Gruppo Lazio LA GIURISPRUDENZA DEL LAVORO 2013

AIDP
Associazione Italiana per la Direzione del Personale
Gruppo Lazio
LA GIURISPRUDENZA DEL LAVORO 2013
Lunedì 24 MARZO 2014
14.30 – 18.00
FEDERMANAGER
Via Ravenna, 14
ROMA
RELATORI
AVV. MAURIZIO MANICASTRI VICE PRESIDENTE AIDP/LAZIO
PROF. AVV. MARCO MARAZZA ORDINARIO DI DIRITTO DEL LAVORO UNIVERSITA’ DI
ROMA UNIVERSITAS MERCATORUM
DOTT. PAOLO MORMILE GIUDICE DEL TRIBUNALE DI ROMA
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HA COLLABORATO ALLA REDAZIONE DELLA RASSEGNA
AVV. FRANCESCO GIGANTE
STUDIO LEGALE MARAZZA & ASSOCIATI
_______________________________________________________________________________
STUDIO LEGALE MARAZZA & ASSOCIATI
ROMA – MILANO – FIRENZE
VIA DELLE TRE MADONNE, 8 00197 – ROMA
06/8073201 r.a. – 06/8088208 fax
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SOMMARIO
1. Il nuovo rito abbreviato
2. L’articolo 18 Stat. Lav.
3. Il contratto collettivo nazionale di lavoro
4. Il lavoro subordinato e il lavoro autonomo
5. Costituzione del rapporto di lavoro: collocamento obbligatorio e patto di prova
6. I contratti a contenuto formativo
7. Il contratto di lavoro a termine
8. Il contratto di lavoro part-time
9. Il contratto a progetto
10. Il lavoro nei rapporti associativi
11. La somministrazione di lavoro
12. L’orario di lavoro
13. La retribuzione
14. Inquadramento e mansioni del lavoratore
15. Potere direttivo e modificazione del luogo di lavoro
16. Salute e sicurezza sul lavoro
17. Malattia
18. L’appalto
19. Trasferimento d’azienda e diritti del lavoratore
20. Il potere disciplinare del datore di lavoro
21. I licenziamenti individuali
a) Licenziamento per giusta causa
b) Licenziamento per giustificato motivo
22. I licenziamenti collettivi
23. Le dimissioni del lavoratore
24. L’attività sindacale
25. Il rapporto previdenziale
26. Rinunzie e transazioni
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1. IL NUOVO RITO ABBREVIATO
App. Milano Sez. Lav., 13-12-2013, n. 1577
Nel rito Fornero, la sentenza emessa nell’ambito del procedimento ex art. 1, comma 51, L.
92/2012 è nulla ai sensi dell’art. 158 e 161 c.p.c. se emessa dallo stesso giudice che ha giudicato
nella prima fase conclusasi con ordinanza ai sensi dell’art. 1, comma 49, L. Fornero.
In particolare, osserva la Corte, all’interno della disciplina di cui alla L. 92/2012 non sono
rinvenibili criteri utili per stabilire se la coincidenza nella persona fisica del giudice chiamato a
definire ciascuna delle fasi in cui il procedimento de quo si articola, costituisca un’ipotesi
riconducibile all’art. 51, comma 1, n. 4 c.p.c. (sull’obbligo di astensione del giudice).
Il procedimento Fornero, che costituisce un ordinario giudizio di cognizione articolato in una fase a
cognizione sommaria non cautelare, priva di preclusioni o decadenze, destinata a concludersi con
un’ordinanza (di accoglimento o di rigetto) immediatamente esecutiva, munita di efficacia non
suscettibile di sospensione o revoca sino alla definizione con sentenza dell’eventuale successivo
giudizio di opposizione; ed un giudizio a cognizione piena di opposizione eventuale, esperibile
contro l’ordinanza innanzi al medesimo ufficio giudiziario in funzione di giudice del lavoro, più
informale rispetto al rito ordinario del lavoro, ma caratterizzato comunque dalle medesime
decadenze e preclusioni della fase introduttiva, destinato a concludersi con sentenza esecutiva, a
propria volta reclamabile innanzi alla Corte d’appello.
Il procedimento in esame è assimilabile a quello previsto dall’art. 28, L. 300/70 (sulla repressione
della condotta antisindacale) in quanto l’ordinanza che chiude la prima fase del procedimento è
immediatamente esecutiva ed è destinata a realizzare un assetto dei rapporti tra le parti suscettibile,
in caso di mancata opposizione, di assumere valore di giudicato tra le parti.
L’alterità del giudice non può avere un ambito ristretto al solo diverso grado del processo, ma deve
ricomprendere anche la fase che, in un processo civile, si succede con autonomia, avente contenuto
impugnatorio, caratterizzata da una pronuncia che attiene al medesimo oggetto e alle stesse
valutazioni decisorie sul merito dell’azione proposta nella prima fase, ancorchè avanti allo stesso
organo giudiziario.
Trib. Roma Sez. lavoro, 09-12-2013
Le domande ex art. 18 della legge n. 300 del 1970 (Statuto dei lavoratori) proposte nel giudizio
soggetto al rito introdotto dall'art. 1, comma 48, della legge n. 92 del 2012, non possono essere
trattate con il rito ordinario, atteso che le disposizioni contenute nell'art. 1 citato non consentono
alcuna deroga, né in ragione delle indicazioni formali contenute nell'intestazione del ricorso, né in
ragione della complessità delle eventuali questioni pregiudiziali rispetto alla pronuncia di merito
sulle domande ex art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, ma anzi prevedono che con il medesimo rito,
e dunque nello stesso processo, possano essere risolte le questioni sulla qualificazione del rapporto
(a prescindere, dunque, dalla loro complessità).
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Cass. civ. Sez. lavoro, 07-05-2013, n. 10550
L'art. 1, comma 42, della legge 28 giugno 2012, n. 92, nel novellare il testo dell'art.
18 dello Statuto dei lavoratori, non trova applicazione alle fattispecie di licenziamento oggetto dei
giudizi pendenti innanzi alla Corte di cassazione alla data della sua entrata in vigore, giacché
introduce una disciplina che àncora le sanzioni irrogabili per effetto dell'accertata illegittimità del
recesso a valutazioni di fatto per un verso incompatibili con la natura del giudizio di legittimità, per
altro verso non in linea - ove richieste nell'ambito di un nuovo giudizio di merito a seguito di rinvio
- con il principio della durata ragionevole del processo, sancito, oltre che dall'art. 111 della
Costituzione, dall'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
libertà fondamentali e dall'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.
Certo non è vietato che un lavoratore che abbia raggiunto i requisiti pensionistici entro il
31.12.2011 possa scegliere di proseguire l’attività lavorativa, ma l’effettiva operatività di tale scelta
è subordinata all’esistenza di una concorde e durevole volontà di parte datoriale che, se di diverso
avviso, può legittimamente intimare un licenziamento ad nutum.
Trib. Roma Sez. lavoro Ordinanza, 21-02-2013
Rilevato che la determinazione del rito utilizzabile è diretta conseguenza della prospettazione della
domanda, ove questa abbia ad oggetto l'accertamento dell'illegittimità di un contratto
di somministrazione e del termine ad esso apposto e l'attuale esistenza del rapporto di lavoro
subordinato alle dipendenze dell'utilizzatore, deve escludersi che la controversia abbia ad oggetto
l'impugnativa di un licenziamento regolato dall'art. 18, legge 20 maggio 1970, n. 300(Statuto dei
lavoratori), e che possa, quindi, essere utilizzato lo speciale procedimento di cui all'art. 1, comma
47 ss. l. n. 92 del 2012, con conseguente necessità di disporre il mutamento del rito in quello
ordinario previsto per le controversie di lavoro.
Trib. Milano, 15-02-2013
In assenza di specifica disciplina sul punto, non risulta possibile, nemmeno nella fase di cui al
comma 49 dell'art. 1, legge n. 92 del 2012, convertire il rito (instaurato ex comma 48 art. 1 cit.)
nelle forme di cui all'art. 413 c.p.c. e ss., tale conversione è ancor più da escludersi che possa
avvenire nella fase di opposizione, introdotta proprio sul presupposto che la domanda
ex art. 18, legge 20 maggio 1970, n. 300 (Statuto dei lavoratori) sia fondata e debba essere azionata
nelle forme processuali previste dalla legge n. 92/2012 e non con ricorso ex art. 414 c.p.c., la cui
proposizione non era certo preclusa dalla dichiarazione, per ragioni di mero rito, di inammissibilità/
improponibilità adottata dal Tribunale con l'ordinanza ex art. 1, comma 49, legge n. 92 del 2012.
Trib. Reggio Calabria, 06-02-2013
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A fronte di un ricorso che abbia i requisiti di cui all'art. 125 c.p.c., atteso che spetta al giudice di
qualificare la domanda e per il principio di conservazione degli atti processuali, resta irrilevante
l'omessa indicazione della legge n. 92/2010 nell'atto introduttivo, dovendosi avere riguardo alla
domanda ed applicare il rito di cui alla legge n. 92/2012 tutte le volte in cui la controversia abbia ad
oggetto l'impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall'art. 18, legge n. 300 del
1970 (Statuto dei lavoratori), in quanto deve escludersi la "facoltatività" del rito.
Trib. Palermo, 15-01-2013
Laddove sia proposta la domanda con il c.d. Rito Fornero ma l'oggetto del contendere non sia in via
immediata "l'impugnativa di licenziamento nell'ipotesi regolate dall'art. 18 della legge n.
300/1970 (Statuto dei lavoratori)" come previsto dall'art. 1, comma 47, legge n. 92 del 2012, il
Giudice dispone il mutamento del rito assegnando alle parti dei termini per l'integrazione dei
rispettivi atti.
Trib. Roma Sez. lavoro Ordinanza, 14-01-2013
La comunicazione datoriale di scadenza del contratto di apprendistato per mancato raggiungimento
della qualifica non può qualificarsi come licenziamento, trovando applicazione i principi in materia
di disdetta da un contratto a termine; ne consegue l'inapplicabilità del rito speciale di cui all'art. 1,
commi 47 ss. legge n. 92 del 2012 e, in mancanza di una specifica disposizione, l'applicazione del
principio generale, desumibile dall'art. 702-ter c.p.c., che impone, in caso di errore nella scelta del
rito, di dichiarare la inammissibilità della domanda.
Trib. Genova Ordinanza, 09-01-2013
Il rito c.d. Fornero è obbligatorio per entrambe le parti e deve trovare applicazione per tutte le
controversie nelle quali si discuta della legittimità di un licenziamento venga richiesta o meno
l'applicazione dell'art. 18, legge n. 300/1970 (Statuto dei lavoratori), come modificato: il rito non è
infatti funzionale alla reintegrazione, ma alla certezza dei rapporti cui deve pervenirsi per mezzo
della celerità del rito.
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2. L’ARTICOLO 18 STAT. LAV.
Trib. di Roma, ordinanza, 24 – 02 - 2014
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L'art. 24, quarto comma, della legge n. 214 del 2011 si limita a disporre che "Il proseguimento
dell'attività lavorativa è incentivato (...) fino all'età di settantenni”.
Sotto un profilo strettamente letterale e di tecnica redazionale normativa, la presenza nella
proposizione in oggetto del verbo essere unito al participio passato del verbo incentivare indica
l'intenzione del legislatore di ritenere dispositiva e immediatamente cogente la previsione relativa.
Sotto un profilo logico e di connessione tra il significato dei termini utilizzati, non pare che
"l'incentivo" previsto - inteso nel suo significato di "spinta, sprone" - fermi restando "i coefficienti
di trasformazione" e il mantenimento delle tutele ex art. 18 1. n. 300 del 1970 "fino al
conseguimento del predetto limite massimo di flessibilità", legato all'utilizzo del termine
"proseguimento" che indica la semplice "continuazione" del rapporto, possa essere considerato
come un mero invito o essere sottoposto ad un accordo tra le parti. Del resto, la precisazione in tema
di garanzia di stabilità del rapporto, in caso di prosecuzione, esclude che il datore di lavoro possa
opporsi alla richiesta del lavoratore.
Sotto il profilo teleologico, appare chiara la ratio espressa dalla norma e volta ad incentivare il
lavoratore alla continuazione dell'attività lavorativa anche alla luce degli intenti espressamente nel
comma 1, lett. b) dell'art. 24 in esame ove espressamente si fa riferimento, tra l'altro, al principio
della "flessibilità" nell'accesso ai trattamenti pensionistici "anche attraverso incentivi alla
prosecuzione della vita lavorativa".
Tanto chiarito, la norma in esame stabilisce un consequenziale diritto, di fonte legale, alla
continuazione del rapporto lavorativo sino al compimento dei 70 anni di età, pur se il lavoratore
abbia raggiunto la massima anzianità contributiva prevista dal proprio ordinamento di categoria.
Cass. civ. Sez. lavoro, 27-11-2013, n. 26519
La risoluzione del rapporto di lavoro prevista dall'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (legge n. 300
del 1970) nell'ipotesi in cui il lavoratore, illegittimamente licenziato, non abbia ripreso servizio
entro trenta giorni dal ricevimento del corrispondente invito del datore di lavoro, richiede
l'accertamento, riservato al giudice del merito, della sufficiente specificità dell'invito predetto. Ed
infatti, non è sufficiente la manifestazione di una generica disponibilità del datore di lavoro a dare
esecuzione al provvedimento di reintegrazione.
Trib. di Roma, Sez. lavoro, 5-11-2013
Il tenore letterale della art. 24, comma 4, della legge n. 214/2011 non giustifica l’esistenza di un
diritto potestativo in favore del lavoratore che sarebbe libero di scegliere se rimanere fino all’età di
70 anni o meno, diritto di fronte al quale sussisterebbe soltanto un obbligo del datore di lavoro di
acconsentire alla prosecuzione del rapporto fino all’età richiesta dal lavoratore. L’utilizzazione del
termine “incentivato”, in assenza di altre indicazioni che consentano di affermare sia il diritto del
lavoratore che la disciplina dell’esercizio di tale diritto, porta ad affermare che la disposizione abbia
un valore prettamente programmatico: ciò significa che l’art. 24, comma 4, è, in sostanza, un invito
alle parti finalizzato ad una eventuale prosecuzione fino al limite massimo dei 70 anni, in coerenza
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con l’impianto complessivo della riforma del sistema pensionistico che porta all’innalzamento
dell’età pensionabile. La norma, non prevede alcun diritto potestativo ma incentiva la permanenza
in servizio con coefficienti di trasformazione favorevoli e attraverso la tutela dell’art. 18 della legge
n. 300/1970 che va a sostituire la disposizione attraverso la quale per i lavoratori che raggiungevano
l’età pensionabile esisteva soltanto il recesso “ad nutum”.
Tuttavia, la possibilità di rimanere in servizio dopo il compimento dei 66 anni e 3 mesi e fino ai 70
anni con la fruizione degli incentivi previsti dalla legge, è subordinata, in assenza di un diritto
potestativo, al consenso di entrambe le parti, cosa che nella fattispecie considerata non si è
verificata.
App. Torino Sez. Lav., 24-10-2013
Il co. 3, primo periodo e il co. 14 dell’art. 24 DL 201/2011 non consentono per nulla di estendere ai
lavoratori che abbiano maturato i requisiti per il diritto a pensione entro il 31.12.2011 secondo la
vecchia normativa nuove disposizioni attinenti profili diversi da requisiti e decorrenze quando tali
disposizioni (come quelle sull’incentivazione al proseguimento dell’attività lavorativa e sulla
stabilità reale del posto di lavoro fino al settantesimo anno di età) si riferiscano, come si è sopra
evidenziato, espressamente ed esclusivamente ai lavoratori che conseguono il diritto a pensione
dopo il 31.12.2011 secondo la nuova normativa.
Trib. Varese Ordinanza, 04-09-2013
In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo per soppressione del posto di lavoro,
l'inadempimento datoriale dell'obbligo di repêchage non integra la manifesta insussistenza del fatto,
ai fini della tutela reintegratoria, determinando, invece, l'insorgenza del diritto alla tutela
indennitaria prevista dal 5 comma dell'art. 18 dello statuto dei lavoratori, L. n. 300/1970.
Trib. Modena, 26-06-2013
La violazione dei criteri di scelta previsti dall'art. 5, legge n. 223 del 1991 per i licenziamenti
collettivi, ed estensibili ai licenziamenti individuali in applicazione delle regole di buona fede e
correttezza, non determina la manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento. La
tutela applicabile in questi casi è quella di tipo indennitario prevista dal comma 5 dell'art. 18, legge
20 maggio, n. 300 (Statuto dei Lavoratori).
App. L'Aquila Sez. lavoro, 10-05-2013
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In caso di licenziamento, è sufficiente che il lavoratore chieda l'applicazione dell'art.
18 dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300 del 1970), non avendo anche l'onere di provare il
requisito dimensionale dell'impresa in cui è inserito. Ed infatti, tale onere, per il principio di
vicinanza della prova, incombe al datore di lavoro.
App. L'Aquila Sez. lavoro, 26-04-2013
In assenza di una norma derogatoria, gli sportivi professionisti vanno inclusi nel novero dei
dipendenti della società ai fini della tutela reale ex art. 18, legge 20 maggio 1970, n.
300 (Statuto dei lavoratori).
Cass. civ. Sez. lavoro, 15-04-2013, n. 9073
La predeterminazione del danno in favore del lavoratore, nel regime di tutela reale ex art. 18,
della legge n. 300 del 1970 (Statuto dei Lavoratori) non esclude che esso possa richiedere il
risarcimento del pregiudizio ulteriore derivatogli dal ritardo della reintegra. In tale contesto, invero,
è lo stesso comportamento della parte datoriale, la quale non ottempera con immediatezza all'ordine
di reintegrazione del prestatore, che la espone ad ulteriori conseguenze sul piano risarcitorio,
facilmente evitabili con un pronto adempimento del provvedimento di reintegrazione. In circostanze
siffatte, pertanto, non ha luogo una duplicazione del risarcimento già effettuato in favore del
lavoratore attraverso la corresponsione delle retribuzioni dovute, in quanto l'ulteriore danno, il quale
può essere liquidato equitativamente dal Giudice con onere della prova a carico del prestatore, è
strettamente collegato alla condotta omissiva solo eventuale della parte datoriale.
Trib. Santa Maria Capua Vetere, 02-04-2013
L'art. 18 St. lav. nel testo novellato dalla legge n. 92/2012 trova applicazione anche in caso di
controversie riguardanti rapporti di pubblico impiego, perché l'art. 51, comma 2, D.Lgs. n.
165/2001 contiene
un
rinvio
mobile
all'art. 18, legge
20
maggio
1970,
n.
300 (Statuto dei lavoratori), e successive modificazioni ed integrazione, sicché ogni novella della
norma statutaria si rende applicabile al pubblico impiego in forza del richiamato rinvio.
Trib. Ravenna Sez. lavoro, 18-03-2013
Il fatto contestato, la cui insussistenza comporta l'applicazione dell'art. 18, comma 4, legge 20
maggio 1970, n. 300 (Statuto dei lavoratori), va inteso con riferimento non solo alla sua
componente oggettiva (fatto materiale) ma anche a quella soggettiva (fatto giuridico) comprensiva
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della valutazione in ordine al dolo o alla colpa del lavoratore e alla proporzionalità della sanzione
rispetto all'infrazione. Ai fini della tutela reale o indennitaria nel licenziamento disciplinare il
giudice non può guardare soltanto al mero fatto ipotizzato o contestato dal datore; ma deve guardare
allo stesso fatto in relazione alla nozione di giusta causa o giustificato motivo soggettivo. Il giudizio
di proporzionalità tra infrazione e sanzione ai sensi dell'art. 2106 c.c. mantiene il suo valore
essenziale nella scelta della tutela da applicare anche quando il fatto tipico sussiste ma non sia grave
in assenza di una tipizzazione da parte dei contratti collettivi e del codice disciplinare.
Trib. Pescara Sez. lavoro, 28-02-2013
La constatazione che la provvisoria esecutività, riconosciuta dall'art. 431, c. 1, c.p.c., si riferisca alle
sole sentenze di condanna al pagamento e non anche alle sentenze aventi natura dichiarativa o
costitutiva, riceve ulteriore conforto dalla circostanza che neanche l'inadempimento alla statuizione
di condanna ad un'obbligazione in forma specifica ex art. 18, L. n. 300/1970 (Statuto dei lavoratori),
ossia l'ordine di reintegrazione nel posto di lavoro, non sia coercibile, ma esclusivamente
sanzionabile con un risarcimento dei danni.
Cass. civ. Sez. VI - Lavoro Ordinanza, 28-01-2014, n. 1725
In caso di licenziamento illegittimo del lavoratore, il risarcimento del danno spettante a quest'ultimo
a norma dell'art. 18 dello Statuto dei Lavoratori(legge n. 300 del 1970), commisurato alle
retribuzioni perse a seguito del licenziamento fino alla riammissione in servizio, non deve essere
diminuito degli importi eventualmente ricevuti dall'interessato a titolo di pensione. Ciò perché il
diritto al pensionamento discende dal verificarsi di requisiti di età e contribuzione stabiliti dalla
legge, con la conseguenza che le utilità economiche che il lavoratore ne ritrae, dipendendo da fatti
giuridici del tutto estranei al potere di recesso del datore di lavoro, si sottraggono all'operatività
della regola della compensatio lucri cum damno.
Cass. civ. Sez. lavoro, 03-01-2013, n. 41
Il danno da risarcire in caso di licenziamento illegittimo e di esercizio del diritto di opzione deve
essere commisurato alle retribuzioni che sarebbero maturate fino al giorno del pagamento
dell’indennità sostitutiva e non fino alla data in cui il lavoratore ha operato la scelta. Ciò perché il
sistema delineato dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (legge n. 300 del 1970) si fonda sul
principio di effettiva realizzazione dell’interesse del lavoratore a non subire, o a subire al minimo, i
pregiudizi derivanti dal licenziamento illegittimo. Sussiste, pertanto, il principio di effettività dei
rimedi giurisdizionali che, espressione dell’art. 24 Cost., mira a fare in modo che il risarcimento del
danno patito dal lavoratore per ritardato percepimento dell’indennità sostitutiva possa ridurre il più
possibile il pregiudizio da questi subito e, in corrispondenza, distogliere il datore di lavoro
dall’inadempimento o dal ritardo nell’adempiere l’obbligo indennitario.
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3. Il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro
Cass. civ. Sez. lavoro, 28-10-2013, n. 24268
Il contratto collettivo, senza predeterminazione di un termine di efficacia, non può vincolare per
sempre tutte le parti contraenti, perché finirebbe in tal caso per vanificarsi la causa e la funzione
sociale della contrattazione collettiva, la cui disciplina, da sempre modellata su termini temporali
non eccessivamente dilatati, deve parametrarsi su una realtà socio economica in continua
evoluzione, sicché a tale contrattazione va estesa la regola, di generale applicazione nei negozi
privati, secondo cui il recesso unilaterale rappresenta una causa estintiva ordinaria di qualsiasi
rapporto di durata a tempo indeterminato, purché sia esercitato nel rispetto dei criteri di buona fede
e correttezza nell'esecuzione del contratto e non vengano lesi i diritti intangibili dei lavoratori,
derivanti dalla pregressa disciplina più favorevole ed entrati in via definitiva nel loro patrimonio.
(Nella specie, la S.C. ha ritenuto violati tali criteri nel caso di soppressione della fornitura di gas a
tariffa ridotta per i dipendenti, anche in pensione, di una società di gestione del relativo servizio,
che avevano optato per tale beneficio in natura in luogo di un assegno "ad personam" pensionabile,
senza che fosse stato loro assicurato, dopo il collocamento a riposo, il corrispondente controvalore
economico).
Cass. civ. Sez. lavoro, 21-08-2013, n. 19357
Nell'interpretazione del contratto collettivo ove il giudice di merito abbia ritenuto che il senso
letterale delle espressioni impiegate dagli stipulanti riveli con chiarezza e univocità la loro volontà
comune, cosicché non sussistano residue ragioni di divergenza tra il tenore letterale del negozio e
l'intento effettivo dei contraenti, l'operazione ermeneutica deve ritenersi utilmente compiuta senza
necessità di far ricorso ai criteri interpretativi sussidiari, il cui intervento si giustifica solo nel caso
in cui siano insufficienti i criteri principali. (Nella specie, la corte territoriale aveva rigettato la
domanda del lavoratore di riconoscimento di somme arretrate atteso che l'art. 62 del c.c.n.l. della
dirigenza medica del 14 giugno 2007 faceva riferimento esplicito solo alle spettanze dei lavoratori
in servizio e non anche, come nella specie, di quelli cessati alla data di entrata in vigore della norma
contrattuale).
Cass. civ. Sez. lavoro, 20-08-2013, n. 19252
In tema di efficacia della contrattazione collettiva, alla prolungata inerzia delle organizzazioni
sindacali di una singola azienda nel reagire al mancato rispetto, da parte del datore di lavoro, di una
clausola di un contratto integrativo provinciale contenente una normativa di favore per i lavoratori 10
nella specie in materia di predisposizione del periodo delle ferie annuali "partecipata" con le
organizzazioni sindacali - non può essere attribuita, di per sé, portata abrogatrice
del contratto provinciale stesso, anche solo nella sua applicazione nell'azienda di cui si tratta. Ne
consegue che alle organizzazioni sindacali è da riconoscere piena facoltà di far valere, nell'ambito
dell'azienda, la persistente vigenza della norma, ma in modo adeguato alla situazione venutasi a
creare per effetto del loro prolungato e concludente comportamento di disinteresse alla relativa
applicazione.
App. Perugia Sez. lavoro, 20-08-2013
L'art. 2070, 10 comma, c.c. non opera con riferimento alla contrattazione collettiva di diritto
comune, che ha efficacia limitatamente agli iscritti alle associazioni sindacali stipulanti ed a coloro
che, esplicitamente o implicitamente, abbiano aderito al contratto. Di conseguenza, il lavoratore non
può aspirare all'applicazione di un contratto collettivo diverso da quello in concreto a lui applicato,
se il datore di lavoro non vi è obbligato per appartenenza sindacale, ma solo eventualmente
richiamare tale disciplina come termine di riferimento per la determinazione della retribuzione
ex art. 36 Cost..
Cass. civ. Sez. lavoro, 02-07-2013, n. 16509
L'art. 32 del c.c.n.l. del 18 luglio 1990 per i dipendenti delle Ferrovie dello Stato, si interpreta nel
senso che il diritto alla riqualificazione professionale ivi introdotto per alcune categorie di personale
(cosiddetta valorizzazione), con il "passaggio di determinate attività dal 5° livello (Area II operatori
specializzati) al livello 6° (Area III tecnici)", pur ancorato alla data del 1 dicembre 1991 quanto agli
effetti economici e giuridici, non è immediatamente operativo in quanto esplicitamente subordinato
alla conclusione di uno "specifico" accordo, avente lo scopo di determinare "i criteri funzionali ed
organizzativi" del passaggio.
Cass. civ. Sez. lavoro, 02-07-2013, n. 16507
La clausola del contratto collettivo, la quale stabilisce che il lavoratore che al termine del periodo di
aspettativa non riprenda servizio senza giustificato motivo sia considerato dimissionario, è nulla, in
quanto stabilisce una causa di risoluzione del rapporto non prevista dalla legge.
