Storie Aspettando il Califfo. Dai Galli ai Lanzichenecchi, tutti i sacchi nella storia di Roma 9 Innovazioni Strategie. L’arrocco di Murdoch per salvare l’ancien régime delle pay tv 20 | 21 Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, LO/MI PUBBLICAZIONE SETTIMANALE Arti Il romanziere a scuola. Reportage sui corsi di scrittura, fra talenti ed egomaniaci 32 | 33 IL QUOTIDIANO DEL WEEKEND • 4 | 10 OTTOBRE 2014 • ANNO 1 N. 62 • EURO 3,00 WWW.PAGINA99.IT y(7HC2I3*SKKKKO( +[!"!"!]!$ Idee Narrare i conflitti. Se il giornalismo di guerra subisce il fascino della violenza 26 | 27 sindrome tedesca KAI PFAFFENBACH / REUTERS / CONTRASTO Ma quale locomotiva, la Germania è in panne e ci sta affondando FRANCESCO SARACENO n L’economia europea si è ormai avvitata in una crisi senza fondo. Come in una grottesca rappresentazione, ogni anno, in primavera i dirigenti europei annunciano alle popolazioni stremate che l’austerità porta infine i suoi frutti, e che si vede la luce in fondo al tunnel. Ma poi, inesorabile SPAZIO geopolitica delle stelle pagina 13 come il succedersi delle stagioni, viene l’autunno con le sue cattive notizie (in Europa, sembra che abbiamo perduto il diritto di godere dell’estate). Purtroppo, ci viene detto, la ripresa non si è materializzata, a causa di qualche evento non previsto e non prevedibile. Ma se si tiene la barra dritta, e si persiste con le riforme, l’anno prossimo certamente le cose andranno meglio. u segue alle pagine 2 e 3 I NUMERI •100 miliardi di euro La cifra che, secondo l’istituto Diw, la Germania dovrebbe investire ogni anno per fermare l’erosione dello stock di capitale pagine 2/3 •144.209 Le aziende attive in Italia nel settore della cura del corpo. Due anni fa erano 455 in meno pagina 8 •57,6 miliardi di euro La spesa globale per i programmi spaziali nel 2013: il 53% è solo degli Stati Uniti pagina 13 LIBRI cucino ergo sum •32 milioni Gli spettatori in streaming per la finale di un torneo del videogame League of Legends pagina 22 pagina 40 •139 I Paesi di origine dei quasi 6 mila studenti che nel 2013 hanno frequentato il Centro internazionale di fisica teorica Abdus Salam di Trieste pagina 28 STEFANO CINGOLANI n Angela Merkel ha capito molto presto che il complesso bancario-industriale, tutelato dalla Bundesbank (Buba), è il cuore del Modell Deutschland, un cuore politico non solo economico. E ne ha fatto l’alfa e l’omega del suo cancellierato. È una delle grandi differenze rispetto ai prede- il mondo capovolto delle masserie pugliesi ALESSANDRO LEOGRANDE n Guarda le masserie, e capirai la grande trasformazione della Puglia negli ultimi decenni. Perché se è vero, come diceva Cesare Brandi, che la vera Puglia è quella rurale, quella delle pianure di terra rossa solcate dagli ulivi, dalla vite, dal grano, quella delle carrarecce, dei muretti a secco e della pietra addomesticata, è proprio là che un intero mondo è mutato. Anzi, sì è letteralmente capovolto, molto più che nelle città che sorgono lungo la costa. Di quel mondo rurale, plurale e diversificato, la masseria era il cardine architettonico, economico, antropologico, una sorta di ecosistema capace di resistere al passaggio del tempo. u segue alle pagine 10 e 11 cessori. Il democristiano Helmut Kohl seppe sfidare la Buba quando decise l’unificazione tedesca con un cambio di uno a uno tra marco dell’ovest e dell’est. Il socialista Gerhard Schröder cominciò a sciogliere gli intrecci perversi tra banca e industria nati ai tempi di Bismarck, per modernizzare la Germania e aprirla al mercato europeo e a quello globale. u segue a pagina 4 pagina 99we | 2 | STORIE sommario n STORIE | pagine 2-12 sindrome tedesca Malgrado le performance da record degli ultimi anni, la Germania è in trappola. L’economia, incentrata sull’export, dipende da soggetti esterni, i salari crescono molto meno della produttività e, soprattutto, da 15 anni Berlino ha smesso di investire in innovazione e infrastrutture. Intanto la fragilità del sistema bancario tedesco, che per far fronte alla forte esposizione verso laperiferia ha europeizzatoleperdite, rischiadiminarela stabilità del continente. A seguire l’asse russo-tedesco che spaventa gli Usa e la storia della discarica socialista a est del Muro di Berlino dove l’occidente capitalista smaltiva i suoi rifiuti. Quindi il boom dei centri di bellezza al tempo della crisi, i sacchi di Roma in attesa del Califfo e il revival delle masserie in Puglia, tra jet set, pannelli solari e caporalato. n MAPPE | pagine 13-19 come cambia la geopolitica delle stelle Il cosmo riflette gli equilibri terrestri: mentre gli Usa gestiscono il declino, la Space Race si regionalizza. Segue un reportage sulle strategie di Israele nel Golan. Il 12 la Bosnia vota: una croce piantata sui colli di Sarajevo ha fatto piombare lacampagna elettorale neisoliti veleni etnici. Quindi la riforma delle tlc che rischia di garantire al governo messicano pieno accesso ai dati di tablet, pc e telefoni. Poi la Cina: malgrado le promesse di Xi Jinping, i giudici sono più che mai sottoposti all’arbitrio del potere. E Pechino studia come adottare il diritto latino per attrarre investimenti. n INNOVAZIONI | pp 20-23 L’arrocco di Murdoch con i barbari alle porte Le strategie di Sky per fronteggiare il rischio che i produttori vendano i serial direttamente al pubblico. Quindi il fenomeno di quelli che assistono in streaming ai tornei di videogame: un business da 32 milioni a partita che attira big come Amazon e Google. Per finire con il software che rende user-friendly la consultazione dei Big Data. n IDEE | pagine 24-31 Minoranza etnica specie a rischio estinzione Le immagini di Stefano Marzoli raccontano la vita di tutti i giorni dei popoli che, sparsi a macchia di leopardo sulla cartina geografica del vecchio continente, condividono una stessa lingua, cultura e tradizioni. E stanno scomparendo. A seguire, il feticcio della guerra: giornalisti al fronte prigionieri dell’idea che la violenza fisica sia l’unica lente per narrare un Paese in guerra. Poi i 50 anni dell’Ictp, il centro della fisica di Trieste che continua ad attrarre i migliori cervelli dei paesi in via di sviluppo. E i genitori che, dopo aver adottato, decidono di restituire i bambini. n ARTI | pagine 32-43 Quando lo scrittore deve andare a scuola Negli Usa è del tutto normale, mentre da noi c’è diffidenza: reportage fra i principali corsi di scrittura a più di 25 anni dalla loro fondazione, fra talenti riconosciuti ed egomaniaci squilibrati. A seguire il graphic novel sulla pionieristica spedizione di Ernest Shackleton in Antartide. Poi il primato della Pixar con Ed Catmull, l’uomo che ha trasformato una start up in un vero e proprio colosso. La fotografia con i volti di Weimar per capire il mondo furioso e spietato fra le due guerre; la grandeur dell’arte a Pechino con il progetto di Jean Nouvel per il grande Museo Nazionale Cinese dell’Arte, i libri e la moda. n OZII | pagine 44-48 La luce atlantica di Paul Gauguin A Pont-Aven, il villaggio bretone dove si stabilì il pittore e dove trovare un angolo di pace per sfuggire al rumoroso turismo di massa. Poi i sapori della valle dell’Adige, dove nascono le bollicine al profumo di montagna. Per finire con i giochi e il cruciverba di pagina99. FRANCESCO SARACENO * u segue dalla prima sabato 4 ottobre 2014 la Germania è un modello (di incoscienza) n Questo copione si ripete immutato ogni anno, e cambiano solo i personaggi che lo recitano (prima la Grecia, poi la Spagna, oggi la Francia e l’Italia). Il solo personaggio che recita sempre lo stesso ruolo, di arcigno fustigatore degli altrui peccati, è la Germania della cancelliera Angela Merkel che, forte del proprio successo economico, ha spinto perché i Paesi in crisi adottassero tutti lo stesso modello: compressione di costi e salari e riduzione della spesa per sostenere la competitività delle imprese, con conseguente compressione della domanda interna a vantaggio delle esportazioni. L’austerità e le riforme strutturali sono state imposte ai Paesi della periferia in crisi (ma anche alla Francia di Sarkozy e poi di Hollande) perché questi seguisse- Il gap di investimento tra il 1999 e il 2012 è stato del 3%, il valore più elevato dell’Ue, Pigs compresi ro il “modello tedesco”, e potessero quindi fondare la ripresa su un’economia competitiva e capace di esportare. I danni dell’austerità sono sotto gli occhi di tutti e, come era facile prevedere, fare determinate riforme in periodo di bassa crescitaglobale puòessere controproducente (se ne dovrebbe ricordare anche il nostro presidente del Consiglio). Proprio la Germania lo dimostra, avendo potuto beneficiare, quando nel 2003 ha messo in cantiere le celebri riforme Hartz, di una forte crescita globale - che ne ha sostenuto l’economia durante la complessa transizione. Ciononostante, la dottrina di Berlino non viene emendata, e la Germania è il più fiero oppositore di ogni politica macroeconomica volta a sostenere il ciclo (che sia una politica della Bce più espansiva, o un temporaneo programma di stimolo fiscale). A sostegno della dottrina di Berlino possono essere portati i brillanti risultati dell’economia tedesca. La Germania ha superato il livello del Pil del 2008 (+3%), mentre la zona euro è ancora al di sotto (-2%), e l’Italia arranca con un -7%. Inoltre la Germania è riuscita a tenere sotto controllo l’aumento della disoccupazione, che è salita al massimo fino all’8% ed è oggial 4,9%, mentre la zona euro nel suo insieme naviga tra l’11 e il 12%. Questa brillante performance economica avviene con un bilancio pubblico in leggero attivo, un debito pubblico in calo, e un colossale avanzo negli scambi con l’estero. La Germania è oggi il primo Paese esportatore al mondo, davanti alla Cina. È comprensibile quindi che nel resto dell’Europa, appesantita da debiti pubblici e privati, si guardi con timore ma anche con interesse allo scintillante schiacciasassi tedesco. Nel dibattito europeo molti hanno sostenuto che la generalizzazione del modello tedesco al resto dell’eurozona non sarebbe auspicabile. In primo luogo, perché un modello di crescita trainato dalle esportazioni non è per definizione generalizzabile. Se tutti esportano, chi rimane per importare e sostenere la do- u CONTI CON L’ESTERO E FINANZE PUBBLICHE FONTE: BUNDESBANK, EUROSTAT, COM. SERV. CALC. FONTE: EUROSTAT, COM. SERV. CALCULATION u COSTO UNITARIO DEL LAVORO FONTE: OECD REICHSTAG Operai lavorano all’imballaggio del palazzo, frutto del progetto firmato da Christo nel 1995. In copertina, un dettaglio della cancelliera Angela Merkel manda aggregata? E il secondo motivo per cui una grande economia in buona salute non può essere trainata solo dalle esportazioni è di ordine più geopolitico, visto che l’economia è esposta a tutti i rischi macroeconomici globali. Il recente rallentamento della Germania, la cui economia crescerà nel 2014 molto meno del previsto 1,8%, ne è un buon esempio. La crisi ucraina e le tensioni in alcuni Paesi emergenti legate alla politica monetaria Usa, hanno avuto un impatto immediato sulle esportazioni e quindi sul Pil. Ma c’è di più che una semplice impossibilità di replicare il modello. Negli ultimi mesi si sono moltiplicate le analisi dell’economia tedesca che ne evidenziano i limiti strutturali, che potrebbero venire al pettine prima di quanto non si immagini. Il mercato del lavoro, in primo luogo. Dietro ai lusinghieri dati sulla disoccupazione si nascondono serissimi problemi. In primo luogo, il proliferare di lavori a bassissimo salario e a bassissima produttività, spesso part-time (i cosidetti minijobs). E, anche nei settori più protetti (nel manifatturiero e in generale nelle branche legate alle esportazioni) i salari sono negli ultimi 20 anni cresciuti molto meno della produttività. Se questo ha consentito alle imprese di fare profitti straordinari, ha anche però, nel lungo periodo, ridotto l’incentivo dei lavoratori ad acquisire qualifiche appropriate (per le quali non sarebbero stati pagati il giusto) e delle imprese ad investire in ricerca e sviluppo. Mail problemava benaldi làdell’innovazione. L’economia tedesca non investe più da unquindicennio almeno. Se sifa un confronto con il vicino “in crisi”, la Francia, il quadroè impietoso(vedi figura).L’investimento globale è stato tra il 1999 e il 2013 di molto inferiore a quello francese, ma anche se confrontato con l’eurozona nel suo complesso.Non solo,la carenzaè particolarmente marcata per quel che riguarda l’investimento pubblico in infrastrutture, sanità, istruzione, università e ricerca (grafico a pagina 3). Il prestigioso istituto Diw di Berlino sabato 4 ottobre 2014 | pagina 99we STORIE | 3 Disfunzioni | Malgrado i numeri stellari degli ultimi u I N T E RV I STA anni, Berlino è in trappola. L’economia, tutta incentrata sull’export, dipende da soggetti esterni. I salari crescono molto meno della produttività. E, soprattutto, da 15 anni si è smesso di investire sul futuro u 30-34ENNI LAUREATI UNIVERSITÀ Un sistema non competitivo Per colmare l’assenza di atenei tedeschi che possano competere con Stanford o Harvard, dal 2005 un fondo speciale mira a sostenere finanziariamente alcuni istituti per formare una serie di “cluster d’eccellenza”. Tuttavia, le università tedesche sono ancora assenti dai ranking internazionali. La Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco è la prima a comparire tra i migliori atenei del mondo, ma occupa solo la 55esima posizione, preceduta dalle rinomate università americane e inglesi, ma anche da quelle svedesi, cinesi, giapponesi e canadesi. A ciò si aggiunge una quota di laureati (il 33,1% tra i 30 e i 34 anni) più bassa della media europea del 36,9%,tanto che- comeevidenziato direcente dall’Ocse - crescono i casi di figli con un titolo di istruzione inferiore ai propri genitori, in quella che viene definita la «mobilità in discesa». Mentre sono in continuo aumento gli studenti di ceti medio-bassi che devono ricorrere al credito per non abbandonare gli studi. La Germania è riuscita negli ultimi anni ad attrarre molte intelligenze da tutto il mondo, e al contempo a far rientrare i propri giovani con alti studi all’estero, grazie alla sua spettacolare performance economica. Ma in assenza di un sistema dell’educazione terziaria competitivo, non è detto che questo trend possa durare. C. G. GIOVANI La campagna della start-up tedesca Fairnopoly «non è un Paese per start-up» Innovazione | Scarsa propensione al rischio e leggi cervellotiche, denuncia Florian Nöll CRISTINA GIORDANO REINHARD KRAUSE / REUTERS ha presentato lo scorso luglio un rapporto pieno di ombre sul tema. Secondo i calcoli dell’istituto, il gap di investimento tra il 1999 e il 2012 è stato di circa il 3% del Pil, il valore più elevato di tutta l’Unione europea - che peraltro è già, nel suo insieme, afflitta da una cronica carenza di investimenti. E il Diw non fornisce solo numeri, ma anche una batteria di esempi concreti di infrastrutture che cadono a pezzi sotto gli occhi di un governo ricco e inerte. Solo per fermare l’erosione dello stock di capitale (non per riportarlo a livelli più consoni), l’economia tedesca dovrebbe spendere circa 100 miliardi in più ogni anno. Per rendersi conto dell’ordine di grandezza, si pensi che il tanto sbandierato piano Juncker prevede 300 miliardi in 3-5 anni, ma per l’Europa nel suo complesso. Paradossalmente, visto che l’economia tedesca ha superato la crisi con una certa facilità, negli ultimi anni il divario con gli altri Paesi si è ulteriormente ampliato. Secondo uno studio del think-tank France Strategie, la zona euro ha accumulato un ritardo considerevole, soprattutto nel settore manifatturiero. Se non è sorprendente che l’investimento sia crollato in Paesi come la Spagna e l’Italia, non si capisce cosa abbia impedito alla Germania di compensare il calo degli Stati in crisi. Così, la mancanza di fiducia nel futuro sta oggi innescando un pericolosissimo circolo vizioso. Le imprese tedesche investono poco, e quando lo fanno, sempre meno in Germania. Bmw e Daimler hanno recentemente aperto degli impianti negli Stati Uniti. La mancanza di investimento rende a sua volta le prospettive per il futuro fosche, e giustifica ulteriori riduzioni dell’investimento. Insomma, non è tutto oro ciò che luc- FONTE: EUROSTAT u TASSI DI INVESTIMENTO PUBBLICI E PRIVATI n BERLINO. Fairnopoly è una sorta di mercatino delle pulci virtuale, fondato da una community di 1.700 piccoli consumatori. Per diventare socio bastano 50 euro. Affidandosi a TripRebel per prenotare un hotel, si è certi che si pagherà la tariffa più conveniente: se altrove vi sono offerte più vantaggiose, verrà rimborsata la differenza. Kreutzbergs Regenerativum vende un energy drink basato su un cocktail alla vitamina C e alle erbe medicinali orientali, che promette di far sparire il mal di testa da ubriacatura – e sappiamo bene quanto i tedeschi ne abbiano bisogno. Sono alcune delle giovani aziende nate lo scorso anno in terra tedesca. Germania, eden delle startup? Solo in apparenza. Perché stando a un rapporto del Bundesverband Deutsche Startup e. Alla politica tedesca si chiede più dinamismo. Mancano stimoli per creare nuove aziende FONTE: OECD ECONOMIC OUTLOOK cica. Dietro una performance stellare, la Germania mostra il volto di un Paese che non punta sul proprio futuro. I risparmi non sono canalizzati verso l’investimento, pubblico o privato, o verso l’istruzione e la qualificazione del lavoro. Al contrario, essi vanno a finanziare gli eccessi di spesa di altri Paesi (prima della crisi principalmente quelli del sud Europa, oggi gli Stati extraeuropei). Questo non solo contribuisce agli squilibri globali, e a ridurre la crescita mondiale inondandola di risparmi. Ma sottrae risorse preziose all’ammodernamento e alla costruzione del futuro, rivelando un sistema Paese miope e concentrato sul presente. Anche la virtù delle finanze pubbliche, che i dirigenti tedeschi mostrano come esempio ai partner europei, assume contorni ben diversi. Uno Stato il cui governo si siede su una pila di euro, e che accumula crediti verso l’estero, mentre le proprie infra- M. BRITSCH strutture cadono in pezzi, non è virtuoso ma incosciente. La Germania deve rompere la trappola in cui si è cacciata, e che vuole generalizzare a tutta la zona euro. I suoi dirigenti dovrebbero concentrarsi sulla produttività, e non su una competitività di costo basata sulla riduzione di salari e domanda interna, il cui unico effetto è minare alle fondamenta il sistema sociale europeo. Il governo dovrebbe inoltre abbandonare il mito dell’austerità fine a se stessa, e lanciare un vasto piano di riammodernamento infrastrutturale e del sistema formativo, che farebbe da volano all’investimento privato. La Germania si riapproprierebbe così del proprio futuro. E il resto d’Europa ringrazierebbe. * L’autore è docente presso l’OFCESciencesPo Paris e la Luiss School of European Political Economy, Rome @fsaraceno V., la confederazione federale che riunisce 350 startup made in Germany, le idee ci sono ma non è poi così semplice concretizzarle in un’impresa. Anche qui, l’ostacolo maggiore resta quello di reperire il capitale necessario. Non tanto nella fase iniziale di incubazione dell’azienda, quanto nel momento in cui ci si vuole espandere e si necessita di una disponibilità finanziaria più ampia. «Si hanno più chance contattando gli investitori esteri» dice Florian Nöll, presidente del Bundesverband Deutsche Startup. «Gli investitori tedeschi sono troppo pochi e non possiedono capitale a sufficienza. O per meglio dire, anche quando lo dispongono non sonomentalmenteportati arischiarein un nuovo progetto, soprattutto se l’idea è particolarmente originale. Preferiscono andare sul sicuro». Una grossa responsabilità spetta tuttavia alla politica. Da un lato sottovaluta il potenziale dei giovani imprenditori, dall’altro elabora troppo spesso una regolamentazione che strangola la gestazione di attività imprenditoriali non ancora robuste. Basti pensare alla recente norma che in alcune città tedesche vieta di subaffittare la propria stanza o il proprio appartamento, e che ha bloccato il florido mercato di Airbnb – il portale in cui privati offrono case vacanze. La confusione è tale per cui in alcune città il subaffitto è illegale, in altre no. Il Bundseverband Deutsche Startup da tempo chiede maggior dinamismo alla politica tedesca, che fino ad oggi si è occupata soprattutto di riforme sociali, ma sembra aver perso di vista l’urgenza di riforme economiche. Mancano stimoli per la creazione di nuove e giovani aziende. Florian Nöll suggerisce: «Sarebbe già un passo in avanti se venisse semplificato un sistema fiscale estremamente macchinoso». Con l’Agenda digitale, inserita nel contratto di coalizione, Spd e Unione si impegnano a non perdere il passo con i tempi e assicurano passi da gigante nell’innovazione e nello sviluppo tecnologico. Per l’opposizione siamo davanti alle solite promesse e nulla più. In programma c’è tuttavia la volontà di gettare le basi per una normativa che sostenga proprio l’innovazione, e in questo caso le startup potrebbero avvantaggiarsene. Secondo Florian Nöll, fondatore lui stesso di diverse startup – tra cui Spendino, società che produce un software che facilità le donazioni a organismi no profit via sms – la più grande carenza della politica tedesca è data dalla mancanza di coraggio. Bisognerebbe intervenire fin dal sistema scolastico dice Nöll, che dovrebbe trasmettere già in tenera età la forma mentis imprenditoriale, necessaria ad alimentare il desiderio di diventare un imprenditore self-made, così come accade negli Usa. Una mentalità che invece manca poiché gran parte della ricchezza in Germania è in realtà un lascito ricevuto dalle generazioni passate. pagina 99we | 4 | STORIE sabato 4 ottobre 2014 così le banche tedesche ci fanno ballare STEFANO CINGOLANI u segue dalla prima n La Merkel, al contrario, ha perseguito in modo sistematico la conservazione del sistema. Agli industriali ha concesso una risposta alla crisi attraverso la svalutazione salariale e un astuto protezionismo (lo si è visto quando ha difeso la Opel dalla Fiat nel 2009). Alle banche ha offerto il salvataggio, in parte con i soldi dei contribuenti, ma soprattutto con i denari del resto d’Europa. Le tappe di questa strategia sono sotto gli occhi di chiunque voglia guardare. Salvataggi | La Kanzlerin è intervenuta più volte per puntellare gli istituti in crisi. E per far fronte all’esposizione record verso la periferia è riuscita a europeizzare le perdite Il primo salvataggio La crisi bancaria in Europa s'affaccia nell’estate del 2007 e la prima banca a saltare si chiama Ikb Deutsche Industriebank, con sede a Düsseldorf. Sulla carta, è specializza- L’unione bancaria La Merkel ha puntato i piedi fino all'ultimo e ha ottenuto di limitare i poteri di sorveglianza della Bce alle banche con attività superiori a 30 miliardi di euro, ciò vuol dire circa 150 istituti sui seimila esistenti. Così, la Deutsche Bank, bomba a orologeria con tutti i derivati e subprime dei quali è imbottita, è una rogna che dovrà grattarsi la Banca centrale La prima a saltare nel 2007 è la Ikb , ma la Bundesbank corre in suo soccorso ta nel credito alle piccole e medie aziende, in realtà grazie ai suoi prestiti sono stati realizzati interi quartieri nella Florida del boom edilizio. È il 31 luglio e la virtuosa Buba si affretta a orchestrare un salvataggio lampo grazie al KfW, Kreditanstalt fur Wiederaufbau, il braccio finanziario del governo che oggi possiede il 38% dell’istituto. Non è l’unico aiuto di Stato, anzi. Dresdner Bank, arrivata nel 2009 sull’orlo del crack, viene fusa nella Commerzbank, ma l’operazione impiomba i conti della seconda banca del Paese. Il governo interviene con il fondo pubblico Soffin creato per puntellare il sistema creditizio e il governo diventa primo azionista. Uno dei più noti economisti tedeschi, Norbert Walter, spiega che «in Germania metà degli istituti di credito e delle casse di risparmio sono gestiti dallo Stato fin dalla loro nascita. E noi tedeschi siamo molto orgogliosi di questo. I politici sono convinti che questa sia la strada giusta da percorrere per organizzare il nostro sistema. È quindi ovvio che nel momento in cui una banca va in rosso, lo Stato deve intervenire». E l’Unione europea acconsente. Tedeschi in Grecia Nel 2008, in pieno panico dopo il crollo della Lehman Brothers, la Merkel rifiuta la proposta francese presentata dall'allora ministro delle fi- desca vuole essere accreditata presso la Bundesbank. La banca italiana quindi chiede alla Banca d’Italia di addebitarla in conto e accreditare la Bundesbank. Così, la Bundesbank resta creditrice, e la Banca d’Italia debitrice, sul sistema di pagamento della Bce noto come Target 2. In questo modo l’esposizione verso la periferia dell’eurozona del sistema bancario tedesco scende a circa 380 miliardi. Il saldo creditore della Bundesbank balza a oltre 520 miliardi, però la Germania ne risponde solo per il 27% (la sua quota nella Banca centrale europea); dunque ha nazionalizzato i vantaggi ed europeizzato le perdite. La Deutsche Bank è una bomba a orologeria che dovrà disinnescare la Bce europea. Invece, restano fuori le banche regionali e le casse di risparmio locali dove si annidano le maggiori sofferenze generate da una gestione politico-clientelare del credito. TIM WEGNER / LAIF / CONTRASTO FRANCOFORTE Il presidente Jens Weidmann durante una conferenza stampa della Bundesbank nanze Christine Lagarde, di istituire un fondo europeo per risolvere le crisi bancarie sul modello americano (prestiti pubblici restituibili, pulizia dei bilanci, cambiamento dei vertici manageriali). Ciascun per sé, dicono i tedeschi, ma presto ricorrono a un ben più consistente quanto occulto salvataggio europeo. Quando esplode la crisi greca tra il 2009 e il 2010 si scopre che le più esposte sono le banche francesi e tedesche. Quelle italiane non hanno investito nulla in Grecia, tanto meno in Spagna sull'orlo del fallimento per scialo nazionale. Berlino nega una rinegoziazione dei debiti greci con prestiti a lungo termine e a basso interesse: avrebbe risolto la crisi, ma messo in luce le perdite delle banche tedesche; così, per salvare i bilanci a breve degli istituti di credito nazionali, la Germania ha consentito che una crisi locale infettasse non solo l'Eurolandia, ma i mercati internazionali. Paracadute europeo Nell'autunno 2010 la Merkel si convince che ci vuole un meccanismo comune di intervento, ma per il fondo salva Stati sceglie la soluzione a lei più conveniente: un finanziamento in proporzione al prodotto lordo non in rapporto all'esposizione effettiva dei singoli Paesi. In questo modo, l'Italia, che con il collasso della Grecia non c'entrava, ha pagato per salvare le banche tedesche. Il banchiere Antonio Foglia calcola che il sistema bancario tedesco, a furia di erogare credito che andava a finanziare anche le bolle immobiliari, si ritrova nel 2008 esposto per più di 900 miliardi di euro verso la periferia dell’eurozona, cifra pari a oltre due volte e mezzo il capitale totale. E a quel punto viene trasferita dalla Bundesbank alla Bce una quota consistente delle perdite. Come? Quando una banca tedesca chiede a una banca italiana di rimborsare un credito interbancario, o di pagarle un Btp che le ha venduto, la banca te- Riformismi Per evitare equivoci complottisti va precisato che Berlino ha reagito alla crisi anche grazie ad alcune mosse intelligenti, come la riforma del mercato del lavoro, o all’abilità nell’usare le occasioni che la Ue le ha concesso nei primi anni dell’euro. Poi ha difeso i risparmi e consolidato l’immagine di rifugio sicuro, anche a scapito della crescita propria (la media del decennio supera di poco l’un per cento) e dell’intera area euro. L’euro forte e la deflazione, da questo punto di vista, l’hanno favorita. La Germania che le richiede agli altri come patente di virtù, sfugge alle riforme di struttura che mettono in discussione i propri equilibri di potere. Hanno ragione gli americani: non è egemone, ma egoista, difende il complesso bancario-industriale del quale si nutre la classe politica, così diventa una palla al piede per la economia mondiale e una minaccia per la stabilità europea. sabato 4 ottobre 2014 | pagina 99we STORIE | 5 DARIO FABBRI n Il connubio tra Russia e Germania è uno degli incubi che da secoli rovina i sonni degli strateghi occidentali, lo spauracchio bicefalo che incendia la fantasia dei pensatori geopolitici. Teoricamente complementari dal punto di vista economico e militare, nonché tendenti per tradizione a considerarsi alternative all’Occidente, Berlino e Mosca potrebbero unire virtù e deficienze per puntare alla conquista dell’Eurasia, ovvero del globo. Progetto assai insidioso perché concretamente rispolverato negli ultimi vent’anni dalle rispettive cancellerie, con i sistemi produttivi dei due Paesi (parzialmente) dipendenti l’uno dall’altro e la volontà di difendere le prerogative comuni. A guardare con particolare La Germania acquista il 36% del gas da Gazprom , contro il 24% dell’Ue, ed è il solo Paese direttamente collegato ai giacimenti siberiani ostilità a tale unione sono gli Stati Uniti che, esaurita l’illogica stagione post-11 settembre, sono oggi impegnati a contrastare l’ascesa della Cina e a prevenire sviluppi avversi sul fronte europeo. Ne sono scaturiti conflitti coperti e convenzionali, culminati negli ultimi mesi nella crisi ucraina, con Washington intenzionata a danneggiare tanto gli interessi di Berlino quanto quelli di Mosca. L’offensiva americana ha parzialmente raggiunto il suo obiettivo, ma sotto la cenere delle sanzioni approvate dall’Ue, almeno nel medio periodo, i legami russo-tedeschi appaiono solidi. Germania e Russia, caso unico nel panorama europeo, hanno caratteristiche opposte e convergenti che potrebbero tramutarle nella superpotenza antagonista. In possesso di grandi capacità produttive, Berlino necessita degli idrocarburi russiper alimentare lasua industria. Così Mosca ha bisogno del know-how teutonico per sviluppare il settore manifatturiero. Non solo. Intenzionato aridurre ilnumero digastarbeiter che annualmente raggiungono il Paese, il governo tedescofavorisce la delocalizzazione nello spazio ex-sovietico, che abbonda di manodopera a basso costo. Allo stesso modo la Russia vuol servirsi della Germania per ammodernare il proprio arsenale militare, già l’unico ingradodi competereinambitonucleare con quello statunitense. L’idea affascina da decenni i leader di entrambe le nazioni, che fino alla seconda guerra mondiale hanno cercato di realizzarlo sopraffacendosi a vicenda. Nel 1941 Hitler predispose l’Operazione Barbarossa proprio per conquistare i giacimenti petroliferi sovietici e nel 1945, durante la conferenzadi Potsdam,Stalin pretese il trasferimento sulla pianura moscovita del 10% della produzione industriale tedesco-occidentale. La novità emersa nel post-guerra fredda è stata il recupero pacifico della cooperazione bilaterale. In particolare tra gli anni Novanta e il Duemila le grandi industrie teutoniche hanno iniziato a investire in Russia, mentre aumentava vertiginosamente la dipendenza di Berlino dal gas siberiano. Oggi la Germania è il soggetto europeo che maggiormente esporta nella Federazione, dove operano circa 6 mila aziende tedesche: tra queste colossi come Siemens, che fornisce alla Lukoil il materiale elettrico per sfruttare la piattaforma petrolifera di Filanovskaya nel Mar Caspio, e Basf che ha investito 1,4 miliardi di dollari nell’estrazione di gas siberiano. Inoltre fino allo scorso agosto la multinazionale degliarmamenti Rheinmetallhacostruito nell’oblast di Niznij Novgorod una AVVICINAMENTI Le premure del presidente russo Vladimir Putin nei riguardi della cancelliera tedesca Angela Merkel in occasione del G20 dello scorso giugno CAMERA PRESS / CONTRASTO l’asse Mosca-Berlino spaventa gli Stati Uniti Geopolitica | Il nano della guerra fredda riscopre il pensiero strategico. E guarda a est, puntando sulla complementarità economica e militare. Così a Kiev gli Usa provano ad azzoppare l’antagonista che verrà struttura per l’addestramento delle truppe russe dal costo di 120 milioni di euro. Sul piano energetico Berlino acquista dalla Russia il 39% del petrolio, il 36% del gas, contro il 24% importato mediamente dalresto dell’Ue,ed èl’unica nazione del continente ad usufruire di un collegamento diretto ai giacimenti siberiani (Nord Stream). Peraltro proprio con l’inizio del nuovo millennio i due Paesi hanno manifestato la volontà di adottare una politica estera indipendente, molto spesso in funzione anti-Usa. Nel 2003 il cancelliere Gerhard Schröder, ora alla guida proprio del consorzio Nord Stream, si oppose all’invasione Usa dell’Iraq, e nel 2008 Angela Merkel respinse la proposta americana di accogliere Georgia e Ucrainanella Nato,mentre, complicela crisi economica, Berlino diveniva l’egemone incontrastato del Vecchio continente. Nello stesso periodo l’avvento di Putin ha rinsaldato l’influenza di Mosca sul proprio “estero vicino” e creato all’America più di un grattacapo su dossier di grande rilevanza, dalla Siria all’Egitto, fino alla concessione dell’asilo al fuggitivo Edward Snowden. Troppo per Washington, che legittimamente considera l’asse russo-tedesco una minaccia al suo primato globale e che, dopo aver provato invano a disinnescare l’austeri- Da Iraqi Freedom all’ultimo scontro sulle sanzioni per l’Ucraina, i due partner hanno creato non pochi grattacapi a Washington ty imposta dalla Germania al resto della Ue, ha approfittato dello stallo ucraino per creare distanza tra i due (insospettabili) partner. Nell’ormai celebre telefonata intercettata lo scorso febbraio,il vice segretario di Stato VictoriaNuland ha candidamente illustrato i piani di Washington, bocciando sia il filorusso Viktor Yanukovich che l’ex pugile Vitali Klitschko, candidato dalla Merkel alla presidenza ucraina e addestrato alla politica dalla fondazione Konrad Adenauer. Alla fine l’hanno spuntata gli Usa, che hanno ottenuto la nomina ad interim di Arsenij Jatseniuk e l’approvazione da parte della Ue, specie in seguito all’intervento russo in Ucraina orientale, di considerevoli sanzioni ai danni di Mosca. Tuttavia la manovra statunitense ha irritato la Merkel che, ancorché preoccupata dall’atteggiamento bellicoso di Mosca, durante l’estate ha scelto di pubblicizzare l’espulsione dal territorio tedesco del capo della stazione Cia, accusato d’aver assoldato membri dell’intelligence locale per condurre operazioni di controspionaggio. L’estradizione di spie è pratica comune anche tra alleati, ma la volontà di rendere pubblico l’accaduto palesa l’abisso in cui sono precipitate le relazioni bilaterali. Ancor più rilevante, a dispetto dei toni di forte condanna espressi in pubblico e su imbeccata della grande industria nazionale, per tutta l’estate la cancelliera ha cercato di risolverediplomaticamente la questione ucraina, raggiungendo con Putin un compromesso che prevede la futura associazione di Kiev all’Ue ma non l’ingresso nella Nato. Per di più, in caso di rispetto del cessate-il-fuoco raggiunto fra le parti, Berlino ha intenzione di annullare l’impianto sanzionatorio, che pure scientificamente non colpisce il settore energetico. Nel prossimo futuro i rapporti tra Russia e Germania appaiono dunque destinati a ricompattarsi e per questo proseguirà l’offensiva americana ai loro danni. Come dimostrato dagli eventi ucraini, Berlino e Mosca si contendono l’egemonia nell’Europa orientale e nel lungo periodo l’intesa è destinata a sfaldarsi, ma almeno per il momento le esigenze economiche sembrano prevalere sulle ambizioni geopolitiche. E la superpotenza non può permettersi di attendere gli eventi. Ne va della pax americana. Che rischia d’essere fagocitata dalla Cina e dal mostro a due teste russo-tedesco. pagina 99we | 6 | STORIE RAYMOND DEPARDON / MAGNUM PHOTOS / CONTRASTO Un gruppo di bambini gioca a costruire il muro, Berlino Ovest, 1962 MATTEO TACCONI n BERLINO. Il Muro è venuto giù venticinque anni fa. In realtà, volendo eccedere in precisione, il 9 novembre del 1989 fu solo consentito il transito tra i varchi interposti tra Berlino ovest e Berlino est. La demolizione in quanto tale è cominciata nel giugno del 1990, a pochi mesi dalla riunificazione formale tra le due Germanie e quella, conseguente, tra i due tronchi berlinesi. Il processo è stato rapido, inesorabile. Blocco dopo blocco il simbolo della divisione berlinese, tedesca ed europea è stato espulso dal palcoscenico urbano. Ne restano sporadici reperti e due interi tratti, l’East Side Gallery e quello sulla Bernauer Strasse. Solo il secondo conserva le sembianze di una volta e corre esattamente sulla faglia tra le due Berlino, altrimenti identificabile – se l’occhio è attento – con una striscia di ciottoli che s’insinua in certe parti della città. Ma queste sono eccezioni, il Muro non c’è più. E liberandosene, la capitale tedesca ha acquisito tanti spazi da rioccupare, sui quali s’è scatenata la vena inventiva degli architetti. Le piste del Muro Il Muro si pensa quasi sempre in verticale, come una cerniera ermetica che lungo l’asse nord/sud provocava uno scisma. Ma il suo tracciato in realtà tendeva al circolare. Il fatto è che la parte occidentale della città si configurava come un’exclave della Germania federale all’interno della Ddr, che pertanto ebbe l’esigenza di evitare non solo il contatto tra Berlino est e Berlino ovest, ma anche quello tra quest’ultima e il Brandeburgo, la regione storica – oggi Stato federale – che si spalanca oltre i limiti della metropoli. La Germania comunista, in altre sabato 4 ottobre 2014 la monnezza dell’ovest scaricata a est del Muro Piste | Oltre a spaccare Berlino,“il vallo antifascista” la sigillava dal resto della Ddr. Oggi il tracciato è un laboratorio verde, ma resiste la discarica socialista che smaltiva a caro prezzo i rifiuti dei capitalisti parole, segregò completamente la Berlino alleata. Procedendo sul percorso verticale di Muro e su quello che segue il confine con il Brandeburgo si realizza che la principale differenza, più che nelle rispettive lunghezze (quaranta e più di cento chilometri), sta nel colpo d’occhio. Se il primo è costellato dagli esperimenti architettonicidella città post-’89, il secondo è un laboratorio ecologico, tanto è ricco di aree verdi. È che la terra di nessuno tra l’ex Berlino ovest e il Brandeburgo, intorno alla quale forte era la presenza di campagne, rimase intonsa durante tutta la stagione della divisione. Singolarmente, la Guerra fredda ha lasciato in eredità un corridoio d’erba e terra, del quale molti segmenti, dopo l’89, hanno progressivamente ricevuto una cura ricostituente, facendosi bosco o parco. «Eppure si può ancora riconoscere la pista del Muro, anche in mezzo alla selva. Basta guardare l’altezza degli alberi. Quelli piantati al posto del calcestruzzo sono più giovani, quindi più bassi», ci spiega Cornelia Grosch, architetto. Tra il 2009 e il 2010 ha percorso a piedi tutto il circuito del Muro, stoccando impressioni e foto in rete (conyberlin.blog.de). Il verde è l’elemento cromatico più insistente, sul Muro circolare. Ma – annota l’architetto Grosch – non tutto è incontaminato. La resistenza al mattone non è stata totale. «A volte si nota che nel lato brandeburghese sono stati costruiti complessi residenziali moderni. Si contrappongono alle case, vecchie e modeste, del versante berlinese». Rifiuti e storia La Kölner Damm è uno stradone che si fa largo l RICOSTRUZIONI l il castello prussiano resuscita l’antico centro n In fondo alla Unter den Linden lo scheletro del nuovo-vecchio castello degli Hohenzollern cresce a vista d’occhio, settimana dopo settimana. I muratori sono già arrivati al quarto piano, quanto basta per chiudere la prospettiva orientale del boulevard che nasce a ovest sotto la Porta di Brandeburgo. Se si socchiudono gli occhi e si lascia andare l’immaginazione, incollando mental- mente gli stucchi barocchi sull’attuale facciata di cemento liscio del palazzo, si può avere, anche solo per un attimo, l’idea di come doveva essere il centro storico di Berlino, prima che le bombe della seconda guerra mondiale lo sfigurassero per sempre. La ricostruzione accanto al Duomo protestante di quel che fu lo Stadtschloss, il castello di città, è stata accompagnata da polemiche infinite sull’utilità di riproporre oggi un monumento legato al passato. Lesionato durante la guerra e finito nella metà a est della città, il castello venne demolito da Walter Ulbrich, il primo segretario comunista della Ddr, perché ricordava troppo la storia aristocratica e militarista della Prussia. Le cariche di dinamite crearono il vuoto che due decenni dopo il successore di Ulbricht, Erich Honecker, colmò con lo stile realsocialista del Palast der Republik. A sua volta demolito dopo la riunificazione, ufficialmente perché pieno di amianto. I critici della ricostruzione del castello sostenevano che quei 590 milioni di euro di budget, che in parte sono stati raccolti privatamente da una fondazione, potevano essere impiegati altrimenti e che, nella Berlino del Duemila, nessuno avrebbe saputo che farsene di un maniero imperiale. E invece, ora che l’edificio sta lentamente tornando alla vita, pare avverarsi la profezia pronunciata dal suo nuovo architetto, il vicentino Franco Stella: «Vedrete che tutto riprenderà il suo ordine», disse un anno fa, dando il via ai lavori. «Il palazzo era parte della storia della città, della sua identità passata ma era soprat- tutto l’unità di misura attorno alla quale sono state realizzate l’isola dei musei, la Unter den Linden con i palazzi storici che vi si affacciano, la prospettiva che lega questa arteria alla Porta di Brandeburgo. Senza il castello non si capisce il passato e neppure il senso dei monumenti più importanti che sono sopravvissuti alle bombe. E d’altronde le città europee sono piene di edifici ricostruiti dopo distruzioni». Aveva ragione. A un quarto di secolo dalla caduta del Muro, il cuore storico e monumentale di Berlino sta riprendendo d’incanto il suo filo conduttore urbanistico. Ed è quasi un con- trappasso della sua identità che dopo tre lustri di rincorsa al futuro, di ardite e innovative architetture moderne sorte lungo la vecchia cicatrice del Muro, quasi a ostentare il mito della Berlino sempre in divenire, il nuovo passo verso un’ulteriore composizione urbanistica avvenga attraverso la ricostruzione di un palazzo del passato. Un tuffo all’indietro per la città del domani, forse ora stanca di correre sempre a perdifiato in avanti e desiderosa di cominciare a fare i conti anche con la sua non facile storia. P.M. sabato 4 ottobre 2014 | pagina 99we nel distretto di Buckow, incapsulato nel quartiere di Neoukölln, ex Berlino ovest. Si estingue a ridosso del sobborgo brandeburghese di Grossziethen, lì dove correva il Muro circolare. A Grossziethen c’è un parco. In mezzo campeggia una discarica caratterizzata dal classico susseguirsi di dune, sotto le quali giace la spazzatura. Sono ricoperte da grossi teli di plastica. Non filtrano odori, non ci sono rifiuti in giro. Tutto molto ordinato, alla tedesca. In apparenza questo è un posto come un altro. L’impressione, però, è ingannevole. La discarica racconta infatti la recente biografia di Berlino meglio di molti fossili di Guerra fredda, parchi o complessi architettonici situati su tutta la linea del Muro. La storia parte dai tempi delle due Berlino. Galleggiando