e ti passavo vicino come se stessi per cadere in acqua, augurandomi
solo che l'incendio non mi liquefacesse. Per ore, per giorni potrei raccontarti
di quegli anni per te ormai svaniti da tempo, srotolare il calendario della tua
vita, ma non voglio annoiarti, non voglio tormentarti. Desidero confidarti
solamente l'esperienza più bella della mia infanzia, e ti prego di non
deridermi: è stato un episodio senza importanza, ma per me è durato
un'eternità. Doveva essere una domenica. Tu eri partito e il tuo domestico
stava trascinando nell'appartamento i pesanti tappeti che aveva battuto,
lasciando la porta aperta. Faceva fatica, il buon uomo, e, in un accesso di
audacia, mi avvicinai e gli chiesi se potevo aiutarlo. Si stupì ma mi lasciò fare.
Fu così che - potrei solo dirti con quale adorazione piena di devoto rispetto ho visto l'interno della tua casa, il tuo mondo, la tua scrivania dove eri solito
sederti, sulla quale c'erano dei fiori in un vaso di cristallo azzurro. I tuoi
armadi, i tuoi quadri, i tuoi libri.
É stato solo uno sguardo fugace e furtivo nella tua vita perché il fedele
Johann mi avrebbe sicuramente proibito un'analisi più circostanziata; ma con
quell'unico sguardo riuscii a suggere l'atmosfera e mi procurai alimento per i
miei infiniti sogni nel sonno e nella veglia.
«Questo minuto, un minuto veloce, è stato il più felice della mia
adolescenza. Te l'ho voluto raccontare perché tu, che ancora non mi conosci,
possa finalmente cominciare a intuire fino a che punto la mia vita sia
trascorsa in simbiosi emotiva con te. Ho voluto raccontartelo, così come ti
voglio raccontare l'ora più terribile, purtroppo cronologicamente così vicina a
quell'attimo di felicità. A causa tua te l'ho già detto - trascuravo tutto, non
badavo a mia madre e non mi preoccupavo di nessuno. Sicché non mi
accorsi del signore anziano - era un commerciante di Innsbruck, imparentato
alla lontana con la mamma che veniva piuttosto spesso a casa nostra e si
tratteneva abbastanza a lungo; personalmente non avevo nulla in contrario,
anzi: ogni tanto portava la mamma a teatro e in quelle occasioni potevo stare
da sola, pensare a te, spiarti, il che era per me l'unica e impareggiabile
beatitudine. Un giorno la mamma mi chiamò in camera sua con un giro di
parole alquanto prolisso, dicendo che mi doveva parlare seriamente.
Impallidii e sentii il cuore in gola: aveva intuito o scoperto qualcosa?
Il mio primo pensiero eri stato tu, insomma era il segreto che mi legava al
mondo. Mia madre era a sua volta impacciata, mi baciò (cosa che non faceva
mai) affettuosamente una, anzi due volte, mi attrasse a sé sul sofà e con una
certa titubanza e un discreto pudore cominciò a raccontarmi che il parente,
essendo vedovo, le aveva chiesto di sposarla e che, pensando soprattutto a
me, era decisa ad accettare la proposta di matrimonio. Sentii un tuffo al
cuore: solo un pensiero rispose dentro di me: il pensiero di te. 'Ma resteremo
qui?' riuscii a stento a balbettare. 'No, ci trasferiamo a Innsbruck. Ferdinand
ha una bella villa a Innsbruck.' Non udii altro. Mi si annebbiò la vista. Più tardi
venni a sapere di essere svenuta: all'improvviso ero arretrata allargando le
mani - lo udii raccontare alla mamma dal patrigno che aspettava dietro l'uscio
-, quindi mi ero accasciata come un sacco di patate. Sono incapace di
descriverti il prosieguo degli eventi e la mia strenua difesa - ero ancora una
bambina e assolutamente impotente contro la loro volontà superiore; adesso,
mentre ti scrivo, mi trema ancora la mano.
Non potevo rivelare il mio segreto e quindi la mia resistenza veniva presa
per cocciutaggine, per cattiveria, per un dispetto. Nessuno parlò più con me,
tutto si svolse alle mie spalle: approfittavano delle ore in cui ero a scuola per
traslocare. Ogni volta che rincasavo, un altro pezzo mancava: trasferito o
venduto. Vidi la mia casa e quindi la mia vita cadere a mano a mano a pezzi
e un giorno, rientrando per il pranzo, trovai che gli imballatori avevano finito e
si erano portati via tutto. Nelle stanze vuote c'erano le valigie chiuse e due
brande per la mamma e per me. Lì avremmo dormito per una notte, l'ultima
notte, e l'indomani saremmo partite per Innsbruck.
«L'ultimo giorno mi resi conto, con una chiarezza improvvisa, che non avrei
potuto vivere senza la tua vicinanza. Eri la mia unica salvezza.
Non saprò mai dire che cosa abbia pensato e se fossi in grado di formulare
dei pensieri in quelle ore di infinita disperazione, ma una cosa è certa: a un
tratto - la mamma era uscita - con ancora addosso il grembiule di scuola
venni di là da te. No, non camminai: una forza misteriosa mi spinse
magneticamente fino alla tua porta, muovendo le mie gambe anchilosate.
Tremavo tutta. Ti ho già detto che non mi era chiaro che cosa volessi - se
buttarmi ai tuoi piedi e pregarti di tenermi con te, come una serva, come una
schiava e temo che sorriderai di fronte al fanatismo innocente di una
quindicenne - ma forse non sorrideresti se sapessi come è andata lì fuori sul
pianerottolo gelido: paralizzata dalla paura e nondimeno sospinta in avanti da
una forza inspiegabile, e come dire, strappai il braccio dal corpo tant'è che si
sollevò e - fu una lotta durata l'eternità di secondi spaventevoli - premetti il
dito sul pulsante della maniglia. Ancor oggi mi rintrona nell'orecchio quella
scampanellata stridula seguita dal silenzio in cui il cuore mi si fermò, la
circolazione del sangue si interruppe per ascoltare se stavi avvicinandoti.
«Ma tu non venisti. Non venne nessuno. Evidentemente quel pomeriggio
eri andato via e Johann era uscito per qualche commissione. Allora me ne
tornai tastoni, il suono morto del campanello che continuava a rintronarmi
nell'orecchio, nel nostro alloggio devastato e vuoto, sfinita mi buttai su un
plaid, stanca dei quattro passi come se avessi camminato per ore e ore nella
neve alta. Ma sotto quello sfinimento ardeva ancora, non soffocabile, la
risolutezza di vederti, parlarti, prima che mi portassero via. Non c'era, te lo
giuro, alcun pensiero erotico, ero ancora inesperta appunto perché non
pensavo ad altro se non a te: volevo solamente vederti, vederti un'altra volta,
aggrapparmi a te. Per tutta la notte, quella lunga notte spaventosa, ti ho
aspettato, amore. Non appena mia madre si fu sdraiata e addormentata, uscii
piano piano in anticamera per tendere l'orecchio e non perdermi l'istante in
cui saresti rincasato. Ho aspettato tutta la notte ed era una gelida notte di
gennaio. Ero stanca, mi dolevano le membra e non c'era più una poltrona
dove sedermi. Così mi distesi sul pavimento freddo, sul quale soffiava la
corrente d'aria filtrata dalla porta. Con addosso solo il mio vestitino leggero,
rimasi supina sull'ammattonato gelido, che faceva male perché non avevo
preso la coperta; ma non volevo avere caldo per paura di assopirmi e non
udire il tuo passo. Ero dolorante, stringevo i piedi l'uno contro l'altro
spasmodicamente, mi tremavano le braccia.
Dovetti alzarmi in continuazione, tanto freddo faceva nel buio terrificante.
Ma aspettai, aspettai, ti aspettai come se tu fossi il mio destino.
«Finalmente - dovevano essere già le due o le tre del mattino - udii girare
la chiave del portone di sotto e poi dei passi sulla scala. Il freddo era
scomparso come staccatosi, un alito caldo mi investì e senza far rumore aprii
la porta per lanciarmi incontro a te, cadere ai tuoi piedi... Ah, non so davvero
che cosa avrei fatto in quel momento, pazza com'ero. I passi si avvicinarono,
un lume guizzò spostandosi sempre più in alto. Tremante tenni la maniglia.
Ma eri tu che stavi salendo?
«Sì, amore, eri tu. Ma non eri solo. Udii un risolino provocato dal solletico, il
fruscio forse di un abito di seta e, in sottofondo, la tua voce. Tornavi a casa
con una donna...
«Non so davvero come sia sopravvissuta a quella notte. Il giorno dopo, alle
otto, mi portarono di peso a Innsbruck; non ebbi più la forza di reagire.»
«Mio figlio è morto ieri notte. Sarò di nuovo sola se è destino che continui a
vivere. Domani verranno uomini sconosciuti, neri, grossolani, e porteranno
una cassa e lì lo deporranno, il mio povero unico bambino.
Forse verranno anche alcuni amici e porteranno delle corone, ma a che
cosa servono i fiori su una bara? Mi consoleranno e diranno qualche parola,
parole, parole, ma mi potranno aiutare? So che rimarrò inevitabilmente sola
un'altra volta, e non esiste nulla di più terrificante della solitudine mentre si
sta tra la gente. Ho capito che cosa sia questo essere soli in quei due anni
interminabili a Innsbruck, in quegli anni tra il sedicesimo e il diciottesimo
compleanno, quando vissi in mezzo ai miei famigliari come una prigioniera,
come una proscritta. Il patrigno era un uomo molto tranquillo di poche parole.
Con me era buono, e mia madre, come per farsi perdonare chissà quale
torto, sembrava disposta a soddisfare qualunque mio desiderio. C'erano
parecchi giovani interessati a me, ma io li respinsi con un'arroganza
viscerale. Non volevo essere felice, vivere contenta distante da te, e così mi
seppellii con le mie mani in un mondo buio scandito dall'espiazione e
dall'isolamento voluti da me stessa. I nuovi abiti colorati che loro mi
comperavano non li indossavo, mi rifiutavo di andare ai concerti e di
frequentare i teatri o di partecipare a escursioni in allegra compagnia. Non
sono quasi mai scesa in strada. Mi credi, amore, se ti dico che di questa
piccola città, nella quale sono vissuta due anni, non conosco neanche dieci
vie? Ero derelitta e volevo esserlo. Mi inebriai di ogni rinuncia a cui mi
sottoponevo oltre a quella di non poterti vedere. E poi: non volevo farmi
distrarre dalla voluttà di vivere in te. Me ne stavo a casa tutta sola per ore e
ore, perfino per intere giornate, e non facevo nient'altro che pensarti,
richiamare alla memoria gli stessi innumerevoli piccoli ricordi, ogni incontro,
ogni attesa, rivivere quegli episodi insignificanti come se fossi a teatro. E
proprio perché ho ripetuto ognuno dei secondi passati infinite volte, anche la
mia infanzia ha serbato nella memoria una vivezza così bruciante, che sento
ogni minuto di quegli anni caldo e importante come se avesse attraversato il
mio sangue solo ieri.
«In passato non ho vissuto che per te, in te. Comperai tutti i tuoi libri e se il
tuo nome compariva sul giornale, era un giorno di festa.
Mi credi se ti dico che so a memoria ogni riga dei tuoi libri avendoli letti e
riletti? Se qualcuno mi svegliasse in piena notte e mi recitasse un passo
scelto a caso di un tuo romanzo, ancor oggi, a tredici anni di distanza, lo
saprei continuare, come in sogno: perché ogni parola era per me vangelo e
preghiera. Il mondo esisteva solo in relazione a te: sui giornali di Vienna
leggevo i concerti e le prime teatrali riflettendosi quali ti avrebbero potuto
interessare e, quando arrivava la sera, ti accompagnavo da lontano: adesso
entra nella sala, adesso si siede. Sognai la scena mille volte, e ti avevo visto
al concerto una sola volta.
«Ma a che scopo raccontarti tutto quanto, questo fanatismo folle e
autolesionista, tragicamente disperato, il fanatismo di una fanciulla
abbandonata? Perché raccontarlo a un uomo che non ne ha mai avuto il
minimo sospetto e non sapeva niente? Ma a quel tempo ero veramente
ancora una bambina? Compii sedici anni, ne compii diciotto - i giovanotti
cominciarono a voltarsi per la strada, ma mi infastidivano soltanto. Infatti
l'amore, o anche solo il gioco con l'amore, riferiti a qualcuno che non fosse te
mi parevano enigmatici, così inspiegabilmente strani, anzi la semplice
tentazione mi sarebbe sembrata delittuosa. La mia infatuazione per te restò
eguale, senonché il mio corpo era mutato, i miei sensi si erano svegliati
divenendo più caldi, più fisici, più femminili. E la realtà, che la volontà della
bambina non aveva ancora intuito, della bambina che aveva suonato il tuo
campanello, si trasformò in un'idea fissa: donarmi, darmi a te.
«Le persone che mi vivevano intorno supponevano che fossi schiva, mi
definivano timida (avevo taciuto ostinatamente il mio segreto). Mentre dentro
di me stava prendendo forma una volontà ferrea. Ogni mia azione, ogni mio
pensiero e progetto avevano imboccato una sola direzione: tornare a Vienna,
tornare da te. Estorsi la vittoria, per quanto la mia volontà sembrasse assurda
e incomprensibile agli altri. Il mio patrigno era benestante e mi considerava
sua figlia, eppure con una caparbietà esacerbata insistetti di volermi
guadagnare la vita con le mie sole forze e alla fine ottenni di andare a
Vienna: sarei vissuta da una parente e mi sarei impiegata in un grande
laboratorio di confezioni.
«É necessario che ti dica quale strada percorsi per prima quando, in una
sera nebbiosa di autunno, arrivai - finalmente! finalmente! - a Vienna? Lasciai
le valigie alla stazione, mi precipitai su un tram - e mi pareva che non
camminasse nemmeno, ogni fermata mi dava ai nervi - e raggiunsi di corsa la
casa. Le tue finestre erano illuminate, il mio cuore cantava. Solo quella sera
la città, che finora mi aveva avvolta con il suo mugghiare così estraneo e
assurdo, solo allora cominciò a rivivere poiché ti intuivo vicino, tu, il mio
eterno sogno. Non capivo che in realtà, anche al di là di valli, monti e fiumi,
ero stata altrettanto estranea alla tua coscienza come adesso che soltanto il
sottile vetro lucente della tua finestra si frapponeva tra te e il mio sguardo
raggiante. Non feci altro che guardare in su, verso l'alto: c'era luce, la casa,
c'eri tu, c'era il mio mondo. Per due anni avevo sognato quel momento, e
finalmente mi veniva regalato. Rimasi sotto le tue finestre per tutta la sera,
una sera lunga, morbida, velata, finché la luce si spense. Solo allora cercai la
casa in cui avrei alloggiato.
«Tornai ogni sera. Fino alle sei ero occupata al negozio, un lavoro duro e
impegnativo. Ma mi era caro perché l'irrequietezza che lo contrassegnava
faceva sentire meno dolorosa la mia. E non appena le serrande avvolgibili si
abbassavano rumorosamente alle mie spalle, correvo di filato a quella che
era la mia meta più cara. Vederti una volta, incontrarti anche una volta sola
era il mio unico desiderio.
Abbracciare con lo sguardo il tuo volto da lontano. All'incirca una settimana
dopo accadde che ti incontrassi, e in un momento in cui non lo avrei
supposto: mentre stavo sorvegliando, spiando, le tue finestre, tu arrivasti
percorrendo trasversalmente la strada. All'improvviso tornai a essere la
bambina, la tredicenne, e sentii il sangue avvamparmi le guance;
involontariamente, frenando l'iniziale impulso più profondo che aveva
nostalgia di sentire i tuoi occhi, abbassai la testa e, correndo come un
fulmine, come braccata, ti passai vicino. Dopo mi vergognai di questa fuga
pavida da scolaretta, essendo ormai chiaro quel che volevo: incontrarti. Infatti
ti cercai, desideravo che tu mi riconoscessi dopo tanti anni nostalgicamente
svaniti, volevo avere la tua attenzione, essere amata.
«Ma tu non mi notasti per molto tempo ancora, per quanto ogni sera, anche
se infuriava una bufera di neve o se soffiava il vento viennese, forte e
tagliente, ero sempre lì, nel tuo vicolo. Sovente aspettai invano ore e ore,
spesso uscivi, finalmente, in compagnia di conoscenti, due volte ti vidi con
delle donne e allora compresi il mio essere ormai adulta, riconobbi la
diversità, la novità del mio sentimento verso di te, dall'improvviso sussulto del
mio cuore, che mi squarciava l'anima ogni volta che vedevo una donna
sconosciuta avanzare stretta al tuo braccio. Non ero sorpresa. Conoscevo le
tue eterne visitatrici dai giorni dell'infanzia, ma ora avvertivo quasi un dolore
fisico, qualcosa dentro di me si tendeva, un'ostilità e nel contempo una
rivendicazione, ribellandomi a quell'intimità palese e carnale. Un giorno puerilmente orgogliosa com'ero, e come forse sono rimasta tuttora - me ne
andai via: ma quella sera di ribellione e di rifiuto fu così vuota, così terribile.
L'indomani, alla medesima ora, ero infatti già là, davanti a casa tua, ad
aspettarti di nuovo remissiva, come se per tutta la mia esistenza avessi
atteso davanti alla tua vita chiusa a chiave.
«E finalmente una sera ti accorgesti di me. Ti avevo già intravisto in
lontananza, sicché mi concentrai per non schivarti. Il caso volle che la strada
fosse quasi sbarrata da un carro, in sosta per scaricare della merce,
obbligandoti a passarmi vicino. Il tuo sguardo distratto mi sfiorò
involontariamente per diventare subito, appena incontratosi con l'attenzione
del mio, per ridiventare - dentro di me il ricordo ebbe un sobbalzo dallo
spavento! - quel tuo sguardo sensibile al sesso femminile, quello sguardo
delicato, avvolgente e insieme capace di denudarti, quello sguardo che
abbraccia e cattura, lo stesso che mi aveva risvegliato trasformando la
bambina in una donna innamorata. Per uno o due secondi quel tuo sguardo
resistette al mio, il quale non poteva né voleva staccarsi, quindi mi superasti.
Avevo il cuore in gola e per forza maggiore fui costretta a rallentare l'andatura
e quando, per una curiosità incontrollabile, mi volsi, vidi che ti eri fermato e
che mi stavi guardando. E, dal modo curiosamente interessato in cui mi
osservavi, compresi istantaneamente che non mi avevi riconosciuta.
«Non mi hai riconosciuta né quella volta né mai. Come posso descriverti a
parole, amore, la delusione di quel secondo - allora era la prima volta che
subivo il destino di non essere riconosciuta da te, lo stesso uomo con cui ho
convissuto per una vita e con cui muoio: non essere mai riconosciuta da te.
Come faccio a descrivertela, quella delusione! Vedi, nei due anni a Innsbruck,
nei quali non passava ora senza che pensassi a te e non feci altro che
immaginare il nostro primo incontro a Vienna, avevo escogitato le possibilità
più folli, a seconda dell'umore. Ogni evenienza era stata, come si dice,
verificata mentalmente, nell'immaginazione: nei momenti più disperati mi ero
prefigurata troppo brutta, troppo insistente. Tutte le forme del tuo sfavore le
avevo trasformate in visioni appassionate - ma neppure nei moti più tetri del
mio animo, neppure nella più palese consapevolezza della mia inferiorità ho
preso in considerazione questa ipotesi, la più mostruosa: che tu non ti fossi
minimamente avveduto della mia esistenza. Oggi lo capisco - sei stato tu a
insegnarmelo! Ho capito che la faccia di una ragazza, di una donna,
rappresenta, inevitabilmente, qualcosa di immensamente mutevole per un
uomo, essendo perlopiù un semplice specchio vuoi di una passione, vuoi di
una fanciullaggine o semmai di una spossatezza, sicché questa faccia
appunto, come un'immagine riflessa nello specchio, si dissolve con tale
facilità che, di conseguenza, proprio l'uomo può smarrire il ricordo di un volto
femminile tanto più facilmente perché in quel viso l'età si combina con luci e
ombre, perché l'abbigliamento ne è la cornice di volta in volta differente.
Coloro che si rassegnano sono i veri saggi, mentre io, la ragazza di allora,
non sono mai riuscita a comprendere la labilità della tua memoria. Infatti se,
in un certo senso, il mio incondizionato, incessante interesse per te mi ha
portato alla pazzia, è impensabile che anche tu non ti rammenti spesso di me
e non mi attenda ogni tanto. Dimmi, come avrei fatto anche solo a respirare
con la certezza di essere meno di niente per te e che neppure il minimo
ricordo della mia persona ti sfiora?
E questo risveglio davanti al tuo sguardo, il quale mi ha rivelato che nulla in
te mi riconosceva e neppure il minimo filo di ricordo arrivava dalla tua alla mia
vita, ha segnato il primo traumatico ritorno alla realtà, il primo presagio del
mio destino. «Allora non mi hai riconosciuta. E quando, due giorni dopo, a un
nuovo incontro il tuo sguardo mi ha avvolto con una sorta di confidenza, non
hai riconosciuto in me la ragazza che ti ha amato e che tu hai risvegliato, ma
solo la diciottenne carina incontrata casualmente quarantotto ore prima nello
stesso luogo. Mi guardasti con un'aria favorevolmente sorpresa, un accenno
di sorriso apparve intorno alla tua bocca. Di nuovo mi superasti rallentando il
passo. Io tremai, gioii, pregai che mi rivolgessi la parola. Ebbi la percezione di
essere, per la prima volta, una persona viva per te: anch'io rallentai il passo,
non ti evitai, e all'improvviso, senza voltarmi, ti sentii dietro di me, ebbi la
certezza che di lì a poco avrei udito la tua cara voce parlarmi.
L'attesa mi produsse una specie di paralisi e quasi temetti di dovermi
fermare, tanto forte mi batteva il cuore. Tu arrivasti al mio fianco, mi rivolgesti
la parola alla tua maniera lieve e gaia, come se fossimo amici da tempo - e
pensare che non hai mai presagito nulla di me, non hai mai sospettato che
esistessi! - ma mi hai parlato con un tono deliziosamente disinvolto talché
sono riuscita persino a risponderti.
Percorremmo insieme tutto il vicolo, quindi tu mi domandasti se volevo
cenare in tua compagnia. Dissi di sì. Avrei potuto osare di dirti di no?
«Cenammo insieme in un piccolo ristorante - ricordi dov'era? Ah, no, tu non
distingui certamente quella dalle tante altre sere analoghe, perché chi ero per
te? Una delle cento, un'avventura di una catena senza soluzione di
continuità. Del resto, perché avresti dovuto ricordarti di me? Parlai infatti poco
essendo immensamente felice di averti vicino e di sentirti parlare. Non volevo
sprecare neanche un istante ponendo una domanda o dicendo magari una
sciocchezza. Riconoscente per quell'ora, non dimenticherò come hai colmato
la mia venerazione e passione, come sei stato tenero, lieve, pieno di tatto,
evitando l'indiscrezione e quelle affettuosità affrettate e facili; fin dal primo
momento ti sei comportato con una familiarità così sicura e amichevole, che
mi avrebbe conquistata anche se non fossi stata tua da lungo tempo con tutta
la mia volontà e con tutto il mio essere. Ah, non sai che hai riparato a una
mostruosità non deludendo cinque anni di attesa infantile?
«Si fece tardi e ci alzammo. Sulla porta del ristorante mi hai domandato se
avessi fretta o ancora un po' di tempo. Come avrei potuto tacerti che ero
pronta! Dissi di avere ancora tempo. Superando una lieve titubanza, mi hai
allora chiesto se non avessi voglia di salire da te a fare due chiacchiere.
'Volentieri' dissi, poiché solo quella risposta rispecchiava l'autenticità del mio
sentimento e notai subito che eri rimasto impressionato, in un certo senso
penosamente - o invece ne eri contento? - dalla rapidità del mio assenso; in
ogni caso eri visibilmente sorpreso. Oggi capisco questa tua sorpresa; so
che, nel caso delle donne, anche qualora il desiderio di concedersi sia
ardente, è usuale negare la propria disponibilità, fingere una certa reazione di
spavento o di indignazione, placabile, tuttavia, solo dopo suppliche insistenti,
menzogne, giuramenti e promesse. So che forse soltanto le professioniste
dell'amore, le sgualdrine per intenderci, rispondono a un invito di questo
genere con un pieno e rapido consenso, fors' anche con gioia, o le ragazzine
ingenue ancora adolescenti. Nel mio caso invece e come potevi
immaginarlo? - era semplicemente la volontà che si traduceva in parola, la
nostalgia, accumulatasi in mille singole notti, che irrompeva. Comunque eri
rimasto colpito: dunque cominciavo a interessarti. Ebbi chiara la sensazione
che, mentre camminavamo e parlavamo, tu mi scrutassi piegando la testa. La
tua sensibilità, la tua sensibilità, magicamente sicura nella sfera umana,
aveva fiutato un qualcosa di inconsueto, un mistero, nella ragazza graziosa e
così disponibile al tuo fianco. L'uomo curioso in te si era destato e dal modo
in cui ponevi le domande - mi accerchiavi, saggiavi - mi resi conto che,
procedendo a tastoni, stavi indagando sul mistero. Ma io scansai i tuoi
assalti: preferivo apparire sciocca piuttosto che svelarti il mio segreto.
«Salimmo da te. Scusa, amore, se ti dico che non puoi capire che cosa
fossero per me l'androne e la scala: che vertigine, che confusione e che
gioia, una gioia folle, tormentosa, quasi mortale! Adesso non riesco neanche
a ripensare a quel momento senza scoppiare in lacrime, e non ne ho più. Non
hai che da immaginare questo particolare: lì ogni cosa era permeata del mio
amore, ogni cosa era il simbolo della mia nostalgia: il portone, davanti al
quale ti ho aspettato mille volte; la scala dalla quale il mio orecchio attendeva
il tuo passo e dove ti ho visto per la prima volta; il pertugio che mi costava
l'anima per lo sforzo di spiarti; lo zerbino davanti alla tua porta sul quale
balzavo in piedi abbandonando la mia postazione. La mia fanciullezza si è
come annidata in quei pochi metri, in quel piccolo spazio c'era tutta la mia
vita e in quel momento essa mi investì con la violenza di una bufera perché i
miei sogni si stavano avverando: entravo assieme a te, nella tua, nella nostra
casa. Pensa - è banale, ma non trovo altre parole -, il breve tratto fino alla
porta del tuo appartamento era la mia unica realtà, è stato per anni il mio
mondo quotidiano incolore e lì ha avuto inizio il paese delle meraviglie della
mia infanzia, il regno di Aladino. Pensa che quella sera ho varcato
barcollando la soglia di casa tua perché era la stessa che avevo fissato mille
volte finché gli occhi non mi bruciavano. E puoi intuire - solo intuire
vagamente, amore, non lo saprai mai veramente - quanto della mia vita abbia
spazzato via quell'istante tanto precipitoso.
«Sono rimasta da te tutta la notte. Non potevi supporre che, prima, nessun
uomo mi avesse sfiorata, nessuno avesse sentito o visto il mio corpo. E come
avresti potuto, amore? Non ti ho posto alcuna resistenza, ho represso ogni
titubanza prodotta dal pudore affinché tu non scoprissi il segreto del mio
amore, che sicuramente ti avrebbe spaventato. Difatti tu ami solo ciò che è
leggero, giocoso, incorporeo, temi di innestarti in un destino. Per così dire,
preferisci sprecarti e il mondo, tutti, possono esserne la causa; non vuoi
sacrifici né vittime. Quindi, mentre ti dico che ero vergine quando mi sono
data a te, ti supplico di non fraintendermi. Infatti non ti accuso, tu non mi hai
allettata né ingannata, non mi hai sedotta - sono stata io a insinuarmi, a
buttarmi fra le tue braccia, a lanciarmi incontro al mio destino. Mai, lo giuro, ti
accuserò, di converso ti sarò sempre riconoscente. Com'è stata scintillante di
gioia, sospesa in un mare di beatitudine, quella notte!
Quando aprii gli occhi, era buio e ti sentii al mio fianco, mi sorpresi che
sopra la mia testa non brillassero le stelle. Percepivo la vicinanza del cielo.
No, non mi sono mai pentita, amore, del tempo trascorso con te. Ricordo
ancora che mentre tu dormivi e io udivo il tuo respiro, sentivo il tuo corpo, ho
pianto di felicità nel buio.
«Il mattino seguente me ne andai di buon'ora. Non potevo mancare in
negozio e volevo uscire prima che arrivasse il cameriere: non doveva
vedermi. Vestita, ero in piedi davanti a te, e tu mi abbracciasti. Mi fissasti a
lungo: un ricordo, oscuro e lontano, ondeggiava dentro di te oppure ero io
che, semplicemente, ti sembravo bella e felice? Felice lo ero. Poi mi hai
baciata sulla bocca. Mi liberai dall'abbraccio piano piano e feci per
andarmene e fu proprio allora che tu mi chiedesti: 'Non vuoi prendere
qualche fiore?' Dissi di sì, e tu sfilasti quattro rose bianche dal vaso di
cristallo azzurro sulla scrivania (lo conoscevo dal giorno in cui lanciai quella
furtiva occhiata infantile). Me le porgesti. Per giorni e giorni le ho baciate.
«Ci eravamo già dati appuntamento per un'altra sera. Venni e fu di nuovo
una serata meravigliosa. Mi hai regalato anche una terza notte, poi mi dicesti
che saresti partito - li odiavo fin dall'infanzia i tuoi viaggi!
- e mi promettesti di farti sentire al ritorno. Ti ho dato un indirizzo fermo
posta, non volevo dirti il mio nome. Ho serbato il mio segreto.
Congedandoti, anche quella volta mi desti delle rose.
«Ogni giorno, per due mesi, ho chiesto... ma no, a che scopo descriverti il
supplizio infernale dell'attesa? Ma non ti accuso. Ti amo per quello che sei:
passionale e smemorato, fervido e infedele. Ti amo come sei stato e come
sei tuttora. Eri tornato da parecchio, lo vidi dalle finestre illuminate del tuo
appartamento, ma tu non mi hai scritto.
Nemmeno una riga ho ricevuto, neanche una riga dall'uomo al quale ho
dato la mia vita. Disperata, ho continuato ad aspettare. Ma tu non mi hai
chiamata, non mi hai scritto una sola riga... neppure una riga...»
«Mio figlio è morto ieri. Era anche tuo figlio. Era anche il tuo bambino,
amore. Il frutto di una delle tre notti, te lo giuro. Non si mente all'ombra della
morte. Era nostro figlio, te lo giuro, poiché nessun uomo mi ha toccata dopo
quelle ore in cui sono stata tua. Più tardi ce ne sono stati altri perché con il
mio corpo ho lottato e vinto.
Le tue carezze lo avevano santificato, sicché come avrei potuto dividermi
tra te, che significavi tutto, e altri che sfioravano appena la mia vita? Era
nostro figlio, il figlio del mio amore consapevole e della tua tenerezza
spensierata, prodiga e quasi inconscia. Ma adesso, ti chiederai - forse
spaventato, forse solo sorpreso -, ti domanderai, perché per tutti questi anni
ho tenuto nascosto questo figlio e te ne parlo soltanto oggi, ora che è steso al
buio, addormentato, addormentato per sempre, e pronto per andarsene e non
tornare mai più, mai più. Non mi avresti creduta. Io ero la sconosciuta,
l'amante anche troppo disponibile di tre notti, che ti si era data senza
resistenza, anzi con desiderio. Non avresti mai creduto che una donna senza
nome, dopo un breve incontro, dimostrasse fedeltà a chi è infedele per
natura, non avresti mai riconosciuto come tuo questo figlio senza diffidenza,
quand'anche la mia parola ti avesse offerto una probabilità di smantellare il
tacito sospetto che avessi tentato di attribuire a un uomo benestante come te
il figlio di un amore mercenario. Mi avresti sospettata di menzogna, e
un'ombra sarebbe rimasta tra te e me, un'ombra mobile e timida di diffidenza.
Questo non lo volevo e poi ti conosco. Ti conosco meglio di quanto tu non
conosca te stesso e so che, amando la spensieratezza, ciò che è lieve e
gaio, ti sarebbe riuscito penoso diventare padre all'improvviso ed essere
improvvisamente responsabile di un'altra vita. Tu, che ami respirare in libertà,
ti saresti sentito in un certo senso legato a me, mi avresti - lo so che lo avresti
fatto anche contro la tua volontà - mi avresti odiato per questo legame. Forse
solo per ore, forse solo per pochi minuti ti sarei apparsa fastidiosa,
detestabile. Orgogliosa com'ero, desideravo che tu pensassi a me senza
ansietà per il resto della vita. Preferivo sobbarcarmi l'intero carico piuttosto
che esserti di peso e, tra tutte, essere Tunica donna alla quale pensavi con
amore e gratitudine. Ma certo tu non hai mai pensato a me, tu mi hai
dimenticata.
«Non ti accuso, amore, no, non ti accuso. Perdonami se a volte una goccia
di amarezza cola dalla penna, perdonami, ma mio figlio, nostro figlio, è morto
e giace fra il tremolio delle candele. Ho imprecato contro Dio con i pugni
stretti, l'ho chiamato assassino. Ma ora i miei sensi sono opachi e confusi.
Perdonami questo lamento, perdonami! So che sei buono e caritatevole nel
tuo intimo, aiuti chiunque ti tenda la mano, anche chi con conosci. Ma la tua
bontà è stravagante, è disponibile di fronte all'uomo che prende a piene mani;
è magnifica e infinitamente grande, la tua bontà, ma essa - scusami - è pigra.
Tu aiuti quando ti chiamano e ti pregano, aiuti per vergogna, per debolezza,
non per gioia. Non preferisci - lasciatelo dire apertamente la persona che
pena e soffre al fratello che gioisce, e si fa fatica a pregare gli uomini come
te, perfino i più generosi. Una volta, ero ancora una bambina, ti ho visto attraverso lo spioncino - dare qualcosa a un mendicante che aveva suonato
alla tua porta: glielo hai dato con un gesto velocissimo - e gli hai dato
addirittura molto, ancor prima che egli ti pregasse - ma glielo hai porto quasi
con paura, con precipitazione, come sperando che se ne andasse alla svelta,
quasi temessi di guardarlo negli occhi. Questo modo di aiutare, inquieto,
timido, pronto a fuggire davanti a un segno di gratitudine, non l'ho mai
dimenticato e perciò non mi sono mai rivolta a te. Certo, so che allora mi
saresti stato vicino anche senza essere sicuro che il bambino fosse tuo figlio.
Mi avresti consolata, dato del danaro, ma sempre con la segreta impazienza
di chi vuole allontanare da sé una scomodità, anzi credo che mi avresti
addirittura persuasa a liberarmi prematuramente del bambino. E io temevo
più di tutto questa evenienza perché: che cosa avrei fatto se tu non lo avessi
desiderato? Come avrei potuto rifiutarti qualcosa? Ma quel bambino era tutto
per me, era tuo figlio. Un'altra volta tu, ma non l'uomo felice, l'uomo
spensierato che non riuscivo a trattenere: mi venivi dato per sempre - almeno
pensavo - nella tua integralità, imprigionato dentro di me, nel mio corpo,
legato alla mia vita. Ti avevo finalmente catturato, potevo sentirti crescere
nelle mie vene, nutrirti, darti da bere, accarezzarti, baciarti ogniqualvolta la
mia anima avvampasse di desiderio. Vedi, amore, per questa ragione,
quando ho saputo di aspettare un figlio tuo, mi è sembrato di toccare il cielo
con un dito e per questo motivo ti ho taciuto la verità: non mi saresti più
sfuggito. «Naturalmente, amore, non sono stati mesi solo beati, come
pregustavo mentalmente all'inizio: sono stati anche mesi di orrore e di
tormento, pieni di disgusto per la bassezza della gente.
Incontrai difficoltà di ogni genere. Al negozio non ci potei più andare negli
ultimi mesi: non volevo che i parenti notassero il mio stato e ne dessero
notizia a casa. A mia madre non volevo chieder soldi e tirai avanti fino al
parto vendendo i pochi gioielli che avevo. Mancava una settimana quando mi
furono rubate da una lavandaia le ultime corone dall'armadio, per cui fui
costretta ad andare a partorire all'ospedale.
Lì è nato il bambino, tuo figlio, nel luogo in cui, allo stremo delle forze, si
trascinano le ragazze senza un quattrino, ripudiate e dimenticate dal mondo,
in mezzo ai rifiuti della miseria. Era micidiale quel posto: tutti ti erano ostili,
noi stesse, le ricoverate, eravamo nemiche, piene di odio verso le compagne,
eppure eravamo finite in quella sala sordida rigurgitante di cloroformio e di
sangue, di urla e lamenti per le stesse pene e per la stessa povertà. In quel
sito ho dovuto patire l'insopportabile, toccare il fondo della miseria con le sue
umiliazioni, l'abbrutimento fisico e morale, conoscere la promiscuità di
sgualdrine, di donne malate che elevavano la comunanza della sorte a
volgarità, sopportare il cinismo dei giovani medici che, con il sorriso ironico di
quelle creature impotenti, sfioravano le lenzuola e le palpavano fingendo di
farlo in nome della scienza e l'avidità delle sorveglianti - oh, in quel luogo il
pudore di un essere umano viene crocifisso con gli sguardi e fustigato con le
parole. Solo la targa con il tuo nome indica che sei tu: nel letto c'è solo un
pezzo di carne, palpato dai curiosi, un oggetto messo in mostra, un oggetto di
studio. Le donne che regalano dei figli al marito, in trepida attesa all'interno
delle loro case, non sanno che cosa voglia dire partorire un bambino da sola,
indifesa, come dire sul tavolo operatorio. E se oggi m'imbatto per caso nella
parola inferno, leggendo un libro, penso immancabilmente, anche contro la
mia volontà, a quella camerata stipata all'inverosimile, piena di esalazioni
maleodoranti, di gemiti, di risate e di grida insanguinate, nella quale ho patito
pene indescrivibili, a quello scannatoio vergognoso.
«Perdonami se te ne parlo. Ma lo faccio solo oggi, poi non lo farò mai più.
Per undici anni ho taciuto e fra poco ammutolirò per l'eternità: una volta ho
dovuto gridare, urlare e dire a che prezzo l'ho pagato, quel figlio che è stato
la mia gioia e che ora è steso di là senza più respirare. Le avevo già
dimenticate, quelle ore, me le avevano fatte dimenticare il sorriso e la voce di
quel bambino, ma adesso che è morto il tormento rivive, e io non posso
trattenerlo dentro di me, lo devo sputar fuori dall'anima adesso, almeno
questa volta. Però non accuso te: accuso semmai solo Dio che ha reso
assurdi quei patimenti. Non ti accuso, te lo giuro, non mi sono mai ribellata a
te in uno sfogo di collera. Persino nell'ora in cui il mio corpo si torse per le
doglie e bruciò di vergogna sotto le occhiate scrutatrici degli studenti, persino
nel secondo in cui il dolore mi strappò l'anima, non ti ho mai accusato e Dio
mi è testimone. Mai mi sono pentita di quelle notti, né mai ho recriminato il
mio amore per te. Ti ho sempre amato, sempre ho benedetto l'ora in cui ti ho
incontrato e lo rifarei, lo rifarei mille volte pur sapendo che dovrei attraversare
di nuovo l'inferno, pur sapendo in anticipo che cosa mi aspetterebbe.»
«Nostro figlio è morto - tu non lo hai mai conosciuto. Mai, neanche in un
casuale incontro fugace, questa piccola creatura fiorente, la tua creatura, ha
sfiorato il tuo sguardo passandoti vicino. Non appena venne al mondo, mi
sono tenuta nascosta e tu non mi vedesti per molto tempo.
La mia nostalgia, del resto, si era fatta meno dolorosa, anzi credo di averti
amato meno appassionatamente e se non altro di non avere sofferto come in
passato per via del mio amore, da quando mi fu donato il bambino. Non ho
voluto dividermi tra te e lui e difatti non mi sono data a te, all'uomo felice che
mi viveva distante, ma mi sono data a questo figlio che aveva bisogno di me,
che dovevo nutrire e che potevo baciare e abbracciare. Sembravo salva dal
frenetico bisogno di te, la mia fatalità, salvata dall'altro piccolo 'tu' che invece
era veramente mio solo raramente, molto raramente, il mio sentimento si
spingeva con umiltà sotto casa tua. Lo facevo una sola volta l'anno: per il tuo
compleanno ti inviavo un fascio di rose bianche, esattamente identiche a
quelle che mi avevi regalato dopo la nostra prima notte di amore. In questi
dieci, undici anni ti sei mai chiesto chi te le mandasse? E ti sei forse ricordato
della ragazza alla quale tanto tempo prima le avevi regalate? Non lo so e non
conoscerò mai la tua risposta. Porgertele semplicemente, come dall'oscurità,
far rifiorire il ricordo di quell'ora d'amore una volta all'anno, mi bastava.
«Tu non lo hai mai conosciuto, il nostro povero bambino, e oggi mi accuso
di avertelo tenuto nascosto. Lo avresti amato. Non lo hai mai conosciuto,
povero ragazzino, non lo hai mai visto sorridere mentre sollevava piano le
palpebre e poi con i suoi intelligenti occhi scuri erano i tuoi occhi! - inondava
me e chiunque, il mondo intero, con un fiotto di luce chiara e gaia. Ah, era
così sereno e caro: la leggerezza della tua natura si era ripetuta, su scala
infantile, e anche la tua fantasia rapida e agile si era rinnovata nel figlio;
poteva giocare per ore appassionatamente con degli oggetti, come tu giocavi
con la vita, e subito dopo si rituffava nella lettura inarcando i sopraccigli. Ti
somigliò sempre di più; anche in lui cominciò a prendere forma visibile quella
duplicità che ti è propria, quella convivenza di serietà e gioco, e quanto più ti
assomigliava tanto più lo amavo. Studiava bene, parlava francese come una
piccola gazza, i suoi quaderni erano i più ordinati della classe e com'era
grazioso ed elegante nel suo vestitino di velluto nero o nella giacca bianca
alla marinara. Era sempre il più elegante dovunque andasse: a Grado, sulla
spiaggia, dove andammo insieme, le donne si fermavano e gli accarezzavano
i lunghi capelli biondi, sul Semmering la gente si voltava per vederlo scendere
sullo slittino. Era così grazioso, così tenero e affettuoso. L'anno scorso,
quando entrò nel convitto del Theresianum, indossò l'uniforme con lo
spadino, tanto che sembrava un paggio del diciottesimo secolo - ora non
indossa altro che la camiciola, il poverino, ed è disteso là, le labbra pallide e
le mani giunte.
«Forse mi vuoi domandare come abbia potuto allevarlo nel lusso, come sia
riuscita a garantirgli questa vita spensierata e serena dei figli dell'alta società.
Caro, ti parlo dal buio e, senza vergogna - te lo voglio dire, ma non
spaventarti - ti confesso che mi sono venduta. Non sono diventata quella che
viene chiamata una ragazza di strada, una prostituta, ma ugualmente mi
sono venduta. Avevo amici facoltosi, amanti ricchi. All'inizio ero io a cercarli,
poi furono loro a cercare me. Ero infatti - non te ne sei mai accorto? - ero
molto bella. Tutti gli uomini a cui mi sono data mi hanno trovata simpatica, mi
hanno serbato riconoscenza, mi si sono affezionati, mi hanno amata - solo tu
no, solo tu no, amore mio!
«Adesso mi disprezzi perché ti ho rivelato che mi sono venduta? No, so
che non mi disprezzi, so che comprendi tutto e comprenderai anche che l'ho
fatto solo per te, per l'altra parte di te, per tuo figlio. Nella camerata
dell'ospedale avevo toccato con mano l'aspetto più orribile della miseria e
quindi sapevo che il povero è sempre il vinto, l'umiliato, la vittima e non
volevo, a nessun costo, che tuo figlio, quel bambino solare e bello, crescesse
là, in basso, assieme alla feccia dell'umanità, nella sordidezza e volgarità dei
vicoli, nell'aria appestata dei cortili interni. La sua bocca delicata non avrebbe
dovuto conoscere la lingua delle fogne, il suo corpo candido la biancheria
umida e stropicciata della miseria. Tuo figlio avrebbe dovuto avere tutto, la
ricchezza, la soavità della Terra, sarebbe dovuto risalire fino a te, nella tua
sfera.
«Per questa ragione, solo per questa ragione, amore, ho venduto il mio
corpo. Non è stato alcun sacrificio perché ciò che comunemente s'intende per
onore e disonore mi era inessenziale: tu non mi amavi - e il mio corpo era
appartenuto soltanto a te - e quindi qualunque cosa gli fosse capitata non mi
importava. Le carezze degli uomini, persino le loro brame più nascoste, mi
lasciavano indifferente nel mio intimo, quand'anche parecchi fossero individui
stimabili e la compassione per il loro amore non corrisposto, ricordando il mio
stesso destino, mi avesse sovente fatto male. Sono stati tutti buoni con me gli
uomini che ho conosciuto, tutti mi hanno stimata. Ne ricordo uno in
particolare, un anziano conte dell'aristocrazia imperiale rimasto vedovo, lo
stesso che, per così dire, si scorticò le mani a furia di bussare alle porte dei
funzionari imperiali per ottenere che il piccolo orfano - tuo figlio fosse
accettato al Theresianum. Mi amava come una figlia e mi chiese di sposarlo
almeno tre o quattro volte; oggi potrei essere contessa, padrona di un
delizioso castello in Tirolo, potrei non avere pensieri perché il bambino
avrebbe avuto un padre affettuoso che lo adorava e io un marito discreto,
distinto e buono al mio fianco. Ho detto di no, non l'ho fatto per quanto egli
avesse insistito e a me rincrescesse umiliarlo con un rifiuto. Probabilmente è
stata una stoltezza - infatti sarei vissuta da qualche parte protetta e calma e
assieme a me il piccino che tanto amavo ma -, e perché non dovrei
confessartelo? - non desideravo alcun legame, volevo essere libera in
qualunque momento. Nel profondo del mio essere, nel subconscio, l'antico
sogno infantile continuava a vivere: la speranza che mi avresti chiamata,
magari solo per un'ora. E per un'ora ipotetica ho gettato al vento tutto,
soltanto per essere libera al tuo richiamo. L'intera mia vita non era stata altro
che un'attesa, l'attesa di un tuo volere.
«Quell'ora è infatti arrivata. Ma tu non sai quale sia stata, non lo immagini
neppure, amore mio! Anche in quell'ora però non mi hai riconosciuta - tu non
mi hai riconosciuta! In precedenza ti avevo incontrato spesso, a teatro, al
concerto, al Prater o per strada; ogni volta sentivo un tuffo al cuore, ma tu
passavi oltre. Esteriormente ero cambiata, la ragazzina timida era diventata
una donna, una bella donna, dicevano, avvolta in abiti costosi, circondata da
uno stuolo di ammiratori: come potevi sospettare che fossi la ragazza timida
che era stata nella penombra della tua camera da letto? A volte un signore in
mia compagnia ti salutava, tu ringraziavi e alzavi gli occhi verso di me: ma il
tuo sguardo esprimeva una cortese freddezza, ancorché di approvazione, ma
non mi riconobbe mai: sempre estraneo, terribilmente estraneo. Una volta me ne ricordo ancora - questo tuo non riconoscermi, al quale, a quel tempo,
ero quasi abituata, mi causò una tortura bruciante. Ero seduta in un palco del
Teatro dell'Opera con un amico e tu in quello accanto. Iniziata l'ouverture, si
spensero le luci e non riuscii più a vedere la tua faccia: sentivo solo il tuo
respiro vicino a me come quella notte. Sulla balaustra di velluto che divideva i
nostri due palchi era aggrappata la tua mano. La tua mano elegante e
delicata. A un tratto mi sopraffece il desiderio di chinarmi e baciare umilmente
quella mano scostante e insieme tanto amata; già in passato avevo sentito la
delicatezza della sua presa. Mi avvolgeva l'onda conturbante della musica e il
mio desiderio si fece via via più irresistibile. Mi dovetti riprendere dallo
spasimo, alzarmi con uno scatto brusco, tanto violentemente le mie labbra
erano attratte dalla tua mano. Al termine del primo atto pregai l'amico di
accompagnarmi a casa. Non sopportavo più di averti accanto a me e così
distante.
«Ma l'ora sopraggiunse, arrivò ancora una volta, un'ultima volta nella mia
vita incenerita. É stato esattamente un anno fa, il giorno successivo al tuo
compleanno. Strano: avevo pensato a te tutto il tempo poiché festeggiavo
sempre il tuo anniversario come se fosse una festa.
Il mattino presto ero uscita e avevo comperato le rose bianche che ti
facevo mandare ogni anno in ricordo di un incontro che tu avevi dimenticato.
Il pomeriggio ero uscita con il bambino, lo avevo portato a Demel in
pasticceria e la sera a teatro. Volevo che anch'egli considerasse quel giorno,
pur non sapendone il significato, quasi come una festività rituale e mistica
della giovinezza. L'indomani mi incontrai con il mio amante di quel tempo, un
industriale di Brno, giovane e ricco, con il quale convivevo già da un anno; mi
adorava, mi viziava e mi voleva sposare come gli altri, ma anche a lui avevo
risposto di no, apparentemente senza alcun motivo, benché ricoprisse me e il
bambino di regali e fosse amabile nella sua bontà leggermente ottusa e
servile. Andammo a sentire un concerto, incontrammo un gruppo di amici
allegri e insieme cenammo in un ristorante sulla Ringstrasse.
A tavola, mentre si rideva e chiacchierava, feci la proposta di trasferirci in
una sala da ballo, in un tabarin. Quel genere di locali con la loro sistematica
allegria, provocata dall'alcol, mi disgustava, come mi ripugnava «far tardi» la
notte. In genere rifiutavo, invece quella sera fu una forza magica,
imperscrutabile a farmi lanciare, tutt'a un tratto e inconsciamente, quella
proposta, suscitando l'allegria e l'eccitazione degli altri - ne ebbi un desiderio
repentino come se nel locale notturno mi stesse aspettando qualcosa di
particolare. Abituati a essere compiacenti verso di me, tutti si alzarono veloci
e passammo di là, bevemmo champagne e all'improvviso mi assalì un'allegria
incontenibile, quasi dolorosa, che peraltro mi era ignota.