Cass. civ. Sez. lavoro, 25-06-2013, n. 15928
Ai sensi dell'art. 7, punto 4, parte speciale Alitalia del c.c.n.l. 4 maggio 1989, come recepito e
modificato dal c.c.n.l. 5 febbraio 1992 degli assistenti di volo dipendenti da compagnia di
navigazione aerea a partecipazione statale, il superamento dell'impiego minimo di 40 ore di volo nel
mese va retribuito, per le ore successiva alla quarantesima, con la maggiorazione oraria calcolata
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secondo i coefficienti previsti dallo stesso art. 7, punto 4, ma, ove ciò si verifichi per effetto del
cumulo tra ore effettive di volo (in misura inferiore a tale limite) ed ore di addestramento o di
godimento ferie, ciò deve avvenire con la riduzione di una unità, rispondendo
tale interpretazione alle finalità della norma collettiva di tutela del personale esposto a situazioni di
maggiore usura e di protratta esposizione al volo a seguito di impiego effettivo.
Cass. civ. Sez. lavoro, 03-06-2013, n. 13917
In tema di individuazione del presupposto fissato dall'art. 29, all. 7, del c.c.n.l. 1990/1992 del
personale delle Ferrovie dello Stato, per la sussistenza del diritto al beneficio del premio giornaliero
per il disimpegno, oltre alle normali attribuzioni, del servizio spettante al dipendente assente, appare
rispettosa dei canoni legali di ermeneutica contrattuale l'interpretazione data dal giudice del merito,
secondo cui all'ipotesi di "improvvisa assenza" deve essere equiparata quella di cronica assenza di
personale, potendosi ritenere, attraverso una interpretazione estensiva, che il compenso per la
sostituzione di un dipendente assente sia dovuto, in base al principio di cui all'art. 36 cost., anche
nell'ipotesi in cui l'assenza, anziché improvvisa, sia stata determinata da carenza di organico.
Cass. civ. Sez. lavoro, 25-03-2013, n. 7390
È riservata al giudice di merito l'interpretazione dei contratti collettivi di diritto comune, in ragione
della loro efficacia limitata, ed essa non è censurabile in cassazione se non per violazione delle
norme di legge sull'interpretazione dei contratti o per vizi di motivazione. (Nella specie, la S.C. ha
confermato la sentenza impugnata che, nell'interpretare l'art. 25 del contratto collettivo di lavoro per
l'industria metalmeccanica, aveva ritenuto, al fine del licenziamento del lavoratore in tronco in caso
di assenza ingiustificata "oltre quattro giorni consecutivi", rilevassero solo i giorni lavorativi, da
considerarsi consecutivi anche se intervallati da giorni festivi o comunque non lavorativi).
Cass. civ. Sez. lavoro, 22-02-2013, n. 4546
In tema di responsabilità disciplinare dei dipendenti postali, l'art. 34 del c.c.n.l. di categoria del 26
novembre 1994 consente il licenziamento del lavoratore in caso di sentenza penale di condanna
irrevocabile, con onere per il datore di lavoro di provare la gravità delle condotte e la irrimediabile
lesione del rapporto fiduciario, ma non si estende all'ipotesi in cui la sentenza di condanna non sia
definitiva, atteso che, in questa ipotesi, il licenziamento per giusta causa può essere irrogato in forza
dell'art. 74 del medesimo accordo collettivo, che prevede la possibilità del licenziamento per giusta
causa ai sensi dell'art. 2119 cod. civ.per le ipotesi non specificamente regolate, fermo, in tal caso,
l'onere del datore di lavoro di provare i fatti - costituenti reato ma non accertati in via definitiva dal
giudice penale - e la loro gravità, dovendosi ritenere che una diversa interpretazione, privando l'art.
34 citato della sua efficacia precettiva, sia in contrasto conl'art. 1367 cod. civ.
12
Cass. civ. Sez. lavoro, 15-01-2013, n. 810
In tema di lavoro dei ferrovieri, è correttamente motivata la sentenza di merito che, nell'interpretare
l'art. 46, comma 5, all. 7 del ccnl di categoria del 1° gennaio 1990, di disciplina dell'indennità di
chiamata, ha ritenuto che la funzione degli istituti della reperibilità e della disponibilità sia quella di
rendere possibile interventi di carattere eccezionale od occasionale, comunque al di fuori di ciò che
era ordinariamente prevedibile, e che la ragione della previsione dell'indennità di chiamata risieda
nel fatto che le parti collettive hanno voluto introdurla a compenso di qualcosa di più di ciò che
veniva già retribuito con la maggiorazione per lavoro straordinario.
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*
*
4. IL LAVORO SUBORDINATO E IL LAVORO AUTONOMO
Cass. civ. Sez. lavoro, 09-01-2014, n. 290
In merito al lavoro giornalistico, si evidenzia come la subordinazione non è esclusa dal fatto che il
prestatore goda di una certa libertà di movimento e non sia obbligato al rispetto di un orario
predeterminato od alla quotidiana permanenza sul luogo di lavoro, non essendo neppure
incompatibile con il suddetto vincolo la commisurazione della retribuzione a singole prestazioni. E',
invece, determinante che il giornalista si sia tenuto stabilmente a disposizione dell'editore. Altresì, il
compenso del collaboratore fisso deve quantificarsi tenendo conto dell'importanza delle materie
trattate, il tipo, la qualità nonché la quantità delle collaborazioni.
Cons. Stato Sez. VI, 05-12-2013, n. 5799
In tema di qualificazione di un rapporto di lavoro come subordinato o autonomo, gli indici
sostanziali che possono considerarsi rivelatori di un vero e proprio rapporto di pubblico impiego
consistono nella natura pubblica dell'ente datore di lavoro, nella diretta correlazione dell'attività
lavorativa prestata con i fini istituzionali perseguiti, nell'effettivo inserimento del lavoratore
nell'organizzazione dell'ente, nell'orario predeterminato e assoggettato a controllo, nella
retribuzione prefissata e a cadenza mensile, nel carattere continuativo, professionale e in via
prevalente, se non esclusiva, delle prestazioni lavorative effettuate (d.lgs. n. 104/2010 - CPA)
Cass. civ. Sez. lavoro, 31-10-2013, n. 24576
13
Deve essere qualificato come rapporto di lavoro autonomo, ai sensi dell'art. 12 della legge 12 agosto
1974, n. 370 - che consente all'Amministrazione postale di provvedere al recapito dei telegrammi e
degli espressi con prestatori d'opera autonomi incaricati di volta in volta e pagati ad opera quando
non sia possibile effettuare il servizio con un fattorino - quello nel quale il lavoratore, nel tempo di
durata della prestazione, protrattasi per poco più di tre mesi in coincidenza con l'ultimo trimestre
dell'anno, si sia limitato ad eseguire gli incarichi specifici oggetto del contratto senza porre le
proprie energie lavorative a disposizione del datore di lavoro per le altre attività dell'ufficio postale,
dovendosi escludere, in tal caso, il continuativo inserimento nell'organizzazione aziendale e
l'assoggettamento a direttive del dirigente dell'ufficio non concernenti i compiti propri dell'incarico
oggetto del contratto.
Cass. civ. Sez. lavoro, 07-10-2013, n. 22785
In materia di attività giornalistica, la qualificazione del rapporto di lavoro intercorso tra le parti
come autonomo o subordinato deve considerare che, in tale ambito, il carattere della subordinazione
risulta attenuato per la creatività e la particolare autonomia qualificanti la prestazione lavorativa,
nonché per la natura prettamente intellettuale dell'attività stessa, con la conseguenza che, ai fini
dell'individuazione del vincolo, rileva specificamente l'inserimento continuativo ed organico delle
prestazioni nell'organizzazione d'impresa. Nel giudizio di cassazione è sindacabile solo la
determinazione dei criteri generali ed astratti da applicare al caso concreto, mentre costituisce
accertamento di fatto - incensurabile in tale sede ove congruamente motivata - la relativa
valutazione. (Nella specie, relativa alla posizione di un redattore, la S.C. ha ritenuto decisivo il
pieno inserimento del lavoratore nell'attività redazionale, con utilizzazione degli strumenti
di lavoro - computer e cellulare - forniti dalla casa editrice, e con la preposizione in via stabile a
settori di informazione o rubriche fisse, nonché l'assoggettamento del medesimo al potere
decisionale e di controllo del capo cronista che impartiva direttive e poteva richiedere prestazioni
ulteriori - quali l'impaginazione e la redazione dei titoli - rispetto alla mera redazione di articoli).
Cass. civ. Sez. lavoro, 07-10-2013, n. 22786
In tema di contratto d'opera, la previsione della possibilità di recesso "ad nutum" del cliente
contemplata dall'art. 2237, primo comma, cod. civ., non ha carattere inderogabile e quindi è
possibile che, per particolari esigenze delle parti, sia esclusa tale facoltà fino al termine del
rapporto, dovendosi ritenere sufficiente - al fine di integrare la deroga pattizia alla regolamentazione
legale della facoltà di recesso - la mera apposizione di un termine al rapporto di collaborazione
professionale, senza necessità di un patto espresso e specifico. Ne consegue che, in tale evenienza,
l'interruzione unilaterale dal contratto da parte del committente comporta per il prestatore il diritto
al compenso contrattualmente previsto per l'intera durata del rapporto.
14
Cass. civ. Sez. lavoro, 09-09-2013, n. 20606
La qualificazione del contratto di lavoro come autonomo o subordinato - ai fini della quale il
"nomen iuris" attribuito dalle parti al rapporto può rilevare solo in concorso con altri validi elementi
differenziali o in caso di non concludenza degli altri elementi di valutazione - occorre accertare se
ricorra o no il requisito tipico della subordinazione, intesa come prestazione dell'attività lavorativa
alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore e perciò con l'inserimento nell'organizzazione
di questo, mentre gli altri caratteri dell'attività lavorativa, come la continuità, la rispondenza ai fini
propri dell'impresa e le modalità di erogazione della retribuzione non assumono rilievo
determinante, essendo compatibili sia con il rapporto di lavoro subordinato sia con quelli di lavoro
autonomo.
Cass. civ. Sez. lavoro, 26-08-2013, n. 19568
Ai fini della distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, l'elemento della subordinazione
(ossia della sottoposizione al potere direttivo, disciplinare e di controllo del datore di lavoro)
costituisce una modalità d'essere del rapporto, desumibile da un insieme di circostanze che devono
essere complessivamente valutate da parte del giudice del merito e ciò in particolare nei rapporti
di lavoro aventi natura professionale o intellettuale ed indipendentemente da una iniziale pattuizione
scritta sulle modalità del rapporto; nella qualificazione del rapporto il giudice non può, pertanto,
prescindere dal concreto riferimento alle modalità di espletamento dello stesso e in particolare da
elementi sussidiari, che egli stesso deve individuare, quali l'autonoma gestione del lavoro da parte
del lavoratore, l'assoggettamento o meno a direttive programmatiche, l'accettazione del rischio
derivante dal mancato espletamento dell'attività lavorativa al fine di fruire di periodi di riposo.
Cass. civ. Sez. lavoro, 19-08-2013, n. 19199
Ai fini dell'individuazione della natura autonoma o subordinata di un rapporto di lavoro, la formale
qualificazione operata dalle parti in sede di conclusione del contratto individuale, seppure rilevante,
non è determinante, posto che le parti, pur volendo attuare un rapporto di lavoro subordinato,
potrebbero aver simulatamente dichiarato di volere un rapporto autonomo al fine di eludere la
disciplina legale in materia. Tale principio non vale invece nell'ipotesi inversa in cui, rispetto ad una
situazione lavorativa ritenuta priva dei connotati della subordinazione, le parti stipulino un contratto
che, invece, riconosca, a partire da una certa data, la sussistenza di un contratto
di lavoro subordinato, dovendosi ritenere, in tal caso, che la volontà delle parti sia da considerare
conforme al concreto assetto del rapporto, non essendovi motivo per ritenere che le parti abbiano
adottato un tipo contrattuale che impegni in modo più consistente anche il datore rispetto ad oneri
collegati all'anzianità di servizio, al trattamento da riconoscersi al lavoratore in ipotesi di
risoluzione del rapporto, al trattamento previdenziale e contributivo, senza che la veste formale
corrisponda al contenuto della prestazione.
15
Cass. civ. Sez. lavoro, 01-08-2013, n. 18414
Ai fini della qualificazione come lavoro subordinato del rapporto di lavoro del dirigente, quando
questi sia titolare di cariche sociali che ne fanno un "alter ego" dell'imprenditore (preposto alla
direzione dell'intera organizzazione aziendale o di una branca o settore autonomo di essa), è
necessario - ove non sussista alcuna formalizzazione di un contratto di lavoro subordinato di
dirigente - verificare se il lavoro dallo stesso svolto possa comunque essere inquadrato all'interno
della specifica organizzazione aziendale, individuando la caratterizzazione delle mansioni svolte, e
se possa ritenersi assoggettato, anche in forma lieve o attenuata, alle direttive, agli ordini e ai
controlli del datore di lavoro (e, in particolare, dell'organo di amministrazione della società nel suo
complesso), nonché al coordinamento dell'attività lavorativa in funzione dell'assetto organizzativo
aziendale.
Cass. civ. Sez. lavoro, 05-07-2013, n. 16835
Nel caso in cui la prestazione dedotta in contratto sia estremamente elementare, ripetitiva e
predeterminata nelle sue modalità di esecuzione, oppure, all'opposto, nel caso di prestazioni
lavorative dotate di notevole elevatezza e di contenuto intellettuale e creativo, al fine della
distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e subordinato, il criterio rappresentato
dall'assoggettamento del prestatore all'esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare può
non risultare, in quel particolare contesto, significativo per la qualificazione del rapporto di lavoro,
ed occorre allora far ricorso a criteri distintivi sussidiari, quali la continuità e la durata del rapporto,
le modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell'orario di lavoro, la presenza di
una pur minima organizzazione imprenditoriale (anche con riferimento al soggetto tenuto alla
fornitura degli strumenti occorrenti) e la sussistenza di un effettivo potere di autorganizzazione in
capo al prestatore.
Cass. civ. Sez. lavoro, 16-05-2013, n. 11930
Deve essere qualificato in termini di lavoro subordinato quello prestato dal personale, docente e non
docente, operante presso una scuola, materna ed elementare, gestita da un'associazione, nonostante
la qualità di associati formalmente rivestita dai prestatori d'opera, in virtù di indici presuntivi quali:
l'articolazione dei corsi e l'attribuzione delle classi agli insegnanti secondo moduli organizzativi
previsti dalla legge, inconciliabili con una pretesa libertà di orario; la predeterminazione, nella
misura e nei contenuti, delle attività lavorative; l'entità sia dell'impegno lavorativo giornaliero
richiesto, sia delle erogazioni effettuate in favore del personale, incompatibile con la sostenuta
natura di meri rimborsi spese "a forfait".
16
Cass. civ. Sez. lavoro, 18-04-2013, n. 9468
Alla stregua di quanto disposto dall'art. 2 della legge 11 agosto 1991, n. 266 (secondo cui "l'attività
del volontario non può essere retribuita in alcun modo nemmeno dal beneficiario", ed inoltre "la
qualità di volontario è incompatibile con qualsiasi forma di rapporto di lavoro subordinato o
autonomo e con ogni altro rapporto di contenuto patrimoniale con l'organizzazione di cui fa parte")
non ricorrono gli estremi della prestazione di volontariato nel caso in cui, per l'attività espletata,
siano state corrisposte somme di danaro, essendo onere della parte convenuta in giudizio per il
riconoscimento dell'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato dimostrare che la loro
corresponsione sia avvenuta, invece, a titolo di rimborso spese, non superando l'ammontare di
queste. (Nel caso di specie, la S.C. ha ritenuto correttamente motivata la decisione con cui il giudice
di merito ha ritenuto che non costituisse attività di volontariato in favore dell'associazione
Federconsumatori, bensì prestazione di lavoro subordinato alle dipendenze della C.G.I.L., l'attività
espletata presso uno sportello da questa istituito per la tutela dei consumatori, dando rilievo altresì
alla circostanza non solo che la predetta associazione è risultata sostanzialmente inesistente, ma
soprattutto che la C.G.I.L., oltre a retribuire direttamente la sportellista, aveva interesse per i propri
iscritti e simpatizzanti ad attivare un servizio a tutela del consumatore).
Cass. civ. Sez. III, 21-03-2013, n. 7128
Ai rapporti di lavoro autonomo non si applicano le norme speciali antinfortunistiche, che, di regola,
presuppongono l'inserimento del prestatore di lavoro nell'impresa del soggetto destinatario della
prestazione, né l'art. 2087 cod. civ., il quale, integrando le richiamate leggi speciali, riguarda
esclusivamente i rapporti di lavoro subordinato.
Cons. Stato Sez. III, 13-03-2013, n. 1496
L'obbligo del prestatore di lavoro di osservare un orario di servizio e di attenersi alle direttive
impartite dai responsabili dei vari servizi dell'Amministrazione, finalizzati al coordinamento con la
prestazione di altri professionisti, è conciliabile con una prestazione professionale
di lavoro autonomo, non essendo la presenza di alcuni tratti caratteristici del lavoro subordinato,
propri della c.d. parasubordinazione, sufficiente a trasformare il rapporto contrattuale in rapporto di
pubblico impiego.
T.A.R. Campania Salerno Sez. I, 12-03-2013, n. 640
L'accertamento giudiziale dell'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze della
pubblica Amministrazione, in difformità degli atti che lo hanno costituito come rapporto
di lavoro autonomo ai sensi dell'art. 2222 c.c., non è proponibile se l'interessato non ha
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tempestivamente impugnato questi atti. La pretesa dell'interessato, infatti, in quanto diretta
all'accertamento di una diversa posizione giuridica ed economica, si collega ad una posizione di
interesse legittimo, attesa la natura autoritativa del potere, con cui l'Amministrazione disciplina il
suo assetto organizzativo e funzionale.
Trib. Milano, 14-02-2013
Il fatto che il lavoratore abbia un proprio staff, nei confronti del quale proponga assunzioni,
promozioni, aumenti di stipendio e ferie, non esprime, di per sé, subordinazione, potendo essere
anche attuazione di un rapporto di lavoro autonomo; assume l'aspetto della subordinazione solo ove
sia l'esecuzione di direttive ricevute dal datore nell'ambito della situazione di assoggettamento, in
cui lo stesso lavoratore si trovi, e che resta il determinante parametro della subordinazione.
App. Genova Sez. lavoro, 31-01-2013
L'onere di provare i fatti da cui derivare la natura subordinata del rapporto compete, per le regole
generali, a chi la invoca e ciò tanto più quando vi sia un documento, sia pure formato a distanza di
anni dall'inizio della prestazione, in cui le parti hanno qualificato come autonomo il rapporto e
quando per un dato periodo di tempo quest'ultimo è proseguito senza nessuna contestazione sul
piano qualificatorio da parte dell'attore.
*
*
5.
COSTITUZIONE
DEL
RAPPORTO
OBBLIGATORIO E PATTO DI PROVA
*
DI
LAVORO:
COLLOCAMENTO
Cass. civ. Sez. lavoro, 19-09-2013, n. 21458
In base al sistema delle assunzioni obbligatorie degli invalidi (ed assimilati) disciplinato dalla legge
12 marzo 1999, n. 68, dopo il provvedimento di avviamento al lavoro risulta necessaria la
collaborazione dell'invalido, che può essere ancorata alla previsione, nello stesso atto di
avviamento, di un termine per la presentazione in azienda - il cui mancato rispetto comporta
l'estinzione dell'obbligo di stipulazione posto dalla legge a carico del datore di lavoro, potendosi
assimilare l'inerzia del lavoratore ad una implicita rinuncia - purché tale termine decadenziale non
renda oggettivamente gravoso l'esercizio del diritto, secondo una valutazione da operare ai
sensi dell'art. 2965 cod. civ. e che tenga conto della brevità del termine in rapporto alla particolare
situazione del soggetto tenuto ad attivarsi per evitare la decadenza.
18
Cass. civ. Sez. lavoro, 22-07-2013, n. 17785
In tema di collocamento obbligatorio dei disabili, l'avviamento al lavoro dei disabili psichici deve
avvenire, ai sensi dell'art. 9, comma quarto, della legge 12 marzo 1999, n. 68, su richiesta
nominativa, nell'ambito delle convenzioni tra datore di lavoro ed ufficio del lavoro competente,
disciplinate dall'art. 11 della medesima legge.
Cass. civ. Sez. lavoro, 18-07-2013, n. 17587
In tema di patto di prova, la dichiarazione di assunzione del lavoratore, se sottoscritta per ricevuta
dal lavoratore, integra il requisito della forma scritta richiesto dall'art. 2096 cod. civ.
Cass. civ. Sez. lavoro, 23-05-2013, n. 12730
Nei procedimenti giurisdizionali concernenti l'invalidità civile, la cecità civile, il sordomutismo,
l'handicap e la disabilità ai fini del collocamento obbligatorio al lavoro, qualora la difesa del
Ministero dell'economia e delle finanze, nel giudizio di primo grado, sia stata assunta da un
funzionario della stessa Amministrazione ovvero, in base ad eventuale convenzione, da un avvocato
dell'I.N.P.S. (come consentito dall'art. 42 del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, conv. in legge 24
novembre 2003, n. 326), la notifica della sentenza, come quella della successiva impugnazione
(quest'ultima con esclusione del caso in cui la difesa personale o con propri dipendenti sia limitata
al giudizio di primo grado) vanno effettuate nei confronti dei funzionari o avvocati incaricati della
difesa, a norma dell'art. 330 cod. proc. civ.
Cass. civ. Sez. lavoro, 03-05-2013, n. 10338
Pur quando il lavoratore sia stato avviato al lavoro ai sensi della legge 2 aprile 1968, n. 482, il suo
diritto - quale portatore di handicap - a non essere trasferito presso altra sede lavorativa, se non con
il proprio consenso, resta subordinato, secondo quanto previsto dal combinato disposto
dagli artt. 3 e 33, comma sesto, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, alla gravità della disabilità, il
cui accertamento è demandato ad apposita Commissione istituita presso la competente Azienda
Sanitaria Locale, ai sensi dell'art. 4 della medesima legge n. 104 del 1992.
Cons. Stato Sez. V, 27-03-2013, n. 1821
Il rapporto di lavoro alle dipendenze di Pubbliche Amministrazioni (regolato dal d.lgs. n. 165/2001)
è disciplinato da una lex specialis, che deroga, rendendolo inapplicabile, l'art. 2096 c.c. ed i principi
elaborati dalla giurisprudenza sulla base di detta norma. Così, mentre nell'impiego privato è pacifico
ritenere che il patto di prova debba essere predisposto in forma scritta a pena di nullità, con la
conseguenza che, in mancanza di detta formalità lo stesso deve considerarsi nullo e l'assunzione del
19
lavoratore va considerata definitiva, nel pubblico impiego il periodo di prova scaturisce
direttamente per effetto ex lege e non per effetto di un patto inserito nel contratto di lavoro
dall'autonomia contrattuale.
Cass. civ. Sez. lavoro, 06-03-2013, n. 5546
La disciplina del collocamento obbligatorio previsto dalla legge 2 aprile 1968, n. 482 (applicabile
"ratione temporis") - a differenza della disciplina del collocamento ordinario - prescrive soltanto
che la richiesta dell'imprenditore sia numerica (e solo eccezionalmente nominativa), senza
prevedere ulteriori specificazioni in ordine alla professionalità del lavoratore che si intende
assumere. Pertanto, ove l'imprenditore abbia fatto richiesta di avviamento (obbligatorio) di un
lavoratore invalido (od assimilato) avente specifiche attitudini lavorative, l'Ufficio del lavoro può
soltanto individuare in quale delle due fondamentali categorie professionali (impiegatizia od
operaia) previste dall'art. 2095 cod. civ. tali attitudini siano inquadrabili e provvedere in conformità
di tale generico inquadramento, con la conseguenza che nell'ipotesi di divergenza tra la categoria
indicata nella richiesta e quella di appartenenza del lavoratore avviato non viene ad esistenza il
diritto soggettivo di quest'ultimo ad essere assunto dall'impresa destinataria dell'ordine di
assegnazione e diventa legittimo l'eventuale rifiuto dell'imprenditore di assumere il lavoratore
avviato che non rientri nella generale categoria professionale risultante dalla richiesta.
Trib. Milano Sez. lavoro, 15-02-2013
Il requisito della indicazione specifica delle mansioni nel patto di prova non può essere sostituito da
ciò che è notoria competenza di un'impiegata d'ordine atteso che la finalità del patto di prova da cui
consegue la necessaria specificazione delle mansioni da svolgere è quello di garantire l'esigenza di
entrambe le parti di verificare la reciproca convenienza del contratto attraverso la verifica da parte
del datore di lavoro delle capacità e qualità del lavoratore e da parte del lavoratore dell'entità della
prestazione che gli viene richiesta e delle condizioni in cui il rapporto si svolge.
*
*
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6. I CONTRATTI A CONTENUTO FORMATIVO
Cass. civ. Sez. lavoro, 08-10-2013, n. 22866
Il contratto di formazione e lavoro, pur costituendo una specie del "genus" contratto di lavoro a
tempo determinato, è dotato di una propria autonomia funzionale in quanto caratterizzato - a
differenza dell'ordinario contratto a termine - da una causa complessa comprensiva di una finalità di
formazione per consentire al lavoratore l'acquisizione della professionalità necessaria per
20
immettersi nel mondo del lavoro, da cui la necessaria differenziazione della disciplina, legislativa e
contrattuale, applicabile ai lavoratori (nella specie, del settore autoferrotranviario) così assunti. Ne
consegue che, ove il convenuto, nella memoria di costituzione nel giudizio di primo grado, abbia
impostato la propria difesa configurando le assunzioni dei lavoratori ricorrenti come avvenute con
contratti a tempo determinato, la successiva qualificazione dei medesimi contratti come di
formazione e lavoro e la produzione della pertinente documentazione, effettuate per la prima volta
con le note difensive depositate prima della discussione e della pronuncia della sentenza di primo
grado, sono inammissibili perché tardive in quanto dirette ad introdurre un nuovo tema di indagine
in contrasto con il sistema delle preclusioni, con conseguente declaratoria ex art. 437, secondo
comma, cod. proc. civ., ove la questione sia riproposta in appello.
Cons. Stato Sez. IV, 08-10-2013, n. 4924
I requisiti soggettivi di ammissione debbono essere posseduti alla data di scadenza del termine
stabilito nel bando di concorso per la presentazione della domanda. Il limite di età dei 32 anni per i
contratti di formazione e lavoro deve essere riferito al momento della stipulazione del contratto,
qualora stipulati da imprese o loro consorzi, per i quali non è richiesta alcuna selezione pubblica di
tipo concorsuale ed è ammessa l'assunzione nominativa, mentre deve riferirsi alla data di
presentazione della domanda di partecipazione alla procedura concorsuale se stipulati da pubbliche
amministrazioni.
Cass. civ. Sez. lavoro, 10-05-2013, n. 11265
L'apprendistato è un rapporto di lavoro speciale, in forza del quale l'imprenditore è obbligato ad
impartire nella sua impresa all'apprendista l'insegnamento necessario perché questi possa
conseguire la capacità tecnica per diventare lavoratore qualificato, occorrendo a tal fine lo
svolgimento effettivo, e non meramente figurativo, sia delle prestazioni lavorative da parte del
dipendente sia della corrispondente attività di insegnamento da parte del datore di lavoro, la quale
costituisce elemento essenziale e indefettibile del contratto di apprendistato, entrando a far parte
della causa negoziale. Spetta al giudice di merito verificare, con valutazione non censurabile in sede
di legittimità se congruamente motivata, la ricorrenza di una attività formativa, pur modulabile in
relazione alla natura e alle caratteristiche delle mansioni che il lavoratore è chiamato a svolgere,
purché adeguata ed effettivamente idonea a raggiungere lo scopo di attuare una sorta di ingresso
guidato del giovane nel mondo del lavoro.