dentro la Ddr e risultando sigillata dal “vallo antifascista”, come i dirigenti della Germania orientale definivano il Muro, la parte occidentale della città perse il retroterra. Cosicché fu costretta a scaricare l’immondizia oltre la sua stessa sagoma, chiedendo l’utilizzo delle discariche altrui. Si stipularono diversi accordi, mutuamente convenienti. La Ddr si faceva pagare; Berlino ovest si disfaceva di una non piacevole zavorra. A Grossziethen, tra il 1973 e il 1977, si seguì questo canovaccio. I mezzi della compagnia di smaltimento rifiuti di Berlino ovest transitavano fino alla pattumiera, tenuti d’occhio dai gendarmi tedesco-orientali. Rovesciavano i loro carichi e via, ripartivano. In quell’arco di tempo, si legge su berlin.de, sito ufficiale della città Stato di Berlino (tale è il suo rango), furono sversate quattro milioni di tonnellate di rifiuti. Werner è un abitante del quartiere. Ricorda che davanti ai cancelli della discarica c’erano lunghe file di autotreni e aggiunge che a Muro caduto, la struttura ha continuato a svolgere il suo particolare ruolo di registro della storia cittadina. Qui, negli anni ’90, arrivavano i detriti dell’immenso cantiere di Potsdamer Platz, uno dei simboli della nuova Berlino. Distrutta da bombardamenti e battaglie della seconda guerra mondiale, la Potsdamer Platz, da snodo nevralgico della città, si ritrovò a essere un grande spiazzo vuoto e triste tagliato in due dal Muro. A riunificazione avvenuta fu naturale che divenis- STORIE | 7 La chiesa, trovandosi proprio a una spanna dall’acqua, divenne inaccessibile. «Navigando sul fiume si poteva ben vedere la progressione del deperimento». Il caso dell’aeroporto La storia potrebbe finire qui, se non fosse che il sobborgo di Grossziethen è testimone di un’ulteriore vicenda di rilievo della Berlino post-Muro: la costruzione del nuovo aeroporto, chiamato Berlino-Brandeburgo e intitolato a Willy Brandt. Progetto ambizioso e costoso, orientato a dare alla cit- tà un solo scalo, dai tre che ha avuto in dote dalla riunificazione: i due di Berlino ovest (Tegel e Tempelhof) e quello di Berlino est (Schönefeld), situato poco oltre Grossziethen. Se la tabella di marcia fosse stata rispettata i tre aeroporti sarebbero già stati chiusi e tutto il traffico si sarebbe spostato nel nuovo, appiccicato a Schönefeld. Ma a oggi solo Tempelhof ha cessato le attività e non si capisce quando s’inizierà a rullare al Berlino-Brandeburgo, inceppato com’è da problemi burocratici, ingegneristici e finanziari che tra l’altro hanno portato il sindaco Klaus Wo- wereit, il suo più accanito sostenitore, a rassegnare le dimissioni. Scatteranno a dicembre. La leggerezza della filiera costruttiva era diventata insostenibile. Intanto, però, è già stato organizzato e completato un piccolo travaso di popolazione. Tredici famiglie, quando sono partiti i lavori del nuovo scalo, sono state sloggiate dalle loro case affacciate sul cantiere. Hanno preso dimora a Grossziethen, nel 2005. Lo iato tra i tempi del loro trasloco e il battesimo dell’aeroporto è notevolissimo. Anche in Germania, delle volte, non tutto fila liscio. skater, aquiloni e grigliate turche dove sorgeva l’aeroporto del Terzo Reich Cimeli | Il vecchio scalo Tempelhof ha scandito i drammi e le epopee tedesche del Ventesimo secolo. Oggi è un non-parco scampato alle tentazioni della speculazione edilizia Ai berlinesi piace così: un enorme buco nel mezzo della metropoli che sfida amministratori impopolari Nella selva si può ancora riconoscere il percorso della barriera che non c’è più . Basta guardare l’altezza degli alberi. Quelli piantati al posto del calcestruzzo sono più bassi se uno dei luoghi dove la nuova Berlino avrebbe preso forma. Dopo mille dibattiti fu dato il via al progetto di riqualificazione, vergato tra gli altri da Renzo Piano. Ne è scaturita una spianata molto avanguardista, sotto certi aspetti americana. Alte torri, luci, spazi commerciali, qualche eccesso creativo. Si dice che gli autoctoni non amino frequentarla. Ritengono che non s’intoni troppo bene con lo spirito berlinese. I lavori sono durati anni. Ruspe, gru, impalcature. Montagnole di rena, pezzi di metallo, mattoni, materiali edili vari e tante altre cose da smaltire: tutto veniva convogliato a Grossziethen sfruttando un collegamento ferroviario. Non è più attivo, per quanto i binari ci siano ancora. Muoiono a pochi passi dall’ingresso della discarica, alla quale s’accede esclusivamente con mezzi gommati. Il sito continua a lavorare. Lo gestisce una ditta privata, la Hafemeister. Werner, il residente, spiega che ha ottenuto il diritto a sfruttare economicamente questo posto, ma in cambio ha contribuito alla bonifica dell’area circostante, avviata dopo la metà degli anni ’90 e finalizzata a contenere l’impatto dei fattori inquinanti trasmessi dal socialismo realizzato. La gestione della discarica, sotto la Ddr, non fu molto sensibile alla tutela di salute e ambiente. Alla bonifica s’è affiancata la riqualificazione, con la nascita del parco. Anche in questo caso la Hafemeister, sottolinea Werner, ha dovuto mettere mano al portafoglio. E un altro anello s’è aggiunto sulla pista verde che avvolge Berlino, popolata da tante altre cose grondanti storia, benché ordinarie a prima vista, come questa: «A Sacrow, sulle sponde orientali dell’Havel, il fiume che marca il confine sud-ovest tra Berlino e il Brandeburgo, c’è la chiesa del Cristo redentore. Oggi è curata e aperta al pubblico, ma fino al 1989 è rimasta inutilizzata, andando in rovina», rammenta Cornelia Grosch. Il Muro non sorgeva sugli argini dell’Havel, ma qualche metro prima. niche odorose di arrosti anatolici. È un paradosso della storia che lo scalo definito da Norman Foster «la madre di tutti gli aeroporti» sia diventato un problema urbanistico. Qui Berlino ha scandito le epopee e soprattutto i drammi del suo Ventesimo secolo. Da uno spiazzo per gli esordi dell’aviazione civile e militare di inizio Novecento nacque nel 1923 l’aeroporto, impreziosito nel 1927 da un piccolo edificio per le partenze. La megalomania di Adolf Hitler lo trasformò negli anni Trenta nell’aeroporto del Terzo Reich, con il sontuoso terminal ora finito sotto tutela artistica. Orgogliosi lo occuparono i sovietici nella battaglia di Berlino, per poi cederlo agli americani nella spartizione della città. Agli statunitensi piaceva, questo piccolo gioiello Un breakdancer si esibisce al Tempelhofer Park, Berlino PIERLUIGI MENNITTI n Sulla lunga scia d’asfalto di una delle due piste di decollo e atterraggio scivolano fanatici dello skateboard, sportivi su pattini a rotelle, ciclisti disattenti, comitive con le sporte per i picnic, bimbi con genitore al fianco e aquilone al guinzaglio, deliziose nonnine aggrappate tenacemente al deambulatore. C’è posto per tutti sul vecchio tracciato dell’aeroporto di Tempelhof. Dove una volta rombavano i motori dei Rosinenbomber, gli aerei alleati che nel 1948 laceravano dal cielo il blocco di Berlino Ovest voluto da Stalin, ora si estende un campo infinito di quasi 400 ettari. Lo chiamano così, anche se del parco ha poco o nulla: non un albero, né un percorso botanico, neppure un’aiuola. È un enorme spazio indefinito sul quale vengono proiettate visioni urbanistiche della Berlino futura, puntualmente destinate a svanire. L’ultima è stata affossata da un referendum popolare, promosso dal comitato civico 100% Tempelhofer Feld. In ballo c’era il progetto del Se- nato cittadino, o almeno la sua variante più recente: realizzazione di una biblioteca centrale, riqualificazione del terminal in un forum per lo sviluppo dell’economia creativa, edificazione di tre aree abitative e creazione nei restanti 220 ettari di un parco attrezzato, con alberi, piante, laghetti artificiali e servizi sportivi e ricreativi. I cittadini non si sono fidati. Quando il Senato insisteva sulla necessità di calmierare l’emergenza abitativa e il conseguente aumento degli affitti, loro evidenziavano la cupidigia degli investitori immobiliari e il timore che la tipologia degli edifici progettati fosse destinata a soddisfare solo clientele benestanti. Quando gli amministratori sollevavano il problema della frammentazione della rete di biblioteche, gli esponenti del comitato reclamavano sui costi del nuovo edificio. In realtà pare che ai berlinesi lo spazio di Tempelhof piaccia così com’è, un non-parco strappato alle tentazioni degli speculatori dove riversarsi nel tempo libero senza troppe pretese. Una sorta di luogo fuori pianificazione, un immenso grande WOLFGANG BELLWINKEL /LAIF /CONTRASTO buco inedificato nel mezzo (o quasi) della metropoli a tardiva memoria dei tanti spazi liberi urbani colmati dalla furia costruttiva che ha contagiato i pianificatori dalla caduta del Muro in avanti. Se si vuole, una reazione dal basso alle decisioni non condivise degli amministratori, una sfida carica di scetticismo alla politica rappresentativa. Il terreno è stato aperto al pubblico nel maggio del 2010 e suddiviso in aree abbastanza definite. Percorrendo le strade asfaltate su cui fino a sei anni fa rollavano aerei e mezzi di servizio, si costeggia l’area destinata ai picnic, poi quella riservata alle coltivazioni ortofrutticole gestite dall’associazione Allmende Kontor - che ha ottenuto dal Senato la concessione triennale per realizzare orti urbani - e infine si raggiunge lo spazio assegnato alle grigliate. Immerse in una nebbia di arrosti di würstel e spiedini di kebab, prolifiche famigliole turche si affaccendano davanti alle griglie: si sono tutte rifugiate in questo recinto, dopo che il sindaco aveva dichiarato guerra ai barbecue nel Tiergarten, che per decenni aveva conosciuto dome- architettonico. Le due piste erano perfette per i velivoli dell’epoca, si atterrava e si rombava fino al grande piazzale ad arco che replicava la struttura centrale del terminal. Così cominciò l’era americana di Tempelhof. Da quelle piste partì il primo volo dell’American Overseas Airlines, che inaugurò nel maggio 1946 la linea per New York: l’alba di una nuova era. Ma la fama di Tempelhof doveva ancora conoscere il suo apice, il momento che resterà impresso sui libri di storia: il ponte aereo. Ai tempi del blocco sovietico, dal giugno 1948 a fine settembre 1949, 278.228 aerei decollati dagli aeroporti di Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna vi scaricarono 2.326.406 tonnellate di carbone per riscaldamento, cibo, forniture, macchinari e medicinali. Le foto dei berlinesi assiepati sulla collinetta antistante le piste di atterraggio, con le mani alzate al cielo in segno di saluto, testimoniano l’emozione del momento. Lo sviluppo dei grandi aerei intercontinentali ne segnò il tramonto, relegando l’aeroporto a scalo regionale. Il colpo di grazia arrivò però dalla caduta del Muro: la nuova capitale voleva dotarsi di un nuovo aeroporto moderno. Dei tre scali della Berlino della Guerra Fredda (due a ovest, uno a est) solo Tempelhof ha però già chiuso i battenti. Gli altri due sono ancora in piena attività, mentre l’inaugurazione del nuovo scalo intitolato a Willy Brandt continua a essere rimandata, scandalosamente, di anno in anno. Vista dagli aquiloni di Tempelhof, pare una perfida vendetta. pagina 99we | 8 | STORIE sabato 4 ottobre 2014 il boom della bellezza nell’età della crisi Estetismi | Dai parruchieri ai nails bar, il settore è in crescita. Gli economisti lo chiamano lipstick effect, segno di un mercato anticiclico. Ma per i demografi la vera spinta viene dalle ragazze del baby boom arrivate ai cinquanta ROBERTA CARLINI n È la crisi, bellezza. Tra tutti i segnali negativi sui consumi che ci piovono addosso da quando è iniziata la Grande Recessione, spicca qualche segno più. E non si tratta solo di effetti prevedibili (più spesa al discount, più bancarelle, più generi low cost). Ma anche di qualche effetto all’apparenza paradossale. Come il recente boom dell’estetica, a tutti i livelli, dai capelli ai piedi. Se ne ha qualche sentore per le strade delle nostre città, dove i nuovi esercizi spuntano come funghi, in mezzo a una moria di negozi che chiudono. E i numeri ufficiali confermano: al sesto anno di recessione, la gente corre ai ripari. Quelli del corpo, però. Le cifre Il salone che ti aggiusta dai piedi in su, così come il piccolo nails bar appena aperto seguendo la moda delle unghie, sbarcata in Italia da qualche anno, stanno tutti dentro una sigla: S96. Sotto questa categoria le camere di commercio registra- no le imprese della bellezza. Tecnicamente, si chiamano «altre attività di servizi per la persona». Dentro ci sono tutti: parrucchieri, acconciatori, barbieri, istituti di bellezza, servizi di manicure e pedicure, centri per il benessere fisico (esclusi solo gli stabilimenti termali). Secondo l’ultimo dato disponibile – fine agosto 2014 – le imprese così registrate in Italia sono 144.209. In Italia sono 145 mila le imprese attive nel business dell’apparenza. Nella capitale sono 162 in più negli ultimi due anni Tante? Poche? Di certo di più di quelle dell’anno prima: nel 2013 erano 144.149, e mancano ancora quattro mesi a completare l’anno. Ancor prima, nel 2012, le imprese della bellezza erano 143.754. Insomma, il trend è in salita, in controtendenza rispetto a quasi tutti l INDICATORI hot waitress index o della recessione spiegata dalle cameriere attraenti n Sembra non finire mai l’elenco delle dimensioni che definiscono la mappa dell’iniquità della nostra vita quotidiana. Non bastano le diseguaglianze basate sulla provenienza familiare o geografica, sulle abilità o le informazioni a disposizione, sul genere o il background etnico. Di recente, infatti, gli economisti hanno scoperto che le persone di più bell’aspetto hanno maggiore successo sui banchi di scuola e nel mercato del lavoro. La bellezza percepita, infatti, è misurabile oggettivamente, come dimostrano decenni di studi da parte di psicologi sociali, ed è strettamente correlata con la simmetria dei tratti fisici e del volto. Sulla base di questa metrica, uno studio sugli Stati Uniti ha mostrato che le donne che erano considerate “molto belle” avevano un reddito dell’8% più elevato di quelle considerate “mediamente belle”, che a loro volta guadagnano il 4% in più delle donne considerate “bruttine”. L’effetto vale soprattutto per le donne, ma tocca anche gli uomini, con quelli “molto belli”aguadagnareil 4%inpiù ei “brutti” il 13% in meno di coloro considerati di aspetto nella norma. Potrebbe esserci anche questo fattore, dietro il cosiddetto lipstick effect. Che non è l'unico strano indicatore inventato dagli economisti, a proposito di bellezza e recessione. C’è persino chi si spinge a teorizzare un hot waitress index, capace di indicare con anticipo le fluttuazioni di una data economia. La regola è semplice: in tempi di crisi, le cameriere sono più belle. In tempi di crescita, infatti, c’è un forte mercato per la bellezza. La vendita al dettaglio di prodotti, ad esempio, è facilitata se il contatto con i clienti è condotto da persone considerate attraenti. Così, occupazioni che implicano un rapporto con la clientela ma più impegnative e meno remunerative, come ad esempio servire ai tavoli di un bar o un ristorante, sono meno richieste. Durante una crisi, tuttavia, i lavori scarseggiano e dunque le persone di più bell’aspetto tendono ad accettare anche altre opportunità, ritornando dietro il bancone. NICOLÒ CAVALLI gli altri settori dell’economia. A guardare dentro i dati (forniti dalla Camera di commercio di Roma), si vede che soffrono un po’ i saloni di barbiere e parrucchiere, mentre salgono tutti quelli che fanno trattamenti sul corpo: le unghie curate e smaltate, diventate un must dai 14 anni in su, spiegano molto ma non tutto il boom, che si alimenta anche di trattamenti antirughe e massaggi, cerette e depilazioni finali, guerre a cellulite e tessuti di troppo. Zoomando sui dati romani, si vede che nella capitale piagata dalla crisi abbiamo comunque 162 centri bellezza in più, dal 2012 all’agosto 2014, sparsi in quasi tutte le categorie. L’indice del rossetto Ma com’è possibile che, mentre tagliamo sulle spese della frutta e verdura per i bambini, corriamo tutte (e tutti: l’afflusso di maschi dall’estetista è ormai faccenda consolidata) a farci belle/i? Una versione moderna della spietata genitrice della vecchia canzone Balocchi e profumi? Senza moraleggiare, gli economisti, che amano dare definizioni a tutto, questo fenomeno l’hanno già etichettato da un pezzo. Lipstick effect, l’hanno chiamato, notando che le vendite di rossetto sono anticicliche, vanno su quando le cose vanno male. Qualcuno ha calcolato un’impennata delle vendite di rossetto dopo il crollo delle Twin Towers (ma era un tal Mr. Lauder, dell’omonima casa, non proprio un osservatore disinteressato). Secondo The Economist, sarebbe meglio misurare, più che le sole vendite di singoli cosmetici, il settore della bellezza nel suo insieme, e buttar giù un beauty index. Il fenomeno, secondo queste teorie, sarebbe più che comprensibile: la gente, in tempi di crisi, tende a sostituire piccoli lussi a grandi lussi. Magari non può fare il viaggio ai Caraibi, ma si concede il super-massaggio, o almeno un’abbronzatura posticcia. Forse dovrà lavorare qualche ora di più a condizioni peggiori, ma almeno sul posto di lavoro ci arriverà in ordine, con nuovo taglio e shatush. E se proprio la situazione fa piangere, almeno che il mascara non coli. La teoria dell’offerta Ma c’è un’altra spiegazione possibile, che si trova guardando più ai nuovi esercenti che ai nuovi clienti. Con gli affitti delle mura che – finalmente – sono scesi un po’, aprire un’attività nel campo della bellezza MARTIN PARR / MAGNUM PHOTOS / CONTRASTO CONTROTENDENZA Anche in tempi di crisi spunta qualche segno più. Tra questi il business dell’estetica, con nuovi esercizi che spuntano come funghi nelle nostre città non richiede un grosso investimento iniziale, né ha alti costi fissi. Dunque, è possibile che sempre più ragazze – o donne che magari avevano smesso di lavorare e rientrano sul mercato del lavoro per necessità – ci provino, dopo un corso di qualificazione o un diploma da qualche parte. Senza contare l’arrivo in forze degli stranieri (soprattutto cinesi) nel settore capelli. L’aumento dell’offerta estetica, vista da questo versante, fa il paio con la tenuta dell’occupazione femminile, che ha fatto parlare molti esperti di una recessione tutta al maschile (anche qui, battezzando il fenomeno: he-cession). Il fattore demografico Ma la fame di lavoro non spiega tutto. I saloni di bellezza non paiono destinati a fare la fine degli spacci di e-sigarette, che hanno vissuto un boom effimero e transitorio. Anzi, i numeri delle camere di commercio mostrano che il fenomeno continua. E allora? Forse una spiegazione la si può trovare nella demografia più che nell’economia. In un fattore generazionale, che spinge la clientela dei beauty. Dal dopoguerra in poi, qual è l’anno nel quale sono nate più bambine? Il 1964. In quell’anno si ebbe il picco del baby boom, e nacquero 1.016.120 bambini, di cui 493.964 femmine. Cioè: il numero delle bambine nate 50 anni fa è quasi uguale al numero totale dei bambini (maschi e femmine) nati l’anno scorso. Visto dal punto di vista demografico, è il crollo che sappiamo e lamentiamo tutti i giorni. Visto dai saloni di cura del corpo, è una manna dal cielo: c’è un’ondata di baby boomer femmine che sta scavalcando i cinquant’anni e spesso non ha alcuna intenzione di mostrarli; che ha una cura del proprio corpo superiore a quella delle proprie mamme, e (spesso) i mezzi per provvedervi; e che spesso accompagna da estetista e parrucchiere anche le proprie figlie, in un precoce profluvio di cerette e mèches colorate. È bene che i quasi 150mila esercenti di bellezza in giro per l’Italia lo sappiano: non ci sono mai state tante donne insieme in giro, in cerca di riparazioni e correzioni. E mai ci saranno più, quando le baby boomer smetteranno di farsi belle. sabato 4 ottobre 2014 | pagina 99we STEFANO CIAVATTA n «Conquisteremo la vostra Roma, spezzeremo le croci e faremo schiave le vostre donne», questa la minaccia dei dell'Isis. Non bastavano la Grande bellezza e il Sacro Gra a farla sentire sotto i riflettori dell'immaginario, anche se fuori fuoco e con uno sguardo stanco, – ora Roma si riscopre nel mirino della sicurezza. E puntuale si fa sentire l'ironia romanesca, ormai unico gergo nazionalpopolare. I commenti dei romani – raccolti pochi giorni fa dal sito Dagospia stendono sui feroci proclami jihadisti la solita nebulosa di malesseri e affanni. Roma chiama a protezione il cerchio gastrosessuale di battute che compone il primato comico di una città che rivendica come anticorpo contro i mali del pianeta una infastidita autarchia. «Pjamose Roma» diceva il Libanese di Romanzo Criminale, «prima però pensateci bene» risponde l’urbe agli uomini del Califfo. Ma non è sempre andata così, anzi. Nel suo Diario Notturno Ennio Flaiano scriveva che «Roma è una città eterna non per le sue glorie, ma per la capacità di subire le barbarie dei suoi invasori, di cancellarle STORIE | 9 aspettare il Califfo ricordando i sacchi di Roma Barbarie | Alle minacce dell’Isis la romanità oggi risponde con l’ironia. Eppure la città – dalle razzie dei Galli a quelle dei Lanzichenecchi – ha avuto i suoi devastanti undici settembre. Conversazione con lo storico Umberto Roberto IL LIBRO Roma capta di Umberto Roberto • Editori Laterza • pagine 346 • euro 11,50 Quello di Alarico durò solo tre giorni, ma ebbe l’impatto emotivo più forte col tempo, di farne rovine». Le rovine sono arrivate col passare dei secoli, non certo con l'ironia. L'eternità è stata guadagnata pagando un tributo enorme con il suo rovescio, ovvero una precarietà scandita dai cosiddetti sacchi di Roma. Il nemico alle porte, le mura violate, il panico, l'esercito in rotta, la fuga delle vestali, la città a ferro e fuoco, le basiliche depredate, l'umiliazione del riscatto, l'incubo del ritorno, il mito infranto dell'invulnerabilità, la resa della capitale dell'Impero e della Cristianità, e ancora le leggende sui salvatori, il presagio, la paranoia, l'angoscia latente per la devastazione, le sepolture nascoste, i palazzi imperiali danneggiati e abbandonati, ma maestosità rinnegata, la città museo di se stessa costretta a non specchiarsi più intatta. Anche Roma ha avuto il suo 11 settembre. Ma quale? Più di uno. Nell'estate del 386 a.C. i Galli entrano nella Roma repubblicana tra la Salaria e la Nomentana, se ne andranno sei mesi dopo carichi di bottino e con un clamoroso riscatto in denaro. Poco si è riuscito a ricostruire storicamente, di certo è il primo dei ripetuti colpi all'equilibrio mentale della città: un disastro, un incubo, un big bang della paura. Nel 410 d.C. fu la volta dei Goti di Alarico alle prese con la Roma imperiale. Per il professore di Storia Romana presso l'Università Europea di Roma Umberto Roberto, che li ha raccontati tutti nel libro Roma Capta Roma Capta,il Sacco dellacittà dai Galli ai Lanzichenecchi è il saggio scritto da Umberto Roberto, professore di Storia Romana, che racconta un millennio di Eternità, guadagnata al prezzo di traumi e violazioni che hanno segnato l’immaginario capitolino. La memoria dei Sacchi rivive in un’indagine che va dal 386 a.C. quando i Galli misero a ferro e fuoco la città repubblicana - alle occupazioni di Visigoti, Vandali, Ostrogoti, perfino Saraceni e Normanni, fino alla razzia in pieno Rinascimento dei soldati protestanti assoldati da Carlo V. Una serie di eventi che hanno cambiato fisionomia e abitudini alla Roma classica e alla capitale della Cristianità. STORIA Il sacco di Roma del 1527 a opera delle truppe dei Lanzichenecchi al soldo dell’Imperatore Carlo V d’Asburgo (Laterza), fu il sacco con l'impatto emotivo più forte: «durò solo tre giorni - spiega a pagina99 -la città opulenta viveva della sua memoria, era indifesa, l'imperatore era a Ravenna e infatti politicamente non ebbe il valore terribile che invece fu nell'immaginario. Alarico diede retta alla parte più oltranzista del suo popolo per dare una lezione a Roma». Nel 455 e nel 472 è la volta dei Vandali, i mori di Genserico entrano da Portuense e de- portano le donne a Cartagine. «Durò due settimane, fu il sacco peggiore perché i Vandali arrivando dall'Africa interruppero il flusso economico a cui era legata l'aristocrazia senatoriale, Roma era una città parassita, viveva di sussidi e così non ci furono più risorse per rimetterla in piedi», racconta Roberto. I tre sacchi del quinto secolo cambiano la mentalità dei romani e la loro concezione dello spazio urbano, sono traumi che si inseriscono nella memoria storica, c'è la consapevolezza - in una città così grande e spaziosa - che qualcuno possa portare via tutta la ricchezza che a Roma è arrivata da fuori. Anche la mappa della città cambia. «Nel 410 i miliardari dell'epoca, le grandi famiglie e la Chiesa, si erano impegnate per restituire Roma alla memoria dell'età dell'oro, alcune grandi basiliche vengono costruite su terreni saccheggiati, come Santa Maria Maggiore e il Celio, dopo il 455 invece molte zone vennero abbandonate a se stesse, la città si concentra tra Campo Marzio e Trastevere». Altri cinque assedi avvenuti tra il 535 e il 552, con i Goti che entrano da sud a Porta San Paolo. Non sono nomi da soap opera quelli che i romani sono costretti a imparare - Brenno, Alarico, Totila, Genserico eppure non erano barbari rozzi estranei alla società romani. Però l'immaginario dei Galli spina nel fianco è servito, anche a distanza di secoli. L'avvicinamento dei Galli a Roma, il dipinto ottocentesco del francese Evariste-Vital Luminais, potrebbe essere la copertina di Meridiano di Sangue di Cormac McCarthy: chiome fulve, enormi cavalli minacciosi, l'agro romano che risuona del trotto, nell'aria una lingua straniera contro cui - diceva Sallustio rammaricato - «ci si batteva sempre non per la gloria ma per la vita». Idem per la cavalcata fragorosa e apocalittica tra i Fori illustrata dallo spagnolo Ulpiano Checa y Sanz. I sacchi non si fermano e Roma riduce notevolmente la sua popolazione scendendo a poche migliaia di abitanti. Nell'alto medioevo c'è il sacco dell'846 da parte di diecimila Saraceni che risalgono il Tevere e bivaccano a San Pietro indisturbati. Nel 1084 c'è il sacco dei Normanni in soccorso del Papa che mutilò di nuovo la città rendendo marginali l'Esquilino e il Laterano. Infine il sacco imperiale dei protestanti Lanzichenecchi per tutto l'anno 1527 contro una Roma-Babilonia, sede della Chiesa trionfante quattro-cinquecentesca e insieme della raffinata corte rinascimentale di Raffaello, Bramante e Michelangelo, di nuovo urbe Caput Mundi grazie a uomini che guardavano al mondo classico come modello da seguire e superare. «Il sacco arriva a riproporre dopo l'antico splendore rinnovato anche la decadenza e l'angoscia delle devastazioni subite nel quinto secolo - spiega Roberto - Erasmo disse che Roma se l'era meritato. L'evento segnò la marginalità dell'Italia». E la razzia sangui- naria dell'orda di soldati affamati, quella che una per tutte conia il termine sacco, indurrà Clemente VII a commissionare il Giudizio Universale. Dopo la punizione divina del 1527 solo nel 1870 verranno assediate di nuovo le mura di Roma, ma non ci sarà nessun sacco con la Breccia di Porta Pia, anzi Roma è da proteggere ed esaltare a gloria nazionale. Alla modesta capitale del Papa, tutta entro le mura, si aggiunge la nuova capitale del regno. Cambierà di nuovo la mappa, poi con Mussolini Roma raggiunge il milione di abitanti ma arriveranno pure i bombardamenti e i rastrellamenti, un antico vulnus riaperto, e finalmente la liberazione con i carri americani. La città dal dopoguerra a oggi è ridiventata enorme e popolatissima, con quartieri che si ignorano e urne disertate da un milione e mezzo di persone. Unico argine alla minaccia una risata. Carlo Verdone incalza: «Questa è la grandezza dei romani». Un esorcismo un po' misero. pagina 99we | 10 | STORIE sabato 4 ottobre 2014 Alcuni degli invitati al matrimonio della figlia del magnate delle miniere Pramod Agarwal e della moglie, ereditiera di un vasto impero di moda. La cerimonia, celebratasi a Savelletri di Fasano, è costata 10 milioni di euro ALESSANDRO LEOGRANDE u segue dalla prima n Ancora oggi, ci sono non poche masserie produttive, dal nord al sud della regione, dalla Capitanata al Salento. Sono quelle che hanno puntato su colture innovative (ad esempio, il ciliegino di qualità, quando tutti invece si sono vocati al pomodoro da trasformare in salsa, impiegando la manodopera sottopagata straniera per stare nei costi), sulla ricerca enologica, o affinando metodi zootecnici all’avanguardia. Ma questo è un discorso che riguarda le eccellenze. E soprattutto chi è rimasto a vivere in campagna: quasi sempre i figli dei mezzadri di ieri. Per chi invece è andato in città, la manutenzione a distanza di strutture estese e complesse è divenuta ben preso economicamente insostenibile. E questo riguarda anche i discendenti del “blocco agrario” di un tempo: le masserie devono essere luoghi vivi, altrimenti periscono. Eppure a volte rinascono. Nella Puglia sempre più trendy degli ultimi anni, la regione che nell’ultima estate ha sentito meno di qualsiasi al- il revival della masseria tra jet set e caporalato Puglia | L’universo rurale autosufficiente di cui erano il cardine si è capovolto. Ma le aziende agricole tornano a popolarsi. Oggi sono un volano per il turismo. Non senza contraddizioni tra la crisi del turismo, le masserie stanno tornando a nuova vita sotto forma di strutture agrituristiche. È un processo carsico, ma tumultuoso. Secondo l’Istat sono oltre duecento gli insediamenti pugliesi trasformati in agriturismo. Secondo la Regione, invece, l’ospitalità rurale coinvolge un numero di realtà molto più esteso: arrivano quasi a un migliaio, considerando anche i resort più moderni e i bed and breakfast. Ovviamente non tutte queste realtà nascono dal recupero delle vecchie masserie, ma le strutture più grandi (e, sia detto per inciso, anche quelle più richieste) sorgono proprio sui complessi di ieri. Si ricavano stanze con ogni comfort dai vecchi locali, si ristrutturano le magioni centrali, si coniugano turismo e ricerca enogastronomica, si rispolvera il serbatoio di me- morie e storie del passato (anche se edulcorandole). Basta scorrere i quotidiani pugliesi degli ultimi mesi, per accorgersi di quanto frequenti siano i matrimoni da favola di magnati indiani, miliardari americani, aristocratici inglesi in Terra di Bari o in Valle d’Itria (ormai ribattezzata Itriashire) nelle più belle tra le masserie ristrutturate, come Torre Coccaro o Torre Maizza. Pare che a dare un forte impulso all’andazzo siano state un pugno di puntate di Beautiful girate proprio qui, tra Polignano a Mare, Fasano e Savelletri, con tanto di matrimonio tra le pietre bianche di due rampolli dei Forrester. Ma, al di là della punta dell’iceberg costituita dal turismo d’élite, il sommovimento è reale. L’agriturismo permette a strutture altrimenti inutilizzate di rinascere a nuova vita, inter- cettando una domanda reale, forte tanto quanto quella che si indirizza verso le località balneari. Anzi, in Salento, è stata proprio la presenza di masserie recuperate a pochissimi chilometri dal mare a far da base al boom degli ultimi anni. *** Costruite su larga scala nel Cinquecento e nel Seicento (anche se alcune, le più antiche, risalgono alla fine del Trecento), le masserie sono sempre state strettamente legate al latifondo e alla sua cultura, all’alternanza tra pascolo e cerealicoltura, e quindi alla produzione di latte e di grano quali principali basi di una civiltà materiale sedimentata nei secoli. Generalmente di color bianco, tanto da apparire nei giorni assolati d’estate una nuvola di luce che s’alza dalla terra circostante, le masserie hanno ripreso il concetto di casa agricola con corte. Le più grandi, tuttora, appaiono munite di un ampio cortile interno fortificato. Spesse mura cingono il loro perimetro: oltre a proteggere l’abitato dall’esterno, la loro funzione era quella di segnare i confini di un mondo autosufficiente. O meglio, che a lungo si è pensato come autosufficiente: un universo stratifi- sabato 4 ottobre 2014 | pagina 99we STORIE | 11 GIANNI BERENGO GARDIN / CONTRASTO LUOGHI La masseria Lorusso a Poggiorsini, Bari AFP /GETTY IMAGES cato, spesso cristallizzato nelle sue differenze di ruolo, ma allo stesso tempo organico. Nei secoli quell’organicità ha assunto una sua fisionomia specifica. Nella compresenza di uomini, arnesi e animali, all’interno dell’ampio cortile vi erano le stalle per i cavalli, le vacche, le pecore, le cantine per le botti di vino, gli alloggi per chi lavorava e poi – quasi sempre su due piani – la magione centrale. Subito a ridosso delle mura, nell’aia, venivano raccolti i covoni di paglia dopo la mietitura, un lavoro che in assenza di macchine richiedeva, in un breve lasso di tempo, l’impiego di centinaia o migliaia di braccia. Elemento essenziale della masseria, quasi sempre al confine tra l’interno e l’esterno, era la cappella, le cui volte e il cui altare sono spesso affrescati e ornati da sculture in legno: proprio queste chiese rupestri con i loro piccoli campanili sono state per molto tempo il fulcro della liturgia rurale. Ancora oggi, girando per la Puglia interna, è possibile capire come quello delle masserie fosse un sistema articolato. Accanto alla masseria-madre, quella più grande riservata ai signori del lati- fondo (generalmente anche quella fornita di cappella), sorgevano come satelliti alcune masserie più piccole, affidate ai mezzadri o ai mediatori di un sotto-mondo basato sulla cultura estensiva del grano. Visto su una cartina topografica, tale sistema appare ancora oggi come un reticolato pre-urbano, in cui la vita a lungo si è svolta seguendo regole diverse da quelle della città, intorno a proprietà immense che potevano raggiungere e superare i due-tre mila ettari. La masseria è stata per secoli un mondo circoscritto, che non aveva bisogno di scambi con l’esterno se non all’interno del reticolato con le masserie “sorelle”. Un mondo autosufficiente, in cui agrari, mezzadri, “suprastanti” (gli antesignani dei caporali), contadini, braccianti vivevano a stretto contatto tra loro, condividendo lo stesso cibo, gli stessi santi, le stesse leggende, lo stesso orizzonte culturale. Un mondo in cui sovente l’unica koiné linguistica era costituita dal dialetto dalle inflessioni levantine, un dialetto dalle vocali avvitate su se stesse, separato dall’italiano. Un mondo austero, in cui l’ostentazione immediata della ricchezza – anche per chi ric- co lo era davvero – era considerato un vizio cittadino. Un mondo basato sulla rigida differenza di ruoli, ma non sulla separatezza. In questo senso, le masserie sono state a lungo un guscio chiuso, che ha attutito gli scossoni della Storia, e che solo raramente è stato stravolto dalle jacquerie che provavano a sovvertire l’ordine dei campi. Semmai, come divenne evidente nei primi decenni del Novecento, con l’emergere del movimento della terra, il vero conflitto era tra “dentro” e “fuori” la masseria, tra chi viveva all’interno di quei gusci e le centinaia, le migliaia di braccianti alla fame impiegati solo per poche settimane all’anno nella raccolta del grano. Il meridionalista Tommaso Fiore, in una serie di lettere pubblicate su La rivoluzione liberale di Piero Gobetti, usò l’espressione «popolo di formiche» per definire il fervido lavorio che aveva prodotto quell’universo. Anche per questo, le masserie sono sempre state un serbatoio di memorie e di narrazione: non c’è racconto sulla civiltà contadina, sulla Spedizione dei Mille, sull’epopea dei briganti, sui fatti del biennio rosso o sull’arrivo degli Alleati al Sud che non abbia nelle masserie il proprio epicentro. Un groviglio orale pronto a cementare l’identità di un antico sistema e le sue relazioni. *** Quel mondo rurale, sedimentatosi nei secoli, è andato rapidamente in crisi negli an- Questi luoghi, costruiti nel ’500, sono sempre stati legati al latifondo e alla sua cultura autarchica ni Cinquanta e Sessanta del Novecento. Come raccontato da Carlo Levi, Rocco Scotellaro o Manlio Rossi-Doria, coloro i quali a lungo erano rimasti fuori dalla Storia, o comunque ai suoi margini, dopo la Seconda guerra mondiale fanno il loro ingresso in scena. Le “formiche” dal Tavoliere, delle Murge, dell’Arneo richiedono la terra, il superamento del latifondo improduttivo, l’utilizzo delle terre incolte, in un impasto di voglia di riscatto e di messianismo sociale. Con la riforma agraria, effettivamente si è realizzato un enorme trasferimento di ettari da quello che fino ad allora era stato definito “blocco agrario” e chi voleva tirarsi fuori dalla miseria. Tuttavia è stato un processo a macchia di leopardo. Si sono diversificate le colture, sono state bonificate ampie zone, spesso si sono create aziende agricole efficienti. Ma ci sono stati anche dei pesanti insuccessi. Come diceva Rossi-Doria, nel complesso si è passati dalla «cultura del latifondo» alla «cultura della polverizzazione». Si sarebbero dovute costruire moderne cooperative agricole, a partire magari dai nuclei costituiti dalle vecchie masserie più efficienti. Invece l’ansia della terra si è spesso tradotta nel desiderio di possedere un piccolo appezzamento, qualunque esso fosse, anche in cima a un’arida collina, pur di potersi dire piccoli proprietari. L’ansia del “tomolo” (antica unità di misura della terra, in voga in Puglia, Lucania e Sicilia, che più o meno equivale a mezzo ettaro) ha prodotto in alcune aree tante piccolissime unità improduttive – speculari al latifondo di prima. Così, negli anni del boom industriale, l’emigrazione è diventata una valanga. Interi paesi e interi borghi agricoli si sono svuotati attratti dalle luci del Nord. Che a emetterle fosse la città in generale, o la fabbrica in particolare, non importa. Il flusso ha portato via quattro milioni di meridionali. In questo feroce scombussolamento degli assetti economici e culturali, sono venuti meno anche la masseria e il sistema da essa emanato. Non sono solo venute meno le premesse socio-economiche su cui questo si fondava. È appassita una volta per tutte la sua autosufficienza culturale. Specie tra i più giovani, il mito della città è diventato sempre più forte anche all’interno delle sue mura fortificate. Impossibile resistervi, così a poco a poco si sono spopolate. In alcune zone della Puglia più interna il sistema si è trasformato in un arcipelago di ruderi vuoti. Basta fare un giro in macchina per accorgersene. Ma, in altre zone, è stato avviato un circuito virtuoso del recupero, e in altre ancora alcune famiglie hanno retto da sé. Prendiamo due casi tra i tantissimi che si potrebbero citare. Vicino Orta Nova, gli ex coloni mezzadri hanno rilevato la masseria Durando dalla baronessa Bacile di Castiglione. Salentini d’origine, l’avevano seguita nel nord della Puglia per avviare la coltivazione del tabacco. Oggi il tabacco non rende più, ma Durando è ancora là e i nuovi proprietari si ostinano a produrre pomodoro di qualità nonostante le difficoltà del mercato. Sono orgogliosi Con il boom economico e l’emigrazione la campagna diventò un arcipelago di ruderi della cappella che hanno ereditato, insieme a tutta la struttura raccolta intorno alla corte interna. La domenica, qualche volta, si celebra ancora messa. Nelle cuore delle Murge invece, tra Gioia del Colle e Matera, proprio nelle contrade in cui Pasolini girò nell’estate di quarant’anni fa il suo Vangelo secondo Matteo, Salvatore G. ha ereditato la masseria di famiglia, La Torre, una vecchia masseria bianca fortificata e in gran parte finita in disuso. Benché sia andato via dalla Puglia da molti anni, e non abbia mai vissuto in campagna, a poco a poco ha iniziato di recuperarla stanza dopo stanza, cantina dopo cantina. Ha sistemato i tetti, fatto potare l’ampia pineta. Così ha finito per trascorrere sempre più tempo proprio là dove, oltre un secolo prima, i propri avi si erano stabiliti per coltivare centinaia di ettari di grano. Oggi medita seriamente di farvi ritorno. *** Tuttavia le contraddizioni non mancano. Non ci sono solo i matrimoni dell’upper class globale, il successo dell’agriturismo o i singoli casi di rinascita. C’è anche un’altra faccia della medaglia, e può essere resa con due immagini. La prima ha a che fare con i pannelli solari. Grazie agli incentivi degli ultimi anni, i campi di pannelli si sono estesi a macchia d’olio in tut- ta la regione, spesso oltrepassando il limite della decenza e della sostenibilità, e sostituendo i vigneti di ieri. Il caso estremo è costituito da quelle masserie che, abbandonato il grano, la vite o l’allevamento, si presentano interamente circondate da un mare di pannelli. L’altra riguarda il caporalato. Nonostante le misure messe in campo, la piaga non è stata ancora debellata. La Puglia rurale svuotatasi dei cafoni di ieri, è stata ripopolata da nuovi cafoni marocchini, sudanesi, ghanesi, burkinabè, romeni, bulgari... Sono loro a raccogliere i frutti della terra. Quasi sempre lavorano sotto caporale dall’alba al tramonto, spesso nelle stesse identiche condizioni dei braccianti dei tempi di Di Vittorio. Come se nulla intorno fosse cambiato, le testimonianze della vita nei campi, quelle di ieri e quelle di oggi, sono sovrapponibili. Più che le masserie, i nuovi cafoni hanno ripopolato le vecchie borgate agricole dell’Ente Riforma ormai lasciate abbandonate, e le hanno trasformate in nuovi villaggi che spesso prendono il nome di “ghetto”. Nel Tavoliere, quello di Rignano è diventato il Grand Ghetto, quello di Borgo Libertà Ghetto Ghana, uno vicino Borgo Mezzanone il Ghetto dei bulgari. In ognuno vivono dalle cinquecento alle mille persone, spesso anche intere famiglie. È quasi un nuovo arcipelago del sotto-lavoro che sostituisce l’arcipelago rurale di ieri. Nell’estate di tre anni a Nardò, a pochi chilometri dagli ombrelloni di Gallipoli, ci fu il primo sciopero dei braccianti africani nel Sud Italia. La scintilla si accese tra i lavoratori che alloggiavano in un nuovo accampamento rurale, questa volta sorto intorno a una vecchia masseria in disuso, la Masseria Boncuri. Sul portone di legno della vecchia struttura fortificata, avevano appeso un foglio scritto a mano con le loro rivendicazioni. Era scritto in arabo, in francese e in italiano. In italiano diceva: «Avere dei contratti di lavoro veri; aumentare il prezzo del cassone oppure essere pagati all’ora; abolire il sistema del caporalato; aprire un ufficio (centro per l’impiego) dentro al campo; che ci vengano messi a disposizione i mezzi di trasporto e i medici». pagina 99we | 12 | OPINIONI n «Il rischio è che cambino radicalmente i rapporti sindacali nel nostro Paese», ha affermato di recente Maurizio Landini discutendo l’impianto del Jobs Act del premier Matteo Renzi. Dichiarazioni che hanno riavvicinano i metalmeccanici al sindacato centrale, dopo il duro scontro tra il governo e il segretario confederale Susanna Camusso, che prefigura uno sciopero generale in opposizione alle misure votate a grande maggioranza dalla direzione del Partito Democratico e sottoposte nei prossimi giorni ai primi passaggi parlamentari. In realtà, cambiare radicalmente i rapporti sindacali nel nostro Paese sembra un’opportunità più che un rischio. Negli ultimi decenni, i sindacati italiani hanno subito un costante calo degli iscritti, con