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Diritto penale e processo
Sommario
EDITORIALE
Femminicidio
TUTELA DELLA DONNA E PROCESSO PENALE: A PROPOSITO DELLA LEGGE N. 119/2013
di Giuseppe Bellantoni
641
LEGISLAZIONE
NOVITA` NORMATIVE
Legislazione
penale seconda parte
LA SOSPENSIONE DEL PROCEDIMENTO CON MESSA ALLA PROVA
Legge 28 aprile 2014, n. 67
656
Una goccia deflattiva nel mare del sovraffollamento?, di Roberto Bartoli
659
661
Ombre e luci di un nuovo rito speciale per una diversa politica criminale, di Antonella Marandola
674
GIURISPRUDENZA
Osservatori
OSSERVATORIO CORTE COSTITUZIONALE
a cura di Giuseppe Di Chiara
686
OSSERVATORIO CORTE DI CASSAZIONE - SEZIONI UNITE
a cura di Alfredo Montagna
689
OSSERVATORIO CORTE DI CASSAZIONE - DIRITTO PENALE
a cura di Stefano Corbetta
692
OSSERVATORIO CORTE DI CASSAZIONE - PROCESSO PENALE
a cura di Giulio Garuti
698
OSSERVATORIO CONTRASTI GIURISPRUDENZIALI
a cura di Alfredo Montagna
705
Giurisprudenza commentata
Diritto penale
tributario
IL LEGISLATORE PENALE TRIBUTARIO A LEZIONE DI RAGIONEVOLEZZA
DALLA CORTE COSTITUZIONALE
Corte costituzionale, 8 aprile 2014 (c.c. 7 aprile 2014), n. 80
Commento di Giovanni Flora
Impugnazioni
L’INAMMISSIBILITA` DEL RICORSO PER CASSAZIONE DELLA PARTE CIVILE
CHE NON HA IMPUGNATO LA SENTENZA ASSOLUTORIA DI PRIMO GRADO
Cassazione penale, Sez. VI, 26 agosto 2013 (c.c. 21 maggio 2013), n. 35513
Commento di Giulia Quagliano
Giurisdizione
«PASTICCIACCIO BRUTTO» IN ALTO MARE. QUESTIONI DI GIURISDIZIONE,
ESTRADIZIONE, NECESSITA`, TRADUZIONE D’ATTI
Cassazione penale, Sez. I, 23 gennaio 2014 (c.c. 25 settembre 2013), n. 3155
Commento di Alberto di Martino
Mezzi di prova
LE VIDEORIPRESE DI COMPORTAMENTI NON COMUNICATIVI NEL LUOGO DI LAVORO
Cassazione penale, Sez. VI, 12 luglio 2013 (c.c. 4 giugno 2013), n. 30177
Commento di Irene Guerini
707
709
714
715
721
726
737
739
OPINIONI
Colpa
CAUSALITA` E COLPA: UNA COSTANTE ED INDEBITA SOVRAPPOSIZIONE
di Donato D’Auria
Diritto penale e processo 6/2014
751
639
Diritto penale e processo
Sommario
Mezzi di prova
I SISTEMI DI CONTROLLO REMOTO: FRA NORMATIVA E PRASSI
di Alessandra Testaguzza
759
GIUSTIZIA SOVRANAZIONALE
OSSERVATORIO CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO
a cura di Carlotta Conti
767
INDICI
INDICE AUTORI, CRONOLOGICO DEI PROVVEDIMENTI, ANALITICO
772
La storica rivista Giurisprudenza italiana ha realizzato da quest’anno un profondo rinnovamento. Per l’area del diritto e del processo
penale si e` creata una proficua sinergia con Diritto penale e processo. La Direzione scientifica e l’Editore ritengono di fare cosa utile
e gradita segnalando regolarmente ai lettori di questa Rivista i contenuti penalistici di Giurisprudenza italiana.
Giurisprudenza italiana n. 5/2014:
Diritto Penale
V. Zagrebelsky, Le sanzioni Consob, l’equo processo e il ne bis in idem nella Cedu, Corte europea dei diritti dell’uomo, II Sezione, 4
marzo 2014, ricorsi nn. 18640/10, 18647/10, 18663/10, 18668/10 e 18698/10; 1196.
R. Bartoli, Le Sezioni unite tracciano i confini tra concussione, induzione e corruzione, Cassazione penale, Sezioni unite, 14 marzo
2014 (ud. 24 ottobre 2013), n. 12228; 1200.
L. Risicato, L’insicurezza del kartodromo tra colpa specifica e ‘‘assenza di buon senso’’, Cassazione penale, IV Sezione, 20 gennaio
2014 (ud. 27 novembre 2013), n. 2343; 1219.
Diritto Processuale Penale
G. Spangher, Un’altra violazione del divieto di reformatio in peius (... e non solo), Cassazione penale, Sezioni unite, 14 aprile 2014
(ud. 27 marzo 2014), n. 16208; 1224.
M. Bontempelli, Presunzioni legali tributarie e indizi di reato, nella disciplina del sequestro preventivo, Cassazione penale, III Sezione,
30 gennaio 2014 (ud. 30 ottobre 2013), n. 4361; 1232.
A. Marandola, La Cassazione ridimensiona gli effetti della sentenza Drassich, Cassazione penale, II Sezione, 24 gennaio 2014 (ud.
18 dicembre 2013), n. 3587; 1240.
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Diritto penale e processo 6/2014
Editoriale
Processo penale
Tutela della donna
e processo penale: a proposito
della legge n. 119/2013
di Giuseppe Bellantoni - Ordinario di Diritto processuale penale nell’Università
“Magna Graecia” di Catanzaro
La recente l. 15 ottobre 2013, n. 119, enfaticamente - ma non correttamente, e in modo peraltro comunque riduttivo - etichettata in genere come legge sul “femminicidio”, offre all’A. lo spunto per un’ampia riflessione in ordine ai termini in cui la disciplina del processo penale, anche per effetto di svariate e plurime sollecitazioni sovranazionali, appresta forme di tutela a favore della donna in esso coinvolta. L’obbiettivo, nella sua inquadratura prospettica, focalizza un esteso orizzonte, rapportato all’intero sviluppo del
procedimento penale, compresa la fase esecutiva, e riferito alle varie posizioni, rivestite dalla donna nel
processo (persona offesa, vittima, indagata, imputata, condannata), in varia misura prese in considerazione dal legislatore a fini di tutela.
Premessa: la tutela della donna nel
sistema penale
Certo non è questa la sede adatta - né, peraltro,
chi scrive ne sarebbe idoneamente attrezzato - per
tracciare il quadro della storia evolutiva dello “status” in genere via via riservato alla donna negli sviluppi dell’ordinamento giuridico, da quando esso
risultava configurato come riferito ad un soggetto
caratterizzato da una totale incapacità nel campo
del diritto pubblico, da una capacità giuridica di
diritto privato ampiamente delimitata, dall’essere
parzialmente incapace di agire, e dall’essere, dal
punto di vista patrimoniale, giuridicamente sottoposto al potere assoluto del pater familias (1), fino
ai nostri tempi, in cui risultano davvero prorompenti, sia a livello nazionale che, soprattutto, a livello sovranazionale, gli impulsi, in generale ed in
ogni settore, a svariata tutela della sua persona e
della sua stessa parità di genere (2).
Le scelte di politica legislativa ad ampio spettro, a
tutela della donna, hanno anche avuto - e non poteva certo essere altrimenti, consideratone l’intrin(1) Al riguardo - ci si sta evidentemente riferendo all’antico
diritto romano -, cfr. C. Sanfilippo, Istituzioni didiritto romano,
8^ ed. curata e aggiornata da A. Corbino e A. Metro, Catania,
1992, 52-53, 57 e 151, nonché, più diffusamente, G. Alfoldy,
Storia socialedell’antica Roma, Bologna, 1987 e Y. Thomas, La
divisionedei sessinel dirittoromano, in AA. VV., Storia delledonne
inOccidente, a cura di G. Duby e M. Perrot, vol. I, L’antichità, a
cura di P. Schmitt Pantel, 6^ ed., Roma-Bari, 2009.
(2) È proprio di questi giorni, ad esempio - cfr. Parità digenere, Boldrini in pressing: “Serve unarappresentanza adeguata”,
Diritto penale e processo 6/2014
seco profilo di soggetto vulnerabile - una considerevole proiezione pure nell’àmbito del sistema penale.
Così, in primis, è a dirsi in riferimento al settore del
diritto penale sostanziale, dove è possibile assistere
ad una evoluzione ideologica, in punto, di certo
ben, e sempre più, distante, da quella concezione
che, in fase di definizione del delitto di omicidio,
aveva invece ispirato il legislatore a ricorrere tout
court - cfr. art. 575 c.p. - alla riduttiva formula letterale - davvero sintomaticamente significativa, a
dir poco, della scarsa considerazione della figura
femminile - «chiunque cagiona la morte di “un uomo” è punito (…)» (3).
Ovvero, ancora, lo aveva ispirato, in fase di delineazione dei reati di adulterio e di concubinato,
quali «delitti contro la famiglia», a disegnare il primo reato (art. 559 c.p.), realizzabile dalla donna
(moglie), in modo ben più rigido, gravoso e discriminatorio, rispetto a quello, il secondo (art. 560
c.p.), realizzabile invece dall’uomo (marito), atteso
che, a «differenza dell’adulterio della donna (che
può consistere anche in un solo atto), il concubiin lastampa.it/2014/03/09/italia/politica -, la notizia di fermenti
politici tesi verso una riforma elettorale che garantisca una
rappresentanza parlamentare femminile del 50%.
Un compiuto affresco della parabola evolutiva in discorso è
comunque riscontrabile in AA. VV., Storia delledonne inOccidente, a cura di G. Duby e M. Perrot, cit., voll. I, II, III, IV, V,
Roma-Bari, 2005-2011. In punto, v. anche infra.
(3) In proposito, v. F. Mantovani, Diritto penale, Parte generale, 3^ ed., Padova, 1992, 108.
641
Editoriale
Processo penale
nato (…) è costituito [, al contrario,] dalla relazione carnale tenuta in modo costante dal marito con
una donna (maritata o non) che trovasi nella casa
coniugale o che è notorio essere a lui vincolata da
relazione carnale» (4).
Nel predetto, specifico, settore del diritto penale,
può rilevarsi che, oltre a quanto segnatamente elaborato in alcune materie, quali, ad esempio, quella
- cfr. l. 20 febbraio 1958, n. 75 - relativa alla «abolizione della regolamentazione della prostituzione»
e alla «lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui», ovvero quella - cfr. l. 22 maggio
1978, n. 194 - afferente alla «tutela sociale della
maternità» e alla «interruzione volontaria della
gravidanza» e quella - cfr. l. 9 gennaio 2006, n. 7 concernente «la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile» (5), il
campo, per così dire, più ampio ed elaborato, dell’impatto normativo di tutela, è quello concernente i delitti sessuali, o di tipo sessuale, o a sfondo
sessuale, o di potenziale caratura sessuale, o, comunque, di impulso sessuale (6), che, come assolutamente noto, e come indicano le statistiche, vedono come vittime, in stragrande maggioranza, oltre che i minori (7), soprattutto le donne (8).
Detto campo, peraltro, è andato via via ad allargarsi nel tempo, fino ad estendersi a ricomprendere
anche tipi diversi di delitti contro la persona, concepiti e pensati precipuamente a tutela della donna, in quanto, appunto, aventi, in rerum natura,
quali soggetti passivi, per lo più, e massimamente,
(4) Così, B. Cassinelli, Il nuovocodice penalecommentato articoloper articoloe raffrontatocol Codiceabrogato, con prefazione
di V. Scialoja, Roma, P. Cremonese ed., 1931 - IX, 477. Di guisa che, in giurisprudenza, nel mentre veniva puntualmente e
solertemente affermato che, per la configurazione del delitto
di concubinato «non bastano sporadici accoppiamenti, neanche se in seguito ad essi la donna sia rimasta incinta», essendo, appunto, necessario che i «rapporti siano caratterizzati dalla condizione della stabilità» (Cass., sez. II, 23 maggio 1952,
Santonocito, in Riv. pen., 1953, II, 96), di contro, veniva affermato che integra invece il delitto di adulterio anche solo lo
sporadico «fatto che la moglie offra il proprio corpo a persona
diversa dal marito, per semplici atti di lascivia» (Cass., sez. II,
10 gennaio 1958, Villani, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1958, 833).
Assai emblematica, al riguardo, la tormentata e celebre vicenda giudiziaria occorsa, sotto questi specifici profili, a Fausto Coppi e Giulia Occhini: v. G. Moroni, Fausto Coppi. Solitudine di un campione, Milano, U. Mursia ed., 2009, nonché M.
Fossati, Quella trasgressione sentimentale che indignò la provincia bigotta e M. Novelli, La morte della Dama Bianca, in la Repubblica del 7 gennaio 1993, 19.
(5) Per un più dettagliato elenco di provvedimenti legislativi,
v. B. Romano, Il contrastopenalistico allaviolenza sulledonne, in
Archiv. pen., 2014, n. 1, 1 ss.
(6) A cui riguardo, v. diffusamente B. Romano, Delitti controla sferasessuale dellapersona, 5^ ed., Padova, 2013, 3 ss.
642
donne. Quale, ad esempio, il delitto di «atti persecutori» di cui all’art. 612 bis c.p. (9).
Qui, gli interventi, iniziatisi a delineare da circa
un quarantennio (10), sono stati davvero incisivi.
E davvero complesse e complicate, in quanto continue, stratificate e convulse, risultano le relative
dinamiche d’intervento, azionate dal legislatore
per lo più d’impeto, in occasione della perpetrazione di gravi ed eclatanti fatti delittuosi, oltre che in
modo decisamente settoriale.
Tutela della donna e processo penale
Di pari passo, peraltro, gli interventi stessi, in modo parallelo e pressoché sintonico, hanno altresì
interessato anche l’area del processo (rectius: “procedimento”) penale - area qui di nostro segnato interesse -, al fine di apprestare, anche su questo
fronte, una adeguata tutela della donna, o, comunque, anche, e soprattutto, della donna, persona offesa, nei procedimenti per i reati de quibus.
Obbiettivo, questo, a cui non era per vero rimasto
insensibile lo stesso legislatore in sede di stesura
del codice di rito del 1988 (si pensi, ad esempio,
all’introduzione - v. artt. 91 ss. - della figura degli
«enti e delle associazioni rappresentativi di interessi lesi dal reato», effettuata precipuamente proprio
allo scopo di consentire - cosa controversa sotto le
costellazioni del codice previgente - l’intervento
nel procedimento penale di enti con finalità di tutela degli interessi lesi dai reati contro la libertà
sessuale della donna; o alla disposizione contenuta
nell’art. 472, comma 1, a proposito della tutela del
(7) Alla cui specifica tutela, anche in punto, figura tra l’altro
predisposta, come è noto, la recente l. 1 ottobre 2012, n. 172,
recante «Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, fatta a Lanzarote il 25 ottobre 2007,
nonché norme di adeguamento dell’ordinamento interno».
(8) Per gli opportuni riferimenti, pure agganciati ai numerosissimi dati derivanti dalle notizie di cronaca, v. le opere indicate infra, nelle note 10 e 13, e, per una più analitica indicazione
degli esatti ed allarmanti dati statistici, ad esempio, L. Garofano, Il femminicidioin Italiaed ilPiano d’AzioneStraordinario previstodalla nuovalegge, in AA. VV., Femminicidio, a cura di L. Garofano, A. Conz, L. Levita, Roma, 2013, XI ss.
(9) Nella Relazione al d.d.l. n. 1440, ad iniziativa del ministro M.R. Carfagna ed altri, recante «Misure contro gli atti persecutori», presentato, nel corso della XVI Legislatura, in data 2
luglio 2008 - v. in giustizia.it/giustizia/it/mg_1_2_1.wp?previsious, p.1 -, è infatti dato leggere che il disegno legislativo è
stato predisposto «per fornire una risposta concreta nella lotta
contro la violenza specialmente sulle donne», atteso che da
«una recente ricerca risulta che, su trecento delitti commessi
(…) l’88 per cento ha come vittime le donne».
(10) Per analitici dettagli al riguardo, volendo, v. il nostro
Violenza sessualee processopenale, in Studi inmemoria diPietro
Nuvolone, vol. II, Milano, 1991, 5 ss.
Diritto penale e processo 6/2014
Editoriale
Processo penale
«buon costume» quale caso perché, a tutela della
persona offesa, si deroghi alla regola della pubblicità del dibattimento e si proceda a porte chiuse; o a
quanto, in senso peggiorativo, stabilisce l’art. 288,
comma 2, in tema di sospensione dell’esercizio della potestà dei genitori - rectius, oggi: della «responsabilità genitoriale» (11) - qualora si proceda per
un delitto contro la libertà sessuale) (12).
L’impatto da parte degli svariati e continui interventi legislativi sull’impianto normativo di base,
afferente alla disciplina del processo penale, è risultato davvero imponente e a larghissimo spettro,
comportando, altresì, svariate deviazioni o differenziazioni o modulazioni, peculiari rispetto al sistema
tipico, peraltro fin anche con riguardo alla fase dell’esecuzione penale.
Di guisa che può ben dirsi che, per effetto delle
suddette parabole d’intervento normativo di settore, si sia effettivamente dato vita, con riferimento
al procedimento per i delitti sessuali, o lato sensu
sessuali, e per gli ulteriori delitti, di cui si è sopra
detto, che sono stati man mano assorbiti in quella
stessa logica, ed orbita, legislativa, ad un vero e
proprio micro-sistema a sé.
In cui il leit-motiv ideologico di fondo - fortemente
agganciato ad istanze di difesa sociale, e, dunque,
legato all’idea di utilizzo degli strumenti del processo penale come mezzi di contrasto alla fenomenologia criminosa - figura sostanzialmente imperniato
sulla volontà di rafforzamento della tutela, in modi
e forme svariati, della persona offesa, in una con il
potenziamento degli strumenti di contrasto di tali
fenomeni criminosi e con l’inasprimento a fini dissuasivi del trattamento normativo riservato ai soggetti ritenuti, o riconosciuti, colpevoli.
Un micro-sistema processuale, dunque, caratterizzato da molteplici profili di peculiarità di disciplina, tra l’altro, in tema di ampliamento, a favore
della persona offesa, dell’accesso al patrocinio a
spese dello Stato; in tema di ampliamento delle
ipotesi di procedibilità d’ufficio e di dilatazione del
termine per proporre la querela, con contestuale
affermazione della «irrevocabilità» di essa; in tema
di attribuzioni delle funzioni di pubblico ministero
nelle indagini preliminari e nei procedimenti di
primo grado al Procuratore della Repubblica di-
strettuale; in tema di coinvolgimento, nel procedimento, del g.i.p. e del g.u.p. distrettuali; in tema di
statuizione di maggiori termini di durata massima
delle indagini preliminari; in tema di operatività
della normativa sulle operazioni investigative c.d.
«sotto copertura»; in tema di ampliamento della
possibilità di ricorrere alle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni; in tema di ampliamento dell’operatività dell’arresto in flagranza; in tema
di inasprimento dell’applicabilità della misura cautelare carceraria e di creazione di ulteriori misure
cautelari tipologicamente modulate in rapporto alla specifica tipologia di alcuni di questi delitti; in
tema di previsione di accertamenti coercitivi sull’imputato per l’individuazione di patologie sessualmente trasmissibili; in tema di azionabilità dell’incidente probatorio prescindendo dalla sussistenza
delle specifiche e ordinarie condizioni di non rinviabilità della prova al dibattimento, oltre che di
affermazione di specifiche regole procedurali per
l’assunzione della testimonianza in detta sede; in
tema di divieto di accesso al “patteggiamento” per
l’imputato; in tema di deroghe alla pubblicità del
dibattimento in funzione della tutela della persona
offesa; in tema di limiti oggettivi alla testimonianza e di modalità di assunzione della testimonianza
stessa in funzione, ancora, della tutela della persona offesa; in tema di tendenza, quanto alla fase esecutiva, alla riconduzione dei delitti in discorso al
sistema del c.d. “doppio binario esecutivo” anche,
oltre al resto, attraverso l’inserimento di una gran
parte di essi nell’àmbito previsionale dell’art. 4 bis
della l. 26 luglio 1975, n. 354 sull’ordinamento penitenziario, con consequenziale sensibile restrizione, e/o sottoposizione a condizioni, della possibilità, per i condannati, di fruire dei benefici penitenziari previsti da detta legge (13).
Sono poi comunque anche altri, per vero, gli interventi legislativi intervenuti sulla disciplina del processo penale, che, seppur magari adottati sulla base
di diversificate motivazioni ideologiche, e dunque
strutturati e calibrati peculiarmente in vista della
tutela di altre tipologie di interessi giuridici, vengono comunque a comportare, sotto vari profili,
anche una tutela della donna, quale, e in quanto,
tale.
(11) Cfr. art. 94 d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154.
(12) Per un quadro più dettagliato, v. il nostro Violenza sessualee processopenale cit., 9 ss.
(13) Più approfonditamente, anche per i riferimenti legislativi (con arco temporale fino al 2010), v., dello scrivente, Il procedimentopenale peri delittisessuali: un micro-sistema inevoluzione, in questa Rivista, 2007, 985 ss., nonché Id., Delitti ses-
sualie processopenale, in AA. VV., Trattato diprocedura penale
diretto da G. Spangher, vol. VII, Modelli differenziatidi accertamento, Tomo I, a cura di G. Garuti, Torino, 2011, 239 ss. E,
successivamente, Id., Divieto diavvicinamento allapersona offesa ex art. 282 ter c.p.p. e determinazionedi luoghie distanze, in
questa Rivista, 2013, 1286 e ivi, spec. nota 3.
Diritto penale e processo 6/2014
643
Editoriale
Processo penale
Una tutela, peraltro, talvolta poi - e in ben diversa
logica -, concepita e congegnata non già in rapporto allo stato di persona offesa o vittima del reato rivestito dalla donna stessa, sibbene, e, ovviamente,
ben diversamente, in rapporto alla ben distinta, o
meglio, antitetica, posizione, da essa stavolta invece rivestita, di soggetto indagato, imputato o condannato.
Così, ad esempio, accade in materia cautelare.
Là dove risulta stabilito, dal comma 4 dell’art. 275
c.p.p., il divieto di disporre o mantenere la custodia carceraria, quando imputata sia donna incinta
o madre di prole di età non superiore a sei anni
con lei convivente, salvo che sussistano esigenze
cautelari di eccezionale rilevanza.
Sembra qui innegabilmente pur vero che il divieto
figuri concepito a precipua protezione del minore,
cercandosi con ciò infatti di evitare che la formazione del bambino possa essere gravemente pregiudicata dall’assenza infungibile della figura genitoriale (14). A tal fine estendendosi invero l’operatività del divieto carcerario anche nei confronti del
padre, qualora la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole.
E, d’altro lato, configurandosi, corrispondentemente, nuove forme di realizzazione delle misure cautelari, quali gli arresti domiciliari presso una «casa famiglia protetta» (art. 284, comma 1, c.p.p.) e la
custodia cautelare in «istituto a custodia attenuata
per detenute madri» (art. 285 bis c.p.p.) (15).
Ma non pare certo minimamente revocabile in
dubbio che codeste disposizioni, concepite in funzione della protezione del bambino, dichiaratamente emanate «a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori» (16), tutelino appunto, specularmente e osmoticamente, anche la stessa donna imputata, in quanto donna, madre in atto, ovvero
madre in fieri. La tutela, cioè, va a coprire l’estrinsecazione di tutte quelle facoltà, di tutti quei diritti, di tutti quei doveri, di tutte quelle gratificazioni,
di tutte quelle prerogative, intimamente connesse
al predetto status di maternità, impedendo che esso
possa essere compromesso da ipotesi di carcerazione.
Considerazioni analoghe valgono, del pari, anche
con riferimento alla fase dell’esecuzione penale, là
dove, muovendosi sulla stessa lunghezza d’onda, il
legislatore ha predisposto strumenti vari volti alla
tutela della donna condannata e del di lei rapporto
con i figli minori.
Questa impostazione ideologica risulta infatti affermata nella citata l. 26 luglio 1975, n. 354 sull’ordinamento penitenziario, già nella sua stessa strutturazione originaria, dove, ad esempio, l’art. 11, comma 8°, stabilisce che «in ogni istituto penitenziario
per donne sono in funzione servizi speciali per l’assistenza sanitaria alle gestanti e alle puerpere». E
dove il comma 9° dello stesso articolo, a sua volta,
afferma che «alle madri è consentito di tenere
presso di sé i figli fino all’età di tre anni», aggiungendo che «per la cura e l’assistenza dei bambini
sono organizzati appositi asili nido».
Ma la stessa impostazione ideologica figura vieppiù
rinvigorita, potenziata ed arricchita, per effetto della incidenza, su quel corpus normativo, di svariati e
successivi provvedimenti legislativi, dei quali, alcuni concepiti, appunto, proprio in vista del raggiungimento delle sopra indicate peculiari finalità di
tutela (17).
Così, da un nuovo art. 21 bis (18), viene congegnata la misura dell’«assistenza all’esterno dei figli minori», concedibile alle condannate e alle internate
per la cura e l’assistenza all’esterno dei figli di età
non superiore agli anni dieci.
E, da un nuovo art. 21 ter (19), viene introdotta la
disciplina concernente le «visite al minore infermo», a cui, in caso di imminente pericolo di vita o
di gravi condizioni di salute del figlio minore, anche non convivente, è autorizzata la madre condannata, internata, o anche imputata. La quale, altresì, è autorizzata ad assistere il figlio di età inferiore a dieci anni, durante le visite specialistiche
relative a gravi condizioni di salute.
E, ancora, da un nuovo e travagliatissimo art. 47
ter (20), in tema di «detenzione domiciliare», figu-
(14) Cfr., ad esempio, Cass., sez. I, 31 gennaio 2014, A. A.,
n. 4748.
(15) In argomento, anche per i riferimenti, v. diffusamente,
dello scrivente, Misure cautelari e tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori, sub artt. 284 e 285 bis c.p.p., in AA.
VV., Codice commentatodella famigliae deiminori, a cura di G.
Bonilini e M. Confortini, Torino, 2014.
(16) Come risulta dalla rubrica della l. 21 aprile 2011, n. 62,
contenente le dette disposizioni.
(17) Si tratta, oltre ad altri vari provvedimenti, soprattutto
della l. 8 marzo 2001, n. 40, recante «Misure alternative alla
detenzione a tutela del rapporto tra detenute e figli minori» e
della citata l. 21 aprile 2011, n. 62, contenente «Modifiche al
codice di procedura penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354,
e altre disposizioni a tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori».
(18) Opera della l. 8 marzo 2001, n. 40 cit.
(19) Opera della l. 21 aprile 2011, n. 62 cit.
(20) Il cui testo odierno è frutto di davvero molteplici e variegati interventi legislativi, oltre che della Corte costituzionale:
cfr. puntualmente G. Spangher, sub art. 47 ter ord. penit., in
Codice diprocedura penale, 10^ ed. agg. al 15 gennaio 2014,
644
Diritto penale e processo 6/2014
Editoriale
Processo penale
ra disciplinata la previsione, a favore della donna
incinta o madre di prole di età inferiore ad anni
dieci con lei convivente, della possibilità di espiare
la pena della reclusione non superiore a quattro
anni, anche se costituente parte residua di maggior
pena, nonché la pena dell’arresto, nella propria
abitazione o in altro luogo di privata dimora ovvero in luogo pubblico di cura, assistenza o accoglienza ovvero in case famiglia protette.
Là dove, da un altrettanto travagliato art. 47 quiquies (21), risulta configurata la disciplina della
«detenzione domiciliare speciale», che, ricorrendo
determinate condizioni, è concedibile, anche nel
caso di esecuzione di pene di lunga durata, alle
condannate madri di prole di età non superiore ad
anni dieci, se vi è possibilità di ripristinare la convivenza con i figli. Con consequenziale espiazione
della pena nella propria abitazione, o in altro luogo
di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, al fine di provvedere alla cura e
alla assistenza dei figli.
Con l’ulteriore previsione (comma 1 bis), altresì,
che la stessa espiazione della parte di pena (un terzo o almeno quindici anni nel caso di condanna all’ergastolo) necessaria quale presupposto per la
concedibilità del beneficio, può avvenire presso un
istituto a custodia attenuata per detenute madri
ovvero, se non sussiste un concreto pericolo di
commissione di ulteriori delitti o di fuga, nella propria abitazione, o in un altro luogo di privata dimora, ovvero in luogo di cura, assistenza o accoglienza, o, in caso di impossibilità, nelle case famiglia protette, ove istituite, sempre al fine di provvedere alla cura e all’assistenza dei figli (22).
E, del resto, e a loro volta, anche gli innovati artt.
146 e 147 c.p. (23), in materia e a proposito di rinvio della esecuzione della pena - con relativa disciplina estesa ex art. 211 bis c.p. anche in materia di
rinvio dell’esecuzione delle misure di sicurezza -,
sanciscono, rispettivamente, il differimento obbligatorio dell’esecuzione di una pena, che non sia
pecuniaria, se deve aver luogo nei confronti di
donna incinta o se deve aver luogo nei confronti
di madre di infante di età inferiore ad anni uno
(art. 146, n. 1 e n. 2), ovvero il differimento facoltativo della esecuzione di una pena restrittiva della
libertà personale che debba essere eseguita nei confronti di madre di prole di età inferiore a tre anni
(art. 147, n. 3) (24).
Torino, 2014, 716-717, note 1-14.
(21) V. dettagliatamente ancora G. Spangher, Codice cit.,
718, note 1-3.
(22) Su tutte queste tematiche, v. più diffusamente, dello
scrivente, Il trattamentodei condannati, in AA. VV., Manuale
dellaesecuzione penitenziaria, a cura di P. Corso, 5^ ed., Milano, 2013, 154 ss. e A. Pennisi, Le misurealternative alladetenzione, ivi, 237 ss. e 245 ss.
(23) Segnatamente: il 1° sostituito, il 2° modificato, ad opera della l. 8 marzo 2001, n. 40 cit.
(24) Anche a questi riguardi, sia consentito rinviare al nostro Il trattamentodei condannati cit., 154.
(25) V. paragrafo 1°.
(26) V., ad esempio, di recente e in modo rilevante, Direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25
ottobre 2012 che istituisce norme minime in materia di diritti,
assistenza e protezione delle vittime di reato e che sostituisce
la decisione quadro 2001/220/GAI/, in G.U.UE del 14 novem-
bre 2012, n. L 315/57. Sul tema, ampiamente, anche per i riferimenti, v. L. Parlato, Il contributodella vittimatra azionee prova,
Palermo, 2013, 25 ss. e F. M. Grifantini, La personaoffesa dalreato nellafase delleindagini preliminari, 173 ss.
(27) Sul cui “sfuggente” concetto, anche per i riferimenti:
L. Parlato, op. cit., 71 ss.
(28) V. il nostro Violenza sessualee processopenale cit.,
spec. 5, nota 2.
(29) Cfr. i dati forniti da L. Garofano, Il femminicidio cit., XIX
ss., nonché quelli emergenti dal rapporto della United Nations
Women indicato infra, nella nota 48. Pure se, per vero, non
mancano neppure dati di cronaca, recenti, di segno opposto:
v., ad esempio, A. Geraci, Texas. 25 colpidi taccoa spilloin testa
«così Anaha uccisoil suofidanzato», in corriere.it/esteri/14_aprile
2014; Anonimo, Calabria: uccide compagno e tenta suicidio, in
ansa.it/calabria/notizie/2014/04/07.
(30) Che peraltro fa risalire la coniatura del termine, nell’attuale accezione - sull’eco comunque di quanto già prima rile-
Diritto penale e processo 6/2014
Le sollecitazioni sovranazionali
Si è già sopra (25) avuto occasione di segnalare come, nelle scelte di politica legislativa di rafforzamento della tutela della donna, anche nel settore
penalistico, una grande rilevanza e una grande incidenza abbiano avuto gli impulsi, le sollecitazioni,
le iniziative e gli interventi di provenienza e di caratura, a vario livello, sovranazionale, svariatamente, e in maniera davvero cospicua, intervenuti negli ultimi anni.
Peraltro anche nell’àmbito di una ancor ben più
vasta logica, volta alla tutela in genere delle vittime di reato (26), e, in specie, di quelle c.d. «vulnerabili» (27).
E non sarebbe potuto certo essere altrimenti, attese
la portata e le dimensioni assolutamente internazionali caratterizzanti i vasti e vari fenomeni criminosi di violenza - spesso in gran parte sommersi (28) - in vario modo posti in essere in danno
delle donne (29).
Fenomeni che, al fine della loro complessa e complicata definizione concettuale, hanno portato alla
elaborazione di un nuovo e peculiare termine, quello di «femminicidio», volto ad identificare, in punto
- secondo una certa, oramai consolidata, communis
opinio (30) -, le violenze fisiche e psicologiche con-
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Editoriale
Processo penale
tro le donne che avvengono in (e a causa di) un
contesto sociale e culturale che contribuisce a una
sostanziale impunità sociale di tali atti, relegando la
donna, in quanto donna, a un ruolo subordinato e
negandole, di fatto, il godimento dei diritti fondamentali. Facendosi segnatamente rientrare nel menzionato termine concettuale non solo l’uccisione di
una donna in quanto tale (femmicidio) (31), ma
ogni atto violento o minaccia di violenza esercitato
nei confronti di una donna in quanto donna, in àmbito pubblico o privato, che provochi o possa provocare un danno fisico, sessuale o psicologico o sofferenza alla donna. Di tal che, quindi, l’uccisione
della donna è solo una delle sue estreme conseguenze, l’espressione più drammatica della diseguaglianza
esistente nella nostra società (32).
Il termine - un neologismo, dunque -, che non figurava minimamente indicato nel glossario tradizionale della lingua italiana (33), vi figura invece
ricompreso oggi, risultando, meno enfaticamente,
ma non per questo meno significativamente, definito, come «uccisione o violenza compiuta nei
confronti di una donna, spec. quando il fatto di essere donna costituisca l’elemento scatenante dell’azione criminosa» (34).
Tra le molteplici iniziative di rango sovranazionale
di cui si è detto, pare qui il caso, in particolare, di
ricordarne almeno alcune.
Il 18 dicembre 1979 viene adottata a New York la
Convenzione delle Nazioni Unite sulla «eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti
della donna», ratificata dall’Italia con legge 14 marzo
1985, n. 132 (35), in cui, tra l’altro, e oltre al resto,
l’art. 6 sancisce che gli Stati parte «prendono ogni
misura adeguata, comprese le disposizioni legislative,
per reprimere, in ogni sua forma, il traffico e lo sfruttamento della prostituzione delle donne», con Protocollo opzionale del 1999 (36) e Raccomandazione
generale n. 19 sulla violenza contro le donne (37).
Nel 1986 l’Assemblea generale dell’ONU adotta la
risoluzione n. 52/1986 su «Prevenzione dei reati e
misure di giustizia penale per eliminare la violenza
contro le donne», con cui si dichiara la volontà di
eliminare e condannare aspramente tutte le forme
di violenza nei confronti delle donne, esortando gli
Stati membri ad adottare delle appropriate misure,
anche di ordine processuale, al fine di impedire gli
episodi di violenza, di evitare che essi vengano
portati a conseguenze ulteriori e di proteggere i familiari delle vittime (38).
Con la risoluzione 48/104 del 20 dicembre 1993 sulla scia della citata Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne e della Dichiarazione e Programma d’azione di
Vienna (39) - viene adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite la «Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne» (40),
individuandosi di poi (nel 1999) il 25 novembre,
quale «Giornata internazionale per l’eliminazione
della violenza contro le donne» (41).
Nel 1995, viene approvata la «Dichiarazione di Pechino e la Piattaforma per l’Azione» dalla 4^ Conferenza mondiale dell’ONU «sulle donne» (42).
L’art. 7, comma 1, lett. g, dello Statuto istitutivo
della Corte penale internazionale, adottato dalla
Conferenza diplomatica delle Nazioni Unite a Roma il 17 luglio 1998, fatto oggetto di ratifica italiana con l. 12 luglio 1999, n. 232 (43), inserisce
vato da D.E.H. Russel, in AA. VV., Femicide: The Politics of
WomanKilling, a cura di J. Radford e D.E.H. Russel, New York,
NY, Twayne Publisher, 1992, XVI ss. -, all’antropologa messicana M. Lagarde (Identidades degénero yderechos humanos.
La construcciònde lashumanas, VII cursode verano. Educaciòn,
democracia ynueva ciudadanìa, Universidad Autònoma de
Aguascalientes, 7 y 8 de agosto 1997). In argomento, v. diffusamente B. Spinelli, Femminicidio. Dalla denunciasociale alriconoscimento giuridicointernazionale, Milano, F. Angeli ed., 2008.
(31) Il termine «femicide», col significato di «the Killing of a
woman», figura già nel Law LexiconLittleton orDictionary ofJurisprudence di J. J. S. Wharthon, Spettigue and Farrance, Londra, 1847, 251.
(32) Sono parole tratte dalla Relazione al d.d.l. n. 724, ad
iniziativa della senatrice F. Puglisi ed altri, recante «Disposizioni per la promozione della soggettività femminile e per il contrasto al femminicidio», presentato in data 29 maggio 2013 (v.
in senato.it - Legislatura 17^ - Disegno dilegge n. 724, 1-2).
(33) V., ad esempio, loZingarelli2009. Vocabolario dellalingua
italiana di N. Zingarelli, rist. 12^ ed., Bologna, 2009.
(34) V. voce femminicìdio, in loZingarelli2013. Vocabolario
dellalingua italiana di N. Zingarelli, rist. 2013 della 12^ ed.,
2013, 870. Per l’utilizzo del termine in giurisprudenza (rappor-
tato, però, sic etsimpliciter, all’uccisione di una donna): Cass.,
sez. V, 9 aprile 2013, F.T., n. 34016.
(35) Cfr. G.U. del 15 aprile 1985, n. 89 (Suppl. Ord.).
(36) Un General Assembly, Optional Protocol to the Convention on the Elimination of All Forms of Discrimination against
Women, A/RES/54/4, 15 ottobre 1999.
(37) Committee on the Elimination of Discrimination
against Women, “Violence against women”, 29 gennaio 1992.
(38) Un General Assembly, Crime prevention and criminal justice measures to eliminate violence against the women,
A/RES/52/86, 2 febbraio 1998.
(39) World Conference on Human Rights, Vienna Declaration and Programme of Action, 25 giugno 1993.
(40) Un General Assembly, Declaration on the Elimination of
Violence against Women, A/RES/48/104, 20 dicembre 1993.
(41) Assemblée Générale, “Journée internationale pour l’élimination de la violence à l’égard des Femmes”, A/RES/54/134,
17 dicembre 1999.
(42) Fourth World Conference on Women, Beijing Declaration and Platform for Action, A/CONF.177/20/Rev.1, 4-5 settembre 1995.
(43) V. in G.U. del 19 luglio 1999, n. 167 (Suppl. Ord.).
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Diritto penale e processo 6/2014
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Processo penale
«stupro, schiavitù sessuale, prostituzione forzata,
gravidanza forzata, sterilizzazione forzata e altre forme di violenza sessuale di analoga gravità» tra i
«crimini contro l’umanità».
È del 1999 la risoluzione del Parlamento europeo
sulla violenza contro le donne e programma Daphne (44), di poi seguito dal Programma d’azione comunitaria sulle misure preventive intese a combattere la violenza contro i bambini, i giovani e le
donne (2000-2003, programma Daphne), emanato
dal Parlamento europeo e dal Consiglio d’Europa (45); dalla raccomandazione Rec (2002) 5 del
Comitato dei ministri agli Stati membri sulla protezione delle donne dalla violenza, adottata il 30
aprile 2002 (46); e dalla risoluzione del Parlamento
europeo del 5 aprile 2011 in materia di lotta alla
violenza contro le donne 2010/2209 (INI) (47).
Nel luglio del 2011 viene pubblicato il primo rapporto della United Nations Women (UN Women United Nations entity for gender equality and the empowerment of women), neonata agenzia dell’ONU,
con obbiettivo di promuovere e velocizzare il processo di uguaglianza e il rafforzamento delle condizioni delle donne nel mondo. Nel detto rapporto,
delineati analiticamente e approfonditamente gli
scenari e i connotati delle estese fenomenologie
criminose violente, anche domestiche, in danno
delle donne nelle varie aree geografiche terrestri,
risultano anche elaborati alcuni suggerimenti per il
raggiungimento dell’obbiettivo perseguito. Tra i
quali, per quanto in specie qui di nostro interesse,
figura quello di sostenere le organizzazioni delle
donne in àmbito legale; quello di aumentarne la
presenza nelle strutture giuridiche e di polizia;
quello di promuovere l’accesso delle donne alla
giustizia e di supportarle nei processi; quello di verificare e controllare l’equità dell’iter giudiziario; e
quello di consolidare i programmi di riparazione
dei torti subiti (48).
Nel rapporto dell’1 agosto 2012 sul rafforzamento
degli sforzi per eliminare ogni forma di violenza
contro le donne, il Segretario generale delle Nazioni Unite ha chiesto agli Stati strumenti di contrasto più efficaci, tenendo conto che la forma più
diffusa di violenza è quella domestica (49).
Anche l’Organizzazione mondiale della sanità, in
un suo recente studio rapportato a dieci Paesi (50),
evidenzia l’impressionante vastità delle manifestazioni di violenza, soprattutto domestica, nei confronti delle donne, indicando il problema stesso
come una assoluta priorità anche per la sanità pubblica (in specie, avuto riguardo alle problematiche
relative alle malattie sessualmente trasmesse, alle
molteplici patologie fisiche nonché mentali e ai disturbi di natura psicologica accusabili dalle donne,
quali conseguenze della violenza subìta).
Meritano poi menzione la Convenzione interamericana di Belèm do Parà del 1994 sulla prevenzione, la punizione e l’eliminazione della violenza
contro le donne (51) e il Protocollo di Maputo alla
Carta africana dei diritti dell’uomo e dei popoli,
sui diritti delle donne in Africa del 2003 (52).
E davvero rilevante appare, altresì, il rapporto tematico sulla violenza contro le donne presentato
all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 15
giugno 2012, dal relatore speciale dell’ONU, in
cui, tra l’altro, con specifico riferimento allo stato
della situazione in Italia (53), figurano formulate,
al nostro Governo, alcune «raccomandazioni», anche - v. VII. A - sul piano delle «Riforme legislative e politiche».
Quali, per quanto qui più da vicino interessa, quella
(cfr. lett. c) di adottare, a fronte della attuale frammentazione normativa, una legge organica in materia; quella (cfr. lett. d) di aggiungere disposizioni significative per la protezione delle donne vittime di
violenza domestica; quella (cfr. lett. e) di provvedere alla istruzione e formazione per rafforzare le competenze dei giudici per affrontare in modo efficace i
(44) Parlamento Europeo, “Risoluzione sullaviolenza controle
donnee Programma Daphne”, 51999IPO233, 21 giugno 1999,
in G.U. UE del 21 giugno 1999 n. C 175, 233.
(45) Parlamento Europeo e Consiglio, Decisione relativa ad
un programma d’azione comunitaria sulle misure preventive intese a combattere la violenza contro i bambini, i giovani e le
donne (2000-2003) (programma DAPHNE), 32000DO293, 24
gennaio 2000, in G.U. UE del 9 febbraio 2000, n. L 034, 00010005.
(46) Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, “La protezione delle donne dalla violenza”, Rec (2002) 5, 30 aprile 2002.
(47) Parlamento Europeo, Sulle priorità e sulla definizione di
un nuovo quadro politico dell’UE in materia di lotta alla violenza
contro le donne, 2010/2209(INI), 5 aprile 2001.
(48) Cfr. “Progress of the World’s Women - In pursuite of Ju-
stice”, 2011.
(49) Secretary-General, “Intensification of efforts to eliminate
all forms of violence against women”, A/67/220, 1 agosto 2012.
(50) Cfr. World Health organization, Understanding and addressing violence against women. Overvew, 2012.
(51) Cfr. Inter-American Convention on the prevention, punishment and eradication of violence against women “Convention of Belem do Parà”, 9 giugno 1994.
(52) “Protocol to the African Charter on Human and Peoples’
Rights on the Rights of Women in Africa”, 11 luglio 2013.
(53) Cfr. Un General Assembly, Report of the Special Rappourter on Violence against Woman, its Causes and Consequences. Mission to Italy, Rashida Manjoo, A/HRC/20/16/Add. 2, 15
giugno 2012, 22-23.
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Processo penale
casi di violenza contro le donne; quella (cfr. lett. f)
di assicurare che sia previsto il patrocinio qualificato
e a spese dello Stato, per le donne vittima di violenza, secondo quanto previsto dalla Costituzione e
dalla l. n. 154/2001 relativa alle misure contro la
violenza nelle relazioni familiari; quella (cfr. lett. g)
di promuovere l’utilizzo delle esistenti misure cautelari alternative alla detenzione, degli arresti domiciliari e di carceri a bassa sicurezza per le donne con
figli minori, tenuto conto che la maggior parte di
esse si trovano detenute per reati che non sono di
violenza nei confronti della persona e tenuto conto
dell’interesse preminente del minore; quella (cfr.
lett. k) di modificare le norme contenute nel “Pacchetto sicurezza” in generale, e il reato di immigrazione irregolare in particolare, per garantire alle
donne migranti irregolarmente presenti sul territorio
di potersi recare dalle forze dell’ordine e trovare accesso alla giustizia senza la paura di essere detenute
o espulse; nonché quella (cfr. lett. n) di ratificare e
attuare, tra l’altro, la Convenzione europea per il risarcimento delle vittime di crimini violenti (del 24
novembre 1983) e la Convenzione del Consiglio
d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza
contro le donne e la violenza domestica (dell’11
maggio 2011) .
Ulteriori raccomandazioni al nostro Governo vengono poi formulate - v. VII. C - sul piano dei «Servizi di supporto».
Quali, sempre per quanto qui segnatamente interessa, quella (v. lett. a) di continuare a prendere le misure necessarie, incluse le misure finanziarie, per
mantenere l’esistente e/o per la costituzione di nuove
case rifugio e centri antiviolenza per l’assistenza e la
protezione delle donne vittime di violenza; quella (v.
lett. b) di assicurare che le case rifugio agiscano in
conformità agli standard internazionali e nazionali in
materia di diritti umani e che vengano creati meccanismi di accreditamento per monitorare il supporto
fornito alle donne vittima di violenza; nonché quella
(v. lett. c) di migliorare il coordinamento e lo scambio di informazioni tra la magistratura, le forze dell’ordine, gli psicologi, gli operatori sociali e sanitari
che si occupano di violenza contro le donne.
(Segue). La Convenzione di Istanbul
Una particolare attenzione, nel firmamento disegnato dagli svariati atti di matrice sovranazionale
concernenti l’argomento di cui qui ci si occupa,
(54) Cfr. G.U. del’1 luglio 2013, n. 152.
(55) Cfr. A Di Stefano, La Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei
648
merita poi, attesa la sua compiutezza analitica e la
sua completezza sistematica nella disciplina della
materia trattata, la Convenzione del Consiglio
d’Europa «sulla prevenzione e la lotta contro la
violenza nei confronti delle donne e la violenza
domestica», fatta a Istanbul l’11 maggio 2011, e ratificata nel nostro ordinamento con l. 27 giugno
2013, n. 77 (54). Pure se, stante la non realizzazione, al momento, delle condizioni previste dal comma 3 del suo art. 75 («Firma ed entrata in vigore»), essa non risulta ancora entrata concretamente in opera.
Un esame, pur, in questa sede, necessariamente del
tutto sommario, e solo e soltanto prima facie, di tale
atto - che ben può dirsi rappresentare il livello più
avanzato dello standard internazionale di prevenzione e contrasto del complesso fenomeno criminoso della violenza nei confronti delle donne, di protezione delle vittime e di punizione dei responsabili
(“Prevention, Protection and Prosecution”, le tre “P”,
riferite, secondo una formula tipica dei Trattati europei sul contrasto di speciali forme di violenza e
abuso, ai tre momenti costitutivi dell’architettura
garantistica) (55) -, porta a rilevarne l’ampia e impegnativa strutturazione, articolata in un «Preambolo», 12 Capitoli, ed un «Allegato».
Nell’atto stesso, figura preliminarmente (Preambolo) e solennemente declamata l’aspirazione «a
creare un’Europa libera dalla violenza contro le
donne e dalla violenza domestica». Definendosi e
disciplinandosi analiticamente e puntigliosamente,
di poi, tra l’altro, «Obiettivi, definizioni, uguaglianza e non discriminazione, obblighi generali»
(Capitolo I), «Politiche integrate e raccolte dei dati» (Capitolo II), «Prevenzione» (Capitolo III),
«Protezione e sostegno» delle vittime (Capitolo
IV), «Diritto sostanziale» (Capitolo V), «Migrazione e asilo» (Capitolo VII), «Cooperazione internazionale» (Capitolo VIII), «Meccanismo di controllo» (Capitolo IX), etc.
Rileva, in specie, per quanto qui più da vicino interessa, il Capitolo VI, specificamente dedicato a
«Indagini, procedimenti penali, diritto procedurale
e misure protettive». Ma va rimarcato che norme
di contenuto processuale sono svariatamente contenute, per così dire, qua e là, anche in altri “Capitoli” della Convenzione.
confronti delle donne e la violenza domestica, in penalecontemporaneo.it/novità legislative_e giurisprudenziali/3-/1759, 1-2.
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Editoriale
Processo penale
La l. 15 ottobre 2013, n. 119. La filosofia
di fondo
È dunque quello, pur succintamente e sommariamente, sopra (56) indicato, il complesso contesto
scenico in cui viene ad inserirsi il recente d.l. 14
agosto 2013, n. 93, recante «Disposizioni urgenti
in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province», da ultimo adottato, in subjecta materia, dal nostro Governo (57).
Il provvedimento figura dichiaratamente rapportato, per quanto riguarda le logiche motivazionali
della sua genesi - riferite peculiarmente a quella
parte di esso che qui almeno interessa (58) -, al
«susseguirsi di eventi di gravissima efferatezza in
danno di donne» e al «conseguente allarme sociale
che ne è derivato», i quali «rendono necessari interventi urgenti volti a inasprire, per finalità dissuasive, il trattamento punitivo degli autori di tali
fatti», introducendo, in determinati casi, «misure
di prevenzione finalizzate alla anticipata tutela delle donne e di ogni vittima di violenza domestica».
Figura richiamata, altresì, la necessità di «affiancare con urgenza ai predetti interventi misure di carattere preventivo da realizzare mediante la predisposizione di un piano di azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere, che contenga
azioni strutturate e condivise, in ambito sociale,
educativo, formativo e informativo per garantire
una maggiore e piena tutela delle vittime».
Nonché, ulteriormente, la necessità di introdurre
disposizioni urgenti in materia di ordine e sicurezza
pubblica, tra l’altro, «per garantire», sotto particolari profili, «soggetti deboli, quali anziani e minori» (59).
Il decreto-legge in questione risulta di poi, come è
noto, convertito, con modificazioni, nella l. 15 ottobre 2013, n. 119 (60).
La logica precipua di tutela delle donne, vittime in
genere di continui ed efferati reati, e di tutela, in
specie, delle donne e di ogni altra vittima di violenza domestica, in una con la logica ancor più
ampia di garantire altri soggetti vulnerabili, quali
anziani e minori, costituisce dunque il motivo ispiratore, ab origine, del provvedimento legislativo de
quo.
(56) V. paragrafi 2°, 3° e 4°.
(57) Pubblicato in G.U. del 16 agosto 2013, n. 191.
(58) Il decreto-legge, infatti, come si evince dall’intitolazione della sua stessa rubrica, contiene anche ulteriori disposizioni affatto pertinenti alla materia che ci occupa.
Diritto penale e processo 6/2014
Che, quindi, viene così ad incanalarsi, diffusamente e svariatamente permeato da insufflazioni di varia matrice sovranazionale, nel solco diretto ad alimentare quel panorama legislativo italiano, venutosi, in argomento, via via a delineare, e a sempre
più ingrandire, tra l’altro, con l’intervento della l.
15 febbraio 1996, n. 66 («Norme contro la violenza sessuale»), della l. 3 agosto 1998, n. 268 («Norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della
pornografia, del turismo sessuale in danno di minori, quali nuove forme di riduzione in schiavitù»),
della l. 8 marzo 2001, n. 40 («Misure alternative
alla detenzione a tutela del rapporto tra detenute e
figli minori»), della l. 4 aprile 2001, n. 154 («Misure contro la violenza nelle relazioni familiari»),
della l. 11 agosto 2003, n. 228 («Misure contro la
tratta di persone»), della l. 23 aprile 2009, n. 38
(«Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e
di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema
di atti persecutori»), della l. 21 aprile 2011, n. 62
(«Modifiche al codice di procedura penale e alla
legge 26 luglio 1975, n. 354, e altre disposizioni a
tutela del rapporto tra detenute madri e figli minori»), della l. 1 ottobre 2012, n. 172 («Ratifica ed
esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l’abuso sessuale, fatta a Lanzarote il 25 ottobre 2007, nonché norme di adeguamento all’ordinamento interno»), e dalla l. 9 agosto 2013, n.
94 («Disposizioni urgenti in materia di esecuzione
della pena») (61).
Con ciò contribuendo a sempre di più rafforzare,
consolidare, e ulteriormente connotare e caratterizzare, la morfologia di quel micro-sistema processuale, venutosi a costruire in subjecta materia, di cui si
è in precedenza dato conto (62).
Il provvedimento di legge, in realtà, si muove su
più linee (“Prevention, Protection, Prosecution”) (63), compresa dunque quella della prevenzione, dove appare ben chiaro - attraverso la previsione di un «Piano d’azione straordinario contro la
violenza sessuale e di genere» (art. 5) e di «Azioni
per i centri antiviolenza e le case-rifugio» (art. 5
bis), con cui si delineano azioni di intervento multidisciplinari, a carattere trasversale, per prevenire
il detto fenomeno, potenziare i centri antiviolenza
e i servizi di assistenza e formare gli operatori - che
il centro dell’interesse di tutela è precipuamente la
(59)
(60)
(61)
(62)
(63)
Cfr. G.U. del 16 agosto 2013, n. 191 cit.
Pubblicata in G.U. del 15 ottobre 2013, n. 242.
V. anche supra, nota 13.
V. supra, paragrafo 2°.
V. paragrafo precedente.
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donna (v., ad esempio, expressis verbis, art. 5, comma 2, lett. a, b, c, d; art. 5 bis, lett. a, b, d) (64).
A livello processuale - livello qui di nostro interesse - la tutela, per vero, appare invece di mire ben
più estese e di ben più largo spettro operativo.
Essa, cioè - come di qui a poco si avrà modo di meglio rilevare -, figura gradatamente rivolta ora a favore, ampiamente e indistintamente, della persona
tout court offesa dal reato.
Ora, invece, circoscritta a favore solo della persona
offesa dagli specifici reati, ovvero dalle specifiche
tipologie di reati, espressamente indicati dal legislatore.
Reati, ovvero tipologie di reati, questi ultimi, generalmente aventi, quali soggetti passivi, soggetti vulnerabili e, in specie, anche - o, talora, secondo l’id
quod plerumque accidit, soprattutto - donne.
Salvo poi il riferimento, in alcuni casi - v. art. 2,
comma 3 -, a ipotesi di reato, quale quella di cui
all’art. 583 bis c.p. («Pratiche di mutilazione degli
organi genitali femminili»), in cui, evidentemente,
è la donna, in via del tutto esclusiva, a essere l’oggetto della tutela.
Intanto, la trama dell’ordìto normativo - v. art. 1 si articola, in primis, sul piano del diritto penale sostanziale, attraverso l’opzione dell’inasprimento
sanzionatorio.
Inasprimento, che riguarda, in specie, il delitto di
cui all’art. 572 c.p. («Maltrattamenti contro familiari e conviventi») e i «delitti non colposi contro
la vita e l’incolumità individuale» e «contro la libertà personale», quando il fatto sia stato commesso, oltre che in presenza o in danno di un minore
di anni diciotto, «in danno di persona in stato di
gravidanza» (art. 61, n. 11 quinquies, c.p.). Il delitto di cui all’art. 609 bis c.p. («Violenza sessuale»),
se i fatti sono commessi, oltre che nei confronti di
persona che non ha compiuto gli anni diciotto del-
la quale il colpevole sia l’ascendente, il genitore,
anche adottivo, o il tutore, e nei confronti di persona della quale il colpevole sia il coniuge, anche
separato o divorziato, ovvero colui che alla stessa
persona è o è stato legato da relazione affettiva, anche senza convivenza, nei confronti «di donna in
stato di gravidanza» (art. 609 ter, comma 1, nn. 5,
5 ter, 5 quater, c.p.). Il delitto di cui all’art. 612
c.p. («Minaccia») e il delitto di cui all’art. 612 bis
c.p. («Atti persecutori») (65).
Con consequenziali, e di certo non irrilevanti, ricadute, anche sul terreno processuale.
Sia in tema di contenimento del rischio di vanificazione dei processi per effetto della decorrenza dei
termini di prescrizione del reato (66); sia in tema
di superamento delle soglie edittali di cui all’art.
280 c.p.p. per il ricorso alla custodia cautelare; sia
in tema di legittimità del ricorso all’arresto obbligatorio in flagranza ex art. 380 c.p.p., con conseguente apertura al giudizio direttissimo; sia, ancora,
in tema di configurazione dei requisiti di ammissibilità delle intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, a norma dell’art. 266 c.p.p. (67).
Sul piano direttamente processuale, poi, gli interventi risultano molteplici, figurando, peraltro, dopo la conversione in legge del decreto governativo,
segnatamente rubricati - v. art. 2 - quali «Modifiche al codice di procedura penale e disposizioni
concernenti i procedimenti penali per i delitti contro la persona» (68).
Al riguardo, prima di procedere ad una loro focalizzazione, pur sempre, in questa sede, solo e del tutto
necessariamente sommaria, e circoscritta al nostro
peculiare piano prospettico, pare opportuno preliminarmente rilevare, in un’ottica di inquadramento sistematico e per tentare di fornire qualche, seppur minima, coordinata interpretativa di base, che,
secondo uno spartito oramai tipico, da una parte,
(64) Su questi profili tematici, v. comunque, ad esempio, F.
Bartolini, Considerazioni su alcune delle misure antiviolenza contenute nella l. n. 119/2013 su sicurezza pubblica e “femminicidio”, in Arch. nuova proc. pen., 2014, fasc. n. 1, 6-7; A. Cisterna, Il piano straordinario ha ora un “braccio operativo”, in Guida
dir., 2013, fasc. n. 44, 103 ss.
Su questo stesso piano, va anche segnalata l’importante
previsione - v. art. 3 - della «Misura di prevenzione per condotte di violenza domestica», consistente nell’ammonimento dell’autore del fatto ad opera del questore (al riguardo: F. Bartolini, op. cit., 2; G. Amato, Con un atto di violenza grave scatta
l’ammonimento, in Guida dir., 2013, fasc. n. 44, 87 ss.; E. Lo
Monte, Repetita (non) iuvant: una riflessione ‘a caldo’ sulle disposizioni penali di cui al recente d.l. n. 93/13, con. in l. n.
119/13, in tema di ‘femminicidio’, in penalecontemporaneo.it/tipologie/0/-/-/-/2699, 14-15), oltre che - v. art. 4 - la non meno
rilevante previsione del rilascio del permesso di soggiorno a fini di tutela dell’incolumità di persona straniera, vittima di vio-
lenza domestica (al riguardo: F. Bartolini, op. cit., 4-5; A. Cisterna, op. cit., 101 ss.; E. Lo Monte, op. cit., 15 ss.).
(65) Per i dovuti approfondimenti su questi profili di diritto
penale sostanziale, v., ad esempio, F. Macrì, Le nuove norme
penali sostanziali di contrasto al fenomeno della violenza di genere, in questa Rivista, 2014, (fasc. n. 1), 12 ss. e G. Pavich, La
nuova legge sulla violenza di genere, in Cass. pen., 2013, 4314
ss.
(66) Per interessanti approfondimenti, in più ampia visione,
in ordine alla prospettiva della vittima riguardo alla prescrizione del reato, v. L. Parlato, Il contributo della vittima cit., 309 ss.
(67) In punto, v. C. Iasevoli, Pluralismo delle fonti e modifiche al c.p.p. per i delitti commessi con violenza alla persona, in
questa Rivista, 2013, 1392-1393.
(68) L’originaria rubrica diceva, invece, più riduttivamente:
«Modifiche al codice di procedura penale e disposizioni concernenti i procedimenti penali per i delitti di cui all’articolo 572
del codice penale».
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Processo penale
Focalizzando l’obbiettivo sui singoli interventi, e,
in prima angolatura, segnatamente su quelli volti
alla tutela in via diretta della persona offesa, va intanto indicata, anche per il suo elevato significato
simbolico, peraltro in linea con la logica dei precedenti legislativi (69), l’estensione della possibilità
di essere ammessa al patrocinio a spese dello Stato
anche in deroga ai previsti limiti di reddito, a favore della persona offesa dai reati di cui agli artt. 572
(«Maltrattamenti contro familiari e conviventi»),
583 bis («Pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili») - dunque qui è la donna in linea
esclusiva ad essere destinataria della tutela - , 609
octies («Violenza sessuale di gruppo») e 612 bis
(«Atti persecutori») c.p. (v. art. 76, comma 4 ter,
d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115).
Sul profilo fisionomico afferente alla peculiare disciplina della querela, si inserisce, poi, sulla base di
logiche già ampiamente dibattute e sperimentate (70), l’intervento sulla disciplina della procedibilità in ordine al delitto di cui all’art. 612 bis
(«Atti persecutori») c.p.
Intervento che, in aggiunta alla già preesistente, e
tipica in materia, disposizione, dilatante a sei mesi
il termine per la proposizione della querela, stabilisce, ora - cfr. art. 612 bis, comma 4° -, nella, in
punto, nuova ottica di sottoporre ad un sorta di
controllo giudiziale l’esercizio del potere dispositivo, al riguardo, della vittima del reato, che la remissione della querela può essere soltanto processuale (escludendosi, con ciò, dunque, l’operatività
della remissione extraprocessuale) (71).
E, vieppiù, sancendo comunque l’irrevocabilità della querela se il fatto è stato commesso mediante
«minacce reiterate» nei modi di cui all’art. 612
(«Minaccia»), comma 2°, c.p., e, cioè, «se la minaccia è grave, o è fatta in uno dei modi indicati
dall’art. 339» c.p. (dunque, con armi, o da persona
travisata, o da più persone riunite, o con scritto
anonimo, o in modo simbolico, o valendosi della
forza intimidatrice derivante da segrete organizzazioni, esistenti o supposte, o, ancor peggio, da più
di cinque persone riunite, mediante uso di armi anche da parte di una soltanto di esse, ovvero da più
di dieci persone, pur senza uso di armi, ovvero mediante il lancio o l’utilizzo di corpi contundenti o
altri oggetti atti a offendere, compresi gli artifici
pirotecnici, in modo da creare pericolo alle persone).
(69) V. il nostro Delitti sessuali eprocesso penale cit., 243.
(70) V. ancora il nostro Delitti sessuali e processo penale cit.,
244 ss., nonché, già prima, sempre dello scrivente, Violenza
sessualee processopenale cit., 18 ss., e, in prospettiva ancor
più estesa, peraltro anche utilmente rapportata al sistema processuale tedesco, che prevede lo Strafantrag, quale atto, presentato all’organo giurisdizionale o a quello dell’accusa, con il
quale la vittima consente che si proceda penalmente, L. Parlato, Il contributo della vittima cit., 127 ss. e 141 ss.
(71) Ma non va di certo sottaciuto che è comunque remissione «processuale» della querela - cfr. artt. 152, comma 2°,
c.p. e 340, comma 1, c.p.p. - anche quella resa personalmente, o a mezzo di procuratore speciale, ad un ufficiale di polizia
giudiziaria. Remissione, di cui, quindi, l’autorità giudiziaria procedente sarà edotta solo in un secondo momento, e, dunque,
come si usa dire, “a giochi fatti”: dopo, cioè, che il detto ufficiale le avrà (ancorché «immediatamente») effettuato la trasmissione dell’atto, oramai compiuto.
detti interventi figurano proiettati verso il polo
della tutela e della protezione, per così dire, in via
“diretta”, della persona offesa, potenziandone, altresì, il ruolo e aumentandone i diritti e le garanzie
processuali. E, da un’altra parte, ma in vista del
raggiungimento, per così dire, in via “indiretta”,
dello stesso obbiettivo, essi invece figurano indirizzati verso l’opposto polo dell’utilizzo degli strumenti del processo penale per il contrasto delle fenomenologie criminose e dell’inasprimento a fini dissuasivi del trattamento della persona indagata o
imputata.
Ulteriormente, e sotto altro e diverso profilo, riferito alla morfologia dell’esistente micro-sistema processuale su cui, come sopra detto, il nuovo provvedimento legislativo va a impattare, mette conto di
ancora preliminarmente rilevare che, degli interventi in questione, alcuni vanno a inserirsi e ad aggiungersi in profili e in connotati di esso già preesistenti e predelineati, con ciò, quindi, contribuendo
ad accrescerli e ad accentuarli.
Laddove altri vanno invece a creare e a delineare
in esso nuovi tratti fisionomici, attribuendo, così,
al micro-sistema, ulteriori e ancor nuove connotazioni.
Un ultimo, e ancora preliminare, rilievo, si concretizza, poi, nel dover segnalare una certa problematicità nell’interpretazione della formula «delitti
commessi con violenza alla persona», utilizzata dal
legislatore - v. in art. 2 - per circoscrivere ai procedimenti che li hanno ad oggetto l’àmbito di applicazione di alcune nuove disposizioni a tutela della
persona offesa. Interpretazione, questa, che risulterà dunque necessaria, anche attraverso le applicazioni della prassi, per poter esattamente individuare i procedimenti, che, avendo, appunto, ad oggetto, i detti delitti, devono vedere osservate le dette
disposizioni garantistiche.
Gli interventi di tutela diretta
Diritto penale e processo 6/2014
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Processo penale
Rilevanti, e nuovi, gli interventi tesi a rendere obbligatori, in varie dimensioni, e in vista di diverse
finalità, informazioni, comunicazioni e notificazioni a favore della persona offesa dal reato, nel corso
e nell’arco del procedimento (72).
Intanto, un obbligo di gittata generale.
Quello, indistintamente posto a favore della persona tout court offesa dal reato, secondo cui, al momento dell’acquisizione della notizia di reato, il
pubblico ministero e la polizia giudiziaria la informino della facoltà, per l’esercizio dei diritti e delle
facoltà ad essa attribuiti, di nominare un difensore.
E la informino, altresì, della possibilità dell’accesso
al patrocinio a spese dello Stato (art. 101, comma
1, c.p.p.) (73).
Di poi, obblighi informativi a favore della persona
offesa con gittata limitata ai soli procedimenti
aventi ad oggetto «delitti commessi con violenza
alla persona».
Delitti, dunque, di certo con plausibile prevalenza
di vittime vulnerabili e, in specie, donne. Ma la
cui esatta nozione comporta oscillazioni interpretative tra il doversi ritenere che essa vada quoque modo riferita a tutti i delitti caratterizzati da una condotta violenta nei confronti della vittima, ovvero
se essa vada più restrittivamente riferita ai soli delitti in cui la violenza commessa contro una persona si inserisca in un contesto di violenza di genere
o domestica o comunque caratterizzata dall’esistenza di un preesistente rapporto relazionale tra autore
e vittima del reato (74).
In specie, i predetti obblighi informativi prendono
corpo in tema di revoca e sostituzione delle misure
cautelari ex art. 299 c.p.p.
I provvedimenti di revoca e di sostituzione delle
misure segnatamente previste dagli artt. 282 bis
(«Allontanamento dalla casa familiare»), 282 ter
(«Divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati
dalla persona offesa»), 284 («Arresti domiciliari»),
285 («Custodia cautelare in carcere») e 286 («Custodia cautelare in luogo di cura») c.p.p., applicate
in tali procedimenti, devono invero essere immediatamente comunicati, a cura della polizia giudi-
ziaria, oltre che ai servizi socio-assistenziali, al difensore della persona offesa o, in mancanza di questo, alla persona offesa (art. 299, comma 2 bis).
E, in fase ancor più anteriore, anche la richiesta
del pubblico ministero e dell’imputato di revoca o
di sostituzione delle menzionate misure, applicate
nei predetti procedimenti, che non sia stata proposta in sede di interrogatorio di garanzia, deve essere
contestualmente notificata, a cura della parte richiedente e a pena di inammissibilità, presso il difensore della persona offesa o, in mancanza di questo, alla persona offesa, salvo che in quest’ultimo
caso essa non abbia provveduto a dichiarare o eleggere domicilio. E il difensore e la persona offesa
possono, nei due giorni successivi alla notifica, presentare memorie ai sensi dell’art. 121 (art. 299,
comma 3).
Negli stessi termini, deve altresì essere pure notificata la richiesta di revoca o di sostituzione di dette
misure, dopo la chiusura delle indagini preliminari
(art. 299, comma 4 bis).
Nonché in tema di archiviazione (75).
Dove risulta sancito che, per i delitti de quibus,
l’avviso della richiesta di archiviazione è in ogni
caso notificata, a cura del pubblico ministero, alla
persona offesa, ed il termine di cui all’art. 408,
comma 3, entro cui essa può prendere visione degli
atti e presentare opposizione con richiesta motivata di prosecuzione delle indagini preliminari, è elevato a venti giorni (art. 408, comma 3 bis).
Infine, obblighi informativi a favore della persona
offesa, con gittata ancor più limitata, e circoscritta
ai soli procedimenti per i reati di cui agli artt. 572
(«Maltrattamenti contro familiari e conviventi») e
612 bis («Atti persecutori») c.p.
Anche qui, quindi, delitti con plausibile prevalenza
di vittime vulnerabili, e, per lo più, donne, e fisiologicamente riconducibili a scenari di violenza c.d.
domestica (76).
Il nuovo disposto incide segnatamente in tema di
avviso della conclusione delle indagini preliminari.
L’obbligo, in capo al pubblico ministero, nei termini già stabiliti dall’art. 415 bis, comma 1, di far no-
(72) Utile in generale, in argomento, l’analisi condotta in
ampia prospettiva da L. Parlato, op. cit., 180 ss.
(73) In punto è chiaramente percettibile l’eco delle compulsazioni sovranazionali, Direttiva 2012/29/UE cit., in primis (v.
supra, paragrafo 3°).
(74) In quest’ultimo senso: Trib. Torino, 4 novembre 2013,
in Guida dir., 2013, fasc. n. 47, 15.
(75) In termini generali, sui poteri di controllo, al riguardo,
della persona offesa (anche con utili riferimenti al Klageerzwingungsverfahren tedesco ad essa affidato), v. L. Parlato, op. cit.,
219 ss. e 262 ss.
(76) Che - nell’àmbito degli artt. 3 e 4 della legge in esame,
e ai fini di quanto in essi disposto - viene testualmente rapportata, sull’eco della definizione contenuta nell’art. 3, lett. b, della
Convenzione di Istanbul, a «uno o più atti, gravi ovvero non
episodici, di violenza fisica, sessuale, psicologica o economica
che si verificano all’interno della famiglia o del nucleo familiare
o tra persone legate, attualmente o in passato, da un vincolo
di matrimonio o da una relazione affettiva, indipendentemente
dal fatto che l’autore di tali atti condivida o abbia condiviso la
stessa residenza con la vittima».
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Diritto penale e processo 6/2014
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Processo penale
tificare alla persona sottoposta alle indagini e al difensore, avviso della conclusione delle indagini
preliminari, viene invero esteso, quando si procede
per i citati reati, anche al difensore della persona
offesa o, in mancanza di questo, alla persona offesa
(art. 415 bis, comma 1, ultimo periodo). Con consequenziale apertura all’esercizio dei diritti e delle
facoltà indicati nei commi successivi dell’articolo
de quo.
Di guisa che, probabilmente, andrebbe ora cambiata l’intestazione della rubrica dello stesso art. 415
bis, visto che l’intestazione attuale («Avviso all’indagato della conclusione delle indagini preliminari») suona anacronisticamente riduttiva e non è
più conforme ai contenuti normativi ivi ricompresi.
La tutela in via diretta della persona offesa viene
poi ulteriormente perseguita anche ritornando ad
intervenire in materia di esame testimoniale.
Sia, estendendo anche al procedimento per il reato
di cui all’art. 572 c.p. («Maltrattamenti contro familiari e conviventi»), la regola per cui l’esame del
minore vittima del reato ovvero del maggiorenne
infermo di mente vittima del reato viene effettuato, su richiesta sua o del suo difensore, mediante
l’uso di un vetro specchio unitamente ad un impianto citofonico (art. 498, comma 4 ter,
c.p.p.) (77).
Sia, innestando una nuova norma, in forza della
quale, quando si procede per i reati previsti dal
comma 4 ter dell’art. 498 - e, dunque, oltre che per
il reato di cui all’art. 572, anche per i reati di cui
agli artt. 600 («Riduzione o mantenimento in
schiavitù o in servitù»), 600 bis («Prostituzione minorile»), 600 ter («Pornografia minorile»), 600
quater («Detenzione di materiale pornografico»),
600 quinquies («Iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile»), 601
(«Tratta di persone»), 602 («Acquisto e alienazione di schiavi»), 609 bis («Violenza sessuale»), 609
ter («Circostanze aggravanti» della violenza sessuale), 609 quater («Atti sessuali con minorenne»),
609 octies («Violenza sessuale di gruppo») e 612 bis
(«Atti persecutori») c.p. -, se la persona offesa è
maggiorenne il giudice assicura che l’esame venga
condotto anche tenendo conto della particolare
vulnerabilità della stessa persona offesa, desunta
anche dal tipo di reato per cui si procede, e ove ritenuto opportuno, dispone, a richiesta della persona offesa o del suo difensore, l’adozione di modalità
protette (art. 498, comma 4 quater).
E anche ritornando ad intervenire in materia di incidente probatorio, inserendo pure il caso di indagini che riguardano ipotesi del reato di cui all’art.
572 c.p. tra quelli che, a protezione delle persone
minorenni, implicano, per l’espletamento dell’incidente probatorio, l’applicazione della speciale normativa di tutela di cui all’art. 398, comma 5 bis,
c.p.p. (78).
Nonché ritornando ad intervenire sulla regola,
sempre a protezione delle persone minori, di cui all’art. 351, comma 1 ter, c.p.p., inserendo anche i
delitti di cui agli artt. 572 e 612 bis c.p., tra i delitti, relativamente ai quali, la polizia giudiziaria,
quando deve assumere sommarie informazioni dai
predetti soggetti, ha l’obbligo di avvalersi dell’ausilio di un esperto in psicologia o in psichiatria infantile, nominato dal pubblico ministero. Regola
che, peraltro, come è noto, in forza dei disposti di
cui agli artt. 362, comma 1 bis, e 391 bis, comma 5
bis, c.p.p., va osservata anche da parte del pubblico
ministero e dal difensore (79) .
(77) Al riguardo, v. diffusamente, anche per i riferimenti, il
nostro Delitti sessuali cit., 257 ss., nonché, in un quadro più
generale, L. Parlato, op. cit., 431 ss. Va peraltro rilevato che,
secondo il disposto di cui all’art. 3, lett. f, della Convenzione di
Istanbul, «con il termine “donne” sono da intendersi anche le
ragazze di meno di 18 anni».
(78) V., anche per i riferimenti, il nostro Delitti sessuali cit.,
254.
(79) Al riguardo, v., dello scrivente, Limiti legali all’assunzione dell’ufficio di perito derivante da minore età od altro, sub art.
222 c.p.p., in AA. VV., Codice commentato della famiglia e dei
minori cit.
(80) Più diffusamente, sulla ratio di queste opzioni di politica legislativa, v. il nostro Delitti sessuali e processo penale cit.,
245 ss. e 247 ss.
Diritto penale e processo 6/2014
Gli interventi di tutela indiretta
Focalizzando ora l’obbiettivo, in seconda angolatura, sugli interventi volti alla tutela in via indiretta
della persona offesa mediante l’utilizzo degli strumenti del processo penale a fini di contrasto delle
fenomenologie criminose e mediante l’inasprimento, a fini dissuasivi, del trattamento processuale
della persona indagata o imputata, peraltro anche
incentivando il suo stesso inserimento partecipativo a un programma di prevenzione dei reati, l’azione d’intervento appare snodarsi secondo un protocollo oramai da tempo praticato e collaudato. Implicante, in primis, il potenziamento della strumentazione investigativa e l’incremento del tasso invasivo della sfera della libertà personale (80).
Così, invero, si allargano i termini di ammissibilità
della intercettazione di conversazioni o comunica-
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Processo penale
zioni telefoniche e di altre forme di telecomunicazione, nonché di comunicazioni tra presenti, consentendola - v. art. 266, comma 1, lett. f-quater,
c.p.p. - anche nei procedimenti relativi al delitto
previsto dall’art. 612 bis c.p. («Atti persecutori»),
con consequenziale e automatica apertura, in punto, anche alla intercettazione del flusso di comunicazioni relativo a sistemi informatici o telematici
ovvero intercorrenti tra più sistemi, in forza di
quanto dispone l’art. 266 bis c.p.p.
E, sul fronte della disciplina della libertà personale,
da una parte, si dilata il campo operativo dell’arresto obbligatorio in flagranza, rendendolo attivo anche per i delitti di maltrattamenti contro familiari
e conviventi e di atti persecutori, previsti dall’art.
572 e dall’art. 612 bis c.p. (v. art. 380, comma 2,
lett. l - ter), e, dall’altra parte, si incide sulla disciplina delle misure cautelari.
In specie, intervenendo duplicemente sulla struttura del comma 6 dell’art. 282 bis c.p.p.
Da un lato, inserendovi nel novero dei delitti, a
fronte dei quali, se commessi in danno dei prossimi
congiunti o del convivente, la misura dell’«allontanamento dalla casa familiare» può essere disposta
anche al di fuori dei limiti di pena previsti dall’art.
280 c.p.p., pure i delitti di cui all’art. 582 c.p.
(«Lesione personale») limitatamente alle ipotesi
procedibili d’ufficio o comunque aggravate e all’art.
612, comma 2°, c.p. («Atti persecutori» quando il
fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o
telematici).
E, dall’altro lato, inserendovi la previsione che la
misura possa essere disposta anche con le modalità
di controllo previste all’art. 275 bis c.p.p. (impiego
di mezzi elettronici o di altri strumenti tecnici).
Di poi, su questo stesso versante, si dà luogo, addirittura, alla nuova configurazione di una misura
“pre-cautelare” adottabile dalla polizia giudiziaria,
e non solo dagli ufficiali, ma anche dagli agenti. I
quali, invero, hanno facoltà di disporre «l’allontanamento urgente dalla casa familiare con il divieto
di avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati
dalla persona offesa», nei confronti di chi è colto
in flagranza dei delitti indicati dall’art. 282 bis,
comma 6, c.p.p. - dunque, i delitti di cui agli artt.
570, 571, 582, limitatamente alle ipotesi procedibili d’ufficio o comunque aggravate, 600, 600 bis,
600 ter, 600 quater, 600 septies. 1, 600 septies. 2,
601, 602, 609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 quinquies, 609 octies e 612, comma 2°, c.p. -, «ove sussistano fondati motivi per ritenere che le condotte
criminose possano essere reiterate ponendo in grave e attuale pericolo la vita o l’integrità fisica o
psichica della persona offesa».
A tal fine, la polizia giudiziaria - i cui ufficiali non
sembra possano però assumere con le modalità previste dall’art. 64 c.p.p. sommarie informazioni utili
per le investigazioni dalla persona nei cui confronti
vengono svolte le indagini (v. art. 350, comma 1,
c.p.p., così come ora innovato) (81) - necessita della previa autorizzazione del pubblico ministero,
scritta, oppure resa oralmente e confermata per
iscritto, o per via telematica (v. art. 384 bis, con
rubrica «Allontanamento d’urgenza dalla casa familiare»).
Al riguardo, per vero, di certo ben evidenti, e ben
apprezzabili, appaiono le motivazioni del legislatore, ma non meno evidenti, alla luce dei princìpi
stabiliti dall’art. 13, commi 2° e 3°, della carta fondamentale, appaiono i dubbi in ordine alla legittimità costituzionale dell’attribuzione di siffatto potere alla polizia giudiziaria (82), il cui esercizio, peraltro, apre comunque - v. art. 449, comma 5,
c.p.p. - al possibile e susseguente scenario del giudizio direttissimo, corrispondente alle esigenze di
speditezza e di visibilità della risposta giudiziaria e
sanzionatoria, emblematiche del dogma della “sicurezza” (83).
Ancora in tema di libertà personale, poi, nell’ottica di incentivare la partecipazione dell’imputato
all’azione di prevenzione dei reati, si interviene
nella disciplina afferente agli «obblighi di comunicazione» relativi ai provvedimenti cautelari ex artt.
282 bis e 282 ter, statuendosi che quando l’imputato si sottopone positivamente ad un programma di
(81) L’innovazione in punto, effettuata mediante l’aggiunta
della frase «, e nei casi di cui all’articolo 384 bis» in fine al
comma menzionato («Gli ufficiali di polizia giudiziaria assumono (…..)», risulta formulata in modo alquanto infelice e maldestro, potendosi, essa, invero, del tutto prestare ad una interpretazione in senso diametralmente opposto. In ogni caso, nel
senso dell’operatività del divieto in capo agli ufficiali di polizia
giudiziaria: R. Bricchetti, Braccialetto elettronico per chi viene
allontanato, in Guida dir., fasc. n. 44, 96; G. Pavich, La nuova
legge cit., 4317.
(82) Va d’altronde rilevato che l’art. 52 della stessa Convenzione di Istanbul, fonte ispiratrice della norma de qua, trattando specificamente l’argomento, rapporta dette misure, quanto
alla legittimazione attiva, propriamente al giudice: «Misure urgenti di allontanamento imposte dal ”giudice”» dice infatti la
rubrica del menzionato articolo.
(83) Al riguardo, in termini generali, v. L. Parlato, Il contributo della vittima cit., 331 ss. E, in specifico, A. Trinci e V. Ventura, Allontanamento d’urgenza dalla casa familiare e rito direttissimo, in Dir. pen. contemporaneo, 5 dicembre 2013.
654
Diritto penale e processo 6/2014
Editoriale
Processo penale
prevenzione della violenza organizzato dai servizi
socio-assistenziali del territorio, il responsabile del
servizio ne dà comunicazione al pubblico ministero
e al giudice ai fini della valutazione in ordine alla
revoca o alla sostituzione della misura (v. art. 282
quater c.p.p.).
Laddove, su altro fronte, il legislatore si cura di sottrarre alla meno austera competenza del giudice di
pace - con tutte le consequenziali implicazioni -, i
delitti di cui agli artt. 581 («Percosse») e 582
(«Lesione personale»), comma 2°, c.p., quando i
fatti siano commessi contro uno dei soggetti elencati dall’art. 577, comma 2°, c.p. - dunque, il coniuge, il fratello o la sorella, il padre o la madre
adottivi, il figlio adottivo, un affine in linea retta ovvero contro il convivente (v. art. 4, comma 1,
lett. a, d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274).
E si interviene poi, altresì, sul piano dell’«accelerazione dei processi» (84) per i reati di cui ci si occupa, nell’intento di garantire, al riguardo, efficienza
ed esemplarità per una risposta celere alla domanda
di giustizia della persona offesa, esigenza primaria
di tale soggetto, a cui di certo contribuisce l’abbreviazione dei tempi del processo, consentendo così
«alle vittime di vedere nel più breve tempo possibile soddisfatti i loro diritti» (85).
Sia, stabilendosi, con spettro operativo ristretto ai
soli reati di cui a agli artt. 572 e 612 bis c.p., che la
proroga per giusta causa del termine di durata delle
indagini preliminari può essere concessa per non
più di una volta (v. art. 406, comma 2 ter, c.p.p.).
Sia, stabilendosi, con spettro operativo ben più
ampio, riferito, oltre che ai due predetti delitti, anche a quelli previsti dagli artt. da 609 bis a 609 octies c.p., che, nella formazione dei ruoli di udienza
e nella trattazione dei processi, ne sia assicurata la
priorità assoluta (v. art. 132 bis, comma 1, lett. abis, norme att. c.p.p.).
È ben vero, del resto - lo si affermava, autorevolmente e con lungimiranza, esattamente 250 anni
fa -, che «quanto la pena sarà più pronta e più vicina al delitto commesso ella sarà tanto più giusta e
tanto più utile (…). Più utile, perché quanto minore è la distanza del tempo che passa tra la pena
ed il misfatto, tanto è più forte e più durevole nell’animo umano l’associazione di queste due idee,
delitto e pena, talché insensibilmente si considerano
uno come cagione e l’altra come effetto necessario
immancabile» (86).
(84) Così, Relazione al d.d.l. n. 1540, ad iniziativa del Presidente del Consiglio dei ministri ed altri, relativo alla «Conversione in legge del decreto-legge 14 agosto 2013, n. 93, recante disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto
della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e
di commissariamento delle province», presentato in data 16
agosto 2013 (v. in Atti parlamentari. Camera dei Deputati, XVII
Legislatura. Disegni di legge e Relazioni. Documenti, 4).
(85) Così, Relazione al d.d.l. n. 724, ad iniziativa della senatrice F. Puglisi ed altri, cit., 9. Interessante, in argomento, l’analisi in ampia panoramica, di L. Parlato, Il contributo della vittima cit., 303 ss.
(86) Sono parole di C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, ed.
a cura di F. Venturi, Torino, 1994, 47-48.
Diritto penale e processo 6/2014
655
Legislazione
Novità in sintesi
Novità normative
Misure di sicurezza
Legge 30 maggio 2014, n. 81
«Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 31 marzo 2014, n. 52, recante disposizioni urgenti in
materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari» - in G.U. 31 maggio 2014, n. 125
La legge in rassegna, in vigore dal 1° giugno 2014, converte, con modificazioni, il d.l. 32 marzo 2014, n. 52 (per
una sintesi, v. questa Rivista, 2014, 385), che, tra l’altro, ha prorogato al 31 marzo 2015 la chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Tra i correttivi apportati in sede di conversione, da segnalare l’introduzione del principio di sussidiarietà nell’applicazione delle misure di sicurezza del ricovero presso l’ospedale psichiatrico giudiziario e dell’assegnazione a una casa di cura e di custodia, che possono essere disposti, anche in via provvisoria,
dal giudice della cognizione ovvero dal magistrato di sorveglianza ex art. 679 c.p.p. solo quando «sono acquisiti
elementi dai quali risulta che ogni misura diversa non è idonea ad assicurare cure adeguate e a fare fronte alla
sua pericolosità sociale, il cui accertamento è effettuato sulla base delle qualità soggettive della persona e senza
tenere conto delle condizioni di cui all'articolo 133, secondo comma, numero 4, del codice penale». La legge individua la data dal 15 giugno 2014 quale termine ultimo entro il quale «le regioni possono modificare i programmi
presentati in precedenza al fine di provvedere alla riqualificazione dei dipartimenti di salute mentale, di contenere
il numero complessivo di posti letto da realizzare nelle strutture sanitarie (…) e di destinare le risorse alla realizzazione o riqualificazione delle sole strutture pubbliche». La legge fissa altre due importanti scadenze. Entro quarantacinque giorni dalla data di entrata in vigore della legge i percorsi terapeutico-riabilitativi individuali di dimissione di ciascuna delle persone ricoverate negli ospedali psichiatrici giudiziari devono essere obbligatoriamente predisposti e inviati al Ministero della salute e alla competente autorità giudiziaria. Inoltre, entro trenta
giorni dalla data di entrata in vigore della legge «è attivato presso il Ministero della salute un organismo di coordinamento per il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari composto da rappresentanti del Ministero
della salute, del Ministero della giustizia, delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano, al fine di
esercitare funzioni di monitoraggio e di coordinamento delle iniziative assunte per garantire il completamento del
processo di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari».