Cass. civ. Sez. lavoro, 26-04-2013, n. 10075
Il diritto di precedenza in favore dei lavoratori a tempo parziale, previsto, in caso di nuove
assunzioni, dall'art. 5, secondo comma, del d.lgs. 25 febbraio 2000, n. 61, presuppone l'indifferenza,
per le esigenze oggettive del datore di lavoro, tra l'assunzione di nuovo personale e la
21
trasformazione in contratti di lavoro a tempo pieno di rapporti a tempo parziale già costituiti, in
funzione dello svolgimento di mansioni identiche oppure equivalenti e, come tali, reciprocamente
fungibili. In caso contrario, la trasformazione del rapporto di lavoro non risulterebbe sostitutiva
rispetto all'assunzione di nuovo personale a tempo pieno e comporterebbe, perciò, un aggravio, non
voluto dalla legge, dell'obbligo imposto al datore di lavoro. La condizione di equivalenza non è
configurabile in presenza di un contratto a causa mista, come quello di apprendistato, in cui l'attività
formativa concorre con quella lavorativa a integrare la fattispecie legale.
App. Bologna Sez. lavoro, 13-03-2013
Nel contratto di formazione lavoro la divergenza fra gli obblighi contrattuali ed il concreto
svolgimento del rapporto non realizza un inadempimento della parte datoriale, sanzionabile con la
conversione del rapporto medesimo in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, ove detto
svolgimento, secondo la valutazione del Giudice del merito, avvenga con modalità tali da non
compromettere la funzione del contratto. Questo, invero, a differenza dall'apprendistato, tende non
già a consentire il mero conseguimento di nozioni base per l'esecuzione della prestazione
professionale, bensì a favorire, attraverso l'acquisizione di specifiche conoscenze, l'inserimento del
lavoratore nell'organizzazione aziendale, in funzione dell'accesso al mondo del lavoro.
Trib. Roma Sez. lavoro Ordinanza, 14-01-2013
La comunicazione datoriale di scadenza del contratto di apprendistato per mancato raggiungimento
della qualifica non può qualificarsi come licenziamento, trovando applicazione i principi in materia
di disdetta da un contratto a termine; ne consegue l'inapplicabilità del rito speciale di cui all'art. 1,
commi 47 ss. legge n. 92 del 2012 e, in mancanza di una specifica disposizione, l'applicazione del
principio generale, desumibile dall'art. 702-ter c.p.c., che impone, in caso di errore nella scelta del
rito, di dichiarare la inammissibilità della domanda.
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*
7. IL CONTRATTO DI LAVORO A TERMINE
Cass. civ. Sez. lavoro, 13-01-2014, n. 471
In materia di contratti a tempo determinato, la configurabilità di una risoluzione per mutuo
consenso del rapporto di lavoro, manifestatasi in pendenza del termine per l'esercizio del diritto o
dell'azione, richiede che il decorso del tempo sia accompagnato da ulteriori circostanze oggettive, le
quali, per le loro caratteristiche di incompatibilità con la prosecuzione del rapporto, possano essere
complessivamente interpretate nel senso di denotare una volontà chiara e certa delle parti di volere,
22
d'accordo tra loro, porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo. In tale contesto, non sono
indicative di un intento risolutorio né l'accettazione del trattamento di fine rapporto, né la mancata
offerta della prestazione, in quanto comportamenti entrambi non interpretabili, per difetto assoluto
di concludenza, come tacita dichiarazione di rinunzia ai diritti derivanti dalla illegittima apposizione
del termine al contratto di lavoro.
Corte giustizia Unione Europea Sez. III, 12-12-2013, n. 361/12
Sebbene l'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, inserito in allegato alla direttiva
1999/70/CE, relativa all'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, non
osti a che gli Stati membri introducano un trattamento più favorevole rispetto a quello previsto
dall'accordo stesso per i lavoratori a tempo determinato, la clausola 4, punto 1, deve essere
interpretata nel senso che non impone di trattare in maniera identica l'indennità corrisposta in caso
di illecita apposizione di un termine ad un contratto di lavoro e quella versata in caso di illecita
interruzione di un contratto di lavoro a tempo indeterminato.
Cass. civ. Sez. lavoro, 29-10-2013, n. 24335
Nei contratti di lavoro dirigenziale a tempo determinato, in caso di licenziamento dichiarato
illegittimo, e in mancanza di una diversa previsione nel contratto individuale, il risarcimento del
danno dovuto va commisurato all'entità dei compensi retributivi che sarebbero maturati dalla data
del recesso fino alla scadenza del contratto, mentre non è dovuta alcuna indennità sostitutiva del
preavviso, essendo questa legislativamente prevista solo per il rapporto di lavoro a tempo
indeterminato.
Cass. civ. Sez. lavoro, 18-10-2013, n. 23702
In materia di contratti di lavoro a termine è infondato l'assunto in forza del quale si ritenga che la
società per azioni a capitale pubblico sia sottratta alle norme di diritto privato concernenti i contratti
di lavoro a tempo determinato e, quindi, alla conversione del rapporto dei lavoro in rapporto a
tempo indeterminato nel caso di nullità della clausola appositiva del termine. Dalla direttiva europea
n. 70 del 1999 risulta, infatti, che i contratti a tempo indeterminato sono e continueranno ad essere
la forma generale di rapporto di lavoro anche se in talune circostanze eccezionali, quelli
a termine possono meglio corrispondere ai bisogni dei datori o dei prestatori di lavoro. Tra dette
eccezioni rientrano i rapporti con enti pubblici oppure i rapporti privatistici, laddove ricorrano
specifici motivi, previsti dalla legge o dalla contrattazione collettiva.
Costituisce regola generale l'obbligo di apporre nel contratto individuale di lavoro la ragione
giustificativa del termine, la cui enunciazione deve essere specifica nel regime previsto dal d.lgs. 6
settembre 2001, n. 368, mentre nella vigenza dell'art. 23 della legge 28 febbraio 1987, n. 56 - con
cui era stata affidata alla contrattazione collettiva, nazionale o locale, la possibilità di autorizzare
23
contratti a termine per causali, di carattere oggettivo o anche meramente soggettivo, ulteriori
rispetto a quelle previste legge 18 aprile 1962, n. 230 - era sufficiente il richiamo, nel contratto
stesso, alla previsione del contratto collettivo, così da consentire, anche in tale evenienza, il
controllo giudiziario sull'operato delle parti ed evitare l'arbitrio che il silenzio avrebbe consentito.
Cass. civ. Sez. lavoro, 09-10-2013, n. 22965
In tema di contratti di lavoro a termine, l'art. 2 della legge n. 230 del 1962, che consente solo in
caso eccezionali ed entro determinati limiti, la proroga dei contratti di lavoro subordinato a tempo
determinato, non trova applicazione per i contratti a termine stipulati con dirigenti tecnici o
amministrativi ai sensi dell'art. 4 della stessa legge, sottratti alla disciplina di diritto comune dell'art.
1. Ne consegue che il contratto a termine con i dirigenti, soggetto al limite di cui all'art. 4, (per cui
allo stesso può apporsi un termine purché non superiore a cinque anni ed in ogni caso, ove superiore
a tre anni deve garantirsi dopo tale periodo il diritto di recesso al dirigente), può essere
convenzionalmente prorogato senza che sia necessaria la ricorrenza delle condizioni di
eccezionalità di cui all'art. 2. Nel rapporto di lavoro dei dirigenti, in sostanza, il contratto a termine
non costituisce una deroga al principio ordinario del contratto a tempo indeterminato e non opera la
prescrizione contenuta nell'art. 2 della legge n. 230 del 1962 secondo la quale, quando si tratti di
assunzioni successive a termine, volte ad eludere le disposizioni dell'anzidetta norma, si verifica la
conversione ex tunc dei rapporti a termine in un unico rapporto a tempo indeterminato.
Cass. civ. Sez. lavoro, 27-09-2013, n. 22245
L'indicazione da parte del datore di lavoro delle ragioni sostitutive legate alla maternità di una
dipendente assunta a tempo indeterminato, della città e dell'ufficio presso i quali il dipendente
a termine abbia poi effettivamente prestato la propria attività, risponde al criterio di specificità e
comporta la legittimità dell'apposizione del termine al contratto di lavoro, a prescindere dalla non
esatta coincidenza tra l'assenza della lavoratrice sostituita e la durata del rapporto del lavoratore
assunto a tempo determinato.
App. Perugia Sez. lavoro, 10-09-2013
In materia di assunzioni a termine dei dipendenti postali, l'art. 23 della legge 28 febbraio 1987, n.
56, nel consentire anche alla contrattazione collettiva di individuare nuove ipotesi di legittima
apposizione di un termine al contratto di lavoro, ha consentito il ricorso ad assunzione di personale
straordinario nei soli limiti temporali previsti dalla contrattazione collettiva, con conseguente
esclusione della legittimità dei contratti a termine stipulati oltre i detti limiti; resta altresì escluso
che le parti sociali, mediante lo strumento dell'interpretazione autentica delle vecchie disposizioni
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contrattuali ormai scadute (volta ad estendere l'ambito temporale delle stesse), possano autorizzare
retroattivamente la stipulazione di contratti non più legittimi per effetto della durata in precedenza
stabilita, tanto più che il diritto del lavoratore si era già perfezionato e le organizzazioni sindacali
non possono disporre dello stesso.
Trib. Milano, 27-08-2013
L'apposizione di un termine al contratto di lavoro, consentita dall'art. 1, D.Lgs. 6 settembre 2001, n.
368, a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, che devono
risultare specificate, a pena d'inefficacia, in apposito atto scritto, impone al datore di lavoro l'onere
di indicare in modo circostanziato e puntuale, al fine di assicurare la trasparenza e la veridicità di
tali ragioni, nonché l'immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto, le circostanze che
contraddistinguono una particolare attività e che rendono conforme alle esigenze del datore di
lavoro, nell'ambito di un determinato contesto aziendale, la prestazione a tempo determinato, si da
rendere evidente la specifica connessione tra la durata solo temporanea della prestazione e le
esigenze produttive ed organizzative che la stessa sia chiamata a realizzare e la utilizzazione del
lavoratore assunto esclusivamente nell'ambito della specifica ragione indicata ed in stretto
collegamento con la stessa.
Cass. civ. Sez. lavoro, 09-08-2013, n. 19095
L'ottemperanza del datore di lavoro all'ordine giudiziale di riammissione in servizio, a seguito di
accertamento della nullità dell'apposizione di un termine al contratto di lavoro, implica il ripristino
della posizione di lavoro del dipendente, il cui reinserimento nell'attività lavorativa deve quindi
avvenire nel luogo precedente e nelle mansioni originarie, a meno che il datore di lavoro non
intenda disporre il trasferimento del lavoratore ad altra unità produttiva, e sempre che il mutamento
della sede sia giustificato da sufficienti ragioni tecniche, organizzative e produttive, fermo restando
che, ove sia contestata la legittimità del trasferimento, il datore di lavoro ha l'onere di allegare e
provare in giudizio le fondate ragioni che lo hanno determinato e, se può integrare o modificare la
motivazione eventualmente enunciata nel provvedimento, non può limitarsi a negare la sussistenza
dei motivi di illegittimità oggetto di allegazione e richiesta probatoria della controparte, ma deve
comunque provare le reali ragioni tecniche, organizzative e produttive che giustificano il
provvedimento.
Cass. civ. Sez. lavoro, 05-08-2013, n. 18618
Nell'ipotesi in cui un Comune indica una prova pubblica selettiva per l'assunzione straordinaria a
tempo determinato per due mesi di un numero limitato di dipendenti, alla scadenza
del termine fissato ai contratti di lavoro stipulati con i primi della graduatoria, questi ultimi non
25
hanno diritto alla prosecuzione del rapporto di lavoro, pur nella permanenza della situazione che
aveva reso necessarie le originarie assunzioni, ben potendo l'ente procedere alla stipula di nuovi
contratti a tempo determinato, per i medesimi posti, ma con coloro che seguono in graduatoria i
primi assunti, anche allo scopo di evitare l'esposizione alle sanzioni previste dall'art. 36 del d. lgs.
30 marzo 2001, n. 165.
Trib. Pescara Sez. lavoro, 06-06-2013
Nel lavoro pubblico alla illegittimità del contratto a termine per violazione di norme imperative non
può che conseguire un regime sanzionatorio che -con l'escludere ogni effetto reintegrativo stante la
regola generale del concorso per l'assunzione del personale -viene ad essere incentrato sul versante
dei danni subiti dalla pubblica amministrazione e dal lavoratore; danni che assumono anche essi una
propria caratterizzazione correlata a negozi, la cui flessibilità assume natura e requisiti distinti da
quelli risultanti nel lavoro privato e su cui i suddetti danni vanno conseguentemente parametrati.
Corte cost., 29-05-2013, n. 107
Non sono fondate le due questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1, D.Lgs. n.
368/2001 sulle assunzione a termine per esigenze di carattere sostitutivo. In primo luogo, il criterio
della identificazione nominativa del personale sostituito è da ritenere certamente il più semplice e
idoneo a soddisfare l'esigenza di una nitida individuazione della ragione sostitutiva, ma non l'unico.
Non si può escludere, infatti, la legittimità di criteri alternativi di specificazione, sempreché essi
siano rigorosamente adeguati allo stesso fine e saldamente ancorati a dati di fatto oggettivi. E così,
anche quando ci si trovi - come ha rilevato la Corte di cassazione - di fronte ad ipotesi di supplenza
più complesse, nelle quali l'indicazione preventiva del lavoratore sostituito non sia praticabile per la
notevole dimensione dell'azienda o per l'elevato numero degli avvicendamenti, la trasparenza della
scelta dev'essere, nondimeno, scrupolosamente garantita. In altre parole, si deve assicurare in ogni
modo che la causa della sostituzione di personale sia effettiva, immutabile nel corso del rapporto e
verificabile, ove revocata in dubbio. L'apposizione del termine per "ragioni sostitutive" è stata
ritenuta legittima anche quando, avuto riguardo alla complessità di certe situazioni aziendali,
l'enunciazione dell'esigenza di sopperire all'assenza momentanea di lavoratori a tempo
indeterminato sia accompagnata dall'indicazione, in luogo del nominativo, di elementi differenti,
quali l'ambito territoriale dell'assunzione, il luogo della prestazione lavorativa, le mansioni e il
diritto alla conservazione del posto dei dipendenti da sostituire, che permettano ugualmente di
verificare l'effettiva sussistenza e di determinare il numero di questi ultimi (ex plurimis, Corte di
cassazione, sezione lavoro, sentenze n. 1576 e n. 1577 del 2010, cit.).
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Cass. civ. Sez. lavoro, 16-05-2013, n. 11927
La ottemperanza del datore di lavoro all'ordine giudiziale di riammissione in servizio, a seguito di
accertamento della nullità dell'apposizione di un termine al contratto di lavoro, implica il ripristino
della posizione di lavoro del dipendente, il cui reinserimento nell'attività lavorativa deve quindi
avvenire nel luogo precedente e nelle mansioni originarie, a meno che il datore di lavoro non
intenda disporre il trasferimento del lavoratore ad altra unità produttiva, e sempre che il mutamento
della sede sia giustificato da sufficienti ragioni tecniche, organizzative e produttive, in mancanza
delle quali è configurabile una condotta datoriale illecita, che giustifica la mancata ottemperanza a
tale provvedimento da parte del lavoratore, sia in attuazione di un'eccezione di inadempimento ai
sensi dell'art. 1460 cod. civ., sia sulla base del rilievo che gli atti nulli non producono effetti.
App. Potenza Sez. lavoro, 12-05-2013 (Superata dal c.d. collegato lavoro)
Accertata la nullità del termine apposto al contratto di lavoro, non è oggetto di una specifica
disposizione di legge che ne faccia riserva in favore della parte l'eccezione per mezzo della quale, a
fronte della domanda risarcitoria proposta dal dipendente nei confronti del datore di lavoro, questi
deduca l'avvenuta percezione, da parte del lavoratore, di un altro reddito per effetto di una nuova
occupazione, ovvero la colpevole astensione, da parte dello stesso, da comportamenti idonei ad
evitare l'aggravamento del danno. Qualora, pertanto, vi sia stata rituale allegazione dei fatti rilevanti
e gli stessi possano ritenersi non controversi e dimostrati per effetto di mezzi di prova
legittimamente disposti, il Giudice può trarne d'ufficio tutte le conseguenze cui essi sono idonei ai
fini della quantificazione del danno lamentato dal lavoratore illegittimamente licenziato.
Trib. Milano, 08-05-2013
Il momento in cui valutare il rispetto del limite del 15% previsto dall'art. 2, comma 1, del D.Lgs. n.
368/2001 non può che essere quello della singola assunzione a termine, poiché la nullità è un vizio
genetico del contratto e non può derivare da un evento sopravvenuto.
Cass. civ. Sez. lavoro, 02-05-2013, n. 10260
In tema di assunzione a termine per ragioni di carattere sostitutivo, nelle situazioni aziendali
complesse, in cui la sostituzione non è riferita a una singola persona, ma a una funzione produttiva
specifica, l'apposizione del termine è legittima se l'enunciazione dell'esigenza di sostituire lavoratori
assenti - da sola insufficiente ad assolvere l'onere di specificazione delle ragioni stesse - risulti
integrata da elementi ulteriori (quali l'ambito territoriale di riferimento, il luogo della prestazione, le
mansioni dei lavoratori da sostituire, il diritto degli stessi alla conservazione del posto) che
consentano di determinare il numero dei lavoratori da sostituire, ancorché non identificati
nominativamente.
27
Cass. civ. Sez. lavoro, 30-04-2013, n. 10171
Invocata, in sede di legittimità, la normativa sopravvenuta di cui all'art. 32, commi 5, 6 e 7, L. n.
183 del 2010, in merito alle conseguenze economiche della dichiarazione di nullità della clausola
appositiva del termine al contratto di lavoro, l'applicazione della stessa è subordinata alla necessaria
condizione che i motivi di ricorso abbiano investito specificamente le conseguenze patrimoniali
dell'accertata nullità del termine, non essendo possibile chiedere l'applicazione diretta della norma
al di fuori del motivo di impugnazione.
Cass. civ. Sez. lavoro, 26-04-2013, n. 10068
In tema di assunzione a termine di lavoratori subordinati per ragioni di carattere sostitutivo, l'onere
datoriale di specificare tali ragioni può ritenersi soddisfatto nelle situazioni aziendali complesse, in
cui la sostituzione non sia riferita ad una singola persona, ma ad una funzione produttiva specifica
che sia occasionalmente scoperta, con la verifica della corrispondenza quantitativa tra il numero dei
lavoratori assunti con contratto a termine per lo svolgimento di una data funzione aziendale e le
scoperture che per quella stessa funzione si sono realizzate per il periodo dell'assunzione.
Cass. civ. Sez. lavoro, 26-04-2013, n. 10070
Ai sensi dell'art. 16 della legge 31 maggio 1995, n. 218, l'applicazione di una legge straniera
nell'ordinamento italiano è inibita se determina effetti contrari all'ordine pubblico, da intendere
come insieme dei principi essenziali della "lex fori", tra i quali rientra anche quello per cui l'accesso
all'impiego pubblico deve avvenire mediante concorso, salvo eccezioni introdotte dalla legge,
purché rispondenti a peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico. Ne consegue che non
può trovare applicazione nel nostro ordinamento la legge argentina che prevede, in caso di
ingiustificato rinnovo, la conversione del contratto a termine alle dipendenze della P.A. (nella
specie, il Consolato d'Italia a Buenos Aires, articolazione del Ministero degli Esteri) in contratto di
lavoro a tempo indeterminato.
App. L'Aquila Sez. lavoro, 15-04-2013
Il ricorso al contratto di lavoro a termine è consentito soltanto a fronte di ragioni di carattere
tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, laddove tali ragioni non possono essere dilatate a tal
punto da essere identificate con le preferenze insindacabili del datore di lavoro. In altri termini, tali
ragioni non devono identificarsi in una valutazioni di mera convenienza economica ma devono
esprimere effettive esigenze tecniche, produttive, organizzative o sostitutive, nel senso di
giustificare la scelta del contratto a termine, altrimenti non consentita. Deve in sostanza trattarsi di
28
ragioni oggettive che, in quanto tali, possono e devono essere dimostrabili e verificabili, oltre che
indicate nell'atto scritto di assunzione.
Trib. Bologna Sez. lavoro, 26-03-2013
In relazione ai contratti a termine, si evidenzia come il semplice silenzio del lavoratore, serbato per
un periodo di tempo inferiore al termine di prescrizione del diritto, non implica una presunzione di
consenso all'illegittima apposizione di un termine al rapporto di lavoro, né alla risoluzione dello
stesso. Ed infatti, il semplice silenzio o la semplice inattività del lavoratore sono comportamenti che
rilevano unicamente ai fini del decorso della prescrizione. Del resto, gli eventuali comportamenti
ulteriori del soggetto prestatore dell'asserito mutuo consenso, devono essere univoci, precisi e non
altrimenti interpretabili, atteso che si tratta di ricostruire un'eventuale manifestazione tacita di
volontà dell'interessato, in senso sfavorevole all'interessato stesso.
App. Trieste Sez. lavoro, 18-03-2013
La mera inerzia del lavoratore nel far valere i diritti conseguenti alla nullità del termine apposto
al contratto non basta da sola a dimostrare il suo completo disinteresse alla prosecuzione del
rapporto e quindi la volontà implicita del lavoratore stesso di considerarlo definitivamente risolto e
di rinunciare ad ogni pretesa al riguardo. Nel nostro ordinamento, infatti, esistono già degli istituti
che attribuiscono valore tipico all'inerzia del titolare del diritto e cioè la prescrizione e la decadenza,
tanto che è stato sempre affermato che la volontà tacita di rinunziare ad un diritto si può desumere
soltanto da un comportamento concludente del titolare che riveli la sua univoca volontà di non
avvalersi del diritto stesso, laddove l'inerzia o il ritardo nell'esercizio del diritto non costituiscono
elementi sufficienti, di per sé, a dedurne la volontà di rinunciare del titolare, potendo essere frutto di
ignoranza, di temporaneo impedimento o di altra causa, e spiegano rilevanza soltanto ai fini della
prescrizione estintiva.
App. Bologna Sez. lavoro, 15-03-2013
I requisiti di specificità delle ragioni sostitutive legittimanti l'apposizione di
un termine al contratto di lavoro, come richiesti dall'art. 1, D.Lgs. n. 368 del 2001, devono ritenersi
soddisfatti qualora la clausola appositiva del termine contenga adeguati riferimenti all'ambito
territoriale di destinazione del lavoratore, alle mansioni dei lavoratori da sostituire e al diritto del
prestatore sostituito di conservare il posto di lavoro.
Trib. Novara Sez. lavoro, 27-02-2013
29
Le disposizioni dell'art. 1 e dell'art. 2 de D.Lgs. n. 368/2001 non si " sommano" ma regolano la
fattispecie in modo diverso. Entrambe sono finalizzate ad individuare in quale ipotesi sia consentita
la stipulazione del contratto di lavoro a tempo determinato. (...) la differenza è data dal fatto che
nella prima ipotesi la situazione del contratto è consentita a fronte di ragioni di carattere tecnico,
produttivo, organizzativo e sostitutivo che devono essere specificate per iscritto, mentre la seconda
la sussistenza delle ragioni che legittimano l'apposizione del termine già preventivamente valutate
dal legislatore in ragione delle caratteristiche peculiari dei tre settori coinvolti ed i requisiti per la
legittimità del termine sono quindi diversi (arco temporale definito, rispetto alla percentuale e
comunicazioni alle associazioni provinciali sindacali). Sempre dal punto di vista letterale e il fatto
che la rubrica descrive il contenuto dell'articolo 2 come "disciplina aggiuntiva per il trasporto aereo
e di servizi aeroportuali"ulteriormente dimostra che l'intenzione del legislatore è quella di introdurre
un'ipotesi tipica di apposizione del termine diversa in quanto si aggiunge, a quelle previste in via
generale dall'articolo 1. La tesi della necessaria compresenza tanto dei requisiti di cui all'articolo 1
quanto di quelli di cui all'articolo 2 è poi del tutto illogica perché se la causalità del contratto fosse
la regola indefettibile non vi sarebbe stata alcuna ragione di disciplinare in modo differenziato il
settore del trasporto aereo, servizi aeroportuali e postale e comunque il trattamento riservato ai tre
settori sarebbe deteriore rispetto a quello riservato alle altre aziende dovendo le prime rispettare
tanto limite causale quanto quello temporale e percentuale (...) l'intenzione del legislatore, chiarita
in modo in equivoco dalle "l'estensione della possibilità di porre un termine" è quindi quella di
consentire anche alle imprese concessionarie di servizi postali la stipulazione di contratti
a termine senza il rispetto delle limitazioni previste dall'art. 1 comma 1 D.lgs. n. 368/2001.
Trib. Perugia Sez. lavoro, 07-02-2013
Qualora venga accertata l'illegittimità di un contratto a termine, stipulato nel settore privato, trova
applicazione l'art. 32 della legge n. 183 del 2010, secondo il quale alla conversione giudiziale di
un contratto di lavoro a tempo determinato si accompagna la liquidazione di un'indennità
omnicomprensiva. Il carattere di onnicomprensività dell'indennità de qua esclude, pertanto, che
possano residuare profili di danno suscettibili di separato risarcimento.
Trib. Genova Sez. lavoro, 04-02-2013
In merito alla domanda giudiziale volta alla declaratoria di nullità del termine apposto
al contratto di lavoro, è infondata la doglianza di parte ricorrente relativa al mancato rispetto della
percentuale del 15% di assunzioni a termine di cui all'art. 2, comma 1-bis del D.Lgs. n. 368 del
2001 laddove il datore di lavoro abbia fornito la prova contraria. A tal riguardo si rileva, infatti che
l'onere di deduzione e prova dell'osservanza dell'anzidetto limite percentuale è posto a carico del
datore di lavoro il quale deve dimostrare l'obiettiva esistenza delle condizioni che giustificano
l'apposizione di un termine al contratto di lavoro. Grava invece sul lavoratore il solo onere di
allegare la violazione dei limiti percentuali o comunque di chiedere che la parte opposta assolva
all'onere sulla stessa incombente.
30
L'apposizione del termine al contratto di lavoro, ovvero l'indicazione della circostanza che
tale termine implichi, presuppone a pena di nullità, un patto in forma scritta "ad substantiam", che
deve essere anteriore, o quanto meno contestuale, all'inizio del rapporto e non può essere surrogato
né da dichiarazioni scritte unilaterali delle parti o di un terzo, né da accordi verbali tra le parti. In
mancanza il contratto è da ritenersi stipulato a tempo indeterminato.
Trib. Firenze Sez. lavoro, 29-01-2013
In materia di lavoratori dello spettacolo, la validità delle assunzioni a termine è necessariamente
ancorata alla contestuale ricorrenza dei requisiti della temporaneità e della specificità, nonché alla
circostanza che l'assunzione riguardi soggetti il cui apporto lavorativo si inserisca, con vincolo di
necessità diretta, anche se complementare e strumentale, nello specifico spettacolo o programma.
Non può, dunque, ritenersi sufficiente ad integrare l'ipotesi di legittimo ricorso al contratto a tempo
determinato, la mera qualifica tecnica o artistica del personale, correlata alla produzione di
spettacoli o programmi radiofonici o televisivi, occorrendo che l'apporto del peculiare contributo
professionale, tecnico o artistico del soggetto esterno sia necessario per il buon funzionamento dello
spettacolo, in quanto non sostituibile con le prestazioni del personale di ruolo dell'azienda.