Bevvi come una pazza, cantai con gli altri le solite canzonette di cattivo
gusto e poco ci mancò che mi buttassi nel vortice delle danze e facessi
chiasso anch'io. Senonché a un tratto un'inspiegabile sensazione di freddo o
di caldo, che mi paralizzava il cuore, mi scosse: al tavolo vicino eri seduto tu
in compagnia di qualche amico e mi stavi osservando con uno sguardo di
ammirazione mista a desiderio, con quello sguardo che sempre mi ha
sconvolta fisicamente. Per la prima volta da dieci anni mi osservavi di nuovo
con tutto l'inconscio potere passionale del tuo essere. Tremai. Per un
miracolo il bicchiere non mi cadde di mano e fortunatamente gli amici seduti
al tavolo non si accorsero del mio turbamento, che si perdeva nel frastuono
delle risa e della musica.
«Il tuo sguardo si fece sempre più rovente e mi tuffò come in un fuoco.
Mi avevi riconosciuta finalmente? Mi avevi riconosciuta oppure mi
desideravi di nuovo? Ti sembravo un'altra? Il sangue mi imporporò le guance,
risposi distrattamente agli amici seduti al mio stesso tavolo.
Certamente ti accorgesti che il tuo sguardo mi aveva confusa. Con un
movimento del capo, non raccolto dagli altri, mi facesti un cenno come
pregandomi di uscire, nell'ingresso, per un istante. Poi pagasti con
ostentazione, salutasti i tuoi compagni non senza però avermi lanciato un
altro segnale per confermarmi che mi avresti aspettata fuori. Tremai come se
avessi freddo, come se avessi la febbre, assolutamente incapace di
rispondere e di dominare il sangue stanato bruscamente. Per caso, proprio in
quel preciso momento, una coppia di neri, battendo la punta delle scarpe e
lanciando grida, acute, iniziò una nuova danza strana.
Tutti i presenti fissarono i due e io approfittai di quel secondo. Mi alzai, dissi
al mio amico che sarei tornata subito e ti seguii.
«Eri in piedi, nell'ingresso, davanti al guardaroba, aspettandomi: quando
uscii, i tuoi occhi si rischiararono. Mi venisti incontro sorridendo. Vidi subito
che non mi avevi riconosciuta, che non avevi riconosciuto la bambina di un
tempo e nemmeno la ragazza, insomma ero per te una sconosciuta. 'Ha
un'ora anche per me?' mi domandasti in tono confidenziale - e dalla tua
sicurezza ebbi la percezione che mi avevi presa per una di quelle donne, per
una che si vende per una sera. 'Sì', risposi e fu lo stesso sì palpitante e
insieme l'assenso ovvio e naturale che, un decennio prima, la ragazza ti
aveva detto per strada.
'E quando potremmo vederci?' mi chiedesti. 'In qualunque momento vuolÉ,
risposi - non provavo alcun senso di pudore dinanzi a te. Tu mi guardasti un
poco stupito, palesando la medesima sorpresa di allora - un misto di curiosità
e di diffidenza - quando la rapidità della mia risposta affermativa ti aveva
stupito. 'Adesso potrebbe?' mi domandasti con una lieve esitazione. 'Sì',
dissi, 'andiamo!'
«Feci per dirigermi al guardaroba e ritirare il soprabito. «Mi venne in mente
che la contromarca dei nostri due cappotti l'aveva il mio compagno. Tornare
indietro e chiedergliela era impossibile senza una spiegazione circostanziata,
d'altro canto non volevo a nessun costo rinunciare all'ora di intimità sospirata
da anni. Così non ho indugiato neanche un secondo: mi sono buttata lo
scialle sopra l'abito da sera e sono uscita nella notte umida di nebbia senza
curarmi del cappotto, senza preoccuparmi dell'amico, buono e affettuoso, che
mi manteneva da anni e che avevo mortificato agli occhi dei suoi amici
facendolo passare per un ridicolo babbeo al quale scappi l'amante al primo
fischio di un estraneo. Certo, ero perfettamente consapevole della viltà,
dell'ingratitudine, dell'infamia che commettevo nei confronti di un amico
sincero, sentivo di trattarlo in maniera inverosimile e di umiliare mortalmente,
con la mia follia, una persona gentile, sentivo di mandare a pezzi la mia vita ma che cos'era per me l'amicizia, che cosa significava l'esistenza di fronte
alla frenesia di sentire le tue labbra, di udire il suono molle delle tue parole
che si rivolgevano a me? Perché ti ho amato così e te lo posso dire adesso
che tutto è finito. Anzi sono convinta che, se tu ora mi chiamassi, ora, sul letto
di morte, mi tornerebbero le forze, mi alzerei e verrei via con te.
«Un taxi sostava davanti all'uscita. Lo prendemmo per andare a casa tua.
Udii di nuovo la tua voce, sentii la tua tenera vicinanza, ero stordita,
confusa per una felicità puerile, esattamente come allora. Salii le scale, la
prima volta dopo oltre dieci anni - no, non ti posso descrivere come tutto, in
quei secondi, mi sembrasse doppio, duplicato, tempo passato e presente, e
tuttavia in tutto non c'era nessun altro che te. In camera tua poco era
cambiato: qualche quadro in più, parecchi nuovi libri, qua e là un mobile
sconosciuto, ma per il resto tutto mi salutò con familiarità. E sulla scrivania
c'era il vaso con le rose, le mie rose, che ti avevo mandato il giorno prima per
il tuo compleanno perché ti ricordassero una donna che tu non ricordi, non
ricordavi nemmeno in quel momento in cui ti era così vicina, la sua mano
nella tua, le sue labbra a contatto delle tue. Nondimeno: mi fece bene vedere
che ti prendevi cura dei fiori, pur sempre un alito della mia vita, un soffio del
mio amore.
«Mi stringesti fra le braccia e nuovamente rimasi da te tutta la notte, una
notte meravigliosa. Ma neppure dal corpo nudo mi riconoscesti.
Estasiata, lasciai che le tue mani sapienti mi accarezzassero e vidi che in
te l'eros non fa distinzione tra l'amante e la sgualdrina: ti abbandoni
interamente al desiderio con la totalità, sconsiderata e dissipatrice, del tuo
essere. Eri così dolce e lieve verso di me, pure avendomi prelevata da un
locale notturno, eri così signorile e affettuosamente rispettoso e tuttavia
appassionato mentre traevi piacere dalla donna. Di nuovo, inebriata
dall'antica felicità, percepii la singolare duplicità del tuo essere - la passione
conscia, spirituale, sincronica a quella sensuale - che aveva reso succube
anche la bambina.
Mai nell'intimità con un uomo ho conosciuto questa dedizione all'attimo,
una simile esplosione e irraggiamento della natura più profonda (certamente
per spegnersi subito nell'oblio infinito e quasi disumano).
Ma anch'io dimenticai me stessa: chi c'era nel buio vicino a te? Ero la
bambina innamorata di un tempo? La madre di tuo figlio? La sconosciuta?
Ah, tutto era così familiare, come rivissuto e nel contempo così inebriante e
nuovo in quella notte di passione! Pregai che non avesse mai fine.
«Invece il mattino sopraggiunse. Ci alzammo tardi. Mi invitasti a restare per
la colazione. Bevemmo insieme il tè, che una servizievole mano invisibile
aveva preparato con discrezione in sala da pranzo, e conversammo. Di
nuovo mi parlasti con quella affettuosa, aperta confidenza tipica della tua
natura, di nuovo senza pormi domande indiscrete, senza mostrare curiosità
alla persona che in effetti ero.
Non mi chiedesti come mi chiamavo, dove abitavo, dunque ero per te
un'altra volta un'avventura, un oggetto anonimo, un incontro passionale che
si dissolve nella nebbia dell'oblio. Mi raccontasti di essere in partenza per un
lungo viaggio, due o tre mesi in Nordafrica. All'apice della felicità tremai,
poiché sentii come un martellio nelle orecchie: finito, passato, dimenticato! In
quel momento mi sarei voluta buttare ai tuoi piedi e gridare: 'Portami con te in
modo che tu mi riconosca finalmente, finalmente dopo tanti anni!' Ma io ero
così timida, così codarda, così succube e debole al tuo cospetto che dissi
solamente: 'Peccato'. Tu mi guardasti sorridendo: 'Davvero ti dispiace?'
«Mi sopraffece un subitaneo furore incontenibile. Mi alzai, ti fissai a lungo,
lo sguardo fermo, quindi dissi: 'Anche l'uomo che amo è sempre in viaggio. Ti
guardai fisso nelle pupille: adesso, adesso mi riconoscerà!
Tremai e tanti pensieri si affollarono nella mia mente. Invece tu mi
sorridesti e in tono consolatorio aggiungesti: 'Ma poi si ritorna. 'Sì', ribattei, 'si
torna ma si dimentica anche.'
«Nel modo in cui avevo detto quelle parole deve esserci stato qualcosa di
strano, di passionale perché anche tu ti alzasti e mi guardasti visibilmente
sorpreso e molto affettuoso. Mi prendesti per le spalle: 'Non si dimentica il
bene. Non ti dimenticherò', dicesti, e il tuo sguardo si sprofondò dentro di me,
come se volessi imprimerti quell'immagine. E mentre mi sentivo penetrare da
quello sguardo che frugava, saggiava, suggeva il mio essere, credetti di
avere finalmente spezzato il potere magico della cecità. Mi riconoscerà, mi
riconoscerà!
La mia anima tremò a quel pensiero.
«Ma tu non mi riconoscesti. No, non mi riconoscesti, anzi non ti sono stata
mai così estranea come in quel secondo, perché altrimenti altrimenti non
avresti mai potuto fare ciò che invece hai fatto pochi minuti più tardi. Mi avevi
baciata, un'altra volta appassionatamente, sicché fui costretta a sistemarmi i
capelli che si erano scompigliati.
Ero davanti allo specchio quando, per l'appunto nello specchio, ti vidi - e
credetti di sprofondare dalla vergogna e dal disgusto - quando ti vidi infilare
discretamente nel mio manicotto alcune banconote di grosso taglio. Come sia
riuscita a non lanciare un urlo, a non picchiarti in piena faccia non lo so.
Dunque per quella notte mi pagavi, pagavi la donna che ti amava fin dalla
fanciullezza, la madre di tuo figlio! Una puttana da tabarin ero dunque per te,
nient'altro, e mi avevi pagata!
Non bastava essere dimenticata: mi dovevi anche umiliare.
«Raccattai alla svelta le mie cose: volevo andarmene il più in fretta
possibile. La ferita mi faceva troppo male. Afferrai il cappello. Era sulla
scrivania vicino al vaso con le rose bianche, le mie rose. Lo stesso desiderio
mi sopraffece prepotente, irresistibile: ancora una volta pensai di tentare di
richiamare la mia immagine alla tua memoria.
'Non vorresti darmi una delle tue rose bianche?' 'Volentieri', dicesti, e la
prendesti subito. 'Ma forse ti sono state date da una donna, da una donna
che ti ama?' dissi. 'ForsÉ, rispondesti. 'Non lo so. Mi sono state mandate e
non so da chi. Per questo mi piacciono tanto.' Ti guardai. 'Forse sono di una
donna che hai dimenticato!'
«Mi lanciasti un'occhiata stupita. Io ti fissai. 'Riconoscimi, riconoscimi una
buona volta!' urlò il mio sguardo. Ma i tuoi occhi mi sorrisero: un sorriso
amichevole, ignaro. Mi baciasti, ma non mi riconoscesti.
«Raggiunsi la porta velocemente poiché sentivo che mi spuntavano le
lacrime agli occhi e non volevo che mi vedessi piangere. In anticamera tanto
in fretta ero uscita - ci mancò poco che mi scontrassi con Johann, il tuo
maggiordomo. L'uomo, ormai un vecchio, mi scansò timidamente con un
precipitoso balzo laterale, spalancò la porta per lasciarmi uscire e proprio
nell'istante in cui lo guardai - lo guardai con gli occhi pieni di lacrime - una
luce improvvisa guizzò nel suo sguardo. In quel secondo - mi senti? - in
quella frazione di secondo, il vecchio, che non mi vedeva dai giorni della mia
infanzia, mi ha riconosciuta. Avrei potuto inginocchiarmi ai suoi piedi perché
mi aveva riconosciuta e baciargli le mani, invece mi limitai a sfilare dal
manicotto, con un gesto brusco, le banconote con cui mi avevi frustata e
gliele misi in tasca. L'uomo tremò, alzò gli occhi spaventato e forse in
quell'attimo aveva capito di me più di quanto tu avessi capito in una vita.
Tutti, tutte le persone mi hanno viziata, tutti sono stati gentili con me - solo tu,
soltanto tu mi hai dimenticata, solo tu, soltanto tu non mi hai mai
riconosciuta.»
«Il mio bambino è morto, nostro figlio - adesso non ho più nessuno al
mondo da amare tranne te. Ma tu chi sei per me se non mi riconosci mai, se
mi passi vicino come si passa vicino a un corso d'acqua, mi calci come
quando si incespica in un sasso, continui a camminare, a camminare e mi
lasci aspettare eternamente? In passato ho supposto di riuscire a trattenere il
fuggitivo: nel bambino. Ma anche il bambino era tuo figlio: nel breve spazio di
una notte se n'è andato in un modo crudele, anche lui è partito per un
viaggio, mi ha dimenticata e non tornerà più.
Sono nuovamente sola, più sola di prima: non ho nulla, nulla di te, non ho
più un bambino, una parola, un rigo, un ricordo, e se qualcuno pronunciasse
il mio nome al tuo cospetto, tu cadresti dalle nuvole. E perché non dovrei
essere contenta di morire se sono già morta? Perché non andare avanti dal
momento che te ne sei andato? No, amore, non ti rinfaccio niente, non voglio
rovesciare il mio cordoglio nella tua casa serena. Non temere che ti
infastidisca, anzi perdonami, ma ho dovuto dar sfogo alla mia anima in
quest'ora, mentre il mio bambino è di là disteso, morto e derelitto. Ho dovuto
parlarti oggi, poi me ne tornerò nel buio senza parlare, muta come sono
sempre stata. Non udirai questo mio urlo fintantoché vivrò. Solo quando sarò
morta, riceverai codesto testamento, il testamento di una donna che ti ha
amato più di chiunque altro, che tu non hai riconosciuta, che ti ha atteso e
che tu non hai chiamato. Forse, forse allora mi chiamerai, e io non ti sarò
fedele, per la prima volta, non ti sentirò più dalla morte. Non ti lascio né
ritratti, né altri segni come tu non li hai lasciati a me. Non saprai mai chi sono.
Questo è stato il mio destino in vita, che lo sia anche nella morte! Non ti
chiamerò a partecipare alla mia ultima ora, me ne vado senza che tu conosca
il mio nome e la mia faccia. Non mi costa morire perché tu, da lontano, non te
ne accorgerai. Se ti facessi soffrire morendo, non lo farei.
«Non ce la faccio più a scrivere... ho la testa stordita... credo che sia
meglio che mi sdrai subito. Forse finirà alla svelta, forse il destino sarà
benevolo con me, e io non dovrò vedere quando porteranno via il bambino.
Non riesco più a scrivere. Addio, amore, addio, ti ringrazio... É stato bello,
nonostante tutto... voglio ringraziarti fino all'ultimo respiro. Sono contenta: ti
ho detto tutto, adesso sai, no, intuisci semplicemente quanto ti abbia amato e
questo amore non ti sarà di alcun peso. Non ti mancherò - ciò mi consola.
Niente cambierà nella tua vita così bella e luminosa... non ti nuoccio con la
mia morte... questo mi consola, amore.
«Ma chi... adesso chi ti manderà le rose bianche il giorno del tuo
anniversario? Il vaso sarà vuoto, anche il breve respiro, il breve alito della mia
vita, che una volta all'anno spirava intorno a te, anch'esso svanirà! Amore,
ascoltami, è la mia prima e ultima preghiera che ti rivolgo... fallo per me: il
giorno del tuo compleanno - è un giorno in cui si pensa a se stessi: prendi
delle rose e mettile nel vaso. Fallo, amore, fa' questo come altri fanno dire
una messa per una persona cara defunta. Io non credo più in Dio e non
voglio messe, credo solo in te, amo solo te e voglio continuare a vivere in te...
solo un giorno all'anno, silenziosa, molto silenziosa, come lo sono stata
accanto a te.
Ti prego, fallo, amore... è la mia prima preghiera e l'ultima...
Grazie... ti amo, ti amo... addio.»
Egli pose la lettera lasciandola cadere dalle mani tremanti. Poi rifletté a
lungo. Un ricordo di una bambina del vicinato, di una ragazza, di una donna
nel locale notturno affiorò confusamente, un ricordo, tuttavia, indistinto e
sfocato come un sasso che scintilla e tremola informe sul fondo di un'acqua
corrente. Fluirono verso la forma anonima alcune ombre, ma l'immagine non
si ricompose. Egli percepì dei ricordi emotivi, ma non si ricordò. Ebbe la
sensazione di avere sognato tante figure, di averle sognate spesso e
intensamente, ma di averle solo sognate.
Il suo sguardo, allora, cadde sul vaso azzurro davanti a sé sulla scrivania.
Era vuoto per la prima volta da anni il giorno del suo compleanno. Rabbrividì:
gli parve che all'improvviso una porta si fosse invisibilmente spalancata e una
corrente d'aria fredda spirasse da un altro mondo. Avvertì la percezione della
morte, la sensazione di un amore immortale: qualcosa, dentro di sé, nella sua
anima, si schiuse ed egli pensò alla donna invisibile, incorporea e
appassionata, come a una musica lontana.
4 - Primavera al Prater
Novella
Si precipitò in casa come un turbine.
«Il mio vestito è già arrivato?»
«No, signorina», rispose la cameriera, «e non credo che arrivi più oggi.»
«Naturale, la conosco quella pigrona», esclamò con una voce in cui vibrava
un singhiozzo soffocato. «Sono le dodici e all'una e mezzo sarei dovuta
scendere giù al Prater, per il derby. Per colpa di quella stupida non ci posso
andare! Ci mancava solo il bel tempo!»
Visibilmente contrariata, si buttò come una furia sullo stretto sofà persiano
strabordante di coperte e di frange in un angolo del boudoir, un ambiente
arredato in maniera fantasiosa ma assolutamente priva di gusto. Il suo corpo
tremava dalla rabbia di non potere andare alle corse dei cavalli e non farsi
vedere in un'occasione mondana alla quale una famosa bella donna come lei
non poteva mancare. Calde lacrime le scivolarono tra le dita inanellate.
Rimase nella stessa posizione per un paio di minuti, quindi eresse
leggermente il busto per arrivare con la mano al piccolo tavolino inglese dove
sapeva che c'erano i suoi cioccolatini. Con un gesto meccanico se li infilò in
bocca, uno dopo l'altro, lasciandoli squagliare lentamente. E la grande
stanchezza, la notte insonne, la fresca penombra della stanza e il grande
rammarico fecero sì che pian piano si addormentasse.
Per un'ora circa dormì quel particolare sonno leggero, senza sogni, in cui il
dormiente serba una parziale coscienza della realtà. Era molto graziosa
anche se gli occhi, che costituivano la sua più forte attrattiva per la loro gaia
irrequietezza, erano chiusi. Solo le sopracciglia, sottolineate da un sottile
tratto di matita, le assicuravano un aspetto mondano, mentre per il resto la si
sarebbe presa per una fanciulla addormentata, tanto i suoi lineamenti erano
fini e regolari, ai quali il sonno aveva tolto il dolore di essere stata privata di
una gioia.
Verso l'una si svegliò un po' stupita di avere dormito e a mano a mano si
ricordò di quanto era accaduto. Suonò con vigore, ripetendo il gesto
nervosamente, finché ricomparve la cameriera.
«E arrivato il mio vestito?»
«No, signorina!»
«Quella miserabile! Sa che mi occorreva. Adesso non c'è più niente da
fare: senza il vestito nuovo non posso andare al derby.»
E, eccitata, si alzò di scatto, percorse lo stretto boudoir varie volte avanti e
indietro, dopodiché sporse la testa dalla finestra per vedere se fosse arrivata
la carrozza.
Naturalmente era arrivata. Tutto sarebbe filato liscio se soltanto quella
maledetta sarta si fosse presentata. Così era obbligata a restarsene a casa e,
con il passare dei minuti, si fissò nell'idea di essere mortalmente infelice
come nessun'altra donna al mondo.
Senonché traeva quasi piacere dall'essere triste, intravedeva
inconsciamente un fascino nel suo macerarsi e, in questo slancio di
autopunizione, dette ordine alla ragazza di mandar via la carrozza; l'ordine fu
accolto con gioia smodata dal vetturino perché poteva fare affari d'oro il
giorno del derby.
Ma la ragazza non aveva neanche fatto a tempo a vedere l'elegante
calessino lanciarsi al trotto che già si era pentita di avere impartito
quell'ordine; e lo avrebbe richiamato volentieri personalmente dalla finestra
se non si fosse sentita imbarazzata. Abitava infatti nel quartiere più distinto di
Vienna, per l'appunto al Graben.
Così era bell'e che spacciata: consegnata come un soldato a cui sia
interdetto di lasciare la caserma per punizione.
Girellò imbronciata, non tollerando l'idea di restare rinchiusa nello stretto
boudoir stipato all'inverosimile - e senza alcun criterio e stile - di oggetti
impensabili, di ciarpame di dubbia qualità e di opere d'arte raffinate. E poi
quell'odore, un miscuglio di una ventina di essenze diverse, e quell'aroma di
sigarette che impregnava qualunque cosa. Per la prima volta tutto le apparve
ripugnante; persino i volumi gialli dei romanzi di Prévost avevano perso il loro
fascino, quel giorno infatti pensava sempre e solo al Prater, al suo Prater, alla
distesa erbosa con i suoi mille piaceri dove si svolgevano le corse dei cavalli.
E tutto solo perché non aveva una toilette elegante!
C'era da piangere. Indifferente a ogni pensiero, si abbandonò nella
poltrona e desiderò di addormentarsi nuovamente, tanto per ammazzare il
pomeriggio. Ma niente da fare: le sue palpebre si alzavano di scatto
desiderando la luce.
Allora andò alla finestra e guardò di sotto il marciapiede del Graben che,
scaldato dal sole, era un unico sfarfallio, e osservò le persone che vi
camminavano frettolose. Ma il cielo era così azzurro, l'atmosfera così tiepida,
che la sua nostalgia di aria libera si fece sempre più irresistibile e impellente,
raccogliendo altre voci acute. Tutt'a un tratto le venne l'idea di andarsene da
sola giù al Prater, non volendo rinunciare almeno al passeggio ora che non
poteva partecipare alle corse. Per questo non aveva bisogno di una toilette
signorile, anzi era meglio un vestito semplice, essendo preferibile non farsi
riconoscere.
Il progetto si trasformò rapidamente in una decisione.
Aprì l'armadio per scegliersi l'abito. Colori sgargianti, luminosi, sfacciati,
urlanti la fissarono restituendole l'immagine del loro tripudio cromatico, al
tocco della mano un fruscio di seta quando si accinse a scegliere. Ma la
scelta le costò una vera fatica, trattandosi quasi esclusivamente di toilette che
si prefiggevano di richiamare su di sé l'attenzione _ ed era per l'appunto
quello che quel giorno lei voleva evitare. Finalmente, dopo una ricerca
piuttosto lunga, un sorriso infantile e gaio le illuminò la faccia: proprio
nell'angolo aveva scovato, impolverato e stazzonato, un vestito semplice,
quasi modesto; ma non fu solo il reperto a farla sorridere, bensì il passato
che questo souvenir richiamava in vita. Pensò al giorno in cui era scappata
dalla casa paterna con l'amante indossando esattamente quel vestitino,
pensò all'infinita felicità che aveva conosciuto, quindi riandò con la memoria
al tempo in cui lo aveva sostituito con ricche toilette, essendo diventata
l'amante di un conte, poi di un altro e infine di parecchi uomini...
Non si capacitò di possederlo ancora, ma ne fu contenta e, quando,
cambiatasi, si guardò nel pesante specchio veneziano, non riuscì a trattenere
il riso: com'era costumata, un'ingenua borghesuccia, simile alla Gretchen
goethiana...
Dopo altro rovistare trovò anche il cappello che faceva pendant con l'abito,
lanciò un'occhiata divertita nello specchio, nel quale una giovane signorina
borghese, agghindata a festa, le ricambiò il sorriso, quindi se ne andò.
Con un sorriso sulle labbra uscì in strada.
A tutta prima ebbe l'impressione che chiunque si accorgesse che non era
quella che faceva mostra di essere, ma le sparute persone, che nel caldo di
mezzogiorno le sfrecciavano ai lati, perlopiù non avevano tempo di guardarla.
Sicché via via si adattò alla nuova situazione e, assorta, scese lungo la
Rotenturmstrasse.
Tutto era immerso nella luce solare, brillante e fluorescente.
L'atmosfera domenicale si era trasferita dalle persone, vestite a festa e
allegre, agli animali e alle cose: tutto lampeggiava, riluceva, gioiva e le
inviava un saluto al suo passaggio. La giovane donna fissò l'andirivieni
colorato che, in effetti, non aveva mai notato - come un melangolo, si disse
mentre, distratta da tanto guardare e osservare, stava per essere travolta da
un veicolo.
Allora prestò un po' più di attenzione ma, imboccando la strada del Prater,
l'antica baldanza zampillò di nuovo fresca dentro di lei. In un'elegante
carrozza, che avanzava a pochissima distanza, aveva scorto infatti uno dei
suoi ammiratori, anzi era così vicino che avrebbe potuto tirargli addirittura le
orecchie; e le sarebbe davvero piaciuto. L'uomo però non l'aveva vista,
essendo elegantemente sprofondato sul sedile posteriore con aria indolente.
La giovane donna scoppiò allora in una risata così forte, che il giovane
signore si volse e, se lei non avesse premuto il fazzoletto sulla faccia con un
gesto precipitoso, forse non sarebbe riuscita a sfuggirgli.
Proseguì con la medesima allegria e in breve venne a trovarsi al centro di
una gran ressa: perché di domenica la gente si reca a frotte in processione al
santuario nazionale viennese, raggiunge i viali del Prater che sono posti
come travi bianche in un'unica distesa erbosa in mezzo ai prati rivieraschi
ricchi di boschi e privi di sentieri. La sua baldanza, inavvertitamente, si
spense nell'allegria della folla. La letizia domenicale, combinata a un istintivo
entusiasmo, faceva dimenticare a chiunque i sei giorni feriali polverosi e
gravosi che circondano la domenica.
Si lasciò portare dalla folla come un'onda isolata nel mare, senza progetti e
traguardi e tuttavia spumeggiante, rovesciandosi nell'esultanza collettiva,
robusta e consapevole.
Quasi si rallegrò che la sarta si fosse dimenticata del suo vestito: si sentiva
infatti così beata, così libera.
Nella sua vita lo era stata solo nell'infanzia quando aveva conosciuto il
Prater per la prima volta.
E tutti i ricordi e le immagini ritornarono, ma circonfusi di quella loro
gaiezza, come orlati da una cimasa d'oro lucente. Pensò di nuovo al primo
amore, ma non con il triste dispetto con cui si pensa a qualcosa che si sfiori
di malavoglia, piuttosto vi scorse un destino che si vorrebbe rivivere una
seconda volta: era l'amore che si dona e non si vende...
Assorta nei sogni, continuò a camminare, e il vociare della gente le parve il
sordo mugghiare delle onde, di cui non poteva percepire i singoli suoni. Era
sola con i propri pensieri, più di quanto riuscisse a essere quando se ne stava
inattiva nella sua camera, sdraiata sullo stretto divano persiano soffiando
anelli di fumo di sigaretta nell'aria calma e stagnante...
All'improvviso alzò lo sguardo.
Di prim' acchito non seppe perché. Aveva semplicemente avvertito
un'oscura sensazione, la quale stese improvvisamente un velo sui suoi
pensieri, un velo inestricabile. Ora, guardando meglio, scorse due occhi fissi
su di lei. Il suo istinto femminile, per quanto al primo momento non li avesse
notati, aveva tuttavia interpretato giustamente quegli sguardi che avevano
interrotto i suoi sogni.
Quegli sguardi provenivano da una coppia di occhi scuri alloggiati in un
viso giovanile che riusciva simpatico per la sua espressione infantile, rimasta
integra malgrado la folta barbetta. Dalla foggia dell'abito lo si sarebbe detto
uno studente; anche la coccarda, fissata nell'occhiello del bavero,
confermava tale supposizione. Il cappello che, messo leggermente di
traverso, ombreggiava i lineamenti morbidi e regolari, conferiva alla sua testa
quasi comune un qualcosa che lo faceva assomigliare a un poeta e lo
circondava di un alone di idealità.
Il suo primo moto fu di stringere sprezzantemente le sopracciglia e di
stornare lo sguardo con arroganza. Che cosa voleva da lei quell'individuo
banale? Non era una ragazza di periferia: era...
La giovane si bloccò e lo stesso sorriso spavaldo di poc'anzi le illuminò gli
occhi. Si era sentita ridiventare temporaneamente la donna di mondo,
dimenticando di essersi mascherata da ragazza borghese. Fu però contenta
che il travestimento fosse riuscito bene.
Il giovane, invece, interpretando il suo sorriso come un incoraggiamento, le
andò appresso, fissandola insistentemente; intanto si sforzò invano di
conferire ai propri tratti somatici un'espressione virile e vincente che, però,
veniva immediatamente vanificata dalla titubanza e dall'indecisione. Erano
per l'appunto questi i connotati di cui lei sentiva la mancanza perché la
discrezione e la riservatezza da parte degli uomini erano lati che ignorava.
L'infantile spontaneità, non ancora sbiadita nel giovane uomo, le offriva un
aspetto sconosciuto, una sensazione nuova, ineffabile, tanto era naturale.
Era per lei uno spettacolo divertente, umoristico osservare come lo studente
predisponesse le labbra per parlarle e, ogni volta, nel momento decisivo le
richiudesse, sopraffatto dalla paura e da un'ansietà pudica. Sicché dovette
mordersi le proprie per non ridergli in faccia.
Tra le qualità apprezzabili del giovane contava la perspicacia: difatti non gli
sfuggì il tremito eloquente agli angoli sensibili della bocca della donna di
fronte a lui, e questo accrebbe il suo coraggio.
Insospettatamente uscì nella domanda gentile: «Non posso
accompagnarla?» senza peraltro addurre alcun motivo per la ragione
semplicissima che, per quanto avesse riflettuto, non ne aveva trovati di validi.
Nonostante la prolissità dell'approccio, nel momento critico della domanda
anche lei si era stupita. Doveva accettare l'offerta? E perché no? L'essenziale
era di non pensare a come la storia sarebbe finita ancor prima che
cominciasse. Giacché ne indossava il costume, volle anche impersonarne il
ruolo, e desiderò andare a spasso nel Prater, come ogni ragazza borghese,
in compagnia del suo corteggiatore. Magari era anche divertente.
Decise insomma di accettare la proposta e gli rispose: «La ringrazio, ma
non si scomodi ad accompagnarmi perché perderebbe troppo tempo». La
risposta affermativa, in questo caso, era implicita nella proposizione causale.
Anch'egli lo capì subito e le si mise al fianco.
Di lì a poco prese avvio la conversazione.
Era un giovane studente spensierato, sfuggito da non troppi anni al liceo
dal quale si era portato nella vita un bel po' di baldanza.
Complessivamente non era granché esperto, certo aveva amato
moltissimo come qualunque adolescente, ma di «avventure», delle avventure
tanto desiderate dalla maggior parte dei giovani, ne aveva avute molto poche,
per non dire nessuna, facendogli difetto quella sfacciataggine aggressiva che
è la condizione necessaria per esperienze di questo genere. L'amore, nel suo
caso, si era fermato ai sospiri, che di solito si ammirano con prudenza a
distanza e si perdono in poesie e in sogni.
La ragazza, viceversa, si meravigliò di essere diventata all'improvviso una
chiacchierona e di interessarsi a cose prima impensabili per lei tra l'altro si
stupì di essere passata all'improvviso al dialetto viennese che non aveva più
parlato fors' anche da cinque anni; non solo parlava ma addirittura pensava in
dialetto. Ed ebbe la sensazione che i cinque anni di vita elegante e sfrenata
fossero spariti senza lasciare alcuna traccia, insomma sprofondati nell'oblio
come se fosse tornata a essere la fanciullina di periferia, gracile e assetata di
vita, che amava il Prater e il suo incanto.
Senza che se ne fosse accorta, si erano pian piano allontanati dal sentiero,
erano sfuggiti alla fiumana rumoreggiante dei visitatori, finendo sui lontani
prati rivieraschi del Prater dove era sbocciata la primavera.
Erano ormai d'un bel verde intenso i castagni centenari che si levavano
come giganti allargando le loro grosse braccia. E si udiva un sussurrio, come
tra gli innamorati, quando lasciavano fremere l'uno contro l'altro i rami
sovraccarichi di fiori, cosicché i fiocchi bianchi di petali sottili si spandevano,
come neve, sull'erba verde cupo nella quale i fiori colorati avevano tessuto
stravaganti ricami. Un greve profumo dolciastro sgorgava dalla terra e si
disperdeva a ondate molli, aderendo ai corpi, in maniera così forte e sicura
che non si percepiva più l'inconfondibile consapevolezza del godimento, ma
si aveva soltanto la vaga sensazione di un gusto dolce, amabile, soporifero.
Come uno zaffiro, il cielo si inarcava sopra gli alberi: azzurro, lucente e puro.
Il sole diffondeva la sua generosa colata d'oro sulla propria creazione
stupenda, immortale e indimenticabile: la primavera al Prater.
La primavera al Prater!
La parola era formalmente sospesa nell'aria. Tutti avvertivano il profondo
incanto che li avvolgeva, ma anche dentro ciascuno era insorta la sensazione
della germogliazione di ricchi fiori. A braccetto, le coppiette di innamorati
avanzavano sui prati sconfinati, irraggiando felicità, mentre nei bambini,
ancora ignari di questa gioia, si era risvegliata una pulsione incontenibile che
li costringeva a saltare, a ballare e a esultare, disperdendo nel vento e nel
bosco le loro voci gaie.
Come un'aureola, la primavera del Prater incoronava la moltitudine di
individui felici e finalmente liberati dal lavoro.
I due non si erano accorti che l'incantesimo era prossimo a irretire
lentamente anche le loro anime, ma a mano a mano nella loro inclinazione
allo scherzo ilare si era insinuata una intimità affettuosa, un ospite inatteso
ma ben accetto. Avevano stretto amicizia. Il giovane era estasiato dalla
bellezza, dalla vivacità e dall'allegria della ragazza e lei, nella sua sovrana
spavalderia, sembrava una principessa travestita che si stesse innamorando
del bel ragazzo. La commedia con il giovane, inscenata casualmente, aveva
assunto toni più seri: indossando l'abito di un tempo, provava nostalgia della
felicità e della beatitudine del primo amore...
Era come se volesse rivivere quell'emozione adesso per la prima volta,
quella scherzosa ammirazione, quel desiderio nascosto e quella gioia
semplice e muta.
Piano egli aveva spinto il proprio braccio sotto il suo senza che lei si
schermisse, anzi la ragazza sentì il suo respiro caldo nei capelli, le mille cose
che le raccontava, della sua giovinezza, delle sue avventure.
Venne a sapere che si chiamava Hans e che studiava all'università. Un po'
scherzosamente, un po' seriamente il ragazzo le fece una dichiarazione
d'amore e alle sue parole lei tremò dalla gioia e dalla contentezza. Ne aveva
già udite almeno un centinaio, forse espresse magari con frasi più belle, ne
aveva esaudite molte, ma nessuna le aveva fatto avvampare le guance di un
rosso così brillante come le parole di quella lingua semplice, fervida,
affettuosa che suonava come un sussurro alle sue orecchie e vibrava appena
di eccitazione interiore. Quelle parole, pronunciate con voce emozionata,
avevano il suono di un dolce sogno che si aneli di veder realizzato e il loro
fremito passò nel corpo della giovane donna, lo percorse finché la fece
rabbrividire dalla beatitudine. Poi, come inebriata, sentì la pressione del suo
braccio contro il proprio farsi sempre più forte per una tenerezza forsennata,
ebbra.
Ormai avevano raggiunto i prati periferici dove arrivava soltanto l'eco del
rumore delle carrozze, poco più di un fievole ronzio in sottofondo.
Erano praticamente soli. Qua e là, nel verde uniforme, brillavano dei vestiti
estivi chiari, farfalle bianche che proseguivano per la loro strada, e soltanto di
rado giungeva fino a loro il suono di una voce umana. Ogni cosa sembrava
sprofondata in un sonno profondo, come stanca di sole...
Solo la voce dell'uomo non si stancò di sussurrare mille tenerezze, una più
affettuosa e bizzarra dell'altra. Lei ascoltava come prima di addormentarsi si
ascolta un brano musicale in lontananza senza percepire le singole note, ma
solo il ritmo e la melodia.
Non si difese nemmeno quando il giovane studente trasse a sé la sua testa
tenendola fra le mani e la baciò: un lungo bacio affettuoso nel quale
echeggiavano infinite parole d'amore segrete. Quel bacio dissipò ogni altro
ricordo, le sembrò il primo bacio della sua esistenza. E il gioco che ella
voleva giocare con il giovane uomo traboccava di vita e di sensibilità. Si era
radicato dentro di lei un profondo affetto che le faceva dimenticare il passato,
come l'attore che, nei momenti in cui la sua arte raggiunge i livelli più alti, si
sente un re o un eroe e dimentica il mestiere.
Le sembrò di rivivere il primo amore, per un miracolo...
Per qualche ora avevano vagabondato senza meta a braccetto, persi nel
dolce inebriamento dell'amore. Il cielo si era tinto di rosso fuoco nel quale le
cime degli alberi s'infilavano come mani nere. I contorni e i profili si
sbiadirono e divennero sempre più incerti nella luce crepuscolare, mentre la
brezza della sera frusciava tra le foglie.
Hans e Lise - di solito lei preferiva farsi chiamare Lizzie, ma il nome
dell'infanzia le apparve improvvisamente caro e familiare; infatti fu quello che
disse all'uomo - erano tornati indietro e si stavano dirigendo al Volksprater, al
Wurstlprater, la zona dei divertimenti che in lontananza si faceva
preannunciare da zaffate di odori.
Una fiumana variopinta fluiva a ridosso dei baracconi illuminati a vivaci
colori: soldati con le fidanzate, giovani, bambini che non si saziavano di
vedere tante meraviglie. Insieme un caos spaventevole di suoni: bande
militari e altri suonatori che cercavano di sopraffarsi, organetti, imbonitori che
decantavano i loro tesori con la voce roca, spari dei fucili del tirassegno e
voci infantili di ogni tonalità. Tutto il popolo si era radunato qui con i suoi
rappresentanti più tipici e con i suoi desideri che i padroni delle baracche e
delle osterie esaudivano facendo del loro meglio. Una massa compatta in cui
dalla molteplicità nasce l'unità.
Per Lise questa zona del Prater era il paese dell'infanzia riscoperto o,
meglio, ritrovato. Conosceva ormai solo il viale principale con l'orgogliosa
sfilata delle carrozze, l'eleganza e la nobiltà, ma ora trovava deliziosa
qualunque cosa proprio come un bambino che, condotto in un negozio di
giocattoli, desideri e tocchi ogni balocco. Era tornata a essere spavalda e
allegra; l'atmosfera sognante, quasi lirica, si era dissipata. Come due fanciulli
sbrigliati ridevano e si scatenavano nel grande mare di gente.
Si fermavano davanti a ogni baraccone e si sollazzavano alle grida
monotone, ciarlatanesche dei proprietari dei chioschi che vantavano la
«donna cannone» o «il più piccolo uomo del continente», uomini serpente,
indovine, prodigi della natura e mostri marini con le espressioni più gustose.
Salirono sulla giostra, si fecero predire il futuro, non persero nessuna
occasione di divertirsi ed erano così lieti e felici, che la gente si voltava per
seguirli con gli occhi tant'era meravigliata.
Dopo un po' di tempo Hans trovò che anche lo stomaco aveva i suoi diritti.
Lise fu d'accordo ed entrarono in una trattoria fuori mano, distante dalla
baraonda. Nel locale il frastuono giungeva attutito: un ronzio intermittente,
sempre più fioco e debole. Si sedettero l'uno vicino all'altra tenendosi
abbracciati. Il giovane le raccontò centinaia di storielle spassose e in
ciascuna sapeva infilare abilmente qualche complimento e tener desta
l'allegria della ragazza. Le trovò nomignoli gustosi che la facevano ridere a
crepapelle, si esibiva in bambinate che la esaltavano. E anche lei, che
altrimenti serbava un autocontrollo distinto e compassato, si era sfrenata.
Episodi dell'infanzia, dimenticati da tempo, le tornarono in mente, figure
scomparse dalla sua memoria riaffiorarono in superficie e riacquistarono
consistenza in maniera umoristica. Era come ammaliata, diversa,
ringiovanita.
Chiacchierarono a lungo.
Da tempo la notte era giunta con i suoi veli scuri, ma non aveva portato via
l'afa della sera. L'aria opprimente esercitava un potere magico e in
lontananza si vedevano lampi di caldo che interrompevano il silenzio ormai
totale. A mano a mano le lampade si spensero e la gente si sparpagliò in
varie direzioni. Ognuno se ne tornava a casa. Anche Hans si alzò. «Vieni,
Lise, andiamo!»
Lei lo seguì e, sempre abbracciati, i due giovani uscirono dal Prater che
continuò a fissarli enigmatico dall'oscurità. Come vividi occhi di tigre, gli ultimi
lampioncini colorati lampeggiavano tra gli alberi che stormivano appena.
Percorsero il viale del Prater rischiarato dalla luna. Era ormai quasi
tranquillo, non c'era più molta gente. Ogni passo risuonava sul selciato e dai
lampioni, che inviavano con indifferenza la loro luce modesta, le ombre
sgusciavan via con una fretta timorosa.
Non si erano detti dove pensavano di andare, ma Hans prese il comando
come per tacito accordo. Lei intuì che la meta era casa sua ma non volle
parlare.
Camminarono quasi in silenzio. Superarono il ponte sul Danubio e, passato
il Ring, proseguirono in direzione dell'ottavo distretto, il quartiere viennese
degli studenti, rasentando l'imponente edificio di pietra fosforescente
dell'università, quindi il municipio e si addentrarono nei vicoli più angusti e
miseri. E all'improvviso Hans cominciò a parlarle. Le disse parole piene di
fuoco e di calore, e le annunciò il suo desiderio, il suo giovanile desiderio di
amore, con le tinte più ardenti che solamente l'attimo dell'esplosione
dell'appetito carnale suggerisce. Nelle sue parole si era depositato
l'incontenibile struggimento di ogni giovane esistenza che cerca la felicità e il
godimento, la meta più ricca dell'amore. E le sue parole fluivano come un
torrente di desiderio, erano fiamme avide che salivano guizzando; la virilità si
era potenziata raggiungendo l'apice. Supplicò il suo amore come un
mendicante...
Sotto il fiotto delle sue parole il corpo di Lise vibrò. Dal suo orecchio il
beato scroscio di parole e di canti sfrenati straripava. Non comprese il suo
discorso, ma lo stesso assillo montò dentro di lei e si protese incontro al suo.
Offrendogli un regalo fiabesco prezioso e impareggiabile, gli promise quello
che a cento altri aveva elargito come la carità a un questuante.
Egli si fermò davanti a una vecchia casa stretta e suonò mentre nei suoi
occhi ardeva la fiamma della beatitudine.
Dopo poco la porta si aprì.
Prima percorsero un passaggio angusto, freddo e umido, poi molti, molti
scalini consunti che salivano a spirale. Ma lei non si accorse di nulla.
Lui l'aveva infatti sollevata sulle sue braccia robuste come se fosse la
pallina di un volano, e il tremito impaziente delle sue mani l'aveva contagiata
mentre saliva sempre più in alto, quasi trasognata.
Il giovane si arrestò in cima alla scala e aprì una piccola stanzetta.
Era un locale angusto e scuro dove solo a fatica si distinguevano gli oggetti
perché i raggi luminosi della luna si disperdevano rifratti da una tendina
bianca lisa, che copriva la finestrella dell'abbaino.
La lasciò scivolare adagio finché lei appoggiò i piedi per terra, ma solo per
abbracciarla ancor più impetuosamente. Il calore dei baci le colò nelle vene e
il suo corpo fu percorso da un tremito a contatto con quello dell'uomo; mentre
le sue parole si spensero in un sussurro nostalgico...
L'ambiente è buio e angusto. Ma una felicità infinita allarga le sue ali in una
calma silenziosa e appagata. Nel buio totale filtra la luce solare dell'amore...
É ancora l'alba, forse sono solo le sei.
Lizzie è appena entrata in casa, nel suo elegante boudoir. Il suo primo
gesto è spalancare le due finestre per inspirare l'aria fresca del mattino.
L'odore dolciastro e stantio di profumo che le rammenta la sua vita attuale la
disgusta. Prima l'aveva accettata come era - cieca e fatalistica - con
indifferenza e senza darsi pensiero, ma l'esperienza del giorno innanzi,
intrufolatasi nella sua quotidianità come un sogno giovanile limpido e gaio, ha
improvvisamente destato in lei il bisogno di amore.
Si avvede di non potere tornare indietro. Fra poco si sarebbe presentato
uno dei suoi spasimanti, quindi un altro. Rabbrividisce al pensiero e teme il
giorno che a poco a poco si fa più chiaro e nitido.
Ma a mano a mano comincia a riflettere e a pensare al giorno precedente,
calato, come un raggio di sole sperdutosi, nella sua vita così buia e fosca, e
dimentica ciò che sarebbe accaduto. Sulle sue labbra gioca il sorriso di una
fanciulla che il mattino si risveglia felice da un sogno stupendo.
5 - Due anime sole
Come un ampio fiume scuro, la massa frettolosa degli operai si accalcò per
varcare il cancello della fabbrica. Fuori, sulla strada, la folla ristagnò per un
attimo: vennero scambiati saluti e fugaci strette di mano, dopodiché i singoli
reparti si avviarono in direzione dei rispettivi luoghi di residenza per
sbriciolarsi, cammin facendo, in parti ancor più minute. Solo sulla larga strada
maestra, che portava in città, procedettero tutti insieme, una fitta matassa
colorata dalle voci gaie e squillanti che morivano in un unico rumore sordo.
Le limpide risate delle ragazze si staccavano come note alte e nitide e
vagavano nel silenzio della sera simili a campane d'argento.
Piuttosto distante, alle spalle del gruppo compatto, un operaio avanzava
tutto solo. Non era vecchio e nient' affatto cagionevole di salute:
semplicemente non riusciva a tenere il passo degli altri perché era
claudicante e il piede non gli consentiva un'andatura sostenuta. Da lontano
echeggiava ancora un allegro vociare. L'uomo lo ascoltò senza provare la
serenità dei compagni ma avvertendo un senso di dolore. La menomazione lo
aveva abituato da tempo a starsene solo e, nella solitudine, era divenuto un
filosofo taciturno che guardava alla vita con l'indifferenza di chi si è assuefatto
alle rinunce.
Procedeva zoppicando lentamente. Dai campi scuri in lontananza giungeva
il profumo sazio e caldo della prossima maturazione delle messi senza che la
fredda nebbia serale riuscisse a soffocarlo. L'eco delle risate si era spenta. Di
tanto in tanto un grillo solitario strideva, altrimenti c'era ovunque silenzio, quel
silenzio triste nel quale i pensieri soffocati cominciano a parlare.
Tutt'a un tratto egli tese l'orecchio. Ebbe la sensazione di udire dei
singhiozzi. Scrutò il silenzio. Non c'erano rumori come nel sonno senza
sogni. Ma l'istante successivo udì nuovamente gli stessi gemiti ancor più forti
e dolorosi e nella luce incerta del crespuscolo scorse una figura sul ciglio
della strada. Era seduta su un mucchio di rotaie accatastate. Piangeva. Di
prim' acchito decise di passar oltre senza badarle ma, quando le fu arrivato
vicino, riconobbe la ragazza che piangeva a dirotto.
Era un'operaia della stessa fabbrica dove lavorava lui. La conosceva
avendola vista sul posto di lavoro. Tutti conoscevano «Jula la racchia».
Era la sua bruttezza, peraltro vistosa, ad averle fruttato il soprannome che
portava fin dalla prima infanzia. Aveva una faccia grossolana e irregolare, per
giunta di un colore giallastro sporco, disgustoso. E non era tutto: si
aggiungeva la disarmonia della figura: il busto magro e infantile era sostenuto
da due fianchi larghi e un po' storti. Belli erano soltanto gli occhi calmi e
lucenti che rispecchiavano gli sguardi di disprezzo e di disgusto con mitezza
e rassegnazione.
L'uomo aveva patito in cuor suo troppi dolori perché potesse andare oltre
senza provare compassione. E difatti le si avvicinò e le pose la mano sulla
spalla come per acquietarla.
La ragazza sobbalzò quasi che fosse stata svegliata bruscamente da un
sogno: «Non toccarmi!»
Non sapeva a chi parlava; aveva persino urlato, tanto esacerbato era il suo
dolore. Ora invece, riconoscendo l'uomo, si calmò. Lo aveva notato anche in
fabbrica poiché era uno dei pochi che non l'avessero mai schernita. Continuò
a sussurrare, come sulla difensiva: «Lasciami! Ce la faccio da sola!»
L'uomo non disse nulla ma si sedette al suo fianco. Allora la ragazza
ricominciò a piangere più forte, anzi più spasmodicamente di prima, sinché lui
le disse in tono consolatorio: «Non far così, Jula! Piangendo non si migliora la
situazione». Jula tacque e l'uomo le domandò cauto: «Che cos'altro ti hanno
fatto?»
La domanda la fece tornare in sé. Il sangue le imporporò le guance e le
uscì di bocca un torrente di parole tanto si arrabbiava: «Al termine del lavoro,
mentre stavamo per tornarcene a casa, loro hanno cominciato a parlare di
domani, che è domenica, dicendo che se ne volevano andare in campagna,
in qualche villaggio. Uno ha fatto la proposta e tutti erano d'accordo. E
quando si fa la conta dei partecipanti, sono così scema che dico: ci sto
anch'io. Naturalmente tutti scoppiano a ridere e ricominciano a lanciarmi le
solite cattiverie e a canzonarmi. Allora non so davvero che cosa mi sia
successo - ho perso la pazienza e ho detto loro in faccia che erano degli
svergognati. E così mi hanno... mi hanno picchiata...»