Sostanze stupefacenti
Legge 16 maggio 2014, n. 79
«Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 20 marzo 2014, n. 36, recante disposizioni urgenti in
materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di
tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, nonché di impiego di
medicinali meno onerosi da parte del Servizio sanitario nazionale» - in G.U. 20 maggio 2014, n. 115
La legge in esame, in vigore dal 21 maggio 2014, converte, con modificazioni, il d.l. n. 36 del 2014 (per una sintesi v. questa Rivista, 2014, 386). Tra le novità apportate in sede di conversione, va segnalata, in primo luogo, la modifica della cornice edittale prevista dall’art. 73, comma 5, d.P.R. n. 309 del 1990, che ora oscilla da un minimo
di sei mesi a un massimo di quattro anni di reclusione, mentre la pena della multa può spaziare da 1.032 a
10.329 euro; in virtù dell’abbassamento del limite massimo da cinque a quattro anni di reclusione, per il delitto in
esame non è più possibile l’applicazione della custodia cautelare in carcere. Nuovo è anche il comma 5-bis
dell’art. 73: in forza della nuova disposizione, ove il delitto di cui comma 5, sia commesso da persona tossicodipendente o da assuntore di sostanze stupefacenti o psicotrope, il giudice, con la sentenza di condanna o di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p., su richiesta dell'imputato e sentito il p.m., qualora non debba concedersi
il beneficio della sospensione condizionale della pena, può applicare, anziché le pene detentive e pecuniarie,
quella del lavoro di pubblica utilità di cui all'art. 54 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, secondo le modalità ivi previste. In caso di violazione degli obblighi connessi allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, su richiesta del
p.m. o d'ufficio, il giudice che procede, o quello dell'esecuzione, con le formalità di cui all'art. 666 c.p.p., tenuto
conto dell'entità dei motivi e delle circostanze della violazione, dispone la revoca della pena con conseguente ripristino di quella sostituita. Nuovo è anche il comma 1 dell’art. 75, che descrive le condotte integranti illeciti amministrativi; da segnalare che, ai sensi del comma 1-bis, «ai fini dell'accertamento della destinazione ad uso
esclusivamente personale della sostanza stupefacente o psicotropa o del medicinale di cui al comma 1, si
tiene conto delle seguenti circostanze: a) che la quantità di sostanza stupefacente o psicotropa non sia superiore
ai limiti massimi indicati con decreto del Ministro della salute, di concerto con il Ministro della giustizia, sentita la
Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento per le politiche antidroga, nonché della modalità di presentazione delle sostanze stupefacenti o psicotrope, avuto riguardo al peso lordo complessivo o al confezionamento
frazionato ovvero ad altre circostanze dell'azione, da cui risulti che le sostanze sono destinate ad un uso esclusivamente personale; b) che i medicinali contenenti sostanze stupefacenti o psicotrope elencate nella tabella dei
medicinali, sezioni A, B, C e D, non eccedano il quantitativo prescritto».
656
Diritto penale e processo 6/2014
Legislazione
Novità in sintesi
Vittime da reato
Decreto Presidente della Repubblica 19 febbraio 2014, n. 60
«Regolamento recante la disciplina del Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle
richieste estorsive e dell’usura, a norma dell’articolo 2, comma 6-sexies, del decreto-legge 29 dicembre 2010, n.
225, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2011, n. 10» - in G.U. 9 aprile 2014, n. 83
Il regolamento in esame disciplina il Fondo di rotazione per la solidarietà alle vittime dei reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive e dell’usura. I ventinove articoli, di cui si compone il provvedimento, sono raggruppati in cinque titoli: “Disposizioni generali” (artt. 1-7); “Procedimento di accesso al Fondo per il conseguimento
dei benefici spettanti alle vittime dei reati di tipo mafioso” (artt. 8-16); “Procedimento di accesso al Fondo per il
conseguimento dei benefici spettanti alle vittime delle richieste estorsive e dell'usura” (art. 17-27); “Tutela delle
informazioni” (art. 28); “Disposizioni transitorie e finali” (art. 29).
Diritto penale e processo 6/2014
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Legislazione
Diritto e processo penale
Legislazione penale - seconda parte
La sospensione
del procedimento
con messa alla prova
LEGGE 28 aprile 2014, n. 67
Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili G.U. 2 maggio 2014, n. 100
Omissis.
Capo II
Sospensione del procedimento con messa alla prova
Art. 3.
Modifiche al codice penale in materia di sospensione del
procedimento con messa alla prova
1. Dopo l'articolo 168 del codice penale sono inseriti i
seguenti:
«Art. 168-bis (Sospensione del procedimento con messa
alla prova dell'imputato). - Nei procedimenti per reati
puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti indicati dal comma 2 dell'articolo 550 del codice di procedura penale, l'imputato
può chiedere la sospensione del processo con messa alla
prova.
La messa alla prova comporta la prestazione di condotte
volte all'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato. Comporta
altresì l'affidamento dell'imputato al servizio sociale, per
lo svolgimento di un programma che può implicare, tra
l'altro, attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero
l'osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora,
alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali.
La concessione della messa alla prova è inoltre subordinata alla prestazione di lavoro di pubblica utilità. Il lavoro di pubblica utilità consiste in una prestazione non
retribuita, affidata tenendo conto anche delle specifiche
professionalità ed attitudini lavorative dell'imputato, di
durata non inferiore a dieci giorni, anche non continuativi, in favore della collettività, da svolgere presso lo
Stato, le regioni, le province, i comuni, le aziende sani-
Diritto penale e processo 6/2014
tarie o presso enti o organizzazioni, anche internazionali, che operano in Italia, di assistenza sociale, sanitaria e
di volontariato. La prestazione è svolta con modalità
che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio,
di famiglia e di salute dell'imputato e la sua durata giornaliera non può superare le otto ore.
La sospensione del procedimento con messa alla prova
dell'imputato non può essere concessa più di una volta.
La sospensione del procedimento con messa alla prova
non si applica nei casi previsti dagli articoli 102, 103,
104, 105 e 108.
Art. 168-ter (Effetti della sospensione del procedimento
con messa alla prova). - Durante il periodo di sospensione del procedimento con messa alla prova il corso della
prescrizione del reato è sospeso. Non si applicano le disposizioni del primo comma dell'articolo 161.
L'esito positivo della prova estingue il reato per cui si
procede. L'estinzione del reato non pregiudica l'applicazione delle sanzioni amministrative accessorie, ove previste dalla legge.
Art. 168-quater (Revoca della sospensione del procedimento con messa alla prova). - La sospensione del procedimento con messa alla prova è revocata:
1) in caso di grave o reiterata trasgressione al programma di trattamento o alle prescrizioni imposte, ovvero di
rifiuto alla prestazione del lavoro di pubblica utilità;
2) in caso di commissione, durante il periodo di prova,
di un nuovo delitto non colposo ovvero di un reato della stessa indole rispetto a quello per cui si procede».
Art. 4.
Modifiche al codice di procedura penale in materia di
sospensione del procedimento con messa alla prova
1. Al codice di procedura penale sono apportate le seguenti modificazioni:
a) nel libro sesto, dopo il titolo V è aggiunto il seguente:
«Titolo V-bis
Sospensione del procedimento con messa alla prova
659
Legislazione
Diritto e processo penale
Art. 464-bis (Sospensione del procedimento con messa
alla prova). - 1. Nei casi previsti dall'articolo 168-bis
del codice penale l'imputato può formulare richiesta di
sospensione del procedimento con messa alla prova.
2. La richiesta può essere proposta, oralmente o per
iscritto, fino a che non siano formulate le conclusioni a
norma degli articoli 421 e 422 o fino alla dichiarazione
di apertura del dibattimento di primo grado nel giudizio
direttissimo e nel procedimento di citazione diretta a
giudizio. Se è stato notificato il decreto di giudizio immediato, la richiesta è formulata entro il termine e con
le forme stabiliti dall'articolo 458, comma 1. Nel procedimento per decreto, la richiesta è presentata con l'atto
di opposizione.
3. La volontà dell'imputato è espressa personalmente o
per mezzo di procuratore speciale e la sottoscrizione è
autenticata nelle forme previste dall'articolo 583, comma 3.
4. All'istanza è allegato un programma di trattamento,
elaborato d'intesa con l'ufficio di esecuzione penale
esterna, ovvero, nel caso in cui non sia stata possibile
l'elaborazione, la richiesta di elaborazione del predetto
programma. Il programma in ogni caso prevede:
a) le modalità di coinvolgimento dell'imputato, nonché
del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita nel
processo di reinserimento sociale, ove ciò risulti necessario e possibile;
b) le prescrizioni comportamentali e gli altri impegni
specifici che l'imputato assume anche al fine di elidere
o di attenuare le conseguenze del reato, considerando a
tal fine il risarcimento del danno, le condotte riparatorie e le restituzioni, nonché le prescrizioni attinenti al
lavoro di pubblica utilità ovvero all'attività di volontariato di rilievo sociale;
c) le condotte volte a promuovere, ove possibile, la mediazione con la persona offesa.
5. Al fine di decidere sulla concessione, nonché ai fini
della determinazione degli obblighi e delle prescrizioni
cui eventualmente subordinarla, il giudice può acquisire, tramite la polizia giudiziaria, i servizi sociali o altri
enti pubblici, tutte le ulteriori informazioni ritenute necessarie in relazione alle condizioni di vita personale, familiare, sociale ed economica dell'imputato. Tali informazioni devono essere portate tempestivamente a conoscenza del pubblico ministero e del difensore dell'imputato.
Art. 464-ter (Richiesta di sospensione del procedimento
con messa alla prova nel corso delle indagini preliminari). - 1. Nel corso delle indagini preliminari, il giudice,
se è presentata una richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova, trasmette gli atti al pubblico ministero affinché esprima il consenso o il dissenso
nel termine di cinque giorni.
2. Se il pubblico ministero presta il consenso, il giudice
provvede ai sensi dell'articolo 464-quater.
3. Il consenso del pubblico ministero deve risultare da
atto scritto e sinteticamente motivato, unitamente alla
formulazione dell'imputazione.
4. Il pubblico ministero, in caso di dissenso, deve enunciarne le ragioni. In caso di rigetto, l'imputato può rin-
660
novare la richiesta prima dell'apertura del dibattimento
di primo grado e il giudice, se ritiene la richiesta fondata, provvede ai sensi dell'articolo 464-quater.
Art. 464-quater (Provvedimento del giudice ed effetti
della pronuncia). - 1. Il giudice, se non deve pronunciare sentenza di proscioglimento a norma dell'articolo
129, decide con ordinanza nel corso della stessa udienza, sentite le parti nonché la persona offesa, oppure in
apposita udienza in camera di consiglio, della cui fissazione è dato contestuale avviso alle parti e alla persona
offesa. Si applica l'articolo 127.
2. Il giudice, se ritiene opportuno verificare la volontarietà della richiesta, dispone la comparizione dell'imputato.
3. La sospensione del procedimento con messa alla prova è disposta quando il giudice, in base ai parametri di
cui all'articolo 133 del codice penale, reputa idoneo il
programma di trattamento presentato e ritiene che l'imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati. A tal fine, il giudice valuta anche che il domicilio indicato nel
programma dell'imputato sia tale da assicurare le esigenze di tutela della persona offesa dal reato.
4. Il giudice, anche sulla base delle informazioni acquisite ai sensi del comma 5 dell'articolo 464-bis, e ai fini
di cui al comma 3 del presente articolo può integrare o
modificare il programma di trattamento, con il consenso dell'imputato.
5. Il procedimento non può essere sospeso per un periodo:
a) superiore a due anni quando si procede per reati per i
quali è prevista una pena detentiva, sola, congiunta o
alternativa alla pena pecuniaria;
b) superiore a un anno quando si procede per reati per i
quali è prevista la sola pena pecuniaria.
6. I termini di cui al comma 5 decorrono dalla sottoscrizione del verbale di messa alla prova dell'imputato.
7. Contro l'ordinanza che decide sull'istanza di messa
alla prova possono ricorrere per cassazione l'imputato e
il pubblico ministero, anche su istanza della persona offesa. La persona offesa può impugnare autonomamente
per omesso avviso dell'udienza o perché, pur essendo
comparsa, non è stata sentita ai sensi del comma 1.
L'impugnazione non sospende il procedimento.
8. Nel caso di sospensione del procedimento con messa
alla prova non si applica l'articolo 75, comma 3.
9. In caso di reiezione dell'istanza, questa può essere riproposta nel giudizio, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento.
Art. 464-quinquies (Esecuzione dell'ordinanza di sospensione del procedimento con messa alla prova). - 1.
Nell'ordinanza che dispone la sospensione del procedimento con messa alla prova, il giudice stabilisce il termine entro il quale le prescrizioni e gli obblighi relativi
alle condotte riparatorie o risarcitorie imposti devono
essere adempiuti; tale termine può essere prorogato, su
istanza dell'imputato, non più di una volta e solo per
gravi motivi. Il giudice può altresì, con il consenso della
persona offesa, autorizzare il pagamento rateale delle
somme eventualmente dovute a titolo di risarcimento
del danno.
Diritto penale e processo 6/2014
Legislazione
Diritto e processo penale
2. L'ordinanza è immediatamente trasmessa all'ufficio di
esecuzione penale esterna che deve prendere in carico
l'imputato.
3. Durante la sospensione del procedimento con messa
alla prova, il giudice, sentiti l'imputato e il pubblico ministero, può modificare con ordinanza le prescrizioni
originarie, ferma restando la congruità delle nuove prescrizioni rispetto alle finalità della messa alla prova.
Art. 464-sexies (Acquisizione di prove durante la sospensione del procedimento con messa alla prova). - 1.
Durante la sospensione del procedimento con messa alla prova il giudice, con le modalità stabilite per il dibattimento, acquisisce, a richiesta di parte, le prove non
rinviabili e quelle che possono condurre al proscioglimento dell'imputato.
Art. 464-septies (Esito della messa alla prova). - 1. Decorso il periodo di sospensione del procedimento con
messa alla prova, il giudice dichiara con sentenza estinto il reato se, tenuto conto del comportamento dell'imputato e del rispetto delle prescrizioni stabilite, ritiene
che la prova abbia avuto esito positivo. A tale fine acquisisce la relazione conclusiva dell'ufficio di esecuzione
penale esterna che ha preso in carico l'imputato e fissa
l'udienza per la valutazione dandone avviso alle parti e
alla persona offesa.
2. In caso di esito negativo della prova, il giudice dispone con ordinanza che il processo riprenda il suo corso.
Art. 464-octies (Revoca dell'ordinanza). -1. La revoca
dell'ordinanza di sospensione del procedimento con
messa alla prova è disposta anche d'ufficio dal giudice
con ordinanza.
2. Al fine di cui al comma 1 del presente articolo il giudice fissa l'udienza ai sensi dell'articolo 127 per la valutazione dei presupposti della revoca, dandone avviso alle parti e alla persona offesa almeno dieci giorni prima.
3. L'ordinanza di revoca è ricorribile per cassazione per
violazione di legge.
4. Quando l'ordinanza di revoca è divenuta definitiva,
il procedimento riprende il suo corso dal momento in
cui era rimasto sospeso e cessa l'esecuzione delle prescrizioni e degli obblighi imposti.
Art. 464-novies (Divieto di riproposizione della richiesta di messa alla prova). - 1. Nei casi di cui all'articolo
464-septies, comma 2, ovvero di revoca dell'ordinanza
di sospensione del procedimento con messa alla prova,
l'istanza non può essere riproposta»;
b) dopo l'articolo 657 è inserito il seguente:
«Art. 657-bis (Computo del periodo di messa alla prova
dell'imputato in caso di revoca). - 1. In caso di revoca o
di esito negativo della messa alla prova, il pubblico ministero, nel determinare la pena da eseguire, detrae un
periodo corrispondente a quello della prova eseguita. Ai
fini della detrazione, tre giorni di prova sono equiparati
a un giorno di reclusione o di arresto, ovvero a 250 euro
di multa o di ammenda».
Omissis.
La sospensione del procedimento con messa alla prova:
una goccia deflattiva nel mare del sovraffollamento?
di Roberto Bartoli
Con l’introduzione nel nostro sistema penale della sospensione del procedimento con messa alla prova il
legislatore ha voluto perseguire il duplice obiettivo di deflazionare il carico dei procedimenti pendenti e,
indirettamente, il sovraffollamento carcerario. Tuttavia, la riforma presenta non pochi inconvenienti. Oltre
ad inserirsi in un contesto di sovraffollamento cronico ben diverso da quello in cui era stata proposta originariamente, essa pone problemi di principio e di efficacia. Sotto il primo profilo, esiste una tensione tra
la mancanza di un pieno accertamento della responsabilità e il carico sanzionatorio specialpreventivo che
contraddistingue la prova. Sul piano dell’efficacia, l’istituto si presenta poco “appetibile” per l’imputato
che dovrebbe farne richiesta, in quanto la prova ha contenuti che possono rivelarsi più afflittivi di quelli
che caratterizzerebbero il trattamento sanzionatorio scaturente dalla condanna, dove trova applicazione
la sospensione condizionale della pena, che può essere addirittura vuota di contenuti in prima concessione. Più in generale si deve osservare come gli istituti destinati a trovare applicazione nella fase anticipata
del procedimento, soprattutto se a carattere sospensivo, operino meglio se ispirati a una logica meramente premiale invece che alle funzioni specialpreventive della pena, le quali postulano un pieno accertamento della responsabilità, una pena concretamente quantificata, nonché la conoscenza della personalità
del soggetto in carne ed ossa.
Un rapido excursus storico
Prima di esaminare la disciplina del nuovo istituto della sospensione del procedimento con messa
alla prova dell’imputato “adulto” introdotto dalla l.
n. 67 del 2014, è opportuno ripercorrere breve-
Diritto penale e processo 6/2014
mente la storia che ha portato alla sua previsione,
e ciò al fine di comprendere appieno il suo significato e gli obiettivi perseguiti dal legislatore, nonché, come vedremo, i limiti e le contraddizioni che
caratterizzano questa riforma. Anche perché, lo di-
661
Legislazione
Diritto e processo penale
ciamo sùbito, l’impressione di fondo che si ha è
che tale istituto, ideato e proposto in un contesto
in cui avrebbe potuto conseguire qualche risultato
sul piano deflattivo, alla fine è stato introdotto in
una realtà completamente diversa, dove la sua efficacia rischia di essere davvero scarsa, se non addirittura praticamente nulla.
L’idea di estendere anche ai maggiorenni al momento della commissione del fatto un istituto già
presente nel diritto penale minorile ha fatto la sua
prima comparsa nel 2007 (1), quando il sistema
sanzionatorio penale era affètto da numerose criticità di sistema, ma non risultava così compromesso
come lo è oggi. Al cronico problema del sovraffollamento carcerario, infatti, si era data da poco una
risposta “eccezionale” con l’indulto del 2006, che
aveva notevolmente abbattuto il numero dei detenuti in carcere riportando la situazione a livelli di
normalità e umanità.
In tale contesto, si erano venuti consolidando
due punti fermi. Da un lato, il risultato ottenuto di
svuotamento delle carceri aveva contribuito a
mantenere plausibile l’idea, ma forse dovremmo dire l’illusione, carcero-centrica del nostro sistema,
inducendo la politica, nonostante la voce contraria
della scienza giuridica (2), a riporre nel cassetto
qualsiasi istanza di riforma strutturale del sistema
sanzionatorio, mediante la previsione di pene alternative al carcere già a livello edittale, o della carcerazione preventiva. Dall’altro lato, però, si era
fatta strada la convinzione che, al fine di non perdere i vantaggi appena conseguiti, si doveva comunque intervenire rafforzando istituti che consentissero una deflazione. E poiché i margini per
incidere “a valle” (cognizione ed esecuzione) erano
divenuti ormai angusti, al contrario si intravedevano spazi - per così dire - a monte, all’interno del
procedimento. Da qui le grandi aspettative riposte
nella sospensione del procedimento con messa alla
prova e nella irrilevanza penale del fatto, vale a dire in due istituti che, trovando una applicazione
anticipata rispetto alla sentenza di condanna,
avrebbero dovuto consentire una deflazione del carico dei procedimenti pendenti e, indirettamente,
del sovraffollamento carcerario.
In verità, già allora non si mancava di mettere
in evidenza come soprattutto e proprio l’istituto
della messa alla prova presentasse non poche contraddizioni (3), prima fra tutte la difficoltà di conciliare i contenuti assai incisivi della prova, con la
mancanza di un giudizio pieno di responsabilità.
Tuttavia, l’istanza deflattiva era così pressante che
le riflessioni di principio e razionalità venivano poste decisamente in secondo piano.
Non solo, ma proprio questa “debolezza tecnica”
rendeva alla fin fine l’istituto politicamente forte
in quanto spendibile nei confronti dell’opinione
pubblica. In presenza di un legislatore privo del coraggio di rinunciare alla centralità del carcere per
assecondare le istanze securitarie diffuse nella società, ma anche alla costante ricerca di subdoli
meccanismi offuscati dalla complessità tecnica capaci di disinnescare il sistema per ovviare al problema del sovraffollamento, la sospensione del procedimento con messa alla prova, proprio perché
non basata su una condanna e carica di contenuti,
risultava priva di quel carattere “clemenziale” che
fa emettere quel grido allo scandalo da parte dell’opinione pubblica, così tanto temuto dal legislatore.
E non è un caso che la proposta di introdurre la
messa alla prova dell’adulto ad opera del Governo
Prodi II (Ministro della Giustizia Mastella) con il
d.d.l. n. 2664 del 2007, sia stata successivamente
ripresentata da tutti i Governi che si sono succeduti nel tempo quale che fosse il loro colore politico:
dal Governo Berlusconi IV (Ministro della Giustizia Alfano), con il d.d.l. n. 3291 del 2010; dal Governo Monti (Ministro della Giustizia Severino),
con il d.d.l. n. 5019 del 2012; e dal Governo Letta
(Ministro della Giustizia Cancellieri), con il d.d.l.
n. 5019-bis del 2013. Fino a quando, l’iniziativa è
divenuta parlamentare con il d.d.l. 925, e la legge
è stata definitivamente approvata il 2 aprile 2014.
D’altra parte, come accennato all’inizio, il contesto odierno in cui la messa alla prova ha trovato
finalmente ingresso risulta molto diverso da quello
originario. Oggi infatti non solo il sovraffollamento
carcerario è tornato a livelli altissimi, ma, com’è
noto, dal 2013 sull’Italia pendeva una condanna
della Corte EDU che imponeva di introdurre riforme di sistema capaci di risolvere i problemi in termini strutturali (4). Tanto è vero che la legge che
ha introdotto la messa alla prova contiene anche
una delega al Governo per prevedere pene alterna-
(1) In argomento v. per tutti A. Martini, La sospensione del
processo con messa alla prova: un nuovo protagonista per una
politica criminale già vista, in questa Rivista, 2008, 237 ss.
(2) V. per tutti F. Palazzo, Per un piano di salvataggio della
giustizia penale, contro slogan ed illusioni, in Cass. pen., 2008,
458 ss.
(3) A. Martini, La sospensione del processo con messa alla
prova, cit., 238 s.; inoltre, sia consentito rinviare a R. Bartoli,
Ipotesi per una riforma della sospensione condizionale della pena, in P. Pisa (a cura di), Verso una riforma del sistema sanzionatorio, Torino, 2008, 180 s.
(4) Corte EDU, sent. 8 gennaio 2013, Torreggiani v. Italia, §
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Diritto e processo penale
tive al carcere già a livello di comminatoria edittale, prendendo così corpo l’idea di configurare un sistema non più carcero-centrico. Fatto sta che allo
scadere del termine per adempiere alle indicazioni
della Corte EDU (31 maggio 2014), al netto delle
riforme frammentarissime del 2013 (5), l’unica risposta di diritto penale reale e concreta caratterizzata da novità è proprio quella che si commenta, la
quale, tuttavia, sembra essere destinata a una scarsissima applicazione e comunque di per sé non è in
grado di incidere in termini rilevanti sulla popolazione carceraria: in sostanza, come vedremo meglio
in seguito, vi sono tutte le ragioni per ritenere che
si tratti di una goccia deflattiva gettata nel mare
del sovraffollamento.
La sospensione del procedimento con messa alla
prova degli adulti può ispirarsi a due diversi modelli che potremmo definire “specialpreventivo” e
“premiale”.
In particolare, ponendosi l’accento più sui contenuti della prova che sul vantaggio che potrebbe
conseguire l’imputato rinunciando alla piena cognizione del processo, anzitutto la messa alla prova
può avere una funzione di diversion a carattere specialpreventivo. In questa prospettiva, l’istituto risulta una sorta di sospensione condizionale o, meglio ancora, di affidamento in prova, anticipati,
con conseguente carattere sanzionatorio e centralità della personalità del soggetto subordinato alla
prova.
Questo modello, proprio perché ispirato a istanze
specialpreventive, ha in sé il vantaggio di offrire
una risposta - per così dire - sanzionatorio-trattamentale. Non solo, ma a seconda dei contenuti
della prova, può permettere di creare uno spazio
decisamente interessante per un incontro tra autore e vittima mediante la valorizzazione delle condotte riparatorie, nonché incentivando addirittura
un’attività di mediazione.
Tuttavia, questo modello presenta anche alcune
contraddizioni - per così dire - strutturali, difficilmente risolvibili. Proprio perché l’istituto è caratterizzato da contenuti afflittivi nella sostanza assimilabili a quelli di una pena, ma viene applicato
in una fase anticipata rispetto alla condanna, da
un lato, comunque la si voglia mettere, si prescinde
da un vero e proprio accertamento della responsabilità del soggetto, ponendosi così problemi addirittura di principio; dall’altro lato, operando quando non è ancora venuto in gioco il reale e concreto reo in carne ed ossa, si determina una distonia
funzionale rispetto alle stesse istanze specialpreventive che si vorrebbero perseguire.
E per apprezzare queste contraddizioni è sufficiente dare uno sguardo sintetico alle conseguenze
di disciplina derivanti dall’adozione di un siffatto
modello. Particolarmente complessa risulta l’individuazione del momento della sua applicazione: se
è preferibile un’applicazione durante il processo, e
ciò al fine di acquisire elementi per valutare la personalità del soggetto, dall’altro lato, si deve osservare come un eccessivo avvicinamento al momento di accertamento della responsabilità comporti
una frustrazione delle istanze deflattive. Per quanto
riguarda l’applicazione, pur contrastando con la
mancanza di un vero e proprio accertamento della
responsabilità e con la scarsità di elementi su cui
fondare giudizi valutativi, essa, ancorché subordinata al consenso dell’imputato, tende a essere rimessa nelle mani del giudice anche mediante prognosi di non pericolosità del soggetto, con l’ulteriore conseguenza che la misura può avere come
destinatari anche delinquenti “secondari”, del resto
in coerenza con le finalità specialpreventive. Mancando un accertamento della responsabilità, e
quindi non potendosi fare riferimento alla pena irrogata o comunque commisurata dal giudice, per
individuare i presupposti formali si deve avere riguardo o alle tipologie di reato oppure alla pena
comminata in astratto, vale a dire, in entrambe le
ipotesi, a un criterio non solo estraneo alle istanze
di prevenzione speciale, ma anche fortemente condizionato da considerazioni di prevenzione generale. Ed ancora, per quanto riguarda la durata, essa
dovrà essere prefissata dal legislatore, a prescindere
dalla personalità del reo, ma contraddicendo così
ancora una volta la ratio personalistico-individualizzante. Rispetto ai contenuti, si possono prevedere due varianti, una più concentrata sulla prova
(affidamento al servizio sociale, lavoro di pubblica
utilità), una basata più sulla valorizzazione del rapporto autore-vittima (condotte riparatorie, mediazione), non potendosi trascurare che si possano
porre anche esigenze di controllo soddisfatte da obblighi prescrittivi o impeditivi. Comunque sia, si
tratta di contenuti sanzionatori assai consistenti as-
94 ss.
(5) Si v. il d.l. n. 78 (conv. con modif., in l. n. 94) e il d.l. n.
146 (conv. in l. n. 10) e su di essi A. Della Bella, Emergenza
carceri e sistema penale, Torino, 2014, passim.
Il modello di messa alla prova avente
funzione “specialpreventiva”
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similabili a quelli di una pena, che ancora una volta si pongono in contrasto con la mancanza di vero
e proprio accertamento di responsabilità, senza
considerare la difficoltà di individuare criteri predefiniti per vagliare la congruità della loro intensità. In questa prospettiva, poi, la revoca (ma anche
l’esito negativo) dovrebbero comportare lo scomputo, dalla pena da eseguire, dell’eventuale periodo
trascorso in prova. Infine, a rigore, l’esito della prova non potrebbere che essere rimesso alla discrezionalità del giudice allo scopo di verificare l’effettivo
raggiungimento degli obiettivi specialpreventivi
che s’intendevano perseguire.
Ciò detto, si deve sùbito sgomberare il campo da
un possibile equivoco, e cioè dall’idea che queste
contraddizioni si possano giustificare alla luce del
ragionamento che viene fatto per l’omologa messa
alla prova concernente i minori, e ciò perché, a
ben vedere, non esistono punti di contatto tra i
due istituti. La messa alla prova dei minori, infatti,
svolge una funzione che non si riconnette agli scopi della pena, e quindi in sostanza alla prevenzione
speciale, ma ha come obiettivo quello di verificare
l’effettiva personalità del minore, contribuendo al
contempo alla formazione e alla maturazione della
stessa in termini di responsabilizzazione. Detto diversamente, lo stesso sistema minorile più che a
punire è orientato a “plasmare” in termini responsabilizzanti una personalità che è in via di formazione, con la conseguenza che, mancando un soggetto privo di una personalità matura, saltano le
categorie della responsabilità e della stessa rieducazione, mentre entra in gioco il concetto di vera e
propria educazione.
Ecco allora che le contraddizioni che abbiamo
messo in evidenza finiscono per risultare del tutto
plausibili proprio in ragione della particolare funzione del processo minorile. Al contrario, la sospensione del procedimento con messa alla prova
degli adulti, poiché riguarda soggetti aventi una
personalità definita, non può che svolgere un ruolo
diverso, di tipo sanzionatorio-specialpreventivo,
con la conseguenza che le contraddizioni risultano
alla fin fine difficilmente superabili.
Alla luce di queste considerazioni, si capisce meglio il secondo modello che abbiamo definito “pre-
miale”, dove, invece che sui contenuti della prova,
si insiste sulla rinuncia da parte dell’imputato ad
una cognizione piena in cambio di alcuni vantaggi,
primi fra tutti un trattamento sanzionatorio meno
afflittivo rispetto a quello a cui si andrebbe incontro a seguito di un accertamento pieno della responsabilità, nonché la pronuncia di una sentenza
di proscioglimento.
In questa prospettiva, le contraddizioni che abbiamo visto in precedenza tendono ad attenuarsi,
sia perché la persona del soggetto passa in secondo
piano, sia perché viene meno l’esigenza di una accertamento della responsabilità al quale nella sostanza l’imputato finisce per rinunciare. Certo, resta l’“imbarazzo” derivante dall’esaltazione del valore dell’efficienza e della deflazione processuale a
scapito della garanzia della plena cognitio, tuttavia,
proprio perché c’è una “rinuncia” dell’accusato a
tale vantaggio, siffatta perdita è compensata da altri vantaggi che permettano di mantenere in un
equilibrio ragionevole la complessiva partita fra le
conseguenze sanzionatorie e il giudizio di disvalore
formulabile sulla vicenda di cui si è reso protagonista il soggetto (6).
L’adozione di questo modello premiale avrebbe
le seguenti conseguenze di disciplina. Il momento
per l’applicazione può essere notevolmente anticipato, o meglio, più si anticipa, più si alimenta l’effetto deflattivo. Non richiedendosi un accertamento pieno della responsabilità, l’applicazione diviene
a richiesta dell’imputato, mentre il giudice dovrebbe concederla automaticamente, senza alcun esercizio di un potere discrezionale sulla persona. Ma
proprio perché non intervengono considerazioni
specialpreventive e l’istituto ha in sé la componente di beneficio sostanziale, la misura dovrebbe avere come destinatari soltanto delinquenti “primari”
che non abbiano riportato condanna a qualsiasi titolo per precedente reato. In questa prospettiva,
presupposti formali “astratti” (pena edittale, tipo
reato) e durata predeterminata sono non solo inevitabili, ma anche coerenti. I contenuti della prova, dovendo presentare un’evidente minore afflittività rispetto alla risposta sanzionatoria che scaturisce dalla condanna anche per offrire un vantaggio
come contropartita alla rinuncia del processo, possono consistere, ad esempio, in condotte riparatorie, consegna del profitto o del prezzo del reato, pagamento di una somma di denaro allo Stato o altro
ente pubblico e, nel caso di impossibilità di impor-
(6) Sui rapporti tra premialità e diritto penale sostanziale, v.
ampiamente F. Palazzo, La nuova fisionomia dei riti alternativi
premiali, in AA.VV., Accertamento del fatto, alternative al processo, alternative nel processo, Milano, 2007, 31 ss.
Il modello di messa alla prova avente
funzione “premiale”
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re uno o più di tali obblighi, il giudice potrebbe disporre determinate prescrizioni. In caso di revoca o
esito negativo, non ha senso parlare di scomputo
del periodo di prova dalla pena che dovrà essere
eseguita, mentre la conclusione della prova senza
revoca dovrebbe comportare l’estinzione del reato
senza che vi sia necessità di una valutazione in ordine alla positività dell’esito.
Problemi di efficacia della messa alla prova
Al netto di queste dinamiche funzionali, una cosa è assolutamente certa: quale che sia il modello
funzionale che s’intende adottare, l’efficacia della
messa alla prova risulta problematica da due punti
di vista molto diversi tra di loro, ma che alla fine
finiscono per intrecciarsi, creando un circolo vizioso (7).
Anzitutto, da un punto di vista per così dire
strutturale, si deve considerare che gli istituti sospensivi sono in grado di funzionare se durante la
fase della sospensione il soggetto subisce la minaccia di conseguenze sufficientemente negative derivanti dall’eventuale revoca e/o esito negativo. Tuttavia, nel caso della messa alla prova, la minaccia
risulta piuttosto tenue, consistendo nella ripresa
del processo. In buona sostanza, il soggetto finisce
per subire un monito poco serio e vigoroso perché
presenta anche componenti di aleatorietà non essendo certo che poi il processo si concluda con
una condanna. Da qui la possibile idea di incrementare la minaccia prevedendo che in caso di revoca o di esito negativo sia preclusa l’eventuale
successiva concessione degli istituti sospensivi della
cognizione oppure l’idea che determinate conseguenze non si estinguano. D’altra parte, una tale
opzione avrebbe come inconveniente quello di
rendere la messa alla prova - per così dire - poco
appetibile.
Ecco allora emergere il secondo e fondamentale
problema di efficacia della messa alla prova che potremmo definire sistematico. Ad essa, ma più in generale alle definizioni alternative, l’imputato tende
ad aderire solo se la pena (finale) viene percepita
come antieconomica e controproducente rispetto
alla stessa definizione anticipata, nel senso che la
conseguenza definitiva deve essere comunque sconveniente rispetto ai contenuti della prova. E ciò
accade quando non trovano applicazione gli istituti
sospensivi della cognizione/esecuzione oppure, qualora trovassero applicazione siffatti istituti, allorquando i contenuti e la disciplina della prova in
sede processuale risultano meno afflittivi o gravosi
di quelli degli istituti sospensivi cognitivo-esecutivi.
Ecco quindi il circolo vizioso: l’incentivazione
alla richiesta per la sua applicazione ha conseguenze negative per lo stimolo alla buona riuscita della
prova, così come, per converso, una disciplina che
“induce” a dare il meglio di sé nella prova, tende a
disincentivare la richiesta. Circolo vizioso che si
può rompere solo con un equilibrio difficilissimo
da raggiungere.
Funzione ed efficacia della sospensione del
procedimento con messa alla prova
Tutto ciò premesso, venendo finalmente alla disamina della riforma, si deve sùbito osservare come
sul piano funzionale il legislatore si sia ispirato al
modello specialpreventivo, non mancando però di
prevedere anche elementi di disciplina che invece
sono riconducibili al modello premiale. In particolare, a quest’ultimo modello si ispirano soprattutto
il momento, l’iniziativa e l’accertamento “allo stato
degli atti” della responsabilità. Il momento, infatti,
come vedremo, può essere addirittura anticipato a
una fase che precede l’esercizio dell’azione penale,
mentre l’iniziativa è rimessa nella mani dell’imputato. Inoltre, sempre come vedremo meglio in seguito, l’applicazione è subordinata a un convincimento giudiziale di responsabilità del tutto simile a
quello del patteggiamento. Evidente quindi l’intento del legislatore di perseguire al massimo le istanze
deflattive in una logica premiale.
D’altra parte, al di là di questi elementi, tutto il
resto della disciplina si ispira “pesantemente” al
modello specialpreventivo. Ed infatti la concessione dipende comunque da una valutazione del giudice in termini di idoneità del trattamento e di
prognosi di non recidiva. I contenuti risultano
molto afflittivi e la loro quantificazione complessiva nella sostanza indeterminata (condotte riparatorie, affidamento a un servizio sociale per lo svolgimento di un programma, lavoro di pubblica utilità,
mediazione). Nell’ipotesi di revoca o di esito negativo è previsto lo scomputo dalla pena da eseguire
di un periodo corrispondente a quello della prova
(7) In argomento, sia consentito rinviare ancora a R. Bartoli,
Ipotesi per una riforma della sospensione condizionale della pena, cit., 178 ss.
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eseguita. Infine, la positività dell’esito è rimessa a
una valutazione discrezionale del giudice.
Da questo quadro risulta evidente una contraddizione funzionale interna all’istituto di notevole
rilievo sotto diversi profili. Anzitutto, sul piano dei
principi, se si muove da una logica premiale, alla
rinuncia delle garanzie derivanti da una cognizione
piena non consegue alcun vantaggio sanzionatorio,
ponendosi così problemi di ragionevolezza, mentre
se si muove da una logica specialpreventiva, al
contenuto particolarmente afflittivo della prova
non corrisponde una cognizione piena, ponendosi
così problemi rispetto ai principi di garanzia (8).
Inoltre, la contraddizione è destinata a riflettersi
anche sulle dinamiche interpretative. Tanto per fare un esempio, c’è da chiedersi se il giudizio di prognosi nella prassi “reggerà”, mantenendo così l’istituto la sua vocazione specialpreventiva, oppure andrà incontro a una sostanziale disapplicazione, in
un’ottica deflattiva, come avvvenuto per la sospensione condizionale della pena
Ma la contraddizione si fa ancora più consistente
se, infine, si getta lo sguardo al piano dell’efficacia.
Sotto questo profilo ci troviamo davanti a un vero
e proprio paradosso, e cioè a quello per cui il contenuto della messa alla prova risulta decisamente
sconveniente rispetto alla pena definitiva (9). Così,
rispetto alla pena pecuniaria, la diseconomicità è
di tutta evidenza. Ma anche rispetto ai reati puniti
con la pena detentiva si deve osservare come la
messa alla prova possa entrare in comparazione
con i contenuti pressoché inesistenti della sospensione condizionale della pena, soprattutto in prima
concessione. Certo, l’imputato che opta per la messa alla prova ottiene comunque dei vantaggi: sentenza di proscioglimento (che tuttavia è riportata
nel casellario giudiziale); periodo di sospensione
più breve se si tratta di delitto: due anni o un anno
invece che cinque (ma non se si tratta di contravvenzione); ripresa del procedimento in caso di revoca; scomputo della prova dalla pena definitiva.
Ma, da un lato sono vantaggi che se incentivano
alla richiesta, tuttavia ancora una volta non stimolano alla buona riuscita della prova. Dall’altro lato,
come vedremo meglio in seguito, l’ampia discrezionalità rimessa al giudice nella quantificazione del
carico complessivo della prova può comportare che
questa risulti davvero eccessivamente gravosa, po(8) In argomento, cfr. anche F. Caprioli, Due iniziative di riforma nel segno della deflazione: la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato maggiorenne e l’archiviazione per particolare tenuità del fatto, in Cass. pen., 2012,
9 s.
666
nendosi così problemi non solo di determinatezza,
ma anche di ragionevole congruità della risposta
sanzionatoria, e quindi di legittimità costituzionale.
Senza considerare poi le enormi difficoltà che esistono ad applicare il lavoro di pubblica utilità che
costituisce un requisito indefettibile.
Vero tutto questo, per ovviare a questi inconvenienti, forse sarebbe stato opportuno intervenire
non solo introducendo la messa alla prova, ma anche adottando quella riforma della sospensione
condizionale della pena che si auspica da anni, volta a munirla di contenuti sanzionatori.
Momento, iniziativa, convincimento di
responsabilità
Venendo adesso alla disamina dettagliata della
disciplina, occorre muovere da alcuni aspetti che
sono a cavaliere tra il diritto penale e la procedura.
Rinviando al commento processuale per i necessari
approfondimenti, in questa sede ci limitiamo a
compiere solo alcune osservazioni di massima più
attinenti alla dimensione sostanziale. Per quanto
riguarda il momento, si devono distinguere due
ipotesi: quella in cui la richiesta è proposta dopo la
conclusione delle indagini preliminari (art. 464-bis,
comma 2, c.p.p.) e quella in cui è presentata già
nel corso delle indagini (art. 464-ter c.p.p.). È del
tutto evidente come nella seconda ipotesi venga
potenziata al massimo la finalità deflattiva della
misura.
In ordine all’iniziativa, tra un’applicazione da
parte del giudice, come avviene per la messa alla
prova dei minori, e un’applicazione su richiesta
dell’imputato, come avviene per i riti premiali, si è
optato per questa seconda soluzione: “l’imputato
può chiedere la sospensione del processo con messa
alla prova” (art. 168-bis, comma 1, c.p.); “nei casi
previsti dall’articolo 168-bis del codice penale l’imputato può formulare richiesta di sospensione del
procedimento con messa alla prova” (art. 464-bis,
comma 1, c.p.p.). La scelta si ispira quindi a un
modello premiale, risultando in parte distonica rispetto al modello specialpreventivo.
La disciplina relativa al momento e all’iniziativa
pone, come più volte accennato, alcune questioni
in ordine all’accertamento della responsabilità. Ed
infatti, la richiesta dell’imputato potrebbe far rite(9) F. Caprioli, Due iniziative di riforma nel segno della deflazione, cit., 11 s.; F. Viganò, Sulla proposta legislativa in tema di
sospensione del procedimento con messa alla prova, in Riv. it.
dir. proc. pen., 2013, 1300 s.
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Diritto e processo penale
nere che siano superati i problemi di principio derivanti da un’applicazione della messa alla prova in
assenza di un autentico accertamento della responsabilità. Ma così non può essere. Tant’è vero che
l’art. 464-quater, comma 1, c.p.p. sancisce che l’ordinanza che dispone la sospensione del procedimento con messa alla prova presuppone l’insussistenza delle ragioni che, a norma dell’art. 129
c.p.p, impongono, d’ufficio, l’immediato proscioglimento dell’imputato. Quindi non può mancare un
accertamento ancorché semplificato o “allo stato
degli atti” di una responsabilità simile a quello realizzato per il patteggiamento. Inoltre, quanto affermato deve valere anche nell’ipotesi in cui l’applicazione avvenga nella fase delle indagini preliminari, dove tuttavia, a causa della notevole anticipazione, l’accertamento della responsabilità risulta
molto più problematico (10).
D’altra parte, dobbiamo ribadire come la disciplina abbia in sé profili di una certa irragionevolezza, visto che alla rinuncia delle garanzie della piena
cognizione da parte dell’imputato non corrisponde
un vero e proprio vantaggio sul piano sanzionatorio.
I presupposti formali
I presupposti formali per l’applicazione dell’istituto sono disciplinati dall’art. 168-bis, comma 1,
c.p. Anzitutto, anche per ragioni generalpreventive, l’accesso all’istituto è condizionato alla gravità
medio-bassa del reato apprezzata inevitabilmente
in astratto, e cioè: da un lato, con riguardo all’entità della pena edittale, per cui sono ammessi alla sospensione soltanto soggetti coinvolti in procedimenti per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva (sola,
congiunta o alternativa) non superiore nel massimo a quattro anni; dall’altro lato si è fatto riferimento ad alcuni reati specifici mediante il richiamo dei delitti indicati dall’art. 550, comma 2,
c.p.p. (11).
Pur in presenza di una indiscussa eterogeneità
(messa alla prova, pena in astratto; istituti sospensivi, pena in concreto) l’istituto in esame tende a
coprire l’area applicativa propria degli istituti “alternativi” che operano in sede di cognizione/esecuzione.
(10) Sul punto v. anche G. Amato, L’impegno è servizi sociali
e lavori di pubblica utilità, in Guida dir., 2014, n. 12, 88 s.
(11) Si tratta dei delitti previsti dagli artt. 336, 337, 343,
comma 2, 349, comma 2, 588, comma 2, con esclusione delle
ipotesi in cui nella rissa taluno sia rimasto ucciso o abbia ripor-
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Un problema che si può porre riguarda l’applicazione dell’istituto in presenza di una pluralità di
reati riuniti in un unico procedimento (12). Ebbene, se la pena edittale complessivamente considerata non supera la soglia di legge indicata, non mi
pare vi siano ragioni per escludere l’applicazione
dell’istituto. Più problematica la questione quando
concorrono più delitti indicati dall’art. 550, comma 2, c.p.p. oppure uno di questi delitti con altri
reati, riemergendo così ancora una volta le inevitabili difficoltà tecniche derivanti dall’impossibilità
di fare riferimento alla pena in concreto.
Applicazione discrezionale, limiti
soggettivi, non reiterabilità
La sospensione del procedimento con messa alla
prova è disposta quando il giudice, in base ai parametri di cui all’art. 133 c.p., reputa idoneo il programma di trattamento presentato e ritiene che
l’imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati
(art. 464-quater, comma 3, c.p.p.).
Rispetto alla valutazione relativa al programma
occorre preliminarmente osservare che esso è elaborato dall’imputato d’intesa con l’ufficio esecuzione penale esterna (art. 464-bis, comma 4, c.p.p.) e,
più precisamente, è redatto da tale ufficio, che poi
acquisisce il consenso dell’imputato (art. 141-bis,
comma 3, disp. att. c.p.p.). Inoltre, il giudice può
integrare o modificare il programma di trattamento, con il consenso dell’imputato (art. 464-quater,
comma 4, c.p.p.).
Il legislatore non ha indicato l’obiettivo rispetto
al quale il giudice deve valutare l’idoneità del programma. In via interpretativa si può comunque ritenere che esso debba riguardare la stessa capacità
del programma di incidere sulla personalità reale
del soggetto. Con la conseguenza che il giudice dovrà esercitare anche un controllo discrezionale relativo all’effettiva disponibilità del soggetto a sottoporsi al trattamento. E non è un caso che ai sensi
dell’art. 464-bis, comma 5, c.p.p., il legislatore abbia previsto che «al fine di decidere sulla concessione, nonché ai fini della determinazione degli
obblighi e delle prescrizioni cui è eventualmente
subordinata, il giudice può acquisire, tramite la polizia giudiziaria, i servizi sociali o altri enti pubblici,
tutte le ulteriori informazioni ritenute necessarie in
tato lesioni gravi o gravissime, furto aggravato a norma dell’art. 625, ricettazione.
(12) In argomento cfr. F. Fiorentin, Preclusioni e soglie di pena riducono la diffusione, in Guida. dir., 2014, n. 12, 69.
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Legislazione
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relazione alle condizioni di vita personale, familiare, sociale ed economica dell’imputato». Tale disposizione, infatti, oltre a permettere l’acquisizione
di informazioni relative alla personalità del soggetto, che altrimenti mancherebbero a causa dell’applicazione molto anticipata dell’istituto, sembra
aprire a una valutazione circa l’eventuale e concreta capacità di risposta della personalità a un programma che si ritiene astrattamente idoneo.
D’altra parte, al fine di compiere un autentico
giudizio di idoneità del programma, non può mancare altresì da parte del giudice un controllo di
congruità in ordine al contenuto afflittivo della
prova, anche perché, come vedremo, il legislatore
ha previsto moltissimi obblighi che si possono cumulare: la proporzione è infatti funzionale alla stessa prevenzione speciale.
La seconda valutazione discrezionale del giudice
indicata dalla legge è una prognosi di non recidiva.
Non è questa la sede per soffermarsi sui gravi problemi posti dai giudizi prognostici di pericolosità (13). Tuttavia non si può fare a meno di osservare che il giudizio non dovrà intendersi in senso
definitivo e generico ma in senso temporaneo e
specifico. Più precisamente, il giudice non dovrà
valutare se il soggetto si asterrà per sempre dal
commettere nuovi reati (definitivo), ma se tale
astensione si verificherà durante la prova (temporaneo). Inoltre, il giudizio dovrà essere formulato
non sulla personalità in sé e per sé considerata (generico), ma in relazione agli effetti che già la stessa
prova può produrre sulla persona (specifico).
In sintesi, si può dire che il giudizio sarà abbastanza agevole quando si tratterà di soggetto che
non ha riportato condanna a qualsiasi titolo per
precedente reato. Sarà molto più complesso se invece il soggetto è già stato condannato.
Il legislatore ha comunque individuato espressamente alcuni limiti soggettivi. Da un lato, la sospensione non si applica ai delinquenti e contravventori abituali, ai delinquenti professionali e a
quelli per tendenza (artt. 102, 103, 104, 105 e 108
c.p.). È interessante osservare che non viene richiamata la figura del recidivo, nemmeno quella
del recidivo reiterato.
Ecco allora aprirsi la questione dei destinatari
della misura, in quanto, proprio l’assenza di un limite soggettivo connesso alla figura del recidivo,
potrebbe deporre a favore di una prognosi di non
recidiva da compiersi con notevoli margini di discrezionalità, con la conseguenza che la messa alla
prova potrebbe trovare applicazione anche nei
confronti di soggetti che sono già stati condannati.
Più precisamente, tendenzialmente la messa alla
prova troverà applicazione rispetto al soggetto che
non è mai stato condannato e che rischia il carcere. Se invece si tratta di soggetto che non è mai
stato condannato e che si ritiene non rischi il carcere, sarà compiuta una comparazione, per la verità
aleatoria e legata a numerose variabili, con gli istituti sospensivi della cognizione/esecuzione, e l’esito
di questa comparazione, a causa della vuotezza di
contenuti della sospensione condizionale in prima
concessione, molto probabilmente sarà nel senso
della mancata richiesta della messa alla prova. Tuttavia, non è da escludere che l’istituto trovi applicazione anche rispetto a colui che è già stato condannato in precedenza, rischi o meno il carcere.
Qui, come accennato, dipende tutto da come opererà il giudizio di prognosi di non recidiva: se in
termini rigorosi, si dovrebbe tendere all’esclusione
della applicazione; se in termini flessibili, invece, si
dovrebbe tendere alla concessione. Ma proprio perché rispetto al delinquente che non è mai stato
condannato la messa alla prova trova applicazione
solo in presenza di imputato che ha buone ragioni
di ritenere che rischi il carcere, al fine di estendere
l’ambito applicativo dell’istituto, con ogni probabilità si adotterà un giudizio di prognosi molto flessibile per permettere la concessione anche a chi ha
già riportato una condanna sospesa, potendo addirittura tale giudizio finire per essere disapplicato,
com’è avvenuto per la sospensione condizionale
della pena.
Una cosa ormai è certa, se il nostro sistema ha
perduto da tempo una fisionomia razionale di trattamento progressivo in sede cognitivo-esecutiva,
questa disposizione contribuisce a renderlo nel
complesso ancora più irrazionale sul piano della
progressività. Meglio quindi sarebbe stato prevedere che la massa alla prova venisse applicata a chi
non avesse riportato già una sentenza di condanna,
dopo aver munito la sospensione condizionale della
pena di contenuti. In questo modo si sarebbero rispettati non solo i principi e l’efficacia della misura, ma anche la progressività trattamentale e la razionalità complessiva del sistema.
(13) V, ampiamente A. Martini, La pena sospesa, Torino,
206 ss.; M. Pelissero, Pericolosità sociale e doppio binario, Torino, 2008, 344 ss.; nonché, volendo, R. Bartoli, Contributo alla
riforma degli istituti sospensivi della pena (alla luce degli ultimi
progetti per un nuovo codice penale), in F. Palazzo-R. Bartoli,
Certezza o flessibilità della pena?, Torino, 2007, 101 ss.
668
Diritto penale e processo 6/2014
Legislazione
Diritto e processo penale
La sospensione del procedimento con messa alla
prova dell’imputato non può essere concessa più di
una volta (art. 168-bis, comma 4, c.p.). Ma se in
prospettiva premiale ha senso non reiterare, in
considerazione del vantaggio/beneficio sostanziale
che consegue il soggetto, in prospettiva rigorosamente probatoria una siffatta delimitazione non è
del tutto coerente, soprattutto se poi la finalità è
quella di ridurre la carcerazione (14). Quindi si sarebbe potuto prevedere che l’eventuale seconda
concessione fosse connessa a una precedente sentenza di proscioglimento per buon esito della messa
alla prova.
Sono disciplinati dall’art. 168-bis, commi 2 e 3,
c.p. e dall’art. 464-bis, comma 4, c.p.p. Si tratta di
una disciplina nel complesso poco chiara sul piano
della formulazione soprattutto per quanto riguarda
il concetto di programma, il quale viene utilizzato
a volte come contenuto specifico connesso all’affidamento al servizio sociale, a volte come contenitore di tutte le attività da svolgere durante la pro-
va. Inoltre, la disciplina dei contenuti è contraddistinta da notevole indeterminatezza attribuendo al
giudice amplissimi margini di discrezionalità nella
quantificazione del carico complessivo destinato a
gravare sul soggetto, con la conseguenza che si potranno porre problemi di congruità, visto che comunque il disvalore del fatto commesso continua
ad avere un suo significato nell’economia dell’istituto.
In particolare, la prova può consistere in ben
quattro attività: condotte riparatorie; affidamento
dell’imputato al servizio sociale per l’adempimento
a determinate prescrizioni; lavoro di pubblica utilità; mediazione. La prima e l’ultima paiono attività
eventuali, mentre la seconda e la terza risultano indefettibili. D’altra parte, là dove è presente la possibilità di compiere un’attività riparatoria, proprio
al fine di individuare paletti che restringano l’eccessiva discrezionalità giudiziale, c’è da chiedersi se
sia opportuno gravare ulteriormente il soggetto con
ulteriori prescrizioni, potendosi quindi prospettare
l’idea che dove sono possibili condotte riparatorie
non si applicano prescrizioni (15). Il lavoro di pubblico utilità appare invece come una misura sempre
indefettibile.
In un’ottica di valorizzazione dei rapporti con la
vittima, la messa alla prova comporta anzitutto la
prestazione di condotte volte all’eliminazione delle
conseguenze dannose o pericolose derivanti dal
reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del
danno e le restituzioni (art. 168-bis, comma 2, c.p.;
art. 464-bis, comma 4, lett. b), c.p.p.). La formulazione non è felice. Si deve ritenere che si debbano
imporre le condotte riparatorie ove possibili, avuto
riguardo al tipo di reato (con conseguenze o meno;
con danneggiato o meno): se entrambe le condotte
sono possibili, entrambe dovrebbero essere imposte; se invece è possibile una sola, si imporrà solo
quella per l’appunto possibile.
In secondo luogo, la prova deve consistere nell’affidamento dell’imputato al servizio sociale per
lo svolgimento di un programma che può implicare
attività di volontariato di rilievo sociale ovvero osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il
servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla
dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali (art. 168-bis, comma 2,
c.p.). La disposizione sembra essere eccessivamente
indeterminata essendo nella sostanza a carattere
esemplificativo. Il programma deve inoltre preve-
(14) Sul punto v. anche F. Fiorentin, Una sola volta nella storia giudiziaria del condannato, cit., 70.
(15) Analogamente, F. Fiorentin, Volontariato quale forma di
“riparazione sociale”, in Guida. dir., 2014, n. 12, 78.
Durata della prova e sospensione del
decorso della prescrizione
La durata della prova è predeterminata dal legislatore distinguendo a seconda del contenuto della
pena edittale comminata per il reato per il quale si
procede (art. 464-quater, comma 5, c.p.p.): se si
procede per un reato per il quale è prevista la pena
detentiva (sola, congiunta o alternativa alla pena
pecuniaria), la durata della sospensione e quindi
della prova non può essere superiore a due anni; se
si procede per un reato per il quale è prevista la sola pena pecuniaria, il procedimento non può essere
sospeso per un periodo superiore a un anno.
È interessante osservare come l’art. 141-ter disp.
att. c.p.p. consenta agli uffici dell’esecuzione penale esterna di proporre abbreviazioni, a conferma ulteriore della ratio specialpreventiva dell’istituto.
Durante il periodo di sospensione del procedimento il decorso della prescrizione del reato è sospeso. Trattandosi di causa sospensiva avente natura personale, non si applicano le disposizione del
primo comma dell’art. 161 c.p., che estendono la
sospensione a tutti coloro che hanno commesso il
reato.
I contenuti della prova
Diritto penale e processo 6/2014
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Legislazione
Diritto e processo penale
dere le modalità di coinvolgimento dell’imputato,
nonché del suo nucleo familiare e del suo ambiente
di vita nel processo di reinserimento sociale, ove
ciò risulti necessario e possibile (464-bis, comma 4,
lett. a), c.p.p.).
Terza attività è il lavoro di pubblica utilità (art.
168-bis, comma 3, c.p.): “la concessione della messa alla prova è inoltre subordinata alla prestazione
di lavoro di pubblica utilità. Il lavoro di pubblica
utilità consiste in una prestazione non retribuita,
affidata tendendo conto anche delle specifiche professionalità ed attitudini lavorative dell’imputato”.
Anche rispetto al lavoro di pubblica utilità la discrezionalità del giudice risulta amplissima, ponendosi seri problemi di determinatezza che fanno dubitare della sua illegittimità costituzionale. Ed infatti, il legislatore ha indicato soltanto il limite inferiore della durata, che è di dieci giorni, mentre
nulla dice in ordine al limite massimo. Diversamente è stato indicato il massimo della durata giornaliera che non può superare le otto ore, mentre
non è definito il minimo.
Passaggio interessante è che il lavoro deve essere
svolto a favore della collettività presso lo Stato, le
Regioni, le province (tuttavia destinate a scomparire) i comuni, le aziende sanitarie o presso enti o
organizzazione, anche internazionali, che operano
in Italia, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato. Quindi si è ampliato il numero dei possibili
datori di lavoro.
Si discute se sia destinato a saltare il requisito
della convenzione con l’amministrazione, perché
non si richiama il d.m. 26 marzo 2001, che all’art.
3 prevede l’obbligo per il giudice di attingere all’elenco degli enti convenzionati formato ai sensi del
successivo art. 7. Certo, l’art. 8 della legge in commento prevede l’adozione da parte del Ministero
della giustizia o dei presidenti dei tribunali delegati, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore
della legge, di convenzioni da stipulare con gli enti
e le organizzazioni di cui all’art. 168-bis c.p. Ma
nemmeno questa norma sembra fare riferimento alle convenzioni come elemento indefettibile. Se
l’assenza di convenzione dovrebbe consentire di superare in parte i problemi derivanti dalle enormi
difficoltà applicative del lavoro di pubblica utilità,
dall’altro lato, potrebbe porre seri problemi in ordine ai controlli sul soggetto, sia in termini di effica(16) Sul punto v. anche F. Fiorentin, Risarcire la vittima è
condizione imprescindibile, in Guida dir., 2014, n. 12, 75. Per un
quadro complessivo dei problemi che si pongono quando vengono in gioco le condotte riparatorie, sia consentito rinviare a
670
cia della misura, come anche in termini di garanzia.
Poiché il lavoro di pubblica utilità costituisce un
presupposto indefettibile, e poiché c’è comunque
da ritenere che si potranno porre difficoltà applicative in assenza di una richiesta di lavoro da parte
del mercato, c’è da chiedersi se non debba essere
attribuita rilevanza alla sola circostanza di chi si sia
attivato per tempo e seriamente per trovare l’occasione lavorativa senza tuttavia riuscirci.
Infine, ove possibile, il programma deve contenere anche le condotte volte a promuovere la mediazione con la persona offesa. Come accennato si
tratta di un contenuto defettibile, che tuttavia assume un significato molto rilevante aprendo per la
prima volta uno spazio per una reale mediazione
(tutta da inventare) tra autore e vittima. Spazio,
tuttavia, tutto da inventare, non essendo prevista
in merito alcuna disciplina.
La revoca della sospensione
Come ogni istituto sospensivo, la messa alla prova è suscettibile di revoca. Le ipotesi sono tre (art.
168-quater c.p.): grave o reiterata trasgressione al
programma di trattamento o alle prescrizioni imposte; rifiuto alla prestazione del lavoro di pubblica
utilità; commissione, durante il periodo di prova,
di un nuovo delitto non colposo o di un reato della
stessa indole di quello per cui si procede.
In particolare, la prima ipotesi si riferisce alla
violazione degli impegni presi in ordine alle condotte riparatorie, all’affidamento in prova al servizio sociale con relative prescrizioni e alla mediazione. La trasgressione deve essere grave oppure reiterata. Il fatto che il legislatore abbia utilizzato una
“o” disgiuntiva, esprimente una alternativa, estende le possibilità di revoca. In particolare, per quanto riguarda le condotte riparatorie, senza dubbio si
avranno i classici problemi interpretativi di quando
vengono in gioco (16). Così, da un lato, si porrà la
questione in ordine alla solvibilità, con conseguente tensione con il principio di eguaglianza: e si deve ritenere che si debbano considerare le condizioni economiche del soggetto, con la conseguenza
che in presenza di soggetti impossibilitati a risarcire, ai fini di una valutazione di adempimento, si
dovranno ritenere sufficienti gli sforzi profusi, mentre in presenza di soggetti dalle condizioni econoR. Bartoli, Commento all’art. 35, D. legisl. 28 agosto 2000, n.
274, in F. Palazzo-C.E. Paliero (diretto da), Commentario breve
alle leggi penali complementari, 2. ed., Padova, 2007, 1544 ss.
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Diritto e processo penale
miche precarie, potrà bastare anche un risarcimento parziale. Dall’altro lato, non può considerarsi
vincolante il rifiuto opposto dalla vittima, là dove
l’imputato abbia avanzato una proposta seria ed effettiva.
Con riferimento al lavoro di pubblica utilità ci si
deve chiedere se il rifiuto debba consistere soltanto
in una opposizione al lavoro - per così dire - tout
court (il soggetto non si reca a lavorare o si allontana dal luogo di lavoro) oppure possa consistere anche in un’opposizione ingiustificata e reiterata alle
eventuali richieste lavorative legittime da parte del
datore (17).
Infine, la commissione di fatti criminosi rappresenta una smentita della prognosi di non recidiva.
Da notare la circostanza che ciò che assume rilevanza è la mera commissione del reato, non anche
l’esistenza di una condanna. Questo eccesso di sostanzializzazione deve essere corretto in termini più
formali attribuendo rilievo almeno all’avvenuto
rinvio a giudizio. Al contrario, pare difficile poter
attribuire al giudice un potere di valutazione degli
elementi a carico dell’imputato (18).
Il reato commesso deve essere della stessa indole.
Posto che ai sensi dell’art. 101 c.p. sono tali non
soltanto quelli che violano una medesima disposizione di legge (identità formale ed astratta), ma
anche quelli che per la natura dei fatti che li costituiscono o dei motivi che li determinano presentano caratteri fondamentali comuni (identità concreta e sostanziale), quest’ultima ipotesi è opportuno
interpretarla in termini soggettivi, attribuendo rilevanza ai moventi e agli scopi del soggetto, potendo
così raggruppare fattispecie del tutto eterogenee.
Se non si tratta di reati della stessa indole, assumono rilevanza solo i delitti aventi natura dolosa o
preterintenzionale. A ben vedere, la limitazione
operata dal legislatore non sembra avere molto
senso, visto che il contrasto con la prognosi di non
recidiva è del tutto indipendente dalla qualifica
formale del reato e dall’elemento psicologico del
fatto, che attiene più al piano della colpevolezza, o
comunque al disvalore dell’episodio criminoso, che
a quello della pericolosità.
Tutte le ipotesi comportano un’applicazione
automatica, per cui una volta accertato il presupposto, il giudice non può valutare se i comporta-
menti realizzati sono incompatibili con la prosecuzione della prova. Ciò determina una forte rigidità
del sistema di revoca che se può avere una certa
coerenza nel caso della commissione del reato, rischia di essere eccessiva e distonica rispetto agli altri contenuti della prova. Tanto è vero che alcuni
hanno espresso la preferenza per una lettura della
norma che consenta una decisione di natura discrezionale al giudice anche sotto il profilo dell’an
della revoca, anche quando egli abbia accertato la
ricorrenza delle condizioni, facendo leva sulla natura e sulla motivazioni delle eventuali trasgressioni (19). Tuttavia tale rigidità permette di far acquisire alla revoca una efficacia intimidatrice che come abbiamo visto è di per sé scarsa.
Nel caso di revoca l’istanza non può essere riproposta (art. 464-novies c.p.p.). Questa disposizione è
finalizzata non solo a rendere il meccanismo sospensivo il più effettivo possibile, ma anche ad evitare una strumentalizzazione dell’istituto con conseguente paralizzazione del decorso del processo (20). Inoltre, il giudice dispone che il processo
riprenda il suo corso (art. 464-septies, comma 2,
c.p.p.).
Revocata la sospensione, si discute se l’imputato
abbia la facoltà di scegliere altri riti premiali. Sul
punto il legislatore tace. Tutto dipende da come si
concepisce la messa alla prova. Se la si ritiene un
rito premiale, tale facoltà deve essere esclusa poiché si darebbero al soggetto troppi vantaggi ingiustificati. Se invece si valorizza la ratio di probation,
a rigore non si dovrebbe escludere, ma a quel punto si indebolisce ancora di più la scarsa funzione di
monito esplicata dalla ripresa del processo. E poiché la revoca è costruita in termini rigidi per rafforzare la funzione di monito, questa seconda opzione interpretativa risulta preferibile.
Inoltre, si pone il problema del regime di inutilizzabilità delle informazioni acquisite durante il
procedimento. Si deve osservare come sia scomparsa dal testo definitivo il comma secondo dell’art.
464-septies c.p.p., secondo il quale «le informazioni
acquisite ai fini e durante il procedimento si messa
alla prova non sono utilizzabili». L’utilizzabilità
può porre problemi di principio. Inoltre, è elemento che può disincentivare la richiesta da parte dell’imputato. Rinviando al commento processuale
(17) In ordine alle problematiche poste dalla violazione degli
obblighi concernenti il lavoro di pubblica utilità, mi permetto di
rinviare ancora a R. Bartoli, Commento all’art. 35, D. legisl. 28
agosto 2000, n. 274, in F. Palazzo-C.E. Paliero (diretto da),
Commentario breve, cit., 1581 ss.
(18) In questo senso si esprime invece F. Fiorentin, Revoca
discrezionale per chi viola il programma, in Guida dir., 2014, n.
12, 85.
(19) F. Fiorentin, Revoca discrezionale per chi viola il programma, cit., 84.
(20) F. Fiorentin, Preclusioni e soglie di pena riducono la diffusione, cit., 69.
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Legislazione
Diritto e processo penale
per i dettagli della questione, ci sembra auspicabile
un orientamento che restringa al massimo l’utilizzabilità.
In caso di revoca della messa alla prova, il pubblico ministero, nel determinare la pena da eseguire, detrae un periodo corrispondente a quello della
prova eseguita. Ai fini della detrazione, tre giorni
di prova sono equiparati a un giorno di reclusione
o di arresto, ovvero a 250 euro di multa o di ammenda (art. 657-bis c.p.). Lo scomputo è coerente
con la finalità di diversion dell’istituto ovvero con
il contenuto afflittivo della prova. Si noti come
tuttavia il contenuto afflittivo complessivo della
prova sia determinato in termini altamente discrezionali, con la conseguenza che manca alla fin fine
una vera e propria corrispondenza tra giorni di prova e pena detentiva o pecuniaria. La disciplina rischia pertanto di essere costituzionalmente illegittima per la violazione di numerosi principi costituzionali (determinatezza, eguaglianza-ragionevolezza,
proporzione).
Rispetto allo scomputo si pone il problema se
per periodo di prova scomputabile debba intendersi
quello formalmente intercorso tra il momento di
ammissione alla prova e quello del provvedimento
di revoca o invece il periodo nel corso del quale
l’imputato abbia effettivamente osservato le prescrizioni del programma, prima di incorrere nei
presupposti della revoca stessa. Preferibile la seconda interpretazione, visto che la dimensione sostanziale che la caratterizza sta all’interno dei confini
tracciati dai provvedimenti formali.
to dell’imputato e del rispetto delle prescrizioni stabilite, ritiene che la prova abbia avuto esito positivo. A tale fine acquisisce la relazione conclusiva
dell’ufficio di esecuzione penale esterna che ha preso in carico l’imputato e fissa l’udienza per la valutazione dandone avviso alle parti e alla persona offesa” (art. 464-septies, comma 1, c.p.p.).
Stando alla lettera della legge, si tratta di una
vera e propria valutazione, con la conseguenza che
l’esito positivo non può coincidere con la mancata
revoca. E ciò in piena coerenza con la ratio di probation della messa alla prova. Se invece si ragiona
in termini premiali, si deve ritenere sufficiente il
rispetto delle prescrizioni.
La questione assume notevole rilevanza allorquando si potrà creare una discrasia tra la conclusione del periodo di prova e la valutazione relativa
all’esito e nel frattempo viene commesso un reato.
Ed infatti una interpretazione dell’esito come valutazione autonoma potrebbe portare ad attribuire rilevanza anche a quei comportamenti che posti in
essere prima della valutazione si ritengono comunque in contraddizione con un esito positivo, come
del resto avviene già per l’affidamento in prova al
servizio sociale, con non pochi problemi in termini
di garanzia per il soggetto (21).
L’estinzione del reato non pregiudica l’applicazione delle sanzioni amministrative accessorie, ove
previste dalla legge (art. 168-ter, comma 2, c.p.).
Si tratta di una disposizione che incide, riducendola, sulla appetibilità della messa alla prova, ma che
ancora una volta può stimolare al buon esito.
L’esito della prova
Questioni di diritto intertemporale
Per quanto riguarda l’esito, si deve distinguere a
seconda che l’esito sia positivo oppure negativo. In
caso di esito negativo si applicano le stesse norme
che operano in caso di revoca (art. 464-septies,
comma 2, c.p.p.), ponendosi altresì gli stessi problemi, per la soluzione dei quali si rinvia a quanto
detto poc’anzi.
In caso di esito positivo, la prova estingue il reato per cui si procede (art. 168-ter, comma 3, c.p.) e
l’estinzione è dichiarata con sentenza di proscioglimento (art. 464-septies, comma 1, c.p.p.). In particolare, “decorso il periodo di sospensione del procedimento con messa alla prova, il giudice dichiara
estinto il reato se, tenuto conto del comportamen-
Nella legge che si commenta è del tutto assente
una disciplina transitoria, volta a regolare i procedimenti instaurati per i delitti previsti dall’art.
168-bis c.p. che, al momento dell’entrata in vigore
della legge, abbiano superato le fasi processuali entro le quali, ai sensi dell’art. 464-bis c.p.p., la sospensione del procedimento con messa alla prova
può essere richiesta dall’imputato.
La questione non potrà che essere risolta in via
interpretativa. E poiché la sospensione del processo
con messa alla prova è un istituto di favore, si deve
ritenere che operi l’art. 2, comma 4, c.p., dovendo
quindi applicazione essere applicata anche nei confronti di soggetti che, trovandosi nelle stessi condi-
(21) Cfr. R. Bartoli, L’affidamento in prova al servizio sociale
tra istanze risocializzative e istanze di garanzia, in questa Rivista,
2002, 1230 ss.
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Legislazione
Diritto e processo penale
zioni sostanziali, sono però giudicati in stadi diversi
del procedimento.
Ebbene, a nostro parere, il silenzio del legislatore
deve essere interpretato nel senso che, ispirandosi
a una ratio della retroattività - per così dire -“europea”, che vede nella irretroattività delle norme di
favore un’irragionevole violazione della libertà personale come se si trattasse di un ingiustificato “accanimento”, non si è voluto porre limiti o deroghe,
con la conseguenza che il regime più favorevole
dovrà trovare applicazione là dove non sia - per così dire - tecnicamente incompatibile. Quindi, trattandosi di istituto la cui applicazione implica valutazioni, l’applicazione del regime favorevole sarà
senza dubbio preclusa ad esempio al giudice di legittimità. Al contrario, a nostro avviso non ci sono
ragioni per negare la richiesta di sospensione indirizzata al giudice di primo grado una volta iniziato
il dibattimento.
Vero questo, si deve anche osservare come la ratio “europea” della retroattività abbia una sua plausibilità soprattutto quando sono preesistenti vere e
proprie limitazioni della libertà personale, mentre
là dove vengono in gioco istituti che non incidono
su limitazioni della libertà già in atto, è del tutto
ragionevole prevedere deroghe e limiti, con la conseguenza che rispetto alle questioni di diritto intertemporale forse sarebbe stata opportuna una disciplina espressa da parte del legislatore (22).
La prima considerazione conclusiva è di tipo per così dire - culturale. È noto come si stia sempre
più affermando un modello di commisurazione della pena in cui «il reato non è più solamente la negazione di valori stabili e determinati, ma è soprattutto un episodio concreto che si colloca al centro
di un nodo di interessi vari e mutevoli alla ricerca
di una composizione di un equilibrio volta per volta» (23). E se è vero che in questa prospettiva, sul
piano processuale, il momento della decisione di
quel conflitto prende il sopravvento su quello meramente accertativo del pre-dato di realtà, è anche
vero che il trasporto di logiche funzionali rigorosamente penalistiche (addirittura specialpreventive)
nella fase processuale determina contraddizioni difficilmente risolvibili in termini di principio e di ef-
ficacia. In sostanza, soprattutto se si tratta di istituti basati sul meccanismo della sospensione, si riesce
a trovare un punto di equilibrio contingente tra gli
interessi coinvolti più in una logica rigorosamente
premiale, che in una logica specialpreventiva.
Altra considerazione, strettamente connessa a
quella precedente. Tra le definizioni alternative
possibili, il legislatore ha deciso di investire sulla
messa alla prova invece che sulla irrilevanza penale
del fatto. C’è da chiedersi tuttavia se non fosse stato più opportuno investire su questo secondo istituto. A ben vedere, in estrema sintesi, le due definizioni anticipate si differenziano in quanto, mentre
la messa alla prova ha contenuti, ma è contraddittoria in virtù della sua natura soggettiva e specialpreventiva, al contrario l’irrilevanza penale del fatto non ha contenuti, ma presenta minori contraddizioni in virtù della sua consistenza oggettiva che
la rende inequivocabilmente premiale. Tuttavia
nulla toglie che si inizi a pensare a una irrilevanza
penale del fatto condizionata, che determini cioè
una sospensione del procedimento e la sottoposizione a determinati obblighi meramente sanzionatori (24). Tale scelta infatti, consentirebbe di eliminare non solo le dinamiche specialpreventive
difficilmente compatibile con la definizione anticipata dei procedimenti, ma anche quelle contraddizioni “dogmatiche” che contraddistinguono l’irrilevanza penale del fatto così come pensata fino ad
ora.
Ed ancora. Stentano tuttora le riforme strutturali, sia per quanto riguarda il sistema sanzionatorio,
sia per quanto attiene alla carcerazione preventiva.
Tuttavia esse, e solo esse, sembrano essere in grado
di dare una soluzione reale ai problemi che affliggono il nostro sistema, non solo in ordine al sovraffollamento, ma anche per ciò che riguarda l’effettività, nonché la razionalità in termini di trattamento progressivo. In particolare, a mio avviso
continua ad essere prioritaria la riforma sanzionatoria, dovendosi configurare un sistema meno afflittivo e più effettivo. Meno afflittivo significa non più
carcero-centrico, dove cioè sono previste già a livello di comminatoria edittale pene diverse da
quella carceraria. Più effettivo significa dare una
stretta applicativa e contenuti agli istituti sospensivi della cognizione/esecuzione.
(22) Per un quadro complessivo e aggiornato delle problematiche poste dal principio di retroattività, cfr. di recente F. Viganò, Retroattività della legge penale favorevole, in www.dirittopenalecontemporaneo.it.
(23) F. Palazzo, La nuova fisionomia dei riti alternativi pre-
miali, cit., 37.
(24) In argomento, sia consentito rinviare a R. Bartoli, L’irrilevanza penale del fatto. Alla ricerca di strumenti di depenalizzazione in concreto contro l’ipertrofia c.d. “verticale” del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, 1473 ss.
Alcune considerazioni finali
Diritto penale e processo 6/2014
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Legislazione
Diritto e processo penale
Certo, la riforma della carcerazione preventiva
darebbe sùbito importanti risultati e finirebbe per
rispondere alle pressanti esigenze di garanzia, tuttavia non si può fare a meno di osservare che se il sistema non diverrà più effettivo, si continuerà a utilizzare la carcerazione preventiva come un surrogato della risposta sanzionatoria, con la conseguenza
che alla lunga una riforma della sola carcerazione
preventiva volta a restringere la sua applicazione
finirebbe per essere di nuovo distorta in termini
estensivi dalla prassi giudiziaria. Quindi a nostro
avviso passaggio indispensabile è la riforma del sistema sanzionatorio che per essere più effettivo necessita preliminarmente di essere meno afflittivo. E
non è un caso che i lavori della recente Commissione ministeriale, presieduta dal prof. Francesco
Palazzo, diretta a elaborare proposte di interventi
in tema di sistema sanzionatorio penale, siano andati proprio in questa direzione (25).
Ultima considerazione. Sono trascorsi 250 anni
dalla pubblicazione del libello di Cesare Beccaria
Dei delitti e delle pene. Com’è noto si trattò di un libretto rivoluzionario anche perché, tra le numerose
idee garantiste che vi si affermavano, Beccaria prese una posizione abolizionista rispetto alla pena di
morte, che al tempo nessuno si sarebbe mai sogna-
to di mettere in discussione, anche in considerazione del fatto che allora trovava un’applicazione
molto estesa. Ma a ben vedere, ciò che fu davvero
rivoluzionario fu il comportamento illuminato del
Granduca Leopoldo II, il quale con la Riforma criminale toscana del 1786 dette ascolto alla voce di
Beccaria e abolì proprio la pena di morte.
Oggi, la scienza giuridica è ormai assestata sull’idea di un sistema non più carcero-centrico: tanti
moderni Beccaria stanno caldeggiando una riforma
di civiltà. Ciò che finora è mancato, è stato soprattutto un legislatore illuminato, un legislatore cioè
che con coraggio sapesse immergersi nel flusso del
lungo e inarrestabile processo di umanizzazione della pena, con l’ambizione, una volta tanto, di prospettare una visione culturale lungimirante, invece
che subire le resistenze cieche dell’opinione pubblica. La legge delega e la sua eventuale attuazione
potrebbero essere una prima manifestazione del superamento di questa lacuna. Ma forse sarebbe auspicabile un salto deciso capace di colmarla completamente attraverso una riforma strutturale dell’intero sistema sanzionatorio, magari lasciando cadere la delega e operando per un nuovo disegno
complessivo, essendo questa, come si dice, la stagione del coraggio.
La messa alla prova dell’imputato adulto: ombre e luci
di un nuovo rito speciale per una diversa politica criminale
di Antonella Marandola
Tra gli strumenti processuali introdotti dalla l. n. 67 del 2014 per favorire l’alleggerimento carcerario, spicca il nuovo istituto della sospensione del processo con messa alla prova dell’imputato maggiorenne. Viene, così, esteso anche agli adulti un nuovo rito speciale finora previsto soltanto per i minorenni. La nuova
misura trova ingresso nel sistema processuale ordinario dopo la sedimentata esperienza maturata in sede
minorile e una lunga riflessione politica e dottrinale.
L’approfondita valutazione che ha preceduto la riforma sembrerebbe proiettare uno strumento normativo
capace di superare - in larga parte - le iniziali ambiguità strutturali e funzionali, prospettando un istituto limitatamente affine a quello applicabile ai minorenni e, in parte, analogo all’affidamento in prova al servizio sociale. Sostanzialmente, il meccanismo processuale si basa sulla rinuncia all’esercizio della pretesa
punitiva dello Stato qualora il percorso di “prova” - che coinvolge anche la vittima del reato - una volta
realizzato, abbia dato esito positivo. Nell’intenzione riformatrice l’istituto mira ad offrire ai condannati per
reati di minore allarme sociale un percorso di reinserimento alternativo e, al contempo, svolgere una funzione deflattiva dei procedimenti penali.
Se la filosofia sottesa al nuovo rito alternativo al processo è certamente apprezzabile, in quanto intende
evitare che i processi girino a vuoto per emettere condanne che non saranno mai eseguite e garantire la
pena quale extrema ratio, uscendo, così, dall’idea carcere-centrica che è, ormai, necessario e fondamentale superare, i dubbi che si annidano su alcuni aspetti tecnici e pratici in ordine alla fattibilità concreta
della legge impongono una riflessione sull’adeguatezza e sulla sua capacità a realizzare i delineati intenti.
(25) Cfr. la Relazione e lo Schema per la redazione di principi e criteri direttivi di delega legislativa in materia di riforma
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del sistema sanzionatorio penale, in www.dirittopenalecontemporaneo.it.
Diritto penale e processo 6/2014
Legislazione
Diritto e processo penale
La sospensione del processo con messa
alla prova per adulti
Dato il positivo riscontro della messa alla prova
applicata nel processo minorile, la Camera ha approvato in via definitiva un testo unificato, già esaminato in prima lettura e poi modificato dal Senato, che introduce la messa alla prova nel processo
penale a carico dell’imputato maggiorenne per i
reati di non particolare allarme sociale. Alla disciplina della messa alla prova con sospensione del
procedimento, quale meccanismo funzionale, fra
l’altro, alla logica di maggiore mitezza ed umanità
del sistema penale, sono stati, da tempo, dedicati
diversi testi legislativi e i lavori delle Commissioni
ministeriali di studio (1). Solo di recente, a fronte
della grave questione del drammatico sovraffollamento delle carceri aggravata, sul piano istituzionale, dalla condanna irrogata dalla Corte e.d.u.
dell’8 gennaio 2013 Torreggiani c. Italia che ha
imposto all’Italia di adottare idonei rimedi interni
per risolvere le lacune strutturali del sistema penale
l’iter di adozione del meccanismo è stato accelerato (2). L’istituto, di origine anglosassone, che si rivela un’utile alternativa all’accertamento processuale e alla gestione giudiziaria della reazione istituzionale all’illecito, con il conseguente risparmio
di risorse in questo settore del sistema, consente,
infatti, che, in determinati casi, l’accusato, invece
che processato, venga sottoposto - col suo consenso - ad un programma di prova consistente nella
prestazione di un lavoro di pubblica utilità: se la
prova dovesse riuscire positiva, il reato si estingue
(restando comunque applicabili le eventuali sanzioni amministrative accessorie) e il processo è evitato.
Il nuovo strumento processuale si colloca all’interno di un quadro più generale d’interventi ("Delega al Governo in materia di depenalizzazione, sospensione del procedimento con messa alla prova,
pene detentive non carcerarie, nonché sospensione
del procedimento nei confronti degli irreperibili")
attraverso i quali s’intende “favorire - ove possibile
- il ricorso a sanzioni non penali comunque alterative alla detenzione, porre un più efficace meccanismo di doppio binario processuale, idoneo a selezionare per la trattazione con il rito ordinario i pro(1) V., O. Murro, Le nuove dimensioni del probation per l’imputato adulto, in www.Treccani.it.
(2) Da ultimo, il Consiglio d’Europa ha valutato positivamente i miglioramenti della situazione nelle carceri italiane, rinviando a giugno 2015 un’ulteriore valutazione, rimanendo in
attesa del decreto sul rimedio compensativo ai detenuti.
Diritto penale e processo 6/2014
cedimenti afferenti a fatti (veramente) meritevoli
dell’accertamento dibattimentale” (3) e realizzare,
così, una equilibrata e moderna opera di de-carcerizzazione, definendo la sanzione carceraria alla
stregua di una extrema ratio alla quale ricorrere
quando le altre sanzioni sono inefficaci.
Com’è noto, in verità, il probation non è estraneo al sistema penale: quello processuale è già previsto dagli artt. 28 e 29 del d.P.R. 22 settembre
1988, n. 448 per il processo penale minorile, con
la possibilità di sospendere il processo e ammettere
alla prova l’imputato, tanto che - in caso di esito
positivo - si estingue il reato; in sede penitenziaria
è attuato, invece, attraverso l’affidamento in prova
al servizio sociale (art. 47 ord. pen.) o l’affidamento in casi particolari (art. 94 d.P.R. n. 309/1990),
di competenza del tribunale di sorveglianza, cui
consegue, in caso di esito positivo, l’estinzione della pena e ogni altro effetto penale. La prospettiva
coltivata dal nuovo intervento normativo, solo in
parte affine a quello minorile, è, dunque, quella di
delineare un sistema bifasico: se, infatti, la messa
alla prova viene mantenuta e rinviata alla fase di
esecuzione per le fattispecie di reato di una certa
gravità, per quelle di lieve e media entità la prova
si colloca, invece, nel corso delle indagini o del
processo, comportandone la sospensione e determinando, all’esito positivo, l’estinzione del reato (4).
Come anticipato, la “nuova” misura si risolve,
ove possibile, nell'affidamento dell’imputato, che è
tenuto alla prestazione di un lavoro di pubblica utilità, al servizio sociale e al suo impegno ad ottemperare alle misure risarcitorie del danno e all'eliminazione delle conseguenze dannose derivanti dal
reato.
Nonostante la chiara assonanza con quella minorile, la messa alla prova destinata agli adulti che, al pari di quella non presuppone la pronuncia
di una sentenza di condanna, ma il necessario (previo) accertamento della sussistenza del reato e della responsabilità dell’imputato (art. 27 Cost.) - se
ne discosta in larga parte - anche in ragione della
ben diversa ratio e ideologia “processuale” che la
sorregge - manifestando una piena autonomia ed
indipendenza quanto a condizioni - oggettive e
soggettive - di accesso, a modalità e contenuto delle prescrizioni e negli effetti.
(3) Così, F. Fiorentini, Rivoluzione copernicana per la giustizia
ripartiva, in Guida al dir., 2104, 21, 63.
(4) M. Colamussi, Adulti messi alla prova seguendo il paradigma della giustizia ripartiva, in Processo penale e giustizia,
2012, 6, 127.
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Legislazione
Diritto e processo penale
Dal punto di vista contenutistico non poche
analogie sono riscontrabili, invece, con altri istituti
da tempo sperimentati: il rinvio va, così, al lavoro
di pubblica utilità, al servizio sociale e alle condotte riparatorie.
Con il nuovo strumento processuale la legislazione nazionale pare, peraltro, armonizzarsi con le indicazioni provenienti dall’Unione Europea e, in
particolare, con la “Raccomandazione R(2010)1
relativa alle regole europee sulla messa alla prova”,
adottata dal Comitato dei ministri il 20 gennaio
2010 (5). Tale testo adotta una definizione “ampia”
dell’istituto, considerato quale complesso di misure
alternative alla detenzione e funzionali al reinserimento sociale del reo, grazie al sostegno dei “Servizi di messa alla prova”: l’intervento della messa alla
prova può operare, in tal caso, come misura alternativa alla detenzione, durante l’esecuzione della
pena detentiva e nella fase successiva alla scarcerazione (6).
In linea con le sollecitazioni provenienti dall’Europa, un’attenzione particolare è dedicata, inoltre,
alla riparazione e alla mediazione (penale) (7) con
la vittima del reato, permettendo, così, all’istituto
di inserirsi nel solco della giustizia ripartiva, ossia
di quel modello di giustizia più mite e meno repressivo, alternativo al processo e basato su un paradigma riabilitativo e conciliativo, conferendo al processo e alla pena un ruolo di extrema ratio, limitato
alle sole ipotesi di esito negativo della prova (8).
Il nuovo meccanismo processuale, capace di assecondare, in definitiva, le esigenze di non recidivismo, deve, tuttavia, coniugare le esigenze rieducative della persona, che potrebbe aver commesso
un reato, e quelle della sicurezza sociale: trattasi di
un bilanciamento che, se da un lato, non può tollerare che si svolgano processi che potrebbero concludersi con condanne che non verranno eseguite,
dall’altro lato, esclude che la misura de qua possa
avere automatica applicazione, dovendo sottoporre
alla valutazione del giudice la pericolosità del sog-
Quali varianti dell’omologo istituto minorile,in
linea con le caratteristiche di rito speciale e rieducativo dell’istituto, il primo presupposto per l’accesso alla misura è la richiesta dell’imputato: ai
sensi dell’art. 168-bis c.p., solo l’imputato, infatti,
in forma orale o per iscritto, personalmente o per
mezzo di procuratore speciale (nel qual caso la sottoscrizione è autenticata nelle forme previste dall'articolo 583, comma 3 c.p.p.) (art. 464-bis c.p.p.),
(5) Per la traduzione italiana dal testo ufficiale francese curata da F. Della Casa, v. Appendice, in Ordinamento penitenziario commentato, a cura di V. Grevi-G. Giostra-F. Della Casa, II,
Padova, 2011, 1549 ss.
(6) Per un’analisi delle indicazioni provenienti dalla normativa internazionale, v. M. Colamussi, Adulti messi alla prova seguendo il paradigma della giustizia riparativa, cit., 128 ss.
(7) Sull’obbligo di introdurre la mediazione penale negli ordinamenti interni, v. Raccomandazione N.R.(99) 19, 15 settembre 1999, del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa.
Successivamente, quanto all’esigenza di introdurre la mediazione in ambito penale ed all’attribuzione di valenza processuale agli eventuali accordi intercorsi tra persona offesa ed
autore del reato, v. artt. 10 e 17 Decisione quadro del Consiglio
dell’Unione europea 2001/220/GAI del 15 marzo 2001, relativa
alla posizione della vittima nel processo penale.