Trib. Campobasso, 28-01-2013
La nullità del termine apposto al contratto di lavoro determina la conversione del rapporto in
un contratto a tempo indeterminato, con efficacia dalla pronuncia giudiziale, nonché, in seguito alla
emanazione della legge n. 183 del 2010, l'obbligo della parte datoriale di riammettere il lavoratore
in servizio con reimpiego dello stesso nel medesimo posto occupato alla data di scadenza del
rapporto a termine. Quanto al periodo antecedente la pronuncia giudiziale, invece, la parte datoriale
deve condannata alla corresponsione di una indennità onnicomprensiva, che esaurisce in sé tutte le
conseguenze, sul piano risarcitorio, dell'accertata illegittimità del termine apposto al contratto di
lavoro.
Cass. civ. Sez. VI - Lavoro Ordinanza, 15-01-2013, n. 768
Il lavoratore che, essendo stato alle dipendenze di un datore di lavoro per contratti a termine seguiti
da contratto a tempo indeterminato, agisca nei confronti del datore stesso e del cessionario
del contratto di lavoro per sentirli condannare alla ricostruzione della carriera, previa declaratoria di
nullità del termine, può adire il giudice del luogo dove si trova la dipendenza aziendale cui è
addetto, anche per la domanda nei confronti del datore cedente, ricorrendo, tra questa e la domanda
nei confronti del cessionario, una particolare connessione, che, in analogia con le ipotesi più intense
di connessione ex artt. 31 e ss. cod. proc. civ., consente di instaurare, anche in deroga ai fori speciali
31
di cui all'art. 413 cod. proc. civ., un unico giudizio davanti al giudice territorialmente competente
per una delle cause connesse.
*
*
*
8. IL CONTRATTO DI LAVORO PART-TIME
Trib. Reggio Calabria, 05-11-2013
Pur ove si tratti di contratti part-time in eccedenza (rispetto al limite fissato dalla contrattazione
collettiva), ma non nulli, il superamento del limite non appare determinare anche una fittizia
insorgenza di un rapporto a tempo pieno (e conseguentemente dell'applicazione della contribuzione
virtuale).
Corte cost., 19-07-2013, n. 224
Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 16 della legge 4 novembre
2010, n. 183, che consente alle P.P.A.A. (entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore
della detta legge) di sottoporre a nuova valutazione i provvedimenti di concessione della
trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale già adottati prima della data
di entrata in vigore del decreto-legge n. 112 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n.
133 del 2008, sollevata, in relazione agli articoli 10, 35, terzo comma, e 117, primo comma, della
Costituzione, nonché all'art. 5, comma 2, dell'accordo quadro sul lavoro a tempo parziale allegato
alla direttiva 97/81/Ce del 15 dicembre 1997 (attuata con decreto legislativo 25 febbraio 2000, n.
61) dal Tribunale ordinario di Forlì.
Cass. civ. Sez. lavoro, 26-04-2013, n. 10075
Il diritto di precedenza in favore dei lavoratori a tempo parziale, previsto, in caso di nuove
assunzioni, dall'art. 5, secondo comma, del d.lgs. 25 febbraio 2000, n. 61, presuppone l'indifferenza,
per le esigenze oggettive del datore di lavoro, tra l'assunzione di nuovo personale e la
trasformazione in contratti di lavoro a tempo pieno di rapporti a tempo parziale già costituiti, in
funzione dello svolgimento di mansioni identiche oppure equivalenti e, come tali, reciprocamente
fungibili. In caso contrario, la trasformazione del rapporto di lavoro non risulterebbe sostitutiva
rispetto all'assunzione di nuovo personale a tempo pieno e comporterebbe, perciò, un aggravio, non
voluto dalla legge, dell'obbligo imposto al datore di lavoro. La condizione di equivalenza non è
configurabile in presenza di un contratto a causa mista, come quello di apprendistato, in cui l'attività
formativa concorre con quella lavorativa a integrare la fattispecie legale.
32
Cons. Giust. Amm. Sic., 03-04-2013, n. 401
In merito alla questione inerente il costo del lavoro, stimato in seno al disciplinare di gara, in modo
inferiore rispetto a quelli previsti dal D.P.C.M. del 30 marzo 2001, regolante la materia, si osserva
come in tema di lavoro, costituisce fatto notorio che il costo orario di un dipendente full time è ben
diversificato rispetto a quello del dipendente a tempo parziale in quanto nel primo caso la
retribuzione mensile annua è definita dai contratti collettivi in via forfettaria. Invero, la retribuzione
annua del dipendente ad orario pieno non è costituita dal costo orario base moltiplicato per le ore di
servizio prestate, come invece avviene nel caso del lavoratore a tempo parziale. Ne discende che la
retribuzione del lavoratore a tempo pieno è inferiore a quella del lavoratore a tempo parziale.
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9. IL CONTRATTO A PROGETTO
Cass. civ. Sez. lavoro, 01-10-2013, n. 22396
In tema di contratto di lavoro a progetto, il recesso anticipato per giusta causa, regolato dall'art. 67,
comma 2, del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, non comporta l'obbligo di corresponsione di alcuna
penale, dovendosi interpretare l'eventuale clausola penale recepita nel contratto come intesa a
disciplinare le sole ipotesi di recesso "ad nutum" in quanto funzionale a rafforzare il vincolo
contrattuale e a liquidare preventivamente, a favore della parte adempiente, la prestazione
risarcitoria spettante per l'inadempimento della controparte, e non potendo viceversa trovare
applicazione al caso in cui il recesso è fatto per giusta causa, in quanto, altrimenti, verrebbe a
beneficiare della penale la parte inadempiente agli obblighi contrattuali.
Cass. civ. Sez. lavoro, 25-06-2013, n. 15922
Il contratto di lavoro a progetto, disciplinato dall'art. 61 del d. lgs. 10 settembre 2003, n. 276,
prevede una forma particolare di lavoro autonomo, caratterizzato da un rapporto di collaborazione
coordinata e continuativa, prevalentemente personale, riconducibile ad uno o più progetti specifici,
funzionalmente collegati al raggiungimento di un risultato finale determinati dal committente, ma
gestiti dal collaboratore senza soggezione al potere direttivo altrui e quindi senza vincolo di
subordinazione. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, nonostante il
"nomen juris" adottato dalle parti, aveva escluso la configurabilità di un lavoro a progetto e
ravvisato la subordinazione del lavoratore, il quale era tenuto a promuovere e vendere
quotidianamente un predeterminato numero minimo di prodotti, visitando dati clienti).
Cass. civ. Sez. lavoro, 29-05-2013, n. 13394
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Il contratto di lavoro a progetto, disciplinato dall'art. 61 del d. lgs. 10 settembre 2003, n. 276,
prevede una forma particolare di lavoro autonomo, caratterizzato da un rapporto di collaborazione
coordinata e continuativa, prevalentemente personale, riconducibile ad uno o più progetti specifici,
funzionalmente collegati al raggiungimento di un risultato finale e determinati dal committente, ma
gestiti dal collaboratore senza soggezione al potere direttivo altrui e quindi senza vincolo di
subordinazione. (Nel caso di specie, la S.C. ha confermatola sentenza di merito che, nel rigettare la
domanda di riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato, aveva ritenuto rispondente ai
requisiti di legge il progetto consistente nel mettere a disposizione di una società, acquirente di una
concessionaria automobilistica, l'esperienza specifica e le conoscenze maturate in qualità di ex
titolare, mediante una collaborazione coordinata e continuativa e in assenza di qualsiasi soggezione
ad un potere direttivo datoriale, al fine dell'inserimento della nuova impresa nel mercato).
Trib. Pescara Sez. lavoro, 16-05-2013
Rientrando, invero, nel novero delle collaborazioni coordinate e continuative ex art. 409, n. 3, c.p.c.,
il rapporto di lavoro a progetto, risulta caratterizzato dalla specificità della prestazione lavorativa
affidata al prestatore e quindi della non coincidenza della stessa con l'attività principale o accessoria
normalmente esercitata dall'impresa, sia pure in funzionale collegamento con la struttura
organizzativa del committente. In pratica il progetto, che consiste in un'attività ben identificabile e
collegata ad un risultato finale, costituisce l'oggetto dell'attività del lavoratore che viene gestita
autonomamente da quest'ultimo in funzione del risultato ed indipendentemente dal tempo impiegato
nell'esecuzione dell'attività lavorativa.
Cons. Stato Sez. V, 09-04-2013, n. 1916
In merito all'utilizzo di contratti a progetto, ai sensi degli artt. 61 e 69 D.Lgs. 10 settembre 2003, n.
276 è indispensabile per la validità di tali contratti l'individuazione di un progetto specifico, ossia di
una precisa attività temporalmente e funzionalmente delimitata con un risultato finale ad essa
rapportato, attività che non può identificarsi in toto con una organizzazione aziendale.
Trib. Pescara Sez. lavoro, 04-04-2013
Per escludersi il rapporto di dipendenza è indispensabile che sussista, quale elemento costitutivo
del contratto, un progetto definito che deve essere specifico oppure deve trattarsi di un programma
di lavoro o di una fase di esso, dovendo, viceversa, concludersi che, in difetto, rivive per legge il
prototipo contrattuale che conosce il nostro ordinamento e, dunque, il contratto di lavoro
subordinato.
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10. IL LAVORO NEI RAPPORTI ASSOCIATIVI
Cass. civ. Sez. V, 15-11-2013, n. 25701
La quota di utili percepita dall'associato chiamato a prestare attività lavorativa in seno al contratto
di associazione in partecipazione non è suscettibile di essere assoggettata ad IVA in ragione
dell'assimilazione quoad effectum della prestazione dell'attività lavorativa dell'associato al
conferimento in associazione, equiparabile sotto il profilo fiscale, alla distribuzione degli utili fra i
soci.
Cass. civ. Sez. lavoro, 28-08-2013, n. 19832
In tema di società cooperative, nel regime dettato dalla legge 3 aprile 2001, n. 142, al socio
lavoratore subordinato spetta la corresponsione di un trattamento economico complessivo (ossia
concernente la retribuzione base e le altre voci retributive) comunque non inferiore ai minimi
previsti, per prestazioni analoghe, dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della
categoria affine, la cui applicabilità, quanto ai minimi contrattuali, non è condizionata dall'entrata in
vigore del regolamento previsto dall'art. 6 della legge n. 142 del 2001, che destinato a disciplinare,
essenzialmente, le modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative da parte dei soci e ad
indicare le norme, anche collettive, applicabili, non può contenere disposizioni derogatorie di minor
favore rispetto alle previsioni collettive di categoria.
App. Genova Sez. IV, 01-08-2013
Ai sensi del combinato disposto degli artt. 4 e 6 della legge n. 142 del 2001, nel caso in cui la
società cooperativa deliberi uno stato di crisi che comporti la riduzione della retribuzione dei soci
lavoratori, la contribuzione previdenziale deve essere calibrata sulla base dei minori importi
concretamente erogati, in deroga alla disciplina del minimale contributivo di cui
all'art. 1 della legge n. 389 del 1989, applicabile in generale anche alle cooperative.
App. Perugia Sez. lavoro, 25-06-2013
Alla mancata corrispondenza fra la reale natura del rapporto e la sua veste formale
di associazione in partecipazione non deve necessariamente seguire la conclusione che il rapporto
sia di natura subordinata. Vengono al riguardo in considerazione l'art. 86, comma 2, D.Lgs. n.
276/2003 e l'art. 1, comma 30, della legge n. 92/2012. Le due norme prevedono infatti la possibilità
di provare che un rapporto di lavoro - formalmente di associazione in partecipazione, ma in realtà
non corrispondente a tale contratto, per assenza di effettiva partecipazione e di adeguate erogazioni
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(art. 86, 2 comma, cit.) o di effettiva partecipazione agli utili o senza consegna del rendiconto (art.
1, comma 30, cit.) - non sia di lavoro subordinato.
Cass. civ. Sez. lavoro, 22-05-2013, n. 12564
La distinzione tra contratto di associazione in partecipazione con apporto di prestazione lavorativa
da parte dell'associato e contratto di lavoro subordinato, impone di accertare se lo schema negoziale
pattuito abbia davvero caratterizzato la prestazione lavorativa, ovvero se questa si sia svolta con lo
schema della subordinazione. In tal senso è corretta la decisione giudiziale che ritenga in concreto
non attuato lo schema negoziale tipico del contratto di associazione in partecipazione, nell'ipotesi in
cui sia mancato il controllo sugli utili da parte degli associati, i quali siano, altresì, rimasti
sostanzialmente estranei alla gestione dell'azienda.
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11. LA SOMMINISTRAZIONE DI LAVORO
Cass. civ. Sez. lavoro, 28-11-2013, n. 26654
La disposizione di cui all'art. 22, comma quinto, D.Lgs. n. 276 del 2003 si applica soltanto
alla somministrazione regolare e non anche a quella fraudolenta. Ne consegue che in caso
di somministrazione irregolare o fraudolenta il lavoratore temporaneo deve necessariamente essere
computato
nell'organico
dell'utilizzatore,
al
fine
precipuo
di
evitare
che
la somministrazione irregolare raggiunga la sua finalità illecita.
Trib. Messina, 27-09-2013
Le
conseguenze
della somministrazione irregolare
non
ricadono
sulla
società
di somministrazione tant'è che viene espressamente contemplata la possibilità di convenire in
giudizio la sola impresa utilizzatrice. La norma è aderente alla realtà dei fatti: le causali indicate nei
contratti di somministrazione sono esplicate dalla società utilizzatrice trattandosi di aspetti
riguardanti esclusivamente la loro organizzazione su cui la somministratrice non può intervenire, né
il legislatore ha chiesto di farlo, per cui è ovvio che tenuto a contraddire in ordine alla loro
sussistenza siano solo le prime non avendo l'agenzia di intermediazione al riguardo alcuna
responsabilità.
Cass. civ. Sez. lavoro, 09-09-2013, n. 20598
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In tema di somministrazione di manodopera, la legittimità della causale indicata
nel contratto di somministrazione non è sufficiente per rendere legittima l'apposizione di un termine
al rapporto, dovendo anche sussistere, in concreto, una situazione riconducibile alla ragione indicata
nel contratto stesso. (Nella specie, il rapporto di lavoro interinale era stato instaurato per le esigenze
di un maggior fabbisogno di personale connesse alla predisposizione a livello nazionale del progetto
della nuova rete logistica e l'avviamento dei trasporti locali postali "week end", mentre, in realtà, la
filiale di assegnazione del lavoratore non era stata meccanizzata ed aveva continuato ad operare con
modalità manuali, senza, pertanto, apprezzabili variazioni delle esigenze di adeguamento delle
risorse umane).
Cass. pen. Sez. III, 20-06-2013, n. 37379
L'art. 28, comma 1, D.Lgs. 10 settembre 2003 n. 276 - nel punire la somministrazione di lavoro
posta in essere con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o
di contratto collettivo applicato al lavoratore - contempla un reato permanente.
Cass. civ. Sez. lavoro, 29-05-2013, n. 13404
1. In tema di lavoro interinale, l'indennità prevista dall'art. 32 della legge 4 novembre 2010, n.
183 trova applicazione in ogni caso in cui vi sia una contratto di lavoro a tempo determinato per il
quale operi la conversione in contratto a tempo indeterminato, e dunque anche nel caso di condanna
del datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore a causa dell'illegittimità di un
contratto per prestazioni di lavoro temporaneo a tempo determinato, ai sensi della lett. a) del primo
comma dell'art. 3 della legge 24 giugno 1997, n. 196, convertito in contratto a tempo indeterminato
tra lavoratore e utilizzatore della prestazione, atteso che anche tale contratto è riconducibile alla
categoria del contratto di lavoro a tempo determinato (come si desume anche dalla Direttiva
1999/70/CE, di recepimento dell'accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo
determinato, che, proprio per tale astratta riconducibilità, lo ha escluso espressamente dal suo
campo di applicazione).
2. L'indennità prevista dall'art. 32 L. 4 novembre 2010 n. 183 si applica anche nel caso di condanna
del datore di lavoro al risarcimento del danno subìto dal lavoratore a causa dell'illegittimità di
un contratto per prestazioni di lavoro temporaneo a tempo determinato, convertito in contratto a
tempo indeterminato tra lavoratore e utilizzatore della prestazione.
Cass. civ. Sez. lavoro, 13-05-2013, n. 11411
Nel contratto di somministrazione di lavoro non è sufficiente il richiamo ai "casi previsti
dal contratto collettivo" applicato dall'azienda utilizzatrice, essendo necessaria una più specifica
determinazione della causale.
La legittimità del contratto di fornitura rappresenta il presupposto per la stipulazione di un
legittimo contratto per prestazioni di lavoro temporaneo. I vizi del contratto commerciale di
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fornitura tra agenzia interinale ed impresa utilizzatrice si riflettono sul contratto di lavoro. Ed infatti,
l'illegittimità del contratto di fornitura implica le conseguenze previste dalla legge sul divieto di
intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro e, dunque, l'instaurazione del rapporto
di lavoro con il fruitore della prestazione, ovvero il datore di lavoro effettivo, stante quanto disposto
dall'art. 10, comma 1, della legge n. 196 del 1997.
App. L'Aquila Sez. lavoro, 05-04-2013
Gli eventuali vizi formali del contratto di assunzione stipulato dal lavoratore con l'agenzia
di somministrazione di lavoro non comportano l'imputazione ope legis del rapporto in capo
all'utilizzatore, non rinvenendosi nel D.Lgs. n. 276 del 2003 alcuna previsione in tal senso. In ogni
caso deve rilevarsi che l'attuale formulazione dell'art. 21, comma quarto, del citato provvedimento
richiede soltanto che il contratto commerciale sia stipulato per iscritto e non anche che il medesimo
abbia un determinato contenuto. La norma richiede, invero, ad substantiam, un requisito di forma,
non anche un requisito di contenuto-forma, a differenza da quanto previsto dall'art. 1, D.Lgs. n.
368 del 200l, ove il legislatore esige che le ragioni datoriali siano specificate per iscritto.
Cass. civ. Sez. lavoro, 03-04-2013, n. 8120
Il contratto commerciale di somministrazione di manodopera a tempo determinato dev' essere
giustificato da ragioni specifiche, non ostando alla specificità la circostanza che le ragioni addotte
siano più d'una, purché l'indicazione consenta il controllo giudiziario sulla loro effettività, ossia
sulla corrispondenza dell'impiego concreto del lavoratore a quanto affermato nel contratto.
Nell'ambito delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo che, anche se
riferibili all'ordinaria attività dell'utilizzatore, consentono il ricorso alla somministrazione di lavoro
a tempo determinato, rientrano le punte di intensa attività non fronteggiabili con il ricorso al
normale organico; ne consegue che il riferimento a queste ultime può costituire valido requisito
formale di tale tipo di contratto.
Cass. civ. Sez. lavoro, 17-01-2013, n. 1148
In tema di lavoro interinale, la legittimità del contratto di fornitura costituisce il presupposto per la
stipulazione di un legittimo contratto per prestazioni di lavoro temporaneo. Ne consegue che
l'illegittimità del contratto di fornitura comporta le conseguenze previste dalla legge sul divieto di
intermediazione e interposizione nelle prestazioni di lavoro e, quindi, l'instaurazione del rapporto
di lavoro con il fruitore della prestazione, cioè con il datore di lavoro effettivo; inoltre, alla
conversione soggettiva del rapporto si aggiunge la conversione dello stesso da lavoro a tempo
determinato in lavoro a tempo indeterminato, per intrinseca carenza dei requisiti richiesti dal d.lgs.
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368 del 2001 ai fini della legittimità del lavoro a tempo determinato tra l'utilizzatore ed il
lavoratore.
Trib. Firenze Sez. lavoro, 10-01-2013
L'accertata irregolarità del contratto di somministrazione di lavoro, ex art. 27, D.Lgs. n. 276 del
2003, comporta la instaurazione tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo
indeterminato, con decorrenza dall'inizio della somministrazione. La citata previsione, invero, nella
parte in cui richiama il rapporto di lavoro subordinato senza ulteriori specificazioni, deve intendersi
riferita ad un rapporto a tempo indeterminato, non potendosi, in caso contrario, comprendere
l'efficacia deterrente della imputazione del rapporto di lavoro a tempo determinato, ormai esauritosi,
in capo all'utilizzatore anziché al somministratore. In tal contesto, inoltre, nemmeno rileva la
circostanza che il contratto individuale di lavoro subordinato tra lavoratore e somministratore da
una parte, e quello commerciale tra somministratore e utilizzatore dell'altra, siano a tempo
determinato, in quanto a norma del citato art. 27, viene costituito un nuovo e distinto rapporto di
lavoro subordinato tra parti diverse, ovvero tra prestatore di lavoro ed utilizzatore (fatta salva la
previsione di cui all'art. 27, comma secondo).
Tribunale di Roma, Sent. del 9-01-2014
Il contratto di somministrazione a tempo determinato è legittimo “a fronte di qualsiasi motivazione,
anche di natura non temporanea, riferita all’attività produttiva”.
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12. L’ORARIO DI LAVORO
Cass. civ. Sez. lavoro, 07-02-2014, n. 2837
Il tempo impiegato per indossare la divisa è da considerarsi lavoro effettivo e, pertanto, deve essere
retribuito, ove tale operazione sia diretta dal datore di lavoro, il quale ne disciplina il tempo ed il
luogo di esecuzione, ovvero si tratti di operazioni di carattere strettamente necessario ed
obbligatorio per lo svolgimento dell'attività lavorativa.
Cass. civ. Sez. lavoro, 25-10-2013, n. 24180
In materia di lavoro subordinato, in relazione al lavoro prestato oltre il sesto giorno consecutivo,
occorre distinguere il danno da usura psicofisica del lavoratore, conseguente alla mancata fruizione
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del riposo dopo sei giorni di lavoro settimanale, dal danno alla salute, ovvero danno biologico,
consistente in una sorta di infermità del lavoratore cagionata dall'attività lavorativa usurante svolta
in conseguenza di una continua attività lavorativa non seguita da riposi settimanali. Mentre il danno
da usura psicofisica del lavoratore ha carattere presuntivo, il danno alla salute deve essere
dimostrato sia nella sua sussistenza, sia nel nesso eziologico, prescindendo dalla presunzione di
colpa insita nella responsabilità nascente dall'illecito contrattuale.
Cass. civ. Sez. lavoro, 18-09-2013, n. 21361
In tema di lavoro notturno, l'art. 4, comma primo, del d. lgs. 26 novembre 1999, n. 532, e l'art. 13
del d. lgs. 8 aprile 2003, n. 66, consentono alla contrattazione collettiva di prevedere una flessibilità
dell'orario di lavoro notturno, che consenta l'avvicendamento nel servizio con eventuale
superamento del limite giornaliero delle otto ore, al fine di assicurare la presenza di personale per
fare fronte ad emergenze impreviste, non rientranti nella normale organizzazione del lavoro, quale
può essere la necessità di provvedere ad un intervento in prossimità della fine del turno di servizio.
(fattispecie relativa a personale di vigilanza addetto ai turni di notte).
Cons. Stato Sez. III, 12-09-2013, n. 4525
Nel settore sanitario l'istituto del plus orario (previsto dagli artt. 59 ss. del d.P.R. n. 348 del 1983,
poi 66 ss. e 101 ss. del d.P.R. n. 270 del 1987, quindi 123 ss. del d.P.R. n. 384 del 1990) non
implica l'automatica liquidazione in favore del lavoratore di un compenso in misura fissa e
predeterminata, commisurata allo stipendio tabellare, per le ore di lavoro prestate in eccedenza
(appunto in plus orario), ma presuppone lo svolgimento di una complessa ed articolata procedura
che prima della liquidazione prevede: - la programmazione di tale attività, in relazione alle finalità
incentivanti perseguite, tramite l'adozione di formali atti autorizzatori; - il controllo della
compatibilità finanziaria; - la trattativa con le organizzazioni sindacali aziendali rappresentative
delle diverse categorie di personale del comparto e la stipula di un'intesa; - la verifica del
conseguimento degli specifici obiettivi individuati.
Corte giustizia Unione Europea Sez. III, 30-05-2013, n. 342/12
Gli articoli 6, par. 1, lettere b) e c), nonché 7, lettere c) ed e), della Direttiva n. 95/46/CE non ostano
ad una normativa nazionale, come quella in discussione nel procedimento principale, che impone al
datore di lavoro l'obbligo di mettere a disposizione dell'autorità nazionale competente in materia di
vigilanza sulle condizioni di lavoro il registro dell'orario di lavoro al fine di consentirne la
consultazione immediata, nella misura in cui tale obbligo sia necessario ai fini dell'esercizio da
parte di detta autorità della sua attività di vigilanza dell'applicazione della disciplina in materia di
condizioni di lavoro, in particolare per quanto riguarda l'orario di lavoro.
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Cass. civ. Sez. Unite, 16-05-2013, n. 11828
La vestizione degli indumenti di lavoro (e, più in generale, della divisa aziendale) costituisce
un'operazione preparatoria della prestazione di lavoro e ad essa strumentale. La consolidata
giurisprudenza della Sezione lavoro ritiene che al fine di valutare se il tempo occorrente per tale
operazione debba essere retribuito o meno, occorre far riferimento alla disciplina contrattuale
specifica. In particolare, ove sia data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo ove
indossare la divisa o gli indumenti (anche eventualmente presso la propria abitazione, prima di
recarsi al lavoro), la relativa operazione fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento
dell'attività lavorativa, e come tale il tempo necessario per il suo compimento non deve essere
retribuito. Se, invece, le modalità esecutive di detta operazione sono imposte dal datore di lavoro,
che ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, l'operazione stessa rientra nel lavoro effettivo e
di conseguenza il tempo ad essa necessario deve essere retribuito
Cass. civ. Sez. lavoro, 15-05-2013, n. 11727
In caso di servizio di reperibilità prestato in giorno festivo senza effettivo svolgimento di attività
lavorativa (c.d. reperibilità passiva), al dipendente - il quale, in applicazione della normativa
collettiva del comparto sanità, ha diritto alla fruizione di un giorno di riposo compensativo senza
riduzione del debito orario - non spetta il risarcimento del danno da usura psico-fisica, per mancata
fruizione del riposo compensativo, ove non abbia rigorosamente provato la sussistenza di un
concreto pregiudizio in tal senso.
Cons. Stato Sez. III, 24-04-2013, n. 2312
La circostanza che un dipendente pubblico abbia effettuato prestazioni eccedenti l'orario d'obbligo
non è da sola sufficiente a radicare il suo diritto alla retribuzione e l'obbligo dell'amministrazione di
corrisponderla atteso che, altrimenti, si determinerebbe l'equiparazione del lavoro straordinario
autorizzato con quello per il quale non è intervenuto alcun provvedimento autorizzativo,
compensando attività lavorative svolte in via di fatto, ma non rispondenti ad alcuna riconosciuta
necessità.
Corte giustizia Unione Europea Sez. II, 11-04-2013, n. 335/11
L'art. 5 della Direttiva 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in
materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretato nel senso che la riduzione
dell'orario di lavoro può costituire uno dei provvedimenti di adattamento necessari. Spetta al
giudice nazionale valutare se, nelle circostanze del caso, la riduzione dell'orario di lavoro quale
provvedimento di adattamento rappresenti un onere sproporzionato per il datore di lavoro.
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Cons. Stato Sez. IV, 26-02-2013, n. 1186
Deve escludersi che l'Amministrazione militare sia di norma tenuta a pagare le ore
di lavoro straordinario prestate dai propri dipendenti in eccedenza al limite massimo previsto dal
monte ore autorizzato e senza che risulti comprovata l'effettiva autorizzazione preventiva a svolgere
il lavoro extra orario: per questo genere di prestazioni eccedenti il militare ha solo il diritto
eventualmente a fruire di corrispondenti riposi compensativi.