un tasso che – secondo i dati Ocse – è calato dal circa 50% di inizio anni ’80 fino al 35% del 2010. Durante questo periodo è drasticamente diminuita la fiducia verso le organizzazioni sindacali: secondo un sondaggio Ipr Marketing, nel 2011 solo il 33% degli intervistati u L AVO R O la svolta nei rapporti sindacali è un’opportunità per il Paese aveva fiducia nelle parti sociali. Ciononostante, il coinvolgimento degli stessi nelle principali scelte di politica economica è aumentato nel tempo. I dati mostrano che, negli ultimi quattro decenni, la natura della partecipazione dei sindacati nella definizione della politica economica nazionale è profondamente cambiata, in Italia come nei principali paesi Ocse. I processi di contrattazione salariale sono diminuiti in numero, come specchio della progressiva marginalità delle organizzazioni collettive tra i propri potenziali iscritti, sostituiti dall’ascesa progressiva della partecipazioni dei sindacati ai pro- cessi di policy-making, spesso attraverso l’aumento della quantità e della rilevanza delle consultazioni con i governi. Secondo Lucio Baccaro, dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro dell’Onu, questa seconda fase del sindacalismo ha rappresentato un regime di macro-concessioni associato a una riduzione della quota dei salari sul reddito nazionale e all’aumento delle diseguaglianze. Sotto la spinta dei cambiamenti macroeconomici globali, le organizzazioni sindacali hanno scambiato la partecipazione ai tavoli decisionali con il via libera a numerose riforme lesive delle opportunità economiche della maggioranza dei lavoratori, ottenendo in cambio alcune tutele concentrate a favore dei propri iscritti uno schema che si ripropone oggi con la discussione sull’articolo 18, le cui tutele sono del tutto sconosciute a una platea sempre più alta di lavoratori, in particolare giovani. In quest’ottica, i sindacati hanno spesso rappresentato uno strumento di formazione delle preferenze e di organizzazione del consenso attorno alle misure proposte, attraverso processi di democrazia discorsiva organizzati con ripetute e ampie consultazioni con gli iscritti, nei quali i dirigenti sabato 4 ottobre 2014 dell’organizzazione hanno potuto spiegare logiche, motivazioni e inevitabilità dei provvedimenti. Così, secondo l’analisi di Baccaro tra il 1990 e il 2005 l’effetto del corporativismo nella riduzione della diseguaglianza è di circa tre volte più piccolo di quello del precedente periodo, dal 1974-1989. Uno dei più robusti risultati nella letteratura quantitativa sul tema è quello secondo cui le caratteristiche istituzionali del sistema di relazioni industriali, in particolare la densità sindacale e la struttura di contrattazione collettiva centralizzata o coordinata, conducono a una maggiore eguaglianza economica. Se dunque è questo l’obiettivo della politica economica, come non solamente l’articolo 3 della Costituzione ma anche la natura progressista del partito principale azionista del governo in carica dovrebbero suggerire, allora è necessario rivedere sin da oggi il sistema istituzionale delle relazioni industriali nel nostro Paese, a partire dalla lettera morta dell’articolo 39 della Costituzione del 1948. u 99 NASONI di Joshua Held u MEDIA u CA M B I A M E N T I lo strappo rivoluzionario se Netflix conquista la Kamchatka che serve alla Cina n Qualche giorno fa la Tribuna del popolo, rivista dell'organo ufficiale del partito comunista cinese, ha pubblicato un singolare sondaggio sui problemi che affliggono la società in Cina. Non è banale che la stampa della Repubblica Popolare faccia sapere che il 24% degli intervistati indichi nel deficit di credibilità dei governanti la causa principale della mancanza di fiducia che avvelena la comunità. O che quattro cinesi su cinque considerino la società «poco sana», se non malata. A ben guardare, però, la parziale glasnost dell’informazione è in linea con la campagna contro l’élite corrotta lanciata dal potere, mentre tenta, con limitato successo, di ridurre il divario sociale ed economico che si è spalancato con il boom. La speranza è di salvare così il contratto sociale sui generis che combinando repressione e l'enrichissez- vous declinato da Deng Xiaoping già alla fine degli anni settanta («Arrichirsi è glorioso», assicurava il Segretario che liberalizzò l'economia della Cina post-maoista) ha mantenuto l'ordine dopo il massacro di Piazza Tienanmen. Ma nella classifica dei mali cinesi pubblicata dalla Tribuna del popolo l'assenza di libertà politica non c'è. E non può esserci, perché delegittimerebbe l’intero sistema. Per questo la semplicissima sfida che gli studenti di Hong Kong hanno lanciato al potere («scegliamo noi chi ci governa, senza veti preventivi») per il partito è un rompicapo complicatissimo. Ed espone i limiti del riformismo cinese, sul piano politico abbozzato fin qui solo nel laboratorio di Hong Kong. Hong Kong è un’altra cosa rispetto al Continente, sia chiaro. Pechino recuperando la piena sovranità diciassette anni fa si è impegnata a non soffocare il liberalismo che si è radicato durante il lungo dominio britannico, come prescrive il modello “un Paese, due sistemi”. Eppure anche confinare l'eresia a Hong Kong rappresenterebbe un precedente pericoloso, tanto più nei giorni in cui, dallo Xinjiang al Tibet, l'irrequieta periferia dell'Impero di Mezzo è tornata ad agitarsi. E il rallentamento del boom offre meno possibilità di addolcire il malcontento altrove. Perché le riforme incrementali varate da un regime autoritario non possono introdurre la libertà politica senza cambiare radicalmente la natura del regime stesso. Ma un’altra via - se non sul breve, sul medio periodo - non si vede. Quando sono state chiuse le pagine di questo giornale, i più arditi a Hong Kong celebravano la festa nazionale della Cina comunista preparandosi ad occupare le sedi del governo locale. Le truppe dell’Esercito di Liberazione Popolare non sono ancora uscite dalle caserme. Ma la resa dei conti per la Cina autocratica, vittima come tutte le dittature della sua rigidità, potrebbe essere già iniziata. Senza un piccolo, rischioso strappo rivoluzionario non ne uscirà. E dovrebbe essere chiaro anche ai suoi partner commerciali. n La storia non telefona prima per avvertirci che qualcosa sta cambiando e forse per sempre. E per quanto i nuovi cellulari siano sempre più smart e arrivi una nuova generazione di orologi molto più sveglia di quella precedente, non prevedono di segnare appuntamenti con mutazioni epocali. Dobbiamo ancora affidarci alle nostre antenne e guardare con molta attenzione ciò che accade intorno. Un trillo che si annuncia forte arriva dalle parti di Netflix, produttore di contenuti online e non solo. E una data da segnare sul calendario forse c’è, visto che è stata già annunciata: il 28 agosto del 2015. Cosa può accadere di tanto particolare? Apparentemente nulla di strano: è prevista l’anteprima di un film, Crouching Tiger, Hidden Dragon: The Green Legend, il sequel di La tigre e il dragone blockbuster cinoamericano del 2000. L’aspetto rilevante della questione è dove sarà possibile vedere il film. Netflix ha annunciato che, grazie a un accordo con i produttori Bob e Harvey Weinstein, il lancio avverrà in contemporanea nelle supersale tecnologiche del circuito Imax o comodamente a casa, online. Alcuni dei circuiti tradizionali delle sale come Amc hanno già annunciato il boicottaggio della pellicola (ma ha ancora un senso usare questo termine?). E il mondo di Hollywood è in agitazione. Cosa accadrà? È probabile che le polemiche si trascineranno come una lunga telenovela da qui al prossimo agosto e il mondo dei media si dividerà ancora una volta fra apocalittici e rottamatori. Forse Netflix farà retromarcia (improbabile), forse i produttori cercheranno una mediazione (possibile). Quel che è certo è che un equilibrio si sta rompendo. Perché la questione non riguarda solo le sale cinematografiche, ma tutta la catena del valo- re dei film. Cosa se ne fa una pay tv come Sky (vedi anche l’articolo di Daniele Doglio alle pagine 20 e 21) di un prodotto che, oltre ai frequentatori delle sale, ha già incontrato il pubblico dell’online? Nel Risiko del cinema Netflix ha conquistato la Kamchatka. Sembrano remoti i bei tempi quando si poteva dare la responsabilità di un’industria in crisi alla pirateria. È già da diverso tempo che la gran parte dei film disponibili online sono legali perché legati a contratti di abbonamento (Skygo per esempio) e messi a disposizione dagli stessi aventi diritto. Ora, se un distributore alla Netflix, già produttore importante di contenuti cinetelevisivi (House of Cards, per esempio), usa il suo canale per le anteprime, senza affidarsi ai network televisivi o agli esercenti delle sale, possiamo dire che qualcosa di nuovo sta accadendo. Anche senza appuntarcelo sullo smartphone. sabato 4 ottobre 2014 | pagina 99we MAPPE | 13 RITORNI Gli astronauti Zhang Xiaoguang, Nie Haisheng e Wang Yaping, in missione con la capsula cinese Shenzhou-10, salutano all’atterraggio sulla Terra, Mongolia Interna, 26 giugno 2013 REUTERS /CONTRASTO come cambia la geopolitica delle stelle Lassù | L’austerity frena i sogni. E la cooperazione si scontra con la realpolitik. Perché lo spazio riflette gli equilibri terrestri. Così mentre Washington gestisce il suo declino relativo, la sfida si regionalizza. L’ultimo colpo (low cost) è indiano ANDREA LUCHETTA n Possiamo immaginare l’amarezza del vecchio Buzz, mentre scuote il testone e sentenzia: «L’America ha perso l’amore per lo spazio dopo il programma Apollo. Non c’è stato un seguito, non avevamo obiettivi chiari». Buzz Aldrin – il secondo uomo a mettere piede sulla Luna – una visione ce l’ha, e ha pubblicato pure un libro (Mission to Mars, First Edition, 2013) per spiegare come e perché conquisteremo Marte nel 2034. Obiettivo in nome del quale perfino lui, repubblicano duro e puro, apre alla condivisione delle conoscenze sul piano internazionale. È qui, brutalmente, che si cela il cuore del problema: come conciliare l’austerity con i costi dell’esplorazione spaziale? Per dirla con Charles Bolden, numero uno della Nasa, «nessun Paese può andare da solo nello spazio nel clima economico di questi giorni». La cooperazione è realtà da decenni – si pensi al rendez-vous spaziale fra una Soyuz e un Apollo nel 1975 – , e ha raggiunto una profondità impensabile all’apice della Space Race: dal 2011, anno di pensionamento dello Shuttle, gli astronauti americani volano solo su razzi russi. Nel 2013, per la prima volta dal 1995, è diminuita la spesa globale per i programmi spaziali: 57,6 miliardi di euro, 630 milioni in meno dell’anno precedente. Il mantra ricorre nelle parole di Chris Hadfield, veterano della Stazione spaziale internazionale (nonché primo uomo a suonare in orbita Space Oddity di David Bowie): «L’obiettivo di lungo periodo è lo stesso per ogni Paese: cercare di comprendere l’universo. Il nemico comune sono i costi e la complessità dell’impresa». Vero. Ma solo in parte: non si può ignorare come la ricerca spaziale sia legata a doppio filo alla sfera militare. E così anche i sogni più audaci di cooperazione finiscono per fare i conti con la realpolitik. L’Authorisation Act del 2010, per esempio, vieta alla Nasa di sviluppare relazioni bilaterali con l’agenzia spaziale cinese. La crisi ucraina, fra le varie lezioni, ha ricordato anche la precarietà della cooperazione in un settore tanto delicato. Ad aprile, il governo Usa ha proibito alla Nasa qualsiasi contatto con la Russia, eccezion fatta per le attività legate alla Stazione spaziale internazionale (Iss). Sullo stesso tono la risposta di Mosca, che ha annunciato di non voler estendere la sua partecipazione all’Iss dopo il 2020 e ha promesso 41 miliardi extra ai cosmodromi nazionali nei prossimi sei anni. Lo stato dell’arte nella corsa allo spazio finisce per riflettere gli equilibri geopolitici, e non si vede come potrebbe andare diversamente. Incontestabile il primato degli Usa, assorbiti però nelle strategie di management of decline. Negli anni del programma Apollo, Washington riservava alla Nasa il 4% del budget federale, ora è tanto se sfiora lo 0,5%. Lo sbarco su Marte non è solo un sogno del vecchio Buzz, ma l’obiettivo verso cui si sta muovendo la Nasa – raggiungere il pianeta rosso entro la fine degli anni ’30 – fa a pugni coi tagli al bilancio. Per quanto in contrazione, comunque, i 30,6 miliardi di euro investiti dagli Usa nel 2013 rappresentano il 53% della spesa mondiale. Considerando inattaccabile la supremazia americano, la Space Race assume allora delle declinazioni regionali. E non è un caso se il nuovo epicentro si trova in Asia, che lancia l’assalto a modo suo, comprimendo costi e tempi. L’ultimo colpo lo ha messo a segno l’India: a fine settembre è diventata il primo Paese del continente capace di piazzare una sonda (Mangalyaan) nell’orbita di Marte, per soli 60 milioni di euro: meno di quanto sia stato investito nel film di fantascienza Gravity. Poi, è ovvio che da Mangalyaan non possiamo aspettarci la stessa accuratezza scientifica di Maven, la sonda Usa costata dieci volte tanto ed entrata pure lei da pochi giorni nell’orbita marziana. Ma in fin dei conti poco importa, perché l’obiettivo di Delhi era un altro: mandare un messaggio forte e chiaro, tanto agli investitori internazionali quanto a Pechino. La Cina resta avanti – è il solo Paese con Usa e Russia ad aver fatto volare un astronauta su un proprio vettore – e destina alla ricerca spaziale un budget più generoso dell’India, ma lo schiaffo brucia eccome. Delhi è in buona compagnia, quando cerca di sfidare la supremazia asiatica di Pechino: in ballo, oltre al prestigio, ci sono le riserve petrolifere celate nei fondali oceanici. Il controllo dello spazio garantirebbe un chiaro vantaggio militare e nella fase di mappatura dei giacimenti. Malesia, Thailandia, Vietnam e Taiwan nel 2013 hanno investito almeno 100 milioni di dollari nella ricerca spaziale, e hanno lanciato chiari segnali di voler incrementare la spesa. Nuova stilettata alla Cina, con cui tutti questi Paesi sono in conflitto per la definizione dei confini nel Pacifico meridionale. pagina 99we | 14 | MAPPE sabato 4 ottobre 2014 l’acqua del Golan fra i fuochi dei coloni e della guerra civile Reportage | Gli abitanti sono siriani e per l’Onu l’occupazione è illegale. Ma l’oro blu delle strategiche alture soddisfa il 33% del fabbisogno idrico dello Stato ebraico. E con il conflitto alle porte, in molti si rassegnano a chiedere la cittadinanza israeliana GIULIA BERTOLUZZI COSTANZA SPOCCI n MAJDAL SHAMS (GOLAN). Dalle alture del Golan, sopra il valico di Quneitra, i curiosi si appostano con binocoli e zoom fotografici per capire chi sta avanzando nei combattimenti che assediano l’altra parte del confine. Quneitra, la città fantasma situata all’interno della fascia di sicurezza Onu creata nel 1974 in seguito all’armistizio della guerra dello Yom Kippur, era l’unico varco attivo Approfittando dell’attenzione concentrata su Gaza, il Ministero dell’Energia ha deciso di avviare nuove esplorazioni petrolifere nella regione tra Israele e Siria. Da qui, migliaia di studenti del Golan passavano per andare all’Università di Damasco. Ora Quneitra è stata dichiarata una zona militare chiusa. Chiuso è anche il contingente Undof dell’Onu, che dal 15 settembre ha ritirato tutti i caschi blu dall’area di confine. Lungo la cortina di ferro che divide la frontiera, i pick-up delle Nazioni Unite continuano a muoversi verso l’entroterra. In direzione contraria invece arrivano gli autobus carichi di soldati israeliani di leva assegnati alle varie basi militari e agli avamposti di confine. Lì, sicuramente, capiterà loro di dover rispondere ad un attacco o ad un razzo mal direzionato, dato che le bombe facilmente cadono nei pressi della cortina o addirittura la oltrepassano. Pochi giorni fa, è stato abbattuto un aereo siriano mentre entrava nello spazio aereo israeliano nei pressi di Quneitra. «È stato solo un errore, l’esercito di Assad non farebbe mai un attacco così flagrante di proposito, andrebbe contro i suoi interessi» dice il professore di Islam e Medio Oriente dell’Università ebraica di Gerusalemme Moshe Maoz, uno dei massimi esperti di politica siriana in Israele. Gli avamposti israeliani e siriani sono a pochi chilometri di distanza gli uni dagli altri, così vicini che Randa Mdah, artista e attivista di Majdal Shams, la città più grande delle quattro rimaste ai siriani reduci dalla guerra del ‘67, non ha bisogno di nessun cannocchiale per vederne i dettagli da casa sua. Abita sul limitare di Majdal Shams, tra il monte Hermon e la grande vallata sottostante divisa in due dalla cortina di ferro. Inizialmente la valle era chiamata “Sorgente dei fichi”, ma durante la guerra gli alberi sono stati sostituiti dai morti e dagli evacuati, prendendo il nome di “Valle delle lacrime”. Di 130 mila abitanti, solo 22 mila sono rimasti. Tante famiglie, separate da un nuovo confine, hanno tentato per anni di mantenere la comunicazione con i loro cari e, prima dell’avvento di internet, gridavano da una parte BAZ RATNER / REUTERS / CONTRASTO TERRITORI Membri dell’Undof (Forza di disimpegno degli osservatori delle Nazioni Unite) alla guida di veicoli di trasporto truppe, nei territori occupati delle alture del Golan all’altra con megafono alla mano, rinominando di fatto la vallata “Collina delle grida”. La risoluzione 497 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha dichiarato nulla l’annessione del Golan da parte di Israele nel 1981 e ha chiesto il ritiro immediato delle truppe, ma per Israele sembra che questo ostacolo non esista. «Il Golan è stato annesso nel 1981 ed è parte integrante del territorio nazionale ripete il professor Maoz. Illuminante al proposito un famoso motto israeliano che dice sarcasticamente: «Sarà restituita prima Gerusalemme Est del Golan». Sul tetto di casa sua Randa ha creato una video installazione in cui una decina di cocci di specchio gira con il vento, mostrando la controversa situazione in cui vivono i siriani del Golan occupato, tra i cecchini siriani e quelli israeliani. «Attraverso gli specchi riesci a vedere entrambi gli avamposti contem- poraneamente. Questo per mostrare come sia Israele che il regime di Assad hanno palesato la stessa brutta faccia». «Molte persone sono state obbligate a fare un paragone tra la loro vita protetta sotto l’occupante israeliano e la vita dall’altra parte del confine» racconta il marito di Randa, Yasser Khanger, poeta e attivista politico. La guerra in Siria ha messo davanti agli occhi dei siriani del Golan occupato una realtà diversa: in tanti iniziano a chiedere la cittadinanza israeliana, non vedendo più speranze né da una parte né dall’altra. Come dice Randa, «è veramente facile prendere la cittadinanza, per poco non ti portano la carta d’identità a casa!». D’altra parte, Wael Tarabaih, co-fondatore del centro artistico di Majdal Shams, racconta che i quattro villaggi arabi rimasti nel Golan occupato (Majdal Shams, ‘Masada, Bqa’atha e ‘Ein Qinyeh) sabato 4 ottobre 2014 | pagina 99we hanno agito sempre in blocco: «Sin dal 1981 i capi del villaggio si erano riuniti e avevano proibito di prendere la cittadinanza israeliana». «Anche se prendiamo la cittadinanza» racconta Amer Ibrahim, studente di Scienze politiche all’Università di Tel Aviv, «saremo sempre considerati dei cittadini di serie B. È la base della struttura israeliana, una società estremamente frammentata e settaria». Il fatto che le pressioni siano opprimenti da tutti i lati rende questo momento il «peggiore per negoziare con Israele, perché nonostante tutto, sebbene non sia il loro fine, ci stanno proteggendo dalla guerra» spiega il dottor Taiser Mara’y, direttore dell’Ong Golan for Development. Ma anche se sempre più persone chiedono la cittadinanza, questo non cambia il fatto che il Golan sia un territorio occupato, ripete Taiser. E l’indipendenza non è facile da mantenere nemmeno a livello economico, soprattutto quando la forza occupante ha preso possesso sin dall’armistizio della gestione delle risorse naturali, violando così il diritto internazionale. L’acqua è la risorsa naturale più ambita, e contraddistingue la maggioranza delle politiche di occupazione israeliana. La distribuzione dell’oro blu è profondamente iniqua tra i siriani del Golan e le fattorie dei coloni israeliani. Le quote destinate ai siriani sono talmente basse che vengono sempre superate, con conseguenti tariffe stellari. Come contrattacco i siriani hanno costruito migliaia di bacini per la raccolta dell’acqua piovana, azione che è stata duramente combattuta sia dai coloni che dall’amministrazione israeliana con pesanti sanzioni. Eppure non sembra abbastanza. L’acqua del Golan soddisfa da sola il 33% del fabbisogno israeliano – secondo un rapporto pubblicato nel 2007 dalle Nazioni Unite – e la perdita di questo bacino sarebbe rovinosa per Israele. Lo scorso 24 luglio, quando l’attenzione mediatica e del Paese era rivolta alla guerra a Gaza, la Commissione petrolio del Ministero dell’Energia ha approvato i permessi per la Afek Oil & Gas di condurre esplorazioni in 17 nuovi siti in Golan. La compagnia è la filiale israeliana della Genie Energy Ltd (Gne) del New Jersey, tra i cui azionisti di spicco spuntano Rupert Murdoch, Dick Cheney e il banchiere americano Jacob Rotschild. Non è la prima volta che Israele tenta di estrarre petrolio dal Golan occupato: già dai primi anni ’90 il Ministero dell’Energia aveva approvato esplorazioni ed estrazioni condotte dalla statale Oil Israeli Company, ma il permesso era stato sospeso con i negoziati di pace tra Siria e Israele sotto il governo Rabin. Nel 1996 – governo Netanyahu – alcune MAPPE | 15 l LO STATUS QUO l 47 anni di pallottole e schermaglie diplomatiche n Il Golan occupa un’area di circa 1800 chilometri quadrati, prosieguo della catena montuosa dell’Antilibano. Parte del territorio siriano dal 1923, durante la guerra del 1967 viene occupato da Israele. Il 31 maggio 1974, l’armistizio della guerra dello Yom Kippur si risolve con un accordo che prevede il recupero da parte della Siria di un quarto del territorio. Nel 1981, le Nazioni Unite richiedono l’immediata restituzione dell’area a Damasco, a cui ancora oggi appartiene de iure. Ma dal 1981 viene integrata de facto nello Stato ebraico, con il nome di Distretto Settentrionale. Israele sostiene la sua posizione rifacendosi alla risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza Onu, che richiama a «confini sicuri e riconosciuti, liberi da minacce o atti di forza». Cambia poco anche la Conferenza di Madrid (1991) sotto l’egida statunitense. Per i primi cenni d’intesa bisogna aspettare il gover- Il villaggio siriano Jubata al-Khashab bombardato il 23 settembre 2014 no di Yitzhak Rabin: sotto l’influsso di Bush prima e di Clinton poi, il primo ministro si convince che sul «binario siriano» - utilizzato anche per fare pressioni su Arafat - «la profondità del ritiro» avrebbe riflettuto «la profondità della pace». D’altro canto, anche Hafez Assad sembra giungere a più miti consigli: dopo aver escluso qualsiasi accordo senza un’intesa fra israeliani e palestinesi, a metà degli anni ‘90 apre a una «pace definitiva con un ritiro definitivo». Formula che lascia intravedere la possibilità di includere la questione idrica e della normalizzazione delle relazioni economiche e diplomatiche con Israele come parte di una soluzione globale. Rabin fatica moltissi- JALAA MAREY / AFP / GETTY IMAGES «Ci sentiamo parte della Siria, ma dall’inizio della rivoluzione siamo divisi: a Majdal alcuni sostengono il regime di Assad, gli altri invece l’opposizione» voci avevano ricominciato a circolare sulla possibilità di procedere con le estrazioni, ma la Siria aveva pubblicamente denunciato le intenzioni israeliane. Netanyahu allora era corso ai ripari negando ogni possibilità di erogare nuovi permessi. La Commissione Petrolio, invece, tra febbraio e novembre 2013 ha rilanciato il processo con l’appalto a Gne per una superficie di 395 chilometri quadri a sud della colonia di Katzrin. Questo 28 settembre ha segnato la data ufficiale d’inizio delle esplorazioni. Secondo Yaron Ezrahi, teorico politico, le tempistiche parlano da sole: «Il governo siriano in questo momento non è in grado di far fronte al problema né di rispondere». «Si tratta di un’azione prettamente politica, il via libera alle esplorazioni è un tentativo israeliano di fortificare ulteriormente la sua presenza in Golan» dice in un’intervista rilasciata al Financial Times. Per Israele, in effetti, il controllo del Golan costituisce una necessità strategica imprescindibile, «è una semplice questione di analisi» spiega Ma’oz: le riserve d’acqua e la topografia del posto, ovvero le alture da cui controllare il confine e da cui prima i siriani sparavano ai kibbutzim. E non solo, «il Go- Riserva d’acqua presso le alture del Golan occupate da Israele lan è anche una questione psicologica», un’area cuscinetto che impedisce alla Siria di non oltrepassare il lago Tiberia, sbarrandole così il passo alla valle del Giordano. Dall’annessione del 1981, gli amministratori locali vengono nominati da Tel Aviv, e gli abitanti del Golan devono richiedere permessi speciali per ogni tipo di necessità, dall’acqua per i campi alla spartizione delle terre. Nella realtà dei fatti, però, l’organizzazione locale dei residenti avviene in maniera autonoma: nel solo capoluogo della regione, Majdal Shams, esistono almeno 17 cooperative per una redistribuzione collettiva dell’acqua. Gli abitanti, dal 1967 a oggi, hanno inoltre proceduto con una divisione informale dell’area, piantando meleti in quelle zone lasciate terra di nessuno da Israele, in modo da poterne reclamare in seguito il diritto. RONEN ZVULUN / REUTERS / CONTRASTO I legami politici con la Siria sono sempre stati molto forti. Il commercio stesso delle mele era in gran parte diretto verso Damasco e solo quest’anno è stato fermato dalla guerra, lasciando il mercato locale senza alcuno sbocco e impossibilitato a competere con le imprese dei coloni. Anche gli scambi universitari con Damasco – e fino agli anni ’90 anche con la San Pietroburgo sovietica – hanno protratto e cementificato la cultura siriana nel Golan, ma anche in questo caso sono stati interrotti a causa della guerra civile. Oggi, i golani sono completamente isolati, tagliati fuori dalla Siria così come da Israele. Da un mese e mezzo il tuonare delle bombe e le raffiche da entrambi i lati della Valle delle lacrime si fa sempre più intenso. Dal lato siriano l’Esercito libero, che per la presa di Quneitra sembra aver stretto un’alleanza mo per sostenere un vero ritiro - a cui si oppongono anche ampie frange del partito laburista - e viene ucciso poco prima della ripresa dei negoziati. L’Intifada e gli avvenimenti dell’11 settembre arrestano nuovamente il processo di pace. Nel 2003, Assad dichiara di voler riaprire i negoziati e nel 2008 fa altrettanto John Kerry, segretario di Stato americano. Ma con la rielezione di Netanyahu e la guerra in Siria, più che la via dei negoziati, Israele sceglie di fortificare le sue posizioni nel Golan occupato. Tanto che nel 2014 cominciano i lavori per nuove esplorazioni petrolifere, senza che Damasco abbia possibilità di replica. temporanea con Jabat al Nusra e altri gruppi salafiti e islamici, si è spostato verso nord e si scontra tutti i giorni con l’esercito di Assad nel triangolo di villaggi di Turnejeh, Jubata al Kashab e Ufaniya. «Non so chi si sia messo in testa che ci sia l’Isis a combattere qui alla frontiera» commenta Yasser Khanjar ridendo, «di Isis per ora non c’è neanche l’ombra da queste parti!». I combattimenti continuano ancora più a nord, nei campi del villaggio siriano di Hadar, a poco più di un chilometro in linea d’aria dalla casa di Yasser. Stando a fonti siriane due settimane fa una settantina di ribelli sarebbe stata sterminata, proprio ad Hadar, da milizie druse di pattuglia nel villaggio; Israele sarebbe coinvolto nell’imboscata e in molti sono convinti che se la situazione in Siria dovesse ulteriormente deteriorarsi, Israele potrebbe inglobare i territori drusi del Golan siriano. «Non è che ad Hadar siano tutti pro-regime, conosco persone che sostengono anche i ribelli» spiega Yasser mentre indica con la mano le case dall’altra parte della valle, «è fondamentale smettere di pensare per categorie religiose. Questo è un gioco prettamente politico!». Per la liberazione del Golan dall’occupazione israeliana non vuole il regime, né salafiti o jihadisti, ma l’Esercito libero siriano, perché crede che un Golan libero non sia possibile se prima non ci sarà una Siria libera. «Noi abitanti del Golan siamo un ramo della Siria, ma da quando la rivoluzione è iniziata anche questo ramo è diviso: qui a Majdal una parte sostiene il regime siriano di Assad, mentre l’altra – soprattutto giovani – sostiene la rivoluzione». Se da un lato Israele ha già di fatto il controllo amministrativo delle terre del Golan, dall’altra secondo Moshe Ma’oz la questione fondamentale resta chi politicamente la gestirà. E il controllo politico dipenderà da come si evolverà la situazione in Siria. «Come israeliani in realtà preferiremmo che Bashar al Assad restasse, meglio combattere un male conosciuto di uno ignoto» commenta. Israele intanto continua a fortificare la sua presenza sul territorio con le esplorazioni di petrolio, uno stretto controllo dell’acqua e con un piano di rilancio del turismo per far ripartire le industrie delle colonie. L’esercito pattuglia il confine giorno e notte, rispondendo ogni tanto ai colpi di mortaio che arrivano da oltreconfine, ma sembra darsi da fare anche al di là della frontiera. Come racconta Salman Fakher Al Deen dell’ Ong Marsad: «Alcuni residenti hanno detto di aver visto un gruppo di 10 persone entrare dalla parte siriana. Di solito sparano contro chiunque si avvicini, o se fanno entrare rifugiati – rarissimo – li detengono per ore. Queste persone invece sono arrivate, nessuno li ha controllati e subito si sono infilati in un furgoncino e sono andati via. Erano dei loro». Per gli abitanti di Majdal resta da capire se la terra che Israele vuole proteggere includa anche la totalità delle persone che la abitano e non solo i coloni. Come fa notare Randa, notevolmente preoccupata, «se la situazione peggiora, cosa ne faranno di noi?». pagina 99we | 16 | MAPPE sabato 4 ottobre 2014 una croce avvelena le elezioni di Bosnia RODOLFO TOÈ n SARAJEVO. Fino a quando una croce di circa dieci metri di altezza non è comparsa sulle colline sopra Sarajevo, in un mattino di metà settembre, si poteva affermare che la campagna elettorale bosniaca – giunta ormai alla settimana conclusiva – fosse trascorsa tranquillamente, senza i consueti attriti tra i rappresentanti dei suoi principali gruppi etnici (musulmano-bosgnacchi, serbi e croati) e senza che la memoria del recente conflitto giocasse un ruolo di primo piano nei comizi dei candidati. Il Paese, che questo 12 ottobre si avvia alle urne per la sesta volta dalla fine della guerra, vorrebbe aprire con il voto una stagione nuova: perché, per la prima volta, in Bosnia Erzegovina voterà la generazione nata dopo il conflitto, i diciottenni per i quali le granate e i cecchini sono esistiti solo nei racconti dei Manipolazioni | Si vota il 12 ottobre, dopo un anno in cui la politica si è mostrata inadeguata come non mai. La campagna procedeva senza scosse. Finché qualcuno non ha piantato quel simbolo sui colli di Sarajevo ka Srpska, una delle due entità che costituiscono il Paese – ha tentato di sfruttare l’impatto mediatico del referendum scozzese, per cercare una volta di più di lusingare i propri elettori con le promesse di una futura indipendenza. Ed è volato a Mosca, per farsi immortalare al fianco di Vladimir Putin. Specularmente Bakir Izetbegovic, candidato alla presidenza dell’Sda (partito storicamente bosgnacco e musulmano) si è recato in visita ad Ankara, per incontrare il presidente turco Recep Tayyp Erdogan. Ognuno cerca un padrino, un nume tutelare all’ombra del quale riacquistare credibilità. Si tratta comunque di una retorica a cui sempre meno persone sono disposte a credere. D’altra parte i politici di Bosnia Erzegovina, quando si tratta di parlare dei problemi reali del Paese (la corruzione, le difficoltà economiche), si trovano a disagio: la storia della campagna elettorale che si sta concludendo è quella di una classe politica che cerca, in realtà senza nemmeno troppa convinzione, di colmare la distanza con l’elettorato. Fino a qualche settimana fa, pareva una missione impossibile. In pochi sembravano disposti a prestare orecchio alle parole d’ordine dei vecchi partiti. Poi è comparsa quella La struttura è povera cosa: due tubi di ferro, eretti in gran silenzio da ignoti, durante la notte. Ma sorge su una postazione da cui i serbi bombardavano la capitale genitori o dei fratelli più grandi. E perché questo 2014 è stato un anno particolarmente traumatico. Probabilmente il più difficile, dal dopoguerra a oggi. In maggio, la Bosnia Erzegovina è stata colpita dalle alluvioni più gravi della propria storia, costate decine di vite umane e danni per qualcosa come il 10% del Pil. Una catastrofe che ha messo in luce le inefficienze della classe politica e dell’amministrazione: nelle aree colpite dalle inondazioni, il governo non ha fatto alcunché. Anche solo ottenere una conta ufficiale del numero delle vittime è stato impossibile. «Quattro mesi dopo le alluvioni, i politici di Bosnia ed Erzegovina non hanno seri piani, né idee per la ricostruzione», ha dichiarato recentemente David Barth, il direttore dell’agenzia Usaid in Bosnia. La distruzione causata dall’acqua e l’assenza di un qualsiasi tipo di risposta ha ulteriormente frustrato la cittadinanza, confermando una volta di più ai suoi occhi l’immagine di un’élite politica parassitaria. I bosniaci cominciano a capire che le divisioni basate sulla pulizia etnica degli anni ‘90 e sugli accordi di Dayton, che hanno de facto spartito le istituzioni tra le tre etnie costitutive, li stanno conducendo alla rovina. Lo scorso febbraio, migliaia di cittadini erano scesi in piazza, frustrati dalla pessima condizione economica (la disoccupazione viaggia su percentuali vicine al 40%, uno stipendio medio è di poco più di 400 euro) e da un ventennio di privatizzazioni criminali, spesso gestite dagli stessi partiti che hanno giocato la carta del nazionalismo per condurre i propri affari e spartirsi il Paese. Le manifestazioni erano sfociate nell’incendio di diversi palazzi governativi e nella creazione di assemblee popolari aperte a tutti, i plenum, con il compito di formulare delle rivendicazioni dirette ai politici, come l’abolizione dei loro privilegi economici e la revisione delle privatizzazioni. Il movimento però, per scelta, non ha voluto incarnarsi in un nuovo soggetto politico. E il partito tradizionalmente meno legato a logiche di appartenenza nazionale o etnica, la socialdemocrazia erede del partito comunista jugoslavo, ha dato pessima prova «I cittadini non sono così stupidi da non vedere che chi semina odio se ne va in giro su macchine blindate, ingrossando il conto in banca», scrive il quotidiano Oslobodjenje ANDREW TESTA / THE NEW YORK TIMES / CONTRASTO VECCHIE FERITE Dietro una moschea, un condominio di Sarajevo mostra le cicatrici del conflitto in cui la città bosniaca fu assediata dai serbi di sé durante questi quattro anni trascorsi al governo. L’idea di un’alternativa civica, che possa opporsi alla tradizionale divisione del paese in tre “etnie politiche”, non esiste, oppure è oggi ancora troppo debole. Il rischio è quindi che il bisogno di cambiamento venga frustrato per l’ennesima volta. Un mese fa, ancora più stancamente del solito, i cittadini si sono rassegnati all’inizio del predizborni cirkus, come lo chiamano qui: il circo pre-elettorale. La sfida, per i partiti, è prima di tutto riconquistare il proprio elettorato. Ma i manifesti propongono slogan ormai lisi e ai comizi i candidati, pur di fingere una parvenza di sostegno popolare, devono portare da sé il proprio pubblico, dando vita a parossistiche processioni di autobus o a pranzi gratuiti riservati soltanto a chi esibisce la tessera. Di circo elettorale, insomma, si è trattato per davvero, con una classe politica alla disperata ricerca di un nuovo puntello con cui ricavarsi nuova legittimazione. Così, Milorad Dodik – il leader dei serbi della Republi- croce, sulle colline dalle quali i Serbi bombardavano la capitale durante la guerra. È povera cosa: due tubi di ferro, eretti in gran silenzio da ignoti, durante la notte. Ma è ben visibile dalla città e tanto è bastato per suscitare le ire della cittadinanza. «Una croce di sfida», secondo il principale quotidiano, il sarajevese Dnevni Avaz, «che sparge sale sulle vecchie ferite». Improvvisamente sui giornali i discorsi sul rilancio dell’economia e sulla necessità di una riforma delle istituzioni hanno lasciato il posto ai vecchi fantasmi della guerra. Ritornano le associazioni delle vittime, parlano ex generali e veterani di guerra, riprende il consueto scambio di accuse su un passato che non è ancora stato metabolizzato. «Serbi, croati e bosgnacchi interpretano in modo differente gli anni della guerra», ha scritto un altro quotidiano storico di Sarajevo, Oslobodjenje, «ma i cittadini di Bosnia-Erzegovina non sono così stupidi da non accorgersi che gli stessi che oggi seminano odio se ne vanno in giro su macchine blindate, circondati da guardie del corpo, ingrossando il loro conto in banca». È un teatrino oramai consolidato. E del quale una classe politica a corto di argomenti sembra fin troppo felice di servirsi, pur di rimanere ancora una volta in sella. sabato 4 ottobre 2014 | pagina 99we MAPPE | 17 ALFREDO ESTRELLA / AFP / GETTYIMAGES Un membro del movimento #YoSoy132 protesta contro il risultato delle elezioni messicane del 2012 MARINA FORTI n CITTÀ DEL MESSICO. Immaginate che la posizione del vostro telefonino sia registrata di continuo, e così il vostro tablet o il computer: si chiama “geolocalizzazione”, in ogni momento è possibile sapere dove siete. E anche con chi parlate, quando, per quanto tempo, da dove, dov’è l'interlocutore. E con quali reti e siti web vi collegate. Non è una novità, ma ora immaginate che queste informazioni, raccolte dalla vostra compagnia telefonica, siano sempre a disposizione di una lunga lista di enti dello Stato, dai servizi di intelligence fino al fisco, che possono pretendere di sapere i fatti vostri: senza autorizzazione di un magistrato, e senza che voi sappiate di essere osservati. Beh, c’è poco da immaginare: è la legge sulle telecomunicazioni appena approvata in Messico, in vigore a tutti gli effetti da due mesi. «Negli Stati Uniti non sono riusciti a fare tanto», commenta Primavera Téllez Giron, giornalista e presidente dell’Associazione messicana per il diritto all’informazione (Amedi), una delle organizzazioni della società civile che si battono per una riforma democratica delle tlc in Messico. Ma attenzione, aggiunge: «La legge emanata nel nostro Paese prefigura ciò che potrebbe succedere nei vostri». Incontro Primavera Téllez nella capitale messicana, dove scopro che il controllo dei media e il diritto a comunicare sono al centro di un movimento politico il grande fratello messicano che domani verrà a trovarci Diritti | Libero accesso dello Stato ai dati di cellulari, tablet e pc, possibilità di sospendere i servizi e di bloccare i contenuti. La riforma delle tlc rischia di fare scuola tra i censori di tutto il mondo. Ma la società civile non si piega che da due anni mobilita studenti, organizzazioni popolari, avvocati, giornalisti. Marce di protesta, petizioni, propostedi leggediiniziativapopolare. Oblitz sui social media – ad esempio con il video Do you know what’s happening in Mexico?, «sapete cosa sta succedendo in Messico?»:in inglese«perchévogliamo farci sentire oltre i confini della lingua ispanica», dice Primavera. Riassume: nel 2013 il Parlamento NEL MIRINO n L’ultimo caso è di agosto, un giornalista ucciso davanti a casa sua nello stato di Oaxaca, nel sud del Messico. Il giorno prima sul quotidiano locale era uscito un pezzo sul capo della polizia, preso in flagrante ruberia. Non era firmato ma i suoi amici sono convinti che sia stata la sua condanna a morte: nella sua cittadina Octavio Rojas Hernandez era il solo corrispondente del quotidiano El buen tono. Il caso precedente è del 30 luglio, a Zacatecas, nel nord. E prima ancora in febbraio a Veracruz. Tutti giornalisti che scrivono di cartelli criminali, notabili coinvolti in affari poco puliti o conflitti sociali. L’associazione Article19, che si dedica al monitoraggio della libertà di stampa nel mondo, in Messico conta 79 giornalisti uccisi tra il 2000 e il 2014, e cen- tinaia di casi di attacco fisico o minacce (www.articulo19.org). Già due anni fa il Relatore speciale dell’Onu per il diritto alla libertà di opinione e di espressione, Frank La Rue, aveva definito il Messico il Paese più pericoloso delle Americhe per i comunicatori. Le cose non sono migliorate da allora. Al contrario. Article19 ha documentato nell’anno scorso un totale di 330 aggressioni contro giornalisti, fotoreporter e lavoratori dell’informazione, e già 201 casi fino a tutto agosto di quest’anno. Quando i responsabili di tali aggressioni sono identificati, risulta che in sei casi su dieci m si tratta di funzionari pubblici, e solo il 13 per cento dei casi è attribuibile al crimine organizzato. Nel 90 per cento dei casi, i responsabili dell’aggressione restano impuniti. messicano ha approvato una riforma costituzionale su media e telecomunicazioni, dopo trent’anni di vuoto legislativo. Appena un anno prima, maggio 2012, era esploso un movimento giovanile contro quella che chiamano «imposizione mediatica»: il Messico era in piena campagna presidenziale e i giovani accusavano i gruppi televisivi dominanti di manipolare l’informazione a favore dell’allora candidato (oggi presidente) Enrique Peña Nieto. Il movimento si è dato nome #Yosoy132, da un episodio di contestazione di studenti contro la visita del candidato Peña Nietonella lorouniversità. Ilrettore liaveva chiamati 131 “teppisti”; sulla rete è imperversato allora un hashtag, «io sono il 132esimo». Per mesi il movimento ha travolto le università e le piazze, trascinando professori, intellettuali e attivisti sociali in azioni mediatiche e in grandi dimostrazioni davanti al grattacielo di Televisa, primo gruppo tv del Paese. Per quanto contestata, l’elezione di Peña Nieto ha chiuso quel capitolo. Ma il movimento #Yosoy132 aveva ormai acceso il dibattito pubblico su un dato incontestabile: la concentrazione dei media in Messico fa impressione. Due gruppi televisivi, Televisa e TvAzteca, possiedono il 96% delle tv commerciali, detengono il 94% delle frequenze e fanno circa il 92% dell’audience nazionale. Si spartiscono anche il 99% della pubblicità televisiva. Televisa è stata l’unica tv nazionale fino alla liberalizzazione degli anni ’90, quando è nato il network Tv Azteca (emanazione del Gruppo Salinas). Televisa controlla anche il 70% della tv via satellite e il 56% di quella via cavo, e afferma di essere prima per produzione di contenuti in lingua ispanica nelle Americhe (dati raccolti da Amedi da fonti ufficiali). «Un potere schiacciante, che passa perfino sopra alle istituzioni dello Stato», afferma Primavera Téllez. Anche