(8) V. per tutti M. Montagna, Sospensione del procedimento
con messa alla prova e attivazione del rito, in AA. VV., Le nuove
norme penali, Padova, 2014, in corso di pubblicazione, 4 e ss.
del dattiloscritto.
(9) A. Martini, La sospensione del processo con messa alla
prova. Un nuovo protagonista per una politica criminale già vista, in questa Rivista, 2008, 237. V., diversamente, la soluzione
prospettata dalla Commissione Pisapia nella quale si evidenziò
come «la disciplina concreta dell’istituto, per il suo carattere
fondamentalmente processuale, dovrà trovare spazio nel codice di rito» (v. Relazione finale, in www.Giustizia.it).
(10) M. Colamussi, Adulti messi alla prova, cit., 131.
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getto o quella che potrebbe emergere nel corso della sua esecuzione.
Sul versante più strettamente tecnico il nuovo
istituto è sistematicamente inserito, sul versante
sostanziale, tra le cause estintive del reato e, sul
versante processuale, fra i riti speciali: l’estinzione
del reato è, infatti, il controvalore che l’ordinamento si dichiara disposto a pagare pur di non sopportare il costo del processo e il dato capace di giustificare il suo inserimento nel contesto del codice
sostanziale; la sospensione della pronuncia di condanna, prima, e la sentenza di proscioglimento per
estinzione del reato, poi, si rivelano, invece, il forte
incentivo capace d’indurre l’imputato a rinunciare
al processo, sulla scorta di un consenso e, dunque,
di una sua libera scelta che si pone quale garanzia
ad un trattamento sostanziale e processuale lontano dall’archetipo ordinario, che ne giustifica la collocazione all’interno della disciplina dei riti speciali.
La misura si configura, così, quale formula anticipatoria di proscioglimento e corsia preferenziale
per ridurre il carico giudiziario e contenere i tempi
del processo che trova la propria disciplina equamente distribuita fra codice penale, codice di rito
penale e testi speciali, manifestando, in tal modo,
la natura ancipite del meccanismo (9) e il rapporto
di complementarietà che lega i due sistemi (10).
Condizioni oggettive e soggettive per la
concessione della misura
Diritto penale e processo 6/2014
Legislazione
Diritto e processo penale
potrà domandare la misura, sottolineando, così, la
natura consensuale del provvedimento e la implicita rinuncia al contraddittorio (art. 111 Cost.). Il
consenso dell’imputato pervade, infatti, l’intero
meccanismo della messa alla prova. La sua volontà
è elemento condizionante l’accesso al rito (art.
168-bis c.p. e art. 464-bis c.p.p.), l’attuazione del
programma trattamentale e le sue, eventuali, modifiche (art. 464-quater, comma 4, c.p.p.).
Fra le diverse opzioni prospettate nei differenti
lavori parlamentari e delle commissioni ministeriali, in conformità a quanto suggerito dalla dottrina,
e, in ogni caso, diversamente da quanto stabilito in
sede minorile - in cui non ricorre alcuna preclusione - la seconda condizione è costituita dal fatto
che la richiesta è formulabile per reati con pena
edittale massima fino a quattro anni e i reati previsti dall’art. 550, comma 2, c.p.p., già oggetto di minore allarme, in quanto assegnati alla competenza
diretta - senza, cioè, passare per il “filtro” dell’udienza preliminare” - del giudice monocratico (art.
168-bis c.p.). Quanto al parametro edittale di pena,
premesso che il richiamo alla “pena edittale” sembra escludere ogni rilievo alle circostanze aggravanti, incluse quelle per le quali la legge stabilisce una
pena di specie diversa da quella ordinaria (11), la
previsione della soglia dei quattro anni di reclusione importa che i condannati non accederebbero
comunque al carcere in esecuzione di pena, per cui
la messa alla prova sembra assicurare, dal punto di
vista degli interessi dello Stato, una maggiore efficacia ed immediatezza della risposta all’illecito pe-
nale (12). La previsione di un tale limite è, tuttavia, ampiamente criticata, posto che così statuendo
si destina l’istituto ad una limitatissima applicazione (13).
Innanzitutto la sua spendibilità risulterà fortemente ridotta all’esecuzione, da parte del Governo,
della delega in materia penale contenuta nella legge in commento (14).
In secondo luogo, il richiamo al limite edittale
“massimo” di 4 anni, esclude gli illeciti che per le
modalità di compimento non manifestano una
spiccata pericolosità sociale (reati contro il patrimonio meno rilevanti o con modalità lievi o attenuate) (15). Infine, essa comporta - in parte - una
potenziale “sovrapposizione” con la fruizione di altri benefici sostanziali (in particolare, la sospensione condizionale della pena (16)) e processuali
(oblazione, applicazione della pena su richiesta
delle parti o decreto penale di condanna) (17)
che data la parziale afflittività della misura sospensiva potrebbero risultare preferibili. Se la
messa alla prova non può essere concessa più di
una volta (art. 168-bis, comma 4, c.p.), nulla viene previsto, infatti, sul piano della concorrenza,
ad esempio, con la sospensione condizionale della
pena, per cui, onde evitare l’eccessiva impunità
dell’autore di un fatto di reato, ben avrebbe fatto
il legislatore a stabilire che se la sospensione del
processo con messa alla prova sia stata concessa
per reato punito con pena detentiva una eventuale successiva sospensione condizionale della pena
non può mai essere concessa più di una volta (18).
(11) Diversamente, l’Atto Senato n. 111 - il cui esame è stato congiunto con quello dell’Atto Senato n. 925 - attribuiva rilievo anche alle circostanze per le quali la legge stabilisce una
pena di specie diversa da quella ordinaria e di quelle ad effetto
speciale.
(12) Cfr., audizione prof.ssa Claudia Cesari, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sull’efficacia del sistema giudiziario in
relazione all’esame della proposta di legge C. 331, recante la
delega al Governo in materia di pene detentive non carcerarie
e disposizioni in materia di sospensione del procedimento con
messa alla prova e nei confronti degli irreperibili, Camera dei
Deputati, XVII° Legislatura, II° Commissione, seduta del 29
maggio 2013, Resoconto stenografico, 18.
(13) V. Proposte emendative dell’Unione delle Camere Penali Italiane su d.d.l. C 331 Ferranti ed altri in tema di detenzione domiciliare, sospensione del processo con messa alla prova
e a carico degli irreperibili, 1 e 2 in cui si prospetta la necessità
di una soglia di pena più alta di quella prevista, in quanto ciò
si inserisce coerentemente all’interno del sistema che già prevede, al di là della sospensione condizionale della pena entro i
2 anni di pena detentiva, la non espiazione nelle ipotesi di affidamento in prova al servizio sociale per ipotesi anche più gravi
(art. 656 c.p.p. e art. 47 l. n. 354/1975).
(14) L’art. 2, comma 2, lett. a) della l. n. 67/ 2014 prevede,
infatti, la trasformazione in illeciti amministrativi di tutti i reati
per i quali è prevista la sola pena della multa o dell'ammenda
con alcune limitate eccezioni.
(15) Si tenga conto del fatto che l’art. 2, comma 2, lett. m)
della l. n. 67/2014 prevede di escludere la punibilità di condotte sanzionate con la sola pena pecuniaria o con pene detentive
non superiori nel massimo a cinque anni, quando risulti la particolare tenuità dell'offesa e la non abitualità del comportamento, senza pregiudizio per l'esercizio dell'azione civile per il
risarcimento del danno e adeguando la relativa normativa processuale penale.
(16) V., oltre a D. Vigoni, La metamorfosi della pena nella dinamica dell’ordinamento, Milano, 2011, 312 ss.; G. Amato,
L’impegno è servizi sociali e lavoro di pubblica utilità, in Guida
dir., 2014, 17, 87; A. Martini, La sospensione del processo con
messa alla prova. Un nuovo protagonista per una politica criminale già vista, in questa Rivista, 2008, 239 e ss.; F. Viganò, Sulla
proposta legislativa in tema di sospensione del procedimento
con messa alla prova, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, 1300.
(17) Osserva F. Viganò, Sulla proposta legislativa, cit., 1300
come l'opzione a favore della messa alla prova avrebbe una
qualche ultrattività solo per una ristretta categorie di imputati
che potrebbero temere le conseguenze negative di una condanna o di patteggiamento (in relazione, ad esempio, al loro
interesse a concludere contratti con la pubblica amministrazione).
(18) Per una tale soluzione, v., Relazione finale della Commissione Pisapia per la riforma del codice penale. Al riguardo
si rinvia anche all’art. 48 dell’articolato (Sospensione condizionale della pena con prescrizioni e misure di controllo) nel quale
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Ulteriori appaiono, peraltro, le questioni insolute.
Così, se il rinvio al concetto di “procedimenti per
reati puniti” contenuto del nuovo art. 168-bis c.p.
risolve la possibilità di richiedere il rito alternativo nel caso di cumulo di reati all’interno del medesimo procedimento, nonostante la lettera della
norma, rimane aperta la possibilità del suo operare
allorché si proceda separatamente (19), o nel caso
in cui la contestazione riguarda più reati in continuazione fra loro, nel qual caso - si afferma - se ne
può derivare la circostanza - più favorevole al reo
- che rilevi solo la pena prevista per la fattispecie
base e per il reato più grave fra quelli contestati.
Nulla, ancora, viene detto nel caso di un concorso
di reati che raggiungano il limite editale delineato, o allorché, una volta concesso il beneficio,
vengano scoperti o sopravvengano nuovi reati,
anteriormente compiuti. Se al riguardo, infatti, il
nuovo art. 168-quater, lett. b) c.p. prevede che la
commissione, durante il periodo di prova di un
“nuovo” delitto non colposo ovvero di un reato
della stessa indole rispetto a quello per cui si precede comporta la revoca del beneficio, nulla è
previsto quanto alle fattispecie anteriormente
commesse che, dato il silenzio serbato sul punto,
sono rimesse alla discrezionalità giudiziale, benché, i precedenti progetti consentivano l’accesso
al rito speciale. Ancora, v’è da chiedersi se la concessione del beneficio una sola volta interdica la
fruizione all’interno di altri procedimenti - e in
caso di esito positivo - se all’interno di quest’ultimi, debba prevalere l’ipotesi cronologicamente
prioritaria o quella più favorevole al beneficiario
o, ancora, se essa operi solo nei confronti della
medesima o anche di altra autorità per cui un soggetto potrebbe sostanzialmente godere più di una
volta della misura quante sono le pendenze giudiziarie in corso, atteso che risulterebbe oltremodo
dannoso che la sua fruibilità dipenda da vicende
connesse alla maggiore o minore celerità investigativa o processuale.
La funzione prevalentemente rieducativa e neutralizzatrice della recidiva importa chiaramente che
la messa alla prova non possa essere concessa ai delinquenti e contravventori abituali o per professione ed ai delinquenti per tendenza, o ri-concessa al
soggetto a cui sia stata revocata o quando essa ab-
La proposta, in ragione della ratio e dello scopo
della nuova normativa, va avanzata entro termini
serrati, stabiliti a pena di decadenza e articolati secondo le sequenze procedimentali dei differenti riti. La procedura appare diversa a seconda che l’azione penale sia stata o meno esercitata. In quest’ultimo caso, la richiesta va avanzata nell’udienza
preliminare (o nell’ulteriore udienza fissata per l’integrazione delle indagini) fino alla formulazione
delle conclusioni (art. 421 e 422 c.p.p.) da intendersi, secondo quanto affermato, in tema di rito abbreviato dalle Sezioni Unite della Cassazione, al
più tardi nel momento in cui il difensore - per ciascun imputato - formula le proprie conclusioni definitive (20); qualora si proceda con rito direttissimo e nel procedimento con citazione diretta a giudizio fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento; nel giudizio immediato entro 15 gg. dalla
notifica del relativo decreto e, infine, nel procedimento per decreto nell’atto d’opposizione. Ebbene,
la legge si disinteressa, in primo luogo, di disciplinare il concorso della richiesta de qua con gli altri
riti speciali; in secondo luogo, stabilisce dei termini
eccessivamente brevi, posto che alla richiesta l’imputato deve allegare un programma di trattamento
elaborato d'intesa con l'ufficio penale di esecuzione
esterna, oppure, ove ciò non sia stato possibile,
chiedere di presentare la richiesta per la sua elabo-
è previsto che la sospensione condizionale potesse, o dovesse,
a secondo dei casi, accompagnarsi alla messa alla prova; la
norma stabiliva, infatti, che il giudice, nel sospendere l'esecuzione della pena, potesse ordinare la messa alla prova del condannato per il periodo corrispondente, per favorirne il reinserimento sociale e che in caso di seconda concessione la messa
alla prova fosse obbligatoria.
(19) V., sulla necessità di operare la separazione affinché la
persona possa beneficiare del rito speciale,Trib. Torino, ord. 25
maggio 2014, in Il Sole 24 ore, 6 giugno 2014, 48.
(20) Cass., Sez. Un., 27 marzo 2014, Frija, in www.Dirittocontemporaneo.it.
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bia avuto esito negativo, posta la palese dimostrazione dell’incapacità del condannato ad ottemperare alle misure clemenziali. Nonostante il silenzio
della legge, presupposto ostativo implicito sembrerebbe essere, peraltro, la pendenza di un’eventuale
ordinanza cautelare personale restrittiva per il procedimento in corso, considerato che la messa alla
prova comporta non solo una valutazione prognostica sulla non commissione di ulteriori reati, ma
soprattutto, l’espletamento di una serie di attività
che danno per acquisito lo stato di libertà del soggetto o, quantomeno, la pendenza di una misura
cautelare non detentiva idonea al loro assolvimento. Diversamente, l’accesso al rito speciale sembrerebbe interdetto dalla pendenza cautelare per altro
procedimento.
I tempi e il parere del P.M.
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Legislazione
Diritto e processo penale
razione (21). È palese, dunque, che i delineati periodi rendono ardua l’allegazione documentale - da
cui, peraltro, dipende la stessa concessione della
misura - per cui - si è osservato - meglio avrebbe
fatto il legislatore a prevedere che - una volta effettuata la richiesta - il corredo documentale potesse
essere presentato “fino all’udienza di valutazione” (22), anche se, così ritenendo, restano aperte
le questioni riguardanti i tempi di apprensione del
suo contenuto, anche ai fini dell’esercizio del diritto al contraddittorio.
Più articolata appare la procedura allorché la richiesta venga formulata dall’indagato nel corso
delle indagini. Replicando lo schema già previsto
per il patteggiamento, ai sensi dell’art. 464-ter
c.p.p., il giudice a cui la richiesta è presentata, informa il pubblico ministero a cui trasmette gli atti
affinché esprima il proprio consenso o dissenso nei
5 giorni successivi. Al di là del carattere ordinario
di tale limite temporale - per cui nulla può, naturalmente, fare il giudice nel caso in cui il p.m. non
si determini entro il termine stabilito -, se mal si
comprende la ragione per la quale la domanda debba essere presentata al giudice, piuttosto che direttamente al p.m., accelerando - in tal modo - le
tempistiche processuali (23), se il p.m. esprime il
“consenso”, con atto scritto e sinteticamente motivato, unitamente alla formulazione dell’imputazione, il giudice può decidere sulla messa alla prova ai
sensi dell’art. 464-quater c.p.p., ossia in udienza camerale, dovendo sentire anche la persona offesa.
In caso di dissenso, il p.m. deve enunciarne contestualmente le ragioni: nel qual caso, l’imputato
può rinnovare la richiesta prima dell’apertura del
dibattimento di primo grado e il giudice che ritenga fondata la domanda può provvedere disponendo
la messa alla prova ai sensi dell’art. 464-quater
c.p.p. Se il rinvio al concetto di consenso e dissenso rafforzano l’idea della natura negoziale del rito
alternativo, la conclusione appena raggiunta lascia
intendere - al contrario - che quello dell’organo
d’accusa si risolve - più semplicemente - in un parere non vincolante, superabile dal giudice, in
udienza, ma capace di aprire la strada al ricorso per
cassazione da parte del p.m. dissenziente. La soluzione per cui l’accusa si limita ad esprimere un parere non vincolante, trova, infatti, conforto nel
fatto che la proposta presentata (o riproposta) in
udienza importa in capo al giudice il solo onere di
“sentire” le parti e la persona offesa (eventualmente convocata), che non ha alcun potere di veto o
di opposizione, dovendo, unicamente, essere citata
e sentita (se compare), pena - unicamente in questi casi - il diritto d’impugnazione dell’ordinanza di
ammissione alla prova (24). In analoga scia si colloca, peraltro, la scarna previsione secondo la quale
in caso di reiezione dell’istanza, questa può essere
riproposta, prima della dichiarazione di apertura
del dibattimento (art. 464-quater, comma 9, c.p.p.)
e l’art. 464-quinquies, comma 3, c.p.p. in cui si stabilisce che durante il periodo di prova, il giudice,
sentiti l’imputato e il pubblico ministero, può modificare, con ordinanza, le prescrizioni originarie.
In ordine al primo aspetto, va osservato, che la legge non disciplina neppure la possibile concorrenza
fra l’eventuale ricorso per cassazione proposto avverso l’ordinanza di diniego del beneficio e la riproposizione dell’istanza in limine al dibattimento:
è chiaro, in tal caso, che secondo le regole generali, il richiedente-impugnante dovrà attendere il
provvedimento della Cassazione prima di riproporre l’istanza che, al contrario, prevale nel caso di rinuncia al ricorso.
(21) A tal fine, ai sensi dell’art. 141-ter, comma 2 disp. att.
e coord., l'imputato rivolge richiesta all'ufficio locale di esecuzione penale esterna competente affinché predisponga un programma di trattamento. L'imputato deposita gli atti rilevanti
del procedimento penale nonché le osservazioni e le proposte
che ritenga di fare.
(22) V., Proposte emendative dell’Unione delle Camere Penali Italiane, cit., 2.
(23) Cfr., G. Amato, L’impegno, op. cit., 87 ss.
(24) Così, v. G. Zaccaro, La messa alla prova per adulti. Prime considerazioni, in www.magistraturademocratica.it. Quest.
Giust., 2014, 7 .
Diritto penale e processo 6/2014
Il programma trattamentale e gli impegni
assunti dall’imputato
Come premesso, l’accesso alla messa alla prova
richiede che con l’istanza l’imputato alleghi un
programma di trattamento elaborato d'intesa con
l'ufficio di esecuzione penale esterna, oppure, posto
che sarà difficile che il progetto venga elaborato
prima che la questione venga sollevata in sede giudiziaria, la semplice richiesta per la sua predisposizione. In quest’ultimo caso, data l’assenza di una
diversa previsione, parrebbe che il giudice - acquisito, ove imposto, il consenso del p.m. - debba deliberare sulla richiesta per la realizzazione del programma senza sospendere il processo in corso, per
deliberare, solo dopo la presentazione del programma di prova, sulla sua concedibilità (o meno). Al
riguardo, mette conto osservare come nulla venga
disposto sul versante della possibile richiesta di rinvii d’udienza o termini a difesa per la produzione
679
Legislazione
Diritto e processo penale
completa degli atti da parte del richiedente, per
cui è rimessa alla prassi la risoluzione delle non poche questioni pratiche che verosimilmente sorgeranno.
Diversamente dalla disciplina dettata in sede minorile, accogliendo le sollecitazioni della dottrina,
la legge ben delinea, invece, il contenuto “minimo” e, verosimilmente, esemplificativo del programma di prova. Ponendo al centro l’imputato e
la persona offesa, la messa alla prova consiste nello
svolgimento, sotto la vigilanza dell’ufficio di esecuzione penale di una serie di impegni da ritenersi
non alternativi, ma, ove possibile, congiunti. La
prova si dovrebbe risolvere in condotte volte all'eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, nel risarcimento del danno cagionato (tanto da indurre
ad affermare che il rito possa essere attivato solo
per i reati in cui sia individuata la persona offesa)
e nella mediazione con la vittima del reato, ipotesi
- si è detto - che comporterebbe una sostanziale
“ammissione di colpevolezza” (25); nell'affidamento dell'imputato al servizio sociale e nell'osservanza
di prescrizioni relative ai rapporti con una struttura
sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al
divieto di frequentare determinati locali. Invero,
non poche incertezze investono le attività volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché il risarcimento del
danno cagionato dall’attività illecita (art. 168-bis,
comma 2, c.p.) da effettuare “ove possibile”: alla
facoltatività dell’attività si unisce, infatti, l’incerto
tenore della legge. Se ai sensi dell’art. 168 bis,
comma 2, c.p. all’eliminazione delle conseguenze
del reato si aggiunge anche la prestazione risarcitoria, prospettando così due distinte attività, a mente
dell’art. 464 bis, comma 4, lett. b), c.p.p. - al contrario - il risarcimento, la riparazione e la restituzione paiono, di per sé, capaci di elidere le conseguenze del reato (26). Ma al di là di tali deprecabili
discrasie normative, si ricorda come - in ogni caso
- esse paiono colmabili dal giudice, a cui, ai sensi
dell’art. 464-quater, comma 4, c.p.p., spetta, fra l’altro, il potere di integrare o modificare il programma di trattamento, fatto salvo il consenso dell’imputato. In assenza di un’adeguata capacità e preparazione professionale degli organi coinvolti, altrettante incertezze, sul versante esecutivo e della concreta fattibilità, pervadono, inoltre, le attività funzionali alla realizzazione della mediazione, che con
la l. n. 67 del 2014 entra a pieno titolo nel rito ordinario (27). La concessione della messa alla prova
è inoltre subordinata alla prestazione di lavoro di
pubblica utilità (28), che non deve pregiudicare le
esigenze di studio, lavoro famiglia e salute dell’imputato e va disposto fino ad un massimo di 8 ore,
mentre, con grave pregiudizio del principio di legalità, è assente ogni indicazione circa la durata massima dell’attività (art. 168-bis, comma 1, c.p.). Il
lavoro si sostanzia in una sanzione obbligatoria,
precettiva e afflittiva (29) posto che, in caso di esito negativo, il periodo di lavoro eseguito va scomputato dalla pena definitiva ex art. 657-bis c.p.p.
Trattasi, dunque, di attività che si svolgono al di
fuori del processo penale e il rischio che si corre è
quello che la sospensione del procedimento finisca
«per essere decretata sulla base della semplice volontà dell’imputato di prestare il lavoro socialmente utile» (30) anche laddove non esistano in concreto le possibilità per assecondare quella volontà,
e sulla base delle sole valutazioni dell’UEPE (31),
alterando - così - l’identità e le finalità dell’istituto.
Peraltro, dopo la concessione, all’Ufficio spetta informare periodicamente il giudice (almeno ogni tre
mesi) sull'attività svolta, sul comportamento dell'imputato, proponendo, ove necessario, modifiche
al programma di trattamento, abbreviazioni di esso,
ovvero, in caso di grave o reiterata trasgressione, la
sua revoca (art. 141-ter disp. att. c.p.p.). Per quanto tali compiti possono essere in parte svolti dalla
polizia giudiziaria e da altri enti pubblici (art. 464bis c.p.p.), è comprensibile l’incidenza che quelle
valutazioni hanno sull’applicazione e sull’intera
esecuzione della misura sospensiva, tanto da indur-
(25) V., ancora, G. Zaccaro, op. cit., 10.
(26) O. Murro, op. e loc. cit.
(27) V., M. Montagna, op. cit., 23 del dattiloscritto.
(28) Inizialmente prevista come eventuale e facoltativa è divenuta obbligatoria a seguito degli emendamenti apportati dal
Senato.
(29) Il lavoro di pubblica utilità è configurato all’art. 1 lett. i
ed l della l. n. 67 del 2014 di Delega al Governo in materia di
pene detentive non carcerarie quale sanzione per determinati
reati.
(30) Ancora, F. Caprioli, Due iniziative di riforma, cit., 8.
(31) L'ufficio riferisce, infatti, specificamente sulle possibili-
tà economiche dell'imputato, sulla capacità e sulla possibilità
di svolgere le attività riparatorie, che potrebbero condurre il
giudice a imporre delle prescrizioni capaci di soddisfare anche
l’aspetto ripartivo della concessione che, anche in un’ottica di
tutela delle esigenze di prevenzione speciale, la misura sospensiva dovrebbe assicurare. L’Ufficio, indica, altresì la possibilità di svolgere l’attività di mediazione, anche avvalendosi a
tal fine di centri o strutture pubbliche o private presenti sul territorio. Sotto tale profilo, una recente circolare emessa dal
Dott. Tamburino fornisce delle linee-guida al fine di risolvere le
prime questioni applicative sorte.
680
Diritto penale e processo 6/2014
Legislazione
Diritto e processo penale
re alcuni commentatori ad affermare che l’intero
processo decisionale sulla misura sospensiva e i suoi
effetti sono rimessi, più che ad una valutazione giudiziale, a quella di tali organismi esterni (32).
La valutazione del giudice
Al di là della declaratoria d’inammissibilità per
assenza delle condizioni oggettive o soggettive, ove
non colmabili (si pensi, fra l’altro, al caso della
mancata allegazione dell’attestato che dimostri l’inoltro della richiesta all’UEPE), il processo decisionale sulla domanda é stabilito all’art. 464-quater
c.p.p. e ricalca quello previsto in sede di patteggiamento. Nella stessa udienza in cui è avanzata la richiesta da parte dell’imputato (o in apposita udienza camerale), il giudice, se non deve pronunciare
sentenza di proscioglimento ex art 129 c.p.p., sentite le parti e la persona offesa, decide con ordinanza. A tal fine, ove si renda necessario verificare la
effettiva volontà dell’imputato, il giudice può imporre la sua comparizione personale. Sotto tale
aspetto, non è chiaro se il giudice possa soltanto
invitare la persona a rappresentargli personalmente
la richiesta o, addirittura, ordinare il suo accompagnamento coatto (33). La sospensione del procedimento con messa alla prova è disposta quando il
giudice, in base alla gravità del fatto e alla capacità
a delinquere dell’autore del fatto, reputa idoneo il
programma di trattamento e ritenga che l’interessato non commetterà nuovi reati. A tal fine, il giudice deve valutare anche che il domicilio eletto dall’imputato sia tale da assicurare la tutela della persona offesa.
La decisione, assunta previo contraddittorio quantomeno nella forma facoltativa del rito camerale -, riposa, dunque, su una duplice volontà: quella dell’imputato, come anticipato, e quella del giudice. Nessun potere di veto o d’opposizione pare
spettare alle altre parti. Al giudice è rimessa, innanzitutto, la valutazione - seppur delineata in negativo - sulla responsabilità penale dell’imputato e,
solo successivamente, sulla richiesta. Costituisce
presupposto (implicito) della misura il previo accertamento del fatto penalmente rilevante e della
responsabilità dell’imputato in ordine al medesimo.
Invero, in linea con quanto stabilito in sede di patteggiamento, sul versante delle scelte decisorie, il
legislatore ha stabilito che il giudice, investito del(32) A. Martini, op. cit., 241 ss.
(33) In tal senso, G. Zaccaro, op. cit., 7.
(34) V.M. Colamussi, La messa alla prova, Padova, 2010,
274 ss.
Diritto penale e processo 6/2014
l’imputazione, verificata l’assenza delle condizioni
idonee al proscioglimento, emette l’ordinanza di
ammissione alla prova - motivata a pena di nullità
(art. 125, comma 3, c.p.p.) - in ragione di un accertamento che non può essere caratterizzato dalla
pienezza, ma dalla sommarietà e provvisorietà, anche in ragione della fase processuale in cui trova
ingresso la messa alla prova (34). Se per alcuni
commentatori il giudizio de quo non è certo garantito dagli angusti confini dell’accertamento imposto ex art. 129 c.p.p. (35), il richiamo all’art. 133
c.p., da un lato, e i rinvii, in più parti del testo, a
“nuovi” o “ulteriori” reati commessi dall’imputato
(art. 168-quater c.p. e art. 464-quater c.p.p.), dall’altro lato, rafforzano l’impostazione per cui è necessario che il giudice giunga all’emissione dell’ordinanza dopo una completa valutazione della prova
della colpevolezza. In ogni caso, a superare la questione relativa alla “parzialità” del giudizio, sovviene il fatto che la cripto-condanna (36) è, comunque, sostenuta dal consenso dell’imputato, con cui
rinuncia al processo e accetta l’assoggettamento ad
un accertamento giurisdizionale non sorretto dal
pieno contraddittorio, sul versante probatorio (arg.
ex art. 111, comma 5, Cost.).
Eliminato qualunque automatismo applicativo,
viene lasciata al giudice la valutazione non solo
della personalità dell’imputato, ma anche dell’“idoneità” del progetto di prova, vale a dire la sua capacità ad assecondare le istanze punitive, retributive, riparatorie e inibitorie del recidivismo, quali
elementi che rafforzano la forte diversità dell’istituto destinato agli adulti, rispetto a quello per i minori. Alla funzionalità di socializzazione della personalità del minore che meglio si realizza nel contesto sociale e familiare, si contrappone, infatti,
quello volto non tanto e non solo a rieducare l’adulto autore del reato, ma anche quello di anticipare - più semplicemente - il trattamento sanzionatorio seppur attraverso delle forme alternative.
Per quanto, a tal fine, il nuovo art. 464-bis c.p.p.
prescriva che il programma - in ogni caso - debba
prevedere le modalità di coinvolgimento dell'imputato (nonché del suo nucleo familiare e del suo
ambiente di vita) nel processo di reinserimento sociale (ove ciò risulti necessario e possibile), le prescrizioni comportamentali (e gli altri impegni specifici che l'imputato assume anche al fine di elidere
(35) F. Caprioli, Due iniziative di riforma, cit., 8. In fortemente senso critico, v., per tutti, A. Martini, op. cit., 240.
(36) F. Caprioli, Due iniziative di riforma, cit., 8.
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Legislazione
Diritto e processo penale
o di attenuare le conseguenze del reato), le prescrizioni attinenti al lavoro di pubblica utilità o l'attività di volontariato di rilievo sociale e, infine, le
condotte volte a promuovere (ove possibile) la mediazione con la persona offesa, nulla viene stabilito
rispetto a quale obiettivo andrebbe valutata l’idoneità del programma; né come debba avvenire la
misurazione effettiva della sua attuazione - se non
nei limiti della neutralizzazione della recidiva -, né
della sua riuscita, aspetti che - data la rilevanza avrebbero, certamente, meritato un più compiuto
approfondimento. Analoghe perplessità circondando la determinazione circa il futuro comportamento del soggetto. A dispetto di quanto avviene nel
rito minorile, in cui tale valutazione è formulata
all’esito della prova, in questo caso, il giudice è
chiamato ad effettuare un giudizio ex ante (37).
Benché si tratti di un aspetto non estraneo alle determinazioni giudiziarie (38), v’è da osservare come
tradizionalmente si tratta di giudizi che - per quanto non semplici - conducono, tuttavia, alla non applicazione della pena nei confronti di un soggetto
ritenuto colpevole, mentre nel caso de quo la difficoltà del giudizio risulta aggravata dalla celerità dei
tempi e dal fatto che si tratta di formulare un giudizio “ora per allora”, quando l’“allora”è «terribilmente incerto e sicuramente protratto in un tempo
lontano» (39). Se - anche a tal fine - il giudice può
acquisire le informazioni “ritenute necessarie” (art.
464-bis, comma 5, c.p.p.), tramite la polizia giudiziaria, i servizi sociali o altri enti pubblici “in relazione alle condizioni di vita personale, familiare,
sociale ed economica dell’imputato” (notizie che
devono essere portate a conoscenza del pubblico
ministero e del difensore dell’imputato in modo
tempestivo, senza, peraltro, che nulla venga disposto quanto alle forme e modalità), non v’è dubbio
che anche per la formulazione di tale giudizio sarà
determinante l’apporto dell’UEPE. Per quanto come premesso - al giudice sia consentito integrare
il programma con la previsione di ulteriori obblighi
e prescrizioni, soggetti, tuttavia, al consenso (che
difficilmente verrà negato) dell'imputato, la prognosi favorevole circa l'astensione da parte dell’imputato della commissione di ulteriori reati andrà
valutata tenendo in considerazione che con la messa alla prova questi è affidato ai servizi sociali per
l’attività di supporto e cura e che sono attivati sistemi di controllo periodico da parte degli uffici locali di esecuzione penale esterna (art. 141-ter
(37) V., sempre, F. Caprioli, Due iniziative di riforma, cit., 9.
(38) Ancora, F. Caprioli, Due iniziative di riforma, cit., 8.
682
c.p.p.). In conclusione, fermo restando il potere di
rigetto, al giudice di cognizione vengono affidate
inedite valutazioni di merito e di fatto e, nel contempo, specifiche e sconosciute competenze in tema di modulazione del trattamento dell’imputato
in messa alla prova .
Altri contenuti ed effetti dell’ordinanza
La messa alla prova è disposta con ordinanza
nella quale il giudice deve stabilire il termine entro
il quale le prescrizioni e gli obblighi inerenti le
condotte riparatorie o risarcitorie devono essere
adempiute (art. 464-quinquies, comma 1, c.p.p.):
nulla si dispone, tuttavia, quanto ai criteri di individuazione della durata e l’intensità del lavoro, salvo ricorrere ai tradizioni criteri indicati all’art. 133
c.p. Diversamente da quanto previsto per la messa
alla prova nel procedimento minorile, la scadenza
è suscettibile di proroga, su richiesta dell’imputato,
una sola volta, ove sussistano gravi motivi (art.
464-quinquies, comma 1 c.p.p.). L’eventuale dilazione è ammessa solo a fronte di “esigenze”gravi
dell’imputato e, non, all’iniziativa nascente nell’ambito del controllo cui il giudice è chiamato circa l’esito della prova, mentre, invece, solo su consenso della persona offesa, il giudice può autorizzare il pagamento rateale delle somme eventualmente dovute a titolo di risarcimento del danno (art.
464-quinquies, comma 1, c.p.p.). L’ordinanza di ammissione alla prova determinerà, dalla sottoscrizione del verbale di messa alla prova dell’imputato, la
sospensione del procedimento che opera entro il
termine - stabilito nel valore massimo - di due o
un anno (rispettivamente per i reati per i quali è
prevista una pena detentiva, sola o congiunta con
la pena pecuniaria e superiore o per reati per i quali è prevista la sola pena pecuniaria). Quanto all’azione civile, si prescrive che, in tal caso, non si applica l’art. 75, comma 3, c.p.p. anche se quest’ultimo riferimento, pur nella differenziazione tra persona offesa e parte civile, non appare pienamente
comprensibile alla luce del riferito onere risarcitorio condizionante la messa alla prova.
Onde evitare che l’istituto si trasformi in una
sorta di gratuita impunità per l’imputato, si prescrive, inoltre, che durante il periodo di sospensione
del procedimento la prescrizione del reato è sospesa, anche se - si è sottolineato - quella strumentalizzazione sarebbe stata meglio tutelata ancorando
tali effetti dalla richiesta (40). Trattandosi, peral(39) Testualmente, A. Martini, op. cit., 241 ss.
(40) V., ancora, G. Zaccaro, op. cit., 5.
Diritto penale e processo 6/2014
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Diritto e processo penale
tro, di una causa sospensiva di natura personale,
non trova applicazione l’art. 161, comma 1, c.p.
L’esecuzione dell’ordinanza ammissiva
L’ordinanza favorevole é “immediatamente” trasmessa all’ufficio di esecuzione penale esterna che
dovrà prendere in carico l’imputato. Come anticipato, durante l’esecuzione della misura, l’ufficio di
esecuzione penale esterna dovrà, secondo la cadenza stabilita nel provvedimento di ammissione e comunque entro un tempo non superiore a tre mesi (41), informare il giudice dell’attività svolta dall’imputato e del suo comportamento, proponendo,
se necessario, modifiche al programma di trattamento, eventuali abbreviazioni o, in caso di grave
o reiterata trasgressione, la revoca del provvedimento di sospensione (art. 141-ter, comma 4, disp.
att. c.p.p.). Alla scadenza del periodo di prova, l’ufficio di esecuzione penale esterna, trasmette al giudice una relazione dettagliata sul decorso e sull’esito della prova medesima (art. 141-ter, comma 5,
disp. att. c.p.p.).
In ogni caso, è il giudice l’organo che sovraintende all’esecuzione della prova. Così, il giudice,
sentiti l'imputato e il pubblico ministero può modificare con ordinanza le prescrizioni originalmente
fissate nel programma, fatto salvo il limite della loro congruità rispetto alle finalità della prova in
corso (art. 464-quinquies, comma 3, c.p.p.). Mette
conto osservare come, in tal caso, la legge pretenda
unicamente che il beneficiario sia “sentito” e non
il suo consenso, diversamente da quanto richiesto,
invece, nel caso in cui il giudice ritenga di integrare o modificare il programma di trattamento (art.
464-quater, comma 4, c.p.p.). Ancora, in ragione
del carattere incidentale della sospensione, su richiesta di parte, può acquisire prove non rinviabili
e quelle che possono condurre al proscioglimento
(art. 464-sexies c.p.p.) con le modalità stabilite per
il dibattimento. Una tale possibilità tutela sia il
contenuto probatorio idoneo a sostenere l’accusa o
la difesa nell’eventuale giudizio consequenziale ad
un esito negativo della prova, sia le esigenze connesse alla presunzione di innocenza, lasciando sulle
sfondo le questioni riguardanti l’eventuale rinvenimento di prove sfavorevoli al beneficiario durante
l’esecuzione della misura.
(41) Le relazioni periodiche e quella finale devono essere
depositate in cancelleria non meno di dieci giorni prima dell’udienza, con facoltà per le parti di prenderne visione ed estrarne
Diritto penale e processo 6/2014
I controlli sui provvedimenti
Scarna e del tutto lacunosa appare la disciplina
destinata al controllo sul provvedimento: la legge
si limita a statuire che avverso l'ordinanza (positiva
o negativa) che decide sull'istanza possono ricorrere per cassazione l'imputato e il pubblico ministero,
anche su istanza della persona offesa. Quest’ultima,
invece, può impugnare autonomamente il provvedimento in caso di omesso avviso dell’udienza o di
omessa audizione nel corso dell’udienza. Il controllo sull’ordinanza sembrerebbe, dunque, limitato alle sole violazioni di legge e alle carenze motivazionali, lasciando sullo sfondo le non poche questioni
che coinvolgeranno, invece, il merito, vale a dire,
la quantità e la qualità degli obblighi e delle prescrizioni imposte, ma anche la loro possibile (o meno) esecuzione o congruità rispetto al fatto commesso e alle finalità rieducative che la sorreggono,
fermo restando, in fase di merito, il rimedio previsto dall’art. 464-quater, comma 9, c.p.p., ove si stabilisce che, se la richiesta è rigettata, essa potrà essere riproposta nel giudizio, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento (42). Analoghe
censure investono l’assenza di una disciplina circa
il rigetto o l’accoglimento della proroga. Fatta eccezione per il fatto che l’impugnazione non ha effetto sospensivo del procedimento (art. 464-quater,
comma 7, c.p.p.), la legge non pare, peraltro, distinguere con sufficiente chiarezza fra le diverse posizioni dei soggetti coinvolti i cui interessi sono,
peraltro, alquanto articolati e diversificati. Così,
nulla viene previsto circa la legittimazione del Procuratore Generale dissenziente ad impugnare il
provvedimento: se un tale potere può, infatti, essergli riconosciuto ai sensi dell’art. 570 c.p.p., sotto
tale aspetto, v’è da osservare come manchi una
qualunque forma di comunicazione che gli consenta l’esercizio de quo.
Esito positivo della prova: estinzione del
reato. Esito negativo della prova: ripresa
del processo
Decorso il periodo di prova, il giudice se, tenuto
conto del comportamento dell’imputato e del rispetto delle prescrizioni imposte, nonché della relazione finale trasmessa dall'UEPE, riterrà l’esito
positivo dovrà dichiarare, in udienza - previo avviso alle parti e alla persona offesa -, con sentenza
copia (art. 141-ter, comma 6, disp. att. c.p.p.).
(42) Per tale indicazione, v. M. Montagna, op. cit., 40 del
dattiloscritto.
683
Legislazione
Diritto e processo penale
che il reato è estinto Rimangono, invece, applicabili le sanzioni amministrative accessorie (sospensione della patente di guida o ordine di demolizione dei manufatti abusivi), vale a dire delle sanzioni
afflittive irrogate, tuttavia, a seguito di un accertamento penale sommario.
Se, al contrario, la prova ha esito negativo, il
giudice dispone con ordinanza la prosecuzione del
procedimento. Va rilevato come, fra le altre questioni manca una qualunque disciplina sull’uso delle sorti del materiale probatorio formato, anche nel
corso dell’attività di mediazione, a differenza di
quanto stabilisce in sede di rito onorario l’art. 29
d.lgs. 274/2000. La prosecuzione è disposta, altresì,
in caso di revoca. Onde evitare delle facili strumentalizzazioni dell'istituto, la revoca dell’ordinanza andrà dichiarata nel caso di grave o reiterata trasgressione al programma di trattamento o alle prescrizioni o in caso di rifiuto a prestare il lavoro di
pubblica utilità e, ancora, in caso di commissione,
durante il periodo di prova, di un nuovo delitto
non colposo ovvero di un reato della stessa indole
rispetto a quello per cui si procede. La revoca è disposta, anche d’ufficio, dal giudice, come nel caso
in cui le menzionate violazioni siano portate a sua
conoscenza dall’UEPE. Superando quelle elaborazioni per le quali la sola e semplice commissione di
talune ipotesi delittuose, nel corso della prova,
avrebbero implicato automaticamente la revoca
del beneficio, si prevede che ogni trasgressione
debba essere valutata dal giudice. Un principio
fondamentale, anche ai fini del buon funzionamento del meccanismo alternativo al processo, è quello
per cui la revoca o l’esito negativo della prova, interdice una nuova istanza di messa alla prova (art.
464-novies c.p.p.). Facendo proprie le critiche sollevate sui testi precedenti, onde assicurare i diritti
di difesa e del contraddittorio, si prescrive che il
provvedimento venga adottato all’esito di un’udienza che il giudice deve fissare dandone avviso
alle parti e alla persona offesa almeno dieci giorni
prima. L’ordinanza di revoca è unicamente ricorribile per cassazione per violazione di legge. Mentre
- si badi - nulla viene disposto quanto al provvedimento di diniego della revoca, da ritenersi, dunque, inoppugnabile. Il procedimento riprende, invece, il suo corso dal momento in cui era rimasto
sospeso, e l’esecuzione delle prescrizioni e gli obbli-
ghi imposti cessano dal momento in cui l’ordinanza
di revoca diventa definitiva.
Ad ogni buon conto, in caso di revoca o di esito
negativo della messa alla prova, nel determinare la
pena da eseguire deve tenersi conto del periodo
corrispondente a quello della prova eseguita: ai fini
della detrazione, tre giorni di prova sono equiparati
a un giorno di reclusione o di arresto, ovvero a euro 250 di multa o di ammenda (art. 657-bis c.p.p.).
Nulla viene disposto, invece, nel caso di un esito
dubbio della prova eseguita: a fronte di un andamento altalenante , si ritiene che la sospensione
possa essere prorogata, per meglio valutarne l’esito,
sempre entro il limite massimo stabilito dalla legge (43). Novellando, infine, l’art. 3 del d.P.R.
313/2002, si prescrive che l’ordinanza che dispone
la sospensione del procedimento con messa alla
prova sia iscritta per estratto nel casellario giudiziario, anche al fine di verificare, successivamente, la
sua concedibilità, posta l’inammissibilità di una duplice o più concessioni. V’è da constatare che, in
maniera del tutto improvvida, il legislatore nulla
ha disposto sul piano del diritto intertemporale,
nonostante le diversificate implicazioni che l’innesto del nuovo rito determina, anche sul piano processuale. È lasciata all’interprete la definizione della questione su come debba agire il giudice che all’atto d’entrata in vigore del rito speciale si trova a
celebrare un processo che abbia già superato la fase
processuale entro la quale la richiesta andava formulata (art. 464 bis, comma 2, c.p.p.). Invero, al di
là della censurabilità di tale scelta, alla luce delle
riflessioni formulate, una volta esclusa l’applicazione del principio del tempus regitactum, la qualità sostanziale dell’istituto (art. 168-ter, comma 2, c.p.)
impone l’osservanza delle regole stabilite all’art. 2
c.p., anche alla luce delle esperienze già maturate
in sede europea (44). A tal fine, la prima decisione
sul punto ha ritenuto che possa trovare operatività
la restituzione nel termine ex art. 175 c.p.p. (45).
(43) Così, G. Zaccaro, op. cit., 8.
(44) V. retro, R. Bartoli, La sospensione del procedimento
con messa alla prova: una goccia deflattiva nel mare del sovraf-
follamento.
(45) Trib. Torino, ord. 25 maggio 2014, in Il Sole 24 ore, 6
giugno 2014, 48.
684
Conclusioni
Alla luce delle riflessioni formulate deve, dunque, affermarsi che il nuovo rimedio, alternativo al
processo, seppur destinato ad incidere in maniera
quantitativamente limitata, non pare, tuttavia, da
sottovalutare, in quanto infrange il cerchio chiuso
di quel rapporto tra processo di cognizione e pro-
Diritto penale e processo 6/2014
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cesso d’esecuzione sul quale si reggeva finora il sistema, assegnando l’applicazione di una “pena alternativa” proprio al giudice della cognizione anziché a quello della sorveglianza e introduce innovativi meccanismi rieducativi e riparatori, determinando la riduzione della domanda penale in continua espansione. L’introduzione della sospensione
del procedimento condizionata alla prestazione del
lavoro di pubblica utilità rappresenta, unitamente
alle modifiche già attuate sul piano esecutivo e
quelle che interverranno sul profilo della pena,
una vera e propria rivoluzione, adeguando - in parte - il sistema italiano alle prescrizioni europee in
tema di messa alla prova e protezione della vittima.
Al di là delle concrete modalità di svolgimento
della misura della messa alla prova che, pur poggia
su contenuti “minimi” di un programma sufficientemente dettagliato e legalmente individuato ex
ante, e delle notevoli garanzie processuali assicurate
anche sotto il profilo del contraddittorio da sviluppare nelle diverse udienze che il giudice è tenuto sui differenti aspetti che coinvolgono la materia -
ad assicurare, dalle considerazioni fin qui formulate
appare, tuttavia, come non poche appaiono le questioni processuali che il nuovo rito speciale solleverà.
Come si è cercato di prospettare, quello varato
dal legislatore appare un testo, ancora, perfettibile,
che date le molte incombenze che ricadono sul
giudice non appare - a prima lettura - capace di assecondare - del tutto - quella deflazione processuale
che è una delle finalità che la riforma intende realizzare.
Strettamente connesso alla riuscita del meccanismo e al rafforzamento dei compiti degli uffici di
esecuzione penale esterna, è, poi, il necessario adeguamento numerico e professionale della sua pianta organica e l’immediata adozione del regolamento ministeriale che disciplinerà la stipula delle convenzioni con gli enti e organizzazioni, anche internazionali che operano in Italia, di assistenza sociale, sanitaria e di volontariato, che la legge in commento contempla (artt. 7 e 8) (46).
(46) Per ulteriori indicazioni cfr., per tutti, R. De Vito, La
scommessa della messa alla prova dell’adulto, in Quest. Giust.,
2013, 6.
Diritto penale e processo 6/2014
685
Osservatorio
Corte costituzionale
Osservatorio
Corte costituzionale
a cura di Giuseppe Di Chiara
MISURE CAUTELARI
TOSSICODIPENDENZA, REGIMI CAUTELARI E CRITERI DI
SCELTA DELLE MISURE
Corte costituzionale, sent., 13 marzo 2014 (10 marzo
2014), n. 45 - Pres. Silvestri - Est. Frigo
È infondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 89, comma 4, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (“Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza”), nella
parte in cui prevede che le disposizioni di cui ai commi
1 e 2 dello stesso articolo non si applicano quando si
procede per il delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, di cui
all’art. 74 del medesimo decreto, sollevata in riferimento agli artt. 3, 13, comma 1, 27, comma 2, e 32 Cost.
La questione
Il giudice a quo aveva dubitato della legittimità costituzionale dell’art. 89, comma 4, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309
(“Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza”), nella parte
in cui prevede che le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 dello stesso articolo non si applicano quando si procede per il
delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, di cui all’art. 74 del medesimo decreto.
La norma censurata, ad avviso del rimettente, si porrebbe
anzitutto in contrasto con l’art. 32 Cost., riservando al diritto alla salute del tossicodipendente una tutela ingiustificatamente più ridotta di quella prefigurata dagli artt. 275,
commi 4 ss., e 286 c.p.p. in rapporto ad altre situazioni,
nelle quali verrebbe del pari in rilievo l’esigenza di proteggere il diritto alla salute dell’accusato da pregiudizi, potenziali o in atto, derivanti dalla custodia cautelare in carcere.
Violato risulterebbe, altresì, secondo la prospettazione del
rimettente, l’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’ingiustificata discriminazione tra i tossicodipendenti imputati del delitto di
cui all’art. 74 d.P.R. n. 309 del 1990 e i tossicodipendenti
imputati di altri reati, rispetto ai quali trova piena applicazione il sistema delineato dai commi 1 e 2 dell’art. 89 ed è,
dunque, privilegiata l’applicazione della misura degli arresti
domiciliari finalizzata alla sottoposizione a un programma
terapeutico di recupero, salvo che ricorrano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza.
Vulnerati si paleserebbero, altresì, ancora ad avviso del giudice a quo, gli artt. 3 e 27, comma 2, Cost., tenuto conto
delle più ampie possibilità di accesso a programmi di recupero accordate ai tossicodipendenti dagli artt. 90 e 94
d.P.R. n. 309 del 1990 in sede di esecuzione della pena:
possibilità delle quali non fruisce, invece, il tossicodipen-
686
dente sottoposto a misura cautelare per il reato in questione. Il contrasto della norma sottoposta a scrutinio con l’art.
3 Cost. si strutturerebbe, ancora ad avviso del rimettente,
sull’irragionevole equiparazione delle diverse fattispecie
concrete integrative del delitto di associazione finalizzata al
traffico di stupefacenti, le quali, in un numero non trascurabile di casi, proporrebbero esigenze cautelari fronteggiabili
anche con misure diverse da quella carceraria, e segnatamente con quella degli arresti domiciliari presso una struttura di recupero per tossicodipendenti. Violato risulterebbe
altresì l’art. 13, comma 1, Cost., atteso che la norma impugnata finirebbe per imporre, senza sufficiente giustificazione, il «massimo sacrificio» del bene primario della libertà
personale. Vulnerato sarebbe, infine, l’art. 27, comma 2,
Cost., poiché il meccanismo oggetto di censura attribuirebbe al regime cautelare funzioni proprie della pena, la cui
applicazione presuppone un giudizio definitivo di responsabilità.
La decisione
Nel ritenere la quaestio priva di fondatezza sotto tutti i parametri invocati, la Corte rammenta anzitutto che l’art. 89
d.P.R. n. 309 del 1990 disegna una speciale disciplina di favore per le persone tossicodipendenti e alcooldipendenti
gravemente indiziate di reato, derogatoria rispetto ai criteri
generali di scelta delle misure cautelari personali delineati
dal codice di rito. Si tratta di una normativa più volte modificata dal legislatore, nel corso degli anni, in una prospettiva - osserva la Corte - di ricerca del più adeguato contemperamento tra le due esigenze, potenzialmente in conflitto,
che in tale quadrante vengono in rilievo: quella, da un lato,
di difesa sociale, sottesa in via generale alle misure cautelari e acuita dagli elevati rischi di recidiva; quella, dall’altro,
di disintossicazione e riabilitazione dei soggetti in discorso
attraverso opportuni programmi terapeutici, che richiedono, di regola, un trattamento extramurario.
Il dato costante alle varie versioni della norma, sul quale fa
perno - precisa la Corte - la protezione privilegiata del secondo polo di tutela, è costituito dall’innalzamento ai livelli
più elevati («esigenze cautelari di eccezionale rilevanza»)
del grado di periculum libertatis necessario affinché possa
essere disposta o mantenuta la custodia in carcere nei
confronti del tossicodipendente o dell’alcooldipendente
che abbia in corso, o intenda intraprendere, un programma
terapeutico di recupero presso idonee strutture.
La norma adesso in vigore, approdo ultimo, allo stato, dell’avvicendarsi delle diverse modifiche, prevede, in particolare, che ove ricorrano tutti i presupposti “ordinari” della
custodia cautelare in carcere, il giudice debba disporre, in
sua vece, salvo l’evidenziato limite delle esigenze cautelari
di eccezionale rilevanza, la misura extracarceraria immediatamente meno gravosa (ossia gli arresti domiciliari), quando l’indiziato sia persona tossicodipendente o alcooldipendente che abbia in corso un programma terapeutico di recupero presso i servizi pubblici o una struttura privata auto-
Diritto penale e processo 6/2014
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rizzata e l’interruzione del programma possa pregiudicare il
recupero dell’interessato (art. 89, comma 1, d.P.R. n. 309
del 1990). In termini coerenti è, poi, stabilito che, ove il tossicodipendente o l’alcooldipendente si trovi sottoposto a
custodia in carcere e intenda avviare un programma di recupero, la misura in atto deve essere sostituita, su sua
istanza, con gli arresti domiciliari, anche qui salvo che ricorrano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza (art. 89,
comma 2, d.P.R. n. 309 del 1990).
A decorrere dalla modifica introdotta dall’art. 5 d.l. 14 maggio 1993, n. 139 (“Disposizioni urgenti relative al trattamento di persone detenute affette da HIV e di tossicodipendenti”), convertito, con modificazioni, dalla l. 14 luglio
1993, n. 222, si è mantenuta costante la previsione di una
condizione negativa di operatività legata al titolo di reato
per cui si procede: nell’evidenziata prospettiva del contemperamento tra i valori in potenziale conflitto, il legislatore
ha ritenuto, infatti, di dover escludere l’applicabilità del regime cautelare di favore allorché si proceda per determinati delitti, di particolare gravità e allarme sociale, che l’art.
89, comma 4, d.P.R. n. 309 del 1990 identifica in atto - salva una limitata eccezione - in quelli elencati dall’art. 4 bis l.
26 luglio 1975, n. 354 (“Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative
della libertà”), tra i quali rientra, quale figura criminosa
ostativa, il delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, di cui all’art. 74
d.P.R. n. 309 del 1990.
Nell’assetto anteriore alla modifica introdotta nel 2009, la
soluzione normativa non implicava, peraltro, alcun tipo di
“automatismo cautelare carcerario”: il tossicodipendente
gravemente indiziato di associazione finalizzata al narcotraffico non si vedeva, in particolare, preclusa in assoluto la
possibilità di fruire degli arresti domiciliari o di altra misura
ancora meno gravosa, che gli consentisse di sottoporsi a
un programma di recupero o di proseguirlo, se già in corso. Come reiteratamente statuito in giurisprudenza, infatti,
l’inapplicabilità del regime “di favore” comportava semplicemente che spettasse al giudice individuare la misura
cautelare adeguata al caso concreto sulla base degli ordinari criteri stabiliti dal codice di rito, ispirati pur sempre al
principio del “minor sacrificio necessario” e nella cui applicazione il giudice non può evidentemente trascurare le
condizioni di salute dell’interessato, senza incorrere nel limite preclusivo della custodia carceraria legato all’assenza
di esigenze cautelari di eccezionale rilevanza.
La situazione è mutata a seguito dell’entrata in vigore del
d.l. 23 febbraio 2009, n. 11 (“Misure urgenti in materia di
sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale,
nonché in tema di atti persecutori”), convertito, con modificazioni, dalla l. 23 aprile 2009, n. 38, il cui art. 2, modificando l’art. 275, comma 3, c.p.p., ha notevolmente ampliato il
catalogo dei delitti ai quali è collegata, in via generale, una
presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia
cautelare in carcere, includendovi anche il reato associativo previsto dall’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990.
Per effetto di tale novella, il tossicodipendente gravemente
indiziato del delitto di associazione finalizzata al traffico di
stupefacenti, escluso dal regime di favore previsto dall’art.
89, commi 1 e 2, d.P.R. n. 309 del 1990, veniva automaticamente a ricadere nell’opposto regime “di rigore” prefigurato dal novellato art. 275, comma 3, c.p.p.: regime che, in
presenza delle ordinarie esigenze cautelari, peraltro presunte iuris tantum, lo rendeva assoggettabile a custodia in carcere senza alcuna possibile alternativa.
Diritto penale e processo 6/2014
Il rigido automatismo che in tal modo si era strutturato è
stato, tuttavia, rimosso per effetto della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 275, comma 3, c.p.p. nella parte in
cui non consentiva di applicare misure cautelari diverse da
quella carceraria alla persona gravemente indiziata del delitto di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, in
presenza di elementi concreti per ritenere che le esigenze
cautelari possano essere soddisfatte con misure meno afflittive (Corte cost. n. 231 del 2011, in questa Rivista, 2011,
937). In conseguenza di ciò, il tossicodipendente imputato
del delitto in questione è tornato a poter fruire, sulla base
di una valutazione “individualizzata” della singola vicenda,
anche degli arresti domiciliari finalizzati allo svolgimento di
un programma di recupero.
Proprio gli effetti prodotti dalla declaratoria di incostituzionalità del 2011, erroneamente trascurati dal giudice a quo,
rendono, ad avviso della Corte, priva di fondatezza la prospettata quaestio per erronea ricostruzione del quadro normativo.
Ciò rileva, anzitutto, in ordine alla denunciata violazione
dell’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’asserita irragionevole
equiparazione delle diverse fattispecie concrete integrative
del delitto di associazione finalizzata al traffico di stupefacenti: fattispecie che - osserva il rimettente, sulla scorta
della stessa sentenza n. 231 del 2011 - stante il carattere
“aperto” della predetta figura delittuosa, suscettibile di abbracciare fenomeni criminosi notevolmente eterogenei tra
loro, potrebbero evidenziare, in una significativa percentuale di casi, esigenze cautelari adeguatamente fronteggiabili
con misure diverse da quella carceraria, e particolarmente
con quella degli arresti domiciliari presso una comunità per
il recupero dei tossicodipendenti.
La temuta omologazione, sul livello di maggior rigore, del
trattamento cautelare delle fattispecie considerate non è,
in effetti, riscontrabile: a seguito della declaratoria di incostituzionalità del 2011, infatti, il giudice può nuovamente
valorizzare le caratteristiche del singolo episodio criminoso
al fine di diversificare la risposta cautelare; non vi sarà - osserva la Corte - una sorta di “semi-automatismo in favor”
nella concessione degli arresti domiciliari, quale quello delineato dai primi due commi dell’art. 89 d.P.R. n. 309 del
1990, ma il giudice potrà comunque disporre, sulla base
degli ordinari criteri di selezione, misure meno gravose della custodia in carcere e che agevolino la riabilitazione dell’interessato.
Il medesimo vizio di prospettiva connota, peraltro, la denunciata violazione del principio di inviolabilità della libertà
personale (art. 13, comma 1, Cost.) e della presunzione di
non colpevolezza (art. 27, comma 2, Cost.): entrambe le
censure muovono dall’erroneo presupposto secondo cui,
per effetto della norma censurata, il tossicodipendente gravemente indiziato del delitto in questione si troverebbe indefettibilmente esposto al «massimo sacrificio» del bene
primario della libertà personale, ossia alla custodia carceraria).
Insussistente si palesa, inoltre, la denunciata violazione dell’art. 32 Cost., conseguente, in assunto, al fatto che la norma censurata accorderebbe al diritto alla salute del tossicodipendente (e dell’alcooldipendente) una tutela ingiustificatamente meno energica di quella apprestata dal codice
di rito - sempre in deroga all’ordinario regime delle misure
cautelari - a favore di altre categorie di soggetti, quali la
donna incinta o madre di prole in tenera età, l’ultrasettantenne, la persona affetta da malattia particolarmente grave,
l’infermo e il seminfermo di mente (artt. 275, commi 4 ss.,
687
Osservatorio
Corte costituzionale
e art. 286 c.p.p.), ipotesi, queste ultime, nelle quali la disciplina derogatoria opera indipendentemente dal titolo del
reato per cui si procede: a tacer d’altro, il giudice a quo pone a raffronto situazioni palesemente eterogenee e tali,
dunque, da rendere del tutto legittimo un trattamento differenziato, come, peraltro, fatto chiaro dalla significativa diversità tra loro dei singoli regimi derogatori richiamati. Il
nucleo incomprimibile del diritto alla salute del tossicodipendente resta - sottolinea la Corte - in ogni caso salvaguardato dalla stessa regola di cui all’art. 275, comma 4
bis, c.p.p., in forza della quale la custodia in carcere non
può essere disposta o mantenuta quando le condizioni di
salute dell’interessato, per la loro gravità, risultino incompatibili con lo stato di detenzione e comunque tali da non
consentire adeguate cure in ambito carcerario.
Del pari non ravvisabile è l’ipotizzata violazione dell’art. 3
Cost., sotto il profilo dell’ingiustificata discriminazione tra i
tossicodipendenti gravemente indiziati del delitto di cui all’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990 e quelli indiziati di altro
delitto, che possono invece fruire della speciale disciplina
di cui discute: anche in questo caso, infatti, il rimettente
pone a confronto fattispecie disomogenee. Come costantemente rimarcato dalla giurisprudenza costituzionale, il legislatore non può, senza violare gli artt. 3, 13, comma 1, e
27, comma 2, Cost., collegare al titolo di reato per cui si
procede, facendo leva semplicemente sulla sua gravità
astratta e sull’allarme sociale da esso destato, una presunzione assoluta di adeguatezza esclusiva della custodia cautelare in carcere: può legittimamente collegarvi, invece,
una presunzione relativa, basata sull’apprezzamento dell’ordinaria configurabilità di esigenze cautelari particolarmente intense, ma comunque superabile da elementi probatori di segno contrario, posto che la presunzione iuris
tantum lascia sufficiente spazio all’apprezzamento giudiziale delle singole fattispecie e all’applicazione del principio
del “minor sacrificio necessario”.
Allo stesso modo, e a fortiori, il legislatore può, dunque,
nella sua discrezionalità e salvo il limite della ragionevolezza, escludere da un regime cautelare di favore, quale quello in esame, i soggetti indagati o imputati per determinati
reati, avuto riguardo alla loro gravità e alla pericolosità soggettiva da essi solitamente desumibile, a condizione che
ciò non comporti l’assoggettamento dell’interessato a un
indiscriminato “automatismo sfavorevole”, che precluda
688
ogni apprezzamento delle singole vicende concrete; situazione, questa, non più riscontrabile nell’ipotesi sottoposta a
scrutinio, proprio a seguito della declaratoria di incostituzionalità del 2011.
Priva di fondatezza s’è ritenuta, da ultimo, anche la censura di violazione degli artt. 3 e 27 Cost., avuto riguardo alle
ampie possibilità di accesso accordate, in sede di esecuzione della pena detentiva, ai tossicodipendenti condannati in
via definitiva, tramite gli istituti della sospensione dell’esecuzione e dell’affidamento in prova al servizio sociale (artt.
90 e 94 d.P.R. n. 309 del 1990). A prescindere da ogni altra
possibile obiezione e, in particolare, dal rilievo che tali istituti sono, a loro volta, soggetti a un distinto insieme di condizioni e limiti di operatività, privo di corrispondenza in rapporto alle misure cautelari, la Corte ha ritenuto assorbente
il rilievo che il rimettente prospetti, ancora una volta, un
raffronto tra situazioni eterogenee, come tali non utilmente
comparabili, «essendo manifestamente diversa la condizione personale implicata (di imputato in un caso, di condannato nell’altro) e la funzione (cautelare, ovvero emendativa
e retributiva, rispettivamente) dei corrispondenti istituti
evocati» (così già Corte cost. n. 339 del 1995).
I precedenti
La pronuncia si innesta nello scenario perimetrato dalla
complessa manovra di rimozione dei rigidi automatismi
nella scelta delle misure cautelari operata a partire da Corte
cost. n. 265 del 2010, in questa Rivista, 2010, 1150 e proseguito da Corte cost. n. 164 del 2011, ivi, 2011, 673, n. 231,
ibid., 937 e n. 331 del 2011, ivi, 2012, 25, n. 110 del 2012,
ibid., 671, n. 75 del 2013, ivi, 2013, 769, n. 213 del 2013,
ivi, 2013, 1030, n. 232 del 2013, ibid., 1032.
La dottrina
Su Corte cost. n. 231 de l 2011, che occupa un ruolo centrale nel quadro della pronuncia in esame, cfr. G. Tabasco,
Illegittima l’obbligatorietà della custodia carceraria per il traffico illecito di sostanze stupefacenti, in questa Rivista, 2012,
171 ss. Per un’analisi degli sviluppi della giurisprudenza costituzionale in tema di automatismi cautelari cfr., di recente, V. Manes, Lo “sciame di precedenti” della Corte costituzionale sulle presunzioni in materia cautelare, ivi., 2014, 457
ss.
Diritto penale e processo 6/2014
Osservatorio
Sezioni unite
Osservatorio Corte
di cassazione - Sezioni Unite
a cura di Alfredo Montagna
PROSTITUZIONE MINORILE
ATTI SESSUALI CON MINORE DEGLI ANNI 18
E REATO CONFIGURABILE
Cassazione penale, Sez. Un., 14 aprile 2014 (p.u. 19 dicembre 2013), n. 16207 - Pres. Santacroce - Rel. Fiale P.M. Destro (conf.) - Ric. Serra
La condotta di promessa o dazione di denaro o altra utilità, attraverso cui si convinca un soggetto di età compresa tra quattordici e diciotto anni ad intrattenere rapporti sessuali, anche esclusivamente con il soggetto
agente, integra gli estremi della fattispecie di cui al
comma secondo dell’art. 600 bis c.p.
Il caso
Con ordinanza del 11 giugno 2013 la terza sezione della
Corte chiedeva l’intervento delle sezioni unite per dare risposta alla questione se il concetto di induzione alla prostituzione minorile fosse integrato dalla sola condotta di promessa o dazione di denaro o altra utilità, posta in essere
nei confronti di persona minore di età, al fine di convincerla
a compiere atti sessuali anche con il solo soggetto agente.
In particolare il ricorrente si doleva che la propria condotta
fosse stata inquadrata nella ipotesi di cui al comma primo
dell’art. 600 bis c. p. in luogo di quella, minore, di cui al
comma successivo.
La introduzione del concetto di induzione con riferimento
alla prostituzione minorile si è avuto con la l. 3 agosto
1998 n. 269 (c.d. legge contro la pedofilia, promulgata per
dare seguito alla Convenzione di New York del 1989 sui diritti del fanciullo, ed alla dichiarazione finale della Conferenza di Stoccolma del 31 agosto 1996), il cui art. 18 ha inserito nel codice penale l’art. 600 bis, sulla base della trasformazione del dato della minore età della persona offesa da
circostanza aggravante a elemento costitutivo di un autonomo reato.
La disposizione di cui all’art. 600 bis c. p. è stata poi oggetto di modificazioni con la l. 6 febbraio 2006 n. 38, attuativa
della decisione quadro 2004/68/GAI sulla lotta contro lo
sfruttamento sessuale dei minori.
Una ultima modifica si è poi avuta con la l. 1 ottobre 2012
n. 172, di ratifica della Convenzione del Consiglio d’Europa
per la protezione dei minori, che non ha però spostato i termini della questione.
La premessa concettuale era quella della specificazione del
termine “induzione alla prostituzione” (rispetto al quale le
eventuali pregresse esperienze del minore erano state ritenute compatibili con la configurabilità del reato), nella sua ulteriore specificazione con riferimento alla “prostituzione minorile”, ove la giurisprudenza non richiedeva quelle condotte ulteriori, rispetto alla dazione, necessarie per la configurabilità
dell’induzione nei confronti di soggetto maggiorenne. Rendendosi sul punto necessario chiarire se le esigenze di tutela
Diritto penale e processo 6/2014
del minore dovesse giustificare una interpretazione differente
dei termini “prostituzione” ed “induzione” nel passaggio da
quella “ordinaria” a quella “minorile”.
Come secondo aspetto occorreva precisare se anche la attività di induzione a compiere atti sessuali con il solo proponente andasse inquadrata nell’ipotesi di cui all’art. 600 bis c.
p., ed in particolare nel primo o nel secondo comma, attesa
la rilevante differenza in tema di trattamento sanzionatorio
(L’art. 600 bis c.p. prevede, al comma primo, la reclusione da
sei a dodici anni oltre la multa per chi «recluta, indice, favorisce, sfrutta, gestisce, organizza, controlla» la prostituzione di
un minore; ed al comma secondo la reclusione da uno a sei
anni per chi «compie atti sessuali con un minore... in cambio
di un corrispettivo in denaro o altra utilità»).
La pregressa giurisprudenza della Corte si era attestata sulla ipotizzabilità della più grave ipotesi di cui al primo comma in caso di plurimi rapporti con il minore da parte del solo soggetto agente, talvolta a condizione che oltre alla dazione della utilitas si fosse svolta una attività di convincimento volta ad influire sulle determinazioni del minore. Più
di recente la stessa sezione aveva precisato che in caso di
assenza della interferenza con la volontà del minore si rientrasse nella più lieve ipotesi di cui al comma secondo dello
stesso art. 600 bis.
La decisione
Le Sezioni Unite, dopo avere ripercorso le successioni normative avutesi in materia, ha posto a base della propria riflessione le differenze tra la più grave ipotesi di cui al primo
comma dell’art. 600 bis c. p.p.. destinata a reprimere coloro che avviano i minori all’attività di prostituzione, e quella
di cui al comma secondo, funzionale alla punizione di coloro che “si limitano” a compiere atti sessuali a pagamento
con soggetti minori.
Infatti le considerazioni che vengono svolte sulla libertà di
prostituzione dei soggetti maggiorenni non valgono per la
prostituzione dei minori, in quanto l’atto sessuale compiuto
dal minore prostituito non può essere inquadrato in un’area
di libertà; e di ciò il cliente del minore non può non essere
a conoscenza.
Da tale assenza di libertà della prostituzione minorile discende la punibilità delle condotta del cliente, che diversamente è immune da sanzione penale se viene in rapporto,
sempre da cliente, con la prostituzione del soggetto adulto.
Se tale è la logica punitiva del cliente del prostituito minorenne, osserva il Collegio, la condotta di induzione alla prostituzione minorile, per essere penalmente rilevante, deve
essere sganciata dal rapporto sessuale singolo, ma deve
avere riguardo alla prostituzione esercitata nei confronti di
terzi, anche identificabile in un solo soggetto (che non sia
l’induttore).
A comprova della correttezza della scelta operata la decisione ha evidenziato che ragionando diversamente, ovvero
nel senso che il semplice cliente del sesso a pagamento
con il minore realizzerebbe il reato di cui al comma primo
689
Osservatorio
Sezioni unite
dell’art. 600 bis c. p., si determinerebbe la abrogazione implicita dell’ipotesi di reato di cui al comma secondo.
In considerazione di quanto sopra la Corte ha affermato
che la condotta di promettere o dare denaro o altra utilità,
attraverso cui si convinca una persona di età compresa tra
i quattordici ed i diciotto anni ad intrattenere rapporti sessuali esclusivamente con il soggetto agente, integra gli
estremi della fattispecie di cui al comma secondo dell’art.
600 bis c.p., e non quella di induzione alla prostituzione di
cui al comma primo dello stesso articolo.
I precedenti
Cass., Sez. III, 4 luglio 2006 n. 33470, Cantoni, in Ced Cass.
234787;Cass., Sez. III, 14 aprile 2010 n. 18315, R.S., ivi,
247163; Cass., Sez. III, 19 maggio 2010 n. 26216, F., ivi,
247696; Cass., sez. III, 11 gennaio 2011 n. 4235, F, ivi,
249316; Cass., Sez. III, 7 febbraio 2013 n. 16759, Gerbino,
ivi, 255453.
La dottrina
G. Ariolli, Commento all’art. 600 bis c.p., in Codice penale, a
cura di Lattanzi-Lupo, vol. XI, tomo II, Milano, 2010; R. Borgogno, I delitti di prostituzione minorile, in AA VV I reati sessuali, a cura di F. Coppi; Torino, 2007; A. Cadoppi, Commentario delle norme contro la violenza sessuale e contro la pedofilia, Padova, 2006; V. Musacchio, Sul concetto di prostituzione
nella nuova normativa penale contro lo sfruttamento sessuale
dei minori, in Giur. merito, 199, 4/5; G. Pioletti, voce Prostituzione, in Digesto della discipline penalistiche, Torino, 1995.
RESPONSABILITÀ DELLE PERSONE GIURIDICHE
SEQUESTRO PREVENTIVO DEL PROFITTO DEL REATO
E SEQUESTRO PER EQUIVALENTE NEI REATI TRIBUTARI
Cassazione penale, Sez. Un., 5 marzo 2014 (c.c. 30 gennaio 2014), n. 10561 - Pres. Santacroce - Rel. Davigo P.M. Destro (diff.) - Ric. Gubert
Il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di denaro o altri beni direttamente riconducibili al profitto del
reato tributario commesso dagli organi della persona
giuridica è consentito quando tale profitto o beni siano
nella disponibilità della persona giuridica.
Non è consentito il sequestro preventivo finalizzato alla
confisca per equivalente nei confronti di una persona
giuridica, salvo che la persona giuridica sia uno schermo fittizio.
Il caso
Con ordinanza n. 46726 del 30 ottobre 2013, dep. Il 22 novembre 2013, la terza sezione della Corte chiedeva l’intervento delle sezioni unite per dare risposta alla questione se
fosse possibile o meno aggredire direttamente i beni di una
persona giuridica per le violazioni tributarie commesse dal legale rappresentante della stessa.
Vertendo il giudizio in in tema di reati tributari, l’ordinanza
ricordava che il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente poteva essere disposto non solo per il
prezzo, ma anche per il profitto del reato, in ragione dell’integrale rinvio alle disposizioni di cui all’art. 322 ter c.p.,
contenuto nell’art. 1, comma 143, della l. n. 204 del 2007,
e come tale indirizzo fosse stato confermato dalla modifica
apportata all’art. 322 ter c.p. dall’art. 1, comma 75, lett. o)
della l. 6 novembre 2012, n. 190, che ha espressamente
690
esteso l’ambito della confisca per i delitti previsti dagli artt.
da 314 a 320 c.p. anche al profitto.
In realtà l’esame delle Sezioni Unite doveva tenere conto di
ben tre diverse questioni.
La prima riguardava la possibilità o meno di disporre la
confisca diretta del profitto nel patrimonio della società il cui
legale rappresentante sia l’autore del reato tributario.
La seconda era la sempre discussa individuazione dei presupposti in presenza dei quali è possibile procedere alla
c.d. confisca per equivalente.
La terza riguardava la possibilità o meno di disporre la confisca per equivalente dei beni della società il cui legale rappresentante sia l’autore del reato tributario.
La giurisprudenza di legittimità aveva in più occasioni ammesso la possibilità che un sequestro preventivo, finalizzato alla confisca, potesse avere ad oggetto il profitto esistente nel patrimonio di un ente, per un fatto- reato commesso dalla persona fisica.
La questione oggetto di maggiore contrasto era quella relativa ai presupposti in presenza dei quali era possibile disporre la confisca per equivalente.
In proposito si confrontavano due orientamenti, il primo
dei quali riteneva possibile tale sequestro anche in assenza
della prova che la società fosse stata costituita al fine di
farvi confluire i proventi degli illeciti finanziari, osservando
che la confisca per equivalente prescinde dalla pericolosità
della cosa oggetto della misura ablatoria, in quanto il sequestro è esclusivamente finalizzato a garantire la successiva acquisizione di detto bene.
Per tale orientamento mentre il reato è addebitabile allo indagato, le conseguenze patrimoniali ricadono sulla società
a favore della quale la persona fisica ha agito, salvo che si
dimostri che vi è stata una rottura del rapporto organico;
ciò in quanto, si sosteneva, la società ricorrente non poteva
considerarsi terza estranea al reato perché partecipa alla
utilizzazione degli incrementi economici che ne sono derivati. In questa ottica veniva altresì respinta la censura sulla
impossibilità della società di fare valere le proprie ragioni in
sede giudiziaria, perché la stessa ha la possibilità di proporre istanza di riesame e successivo ricorso per Cassazione,
nel quale poteva interloquire, difendersi ed evidenziare le
censure a sostegno del suo assunto.
Più recentemente la terza sezione aveva però scelto una diversa opzione sostenendo che il sequestro preventivo, funzionale alla confisca per equivalente, previsto dall'art. 19,
comma secondo, del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, non potesse essere disposto sui beni immobili appartenenti alla
persona giuridica ove si proceda per le violazioni finanziarie
commesse dal legale rappresentante della società, atteso
che gli artt. 24 e ss. del citato decreto legislativo non prevedono i reati fiscali tra le fattispecie in grado di giustificare
l'adozione del provvedimento; con la sola esclusione dell'ipotesi in cui la struttura aziendale costituisca un apparato
fittizio utilizzato dal reo per commettere gli illeciti.
In tal modo veniva ad essere superata la alterità della soggettività giuridica riconosciuta all’ente rispetto alle persone
fisiche che agiscono per esso e nell’interesse di esso (salvo
il caso sopra richiamato).
La decisione
La Corte ha preliminarmente sottolineato la distinzione fra
confisca diretta del profitto del reato e confisca per equivalente, con la evidenziazione che nella nozione di profitto
funzionale alla confisca rientrano non soltanto i beni appresi per effetto diretto dell’illecito, ma anche le altre utilità
conseguenza mediata dell’attività criminosa.
Diritto penale e processo 6/2014
Osservatorio
Sezioni unite
Su tale base non vi è dubbio che la confisca del profitto del
reato sia possibile anche nei confronti di una persona giuridica per i reati commessi dal legale rappresentante o da altro organo della persona giuridica, allorché il profitto sia rimasto nella disponibilità della stessa.
Il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, ricorda la Corte, è legittimo allorché il reperimento
dei beni costituenti il profitto del reato sia impossibile, anche transitoriamente, o quando gli stessi non siano aggradi
bili per qualsiasi ragione.
In proposito la decisione evidenzia che il rapporto fra ente
e suo organo non è, di per sé, suscettibile di fondare l’estensione della confisca per equivalente, atteso che nel vigente ordinamento è prevista solo una responsabilità amministrativa, e non una responsabilità penale, degli enti (ai
sensi del d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231), che non possono
essere né autori né concorrenti nel reato.
La motivazione aggiunge che la confisca per equivalente
sui beni societari non può nemmeno fondarsi sull’asserzione che l’autore del reato ne ha la disponibilità in quanto
amministratore, in quanto tale disponibilità è nell’interesse
dell’ente e non dell’amministratore.
Né alcuna fonte normativa depone in senso positivo per tale forma di confisca, in quanto il citato decreto legislativo
(artt. 19 e 24) non prevedono i reati fiscali tra le fattispecie
in grado di giustificare l’adozione di tale provvedimento (la
confisca per equivalente introdotta per i reati tributari dall’art. 1, comma 143, della l. 27 dicembre 2007 n. 244, ha
natura sanzionatoria, come precisato da Sez. Un. 31 gennaio 2013, Adami). Neppure può farsi riferimento all’art.
322 ter c.p.p., in quanto questo si applica all’autore del reato, che, come precisato, non è la persona giuridica.
Pertanto, afferma il Collegio, la confisca per equivalente
sui beni della persona giuridica per reati tributari commessi
da suoi organi, non è possibile, salva l’ipotesi che la perso-
Diritto penale e processo 6/2014
na giuridica sia in concreto priva di autonomia e rappresenti solo uno schermo attraverso cui l’amministratori agisce
come effettivo titolare (nell’attesa dell’auspicato inserimento dei reati tributari nell’elenco di cui al d.lgs. n. 231).
I precedenti
Sulla confisca del profitto nel patrimonio societario: Sez. III, 9
maggio 2012, dep. 4 ottobre 2012, n. 38740, Sgarbi, in
Ced Cass. 254795; Sez. III, 14 maggio 2013, dep. 31 luglio
2013, n. 33182, De Salvia, ivi, 255871; Sez. I, 8 luglio 1991,
n. 3118, Soc. Capital Finanziaria Italiana s.r.l., ivi, 188391;
Sez. I, 9 dicembre 2004, n. 1927/’05, P.C. in proc. Ambrono, ivi, 230905; Sez. III, 3 dicembre 2003, dep. 9 gennaio
2004, n. 299, Andrisano, ivi, 227220.
Sulla confisca per equivalente: Sez. VI, 12 ottobre 2010,
dep. 1 dicembre 2010, n. 42703, Giani, N.M., inedita; Sez.
II, 10 dicembre 2008, n. 2823/09, Schiattarelle, in Ced
Cass. 242653; Sez. VI, 29 marzo 2006, n. 24633, Lucci, ivi,
234729; Sez. III, 5 maggio 2009, dep. 24 luglio 2009, n.
30930, Pierro, ivi, 244934; Sez. II, 17 aprile 2007, dep. 21
maggio 2007, n. 19662, D’Antuono, ivi 236592; Sez. V, 3
luglio 2002, n. 32797, P.M. in proc. Silletti, ivi, 222741.
La dottrina
Pisani, Reati tributari del rappresentante legale della persona
giuridica e sequestro per equivalente, in Il Fisco, 2011, Approfondimento, 4696; Potetti, La disponibilità dei beni nella confisca per equivalente per i reati tributari, in Riv. pen., 2012,
1071; D’Arcangelo, La responsabilità degli enti per i delitti tributari dopo le SS.UU. 1235/2010, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 2011, 125; Corso, Reati tributari e persone giuridiche: ancora un forte richiamo al principio
di legalità, in Corr. Trib. 2013, 619; Caraccioli, Reati tributari
contestati a dirigenti dell’istituto bancario ed inapplicabilità della confisca per equivalente, in Riv. dir. trib., 2012, 358.
691
Osservatorio
Diritto penale
Osservatorio Corte
di cassazione - Diritto penale
a cura di Stefano Corbetta
CIRCOSTANZE
PREMEDITAZIONE E L’AVER AGITO CON MOTIVI
DI CRUDELTÀ: QUALI I PRESUPPOSTI?
Cassazione penale, Sez. I, 5 maggio 2014 (u.p. 5 marzo
2014), n. 18332 - Pres. Siotto - Rel. Caizzo - P.M. Mura
(conf.) - Ric. L.L.
L’aggravante della premeditazione è configurabile anche nel caso in cui l’agente abbia condizionato l'attuazione del proposito criminoso alla mancata verificazione di un evento ad opera della vittima, quando la condizione risolutiva si pone come un avvenimento previsto,
atto a far recedere la precisa e ferma risoluzione criminosa del reo.
La reiterazione di colpi di coltello può integrare l'aggravante dell'avere agito con crudeltà qualora, per il numero dei colpi inferti, non sia soltanto funzionale al delitto,
ma costituisca espressione della volontà di infliggere alla vittima sofferenze che esulano dal normale processo
di causazione dell'evento morte.
Il caso
La Corte di assise d'appello di Bologna confermava la sentenza resa dal g.u.p. del Tribunale di Forlì, a seguito di giudizio abbreviato, che aveva affermato, tra l’altro, la penale
responsabilità dell’imputato per il delitto di omicidio in danno dell’ex fidanzata con le aggravanti dell’aver agito con
premeditazione, per motivi abietti e con crudeltà ed efferatezza. Ad avviso dei giudici di merito, la sussistenza della
premeditazione era desumibile dal fatto che l’imputato non
solo si era procurato per tempo i mezzi per la realizzazione
dell’omicidio, ma aveva predisposto un piano per la fuga,
rubando uno scooter e procurandosi la somma di 4.000 euro; ulteriori elementi dimostrativi della premeditazione si
potevano desumere dalle annotazioni sul diario, nel quale
l'imputato aveva scritto della soluzione finale vicina e della
sua definitiva decisione di punire adeguatamente la sua
donna per l'abbandono consumato ai suoi danni. Quanto
all’aggravante della crudeltà, essere era stata ravvisata sulla base delle sequenze e delle modalità coltellate: dopo essere caduta a terra a cause dei primi colpi che l’avevano attinta al torace, la ragazza, che si trovava in stato preagonico, era stata ripetutamente colpita dall'imputato con ulteriori coltellate al capo, una delle quali penetrava nella regione orbitale sinistra e un'altra cagionava la parziale avulsione del padiglione auricolare sinistro, di tal che queste ultime, secondo i giudici di merito, apparivano tese più a cagionare sofferenze e a sfigurare la vittima, che a cagionarne la morte. Infine, in relazione alla sussistenza
dell’aggravante dei motivi abietti, i giudici avevano valorizzato la circostanza che l'uccisione della ragazza fosse stata
decisa per puro spirito vendicativo e con chiaro intento
vessatorio. Nel ricorrere per cassazione, la difesa dell’impu-
692
tato deduceva l’erronea applicazione della legge penale e il
difetto di motivazione a proposito delle ritenute aggravanti
della premeditazione, dell'aver agito con crudeltà e con efferatezza, e per motivi abietti; in particolare, ad avviso della
difesa l'omicidio non può essere considerato premeditato
nel caso in cui sia stato sottoposto a condizione proprio
perché non è presente un fermo proposito di commettere il
delitto.
La decisione
La Corte ha accolto il solo motivo incentrato sul difetto di
motivazione dell’aggravante dei motivi abietti. Quanto alla
premeditazione, la Corte ha ribadito il costante insegnamento secondo cui, per l’integrazione dell’aggravante in
esame, sono necessari due requisitivi, «uno di natura cronologica, costituito da un apprezzabile lasso di tempo fra
l'insorgenza del proposito criminoso e la attuazione di esso
e l'altro di carattere ideologico, consistente nelle ferma risoluzione criminosa perdurante nell'animo dell'agente, senza soluzioni di continuità, fino alla commissione del crimine». Nel caso di specie, la Corte di assise d'appello aveva
desunto che il delitto fosse stato accuratamente preparato
da una serie di indici fattuali assai significativi: le annotazioni di vendetta per l'abbandono ingiustificato consumato
ai suoi danni dall’ex fidanzata rinvenute nel diario tenuto
dall'imputato; la preparazione di uno zaino fornito del necessario per la sopravvivenza da fuggitivo; il furto di un
motoscooter da utilizzare per commettere il delitto e fuggire; la predisposizione di una via di fuga e di una somma di
denaro per assicurarsi per qualche tempo l'impunità. La
Corte ha poi confutato l’assunto difensivo secondo cui l'aggravante non è configurabile nel caso, ritenuto plausibile
dai giudici di merito nel ricostruire la vicenda, che l'imputato avesse deciso di uccidere, solo se la ragazza si fosse rifiutata di tornare con lui. La Cassazione ha affermato che
«non osta alla configurabilità dell'aggravante della premeditazione il fatto che il soggetto agente abbia condizionato
l'attuazione del proposito criminoso alla mancata verificazione di un evento ad opera della vittima, quando la condizione risolutiva si pone come un avvenimento previsto, atto
a far recedere la precisa e ferma risoluzione criminosa del
reo». In altri termini, l’aggravante è ravvisabile anche «nel
caso in cui è stata presa la ferma risoluzione di uccidere la
persona, se la stessa continua ad opporre un rifiuto ad una
determinata richiesta», proprio perché «sotto l'aspetto logico, la decisione di uccidere ben può essere considerata ferma, anche se condizionata al verificarsi di una determinata
risposta». La Corte ha quindi affermato che, correttamente,
i giudici di merito si erano adeguati all’indirizzo secondo
cui «la reiterazione di colpi di coltello può integrare l'aggravante dell'avere agito con crudeltà qualora, per il numero
dei colpi inferti, non sia soltanto funzionale al delitto, ma
costituisca espressione della volontà di infliggere alla vittima sofferenze che esulano dal normale processo di causazione dell'evento morte»; nel caso si specie, l’aggravante
Diritto penale e processo 6/2014
Osservatorio
Diritto penale
era stata esattamente ravvisata in ragione dei colpi inferti
alla vittima, quando ormai si trovava a terra in stato agonico, finalizzati a provocare ulteriori sofferenze alla vittima.
Quanto, invece, all'aggravante dei motivi abietti, la Cassazione ha censurato la sentenza impugnata, la quale non
aveva preso in esame, anche per confutarlo, il motivo di
appello, secondo cui l’imputato aveva agito non per spirito
di sopraffazione e volontà punitiva, ma sotto l'impulso di
una forte spinta emotiva causata dall'attaccamento all’ex
fidanzata e da una reazione, al limite del patologico, per la
frustrazione di essere stato abbandonato dalla sua ragazza.
Pertanto, sul punto, la sentenza impugnata è stata annullata con rinvio per omessa motivazione su uno specifico motivo d'appello.
I precedenti
Sugli elementi costitutivi della premeditazione, cfr., per tutti, Cass., Sez. Un., 18 dicembre 2008, Antonucci, in questa
Rivista, 2009, 301. Nel senso che è ravvisabile la premeditazione anche nel caso in cui l’evento dedotto in condizione dipenda dalla volontà della vittima cfr., di recente, Cass.,
Sez. I, 12 febbraio 2013, Zuica, in Ced Cass. n. 256180.