App. L'Aquila Sez. lavoro, 25-01-2013
Il lavoratore che proponga azione giudiziale per la rivendicazione economica a titolo
di lavoro straordinario è gravato dall'onere di allegare e provare i fatti costitutivi del diritto a tale
compenso ex art. 2697 c.c., in riferimento sia all'orario normale di lavoro, ove diverso da quello
legale o contrattuale, sia alla prestazione di lavoro asseritamente eccedente quello ordinario. Né, in
tale contesto, può farsi ricorso al criterio equitativo di cui all'art. 432 c.p.c. attenendo quest'ultimo
alla valutazione del valore economico della prestazione lavorativa e non anche alla esistenza ed alla
quantità di essa.
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13. LA RETRIBUZIONE
Cass. civ. Sez. lavoro, 11-02-2014, n. 3027
Le somme spettanti a titolo di risarcimento danni per violazione dei molteplici obblighi facenti
carico al datore di lavoro, hanno natura retributiva solo quando derivino da un inadempimento, il
quale, pur non riguardando direttamente l'obbligazione retributiva, tuttavia incida immediatamente
su di essa in quanto determini la mancata corresponsione di compensi dovuti al dipendente.
Viceversa, le attribuzioni patrimoniali che il lavoratore riceve, come nel caso di cui all'art.32,
comma 5, della legge n. 183 del 2010, a titolo di risarcimento del danno per violazione degli altri
obblighi del datore, sebbene siano anch'esse dipendenti dal rapporto di lavoro non hanno natura
retributiva. Ne deriva che sull'indennità ex art. 32 della citata legge n. 183 non spettano né la
rivalutazione monetaria, né gli interessi legali, se non dal momento della pronuncia giudiziaria
dichiarativa dell'illegittimità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro subordinato.
Corte giustizia Unione Europea Sez. II, 16-01-2014, n. 429/12
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Il principio di effettività, non osta ad una normativa nazionale, come quella oggetto del
procedimento principale, di assoggettare a un termine di prescrizione trentennale - che inizia a
decorrere dalla conclusione dell'accordo in forza del quale è stata fissata la data di riferimento ai
fini dell'avanzamento o dall'inquadramento a un livello di retribuzione erroneo - il diritto del
dipendente di chiedere una nuova valutazione dei periodi di servizio da prendere in considerazione
ai fini della fissazione di tale data di riferimento.
Cass. civ. Sez. lavoro, 25-11-2013, n. 26287
L'irripetibilità della retribuzione perduta durante la sospensione cautelare si giustifica unicamente
nell'ipotesi in cui il procedimento disciplinare si concluda con la destituzione, ora licenziamento,
del lavoratore, giacché con la decisione definitiva cessa la ragion d'essere della misura cautelare.
Cass. civ. Sez. lavoro, 15-11-2013, n. 25730
In tema di premio di produzione. Deve rilevarsi che l'uso aziendale presuppone l'esistenza di un
trattamento di maggior favore a favore dei lavoratori rispetto a quello previsto dai contratti
individuali e collettivi di lavoro, il che non si verifica nella fattispecie all'esame, ove il premio di
produzione costituisce un elemento aggiuntivo della retribuzione contrattualmente previsto, e che
comunque, secondo il più recente e condiviso orientamento di questa Corte, agendo l'uso aziendale
sul piano dei singoli rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto
collettivo aziendale, deve riconoscersi la conseguente legittimazione delle fonti collettive (nazionali
e aziendali) di disporre una modifica in peius del trattamento in tal modo attribuito.
Corte giustizia Unione Europea Sez. VII, 07-11-2013, n. 522/12
L'articolo 3, paragrafo 1, primo comma, lettera c), della direttiva 96/71/CE del Parlamento europeo
e del Consiglio, del 16 dicembre 1996, relativa al distacco dei lavoratori nell'ambito di una
prestazione di servizi, dev'essere interpretato nel senso che non osta all'integrazione nel salario
minimo di elementi retributivi che non modificano il rapporto tra la prestazione del lavoratore, da
un lato, ed il corrispettivo da quest'ultimo percepito a titolo di retribuzione di tale prestazione,
dall'altro. Spetta al giudice del rinvio verificare se ciò avvenga nel caso degli elementi retributivi di
cui trattasi nel procedimento principale.
Trib. Milano Sez. lavoro, 04-11-2013
L'art. 36 Cost. si limita a stabilire il principio di sufficienza e adeguatezza
della retribuzione prescindendo da ogni comparazione intersoggettiva e l'art. 3 Cost. impone
l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, ma non anche nei rapporti tra privati:
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conseguentemente la mera attribuzione di un trattamento retributivo superiore a parità di mansioni
non potrebbe mai costituire fondamento del diritto di altri lavoratori al medesimo superiore
compenso, ma solo al risarcimento del danno laddove risulti provata non solo la mera disparità di
trattamento (fatto di per sé legittimo), ma anche l'illegittimità del comportamento datoriale,
attraverso la prova dell'intento discriminatorio.
Cons. Stato Sez. V, 17-10-2013, n. 5046
La riforma contenuta nel d.lgs. n. 387 del 1998 ha una valenza innovativa nel senso che nel
pubblico impiego il diritto alla retribuzione corrispondente alle mansioni superiori effettivamente
svolte è stato introdotto con carattere di generalità, nel rispetto dei precetti costituzionali, dall'art.
15, d.lgs. n. 387 cit., a decorrere dalla sua entrata in vigore (22 novembre 1998), con norma avente
natura innovativa e non ricognitiva o retroattiva, ferma restando la necessità di una determinazione
formale dell'Amministrazione e della vacanza del posto in organico.
Cass. civ. Sez. lavoro, 15-10-2013, n. 23366
In tema di passaggio di personale da un'amministrazione all'altra, il mantenimento del trattamento
economico collegato al complessivo "status" posseduto dal dipendente prima del trasferimento
opera nell'ambito, e nei limiti, della regola del riassorbimento in occasione dei miglioramenti di
inquadramento e di trattamento economico riconosciuti dalle normative applicabili per effetto del
trasferimento, trovando giustificazione la conservazione del trattamento più favorevole nel principio
di irriducibilità della retribuzione, principio questo che però, ove subentri un trattamento
complessivamente migliore per tutti i dipendenti, non giustifica - in assenza di una diversa specifica
indicazione normativa - l'ulteriore mantenimento del divario, la cui inalterata persistenza si pone in
contrasto con il principio di parità di trattamento dei dipendenti pubblici stabilito
dall'art. 45 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165. (Fattispecie relativa alla conservazione dell'assegno di
garanzia attribuito ai dipendenti dell'INADEL, conservato a seguito del passaggio all'INPDAP e poi
riassorbito al momento del passaggio alla qualifica e posizione superiore).
Cass. civ. Sez. lavoro, 11-10-2013, n. 23178
Nei rapporti giuridici di durata, quale il rapporto di lavoro, non è interdetto al legislatore modificare
"in peius" la posizione di una delle parti, prevedendo una diversa retribuzione, salvo il limite della
ragionevolezza e l'assenza del diritto di ripetere le somme già corrisposte; ne deriva che l'art. 1,
comma 116, della legge n. 662 del 1996, può ben modificare il trattamento economico dei militari
di leva, a decorrere dalla data dell'entrata in vigore delle nuove disposizioni, a prescindere dalla data
del bando di reclutamento del personale e, quindi, anche con riferimento al personale già ammesso
al servizio di leva.
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Cons. Stato Sez. III, 25-09-2013, n. 4735
Appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia avente ad oggetto la domanda di
un professore universitario per l'accertamento del proprio diritto alla corresponsione in misura piena
della retribuzione di posizione, rapportata all'incarico di direttore di dipartimento ad attività
integrata presso un'Azienda ospedaliera.
Cons. Stato Sez. III, 24-09-2013, n. 4688
La domanda del dipendente pubblico volta ad ottenere una retribuzione superiore a quella
riconosciuta dalla normativa in virtù dello svolgimento di mansioni superiori non può
fondarsi sull'art. 2041 c.c. stante, per un verso, la natura sussidiaria dell'azione di arricchimento
senza causa e, per altro verso, la circostanza che l'ingiustificato arricchimento postula un correlativo
depauperamento del dipendente, non riscontrabile e non dimostrabile nel caso del pubblico
dipendente che abbia comunque percepito legittimamente la retribuzione prevista per la qualifica.
Cass. civ. Sez. lavoro, 20-09-2013, n. 21631
In tema di personale del comparto della scuola al personale inquadrato nella qualifica superiore nel
profilo professionale di direttore dei servizi generali ed amministrativi non compete un trattamento
economico parametrato all'intera anzianità di servizio, essendo stato adottato, in applicazione
dell'art. 8 del CCNL 15 marzo 2001, il criterio della cd "temporizzazione", consistente nel
convertire il valore economico della retribuzione in godimento in anzianità spendibile per
l'inquadramento; ciò non contrasta con norme imperative in materia, restando peraltro sottratte le
clausole contrattuali al sindacato giurisdizionale sotto il profilo dell'opportunità delle scelte operate
dai contraenti anche per quanto concerne l'equiparazione graduale di posizioni analoghe.
Cass. civ. Sez. lavoro, 13-09-2013, n. 21010
L'accertamento e la liquidazione dei crediti pecuniari del lavoratore per differenze retributive
debbono essere effettuati al lordo delle ritenute fiscali, atteso che il meccanismo di queste ultime si
pone in relazione al distinto rapporto d'imposta, sul quale il giudice chiamato all'accertamento ed
alla liquidazione delle spettanze retributive (come pure all'assegnazione delle relative somme in
sede di esecuzione forzata) non ha il potere d'interferire, restando le dette somme assoggettate a
tassazione, secondo il criterio cd. di cassa e non di competenza, soltanto una volta che saranno dal
lavoratore effettivamente percepite.
Cass. civ. Sez. lavoro, 09-09-2013, n. 20604
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In tema di trattamento di fine rapporto spettante ai dipendenti della Regione Sicilia, l'art. 6, quinto
comma, legge reg. Sicilia 1 febbraio 1963, n. 11, nel prevedere il computo degli "emolumenti fissi e
continuativi in godimento all'atto della cessazione dal servizio", si riferisce esclusivamente alle voci
di retribuzione che, secondo la normativa regionale, sono riconosciute ai dipendenti della Regione.
Ne consegue che restano esclusi gli emolumenti che trovino causa in una situazione contingente e
temporanea - quale quella del distacco o del comando - in quanto destinati a venire meno una volta
che questa sia cessata. (In applicazione del principio di cui alla massima, la S.C. ha ritenuto non
computabile nella base di calcolo del trattamento di fine rapporto l'indennità di amministrazione
percepita dal lavoratore, dipendente regionale della Sicilia, in qualità di comandato presso la Corte
dei conti).
T.A.R. Campania Napoli Sez. V, 02-09-2013, n. 4142
Il diritto del dipendente alla corresponsione dell'indennità sostitutiva per le ferie non godute
soggiace al termine di prescrizione decennale, essendo direttamente correlato ad un inadempimento
contrattuale del datore di lavoro. All'indennità sostitutiva delle ferie non godute, infatti, è
riconosciuta natura risarcitoria, per effetto dell'inadempimento contrattuale del datore di lavoro,
obbligato, quando l'adempimento in forma specifica sia divenuto impossibile. Il risarcimento del
danno comprende, quindi, la retribuzione dovuta per il lavoro prestato nei giorni destinati alle ferie
o al riposo, nonché la riparazione degli ulteriori danni subiti dal lavoratore a seguito del mancato
riposo psicofisico cui ha diritto.
Cass. civ. Sez. lavoro, 26-08-2013, n. 19579
Il lavoratore che opera alle dipendenze di una ditta appaltatrice ha diritto al rimborso delle spese
sostenute per la pulizia della divisa da lavoro (nella specie, la Suprema corte trae la configurabilità
del diritto dall'esistenza di una clausola del contratto di appalto, in applicazione dello schema del
contratto a favore di terzi ex art. 1411 c.c.).
Cass. civ. Sez. lavoro, 07-08-2013, n. 18835
In tema di sospensione cautelare dal servizio nell'impiego pubblico connessa alla pendenza di un
procedimento penale, l'art. 7, comma 27, del c.c.n.l. del comparto Ministeri del 16 maggio 1995, nel
prevedere l'automatica perdita di efficacia della misura ove intervenga una sentenza di assoluzione
o il proscioglimento con formula piena, stabilisce il conguaglio di "quanto dovuto al lavoratore se
fosse rimasto in servizio", rispondendo tale soluzione alla natura non sanzionatoria ma meramente
cautelare provvisoria della misura. Ne consegue che spetta all'ufficiale giudiziario, nei cui confronti
sia stata disposta la suddetta misura poi rimasta caducata a seguito di assoluzione, l'integrale
ripristino, con effetto "ex tunc", dell'intero trattamento economico, con inclusione nella
retribuzione di tutto ciò che gli sarebbe spettato ove avesse prestato la normale attività lavorativa,
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ivi compresa l'indennità di trasferta, atteso che, ai sensi dell'art. 133, settimo comma, del d.P.R. 15
dicembre 1959, n. 1223, aggiunto dall'art. 7, comma 1, della legge 18 febbraio 1999, n. 28, la stessa
non ha più carattere personale ma è attribuita all'ufficio e va ripartita, in parti uguali, tra tutti coloro
che ne fanno parte.
Cass. civ. Sez. lavoro, 23-07-2013, n. 17895
Nel regime antecedente al d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito in legge 22 dicembre 2011, n.
214 - il cui art. 6 ha abrogato gli istituti dell'accertamento della dipendenza dell'infermità da causa
di servizio, del rimborso delle spese di degenza per causa di servizio, dell'equo indennizzo e della
pensione privilegiata, così attribuendo all'I.N.A.I.L. la gestione dell'intera materia degli infortuni sul
lavoro e delle malattie professionali sul lavoro dei dipendenti pubblici, fatta eccezione per i
comparti sicurezza, difesa, vigili del fuoco e soccorso pubblico - il sistema assicurativo previsto in
favore dei dipendenti pubblici, comunque gestito, era basato sul principio secondo cui
la retribuzione automaticamente erogata dall'amministrazione di appartenenza al dipendente
infortunatosi per causa di servizio escludeva la corresponsione dell'indennità per inabilità
temporanea assoluta da parte dell'I.N.A.I.L.
Trib. Napoli, 26-06-2013
In ambito di rapporto lavorativo, in caso di mancata concessione del riposo settimanale, con
definitiva perdita dello stesso da parte del lavoratore, sussista una violazione dell'art. 36, comma 3,
Cost., oltre che dell'art. 2109 cod. civ., per cui alla sua perdita corrisponda il diritto del prestatore ad
uno specifico compenso, tenuto conto che la qualità del lavoro, ex art. 36 Cost., deve essere valutata
anche con riguardo al maggior costo personale che la prestazione comporta per il lavoratore, con la
conseguenza che in caso di lavoro nel settimo giorno, pur con fruizione di riposo compensativo, il
datore di lavoro ha sempre l'obbligo di corrispondere una specifica maggiorazione, da considerarsi
alla stregua di una retribuzione differenziale. Secondo tale principio di diritto i lavoratori che non
fruiscano del riposo settimanale dopo sei giorni di lavoro continuo hanno diritto ad un compenso
specifico, ulteriore ed aggiuntivo rispetto a quello destinato a retribuire il lavoro prestato nella
giornata di domenica; tale compenso o è previsto dal contratto collettivo o spetta comunque in base
al principio di proporzionalità di cui all'art 36 Cost. Nel caso in cui tale maggiorazione non sia
contrattualmente fissata, o la giornata di riposo compensativo non venga comunque assicurata, il
supplemento retributivo dovuto potrà essere determinato dal giudice tenuto conto di quanto stabilito
dalle norme collettive per il lavoro festivo o straordinario o comunque in via equitativa.
Cass. civ. Sez. lavoro, 25-06-2013, n. 15928
Ai sensi dell'art. 7, punto 4, parte speciale Alitalia del c.c.n.l. 4 maggio 1989, come recepito e
modificato dal c.c.n.l. 5 febbraio 1992 degli assistenti di volo dipendenti da compagnia di
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navigazione aerea a partecipazione statale, il superamento dell'impiego minimo di 40 ore di volo nel
mese va retribuito, per le ore successiva alla quarantesima, con la maggiorazione oraria calcolata
secondo i coefficienti previsti dallo stesso art. 7, punto 4, ma, ove ciò si verifichi per effetto del
cumulo tra ore effettive di volo (in misura inferiore a tale limite) ed ore di addestramento o di
godimento ferie, ciò deve avvenire con la riduzione di una unità, rispondendo tale interpretazione
alle finalità della norma collettiva di tutela del personale esposto a situazioni di maggiore usura e di
protratta esposizione al volo a seguito di impiego effettivo.
Cass. civ. Sez. lavoro, 25-06-2013, n. 15941
Lo stato di carcerazione preventiva (o di custodia cautelare) del lavoratore subordinato non rientra
tra le ipotesi, tutelate dalla legge, di impossibilità temporanea della prestazione, quale la malattia e
le altre situazioni contemplate dall'art. 2110 cod. civ., e comporta la perdita del diritto
alla retribuzione per tutto il tempo in cui si protrae la carcerazione medesima, senza che - ove la
detenzione concorra con il provvedimento di sospensione cautelare disposto dal datore di lavoro in
pendenza del procedimento penale - possa essere invocato il principio della cosiddetta priorità della
causa sospensiva della prestazione lavorativa, secondo il quale si considera prevalente ai fini del
trattamento retributivo la causa verificatasi prima, atteso che esso si riferisce unicamente alle
suddette cause legali di sospensione con diritto alla retribuzione.
Cons. Giust. Amm. Sic., 05-06-2013, n. 561
In materia di pubblico impiego, il principio di onnicomprensività della retribuzione, introdotto
dall'art. 19 del D.P.R. n. 191 del 1979, impedisce di rivendicare compensi aggiuntivi per lo
svolgimento di attività lavorative comunque riconducibili all'assolvimento dei doveri istituzionali
dei dipendenti. L'onnicomprensività del trattamento economico dei dirigenti regionali costituisce la
regola posta dal legislatore, secondo la quale vanno assorbite nel complessivo trattamento
economico tutte le indennità in precedenza prevista e concesse in relazione a peculiari funzioni,
eventualmente svolte dai vari dirigenti nelle differenti branche dell'amministrazione regionale.
Cass. civ. Sez. lavoro, 07-05-2013, n. 10559
In tema di lavoro pubblico contrattualizzato, gli artt. 10 e 11 del CCNL del Comparto RegioniAutonomie locali s'interpretano nel senso che la retribuzione, prevista dall'art. 10 predetto,
richiamato dal successivo art.11 per il personale dei Comuni privi di posizione dirigenziale, non è
parte irrinunciabile e necessaria del trattamento economico accessorio e, pertanto, il dipendente non
vi ha diritto per il solo fatto che gli sia stata attribuita la responsabilità degli uffici e servizi
individuati, ma la sua erogazione è subordinata alla valutazione positiva dell'Amministrazione circa
il raggiungimento di obiettivi gestionali programmati o determinati livelli di prestazione, fermo
restando che la facoltà di affidare funzioni direttive ai responsabili degli uffici è esercitabile
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nell'ambito delle risorse finanziarie ivi previste a carico dei rispettivi bilanci, non essendo per
siffatti Comuni contemplato un esonero dalla corresponsione della retribuzione di risultato.
Cass. civ. Sez. lavoro, 30-04-2013, n. 10180
Qualora la domanda per congedo di maternità, con richiesta di congedo flessibile, e le relative
certificazioni mediche, attestanti l'assenza di rischi per la gestante e per il nascituro, siano presentati
oltre il settimo mese e la lavoratrice abbia continuato a lavorare, il datore di lavoro, salve le sue
eventuali responsabilità di natura penale, dovrà corrisponderle la retribuzione, di guisa che la
lavoratrice, avendo lavorato nell'ottavo mese, usufruirà dell'astensione sino al quarto mese
successivo alla nascita, percependo dall'Inps la relativa indennità.
Cons. Stato Sez. VI, 30-04-2013, n. 2352
Il credito di lavoro risulta credito di valuta, sicché la rivalutazione monetaria, la quale al pari degli
interessi è un effetto del ritardo nel soddisfacimento del credito, non può essere inclusa ab origine
nel contenuto del diritto, assolvendo invece, quale tecnica liquidatoria, ad una funzione accessoria
parallela a quella degli interessi, con cui concorre alla complessiva riparazione del danno da
inadempimento.
Trib. Bari Sez. lavoro, 22-04-2013
Il dirigente, in ipotesi si passaggio a diverso incarico, non è titolare del diritto al mantenimento della
pregressa retribuzione di posizione. In tal senso, invero, la norma di cui all'art. 19, comma
primo, D.Lgs. n. 165 del 2001, prevede chiaramente la inapplicabilità dell'art. 2103 c.c.
Cons. Stato Sez. V, 27-03-2013, n. 1780
In caso di instaurazione di rapporto di pubblico impiego nullo per violazione di norme imperative il
trattamento economico va determinato ex art. 2126 c.c., non mediante paga oraria ma mediante
stipendio mensile lordo iniziale rapportato alle funzioni svolte comprensivo della indennità
integrativa speciale, della tredicesima mensilità e degli altri elementi accessori e continuativi
della retribuzione (buoni pasto, premi di produzione), nonché della indennità di fine rapporto.
Cass. civ. Sez. lavoro, 18-03-2013, n. 6709
Il diritto all'alloggio gratuito od alla relativa indennità sostitutiva, così come configurati dalla
contrattazione collettiva per gli autoferrotramvieri, non costituisce una componente
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della retribuzione, ma una competenza accessoria che si aggiunge, come condizione di miglior
favore, ai minimi tabellari e, pertanto, non può trovare tutela nell'art. 36 cost., che si riferisce ai
minimi retributivi fissati dalla contrattazione collettiva ed idonei a garantire la proporzionalità
della retribuzione stessa alla qualità e quantità del lavoro prestato, senza contenere un principio di
comparazione intersoggettiva, implicante che ai lavoratori dipendenti di una stessa impresa debba
essere attribuito, a parità di qualifica e di mansioni, un identico trattamento economico. Da ciò
consegue la validità delle clausole della contrattazione collettiva o aziendale che prevedono il diritto
all'alloggio gratuito o alla relativa indennità sostitutiva, fissandone presupposti ed elementi
costitutivi al di fuori di ogni previsione legislativa, e la impossibilità per il giudice di sindacare le
valutazioni dell'autonomia collettiva e di sostituirsi ad essa nella determinazione dell'indennità.
Cass. civ. Sez. lavoro, 01-03-2013, n. 5147
Posto il divieto di sospensione unilaterale del rapporto di lavoro da parte del datore fuori dalle
ipotesi previste dalla legge e dalla contrattazione collettiva o comunque fuori da circostanze
eccezionali, spetta al lavoratore che abbia subìto un periodo di sospensione cautelare facoltativa
eccedente rispetto a quello della sospensione irrogata a seguito di procedimento disciplinare
la retribuzione maturata nel periodo eccedente, al netto degli assegni alimentari percepiti.
Corte giustizia Unione Europea Sez. III, 28-02-2013, n. 427/11
L'art. 141, Trattato 25 marzo 1957, e la Direttiva n. 75/117/CEE del Consiglio, del 10 febbraio
1975, per il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative all'applicazione del
principio della parità delle retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile,
devono essere interpretati nel senso che: a) dei lavoratori esercitano uno stesso lavoro o un lavoro di
valore uguale se, tenuto conto di un complesso di fattori, quali la natura dell'attività lavorativa, le
condizioni di formazione e le condizioni di lavoro, si può ritenere che essi si trovino in una
situazione comparabile, circostanza che spetta al giudice nazionale verificare; b) nell'ambito di una
discriminazione salariale indiretta, spetta al datore di lavoro fornire una giustificazione oggettiva
concernente la differenza di retribuzione accertata tra i lavoratori che si ritengono discriminati e le
persone di riferimento; c) la giustificazione fornita dal datore di lavoro della differenza
di retribuzione rivelatrice di una discriminazione apparente basata sul sesso deve ricollegarsi alle
persone di riferimento che - in ragione del fatto che la loro situazione è caratterizzata da dati
statistici attendibili riguardanti un numero sufficiente di persone, che non riflettono fenomeni
puramente fortuiti o congiunturali e che, in generale, appaiono significativi - sono state prese in
considerazione dal giudice nazionale per accertare detta differenza, e d) l'interesse a mantenere
buone relazioni sindacali può essere preso in considerazione dal giudice nazionale tra gli elementi
che gli consentono di valutare se differenze tra le retribuzioni di due gruppi di lavoratori siano
dovute a fattori obiettivi ed estranei a qualsiasi discriminazione basata sul sesso e se siano conformi
al principio di proporzionalità.
50
Trib. Perugia Sez. lavoro, 12-02-2013
In mancanza di pattuizioni contrattuali, la retribuzione, secondo il disposto di cui all'art. 2099 c.c.,
deve essere corrisposta con le modalità e nei termini in uso nel luogo in cui il lavoro viene eseguito,
anche in considerazione dell'oggetto disciplinato. Tale norma, pertanto, rimanda chiaramente all'uso
locale, cui fare riferimento in mancanza di diverse previsioni pattizie. Sull'uso predetto, in ogni
caso, in quanto fonte di diritto di rango inferiore, prevale la buona fede, quale espressione
legislativa di inderogabili principi dell'ordinamento giuridico italiano.
Cass. civ. Sez. lavoro, 07-02-2013, n. 2941
L'art. 26, comma 3, della legge n. 240 del 2010, di interpretazione autentica dell'art. 1, comma
1 del d.l. n. 2 del 2004, convertito nella legge n. 63 del 2004, nel prevedere a favore dei
collaboratori esperti linguistici, già assunti quali lettori di madre lingua straniera a norma
dell'art. 28 del d.P.R. n. 382 del 1980, l'attribuzione del trattamento economico corrispondente a
quello del ricercatore confermato "in misura proporzionata all'impegno orario effettivamente
assolto" con decorrenza dalla data di prima assunzione sino alla data di instaurazione del nuovo
rapporto e, successivamente, a tutela dei diritti maturati, la conservazione, quale trattamento
retributivo individuale, dell'eventuale maggior importo percepito, ha disposto l'estinzione dei
giudizi pendenti alla data di entrata in vigore della legge. Ne consegue che, ove la controversia sia
pendente in cassazione, va dichiarato estinto solo quest'ultimo giudizio con salvezza - in assenza di
una espressa indicazione normativa volta a privare di effetto anche i provvedimenti giudiziari non
ancora passati in giudicato - della sentenza di merito, dovendosi escludere, da un lato, l'applicazione
della nuova disciplina sostanziale posto che il processo non può proseguire in quanto estinto, e,
dall'altro, che la disposizione processuale di estinzione generi dubbi di legittimità costituzionale o di
non conformità alle norme comunitarie o della CEDU ove la decisione di merito abbia accolto
integralmente la domanda.
Cass. civ. Sez. lavoro, 15-01-2013, n. 813
In tema di retribuzione dovuta al prestatore di lavoro ai fini dei cc.dd. istituti indiretti (mensilità
aggiuntive, ferie, malattia e infortunio), non esiste un principio generale ed inderogabile di
omnicomprensività e, pertanto, nella quantificazione degli istituti indiretti il compenso per lavoro
notturno o straordinario di turno può essere computato esclusivamente qualora ciò sia previsto da
specifiche norme di legge o di contratto collettivo; tale disciplina collettiva, stabilendo un
trattamento di maggior favore, può derogare, ai sensi dell'art. 7, ultimo comma, della legge 14
luglio 1959, n. 741, anche al criterio di computo della tredicesima mensilità dettato - richiamando la
"retribuzione globale di fatto" - dall'accordo interconfederale per l'industria 27 ottobre 1946, esteso
"erga omnes" con d.P.R. 28 luglio 1960, n. 1070, escludendo la computabilità dei compensi
aggiuntivi nella tredicesima e prevedendo l'attribuzione di benefici diversi a favore del lavoratore.