Scoppiò di nuovo in un pianto dirotto. L'uomo era commosso nel profondo
del suo cuore e sentì il bisogno di dire qualche parola alla povera creatura.
Per rincuorarla, iniziò a raccontarle i propri patimenti.
«Guarda, Jula, non bisogna prendersela in casi del genere. Domani te ne
vai da sola in campagna. Ci sono altre persone che la domenica non ce la
fanno, non riescono a fare un solo passo fuori di casa perché i piedi li
reggono a malapena dalla fabbrica in città. Non hanno una vita facile neppure
questi poveretti che sono obbligati a saltellare in eterno e per giunta da soli
perché chiunque altro si annoia a camminare con loro. Non puoi prendertela
a male solo a causa di qualche stupido, Jula!»
Lei gli rispose concitatamente, non volendo affatto lasciare che il proprio
dolore si assottigliasse e rinunciare al vittimismo, alla soddisfazione dei
martiri, che ogni sofferente prova. «Non sono loro che mi umiliano. É tutto il
resto, la vita. A volte, pensando a me stessa, mi vien quasi la nausea. Perché
sono così brutta? Non ne ho colpa, eppure mi porto addosso questa infamia
da tutta la vita. Fin da piccola ho sentito che mi deridevano. Per questa
ragione non ho mai voluto giocare con gli altri: perché li temevo e li
invidiavo!»
L'uomo ascoltò tremando la ragazza che gli rivelava le sue pene. Egli le
capiva. Difatti la sofferenza immagazzinata in mille e mille ore di angoscia,
che credeva già sepolta, si ridestava. Da tempo aveva dimenticato come
consolare gli altri. Le raccontò la propria sorte, quasi involontariamente,
avendo per caso trovato chi la comprendeva. A bassa voce cominciò: «C'era
una volta un bambino che voleva giocare con i suoi coetanei, ma non poté.
Ogni volta che quelli si scatenavano e correvano, lui li inseguiva zoppicando
e arrivava sempre troppo tardi.
Anzi era incapace di difendersi e goffo, cosicché i compagni lo
canzonavano. Forse a lui è andata ancor peggio che a te. Tu hai le gambe
buone e il mondo intiero ti appartiene».
La sua commozione, invece, crebbe a dismisura. Sentì il dolore della
propria esistenza scaturire da profondità insondabili.
«No, a nessuno può essere andata peggio che a me. Non ho mai
conosciuto una madre, nessuno mi ha mai detto una buona parola. Mentre
ogni ragazza va a passeggio con l'innamorato, io sono sola. E intanto sento
che sarà sempre così, inevitabilmente, anche se si è sensibili come chiunque
altro. Dio mio, se solo sapessi perché è così!»
Ciò che non avevano mai detto a nessuno, non appena lo ammisero a se
stessi, i due, per quanto si conoscessero solo di vista, se lo confessarono.
Ogni grido della loro anima trovò un'eco, poiché erano apparentati dalla
sofferenza. L'uomo raccontò alla donna di non avere mai avuto
un'innamorata perché non era mai riuscito a parlare con una ragazza per via
del piede claudicante e perché nessuna voleva camminare al suo fianco
facendo attenzione alla strada. Dunque, le disse, era destinato a dare in
pasto il suo salario settimanale alle sudicie sgualdrine? Ogni giorno si sentiva
più triste e stanco.
Un rumore di passi interruppe le loro confessioni dolorose. Alcune persone
li superarono, ma le loro ombre, essendo poco nitide, non erano facilmente
riconoscibili. Quando i passanti si allontanarono, l'uomo disse alla donna con
voce schietta, come pregandola: «Vieni!»
Lei andò con lui. Si era fatto molto buio. Egli non poté più vedere il viso
della ragazza e la ragazza, mite e persa nella sua pena, non si rese conto di
uniformare la propria andatura alla sua. Camminarono a fianco a fianco
lentamente. Un cieco senso di comprensione era disceso sulle due anime
sole, come una benedizione, colmandole di felicità. Le loro voci erano
diventate sempre più affettuose e fievoli ed essi dovettero camminare
vicinissimi per potersi capire.
E a un tratto lei si accorse, provando una confusa sensazione di felicità,
che con una tenerezza soave la mano dell'uomo si posava sul suo fianco
largo e malformato toccandolo piano piano...
6 - Resistenza della realtà
«Finalmente!» Con le braccia protese, quasi larghe, le andò incontro.
«Finalmente», ripeté, e la sua voce salì la scala tonale sempre più alta,
dalla sorpresa alla felicità, mentre uno sguardo affettuoso abbracciava la
figura amata: «Ho temuto che non venissi!»
«Veramente fai così poco affidamento su di me?» Ma soltanto il suo labbro
giocò sorridendo con il lieve rimprovero: dalle pupille, che una luce chiara
illuminava, si irradiava un'azzurra fiducia.
«No, non che avessi dubitato - c'è qualcosa di più attendibile della tua
parola a questo mondo? - Ma pensa, sono stato uno sciocco! Questo
pomeriggio all'improvviso, davvero inaspettatamente, non so nemmeno
perché, mi ha afferrato uno spasimo di paura assurda, ho temuto che
sarebbe potuto capitarti qualcosa. Ero sul punto di telegrafarti, volevo venire
da te e, ora, a mano a mano che il tempo passava e non ti vedevo ho sentito
come una lacerazione dentro di me all'idea che potessimo non incontrarci
un'altra volta. Ma, grazie a Dio, ora sei qui.»
«Sì, sono qui», sorrise; di nuovo le sue pupille di un azzurro cupo si
illuminarono. «Ora sono qui e sono pronta. Andiamo?»
«Sì, andiamo!» ripeterono inconsciamente le sue labbra. Ma il corpo inerte
non mosse un passo; lo sguardo affettuoso continuava ad avvolgere la realtà
incredibile della sua presenza. Sopra le loro teste, a destra e a sinistra, i
binari della stazione centrale di Francoforte vibravano riproducendo il suono
del ferro e del vetro scossi; i fischi tagliavano il chiasso dell'atrio invaso dal
fumo; su venti tabelloni l'orario imponeva dispoticamente ore e minuti; mentre
lui non vedeva che lei al centro della folla che ruotava sbattuta da un frullino:
era come uscito dal tempo e dallo spazio in uno stato strano di trance, di
stordimento emozionale. Sicché lei dovette esortarlo: «Non c'è più tempo,
Ludwig, e non abbiamo ancora i biglietti». Solo allora il suo sguardo
prigioniero si liberò, e le prese il braccio con un'aria che esprimeva affettuosa
venerazione.
L'espresso della sera per Heidelberg era insolitamente molto affollato.
Delusi - perché avevano sperato di poter star soli grazie al biglietto di prima
classe - dopo una ricerca inutile si risolsero per uno scompartimento dove
c'era un solo signore anziano semiaddormentato in un angolo. Pregustando
la gioia, pensarono agli ormai prossimi discorsi confidenziali, quando, poco
prima del fischio di partenza, tre signori con grosse cartelle in mano
entrarono ansimando nello scompartimento: evidentemente degli avvocati
ancora eccitati dal processo appena conclusosi; la loro discussione infatti si
protrasse come uno scroscio, demolendo la possibilità di qualunque
conversazione. Così i due se ne stettero seduti l'uno di fronte all'altra
rassegnati, senza neppure tentare di dire una parola. Solo ogniqualvolta uno
di loro alzava gli occhi, scorgeva, avvolto da una nube scura solcata
dall'ombra incerta della lampadina, lo sguardo tenero dell'altro rivolto verso di
sé con amore.
Il treno si mise in movimento con un morbido sobbalzo. Lo sferragliare
delle ruote attutì e frantumò la conversazione degli avvocati riducendola a
puro e semplice rumore. Ma poi gli urti e gli scossoni si trasformarono
gradualmente in un dondolio ritmico: una culla d'acciaio ondeggiante in uno
spazio onirico. Mentre sotto i loro piedi le ruote ronzanti procedevano
invisibilmente in avanti, i pensieri di entrambi, ciascuno con contenuti diversi,
fluttuavano a ritroso verso il passato, persi nei sogni.
Si erano conosciuti oltre nove anni prima e, quasi subito separati da una
distanza incolmabile, avvertivano questo primo riavvicinamento muto con una
forza quadruplicata. Sant'Iddio, come sono lunghi, estesi, nove anni!
Quattromila giorni, quattromila notti fino a quel giorno e a quella notte!
Quanto tempo, quanto tempo perduto, eppure in quell'istante ogni pensiero
ritornava all'inizio dell'inizio. Ma com'era stato? Egli se ne ricordava con
precisione: a ventitré anni era entrato per la prima volta in casa di lei, il labbro
già nitidamente intagliato sotto la blanda lanugine della barba incipiente.
Sfuggito precocemente a un'infanzia umiliata dalla povertà, cresciuto alle
mense gratuite, campando come pedagogo o come ripetitore, esacerbato
prematuramente dalle rinunce e dagli stenti, di giorno sudando i centesimi per
i libri, nottetempo seguendo gli studi con i nervi stanchi e tesi fino allo
spasimo, si era laureato in chimica riuscendo a essere il primo del corso e,
raccomandato dal suo professore, era arrivato al famoso consigliere segreto
G., il quale dirigeva la grande fabbrica nelle adiacenze di Francoforte sul
Meno. Lì, inizialmente, gli assegnarono incombenze subalterne in laboratorio,
ma dopo breve tempo, accortosi della serietà e della tenacia del giovane, il
quale si incaponiva nel lavoro con la forza immagazzinata di un arrivismo
fanatico, il consigliere segreto prese a interessarsi a lui.
A titolo di prova gli affidò lavori di sempre maggiore responsabilità e il
giovane, scorgendovi la via per sfuggire alle opprimenti volte degli scantinati
della miseria, colse avidamente l'opportunità. Quanto più lo si caricava di
lavoro, con tanto maggiore energia la sua volontà si rianimava, sicché in un
breve arco di tempo da aiutante ordinario fu nominato assistente di
esperimenti delicati, insomma divenne il «giovane amico», come il consigliere
segreto amava chiamarlo benevolmente. Infatti, senza che egli lo sapesse,
un occhio vigile lo osservava, per incarico superiore, da dietro la porta
imbottita dell'ufficio del capo e, mentre il giovane presumeva di svolgere il
suo lavoro quotidiano - e lo faceva con il solito accanimento -, il superiore
quasi sempre invisibile ne preordinava il futuro.
Costretto in casa da una dolorosa sciatalgia, anzi spesso obbligato a letto,
da anni l'uomo ormai in su negli anni si guardava in giro per trovare un
segretario personale che fosse assolutamente affidabile e intellettualmente
abbastanza dotato, con il quale discutere i brevetti segretissimi e gli
esperimenti portati avanti nella necessaria segretezza, e alla fine gli sembrò
di averlo trovato.
Difatti, un giorno il consigliere segreto fece all'assistente strabiliato
l'insospettabile proposta di disdire la camera ammobiliata in periferia e di
alloggiare, tanto per essergli più vicino, nella loro spaziosa villa. Il giovane si
stupì di fronte a un'offerta quanto meno insospettabile, ma più di lui si stupì il
consigliere segreto allorché l'assistente, scaduto il termine di un giorno
concessogli per riflettere, rifiutò la proposta lusinghevole, mascherando
abbastanza maldestramente il suo brutale «No», sotto un cumulo di pretesti
traballanti. Eminente come studioso, il consigliere segreto era viceversa
troppo inesperto nelle faccende spirituali per scoprire la vera ragione di quel
diniego; e fors' anche il giovane caparbio non confessò fino in fondo
nemmeno a se stesso i propri sentimenti. I quali altro non erano che un
orgoglio tenuto spasmodicamente nascosto, il pudore offeso di un'infanzia
trascorsa nella povertà più amara.
Cresciuto nelle case dei ricchi, spesso di parvenu insensibili che non si
curavano di offendere il precettore dei figli, dunque un essere anfibio tra il
cameriere e il coinquilino, per questo, e non solo per questo, ornamento
come le magnolie sul tavolo che si mettono o si tolgono a seconda
dell'occorrenza, aveva l'anima stracolma di livore verso chi stava in vetta alla
gerarchia sociale e la rispettiva sfera, odiava i mobili pesanti e massicci, le
stanze ridondanti di oggetti, i pranzi smodatamente abbondanti, per
intenderci le esibizioni di ricchezza nelle quali era semplicemente tollerato. In
quelle case aveva avuto ogni esperienza pensabile: aveva conosciuto le
offese di ragazzi sfrontati, la compassione ancor più offensiva delle padrone
di casa che, alla fine del mese, gli infilavano in tasca qualche banconota, gli
sguardi ironici e beffardi delle serve, sempre crudeli con gli altri dipendenti di
rango superiore, vedendolo entrare nella nuova famiglia con in mano il rozzo
baule di legno, tant'è che ogni volta doveva chiedere in prestito una scatola
per l'unico vestito, per la biancheria rammendata con il filo grigio: gli
inconfondibili segni della sua innegabile povertà. No, mai più, aveva giurato a
se stesso, in casa d'altri, mai più tornare a contatto con la ricchezza altrui,
finché non fosse stata sua, mai più lasciarsi spiare nella propria indigenza e
ferire da regali offerti in maniera ignobile, Mai più, mai più. Adesso
naturalmente, il titolo di dottore, un mantello andante ma impenetrabile,
copriva - almeno esteriormente - la modestia della sua posizione e in ufficio il
rendimento celava la ferita purulenta della sua giovinezza oltraggiata e
infettata dalla povertà e dall'elemosina.
No, a nessuna cifra era disposto a vendere la manciata di libertà che si era
conquistata, l'impenetrabilità della sua vita. E perciò respinse l'invito
rispettabile anche a rischio di mettere a repentaglio la carriera con una
motivazione evasiva.
Senonché di lì a poco una serie di imprevisti non gli lasciò più libertà di
scelta: la salute del consigliere segreto peggiorò a tal punto che per un
periodo piuttosto lungo il superiore fu obbligato a letto senza neanche potere
raggiungere il telefono per comunicare con l'ufficio.
L'assunzione di un segretario particolare era ormai una necessità
inderogabile, e il giovane assistente non poté non assecondare le ripetute
profferte del suo protettore, a meno che non volesse perdere anche il posto di
lavoro. Il trasferimento fu un calvario: si rammentava ancora esattamente il
giorno in cui aveva suonato per la prima volta il campanello di quella elegante
villa in antico stile francone, sulla strada maestra, la Bockenheimer
Candstrasse. La sera prima, con gli scarsi risparmi - la vecchia madre e due
sorelle vivevano del suo misero stipendio in una sperduta cittadina di
provincia - si era comperato in fretta e furia della biancheria pulita, un vestito
nero passabile e delle scarpe nuove, per non svelare troppo smaccatamente
le proprie ristrettezze, e almeno stavolta, un domestico, affittato per
l'occasione, lo precedette con l'orribile baule di legno, contenente i suoi averi,
che gli riusciva odioso per i tanti ricordi legati a quel bagaglio. Nondimeno il
disagio gli montò in gola come una pappa quando gli aperse, rispettando le
formalità, un cameriere in guanti bianchi e persino l'atrio gli sbatté in faccia
l'esalazione densa e sazia della ricchezza. Tappeti che inghiottivano
mollemente il passo, erano in attesa e, già tutt'intorno al vestibolo, erano
appesi arazzi che pretendevano uno sguardo ufficiale; le porte, adorne di
intagli, avevano pesanti maniglie di bronzo, visibilmente destinate a non
essere aperte dalla mano dell'ospite, ma a venire spalancate dal cameriere
servile con la gobba: tutto pesò immediatamente sul suo rancore indispettito
trasmettendogli ripugnanza e stordimento.
E quando il domestico lo condusse nella camera degli ospiti a tre finestre,
che gli era stata assegnata come alloggio fisso, prevalse nel suo intimo la
chiara sensazione di essere importuno e un intruso: proprio lui che fino al
giorno prima alloggiava ancora nella stanzetta esposta alle correnti al quarto
piano sul retro dell'edificio, dormiva in un letto di legno e si lavava nella
catinella di latta, avrebbe dovuto sentirsi a suo agio in quel locale dove ogni
utensile ostentava ricchezza, coscienza del proprio valore venale e irrideva a
chi, come lui, veniva semplicemente tollerato. Ciò che aveva portato con sé,
dunque se stesso con addosso il vestito, si raggrinzì miseramente in quella
camera ampia e luminosa. La sua giacca penzolava buffamente come un
impiccato nell'armadio capiente e ingombrante, i suoi pochi capi di biancheria
e soprattutto il rasoio consumato sembravano rifiuti o attrezzi da lavoro
dimenticati da un capomastro sulla toilette spaziosa rivestita di marmo.
Con un gesto irriflessivo, nascose il tozzo baule rigido sotto un tendaggio
invidiandolo perché era riuscito a rintanarsi e a mimetizzarsi, mentre egli se
ne stava in piedi nella stanza chiusa a chiave come uno scassinatore colto in
flagrante. Invano tentò di dar fiato a quella sua sensazione di nullità carica di
stizza e di vergogna assicurando a se stesso di essere stato pregato e
richiesto. Nondimeno la paciosità degli oggetti intorno a lui schiacciò ogni
argomentazione: egli si sentì ridiventare insignificante, mortificato e vinto dal
peso del mondo del denaro supponente e vanaglorioso: un cameriere, un
servo, un leccapiatti, un mobile umano, comperato e affittabile, derubato della
propria identità. Ma in quel momento il domestico, sfiorando l'uscio con una
lieve pressione della nocca, la faccia impassibile e il busto rigido, gli annunciò
che la signora pregava il signor dottore di raggiungerla nelle sue stanze.
Mentre percorreva esitante la fuga delle sale, il giovane si sentì, per la prima
volta dopo anni, come rinsecchito: le sue spalle sporgevano in avanti, pronte
all'inchino servile, e dopo anni l'insicurezza e la confusione dell'adolescenza
ripresero vigore.
Ma, appena le andò vicino, lo spasimo interiore si rilassò e, ancora prima
che il suo sguardo, rialzandosi dall'inchino, si fermasse sul volto e sulla figura
della signora, che intanto gli aveva rivolto la parola, aveva già subito il fascino
irresistibile della sua voce. Erano parole di ringraziamento, pronunciate con
tale schiettezza e naturalezza che la nube di malumore si dissipò, sfiorando
contiguamente la sfera emotiva aperta all'ascolto. «La ringrazio infinitamente,
dottore», e gli porse cordialmente la mano, «di avere dato seguito all'invito di
mio marito e mi auguro che mi sia consentito di dimostrarle presto quanto le
sono riconoscente. Non le deve essere stato facile: non si rinuncia volentieri
alla propria libertà, ma forse la può tranquillizzare la consapevolezza di avere
legato a sé due persone con l'obbligo di riconoscenza. Dal canto mio posso
solo procurare - e lo farò di buon grado - di farle sentire come sua questa
casa.» Una parte di lui stava ascoltando attentamente. Come aveva fatto a
sapere della libertà venduta malvolentieri? Come mai, subito dopo la prima
parola, aveva toccato ciò che era stato ferito e scorticato dentro di lui, il
ganglio più sensibile della sua natura, fino a giungere al punto pulsante per la
paura di perdere la libertà e non essere altri che l'individuo sopportato,
affittato, pagato? Come mai era riuscita, al primo gesto della mano, a
spazzare via questo suo timore? Involontariamente egli alzò gli occhi,
percependo solo allora uno sguardo caldo e partecipe che aspettava il suo
con fiducia.
Quel volto emanava qualcosa che sicuramente era soavità, una serena
autocoscienza tranquillizzante; la schiettezza si irradiava dalla fronte pura,
giovanilmente lucida che, prematuramente, aveva adottato la seria foggia
della capigliatura della matrona - la massa scura dei capelli, prima raccolta,
scendeva in un'arcata di onde profonde - mentre, a partire dal collo, un abito
della stessa tinta avvolgeva le spalle piene. Grazie all'accostamento
cromatico, quel viso sembrava brillare di luce propria ormai placata.
Somigliava a una Madonna borghese con qualcosa della suora, suggerito
forse dal vestito accollato; era per l'appunto la benevolenza a dare a ogni
gesto un'aura di maternità. Poi si avvicinò di un passo con un movimento
molle. Sulle labbra esitanti del giovane il sorriso spense il ringraziamento.
«Un'unica preghiera, la più urgente. So che, quando non ci si conosce da
molto, la convivenza è sempre un problema. In casi del genere è di aiuto una
cosa sola: la sincerità. Perciò, se in qualche occasione lei dovesse sentirsi
oppresso, intralciato da un qualsivoglia atteggiamento o chissà mai da
un'iniziativa, la prego di dirmelo liberamente. Lei è l'aiutante di mio marito e io
sono la moglie. Questo duplice dovere ci lega, sicché cerchiamo di essere
sinceri.»
Egli le prese la mano: il patto era stretto; e dal primo momento si sentì
legato a quella casa. Il lusso dell'arredo non lo disponeva più all'ostilità, al
contrario lo interpretò come la cornice necessaria alla distinzione che qui
mitigava ciò che esteriormente aggrediva, proprio perché ostile, caotico e
contraddittorio, elevandolo ad armonia. A poco a poco scoperse un senso
artistico pressoché squisito che aveva subordinato la preziosità a un ordine
superiore e si rese conto di come inavvertitamente quel ritmo smorzato di vita
stesse penetrando anche nella propria esistenza, anzi nelle sue stesse
parole. Si sentì stranamente tranquillizzato: tutti i sentimenti spigolosi,
veementi e passionali perdettero la loro cattiveria e irritabilità, quasi che i
soffici tappeti, le pareti rivestite di stoffe, la tende colorate succhiassero
segretamente la luce e il frastuono del vicolo. Nel medesimo tempo avvertiva
che quell'ordine sospeso nell'aria non nasceva da sé, senza un contenuto,
ma derivava dalla presenza di quella donna taciturna, come avvolta entro il
proprio sorriso buono. Della magia, percepita intuitivamente nei primi minuti,
prese via via beneficamente coscienza nelle settimane e nei mesi seguenti:
con un tatto discreto la donna lo introdusse a poco a poco nel cerchio più
vitale e intimo della casa, senza tuttavia costringerlo.
Protetto ma non sorvegliato, egli si avvide di un'attenzione empatica che da
lontano si interessava a lui: i suoi piccoli desideri venivano soddisfatti non
appena egli vi facesse accenno, in un modo discreto come per opera degli
gnomi dei boschi, rendendo impossibile qualunque ringraziamento. Se per
caso una sera, sfogliando una cartella di preziose litografie, ne aveva
ammirata una in particolare, il pugno di Rembrandt per esempio, due giorni
dopo trovava la riproduzione già incorniciata sopra la scrivania. E se aveva
menzionato un libro, che un amico aveva elogiato, nei giorni successivi lo
trovava in biblioteca. Inconsciamente la stanza si uniformò ai suoi desideri e
alle sue abitudini: spesso, al primo sguardo, il giovane non si accorgeva delle
singole modificazioni, ma si rendeva conto che era diventata più confortevole,
più colorata e più calda. In seguito, scoprì che la coperta dell'ottomana
assomigliava a quella che aveva ammirata in una vetrina oppure che la luce
della lampada filtrava attraverso uno schermo di seta color lampone. Era
l'atmosfera ad affascinarlo sempre di più: ormai usciva malvolentieri da quella
casa dove strinse una calorosa amicizia con un ragazzino di dodici anni e
amava accompagnare il figlio e la madre a teatro o a un concerto. Senza
saperlo, prediligeva ormai trascorrere le ore libere dopo il lavoro nella mite
luce lunare della sua tranquilla presenza.
Aveva amato quella donna fin dal primo incontro, ma per quanto questo
sentimento lo travolgesse persino nei sogni, gli mancava nondimeno la
chiarezza definitiva, capace di un effetto sconvolgente, ovverosia la nozione
consapevole di ciò che era ormai realtà: il trasporto che, trovando un pretesto
davanti a se stesso, egli continuava a nascondere sotto varie denominazioni ammirazione, venerazione o devozione - era già amore, un amore fanatico,
una passione sfrenata e totale. Ma un certo servilismo superstite gli restituiva
più vaga la percezione: perché gli appariva lontana, troppo in alto, troppo
distante - quella donna radiosa, illuminata da una luce stellare, corazzata
dalla ricchezza - rispetto a ogni sua precedente esperienza della femminilità.
Gli sarebbe sembrato blasfemo, ai suoi stessi occhi, ritenere anche lei
subordinata al sesso e all'identica legge a cui avevano ubbidito le poche
donne che la sua gioventù asservita gli aveva permesso: le serve alla
masseria che avevano aperto la porta al maestro, curiose di vedere se mai
uno che aveva studiato ne sapesse di più del cocchiere e dello stalliere,
oppure le ricamatrici incontrate, rincasando, nella penombra dei lampioni.
Quella donna irradiava la luce della sfera dell'intangibilità: era pura,
intoccabile e nessuno poteva desiderarla; del resto neppure il più passionale
dei suoi sogni ebbe l'ardire di denudarla. Ancora confuso come l'adolescente,
il giovane era ammaliato dal profumo della sua presenza, godendo ogni gesto
quasi fosse stata una musica, felice della sua fiducia e incessantemente
terrorizzato di lasciar trapelare qualcosa del sentimento traboccante che lo
eccitava: un sentimento tuttora senza nome, eppure già formato e ardente
ancorché mascherato.
Ma l'amore è verace solo nell'attimo in cui si palesa, qualora non ondeggi
più, allo stato embrionale e oscuro, all'interno del corpo, ma osi trovare un
nome per sé con il respiro e con il labbro e rivelarsi.
Per quanto codesto sentimento si rinchiuda ostinatamente dentro la
crisalide, arriva pur sempre l'istante nel quale esso fora repentinamente
l'intricato tessuto del bozzolo e, cadendo da altezze infinite sul fondale più
basso, precipita con doppia violenza nel cuore intimorito.
Questo accadde, abbastanza tardi, nel secondo anno della coabitazione.
Una domenica il consigliere segreto aveva chiamato l'assistente in camera
sua. Il fatto stesso che, dopo un fugace saluto, chiudesse la porta imbottita
alle loro spalle, contravvenendo alle consuetudini, e ordinasse nel ricevitore
del telefono domestico che si evitasse di disturbarlo, indicava
significativamente che si trattava di una comunicazione particolare. Il vecchio
signore gli offrì un sigaro, lo accese con meticolosità, come per guadagnare
tempo per una conversazione evidentemente già pensata nei dettagli. Prese
l'avvio da un circostanziato ringraziamento per i servigi prestati. «Da ogni
punto di vista lei ha superato se stesso e la mia fiducia. Mai mi sono pentito
di averle affidato, pur essendole legato da così breve tempo, anche questioni
molto personali. Ieri, deve sapere, è giunta alla nostra azienda d'oltremare
l'importante notizia che non esito a comunicarle: il nuovo esperimento
chimico, di cui lei è a conoscenza, richiede grandi quantità di certi minerali e
proprio ora un telegramma mi ha avvertito che abbondanti presenze per
l'appunto di codesti minerali sono state rilevate in Messico. L'importante, a
questo punto, è la rapidità con cui li si fanno avere all'azienda; perciò occorre
organizzare in loco l'estrazione e lo sfruttamento prima che le società
americane approfittino dell'occasione. Ciò necessita di un uomo di fiducia, ma
anche giovane ed energico. Per me personalmente sarà un duro colpo e un
dolore rinunciare a un assistente fidato e intimo, ma ho ritenuto mio dovere
proporla nella seduta del consiglio di amministrazione, essendo lei il
dipendente più zelante e l'unico adatto all'incarico. Sarà indennizzato
equamente, insomma le garantiamo di assicurarle un futuro splendido. A due
anni dall'installazione, non solo potrà contare su un piccolo patrimonio grazie
alla ricca retribuzione, ma al suo ritorno le verrà riservata, inoltre, una
mansione dirigenziale nell'impresa. In ogni caso», concluse tendendo la
mano per felicitarsi, «ho il presentimento che lei siederà di nuovo su questa
sedia e che alla fine sarà lei a dirigere ciò che io, ormai vecchio, ho iniziato
tre decenni or sono.»
Un incarico del genere, piovutogli a ciel sereno, perché non avrebbe
dovuto confondere anche un uomo ambizioso come lui? Eccola finalmente la
porta - e come spalancata da un'esplosione - che lo avrebbe fatto uscire dallo
scantinato della povertà, dal mondo buio del servaggio e dell'ubbidienza,
riscattandolo da anni di inchini come chiunque sia costretto a comportarsi e a
pensare con umiltà: lo sguardo avido, fissò le carte e i dispacci sui quali, dalla
massa dei geroglifici, prese gradualmente forma l'imponente progetto dai
contorni enormi ma ancora imprecisi. Numeri e numeri turbinarono
all'improvviso sopra di lui, migliaia, centinaia di migliaia, milioni da
amministrare, da calcolare, da guadagnare: l'atmosfera infuocata del potere e
del comando. Egli venne a trovarsi all'improvviso, stordito e con il cuore in
gola, esattamente in quest'atmosfera, come su una mongolfiera fantastica a
bordo della quale sarebbe salito in alto, abbandonando il servilismo e
l'opacità della propria sorte. E poi: non solo denaro, non solo affari, iniziative,
gioco e responsabilità, no, non solo questo: a tentarlo era un'altra prospettiva
disomogeneamente allettante. Inventare, creare dal nulla, affrontare compiti
impegnativi, estrarre il minerale dalle montagne, dove era rimasto da millenni
in un sonno assurdo sotto la corteccia della Terra, trivellare pozzi, pianificare
città, vedere crescere nuove case, spuntare nuove strade, udire il rumore
delle scavatrici e delle gru.
Dietro lo spoglio groviglio dei calcoli cominciavano a fiorire, come ai tropici,
forme fantastiche e tuttavia plastiche, a sorgere fattorie, fabbriche, silos, un
nuovo pezzo di mondo umano che egli doveva collocare in uno spazio ancora
vuoto, comandando e impartendo ordini. L'aria di mare, disinfettata
dall'ebbrezza della lontananza, penetrò improvvisamente nella piccola stanza
imbottita, i numeri si ammonticchiarono originando una somma iperbolica. E
nella vertigine sempre più accalorata dell'entusiasmo, che conferiva a ogni
deliberazione la forma guizzante del volo, tutto fu deciso a grandi linee e
anche il lato pratico venne concordato. All'improvviso nella sua mano frusciò
un assegno di una cifra inattesa per le spese in previsione del viaggio, e,
dopo un nuovo giuramento, la partenza su un piroscafo della linea del Sud fu
fissata entro dieci giorni. Ancora eccitato dal turbinio dei numeri e frastornato
dal vortice delle possibilità smosse, era quindi uscito dalla porta dello studio.
Un secondo di sconcerto per guardarsi attorno inebetito, come per sincerarsi
che la conversazione non fosse stata solo una fantasmagoria evocata dal
desiderio sovreccitato. Un colpo d'ala lo aveva riportato, dal fondo, nella sfera
scintillante della realizzazione. Gli bolliva ancora il sangue a causa della
precipitosa risalita e, per un istante, fu costretto a chiudere gli occhi. Li
chiuse, come si trattiene il respiro, unicamente per prendere coscienza di sé
e godere l'io interiore tenendolo più distinto e cogliendone la potenza. Ciò
durò un minuto: dopodiché, come riaprì le palpebre, il suo sguardo, frugando
nel vestibolo a lui noto, venne catturato fortuitamente dal dipinto che era
appeso sopra la grande cassapanca: il suo ritratto.
Lei lo fissava, le labbra appena inarcate e morbidamente strette, sorridente
e nel medesimo tempo pensosa, come se avesse compreso ogni parola del
suo monologo interiore. E in quel secondo lo fulminò il pensiero, ormai
dimenticato, che abbandonare il posto di lavoro significava anche lasciare
quella casa. Dio mio, lasciare lei! Come una lama il pensiero fendette la vela
orgogliosamente gonfiata dalla gioia e nell'attimo di disattenzione, in cui lo
stupore lo sopraffece, l'intera impalcatura di finzioni, artificiosamente eretta,
crollò sul suo cuore. Il muscolo cardiaco ebbe un brivido repentino, ed egli
intuì che la prospettiva di rinunciare a quella donna lo stava lacerando: una
sofferenza insopportabile. Dio, lasciare quella donna! Come aveva potuto
solamente pensare a una simile ipotesi, solamente prendere una simile
decisione! Ormai non apparteneva più a se stesso: con tutte le graffe e le
radici del suo animo, egli era invece legato lì, alla sua presenza.
Violentemente, con una forza elementare, un improvviso dolore fisico
vibrante e inconfondibile esplose percorrendogli trasversalmente tutto il corpo
dalla calotta cranica fino in fondo al cuore, una fenditura che, come il fulmine
nel cielo notturno, illuminò ogni cosa: in quella luce accecante era impossibile
non vedere che in ogni nervo e in ogni fibra germogliava l'amore per lei, per
la donna che amava. E non appena pronunciò, senza parlare, la parola
magica, con quella velocità inspiegabile che, sola, aizza la paura,
innumerevoli piccole associazioni e ricordi gli trafissero la coscienza,
rischiarando con una luce abbagliante ogni suo sentimento e, insieme, i
dettagli che finora non aveva mai osato confessare o spiegare. Solo allora
seppe di appartenerle da mesi.
Non era stato nella settimana di Pasqua che, quando lei era andata in
visita dai suoi parenti, egli aveva brancicato, come se si fosse smarrito, di
stanza in stanza, incapace di leggere un libro, sconvolto, senza nemmeno
sapere il perché - e poi, nella notte in cui lei sarebbe dovuta tornare, non
aveva aspettato fino all'una di udire il suo passo?
E un'impazienza nervosa non lo aveva spinto giù dalla scala almeno mille
volte prematuramente, pensando che la carrozza fosse arrivata? Si sovvenne
anche del brivido di freddo, che dalle mani gli salì alla nuca, quella volta che
a teatro la propria mano aveva inavvertitamente sfiorato quella di lei. Cento di
questi ricordi insignificanti, semplici inezie, di cui non si era quasi avveduto, si
rovesciarono con un boato dalle saracinesche della diga sulla sua coscienza,
nel suo sangue, e ciascuno gli colpì direttamente il cuore. Con un gesto
involontario si portò una mano contro il petto, tanto forte sentiva battere il
cuore. A quel punto niente gli fu di aiuto e, quasi senza difendersi, confessò a
se stesso la verità, che un istinto timido e insieme devoto aveva oscurato con
ogni tipo di diaframma: senza la sua presenza non sarebbe riuscito a vivere.
Due anni, due mesi, due settimane senza quella luce soave sulla sua strada,
senza i discorsi gentili nelle due ore della sera, no, non erano sopportabili. E
il programma che, solo dieci minuti prima, lo aveva riempito di orgoglio, la
missione in Messico, l'ascesa al potere creativo, perse consistenza. Era
scoppiato come una bolla di sapone fosforescente, si era ridotto ormai
all'idea di lontananza, di assenza, di carcere, di esilio, di distruzione, al
pensiero di un distacco al quale non si sopravvive. No, impensabile! E già la
sua mano tremava abbassando la maniglia.
Era deciso a tornare nella stanza del consigliere segreto per comunicargli
che rinunciava, che non si sentiva all'altezza dell'incarico e preferiva restare a
casa. Ma la paura gli disse ammonendolo: non ora! Non confessare
prematuramente un segreto che solo adesso cominci a smascherare. Con un
gesto stanco staccò la mano febbricitante dal metallo freddo. Osservò di
nuovo il ritratto: gli occhi, gli parve, lo fissavano sempre più insistentemente,
solo il sorriso intorno alla bocca gli sfuggiva: non lo trovò più. La donna lo
stava guardando dal quadro con un'aria seria, anzi quasi con tristezza, come
se volesse dirgli: «Stavi per dimenticarmi?» Non sopportò oltre quello
sguardo, semplicemente dipinto sulla tela e tuttavia così vivo.
Tornò barcollante in camera sua, lasciandosi cadere sul letto, come in
deliquio, con una strana sensazione di orrore misto a dolcezza.
Avidamente ripensò a ciò che aveva vissuto in quella casa dal primo
istante e tutto, anche il particolare più insignificante, gli sembrò che
acquistasse un peso diverso e una luce diversa. Ogni sua esperienza era
illuminata dalla luce interiore della conoscenza, era leggero e si sollevava
nell'aria surriscaldata della passione. Si rammentò delle testimonianze della
sua gentilezza e ne scorse i segni intorno a sé. Con lo sguardo sfiorò gli
oggetti che la sua mano aveva toccati. Ciascuno riverberava la felicità della
sua presenza, anzi quella donna era lì, in quegli oggetti, ed egli ne sentiva i
pensieri amichevoli lasciati ovunque. La certezza che la sua bontà gli fosse
destinata gli trasmise un entusiasmo travolgente: ma sul fondo di questa
corrente era rimasto, dentro di lui, qualcosa che opponeva resistenza come
una pietra, qualcosa che non era stato rialzato e andava rimosso, affinché il
suo sentimento potesse fluire liberamente. Con infinita cautela si avvicinò a
questa macchia scura depositatasi nello strato più basso del sentimento:
intuiva già che cosa significava, ma non osò toccarla. Ma la corrente lo
ricacciava indietro, sempre e soltanto a quel punto e a quell'unica domanda:
in tante piccole attenzioni c'era, da parte sua, se non altro - non osava
pronunciare la parola amore - simpatia e un tenue affetto, seppur privo di
passione, in quel suo modo di essere presente, pronto all'ascolto ma subito
smentito? La domanda vagò dentro di lui.
Pesanti onde nere di sangue la risollevavano di continuo mugghiando,
senza però riuscire a capovolgerla. «Se riuscissi almeno a ricordare
chiaramente!» si diceva, ma troppo passionali i suoi pensieri ondeggiavano
mischiandosi a sogni e a desideri confusi, e poi c'era quella sofferenza
costantemente rivangata che lo spingeva nel fondo del baratro. Forse per
un'ora o per due giacque sul letto insensibile, sfuggito alla sua coscienza,
inebetito da un miscuglio narcotizzante di sensazioni, finché un delicato
picchiettio contro l'uscio lo fece sobbalzare, un tamburellare con nocche
caute ed esili, che egli credette di riconoscere. Scattò in piedi e si precipitò
verso la porta.
Era davanti a lui sorridente. «Ma, dottore, perché non viene? Il gong ha
suonato già due volte per la cena.»
Aveva pronunciato quelle parole in un tono quasi arrogante, come se fosse
per lei una piccola gioia sorprenderlo mentre commetteva una negligenza.
Ma non appena vide la faccia del giovane, i capelli umidi a ciocche, gli occhi
sfuggenti confusi e timorosi, impallidì.
«Per l'amor di Dio, che cosa le è successo?» fece balbettando, e questo
tono diverso, impaurito, lo inondò di piacere.
«Niente, niente», ribatté l'assistente riavendosi alla svelta, «ero assorto nei
miei pensieri. Tutta la faccenda mi è saltata addosso troppo alla svelta.»
«Che cosa? Quale faccenda? Parli!»
«Non lo sa? Il consigliere segreto non l'ha informata?»
«No, no», insistette impaziente, quasi confusa dal suo sguardo svagato,
caldo, elusivo. «Che cosa è successo? Me lo dica, su!»
Allora compresse i muscoli per guardarla con uno sguardo sicuro e senza
arrossire. «Il signor consigliere è stato così gentile da affidarmi un compito
delicato e di grande responsabilità. Fra dieci giorni parto per il Messico. Per
due anni.»
«Per due anni! Santo cielo!» Il suo sgomento scaturiva, precipitoso e
appassionato, da una sorpresa profonda, era un grido più che una parola.
E, come per difendersi, involontariamente, allargò le mani all'indietro; ma fu
inutile che nell'attimo successivo si sforzasse di smentire il sentimento
lasciato uscire, anzi scaraventato fuori: egli le aveva già preso le mani (ma
com'era accaduto?) - subito ritratte per paura, stringendole nelle sue e, prima
che si rendessero conto, i loro corpi tremanti si urtarono incendiandosi e in un
lungo bacio placarono le infinite ore e i giorni di sete e di desiderio. Nessuno
dei due aveva tratto l'altro a sé: si erano come buttati l'uno tra le braccia
dell'altra, quasi che una bufera li avesse violentemente riuniti precipitandoli
insieme, fusi, in uno stato di incoscienza infinita; e quello sprofondare
assomigliò a un deliquio dolce e tuttavia infuocato.
Un sentimento stivato da troppo tempo si scaricò, acceso dal magnete
dell'accidentalità, in un solo secondo. A poco a poco, quando le loro labbra si
staccarono, ancora barcollando incredulo, egli guardò dentro i suoi occhi
dove una luce ignota si era nascosta dietro la delicata oscurità. In quel
momento lo sopraffece la certezza che ormai da lungo tempo, da settimane,
da mesi, da anni quella donna lo amasse in un delicato silenzio avvampando
di un amore materno, quindi prima ancora che quell'istante le avesse
spaccato l'anima. E per l'appunto l'intuizione di un evento incredibile lo
inebriò: era amato, amato da lei, dall'inavvicinabile: un cielo sorse, pervaso di
luce e infinito, un radioso meriggio della sua vita, benché già nell'istante
successivo si disintegrasse lanciando schegge taglienti. Infatti riconoscersi
significò per loro l'addio.
Trascorsero i dieci giorni fino alla partenza in uno stato di esaltazione, di
ebbrezza e di follia. L'improvvisa esplosione del loro sentimento confessato
aveva fatto saltare, con l'impetuosa violenza del conseguente spostamento
d'aria, dighe e ostacoli, riserve morali e precauzioni: come animali avidi e in
fregola si avventarono l'uno sull'altra a ogni casuale incontro in un corridoio
buio, in un angolo, nella breve frazione di secondo tra due minuti. La loro
mano voleva sentire una mano, le labbra altre labbra, il sangue eccitato il
sangue fraterno. Ogni loro fibra era febbricitante e agognava il contatto, ogni
nervo bruciava dal bisogno di sentire sensualmente qualunque parte viva del
corpo divorato dal desiderio, piede, mano, abito che fosse. In casa, però,
dovettero simultaneamente controllarsi: lei davanti al marito, al figlio, alla
servitù, lui per essere intellettualmente all'altezza dei calcoli matematici, delle
riunioni, dei preventivi di cui era responsabile. Ghermivano secondi, attimi
vibranti, furtivi, pericolosi perché spiati, solo con le mani o con le labbra. Con
gli sguardi o con un bacio arraffato avidamente riuscivano ad avvicinarsi di
sfuggita, e la vicinanza nebbiosa, afosa, soffocante dell'altro, altrettanto
inebriato, li inebriava. Ma non si saziavano mai. Lo sapevano entrambi.
E allora si scrissero bigliettini ardenti di passione, come scolaretti si
passavano lettere confuse e infuocate. La sera lui, insonne, le trovava
fruscianti sotto il cuscino, lei nella tasca del soprabito. Ogni scritto terminava
nel grido disperato di un identico infelice interrogativo: come sopportare la
lontananza, un mare, un mondo, mesi infiniti, settimane infinite, due anni
frapposti al sangue e agli sguardi? Non pensavano ad altro, non sognavano
altro e nessuno sapeva trovare la risposta. Soltanto le mani, gli occhi, le
labbra, ignari servi del loro amore, erano pronti a scattare, desiderando la
congiunzione e il vincolo più intimo. Perciò gli attimi rubati per un abbraccio
convulso fra due porte accostate erano istanti trepidi, straripanti di piacere
dionisiaco e nel contempo di ansietà.
Senonché a lui, allo spasimante, non fu mai concesso il completo possesso
del suo corpo e nondimeno, dietro l'insensibile diaframma della veste, egli lo
sentiva impennarsi eccitato dalla frenesia, lo sentiva caldo e nudo premere
incontro al proprio. Nella casa troppo illuminata, sempre sorvegliata e spiata
da vigili orecchie umane, egli non andò mai veramente vicino a questa soglia.
Solo l'ultimo giorno quando, adducendo il pretesto di aiutarlo a fare i bagagli,
in realtà per dirgli addio, lei entrò nella sua camera già sgomberata e,
aggredita cupidamente dal giovane uomo e quasi travolta dall'energia del suo
slancio contro l'ottomana, barcollò e cadde mentre i baci maschili si
spingevano sotto l'abito e le sovreccitavano il petto inarcandolo e scivolavano
sulla pelle bianca e calda verso il punto in cui le si sentiva il cuore battere
affannosamente, forse in quegli attimi di cedevolezza stava davvero per
essere sua con l'offerta del proprio corpo ma, come riavendosi dall'emozione,
balbettò un ultimo supplichevole: «Non ora!
Non ora! Ti prego».
Il suo sangue ubbidì e si lasciò soggiogare dalla devozione che serbava da
tanto tempo alla donna amata quasi religiosamente. Ritrasse i suoi sensi già
liberati e si scostò. Lei si rialzò visibilmente stordita e si nascose la faccia tra
le mani. Anch'egli vacillava, in balia di una dolorosa delusione. Ma non le
sfuggì quanto il giovane soffrisse a causa sua, a causa di un amore
inappagato, e, di nuovo padrona del proprio sentimento, gli andò vicina. A
voce bassa lo consolò: «Qui non potevo, non potevo farlo in casa mia, in
casa sua. Ma, quando tornerai, in qualunque momento».
Il treno si arrestò con grande strepito, cigolando tra le ganasce dei freni
tirati. Come un cane si sveglia a una frustata, anche il suo sguardo riemerse
dal sogno. Ma - e la scoperta lo colmò di gioia - la vide davanti a sé: era lei, la
donna perdutamente amata, che troppo a lungo gli era stata lontana. Sedeva
tranquilla, a un soffio. L'ala del cappello le ombreggiava la faccia lievemente
abbandonata all'indietro.
Ma poi, forse perché aveva inconsciamente capito che l'uomo avvertiva un
desiderio nostalgico del suo volto, rizzò il busto offrendogli un dolce sorriso.
«Darmstadt», disse guardando fuori, «ancora una fermata.» Egli non
rispose. Stava seduto e la osservava. Tempo impotente, pensò tra sé e sé,
impotenza del tempo contro il nostro sentimento: nove anni da allora e
neanche un suono della sua voce è cambiato, né un solo nervo del mio corpo
le presta ascolto con un'attenzione diversa. Nulla è perduto, niente è svanito.
Dolce felicità la sua presenza, come allora.
Appassionatamente guardò la sua bocca dal sorriso pacato - non
riuscendo quasi più a ricordare di averla baciata -, poi guardò le sue mani
che, in una calma lieve, sembravano splendere di luce propria, posate in
grembo. Sentì un infinito desiderio di abbassarsi e sfiorarle appena con le
labbra o di racchiuderle, così giunte, fra le proprie solo per un secondo, un
breve secondo! Senonché i signori ciarlieri avevano cominciato a scrutarlo
con curiosità e così, per non tradire il suo segreto, si rilasciò sullo schienale,
comunque non parlò. Se ne stettero sempre l'uno di fronte all'altra senza un
segno o una parola. Solo i loro sguardi si baciavano. Fuori risuonò un fischio,
il convoglio si rimise in marcia, rollando, e la monotonia del suo beccheggio,
come una cuna di acciaio, lo cullò finché si perse nella memoria: anni bui e
infiniti tra allora e adesso, un mare grigio tra sponda e sponda, tra cuore e
cuore! Com'era stato possibile?
Qualche ricordo c'era, ma egli non lo voleva toccare, non voleva ricordare
l'ora dell'addio sul marciapiede della stazione della stessa città dove poc'anzi
l'aveva attesa con un senso di sollievo. No, basta, è passato, finito, non
pensare più a quei momenti, è stato troppo terribile! Ma i pensieri volarono
molto più indietro: altro paesaggio, altro tempo si dischiuse nella visione
onirica riavvicinatasi al ritmo rapido delle ruote che sferragliavano. Era partito
per il Messico, l'anima lacerata. I primi mesi, le prime spaventose settimane,
finché non ricevette sue notizie, riuscì a sopportarli solo riempiendosi il
cervello di numeri e di progetti, sfiancandosi a furia di cavalcare, di spedizioni
in lungo e in largo per il paese, di ricerche, di trattative portate a termine con
risolutezza. Dal mattino a notte fonda si rinchiudeva nella casa-macchina
dell'azienda, casa e macchina parlante, scrivente, urlante, frenetica, dove il
martellio dei numeri rintronava la testa; e lo faceva solo per udire la voce
interiore chiamare disperatamente un nome, il suo nome. Si stordì di lavoro
come se fosse alcol o un veleno solo per ottundere i sentimenti, così
prepotenti. Ma ogni sera, per quanto stanco, si sedeva e, una pagina via
l'altra, incurante del passare delle ore, annotava ciò che aveva fatto di giorno
e con qualsivoglia mezzo postale inviava plichi e plichi di questi fogli, scritti
con mano tremante, a un indirizzo di comodo convenuto in maniera che
l'amata lontana, come a casa, partecipasse alla sua vita, ora per ora, ed egli
sentisse il suo mite sguardo vegliare, presago, sulla propria giornata
lavorativa con un balzo di mille e mille miglia marine, varcando colline e
orizzonti.
Le lettere che riceveva erano riconoscenti. Grafia verticale, parole calme,
lasciando nondimeno trasparire il fuoco della passione, ma in forma asciutta,
anch'esse lo relazionavano seriamente, pur senza lamentele, del decorso dei
giorni, tant'è vero che egli aveva la sensazione di sentire l'azzurro occhio
sicuro volto su di lui; solo il sorriso gli mancava, quel sorriso leggermente
conciliante, che toglieva a ogni accadimento serio la sua pesantezza. Quelle
lettere erano divenute la bevanda e il nutrimento del giovane rimasto solo: le
portava con sé in viaggio nelle pianure desertiche e sulle montagne; nella
sella si era fatto cucire delle tasche protette contro gli improvvisi scrosci di
pioggia e l'acqua dei fiumi che doveva attraversare durante le esplorazioni.