Sulla configurabilità dell’aggravante dell’aver agito con crudeltà nel caso in cui reiterazione di colpi di coltello costituisca espressione della volontà di infliggere alla vittima sofferenze che esulano dal normale processo di causazione dell'evento morte cfr., da ultimo, Cass. Sez. I, 28 maggio
2013, Iania, ivi n. 256476.
La dottrina
L. Alibrandi, Appunti in tema di premeditazione, in Riv. pen.,
988, 150; M. Angioni, La premeditazione nel sistema del
nuovo codice penale: suo esame critico, Napoli, 1933, passim; V. Catalano, voce Premeditazione, in Enc. dir., XXXIV,
1985, 1023 ss.; A. Malinverni, voce Circostanze del reato, in
Enc. dir., VII, 1960, 66 ss.; D. Maltese, L’aggravante delle
sevizie o della crudeltà, in Foro it., 2009, II, 397 ss.; A. Manna, voce Circostanze del reato, in Enc. giur. Treccani, VI,
1988; T. Padovani, voce Circostanze del reato, in Dig. disc.
pen., II, 1988, 187 ss.
DELITTI CONTRO IL PATRIMONIO
ESTORSIONE E TRUFFA AGGRAVATA
DALLA PROSPETTAZIONE DI UN PERICOLO IMMAGINARIO:
QUALE DIFFERENZA
Cassazione penale, Sez. II, 20 maggio 2014 (u.p. 6
maggio 2014), n. 20656 - Pres. Gentile - Rel. Gallo P.G. Spinaci (parz. diff.) - Ric. G.G. e altro
A proposito della differenza tra i delitti ex art. 640, comma 2, n. 2 e 629 c.p., integra il delitto di truffa la condotta di colui che prospetti un male possibile ed eventuale,
in ogni caso non proveniente direttamente o indirettamente da chi lo prospetta, in modo che la persona offesa non sia coartata, ma si determini alla prestazione,
costituente l'ingiusto profitto dell'agente, perché tratta
in errore dall'esposizione di un pericolo inesistente;
mentre si configura l'estorsione se il male viene indicato come certo e realizzabile ad opera del reo o di altri,
poiché in tal caso la persona offesa è posta nell'ineluttabile alternativa di far conseguire all'agente il preteso
profitto o di subire il male minacciato.
Diritto penale e processo 6/2014
Il caso
La Corte d’appello di Torino confermava la sentenza del
Tribunale di Saluzzo, che aveva condannato i due imputati,
tra l’altro, per i delitti di reati di concorso in estorsione,
consumata e tentata; la Corte territoriale respingeva le censure mosse con l'atto d'appello, in punto di sussistenza degli estremi della minaccia e di qualificazione giuridica dei
fatti. Tra i motivi di ricorso per cassazione, le difese degli
imputati deducevano la mancanza di motivazione in ordine
alla mancata derubricazione del reato di estorsione in quello di truffa commessa ingenerando nella persona offesa il
pericolo di un danno immaginario.
La decisione
La Corte ha respinto i ricorsi. La Cassazione ha ribadito il
principio secondo cui «integra il delitto di truffa la condotta
di colui che prospetti un male possibile ed eventuale, in
ogni caso non proveniente direttamente o indirettamente
da chi lo prospetta, in modo che la persona offesa non sia
coartata, ma si determini alla prestazione, costituente l'ingiusto profitto dell'agente, perché tratta in errore dall'esposizione di un pericolo inesistente; mentre si configura l'estorsione se il male viene indicato come certo e realizzabile
ad opera del reo o di altri, poiché in tal caso la persona offesa è posta nell'ineluttabile alternativa di far conseguire all'agente il preteso profitto o di subire il male minacciato».
In altri termini, ha chiarito la Suprema Corte, la “minaccia”,
«deve contenere il riferimento ad un evento ingiusto, paventato quale ritorsione dell'agente nei confronti del soggetto passivo che non accondiscenda alle sue richieste oppure come un atteggiamento prevaricatorio, anche di terzi,
per sottrarsi al quale la vittima è coartata nella libera determinazione di accondiscendere o meno alle pretese che le
sono state rivolte». Nel caso di specie, la Corte territoriale
aveva esattamente ritenuto che l'elemento decisivo, ai fini
della qualificazione giuridica del fatto come estorsione, fosse il comportamento di uno degli imputati, che, qualificandosi come maresciallo della Guardia di Finanza, aveva telefonato alla vittima, rappresentandole, per vincere le sue
perplessità, che altrimenti "i suoi colleghi sarebbero venuti
in visita in azienda"; orbene, correttamente era stata ritenuta la natura implicitamente intimidatoria delle pretese del
sedicente maresciallo il quale, in buona sostanza, faceva
balenare, qualora non fosse stato corrisposto il denaro, l'intervento della Guardia di Finanza ai danni della società.
I precedenti
In senso conforme circa la differenza tra il delitto di estorsione e quello di truffa aggravata dall'essere stato ingenerato nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario cfr. Cassazione penale, Sez. II, 16 ottobre 2013, n.
47207, in questa Rivista, 2014, 23.; Cass, Sez. II, 3 ottobre
2012, n. 40434, ivi, 2012, 1434; Cass., Sez. II, 30 giugno
2010, De Silva, in Ced Cass. n. 248402; Cass., Sez. II, 6
maggio 2008, Liotta, ivi n. 240108
La dottrina
L. Conti, voce Estorsione, in Enc. dir., XV, 1966, 995 ss.; A.
Crespi, Estorsione. Elemento differenziale dalla truffa aggravata. Rilevanza della causa del timore, in Riv. it. dir. e proc.
pen., 1948, 359 ss.; G.L. Gatta, La minaccia. Contributo allo
studio delle modalità della condotta penalmente rilevante,
Roma, 2013, passim; F. Mantovani, voce Estorsione, in
Enc. giur. Treccani, XIII, 1988; M. Maraffino, L’attività illecita
dei cosiddetti “maghi-guaritori”: un’ipotesi al confine tra truffa ed estorsione, in questa Rivista, 2004, 982 ss.; G. Marini,
693
Osservatorio
Diritto penale
voce Estorsione, in Dig. disc. pen., IV, 1990, 377 ss; S. Prosdocimi, Note sul delitto di estorsione, in Riv. trim. dir. pen.
ec., 2006, 676 ss.; G. Ragno, Il delitto di estorsione, Milano,
1966, passim.
MANCATA RESTITUZIONE DEL CONTRATTO DI LOCAZIONE:
È APPROPRIAZIONE INDEBITA
Cassazione penale, Sez. II, 20 maggio 2014 (u.p. 14
febbraio 2014), n. 20652 - Pres. Cammino - Rel. Cervadoro - P.M. Volpe (parz. diff.) - Ric. C.G. e p.c.
Integra il delitto di appropriazione indebita il rifiuto del
locatario di restituire al locatore il contratto di rinnovo
della locazione, ancorché sottoscritto dal solo locatore,
in quanto costituisce un comportamento che eccede i limiti del titolo del possesso.
Il caso
L’imputato veniva tratto a giudizio in per rispondere del
reato di cui all'art. 646 c.p., perché rifiutava di restituire al
legale di controparte - che tanto gli aveva chiesto in nome
e per conto dell'avente diritto - il “contratto di locazione rinnovo-variazione canone" firmato dal solo locatore, consegnatogli in visione allorché si era recato presso lo studio
del legale per pagare il canone e sbrigare le incombenze
relative al rinnovo della locazione; in tal modo si appropriava di quel documento, che tratteneva indebitamente sino
al momento in cui, a seguito di perquisizione domiciliare,
veniva sequestrato dalla polizia giudiziaria. All’esito del giudizio abbreviato, il Tribunale di Trani, sezione distaccata di
Barletta, mandava assolto l’imputato perché il fatto non
sussiste, rilevando che l'attività negoziale era ancora in itinere e l'atto consegnato all’imputato - e da costui non restituito - non era ancora perfetto, sicché per la stessa natura dell'atto non era possibile alcuna interversione del possesso e l'esplicazione di diritti uti dominus da parte dell'imputato. In riforma della sentenza assolutoria, la sentenza
della Corte d'appello dichiarava la penale responsabilità
dell'imputato condannandolo alla pena di giustizia; secondo i giudici di seconde cure, il documento, anche se incompleto, non era materiale cartaceo senza alcun valore e
pertanto ben poteva essere oggetto del reato in questione:
l'imputato, trattenendo il nuovo contratto di locazione oltre
i limiti del titolo del suo precario possesso, ne attuò quella
interversione negata dal primo giudice al fine ingiusto di
ostacolare la dimostrazione dell'intervenuto accordo novativo e di continuare a corrispondere il vecchio canone. Nel
ricorrere per cassazione, la difesa deduceva l'erronea applicazione dell'art. 646 c.p. e la mancanza, illogicità e contraddittorietà della motivazione: il documento non era completo, non aveva autonomia giuridica e non era idoneo a
spiegare alcun effetto, neppure a costituire un indizio di
prova, sicché, non avendo alcun valore, non poteva essere
oggetto del reato di appropriazione indebita.
La decisione
La Cassazione ha rigettato il ricorso promosso dall’imputato. La Corte ha rilevato che l'art. 1, comma 4, l. n. 431 del
1998 prevede la forma scritta per la stipula di validi contratti di locazione, «e ciò con l'evidente finalità di tutela del
conduttore inquilino e in generale di salvaguardia dell'ordinamento innanzi al fenomeno della contrattazione di fatto
o di quella c.d. “in nero;” la forma scritta consente, infatti,
di fissare due degli elementi fondamentali della locazione,
ovvero la durata e il canone». La Corte ha poi sottolineato
694
come altre disposizioni della l. n. 431 del 1998 abbiano la
finalità di apprestare una protezione effettiva del conduttore: l'art. 13 prevede peculiari sistemi di tutela in caso di patti contrari alla legge, e, al quinto comma, sancisce la possibilità per l'inquilino di agire innanzi all'autorità giudiziaria
nella circostanza in cui il locatore abbia preteso l'instaurazione di un rapporto locatizio di fatto, violando l'obbligatorietà della forma scritta. Poiché «il valore patrimoniale del
bene oggetto di appropriazione indebita (o di qualsivoglia
altro reato contro il patrimonio) va accertato in concreto in
relazione all'uso che l'una e l'altra parte intendano fare del
bene medesimo», nel caso di specie il locatore (il quale
aveva predisposto e sottoscritto il contratto per un canone
mensile di 450 euro, e tale canone aveva già percepito sulla base di accordi verbali) aveva interesse ad ottenere la restituzione del contratto consegnato per la firma al suo legale, se non altro per non incorrere in eventuali azioni di responsabilità precontrattuale nei suoi confronti. Di conseguenza, ha sottolineato la Suprema Corte, «l'atto, anche se
incompleto, al momento della indebita ritenzione aveva
quindi il suo indubbio valore patrimoniale»; di conseguenza, il rifiuto, da parte dell’imputato, alla restituzione del
contratto, costituendo un comportamento che eccede i limiti del titolo del possesso, integra il reato di appropriazione indebita. Peraltro, ha conclusivamente sottolineato la
Cassazione, «nell'ottica dell'art. 646 c.p. l'ingiusto profitto
in vista del quale viene posta in essere la condotta appropriativa non deve necessariamente connotarsi in senso patrimoniale, bastando anche soltanto il fine di perseguire un
(ingiusto) vantaggio di altra natura».
I precedenti
Analogamente, nel senso che integra il reato di appropriazione indebita il rifiuto del professionista di restituire al
cliente la documentazione ricevuta, in quanto costituisce
un comportamento che eccede i limiti del titolo del possesso, cfr. Cass., Sez. II, 29 maggio 2008, Piazza, in Ced Cass.
n. 240693.
La dottrina
E. Battaglini, Osservazioni sui requisiti del possesso quale
presupposto del delitto di appropriazione indebita, in Giust.
pen., 1955, II, 461 ss.; A. Lanzi, voce Possesso (diritto penale), in Enc. giur. Treccani, 1990, XXIII; G. Marini, voce Possesso (diritto penale), in Dig. disc. pen., 1995, IX, 630 ss.; G.
Mattucci, Il possesso in diritto penale, Arch. pen., 1952, II,
230 ss.; A. Pagliaro, voce Appropriazione indebita, in Dig.
disc. pen., I, 1987, 225; C. Pedrazzi, voce Appropriazione indebita, in Enc. dir., II, 1958, 233 ss.; R. Rampioni, voce Possesso (diritto penale), in Enc. dir., 1985, XXXIV, 520 ss.
TENTATO FURTO IN DANNO DI UN BAR IN ORARIO
NOTTURNO
Cassazione penale, Sez. IV, 8 maggio 2014 (u.p. 16
aprile 2014), n. 18934 - Pres. Sirena - Rel. Marinelli P.M. Cedrangolo (conf.) - Ric. P.G. in c. F.M.
Non commette il reato di furto in abitazione chi si introduce all'interno di un esercizio commerciale in orario
notturno, trattandosi di locale non adibito a privata dimora.
Il caso
Il g.u.p. del Tribunale di Reggio Emilia, in sede di giudizio
abbreviato, riteneva l’imputato responsabile del reato di cui
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Diritto penale
agli artt. 56, 110, 624 bis e 625 n. 2 c.p. per aver tentato di
impossessarsi di danaro o altri beni mobili custoditi all'interno di un esercizio commerciale, mediante effrazione con
un cacciavite e un "piede di porco" degli infissi della porta
secondaria dell’esercizio commerciale, non riuscendo nell'intento per cause indipendenti dalla sua volontà. In parziale riforma della sentenza di prime cure, la Corte di Appello
di Bologna riqualificava il fatto come tentato furto aggravato dalla violenza sulle cose, dal momento che doveva
escludersi che un furto commesso o tentato in un esercizio
commerciale chiuso, di notte, in assenza del titolare o dei
dipendenti, integrasse l'ipotesi prevista dall'art. 624 bis
c.p.; invero, l’azione era stata posta in essere in ambienti
normalmente accessibili al pubblico durante l'orario di
apertura e non già in ambienti destinati soltanto a consentire lo svolgimento al gestore e ai dipendenti di attività collaterali o preparatorie. Il P.G. proponeva ricorso per cassazione denunciando l’erronea applicazione della legge penale; ad avviso del ricorrente, ove in un esercizio venga impedito il normale accesso al pubblico (come ad esempio durante l'orario di chiusura, ciò che era avvenuto nella fattispecie in esame), qualora in esso si compia una sottrazione
di cose previa introduzione invito domino, lo stesso luogo
assumerà le caratteristiche di "privata dimora", ricevendo
la protezione privilegiata dell'art. 624 bis c.p., essendo irrilevante la circostanza che al momento del tentato furto i titolari fossero assenti dal locale. In caso contrario, sarebbero frustrati gli scopi perseguiti dal legislatore, che ha introdotto il delitto ex art. 624 bis c.p. proprio per l'esigenza di
rafforzare le pene per i furti commessi di chi si introduce in
luoghi privati, perché si punirebbe con pena più lieve chi,
come nel caso in esame, si apposti nell'ombra per controllare i movimenti della persona offesa per colpire il luogo di
privata dimora non appena ne verifichi l'assenza o l'allontanamento da esso.
La decisione
La Corte ha rigettato il ricorso perché infondato. La Cassazione ha dato che, secondo un orientamento giurisprudenziale il furto commesso all'interno di esercizi commerciali,
in orario di chiusura, integra il delitto di furto in abitazione,
ma tale orientamento non è aderente alla fattispecie in esame. La Corte ha osservato che, «ai fini della configurabilità
del reato di cui all'art. 624 bis c.p., nella nozione di "privata
dimora", certamente più ampia di quella di abitazione, devono ricomprendersi tutti quei luoghi, non pubblici, nei
quali le persone si trattengono per compiere, anche in modo transitorio e contingente, attività della loro vita privata,
ovvero attività di carattere culturale, professionale e politico»; per contro, non meritano l’appellativo di “pubblici”
«gli edifici o gli altri luoghi in cui l'ingresso sia in vario modo selezionato ad iniziativa di chi ne abbia la disponibilità».
Nel caso di specie, pertanto, la Corte aveva fatto buon governo dei principi dinanzi esposti, escludendo la sussistenza del delitto di cui agli artt. 56, 624 bis c.p. nella condotta
dell’imputato, che aveva tentato di introdursi in un bar in
orario notturno, trattandosi di locale non adibito a privata
dimora.
I precedenti
In senso conforme cfr. Cass., Sez. IV, 24 gennaio 2013,
P.G. in c. Pignalosa, in Ced Cass. n. 254854, in relazione a
un furto commesso in danno di una tabaccheria in orario
notturno; Cass., Sez. II, 28 settembre 2012, Biscotti, ivi n.
253451, con riferimento al furto di merce commesso all’interno di un supermercato.
Diritto penale e processo 6/2014
La dottrina
C. Baccaredda Boy-S. Lalomia, I delitti contro il patrimonio
mediante violenza, in G. Marinucci-E. Dolcini, Trattato di diritto penale. Parte speciale, VIII, Padova, 2010, 225 ss.; C.
Bonzano, Il nuovo assetto dei delitti di furto, in G. Spangher
(a cura di), Le nuove norme sulla tutela della sicurezza dei
cittadini, Milano, 2001, 26 ss.; A. Gargani, Le modifiche al
codice penale introdotte dal c.d. «pacchetto sicurezza» (l. 26
marzo 2001, n. 128), in Studium iuris, 2002, 1 ss.; G. Insolera, Qualche riflessione sul pacchetto sicurezza (l. n.
128/2001), in Ind. pen., 2002, 947 ss.: P. Pisa, Le misure restrittive del “pacchetto sicurezza” (I). Le norme penali, in
questa Rivista, 2001, 937 ss.; Id., "Pacchetto sicurezza" e
modifiche al codice penale, ivi, 2000, 533 ss.; T. Quero, Gli
esercizi commerciali quali luoghi di privata dimora ex art.
614 c.p.: interpretazione estensiva o analogia in malam partem?, in Giur. merito, 2010, 480 ss.
DELITTI CONTRO L’INCOLUMITÀ PUBBLICA
QUANDO DANNEGGIAMENTO CON IL MEZZO DEL FUOCO
INTEGRA IL DELITTO EX ART. 424, COMMA 1, C.P.
Cassazione penale, Sez. I, 16 maggio 2014 (u.p. 23
aprile 2014), n. 20453 - Pres. Giordano - Rel. Boni - P.G.
Pratola (parz. diff.) - Ric. D.D.P. e altri
La differenza tra il delitto di danneggiamento e quello
di danneggiamento seguito da pericolo di incendio risiede nell’elemento oggettivo: nel primo caso l'autore
della condotta impiega il fuoco per compromettere il
bene proprio o altrui allo scopo di danneggiarlo, ma
realizza il proprio l'intento senza dar luogo ad incendio
e nemmeno alla possibilità del suo verificarsi, mentre
se dal fuoco può derivare il pericolo di incendio, allora è
ravvisabile la diversa fattispecie di cui all'art. 424 c.p.
Il caso
In parziale riforma della sentenza emessa dal g.u.p. del Tribunale di Pordenone all'esito del giudizio celebrato nelle
forme del rito abbreviato, la Corte d'appello di Trieste riqualificava i fatti di danneggiamento aggravato, come ritenuti
dal primo giudice, ai sensi dell'art. 424, comma 1, c.p., e rideterminava la pena inflitta agli imputati, confermando nel
resto l'impugnata decisione, che aveva affermato la loro responsabilità in ordine ad una pluralità di azioni di danneggiamento, minaccia, ingiurie, incendio, poste in essere in
danno di diversi esercizi commerciali (un ristorante, un salumificio, un impianto di macellazione e un’azienda agricola), quali atti dimostrativi a sostegno di una campagna di
sensibilizzazione contro l'uccisione di animali. Accogliendo
sul punto l'impugnazione del P.G., la Corte d’appello aveva
ritenuto di rapportare i fatti alla fattispecie di danneggiamento seguito da incendio in ragione delle dimensioni del
rogo che aveva interessato sia il salumificio, sia il macello.
Nel ricorrere per cassazione, tra i vari motivi di impugnazione le difese degli imputati lamentavano l'erronea applicazione della legge penale in relazione all'art. 424 c.p.: la Corte territoriale non aveva tenuto conto di quanto riferito dai
testi dei vigili del fuoco sulle caratteristiche delle fiamme e
sull'assenza del pericolo di propagazione per l'ubicazione
degli oggetti attinti dal rogo, l'assenza di vento ed il difficile
innesco determinato dall'impiego di gasolio, anziché benzina, e che gli imputati, convinti animalisti, erano stati ispirati
695
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Diritto penale
dal proposito di compiere un'azione dimostrativa nei confronti di quanti erano connessi alla uccisione degli animali.
La decisione
La Corte ha dichiarato l’inammissibilità dei ricorsi perché
fondati su motivi affetti da manifesta infondatezza. La Cassazione ha ritenuto immune da censure la sentenza impugnata, che, pur escludendo l'intenzione degli imputati di
cagionare un incendio in senso proprio, avendo le loro
azioni dimostrato piuttosto il proposito di danneggiare quegli impianti e quei beni per il loro valore simbolico di strumenti dell'avversata produzione di carni animali e di impedirne l'ulteriore prosecuzione, in punto di fatto aveva ravvisato il concreto pericolo di insorgenza di un incendio. In
particolare, con riferimento all'azione compiuta ai danni del
salumificio, sulla scorta dei dati desumibili dalla documentazione fotografica e dalle dichiarazioni rese dal personale
dei vigili del fuoco intervenuti, i giudici di appello avevano
evidenziato che: le fiamme avevano attinto e distrutto completamente quattro furgoni e stavano per propagarsi ad un
quinto veicolo grazie al carburante cosparso sulla relativa
carrozzeria, al punto che lo specchietto retrovisore esterno
di tale mezzo era stato deformato dal calore, mentre la sua
distruzione era stata evitata per il trasferimento in altro
punto ad opera del figlio del titolare; le operazioni di spegnimento del rogo avevano richiesto l'intervento di due
squadre di vigili del fuoco per un'ora e l'impiego di acqua e
schiumogeno; la propagazione delle fiamme ad altro insediamento industriale, situato nei pressi, era stata evitata
dal lancio di getti di acqua sul tetto di tale edificio, effettuato dagli operatori per impedire che fosse aggredito dalle
fiamme; la distanza tra i furgoni, parcheggiati con la parte
anteriore rivolta verso il fabbricato, e l'edificio stesso sede
dell'impresa era di appena cinque metri, sicché facilmente
una scintilla avrebbe potuto raggiungerlo; la presenza di liquido infiammabile riversatosi sull'asfalto circostante
avrebbe potuto costituire altro fattore di diffusione del fuoco. In ordine all'episodio commesso in danno dell'impianto
di macellazione, la Corte d’appello aveva rilevato che: le
fiamme, appiccate ad un furgone frigorifero ed estesesi ad
una tettoia soprastante, fissata all'edificio sede del macello,
con danneggiamento dell'impianto elettrico, di quello di climatizzazione, del motore del cancello elettrico e di una
idropulitrice, erano state estinte con l'utilizzo di due "naspi"
ovvero lance ad acqua ad alta pressione nel corso di intervento protrattosi per quindici-venti minuti; la tettoia, completamente avvolta dalle fiamme, era stata distrutta; la distruzione dell'impianto di climatizzazione avrebbe potuto
determinare la fuoriuscita di gas sotto pressione, con la
conseguente veicolazione di scintille e diffusione ulteriore
delle fiamme; il fuoco aveva lambito la tubatura di gas metano, fissata alla parete dell'edificio del macello, tanto che i
vigili del fuoco avevano deciso di interrompere l'afflusso di
gas a monte nell'incertezza sulla capacità di tenuta del condotto, che, se già lesionato dalle intemperie, avrebbe potuto produrre una fiammata continua, proprio perché alimentata dal gas. Orbene, i giudici di appello avevano ampiamente giustificato la sussistenza del pericolo di incendio in
base ad una pluralità di dati fattuali, relativi alle dimensioni
del fuoco, alle sue caratteristiche, alla ubicazione dei punti
di innesco ed alla conformazione dei luoghi. Inoltre, correttamente i giudici di appello si erano allineati al principio di
diritto per cui l'elemento oggettivo che distingue il danneggiamento dal danneggiamento seguito da incendio consiste nel pericolo di incendio che caratterizza quest'ultima
fattispecie. Invero, ha evidenziato la Cassazione, «premes-
696
so che per incendio s'intende un rogo che divampa in vaste proporzioni, diffusivo e non facilmente estinguibile, tale
da esporre a pericolo l'incolumità di un numero indeterminato di persone e che il pericolo di incendio consiste nella
probabilità che le fiamme appiccate abbiano uno sviluppo
distruttivo nei termini sopra esposti, da desumersi dalla situazione di fatto verificatasi quanto alle dimensioni e caratteristiche del fuoco, rapportate all'oggetto del danneggiamento, nel caso del delitto di cui all'art. 635 c.p. l'autore
della condotta impiega il fuoco per compromettere il bene
proprio o altrui allo scopo di danneggiarlo, ma realizza il
proprio l'intento senza dar luogo ad incendio e nemmeno
alla possibilità del suo verificarsi; mentre se dal fuoco può
derivare il pericolo di incendio, allora è ravvisabile la diversa fattispecie di cui all'art. 424 c.p.».
I precedenti
In Senso conforme sulla differenza tra i delitti ex art. 635 e
424, comma 1, c.p., cfr., tra le più recenti, Cass., Sez. VI,
22 aprile 2010, P.G. in c. Musco, in Ced Cass. n. 248585;
Cass., Sez. I, 4 marzo 2010, Paragona, ivi n. 246660; Cass.,
Sez. II, 24 luglio 2002, Leone, ivi n. 222118.
La dottrina
S. Ardizzone, voce Incendio, in Dig. disc. pen, VI, 1992, 320
ss.; E. Battaglini-B. Bruno, voce Incolumità pubblica (delitti
contro la), in Noviss. Dig., VIII, 1962, 542 ss.; S. Corbetta, I
delitti contro l’incolumità pubblica, I, I delitti di comune pericolo mediante violenza, 2003, 239; S. Dodaro-F. Ferri, Danneggiamento seguito da incendio. Differenza rispetto all'incendio e al danneggiamento, in Riv. pen., 1999, 801 ss.; A.
Lai, voce Incendio (dir. pen.), in Enc. giur. Treccani, XVI,
1989; (6) A. Sammarco, voce Incendio (dir. pen.), in Enc.
dir., XX, 1970, 949 ss.; S.Tovani-A.Trinci, I labili confini tra
danneggiamento, incendio e danneggiamento seguito da incendio, in Corr. merito, 2010, 750 ss.
DELITTI CONTRO LA PERSONA
STALKING: NON OCCORRE CHE GLI ATTI PERSECUTORI
PROVOCHINO UNO STATO PATOLOGICO
Cassazione penale, Sez. V, 19 maggio 2014 (u.p.28 novembre 2013), n. 20531 - Pres. Oldi - Rel. Micheli - P.M.
Cedrangolo (conf.) - Ric. C.V.
Ai fini dell’integrazione del delitto di stalking non si richiede l'accertamento di uno stato patologico ma è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell'equilibrio psicologico della vittima, considerato che la fattispecie incriminatrice di cui all'art. 612 bis c.p., non costituisce una duplicazione del reato di lesioni.
Il caso
La Corte d’appello di Milano confermava la sentenza emessa dal g.u.p. del Tribunale di Sondrio, che aveva condannato in relazione al delitto di cui all'art. 612 bis c.p., commesso in pregiudizio dell’ex convivente e del nuovo compagno
della donna. I fatti si riferivano a condotte di ripetuta molestia da parte dell’imputato, con pedinamenti veri e propri o
comunque con l'imposizione della propria presenza, nei
confronti della donna, episodi talora connotati da minacce
gravi, soprattutto all'indirizzo del nuovo compagno della
vittima, tanto più che l’imputato era stato già condannato
Diritto penale e processo 6/2014
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Diritto penale
in passato per comportamenti analoghi, ciò che aveva determinato in capo alle persone offese un forte stato di timore, inducendole a mutare le abitudini di vita. Nel ricorrere
per cassazione, tra i motivi di ricorso la difesa deduceva
l’erronea applicazione dell'art. 612 bis c.p., nonché illogicità
e carenza della motivazione, dato che, nella specie, avviso
del ricorrenti gli atti asseritamente persecutori non avevano
provocato, nelle vittime, forme patologiche contraddistinte
dallo stress, di tipo clinicamente definito grave e perdurante.
La decisione
La Corte ha rigettato il ricorso. La Cassazione ha confutato
l’assunto difensivo, secondo cui, ai fini della sussistenza
del delitto in esame, occorre dimostrare, in capo alla vittima, un disagio psichico di natura patologica. In primo luogo, ha notato la Corte, «il perdurante e grave stato di ansia
o di paura, il fondato timore per l'incolumità propria o di un
prossimo congiunto e l'alterazione delle abitudini di vita costituiscono eventi di danno alternativamente contemplati
dall'art. 612 bis c.p.». In secondo luogo, la Cassazione ha
riaffermato il principio secondo cui per l’integrazione del
delitto «non si richiede l'accertamento di uno stato patologico ma è sufficiente che gli atti ritenuti persecutori abbiano un effetto destabilizzante della serenità e dell'equilibrio
psicologico della vittima, considerato che la fattispecie incriminatrice di cui all'art. 612 bis c.p., non costituisce una
Diritto penale e processo 6/2014
duplicazione del reato di lesioni (art. 582 c.p.), il cui evento
è configurabile sia come malattia fisica che come malattia
mentale e psicologica»
I precedenti
In senso conforme, cfr. Cass., Sez. V, 9 maggio 2012, n.
34135, in questa Rivista, 2012, 953; Cass., Sez. V, 10 gennaio 2011, C., in Ced Cass. n. 250158.
La dottrina
V. Losappio, Vincoli di realtà e vizi del tipo nel nuovo delitto
di “atti persecutori” “Stalking the stalking”, in questa Rivista, 2010, 869 ss.; F. Macrì, Modifiche alla disciplina delle
circostanze aggravanti dell’omicidio e nuovo delitto di atti
persecutori, ivi, 2009, 815 ss.; V. Maffeo, Il nuovo delitto di
atti persecutori (stalking): un primo commento al d.l. n. 11
del 2009 (conv. con modif. dalla l. n. 28 del 2009), in Cass.
pen., 2009, 2719 ss.; A. Peccioli, Stalking: bilancio di un anno dall’entrata in vigore, in questa Rivista, 2010, 399 ss.; L.
Pistorelli, Nuovo delitto di atti persecutori (c.d. stalking), in
S. Corbetta-A. Della Bella-G.L. Gatta (a cura di), Sistema
penale e sicurezza pubblica: le riforme del 2009, Milano
2009, 153 ss.; P. Pittaro, Introdotta la disciplina penale dello
stalking dalle misure urgenti in tema di sicurezza pubblica,
in Fam. dir., 2009, 659 ss.; A. Valsecchi, Il delitto di atti persecutori (il c.d. stalking), in Riv. it. dir. proc. pen., 2009,
1377 ss.
697
Osservatorio
Processo penale
Osservatorio Corte
di cassazione - Processo penale
a cura di Giulio Garuti
ARCHIVIAZIONE
IMPUTAZIONE COATTA
Cassazione penale, Sez. VI, 15 maggio 2014 (30 aprile
2014), n. 20411 - Pres. Agrò - Rel. Capozzi - P.m. Gaeta
(concl. parz. conf.) - Ric. C.A.
Il Giudice per le indagini preliminari non può ordinare al
Pubblico ministero la formulazione della imputazione
nei confronti della persona indagata per ipotesi di reato
diverse da quelle per le quali è stata richiesta l'archiviazione, dovendo in tal caso il giudice limitarsi a ordinare
l'iscrizione nel registro di cui all’art. 335 c.p.p. degli ulteriori reati che abbia ravvisato nelle risultanze delle indagini portate a sua conoscenza.
Il caso
Il G.i.p. presso il Tribunale di Vicenza rigettava la richiesta
di archiviazione formulata dal p.m. nei confronti di C.A., indagata per il reato di cui all’art. 660 c.p., ordinando al rappresentante dell’accusa di formulare l’imputazione nei confronti della stessa per i reati di cui agli artt. 368 e 612
bis c.p. Contro tale ordinanza proponeva ricorso per cassazione C.A., deducendo l’abnormità del provvedimento.
La decisione
Il ricorso in parola è stato considerato in parte fondato. La
Suprema Corte ha, infatti, ricordato che le Sezioni Unite
hanno sancito l’abnormità dell’ordine di imputazione coatta, ex art. 409, comma 5, c.p.p., emesso nei confronti dello
stesso soggetto indagato ma in relazione a un reato diverso da quello oggetto della richiesta di archiviazione avanzata dal p.m., poiché tale provvedimento esorbita dai poteri
del G.i.p. A tal riguardo le Sezioni Unite hanno precisato
che «è inibito al giudice per le indagini preliminari ordinare
al pubblico ministero la formulazione della imputazione nei
confronti della persona indagata per ipotesi di reato diverse
da quelle per le quali è stata richiesta l’archiviazione, dovendo in tal caso il giudice limitarsi a ordinare l’iscrizione
nel registro di cui all’art. 335 c.p.p. degli ulteriori reati che
abbia ravvisato nelle risultanze delle indagini portate a sua
conoscenza».
Di contro, quando il G.i.p. procede alla mera riqualificazione, rispetto alla qualificazione data dal p.m. nella richiesta
di archiviazione, non è abnorme, né in alcun modo impugnabile, il provvedimento con cui il giudice investito della
richiesta di archiviazione, nel rigettarla, imponga al pubblico ministero di formulare l’imputazione per il medesimo
fatto, ma in relazione ad altro titolo di reato, non potendosi
prescindere dall’autonomo potere-dovere facente capo all’organo giudicante di qualificazione del fatto in ordine al
quale è stato investito.
Nel caso di specie occorre distinguere i due reati oggetto
del provvedimento di imputazione coatta. In relazione al
698
reato di cui all’art. 612 bis c.p. è possibile ritenere che vi
sia stata riqualificazione rispetto all’ipotesi di reato (art. 660
c.p.) iscritta nel registro ex art. 335 c.p.p. e oggetto della richiesta di archiviazione.
Al contrario, rispetto al reato previsto e punito dall’art. 368
c.p., il G.i.p. ha considerato, estrapolandolo dal materiale a
sua disposizione, il separato esito al quale è approdata una
querela sporta dalla C. ai danni della persona offesa archiviata per mancata acquisizione di riscontri, così individuando la condotta di cui all’ordine di imputazione. In questo
caso, il fatto oggetto del provvedimento di imputazione
coatta è evidentemente diverso.
Tanto precisato, la Corte ha affermato l’abnormità dell’ordine di imputazione per calunnia sotteso alla ordinanza, da
espungere in parte qua dall'ordinamento, tramite annullamento senza rinvio, e ha disposto la trasmissione degli atti
al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Vicenza per l’ulteriore corso.
I precedenti
Sull’abnormità del provvedimento con cui il giudice formula l’imputazione coatta in ordine a reati diversi, vedasi,
Cass., Sez. Un., 30 gennaio 2014, n. 4319, in questa Rivista, 2014, 271.
In tal senso, Cass., Sez. V, 16 febbraio 2012, P.m. in c. Di
Felice e altri, in C.E.D. Cass., n. 252312; Cass., Sez. VI, 12
gennaio 2012, P.m. in c. Milana e altri, ibidem, n. 251578;
Cass., Sez. VI, 15 dicembre 2009, P.m. in c. Saccenti, ivi, n.
246136; Cass., Sez. III, 27 maggio 2009, Battisti, ibidem, n.
244565; Cass., Sez. VI, 13 ottobre 2009, P.m. in c. Anzellotti e altro, ibidem, n. 245476; Cass., Sez. IV, 21 febbraio
2007, Marinelli, ivi, n. 236667.
In senso contrario, Cass., Sez. VI, 28 settembre 2012, Peverelli e altro, in C.E.D. Cass., n. 253617; Cass., Sez. VI, 22
giugno 2011, P.g. in c. Polese, ivi, n. 250836; Cass., Sez.
VI, 31 gennaio 2011, P.m. in c. S., ibidem, n. 250029;
Cass., Sez. VI, 20 gennaio 2010, Innantuauono, ivi, n.
246407; Cass., Sez. V, 7 ottobre 2008, Frizzo, ivi, n.
241724; Cass., Sez. I, 24 novembre 2006, Laccetti, ivi, n.
236003.
In tema, vedasi, Cass., Sez. Un., 31 maggio 2005, Minervini, in Arch. n. proc. pen., 2006, 222.
La dottrina
In materia di abnormità, v. A. Bellocchi, L’atto abnorme nel
processo penale, Milano, 2012; R. Cantone, Note minime a
proposito del provvedimento abnorme, in Cass. pen , 1996,
184; Ead., Puntualizzazioni sull’abnormità, ivi, 1998, 3073;
M. Catalano, Il concetto di abnormità fra problemi definitori
ed applicazione giurisprudenziale, in questa Rivista, 2000,
1241; A. Macrillò, Provvedimenti abnormi e limiti al potere
di controllo del g.i.p. in materia di archiviazione, in Cass.
pen., 2006, 978.
In argomento, F. Cassibba, Sui poteri del g.i.p. ex art. 409
commi 4 e 5 c.p.p., in Cass. pen., 2005, 10, 2868; A. Ciavo-
Diritto penale e processo 6/2014
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Processo penale
la, I poteri del g.i.p. in seguito al controllo della richiesta di
archiviazione, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2005, 800; C. Conti,
L’archiviazione, in Trattato di procedura penale, diretto da G.
Spangher, 3, Indagini preliminari e udienza preliminare, a
cura di G. Garuti, Torino, 2008, 797; M. Daniele, Poteri e
controlli Gip-Pm, ecco la mappa, in Dir. giust., 2005, 42;
E.A.A. Dei-Cas, Sull’abnormità dell’imputazione coatta “oggettivamente diversa”, in questa Rivista, 2014, 318 e ss.; C.
Fanuele, Imputazione coatta relativa a un reato o a un indagato non considerato nella richiesta di archiviazione, in Cass.
pen., 2002, 5, 1727; G. Giostra, L'archiviazione: lineamenti
sistematici e questioni interpretative, Torino, 1994, 79; R.
Montanile, L'imputazione coatta tra contrasti dottrinali e giurisprudenziali, in questa Rivista, 2012, 4, 457; L. Padula, Archiviazione: modelli, questioni e scelte operative, Milano,
2005, 131; C. Santoriello, Poteri del g.i.p. in presenza di una
istanza di archiviazione relativa, in questa Rivista, 2003, 11,
1388; C. Valentini Reuter, Le forme di controllo sull’esercizio
dell’azione penale, Padova, 1994.
IMPUGNAZIONI
TERMINE PER L’INVIO DEGLI ATTI AL TRIBUNALE
DEL RIESAME
Cassazione penale, Sez. III, 14 maggio 2014 (15 aprile
2014), n. 19883 - Pres. Teresi - Rel. Franco - P.m. Policastro (concl. diff.) - Ric. T.M.
Ai fini della presentazione di un ricorso per il riesame di
una misura cautelare, nel caso di comunicazione di copia degli atti per mezzo telefax, da ufficio a ufficio, la
data del pervenimento dell’impugnazione, ai fini del decorso del termine di cinque giorni previsto dall’art. 309,
comma 5, c.p.p., è quella in cui il fax con la copia dell’istanza originale perviene alla cancelleria del riesame
competente.
Il caso
Il G.i.p. del Tribunale di Torino, con ordinanza del 21 giugno 2013, applicava a T.M. la misura cautelare della custodia in carcere in relazione ai reati di cui agli artt. 600 ter e
609 bis c.p., commessi a danno di due minori di anni quattordici.
Il successivo 28 giugno l’indagato proponeva tempestivo
atto di riesame avverso detta ordinanza e, in pari data, la
stessa cancelleria del Tribunale di Monza, dove era stato
depositato l’atto, aveva provveduto a inoltrarne copia, a
mezzo telefax, al competente Tribunale del riesame di Torino; successivamente, a mezzo posta, inviava altresì l’originale dell’istanza che perveniva a detto Tribunale il 10 luglio
2013. Solo in tale data gli atti posti a fondamento della misura cautelare erano quindi stati chiesti al p.m.
Il Tribunale della Libertà confermava la misura applicata
dal G.i.p., respingendo l’eccezione sollevata dall’indagato
in relazione alla perdita di efficacia della misura per l’inosservanza dei termini di cui al comma 5 dell’art. 309 c.p.p.,
già spirati, secondo la difesa, nei cinque giorni successivi
alla trasmissione via telefax del 28 giugno 2013.
A fondamento della propria ordinanza il Tribunale sosteneva, invece, che il computo di detto termine decorresse dal
giorno in cui l’originale dell’istanza era pervenuta alla cancelleria del Tribunale stesso e che, in ogni caso, il cancellie-
Diritto penale e processo 6/2014
re del Tribunale di Monza, nell’inviarne copia a mezzo telefax, non ne aveva attestato la conformità all’originale.
Avverso il provvedimento del Tribunale di Torino, T.M. proponeva ricorso per cassazione deducendo in particolare,
per quel che qui rileva, la violazione dell’art. 309, comma
5, c.p.p.
La decisione
La Cassazione ha ritenuto fondata la doglianza del ricorrente.
Il Collegio ha, infatti, preliminarmente chiarito che la stessa
giurisprudenza, richiamata dal Tribunale del riesame a sostegno della propria decisione, a ben vedere, non fa che affermare che il dies a quo, nel caso di presentazione dell’istanza nella cancelleria del Tribunale del luogo di residenza, decorre dalla data di pervenimento dell’istanza stessa al
Tribunale competente. La questione che si prospetta invece nel caso di specie è piuttosto quella, ben diversa, di stabilire quale sia tale data quando l’istanza sia trasmessa, da
una cancelleria all’altra, a mezzo telefax.
Ebbene, prosegue la Corte, è l’art. 64 disp. att. c.p.p. a stabilire, al comma 3, che nei rapporti tra un ufficio giudiziario
e un altro «in caso di urgenza o quando l’atto contiene disposizioni concernenti la libertà personale, la comunicazione è eseguita col mezzo più celere nelle forme previste dagli articoli 149 e 150 c.p.p.» e, ancora, al successivo comma 4, che al fine di tale comunicazione «la copia può essere trasmessa con mezzi tecnici idonei, quando il funzionario di cancelleria del giudice che ha emesso l’atto attesta,
in calce ad esso, di aver trasmesso il testo originale».
Tale disposizione non avrebbe alcun senso se, pur ritenuta
possibile questa forma di comunicazione, poi se ne negasse ogni effetto, cosicché l’unica interpretazione possibile è
quella che, nel caso di comunicazione di copia di atti per
mezzo telefax da ufficio a ufficio, la data del pervenimento
dell’impugnazione, ai fini del decorso dei termini di cui all’art. 309, comma 5, c.p.p., è quella in cui il fax con la copia dell’istanza originale perviene alla cancelleria del Tribunale del riesame competente.
Nel caso in parola risultano osservate tutte le formalità di
trasmissione dell’istanza previste: dall’esame degli atti la
Corte ha infatti rilevato che il Tribunale di Monza aveva già
in data 28 giugno trasmesso, a mezzo telefax, copia dell’istanza, regolarmente munita di attestazione di conformità
e che, peraltro, nello stesso decreto di fissazione dell’udienza camerale del 16 luglio si dava atto che la richiesta
di riesame era stata proposta il 28 giugno.
Pertanto, il dies a quo dal quale computare il termine di cui
all’art. 309, comma 5, c.p.p., entro cui il p.m. procedente
avrebbe dovuto trasmettere gli atti posti a fondamento della misura, andava fissato proprio nel 28 giugno, con scadenza del termine il 3 luglio: di conseguenza, la trasmissione degli atti al Tribunale del riesame, avvenuta solo il successivo 13 luglio, ha di fatto determinato la perdita di efficacia della misura ex art. 309, comma 10, c.p.p.
La Corte di cassazione ha quindi accolto il ricorso annullando senza rinvio l’ordinanza impugnata e disponendo, per
l’effetto, la perdita di efficacia della stessa.
I precedenti
Cass., Sez. IV, 28 marzo 2013, S.N., in C.E.D. Cass.,
255507; Cass., Sez. I, 8 luglio 2011, Abderrahman, ivi,
250911; Cass., Sez. III, 17 dicembre 2007, Tanase, ivi,
239242; Cass., Sez. IV, 20 dicembre 2005, Pristeri, ivi,
232886; Cass., Sez. Un., 22 marzo 2000, Solfrizzi, ivi,
215827.
n.
n.
n.
n.
n.
699
Osservatorio
Processo penale
La dottrina
V. Alberta, La trasmissione degli atti al tribunale del riesame:
recenti orientamenti giurisprudenziali, in Foro ambr., 2003,
33; A.M. Benenati, Il rispetto dei tempi nel procedimento di
riesame: un’esigenza irrinunciabile, in Giur. it, 1991, 285; M.
Costa, L’autorità giudiziaria procedente al momento della richiesta di riesame e la decorrenza del termini di cui all’art.
309, 5° comma, c.p.p., in Cass. pen., 1997, 783; L. D’Ambrosio-G. Fidelbo, L’incidenza del fattore “tempo” nella disciplina delle misure cautelari personali, in AA.VV., Modifiche al codice di procedura penale, Padova, 1995, 226; S. Fifi, Trasmissione degli atti per il riesame, in Giur. it., 2003,
314; F. Nuzzo, La trasmissione degli atti al tribunale del riesame nella giurisprudenza di legittimità, in Cass. pen., 1998,
1920.
LEGITTIMO IMPEDIMENTO
DIRITTO AL RINVIO DELL’UDIENZA PER ADESIONE
DEL DIFENSORE ALLO SCIOPERO DI CATEGORIA
Cassazione penale, Sez. III, 14 maggio 2014 (19 marzo
2014), n. 19856 - Pres. Teresi - Rel. Andreazza - P.m.
Romano (concl. diff.) - Ric. P.F.
In caso di adesione allo sciopero della categoria, il difensore ha diritto al rinvio dell'udienza anche quando la
sua presenza, come nei procedimenti camerali, sia facoltativa.
Il caso
La Corte d’Appello di Milano confermava, in data 20 marzo
2012, la sentenza di condanna, a seguito di giudizio abbreviato, emessa a carico dell’imputato, per il reato di cui all’art. 73 d.P.R. 309/1990. Contro tale sentenza veniva proposta impugnazione, mediante la quale si deduceva, tra le
altre cose, l’erronea applicazione dell’art. 127 c.p.p., poiché, a fronte della dichiarazione di adesione all’astensione
dalle udienze effettuata dal difensore all’udienza del 20
marzo 2012, il giudice di secondo grado aveva ugualmente
disposto procedersi oltre nella trattazione, sul presupposto
della irrilevanza dell’astensione nell’ambito di un procedimento svoltosi in camera di consiglio.
La decisione
La Suprema Corte ha ritenuto fondato il motivo in parola.
In primo luogo, sono stati ricordati i precedenti nei quali la
giurisprudenza di legittimità escludeva che il legittimo impedimento del difensore - quale veniva classificata l’adesione del difensore allo sciopero della categoria - potesse valere nell’ambito dei procedimenti camerali, ove le parti sono sentite se compaiono. In tali pronunce la Corte di cassazione aveva anche evidenziato l’ininfluenza, a tal fine, del
fatto che l'art. 3, comma 1, del codice di autoregolamentazione dell’astensione dall’attività giudiziaria, laddove si riferisce «all’udienza o all’atto di indagine preliminare o a qualsiasi altro atto o adempimento per il quale sia prevista la
sua presenza, ancorché non obbligatoria», non faccia alcuna distinzione tra udienze a cui il difensore deve partecipare in via obbligatoria ovvero in via facoltativa, poiché tale
disposizione imporrebbe soltanto ai difensori che non intendano aderire di darne comunicazione all’autorità procedente e agli altri colleghi, in modo da consentire loro di organizzare le proprie attività.
700
Tanto premesso, la Corte di cassazione ha però preso atto
dell’abbandono della impostazione tradizionale da parte
della giurisprudenza più recente, la quale, in relazione al
giudizio abbreviato in appello, ha reso operante l’adesione
all’astensione quale motivo di rinvio, poiché la stessa è
espressione del diritto d’associazione, costituzionalmente
garantito. In particolare, ha notato come l’indirizzo maggioritario fosse basato su due assunti: a) l’art. 127 c.p.p. (e
l’art. 599 c.p.p. per quanto concerne il giudizio camerale
d’appello) non contempla quale ipotesi di rinvio dell’udienza il legittimo impedimento del difensore e, del resto, pretendere il rinvio per legittimo impedimento di quest’ultimo
parrebbe incompatibile con la presenza solo facoltativa delle parti; b) l’influenza della disciplina di autoregolamentazione ai fini della ricostruzione del sistema processuale della partecipazione del difensore.
Quanto al primo aspetto, la Corte ritiene contraria al principio di ragionevolezza una interpretazione che conduca a
trattare diversamente, in relazione alla rilevanza o meno
del legittimo impedimento del difensore, da una parte, il
giudizio abbreviato di primo grado (cui si applica, in forza
del richiamo effettuato ex art. 441 c.p.p., la disciplina di cui
all’art. 420 ter, comma 5, c.p.p.), e, dall’altra parte, il giudizio abbreviato di secondo grado. Quanto alla natura facoltativa della presenza, essa non «neutralizza» ogni impedimento in cui incorra il difensore, ma significa solamente
che lo stesso può decidere di non comparire: se, al contrario, interviene, potrà far valere gli impedimenti.
In relazione alla natura dell’adesione all’astensione di categoria, si è evidenziato come il limite massimo di sessanta
giorni per la sospensione del termine per la prescrizione
non debba operare in caso di astensione del difensore, poiché l’anzidetta adesione non costituisce un impedimento
in senso tecnico ma un vero e proprio diritto al rinvio, in
quanto espressione di un diritto costituzionalmente riconosciuto. Del resto, l’adesione allo sciopero è scelta volontaria del difensore e non un fatto imposto da eventi o cause
esterne. Pertanto, se di diritto si tratta, risulta incongruo
che lo stesso non possa essere esercitato nell’ambito dei
procedimenti camerali, in mancanza di obiettive esigenze
che impongano la soluzione contraria.
Con riguardo al secondo profilo, dopo aver effettuato una
ricognizione delle sentenze di legittimità afferenti al codice
di autoregolamentazione, la Corte ha concluso che non si
possa più prescindere da detta fonte al fine della corretta
ricostruzione del sistema processuale della partecipazione
del difensore alle udienze. In relazione al tema che qui ci
occupa, l’art. 3 del richiamato codice di autoregolamentazione, laddove si riferisce «all’udienza o all’atto di indagine
preliminare o a qualsiasi altro atto o adempimento per il
quale sia prevista la sua presenza, ancorché non obbligatoria», non opera, evidentemente, alcuna distinzione tra
udienze a cui il difensore deve partecipare in via obbligatoria ovvero in via facoltativa. Dalla decisione del Tribunale di
procedere oltre, nonostante una adesione - ritualmente dichiarata - all’astensione del difensore di fiducia, è dunque
derivata una nullità generale a regime intermedio non sanata e regolarmente eccepita con il ricorso.
La Suprema Corte ha pertanto disposto l’annullamento,
con rinvio ad altra sezione, della sentenza impugnata.
I precedenti
Quanto all’orientamento tradizionale per cui il legittimo impedimento del difensore non vale nell’ambito dei procedimenti camerali, Cass., Sez. I, 20 dicembre 2012, Morano,
in C.E.D. Cass., n. 254807; Cass., Sez. V, 16 luglio 2010,
Diritto penale e processo 6/2014
Osservatorio
Processo penale
Borra e altri, ivi, n. 248435; Cass., Sez. II, 29 maggio 2009,
Frediani, ivi, n. 244785; Cass., Sez. VI, 19 febbraio 2009,
P.o. in c. Leoni e altri, ibidem, n. 243263; Cass., Sez. V, 6
aprile 2006, Verbi, ivi, n. 234450; Cass., Sez. II, 11 novembre 2005, Vara e altri, ivi, n. 233166; Cass., Sez. I, 6 aprile
2004, D’Anca, ivi, n. 228647; Cass., Sez. Un., 8 aprile
1998, Cerroni, ivi, n. 210795.
In senso contrario, e con riferimento allo svolgimento del
processo con le forme del giudizio abbreviato, Cass., Sez.
II, 11 ottobre 2000, Matranga, in C.E.D. Cass., n. 217507.
Quanto alla rilevanza dello sciopero ai fini del rinvio dell’udienza di celebrazione del giudizio abbreviato in appello,
Cass., Sez. VI, 24 ottobre 2013, n. 1826/2014, inedita;
Cass., Sez. I, 12 marzo 2014, Lapresa, inedita.
Sull’efficacia vincolante del “Codice di autoregolamentazione delle astensioni dalle udienze degli avvocati”, vedasi,
Cass., Sez. Un., 30 maggio 2013, Ucciero, in C.E.D. Cass.,
n. 255346.
La dottrina
In argomento, A. Barazzetta, sub Art. 420 ter c.p.p., in
AA.VV., Comm. Giarda-Spangher, Milano, 2010, 5286; B.
Botti, Impedimenti tra decaloghi e buon senso. Avvocati, rinvii, leale collaborazione e modello accusatorio, in Dir. giust.,
2003, 45, 18; L. Cremonesi, Il legittimo impedimento dell’avvocato rileva solo per il giudizio di cognizione, in Dir.
giust., 2006, 37, 49; T. Della Marra, L’impedimento del difensore nei procedimenti camerali, in AA. VV., Studi sul processo penale in ricordo di Assunta Mazzarra, Padova, 1996,
101 e ss.; G. Di Chiara, Il contraddittorio nei riti camerali,
Milano, 1994, 304 e ss.; S. Lorusso, Definizione dell’appello
in camera di consiglio e assenza del difensore per “impedimento assoluto”, in Cass. pen., 1994, 2097; E. Marzaduri, In
attesa di regole sullo sciopero dei difensori si va avanti a colpi d’interpretazione, in Guida dir., 1997, 22, 75; V. Grevi,
L’adesione allo «sciopero» dei difensori non costituisce «legittimo impedimento» (a proposito del regime di sospensione
del corso della prescrizione), in Cass. pen., 2006, 2058; M.
Vessichelli, Dichiarazione di contumacia in assenza del difensore impedito, ivi, 2006, 1698.
MISURE CAUTELARI REALI
PROVVEDIMENTO CAUTELARE E PRESUNZIONI LEGALI
TRIBUTARIE
Cassazione penale, Sez. III, 13 maggio 2014 (4 febbraio
2014), n. 19595 - Pres. Squassoni - Rel. Andronio - P.m.
Baldi (concl. parz. conf.) - Ric. R.V.
Le presunzioni legali previste dalle norme tributarie
non possono costituire di per sé fonte di prova della
commissione del reato nel giudizio di merito, perché assumono esclusivamente il valore di dati di fatto che devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente ad elementi di riscontro, che diano certezza
dell'esistenza della condotta criminosa. Esse possono
però, in fase cautelare, proprio in quanto dati di fatto
oggetto di valutazione da parte del giudice, essere poste a fondamento dell'applicazione del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente.
Il caso
Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Palmi
rigettava la richiesta del Pubblico ministero di sequestro
Diritto penale e processo 6/2014
preventivo finalizzato alla confisca per equivalente di beni
immobili rientranti nella disponibilità dell'indagato, in relazione al reato di cui agli artt. 81, comma 2, c.p. e 4, d.lgs.
10 marzo 2000, n. 74. Il G.i.p. aveva infatti ritenuto sussistente il fumus del reato, ma aveva considerato non applicabile la modifica di cui all’art. 322 ter c.p., introdotta dall'art. 1, comma 75, lett. o, l. 6 novembre 2012, n. 190, che
consente la confisca per equivalente anche del profitto del
reato, mentre in precedenza era consentita la confisca solo
in relazione al prezzo del reato.
Il p.m. proponeva appello nei confronti di detto provvedimento. Il Tribunale del riesame riteneva condivisibile la diversa ricostruzione in diritto proposta dall’appellante e disponeva, pertanto, il sequestro degli immobili nella disponibilità dell'indagato, richiamando, quanto al fumus commissi delicti, gli atti di indagine e, in particolare, le note informative del 6 luglio 2012 e del 27 novembre 2012 della
Guardia di Finanza, inclusi i relativi allegati.
Contro tale ordinanza l’indagato proponeva, tramite il proprio difensore, ricorso per cassazione, rilevando, con un
unico motivo, la violazione dell'art. 321 c.p.p., nonché degli
artt. 4 del d.lgs. n. 74 del 2000 e 32, comma 1, n. 2, del
d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600. Ad avviso della difesa,
l'ordinanza del Tribunale sarebbe viziata poiché basata
esclusivamente sulla presunzione legale relativa di cui all'articolo 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, che opera in campo
tributario ma non in campo penale. Il fatto che proprio tale
presunzione, nascente dalle semplici movimentazioni finanziarie, sia stata posta a fondamento del sequestro, risulterebbe dal passaggio motivazionale in cui si dà conto
dell'onere probatorio in termini di certezza gravante sulla
difesa, che non avrebbe prodotto la documentazione in forza della quale ritenere che le movimentazioni di denaro,
poste alla base della contestazione del reato, non possono
costituire elemento della fattispecie.
La decisione
La Suprema Corte ha ritenuto il ricorso fondato.
Il Tribunale del riesame ha, ad avviso della Corte, fornito
una motivazione del tutto carente quanto al fumus del reato, limitandosi a ritenerlo sussistente «sulla base degli atti
di indagine» e, in particolare, delle informative della Guardia di Finanza, senza specificare, neanche in sintesi, il contenuto di tali atti e, soprattutto, senza precisare il metodo
utilizzato dagli accertatori per ritenere sussistente il reato.
La Cassazione ha poi ricordato che, secondo la giurisprudenza di legittimità, «le presunzioni legali previste dalle norme tributarie non possono costituire di per sé fonte di prova della commissione del reato nel giudizio di merito, perché assumono esclusivamente il valore di dati di fatto che
devono essere valutati liberamente dal giudice penale unitamente ad elementi di riscontro, che diano certezza dell'esistenza della condotta criminosa». Esse possono però, in
fase cautelare, proprio in quanto dati di fatto oggetto di valutazione da parte del giudice, essere poste a fondamento
dell'applicazione del sequestro preventivo finalizzato alla
confisca per equivalente, a condizione che il giudice della
cautela operi compiutamente e motivatamente una tale valutazione.
La Corte ha pertanto concluso sottolineando come nel caso di specie il Tribunale del riesame non abbia correttamente applicato tali principi, sia perché non ha neanche
per sommi capi richiamato le presunzioni legali utilizzate,
sia perché non ha proceduto ad una loro compiuta valutazione né in quanto tali, né unitamente agli altri elementi
eventualmente emergenti dal quadro probatorio.
701
Osservatorio
Processo penale
I precedenti
In senso conforme, Cass., Sez. III, 23 gennaio 2013, P.S.,
in C.E.D. Cass., n. 254853; Cass., Sez. III, 1 febbraio 1996,
Zullo, in Giur. imposte, 1996, 514.
In argomento, Cass., Sez. III, 14 maggio 2013, Ottaiano, in
C.E.D. Cass., n. 257620; Cass., Sez. III, 18 maggio 2011,
Mariutti, ivi, n. 251280; Cass., Sez. III, 26 novembre 2008,
C.M., ivi, n. 243089; Cass., Sez. III, 26 febbraio 2008,
D.C.P., ibidem, n. 239984; Cass., Sez. III, 18 dicembre
2007, D.B., ivi, n. 238825.
La dottrina
G. Amato, Reati tributari: nel sequestro ai fini della confisca
l’importo non deve eccedere il valore del profitto, in Guida
dir., 12, 38; E. Basso-A. Viglione, I reati tributari: profili sostanziali e processuali, Torino, 2013, 210; F. Fontana, L'onere probatorio sull'ammontare dell'imposta evasa, in Riv. giur.
trib., 2009, 3, 245; P. Gualtieri, Sub Art. 321 c.p.p., in
Comm. Giarda-Spangher, Milano, 2010, 3687; A. Iorio-S.
Mecca, Le presunzioni legali tributarie legittimano la confisca
per equivalente nel procedimento penale, in Corr. trib.,
2013, 14, 1091; G.L. Soana, I reati tributari, Milano, 2013,
58; F. Vergine, Il contrasto all’illegalità economica: confisca e
sequestro per equivalente, Padova, 2012, 337 e ss.; Id.,
Confisca e sequestro per equivalente, Milano, 2009, 167 e
ss.
SEQUESTRO CONSERVATIVO E PERICULUM IN MORA
Cassazione penale, Sez. I, 16 maggio 2014 (23 aprile
2014), n. 20471 - Pres. Giordano - Rel. Boni - P.G. Pratola (concl. conf.) - Ric. C.
Il requisito del periculum in mora, che consente l’imposizione del sequestro conservativo, deve essere oggetto
di puntuale verifica, avendo quali parametri di valutazione l’entità del credito tutelato, l’esistenza di elementi certi e sintomatici del possibile depauperamento del
patrimonio del debitore, da porsi in ulteriore relazione
con la composizione del patrimonio stesso, con la capacità reddituale e con l’atteggiamento assunto dal debitore medesimo.
Il caso
Il Tribunale di Padova rigettava la richiesta di riesame, presentata da G.G., ex liquidatore di due società già rinviate a
giudizio per l’illecito amministrativo dipendente da reato ex
artt. 5 e 24 ter d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, e confermava
l’ordinanza di sequestro conservativo, sino al concorrente
valore di 1.549.000,00 euro, dei beni immobili di dette società.
G.G. proponeva dunque ricorso per cassazione avverso
detta ordinanza e la Corte annullava con rinvio il provvedimento rilevando che già con una precedente ordinanza il
G.u.p. di Padova aveva disposto il sequestro conservativo
di detti immobili, ai sensi degli artt. 54 d.lgs. 231/2001 e
316 c.p.p., e che la stessa era stata annullata a seguito di
riesame per mancanza del requisito del pericolo di dispersione dei beni stessi. Il successivo ulteriore provvedimento
di sequestro, pur apparentemente basato sul diverso presupposto per cui la persona del liquidatore era coinvolto
nell’indagine, e risultava quindi privo di integrità morale, si
poneva, in realtà, secondo la Corte, in evidente violazione
del giudicato cautelare in quanto si trattava di un dato fattuale in realtà inesistente dal momento che il soggetto
702
coinvolto nel procedimento era diverso da quello che aveva
promosso l’impugnazione.
Il Tribunale di Padova, in sede di rinvio, confermava, però,
il provvedimento di sequestro, «rilevando che in merito al
requisito del periculum in mora, inteso quale probabilità di
sottrazione dei beni alla garanzia di adempimento dei crediti da tutelare, il relativo giudizio era condizionato dall’evoluzione dei fatti nel corso del tempo, sicché il giudicato
cautelare poteva superarsi in considerazione del fatto che
all’epoca della prima decisione assunta dal Tribunale del
riesame era stato ignorato il coinvolgimento del liquidatore
delle società nel procedimento penale e che proprio la sorprendete rapidità con la quale costui era stato sostituito
con un collegio di liquidatori, determinazione assunta strumentalmente a ridosso della decisione del Tribunale, dimostrava la chiara volontà di mantenere il controllo del patrimonio e l’elevato pericolo della sua sottrazione con pregiudizio della garanzia costituita a vantaggio dello Stato in caso di condanna».
Avverso tale decisione proponeva ricorso per cassazione
il liquidatore E.Z., deducendo, per quel che qui importa,
violazione dell’art. 316 c.p.p. quanto alla ritenuta sussistenza del periculum in mora: il Tribunale, in sede di rinvio, non si era infatti attenuto al principio di diritto espresso dalla Corte di legittimità, valorizzando invece, nuovamente, la circostanza dell’avvenuta sostituzione della persona del liquidatore, che già la Corte aveva ritenuto inidonea a superare la preclusione processuale costituita dal
precedente annullamento da parte del Tribunale del riesame, senza peraltro effettuare alcuna verifica circa il compimento di atti o comportamenti concretamente idonei a
manifestare la volontà di occultare o sottrarre i beni della
società.
La decisione
La Cassazione ha ritenuto il ricorso fondato.
Ha innanzitutto premesso come già la precedente sentenza
della Corte avesse stabilito l’inidoneità, quale elemento di
novità che potesse consentire il superamento della preclusione processuale, del coinvolgimento del nuovo liquidatore nell’indagine riguardante il falso in bilancio. Non era infatti emerso a carico dei componenti del nuovo collegio alcun precedente penale o giudiziario in grado di dimostrare
l’inaffidabilità contabile e gestionale. Anzi, era stato sollecitato un nuovo esame della situazione patrimoniale della società per individuare eventuali atti o comportamenti che
mettessero in luce la volontà di occultare o sottrarre i beni
in questione, in ossequio al costante orientamento di legittimità per cui «il requisito del periculum in mora, che consente l’imposizione del sequestro conservativo, deve essere oggetto di puntuale verifica, avendo quali parametri di
valutazione l’entità del credito tutelato, l’esistenza di elementi certi e sintomatici del possibile depauperamento del
patrimonio del debitore, da porsi in ulteriore relazione con
la composizione del patrimonio stesso, con la capacità reddituale e con l’atteggiamento in concreto assunto dal debitore».
Contrariamente alle indicazioni fornite dalla Cassazione, il
Tribunale ha invece stabilito un censurabile automatismo
tra la scelta della persona del precedente liquidatore e la
sua successiva sostituzione con un nuovo collegio di professionisti, peraltro non colpiti da alcun precedente, da
un lato, e il rischio di dispersione del patrimonio, dall’altro.
Ha inoltre omesso di dar conto in motivazione dell’entità
del debito, della consistenza del patrimonio della società,
Diritto penale e processo 6/2014
Osservatorio
Processo penale
degli eventi gestionali nel frattempo posti in essere e tali
da far temere un concreto pregiudizio per la conservazione del patrimonio; così come non ha illustrato le ragioni
per le quali, invece, la sostituzione del liquidatore “colluso” con dei professionisti in grado di assicurare invece la
correttezza dei comportamenti dovesse essere censurato.
In altre parole il provvedimento del Tribunale del riesame è
incorso in violazione di legge quanto ai presupposti applicativi dell’art. 316 c.p.p. e di motivazione apparente laddove non ha confutato gli argomenti esposti nella richiesta di
riesame e ha anzi riproposto lo stesso argomento che già
aveva determinato l’annullamento del precedente senza
superare la preclusione processuale già formatasi.
La Corte di cassazione ha così annullato l’ordinanza rinviando nuovamente al Tribunale di Padova per un nuovo
esame da condursi, questa volta, alla stregua dei principi
ribaditi dalla stessa.
I precedenti
Cass., Sez. II, 21 settembre 2012, P.m. in c. Galofaro, in
C.E.D. Cass., n. 254340; Cass., Sez. VI, 15 marzo 2012,
Lombardi, ibidem, n. 252865; Cass., Sez. V, 27 gennaio
2011, A.D. e altro, ivi, n. 249607; Cass., Sez. II, 26 gennaio
2011, G.G., ibidem, n. 249663; Cass., Sez. V, 2 febbraio
2011, P.c. in c. Frustaci, ibidem, n. 250209; Cass., Sez. V,
16 febbraio 2010, Leone, ivi, n. 246367; Cass., Sez. III, 30
aprile 2009, B.G., ivi, n. 244371; Cass., Sez. IV, 26 ottobre
2005, Pampo, in Arch. n. proc. pen., 2006, 4, 422.
La dottrina
E. Aprile, Le misure cautelari nel processo penale, Milano,
2003, 471; R. Cappitelli, Appunti in tema di esegesi dell’art
316, 1° comma, c.p.p., in Cass. pen., 2004, 1843; Id., Sull’interpretazione dell’art. 316 comma 1: limiti sistematici del
sequestro conservativo, in Rass. giust. mil., 2005, 217; P.
Gualtieri, Sequestro conservativo, in Trattato di procedura
penale, diretto da G. Spangher, 2, Le misure cautelari, a cura di A. Scalfati, Torino, 2008, 343, M. Montagna, Sequestro conservativo, in Dig. pen., XIII, Torino, 1997, 220.
NULLITÀ
OMESSO AVVISO AL DIFENSORE DI FIDUCIA
DELLA FISSAZIONE DELL’UDIENZA
Cassazione penale, Sez. I, 16 maggio 2014 (28 marzo
2014), n. 20449 - Pres. Zampetti - Rel. Lombardo - P.m.
Gialanella (concl. conf.) - Ric. Z.A.
L’omesso avviso al difensore di fiducia dell’udienza per
cui è prevista la presenza necessaria della difesa tecnica
integra una nullità assoluta insanabile.
Il caso
Il Tribunale di Roma dichiarava la penale responsabilità di
Z.A., per il reato di cui all’art. 4, l. 18 aprile 1975, n. 110,
condannandolo alla pena di 200,00 euro di ammenda.
Avverso detta sentenza proponeva appello il difensore,
convertito in ricorso per cassazione, deducendo la nullità
della sentenza per omessa notificazione al difensore di fiducia dell’avviso di conclusione delle indagini e del decreto
di citazione a giudizio, con conseguente assenza del difensore di fiducia nel dibattimento svoltosi a carico dell’imputato.
Diritto penale e processo 6/2014
La decisione
La Suprema Corte ha ritenuto il ricorso fondato.
Dagli atti di indagine risultava, infatti, che Z.A. aveva proceduto alla nomina di un difensore di fiducia ma, ciò nonostante, non fossero stati notificati al difensore di fiducia,
bensì ad un difensore di ufficio, sia l’avviso di conclusione
delle indagini preliminari, sia il decreto di citazione diretta a
giudizio.
Ad avviso della Corte, se l’omessa notificazione dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari rientra certamente tra le nullità di ordine generale a regime intermedio, previste dall'art. 178, lett. c, c.p.p. che, non essendo
stata dedotta nel giudizio di primo grado, non può più essere rilevata dopo la deliberazione della sentenza di primo grado, l’assenza del difensore di fiducia nel dibattimento rientra invece nel novero delle nullità assolute "insanabili".
La nullità assoluta, infatti, deve ritenersi integrata non solo
nel caso estremo in cui il dibattimento si svolga in assenza
di qualunque difensore dell'imputato, ma anche nel caso in
cui il difensore di fiducia, non presente poiché non avvisato, venga sostituito da un difensore di ufficio appositamente nominato. In quest’ultima evenienza, «la nomina del difensore di ufficio avviene al di fuori delle ipotesi consentite
dall'art. 97, comma 3, c.p.p., e soprattutto non rimedia alla
intervenuta lesione del diritto dell'imputato di scegliere il
proprio difensore e di essere assistito, nei casi in cui l'assistenza tecnica è obbligatoria, non da un qualunque difensore ma dal "suo difensore", come letteralmente recita il disposto dell'art. 179, comma 1, c.p.p.».
Il Supremo Collegio, pur dando atto del diverso orientamento in seno alla stessa Corte secondo cui l'omesso avviso al difensore di fiducia della data fissata per l'udienza
dà luogo a una nullità di ordine generale a regime intermedio, sanata qualora né l'indagato né il difensore nominato d'ufficio la eccepiscano tempestivamente a norma
dell'art. 182, comma 2, c.p.p., ha condiviso la tesi interpretativa secondo cui «integra una nullità assoluta insanabile l'omesso avviso al difensore di fiducia della fissazione
dell'udienza per cui è prevista la presenza necessaria della
difesa tecnica».
Sulla base delle suddette motivazioni, la Corte ha annullato
la sentenza con rinvio al Tribunale di Roma perché procedesse a nuovo giudizio, previa rinnovazione della notificazione del decreto di citazione a giudizio all'imputato e al
suo difensore di fiducia.
I precedenti
In senso conforme, Cass., Sez. III, 11 ottobre 2012, Ermonsele, in C.E.D. Cass., n. 253873; Cass., Sez. V, 13 dicembre
2004, Cerenza, ivi, n. 231291.
In senso contrario, Cass., Sez. V, 7 novembre 2013, Parisi,
in C.E.D. Cass., n. 257820; Cass., Sez. V, 12 febbraio 2009,
Caushi, ivi, n. 243164; Cass., Sez. III, 16 ottobre 2008, Pusceddu, ivi, n. 241499; Cass., Sez. II, 23 novembre 2004,
Medile, ivi, n. 230225; Cass., Sez. V, 18 febbraio 1997, Santoro, ivi, n. 207011.
La dottrina
A. Capone, L'invalidità nel processo penale: tra teoria e
dogmatica, Padova, 2012, 200; P. Corvi, Sub Art. 179
c.p.p., in Comm. Giarda-Spangher, Milano, 2010, 1722; P.
Di Geronimo, La nullità degli atti nel processo penale, Milano, 2011, 135; O. Dominioni, Sub art. 179 c.p.p., in
Comm. Amodio-Dominioni, II, Milano, 1989, 282; K. La
Regina, Nullità, in Studium iuris, 2008, 11, 1272; G. Mara-
703
Osservatorio
Processo penale
botto, Nullità del processo penale, in Dig. pen, Torino,
1994, 276; G. Magliocca, Le nullità, in Trattato di procedura penale, diretto da G. Spangher, 1, Soggetti e atti, a cura
di G. Dean, Torino, 2008, 382; P. Moscarini, Sub art. 185
c.p.p., in Comm. Conso-Grevi, Padova, 1987, 626; N. Trig-
704
giani, L' omessa notifica dell'avviso della data dell'udienza
a uno dei difensori nominati dall'imputato tra vecchio e
nuovo codice, in Cass. pen., 1993, 12, 2866; G. Vismara,
Sulla omissione dell’avviso di dibattimento al difensore, in
Riv. dir. proc., 1982, 1, 153.
Diritto penale e processo 6/2014
Osservatorio
Contrasti giurisprudenziali
Osservatorio Contrasti
giurisprudenziali
a cura di Alfredo Montagna
MISURE CAUTELARI
DIVIETO DI AVVICINAMENTO ED ONERE DI INDIVIDUZIONE
DEI LUOGHI OGGETTO DI DIVIETO
Cassazione penale, Sez. V, 9 settembre 2013 (c.c. 16
gennaio 2013), n. 36887 - Pres. Zeccha - Rel. Micheli P.M. Izzo (concl. conf.) - Ric. A. M.
Se la misura cautelare del divieto di avvicinamento prevista dall'art. 282 ter c.p.p. debba necessariamente indicare in maniera specifica e dettagliata i luoghi oggetto
del divieto, o se sia irrilevante l’individuazione di luoghi
di abituale frequentazione della vittima”
Con la l. 4 aprile 2001, n. 154, contro la violenza nelle relazioni familiari, veniva introdotto, ex art. 1, l'art. 282 bis
c.p.p., che, al comma 2, prevede la possibilità per il giudice
di prescrivere all'indagato di «non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa, in
particolare il luogo di lavoro, il domicilio della famiglia di
origine o dei prossimi congiunti». La condizione per il ricorso a tale misura cautelare è che sussistano esigenze di tutela dell'incolumità della persona offesa; così rispondendo
a specifiche ragioni di cautela special-preventiva, riferite
non solo e non tanto alla personalità dell'indagato ed alla
sua inclinazione alla commissione di reati, bensì alla posizione della persona offesa ed i rapporti fra la stessa ed il
soggetto agente. Come è evidente una visione che, in aderenza altresì alle direttive dell’unione europea sulla vittima
del reato, pone al centro dell’attenzione legislativa la persona offesa dal reato.
Successivamente, con il d.l. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito con l. 23 aprile 2009, n. 38, nell’introdurre, ex art. 7,
la nuova fattispecie incriminatrice di cui all'art. 612 bis c.p.
(atti persecutori) veniva altresì emanata all'art. 9 la disposizione integrativa della misura del divieto di avvicinamento
ai luoghi frequentati dalla persona offesa, di cui all'art. 282
ter c.p.p., comma 1, ai sensi del quale «il giudice prescrive
all'imputato di non avvicinarsi a luoghi determinati abitualmente frequentati dalla persona offesa ovvero di mantenere una determinata distanza da tali luoghi o dalla persona
offesa».
In merito si veda altresì la direttiva del Parlamento Europeo
e del Consiglio UE n. 2001 del 13/12/2011, in tema di "ordine di protezione Europeo", che precede la possibilità di
emissione di un ordine di protezione Europeo a condizione
che nello Stato di emissione sia stata precedentemente
adottata una misura di protezione che impone alla persona
che determina il pericolo: a) divieto di frequentare determinate località, determinati luoghi o determinate zone definite in cui la persona protetta risiede o che frequenta; b) divieto o regolamentazione dei contatti, in qualsiasi forma,
con la persona protetta, anche per telefono, posta elettronica o ordinaria, fax o altro; c) divieto o regolamentazione
Diritto penale e processo 6/2014
dell'avvicinamento alla persona protetta entro un perimetro
definito.
A fronte di tale quadro normativo parte della giurisprudenza ha ritenuto che la norma imponga che vengano individuati luoghi determinati nell'ambito di quelli abitualmente
frequentati dalla persona offesa, perché solo in questo modo il provvedimento assumerebbe una conformazione
completa, che ne consentirebbe non solo l'esecuzione, ma
anche il controllo che tali prescrizioni siano osservate.
Si aggiunge in proposito che la completezza e la specificità
del provvedimento costituisce una garanzia per un giusto
contemperamento tra le esigenze di sicurezza, incentrate
sulla tutela della vittima, ed il sacrificio della libertà di movimento della persona sottoposta ad indagini.
Conseguentemente si è affermato che con il provvedimento ex art. 282 ter c.p.p., il giudice debba necessariamente
indicare in maniera specifica e dettagliata i luoghi rispetto
ai quali all'indagato è fatto divieto di avvicinamento (cfr.
Sez. VI, 7 aprile 2011, n. 26819, in Ced Cass. 250728; Sez.
V, 4 aprile 2013, n. 27798, ivi, 257697).
Diversamente altra giurisprudenza ha sostenuto che a seguito del secondo intervento normativo citato, ove è contenuto il riferimento “non più solo ai luoghi frequentati dalla
persona offesa, ma, altresì, alla persona offesa in quanto
tale”, il legislatore abbia espresso una precisa scelta di privilegio della libertà di circolazione del soggetto passivo, garantendone l’incolumità anche quando la condotta dell’autore non sia legata a particolari ambiti locali.
Si osserva in merito che normalmente la condotta dell’autore del reato di cui all’art. 612 bis c.p. si caratterizza per la
persistente ed invasiva ricerca di contatto con la vittima, in
qualsiasi luogo in cui la stessa si trovi; da ciò l’esigenza di
individuare la stessa persona offesa, e non i luoghi da essa
frequentati, come riferimento centrale del divieto di avvicinamento.
Una scelta alla base della affermazione che «il divieto di avvicinamento previsto dall’art. 282 ter c.p.p., riferendosi alla
persona offesa in quanto tale, e non solo ai luoghi da questa frequentati, esprime una precisa scelta normativa di
privilegio della libertà di circolazione del soggetto passivo
ovvero di priorità dell’esigenza di consentire alla persona
offesa il completo svolgimento della propria vita sociale in
condizioni di sicurezza, anche laddove la condotta di persistenza persecutoria non sia legata a particolari ambiti locali; con la conseguenza che il contenuto concreto della misura in questione deve modellarsi rispetto alla predetta esigenza e che la tutela della libertà di circolazione e di relazione della persona offesa non trova limitazioni nella sola
sfera del lavoro, degli affetti familiari e degli ambiti ad essa
assimilabili».
(Cfr. Sez. V, 16 gennaio 2013, n. 36887, in Ced Cass.
257184; Sez. V, 16 gennaio 2012, n. 13568, ivi, 253296;
Sez. V, 26 marzo 2013, n. 19552, ivi, 255513; Sez. V, 27
febbraio 2013, n. 14297, inedita).
705
Osservatorio
Contrasti giurisprudenziali
IMPUTATO DETENUTO ED OMESSA TRADUZIONE
PER L’UDIENZA CAMERALE DI RIESAME
Cassazione penale, Sez. VI, 31 ottobre 2013 (c.c. 17 ottobre 2013), n. 44415 - Pres. Agrò - Rel. Aprile - P.M.
Mazzotta (concl. conf.) - Ric. Blam
Se nel procedimento camerale di riesame o di appello
la mancata traduzione in udienza dell’imputato o dell’indagato, detenuto al di fuori della circoscrizione, e
che abbia richiesto di presenziare, determini o meno la
nullità del provvedimento e la inefficacia della misura.
La sentenza in esame, ove il motivo di ricorso si fondava
sul fatto che il Tribunale del riesame aveva disatteso l'eccezione di nullità del procedimento camerale svoltosi in assenza dell'indagato, non tradotto all'udienza benché lo
stesso, all'epoca detenuto in un luogo diverso da quello
ove aveva sede il Tribunale, avesse domandato di essere
tradotto per essere sentito personalmente, annullando la
impugnata decisione, si colloca nel solco di uno dei due
orientamenti presenti all’interno della giurisprudenza di legittimità, sostenendo la necessità di tradurre l’imputato o
l’indagato detenuto fuori circondario, onde consentirgli di
partecipare all’udienza camerale di riesame o di appello,
pur se con una attenuazione delle conseguenze.
Infatti secondo l’opzione interpretativa richiamata dal ricorrente in tema di procedimento camerale partecipato de libertate, quale disciplinato dall'art. 127 c.p.p., richiamato
dall'art. 309 c.p.p., comma 8, qualora l'interessato, detenuto o internato in luogo posto fuori dalla circoscrizione del
giudice, abbia avanzato richiesta di essere sentito personalmente, il giudice sarebbe vincolato, a pena di nullità, a
disporne la traduzione dinanzi a sé, senza possibilità di alcuna valutazione discrezionale. Da ciò l’orientamento in
esame ricava poi che la mancata traduzione in udienza o,
comunque, la mancata possibilità di presenziare all'udienza
da parte dell'interessato, qualora lo abbia richiesto, darebbe luogo ad una nullità assoluta ed insanabile dell'udienza
e del provvedimento conclusivo (si veda in merito Corte
cost. sent. n. 45 del 1991).
La ratio di tale scelta fonda sulla peculiarità del procedimento di riesame, caratterizzato dalla facoltà dell’indagato
(o del suo difensore) di avanzare una richiesta di riesame
del tutto immotivata, riservandosi di formulare per la prima
706
volta i motivi a sostegno del gravame solo nell’udienza di
trattazione dell’impugnazione.
Ciò ovviamente a condizione che la sollecitazione dell'indagato detenuto fuori dalla circoscrizione del giudice sia tempestiva in relazione al momento in cui lo stesso ha ricevuto
la notifica dell'avviso di fissazione dell'udienza, in quanto
non sarebbe giustificato sanzionare con la nullità il mancato compimento di un atto che l'autorità giudiziaria non sia
stata posta in condizione di compiere, dati i tempi ristretti
di svolgimento della procedura camerale di riesame.
Secondo i giudici della sesta sezione, una volta che il detenuto abbia adempiuto a tale onere gli andrebbe riconosciuto un vero e proprio diritto di presenziare all’udienza; ma la
inosservanza di tale diritto mentre determina una nullità assoluta che impone alla Corte di cassazione di annullare con
rinvio la decisione del tribunale della libertà, non si accompagnerebbe alla dichiarazione di inefficacia della misura.
(Espressione di questo più rigido orientamento Sez. II, 16
maggio 2012, n. 22959, Dissegna, in Ced Cass 253190;
Sez. VI, 22 gennaio 2008, n. 10319, Di Benedetto, ivi,
239084; Sez. II, 4 dicembre 2006, n.1099/2007, Di Girolamo ivi, 235621; Sez. V, 27 settembre 2006, n. 37034, Sciascia, ivi, 235284.)
A questo orientamento se ne contrappone altro, secondo il
quale, essendo il riesame una procedura tipicamente camerale, ai sensi dell’art. 127, comma terzo, c.p.p., il diritto
ad interloquire del detenuto in luogo posto fuori dalla circoscrizione si potrebbe facendosi sentire, prima del giorno
dell’udienza, dal magistrato di sorveglianza del luogo ove è
detenuto.
La possibilità di presenziare all’udienza potrebbe eventualmente essere subordinata ad una valutazione da parte del
tribunale, ove essa non sia particolarmente defatigatoria o
tale da ostacolare il rispetto dei termini della procedura.
È evidente che la mancata audizione del detenuto anche
da parte del magistrato di sorveglianza darebbe luogo ad
una nullità assoluta dell'udienza camerale e del suo provvedimento conclusivo (in questo senso Sez. IV, 29 maggio
2013, n. 26993, in Ced Cass. 255461).
(Per questo secondo orientamento: Sez. IV, 12 luglio 2007,
n. 39834, Cammarata, in Ced cass. 237886; Sez. II, 27 giugno 2006, n. 29602, Scarcia, ivi, 235313; Sez. I, 2 marzo
2001, n. 17628, Schiavone, ivi, 218818).
Diritto penale e processo 6/2014
Giurisprudenza
Diritto penale
Diritto penale tributario
Il legislatore penale tributario
a lezione di ragionevolezza
dalla Corte costituzionale
CORTE COSTITUZIONALE, 8 aprile 2014 (c.c. 7 aprile 2014), n. 80 - Pres. Silvestri - Rel. Frigo
L'art. 10 ter del d.lgs. n. 74 del 2000 è costituzionalmente illegittimo nella parte in cui, con riferimento ai fatti
commessi sino al 17 settembre 2011, punisce l'omesso versamento dell'IVA, dovuta in base alla relativa dichiarazione annuale, per importi non superiori, per ciascun periodo di imposta, ad euro 103.291,38.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Non constano precedenti conformi in termini
Difforme
Non constano precedenti difformi in termini
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.- Il Tribunale di Bologna dubita della legittimità costituzionale dell'art. 10-ter del decreto legislativo 10
marzo 2000, n. 74 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma
dell'articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205), nella
parte in cui, limitatamente ai fatti commessi sino al 17
settembre 2011, punisce l'omesso versamento dell'imposta sul valore aggiunto (IVA), dovuta in base alla relativa dichiarazione annuale, per importi superiori, per ciascun periodo di imposta, ad euro 50.000 ma non ad euro 77.468,53.
Ad avviso del giudice a quo, la norma censurata violerebbe l'art. 3 della Costituzione, determinando una irragionevole disparità di trattamento fra il soggetto che essendo tenuto a versare l'IVA per un importo compreso nell'intervallo tra i predetti valori - non abbia presentato la relativa dichiarazione annuale al fine di evadere l'imposta, e il soggetto che, trovandosi nelle medesime condizioni, abbia presentato regolarmente la dichiarazione senza tuttavia versare l'imposta entro il termine stabilito. Nel primo caso, infatti - ove si tratti di
violazione anteriore al 17 settembre 2011 - il contribuente resta esente da pena, stante il mancato raggiungimento della soglia di punibilità di 77.468,53 euro,
prevista per l'omessa dichiarazione dall'art. 5 del d.lgs.
n. 74 del 2000, prima della modifica operata dall'art. 2,
comma 36-vicies semel, lettera f), del decreto-legge 13
agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito,
con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n.
148. Nel secondo caso, invece - benché si tratti di condotta meno lesiva degli interessi del fisco - il contribuente incorre in responsabilità penale, anche per i fatti
Diritto penale e processo 6/2014
commessi sino al 17 settembre 2011, in ragione del superamento della soglia di punibilità di 50.000 euro, prevista dalla norma censurata per l'omesso versamento
dell'IVA.
2.- Il citato art. 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000 è ritenuto in contrasto con l'art. 3 Cost. anche dal Tribunale di
Bergamo, nella parte in cui prevede, per l'omesso versamento dell'IVA, una soglia di punibilità inferiore a
quelle stabilite per la dichiarazione infedele e l'omessa
dichiarazione dagli artt. 4 e 5 del medesimo decreto legislativo, prima delle modifiche apportate dal d.l. n.
138 del 2011 (rispettivamente, euro 103.291,38 ed euro
77.468,53).
Secondo il rimettente, la norma denunciata violerebbe
il principio di eguaglianza, assoggettando il contribuente che, dopo avere regolarmente presentato la dichiarazione annuale IVA, ometta il versamento dell'imposta,
ad un trattamento paradossalmente deteriore rispetto a
quello riservato al contribuente che non presenti la dichiarazione o presenti una dichiarazione infedele, occultando il debito di imposta: condotte, queste ultime, più
insidiose, in quanto implicanti, oltre all'evasione di imposta, anche un ostacolo all'accertamento tributario.
3.- Le ordinanze di rimessione sollevano questioni analoghe, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.
4.- La questione sollevata dal Tribunale di Bologna è
manifestamente inammissibile.
Il giudice a quo, infatti, ha totalmente omesso di descrivere la fattispecie concreta sulla quale è chiamato a
pronunciarsi, affermando la rilevanza della questione in
termini meramente assertivi (ex plurimis, ordinanze n.
192, n. 150 e n. 99 del 2013).
707
Giurisprudenza
Diritto penale
5.- La questione sollevata dal Tribunale di Bergamo è
fondata.
