la domenica DI REPUBBLICA DOMENICA 27 LUGLIO 2014 NUMERO 490 PHILIP SEYMOUR HOFFMAN E JOHN LE CARRÉ NEL PUB " SILBERSACK" DI AMBURGO. FOTO DI ANTON CORBIJN/SCHIRMER-MOSEL Cult La copertina. La fine delle hit parade Straparlando. Carlo Cellucci: “Il vero è fantasia” La poesia del mondo. Le Canzonette di Fortini Le Carré C IoeSeymour Hoffman JOHN LE CARRÉ “Philip era attirato dalla tragedia e non poteva tollerare un mondo così sfolgorante”. Lo scrittore racconta l’ultimo incontro con un genio disperato REDO di aver trascorso cinque ore al massimo in intima compagnia di Philip Seymour Hoffman, sei col beneficio del dubbio. Altrimenti, non restava che starsene lì con altre persone, intorno al set di A Most Wanted Man, a guardarlo sul monitor, e in seguito gli si diceva che era bravo, o si decideva che era meglio tenersi per sé le proprie opinioni. Non avevo fatto quasi mai visite al set, forse un paio, oltre a una sciocca particina che mi obbligò a farmi crescere una barba rivoltante, mi portò via un giorno intero e alla fine si concluse con la sfocata immagine di qualcuno che fui grato di non riconoscere. Quasi certamente nel mondo del cinema non c’è nessuno di più superfluo di colui che ha scritto il testo originale da cui è stata tratta la sceneggiatura di un film e che gironzola sul set, e l’ho appreso a mie spese. Alec Guinness in effetti mi ha fatto il favore di mostrarmi il set dell’adattamento televisivo per la Bbc di La talpa. Tutto quello che avevo in mente di fare era sprigionare la mia ammirazione, ma Alec disse subito che il mio sguardo lucentissimo era troppo intenso. A ben pensarci, in quell’inverno del 2012 di riprese di A Most Wanted Man, un pomeriggio Philip ha fatto lo stesso favore a una nostra amica. Lei si trovava in piedi in mezzo a un gruppetto di persone, a una trentina di metri circa da lui. Se ne stava lì a guardare, prendendo freddo come chiunque altro. Qualcosa di lei però lo infastidiva e l’ha fatta allontanare. È stato un po’ surreale, un po’ paranormale, ma Philip ha colto nel segno, perché in effetti anche quella signora era una scrittrice di romanzi, in grado di irradiare intensità come i migliori tra noi. Philip non lo sapeva. L’ha intuito soltanto. >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE L’immagine. Tanti saluti alla cartolina (soprattutto a quella dal nulla). La storia. Lo sguardo senza confini di Tiziano Terzani dai suoi passaporti. L’incontro. Cyndi Lauper: “Sono sempre una ragazza che pensa solo a divertirsi. Quando non lava i piatti” la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 27 LUGLIO 2014 28 La copertina. Le Carré e Seymour Hoffman “La spia che ha interpretato prima di morire è un uomo in rovina Philip si distruggeva davanti a te e aveva bisogno che tu lo sapessi Ogni volta che usciva da una stanza, temevi di non rivederlo più” <SEGUE DALLA COPERTINA JOHN LE CARRÉ C OL SENNO DI POI, nessun fenomeno di questo tipo sorprendeva di Philip, perché ti accorgevi delle sue brillanti doti intuitive nell’istante stesso in cui ne facevi la conoscenza. E così pure era per la sua intelligenza. Molti attori simulano intelligenza, ma Philip era intelligente sul serio: era un eclettico brillante, raffinato, e aveva un intelletto che ti colpiva come la luce di un paio di fari e ti avviluppava appena ti afferrava la mano, ti circondava il collo con il suo braccione e si accostava con la sua guancia alla tua; o, se era dell’umore giusto, ti avvinghiava stringendoti a sé, come un grosso scolaro tracagnotto, e poi restava lì in piedi a illuminarti, calcolando l’effetto prodotto. Philip faceva vivaci bilanci di ogni cosa, di continuo. Era un’occupazione dolente ed estenuante, e alla fine deve essere stata la sua rovina. Il mondo era troppo sfolgorante perché lui lo potesse tollerare. Doveva strizzare gli occhi o esserne abbagliato a morte. Come Chatterton, andò sette volte sulla Luna rispetto all’unica vostra, e ogni volta che decollava non eri mai sicuro che sarebbe tornato indietro. Credo che qualcuno disse la stessa cosa del poeta tedesco Hölderlin: ogniqualvolta usciva da una stanza, temevi di non rivederlo più. Se quanto sto dicendo può sembrare un’opinione scontata, a posteriori, dopo quello che è successo, sappiate che non è così. Philip si distruggeva davanti ai tuoi stessi occhi. Nessuno riusciva a vivere ai suoi ritmi e a rimanere in carreg- Guinness, sullo schermo Philip non giata, e nei suoi eccessi di straordina- riusciva a interpretare granché bene ria confidenza aveva bisogno che tu lo un amante, ma per fortuna nel nostro sapessi. film non c’era di che preoccuparsi. Se Nessun attore — non Richard Bur- Philip doveva prendere nelle proprie ton, non Burt Lancaster, e neppure braccia una donna, non arrossivi e Alec Guinness — mi ha mai colpito non distoglievi lo sguardo come facequanto Philip quando ci siamo cono- vi con Guinness, ma non potevi fare a sciuti: mi ha accolto come se da tutta meno di avere la sensazione che, in la sua vita non avesse fatto altro che qualche modo, lui lo stesse facendo aspettare di conoscermi, e suppongo per te, più che per se stesso. che accogliesse così chiunque. Io, inI nostri registi hanno discusso a lunvece, effettivamente aspettavo da go per decidere se dovessero riprenmolto tempo di conoscere Philip. Ri- dere Philip a letto con una donna, ed è tenevo che il suo Capote fosse la mi- interessante sapere che quando alla gliore performance in assoluto che fine hanno proposto davvero una sceavessi visto sullo schermo. Non ho osa- na del genere, sono stati entrambi i to dirglielo, però, perché con gli atto- partner a defilarsi. Soltanto quando ri c’è sempre il rischio che quando di- accanto a lui è comparsa la splendida ci loro quanto sono stati bravi nove an- attrice Nina Hoss i registi si sono resi ni prima ti possano chiedere che cosa conto di assistere al piccolo miracolo c’è che non va nel loro modo di recita- di un romantico fallimento. Nella sua re da nove anni a questa parte. parte, rimpolpata in fretta e furia, NiGli ho detto però che era l’unico at- na Hoss è l’adorante collega di lavoro tore americano che conoscevo in gra- di Philip, la sua sostenitrice, la sua sodo di interpretare il mio personaggio lida spalla. E lui le spezza il cuore. di George Smiley, ruolo in un primo A Philip quella parte andava benistempo esaltato da Alec Guinness nel- simo: la sua interpretazione di l’adattamento televisivo per la Bbc de Günther Bachmann, un agente delLa talpa, e in tempi più recenti da l’intelligence tedesca di mezza età in Gary Oldman in un altro adattamen- condizioni assai precarie, non preveto per il grande schermo. Ma all’epo- deva di includere l’amore o niente del ca, da fedele britannico, rivendicavo genere. Philip aveva preso quella deGary Oldman come nostro. cisione fin dall’inizio e per poterlo rinForse ricordavo anche che, al pari di facciare all’occasione si portava sempre appresso una copia in formato tascabile del mio romanzo, molto sgualcita dall’uso — e quale scrittore potrebbe chiedere di meglio? — , per sventolarla sotto il naso di chiunque avesse l’idea di aggiungere un po’ di pepe alla storia. Il film A Most Wanted Man , nel quale recitano anche RaIL FILM chel McAdams PHILIP SEYMOUR e Willem Dafoe, HOFFMAN IN “A MOST sta per uscire nei WANTED MAN” cinema, anche da DI ANTON CORBIJN voi, quindi iniziaAPPENA USCITO te a mettere da NEGLI STATI UNITI parte i soldi per IN ITALIA ARRIVERÀ il biglietto. È DOPO L’ESTATE stato girato quasi interamente ad Am- Il mio agente troppo speciale burgo e Berlino, e del cast, in ruoli relativamente di secondo piano, fanno parte anche alcuni degli attori tedeschi più famosi: non solo la sublime Nina Hoss, (interprete di We Are the Night, Barbara, e così via), ma anche Daniel Brühl (che ha recitato in Rush, Good Bye Lenin! e in altre pellicole). Nel romanzo, il mio personaggio di Bachmann è un agente segreto prossimo alla rovina. Beh, Philip sa interpretarlo alla perfezione. È stato riportato in tutta fretta a casa da Beirut dopo aver perso la sua preziosa rete di informatori per l’incompetenza, o qualcosa di peggio ancora, della Cia. È stato spedito ad Amburgo, a