51
(In applicazione di tale principio la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso il
diritto del lavoratore al computo nella tredicesima mensilità del compenso per lavoro notturno
prestato secondo turni ricorrenti e con cadenza programmata, in considerazione della idoneità
derogatoria all'accordo confederale della previsione -contenuta nei contratti collettivi applicabili al
rapporto- relativa alla corresponsione di una quattordicesima mensilità, essendo questa appartenente
allo stesso istituto contrattuale delle mensilità aggiuntive).
Cass. civ. Sez. lavoro, 07-01-2013, n. 176
La retribuzione contributiva, alla quale, per i dipendenti degli enti locali, si commisura, a norma
dell'art. 4 legge 8 marzo 1968 n. 152, l'indennità premio di servizio, è costituita solo dagli
emolumenti testualmente menzionati dall'art. 11, comma 5, della legge medesima, la cui
elencazione ha carattere tassativo e la cui dizione "stipendio o salario" richiede un'interpretazione
restrittiva, alla luce della specifica menzione, come componenti di tale voce, degli aumenti periodici
di anzianità, della tredicesima mensilità e del valore degli assegni in natura; ne consegue che non
possono assumere rilievo, ai fini della determinazione della suindicata indennità, gli incrementi
dell'indennità di qualificazione professionale e valorizzazione delle responsabilità (art. 45 c.c.n.l.
Comparto Sanità 1994 - 1997), in quanto detta indennità non fa parte degli emolumenti
specificamente indicati dalla norma e i relativi incrementi non possono considerarsi come
componente dello stipendio.
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*
*
14. INQUADRAMENTO E MANSIONI DEL LAVORATORE
Cass. civ. Sez. lavoro, 08-01-2014, n. 172
Il danno alla professionalità non può considerarsi in re ipsa nel semplice demansionamento, essendo
onere del dipendente dimostrare tale danno, fornendo, ad esempio, la prova di un ostacolo alla
progressione di carriera.
Cons. Stato Sez. V, 29-11-2013, n. 5715
Nell'ambito del pubblico impiego lo svolgimento di fatto da parte del dipendente di mansioni
superiori a quelle dovute in base all'inquadramento è del tutto irrilevante, sia ai fini economici, sia
ai fini della progressione di carriera, salva l'esistenza di un'espressa disposizione che disponga
diversamente; né la domanda del dipendente, tesa ad ottenere la retribuzione superiore a quella
riconosciuta dalla normativa applicabile, per effetto dello svolgimento delle mansioni superiori, può
fondarsi sull'art. 36 Cost. in quanto il principio della corrispondenza della retribuzione dei lavoratori
52
alla qualità e alla quantità del lavoro prestato non trova incondizionata applicazione nel rapporto di
pubblico impiego, concorrendo con altri principi di pari rilievo costituzionale, quali quelli di cui
agli artt. 97 e 98; ovvero sugli artt. 2126 c.c., concernente solo l'ipotesi della retribuibilità del lavoro
prestato sulla base di atto nullo o annullato, e 2041 c.c. stante, per un verso, la natura sussidiaria
dell'azione di arricchimento senza causa e, per altro verso, la circostanza che l'ingiustificato
arricchimento postula un correlativo depauperamento del dipendente, non riscontrabile e
dimostrabile nel caso del pubblico dipendente che abbia comunque percepito la retribuzione
prevista per la qualifica rivestita (si veda oggi d.lgs. 29 ottobre 1998 n. 387, art. 15).
Cass. civ. Sez. lavoro, 15-11-2013, n. 25734
In merito alla richiesta di un'altezza minima per il lavoratore, si rileva come il giudice deve
apprezzare incidentalmente la legittimità, ai fini della sua disapplicazione, della previsione di
un'altezza minima. Il giudice deve, dunque, valutare in concreto la funzionalità del requisito
richiesto rispetto alle mansioni, mediante l'accertamento di quali siano le mansioni cui il lavoratore
interessato potrebbe essere addetto e se le stesse potrebbero essere svolte anche con una statura
inferiore a quella richiesta. (Nella fattispecie si è riconosciuta, in conformità a quanto sancito nella
sentenza censurata, l'illegittimità della richiesta dell'altezza minima pari ad mt. 1,60 per il capo
treno).
Cass. civ. Sez. lavoro, 11-10-2013, n. 23170
L'art. 10, comma 2, della legge n. 68 del 1999, recante le "Norme per il diritto al lavoro dei
disabili", prevede che il datore di lavoro non può richiedere al disabile una prestazione non
compatibile con le sue minorazioni. (Principio in base al quale, nella fattispecie, si è rilevato come
l'azienda ricorrente non avrebbe dovuto eccepire l'incapacità del lavoratore a svolgere mansioni di
concetto, ma avrebbe dovuto concordare con il medesimo un patto di demansionamento, cosa mai
verificatasi).
Cass. civ. Sez. lavoro, 08-10-2013, n. 22872
In materia di mansioni del lavoratore, qualora sia chiesto in giudizio il riconoscimento di una
determinata qualifica- anche di carattere dirigenziale - superiore a quella di inquadramento formale,
il giudice - senza con ciò incorrere nel vizio di ultrapetizione - può riconoscere l'inquadramento in
una qualifica intermedia tra quella richiesta dal lavoratore e quella attribuita dal datore di lavoro
purché il lavoratore prospetti adeguatamente gli elementi di fatto relativi allo svolgimento di
mansioni della qualifica intermedia.
Cass. civ. Sez. lavoro, 30-09-2013, n. 22324
53
In tema di pubblico impiego contrattualizzato, l'art. 30, comma 12, del contratto collettivo regionale
di lavoro per il personale non dirigente degli enti locali del 1 agosto 2002, nel prevedere che "il
personale dell'ex quinta qualifica funzionale viene convenzionalmente inquadrato ai soli fini
dell'anzianità e senza alcun beneficio economico, nella sesta qualifica funzionale a decorrere dal 1
gennaio 1998 e a decorrere dal 1 gennaio 2001 ad ogni effetto di contratto" configura un
nuovo inquadramento contrattuale, "ope contractus", che non richiede il previo esperimento delle
attitudini alle nuove mansioni, esigibili all'intera categoria ai sensi dell'art. 25, comma 2, c.c.r.l.
citato, essendo prevista una selezione secondo parametri attitudinali professionali solo per i
passaggi successivi al trattamento tabellare iniziale. Né assume rilievo che la clausola contrattale
comporti un aggravio economico per l'ente comunale, trattandosi di conseguenza imputabile alle
parti contraenti.
Cass. civ. Sez. lavoro, 27-09-2013, n. 22242
In materia di incarichi dirigenziali per la regione Calabria, la legge reg. Calabria 13 maggio 1996, n.
7, pur avendo ordinato l'intera dirigenza regionale in un'unica qualifica, ha mantenuto
un'articolazione gerarchica dei compiti e delle responsabilità, prevedendo che gli incarichi
dirigenziali sono "attribuiti tenendo conto della professionalità e dell'esperienza acquisite nel corso
della carriera e necessarie per il posto da ricoprire", a cui corrisponde una graduazione dei
compensi, la cui conservazione a favore del personale che ne sia già titolare è comunque assicurata
- ai sensi dell'art. 41 della legge regionale citata - nella fase di prima applicazione della legge. Ne
consegue che il provvedimento di assegnazione di un dirigente, avente nel pregresso ordinamento la
qualifica di dirigente superiore di secondo livello, di un "servizio" anziché di un "settore", con
corrispondente diminuzione della retribuzione, integra una lesione delle posizioni acquisite, la cui
ridefinizione è ammissibile solo in ragione di una motivata diversa attribuzione delle funzioni.
Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 25-09-2013, n. 21922
Non appare utilmente invocabile la giurisprudenza di questa Corte evocata dalla società ricorrente,
secondo la quale l'eventuale adibizione a mansioni non rispondenti alla qualifica rivestita può
consentire al lavoratore di richiedere giudizialmente la riconduzione della prestazione nell'ambito
della qualifica di appartenenza, ma non autorizza lo stesso a rifiutarsi aprioristicamente, e senza un
eventuale avallo giudiziario che, peraltro, può essergli urgentemente accordato in via cautelare, di
eseguire la prestazione lavorativa richiestagli, in quanto egli è tenuto ad osservare le disposizioni
per l'esecuzione del lavoro impartito dall'imprenditore, ex artt. 2086 e 2104 cod.civ. da applicarsi
alla stregua del principio sancito dall'art. 41 Cost. e può legittimamente invocare l'art. 1460 del cod.
civ., rendendosi inadempiente, solo in caso di totale inadempimento dell'altra parte.
Cass. civ. Sez. lavoro, 18-09-2013, n. 21356
54
1. Lo ius variandi di cui gode il datore di lavoro ed espressione della tutela costituzionale della
libertà d'impresa di cui all'art. 41 Cost. può essere esercitato solo nel rispetto dell'art. 2103 c.c. In
definitiva, il datore di lavoro, a fronte di una ristrutturazione aziendale, può mutare le mansioni di
un proprio dipendente che devono, tuttavia, essere compatibili con il livello di inquadramento e con
la professionalità acquisita dal lavoratore medesimo.
2. È illegittimo il demansionamento disposto da parte del datore di lavoro, senza il consenso del
dipendente, al solo fine dichiarato di evitare il licenziamento. Una volta accertato
il demansionamento, onde determinare il risarcimento del danno, è possibile fare ricorso al criterio
equitativo.
Cass. civ. Sez. lavoro, 07-08-2013, n. 18808
In materia di pubblico impiego contrattualizzato, lo svolgimento di fatto di mansioni proprie di una
qualifica - anche non immediatamente - superiore a quella di inquadramento formale comporta in
ogni caso, in forza del disposto dell'art. 52, comma 5, d.lgs. del 30 marzo 2001, n. 165, il diritto
alla retribuzione propria di detta qualifica superiore - e tale diritto non è condizionato alla
sussistenza dei presupposti di legittimità di assegnazione delle mansioni o alle previsioni dei
contratti collettivi, né all'operativa del nuovo sistema di classificazione del personale introdotto
dalla contrattazione collettiva, posto che una diversa interpretazione sarebbe contraria all'intento del
legislatore di assicurare comunque al lavoratore una retribuzione proporzionata alla qualità del
lavoro prestato, in ossequio al principio di cui all'art. 36 Cost.
Cass. civ. Sez. lavoro, 14-06-2013, n. 15010
Ai fini della verifica del legittimo esercizio dello "ius variandi" da parte del datore di lavoro, deve
essere valutata, dal giudice di merito - con giudizio di fatto incensurabile in cassazione ove
adeguatamente motivato - la omogeneità tra le mansioni successivamente attribuite e quelle di
originaria appartenenza, sotto il profilo della loro equivalenza in concreto rispetto alla competenza
richiesta, al livello professionale raggiunto ed alla utilizzazione del patrimonio professionale
acquisito dal dipendente, senza che assuma rilievo che, sul piano formale, entrambe le tipologie di
mansioni rientrino nella medesima area operativa. (Nella specie, il c.c.n.l. per i dipendenti postali
del 26 novembre 1994, nell'introdurre le nuove classificazioni per il personale aveva accorpato in
un'unica area operativa mansioni in precedenza diversificate, prevedendo la fungibilità tra i diversi
settori operativi; la S.C., in applicazione del principio di cui alla massima, ha rilevato che,
correttamente, la corte territoriale aveva ritenuto vi fosse stata una concreta dequalificazione attesa
la destinazione del lavoratore allo svolgimento di semplici compiti di sportello con sottrazione delle
funzioni di coordinamento e controllo di altro personale precedentemente spiegate, con
impossibilità di utilizzare le pregresse capacità professionali, destinate alla progressiva scomparsa).
55
Cass. civ. Sez. lavoro, 03-06-2013, n. 13918
In merito al risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e
dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno
professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento
datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio,
dell'esistenza di un pregiudizio che alteri le abitudini del lavoratore, gli assetti relazionali propri,
inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel
mondo esterno. Non è, in tal senso, sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta
datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento, ma anche di fornire
la prova ex art. 2697 c.c. del danno e del nesso eziologico con l'inadempimento datoriale.
Cass. civ. Sez. lavoro, 03-06-2013, n. 13921
Il principio secondo cui, qualora due giudizi tra le stesse parti facciano riferimento al medesimo
rapporto giuridico ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l'accertamento
così compiuto preclude il riesame dello stesso punto in fatto e in diritto accertato e risolto, non è
applicabile al caso in cui, accertato con sentenza irrevocabile il demansionamento per un
determinato periodo, il lavoratore sia stato adibito, in periodo successivo, alle medesime mansioni
inferiori, quale alternativa al licenziamento, che sarebbe altrimenti derivato in ragione della
soppressione del ruolo tecnico (in precedenza ricoperto dal lavoratore) per effetto di una
ristrutturazione organizzativa aziendale.
Cass. civ. Sez. lavoro, 24-01-2013, n. 1693
In base al principio di autotutela di cui all'art. 1460 c.c., il rifiuto del lavoratore di svolgere la
prestazione può essere legittimo, e quindi inidoneo a giustificare il licenziamento, a condizione che
sia proporzionato all'illegittimo comportamento datoriale (nella specie, la Corte ha ritenuto che il
prolungato demansionamento operato dalla società datrice - pur senza giustificare un totale rifiuto
del lavoratore a svolgere le proprie mansioni - poteva essere preso in considerazione per inferirne
un ridimensionamento della gravità dell'inadempimento del lavoratore, licenziato per giusta causa
in ragione dalla ripetuta inosservanza dell'orario di lavoro).
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15. POTERE DIRETTIVO E MODIFICAZIONE DEL LUOGO DI LAVORO
Cass. civ. Sez. lavoro, 05-11-2013, n. 24775
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Il diritto del lavoratore portatore di handicap a non essere trasferito ad altra sede senza il suo
consenso, previsto dall'art. 33, comma 6, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, mentre non può subire
limitazioni in caso di mobilità connessa ad ordinarie esigenze tecnico-produttive dell'azienda, non è,
invece, attuabile ove sia accertata l'incompatibilità della permanenza del lavoratore nella sede
di lavoro. (Nella specie, la permanenza del dipendente - addetto alla reception di uno stabile
dell'Ente per il Diritto allo Studio Universitario di Pavia - nella sede di lavoro non poteva
ulteriormente protrarsi in ragione delle tensioni personali e dei contrasti insorti con gli altri colleghi,
tali da provocare rilevanti ripercussioni sul regolare svolgimento dell'attività lavorativa e da
giustificare, quindi, il provvedimento di trasferimento).
L'art. 2103 c.c., nel subordinare la legittimità del trasferimento del lavoratore alla sussistenza di
comprovate esigenze tecniche, organizzative e produttive, non fa riferimento solo a situazioni
oggettive, ma consente la valutazione anche di situazioni soggettive. È, tuttavia, necessario che
queste ultime siano valutate secondo un criterio obiettivo, quale è quella delle ragioni di
incompatibilità createsi tra un dipendente ed i suoi diretti collaboratori che si riflettano sul normale
e regolare espletamento dell'attività di impresa.
Cass. civ. Sez. lavoro, 05-11-2013, n. 24770
Nel caso di collegamento economico tra società datrici di lavoro, l'art. 2094 cod. civ., nel prevedere
il rapporto di lavoro subordinato, non definisce altresì l'impresa quale datrice di lavoro ma ne
presuppone la nozione, caratterizzata dalla soggettività giuridica, con la conseguenza che, salve le
ipotesi simulatorie, ad una pluralità di soggetti societari esercitanti i poteri del datore corrisponde
una pluralità di rapporti. Pertanto ove le parti abbiano pattuito un "distacco" del lavoratore che,
fermo il perdurare del vincolo con il datore di lavoro distaccante, faccia sorgere un distinto rapporto
con altro imprenditore, anche all'estero, con sospensione del rapporto originario, i due rapporti
restano separati, anche se le due società sono gestite da società collegate, senza che si possano
imputare, se non diversamente pattuito, alla società distaccante le obbligazioni relative al secondo
rapporto.
Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 28-10-2013, n. 24260
Ai fini dell'efficacia del provvedimento di trasferimento del lavoratore, non è necessario che
vengano contestualmente enunciate le ragioni del trasferimento stesso, atteso che l'art. 2103 c.c.,
nella parte in cui dispone che le ragioni tecniche, organizzative e produttive del provvedimento
suddetto siano comprovate, richiede soltanto che tali ragioni, ove contestate, risultino effettive e di
esse il datore di lavoro fornisca la prova; pertanto, l'onere dell'indicazione delle ragioni del
trasferimento, che in caso di mancato adempimento determina l'inefficacia sopravvenuta del
provvedimento, sorge a carico del datore di lavoro soltanto nel caso in cui il lavoratore ne faccia
richiesta - dovendosi applicare per analogia la disposizione di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 2, sul
licenziamento (Cass. n. n. 8628 del 2004, n.1912 del 1998). In ragione della applicazione analogica
della richiamata disciplina in tema di licenziamento, ove accertata la inosservanza del termine per la
comunicazione dei motivi del trasferimento, il trasferimento dall'appalto …omissis… deve
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considerarsi illegittimo; in conseguenza anche la condotta della lavoratrice ritenuta dalla sentenza
impugnata integrare la giusta causa di licenziamento deve essere riesaminata alla luce di tale
accertamento.
Cass. civ. Sez. lavoro, 09-09-2013, n. 20611
In tema di sede di lavoro, la disciplina limitativa del trasferimento del lavoratore di cui all'art.2103
cod. civ. , che condiziona la legittimità del trasferimento alla ricorrenza di comprovate ragioni
tecniche, organizzative e produttive, è applicabile soltanto con riferimento al medesimo rapporto
di lavoro e non ad altro successivo rapporto, salvo che non ricorrono le condizioni previste dall'art.
2112 cod. civ. (fattispecie relativa a lavoratore dipendente di impresa assicuratrice posta in
liquidazione coatta amministrativa, riassunto dal commissario liquidatore e quindi da un'impresa
cessionaria del portafoglio della suddetta impresa).
Cass. civ. Sez. lavoro, 22-08-2013, n. 19425
In materia di trasferimento del lavoratore vige il principio generale di libertà delle forme: pertanto
qualora il datore di lavoro abbia indicato i motivi del disposto mutamento di sede di lavoro
contestualmente all'adozione dell'atto di trasferimento egli non è soggetto ad un alcun obbligo di
ulteriore precisazione dei motivi anche in caso di specifica richiesta dei motivi - in applicazione
analogica dell'art. 2, comma 2, della legge 15 luglio 1966, n. 604 - da parte del lavoratore trasferito.
Nel pubblico impiego contrattualizzato, la sussistenza di una situazione di incompatibilità tra il
lavoratore ed i suoi colleghi o collaboratori diretti, che importi tensioni personali o anche contrasti
nell'ambiente di lavoro comportanti disorganizzazione e disfunzione nell'unità produttiva,
concretizza un'oggettiva esigenza di modifica del luogo di lavoro - non potendo normalmente essere
ricondotta a profili di carattere disciplinare - e va valutata in base al disposto dell'art. 2103 cod. civ.,
con conseguenza possibilità di trasferimento del lavoratore, sulla base di comprovate ragioni
tecniche organizzative e produttive.
In materia di trasferimento del pubblico dipendente l'individuazione della sede di lavoro a seguito
dell'esercizio del potere datoriale deve essere effettuata in applicazione dei principi di buon
andamento della P.A. (art. 97 Costituzione) e di buona fede e correttezza (art. 1175 ed art. 1375
cod. civ.) e pertanto non deve determinare oneri ingiustificati a carico del lavoratore trasferito
essendo necessario tenere conto anche della situazione logistica in cui verrà a trovarsi il lavoratore salva l'impossibilità di reperire sedi lavorative che in concreto possano rispettare esigenze connesse
con la situazione soggettiva del lavoratore - con la conseguente finalità di individuare una sede di
servizio non eccessivamente distante dal luogo di dimora abituale del lavoratore ma senza che sia
configurabile un obbligo di rispetto di un rigido criterio chilometrico nell'individuazione.
Cass. civ. Sez. lavoro, 07-08-2013, n. 18827
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Il trasferimento del lavoratore giustificato da esigenze relative ad una riorganizzazione aziendale
finalizzata ad una più economica gestione (nella specie, la perdita di una gara d'appalto e il
conseguente smobilizzo del cantiere) si pone come momento inevitabile nel processo di
riorganizzazione, che deve necessariamente precedere, e non seguire, il nuovo assetto finale
dell'impresa; di conseguenza, non è necessario che l'avvenimento giustificativo del provvedimento
di trasferimento - ossia l'inutilizzabilità della prestazione nella sede di provenienza - sussista al
momento dell'adozione della misura, mentre deve ritenersi legittimo e giustificato il trasferimento
disposto in vista del futuro riassetto aziendale anche se tale riassetto sopravvenga in un momento
successivo.
Cass. civ. Sez. lavoro, 06-06-2013, n. 14314
La figura del "distacco" o "comando" del lavoratore comporta un cambio nell'esercizio del potere
direttivo - perché il dipendente viene dislocato presso altro datore di lavoro, con contestuale
assoggettamento al comando ed al controllo di quest'ultimo - ma non incide sulla titolarità del
rapporto, in quanto il datore di lavoro distaccante continua ad essere titolare del rapporto di lavoro,
con la conseguenza che il rapporto di lavoro resta disciplinato ai fini economici dalle regole
applicabili al datore distaccante. (Nella specie, precedente l'entrata in vigore dell'art. 30 del d.lgs. 10
settembre 2003, n. 276, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che, interpretando le norme
collettive che prevedevano il riconoscimento della P.E.D. in favore dei dipendenti di Poste s.p.a. "in
servizio" ad una certa data, aveva rilevato che la posizione di comando presso altro ente non
escludeva il dipendente comandato dalla platea dei possibili beneficiari della prestazione).
Cass. civ. Sez. lavoro, 03-05-2013, n. 10338
Il diritto del lavoratore disabile a non essere trasferito ad altra sede lavorativa senza il suo consenso
non può prescindere dall'accertamento della gravità della disabilità di cui il medesimo è affetto.
Pertanto, l'inamovibilità del lavoratore è connessa alla gravità dell'handicap dello stesso e si
giustifica per la particolare gravosità che lo spostamento, imposto, potrebbe generare in un
lavoratore proprio a cagione della rilevante incidenza del suo handicap con riguardo, ad esempio,
alla sua autonomia, alla necessità di avvalersi di particolari presidi sanitari non reperibili in ogni
sede ovvero di ausili da parte di terzi che un trasferimento imposto potrebbe compromettere.
Cass. pen. Sez. IV, 19-04-2013, n. 31300
In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, in caso di distacco di un lavoratore da un'impresa
ad un'altra, per effetto della modifica normativa introdotta dall'art. 3, comma sesto, D.Lgs. 9 aprile
2008, n. 81, sono a carico del distaccatario tutti gli obblighi di prevenzione e protezione, fatta
eccezione per l'obbligo di informare e formare il lavoratore sui rischi tipici generalmente connessi
allo svolgimento delle mansioni per le quali questo viene distaccato, che restano a carico del datore
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di lavoro distaccante. (Nel caso di specie la Corte ha ritenuto sussistente la responsabilità del datore
di lavoro distaccante, il quale aveva dato corso al distacco senza essersi accertato della sussistenza
delle condizioni di sicurezza del cantiere ove il dipendente avrebbe dovuto svolgere la propria
attività lavorativa).
Cass. civ. Sez. lavoro, 21-03-2013, n. 7143
In caso di distacco di personale dipendente dalle Ferrovie dello Stato presso una amministrazione
provinciale, il rimborso per il trattamento economico durante il periodo di distacco comprende tutte
le retribuzioni dovute in applicazione di legge o di contratto collettivo, ivi comprese quelle maturate
durante i periodi di malattia.
Cons. Giust. Amm. Sic., 12-03-2013, n. 332
In merito alla previsione normativa contenuta nell'art. 33 della legge n. 104 del 1992, a norma del
quale, il genitore o il familiare lavoratore, con rapporto di lavoro pubblico o privato, che assista con
continuità un parente o un affine entro il terzo grado, portatore di handicap, ha diritto a scegliere,
ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio e non può essere trasferito senza il
suo consenso ad altra sede, il legislatore ha attribuito all'inciso "ove possibile", il valore di
strumento di essenziale contemperamento tra le esigenze in conflitto. Detto inciso configura in
sostanza, una gerarchia nella quale l'esigenza del lavoratore appare prevalere solo ove il suo
soddisfacimento non comporti un sacrificio delle ragioni contrapposte, così grave da determinare
uno squilibrio insostenibile, che, in caso di lavoro alle dipendenze della P.A., vorrebbe dire
compromissione del buon andamento e dell'efficienza della sua azione.
Cass. civ. Sez. lavoro, 28-02-2013, n. 5011
In materia di pubblico impiego contrattualizzato, la protrazione dell'assegnazione temporanea per
una durata assolutamente esorbitante l'originario provvedimento (nella specie, per dodici anni)
radica una situazione di fatto di concreta individuazione della sede di lavoro. Ne consegue che trova
applicazione l'art. 2103 cod. civ. e la cessazione dell'assegnazione temporanea può essere disposta
solo in presenza di ragioni giustificatrici, equivalendo sostanzialmente ad un trasferimento del
lavoratore.
Cons. Stato Sez. IV, 28-01-2013, n. 518
È annullato il provvedimento con il quale il dipartimento dell'amministrazione penitenziaria ha
rigettato la richiesta di trasferimento per motivi di assistenza familiare formulata dal dipendente, per
presunta carenza del requisito dell'esclusività dell'assistenza, atteso che, a seguito delle modifiche
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normative introdotte dall'art. 24, comma 30, legge n. 183 del 2010 (c.d. "collegato lavoro"),
l'amministrazione non può più motivare su tale fondamento il diniego di trasferimento ex art. 33,
comma 5, legge n. 104 del 1992.
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16. SALUTE E SICUREZZA SUL LAVORO
Cass. civ. Sez. lavoro, 04-02-2014, n. 2455
Deve ascriversi all'esclusiva responsabilità del datore di lavoro l'infortunio occorso ad un lavoratore
precipitato al suolo mentre era intento alla realizzazione di un ponteggio all'altezza di circa sei metri
da terra ove, benché in assenza di una precisa ricostruzione della dinamica del fatto in tutti i suoi
aspetti, sia stato accertato, alla luce anche del decreto penale di condanna emesso nei confronti del
datore di lavoro, che il lavoratore non aveva utilizzato le cinture di sicurezza, perché quelle in
dotazione erano munite di una catena troppo corta per l'esecuzione del lavoro di montaggio del
ponteggio; che le tavole costituenti il piano di calpestio del ponteggio non erano fissate o comunque
tenute ferme onde evitare la caduta del lavoratore stesso; che tali tavole non erano in perfetto stato
di conservazione e che i lavori di realizzazione del ponteggio venivano svolti, in assenza della
prescritta vigilanza, dal lavoratore infortunatosi da solo nonostante la precarietà delle strutture man
mano montate e la pericolosità del lavoro dovuta anche all'altezza in cui veniva espletato.
Cass. civ. Sez. lavoro, 24-01-2014, n. 1477
Qualora venga accertato che il danno patito da un lavoratore è stato causato dalla nocività
dell'attività lavorativa per esposizione all'amianto, è onere del datore di lavoro provare di avere
adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure generiche di prudenza
necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le conoscenze del tempo di
insorgenza della malattia.