La norma incriminatrice di cui all'art. 10-ter del d.lgs.
n. 74 del 2000, che delinea il reato di «omesso versamento di IVA», è stata introdotta - al pari di quella di
cui al successivo art. 10-quater (che punisce il delitto di
«indebita compensazione») - dall'art. 35, comma 7, del
decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti
per il rilancio economico e sociale, per il contenimento
e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248. L'intervento si colloca nel quadro del
processo di parziale revisione della strategia politico-criminale sottesa alla riforma penale tributaria realizzata
dal d.lgs. n. 74 del 2000: strategia consistente nella focalizzazione dell'intervento repressivo preminentemente
sulla fase dell'"autoaccertamento" del debito di imposta,
ossia della dichiarazione annuale ai fini delle imposte
sui redditi e sul valore aggiunto.
Ponendosi sulla scia della previsione punitiva di cui all'art. 10-bis del d.lgs. n. 74 del 2000, aggiunto dall'art.
1, comma 414, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria
2005)» - con cui era stato reintrodotto il delitto di
omesso versamento di ritenute da parte del sostituto di
imposta, soppresso dalla riforma del 2000 - la norma incriminatrice che qui interessa mira infatti a colpire, con
specifico riferimento all'IVA, i fenomeni di evasione
che si realizzino nella fase successiva a quella di determinazione della base imponibile: vale a dire, nella fase
di riscossione dell'imposta.
In questa prospettiva, la norma sottoposta a scrutinio
stabilisce che «la disposizione di cui all'articolo 10-bis si
applica, nei limiti ivi previsti, anche a chiunque non
versa l'imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla
dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell'acconto relativo al periodo di imposta successivo»: e cioè - in forza dell'art. 6, comma 2, della legge
29 dicembre 1990, n. 405, recante «Disposizioni per la
formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 1991)» - entro il 27 dicembre dell'anno successivo al periodo di imposta di riferimento.
Il richiamo della norma censurata all'art. 10-bis dello
stesso d.lgs. n. 74 del 2000, oltre ad individuare il trattamento sanzionatorio (reclusione da sei mesi a due anni), vale ad estendere alla violazione in esame la soglia
quantitativa di punibilità stabilita dalla disposizione richiamata per l'omesso versamento di ritenute («nei limiti ivi previsti»). L'omesso versamento dell'IVA costituisce, di conseguenza, reato solo se di «ammontare superiore a cinquantamila euro per ciascun periodo di imposta».
6.- Per il modo in cui è strutturata, la previsione punitiva protegge, dunque, l'interesse del fisco alla riscossione
dell'imposta così come "autoliquidata" dallo stesso contribuente. Come chiaramente si desume dalla lettera
della norma, presupposto per la sua applicazione è, infatti, che il soggetto di imposta abbia presentato la di-
708
chiarazione annuale ai fini dell'IVA, dalla quale risulti
un saldo debitorio superiore a 50.000 euro, senza che sia
seguito il pagamento, entro il termine previsto, della
somma ivi indicata come dovuta.
A fronte di ciò, emerge, peraltro, un evidente difetto di
coordinamento tra la soglia di punibilità inerente al delitto che interessa e quelle relative ai delitti in materia
di dichiarazione di cui agli artt. 4 e 5 del d.lgs. n. 74 del
2000 (dichiarazione infedele e omessa dichiarazione):
difetto di coordinamento foriero di sperequazioni sanzionatorie che, per la loro manifesta irragionevolezza,
rendono censurabile l'esercizio della discrezionalità pure
spettante al legislatore in materia di configurazione delle fattispecie astratte di reato (ex plurimis, sentenze n.
68 del 2012, n. 273 e n. 47 del 2010).
Anteriormente alle modifiche legislative di cui poco oltre si dirà, l'art. 5 del d.lgs. n. 74 del 2000 richiedeva,
per la punibilità dell'omessa dichiarazione (consistente
nel fatto di chi, «al fine di evadere le imposte sui redditi
o sul valore aggiunto, non presenta, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte»), che l'imposta evasa fosse superiore, con riferimento a taluna delle singole i mposte, ad e uro
77.468,53. Ciò comportava una conseguenza palesemente illogica, nel caso in cui l'IVA dovuta dal contribuente si situasse nell'intervallo tra le due soglie (eccedesse, cioè, i 50.000 euro, ma non i 77.468,53 euro). In
tale evenienza, infatti, veniva trattato in modo deteriore chi avesse presentato regolarmente la dichiarazione
IVA, senza versare l'imposta dovuta in base ad essa, rispetto a chi non avesse presentato la dichiarazione, evadendo del pari l'imposta. Nel primo caso, il contribuente avrebbe dovuto rispondere del reato di omesso versamento dell'IVA, stante il superamento della relativa soglia di punibilità; nel secondo sarebbe rimasto invece
esente da pena, non risultando attinto il limite di rilevanza penale dell'omessa dichiarazione.
Analoga discrasia era ravvisabile in rapporto alla dichiarazione infedele (consistente nel fatto di chi, fuori
dei casi previsti dagli artt. 2 e 3 del d.lgs. n. 74 del
2000, «al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali
relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi»), la cui punibilità presupponeva, ai sensi dell'art. 4,
che l'imposta evasa risultasse superiore, con riferimento
a taluna delle singole imposte, ad euro 103.291,38. Laddove, infatti, l'IVA da versare si collocasse tra l'uno e
l'altro limite di rilevanza (50.000 e 103.291,38 euro),
fruiva di un miglior trattamento il contribuente che
presentasse una dichiarazione inveritiera (non punibile
per mancato superamento della relativa soglia), rispetto
al contribuente che esponesse invece fedelmente la propria situazione in dichiarazione, salvo poi a non versare
l'imposta di cui si era riconosciuto debitore.
La lesione del principio di eguaglianza insita in tale assetto è resa manifesta dal fatto che l'omessa dichiarazione e la dichiarazione infedele costituiscono illeciti incontestabilmente più gravi, sul piano dell'attitudine lesiva degli interessi del fisco, rispetto all'omesso versa-
Diritto penale e processo 6/2014
Giurisprudenza
Diritto penale
mento dell'IVA: e ciò, nella stessa considerazione del
legislatore, come emerge dal raffronto delle rispettive
pene edittali (reclusione da uno a tre anni, per i primi
due reati; da sei mesi a due anni, per il terzo).
Il contribuente che, al fine di evadere l'IVA, presenta
una dichiarazione infedele, tesa ad occultare la materia
imponibile, o non presenta affatto la dichiarazione, tiene una condotta certamente più "insidiosa" per l'amministrazione finanziaria - in quanto idonea ad ostacolare
l'accertamento dell'evasione (e, nel secondo caso, a celare la stessa esistenza di un soggetto di imposta) - rispetto a quella del contribuente che, dopo aver presentato la dichiarazione, omette di versare l'imposta da lui
stesso autoliquidata (omissione che può essere dovuta
alle più varie ragioni, anche indipendenti da uno specifico intento evasivo, essendo il delitto di cui all'art. 10ter a dolo generico). In questo modo, infatti, il contribuente rende la propria inadempienza tributaria palese
e immediatamente percepibile dagli organi accertatori:
sicché, in sostanza, finisce per essere trattato in modo
deteriore chi - coeteris paribus - ha tenuto il comportamento maggiormente meno trasgressivo.
7.- Lo stesso legislatore ha mostrato, del resto, di essersi
avveduto dell'incongruenza.
L'art. 2, comma 36-vicies semel, del d.l. n. 138 del 2011,
aggiunto dalla legge di conversione n. 148 del 2011, ha
infatti ridotto la soglia di punibilità dell'omessa dichiarazione a 30.000 euro (lettera f) e quella della dichiarazione infedele a 50.000 euro (lettera d): dunque, ad un
importo inferiore, nel primo caso, e pari, nel secondo, a
quello della soglia di punibilità dell'omesso versamento
dell'IVA, rimasta per converso inalterata. In tal modo,
la distonia dianzi evidenziata è venuta meno.
Per espressa previsione dell'art. 2, comma 36-vicies bis,
del d.l. n. 138 del 2011, le modifiche in questione sono,
tuttavia, applicabili ai soli fatti successivi alla data di
entrata in vigore della relativa legge di conversione (17
settembre 2011). Né potrebbe essere altrimenti, discutendosi di modifiche di segno sfavorevole per il reo (all'abbassamento delle soglie corrisponde, infatti, un ampliamento dell'area di rilevanza penale).
Ne consegue che, con riguardo ai fatti commessi sino
alla predetta data, il vulnus costituzionale permane.
8.- Al fine di rimuovere nella sua interezza la riscontrata duplice violazione del principio di eguaglianza è necessario evidentemente allineare la soglia di punibilità
dell'omesso versamento dell'IVA - quanto ai fatti commessi sino al 17 settembre 2011 - alla più alta fra le soglie di punibilità delle violazioni in rapporto alle quali
si manifesta l'irragionevole disparità di trattamento:
quella, cioè, della dichiarazione infedele (euro
103.291,38).
Una disparità di trattamento similare si riscontra, in verità, anche con riferimento al delitto di dichiarazione
fraudolenta mediante altri artifici, previsto dall'art. 3
del d.lgs. n. 74 del 2000 (non, invece, con riguardo al
delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, di cui
all'art. 2, che è privo di soglia). La circostanza resta, peraltro, in concreto irrilevante sugli esiti dell'odierno
giudizio, giacché la soglia di punibilità relativa a tale
delitto è uguale a quella dell'omessa dichiarazione (e,
dunque, inferiore a quella della dichiarazione infedele,
cui va ragguagliata, per quanto detto, la declaratoria di
illegittimità costituzionale).
Irrilevante risulta anche la circostanza che, tanto per la
dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici che per
la dichiarazione infedele, sia prevista - in aggiunta alla
soglia di punibilità riferita all'imposta evasa - una ulteriore e concorrente soglia, riferita all'«ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all'imposizione»
(artt. 3, comma 1, lettera b, e 4, comma 1, lettera b).
Tale soglia è, infatti, chiaramente inconciliabile con la
materialità del delitto di omesso versamento dell'IVA,
che prescinde dalla sottrazione all'imposizione di elementi attivi.
9.- L'art. 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000 va dichiarato,
pertanto, costituzionalmente illegittimo nella parte in
cui, con riferimento ai fatti commessi sino al 17 settembre 2011, punisce l'omesso versamento dell'IVA, dovuta
in base alla relativa dichiarazione annuale, per importi
non superiori, per ciascun periodo di imposta, ad euro
103.291,38.
IL COMMENTO
di Giovanni Flora
Con la sentenza in commento, la Corte costituzionale non solo procede ad eliminare una evidente disarmonia presente nel quadro complessivo dei reati in materia di I.V.A., riallineando le soglie di punibilità
dell'omesso versamento a quello della infedele dichiarazione (sia pure con esclusivo riferimento ai fatti
commessi fino al 17 settembre 2011), ma apre la porta a nuove questioni di costituzionalità ed offre interessanti spunti sia per una interpretazione costituzionalmente orientata delle attuali fattispecie penali-tributarie, sia per una loro già legislativamente prevista riforma.
Diritto penale e processo 6/2014
709
Giurisprudenza
Diritto penale
Considerazioni introduttive
La sentenza della Corte cost. n. 80 del 2014 interviene, con una limitata ma significativa operazione di innesto per via chirurgica, su un tessuto
normativo che, in ragione di successivi e scoordinati interventi modificativi, si caratterizza (ora)
per una sconcertante disomogeneità di scelte politico-criminali di fondo (1).
Com'è noto, infatti, la filosofia ispiratrice della l.
n. 74 del 2000 è del tutto antitetica a quella della
previgente l. n. 516 del 1982 (mediaticamente nota come “manette agli evasori”) la quale si incentrava su condotte c.d. “prodromiche” all'evasione,
articolata in previsione di fattispecie di pericolo,
svincolate dal requisito della effettiva evasione di
imposta, quando non di vere e proprie fattispecie
di reati-ostacolo.
L'attuale “sotto-sistema” delle incriminazioni penali tributarie si incardina invece su due criteri selettivi di fondo, adottati ora in via esclusiva, ora in
via cumulativa: il quantum di evasione risultante
dalla dichiarazione dei redditi o dell'i.v.a. è criterio
di criminalizzazione “esclusivo” nella fattispecie di
omessa (art. 5) o di infedele dichiarazione (art. 4);
mentre si affianca a quello della particolare insidiosità della condotta nel reato di dichiarazione fraudolenta «mediante altri artifici» (art. 3) che rimane, invece, il solo canone di rilevanza penale nei
reati di dichiarazione fraudolenta «mediante uso di
false fatture» (art. 2), di emissione di false fatture
(art. 8), di occultamento o distruzione di scritture
contabili (art. 10). Anche in queste ultime fattispecie, comunque, il dolo specifico di evasione, dimostra come il “fuoco” della tutela sia tutto concentrato sull'interesse dello Stato alla percezione
dei tributi, che si proietta anche nella fase della riscossione coattiva mediante la previsione del reato
di sottrazione fraudolenta al pagamento caratterizzato da condotte capaci di frustrare l'esecuzione
esattoriale (art. 11) (2).
Su questo impianto sistematico che persegue un
equilibrio tra “disvalore di condotta” e “disvalore
di evento” e che tiene conto anche di opportuni
(1) Su questo tema, volendo, si può consultare G. Flora,
Profili penali in materia di imposte dirette e I.V.A., Padova,
1979, 17 ss.
(2) Sulle caratteristiche fondamentali del sistema delle incriminazioni inaugurato dal d.lgs. n. 74 del 2000, tra gli altri: A.
Lanzi-P. Aldrovandi, Diritto penale tributario, Padova, 2014, 52
ss.; Martini, Reati in materia di finanze e tributi, Milano, 2010,
185 ss.; Musco, Reati tributari, Enc. Dir. (Annali I), Milano, s.d.,
1042 ss., Napoleoni, I fondamenti del nuovo diritto penale tributario, Milano, 2000, 318 ss.; Traversi, La difesa del contribuente
nel processo penale tributario, Milano, 2014, 33 ss. E, sempre
710
correttivi del dato quantitativo in ragione della
concreta “dimensione” del contribuente, richiedendo lo scavalcamento anche di soglie percentualistiche di evasione oltre a quelle espresse in termini “assoluti”, si affastellano via via provvedimenti
legislativi che incriminano condotte di mero omesso versamento dell'imposta dovuta (omesso versamento delle ritenute certificate, art. 10 bis; omesso
versamento dell'i.v.a., art. 10 ter; indebita compensazione, art. 10 quater), sempre che l'imposta non
versata superi determinati ammontari espressi in
cifra assoluta (cinquantamila euro).
Orbene, indipendentemente dalla raccapricciante tecnica normativa utilizzata (la descrizione del
modello legale dell'omesso versamento i.v.a. richiama «le stesse disposizioni» dell'omesso versamento di ritenute), si inserisce nel sistema un elemento del tutto incoerente con l'ispirazione complessiva di fondo della legge del 2000 (3), incentrata sul momento dichiarativo, incriminando la mera
inottemperanza ad una obbligazione i cui importi
sono stati in modo del tutto fedele, trasparente e
tempestivo rappresentati alla amministrazione finanziaria. Siamo, in sostanza, ad un flash-back storico di non poco momento: ritorna l'arresto per debiti non onorati (quando il creditore è un soggetto
pubblico che fa fatica ad onorare, in tempi decenti,
i propri nei confronti dei cittadini).
Il contenuto della sent. n. 80 del 2014
Ma, a parte la palese incongruenza sistematica e
la discutibilità di quegli “innesti” sul piano politico
criminale (per essere più precisi sul piano della
stessa “meritevolezza di pena” del comportamento
incriminato), un primo aspetto di conclamata irrazionalità era del tutto evidente e la Corte costituzionale non ha mancato di coglierlo e di provvedere di conseguenza. Prima delle modifiche recentemente intervenute ad abbassare i limiti di rilevanza
penale delle fattispecie di omessa ed infedele dichiarazione (art. 2, comma 36 viciesbis[!] d.l. n. 138
del 2011) rispettivamente a 30.000 e 50.000 euro,
volendo, G. Flora, D.lgs. 10/3/2000 n. 74 - Nuova disciplina dei
reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto a norma dell'art. 9 della Legge 25 giugno 1999 n. 205, L.P., 2000, 18
ss.
(3) Per una critica analoga, da ultimo, A. Lanzi-P. Aldrovandi, Diritto penale tributario, cit., 58 e nota 46, dove si sottolinea
che mai, nel sistema penale, viene assoggettato a sanzione il
mero inadempimento di una obbligazione pecuniaria, non accompagnato da un «peculiare disvalore d'azione». Commenta
invece favorevolmente la decisione di ricorrere a fattispecie di
omesso versamento, A. Martini, Reati, cit., 550 ss.
Diritto penale e processo 6/2014
Giurisprudenza
Diritto penale
chi ometteva di presentare la relativa dichiarazione
o chi la presentava esponendo un “saldo” inferiore
al reale, commetteva reato solo se gli importi dovuti e non versati erano rispettivamente superiori
ad euro 77.468,53 in caso di omessa dichiarazione
o ad euro 103.291,38 in caso di infedele dichiarazione. Il contribuente che, invece, aveva presentato nei termini una dichiarazione veritiera (ed anche se privo di un dolo intenzionale di evasione,
caratterizzante invece i due reati sopra citati) commetteva il reato di omesso versamento, quando
l'imposta non pagata era superiore a 50.000 euro.
Insomma: «laddove (..) l'I.V.A. da versare si collocasse tra l'uno e l'altro limite di rilevanza (50.000
e 103.291,38 euro) fruiva di un miglior trattamento il contribuente che presentasse una dichiarazione inveritiera (non punibile per mancato superamento della relativa soglia), rispetto al contribuente che esponesse invece fedelmente la propria situazione in dichiarazione, salvo poi a non versare
l'imposta di cui si era riconosciuto debitore». Sono
parole della Corte costituzionale.
Situazione normativa paradossale: condotte dotate di maggior pericolosità per gli interessi tributari dello Stato (e che il legislatore stesso considera
tali, come è dimostrato dai più severi livelli edittali) vengono punite solo se il risultato offensivo è
più grave di quello provocato da una condotta che
presenta un assai minore (per non dire nullo) coefficiente di lesività (la Corte parla di comportamento «maggiormente meno trasgressivo»).
La Corte, in linea con la propria giurisprudenza
sul sindacato di ragionevolezza delle pene edittali
comminate, procede così ad eliminare questa palese situazione di irragionevolezza che concerne però
i fatti commessi fino al 17 settembre 2011; ovverosia fino all'entrata in vigore della legge che ha
“riallineato” i limiti di rilevanza penale dell'omessa
dichiarazione (30.000 euro) e di infedele dichiarazione (50.000 euro) facendo così venir meno - a
detta della Corte - l'evidente disparità di trattamento.
Dovendo, poi, decidere se in relazione all'arco
temporale in cui la violazione del criterio limite di
ragionevolezza si è manifestato, si dovesse far riferimento alla previgente soglia di punibilità dell'omessa o dell'infedele dichiarazione, opta correttamente per quest'ultima, in logica conseguenza della
premessa del ragionamento di partenza che individua la fattispecie comparativa di riferimento anche
nell'infedele dichiarazione connotata in origine da
una quota di rilevanza penale superiore a quella
dell'omessa dichiarazione. Cosicché, dovendo effettuare - con tipica sentenza additiva - un intervento
di riequilibrio intra-sistematico, non poteva che
prendere a parametro quello più alto e dichiarare
la incostituzionalità dell'art. 10 ter d.lgs. n. 74 del
2000, per violazione dell'art. 3 Cost., limitatamente al periodo temporale di cui si è detto (fatti commessi fino al 17 settembre 2011) nella parte in cui
«punisce l'omesso versamento dell'I.V.A., dovuta
in base alla dichiarazione annuale, per importi non
superiori a ciascun periodo di imposta, ad euro
103.291,38».
(4) Come meglio si capirà proseguendo la lettura del testo,
si tratta di disposizioni per le quali, quindi, non sarebbe stata
possibile una “automatica” declaratoria di incostituzionalità attraverso il meccanismo della “ consequenzialità” contemplato
dall'art. 27 l. n. 87 del 1953. Vero è che il nesso di consequenzialità è stato spesso interpretato dalla Corte in senso ampio,
fino a ricomprendervi l'ipotesi di disposizione la cui contestuale eliminazione sia necessaria per evitare il permanere di uno
“sbilanciamento complessivo” della disciplina di un determinato settore. Ma qui lo “squilibrio” da sanare è antecedente alla
pronuncia della Corte, non ne è conseguenza.
(5) Come puntualmente rileva A. Ciraulo, La Corte Costituzionale sull'omesso versamento dell'I.V.A.: innalzamento della
soglia di punibilità per i delitti commessi fino al 17.09.2011, in
corso di pubblicazione in Cass. pen., 2014. Una questione simile è stata recentemente affrontata e risolta in senso negativo dalla Corte costituzionale, con sent. 19 maggio 2014, n.
139 (in www.penalecontemporaneo.it, 28 maggio 2014, con
nota di A. Giudici, Omesso versamento di ritenute previdenziali
e soglie di non punibilità: dalla Corte Costituzionale uno spunto
Diritto penale e processo 6/2014
Poteva la Corte fare di più?
Intervenendo a livellare i limiti di rilevanza penale del “drappello” di fattispecie a presidio dell'I.V.A. rappresentate dai reati di omessa dichiarazione, infedele dichiarazione, omesso versamento, la
Corte ha indubbiamente compiuto, ancorché con
esiti rivolti al passato, una meritoria opera di razionalizzazione del sistema. Né poteva spingersi oltre
non potendosi ritenere che fosse possibile una declaratoria di incostituzionalità «nella parte in cui»
relativamente ad altre fattispecie similari per le
quali si può certo porre un problema di costituzionalità analogo, ma che avrebbe richiesto un diverso ed anche più complesso percorso argomentativo (4).
Innanzi tutto, una questione in tutto simile potrebbe proporsi con riguardo all'omesso versamento
di ritenute (art. 10 ter) la cui soglia di rilevanza penale era (ed è) identica a quella dell'omesso versamento dell'I.V.A. (5)
La questione, per vero, non sarebbe proponibile
negli stessi esatti termini, dovendosi riflettere se la
711
Giurisprudenza
Diritto penale
circostanza che il sostituto rilasci al sostituito la
certificazione dell'effettuazione della ritenuta (poi
non materialmente versata all'erario) accresca o
meno il tasso di disvalore della condotta, così da
rendere “ragionevole” una differenziazione di importi da scavalcare ai fini della assunzione di rilevanza penale rispetto all'ipotesi di omessa e infedele dichiarazione dei redditi.
Tale riflessione potrebbe percorrere due diversi
iter argomentativi.
Si potrebbe infatti muovere dalla considerazione
che il “sostituto” agisce in certo qual modo come
“esattore” per conto dell'amministrazione finanziaria, trattenendo alla fonte una somma di danaro la
cui destinazione “naturale” è quella di confluire
nelle casse dell'Erario. Si sarebbe così tentati di sostenere che il sostituto, il quale omette di versare
le ritenute di cui ha rilasciato certificazione, commette una sorta di appropriazione indebita (e perché non di peculato, allora?).
Se non che un simile modo di ragionare non
sembra per nulla coerente con la configurazione
tributaristica del fenomeno sostitutivo.
Il sostituto, infatti, non “trattiene” materialmente alcuna somma di denaro dal compenso corrisposto al sostituito. Si limita a pagare una somma «al
netto della ritenuta», ma non trattiene fisicamente
alcun importo; come facilmente desumibile dall'esame di una qualsiasi certificazione spedita al sostituito dove si certifica di aver corrisposto una certa
somma con indicazione dell'importo della ritenuta
che il sostituto detrarrà da quanto a sua volta da
lui dovuto al Fisco.
Non solo, ma è del tutto evidente che la somma
idealmente trattenuta, pur se avvinta da un vincolo di destinazione finale, non è “già” dell'Erario fin
dal momento in cui viene effettuato il pagamento
al netto, ma per così dire “rimane” nel patrimonio
del soggetto erogante. Si tratta dunque di fenomeno ben lontano da quello riconducibile ad una sorta di “appropriazione indebita” (6).
In realtà, ecco il secondo e più corretto modo di
ragionare, anche qui siamo in presenza di un inadempimento di una obbligazione di pagamento di
una somma sia pure, per così dire, “in nome e per
conto” del contribuente sostituito.
Ma, a mio modo di vedere, non si tratta di profili differenziali, rispetto al mancato pagamento dell'I.V.A., così rilevanti da conferire alla fattispecie
una peculiarità tale da non rendere esperibile con
successo una questione di costituzionalità analoga
a quella risolta dalla Corte con la sentenza in commento.
Più complessa si presenterebbe invece una eventuale questione di costituzionalità, pur nei medesimi limiti temporali, della norma sull'indebita compensazione (art. 10 quater), dove il mancato pagamento è frutto di una condotta (soprattutto con riferimento alla utilizzazione di crediti “inesistenti”)
non proprio incolore.
per una valutazione sull'offensività della condotta), la quale,
chiamata a decidere sulla illegittimità costituzionale della norma che incrimina l'omesso versamento di ritenute previdenziali
(art. 2, comma 1-bis d.l. 12 settembre 1983, n. 463) indipendentemente dallo scavalcamento di soglie quantitative, quindi
anche per importi minimi (nel caso di specie 24,00 euro!), ha
ritenuto la questione infondata. I Giudici remittenti avevano infatti sollevato la questione prospettando una violazione dell'art.
3 Cost. emergente proprio dal confronto con le norme sull'omesso versamento delle ritenute fiscali (art. 10-bis d.lgs. n. 74
del 2000). La Corte conferma invece un proprio precedente del
2003 (ord. n. 206) e rigetta la questione argomentando che le
due fattispecie (tra le quali dovrebbe effettuarsi il paragone alla
luce dell'art. 3 Cost.) sono invece del tutto eterogenee poiché
gli obblighi previdenziali e gli obblighi fiscali «sono correlativi a
diversi interessi, presi in considerazione dai due diversi precetti
costituzionali dell'art. 53 e dell'art. 28 della Costituzione». La
stessa Corte, però, “invita” il Giudice a quo a riflettere sulla
inoffensività di una condotta di omesso versamento di somme
irrisorie (come 24,00 euro).
(6) Nello stesso senso, sostanzialmente, già, F. Antolisei,
Manuale di diritto penale, Leggi compl. XIII ed, vol. I, a cura di
C.F. Grosso, Milano, 2007, 899, n. 37; F. Mucciarelli., Qualche
osservazione sula natura istantanea o permanente del delitto di
omesso versamento di ritenute previdenziali e assistenziali, in
Riv. it., 1984, 1206 ss.
(7) La questione - come è noto - è oggetto di discussione;
per un quadro esauriente, da ultimo, Caputo, In limine. Natura
712
Alcuni spunti in chiave di interpretazione
delle norme esistenti e di (ri)edificazione di
quelle future
La Corte costituzionale, poi, da un lato tralascia
di approfondire, come irrilevanti per il thema decidendum, i rilievi relativi all'assenza nella struttura
del reato di omesso versamento dell'I.V.A., di soglie di rilevanza penale riferibili, in sostanza, alla
“dimensione del contribuente”; dall'altro lato, però, nel soffermarsi sulle relazioni tra “disvalore di
condotta” e “disvalore di evento” ai fini di una razionale organizzazione del (sotto)sistema dei reati
tributari, offre spunti di estremo interesse anche in
chiave di interpretazione “costituzionalmente
orientata” delle attuali fattispecie incriminatrici.
Sotto il primo aspetto, infatti, non v'è dubbio
che le soglie quantitative di rilevanza penale pongono problemi, oltre che sotto l'aspetto della loro
esatta qualificazione dogmatica (elementi essenziali
o condizioni obiettive di punibilità?) (7) proprio
Diritto penale e processo 6/2014
Giurisprudenza
Diritto penale
sotto il profilo della conformità al principio di
uguaglianza. Esse comportano infatti che chi evade
il fisco tenendosi appena sotto i limiti di rilevanza
non venga sanzionato penalmente al contrario di
chi invece si macchi di un'evasione appena superiore a detti limiti (8).
Non solo, ma la medesima quantità di evasione
può rappresentare per un piccolo contribuente un
comportamento comparativamente più grave rispetto ad un contribuente di “grandi dimensioni”.
Cosicché l'inserimento di una soglia anche percentualistica ragguagliata al “volume d'affari” o alle
“componenti positive del reddito” come anche al
debito d'imposta ben sono in grado di mitigare gli
effetti tendenzialmente “discriminatori”, connaturati alla scelta di adottare il criterio selettivo del
quantum di imposta evasa, purché, naturalmente,
vi si accompagni anche la previsione di una ulteriore soglia, espressa in elevati termini assoluti, sì
da garantire comunque che il contribuente di rilevanti dimensioni non possa impunemente evadere
imposte di ammontare particolarmente significativo. Problema, tra l'altro, ben presente alla stessa
Corte costituzionale che, in una famosa sentenza
sulla questione di costituzionalità dell'art. 4, comma 1, n. 7 l. n. 516 del 1982 avente ad oggetto la
ipotizzata indeterminatezza del requisito della «rilevante alterazione del risultato della dichiarazione»,
aveva statuito (in motivazione) che tre erano i requisiti utilizzati dalla giurisprudenza in grado di
conferire determinatezza a tale “rilevante alterazione”: il criterio percentuale ovvero di proporzione
tra il risultato cui doveva condurre una dichiarazione fedele e quello esposto dal contribuente; un criterio assoluto tale da far apparire comunque rilevante detta alterazione; un criterio proporzionale
all'entità dell'imposta suscettibile di essere evasa (9). E forse ci si potrebbe chiedere (e la Corte si
sarebbe potuta chiedere, sia pure en passant) se
questi criteri sono oggi pienamente osservati dalle
incriminazioni in materia (e ci sarebbe seriamente
da dubitarne).
Sotto il secondo aspetto, in definitiva, la Corte
sottolinea come vi siano condotte che non presentano di per sé un disvalore tale da meritare la sanzione penale, se non controbilanciate da un disvalore di offesa particolarmente significativo. Orbene, se ciò è vero, v'è da chiedersi se, una volta che
il legislatore del 2011 ha ridimensionato in termini
più modesti la rilevanza della dannosità del comportamento, ciò non debba comportare anche un
(ri)dimensionamento (quanto meno in via interpretativa) della rilevanza penale della condotta tipica, riservandola ad un comportamento che possieda almeno una minima carica di decettività e
non sia suscettivo di essere contrastato (in base alla clausola dell'extrema ratio) attraverso il meccanismo del semplice “recupero a tassazione” al più assistito dalle relative sanzioni amministrative.
Penso, in particolare, alla esposizione di costi
realmente sostenuti, esposti anche nella loro esatta
configurazione giuridica, ma ritenuti “indeducibili”
(ad es. perché non inerenti) dalla amministrazione
finanziaria.
La recente delega fiscale (10) lascia per vero ampio margine al legislatore delegato che dovrebbe
fare tesoro degli insegnamenti che la Corte costituzionale, anche con questa sentenza, ha lasciato per
la costruzione di un sistema penal tributario in armonia con i canoni ineludibili della ragionevolezza.
e funzioni politico-criminali delle soglie di punibilità nei reati tributari, in Profili critici del diritto penale tributario, a cura di R.
Borsari, Padova, (University Press), 2013, 27 ss., con ampie citazioni di dottrina, nonché A. Lanzi-P. Aldrovandi, Diritto penale tributario, cit., 248 ss.; A. Martini, Reati, cit., 362 ss.
(8) Sul punto A. Lanzi-P. Aldrovandi, Diritto penale tributario, cit., 30 ss.
(9) Corte cost. 15-16 maggio 1989, n. 247 in Riv. it., 1194
ss, con nota di F. Palazzo, Elementi quantitativi indeterminati e
loro ruolo nella struttura della fattispecie (a proposito della frode
fiscale).
(10) L. 11 marzo 2014, n. 23 - Delega al Governo recante disposizioni per un sistema fiscale più equo, trasparente e orientato alla crescita.
Diritto penale e processo 6/2014
713
Giurisprudenza
Processo penale
Impugnazioni
L’inammissibilità del ricorso
per cassazione della parte civile
che non ha impugnato
la sentenza assolutoria
di primo grado
CASSAZIONE PENALE, Sez. VI, 26 agosto 2013 (c.c. 21 maggio 2013), n. 35513 - Pres. De Roberto - Ric. C.
È inammissibile il ricorso per Cassazione proposto dalla parte civile avverso la sentenza d’appello, quando la
stessa non abbia impugnato la decisione assolutoria di primo grado, confermata dalla Corte d’appello a seguito di impugnazione proposta dal solo pubblico ministero: in senso diverso non può neppure invocarsi il
principio di immanenza della costituzione di parte civile, che riguarda la diversa ipotesi del giudizio che prosegua per l’impugnazione ritualmente proposta da altri soggetti legittimati.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi
Cass., Sez. V, 8 maggio 1998, n. 6911, C.E.D. 211844; Cass., Sez. V, 10 novembre 2010, n. 1461,
C.E.D. 249096; Cass., Sez. VI, 13 ottobre 2009, n. 49497, C.E.D. 245477.
Difformi
Cass., Sez. IV, 15 aprile 2009, n., 26643, C.E.D. 244796.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Questione preliminare è la legittimazione della parte
civile a proporre ricorso per cassazione contro la sentenza d’appello che abbia confermato l’assoluzione pronunciata dal giudice di primo grado e appellata dal solo
pubblico ministero.
Questa Corte si è espressa nel senso, condiviso e fatto
proprio dal Collegio, secondo cui è inammissibile il ricorso per Cassazione proposto dalla parte civile avverso
la sentenza d’appello, quando la stessa non abbia impugnato la decisione assolutoria di primo grado, confermata dalla Corte d’appello a seguito di impugnazione proposta dal solo pubblico ministero (Sez. VI, 13 ottobre
2009, dep. 23 dicembre 2009, n. 49497; Sez. V, 10 novembre 2010, dep. 19 gennaio 2011, n. 1461).
Il principio diritto enunciato non ha alcuna attinenza
con quello di “immanenza” della costituzione della parte civile là dove il giudizio prosegua per l’impugnazione
ritualmente proposta da altri soggetti legittimati.
Del resto le Sezioni unite cui la difesa fa riferimento
riaffermano tale regola iuris là dove ribadiscono che “la
costituzione di parte civile produce i suoi effetti in ogni
stato e grado del processo” (art. 76, comma 2), che il
giudice di appello è tenuto a citare la parte civile (art.
714
601, comma 4) e che se l’appello è stato proposto dal
pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento il giudice di appello può pronunciare condanna
e adottare ogni altro provvedimento imposto o consentito dalla legge” (art. 597, comma 2, lett. b), appare corretta l’affermazione che, “quando pronuncia sentenza di
condanna”, il giudice d’appello deve decidere “sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno”,
anche se la parte civile non ha proposto impugnazione
(art. 538, comma 1, c.p.p. e art. 598 c.p.p.).
Argomento condivisibile e incontestabile quest’ultimo,
ma del tutto diverso rispetto a quello relativo alla legittimazione ad impugnare riconosciuto a una parte del
processo che non ha impugnato la sentenza che abbia
disatteso la pretesa vantata in giudizio.
In tal modo, la parte legittimata da norma processuale a
impugnare una decisione a lei sfavorevole dimostra di
non avere interesse a ottenere dal giudice dell’impugnazione il diritto negatogli nel precedente grado di giudizio.
Similmente, dall’effetto estensivo delle impugnazioni,
ex art. 587 c.p.p. non consegue l’abilitazione dell’imputato non impugnante a reagire contro la sentenza d’appello o di rinvio che non abbia accolto le ragioni del
Diritto penale e processo 6/2014
Giurisprudenza
Processo penale
coimputato impugnante, potendo egli solo beneficiare
degli effetti eventualmente favorevoli, a lui estensibili,
della decisione assunta sulla base della impugnazione
del coimputato (Sez. V, 29 settembre 2000, dep. 29 set-
tembre 2000, n. 11959; Sez. VI, 19 dicembre 1994, dep.
16 marzo 1995, n. 2767).
…Omissis…
IL COMMENTO
di Giulia Quagliano (*)
Ancora una volta, la Cassazione torna ad occuparsi del principio di immanenza della costituzione di parte
civile nei gradi di giudizio successivi al primo. In virtù di tale principio è stato riconosciuto alla parte civile
il potere di scegliere se impugnare direttamente la decisione a sé sfavorevole o avvalersi del gravame del
pubblico ministero; il danneggiato dal reato che abbia esercitato l’azione civile ha diritto a vedere riconosciute le proprie pretese risarcitorie laddove ne sussistano i presupposti di merito. La sentenza in oggetto
si occupa nello specifico dell’immanenza della parte civile nel ricorso per cassazione: qualora, infatti, la
decisione di secondo grado, pronunciata su impugnazione della pubblica accusa, continui ad essere contraria alle richieste privatistiche, è ritenuto inammissibile il ricorso per cassazione della parte civile poiché
essa, non appellando, ha dimostrato di non aver interesse ad ottenere dal giudice dell’impugnazione il diritto alla restituzione e al risarcimento dei danni negatole nei gradi di giudizio precedenti.
Con la l. 20 febbraio 2006, n. 46 il legislatore ha
apportato modifiche al Codice di procedura penale
in materia di appello delle sentenze di proscioglimento, operando significativi ritocchi non solo in
tema di legittimazione ad appellare del pubblico
ministero e dell’imputato, ma anche in relazione al
potere di impugnazione tradizionalmente riconosciuto alla parte civile costituita. La legge è intervenuta con l’intento di tutelare l’imputato prosciolto in primo grado dalla proposizione dell’appello da parte del pubblico ministero. In tale ipotesi, infatti, il presunto innocente incontrava molti
ostacoli nell’esercitare in sede di gravame il proprio
legittimo diritto di difesa: non era esclusa la possibilità di un’eventuale reformatio in peius del proscioglimento in assenza dell’oralità e del contraddittorio tra le parti nella formazione della prova (1).
La riforma del 2006 non ha fornito grandi rimedi agli inconvenienti ora lamentati. Essa ha piuttosto ribaltato diametralmente la dissimmetria tra i
poteri del pubblico ministero e quelli dell’imputa-
to: infatti, non è più consentito alla pubblica accusa di impugnare le sentenze di proscioglimento (se
non in caso di sopravvenienza di nuove prove decisive) mentre all’imputato è riconosciuta la possibilità di dolersi delle sentenze a sé contrarie e cioè
quelle di condanna (2).
Inoltre, è opportuno notare come la restrizione
del potere di gravame della pubblica accusa di cui
al novellato art. 593 c.p.p. abbia altresì avuto ripercussioni negative sulle facoltà concesse alla parte civile di impugnare la sentenza di proscioglimento. Eppure, l’intenzione espressa dal legislatore
nei lavori preparatori alla l. n. 46 del 2006 non era
quella di impedire al danneggiato costituitosi nel
processo penale di impugnare agli effetti civili la
sentenza che assolveva l’imputato (3). Anzi, per
dotare la parte civile di un potere di gravame distinto e disancorato da quello del pubblico ministero, che aveva invece subito grandi limitazioni, si è
ritenuto necessario eliminare l’inciso “con il mezzo
del pubblico ministero” contenuto nell’art. 576
c.p.p. (4).
L’espunzione dal testo normativo di suddetto inciso ha prodotto un effetto opposto, a causa del
principio che fonda l’intero sistema delle impugna-
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(1) Va precisato peraltro che un’eventuale condanna in secondo grado non sarebbe potuta essere oggetto di un’impugnazione nel merito, bensì soltanto di un ricorso per cassazione per motivi di legittimità. A tale proposito si veda P. Tonini,
Manuale di Procedura Penale, 13^ ed., Milano, 2012, 861 ss.
(2) P. Tonini, Manuale, 861 ss.
(3) Per maggiori approfondimenti sulle modifiche legislative
dell’art. 576 apportate dalla l. n. 46 del 2006 si veda M. Gialuz,
sub Art. 576 c.p.p., in AA. VV., Codice di procedura penale
commentato, a cura di A. Giarda e G. Spangher, Milano, 2010,
7065; amplius P. Tonini, Manuale, 866.
(4) In questo senso E. Randazzo, Un testo in armonia con il
giusto processo che ristabiliva i principi di civiltà giuridica, in
Guida dir., 2006, 5, 13; in senso critico G. Frigo, È irrealistico
ipotizzare risorse equivalenti a quelle delle figure processuali
“necessarie”, in Guida dir., 2006, 19, 90.
I problemi interpretativi posti dell’art. 576
c.p.p.
Diritto penale e processo 6/2014
715
Giurisprudenza
Processo penale
zioni: il principio di tassatività (art. 568, comma
1) (5). Il Parlamento, in sostanza, ha ottenuto un
risultato differente da quello che voleva perseguire (6): mantenendosi di fatto ancorati ad un’interpretazione restrittiva della disposizione in esame,
non attribuire alla parte civile il potere di appellare
la sentenza a sé contraria avrebbe consentito alla
stessa di proporre ricorso per Cassazione unicamente per motivi di legittimità ex art. 568, commi 2 e
3.
Al fine di evitare contrasti giurisprudenziali, sono intervenute sul punto le Sezioni Unite della
Cassazione che hanno accolto un’interpretazione
logico-sistematica del novellato art. 576 c.p.p. (7).
È stata riconosciuta alla parte civile la possibilità
di impugnare la sentenza sfavorevole senza restrizioni relative «all’utilizzo degli ordinari mezzi previsti», la cui individuazione, in un quadro invariato
dei rapporti tra processo penale e azione civile, è
stata affidata «ad una ermeneutica sistematica e
costituzionalmente orientata del complessivo quadro normativo in tema di impugnazioni», al fine di
evitare epiloghi che potessero determinare «asimmetrie e irragionevoli posizioni processuali differenziate». Il Supremo Consesso ha in questo modo
garantito alla parte civile il potere di impugnare le
sentenze emesse in primo grado ad essa sfavorevoli
(dunque quelle di proscioglimento dell’imputato),
confermando, attraverso una lettura non restrittiva
e meno rigida della norma, la voluntas legis.
L’interpretazione adeguatrice è stata ripresa e
confermata poco tempo dopo anche da un’ordinanza della Corte costituzionale, che ha dichiarato
l’art. 576 c.p.p., come modificato dalla legge Pecorella, costituzionalmente legittimo e conforme ai
principi di eguaglianza, di parità delle parti nel
processo e di inviolabilità del diritto di azione e di
difesa (8).
Nel frattempo, tra l’altro, la Corte costituzionale
era intervenuta anche per dichiarare incostituzionale il divieto posto al pubblico ministero di pre-
sentare appello contro il proscioglimento dell’imputato (art. 593, comma 2, c.p.p., modificato dalla
l. n. 46 del 2006) (9). A giudizio della Corte, infatti, la norma censurata era in contrasto con il principio di parità delle parti nel processo penale (art.
111, comma 2, Cost.). È stato pertanto restituito al
pubblico ministero il potere di appello contro tutte
le sentenze di proscioglimento pronunciate nei
confronti dell’imputato, eliminando la condizione
della sopravvenienza di una nuova prova decisiva.
Se dunque è oggi riconosciuto al pubblico ministero il potere di appellare l’appello contro le sentenze di proscioglimento emesse dal giudice di prime cure, è altresì consentito al danneggiato dal
reato, che abbia esercitato l’azione civile, di esperire il medesimo rimedio per far valere i propri interessi nei confronti delle pronunce di primo grado,
siano esse di condanna o, soprattutto, di proscioglimento.
Rimane da comprendere se la parte civile, con
l’impugnazione della sentenza di assoluzione, debba
richiedere espressamente, a pena d’inammissibilità,
la riforma della sentenza ai soli effetti civili: si tratta della seconda problematica interpretativa che
emerge dal testo dell’art. 576 c.p.p.
La quaestio iuris trae fondamento proprio dalla
lettura del primo comma di tale disposizione, laddove si prevede che la sentenza di proscioglimento
possa essere impugnata dalla parte civile «ai soli effetti della responsabilità civile». È opportuno cercare di comprendere se alla parte civile sia consentito chiedere l’accertamento della responsabilità
penale dell’imputato come presupposto logico della
condanna di lui alle restituzioni e al risarcimento
del danno (seppure non sia modificabile la decisione penale che, quando manca l’impugnazione del
pubblico ministero, passa in giudicato) ovvero sia
considerata ammissibile solo l’impugnazione che
faccia riferimento specifico e diretto agli effetti di
carattere civile, risarcitori, che si intendono conseguire (10).
(5) Il principio di tassatività richiamato all’art. 568, comma
1, prevede un duplice effetto per cui non solo è necessario che
la legge preveda un provvedimento come impugnabile, ma
che ne precisi anche il mezzo di impugnazione. In tal senso
ancora G. Frigo, È irrealistico ipotizzare risorse, 90 ss.
(6) P. Tonini, Manuale, 866.
(7) Si tratta della sentenza Cass., Sez. un., 29.03.2007, Poggiali, n. 27614, in Cass. pen. 2007, 4460. A tale proposito si veda, M. Gialuz, sub Art. 576 c.p.p., 7068.
(8) È l’ordinanza n. 3 del 2008. Di nuovo è da richiamare M.
Gialuz, Sub art. 576, 7068.
(9) Si tratta della sentenza Corte cost. 6 febbraio 2007, n.
26. A giudizio della Corte, la norma censurata era in contrasto
con il principio di parità tra le parti, anche se ciò non comporta
che vi debba essere una necessaria e completa identità tra i
poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell’imputato.
Con la riforma del 2006 però si veniva a creare una diseguaglianza irragionevole: l’imputato poteva appellare la soccombenza, ma altrettanto non poteva fare il pubblico ministero in
caso di proscioglimento. «L’alterazione del trattamento paritario dei contendenti [...] non poteva essere giustificata in termini di adeguatezza e proporzionalità».
(10) A favore della prima interpretazione si vedano Cass.,
Sez. I, 26.04.2007, Viviano, Cass. pen. 2008, 4753; Cass., Sez.
IV, 23 gennaio 2003, Grecuccio, C.E.D. 226430; Cass., Sez.
VII, 15.01.2002, Sconcerti, Cass. pen. 2004, 182; Cass. Sez. V,
06.02.2001, Maggio, C.E.D. 218905, Cass. IV 29.10.1997,
Marcelli, in Giust. It. 1999, 812. In senso contrario alla prima
716
Diritto penale e processo 6/2014
Giurisprudenza
Processo penale
Anche in questo caso sono intervenute di recente le Sezioni Unite che, nel dirimere tale contrasto giurisprudenziale, hanno aderito all’orientamento meno restrittivo affermando che «non è
richiesto ai fini dell’ammissibilità dell’impugnazione della parte civile contro una sentenza di
proscioglimento che l’atto di impugnazione contenga la espressa indicazione che viene proposto
ai soli fini civili» (11). Perciò il giudice è chiamato a formulare, in via incidentale e ai soli fini civilistici, il giudizio di responsabilità. È inevitabile
che la pronuncia su tali domande resti subordinata all’accertamento incidentale della responsabilità penale.
Pertanto, non si è ritenuto più necessario che
la parte civile, affinché la propria domanda venga
dichiarata ammissibile, faccia espresso riferimento agli effetti di natura civile che si intendono ottenere (cioè la condanna al risarcimento del danno), ma è sufficiente richiedere la declaratoria di
colpevolezza sulla responsabilità penale dell’imputato (12). Il fatto che sia proprio il testo del
novellato art. 576 c.p.p. a circoscrivere la finalità
dell’impugnazione della sentenza di proscioglimento proposta dalla parte civile “ai soli effetti
civili” rende superflua un’ultronea specificazione
da parte di questa dei motivi per cui intende ricorrere.
Rebus sic stantibus, l’articolo 576 c.p.p. non fa
che riservare alla parte civile un vero e proprio
“potere” di impugnare le sentenze, anche sfavorevoli, attraverso gli stessi mezzi di impugnazione che
l’ordinamento ha predisposto per la pubblica accusa, senza che vi sia bisogno di indicare espressamente gli effetti che si vogliono perseguire tramite
il ricorso (essi sono infatti già espressamente contenuti nel testo della norma).
Alla luce di quanto detto in precedenza, la parte
civile si vede riconoscere dal codice numerosi strumenti che, oltre a garantirle una certa autonomia
rispetto alla pubblica accusa, mettono in luce la
grande attenzione che l’ordinamento riveste nei
suoi confronti. Ciò vale anche per il rimedio previsto dall’art. 576 c.p.p.: al danneggiato dal reato che
abbia esercitato l’azione civile nel processo penale
non viene attribuito un onere, ma un potere di impugnare.
Tale precisazione è dimostrata anche dal fatto
che l’art. 597, comma 2, lett. a e b, c.p.p., dispone
che il giudice di secondo grado, in seguito all’impugnazione del solo pubblico ministero avverso
una sentenza di proscioglimento dell’imputato, può
pronunciare condanna e «adottare ogni altro provvedimento imposto o consentito dalla legge». Da
ciò si deduce che l’autorità giudicante deve decidere «sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno» nonostante la parte civile non
abbia proposto appello. È singolare come la decisione nel giudizio proposto dal pubblico ministero
sulla responsabilità penale abbia automaticamente
ripercussioni su quella riguardante la responsabilità
civile, persino in assenza di espresso riferimento al
capo concernente gli effetti civilistici (13). Ci troviamo di fronte a una riproposizione ipso iure della
domanda risarcitoria nel grado d’impugnazione, anche in assenza di un’autonoma richiesta della parte
civile, indipendentemente da quale parte del processo (pubblico ministero o imputato) abbia proposto l’appello (14).
Tutto ciò è possibile in virtù di un fondamento
ormai consolidato nel nostro ordinamento ed
espressamente riconosciuto dal Codice di Procedura penale (15).
interpretazione si veda Cass. Sez. 1, 04.03.1999, Pirani, C.E.D.
213698; Cass. Sez. IV, 03.05.2012, Di Curzio, C.E.D. 252763.
(11) Le sezioni unite sono intervenute con la sentenza
Cass., Sez. Un., 8 febbraio 2013, n. 6509, in www.dirittopenalecontemporaneo.it.
(12) Si veda P. Tonini, Manuale, 866; P. Nuzzo, Parte civile
non impugnante e tutela delle pretese risarcitorie nella giurisprudenza di legittimità, in Arch. n. proc. pen., 2010, 671 ss. L’azione civile innestata nel tronco dell’azione penale ha carattere
accessorio sia perché è in correlazione con l’azione penale,
poiché qualora quest’ultima non possa essere promossa, anche la seconda resta di conseguenza paralizzata; sia perché
condizionata alla sorte del processo penale e quindi, in caso di
proscioglimento il giudice, nonostante sia manifesta la responsabilità civile dell’imputato, non può pronunciare condanna alla restituzione o al risarcimento dei danni. L’opinione prevalen-
te a lungo è stata quella per cui, laddove la parte civile avesse
voluto appellare la sentenza di primo grado avrebbe dovuto indicare espressamente i capi civili, altrimenti il giudice non si
sarebbe potuto pronunciare. Solo recentemente questo vi è
stata un’apertura alla possibilità di impugnare Da poco tempo
quindi si riconosce in via definitiva corretta l’impugnazione anche se in essa non vengono esplicitati i motivi specificamente
civilistici per cui si ricorre.
(13) A tale proposito, P. Nuzzo, Parte civile non impugnante,
678.
(14) L. Algeri, L’impugnazione della parte civile, Cedam, Padova, 2014, 131 ss.; M. Nofri, Sul principio di immanenza della
costituzione di parte civile, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2001, 112
ss.
(15) Il principio di immanenza era già presente, seppur non
espressamente menzionato, nel codice del 1865. La domanda
Diritto penale e processo 6/2014
Il potere della parte civile di impugnare la
sentenza di proscioglimento emessa dal
giudice di prime cure
717
Giurisprudenza
Processo penale
L’art. 76, comma 2, c.p.p. prevede che «la costituzione di parte civile produce i suoi effetti in ogni
stato e grado del processo». Ne deriva che, una
volta esercitata l’azione civile, non è più necessario
rinnovare la costituzione negli altri eventuali gradi
di giudizio (16). Viene in questo modo garantita la
continuità della partecipazione ai gradi di processo
successivi al primo. L’impugnazione del pubblico
ministero giova anche alla parte civile che non
l’abbia proposta, giacché essa deve essere chiamata
a partecipare anche ai successivi gradi di giudizio
senza la necessità di presentare un nuovo atto di
costituzione.
Eppure, a una simile accezione del principio
d’immanenza si è giunti solo a seguito di un’accesa
querelle giurisprudenziale. A fondamento del dibattito vi era «l’annoso problema riguardante la dimensione sistematica che si voleva attribuire alla
parte civile nel processo penale» (17). Se da un lato si tendeva a mettere in risalto l’accessorietà di
tale soggetto del processo penale, nell’assoluto rispetto dei principi del sistema accusatorio cui il
nostro codice del 1988 s’ispira, dall’altro, invece, si
sentiva la necessità di tutelare un interesse legittimo della persona offesa dal reato mediante la valutazione degli effetti civili originati dal fatto storico
di reato.
Per questo si è sentito il bisogno di far intervenire le Sezioni unite della Cassazione che, interpella-
te in due differenti occasioni, si sono espresse in
modo diametralmente opposto.
In un primo momento il Supremo Collegio ha
valorizzato la piena autonomia delle posizioni della
parte civile e del pubblico ministero, riconoscendo
alla prima un vero e proprio onere processuale di
impugnare per non veder passare in giudicato le
proprie pretese risarcitorie. Infatti, con la sentenza
Loparco del 1998 (18), si è posto l’accento sul fatto
che l’azione civile e l’azione penale, seppur esercitate nello stesso processo, sono definite da capi diversi della sentenza e dunque potrebbero provocare
gli effetti del giudicato anche in momenti processuali differenti. Di conseguenza, laddove sia solo il
pubblico ministero a impugnare la sentenza di prime cure e la parte civile rimanga acquiescente, il
giudice ad quem non può assolutamente pronunciarsi sul capo concernente gli interessi civilistici (19). Nella citata sentenza del 1998, i Giudici
delle Sezioni unite hanno ritenuto che il principio
d’immanenza dovesse essere attuato nella sua forma
più restrittiva: alla parte civile è consentito partecipare a tutte le fasi e i gradi del processo senza
aver bisogno di rinnovare la costituzione (20); però
essa, nel caso in cui si avvalga (senza proporlo direttamente) del gravame del pubblico ministero,
non può avanzare richieste di restituzioni o risarcimento dei danni. A fondamento di una tale decisione vi è peraltro la regola tantum devolutum quantum appellatum: sembrerebbe assurdo consentire al
giudice di esprimersi su un capo della sentenza non
espressamente richiamato nei motivi del gravame (21).
della parte civile appariva accumunata a quella del pubblico
ministero dal medesimo interesse alla punizione dell’imputato.
Per questo l’intervento del danneggiato sulla scena del processo penale fosse modellato sulla falsariga della partecipazione
della pubblica accusa: entrambe le azioni (civile e penale) erano considerate immanenti. Coerente con una tale impostazione fu anche il codice del 1913, ma solo nel 1930 si ebbe l’effettiva codificazione di un tale principio, che tutt’oggi vive nel
nostro ordinamento all’interno dell’art. 76 c.p.p. Per i profili
storici del principio di immanenza della parte civile si veda ancora P. Nuzzo, Parte civile non impugnante, 113 ss.
(16) A. Pennisi, Ingiustificati ripensamenti giurisprudenziali in
tema di impugnazioni della parte civile, in Riv.it. dir. proc. pen.,
2003, 559.
(17) A tale proposito P. Nuzzo, Parte civile non impugnante,
672; M. Nofri, Nuovi spazi alla parte civile nel giudizio d’appello,
in Cass. pen., 2003, 1977.
(18) Cass., Sez. Un., 25 novembre 1998, Loparco, in Guida
dir., 1999, 13, 87 ss., con nota di E. Sacchettini, Per la cenerentola del processo penale nessuna conseguenza dal ribaltamento dei giudizi; in Cass. pen., 1999, 2084. Conformi: Sez. II,
9 maggio 2000, Caniglia, in Arch. nuova proc. pen., 2001, 79;
Sez. IV, 21 aprile 2000, Colicigno, in Cass. pen., 2001, 3118,
con nota di E. Squarcia, Persona offesa dal reato: una distinzio-
ne non sempre agevole; Sez. V, 4 ottobre 2001, in Guida dir.,
2002, dossier 3, 71; Sez. VI, 26 maggio 2002, Lumiento, in
Guida dir., 2002, dossier 9, 60; Sez. V, 14 febbraio 2002, Sarta,
in Guida dir., 2002, 79.
(19) Viene in questo modo valorizzata la piena autonomia
della parte civile e del pubblico ministero: l’azione civile e l’azione penale, pur esercitate nello stesso processo, sono definite da capi diversi della sentenza, ciascuno capace di assumere
la condizione di giudicato anche in momenti processuali differenti. L’impugnazione del titolare della pubblica accusa, essendo limitata ai profili della potestà punitiva, mira a salvaguardare esclusivamente posizioni di carattere generale e non di parte, per cui non può produrre effetti estensibili alle richieste risarcitorie: la mancata impugnazione deve essere valutata come acquiescenza alla pronuncia di proscioglimento, con conseguente passaggio in giudicato del capo relativo agli interessi
civilistici. Così in P. Nuzzo, Parte civile non impugnante, 672. Di
questo avviso anche A. Pennisi, Ingiustificati ripensamenti giurisprudenziali, 558 ss.
(20) È naturalmente riconosciuto alla parte civile il potere di
prendere la parola e rassegnare le proprie conclusioni nel corso del processo d’appello.
(21) A. Pennisi, Ingiustificati ripensamenti giurisprudenziali,
550; si veda altresì P. Nuzzo, Parte civile non impugnante, 673.
Il principio di immanenza della costituzione
di parte civile alla luce delle contrastanti
pronunce delle Sezioni Unite
718
Diritto penale e processo 6/2014
Giurisprudenza
Processo penale
Tuttavia una soluzione di tal genere è stata poco
tempo dopo ribaltata da una nuova pronuncia delle
Sezioni Unite. Con la sentenza Guadalupi del
2002 (22) i giudici della Suprema Corte sono tornati sui propri passi ed hanno accolto una lettura
estensiva del principio di immanenza della costituzione di parte civile. Nello specifico, è stata riconsiderata la circostanza in cui l’impugnazione della
sentenza di assoluzione di primo grado è proposta
dal solo pubblico ministero: in questo caso il giudice d’appello non è solo tenuto a citare il danneggiato, ma, nel pronunciare la condanna dell’imputato, è chiamato ad adottare ogni altro provvedimento che sia imposto o consentito dalla legge.
Grazie al contenuto dell’art. 597, comma 2, lett. a,
c.p.p. si è resa possibile in favore della parte civile
l’eventuale reformatio in melius rispetto alla sentenza di primo grado (23). Da qui si evince la necessità che il giudice di seconde cure, che condanni
l’imputato assolto in primo grado, decida anche
sulla domanda di restituzione e di risarcimento del
danno, anche se la parte civile è rimasta acquiescente.
A tale soluzione, che consente in definitiva alla
parte civile di “sfruttare” l’impugnazione del pubblico ministero, sembra essersi di seguito allineata
la giurisprudenza maggioritaria.
Alcuni autori però, auspicando un nuovo ripensamento del Giudice di legittimità, hanno rilevato
l’arretratezza di una tale pronuncia, anche in considerazione della maggiore autonomia che il codice
avrebbe voluto riconoscere alla parte civile rispetto
alle vicende del processo penale (24). La pretesa
della devoluzione di diritto dell’intero capo della
sentenza relativo alla decisione sull’azione civile
non fa che attribuire di fatto al danneggiato dal
reato una posizione di privilegio nel giudizio d’appello; l’obiezione che si muove parte dal presupposto per cui l’azione civile e l’azione penale, pur
(22) È la sentenza Cass., Sez. Un., 10 luglio 2002, Guadalupi, in Guida dir., 2002, 47, 76 ss., con nota di S. Amato, Smentito un precedente delle Sezioni unite: il diritto ai danni non richiede nuove istanze; in Riv. it. dir. proc. pen., 2003, 550, con
nota di A. Pennisi, Ingiustificati ripensamenti giurisprudenziali in
tema di impugnazioni della parte civile; in Cass. pen., 2002,
3675 ss., e 2003, 1977 ss., con nota di M. Nofri, Nuovi spazi
alla parte civile nel giudizio d’appello.
(23) A tale proposito, A. Pennisi, Ingiustificati ripensamenti
giurisprudenziali, 561.
(24) È lo stesso Pennisi ad auspicare un ripensamento da
parte della Suprema Corte. In A. Pennisi, Ingiustificati ripensamenti giurisprudenziali, 558, lamenta un clamoroso passo indietro della Cassazione: «Dopo che le stesse Sezioni unite nella sentenza Loparco del 1998 - sembrava avessero messo
fine, con argomentazioni giuridiche ineccepibili, ad un confronto giurisprudenziale assolutamente ingiustificato alla luce
Diritto penale e processo 6/2014
esercitate nello stesso processo, sono definite da
capi diversi della sentenza, ciascuno capace di assumere la condizione di giudicato in momenti processuali differenti. Pertanto, anche in virtù del
principio dispositivo, la mancata proposizione dell’impugnazione della parte civile non deve essere
valutata come una sua legittima facoltà - addirittura con la conseguente eventualità che le proprie
pretese possano essere comunque e ipso iure fatte
valere mediante l’affidamento alle altrui impugnazioni -, «ma come acquiescenza alla pronuncia di
proscioglimento, con successivo passaggio in giudicato del capo relativo agli interessi civilistici» (25).
Tuttavia, rispetto a tali contestazioni, è prevalsa
la tutela dell’interesse del danneggiato dal reato, il
quale, una volta ammesso nel procedimento, ha diritto di partecipare e rimanere validamente inserito
nel processo penale, senza incontrare alcuna limitazione difensiva. In definitiva, si può dire che la
giurisprudenza maggioritaria ha a tutti gli effetti accolto la soluzione dettata dalla seconda pronuncia
del 2002 (26).
Rimane a questo punto da capire cosa avvenga
nel caso in cui la parte civile voglia ricorrere per
cassazione contro la sentenza di proscioglimento
emessa in appello nonostante essa sia rimasta acquiescente dinanzi al provvedimento di pari esito
emesso dal giudice di prime cure.
La non ricorribilità per cassazione della
sentenza d’appello sfavorevole alla parte
civile non impugnante
La parte civile può dunque giovarsi dell’appello
del pubblico ministero per veder tutelate le proprie
ragioni in virtù del principio di immanenza della
sua costituzione nel corso del procedimento penale. Qualora però il giudizio di impugnazione si risolva in una conferma della sentenza di proscioglidella vigente normativa in tema di impugnazioni della parte civile, il contrasto è riesploso per ricomporsi (ci auguriamo in
modo non definitivo) con l’attuale sentenza (n.d.r. Cass., Sez.
un., 10 luglio 2002, Guadalupi, 46). La stessa enuncia nella sostanza il principio di diritto secondo cui nel nostro processo
penale la regola fondamentale dell’effetto parzialmente devolutivo non vale per le impugnazioni della parte civile». Della stessa opinione M. Nofri, Nuovi spazi alla parte civile, op. cit.,
1982.
(25) Così in P. Nuzzo, Parte civile non impugnante, 672 ss.
(26) Così in M. Nofri, Nuovi spazi alla parte civile, 1981. Prevale oggi il significato forte del principio di immanenza: tale
principio determina la riproposizione ipso iure della domanda
risarcitoria nel giudizio d’impugnazione, anche se la parte civile non abbia esperito alcun rimedio contro la sentenza di proscioglimento.
719
Giurisprudenza
Processo penale
mento dell’imputato, alla parte civile non appellante è inibita la proposizione del ricorso per cassazione contro la sentenza emessa dal giudice di seconde cure. Ciò avviene a causa dell’acquiescenza
del danneggiato dal reato poiché egli, rimanendo
inerte, ha manifestato il mancato interesse al conseguimento degli interessi fatti valere mediante l’esercizio dell’azione civile.
Parte della giurisprudenza non si allinea ad una
tale interpretazione e ritiene piuttosto che la parte
civile, una volta ammessa nel processo penale, abbia diritto di partecipare a tutte le fasi successive,
potendo ricorrere contro la pronuncia di appello
anche quando non abbia impugnato quella di primo grado (27). In altri termini, in alcune occasioni
la Cassazione ha sentito il bisogno di tutelare il
principio di immanenza nella sua accezione più forte: se l’azione civile rimane validamente inserita
nel processo penale fino alla sentenza irrevocabile,
la costituita parte civile non può incontrare alcuna
limitazione. Essa può scegliere se attivarsi contro le
pronunce a lei sfavorevoli di primo o di secondo
grado con le proprie impugnazioni ovvero affidarsi
in appello e in cassazione (o anche solo in appello
o ancora solo in cassazione) agli eventuali gravami
del pubblico ministero con il diritto, comunque, di
partecipare e parlare.
Tuttavia, quella ora esposta è espressione di una
giurisprudenza minoritaria che non trova conforto
nelle più numerose e recenti pronunce emesse dalla Suprema Corte (28).
In più occasioni, infatti, la giurisprudenza di legittimità ha rivisitato le proprie posizioni e ha dichiarato che il principio di immanenza è destinato
a produrre i propri effetti in favore della parte civile che non appelli la sentenza di proscioglimento
di primo grado, soltanto in caso di decisione (in sede di gravame) favorevole all’impugnante pubblico
ministero, e cioè di condanna. In tale ipotesi la
parte civile ha diritto a vedere riconosciute le proprie pretese risarcitorie, ove ne sussistano i presup-
posti di merito (29). Alla parte civile, invece, non
è consentito ricorrere per cassazione quando la
stessa non abbia anche impugnato la decisione assolutoria di primo grado confermata poi dalla corte
d’appello a seguito di impugnazione esclusiva del
pubblico ministero. Pertanto, ai fini della ricorribilità in Cassazione, non è più tanto rilevante il
principio di immanenza della parte civile, quanto
piuttosto il fatto che la sentenza di primo grado
non sia stata dalla stessa impugnata; ciò ha eliminato la legittimazione di questa a proporre ricorso (30). Tale soluzione emerge inoltre anche dal
testo normativo: l’art. 606 c.p.p. prevede infatti l’inammissibilità del ricorso per violazioni di legge
non dedotte con i motivi d’appello.
La sentenza in esame si conforma a quanto
espresso - e ormai cristallizzato - nella giurisprudenza maggioritaria. Essa, dopo aver sostenuto la correttezza di un’interpretazione per certi aspetti “forte” del principio di immanenza della parte civile
mediante il richiamo a disposizioni normative
(artt. 76, 597, comma 2, lett. a e b, e 538 c.p.p.),
ha successivamente negato alla parte civile non appellante di ricorrere per cassazione contro una sentenza di secondo grado a lei sfavorevole. Per i giudici di legittimità ciò che rileva è il venir meno
dell’interesse che legittima la parte civile a impugnare. Laddove la persona offesa dal reato che abbia esercitato l’azione civile nel processo penale
non si avvalga del potere che legittimamente le
viene riconosciuto dall’art. 576 c.p.p., cioè di impugnare una decisione a lei sfavorevole, essa «dimostra di non avere interesse ad ottenere dal giudice dell’impugnazione il diritto negatogli nel precedente grado di giudizio». In ragione di ciò, la Corte
ha ritenuto inammissibile il ricorso della parte civile dinanzi al giudice di legittimità quale extrema ratio per la tutela di un interesse manifestato solo al
momento della sua costituzione e non anche in
quelli successivi.
(27) Si tratta della sentenza Cass., Sez. IV, 15 aprile 2009,
n., 26643, C.E.D. 244796.
(28) Tra le ultime si rammenta proprio quella oggetto del
presente commento.
(29) Conformi all’orientamento prevalente: Cass., Sez. V, 8
maggio 1998, n. 6911, C.E.D. 211844; Cass., Sez. V, 10 no-
vembre 2010, n. 1461, C.E.D., 249096; Cass. Sez. VI, 13 ottobre 2009, n. 49497, C.E.D. 245477.
(30) G. Amato, sub. Art. 76, in Codice di Procedura Penale
annotato con la giurisprudenza, a cura di G. Lattanzi, 2012, 302
ss.
720
Diritto penale e processo 6/2014
Giurisprudenza
Diritto penale
Giurisdizione
«Pasticciaccio brutto»
in alto mare. Questioni
di giurisdizione, estradizione,
necessità, traduzione d’atti
CORTE DI CASSAZIONE, Sez. I, 23 gennaio 2014 (c.c. 25 settembre 2013), n. 3155 - Pres. Bardovagni - Rel. Capozzi - Ric. W.T.
L’art. 10, commi 2 e 3, c.p. non presuppone che lo Stato italiano sia obbligatoriamente tenuto ad offrire al
Paese cui lo straniero appartiene la sua estradizione, né è annoverabile fra i principi di diritto internazionale
quello per cui uno Stato sia obbligatoriamente tenuto ad offrire l’estradizione stessa al Paese di nazionalità
dello straniero accusato di un reato cui sia applicabile la legge italiana, che si trovi sul territorio italiano.
In base alla normativa in vigore (al settembre 2013) non è obbligatorio provvedere alla traduzione della sentenza o dell’estratto contumaciale di essa nella lingua nazionale dell’imputato che non conosca quella italiana; invero, la sentenza non è atto cui lo straniero partecipa direttamente, sicché la traduzione è da ritenere rimessa all’iniziativa ed alla valutazione dello straniero, salvo l’eventuale differimento del termine per impugnare.
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conforme
Cass., sez. I, 14 luglio 1989, n. 13988, ad es. in Giust. pen. 1990, II, 645; Cass., 3 marzo 1972, n.
2521, ad es. in Riv. dir. int. 1974, 335.
Difforme
Non sono stati rinvenuti precedenti difformi.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 20 febbraio 2012 la Corte d'Assise
d'Appello di Catania si è pronunciata in grado di appello sulla sentenza emessa il 28 giugno 2010 col rito abbreviato dal G.U.P. di Siracusa nei confronti di W.T.;
O.K.; U.S. ed OK.Pi., tutti stranieri extracomunitari di
nazionalità nigeriana, decidendo come segue:
- W.T.: in primo grado gli è stata inflitta la pena di anni 30 di reclusione, con attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti di cui all'art. 61 c.p., n. 4
(avere agito con crudeltà verso la persona) ed all'art. 61
c.p., n. 5 (avere agito in ora notturna, ostacolando la
privata difesa), per il delitto di omicidio volontario di
cinque persone (un nigeriano interessatosi al funzionamento della bussola ed ucciso, siccome accusato di essere indemoniato e di averla rovinata; un ghanese di nome I., ritenuto di essere posseduto da forze malefiche;
un nigeriano soprannominato (omissis), siccome troppo
lamentoso ed ingombrante; un nigeriano di circa 16 anni di nome P. o F., che delirava per mancanza di acqua
e cibo ed era stato ritenuto essere uno spirito maligno
Diritto penale e processo 6/2014
ed infine un nigeriano che, evidentemente spossato dalla mancanza di acqua e di cibo, delirava, dicendo di voler uscire per effettuare acquisti), da lui gettati in mare
dal gommone, sul quale stavano compiendo la navigazione dalla Libia all'Italia. In appello la pena gli è stata
ridotta ad anni 20 di reclusione, essendogli stata riconosciuta la continuazione fra i cinque omicidi ascrittigli;
- O.K. (detto (omissis)): in primo grado gli è stata inflitta la pena di anni 30 di reclusione, con attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 4 (avere agito con crudeltà verso la persona), per il delitto di omicidio volontario di tre persone (un nigeriano interessatosi al funzionamento della
bussola ed ucciso, accusato di aver rovinato lo strumento anzidetto, siccome indemoniato; un ghanese di nome
I., ritenuto di essere posseduto da forze malefiche e di
un nigeriano soprannominato (omissis), siccome troppo
lamentoso ed ingombrante), da lui gettati in mare dal
gommone, sul quale stavano compiendo la navigazione
dalla Libia all'Italia. In appello la pena gli è stata ridotta ad anni 17 di reclusione, per essere stata riconosciuta
la continuazione fra i tre omicidi ascrittigli;
721
Giurisprudenza
Diritto penale
- U.S.: in primo grado è stato condannato ad anni 16 di
reclusione, con attenuanti generiche equivalenti alla
contestata aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 4 (avere
agito con crudeltà verso la persona) per il delitto di
omicidio volontario di un nigeriano soprannominato
(omissis), da lui gettato in mare dal gommone, sul quale
stavano compiendo la navigazione dalla Libia all'Italia,
siccome troppo lamentoso ed ingombrante. In appello
la pena gli è stata ridotta ad anni 14 di reclusione,
avendo la Corte d'assise d'appello ritenuto come pena
base non quella della reclusione di anni 24, ma quella
della reclusione di anni 21, ridotta di un terzo per il rito
abbreviato prescelto;
- OK.Pi.: in primo grado gli è stata inflitta la pena di
anni 30 di reclusione, con attenuanti generiche equivalenti alla contestata aggravante di cui all'art. 61 c.p., n.
4 (avere agito con crudeltà verso la persona), per il delitto di omicidio volontario di due persone (un ghanese
di nome I., ritenuto di essere posseduto da forze malefiche ed un nigeriano soprannominato (omissis), siccome
troppo lamentoso ed ingombrante), da lui gettati in mare dal gommone, sul quale stavano compiendo la navigazione dalla Libia all'Italia. In appello la pena gli è stata ridotta ad anni 15 e mesi 6 di reclusione, per esser
stata riconosciuta la continuazione fra i due omicidi.
2. I fatti di causa si sono verificati fra il (omissis) nel
tratto di mare che separa la Libia dall'Italia a bordo di
un gommone diretto verso le coste italiane, intercettato, con 59 cittadini extracomunitari a bordo, da un
guardiacoste della guardia di finanza di Augusta alle ore
9,05 dell'(omissis) a circa 12 miglia dalla Sicilia, all'interno delle acque nazionali italiane; era emerso che il
gommone in questione era partito dalla Libia circa 9
giorni prima con a bordo 72 persone; di esse erano
quindi decedute 13 persone, i cui corpi erano stati abbandonati in mare.
I quattro imputati, capeggiati dal W., avevano preso il
controllo del gommone, dopo che, al quarto giorno di
navigazione, il pilota dello stesso, A.G., aveva ammesso
di non essere più in grado di condurre il gommone in
Italia; essi si erano posti a poppa dell'imbarcazione, vicino al motore, gestendo il poco cibo ed acqua potabile
rimasta a bordo e creando un vero e proprio clima di
terrore e di soggezione nei confronti degli altri trasportati, ai quali avevano nascosto di avere smarrito la rotta
per giungere in Italia. I giudici di merito hanno ritenuto
la propria giurisdizione a giudicare i fatti di causa, sebbene verificatisi in acque internazionali, avendo ravvisato la sussistenza dei requisiti all'uopo indicati dall'art.
10 c.p. (presenza degli imputati nel territorio dello Stato; delitto per il quale era stabilita la pena della reclusione non inferiore nel minimo a 3 anni; richiesta del
Ministro della giustizia; mancata richiesta di estradizione degli imputati da parte dello Stato di appartenenza).
3. Gli elementi di prova a carico degli imputati sono
consistiti:
-nelle concordi ed attendibili dichiarazioni accusatorie
rese nei loro confronti da 19 partecipanti alla tragica
traversata, precisamente S.A., [+ altri omessi];
722
-nelle intercettazioni ambientali disposte all'interno del
carcere di Cavadonna ed intercorse fra gli odierni imputati ed alcuni dei testi escussi, della cui genuinità non
era dato dubitare, almeno fino al 16 ottobre 2008, non
potendosi attribuire la medesima valenza indiziaria alle
intercettazioni disposte dopo tale data, in quanto gli imputati, proprio il 16 ottobre 2008, erano stati informati
che le loro conversazioni potevano essere intercettate.
3. Avverso detta sentenza della Corte d'assise d'appello
di Catania ricorrono per cassazione W.T., O.K., U. S.,
OK.Pi., tutti a mezzo dei rispettivi difensori.
4. W.T. formula quattro doglianze:
1)-erronea ed irragionevole applicazione degli artt. 10 e
13 c.p., in quanto, in caso di reati che non riguardavano cittadini italiani e non ledevano la sovranità dello
Stato italiano, siccome avvenuti fuori del territorio dello Stato, il Ministro della giustizia godeva di un potere
discrezionale illimitato ed eccessivo; non era peraltro
ravvisabile alcun concreto interesse del nostro paese di
giudicare fatti che non lo riguardavano assolutamente,
siccome commessi al di fuori del territorio italiano ed in
danno di stranieri; in tal modo gli era stata sottratta la
possibilità di essere giudicato nel proprio paese d'origine, che avrebbe potuto usare criteri più miti, con palese
violazione del diritto naturale delle genti, secondo il
quale ogni soggetto aveva diritto di essere giudicato secondo le leggi del proprio paese; invero l'art. 10 c.p., faceva salva la possibilità per lo straniero che si trovava
in Italia di essere giudicato dal giudice del suo paese di
provenienza, il quale poteva chiederne l'estradizione; e,
dall'esame congiunto degli artt. 10 e 13 c.p. era da ritenere che, nel silenzio del suo paese d'origine, lo Stato
italiano era obbligato ad offrire l'estradizione dello straniero giudicando; e solo a seguito del mancato accoglimento dell'offerta di estradizione poteva ritenersi radicata la giurisdizione del giudice italiano, purché il Ministro della giustizia ne avesse fatto richiesta; la giurisprudenza di legittimità, con un'unica remota sentenza, era
favorevole alla propria tesi difensiva, avendo esaminato
un caso nel quale il Regno Unito aveva abdicato a processare un proprio cittadino; ed anche sul piano pattizio
era da rilevare che nessun trattato di estradizione esisteva fra l'Italia e la Nigeria, paese di recente indipendenza; era pertanto da ritenere che il governo italiano, prima di processarlo, avrebbe dovuto offrire la sua estradizione alla Nigeria e solo in caso di rifiuto da parte di tale ultimo paese egli avrebbe potuto essere processato in
Italia;
2)-violazione art. 85 c.p., non potendo ravvisarsi una
sua normale capacità d'intendere e volere al momento
dei fatti, verificatisi in un contesto di oltre 50 persone
stipate su di un gommone restato alla deriva sotto il sole per 9 giorni, con cibo ed acqua finiti al terzo giorno;
la perizia medica da lui prodotta aveva rilevato come la
sua prolungata esposizione al sole aveva comportato
uno stato di malattia, tale da escludere la possibilità di
mantenere le facoltà intellettive e volitive; si erano verificate allucinazioni ed alcuni di essi erano saltati fuori
del gommone per fare acquisti; la sentenza impugnata
non aveva indicato su quali basi aveva ritenuto che sus-
Diritto penale e processo 6/2014
Giurisprudenza
Diritto penale
sistessero scorte sufficienti per consentire ai passeggeri
di rimanere vigili; solo apparente era stata pertanto la
motivazione della sentenza nella parte in cui egli era
stato ritenuto pienamente capace d'intendere e volere;
3)-pena immotivatamente severa, che avrebbe dovuto
essere rapportata al minimo edittale; nessuna motivazione era stata poi addotta in ordine all'aumento di pena
disposto per i fatti in continuazione;
4)-mancata traduzione della sentenza emessa dalla Corte d'assise d'appello nella lingua inglese e conseguente
violazione del suo diritto di difesa.
5. O.K. formula cinque doglianze:
1)-erronea ed irragionevole applicazione artt. 10 e 13
c.p., atteso che in caso di reati che non riguardavano
cittadini italiani e non ledevano la sovranità dello Stato italiano, siccome avvenuti fuori del territorio dello
Stato, il Ministro della giustizia disponeva di un potere
discrezionale illimitato ed eccessivo per processare o
meno gli imputati; non era peraltro ravvisabile alcun
concreto interesse dell'Italia di giudicare fatti che non
la riguardavano assolutamente, siccome commessi al di
fuori del territorio italiano ed in danno di stranieri; in
tal modo gli imputati erano stati privati della possibilità
di essere giudicati nel proprio paese d'origine, che
avrebbe potuto usare criteri più miti ed a lui più favorevoli, con conseguente violazione del diritto naturale
delle genti, secondo il quale ogni soggetto aveva diritto
di essere giudicato dalle leggi del proprio paese; peraltro
l'art. 10 c.p., faceva salva la possibilità per lo straniero
che si trovasse in Italia di essere giudicato dal giudice
del suo paese di provenienza, il quale poteva chiederne
l'estradizione; e dall'esame congiunto degli artt. 10 e 13
c.p. era da ritenere che, nel silenzio del suo paese d'origine, lo Stato italiano fosse obbligato ad offrire l'estradizione dello straniero da giudicare; e solo in caso di mancato accoglimento dell'offerta di estradizione avrebbe
potuto scattare la giurisdizione del giudice italiano, purché il Ministro della giustizia ne avesse fatto richiesta;
la giurisprudenza di legittimità con un'unica remota
sentenza del 1989 aveva rafforzato la propria tesi difensiva, avendo rilevato che, nel caso esaminato, il Regno
unito aveva abdicato al suo diritto di processare un proprio cittadino; ed anche sul piano delle convenzioni internazionali era da rilevare che fra l'Italia e la Nigeria,
paese di recente indipendenza, non era intercorso alcun
trattato di estradizione; era pertanto da ritenere che il
governo italiano, prima di processare esso ricorrente,
avrebbe dovuto offrire la sua estradizione alla Nigeria e
solo in caso di rifiuto egli avrebbe potuto essere processato in Italia;
2)-violazione art. 85 c.p., non potendo ravvisarsi una
sua normale capacità d'intendere e volere al momento
dei fatti, avvenuti in un contesto di oltre 50 persone stipate su di un gommone restato alla deriva sul mare sotto il sole per 9 giorni, con cibo ed acqua finito al terzo
giorno; la perizia medica di parte da lui prodotta aveva
rilevato come l'esposizione al sole prolungata aveva
comportato uno stato di malattia, tale da avere escluso
la possibilità di mantenere integre le facoltà intellettive
e volitive; si erano determinate allucinazioni ed alcuni
Diritto penale e processo 6/2014
erano saltati fuori del gommone per fare acquisti; la sentenza impugnata non aveva indicato su quali basi aveva
ritenuto che sussistessero scorte sufficienti per consentire ai passeggeri di rimanere vigili; la motivazione della
sentenza impugnata era pertanto apparente nella parte
in cui era stato ritenuto pienamente capace d'intendere
e volere;
3) - erroneo rigetto da parte della Corte territoriale del
suo motivo di gravame concernente l'essere stato egli
minore d'età al momento dei fatti; egli era stato ritenuto maggiorenne sulla base di presunzioni non condivisibili, in quanto non poteva ritenersi che lo sviluppo
scheletrico di un negro fosse assimilabile a quello di un
bianco; dalle intercettazioni ambientali disposte non
era poi emerso che egli avesse confessato la sua vera
età;
4)-pena immotivatamente severa, che avrebbe dovuto
essere rapportata al minimo edittale; motivazione carente in punto di aumento di pena disposto per i fatti in
continuazione;
5)-mancata traduzione della sentenza emessa dalla Corte d'assise d'appello nella lingua inglese, con conseguente violazione del suo diritto di difesa.
6. U.S. ed OK.Pi., a mezzo del loro comune difensore,
formulano due doglianze:
1)-erronea applicazione di legge, in quanto non sussisteva nella specie una condizione di procedibilità a loro
carico, atteso che dall'esame di un unico precedente
giudiziario di legittimità del 1989, poteva dedursi che la
giurisprudenza di legittimità aveva affermato un principio diverso rispetto a quello fatto proprio dalla Corte
territoriale e cioè che solo se lo Stato estero avesse
espressamente o tacitamente rinunciato a procedere nei
confronti dell'imputato non era necessario che lo Stato
italiano facesse precedere la richiesta ministeriale di
processare gli imputati dall'offerta di estradizione; era irragionevole far coesistere i due istituti anzidetti; e la
procedura di estradizione era un presupposto necessario
per la validità della richiesta. Non era inoltre condivisibile il richiamo fatto dalla sentenza impugnata alle disposizioni relative alla convenzione in materia di reati
contro la sicurezza della navigazione, firmata il 10 marzo
1988 e resa esecutiva in Italia con l. n. 422 del 1989; in
tal caso l'estradizione non era necessaria, ma solo nei
confronti degli Stati aderenti alla convenzione, che non
era stata ratificata dalla Nigeria; anche da tale riferimento normativo poteva peraltro desumersi che, in
mancanza di convenzioni in materia di cooperazione
penale, era necessario procedere necessariamente con
l'istituto dell'estradizione; il che poteva altresì desumersi dall'esame dell'art. 10 c.p., il quale, fra le condizioni
necessarie per processare uno straniero in Italia per un
delitto commesso all'estero, prevedeva espressamente la
mancata concessione dell'estradizione, ovvero la circostanza che la stessa non fosse stata accettata dal governo dello Stato a cui lo straniero apparteneva.
Era quindi necessario che l'estradizione fosse stata in
precedenza offerta, come del resto espressamente previsto dall'art. 13 c.p., comma 3; e, nella specie, nella richiesta del Ministro della giustizia non vi era alcun rife-
723
Giurisprudenza
Diritto penale
rimento al procedimento della loro estradizione; né
avrebbe potuto sostenersi che, nella specie, il governo
italiano non avrebbe potuto iniziare le procedure per la
concessione della estradizione ad essi ricorrenti in quanto in Nigeria l'omicidio volontario era punito con la pena capitale; invero non era certo che per i medesimi
reati in Nigeria sarebbe stata applicata la pena di morte,
in quanto su 36 stati confederati solo in 14 era vigente
la pena di morte; e fra di essi non vi era quello da cui
provenivano essi ricorrenti; restava comunque il fatto
che nel provvedimento ministeriale di richiesta di processare essi ricorrenti in Italia nessun cenno era stato
fatto a detta problematica.
D'altra parte i due istituti della condizione di procedibilità e dell'estradizione perseguivano esigenze procedimentali strettamente correlate fra di loro, essendo la
procedura dell'estradizione di natura giurisdizionale, affidata alla Corte d'appello e ricorribile in Cassazione; ed
era correlata a detti caratteri la norma di cui all'art. 698
c.p.p., secondo cui l'estradizione non poteva essere concessa in ipotesi di reato politico, ovvero se l'imputato
poteva essere sottoposto a trattamenti degradanti tali da
violare i fondamentali diritti della persona.
Era il Ministro della giustizia tenuto ad accertare la sussistenza di garanzie offerte dallo Stato estero per assicurare la compatibilità del trattamento cui sarebbe sottoposto l'estradato ai principi consacrati dalla nostra Costituzione; e solo a seguito di valutazione negativa in ordine alla concedibilità dell'estradizione il Governo italiano avrebbe potuto procedere nei confronti dell'imputato straniero; al contrario, nel caso in esame, il Ministero della giustizia non aveva effettuato alcun accertamento del genere, essendosi limitato ad effettuare un
generico giudizio di opportunità;
2)-motivazione illogica e meramente apparente circa la
valutazione delle prove poste a loro carico.
La sentenza impugnata non aveva dato alcuna risposta
alle censure da essi formulate in appello circa l'inattendibilità delle dichiarazioni fatte dai loro compagni di
viaggio, siccome rilasciate solo al fine di ottenere il permesso di soggiorno; numerosi erano gli atti probatori
che contrastavano con la ricostruzione dei fatti proposta
dalle fonti d'accusa escusse; ed essi avevano elencato
una serie di documenti, dei quali la sentenza impugnata
non aveva fornito alcuna valutazione; ed anche il
G.U.P. che aveva giudicato un altro coimputato,
AK.Ey., aveva rilevato come le dichiarazioni rese dai testi a carico del predetto imputato non erano di elevatissima credibilità, sia per le loro pessime condizioni fisiche e mentali, sia perché le dichiarazioni da essi rese
erano del tutto ripetitive; sia perché nessuno dei testi
escussi, sentiti per primi nel settembre 2008, avevano
mai menzionato il nome di esso ricorrente. Con riferimento all'omicidio del nigeriano soprannominato
(omissis) il materiale probatorio utilizzato era in particolare generico ed apodittico; non erano state contestate
in modo adeguato le censure da loro formulate in appello, con le quali avevano rilevato la dubbia attendibilità
dei dichiaranti, con specifico riferimento ai testi OB.Cl.
e M.S., le cui dichiarazioni erano state evidentemente
724
costruite in modo progressivo e modulato, con macroscopiche contraddizioni, avendo essi prima detto di avere saputo della morte del ghanese di nome I. de relato e
poi di averlo constatato con i propri occhi.
Anche il teste M.A. aveva fatto dichiarazioni generiche, aspecifiche, incongrue e non individualizzanti.