raccogliere informazioni nella città che ospitò i cospiratori dell’11 settembre. La divisione dell’intelligence locale, e molti dei suoi abitanti, vivono portandosi ancora dietro quell’imbarazzo. La missione che Bachmann si è dato è ripianare le cose: non con squadre di sequestratori, torture con l’acqua e L’autore JOHN LE CARRÉ, 82 ANNI, EX AGENTE DEI SERVIZI SEGRETI BRITANNICI, È UNO DEGLI AUTORI DI SPY STORY E THRILLER PIÙ LETTI AL MONDO. TRA I SUOI BESTSELLER, DAL 1961 A OGGI, “LA SPIA VENUTA DAL FREDDO” , “LA TALPA” “LA CASA RUSSIA” E “IL SARTO DI PANAMA” omicidi extragiudiziali, ma con la sapiente infiltrazione di spie, amalgamandosi, utilizzando il peso stesso del nemico per abbatterlo, e compiere quindi lo smantellamento del jihadismo dal di dentro. Mi sembra che nel corso di una cena di gala con i registi e gli attori principali del cast, né Philip né io abbiamo parlato granché della parte di Bachmann; abbiamo chiacchierato in termini più generali di cose come la diligenza e l’addestramento degli agenti segreti e il ruolo di pastore che ricade sui funzionari loro superiori. Lascia stare i ricatti, gli ho detto. Lascia stare i macho. Dimentica torture come la privazione del sonno, richiudere le persone in casse, simulare l’esecuzione e altre esagerazioni di questo tipo. Gli agenti migliori — chiamali informatori, spie, infiltrati o come ti pare — devono avere pazienza, intendimento e sincera scrupolosità, predicavo. Mi piace pensare che egli abbia la Repubblica DOMENICA 27 LUGLIO 2014 29 I successi SUL SET JOHN LE CARRÉ E, A DESTRA, PHILIP SEYMOUR HOFFMAN SUL SET DI “A MOST WANTED MAN” TRATTO DAL ROMANZO DI LE CARRÉ PUBBLICATO IN ITALIA COL TITOLO “YSSA IL BUONO” (MONDADORI, 2008) IL GRANDE LEBOWSKI JOEL COEN 1998 MAGNOLIA PAUL THOMAS ANDERSON 1999 LA 25ª ORA SPIKE LEE 2OO2 TRUMAN CAPOTE A SANGUE FREDDO BENNETT MILLER 2005 ONORA IL PADRE E LA MADRE SIDNEY LUMET 2007 LA FAMIGLIA SAVAGE TAMARA JENKINS 2007 FOTO ANTON CORBIJN/CONTOUR/GETTY IL DUBBIO JOHN PATRICK SHANLEY 2008 preso a cuore il mio sermone, ma è più probabile che si sia chiesto se non valeva la pena sfruttare un po’ quell’espressione smancerosa che mi viene naturale quando cerco di far colpo su qualcuno. È difficile adesso scrivere in modo distaccato della performance di Philip nel ruolo di un uomo disperato di mezza età che va incontro alla rovina, o di come egli ha dato forma alla traiettoria autodistruttiva del suo personaggio. Naturalmente c’era qualcuno a dirigerlo, e il regista Anton Corbijn, eclettico e colto come Philip, è poliedrico e fa molte cose, tutte splendidamente: è un fotografo di fama mondiale, un caposaldo della scena musicale contemporanea, ed è egli stesso il soggetto di un documentario. Il suo primo film, Control, in bianco e nero, è iconico. Al momento sta girando un film su James Dean. Malgrado tutto ciò, comunque, i suoi talenti e la sua creatività, quando li ho visti all’opera, L’attore PHILIP SEYMOUR HOFFMAN, NATO VICINO A NEW YORK, È DECEDUTO LO SCORSO 2 FEBBRAIO PER OVERDOSE. HA VINTO UN OSCAR COME MIGLIOR ATTORE PROTAGONISTA NEL 2006 PER “TRUMAN CAPOTE A SANGUE FREDDO”. ERA UN INTERPRETE CULT SIA DI FILM D’AUTORE CHE DI BLOCKBUSTER mi hanno colpito; erano interiorizzati e contavano per lui stesso. Sospetto che egli sarebbe l’ultima persona al mondo a definirsi un drammaturgo empirico, o un eloquente comunicatore della vita interiore di un personaggio. Philip ha dovuto fare dentro di sé quello stesso dialogo, e deve essere stato un dialogo alquanto ossessivo, pieno di domande come: a che punto esatto devo perdere ogni sensazione di moderazione? Oppure: perché insisto nell’affrontare tutto ciò pur sapendo in fondo in fondo che può soltanto finire in tragedia? Ma la tragedia attirava Bachmann come fa la luce di una lampada con un saccheggiatore di relitti, e ha attirato anche Philip. C’è stato un problema con gli accenti. C’erano attori tedeschi eccellenti che parlavano inglese con accento teutonico. Il comune buonsenso avrebbe imposto, non necessariamente con saggezza, che Philip do- vesse fare altrettanto. Quando l’ho sentito parlare per pochi minuti, ho pensato: “Accidenti!”. Nessun tedesco che conosco parla inglese così. Con la bocca faceva qualcosa di particolare, una specie di broncio. Pareva quasi baciare le sue battute, invece di pronunciarle. Poi, poco alla volta, ha fatto ciò che soltanto gli attori migliori riescono a fare: ha reso la sua voce l’unica voce autentica. L’unica voce particolare, quella dalla quale dipendevi in mezzo a tutte le altre. E ogni volta che usciva di scena, da quel grand’uomo che era, attendevi impaziente che vi tornasse. Lo aspettavi già con un crescente senso di malessere. Dovremo attendere a lungo prima che arrivi un altro Philip. Traduzione di Anna Bissanti © David Cornwell, 2014 Published by Arrangement with Agenzia Santachiara © RIPRODUZIONE RISERVATA I LOVE RADIO ROCK RICHARD CURTIS 2009 LE IDI DI MARZO GEORGE CLOONEY 2009 THE MASTER PAUL THOMAS ANDERSON 2012 HUNGER GAMESLA RAGAZZA DI FUOCO FRANCIS LAWRENCE 2013 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 27 LUGLIO 2014 30 Le immagini. Souvenir BRUGHERIO (MILANO). IL PRIMO QUARTIERE DELLA EDILNORD (1962) CAMPORA SAN GIOVANNI (COSENZA). CORSO ITALIA DI NOTTE LIDO DI CAMPOMARINO G I O R G I O VA S T A P CIRIÈ (TORINO). VIA PAOLO BRACCINI Spedivamo milioni di cartoline, anche dai posti più assurdi. Un libro le ha raccolte. Appena in tempo IAZZA Affari a Zingonia, via Traversi a Quarto Oggiaro, viale della Stazione a Gattinara oppure la centrale termoelettrica di San Giovanni Valdarno, un camping di Lido Cavallino e una casa di riposo a Mombaruzzo: se si volesse descrivere un’identità nazionale attraverso i luoghi si opporrebbe molta resistenza all’ipotesi di individuare nei centri appena citati, e in questa tipologia di costruzioni, qualcosa di utile. Perché l’immagine nazionale si compone connettendo il Colosseo alla Torre di Pisa, il Maschio Angioino alla Mole. Eppure c’è stato un tempo — tra la fine degli anni ‘50 e i ‘70 — in cui tutt’intorno al Monumento che unifica (e semplifica) la Memoria c’era una corolla di luoghi ulteriori, minimi e irrilevanti, periferie che, desiderando almeno per una volta percepirsi come centro, presero a comparire esattamente in quei rettangoli di cartoncino in cui fino ad allora figuravano solo gli emblemi dell’Arte e della Storia. Ebbero vita breve: se la cartolina come consuetudine sociale è oggi ormai prossima all’estinzione, di questa cartolina dell’insignificante si sono perse da tempo le tracce. Vale la pena ricostruire le circostanze in cui divenne possibile concepire come soggetto memorabile un comunissimo incrocio cittadino circondato da condomìni appena nati, gli autogrill Pavesi sospesi a ponte sulle autostrade, fieri nel loro design tra la pagoda e l’astronave, l’edilizia popolare anodina e funzionale del Piano Ina o lo stabilimento siderurgico Oscar Sinigaglia S. GIOVANNI VALDARNO (AREZZO). Saluti da di Genova (sul retro, inquietante, la scritta “Pensandoti caramente”). Durante il boom, nelle comunità che vivono in paesini o nei quartieri operai nasce il desiderio di veder rappresentato il proprio spazio minuscolo nello stesso modo in cui erano rappresentati quelli maiuscoli. A venire orgogliosamente rivendicato è lo splendore del prosaico, lo sfavillio dell’opaco. Un determinato luogo — è il principio sottinteso — ha valore semplicemente perché è dove abitiamo: perché è il nostro luogo. E allora, mentre il calcestruzzo prende il posto del marmo e l’amianto quello del travertino, una moltiplicazione di vedutine di Bresso comincia a esistere accanto a (se non contro) San Pietro e Palazzo Vecchio: l’ordinario come meraviglia. A tutto ciò si aggiunge l’esigenza promozionale. Tirando a poco prezzo alcune migliaia di copie presso una tipografia di quartiere, per un esercente era possibile far circolare una veduta di viale al Mare di Lido di Campomarino — la gente seduta ai tavolini sotto l’insegna Bar Maria Tabacchi (gli albori del product placement) — oppure immortalare l’istante in cui il portiere dell’Hotel Madonia Lido Terrasini registra l’ospite appena