Le aveva lette e rilette tante volte che nelle piegature la carta era diventata
trasparente; alcune parole erano state addirittura cancellate dai baci e dalle
lacrime. A volte, quando era solo o sapeva che non c'era qualcuno nei
paraggi, le tirava fuori per leggerle, parola per parola, con l'intonazione di
voce della donna lontana a evocarne la presenza come per magia. A volte,
invece, si alzava all'improvviso nel cuore della notte se per caso gli era
sfuggita una parola, una frase o la formula usata come chiusura: accendeva il
lume per ritrovare i passaggi in questione e dalla scrittura ricavare l'effigie
della sua mano, quindi, partendo da questa, risalire al braccio, alla spalla e
alla testa finché davanti a sé compariva l'immagine della sua figura trasferita
al di là di terre e mari.
Come un taglialegna nella foresta vergine, a colpi d'ascia infieriva con furia
e forza per fare a pezzi un passato impenetrabile, violento e tuttora
minaccioso, impaziente di vedere sorgere un futuro luminoso, il ritorno, il
viaggio, la scena - simulata mille volte - dell'attesa prima copula. Nella
baracca di legno con il tetto di lamiera, costruita in gran velocità, nella colonia
operaia di recente istituzione, sopra il tavolaccio aveva appeso un calendario
sul quale cancellava i giorni trascorsi - spesso già a mezzogiorno tirava un
rigo sulla giornata lavorativa, tant'era impaziente - e contava e ricontava la
fila rossa e nera, sempre più breve, di quelli ancora da sopportare: 420, 419,
418 giorni fino al ritorno. Perché, a differenza degli altri uomini da che mondo
è mondo, egli non incominciava dall'inizio, ma partiva dalla fine, cioè dal
giorno previsto per il rimpatrio. E ogni volta che il lasso di tempo mancante
corrispondeva a una cifra tonda, 400, 350, 300, o era il suo compleanno, il
suo onomastico, o, anche, una di quelle ricorrenze intime e segrete
l'anniversario del primo incontro o della prima volta che lei gli aveva
confessato il proprio amore -, dava una specie di festa invitando quelli che gli
stavano intorno ed essi erano strabiliati essendo all'oscuro delle ragioni dei
festeggiamenti o facevano un sacco di domande; regalava soldi ai bambini
sudici dei meticci e acquavite agli operai perché si divertissero e saltassero
come puledri selvatici dal mantello baio; si metteva il vestito della domenica,
mandava a prendere il vino e le migliori conserve. Una bandiera sventolava
su un pennone alzato con le sue stesse mani, perché fungesse da vessillo
della gioia, e se poi arrivavano numerosi i vicini e gli aiutanti spinti dalla
curiosità di sapere per quale santo o per quale strana occasione lo straniero
facesse baldoria, egli si limitava a sorridere e a dire: «E a voi che cosa
importa? Piuttosto divertitevi con me!»
Così se ne andarono settimane e mesi, un anno si sfiancò fino a morire e
poi un altro semestre. Ormai non mancavano che sette piccole, minuscole,
misere settimane al ritorno. Da tempo smaniava dall'impazienza: aveva
calcolato l'ora della partenza con una barca e, meravigliando i booker, aveva
prenotato e pagato la cabina sull'Arkansas cento giorni prima, quando
sopraggiunse la catastrofe che non solo stracciò il suo calendario senza
nessuna pietà, ma con assoluta indifferenza straziò milioni di destini e di
pensieri.
Giorno catastrofico: all'alba il geometra con due capisquadra, e al seguito
uno stuolo di servi, era partito con cavalli e muli, lasciando la piana color zolfo
alla volta delle montagne per ispezionare il luogo di una nuova trivellazione,
in cui si supponeva esistesse un giacimento di magnesite. I meticci
lavorarono di martello, scavarono, bussarono e ricercarono per due giorni
sotto i raggi di un sole impietoso a perpendicolo, che la nuda pietra rifletteva
un'altra volta. Ma come un invasato egli spronava gli operai, non concedeva
neppure alle loro lingue assetate di fare cento passi fino alla polla d'acqua da
scavare in fretta: voleva arrivare in tempo all'ufficio postale per vedere se mai
c'era la sua lettera, le sue parole.
E al terzo giorno, pur non essendo stato raggiunto il fondo del pozzo senza
effettuare la prova definitiva, fu sopraffatto dal desiderio parossistico e
insensato di un suo messaggio, da una smania così pazzesca di ricevere sue
notizie, che decise di tornare da solo, a cavallo nella notte, semplicemente
per ritirare la lettera che presumeva fosse giunta con la posta del giorno
prima. Insensibile, lasciò gli altri nella tenda, montò in sella e, accompagnato
da un solo servo, cavalcò su un sentiero buio e pericoloso sul ciglio di
strapiombi fino alla stazione ferroviaria. Ma il mattino, arrivati finalmente nella
piccola località, infreddoliti dalle basse temperature sulle montagne rocciose,
appena smontarono dai cavalli fumanti si presentò loro una visione insolita. I
pochi coloni avevano abbandonato il lavoro e, in mezzo a uno stuolo di
meticci e di nativi urlanti che facevano domande e guardavano con occhi
imbambolati, accerchiavano la stazione. Ce ne volle per farsi strada tra la
folla eccitata. Ma all'ufficio vennero a sapere una notizia insospettabile: dalla
costa erano pervenuti telegrammi con l'annuncio che in Europa era scoppiata
la guerra: la Germania contro la Francia, l'Austria contro la Russia. Non
credette alle proprie orecchie: conficcò gli speroni nei fianchi del povero
ronzino quasi zoppo con tale livore che l'animale spaventato si inalberò
nitrendo e partì come una saetta alla volta del palazzo del governo. Lì egli udì
una notizia ancor più costernante: era la pura verità ma la situazione, se si
può dire, era ancor meno rosea: anche l'Inghilterra era entrata in guerra, e
l'oceano era precluso ai tedeschi. Tra l'uno e l'altro continente era calata, a
tempo indeterminato, la cortina di ferro come una lama tagliente.
Inutile battere il pugno chiuso sul tavolo quasi a colpire un nemico
invisibile: come lui, altri milioni di uomini impotenti si avventavano contro il
muro del fato che li imprigionava. Istantaneamente egli valutò tutte le vie
praticabili per giungere dall'altra parte, con la violenza o con l'astuzia, e
mettere in scacco il destino: ma il console inglese, che casualmente era lì e
gli era amico, gli lasciò intendere, con un monito discreto, di avere ricevuto
l'ordine di tenerlo sotto sorveglianza da quel momento. Dunque, stando così
le cose, lo poteva consolare solo la speranza - la stessa che di lì a poco
avrebbe deluso milioni di persone - che una simile follia non sarebbe durata a
lungo e che entro poche settimane, al massimo mesi, il tiro birbone di
diplomatici e generali scatenati sarebbe finito. Dette vigore a quel briciolo di
speranza un altro elemento ancor più fertile e narcotizzante: il lavoro. Tramite
cablogrammi via Svezia ricevette dalla ditta l'ordine di rendere autonoma
l'impresa e, per evitare il rischio di un sequestro, di farla dirigere da alcuni
prestanome come se fosse una compagnia messicana. La realizzazione di
questo progetto richiedeva estrema energia e grande efficienza, ma anche la
guerra, altro imprenditore dispotico, aveva bisogno di minerale di ferro delle
miniere: dunque occorreva accelerare l'estrazione e potenziare l'azienda. E
l'intento pretese un enorme dispiego di forze ponendo in sott'ordine
qualunque pensiero personale. Egli lavorò dodici, quattordici ore al giorno
con accanimento fanatico, per poi crollare alla sera stanco morto sul letto,
demolito da quella catapulta di numeri.
Nondimeno: mentre supponeva di provare i sentimenti di sempre, la
tensione passionale si era allentata dall'interno. Non è insito nella natura
umana vivere esclusivamente di ricordi: viceversa, come le piante e
qualunque forma vegetale hanno bisogno del potere nutritivo del terreno e
dell'aria del cielo filtrata e purificata affinché i loro colori non impallidiscano e
le loro corolle non si defoglino appassendo, anche i sogni, perfino i sogni,
seppure apparentemente irreali, abbisognano di un certo nutrimento che
provenga dalla sfera sensibile, e di un delicato sostegno per il ricambio delle
immagini, sennò il loro sangue si raggruma e la loro lucentezza sbiadisce. Il
medesimo fenomeno accadde anche all'uomo passionale e prima che ne
prendesse coscienza: allorché per settimane, quindi per mesi, poi per un
anno e infine addirittura per un secondo anno non gli giunse un solo
messaggio, una sola parola scritta o un segno, quell'immagine cominciò a
trascolorare.
Ogni giorno bruciato nel lavoro posava qualche piccolo granello di cenere
sul suo ricordo; in realtà esso continuava ad avvampare come rossa brace
sotto le concrezioni rugginose, ma la membrana grigia finì con l'essere
sempre più spessa. Soleva talvolta togliere ancora dallo stipo le lettere, ma
l'inchiostro si era stinto, le parole non risuonavano più nel suo cuore e una
volta rabbrividì finanche alla vista della sua fotografia non riuscendo a
rammentare il colore degli occhi. E sempre più raramente si teneva vicino
quei documenti, in passato così preziosi e magicamente tonificanti, essendo
ormai stanco - pur non sapendolo - di quell'eterno silenzio e del proprio
insensato parlare con un'ombra, la quale non gli dava mai risposta. E poi
l'impresa, sorta alla svelta, aveva portato nuovi uomini e compagni. Egli cercò
compagnia, cercò amici, cercò donne, e il terzo anno di guerra, quando un
viaggio d'affari lo portò in casa di un grande commerciante tedesco, a Vera
Cruz, e ne conobbe la figlia, una bionda tranquilla di carattere casalingo, lo
sopraffece l'angoscia di una solitudine così pervicace che si prefigurava tanto
meno sopportabile in un mondo dilaniato dalla guerra, dall'odio e dalla follia e
ormai prossimo al crollo. Si decise alla svelta e sposò la ragazza. Venne un
figlio e poi un altro, due fiori viventi e rigogliosi ai bordi della tomba
dimenticata del suo amore. Il cerchio si era chiuso: all'esterno l'attività
chiassosa, all'interno la pace domestica; e dell'uomo che era stato in passato,
dopo quattro, cinque anni non si ricordò più.
Solo un giorno, un giorno di scampanii e di strepiti, durante il quale i fili del
telegrafo vibrarono come impauriti e in tutte le strade urla e lettere grosse
come pugni annunciarono la notizia improcrastinabile della pace, gli inglesi e
gli americani del luogo strombazzarono dalle finestre la sconfitta della sua
patria con indelicati urrah - quel giorno, squarciato dai ricordi del proprio
paese amato di nuovo nel momento della sfortuna, anche quella figura
riaffiorò alla sua memoria, entrò a viva forza nel suo animo. Ma com'era
vissuta in quegli anni di miseria e di rinunce su cui i giornali locali si
diffondevano in lungo e in largo tanto per divertirsi e indulgere al gusto delle
lungaggini tipico dell'insolenza giornalistica? La sua casa, la loro casa era
stata risparmiata dalle rivolte di piazza e dai saccheggi? Suo marito e suo
figlio vivevano ancora? Nel cuore della notte egli balzò dal letto, dove giaceva
al fianco del respiro della moglie, accese la luce e per cinque ore, fino
all'alba, le scrisse un'interminabile lettera per raccontarle, monologando con
se stesso, la propria vita dell'ultimo quinquennio. Due mesi dopo - si era già
scordato della propria lettera - arrivò la risposta: con una certa indecisione
soppesò tra le mani la busta voluminosa e inquietante per via della scrittura
familiare: non osò rompere subito il sigillo quasi che quell'involucro chiuso
custodisse, come un vaso di Pandora, un segreto. Per due giorni se la portò,
sempre intonsa, nel taschino interno della giacca e di tanto in tanto sentiva il
cuore batterle contro. Ma, finalmente aperta, si rivelò una lettera priva di
intimità invadenti e tuttavia rispettosa della fredda formalità. Nei placidi
caratteri della scrittura egli inspirò quella delicata simpatia spontanea che
sempre lo aveva colmato di gioia. Il marito era morto nei primi giorni di
guerra, ma non ne compiangeva la scomparsa, persuasa che gli fossero stati
risparmiati dolori, quali i rischi corsi dalla ditta, l'occupazione della città e la
miseria di un popolo prematuramente inebriato dalla vittoria. Lei e il figlio
godevano buona salute, e com'era felice di leggere che la sorte gli era stata
benigna più di quanto aveva raccontato della propria. Si felicitava del
matrimonio con parole sincere: ma involontariamente egli ne colse la
diffidenza per quanto nessun accento, sottinteso o malizioso, offuscasse la
limpida intonazione complessiva. Tutto era stato detto in modo pulito,
senz'alcuna esagerazione ostentata o commozione sentimentale, il passato
si era dissolto in una partecipazione costante, l'amore si era luminosamente
chiarito diventando amicizia adamantina. Dalla sua signorilità d'animo egli
non si era mai aspettato niente di diverso, nondimeno, cogliendo il modo
chiaro e sicuro (credette a un tratto di guardare dentro i suoi occhi), serio e
insieme sorridente, nel riverbero della bontà, si sentì pervaso da una specie
di commozione riconoscente.
Si sedette all'istante, le scrisse a lungo in modo particolareggiato e, dopo la
lunga privazione, l'abitudine allo scambio reciproco di notizie personali si
instaurò di nuovo per un tacito accordo - ma lì, in Messico, l'improvviso
abbassamento termico del mondo non era riuscito a distruggere alcunché.
Con profonda riconoscenza egli riconobbe la forma chiara della propria
esistenza. Il successo era arrivato, l'azienda prosperava, in casa i figli
crescevano trasformandosi a mano a mano da fiori delicati in balocchi
parlanti dagli sguardi amichevoli, che allietavano le sue sere.
Dal passato, dall'incendio della sua giovinezza, quando le sue notti e i suoi
giorni si consumavano nello strazio, giungeva ormai solo un bagliore, una
calma luce benevola senza richieste e pericoli. Sicché, allorquando due anni
più tardi fu incaricato da una compagnia americana di trattare certi brevetti
chimici a Berlino, gli parve naturale scambiare un saluto di persona con la
donna amata tempo addietro e ora buona amica. Appena giunto a Berlino, in
albergo chiese anzitutto una comunicazione telefonica con Francoforte e gli
parve una coincidenza simbolica che il numero non fosse cambiato in quegli
anni. Un buon auspicio, niente allora è mutato, pensò, mentre sul tavolo
l'apparecchio già trillava sfacciatamente. Fu colto da un tremito presagendo
di udire la sua voce dopo anni e anni, come scaraventata al di là di prati,
campi, case e ciminiere, richiamata dalla propria, di nuovo vicina, superate
miglia e miglia di tempo, di acqua e di terra. Pronunciato il proprio nome e
aggredito dal suo: «Ludwig, sei tu?» un grido di sorpresa sceso prima nei
suoi sensi in ascolto e poi, bussando, fin dentro la stiva stracolma del
sangue, mentre il suo cuore si fermava, in quel momento un'emozione
repentina lo tenne sospeso come su un fuoco: fece fatica a parlare, il leggero
ricevitore oscillò nella sua mano. Il timbro limpido della voce che esprimeva
stupore e sorpresa, quello squillo di gioia, doveva avere colpito chissà quale
nervo nascosto della sua vita poiché sentì il sangue ronzargli intorno alle
tempie. Fece fatica a capire le sue parole e, senza esserne consapevole e
volerlo, quasi che qualcuno glielo suggerisse, le fece una promessa, che non
avrebbe desiderato di fare: di lì a due giorni sarebbe andato a Francoforte.
Con quella promessa anche la sua tranquillità venne meno: sbrigò gli affari in
modo febbrile, si fece scarrozzare in lungo e in largo in automobile per
perfezionare le trattative a una velocità raddoppiata e l'indomani mattina,
appena sveglio, riordinando il sogno della notte ebbe la certezza di averla
sognata per la prima volta dopo quattro anni.
Due giorni più tardi, fattosi precedere da un telegramma, mentre si
avvicinava alla sua casa - era mattina e per tutta la notte era stato squassato
da brividi di freddo - notando i propri piedi si disse: ma questo non è il mio
passo, come oltreoceano, il mio passo sicuro e continuo. Perché cammino
nuovamente come il ventitreenne di allora che, con le dita tremanti, scrollava
la polvere dall'abito liso, vergognandosene, e s'infilava i guanti nuovi prima di
sfiorare il campanello? Perché mi batte il cuore e sono così impacciato? A
quel tempo per una misteriosa intuizione presagivo che dietro a quella porta
di rame fosse in agguato il destino, pronto ad afferrarmi, gentile o malvagio
che fosse. Ma ora perché mi rimpiatto e un'inquietudine crescente disperde la
mia sicurezza? Invano tentò di rammentarsi com'era stato fino a poco tempo
prima, di evocare il ricordo della moglie, dei figli, della sua casa, dell'azienda
e del paese straniero, ma tutto si era offuscato, come spazzato via da una
nebbia spettrale. Si sentì solo e un questuante simile al ragazzetto goffo poco
distante. La mano, che in quel momento egli posò sulla maniglia di metallo,
tremava e scottava.
Viceversa, appena entrato, la sensazione di estraneità svanì nel vedere il
vecchio domestico, smagrito e curvo, con le lacrime agli occhi.
Difatti lo accolse, balbettando e inghiottendo un singhiozzo, con
l'esclamazione: «Ah, il signor dottore!» Ulisse, dovette avere pensato il
vecchio altrettanto emozionato, i cani ti riconoscono. Ti riconoscerà anche la
padrona? Ma proprio in quell'istante la porta veniva scostata ed ecco la
signora andargli incontro allargando le braccia. Per un attimo, mentre le loro
mani rimasero l'una nell'altra, si guardarono: breve e tuttavia magica pausa di
raffronto, di osservazione, di assaggio, di riflessione accesa, di gioia pudica e
di sguardi che già nascondevano la felicità appena gustata. Poi l'interrogativo
si perse in un sorriso, lo sguardo in un saluto confidenziale. Sì, era la stessa
donna, forse solo un po' invecchiata; a sinistra una ciocca argentea si
intrometteva nei capelli sempre spartiti dalla scriminatura. Il riflesso rendeva
più calmo di una tonalità, più grave il viso mite e franco.
Bevendo la sua voce che lo salutava, quella voce soave, resa assai
familiare dall'uso del dialetto melodioso, egli avvertì la sete di anni
interminabili. «Come sei stato gentile a venire a trovarmi.»
Il timbro, puro e libero, sembrava la nota di un diapason appena percosso.
Il discorso acquistò il tono e le pause giuste, sicché anche le domande e il
racconto proseguirono come mani che si incontrino sulla tastiera. Il senso di
pesantezza e di disagio era stato fugato dalla prima sua parola, e fintantoché
lei parlò ogni pensiero dell'uomo le ubbidì. Difatti non appena tacque, forse
sopraffatta dall'emozione e perciò pensierosa, e le palpebre abbassate
nell'attimo della riflessione nascosero gli occhi, un'improvvisa domanda lo
percorse guizzando lieve come un'ombra. «Non sono le stesse labbra che ho
baciato?» Poi lei fu chiamata al telefono lasciandolo solo nella stanza. Una
folla scomposta di ricordi si avventò su di lui. Fino a quando la sua luminosa
presenza aveva dominato, quel richiamo incerto si era tenuto nascosto: ora
invece ogni poltrona, ogni quadro aveva proprie labbra lievi e ciascun oggetto
gli si rivolgeva: un mormorio non percepibile, solo a lui noto e chiaro.
In quella casa, pensò, ho vissuto e qualcosa di me è rimasto, qualcosa di
quegli anni. Allora non è vero che sono completamente là, oltreoceano, in
quello che presumo sia il mio mondo. Lei tornò, ovviamente serena, e di
nuovo gli oggetti si rintanarono. «Rimani a mezzogiorno, Ludwig?» disse con
la sua serena naturalezza. E lui rimase, rimase tutto il giorno al suo fianco e,
conversando, essi riandarono insieme agli anni passati. Solo allora, da
quando lei ne parlava in quella stanza, quegli anni gli sembrarono reali,
realmente veri e infine, allorché la porta si richiuse alle sue spalle, dopo
essersi finalmente congedato e avere baciato la sua mano soffusa di una
soavità materna, ebbe la sensazione di non essere mai partito.
Di notte, invece, rimasto solo nella scostante camera d'albergo, nient'altro
che il ticchettio dell'orologio vicino a sé e nel petto un cuore che batteva
ancor più forte, il senso di tranquillità venne meno.
Non riuscì a prendere sonno, si alzò e accese la luce, la spense subito, per
poi rimanere sdraiato senza dormire. Pensava soltanto alle sue labbra, le
ricordava diverse da quelle che aveva visto muoversi durante la
conversazione confidenziale. E tutt'a un tratto capì che fra loro quella
pacatezza, quella maniera calma di conversare, era solo una menzogna e
che nel loro rapporto c'era ancora qualcosa che non si era riscattato e sciolto,
l'amicizia non era altro che una maschera applicata artificiosamente sulla
faccia nervosa, distratta e confusa dall'inquietudine e dalla passione. Troppo
a lungo, per troppe notti, attorno al bivacco nella baracca dell'accampamento,
per troppi anni, per troppi giorni si era immaginato diversamente
quell'incontro: cadere l'uno nelle braccia dell'altra, stringersi, darsi totalmente,
lasciar scivolare a terra i vestiti. Quell'essere amici, invece, quel chiacchierare
e informarsi non potevano essere veritieri. Un attore, si disse, e un'attrice,
l'uno di fronte all'altra. Eppure nessuno dei due aveva mentito. Sicuramente
neanche lei avrebbe dormito quella notte.
La mattina seguente, quando si recò in quella casa, il suo modo di fare
distratto e la sua mancanza di controllo, il suo sguardo inafferrabile non le
sfuggirono. Infatti, dopo le prime parole ancora confuse lei non trovò più il
solito equilibrio agile nella conversazione: il tono si alzava, si abbassava,
c'erano pause e tensioni che dovevano essere scacciate con una violenta
pressione. Fra loro si era frapposto un qualcosa contro cui le domande e le
risposte urtavano ma ne erano subito inspiegabilmente respinte come
pipistrelli da un muro. Entrambi si avvidero di rasentare o scavalcare un
invisibile intralcio mentre parlavano, e il discorso, ubriacato da quel cauto
girare intorno e aggirare le parole, alla fine languì. Egli intravide il rischio e,
quando lei lo invitò di nuovo a pranzo, addusse a pretesto un urgente
colloquio in città.
Lei se ne dispiacque sinceramente, e dalla sua voce osò trasparire di
nuovo il timido calore della cordialità. E tuttavia non lo trattenne: lo
accompagnò fuori scambiando uno sguardo nervoso. I loro nervi infatti erano
come elettrizzati, il discorso era incespicato contro la barriera invisibile che li
aveva accompagnati di stanza in stanza, di parola in parola, e ormai
affaticava loro il respiro. Perciò fu un sollievo quando lui, buttatosi il cappotto
sulle spalle, arrivò sulla soglia. Ma improvvisamente si volse di scatto verso di
lei. «Veramente volevo chiederti un favore prima di andarmene.»
«Tu mi chiedi un favore?
Volentieri!» e gli sorrise, raggiante di potere soddisfare ancora una volta un
suo desiderio.
«Forse è sciocco da parte mia», disse con un'occhiata esitante, «ma
sicuramente tu capirai. Vorrei rivedere la camera, la mia camera, nella quale
ho vissuto due anni. Sono sempre stato da basso, nei saloni, nei locali dove
si ricevono gli estranei, e, vedi, se adesso partissi per sempre, non avrei
avuto la sensazione di essere stato a casa.
Invecchiando, si cerca la propria giovinezza e i piccoli ricordi allietano,
magari stupidamente.»
«Tu parli di ricordi e di invecchiare, proprio tu, Ludwig», ribatté con un tono
quasi arrogante. «Non sarai per caso diventato vanitoso!
Guardami, piuttosto, guarda questa ciocca grigia nei miei capelli. Sei un
ragazzino in confronto a me e parli già di invecchiare. Lasciami almeno
questo privilegio! Ma come ho potuto dimenticare di accompagnarti subito
nella tua stanza! Infatti è sempre camera tua. Non troverai nulla di cambiato:
in questa casa non cambia nulla.»
«Spero che anche tu non cambi», tentò di scherzare ma, fissandola, il suo
sguardo si fece involontariamente affettuoso e caldo. Lei arrossì lievemente.
«Si invecchia ma si rimane gli stessi.»
Salirono in camera sua. Mentre stavano entrando, accadde un piccolo
contrattempo increscioso: aprendo, lei era indietreggiata per lasciargli la
precedenza, ma entrambi avevano compiuto lo stesso movimento
contemporaneamente con la medesima intenzione, cosicché le loro spalle si
urtarono leggermente nel riquadro della porta. Entrambi fecero un istintivo
passo indietro, ma fu sufficiente che i loro corpi si sfiorassero per provare
imbarazzo. Senza parlare, ancor più sensibile nell'ambiente vuoto immerso
nel silenzio, allora lei ovviò a uno spiacevole inconveniente: armeggiò intorno
ai tiranti della finestra per alzare le tendine e illuminare l'umiliata oscurità
delle cose. Ma, non appena l'improvviso fiotto di luce abbagliante entrò,
parve che tutt'a un tratto anche gli oggetti ci vedessero e si agitassero inquieti
e spaventati. Si fecero avanti, l'uno dopo l'altro, e narrarono il proprio ricordo:
l'armadio che la sua mano premurosa provvedeva a riordinare, la libreria che
si riempiva accortamente assecondando i desideri momentanei dell'ospite, la
coperta allargata sul letto sotto la quale egli aveva nascosto infiniti sogni, e là
nell'angolo - e il pensiero lo fece avvampare - l'ottomana dove lei gli era
sfuggita. Ovunque, acceso da una passione bruciante e viva, l'uomo
riconobbe i segni e i messaggi della donna, la stessa che ora gli era accanto
calma, violentemente estranea, distraendo lo sguardo enigmatico. Proprio il
silenzio che giungeva da quei lontani anni e si era depositato nella stanza,
formando uno strato spesso e sotterraneo, ora si gonfiò prepotentemente,
quasi stanato dalla loro stessa presenza: come la pressione atmosferica,
esso premeva sui loro polmoni e sul loro cuore depresso. In quel momento
qualcosa doveva essere detto, doveva spazzare via quel silenzio affinché
non opprimesse più. Entrambi se ne resero conto. Lo fece lei, girandosi
all'improvviso.
«É tutto come prima, non ti pare?» iniziò con l'intenzione di fare
un'osservazione anonima e insignificante (ciononostante la sua voce tremò
come coperta da una patina). Egli non raccolse il tono, in realtà impegnativo,
della conversazione e strinse i denti.
«Sì, è vero.» Una rabbia amara, esplosa all'improvviso, gli uscì tra i denti.
«Tutto è come prima, solo noi no!»
Un morso. La frase si avventò su di lei. Spaventata, si volse.
«Che cosa intendi dire, Ludwig?» Ma non trovò il suo sguardo. Gli occhi
dell'uomo infatti non cercavano quelli della donna, ma fissavano, muti e
febbricitanti, le sue labbra che da anni non sfiorava e che un tempo gli
avevano bruciato la carne, quelle labbra che aveva sentite umide e familiari
come un frutto. Imbarazzata, lei capì che quel modo di guardarla era intriso di
erotismo, e il suo viso si soffuse di un lieve rossore, che stranamente la
ringiovanì; sicché a lui sembrò la stessa donna di allora, come nel momento
del commiato, proprio in quella stanza. Ma, cercando di allontanare da sé lo
sguardo pericoloso che la stava risucchiando, lei tentò intenzionalmente di
negare l'evidenza.
«Che cosa intendi dire, Ludwig?» ripeté, senonché era una supplica - la
preghiera che non si spiegasse - piuttosto che la richiesta di una risposta.
Egli fece un gesto risoluto, fermo: con tutto il suo vigore maschile le catturò
lo sguardo. «Tu non vuoi capire, ma io so che mi capisci.
Ricordi questa stanza e la promessa che, proprio qui, mi hai fatto... non
appena sarei tornato...»
Le sue spalle tremavano, ma cercò di difendersi ancora: «Lascia perdere,
Ludwig... E una storia vecchia, non rivanghiamola. Ma dov'è il tempo?»
«Dentro di noi», rispose sicuro, «nella nostra volontà. Ho aspettato nove
anni stringendo i denti. Ma non ho dimenticato nulla. E adesso ti domando:
ricordi la promessa?»
«Sì», e lo osservò più calma, «anch'io non ho dimenticato nulla.»
«E vuoi», dovette prendere fiato perché le sue parole ritrovassero forza,
«vuoi mantenerla?»
Il rossore le imporporò le guance e montò fin sotto i capelli. Gli andò vicino
conciliante. «Ludwig, rifletti! Dicevi che non hai dimenticato nulla, ma non
dimenticare che ora io sono quasi una donna vecchia.
Quando vengono i capelli grigi, non si ha più niente da desiderare, non si
ha niente da dare. Ti prego, non toccare il passato.»
Senonché si impossessò di lui il piacere di essere duro e deciso. «Tu mi
sfuggi», disse con insistenza, «ma io ho aspettato troppo tempo e adesso ti
chiedo: ricordi la tua promessa?»
La sua voce vacillò a ogni parola. «Perché me lo chiedi? Non ha senso che
io te lo dica adesso, adesso che è troppo tardi. Ma ti rispondo, se pretendi
una risposta. Non sono mai stata capace di rifiutarti alcunché, sono sempre
stata tua dal giorno che ti ho conosciuto.»
Egli la fissò: com'era sincera anche in un attimo di turbamento, limpida,
autentica, senza alcuna viltà, senza pretesti, sempre lei, l'amata,
stupendamente coerente in ogni momento, discreta e insieme aperta.
Istintivamente le andò appresso ma lei, non appena scorse irruenza nel suo
movimento, si mise sulla difensiva, già supplicandolo.
«Vieni, Ludwig, adesso vieni. Non restiamo qui, scendiamo da basso. É
mezzogiorno e da un momento all'altro la cameriera può venire a cercarmi.
Non possiamo rimanere qui ancora.»
E così la forza del suo essere piegò irresistibilmente la volontà dell'uomo.
Esattamente come allora, egli le ubbidì senza parlare.
Scesero nel salone, passando dal vestibolo e arrivando fino alla porta
d'ingresso, senza arrischiare una sola parola e senza guardarsi. Sulla soglia
egli si girò di scatto verso di lei. «Ora non riesco a parlarti, perdonami. Voglio
scriverti.»
Lei gli sorrise visibilmente grata. «Sì, scrivimi, Ludwig, è meglio così.»
E, rientrato nella sua camera d'albergo, si mise immediatamente a tavolino.
Scrisse una lunga lettera, lasciandosi trasportare dalla forza sempre meno
resistibile di una passione ripudiata per una reazione inattesa.
É il mio ultimo giorno in Germania, me ne andrò per mesi, per anni, forse
per sempre e non posso partire /poetando con me la menzogna di una fredda
conversazione, in un incontro formale costretto all'insincerità.
Voglio, devo parlarti un'altra volta da sola, fuori di casa, senza patemi e
ricordi, sottratta alla cupezza di ambienti sorvegliati e scostanti. Quindi ti
propongo di accompagnarmi a Heidelberg con il treno della sera, dove siamo
stati entrambi un decennio fa per un breve soggiorno,, ancora estranei l'uno
all'altro e nondimeno animati dal presagio di una vicinanza più intima. Oggi
sarà però l'addio, l'ultimo e il più autentico.
Ti chiedo questa sera, questa notte.
Sigillò la lettera alla svelta e la fece recapitare da un fattorino.
Costui fu di ritorno in un quarto d'ora con una piccola busta sigillata con la
ceralacca gialla. Egli la lacerò con la mano che gli tremava.
Conteneva un biglietto, poche parole scritte con la sua grafia ferma e
decisa, magari in fretta ma con vigore.
Ciò che mi chiedi è una follia, ma non ho mai potuto né mai potrò rifiutarti
alcunché. Vengo.
Il treno rallentò l'andatura: una stazione, tutta illuminata, lo aveva costretto
a frenare la marcia. Lo sguardo del sognatore uscì, sollevandosi, dalla
visione interiore e si protese in avanti a tentoni per rivedere la figura appena
sognata, dirimpetto a lui e sprofondata nella penombra. Sì, era lei, la donna
fedele e innamorata come sempre pur nel silenzio. Era venuta con lui, da lui ed egli abbracciava la sua presenza reale. Come se quella investigazione e
quel tocco timido e carezzevole avessero scoperto qualcosa nel suo intimo,
lei si alzò e si mise a guardare attraverso il vetro del finestrino, dietro il quale
stava scivolando un paesaggio incerto, umido e primaverilmente scuro come
acqua luccicante.
«Presto saremo arrivati», disse quasi a se stessa. «Sì», le rispose traendo
un profondo sospiro, «è durato molto.»
Nemmeno lui seppe se, con quel gemito d'impazienza, avesse inteso il
viaggio oppure i lunghi anni fino a quel momento: l'indecisione, sospesa tra
irrealtà onirica e concretezza reale, lo confuse. Sentiva sotto di sé lo
sferragliare delle ruote che correvano verso qualcosa, incontro a un attimo
che, riaffiorando da una strana sorda oscurità, egli non seppe visualizzare.
No, non pensare all'attimo fuggente, lasciati trasportare da questa misteriosa
forza fino al momento magico, senza provare alcun senso di responsabilità,
le membra rilassate. C'era in lui una specie di attesa nuziale, dolce e
sensuale, ma anche oscuramente accompagnata dal timore presago
dell'appagamento, dal brivido mistico che sopraggiunge allorquando l'oggetto
del desiderio si avvicina al cuore stupito. Adesso non pensare a nulla, non
volere, non desiderare nulla, resta così, trascinato come in sogno nell'incerto,
portato da una corrente ignota, non sfiorandosi e tuttavia sentendosi,
desiderandosi e non raggiungendosi, interamente in balìa del destino e
insieme restituiti alla propria identità. Restare così, ancora per ore, per
un'eternità in codesta alba, circondati dai sogni: ma già, come una lieve
ambascia, si annunciò il pensiero che tutto finisse.
Eppure nella valle, come miriadi di lucciole, tremolavano scintille elettriche
sempre più luminose, lanterne velocissime si disponevano in file doppie
parallele, le rotaie si incrociavano stridendo e dall'oscurità si sollevava una
pallida cupola di vapore più chiaro.
«Heidelberg», disse, alzandosi in piedi, uno dei signori agli altri.
Tutti e tre riempirono le loro gonfie borse da viaggio e, onde arrivare primi
all'uscita, si affrettarono fuori dallo scompartimento. Le ruote, trattenute dai
freni, si incastrarono incespicando e sferragliando nello scambio della
stazione. Ci fu uno scossone secco e violento, quindi la corsa si arrestò e le
ruote ripresero a frignare come animali torturati.
Per un secondo rimasero seduti da soli, l'uno di fronte all'altra, entrambi
spaventati dall'improvvisa realtà.
«Siamo già arrivati?» Una domanda involontariamente angosciata.
«Sì», rispose lui e si alzò. «Posso aiutarti?» Ma lei si schermì e lo
precedette. Si fermò tuttavia sul predellino della carrozza: il suo piede esitò a
scendere come temendo l'acqua gelida. Poi prese lo slancio ed egli la seguì.
Per alcuni attimi rimasero fermi sul marciapiede: l'uno vicino all'altra,
sconcertati, perplessi, emozionati, e la piccola valigia gli pesò nella mano
oscillando. Fu proprio in quel momento che la locomotiva sbuffante espulse
un getto di vapore lucente a pochi passi da loro. Lei rabbrividì e, pallida, lo
guardò con occhi confusi e insicuri.
«Che cos'hai?»
«Peccato, era così bello. Si va, si va, nient'altro. Mi sarebbe piaciuto
continuare così per ore e ore.»
Egli tacque. Aveva avuto lo stesso pensiero. Ma ora il viaggio era finito:
qualcosa doveva accadere.
«Non vogliamo muoverci?» le chiese prudente.
«Sì, sì, andiamo», sussurrò lei con un mormorio appena udibile. Invece
rimasero placidamente l'uno accanto all'altra; pareva che qualcosa si fosse
rotto dentro di loro. Poi, finalmente (egli però si dimenticò di prenderle il
braccio), s'incamminarono verso l'uscita un po' indecisi e turbati.
Uscirono dalla stazione ferroviaria, ma appena varcarono le porte, un
frastuono, simile a un temporale, interrotto da rulli di tamburi e sovrastato da
fischi, li aggredì. Uno strepito pazzesco, assordante. Era una manifestazione
di associazioni di combattenti e di studenti. Un muro che camminava.
Scaglioni di quattro file con bandiere e gagliardetti.
Uomini in divisa militare marciavano a passo di parata all'unisono, tanto
che il rombo sembrava prodotto da un solo uomo: il collo rigido all'indietro,
una micidiale determinazione, la bocca spalancata per cantare, un'unica
voce, un unico passo, un'unica cadenza. Aprivano il corteo generali, vegliardi
canuti sovraccarichi di medaglie, affiancati dalla squadra giovanile: giovani
atletici, rigidi come fusi, reggevano bandiere gigantesche perfettamente
verticali, sventolando teste da morto, croci uncinate, antichi vessilli imperiali,
busto in fuori, testa alta, come se andassero incontro alle batterie nemiche.
Masse geometriche, ordinate, avanzavano, pareva, al segnale di un pugno
che dava il tempo, tenendo il passo e rispettando la distanza calcolata con il
compasso, ogni nervo teso dalla serietà dell'impegno, uno sguardo feroce in
faccia, e ogni volta che un nuovo scaglione - veterani, gioventù, studenti sfilava sotto il palco sopraelevato, dove con caparbietà un frastornante
congegno a orologeria frantumava ritmicamente l'acciaio su un invisibile
incudine, una scossa percorreva, con linearità militare, la moltitudine di teste:
i colli si buttavano a sinistra, mossi dalla medesima volontà, con movimenti
coordinati; le bandiere, azionate da fili, sussultavano al cospetto del capo
dell'esercito il quale, una faccia di pietra, prendeva in consegna la parata dei
civili.
C'erano sbarbati, imberbi, butterati, rugosi, operai, studenti, soldati o
ragazzi: tutti, in quel secondo, avevano la stessa faccia dallo sguardo duro,
deciso e furente, il mento dell'arroganza e il gesto di chi, non visto, impugna
la spada. Plotone dopo plotone, il ritmo dei tamburi, un rombo esemplare
nella sua monotonia, martellava le schiene irrigidendole, induriva gli occhi: la
fucina della guerra, della vendetta, era stata montata su una pacifica piazza
in un cielo spazzato con dolcezza da nuvole miti.
«Una follia», incredulo balbettò a se stesso barcollando. «Una follia!
Che cosa vogliono? Che cosa vogliono? Un'altra volta, un'altra volta?»
Ancora una guerra, la stessa che gli aveva già mandato in frantumi la vita?
Scosso da uno strano brivido, egli guardò dentro le giovani facce, fissò la
massa nera avanzante, quattro file per volta, una pellicola quadrata che si
srotolava fuoriuscendo da una strada stretta di una scatola buia. E ogni volta
che ne coglieva una, era una faccia altrettanto rigida, astiosa e determinata:
una minaccia, un'arma. Perché questa minaccia inastata con un boato in una
mite sera di giugno, incuneata in una sognante e amichevole città?
«Che cosa vogliono? Che cosa vogliono?» La domanda lo strozzava.
Aveva appena visto il mondo chiaro e tintinnante come vetro, soleggiato dalla
tenerezza e dall'amore, si era addormentato cullato da una melodia piena di
bontà e di fiducia e ora il passo ferreo di una massa brancicava e calpestava
ogni cosa. Cinturoni militari, mille voci e mille modi e tuttavia un unico urlo
pulsante nel grido e nello sguardo: odio, odio, odio.
Con un gesto istintivo le afferrò il braccio per sentire qualcosa di caldo,
amore, passione, bontà, affetto, un sentimento tenero e tranquillizzante. Ma
con il loro baccano i tamburi gli fracassarono il silenzio interiore e subito le
migliaia di voci intonarono un frastornante e incomprensibile canto di guerra.
La terra, percossa dai passi battuti a tempo, tremò, l'aria, trafitta
dall'improvviso urrah gridato dall'enorme branco umano, esplose. Egli ebbe la
sensazione che, dentro di sé, un suono delicato si spegnesse al terribile urlo
montante della realtà.
Una lieve pressione al fianco lo fece sussultare: la mano inguantata di lei lo
ammoniva a non stringere il pugno così furiosamente. Sicché egli volse lo
sguardo tuttora catturato dalla parata, mentre lei lo fissava con un'aria
supplichevole senza parlare.
Avvertendo solo sul braccio una lieve insistenza, mormorò: «Sì, andiamo»,
come concentrandosi. Alzò le spalle quasi a difendersi da un pericolo
invisibile e si dette uno slancio violento per attraversare la massa umana
gelatinosa, stipata e fumante, che osservava inebetita, muta come lui e
altrettanto ammaliata dall'interminabile avanzata delle legioni militari. Non
sapeva dove andare una volta apertosi un varco, sapeva soltanto questo,
doveva allontanarsi dall'assordante tumulto, via di lì, da quella piazza, dove
un mortaio stritolava a un ritmo impietoso la lievità e il sogno ammassati al
suo interno. Andare via, essere solo con lei, con lei sola, nel buio, sotto un
tetto, sentirne il respiro, per la prima volta da dieci anni non sorvegliato,
guardare indisturbato nei suoi occhi, godere il dono di stare insieme, evocato
in tanti sogni e ora come spazzato via dall'ondata umana inarrestabile. Il suo
sguardo graffiò nervosamente le case, tutte quante pavesate; in mezzo,
tuttavia, ce n'erano alcune dove un seguito di lettere d'oro annunciava una
ditta commerciale o una locanda.
All'improvviso percepì la leggera trazione della valigetta, che nella mano lo
avvisava: fermati in qualunque luogo, anche isolato ma sicuro!
Comperati una manciata di pace, qualche metro di spazio! E, come
rispondendogli, su un'alta facciata di pietra spiccò il nome sfavillante di un
albergo. Il portale si inarcò dinanzi a loro. I suoi passi si fecero brevi, il respiro
affannoso. Si arrestò, quasi sorpreso, e istintivamente il suo braccio si staccò
da quello di lei. «Dev'essere un buon albergo: me lo hanno raccomandato.» Il
nervosismo e il disagio lo fecero mentire.
Lei arretrò spaventata. Il sangue le inondò il viso pallido e le sue labbra si
mossero per dire qualcosa - forse le stesse parole di dieci anni prima, quel
precipitoso strappato «Non ora! Non qui!»
Ma proprio in quell'istante intercettò lo sguardo dell'uomo, fisso su di lei,
uno sguardo ansioso, turbato, irrequieto, sicché abbassò la testa
consenziente e lo seguì a piccoli passi scoraggiati fin su davanti all'ingresso.
Nell'angolo, dove c'era la réception dell'albergo, con un berretto colorato in
testa e l'aria boriosa del capitano di una nave dall'alto della coffa, il portiere
sostava giocherellando dietro il tramezzo che gli assicurava il necessario
distacco. Non mosse un passo verso la coppia che entrava con una certa
esitazione; solo uno sguardo, fugace e già sprezzante, si fermò di striscio
sulla piccola ventiquattr'ore per una rapida stima. Aspettò che i due si
avvicinassero e all'improvviso sembrò riassorbito dalle pagine aperte
dell'enorme brogliaccio. Solo quando il facente richiesta gli fu a pochi
centimetri, sollevò uno sguardo freddo e, ai fini di un esame serio e concreto,
chiese: «I signori hanno prenotato?» per rispondere al diniego quasi
colpevole cominciando a sfogliare daccapo. «Temo che sia tutto occupato.
Oggi abbiamo avuto la consacrazione delle bandiere ma...» aggiunse
compiacente, «vedrò quel che si può fare.»
Gli spaccherei il grugno, se potessi, a questo becero tronfio, pensò umiliato
con amarezza, sentendosi ridiventare un questuante, un mendico e un
intruso come un decennio prima. Senonché il borioso aveva intanto terminato
la sua puntigliosa verifica.
«La 27 si è liberata proprio adesso, una camera doppia, sempre che le
interessi.» Non gli rimase altro da fare che aggiungere un rapido
«Va bene», in tono risentito, mentre la mano inquieta afferrava già la
chiave che le veniva porta, impaziente di frapporre pareti mute tra sé e
l'uomo. Il supplizio non era però finito: alle sue spalle una voce grave ripeté
con insistenza: «La registrazione, per favore», e gli fu sottoposto un foglio
quadrangolare spezzettato in dieci, dodici caselle da riempire: nome,
cognome, età, provenienza, luogo di nascita e nazionalità. Il questionario
ufficiale per ogni essere vivente. La pratica disgustosa fu espletata con un
lapis volante. Solo mentre scriveva il nome di lei mentendo perché lo unì al
proprio come se fosse sua moglie (ed era stato il suo segreto più recondito) _
la matita leggera tremò goffamente nella mano. «E qui la durata del
soggiorno», reclamò l'altro, spietato, controllando quello che era stato scritto
e puntando il dito carnoso sulla casella ancora vuota. «Un giorno», registrò il
lapis furente. Si sentì la fronte madida di sudore dall'eccitazione e fu costretto
a togliersi il cappello. L'aria estranea gli era insopportabile.
«Primo piano a sinistra», spiegò, accorrendo prontamente in aiuto, un
cameriere esperto in cortesie, allorquando l'ospite dette segno di essere
esausto e si volse a guardare da un lato. Ma egli cercava solo lei: durante
l'interminabile procedura era rimasta in piedi immobile a osservare, con
interesse spasmodico, un affisso che annunciava la serata schubertiana di
una famosa cantante; eppure, mentre sembrava assorbita dalla lettura,
un'onda tremolante, come vento che increspasse un prato, era scivolata sulle
sue spalle. Vergognandosi, egli aveva notato la sua eccitazione, controllata
con un grande sforzo, e quasi istintivamente aveva pensato: ma perché l'ho
strappata alla sua pace, portandola qui?
Ma era una via senza ritorno. «Vieni», insistette a bassa voce. Allora,
senza guardarlo in faccia, si staccò dall'affisso e lo precedette su per la scala,
lentamente, faticosamente, a passi pesanti: come una vecchia, gli venne fatto
di pensare.
Lo aveva pensato per un secondo mentre, la mano sulla balaustra, la
donna saliva i pochi gradini a fatica. Ma poi aveva scacciato il cattivo
pensiero. A quella sensazione, rimossa alla svelta, si era sostituito un senso
di freddo che gli provocava dolore.
Erano finalmente arrivati di sopra, nel corridoio: un'eternità i due minuti di
silenzio. Una porta aperta, era la loro stanza. La cameriera, che armeggiava
con uno straccio della polvere e una scopa, si scusò: «Un attimo, mi sbrigo
subito. La camera è stata appena liberata, ma i signori possono già entrare.
Devo solo portare le lenzuola pulite».
Entrarono. L'aria era stagnante e dolciastra. L'ambiente non areato sapeva
di saponetta al gusto di oliva e di fumo di sigarette stantio; in un certo senso
era rimasta la scia amorfa di estranei. Occupava il centro del locale il letto
matrimoniale sfatto, sfrontato e fors'anche ancora caldo: ma ne era lo scopo
e il senso palese. Egli si sentì disgustato di fronte a tale smaccata evidenza
e, con un moto istintivo, corse fino alla finestra. La spalancò: un'aria molle e
umida, mescolata al rumore svaporato della strada, fluì lentamente
rasentando le tende che ondeggiavano arretrando. Restò davanti alla finestra
aperta e osservò intensamente i tetti ormai scuri. Com'era brutta quella
stanza, com'era umiliante essere lì e deludente lo stesso trovarsi insieme
sospirato da anni ma che né lui né lei avevano voluto così inaspettatamente e
vergognosamente nudo! Tre, quattro, cinque inspirazioni - le contò - e poi
guardò fuori non riuscendo per viltà a trovare la prima parola. E allora no, non
importa. Esattamente come aveva previsto, come aveva temuto, si era
irrigidita, una pietra, nel suo soprabito grigio, le braccia flosce, spezzate. Era
ferma al centro della camera quasi fosse una cosa che non appartenesse a
quel luogo, ma fosse finita lì, in quell'ambiente osceno, per cause di forza
maggiore, per sbaglio. Si era sfilata i guanti, evidentemente con l'intenzione
di levarli, ma doveva avere provato quasi un senso di nausea all'idea di
posarli in un punto qualsiasi di quella stanza: sicché penzolavano nelle sue
mani, due involucri vuoti. I suoi occhi si erano bloccati come dietro a un velo
spesso e rigido: ma quando egli si voltò, si spinsero fino a lui come per
supplicarlo. Egli capì. «Non vogliamo», e la sua voce incespicò nel respiro
trattenuto, «non vogliamo andare a fare una passeggiata?... É così squallido
e triste qui.»
«Sì, sì.» La voce sgorgò come finalmente liberata - piuttosto erano state
tolte le catene alla sua angoscia. La sua mano stava già afferrando la
maniglia. Egli la seguì più adagio e la osservò: le sue spalle tremavano come
quelle di un animale sfuggito alla micidiale presa degli artigli.
La strada aspettava calda e percorsa da ondate umane: il flusso torrentizio
era agitato dall'acqua mossa nella scia della sfilata ufficiale. Svoltarono nei
vicoli laterali, più tranquilli, verso il sentiero nel bosco che, dieci anni prima, li
aveva condotti al Castello in un'escursione domenicale. «Ricordi? Era
domenica», disse lui involontariamente ad alta voce, e lei, intrattenuta dallo
stesso ricordo, rispose sommessamente: «Non ho dimenticato nulla se c'eri
tu.
Otto parlava con il suo compagno di scuola, quasi correvano ed erano
avanti un bel pezzo da noi - li stavamo per perdere nel bosco. Lo chiamai più
volte perché tornasse indietro. Ma non ero sincera: mi premeva di rimanere
sola con te; e pensare che allora non ci conoscevamo nemmeno».