Infine la responsabilità di OK. in ordine all'omicidio
del ghanese I. era stata ritenuta sebbene egli non fosse
stato individuato fra gli autori del delitto, ma solo quale
componente del c.d. "gruppo di comando", secondo lo
schema della convergenza del molteplice, che non era
utilizzabile nella fattispecie in esame.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. È infondato il primo motivo di ricorso, comune a tutti e quattro i ricorrenti, tutti di nazionalità nigeriana,
con il quale è stato eccepito erronea applicazione degli
artt. 10 e 13 c.p., in quanto il reato ad essi contestato,
non commesso nei confronti di cittadini italiani e tale
da non avere leso la sovranità dello Stato italiano, non
poteva essere perseguito dal giudice italiano solo per
averne fatto richiesta il Ministro della giustizia, essendo
stato altresì necessario un ulteriore passaggio procedurale nella specie non verificatosi, in quanto l'Italia avrebbe dovuto previamente offrire al loro paese d'origine, la
Nigeria, la possibilità di chiedere la loro estradizione, si
che solo in caso di rifiuto da parte della Nigeria essi
avrebbero potuto essere giudicati in Italia per il reato ad
essi ascritto.
2. Va innanzitutto rilevato che la formulazione letterale
dell'art. 10 c.p., comma 2, n. 3 non autorizza a ritenere
che lo Stato italiano sia in ogni caso obbligatoriamente
tenuto ad offrire al paese cui lo straniero appartiene la
sua estradizione, si da far ritenere che lo straniero possa
essere processato in Italia solo dopo che le autorità italiane si siano accertate che il suo Stato di appartenenza
non abbia intenzione di chiederne l'estradizione. Invero
la dizione letterale della norma in esame lascia chiaramente intendere che l'estradizione costituisce una variabile solo eventuale della procedura, nel senso che, di essa, va tenuto conto solo se vi sia stata una effettiva richiesta in tal senso dello Stato di appartenenza dello
straniero, ipotesi questa non verificatasi nella specie.
3. D'altra parte l'estradizione, quale forma di cooperazione giudiziaria fra gli Stati, è caratterizzata per sua natura da un ampio margine di discrezionalità, si che, in
assenza di specifici trattati stipulati in materia fra l'Italia
e la Nigeria, l'estradizione non può ritenersi caratterizzata da alcun carattere di obbligatorietà; né è annoverabile fra i principi di diritto internazionale quello per cui
uno Stato sia obbligatoriamente tenuto ad offrire l'estradizione al paese di appartenenza dello straniero che
abbia commesso un reato perseguibile dai propri organi
giudiziari.
4.Va infine ritenuto che è improprio e fuorviante il richiamo giurisprudenziale di legittimità fatto dai ricorrenti per avallare la tesi da essi sostenuta, atteso che la
sentenza da essi richiamata (Cass. Sez. 1 n. 13988 del
14/7/1989, Hamdan, Rv. 182309) aveva ad oggetto la
Diritto penale e processo 6/2014
Giurisprudenza
Diritto penale
diversa ipotesi di uno Stato estero che non solo non si
era avvalso della facoltà di chiedere l'estradizione, ma
aveva altresì collaborato con lo Stato, nel quale il reo si
trovava, nella raccolta delle prove, in tal modo facendo
intendere di avere rinunciato a punire direttamente
l'autore del fatto; dal precedente in esame è dato anzi
evincere la conferma della diversa interpretazione dell'art. 10 c.p. fatta dal Collegio, essendo esso evincibile
il diverso principio secondo cui è, in ogni caso, lo Stato
di appartenenza dell'imputato a doversi rendere parte
attiva per chiedere l'estradizione, ovvero comunicare la
propria rinuncia alla richiesta di estradizione di un suo
cittadino in attesa di essere giudicato in un diverso Stato.
5. È da ritenere poi infondato al limite dell'inammissibilità il secondo motivo di ricorso, comune ai ricorrenti
W.T. ed O.K., concernente carenza di motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui non era stata
ravvisata una loro totale incapacità di intendere e di
volere al momento del fatto, in considerazione delle
condizioni di grave emergenza in cui era stata da essi effettuata la traversata del Mediterraneo dalla Libia alla
Sicilia su di un gommone, sul quale erano stipate molte
decine di persone con poche scorte di viveri e di acqua.
6. La sentenza impugnata ha invero adeguatamente motivato in ordine alla sussistenza di una loro piena capacità di intendere e volere al momento del fatto, avendo
fatto riferimento all'essere stati essi di nazionalità nigeriana e, come tali, maggiormente addestrati a resistere a
situazioni di grande calura e di penuria d'acqua; inoltre
dall'esame dei dati processuali era da escludere che i
due ricorrenti fossero affetti da disturbi della personalità
così rilevanti da avere fatto scemare in maniera rilevante la loro capacità d'intendere e volere; essi avevano invero assunto il comando dell'imbarcazione, si che era
da ritenere avere essi conservato per sé un'adeguata riserva di acqua e di cibo, come del resto era stato confermato dalle dichiarazioni rese in tal senso dai testi o. s. e
K.S.J.; ed anche dal loro comportamento processuale e
sostanziale successivo alla commissione dei fatti poteva
evincersi che entrambi i ricorrenti erano stati nel pieno
possesso delle loro facoltà mentali al momento del fatto,
essendo emerso che essi lucidamente avevano mostrato
di temere quanto potessero avere riferito gli altri occupanti dell'imbarcazione contro di essi.
7. È infondato il motivo di ricorso sub 3), proposto da
W. T., identico a quello proposto sub 4) da O.K. e concernente carenza di motivazione in ordine alla pena ad
essi comminata.
Va al contrario rilevato che la sentenza impugnata ha
attentamente valutato la loro posizione processuale, essendo stata ad entrambi sensibilmente ridotta la pena
in grado di appello (al W. da anni 30 ad anni 20 di reclusione; all'O. da anni 30 ad anni 17 di reclusione), essendo stato riconosciuto in favore di entrambi il vincolo della continuazione fra i vari omicidi a ciascuno dei
due ascritti ed avendo altresì correttamente indicato,
per entrambi i ricorrenti, il reato più grave e gli aumenti di pena disposti in continuazione. La Corte territoriale ha in tal modo dimostrato di avere quantificato la pe-
Diritto penale e processo 6/2014
na inflitta ai due ricorrenti dopo avere attentamente
esaminato le circostanze di tempo e di luogo in cui i fatti si sono svolti, in tal modo avendo adeguatamente
adempiuto all'obbligo su di essa incombente di motivare
in concreto la determinazione della pena, applicando
tutti gli elementi ritenuti determinanti o rilevanti allo
scopo, nell'ambito dei criteri offerti dall'art. 133 c.p.
(cfr., in termini, Cass. Sez. 6, n. 9120 del 2.7.98, Urrata
ed altri, Rv. 211582).
8. È infondato il quarto motivo di ricorso proposto da
W.T., identico a quello proposto sub 5) da O.K., concernente la mancata traduzione nella lingua inglese da
essi conosciuta della sentenza impugnata. La prevalente
giurisprudenza di legittimità e la giurisprudenza della
Corte Europea dei diritti dell'uomo sono invero orientate nel senso di ritenere che, dalla normativa in vigore,
non è ricavabile l'obbligo di provvedere alla traduzione
della sentenza o dell'estratto contumaciale della medesima nella lingua nazionale dell'imputato che non conosca la lingua italiana, atteso che la sentenza non è ricompresa fra gli atti, rispetto ai quali la lingua processuale assicura all'imputato alloglotta, che non conosca
la lingua italiana, il diritto alla nomina di un interprete
per la traduzione nella lingua a lui nota.
Invero la sentenza non è un atto cui lo straniero partecipa direttamente, essendo invece da qualificare come
atto che conclude una fase processuale ed il cui precipuo fine è, oltre a rendere noti i motivi posti a fondamento della decisione, di consentire agli aventi diritto
di dare impulso ad una successiva fase processuale, che
è tuttavia solo eventuale, si che la sua traduzione nella
lingua da lui conosciuta è da ritenere rimessa all'iniziativa e valutazione dello straniero;
e la traduzione della sentenza può solo comportare per
quest'ultimo un eventuale differimento del relativo termine per impugnare (cfr., in termini, Cass. Sez. 4 n.
26239 del 19/3/2013, Gharby ed altri, Rv. 255694).
9. È infondato il terzo motivo di ricorso proposto da O.
K., con il quale è stato censurato l'averlo la sentenza
impugnata ritenuto maggiore d'età al momento del fatto.
Va al contrario rilevato che la Corte territoriale ha adeguatamente e diffusamente indicato i validi motivi, per
i quali l'imputato anzidetto era da ritenere maggiore di
età al momento del fatto, avendo il medesimo indicato,
anche in sede di dichiarazioni spontanee rese innanzi
alla Corte territoriale l'8 febbraio 2012, quale sua data
di nascita, quella del (omissis).
Inoltre in primo grado era stata disposta perizia medico
legale sulla sua persona, in esito alla quale era stata accertato che la sua età biologica era da ritenere certamente superiore agli anni 18.
Da un'intercettazione ambientale svolta in carcere il 25
ottobre 2008 era infine emerso come il ricorrente, parlando con il coimputato W., aveva chiaramente fatto
intendere che la carta della sua minore età era fra quelle che egli si riproponeva di giocare al fine di alleggerire
la sua posizione processuale e di contrastare le deposizioni rese dai testi nei suoi confronti.
725
Giurisprudenza
Diritto penale
10. È infine infondato al limite dell'inammissibilità il
secondo motivo di ricorso, con il quale i ricorrenti U.S.
ed OK.Pi. lamentano l'illogicità e la mera apparenza dei
motivi addotti dalla sentenza impugnata per ritenere
validi gli elementi di colpevolezza ravvisati a loro carico.
La doglianza in esame è invero chiaramente attinente
la merito e come tale non è proponibile nella presente
sede di legittimità, siccome avente ad oggetto la mera
riproposizione di censure concernenti l'inattendibilità
delle deposizioni rese dai testi nei loro confronti, già da
essi già formulate in appello e già adeguatamente confutate dalla Corte territoriale, la quale ha rilevato come
le testimonianze raccolte nei confronti dei due ricorrenti erano state sostanzialmente concordi nella ricostruzione dei vari episodi e per la parte che ciascun teste era
stato in grado di percepire in concreto della drammatica
vicenda da essi vissuta.
Va aggiunto che la Corte territoriale non ha solo tenuto presente quanto dichiarato dai testi escussi nei confronti dei due ricorrenti anzidetti, ma ha altresì valutato, al fine di ricostruire i fatti, il contenuto delle conversazioni ambientali intercettate nelle celle del carcere
di Cavadonna ed intercorse fra i due ricorrenti e gli altri coimputati, nonché alcuni dei testi, correttamente
avendo ritenuto la valenza probatoria delle intercettazioni disposte fino al 16 ottobre 2008, data in cui gli
imputati erano stati resi edotti della possibilità che le
loro conversazione venissero intercettate.
Uno specifico riferimento alla posizione dell'OK. è
emersa dalla conversazione dell'8 ottobre 2008 intercorsa fra S.A. e K.S., un ulteriore specifico riferimento alla
posizione di entrambi è emersa nella successiva conversazione registrata l'11 ottobre 2008.
Non è infine consentito richiamare nella presente sede
quanto disposto da un altro G.U.P. in sede di giudizio
abbreviato svoltosi nei confronti di un altro concorrente, attesa l'autonomia di ciascun giudizio e tenuto conto
della genericità di quanto riferito al riguardo dai due ricorrenti.
Invero l'eventuale estensione nei loro confronti di un
eventuale giudicato formatosi nei confronti di un concorrente presupponeva l'esistenza di una sentenza assolutoria definitiva per insussistenza del fatto, circostanza
questa non addotta dai ricorrenti (cfr. Cass. Sez. 6 n.
7804 del 28/2/200, P.M. e Piccinni, Rv. 220520).
11.1 ricorsi proposti da W.T., O.K., U. S. ed OK.Pi.
vanno pertanto respinti, con loro condanna al pagamento delle spese processuali.
IL COMMENTO
di Alberto di Martino (*)
La nota analizza la sentenza resa dalla Cassazione su un caso d’esercizio della giurisdizione italiana su
fatti commessi tra stranieri all’estero, nel contesto dell’immigrazione irregolare, identificando tre ordini di
questioni essenziali che la vicenda solleva. Il primo concerne il contenuto dell’art. 10 c.p. ed in particolare
i rapporti con la disciplina estradizionale. Si esclude, sotto questo profilo, che la norma presupponga od
altrimenti fondi un obbligo di offrire l’estradizione da parte dello Stato, peraltro inesistente nel diritto internazionale. Il secondo ordine di problemi concerne il dubbio se, nel caso concreto, non potessero eventualmente sussistere i requisiti dello stato di necessità: tema non sollevato nel processo, dove si è privilegiata la difesa sul (debole) tema d’una asserita non imputabilità. Infine, è affrontato il problema se la sentenza come atto processuale debba essere annoverata fra gli atti che devono essere tradotti all’imputato
c.d. alloglotta, che non conosca la lingua italiana.
Sentenza e questioni
La vicenda oggetto della sentenza che qui si annota è relativa ad un caso paradigmatico di applicazione delle regole in tema di giurisdizione nazionale a fatti commessi al di fuori del territorio italiano, e con ciò anche ben espressivo sia di talune
sensibili incertezze negli operatori, sia di questioni
generali lasciate irrisolte dalla normativa vigente
in tema di diritto penale transnazionale o, per dirla
in termini più classici seppure impropri, di limiti
spaziali della legge penale. Si tratta di omicidi
commessi da stranieri in acque internazionali, in
danno di altri stranieri; l’elemento fattuale di collegamento con il territorio italiano è rappresentato
dalla sola circostanza che l’imbarcazione era stata
intercettata dalla Guardia costiera italiana quando
ormai giunta in acque territoriali. Il tema dell’esistenza o meno della giurisdizione italiana, a fronte
di un criterio di collegamento così occasionale, così apparentemente debole, è stato forse quello che
- comune a tutti i ricorrenti per cassazione - ha più
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
726
Diritto penale e processo 6/2014
Giurisprudenza
Diritto penale
impegnato le parti nella vicenda processuale concreta e, di riflesso, può apparire in certa misura il
nucleo centrale del ragionare in diritto compiuto
dalla Corte.
Per vero, non si tratterebbe dell’unico aspetto
d’interesse della vicenda, potendosene ravvisare almeno altri due, seppure trattati, rispetto alla parte
sulla giurisdizione, in modo comparativamente più
rapido, anche per via del modo con cui le questioni erano state prospettate alla Corte (infra, §§ 34). Il primo concerne le circostanze di fatto nelle
quali gli omicidi erano stati realizzati: esse risultano
processualmente formalizzate, nel ricorso per cassazione, mediante l’inquadramento nel tema della
capacità d’intendere e di volere (ma, come si accennerà sommariamente più oltre, il caso sembra
nascondere aspetti che sarebbero meritevoli di ulteriori approfondimenti, sia di tipo fattuale sia in
termini di categorie dogmatiche coinvolte). Il secondo aspetto d’interesse, nel contesto non solo e
non tanto di un sistema penale “internazionalizzato” nelle sue fonti prescrittive, quanto di un’applicazione pratica che coinvolge, quotidianamente,
sempre più stranieri (1), concerne il ribadito orientamento giurisprudenziale restrittivo in tema di diritti dello straniero, che non conosca la lingua italiana, alla traduzione degli atti processuali (nel caso di specie, la sentenza). Le osservazioni che seguono, pur focalizzate sul tema della giurisdizione
italiana sui fatti di causa, cercheranno di dar conto
rapidamente anche degli altri due aspetti d’interesse.
Questioni di giurisdizione e art. 10 c.p.
Lo scenario - un gommone di disperati in mare
aperto - è una microstoria all’interno del dramma
che si consuma nei flutti del Mediterraneo alla volta dell’Europa (inchieste indipendenti stimano circa ventimila morti fa il 2000 e il 2013) (2). Perduta la rotta, coloro che si sono impadroniti dell’imbarcazione per guidarla verso la destinazione finale
si sbarazzano di alcuni molesti compagni di (s)ventura, catapultandoli fuori dal gommone (i dettagli
non sono noti dalla sentenza di legittimità; devono
aver pesato nella contestazione dell’aggravante di
(1) Al 31.12.2011 gli stranieri rappresentavano il 36% dei
detenuti; la percentuale sale se si computa rispetto agli ingressi in carcere dallo stato di libertà nell’anno (43%): cfr., anche
per le serie storiche, http://www.istat.it/it/archivio/77789.
(2) Cfr. http://www.detective.io/detective/the-migrants-files;
un resoconto dell’inchiesta anche in http://speciali.espresso.repubblica.it/interattivi-2014/migranti/index.html.
Diritto penale e processo 6/2014
crudeltà, art. 61 n. 4 c.p.; su questi aspetti, cfr. comunque § 4).
Il fatto accade tra cittadini nigeriani in acque
internazionali, dunque non coinvolge l’ordinamento italiano se non per il fatto che gli stranieri vengono a trovarsi alla fine in Italia. Materia contemplata nell’art. 10 c.p., a norma del quale - per
quanto interessa ai fini della presente vicenda - lo
straniero che commette un delitto a danno di uno
straniero «è punito secondo la legge italiana, a richiesta del Ministro della Giustizia, sempre che: 1)
si trovi nel territorio dello Stato; 2) si tratti di delitto per il quale è stabilita la pena … della reclusione non inferiore nel minimo a tre anni; 3) l’estradizione di lui non sia stata conceduta, ovvero
non sia stata accettata dal Governo dello Stato …
a cui egli appartiene». È bensì vero che la disposizione rappresenta un’eccessiva dilatazione della potestà punitiva, che può suscitare dubbi dal punto di
vista del diritto internazionale per l’applicazione
del principio di universalità a reati comuni (ordinary crimes) e cioè al di fuori del novero dei crimini
internazionali (international offences) (3); tuttavia
la censura di taluna delle difese nel senso di un’interpretazione indebitamente lata dei presupposti
per l’esercizio della giurisdizione italiana (unitamente a quella sull’«illimitato ed eccessivo» potere
discrezionale del Ministro) appare impropria e generica. Impropria, perché i reati commessi fra stranieri fuori dal territorio dello Stato sono attratti alla giurisdizione italiana proprio in forza dell’art. 10,
e non già in ragione di una sua erronea ed irragionevole applicazione. Generica, correlativamente,
perché se l’applicazione dell’art. 10 comportasse la
sottrazione agl’imputati della «possibilità di essere
giudicati nel proprio paese di origine … con conseguente violazione del diritto naturale delle genti
ad essere giudicato dalle leggi del proprio paese»,
allora l’argomentazione avrebbe dovuto essere diversa e più radicale; sarebbe stato cioè più coerente
ed utile sollevare questione di legittimità costituzionale di quella stessa disposizione, per contrasto
con gli artt. 10 e 117 Cost.
Poiché il primo, com’è ben noto, impone automatico adeguamento del diritto interno al diritto
internazionale generale, se si assume che quest’ulti(3) Oppenheim’s International Law (ed. by R. Jennings-A.
Watts), I, Oxford 20089, 467 s. Quanto al concetto di crimini
internazionali a sua volta è discusso; per una chiarificazione
concettuale che distingue tra crimini di diritto internazionale e
crimini internazionali cfr. G. Werle, Diritto dei crimini internazionali, tr. it., Bologna 2009, 36-38 e spec. 50-53.
727
Giurisprudenza
Diritto penale
mo esprima un divieto d’incondizionata applicazione del diritto nazionale a fatti commessi all’estero
fra stranieri, allora l’art. 10 c.p. sarebbe con esso
incompatibile; una censura che, d’altronde, verrebbe ad assorbire, rendendola superflua, quella concernente il fatto che la discrezionalità del ministro
nel formulare la richiesta di procedimento sarebbe
troppo ampia in quanto priva di criteri orientativi
(dunque, sostanzialmente arbitraria). Ma allora dovrebbe essere dimostrata la premessa, e cioè l’esistenza di una regola di diritto consuetudinario che
osti all’applicazione della legge nazionale ai fatti
commessi all’estero fra stranieri, e che tale divieto
valga anche in due ipotesi concretamente rilevanti
nel caso di specie, e cioè: a) laddove l’elemento di
collegamento sia rappresentato dalla presenza di tali stranieri sul territorio dello Stato (sia poi essa
spontanea, o coatta: forum deprehensionis); b) il fatto sia stato commesso in un luogo non soggetto a
sovranità.
Sennonché, nel diritto internazionale un tale divieto generale non esiste affatto, neppure per
quanti (ed è dottrina consapevolmente minoritaria) si esprimono nel senso che una pretesa di applicazione extraterritoriale illimitata delle leggi penali non sarebbe consentita dal diritto internazionale: ciò che comunque si richiede è un legame diretto e sostanziale («direct and substantial connection») con lo Stato che procede (4). Ed anzi, a tutt’oggi, sia pure nel contesto di un orientamento
ideale maggiormente attento alla compatibilità con
il diritto internazionale delle regole nazionali sull’applicazione della legge (5), non si dubita che sia
ancora necessario fare i conti con il principio, affermato nella notissima sentenza «Lotus», secondo
il quale il diritto internazionale, per l’appunto, non
contiene un divieto generale di applicazione extra(4) Cfr. in tal senso Oppenheim’s International Law , loc. cit.,
il quale del resto esprime le sue riserve sulla legittimità internazionale di una pretesa extraterritoriale quando essa concerna
fatti commessi bensì all’estero ma sul territorio di un altro Stato; se il fatto sia commesso in luoghi non soggetti a sovranità,
sarebbe bastevole una «sufficiently close connection» (per la
giurisdizione sull’alto mare v. anche Id., II, §§ 287-298).
(5) Espressione di tale orientamento, per tutti, H.-H. Jescheck, Lehrbuch des Strafrechts, Berlin 19884, 146 ss. In una
prospettiva più marcatamente filosofica, cfr. la originale trattazione di A. Chehtman, The Philosophical Foundation of Extraterritorial Punishment, Oxford 2010, il quale (68) si nega la legittimazione dello stesso principio di personalità attiva fondato sulla nazionalità dell’agente, internazionalmente ammesso.
(6) Corte Permanente di Giustizia Internazionale, 7 settembre 1927, in Publications de la Cour Permanente de Justice Internationale, Rec. des Arręts, Série A, No10, anche consultabile
online in: http://www.icj-cij.org/pcij/serie_A/A_10/30_Lotus_Arret.pdf, 19 s. Considerando che quasi tutti i sistemi giuridici del mondo applicano le proprie leggi anche a fatti commessi
728
territoriale della legge penale, e lo stesso principio
di territorialità non è assoluto e non coincide con
la sovranità sul territorio (6).
Quanto all’art. 117 Cost., esso stabilisce esplicitamente un “criterio di conformità” per l’esercizio
della «potestà legislativa», che deve attenersi ai
«vincoli derivanti … dagli obblighi internazionali»; ora, non c’è dubbio, al di là delle diverse interpretazioni che sono state date in dottrina di questa
innovazione (7), che la disposizione sia da intendere, al fine di non sovrapporla integralmente all’art.
10, (anche) con riferimento agli obblighi derivanti
dal diritto internazionale pattizio: ma di limiti alla
giurisdizione non è dato trovare traccia in convenzioni che vincolino entrambi gli Stati coinvolti
dalla vicenda in esame. Le stesse difese, del resto,
riconoscono che la Convenzione ONU sulla sicurezza della navigazione, stipulata a Roma il 10 marzo 1988, in vigore dal 1° marzo 1992, c.d. convenzione SUA, non vincola la Nigeria perché non ratificata da quello Stato (8). Infine, non risulta che
un trattato di estradizione con la Nigeria sia mai
stato stipulato (9).
(Segue): Rapporti tra giurisdizione ed
estradizione
Più pertinente l’argomento di quelle difese che,
nell’ottica di un’esegesi del diritto interno, hanno
preteso di leggere proprio nella previsione dell’art.
10, n. 3 c.p., l’implicita necessità, ai fini del legittimo esercizio della giurisdizione italiana, della previa offerta dell’estradizione. Se infatti, si argomenta, la legge italiana si applica solo se l’estradizione
non è «concessa», si deve presupporre ch’essa sia
stata richiesta (e la non concessione sarebbe la risposta dello Stato richiesto); così come, laddove si
parla d’estradizione non «accettata», è giocoforza
al di fuori del territorio, la Corte afferma che, allo stato del diritto internazionale (di allora) «the territoriality of criminal law… is
not an absolute principle of itnernational law and by no means
coincides with territorial sovereignty». Questa conclusione, sia
pure sempre più problematicamente, conserva il suo valore:
su questi temi cfr. comunque, volendo, A. di Martino, La frontiera e il diritto penale. Natura e contesto delle norme di diritto
penale transnazionale, Torino 2006, spec. 68 ss., ove riferimenti.
(7) Come si sa, la formulazione attuale risulta dalla modifica
introdotta con l. cost. n. 3/2001. Per un quadro critico delle varie tesi cfr. Commentario alla Costituzione, a cura di R. BifulcoA. Celotto-M. Olivetti, III, Torino 2006, 2213 ss. e spec. 22152218.
(8) Cfr. http://www.un.org/en/sc/ctc/docs/conventions/Conv8.pdf.
(9) Riferimenti ai trattati conclusi tra i due Paesi possono
essere reperiti online al sito http://itra.esteri.it/Ricerca_Documenti/Ricerca_Documenti2.aspx.
Diritto penale e processo 6/2014
Giurisprudenza
Diritto penale
presupporre che sia stata previamente offerta (10).
Nel primo caso, il riferimento alla mancata concessione implicherebbe a contrario l’esistenza di una richiesta (più precisamente, lo Stato detentore dovrebbe operare al fine di mettere in condizioni lo
Stato straniero di chiedere l’estradizione - e dunque, si sostiene, dovrebbe offrirla); nel secondo caso (laddove cioè si parla di estradizione non accettata), l’esito argomentativo è il medesimo, e risulterebbe stavolta direttamente dalla piana lettura
della disposizione.
Sennonché, altro è affermare quale requisito negativo per l’applicazione della legge - rectius, per
l’esercizio della giurisdizione - la mancata concessione (da parte dello Stato richiesto) o la mancata
accettazione (da parte dello Stato di nazionalità),
altro è affermare l’esistenza di un obbligo di offrire
l’estradizione.
Quest’ultimo obbligo non può essere ricavato a
contrario dall’art. 10, perché per la norma rilevano
soltanto due circostanze: a) il mero fatto che l’estradizione non sia stata concessa, restando del tutto indifferenti le ragioni di tale evenienza; b) il
mero fatto che l’estradizione non sia stata accettata: ovviamente, in tal caso essa sarebbe stata anche
offerta, ma la norma contempla l’offerta come
eventualità, come presupposto di fatto, e non impone invece di affermare ch’essa sia obbligatoria.
Né tale obbligo potrebbe essere ricavato instaurando un ponte sistematico con l’art. 13, comma 3,
c.p., che afferma una sorta di preferenza per gli accordi convenzionali in tema di estradizione, quale
strumento regolatore “ordinario” della materia (solo in assenza del quale valgono gli usi internaziona-
li): quest’ultima disposizione prevede bensì l’offerta
di estradizione, ma nel diverso contesto di una norma vòlta ad autorizzare - non certo ad imporre - la
concessione o l’offerta anche al di fuori di convenzioni internazionali, e sempreché queste non ne
facciano espresso divieto.
Lo stesso diritto internazionale, del resto, non
prevede affatto un obbligo di offrire l’estradizione (11). Lo Stato detentore non ha nessun obbligo
verso lo Stato di nazionalità, soprattutto quando il
fatto non sia stato commesso sul territorio di quest’ultimo (che potrebbe vantare l’unica pretesa sicuramente legittima per il diritto internazionale
senza restrizioni di sorta - es., presenza dell’autore;
tipologia o gravità del reato -: quella fondata sul
principio di territorialità) (12). Nessun trattato di
estradizione prevede tale obbligo, anche quando,
in generale, sia stabilito un obbligo convenzionale
di estradare in caso di richiesta. È il caso, ad esempio, della Convenzione europea di estradizione,
che fa riferimento bensì all’obbligo di principio
della consegna reciproca (art. 1) (13), ma lo riferisce sempre all’esistenza, per così dire, geneticamente autonoma di una richiesta. E così pure alcuni
trattati di estradizione stipulati dalla stessa Nigeria,
che si riferiscono sempre ad uno Stato «richiesto»,
non contengono alcuna menzione di un obbligo
d’offrire l’estradizione (14).
Molti ordinamenti prevedono del resto casi di
giurisdizione basata sulla legittimazione dello Stato
del locus deprehensionis (nella dottrina tedesca, Ergreifungsortprinzip) (15), sia pure, di norma, con le
limitazioni derivanti dalla logica della cd. rappresentanza (16). Fra queste limitazioni, in particolare,
(10) Sull’ipotesi dell’estradizione non accettata v. peraltro
già T. Treves, La giurisdizione nel diritto penale internazionale,
Padova 1973, 167 che definisce l’offerta di estradizione un ramo secco dell’ordinamento, istituto già previsto dal legislatore
del 1930 ma caduto in desuetudine. Il c.p.p. 1988 prevede del
resto la sola concessione dell’estradizione a seguito di richiesta; v. opportunamente, ad es., S. Aprile, Art. 9, in E. DolciniG. Marinucci (a cura di), Codice penale commentato, I, Milano
20113, 219.
(11) Sulla «absence of legal duty to extradition», in assenza
di specifici accordi, cfr. Oppenheim’s International Law, cit.,
948-950; 959 (dove si precisa che l’estradizione è concessa solo se richiesta). Si può inoltre ricordare incidenter tantum che
lo stesso principio «aut dedere aut iudicare» che molteplici
convenzioni internazionali affermano con riferimento a crimini
internazionali (dunque, non “ordinary crimes” di diritto interno), ha uno statuto non chiaro, quanto al suo ambito, dal punto di vista del diritto internazionale generale: cfr. tuttora E. Wise, Aut Dedere Aut Iudicare: The Duty to Prosecute or Extradite,
in M. Cherif Bassiouni, International Criminal Law, II. Procedural
and Enforcement Mechanisms, Ardsley-New York 19992, 19
ss.
(12) Anche il secondo principio sicuramente legittimato,
quello di personalità attiva, è ammesso con limitazioni di varia
indole: dalla doppia punibilità, alla limitazione a gravi reati, alla
limitazione ai reati commessi in luoghi non soggetti a sovranità.
(13) Art. 1, Conv. europea di estradizione, Parigi 13 dicembre 1957, internazionalmente in vigore dal 18 aprile 1960, per
l’Italia dal 4.11.1963.
(14) Cfr. ad es. artt. 1; 2 co. 4, dello Extradition treaty between the government of the federal republic of Nigeria and
the government of the republic of South Africa (ratification
and enforcement) act, reperibile in: http://www.placng.org/lawsofnigeria/node/106 (ho emendato i refusi della titolazione).
(15) Per una chiara trattazione recente, cfr. F. Jessberger,
Der transnationale Geltungsbereich des deutschen Strafrechts,
Tübingen 2011, 284 ss.
(16) F. Jessberger, op. cit., 268 s. Interessante il codice penale danese, che al § 8(4) stabilisce l’applicazione extraterritoriale specificamente per il caso di omicidio commesso in connessione con l’impossessamento forzato di un’imbarcazione
(ne ho consultato la traduzione tedesca a cura di K. Cornils-V.
Greve, Das dänische Strafgesetz - Straffeloven, Freiburg i. Br.,
2001). Il codice svedese [parte 1, Cap. 2, § 2(1)(3)] prevede il li-
Diritto penale e processo 6/2014
729
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vi è quella della sussidiarietà rispetto all’estradizione; però nel senso minimo che la giurisdizione dello Stato detentore si attiva solo se il soggetto non
è estradato o consegnato: presupposto da determinare in concreto, che nulla esprime circa la doverosità o meno di “offrire” il prevenuto (17).
Inoltre, i trattati di estradizione prevedono non
già un obbligo di offrire l’estradizione, quanto piuttosto il ben diverso dovere di dar seguito alla richiesta proveniente da un altro Stato, alle condizioni previste dagli stessi trattati. Proprio tale obbligo di dar corso all’estradizione se ne sussistono i
presupposti sta a dimostrare ex adverso che non esiste affatto un obbligo di offrirla: ché altrimenti
l’ambito dell’obbligo di corrispondere alla richiesta
sarebbe limitato alle ipotesi di richiesta che, per
così dire, batta sul tempo l’offerta: ma non può essere questo il suo significato, né del resto la dottrina intende che lo sia (18).
Ma vi è un argomento probabilmente definitivo
contro la possibilità di configurare un obbligo di
offrire l’estradizione. Esso è rappresentato né più
né meno che dalla previsione, nei trattati di estradizione, della regola del ne bis in idem. È evidente
che, se si prevede - ed è principio fondamentale che non si possa dar seguito ad una richiesta di
estradizione quando essa si riferisca a soggetto già
giudicato per gli stessi fatti in via definitiva nella
parte richiesta (19), si ammette che questa possa
senz’altro aver proceduto senza aver offerto l’estradizione allo Stato “interessato” (successivamente
richiedente). In tal senso, a mero titolo d’esempio,
si vedano l’art. 9 della Conv. europea di estradizione; l’art. VI del Trattato di estradizione fra Italia e
Stati Uniti; l’art. 35 lett. b) della Convenzione di
reciproca assistenza giudiziaria, di esecuzione delle
sentenze e di estradizione tra Italia e Marocco (20);
nonché, per quel che può esser d’interesse in questa sede, l’art. 6 della Convenzione di estradizione
fra Nigeria e Sudafrica, intitolato alla «prior prosecution» (21).
Quanto finora osservato non impedisce tuttavia
di cogliere un dato obiettivamente problematico
non soltanto del meccanismo operativo dell’art. 10
c.p., ma della disciplina anche processuale in tema
di estradizione, relativo alla compatibilità del sistema con il diritto internazionale.
In questa prospettiva, come si è appena esposto,
non vengono peraltro in considerazione il diritto
estradizionale ed i suoi principi. Piuttosto, devono
essere considerati eventuali obblighi derivanti da
altri trattati, sottoscritti da entrambi i Paesi, rispetto ai quali debba essere valutata la condotta delle
autorità italiane (quelle politiche, ma anche quelle
giudiziarie).
Così, la Convenzione di Vienna sulle relazioni
consolari (22) prevede una disposizione che può
avere rilevanza ai fini della valutazione sull’operato
delle autorità italiane. L’art. 36, comma 1, lett. b)
stabilisce infatti che le autorità competenti dello
stato di accreditamento devono informare senza ritardo l’autorità consolare (consular post) che ne abbia fatto richiesta nel caso in cui un connazionale
sia fermato o a qualsiasi titolo imprigionato o detenuto; inoltre, qualsiasi comunicazione rivolta alle
proprie autorità consolari dalla persona arrestata,
detenuta, ecc., deve essere trasmessa senza ritardo
da parte delle autorità competenti. E, soprattutto,
dette autorità devono informare senza ritardo dei propri diritti (come poc’anzi esposti) la persona coinvolta.
Ora, dal resoconto dei fatti riassunto dalla sentenza della Cassazione non è dato conoscere se le
autorità procedenti abbiano o meno informato i
prevenuti dei loro diritti in questi termini, e se, in
caso positivo, questi se ne siano avvalsi. Se lo avessero fatto, non c’è dubbio che la Nigeria dovesse
essere considerata informata, e dunque - ferma l’inesistenza di un obbligo di offrire l’estradizione - il
mite per il quale la pena irrogabile non può essere più grave
del massimo della pena prevista per il fatto nel luogo di commissione (ho consultato l’edizione tedesca a cura di K. CornilsN. Jareborg, Das schwedische Kriminalgesetzbuch-Brottsbalken, Freiburg i. Br. 2000).
(17) Cfr. ad es. l’art. 65 del c.p. austriaco, che nell’affermare
la residualità, rispetto all’estradizione, della pretesa extraterritoriale, stabilisce che tale pretesa in tanto può essere avanzata
in quanto non esista un trattato di estradizione, o in caso di offerta, non c’è stata la corrispondente richiesta. Come è evidente, l’offerta è solo una eventualità, e non un dovere. Cfr. U.
Kathrein, Art. 65, in Wiener Kommentar zum Strafgesetzbuch,
2. Aufl., 21. Lieferung (April 2011), Rn. 4, 70.
(18) Oppenheim’s International Law, loc ult. cit.
(19) Sul ne bis in idem c.d. estradizionale (che cioè inibisce
la consegna ma non vieta allo Stato richiedente di procedere)
v. per tutti M.R. Marchetti, voce Estradizione (dir. proc.pen.), in
Enc.dir.- Annali III, Milano 2010, §§ 2 e 5 (ho consultato qui la
riproduzione online in www.iusexplorer.it).
(20) Roma, 12 febbraio 1971, in vigore dal 22 maggio
1975.
(21) Cfr. retro, nota 14.
(22) Firmata il 24.4.1963, entrata internazionalmente in vigore il 19.3.1967; per la Nigeria in vigore dal 22.1.1968 (per
accessione), per l’Italia dal 25.6.1969 (era stata firmata il
22.11.1963); si noti che il nostro Paese ha apposto una riserva,
riconoscendo sulla sola base di reciprocità il diritto - non rinunciabile - delle autorità consolari straniere di visitare propri nazionali detenuti. Ringrazio il dott. Emanuele Sommario per le
segnalazioni in tema.
730
Diritto penale e processo 6/2014
Giurisprudenza
Diritto penale
silenzio circa la sorte degl’imputati potrebbe senz’altro essere interpretato come una rinuncia ad
esercitare la potestà punitiva in base al principio
della personalità attiva, ed un assenso all’esercizio
della giurisdizione da parte dell’Italia, giustificato
nella logica della c.d. rappresentanza (Prinzip der
stellevertretenden Strafrechtspflege o Sachwalterprinzip) (23) - assenso comunque non necessario dal
punto di vista del diritto internazionale.
Su queste basi, per un verso, è corretta la decisione della Corte nel senso che non sia annoverabile «fra i principi di diritto internazionale quello
per cui uno Stato sia obbligatoriamente tenuto ad
offrire l’estradizione al paese di appartenenza dello
straniero che abbia commesso un reato perseguibile
dai propri organi giudiziari». Per altro verso, un simile obbligo neppure sembra normalmente previsto dai trattati bilaterali o multilaterali di estradizione (24) i quali, come si è pur sommariamente
veduto, menzionano un obbligo di estradare (non
assoluto) in presenza della richiesta da parte dello
stato contraente, ma non un obbligo di offrire l’estradizione in assenza di tale presupposto.
Correlativamente, quanto all’interpretazione
dell’art. 10 c.p., la Corte di cassazione conclude
nel senso che da questa disposizione sarebbe evincibile (addirittura) un «principio» diverso ed anzi
opposto rispetto all’obbligo di offrire l’estradizione:
tale principio affermerebbe che «è, in ogni caso, lo
Stato di appartenenza dell’imputato a doversi rendere parte attiva per chiedere l’estradizione, ovvero
comunicare la propria rinuncia alla richiesta di
estradizione di un suo cittadino in attesa di essere
giudicato in un diverso Stato». Più che di principio, in realtà, si tratta di una regola (questione di
mera sbavatura lessicale, probabilmente: ma costruire pretesi principi non è mai attività neutra).
Anzi, proprio sull’inesistenza di un preteso principio di indifferenza rispetto allo Stato di nazionalità (di cui l’art. 10 c.p. sarebbe concretizzazione) si
può far leva nel formulare proposte evolutive di
adeguamento della normativa processualpenalistica
italiana, nell’ottica di una maggior tutela dello
straniero indagato/imputato, soprattutto se detenuto. In effetti, piuttosto che una logica di comity nei
rapporti fra Stati, che sola sarebbe valorizzata se si
facesse valere il preteso obbligo di offrire l’estradizione, è proprio la prospettiva di tutela dei diritti
individuali che sollecita ad una revisione del meccanismo di attivazione della giurisdizione. Nella
prima prospettiva (rapporti fra Stati), una violazione senza resterebbe priva di conseguenze dirette
nei confronti dell’individuo: se nessuna comunicazione è data allo Stato di nazionalità dei prevenuti
da parte di quello che li detiene, il primo può ben
trovarsi nella condizione di non conoscere gli
eventi, anche in un’epoca, come quella attuale, di
circolazione planetaria e veloce delle informazioni;
ma tutto si esaurirebbe in quest’ambito. Nell’ottica
della tutela diretta delle posizioni individuali, invece, un pregiudizio diretto deriverebbe dalla violazione del diritto di informare le proprie autorità
consolari, garantito allo straniero dal secondo periodo di quella stessa disposizione, e si tratterebbe
di determinarne il “rimedio”.
A questo punto si pone il problema di stabilire
quali sarebbero de iure condito i rimedi per il caso
di violazione, in assenza di norme che stabiliscano
la sede processuale nella quale effettuare l’informazione obbligatoria nonché le modalità per acquisire
la dichiarazione di volontà del prevenuto e trasmetterla all’autorità consolare. Si potrebbe argomentare, a prima vista, che un avvertimento di
questo tipo debba essere considerato adempimento
fondamentale per il prosieguo dell’intero procedimento, perché costituisce una precondizione per
un consapevole esercizio dei diritti (od una consapevole rinuncia ad avvalersene) da parte dello straniero. In quest’ottica, esso si collocherebbe in una
posizione funzionalmente analoga a quella delle
norme che garantiscono la partecipazione dell’imputato al processo, e la cui omissione dà luogo pertanto a nullità degli atti compiuti; e ciò soprattutto
se si considera che nel caso di straniero può essere
particolarmente problematica la garanzia del diritto
di avviso ai familiari (art. 387 c.p.p.), al quale può
essere assimilato dal punto di vsita funzionale quello di avvertire le autorità consolari. In particolare,
se si considera che l’informazione circa i propri diritti è elemento fondamentale e qualificante di
un’utile attività difensiva sin dai primi momenti di
“contatto” con le autorità che esercitano la pretesa
punitiva, la sua omissione dovrebbe dare luogo ad
una nullità concernente l’«intervento» dell’imputato, dunque una c.d. nullità intermedia, rilevabile
anche d’ufficio ma solo fino alla deliberazione della
(23) F. Jessberger, op. cit., spec. 266 ss.
(24) Non, almeno, da quelli che vincolano i due paesi interessati dal caso di specie. Per l’Italia una panoramica è possibile considerando le convenzioni pubblicate nel non più recentissimo ma sempre utile Codice delle convenzioni di estradizio-
ne e di assistenza giudiziaria in materia penale, a cura di M. Pisani-F. Mosconi-D. Vigoni, Milano 2004, da riscontrare con il
sito del Ministero della Giustizia (www.giustizia.it, alla voce
Strumenti→Atti internazionali).
Diritto penale e processo 6/2014
731
Giurisprudenza
Diritto penale
sentenza di primo grado [art. 180 in rel. art. 178,
lett. c), c.p.p.]. Ma la conclusione sarebbe probabilmente eccessiva. In effetti, i diritti rilevanti ai fini
della partecipazione al procedimento, a pena di
nullità, dovrebbero essere quelli direttamente ed
immediatamente funzionali a detta partecipazione
ed alle attività di difesa che ne costituiscono lo
strumento (dunque, essenzialmente diritti endoprocedimentali: dalla traduzione dell’informazione di
garanzia a quella del decreto di citazione a giudizio;
dalla traduzione dell’ordinanza cautelare alla citazione dell’imputato detenuto, etc.); mentre la mera
informazione alle autorità consolari non sembra rivestire tale carattere. E ciò per tacere del fatto che,
secondo dottrina e giurisprudenza, la violazione
dello stesso diritto ad avvertire i familiari, sopra ricordato come figura funzionalmente prossima, non
darebbe luogo a nullità (25).
Cionondimeno, resta il fatto che, al fine di corrispondere adeguatamente all’obbligo previsto dall’art. 36 della citata Convenzione di Vienna, è auspicabile che il codice di rito sia modificato nel
senso di prevedere un momento nel quale sia dato
avviso, allo straniero che debba essere sottoposto a
processo per fatti commessi al di fuori del territorio
dello Stato, del diritto di avvisare l’autorità consolare dello Stato di appartenenza (26).
Questioni relative all’imputabilità
Come si è accennato all’inizio (retro, § 1), la
sentenza in commento presenta un secondo e differente aspetto d’interesse, che concerne le circostanze di fatto nelle quali gli omicidi sono stati
realizzati. Sembra essere rimasto, questo, un aspetto quasi collaterale in una discussione in diritto
‘assorbita’ dalle questioni di giurisdizione ed estradizione; tuttavia, non è inutile spendere qualche
breve considerazione anche su questo punto, che
sembra suscitare interrogativi diversi e più interes(25) La considerazione assorbente sarebbe da ricondurre
alla ratio del diritto di avviso: se questa è da ravvisare nell’esercizio del diritto di difesa, efficacemente esercitabile piuttosto
dai familiari (ex art. 96 c.p.p.) che dall’arrestato, la garanzia
della difesa di ufficio osterebbe a ritenere una nullità. Cfr. ad
es. I. Ciarniello, Art. 387, in A. Giarda-G. Spangher (a cura di),
Codice di procedura penale commentato, II, Milano 20104,
4701.
(26) Una modifica di questo tipo, del resto, corrisponderebbe all’auspicio che la materia dei rapporti giurisdizionali tra
autorità straniere sia novellata sempre «mettendo al centro
della speculazione il soggetto della prestazione cooperativa…rammentando che l’efficientismo non può mai soverchiare i diritti inviolabili della persona»: G. Ranaldi, voce Estradizione (diritto processuale penale), in Dig. disc. pen., Torino 2005, §22
in fine (ho consultato dall’edizione online in http://bddx.leggidi-
732
santi di quanto non sembri emergere a prima vista.
L’esposizione in fatto contenuta nella sentenza
della Corte non è per vero del tutto perspicua: in
questo caso, non diversamente da svariati altri,
s’avverte la mancanza di una completa disponibilità conoscitiva sulla “storia del processo”, ad esempio analoga a quella che, anche grazie ad una totale informatizzazione, assiste nello studio, in particolare, dell’esperienza giurisprudenziale statunitense (27). Come che sia, la vicenda è quella d’un
gommone salpato dalla Libia alla volta dell’Italia
con qualche decina di persone a bordo; ne risultano decedute alcune (di stenti, si può ipotizzare),
cinque uccise dagli imputati, per ragioni che la
Corte riassume: uno, «accusato» di essere indemoniato; un altro, «ritenuto» di essere posseduto da
forze malefiche; un terzo, troppo lamentoso ed ingombrante; un altro, che «era stato ritenuto essere
uno spirito maligno», mentre in realtà delirava per
mancanza di acqua e di cibo; infine, uno che delirava dicendo di «voler uscire» per andare a fare acquisti.
La successione degli eventi non è perspicua, ma
si può adottare la scansione temporale del racconto: il pilota del gommone, dopo qualche giorno di
navigazione, perde la rotta ed ammette di non essere più in grado di condurre il gommone in Italia.
A questo punto, gli imputati prendono il controllo
dell’imbarcazione «gestendo il poco cibo e acqua
potabile rimasta a bordo e creando un vero e proprio clima di terrore e soggezione nei confronti degli altri trasportati»; segue, nella narrazione, una
precisazione equivoca: agli altri trasportati, si scrive, gli imputati «avevano nascosto di avere smarrito la rotta per giungere in Italia». È in questo scenario che gl’imputati hanno ucciso.
Le difese puntano sulle condizioni di rimproverabilità soggettiva per i fatti, «verificatisi in un
contesto di oltre 50 persone stipate su un gommotalia.it –sezione «Digesto»).
(27) Si pensi almeno alla banca dati «LexisNexis». Su questi
aspetti v. comunque già i rilievi contenuti in vari scritti di G.
Gorla: ad es., Per una ricerca storico-comparativa sulla nota a
sentenza, in Foro it., 1968, V, 612; soprattutto La struttura della
decisione giudiziale in diritto italiano e nella “Common Law”: Riflessi di tale struttura sull’interpretazione della sentenza, sui “Reports” e sul “Dissenting”, in Giur. it., 1965, parte prima, sez. I,
1239 ss. (1240), sia pure con riferimento alla pubblicazione
delle massime senza il fatto, o con omissis; incidentalmente, si
rileva come anche gli omissis legati alla (talvolta, ossessione
della) privacy sui nomi delle parti nei procedimenti penali, soprattutto in caso di realizzazione concorsuale, può produrre illeggibilità della sentenza (ma anche incapacità di visione storico-critica, quando questi siano particolarmente significativi).
Diritto penale e processo 6/2014
Giurisprudenza
Diritto penale
ne restato alla deriva sotto il sole per 9 giorni, con
cibo e acqua finiti al terzo giorno», allegando perizie mediche in base alle quali la prolungata esposizione al sole avrebbe comportato uno stato di malattia che si assume tale da escludere la «possibilità
di mantenere le facoltà intellettive e volitive»; insomma, si tratterebbe di un caso di incapacità d’intendere e di volere.
La Corte di legittimità rigetta il motivo di doglianza, ritenendo adeguatamente motivata la posizione dei giudici di merito che avevano ritenuto la
piena capacità: gli imputati, tutti nigeriani, sarebbero stati infatti «maggiormente addestrati a resistere a situazioni di grande calura e di penuria d’acqua»; inoltre, essi avevano assunto il comando dell’imbarcazione «sì che era da ritenere avere essi
conservato per sé un’adeguata riserva di acqua e di
cibo» (28), così dimostrando che la loro capacità
non potesse essere scemata in maniera rilevante;
inoltre, da intercettazioni successive, era emerso
che essi lucidamente temevano quanto potesse essere riferito dagli altri occupanti.
Ora, si può senz’altro prendere atto delle conclusioni dei giudici di merito prima, della Corte
poi, circa la sussistenza della capacità d’intendere
e di volere; del resto, si può arguire fra le righe
del resoconto di legittimità che le perizie mediche
allegate non fossero idonee a dimostrare l’incapacità del singolo imputato, ma affermassero a loro
volta una sorta di presunzione d’incapacità, riferendo agl’imputati, diciamo così, per relationem le
condizioni di incapacità di alcuni trasportati queste sì - non contestate. Posto che i motivi di
ricorso erano stati confezionati in quest’ottica, la
posizione della Corte non può suscitare soverchie
perplessità.
Certamente, non tutti i conti tornano: si rileva
qualche slabbratura espositiva. Intanto, la rotta
era stata smarrita prima che gl’imputati prendessero il comando, ed anzi lo smarrimento dell’imbarcazione in mare aperto costituisce la ragione della
presa di controllo; non si può dunque affermare
(come invece testualmente in motivazione) che
essi abbiano nascosto di avere smarrito la rotta,
quale elemento del rimprovero che quantomeno
concorre a disegnare il clima di soggezione e terrore instaurato. La proposizione infinitiva è sintatticamente ammissibile solo quando il soggetto
di essa è anche il soggetto della principale, ma
questa identità è, nel caso di specie, contra factum.
Non è ovviamente prurigine sintattica; ne va della ricostruzione probatoria del contesto in base ad
inferenze logiche corrette. Del resto, se una delle
vittime, uccisa dopo essersi informata circa la bussola, era stata accusata davanti a testimoni di
averla rovinata, lo smarrimento della rotta (comunque non addebitabile agli imputati) non poteva certo essere un mistero. Quanto poi alle condizioni personali degl’imputati, suscita più di qualche perplessità l’asserzione secondo la quale essi
sarebbero stati «maggiormente addestrati» a resistere alle condizioni estreme in cui i fatti si sono
verificati, proprio in quanto nigeriani: affermazione almeno bizzarra, se si considera che tutte le
vittime tranne una (ghanese) erano nigeriane, ed
in preda a serie difficoltà o vero e proprio delirio
(si ricordi che taluno voleva … uscire per fare acquisti). E, per vero, non priva di uno sgradevole
retrogusto d’inconsapevole razzismo, come accade
non di rado per argomentazioni basate su approssimate considerazioni etniche (29).
Infine, il «poco cibo e acqua», di cui si assume
che erano «gestiti» dagl’imputati, diventano poche
righe più oltre, improvvisamente, adeguata razione
per i quattro colpevoli. Adeguata a cosa, in condizioni di rotta smarrita? Adeguata, al massimo, ex
post, nella prospettiva di un testimone che la considera evidentemente rispetto al momento, certamente non preventivabile, in cui la guardia costiera italiana ebbe intercettato il gommone. Che questa sia la prospettiva di un testimone, è ovviamente comprensibile; che lo possa essere correttamente
anche per il giudice, è altro affare.
Smagliature, si dirà: ma i dettagli definiscono
l’ambientazione generale del racconto; la loro somma stende il colore che dà la tonalità di fondo nella quale si staglia la sagoma dei fatti, e con essa la
dimensione del rimprovero.
In realtà, anche a fronte di queste impurità, ciò
che non convince del tutto è, a ben guardare, la
prospettiva di classificazione dogmatica delle vicende appena riassunte, collocate sia dalle difese
sia, di riflesso, dalla Corte nell’orbita dell’imputabilità. Come si è detto, la sola sentenza della Corte
non offre spunti sufficientemente univoci per un’analisi critica consapevole dei fatti nella loro compiutezza, ma su di essi occorrerà riflettere ulteriormente nei termini che qui si cercherà di tratteggiare per rapidi accenni.
(28) Questa inferenza sarebbe confermata, precisa la Corte,
da due dichiarazioni testimoniali.
(29) Ad un veloce controllo su Wikipedia, la Nigeria conta
duecentocinquanta etnie, di cui otto le principali.
Diritto penale e processo 6/2014
733
Giurisprudenza
Diritto penale
Dietro le apparenze: nei dintorni del “grado
zero” dello stato di necessità?
Che si trattasse di condizioni estreme non è contestabile. Smarrita la rotta, cibo e acqua rimasti
scarsi, decessi già avvenuti e persone che ormai delirano, e sono considerate possedute da demonî. Si
noti, pare che siano realmente considerate in tal
modo: la Corte riferisce questa circostanza in modo
neutrale, apparentemente non contestando la plausibilità di questa percezione: plausibilità per nulla
irragionevole e - soprattutto - dato di fatto per nulla trascurabile, poiché nella cultura africana è nota
la persistenza, anche nel contesto di adesione alle
religioni del Libro, di elementi animisti, con esiti
sincretistici (30).
In queste condizioni, non sarebbe forse del tutto
fuor di luogo ipotizzare che un’imbarcazione alla
deriva equivale a serio pericolo di vita per tutti, segnalato ma anche attualmente aggravato dagli accessi documentati di delirio, disperazione, terrore.
Questo contesto sembra evocare gl’ingredienti di
una situazione di necessità prossima al grado zero
della sua configurazione (31).
Premesso che, come più volte ribadito, dalla sola
sentenza della Corte (ma in generale senza la contezza degli atti processuali) non è possibile valutare
adeguatamente la fondatezza di quest’impressione,
almeno la plausibilità d’un interrogativo non può
essere di per sé esclusa. Sembra di trovarsi, in sostanza, proprio davanti ai tratti fondamentali, alle
linee prototipiche delle situazioni rispetto alle quali lo stato di necessità si pone come schema di inquadramento giuridico - problematico, estremo esso stesso - della disperazione. Non a caso si scrive
che la scriminante dello stato di necessità è «amorale» per il suo carattere utilitaristico, peraltro ra(30) Cfr. ad es. i «Country Studies» della Libreria del Congresso USA: spec. Nigeria, in Library of Congress Country Studies (DT515.22. N53 1992), paragrafo «Indigenous Beliefs», reperibile in: http://lcweb2.loc.gov/frd/cs/ngtoc.html; Ghana, ibidem (DT510.G44 1995), paragrafo «Syncretic Religion», reperibile in: http://lcweb2.loc.gov/frd/cs/ghtoc.html.
(31) Intendo il grado zero (espressione che risale a Roland
Barthes, Il grado zero della scrittura, tr. it., Torino 2003 [rist.;
ed. orig. 1953]) come forma elementare e per così dire universale di partenza, appunto nella sua linearità prototipica, di una
situazione necessitata.
(32) F. Mantovani, Diritto penale, PG, Padova 20138, rispettiv. 268 e 267.
(33) Non interessa chiarire qui la natura dell’art. 54 nell’ordinamento italiano: per una rappresentazione delle diverse posizioni, v. F. Viganò, Art. 54, in E. Dolcini-G. Marinucci (a cura
di), Codice penale commentato, I, Milano 20113, 878-885.
(34) Per una casistica v. ad es. F. Viganò, Art. 54, cit., 911913.
(35) Si consideri che anche nel sistema inglese la causa di
734
dicato «nell’istinto incoercibile della conservazione» (32).
L’esperienza applicativa (almeno quella degli ultimi quarant’anni) si è incaricata di mostrare come
lo spazio dello stato di necessità non sia soltanto
piuttosto limitato, quanto ch’esso si componga non
di rado di tasselli applicativi che di questa “causa
di non punibilità” (33) rappresentano, alla fine,
una sorta di dilatazione ermeneutica, quasi un
edulcorare presupposti normativi intrinsecamente
problematici e la cui applicazione più estesa si lega
alla mutata percezione del rango di determinati valori nel contesto storico. Così, è noto che questioni
particolarmente controverse sull’art. 54 c.p. si sono
poste in tema di occupazione di alloggi per necessità abitative, legate o meno a precarie condizioni di
salute; di blocco stradale come forma di lotta per
la conservazione del posto di lavoro; di illeciti edilizi commessi per migliorare dal punto di vista igienico le condizioni di lavoro dei propri dipendenti (34). Anche nei casi nei quali il riconoscimento
della necessità poteva ritenersi alquanto pacifico
(anche se non incontroverso), i reati commessi per
ripararsi da un danno grave alla persona non hanno mai coinvolto il bene della vita (35): come nel
caso, risalente, del soggetto chiamato a rispondere
di favoreggiamento personale per essersi rifiutato di
rivelare i nomi di appartenenti alla mafia che gli
avevano amputato una mano (36).
A fronte di questo patrimonio applicativo, storie
d’immigrazione come quella affrontata dalla sentenza in esame finiscono (o finiranno prima o poi,
se o quando lo sguardo si faccia appena più attento
alla sorte dei diritti umani sulle rotte mediterranee) con il proiettare le logiche portanti dello stato di necessità verso realtà di fatto che possono rivelarsi potenzialmente destabilizzanti per il (tutto
non punibilità non scritta della cd. necessity non si applica all’omicidio doloso: cfr., nel contesto di un’esposizione a fini
comparatistici del diritto inglese, S. Forster, England und Wales, in U. Sieber, K. Cornils (Hrsg.), Nationales Strafrecht in
rechtsvergleichender Darstellung, AT, 5. Gründe für den
Ausschluss der Strafbarkeit. Aufhebung der Strafbarkeit. Verjährung, Freiburgi. Br. 2010, 82 (anche se, purtroppo, con appena
sommari cenni alla giurisprudenza, come del resto anche i restanti contributi del volume). Per altro verso, nel caso di specie
verrebbe piuttosto in considerazione la causa scusante della
«duress by circumstances» (che si distingue dalla prima - «duress by threats» - perché la minaccia non proviene da una persona ma, appunto, da una situazione di fatto) (ibidem, 83 s.).
(36) Cass. III 12 maggio 1967, Cravotta, CED rv. 105561.
Nel testo si fa riferimento a situazioni abbastanza evidenti, ma
non incontroverse: nel caso di specie, ad esempio, i giudici di
merito avevano invero escluso la ricorrenza dello stato di necessità distinguendo fra stato di timore e, appunto, stato di necessità rilevante ex art. 54.
Diritto penale e processo 6/2014
Giurisprudenza
Diritto penale
sommato) quieto ragionare dogmatico su un istituto che si colloca al confine estremo delle cause di
liceità (o di scusa). Ed infatti, se alla dimensione
del “caso di scuola” è di norma relegata la situazione del naufrago che, aggrappato al relitto, per salvarsi sospinga in mare un altro naufrago (37), il caso in discussione non è troppo lontano da questo
esempio: in un gommone stracolmo di gente disperata, chi vada delirando (magari pretendendo di alzarsi e gettarsi in mare per andare a far compere)
può costituire un pericolo per tutti, perché potrebbe ribaltare l’imbarcazione; non è allora difficile
immaginare sia che l’uso della forza e della coazione psichica (l’instaurazione di uno stato di terrore)
possano essere l’unico mezzo per il mantenimento
della disciplina a beneficio del’incolumità di tutti,
sia che le condizioni al contorno possano essere di
tale drammaticità da far emergere potentemente
proprio la logica primordiale dello stato di necessità: mors tua, vita mea; per l’appunto, quel radicamento all’istinto incoercibile della conservazione
che lo stato di necessità come istituto giuridico custodisce dentro il proprio patrimonio genetico.
Per chiarezza, va detto che con queste osservazioni non si vuole sostenere che nel caso concreto
fossero in effetti ravvisabili gli estremi della necessità, ma soltanto mostrare punti di emersione di un
problema che nella sentenza non appare per nulla
tematizzato, così come (forse: perché) non sembra
essere stato còlto dalle strategie difensive. Se lo
fosse stato, l’impostazione del processo avrebbe dovuto strutturarsi su altri binari.
D’altra parte, è verosimile che proprio la sussistenza di una situazione estrema abbia costituito il
fondamento per la concessione delle attenuanti generiche, nella logica della sussistenza di una situazione quasi-scriminante o quasi scusante, con riferimento al grado di colpevolezza (38); ma sarebbe
necessario, per una conferma razionale di questa
impressione, disporre delle sentenze di merito: la-
cuna conoscitiva su un aspetto di non poco interesse (v. quanto già lamentato retro, § 3). In ogni
caso, proprio la concessione delle attenuanti generiche propone a sua volta l’ulteriore, non superficialmente trascurabile tema della motivazione del
giudizio di bilanciamento, in relazione ad una accurata ricostruzione fattuale del contesto di commissione dei reati (nel caso concreto, esse sono state dichiarate equivalenti alle aggravanti contestate). Può essere un’occasione mancata il fatto che
su questo punto le sentenze di merito non fossero
state impugnate (39).
(37) Ad es., F. Mantovani, Diritto penale, cit., 268. Non sono
affatto casi di scuola, però, quelli dell’antropofagia tra naufraghi: cfr. ad es. A.W. Brian Simpson, Cannibalism and the Common Law. A Victorian Yachting Tragedy, Chicago, 2003 (ringrazio Emilio Santoro per l’evocazione di questo aspetto). Il tema,
peraltro, è noto sin dall’antichità: cfr. i chiari accenni in Petroni
Arbitri Satyricon, 141.2, nel contesto dello sconforto che «ubique naufragium est».
(38) Sul riconoscimento delle attenuanti generiche nel caso
di situazioni quasi-scriminanti cfr. ad es. F. Mantovani, op. cit.,
430. Nel caso di specie, la diminuzione di pena è operata con
riferimento soltanto ad alcuni fra gli imputati; dalla motivazione della Cassazione (nel breve passaggio del § 7) non si evincono elementi utili rispetto al problema rappresentato nel testo.
(39) Risulta solo l’impugnazione contro una pena «immoti-
vatamente severa», che avrebbe dovuto essere irrogata nel minimo edittale. La Cassazione replica che i giudici di appello
hanno «dimostrato di avere quantificato la pena inflitta … dopo avere attentamente esaminato le circostanze di tempo di
luogo in cui i fatti si sono svolti». Come si accenna nel testo,
sarebbe stato di grande interesse disporre delle sentenze di
merito.
(40) Cfr. anche Cass. IV 19 marzo 2013, Gharby e aa.,
CED rv. 255694; Cass. I 31 marzo 2010, Hassan, CED rv.
247760.
(41) Cass. IV 19 marzo 2013, Gharby e aa., cit., p. 23 della
motivazione.
(42) Ad es., Cass. IV 12 gennaio 2012, Pichler, CED rv.
252337; Cass. VI 21 settembre 2011, Paheshti, CED rv.
250877.
Diritto penale e processo 6/2014
Diritto alla traduzione della sentenza
Un ultimo aspetto di qualche interesse che si riscontra nella sentenza in esame concerne la perentoria esclusione dell’obbligo di provvedere alla traduzione della sentenza per l’imputato che non conosca la lingua italiana: «la sentenza non è un atto
cui lo straniero partecipa direttamente, essendo invece da qualificare come atto che conclude una fase processuale ed il cui precipuo fine è, oltre a rendere noti i motivi posti a fondamento della decisione, di consentire agli aventi diritto di dare impulso
ad una successiva fase processuale, che è tuttavia
solo eventuale», talché la traduzione della sentenza
è onere dello straniero, che vi deve provvedere di
propria iniziativa, salvo il beneficio di allungamento del termine per impugnare se vi provvede (40) e
salva la possibilità di avvalersi di un interprete anche senza oneri personali quando sussistano i presupposti del patrocinio a spese dello Stato (41).
Questo orientamento, maggioritario e tuttavia non
pacifico nella stessa giurisprudenza di legittimità (42), è confermato dalla sentenza mediante il riferimento a conforme giurisprudenza della CEDU,
la quale ritiene, rispetto all’art. 6.3 lett. e) della
Convenzione europea, che il diritto all’assistenza
di un interprete non va inteso nel senso che sia ef-
735
Giurisprudenza
Diritto penale
fettuata la traduzione scritta di ogni documento
della procedura (43).
Tuttavia, la questione - già al momento della decisione (settembre 2013) - si poneva all’intersezione fra diritto nazionale, internazionale (dei diritti
umani) e dell’Unione europea. In effetti, doveva
essere presa in considerazione anche la Direttiva
dell’Unione europea (44), a norma della quale (art.
3.1) «gli Stati membri assicurano che gli indagati o
gli imputati che non comprendono la lingua del
procedimento penale ricevano, entro un tempo ragionevole, una traduzione scritta di tutti i documenti che sono fondamentali per garantire che siano in grado di esercitare i loro diritti della difesa e
per tutelare l’equità del procedimento»; si aggiunge
quindi (art. 3.2), senza possibilità di equivoco, che
«tra i documenti fondamentali rientrano … le sentenze».
La decisione della Corte di cassazione può essere
considerata corretta, dunque, solo perché il giudizio di legittimità era celebrato ancora in data antecedente la scadenza del termine per l’attuazione
della direttiva (27 ottobre 2013). D’altronde, la
stessa Cassazione si era invero avveduta in precedente occasione delle norme stabilite dalla diretti-
va, ed aveva rilevato che, ai sensi dell’art. 8 della
stessa Direttiva, gli Stati membri avevano tempo
fino alla data appena indicata per emanare le norme interne necessarie ad attuare la direttiva; l’obbligo, dunque, non era stato ritenuto immediatamente cogente (45).
Tuttavia, il contrasto dell’orientamento giurisprudenziale espresso ancora con la sentenza in esame con l’approccio della Direttiva è frontale. Ma
quest’orientamento dovrà considerarsi ormai superato per effetto dell’introduzione del nuovo art.
143 c.p.p., operata dall’art. 1, co. 1 lett. b) del
d.lgs. 4.3.2014, n. 32. In particolare, l’art. 143,
comma 2, prevede ora che «l’autorità procedente
dispone la traduzione scritta, entro un termine
congruo tale da consentire l’esercizio dei diritti e
delle facoltà della difesa, … delle sentenze e dei
decreti penali di condanna» (46). Parafrasando il
noto adagio, tre parole del legislatore seppelliscono
interi filoni di giurisprudenza; senza nessun rimpianto, del resto, se questi finivano con il ritenere
i motivi della sentenza un accidente trascurabile rispetto all’esercizio del diritto di difesa, riportando
senza troppo scomporsi lo stylus curiæ indietro di
qualche centinaio d’anni (47).
(43) Cfr. ad es. CEDU, III sezione, Hacioglu c. Romania, 11
gennaio 2011, application 2573/03, § 90.
(44) Direttiva 2010/64/UE del 20 ottobre 2010 sul diritto all’interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali. Cfr.
M. Gialuz, È scaduta la direttiva sull’assistenza linguistica. Spunti
per una trasposizione ritardata, ma (almeno) meditata, in
www.penalecontemporane.it.
(45) Si tratterebbe cioè di invocare l’effetto verticale (cioè
non nei confronti dei singoli, ma certo rispetto allo Stato ina-
dempiente) delle direttive dettagliate non tempestivamente
trasposte: cfr. per tutti G. Tesauro, Diritto dell’Unione europea,
Padova 20137, 174.
(46) Non si indugia qui sugli aspetti strettamente processualpenalistici della riforma, che riguardano in particolare il
dies a quo per la decorrenza del termine per impugnare.
(47) G. Gorla, Introduzione allo studio dei Tribunali italiani nel
quadro europeo fra i secoli XVI e XIX, in Id., Diritto comparato e
diritto comune europeo, Milano 1981, 329 ss., 353.
736
Diritto penale e processo 6/2014
Giurisprudenza
Processo penale
Mezzi di prova
Le videoriprese
di comportamenti non
comunicativi nel luogo di lavoro
CASSAZIONE PENALE, Sez. VI, 12 luglio 2013 (c.c. 4 giugno 2013), n. 30177 - Pres. Agrò Est. Di Stefano - Ric. C.A.
Sono utilizzabili le videoriprese effettuate dalla polizia giudiziaria, in assenza di preventiva autorizzazione del
giudice, nell'area riservata all'ingresso dei dipendenti di un ufficio postale, ove si trovi l'orologio marcatempo
delle presenze giornaliere. (In motivazione, la S.C. ha chiarito che l'utilizzabilità delle videoriprese in ambienti
dedicati allo svolgimento di attività lavorativa non è preclusa dagli artt. 4 dello Statuto dei lavoratori e 114
d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, i quali riguardano unicamente i controlli del datore di lavoro sull'esecuzione dell'ordinaria attività lavorativa, non anche quelli destinati a prevenire specifiche condotte illecite del lavoratore
ed a tutelare il patrimonio aziendale). (Rigetta, App. Milano, 28/10/2011).
ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI
Conformi
Cass., Sez. Un., 28 marzo 2006, Prisco; Cass., Sez. I, 25 ottobre 2006, Arcione; Cass., Sez. V, 12 luglio
2011, Volpi.
Difformi
Cass., Sez. V, 25 marzo 1997, Lomuscio.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Tutti i ricorsi sono infondati.
Ricorso C. / O. e motivi corrispondenti del ricorso R.:
il primo motivo può essere trattato unitamente al primo
motivo del ricorso di R., che pone simili questioni in
ordine alla utilizzabilità quale prova delle videoriprese.
Gli argomenti posti dai ricorsi per giungere ad affermare
l'inutilizzabilità sono:
- Le videoriprese di comportamenti non comunicativi
sono vietate nell'ambito del domicilio.
- Il luogo ove era installato l'orologio marcatempo era
un luogo privato essendo posto in un edificio privato,
non rilevando che la telecamera fosse installata all'esterno e che l'area ripresa fosse l'atrio dell'ufficio postale. Il carattere di luogo "privato" ricorre ancorché si
tratti di un locale aperto al pubblico.
- Inoltre, l'ufficio di "Internal Auditing", di Poste Italiane S.p.A. di (omissis) non è neanche un ufficio aperto
al pubblico essendone consentito l'accesso solo ai dipendenti.
- La conseguenza, per le ricorrenti, è che gli ambiti in
cui sono state effettuate le riprese "andavano ritenuti
quali luoghi di privata dimora, in quanto luoghi utilizzati per lo svolgimento di manifestazione della vita privata (come l'attività professionale) di chi lo occupava, anche in ragione della durata del rapporto tra il luogo e
persona che vi operava". - E, ancora, nel caso di specie
è certamente operante il divieto dell'art. 4 dello Statuto
Diritto penale e processo 6/2014
dei Lavoratori, ovvero il divieto assoluto di controllo a
distanza dei lavoratori, divieto che si pone nei confronti
di qualsiasi soggetto e non soltanto del datore di lavoro.
A tali argomenti i giudici di merito avevano già risposto
che:
- le operazioni di registrazioni video dell'area ove era
posto l'orologio marcatempo sia per individuare chi utilizzasse più tessere magnetiche sia per identificare gli
impiegati che entravano per poter poi determinare, per
esclusione, chi fossero i soggetti la cui presenza era stata
falsamente registrata da altri impiegati compiacenti,
non rappresentavano una intercettazione di comunicazioni e rientravano invece nell'ambito delle prove atipiche di cui all'art. 189 c.p.p.
Osserva quindi questa Corte che l'affermazione del trovarsi dinanzi ad una tipologia di prova che non rientra
nella disciplina di cui all'art. 266 c.p.p. e ss., è certamente corretta:
- non si tratta di intercettazioni di comunicazioni,
neanche sotto forma di "comportamenti comunicativi",
perché l'obiettivo del controllo era da un lato la condotta di una singola persona di utilizzazione di più badge e dall'altro il mancato ingresso di altri impiegati.
Quindi, non dovevano essere applicate le disposizioni
dell'art. 266 c.p.p. e ss., che riguardano la captazione di
comunicazioni e lo scambio di informazioni per via informatica. Su tale punto non vi è alcuna deduzione
contraria da parte dei ricorrenti ma tale precisazione è
737
Giurisprudenza
Processo penale
necessaria perché, nella intestazione del primo motivo
del ricorso C. e O., viene invocata la violazione di legge
con riferimento all'art. 266 c.p.p. e ss., ma nella successiva esposizione degli argomenti, invece, non vi è alcun
riferimento alla normativa sulle intercettazioni.
- le videoriprese hanno rappresentato un'attività di indagine della polizia giudiziaria, per cui non si è in presenza di "documenti" ex art. 234 c.p.p. in quanto i "documenti" presuppongono la formazione al di fuori del
procedimento.
Così chiarito l'ambito in cui si discute delle prove in
questione, i ricorsi di C., O. e R., in modo sostanzialmente alternativo, prospettano due ragioni per la inutilizzabilità delle riprese video. Da un lato si sostiene che
si sia trattato di attività svolta in un'area che costituisce
"domicilio", rientrandosi così nella ipotesi di assoluto
divieto di videoriprese di comportamenti non comunicativi - quindi si tratterebbe di una prova inammissibile
(principio conseguente a quanto affermato nella sentenza Corte costituzionale n. 235 del 2002) - e dall'altro,
trattandosi di attività svolta in un luogo "privato", vi sarebbe una esigenze di tutela della riservatezza del singolo che impone comunque il provvedimento dell'Autorità Giudiziaria atteso il rango costituzionale del diritto
alla riservatezza (anche in questo caso si tratta di una
chiara conseguenza della medesima sentenza della Corte
costituzionale).
La questione è certamente infondata sotto entrambi i
profili proposti dalle ricorrenti.
Va premesso che effettivamente non è corretto l'argomento della Corte di Appello secondo cui ciò che rileva è il luogo in cui era installata la telecamera (nel caso
di specie era installata in strada), in quanto l'intrusione
nella sfera privata, sia che avvenga nel domicilio vero e
proprio, sia che avvenga in un più limitato contesto in
cui sia comunque tutelata la riservatezza, va valutata
con riferimento al luogo in cui viene tenuto il comportamento oggetto di captazione video e non al luogo in
cui è posto lo strumento che consente la visione. Si
tratta di una regola sostanzialmente ovvia, comunque
tale errore risulta, nel contesto generale, privo di conseguenze, come da argomenti che seguono.
Passando quindi oltre, si rileva innanzitutto che è indiscutibile che nel caso di specie non si sia affatto in presenza di un "domicilio". Difatti il richiamo generico che
le ricorrenti fanno alla giurisprudenza che ha affermato
come anche l'"ufficio" possa rappresentare un "domicilio" ai sensi dell'art. 14 Cost., e delle varie norme dell'ordinamento penale, non è pertinente al caso in esame: secondo tale giurisprudenza di legittimità, l'"ufficio"
tutelato quale domicilio è la sede di lavoro propria del
singolo soggetto in cui il singolo soggetto abbia l'autonomo diritto di permanere e precludere l'ingresso a terzi; ovvero, sì tratta dell'ufficio "privato" di uno o più lavoratori determinati in cui non è consentito l'ingresso
indiscriminato.
I difensori, invece, vorrebbero attribuire la caratteristica
di domicilio al complesso del luogo adibito ad uffici
non a contatto con il pubblico, ma l'atrio di un ufficio
così come tutte le sue parti comuni e le stanze "colletti-
738
ve" (uffici open space) non sono affatto la estensione di
un domicilio privato, in modo non dissimile dalle parti
comuni di un condominio di edificio, non essendovi affatto la possibilità per singoli soggetti di fruirne con una
pienezza corrispondente a quella di fruizione del domicilio.
Quindi sicuramente non si verte nella ben diversa ipotesi di videoriprese di comportamenti non comunicativi
all'interno del domicilio privato, per la quale opera il
già citato divieto assoluto che la rende prova del tutto
inammissibile.
Ma non ricorre neanche la diversa situazione di "... luoghi che pur non costituendo un domicilio vengono usati per attività che si vogliono mantenere riservate...".
Proprio la giurisprudenza richiamata dai ricorrenti (Sez.
U, n. 26795 del 28/03/2006 - dep. 28/07/2006, Prisco)
pone in modo chiaro il discrimine fra i casi di riprese
video di comportamenti per i quali può procedere la polizia giudiziaria senza necessità di autorizzazione e i casi
in cui, invece, è necessaria la autorizzazione della autorità giudiziaria.
Non è un discrimine che consegua all'essere il luogo
delle riprese pubblico o privato, accessibile ad un pubblico indiscriminato o solo a determinati soggetti, bensì
la diversa regolamentazione dipende dall'essere il dato
luogo destinato, nel dato momento ed alle date condizioni, a garantire la riservatezza della persona.
La Corte, difatti, nel confermare la possibilità di riprese
video in qualsiasi ambiente che non sia qualificabile
quale domicilio, chiariva che è comunque possibile che
in determinati luoghi (caso tipico una toeletta di un locale di uso non esclusivo, poco importa se al servizio di
un locale pubblico o ufficio od altro), proprio per caratteristiche e funzione degli stessi, il singolo goda di un
particolare diritto alla riservatezza.
Quindi la necessità di una particolare tutela non consegue al carattere del luogo - pubblico, privato, aperto o
meno al pubblico generale - ma alle sue specifiche caratteristiche rispetto alla modalità di fruizione da parte
del singolo; come detto, non è una condizione che ricorra di per sé in un pubblico esercizio ma ricorre in
quelle parti di esso (appunto, le toelette comuni o i ed
"privè" citati nella sentenza delle Sezioni Unite) in cui
il soggetto ha facoltà solo temporanea, durante la sua
permanenza nel dato luogo, di escludere la presenza di
altri per riconoscimento, appunto, di un suo diritto alla
riservatezza. Oltre ai casi predetti si può citare, ad esempio, facendo riferimento a luoghi di lavoro, l'ipotesi dell'ufficio open space nel quale sono ricavate singole aree
di lavoro con parziali separazioni finalizzate a garantire
un livello minimo di riservatezza.
Tutto questo, evidentemente, non ricorre nel caso di
specie in cui i ricorrenti tentano di riportare il concetto
di ambito di tutela della riservatezza al complesso dei
locali adibiti ad uffici non aperti al pubblico di Poste
spa.
Ma, così come un tale spazio non è certamente domicilio, non è neanche di per sé un luogo nel quale venga
esercitata e tutelata la riservatezza dell'individuo; affer-
Diritto penale e processo 6/2014
Giurisprudenza
Processo penale
mazione, questa, valida ancor di più in riferimento all'area di ingresso dove era posto l'orologio marcatempo.
Non vi era, quindi, alcun limite alla effettuazione di videoriprese sotto il profilo delle caratteristiche del luogo
oggetto di riprese, potendo operare di iniziativa la p.g.
senza necessità di provvedimento della autorità giudiziaria.
Tali riprese rappresentano, per le ragioni sopra citate,
una prova atipica e non un "documento".
Del tutto infondato è anche l'ulteriore argomento difensivo fondato sulla disciplina di cui all'art. 4 Statuto
dei Lavoratori e al d.lgs. n. 196 del 2003, art. 114.
Si tratta, difatti, di una disposizione mirata e limitata al
divieto di controllo della attività lavorativa in quanto
tale ovvero al divieto di controllo della corretta esecuzione della ordinaria prestazione del lavoratore subordinato; ma tale stessa disposizione non impedisce, invece,
i controlli destinati alla difesa dell'impresa rispetto a
specifiche condotte illecite del lavoratore o, comunque,
a tutela del patrimonio aziendale (la giurisprudenza ci-
vile in materia è del tutto pacifica, tra le numerose pronunzie si veda Sez. L, Sentenza n. 2722 del 23/02/2012,
Rv. 621115). Perciò si afferma comunemente nella giurisprudenza penale di questa Corte la piena utilizzabilità
ai fini della prova di reati anche delle videoregistrazioni
effettuate direttamente dal datore di lavoro, destinatario
del citato divieto, laddove agisca non per il controllo
della prestazione lavorativa ma per specifici casi di tutela dell'azienda rispetto a specifici illeciti.
Perciò, che dalla citata disposizione dello Statuto dei
Lavoratori discenda un divieto probatorio che riguardi
la polizia giudiziaria, è affermazione totalmente erronea
sia perché il divieto, coerentemente con la sua funzione, è testualmente riferito al datore di lavoro e sia perché il divieto riguarda solo il controllo dell'esecuzione
dell'ordinaria attività lavorativa.
Superate, quindi, le obiezioni alla ammissibilità ed utilizzabilità delle videoriprese i motivi in questione vanno
tutti dichiarati infondati.
IL COMMENTO
di Irene Guerini (*)
La Corte di cassazione, chiamata a pronunciarsi in tema di videoriprese di comportamenti non comunicativi nel luogo di lavoro, conferma l’orientamento interpretativo costante nel “diritto vivente”, favorevole
ad una piena utilizzabilità anche in assenza di autorizzazione giudiziale. Il ricorso alla categoria dogmatica
della prova atipica, tuttavia, lascia irrisolta la questione delle problematiche interferenze tra lo svolgimento di attività di indagine e la lesione di diritti fondamentali di rango costituzionale.
Nel caso di specie, la Suprema Corte è stata
chiamata a pronunciarsi, tra vari profili, anche sul
regime di utilizzabilità di riprese video effettuate
nel corso delle indagini preliminari dalla polizia
giudiziaria senza preventiva autorizzazione giudiziale. Nello specifico, le videoriprese erano state realizzate installando una videocamera sulla pubblica
via che inquadrava l’atrio dell’Ufficio Internal Auditing di Poste S.p.a. - ove era collocato il dispositivo di timbratura del cartellino - e le riprese avevano ad oggetto l’ingresso nel luogo di lavoro degli
imputati e degli altri dipendenti. La sentenza in
commento aderisce alla (ora) costante interpretazione della giurisprudenza, della quale tuttavia ripropone - senza risolverli - i profili problematici in
ordine all’individuazione della disciplina applicabile per l’assunzione nel processo penale di risultati
acquisiti per il tramite di mezzi atipici di ricerca
della prova che incidono su diritti fondamentali di
rango costituzionale.
Preliminarmente, è opportuno ricordare che il
controverso inquadramento della videoripresa di
comportamenti non comunicativi trova il suo antecedente causale nell’assenza di espressa tipizzazione legislativa, che ha determinato lo sviluppo di
un percorso interpretativo non sempre lineare. Invero, in un primo momento, la giurisprudenza ha
tentato di ricondurre questo inedito mezzo di ricerca della prova a taluna delle tipologie tipiche previste dal codice (perquisizioni, ispezioni (1) ovvero
intercettazioni tra presenti), nessuna delle quali è
apparsa però idonea a regolamentare in maniera
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(1) Sull’assonanza ontologico-funzionale tra ispezione e videoregistrazione, Carli, Videoregistrazione di immagini e tipizzazione di prove atipiche, in questa Rivista, 2003, 44 ss., individua
significativi punti di analogia tra i due mezzi di ricerca della
prova, che incidono entrambi sulla libertà di domicilio e sulla libertà personale. L’A., in particolare, identificando la videoregistrazione come atto di osservazione, evidenzia che alla stessa
stregua dell’ispezione è finalizzata all’accertamento ovvero alla
constatazione di un fatto il cui prodotto è una prova documentale che veicola e traduce i risultati d’indagine nel giudizio pe-
Tra intercettazioni ambientali, prova
documentale e prova atipica
Diritto penale e processo 6/2014
739
Giurisprudenza
Processo penale
soddisfacente la fattispecie in questione (2). Proprio le caratteristiche peculiari di questo mezzo di
ricerca della prova e la conseguente insufficienza
del ricorso alle categorie tipiche hanno, pertanto,
orientato verso l’istituto della prova atipica, per il
tramite -in particolare- di due pronunce fondamentali, l’una costituzionale, l’altra di legittimità (3).
La Consulta, chiamata per prima a pronunciarsi
sulla questione di legittimità costituzionale degli
artt. 189 e 266-271 c.p.p. (e segnatamente dell’art.
266, comma 2, c.p.p. nella parte in cui non estendeva la disciplina delle intercettazioni delle comunicazioni tra presenti, nei luoghi indicati dall’art.
614 c.p., alle riprese visive o videoregistrazioni effettuate nei medesimi luoghi) ha escluso, in via
preliminare, che tale attività investigativa sia costituzionalmente vietata e, nel merito, ha utilizzato
la distinzione tra comportamenti comunicativi e
non comunicativi - già introdotta dalla giurisprudenza di legittimità (4) - quale dato di fatto discriminante della disciplina in concreto applicabile.
L’attività di videoripresa disposta d’ufficio dalla polizia giudiziaria in assenza di un provvedimento
autorizzativo integra una attività di indagine atipica (in attuazione delle funzioni di cui al combinato
disposto degli artt. 55 e 348 c.p.p.) e quindi legitti-
ma solo laddove rispetti il livello minimo di garanzie previste dalla Carta costituzionale a tutela della
libertà personale (i cd diritti costituzionali a tutela
“rinforzata”: libertà personale, domicilio, libertà e
segretezza della corrispondenza) (5). Nello specifico, i diritti costituzionali chiamati in causa variano
a seconda del tipo di comportamento oggetto di
captazione: da un lato, la libertà e la segretezza delle comunicazioni (art. 15 Cost.); dall’altro, la libertà ed inviolabilità del domicilio (art. 14 Cost.) (6).
Nel caso di comportamenti a contenuto comunicativo, l’interpretazione giurisprudenziale fa salva
l’applicazione estensiva (e non analogica) degli
artt. 266 ss. c.p.p., la cui disciplina (tipica) già codifica il bilanciamento tra le esigenze investigative
ed il rispetto della libertà e segretezza delle comunicazioni di cui all’art. 15 Cost. Nella diversa ipotesi di comportamenti non comunicativi, invece,
la natura atipica del mezzo di ricerca della prova e
la sua non riconducibilità ad una specifica disciplina codicistica condiziona la valutazione di legalità
al luogo soggetto a videosorveglianza, sotto il profilo di una eventuale violazione della libertà di domicilio. In questa ottica, l’art. 14 Cost. si pone a
garanzia della libertà ed inviolabilità del “domicilio” quale proiezione dinamico-spaziale della perso-
nale. Allo stesso modo dell’ispezione, peraltro, anche la videoripresa può essere scomposta in due momenti: la messa in
opera del mezzo di ricerca della prova (osservazione diretta ovvero mediata dallo strumento tecnologico); la precostituzione
della prova (il verbale delle operazioni visive ovvero la registrazione dei videogrammi).
(2) Così la dottrina maggioritaria, che ha valorizzato le rilevanti diversità tra ispezione e videoregistrazione, con specifico
riguardo alle modalità esecutive. La clandestinità dell’operazione di videoregistrazione ad opera degli investigatori ne esclude
la riconducibilità alla categoria delle ispezioni che, per contro,
sono svolte alla presenza dell’interessato cui è consentito di
esercitare un controllo contestuale al compimento dell’atto; si
veda sul punto Di Bitonto, Le riprese video domiciliari al vaglio
delle sezioni unite, in Cass. pen., 2006, 3950 s. Ne consegue,
da un lato, la dubbia applicabilità della disciplina delle ispezioni in via analogica; dall’altro l’inestensibilità di molte cautele e
pertanto l’individuazione di un procedimento “debole”; così tra
gli altri Camon, Le sezioni unite sulla videoregistrazione come
prova penale: qualche chiarimento e alcuni nuovi dubbi, in Riv.
it. dir. pen. proc., 2006, 1551. Per maggiori approfondimenti
anche Marinelli, Le videoriprese investigative al vaglio delle Sezioni Unite: i limiti di impiego negli spazi riservati di natura extradomiciliare, in Riv. it. dir. pen. proc., 2006, 1573 ss.
(3) Si tratta rispettivamente di Corte cost., 24 aprile 2002,
n. 135, Di Sarno, in Giur. cost., 2002, 2176 ss., con nota di Pace, Le videoregistrazioni «ambientali» tra gli artt. 14 e 15 Cost.;
nonché di Cass., Sez. Un., 28 marzo 2006, Prisco, in Cass.
pen., 2006, 3937, con note di Ruggieri, Riprese visive e inammissibilità della prova, nonché di Di Bitonto, op. cit.
(4) Per prima, sul punto, Cass., Sez. VI, 10 novembre 1997,
Greco, in Cass. pen., 1999, 1188 ss., con nota di Camon, Le riprese visive come mezzo d’indagine: spunti per una riflessione
sulle prove «incostituzionali». In motivazione, la Suprema Corte
precisava che «se è vero che l’espressione “comunicazioni fra
presenti” usata nel cpv. art. 266 c.p.p. consente, per il suo tenore, di ricomprendere, oltre al modo tipico di tale comunicazione costituito dal colloquio orale, anche altre forme di scambio, ad es. di carattere gestuale […] resta fermo che esula da
tale concetto ogni altro comportamento o situazione non
avente la suddetta finalità di scambio», concludendo pertanto
che debba «escludersi che possa costituire oggetto di comunicazione intercettabile […] la mera presenza di cose o persone
ovvero i movimenti e le azioni di queste ultime non diretti alla
intenzionale trasmissione di messaggi».