arrivato, l’immagine talmente virata verso il miele da far pensare all’intervento di un professionista. E in effetti, accanto al fotografo su commissione si affermò la figura del cromista, che ritoccava lo scatto saturandolo, aggiungendo nuvole, mitizzando i colori. Puro doping fotografico. Il punto di non ritorno dell’impulso identitario all’origine del fenomeno coincide con gli interventi a penna direttamente sulle cartoline, quando per esempio una freccia indica un balconcino (casa nostra, viene precisato con soddisfazione) o un tratto di Bic collega la sagoma di un ragazzino in mezzo alla strada alla scritta “Sono proprio io”. È il desiderio di esserci, di abitare lo spazio (e con lo spazio il tempo), qualsiasi esso sia: una geolocalizzazione estrema, emotiva e inconfutabile, senza Gps. SAN SALVO (CHIETI). STABILIMENTO S.I.V. CINISELLO BALSAMO (MILANO). EDILIZIA RESIDENZIALE © RIPRODUZIONE RISERVATA NOVARA. AUTOGRILL PAVESI SULL’AUTOSTRADA MILANO-TORINO SESSA AURUNCA (CASERTA). BUSTO ARSIZIO (VARESE). la Repubblica DOMENICA 27 LUGLIO 2014 (CAMPOBASSO). VIALE DEL MARE BRESSO (MILANO). PERIFERIA 31 GELA (CALTANISSETTA). EDILIZIA RESIDENZIALE E AREA INDUSTRIALE Schiavizzato da un onorevole grafomane U G O G R EG O R ET TI A VICENDA PIÙ DRAMMATICA che ho vissuto nel mio passato di L CENTRALE TERMOELETTRICA cartolinografo fu un breve viaggio nell’Africa Occidentale Francese, nella recentemente costituita Communauté franco-africaine, voluta da De Gaulle e votata da Senegal, Costa d’Avorio, Sierra Leone e Marocco. Promotore del nostro raid era stato un notabile democristiano calabrese, deputato e presidente di quello che era e credo ancora sia l’ente inutile più inutile di tutti gli enti inutili italiani: l’Istituto italiano per l’Africa. L’onorevole, che chiameremo F., aveva messo insieme una delegazione Cinisello LECCE. VIA SAN TRINCHESE IL LIBRO LE IMMAGINI SONO TRATTE DA “IN UN’ALTRA PARTE DELLA CITTÀ - L’ETÀ DELL’ORO DELLE CARTOLINE” DI PAOLO CAREDDA PUBBLICATO DA ISBN EDIZIONI (208 PAGINE, 22 EURO). L’ULTIMO LIBRO DI GIORGIO VASTA È “PRESENTE” (AA.VV. EINAUDI 2012) di piccoli industriali italiani che avrebbe dovuto stringere rapporti di scambio con gli imprenditori locali, ma soprattutto recare a quelle genti un improbabile «messaggio di italianità». Giunti in quei luoghi, però, scoprimmo che l’onorevole F. aveva ben altra «priorità»: inondare la Calabria e il proprio collegio elettorale di cartoline illustrate recanti «Un memore saluto dall’Africa». Giungendo nelle capitali di quegli Stati, l’unico governante che si preoccupava di incontrare era il ministro delle Poste, al quale ingiungeva di rastrellare il maggior quantitativo possibile di cartoline e francobolli. In Costa d’Avorio mettemmo addirittura in crisi il sistema postale. Aveva schiavizzato me e l’operatore, costringendoci a scrivere indirizzi e incollare francobolli. Scoprimmo che aveva portato con sé un registro con i recapiti e le qualifiche di tutti i suoi capielettori. L’effetto era esilarante. Il catalogo era accuratissimo, quasi scientifico. Per esempio: cognome FRANCO – nome TINO – soprannome FEFÈ – pronome TU – professione AVVOCATO – santo protettore SAN FRANCESCO. E così, senza fallo, noi scrivevamo: «Egregio avvocato TINO FRANCO. E poi il testo: Caro FEFÈ, ti invio un memore saluto dall’Africa». Io: «E ha sempre funzionato?». Onorevole: «Una volta no, purtroppo. Un segretario mandò gli auguri per san Francesco di Paola ai francescani di Assisi , e così persi tutti gli elettori di nome Francesco». (Dalla prefazione di In un’altra parte della città - L’età d’oro delle cartoline) PINETA MOSTRA DEL TESSILE © RIPRODUZIONE RISERVATA VIBO VALENTIA. VEDUTA NOTTURNA MIGLIARO (FERRARA). VIA SAVONAROLA ZINGONIA (BERGAMO). I PALAZZI DETTI MISSILI E LA ZONA INDUSTRIALE LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 27 LUGLIO 2014 La storia. 2004-2014 Un giovanotto sorridente e ancora senza quei folti baffi che sarebbero diventati il suo marchio: “dottore in Legge” o “collaboratore sportivo”. A dieci anni dalla scomparsa, spuntano dai cassetti di casa documenti, pass e tessere: cioè le chiavi con cui apriva mondi ignoti. Per narrarli LA FOTOGRAFIA IL GIORNALISTA E SCRITTORE TIZIANO TERZANI SULLA MURAGLIA CINESE NEL 1980 UN’IMMAGINE CONCESSA DA LONGANESI CHE HA PUBBLICATO DA POCO “UN’IDEA DI DESTINO” , RACCOLTA DEI SUOI DIARI INEDITI DAL 1984 AL 2004 (496 PAGINE, 19,90 EURO) G UIDO ANDRUET T O Terzani O Tiziano Viaggiatore l’inizio degli anni ‘70 ai primi anni ‘80, li conservò tutti in posti disordinati insieme alle cose che gli erano più care, come i libri e i suoi diari, per poi affidarli alla moglie Angela. E oggi, dieci anni dopo la sua scomparsa avvenuta il 28 luglio del 2004, la Fondazione Giorgio Cini di Venezia li ha presi in custodia acquisendo l’intero archivio dell’autore de La porta proibita, che oltre alla biblioteca di casa con più di seimila volumi comprende tutti i blocchetti con gli appunti di viaggio, le carte geografiche, le vecchie macchine da scrivere Olivetti e quelle fotografiche, e perfino tutti i telex originali inviati alle sedi dei giornali con cui collaborava. E i passaporti, ovviamente, che ci raccontano il Tiziano Terzani viaggiatore infaticabile e appassionato. Su uno dei più vecchi, in cui compare la sua foto sbarbato a ventisei anni, è riportata la data del rilascio, 7 marzo del 1964, e la professione poi “tradita” di «dottore in Legge». Con i suoi inconfondibili baffi, che cominciò a farsi crescere dopo l’arrivo con la famiglia in Asia, appare invece in foto su quasi tutti gli altri passaporti, come quello rilasciato dall’Ambasciata d’Italia ad Hanoi il 9 aprile del 1976. Sono tutte immagini in movimento, come la sua vita. Sempre tesa a scavalcare i confini di quei paesi del sud-est asiatico che lui visitava con spirito libero e curioso. A volte per riuscirci gli occorrevano i visti. E per ottenerli contavano molto le relazioni personali, che Terzani sapeva coltivare tenendo sempre fede alle convinzioni politiche. In Cina gli fu sottratto il passaporto e venne espulso perché non seguiva la linea del partito, e prima in Vietnam e in Cambogia il visto di ingresso (da Bangkok) gli fu ripetutamente negato perché criticava i regimi filoamericani nei due paesi. «L’ultima volta glielo negarono appena prima della liberazione nel 1975 — ricorda la moglie Angela Staude — per cui fece ritorno a Saigon con l’ultimo volo prima dell’arrivo dei comunisti, quando l’aeroporto era ormai stato disertato dal personale di controllo». È la storia con cui comincia Giai Phong!. «Gli fu anche negato il visto di rientro a Phnom Penh, per cui non era presente quando arrivarono i khmer rossi, invece varcò clandestinamente il confine cambogiano a Poipet, dove i khmer rossi erano già giunti, pensando di trovarsi fra amici, quando per poco non lo fucilarono». © RIPRODUZIONE RISERVATA © ARCHIVIO TERZANI/FONDAZIONE CINI LTREPASSARE una frontiera per Tiziano Terzani era come aprire ogni volta una porta. Su un mondo di tradizioni, usanze, lingue e paesaggi che lui voleva sempre esplorare in profondità. Le chiavi che aveva a disposizione erano banalmente i suoi documenti di viaggio, i passaporti, i visti d’ingresso e in qualche occasione i permessi speciali che gli consentivano di transitare nelle zone interdette ai comuni viaggiatori. Nel corso degli innumerevoli spostamenti da un capo all’altro del mondo, lo scrittore e giornalista inviato in Asia dal- 32 la Repubblica DOMENICA 27 LUGLIO 2014 33 E nella valigia metteva il desiderio di guardare oltre A NGE L A TE RZA NI STA UDE ONO un esploratore e vado a esplorare”, Tiziano aveva detto al giornalista inglese che lo intervistava, e sono le parole che abbiamo scritto nell’annuncio della sua morte a Orsigna, il 28 luglio di dieci anni fa. Lui la morte l’aveva sempre tenuta d’occhio lasciando detto, quando ancora si vedeva morire in bocca a un coccodrillo, di voler essere ricordato con una pietra che avesse un piccolo incavo in cui potevano bere gli uccellini, il nome, le due date d’obbligo e la sola parola, “viaggiatore”. Viaggiava, viaggiava, perché viaggiare gli piaceva. Quante volte