«Anche oggi», tentò di scherzare. Ma lei tacque. Non avrei dovuto dirglielo,
e per un'oscura percezione si domandò: che cosa mi spinge a confrontare
sempre il passato e il presente? Come mai oggi non mi riesce di dirle una
sola parola? Immancabilmente si frappone tra noi il passato, un tempo ormai
scaduto.
Salirono in silenzio verso la vetta. Sotto di loro le case si stringevano, come
rintanandosi nella luce diafana, mentre dalla valle in penombra fuoriusciva il
profilo sinuoso del fiume più chiaro. Lassù, intanto, gli alberi stormivano e
inviavano il buio sui due passanti. Non venne loro incontro nessuno, davanti
a loro avanzavano in silenzio solo le loro ombre. E quando un lampione
illuminava obliquamente le loro figure, le ombre si liquefacevano come se si
abbracciassero, si protendevano l'una verso l'altra spinte da un desiderio
nostalgico, diventavano un'unica immagine, essendosi i loro corpi fusi, poi si
staccavano e subito si riabbracciavano. Essi procedevano stanchi, dilatando i
polmoni. Ammaliato dal gioco stravagante, lui osservò il fuggire, il trovarsi e
abbandonarsi delle sagome inanimate - corpi umbratili che nondimeno erano
il riflesso dei propri, con una curiosità malata e dimenticò quasi la figura viva
al suo fianco, la quale avanzava sopra la nera fantasmagoria fluida e
inconsistente. Non pensò ad alcunché di preciso e tuttavia percepì, per il
momento in modo vago, che il timido gioco gli additava qualcosa, forse un
fiotto che scaturiva dentro di sé e zampillava crescendo ansiosamente, come
se il secchio della memoria si avvicinasse inquieto e minaccioso. Che
cos'era?
Sollecitò i propri sensi per capire che cosa gli rammentasse il movimento
delle ombre nel bosco addormentato: dovevano essere parole, una
situazione, parte del suo vissuto, qualcosa che aveva udito avvolto da una
melodia, ma seppellito molto in fondo e che non aveva sfiorato per anni.
E all'improvviso si aprì una fenditura, una fessura lampeggiante nelle
tenebre dell'oblio: erano parole, una poesia letta da lei una sera nella sala.
Una poesia, sì, una poesia francese. Ne sapeva le parole: come portati da un
vento caldo, i versi dimenticati di una poesia straniera avevano scavalcato un
decennio. Li udì sempre letti dalla sua voce:
Dans le vieux parc solitaire et glacé Deux spectres cherchent le passé
Non appena quei versi rifulsero nella sua mente, una visione si ricompose
velocemente come per incanto: la lampada con la sua luce dorata nel salone
oscurato dove lei, una sera, gli aveva letto la poesia di Verlaine. La vide
schermata dall'ombra del lume, seduta come allora e come allora vicina e
insieme lontana, amata e irraggiungibile. Sentì il proprio cuore di allora
martellare dall'eccitazione, udì la voce di lei fluttuare sull'onda melodiosa del
verso, pronunciare, come nella poesia - anche se non soltanto nella poesia parole come «nostalgia» e «amore», pensate in una lingua straniera per
stranieri, parole tuttavia inebrianti perché dette da quella voce, la sua. Come
aveva potuto dimenticare, per tanti anni, quella poesia e quella sera in cui,
soli in casa e confusi nel ritrovarsi soli, erano fuggiti dal discorso scabroso
nelle più socievoli contrade della letteratura dove, a volte, dietro le parole e la
melodia, si scorgeva la spiegabile confessione di un sentimento piuttosto
intimo, quasi un bagliore nel roveto, ineffabilmente lucente e nondimeno
capace di infondere gioia senza altre presenze. Come aveva potuto
dimenticare per tanto tempo? Ma, anche, come mai quella poesia perduta era
tornata? Inconsciamente pronunciò e tradusse per sé i versi:
Nell'antico parco solitario e innevato due spettri vagavano cercando il
passato e ne comprese il significato: ora, nella sua mano c'era la chiave,
pesante e luminosa, l'associazione che aveva strappato un ricordo nitido,
concreto, chiaro alla miniera sonnecchiosa. Non erano state le ombre sulla
strada a urtare le antiche parole e a risvegliarle? Sì, ma c'era dell'altro.
Rabbrividendo, egli colse l'inatteso senso dell'intuizione appena stanata,
parole dal significato divinatorio: non erano state loro, le ombre, a cercare il
passato, a porre domande oscure a un «allora» non più reale? Ombre che
desideravano tornare a vivere, ma che non potevano rivivere, né loro né lui
nell'istante in cui le ricercava e intanto, in una vana fatica, cercava se stesso,
fuggendo da sé e tuttavia trattenendosi con sforzi irreali ed esangui, spettri
neri davanti ai loro piedi?
Forse, inconsciamente, egli emise un gemito. Lei si volse a guardarlo:
«Che cos'hai, Ludwig? A che cosa stai pensando?»
Si schermì con la mano. «Niente, niente!» e tese l'orecchio per udire dentro
di sé il suo subconscio, richiamare il tempo trascorso, se mai quella voce, la
voce profetica della memoria, gli volesse parlare un'altra volta e, assieme al
passato, svelargli il presente.
7 - Era lui?
Personalmente sono sicura che sia stato lui, l'assassino, ma mi manca
l'ultima prova, quella inconfutabile. «Betsy», mi dice sempre mio marito, «sei
una donna intelligente, hai una vista acuta e rapida, ma ti lasci fuorviare dal
tuo carattere e spesso dai giudizi avventati.» In fin dei conti, mio marito mi
conosce da trentadue anni e forse, anzi probabilmente, ha ragione con il suo
ammonimento. Dunque, devo costringermi a viva forza a essere più accorta,
mancandomi per l'appunto l'ultima prova che scacci qualunque mio sospetto.
Ma, ogniqualvolta lo incontro e lui viene verso di me, bonario e amichevole,
mi si ferma il cuore e una voce interiore mi dice: è stato lui l'assassino,
nessun altro.
Perciò tenterò di ricostruire lo svolgimento dei fatti davanti ai miei occhi e
per me sola. Circa sei anni fa mio marito finì di prestare servizio nelle colonie
- era un alto funzionario del governo - e insieme decidemmo di ritirarci in una
piccola località della provincia inglese i nostri figli sono sposati da lungo
tempo -, dove vivere in pace gli ultimi giorni, ormai un po' freddi come sul far
della sera, godendo le piccole gioie della vita, quali i fiori e i libri. La nostra
scelta cadde su un piccolo centro di campagna nelle vicinanze di Bath. Dopo
la vecchia venerabile città, dopo essere passato serpeggiando sotto vari
ponti, uno stretto placido corso d'acqua si inoltra nella verde vallata di
Limpley Stoke: è il canale Kenneth-Avon. Questa via d'acqua, dispendiosa e
pittoresca, era stata costruita oltre mezzo secolo prima, e dotata di chiuse di
legno e di stazioni di rifornimento idrico, per il trasporto del carbone da Cardiff
a Londra. Sulla stretta sterrata, a destra e a sinistra del canale, i cavalli
trainavano, con fatica, i larghi barconi neri, e il tragitto era lungo. Per
un'epoca nella quale il tempo aveva ancora scarso valore, era stato un
progetto ambizioso.
Senonché poi venne la ferrovia che fece arrivare nella capitale i carichi neri
più alla svelta e comodamente, ma anche con minor spesa.
Allora il traffico ristagnò, i guardiani delle chiuse furono licenziati, il canale
perse la sua vivacità e si impaludò, ma per l'appunto questo abbandono e
inutilità lo rendono oggi così romantico e incantevole.
Nell'acqua stagnante scura le alghe crescono dal fondo fitte fitte, sicché la
superficie liscia ha riflessi fosforescenti verde scuro come la malachite e,
nella sua immobilità sognante, rispecchia i pendii fioriti, i ponti e le nuvole,
con una fedeltà fotografica, fra le ninfee colorate che si lasciano cullare. Di
tanto in tanto si vede sulla riva, in parte sprofondata e ricoperta di
vegetazione variopinta, una vecchia chiatta in rovina a testimonianza di un
passato solerte. I chiodi di ferro delle chiuse sono arrugginiti ormai da tempo
e rivestiti dai muschi folti. Nessuno si cura più dell'antico canale, non lo
conoscono neppure gli ospiti delle terme di Bath, e quando noi due vecchietti
passeggiavamo sul sentiero piano lungo le ripe, da dove un tempo i cavalli
trainavano con le funi i barconi, per ore e ore non incontravamo nessuno
fuorché una coppietta di innamorati che nascondeva il proprio amore,
fintantoché non fosse sancito anche dal fidanzamento o dalle nozze, in questi
posti fuori mano, lontani dalle chiacchiere dei vicini.
Proprio quel corso d'acqua, placido e romantico, al centro di un paesaggio
dolce e collinoso, ci piacque oltre misura. Acquistammo un terreno in un tratto
in cui la collina di Bathampton digrada dolcemente verso il canale in un bel
prato rigoglioso; l'appezzamento sembrava situato nel vuoto. In cima
costruimmo una piccola casa di campagna; dal giardino si scendeva al
canale su comodi sentierini tra la frutta, la verdura e i fiori e quindi, quando ci
sedevamo sulla nostra piccola terrazza aperta ai bordi dell'acqua, potevamo
vedervi riflessi il nostro prato, la casa e il giardino. La casa era tranquilla e
comoda più di quanto avessi sognato e mi lamentavo solo che fosse un po'
isolata, senza vicini. «Verranno», mi consolava mio marito, «aspetta soltanto
che si accorgano di come si sta bene qui.» E difatti, i nostri peschi e susini
non avevano ancora messo le radici che un giorno fecero la loro apparizione i
messaggeri della costruzione vicina: prima, agenti immobiliari, poi geometri e
infine muratori e carpentieri. In dodici settimane, una casetta con il berrettino
di coppi rossi si piazzò gentilmente a fianco della nostra; poi arrivò
strombazzando il furgone con il mobilio. Sentivamo, nella pace dell'aria,
martellare senza sosta, battere e picchiare, ma non avevamo ancora visto in
faccia i nostri vicini.
Una mattina udii bussare all'uscio. Una donna esile e carina con un paio di
occhi svegli e cordiali, di ventotto, ventinove anni a dir tanto, si presentò
come la vicina e chiese in prestito una sega perché, disse, gli artigiani
l'avevano dimenticata. Attaccammo discorso. Lei raccontò che il marito era
impiegato in una banca di Bristol ma che da tempo desideravano trasferirsi
nel verde, lontano dalla città; una domenica, mentre passeggiavano lungo il
canale, si innamorarono subito della nostra casa. «Certo», fece la donna,
«per mio marito un'ora di viaggio al mattino e una alla sera sono un bel
disagio, ma saprà trovarsi la compagnia e si abituerà alla svelta.»
L'indomani noi contraccambiammo la visita. La donna era sempre sola in
casa e ci raccontò che il marito sarebbe venuto a lavoro finito: prima non
serviva e in fin dei conti non c'era fretta. Non so perché, ma l'indifferenza,
anzi la contentezza con cui parlava dell'assenza del marito non mi piacque
affatto. Quando tornammo a casa, seduti a tavola, osservai che secondo me
a quella, a giudicare almeno dalle apparenze, non importava granché del
coniuge. Mio marito mi rimproverò ripetendomi di non tranciare giudizi così
precipitosi; a suo parere era invece una donna simpatica, intelligente e
gradevole e sperava che anche il marito fosse come la moglie.
Ebbene, non trascorse molto che lo conoscemmo. Era un sabato e
uscimmo per la consueta passeggiata serale. A un tratto udimmo dei passi
affrettati e pesanti che ci seguivano, e, voltandoci, vedemmo un uomo grande
e grosso alle nostre spalle, il quale ci tendeva una mano larga, arrossata e
lentigginosa. «Sono il vostro vicino», disse, «e ho sentito che siete stati molto
gentili con mia moglie. Ovviamente è assai sconveniente da parte mia avervi
rincorsi in maniche di camicia, invece di farvi una visita di cortesia secondo
tutti i crismi, ma, che cosa volete, mia moglie mi ha intessuto tanti elogi sul
vostro conto che non ho saputo pazientare un solo minuto e sono venuto a
ringraziarvi. Sono io, mi chiamo John Charleston Limpley e non è stupendo
che abbiano intitolato la valle a Limpley Stoice ancor prima che io volessi
venirvi ad abitare? BÉ, adesso sono qui e spero di restarci finché Dio mi
consentirà di vivere.
Lo trovo un posto meraviglioso, più bello di qualunque altro al mondo e vi
giuro, con la mano sul cuore, di essere un buon vicino discreto.» Parlava così
veloce, se si può dire come un treno, che non ebbi mai l'opportunità di
interromperlo, ma almeno mi rimase il tempo sufficiente di osservarlo a fondo.
Quel Limpley era un pezzo d'uomo, alto a dir poco un metro e ottanta e con
due spalle quadrate da far invidia a un facchino, ma, come accade spesso ai
giganti, era di una bonarietà fanciullesca. Strizzava gli occhi stretti e
leggermente acquosi con le ciglia rossastre a chiunque esprimendo fiducia e,
parlando, rideva e scopriva i denti bianchi e lucidi; delle grosse, pesanti mani
non sapeva bene che cosa farsene, stentava a tenerle ferme e si capiva che
gli sarebbe piaciuto batterle cameratescamente sulla spalla di chi incontrava,
tanto che, per sfogare la sua forza, faceva scricchiare, se non altro, le
giunture delle dita.
Ci domandò se poteva accompagnarci nella nostra passeggiata così
com'era in maniche di camicia e, quando noi assentimmo, si mise al nostro
fianco. Ci raccontò per filo e per segno di essere originario della Scozia da
parte materna, ma di essere cresciuto in Canada e, intanto che parlava,
additava o un albero rigoglioso o un bel pendio commentando: «E
meraviglioso, davvero stupendo!» Parlò, rise e si entusiasmò senza mai una
pausa. Da quell'uomo imponente, sano e vitale sgorgava una benefica
corrente di forza e di felicità che, senza accorgerti, ti travolgeva.
Quando si accomiatò, noi due ci sentimmo come riscaldati. «A dir la verità,
è da tanto che non incontro una persona così cordiale e vivace», disse mio
marito il quale, come ho già avuto modo di notare, era sempre molto cauto e
riservato nel giudicare la gente.
Ma dopo qualche tempo il nostro iniziale entusiasmo per il nuovo vicino
cominciò a descrescere sensibilmente. Sotto il profilo umano non c'era nulla
da ridire sul conto di Limpley: era d'animo buono, partecipe e servizievole ma spesso si era costretti a rifiutare le sue insistenti offerte -, era educato,
onesto, leale e nient'affatto stupido. Senonché con il passare dei giorni non si
riuscì più a sopportarne i modi esuberanti di essere permanentemente felice.
I suoi occhi acquosi sprizzavano sempre soddisfazione per tutto e tutti.
Qualunque cosa possedesse e chiunque incontrasse erano persone o cose
meravigliose, wonderful: sua moglie era la migliore donna del mondo, le sue
rose le più belle, la sua pipa la migliore con il tabacco migliore. Passava
persino un quarto d'ora a convincere mio marito che la pipa si caricava solo
nel modo in cui la caricava lui e che il suo tabacco costava un penny meno
pur essendo più buono anche di quello di marche costosissime.
Sfogando l'eccedente entusiasmo per inezie, cose davvero insignificanti e
ovvie, non resisteva alla tentazione di dimostrare e spiegare dettagliatamente
le tante delizie. Il suo motore scoppiettante non si fermava mai. Limpley non
poteva lavorare in giardino senza cantare a squarciagola, senza parlare,
ridere e gesticolare, non poteva leggere il giornale senza balzare in piedi alla
prima notizia che lo eccitasse e correre di qua da noi. Le sue mani larghe e
coperte di lentiggini erano aggressive come il suo cuore generoso: non solo
batteva sul collo di ogni cavallo che vedeva e accarezzava ogni cane, ma
anche mio marito, sebbene fosse più vecchio di lui di ben venticinque anni,
doveva adattarsi alle sue manate sul ginocchio per cameratismo e in nome
della disinvoltura canadese, ogniqualvolta sedevano a conversare
amabilmente.
Siccome partecipava a ogni evento con il suo cuore caldo e strabocchevole
di sentimento, riteneva ovvio e naturale che gli altri gli dimostrassero la
stessa partecipazione, e furono necessarie cento piccole astuzie per
difendersi dalla sua insistenza. Non rispettava né il riposo né il sonno altrui
perché, avendo energie da sprecare, non immaginava che un altro potesse
essere stanco o di malumore, e dentro di sé ci si augurava che una iniezione
quotidiana di bromuro fosse sufficiente a riportare a un livello normale la sua
vitalità pressoché intollerabile. Più di una volta ho sorpreso mio marito mentre
spalancava istintivamente la finestra dopo che Limpley era stato da noi un'ora
- ma egli non se ne stava seduto come tutti: scattava in piedi a ogni pie
sospinto e vagava per la saletta come un indemoniato - quasi che il locale
fosse stato surriscaldato dalla presenza di quell'individuo dinamico, per non
dire un barbaro. Fintantoché gli si sedeva di fronte e si guardavano i suoi
occhi chiari e buoni, stracolmi di bontà, non si portava alcun rancore a
quell'uomo: soltanto dopo, misurando la propria spossatezza, lo si mandava
al diavolo. Né mai, prima di conoscere Limpley, avevamo immaginato che
proprio qualità del genere, la bonarietà, la cordialità, l'espansività e il calore,
se presenti in misura eccessiva, potessero spingere una persona alla
disperazione, in particolare dei vecchi.
Solo allora compresi ciò che all'inizio mi era riuscito incomprensibile:
quando sua moglie si era espressa quasi con soddisfazione a proposito della
lontananza del marito, non era vero che la donna non provasse affetto nei
suoi confronti, era vero piuttosto il contrario: era lei la prima vittima
dell'intemperanza di Limpley. Non che non la amasse: la amava
appassionatamente, come amava qualunque cosa gli appartenesse o
facesse parte di sé. Era commovente vedere con quale tenerezza la
circondasse, con quale premura la proteggesse. Bastava che lei tossisse
perché l'uomo corresse a prenderle il cappotto o si precipitasse a
frugacchiare nel camino per ravvivare il fuoco e, ogni volta che la moglie si
recava in città, le dava mille consigli quasi che dovesse intraprendere un
viaggio pieno di pericoli. Non ho mai udito che si dicessero una parola
sgarbata, anzi lui amava elogiarla e decantarne i meriti fino a diffondersi sulle
quisquilie. Anche in nostra presenza non poteva fare a meno di darle una
carezza, passarle la mano sulla testa e soprattutto elencarne tutte le doti
possibili e immaginabili. «Avete visto che graziose unghiette ha la mia
Ellen?» diceva, magari senza alcuna ragione; e la donna, malgrado le
proteste, era costretta e mostrare le mani. A me toccava ammirare con
quanta abilità sapesse affrancarsi le forcine nei capelli e, naturalmente,
dovevamo assaggiare ogni più piccolo vasetto di marmellata che lei aveva
fatto e che, a giudizio dell'uomo, era incomparabilmente migliore di tutte le
marmellate delle più famose fabbriche d'Inghilterra. In simili occasioni penose
la donna, modesta e tranquilla, se ne stava seduta tenendo gli occhi bassi
dalla costernazione. Dava l'impressione di avere ormai rinunciato a difendersi
dal contegno imprevedibile di quel torrente in piena che era il marito. Lo
lasciava parlare, raccontare e ridere, limitandosi e intervenire tutt'al più con
un flebile «ah», o semmai con «davvero». «Non ha una vita facile», osservò
una volta mio marito mentre rincasavamo. «Tuttavia non si può volergliene. É
un uomo profondamente buono e lei può dirsi felice con lui.»
«Al diavolo, che felicità vuoi che sia?» sbottai furente. «E una
sfacciataggine ritenersi felici con tale ostentazione e mettere all'asta i propri
sentimenti senza alcun pudore. Io impazzirei di fronte a tale eccesso o difetto
di convenienza. Non vedi piuttosto come rende infelice quella povera donna
con la sua boria e la sua micidiale vitalità?»
«Non esagerare sempre!» mi biasimò mio marito e, a ben guardare, aveva
ragione. La moglie di Limpley non era affatto infelice o, meglio, non era
neanche infelice. Era semplicemente incapace di provare qualunque
sentimento con chiarezza: era paralizzata ed esausta da quella vitalità
smodata. La mattina, quando Limpley se ne andava in ufficio e dal cancello
del giardino le giungeva sfocato il suo ultimo «hallo» di saluto, vedevo che
per prima cosa si sedeva, o si stendeva, senza far niente, solo per godere
quello stato inconsueto, ossia il silenzio totale intorno a sé, e anche durante
la giornata nei suoi movimenti si coglieva quasi una traccia di stanchezza.
Non era facile attaccar discorso con lei perché negli otto anni di matrimonio la
poverina aveva quasi disimparato a parlare.
Una volta mi raccontò come fosse arrivata al matrimonio. Abitava con i
genitori in campagna quando, un giorno, l'uomo si trovò a passare di lì per
caso durante un'escursione: con il suo solito eccesso si era fidanzato e poi
l'aveva sposata senza che lei sapesse bene chi fosse e quale mestiere
facesse. La donna così garbata e discreta non mi accennò mai, né con una
parola né con una sillaba, di non essere felice e tuttavia, dal suo modo
sfuggente, così femminile peraltro, ho intuito quale fosse la croce del suo
matrimonio. Nel corso del primo anno avevano aspettato un bambino, e la
stessa cosa era accaduta nel secondo e nel terzo, poi, dopo sei-sette anni,
avevano rinunciato alla speranza di avere figli, senonché le sue giornate
erano ormai troppo vuote e le sue sere troppo piene per via della turbolenza
del marito e dello strepito che faceva. La soluzione migliore, pensai in cuor
mio, sarebbe quella di prendersi in casa un bambino senza genitori o di
praticare uno sport, insomma trovarsi un'occupazione qualsiasi.
Perché quello starsene seduta inerte e silenziosa non può che condurre
alla malinconia e la malinconia a una specie di odio per la provocante allegria
del marito che sfinisce qualunque persona normale. Dovrebbe esserci intorno
a lei qualcuno o qualcosa, sennò la tensione diventa troppo forte.
Il caso volle che da settimane dovessi restituire una visita a un'amica che
abitava a Bath. Conversammo piacevolmente per un po', dopodiché lei si
rammentò di volere mostrarmi una cosa deliziosa e mi condusse fuori in
cortile. In un granaio, a prima vista, scorsi delle forme strane e piccolissime
sulla paglia, che si azzuffavano, si scavalcavano e gattonavano
freneticamente mescolandosi. Erano quattro cuccioli di bulldog di sei-sette
settimane che brancicavano goffamente sulle zampe larghe e di tanto in tanto
arrischiavano un piccolo guaito lagnoso.
Erano deliziosi: volendo uscire dalla cesta dove l'imponente madre era
accovacciata con un'aria diffidente, incespicavano. Ne sollevai uno
prendendolo per la pelle morbida in eccedenza. Era marrone, a chiazze
bianche e con il suo nasino camuso faceva davvero onore al nobile pedigree
espostomi dalla sua padrona. Non mi trattenni dal giocare con il piccolo
bulldog: lo feci arrabbiare, lo stuzzicai e lasciai che mi mordicchiasse le dita.
La mia amica mi chiese se desiderassi portarmelo a casa: amava molto i cani
ed era pronta a regalarli purché si fidasse della famiglia a cui li avrebbe dati.
Io esitai sapendo che mio marito aveva giurato a se stesso di non affezionarsi
mai più a un altro cane dopo la perdita del suo adorato spaniel. Mi domandai
se una bestiola così graziosa non avrebbe potuto essere una compagnia
ideale per Mrs.
Limpley e promisi all'amica di farle avere una risposta l'indomani. La sera
stessa feci ai Limpley la proposta. La moglie tacque non essendo abituata a
esprimere un'opinione, mentre il marito si dichiarò d'accordo con il consueto
slancio. «E davvero l'unica cosa che non abbiamo. Una casa non è una casa
senza un cane», e, nell'euforia, mi avrebbe costretto ad andare a Bath la sera
stessa, fare irruzione in casa della mia amica e prelevare l'animale, se io non
mi fossi ribellata a una simile follia. Solo il giorno dopo il giovane bulldog,
imbronciato e stranito a causa del viaggio inatteso, venne recapitato a casa
dei Limpley.
Il risultato fu sostanzialmente diverso da quello che avevamo previsto.
Era mia intenzione assicurare una compagnia alla signora Limpley, di solito
quasi sempre sola nella sua casa vuota durante le ore del giorno.
Mi ero sbagliata: fu invece lo stesso Limpley ad avventarsi sul cane perché
soddisfacesse il proprio inesauribile bisogno di affetto. Il suo entusiasmo per
il buffo animaletto fu inaudito e, come sempre nel suo caso, esagerato e un
po' ridicolo. Va da sé che Ponto - fu chiamato così chissà per quale
imperscrutabile motivo - fosse il cane più bello e intelligente della Terra e non
c'era giorno, anzi ora, in cui non gli scoprisse qualche nuovo fascino e
talento. Senza risparmiare, gli furono acquistati tutti gli articoli da toilette per
quadrupedi più esclusivi che il mercato offrisse - guinzaglio, cesta,
museruola, ciotoline, giochi, palle e ossetti - e Limpley sfogliò i giornali per
rintracciare articoli o annunci che si occupassero di toilette o dieta canina, e
per acquisire conoscenze specifiche più solide si abbonò persino a una rivista
del settore; la colossale industria, che viveva esclusivamente grazie alla
dabbenaggine dei cinofili, si fece un nuovo cliente affezionato. In casa
Limpley, inoltre, si chiamava il veterinario alla minima occasione, ma per
descrivere le infinite stranezze, che l'inattesa passione procreava a un ritmo
parossistico, ci vorrebbero volumi e volumi.
A volte udivamo un violento latrato, ma non era il cane che abbaiava: era il
suo padrone. Steso a pancia in giù sul pavimento e imitando l'idioma canino,
tentava di invogliare il suo beniamino a un dialogo inintelligibile per
qualunque terrestre. Il vitto della bestiola viziata lo occupava più del proprio,
poiché valevano alla lettera le prescrizioni dietetiche dei professori del ramo,
insomma Ponto mangiava in modo più signorile di Limpley e della moglie, e la
volta che il quotidiano scrisse di un certo tifo - ma in tutt'altra provincia - gli
diedero da bere solo acqua minerale. Se poi capitava che un'irrispettosa
pulce si prendesse la libertà di rendergli visita, avvilendo così
l'«inavvicinabile» a grattarsi la zampa o a un furioso inseguimento a morsi,
era Limpley in persona a sobbarcarsi il pietoso affaire della caccia alle pulci:
in maniche di camicia, chino sul mastello dell'acqua sterile, lavorava di
pettine e spazzola per ore finché l'ultimo dei fastidiosi ospiti non fosse stato
ammazzato. Per lui la fatica non era mai troppa, né la degradazione troppo
avvilente quando si trattava del suo cane, e il reuccio non avrebbe potuto
essere assistito con maggiore affetto e avvedutezza.
Tra tante stramberie un fatto positivo, tuttavia, ci fu: a seguito
dell'assorbimento totale delle energie sentimentali di Limpley da parte del
nuovo oggetto, la moglie e anche noi fummo notevolmente sollevati dalla sua
impetuosità; per ore e ore se ne andava a spasso con il cagnetto, lo
convinceva a non annusare, ma lui - e la pelle dura ce l'aveva davvero - se
ne faceva un baffo. La moglie di Limpley stava a guardare sorridendo e per
nulla gelosa che il marito adempisse al quotidiano rito idolatrico ai piedi
dell'altare a quattro zampe. Ciò che egli le sottraeva non era altro che un
opprimente e inopportuno sovrappiù, ma le restava pur sempre affetto in
abbondanza.
Innegabilmente il nuovo inquilino aveva reso il loro matrimonio, se
possibile, ancor più felice.
Intanto Ponto cresceva a vista d'occhio. Le grasse pieghe puerili del pelo si
riempirono di carne soda, dura, muscolosa e diventò un cane forte, il petto
largo, la dentatura robusta e natiche toste ben strigliate. Di indole buona,
nondimeno si fece via via antipatico non appena si rese conto della propria
posizione dominante dentro casa, grazie alla quale assunse un contegno
arrogante e dispotico. L'animale, intelligente e perspicace, non aveva tardato
a capire che il suo signore, o piuttosto il suo schiavo, scusava qualunque sua
maleducazione e, all'inizio solo disubbidiente, Ponto si permise presto
maniere tiranniche, ribellandosi per principio a qualunque imposizione il cui
soddisfacimento fosse interpretabile come un segno di sottomissione.
Anzitutto non tollerò alcun genere di riservatezza entro le pareti
domestiche. Niente doveva accadere in sua assenza e senza il suo espresso
consenso. Ogni volta che arrivavano visite, si lanciava imperiosamente contro
la porta, sicuro che lo zelante Limpley sarebbe balzato in piedi ad aprirgli, e
subito, senza degnare gli ospiti di uno sguardo, saltava sulla poltrona per far
capire a tutti che in quella casa il vero padrone era lui e che quindi gli
spettavano soprattutto ammirazione e riverenza. Che nessun cane potesse
osare avvicinarsi soltanto alla staccionata era ovvio e naturale, ma anche
certe persone, alle quali aveva annunciato, fin dalla prima volta, la propria
avversione con un mugugno: per esempio, il portalettere o il lattaio si
vedevano costretti a posare i loro pacchi e le loro bottiglie fuori della porta,
anziché consegnarle nelle mani dei proprietari. E così, quanto più Limpley,
travolto dalla sua infantile passione amorosa, si degradava, tanto più veniva
bistrattato dall'insolente bestiola, anzi, per quanto la cosa abbia
dell'incredibile, Ponto aveva perfezionato addirittura un sistema per
dimostrargli di abbassarsi fino a tollerare carezze e slanci, ma di non sentirsi
affatto obbligato a tributare riconoscenza per il dovuto ossequio giornaliero.
Inoltre non c'era volta che non lo facesse aspettare quando Limpley lo
chiamava.
A mano a mano il bulldog divenne un vero maestro nell'arte della finzione.
Era diabolico. Di giorno infatti era un normale cane di razza: scorrazzava nei
dintorni, rincorreva i polli, sguazzava nell'acqua, divorava qualunque cosa di
commestibile trovasse sulla sua strada e si compiaceva nell'abbandonarsi al
suo divertimento preferito - sfrecciare proditoriamente nel prato, con l'impeto
di un petardo, fin giù al canale e qui con violente testate malvage rovesciare
in acqua ceste e mastelli e con un urlo di trionfo ballare intorno alle donne e
alle ragazze affrante, che poi dovevano ripescare il bucato un panno dopo
l'altro ma, scoccata l'ora in cui Limpley tornava dall'ufficio, il raffinato
commediante si levava la maschera dell'arroganza e si metteva quella del
sultano. Pigramente sdraiato e senza il minimo cenno di benvenuto,
aspettava il padrone che si precipitava su di lui con un rintronante «hallo,
Ponty», ancor prima di salutare la moglie e di togliersi la giacca. Ponto non
agitava nemmeno la punta della coda per contraccambiare il saluto.
Qualche sera aveva la compiacenza di lasciarsi girare sulla schiena e
grattare la pelle morbida e setosa della pancia, ma anche in quei momenti di
misericordia si guardava bene dall'emettere uno sbuffo o un grugnito
soddisfatto che tradissero il proprio compiacimento e la propria gratitudine
per le carezze ricevute: lo schiavo succube avrebbe dovuto piuttosto vedere,
senza alcun fraintendimento, che quelle affettuosità erano pur sempre una
concessione. Difatti, con un brontolio, che pressappoco significava: «Adesso
basta!» si rigirava all'improvviso mettendo definitivamente fine al gioco. Si
faceva supplicare finanche per inghiottire le fettine di fegato che Limpley gli
porgeva accostandogli alla bocca un pezzettino dopo l'altro. A volte si
limitava ad annusarli e li lasciava sprezzantemente, malgrado i consigli,
soltanto per dimostrare che non sempre si degnava di prendere i pasti se a
servirglieli era il servo bipede. Invitato poi a una passeggiata, prima si
rotolava e poi si alzava di malavoglia sbadigliando e protraeva lo sbadiglio
finché gli si vedeva tutta la trachea nera a chiazze; ogni volta comunque non
si muoveva prima di avere fatto capire, con un comportamento insolente, di
non avere nessun interesse ad andare a passeggio e di scendere dal divano
solo per compiacere Limpley. Insomma, ormai viziato e perciò sfacciato, con
centinaia di analoghi stratagemmi costringeva il suo padrone a comportarsi
come un mendicante e un questuante; veramente si dovrebbe definire
«cinica», vale a dire cagnesca, la passionalità di Limpley e non il
comportamento di un animale impertinente, il quale recitava il ruolo del
pascià orientale con eccezionale bravura artistica.
Noi due, mio marito e io, non riuscimmo a tollerare oltre le sfacciataggini di
quel tiranno. Ponto, intelligente com'era, si accorse della nostra disposizione
d'animo non più rispettosa nei suoi confronti e, dal canto suo, si industriò a
dimostrarci il suo disprezzo ricorrendo anche ai modi più villani. Che avesse
carattere era innegabile; dal giorno in cui la nostra domestica lo scacciò dal
giardino perché il cane aveva lasciato una traccia inequivocabile del suo
passaggio nell'aiola delle rose, Ponto non scavalcò più la folta siepe che
delimitava pacificamente il nostro terreno, e si rifiutò addirittura di varcare la
nostra soglia nonostante i consigli e le suppliche di Limpley.
Rinunciammo con piacere alle sue visite, mentre ci spiaceva che,
incontrando Limpley in sua compagnia per strada o davanti a casa, non
potessimo scambiare neppure due parole con il nostro vicino, bonario e
ciarliero, perché quel dispotico cane ce lo impediva con il suo comportamento
provocatorio: non erano neanche passati due minuti da quando ci eravamo
fermati che cominciava a uggiolare, a bofonchiare rabbiosamente o a dare
dei cozzi indecorosi con la testa contro la gamba di Limpley; era il chiaro
segnale per comunicargli: «Adesso basta!
Smettila di chiacchierare con simile gente odiosa». A questo riguardo devo
riferire, vergognandomene, che Limpley si inquietava in quelle occasioni.
Prima tentava di rabbonire lo screanzato, dicendogli: «Subito! Subito!
Veniamo subito», ma poi, non riuscendo a tacitare il tiranno, il pover'uomo
succube si accomiatava, per quanto umiliato e confuso. Certo, il presuntuoso
animale, raggiante di gioia per averci fornito l'ennesima prova del suo
illimitato potere, partiva al trotto alzando orgogliosamente le chiappe. Non
sono una donna violenta, ma mi prudevano le mani dalla voglia di prendere a
frustate quel mascalzone e cocco di mamma, almeno una volta, una volta
sola.
Fino a questo punto infatti Ponto, un cane assolutamente comune, era
riuscito a raffreddare i nostri rapporti, che in passato erano stati di amicizia.
Limpley dava a vedere che ne pativa, non potendo più precipitarsi da noi a
ogni pie sospinto, mentre la moglie era, a sua volta, imbarazzata perché si
avvedeva di quanto il marito si coprisse di ridicolo lasciandosi schiavizzare da
un cane. Tra piccole schermaglie del genere passò un anno durante il quale
l'animale diventò, se possibile, sempre più insolente, dispotico e soprattutto
più raffinato nell'infliggere umiliazioni a Limpley, finché un giorno si determinò
una svolta che colse tutti di sorpresa, ovviamente alcuni in modo superficiale
e altri, coloro che ne erano i diretti interessati, in maniera addirittura tragica.
Non avevo potuto fare a meno di mettere a parte mio marito di una mia
sensazione: da due o tre settimane, almeno mi pareva, la signora Limpley mi
scansava con una certa timidezza, temendo quasi di lasciarsi coinvolgere in
una conversazione troppo lunga. Difatti eravamo buone vicine e quindi
accadeva che occasionalmente ci prestassimo vuoi questa vuoi quella cosa e
ogni volta ne approfittavamo per una bella chiacchierata. A me quella donna,
tranquilla e modesta, piaceva. Recentemente, invece, mi sembrò che chissà
per quali scrupoli preferisse non avvicinarmi, tant'è che mandava la
domestica se le occorreva qualcosa; mentre, se ero io a rivolgerle la parola,
si mostrava impacciata ed evitava che la guardassi negli occhi.
Mio marito, il quale aveva una particolare simpatia per la signora Limpley,
mi convinse ad andare da lei a chiederle, senza tanti giri di parole, se
inconsapevolmente la avessimo offesa. «Bisogna badare a che, tra vicini,
non insorgano malintesi; forse è proprio esattamente il contrario di quel che
temi, forse - e io ne sono convinto - vuole domandarti qualcosa e non ne ha il
coraggio.» Feci mio il consiglio, andai di là e la trovai seduta sulla poltrona da
giardino quasi in trance, tant'è che non mi udì nemmeno arrivare. Le posi una
mano sulla spalla e le dissi con voce schietta: «Signora Limpley, sono una
donna vecchia e non ho bisogno di avere timori. Lasci che sia io a
cominciare.
Se per caso prova un po' di rancore verso di noi, mi dica chiaramente il
perché e il percome». La povera, piccola donna sobbalzò spaventata.
«Come fa a pensare una cosa simile! Non sono venuta soltanto perché...»
Arrossì invece di continuare a parlare e scoppiò a piangere, ma era, se posso
dire così, un pianto benefico, felice. Alla fine mi confessò tutto. Dopo nove
anni di matrimonio aveva rinunciato alla speranza di diventare madre e
persino nelle ultime settimane, quando aumentarono i sospetti che
accadesse ciò in cui non sperava più, non ebbe il coraggio di credervi. Due
giorni prima era stata dal medico in gran segreto e ormai ne aveva la
certezza. «Ma finora non ce l'ho fatta a dare l'annuncio a mio marito»,
proseguì. «Lo conosco e ho quasi paura dell'eccesso di gioia che può
travolgerlo. A questo punto non sarebbe meglio - fino a oggi non ho avuto il
coraggio di chiedervi questo favore - se foste voi ad assumervi l'incarico,
almeno di prepararlo?» Mi dichiarai disponibile.
Mio marito quasi si divertì e risolse per il meglio la faccenda con fare
allegro. Lasciò a Limpley un biglietto nel quale lo pregava di venire subito da
noi non appena fosse tornato dall'ufficio. Naturalmente il brav'uomo, data la
sua stupenda solerzia, venne di qua senza neppure concedersi il tempo di
levarsi il soprabito.
Era visibilmente preoccupato e insieme felice di farci un piacere. Ma non
venne semplicemente, farei meglio a dire: si precipitò come una furia. Era
senza fiato quando entrò in casa nostra. Mio marito lo pregò di sedersi al
tavolo, e quella ufficialità lo tranquillizzò. Come sempre non sapeva dove
mettere le grosse pesanti mani lentigginose.
«Limpley», attaccò mio marito, «ieri sera ho pensato a lei e mentre leggevo
un libro, ho riflettuto che la gente non desidera mai molto, ma solo una cosa,
insomma ha un unico desiderio. E allora mi son detto: che cosa potrebbe
desiderare, per esempio, il nostro buon vicino se un angelo o una fata o
magari qualcuno di quegli amabili esserini gli domandasse: 'Limpley, che
cosa ti manca? Ti concedo di esprimere un solo desiderio.'»
Limpley lo guardò sbalordito. La faccenda lo divertiva ma non ci credeva
troppo. Non riusciva a reprimere la sensazione inquietante che dietro la
convocazione ufficiale si nascondesse chissà che cosa.
«Ebbene, Limpley, provi a immaginarsi che io sia quella fata gentile», fece
mio marito cercando di attenuare lo sbalordimento dell'ospite. «Non ha
nessun desiderio?»
Limpley, mezzo serio e mezzo divertito, si grattò la testa tra i capelli
rossastri tagliati a zero.
«A essere sincero neanche uno», confessò dopo una pausa. «Ho tutto ciò
che voglio: una casa, una moglie, un posto di lavoro sicuro e un...» mi resi
conto che stava per aggiungere «un cane», ma all'ultimo momento
l'ammissione gli parve disadatta in quel momento. «...Sì, effettivamente ho
tutto.»
«Allora non ha un desiderio da esprimere all'angelo o alla fata?»
Limpley sembrò sempre più sereno: si sentiva al settimo cielo all'idea di
potere finalmente dire senza remore quanto fosse felice. «No, non... ne ho,
nemmeno uno.»
«Peccato», disse mio marito, «peccato davvero che non le venga in mente
niente», e tacque.
Sotto lo sguardo investigatore del partner, Limpley si sentì un po' a disagio.
Credeva di doversi scusare.
«Certo, qualche soldo in più mi servirebbe... una piccola promozione... ma,
come ho detto, sono soddisfatto... Non saprei che cosa desiderare.»
«Povero angelo», disse mio marito simulando un tono solenne. «Così
dovrà tornarsene indietro a mani vuote perché Mr. Limpley non ha più nulla
da desiderare. Per fortuna non è partito subito, il buon angelo gentile, e ha
fatto a tempo a rivolgere la stessa domanda a Mrs. Limpley e, come sembra,
con lei ha avuto più fortuna.»
Limpley si bloccò stupefatto. Il brav'uomo con i suoi occhi acquosi e la
bocca semiaperta sfoderò un'aria candida e sprovveduta, ma subito si riebbe
e disse quasi seccato: «Non riesco a capacitarmi che chi mi appartiene non
sappia essere soddisfatto. Mia moglie? Ma che cos'altro può desiderare
ancora?»
«Bè, magari qualcosa di diverso da un cane.»
Adesso Limpley capì. Fu un lampo: come colto dal panico, spalancò le
palpebre, tant'è che al posto delle pupille si vide il globo oculare bianco.
Prese lo slancio e si alzò. Corse fuori, dimenticando il cappotto e senza
neanche scusarsi, e si precipitò nella camera della moglie come impazzito.
Noi due scoppiammo a ridere, ma non ci meravigliammo: conoscevamo
bene Limpley.
Qualcun altro invece si meravigliò. Qualcun altro che se ne stava comodo
sul sofà con gli occhi socchiusi e tuttavia vigili, aspettando la dovuta riverenza
- o presunta tale - da parte del padrone: Ponto, tirannico come sempre, il pelo
ben spazzolato. Ma che cosa stava succedendo? Senza salutarlo, senza
vezzeggiarlo, l'uomo gli era sfrecciato davanti ed era sparito in camera da
letto. Il cane udì una risata, un pianto, poi chiacchierare e singhiozzare.
Passò del tempo, molto tempo e nessuno si curò di lui benché, per diritto e
costume, gli spettasse il primo saluto affettuoso. Trascorse un'ora. La
ragazza gli portò i piatti con la cena.
Con aria sprezzante non toccò cibo. Era abituato a sentirsi pregare,
supplicare e imboccare. Un ringhio feroce all'indirizzo della ragazza.
Avrebbero dovuto vedere con i loro occhi che con lui non ci si sbrigava
tanto alla svelta. Ma in quella sera di grande eccitazione nessuno si accorse
che non aveva mangiato un solo boccone. Era stato dimenticato e continuava
a esserlo. Limpley parlava senza sosta alla moglie, la colmava di prescrizioni
preoccupate e la adulava. Malgrado l'innata esuberanza, non lo degnò di uno
sguardo e l'animale superbo era troppo orgoglioso per essere lui a fare il
primo passo. Restò accucciato in un angolo e attese; ma non poteva che
trattarsi di un equivoco, di una eccezionale dimenticanza anche se
imperdonabile. Aspettò invano. Anche la mattina seguente: Limpley, avendo
perso tempo con le raccomandazioni alla giovane moglie perché non si
affaticasse, per poco non perdeva la corriera e quindi si precipitò fuori di casa
schizzandogli davanti senza salutarlo.
Era indubbiamente un cane intelligente, ma la metamorfosi improvvisa
andava al di là delle sue capacità intellettive. Mi trovavo per caso vicino alla
finestra nell'istante in cui Limpley salì sulla corriera e, non appena l'uomo ne
fu inghiottito, vidi Ponto sgattaiolare fuori di casa molto lento - vorrei dire
pensieroso - e seguire con lo sguardo il veicolo che si allontanava rollando.
Rimase immobile per mezz'ora, evidentemente come se si aspettasse che il
padrone ricomparisse e riparasse alla dimenticanza commessa, dopodiché
tornò sui suoi passi.
Per tutto il giorno non giocò e tanto meno si scatenò: fece dei giri intorno
alla casa adagio e sovrappensiero. Forse - ma chi può dire in che modo e
fino a che livello si formino le associazioni di immagini in un cervello animale?
- rimuginò nella sua mente se magari non fosse stato lui stesso, per
inettitudine, a causare l'inspiegabile infrazione all'usanza del saluto. Verso
sera, circa mezz'ora prima del consueto ritorno di Limpley, divenne
palesemente nervoso: continuava a spingersi quatto quatto fino allo steccato,
le orecchie mosce, per spiare la strada e non lasciarsi sfuggire l'arrivo della
corriera; ma, com'era naturale, si guardò bene dal mostrare di attendere con
impazienza e difatti, non appena l'automezzo apparve all'ora abituale, s'infilò
nella saletta, si accomodò sul divano e attese.
Ma anche allora aspettò invano. Anche allora Limpley gli passò davanti di
corsa. La stessa cosa si ripeté ogni giorno. Solo una volta o due Limpley si
accorse di lui, gridò un rapido: «Ah, sei tu, Ponto», e lo accarezzò
passandogli vicino: ma era una carezza indifferente e distratta, non erano più
l'antico corteggiamento e la disponibilità servizievole, mancavano i
vezzeggiativi, gli inviti al gioco e alle passeggiate, mancava tutto, tutto. Di
questa dolorosa indifferenza Limpley, un uomo buono nel profondo
dell'anima, non era francamente colpevole: oramai non aveva altro pensiero,
altra preoccupazione se non la moglie. Appena tornato dalla città,
accompagnava la donna ovunque volesse, o a fare una passeggiata,
calcolando al secondo la durata e tenendola premurosamente sottobraccio
perché non facesse un passo affrettato o incauto; sovrintendeva al cibo e si
faceva fare dalla ragazza l'esatta relazione di ogni ora del giorno. A tarda
sera, quando lei si era già ritirata, egli veniva immancabilmente di là da noi
per chiedere un consiglio o avere conforto da una donna esperta come me.
Facendo il giro degli empori, comperò fin da allora il corredino per il
nascituro e compiva ogni azione in uno stato di eccitazione costante e
tuttavia solerte. Non si poteva più dire che avesse una vita propria: a volte
dimenticava di radersi per due giorni e spesso arrivava in ritardo in ufficio
perché perdeva la corriera dilungandosi nelle raccomandazioni. Perciò, se
trascurava di portare a passeggio Ponto o di occuparsi di lui, non era affatto
per malevolenza o infedeltà: era il disordine mentale di un temperamento
passionale o monomaniacale che lo obbligava ad applicarsi a una cosa sola
con tutti i sensi, pensieri e sentimenti. Ma se già individui normali, dotati di un
intelletto idoneo al pensiero logico retroattivo e irretroattivo, non sono quasi
capaci di scusare senza rancore una mancanza a loro scapito, ci si domanda
come un animale ottuso potesse tollerare il torto subito.
Di settimana in settimana Ponto diventò sempre più nervoso e irascibile. Il
suo amor proprio non sopportava che si prescindesse dalla sua presenza in
una casa di cui era stato il padrone e che lo si degradasse al rango di
coinquilino. Se fosse stato un essere ragionevole, si sarebbe riavvicinato a
Limpley supplicandolo e adulandolo, sinché l'antico protettore si fosse
ravveduto rammentandosi delle proprie omissioni: ma Ponto era ancora
troppo orgoglioso per strisciare sulla pancia. Doveva essere il suo padrone,
non lui, a compiere il primo passo per giungere alla riconciliazione, sicché
decise di attirare su di sé l'attenzione ricorrendo a vari stratagemmi.
Nel corso della terza settimana cominciò all'improvviso a zoppicare e a
strascicare la gamba posteriore sinistra come se fosse anchilosata. In
circostanze normali Limpley lo avrebbe visitato subito con affetto e
apprensione per vedere se non gli si fosse magari conficcata una spina nella
zampa, lo avrebbe commiserato, avrebbe telefonato al veterinario
spiegandogli che era una cosa urgente, si sarebbe alzato senz'altro di notte,
almeno due o tre volte, per accertarsi delle sue condizioni di salute. Quella
volta, invece, né lui né altri di casa tennero conto della buffa menomazione e
a Ponto non restò altro da fare che dare un taglio, pur seccato, alla
sceneggiata.
Ci riprovò qualche settimana dopo con lo sciopero della fame: per due
giorni non toccò cibo accettando il sacrificio di buon grado, ma nessuno si
curò della sua inappetenza; e pensare che in passato se per caso, in un
rigurgito di dispotismo, non finiva di leccare la sua minestrina fino all'ultima
cucchiaiata, Limpley correva a prendergli speciali biscotti o una fetta di
salsicciotto. Alla fine, però, la fame animale ebbe il sopravvento sulla volontà,
e Ponto spazzolò d'un fiato il suo pasto in tutta segretezza senza nemmeno
gustarlo; ma gli rimorse la coscienza.
Poi tentò nuovamente di attirare l'attenzione su di sé nascondendosi per
intere giornate: cautelativamente si rincantucciava nelle vicinanze, per
esempio nella vecchia legnaia fuori uso, da dove avrebbe potuto udire con
compiacimento una voce apprensiva gridare: «Ponto! Ponto!» Invece
nessuno gridò, nessuno notò la sua assenza o si agitò per essa. La sua
tirannide era stata spezzata e si sentiva detronizzato, denigrato, dimenticato
senza neanche sapere perché.
Credo di essere stata la prima ad accorgersi del cambiamento intervenuto
nel cane in quelle settimane. Dimagrì e assunse un'altra andatura: anziché
camminare impettito e spavaldo con le natiche tirate in fuori, andava in giro
mogio come se lo avessero bastonato; il pelo, dianzi spazzolato
quotidianamente con la massima accuratezza, aveva perso la lucentezza
della seta. Ogni qualvolta lo incontrassi, abbassava la testa, non lasciando
nemmeno vedere gli occhi, e filava via in fretta.