Cass. civ. Sez. lavoro, 12-11-2013, n. 25392
Il datore di lavoro è chiamato a rispondere non solo per l'omissione di misure
di sicurezza espressamente e specificamente definite dalla legge, ma anche per l'omissione di quelle
che siano suggerite da conoscenze sperimentali e tecniche e che, in concreto, si rendano necessarie
per la tutela della sicurezza del lavoro. La parte datoriale è, altresì, responsabile, non solo quando
ometta di adottare idonee misure protettive, ma anche quando ometta di vigilare che di tali misure
sia fatto effettivamente uso.
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Cass. civ. Sez. lavoro, 09-10-2013, n. 22974
Il requisito della inscindibile connessione tra rendita ed attività lavorativa caratterizza anche la
differenza tra malattia professionale ed infortunio sul lavoro. Solo in relazione a quest'ultimo la
copertura assicurativa va estesa anche agli eventi verificatisi al di fuori dei luoghi di lavoro e non
solo nel corso della prestazione lavorativa (cassata, nella specie, la decisione dei giudici di appello
che avevano riconosciuto il diritto all'indennità nei confronti di un lavoratore ritenendo sussistente il
nesso causale tra la patologia - ernia discale - denunciata dal lavoratore e il prolungato tragitto
giornaliero andata e ritorno, protrattosi per diciannove anni attraverso l'utilizzo del proprio
autoveicolo).
Cass. civ. Sez. lavoro, 02-10-2013, n. 22538
E' illegittimo il licenziamento del dipendente assente per malattia provocata dall'azione di mobbing
che il datore di lavoro esercita su di lui con sanzioni disciplinari spropositate, richiami ingiustificati
e visite fiscali a raffica.
Cass. civ. Sez. lavoro, 27-09-2013, n. 22262
In materia di infortunio o malattia professionale, è manifestamente infondata la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 80, primo comma, del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, nel testo
risultante all'esito di Corte cost. n. 318 del 1989, nella parte in cui prevede che, ove al lavoratore,
già titolare di rendita per un pregresso infortunio, sia occorso un nuovo infortunio od una
nuova malattia professionale e sia trascorso più di un decennio dal precedente evento, l'INAIL non
possa costituire una rendita unica in misura inferiore a quella erogata e già consolidata, non
essendovi disparità di trattamento rispetto al caso in cui il lavoratore, titolare di rendita da
infortunio, diventi, in ragione di un nuovo evento lesivo infradecennale, beneficiario di una rendita
unica suscettibile di successiva revisione ancorché siano decorsi più di dieci anni dal primo
infortunio, trattandosi di benefici fondati su presupposti di fatto diversi, per cui resta giustificato il
diverso trattamento giuridico.
Cass. civ. Sez. lavoro, 18-09-2013, n. 21360
La presunzione legale circa la eziologia professionale delle malattie contratte nell'esercizio delle
lavorazioni morbigene investe soltanto il nesso tra la malattia tabellata e le relative specificate cause
morbigene (anch'esse tabellate) e non può esplicare la sua efficacia nell'ipotesi di malattia ad
eziologia multifattoriale, in cui il nesso di causalità non può essere oggetto di semplici presunzioni
tratte da ipotesi tecniche teoricamente possibili, ma necessita di concreta e specifica dimostrazione quanto meno in via di probabilità - in relazione alla concreta esposizione al rischio ambientale e alla
sua idoneità causale alla determinazione dell'evento morboso.
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Cass. civ. Sez. lavoro, 16-09-2013, n. 21082
In tema di modificazione, totale o parziale, della rendita per inabilità conseguente a infortunio
o malattia professionale, la qualificazione della modificazione operata dall'INAIL quale rettifica o
revisione non è determinata dal "nomen juris" imposto dal provvedimento amministrativo, né dal
risultato dell'accertamento emerso dal giudizio su di esso, ma deve essere preminentemente fondata
sull'effettiva volontà che sorregge l'atto, distinguendo se sia finalizzato a correggere l'iniziale
riconoscimento per emendarlo dall'errore da cui era affetto (nel qual caso si ha rettifica), ovvero ad
adeguarlo all'intervenuto mutamento delle condizioni dell'attitudine lavorativa (ove si ha revisione),
restando sottoposte le due fattispecie a differente disciplina relativa a criteri, metodi e strumenti del
suo accertamento e a decorrenza del termine di esercizio della relativa facoltà.
Cass. civ. Sez. lavoro, 04-09-2013, n. 20318
E' priva di intima coerenza e di logicità la motivazione della sentenza di appello che, nel confermare
la pronuncia di primo grado di reiezione della domanda diretta alla condanna della parte datoriale al
risarcimento del danno sofferto per la morte del dante causa dei ricorrenti conseguita
a malattia professionale, da un lato esige il massimo livello di certezza ai fini della dimostrazione
della sussistenza del nesso di causalità tra le condizioni lavorative in cui operava il prestatore e
l'insorgenza della malattia letale, e dall'altro ritiene che la scarsa probabilità che i presidi esistenti
all'epoca dei fatti potessero impedire l'insorgenza della malattia rappresenta, di per sé, elemento
sufficiente ad escludere una responsabilità omissiva della parte datoriale, quand'anche accertata.
Cass. civ. Sez. lavoro, 05-08-2013, n. 18626
La responsabilità dell'imprenditore ex art. 2087 cod. civ. non configura un'ipotesi di responsabilità
oggettiva, ma non è circoscritta alla violazione di regole d'esperienza o di regole tecniche
preesistenti e collaudate, essendo sanzionata dalla norma l'omessa predisposizione di tutte le misure
e cautele atte a preservare l'integrità psicofisica del lavoratore nel luogo di lavoro, tenuto conto
della concreta realtà aziendale e della maggiore o minore possibilità di indagare sull'esistenza di
fattori di rischio in un determinato momento storico. Pertanto, qualora sia accertato che il danno è
stato causato dalla nocività dell'attività lavorativa per esposizione all'amianto, è onere del datore di
lavoro provare di avere adottato, pur in difetto di una specifica disposizione preventiva, le misure
generiche di prudenza necessarie alla tutela della salute dal rischio espositivo secondo le
conoscenze del tempo di insorgenza della malattia, essendo irrilevante la circostanza che il rapporto
di lavoro si sia svolto in epoca antecedente all'introduzione di specifiche norme per il trattamento
dei materiali contenenti amianto, quali quelle contenute nel d.lgs. 15 agosto 1991, n. 277,
successivamente abrogato dal d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81.
63
Cass. civ. Sez. lavoro, 25-07-2013, n. 18093
Integra la nozione di "mobbing" la condotta del datore di lavoro protratta nel tempo e consistente
nel compimento di una pluralità di atti (giuridici o meramente materiali ed, eventualmente, anche
leciti), diretti alla persecuzione o all'emarginazione del dipendente, di cui viene lesa - in violazione
dell'obbligo di sicurezza posto a carico dello stesso datore dall'art. 2087 cod. civ. - la sfera
professionale o personale, intesa nella pluralità delle sue espressioni (sessuale, morale, psicologica
o fisica); né la circostanza che la condotta di mobbing provenga da un altro dipendente, posto in
posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, vale ad escludere la responsabilità del
datore di lavoro - su cui incombono gli obblighi ex art. 2049 cod. civ. - ove questi sia rimasto
colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo. (Nella specie, la S.C. ha reputato corretta la
valutazione del giudice di merito che, nel condannare la società datrice di lavoro al risarcimento del
danno morale, aveva valorizzato le risultanze del processo penale a carico di altro dipendente,
gerarchicamente sovraordinato, il quale, per lungo tempo - nella sostanziale inerzia del datore
di lavoro - si era rivolto alla vittima con espressioni ingiuriose).
Cass. civ. Sez. lavoro, 18-07-2013, n. 17585
L'obbligo di sicurezza, posto a carico del datore di lavoro in favore del lavoratore, è previsto in via
generale, con carattere atipico e residuale, dall'art. 2087 c.c. Orbene, la responsabilità del datore di
lavoro è di carattere contrattuale, dal momento che il contenuto del contratto individuale di lavoro
risulta integrato per legge, ai sensi dell'art. 1374 c.c., dalla disposizione che impone l'obbligo
di sicurezza e lo inserisce nel sinallagma contrattuale.
Cass. pen. Sez. IV, 27-06-2013, n. 35827
Il datore di lavoro, in forza della disposizione generale di cui all'art. 2087 c.c. e di quelle specifiche
previste dalla normativa antinfortunistica, è costituito garante della incolumità fisica e della
salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con la conseguenza che ove non
ottemperi agli obblighi di tutela, l'evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del
meccanismo retroattivo previsto dall'art. 40, comma secondo, c.p. Consegue a quanto innanzi che il
datore di lavoro ha il dovere di accertarsi del rispetto dei presidi antinfortunistici e del fatto che il
lavoratore possa prestare la propria opera in condizioni di sicurezza, vigilando, altresì, che le
condizioni di sicurezza siano mantenute per tutto il tempo in cui l'opera è prestata.
Cass. pen. Sez. IV, 25-06-2013, n. 42503
In caso di applicazione della sanzione su richiesta della società datrice di lavoro in relazione al
delitto di cui all'articolo 590, comma 3, c.p. commesso in danno di un lavoratore dipendente con
violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, le sanzioni interdittive di cui
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all'art. 9, comma 2,D.Lgs. n. 231/2001 devono essere applicate obbligatoriamente, e non è
applicabile il beneficio della sospensione condizionale della pena.
Cass. civ. Sez. lavoro, 07-06-2013, n. 14468
L'obbligo di prevenzione di cui all'art. 2087 cod. civ. impone all'imprenditore di adottare non
soltanto le misure tassativamente prescritte dalla legge in relazione al tipo di attività esercitata, che
rappresentano lo standard minimale fissato dal legislatore per la tutela della sicurezza del
lavoratore, ma anche le altre misure richieste in concreto dalla specificità dei rischi connessi tanto
all'impiego di attrezzi e macchinari, quanto all'ambiente di lavoro, dovendosi verificare, in caso
di malattia derivante dall'attività lavorativa, le misure in concreto adottate dal datore di lavoro per
evitare l'insorgenza della malattia. (Nella specie la S.C., in relazione ad azione risarcitoria proposta
da tecnico di reparto di radiologia di una struttura ospedaliera per malattia tumorale contratta a
causa di guasti ed eccessiva emissione di radiazioni dei macchinari, ha respinto il ricorso del datore
di lavoro avverso la decisione di merito che ne aveva affermato la responsabilità, non avendo egli
fornito la prova di avere adottato tutte le misure utili a prevenire i rischi legati alla prestazione
lavorativa).
Cass. pen. Sez. IV, 06-06-2013, n. 28808
La delega rilasciata dal datore di lavoro nei confronti del direttore di cantiere, avente carattere
generale e riferita in via esclusiva all'obiettivo della migliore conduzione dell'attività produttiva, tale
da assorbire in sé anche la gestione di compiti in tema di sicurezza, genericamente contemplati, nel
quadro di detta delega, al solo fine di rendere possibile quella preminente finalità di efficienza
produttiva, non può ritenersi idonea al trasferimento di poteri e responsabilità in tema
di sicurezza suscettibile di escludere la posizione di garanzia del datore di lavoro. In tal senso,
invero, al fine di ritenere compiuto il trasferimento della posizione di garanzia del datore di lavoro,
è necessario che il trasferimento, attuato mediante la delega, valga ad individuare in modo preciso e
determinato gli specifici poteri attribuiti al delegato, a sua volta da individuare, soggettivamente, in
persone dotate della necessaria competenza a darvi attuazione.
Cass. pen. Sez. IV, 06-06-2013, n. 35115
In tema di infortuni sul lavoro, la colpa del lavoratore, eventualmente concorrente con la violazione
della normativa antinfortunistica addebitata ai soggetti tenuti ad osservarne le disposizioni, non
esime questi ultimi dalla proprie responsabilità, in quanto l'esistenza del rapporto di causalità tra la
violazione e l'evento morte o lesioni del lavoratore che ne sia conseguito, può essere esclusa
unicamente nei casi in cui risulti provato che il comportamento del lavoratore sia stato abnorme e
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che proprio a causa di tale abnormità, sia stato causato l'evento che, per la sua stranezza ed
imprevedibilità si ponga al di fuori delle possibilità di controllo dei garanti
della sicurezza sul lavoro. Ove l'infortunio sul lavoro si verifichi per inosservanza degli obblighi
di sicurezza normativamente imposti, tale inosservanza ricadrà, a titolo di colpa specifica, ai
sensi dell'art. 43 c.p., su colui il quale detti obblighi avrebbe dovuto rispettare, a nulla rilevando la
qualifica del soggetto che abbia subito l'infortunio e fermo restando il nesso causale con l'accertata
violazione.
Cass. civ. Sez. VI - 5 Ordinanza, 04-06-2013, n. 14071
Non hanno diritto alle agevolazioni fiscali e agli incentivi all'occupazione le imprese che sono state
sanzionate per il mancato rispetto delle norme sulla sicurezza sul lavoro.
Cass. pen. Sez. IV, 30-05-2013, n. 26247
In tema di infortuni sul lavoro, la responsabilità del costruttore, nel caso in cui l'evento dannoso sia
provocato dall'inosservanza delle cautele infortunistiche nella progettazione e fabbricazione della
macchina, non esclude la responsabilità del datore di lavoro, sul quale grava l'obbligo di eliminare
le fonti di pericolo per i lavoratori dipendenti che debbano utilizzare la predetta macchina e di
adottare nell'impresa tutti i più moderni strumenti che la tecnologia offre per garantire
la sicurezza dei lavoratori; a detta regola può farsi eccezione nella sola ipotesi in cui l'accertamento
di un elemento di pericolo nella macchina o di un vizio di progettazione o di costruzione di questa
sia reso impossibile per le speciali caratteristiche della macchina o del vizio, impeditive di
apprezzarne la sussistenza con l'ordinaria diligenza. (In applicazione del principio di cui in massima
la S.C. ha ritenuto immune da censure la decisione con cui il giudice di appello ha affermato la
responsabilità del datore di lavoro, in ordine al reato di cui all'art. 590, comma terzo, cod. pen., per
avere messo a disposizione del lavoratore un macchinario, specificamente una pressa, privo dei
necessari presidi di sicurezza, in conseguenza della non attenta verifica dei requisiti di legge e della
mancata valutazione in progress delle carenze del predetto macchinario, anche attraverso una
adeguata azione di manutenzione, nella specie effettuata senza carattere di sistematicità).
Cass. civ. Sez. lavoro, 07-05-2013, n. 10553
Al fine di verificare se l'inadempimento dell'obbligo del lavoratore di utilizzare le misure apprestate
per la sua sicurezza dal datore di lavoro integri giusta causa di recesso, occorre accertare se il
lavoratore abbia previamente informato il datore in ordine alla macchinosità di tali misure e se il
datore di lavoro sia rimasto inerte nonostante le informazioni ricevute.
Cass. pen. Sez. IV, 23-04-2013, n. 35295
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In tema di infortuni sul lavoro, è configurabile la responsabilità del venditore allorquando, pur
essendo conoscibile la non conformità del macchinario alle prescrizioni in tema di sicurezza, egli
non si sia attivato per eliminare la difformità prima della vendita. (Fattispecie in cui è stata
riconosciuta la responsabilità per omicidio colposo del venditore di una minipala in abbinamento
con una benna miscelatrice, capovoltasi addosso ad un operaio per l'eccessivo carico, in assenza di
adeguate indicazioni, con tacche o segni nella benna, dei livelli massimi di possibile riempimento).
Cass. pen. Sez. IV, 19-04-2013, n. 31304
In materia di sicurezza nei cantieri edili, la responsabilità penale del committente deriva dalla
violazione degli obblighi di informazione sui rischi dell'ambiente di lavoro, di cooperazione
nell'apprestamento delle misure di prevenzione e protezione del cantiere, nella scelta degli
appaltatori, tenuto conto della specificità dei lavoro da eseguire. Al contrario, con riferimento alle
responsabilità in ordine all'osservanza degli obblighi prevenzionali relativi alle attività svolte dagli
appaltatori, non si può esigere dal committente un controllo pressante continuo e capillare
nell'andamento dei lavori.
Cass. pen. Sez. IV, 18-04-2013, n. 31296
In tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il committente, quale titolare di una specifica
posizione di garanzia, risponde dell'infortunio subito dai lavoratori per non aver nominato il
coordinatore per l'esecuzione dei lavori, che è tenuto a verificare l'idoneità del piano operativo
di sicurezza, a vigilare sul rispetto delle misure precauzionali ivi indicate e a sospendere le attività
in caso di grave ed imminente pericolo. (Fattispecie nella quale è stata ritenuta la responsabilità del
committente per lesioni colpose di un lavoratore, caduto mentre posizionava pannelli su un tetto di
un edificio sul presupposto che la nomina del coordinatore per l'esecuzione dei lavori avrebbe
potuto impedire l'evento).
Cass. civ. Sez. lavoro, 11-04-2013, n. 8855
In tema di responsabilità del datore di lavoro per violazione delle disposizioni dell'art. 2087 cod.
civ., la parte che subisce l'inadempimento non deve dimostrare la colpa dell'altra parte - dato che ai
sensi dell'art. 1218 cod. civ. è il debitore-datore di lavoro che deve provare che l'impossibilità della
prestazione o la non esatta esecuzione della stessa o comunque il pregiudizio che colpisce la
controparte derivano da causa a lui non imputabile - ma è comunque soggetta all'onere di allegare e
dimostrare l'esistenza del fatto materiale ed anche le regole di condotta che assume essere state
violate, provando che l'asserito debitore ha posto in essere un comportamento contrario o alle
clausole contrattuali che disciplinano il rapporto o a norme inderogabili di legge o alle regole
generali di correttezza e buona fede o alle misure che, nell'esercizio dell'impresa, debbono essere
adottate per tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. (Nella specie,
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relativa alla pretesa del dipendente di un istituto di credito di ottenere il risarcimento dei danni
permanenti alla salute derivati da una serie di rapine compiute presso l'agenzia ove egli aveva
prestato attività di addetto allo sportello bancario e dal trasferimento disposto dall'istituto in altra
sede "notoriamente" soggetta a rapine, la sentenza di merito aveva respinto la domanda, sul
presupposto che il lavoratore si fosse limitato ad allegare l'esistenza e l'entità del danno e il nesso
causale fra questo e i fatti dedotti, senza porre a fondamento della domanda né la negligenza della
banca circa la mancata adozione di misure di sicurezza idonee ad evitare le rapine, né l'illegittimità
del trasferimento; la S.C., nel confermare la sentenza impugnata, ha affermato il principio su
esteso).
Cass. civ. Sez. lavoro, 11-04-2013, n. 8861
Sebbene il dovere di sicurezza a carico del datore di lavoro, a norma dell'art. 2087 cod. civ., si
atteggi in maniera particolarmente intensa nei confronti dei lavoratori di giovane età e
professionalmente inesperti, va esclusa la responsabilità datoriale per l'infortunio occorso al
lavoratore, allorquando l'infortunio si verifichi per un comportamento del dipendente che presenti i
caratteri dell'abnormità e dell'assoluta inopinabilità. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza
impugnata che aveva escluso la responsabilità datoriale per il carattere imprevedibile ed
assolutamente anomalo della condotta del giovane lavoratore, il quale, dopo aver iniziato le
ordinarie mansioni affidategli munito dei prescritti dispositivi di protezione individuale, se ne era
privato non appena sfuggito alla sorveglianza del capo officina).
Cass. pen. Sez. IV, 05-04-2013, n. 50605
In materia di infortuni sul lavoro, la parte datoriale non può andare esente da responsabilità
sostenendo la sussistenza di una delega di funzioni a tal fine utile, per il solo fatto che abbia
provveduto a designare il responsabile del servizio di prevenzione e protezione. La presenza di
RSPP è, invero, obbligatoria exart. 8, D.Lgs. n. 626 del 1994 per l'osservanza di quanto previsto dal
successivo art. 9, ma tale figura non coincide con quella, peraltro facoltativa, del dirigente delegato
all'osservanza delle norme antinfortunistiche ed alla sicurezza dei lavoratori. In particolare, il RSPP
non può incidere in via diretta sulla struttura aziendale, ma ha solo una funzione di ausilio
finalizzata a supportare il datore di lavoro nella individuazione dei fattori di rischio nella
lavorazione, nella scelta delle procedure di sicurezza e nelle pratiche di informazione e di
formazione dei dipendenti. Nonostante, dunque, si proceda alla nomina di un RSPP, il datore
di lavoro conserva l'obbligo di effettuare la valutazione dei rischi di elaborare il documento relativo
alle misure di prevenzione e protezione.
Cass. pen. Sez. VI, 28-03-2013, n. 28603
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Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua
emarginazione (c.d. "mobbing") possono integrare il delitto di cui all'art. 572 cod. pen., anche nel
testo modificato dalla l. n. 172 del 2012 esclusivamente se, il rapporto tra il datore di lavoro ed il
dipendente assume natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da
consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia
riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia. (Nella
specie, la Corte pur escludendo la configurabilità del delitto di maltrattamenti, ha annullato con
rinvio la sentenza assolutoria perché il giudice valutasse se i disturbi ansioso-depressivi lamentati
dalla vittima potessero integrare il delitto di lesioni personali).
Cass. pen. Sez. IV, 26-03-2013, n. 21628
L'intero Consiglio di amministrazione è responsabile per le società in materia
di sicurezza sul lavoro, salvo il caso in cui, con apposita delibera, sia stata conferita la competenza
ad un singolo consigliere.
Cass. pen. Sez. IV, 21-03-2013, n. 28167
In materia di sicurezza e prevenzione sui luoghi di lavoro, si evidenzia come per ambiente
di lavoro deve intendersi tutto lo spazio in cui l'attività lavorativa si sviluppa ed in cui coloro che
sono autorizzati ad accedere nel cantiere e coloro che vi accedono per ragioni connesse all'attività
lavorativa possono recarsi o sostare anche in momenti di pausa, riposo o sospensione del lavoro.
Cass. civ. Sez. lavoro, 29-01-2013, n. 2038
L'art. 2087 cod. civ. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità
del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme
di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Ne consegue che
incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno
alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro,
nonché il nesso tra l'uno e l'altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze
sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad
impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla
inosservanza di tali obblighi. Né la riconosciuta dipendenza delle malattie da una "causa di
servizio" implica necessariamente, o può far presumere, che gli eventi dannosi siano derivati dalle
condizioni di insicurezza dell'ambiente di lavoro, potendo essi dipendere piuttosto dalla qualità
intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione lavorativa e dal logoramento dell'organismo
del dipendente esposto ad un lavoro impegnativo per un lasso di tempo più o meno lungo,
restandosi così fuori dall'ambito dell'art. 2087 cod. civ., che riguarda una responsabilità contrattuale
ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici. (Nella specie, in sede di merito era stata
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accertata la dipendenza da causa di servizio di talune infermità contratte da un dipendente, e lo
stesso aveva successivamente invocato la responsabilità risarcitoria del datore per "mobbing" in
relazione alle medesime patologie; la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva respinto
per difetto di prova la domanda, ed ha affermato il principio su esteso).
Cass. civ. Sez. lavoro, 22-01-2013, n. 1471
Il datore di lavoro risponde, per la mancata adozione di misure di prevenzione e di controllo, anche
delle lesioni prodotte all'integrità psico-fisica del dipendente da condotte di dileggio,
integranti mobbing, realizzate da colleghi di lavoro ed illegittimamente commina al dipendente in
questione sanzione disciplinare per avere diffuso all'esterno notizie concernenti le condotte delle
quali il lavoratore è stato vittima.
Cass. civ. Sez. lavoro, 10-01-2013, n. 536
Il dovere di sicurezza a carico del datore di lavoro a norma dell'art. 2087 c.c., si atteggia in maniera
particolarmente intensa nei confronti dei lavoratori di giovane età e professionalmente inesperti,
esaltandosi in presenza di apprendisti nei cui confronti la legge pone precisi obblighi di formazione
e addestramento, senza che in contrario possa assumere rilievo l'imprudenza dell'infortunato
nell'assumere un'iniziativa di collaborazione nel cui ambito l'infortunio si sia verificato (nella
specie, relativa ad un infortunio occorso ad un lavoratore che, nel piegare un tondino di ferro, era
stato attinto ad un occhio da una scheggia, la Corte ha sottolineato che il datore di lavoro o un suo
preposto non solo avrebbe dovuto mettere a disposizione dell'apprendista gli occhiali protettivi ed
istruire il medesimo sull'esatto svolgimento della prestazione, ma avrebbe dovuto vigilare affinché
venisse fatto effettivamente uso di tali occhiali e la prestazione venisse eseguita in conformità alle
istruzioni impartitegli, tanto più che il lavoratore di giovane età ed assunto da meno di venti giorni
era totalmente privo di esperienza).
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17. MALATTIA
Cons. Stato Sez. IV, 29-01-2014, n. 449
I giudizi resi dagli organi medico legali ai fini dell'accertamento della dipendenza dell'infermità da
causa di servizio hanno connotati di discrezionalità tecnica, sottratta al sindacato di legittimità,
salvo che per valutazioni che attengano alla irragionevolezza, incongruità o carenza di esaustività. Il
riconoscimento della dipendenza da causa di servizio di una malattia deve essere effettuato con un
grado di consistente certezza e non sulla base di mere probabilità dell'esistenza di un nesso
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eziologico con la prestazione espletata secondo l'esperienza. Non può quindi annettersi valore
determinante all'elaborato peritale prodotto dall'interessato che, in disparte la sua provenienza,
annovera una serie di cause tra quella possibili, con un grado che va considerato di generica
probabilità.
Cass. civ. Sez. lavoro, 13-01-2014, n. 471
L'atto di intimazione del licenziamento per superamento del periodo di comporto, che non precisi le
assenze in base alle quali sia ritenuto superato il periodo di conservazione del posto di lavoro,
attribuisce al lavoratore, il quale ha l'esigenza di poter opporre propri rilievi specifici, la facoltà di
chiedere alla parte datoriale la specificazione di tale aspetto fattuale delle ragioni del licenziamento.
Ove, invece, il lavoratore abbia direttamente impugnato il licenziamento, il datore di lavoro può
precisare in giudizio i motivi di esso ed i fatti che hanno determinato il superamento del periodo di
comporto, non essendo in ciò ravvisabile una integrazione o modificazione della motivazione del
recesso.
Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 25-11-2013, n. 26290
Anche il mero pericolo di aggravamento delle condizioni di salute o di ritardo nella guarigione del
lavoratore medesimo, può configurare un grave inadempimento comportante un serio pregiudizio
all'interesse del datore di lavoro, risultando violati gli obblighi di buona fede e correttezza
nell'esecuzione del rapporto di lavoro allorchè la natura dell'infermità sia stata giudicata, con
valutazione ex ante, incompatibile con la condotta tenuta dal dipendente - cfr. in tal senso Cass. 19
dicembre 2006, n. 27104 -. Il suddetto principio rende tanto più corretto un giudizio espresso sulla
base del prolungamento dell'assenza oltre la iniziale prognosi della certificazione medica.
Cass. civ. Sez. lavoro, 11-11-2013, n. 25308
In seguito alla sentenza della Corte costituzionale n.82/2013, che ha dichiarato l'illegittimità
costituzionale dell'art.20, c.1, 2° periodo, d.l. 112/2008, nel testo antecedente e susseguente alla
legge di conversione n.133/2008, il datore di lavoro che abbia applicato il CCNL, tanto più se di
diritto corporativo e reso erga omnes ex l. 741/1959, che pone a carico dell'azienda l'indennità
di malattia, è esonerato dal versamento del relativo contributo all'INPS.
Cass. civ. Sez. lavoro, 04-11-2013, n. 24709
Il principio secondo cui lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente
per malattia può giustificarne il licenziamento trova il suo presupposto o nella circostanza che
l'attività esterna sia di per se sufficiente a far presumere l'inesistenza della malattia, o anche che la
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medesima attività, misurata con riferimento alle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la
guarigione ed il rientro in servizio.