ha descritto l’emozione di una partenza, quel meraviglioso diventare anonimo e irreperibile! Viaggiare placava la sua innata irrequietudine, la sua sete di conoscenza. Ma essendo di natura affabile e comunicativa, cercava poi di raccontare ai lettori dei giornali per i quali scriveva quel che aveva visto e imparato strada facendo: non ultimo perché così si guadagnava da vivere. Fosse nato ricco, diceva, e qualche secolo fa, avrebbe vissuto viaggiando e scrivendo lettere a casa. Così, nato povero e in tempi moderni, viaggiava scrivendo per lavorare. Ma un giorno, mentre con uno scalcinato piccolo mercantile attraversava il golfo della Thailandia verso la Cambogia — era l’anno 1993, quello in cui non prendeva mai aerei perché anni prima un indovino di Hong Kong gli aveva consigliato di non farlo — il suo amico Léopold, compagno di quel viaggio, gli chiese a bruciapelo: «E tu, cosa riporterai nelle tue valigie quando tornerai nella tua terra?».La domanda lo colpì. Già, che cosa? Articoli, analisi di dove va la Cina e cosa farà il Giappone, descrizioni di guerre e colpi di stato ovviamente non bastavano. Scrisse allora Un indovino mi disse, il libro in cui racconta di quell’anno in cui è vissuto diversamente, “con un altro punto di vista”. Continuò a cercarlo sempre, nei dieci anni che gli restavano, a parlarne negli altri libri che scrisse e in quelli che ci lasciò, e di questo averlo cercato disse alla fine che era stato il suo “unico contributo”. «Vorrei diventare un profeta delle sue idee», mi scrive oggi in una lettera da un paesino delle Marche un suo lettore, «comunicare agli altri il desiderio di “guardare oltre” ». È con il desiderio di “guardare oltre” che Tiziano aveva affrontato la malattia e poi la morte. E forse è proprio questo il contenuto delle sue valigie. “S IL RICORDO I DOCUMENTI QUI RIPRODOTTI FANNO PARTE DELL’ARCHIVIO TERZANI DELLA FONDAZIONE CINI DI VENEZIA. VERRANNO RACCOLTI NEL LIBRO “GUARDARE I FIORI DA UN CAVALLO IN CORSA”, A CURA DI ÀLEN LORETI, CHE USCIRÀ PER RIZZOLI A OTTOBRE. DOMANI AL NUOVO TEATRO DELL’OPERA DI FIRENZE (ORE 21.30) COMUNE, REGIONE TOSCANA E LONGANESI OMAGGERANNO LA MEMORIA DI TERZANI CON UN CONCERTO, LETTURE E VIDEO. PARTECIPERANNO BERNARDO VALLI, ERMANNO OLMI, MONICA GUERRITORE, ALESSANDRO BENVENUTI SIMONE CRISTICCHI E IRENE GRANDI. OGGI UNO SPECIALE SU WWW.REPUBBLICA.IT © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 27 LUGLIO 2014 34 Spettacoli. Maestri in crisi Toshio Suzuki Il futuro dell’animazione ora non è affar nostro... LU C A R A FFA ELLI TOKYO ON ASPETTATEVI INSEGNE LUMINOSE o archi in stile hollywoodiano. Lo Stu- N GHIBLI CHI È TOSHIO SUZUKI PER OLTRE VENT’ANNI PRODUTTORE DELLO STUDIO GHIBLI, CELEBRE PER I LAVORI DI HAYAO MIYAZAKI OPERE PRINCIPALI “IL MIO VICINO TOTORO” (1988), “LA PRINCIPESSA MONONOKE” (1997), “LA CITTÀ INCANTATA” (2001), “IL CASTELLO ERRANTE DI HOWL” (2004); “PONYO SULLA SCOGLIERA” (2008) FILOSOFIA VALORI TRADIZIONALI: ECOLOGIA, PACE VISIONE POETICA E NATURALISTICA STORIE DELICATE E ALLEGORICHE SEMPLICI COME I DISEGNI dio Ghibli è una casa quasi in incognito tra una serie di altre case a tre piani non lontano da dove è stato costruito il Ghibli Museum, in quella periferia di Tokyo che si permette piccoli spazi verdi tra una costruzione e l’altra. A segnalare la sua presenza giusto una piccola targa che timida fa capolino in una siepe. Il segnale è chiaro: qui si sta lavorando sodo, non vogliamo distrazioni. Anche la stanza di Toshio Suzuki, il produttore che ha permesso a Hayao Miyazaki la libertà creativa che lo ha reso celebre in tutto il mondo, è un piccolo e sobrio luogo di lavoro affollato di libri. Non bisogna davvero sottovalutare i meriti di Suzuki: è stato lui in molte situazioni a spronare il Maestro, a dargli il coraggio di intraprendere strade nuove (come quella della Principessa Mononoke), è stato lui a volere il film di un suo breve manga, cioè quel S’alza il vento meraviglioso e complesso, senza dolcezze infantili (grazie a Lucky Red arriverà sugli schermi italiani dal 13 al 16 settembre). Ed è una storia magnifica, quasi una leggenda, quella del loro primo incontro. Era il 1978. Suzuki aveva trent’anni e collaborava a Animage, una rivista sull’animazione e voleva intervistare Miyazaki, ma il regista era troppo occupato e gli disse di andare via che non aveva tempo. Lui attese tre giorni e tre notti prima di ricevere attenzione. Suzuki, si rende conto che quella resistenza ha cambiato la sua vita e la storia dell’animazione? «Innanzitutto devo dire che quella leggenda è vera. E non avevo nessuna idea di quello che un’attesa di tre giorni e tre notti mi avrebbe poi riservato. È avvenuto tutto più di 35 anni fa e Miyazaki era impegnato nel lungometraggio di Lupin III. Quell’avvenimento mi fa pensare che tutti gli uomini sono piccoli, però nel momento in cui si creano delle relazioni tra persone che vogliono creare qualcosa di nuovo, allora può accadere l’incredibile». Dovendo descrivere il suo lavoro di questi anni cosa direbbe? «Devo trovare una risposta semplice a una domanda difficile. Forse va bene così: sono quello che si è occupato di vendere le creazioni di Miyazaki». Però qualche volta lei ha spinto Miyazaki a prendere delle decisioni che non voleva prendere. «Non è stato intenzionale. Il fatto è che ci parliamo tutti i giorni. È normale che nel corso delle nostre conversazioni nascano delle suggestioni per inventare qualcosa». Si sente appagato da quello che ha fatto? «Ci sono stati momenti molto difficili e il lavoro è stato spesso tanto duro. Però sì, è stato anche divertente e gratificante. Vuole sapere se sono felice? Bene, e allora le dico: oggi sì. Miyazaki ha fatto l’ultimo film e sono felice perché libero da tutto il peso che ho avuto in questi decenni. Finalmente è finita». La sua è una scelta obbligata? «È cambiato il mondo. I nostri film costano troppo per il mercato di oggi. E i film in genere stanno perdendo il senso che hanno avuto finora. Ora ogni persona ha a disposizione migliaia di occasioni per vedere video che forse hanno più significato di un film. Di fronte alle possibilità offerte da internet creare un film importante che abbia la capacità di attirare l’attenzione degli spettatori è sempre più difficile». Sta dicendo che ci vorrebbe un nuovo Suzuki per capire il nuovo mercato? «Anche se fossi trent’anni più giovane non credo sarei in grado di capire cosa fare oggi. Certo, qualcosa si può inventare. Ma è sempre più difficile individuare la chiave del successo. Per questo sono contento che per me adesso sia tutto finito». Pensa sia più difficile oggi mantenere la concentrazione degli spettatori? «Non è questo. L’ultimo film che ho prodotto è La principessa Kaguya dell’altro maestro dello Studio Ghibli, Isao Takahata, ed è il più lungo della nostra storia: sono 127 minuti, ma sembra ne passino dieci. Sono felice che Miyazaki e Takahata abbiano chiuso con i loro due capolavori». Ma come farà lo Studio Ghibli senza di voi? «C’è la nuova generazione. Loro sapranno cosa fare». Come vede il destino dell’animazione giapponese? «Sicuramente scomparirà il disegno a mano a favore del computer. Ma in fondo quello del destino dell’animazione giapponese è un argomento che non m’interessa affatto». © RIPRODUZIONE RISERVATA Totoro vs la Repubblica DOMENICA 27 LUGLIO 2014 35 Yoshiyuki Tomino L’immaginazione è finita, non ci resta che la scienza JAIME DALESSANDRO TOKYO I IL GIGANTE è un uomo minuto di settantatré anni che indossa una camicia azzar- data, per metà bianca e per metà nera. Ci accoglie in una sala riunioni asettica, con un lungo tavolo di legno scuro lucido, nel palazzetto anonimo degli studi della Sunrise a Tokyo. Gli scaffali di metallo, protetti da vetrine, avrebbero potuto ospitare raccolte di leggi o reperti medici. Invece ci sono migliaia di fumetti perfettamente ordinati. Meglio: di manga. Yoshiyuki Tomino ha uno sguardo ironico e un modo di fare sicuro che in Giappone hanno solo i colossi, i personaggi intoccabili che hanno fatto la storia. E lui la storia l’ha fatta eccome. È il “padre” di Gundam, la serie animata di robot più importante e amata. Uno dei capostipiti