Televisa e TvAzteca hanno il 96% delle tv commerciali, il 94% delle frequenze, con un audience del 92 per cento perché «l’opinione pubblica si forma sulla tv», osserva Mireille Campos Arzeta, studentessa di dottorato che incontro all’università statale di Città del Messico,laUnam: èunadei#Yosoy132, con due compagne ha appena presentato alla stampa una dettagliata analisi dei media messicani. «L’imposizione mediatica passa non solo attraverso i sevizi giornalistici, né solo in ciò che viene censurato, ma in ciò che propongono come intrattenimento - telenovelas, pubblicità, commenti subdolidallo studio», dice la giovane donna. In quel clima di critica pubblica il Parlamento ha dunque approvato una riforma costituzionale sui media. «Non era male», spiega Augustin Ramirez, anche lui dirigente dell’Associazione per il diritto all’informazione: definisce le telecom come un servizio pubblico, parladidiritti degliutenti.Soprattutto, stabilisce un tetto alla concentrazione dei media e istituisce un ente di vigilanza indipendente. Il fatto è che alcuni mesi dopo il governo ha presentato la legge attuativa di quella riforma: «Ed è stato chiaro che i vecchi monopoli avevano ripreso il sopravvento», spiega Ramirez. Dunque oggi in Messico il governo può creare “zone di silenzio”, cioè sospendere la copertura di telefonini e internet permotivi disicurezzae ordinepubblico, e i concessionari dovranno bloccare i contenuti a richiesta del governo. Potranno anche offrire internet a diverse velocità secondo i segmenti di mercato: la net neutrality è a rischio. Così pure il diritto alla privacy, vista la mole di metadati ormai a disposizione delle agenzie dello Stato. Inoltre il duopolio televisivo non è scalfito, e l’ente di vigilanza Ifetel svuotato di poteri (tra cui quello di concedere le frequenze). Tutte le proteste sono risultate vane: «Il Parlamento ha approvato la legge in seduta straordinaria, in luglio, durante i mondiali dicalcio». Per questo, conclude Mireille Campos, il #Yosoy132 continua: perché «il nostro obiettivo di democratizzare la comunicazione è ancora lontano». pagina 99we | 18 | MAPPE sabato 4 ottobre 2014 l’anomala via cinese allo Stato di diritto Contraddizioni | Appena designato presidente Xi Jinping aveva detto di voler governare in base alla Costituzione. A un anno di distanza in Cina i giudici sono più che mai soggetti all’arbitrio del potere. E la rule of law resta un miraggio CECILIA ATTANASIO GHEZZI n PECHINO. Quello dei giudici non è un mestiere facile, in nessun paese. Figuriamoci in Cina, dove la loro carriera è legata a doppio filo ai segretari di Partito e, di conseguenza, ai loro interessi locali. Nella maggior parte dei casi, infatti, crescono all’interno di un’unica corte di giustizia e, sicuramente, hanno meno potere non solo della polizia ma anche degli imprenditori. Troppo spesso questi ultimi possono vantare appoggi politici di così alto livello da far passare a qualunque giudice la fantasia di indagarli. «Le corti non sono indipendenti. Di conseguenza i giudici non sono credibili e la gente non crede nella legge». È questa la semplificazione che restituisce all’Economist un’ex giudice di Shanghai. Dopo otto anni in cui non le era stato concesso nessun avanzamento di carriera, ha lasciato il suo misero salario da 14 mila euro l’anno per un affermato studio legale privato. Oggi guadagna cifre nemmeno comparabili a quelle offerte dallo Stato ed è paradossalmente più libera di svolgere il proprio lavoro. La sua impressione è che molti dei giudici più giovani stiano facendo la sua stessa scelta. E il Partito, che da quando Xi Jinping è presidente è tutto concentrato nella lotta alla corruzione e nell’affermare che nessuno (soprattutto i nemici politici del Presidente) può dirsi al di sopra delle leggi, non ci fa certo una gran bella figura. E infatti la quarta assemblea plenaria del Comitato Centrale in calendario per il prossimo ottobre (uno dei rari appuntamenti che riunisce gli oltre 300 uomini preposti alla guida del Paese) si concentrerà proprio sulla rule of law, ovvero sul sistema di regole che disciplinano l’esercizio del potere pubblico. Il sistema legale, sono d’accordo anche i più alti vertici, ha bisogno di essere riformato. L’obiettivo dovrebbe essere quello di arrivare al punto in cui «i giudici possano decidere essi stessi i casi da esaminare e possano esaminare i casi che essi stessi decidono». Ma allo stesso tempo Xi Jinping vuole essere sicuro che la parola finale spetti al Partito. Così i giudici, la cui stragrande maggioranza è iscritta al Partito, vengono obbligati a partecipare a “sessioni di studio” dove si rinfresca l’ideologia socialista. Il presidente nei suoi discorsi chiede alle corti di giustizia di aiutarlo a «costringere il potere in una gabbia». Ma nella Repubblica popolare neanche le parole del presidente sono definitive. Mentre i discorsi trasferiti su carta salgono e scendono i piani del Dipartimento di propaganda e degli uffici preposti, si riempiono di correzioni, aggiunte e cancellature. E sulla riforma della giustizia e l’importanza della rule of law sotto Xi Jinping ancora non è chiaro quale sia la versione da consegnare alla Storia. Quest’estate l’ufficialissimo Dipartimento centrale di propaganda ha pubblicato Il manuale introduttivo dei discorsi del segretario generale Xi Jinping. Come si legge nell’introduzione, si tratta della «bussola scientifica sulle idee unificanti e sull’avanzamento dei lavori [del Pcc] nella nuova era». Un’opera destinata a essere la base delle scelte dei funzio- REUTERS / CONTRASTO CERIMONIA Alcuni giudici cinesi partecipano all’inaugurazione dell’anno giudiziario a Hong Kong nari del Paese più popoloso del mondo e quindi a indirizzare il suo enorme Partito (oltre 80 milioni di iscritti) nella direzione scelta dalla leadership. Per farsi un’idea si calcola che solo nella seconda metà di agosto ne siano circolate più di dieci milioni di copie. Ecco, da questa summa governativa dell’era Xi Jinping, è scomparso un discorso stra-citato dai media occidentali e non. Si tratta di uno dei primi discorsi. Xi Jinping era stato appena designato presidente e - in occasione del trentesimo anniversario delle modifiche alla Costituzione di Deng Xiaoping (4 dicembre 1982) - aveva affermato di voler «governare la nazione sulla base della Costituzione». Un passaggio scomparso dalla summa ufficiale, ripreso in un recente discorso del presidente (5 settembre) senza però che i media locali lo riprendessero. A un lettore occidentale, queste precisazioni sembreranno quantomeno didascaliche. Non a chi si occupa di studiare le volontà politiche di quella che si appresta a divenire la prima economia mondiale. I processi decisionali della Repubblica popolare, infatti, rimangono tra i meno trasparenti del mondo. Al punto che gli osservatori cinesi e internazionali scherzano sul fatto che si trovano costretti a leggere e interpretare le foglie di tè. Il punto qui da sottolineare è che per «i principi base della Costituzione» spesso governo e opinione pubblica non intendono le stesse cose. Per il governo il principio base è quello del preambolo del 2004 che di fatto assume che la leadership del Partito comunista è il cuore del progetto del socialismo con caratteristiche cinesi. L’opinione pubblica invece si riferisce ai principi fondamentali dei diritti e doveri dei cittadini e, in particolar modo, «alla libertà di parola, di stampa, di assemblea, di corteo e manifestazione», «al rispetto e la salvaguardia dei diritti umani» e «alla protezione dei diritti di proprietà». Infatti, sebbene la Costituzione li garantisca, troppo spesso si verificano situazioni in cui questi diritti vengono negati con il tacito assenso delle istituzioni. Specie se la negazione di questi diritti è il risultato di una politica governativa. La testimonianza evidente sono tutti quegli avvocati che, per denunciare gli abusi subiti dai loro assistiti, rischiano di diventare essi stessi vittime del sistema. O più semplicemente l’aumento esponenziale delle restrizioni su internet e del numero di intellettuali messi a tacere con accuse quanto mai sabato 4 ottobre 2014 | pagina 99we vaghe come «disturbo dell’ordine pubblico» o «tentativo di sovvertire l'ordine dello Stato». Il vero problema della Cina oggi, non sono le leggi, ma la loro applicazione. Susan Finder è un ricercatore che ha studiato la Suprema corte del popolo per oltre vent’anni e ha recentemente messo in luce come questa stia lentamente assorbendo alcuni concetti legali occidentali come la pubblicazione di “casi studio” che dovrebbero far da guida alle corti di livello inferiore. Tra questi, un regolamento del 2007 che prevede che i cittadini cinesi possano richiedere ai governi informazioni in merito a specifiche questioni. Ovviamente in questi anni diversi cittadini se ne sono serviti. Chi ha richiesto l’impatto ecologico di determinati progetti, chi contratti di proprietà di terreni che venivano espropriati forzatamente. Ma, nell’opinione stessa della Corte suprema, in ognuno di questi casi specifici i governi locali hanno alzato un muro di gomma senza specificare le basi legali su cui poggiavano il rifiuto. È una situazione che suggerisce il fatto che la principale autorità giudiziaria sta cercando di far pressioni affinché le leggi vengano applicate e che i percorsi legali siano più trasparenti. Ma allo stesso tempo evidenzia come più che della mancanza di leggi specifiche, la Cina soffre la non applicazione di quelle già esistenti. Si veda il caso più eclatante, quello dei vertici politici della nazione. Il presidente Xi Jinping ha annunciato di voler fare pulizia sin dal suo insediamento. Per i funzionari di partito non sono più tollerati stili di vita eccentrici e, soprattutto, la corruzione. Ma come agisce sui funzionari corrotti? Attraverso l’applicazione della rule of law? Neanche per idea. Non è la magistratura a indagarli ma la Commissione centrale per le ispezioni disciplinari guidata da Wang Qishan, sodale del presidente fin dalla gioventù. E, poiché è uno strumento interno al Partito, la sua attività è avvolta da totale segretezza. Agisce sui suoi membri attraverso lo shuanggui ovvero una sorta di misura di detenzione extralegale senza limiti temporali né procedura stabilita. I funzionari che MAPPE | 19 trattamento che sarebbe giusto riservare anche ai loro competitor cinesi. Ma il messaggio evidentemente è rivolto ai cittadini: non pensate che i marchi stranieri siano migliori dei nostri. Il vero problema, ci spiegava l’ex direttore della Camera di commercio europea Davide Cucino, è che in Cina «è come se l’arbitro e i giocatori giocassero nella stessa squadra». Una situazione che manderebbe ai matti qualsiasi concorrente. Ad agosto la Camera di commercio europea ha accusato l’Antitrust cinese di abusare del suo potere con tattiche intimidatorie e non permettendo ai loro rappresentanti legali di partecipare alle audizioni. Jörg Wuttke, l’at- tuale presidente, ha recentemente espresso «l’assoluta necessità di una maggiore aderenza alla rule of law». Ma Emanuela Verrecchia, avvocato presso Rouse, uno dei più importanti studi internazionali che si occupano di proprietà intellettuale, ci tiene a specificare che su queste questioni c’è anche un grande pregiudizio da parte delle aziende straniere «che non investono nella prevenzione prima di entrare nel mercato cinese. Spesso non brevettano nemmeno i prodotti e quando si rivolgono a noi perché sono stati copiati, le loro richieste non sono neanche impugnabili». Anche secondo l’avvocato, le leggi in Cina ci sono e hanno fatto passi da gigante. «Ma co- me spesso accade», ci spiega, «le difficoltà sono nell’enforcement, nell’applicazione dei diritti». È sempre la costituzione che recita che la Repubblica popolare è governata secondo la legge ed è un Paese socialista soggetto alla rule of law. Ma a chi vive e lavora nella realtà cinese da anni pare evidente che la piega che la Cina di Xi Jinping sta prendendo è molto più autoritaria e reazionaria di quanto annunciato appena un paio di anni fa, quando il nuovo presidente appariva il riformatore che avrebbe ripristinato la rule of law risolvendo finalmente le contraddizioni tra la natura socialista del regime e la strada capitalistica imboccata negli ultimi 30 anni. per attrarre capitali Pechino studia i codici latini Importazioni | Il mercato richiede l’adozione di un corpus solido per garantire gli investitori stranieri. L’eredità degli antichi romani si presta perfettamente Sono sempre più numerosi gli studenti asiatici che si stanno specializzando nelle nostre università I magistrati hanno meno potere della polizia e degli imprenditori. Le corti non sono indipendenti e i cittadini non credono nella legge e nella tutela dei diritti vi incappano in teoria devono semplicemente mettersi a disposizione dell’indagine interna. Ma in pratica vengono costretti a confessare qualunque crimine, con conseguente espulsione dal Partito e consegna al pubblico ministero. E, senza dubbio, corruzione e abuso di potere sono le accuse più semplici da denunciare per evitare che l’opinione pubblica venga a conoscenza di “sordidi dettagli”, ovvero intrighi e giochi di potere che “macchierebbero” in maniera indelebile l’immagine del Partito. Così hanno arrestato Bo Xilai, l’ex principino rosso che sembrava destinato a diventare il novello Mao. E, più recentemente, il generale in pensione Xu Caihou, già membro del Politburo, vice presidente della Commissione militare centrale e incaricato di supervisionare le nomine all’interno dell’Esercito popolare di liberazione. Così hanno incastrato la “tigre” Zhou Yongkang. L’ex zar dei servizi di sicurezza cinesi, il potentissimo numero 9 che nella scorsa nomenklatura era a capo della Commissione militare verosimilmente sarà espulso dal Partito durante il prossimo plenum. Solo allora il suo caso passerà nelle mani della magistratura. E pare che sia sotto shuanggui da oltre un anno. Certo erano pezzi grossi e erano corrotti. Ma siamo sicuri che i cittadini cinesi non avrebbero più fiducia nella legge se i loro processi avvenissero alla luce del sole senza il sospetto che siano guidati principalmente da desideri personali di vendetta o da giochi di potere? Anche la recente campagna contro le multinazionali straniere sembra guidata dal un’istanza di protezionismo piuttosto che da una vera e propria compagna legale. Sono accusate da media e governo di non prestare attenzione alla sicurezza alimentare, di concorrenza sleale e di altre pratiche poco nobili. Un settori. Per esempio la necessaria spinta verso la protezione della proprietà intellettuale, o la riforma antitrust». Secondo Bellotto - che si è laureato in diritto a Modena, è solicitor nel Regno Unito e da più di sette anni lavora in Asia -, «resta un obiettivo ambizioso portare a termine con successo quell’esercizio di codificazione organica che tipicamente è necessario per creare un codice civile». Però è innegabile che la Rpc si stia “giuridicizzando”. Non a caso l’articolo 5 della Costituzione recita: «La Rpc governa il Paese secondo la legge, e ne fa una nazione socialista retta dal diritto (rule of law)». Certo, tra i proclami costituzionali e la realtà c’è un divario non indifferente. Ma sono lontani gli anni bui della Rivoluzione culturale, quando imperava il nichilismo giuridico. Oggi la Rpc, pur non essendo uno Stato di diritto come il vicino Giappone, riconosce il ruolo cruciale della legge. E lo stesso presidente cinese Xi Jinping è, in parte, un giurista: oltre agli studi giovanili in ingegneria (un Guardie di sicurezza all’ingresso del congresso del partito comunista, Pechino GABRIELE CATANIA n Per i corridoi dell’università La Sapienza di Roma ci si può imbattere in dottorandi cinesi che conoscono il latino, parlano l’italiano e studiano il diritto romano. Scene del genere non sono insolite neanche all’ateneo di Bologna. Il motivo dell’interesse cinese verso il Digesto o le glosse di Accursio non nasce certo da un’improvvisa passione asiatica per le antichità romane o per la Scuola dei glossatori. Il fatto è che Pechino si sta (lentamente) dotando di un codice civile, e per scriverlo guarda al diritto più venerando e autorevole del mondo: quello romano, appunto. Tutto inizia nel 1978, quando il leader cinese Deng Xiaoping vara le prime, importanti riforme economiche. Che in poco più di 30 anni trasformano il più grande Paese comunista del mondo in un’«economia socialista di mercato», come proclama la Costituzione cinese, emendata nel 2004. Ma perché il capitalismo funzioni, serve un quadro giuridico adeguato, e i cinesi lo sanno. Non si attirano i tanto agognati investimenti stranieri diretti se non si può offrire un minimo di garanzie giuridiche. Pacta sunt ser- vanda, recita un brocardo romano: i patti vanno rispettati. Ecco dunque la necessità di trasformare in modo radicale il sistema giuridico cinese. Che a livello civile è di matrice romanistica, non troppo diversamente dalla Germania o dall’Italia (di ispirazione germanica, peraltro, era già il primo codice civile cinese, elaborato agli sgoccioli dell’età imperiale). «I cinesi si sono posti il problema di una codificazione civile quando si sono avviati lungo la strada delle quattro modernizzazioni di Deng Xiaoping, e si sono dovuti dare delle regole». A dirlo a pagina99 è Oliviero Diliberto. L’ex ministro della Giustizia (ed ex segretario dei Comunisti italiani) insegna diritto romano alla Sapienza, ed è uno dei grandi promotori di questo insolito asse (a livello giuridico) tra Roma e Pechino. «I cinesi hanno puntato sul diritto romano perché è straordinariamente duttile, e applicabile in qualunque sistema politico. Il diritto romano è una grande griglia, dove si può inserire qualsiasi tipo di istituto giuridico». In altre parole, si tratta di un grande ordine che il legislatore di ogni colore può riempire dei contenuti legali che preferisce. Ecco perché piace tanto alla nomenclatura cinese. E d’altra ED JONES / AFP / GETTY IMAGES parte c’è una sola vera alternativa al modello europeo basato sul diritto romano: «Il modello angloamericano di common law. E non credo che avessero voglia di adottare il modello di impronta anglosassone», osserva Diliberto. Sia chiaro: non esiste ancora un codice civile completo. «Stanno promulgando pezzi di codice. Hanno cominciato con i diritti reali e le obbligazioni, e non è difficile capire perché: si tratta della proprietà e dei contratti, le basi di qualunque economia di mercato». Finora l’esperimento ha dato i suoi frutti, tanto è vero che sempre più giuristi cinesi si recano in Italia per approfondire il tema. «Sono studenti eccezionali, vere macchine da guerra», racconta l’ex ministro, «qui alla Sapienza abbiamo 25 dottorandi, un bel numero». Quanto detto da Diliberto è confermato dall’avvocato Nicolò Bellotto, dello studio Chiomenti, che vanta sedi a Pechino, Shanghai e Hong Kong. «La Rpc ha iniziato a modernizzare il proprio sistema giuridico negli ultimi decenni di forte sviluppo, spesso spinta dalla necessità di attrarre investimenti stranieri. Per fare ciò, sta adottando norme che, di volta in volta, tentano di sopperire a esigenze precipue che sopraggiungono in diversi must, tra i leader cinesi) e in marxismo, vanta un dottorato in diritto conseguito nel 2002 alla prestigiosa università Qinghua, dove tra l’altro ha avuto modo di familiarizzare con il miglior pensiero riformista cinese. Così come un numero crescente di imprenditori italiani guarda alla Cina come mercato di sbocco per i suoi prodotti, molti studi legali occidentali aprono filiali a Pechino, Hong Kong o Shanghai. Non a caso negli ultimi anni si sono verificate mega-fusioni tra studi cinesi ed europei che hanno portato alla nascita di colossi legali da 3.000 avvocati. Naturalmente lo sviluppo tumultuoso del diritto cinese rappresenta una grande occasione professionale per i giuristi italiani, che hanno alcuni vantaggi competitivi rispetto ai colleghi tedeschi o francesi: la conoscenza del latino (spesso grazie agli studi al liceo classico), e una buona padronanza del diritto romano, che nelle facoltà di giurisprudenza italiane è materia obbligatoria. Ancora, varie facoltà offrono corsi complementari di diritto asiatico o cinese, ad esempio quelle di Bologna e Trento. Bellotto dà ai giuristi in erba questo consiglio: «Trovo sia di fondamentale importanza che un giovane laureato italiano vada all’estero a studiare, a imparare una lingua e a specializzarsi. Ci sono svariati corsi universitari, sia a Hong Kong che nella Rpc, che possono servire allo scopo. Resta però cruciale crescere prima in Italia per poi, un giorno, tornare in Asia e mettere la propria professionalità al servizio delle società asiatiche che investono nel nostro Paese». pagina 99we | 20 | INNOVAZIONI sabato 4 ottobre 2014 l’arrocco di Murdoch con i barbari alle porte Televisione | Se i produttori venderanno i serial direttamente al pubblico, per i network saranno guai. E il magnate rinsalda l’Impero per resistere DANIELE DOGLIO n L’annuncio della possibile fusione delle Sky d’Europa era sembrato l’evento mediatico dell’estate. Poi, come talvolta accade nel caso di annunci che fanno clamore, è successo davvero e invece non se ne è parlato più. Forse perché nel settore è esploso il samba brasiliano Telecom-Telefonica-Vivendi, con appendici Mediaset (Premium) e così l’attenzione dei media è stata attirata da altro. Un evento che sembra configurare una linea di resistenza mediterranea sul nostro mercato. Ma ciò che sta accadendo alle Sky e in genere al settore delle pay tv in giro per il mondo, è da osservare con estremo interesse. Perché sembra configurare un importante cambiamento strutturale dell’intero sistema televisivo. Vediamo di mettere insieme tutti gli elementi che ci permettono di cogliere appieno la portata della novità. Adesso che Netflix ha aperto bottega in Francia e a breve in Germania, Austria, Svizzera (forse addirittura in Italia) e che anche Home Box Office comincia a muoversi in Europa (è la veterana delle pay-tv americane, nata nel 1970, Hbo per gli amici), si capisce meglio il senso della decisione di Murdoch. Partiamo da Netflix, che ha inventato un nuovo modo di distribuire televisione, streaming sulla rete internet a larga banda, ma anche un nuovo modo di consumarla: a piacere e senza vincoli di orario e di piattaforma. Si tratta in definitiva di un modello pay a basso costo che sembra vincente. Hbo invece è uno dei grandi serbatoi di televisivi di qualità a cui attingono a piene mani tv tradizionali e a pagamento. La rete statunitense potrebbe prima o poi decidere di commercializzare in proprio i suoi gioielli senza passare per le reti-cavo a pagamento che attualmente la distribuiscono. A seguire altri operatori Over the Top (così il mondo del business definisce i servizi di televisione via web), come Hulu, Amazon Prime e i soliti Apple e Google, stanno flettendo i muscoli. In un certo senso l’attesa è finita, lo sgretolamento del sistema televisivo tradizionale inizia davvero. Anche in Europa comincia la fase della post televisione, quella dell’ormai stucchevole ritornello sui palinsesti personalizzati ad accesso libero multipiattaforma. Dall’alto dei suoi incomparabili ricavi medi per utente (otto volte quelli di Netflix e Hbo), Sky avrebbe poco da preoccuparsi, ma basta guardare di cosa è fatto un canale come Sky Atlantic per capire quanto pesano come produttori Netflix (House of cards, Orange is the New Black) e Hbo (True Detective, Boardwalk Empire, Sopranos, Sex & the City, i prodotti più conosciuti) anche per un colosso come Sky. Rupert Murdoch deve aver pensato che era arrivato il momento di muoversi. Il 25 luglio scorso le agenzie annunciano che la sua controllata 21stCenturyFox venderà al britannico BSkyB il 100% di Sky Italia e il 57% di Sky Deutschland per una somma di circa 8 miliardi di dollari di cui 7,5 in contanti e il resto trasferendogli il 21% del National Geographic Channel International in suo possesso. Così nasce Sky Europe. Il meno probabile degli entusiasti scommette sull’Europa in tempi di euroscetticismo galoppante. Il magnate australiano, risorto dalle ceneri dello scandalo News of the World e dai giudizi sferzanti del giudice Levinson («Mr.Murdoch is unfit to run a media company»), sarà anche inadatto, ma a 84 anni suonati ha fatto la sua mossa. Nasce dunque un colosso mondiale della Pay Tv, con 20 milioni di abbonati e 12 mi- Netflix ha aperto bottega in Francia e a breve in Germania, in Austria e in Svizzera. Non ci vorrà molto che sbarchi anche altrove. Forse addirittura in Italia liardi di ricavi in essere, controllato al 100% da BSkyB, cioè al 39,17% dalla stessa 21stCenturyFox. L’Anti-Trust dell’Unione europea ha già dato il suo benestare perché il nuovo soggetto non altera le condizioni di concorrenza sul mercato continentale. Difficile quindi che si mettano di traverso le autorità di controllo nazionali. Piuttosto avrebbero da ridire gli azionisti di minoranza, che sono il 61% in BSkyB e il 43% in Sky Deutschland. Vale la pena soffermarsi solo un momento sulla composizione degli azionisti di Sky Deutschland. La struttura azionaria di Sky Deutschland Twenty-First Century Fox (già News Corporation) controlla il 54,8% del capitale azionario. Il restante 45,2% è il flottante di cui fanno parte le quote attribuite al Ceo Brian Sullivan (30 mila azioni) e a due membri del Supervisory Board, Stefan Jentzsch (120 mila azioni) e Harald Rösch (circa 30 mila azioni). Altri investitori istituzionali con quote rilevanti e relativi diritti di voto sono Odey Asset Management LLP (8,94%) e T.Rowe Price Group (3,01%). In effetti il Consiglio di Amministrazione della compagnia tedesca non è soddisfatto della valutazione e ha invitato la minoranza a opporsi. Ma è certo che la minoranza non cederà le proprie quote, ma non si vede come possa impedire al socio di maggioranza di vendere le sue. Per quale motivo Rupert il Rosso (così era soprannominato a Oxford quando da studente teneva un busto di Lenin sul comodino) cede il controllo assoluto in due paesi, per uno di maggioranza relativa? Intanto perché con quella stessa quota (39%) controlla da sempre sia la pay tv satellitare inglese che la corazzata multinazionale NewsCorp (e da un anno anche la 21stCenturyFox nata per gemmazione, con in pancia le attività cine-televisive e i nuovi media). Miracoli della finanza. D’altra parte le centinaia di migliaia di azionisti dei cinque gruppi hanno pochi titoli e sono interessati agli utili e ai dividendi, non al potere aziendale. Così come i soci istituzionali (banche d’affari e fondi pensione) che hanno quote importanti, ma sono sempre sotto il 20%. La somma dei tre operatori na- ELENA DORFMAN / REDUX / CONTRASTO ANTAGONISTI Sopra Reed Hastings, fondatore e CEO di Netflix, nella sede dell’azienda a Los Gatos, California. A destra il magnate dell’editoria Rupert Murdoch, proprietario di 21st Century Fox, News Corp e BskyB zionali ha un mercato potenziale di quasi 100 milioni di utenti, e applicando agli altri due i parametri storici di BSkyB c’è spazio per crescere ancora del 20% arrivando a 40 milioni di abbonati in pochi anni. Con un ricavo medio annuo di oltre 700 euro per utente (che è quanto incassa BSkyB), farebbero la bella cifra di 28 miliardi. BSkyB può effettuare un acquisto così impegnativo perché viene da tre anni di crescita in tutti i segmenti da cui hanno origine i suoi ricavi, che non sono solo televisivi. L’ultimo bilancio chiuso a giugno presenta entrate per 7,6 miliardi di sterline (9,1 miliardi di euro) in crescita del 7% sull’anno precedente, anche se entrambi i margini operativi sono in calo, quello lordo dell’1,6% a 1,66 miliardi, quello netto del 5,3% a 1,26 miliardi. La crescita dei ricavi è il risultato di un aumento degli abbonati BSkyb (+ 342 mila il numero più alto degli ultimi tre anni), di cui 246 mila ai servizi di televisione, che dopo un periodo di calma piatta hanno ricominciato a crescere raggiungendo quota 10,7 milioni. Ma soprattutto di una maggior spesa per i servizi di connessione digitale offerti dal gruppo, dato che più della metà degli abbonati è ormai connessa in rete attraverso la telefonia Sky. Così sono aumentate di tre volte le richieste per i servizi on demand e del 19% quelle per la Tv in mobilità di Sky Go. Anche la raccolta pubblicitaria (che pesa meno del 9% sul totale ricavi) è cresciuta grazie all’adozione di una tecnologia che raggiunge in modo più preciso i target di pubblico. Va bene anche NowTv, il nuovo servizio Ott (cioè over-the-top) lanciato da poco, mentre le scommesse online di Sky Bet continuano a crescere. Dunque le risorse ci sono, ma perché tanta fretta ? Naturalmente si possono ipotizzare risparmi sui costi e sinergie sul piano produttivo, soprattutto nel campo dei sempre più costosi diritti sportivi, cinematografici e della fiction. Ma fintanto che l’Europa è somma di paesi e non un unico territorio, questo tipo di diritti si declina per mercati e canali nazionali e viene negoziato territorio per territorio. Così Sky compete con i vari Bt Vision, Mediaset e Deutsche Telekom. Tuttavia presentandosi con un profilo multinazionale in grado di acquisire i diritti per tre paesi e mercati diversi il suo potere negoziale sarebbe molto forte. Soprattutto nel campo di sport meno popolari del calcio (come il rugby, l’hockey su ghiaccio, il basket) dove le leghe potrebbero sabato 4 ottobre 2014 | pagina 99we INNOVAZIONI | 21 l SPETTATORI cara amica Hbo ti scrivo, perché non vuoi i miei soldi? TakeMyMoney Home box office, è un movimento d’opinione formato da alcuni milioni di utenti che vorrebbero poter acquistare direttamente il pacchetto Hbo (sette canali) senza essere costretti a pagare fino a 100 dollari al mese per abbonarsi ai servizi via cavo fatti di centinaia di canali che a loro non interessano. Il target-price proposto è $15 per abbonato, la stessa cifra che Hbo incassa al lordo dalle cable-companies, ma che in questo caso sarebbe praticamente netta. Per ora Hbo nicchia, ma è probabile che ci stia pensando perché il numero degli l abbonati americani non riesce a andare oltre i 30 milioni, e il cordcutting sta diventando l’incubo di quella industria del cavo che dopo aver raggiunto il 90% delle case statunitensi vede da anni calare il numero degli abbonati che si spostano su internet. Hbo go è la tv ovunque del canale controllato dal gruppo Time Warner. È già attiva negli Stati Uniti e adesso anche in 14 paesi dell’Europa centrale e orientale. In Europa Hbo ha il suo quartier generale a Praga. Da qualche tempo sta sperimentando anche l’uso del cloud per i servizi on-demand. Per il momento è una estensione dell’abbonamento-cavo che consente di vedere i canali Home box office su piattaforme diverse dal televisore tradizionale, anche in mobilità. Domani potrebbe diventare il suo principale canale di distribuzione. In che modo? Andando a cambiare in radice lo schema delle finestre di esclusiva che ha fin qui consentito di ottimizzare investimenti e ricavi nelle fiction, programmando al millimetro il licensing dei diritti fra un canale e l’altro per ciascun paese-mercato. Si partirà dalla tv pay-per-view, poi il noleggio home video, quindi l’acquisto dvd e la pay-tv di base, per finire un paio d’anni dopo con la tv generalista. E ricominciare daccapo fino a esaurimento d’interesse. della tv di domani. Integrando i servizi dei tre operatori potrebbe lanciare una offerta quadruple-play (televisione + telefonia mobile + internet + ott), partendo magari proprio dall’Italia dove non c’è concorrenza via cavo e lo sviluppo della offerta Iptv è ancora debole. Post Television insomma, ovvero non-solo-tv, di cui Murdoch è stato un pioniere fin da quando si è messo a vendere scommesse sulle dirette dello sport. In questo modo Sky si rafforzerebbe anche nei confronti dei nuovi entranti, che hanno dimostrato di saper trasferire il loro modello di business da un paese all’altro, sviluppando rapidamente una dimensione operativa internazionale. Netflix corre veloce, perché la rete glielo consente e perché deve occupare più spazio di mercato possibile prima che il punto debole del suo modello possa impensierire Wall Street. A otto dollari al mese si fanno molti abbonati (più di 50 milioni in pochi anni, di cui oltre 15 milioni sono fuori dagli Stati uniti), ma il margine di guadagno è risicato. Si rischia di non avere risorse sufficienti per acquisire altri diritti di film e serie o per produrne in proprio in quantità sufficiente. Hbo ha meno fretta, sa come produrre contenuti al top che è uno dei fattori strategici di questo business, guadagna molto (14 miliardi il suo fatturato 2013, metà dagli abbonamenti tramite reti-cavo e metà dalla gestione dei diritti televisivi) e può decidere quando sarà il momento di andare da sola over-the-top, tagliando il cordone con le pay tv statunitensi . Già, proprio Hbo, gallina dalle uova d’oro di proprietà di Time Warner. Era probabilmente proprio Home box office la vera preda a cui ambiva Rupert Murdoch quando a inizio estate di quest’anno ha offerto 80 miliardi per tutto il gruppo. Per qualche settimana è apparso evidente che l’operazione europea andava vista in un quadro globale, dove il Nasce Sky Europe. Il nuovo assetto rafforza la posizione competitiva del gruppo. Lo streaming sposterà infatti tutto il confronto sulla rete DENIS ALLARD / REA / CONTRASTO essere attirate da licenze multi-territoriali. Così si muove già Fox Sports, il marchio specializzato della casa, che ha acquistato per più paesi i diritti di Bundesliga tedesca, Major League of Baseball e National Football League americane. Peraltro Sky ha già ampiamente dimostrato di saper costruire e potenziare un brand sportivo attraverso la tv, e potrebbe offrirsi come il partner strategico che serve ai detentori dei diritti per gestire la distribuzione degli eventi a livello mondiale. Si pensi alla Premier League inglese, che ha raggiunto la stratosferica valutazione di 2,2 miliardi di euro all’anno; ma anche all’investimento nel ciclismo fin dai tempi in cui a capo del gruppo sedeva ancora il figlio del magnate, James Murdoch (grande appassionato delle due ruote), sponsorizzando una squadra (Team Sky) che negli ultimi anni ha fatto moltissimo per diffondere questo sport in Gran Bretagna e in tutta Europa, grazie anche ai successi dei Wiggins e dei Froom. Il nuovo business europeo si sposerebbe bene con quello di Fox Sports negli Usa, in Asia e Australia, e con Star Sports in India, fino a formare una piattaforma globale, magari in grado di acquisire gli eventi stessi. Anche se molto costosi, come nel caso della Formula Uno che pare sia davvero in vendita. Ma al di là delle sinergie e dei risparmi sui costi che può produrre, l’aspetto più interessante dell’operazione sta nel rafforzamento della posizione competitiva di Sky sul fronte gruppo guidato da Murdoch punta a rafforzare la capacità produttiva interna. Infatti è appena stata confermata la decisione di creare il più grande conglomerato di produzione al mondo che sarà guidato da una ex manager di BSkyB. Il progetto infatti è di fondere la Shire di Fox con Endemol e Chorus controllati dall’Apollo Fund. Con i sette miliardi incassati Fox avrebbe potuto formulare un’offerta più allettante per gli azionisti di TimeWarner, ma per il momento ha lasciato perdere. Il colosso che ne deriverebbe non ha eguali nel campo dei media in generale, ma in tempi di post tv sarebbe solo un pari grado dei vari Google o Apple o Amazon, e in prospettiva degli alfieri della nuova televisione via internet a cui basta una rete a banda larga per moltiplicare gli abbonati. E in Italia? Si va avanti nella tradizione. Nuova stagione al via. Vecchia televisione. Belle fiction marcate Hbo o Netflix. Niente di rilevante da segnalare. Il Paese, come sappiamo è concentrato su altro. Rupert il rosso il tycoon dei cinque continenti con Move, News Corp punta anche all’immobiliare se Ecclestone decide e si vende la Formula 1 È il Citizen Kane del nuovo millennio, cittadino australiano e americano, con NewsCorp opera in cinque continenti controllando quotidiani (Wall Street Journal, NewYork Post, The Times, The Sun), e case editrici (Harper Collins). Con 21stCentury Fox controlla case di produzione cinetv via etere, cavo e satellite negli Usa (Fox, Fox Tv Network, Fox Cable), in Gran Bretagna (BSkyB), Germania (Sky Deutschland), Italia (Sky Italia) e in Asia (Star TV Network) e Australia. Nel 2009 l’impero sembrava sul punto di crollare travolto dallo scandalo delle intercettazioni illegali, corroborate da ricatti e ampio uso di corruzione, che il suo settimanale News of the World, il più popolare e più venduto in Gb utilizzava per costruire i suo servizi. Sottoposto a una inchiesta pubblica affidata al giudice Levinson, Murdoch riuscì a cavarsela sacrificando il figlio James e tutto il gruppo dirigente del giornale. È l’ultima in ordine di tempo, la News Corp di Murdoch, compra Move, sito americano di inserzioni immobiliari. L’investimento è importante, 950 milioni di dollari in contanti. «L'acquisizione accelererà l'espansione globale e digitale di News Corp» ha dichiarato il Ceo Robert Thomson, «Intendiamo usare le nostre attraenti piattaforme mediatiche per alimentarne il traffico online e e dar vita al sito immobiliare di maggior successo negli Stati Uniti». News Corp è un azienda strategica, controlla in prevalenza quotidiani, periodici e case editrici. Move e' l'acquisizione più anomala in un periodo di forte espansione della società. Di recente Murdoch ha acquisito anche Harlequin Enterprises, editore molto noto in Usa per i romanzi rosa. Il costo: 415 milioni di dollari. Pronti via! Si parte. Oppure no. La Formula 1 non è in vendita ma, se lo fosse, nessuno si stupirebbe. Le smentite si rincorrono da almeno 4 anni, mentre Cvc Capital Partners – azionista di riferimento – ha passato l'estate a chiudere una operazione di rifinanziamento insieme ad altri soci. Cvc, la cui quota è oggi al 35,5% dopo avere avuto il 70%, è entrata nel business governato dall'83enne Bernie Ecclestone nel 2005 mettendo 1 miliardo di dollari e 2,5 miliardi di dollari di debito. È stata fin qui una corsa d'oro: il gruppo ha realizzato più di cinque volte il capitale iniziale investito. Ma i soldi non bastano mai, soprattutto quando le tribune di alcuni circuiti restano semivuote per il caro-biglietti e forse non solo per quello, ecco che la Formula 1 si preparerebbe a esordire in borsa. Ipotesi di cui si parla da un paio di anni, ma che potrebbe avere un seguito concreto a Singapore. CREDIT pagina 99we | 22 | INNOVAZIONI sabato 4 ottobre 2014 guardare i gamer giocare è il business del futuro e-Sport | 32 milioni di spettatori a torneo, la metà negli Usa. Sono i numeri FILIPPO SANTELLI da capogiro totalizzati dai videogiochi trasmessi gratuitamente in streaming. n «Perché così tanti seguono i tornei di videogiochi? Per lo stesso motivo per cui si segue il calcio». L’incantesimo di un elfo come una veronica di Messi. Il colpo in testa di un cecchino come una punizione di Pirlo. In fondo, provoca il 35enne Daniel Schmidhofer, quando guardiamo le stelle del pallone e quelle del joystick vediamo le stesse cose: preparazione, abilità, intuito. Per questo Esl, la piattaforma di cui gestisce le operazioni in Italia, può definirla una Uefa dei videogame: «Organizziamo tornei online di tutti i livelli, dagli amatori ai professionisti». Altro che passatempo da ragazzini. In Corea gli e-sportivi sono da tempo miti nazionali, ora pure gli Stati Uniti riservano loro visti agevolati e borse di studio, come agli atleti che si rispettano. Altro che sfide tra amici in Un settore che adesso suscita gli appetiti di big come Google e Amazon A sponsorizzare i tornei sono marchi come Intel, Samsung, Coca Cola, interessati ai giovani che non seguono la tv cantina. A Los Angeles, per l’ultimo mondiale di League of Legends, gioco in cui si sfidano due eserciti di orchi e mostruosità varie, c’era un pubblico di 18 mila persone. Mentre altre 32 milioni seguivano in Rete. Più spettatori che per le finali Nba. Messa così, non sorprende che Amazon abbia investito 970 milioni di dollari per comprarsi Twitch, la piattaforma numero uno al mondo per lo streaming dei videogiochi. L’acquisizione più costosa della sua storia, chiusa lo scorso agosto dopomesi in cui sembravaun affare già chiuso da Google. «Gli e-Sport hanno raggiunto un’audience planetaria», scrivono gli analisti di SuperData Research. Calcolano che 71 milioni di persone, metà delle quali negli Stati Uniti, guardano in Rete i tornei di Dota 2 e League of Legends, sfide a squadre in mondi fantasy, o di Counter-Strike e Call of Duty, simulatori militari in prima persona. In Italia siamo indietro, un campetto di provincia. Ma a livello globale le competizioni sono ormai mainstream. E proprio grazie a Twitch, conferma Alessandro Avallone, 27 anni, il nostro gamer più forte: «L’e-Sport esiste da inizio anni 2000, diffuso soprattutto in Corea e Scandinavia. L’esplosione, attorno al 2010». Proprio quando Justin Kan e Emmett Shear, reduci dall’esperienza di Justin.tv, lanciavano la loro LIONEL BONAVENTURE / AFP / GETTY IMAGES IN DIRETTA Il pubblico di League of Legends durante la competizione internazionale di gamers avvenuta a Parigi nel maggio scorso nuova piattaforma per trasmettere in Rete, tutta dedicata ai videogiochi. Un po’ Youtube, chiunque può aprire un canale, partecipando ai ricavi pubblicitari. Un po’ Netflix, trasmissioni sempre accessibili. E pure un po’ Sky visto che la passione degli spettatori, che in media ci rimangono incollati per oltre due ore, non è diversa da quella riservata agli sport tradizionali. All’ultimo controllo 45 milioni di utenti: il 43% del traffico streaming globale, il 2% del movimento dati negli Usa. «Quello che facciamo non è nuovo, nuova è la partecipazione», dice Shear. EROI E INCANTESIMI n Difendere la propria fortezza, distruggere quella nemica. Da una parte i Radiant, alleanza tra uomini, elfi, e divinità varie. Dall’altra i Dire, demoni e non morti. A Dota, dell’americana Valve, si combatte a squadre, massimo cinque contro cinque: ogni giocatore controlla un eroe con specifiche abilità e incantesimi. Cresce di potere durante la partita, uccidendo le orde controllate dal computer, fino al grande scontro finale. Una sola mappa, da esplorare a volo d’uccello, strategie sempre diverse. Simile anche League of Legends, della californiana Riot Games: entrambi nascono da una costola del mitico fantasy World of Warcraft. 