(5) Il fatto che l’art. 14 Cost. istituisca una riserva di giurisdizione per le perquisizioni ed i sequestri non expressis verbis
ma attraverso un generale richiamo alla disciplina della libertà
personale è determinato dall’identità di ratio che connota la riserva di giurisdizione (così vale peraltro anche con riguardo all’art. 15 Cost.); per maggiori approfondimenti si rinvia ad Amato, Commento all’art. 14, in Branca, Commentario della Costituzione, 60 s.
(6) Come evidenziato dalla Consulta (Corte cost., 135/2002,
cit.), sebbene libertà di comunicazione e libertà di domicilio
rientrino entrambe in una comune e più ampia prospettiva di
tutela della “vita privata”, tanto da essere oggetto di previsione congiunta in sede sovranazionale (art. 8 Conv. eu. dir. umani, art. 17 Patto int. dir. civ. pol., art. 7 Carta di Nizza), nel quadro costituzionale restano significativamente differenziate sul
piano dei contenuti. La libertà di domicilio ha una valenza essenzialmente negativa e si concretizza nel diritto di preservare
da interferenze esterne, pubbliche o private, determinati luoghi
in cui si svolge la vita intima di ciascun individuo. La libertà di
comunicazione, al contrario, ha una natura mista: negativa,
quale diritto di escludere dei soggetti non legittimati dalla percezione del messaggio informativo; positiva quale diritto al libero scambio fra soggetti.
740
Diritto penale e processo 6/2014
Giurisprudenza
Processo penale
na (7). La soluzione individuata dalla Consulta pare una scelta obbligata: se, infatti, l’assenza di contenuto comunicativo sposta il problema di compatibilità costituzionale sull’inviolabilità del domicilio, l’interpretazione della Corte resta comunque
vincolata al rispetto della riserva assoluta di legge,
di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 14 Cost. In questo
quadro, una sentenza interpretativa di accoglimento della questione di legittimità che avesse dilatato
l’ambito di applicazione della disciplina delle intercettazioni avrebbe superato i limiti del vaglio di
compatibilità costituzionale, invadendo spazi riservati alla competenza esclusiva del legislatore (8).
Per contro, però, anche assumendo come pacifica
l’applicabilità della disciplina di cui all’art. 189
c.p.p. a questo specifico mezzo di ricerca della prova, resterebbe comunque irrisolto il problema di
individuare la esatta disciplina dei “casi” e dei
“modi” nei quali sia consentita la videoripresa nei
luoghi “domiciliari” di cui all’art. 14 Cost., stante
l’inevitabile genericità del dettato codicistico (9).
La successiva giurisprudenza di legittimità ha fatto propria la distinzione tra comportamenti comuni-
cativi e comportamenti non comunicativi di cui alla
sentenza costituzionale, elevandola ad elemento di
discrimine per individuare gli esatti confini dell’applicazione estensiva della disciplina delle intercettazioni ambientali. Permane, invece, un contrasto in
ordine alla categoria probatoria cui ricondurre le videoriprese prive di contenuto comunicativo disposte
nell’ambito delle indagini di polizia giudiziaria: un
orientamento ermeneutico le riporta nell’alveo delle
rappresentazioni di «fatti, persone o cose mediante
la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo» di cui all’art. 234 c.p.p. (10); altra
giurisprudenza, per contro, evoca l’inquadramento
tra le prove atipiche (11). La diversa interpretazione
non si risolve in una classificazione dogmatica fine
a sé stessa, incidendo sulla natura stessa della prova
(precostituita o costituenda), sui requisiti di ammissione, nonché, di conseguenza, sul regime di utilizzabilità. A risolvere il contrasto sono intervenute le
Sezioni Unite della Cassazione (12), che -partendo
dall’assunto che prova documentale e prova atipica
sono “forme probatorie alternative”- hanno valorizzato il contesto infra o extra procedimentale nel
(7) Come evidenziato da Carli, op. cit., 41, secondo il ragionamento della Corte costituzionale le ipotesi di intrusione contemplate dal secondo comma dell’art. 14 Cost. non sono né
tassative né esaustive ed è irrilevante ai fini della loro legittimità il modo palese ovvero occulto con cui vengono poste in essere. L. Cricrì, Sulla natura delle captazioni visive di condotte
«non comunicative», in Cass. pen., 2006, 679 ss., segnala che il
richiamo di cui al comma 2 dell’art. 14 Cost. alle «garanzie prescritte per la tutela della libertà personale» impone che le opzioni sottese alla disciplina delle cautele personali, ispirate alla
logica della extrema ratio ed alla finalità di tutela di esigenze di
natura processuale - pur nella diversità di struttura e funzione rappresentino cogenti indicazioni di metodo nell’interpretazione delle norme e, de jure condendo, nell’auspicabile opera di
adeguamento legislativo.
(8) Sul punto, in particolare, Pace, op. cit., 1070 ss., che in
commento a Corte cost., 135/2002, cit., lamenta come la Consulta si sia “sbarazzata” della questione, giudica contraddittorio l’invito rivolto al legislatore ad intervenire per disciplinare
complessivamente l’intera materia ed individua, per contro,
una vera e propria necessità di addivenire ad una espressa positivizzazione. Nello stesso senso, Brichetti, Spetta al legislatore
regolamentare le riprese di tipo non comunicativo, in Guida dir.,
2002, f. 20, 73 ss. Una alternativa possibile era la strada della
declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 189 c.p.p.
nella parte in cui non esclude prove ottenute con interferenze
indebite nella vita privata domestica. Il richiamo è alla giurisprudenza costituzionale in tema di cd “prove incostituzionali”:
«attività compiute in dispregio dei fondamentali diritti del cittadino non possono essere assunte di per sé a giustificazione e
a fondamento di atti processuali a carico di chi quelle attività
costituzionalmente illegittime abbia subito» (Corte cost., 4
aprile 1973, n. 34, Marazzani ed a.); ne consegue che «non
possono validamente ammettersi in giudizio mezzi di prova
che siano stati acquisiti attraverso attività compiute in violazione delle garanzie costituzionali poste a tutela dei fondamentali
diritti dell’uomo e del cittadino» (Corte cost., 26 febbraio-11
marzo 1993, n. 81, Viele Soccorsa). Si rinvia sul punto, tra gli
altri, a Grevi, Insegnamenti, moniti e silenzi della Corte Costitu-
zionale in tema di intercettazioni telefoniche, in Giur. cost., 1973,
341. Per una panoramica degli orientamenti in dottrina e giurisprudenza, Marinelli, Le videoriprese cit., 1575 s., nota 13.
(9) Camon, Le sezioni unite cit., 1552 s., pone in evidenza
due nodi irrisolti all’esito della pronuncia costituzionale (Corte
cost., 135/2002, cit.): la mancanza di una espressa previsione
delle videoriprese tra le attività individuate nel comma secondo dell’art. 14 Cost.; la qualificazione delle stesse come prove
innominate, che lascia aperti dubbi in ordine al rapporto con
l’inviolabilità del domicilio ed il conseguente regime di utilizzabilità.
(10) Tra le pronunce più risalenti, Cass., Sez. V, 18 ottobre
1993, Fumero, in C.E.D. Cass., n. 195557; Cass., Sez. III, 22
gennaio 1997, Winkler, in C.E.D. Cass., n. 207104; nonché
Cass., Sez. V, 25 marzo 1997, Lomuscio, in A. n. proc. pen.,
1998, 112, che precisa come le riprese filmate (nel caso di
specie disposte dalla polizia giudiziaria ed aventi ad oggetto i
movimenti degli indagati in luoghi pubblici) costituiscono prova documentale ai sensi dell’art. 234 c.p.p. e rimangono del
tutto estranee alla disciplina specifica prevista per le intercettazioni telefoniche.
(11) Più recentemente, l’interpretazione giurisprudenziale è
evoluta nel senso della prova documentale atipica e richiamando l’assunto di cui all’art. 189 c.p.p. ha sostenuto che le riprese videofilmate di comportamenti non comunicativi possono essere liberamente disposte ed effettuate qualora non sussistano limiti connessi all’inviolabilità del domicilio; così Cass.,
Sez. VI, 21 gennaio 2004, Flori, in A. n. proc. pen., 2005, 525,
nonché Cass., Sez. V, 7 maggio 2004, Massa, in Cass. pen.,
2005, 3016. Sul punto, Camon, Le sezioni unite cit., 1555, definisce le “prove documentali non disciplinate dalla legge” una
categoria sgraziata e contraddittoria; Marinelli, Le videoriprese cit., 1572 s. riferisce del tentativo giurisprudenziale di contaminare, da un lato, la prova documentale con la prova atipica,
dall’altro, il documento con la mera documentazione di atti del
procedimento.
(12) Cass., Sez. Un., 28 marzo 2006, Prisco, cit. La questione rimessa alle sezioni unite è così sintetizzabile: «se le riprese
video filmate in luogo di privata dimora siano consentite ove si
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Giurisprudenza
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quale le videoriprese vengono predisposte (13) ed
enunciato il seguente principio di diritto: «solo le
videoregistrazioni effettuate fuori dal procedimento
possono essere introdotte nel processo come documenti e diventare quindi una prova documentale
[…] mentre le altre, effettuate nel corso delle indagini, costituiscono, secondo il codice, la documentazione dell’attività investigativa, e non documenti.
Esse perciò sono suscettibili di utilizzazione processuale solo se sono riconducibili a un’altra categoria
probatoria, che la giurisprudenza per le riprese in
luoghi pubblici, aperti o esposti al pubblico ha individuato in quella delle prove atipiche, previste dall’art. 189 c.p.p.».
Pertanto, è attualmente consolidato, quale “diritto vivente”, l’orientamento interpretativo che
qualifica la videoripresa di comportamenti non comunicativi disposta nel corso delle indagini preliminari su iniziativa della polizia giudiziaria quale
prova atipica, soggetta al regime di ammissibilità
ed utilizzabilità nei limiti di cui all’art. 189 c.p.p.
Si può già anticipare, tuttavia, come questa soluzione sconti un significativo limite, omettendo di
valutare le specifiche problematiche derivanti dalla
applicazione della disciplina prevista per la prova
atipica ai mezzi di ricerca della prova. All’esito dell’analisi risulterà evidente l’inidoneità del quadro
normativo evocato dalla giurisprudenza a fornire
una organica regolamentazione del rapporto tra esigenze investigative e rispetto della sfera privata.
Nel caso di specie, i ricorrenti hanno eccepito l’inutilizzabilità delle videoriprese effettuate nell’atrio
del luogo di lavoro (un ufficio amministrativo di
Poste S.p.a.) e sviluppano due tesi tra loro alternative, partendo da una premessa logica comune. Le difese concordano con la qualificazione operata dai
giudici del merito e confermata anche nel giudizio
di legittimità: la fattispecie concerne le videoriprese
di comportamenti non comunicativi, non soggette
pertanto alla disciplina delle intercettazioni ambien-
tali. Né poteva sostenersi il contrario, dato che oggetto delle riprese era il comportamento del dipendente che, in ingresso al lavoro, faceva passare più
di un badge nell’orologio marcatempo, inducendo in
errore l’azienda Poste S.p.a. sulla presenza al lavoro
di altri dipendenti, in realtà assenti. Le operazioni
di video registrazione erano pacificamente finalizzate ad individuare chi utilizzasse più tessere magnetiche al momento di ingresso al lavoro, nonché ad
identificare gli impiegati che effettivamente entravano al lavoro per poter determinare, per esclusione, quali fossero invece quelli la cui presenza era
stata falsamente attestata. La censura della decisione di merito concerne invece la classificazione del
luogo oggetto di captazione. Nello specifico, le difese degli imputati ricorrono in sede di legittimità argomentando circa la inutilizzabilità delle videoriprese svolte d’ufficio dalla polizia giudiziaria in fase di
indagini preliminari sulla base di due posizioni tra
loro alternative, entrambe legate alla natura del luogo (l’atrio dell’Ufficio Internal Auditing di Poste
S.p.a.) in cui le videoriprese sono state compiute.
Per una prima tesi difensiva, il luogo in questione
rientra nella definizione di “domicilio”, garantito
con un divieto assoluto di videoriprese. In particolare, il richiamo operato dai ricorrenti è alla interpretazione costituzionalmente orientata della nozione
di domicilio, tutelato ai sensi dell’art. 14 Cost. Vero
è che il concetto di “domicilio” in sede penale gode
di autonomia rispetto alla definizione privatistica di
cui all’art. 43 c.c., restando però necessariamente
vincolato al rispetto dei principi di determinatezza e
tassatività. Al contrario, l’ambito definitorio di matrice costituzionale è strutturato sulla combinazione
di una articolata sfera di interessi (più ampia di
quella protetta dalla norma penale) e di conseguenza copre tutti i luoghi (anche se non si tratta di privata dimora) di cui il soggetto disponga a titolo privato e nei quali potrebbe realizzarsi il conflitto tra
la posizione del singolo e le esigenze della collettività (14). Sia la dottrina sia la giurisprudenza penale
si sono nel tempo orientate verso una interpretazio-
fuoriesca dall’ipotesi della videoregistrazione di comportamenti di tipo comunicativo e se esse siano da ricomprendere nella
disciplina della intercettazione delle comunicazioni e debbano,
quindi, essere autorizzate ai sensi dell’art. 266 e seg. c.p.p. o
rappresentino, invece, prove documentali non disciplinate dalla legge a norma dell’art. 189 c.p.p».
(13) Concorde la dottrina maggioritaria; tra gli altri Mazzarra-Ponzetti, Documenti, in Chiavario-Marzaduri, Le prove, II,
Torino, 307, evidenziano che il discrimen formale tra atti endoprocessuali e documenti extraprocessuali ha natura meramente formale e trova il suo fondamento non tanto nelle caratteristiche intrinseche dell’atto quanto piuttosto nella relazione che
viene instaurata tra lo stesso ed il procedimento in cui viene
utilizzato. Per una lettura critica si veda Tonini, La prova penale, Padova, 1997, 76, secondo il quale la distinzione tra documento e documentazione operata dal legislatore a seconda
che l’atto sia formato fuori ovvero all’interno del procedimento
si rivela in concreto insidiosa.
(14) Sulla nozione costituzionale di domicilio e sul suo rapporto con la tutela di matrice penalistica si rinvia a Amato,
Commento all’art. 14, op. cit., 54 ss. L’A., in particolare, evidenzia che la definizione di cui all’art. 14 Cost. supera i limiti
propri della fonte penale, essendo funzionale alla contestuale
difesa degli interessi privati e degli interessi collettivi. Ne con-
Le tesi difensive
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Giurisprudenza
Processo penale
ne più ampia della nozione di domicilio, superando
lo stretto dettato di cui all’art. 614 c.p. ed arrivando
ad includervi ogni luogo nel quale si estrinseca la
personalità dell’individuo (15). Letteralmente, la
classificazione muove dalle tre tipologie di luoghi
espressamente tipizzati dal legislatore: l’abitazione, il
luogo di privata dimora e le appartenenze di essi.
Nella prassi, per ognuno di questi luoghi è intervenuta una estensione dell’ambito di operatività della
tutela penale (16). In questa prospettiva, il luogo di
lavoro può rientrare nella nozione di “domicilio”
proprio in quanto luogo di privata dimora destinato,
permanentemente o provvisoriamente, all’esplicazione della vita privata e dell’attività lavorativa al
di fuori dell’altrui ingerenza. Le difese dei ricorrenti,
sul punto, hanno valorizzato il dato fattuale che l’ufficio Internal Auditing di Poste S.p.a. non è aperto
all’utenza, tanto è vero che si tratta di locali nei
quali è consentito l’accesso soltanto ai dipendenti.
Inoltre, il quadro normativo dovrebbe essere integrato con quanto disposto dallo Statuto dei Lavoratori, che all’art. 4 vieta espressamente l’uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori. Tale divieto è assoluto e si pone nei confronti
di ogni soggetto, non soltanto del datore di lavoro.
Per altra linea difensiva, il luogo ripreso pur non
rientrando nella definizione di domicilio era comunque un luogo usato per attività che si vogliono
mantenere riservate e, proprio in ragione della tu-
tela della riservatezza, l’eventuale captazione di immagini del soggetto necessitava di un preventivo
provvedimento autorizzativo da parte dell’autorità
giudiziaria. Questa impostazione interpretativa sviluppa l’autonoma tutela del diritto alla riservatezza
quale diritto al rispetto della propria vita privata.
Muta il referente costituzionale (art. 2 Cost.), muta altresì la disciplina penale sostanziale di riferimento (art. 615-bis c.p.) (17), poiché l’esigenza di
tutela non è più parametrata sulla natura instrinseca del luogo oggetto di osservazione quanto sul rapporto funzionale (e spesso occasionale) con il soggetto. La ripresa di immagini in un luogo “protetto”, ordinariamente precluso a terzi, infatti, coinvolge non più o non tanto l’inviolabilità del domicilio quanto l’intimità della persona in sé, in relazione alle manifestazioni della vita quotidiana normalmente ostensibili per cui vi sia occasionale volontà di riserbo, ma anche (e soprattutto) con riguardo a quelle attività che, coinvolgendo la
dignità ed il senso del pudore, più fortemente fanno sentire in capo al soggetto l’esigenza di escludere gli altri (18). Tale tesi interpretativa riprende,
invero, una distinzione già elaborata in giurisprudenza dalle Sezioni Unite nel caso “Prisco”, che tra
i luoghi lato sensu pubblici (nei quali è sempre consentito videoriprendere) ed i luoghi privati “domiciliari” (nei quali, al contrario, non è mai ammissibile la videoripresa) individua una terza categoria
“mediana” (19). Si tratta di ambienti che, pur non
segue che «una simile nozione può ritenersi coincidente con
quella penalistica solo a patto di ritenere il riferimento che questa fa alla privata dimora in termini scorrelati dalla intimità dell’abitazione e indicanti piuttosto il titolo privato della disponibilità del luogo».
(15) Nel senso della valorizzazione della centralità del rapporto persona-ambiente Monaco, Commento all’art. 614, in
Crespi-Stella-Zuccalà, Commentario breve al codice penale, Padova, 2008, 1718, sottolinea come l’esigenza di armonizzare
l’oggetto ed i limiti della tutela apprestata dalla norma penale
ai principi basilari (costituzionali) dell’ordinamento impone di
individuare l’interesse in essa tutelato non già in relazione a
proprietà o possesso ma alla libera estrinsecazione della personalità individuale. In questa logica “funzionale” il domicilio è
quindi garantito in quanto proiezione spaziale della persona.
(16) L’abitazione, che è il luogo dove si compie in tutto o in
parte la vita privata, include anche beni mobili registrati e luoghi aperti nonché luoghi frequentati saltuariamente, purché
connotati da una relazione stabile ed attuale con l’individuo. Il
luogo di privata dimora supera il concetto di abitazione come
sede della vita domestica, includendovi tutti quei luoghi destinati dal soggetto all’esplicazione della propria vita privata, professionale, culturale, politica al di fuori dell’altrui ingerenza. La
giurisprudenza ricomprende pacificamente tra tali luoghi anche i locali aperti al pubblico (ex pluribus Cass., Sez. V, 26 ottobre 1983, Lo Giudice, in Cass. pen., 1985, 119). Quanto infine
alle appartenenze, si definiscono tali tutti i luoghi dipendenti,
accessori, al servizio dell’abitazione o degli altri luoghi di privata dimora che ne agevolano il godimento o il servizio, anche
se non materialmente uniti né immediatamente comunicanti.
Tra i tanti: cortili, pianerottoli, box (ex pluribus Cass., Sez. VI, 5
novembre 1990, Deagustini, ivi, 1991, II, 952). Per una trattazione più completa si rinvia a Magri, Commento all’art. 614, in
Dolcini-Marinucci, Codice penale commentato, III ed., Milano,
2011, 5950 ss.
(17) Il richiamo all’art. 615 bis c.p. viene giustificato sulla
base di una interpretazione che individua il bene giuridico tutelato dalla norma penale nel diritto alla segretezza, alla riservatezza, alla privacy nei luoghi di privata dimora. Parte della dottrina, peraltro, evidenzia che i concetti giurisprudenziali elaborati per definire i luoghi di privata dimora e le sue appartenenze ai sensi dell’art. 614 c.p. non possono essere semplicemente recepiti nell’art. 615 bis c.p., stante la diversità oggettiva
delle due fattispecie di reato; per maggiori approfondimenti
sul punto Magri, Commento all’art. 615 bis, in Dolcini-Marinucci, op. cit., 5968 ss.
(18) È il caso, emblematico, della toilette del locale pubblico: costante giurisprudenza continua ad escludere che rientri
nel novero dei luoghi di privata dimora di cui all’art. 614 c.p.,
proprio in ragione dell’assenza di un minimo grado di stabilità
con la persona; tra le molte Cass., Sez. VI, 10 gennaio 2003,
C.A., in Cass. pen., 2004, 2922.
(19) Critico sulla soluzione interpretativa elaborata dalle Sezioni Unite, Marinelli, Le videoriprese cit., 1571 s., che evidenzia come l’eccessiva valorizzazione attribuita dalla Cassazione
al luogo di esecuzione delle operazioni ai fini qualificatori, unitamente alla sottovalutazione della tematica connessa alla illiceità ed incostituzionalità della prova, abbia creato ulteriori
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Giurisprudenza
Processo penale
rientrando nel novero dei luoghi protetti dall’art.
14 Cost., esigono un livello minimo di garanzie
(un provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria (20)), proprio perché coinvolgono il diritto alla
riservatezza (21). In questa prospettiva forte è il richiamo alle disposizioni sovranazionali (art. 8
Conv. eu. dir. umani ed art. 17 Patto int. dir. civ.
pol.), sia quale parametro integrativo del principio
di matrice costituzionale di cui all’art. 2 Cost., sia
quale autonoma fonte di diritti fondamentali (per
il tramite dell’art. 117 Cost.).
L’una e l’altra tesi difensiva giungono, per vie diverse, alla medesima sanzione processuale: l’inutilizzabilità delle videoriprese disposte d’ufficio dalla
polizia giudiziaria nel caso di specie. Vuoi, indirettamente, come conseguenza della inammissibilità
tout court derivante dal fatto che l’ufficio Internal
Auditing di Poste S.p.a. deve essere ricondotto ai
luoghi domiciliari tutelati dall’art. 14 Cost; vuoi,
in via diretta, per la necessità di una preventiva
autorizzazione giudiziale, trattandosi di luogo “riservato”.
La diversa posizione della giurisprudenza di
legittimità
Le impostazioni difensive vengono puntualmente smentite dalla Cassazione, che - richiamando la
problematiche anziché semplificare. Conti, Le video-riprese tra
prova atipica e prova incostituzionale: le sezioni unite elaborano
la categoria dei luoghi “riservati”, in questa Rivista, 2006, 1359,
ritiene che le Sezioni Unite, con la soluzione in oggetto, abbiano effettuato la migliore mediazione possibile tra le esigenze
del sistema e quelle della prassi, mutuando in via analogica
l’interpretazione consolidata in giurisprudenza in tema di acquisizione dei tabulati telefonici; tra le altre Corte cost.,
81/1993, cit.; Corte cost. 7-17 luglio 1998, n. 281, B.R.; Cass.,
Sez. Un., 23 febbraio 2000, D’Amuri, in Giur. it., 2001, 1701.
(20) Le Sezioni Unite individuano altresì i requisiti del provvedimento motivato, che può essere emanato anche dal Pubblico Ministero ed anche in assenza di una base indiziaria particolarmente grave, purché sia motivato in modo “congruo” e
rechi indicazione dello scopo per cui le videoriprese vengono
disposte (individuando gli elementi probatori che si vogliono
acquisire).
(21) Resta irrisolto il problema di trovare un referente costituzionale a tale riserva di giurisdizione. Le Sezioni Unite, infatti,
mutuano in via analogica la necessità del provvedimento giudiziale dalle discipline tipiche di ispezioni, sequestri, perquisizioni, intercettazioni. Manca però nel caso delle videoriprese di
comportamenti non comunicativi la fonte normativa di rango
costituzionale che fornisca una copertura al potere giurisdizionale ovvero una eadem ratio che giustifichi l’applicazione analogica. Non è applicabile da un lato l’art. 14 Cost. (non trattandosi di domicilio); non è invocabile per contro l’art. 15 Cost.
(non avendo i comportamenti oggetto di osservazione un contenuto comunicativo). Per approfondimenti si rinvia a Camon,
Le sezioni unite cit., 1566 s., che conclude osservando che
«l’affermazione secondo la quale per comprimere il diritto alla
riservatezza è necessario un provvedimento motivato dell’au-
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giurisprudenza di legittimità ormai consolidata sul
punto - censura le argomentazioni dei ricorrenti e
conclude per l’esclusione del luogo di lavoro sia
dai c.d. “luoghi domiciliari” sia dai luoghi “protetti
o riservati” (22). In via preliminare, la Suprema
Corte corregge la Corte d’appello, laddove aveva
attribuito efficacia determinante per l’individuazione della disciplina applicabile al luogo in cui era
stata installata la videocamera. La Cassazione, al
contrario, evidenzia che l’intrusione nella sfera privata deve essere valutata con esclusivo riferimento
al luogo in cui viene tenuto il comportamento oggetto di captazione, essendo del tutto irrilevante
dove sia stata posizionata la videocamera (23).Il
percorso argomentativo della sentenza in commento procede per esclusione. In primis, l’ufficio oggetto di videoriprese nel caso di specie non può rientrare tra i cd luoghi “domiciliari” tutelati dall’art.
14 Cost. Se, infatti, è vero che astrattamente all’interno di tale categoria dogmatica può ben essere
ricompreso anche il luogo di lavoro, ciò non toglie
che affinché si possa invocare la massima tutela (di
inammissibilità tout court di videoriprese) devono
sussistere i requisiti fondamentali elaborati dalla
giurisprudenza penale in relazione all’art. 614 c.p.:
l’impiego del luogo per svolgervi attività private; il
diritto di escludere gli altri; il rapporto di stabilità
con l’individuo (24). Come posto in evidenza dalla
torità giudiziaria non sembra quindi dimostrata».
(22) L’orientamento della giurisprudenza sul punto si consolida già subito dopo le Sezioni Unite nel caso “Prisco”. In un
caso che presenta significative analogie fattuali con la sentenza in commento, la Cassazione stabilisce che «ai fini della legittimità delle videoriprese eseguite dalla polizia giudiziaria e
aventi ad oggetto atti d’indagine irripetibili, la nozione di “domicilio” deve essere restrittivamente intesa come luogo di privata dimora. Ne consegue che tale non è il luogo dove l’indagato esercita la propria attività lavorativa, e sono pertanto legittime le videoriprese di tale luogo, effettuate con una telecamera installata sulla via pubblica»; così Cass., Sez. I, 25 ottobre 2006, Arcione, in Dir. e Giust., 2006, f. 45, 72 ss. con nota
di De Falco, Sulle videoregistrazioni più ombre che luci. Non basta il dictum delle Sezioni unite; nonché in Cass. pen., 2007,
4641 ss., con nota di Marinelli, Videoriprese in luoghi aperti al
pubblico dopo la pronuncia delle Sezioni Unite.
(23) È opinione consolidata che la garanzia di inviolabilità
del domicilio così come tutelata dalla fonte costituzionale fornisce una protezione indipendente dalla violazione del perimetro protetto, operante pertanto anche laddove l’immagine venga carpita dall’esterno, rilevando solo il fatto che il comportamento ripreso sia svolto con modalità tali da renderlo inaccessibile a terzi; così Camon, Le riprese visive cit., 1211 s. Già sul
punto in giurisprudenza Cass., Sez. I, 25 ottobre 2006, Arcione
ed a., cit.
(24) Con una ulteriore precisazione da compiere: l’ombrello
di tutela non opera nel caso di consenso della persona offesa
che ha la disponibilità del luogo in cui vengono svolte le riprese; così Cass., Sez. II, 13 dicembre 2007, N., in Cass. pen.,
2009, 1156.
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Processo penale
Cassazione, per contro, il locale videoripreso non
presenta i caratteri propri dell’ufficio “privato”: si
tratta di un atrio comune e non della sede di lavoro esclusiva di un singolo soggetto (la Corte opera
un parallelo con le parti comuni dell’edificio condominiale) ed inoltre non vi è un autonomo diritto in capo ai dipendenti di precludere l’ingresso a
terzi. Peraltro, anche ammettendo - come suggerito
dalle difese - che l’atrio dell’ufficio sia un luogo
“domiciliare”, l’evoluzione giurisprudenziale non
lascerebbe comunque spazi alla tesi dell’inammissibilità. Come precisato dalla Consulta, infatti, «affinché scatti la protezione dell’art. 14 Cost., non
basta che un certo comportamento venga tenuto
in luoghi di privata dimora; ma occorre altresì che
esso avvenga in condizioni tali da renderlo tendenzialmente non visibile a terzi» (25). Non così nel
caso di specie, dove evidentemente la condotta degli imputati -posta in essere nell’atrio dell’ufficio
ed in orario di ingresso anche degli altri dipendenti- è priva di particolari accorgimenti ed immediatamente percepibile da chiunque.
La Cassazione smentisce anche il secondo assunto difensivo, escludendo che il luogo videoripreso
possa rientrare nel novero dei luoghi “riservati”,
cui le Sezioni Unite nel caso “Prisco” attribuiscono
un livello minimo di garanzie. Sul punto, è necessario evidenziare che proprio i precedenti giurisprudenziali hanno attribuito rilievo determinante al
rapporto funzionale con l’individuo: deve trattarsi
di uno spazio in cui il singolo, anche solo temporaneamente, ha la facoltà di escludere la presenza di
altri in ragione di un diritto alla riservatezza. Peculiarità che pare totalmente assente in relazione all’atrio dell’ufficio di Poste S.p.A. Infine, per quanto concerne il richiamo all’art. 4 dello Statuto dei
Lavoratori (nonché all’art. 114 del Codice della
Privacy), puntuale ed ineccepibile è la posizione
espressa dalla Suprema Corte: citando un orientamento pacifico della giurisprudenza civile, si ribadisce che il divieto di video-riprendere l’attività la-
vorativa non impedisce la predisposizione di forme
di controllo (anche da parte del datore di lavoro,
anche nelle forme della videoripresa) laddove siano finalizzate a difendere l’impresa da specifiche
condotte illecite del lavoratore (26). Pertanto, non
è ricavabile dal combinato disposto delle disposizioni normative sopra citate alcun divieto probatorio in sede penale (27).
In via residuale, deve applicarsi al caso di specie
la disciplina prevista per i luoghi pubblici, in relazione ai quali non è configurabile alcuna aspettativa di riservatezza con riferimento alle immagini. In
questi casi, le videoriprese possono esser liberamente disposte anche dalla polizia giudiziaria di
propria iniziativa, sono utilizzabili come prove atipiche se disposte nel corso delle indagini preliminari, documentando attività investigative non ripetibili possono essere allegate al relativo verbale e
inserite nel fascicolo per il dibattimento (28). Conclude la Corte, nella sentenza in commento, enunciando il seguente principio di diritto: «sono utilizzabili le videoriprese effettuate dalla polizia giudiziaria, in assenza di preventiva autorizzazione del
giudice, nell’area riservata all’ingresso dei dipendenti di un ufficio postale, ove si trovi l’orologio
marcatempo delle presenze giornaliere». Come già
anticipato, tuttavia, è proprio l’evocazione della
categoria dogmatica della prova atipica a presentare profili problematici rimasti inespressi (e quindi
irrisolti), tanto nella costante interpretazione della
giurisprudenza, quanto nella risoluzione del caso di
specie.
(25) Così Corte cost., 16 maggio 2008, n. 149, A.G. ed a.,
in Cass. pen., 2008, 4109 ss.; nonché in Giur. cost., 2008, 1844
con note di Lamarque, Le videoriprese di comportamenti non
comunicativi all’interno del domicilio: una sentenza di inammissibilità esemplare in materia di diritti fondamentali; e di Caprioli,
Nuovamente al vaglio della Corte costituzionale l’uso investigativo degli strumenti di ripresa visiva.
(26) Da ultimo, Cass. civ., Sez. Lav., 23 febbraio 2012, B.A.
c. Unicredit S.p.a., in C.E.D. Cass., n. 621115.
(27) Nel senso della utilizzabilità delle riprese video effettuate con telecamere all’interno dei luoghi di lavoro ai fini della
verifica di comportamenti infedeli tenuti dai lavoratori, si veda
Cass., Sez. V, 18 marzo 2010, in C.E.D. Cass., n. 247588.
(28) Secondo le Sezioni Unite nel caso “Prisco”, infatti, il ri-
chiamo alla disciplina della prova atipica deve essere letto in
combinato disposto con quanto stabilito dall’art. 134 comma
4 c.p.p., che ammette espressamente che alla verbalizzazione
tradizionale possa aggiungersi la riproduzione audiovisiva. Se
ne deduce che la videoripresa costituisce un elemento integrativo del verbale di polizia, che descrive lo svolgimento dell’attività investigativa ed il contesto spazio-temporale; come tale,
ben può qualificarsi come atto irripetibile pertanto destinato
ad essere collocato nel fascicolo per il dibattimento. Conforme, in giurisprudenza, Cass., Sez. II, 26 marzo 1997, Baldini,
in Cass. Pen., 1999, 249 ss.; in dottrina, Camon, Le riprese visive cit., 1196 s.
(29) Questa definizione è stata sviluppata, tra gli altri, da
Nobili, Commento all’art. 189, in Chiavario, Commento al nuovo
Diritto penale e processo 6/2014
Prova atipica, mezzi di ricerca della prova e
videoriprese di comportamenti non
comunicativi
Si definisce prova atipica ogni mezzo di prova
che non è disciplinato dalla legge e che si riferisce
ad una fonte del convincimento giudiziale che non
è stata prevista perché imprevedibile (29). La disci-
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Giurisprudenza
Processo penale
plina della prova atipica nel processo penale muove direttamente dal principio di legalità (ai sensi
dell’art. 190 c.p.p. il giudice esclude le prove vietate dalla legge che, se acquisite in violazione dei divieti legali, non possono comunque essere utilizzate
ex art. 191 c.p.p.) e si sviluppa lungo due direttrici
principali: da un lato, l’individuazione della disposizione normativa che apre l’ordinamento processuale penale alla prova atipica, tracciando i presupposti, i tempi e le modalità con i quali è consentita
la ricostruzione del fatto con mezzi di prova in tutto o in parte non tipici; dall’altro lato, la definizione del regime di ammissibilità e utilizzabilità. La
scelta del codice del 1988, espressa nell’art. 189
c.p.p., è andata nella direzione del superamento
del principio di tassatività dei mezzi di prova (30),
escludendo preclusioni aprioristiche ed assegnando
un ruolo centrale al vaglio preliminare compiuto
dal giudice (31). Chiaro l’intento del legislatore:
conferire elasticità alla disciplina probatoria per
consentirne l’allineamento ai prevedibili sviluppi
tecnologici in ordine alle metodologie di accertamento dei fatti (32). Da un lato, è ferma la prelimi-
nare esigenza del rispetto dei divieti stabiliti dalla
legge, i cui confini applicativi sono però alquanto
incerti (33). Dall’altro lato, spetta al giudice valutare le condizioni di ammissibilità della prova atipica, con una evidente ratio ispiratrice: garantire la
genuinità ed affidabilità del metodo di acquisizione
e, per questo tramite, del risultato acquisito. Infatti, con riguardo alle prove tipiche, la genuinità del
metodo è assicurata dalla specifica e dettagliata disciplina legislativa, che prende in considerazione e
bilancia tra loro i diversi interessi e diritti fondamentali coinvolti. La prova atipica, al contrario,
presenta peculiari difficoltà: di metodo, nel definire
a priori i comuni presupposti di ammissione di mezzi di prova (e di mezzi di ricerca della prova) tra loro eterogenei e non altrimenti tipizzabili; di merito,
nel dover garantire l’infungibilità tra mezzi probatori, al chiaro scopo di evitare la strumentalizzazione di prove atipiche per eludere specifici divieti
probatori tipici (34). Nella pratica, la disciplina legislativa della prova atipica ha demandato in capo
al giudice una libertà «a carattere limitato» (35),
che si sostanzia nella valutazione del rispetto di
codice di procedura penale, II, Torino, 397 ss. Non rilevano ai
nostri fini le altre accezioni di prova atipica elaborate in dottrina: prova innominata (la prova che consente di ottenere un
elemento diverso da quelli perseguibili mediante i mezzi di prova tipici) (Cavini, Il riconoscimento informale di persone o di cose come mezzo di prova atipico, in Dir. pen. proc., 1997, 837);
prova irrituale in senso stretto (il mezzo di prova che, pur non
rientrando nel catalogo legale, mira ad ottenere elementi probatori tipici) (Nobili, op. cit., 398); prova irrituale per anomalia
(il mezzo di prova tipico utilizzato per acquisire elementi alla
cui formazione è preordinato un altro mezzo di prova anch’esso tipico) (Cavini, op. cit., 838).
(30) Il principio di tassatività era invece codificato nel progetto preliminare del 1978, in evidente contrasto con la tradizione legislativa italiana. Per una dettagliata analisi dei lavori
preparatori e della Relazione al Progetto preliminare del 1978
si rinvia a Dominioni, La prova penale scientifica: gli strumenti
scientifico-tecnici nuovi o controversi e di elevata specializzazione, Milano, 2005, 85 ss.
(31) Così Nappi, Commento all’art. 189, in Lattanzi-Lupo,
Codice di procedura penale, vol. III, Milano, 2003, 4 s.; nonché
Cordero, Procedura penale, Milano, VI ed., 202. Sul punto, altresì, Grevi, Prove, in Conso-Grevi, Compendio di procedura penale, Padova, V ed., 306, evidenzia come il codice abbia operato una «scelta di natura dichiaratamente intermedia» tra due
estremi opposti: il criterio di tassatività da un lato, il criterio di
libertà delle prove dall’altro. Più categorico Rivello, Limiti al diritto alla prova, in Chiavario-Marzaduri, Le prove, I, Torino, 18
ss., che individua nella scelta del legislatore un «inequivoco ripudio del principio di tassatività dei mezzi di prova che era stato prospettato dall’art. 179 del progetto del 1978». Nel panorama dottrinale antecedente l’entrata in vigore del codice del
1988 si veda altresì Chiavario, Processo e garanzie della persona, II, Milano, 1984, 111 s., il quale da un lato sottolineava il rischio che l’abbandono del principio di tassatività comportasse
aggiramenti degli scopi perseguiti dalla legge con la descrizione di «figure tipiche di prova»; dall’altro lato, però, evidenziava
anche l’esigenza di «non lasciare sguarnita la macchina processuale di fronte a situazioni od a tecniche non pensabili dal
legislatore nel momento della descrizione delle figure legali di
prova».
(32) Così Rivello, loc. cit., 18, che cita, tra le prime ipotesi
problematiche, proprio quella della videoregistrazione concernente la commissione del reato da parte dell’imputato. Bernasconi, La ricognizione di persona nel processo penale. Struttura
e procedimento probatorio, Torino, 2003, 201, individua nella
scelta del legislatore la volontà di «scongiurare il rischio di soluzioni di continuità tra i progressi nel campo del sapere scientifico-tecnologico e l’elaborazione probatoria». Sul punto si veda anche Persico, Rilievo probatorio delle immagini provenienti
dagli impianti di videoregistrazione, in Giust. Pen., 1993, III, 507
ss. Dominioni, op. cit., 84, chiarisce che mentre lo strumento
scientifico esula dalla normazione legale e fonda il proprio statuto esclusivamente nelle regole della scienza e della tecnica,
il fenomeno della tipicità-atipicità probatoria ripete il suo regime dalle statuizioni legislative.
(33) Dominioni, op. cit., 89 ss., da conto dell’esigenza che
la categoria delle prove atipiche lecite deve essere precisamente definita, specificando se debbano essere escluse soltanto quelle ipotesi contraddistinte da una espressa previsione
di invalidità (nullità o inutilizzabilità) ovvero il catalogo vada
esteso anche a mezzi di prova non attinti da alcuna sanzione.
L’A., peraltro, critica l’assunto secondo il quale la fonte normativa della legittimazione delle prove atipiche sarebbe da individuare nell’art. 189 c.p.p. La problematica coinvolge il rapporto
tra prove incostituzionali e prove illecite ed è direttamente condizionata dalla interpretazione del richiamo alla “legge” di cui
all’incipit dell’art. 189 c.p.p.; sul punto ci si soffermerà, più nel
dettaglio, nel paragrafo conclusivo del presente commento.
(34) Una sorta di “truffa delle etichette”; così tra gli altri Nobili, Commento all’art. 190, op. cit., 399; Bernasconi, op. cit.,
195. Concorda sul punto la giurisprudenza di legittimità, che
ha evidenziato il carattere residuale delle prove atipiche, censurandone l’ammissione ogni qualvolta la parte richiedente abbia la possibilità di ottenere il medesimo risultato probatorio
attraverso l’assunzione di una prova tipica; così Cass., Sez. VI,
24 febbraio 2003, Ventre, in Riv. pen., 2004, 254.
(35) L’espressione è ripresa da Bernasconi, op. cit., 202.
746
Diritto penale e processo 6/2014
Giurisprudenza
Processo penale
due condizioni sostanziali di ammissibilità e di un
presupposto di natura processuale: l’idoneità in
astratto all’accertamento del fatto; il rispetto della
libertà morale della persona sottoposta all’acquisizione probatoria (36); lo svolgimento di un contradditorio anticipato in merito alle modalità di assunzione della prova (37).
Questa disciplina è costruita per veicolare l’acquisizione nel giudizio penale di mezzi di prova atipici. Infatti, dei mezzi di prova richiama la caratteristica peculiare: l’assunzione dinanzi ad un giudice
nel contraddittorio tra le parti. Deve, allora, risolversi un interrogativo preliminare: se la disposizione di cui all’art. 189 c.p.p. per l’assunzione delle
prove non disciplinate dalla legge sia applicabile
anche ai mezzi di ricerca della prova. In senso affermativo la maggioritaria dottrina, che valorizza la
collocazione sistematica del dato normativo tra le
disposizioni generali del Libro III quale indice dell’applicabilità generalizzata della disciplina tanto ai
mezzi di prova quanto ai mezzi di ricerca della pro-
va (38). Seguendo questo orientamento, può sostenersi la configurabilità di mezzi atipici di ricerca
della prova solo a condizione di adottare una interpretazione correttiva (o adeguatrice) dell’art. 189
c.p.p., che segni il passaggio da un (impossibile)
contraddittorio anticipato sulla ammissione ad un
contraddittorio successivo sulla ammissibilità degli
elementi acquisiti (39).
Quanto detto vale con riguardo alla specifica
ipotesi delle videoriprese di comportamenti non
comunicativi. Si evidenzia in primo luogo che tale
mezzo (atipico) di ricerca della prova mutua molti
dei suoi tratti essenziali (di metodologia di accertamento del fatto, non di garanzie né di controlli
giurisdizionali) dalla disciplina delle intercettazioni
ambientali. In questa ottica, pertanto, la valutazione giudiziale sull’idoneità in astratto all’accertamento dei fatti ben potrebbe restare assorbita dalla
valutazione legislativa operata sul mezzo (tipico) di
ricerca della prova di cui agli artt. 266 e seguenti
c.p.p. Per quanto concerne la seconda condizione
(36) Il richiamo, indiretto, è al divieto di cui all’art. 188
c.p.p. a tutela della libertà morale della persona in chiave oggettiva, indipendente dal consenso della stessa, quale valore
prioritario rispetto a quello dell’accertamento processuale; più
diffusamente sul punto Grevi, Prove cit., 308.
(37) Sul rapporto tra prova atipica e rispetto del principio
del contradditorio, la dottrina distingue tra contraddittorio circa le modalità di assunzione e contraddittorio in fase di assunzione. A commento del disposto dell’art. 189 c.p.p., Galantini,
Limiti e deroghe al contraddittorio nella formazione della prova,
in Cass. pen., 2002, 1842, parla di «contraddittorio relegato al
quomodo dell’assunzione». Nel senso di una interpretazione
costituzionalmente orientata dell’art. 189 c.p.p. anche in fase
di assunzione delle prove innominate, Bernasconi, op. cit., 207
ss., che evidenzia la necessità di una chiara distinzione fra il libero convincimento del giudice e le regole in tema di ammissione delle prove. L’A., nello specifico, precisa che elevare il
consenso delle parti a conditio sine qua non per l’acquisizione
della prova atipica è errato sia dal punto di vista dell’interpretazione letterale della norma (“sentite” le parti), sia in relazione
all’oggetto sul quale il contraddittorio deve svolgersi (le modalità di acquisizione e non l’ammissione che resta di esclusiva
competenza del giudice). In questa ottica non vi è spazio per
un recupero di garanzie in fase di valutazione tramite il richiamo al libero convincimento del giudice. Si rinvia inoltre a C.
Calubini, Il contraddittorio per le prove “affidate” al giudice, in
Quaderni brevi del dipartimento di scienze giuridiche. Università
degli studi di Brescia, Brescia, 2011, 59 ss., che sottolinea come l’art. 189 c.p.p. debba ritenersi direttamente integrato dal
disposto dell’art. 111 comma 4 Cost.; ne consegue, secondo
l’A., che «la modalità di assunzione concordata con le parti o
decisa discrezionalmente dal giudice (dopo la loro audizione)
deve consentire l’esercizio del rapporto dialettico nella sua
massima espressione, relegando il suo sacrificio ad ipotesi del
tutto eccezionali, rigorosamente selezionate e riconducibili ad
un’effettiva impossibilità oggettiva».
(38) Così Grevi, Prove cit., 299 s., che sottolinea come le disposizioni generali in tema di prove sono espressive di alcune
basilari scelte di civiltà giuridica che devono ritenersi applicabili anche nel corso delle indagini preliminari del pubblico ministero (e della polizia giudiziaria), se pure entro i limiti consentiti
dalla natura e dalla finalità delle stesse. Per quanto concerne
più nello specifico i mezzi di ricerca della prova, l’A. evidenzia
che, se così non fosse, si lascerebbe all’arbitrio degli organi inquirenti la determinazione dei “casi” e dei “modi” di svolgimento delle corrispondenti attività, con un duplice risvolto problematico: di possibile contrasto con la tutela di principi costituzionali (ed in particolare con gli artt. 13, 14, 15 Cost.); di diretta utilizzabilità per la formazione del convincimento del giudice, trattandosi di atti non ripetibili, ai sensi dell’art. 431 c.p.p.
Concordano, sul punto, Borrelli, Riprese filmate nel bagno di un
pubblico esercizio e garanzie costituzionali, in Cass. pen., 2001,
2446 s.; Nobili, Commento all’art. 189, op. cit., 398; nonché, da
ultimo, Tabasco, Prove non disciplinate dalla legge nel processo
penale, Napoli, 2011, 43 ss.
(39) Così in dottrina, tra gli altri, Galantini, L’inutilizzabilità
della prova nel processo penale, Padova, 1992, 213, manifesta
dubbi in merito alla possibilità di esperire un contraddittorio
sulle modalità dell’assunzione in relazione a mezzi di ricerca
della prova atipici e precostituiti nel corso delle indagini (“a
sorpresa”). Siracusano, Le Prove, in AA.VV., Diritto processuale
penale, Milano, 2006, 335 s., ammette una interpretazione elastica dell’art. 189 c.p.p. che consenta di spostare il momento
dialettico dalle modalità di assunzione alla utilizzabilità degli
elementi acquisiti. Infine, esprimono un giudizio di utilità sul
contraddittorio postumo Camon, Le riprese visive cit., 1195;
nonché Caprioli, op. cit., 2187 s., evidenziando che la discussione potrà avere ad oggetto lo strumento (perizia o mera riproduzione) tramite il quale veicolare le riprese nel processo
ovvero potrà consentire alle parti di approfondire le modalità
tecniche attraverso le quali sono state realizzate, nonché la loro idoneità ad assicurare l’accertamento dei fatti. Sempre con
specifico riguardo all’impossibilità di instaurare un contraddittorio anticipato, la giurisprudenza evidenzia come sia necessario valorizzare la distinzione tra il mezzo di ricerca della prova
(la ripresa visiva, il supporto sul quale sono fissate le immagini
riprese) e il mezzo di prova (lo strumento attraverso il quale si
acquisisce nel processo il contenuto rappresentativo del supporto): il contraddittorio previsto dall’art. 189 c.p.p. non concerne la ricerca della prova ma la sua assunzione ed interviene
dunque nel momento in cui il giudice è chiamato a decidere in
ordine alla sua ammissione; così Cass., Sez. Un., 28 marzo
2006, Prisco, cit.
Diritto penale e processo 6/2014
747
Giurisprudenza
Processo penale
sostanziale di ammissibilità, non pare invece che
né la preordinazione funzionale (registrare e conservare immagini di persone) né le modalità esecutive delle videoriprese generino interrelazioni problematiche con il rispetto della libertà morale (40).
Restano però irrisolti due profili. Da un lato, è evidente che proprio per il tipo (mezzo di ricerca della
prova), le modalità ed i tempi di acquisizione (solitamente, nel corso delle indagini preliminari), le
videoriprese di comportamenti non comunicativi
sono mezzo di prova “a sorpresa”, di per sé incompatibile con lo svolgimento di un contraddittorio
anticipato sulle modalità di assunzione, ponendosi
quindi in rapporto di contrasto ontologico con la
disciplina di cui all’art. 189 c.p.p. Dall’altro lato,
proprio l’assenza di un bilanciamento svolto a priori
dal legislatore, impone di individuare in via interpretativa il punto di equilibrio tra esigenze investigative e rispetto dei diritti fondamentali tutelati
dalla Carta costituzionale.
I limiti della soluzione giurisprudenziale
L’interpretazione della giurisprudenza in tema
di video registrazione di comportamenti non comunicativi ha generato una casistica variegata di
soluzioni non suscettibili di precisa catalogazione.
Ed invero, proprio in quanto operazione ermeneutica, questa soluzione non è dotata di stabilità e
presta il fianco al rischio di letture “discriminatorie” ovvero teleologicamente orientate a seconda
delle finalità di volta in volta percepite come prevalenti. È il caso, per esempio, del concetto di domicilio, che ha visto una estensione applicativa in
sede di tutela penale sostanziale, mentre, al con(40) Sul punto Carli, op. cit., 43 s., pone in evidenza che tale
tecnica investigativa non può reputarsi in alcun modo lesiva
della normale attitudine della persona ad autodeterminarsi né
ad esercitare le proprie ordinarie facoltà mnemoniche o valutative.
(41) L’osservazione, sviluppata da Camon, Le sezioni unite
cit., 1565, è ripresa da Capitta, Captazioni audiovisive eseguite
nel bagno di un locale pubblico, in Cass. pen., 2005, 2656. Concorda Conti, op. cit., 1355 s., che evidenzia come proprio lo
spostamento del problema sulla qualificazione dei luoghi oggetto di ripresa ha generato un trend in giurisprudenza che,
pur senza smentire espressamente il dictum della Corte costituzionale, ha ritenuto utilizzabili le videoriprese effettuate d’iniziativa dalla polizia giudiziaria per il tramite di una interpretazione restrittiva del concetto di domicilio.
(42) Tra le ipotesi problematiche, il caso dell’abitacolo dell’autovettura, in relazione al quale la giurisprudenza maggioritaria ha sempre escluso la riconducibilità al domicilio, valorizzando la finalità principale di mezzo di locomozione, che ben
può rientrare ora nella categoria dei luoghi “riservati”. Da ultimo, Cass., Sez. I, 24 febbraio 2009, M.B., in Cass. pen., 2010,
2798, pone in evidenza l’inidoneità dell’abitacolo, per sua stessa struttura, conformazione e destinazione, a consentire ad
748
trario, risente -in via processuale- di maggiore rigore interpretativo, proprio per evitare eccessive
limitazioni allo svolgimento di indagini (41). È il
caso, altresì, degli incerti confini della distinzione
tra domicilio e luogo “riservato” (42). Ed ancora,
della differenza tra comportamenti comunicativi e
comportamenti non comunicativi, che si presenta
in sé difficile ed incerta, e, tradotta nella prassi
applicativa, tradisce frequentemente una distrazione dai fini per i quali era stata introdotta (43).
Ne consegue, quale ulteriore corollario, il dubbio
che per via giurisprudenziale si riesca ad ottenere
l’effettiva realizzazione di un bilanciamento adeguato e proporzionato tra attività d’indagine e diritti fondamentali coinvolti.
Inoltre, non convince fino in fondo neppure lo
strumento processuale individuato per veicolare
l’acquisizione in dibattimento delle risultanze probatorie. Sulla base di una lettura (non meramente
letterale) dell’art. 431, lett. b, c.p.p., coordinata
con l’art. 134, comma 4, c.p.p., si riconducono le
immagini ottenute tramite videoriprese investigative ad elemento integrativo del verbale e, come tali, introdotte di diritto nel fascicolo del dibattimento (44). Tuttavia, l’inserimento nel fascicolo
non avrebbe di per sé l’effetto di attribuire alla videoregistrazione valore probatorio, essendo comunque necessario un preventivo vaglio di ammissibilità da parte del giudice, sentite le parti ex art. 189
c.p.p. Ma, come già sopra evidenziato, la stessa natura del mezzo di ricerca della prova condiziona
inevitabilmente il contraddittorio tra le parti: da
un lato non subordinando la valutazione giudiziale
di ammissibilità della prova ad un vero e proprio
una persona di risiedervi per un apprezzabile lasso di tempo.
Per una rassegna delle ipotesi dibattute in giurisprudenza si
rinvia a Filippi, L’home watching: documento, prova atipica o
prova incostituzionale?, in questa Rivista, 2001, 92 ss.
(43) Così Camon, Le sezioni unite cit., 1568 s. Conti, op. cit.,
1361, pone in evidenza che il discrimen tra comportamenti comunicativi e non comunicativi lascia spazio a zone grigie (quali, per esempio, i gesti e le parole non rivolti ad alcuno ma comunque portatori di un contenuto di pensiero). Il nodo problematico fondamentale resta quello della impossibilità di differenziare ex ante la ripresa dei diversi tipi di comportamenti,
con una significativa conseguenza: in assenza di una disciplina
legislativa ad hoc, l’unica tutela configurabile resta quella della
distruzione ex post (a lesione ormai consumata) delle videoriprese assunte in violazione dei diritti fondamentali. Sul punto,
non si può non concordare con l’A., laddove sottolinea che
«un diritto inviolabile non si protegge consentendo la violazione e successivamente estromettendo dal processo il risultato
della stessa; il diritto si garantisce vietando ex ante tale violazione».
(44) Per una attenta disanima critica, si rinvia a Camon, Le
sezioni unite cit., 1557 ss.
Diritto penale e processo 6/2014
Giurisprudenza
Processo penale
consenso (né potendo essere altrimenti, in quanto
il giudizio di ammissibilità resta esercizio di un potere di competenza esclusiva del giudice); dall’altro
lato, potendo avere ad oggetto soltanto le modalità
(mera riproduzione o perizia (45)) con cui la prova
precostituita viene veicolata nel dibattimento.
Il problema centrale resta però quello della sanzione di inutilizzabilità di cui all’art. 191 c.p.p. che,
secondo la soluzione giurisprudenziale, riguarderebbe solo la violazione di regole di rango costituzionale e pertanto sarebbe applicabile soltanto alle prove
tipiche e non già a quelle atipiche. L’intento delle
Sezioni Unite nel caso “Prisco” nel proporre tale
opzione ermeneutica, a suo tempo, era nobile: superare il contrasto interpretativo tra norme incostituzionali e norme illecite. Nella prassi, tuttavia, tale
impostazione non convince. Assunto di partenza è
quello per cui, prima dell’ammissione, le prove atipiche non sono prove; pertanto, in caso di insorgenza di una questione di illegittimità delle attività
compiute per acquisire i materiali probatori, l’attenzione dovrebbe focalizzarsi sull’ammissibilità in sé e
non sulla utilizzabilità dei risultati ottenuti. L’inammissibilità di una prova atipica basata su una attività che la Costituzione vieta sarebbe perciò ricavabile in via diretta dal combinato disposto degli artt.
189 e 190 c.p.p. e 14 Cost., senza necessità di chiamare in causa la sanzione dell’inutilizzabilità di cui
all’art. 191 c.p.p. (46).
Nel tentativo di compensare le debolezze di
questo schema argomentativo, la dottrina propone
diverse soluzioni interpretative, nessuna delle
quali, tuttavia, pare idonea a supplire alla necessità di un intervento legislativo sul punto (47). Risulta evidente l’insufficienza dell’attuale quadro
normativo a fornire idonea fonte per la sanzione
di inutilizzabilità delle riprese di tipo non comunicativo. Delle due l’una: o si ritiene la diretta operatività dei precetti di rango costituzionale (e
quindi prove vietate dalla legge ex art. 191 c.p.p.
sono anche le prove incostituzionali); ovvero è
necessaria la mediazione legislativa (peraltro prevista dalle stesse norme sovraordinate nella forma
della riserva di legge ed auspicata dalla stessa Corte costituzionale (48)). Nel primo caso, la tutela
dei diritti costituzionali e l’individuazione di un
punto di equilibrio con le esigenze investigative
potrebbe essere ricavata in sede interpretativa dai
giudici, prestando però il fianco alle critiche già
sopra evidenziate (49). Pare quindi che anche l’individuazione di un referente costituzionale alla tutela della riservatezza e l’evocazione della categoria della prova illecita non siano di per sé sufficienti a colmare la lacuna legislativa. Se è vero
che ha carattere illecito solo una condotta in contrasto con un enunciato normativo, l’atipicità del
mezzo di ricerca della prova non consente di rinvenire nel sistema processuale una disciplina idonea a limitarne l’impiego entro limiti compatibili
con il testo costituzionale. Il parametro di liceità
andrà allora ricercato direttamente nelle norme
sulle indebite intrusioni nel domicilio ovvero nelle previsioni della Carta costituzionale poste a sua
tutela. Con una ulteriore problematica correlata,
(45) Per una interessante analisi del rapporto tra prova atipica e perizia si rinvia a Dominioni, op. cit., 108, che evidenzia
in particolare come “l’idoneità ad assicurare l’accertamento
dei fatti” e “le specifiche competenze” sono due entità distinte: la prima inerisce allo strumento probatorio e trova referente
normativo nell’art. 189 c.p.p.; la seconda coinvolge la fonte
materiale, il soggetto che si qualifica come esperto, ed è prevista dall’art. 220 c.p.p. Le due norme non sono tra loro in rapporto di alternatività ma si sommano nel disciplinare il giudizio
di ammissibilità.
(46) Di Bitonto, op. cit., 3952 ss., giudica meramente apparente il superamento della teoria delle prove incostituzionali
posto in essere in via interpretativa dalle Sezioni Unite nel caso
“Prisco”. Esclude che dalle norme costituzionali siano ricavabili divieti probatori direttamente operanti, Galantini, L’inutilizzabilità cit., 204 ss., ritenendo superata la validità del sistema
delle cd “prove incostituzionali” proprio alla luce dell’impianto
probatorio costruito con il codice del 1988, che segna una distinzione tra le sanzioni processuali (rispettivamente nullità o
inutilizzabilità) a seconda che il vizio inficiante l’atto probatorio
verta sull’an dell’assunzione ovvero sul quomodo dell’ammissione.
(47) Marinelli, Le videoriprese cit., 1577 s., propone di distinguere tra il mezzo di ricerca della prova (la videoripresa)
della quale valutare l’ammissibilità dal prodotto (la registrazione) per la quale si porrebbe invece un problema di utilizzabilità.
Lo stesso A., tuttavia, evidenzia la natura artificiosa e contro-
producente di tale distinzione (richiamando, peraltro, le riserve
già sopra esposte in tema prova documentale atipica). Conti,
op. cit., 1358 s. suggerisce una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 189 c.p.p. che precluda l’ingresso
processuale (sub specie di inutilizzabilità) di prove atipiche lesive dei diritti fondamentali proprio perché la disposizione codicistica non prevede in sé un punto di equilibrio con gli interessi
pubblici coinvolti.
(48) In Corte cost., 135/2002, cit., i giudici della Consulta
sottolineavano che «l’ipotesi della videoregistrazione che non
abbia carattere di intercettazione di comunicazioni potrebbe
perciò essere disciplinata soltanto dal legislatore, nel rispetto
delle garanzie costituzionali dell’art. 14 Cost.; ferma restando,
per l’importanza e la delicatezza degli interessi coinvolti, l’opportunità di un riesame complessivo della materia da parte del
legislatore stesso».
(49) Si evidenzia in dottrina che il rischio di un ritorno al libero convincimento in funzione attuativa di regole acquisitive
non è assente nemmeno nel ricorso alla categoria dogmatica
di cui all’art. 189 c.p.p. Infatti, gli eventuali divieti stabiliti dal
giudice in sede di ammissione e fissazione delle modalità di
assunzione non possono identificarsi, neppure in via mediata,
con le regole di esclusione di fonte legislativa cui fa riferimento
l’art. 191 c.p.p. Se così non fosse si ammetterebbe l’indebito
passaggio da una legalità ex lege ad una legalità ex judice; così
Galantini, Inutilizzabilità della prova e diritto vivente, in Riv. it.
dir. pen. proc., 2012, 64 ss.
Diritto penale e processo 6/2014
749
Giurisprudenza
Processo penale
nello specifico, alla tutela della riservatezza: la
rintracciabilità di un referente costituzionale nell’art. 2 Cost., stante la sua previsione generica (a
differenza degli artt. 13, 14 e 15 Cost., per libera
scelta del Costituente che ha predisposto un sistema a tutele non omogenee), non contiene una riserva di legge né alcun riferimento a provvedimenti motivati dell’autorità giudiziaria. Ma, allora, non sarebbe rintracciabile alcun vincolo normativo che imponga l’obbligo del provvedimento
motivato del giudice nel caso di videoriprese nei
luoghi “riservati”.
Concludendo, così come per la prova atipica,
pare che nemmeno il ricorso alla categoria delle cd
prove incostituzionali sia strumento idoneo a superare le critiche. Si condivide, pertanto, l’auspicio
espresso dalla maggioritaria dottrina: la necessità di
un intervento del legislatore (50) che individui
con precisione il punto di equilibrio tra l’esigenza di consentire l’efficace svolgimento delle indagini
e la necessità di garantire il rispetto dei diritti fondamentali dell’individuo da indebite ingerenze dell’autorità.
(50) Per una panoramica dei progetti di legge di iniziativa
parlamentare si rinvia a Tabasco, op. cit., 160 ss.
750
Diritto penale e processo 6/2014
Opinione
Diritto penale
Colpa
Causalità e colpa: una costante
ed indebita sovrapposizione
di Donato D’Auria (*)
L’Autore affronta uno dei temi più attuali della giustizia penale, quello dei rapporti tra causalità e colpa,
partendo dall’analisi della recente giurisprudenza, di carattere chiaroscurale, in tema di colpa stradale ed
infortuni sul lavoro. Proprio in questi settori, infatti, si è assistito non di rado ad una indebita sovrapposizione di due piani, quello oggettivo (sub specie dell’eccezionalità della condotta) e quello colposo (sub
specie dell’imprevedibilità dell’evento), che - in ossequio a corrette premesse di teoria generale del reato devono rimanere distinti. Su queste basi, l’Autore evidenza la correttezza degli orientamenti che si muovono nel senso del recupero di una netta distinzione tra causalità e colpa; risultato cui si perviene tramite
lo sviluppo del delicato tema del comportamento alternativo lecito.
I plurimi punti di intersezione della
causalità con la colpa
L’ultima sentenza della Suprema Corte (Cass., sez.
IV, 31 luglio 2013, n. 33207, Corigliano) in materia
di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle
norme sulla disciplina della circolazione stradale of-
fre lo spunto per una più generale riflessione in tema
di causalità e di colpa (1) ed in particolare su come i
due profili spesso vengano sovrapposti, così dando
vita ad una indebita commistione tra concetti assolutamente diversi tra loro, che si fondano su presupposti ed angoli prospettici addirittura antitetici (2).
(*) Il contributo è stato sottoposto, in forma anonima, alla
valutazione di un referee.
(1) In argomento, Basile, La colpa in attività illecita, Milano,
2005; Castronuovo, La colpa penale, Milano, 2009; Forti, Colpa
ed evento nel diritto penale, Milano, 1990; Giunta, Illiceità e colpevolezza nella responsabilità colposa, Padova, 1993; Mantovani
M., Il principio di affidamento nella teoria del reato colposo, Milano, 1997; Marinucci, La colpa per inosservanza di leggi, Milano,
1965; Piergallini, Danno da prodotto e responsabilità penale, Milano, 2004; Id., Attività produttive, decisioni in stato di incertezza
e diritto penale, in Donini-Pavarini (a cura di), Sicurezza e diritto
penale, Bologna, BUP, 2011, 327 ss.; Pulitanò, Colpa ed evoluzione del sapere scientifico, in questa Rivista, 2008, 647 ss.; Ronco, La colpa in particolare, in Ronco (opera diretta da), Il reato.
Struttura del fatto tipico. Presupposti oggettivi e soggettivi dell’imputazione penale. Il requisito dell’offensività del fatto, Bologna,
2007, 538; Veneziani, Regole cautelari “proprie” e “improprie”
nella prospettiva delle fattispecie colpose causalmente orientate,
Padova, 2003. Sia infine consentito il rinvio al nostro D’Auria, La
colpa stradale: un’analisi giurisprudenziale, Milano, 2010, passim.
(2) Per quest’ordine di idee, cfr. Di Giovine, Il contributo della
vittima nel delitto colposo, Torino, 2003, 373 ss. e, più di recente,
Omicidio e lesioni colpose, in Manna (a cura di), I delitti contro la
persona, Torino, 2007, 201 ss. Da ultimo, va segnalato l’approfondito lavoro monografico di Summerer, Causalità ed evitabilità.
Formula della condicio sine qua non e rilevanza dei decorsi causali
ipotetici nel diritto penale, Pisa, 2013, che affronta il rapporto tra
causalità ed evitabilità alla luce del ruolo attribuito ai decorsi causali ipotetici: da un lato, la causazione di un evento lesivo (con le
connesse problematiche relative alla presenza di cause alternative e alla descrizione dell’evento quale secondo termine del nesso
di causalità) e, dall’altro, la valutazione controfattuale della rilevanza del comportamento alternativo lecito (quale paradigma
della causalità ipotetica). La questione, come è noto, benché sor-
ta sul piano della causalità come risvolto problematico dell’utilizzo della condicio sine qua non, è stata successivamente affrontata sul piano della imputazione oggettiva, come problematica specifica propria del reato colposo, in relazione ai canoni del comportamento alternativo lecito e del c.d. Pflichtwidrigkeitszusammenhang (nesso normativo tra colpa ed evento). L’indagine giunge ad affermare il rifiuto della dualità tra causalità e imputazione,
sul presupposto che la ricerca sul nesso di causalità penalmente
rilevante abbia ad oggetto il rapporto giuridico tra l’evento e un
comportamento connotato da illiceità. Segnatamente, si osserva
il rapporto tra causalità ed evitabilità alla luce del ruolo attribuito
ai decorsi causali ipotetici. Il tema della evitabilità dell'evento,
corredato delle problematiche della rilevanza dei decorsi causali
ipotetici, del comportamento alternativo lecito e della causalità
della colpa, è uno dei più complessi della teoria del reato e la vivacità dell'attuale dibattito dottrinale e giurisprudenziale sulla
causalità dà mostra della centralità del tema e della esigenza di
pervenire ad una chiara sistemazione delle categorie dogmatiche
fondamentali (causalità, colpa, omissione, imputazione oggettiva). La questione, benché sorta sul piano della causalità come risvolto problematico dell'utilizzo della condicio sine qua non, è stata successivamente affrontata sul piano della imputazione oggettiva, come problematica specifica propria del reato colposo, in
relazione ai canoni del comportamento alternativo. L'indagine
prende le mosse dall'esame degli orientamenti tradizionali e attraverso l'analisi delle soluzioni più innovative ed originali sviluppate dalla dottrina e giurisprudenza contemporanee nell'ambito
della teoria della imputazione oggettiva dell'evento giunge ad affermare il rifiuto della dualità tra causalità e imputazione, sul presupposto che la ricerca sul nesso di causalità penalmente rilevante abbia ad oggetto il rapporto giuridico tra l'evento e un
comportamento connotato da illiceità. Il tema della evitabilità dell'evento, corredato delle problematiche della rilevanza dei decorsi
causali ipotetici, del comportamento alternativo lecito e della
Diritto penale e processo 6/2014
751
Opinione
Diritto penale
In linea generale, deve osservarsi che nei reati colposi, una volta accertata la causalità della condotta, cioè che un determinato comportamento umano, attivo od omissivo, abbia interferito nella causazione dell’evento, occorre verificare se la violazione della regola cautelare abbia contribuito a cagionare l’evento in concreto verificatosi, posto che
l’art. 43 c.p. collega l’evento alla violazione della
regola cautelare, scritta o generata da fonte sociale (3). Verosimilmente è proprio il profilo della
causalità della colpa - vale a dire l’incidenza del
comportamento colposo sulla verificazione dell’evento - che, contenendo in sé l’elemento oggettivo
e quello soggettivo, favorisce la evidenziata sovrapposizione dei piani (4). A ciò nei reati omissivi deve aggiungersi un ulteriore dato di peculiarità, costituito dall’essere omissione e colpa due criteri
normativi attraverso i quali si attribuisce l’evento
dannoso al soggetto agente.
Altro punto di stretto contatto tra causalità e colpa
è l’ulteriore accertamento che il giudice deve compiere, quello cioè diretto a verificare se l’evento
dannoso cagionato sia quello per evitare il quale è
posta la regola cautelare (c.d. concretizzazione del
rischio), per cui si deve escludere la responsabilità
per colpa se l’evento non rientra nello spettro tipico di quelli per evitare i quali è stata posta la regola violata, anche se l’evento è causalmente collegato alla condotta (in questi casi c’è nesso di causalità della condotta, ma non c’è colpa) (5). Si tratta
di uno step successivo a quello relativo all’accertamento della causalità della colpa, perché - prima di
porsi il problema della corrispondenza tra l’evento
verificatosi e lo scopo della norma cautelare violata
- occorre riscontrare se l’azione o omissione colpo-
causalità della colpa, è uno dei più complessi della teoria del reato e la vivacità dell'attuale dibattito dottrinale e giurisprudenziale
sulla causalità dà mostra della centralità del tema e della esigenza di pervenire ad una chiara sistemazione delle categorie dogmatiche fondamentali (causalità, colpa, omissione, imputazione
oggettiva). La questione, benché sorta sul piano della causalità
come risvolto problematico dell'utilizzo della condicio sine qua
non, è stata successivamente affrontata sul piano della imputazione oggettiva, come problematica specifica propria del reato
colposo, in relazione ai canoni del comportamento alternativo.
L'indagine prende le mosse dall'esame degli orientamenti tradizionali e attraverso l'analisi delle soluzioni più innovative ed originali sviluppate dalla dottrina e giurisprudenza contemporanee
nell'ambito della teoria della imputazione oggettiva dell'evento
giunge ad affermare il rifiuto della dualità tra causalità e imputazione, sul presupposto che la ricerca sul nesso di causalità penalmente rilevante abbia ad oggetto il rapporto giuridico tra l'evento
e un comportamento connotato da illiceità. Nonostante la sentenza Franzese delle Sezioni unite abbia illuminato il nodo cruciale della causalità omissiva e testimoniato una nuova e più consapevole visione del problema causale, il successivo dibattito dottrinale pare essersi limitato all’analisi degli aspetti meramente
processuali e probatori del nesso eziologico, lasciando completamente in ombra il sottostante criterio causale. La causalità rischia così di essere identificata con la certezza processuale sulla
causalità e la prova per esclusione di tradursi in una formula vuota, se non viene precisato il criterio in base al quale operare la eliminazione dei fattori causali irrilevanti e la selezione di quelli rilevanti. Si rileva, ancora, la consapevolezza che la causalità può
essere accertata solamente mediante leggi di copertura, ma ciò
non fa venir meno la necessità di definire esattamente il concetto
di causalità; invero, per accertare se una condotta abbia cagionato l’evento non basta disporre di leggi scientifiche, ma occorre
anche sapere cosa si intende per causa. Si ribadisce, infine, che
interpretare causalità e imputazione come due facce di una stessa medaglia consente di risolvere la contrapposizione tra prospettiva ex ante e prospettiva ex post all’interno del modello di
accertamento causale, con la sottolineatura dell’importanza di
una visione che ritenga la causalità empirica (naturalistica o
scientifica) segnata da una prospettiva ex ante, incentrata sull’evento quale effetto (Wirkung) della condotta e, pertanto, espressiva del concetto di ‘‘causazione’’ (Verursachung) e, all’opposto,
la causalità normativa caratterizzata da una prospettiva ex post
che, muovendo dall’evento quale opera (Werk) dell’agente alla ricerca della condotta rilevante, assume il significato di ‘‘imputa-
zione’’ (Zurechnung). Ne consegue che la causalità necessita di
leggi scientifiche che siano in grado di fornire previsioni attendibili su eventi futuri, mentre l’imputazione presuppone una valutazione che, attraverso un procedimento di selezione ed esclusione, garantisca la spiegazione credibile e razionale di eventi passati. In breve: la causalità come prospettiva, l’imputazione come
retrospettiva, implicando la causalità generalizzazione e l’imputazione concretizzazione.
(3) Perini C., Il concetto di rischio nel diritto penale moderno,
Milano, 2010, 489 ss.
(4) Pulitanò, op. cit., 647 ss. Sul punto, Marinucci, Innovazioni tecnologiche e scoperte scientifiche: costi e tempi di adeguamento delle regole di diligenza, in Riv. it. dir. proc. pen.,
2005, 21, afferma chiaramente che «le conoscenze rilevanti
non sono quelle diffuse solo nella cerchia degli specialisti, e
tanto meno le conoscenze avanzate di taluni centri di ricerca,
bensì solo le conoscenze che costituiscono un patrimonio diffuso a partire da una certa data»; pertanto, l’agente ha un obbligo di informazione in relazione alle più recenti acquisizioni
scientifiche, anche se non ancora patrimonio comune e anche
se non applicate nel circolo di riferimento, a meno che non si
tratti di studi isolati ancora privi di conferma. In definitiva, per
individuare il momento a partire dal quale le conoscenze specialistiche diventano conoscenze diffuse, la cui trascuranza
fonda la colpa, occorre fare riferimento alle informazioni che
l'agente modello è in condizione di acquisire.
(5) Pulitanò, op. cit., 647 ss., secondo cui, volendo ricostruire
il rapporto tra base e criterio del giudizio della colpa e della causalità, è possibile affermare che in relazione alla base del giudizio, tra causalità e colpa intercorre un rapporto di identità, atteso che nell’una e nell’altra ipotesi l’accertamento si fonda sui
medesimi elementi empirici. Nell’ambito dell’imputazione dell’evento per colpa cambia tuttavia la lente attraverso la quale i
menzionati snodi sono considerati: il giudizio ex post bandisce
dal giudizio sulla causalità qualsiasi valutazione prognostica e
dunque qualsiasi riferimento al rischio; nel giudizio sulla colpa,
invece, il punto di vista è diametralmente opposto in forza dei
meccanismi che sovraintendono alla tipizzazione della condotta
colposa e del nesso tra colpa ed evento e nei quali i citati elementi empirici vengono trasformati. Pertanto, i singoli elementi
costitutivi del tipo colposo si caratterizzano, fatta eccezione per
la causalità, in modo differenziato ed indipendente rispetto ai
corrispondenti, soltanto analoghi (se non addirittura solo semanticamente coincidenti) elementi costitutivi del tipo doloso
d’evento.
752
Diritto penale e processo 6/2014
Opinione
Diritto penale
sa abbia inciso sulla verificazione dell’evento. Ciò
che in ogni caso deve essere chiaro è che la concretizzazione del rischio va valutata con un giudizio
ex post, ad evento avvenuto, visto che si tratta di
valutare se quest’ultimo rientra nello spettro di
quelli presi in considerazione all’atto della formazione della regola precauzionale violata (6).
L’ulteriore crocevia dove si incontrano causalità e
colpa - che, se si vuole, costituisce il rovescio della
medaglia della causalità della colpa - è quello del cosiddetto comportamento alternativo lecito: pur in
presenza della violazione di una regola cautelare, deve escludersi la sussistenza del nesso di causalità
quando anche una condotta appropriata non avrebbe
comunque evitato il verificarsi dell’evento, atteso
che sarebbe del tutto irrazionale pretendere un comportamento in ogni caso inidoneo ad evitare l’evento
(si parla a tal proposito di prevenibilità in concreto
dell’evento (7): affermare in tali casi la responsabilità
per colpa significherebbe attribuire l’evento all’agente per il semplice versari in re illicita). Viceversa, sussiste il nesso causale non solo quando il comportamento diligente avrebbe evitato l’evento dannoso,
ma anche quando la condotta appropriata aveva apprezzabili probabilità di scongiurare il danno (8) (come sarebbe irrazionale pretendere un comportamento comunque inidoneo ad evitare l’evento, altrettanto sarebbe rinunziare a muovere l’addebito colposo
nel caso in cui la condotta osservante delle cautele,
sebbene non certamente risolutiva, avrebbe diminuito significativamente il rischio di verificazione dell’evento, cioè avrebbe avuto significative probabilità di
salvare il bene protetto). Anche in questi casi l’accertamento si fonda su un giudizio ex post.
Tutto ciò posto, deve evidenziarsi che, anche se
causalità e colpa hanno plurimi punti di contatto,
sono istituti che devono comunque essere tenuti
ben distinti. Ed invero, non possono esser tra loro
accostati concetti quali eccezionalità e imprevedibilità, che hanno connotazioni assolutamente diverse (9): l’eccezionalità, che esclude il nesso causale
tra condotta ed evento, è la probabilità minima di
verificazione dell’evento ed è un concetto oggettivo;
l’imprevedibilità, che esclude la colpa in quanto
non consente di individuare la regola cautelare, è la
bassa probabilità che un evento si verifichi, giudizio
effettuato alla stregua delle informazioni di cui dispone l’agente modello, per cui ha una chiara dimensione relativa e variabile, equivalendo alla possibilità materiale di prevedere la realizzazione di un
evento, alla luce delle conoscenze riferibili all’agente modello od a quelle superiori eventualmente possedute dall’agente concreto.
In definitiva, può dirsi che la differenza tra i parametri su cui si fonda l’accertamento del nesso di
causalità e quelli su cui poggia l’accertamento della
colpa debba essere individuata in ragione della prospettiva da cui ci si pone: il nesso di causalità va
accertato con giudizio ex post rispetto alla verificazione dell’evento e ha una dimensione rigorosamente oggettiva, in quanto si fonda sul criterio
della miglior scienza ed esperienza disponibili; la
colpa, invece, va verificata sulla base di un giudizio
ex ante e si fonda sul parametro del cosiddetto
agente modello, che costituisce la misura (necessariamente “relativa”) della prevedibilità ed evitabilità dell’evento dannoso (10).
(6) Sul punto, v. il fondamentale scritto di Paliero, La causalità dell’omissione: formule concettuali e paradigmi assiologici,
in Riv. it. med. leg., 1992, 821 ss. Piergallini, Danno da prodotto
e responsabilità penale, 254 ss.; Perini C., op. cit., 489 ss.
(7) In dottrina, Carmona, La "colpa in concreto" nelle attività
illecite secondo le S.U. Riflessi sullo statuto della colpa penale,
in Cass. pen., 2009, 4585.
(8) Bartoli, Il problema della causalità penale. Dai modelli
unitarî al modello differenziato, Torino, 2010, 95 ss.; Mantovani
M., op. cit., 120 ss.
(9) Blaiotta, La causalità giuridica, Torino, 2010, 76 ss.
(10) Marinucci, Innovazioni tecnologiche e scoperte scientifi-
che: costi e tempi di adeguamento delle regole di diligenza, cit.,
21.
(11) Di Giovine, Il contributo della vittima nel delitto colposo,
cit., 373 ss.; Id., Omicidio e lesioni colpose, cit., 201 ss.; Masera, I delitti contro l’integrità fisica, in Trattato teorico-pratico di
diritto penale, a cura di Palazzo e Paliero, vol. VII, Reati contro
la persona e contro il patrimonio, a cura di Viganò e Piergallini,
Torino, 2011, 542 ss.
(12) Cfr., Cass., IV sez., 2/7/13 n. 33207, Corigliano; Cass.,
IV sez., 20/2/13 n. 10635, Calarco; Cass., IV sez., 29/4/11 n.
23309, Cocon; Cass., IV sez., 14/6/05 n. 28615, P. C. in proc.
Pravettoni.
Diritto penale e processo 6/2014
L’investimento del pedone: atipicità ed
eccezionalità o imprevedibilità della
condotta?
L’area dei reati colposi aggravati dalla violazione
delle regole in tema di circolazione stradale - e, più
in particolare, l’investimento del pedone - è una di
quelle in cui il pericolo della sovrapposizione dei
piani della causalità e della colpa è sempre in agguato (11).
Volendo esemplificare, due sono sostanzialmente
gli orientamenti che si rinvengono nella giurisprudenza di legittimità: uno che valorizza il profilo del
nesso causale, l’altro che imposta il tema della responsabilità del guidatore in termini di colpa.
Così, alcune decisioni (12) ritengono che il conducente il veicolo vada esente da responsabilità solo
753
Opinione
Diritto penale
quando il comportamento del pedone risulti del
tutto eccezionale, atipico, non previsto né prevedibile, situazione questa che si verificherebbe quando
il conducente si sia trovato, per motivi estranei ad
ogni suo obbligo di diligenza, nella oggettiva impossibilità di avvistare il pedone ed osservarne per
tempo i movimenti, che risultino attuati in modo
rapido, inatteso ed imprevedibile, in tal modo determinando una interruzione del nesso causale. In
siffatti casi, si giunge ad affermare che la condotta
colpevole del pedone si pone «come causa unica
ed esclusiva dell’evento letale, rivestendo i caratteri della assoluta imprevedibilità, mentre nessuna
colpa, neppure per imprudenza, si può attribuire al
c o n d u c e n t e d e l l ’a u t o v e t t u r a » ( c o s ì , C a s s .
28615/2005, cit.).
Orbene, risulta evidente la indebita commistione tra
il profilo della causalità e quello della colpa: si equipara l’imprevedibilità dell’evento (giudizio squisitamente soggettivo) all’eccezionalità della condotta
(concetto dalla chiara dimensione oggettiva). Se la
condotta del pedone riveste il carattere dell’eccezionalità manca il nesso causale tra la condotta dell’automobilista e l’evento dannoso: il giudice nell’accertamento della responsabilità deve dunque fermarsi
qui, prescindendo dall’analisi della prevedibilità o
meno del comportamento del pedone e, dunque,
prescindendo dal comportamento eventualmente in
colpa del conducente. Invero, se anche si accertasse
la violazione di una regola cautelare da parte dell’automobilista, mancherebbe comunque il nesso causale, che - giova ribadirlo - è l’elemento che va valutato prima ancora del profilo della colpa.
L’altro orientamento (13), più correttamente, anche
se in modo non esplicito (in quanto si limita a far
riferimento a movimenti del soggetto investito «attuati in modo rapido ed inatteso», senza giungere a
qualificarli imprevedibili, come si vedrà), sposta il
tema della responsabilità del guidatore per l’investimento del pedone sul piano della colpa, atteso che
valuta la possibilità (intesa in senso naturalistico) o
l’impossibilità di avvistamento del pedone (e, dunque, la prevedibilità o l’imprevedibilità dell’attraversamento) e l’assenza della violazione di regole caute-
lari da parte dell’automobilista. Più in particolare,
tali decisioni partono dal presupposto per cui «l’avvistamento del pedone implica la percezione di una
situazione di pericolo, in presenza della quale ogni
conducente è tenuto a porre in essere una serie di
accorgimenti (in particolare, moderare la velocità e,
all’occorrenza, arrestare la marcia del veicolo) al fine di prevenire il rischio di un investimento» (così,
Cass. 20027/2008, cit.) e giungono ad escludere la
responsabilità del conducente ogni qual volta il
conducente del veicolo investitore si sia trovato,
per motivi estranei ad ogni suo obbligo di diligenza,
nell’oggettiva impossibilità di avvistare il pedone e
di osservarne tempestivamente i movimenti, attuati
in modo rapido e inatteso - dunque, in modo imprevedibile - e, inoltre, che nessuna infrazione alle norme della circolazione stradale e a quelle di comune
prudenza sia riscontrabile nel comportamento dello
stesso conducente.
Non vi è dubbio che il problema appare più correttamente impostato in queste decisioni, che lo affrontano e cercano di risolverlo sul piano della colpa. È l’avvistamento del pedone che fa scattare la
prevedibilità del pericolo, che è scongiurato solo
con l’adozione della regola cautelare. Se il pedone
sbuca all’improvviso, non è un problema di eccezionalità della sua condotta (che interrompe il nesso
causale), ma di impossibilità di prevedere e, dunque,
di evitare l’evento dannoso. È, quindi, in termini di
colpa che deve indirizzarsi la soluzione del problema, per cui giustamente l’orientamento in esame richiede l’assenza di colpa specifica e generica.
(13) Cfr., Cass., IV sez., 16/4/08 n. 20027, Di Cagno; Cass.,
IV sez., 14/2/07 n. 15224, La Penna; Cass., IV sez., 13/10/05 n.
40908, Tavoliere; Cass., IV sez., 12/10/05 n. 44651, Leonini.
(14) Castronuovo, La colpa penale, cit., 234 ss.; De Francesco G.A., L’imputazione del reato e i tormenti del penalista, in
Scritti per Federico Stella, I, Napoli, 2007, 515; Di Giovine, Sicurezza sul lavoro, malattie professionali e responsabilità degli
enti, in Cass. pen., 2009, 1333 ss.; Donini, Castronuovo, La riforma dei reati contro la salute pubblica. Sicurezza del lavoro, sicurezza alimentare, sicurezza del prodotto, Padova 2007, 297
ss.; Veneziani, Delitti contro la vita e l’incolumità individuale, II, I
delitti colposi, Padova, 2003, 369 ss. Per delle considerazioni di
più ampio respiro, cfr. Palazzo, Morti da amianto e colpa penale, in questa Rivista, 2011, 186.
(15) Cfr., ex plurimis, Cass., IV sez., 27/6/12 n. 37986, Battafarano; Cass., IV sez., 28/4/11 n. 23292, Millo e altri; Cass., IV
sez., 10/11/09 n. 7267, Iglina e altri; Cass., IV sez., 17/2/09 n.
15009, Liberali e altro; Cass., IV sez., 23/5/07 n. 25532, Montanino; Cass., IV sez., 26/10/06 n. 2614, Palmieri.
754
Infortuni sul lavoro e condotta colposa
del lavoratore: abnormità o
imprevedibilità?
Nel settore della prevenzione degli infortuni sul lavoro il problema della commistione tra causalità e
colpa si pone in particolar modo nei casi di concorso della condotta colposa del lavoratore nella
causazione dell’evento (14).
Va subito premesso che l’orientamento consolidato
della Suprema Corte (15) è nel senso di ritenere la
responsabilità per colpa del datore di lavoro a fron-
Diritto penale e processo 6/2014
Opinione
Diritto penale
te della violazione di regole cautelari anche quando l’evento si sia verificato con il concorso della
condotta del lavoratore, a meno che non si tratti
di un comportamento del tutto abnorme. E, secondo l’insegnamento della Cassazione, è abnorme soltanto il comportamento del lavoratore che, per la
sua «stranezza» ed «imprevedibilità» (questi sono letteralmente i termini che vengono utilizzati in quasi
tutte le sentenze in argomento), si ponga al di fuori
di ogni possibilità di controllo da parte dei soggetti
preposti all’applicazione della misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro e tale non è il
comportamento del lavoratore che abbia compiuto
un’operazione comunque rientrante, oltre che nelle
sue attribuzioni, nel segmento di lavoro attribuitogli. In tal caso, infatti, non solo la condotta del lavoratore non interrompe il nesso di causalità tra la
condotta imprudente del datore di lavoro e l’evento, ma non può nemmeno ritenersi imprevedibile.
In altri termini, la normativa in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro mira a salvaguardare
l’incolumità del lavoratore non solo dai rischi derivanti da incidenti o fatalità, ma anche da quelli
che possono scaturire dalla sue stesse disattenzioni,
imprudenze o disubbidienze alle istruzioni o prassi
raccomandate, purché connesse allo svolgimento
dell’attività lavorativa.
Il problema è dunque, in punto di colpa, quello
della prevedibilità da parte del datore di lavoro
(non tanto dell’evento lesivo) quanto della condotta nel concreto posta in essere dal dipendente,
a fronte di una iniziativa autonoma di quest’ultimo
(mai verificatasi fino al momento dell’incidente).