Ma, per quanto lo avessero umiliato senza alcuna pietà, il suo antico
orgoglio non era stato ancora spezzato: non si vergognava affatto vedendoci
e la sua rabbia si sfogava raddoppiando gli assalti alle ceste del bucato; in
una settimana ne buttava nel canale non meno di tre per dimostrare in
maniera violenta di esistere e di aver diritto al rispetto. Ma anche le
aggressioni ai mastelli non sortirono alcun effetto apprezzabile se non di far
infuriare le serve, che lo minacciavano con i bastoni. Anche ogni artificio, i
sotterfugi, i digiuni, le finte di zoppicare e sparire, nonché quel suo spiare si
rivelarono inutili, e la sua pesante testa quadrata si tormentò altrettanto
inutilmente. Poi un giorno accadde qualcosa che egli non capì e che modificò
il ritmo e le persone della casa.
Con viva disperazione si rese conto di non avere alcun potere contro la
congiura ordita in quel frangente o già prima. Chiaro: qualcuno lo osteggiava,
un'ignota forza malvagia. Lui, Ponto, aveva un nemico più potente ed era un
nemico invisibile, sfuggente. Impensabile agguantarlo, stritolarlo e spezzargli
le ossa: era un avversario abietto, astuto e vile, essendo riuscito a
spodestarlo. Inutile annusare tutti gli usci, spiare, rizzare le orecchie, inutile
lambiccarsi il cervello, fare la posta: era e restava invisibile il suo antagonista:
un diavolo, un ladro. In quelle settimane Ponto si aggirò senza sosta nelle
adiacenze della siepe come un pazzo, nella speranza di scoprire almeno
un'orma dell'«invisibile», di quel demonio, ma i suoi sensi eccitati gli
trasmisero unicamente la sensazione che, all'interno della casa, si stesse
preparando qualcosa di grave che non capiva ma che, senz'altro, aveva a
che fare con l'acerrimo nemico. Innanzitutto era arrivata all'improvviso una
donna anziana - la madre della signora Limpley - e di notte dormiva sul sofà
in sala da pranzo, il «suo» sofà, sul quale era solito oziare qualora non
gradisse la grande cesta imbottita. E poi portarono un'infinità di cose, pacchi
e roba di lino e - perché? - il campanello suonava senza sosta e, soprattutto,
spesso compariva un signore occhialuto vestito di nero che sapeva di un
odore nauseabondo, di tinture forti, disumane. La porta della camera da letto
della signora continuava ad aprirsi e chiudersi e dentro si sentiva un
indefesso parlottio; o invece si sedeva il gruppo delle donne che facevano
tintinnare gli aghi da calza. Che cosa significava quel tramestio e perché lo
escludevano e spodestavano? A Ponto, a furia di ponzare, venne lo sguardo
fisso, quasi vitreo. Quel che differenzia l'intelligenza animale da quella umana
è che nella prima avviene esclusivamente la separazione tra passato e
presente, mentre la seconda non sa immaginare o calcolare il futuro; e difatti
ciò che la povera bestia percepiva era un qualcosa in divenire e prossimo ad
accadere, un impedimento contro cui non poteva lottare né difendersi.
Ci vollero, giorno più giorno meno, sei mesi prima che il superbo, iattante e
viziato animale, fiaccato dall'estenuante lotta impari, accettasse l'umiliazione
della resa incondizionata. E stranamente venne a deporre le armi ai miei
piedi. Era una domenica sera e, mentre mio marito disponeva le carte sul
tavolo per il suo solitario, mi ero seduta un po' in giardino. All'improvviso
sentii una cosa calda, lieve ed esitante appoggiarsi sul mio ginocchio. Era
Ponto, lo stesso Ponto che, nel suo orgoglio ferito, non aveva più messo
piede nel nostro giardino da un anno e mezzo: ora, invece, nella sua
costernazione, cercava un rifugio e pensò di trovarlo da me. Era probabile
che in quelle settimane, quando gli altri lo trascuravano, lo avessi chiamato
passando di lì o gli avessi dato una carezza. Pertanto, al colmo della
disperazione, si era rammentato di me. Non dimenticherò mai lo sguardo
penetrante e supplice con cui mi guardò, anzi credo che proprio lo sguardo di
un cane che si trovi in estrema difficoltà sia molto più commovente - sono
quasi tentata di dire parlante - di quello di un essere umano; perché noi
cediamo gran parte dei nostri sentimenti e pensieri alla mediazione della
parola, mentre l'animale, non possedendo il linguaggio, è obbligato a
concentrare l'espressione nella pupilla.
Non ho mai visto un senso di sconforto tanto commovente e totale come
quella sera nello sguardo non facilmente descrivibile di Ponto, intanto che la
sua zampa piativa grattandomi l'orlo della sottana. Mi chiedeva, e lo capii fino
a commuovermi: Spiegami, che cos'ha il mio padrone, che cos'hanno tutti
contro di me? Che cosa sta succedendo in quella casa perché nessuno mi
ami più? Aiutami tu, dimmi che cosa devo fare.
Francamente rimasi impacciata di fronte alla sua commovente supplica. Lo
accarezzai e a mezza voce sussurrai: «Mio povero Ponto, il tempo della
felicità è scaduto per te. Dovrai abituarti come noi ci dobbiamo abituare a
molte cose e a molti dolori». All'udire le mie parole, Ponto rizzò le orecchie, le
pieghe della fronte si contrassero come per un tormento; mostrando di volere
capire, raschiò il terreno con la zampa.
Un gesto di impazienza e di intolleranza quasi per dire: «Non ti capisco:
spiegamelo! Aiutami!» Sapevo che non potevo aiutarlo. Gli passai più volte la
mano sulla pelliccia per calmarlo. Senonché ebbe la percezione che da me
non avrebbe avuto l'atteso conforto: si alzò tranquillo e sparì. Non si fece
vedere per un giorno e per una notte; se fosse stato un essere umano si
sarebbe temuto il suicidio. Riapparve la sera del giorno successivo: sporco,
affamato, inselvatichito e malconcio; i segni di vari morsi lasciavano supporre
che avesse aggredito altri cani con furia cieca.
Ma una nuova umiliazione lo stava aspettando. La domestica, infatti, fu
categorica nel vietargli di entrare in casa e gli pose la ciotola del cibo fuori
della porta senza neppure badargli. Era un'offesa francamente rozza, ma era
stata imposta dalle circostanze. Il lieto evento era ormai imminente, e la casa
si riempì di gente indaffarata. Limpley si spostava da una stanza all'altra,
sconcertato; aveva la faccia rossa e tremava tant'era eccitato. La levatrice,
assistita dal dottore, correva avanti e indietro, la suocera si era seduta
accanto al letto della figlia, la cameriera non aveva mai una mano libera.
Anch'io ero andata di là e aspettai in sala da pranzo pronta ad agire se
qualcuno avesse richiesto il mio aiuto. In quel trambusto, la presenza di
Ponto non avrebbe causato altro che disturbo e fastidio ma, ditemi voi,
avrebbe potuto capire con il suo piccolo cervello di cane? L'animale irrequieto
comprese soltanto che per la prima volta lo avevano scacciato di casa dalla
sua casa - come un estraneo, un mendicante, un guastafeste e lo
estromettevano perfidamente da un evento, senz'altro importante, che si
svolgeva a porte chiuse. Divorato da un furore parossistico, azzannò e
sbriciolò con i suoi denti robusti gli ossi che gli erano stati buttati, come se si
fosse trattato del collo del suo invisibile nemico, poi cominciò ad annusare
dappertutto. Il suo olfatto allenato fiutò la presenza in quella casa - nella sua
casa - di persone estranee, e fiutò sull'ammattonato la nota scia dell'odioso
occhialuto vestito di nero. Ma anche altri facevano parte della combriccola e
che cosa ci facevano?
Irrequieto, rizzò le orecchie per cogliere il minimo suono e, tenendosi
aderente al muro, udì voci forti e voci flebili, gemiti e grida, quindi uno
sciabordio, passi frettolosi, oggetti che venivano spinti, tintinnio di bicchieri e
rumore di metallo urtato e finalmente qualcosa accadde: qualcosa a lui
avverso, intuì d'istinto, insomma lo stesso enigma che aveva causato la sua
umiliante estromissione e degradazione. L'infame invisibile nemico, vile e
abietto, adesso era lì, adesso si era tolto la maschera, lo si poteva
agguantare e dargli finalmente il colpo di grazia. Con i muscoli tesi e vibranti
per l'eccitazione il poderoso animale si acquattò fuori dalla porta d'ingresso
per essere pronto allo scatto, se si fosse aperta. Ora non gli sarebbe sfuggito,
il nemico insidioso e usurpatore dei suoi diritti e privilegi, l'assassino della sua
pace!
Di quanto accadeva fuori, noi all'interno della casa non sospettavamo nulla.
Eravamo eccitati e impegnati. A me toccò il compito - e non era una fatica da
poco - di tranquillizzare e consolare Limpley, al quale il medico e la levatrice
avevano vietato l'accesso in camera da letto; soffocato dalla sua stessa
mostruosa compassione, Limpley patì, in quelle due ore, forse di più della
puerpera. Ma alla fine fu dato l'annuncio, e qualche minuto più tardi l'uomo fu
ammesso in camera da letto per vedere il neonato - una femmina, come
aveva comunicato poco prima la levatrice - e la madre. Barcollava di gioia e
insieme di paura.
Si trattenne a lungo e noi, la suocera e io, avendo entrambe già vissuto
parecchi di quei momenti, appena lasciate sole ci scambiammo lunghi ricordi
in tono confidenziale. Finalmente l'uscio si spalancò e comparve Limpley,
seguito dal medico. Reggeva la bambina nel port-enfant, per mostrarcela con
legittimo orgoglio. Sembrava un sacerdote che portasse l'ostensorio. La sua
faccia onesta, larga e magari un poco ingenua appariva quasi bella,
riverberata dalla felicità. Le lacrime abbondanti gli rigavano le guance, ma
non poteva asciugarle perché teneva la piccina con entrambe le mani, come
se fosse un oggetto incredibilmente prezioso e fragile. Il medico dietro di lui,
abituato a scene del genere, si stava intanto infilando il cappotto. «Non ho più
niente da fare qui», rise e si diresse verso la porta senza alcuna malizia.
Nell'istante, meno di un secondo, in cui aprì la porta, il medico sentì
sfrecciare una specie di proiettile che gli rasentò le gambe. Ponto, che aveva
aspettato accovacciato fuori dell'uscio con i muscoli ben tesi, era ormai al
centro della stanza e la riempì con un latrato pazzesco.
Aveva visto subito che Limpley teneva in braccio un oggetto nuovo, che
egli non conosceva, una cosa piccola, rossa e viva che gemeva come un
gatto e aveva un inconfondibile odore umano: dunque lui, il nemico nascosto,
imboscatosi, a lungo cercato, lo stesso che gli aveva rubato il potere e la
libertà! Sbranalo, dilanialo, gli suggerì l'istinto bestiale e, digrignando i denti,
spiccò un balzo per strappare la bambina dalle braccia di Limpley. Suppongo
che tutti avessimo lanciato simultaneamente un grido. Il balzo della grossa
bestia era stato così violento e improvviso, che, all'urto micidiale l'uomo, pur
pesante e tarchiato, aveva perso l'equilibrio barcollando e finendo contro la
parete; ma all'ultimo momento aveva sollevato il port-enfant con la bambina
in modo che non le succedesse alcun male. Difatti, prima che Limpley
crollasse a terra, riuscii ad afferrare il cuscino. Il cane si avventò allora su di
me, ma per fortuna il dottore - era rientrato richiamato dai nostri strilli - con
notevole presenza di spirito scaraventò una pesante poltrona contro l'animale
furibondo. Si sentì uno scricchiolio di ossa. Ponto aveva gli occhi iniettati di
sangue e la bava alla bocca. Si lamentò dal dolore e per un attimo
retrocesse, ma subito dopo mi aggredì in un nuovo accesso di rabbia
incontenibile.
Quell'attimo, tuttavia, fu sufficiente a Limpley per riprendersi e rialzarsi: ma,
acceso da un'ira, orrendamente simile a quella del suo cane, si avventò su di
lui. Ebbe inizio una lotta terribile. Limpley, tarchiato, pesante e forte, si gettò
con tutto il suo peso su Ponto per strozzarlo con le sue stesse mani.
Formarono un'unica massa, lottarono a corpo a corpo rotolandosi sul
pavimento. Ponto tentava di azzannare, Limpley di strangolare, il ginocchio
puntato contro il petto dell'animale, il quale riusciva sempre a svincolarsi dalla
sua micidiale presa. Noi donne anziane fuggimmo nella stanza accanto per
mettere in salvo la bambina. Il medico e la ragazza invece si lanciarono
contro la bestia inferocita. Usarono qualunque cosa capitasse loro in mano
per fracassargliela addosso. Si udirono i rumori di vetro rotto e di legno
spezzato. Ma lo colpirono anche con gragnuole di pugni e gli saltarono sopra,
in tre, pestando i piedi con forza finché i latrati furibondi si attutirono
spegnendosi via via in un rantolo ansimante. Alla fine il dottore, la ragazza e
mio marito, accorso all'udire il baccano, legarono per le zampe anteriori e
posteriori, con il suo stesso guinzaglio di cuoio, l'animale che ormai respirava
a fatica, quasi a singhiozzo, ed era stremato; usarono la tovaglia strappata
dal tavolo come bavaglio.
Resolo finalmente inoffensivo e semistordito, lo trascinarono fuori dalla
sala. Sulla soglia lo buttarono come se fosse un sacco. Solo allora il medico
rientrò per prestare il suo aiuto.
Limpley, barcollando come un ubriaco, si era strascicato nell'altra stanza
per informarsi della figlia. La piccina era incolume e lo guardò con i suoi
occhietti assonnati. Anche la moglie, che era stata svegliata da un sonno
pesante causato dallo spossamento del parto, non aveva corso rischi, e,
ancora un po' affaticata ma affettuosa, si volse dalla parte del marito che le
accarezzò le mani. Solo allora Limpley pensò a sé.
Aveva un aspetto orribile: la faccia cadaverica, gli occhi spiritati, il colletto
strappato, gli indumenti sgualciti e polverosi. Sopraffatti dallo spavento, ci
avvedemmo che dalla manica destra a brandelli grondava e gocciolava il
sangue macchiando il pavimento: furente com'era, non si era accorto che
l'animale, nella sua disperata difesa, gli aveva conficcato i denti nelle carni
per ben due volte. Gli togliemmo la camicia e il medico accorse per la
fasciatura. Nel frattempo la ragazza gli portò un cognac. Limpley era davvero
sfinito, aveva perso molto sangue e sembrava che stesse per svenire da un
momento all'altro. A fatica riuscimmo a distenderlo sul divano e lì il poveretto,
che per due notti non aveva quasi chiuso occhio nell'eccitazione dell'attesa,
cedette al sonno.
A quel punto ci consultammo su che cosa fare con Ponto. «Abbatterlo»,
saltò su mio marito facendo l'atto di tornare di là a prendere la sua rivoltella.
Ma il medico spiegò che era suo dovere portarlo, senza perdere un minuto, in
un centro di osservazione dove avrebbero analizzato la saliva dell'animale
per diagnosticare se aveva la rabbia o meno; nel caso in cui fosse stato
accertato che il cane era idrofobo, anche per la ferita di Limpley erano
necessarie precise precauzioni, peraltro previste dai regolamenti sanitari.
«Caricherò Ponto sulla mia automobile», disse. Uscimmo tutti a dare una
mano al dottore.
Era là, fuori della porta - una vista che non dimenticherò mai
assolutamente inoffensivo per via dei lacci. Appena ci sentì arrivare, il suo
occhio iniettato di sangue si sporse violentemente, quasi che volesse saltar
fuori dalle palpebre. Arrotò i denti, si strozzò, deglutì per sputare il bavaglio,
mentre i muscoli si tesero come funi: tutto il suo corpo si torse, percorso da
un brivido spasmodico. Confesso apertamente che tutti noi, l'uno non meno
dell'altro, indugiammo prima di afferrarlo, per quanto sapessimo che era stato
legato in modo affidabile. In vita mia non avevo mai visto tanta ira
concentrata e carica di tutti gli istinti malvagi, né mai tanto odio in un occhio
iniettato di sangue e sanguinario. Mi assalì la paura e mi chiesi se non
avesse avuto ragione mio marito proponendo di abbatterlo con un colpo di
rivoltella. Ma il dottore insistette per l'immediato trasporto e difatti la bestia
immobilizzata fu caricata sull'auto e portata via malgrado la sua resistenza
impotente.
Con questa uscita di scena poco onorevole Ponto sparì dalla nostra vista
abbastanza a lungo. Occasionalmente mio marito venne a sapere che fu
tenuto in osservazione per parecchi giorni al reparto Pasteur ma che non
venne accertato il minimo sintomo di idrofobia perniciosa; siccome però era
da escludere il suo ritorno nel luogo del famigerato episodio, era stato
regalato a un macellaio di Bath, che era alla ricerca di un robusto mastino.
Così smettemmo di pensare a lui e anche Limpley, che aveva dovuto portare
il braccio al collo per due o tre giorni, lo dimenticò; la sua passionalità e le
sue premure, appena la moglie uscì dal puerperio, si concentrarono sulla
minuscola figlia e non ho certo bisogno di ricordare che erano caratterizzate
dallo stesso fanatismo ed esagerazione come ai tempi di Ponto anzi, se
possibile, erano addirittura più risibili.
L'uomo pesante e corpulento si inginocchiava davanti alla piccola culla
della bambina come uno dei Re Magi davanti al presepe, nei dipinti
dell'antica pittura italiana. Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto scopriva altre
meraviglie nella rosea creaturina, di per sé deliziosa. La moglie, sempre
soave e modesta, sorrideva di fronte all'adorazione paterna come, a suo
tempo, aveva sorriso di fronte all'assurdo culto del quadrupede pretenzioso; e
anche per noi arrivarono parecchi momenti felici perché, si sa, la felicità, se
splende incontaminata e senza nubi nella casa dei vicini, irradia una luce
gentile anche sulla propria.
Di Ponto, come ho già detto, ci eravamo completamente dimenticati
quando una sera fui costretta a ricordarlo in una maniera davvero traumatica.
Ero tornata a notte fonda da Londra con mio marito, dove avevamo
ascoltato un concerto diretto da Bruno Walter. Inspiegabilmente non riuscivo
a prendere sonno. Erano forse le melodie della Jupiter che mi risuonavano
nell'orecchio e che mi sforzavo inconsciamente di richiamare alla memoria?
O era la bianca, dolce notte estiva di novilunio? Non lo so. Fatto sta che mi
alzai - dovevano essere già le due o le tre - e guardai dalla finestra. La luna
veleggiava in alto nel cielo con una propria lieve forza, come sospinta da un
vento invisibile, attraverso un crespo di nubi argentee rischiarate dalla sua
luce e, ogni volta che affiorava pura e splendente, il giardino riluceva e
pareva immerso nella neve. Il silenzio era totale ed ebbi la sensazione che,
se si fosse mossa una sola foglia, me ne sarei accorta. Perciò quasi
rabbrividii notando all'improvviso qualcosa muoversi nel silenzio assoluto
vicino alla siepe tra i nostri due giardini: una macchia nera che risaltava,
appena un po' inquieta, sul prato illuminato dalla luna. Inconsciamente
interessata, sforzai la vista. Non era qualcosa di vivo e di corporeo che si
muoveva: era un'ombra. Solo un'ombra. Ma doveva essere l'ombra di un
essere vivente che, coperto dalla siepe, avanzava guardingo, quasi di
soppiatto: l'ombra di un uomo o di un animale. Probabilmente non so
esprimermi in modo appropriato, ma la subdola insidiosità, l' innaturalezza, la
silenziosità di quel movimento infido erano in un certo qual modo inquietanti;
mi venne fatto di pensare a uno scassinatore o a un assassino - le donne ne
hanno sempre paura - e il cuore mi arrivò in gola. Ma ecco che l'ombra si era
già spostata dalla siepe sulla terrazza naturale del nostro giardino, quella più
in alto, dove cominciava la staccionata. Poi strisciò, rasentando le sbarre, una
dopo l'altra, stranamente accucciata, la massa viva prima dell'ombra. Un
cane. Lo riconobbi immediatamente: era Ponto. Molto lento, molto prudente e
tuttavia - lo si vedeva - pronto a scappare al minimo rumore, si avvicinò alla
casa di Limpley non smettendo un istante di annusare.
Pareva che si fosse prefisso - non so perché mi sia balenata quest'idea - di
condurre un'indagine personale. Non era infatti il modo libero e disinvolto in
cui fiuta un cane che insegua una pista. Nel suo comportamento c'era,
piuttosto, l'intenzione, forse solo parziale, di chi stesse infrangendo un divieto
o covasse un disegno perfido. Non teneva il muso rasente il terreno, non si
muoveva con i muscoli rilassati, ma, il ventre quasi interamente premuto sulla
terra per non farsi scorgere, si spingeva in avanti, a palmo a palmo come un
cane da caccia che stia braccando la preda. D'istinto mi sporsi per osservarlo
meglio, senonché inavvertitamente devo avere urtato la finestra e prodotto un
rumore, sia pure lieve, perché con un balzo assolutamente atono Ponto si
dileguò nel buio. Mi parve di avere sognato: il giardino, vuoto, bianco,
brillante, immobile era di nuovo inondato dalla luce della luna.
Non so per quale ragione ma mi vergognai di parlarne a mio marito; forse
era stata veramente un'illusione ottica. Eppure, l'indomani mattina,
incontrando per strada la domestica dei Limpley, le chiesi incidentalmente se
avesse visto Ponto negli ultimi tempi. La ragazza non nascose una certa
inquietudine e imbarazzo, ma io la incoraggiai a parlare. Allora mi confessò di
averlo incontrato più volte in strane circostanze e ammise di avere avuto
paura scorgendolo ma di non sapersi spiegare il perché. «Quattro settimane
fa sono andata a Bath con la carrozzina e la piccola. Stavo camminando
quando all'improvviso ho udito un latrato mostruoso: Ponto era sul furgone
del macellaio, che stava passando di lì proprio in quel momento, e ha
cominciato ad abbaiare contro di me o piuttosto contro la carrozzina con la
bambina, almeno credo. Stava già per spiccare un salto, ma per fortuna il
furgone procedeva ad andatura sostenuta sicché non ha rischiato. Ma quel
suo modo iroso di abbaiare mi ha fatto gelare il sangue nelle vene.
Naturalmente non ne ho fatto parola con Mister Limpley perché lo avrei
solo allarmato inutilmente e poi ho pensato che il cane era a Bath dove lo
tengono d'occhio. Però recentemente, era un pomeriggio, mentre andavo a
prendere qualche ciocco per il camino nella vecchia baracca di legno, ho
visto qualcosa che si muoveva nel buio. Per poco non ho lanciato un urlo
dalla paura. Infatti l'avevo riconosciuto. Era Ponto che era venuto a
nascondersi lì. Poi è scappato infilandosi nella siepe del giardino.
Da quel giorno, comunque, le confesso di aver il sospetto che si nasconda
qui spesso e che si aggiri nei pressi della casa di notte perché pochi giorni fa,
dopo quel terribile temporale, la mattina ho visto delle orme nella sabbia
bagnata. Erano impronte di un cane, non mi sono sbagliata, ma questo vuol
dire che gira intorno alla casa. Comunque non si è fatto mai vedere ma, se
appena è sicuro che nessuno lo sorprenda, si intrufola passando dalla nostra
siepe o da quella dei vicini. Mi viene male al pensiero che ritorni. Mister
Limpley non lo fa di certo entrare, mai più, e senz'altro la fame non la patisce
da un macellaio; altrimenti sarebbe venuto in cucina a chiedermi del cibo.
Insomma non capisco proprio il perché di queste incursioni notturne. Lei
non pensa che lo dovrei dire a Mister Limpley o almeno alla signora?»
Discutemmo la faccenda e ci lasciammo convenendo su due punti: primo, se
si fosse fatto vedere un'altra volta, avremmo informato il nuovo padrone, cioè
il macellaio, in modo che mettesse fine alle sue strane visite nel nostro
giardino; secondo, per il momento non avremmo detto una parola a Limpley
per non rammentargli l'esistenza della bestia che sicuramente odiava.
Credo che sia stato un errore, il nostro. Forse, se avessimo parlato, si
sarebbe potuto evitare ciò che accadde la domenica dopo, in quell'orribile
indimenticabile domenica. Ma chi può dirlo? Mio marito e io eravamo andati
di là dai Limpley e ci eravamo messi a chiacchierare seduti sulle leggere
poltroncine da giardino della piccola terrazza, quella più in basso, dove
comincia il ripido pendio fin giù al canale.
Vicino a noi, sul prato pianeggiante, c'era la carrozzina, e mi pare superfluo
dire che il padre, essendo letteralmente rimbecillito, scattava in piedi ogni
cinque minuti, non importa se eravamo nel bel mezzo di un discorso, per
correre dalla figlia e deliziarsi alla sua vista. In effetti era diventata una bella
bimba e in quel pomeriggio di sole era più che mai deliziosa: all'ombra del
tettuccio rialzato della carrozzina, rideva al cielo strizzando gli occhietti
azzurri e con le tenere mani, se si vuole ancora un po' goffe, cercava di
afferrare i cerchi del sole sul rivestimento interno del soffietto. Il padre
impazzì di gioia, dubitando che si fossero mai visti simili prodigi di
intelligenza, e noi ci mostrammo compiacenti e facemmo finta di non avere
mai assistito a un miracolo del genere. Quella vista, l'ultima ancora felice, mi
si è impressa nella memoria.
Poco dopo la signora Limpley ci chiamò per il tè dalla terrazza più in alto,
che riceveva ombra dalla veranda della casa. Limpley tranquillizzò la piccina
come se capisse: «Torniamo subito! Subito!» Lasciammo la carrozzina sulla
bella piazzuola tenuta a prato, sotto un bersò rivestito di fogliame che attutiva
il caldo cocente del sole, e ci incamminammo lentamente - erano pochi passi,
neanche venti metri, tra una terrazza e l'altra, e un pergolato di rose
rampicanti le separava verso il solito posto ombreggiato in cui si soleva bere
il tè, continuando a chiacchierare. Senza soffermarmi sui dettagli, dirò che
Limpley era molto sereno. Ma la sua stupefacente serenità non era
disarmonica rispetto all'azzurro terso del cielo, alla pace domenicale
all'ombra della casa benedetta dal Signore: come a dire, era lo specchio
umano di una rara giornata d'estate.
Un frastuono improvviso ci fece sobbalzare: dal canale ci giunsero urla di
terrore, voci di bambini e grida femminili angosciate. Ci precipitammo giù dal
pendio, preceduti da Limpley. Il nostro primo pensiero fu per la bambina. Ma
la terrazza più bassa, dove avevamo lasciato la carrozzina con la piccola
serenamente appisolata solo pochi minuti prima, era vuota e dal canale
salivano strida sempre più forti e concitate. Scendemmo di corsa. Sulla
sponda opposta un fitto gruppo di donne con i bambini appresso
gesticolavano e fissavano il canale.
Proprio sul pelo dell'acqua galleggiava la carrozzina rovesciata, che
avevamo lasciata al sicuro sulla terrazza bassa neppure dieci minuti prima.
Un uomo aveva già slegato una barca e un secondo si era tuffato.
Ma ogni intervento fu tardivo. Riuscirono a estrarre la piccola salma
dall'acqua limacciosa e verdastra e dall'intrico di alghe solo un quarto d'ora
più tardi.
Non posso descrivere la disperazione degli infelici genitori o, piuttosto, non
voglio neppure tentare di descriverla perché non vorrei ripensare mai più a
quei terribili momenti fino alla fine dei miei giorni. Avvisato telefonicamente, si
presentò un commissario della polizia municipale per compiere gli
accertamenti del caso, ricostruire la dinamica della tragedia e appurare se
fosse imputabile a una negligenza da parte dei genitori, se si trattasse di una
disgrazia o di un omicidio. La carrozzina, ripescata dalle acque del canale,
era già stata portata, per disposizione dello stesso commissario, nel punto
esatto in cui era stata lasciata, e il capo della polizia in persona fece la
verifica delle varie ipotesi. Si procedette con l'imprimere una leggera spinta
alla carrozzella per vedere se rotolasse per inerzia lungo il declivio: invece le
ruote non si mossero quasi nell'erba alta e folta. Dunque era escluso che un
eventuale colpo di vento l'avesse spostata sul tratto pianeggiante della
terrazza fin sul bordo della stessa e successivamente giù dalla discesa. Il
commissario ripeté la prova e aumentò l'intensità della spinta: ma la
carrozzina fece un mezzo passo, quindi si arrestò; e pensare che, come
dimostravano le tracce sul terreno, si trovava a sicura distanza dalla china - la
terrazza infatti era larga non meno di sette metri. Solo quando l'uomo prese
lo slancio e la urtò violentemente, essa discese dalla collina finché prese a
rotolare senza più fermarsi. Dunque qualcosa che non poteva essere previsto
le aveva impresso la necessaria accelerazione. Ma chi o che cosa? Questo
era dunque il mistero. Il commissario della polizia della contea si tolse il
berretto dalla fronte sudata e, sempre più pensieroso, si grattò fra i capelli
incolti, come se non venisse a capo dell'intricata faccenda. Allora chiese se
qualcuno avesse visto un oggetto - magari un semplice pallone - rotolare dal
bordo della terrazza. «No! Mai!» assicurarono tutti. «Qualche bambino si è
soffermato nelle vicinanze del giardino? Un bambino che per scherzo si è poi
messo a giocare con la carrozzina?»
«No!»
«C'era qualcuno nei dintorni?»
«No! Nessuno!» Gli fu assicurato altresì che il portoncino del giardino era
chiuso a chiave e che nessuno fra quanti stavano passeggiando lungo il
canale si era allontanato dai sentieri. L'unico testimone oculare poteva essere
ritenuto l'operaio che, senza esitare, si era buttato in acqua per salvare la
bambina. Ma questi, ancora grondante d'acqua e sconvolto, non seppe far
altro che lo scarno resoconto: «Stavo passeggiando calmo e placido sulla
riva in compagnia di mia moglie quando all'improvviso una carrozzina si è
messa a scendere a rotta di collo dal giardino in forte pendenza, sempre più
alla svelta, sempre più alla svelta. In acqua si è capovolta e, siccome mi è
sembrato di vedere sott'acqua un bambino nuotare, mi sono avvicinato di
corsa, mi sono tolto la giacca e ho tentato di mettere in salvo il piccino, ma
non ce l'ho fatta ad afferrarlo subito, come speravo. C'erano tante alghe.
Non so altro».
Il commissario appariva sempre più sconcertato; non gli era mai toccato di
risolvere un caso così astruso. «Non riesco letteralmente a immaginarmi
come una carrozzina sia potuta rotolare senza che nessuno l'abbia spinta.
L'unica possibilità ragionevole è che il bambino si sia alzato o spostato
lateralmente con un movimento brusco e che la carrozzella abbia perso
l'equilibrio. Ma è un'ipotesi assai poco credibile. Io, almeno, non ci credo. A
questo punto vi chiedo», e rivolse la domanda agli astanti: «Qualcuno di voi
ha un'altra supposizione da avanzare?»
Inconsapevolmente fissai la domestica. I nostri sguardi si incontrarono.
Nello stesso istante venne a tutte e due il medesimo pensiero. Entrambe
sapevamo che il cane odiava mortalmente la bambina. Sapevamo che negli
ultimi tempi si era nascosto spesso subdolamente in giardino. Sapevamo che
aveva spinto nel canale un'infinità di ceste del bucato con un ruzzo perfido.
Ambedue - e me ne resi conto vedendo le sue labbra pallide e tremanti avevamo lo stesso sospetto: l'animale, ormai scaltro e incattivito, intuendo
che gli si presentava l'occasione della vendetta, aspettò che lasciassimo sola
la bambina, uscì di soppiatto dal suo nascondiglio, diede un cozzo violento e
fulmineo alla carrozzina contenente l'odiata rivale, la spinse verso il canale e
subito se la squagliò senza far rumore. Non ci scambiammo però il sospetto.
Sapevo che Limpley sarebbe uscito pazzo al semplice pensiero che, se allora
avesse ucciso l'animale inferocito, avrebbe salvato la sua bambina, ma
sapevo anche che, a dispetto degli indizi logici, mancava la prova definitiva e
concreta: né noi né altri avevamo visto il cane avvicinarsi o scappare quel
pomeriggio. La baracca di legno, il suo nascondiglio preferito - me ne accertai
subito - era vuota, sul terreno asciutto non c'era la minima orma e non
avevamo udito quei latrati bestiali con cui Ponto accompagnava la caduta
delle ceste nel canale. Non potevamo essere certe che fosse stato lui. Era
solo una supposizione straziante, una supposizione terribile e angosciosa.
Era un sospetto legittimo, terribilmente legittimo, ma non la verità
incontrovertibile.
E nondimeno l'orrendo sospetto continuò a tormentarmi, anzi assunse
maggiore consistenza, forse divenne certezza nei giorni successivi. Una
settimana dopo - la povera bambina riposava da tempo nel camposanto, i
Limpley avevano lasciato la casa non riuscendo a sopportare la vista del
canale - accadde un episodio che mi scombussolò. Ero andata a Bath per
fare alcune piccole compere per la casa. All'improvviso, e rabbrividii, a fianco
del furgone del macellaio c'era Ponto; non avevo pensato che a lui nello
strazio di quelle ore. Lo vidi avanzare in tutta calma. Mi riconobbe e si fermò.
Anch'io mi fermai. Fu un attimo. Mentre dal giorno in cui erano iniziate le sue
umiliazioni lo avevo visto turbato, stornare lo sguardo, schivare gli incontri
timidamente, appiattire la schiena, ora nello stesso istante in cui mi vide, alzò
la testa imperturbato e mi guardò ostentando - non esiste altra espressione
un'orgogliosa e superba impassibilità: in un battibaleno era ridiventato
l'animale altezzoso e iattante di un tempo. Conservò il contegno provocatorio
per un minuto, dopodiché riprese ad avanzare verso di me, ondeggiando sui
fianchi e quasi danzando, con un'affabilità scherzosa.
Si arrestò a un passo, come se volesse dire: «Son qui! Che cos'hai da dire
sul mio conto?»
Mi sentii come paralizzata. Non ebbi la forza di respingerlo ma, soprattutto,
non ebbi la forza di tollerare il suo sguardo presuntuoso e - vorrei quasi dire compiaciuto. Scappai. Non vorrei mai, con l'aiuto di Dio, accusare
ingiustamente un animale e tanto meno un essere umano, ma da quel
momento non mi abbandona più l'orribile pensiero che sia stato lui.
8 - Un uomo che non si dimentica
Storia vera.
Sarebbe un'ingratitudine, da parte mia, dimenticare l'uomo che mi ha
insegnato due fra le cose più importanti della vita: da un lato che non ci si
deve asservire al più forte potere del mondo, al potere del denaro, ma
ribellare a questa schiavitù con la sola forza del proprio animo, e dall'altro lato
che tra i nostri simili dobbiamo vivere in concordia senza crearci un solo
nemico.
Conobbi quell'uomo singolare in uno dei modi più semplici. Un pomeriggio allora abitavo in una piccola città - portai con me lo spaniel in una
passeggiata. A un tratto il cane cominciò a comportarsi in maniera strana: a
rotolarsi per terra, a grattarsi contro gli alberi, non smettendo mai di uggiolare
o di ringhiare.
Ancora meravigliato, perché non immaginavo che cosa la bestiola potesse
avere, mi accorsi che qualcuno mi camminava di fianco: era un uomo di circa
trent'anni, vestito miseramente, senza colletto né cappello. Un mendicante,
pensai facendo l'atto di infilare la mano in tasca, ma l'amico mi sorrise
pacificamente con i suoi occhi azzurri, come se fossimo conoscenti di vecchia
data.
«La povera bestia ha qualcosa», disse e mi additò il cane. «Vieni qui, ce ne
liberiamo subito.»
Mi dette del tu, come se fossimo buoni amici, ma tutto il suo essere
esprimeva un'affabilità così calorosa, che non me la presi per il tono
confidenziale. Lo seguii fino a una panchina e mi sedetti accanto a lui.
Egli chiamò il cane con un fischio acuto.
A quel punto accadde un fatto davvero strabiliante: il mio Kaspar, di solito
diffidente verso gli estranei, si avvicinò e, ubbidiente, posò la testa sul
ginocchio dell'uomo. Il quale cominciò a ispezionare il pelo dell'animale con le
sue lunghe dita sensibili, finché uscì con un «Ecco, lo dicevo», di
soddisfazione. Quindi intraprese un'operazione molto dolorosa all'apparenza
poiché Kaspar riprese a gemere, senza tuttavia fare l'atto di divincolarsi. Poi
l'uomo lo lasciò libero.
«Ce l'abbiamo fatta», disse ridendo e sollevò qualcosa. «Ora puoi
ricominciare a saltare, cagnolino.» Mentre la bestiola se ne andava, il
forestiero si alzò, disse «arrivederci» con un cenno del capo e proseguì per la
sua strada. Si allontanò così alla svelta che non feci nemmeno in tempo a
pensare di dargli qualcosa per il suo disturbo e, tanto meno, a ringraziarlo.
Scomparve con la stessa naturale determinatezza con cui era venuto.
Rincasato, continuai a riflettere sullo strano comportamento dell'uomo e
misi a parte dell'incontro la mia vecchia cuoca.
«Era Anton», disse. «Ha il bernoccolo di queste cose.»
Le domandai quale fosse il suo mestiere e che cosa facesse per campare.
Quasi che la mia domanda l'avesse sorpresa, mi rispose: «Niente. Un
mestiere? Non saprebbe che cosa farsene di un mestiere».
«Va bè», commentai, «ma si deve pure avere un'occupazione per sbarcare
il lunario.»
«L'Anton non ne ha bisogno», disse. «A lui tutti danno quel poco che gli
occorre. Non dà alcun valore ai soldi. Non gli servono.»
Francamente un caso strano. Nella piccola città, come in qualunque altra
piccola città di questo mondo, bisognava pagare ogni tozzo di pane e ogni
bicchiere di birra. Bisognava pagare per un alloggio per la notte e per vestirsi.
Anche un uomo modesto come lui, con addosso un paio di pantaloni logori,
come faceva ad aggirare una legge così ferrea e vivere per giunta felice e
contento, libero da qualsiasi preoccupazione?
Decisi di scoprire l'arcano e in breve tempo ebbi la conferma che la mia
cuoca aveva ragione: quell'Anton non aveva davvero un mestiere preciso.
Si accontentava di vagabondare per le vie della città dall'alba al tramonto,
apparentemente senza meta, in realtà invece con gli occhi ben aperti. Niente
gli sfuggiva: fermava il vetturino di una carrozza e, per esempio, gli segnalava
che il cavallo non era stato bardato bene. Oppure si accorgeva che il palo di
una staccionata era marcito e allora ne chiamava il proprietario e gli
consigliava di far riparare la recinzione. La gente, perlopiù, affidava a lui i
lavori di manutenzione, ben sapendo che non si danno mai consigli per pura
avidità, ma solo per sincera amicizia.
L'ho visto metter mano a un'infinità di lavoretti. Non ci si immagina neanche
quanta gente glieli commissionasse! Una volta lo trovai nella bottega di un
ciabattino a riparare delle scarpe, un'altra lo vidi in veste di aiutante
cameriere in un trattenimento e un'altra ancora portare a passeggio dei
bambini. Mi resi conto che la gente si rivolgeva a lui in caso di bisogno. Difatti
un giorno lo riconobbi tra le donne del mercato: vendeva mele e mi dissero
che la padrona della bancarella, dovendo partorire, lo aveva pregato di
sostituirla.
Certamente in tutte le città ci sono persone che sanno fare qualunque
lavoro, ma nel caso di Anton il fatto davvero insolito era che, per quanto si
trattasse di lavori duri, si rifiutava categoricamente di accettare più denaro
dello stretto indispensabile per vivere una giornata; se ne aveva già
abbastanza, non voleva neanche essere pagato.
«Ci vediamo», diceva, «non appena avrò veramente bisogno di qualche
cosa.»
In breve tempo mi fu chiaro che lo strano piccolo uomo, servizievole e
lacero com'era, aveva messo a punto un proprio sistema economico, basato
sull'onestà del prossimo: al posto di un deposito bancario preferiva che la
gente contraesse debiti morali, di riconoscenza, nei propri confronti. Con il
tempo aveva infatti accumulato un piccolo patrimonio in crediti per così dire
invisibili. Perfino le persone più dure di cuore non riuscivano a non sentirsi
obbligate verso un uomo che aveva dimostrato loro benevolenza solo per
amicizia, senza pretendere alcuna ricompensa.
Era sufficiente incontrarlo sulla pubblica strada per capire in quale conto lo
tenessero i suoi concittadini. Tutti lo salutavano calorosamente e gli
stringevano la mano, sicché l'omino semplice e altruista con il suo vestito
consunto girava per la città come se fosse un latifondista che si curasse delle
sue proprietà fondiarie con generosità e maniere affabili. Tutte le porte gli
erano aperte e poteva sedersi a qualunque tavola, tutti e tutto a sua completa
disposizione.
Non ho mai capito bene, se non nel caso di Anton, quale potere immenso
eserciti chi non pensa al domani ma vive confidando semplicemente nella
Provvidenza.
Però devo confessare che nei primi tempi mi stizzii perché, dopo la storia
con il cane, Anton, incontrandomi, mi salutava con un cenno del capo, come
se fossi un estraneo. Era evidente che non desiderasse essere ringraziato
per un piccolo servigio, mentre personalmente mi sentivo escluso dal grande
sodalizio cittadino, come mi confermava il suo contegno disinvolto e a
malapena cortese nei miei confronti. Perciò alla prima occasione - si doveva
riparare una grondaia dalla quale gocciolava acqua - incaricai la cuoca di
chiamare Anton.
«Quello non lo si chiama semplicemente: non si trattiene mai a lungo nello
stesso luogo. Comunque glielo farò sapere.» Questa fu la risposta della
donna.
Lo strano uomo non aveva dunque una casa, mi dissero, ma non c'era
niente di più facile che raggiungerlo: una telefonia senza fili, infatti, sembrava
collegarlo con tutta la città. Bastava dire alla prima persona che si incontrava:
«Potrei avere bisogno di Anton», perché la commissione passasse di bocca
in bocca finché qualcuno lo incontrava di persona. Difatti lo stesso
pomeriggio si presentò a casa mia. Lasciò vagare il suo sguardo esperto in
ogni dove, mentre attraversava il giardino disse che la siepe aveva bisogno di
essere sostenuta e che si doveva trapiantare un giovane alberello, ma alla
fine notò la gronda e si mise al lavoro.
Due ore dopo mi spiegò che il guasto era stato riparato e se ne andò, di
nuovo prima che riuscissi a ringraziarlo. Ma quella volta avevo almeno
incaricato la cuoca di ricompensarlo degnamente. Sicché domandai se Anton
fosse rimasto soddisfatto.
«Ma certo», mi rispose la donna. «Lui è sempre soddisfatto. Volevo dargli
sei scellini, ma ne ha presi solo due. 'Però', ha detto, 'se il signor dottore
avesse magari un vecchio pastrano...'»
Fui davvero contento di poter soddisfare almeno un desiderio di
quell'uomo, il primo e l'unico nella sfera delle mie conoscenze che prendesse
di meno di quanto gli si offriva. Lo rincorsi.
«Anton, Anton», gridai scendendo dalla discesa, «ho un cappotto per te!»
I miei occhi incontrarono un'altra volta il suo sguardo luminoso e calmo.
Non era affatto stupito che lo avessi rincorso, anzi fu per lui la cosa più ovvia
e naturale del mondo che una persona che avesse numerosi cappotti ne
regalasse uno a chi ne aveva urgente bisogno.
Ordinai alla cuoca di fare la cernita dei miei vecchi indumenti. Anton dette
un'occhiata al mucchio, sfilò un cappotto, se lo provò e disse con voce
tranquilla: «Questo mi andrebbe bene!»
Aveva pronunciato quelle parole con l'espressione di un signore che faccia
la sua scelta fra le tante cose mostrategli. Dopodiché diede un'occhiata
anche agli altri indumenti.
«Queste scarpe le potresti regalare a Fritz di Salsergasse. Gli occorre
davvero un nuovo paio! E quelle camicie a Joseph dell'Hauptstrasse;
potrebbe sistemarsele. Se non hai niente in contrario, porto io la roba.»
Enunciò il suo parere con il tono caloroso di chi desiderasse fare
spontaneamente un piacere. Mi parve doveroso ringraziarlo dal momento che
si prestava a recapitare la mia roba a persone che non conoscevo.
Impacchettò le scarpe e le camicie insieme e soggiunse: «Sei davvero un
tipo dabbene. Regalare tutta 'sta roba!» E scomparve.
Nemmeno la critica più lusinghiera a uno dei miei libri mi aveva riempito di
tanta gioia come quel semplice complimento. Anche negli anni successivi ho
pensato spesso ad Anton con riconoscenza. Nessuno infatti mi ha mai dato
tanto aiuto morale. E a volte, in occasione di piccole seccature per questioni
di denaro, mi sono ricordato di quell'uomo che viveva tranquillamente alla
giornata poiché accettava solo quanto gli serviva appunto per un giorno. Il
suo esempio mi portò sempre alla stessa considerazione: se tutti avessero
fiducia negli altri, non ci sarebbero né gendarmi, né tribunali, né prigioni... e
nemmeno il denaro.
La nostra complicata vita economica non andrebbe forse meglio se tutti
vivessero come quell'uomo che, pur dandosi da fare, non accettava neanche
un centesimo in più di quanto gli fosse strettamente necessario?
Per parecchi anni non ho sentito più nulla sul conto di Anton, ma non mi
sono mai immaginato nessuno più sereno di lui: Dio infatti non lo
abbandonerà e, ciò che è ancora più raro, neppure i suoi simili lo
abbandoneranno.
9 - Conoscenza imprevista di un'arte
Stupenda, in quell'incredibile giornata di aprile del 1931, era l'aria stessa,
ancora bagnata ma già intiepidita dal sole: setosa come una caramella,
aveva un gusto dolce, fresco, umido e scintillante, primavera filtrata, ozono
genuino. Colti di sorpresa, al centro del boulevard de Strasbourg si inspirava
profumo di prati sbocciati e di mare. Aveva compiuto l'incantevole miracolo
un acquazzone, uno di quei capricciosi piovaschi d'aprile con i quali la
primavera suole annunciarsi spesso in maniera assai screanzata. Già in
viaggio il nostro treno si era lasciato alla spalle un orizzonte tetro che dal
cielo si incuneava, come una banda nera, nei campi, ma solo in prossimità di
Meaux, quando i dadi delle case periferiche si sparsero nella campagna, i
primi cartelloni pubblicitari s'impennarono urlanti fuoriuscendo dal verde
indispettito e l'inglese attempata, sedutami di fronte nello scompartimento,
cominciò ad arraffare le sue quattordici borse, boccette e astucci da viaggio,
solo allora la nube spugnosa, gonfia, plumbea e arcigna, che aveva
gareggiato con la nostra locomotiva fin da Epernay, scoppiò. Dette il segnale
un piccolo lampo pallido e subito masse d'acqua guerresche si abbatterono
sul nostro treno in marcia con uno strepito di trombe, per spandervi un fuoco
bagnato di artiglieria. Gravemente feriti, i vetri dei finestrini piangevano sotto i
colpi battenti della grandine, e la motrice, arrendendosi, abbassò fino a terra il
suo pennacchio di fumo grigio. Non si vide più nulla, non si udì più nulla se
non uno sgocciolante scroscio di acciaio e vetro, mentre il convoglio, torturato
come un animale, correva sulle rotaie lucide per sfuggire al diluvio.
Ma, felicemente arrivati, sostavamo sotto la pensilina della Gare de l'Est in
attesa di un facchino, quand'ecco il prospetto del boulevard brillare già chiaro
dietro la graticcia grigia della pioggia, intanto che un violento raggio di sole
infilava un tridente nella massa nuvolosa in fuga e le facciate delle case
luccicavano come ottone lucidato. Il cielo scintillava nel blu marino. Nuda
come Afrodite Anadiomène uscita dalle onde, la città si liberava del mantello
della pioggia, ormai scivolatole dalle spalle: una visione divina.
Immediatamente, a destra e a sinistra, la gente sbucò come frecce da
centinaia di rifugi e nascondigli, si scrollò, rise e proseguì per la sua strada. Il
traffico ristagnatosi riprese a rollare, a cigolare e a sbuffare: un amalgama
frullato di migliaia di veicoli. Tutto respirava di nuovo e gioiva alla luce
ritrovata. Perfino gli alberi tisici del viale, inchiavardati nell'asfalto duro,
seppure bagnati e coperti di gocce, protendevano le piccole dita appuntite dai
germogli nel cielo nuovo d'un azzurro sazio e tentavano di mandare un lieve
aroma. Ci riuscirono, veramente. Ormai i miracoli non si contavano più. Ora,
per qualche minuto, si sentì nitidamente il respiro sottile, ansioso dei fiori dei
castagni nel cuore di Parigi, in boulevard de Strasbourg.
E, altra meraviglia di quel benedetto giorno di aprile, non avevo, appena
arrivato, alcun appuntamento fino al pomeriggio. Nessuno dei quattro milioni
e mezzo di parigini sapeva di me o mi aspettava. Ero divinamente libero di
fare ciò che volevo. Potevo, a mio piacimento, andare a spasso o leggere il
giornale, stare seduto al caffè o mangiare, visitare un museo, vedere le
vetrine o i libri sulle rive del fiume.
Potevo telefonare agli amici o fissare semplicemente l'aria mite e dolce. Ma
fortunatamente guidato da un istinto sapiente, scelsi la cosa più intelligente:
non fare niente. Non feci alcun progetto, mi concessi una vacanza, staccai
ogni contatto a termine e spostai i miei passi sul disco rotante del caso,
insomma mi lasciai portare dove la strada mi portava: rilassato sui
lungosenna abbagliati di negozi, più veloce oltre le rapide dei passaggi
pedonali. Poi la marea mi spinse giù sui grandi boulevard e, gradevolmente
stanco, approdai sulla terrazza di un cafre, boulevard Haussmann angolo rue
Drout.