e punti di riferimento, insieme a Goldrake e Mazinga, per tutti gli altri, fin dalla prima messa in onda il 7 aprile del 1979. Una storia lunga trentacinque anni fra trentasei serie tv, film, fumetti, libri, videogame e una schiera infinta di modellini e action figure che hanno fatto incassare a Tomino & Co. mezzo miliardo di euro. E poi due statue: la prima di bronzo, alta tre metri, davanti alla stazione della metropolitana di Suginami, il quartiere dove sorge la sede della Sunrise. La seconda a grandezza naturale, diciotto metri, che vigila sull’isola artificiale di Odaiba nella baia di Tokyo. «Lei di cosa si occupa?» chiede Yoshiyuki Tomino spargendo sul tavolo alcuni fogli pieni di grafici, diagrammi, proiezioni, in un’intervista al contrario. «Di tecnologia e cultura digitale, per lo più», rispondo. E cosa ci fa qui in Giappone allora? «Parte di quella cultura è stata creata qui». Lui replica: «In passato, forse». Fa una pausa levandosi gli occhiali anni Settanta. «Ultimamente sto cercando di promuovere alcuni progetti di ricerca avanzata giapponesi riguardanti ad esempio l’uso del laser e gli acceleratori di particelle». Ma lei non si occupa di animazione? «In realtà io ho immaginato il futuro per più di trent’anni. L’ho scritto, disegnato, trasformato in intrattenimento. Finché non mi sono accorto che il mio Paese il futuro lo stava perdendo. Anzi, l’ha perso. Oggi nella ricerca siamo indietro rispetto alla Corea, alla Cina e siamo indietro robotica, almeno lo sviluppo di umanoidi sinanche rispetto agli Stati Uniti e all’Europa. tetici, sia una perdita di tempo». Così ho deciso di impegnarmi per aiutare Detto dal “padre” di Gundam fa effetto. a costruire un avvenire possibile». «Costruire un umanoide è cercare di capire Dalla fantascienza alla realtà. meglio il senso della nostra esistenza e il signi«La fantascienza parte sempre dal- ficato, o forse la bellezza, del nostro organismo. la realtà (dice sorridendo). Il Giap- Ma non è detto che si trasformi in una suprepone ha investito miliardi nella ro- mazia in campo tecnologico». botica, partendo da un’idea di Quando l’avete persa la supremazia? «La data esatta non la conosco. So però che è fondo non troppo distante da quella che fece nascere per- stato un americano, Steve Jobs, il primo a reasonaggi come Astro Boy, il lizzare una forma di relazione diversa e facile bambino androide di fra uomo e macchina attraverso uno schermo Osamu Tezuka e più tar- tattile». di lo stesso Gundam. Fin qui, gli smartphone. «No: fin qui tutto. Abbiamo perso terreno in Da giovane, all’inizio della mia car- tutti i campi, anche in quello dell’immaginario riera, ho lavora- mentre perdevamo terreno reale e fette di to con Tezuka mercato. Le due cose sono legate. Oggi l’aniproprio ad mazione giapponese quasi non esiste più. È daAstro Boy. ta in “outsourcing” a case di produzione sparMa a esser se per l’Asia, dal Vietnam alla Corea del Nord. sincero A tal punto che a volte mi chiedo se non abbiac r e d o mo dato in “outsourcing” noi stessi. Fra qualc h e che anno non sapremo fare più nulla. Poco iml a porta che si tratti di disegnare un personaggio, progettare un dispositivo digitale, realizzare un videogame». Sta dipingendo un paese senza futuro. «Forse il futuro è nelle realtà produttive minute, nei progetti fatti da piccoli gruppi. È nell’intraprendere una strada diversa rispetto a quella che abbiamo percorso». Come fece lei trentacinque anni fa. La nuova strada potrebbe indicarla lei. «Quando fu mandata in onda la prima serie di Mobile Suit Gundam non avevo idea che avrebbe avuto tanto successo. Non avevo in mano una formula precisa e francamente oggi non saprei quale consiglio dare ai giovani animatori. So solo quali sono i problemi del nostro mondo, ma non conosco le soluzioni. Credo però ancora nella ricerca scientifica. Non è molto forse, ma è quel che mi resta». C’era una volta il Giappone a spartirsi il pianeta coi suoi eroi : classici o cibernetici. Be’, non c’è più Gundam © RIPRODUZIONE RISERVATA SUNRISE CHI È YOSHIYUKI TOMINO INIZIA NELLO STUDIO DEL “DIO DEI MANGA”, OSAMU TEZUKA E NEL 1979 CREA GUNDAM, ROBOT DA COMBATTIMENTO, CAPOSTIPITE, CON MAZINGA, JEEG E ATLAS, DI UN GENERE OPERE PRINCIPALI “MOBILE SUIT GUNDAM” (1979), “IL CONTRATTACCO DI CHAR” (1988), “MOBILE SUITE GUNDAM F91” (1991) FILOSOFIA VISIONE FUTURISTICA E FANTASCIENTIFICA SPESSO MOLTO CUPA TRAME DINAMICHE, SOLO ALCUNE PIU’ SOFISTICATE. TRATTO GEOMETRICO la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 27 LUGLIO 2014 Next. Creativi digitali Performance, installazioni, progetti interattivi... Dimenticate tavolozza e creta, la fantasia volerà sulle ali dei codici informatici C HIARA PANZERI O STEREOTIPO lo vuole ancora con gli abiti sporchi di tempera e la tavolozza dei colori in mano. E questo nonostante un Novecento che nell’arte ha visto di tutto: i barattoli di Andy Warhol, le linee infinite di Piero Manzoni, i neon di Mario Merz fino al dito medio di Maurizio Cattelan. Ma cosa succede all'artista quando il terzo millennio reclama il suo posto anche nella comunità dei creativi? Nel nord Europa, in Canada e negli Stati Uniti la rivoluzione è già in corso: i nuovi artisti sono i programmatori, l’ispirazione viaggia sui bit e i ferri del mestiere sono le stringhe di codice. Lo chiamano “creative coding”, è l’uso del software applicato al mondo delle arti: si parte dalla scrittura di un programma, che a sua volta genera una performance, un’installazione interattiva in cui il pubblico è chiamato a partecipare, un videogioco, un’opera di animazione. Zachary Lieberman, newyorkese, si definisce “artista, hacker e ricercatore, un po’ come se l’arte fosse il dipartimento di Ricerca e Sviluppo dell'umanità”. Ha studiato pittura e incisione, e nell’informatica ci è finito per caso: gli serviva un lavoro, si è reinventato come web designer. Oggi il suo nome spicca nel panorama della New Media Art, al punto che la sua ultima opera ha avuto un committente d’eccezione: Google. «Si chiama “Play the world” (Suona il mondo) - spiega Lieberman -, e consiste in uno strumento musicale, una sorta di tastiera. Quando si suona una nota, l’apparecchio rimanda a una stazione radio qualsiasi che nel mondo la sta trasmettendo. Il tutto grazie all'uso di un software che “ascolta” migliaia di emittenti web contemporaneamente, e sa identificare la nota giusta. Mi piace l'idea che possa capitarti la radio sportiva brasiliana, quella tedesca di musica pop, o quella indonesiana che manda in onda canti locali». Play the world fa parte di un progetto chiamato DevArt, che chiama a raccolta i migliori creative coders in circolazione. È stato lanciato a febbraio da Google con un con- L CONTACT^2 S’INIZIA PICCHIETTANDO LE DITA SU UNA SUPERFICIE DI LEGNO. IL RESTO LO FA UN’INTERFACCIA AUDIO CHE PERMETTE DI MANIPOLARE MA SOPRATTUTTO VISUALIZZARE LE ONDE SONORE CHE I COLPI GENERANO SULLA TAVOLA DEVART.WITHGOOGLE.COM/#/PROJECT/16589129?T=FINALIST Artware THE RYTHM OF THE CITY LOSE/LOSE DIECI METRONOMI PER DIECI CITTÀ: OGNUNO NE RAPPRESENTA IL RITMO. VENGONO RACCOLTI IN TEMPO REALE I DATI SULL’ATTIVITÀ DEI SOCIAL NETWORK (FB, YOUTUBE, FLICKR): OGGI LA VELOCITÀ DI UNA METROPOLI PASSA DALLA SUA VITA DIGITALE LA SOLITA INVASIONE DEGLI ALIENI? NO: OGNUNO DI ESSI È GENERATO DA UN FILE DEL PROPRIO COMPUTER. QUANDO UN NEMICO VIENE UCCISO, IL FILE CORRISPONDENTE VIENE CANCELLATO (E NON C’È MODO DI SAPERE DI QUALE FILE SI TRATTI) VARVARAG.INFO/THE-RHYTHM-OF-CITY/ STFJ.NET/ART/2009/LOSELOSE/ 36 la Repubblica DOMENICA 27 LUGLIO 2014 I REMEMBER 37 MONUMENT VALLEY UNA PIATTAFORMA WEB INTERATTIVA PER FINANZIARE LA RICERCA CONTRO L’ALZHEIMER. CI SI MUOVE ATTRAVERSO UN TAPPETO DI LUCI IN CUI OGNUNA NASCONDE UN RICORDO LASCIATO DAGLI UTENTI. SE NON VIENE AGGIORNATA, “SCOMPARE” DAL WEB OPERA D’ARTE O VIDEOGAME? LA PROTAGONISTA È LA PRINCIPESSA IDA, DA GUIDARE ATTRAVERSO ARCHITETTURE SURREALI, ISPIRATE A ESCHER. LO SCOPO È RAGGIUNGERE LA CIMA DI QUESTO STRANO EDIFICIO MUTANTE I-REMEMBER.FR/EN/ MONUMENTVALLEYGAME.COM corso: l’opera migliore (oltre a quelle commissionate dal gigante di Mountain View) sarà esposta dal tre luglio al Barbican Museum