Problema questo che è strettamente connesso al rispetto di tutte le regole cautelari atte a prevenire
incidenti da parte del datore di lavoro, atteso che
la prospettazione di una causa di esenzione da colpa che si richiami alla condotta imprudente del lavoratore, non rileva allorché chi la invoca versa in
re illicita, per non avere negligentemente impedito
l’evento lesivo, che è conseguito dall’avere la vittima operato in condizioni di rischio non eliminate
da chi riveste la posizione di garanzia. Tanto meno
la causa esimente è invocabile, se il datore la pone,
come spesso accade, alla base del proprio errore di
valutazione, assumendo che il sinistro si è verificato non perché si sia tenuto un comportamento antigiuridico, ma sol perché vi sarebbe stata, dalla
parte della vittima, un’anomala ed inopinata iniziativa posta in essere in violazione di regole cautelari di prudenza (16).
I giudici di legittimità, dunque, sono particolarmente esigenti con riguardo alla adozione delle misure antinfortunistiche, per cui nella pur vasta produzione nella materia della sicurezza sul lavoro, applicando in modo rigoroso i principi di diritto sopra sintetizzati, difficilmente giungono a ritenere
l’abnormità della condotta del lavoratore o (in alternativa) la sua imprevedibilità da parte del datore di lavoro.
Il che, se da un lato soddisfa sacrosante esigenze
generalpreventive, dall’altro va a discapito di quella altrettanto sacrosanta tensione - che in altri settori inizia a farsi strada - alla personalizzazione del
rimprovero colposo, che prende in considerazione
anche la esigibilità della condotta dell’agente del
caso concreto. Ed invero, le decisioni che hanno
ritenuto l’abnormità e l’imprevedibilità della condotta imprudente del lavoratore sono davvero isolate (17).
Ebbene, come si darà conto più specificamente oltre, nella motivazione di tutte le sentenze sull’argomento in discorso si opera una impropria mescolanza tra i piani della causalità e della colpa (18).
Tale inappropriato intreccio non si manifesta in
modo evidente nelle decisioni in cui si ritiene la
responsabilità del datore di lavoro per l’evento lesivo occorso al lavoratore anche in conseguenza di
un suo comportamento colposo, in quanto la ritenuta non eccezionalità/abnormità della condotta
del lavoratore - e, dunque, la ritenuta sussistenza
del nesso causale tra la condotta del datore di lavoro e l’evento lesivo - impone di passare all’esame
dei profili di colpa a carico del datore, con il giudizio in ordine alla prevedibilità del comportamento
anche imprudente o negligente del lavoratore. Invece, nelle tre decisioni per così dire favorevoli al
soggetto su cui grava l’obbligo di salvaguardare l’integrità dei lavoratori la indebita commistione tra
causalità e colpa emerge in modo stridente, posto
(16) Cfr., da ultimo, Cass., IV sez., 14/3/12 n. 16890, Feraboli.
(17) Cfr., Cass., III sez., 7/7/11 n. 38209, Negri e altro;
Cass., IV sez., 10/11/09 n. 7267, P. C. in proc. Brignone e altri;
Cass., IV sez., 21/10/08 n. 40821, Petrillo.
(18) Per la verità una isolata e non più recente sentenza
(cfr. Cass., IV sez., 23/3/07 n. 21587, Pelosi) aveva ben separato i due piani, evidenziando «la distinzione tra l'apporto di distinte condotte colpose alla causazione dell'evento e la gra-
duazione comparativa delle colpe sotto il profilo della rimproverabilità personale. Così, è stato posto in luce che il concorso
di condotte colpose ha riguardo all'entità del rapporto causale
ed ha quindi un contenuto oggettivo; mentre il grado della colpa è un connotato soggettivo che va dalla generica prevedibilità dell'evento fino alla sua concreta previsione. Tali elementi
non sono sempre coincidenti, poiché una colpa lieve può avere una incidenza causale preponderante, mentre una colpa
grave può avere una incidenza eziologica minima».
Diritto penale e processo 6/2014
755
Opinione
Diritto penale
che, se la condotta del lavoratore riveste il carattere dell’eccezionalità, manca il nesso causale tra la
condotta (attiva o omissiva) del datore di lavoro e
l’evento dannoso, ragion per cui occorrerebbe fermarsi qui, prescindendo dall’analisi della prevedibilità o meno del comportamento imprudente del lavoratore e, dunque, prescindendo dal comportamento eventualmente in colpa del datore di lavoro. Invero, se anche si accertasse la violazione di
una regola cautelare da parte di quest’ultimo, l’eccezionalità, l’atipicità della condotta del lavoratore
avrebbe già interrotto il nesso causale, che - giova
ribadirlo - è l’elemento che va valutato prima ancora del profilo della colpa.
In particolare, da un lato si afferma (cfr. Cass.
38209/2011 citata) che il datore di lavoro non risponde per la mancata adozione di misure atte a
prevenire il rischio di infortuni, ove la condotta
non sia esigibile per l’imprevedibilità della situazione di pericolo da evitare, dall’altro si precisa che
in tal caso (si trattava di una fattispecie nella quale
l’operaio deceduto, per prestare soccorso ad un collega che aveva perso i sensi all’interno di una vasca
di accumulo di reflui idrici, aveva agito in palese
violazione delle specifiche prescrizioni imposte dal
datore di lavoro) la condotta colposa del lavoratore
assurge a causa sopravvenuta da sola sufficiente a
produrre l’evento. Orbene, per quanto prima evidenziato, l’esclusione del nesso di condizionamento
non consentirebbe di arrivare allo step successivo
relativo alla valutazione dell’esigibilità della condotta: se la morte del soccorritore non è conseguenza della condotta del datore di lavoro, ma di
un comportamento eccezionale ed atipico, che non
consente di ravvisare il nesso di condizionamento,
non c’è bisogno di andare a valutare se il comportamento dei soccorritori fosse prevedibile da parte
del datore.
Argomentazioni pressoché analoghe vengono proposte nella sent. n. 7267/2009 citata, laddove la
Corte afferma che è la prevedibilità del rischio che
determina l’esigibilità di una condotta atta a prevenirlo e, di conseguenza, in caso di omissione, la responsabilità del datore di lavoro ed aggiunge che,
quando la condotta del lavoratore è del tutto imprevedibile, il rischio che determina non è governabile, tanto da conferire forza eziologica esclusiva
a tale condotta imprudente. Ancora una volta,
dunque, come appare evidente, si sovrappone causalità e colpa.
Merita di essere analizzata, sia pur sinteticamente,
anche l’ultima decisione citata (cfr. Cass.,
40821/2008), secondo la quale per interrompere il
756
nesso causale tra la condotta del datore di lavoro e
le lesioni personali del lavoratore occorre un comportamento di quest’ultimo «che sia “anomalo” ed
“imprevedibile” e, come tale “inevitabile”, cioè un
comportamento che ragionevolmente non può farsi
rientrare nell’obbligo di garanzia posto a carico del
datore di lavoro». Si deve trattare, in altri termini,
di un comportamento del lavoratore definibile come «abnorme», che quindi per la sua «stranezza»
ed «imprevedibilità» si ponga al di fuori di ogni
possibilità di controllo da parte delle persone preposte all’applicazione delle misure di prevenzione
contro gli infortuni sul lavoro. La Corte, schematizzando, ipotizza due diverse situazioni: la prima è
quella del lavoratore che violi con consapevolezza
le cautele impostegli, ponendo in essere in tal modo una situazione di pericolo che il datore di lavoro non può prevedere e certamente non può evitare; la seconda è quella del lavoratore che provochi
l’infortunio, ponendo in essere colposamente
un’attività del tutto estranea al processo produttivo
o alle mansioni attribuitegli, realizzando in tal modo un comportamento esorbitante rispetto al lavoro che gli è proprio, assolutamente imprevedibile
(ed evitabile) per il datore di lavoro (come ad
esempio nel caso del lavoratore che si dedichi ad
un’altra macchina o ad un altro lavoro, magari
esorbitando nelle competenze attribuite in via
esclusiva ad altro lavoratore; ovvero nel caso in cui
il lavoratore, pur nello svolgimento delle mansioni
proprie, abbia assunto un atteggiamento radicalmente lontano dalle ipotizzabili - e, quindi, prevedibili - imprudenze comportamentali).
Nel caso portato al suo esame, la Corte Suprema
ha ritenuto che si vertesse in un’ipotesi paradigmatica di esclusione di colpa del datore di lavoro, proprio in ragione dell’assoluta imprevedibilità del
comportamento del lavoratore che, indotto da un
altro soggetto estraneo all’apparato aziendale, aveva finito per impegnarsi in una attività del tutto
esorbitante rispetto alle specifiche mansioni attribuitegli, così ponendo le condizioni per la recisione di qualsivoglia collegamento eziologico con l’attività lavorativa che era stato comandato di effettuare.
In questo caso, tuttavia, i giudici di legittimità sono andati oltre, ricorrendo ad una doppia motivazione, posto che hanno affermato che comunque
non vi sarebbe colpa del datore di lavoro, in quanto alcuna regola cautelare nel caso concreto poteva
dirsi violata, atteso che l’evento danno era connesso allo svolgimento di un’attività stravagante rispetto alle specifiche mansioni. Dunque, difette-
Diritto penale e processo 6/2014
Opinione
Diritto penale
rebbe nel caso di specie la prevedibilità e l’evitabilità dell’evento verificatosi, non essendo concepibile, rispetto ad un’attività posta in essere al di fuori delle mansioni, una qualsivoglia condotta appropriata (il cosiddetto comportamento alternativo lecito) che, se il datore avesse tenuto, avrebbe comunque evitato l’evento.
Va a questo punto conclusivamente evidenziato
che il ricorso alla causalità nella materia in discorso appare davvero evanescente, posto che è quasi
sempre possibile instaurare un collegamento obiettivo tra attribuzioni di mansioni e loro svolgimento
ancorché anomalo.
Il terreno su cui Accusa e Difesa dovrebbero confrontarsi, dunque, è quello della colpa, visto che si
tratta di accertare se esiste una regola cautelare
violata collegata all’attribuzione delle mansioni nel
contesto fattuale specifico.
Tuttavia, è comunque interessante constatare lo
sforzo di oggettivizzazione effettuato dalla Cassazione quando formula le due ipotesi della inosservanza
dolosa e dell’estraneità alle mansioni, che interromperebbero - per ragioni diverse - il nesso causale. In ogni caso, anche ammessa la validità di quest'ultima impostazione, rimane pur sempre la necessità, al di fuori di queste due ipotesi, di effettuare anche un accertamento sulla colpa con le sue
caratteristiche di concretezza e relatività, in modo
tale da personalizzare il più possibile il rimprovero (19).
Il recupero della distinzione tra causalità
e colpa passa attraverso il
comportamento alternativo lecito?
La giurisprudenza, pur nelle incertezze sopra evidenziate, sembra andare verso il recupero della netta distinzione che deve esserci tra causalità e colpa;
tale tentativo si sviluppa attraverso il delicato tema
del comportamento alternativo lecito (20).
In particolare, in un interessante arresto giurisprudenziale (21) la S. C. sembra scindere con grande
chiarezza il tema della causalità materiale (causalità della condotta) da quello della causalità della
colpa già dal punto di vista dogmatico, prima ancora che in una prospettiva probatoria. In particolare, la decisione in discorso, nell’analizzare esclusivamente il profilo della causalità della colpa, pre(19) Castronuovo, La colpa penale, cit., 234 ss.; Piergallini, Il
paradigma della colpa nell’età del rischio: prove di resistenza del
tipo, in Riv. it. dir. proc. pen., 2005, 1689 ss.
(20) Romano M., Commentario sistematico del codice penale, I, Milano, 2004, 71 ss.; da ultimo, in argomento, Summerer,
Causalità ed evitabilità, cit., 172 ss.
Diritto penale e processo 6/2014
suppone (senza confondere) l’avvenuto positivo accertamento dell’attribuibilità materiale dell’evento
all’agente. Ed invero, si legge in motivazione:
«…Tuttavia il processo propone un rilevante problema eziologico che riguarda il distinto tema della
cosiddetta causalità della colpa. Come è ben noto,
da qualunque punto di vista si guardi alla colpa, la
prevedibilità ed evitabilità del fatto svolgono un
articolato ruolo fondante: sono all’origine delle
norme cautelari e sono inoltre alla base del giudizio
di rimprovero personale. In particolare, per quel
che qui maggiormente interessa, l’art. 43 c.p. reca
una formula ricca di significato: il delitto è colposo
quando l’evento non è voluto e "si verifica a causa
di negligenza o imprudenza o imperizia..."».
Chiarita, poi, l’indiscussa valenza della cosiddetta
concretizzazione del rischio, senza la quale non
avrebbe senso formulare un giudizio di rimproverabilità, la pronuncia affronta con estrema chiarezza
il profilo centrale della cosiddetta causalità della
colpa, attraverso il “recupero” del topos del comportamento alternativo lecito. Ed invero, testualmente: «Ma il profilo causale della colpa si mostra
anche da un altro punto di vista che attiene più
immediatamente al momento del rimprovero personale. Affermare, come afferma l’art. 43 c.p., che
per aversi colpa l’evento deve essere stato causato
da una condotta soggettivamente riprovevole implica che l’indicato nesso eziologico non si configura quando una condotta appropriata (il cosiddetto
comportamento alternativo lecito) non avrebbe
comunque evitato l’evento. Si ritiene da più parti,
condivisibilmente, che non sarebbe razionale pretendere, fondando poi su di esso un giudizio di rimproverabilità, un comportamento che sarebbe comunque inidoneo ad evitare il risultato antigiuridico. Tale assunto rende evidente la forte connessione esistente in molti casi tra le problematiche sulla
colpa e quelle sull’imputazione causale. Infatti, non
di rado le valutazioni che riguardano lo sviluppo
causale si riverberano sul giudizio di evitabilità in
concreto. Tuttavia poiché, come si è già evidenziato, nel caso in esame il profilo squisitamente causale può ritenersi superato, la causalità di cui qui si
parla è appunto quella della colpa. Essa si configura
non solo quando il comportamento diligente
avrebbe certamente evitato l’esito antigiuridico,
(21) Cfr. Cass., IV sez., 14/2/08 n. 19512, P. C. in proc. Aiana. Più di recente, cfr. Cass., IV sez., 6/6/13 n. 31980, Nastro e
altri, che richiama la pronunzia sopracitata. Si segnala, infine,
seppur con maggiore attenzione al profilo probatorio, Cass., IV
sez., 18/9/08 n. 40802, P. G. in proc. Spoldi.
757
Opinione
Diritto penale
ma anche quando una condotta appropriata aveva
apprezzabili, significative probabilità di scongiurare
il danno. Su tale assunto la riflessione giuridica è
sostanzialmente concorde, dovendosi registrare solo differenti sfumature in ordine al livello di probabilità richiesto per ritenere l’evitabilità dell’evento.
In ogni caso, non si dubita che sarebbe irrazionale
rinunziare a muovere l’addebito colposo nel caso
in cui l’agente abbia omesso di tenere una condotta osservante delle prescritte cautele che, sebbene
non certamente risolutiva, avrebbe comunque significativamente diminuito il rischio di verificazione dell’evento o (per dirla in altri, equivalenti ter-
758
mini) avrebbe avuto significative, non trascurabili
probabilità di salvare il bene protetto.
Alla luce di tali principi, pertanto, l’indagine causale demandata al giudice, come accennato, avrebbe dovuto condurre ad accertare se una condotta
di guida prudente avrebbe avuto significative probabilità di scongiurare l’esito letale».
Il grande pregio dell’arresto in commento consiste,
a giudizio di chi scrive, nell’aver anteposto con
grande chiarezza il profilo dogmatico a quello squisitamente probatorio, così da realizzare un’autentica actio finium regundorum tra i due distinti momenti della causalità.
Diritto penale e processo 6/2014
Opinione
Processo penale
Mezzi di prova
I Sistemi di Controllo Remoto:
fra normativa e prassi
di Alessandra Testaguzza
Un recente caso noto alle cronache giudiziarie ha riaperto il dibattito sull’utilizzo dei cc.dd. “Remote Control Systems” durante le indagini condotte dagli inquirenti. La difficoltà di un loro inquadramento giuridico
e le prassi scarsamente consolidate dalla giurisprudenza della Corte di cassazione inducono a riflettere
sull’opportunità di un loro utilizzo nonché sulla validità di quanto acquisito in sede processuale. Intercettazioni, ispezioni, perquisizioni o semplici prove atipiche? Operazioni “furtive” o necessitanti la garanzia
di un contraddittorio? Questi, alcuni degli interrogativi, non chiaramente definiti dalle pronunce di merito,
che l’autore decide di affrontare, stante l’oramai rafforzato utilizzo di tali strumenti nella fase delle investigazioni.
Il Trojan di Stato
Il settore giuridico e quello informatico hanno da
tempo reso evidente una forte reciproca connessione che ha inevitabilmente ampliato le riflessioni
in ambito dottrinale su temi variegati tra i quali
quello delle intercettazioni.
Pur sussistendo specifiche diversità fra la logica
propria dell’informatica e quella del diritto, fondata la prima, su un carattere di ipoteticità, deduttività e monologicità e, la seconda, su una metodologia argomentativa e dialogica, non si è mai esclusa una loro eventuale commistione, tanto da far
considerare i due sistemi fra loro correlati e dipendenti dallo sviluppo tecnologico in atto.
In quest’ottica va senz’altro letto l’interesse del Legislatore verso la disciplina normativa di nuovi sistemi di investigazione potenzialmente idonei a
fornire elementi utili agli inquirenti sul piano delle
inchieste ma che si scontra con quelle pretese sostanziali di tutela della riservatezza verso i soggetti
cui tali attività sono direzionate.
È divenuto sempre più frequente, oramai, il ricorso
a programmi di tipo “trojan horse” per la captazione
del contenuto di dati e programmi informatici
nonché per la realizzazione delle stesse intercettazioni: trattasi di software che, prescindendo dalle
autorizzazioni dell’utente, si installano ed eseguono
su un sistema target (sia esso un personal computer
od uno smartphone) e ne acquisisce determinati po-
teri di gestione. Una vera e propria microspia telematica.
Programmi del genere, sviluppati solitamente da
aziende specializzate, sono da un punto di vista tecnico e concettuale equivalenti ai vari tipi di malware impiegati di solito dai cybercriminali per carpire i preziosi dati delle proprie vittime: sono, infatti, costruiti in modo tale da installarsi furtivamente sui computer da monitorare ed agiscono
senza rivelare all’utente la propria presenza; essi comunicano attraverso Internet, in modalità nascosta
e protetta, con un centro remoto di comando e
controllo che li gestisce; catturano ciò che viene
digitato sulla tastiera, visualizzato sullo schermo o
detto al microfono; possono cercare tra i file presenti sul computer “ospite” o su altri connessi in
rete locale; dispongono di contromisure che li rendono in grado di nascondersi ai più celebri antivirus; sfruttano le vulnerabilità, spesso non ancora
note, dei sistemi operativi o degli applicativi per
aggirare controlli o contromisure che potrebbero
ostacolarli od inibirli.
Concettualmente tali strumenti possono agire anche come le usuali cimici, o microspie per intercettazioni ambientali, che vengono fisicamente piazzate in casa dell’indagato con la differenza che, in
questo caso, si tratta di prodotti software installati
surrettiziamente sul suo computer (1).
(1) Proprio per questo motivo sono stati oggetto, in alcuni
Paesi, di un forte dibattito giuridico in quanto non risultava immediatamente chiaro se potessero direttamente ricadere nelle
previsioni generali che regolano le intercettazioni ambientali
tradizionali. Un caso importante di utilizzo di tali sistemi si ebbe in Germania nel 2011, quando si venne in possesso di una
Diritto penale e processo 6/2014
759
Opinione
Processo penale
Nelle versioni più evolute e performanti questi
software possono operare come veri e propri sistemi
di controllo remoto (2) (RCS).
Caratteristica comune di questi strumenti è quella
di lavorare in modo autonomo, senza l’intervento
diretto di una persona responsabile, attraverso una
ricerca non limitata ad uno specifico periodo di
tempo. Di conseguenza, essi sono (potenzialmente)
onnipresenti ed “always on”.
È bene rilevare come tali forme di controllo non
rappresentino un unicum dell’esperienza italiana.
Per esempio, in Germania agli inizi del 2008 per la
prima volta venne riconosciuto un nuovo diritto
personale alla segretezza ed inviolabilità delle informazioni contenute nei sistemi tecnologici tale
da non legittimare l’utilizzo di strumenti di siffatta
portata se non nei casi di pericolo per la vita e l’integrità di altri soggetti, la libertà o altri beni comuni essenziali per l’esistenza dell’essere umano. Stabilire sino a che punto possano essere legittimamente utilizzati, del resto, non è questione di poco
conto. In più, spesso si è reso problematico un loro
compiuto inquadramento all’interno della disciplina giuridica nonché il relativo regime di utilizzabilità in sede processuale dei risultati da essi acquisiti.
È indubbio, infatti, che un sistema improntato al
garantismo ed alla tutela della riservatezza dei consociati mal si concilii, prima facie, con prassi dagli
effetti a dir poco deflagranti nella vita personale
degli stessi. Sarà pertanto necessario rintracciare
quel fil rouge al di là del quale un’attività lecita (?)
e oramai consolidata possa sfociare in un vero e
proprio abuso, come tale censurabile sotto ogni
profilo.
Il caso
Nel procedimento penale n. 39306/2007, il G.I.P.
del Tribunale di Napoli autorizzava, nell’ambito di
un’inchiesta coinvolgente alcuni noti personaggi
del mondo politico, la disposizione delle intercettazioni ambientali attraverso l’utilizzo di un software
apposito installato nei rispettivi personal computer.
Stante le richieste avanzate dalla Procura, il G.I.P.
ritenne perfettamente inquadrabili le operazioni de
copia dello spyware utilizzato dalla Polizia federale tedesca,
prodotto dalla società DigiTask, e se ne pubblicò una dettagliata analisi tecnica nella quale si dimostrava come esso, oltre
a consentire l’intercettazione audio, fosse in grado di prelevare
file dal computer dell’indagato e catturare immagini dallo
schermo. Il programma non disponeva di sufficienti misure di
sicurezza che ne impedissero un utilizzo anomalo e, dunque,
760
quibus nel novero delle attività previste dal comma
2 dell’art. 266 c.p.p. e dunque suscettibili di divenire parte integrante delle modalità investigative
condotte fino ad allora. Con il suddetto programma, inoltre, si provvedeva anche all’acquisizione
ed estrapolazione di dati ed informazioni presenti
nella memoria dell’elaboratore (o formati successivamente) «non aventi ad oggetto un flusso bidirezionale (o pluridirezionale) di comunicazioni in
senso stretto».
La peculiarità del mezzo di captazione utilizzato
portò gli stessi Sostituti Procuratori ad affrontare,
sin dalle richieste, due questioni di particolare pregnanza giuridica concernenti, in primis, l’ambito
cognitivo del mezzo stesso ed, in secundis, la possibilità di acquisire validamente i dati e i documenti
informatici predetti sulla scorta di un provvedimento autorizzativo del G.I.P. quale evidente garanzia di tutela delle esigenze di riservatezza dei diretti interessati. In entrambe le circostanze, a sostegno delle proprie osservazioni, venne riportata la
giurisprudenza della Corte di Cassazione la quale
già in passato, pur non potendo contare su precisi
ed univoci orientamenti in materia, si espresse favorevolmente per l’acquisizione dei dati attraverso,
tuttavia, un semplice provvedimento del PM, non
qualificando quindi tali attività come attività di intercettazione. Scelta condivisa anche nel caso in
esame.
La naturalezza con la quale vennero adottate tali
decisioni da parte del G.I.P., oltretutto motivate
per relationem, non può non sollevare delle incertezze sulla “legittimità procedurale” delle operazioni autorizzate e svolte dagli organi inquirenti. Questo sia con riferimento alla possibilità di realizzare
delle intercettazioni ambientali in ogni luogo, purché diverso dalla privata dimora (a prescindere dal
fatto che i reati per i quali si stava procedendo non
necessitassero del requisito previsto dal secondo
periodo dell’art. 266, comma 2, c.p.p. ma che venne egualmente ribadito nel provvedimento), avvalendosi di uno strumento “atipico” (quale è, per
l’appunto, un software installato in un computer,
tale da trasformarlo in una vera e propria “cimice
informatica”), sia in rapporto alla semplice predisposizione di un provvedimento del PM quale atto
poteva essere usato per compiere atti di spionaggio estesi ed
abusivi.
(2) Si parla generalmente di Remote Control System (Controllo Remoto di Sistema) avuto riguardo ad una serie di soluzioni progettate per eludere i sistemi di crittografia e raccogliere dati in maniera furtiva.
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Processo penale
idoneo a giustificare un’attività chiaramente incisiva della sfera di libertà personale del diretto interessato.
Temi che necessitano senz’altro di riflessioni più
approfondite stante l’arresto giurisprudenziale in
materia che rischia di ingenerare non solo confusione tra istituti processuali potenzialmente ricollegabili alla fattispecie in esame ma altresì prassi “pericolose” e di dubbia liceità sotto il profilo costituzionale.
La violazione della lex probatoria e la
“prova incostituzionale”
Le contraddizioni sorte attorno alla disciplina delle
intercettazioni hanno da sempre animato dibattiti
dottrinali di grande portata, tutti orientati verso la
definizione di punti fermi, vere e proprie guide lines,
del sistema, supportati dal placet delle numerose
pronunce della Suprema Corte. Nonostante gli
sforzi compiuti negli anni, tuttavia, il terreno resta
particolarmente insidioso; l’apertura di nuovi scenari sollevati dall’ingresso della digital evidence nel
procedimento penale, infatti, ha contribuito a rendere maggiormente difficoltoso l’inquadramento di
talune fattispecie nella disciplina codicistica ed ancor più sottile il discrimen fra fonte di prova tipica
e fonte di prova atipica.
Uno dei temi più à la page nel dibattito odierno riguarda l’eventuale violazione della lex probatoria durante le fasi processuali. Anzitutto, merita precisare
che la violazione di legge in tema di prova richiama
immediatamente la categoria dell’inutilizzabilità di
quanto acquisito: categoria introdotta proprio con lo
specifico intento di effettuare una scelta chiara ed
univoca relativamente all’estromissione dal procedimento di prove viziate o, meglio, di “non prove”.
È evidente, tuttavia, come l’imprevedibile varietà
della casistica superi di gran lunga le previsioni del
legislatore e renda del tutto “non canonizzabili” i
dettami dell’art. 191 c.p.p.
L’operazione di ricognizione dei divieti probatori, infatti, spesso risulta condotta facendo perno sull’individuazione dell’interesse protetto dalla norma violata, sul rango di interesse protetto dalla stessa nonché
sul grado di lesione subìto da detta istanza, nel bilanciamento con gli altri valori rilevanti nella fattispecie. Così, in alcuni casi, si giunge ad escludere l’inutilizzabilità della prova allorché la violazione della
lex probatoria comporti una lesione non rilevante al
“bene giuridico” protetto dalla norma. In tali circo-
stanze, ovviamente, dovrà ritenersi fondamentale la
logicità ed esaustività del discorso argomentativo
adottato in sede decisionale, scevro da riferimenti
tautologici e ridondanti. Spesso, tuttavia, si è anche
parlato di “prova incostituzionale” avuto riguardo all’acquisizione di elementi di prova con modalità non
disciplinate dal codice di rito e lesive dei diritti fondamentali dell’individuo, costituzionalmente tutelati.
Nel caso de quo, a parer di chi scrive, non può non
riaffiorare tale questione. Nonostante la giurisprudenza della Suprema Corte citata a supporto delle
istanze avanzate dalla Procura, potrebbero apparire
quantomeno opinabili le scelte del G.i.p. di autorizzare le intercettazioni ambientali, pur consapevole
della indeterminatezza del luogo di posizionamento
del personal computer.
Indubbiamente l’installazione di un captatore informatico sullo stesso può trasformare l’oggetto de
qua in una vera e propria microspia (come ribadito
dalla Procura), forse dai caratteri più evoluti rispetto alle comuni “cimici” utilizzate negli anni pregressi. Del resto, lo sviluppo di un software da inserire all’interno di un elaboratore elettronico che
sia in grado di captare il contenuto della conversazione intercorsa fra più soggetti, ritrasmettendola
contestualmente agli organi inquirenti, altro non è
che l’espressione più evidente dei cambiamenti in
atto di una società avanzata ed in constante evoluzione. E tale consapevolezza, se già era sentita dal
Legislatore del ’93, preoccupato di introdurre l’art.
266-bis c.p.p. per far fronte anche ai reati «compiuti mediante l’impiego di tecnologie informatiche o
telematiche», non può venir meno né essere disconosciuta di certo ora, nel “secolo della tecnologia”.
L’autorizzazione del G.i.p. a disporre le intercettazioni de quibus, pertanto, si pone in perfetta sintonia con i principi cardine del nostro sistema e,
quindi, con quell’affievolimento del fondamentale
diritto alla riservatezza e della inviolabilità del domicilio realizzabile attraverso un provvedimento
motivato dell’Autorità giurisdizionale. Restano,
tuttavia, dei dubbi relativamente alle modalità di
svolgimento delle operazioni in esame: se è vero,
infatti, che deve ritenersi esclusa una predeterminazione a priori dei luoghi ove realizzare l’intercettazione sulla base di precedenti orientamenti giurisprudenziali secondo i quali «l’intercettazione di
comunicazioni tra presenti richiede l’indicazione
dell’ambiente nel quale l’operazione deve avvenire
solo quando si tratti di abitazioni o luoghi privati,
secondo l’indicazione di cui all’art. 614 c.p.» (3), è
(3) Cass., Sez. VI, 2 dicembre 1999, n. 3541.
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Opinione
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anche vero, di converso, che l’impossibilità di determinarli con esattezza non esclude il rischio di
aggiramento degli stessi limiti imposti dalla pronuncia in esame. Si pensi al caso in cui il personal
computer (ma anche tutti gli altri strumenti che
oramai sono entrati a far parte della quotidianità
di ognuno, quali smartphone, tablet, ecc..), ormai
infetto dell’indagato, proprio perché “mobile” e
dunque collocabile astrattamente in ogni dove
(ipotesi contemplata dallo stesso decreto di autorizzazione del G.i.p), venga portato in un luogo di
privata dimora ed utilizzato come strumento di ricezione di comunicazioni e di conversazioni fra
presenti.
Né tanto meno può considerarsi attendibile il riferimento ai casi di intercettazione “casuale, a cornetta sollevata” posto come termine di paragone,
rispetto al caso in esame, da parte della Procura:
appare evidente la diversità dell’ambito cognitivo
originato dalle due fattispecie. Se nel primo caso,
infatti, la “casualità” è l’elemento di spicco ovvero
l’esistenza di un accadimento del tutto imprevisto
ed involontario, che potrà verificarsi come non verificarsi e tale da escludere una sua preventiva configurazione nelle stesse richieste di autorizzazione
alle intercettazioni, nel secondo non c’è margine
per l’eventualità. In quest’ultimo caso resta sconosciuto il posto di ubicazione dello strumento su cui
è installato il captatore informatico ma si è perfettamente consapevoli del ruolo da esso svolto.
L’impossibilità di stabilire con esattezza gli spostamenti dello strumento elettronico e la garanzia offerta agli inquirenti di poter comunque svolgere
un’attività di intercettazione ambientale, debitamente autorizzata, non può che stridere con le prerogative di riservatezza sancite a livello costituzionale. Anche a voler ammettere una successiva inutilizzabilità, in sede processuale, di quando acquisito, la violazione dei predetti principi costituzionali,
in questo caso, si configurerebbe ex ante, già nelle
fasi di autorizzazione alle operazioni da parte del
G.i.p. con un contestuale svilimento della portata
“avanguardista” dell’art. 15 Cost.
A differenza di quanto previsto dall’art. 271
c.p.p., il quale al primo comma stabilisce un divieto di utilizzazione dei risultati delle intercettazioni eseguite fuori dai casi consentiti dalla legge
o senza osservare le prescrizioni di cui agli artt.
267 e 268, comma 1 e comma 3, c.p.p. e che richiede un inevitabile controllo ex post sul mate-
riale acquisito (con potenziale illegittimità o irritualità della prova assunta in spregio dei divieti
probatori imposti da norme processuali), la non
indicazione dei luoghi ove svolgere l’intercettazione ambientale, avvalendosi di uno strumento comunque suscettibile di travalicare i limiti imposti
dal comma 2 dell’art. 266 c.p.p., potrebbe (o dovrebbe?) configurare una ipotesi di vera e propria
“prova incostituzionale”.
Nonostante, infatti, il dissenso autorevolmente
espresso in ordine alla sua esistenza (4) la quale - si
è osservato - non sarebbe sorretta da alcun argomento giuridico, dal momento che i precetti costituzionali rappresentano altrettanti paradigmi della
formazione attuata in sede legislativa, è noto come
la giurisprudenza della Consulta, negli anni passati,
abbia spesso operato un suo implicito riconoscimento. Basti pensare alla sentenza n.34 del 6 aprile
1973 nella quale il Giudice delle leggi ha più volte
rimarcato il principio secondo cui «attività compiute in dispregio dei fondamentali diritti del cittadino non possono essere assunte di per sé a giustificazione e a fondamento di atti processuali a carico
di chi quelle attività costituzionalmente illegittime
abbia subito» e ribadendo che «non possono validamente ammettersi in giudizio mezzi di prova che
siano stati acquisiti attraverso attività compiute in
violazione delle garanzie costituzionali poste a tutela dei fondamentali diritti dell’uomo e del cittadino».
Consentire, dunque, all’interno di un decreto di
autorizzazione alle intercettazioni la possibilità di
svolgerle in ogni luogo (ad eccezione di quelli di
privata dimora) pur nella consapevolezza della
potenziale mobilità dello strumento utilizzato per
la captazione, renderebbe del tutto vano lo sforzo,
promosso in sede costituente, di disciplinare
un’autorizzazione preventiva da parte dell’Autorità giurisdizionale per la limitazione del diritto inviolabile di libertà e segretezza della comunicazione. In caso contrario (si giustifichi la provocazione) basterebbe autorizzare sempre e comunque tali attività, contando sulla sola esistenza dei gravi
indizi di reato e dell’indispensabilità del mezzo ai
fini della prosecuzione delle indagini, riservando
la verifica dei presupposti previsti dal comma 2
dell’art. 266 c.p.p. in un momento successivo. Ma
non sembra questa una lettura conforme al dettato costituzionale.
(4) Cfr. Galatini, voce Inutilizzabilità (dir. proc. pen,) in Enc.
Dir. Agg., I, Milano,1997, 699.
762
Diritto penale e processo 6/2014
Opinione
Processo penale
Le perquisizioni “online”
Nel decreto di autorizzazione alle intercettazioni
del caso in esame si legge: «Quanto invece all’estrapolazione, tramite il suddetto sistema, di dati
non aventi ad oggetto un flusso bidirezionale (o
pluridirezionale) di comunicazioni inteso in senso
stretto, ma piuttosto documenti e dati informatici
già formati (o che verranno formati nel futuro)
contenuti nella memoria del personal computer,
anche alla luce dell’arresto giurisprudenziale citato dal P.M e che si richiama, ritiene il giudicante
che si tratti di un’attività che esula dalla nozione
di intercettazione di comunicazioni o conversazioni. Come tale non deve essere autorizzata dal
G.I.P.».
Preliminarmente occorre, dunque, riflettere sulla
nozione di intercettazione che da tempo è stata oggetto di interesse da parte della Suprema Corte.
Sia la Cassazione che la Corte costituzionale definirono intercettazione quell’atto del procedimento
effettuato mediante strumenti tecnici di percezione
atti a captare, in tempo reale, il contenuto di una
conversazione o comunicazione segreta in corso fra
due o più persone, anche nella forma di flusso comunicativo informatico o telematico, da parte di
un terzo “occulto” e tale da vanificare le cautele
ordinariamente poste a tutela della riservatezza dell’atto dialogico (5).
Il fatto che la comunicazione debba essere contestuale all’atto di apprensione della stessa ha portato
a sostenere, dunque, l’estraneità della acquisizione
di documenti già presenti nella memoria del computer alla disciplina di cui agli artt. 266 e ss c.p.p.,
e non ricollegabili al concetto di “flusso di comunicazioni” previsto dall’art. 266 bis c.p.p.
Trattasi di un insegnamento notoriamente conosciuto già a partire dai principi di diritto elaborati
dalla sentenza “Torcasio” (6).
Pur non ritenendosi pertinente il richiamo alla disciplina delle intercettazioni, la sussistenza di una
compressione del diritto alla segretezza delle comunicazioni tutelato dall’art. 15 Cost., deve essere comunque legittimata da un decreto del P.M quale
presupposto idoneo ad assolvere alla riserva di giurisdizione ivi radicata (7).
Pur volendo, infatti, ricomprendere nel concetto
di sistema informatico anche il singolo elaboratore, ove si intenda come tale un sistema di risorse,
composto da dispositivi di elaborazione elettronica digitale, funzioni e gruppi di dati che, sotto il
controllo di programmi memorizzati, immetta,
tratti ed emetta automaticamente dati memorizzabili e recuperabili (8), appoggiare una interpretazione estensiva del significato di comunicazione, suscettibile di amalgamare le sue diverse e variegate sfumature, potrebbe incidere su uno dei
pilastri del processo penale, id est la tassatività
della fattispecie penale.
È vero che l’art. 266 c.p.p., facendo riferimento anche alle altre forme di telecomunicazione, ha lasciato impregiudicata la varietà delle forme comunicative potenzialmente rientranti nelle ipotesi
contemplate dalla norma in esame, ma è altrettanto vero che estenderne la portata ad libitum potrebbe rappresentare un comodo espediente per situazioni analoghe e di dubbia definizione.
Nel provvedimento promosso dal pubblico ministero, inoltre, si esclude che tali operazioni rientrino,
in primis, nel novero delle attività di perquisizione
ex artt. 247 ss c.p.p. posta la «teleologica connessione delle stesse con l’istituto del sequestro quale
strumento di materiale e fisica apprensione della
res» (circostanza che non si verificherebbe nel caso
de quo), in secundis, nelle attività inquadrate ex
artt. 244 ss c.p.p. vista l’immediatezza del rapporto,
che si origina in tali contesti, fra organi inquirenti
e i luoghi e/o le persone da ispezionare (decisamente al di là delle ipotesi ivi contemplate).
Se già nell’originaria impostazione delle norme codicistiche erano state evidenziate talune difficoltà
nello stabilire con esattezza quando una determinata operazione potesse classificarsi come attività di
ispezione o di perquisizione, nonostante le diverse
finalità perseguite dai mezzi predetti, con le novelle intervenute nel 2008 la materia ha subito senz’altro ulteriori complicazioni.
L’intervento ispettivo, vista la formulazione ex art.
244 c.p.p., appare più ampio rispetto la disciplina
delle perquisizioni rivolte ai soli dati, informazioni
o programmi. La ratio della norma, infatti, sembra
perseguire principalmente la realizzazione di un’attività diretta alla mera osservazione del sistema od,
al più, all’accertamento in ordine all’esistenza, nel
sistema, di determinate applicazioni o programmi.
Prevalendo le finalità di descrizione e rilevazioni di
dati oggettivi, e non comportando alcuna appren-
(5) Sul punto: Corte cost., sent. 81/1993; Cass., Sez. Un.,
23 marzo 2000, n. 6.
(6) Cass., Sez. Un., 28 maggio 2003, n.36747, in Archivio
sentenze penali della Corte di Cassazione A./N. 200336747.
(7) Cass., Sez. VI, sent. 7 aprile 2010, n. 23742, in Guida al
Diritto, n.38, 75.
(8) Cfr. P. Galdieri, Teoria e pratica nell'interpretazione del
reato informatico, Milano, 1997.
Diritto penale e processo 6/2014
763
Opinione
Processo penale
sione, mediante sequestro, del bene oggetto di ricerca (9), può escludersi con sufficiente certezza
che l’attività di ispezione sia ricollegabile al caso
in esame parlandosi specificamente di acquisizione
e di estrapolazione dati dalla memoria del personal
computer.
Parimenti, escludere sic et simpliciter la disciplina
delle perquisizioni sostenendone l’estraneità perché
non ricollegabile ai casi di sequestro previsti dal
codice appare depauperante rispetto alle innovazioni introdotte dalla l. n.48 del 2008 di ratifica alla
Convenzione di Budapest, fermo restando, comunque, il divieto di condurre indagini di tipo esplorativo indirizzate a raccogliere (non anche fondate
su) notizie di reato grazie all’impiego a “strascico”
dei mezzi di ricerca della prova previsti dal codice (10).
Il collegamento degli stessi al thema probandum attraverso un’apposita individuazione del fatto storico penalmente rilevante consente, infatti, di accertare da un lato l’esigenza probatoria sottesa al provvedimento dall’altro la rilevanza del mezzo ai fini
processuali.
L’art. 247, comma 1 bis, c.p.p.: recita: «Quando vi
è fondato motivo di ritenere che dati, informazioni, programmi informatici o tracce comunque pertinenti al reato si trovino in un sistema informatico o telematico, ancorché protetto da misure di sicurezza, ne è disposta la perquisizione, adottando
misure tecniche dirette ad assicurare la conservazione dei dati originali e ad impedirne l’alterazione». La norma, dunque, non pone un modus procedendi univoco; al contrario si preoccupa solo di garantire la perfetta conservazione e non alterazione
dei dati oggetto di perquisizione, ben potendosi
sfruttare, pertanto, le tecnologie più innovative offerte dal mercato per sostenere attività di tal guisa.
La successiva custodia dei dati, delle informazioni
o dei programmi informatici (non solo, quindi, dei
computers nei quali essi si trovino), tipica dell’attività di sequestro, garantirà quell’intima correlazione fra i due mezzi di ricerca della prova, espressamente individuata dall’art. 252 c.p.p. Il sequestro,
quindi, stante le novelle codicistiche intervenute
dopo il 2008, sembrerebbe poter estendere la sua
portata verso la definizione di un oggetto dalle vesti “meno concrete” ma egualmente idonee ad assicurare l’accertamento dei fatti per i quali si procede.
Volendo considerare il solo dato formale, e dunque
la letteralità della norma, se la perquisizione è davvero teleologicamente connessa al sequestro ed il
codice la prevede anche avuto riguardo ai dati, alle
informazioni o ai programmi informatici, è lecito
supporre che quest’ultima attività (di sequestro, appunto) possa comunque essere compiuta rispetto a
dati “immateriali”, quali quelli inseriti nella memoria di un personal computer, non sussistendo alcun
discrimen fra tipologie di perquisizione ai sensi dell’art. 252 c.p.p.
Spetterà poi all’autorità giudiziaria disporre la copia di quanto estrapolato dagli inquirenti attraverso procedure che assicurino la conformità della
stessa all’originale e la sua immodificabilità.
Discorso che può analogamente essere sostenuto
anche nel caso in cui si volessero analizzare profili
di carattere “sostanziale”: a caratterizzare i diversi
mezzi di ricerca della prova, nell’ordinamento penale, sono le diverse finalità ed il differente ambito
cognitivo perseguiti dal Legislatore: nel caso della
perquisizione, sia essa personale, locale od “online”,
il tentativo da parte degli organi inquirenti è quello di acquisire la conoscenza di una cosa della quale si ha un fondato e ragionevole dubbio in un momento già precedente rispetto alla realizzazione
dell’atto.
Consentire all’autorità giudiziaria di procedervi
personalmente ovvero avvalendosi di ufficiali di
polizia giudiziaria debitamente delegati o realizzare
le stesse attività “da remoto”, non sembra possa
rappresentare un elemento di differenziazione tale
da escludere l’applicazione delle disposizioni di cui
agli artt. 247 ss c.p.p. Questo soprattutto alla luce
di quegli sviluppi pacificamente accolti dalla giurisprudenza di merito, in ambito tecnologico, diffusi
in maniera tentacolare anche nel settore giuridico
ed idonei a consentire il raggiungimento degli stessi obiettivi e traguardi con modalità più celeri e
meno dispendiose rispetto alle risorse da impiegare.
Ovviamente, accogliendo questa ipotesi, dovranno
estendersi alle operazioni summenzionate tutte
quelle garanzie che il codice predispone a tutela
dell’indagato, non essendo consentite perquisizioni
o sequestri all’insaputa dell’interessato. Le guarentigie introdotte dal Legislatore, infatti, hanno come obiettivo principale proprio la regolamentazione di quelle procedure incisive della sfera di libertà
(9) G. Costabile, Computer forensics e informatica investigativa alla luce della L. nr. 48 del 2008, in Cyberspazio e diritto,
11, 3, 2010, 478.
(10) Ex multis, Cass., Sez. IV, sent. 17 aprile 2012, n. 19618,
in Sicurezza e Giustizia, n. IV/MMXIII, La perquisizione online tra
esigenze investigative e ricerca atipica della prova.
764
Diritto penale e processo 6/2014
Opinione
Processo penale
del soggetto coinvolto protette dagli artt. 13 e 14
Cost.
Di qui, dunque, l’obbligo di consegna di copia del
decreto di perquisizione e di avviso circa la facoltà
di farsi rappresentare o assistere da un difensore durante il compimento dell’atto.
Il fatto, inoltre, che i dati così acquisiti restino nella disponibilità dell’indagato e dunque possano,
medio tempore, subire delle modificazioni, porta anche a non escludere l’ipotesi di un’attività irripetibile, da eseguirsi secondo i dettami di cui all’art.
360 c.p.p.
Soluzioni, queste, che renderebbero senz’altro superfluo il carattere “furtivo” dello strumento di
captazione ma che, mutatis mutandis, legittimerebbero un suo utilizzo in fase processuale.
È pacifico che, in ambo i casi, la violazione delle
prescrizioni processuali stabilite dal codice di rito
comporterà l’inutilizzabilità, rilevabile in ogni stato
e grado del procedimento, di quanto acquisito ai
sensi dell’art. 191 c.p.p.
Nel caso in esame, ritenendo non sussistere una disciplina codicistica tipizzata in grado di qualificare
l’attività svolta, si procedette attraverso un provvedimento di acquisizione di fonte di prova atipica ex
art. 189 c.p.p.
La «prova non disciplinata dalla legge» corrisponde ad un congegno autonomo che o possiede una
funzione dimostrativa non perseguibile attraverso
le prove enucleabili dal catalogo o si discosta da
queste per modalità esecutive senza le quali, in vista di nuove esigenze cognitive, il mezzo tipico non
potrebbe essere assunto perché strutturalmente inadeguato (11).
Non potrà considerarsi legittimo, pertanto, il ricorso alla norma de qua laddove si pretenda di impiegare un meccanismo deviante da un modello di per
sé già sufficiente a perseguire la tipologia di risultato astrattamente voluto.
Se da un lato, infatti, l’art. 189 c.p.p. ha rappresentato uno dei massimi esempi di lungimiranza da
parte del Legislatore, consapevole della possibile
emersione di cognizioni tecnico-scientifiche avanzate e tali da non poter subire rigide classificazioni
entro le maglie di disposizioni esistenti, dall’altro
le nuove potenzialità della conoscenza non debbono né possono essere aprioristicamente inserite nel
novero delle ipotesi suscettibili di rientrare nella
variegata casistica di cui all’art. 189 c.p.p. Non potrà, dunque, essere ricondotto alla menzionata disciplina uno strumento che abbia aggirato le condizioni di ammissibilità prestabilite per lo strumento
“tipo” o abbia profittato di scorciatoie, deviando
dalle procedure statuite per il modello (12).
Cosa che sembra, invece, esser stata realizzata nel
caso in esame, discostandosi dalla disciplina delle
perquisizioni (che, a parer di chi scrive, ben avrebbe potuto ricomprendere le ipotesi in questione)
ed avallando una prassi di dubbia legittimità costituzionale.
Già nella celebre sentenza “Virruso” (13) la Suprema Corte conferì una legittimazione indiretta ai
mezzi atipici di ricerca della prova, escludendo che
il ricorso ad un captatore informatico, quale espediente tecnico attraverso cui clonare un flusso unidirezionale di informazioni presenti e future, fosse
in conflitto con gli artt. 14 e 15 Cost.
Tuttavia, pur non destando perplessità il rigetto
delle censure avverso una potenziale lesione del diritto alla segretezza delle comunicazioni ex art. 15
Cost., maggiori dubbi palesa la contestuale negazione delle obiezioni sollevate in merito ad una
evidente lesione dell’inviolabilità del domicilio tutelata dall’art. 14 Cost.
Una fertile giurisprudenza della Corte di Cassazione, infatti, è oramai orientata nel ritenere degno di
tutela il c.d. “domicilio informatico” inteso quale
spazio ideale - ma anche fisico - in cui sono contenuti i dati informatici di pertinenza della persona (14).
È impossibile negare, del resto, come l’era della
tecnologia abbia trasformato cellulari, computer,
smartphone, tablet ecc. in elementi imprescindibili
per la vita dei cittadini. Tutelare il contenuto degli
stessi, pertanto, altro non è che offrire una garanzia
di massimo riserbo verso i dettagli più intimi della
sfera privata di ogni consociato.
Ciò che conta al fine di valutare la liceità di tale
mezzo con il diritto costituzionale alla inviolabilità
del domicilio, quindi, non è collegato alla sola ubicazione spazio-temporale del sistema informatico
(come all’epoca rilevato dalla Suprema Corte)
quanto piuttosto alla possibilità di concepire l’apparato interessato quale proiezione del domicilio fisico del privato che ne faccia uso.
(11) Cfr. P. Tonini, La prova penale, cit., 93 s.
(12) Cfr., M. Nobili, Sub Art. 189 c.p.p., in M. Chiavario
(coordinato da), Commento al nuovo codice di procedura pena-
le, II, Torino, 1990, 398-399.
(13) Cass., Sez. V, sent. 14 ottobre 2009, n.16556.
(14) Cass., Sez. V, sent. 26 ottobre 2012, n. 42021.
Fonte di prova atipica
Diritto penale e processo 6/2014
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Opinione
Processo penale
Ed una lettura costituzionalmente conforme dell’art. 189 c.p.p. imporrebbe di ritenere che proprio
in ragione della sua struttura, volutamente generica, la norma de qua risulti inidonea ad attuare la riserva di legge stabilita dalla Carta fondamentale,
precludendo l’ingresso processuale delle prove atipiche lesive di diritti inviolabili (15).
Considerazioni conclusive
Il “nuovo”, il “non uniforme”, il “non tipizzabile”
generalmente spaventa un po’. Il rischio principale
che si corre, infatti, è quello di creare dei precedenti che “facciano stato”, in un certo senso, e
blindino irrimediabilmente le pronunce nei casi
successivi similari o che presentino dei punti di
contatto con essi.
Spesso la tendenza a trasformare in prassi fattispecie di difficile e non univoca qualificazione ha rappresentato un comodo espediente per rifuggire il
problema di partenza, i.e. la corretta qualificazione
delle stesse, nel rispetto dei principi e delle regole
procedurali sanciti a livello codicistico ed, ancor
prima, a livello costituzionale. Inoltre, altrettanto
facilmente, si sono giustificate delle attività “border
line” con ragionamenti di retorica giuridica magari
ineccepibili sotto il profilo logico-formale ma del
tutto inconferenti con le finalità sostanziali perseguite dal Legislatore.
Il caso di cui si è discorso supra palesa un evidente
“imbarazzo giuridico” derivato dalla contrapposizio-
ne fra la necessità di svolgere delle attività investigative da un lato e la consapevolezza di dover offrire obbligatoriamente delle tutele e delle garanzie
anche dinnanzi ad attività non facilmente inquadrabili nei dettami del codice (si veda, a titolo
esemplificativo, la richiesta stessa da parte della
Procura di ottenere un provvedimento autorizzativo del G.I.P. anche nel caso di estrapolazione dati).
Chi scrive sostiene la perfetta assimilazione della
fattispecie in esame con i casi di perquisizione regolati dagli artt. 247 ss. c.p.p., alla luce delle riforme intervenute a partire dal 2008. Tuttavia, laddove si decidesse di non condividere tale impostazione, l’unica alternativa sarebbe quella di paralizzare
l’utilizzo dei software in esame fino alla compiuta
realizzazione di una normativa apposita che li disciplini con puntualità e rispetti la riserva di legge
stabilita a livello Costituzionale dagli artt. 13, 14 e
15 della Legge Fondamentale, non potendo contare sulla formulazione generica ed astratta offerta
dall’art. 189 c.p.p.
Seppur pleonastico, sembra opportuno rammentare
che qualunque sistema trae la sua forza ed il suo vigore dalla stabilità delle norme processuali e sostanziali previste per la regolamentazione di taluni
istituti: sarà, pertanto, il mezzo di prova o di ricerca della prova a dovervisi conformare. Non anche
il contrario.
(15) V. amplius, C. Conti, Accertamento e inutilizzabilità nel
processo penale, Padova, 2007.
766
Diritto penale e processo 6/2014
Osservatorio
Giustizia sovranazionale
Osservatorio Corte europea
dei diritti dell’uomo
a cura di Carlotta Conti
DIRITTO AD UN PROCESSO EQUO
OPERAZIONI UNDERCOVER IN RUSSIA
Corte europea dei diritti umani, Sez. I, 24 aprile 2014 Pres. Berro-Lefèvre - Lagutin e altri c. Russia
La Russia non assicura adeguate garanzie contro il rischio di entrapment da parte degli agenti provocatori.
Il caso
I ricorrenti sono Andrey Semenov, Yekaterina Shlyakhova,
Ivan Lagutin, Aleksey Zveryan, e Viktor Lagutin, ciascuno
dei quali fu avvicinato da un agente provocatore, nell’ambito di operazioni undercover di polizia che portarono alla loro condanna per spaccio di droga. I fratelli Ivan e Viktor Lagutin furono condannati rispettivamente alla pena di 5 anni
e 2 mesi e di 5 anni di reclusione, per aver venduto un
grosso quantitativo di cannabis, con una pronuncia poi
confermata nel gennaio 2012; Andrey Semenov, un eroinomane, fu condannato, per il tentativo di vendere eroina, a 5
anni e 9 mesi; Yekaterina Shlyakhova a 5 anni e 6 mesi per
spaccio di cannabis e, infine, anche Aleksey Zveryan a 5
anni e 6 mesi per la vendita di ecstasy.
Nel corso dei procedimenti a loro carico tutti i ricorrenti affermarono di non aver mai procurato droga ad altri prima
di essere stati avvicinati dagli agenti provocatori. Nei giudizi d’appello le Corti negarono l’entrapment degli imputati,
oppure non considerarono tale ricostruzione offerta dalle
difese. In ognuno degli anzidetti casi, gli agenti testimoniarono di aver proceduto alla richiesta di droga poiché avevano ricevuto “informazioni di servizio” secondo le quali gli
indagati erano coinvolti in attività di spaccio.
Ai sensi dell’art. 6 § 1, i ricorrenti lamentano l’iniquità delle
procedure instaurate a loro carico e che i giudici nazionali
non abbiano adeguatamente considerato la tesi difensiva
secondo la quale gli imputati sarebbero stati vittime di entrapment.
La decisione: violazione dell’art. 6 § 1
Art. 6 § 1
La Corte ha in primo luogo evidenziato come nella propria
giurisprudenza l’utilizzo di operazioni undercover siano una
tecnica investigativa legittima per combattere alcune tipologie di reato particolarmente gravi, purché siano previste
adeguate garanzie contro il rischio di abusi. In particolare,
nei casi in cui le prove principali derivano da operazioni
sottocopertura, le autorità devono dimostrare di aver avuto
un buon motivo per iniziare l’operazione. In più, dette indagini devono essere condotte in modo sostanzialmente passivo.
Inoltre, i giudici hanno osservato come in tutti i procedimenti a carico dei ricorrenti, gli agenti di polizia abbiano affermato di aver avuto delle “informazioni di servizio” che
indicavano gli imputati come soggetti coinvolti nello spac-
Diritto penale e processo 6/2014
cio di stupefacenti. Tuttavia né le autorità giudiziarie nazionali avevano cercato di chiarire questi aspetti, né il Governo russo aveva fornito ulteriori elementi in merito a tali informazioni. Pertanto, la Corte europea non aveva gli strumenti per decidere se le operazioni undercover erano state
decise per motivi seri e se gli agenti avessero fatto pressione per indurre i ricorrenti a commettere i reati per cui erano
poi stati condannati.
Quanto alle garanzie contro gli abusi, è stato sottolineato
come le condanne a carico dei ricorrenti fossero fondate
interamente o prevalentemente sulle prove raccolte durante lo scambio di droga controllato dagli agenti provocatori.
In precedenti pronunce contro lo Stato russo, la Corte europea aveva sancito che le operazioni erano gestite interamente dai corpi di polizia e che il sistema legale russo mostrava un’incapacità strutturale di offrire adeguate garanzie
contro le attività degli agenti provocatori.
A tale riguardo, le autorità giudiziarie, soprattutto poiché le
difese affermavano che gli agenti non avevano agito in modo passivo, erano obbligate a stabilire tramite un procedimento adversary i motivi per cui era stata decisa l’operazione sotto copertura, la natura del ruolo assunto dai provocatori nella commissione del reato e se era stata esercitata
istigazione o pressione nei confronti dei ricorrenti. Poiché
nella legislazione russa mancava ogni garanzia contro l’attività degli agenti provocatori, l’esame da parte delle autorità giudiziarie della tesi difensiva dell’entrapment sarebbe
stato l’unico modo per valutare i motivi dell’operazione e il
ruolo passivo o meno degli agenti. Nonostante ciò, i giudici
nazionali non avevano nemmeno tentato di verificare l’esistenza delle “informazioni di servizio” di cui avevano parlato i poliziotti. Poiché la questione relativa all’entrapment non
poteva essere disgiunta dalla decisione sulla colpevolezza
degli imputati, la mancata considerazione del primo aspetto aveva irrimediabilmente compromesso l’esito dei procedimenti, violando le garanzie fondamentali del giusto processo e, in particolare, la parità delle parti.
La Corte ha pertanto riscontrato una violazione dell’art. 6
della Convenzione nei confronti di tutti i ricorrenti e ha condannato la Russia a risarcire ognuno (tranne il Sig. Zveryan
che non aveva richiesto il risarcimento del danno) con la
somma di 3.000 euro.
I precedenti
Quanto alla compatibilità dell’uso di agenti provocatori o
infiltrati con i diritti garantiti dall’art. 6, cfr. C. eur. dir. umani, Sez. V, 2 ottobre 2012, Veselov e altri c. Russia, in
www.echr.coe.int; C. eur. dir. umani, Sez. I, 4 novembre
2010, Bannikova c. Russia, ivi; C. eur. dir. umani, Sez. II, 24
giugno 2008, Miliniene c. Lituania, ivi; C. eur. dir. umani,
Grande Camera, 5 febbraio 2008, Ramanauskas c. Lituania, ibidem; C. eur. dir. umani, Sez. III, 26 ottobre 2006,
Khudobin c. Russia, ivi; C. eur. dir. umani, Sez. I, 15 dicembre 2005, Vanyan c. Russia, ivi; C. eur. dir. umani, 9 giugno
1998, Texeira de Castro c. Portogallo, ivi
767
Osservatorio
Giustizia sovranazionale
DIRITTO ALLA VITA
L’ITALIA NON HA VIOLATO L’ART. 2 DELLA CONVENZIONE
PER IL SOLO FATTO CHE UN DETENUTO SIA RIUSCITO
AD OTTENERE ED UTILIZZARE DROGA IN CARCERE
Corte europea dei diritti umani, Sez. II, 30 aprile 2014 Pres. Karakaş - Marro e altri c. Italia
Inammissibile il ricorso contro lo Stato italiano per la
morte, in carcere, di un detenuto tossicodipendente.
tato il ricorso per manifesta infondatezza, ai sensi dell’art.
35 § 3 e § 4 della Convenzione.
I precedenti
Circa gli obblighi positivi di tutela nascenti in capo agli Stati
Parte ex art. 2 della Convenzione, nei confronti di persone
vulnerabili e, in particolare, nei confronti dei detenuti, cfr.
C. eur. dir. umani, Sez. III, 14 marzo 2002, Paul e Audrey
Edwards c. Regno Unito, in www.echr.coe.int, per quanto
concerne la tutela da aggressioni compiute dagli altri detenuti; C. eur. dir. umani, Sez. III, 3 aprile 2001, Keenan c. Regno Unito, ivi, per quanto concerne il rischio di suicidio in
carcere.
Il caso
I ricorrenti sono Esterina Marro, Alessandro Marra, Carmine Marra e Anna Marra, rispettivamente la madre, i fratelli
e la sorella di Sergio Marra, il quale fu arrestato per spaccio di droga il 17 agosto 1995 e detenuto presso il carcere
di Voghera, ove morì il 13 settembre. Secondo l’esame
autoptico, causa della morte fu una overdose di sostanza
stupefacente simile alla morfina, probabilmente eroina. I ricorrenti chiesero il risarcimento del danno al Ministero della giustizia, poiché il fatto che un detenuto fosse riuscito a
ottenere la droga in carcere dipendeva, a loro dire, necessariamente dalla negligenza degli addetti alla sorveglianza
presso la struttura carceraria. Detto ricorso venne però respinto dal giudice di prima istanza, dalla Corte d’Appello e
infine dalla Suprema Corte, che escluse la responsabilità
del personale dell’istituto, dal momento che la sostanza
stupefacente poteva essere stata portata all’interno di esso
tramite metodi che sfuggivano al controllo della polizia penitenziaria.
La decisione: manifesta infondatezza del
ricorso ex art. 35 §§ 3 e 4
Art. 2 .
La Corte ha innanzitutto ribadito come gli Stati membri siano obbligati a garantire adeguatamente la salute e il benessere dei detenuti. Il caso di specie concerne, in particolare,
l’obbligo di tutelare quei gruppi di persone che appaiono
particolarmente vulnerabili, in quanto tossicodipendenti.
Tuttavia, il mero fatto che un detenuto fosse riuscito ad ottenere della droga in carcere non costituiva una violazione
degli obblighi positivi nascenti in capo allo Stato ex art. 2
della Convenzione. Infatti, i ricorrenti non avevano fornito
elementi da cui si potesse evincere che le autorità fossero
in possesso di informazioni indicanti che Sergio Marra fosse in una situazione di maggiore pericolo rispetto agli altri
detenuti tossicodipendenti. Emergeva, inoltre, che la polizia penitenziaria aveva eseguito ispezioni sulla corrispondenza destinata al detenuto, nonché perquisizioni personali
sullo stesso e che i visitatori, il personale e i detenuti dovevano passare attraverso un sensore elettromagnetico per
accedere alla struttura. Pertanto, tramite le predette misure, lo Stato aveva ottemperato all’obbligo positivo di prevenire lo spaccio di droga all’interno delle carceri. Dato poi il
margine di apprezzamento lasciato al singolo Stato sulla
scelta delle misure da introdurre, non era richiesto alle
autorità di utilizzare cani antidroga all’interno.
Tanto premesso, la Corte europea ha ritenuto che il fatto
che Sergio Marra fosse riuscito a ottenere e a utilizzare la
sostanza stupefacente, pur essendo in carcere, non rendeva, di per sé, responsabile della sua morte lo Stato italiano.
Pertanto, ha escluso che vi fosse una apparente violazione
dell’art. 2 nel caso in parola e ha conseguentemente riget-
768
DIVIETO DI TRATTAMENTI INUMANI E DEGRADANTI
COMPATIBILITÀ DELL’ERGASTOLO CON L’ART. 3
DELLA CONVENZIONE
Corte europea dei diritti umani, Sez. II, 20 maggio 2014
- Pres. Raimondi - László Magyar c. Ungheria
L’art. 3 della Convenzione richiede che al condannato
all’ergastolo sia garantito un giudizio di “revisione” della pena, che tenga conto del percorso rieducativo svolto. Ogni condannato, inoltre, deve sapere in anticipo
se, ed a quali condizioni, vi sono prospettive di rilascio.
Il caso
Il ricorrente è un cittadino ungherese attualmente ristretto
in carcere in Ungheria. Nel 2002 fu sottoposto a indagini,
insieme ad altri, per una serie di rapine commesse a danno
di anziani, alcuni dei quali erano morti a causa delle ferite
riportate. Al termine del procedimento, nel maggio del
2005 fu condannato all’ergastolo, di tipo ostativo, per omicidio, rapina e altri reati. Tale condanna venne poi confermata in appello e dalla Suprema Corte nel 2010.
Il ricorrente lamenta l’incompatibilità con il divieto di trattamenti inumani e degradanti dell’ergastolo ostativo, poiché
la sua durata non è riducibile. Ai sensi dell’art. 6 § 1, lamenta anche l’eccessiva durata del procedimento a suo
carico.
La decisione: violazione degli artt. 3 e 6 § 1
Art. 3.
La Corte ha convenuto che coloro che sono stati riconosciuti colpevoli di reati particolarmente gravi possano essere condannati alla pena dell’ergastolo, se ciò risulta necessario per la tutela della sicurezza pubblica. Tuttavia, ai fini
della compatibilità tra detta pena e l’art. 3 della Convenzione, è necessario che l’autorità giudiziaria possa rivedere
nel tempo la decisione sulla pena perpetua, avendo riguardo ai progressi compiuti dal detenuto durante il proprio
processo riabilitativo. Inoltre, il condannato ha diritto a sapere, sin dall’inizio, se la pena può essere ridotta e attraverso quali modalità.
La Corte, distinguendo il caso in parola da un suo precedente pronunciato contro lo Stato ungherese, che concerneva un ergastolo non ostativo, ha notato che la normativa
dei provvedimenti di grazia prevede un controllo più attento quando non vi è la possibilità distante ma reale di essere
rilasciati. In primo luogo la legislazione ungherese non obbliga le autorità giudiziarie, né il Presidente della Repubblica, a valutare, su richiesta di grazia del condannato, se una
pena all’ergastolo è giustificata. Inoltre, sebbene la legge
Diritto penale e processo 6/2014
Osservatorio
Giustizia sovranazionale
imponga alle autorità di raccogliere informazioni sugli ergastolani, da allegare alla richiesta di grazia, non vengono forniti criteri circa quali informazioni sono considerate rilevanti. Infine, la decisione del Ministro della giustizia o del Presidente della Repubblica in ordine alla richiesta è una decisione che non abbisogna di motivazione.
Vero ciò, la Corte non ha ritenuto che la previsione di provvedimenti di grazia consentisse a un condannato di sapere
cosa avrebbe dovuto fare, e in presenza di quali condizioni,
per potersi, eventualmente, vedere ridotta la pena.
Sotto altro profilo, la Corte ha costatato come la legislazione interna non garantisca una sufficiente considerazione
alla rieducazione del condannato.
Pertanto, la Corte europea ha ritenuto non riducibile la pena irrogata al ricorrente, in violazione dell’art. 3 della Convenzione.
Art. 6 § 1
La Corte ha ritenuto inaccettabile la complessiva durata
del procedimento, nonostante la sua complessità. Ha quindi riscontrato una violazione dell’art. 6 § 1.
Art. 46
Quando viene riscontrata, da parte della Corte europea,
una violazione della Convenzione, lo Stato Parte è obbligato non solo a corrispondere la somma riconosciuta a titolo
di equa soddisfazione al ricorrente, ma anche a scegliere,
sotto il controllo del Comitato dei Ministri, le misure necessarie a rimuovere la causa della violazione.
In riferimento al caso in parola, in esso veniva riconosciuta
una deficienza sistematica, che avrebbe potuto comportare
ulteriori condanne di analoga natura. Pertanto, al fine di
evitare ulteriori violazioni e in modo da dare corretta esecuzione alla sentenza in commento, lo Stato ungherese dovrebbe riformare, preferibilmente a livello legislativo, i meccanismi per la revisione delle sentenze di condanna perpetue. Tale meccanismo di revisione, garantito per ogni condannato all’ergastolo, dovrebbe servire a valutare se l’applicazione della pena perpetua è giustificata e dovrebbe
consentire ai condannati di sapere in anticipo cosa devono
fare per vedersi eventualmente ridotta la pena e a quali
condizioni.
La Corte ha però ricordato che gli Stati Parte godono di
una ampia discrezionalità nella scelta delle pene irrogabili
in relazione alle singole fattispecie di reato. Pertanto, la
possibilità che venga scontato l’ergastolo non è di per sé
incompatibile con l’art. 3 e la revisione della condanna all’ergastolo non deve portare automaticamente alla riduzione della pena.
L’Ungheria è stata condannato a risarcire 2.000 euro, oltre
a 4.150 euro per le spese legali.
I precedenti
Circa la compatibilità della pena perpetua con l’art. 3 della
Convenzione, cfr. C. eur. dir. umani, Grande Camera, 9 luglio 2013, Vinter e altri c. Regno Unito, in questa Rivista,
2013, 1001; C. eur. dir. umani, Sez. II, 5 aprile 2011, Törköly c. Ungheria, in www.echr.coe.int; C. eur. dir. umani,
Grande Camera,12 febbraio 2008, Kafkaris c. Cipro, ivi.
Circa l’importanza della finalità rieducativa della pena, cfr.
C. eur. dir. umani, Grande Camera, 4 dicembre 2007, Dickson c. Regno Unito, in www.echr.coe.int
DIRITTI DEI DETENUTI
Corte europea dei diritti umani, Sez. II, 22 aprile 2014 Pres. Karakaş - G.C. c. Italia
Diritto penale e processo 6/2014
Condannata l’Italia per il ritardo nella somministrazione
di cure mediche adeguate a un detenuto.
Il caso
Il ricorrente G.C. fu arrestato nel febbraio 2009 e ristretto
nel penitenziario di Poggioreale a Napoli, in seguito venne
ammesso agli arresti domiciliari. Dall’ottobre 2009, fu invece detenuto a Bellizzi Irpino a scontare una pena di 10 anni
di reclusione. Nel 2007, quando era detenuto nel carcere di
Larino fu operato di emorroidi, con gravi postumi (rilassamento dello sfintere e incontinenza). Di ciò aveva informato
il personale del carcere di Bellizzi fin dal suo arrivo, facendo presente che gli era necessaria, viste le sue condizioni
di salute, una cella individuale dotata di servizi igienici adeguati. Invece, lo stesso afferma di essere stato ristretto in
cella con altri 6 detenuti e che ognuno aveva all’incirca 2,5
metri quadri a disposizione, con un solo bagno. All’arrivo in
carcere i medici della struttura scrissero che il ricorrente
era in buona salute, e in seguito affermarono che le sue
condizioni generali erano discrete. Il 30 ottobre fu deciso di
sottoporlo a ulteriori esami medici, che furono effettuati
soltanto il 10 febbraio dell’anno successivo, all’ospedale di
Avellino. Nel frattempo era stato trasferito in una cella, insieme a un altro detenuto, con un bagno e acqua fredda. Il
ricorrente aveva persino tentato di suicidarsi, in più occasioni, a causa dell’imbarazzo derivante dalla sua incontinenza. Pertanto, fu visitato da uno psichiatra e posto nel
“reparto separati” sotto sorveglianza, ove gli era consentita
una doccia al giorno. Al riguardo afferma che non gli era
permesso di partecipare alle attività sociali, ai trattamenti e
ai corsi. Inoltre, secondo il ricorrente, l’unica terapia che gli
fu somministrata furono dei sedativi.
Per mancanza di celle individuali, fu trasferito in infermeria.
Solo dal 23 agosto 2012, fu sottoposto 2 volte a settimana
un trattamento di rieducazione biofeedback, all’ospedale
pubblico di Avellino, trattamento che era stato prescritto
dai medici dell’ospedale il 20 maggio 2011. Il ricorrente
aveva chiesto l’applicazione del regime di detenzione domiciliare ma il magistrato di Avellino aveva rigettato la richiesta, poiché il referto medico stabiliva che il suo stato generale non era incompatibile con la detenzione. Aveva anche
proposto istanza di sospensione della pena, anch’essa rigettata dal Tribunale di Napoli, poiché la stessa viene concessa solo a chi è in pericolo di vita o in condizioni disumane.
Il ricorrente lamenta che le sue condizioni di detenzione
fossero inumane e degradanti, a causa della eccessiva durata della permanenza in cella, del poco spazio disponibile,
dell’assenza di luce e, per un periodo, di acqua calda. Inoltre afferma di non aver ricevuto cure adeguate al suo stato
di salute, in violazione dell’art. 3 della Convenzione.
La decisione: violazione dell’art. 3
Secondo la giurisprudenza della Corte, affinché le scarse
cure mediche rientrino nell’ambito di applicazione dell’art.
3 della Convenzione, è necessario che raggiungano un livello minimo di gravità, il quale varia in relazione a molteplici fattori, quali la durata del trattamento, i suoi effetti sul
paziente e talvolta, il sesso, l’età e lo stato di salute della
persona.
Le doglianze devono essere fondate su elementi di prova
tali da eliminare ogni ragionevole dubbio.
In particolare, in relazione a soggetti privati della libertà
personale, lo Stato ha l’obbligo di garantire che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto
della dignità umana e che siano assicurati la salute e il be-
769
Osservatorio
Giustizia sovranazionale
nessere dei carcerati, tramite la somministrazione di adeguate cure mediche.
Nel caso di specie, la Corte ha innanzitutto rilevato che il ricorrente non ha sostenuto che il suo stato di salute fosse
incompatibile con la detenzione in carcere. Si trattava solo
di stabilire l’adeguatezza o meno delle cure somministrategli. Lo stato del ricorrente era noto al personale della struttura fin dal primo tentativo di suicidio, del 20 novembre
2009, a causa della umiliazione derivante dalla propria patologia. Inoltre gli esami prescritti erano stati effettuati dopo mesi. La Corte ha ritenuto inaccettabili tali ritardi. Ha
quindi stabilito ritenuto che vi era stata una violazione dell’art. 3 della Convenzione.
Invece, in merito al sovraffollamento nel carcere di Bellizzi
Irpino, la Corte ha ribadito che le misure restrittive della libertà personale comportano necessariamente degli inconvenienti: la detenzione non fa, però, venire meno il rispetto
dei diritti tutelati dalla Convenzione e anzi in alcuni casi, i
detenuti necessitano di protezione maggiore in ragione della loro vulnerabilità. Lo Stato ha quindi l’obbligo positivo di
assicurare che tutti i detenuti siano trattati nel rispetto della
dignità umana e che il malessere sofferto non superi quello
normale derivante dalla detenzione. Nel valutarlo, è fondamentale aver riguardo al tempo in cui il detenuto è sottoposto alle condizioni incompatibili con la Convenzione. Nel
caso di specie, era emerso che il ricorrente aveva usufruito
dei domiciliari nel periodo trascorso a Poggioreale e al momento della presentazione del ricorso era già stato trasferi-
770
to a Bellizzi da circa sei mesi. Pertanto, la Corte ritiene di
non potersi pronunciare nel merito per quanto riguarda
Poggioreale.
Secondo la Corte, il Governo ha fornito dati provenienti dall’amministrazione penitenziaria, mentre il ricorrente non ha
fornito alcuna prova contraria. Di conseguenza, la Corte ritiene che le condizioni di detenzione non siano state contrarie all’art. 3, sotto il profilo del sovraffollamento.
L’Italia è stata condannata a risarcire 20.000 euro, oltre a
5.000 euro per le spese legali.
I precedenti
Circa il diritto di detenuti e sottoposti a fermo di ottenere
trattamenti medici adeguati, cfr. Corte eur. dir. umani, Sez.
V, 21 dicembre 2012, Raffray Taddei c. Francia, in
www.echr.coe.int; Corte eur. dir. umani, Sez. IV, 7 luglio
2009, Grori c. Albania, ivi; Corte eur. dir. umani, Sez. IV, 20
gennaio 2009, Slawomir Musial c. Polonia, ibidem; Corte
eur. dir. umani, Sez. V, 14 dicembre 2006, Tarariyeva c.
Russia, ivi; Corte eur. dir. umani, Sez. I, 1 giungo 2006,
Taďs c. Francia, ibidem.
Quanto alla violazione dei diritti convenzionali derivante da
sovraffollamento carcerario, cfr. Corte eur. dir. umani, Sez.
II , 8 g e n n a i o 20 13 , T o r r e g g i a ni e a l tr i c. I ta l i a , i n
www.echr.coe.int; Corte eur. dir. umani, Sez. II, 16 luglio
2009, Sulejmanovic c. Italia, ivi; Corte eur. dir. umani, Sez.
III, 15 luglio 2002, Kalashnikov c. Russia, ivi
Diritto penale e processo 6/2014
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Italia
Indici
Diritto penale e processo
INDICE DEGLI AUTORI
Corte di cassazione (Sezioni semplici)
12 luglio 2013 (c.c. 4 giugno 2013), n. 30177 .........
737
Bartoli Roberto
26 agosto 2013 (c.c. 21 maggio 2013), n. 35513.....
714
La sospensione del procedimento con messa alla
prova: una goccia deflattiva nel mare del sovraffollamento?.......................................................
9 settembre 2013 (c.c. 16 gennaio 2013), n. 36887 .
705
31 ottobre 2013 (c.c. 17 ottobre 2013), n. 44415 ....
706
23 gennaio 2014 (c.c. 25 settembre 2013), n. 3155 .
721
5 maggio 2014 (u.p. 5 marzo 2014), n. 18332 ........
692
8 maggio 2014 (u.p. 16 aprile 2014), n. 18934........
694
13 maggio 2014 (4 febbraio 2014), n. 19595..........
701
14 maggio 2014 (19 marzo 2014), n. 19856...........
700
Corbetta Stefano
14 maggio 2014 (15 aprile 2014), n. 19883 ...........
699
Osservatorio Corte di cassazione - Diritto penale ....
15 maggio 2014 (30 aprile 2014), n. 20411 ...........
698
16 maggio 2014 (28 marzo 2014), n. 20449...........
703
16 maggio 2014 (u.p. 23 aprile 2014), n. 20453 ......
695
16 maggio 2014 (23 aprile 2014), n. 20471 ...........
702
19 maggio 2014 (u.p.28 novembre 2013), n. 20531 .
696
20 maggio 2014 (u.p. 14 febbraio 2014), n. 20652...
694
20 maggio 2014 (u.p. 6 maggio 2014), n. 20656 .....
693
661
Bellantoni Giuseppe
Tutela della donna e processo penale: a proposito
della legge n. 119/2013 ...................................
641
Conti Carlotta
Osservatorio Corte europea dei diritti dell’uomo .....
767
692
D’Auria Donato
Causalita` e colpa: una costante ed indebita sovrapposizione ....................................................
751
Di Chiara Giuseppe
Osservatorio Corte costituzionale .......................
686
Di Martino Alberto
«Pasticciaccio brutto» in alto mare. Questioni di giurisdizione, estradizione, necessita`, traduzione d’atti .
Corte di cassazione (Sezioni Unite)
726
Flora Giovanni
Il legislatore penale tributario a lezione di ragionevolezza dalla Corte costituzionale ..........................
709
Garuti Giulio
Osservatorio Corte di cassazione - Processo penale.
698
Guerini Irene
Le videoriprese di comportamenti non comunicativi
nel luogo di lavoro .........................................
739
5 marzo 2014 (c.c. 30 gennaio 2014), n. 10561 ......
690
14 aprile 2014 (p.u. 19 dicembre 2013), n. 16207....
689
Corte europea dei diritti dell’uomo
22 aprile 2014, Pres. Karakas, G.C. c. Italia............
769
24 aprile 2014, Pres. Berro-Lefe`vre, Lagutin e altri c.
Russia........................................................
767
30 aprile 2014, Pres. Karakas, Marro e altri c. Italia ..
768
20 maggio 2014, Pres. Raimondi, La´szlo´ Magyar c.
Ungheria.....................................................
768
Marandola Antonella
La messa alla prova dell’imputato adulto: ombre e
luci di un nuovo rito speciale per una diversa politica
criminale .....................................................
Legislazione
674
Montagna Alfredo
Osservatorio Corte di cassazione - Sezioni Unite .....
689
Osservatorio Contrasti giurisprudenziali ................
705
Quagliano Giulia
L’inammissibilita` del ricorso per cassazione della
parte civile che non ha impugnato la sentenza assolutoria di primo grado ......................................
715
Testaguzza Alessandra
I Sistemi di Controllo Remoto: fra normativa e prassi
759
INDICE CRONOLOGICO
DEI PROVVEDIMENTI
Giurisprudenza
Corte costituzionale
13 marzo 2014 (10 marzo 2014), n. 45 .................
686
8 aprile 2014 (c.c. 7 aprile 2014), n. 80.................
707
772
Decreto Presidente della Repubblica 19 febbraio
2014, n. 60 «Regolamento recante la disciplina del
Fondo di rotazione per la solidarieta` alle vittime dei
reati di tipo mafioso, delle richieste estorsive e dell’usura, a norma dell’articolo 2, comma 6-sexies, del
decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225, convertito,
con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2011, n.
10» ...........................................................
657
Legge 28 aprile 2014, n. 67 «Deleghe al Governo in
materia di pene detentive non carcerarie e di riforma
del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di
sospensione del procedimento con messa alla prova
e nei confronti degli irreperibili», con commenti di
Roberto Bartoli e Antonella Marandola.................
659
Legge 16 maggio 2014, n. 79 «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 20 marzo
2014, n. 36, recante disposizioni urgenti in materia
di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati
di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, nonche´
di impiego di medicinali meno onerosi da parte del
Servizio sanitario nazionale» .............................
656
Diritto penale e processo 6/2014
Indici
Diritto penale e processo
Legge 30 maggio 2014, n. 81 «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 31 marzo
2014, n. 52, recante disposizioni urgenti in materia
di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari»
gurabile (Cass. pen., Sez. Un., 14 aprile 2014 (p.u.
19 dicembre 2013), n. 16207) ...........................
656
Operazioni undercover in Russia (C. eur. dir. umani,
Sez. I, 24 aprile 2014 - Pres. Berro-Lefe`vre - Lagutin
e altri c. Russia) ............................................
Diritto penale
Circostanze
692
751
Delitti contro il patrimonio
Estorsione e truffa aggravata dalla prospettazione di
un pericolo immaginario: quale differenza (Cass.
pen., Sez. II, 20 maggio 2014 (u.p. 6 maggio 2014),
n. 20656) ....................................................
Mancata restituzione del contratto di locazione: e` appropriazione indebita (Cass. pen., Sez. II, 20 maggio
2014 (u.p. 14 febbraio 2014), n. 20652) ................
Tentato furto in danno di un bar in orario notturno
(Cass. pen., Sez. IV, 8 maggio 2014 (u.p. 16 aprile
2014), n. 18934) ............................................
693
694
694
696
Prostituzione minorile
Atti sessuali con minore degli anni 18 e reato confi-
Diritto penale e processo 6/2014
Diritti dei detenuti (C. eur. dir. umani, Sez. II, 22 aprile 2014, Pres. Karakas, G.C. c. Italia) ...................
769
Archiviazione
698
Femminicidio
641
L’inammissibilita` del ricorso per cassazione della
parte civile che non ha impugnato la sentenza assolutoria di primo grado (Cass. pen., Sez. VI, 26 agosto
2013 (c.c. 21 maggio 2013), n. 35513), con commento di Giulia Quagliano ................................
714
Termine per l’invio degli atti al tribunale del riesame
(Cass. pen., Sez. III, 14 maggio 2014 (15 aprile
2014), n. 19883)............................................
699
Legislazione penale
707
La messa alla prova dell’imputato adulto: ombre e
luci di un nuovo rito speciale per una diversa politica
criminale (L. 28 aprile 2014, n. 67), con commento
di Antonella Marandola ...................................
674
Legittimo impedimento
721
Legislazione penale
La sospensione del procedimento con messa alla
prova: una goccia deflattiva nel mare del sovraffollamento? (L. 28 aprile 2014, n. 67), con commento di
Roberto Bartoli e Antonella Marandola .................
768
Impugnazioni
695
Giurisdizione
«Pasticciaccio brutto» in alto mare. Questioni di giurisdizione, estradizione, necessita`, traduzione d’atti
(Cass. pen., Sez. I, 23 gennaio 2014 (c.c. 25 settembre 2013), n. 3155), con commento di Alberto di
Martino ......................................................
Compatibilita` dell’ergastolo con l’art. 3 della Convenzione (C. eur. dir. umani, Sez. II, 20 maggio 2014 Pres. Raimondi - La´szlo´ Magyar c. Ungheria) .........
Tutela della donna e processo penale: a proposito
della legge n. 119/2013, di Giuseppe Bellantoni......
Diritto penale tributario
Il legislatore penale tributario a lezione di ragionevolezza dalla Corte costituzionale (Corte cost., 8 aprile
2014 (c.c. 7 aprile 2014), n. 80), con commento di
Giovanni Flora ..............................................
768
Divieto di trattamenti inumani e degradanti
Imputazione coatta (Cass. pen., Sez. VI, 15 maggio
2014 (30 aprile 2014), n. 20411).........................
Delitti contro la persona
Stalking: non occorre che gli atti persecutori provochino uno stato patologico (Cass. pen., Sez. V, 19
maggio 2014 (u.p.28 novembre 2013), n. 20531) ....
L’Italia non ha violato l’art. 2 della Convenzione per il
solo fatto che un detenuto sia riuscito ad ottenere
ed utilizzare droga in carcere (C. eur. dir. umani, Sez.
II, 30 aprile 2014 - Pres. Karakas - Marro e altri c. Italia) ............................................................
Processo penale
Delitti contro l’incolumita` pubblica
Quando danneggiamento con il mezzo del fuoco integra il delitto ex art. 424, comma 1, c.p. (Cass.
pen., Sez. I, 16 maggio 2014 (u.p. 23 aprile 2014), n.
20453) .......................................................
767
Diritto alla vita
Colpa
Causalita` e colpa: una costante ed indebita sovrapposizione, di Donato D’Auria .............................
Giustizia sovranazionale
Diritto a un processo equo
INDICE ANALITICO
Premeditazione e l’aver agito con motivi di crudelta`:
quali i presupposti? (Cass. pen., Sez. I, 5 maggio
2014 (u.p. 5 marzo 2014), n. 18332) ....................
689
Diritto al rinvio dell’udienza per adesione del difensore allo sciopero di categoria (Cass. pen., Sez. III, 14
maggio 2014 (19 marzo 2014), n. 19856)..............
700
Mezzi di prova
661
I Sistemi di Controllo Remoto: fra normativa e prassi, di Alessandra Testaguzza .............................
759
Le videoriprese di comportamenti non comunicativi
nel luogo di lavoro (Cass. pen., Sez. VI, 12 luglio
2013 (c.c. 4 giugno 2013), n. 30177), con commento
di Irene Guerini .............................................
737
773
Indici
Diritto penale e processo
Misure cautelari
Divieto di avvicinamento ed onere di individuzione
dei luoghi oggetto di divieto (Cass. pen., Sez. V, 9
settembre 2013 (c.c. 16 gennaio 2013), n. 36887) ...
Imputato detenuto ed omessa traduzione per l’udienza camerale di riesame (Cass. pen., Sez. VI, 31
ottobre 2013 (c.c. 17 ottobre 2013), n. 44415)........
Tossicodipendenza, regimi cautelari e criteri di scelta delle misure (Corte cost., 13 marzo 2014 (10 marzo 2014), n. 45).............................................
705
706
Provvedimento cautelare e presunzioni legali tributarie (Cass. pen., Sez. III, 13 maggio 2014 (4 febbraio
2014), n. 19595) ............................................
701
Sequestro conservativo e periculum in mora (Cass.
pen., Sez. I, 16 maggio 2014 (23 aprile 2014), n.
20471) .......................................................
702
686
Nullita`
Omesso avviso al difensore di fiducia della fissazione dell’udienza (Cass. pen., Sez. I, 16 maggio 2014
(28 marzo 2014), n. 20449)...............................
703
Responsabilita` delle persone giuridiche
Sequestro preventivo del profitto del reato e sequestro per equivalente nei reati tributari (Cass. pen.,
Sez. Un., 5 marzo 2014 (c.c. 30 gennaio 2014), n.
10561) .......................................................
690
COMITATO PER LA VALUTAZIONE
Diritto penale: R. Bartoli; M. Bertolino; A. Ceretti; G. De Francesco; M. V. Del Tufo; E. Dolcini; M. Donini; G. Fiandaca; A. Fiorella;
G. Flora; G. Forti; A. Gargani; G. Grasso; R. Guerrini; G. Insolera; S. Larizza; C. de Maglie; G. Mannozzi; F. Mantovani; A. M. Maugeri;
E. Mezzetti; V. Militello; A. Pagliaro; C. E. Paliero; M. Papa; M. Romano; A. Vallini; F. Vigano`.
Processo penale: A. Bargi, G. Bellantoni, A. Bernasconi, P. Corso, A. De Caro, P. Dell’Anno, V. Fanchiotti, L. Filippi, A. Gaito, A.
Giarda, P. Gualtieri, S. Lorusso, A. Marandola, M.R. Marchetti, E. Marzaduri, M. Menna, A. Molari, P. Moscarini, G. Pansini, V. Patano`, A. Pennisi, G. Pierro, A. Presutti, A. Scaglione, M. Scaparone, A. Scella.
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774
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Diritto penale e processo 6/2014