Finalmente sono tornato, pensai, abbandonandomi sulla cedevole
poltroncina di vimini e accendendo un sigaro. Parigi! Sono due anni che non
ci vediamo, eppure siamo vecchi amici. Ora fissiamoci negli occhi.
Su, comincia tu, Parigi, mostrami che cosa hai imparato nel frattempo,
forza, inizia, proiettami il tuo film insuperabile Les boulevards de Paris,
capolavoro di luci, colori, movimenti, con le sue migliaia di impagabili
comparse non pagate, e suona intanto la musica inimitabile, frastornante e
lieve delle tue strade! Non fare economia, batti il tempo, mostra ciò che sai,
mostra chi sei, fai funzionare il tuo grande orchestrion con le melodie da
strada atonali, pantonali, lascia che le tue auto sfreccino, i tuoi venditori
ambulanti strillino, i tuoi manifesti scoppino, i tuoi clacson echeggino, i tuoi
negozi scintillino e i tuoi abitanti corrano! Tanto sono seduto qui,
assolutamente disponibile, ho tempo e voglia di osservarti e di ascoltarti
finché gli occhi mi si riempiono di sfarfallii e il cuore rimbomba. Su, su, non
risparmiarti, non controllarti, dà di più, sempre di più, scatenati: grida, urli,
strombettii sempre diversi e nuovi, suoni frantumati, tanto non mi stancano
perché i miei sensi sono tutti per te. Forza, forza, datti completamente,
anch'io sono pronto a concedermi, città inconoscibile e tuttavia sempre
prodiga di nuovi incanti!
Infatti - ed era la terza meraviglia di quella straordinaria mattinata da un
certo pizzicore ai nervi sentivo che era una delle mie giornate di curiosità, le
quali sopraggiungono perlopiù dopo un viaggio o una notte insonne. In quelle
giornate mi sento, come dire, due volte me stesso, se non addirittura mille
volte. Non mi basta la mia vita personale circoscritta: un'inspiegabile forza
urge dall'interno, mi trasmette l'incontenibile bisogno di uscir fuori dalla mia
pelle, come la farfalla dalla crisalide. Ogni poro si spande, ogni nervo si torce
a mo' di uncino o di puledro elegante e focoso. Una fantastica finezza di udito
e di vista s'impadronisce di me, una lucidità quasi misteriosa che mi dilata la
pupilla e la membrana del timpano. Ciò che sfioro con lo sguardo si fa
enigma. Per ore e ore posso osservare lo stradino mentre spacca l'asfalto
con il trapano elettrico e, alla semplice osservazione, ho già una percezione
così forte del suo lavoro che ogni movimento delle sue spalle vibranti passa
inconsciamente nelle mie. Posso sostare all'infinito davanti a una finestra e
immaginarmi il destino della persona sconosciuta che forse vi abita o
potrebbe abitarvi. Né mi stanco di guardare e seguire un passante:
magneticamente, assurdamente trascinato dalla curisiosità e nondimeno
consapevole che quel che faccio riuscirebbe incomprensibile e folle a
chiunque per caso mi vedesse; tuttavia, tale piacere ludico e gioco della
fantasia sono per me più inebrianti di qualunque dramma teatrale messo in
scena e di qualunque avventura narrata in un libro. Può darsi che questa
sovreccitazione e questa chiaroveggenza dipendano, com'è molto naturale,
dal trasferimento improvviso e non siano altro che l'effetto dello sbalzo di
pressione atmosferica e della conseguente variazione chimica del sangue;
ma non ho mai cercato di spiegarmi questa misteriosa eccitabilità. Eppure,
ogniqualvolta ne avverto l'insorgenza, la mia vita consueta si identifica con lo
stato intermedio tra sonno e veglia e le giornate normali mi appaiono
prosaiche e vuote. Soltanto in attimi come questi ho l'esatta percezione di me
stesso e della fantastica poliedricità della vita.
Altrettanto smanioso di giocare, teso, estroflesso mi sentii anche in quella
beata mattina di aprile, mentre sedevo sulla mia seggiolina lungo il bordo
della marea umana: aspettavo e non sapevo che cosa. Ma aspettavo con il
lieve tremito freddo del pescatore in attesa di quel certo strappo, sapevo
istintivamente che avrei incontrato qualcosa o qualcuno, essendo così ebbro,
pronto al baratro e cupido di procacciare qualcosa alla mia curiosità, perché
giocasse. Inizialmente la strada non mi lanciò alcun segnale e dopo una
mezz'ora i miei occhi si stancarono del passaggio vorticoso di masse e
masse che parevano sospinte da un turbine di vento. Non distinsi quasi più
nulla: le persone che il viale vomitava cominciarono a non possedere più
delle facce, si fusero in un'ondata sbiadita di berretti, cappelli e chepì gialli,
marrone, neri, grigi, di ovali vuoti, truccati male, in una sciacquatura noiosa di
sporco umano che, quanto più la osservavo con sguardi stanchi, tanto più
diventava incolore e grigiastra. Ero ormai sfinito come se stessi vedendo la
copia malriuscita, confusa e traballante di un film. Mentre feci l'atto di alzarmi,
finalmente lo scovai.
Mi balzò all'occhio anzitutto perché continuava a sparire dal mio campo
visivo. Tutte le altre migliaia e migliaia di persone, che quella mezz'ora mi
aveva riversato addosso, si disperdevano presto, come strappate via da
nastri invisibili, mostravano frettolosamente un profilo, un'ombra, un contorno,
ma poi venivano risucchiate dalla corrente. Solo quest'uomo, invece, tornava
sempre nello stesso punto. Lo notai proprio per questo. Come la risacca, per
un'incomprensibile ostinazione, getta un'unica alga sporca sulla spiaggia e
immediatamente la inghiottisce di nuovo, per risputarla e riprendersela senza
sosta, anche questa figura si faceva depositare dalla marea a intervalli quasi
regolari sempre nel medesimo luogo, sempre con lo stesso sguardo
mortificato e stranamente velato. Un misirizzi verticale, non certo un'attrattiva,
un corpo secco, emaciato, malamente avvolto da un soprabito giallo
canarino, certamente non tagliato su misura perché le sue mani sparivano
sotto le maniche sovrabbondanti. Gli stava largo, il cappottino giallo di una
moda antidiluviana, di una taglia spropositata, ipertrofico per la sua faccia da
sorcio con due labbra pallide, quasi spente, sulle quali tremolava
ansiosamente una spazzolina bionda. Un povero diavolo a cui tutto andava
storto e largo. Aveva le spalle sbilenche, due gambe sottili, sembrava un
clown. L'espressione preoccupata, fuoriusciva dal gorgo ora a destra, ora a
sinistra, si bloccava apparentemente perplesso, si guardava intorno come un
leprotto spaventato, fiutava, si stringeva nelle spalle e scompariva nella calca.
Inoltre - e fu la seconda cosa che mi colpì - l'omino scarnito e spolpato, che
in certo qual modo mi ricordava un impiegato di un racconto di Gogol,
sembrava molto miope o se non altro particolarmente goffo. Infatti, due, tre,
quattro volte vidi alcuni passanti più lesti e risoluti speronare, anzi quasi
travolgere quel minuscolo rifiuto stradale. Ma il fatto non parve invece
preoccuparlo granché: si scansava con umiltà, si acquattava e sgusciava in
avanti, eppure era sempre lì, nello stesso punto, per la decima o dodicesima
volta in quella mezz'ora scarsa.
Ebbene, mi interessò o, piuttosto, al primo momento mi arrabbiai s'intende
con me stesso che pure in quella giornata ero così curioso perché non ero
riuscito a indovinare che cosa facesse lì quell'uomo; e quanto più mi sforzavo
di capire, tanto più la mia curiosità si caricava di stizza. Accidenti, ma che
cosa stai cercando, ragazzo! Che cosa, chi aspetti? Non sei un mendicante
perché un mendicante non è così balordo da piazzarsi in mezzo a una ressa
spaventosa, dove nessuno ha tempo di mettere la mano in tasca. Non sei
nemmeno un operaio: ti pare che gli operai abbiano l'opportunità di venire a
ciondolare da queste parti alle undici e mezzo di mattina? Non aspetti
neppure una ragazza, mio caro, perché un manico di scopa come te non se
lo prende neanche la più vecchia e scalcinata. Quindi, facciamola finita! Che
cosa fai qui?
Magari sei uno dei tanti ciceroni sospetti che, quatti quatti, si fan sotto a un
turista e, con l'abilità del prestidigitatore, fanno uscire dalla manica qualche
fotografia oscena e promettono al provinciale le meraviglie di Sodoma e
Gomorra purché gli dia la mancia? Ma no, tu sei il tipo che non rivolge la
parola a nessuno, anzi, al contrario, te la squagli tenendo lo sguardo basso
stranamente mortificato. Va' al diavolo, allora! Vigliacco, chi sei? Che cosa
trami nella mia riserva di caccia? Lo presi di mira e in cinque minuti la mia era
già passione e piacere ludico: dovevo scoprire a tutti i costi che cosa stesse
facendo quel misirizzi in mezzo al boulevard. Lo capii tutt'a un tratto: era un
detective.
Un detective, un poliziotto in borghese. Lo dedussi da un piccolo
particolare: da quel modo di guardare sbieco con cui investigava i passanti,
uno dopo l'altro. Era lo sguardo di chi ha il compito dell'identificazione, e ogni
gendarme lo impara fin dal primo anno di corso. Non è uno sguardo facile
perché, per un verso, dev'essere rapido e, come un coltello, salire dal basso
in alto, seguire tutto il corpo lungo la cucitura fino alla faccia e,
contemporaneamente, con il faro a intermittenza cogliere la fisionomia,
mentre, per un altro verso, deve saper confrontare mentalmente i caratteri
somatici con la segnaletica di noti delinquenti ricercati. In secondo luogo - e
questo, forse, è ancora più difficile - lo sguardo deve accendersi senza che
nessuno se ne accorga, poiché chi spia non può rivelare all'altro la propria
identità.
Ebbene, il mio uomo aveva superato il corso con i massimi voti. Infatti,
intontito come un sognatore, si introduceva nella calca mostrando
indifferenza, si lasciava urtare e spingere senza reagire, ma di tanto in tanto
spalancava, sempre all'improvviso, le palpebre flosce sembrava l'occhio
dell'otturatore di una macchina fotografica - e lanciava l'arpione. Nessuno,
almeno così pareva, lo osservava nello svolgimento dell'incarico d'ufficio, e
anch'io non mi sarei accorto di nulla se quella benedetta mattina d'aprile non
fosse stata per fortuna una delle giornate in cui mi abbandono alla curiosità e
se non mi fossi appostato rabbiosamente ormai da un bel pezzo.
Ma, francamente, il misterioso poliziotto doveva essere un vero maestro
nella sua materia se, come faceva mostra, nel travestimento aveva messo a
frutto un'arte particolarmente raffinata e se, ai fini del servizio in veste di
uccellatore, aveva capito l'importanza di imitare il contegno, l'andatura,
l'abbigliamento, anzi gli stracci del barbone. I poliziotti in borghese si
riconoscono a cento metri di distanza con un inessenziale margine di errore:
sono omoni che, per quanto si travestano, non si decidono a deporre l'ultimo
resto di dignità professionale, non imparano mai, fino a raggiungere un grado
di perfezione che inganni, l'abbattimento fisico e morale un po' timido e
ansioso, che con estrema naturalezza confluisce nel passo di chi sente sulle
proprie spalle il peso di un'annosa povertà. Quest'uomo aveva addirittura
visualizzato la depravazione del girovago anche olfattivamente e riconosciuto
fin nei minimi dettagli la maschera del vagabondo. Psicologicamente corretto
era che lo spolverino giallo canarino e il cappello marrone, messo
leggermente di traverso, rimarcassero una certa eleganza, magari un po'
forzata, mentre i pantaloni sfilacciati, in basso, e la giacchetta ripugnante, in
alto, lasciavano intravedere la miseria in tutta la sua nudità: da esperto
cacciatore di uomini qual era, egli aveva notato come la povertà, vorace topo
di fogna, cominci a rosicchiare i vestiti dagli orli. Con quello squallido
guardaroba si accordavano, contribuendo alla caratterizzazione dell'individuo,
anche la fisionomia da morto di fame, la sottile barbetta (probabilmente
appiccicata), la cattiva rasatura, i capelli arruffati e cincischiati che avrebbero
fatto giurare a qualunque osservatore non prevenuto che il poveraccio aveva
passato l'ultima notte su una panchina o su un tavolaccio del commissariato
di polizia. A completare l'immagine, il continuo tossicchiare con la mano
contro la bocca, il perenne stringersi nel soprabito per i brividi di freddo,
l'andatura strascicata, sorniona, come se le membra pesassero più del
piombo. Per Dio, era l'esibizione perfetta di un trasformista che aveva
riprodotto l'immagine clinica di un tisico all'ultimo stadio!
Non mi vergogno di ammetterlo: mi sono entusiasmato all'eccezionale
occasione di vedere all'opera - in separata sede - un segugio della polizia,
quantunque in un altro strato della mia coscienza giudicassi spregevole che,
proprio in una giornata così tersa e sotto un sole d'aprile così gentile, un
funzionario statale travestito, ormai in età pensionabile, stesse dando la
caccia a un povero diavolo per trascinarlo in chissà quale tugurio,
sottraendolo a quella luce primaverile vibrante di sole. In ogni caso era
eccitante seguirlo. Sempre più teso, osservai ogni suo gesto e mi rallegrai nel
riconoscere nuovi dettagli. Ma la gioia per tante scoperte si liquefece come
ghiaccio al sole: nella mia diagnosi non tutti i conti tornavano, qualcosa non
mi convinceva. Persi la mia sicurezza. Davvero era un detective? Quanto più
tenevo d'occhio lo strano passante, tanto più si rafforzava il sospetto che
quella povertà ostentata fosse un briciolo troppo autentica e troppo vera
perché fosse un semplice specchietto per le allodole escogitato dalla polizia.
Fu soprattutto - prima fase - il colletto della camicia a insospettirmi. Un
indumento così lercio non lo si leva dal mucchio di pattume per metterselo
intorno al collo prendendolo con la punta delle dita; lo si indossa semmai
quando si tocca il fondo della disperazione e dell'abbandono. Poi - secondo
motivo di contrasto - venivano le scarpe, sempre che fosse lecito chiamare
ancora calzature un insieme penoso di brandelli di cuoio in totale sfascio. Lo
stivale destro, anziché con lacci neri, era legato con dello spago grossolano,
in quello sinistro la suola staccata ciabattava come il muso di una rana. Un
paio di calzature così non lo si inventa e costruisce nemmeno per unirsi a un
corteo di maschere. Da escludere, non c'erano più dubbi: quello
spaventapasseri traballante e strisciante non era un gendarme, la mia
diagnosi era un puro sillogismo sbagliato.
Ma, se non era un poliziotto, allora chi era? Perché quell'eterno va e vieni,
quel tornare immancabilmente allo stesso punto? E perché quel modo di
guardare, come scaraventato dal basso per spiare, cercare, accerchiare? Mi
assalì una sorta di collera: non mi spiegavo come mai non avessi
riconosciuto subito che individuo era e in quel momento mi sarebbe piaciuto
agguantarlo per le spalle e dirgli: «Che cosa vuoi, minchione? E che cosa fai
qui?»
Tutt'a un tratto, come se una miccia si incendiasse correndomi lungo i
nervi, sobbalzai: la nuova certezza aveva colpito nel segno. Di colpo fui
sicuro che tutto era ormai definitivo e inderogabile. No, non era un detective,
come avevo potuto lasciarmi turlupinare? Era, se si può dire, l'esatto
contrario di un gendarme: era un borsaiuolo, un vero, perfetto borsaiuolo
addestrato, professionale, genuino, che veniva sul boulevard a sgraffignare
portafogli, orologi, borsette da signora e qualunque altro bottino. Stabilii la
sua appartenenza alla specifica categoria dei ladri solo allorquando lo vidi
arrancare verso la folla esattamente dove la ressa era più forte.
Simultaneamente compresi la sua apparente balordaggine, quel suo continuo
urtare e spingere i passanti. La situazione mi divenne sempre più chiara e
inequivocabile. Il fatto che si fosse scelto come postazione il tratto di strada
antistante il cafre e vicino all'incrocio aveva una sua ragione, la stessa che
aveva indotto l'astuto proprietario di un negozio a escogitare un particolare
espediente per la sua vetrina. Va detto che la mercanzia venduta in quella
bottega era un insieme di cianfrusaglie di scarso interesse e poco allettanti:
noci di cocco, dolciumi turchi e vari caramellati variopinti. Senonché all'uomo
venne l'idea luminosa di arredare gli spazi espositivi non solo con palme finte
e fondali tropicali che ricreavano ambienti esotici, ma addirittura di lasciarvi
scorrazzare tre scimmiette. L'idea si rivelò eccezionale: le bestiole vive
volteggiavano dietro il vetro assumendo le posizioni più strambe e buffe,
digrignavano i denti, si spulciavano, sghignazzavano, facevano chiasso e si
comportavano disinvoltamente alla maniera delle scimmie, cioè in modo
indecente. Il furbo negoziante aveva fatto bene i suoi conti e difatti grappoli di
persone di passaggio rimanevano con il naso appiccicato alla vetrina;
soprattutto le donne, seppure dopo urla e strepiti, sembravano divertirsi allo
spettacolo.
Lo stesso fece il mio amico: ogniqualvolta un buon numero di passanti
curiosi si ammassava, lui accorreva di soppiatto. Delicatamente, anzi
simulando un fare modesto, spingeva finché riusciva a infilarsi in mezzo agli
altri che si accalcavano parimenti a spinte; ma dell'arte del borseggio finora
poco studiata e, per quanto ne sappia, non degnamente descritta, so soltanto
che i ladruncoli, per fare colpi apprezzabili, hanno anzitutto bisogno di un
consistente assembramento di persone - come le aringhe per deporre le uova
- perché, solo nel pigia pigia e fra gli spintoni la vittima non sente la mano
insidiosa che le frega il portafogli o l'orologio. Inoltre - ed è un'acquisizione
recente - un colpo da maestro abbisogna di un diversivo che narcotizzi, per
un breve intervallo, l'inconscia vigilanza con cui ogni essere umano tutela le
sue proprietà. Provvedevano ad assicurare l'auspicata distrazione le tre
scimmie con il loro inimitabile comportamento buffo o francamente spassoso.
In questo caso gli spelacchiati omuncoli ridanciani erano gli inconsapevoli
complici e manutengoli del mio nuovo amico.
A questa scoperta mi sentii, mi si perdoni, addirittura entusiasta per il
semplice fatto che in vita mia non avevo mai visto un ladro o, piuttosto, per
non tradire la sincerità a cui tengo, ne avevo visto uno a Londra durante un
periodo di studi. Al fine di migliorare il mio inglese, mi recavo abbastanza
spesso in tribunale per assistere alle udienze (lo scopo era allenarmi
all'ascolto) e una volta feci in tempo ad assistere alla scena di un ragazzo
foruncoloso con i capelli rossicci che veniva condotto davanti al giudice tra
due policemen. Sul tavolo c'era il corpus delicti, ovvero il portamonete. Alcuni
testimoni parlarono e giurarono, il giudice bofonchiò una litania in inglese e il
rosso si beccò - se non ho capito male - sei mesi. Quello è stato il primo
borsaiuolo che ho visto ma - e qui sta la differenza personalmente non avevo
potuto accertare se lo fosse davvero. Soltanto i testimoni, infatti, ne
sostennero la colpevolezza. Soggettivamente avevo presenziato alla
ricostruzione giuridica del reato, non al reato. Avevo visto solo un imputato e
un condannato, non il ladro. Il furto è un furto solo nell'istante in cui il reo lo
compie, non due mesi dopo quando il suo reato viene portato davanti al
giudice. Analogamente il poeta è sostanzialmente un poeta mentre crea e
non, per esempio, due anni più tardi quando legge al microfono la sua
poesia. Il reo è reo unicamente nell'attimo del reato. Senonché mi veniva
offerta l'occasione di verificare la strana faccenda in termini reali: vedere un
borsaiulo all'opera, nel momento più caratteristico della sua attività, insomma
nel momento della verità, nel breve spazio di un secondo non facile da
cogliere, come la procreazione e la nascita. Il pensiero stesso di questa
possibilità mi eccitava.
Naturalmente ero deciso a non perdermi un'occasione effettivamente
grandiosa, né a lasciarmi sfuggire un solo particolare della preparazione del
reato e del reato medesimo. Liberai subito la mia seggiolina al tavolino del
caffè, dove mi sentivo molto svantaggiato: il campo visivo, infatti, non era
perfetto. Mi serviva una postazione mobile dalla quale osservare senza alcun
ostacolo. Dopo alcune prove scelsi un chiosco di giornali dov'erano affissi i
manifesti dei teatri parigini. Potevo fingere di essere assorbito dalla lettura
mentre in realtà, protetto dalla colonna rotonda, avrei seguito qualsiasi suo
movimento. Con una tenacia, che oggi non mi riesce più comprensibile,
osservai il povero diavolo accingersi a dar seguito all'impresa in sé difficile e
rischiosa, non mi persi neanche un dettaglio ed ero più teso, se non ricordo
male, che a teatro o durante la proiezione di un film seguendo l'artista. La
realtà, nel momento della sua massima condensazione, supera ampiamente
qualsiasi forma artistica. Vive la réalité! Quell'ora, dalle undici alle dodici di
mattina sul boulevard di Parigi, mi passò veramente velocissima, quantunque
- o proprio perché fu piena di continue tensioni, di numerose piccole decisioni
eccitanti e di contrattempi. Potrei descriverla per ore e ore, quell'ora, tanto
era carica di energia nervosa e stimolante per la rischiosità stessa del gioco.
Fino a quel giorno non avevo mai immaginato, neppure in modo
approssimativo, che il borseggio fosse un mestiere incredibilmente difficile e
pressoché non apprendibile, anzi: che arte terribile e orrendamente
provocatoria è lo scippo sulla pubblica strada e alla luce del sole! Fino a quel
giorno all'idea di borseggio non avevo legato altro che un concetto vago di
impudenza e di grande destrezza manuale, avevo considerato questo
mestiere come una semplice questione di dita agili, in sostanza non
diversamente dalla perizia di cui danno prova i giocolieri e i prestidigitatori.
Dickens, in una scena di Oliver Twist, ha descritto come avveniva l'iniziazione
al furto: un ladro esperto insegnava ai piccoli potenziali ladruncoli a sfilare un
fazzoletto dalla giacca senza che si facessero accorgere.
Sul taschino era fissato un campanellino che suonava quando il neofita
estraeva il fazzoletto non con la dovuta lievità di tocco, sicché il gesto veniva
giudicato sbagliato e troppo grossolano. Ma Dickens, me ne rendo conto
soltanto ora, aveva badato al lato tecnico della questione, all'agilità delle dita
e probabilmente non aveva mai assistito a uno scippo in corpore vivo: non
aveva mai avuto l'opportunità (che a me veniva concessa per un caso
fortunato) di notare come, in un borsaiuolo che agisca alla luce del sole, non
sia indispensabile solamente una mano svelta, ma si richiedano altresì
presenza di spirito, autocontrollo, intuito psicologico allenato, freddo e
insieme fulmineo e, soprattutto, un coraggio pazzesco se non addirittura folle.
Un ladruncolo - e l'avevo capito fin da allora - dopo sessanta minuti di
apprendistato deve possedere la rapidità decisionale del chirurgo che si
accinga a effettuare una sutura al cuore - l'indugio anche solo di un secondo
può rivelarsi fatale. Ma, nel caso di un'operazione chirurgica, il paziente è
almeno sotto narcosi, non può muoversi, non può difendersi. Qui, invece,
l'intervento, subitaneo ancorché lieve, avviene su un corpo perfettamente
sveglio e per di più in una zona vicina al portafogli dove la gente è
particolarmente sensibile. Mentre sferra il colpo, mentre la sua mano penetra
con la velocità di un lampo, appunto nel momento di massima tensione ed
eccitazione, il borsaiuolo deve dominare esemplarmente ogni nervo e
muscolo della faccia, in sostanza agire con indifferenza, fingendosi quasi
annoiato. Non gli è permesso di svelare il proprio eccitamento e, a differenza
del criminale e dell'omicida, non può lasciar trapelare nella pupilla il furore di
un gesto folle: mentre la sua mano sta avanzando, il borsaiuolo deve opporre
alla vittima uno sguardo schietto e affidabile e, nell'attimo della collisione,
saper pronunciare in tono umile e con voce discreta il suo: «Pardon,
Monsieur.
Ma non gli basta essere accorto, vigile e lesto nell'istante cruciale: ancora
prima dell'affondo, egli deve dar prova di intelligenza, di padronanza
psicologica, da psicologo e fisiologo deve appurare l'idoneità delle vittime.
Sono infatti da mettere nel conto soltanto i distratti, i meno diffidenti e, tra
costoro, vanno privilegiati rigorosamente solo quelli che non abbottonano la
giacca in alto e non hanno un passo troppo sostenuto, dunque soltanto i
pochi a cui sia possibile avvicinarsi senza insospettirli. Su cento, cinquecento
persone che in quell'ora procedevano sul viale, ne ho contate una, due al
massimo che rientrassero nel campo di tiro. Un borsaiuolo ragionevole,
pertanto, avrebbe arrischiato il colpo con un numero assai esiguo di vittime,
ma anche con queste poche il successo non era assicurato al cento per
cento: potevano sopraggiungere mille imprevisti e proprio all'ultimo momento.
Per questo mestiere (posso testimoniarlo) è necessario un colossale bagaglio
di esperienze umane, di oculatezza e autocontrollo. E non va trascurato un
altro particolare nient' affatto secondario: il ladro, mentre sta scegliendo i
soggetti più idonei e si fa sotto con i sensi vigili, deve nel medesimo tempo azionando allora un altro dei suoi sensi tenuti spasmodicamente sotto
pressione - badare di non essere visto a sua volta. Chissà mai che un
gendarme o un investigatore non si sia appostato proprio all'angolo, ma può
vederlo anche uno dei tanti curiosi, sempre troppi, che popolano le strade!
Tutto era da tener d'occhio, e se una vetrina, sfuggitagli nella fretta, avesse
riflesso la sua mano smascherandolo? Se dall'interno di un negozio o da
dietro una finestra qualcuno avesse osservato le sue manovre? Lo sforzo a
cui è sottoposto un borsaiuolo è mostruoso e nient' affatto proporzionale al
rischio. Un semplice passo falso o un errore possono mandare all'aria tre,
quattro anni di lavoro su un boulevard di Parigi, un piccolo tremito alle dita, un
tocco nervoso, prematuro può costare la libertà. Il borseggio in pieno giorno e
su un viale - in quel momento ne avevo la certezza - rappresentava una
prova inimmaginabile di coraggio e da allora considero un'ingiustizia che i
quotidiani liquidino questa categoria di ladri nella rubrica della cosiddetta
piccola criminalità, riservando loro tre righe. Tra tutti i mestieri, tra quelli leciti
e quelli illeciti del nostro mondo, questo è senz'altro uno dei più difficili e
pericolosi. Ma il borseggio, nelle sue espressioni più raffinate, merita, quasi a
pieno titolo, di chiamarsi arte. Posso affermarlo e sono in grado di fornirne le
prove, essendo stato testimone oculare e un attivo compartecipe in quella
mattina di aprile.
Un compartecipe attivo: non esagero se lo dico. Difatti solo all'inizio, solo
nei primi minuti sono riuscito a osservare l'uomo, mentre svolgeva il suo
mestiere, con obiettività e distacco. Ma, si sa, la lunga passionale
osservazione suscita sempre sentimenti e i sentimenti, a loro volta, creano
legami. Inevitabilmente, senza avvedermi e volerlo, cominciai a identificarmi
con il ladro, a mettermi, come dire, nei suoi panni, nella sua pelle e nelle sue
mani. Da semplice osservatore diventai a poco a poco suo complice a livello
spirituale. Il processo di commutazione ebbe inizio dopo un quarto d'ora di
attenta osservazione: cominciai subito, con mia viva sorpresa, a scrutare i
passanti, a uno a uno, e a catalogarli come idonei e non idonei a subire il
furto.
Portavano la giacca abbottonata o aperta? Avevano lo sguardo disattento o
vigile? Lasciavano supporre di avere un bel portafogli gonfio?
Insomma, mi posi le domande del caso per accertare se meritavano che il
mio amico se ne occupasse. In breve tempo riconobbi di non essere più
neutrale nell'ormai prossima battaglia, ma di augurarmi vivamente in cuor mio
che finalmente gli riuscisse un colpo, anzi precipitosamente dovetti reprimere
finanche l'impulso di dargli una mano nel suo lavoro.
Come tutti gli impiccioni di questa Terra sono tentati dalla voglia di
segnalare al giocatore la carta giusta con una leggera gomitata, anch'io mi
sentii morire ogni volta che il mio amico si lasciava sfuggire l'occasione
favorevole e non stetti più nella pelle dal desiderio di segnalargliela con una
strizzatina d'occhio: quello va bene! Il grassone con il grande fascio di fiori in
braccio! Mi parve addirittura che fosse mio dovere lanciargli un segnale
quando vidi un poliziotto veleggiare all'angolo della strada nell'esatto istante
in cui si era lasciato risucchiare dalla ressa. Lo spavento mi fece tremare le
ginocchia, come se potessero acciuffarmi, anzi sentii la pesante zampa del
gendarme sulla sua, sulla mia spalla. Invece trassi un sospiro di sollievo:
scorsi l'omino minuto sgusciar fuori dall'assembramento e, libero e giocondo,
passar davanti al pericoloso piedipiatti.
Erano momenti di suspense, ma ancora insufficienti: quanto più mi
immedesimavo nel mio ladro, cominciando - dalla ventina di tentativi andati a
vuoto - a capirne il mestiere, tanto più ero divorato dall'impazienza non
capacitandomi perché non attaccasse ancora e proseguisse con le prove e
gli assaggi. Provai una rabbia sacrosanta di fronte a quell'eterno e ridicolo
tentennare e indietreggiare. Diavolo, spicciati, attacca una buona volta! Abbi
più coraggio! Prendi quello, quello là! Ma falla finita!
Per fortuna l'amico, che non sapeva né presagiva nulla della mia
partecipazione non richiesta, non si lasciò minimamente confondere dalla mia
ansietà. Comunque c'è una bella differenza tra il vero artista esperto e il
principiante, l'amatore e il dilettante! L'artista conosce per esperienza la legge
del successo e la fatale necessità di uno spazio intermedio da destinare agli
sforzi vani, è allenato ad aspettare e a pazientare fino all'ultima chance,
quella definitiva. Come il poeta trascura mille idee apparentemente allettanti e
fruttuose e passa oltre con indifferenza (solo il dilettante le afferra subito con
mano temeraria) per economizzare le forze in vista dell'impegno finale,
analogamente l'omuncolo malandato non tenne conto di centinaia di
opportunità, che io, da dilettante, ritenevo promettenti. Egli saggiava,
avanzava tastoni, compiva tentativi, si faceva sotto e sicuramente aveva già
sfiorato con la mano centinaia di borse e cappotti. Eppure non attaccava:
instancabile nel pazientare, percorreva e ripercorreva gli stessi trenta passi
fino alla vetrina, cercando di non dare nell'occhio, misurando tutte le
possibilità con uno sguardo diagonale e confrontandole con presunti pericoli,
che un principiante come me non intuiva.
Nella sua inaudita, pacata ostinazione c'era qualcosa che mi elettrizzava
malgrado l'impazienza e mi offriva una sorta di garanzia circa il successo
finale. Del resto, l'energia inesauribile, di cui dava prova, ne rendeva esplicita
la volontà di non cedere prima del colpo vincente. Anch'io ero fermamente
deciso ad abbandonare il campo solo dopo avere assistito alla sua vittoria.
Aspettai fino a mezzanotte.
Ormai era mezzogiorno, Fora dell'alta marea quando strade e straducole,
scalinate e cortili riversano altrettanti torrenti di persone nell'ampio alveo del
boulevard. Dalle officine, dalle botteghe artigiane, dagli uffici pubblici e privati,
dalle scuole gli artigiani, le cucitrici e i commessi dei numerosi laboratori,
stipati al secondo, al terzo e al quarto piano, si precipitano all'aperto quasi
provocando un'onda d'urto.
La massa, finalmente libera, zampilla sull'acciottolato come un vapore nero
sfaldato: operai in blusa bianca o in camice; midinettes ciarliere a braccetto, a
coppie o a gruppi di tre, un mazzolino di violette affrancato sul vestito;
modesti impiegati con le giacchette lustre o l'immancabile cartella di cuoio
sottobraccio; facchini; soldati in bleu d'horizon; insomma, le innumerevoli,
indefinibili figure dell'invisibile operosità sotterranea della metropoli. Tutti
sono stati seduti a lungo, troppo a lungo in stanze soffocanti. Ora distendono
le gambe, corrono, sciamano, inspirano lunghe boccate d'aria, espirano fumo
di sigari, un eterno pigia pigia. Per un'ora la strada riceve dalla simultanea
presenza di tante persone un soffio violento di vitalità e di allegria.
Un'ora soltanto, poi debbono tornare su, dietro alle finestre chiuse, lavorare
al tornio o cucire, martellare sulle macchine per scrivere, addizionare colonne
di numeri, stampare, confezionare vestiti e scarpe.
Lo sanno, nel corpo, i muscoli e i tendini, per questo si rilassano forti e lieti.
Lo sa l'anima che si gode in serenità quell'ora calcolata all'osso: curiosa,
parte alla ricerca di luce e di ilarità. Le vanno bene tutti per la storiella giusta
e per una battuta frettolosa. Non c'è da stupirsi che proprio la vetrina delle
scimmie approfitti di questo bisogno di divertimento gratuito. A frotte si
affollano intorno alla vetrata lusinghiera, le midinettes in testa - si ode il loro
cinguettio acuto e stridulo come fuoriuscito dalla baruffa di una voliera - e
dietro di loro si accalcano operai e flaneurs dal motteggio salace pronto e la
presa sicura. A mano a mano che gli spettatori diventavano un grumo solido
sempre più spesso e compatto, anche il mio pesciolino rosso nel suo
soprabito giallo nuotava più gaio e veloce e riaffiorava ora qui ora là dalla
calca. Adesso non c'era più motivo di trattenersi oltre nell'osservatorio
passivo: bisognava, da vicino, puntare gli occhi sulle dita per conoscere
finalmente il vero colpo dell'artista. Ma questo costava molta fatica perché il
segugio addestrato aveva una sua particolare tecnica nel rendersi scivoloso e
insinuarsi come un'anguilla nelle più piccole intercapedini di un
assembramento. Mentre poc'anzi era ancora tranquillo accanto a me,
all'improvviso lo vidi sparire come per magia e quasi nello stesso istante
riemerse là, davanti alla vetrina.
Con una spinta doveva avere scavalcato tre o quattro file. Lo seguii né
poteva essere diversamente perché temevo che scomparisse un'altra volta, a
destra o a sinistra, immergendosi alla sua maniera, prima che io arrivassi alla
vetrina. E invece no: era là che aspettava calmo, stranamente calmo.
Attenzione! Questa calma deve avere un significato, mi dissi subito e passai
in rassegna i suoi vicini. Di lato c'era una donna straordinariamente grassa,
una poveraccia, a giudicare dall'aspetto. Nella mano destra teneva con
delicatezza una ragazzina di circa dodici anni, nella sinistra una borsa della
spesa aperta di cuoio andante, dalla quale sporgevano due filoni di pane
francese; era evidente che nella sporta era stata sistemata la colazione per il
marito. La brava popolana - senza cappello, uno scialle sgargiante su un
vestito a quadri di cotonina grossolana che si era cucito da sé - era estasiata
allo spettacolo delle scimmiette. Una reazione indescrivibile: il corpo largo,
tumido era scosso dalle risa tanto che perfino i pani bianchi oscillavano,
emetteva veri scoppi di risa e di giubilo accompagnati da un gorgoglio, sicché
di lì a poco fu lei a offrire agli astanti un'occasione di ilarità non inferiore a
quella delle scimmie.
Si divertiva allo stravagante spettacolo provando l'ingenua gioia primordiale
delle nature elementari e la stupenda gratitudine di chi ha poco dalla vita.
Già, solo i poveri sanno essere veramente riconoscenti, perché essi godono
quando il divertimento non costa nulla e viene loro donato, come dire, dal
cielo. Di tanto in tanto, quella bonaria creatura si chinava sulla bambina,
assicurandosi che riuscisse a vedere e non si perdesse nessuna mossa
faceta delle bestiole. «Rrregarrde doonc, Maargueriite», spronava con un
forte accento meridionale la ragazzina che rideva poco, intimidita da tanta
gente sconosciuta. Era stupenda quella donna: una madre, una vera figlia di
Gea, stirpe primigenia della Terra, sano frutto rigoglioso del popolo francese;
veniva voglia di abbracciarla tanto era perfetta nella sua gioia chiassosa,
serena e spensierata. Ma tutt'a un tratto avvertii quasi un senso di
apprensione: mi ero accorto infatti che la manica del soprabito giallo canarino
penzolava sempre più vicina alla borsa della spesa, lasciata aperta con
noncuranza (solo i poveri sono incuranti).
Misericordia, non vorrai per caso rubare dalla sporta il borsellino a questa
povera brava donna, incredibilmente buona e allegra? Di colpo qualcosa
dentro di me si ribellò. Finora avevo osservato il borsaiuolo con una gioia che
definirei sportiva: immedesimandomi nel suo corpo e nella sua anima,
pensando con la sua testa, avevo sperato, anzi desiderato che, in cambio di
tanta fatica, di tanto coraggio e pericolo, alla fine un piccolo colpo gli
riuscisse. Ma ora, vedendo concretamente non solo il tentativo di furto, ma in
carne e ossa la persona che sarebbe stata derubata - una donna
commovente tant'era ingenua e invidiabile per la sua beata spensieratezza,
una donna che con ogni probabilità si era guadagnata qualche soldo lavando
pavimenti e fregando scale per ore e ore - mi sentii assalire dall'ira. Furfante,
fila! mi sarebbe piaciuto gridargli, cerca qualcun altro che non sia quella
squattrinata! Mi feci largo a spinte e mi avvicinai risoluto alla donna, per
proteggere la borsa in pericolo. Ma, mentre mi aprivo la strada senza troppi
riguardi, il giovanotto si volse e, per superarmi, mi schiacciò quasi. «Pardon,
Monsieur», si scusò, sfiorandomi, una vocetta fine e mortificata (era la prima
volta che la udivo). Il cappottino giallo si era intanto defilato lasciandosi
inghiottire dalla folla.
Istantaneamente, ebbi la sensazione che il colpo lo avesse già perpetrato e
pensai di inseguirlo. Difatti, mentre un signore alle mie spalle imprecava
perché gli avevo pestato un piede, uscii brutalmente dal risucchio facendo in
tempo a distinguere il cappottino giallo che svoltava l'angolo del boulevard e
imboccava svolazzando una stradina laterale. Inseguilo, inseguilo! Tallonalo,
stagli alle calcagna! Fui costretto a cambiare bruscamente andatura: l'omino,
che avevo osservato da un'ora, si era di colpo - e non credetti ai miei occhi trasformato.
Mentre dianzi vacillava e pareva timido e finanche stordito, adesso
sfrecciava svelto come una lepre rasentando il muro con il passo ansioso
tipico di un impiegatuccio che abbia perso l'omnibus e si affretti per non
giungere in ritardo in ufficio. Non avevo più dubbi: era il portamento a reato
compiuto, andatura numero due, per allontanarsi dal luogo del misfatto il più
rapidamente possibile e senza destare sospetti. Chiaro: il manigoldo aveva
rubato il borsellino a quella poveraccia sfilandoglielo dalla sporta.
Avvampando di rabbia, stavo quasi per dare il segnale d'allarme e urlare:
«Au voleur!» Ma mi venne a mancare il coraggio: non lo avevo visto
nell'attimo in cui compiva il furto e perciò non potevo accusarlo senza prove.
Eppoi ci vuole un bel fegato per abbrancare un individuo e fare giustizia in
rappresentanza di Dio. Non ho mai avuto il coraggio di accusare e
denunciare qualcuno e so quanto la giustizia sia fragile e che presunzione sia
arrogarsi questo diritto, ricavandolo da un unico caso, per giunta dubbioso, in
un mondo così confuso come il nostro.
Tuttavia, mentre continuavo a correre all'impazzata e intanto riflettevo sul
da farsi, una nuova sorpresa mi stava aspettando: due strade più avanti, il
sorprendente individuo innestò un'altra marcia, andatura tre.
All'improvviso sospese il passo affrettato, non si acquattò e rannicchiò però
come prima, ma prese a camminare pacificamente, insomma ad andare a
passeggio come un privato cittadino. Era evidente che si era accorto di
essere ormai uscito dalla zona di pericolo: nessuno lo inseguiva e pertanto
non correva più il rischio di essere denunciato. Capii che, dopo i momenti di
paurosa tensione, desiderava finalmente tirare il fiato. In un certo senso era
un borsaiuolo fuori servizio, un uomo che vive di rendita dopo anni di
professione, insomma uno dei tanti pensionati - a Parigi ce ne sono parecchie
migliaia - che vanno a spasso per la città in santa pace, la sigaretta appena
accesa fra le labbra.
Ostentando un'imperturbabile innocenza, ad andatura rilassata, comoda e
indolente il piccolo uomo smilzo superò la chaussée d'Antin e per la prima
volta ebbi l'impressione che osservasse le donne e le ragazze che
passavano per accertarne la bellezza e la disponibilità. E adesso, uomo dalle
mille sorprese, dove stai andando? Raggiunse la piazzetta davanti alla
Trinité, orlata da cespugli d'un verde tenero. Perché proprio qui?
Ah, capisco! Ti vuoi riposare per qualche minuto su una panchina, e chi te
lo vieta? L'incessante caccia e quell'andirivieni senza un attimo di sosta ti
hanno sfiancato. E invece no: l'uomo dalle mille sorprese non si sedette su
una delle panchine ma si diresse risoluto verso una piccola costruzione
riservata - chiedo venia - a funzioni private in pubblico e scrupolosamente ne
chiuse la larga porta dietro di sé.
Di primo acchito sbottai in una risata: anche gli artisti più geniali finiscono
nel più umano dei luoghi! O la paura, amico, ti ha sconvolto le budella?
Viceversa, dovetti constatare un'altra volta che la realtà, pur così burlona,
finisce sempre con l'inventare l'arabesco più sollazzevole, essendo più
audace di qualunque scrittore di talento. La realtà, infatti, osa accostare
senza esitazione l'evento straordinario all'episodio ridicolo e, malignamente,
porre ciò che è umano accanto a ciò che stupisce. Mentre, seduto su una
panchina - e che cos'altro mi restava da fare? - aspettavo che quello uscisse
dalla casupola grigia, ragionai e mi convinsi che l'incallito maestro nell'arte
del furto, procuratosi quattro sicure pareti intorno a sé, agiva semplicemente
secondo la logica scontata del suo mestiere: stava controllando il profitto.
Inoltre, un ladro professionista prevede in tempo come disfarsi delle prove
senza lasciare traccia (sul particolare avevo già riflettuto prima), il che è
invece una difficoltà imponderabile per noi profani. In una città eternamente
sveglia e vigile, perché ha mille occhi, nulla è infatti più difficile che trovare le
quattro pareti dietro alle quali nascondersi.
Anche chi legge raramente la cronaca giudiziaria, ogni volta si meraviglia
nel constatare quanti testimoni oculari si presentino perfino nel caso più
banale, e tutti dotati di una memoria diabolicamente infallibile. Prova a
strappare una lettera per la strada e a gettarla in un chiusino: dozzine di
persone ti avranno osservato senza che tu te ne sia accorto e neanche
cinque minuti dopo apparirà un giovanetto sfaccendato che si divertirà a
ricomporla pezzetto dopo pezzetto. Ma fa' anche quest'altra verifica: apri il
portafogli, per controllarne il contenuto, nel sottoscala e puoi essere certo che
l'indomani, nel caso in cui ne venga rubato uno in questa città, si precipiterà
alla polizia una donna, che tu non hai mai vista né conosciuta, la quale fornirà
una descrizione completa della tua persona, come se fosse Balzac. Fermati
in una locanda e vedrai che il cameriere, al quale non hai neppure fatto caso,
ha notato non solo il tuo abbigliamento, le scarpe e il cappello che porti, ma
anche il colore dei tuoi capelli e perfino se le tue unghie sono tonde o a
punta.
Dietro ogni finestra, ogni vetrina, ogni tenda e vaso di fiori ci sono occhi
che guardano e, quand'anche giurassi di avere passeggiato tutto solo
inosservato, non dubitare che erano presenti a decine e ciascuno
immancabilmente pronto a testimoniare. La curiosità tallona la tua esistenza
come una rete a maglie fittissime che si rinnovi quotidianamente. Perciò,
esimio artista, hai avuto un'idea brillante a comperarti per cinque centesimi
quattro pareti ermetiche con l'usufrutto di cinque minuti. Nessuno può spiarti
mentre sbudelli il borsellino che hai vinto, come dire, ai dadi e fai sparire
l'involucro accusatorio.
Nemmeno io, il tuo doppio e complice che ora se ne sta qui ad aspettare
soddisfatto e insieme deluso, nemmeno io so calcolare quanto hai
guadagnato.
Questo era quello che avevo pensato. Le cose, invece, presero ben altra
piega. Non appena sollevò la maniglia con le sue dita sottili, ebbi la certezza,
come se avessi contato i soldi nel portamonete assieme a lui, che era stato
sfortunato. Dal modo in cui spingeva in avanti i piedi abbacchiato - un uomo
stanco, esausto, le palpebre afflosciate e intorpidite sullo sguardo basso capii tutto. Sei stato scalognato, hai sgobbato tutta la mattina inutilmente. Nel
borsellino rubato (te lo avrei potuto pronosticare io) non c'era niente di buono,
tutt'al più due o tre banconote spiegazzate da dieci franchi, troppo, troppo
poco per un mostruoso impiego di professionalità e un rischio suicida.
Rappresentava molto solo per la donna a mezzo servizio che adesso, a
Belleville, sta presumibilmente raccontando per la settima volta la sua
disavventura alle vicine accorse ai suoi pianti e impreca contro quella
miserabile canaglia e, disperata, continua a mostrare la sporta depredata con
le mani che le tremano.
Mentre per il ladro altrettanto povero - e mi bastò un'occhiata - la caccia
era stata un fiasco, e ne ebbi la conferma dopo alcuni minuti: ridotto a un
mucchio di stracci, sfinito fisicamente e spiritualmente, si fermò davanti a una
piccola calzoleria e con uno sguardo nostalgico passò in rassegna le scarpe
più andanti in esposizione. Di scarpe, di scarpe nuove, ne aveva davvero
bisogno per sostituire i brandelli bucherellati che aveva ai piedi. Ne aveva
bisogno più lui delle centinaia di migliaia di persone che quel giorno avevano
camminato nelle strade di Parigi con suole buone e intere o molleggiandosi
sulla gomma; ne aveva bisogno addirittura per svolgere il suo sordido
mestiere. Ma lo sguardo cupido e sconfortato nello stesso tempo diceva
inequivocabilmente che per quel paio di scarpe, esposte in vetrina, sfavillanti
e contrassegnate da una cifra - cinquantaquattro franchi - il colpo non aveva
fruttato abbastanza. Con le spalle pesanti come piombo si allontanò dalla
vetrina che lo rifletteva e proseguì.
Avanti, ma dove? Tornare alla caccia suicida di prima? Rischiare un'altra
volta di perdere la libertà per un bottino così miserevole e insufficiente? Non
ne vale la pena, meschino! Adesso, piuttosto, riposati un poco. Difatti, come
se per un fluido magnetico avesse sentito il mio desiderio, svoltò in un vicolo
laterale e si fermò davanti a una trattoria popolare a buon prezzo. Per me fu
più che naturale seguirlo perché - ero deciso - volevo sapere tutto di
quell'uomo con il quale vivevo ormai da due ore con le vene che mi
pulsavano e una tensione che mi dava il tremito.
Per precauzione, ossia per potermi trincerare meglio, mi comperai un
giornale. Calcatomi volutamente il cappello sulla fronte, entrai nella sala e mi
sedetti a un tavolo alle sue spalle. Precauzione inutile: al pover'uomo non
erano rimaste nemmeno le forze per la curiosità. Svuotato e spento, fissava il
coperto bianco con uno sguardo ottuso e solo quando il cameriere portò il
pane le sue mani magre e ossute si svegliarono e ne presero un pezzo con
avidità. Dalla furia con cui cominciò a masticare, compresi tutto e ne rimasi
sconvolto: il poveretto aveva fame, fame vera, fame sincera, dal mattino o
fors' anche dal giorno prima. Provai una pietà lacerante per quell'uomo
quando il cameriere gli portò da bere. Si era ordinato una bottiglia di latte. Un
ladro beve latte? Sono sempre le inezie, i particolari che, come un fiammifero
acceso, rischiarano fulmineamente le profondità di uno spazio spirituale.
Nell'attimo in cui lo vidi, lui il borsaiuolo, bere la più innocente e infantile
delle bevande, lo vidi bere latte bianco e soave, egli cessò di essere un ladro.
Non era altro che uno dei tanti poveri, dei tanti emarginati, malati, infelici di
questo mondo mal costruito. Di colpo mi sentii legato a lui in uno strato più
profondo di quello della curiosità. In tutte le forme della comune condizione
terrena, nella nudità, nel freddo, nel sonno, nella stanchezza, nelle sofferenze
del corpo, le barriere divisorie cadono e si estinguono le categorie artificiali
che suddividono l'umanità in giusti e ingiusti, in rispettabili e delinquenti.
Rimane unicamente l'eterno povero animale, la creatura terrestre che patisce
la fame, la sete, la stanchezza e ha bisogno di sonno come me, come te,
come tutti.