di Londra, nell’ambito della mostra Digital Revolution. Qualche volta, capita che siano gli sviluppatori a convertirsi alle Muse. Varvara Guljajeva, estone, è partita da una laurea in scienze informatiche che era diventata troppo noiosa, per approdare a un Erasmus a Helsinki dove ha scoperto le intersezioni fra arte e tecnologia. Lavora in coppia con Mar Canet, originario di Barcellona. Anche loro sono stati scelti da Google per partecipare a DevArt. «L’intera opera - racconta Varvara - è pensata per essere quasi una magia. Lo sforzo fondamentale resta sempre quello di nascondere la complessità che c’è dietro, come se il risultato finale godesse di vita propria. Abbiamo creato un “whishing wall”, uno schermo di fronte al quale invitiamo le persone a esprimere un desiderio, e a farlo ad alta voce. Una volta pronunciato, si trasforma in una farfalla: si può toccarla sul video, e aiutarla a volare via. Il software fa in modo che ogni farfalla sia uni- MR KALIA VINCITORE DEL CONCORSO INDETTO DA DEVART. IL PUBBLICO SPERIMENTA LE MUTAZIONI DI MR KALIA, UN PERSONAGGIO IMMAGINARIO, SU DI SÉ. GRAZIE A UNA TECNOLOGIA IN GRADO DI TRACCIARE I MOVIMENTI DEL CORPO DEVART.WITHGOOGLE.COM/#/PROJECT/16574285 GIANT MAP UNA GIGANTESCA MAPPA DI GOOGLE CON CUI I BAMBINI POSSONO INTERAGIRE CAMMINANDOCI SOPRA COME FOSSE UNA CITTÀ. QUANDO PASSANO L’IMMAGINE CAMBIA QUASI FOSSERO LORO A MODIFICARLA DEVART.WITHGOOGLE.COM/#/PROJECT/16566495?T=FINALIST QR-STENCILER È UN SOFTWARE CHE CONVERTE UN CODICE QR IN UN PATTERN CHE PUÒ ESSERE STAMPATO SU UNO STENCIL. I CENTO REALIZZATI DIVENTANO CODICI QR IMPRESSI SUI MURI DELLA CITTÀ CON UN’INDICAZIONE PER I VIAGGIATORI FLONG.COM/PROJECTS/QR-CODES-FOR-DIGITAL-NOMADS/ ca, sia nella forma che nel movimento». Per Conrad Bodman, curatore di Digital Revolution, «Il creative coding è un ambito di sperimentazione che si sta sviluppando a ritmi velocissimi. Cresce il numero degli artisti, e con loro gli strumenti messi a disposizione dalla tecnologia. Pensiamo ad esempio alle opportunità che si spalancano grazie alle nuove realtà virtuali, mutuate dai videogame: dispositivi come Oculus Rift (il visore a realtà aumentata sul mercato dal 2015, ndr) o Microsoft Kinect (un sensore di movimento, ndr) offrono incredibili potenzialità per i creativi. Soprattutto per tutti quelli che mirano all’interazione con il pubblico». Il fermento di cui parla Bodman si ritrova nel proliferare di festival dedicati alle arti digitali, rassegne già affermate come Ars Electronica, Art Futura, Bian (la biennale internazionale che si tiene a Montréal), Eyeo Festival, Resonate e molti altri. Ma anche gli ultimi nati come Unpainted, una manifestazione dedicata alla New Media Art che quest’anno si è tenuta a Monaco per la prima volta. Non solo, il connubio fra arte e tecnologia si sta facendo strada anche tra i banchi di scuola. Per ora, soltanto all’estero. Se nel Regno Unito i linguaggi di programmazione sono già entrati negli istituti secondari, negli Usa si sta affermando un movimento d’opinione che vorrebbe andare oltre. Dopo i fondi stanziati per potenziare l’insegnamento nelle materie del cosiddetto Stem (Science, Technology, Engineering and Math), una nutrita comunità di educatori e intellettuali preme perché l’acronimo diventi Steam, dove la “a” sta per “Art”. Questo consentirebbe di sviluppare il potenziale creativo della scrittura in codice già a livello scolastico: tutto tempo guadagnato, insomma, per i futuri creative coders. Viene in mente Golan Levin, artista statunitense, che durante un intervento al Ted (la conferenza annuale su idee e innovazioni da tutto il mondo, ndr) esordì così: «Immaginate di passare sette anni nei laboratori di ricerca del Mit… per scoprire di essere un performance artist». Risatine dal pubblico, ma era tutto vero. © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 27 LUGLIO 2014 Sapori. Nella corrente È L’ISOLA DEL GOLFO NAPOLETANO DALLA VOCAZIONE GASTRONOMICA PIÙ RADICATA CONIGLI, LIMONI, FICHI NATALINI, FAGIOLI ZAMPOGNARI E UN VERO PARADISO DI VERDURE PER UNA CUCINA PIÙ CONTADINA CHE MARINARA Ischia tutto. Profumi di terra e di mare aspettando Afrodite LI C I A G R A N ELLO UANDO di una bellezza si dice che mozza il fiato è una cosa così”, fa dire Gianni Mura al commissario Magrite nel suo romanzo Ischia. La baia mozzafiato è quella di Maronti, rapinosa e irresistibile. Ma l’incantesimo degli occhi corrisponde a quello del palato, se è vero che delle tre perle maggiori appoggiate nel cuore del golfo di Napoli, Ischia è quella con la vocazione gastronomica più radicata e corposa. Certo, le dimensioni contano: Capri e Procida insieme coprono meno di un terzo della superficie ischitana. Con i suoi quasi cinquanta chilometri quadrati di spiagge e boschi, sorgenti termali e colline vitate, l’isola verde vanta una biodiversità fertilissima (grazie all’origine vulcanica) e complessa. La cultura culinaria isolana attinge a mari e monti (grazie all’Epomeo e ai suoi 788 metri di altezza), con uno sbilanciamento in favore dei piatti terragni, caratteristica che segna la differenza dai procidani, forti di una solida storia marinara. Perfino le stoviglie segnano in modo nettissimo il rapporto con la terra: caldai, padelle, cocci per la cottura nella sabbia bollente, pentolame antico trasformato in moderni strumenti di cottura grazie alla vocazione di artigiani creativi come l’ischitano Pasquale Merone, stretto collaboratore dello chef Nino Di Costanzo. Contadini più che pescatori, gli ischitani. E coltivatori molto sapienti: una visita agli orti iso- ricetta-simbolo dell’isola. lani vale quanto un tour nei più sofisticati giarL’altra faccia dell’agricoltura ischitana porta dini inglesi. Affascina la ruvida grazia nella di- il nome delle uve — prime fra tutte, Forastera, sposizione delle piante, ma più ancora il profu- Piedirosso, Biancolella — coltivate sui pendii mo. Facile annusare un limone raccolto in uno isolani fin dai tempi dei Greci, che portarono la di quei luoghi magici che sono le limonaie del- vite dalla penisola Calcidica. Una produzione l’isola e restarne inebriati. Ma quando l’olfatto continuata con i Romani — da cui l’attribuzione viene rapito da una zucchina o da un pomodoro, del nome Enaria — e arrivata fin qui con una dei allora il Paradiso della verdura è davvero a un primi riconoscimenti dell’enologia italiana, la passo. Doc Ischia, datata 1966, a cui si sono aggiunti. Gran merito va alla cocciutaggine con cui gli Se volete riprovare il brivido alcolico di dueischitani hanno continuato a far crescere va- mila anni fa, andate a visitare il Museo Archeorietà antiche, magari poco produttive ma buo- logico di Pithaecuse (nome greco di Ischia) a nissime. È il caso dei fagioli zampognari, rossi e Lacco Ameno, dove è conservata la Coppa di Necroccanti, delle arance tardive che maturano in store, ritrovata in zona nel 1955. Sull’esterno agosto, dei fichi natalini. In quanto ai conigli, della piccola tazza, l’iscrizione recita: «Io sono la Slow Food ha creato un presidio che ne proteg- bella coppa di Nestore, chi berrà da questa copge l’allevamento con alimenti naturali (niente pa subito lo prenderà il desiderio di Afrodite dalmangimi) all’interno dello fosse, che sono fosse la bella corona». Così ispirati, andate a caccia di davvero, profonde anche tre metri e ramificate un piatto di verdure ripiene e beveteci sopra un in vari cunicoli scavati dagli stessi animali, così buon bicchiere di Biancolella, sapido e snello. La da ricreare un ambiente simile a quello della vi- baia dei Maronti farà sospirare anche voi. ta brada, garanzia di carni gustose e sode per la © RIPRODUZIONE RISERVATA “Q Il borgo L’incantevole borgo di Sant’Angelo vanta tra i clienti più fedeli la cancelliera Angela Merkel, che ama soggiornare allo splendente “Miramare Sea Resort”, sulla baia dei Maronti. A pochi passi, la deliziosa “Casa Celestino” (camere a partire da 100 euro) La festa Appuntamento il 26 agosto per la festa di Sant'Alessandro, con sfilata in costumi d'epoca dal Castello Aragonese a Sant’Alessandro, a pochi passi dal porto di Ischia, dove saranno allestiti banchi-degustazione con il