32 milioni - gli spettatori su Twitch della finale 2013 della League of Legends World Championship, disputata a Los Angeles. Bara: Twitch è riuscita per prima ad assicurare una trasmissione stabile con milioni di utenti connessi. Ma bara solo in parte: «L’industria dei videogiochi aveva tralasciato l’aspetto della comunità», dice Niccolò Maisto, 28 anni, ceo di Faceit, startup inglese che ospita tornei online. «Il nostro canale su Twitch, dove trasmettiamo le partite, è decisivo per acquisire utenti». Anche gli editori lo hanno capito. Aziende come Riot Games, Activision Blizzard e Valve hanno investito nelle leghe professionali, finanziando tornei dai montepremi milionari che vanno tutti in streaming. Perché è guardando i campioni, chattando con loro e gli altri appassionati, che ci si fidelizza a un gioco. Decisivo, specie per chi adotta il modello «free to play»: il videogame è gratis, si paga per avere accesso a personaggi, livelli o abilità speciali. In ritardo, pure i produtto- ri di console stanno arrivando: le nuove PlayStation 4 e Xbox One permetteranno di lanciare uno streaming su Twitch senza passare dal Pc. Legare il proprio marchio all’e-Sport ora interessa a molti: «I gamer hanno un profilo interessante per le aziende, giovani tra i 14 e i 30 anni che parlano due o tre lingue e spendono molto in elettronica», spiega Schmidhofer. È con loro che Samsung ha testato i propri tablet, prima di lanciarli sul mercato. E a loro Intel fa sperimentare i nuovi processori, quelli più potenti. Usandone poi l’attivismo all’interno della comunità per innescare un passaparola: ogni giocatore, in media, consiglia il prodotto preferito a sette persone diverse. L’interesse di Red Bull, Coca Cola e McDonald’s, sponsor di alcuni grandi tornei, dice invece del grande seguito dell’e-Sport. Non proprio alimenti da DAGLI AI TERRORISTI! (O AI MILITARI!) n La guerra in prima linea, in prima persona. La versione originale di Counter-Strike risale addirittura al 1999. L’ultima, Global Offensive, è stata rilasciata da Valve ad agosto del 2012. Dal coltello al lanciagranate passando per le infinite varietà del fucile mitragliatore: un arsenale infinito con cui costruire il proprio Rambo. Diversi teatri di scontro e modalità di gioco, tutti contro tutti vince il più forte, a squadre conta la tattica. Milioni di utenti pure per Call of Duty, la chiamata alle armi firmata Activision Blizzard. Stesso mondo diviso in due: forze speciali e terroristi, online vale anche stare con i secondi. 1 milione di dollari - il montepremi della passata edizione della Call of Duty Championship, uno dei tornei più ricchi finora disputati. sportivi, il loro tentativo è comunicare con ragazzi che non guardano più la televisione. «Per la prima volta quello dei gamer è considerato un segmento di mercato specifico», sintetizza Maisto. Anche per questo è probabile che Amazon non allargherà le trasmissioni di Twitch oltre i videogiochi, rischierebbe di snaturarla. Ne userà contenuti e tecnologia, lasciandola però indipendente: con questa garanzia, dicono le voci, Jeff Bezos si sarebbe fatto preferire, come acquirente, a Google. Di certo, per l’industria che fu di Super Mario, il pubblico che guarda sarà sempre più importante. Più ancora di chi tiene in mano il controller? «Non credo», conclude Schmidhofer. «Le aziende alla fine hanno bisogno che i ragazzi non si limitino a fare da spettatori, ma che giochino. No, in questo non sarà mai come il calcio». GUERRA GALATTICA n XXVI secolo, tre razze combattono per dominare un remoto settore dell’universo: i terrestri, gli insetti Zerg e gli alieni umanoidi Protoss. In Starcraft II, storico prodotto della Blizzard, ogni giocatore sceglie la sua civiltà: la visuale sul campo di battaglia è quella dall’alto, come in Dota, ma anziché un singolo personaggio si controlla un intero esercito. Lo si costruisce e comanda, sulla base della struttura della mappa e delle mosse degli avversari. Strategia in tempo reale, da due a otto utenti che giocano a squadre oppure tutti contro tutti. L’obiettivo, manco a dirlo, non lasciare vivo nemmeno un nemico. 20 dollari - il costo del download di Starcraft, uno dei motivi per cui sta perdendo terreno rispetto ai giochi free come League of Legends sabato 4 ottobre 2014 | pagina 99we INNOVAZIONI | 23 un software apre i Big Data a tutti Hi-tech | Un’interfaccia consentirà anche agli internauti meno esperti di analizzare in tempo reale grandi quantità di dati complessi. Lo ha messo a punto la californiana Adatao ABITI STAMPATI Open Knit, la stampante 3d realizzata dallo spagnolo Gerard Rubio CRISTIANA RAFFA n Cosa facciamo noi per i Big Data ormai lo abbiamo recepito e quasi metabolizzato: li alimentiamo con scie di presenze nella rete. I nostri click sono archiviati e analizzati per renderci bersagli definiti. Cosa possono fare invece i Big Data per noi semplici utenti di internet e lavoratori è la domanda che qualche illuminata startup comincia a porsi. Così è nata nel 2012 Adatao, grazie alla scommessa di investitori che hanno messo insieme un capitale di 13 milioni di dollari. Il ceo e fondatore è Christopher Nguyen, nella direzione ingegneristica di Google dal 2006 al 2008. Adesso Adatao comincia a mettersi in gioco con un nucleo di primi utilizzatori che po- tranno trasportare i Big Data nella loro fase 2.0: una relazione interattiva tra utente e web. Nguyen ha spiegato che il sistema è composto da due strumenti. Uno, pAnalytics, per i cosid- Il sistema è pensato per fare collaborare utenti comuni e smanettoni. E creare così forme d’intelligenza collettiva detti geek, gli smanettoni digitali, e l’altro, pInsights, per gli utenti comuni che hanno bisogno di elaborare dati per ricerche personali o di lavoro. Si tratta di un’interfaccia SmartQuery OPEN DATA Grandi quantità di dati diventano accessibili CONTRASTO in grado di comprendere il linguaggio naturale e un sistema costruito con Apache Spark, adatto per essere facilmente usato da chi ha familiarità con strumenti come R, Python, SQL e Java. Per aziende o gruppi di interesse i Big Data potrebbero rappresentare un’infinita mole di opportunità, ma trovare analisti in grado di estrapolarli, analizzarli e tradurli in grafici, diagrammi e strumenti comprensibili, è un impegno oneroso di complessa esecuzione. Il sistema messo a punto da Adatao è pensato per mettere in collaborazione esperti e utenti, gli uni hanno bisogno degli altri, e più si elaborano dati su tutto lo scibile connesso – magari in tempo reale – più aumentano le conoscenze che l’azienda può archiviare e offrire come servizi. In definitiva l’obiettivo dichiarato di Adatao è quello di porre l’intelligenza umana e quella delle macchine da calcolo in una proficua relazione reciproca in grado di alimentare un crescendo di opportunità per gli utenti. Per fare un esempio: un impiegato del trasporto aereo potrebbe chiedere ad Adatao un rapporto sui ritardi dei voli negli ultimi 20 anni. In 3 secondi il sistema potrebbe analizzare 124 milioni di righe su 29 colonne di dati contenuti nei servizi di Amazon e fornire risposte divise per settimane, mesi, anni e cause degli intoppi. Si aprono dunque scenari interessanti al servizio dei cittadini, delle amministrazioni pubbliche o dell’informazione. E una non trascurabile rivincita degli smanettoni al servizio dei naviganti. @cristianaraffa vestiti fatti in casa basta la stampante 3D Maker | Un programma open source collegato a un telaio a basso costo apre la strada alla moda fai-da-te. L’intuizione di un giovane designer di Barcellona n «Questa stampante 3D in un’ora può produrre un maglione pronto per essere indossato. Può farlo grazie a un file digitale connesso all’hardware Arduino. Niente di tutto ciò sarebbe possibile con un telaio tradizionale». A immaginare e realizzare Open Knit, una piccola rivoluzione a basso budget per la moda fai-da-te, è stato il giovane designer spagnolo Gerard Rubio. Il suo intento, spiega a pagina99, era di innovare il mondo dell’autoproduzione, rendendo disponibile uno strumento creativo totalmente personalizzabile. «Si tratta di un progetto open-source», precisa, «sul nostro sito si trovano tutte le istruzione per costruire la stampante grazie a un kit non costoso. Sono liberi anche i software che permettono di scegliere i modelli da realizzare». La stampante, che pesa solo 5 chili, si può trasportare ovunque; 500 dollari il prezzo per ricevere a casa le parti necessarie a costruirla. Le grandi aziende hanno macchine enormi che funzionano come Open Knit, ma nessuno finora ne aveva realizzata una così piccola ed economica. Si erano visti fenomeni di hacking dei telai tradizionali, più che altro mo- 500 dollari il costo dei pezzi necessari a montare la macchina, che è trasportabile difiche artigianali di macchine esistenti. «Penso che se si moltiplicassero progetti come questo», afferma Rubio, «se diventasse sempre più semplice farsi i vestiti in casa in base al proprio gusto e con i materiali di partenza scelti personalmente, si INTERNET in Sudafrica il wi-fi arriva con le lattine n Piazze digitali in arrivo anche in Sudafrica grazie al wi-fi che Coca-Cola e BT porteranno in alcune aree rurali, ancora digitalmente divise. L’hot spot pubblico e gratuito sarà installato nei distributori di bevande griffati dalla multinazionale di Atlanta; l’operatore telefonico britannico si occuperà invece di portare la connessione internet senza fili. Per utilizzare il servizio non sarà necessario né pagare né consumare una bibita, basterà sempli- cemente entrare nei dieci metri circa del raggio di azione dell’hot spot. I centri prescelti per l’avvio di questa iniziativa sono a Qunu, il villaggio in cui nacque Nelson Mandela, nella regione di Mthatha (provincia orientale del Capo di Buona Speranza) e Nelspruit, il capoluogo della provincia di Mpumalanga nel nordest del Paese. Con il fine di essere utilizzabili dalla maggior parte degli utenti sudafricani i distributori sono stati installati in prossimità di aree densamente popolate, uno vicino a un parcheggio di taxi, l’altro in un centro commerciale. Prossimamente altri punti di accesso saranno accesi in altre località che presentano le stesse caratteristiche delle prime due. Nei comunicati diramati da BT l’entusiasmo prende un po’ la mano e si arriva a immaginare che intorno alle macchinette delle bibite si raccolgano gli studenti per fare i compiti. Nei commenti alla notizia riportata dalla stampa Usa invece si levano critiche, a volte anche molto aspre, contro il progetto colpevole di diversi misfatti: associare un diritto (di connessione) a uno (anzi due) loghi; indurre gli avventori del wi-fi OLI SCARFF / GETTY IMAGES a cadere nella tentazione di consumare una bevanda molto zuccherata e gassata; e infine di irradiare i cittadini africani con onde elettromagnetiche molto pericolose (le stesse sotto cui vive chi ha commentato sul web la notizia). Sebbene non del tutto prive di fondamento, le critiche sembrano eccessive. Sarà interessante sentire cosa ne pensano anche i diretti interessati, che da oggi hanno la possibilità di dire la loro anche online. potrebbe davvero incidere nel mercato spietato e inquinante della moda». E non serve essere una maglierista, non serve saper usare ferri da calza o da uncinetto, non c’è bisogno di cucire tra loro le parti. Tra l'altro, a differenza dei materiali ricaricabili che normalmente si inseriscono nelle stampanti 3D per produrre oggetti, la maglieria è una base che si trova in abbondanza sul mercato, con diverse composizioni di tessuti, colori e fantasie, a prezzi di ogni sorta, dal super commerciale all’extra lusso. Progetti come quello di Gerard si mettono in mostra nelle fiere dei maker digitali, dove è possibile che il seme di un’idea trovi impianto in sistemi digitali che realizzano oggetti veri utili a cambiare la vita delle persone. E poi viaggiano online se vengono ripresi dai blog specializzati, se, come ha fatto lui, si trova un modo per raccontare una storia di innovazione che cresce e cambia giorno per giorno attraverso video, interviste e grafiche. In questo modo realizzare in casa cappellini, sciarpe, maglie, guanti e vestiti, può diventare un modo di vivere alternativo al mercato di massa, uno stile prosumer che strizza l’occhio al non convenzionale. «Da quando ho pubblicato in rete la mia idea mi hanno scritto da ogni parte del mondo per acquistare la macchina o per capire come poter utilizzare le mie istruzioni da applicare ad altre stampanti 3D», spiega Rubio, felice di aver centrato l’obiettivo. «Serve una certa di dedizione iniziale e un piccolo sforzo per capire come funziona, ma poi basta davvero un click per trasformarsi in sarti digitali». GDP C.R. pagina 99we | 24 | IDEE sabato 4 ottobre 2014 minoranza etnica specie a rischio estinzione u ALBUM FOTOGRAFICO DEL WEEKEND EUROPA Esistono minoranze etniche, nel vecchio continente, che rischiano l’estinzione culturale. Decine di popoli che, sparsi a macchia di leopardo sulla cartina geografica d’Europa, condividono una stessa lingua, cultura, tradizioni da centinaia di anni. E sono oggi in pericolo. The Oblivio Project, progetto fotografico del pescarese Stefano Marzoli, racconta per immagini la vita di tutti i giorni di queste persone, sospesa tra le vicende del quotidiano e l’angoscia di un progressivo sradicamento culturale. Assimilazione forzata, povertà, emigrazione in paesi più ricchi e persecuzione politica sono alla base di un processo di perdita della propria identità che costringe queste genti ad abbandonarsi alla cultura dominante. Ci sono gli csángó, un’antica popolazione ungherese di religione cattolica che rischia l‘estinzione nella moderna Romania ortodossa. Poi gli arbëreshë, anche detti albanesi d'Italia, minoranza etno-linguistica stanziata storicamente nel mezzogiorno. I gorani, un gruppo etnico di ceppo slavo e di religione musulmana che vive nella zona montuosa di Gora, compresa tra il Kosovo, l’Albania e la Repubblica di Macedonia. Infine i sami, più conosciuti come lapponi, una popolazione di circa 75.000 persone stanziata nella parte settentrionale della Fennoscandia, in un'area da loro chiamata Sápmi, che si estende dalla penisola di Kola fino alla Norvegia centrale. Il lavoro di Marzoli verrà presentato nell’ambito della rassegna Si Fest#23, il primo Festival di fotografia in Italia per nascita, che inaugurerà tra il 3 e il 5 ottobre a Savignano sul Rubicone, in provincia di Forlì. Kosovo I gorani sono una minoranza etnica di fede islamica che parla un dialetto slavo del sud, chiamato Našinski. L’etnonimo Gorani, che significa “uomo di montagna”, deriva dal toponimo slavo gora, che indica la montagna. La situazione di instabilità e i problemi economici dell’area hanno spinto molti gorani a lasciare il Kosovo. Alcuni sostengono di essere Italia Gli arbëreshë, qui ritratti a Santa Sofia d’Epiro, sono una minoranza etnico-linguistica albanese che abita in diverse aree dell’Italia meridionale. Nella seconda metà del XV secolo i turchi ottomani si lanciarono alla conquista dell’Albania e di tutto l’impero bizantino, dando avvio a ondate di migrazioni durate fino al XVIII secolo. Le comunità arbëreshë manifestano la chiara consapevolezza di appartenere a uno specifico gruppo etnico, con una cultura peculiare e gelosamente conservata. La lingua arberica, l'arbërisht, è un’antica variante del tosco, dialetto albanese parlato nel sud dell'Albania. In basso, battesimo celebrato secondo il rito tradizionale bizantino. A destra Riccardo, giovane carabiniere con il tatuaggio dell’aquila bicipite, emblema dell’eroe nazionale albanese Skanderbeg stati minacciati e discriminati dalla maggioranza albanese. L’amministrazione ONU in Kosovo, l’UNMIK, ha ridisegnato i confini interni della provincia e oggi non esiste più un comune a maggioranza gorana. Sopra, l’imam richiama i fedeli alla preghiera del pomeriggio nella moschea a Slipotok. A sinistra, ritratto di un cacciatore con i suoi trofei presso Donja Rapca, nella regione di Gora sabato 4 ottobre 2014 | pagina 99we IDEE | 25 Romania Gli csángó ritratti a Ciucani, piccolo villaggio nella contea di Bacau. Eredi della conquista magiara della Moldavia romena nel Medioevo, gli csángó hanno conservato una lingua che, pur influenzata da tratti slavi e romeni, si presenta come una sorta di ungherese arcaico. Una minoranza perseguitata più volte sull’orlo della scomparsa. Il territorio abitato oggi dagli csángó è sempre stato la porta d'oriente per gli Europei. Qui passa la grande steppa eurasiatica che - come una grande autostrada di popoli e culture - collega la Cina alla Pianura Ungherese. Una situazione che potrebbe cambiare se agli csángó venisse riconosciuta la piena cittadinanza, il diritto di usare liberamente la loro lingua e di esprimere la loro cultura. In alto a sinistra, un pastore intento in una chiamata con il cellulare. A destra, un cavallo si gratta la schiena. In basso, bambini in abito tradizionale nella stanza computer della Fondazione Csángó Russia I lapponi, nome con cui viene tradizionalmente indicata la popolazione sami, risiedono in una regione che interseca i confini di Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia. Pur facendo parte di una comunità consapevole della propria identità culturale e linguistica, i sami non hanno mai avuto né preteso un’autonomia politica completa. Tuttavia, sono riusciti a non soccombere a un processo di totale assimilazione. I governi di Svezia, Norvegia e Finlandia si sono impegnati in politiche di tutela dell’identità Sami successivamente al secondo conflitto mondiale. In alto, un falegname trascina corna d’alce, Lovozero (Russia). A destra, ritratto di donna anziana in abiti tradizionali all’interno della sua casa pagina 99we | 26 | IDEE sabato 4 ottobre 2014 GIULIANO BATTISTON n KABUL. «Non accettiamo più i lavori di giornalisti freelance che viaggino in luoghi dove noi non ci avventureremmo […] Se qualcuno si reca in Siria e al ritorno ci offre immagini o informazioni, non le useremo». Per Michèle Léridon, Global News Director dell’agenzia giornalistica France Presse, uno dei colossi dell’informazione globale, l’uccisione e il rapimento di giornalisti in Siria e Iraq impongono di «riaffermare alcune regole di base» del giornalismo di guerra. E di ripensare l’equilibrio tra il dovere di informare, la necessità di garantire la sicurezza dei reporter, la preoccupazione per la dignità delle vittime. Affidata al sito della France Presse, la presa di posizione di Léridon, lo scorso 17 settembre, suona tardiva e un po’ tartufesca, ma rimane significativa. Perché proviene I freelance soddisfano le esigenze compulsive dei media, un settore capitalistico come altri dall’interno di un’agenzia che per sua stessa natura alimenta la tendenza bulimica del sistema dell’informazione. Che Léridon parli soprattutto di giornalisti freelance non deve sorprendere. C’è una ragione contingente: James Foley, il reporter statunitense sgozzato il 19 agosto da un militante dello Stato islamico, era un freelance, collaboratore abituale di France Presse. E c’è una ragione strutturale: l’informazione è un settore capitalistico come gli altri, deve produrre profitti, occupare in modo parassitario sempre nuove terre vergini, sfruttarle e poi spostarsi altrove, costruire o rilanciare califfi sempre nuovi, più barbuti e sanguinari dei precedenti. I freelance soddisfano queste esigenze compulsive. Professionisti specializzati ma duttili, in forte competizione tra loro, flessibili/precari, affrontano quei rischi che i “protetti” non possono o non vogliono più assumersi. Valigia alla mano, mentre gli inviati si raccomandano con la segretaria di redazione sull’albergo in cui alloggiare, i freelance sono già sul campo. Nessuno li invia. Sul fronte di guerra, vanno per conto proprio. È passato molto tempo da quando le guerre erano dominio pressoché esclusivo di pochi inviati, ammirati dai lettori, coccolati dagli editori e spesso contesi a suon di denaro sonante: «Salpo oggi per Yokohama. Parto per Hearst. Avrei potuto andare per l’Harper o per il Collier oppure per il New York Herald – ma Hearst mi ha fatto l’offerta migliore». È il 7 gennaio 1904, Jack London scrive all’amico e poeta Cloudesley Johns. Quell’Hearst a cui si riferisce London – che l’anno precedente aveva pubblicato Il richiamo della foresta e Il popolo degli abissi, inchiesta esemplare nel quartiere operaio londine- il reporter vittima del feticismo del conflitto Giornalismo | Un tempo al fronte inviavano i cinici , ora prevalgono gli empatici. Entrambi prigionieri dell’idea che la violenza fisica sia l’unica lente per narrare un Paese in guerra se di East End – non è altri che William Randolph Hearst, «magnate dell’editoria e della comunicazione americana nei primi anni del Novecento, che avrebbe fornito poi il modello per il megalomane Citizen Kane di Orson Wells», nota Cristiano Spila nell’introduzione a Jack London. Corrispondenze di guerra (Nova Delphi 2013). A ventotto anni Jack London è una firma riconosciuta. Il 7 gennaio 1904, accettando l’offerta del proprietario del San Francisco Examiner, si imbarca sul piroscafo ‘Siberia’ alla volta del Giappone, per poi raggiungere la Corea e seguire il conflitto tra Russia e Giappone. Più che per necessità economiche, parte per inseguire quell’intreccio inedito tra azione e scrittura, avventura e narrazione che solo la guerra può offrirgli. Come ricorda Clotilde Bertoni in Letteratura e giornalismo (Carocci 2009), tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento quell’intreccio avrebbe attratto sui fronti di guerra grandi nomi della letteratura, da Stephen Crane a John Steinbeck, da John Dos Passos a George Orwell, da André Malraux fino allo scrittore-reporter per antonomasia, Ernest Hemingway. Nelle sue corrispondenze, Jack London lo ammette. È stato mosso da suggestioni letterarie e dal desiderio di un contatto con la realtà più incandescente, più vera: la guerra. «Mi ricordavo delle descrizioni di Stephen Crane sotto il fuoco a Cuba», scrive. «Avevo sentito – oddio, cos’è che non ho sentito! – di corrispondenti di ogni livello e condizione proprio nel bel mezzo di battaglie e schermaglie di ogni tipo, dove la vita era intensa e si vivevano momenti immortali». Rimarrà deluso: «Sono venuto in guerra aspettando di provare fremiti. I miei soli fremiti sono stati quelli di indignazione e irritazione» ammette. È il crollo dell’ambiguo ideale romantico della bellezza della guerra, già demistificato cin- quant’anni prima da Tolstoj con le storie poi raccolte ne I racconti di Sebastopoli (Garzanti 2014). Ma è anche un artificio letterario, di cui si sarebbe dimostrato maestro indiscusso proprio Hemingway. Quello di fluttuare tra autocompiacimento e autoironia, di enfatizzare e dissacrare allo stesso tempo la figura del reporter. Che diventa tanto più un personaggio credibile e vicino al lettore quanto più revoca la sua posizione di osservatore onnisciente, tanto più coraggioso quanto più ammette limiti, debolezze e passi falsi. Nella sua prima corrispondenza, inviata il 3 febbraio 1904, Jack London riferisce di essere stato scambiato per una spia. Si trova a Nagasaki, dove aspetta di imbarcarsi per Chemulpo, in Corea. Scatta alcune foto ai facchini per strada. Finisce al comando militare giapponese. «Mi sono ritrova- sabato 4 ottobre 2014 | pagina 99we IDEE | 27 è rimasto inevaso. Tranne rare eccezioni – quella di Kapuscinski appunto - vecchi cinici coraggiosi e nuovi empatici sono spesso due espressioni della stessa, vecchia patologia del giornalismo di guerra: il feticismo del conflitto. L’idea che la violenza - la violenza fisica, non quella storica, politica, economica, sociale, ideologica, culturale sia l’unica lente per raccontare Herr sostiene che in guerra sei responsabile di ciò che vedi come di tutto ciò che fai PHILIP JONES GRIFFITHS / MAGNUM PHOTOS / CONTRASTO PHILIP JONES GRIFFITHS / MAGNUM PHOTOS / CONTRASTO to in una selva di uniformi blu, tra spade e bottoni dorati […] All’inizio fu tutto molto comico – “ottimo”, ho pensato, “passare un po’ di tempo prima di partire col vaporetto”. Quando, però, sono stato portato in una stanza al piano superiore e le ore scorrevano, ho pensato che era una cosa seria». L’artificio di giocare sul proprio status, di celebrarsi e allo stesso tempo denigrarsi, finirà con l’essere adottato da quasi tutti i corrispondenti di guerra consapevoli, mossi da ambizioni letterarie o dal desi- ALEX MAJOLI / MAGNUM PHOTOS / CONTRASTO derio di fare «giornalismo intenzionale» (la definizione è del polacco Kapuscinski, ne Il cinico non è adatto a questo mestiere, nuova edizione e/o 2011, a cura di Maria Nadotti). Lo dimostra Michael Herr, l’autore di Dispacci (Bur 2008), un libro fondamentale, forse il più onesto, nell’ampia letteratura sulla guerra del Vietnam. «Potrei lasciarvi continuare a credere che eravamo tutti coraggiosi, spiritosi, affascinanti e vagamente tragici, che eravamo come un insuperabile commando di arditi, un formidabile squadro- ne, il Terribile Chi, amanti del pericolo», scrive Herr. «Potrei usare anch’io questa favola, ne verrebbe senz’altro un film più carino, ma tutto questo discorso su di noi, tanto come soggetti quanto come oggetti, va rivisto e corretto». A quasi quarant’anni di distanza dalla pubblicazione di Dispacci, con l’emergere delle nuove guerre che coinvolgono i civili più che i soldati, accanto alla categoria dei reporter coraggiosi e arditi si è affermata e consolidata quella degli empatici: «Le persone cattive non possono essere dei bravi giornalisti. Se si è una buona persona si può tentare di capire gli altri, le loro intenzioni, la loro fede, i loro interessi, le loro difficoltà, le loro tragedie. E diventare immediatamente, fin dal primo momento, parte del loro destino. È una qualità che in psicologia viene chiamata empatia», scrive Kapuscinski. Ma l’ingresso sulla scena degli empatici non ha cambiato le cose. L’invito di Michael Herr a rinunciare alla favola del reporter di guerra, chiarendone e correggendone compiti, strumenti e obiettivi FOTOREPORTER Da sinistra, un Viet Cong assiste una civile ferita; soldati americani soccorrono un Viet Cong durante la battaglia di Saigon, Vietnam, 1968. In basso a destra, una protesta di donne siriane a Damasco, 2003 un Paese in guerra. I cinici e coraggiosi ne sono attratti. Pasteggiano parlando di sangue incrostato e tibie umane morsicate da cani randagi, osservano con perizia da chirurghi braccia amputate e gambe saltate per aria. Gli empatici la denunciano: per loro le vittime di guerra non sono numeri, ma persone. Nome, cognome, età, relazioni famigliari, vicende passate e sogni futuri interrotti. Spetta a loro, ricostruire la storia di una vita, restituirgli dignità, conferirgli quell’integrità che la violenza insensata della guerra ha spezzato. Per i cinici la violenza è un elemento inevitabile del mondo, per gli empatici una rottura dell’ordine naturale delle cose che può essere esorcizzata con la narrazione. Per entrambi, si dimostra un limite, una forma di miopia. Perché finiscono per vedere solo la violenza. Dimenticando che la guerra è storia e politica sedimentate. E scordando di interrogarsi sul voyeurismo predatorio di ogni forma di giornalismo, sul proprio ruolo, sulle proprie responsabilità. Michael Herr solleva interrogativi ancora urgenti e attuali, quando racconta le ragioni che lo condussero in Vietnam: «Ci andai con la convinzione, grossolana ma seria, che si deve essere capaci di guardare qualsiasi cosa, seria perché agii di conseguenza e partii, grossolana perché non sapevo, ci volle la guerra per insegnarmelo, che eri responsabile di tutto ciò che vedevi come di tutto ciò che facevi». PERCORSI DI LETTURA dalla Crimea di Russell all’Afghanistan di Gopal n Anche per Oliviero Bergamini, autore di Specchi di guerra. Giornalismo e conflitti armati da Napoleone a oggi (Laterza 2009), il giornalista che ha inaugurato la storia dei corrispondenti di guerra è William H. Russell, inviato nel 1854 dal Times al seguito del corpo di spedizione inglese nella guerra di Crimea contro la Russia. La vita di Russell – nato a Dublino nel 1820, amico degli scrittori Charles Dickens e William Thackeray – è stata raccontata da Alan Hankinson in Man of Wars: William Howard Russell of the Times of London (Heineman 1982), mentre le sue corrispondenze sono state raccolte da Nicholas Bentley in Despatches from the Crimea 1854-1856 (Panther 1966). E sulla storia del giornalismo di guerra, rimane utile I reporter di guerra: storia di un giornalismo difficile da Hemingway a Internet, di Mimmo Candito (Baldini e Castoldi 2002). Alle domande fondamentali – «A cosa servono i corrispondenti di guerra? Cosa ci si aspetta da loro? Chi crede ancora in loro?» - cerca di rispondere invece Phillip Knightley nell’ormai classico The First Casualty: The War Correspondent as Hero and Myth-Maker from the Crimea to Iraq (versione aggiornata, Johns Hopkins University Press 2004). Oltre agli studi storici e critici, è ampia la pubblicistica di giornalisti e scrittori su conflitti specifici. Sulla guerra in Vietnam, si può leggere Reporting Vietnam. American Journalism (due volumi, 1959/1969 e 1969/1975, a cura di Milton J. Bates, The Library of America 1998), l’ottimo Fire in the Lake. The Vietnamese and the Americans in Vietnam, della giornalista Frances Fitzgerald (Back Bay 1972), e il dossier su “Literature and the Vietnam War” apparso nell’estate del 2010 per la rivista Dissent. Ci sono libri utili per comprendere anche i conflitti più recenti: sulla guerra al terrorismo, è fondamentale Le altissime torri. Come al-Qaeda giunse all’11 settembre, di Lawrence Wright (Adelphi 2007), insieme ad American Ground, di William Langewiesche (Adelphi 2003), autore che si è occupato della guerra irachena in Regole d’ingaggio (Adelphi 2007) e di nuovi e vecchi strumenti di guerra in Esecuzioni a distanza (Adelphi 2011). Finora, il testo più ambizioso e completo sul conflitto in Afghanistan è quello di Anand Gopal, No Good Men Among the Living: America, the Taliban and the War through Afghan Eyes (Metropolitan Books 2014), mentre tra i giornalisti embedded si distingue Sebastian Junger, autore di War (Sperling & Kupfer 2011). Sul conflitto in corso in Siria, sono disponibili due libri recenti di giornaliste italiane, La guerra dentro, di Francesca Borri (Bompiani) e Come vuoi morire? Rapita nella Siria in guerra, di Susan Dabbous (Castelvecchi), scritti con onestà e impegno ma entrambi troppo schiacciati sull’attualità. Per recuperare il senso della guerra come combinazione di storia e politica, c’è Robert Fisk e il suo Cronache mediorientali. Il grande inviato di guerra inglese racconta cent’anni di invasioni, tragedie e tradimenti (Il Saggiatore, nuova edizione 2009). G.S. pagina 99we | 28 | IDEE sabato 4 ottobre 2014 Sessanta si trattò di decidere sull’apertura del centro, tutti i grandi del mondo si schierarono contro, con un’inedita convergenza tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Le due potenze erano divise su tutto, ma concordavano nel non voler sostenere Trieste come porto franco scientifico per la rinascita economica dei Paesi del Terzo Mondo attraverso la ricerca pura. Per i detrattori si trattava di un progetto folle e visionario che però incontrò il sostegno determinante dell’ambasciatore Egidio Ortona e sopra- L’istituto è un significativo strumento di politica estera. E ora anche Cina e Brasile vogliono copiarne il modello POLO D’ECCELLENZA Il Centro internazionale di fisica teorica Abdus Salam (International Centre for Theoretical Physics, ICTP) a Trieste, località Miramare ICTP il porto franco triestino della fisica dell’altro mondo Ricerca | Fondato durante la guerra fredda dal Nobel Salam, l’Ictp continua ad attrarre i migliori cervelli dei Paesi in via di sviluppo. Ora compie 50 anni NICO PITRELLI n TRIESTE. Cinquant’anni fa nasceva nel pieno della guerra fredda a Trieste un istituto scientifico unico al mondo: un centro di ricerca pura pensato per permettere ai Paesi in via di sviluppo di svolgere attività scientifica d’eccellenza. La sua storia è celebrata in questi giorni in un convegno a cui partecipano fra gli altri premi Nobel per la fisica, medaglie Fields per la matematica e il direttore generale dell’Unesco. Ma il Centro internazionale di fisica teorica (Ictp) Abdus Salam ha avuto origine in un contesto culturale e geopolitico che non esiste più ed è lecito chiedersi quale sia il senso della sua mission oggi. L’Ictp è il solo istituto scientifico al mondo su cui sventola la bandiera dell’Onu. Il suo fondatore, il pakistano Abdus Salam, a cui è intitolato il centro dal 1996, è stato finora l’unico scienziato di origine islamica ad aver vinto un premio Nobel per la fisica. Fortemente voluto negli anni Sessanta del secolo scorso dall’allora ministro degli Esteri Giulio Andreotti, l’Ictp è tuttora ampiamente sostenuto dal governo italiano con un contributo attuale di 20,5 milioni di euro all’anno, pari all’85% circa del budget complessivo. Un ottimo investimento, a leggere i numeri. Solo nel 2013, l’istituto è stato frequentato da quasi seimila studenti e ricercatori provenienti da 139 nazioni, soprattutto da Paesi in via di sviluppo, in primis Algeria, Nigeria, Egitto, fino a Costa Rica, Ecuador, Guatemala, di cui il 23% sono donne. In cinquant’anni di vita il centro è stato teatro di più di 140 mila visite (così vengono definiti i periodi di permanenza di studenti e ricercatori stranieri) soprattutto da Paesi poveri, con una produzione scientifica costante e di livello internazionale. Una delle caratteristiche peculiari del modello organizzativo dell’Ictp è favorire il ritorno dei visitatori nei Paesi d’origine dopo il periodo di permanenza a Trieste. L’obiettivo è raggiunto attraverso una serie di programmi che, da una parte, permettono di mantenere un legame duraturo col centro triestino, dall’altra di promuovere progetti scientifici legati ai bisogni specifici del territorio di provenienza. Uno dei più consolidati è l’Associateship Scheme, grazie al quale vengono stabiliti rapporti di lungo termine con i singoli ricercatori. Attraverso il Federation Arrangement Scheme, le istituzioni dei Paesi in via di sviluppo posso- no invece mandare a Trieste i loro scienziati, di età inferiore ai 40 anni, per visite comprese fra i 60 e i 150 giorni, per un periodo complessivo di tre anni, durante il quale i partecipanti svolgono varie attività formative e di ricerca. In questo caso le spese sono condivise. I successi dell’Ictp sono stati raggiunti anche grazie alla capacità, negli Il progetto fu osteggiato da Usa e Urss che lo reputavano folle e visionario. Alla fine passò grazie ad Andreotti anni, di mutare pelle sia negli interessi di ricerca, perché alla fisica pura si sono aggiunti altri ambiti disciplinari, come la fisica del tempo e del clima, la geofisica dei terremoti o la computer science, sia sul piano strategico-istituzionale. «I profondi cambiamenti geopolitici accaduti dal 1964 a oggi», spiega a pagina99 Sandro Scandolo, senior scientist e delegato dell’Ictp per le relazioni con l’Italia, «hanno modificato il rapporto con diversi Paesi che una volta riceveva- no il nostro supporto. Nazioni come la Cina e il Brasile, diventate forze trainanti della ricerca internazionale, hanno sempre meno bisogno dei servizi tradizionali del nostro istituto, ma continuano a chiederci aiuto perché vogliono fare nel loro Paese quello che abbiamo fatto a Trieste. Da diretti beneficiari sono diventati partner: per questo credo che il modello organizzativo originale sostenuto dai fondatori dell’Ictp abbia vinto». Nella visione del già citato Salam e del fisico triestino Paolo Budinich, i due artefici del Trieste Experiment, come lo definì all’epoca il New York Times, c’era un progetto inedito di sostegno ai Paesi poveri attraverso la scienza. Non semplicemente un centro d’attrazione per i ricercatori di Paesi in via di sviluppo, ma un investimento di lungo termine sul capitale umano: l’Ictp doveva essere un necessario luogo di formazione, ma di passaggio, per chi poi sarebbe ritornato in patria per assumere ruoli di leadership scientifica. Un approccio molto diverso da quello seguito da grandi istituzioni come il Mit di Boston o il College de France di Parigi, dove sapevano bene che la “fuga dei cervelli” conveniva soprattutto se unidirezionale. Non a caso, quando nei primi anni tutto dell’allora ministro degli Esteri Giulio Andreotti. Iniziò una lunga battaglia diplomatica che, come spiega Pietro Greco nel libro Buongiorno prof. Budinich, edito da Bompiani nel 2007, trovava le sue ragioni in motivi che andavano al di là della scienza. In particolare, il nostro Paese dopo aver perso la guerra aveva bisogno di recuperare lo status di potenza sviluppata e per questo voleva mostrarsi come nazione donatrice. Ed è proprio la generosità del finanziamento garantito dal governo italiano che risultò infine decisiva per vincere le resistenze. Tale stanziamento, come già accennato, continua a essere cospicuo anche oggi e se da una parte l’Ictp rimane una scommessa di successo, dall’altra bisogna confrontarsi con un contesto internazionale radicalmente cambiato e con un’Italia attraversata da una profonda crisi economica. «Non c’è dubbio», afferma Scandolo, «che ci dobbiamo rapportare con problemi nuovi. Rispetto al passato siamo ad esempio sempre più costretti a lavorare con governanti che prediligono aspetti applicativi e pretendono risultati immediati: in poco tempo vorrebbero costruire centri di ricerca innovativi dove adesso non c’è niente. Questo non è possibile e noi abbiamo il compito di convincerli che la formazione di base è fondamentale, richiede pazienza, ma si rivela cruciale sul lungo periodo. Credo che per questo la nostra funzione continui a rimanere fondamentale». Come convive la realtà del centro triestino con le difficoltà economiche italiane? Al di là dell’importante impatto scientifico, Scandolo ammette che «bisogna comunicare meglio il fatto che l’Ictp continua a essere strategico in termini di cooperazione internazionale dando la possibilità all’Italia di costruire contatti con realtà altrimenti difficilmente raggiungibili». In altre parole l’Ictp, anche se da noi poco conosciuto, rimane un significativo braccio operativo della politica estera nazionale. Non si può dimenticare poi che l’istituto è stato il generatore del cosiddetto Sistema Trieste, ha fatto cioè decollare la nascita dell’insieme di realtà scientifiche e tecnologiche che rende il oggi il capoluogo giuliano una delle città europee con la maggiore densità di persone impiegate nel settore ricerca e sviluppo. Lasciata alle spalle la stagione dei “lucidi visionari” Salam e Budinich, ai successori alla guida dell’Ictp rimane quindi il compito di non far perdere il mordente a scienziati, politici e opinione pubblica per una storia scientifica e politica di successo, in controtendenza con la narrativa del declino italiano e che ha reso fra l’altro Trieste, come ha affermato il fisico ruandese Romani Maurenzi, direttore esecutivo dell’Accademia mondiale delle scienze, forse l’unica città al mondo e sicuramente l’unico posto in Italia dove «quando incontri una persona di colore pensi che sia uno scienziato». sabato 4 ottobre 2014 | pagina 99we IDEE | 29 quando i genitori restituiscono i bambini Adozioni | I casi oscillano tra l’1 e l’1,8% del totale. Quasi sempre alla base dell’insuccesso c’è un deficit di assistenza alle famiglie in difficoltà HELENA PERTOT n Due persone che si amano e vogliono diventare genitori, desiderano essere chiamati “mamma” e “papà”, e perciò compilano decine di documenti e aspettano un bambino, il loro bambino, anche per lunghi anni. Finalmente arriva: lo accolgono a casa, lo fanno diventare parte della famiglia e della società. Ma poco dopo, stremati, lo respingono. E lo restituiscono al mittente. I bambini restituiti sono la triste conseguenza di una seria difficoltà: fare i genitori, adottivi per di più. Ci La procedura prevede il coinvolgimento di una nutrita folla di operatori che non sempre sono nelle condizioni di poter dialogare si trova ad avere a che fare con minori che mettono alla prova: provocano, mentono, sono violenti. Molte volte sono ragazzi con alle spalle una storia buia e confusa. Molti sono cresciuti in istituti, sono stati dati in affido e si sono affezionati diverse volte a qualcuno, per finire di nuovo soli. Un’altalena emotiva a momenti straziante. Ma quanti sono davvero i bambini restituiti? Sfortunatamente ci sono pochi dati ufficiali. Nel 2003, però, la Commissione per le adozioni internazionali ha svolto un’approfondita indagine dalla quale è risultato che le adozioni fallite oscillavano tra l’1 e l’1,8 per cento. Inoltre ha rivelato che un buon 26% di esse riguarda i bambini di età compresa tra i 15 e i 18 anni. Sembra, infatti, confermarsi la difficoltà d’instaurazione del doppio processo di genitorialità e filiazione quando i minori hanno un’età in cui la loro individualità appare più definita e «il timore di non corrispondere alle aspettative dei genitori adottivi spesso si manifesta con modalità fuorvianti quali crisi di rabbia e di aggressività», come scrive Caterina Adami Lami, professoressa al Dipartimento di pediatria dell’Università degli studi di Firenze. «Gli adolescenti richiedono per questo una particolare consapevolezza, preparazione e impegno da parte dei genitori adottivi», continua la dottoressa, «devono essere una coppia unita e solida, capace di conservare la sicu- rezza nelle proprie capacità genitoriali anche di fronte ad atteggiamenti trasgressivi e ribelli e di contenere il disagio di questi ragazzi che, al di là degli atteggiamenti provocatori, sono molto fragili e insicuri». L’adolescenza diventa quindi uno specchio che riflette e amplifica le fragilità di un sistema incrinato. I fattori che possono portare al fallimento di un’adozione sono molteplici: i traumi precedentemente subiti dal bambino, la disponibilità dei genitori ad accettare un bambino “non perfetto” come l’avevano sognato, ma forse su tutti, la solitudine della famiglia stessa. La legge, infatti, non prevede per i servizi sociali l’obbligo di accompagnamento nella fase di inserimento nel nuovo contesto famigliare, soltanto la possibilità di farlo nel caso in cui lo si chieda. Ma il più delle volte è proprio chi non lo chiede in genere ad aver bisogno di aiuto. «È auspicabile che il servizio crei da subito un rapporto di stima e di fiducia che permetta, qualora insorgano problemi, come di solito avviene nell’adolescenza, il ritorno della famiglia al servizio», scrive Melita Cavallo, allora presidente della Commissione per le adozioni internazionali, nel medesimo report. «Senza dubbio molti degli insuccessi registrati si sarebbero potuti evitare se la coppia fosse stata seguita, affiancata, sostenuta, orientata, se insomma avesse avuto un ancoraggio forte e sicuro e se nel periodo dell’adolescenza vi fosse stato un ricorso tempestivo al servizio». Ma i servizi sono in Italia una realtà composita: oltre all’assistente sociale e allo psicologo, troviamo, a seconda dei casi, il neuropsichiatra infantile, il terapista della riabilitazione, il pediatra, l’assistente sanitario e altri ancora. Nell’adozione internazionale sono coinvolti poi i servizi del Paese d’origine del giovane da adottare. Una folla abbastanza nutrita di operatori quindi, che non sempre si trovano nelle condizioni di poter dialogare. Una complessità che non consente di identificare un solo punto critico responsabile del fallimento del progetto iniziale, poiché questo risulta spesso danneggiato in più punti. «Per strutturare una migliore attività di prevenzione sembra quindi più utile intervenire a più livelli, in diverse fasi dell’iter adottivo, cercando di potenziare e coordinare tra loro gli interventi dei diversi soggetti coinvolti al fine di una più idonea tutela degli interessi del minore» spiega Raffaella Pregliasco, referente adozioni del- PETER MARLOW / MAGNUM PHOTOS / CONTRASTO LEGAMI FRAGILI La legge non prevede per i servizi sociali l’obbligo di accompagnamento del bambino nella fase di inserimento nella famiglia d’adozione, ma solo nel caso in cui lo si chieda. Il più delle volte è proprio chi non lo chiede ad aver bisogno di aiuto l’Istituto degli Innocenti di Firenze. Esistono però anche adozioni