Lo fissai ammaliato mentre beveva il latte denso a piccoli sorsi avidi e poi
riuniva le briciole di pane raschiando il tavolo. Nel medesimo tempo mi
vergognai di averlo reso un oggetto di studio, mi vergognai di avere fatto
correre l'infelice, il reietto come un cavallo da corsa per soddisfare la mia
curiosità, incurante di quanto la sua strada fosse buia e senza tentare di
trattenerlo o perlomeno di soccorrerlo. Mi invase il desiderio
incommensurabile di andargli vicino, parlargli, offrirgli qualcosa. Ma come
iniziare l'approccio? Come avviare il discorso? Provando una sofferenza
infinita, cercai, indagai per trovare una scusa, un pretesto, ma non rintracciai
alcunché che fosse utilizzabile. Siamo fatti così! Discreti fino alla meschinità
laddove si tratti della scelta decisiva, audaci nel proposito e tuttavia
penosamente pusillanimi qualora serva sfondare il sottile diaframma che ci
separa dal nostro simile pur sapendolo nel bisogno. Ma non esiste niente di
più arduo che aiutare qualcuno, sempre che non ne si oda la richiesta di
aiuto. Ma chi tace si preserva l'ultimo avere umano: l'orgoglio; non lo si può
ferire mostrando indiscrezione. Soltanto i mendicanti ci facilitano il compito e
dovremmo serbare loro riconoscenza perché non ci sbarrano la strada. Ma
costui era fiero, uno di quelli che preferiscono mettere a repentaglio la libertà
individuale, correndo magari gravi rischi, piuttosto che mendicare, scelgono di
rubare anziché intascare l'elemosina. Lo avrei spaventato a morte se mi fossi
avvicinato con un pretesto qualsiasi? Dal modo in cui sedeva si capiva che
era stanchissimo: il minimo disturbo sarebbe stato un'indelicatezza se non
addirittura una crudeltà. Aveva spinto la sedia contro il muro sicché il corpo
era appoggiato allo schienale e la testa alla parete. Le palpebre livide si
erano chiuse per un attimo.
Capii, ebbi la sensazione, che desiderava soltanto dormire, solo dieci, solo
quindici minuti. La sua stanchezza, il suo sfinimento divennero miei. Il colore
terreo della sua faccia non era forse l'ombra bianca della cella tinteggiata a
calce di una prigione? E il foro nella manica, che lampeggiava al minimo
movimento, non era il segno dell'assenza di una donna nella sua esistenza,
di una donna che si prendesse cura di lui e lo amasse? Cercai di prefigurarmi
la sua vita: quinto piano, un sottotetto, un letto di ferro nella stanza non
riscaldata, una conca di metallo foracchiata per lavarsi, l'unica proprietà una
valigetta e compagna la paura di udire, nel locale angusto, il passo pesante di
un gendarme che saliva i gradini cigolanti. Vidi questi squarci di miseria nei
due o tre minuti in cui, per la grande spossatezza, egli aveva abbandonato
contro il muro il corpo piccolo e scarno e la testa già senile. Ma sopraggiunse
il cameriere per sbarazzare i tavoli dai coltelli e dalle forchette usate,
sottolineando la propria antipatia per i clienti tardivi e lenti. Pagai per primo e
uscii a passi rapidi per evitare il suo sguardo. Quando, qualche minuto dopo,
uscì nella strada, lo seguii; a nessun costo volevo abbandonare a se stesso il
pover'uomo.
Perché ora non era più la curiosità scherzosa e patologica della mattina a
tenermi incollato a lui e nemmeno il desiderio affettato di conoscere un
mestiere sconosciuto: avvertivo fino in gola una sorda angoscia, una
sensazione opprimente. Anzi, il senso di oppressione arrivò quasi a
strozzarmi non appena vidi l'uomo imboccare la strada per il boulevard.
Santo cielo, non vorrai tornare davanti alla vetrina delle scimmiette?
Non commettere stupidaggini! La donna avrà ormai avvisato la
gendarmeria e certamente saranno là ad aspettarti e ti acciufferanno
riconoscendoti dal soprabitino leggero. E poi piantala oggi! Non fare altri
tentativi, non sei in forma. Non hai più energia né slancio, sei stanco e
nell'arte qualunque lavoro iniziato con addosso la stanchezza riesce male.
Riposati piuttosto, mettiti a letto, meschino! Astieniti per oggi! Basta per
oggi! Difficile spiegare perché mi avesse assalito quel pensiero angoscioso,
una sorta di allucinazione per la quale ero certo che lo avrebbero colto in
flagrante al primo tentativo. La mia apprensione si fece sempre meno
tollerabile a mano a mano che ci avvicinavamo al viale.
Si udiva ormai il boato della sua cataratta indomabile. No, mai più davanti a
quella vetrina! Non lo tollero! Sei pazzo! Gli ero già alle spalle e la mia mano
era pronta ad afferrargli il braccio per trattenerlo. Ma, quasi che avesse udito
un'altra volta il mio tacito ordine, l'uomo cambiò strada inaspettatamente: in
rue Drout, la via prima del boulevard, attraversò la carreggiata e prese a
incedere con un portamento più sicuro come se abitasse proprio lì. Riconobbi
subito l'edificio al quale si stava dirigendo: era l'Hôtel Drout, la più famosa
casa d'aste di Parigi.
Per l'ennesima volta - non so neppure quante fossero - lo stupefacente
omino mi sbalordì: mentre mi sforzavo di indovinare come fosse la sua vita,
qualcosa dentro di lui, forse una forza misteriosa, si oppose probabilmente ai
miei desideri. Per l'appunto quella mattina mi ero riproposto di recarmi
all'albergo di via Drout perché, tra le centinaia di migliaia di edifici della strana
città di Parigi, è il sito che mi offre le ore più eccitanti, istruttive e insieme
divertenti. Più vivace di un museo e in taluni giorni altrettanto ricco di tesori, in
ogni caso sempre vario, nuovo e tuttavia identico, proprio l'Hotel Drout,
esteriormente poco appariscente, mi piace, lo ritengo un capolavoro perché,
a mio giudizio, riproduce su scala ridotta la poliedrica realtà parigina.
Mentre le abitazioni racchiudono, ciascuna, un cosmo organico a sé stante,
qui tutto viene esposto spezzettato e frantumato in infinite piccole unità, come
il corpo di un animale enorme in una macelleria, e nel medesimo tempo il più
comune dei denominatori comuni accomuna gli oggetti esposti, dal più
esotico al più contraddittorio, dal più sacro al più vile: lo scopo di ciascuno è
quello di trasformarsi in denaro. Letti, crocifissi, cappelli, tappeti, orologi,
lavamani, statue di marmo di Houdon, posate Tombale, miniature persiane,
scatole argentate per le sigarette, biciclette infangate accanto alle prime
edizioni di Paul Valéry, grammofoni vicino a madonne gotiche, dipinti di van
Dyck e nella parete di fianco brutte oleografie, sonate di Beethoven a lato di
stufe rotte, il necessario e il superfluo, il kitsch più triviale e l'arte più preziosa,
grande e piccolo, vero e falso, vecchio e nuovo, insomma ciò che la mano e
lo spirito umano hanno creato, l'oggetto sublime e quello più sciocco, tutto
affluisce all'incanto in questo canale di scolo che, con crudele indifferenza,
inghiottisce e risputa tutti i valori della gigantesca città. In questo impietoso
scalo si opera la monetizzazione di qualunque oggetto, in questa colossale
fiera delle vanità e dei bisogni umani, in questo luogo fantasmagorico si
afferra meglio che altrove la sconvolgente eterogeneità del nostro mondo
materialistico: qui la necessità può vendere tutto e il ricco impossessarsi di
tutto. Ma non si comperano soltanto oggetti: si acquistano cognizioni e
visuali. L'individuo attento può approfondire qualunque materia ascoltando e
vedendo, acquisire nozioni di storia dell'arte, archeologia, bibliofilia, un
metodo per la valutazione dei francobolli, conoscenze di numismatica e
perfino di antropologia.
Infatti, se innumerevoli sono le cose che, uscendo da queste sale, passano
in altre mani e desiderano riposarsi per un breve lasso di tempo dalla
schiavitù del possesso, altrettanto numerose sono le razze e le classi umane
che si accalcano intorno ai tavoli, dove si batte l'asta, sedotte dalla curiosità e
dalla bramosia dell'acquisto, gli occhi stravolti dalla prospettiva dell'affare e
dalla misteriosa passione del collezionismo. In queste sale i grandi
commercianti in pelliccia e con la bombetta ben spazzolata siedono al fianco
di piccoli sordidi antiquari e rigattieri dei bric-àbrac della Rive Gauche che
mirano a riempire fino all'inverosimile le loro botteghe. Di tanto in tanto
svolazzano e cianciano i piccoli trafficanti e gli intermediari, gli agenti, gli
imbonitori, i raccailleurs - le immancabili iene di ogni campo di battaglia pronti ad acchiappare l'oggetto il cui prezzo sta crollando o a scambiare
strizzatine d'occhio con il collezionista che hanno visto incapricciarsi di
questo o quel pezzo costoso.
Arrancano fin qui anche bibliotecari incartapecoriti, con gli immancabili
occhiali sul naso, e s'intrufolano ovunque come tapiri assonnati, quindi
entrano schiamazzando gli uccelli del paradiso dal piumaggio variopinto,
signore elegantissime con le perle al collo, le quali si sono fatte precedere dai
loro lacchè perché tenessero libero un posto in prima fila al tavolo dell'asta. In
un angolo, in piedi come le gru, sostano in silenzio, lo sguardo scostante, i
veri intenditori, ovvero la massoneria dei collezionisti. Alle spalle di questa
tipologia fissa, che partecipa con vero interesse, attratta vuoi dall'affare, vuoi
dall'amore per l'arte, ondeggia una massa casuale di semplici curiosi che
approfittano per scaldarsi, essendo il riscaldamento gratuito' o che si
sollazzano di fronte alle fontane scintillanti che sparano zampilli di numeri.
Eppure chi viene qui indulge sempre a una passione autentica anche se
inconfessata - dal collezionismo al gioco d'azzardo e alla brama di possesso o più semplicemente soddisfa bisogni immediati, quale appunto la necessità
di un po' di caldo e di tepore. E un assembramento caotico di persone che si
lascia catalogare secondo i più svariati caratteri fisionomici. Una sola specie
che non avevo mai vista rappresentata nelle sale dell'Hôtel Drout, e alla
quale peraltro non avevo pensato, era la gilda dei borsaiuoli. Ora però,
vedendo il mio amico intrufolarsi con istinto sicuro, non dubitai che il luogo
fosse la riserva di caccia più fornita, anzi in assoluto quella ideale di tutta
Parigi.
Non mancava nemmeno un solo ingrediente necessario alla riuscita di un
colpo sicuramente condotto ad arte come nel suo caso: la ressa c'era e, se
non bastasse, era disgustosa e quasi intollerabile, mentre il procedimento
della vendita all'incanto garantiva che il pubblico si sarebbe distratto in misura
più che sufficiente, ed era il secondo punto. Terzo: una cosiddetta casa delle
aste era ormai quasi l'ultimo luogo al mondo, oltre alle corse dei cavalli, in cui
si pagava in contanti, sicché era presumibile che sotto ogni giacca si
arrotondasse il tumore di un portafogli gonfio. Dunque qui o mai più. Era la
grande occasione per chi aveva la mano svelta come il mio amico. La prova
mediocre della mattinata non era stata che un semplice allenamento, mentre
ora - lo capivo - si stava preparando al vero capolavoro.
E tuttavia avrei preferito tirarlo per la manica intanto che saliva pigramente i
gradini fino al primo piano. Sant'Iddio, ma non vedi l'affisso in tre lingue: Beware of pickpockets! - Attention aux pickpockets! - Attenzione ai borsaioli!
Non lo vedi o sei un babbeo?
Guarda, in un luogo come questo sanno tutto sul tuo conto e, nascosti tra
la folla, ci saranno certamente dei detective, una dozzina o forse più. E poi, te
lo ripeto, oggi non sei in forma! Ma, lasciando scivolare lo sguardo freddo sul
manifesto che senz'altro conosceva, l'incallito intenditore della situazione salì
con calma la scala, una decisione tattica sulla quale convenivo. Infatti nelle
sale del pianterreno si vendevano suppellettili di buon comando, arredamenti,
cassettoni e armadi, e vi si assiepava e turbinava la massa improduttiva e
scortese dei rigattieri i quali, seguendo la buona usanza dei contadini, si
legavano il malloppo sulla pancia; perciò non era consigliabile né vantaggioso
tentare un colpo con tipi del genere. Nelle sale del primo piano, dove la
licitazione prevedeva oggetti piuttosto fini, quadri, preziosi, libri, autografi,
gioielli, non sarebbero mancati, viceversa, le tasche piene e i compratori più
rilassati.
Sudai per star dietro al mio amico. Difatti vogava a destra; e a manca
partendo dall'ingresso principale e, addentrandosi nelle sale, tornava sui suoi
passi per valutare le opportunità di ciascuna. Paziente e ostinato come il
buongustaio che legge un particolare menu, anch'egli leggeva di tanto in
tanto i cartelli appesi alle pareti. Alla fine si decise per la sala sette, dove
sarebbe stata venduta all'asta...la célèbre collection de porcelaine chinoise et
japonaise de Mme. la Comtesse Yves de G... Una buona giornata,
indubbiamente! Roba sensazionale, costosa e tanta gente. Entrando, non si
riusciva nemmeno a vedere il tavolo dell'asta tanti erano i cappotti e i
cappelli. Un muro compatto di persone, almeno venti o trenta file, bloccava la
vista del lungo tavolo verde, ma dal nostro posto vicino all'ingresso si
potevano ancora cogliere al volo i gesti buffi dell'ufficiale, il commissairepriseur, che dal suo podio sopraelevato dirigeva con un martelletto bianco le
operazioni d'asta come un direttore d'orchestra e, superando pause
angosciosamente lunghe, sapeva però come riprendere i ritmi eccitanti quali
un «prestissimo».
Probabilmente, come altri modesti impiegati residenti a Ménilmontant o in
qualche sobborgo della cintura urbana, due stanze, fornello a gas, un
grammofono come unico possedimento prezioso, alcuni vasi di geranio sul
davanzale della finestra, nella sala dell'Hôtel Drout davanti a un pubblico
illustre, il suo bel tight magro e i capelli impomatati spartiti dalla scriminatura
perfetta, si godeva l'inaudito piacere di monetizzare i pezzi più preziosi di
Parigi per tre ore al giorno, il piccolo martello in mano.
Con la grazia affettata dell'acrobata, afferrava al volo da destra e da
sinistra, dal tavolo e dal fondo della sala le varie offerte «Sixcents, six-centscinq, six-cents-dix» - come palline colorate e rilanciava le stesse cifre,
sempre sublimato, arrotondando le vocali e staccando le consonanti. Ogni
tanto interpretava il ruolo dell'entraìneuse: quando un'offerta non veniva
raccolta, spronava con un sorriso accattivante: «.Personne à droite?
Personne à gauche?» o, spingendo una piccola ruga drammatica fra le
sopracciglia e sollevando il determinante martelletto d'avorio, minacciava:
«.J'adjuge» oppure sorrideva con un bonario: «Voyons, Messieurs, c'est pas
du tout cher».
Ogni tanto si interrompeva per salutare, con l'aria da buon intenditore, un
conoscente, strizzava l'occhio a taluni offerenti per un furbesco incitamento e
dal tono asciutto con cui dava la comunicazione necessariamente incolore di
un nuovo pezzo, «le numero trente-trois», la sua voce tenorile, con sempre
maggiore consapevolezza, passava a tonalità drammatiche a mano a mano
che il prezzo aumentava. Godeva visibilmente nel constatare come per tre
ore trecento o quattrocento persone fissassero avidamente, trattenendo il
fiato, ora le sue labbra ora il magico martelletto nella sua mano.
L'ingannevole illusione di essere lui a decidere, quando invece non era altro
che lo strumento delle offerte puramente casuali, gli trasmetteva un orgoglio
che lo inebriava: come un pavone, azionava le sue ruote vocaliche non
impedendomi tuttavia di concludere dentro di me che con i suoi gesti
esagerati svolgeva la stessa funzione distraente delle tre buffe scimmiette
della mattina.
Il mio valente amico non poteva ancora trarre alcun vantaggio da questo
aiuto complice giacché eravamo sempre irrimediabilmente fermi nell'ultima
fila e ogni tentativo di incunearci nella massa umana compatta, calda e
tenace fino al tavolo dell'asta sembrava quanto meno vano e disperato.
Eppure mi resi conto di essere un dilettante effimero in quel mestiere
interessante. Il mio compagno, maestro e tecnico esperto, sapeva invece da
tempo che nell'istante in cui il martello si abbassava definitivamente - il tenore
aveva appena esultato settemiladuecentosessanta franchi - in quel breve
intervallo di distensione la barriera si sarebbe smossa e allentata. E così
avvenne: le teste eccitate si abbassarono, i mercanti si annotarono i prezzi
sui cataloghi, uno dei curiosi si allontanò e per un secondo un soffio d'aria
percorse la folla stipata. Egli approfittò di questo momento con una rapidità
geniale, per avanzare a testa bassa come una torpedine: di colpo riuscì a
oltrepassare quattro-cinque file di persone; mentre io, avendo giurato a me
stesso che non avrei più lasciato solo l'imprudente, mi ritrovai all'improvviso
nella calca senza nemmeno la sua presenza.
Certo, avevo fatto anch'io qualche passo in avanti ma poi l'asta si era
rimessa in marcia, il muro si era richiuso, sicché ero rimasto incastrato nella
ressa più soda come un carretto nella palude. Quella pressa bollente e
appiccicaticela era spaventevole: dietro, davanti, a sinistra, a destra corpi
estranei, vestiti altrui e talmente addosso, che il minimo colpo di tosse del
vicino mi scuoteva. Anche l'aria era insopportabile, sapeva di polvere, di
muffa, di acido e soprattutto di sudore, come dovunque quando siano in gioco
i soldi. Scoppiando di caldo, tentai di sbottonarmi la giacca per afferrare il
fazzoletto.
Impossibile: ero troppo stretto, schiacciato come una sardina.
Comunque non mi persi d'animo: piano, ma senza mollare, continuai ad
avanzare, prima una fila, poi un'altra, tuttavia, arrivai davanti al tavolo troppo
tardi: il soprabito giallo canarino era già sparito, nascosto chissà dove in
mezzo alla folla, volatilizzato. Nessuno sapeva della sua presenza pericolosa,
solo io lo sapevo e mi tremavano i nervi per la paura mistica che potesse
capitare qualcosa di orribile al povero diavolo. Ogni secondo che passava mi
aspettavo che qualcuno gridasse: «Au voleur!» Sarebbe scoppiato un
parapiglia, un alterco, lo avrebbero trascinato fuori afferrandolo per tutte e
due le maniche del cappottino; non so come mai mi avesse assalito la
certezza che proprio quel giorno e proprio lì avrebbe fatto fiasco.
Viceversa non accadde nulla, né un grido né un urlo. Eppure il
chiacchiericcio, lo strusciamento e il ronzio cessarono di colpo: tutt'a un tratto
la sala piombò nel silenzio, come se quelle duecento-trecento persone
trattenessero il respiro per tacito accordo. La tensione crebbe e tutti gli
sguardi si puntarono sul commissaire-priseur che arretrò di un passo sotto il
lampadario, tant'è che la sua fronte splendette grazie alla luce particolare
dell'ufficialità. Era arrivato il turno del pezzo principale della licitazione, un
gigantesco vaso che l'imperatore della Cina aveva inviato come presente al
re di Francia con un'ambasceria ma che, come molte altre cose, aveva
misteriosamente preso il volo da Versailles durante la Rivoluzione. Quattro
inservienti in livrea alzarono il prezioso oggetto - bordo arrotondato bianco
con venature azzurre - posandolo sul tavolo con particolare cautela ma nel
medesimo tempo con intenzione dimostrativa.
Il commissario d'asta, schiaritosi solennemente la gola, annunciò il prezzo
di base: «Centotrentamila franchi! Centotrentamila franchi!» Un riverente
silenzio rispose alla cifra santificata da molti zeri. Nessuno osò fare subito
una controfferta, nessuno osò parlare o solo spostare un piede: la massa
umana, assiepata e incuneata senza lasciar libero il benché minimo
interstizio, formò un unico blocco irrigidito dal rispetto.
Finalmente, dopo un po', un piccolo signore canuto, all'estremità sinistra
del tavolo, sollevò la testa e veloce, con un fil di voce e impacciato, disse:
«Centrotrentacinquemila franchi», al che il commissaire-priseur gli rilanciò
risoluto: «Centoquarantamila».
Ebbe inizio un gioco eccitante: il rappresentante di una grande casa d'aste
americana si limitava ad alzare un dito - a quel segno, come in un orologio
elettrico, la cifra saliva subito di cinquemila franchi - e, dall'altra estremità del
tavolo, il segretario personale di un noto collezionista (si bisbigliava il nome)
raddoppiava la posta.
Gradualmente- l'asta si trasformò in un dialogo tra i due che sedevano di
fronte in diagonale ed evitavano caparbiamente di guardarsi: entrambi
indirizzavano le loro comunicazioni soltanto al commissaire-priseur, il quale le
riceveva con evidente soddisfazione. Alla fine, quando si era ormai a
duecentosessantamila, l'americano non alzò più il dito; la cifra annunciata
penzolò vuota nell'aria come un suono che si fosse congelato.
La
tensione
crebbe.
Il
commissario
ripeté
quattro
volte:
«Duecentosessantamila... duecentosessantamila», e, alla maniera dei falchi
quando si alzano in volo per catturare la preda, lanciò in alto la cifra. Quindi
attese, guardò a destra e a sinistra tirato e leggermente deluso (gli sarebbe
piaciuto continuare a giocare!): «Nessuno offre di più?» Silenzio, un lungo
silenzio. «Nessuno offre di più?» La domanda suonò disperata. Il silenzio
cominciò a vibrare, come la corda afona di uno strumento. Il martello si
sollevò lentamente. In quell'istante trecento cuori si fermarono.
«Duecentosessantamila e uno... e due... e...»
Come un macigno il silenzio si posò sopra la sala ammutolita. Nessuno
respirò più. Il commissario alzò il martelletto di avorio sulla folla muta.
Minacciò per la seconda volta:
«J'adjuge.» Nulla, neanche una risposta. E poi disse: «...e tre». Il martello
cadde con un colpo secco e cattivo. Basta! Duecentosessantamila franchi! Il
muro umano ondeggiò e a quel piccolo colpo secco si sgretolò, lasciando
riapparire le singole facce vive. Tutti si agitarono, respirarono, gridarono,
gemettero, si raschiarono la gola. La folla compatta, come un solo corpo, si
mosse e si distese in un'onda irrequieta, come sospinta da un solo urto che si
perpetuasse all'infinito.
L'urto arrivò fino a me, più esattamente da un gomito sconosciuto che mi
colpì in pieno petto. Nello stesso istante qualcuno sussurrò: «Pardon,
Monsieur». Sobbalzai. Quella voce! Miracolo, era lui, lo scomparso a lungo
cercato. L'ondata, che aveva alleggerito la tensione, lo aveva travolto
spingendolo fino a me per una coincidenza fortunata. Grazie a Dio, lo avevo
di nuovo vicinissimo, adesso lo potevo finalmente sorvegliare e proteggere.
Va da sé che mi guardai bene dal fissarlo; mi limitai a lanciargli una mezza
occhiata non tanto per vedere la sua faccia quanto per scrutare le mani, lo
strumento del suo lavoro. Le sue mani, però, erano stranamente scomparse:
si era stretto le maniche del cappottino contro il corpo e, come le persone
freddolose (me ne accorsi dopo poco), aveva ritratto le dita al riparo dei polsi
in modo che diventassero invisibili. Perciò, se ora pensava di palpeggiare una
vittima, la vittima non avrebbe avvertito altro che il casuale sfregamento di
una stoffa morbida e innocua.
La mano pronta al colpo era nascosta dalla manica come l'artiglio
all'interno della vellutata zampa del felino. Idea eccellente, dissi ammirato.
Usando parecchia cautela ma volendo conoscere chi avesse intorno, notai un
signore segaligno, perfettamente abbottonato alla sua destra, e un secondo
con spalle larghe, inespugnabili, sicché dedussi che non avrebbe avuto
successo con nessuno dei due. Ma, avvertendo una lieve pressione sul
ginocchio, rimasi come fulminato dal sospetto che quell'assaggio fosse
destinato a me. Un brivido gelido mi fece trasalire. Allora sei così stupido da
tentare con la sola persona che ti conosce in questa sala e sa tutto di te e io
dovrei provare sul mio stesso corpo che cosa sai fare? Mi mancava solo
quest'ultima lezione, indubbiamente la più sconvolgente!
Senonché era vero. Pareva che lo sventurato avesse scelto proprio me, il
suo doppio spirituale, l'unico che ormai conoscesse a fondo il suo mestiere.
Non c'erano dubbi: la prossima vittima ero io, non dovevo illudermi oltre. La
certezza era inequivocabile: sentivo già il gomito vicino premermi
leggermente il fianco e la manica con la mano nascosta avanzare a palmo a
palmo decisa a giungere, al primo segno di irrequietudine della folla,
probabilmente tra la giacca e il gilè per l'affondo finale velocissimo. In effetti,
mi sarei potuto ancora difendere con un piccolo movimento di contrasto, mi
sarebbe bastato girarmi da un lato o allacciare la giucca, ma stranamente
non ne ebbi la forza: tutto il mio corpo era ipnotizzato dall'inquietudine e
dall'attesa, ogni nervo, ogni muscolo era bloccato, anzi congelato. Mentre
aspettavo, paralizzato dall'eccitazione assurda, pensai a quanto avessi nel
portafogli e, intanto che pensavo al portafogli, ne sentii (perché ogni parte del
nostro corpo si sensibilizza non appena si pensi a essa; capita con un dente,
con un alluce, un nervo) la pressione ancora calda e pacata contro il petto. Il
portafogli era dunque temporaneamente al suo posto e, essendo preparato,
ero in grado di sostenere l'aggressione. Non c'era ragione di preoccuparsi.
Ma, ed era stranissimo, non sapevo se desiderassi o no quell'evenienza. Ero
completamente sconvolto e quasi a pezzi. Per un verso, infatti, mi auguravo,
per lui, che il folle rinunciasse staccandosi da me, per altro verso, con la
stessa terribile tensione che assale dal dentista quando il trapano si sta
avvicinando al punto dolente, attendevo la prova della sua arte, l'affondo
decisivo.
Ma, quasi che mi volesse punire per la mia curiosità, egli non si affrettò:
continuò a fermarsi, tuttavia sempre all'erta. Con circospezione si spingeva in
avanti, a palmo a palmo, e, benché i miei sensi fossero come catalizzati dal
contatto insistente, grazie a un altro senso udivo nitidamente le offerte in
crescendo provenienti dal tavolo dell'asta: «Tremilasettecentocinquanta...
nessuno offre di più?
Tremilasettecentosessanta... settecentosettanta... ottanta... nessuno offre
di più? Nessuno offre di più?» Allora il martello si abbassò e, dopo il colpo, si
ripeté l'urto leggero che percorse la folla rilassandola; nello stesso momento
sentii l'ondata avvicinarsi.
L'attacco non era reale, piuttosto somigliava allo strisciare del serpente, un
alito fisico che scivolasse lieve e rapido. (Non lo avrei mai percepito se la mia
curiosità non si fosse appostata in quel luogo rischioso.) Solo una piega,
prodotta da una ventata casuale, increspò il mio cappotto: percepii quasi il
delicato passaggio di un uccello e...
E all'improvviso accadde ciò che non mi sarei aspettato: la mia mano si era
spostata di scatto dal basso in alto e aveva afferrato la mano sconosciuta
sotto la giacca. Non avevo mai progettato una difesa tanto brutale. Fu il
riflesso istintivo dei muscoli a determinarne il movimento, che colse di
sorpresa anche me, per puro istinto di difesa la mia mano era
automaticamente scattata verso l'alto e ne ero meravigliato e atterrito. Il mio
pugno stringeva il polso di una mano fredda e tremante. Non era questo ciò
che avevo voluto.
Non posso descrivere quel secondo. Ero paralizzato dallo spavento e,
sorprendentemente, trattenevo con forza un pezzo di carne viva e fredda di
un essere sconosciuto, altrettanto impietrito. Non avevo la forza e la
presenza di spirito di lasciar libera la sua mano; ma neanche lui aveva il
coraggio e la presenza di spirito di toglierla.
«Quattrocentocinquanta... quattrocentosessanta... quattrocentosettanta»,
cantava a squarciagola lassù il commissaire-priseur in tono patetico.
Continuavo a tenere saldamente la mano ladresca percorsa da brividi
gelidi. «Quattrocentottanta... quattrocentonovanta...» Nessuno si era ancora
accorto di che cosa stesse accadendo fra noi due, nessuno intuiva che fra
due uomini si era stabilita una mostruosa, fatidica tensione; una lotta
indicibile era in pieno svolgimento solo tra noi due, solo tra i nostri nervi
paurosamente tesi. «Cinquecento... cinquecentodieci... cinquecentoventi...» I
numeri
erompevano
sempre
più
rapidi,
«cinquecentotrenta...
cinquecentoquaranta... cinquecentocinquanta...» Il tutto non era durato più di
dieci secondi. Mi ritornò il respiro e rilasciai la mano ignota che,
immediatamente, scivolò all'indietro e sparì nella manica del cappottino giallo.
«Cinquecentosessanta...
cinquecentosettanta...
cinquecentottanta...
seicento... seicentodieci...» Lo strepito proseguì, e noi eravamo sempre vicini,
complici di un misterioso reato, entrambi irretiti dalla medesima esperienza.
Percepivo tuttora il suo corpo caldissimo aderente al mio e, allorché mi
tremarono le ginocchia in seguito al cedimento della tensione, sentii che il
medesimo lieve fremito aveva contagiato le sue. «Seicentoventi... trenta...
quaranta... cinquanta... sessanta... settanta...» Eravamo sempre lì, incatenati
insieme entro lo stesso cerchio gelido dell'orrore. Trovai la forza di girare
almeno la testa e guardai dalla sua parte. Simultaneamente anch'egli mi
guardò.
Intercettai il suo sguardo. Pietà, pietà! Non mi denunciare! sembravano
supplicare i piccoli occhi acquosi. L'infinita paura della sua anima schiacciata,
la paura ancestrale della creatura terrestre scaturì dalle pupille rotonde e la
barbetta prese a tremare risucchiata dalla bufera del raccapriccio. Non scorsi
altro che gli occhi sbarrati. Il volto dietro di essi si era dissolto in
un'espressione spaventata quale non avevo mai visto in un uomo né vidi mai
più. Mi vergognai di avere causato quel suo sguardo supplice da schiavo, da
animale, come se avessi avuto potere di vita e di morte.
Egli aveva capito. Sapeva che non lo avrei mai denunciato. La sicurezza gli
ridiede la forza: dandosi una leggera spinta, piegò il corpo da un lato per
allontanarsi. Sentii che voleva staccarsi da me per sempre.
Prima mi si liberò il ginocchio pressato dal suo, poi il mio braccio ebbe la
sensazione che il calore diminuisse all'interruzione del contatto e
repentinamente - insieme con la percezione di essere stato privato di un
qualcosa che mi appartenesse - mi avvidi che il posto vicino a me era vuoto.
Il mio compagno di sventura aveva tolto il disturbo tuffandosi come un
palombaro. Di prim'acchito provai un senso di sollievo alla sensazione di
avere nuovamente un po' d'aria intorno, ma nell'istante successivo trasalii:
che cosa avrebbe fatto, povero com'era? Ma gli occorrevano dei soldi e io,
suo complice mio malgrado, gli dovevo almeno un grazie per quelle ore
avvincenti, non potevo non aiutarlo. Di corsa mi buttai all'inseguimento.
Maledizione! Lo sventurato fraintese le mie buone intenzioni. Mi temette
scorgendomi in cima al corridoio. Prima che potessi lanciargli un segnale che
lo tranquillizzasse, il soprabito giallo canarino svolazzava già scendendo le
scale. Mentre egli optava per l'inaccessibilità della strada invasa dalla marea
umana, il mio apprendistato terminava insospettabilmente così com'era
iniziato.
Postfazione del curatore dell'edizione originale
«La poesia mi ricorda il processo dello sviluppo delle fotografie: prima
viene la lastra vuota, poi applichiamo un velo di linee e tutto diviene più
chiaro, visibile e nitido.» La riproduzione così ottenuta di un mondo realmente
visto in una nuova dimensione porta spesso alla luce dettagli di cui non si è
tenuto conto, ma soprattutto restituisce integralmente l'impressione
complessiva, il che non è scontato in linea di principio qualora ci si concentri
su particolari singoli. I testi del presente volume - il quale affronta una nuova
organizzazione della narrativa di Stefan Zweig, compresi gli inediti - ruotano
intorno a un unico tema: l'illustrazione di precisi frammenti della vita,
dall'esperienza del dodicenne a quella dello studente o dell'uomo ormai
maturo sia professionalmente sia psicologicamente. Fanno da sfondo tanto la
città quanto la provincia. Concetti quali la gelosia, la nostalgia, la curiosità o
lo spirito di avventura stendono una specie di reticolo grossolano sui racconti,
ora raccolti in volume, i quali costituiscono in effetti studi psicologico-letterari,
per quanto non escludano l'esperienza soggettiva dell'autore; sarebbe d'altro
canto sicuramente scorretto cercare, di volta in volta, il corrispettivo nella
biografia di Stefan Zweig. Nondimeno questo o quel riscontro può condurre a
una comprensione più attiva e fors'anche perfino più personale dei testi, non
da ultimo perché l'entusiasmo che lo scrittore manifesta nello scrivere
coinvolge in prima persona i lettori.
La valutazione estetica, riportata in apertura, fu scritta da Stefan Zweig
all'inizio del 1911 in una lettera all'amico Paul Zech. Il 1911 fu l'anno in cui
venne pubblicata la seconda raccolta di prose Prima esperienza di vita,
considerata dallo stesso Zech, nella sua recensione, una testimonianza delle
capacità ormai raggiunte e un «tutto perfettamente omogeneo». Nella
raccolta era compreso Bruciante segreto ripubblicato nel 1914 in edizione
singola da Insel Verlag, che, presumibilmente, fece conoscere Zweig a un
pubblico più vasto. Grazie all'intensità della descrizione di un sentire infantile
per l'appunto in un'età in cui il fanciullo non desidera altro che il
riconoscimento da parte degli adulti, il lettore ricorda le proprie esperienze
nella stessa fase dell'evoluzione psicologica. Zweig trasmette questa
sensibilità in maniera suggestiva proprio perché, a sua volta, rammenta la
peculiare atmosfera della casa paterna, così ricca di esigenze sociali e
pervasa dall'inconfondibile aura fin de siècle. Zweig - e fu lui stesso a
scriverlo già allora - non è Edgar e tuttavia Edgar deve superare identiche
lotte interiori, o sé non altro affini, a quelle che lo scrittore dovette a suo
tempo superare. Provò analoghe emozioni anche Rainer Maria Rilke che
«elogiò molto» questo racconto, come Zweig annota nel diario nel 1913.
Vent'anni più tardi invece, nel 1933, quando «ebbe inizio un periodo orribile»,
ma «forse migliore di quello che verrà» (Stefan Zweig alla moglie Friderike),
si cominciò ad associare a Bruciante segreto una ben diversa realtà fattuale.
Robert Siodmak, per esempio, aveva tratto «liberamente dalla novella di
Stefan Zweig» il film omonimo con Willi Forst: la pellicola fu proiettata nei
cinematografi berlinesi nel gennaio del 1933 ma il 27 febbraio, il giorno
dell'incendio del Reichstag, i cartelloni pubblicitari vennero tolti in fretta e furia
e poco tempo dopo fu vietata la proiezione del film nei locali pubblici. In una
lettera non datata a Joseph Roth, presumibilmente dell'agosto 1934, Stefan
Zweig menziona che tutte le copie del racconto esistenti in commercio un'edizione aveva raggiunto 170.000 copie - furono confiscate perché con lo
stesso titolo circolava un pamphlet comunista. In Germania Bruciante segreto
fu ristampato solo nel 1954 e diede il titolo a una nuova raccolta di prose
brevi.
Lo scrittore austriaco Franz Theodor Csokor, appena finì di leggere
Bruciante segreto, confessò all'amico Stefan Zweig che, dopo Sturmische
Morgen (Mattino tempestoso) di Heinrich Mann, «nessun'altra opera
sull'oscura e pericolosa età puberale lo aveva mai avvinto con tale forza».
Quanto sia difficile uscire da questa fase evolutiva, anzi liberarsene, lo
esemplifica il racconto Scarlattina, scritto nell'estate del 1902, quando l'autore
si era trasferito per un semestre a Berlino, dove aveva continuato gli studi di
filosofia e storia della letteratura iniziati a Vienna. Nella capitale della
Germania conobbe la bohème della vita studentesca, ma nel racconto
proiettò l'esperienza nella sua città natale, per l'esattezza nel quartiere dove
aveva vissuto da studente.
E ipotizzabile che, nella prima settimana a contatto con il nuovo clima
berlinese, Zweig si sia sentito un provinciale come il suo Bertold Berger.
Qualche tempo dopo la stesura, non tutto lo persuase del nuovo racconto,
anzi si suppone che lo ritenesse troppo «privato». Lo testimonia un passo di
una lettera a Hermann Hesse del dicembre 1903: «Una mia novella è stata
accettata dalla Neue Freie Presse e da un anno e mezzo aspetta di essere
stampata. Non è però una cosa per il pubblico». Il carattere intimo e
biografico di Scarlattina fu probabilmente una delle ragioni per le quali il testo
non venne compreso in uno dei successivi volumi di racconti scelti da Zweig
stesso; comunque nel 1908 lo cedette alla rivista Osterreichische Rundschau.
La donna che più tardi sarebbe diventata sua moglie fu invece di tutt'altro
parere. Lesse la novella nel giugno del 1913 - i due si conoscevano da quasi
un anno - «con mille occhi e tutta la mia anima», e espresse questo giudizio:
«L'inizio, la seconda parte dell'inizio, non è forse abbastanza vivace. Il tuo
attuale ritmo riuscirebbe forse a risolvere meglio questa indubbia pesantezza.
Ma, guarda, proprio per la bellezza del finale (ineguagliabile la soluzione di
far sì che il ragazzo 'riceva' la morte dalle labbra della donna amata!) non
puoi lasciare la novella nel tuo cassetto ad ammuffire finché la
pubblicheranno».
Il dato autobiografico confluisce sempre in qualche modo nella narrazione,
consapevolmente o inconsapevolmente. In Lettera di una sconosciuta i
riferimenti all'autore sono palesi, anzi «più chiari, più visibili e netti». Quando
riceve la lettera, il romanziere R. ha la stessa età di Zweig nel periodo in cui
scrive la novella, cioè quarantun anni, ma altre circostanze esteriori li
accomunano: il fatto che l'appartamento sia situato a un piano abbastanza
alto di una grande casa in affitto (nel 1911-12 - in questi anni è ambientata la
vicenda - Zweig abitava a Vienna nell'VIII distretto, Kochgasse-8, secondo
piano); il maggiordomo, anche i nomi non coincidono (il domestico di Zweig si
chiamava Josef, non Johann); i frequenti viaggi che portano entrambi a
considerare l'alloggio un pied-à-terre piuttosto che un'abitazione fissa, per
quanto la dotino di tutti i comfort, e che in un certo senso legittimano la stima
da parte degli inquilini per i personaggi dello stesso condominio con una
professione inconsueta e personali abitudini di vita. Al di là di queste
coincidenze, Lettera di una sconosciuta è uno specchio critico ma non
negativo del carattere di Zweig, visto retrospettivamente. Come Donald
Prater si domanda nella sua biografia, dietro la trama narrativa potrebbe
celarsi la reminiscenza del modo in cui lo scrittore conobbe la futura moglie:
Friderike, nel luglio del 1912, gli scrisse, come peraltro facevano parecchie
sue ammiratrici (lo stesso accade anche al romanziere R.) senza tuttavia
rivelare il proprio nome, incitando a risponderle «nel caso in cui la cosa le
facesse piacere» (ma, a differenza della sconosciuta, Friderike aveva solo un
anno meno di Zweig). Inoltre, nei primi tempi della loro amicizia la figlia di
primo letto di Friderike - al riguardo non c'è concordanza si ammalò
gravemente di polmonite, ma nel complesso la relazione ha sicuramente
suggerito alcune associazioni che poi hanno seguito «linee» proprie. La
sconosciuta, per esempio, menziona l'esperienza che Friderike fece durante
la sua convivenza con Zweig e dice espressamente: «Anche l'uomo che
amavo era sempre in viaggio».
Dopo la morte di Zweig, nel 1947, un critico scrisse in occasione della
prima edizione di Impazienza del cuore avvenuta nell'immediato secondo
dopoguerra: «...non si libera mai dall'erotismo e dall'erotomania che
seducono magneticamente chi cerca la psiche e la interpreta», definendo un
motivo sempre ricorrente nella sua opera. Nella novella Primavera al Prater
(1900), una delle prime a essere stata pubblicata, a quanto ci è dato sapere,
il dato erotico compare subito nelle prime fasi ed è implicito nella stessa
posizione sociale della signorina, che dispone per l'appunto di un «boudoir»,
mentre nel racconto di poco posteriore, Due anime sole, esso viene
rovesciato nella compassione per quanti sono derubati della bellezza dalla
natura; il motivo dello svantaggio fisico ritorna, nel 1938, in Impazienza del
cuore. Non è facile seguire nei dettagli in che misura le esperienze soggettive
dell'autore abbiano -influito sulla genesi dei personaggi e delle «storie» di
questi due racconti. La medesima considerazione vale anche per Resistenza
della realtà, racconto inedito pubblicato per la prima volta nella presente
raccolta. Sicuramente fu concepito nel marzo del 1924, nel periodo in cui
Stefan Zweig lavorava al saggio su Hòlderlin per il volume la lotta col demone
della serie «costruttori del mondo»; ne sono una conferma la scelta della
città, Francoforte sul Meno, e l'indirizzo, Bockenheimer Landstrasse, dove
risiedevano i Gontard, ossia l'holderliniana Diotima; esplicito è anche il
riferimento alla professione del poeta che nel racconto viene prestata a
Ludwig: anch'egli si è guadagnato da vivere facendo il «precettore e
ripetitore» prima di entrare nella fabbrica chimica del consigliere segreto G.
Inoltre: «Una soavità tranquillizzante e insieme una serena consapevolezza»
emanavano dal volto della signora G., è detto espressamente dopo il primo
incontro con il giovane Ludwig. «E una mostruosa forza che Hòlderlin deriva
da quella donna: consolazione», scrive sempre Zweig nel saggio sul poeta
tedesco, precisando l'impressione che Susette Gontard esercita su di lui. Si
suppone che Zweig abbia interrotto a un certo punto la stesura di Resistenza
della realtà: conferma l'ipotesi la pubblicazione di una parte del racconto nel
1929 - con il titolo Fragmentaus einer Novelle (Frammento di una novella) in
Das Buch des Gesamtverbandes schaffender Kunstler Osterreichs - dove
l'incontro della coppia dopo nove anni di lontananza è ambientato nel 1933
quando, a Heidelberg, marciano uomini in divisa militare... che «reggono
gigantesche bandiere perfettamente verticali, sventolando teste da morto,
croci uncinate e antichi vessilli imperiali»...
La crescente inquietudine politica in Europa in seguito all'avvento al potere
dei fascisti in Italia e dei nazionalsocialisti in Germania costringe Stefan
Zweig a lasciare Salisburgo nel 1933 e a considerare seriamente l'ipotesi di
espatriare. «Se penso al luogo che meglio ti si adatti, dico l'Inghilterra», gli
aveva consigliato l'amico di gioventù, Camill Hoffmann. In effetti, la mentalità
della gente dell'isola gli piaceva e si recò varie volte in Gran Bretagna, anche
con Friderike, ma si stabilì definitivamente a Londra da solo nel 1935. Nel
luglio del 1939 traslocò a Bath insieme a Lotte Altmann, che diventerà più
tardi la sua seconda moglie. Bath è lo scenario paesistico di Era lui?
Fino a quel momento gli animali non avevano mai trovato posto nei suoi
racconti. «In realtà Zweig non era un amico degli animali anche se amava
molto il suo pastore tedesco Rolf», precisa Donald Prater. L'esperienza del
rapporto cane-padrone si deposita, nella cornice narrativa, in quello tra John
Charleston Limpley e Ponto presumibilmente negli anni 1940-1941.
Nell'ottobre del 1920 - Rolf era stato appena acquistato Zweig, impegnato in
un giro di conferenze in Germania, non dimenticava quasi mai di aggiungere
un saluto per l'animale quando scriveva alla famiglia: «Salutami la casa, la
bambina e il cane», «Saluta Suse e Rolf», e in una lettera si legge perfino:
«Salutami Suse ma solo se dà diligentemente da mangiare a mio figlio Rolf».
La simpatia per il pastore era presente nel suo ricordo quando lavorò alla
stesura della novella e si rinnovò anche per lo spaniel Kaspar, per quanto
talvolta si sentisse infastidito da una certa «invadenza» (A Friderike Zweig);
questa razza di cane trova una propria collocazione letteraria in Un uomo che
non si dimentica.
Per il sessantesimo compleanno, nel 1941 a Petropolis, gli fu regalato un
fox-terrier, per «rasserenare un po' la sua solitudine»; in una lettera lo
scrittore stesso precisa che «un animale è comunque un buon succedaneo in
tempi in cui l'umanità diviene ripugnante» (29 novembre 1941 a Friderike
Zweig). Ci furono tuttavia anche periodi nei quali lo scrittore si sentiva bene
fra la gente, soprattutto quando poteva muoversi liberamente senza essere
importunato. In questi casi amava addirittura osservare la folla, fissarne
l'immagine e i comportamenti come se avesse avuto in mano una macchina
fotografica, e si divertiva perfino a seguire un amico in una passeggiata per le
strade di Parigi, come accade in Conoscenza imprevista di un'arte. Nei
Ricordi a Emile Verhaeren scrive: «Lo riconoscevo già a una strada di
distanza... preferivo però, stranamente curioso e teso, spiarlo prima per tutta
la sua camminata. Si fermava davanti ai bouquinistes, sfogliava i libri,
proseguiva, si arrestava di nuovo davanti all'imbarcadero... ogni dettaglio lo
interessava. Per una mezz'ora soggiaceva allo straordinario fanatismo
dell'interesse che nutriva sia per le cose animate sia per quelle inanimate. Poi
riprendeva a camminare e, superato il ponte, si spingeva fino ai boulevard.
Solo allora gli rivolgevo la parola. Rideva quando gli confessavo che lo avevo
osservato...» Entrambi sapevano quanto fosse importante serbare
l'impressione dell'attimo per convertirlo in poesia al momento debito e averlo
a disposizione «per il pubblico» - uno dei grandi misteri della creazione
artistica.
Knut Beck
Note bibliografiche
Bruciante segreto: pubblicata per la prima volta in Erstes Erlebnis.
Vier Geschichten aus Kinderland (Prima esperienza di vita. Quattro storie
del paese dell'infanzia), Insel-Verlag, Lipsia 1911. Prima edizione singola
Insel-Verlag, Lipsia 1913. Scarlattina: pubblicata per la prima volta su
Osterreichische Rundschau, Vienna, Anno XV, n. 5, 1° maggio 1908, pp.
336-356 e n. 6, 15 giugno 1908, pp. 415-432. Lettera di una sconosciuta:
pubblicata per la prima volta su Neue Freie Presse, Vienna, 1° gennaio 1922,
poi in Amok. Novellen einer Leidenschaft (Amok.
Novelle di una passione), Insel-Verlag, Lipsia 1922. Prima edizione singola,
Lehmannsche Verlagshandlung, Dresda 1922 (facsimile del secondo
manoscritto).
Primavera al Prater: pubblicata per la prima volta su Stimmen der
Gegenwart, rivista mensile di letteratura moderna e critica, Eberswalde, Anno
I, n. 7, ottobre 1900, pp. 121126, e n. 8, novembre 1900, pp.
146-151. Due anime sole: pubblicata per la prima volta su Stimmen der
Gegenwart, idem, Anno II, n. 12, novembre 1901, pp. 330-332.
Resistenza della realtà: pubblicata per la prima volta in Praterfruhling, S.
Fischer Verlag GmbH, Francoforte 1987. Pubblicazione parziale con il titolo
Fragment einer Novelle (Frammento di una novella), Das Buch des
Gesamtverbandes schaffender Kiinstler Osterreichs, Vienna, Anno I (1929) e
con varianti minime, a cura di E. Fitzbauer per le edizioni della Stefan-ZweigGesellschaft, Vienna 1961 (edizione singola con litografie di Hans Fronius,
500 copie numerate).
Era lui?: pubblicata per la prima volta in Praterfruhlìng, S. Fischer Verlag
GmbH, Francoforte 1987. In lingua portoghese (traduzione di O. Galloti e E.
Davidovich) con il titolo Seria elei in As Très Paioes.
Très Novelas de Stefan Zweig, Rio de Janeiro. Prima edizione in lingua
italiana nel presente volume.
Un uomo che non si dimentica: pubblicata per la prima volta in lingua
inglese con il titolo Anton, Friend of All the World. The Most Unforgettable
Character I Ever Met su The Reader's Digest, New York, vol. 35, n. 210,
ottobre 1939, pp. 6972. Una pubblicazione, abbreviata di un capoverso, non
è stata identificata, mentre un frammento del racconto, probabilmente una
pagina di antologia, è stato ritrovato negli scritti postumi e pubblicato in Das
Stefan Zweig Buch, S. Fischer Verlag GmbH, Francoforte 1981, pp. 82-86. Il
testo riprodotto nel presente volume è la traduzione del brano omonimo
pubblicato in Praterfrühling, S. Fischer Verlag GmbH, Francoforte 1987, che
a sua volta si attiene a Das Beste aus Reader's Digest (II meglio di Reader's
Digest), Stoccarda, Anno I, novembre 1948, pp. 50-54. Conoscenza
imprevista di un'arte, pubblicata per la prima volta su Neue Freie Presse,
Vienna, 20 maggio 1934. Compreso in Kaleidoskop, Herbert Reichner Verlag,
Vienna, Lipsia, Zurigo 1937, pp. 7-45.320