meglio della produzione enogastronomica ischitana La ricetta Brace di pesce mosaico con spugna al nero BRACE DI PESCE (PORZIONE SINGOLA): 70 G. DI BRANZINO SFILETTATO; 30 G. DI PANURA DI PELLE CROCCANTE;10 G. DI CAROTE; 10 G. DI SEDANO; 35 G. DI PURÈ DI PATATE; 5 G. DI FOGLIE DI BIETOLINA CIARDA; 5 G. DI SPUGNA AL NERO DI SEPPIA; 3 CARAPACI DI SCAMPI GRIGLIATI. PER LA SPUGNA: 15 G. DI ZUCCHERO; 30 G. DI FARINA; 10 G. DI FECOLA; 4 UOVA INTERE; 10 G. DI NERO DI SEPPIA. PER L’INTINGOLO (DA CONSERVARE PER MOLTI USI): 1,8 L DI EXTRAVERGINE; 200 G. DI ACETO DI VINO BIANCO; 20 G. DI ROSMARINO; 20 G. DI BUCCE DI LIMONE; 20 G. DI PREZZEMOLO; 10 G. DI AGLIO SBIANCHITO Le vigne Ben tre, le aree di produzione dei vini ischitani: Ischia Superiore (Doc dal 1966), Ischia Fino e Ischia Comune. Tra le denominazioni più importanti, Biancolella, Forastera, Per 'e Palummo e Don Alfonso. Dal 1987, si produce lo spumante metodo classico Kalimera anura di pesce. Sfilettare il branzino, togliere la pelle e grigliarla insieme a del pane al nero di seppia. Far essiccare in forno a 60 ° insieme ai carapaci e frullare il tutto.Tagliare a bastoncini le carote e con un temperamatite farne ricciolini. Tagliare il sedano a bastoncini e sbianchire in acqua bollente. Pelare le patate bollite e schiacciarle nello schiacciapatate. Mantecare con burro e latte caldo. Spugna al nero. Frullare il composto e passare al setaccio. Mettere il composto in un sifone con due cariche e spremere in un contenitore. Cuocere al microonde per 24 secondi. Intingolo. Lasciar macerare per 24 ore, frullare e passare al colino. Impiattare, appoggiando a fianco del pesce la spugna, l’intingolo e le verdure P LO CHEF L’ISCHITANO NINO DI COSTANZO, CHEF DEL BISTELLATO “MOSAICO” DELL’HOTEL TERME MANZI” (CASA MICCIOLA) È UNO DEI PIÙ GRANDI CUOCHI ITALIANI. SERVE PIATTI CREATIVI E RIGOROSI, COME LA RICETTA IDEATA PER I LETTORI DI REPUBBLICA Caponata Pomodorini, cipolla, lattuga, olive, tonno tagliati e mescolati a dadini di pane raffermo fatti rinvenire in acqua calda Condimento con extravergine, sale e basilico a pezzetti 38 la Repubblica DOMENICA 27 LUGLIO 2014 8 39 A nessun altro vino furioso ho più chiesto l’avvenire Piatti e indirizzi E RRI DE L UCA Coniglio all’ischitana Pasta e fagioli zampognari Tagliato a pezzi, lavato con vino bianco, asciugato, rosolato in extravergine profumato con aglio e peperoncino. Bagnare con altro vino, aggiungere pomodori e tirare col brodo Cotta nel coccio unendo da subito i secolari fagioli rossi locali, croccanti e ricchi di ferro, con a’ mesca francesca (vari formati di pasta mischiati) per aumentare la cremosità INDACO DELL’HOTEL REGINA ISABELLA PIAZZA RESTITUTA 1, LACCO AMENO TEL. 081-994524 TRATTORIA DA PEPPINA DI RENATO VIA MONTECORVO 42, FORIO TEL. 081-998312 Parmigiana Frittata di zucchine e fiori Melanzane leggermente infarinate e fritte in extravergine, servite a strati con concentrato di pomodoro essiccato al sole, foglie di basilico e un giro d’olio Colta con gli sciurilli (fiori) attaccati. Tutto tagliato sottile e messo a crudo insieme alle uova poco battute per far gonfiare il composto, e a un pugno di Parmigiano IL MONASTERO (CON CAMERE) CASTELLO ARAGONESE TEL. 081-992435 GIARDINO EDEN (CON CAMERE) VIA NUOVA CARTAROMANA 68 TEL. 081-985015 Insalata di vendemmia Scapece di pesce Il pranzo di lavoro in vigna: patate, pomodori, peperoni, cipolle, insalata, olive, carote, sedano e origano, irrorati d’olio. A parte, fette di pane cafone del giorno prima Soffritto d’aglio in olio abbondante, poi menta e peperoncino tritati, quindi aceto di vino bianco e far addensare un quarto d’ora. Irrorare le alici alla brace e far riposare TRATTORIA CASA COLONICA PARCO TERMALE NEGOMBO, LACCO AMENO TEL. 380-3229331 UMBERTO A MARE (CON CAMERE) VIA SOCCORSO 2, FORIO TEL. 081-997171 Pollo alla cacciatora Pasta e patate Olio, dadini di cipolla e aglio per la rosolatura nella teglia da forno a 220 °C, un bicchiere di Falanghina, pomodori a tocchetti e sale Girare a metà cottura, dopo 20 minuti Cipolla appassita in olio, poi carota, sedano e pancetta tutto a dadini, infine le patate e brodo a piccole dosi. Schiacciare le patate e far bollire la pasta nella zuppa cremosa. IL FOCOLARE VIA CRETAJO AL CROCEFISSO 3, BARANO TEL. 081-902944 IL SATURNINO VIA MARINA SUL PORTO, FORIO TEL. 081-998296 H O CONOSCIUTO un vino che mi chiudeva gli occhi e mi attaccava la lingua sotto la volta asciutta del palato. L’ho assaggiato in un solo posto, sul monte Epomeo, isola d’Ischia. Un tempo sulla cima c’era un ristoro e delle stanze scavate nel tufo da monaci arroccati. Ci ho dormito sonni minerali, duri quanto i sassi. Lassù anche d’agosto serviva un po’ di lana addosso, dopo il sole calato dietro Ponza. L’oste si chiamava Luigi, massiccio e con un occhio di vetro dovuto a una cartuccia esplosa dal fucile. In uno scavo teneva bottiglie di vino stese al buio, custodite da polveri incollate. Mi permetteva di sceglierne una, che prendevo dagli strati inferiori. Riportata alla luce, ripulita, dichiarava le generalità: nome e anno di nascita. Il mio preferito si chiamava Per’ e Palummo, piede di colombo. Era cupo: sollevato contro la sfiammata del tramonto l’oscurava, senza sfumature. Era spremuto da un vitigno solo, sui versanti a ponente dell’isola d’Ischia, detta Aenaria, la vinosa, dai Romani. La stappavo con un cavaturaccioli dal manico di legno stringendo la bottiglia tra le gambe. Ne estraevo il sughero come si cava un dente. Il primo sorso di Per’ e Palummo restava chiuso a pugno, aspro e compatto. Mi faceva stringere le palpebre e mi procurava il prurito della profezia. Vedevo il vento scuotere i castagni e figuravo gli anni. Erano frutti chiusi dentro i gusci spinosi, sarebbero caduti, rotolati. Già il secondo sorso era più sobrio: mettevo a fuoco le distanze, riconoscevo i giorni da raggiungere, vicini e vagabondi. Dalle fessure delle ciglia seguivo la processione degli strati di violetto, sopra l’orizzonte alla fine del giorno. Non mi voltavo a oriente dove il Vesuvio scompariva sfebbrato, come un qualunque monte. Il vino rosso non metteva pace. Uscito dal suo buio, furioso per il disturbo, come il genio dalla lampada, strepitava nel cranio. Che volevo da lui, perché lo suscitavo? Insegnami a contare i giorni, a fare sì che contino per me. Allora il vino si precipitava nel mio vuoto, si posava sul fondo e da lì emergevano le favole dell’avvenire. Erano vicoli ciechi e cime di montagne, dannazioni e abbracci, fino alla donna per la quale dire: ecco sei tu, definitiva e ultima. A nessun altro vino ho chiesto l’avvenire. Oggi ne bevo sorsi col desiderio opposto, di ottenere la grazia di un ricordo qualunque. © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 27 LUGLIO 2014 40 L’incontro. Icone ribelli IL MESSAGGIO DI QUELLA CANZONE ERA CHIARO: RAGAZZE, SVEGLIATEVI! ANCHE NOI DONNE ABBIAMO DIRITTO A UN’ESISTENZA FELICE, DI QUALSIASI RAZZA SIAMO, ANCHE BRUTTINE, DIVERSE, E SOVRAPPESO Da ragazza voleva solo divertirsi. E mica era facile per una cresciuta nel Queens senza un padre. A diciassette anni, vagabonda punk, scappò di casa. “Ci sono artisti nati per cantare. Io iniziai perché avevo fallito in tutto il resto”. La sua “Girls Just Want To Have Fun” vendette cinquanta milioni di copie, fu eletta a inno femminista e lei divenne un idolo. Oggi ha sessantuno anni, un marito attore, i capelli un po’ meno colorati e un musiche un uomo e una donna potessero essere amici e dormire insieme come framormora. Mentre lei continuava a sognare il palcoscenico e il principe azzurro, i ragazzi ne approfittavano. «Una volta feci l’autostop e quel tizio si rifiutò cal a Broadway: “Ero tornata a telli», di farmi scendere. Cominciò a mettermi le mani addosso. Mi costrinse a praticargli del sesso orale, poi pretese di farlo a me. E alla fine: “Che hai da lamentaruna cosa reciproca no?», racconta lasciando intendere che con gli uofare la casalinga, come sempre ti?miniÈ stata fu un disastro dietro l’altro. Il look eccentrico col quale mascherava l’eccessiva timidezza la trasformava in una facile preda agli occhi dei maschi. Per c’erano le canzoni. «Ci sono artisti che