impossibili. Ci sono ragazzini con un passato così difficile che rifiutano di accettare un’altra famiglia. In quel caso è meglio la comunità dove sono seguiti costantemente da un’équipe di psicologi. Il difficile è accettarlo, ammettere il fallimento e rendersi conto che non si era la persona giusta. Ritorniamo per un attimo alla coppia innamorata di cui sopra. Immaginiamo che prima di arrivare alla scelta dell’adozione abbia passato degli anni frustranti tra tentativi falliti e pratiche di procreazione assistita. Immaginiamo abbia passato poi altri anni in attesa del figlio adottivo. La trafila per adottare un bambino come abbiamo visto è molto lunga e le domande di adozione nazionale superano di gran lunga le disponibilità di bambini in stato di adottabilità, per ogni bambino ci sono almeno dodici coppie in attesa. Alessandra, infermiera e madre adottiva di due bambini indiani, dice di aver visto delle coppie a dir poco intimorite al momento del colloquio per l’adozione. «Spesso», spiega, «è l’ultima possibilità che hai di diventare genitore. Arrivi a una certa età e non hai molte alternative. Qualsiasi prolungamento è tutt’altro che piacevole, ed è normale che tu sia stremato e terrorizzato che la procedura non vada a buon fine». Immaginiamo allora la nostra coppia in questa difficile situazione. Avrà avuto la lucidità di dire di no, se l’esperienza fosse risultata troppo difficile? Avrà avuto il sostegno necessario e in caso contrario la forza di chiedere aiuto? sabato 4 ottobre 2014 | pagina 99we IDEE | 31 combattere il tumore alimentandolo Scoperta | Individuato un nuovo bersaglio molecolare per le terapie anti-angiogeniche. Consente di aumentare penetrazione ed efficacia dei farmaci chemioterapici ELEONORA DEGANO n Rendere più funzionale la rete vascolare di un tumore, garantendogli ossigeno e nutrienti, per aumentare l’efficacia dei farmaci. Sembra paradossale, ma è il principio sul quale si basano le terapie anti-angiogenesi, ora indirizzate verso un nuovo bersaglio: L1, scoperta recentemente allo IEO, l’Istituto europeo di oncologia. La molecola è presente nei vasi sanguigni di vari tipi di tumore, ma non in quelli dei tessuti normali: inibirla I vasi sanguigni tumorali sono fragili e permeabili: intervenendo su di essi è possibile migliorare la risposta terapeutica permette di normalizzare i vasi, favorendo il flusso sanguigno. Una possibile conseguenza è la migliore penetrazione dei farmaci chemioterapici, con il potenziale risultato di migliorare la risposta terapeutica. «Le prime scoperte nell’ambito dell’angiogenesi hanno portato a elaborare farmaci come il Bevacizumab [in commercio con il nome di Avastin], ormai annoverati nella pratica clinica e associati alle terapie convenzionali», spiega a pagina99 Ugo Cavallaro, che ha coordinato lo studio su L1 e guida un team di ricerca nel Molecular medicine program dello IEO. Tali farmaci, sempre somministrati in concomitanza con radioterapia o chemioterapia, danno risultati promettenti bloccando il VEGF, vascular endotelial growth factor. Vengono usati in particolare sul tumore dell’ovaio e su quello del colon, la cui sopravvivenza è legata alla vascolarizzazione; per quanto riguarda le altre tipologie di tumore, l’argomento è ancora controverso. Negli anni, tuttavia, è emerso che tali farmaci presentano un certo grado di tossicità. Per di più, la maggior parte dei tumori è in SIMONE DONATI / TERRAPROJECT / CONTRASTO CURA Il laboratorio del dipartimento di Immunoterapia Oncologica all'Ospedale Santa Maria Le Scotte di Siena grado di sviluppare strategie che bypassano il blocco del VEGF, riprendendo la vascolarizzazione con modalità differenti. «Bloccando il VEGF accade anche che si verifichi l’”effetto rimbalzo”: una volta interrotta la terapia il tumore diventa più aggressivo», spiega Cavallaro. «Il fenomeno è stato osservato sia nei modelli preclinici che nei pazienti, e anche per talemotivo era necessario cercare un nuovo bersaglio. Questo ha reso necessario studiare i meccanismi di ba- se dell’angiogenesi, lo sviluppo dei vasi sanguigni, ed è così che abbiamo trovato L1». Osservando una serie di tumori per altri scopi, Cavallaro e il suo team hanno scoperto che L1 gioca un ruolo funzionale nel promuovere la formazione dei vasi tumorali: si tratta di vasi differenti da quelli normali poiché aumentano di numero in modo sregolato, caotico, e paradossalmente funzionano peggio. La loro organizzazione è meno precisa, l’architettura meno rigorosa, e questo comporta che spesso siano fragili e permeabili. Come dei tubi che perdono. La “scarsa qualità” di tali vasi comporta che quando una terapia viene somministrata per via circolatoria, come la chemioterapia, vi sia un’ingente perdita durante il percorso. Il farmaco fatica ad arrivare a tutte le la sofisticata socialità dei pungiglioni altruisti ENRICO ALLEVA n Gli insiemi biologici sono sottoposti a stringenti leggi darwiniane, che li hanno plasmati lungo la complessa e non di rado contorta storia della vita sulla Terra. Dagli aggregati di cellule alle società animali, la sopravvivenza dei singoli è spesso facilitata dalla vita con altri della stessa specie. Prendiamo il caso dell’alveare, una società di insetti eusociali, ovvero “provvisti di alto grado di so- cialità animale”. Immaginiamo una situazione di crisi in cui un predatore, attirato dal miele, attacchi l’arnia. La risposta sarà coordinata tra vari individui: le caratteristiche morfologiche e quelle comportamentali coopereranno per scoraggiare l’intruso. L’ape è provvista di quell’ammirevole apparecchiatura che è il pungiglione: scorta una sagoma che si avvicini all’alveare oltre una soglia-limite di distanza, la reazione sarà quella di pungerla. Una fase di irritabilità generalizzata che culmi- nerà in un preciso atto di trafittura. Fissatosi il pungiglione nella pelle del predatore, tuttavia, l’addome dell’ape si lacererà e questa morirà. Ma il pungiglione continuerà ad affondare autonomamente, e rilascerà una serie di feromoni che esercitano una duplice funzione. Da una parte mettono in allarme qualsiasi ape si trovi a una certa distanza, dall’altra le facilitano l’attacco e la puntura. Se immaginiamo un predatore che se ne va in giro con uno o più pungiglioni conficcati nella pelle, questi sarà subito sco- aree del tessuto neoplastico, il tumore non viene irrorato nella sua interezza e il medicinale, di conseguenza, non è mai efficace al 100%. È perciò molto difficile che un qualsiasi tipo di terapia sistemica riesca a indurre la completa regressione di un tumore: può esserci una ricaduta, o una resistenza. Agendo nelle cellule endoteliali, quelle che rivestono le pareti dei vasi sanguigni, la molecola L1 le induce a proliferare e migrare per formare nuovi vasi. Eliminandola, ad esempio inattivando il gene che la esprime o tramite anticorpi neutralizzanti, tutto ciò non avviene. «In questo modo blocchiamo l’angiogenesi del tumore, limitiamo la repressione metastatica e normalizziamo i vasi tumorali», spiega Cavallaro. «Certo è paradossale, perché sto rendendo la rete vascolare del tumore più efficiente: ma ho anche più probabilità che il medicinale vi arrivi. Il fatto stesso di sapere che un tumore produce una particolare molecola, che è invece totalmente assente nei tessuti normali di un essere umano, potrebbe significare proprio che sta esplorando tutte le possibili vie per aumentare la propria vascolarizzazione». Nella fase successiva della ricerca dello IEO, si lavorerà in questa direzione. Scoperto il nuovo target per la terapia, «rimane da dimostrare che l’effetto di una vascolarizzazione normale sia una miglior risposta del tumore ai medicinali. Di certo per arrivare a dei trial clinici sugli esseri umani ci vorranno degli anni, dobbiamo ancora ottenere una serie di dati che supportino l’efficacia del trattamento anti-L1 in assenza di effetti tossici significativi», spiega Cavallaro. Etologia | Le strategie di sopravvivenza animali e degli uomini si incontrano alla manifestazione BergamoScienza (in programma fino al 19 ottobre) perto se tenta di attaccare un alveare, e dissuaso a suon di punture. Insomma, il sacrificio di un soggetto sarà a beneficio dell’intera società. Un fenomeno di questo genere è particolarmente sviluppato in insetti sociali quali api, formiche o termiti in quanto il patrimonio genetico dei vari individui è molto simile: sono quasi tutti figli di un’unica femmina, la regina. Sacrificandosi, quindi, alcuni individui “proteggeranno” il proprio patrimonio genetico, in comune con le sorelle. Pensiamo, come secondo esem- pio, a una forte siccità in Africa che colpisca un gruppo di elefanti. Anche per queste emergenze l’evoluzione ha provvisto alcune strategie: nel branco, oltre ai maschi e le femmine adulte, sono spesso presenti alcune femmine molto anziane. Vari evoluzionisti si sono chiesti come mai sapendo che in molte specie, al fine di non competere con i giovani per le risorse, il ciclo vitale termina a breve distanza dalla fine del periodo riproduttivo. Nel caso degli elefanti, è probabile che le femmine anziane abbiano, nella lo- ro vita, frequentato pozze d’acqua molto distanti dalle zone consuete del branco. Esse divengono perciò un elemento dirimente per la sopravvivenza dell’intero gruppo. Non dobbiamo tuttavia farci trarre in inganno, cercando negli animali spiegazioni per le strategie umane. I nostri sistemi sono molto differenti, in funzione delle capacità linguistiche, della storia naturale e della scrittura. Quest’ultima in particolare ci rende diversi da qualsiasi altra specie si aggiri sul pianeta Terra. pagina 99we | 32 | ARTI MARCO CUBEDDU n Se un ballerino va a scuola di danza è normale. Se un pittore frequenta l’accademia è scontato. Se un pianista non si diploma al conservatorio è strano. Da sempre, gli artisti, per diventare artisti, vanno a scuola. E gli scrittori? A più di 25 anni dalla fondazione delle prime, in Italia parlare di “scuole di scrittura” fa storcere il naso. Probabilmente il pregiudizio dipende dal fatto che si impara a leggere e scrivere fin dalle elementari, così tutti crediamo di disporre dei mezzi tecnici per raccontare una storia. Una convinzione così radicata da rendere incalcolabile, in rapporto alla popolazione attiva, l’altissima percentuale di manoscritti nel cassetto. È probabile che molti lettori di questo pezzo non saprebbero distinguere, in un pentagramma, una tona da una semitona. Certo in pochi si sentirebbero all’altezza di interpretare il Lago dei cigni anche in una versione da oratorio. Difficile che una percentuale significativa si cimenti con la scultura. Ma è probabile che, essendo a tutti decifrabile la frase «prima o poi scrivo la storia della mia vita», molti abbiano pensato di farlo. Senza bisogno di studiare. sabato 4 ottobre 2014 se lo scrittore deve andare a scuola Letteratura | Negli Usa è del tutto normale. Da noi c’è diffidenza. Reportage fra i principali corsi di scrittura a più di 25 anni dalla loro fondazione. Dove, fra talenti riconosciuti, crescono anche egomaniaci e squilibrati • Usa Negli Usa non è così. Il professor McGurl in The program Era (Harvard University Press) sostiene che «l’affermarsideiprogrammi discritturacreativa è il più importante evento nella storia della letteratura americana del dopoguerra». Prime tracce se ne hanno fin dall’800. Tutto è nato dai poeti. Molti È un dato di fatto che realtà come la Holden vedono il 70% di diplomati lavorare nei campi attinenti alla scrittura intrapresero la carriera accademica per mantenersi e, dai vicendevoli inviti a tenere seminari nei rispettivi campus, nacquero corsi strutturati che presto coinvolsero anche i romanzieri. Nel 1936 nacque l’Iowa Writing Workshop, in cui hanno studiato e/o insegnato, fra gli altri, John Cheever, Kurt Vonnegut, Philip Roth, Robert Lowell, Michael Cunningham. Dal dopoguerra si sono moltiplicate le realtà che hanno coinvolto autori come Doctorow, J.C. Oates, Toni Morrison, John Irving, McInerney, Carver, Saul Bellow, Nabokov, Foster Wallace, Updike, ecc. Difficilenon pensarechel’andare “a bottega” migliori il livello medio delle opere pubblicate. In Italia, diversi autori e scuole portano avanti la stessa battaglia formativa. • Giulio Mozzi «La cosa più difficile è spiegare che una narrazione è una concatenazione di eventi legati da un principio di causa-effetto». Giulio Mozzi, scrittore e pioniere dell’insegnamento della scrittura creativa in Italia, parte dall’analisi dei testi, in un lavoro collettivo che diventa amplificazione dell’editing. «Moltiplicando le letture gli allievi prendono atto di come è composto il loro immaginario. Per 2000 anni, fino all’800, si insegnava la retorica. C’erano le riviste, i circoli letterari. Che so, uno che andava al caffè Giubbe rosse di Firenze a sentire Montale che parlava con Landolfi, e anche se non lo sapeva stava andando a scuola. La sparizione di queste realtà ha fatto sì che dei corsi organizzati colmassero quel vuoto. L’importante è non confondere quelli per dopolavoristi, senza ambizioni professionali, e quelli rivolti a chi cerca strumenti professionali. In Italia bisogna ancora combattere con una FRANK MARTIN/BIPS/GETTY IMAGES A LEZIONE I guanti numerati e letterati utilizzati per l’insegnamento della dattilografia in una foto degli anni ‘60 concezione classista della scrittura, come appannaggio divino. Da notare che lo squilibrio con gli Usa si evince anche dalla pubblicistica tecnica in merito all’insegnamento. In Americaè sterminata. In Italia, langue». A Milano, presso Laurana editore, insieme a Gabriele Dadati, gestisce la Bottega di narrazione che accoglie circa 20 corsisti all’anno (costo 2.400 euro, due borse di studio da 500) che abbiano un testo o un’idea nel cassetto da sviluppare. Fra i diversi allievi di Mozzi, Giorgio Falco, vincitore del Campiello 2014. • Raul Montanari Nel 2013 sono 13 gli esordi con varie case editrici importanti passati dalla sua scuola. E i numeri sono un buon termometro della didattica. Nata nel 1999, la sua scuola, personale e itinerante, sempre nell’area milanese, ha portato diversi allievi a pubblicare con Mondadori, Rizzoli, Fandango, Feltrinelli, Einaudi, ecc. La formazione è al centro degli interessi di Raul Montanari che ricorda come «Rocky Marciano continuava a prendere lezioni di boxe anche dopo essere diventato un campione. Fra i miei allievi,cisono anchescrittorigiàpubblicati che desiderano migliorarsi e la redazione di Sky cinema, direttore in testa. Il talento è anche determinazione e impegno. È importante per ogni autore fare in modo che la fiducia in se stesso non diventi idiozia (“sono il più bravo di tutti”) e che l’autocritica non diventi paralizzante (“non ce la farò mai”)». Ogni anno ruotano attorno alla scuola circa 100 studenti da tutta Italia. Il corso è struttu- rato a moduli, per ognuno 600 euro, ma farli tutti ne costa meno di 2000. • Palomar La Palomar, a Rovigo, è una piccola realtà virtuosa fondata dallo scrittore Mattia Signorini. Dall’esperienza maturata con l’agente letterario Vicki Satlow, per conto della quale ha scoperto diversi autori emergenti, è nata l’idea di una scuola strutturata con un programma molto anglosassone, i primi mesi di corso dedicati alla scaletta dei romanzi degli allievi,i successiviquattro ascrivere. Per accedere non ci sono limiti di età otitoli distudio,ilcorso èstrutturatonei week end e ha un costo variabile tra i 1500 e i 2000 euro. I migliori lavori prodotti vengono direttamente proposti all’Agenzia Vicki Satlow, per una rappre- sabato 4 ottobre 2014 | pagina 99we sentanza in Italia e all’estero presso le più importanti case editrici, per cui diversi autori passati tra le mani di Signorini hanno già pubblicato o stanno per pubblicare. • Omero La più antica, fondata a Roma nel 1988 da Paolo Restuccia e Enrico Valenzi, convinti che «sia possibile insegnare alcuni principicondivisi dachi scrive,suggerire il modo più efficiente per editare un proprio testo, accompagnare gli autori a scrivere al meglio le storie che hanno voglia di scrivere». Al primo docente, Vincenzo Cerami, si sono aggiunti alcuni tra i più importanti scrittori italiani, come Sandro Veronesi, Francesco Piccolo, Giancarlo De Cataldo.Ogni anno si aggiungono decine di nuovi iscritti agli allievi che seguono i corsi già da qualche anno.Organizzati suvarilivelli, alprimo si accede attraverso un breve colloquio, al secondo con delle prove scritte, al terzo con un progetto editoriale. Il corso classico per iniziare dura dieci settimane con dieci incontri di due ore e costa 300,00 euro. Tra gli ex allievi, oltre a quelli che lavorano in vari ambiti della scrittura, anche diversi romanzieri come Gianrico Carofiglio e Giordano Tedoldi. • Minimum I corsi di scrittura di Minimum Fax, a Roma, sono legati al circuito romano della casa editrice, già molto attiva nei corsi di editoria, e si dividono in due offerte formative. I seminari aperti a tutti, a cura di Carola Susani, in compagnia di un ospite diverso per ogni argomento trattato (da Walter Siti a Domenico Starnone, su personaggi, trama, stile, ecc.), e Come per il cinema, si può insegnare a fare un buon film ma nessuno può insegnare a realizzare un capolavoro il corso biennale, nella formula di un sabato al mese, a cui si accede con un progettodiromanzoo diraccoltadiracconti suddiviso in una parte di letture, una seconda di scrittura, una terza di editing, individuale e di gruppo, e un’ultima di presentazione dei propri lavori, a riviste, quotidiani ed editori. Fra i docenti Christian Raimo, Giordano Meacci, Cristiano De Maio, Francesco Pacifico. • Gruppo di Supporto Scrittori Pigri È un laboratorio online della durata di quattro mesi che coinvolge 40 iscritti provenienti da tutta Italia oltre a diversi italiani all’estero, da Germania, Belgio, Brasile e Perù. Strutturato come un forum, a parte i giorni fissi per le consegne dei lavori, per il resto si può accedere in qualunque momento. Obiettivo, lo sviluppo di un progetto personale di minimo 25-massimo 40 cartelle, attraverso esercizi settimanali specifici. A gestirlo, Barbara Fioro, scrittrice, e Christian Delorenzo, editor. 220 euro a persona. • Holden Dal 1994, quando, secondo i ricordi di chi c’era, sembrava un gruppo di autocoscienza, fondata a Torino da Alessandro Baricco, è diventata una vera e propria scuola. È una realtà che conosco da vicino per averla frequentata nel biennio 2006-2008. Oltre alle mille lezioni, utili per rendersi conto che se il genio per la scrittura di Nabokov è intrasmettibile, con l’esercizio e la forza di volontà il “mestiere” alla Carver è apprendibile, è stato un periodo di incontri fondamentali, come quello con lo scrittore Dario Voltolini, con il giornalista e scrittore Luca Rastello e soprattutto con il regista Werner Herzog. È scuola anche fumare una sigaretta sul balcone con qualcuno che ti esorta a «narrare per non morire» o ti invita a contemplare «la violenza dell’universo». Dal 2013 si è rinnovata, in partnership con Eataly e Feltrinelli, diventando una specie di università, con sei corsi, chiamati college, in cui la scrittura narrativa è solo una delle branche della narrazione. Il master biennale si rivolge a un target prettamente studentesco, dai 18 ai 30 anni, per un costo di 10.000 euro l’anno, con borse di studio per il secondo anno per i più meritevoli. • Pro Anche la prosa più elementare è frutto di un artificio, formalizzare i pensieri è qualcosa che si sviluppa con l’allenamento. C’è un filo rosso che unisce il ragionamento sulla struttura delle storie, smontandole per scoprirne il funzionamento, da Aristotele alle scuole di creative writing. A quelli che dicono «Hemingway non ha mai fatto corsi di scrittura» bisognerebbe ricordare, oltre alla sua esperienza giornalistica, che fre- FRANCESCO GUGLIERI n Alla fine della terza stagione di Girls, Hannah, la protagonista interpretata da Lena Dunham, decide di abbandonare New York per andare a studiare scrittura creativa alla Iowa University. Non punta a scrivere il Grande Romanzo Americano (con tutta la tradizione di sottintesi che si porta dietro: una gara tra Maschi Bianchi Morti e i loro omologhi viventi a chi ce l’ha più lungo), maun libro a metàtra memoire il personal essay – immaginate qualcosa di simile a Sheila Heiti o Joan Didion. Ecco, se vi serviva una rappresentazione plastica del campo letterario americano oggi, non potevate chiedere di meglio: da una parte New York City, le case editrici di Manhattan, gli anticipi a sei cifre, gli agenti, le vendite all’estero e le feste sugli attici. Dall’altra le università con i Mfa (Master of Fine Arts) e i loro corsi e diplomi in scrittura creativa – e prima fra tutte proprio Iowa, nelle cui classi di creative writing passarono, come insegnanti, studenti o entrambi, Cheever e Carver, Boyle, Michael Cunnigam e molti altri. Ovviamente non è così semplicistico. E per capire meglio come stanno le cose può essere utile un libro uscito da poco negli Stati Uniti, intitolato MFA vs NYC e curato da Chad Harbach per i tipi di n+1 (pp. 312, $ 16.00). Molti dei contributi di questa antologiavengono propriodaautori cheruotano intorno alla rivista n+1 (Keith Gessen, Elif Batuman, Emily Gould, lo stesso Harbach): ma ci sono anche pezzi di David Foster Wallace, George Saunders, LorinStein o Fredric Jameson, tutta gente che per accidente biograficoo interessescientifico aun certopunto si è chiesta “Come vive uno scrittore?”. Che è come dire “Di cosa vive una scrittore?”. Le constatazioni da cui parte Harbach sono semplici: i programmi di scrittura attivi nelle varie università del Paese sono aumentati in maniera esponenziale negli ultimi trent’anni (nel 1975 erano 79, oggi sono 1269); questa espansione ha fatto sì che mai come oggi ci siano scrittori dentro i campus. Un altro modo per dirla è che l’insegnamento è diventata sempre più la fonte di reddito principale per molti scrittori. Gessen ne dà una bella testimonianza nel suo contributo, intitolato giustamente Money: il racconto di un anno di insegnamento alla Columbia dopo aver dilapidato l’anticipo del suo primo romanzo e di cosa ciò ha comportato per la sua scrittura ma anche, con tantodi estratti conto, peril suo tenore di vita. Gessen chiude con le perplessità di chiunque si trova per le mani un apparente paradosso: com’è possibile che la noia di un lavoro retribuito e ad alto tasso burocratico abbia contribuito alla serenità (economica e non solo) che serve per scrivere? Del resto, molti se non la maggior parte di quelli che si iscrivono per prendere un Mfa in scrittura creativa non lo fanno per imparare a scrivere, ma per trovare il tempo di scrivere, per sfuggire, trasferen- ARTI | 33 quentò Parigi negli anni ’20 e che i suoi primi lavori venivano letti e discussi da gente tipo Gertrude Stein, Joyce, Pound, Fitzgerald. Se uno non abita a Roma, o Milano, città che traboccano di posti di cui si può dire «lì vanno gli scrittori», le scuole di scrittura accelerano il processo di formazione di un autore e sono l’ambiente ideale per mettersi in collegamento con altri aspiranti scrittori, leggersi a vicenda, incoraggiarsi, mettersi in competizione l’uno con l’altro, rubare dall’esperienza altrui. È un dato di fatto che realtà come la Holden vedono il 70% di diplomati lavorare nei campi attinenti alla scrittura. • Contro Spesso sono frequentateda egomaniaci, squilibrati capaci di passare dall’esaltazione alla depressione nel giro di pochi minuti e svogliati ragazzini con molte disponibilità famigliari. Molti docenti non di rado sonoscrittori falliti, frustrati il doppio dei loro studenti. Il circolo vi- zioso è alimentato da ex studenti irrealizzati che passano dall’altra parte della cattedra per raggranellare qualche soldo, alimentando la mediocrità degli insegnamenti. Capita che certe lezioni siano impostate su idiozie naif (cacce al tesoro per far scoprire agli allievi le proprie potenzialità nascoste, giri in mongolfiera per provare un diverso punto di vista). • Conclusioni Come per le scuole di cinema, o le accademie, si può insegnare a fare un buon film, o una scultura che stia in piedi, ma niente al mondo può insegnare a realizzare un capolavoro come Apocalypse now o Amore e Psiche. Una contraddizione evidente è che a fronte di una crisi del mercato editoriale ci sono sempre più persone che vogliono scrivere. Dalle veline ai calciatori agli attori, tutti vogliono scrivere un libro, un dato sociologico registrato anche da programmi tv come Masterpiece o da concorsi come La giara. Si moltiplicano editor im- provvisati, insegnanti di lettere che non hanno la più pallida idea di come si scriva un libro che convincono i creduloni a definirsi sui social network come «scrittore presso me stesso», editori a pagamento che non sonoaltro che stampatori più costosi di una tipografia. Meglio valide scuole di scrittura. Utili anche per capire che i contatti sono fondamentali, ma non sono tutto. Alle presentazioni, nelle serate fra scrittori, tutti si conoscono, si baciano, si abbracciano, tutti pubblicano, spesso compulsivamente, ma quasi nessuno vende molte copie: le gratificazioni economiche di questo mestiere sono molto modeste. Quasi tutti gli scrittori che hanno provato a calcolare la loro retribuzione oraria hanno accarezzato l’idea di darsi una morte onorevole. Una buona scuola di scrittura è un modo per prepararsi e difendersi dalle insidie del mondo editoriale. Magari decidendo, dopo averle frequentate, che non vale la pena scrivere. @cubamsc in America si scontrano le due culture della fiction Scenari | Da un lato romanzieri a sei cifre. Dall’altro quelli nei campus, per cui l’insegnamento è la principale fonte di reddito. Ecco come tutto ciò ha influito nella narrativa DAVID FOSTER WALLACE L’autore (a sinistra) durante il book signing del suo libro Considera l'aragosta, 2006 dosi inun campus,alle distrazionie allenevrosi di una grande città. E ai suoi affitti. E ancora: la maggior parte, se non la totalità, delle cattedre in scrittura creativa sono occupate da gente che vuole scrivere, non insegnare. D’altro canto i master in scrittura creativa sembrano rispondere a una richiesta della società contemporanea: come prolungare l’adolescenza fino ai trent’anni e soddisfare la domanda di chi vede “la creatività” come un proprio personale destino manifesto. Per quanto non fu sempre così: negli anni Cinquanta proprio Iowa ricevette i finanziamenti della Cia che vedeva nel Programma una sorta di risposta del mondo libero all’influenza socialista. Se ne può leggere in The Program Era di Mark McGurl, un volume che ripercorre la storia dell’insegnamento della scrittura creativa e i suoi rapporti con la narrativa. Ma al di là di questa genealogia da Guerra Fredda, l’idea è che la contrapposizione “istituzionale” porti a delle ricadute estetiche: il campo editoriale, leggi Nyc, tende a incoraggiare il romanzo; mentre i corsi universitari trasformano il racconto in uno strumento didattico. Cambiano anche i pubblici: se lo scrittore da college si confronta soprattutto con i pari, quello “professionista” si confronta col mercato. Ma quale “creatività” si insegna? Il saggio di Jameson (e quello della Batuman) tenta di affrontare le mediazioni ideologiche con cui si legittima l’insegnamento. In fondo, dice Jameson, se c’è una cosa che sembra impossibile da insegnareè proprio il romanzo, genere aperto e mutante per definizione. CONTRASTO L’università gioca uno strano ruolo in Mfa vs Nyc. Da una parte è lo sfondo su cui tutto si gioca. Che tu lavori nell’editoria di Nyc o insegni in un Mfa, molto probabilmente lo fai perché ti sei laureato o hai preso un dottorato in un’università. Viene quindi naturale chiedersi quale idea di letteratura si insegni oggi nelle università, quali tipi di lettori si formino, con quali gusti e valori. Dall’altra l’università, o meglio una sua parte, è la grande assente: la critica. È venuta meno la funzione di mediazione tra i testi e i lettori che per lungo tempo ha svolto la critica, così come sempre meno il critico è il compagno segreto, lo sparring partner, dell’autore. Il perché questo sia successo e se sia un male o no, è il tema di un altro libro. In fondo di critici in Girls, io non ne ricordo. pagina 99we | 34 | ARTI sabato 4 ottobre 2014 solo tempeste e silenzi bianchi per gli audaci esploratori polari Graphic novel | La pionieristica spedizione di Ernest Shackleton alla scoperta del continente antartico rivive in un libro illustrato che documenta le privazioni di uomini e cani coraggiosi FERRUCCIO GIROMINI n A rileggere oggi di certe imprese esplorative del nostro passato storico, neppure tanto lontano nel tempo, si trasecola. Ti rendi conto di quanto siamo tutti ormai viziati dalle comodità, pappemolle belle e buone, senza speranza – mentre anche solo i nostri nonni erano di ben altra tempra, in grado di sopportare avversità e privazioni di fronte alle quali invece le nostre generazioni soccomberebbero ben presto miseramente, morirebbero come mosche. La sconfortante considerazione, inevitabile e incontrovertibile, si fa largo nel nostro cervello sedentario ogni volta che veniamo a sapere qualcosa di preciso sulle disavventure degli esploratori del nostro globo terracqueo, quando questo era in parte ancora da calcare, e cartografare, e in definitiva vivere in prima persona, forse appunto per la prima volta. È il caso, ad esempio, delle vicende che costi- La messinscena è sperimentale: si alternano brevi capoversi di testo con illustrazioni di varie dimensioni, producendo un effetto di lettura altalenante fra scritto e immagini tuiscono il resoconto delle esplorazioni antartiche organizzate dall’anglo-irlandese Ernest Shackleton. Due sono state le sue epiche imprese di perlustrazione e scoperta del Polo Sud: la prima, la British Antarctic Expedition, tra il 1907 e il 1909, e la seconda, la Imperial Trans-Antarctic Expedition, tra il 1914 e il 1916. Roba da – letteralmente – gelarti il sangue nelle vene. Anche quando a raccontarcele è un delicato autore inglese noto per lavorare soprattutto per bambini e ragazzi: il giovanissimo e già molto apprezzato William Grill, che sa intrattenere molto bene con le parole insieme con le figure; ma non solo per bambini e per ragazzi, come si scopre con piacevole sorpresa sfogliando il fresco di stampa L’incredibile viaggio di Shackleton, che si concentra sulla seconda spedizione dello scopritore e che riesce a coinvolgere lettori di tutte le età grazie all’insinuante understatement britannico, così lontano dalle celebrazioni più smaccate cui siamo infaustamente abituati noi mediterranei. Con le parole insieme con le figure. Il libro infatti presenta un tipo di messinscena quasi sperimentale: a metà tra libro illustrato e graphic novel, porta avanti la sua trattazione alternando con efficacia brevi capoversi di testo con illustrazioni mute di varie dimensioni, e producendo un originale effetto di lettura altalenante tra lo scritto e le immagini – non simultanea come nel fumetto, ma neppure separata come nel classico libro illustrato. Se ne ricava la curiosa impressione di assistere come a un documentario, magari a disegni animati, dove il continuo variare del peso delle parti figurali, che in ogni pagina è differenziato ad ar- te, suggerisce sensazioni di montaggio appunto cinematografico, ora con inquadrature veloci e ora con sequenze più distese. Bambini e ragazzi, dunque, va bene, ma uno sguardo adulto forse sa godersi questo volume anche di più. Sul fondo delle pagine, candido come vergine neve polare, cominciano così a stagliarsi con bell’ordine figure e figurine colorate: uomini, ambienti, animali, attrezzature, tutto bene in vista, bene riconoscibile, beneducato. Il linguaggio di Grill è tranquillamente persuasivo. Comincia spiegando chi era Shackleton: «Sin da piccolo, si ribellava agli insegnanti, ma aveva un forte interesse per la letteratura, soprattutto per la poesia – anni dopo, durante le spedizioni, avrebbe letto ad alta voce brani di libri per tirare su di morale il suo equipaggio». E poi – con le parole di Ernest su sé stesso – sempre «particolarmente attratto dal misterioso Sud» e convinto che «al di là del suo valore storico, la prima traversata del continente antartico da una costa all’altra, attraverso il Polo Sud, sarà un viaggio di enorme valore scientifico». Le premesse indispensabili ci sono. L’8 agosto 1914 Shackleton e il suo equipaggio salpano da Plymouth per Buenos Aires, pronti a affrontare l’ultima grande spedizione dell’epoca eroica dell’esplorazione antartica. La loro nave, che si dice sia forse il vascello di legno più resistente al mondo, è stata battezzata Endurance in omaggio al motto della famiglia Shackleton: By Endurance We Conquer («resistendo vinceremo»). Molto solida e robusta, è stata progettata rinforzandone ogni elemento strutturale per affrontare debitamente le dure condizioni polari. La prua, che deve servire come ariete per rompere il ghiaccio, è spessa addirittura 1,3 metri. E dispone di una piattaforma sotto il bompresso in modo da poterla filmare mentre fende la banchisa. Avendo trovato a fatica il denaro per finanziare la spedizione, almeno le scialuppe di salvataggio sono state battezzate giudiziosamente con i nomi degli sponsor. Il reclutamento dell’equipaggio ha visto la scelta finale di 26 uomini tra i 5000 che avevano fatto richiesta; e di 69 cani tra 99, i più forti e vispi. Ci si aspetta che possano coprire fino a 30 chilometri al giorno trainando una slitta carica; e alcuni sono stati chiamati come personaggi famosi: Amundsen, Caruso, Shakespeare… Finalmente pronto, il vascello lascia la Georgia del Sud il 5 dicembre 1914 e fa rotta verso le Isole Sandwich Australi, ammainando ogni tanto la vela di prua per poter avvistare ed evitare i piccoli iceberg. Raggiunta la banchisa, procede lentamente e a fatica, tra un solido strato di ghiaccio spesso quasi un metro, con blocchi lunghi fino a un chilometro e mezzo. La nave deve percuoterli ripetutamente con la prua a mezza velocità per indebolirli e aprirsi un varco; poi deve avviare i motori e procedere a maggior velocità attraverso il ghiaccio come un cuneo. Dopo avere affrontato la banchisa per oltre mille chilometri, l’Endurance è circondata dai ghiacci e sopraffatta. Prima di provare a disincagliarla, bisogna però aspettare un miglioramento delle condizioni meteorologiche. Il 14 febbraio Shackleton ordina di aumentare la pressione del vapore, e la nave cigola provando a liberarsi dalla morsa della banchisa. Per più di 48 ore l’intero equipaggio attacca furiosamente il ghiaccio con scalpelli, picconi e seghe, ma l’Endurance resta intrappolata. E a questo punto Shackleton informa l’equipaggio che la nave dovrà intendersi come la loro base invernale, sperando che la primavera possa portare miglior fortuna. Con legno e ghiaccio si costruiscono degli igloo per i cani, che si mostrano felicissimi di trovarsi fuori dalla nave. Oltre a addestrare gli animali, l’equipaggio si tiene impegnato provando a cacciare pinguini per aumentare le riserve di cibo. I mesi di maggio e giugno si snodano nel crepuscolo di lunghi giorni bui illuminati solo dalla luna. Il sole fa un primo timido ritorno all’inizio di luglio. Ma la stretta dei ghiacci intorno allo scafo dell’Endurance, che si trova a 800 chilometri dalla più vicina forma di civiltà, aumenta. Una intensa pressione su tutti i lati inizia a spingere la chiglia fuori dall’acqua. A ottobre, la nave si ritrova inclinata di 30° rispetto al suolo e inizia a deformarsi e a rompersi, con l’acqua che comincia a inondare gli interni. Quando dal ghiaccio proviene un ruggito as- sabato 4 ottobre 2014 | pagina 99we ARTI | 35 L’INCREDIBILE VIAGGIO DI SHACKLETON William Grill Isbn Edizioni • pagine 72 • euro 19,00 sordante, Shackleton ordina di abbandonare lo scafo. Il 27 ottobre la povera nave si rompe irreparabilmente e comincia ad affondare piano piano. Per i due mesi successivi l’equipaggio, accampato sulla banchisa, si impegna nel recuperare dal relitto scialuppe, slitte, razioni di cibo, combustibile e attrezzature. Finché il 21 novembre 1915 la nave si inabissa in modo definitivo. Che fare? L’unica è marciare in direzione nord nel mare di Weddell, da cui poi partire via acqua verso la terraferma. Con l’arrivo della stagione più mite, il ghiaccio comincia ad assottigliarsi e può rompersi da un momento all’altro. Il 23 dicembre Shackleton e i suoi uomini impacchettano i loro pochi beni e partono alla ricerca di uno strato di ghiaccio più sicuro, trainando le slitte per sette giorni e sette notti. Una nuova base all’aperto, chiamata Patience Camp, li accoglie per i successivi tre mesi e mezzo. Le razioni scarseggiano, e a gruppi si va a caccia di foche e pinguini. Altri passano il tempo leggendo l’Enciclopedia Britannica e interrogandosi a vicenda. Ma il tempo peggiora e il ghiaccio su cui gli uomini si sono stabiliti continua ad andare alla deriva e a spaccarsi, così Shackleton decide di provare a raggiungere la terraferma con le scialuppe. Dolorosamente, ciò significa però dover uccidere i cani, perché a bordo per loro non ci può essere cibo né spazio. E gli uomini si sono affezionati agli animali, era inevitabile. Ora comunque la navigazione è pure particolarmente pericolosa, perché le acque sono agitate, e onde gelate alte anche 20 metri scagliano blocchi di ghiaccio avanti e indietro. Perdipiù una sera, mentre gli uomini sono rannicchiati nei piccoli scafi, per sicurezza legati fra loro, dall’acqua affiorano sibilando e schizzando grandi orche, che rischiano fortemente di rovesciare le scialuppe. La meta agognata è l’isola Elephant, lontana circa 150 chilometri. Ci si arriva, con l’indispensabile aiuto di una bussola da tasca, dopo 108 ore di fatica, tutti a rischio di assideramento. Ma la vista della terraferma è entusiasmante: dopo 16 lunghi mesi, infine si tocca terra! Sembrerebbe di essere in salvo. E invece i guai non sono affatto finiti: la costa è esposta alle perturbazioni e una terribile tempesta infuria per giorni e giorni. Le condizioni fisiche degli uomini non possono che peggiorare, visto che da troppo tempo sopravvivono a stento con pasti quanto mai miseri. E, quel che è peggio, attorno all’isola non passano navi. Per trovare aiuto, Shackleton capisce che non possono che fare rotta per la Georgia del Sud, un altro viaggio di oltre mille chilometri, e decide di partire con una sola scialuppa e pochi uomini, lasciando i rimanenti ad aspettare una spedizione di soccorso. Il viaggio di traversata verso la Georgia del Sud è estremamente rischioso. L’oceano a sud di Capo Horn è tra i più pericolosi al mondo, tristemente noto per le sue burrasche mortali. Alla partenza della scialuppa, caricata con provviste sufficienti per sei mesi, gli uomini rimasti sulla spiaggia lanciano tre sonori «urrà» e guardano a lungo i compagni mentre lentamente spariscono all’orizzonte. Possiamo immaginare che sia il momento forse più intensamente drammatico di tutta quella dura e interminabile avventura polare. Gli uni e gli altri possono ben dubitare di mai più rivedere gli amici dell’altro gruppo. Ma non c’è alternativa. Fatto sta che, dopo aver affrontato innumerevoli onde maligne e venti infami per altri dieci giorni consecutivi, il gruppo di Shackleton raggiunge sano e salvo la baia di Re Haakon, nella Georgia del Sud. Ora bisogna avventurarsi all’interno dell’isola per cercare aiuto presso la stazione baleniera di Stromness. Ancora 36 ore di marcia forzata e finalmente, quando in lontananza appare il porto di Husvik, quegli uomini spossati si stringono le mani l’un l’altro in silenzio, senza più neanche la forza di esultare visibilmente. Accolti con cibo, bevande e un ristoratore bagno con acqua calda, Shackleton e i suoi hanno ora come primo pensiero l’immediata salvezza dei compagni lasciati sull’isola Elephant. Per fortuna, in breve il governo cileno presta una nave a vapore, con la quale il 30 agosto 1916, dopo quattro tentativi falliti, il capo spedizione raggiunge gli amici ancora isolati e li imbarca dirigendo a nord, verso l’America del Sud. E lì si decide che tutti ricorderanno e celebreranno la giornata del 30 agosto per il resto della loro vita. All’arrivo a Punta Arenas, in Cile, 30.000 persone riempiranno le strade per accogliere degnamente il ritorno degli eroi dell’Antartide. Ernest Shackleton ha concluso la sua perigliosa spedizione senza perdere neanche un membro dell’equipaggio: «Tra la vita e la morte, ho scelto la vita, per me e i miei amici... Credo che sia nella nostra natura esplorare, ricercare ciò che è sconosciuto. Il vero fallimento sarebbe non esplorare affatto». I disegni del tenero William Grill, caratterizzati da una levità che s’indovina sorridente, si attagliano a una materia tanto rude e maschia davvero a sorpresa. Sono matite colorate dalle tinte accese, particolarmente risaltanti sul biancore accecante che le circonda, e in un certo senso attenuano la drammaticità degli eventi raccolti e rievocati. Però, allo stesso tempo, la imprimono forse meglio nella memoria – potenza affabulatoria delle sollecitazioni retiniche. pagina 99we | 36 | ARTI sabato 4 ottobre 2014 il primato della Pixar nella fabbrica della fantasia MARIUCCIA CIOTTA n Il 95% delle start up della Silicon Valley fallisce, ma tra le sopravvissute ce n’è una che fa la storia. Il segreto di quel successo lo svela l’uomo che insieme a Steve Jobs e a John Lasseter ha creato lastar(t)più brillante della Baia di San Francisco, la società che ha rivoluzionato il cinema d’animazione, la Pixar. Ed Catmull, al comando della società californiana passata da 45 a 1200 dipendenti in 25 anni di vita, ne racconta l’avventura dalle origini, quand’era ancora una costola della Lucasfilm. Fu lui il primo a sognare un lungometraggio realizzato in computer graphic nonostante il disinteresse di tutti, compreso George Lucas, che aprì il dipartimento informatico solo per potenziare l’alta tecnologia nelle sue Guerre stellari. Autore della guida per creativi e manager Creativity Inc. (titolo italiano: Verso la creatività e oltre, Sperling&Kupfer, pp. 360, 18 euro) Catmull presenterà il suo libro al festival di Internazionale per esportare le regole d’oro che lo hanno portato alla testa della più grande corporation mondiale dell’entertainment, sgorgata dalla sua mente di bambino fan di Walt Disney. Quel bambino non solo è riuscito a trasformare la piccola Pixar in un colosso, ma è entrato dai cancelli di Burbank come salvatore della major di Mickey Mouse. Negli ultimi 16 anni, infatti, la Disney aveva perso in bellezza e in business e nessuno dei suoi film dal 1994 (anno di Il re Leone) al 2010 aveva più toccato la cima del box-office, nonostante titoli pregevoli come Mulan (’98) e Lilo &Stitch(2002). L’acquisizione della Pixar nel 2006, non a caso, fu sollecitata dal ceo della Disney Company Bob Iger, subentrato a Michael Eisner che aveva sperperato il patrimonio artistico della compagniacon unapoliticaaziendale del profitto al primo posto. Non fu la Pixar, come si crede, a cedere sovranità, ma il contrario. Ed Catmull, il tecnico, e John Lasseter, il poeta in camicia hawaiana di Toy Story, salirono alla testa dello Studio nato dallafusione. Ilprimonominato presidente, il secondo direttore artistico. Manuale pionieristico, Verso la creatività e oltre ci racconta il viottolo da percorrere per raggiungere il primato della fantasia, a cominciare da un tavolo. Lungo e stretto con al centro i leader, disseminato di segnaposti e, a scalare, le persone meno importanti, il che spegneva, nota Catmull, lo scambio creativo. Il principio della massima circolazione delle idee e della libertà di critica, fondamenti della cultura aziendale Pixar, prende, dunque, una forma quadrata per vedersi e sentirsi meglio, e avvia il metodo per spremere a Dal 1994 (anno de Il re Leone) al 2010 nessun film Disney toccò la cima del box-office ogni dipendente, compreso l’addetto alle pulizie, il meglio di sé. Il mondo di Luxo Junior, la lampada-marchio del gruppo che, alta sei metri, dà il benvenuto all’ingresso dello Studio di Emeryville, è descritto da Catmull come il regno del conflitto costruttivo. Eliminati i supervisori alla produzione e le gerarchie tradizionali (niente piani alti per i boss né parcheggi auto privilegiati), il campus, dotato di una piscina, spazi d’incontro e di gioco (calcio e pallavolo) è disegnato a misura di operai immaginifici. Alla Pixar le scrivanie sono zeppe di oggetti personali, e ognuno può suggerire modifiche al piano di lavoro con i colleghi di altri reparti senza passare dal capo-struttura. Un mondo IN SALA I mostriciattoli protagonisti del film d’animazione Monsters University, diretto da Dan Scanlon e prodotto dalla Pixar basato su teorie del tipo «date a un team mediocre una buona idea su cui lavorare e la sprecherà; date a un team brillante un’idea mediocre e riuscirà a sistemarla e a sostituirla con una migliore», «cercate sempre di assumere chi è più intelligente di voi», «eccellenza, qualità e bon- tà, sono parole che dobbiamo guadagnarci. Non tocca a noi attribuircele, sono gli altri che devono usarle quando parlano di noi», «il miglior modo di prevedere il futuro è inventarlo». Ma le pillole di saggezza snocciolate da Catmull non dicono la sostanza dell’ascesa Pixar, che si affermò grazie a una radicale difesa del progetto fondativo, come spiega il libro, anche quando tutto andava a rotoli. Evitata la disintegrazione del concept (sperimentare le nuove tecnologie informatiche a servizio del cinema d’animazione) minacciata dalla General Mo- l A FERRARA l grande schermo Internazionale n Molti film, belli e dannati, usciti nel mondo non raggiungeranno mai né i cinema né le tv (quelle più consapevoli non hanno budget). Esempi lampanti e recenti Palo Alto di Gia Coppola, Seppellendo la ex di Joe Dante o il film postumo di Alexej German È difficile essere un dio. Visto che non possiamo contare sulla distribuzione, pubblica o commerciale, merita una particolare segnalazione il doppio festival cinematografico organizzato all’interno del week end Internazionale a Ferrara (3-5 ottobre). Verranno infatti presentati durante il week end con i giornalisti di tutto il mondo, nel cinema Boldi- ni e nella sala Estense, una decina di film di qualità (anche spettacolare), sia documentari che di finzione, acquistati per il nostro mercato da case di distribuzione eretiche come MovieInspired, FeltrinelliReal Cinema, Cineclub Internazionale e Exit Media e pronti per il battesimo del pubblico. Tra i film proiettati nei giorni scorsi a Ferrara nella sezione “Mondocinema” (film di finzione) ricordiamo Altman, che il canadese Ron Mann, divulgatore dei succhi benefici della controcultura anni ’60 e ’70 ha presentato a Venezia; Stray Dogs di Tsai Ming Liang, affresco poetico-politico estremo, successo a Cannes e L’immagine mancante di Rithy Pahn, sulla persecuzione, tortura e sterminio degli abitanti di Phnon Penh da parte dei Khmer rossi (1975-1979) . Se nel settore d’essai il regime di monopolio è preoccupante, sono esagerate le rigidità di circolazione e questi film rischiano di non circolare, le cose vanno ancora peggio per i documentari, nonostante il successo incalzante delle opere di Michael Moore e Sabina Guzzanti. Marmata di Mark Grieco (scontro contadini e multinazionali dell’oro in Colombia); Documented del premio Pulitzer di origini filippine Jose Antonio Vargas, per una legge equa sull’immigrazione in Usa; Hope on the line di Papanicolau e Yannoukou (su Tsipras) e #chicago girl di Joe Pisca- tella (sulla rivoluzione siriana combattuta dai social network), scelti dal curatore della sezione Mondovisioni Sergio Fant, per il sesto anno consecutivo si avvarranno di una distribuzione capillare alternativa (l’anno scorso ha toccato 22 città per un totale di 200 proiezioni). Per questo l’iniziativa di coinvolgere nel festival anche il sito MyMovies e programmare in streaming i film di finzione selezionati (da Francesco Boille, critico di Internazionale), è particolarmente necessaria (e bene ha fatto la Mostra di Venezia 2014 a gemellarsi con MyMovies per socializzare on line parte della sezione Orizzonti, anche se per 400 persone a film). Per superare i limiti territoriali della manifestazione basterà collegarsi alla pagina wwwmymo- vies.it/live/ registrarsi e attivare un profilo Free o Unlimited. Francesco Boille ha scelto per questa serata del 4 (a ingresso gratuito) due splendidi film latinoamericani, El estudiante e Malo Pelo che ci introducono, e non superficialmente, dentro l’atmosfera politica e sociale dell’Argentina e del Venezuela di oggi, attraverso le peripezie di un renziano di Buenos Aires e di un ragazzino nero innamorato dei capelli lisci di una star del neomelodico, gay e glam. Nella sezione documentari, stasera e domani, due lavori scandinavi sulla emigrazione dall’Africa (Days of Hope di Ditte H. Johnsen) e su Franz Fanon e il suo elogio della violenza anticoloniale (Concerning violence di Goran H. Olsson). (r.s.) sabato 4 ottobre 2014 | pagina 99we ARTI | 37 Animazione | In un libro le ricette di Ed Catmull, l’uomo che ha trasformato una start-up in un vero e proprio colosso. Ed è riuscito anche a salvare dai guai la major di Mickey Mouse WALT DISNEY PICTURES / PIXAR ANIMATION STUDIOS tors che, attratta dalle conquiste informatiche (da applicare alle auto), tentò l’acquisto del gruppo, la futura Pixar incontrò Steve Jobs. Il genio folle, il manager arrogante, aggressivo, autoritario, come lo descrive Catmull ai primi incontri, e poi addolcito negli anni dalla sua creatura di pixel e fantasia, dalla fabbrica di A Bug’s Life,Nemo,Wall-E. Jobs estromesso dalla Apple nel 1985, acquistò il settore computer graphic della Lucasfilm l’anno seguente, e all’inizio la immaginò come clava per battere, con la sua NeXT Computer, la società della mela che lui stesso aveva fondato. Cartoon digitali? Macché, gli interessava solo vendicarsi degli ex soci. Catmull tenne duro, perfino quando Jobs minacciò di rivendere la Pixar al miglior offerente e di disfarsi di quel ridicolo manipolo di artisti digitali. Fu invece la minuscola start up visionaria a trasformarlo e a favorirne il ritorno trionfale alla Apple, dove iniettò il virus della macchina creativa, tecnologia più software, iPod, iPhone, iPad, balocchi informatici, fonte di nuovi piaceri, destinati a sovvertire la comunicazione e a diffondere la conoscenza. Inizio del Jobs Act, quello vero, che farà decollare la Pixar, di cui il guru formato Mac annuncia la quotazione in Borsa, tra lo sconcerto generale, prima ancorache ilfilmd’esordio, Toy Story (’95) abbagli spettatori e botteghino (è il più visto dell’anno, 357 milioni di dollari in tutto il La cultura aziendale è fondata sulla massima circolazione delle idee e della libertà di critica mondo), diretto da John Lasseter, licenziato a suo tempo perché troppo innovativo dalla Disney, la quale tentò non solo di riprenderselo ma di piegare la società di Catmull alla sua logica produttiva. Un’altra aggressione all’indipendenza della Pixar fu perpetrata, infatti, dall’amministratore delegato della major con le orecchie, Eisner, che di fronte al rifiuto di realizzare sequel a basso costo destinati all’home-vi- deo, aprì un nuova divisione, Circle 7, al fine di produrre film senza qualità con i personaggi dei titoli Pixar con la quale aveva stipulato un accordo per la distribuzione. La manovra fallì, la divisione fu chiusa. Woody, il pupazzo cowboy digitale, conquistò Topolino. La passione per l’ignoto, ancora invisibile ai più, e per un progetto ritenuto impossibile ha permesso all’ambiente fertile Pixar di prosperare al di là dell’ansia da prestazione, chiamata da Catmull la Bestia, e di risolvere i problemi anziché evitare gli errori: «Un insuccesso non è assolutamente negativo. È una conseguenza necessaria del tentativo di fare qualcosa di nuovo». L’errore come motore propulsore, anche a rischio del disastro: le immagini di Toy Story 2 scomparvero dal computer quando qualcuno per sbaglio schiacciò il tasto /bin/rm – rf*, un comando per cancellare all’istante il contenuto di un file system. Il lavoro fu recuperato grazie a un imprevisto (la casualità feconda): l’intero database del film era stato copiato nel suo pc personale da un membro dello staff, distaccato a casa per la nascita del figlio. Moltitudine di idee, le persone al centro, un collettivo all’opera, allenato a braintrust non competitivi, solidale nelle divergenze e in grado di fare scintille, perché «all’inizio i nostri film sono un disastro», Catmull indica le regole del gioco, buone per ogni impresa intenzionata a destabilizzare l’esistente e a seguire la massima del compositore Philip Glass: «il vero problema non è trovare uno stile... ma sbarazzarsene». L’insegnamento maggiore, però, traspare suo malgrado (o forse no) dalle ultime pagine del libro, quando testimonia la superfetazione della corporation bifronte, che ha acquistato la Marvel nel 2009 e la Lucasfilm nel 2012, con la conseguente perdita negli Studios di Emeryville del tavolo quadrato. Ridurre personale, tempi di lavorazione e budget del 10%, la parola d’ordine, per scodellare tre film ogni due anni, quando Toy Story ne ha richiesti almeno quattro. Ecco il perché del sequel Cars 2 e del prequel Monsters University, opere dimenticabili, insieme al super sponsorizzato The Brave. In quanto alla Disney, l’Oscar 2013 a Frozen, storpiatura della favola di Andersen (La regina delle nevi) e maggior incasso di sempre, non l’assolverà dalla caduta d’incanto. L’Academy, pentita, assegnerà quest’anno la statuetta d’oro alla carriera a Hayao Miyazaki, battuto al Kodak Theatre con il suo memorabile Si alza il vento. La Pixar/Disney, insomma, rischia di farsi divorare dalla bestia bramosa di performance e profitti. E di seppellire la filosofia della sua infanzia: «La qualità è il miglior business plan». HOLLYWOOD Da destra, Douglas Fairbank, Charles Chaplin, Mary Pickford e D.W. Griffith CONTRASTO il cinema è sempre stato colorato (e mai muto) Rassegna | A Pordenone i migliori film dei ruggenti anni Venti, primi straordinari esperimenti a colori ROBERTO SILVESTRI n L’età del jazz fu scatenata, vitale, antiproibizionista, sperimentale. E colorata, come la pubblicità, le big band di Duke Ellington e le tele surrealiste. Alle Giornate del cinema muto di Pordenone n. 33 (dal 4 all’11 ottobre), quest’anno la sezione più sorprendente è infatti dedicata proprio ai film a colori dei ruggenti anni Venti. Sono corti, medi e lungometraggi, cartoon, spot o sequenze inserite in kolossal in bianco e nero. Ben Hur del 1925 (quello che si doveva girare al Quadraro di Roma), l’atteso L’isola misteriosa, il primo I dieci comandamenti di Cecil B. De Mille, Il pirata nero con Douglas Fairbanks impegnato nel bacio più lungo della storia, The Joy Girl di Allan Dwan e Sally sono tra i lungometraggi più attesi. Realizzati prima o durante l’avvento del sonoro, miracolosamente ritrovati e restaurati dai maggiori laboratori del mondo, queste opere renderanno omaggio alla febbre metropolitana per la pellicola a colori, agli esperimenti cromatici sensoriali, spettacolari ed esotici di quel decennio e soprattutto a chi li seppe sintetizzare e sviluppare, cioè alla Technicolor di Boston che prese il nome dal Mit, l’università scientifica da cui provenivano i suoi fondatori. La società oggi è francese, proprietà dal 2001 della ex Thompson Multimedia, nazionalizzata da Mitterrand e poi riprivatizzata nel 2003. Ma l’azienda di Issy-les-Moulineaux non ha molto più che il nome della gloriosa creatrice di Via col vento, Il mago di Oz, Biancaneve e i 7 nani, Cantando sotto la pioggia, Padrino parte II, Godzilla, Batman & Robin. Nata nel 1915, in 50 anni anni di invenzioni tecnologiche, fallimenti, conquiste e investimenti spesso azzardati, l’originale Technicolor Motion Picture Corporation di Herbert e Natalie Kalmus divenne sinonimo di cinema a colori sbaragliando la concorrenza attraverso ben sei procedimenti di ripresa, stampa e colorizzazione prima bicromatica poi tricromatica (i primi tre brevettati proprio durante il periodo muto), sempre più perfezionati. Per poi sparire con la morte della celluloide. E risorgere come società transnazionale, leader nei servizi di post-produzione, pro- Ecco i codici espressivi di viraggio: verde per l’orrore, rosa per l’alba, blu per l’esterno duzione digitale, effetti speciali, animazione e realizzazione di edizioni blue-ray d’eccellenza. La qualità cromatica digitale di recenti blockbuster come Resident Evil, RoboCop o Anchorman: The Legend Continues si deve proprio alla nuova Technicolor Inc. Il cinema in realtà non è mai stato muto ed è sempre stato colorato. E non solo per la presenza in sala del pianista e dell’orchestra, o per la proiezione di fotogrammi dipinti a mano agli albori del secolo scorso da centinaia di operai e operaie muniti di pennellini e di inchiostri trasparenti. Dai fratelli Lumière ai codici espressivi di viraggio griffitthiano (blu per l’esterno, rosa per l’alba, verde per l’orrore, ambra per gli interni, rosso per gli incendi), dai grandi musical Mgm anni 50 allo schermo gigante in alta definizione e al dolby system, la tecnologia e la ricerca scientifica, non solo in Europa e negli Stati Uniti, hanno saputo registrare su disco o pel- licola i suoni e le musiche e simulato la ricchezza e le sfumature dello spettro cromatico con approssimazioni ottiche sempre più sorprendenti. Il mercato ha però trasformato con parsimonia quelle invenzioni in processi industriali operativi e ad alto tasso ideologico (una sciabolata di colore acido può marchiare per sempre un cattivo particolarmente nemico). Gli alti costi e i laboriosissimi procedimenti hanno frenato la diffusione del cinema a colori, come noi lo conosciamo, almeno fino alla fine degli anni Trenta del secolo scorso. Se macchine primitive per colorare le immagini erano state messe a punto nel 1902 dall’inglese Edward Raymond Turner, superando la tecnica del puchoir (la stessa usata per colorare le cartoline illustrate) e l’abitudine al viraggio, è solo dopo la fine della grande guerra che, grazie ai brevetti chimici confiscati come riparazione dei danni di guerra dagli americani ai tedeschi, leader nell’uso dell’anilina, si riuscì a rendere economico e sempre più semplice il processo di colorizzazione, liberandosi dalle gigantesche macchine da ripresa a tre bobine e dai laboriosissimi sistemi di imbibizione. Un omaggio a Charlie Chaplin, nel centenario della nascita di Charlot, una retrospettiva di film interpretati dalla dinastia Barrymore, i tre giganti della scena teatrale americana, shakesperiana e moderna, del secolo scorso (Ethel, Lionel e John non misero mai in scena i drammi di D’Annunzio, ma La cena delle beffe sì); i film comici di Protazanov, di epoca sovietica, completano il programma della rassegna, al teatro Comunale Giuseppe Verdi. E, sarà bene ricordarlo, si tratta del festival italiano di cinema che, dopo Venezia, ha più eco nel mondo e, più di Venezia, prestigio. pagina 99we | 38 | ARTI sabato 4 ottobre 2014 nei volti di Weimar il mondo furioso e spietato Fotografia | August Sander e Helmar Lerski in mostra all’Accademia Tedesca di Roma (fino al 7 novembre). Attraverso il loro obiettivo l’epoca fra le due guerre, topografia di un continente sull’orlo del cambiamento IRENE ALISON n Due uomini armati di macchina fotografica negli anni tumultuosi di Weimar, due ossessioni e due modi di guardare che si esercitano sullo stesso oggetto – l’uomo – producendo esiti diametralmente opposti. All’Accademia Tedesca di Roma August Sander e Helmar Lerski sono i protagonisti di una mostra (fino al 7 novembre 2014, nell’ambito della XIII edizione di Fotografia – Festival Internazionale di Roma, dedicata quest’anno al ritratto) che crea un dissonante e illuminante parallelo tra l’opera dei due fotografi tedeschi, autori di esplorazioni e di elaborazioni diversissime intorno all’idea di ritratto. Catalogazione minuziosa delle maschere esteriori per definire tipi e archetipi della società del suo tempo per Sander, scavo espressionista nell’interiorità dell’individuo AUGUST SANDER Foto che colgono le tipologie umane del tempo: un catalogo a metà strada fra arte e indagine sociologica oltre la superficie del volto per Lerski, il ritratto è per entrambi il criterio di conoscenza del mondo furioso, convulso e spietato in cui i due fotografi vivono e lavorano: quello della Germania tra le due guerre, in cui i semi del nazismo germoglieranno fino a dare i loro terribili frutti. «Per vedere la verità bisogna essere in grado di tollerarla, quindi lasciate che sia onesto e che vi dica il vero sulla nostra epoca e la sua gente», dice Sander nel 1927. Fotografo di studio per la borghesia di Linz nei primi anni del Novecento e poi, dopo un radicale cambiamento di forme e di intenzioni, sguardo prediletto dalla generazione del Gruppo degli Artisti Progressisti di Colonia (dove si trasferisce nel 1910), Sander concepisce l’ambizioso progetto di fotografare, mantenendo un punto di vista rigorosamente neutrale, le tipologie umane del suo tempo, fornendo un catalogo a metà strada tra la ricerca artistica e l’indagine sociologica. Musicisti, segretarie, contadini, burocrati, bambini, ballerine, artisti: dall’obiettivo di Sander (e dalla sua opera, Uomini del ventesimo secolo, rimasta incompiuta) emerge l’inventario di un’epoca, la topografia socioantropologica di un AUGUST SANDER mondo sull’orlo del cambiamento. Raramente chiamati per nome e inseriti in categorie corrispondenti ai mestieri e alle classi sociali, i soggetti di Sander sono ripresi quasi esclusivamente di fronte, in posizioni statiche e con lo sguardo rivolto all’obiettivo. Colti dalla macchina fotografica nell’abito della domenica, immortalati nella migliore delle loro maschere, rivelano nello sguardo la vaga inquietudine di una stagione al crepuscolo, in procinto di essere spazzata via dalla modernità e dalla guerra. «In ogni essere umano c’è ogni cosa, la questione è solo come la luce ci cade sopra», afferma, agli antipodi della visione di Sander, Helmar Lerski. Lontano dalla ricerca di oggettività che anima il suo contemporaneo, Lerski considera la fotografia uno strumento per plasmare i volti a misura dei moti del- l’anima. Lerski è attore, fotografo, cineasta e viaggiatore senza pace. Figlio di ebrei polacchi, nel 1932 fugge dagli spettri del nazismo verso la Palestina, dove realizza la sua opera più celebre, Trasformazioni attraverso la luce, 175 close-up dello stesso soggetto scattati su un tetto di Tel Aviv. Dietro l’obiettivo dà volto alla frenesia del suo tempo in ritratti che, negando ogni possibile neutralità e chiamando lo spettatore a un confronto serrato, sembrano esondare dalla carta fotografica animati da un’urgenza incontenibile. La stessa urgenza che, con forme diverse, anima in realtà la ricerca di Sander: quella di un ritratto che, molto al di là della somiglianza con il soggetto, punta a rivelare l’incertezza del destino umano attraverso l’ontologica incertezza della fotografia. AUGUST SANDER RITRATTI Sopra in senso orario, Jungbauern auf dem Wege zum Tanz, 1914; Helmar Lerski, aus Metamorphose, 1936; Der Industrielle Daniel Jung aus Brünn, 1930; Der Maler Franz Wilhelm Seiwert, Köln, 1928 AUGUST SANDER sabato 4 ottobre 2014 | pagina 99we ARTI | 39 ATELIERSJEANNOUVEL ANDREA DUSIO n Dalla balaustra che si affaccia sul giardino interno del Namoc, il nuovo Museo Nazionale Cinese dell’Arte progettato da Jean Nouvel, un rincuorante sole primaverile invade l’immenso ambiente, popolato da una vegetazione traboccante, come in una delle serre londinesi dei Kew Gardens. E un attimo dopo, basta cambiare immagine, è già autunno, la gamma caldissima dei rossi e dei gialli come da noi si vedono solo negli orti botanici è baciata da una luce appena smorzata, come in una clamorosa ottobrata pechinese. Potenza del rendering. I disegni di Nouvel sono stati svelati con un grande evento/stampa, a cui ha partecipato, unitamente al Ministro della Cultura cinese Liu Yandong, anche il Ministro degli Esteri francese Laurent Fabius, a coronamento di una collaborazione che ha visto gli ateliers parigini affiancati dal Beijing Institute of Architectural Design. Il risultato è un edificio che si riconnette agli esiti più noti di la grandeur dell’arte si costruisce a Pechino Architettura | Svelato il progetto di Jean Nouvel per il Namoc, il grande Museo Nazionale Cinese dell’Arte, che sorgerà nel centro della metropoli e ne ridisegnerà le geometrie. Al via le critiche dei detrattori e l’elogio dei fan door, schermato da una facciata che fa, con le allusioni formali a segni, geometrie e andamenti dello scrittura e dell’arte cinese, da scambiatore simbolico tra interno ed esterno, e ancora il soffitto d’oro neotradizionale dell’ambiente superiore, la cosiddetta “sala d’estate”, e una grande e poco connotata terrazza sul tetto, la sensazione è che in definitiva Nouvel abbia disegnato un Un edificio carico di una magniloquenza che i critici hanno stigmatizzato parlando di «intenti epici» e «grandiosità comica» Nouvel (a partire dall’Istituto del Mondo Arabo, la realizzazione che lo rivelò negli anni Ottanta) ma è anche carico di una magniloquenza che i detrattori hanno stigmatizzato duramente, parlando di «intenti epici» e «grandiosità comica». Al Namoc è in effetti assegnata una posizione e un ruolo chiave nella riconfigurazione simbolica della nuova Pechino: al centro del nuovo distretto museale, che sta sorgendo al posto dell’area utilizzata per le Olimpiadi del 2008, a ridosso dei principali assi urbani, e con una connessione potente con la Città Proibita, dove sorge il vecchio Museo Nazionale delle Arti, che la nuova struttura con i suoi 13mila metri quadri supererà otto volte in dimensioni (la superficie è, come ha rimarcato Fabius, il doppio di quella del Louvre). Ma il problema forse più complesso che è chiamato a risolvere il progetto di Jean Nouvel – preferito nel 2012 a quelli di Frank Gehry, Zaha Hadid e Moshe Safdie – è il carattere “aperto” del dispositivo museale Namoc: un luogo che non si li- Il dispositivo museale avrà un carattere aperto, ossia non si limiterà a ospitare le collezioni storiche ma dovrà estendersi al futuro ATELIERSJEANNOUVEL RENDERING Alcune immagini del progetto dell’architetto Jean Nouvel per il Museo Nazionale Cinese dell’Arte (Namoc) che sorgerà a Pechino mita a ospitare le collezioni storiche, ma che deve in qualche modo suggerire l’idea di una continuità temporale e di un’estensione verso il futuro. L’intenzione infatti è quella di collocarvi opere e testimonianze che vanno dall’era Ming ((1368-1644) a oggi. Nella presentazione, Nouvel spiega: «Il Namoc è inscritto nello spazio come il frammento di un ideogramma elaborato da un artista in un lungo periodo di tempo, dando allo stesso tempo un senso di maestosità e di incompiutezza voluta. Ancorandosi al terreno si impone nel cielo». Una dichiara- zione piuttosto impegnativa che, unitamente all’assenza di indicazioni relative ai tempi di realizzazione e al costo dell’opera, ha scatenato i commenti ironici di chi identifica nell’architetto francese (anche in ragione della commessa ottenuti negli Emirati Arabi per un altro Moloch, il Louvre di Abu Dhabi) il campione del nuovo priapismo legato al desiderio di affermazione culturale delle economie rampanti e al diffondersi dei franchise museums. E se i caratteri principali del progetto sono il già citato giardino in- edificio “aperto ma non troppo”, piuttosto anonimo – a quanto si vede dalla sezione longitudinale – per organizzazione degli spazi espositivi, meno vitale e creativo delle intenzioni esibite, il cui pregio maggiore è il tentativo di inserirsi nel paesaggio, riverberando i rami e il profilo degli alberi, le rocce e le montagne, il passaggio della gente come un grande specchio in cui si rifletta l’immagine persistente e cangiante della natura pechinese. Assolta questa funzione rassicurante di rappresentazione con meccanismi di mimesi sufficientemente spettacolari, il progetto si smarca dalla tentazione di un affondo sulla relazione contenitore/contenuto, consegnando ad allestitori e fruitori più un problema che una soluzione. pagina 99we | 40 | ARTI sabato 4 ottobre 2014 siamo ciò che cuciniamo Gastronomia | Tre libri sull’attività che, secondo un antropologo, ci distingue dalle scimmie. Dalla maniacale e gioiosa passione per i fornelli all’epopea sovietica ricostruita a suon di ricette CARLOTTA VISSANI I LIBRI n Cuocere è quello che ci distingue dalle grandi scimmie, come dice Richard Wrangham, antropologo e primatologo di Harvard - e ripreso da Michel Pollan, editorialista del New York Times e professore di giornalismo all’Università di Berkeley, in Cotto. Storia naturale della trasformazione (traduzione di Isabella C. Blum, Adelphi, pp. 506, euro 28,00). A renderci umani, secondo Wrangham, fu la scoperta della cottura del cibo da parte dei nostri remoti antenati, non la fabbricazione di strumenti né il consumo Cotto di Michel Pollan Adelphi • tr. di Isabella C. Blum, pp. 506, 28 euro L’arte della cucina sovietica. Una storia di ricette e nostalgia di Anya Von Bremzen Einaudi • tr. di D. Sacchi, pp. 300, 20 euro Gastromania di Gianfranco Marrone Bompiani • pagine 203, 14 euro In Grecia la parola che indicava il cuoco, il macellaio e il sacerdote era la stessa: mageiros, termine che ha la radice etimologica di magia di carne o il linguaggio. Qualunque sia la verità una cosa è certa: il cibo è magia. In Grecia la parola che indicava il cuoco, il macellaio e il sacerdote era la stessa: mageiros, termine che ha la radice etimologica di magia. La magia, insegna Pollan, non si sprigiona infilando un cibo precotto nel microonde né andando al fast food, per quanto una consistente fetta di umanità (de)civilizzata, americani e anglosassoni in testa alla classifica, pensi che scongelare un’imitazione della soupe à l’oignon parigina significhi cucinare. Quanto tempo dedichiamo al giorno per la preparazione dei pasti principali? Studi recenti dicono che la media sia una ventina di minuti eppure passiamo ore a osservare persone che maneggiano pentolame in televisione, leggiamo libri di gastronomia e consideriamo gli chef stellati venerabili star (se vi interessa capire il perché di questa moderna tendenza leggete Gastromania di Gianfranco Marrone per Bompiani). Quella stessa attività che molti considerano un’ingrata routine quotidiana è stata elevata al rango di evento di richiamo mentre nelle nostre case impazzano piatti pronti e carne in scatola. La magia s’innesca certo più facilmente quando si sorveglia per ore un brasato in casseruola dopo averne preparato il soffritto e aver massaggiato il taglio con il giusto quantitativo di sale (lo avete mai fatto?, Pollan sì), quando si osserva la pasta del pane lievitare sotto un canovaccio avendo prodotto da sé il lievito madre, quando ci si cimenta, dopo moltissimi anni dall’ultima volta, nella ricetta della kulebjaka sovietica, una sorta di torta pasqualina farcita di cavoli, semola, midollo di storione e uova sode, essendo nativi di Mosca e avendo patito la fame in tempi di guerra. La kulebjaka è il territorio della NAVESH CHITRAKAR / REUTERS / CONTRASTO MENÙ I preparativi della colazione per i fedeli in una moschea di Kathmandu newyorkese Anya Von Bremzen, foodwriter nata a Mosca nel 1963, cresciuta in un appartamento la cui cucina era in condivisione con diciassette famiglie, ed emigrata a Philadelphia con la madre Larisa nel 1973. Pollan, affetto da una maniacale e gioiosa passione per l’arte dei fornelli e dell’alimentazione corretta già dimostrata nel bestseller Il dilemma dell’onnivoro e ne In difesa del cibo, inviterebbe volentieri a cena Anya, ancor di più Larisa per un tête-à-tête ai fuochi. Perché Larisa, nella sua difesa della cucina sovietica doc, tenuta viva nonostante la storia abbia devastato la popolazione a cui appartiene, decimandola e stravolgendone ogni abitudine alimentare, c’è l’amore indefesso per la preparazione di alcuni piatti tradizionali, prendendosi il tempo per farlo e scegliendo con chi dividerli perché gli ospiti hanno il loro peso. Entrambi concordano, pur avendo vissuto esistenze totalmente diverse, su quanto sia triste arrendersi ai pasti mordi e fuggi quando, per necessità o volontà, si è sperimentato il piacere di ritagliarsi del tempo per sporcarsi le mani con acqua e farina. Tempo che pare mancare a molti perché presi da altre attività di apparente importanza vitale e di fattuale inutilità. In Cotto Pollan regala al lettore la storia del suo apprendistato così come si è svolto nella cucina di casa sua, ma anche nel forno del panettiere, nel caseificio, nel birrificio, accanto ai mitici pit masters, maestri del barbecue, gente che in Nord Carolina cuoce interi maiali più o meno come i sardi fanno con il porceddu o a tu per tu con la scoperta del quinto sapore, l’umami giapponese. Il volume è suddiviso in quattro parti e ciascuna di esse corrisponde a uno dei classici elementi – fuoco, acqua, aria e terra – e ne dipende al 100%. Poetico e decisamente magico nonostante la terminologia e i dettagli ne facciano un vademecum tecnico. Come sono toccanti, spesso tragici ma sempre venati di un’ironia che è figlia dell’istinto di sopravvivenza, i ricordi della Von Bremzen, per la prima volta pubblicata in Europa con L’arte della cucina sovietica. Una storia di ricette e nostalgia (traduzione di Duccio Sacchi, Einaudi, pp. 300, 20 euro). Una donna che ancora oggi ha la sensazione di abitare due universi alimentari paralleli: uno dove i menù degustazione dei ristoranti di lusso di Manhattan sono all’ordine del giorno e l’altro in cui anche una banana, vera e propria rarità nella sua infanzia, esercita sulla sua psiche un’attrazione fortissima. Attraverso un memorabile foodoir che coinvolge quattro generazioni rappresenta la dolorosa eppur epica epopea dell’Urss attraverso il cibo e una serie di personaggi, i suoi famigliari, eccentrici e carismatici. «Avremmo ricostruito», scrive riferendosi a lei e alla madre, «tutti i decenni della storia sovietica osservandoli attraverso il prisma del cibo. Ricordi delle tessere annonarie in periodo di guerra, delle requisizioni di grano di Lenin e delle abitudini a tavola di Stalin; del dibattito in cucina di Kruscev e della politica antialcol di Gorbaciov. Ricordi del cibo come nucleo nodale della nostra vita quotidiana, ma anche, malgrado gli stenti e la penuria, ricordi di ospitalità compulsiva e tavole imbandite». D’altronde se anche Nikolaj Gogol’ elesse lo stomaco come il più nobile degli organi diventa difficile contraddire la massima di Ludwig Fuerbach secondo cui siamo quello che mangiamo. E, a questo punto, siamo anche ciò che cuciniamo. sabato 4 ottobre 2014 | pagina 99we VALENTINA PIGMEI n Che fortuna gli americani. Si dice spesso che Oltreoceano gli scrittori abbiano vita facile con tutti quei luoghi sperduti, le lande desolate, i motel, le pompe di benzina sghangherate. Gli americani hanno il Texas, il Midwest, la California, il Mississippi: tutti potenziali Far West dove l’azione si fa subito serrata e la storia inevitabilmente avventurosa. Qui da noi gli italiani devono vedersela con grandi città sempre più a misura di turista e province ben poco magnetiche. O forse è soltanto una nostra abitudine esterofila? E se gli americani fossero soltanto più bravi? Forse anche noi abbiamo il nostro Far West ma non lo sappiamo. Silvia Avallone, per esempio, ha provato con Marina Bellezza (Rizzoli) a fare del Biellese – risaie, silos, cascinali, rettilinei di asfalto – una specie di “luogo delle possibilità”, e c’è riuscita: ha scritto un romanzone dal respiro un po’ epico, che altrimenti sarebbe una banale storia d’amore. Perché è chiaro che l’Italia della crisi ha bisogno di essere ridisegnata. Dopo gli anni Novanta dell’escapismo, siamo tornati a guardare e raccontare un Paese rovinato da anni di malgo- ARTI | 41 il fascino feroce del Far West Italia Nicola Lagioia | L’incarognita provincia pugliese è la protagonista di un romanzo che ridisegna letterariamente la nostra Penisola, rovinata da anni di malgoverno e segnata dall’arretratezza. Eppure bella d’una Grande Bellezza Il libro ha una struttura a ragnatela, con il centro dell’azione che si sposta continuamente in un arco di dieci anni verno, segnato dall’arretratezza e insieme da un fascino implausibile ad altre latitudini. E sembra che, dopo e grazie lo shock editoriale provocato da Gomorra, questo stia accadendo. Mancava però un libro in grado di raccontare il degrado – e la bellezza – della nostra Italia familista, un libro che denunciasse il malcostume della Sanità come una puntata di Report, ma insieme fosse un Grande Romanzo Italiano. Il libro è arrivato finalmente, e si intitola La ferocia (Einaudi). Lo ha scritto Nicola Lagioia, autore barese, vincitore del premio Viareggio nel 2010 con Riportando tutto a casa e molto amato da- LA FEROCIA di Nicola Lagioia • Einaudi • pagine 418 • euro 19,50 gli ascoltatori mattutini di Radio Tre. Qui la provincia pugliese selvaggia e incarognita dalla disonestà – provincia che riflette il decadimento di tutta la Penisola – fa da sfondo alla narrazione. Quanto ci ha lasciato esterrefatti la visione della serie True Detective per la forza dirompente dell’ambientazione – una Lousiana segnata dalle alluvioni, gotica, derelitta, spaventosa… invece che il solito Far West – tanto ci paralizza la Puglia di Lagioia, tra abusi edilizi in Gargano e una Bari marcia fin dalla fondamenta. Corruzione pubblica e marciume privato, s’intende, visto che al centro del romanzo c’è proprio una famiglia, i HARD BOILED CHANDLER AL FORTE n «I morti non hanno fretta», dice il commissario Dino Santini quando, informato della morte di una giovane donna, sta per gustare il suo fritto misto al Guazzetto, la “sua” trattoria sulla Darsena. Al porto di Viareggio hanno trovato una ragazza impiccata: è Marta Innocenzi, la figlia di un grosso imprenditore indebitato fino al collo, che alla figlia ha da poco intestato l’azienda. Il cantiere è fallito e gli operai non prendono lo stipendio da mesi, ma «per tenere aperto il villone al Forte ce li ha i quattrini», precisa uno dei personaggi di I SALVATORE ESPOSITO / CONTRASTO BARI Venditrici di orecchiette in una strada del centro storico morti non hanno fretta (Mondadori) il nuovo libro di Filippo Bologna. Un’altra vittima della crisi? Santini non è convinto. Con un antefatto è molto simile a quello de La ferocia, il libro di Bologna, ottimo scrittore e sceneggiatore, è all’opposto un noir classico, quasi un hard boiled americano ambientato in Versilia. Come una dichiarazione d’intenti, l’autore apre il libro con una citazione da una lettera di Raymond Chandler del 1942: «Non m’importava se l’enigma non sussisteva, m’importava della gente, di questo strano mondo corrotto in cui viviamo, e del fatto che ogni uomo che cerchi di essere onesto appare in fondo o sentimentale o semplicemente sciocco». E Bologna scrive così bene che potrebbe fare del suo abitudinario e un po’ cinico Dino Santini un nuovo Fabio Montale, l’anti-detective protagonista della famosa trilogia di Jean-Claude Izzo su Marsiglia. Viareggio non è certo Marsiglia, ma è una città strana e sconosciuta alla letteratura, stretta tra le Alpi Apuane e i “villoni” di Forte dei Marmi: «Viareggio: elegante prima della Guerra, combattente durante, esistenzialista dopo, decadente infine. Maniacale d’estate e depressa d’inverno, bipolare come tutte le città di mare». Salvemini, ricchissimi costruttori edili. «La Puglia è la terra del rimorso, dove è sorta l’Ilva, e Punta Perotti – i grattacieli a strapiombo sul mare di Bari fatti esplodere nel 2006 – dov’è scoppiato lo scandalo dei Tarantini e delle D’Addario, e dove la malasanità non è stata mai sconfitta», spiega Lagioia a pagina99. Una Puglia che non è quella incantata del Salento, né quella verde di Nichi Vendola, nemmeno quella dei santi che volano cari a Carmelo Bene, ma una Puglia inventata, cruenta, dove prevale l’attrazione per il morboso, per il gotico meridionale. «Ho inventato tutto – continua Lagioia – però mi sono documentato. Non come farebbe un giornalista di cronaca giudiziaria, ma seguendo l’istinto, l’ossessione. Ho parlato con medici, avvocati, giudici. Da loro ho saputo di morti strane, affari poco chiari di personaggi importanti della città. Notabili. Belle ragazze da clinica psichiatrica. Situazioni morbose. Non mi interessava se quello che mi raccontavano fosse vero, cosa su cui non ho mai indagato. Ma capivo che erano storie verosi- mili, o meglio: familiari. Ho riconosciuto un olezzo che appartiene da secoli alle nostre terre e ci tiene legati gli uni agli altri, anche quando non vorremmo. E nel marciume e nel disastro, c’è anche un certo splendore». Come in 2066 di Roberto Bolaño o Cuore Selvaggio di Lynch, anche in questa Puglia Corruzione pubblica e marciume privato, fra abusi edilizi in Gargano e una Bari marcia fin dalla fondamenta feroce, notturna, livida, le statali sono illuminate solo da una «pallida luna» e sembra «quasi di avanzare nel deserto». Del resto il plot del romanzo assomiglia a quello di un noir: Clara Salvemini, una donna di trentasei anni, bella e maledetta, viene trovata morta in un autosilo. È la figlia del più potente costruttore della zona e tutti pensano a un suicidio, tutti tranne l’instabile fratellastro della don- na che, tornato in città dopo molti anni, a suo modo farà un’indagine. Il romanzo è sorretto da una struttura a ragnatela, con il centro dell’azione che si sposta continuamente e sbalzi temporali velocissimi, quasi digitali: da una riga all’altra, nel tempo di un clic, ci si sposta di dieci anni, dal passato a un presente spesso distorto e incomprensibile senza le continue discese all’indietro. Anche il tratteggio dei personaggi si sviluppa in modo sghembo, con continue interruzioni e intermittenze, come in un quadro cubista: pezzo a pezzo, ricostruiamo tutto (o quasi). La ferocia è anche una modernissima anti-saga famigliare, dove tutto ruota attorno alla famiglia-simbolo della rovina contemporanea – in questo senso il modello di Lagioia sono i Vicerè di De Roberto con il loro familismo amorale, l’arrivismo, la micromegalomania, i rapporti morbosi. Una famiglia cariata, fondata sull’ipocrisia dei rapporti, sull’infedeltà, sul denaro; un denaro che può tutto, risolve tutto, aggiusta anche gli affetti, almeno finché non lo fa più. «In Italia la famiglia è sacra. Di solito la gente preferisce farsene distruggere», dice uno dei personaggi nelle pagine finali del romanzo. E così non succederà ne La ferocia, un libro che racconta, come nessun altro, la nostra Italia, quella di adesso, in spaventosa simultanea. E la speranza, l’unica che emerge, è proprio questa: non farsi distruggere. pagina 99we | 42 | ARTI L’AMORE SENZA FUTURO DOVE SI VA DA QUI di Simone Marcuzzi Fandango • pagine 318 • euro 16,50 I due protagonisti sono due personaggi tipici della nostra epoca, morosa di futuro, incastrata in un eterno presente. Nadia e Gabriele conducono infatti un’esistenza comune: si sono conosciuti dodici anni prima all’università, si sono piaciuti e amati, e ora condividono la vita. Lui, ingegnere, è manager e per stare con la compagna ha rinunciato a un’esperienza lavorativa all’estero. Lei, veterinaria, ha interpretato la scelta come sigillo d’amore. Eppure, nonostante tutto vada come deve andare, la promessa di felicità che l’amore portava con sé sembra appassire nella quotidianità routinaria. Con una scrittura asciutta, l’autore mette così a fuoco i dettagli di due vite rintuzzate nella ristrettezze asfittiche del privato, dove una generazione priva di futuro sembra spegnersi lentamente. (l.s.) UNA VITA MEDIOCRE NESSUNA CAREZZA di Alberto Schiavone Baldini e Castoldi • pagine 171 • euro 14,00 Cos’è una vita normale? Senz’altro quella di Veronica e Mauro lo è. Una coppia di trentenni che stanno per diventare genitori, lei un lavoro come cameriera, lui un contratto a termine presso un ingrosso alimentare. Fin qui nulla da eccepire, i personaggi giocano il ruolo della norma. Ma che succede quando una sera Mauro investe un collega e per sostituirlo l’azienda è costretta ad assumere un altro dipendente? Veronica allora si manifesta per quello che è e, apprendista Lady Macbeth, convince Mauro a uccidere uno dei lavoranti in modo da prenderne il posto. Ma è il contesto di quella banalità a manifestarsi come palcoscenico di mediocrità, di vanità senza concretezza, una commedia umana grottesca che l’autore sa rendere con la giusta distanza e ironia. (l.s.) sabato 4 ottobre 2014 UN CLASSICO ALCOLICO MOSCA-PETUŠKÌ POEMA FERROVIARIO di Venedikt Erofeev Quodlibet Compagnia Extra • tr. di Paolo Nori • pagine 216, euro 15,00 Questo poema ferroviario,dicui latraduzione ci restituisce la freschezza linguistica, è un classico della letteratura russa del secolo scorso. Non un classico come ci si può aspettare, fatto di misura ed elevatezza. Anzi. Si tratta piuttosto di un viaggio alcolico di bassa materialità, tra visioni, sproloqui, frammenti di narrazioni che non si sa bene dove conducano. Ci si possono trovare dialoghi con messaggeri angelici, ricette di cocktail a base di vernice, lacca eolio perfreni. Anchela suacircolazione non ha nulla di tradizionale: quando uscì nel 1973 circolò clandestinamente ciclostilato, per veder la luce ufficialmente solo nel 1990 quando l’Unione Sovieticae i suoi fondalidi cartapesta della fase terminale non c’erano già più. Del resto il libro di Erofeev di quella dissoluzione non era nient’altro che una capitale anticipazione. (l.s.) il manoscritto incompleto dell’Omero d’Azerbaigian VINS GALLICO Kamal Abdulla | Un romanzo in cui l’importante non è n Immaginiamo di abitare oggi in Azerbaigian e di non conoscere nulla della letteratura europea. Come reagiremmo alla pubblicazione di una saga che canta gli eroi della cultura mediterranea quasi ai suoi albori, che narra le vicende della guerra di Troia, di Ulisse o di Enea? Basterebbe un po’ di vivacità sapere quello che succederà, ma non sapere quel che è successo La trama si dipana come un labirinto di scatole cinesi in un riproporsi di frattali narrativi intellettuale per rendersi conto dell’importanza di quel documento, probabilmente lo considereremmo un’illuminante rivelazione. Con l’uscita in Italia de Il manoscritto incompleto di Kamal Abdulla (Sandro Teti Editore, pagine 240, 15 euro, con una prefazione di Franco Cardini) avviene qualcosa di analogo, anche se a parti inverse. Il romanzo di Abdulla, già tradotto in ventisei lingue, si concentra infatti sulla reale figura di Dede Korkut, una sorta di Omero azerbaigiano, autore del più noto poema epico di tradizione turcomanna, un dastan diffuso prima oralmente e poi trascritto nel XV secolo. L’intreccio del romanzo si fonda su un abituale escamotage letterario, ovvero il ritrovamento di un manoscritto, in questo caso nella biblioteca di Baku. Lo