sono nati per cantare, il loro dequando non ne posso più di ‘sto fortuna stino è segnato fin dall’infanzia; Elvis, per esempio. Io lo feci perché avevo fallito in tutto il resto». A New York cominciò a muovere i primi passi nel momento buio e caotico per la metropoli, quando l’Aids mieteva le prime vittime. «Gremestiere, e mentre lavavo i piatti più gory, il mio amico del cuore, si ammalò gravemente, e sarebbe morto nel 1986. Era una situazione spaventosa. Molte persone che lavoravano nel nostro ambiente si ammalarono e morirono una dopo l’altra, e il governo sembrava del tutè squillato il telefono...” to indifferente». Cyndi intanto faceva serate con i Blue Angel. «Credevo in quel Cyndi Lauper G I USEPPE V I D ET T I ROMA N EL 1982 ERA UNA SBANDATA. Nel 1983 promessa del pop. Nel 1984 in- ternational star. Nel 1989 scheggia impazzita dello show business. «Non sei nera, non sei più una ragazzina, le radio ti ignorano. Rassègnati», fu la diagnosi dell’industria. «Ma quante volte può finire una carriera?», si chiede Cyndi Lauper, la voce garrula di sempre, più infantile di sempre, come se qualcuno meglio di lei conoscesse la risposta alla domanda che fa vacillare la psiche degli artisti. Ha i capelli appena più in ordine e appena meno multicolor di trent’anni fa, quando l’album She’s So Unusual iniziò la scalata nelle classifiche di tutto il mondo (le avrebbe regalato lo status di evergreen e garantito una discografia cinquanta milioni di copie vendute) grazie a Girls Just Want To Have Fun, tormentone che senza pretenderlo diventò un inno femminista (per l’occasione la Sony ha pubblicato un’edizione speciale, 30th Anniversary Celebration). «Fu un periodo meraviglioso, divertente, folle», ricorda, «come tutta la mia vita d’altronde. Ma quell’estate fu particolarmente pazza». Sessantun anni, un marito, l’attore David Thornton, un figlio, Declyn, adolescente inquieto, una vita tranquilla nella tenuta upstate New York, un’immagine talmente potente da aver generato una serie interminabile di sister (da Gwen Stefani a Katy Perry), una popolarità a prova di bomba riconfermata dal Dressed to Kill Tour (insieme a Cher) e dal trionfo a Broadway (premiato con un Grammy) di Kinky Boots, il musical (tratto film inglese Decisamente diversi) che ha scritto insieme a Harvey Fierstein. «Ma non mi chiami signora, sono la ragazza senza filtro di sempre», dice Cyndi. «Ho vissuto come se non avessi niente da perdere». Era una bambina solitaria, cresciuta in una casa del Queens dove la mamma si faceva in quattro per sopperire all’assenza di un padre che se l’era data a gambe. «La casa era piena di musica, mia nonna ascoltava arie d’opera, Puccini soprattutto. Poi arrivarono i Beatles e la Motown, e la mia vita cambiò QUANDO SCRISSI “TIME AFTER TIME” ERO UN’IGNORANTE CONOSCEVO IL FILM, MA NON SAPEVO CHE CI FOSSE GIÀ UN BRANO FAMOSO CON QUEL TITOLO. PROVAI A CAMBIARLO, PERÒ NON RIUSCIVO A SEPARARE LA MELODIA DA QUELLE TRE PAROLE radicalmente. Gli anni Sessanta furono uno straordinario periodo di formazione. Per me Bob Dylan, Joan Baez, Sly and the Family Stone e Jimi Hendrix fanno parte di un unico suono. Non avrei potuto scegliere un decennio migliore per crescere: le lotte per i diritti civili accompagnate da quelle canzoni meravigliose». A diciassette anni lasciò casa e famiglia, vagabonda con lo zaino in spalla, hipster e un po’ punk. Ma soprattutto ingenua. «All’epoca credevo ancora gruppo, il problema era che non ci credevano gli altri», racconta. «La casa discografica ci disse a chiare lettere che il rockabilly non sarebbe andato da nessuna parte. Ero al settimo cielo quando incidemmo il disco, sprofondai all’inferno quando mi resi conto che sarebbe stato un flop. Ma fu quella delusione a darmi la forza per cominciare a immaginarmi come cantante solista e osare di più». Fece tesoro delle sue fragilità, della sua esperienza di runaway, di quel look un po’ folle che aveva inventato rovistando tra l’usato dei thrift shop — come Madonna in Cercasi Susan disperatamente, per intenderci. «Quando mi resi conto che Girls Just Want To Have Fun stava diventando un inno femminista provai un’esaltazione nuova. La sensazione fu anche più forte alla vista di tutte quelle donne nel clip che realizzammo subito dopo. Il messaggio era chiaro: ragazze svegliatevi, anche noi donne abbiamo diritto a un’esistenza felice, di qualsiasi razza, diverse, bruttine, sovrappeso». La Mtv generation contribuì non poco a trasformare Cyndi in un idolo; poche settimane e la squinternata ragazza del Queens era la diva di Manhattan e l’irresistibile songstress che tutti aspettavano dai tempi di Carole King. «Quando hai fatto la gavetta che ho fatto io il successo non ti prende alle spalle», riflette. «L’importante è riuscire a pensare con la propria testa, a non svendersi. Sono sempre stata inflessibile su un punto: voglio il controllo creativo di quel che faccio. Anche a costo di sbagliare. E ho sbagliato. Quando imbroccai la strada giusta e pensavo che sarebbe stato per sempre, per esempio. “Qui non c’è niente di garantito”, disse una volta Billy Joel; adesso so perfettamente quel che intendeva». Il meglio doveva ancora arrivare: una formidabile ballata, Time After Time, che anche l’intrattabile Miles Davis trovò irresistibile (e ne incise una versione). Diventò uno standard a tempo di record, nonostante ci fosse già dal 1947 una canzone dallo stesso titolo, per giunta famosissima. «Ero una ragazzina ignorante, non lo sapevo, anche se l’avevano cantata anche Frank Sinatra, Carmen McRae e i Platters», confessa. «Mentre stavo scrivendo la canzone avevo davanti la guida tv e l’occhio andò su un film del ‘79 con Mary Steenburgen, un’attrice che ho sempre adorato, che si chiamava proprio così. Tentai di cambiare il titolo, ma non riuscivo a separare la melodia da quelle tre parole. Mi arresi, ma non NIENTE È FACILE NEL NOSTRO LAVORO, GUARDATE LA STORIA DEL POP: TANTO SUCCESSO, POCA ALLEGRIA SIAMO CONDANNATI A DAR GIOIA AGLI ALTRI E A RICAVARNE SOLO DOLORE avrei mai immaginato che Time After Time mi avrebbe messo sul piedistallo delle grandi autrici». Il passo successivo fu la sceneggiatura di un video che ha fatto storia, quello che trasformò la Cyndi randagia, vagabonda e… senza filtro in una maschera clownesca, malinconica e romanticissima, icona pop e icona gay. «Era in sintonia con lo spirito del brano, la storia di una ragazza ossessionata da sua madre, così pensammo di coinvolgere mamma nel video, insieme alle mie zie Grace, May and Helen». Time After Time è, ora come allora, il prototipo della pop song perfetta. Ma quando si trova a elencarne gli ingredienti, Cyndi va in confusione. «Devi solo fare in modo che sia una melodia che resta incollato nella memoria; deve essere semplice, facile e alla portata di tutti. Onesta. Che venga dal cuore, che sia legato alle tue esperienze. Non conosco altro ingrediente per sedurre l’ascoltatore se non una grande dose di umanità, l’ho imparato dai Beatles. Ci sono compositori che sostengono di avere in tasca la formula magica: buona fortuna. Le canzoni scritte a tavolino per diventare successi non durano mai nel tempo. Le occasioni migliori capitano quando meno te lo aspetti, tra gli up and down della carriera. Ero delusa e amareggiata per l’insuccesso dell’album Bring Ya To The Brink (2008). Mi ero rintanata a fare la casalinga per smaltire la delusione, come faccio sempre quando non ne posso più di questo mestiere. Per farla breve, stavo lavando i piatti, squillò il telefono e Harvey Fierstein mi propose di scrivere le musiche per uno spettacolo di Broadway. E così sono salita a bordo». La voce diventa un soffio: «Niente è facile nel nostro mestiere. Soprattutto se vuoi aver successo alle tue condizioni. Ma al di là delle soddisfazioni professionali sa qual è l’impresa più ardua? Vivere una vita felice. Guardiamo alla storia del pop: tanto successo, poca allegria. Come se noi entertainer fossimo accomunati da un triste destino: condannati a dar gioia agli altri e ricavarne solo dolore». Send in the clowns. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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