studioso io narrante fornisce non una, bensì tre prefazioni prima di affrontare l’analisi filologica del testo. D’altro canto le anomalie del manoscritto richiedono un’accurata riflessione. È come se PERSONAGGIO Sopra, illustrazione che ritrae Dede Korkut (al centro), autore del più noto poema epico di tradizione turcomanna un grecista s’imbattesse in un codice dell’Iliade, non in versi, ma in prosa, che iniziasse così: «Achille è furioso, bisognerebbe cominciare con il racconto della sua ira (ricordarsi di invocare le Muse nel prologo)». Ne Il manoscritto incompleto abbiamo la narrazione delle vicende di Bayindir Khan alle prese con un’indagine: nella complessa situa- zione politica nel IX secolo, sempre in bilico per i disordini fra Oghuz interni ed esterni (anche allora in quelle zone c’erano problemi di confine!), è stata arrestata una spia e poi senza l’autorizzazione del gran Khan è stata liberata. L’inchiesta ruota sull’identità del traditore e dei collaborazionisti, e il ruolo dell’aedo Dede Korkut, con- vocato per redigere il verbale dell’indagine, si rivelerà tutt’altro che marginale nell’intreccio. Come se Omero raccontasse il fatto di cronaca che ha ispirato l’Odissea e ne diventasse alla fine una figura cruciale. Nel codice della biblioteca di Baku però non si trovano soltanto le tracce di quell’epos, ma sovrascritti e ancora leggibili sono anche gli epi- sodi che riguardano lo shah Ismail, grande poeta azero del XVI secolo, alla ricerca di un sosia, affinché possa palesarsi contemporaneamente in più luoghi. Ma una volta creato un doppione, chi sarà in grado di riconoscere lo shah originale? Queste due storie, divise da sette secoli, procedono parallelamente fino a... Ebbene sì, il manoscritto come indicato dal titolo è per l’appunto incompleto. Lo studioso, dopo tre giorni di clausura nella biblioteca di Baku, non può far altro che uscire dall’edificio, inseguire la misteriosa archivista che lo ha aiutato e... Sì, di nuovo, anche il romanzo è incompleto. Ma in fondo non sono le soluzioni o le risposte che ricerca il lettore di Abdulla. Leggere Il manoscritto incompleto è un atto esperienziale, come ascoltare musica orientale, in un sistema di scale che prevede quarti di tono, o perdersi in un labirinto di statole cinesi, una favola all’interno di un’altra favola all’interno di un’altra favola, come in un riproporsi di frattali narrativi. L’unica possibilità è abbandonarsi a questo gioco di incastri da Le mille e una notte e percepirne il senso, la musicalità araba, il fascino persiano. Interessante che quest’estate Il Sole24Ore abbia pubblicato in undici puntate un adattamento de Il manoscritto incompleto, in un esperimento quasi psichedelico, dove ogni figura del romanzo, interrogato dal Khan, raccontava la sua versione dei fatti. Perché il testo di Abdulla è agli antipodi del romanzo di appendice, l’ossimoro di Dumas o del più recente Maupin. Secondo il principio che l’importante non è sapere quello che succederà, ma non sapere quello che è successo. sabato 4 ottobre 2014 | pagina 99we ARTI | 43 ora la biologia disegna gli abiti Moda | Tessuti coltivati dai batteri e cresciuti nelle muffe. Così la collaborazione tra alcuni designer e università inglesi punta a cambiare un’industria ricca ma inquinante te», il luogo del cambiamento è proprio la capitale britannica. Qui, infatti, Lee ha fondato BioCouture, casa di produzione di bio-materiale tessile, dando concretezza alle proprie intuizioni: «La fantascienza - immaginava - può FEDERICA COLONNA n Ci vuole talento immaginifico per pensare di creare capi per la moda dalle muffe. Un talento così, supportato dallo studio e dalla ricerca applicata, ce l’ha Natsai Audrey Chieza, designer cresciuta a Londra, creatrice di sciarpe dipinte con i batteri. Li coltiva insieme a John Ward, docente di Biologia Molecolare dello Ucl, e spera - ha dichiarato a Wired - di potere modificare geneticamente i micro-organismi per ottenere colori unici. Chieza ha chiamato il progetto Faber Futures: nella sua visione della moda, infatti, ciascuno potrà diventare artigiano - faber - tessile e creare abiti coltivando nel terreno delle piante i batteri - capaci, in sostanza, di macchiare, con pigmenti vivi, le stoffe. Se, insomma, il futuro è DiyBioFashion - biologia e moda fatte in casa, Chieza ne ha immaginato le possibili implicazioni anche in Design Fictions, collezione di pezzi unici creati grazie alla proliferazione dei La BioCouture ha firmato accessori realizzati partendo da micro-organismi SUZANNE LEE La fondatrice di BioCouture, casa di produzione di biomateriale tessile micro-organismi. Un progetto di bio-fiction, spiega, realizzato con capi provenienti da un ipotetico 2075: «Opere di fantasia, ma basate su principi scientifici». La linea Voluntary Mutations, per esempio, esplora le possibilità estetiche di una società in cui i laborato- BIOSHOE La scarpa realizzata da Biocouture ri di biologia cellulare saranno in ogni abitazione, come i computer; Parastitic Prosthesis, invece, mostra come il corpo umano muterà a causa di organismi parassitari. In entrambi i casi gli abiti sono creati con un mix di plastica liquida, siliconi e campioni di AMILY CRANE Collezione a base di gelatine e mucillagini batteri coltivati per produrre strutture tridimensionali. Faber Futures, però, non è il solo progetto di moda batteriologica, a Londra. Se, come scrive sul proprio sito www.biocouture.co.uk - la designer Suzanne Lee, «C'è una bio-rivoluzione all'orizzon- NATSAI AUDREY CHIEZA Realizza sciarpe dipinte con batteri u LE FAVOLE DELL’A B B O N DA N Z A col risvolto da swinging boy PAOLO LANDI n Se c’è Slow Food e Slow Pharmacy può esserci anche Slow Wear, intendendo un modo di vestire semplice, una moda priva di fronzoli, uno stile contemporaneo pulito. Incotex, uno dei marchi del gruppo “Slowear” vuole vendere soprattutto pantaloni: «The world’s best trousers» dice infatti il payoff della sua pubblicità e l’immagine inquadra proprio due uomini dalla vita in giù. C’è un sapore di swinging London in questa foto che ammicca agli anni ’60, quando il termine swinging (oscillare, dondolare) venne coniato da Time magazine per indicare la moda del momento. Ed è a quella cultura che mischia moda, musica, fotografia, cinema che allude la foto in bianco e nero di Incotex. Due ragazzi indossano pantaloni a sigaretta, stretti, con i risvolti: fino agli anni ‘30 molti uomini portavano i pantaloni col risvolto sensibilmente più corti, in modo che dessero l’impressione di essere stati arrotolati lì per lì, come se la praticità dovesse prevalere su qualsiasi diktat di stile. BIOCOUTURE diventare fashion». Grazie alla collaborazione con il biologo David Helpworth la fantasia è diventata una collezione di borse realizzate dai batteri. Alcuni organismi, infatti, producono microfibre di cellulosa le quali, fermentate in una soluzione zuccherina, crescono e formano un amalgama denso. «Dopo due o tre settimane - spiega Lee - lo strato raggiunge lo spessore di circa 1,5 cm e si può tagliare come una stoffa». E se Oprah Win- In linea di massima - dicono gli esperti- i risvolti, con pantaloni che vogliono o ammettono scarpe color cuoio o in pelle scamosciata, non stanno mai male e talvolta sono necessari. In questa foto di Incotex i pantaloni col risvolto sono indossati da due musicisti o forse da due commessi di un negozio di chitarre elettriche: se ne vedono molte, infatti, in terra e al muro e il mood rinvia all’epoca dei Beatles, dei Rolling Stones, a Blow Up di Michelangelo Antonioni. Gli absolute beginners di questa immagine Incotex sono ragazzi perbene che indossano camicia e cravatta, scarpe in cuoio ben allacciate e hanno sicuramente una fidanzata in minigonna, anche se nella foto non compare. La competizione e il rischio tipici della vita moderna non si vestono più con l’abito dell’arrivista conquistatore ma rispolverano un look fatto di nostalgia, per narcisisti attenti a se stessi e alle proprie vibrazioni. Si dimentica, perché ininfluente, il livello sociale e il prestigio e tutto si ammanta di dolcezza, mentre la musica di sottofondo potrebbe essere Let it be. Incotex racconta una moda che alimenta il gusto capriccioso e febbrile per tutto ciò che continuamente muta per ritornare, il gusto consapevole per il vintage diventa creatività individuale, le citazioni del passato diventano attualità. frey ha inserito la designer tra le 15 personalità da tenere d'occhio, dipende proprio dal successo di BioCouture. La compagnia, infatti, organizza per il prossimo 4 Dicembre a New York, presso il Microsoft Technology Centre, Biofabricate, primo summit sulla bio-fabbricazione e le implicazioni per la moda, il design, l'architettura. «Questo - si legge nella presentazione dell'iniziativa - è un mondo dove i batteri, i lieviti, i funghi, le alghe e le cellule crescono e danno forma a materiali sostenibili». E, a volte, anche commestibili. È il caso, per esempio, delle collezioni di Emily Crane, londinese come le altre bio-stiliste, laureata alla Kingston University con un progetto nato per risolvere un grande enigma: come l'industria tessile potrà far fronte alla carenza di materie prime. La risposta per Crane è in cucina. La sua è diventata presto un laboratorio dove preparare, congelare, modellare materiali biologici a base di gelatine, mucillagini, coloranti naturali e agar-agar - un derivato delle alghe usato in Giappone per preparare dolci. Tra i fornelli, quindi, è iniziata la sperimentazione di Micro-Nutrient Couture, il progetto per cui ogni abito è una esperienza estetica irripetibile, bello da vedere e mangiabile. Tra i vari pezzi Helium Bio_Lace: un merletto di gelatina, profumato. Creato per trasformare l'immateriale - il buon odore - in un oggetto fisico. «Spero - ha dichiarato Crane - che la gente possa acquistare le mie ricette nei negozi e creare da sola i propri capi originali». Perché la filosofia è sempre quella: mescolare moda e scienza, trasformare case in laboratori e condividere percorsi di scienza open source. Nel Regno Unito l'hanno capito. Il futuro è nella biologia, ma che sia ecologica e possa cambiare una delle industrie più inquinanti del globo. @fedecolonna ADVERTISING Un’immagine della campagna Incotex pagina 99we | 44 | OZII sabato 4 ottobre 2014 l AUTOCRITICA oltre 44 milioni i richiami Usa di cui 26 Gm Mary Barraa AD di General Motors n Il 2014 sarà ricordato come un anno più tragico del solito sul piano della sicurezza automobilistica negli Stati Uniti, termometro mondiale nel settore e secondo mercato dietro la Cina. Nei soli primi 8 mesi, l’Nhtsa, l’ente federale per la sicurezza di Washington, ha emesso richiami per oltre 44 milioni di vetture, di cui 26 del gruppo General Motors. In gennaio, per la prima volta nella storia delle maggiori aziende dell’auto, una donna ha preso il volante della Gm, ma è incappata subito nel disastro più clamoroso lasciato dagli uomini fin lì al comando. Mary Barra ha dovuto ri- spondere di fronte all’opinione pubblica e di fronte ai senatori dell’accusa che la Gm avrebbe nascosto difetti su alcuni modelli del gruppo. Difetti gravi che sono stati causa di morte per almeno 23 persone in incidenti stradali, è stato riconosciuto lunedì scorso dalla stessa Gm. Sotto accusa è finita pure la gestione dell’Nhtsa, reo di essersi mosso in ritardo per un richiamo di 2,6 milioni di veicoli del costruttore Usa, causa difetti poi rivelatisi pericolosi o fatali. E si capisce meglio perché sabato scorso, il ceo della controllata europea Opel, Karl Thoms Neumann, si sia precipitato ad annunciare con un clamoroso tweet il richiamo in Europa di 8 mila vetture per difetti allo sterzo: «Achtung, non guidate quelle auto». David Friedman, vice direttore della Nhtsa (governa ad interim dopo che in gennaio il direttore se ne è andato a lavorare altrove e in assenza di una nuova nomina da parte dell’amministrazione Obama), ha convocato all’inizio di settembre gli alti dirigenti di 12 costruttori di automobili operanti negli Stati Uniti minacciando «tolleranza zero» verso chi non collaborerà al meglio con le autorità federali. Tradotto: siccome anche noi siamo sotto tiro, vi metteremo nei guai se non interverrete subito a risolvere qualsiasi segnalazione di difetti. Friedman ha poi lamentato di dover gestire le oltre 40 mila segnalazioni all’anno di proteste da parte dei consumatori con un ufficio composto da 52 persone, media stabile negli ultimi quindici anni e anzi ora scesa a 51 per la mancanza del numero uno. Negli Stati Uniti si registrano 30 mila morti all’anno in incidenti stradali, il 90% dei quali - sostiene ancora Friedman - viene attribuito a errori umani. Secondo una ricerca recente della ban- ca d’affari americana Morgan Stanley, gli statunitensi guidano per 75 miliardi di ore all’anno, consumano nello stesso periodo 143 miliardi di galloni di benzina spendendo più di 500 miliardi di dollari. Cifre impressionanti, anche se dopo il picco del 2008, l’automobilista statunitense percorre mediamente meno chilometri nei dodici mesi. Tutti insieme però fanno fare ancora ai loro veicoli 3 miliardi di miglia all’anno. Sarebbe più tranquillizzante se, oltre a ridurre il tempo passato al volante, i consumatori viaggiassero con auto più sicure. @fpatfpat la luce atlantica di Paul Gauguin FRANCESCO PATERNÒ n Si chiamava hotel Gloanec (poi ha preso il nome di Les Ajoncs d’Or) e, allora come oggi, sorge al centro di Pont-Aven, un villaggio bretone di duemila anime. Qui Paul Gauguin si stabilì nel 1888 per cercare un «elemento selvaggio e primitivo». Ci era già stato, lo aveva annusato. Altro che la Provenza di Van Gogh - dove era stato invitato proprio dal pittore del giallo a vivere ad Arles. Meglio la luce atlantica del nord. A Pont-Aven Gauguin ha lasciato un’impronta che il piccolo comune della Bretagna coltiva in un museo dedicato (in questo momento in ristrutturazione, giusto a fianco dell’hotel). Creando alla Bretagna | Viaggio a Pont-Aven, il villaggio dove si stabilì il pittore. E dove trovare un angolo di pace per sfuggire al turismo rumoroso In questa antica Finistère, fra frutti di mare senza pari e spiagge di sabbie bianche, l’acqua è sempre gelida fine dell’Ottocento una scuola di impressionisti o di neoimpressionisti - o cloisonnismesecondo la definizione del critico d’arte Eduard Dujardin. Pont Aven è una insieme di verde, di angoli, di case smussate, un altrove da percorrere a piedi fin giù al vecchio porto sul fiume in secca d’estate da cui spuntano barche distese sulla sabbia. La galette è il dolce tipico (burro, troppo burro: ma squisito). Qui, come nel resto della regione, meglio virare sulla galette de sarrasin, fatta di grano saraceno, scura tanto basta o, meglio, comme il faut. Naturalmente non prima di aver assaggiato i frutti di mare, ricordando naturalmente che i francesi raccomandano di non mangiare le ostriche nei mesi dell’anno che non contengano nel loro nome la lettera “r”. Per tornare al punto di partenza, val la pena prenotare per avere la stanza numero 6, che si chiama Gauguin, de Les Ajonc d’Or – struttura semplice e funzionale, colazione abbondante e a sorpresa disponibili dolci e pane senza glutine, due stelle perché manca l’ascensore – ma l’insieme non è la solita roba per turisti. Solo un gradino da cui staccarsi per andare oltre il paese dei mulini e visitare questa antica Finistère, anche se ognuno ha la sua fine di terra nelle map- FRED TANNEAU / AFP / GETTY IMAGES POINTE DU RAZ Il faro La Vielle nel Mer d'Iroise , costa atlantica della Bretagna pe e nella propria geografia interna. Da qui in dieci minuti si arriva a Concarneau, città fortificata nel Seicento dal solito Vauban, vale una sera a cena. Pochi chilometri in bicicletta o in auto e si può fare un bagno – la temperatura dell’acqua è naturalmente fredda ma non come una volta, il tempo non passa inutilmente – abbandonandosi poi su spiagge di sabbie bianche. In Bretagna ci si stupisce ritrovare un silenzio e un senso di angolo domestico che acquieta. Risalendo la costa (se non avete i minuti contati, scegliete la strada a ridosso del mare), i fari meritano ancora una sosta, mentre sarà bene cancellare dall’agenda Pointe du Raz, estrema punta occidentale dell’Europa, dicono le guide, giusto per litigare con i lembi più sporgenti del Portogallo. Pointe du Raz si getta sull’Atlantico. Ma un tempo aveva un paio di panchine su cui ci si sedeva per affidare lo sguardo alle schiume dell’Oceano, dopo aver parcheggiato l’auto senza troppi scrupoliper larigorefrancesee unabrevearrampicata. Oggi c’è un’area di parcheggio per centinaia di auto e pullman, attrezzata di bar e fast food, una folla va- gante lungo un percorso asfaltato. E le panchine sono sparite, segno tangibile che forse non c’è più da perdere né tempo né sguardo. Meglio scappar via. E magari tornare verso sud. Magari saltando Quiberon e le gli altri paesini bretoni (soprattutto d’estate) e arrivare direttamente nella Loira atlantica. Qui val la pena fermarsi a Saint-Nazaire, magari per visitare Escal’Atlantic, la base sottomarina che ha avuto un’importanza militare strategica durante la Seconda guerra mondiale - fra le varie cose interessanti da vedere anche il Giardino del terzo paesaggio pensato da Gilles Clément sui tetti dell’edificio. Da lì merita senza dubbio una visita Guérande, dove si trovano saline bellissime e dove si può comprare il famoso fleur de sel (ovvia- mente, ça va sans dire, il migliore del mondo). Infine, sempre più a sud, da non mancare è l’isola di Noirmoutier: ottimi ristorantini (ancora frutti di mare e le piccole cozze atlantiche) e spiagge ventose, ma la cose più bella è la strada per arrivarci. Senza prendere il ponte sulla D38, è d’obbligo fare il Passage du Gois, una vecchia strada lastricata che si può attraversare soltanto con la bassa marea: converrà quindi informarsi prima e vederecon i propri occhila potenza di questo imponente fenomeno che scopre per centinaia di metri sabbie fangose. Infine val la pena proseguire verso Nantes, l’antica capitale della Bretagna (ma meglio non dirlo ad alta voce nei bistrot, poiché la questione sembra ancora calda e non del tutto pacificata). sabato 4 ottobre 2014 | pagina 99we OZII | 45 la valle dell’Adige dove nascono le bollicine al profumo di montagna Trentodoc | Lì dove per secoli sono transitati amici e nemici, si coltivano le uve bianche che danno origine agli spumanti più preziosi d’Italia DANIELE CERNILLI n La Valle dell’Adige è da secoli una via di passaggio e di contatto fra le varie culture. In particolare fra quella latina e quella germanica. Di lì sono passati tutti, amici e nemici, pellegrini e invasori, fin dalla Preistoria. Ovvio che la viticoltura trovi origini antiche e solide e che tutta la parte pianeggiante che costeggia il fiume e gran parte delle colline e delle vallate attigue siano pressoché colonizzate da vigneti a perdita d’occhio. Dai Campi Sarni, appena passato il TRENTO ALTEMASI Graal Riserva 2006 93/100 euro 35 Cavit è un vero sistema produttivo regionale, nella sua modernisima cantina passano i tre quarti del vino trentino e dal suo andamento semplicemente dipende il reddito agricolo di migliaia di famiglie. I vini, soprattutto nel settore della spumantistica, sono come minimo corretti, come massimo straordinari. L’Altemasi Graal 2006 deriva da uve chardonnay 70% pinot nero 30. Giallo dorato chiaro, perlage finissimo, fitto e continuo. Naso complesso, fragrante di lieviti, poi fruttato, con sentori di susina gialla e lieve sottofondodi pietrafocaia. Sapore vivace, cremoso, molto elegante ed equilibrato, con finale di sorprendente lunghezza. Cavit Via del Ponte di Ravina, 31/33 38123 Trento Tel. +39 0461 381711 www.cavit.it TRENTO GIULIO Ferrari Riserva del Fondatore 2002 95/100 euro 65 Tradizionalmente le vigne di questa zona sono coltivate con il sistema della pergola trentina confine venendo dal Veneto (un confine che fu anche di Stato fino al 1918) e fino a Roveré della Luna e alla Val di Cembra non ci sono che vigneti e meleti. Vigne coltivate in gran parte con il sistema della pergola trentina, terrazzati in collina e sui primi contrafforti delle montagne. In buona parte utilizzati per produrre uve bianche, Chardonnay in prevalenza, atte alla realizzazione di basi per la spumantistica. Il Trentodoc nasce lì, in vigneti posti talvolta in altitudine, fino a ottocento metri sul livello del mare, per ottenere vini base poco alcolici e ricchi di acidità, perfetti per essere poi spumantizzati con il Metodo Classico, DA BERE PAESAGGIO Una vigna nei pressi dell’abbazia di Novacella, Bressanone lo stesso che si usa per gli Champagne e per i Franciacorta. C’è anche un po’ di Pinot Nero, poi vinificato “in bianco”. Ma il Trentodoc è in prevalenza prodotto con uve Chardonnay, che da queste parti hanno trovato una nuova e valida patria ed artefici di grande rilievo. Ricordare la Ferrari dei fratelli Lunelli è di prammatica. E’ la più famosa cantina italiana per la spumantistica e produce vini di livello molto elevato. Su tutti il Trento Giulio Ferrari Riserva del Fondatore, ottenuto con le uve coltivate nel vigneto di Pianizza, a più di ottocento metri di altezza, proprio sopra la città di Trento. Ma la gamma proposta è vastissima e comprende anche bottiglie dai costi assai meno elevati, ma dal contenuto sempre correttissimo, frutto di una tecnica enologica di prim’ordine. Quasi di fronte alla Ferrari, a Ravina, in GLI INDIRIZZI Abate Nero Casata Monfort Letrari Sponda Trentina, 45 38121 Trento • Tel. +39 0461 246566 • www.abatenero.it Via Carlo Sette, 21 38015 Lavis (TN) • Tel. +39 0461 246353 • www.cantinemonfort.it Via Monte Baldo 13/15 38068 Rovereto (TN) • Tel. +39 0464 480200 • www.letrari.it Balter Cesarini Sforza Maso Martis Via Vallunga II, 24 38068 Rovereto (TN) • Tel. +39 0464 430101 • www.balter.it Via Stella, 9 38123 Trento • Tel. +39 0461 382200 • www.cesarinisforza.com Via dell’Albera, 52 Località Martignano 38121 Trento • Tel. +39 0461 821057 • www.masomartis.it Cantina Rotaliana Dorigati Mezza Corona Via Trento, 65b 38017 Mezzolombardo (TN) • Tel. +39 0461 601010 • www.cantinarotaliana.it Via Dante, 5 38016 Mezzocorona (TN) • Tel. +39 0461 605313 • www.dorigati.it Via del Teroldego, 1 38016 Mezzocorona (TN) • Tel. +39 0461 616399 • www.mezzacorona.it in tutte le aziende si effettua vendita diretta e visite su prenotazione un’area industriale francamente non bellissima, c’è la spettacolare cantina della Cavit, una grande cooperativa che riunisce la produzione di molte cantine sociali del territorio. Un impianto capace di sfornare più di 60 milioni di bottiglie all’anno, di vini come minimo ben fatti. Poi c’è il fiore all’occhiello, la spumantistica. E c’è il Trento Altemasi Graal Riserva, uno dei migliori rappresentanti del panora- DAGMAR SCHWELLE / LAIF / CONTRASTO ma delle bollicine trentine. Un Metodo Classico millesimato capace di sfidare a singolar tenzone gran parte dei competitor di tutto il mondo, Champagne compresi. Sono solo due esempi, che trovate commentati qui sotto, ma che fanno capire bene quali siano le potenzialità e anche il livello di qualità diffusa, cosa ancor più importante, che le vigne del Trentino e il Trentodoc sono in grado di rappresentare. andare in giro di bolla in bolla n Sono molte le cantine trentine che producono Trentodoc, e si dividono in tre territori fondamentali. A nord ci sono quelle di Mezzocorona, Mezzolombardo e della Val di Cembra. Si tratta in genere di grandi e medie cooperative che producono degli spumanti ben fatti e affidabili. Fanno eccezione quella della Casata Monfort e la piccola Dorigati, con il suo eccezionale Methius, un Trentodoc leggendario, possente e longevo. Molto noto è il Trentodoc Rotari, di Mezza Corona.. Nell’area centrale, a Tren- to e dintorni, c’è un po’ di tutto. Grandi cantine sociali, come la Cavit, famosi marchi, come Ferrari o Cesarini Sforza, ma anche cantine più piccole, come quella di Francesco Moser (proprio lui, il ciclista) e la Maso Martis. Fra queste ultime spicca però l’Abate Nero, che vede in Luciano Lunelli il suo mentore ed enologo massimo. Più a sud, verso Rovereto, prevalgono le aziende più artigianali. Come Letrari, innanzi tutto, con una gamma di tutto rispetto, e Balter, altro piccolo fuoriclasse. Semplicemente la migliore cantina spumantistica d’Italia. Di proprietà della famiglia Lunelli, che ne ha fatto un vero gioiello per la qualità dei prodotti e per la gestione oculata che ha consentito un grande successo anche sotto il profilo economico e finanziario. Il Giulio Ferrari deriva da uve chardonnay. Giallo paglia con perlage molto fine, fitto, lento e continuo. Naso con evidenti sentori di lieviti, che conferiscono un pizzico di mineralità, poi lievi accenni quasi aromatici, tipici del vino, e sentori di susina gialla. Sapore cremoso, elegante, teso,con una splendida componente acidula e salina e una persistenza lunghissima. Ferrari Via del Ponte di Ravina, 15 38010 Trento Tel. +39 0461 972311 www.cantineferrari.it DORMIRE E MANGIARE POSIZIONE IDEALE Villa Madruzzo Frazione Cognola Località Ponte Alto, 26 • 38100 Trento • www.villamadruzzo.it Fuori Trento, sulla strada per Civezzano e Pergine, con vista sulla valle. Un gran bel posto, ricavato in una villa cinquecentesca. Hotel a quattro stelle, 80 camere con prezzi ragionevoli, da 70 a 175 euro, ottima spa e posizione ideale per poi visitare la zona vitivinicola circostante. Buono anche il ristorante interno, cucina regionale, ottimo servizio, conto sui 50 euro. Chiuso la domenica. pagina 99we | 46 | OZII sabato 4 ottobre 2014 DITECI DI OGGI altra via di fuga è cambiare di secolo n Diteci di oggi è una rubrica settimanale che ha a che fare con il tempo e la scrittura, in particolare con i giorni raccontati. Sarà una coincidenza che in tante storie si ritrovino alcuni giorni, come il 4 ottobre? Questa, per esempio, è la data presente nell’incipit dell’epico libro di Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca: “il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del quarto giorno, che era il quattro di ottobre del millenovecentoquarantatre, il marinaio, nocchiero semplice della fu regia Marina ’Ndrja Cambrìa arrivò al paese delle Femmine”. È il giorno che continua ad accadere infinitamente nel para- ANTONELLA SBRILLI Il film Orlando di Sally Potter, 1992 dosso temporale raccontato da Murakami Haruki ne La fine del mondo e il paese delle meraviglie. È la festa del patrono d’Italia: “avrei voluto essergli amico, a Francesco d’Assisi”, scrive Aurelio Picca nell’Esame di maturità. Fra le tante (e molto belle) occorrenze, abbiamo giocato con un 4 ottobre che compare nel libro del surrealista André Breton, dal titolo Nadja: un libro pieno di coincidenze, derive urbane, incontri fra strade, pagine e amanti. Mentre sono in libreria due libri sul caso a cura di Marco Malvaldi e lo scrittore Paolo Albani nella pagina accanto racconta di “strane coincidenze”, lettori e lettrici riportano tanti episodi di risonanze fra libri, librerie e persone. Frasi trovate che danno un senso alla giornata; dediche imbarazzanti su libri di seconda mano; storie di apparizioni. Galeotta fu la libreria per molte coppie, alcune solo potenziali, altre sfumate come le librerie del loro incontro, ma altre ancora durature nell’attrazione reciproca per la lettura. “Tutti strani gli incontri in libreria, se pensi che ci arrivano persone in cerca di qualcuno da leggere”, commenta @atrapurpurea. Il gioco del prossimo numero Per il prossimo numero cam- biamo genere, come fa Orlando, protagonista del libro di Virginia Woolf. La storia, ripresa anche nel film di Sally Potter, inizia alla fine del ‘500, quando Orlando è un giovane alla corte di Elisabetta I, e prosegue attraverso i secoli mutando luoghi, avventure e sesso del/della protagonista, che si ritrova, alla fine, come una donna di trentasei anni, nel 1928. Il libro fu pubblicato in Inghilterra l’11 ottobre di quell’anno e la storia si conclude nello stesso giorno: “Era l’11 ottobre. Era l’anno 1928. Era l’epoca presente. Nessuno si meraviglierà che Orlando trasalisse, che si premesse la mano sul cuore, che impallidisse. Quale rivelazione avrebbe potuto essere più terrificante di quella della nostra epoca? Se noi sopravviviamo all’urto, è solo perché il passato ci fa argine da una parte e il futuro dall’altra” (tr. it. G. Scalero, Mondadori). Per il prossimo 11 ottobre, l’invito è elencare in quali epoche, in che genere e in che forma avreste voluto ritrovarvi, fra il ‘500 e l’epoca presente. I testi, non più lunghi di 800 caratteri, vanno inviati a [email protected] entro lunedì 6 ottobre, in modo da permettere la scelta per il giornale in edicola sabato 11 ottobre, anniversario di Orland u LE RISPOSTE DEI LETTORI errori: cercare un libro e incontrare l’amore Incontri e coincidenze dentro e intorno a una libreria: eccone alcuni, inviati in redazione da lettori e lettrici, in risposta all’invito al gioco di questa settimana. MASTICARE PAGINE In piazzale Dateo, al tempo della Milano da bere, prima ancora che iniziassero i lavori per la fermata del passante ferroviario, proprio di fronte al gigantesco caseggiato dismesso e da sempre occupato che una ricca benefattrice aveva ceduto al Comune, la libre- ria dell’usato di Andrea Giunta faceva buoni affari. Lunga sbilenca e stretta, fatta di lamiera ondulata e legname di recupero, offriva libri per svagarsi e titoli rari a prezzi imbattibili. Esther, la mia compagna argentina, l’ho conosciuta proprio lì, grazie alla Delfina Bizantina di Busi. La libreria dell’usato è stata smantellata da solerti burocrati, ma nel palazzone ormai ristrutturato ne è fiorita un’altra, la Centofiori. Io e Esther, ormai ingrigiti, mastichiamo ancora volentieri pagine su pagine. Insieme. Giuseppe Vottari NON CI FAREMO MANCARE I LIBRI L’appuntamento era davanti alla libreria di mia cugina, la mitica 3G, ritrovo e punto d’incontro di tanti amici, quasi più del bar della piazza. Gigi era con me, chi altro avrebbe potuto condividere l’ennesima mattata?! A mezzanotte, sotto gli alberi del Borgo deserto, ridevamo a crepapelle: 900 chilometri in Cinquecento... a che ora sarebbe giunto l’ospite veneziano? Arrivò verso l’una: accolto e rifocillato, poi tutti a dormire. L’aria era dolce in Puglia ai primi di Aprile. Mandorli in fiore, colline coperte di ginestre, case bianche sotto un cielo azzurro, come in un quadro naif, fecero da sfondo a un’amicizia crescente: racconti, confidenze e risate colorarono giorni che trascorsero veloci. Fu quando mi disse che aveva speso tutto il suo primo stipendio alla Einaudi che ebbi un tuffo al cuore. Ci sposammo sei mesi più tardi fra la preoccupazione generale. Anche gli ottimisti scommisero che sarebbe durato poco. Oggi, 4 ottobre, festeggiamo ventisette anni di matrimonio. “Non saremo mai ricchi - ci dicemmo - ma non ci faremo mancare i libri”. Ada Grande L’AVEVO VISTO PRIMA IO Si erano conosciuti una sera su Facebook e ben presto la loro amicizia si trasformò in qualcosa di più di una semplice chat: un vero e proprio gioco letterario. Si scambiavano messaggi prendendo spunto da libri di poesie e storie d’amore. Tra di loro, ormai, un vero e proprio codice. Ogni sera un nuovo libro era la base di partenza per i loro discorsi amorosi. Usare metafore e frasi letterarie li appassionava sempre di più. Per rendere la cosa più avvincente si accordavano sul testo da usare per il giorno successivo. Il giorno dopo sarebbe toccato a quel raro libro di poesie. Molto difficile da trovare. La libreria in centro era l’ultima spiaggia. Eccolo! Finalmente l’aveva trovato. Appena lo prese dallo scaffale sentì una delicata voce alle sue spalle dire: “Ehi! l’avevo visto prima io!”. Andrea Marinelli CERCAVO UN LIBRO Era la luce giallastra dei pomeriggi d’autunno, quella delle giornate più brevi. Una libreria di quartiere, angolo retto tra due lunghe arterie d’asfalto. Cercavo un libro di Carver, sperando di farne un totem da cui trarre divini presagi o malleabili ispirazioni terrene. Lei stava tra lo scaffale degli Americani e quello delle edizioni economiche di certi impronunciabili Russi minori. Aveva un vestito a fiori e le labbra contratte in un morso accennato, prigioniera dell’odore di cellulosa e schiava della sensazione di appartenenza epidermica al dorso possente di quel tomo di Pynchon. Riemergendo incrociò appena il mio sguardo, che affiorava periscopicamente dalla superficie di America Oggi. Quando richiuse il libro passò la mano sulla quarta di copertina, come se volesse illudersi di poter mantenere attaccate alle dita quel che aveva letto. Poi sparì nella grande V bianca che le si apriva davanti attraversando la porta d’ingresso. Andrea Maugeri QUELLE PAROLE DI JOYCE Erano le 11 del mattino del 4 ottobre 1999. Era tardi. Doveva fare in fretta se voleva fare un salto in libreria entro le 12. Lecce era più trafficata del solito a quell’ora. Le ritornavano in mente le parole di Joyce “Camminiamo attraverso noi stessi, incontrando ladroni, spettri, giganti, vecchi, giovani, mogli, vedove, fratelli adulterini, ma sempre incontrando noi stessi.” In tutta quella calca che si muoveva in Piazza Sant’Oronzo, c’era un micro frammento di sé stessa. Tutta accaldata riuscì a varcare la soglia della libreria entro l’orario stabilito e a pronunciare un “Buongiorno” senza fiato. “Cerco il manuale per la preparazione al concorso.” “Eccolo. In omaggio, un segnalibro”. Prese il segnalibro in mano e c’erano quelle parole di Joyce. Iniziava così la scoperta di sé attraverso l’incontro con gli altri, in maniera più consapevole. Paola Toto L’ANARCHIA DEL PETTIROSSO La libreria appena inaugurata usava esporre le copertine dei libri in uscita. Quello, annunciato, di Maurizio Maggiani era “Mia zia l’anarchia” e conquistata da quel titolo lo ordinai. Il romanzo però uscì poi come “Il coraggio del pettirosso” (era una citazione di De André, compresi dopo) e così si intitolava la copia che mi trovai in mano. Ma è stato il titolo sbagliato, quasi un Gronchi rosa, a farmi incontrare il libro. Silvia V. TOMO SAPIENS Dentro non era come fuori. Tutta la facciata divenne una seducente ierofania, una voluminosa copertina, e forse non era una coincidenza che vedevo solo io. Le due vetrine si specchiavano l’una con l’altra come bandelle di una sovraccoperta; il pilastro centrale, simile a una costola, tratteneva dentro di sé, ne ero certo, le pieghe dei quinterni e con quel suo titolo che luccicava sbieco, mi indicava la presa, l’ingresso; il numero civico era la data di pubblicazione. In testa mi apostrofava un’insegna che nel garbuglio della fantasia divenne il nome dell’autore, mentre giù, accucciato come un riverente zerbino, mi ammiccava il logo dell’editore. Mi avvicinai, posai i piedi sul tappeto e mi ritrovai in un immenso e vorticoso buco nero. Una volta dentro, ogni cosa mi travolse, le innumerevoli pagine del libro ideale che la facciata nascondeva esplosero in uno sciame di scaffali. I capitoli echeggiarono in tante suddivisioni di genere, gialli, storia, fantascienza, poesia… Ogni ripiano, ricolmo di libri, sembrava una fila di mirmidoni, parole allineate e inframezzate da virgole e punti che altro non era che cibo per la mente. Tutto, ancora adesso, mi risuona come un libro. Ninninedda DIALOGO TRA GLI SCAFFALI “Giuro, non ne posso più!” “ Suvvìa, amico mio, in fondo non è così male” “Parli bene tu! Sei arrivato da poco! Io sono su questo scaffale da anni, il padrone ormai non mi spolvera nemmeno! Ieri l’ho sentito parlare con la figlia, temo che faremo una brutta fine”. “Sì, la ragazza gli ha mostrato un piccolo rettangolo, ha detto che lì dentro ci stanno più di mille libri. Ha detto anche che noi siamo obsoleti.” “Zitto! Lui sta arrivando! Viene verso di me!” “Eccoti qui vecchio amico mio, sei tutto polveroso, rimediamo subito. Bene, non ti sei rovinato, la rilegatura è sempre perfetta. Mia figlia vorrebbe convertirmi alle novità ma io non potrei mai rinunciare al tuo odore, al rumore delle tue pagine di carta che ancora conservano il fiore ormai secco che proprio lei, da bambina, mi regalò come segnalibro. Maura Moscatelli DEDICA “Al caro prof. XXX con stima e riconoscenza”. Poi la data, recente, e la firma, che era quella dell’autore del libro. Li conoscevo tutti e due: lo scrittore e il professore a cui la copia era dedicata, che si era evidentemente disfatto presto del volume, se io lo stavo sfogliando in una libreria dell’usato al centro di Firenze. Ho pensato che ci sarei rimasto male a essere l’autore, cavolo. Guido G. ERRATA CORRIGE La foto pubblicata alle pagine 16 e 17 del numero 60 del 20/09/14 ritrae un gruppo di Amish in visita a Ground Zero e non un gruppo di mormoni comeerroneamente indicato nella didascalia sabato 4 ottobre 2014 | pagina 99we cosa vuol dire bucare le gomme quattro volte PAOLO ALBANI Questa settimana, la rubrica ospita un articolo dello scrittore Paolo Albani, direttore di Tèchne. Rivista di bizzarrie letterarie e non n Cosa pensereste se nell’arco di otto-nove anni e in tre differenti paesi vi succedesse di forare quattro volte le gomme della vostra macchina, avendo a bordo durante le quattro forature lo stesso amico? OZII | 47 Forse se siete napoletani, ricorrendo alla «scienza maestrevole» de La iettatura (1814) di Nicola Valletta, potreste dedurne che il vostro amico porta sfiga. Il fatto è accaduto realmente a Paul Auster che lo racconta in Esperimenti di verità. Al tema delle coincidenze, strane e misteriose, dedica tre saggi sfiziosi Americo Scarlatti, pseudonimo di Carlo Mascaretti (1855-1928), autore di Et ab hic et ab hoc, un’enciclopedia di «varia e amena erudizione» stampata in 12 volumi fra il 1920 e il 1934 (si vedano «Le coincidenze strane della storia», «Coincidenze misteriose» e «Altre coincidenze storiche» in Americo Scarlatti, Et ab hic et ab hoc, vol. 6, Utet, 1925, pp. 1-21, 22-42, 43-61). In modo divertente, insaporendo il racconto di gustosi aneddoti, Scarlatti passa in rassegna un’am- pia tipologia di coincidenze: da quelle storiche (il giorno 13 luglio 1793 appare su L’Ami du Peupleun articolo di Marat in cui il rivoluzionario francese rievoca e invoca il pugnale di Bruto; lo stesso giorno è trafitto in bagno dal pugnale di Charlotte Corday) alle coincidenze numeriche, ispirate a Pitagora per il quale tutto nell’universo si esprime nell’arcano linguaggio delle cifre (il numero 14 ha avuto una speciale influenza su Dante: nasce il 14 maggio 1265 [1+2+6+5=14], va a studiare a Bologna nel 1283 [1+2+8+3=14], si sposa nel 1292 [1+2+9+2=14], si reca a Milano a salutare l’imperatore Enrico IV, speranza dei Ghibellini, nel 1310 [1+3+10=14], viene esiliato insieme aaltri 14 fiorentini, fracui Lapo Saltarello il cui nome è composto di 14 lettere come il titolo Divina Commedia, ecc.); dalle coinciden- ze legate a una lettera (la lettera M ha perseguitato Napoleone Bonaparte: Maria Luisa e Metternich contribuirono alla sua rovina, la prima capitale nemica in cui entrò fu Milano, l’ultima Mosca; Marengo segnò la sua grandezza, Malet cospirò contro di lui, Moreau lo tradì, ecc.) a numerose altre bizzarre coincidenze. Non mancano le coincidenze comiche nella narrazione di Scarlatti, come questa: una volta il ministro inglese lord Beaconsfield va a trovare Bismarck a Berlino e fra le altre cose gli domanda quale sistema adotti per liberarsi degli scocciatori. «Mia moglie» risponde Bismarck «quando si accorge che mi trovo alle prese con seccatori che mi rompono le scatole, manda un usciere a avvertirmi che l’imperatore mi chiama d’urgenza». In quel momento entra un valletto e Marat, Luc Etienne Melingue, 1879 dice: «Sua Maestà l’Imperatore desidera parlare d’urgenza con Vostra Altezza». La moglie di John W. Ridle (1864-1941), racconta Scarlatti, impedì al marito di accettare negli anni venti del Novecento la nomina a ambasciatore degli Stati Uniti a Roma. La donna non riuscì mai a raggiungere via mare l’Europa: la prima nave su cui la u CRUCIVERBA n ORIZZONTALI 1. Un farmaco che rilassa la muscolatura. 14. L’arcivescovo Tutu. 21. Si chiamava per denunciare atti osceni. 22. Lo è la é. 24. Il Massimo dei cinepanettoni. 25. Al centro del piatto. 26. Si guarda allo specchio. 28. Ammesso o ricevuto. 29. Non venerano alcun dio. 30. È analogo al gommage. 33. Quello di Queneau è involato. 36. Biscotti a strati. 38. Un successo degli U2. 39. Una trance... fai da te. 41. Ciascuno. 43. Il gruppo di Robert Smith. 44. Il palazzo di Federico il Grande a Potsdam. 45. Vi militava il giovane Gianfranco Fini. 47. Il surrealista nel gioco di oggi. 49. Presentàt... comando militare. 51. Nella piega e nel giogo. 52. Gli fu rapita la moglie da Paride. 54. Il luogo protagonista del gioco di oggi. 56. Il segno dei nati in agosto. 58. Il virus dell’epidemia del momento. 60. Passatempi da gatti. 61. Un’intimazione di silenzio. 62. Una sigla a piè di pagina. 63. Lo è un piatto da cucina. 66. A lei è dedicato un libro VALERIA RAIMONDI 79. Lo sono gli abitanti di La Spezia. 81. Rinnovare in francese. 83. Etica professionale. 86. Lo ripete il corvo. 87. Insieme a thanatos in una dicotomia freudiana. 90. Scaltre, sagaci. 91. Un istituto tecnico (sigla). 93. Tra Jamie e Curtis. 94. Lo è uno della Bibbia. 68. Il tremens causato dall’astinenza. 70. Uno dei Fleurs du mal di Baudelaire. 74. Un sinonimo giuridico di garanzia. 75. Il più comune dei frutti tropicali. 76. È simile al clarinetto. 78. Il tasto che registra. che fa i complimenti. 95. La Regina delle carceri. n VERTICALI 1. Il gruppo di Fernando. 2. Quello sincronizzato è coreografico. 3. Località del maceratese. 4. È opposto al mainstream. SOLUZIONI DEL NUMERO 61 l l chiuso in redazione l’1 ottobre alle ore 23.30 4 ottobre 2014, tiratura 35.000 copie 5. Quello nautico è senza bastoni. 6. Attraversa Torino. 7. La fine di Banderas. 8. Dà il via alla gara. 9. Si accende in banca. 10. Iniziali della Muti. 11. Popolano l’Olimpo. 12. Le consonanti dell’accesso. 13. Sono pari nella dose. 14. Sono stati i Pacs nostrani. 15. Si scrive per non ripetere. signora Wallace s’imbarcò, la Lusitania, fu silurata dai tedeschi, la seconda s’incendiò, la terza sbatté contro un iceberg, la quarta infine perse il timone e fu rimorchiata a New York. Fatalità che coincidono nel numero alle quattro gomme forate da Paul Auster. Il sito di Tèchne: http://xoomer.virgilio.it/palbani/ 16. Donna di spettacolo. 17. Un undici meneghino. 18. Un coordinato di abiti e accessori. 19. Nord Sud Ovest Est. 20. Indica provenienza. 23. Bagna la Calabria. 27. Un successo di Nina Simone. 30. Quella russa è la banja. 31. Lo è Öcalan. 32. Un sussurro all’orecchio. 34. Questa, essa. 35. Varia da negozio a negozio. 37. Un colore della roulette. 40. Un riso che non scuoce. 41. Il palmipede del foie gras. 42. Riparare, sanare. 43. Santiago archistar. 46. Introduce una concessiva. 48. Lo... spagnolo. 50. Può essere cifrato. 51. Un pass ferroviario per giovani europei. 53. La città di Amleto. 55. Il Guinness del cinema. 57. Possono esserlo le arterie. 59. Un’erba aromatica. 64. Un affluente della Senna. 65. Il déjà che è un falso ricordo. 67. Raggi poetici. 69. Transitano sul Canal Grande. 71. Scavati dalle acque. 72. Un colpo apoplettico. 73. Pentole dei Romani. 77. Insieme alle mogli in un celebre proverbio. 80. Il sottoscritto. 82. Donne colpevoli. 84. Il codice a barre. 85. Il prefisso dell’orecchio. 88. Sono doppie nel rigore. 89. La Silvana di Riso amaro (iniz.) 92. La sillaba nuziale.
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