Cass. civ. Sez. lavoro, 10-10-2013, n. 23063
Lo stato di malattia del lavoratore preclude al datore di lavoro l'esercizio del potere di recesso
quando si tratti di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, che, tuttavia, ove intimato, non è
invalido ma solo inefficace e produce i suoi effetti dal momento della cessazione della malattia.
Cass. civ. Sez. I, 08-08-2013, n. 18980
In tema di trattamento dei dati personali, costituisce diffusione di un dato sensibile quella relativa
all'assenza dal lavoro di un dipendente per malattia, in quanto tale informazione, pur non facendo
riferimento a specifiche patologie, è comunque suscettibile di rivelare lo stato di salute
dell'interessato. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto illecita la pubblicazione, da parte di
un'amministrazione comunale, nell'albo pretorio nonché sul sito internet istituzionale, dei dati
personali di un proprio dipendente, assente "per malattia").
Cass. civ. Sez. lavoro, 12-06-2013, n. 14756
In tema di eccessiva morbilità del lavoratore, l'art. 46 del C.C.N.L. 22 agosto 2003 Panificazione
Industria - che prevede la conservazione del posto in caso di malattia professionale per il periodo di
corresponsione dell'indennità di inabilità temporanea assoluta da parte dell'INAIL - va interpretato
nel senso che le disposizioni in materia di comporto dettate per la malattia professionale debbano
essere estese anche all'infortunio in itinere, atteso che non possono porsi a carico del lavoratore le
conseguenze del pregiudizio da lui subito a causa dell'attività lavorativa espletata. A tal fine la
certificazione INAIL non costituisce prova legale del carattere lavorativo dell'infortunio, ma un dato
valutativo idoneo, in mancanza di elementi probatori di segno opposto, ai fini del riconoscimento
dell'infortunio in itinere e per l'applicabilità della speciale disciplina del comporto prevista dalla
disposizione contrattuale.
Cass. civ. Sez. lavoro, 07-06-2013, n. 14471
È illegittimo il licenziamento per superamento del periodo di comporto allorché il lavoratore abbia
tempestivamente richiesto al datore di lavoro di fruire, in luogo dell'assenza per malattia, di un
periodo di ferie maturate e non godute, al fine di sospendere il decorso del termine di comporto,
ricevendone immotivato diniego.
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Cass. civ. Sez. lavoro, 20-05-2013, n. 12233
Le regole sancite nell'art. 2110 c.c. per le ipotesi di assenze determinate da malattia del lavoratore
prevalgono, in quanto speciali, sia sulla disciplina dei licenziamenti individuali che su quella
degli artt. 1256, 1463 e 1464 c.c. Siffatte regole sono finalizzate ad impedire al datore di lavoro di
porre fine unilateralmente al rapporto sino al superamento del limite di tollerabilità dell'assenza, il
cd. comporto, predeterminato dalla legge, dalle parti o, in via equitativa, dal giudice, il cui
superamento è l'unica condizione di legittimità del recesso.
Corte cost., 16-05-2013, n. 87
Dichiarazione di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli articoli 2110 cod.
civ. e 3 del d.lgs. del Capo provvisorio dello Stato 31 ottobre 1947, n. 1304, sollevata, in
riferimento agli articoli 3, 32 e 38 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Arezzo. La
questione - sollevata al dichiarato fine di colmare il vuoto normativo conseguente all'assenza di
specifiche previsioni legislative in materia di tutela dei lavoratori che necessitano di trattamenti
emodialitici - è inammissibile in ragione della natura dell'intervento che viene richiesto a questa
Corte, che è di tipo additivo ma non costituzionalmente obbligato. Lo stesso remittente prospetta
diverse soluzioni, che si pongono in un nesso di irrisolta alternatività, sì che la questione risulta
ancipite ed è evidente che la scelta tra la pluralità di soluzioni nella specie possibili non può che
essere riservata al legislatore. Ciò risulta confermato dal fatto che, con riferimento alla tutela del
lavoratore affetto da malattia nell'ambito del rapporto di lavoro è necessario trovare un punto di
equilibrio tra opposti interessi, in quanto oltre alla esigenza di tutela della salute del lavoratore (in
correlazione anche alla sua capacità reddituale), come ragione che giustifica entro certi limiti la
conservazione del posto di lavoro nonostante la sua incapacità di fornire la sua prestazione, viene in
rilievo l'esigenza, contrapposta, di garanzia economica dell'imprenditore - per il profilo della misura
dei limiti, economici e temporali, entro cui possa su di lui riversarsi il rischio di
una malattia cronica o recidivante del dipendente - e, parallelamente, per il profilo del concorso
pubblico al finanziamento del trattamento indennitario, il limite delle risorse disponibili.
Cass. civ. Sez. lavoro, 12-03-2013, n. 6130
Nel caso in cui il contratto collettivo preveda che al termine del periodo di comporto, al fine di
evitare il licenziamento, il lavoratore possa chiedere un periodo di aspettativa, il datore di lavoro
che neghi la fruizione di tale periodo ha l'onere di indicare le ragioni poste a base del proprio rifiuto.
Tribunale di Milano, Ord., 9-03-2013
Nella motivazione del licenziamento per superamento del periodo di comporto non debbono
necessariamente essere indicati tutti i giorni di assenza per malattia in quanto già conosciuti dal
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lavoratore, essendo sufficiente evidenziare il superamento ed il numero totale delle assenze
verificatesi nel periodo preso in considerazione, fermo restando nell’eventuale giudizio
successivo l’onere per il datore di provare compiutamente i fatti costitutivi. Una comunicazione
di recesso, tuttavia, estremamente stringata che fa riferimento al superamento del periodo di
comporto senza alcun riferimento temporale alla durata delle assenze, appare priva di specifica
motivazione, perché inidonea a rendere il prestatore consapevole della sussistenza del
giustificato motivo di recesso.
Il licenziamento non essendo accompagnato da una specifica motivazione, come richiesto
dall’art. 2 della legge n. 604/1966 (riformato dalla legge n. 92/2012), è inefficace ma il rapporto
si risolve, comunque, dalla data del licenziamento ed il datore di lavoro, ai sensi dell’art. 18,
comma 6, della legge n. 300/1970, viene condannato a pagare una indennità risarcitoria
"depotenziata", compresa tra le 6 e le 12 mensilità di retribuzione.
T.A.R. Puglia Bari Sez. II, 01-03-2013, n. 309
L'assenza del lavoratore ad una visita di controllo domiciliare, per non comportare la perdita del
trattamento economico di malattia (art. 5, comma 14, della legge n. 638 del 1983), deve essere
giustificata da un caso di forza maggiore o da una situazione che, per quanto non insuperabile o tale
da comportare, se non osservata, la lesione di beni primari, abbia reso indifferibile altrove la
presenza personale del lavoratore in un orario compreso nelle fasce di reperibilità.
Corte giustizia Unione Europea Sez. VI Ordinanza, 21-02-2013, n. 194/12
L'art. 7, par. 1, della Direttiva n. 2003/88/CE, del parlamento europeo e del consiglio, concernente
taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro, deve essere interpretato nel senso che esso
osta ad un'interpretazione della normativa nazionale secondo la quale un lavoratore che si trovi in
congedo per malattia nel periodo delle ferie annuali fissato unilateralmente nel calendario delle ferie
dell'impresa in cui lavora, non ha il diritto, al termine del suo congedo per malattia, di godere delle
ferie annuali in un periodo diverso da quello stabilito inizialmente, eventualmente al di fuori del
corrispondente periodo di riferimento, per ragioni di ordine produttivo od organizzativo
dell'impresa.
Cass. civ. Sez. lavoro, 23-01-2013, n. 1585
In tema di reperibilità del lavoratore assente per malattia, l'art. 40, comma 7, del c.c.n.l. per il
personale dipendente di Poste Italiane del 2001 - che prevede che "Qualora il lavoratore durante
l'assenza debba, per particolari motivi, risiedere in luogo diverso da quello reso noto alla società, ne
dovrà dare preventiva comunicazione scritta, precisando l'indirizzo di temporanea reperibilità" - va
inteso nel senso che esso impone al lavoratore l'onere di indicare, esplicitandolo con preventiva
comunicazione scritta, lo specifico motivo per il quale si trova nelle condizioni di risiedere in un
luogo diverso da quello reso precedentemente noto alla società, assolvendo tale adempimento
74
all'esigenza di garantire al datore di lavoro la possibilità di disporre visite mediche, come è suo
diritto, e di evitare un uso elusivo della facoltà concessa ai lavoratore, anche in relazione
all'osservanza dei principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione dei contratto.
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18. L’APPALTO
Cass. pen. Sez. III, 14-11-2013, n. 1471
La qualifica di direttore dei lavori non implica automaticamente la responsabilità per la sicurezza
sul lavoro ben potendo l'incarico di direttore limitarsi alla sorveglianza tecnica attinente
all'esecuzione del progetto.
Cass. civ. Sez. lavoro, 26-08-2013, n. 19579
In materia di servizio mensa, la previsione del contratto di appalto tra appaltante ed appaltatore
relativa all'obbligo, posto a carico di questi, di fornire ai lavoratori le divise di lavoro sempre pulite
rientra nella fattispecie codicistica del contratto a favore di terzo, di cui all'art. 1411 cod. civ., ed è
quindi pienamente valida; ne consegue che detto obbligo sussiste quando risulta dal testo
contrattuale che l'appaltante ha interesse all'adempimento. (Nella specie, la S. C. ha confermato la
sentenza di merito che aveva ritenuto sussistente in capo all'appaltatore del servizio mensa l'obbligo
di provvedere alla pulizia delle divise dei propri dipendenti o di corrispondere ai lavoratori stessi il
rimborso delle spese sostenute per provvedere al lavaggio delle divise, in quanto il testo del
contratto di appalto prevedeva che i lavoratori addetti alla mensa indossassero una divisa
di lavoro "sempre pulita").
Cass. civ. Sez. VI - Lavoro Ordinanza, 31-07-2013, n. 18384
In tema di appalto di opere e servizi, il lavoratore che, deducendo l'illegittimità della trattenuta sulla
retribuzione effettuata a titolo di TFR e di indennità di mancato preavviso, agisca contro
l'appaltatore e il committente, facendo valere nei confronti di quest'ultimo la responsabilità solidale
con il primo ai sensi dell'art.29, secondo comma, del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, può adire il
giudice del luogo ove si trova la dipendenza aziendale a cui è addetto anche per la domanda
proposta nei confronti del committente, dovendosi ritenere che tra questa e quella proposta nei
confronti dell'appaltatore ricorra una particolare connessione, che, in analogia con le ipotesi più
intense di connessione ex art.31 e ss. cod. proc. civ. , consente di instaurare, anche in deroga ai fori
speciali inderogabili di cui all'art.413 cod. proc. civ., un unico giudizio davanti al giudice
territorialmente competente per l'una o l'altra delle cause connesse.
75
Cass. civ. Sez. lavoro, 11-04-2013, n. 8863
L'art. 1 legge n. 1369 del 1960 prevede che certe prestazioni di lavoro, possibili nell'ambito
organizzativo dell'impresa pseudo-appaltante, vengano affidate all'impresa pseudo-appaltatrice.
Esula dalla previsione normativa il caso in cui l'impresa appaltatrice di certe prestazioni (pulizia)
tolleri che i suoi dipendenti eseguano prestazioni d'altro genere (archivistiche) a vantaggio
dell'appaltante, ma senza manifestazioni di volontà dei suoi organi competenti. In tal caso,
verificata l'utilità effettiva per l'impresa cosiddetta appaltante, questa sarà tenuta alla remunerazione
ai sensi dell'art. 2126 Cod. Civ.
Cass. civ. Sez. V, 15-02-2013, n. 3795
Nelle prestazioni di lavoro cui si riferiscono - prima dell'intervenuta abrogazione ad opera
dell'art. 85, comma primo, lett. c), del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 - i primi tre commi
dell'art. 1 della legge 23 ottobre 1960, n. 1369 (divieto di intermediazione ed interposizione nelle
prestazioni di lavoro e nuova disciplina dell'impiego della manodopera negli appalti di opere e di
servizi), la nullità del contratto fra committente ed appaltatore (o intermediario) e la previsione
dell'ultimo comma dello stesso articolo - secondo cui i lavoratori sono considerati a tutti gli effetti
alle dipendenze dell'imprenditore che ne abbia utilizzato effettivamente le prestazioni - comportano
che solo sull'appaltante (o interponente) gravano gli obblighi in materia di trattamento economico e
normativo scaturenti dal rapporto di lavoro, nonché gli obblighi in materia di assicurazioni sociali,
non potendosi configurare una (concorrente) responsabilità dell'appaltatore (o interposto) in virtù
dell'apparenza del diritto e dell'apparente titolarità del rapporto di lavoro, stante la specificità del
suddetto rapporto e la rilevanza sociale degli interessi ad esso sottesi. Ne consegue che, per tali
ipotesi, non è configurabile alcuna violazione del principio di doppia imposizione, sussistendo
anche gli obblighi propri del sostituto di imposta e di cui agli artt. 23 del d.P.R n. 600 del 1973 e
del d.P.R. n. 602 del 1973 in capo al solo soggetto che si considera appaltante.
Cass. pen. Sez. III, 23-01-2013, n. 7070
In tema di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro, la distinzione tra contratto
di appalto e quello di somministrazione di manodopera va operata non soltanto con riferimento alla
proprietà dei fattori di produzione ma altresì alla verifica della reale organizzazione dei mezzi e
dell'assunzione effettiva del rischio d'impresa, in assenza dei quali si configura una mera fornitura
di prestazione lavorativa che, se effettuata da soggetti non autorizzati, configura il reato di cui
all'art. 18 del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276.
Corte cost. Ordinanza, 18-01-2013, n. 5
76
È manifestamente inammissibile sotto un duplice profilo la questione di legittimità costituzionale,
sollevata in riferimento all'art. 76 Cost., avente ad oggetto l'art.29, comma 2, del D.Lgs. n. 276 del
2003, censurato nella formulazione che recita: "in caso di appalto di opere o di servizi il
committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l'appaltatore, nonché con
ciascuno degli eventuali ulteriori subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione
dell'appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti".
Innanzitutto, il rimettente omette di motivare in ordine alla ritenuta applicabilità al caso di specie
della disposizione censurata proprio nella versione specificamente sottoposta allo scrutinio della
Corte, come novellata dall'art. 1, comma 911, della legge n. 296 del 2006. In secondo luogo, tale
ultima disposizione, sostituendo il testo del citato art. 29, comma 2, nei termini in cui esso forma
oggetto di censura, all'interno del medesimo decreto legislativo n. 276 del 2003, ha trasformato la
natura della norma in questione da legge in senso materiale a legge in senso formale, così
affrancandola dal vizio di eccesso di delega.
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19. TRASFERIMENTO D’AZIENDA E DIRITTI DEL LAVORATORE
Corte giustizia Unione Europea Sez. IX, 06-03-2014, n. 458/12
L'art. 1, par. 1, lett. a) e b), della direttiva 2001/23/CE del Consiglio, del 12 marzo 2001,
concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei
diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di
stabilimenti, deve essere interpretato nel senso che non osta ad una normativa nazionale la quale, in
presenza di un trasferimento di una parte di impresa, consenta la successione del cessionario al
cedente nei rapporti di lavoro nell'ipotesi in cui la parte di impresa in questione non costituisca
un'entità economica funzionalmente autonoma preesistente al suo trasferimento.
Cass. civ. Sez. lavoro, 25-09-2013, n. 21917
Il ramo d'azienda suscettibile di autonomo trasferimento postula una preesistente realtà produttiva
funzionalmente autonoma e funzionalmente esistente, di guisa che esso non è compatibile con una
struttura produttiva creata ad hoc in occasione del trasferimento e come tale identificata dalle parti
del negozio traslativo.
Cass. civ. Sez. lavoro, 06-09-2013, n. 20554
Il trasferimento di personale dei centri trasfusionali alle Unità sanitarie locali ai sensi
dell'articolo 19, comma 4, della legge 4 maggio 1990 n. 107 non integra una ipotesi di successione
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del cessionario nel rapporto di lavoro ma realizza una nuova assunzione, la cui instaurazione resta
subordinata all'esito (favorevole) di concorso riservato esterno, senza che sia applicabile la
disciplina comunitaria (direttiva Cee del Consiglio n. 77/87 del 14 febbraio 1977 e successive
modifiche) e nazionale (art. 2112 cod. civ.) diretta a garantire il "mantenimento dei diritti dei
lavoratori in caso di trasferimento di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti" in quanto i
rapporti di lavoro alle dipendenze delle Unità sanitarie locali - all'atto di quel trasferimento di
personale - erano soggetti ad uno statuto di diritto pubblico e non al diritto del lavoro.
Trib. Milano Sez. lavoro, 27-08-2013
In ipotesi di cambio di gestione di un appalto, non costituisce trasferimento d'azienda la
riassunzione da parte di un nuovo imprenditore di una quota non sostanziale del personale
impiegato dell'appalto; al contrario costituisce trasferimento d'azienda la riassunzione di un gruppo
organizzato di dipendenti specificamente e stabilmente assegnati a un compito comune in un settore
in cui l'attività si fonda essenzialmente sulla manodopera anche in assenza di cessione di elementi
materiali.
Cass. civ. Sez. lavoro, 05-06-2013, n. 14208
Nel caso di trasferimento di azienda, il riconoscimento, in favore dei lavoratori dell'azienda ceduta,
dell'anzianità maturata presso il cedente non implica che il cessionario debba corrispondere gli
scatti in riferimento a tale anzianità, ove presso il datore di lavoro precedente non esistesse il diritto
a percepire gli scatti periodici di anzianità, essendo questi dovuti solo a partire dal periodo
lavorativo regolato dalla contrattazione applicata presso il cessionario.
Cass. civ. Sez. lavoro, 16-05-2013, n. 11918
Ai fini del trasferimento d'azienda, la disciplina di cui all'art. 2112 cod. civ. postula soltanto che il
complesso organizzato dei beni dell'impresa - nella sua identità obiettiva - sia passato ad un diverso
titolare in forza di una vicenda giuridica riconducibile al fenomeno della successione in senso
ampio, potendosi così prescindere da un rapporto contrattuale diretto tra l'imprenditore uscente e
quello che subentra nella gestione. Tuttavia, non può ravvisarsi un trasferimento d'azienda in ipotesi
di successione nell'appalto di un servizio, ove non sia dimostrato un passaggio di beni di non
trascurabile entità, e tale da rendere possibile lo svolgimento di una specifica impresa.
Cass. civ. Sez. VI - 1 Ordinanza, 14-05-2013, n. 11479
In caso di cessione d'azienda assoggettata al regime di cui all'art. 2112 cod. civ., posto il carattere
retributivo e sinallagmatico del trattamento di fine rapporto che costituisce istituto di
78
retribuzione differita, il datore di lavoro cessionario è obbligato nei confronti del lavoratore, il cui
rapporto sia con lui proseguito quanto alla quota maturata nel periodo anteriore alla cessione in
ragione del vincolo di solidarietà e resta l'unico obbligato quanto alla quota maturata nel periodo
successivo alla cessione, mentre il datore di lavoro cedente rimane obbligato nei confronti del
lavoratore suo dipendente per la quota di trattamento di fine rapporto maturata durante il periodo di
lavoro svolto fino al trasferimento aziendale. Ne consegue che il lavoratore è legittimato a proporre
istanza di fallimento del datore di lavoro che abbia ceduto l'azienda, essendo creditore del
medesimo.
Cons. Stato Sez. III, 30-04-2013, n. 2368
Il trasferimento dell'azienda, o di un ramo di azienda, comporta la (o consiste nella) cessione di tutti
gli inerenti rapporti giuridici (art. 2558 c.c.), compresi i contratti di lavoro e d'opera. L'art. 2112
c.c. ribadisce la regola che il rapporto di lavoro prosegue con il nuovo titolare dell'azienda, e
dispone ciò, essenzialmente, a tutela dei lavoratori: l'alternativa, invero, sarebbe il licenziamento e
non già la prosecuzione del rapporto con il vecchio imprenditore, in quanto è ovvio che costui, non
essendo più titolare dell'azienda, non avrebbe più alcuna ragione di stipendiare il relativo personale,
né si potrebbe esigere che lo facesse. Trattandosi di una norma a tutela dei lavoratori, il subentro del
nuovo imprenditore nella posizione di datore di lavoro avviene ope legis, e non richiede particolari
formalità o dichiarazioni negoziali espresse, né, comunque, il consenso del lavoratore interessato,
salva ovviamente la sua facoltà di licenziarsi.
Cass. civ. Sez. lavoro, 12-03-2013, n. 6131
Il trasferimento del pacchetto azionario di maggioranza di una società di capitali non integra gli
estremi del trasferimento di azienda ai sensi dell'art. 2112 cod. civ., in quanto non determina la
sostituzione di un soggetto giuridico ad un altro nella titolarità dei rapporti pregressi, ma solo
modifica gli assetti azionari interni sotto il profilo della loro titolarità, ferma restando la soggettività
giuridica di ogni società anche se totalmente eterodiretta.
Cass. civ. Sez. lavoro, 07-03-2013, n. 5678
È configurabile il trasferimento di un ramo di azienda nel caso in cui la cessione abbia ad oggetto
anche solo un gruppo di dipendenti stabilmente coordinati ed organizzati tra loro, la cui capacità
operativa sia assicurata dal fatto di essere dotati di un particolare "know how" (o, comunque,
dall'utilizzo di "copyright", brevetti, marchi, etc.), con la conseguenza che la cessione realizza la
successione legale nel rapporto di lavoro del cessionario senza bisogno di consenso dei contraenti
ceduti.
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Cass. civ. Sez. lavoro, 13-02-2013, n. 3537
In materia di trasferimento d'azienda, l'art. 47 della legge n. 428 del 1990 (nel testo applicabile
"ratione temporis"), nel prevedere l'obbligo del cedente e del cessionario di comunicare,
tempestivamente e per iscritto, alle organizzazioni sindacali - oltre alla data del trasferimento, alle
conseguenze per i lavoratori e alle eventuali misure nei confronti degli stessi - i motivi della
cessione, non impone anche di indicare, nell'atto, le ragioni giustificatrici della decisione,
assolvendo la suddetta comunicazione a sole finalità informative, allo scopo di consentire alle
organizzazioni sindacali di scegliere se richiedere o meno l'esame congiunto e, in caso positivo, di
parteciparvi in modo informato.
Cass. civ. Sez. lavoro, 31-01-2013, n. 2281
In tema di pubblico impiego, i due termini utilizzati dall'art. 31 del d.lgs. 30 marzo 2001, n.
165 (disciplinante il passaggio diretto di personale tra amministrazioni diverse) ai fini
dell'applicazione dell'art. 2112 cod. civ., cioè quelli di trasferimento o di conferimento di attività,
esprimono, attraverso la loro ampia valenza semantica, la volontà del legislatore di comprendere
nello spettro applicativo della suddetta disposizione - in funzione della tutela dei dipendenti
pubblici addetti all'attività trasferite - ogni vicenda traslativa riguardante un'attività svolta dal
soggetto pubblico a prescindere dallo strumento tecnico adoperato. (Nella specie, attraverso lo
strumento della concessione erano state affidate attività del CONI all'Azienda autonoma dei
Monopoli di Stato; in applicazione del principio di cui in massima, la S.C. ha ritenuto ininfluente lo
strumento prescelto, operando in ogni caso il trasferimento del personale).
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20. IL POTERE DISCIPLINARE DEL DATORE DI LAVORO
Cons. Stato Sez. III, 22-01-2014, n. 339
Le garanzie del lavoratore previste dall'art. 7 della legge n. 300 del 1970 (Statuto dei lavoratori) non
implicano per il datore di lavoro un dovere autonomo di convocare il dipendente per l'audizione
orale, essendo tale obbligo correlato alla richiesta del lavoratore di essere sentito di persona; ne
consegue che le discolpe fornite dall'interessato per iscritto consumano il suo diritto di difesa se nel
suo scritto non sia manifestata la volontà di essere sentito di persona, ovvero emerga la rinuncia a
tale facoltà o la richiesta appaia ambigua e priva di univocità.
Cass. civ. Sez. lavoro, 18-11-2013, n. 25824
80
Al fine di stabilire in concreto l'esistenza di una giusta causa di licenziamento, che deve rivestire il
carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed, in particolare di
quello fiduciario, e la cui prova grava sul datore di lavoro, è necessario valutare la gravità dei fatti
ascritti al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze
nelle quali sono stati posti in essere ed all'intensità dell'elemento intenzionale. Altresì, occorre
valutare la proporzionalità fra tali atti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell'elemento
fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare
o meno la massima sanzione disciplinare.
Cass. civ. Sez. lavoro, 16-10-2013, n. 23528
In tema di procedimento disciplinare a carico del lavoratore, ove quest'ultimo eserciti il proprio
diritto di difesa chiedendo espressamente di essere sentito nei termini di legge, il datore di lavoro ha
l'obbligo della sua audizione e l'accertamento che le modalità di convocazione del lavoratore non
siano contrarie a buona fede o alla lealtà contrattuale è rimessa al giudice di merito, la cui
valutazione è insindacabile se congruamente motivata. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto priva di vizi
logici o giuridici la decisione del giudice di merito che aveva escluso la lesione del diritto di difesa
nel caso di dipendente postale in servizio a Cremona, convocato per l'audizione presso la direzione
regionale risorse umane di Milano, ove aveva sede l'organo preposto alla gestione
dell'intero procedimento disciplinare).
Cass. civ. Sez. lavoro, 11-10-2013, n. 23172
In materia disciplinare, la comunicazione dei giorni nei quali la sanzione disciplinare della
sospensione dal lavoro e dalla retribuzione deve essere scontata non è vincolata, in mancanza di
diversa indicazione contrattuale, ad alcuna formalità. Ne consegue che, comunicata per iscritto
l'irrogazione della sanzione della sospensione dal lavoro, l'indicazione dei giorni in cui essa dovrà
essere applicata può essere fatta verbalmente dal datore di lavoro.
Cass. civ. Sez. lavoro, 18-09-2013, n. 21349
In materia di pubblico impiego privatizzato, nel caso di impugnativa di sanzione
disciplinare innanzi al collegio arbitrale di disciplina, ai sensi dell'art. 59 deld.lgs. 3 febbraio 1993,
n. 29 (come modificato dall'art. 27 del d.lgs. 23 dicembre 1993, n. 546 ed applicabile "ratione
temporis"), la decisione ha natura rituale, come tale disciplinata dagli artt. 827 e ss. cod. proc. civ.,
sicché competente sull'impugnativa del lodo non è il tribunale, nella cui circoscrizione l'arbitrato ha
avuto sede, ma la corte d'appello nella cui circoscrizione è la sede dell'arbitro.
Cass. civ. Sez. lavoro, 10-07-2013, n. 17130
81
In tema di sospensione cautelare dal servizio nell'impiego pubblico, l'art. 40 del c.c.n.l. 1994 - 1997
per le amministrazioni autonome dello Stato, nel prevedere che quanto corrisposto a titolo
d'indennità al dipendente (nella specie, vigile del fuoco) nel periodo della suddetta sospensione
dev'essere conguagliato con quanto dovuto se il lavoratore fosse restato in servizio solo in caso di
proscioglimento con formula piena, ha innovato rispetto alla previgente disciplina di cui
all'art. 96, d.P.R. n. 3 del 1957, che permetteva il conguaglio in tutte le ipotesi di
proscioglimento disciplinare. Ne consegue che le nuove disposizioni, trasformando la sospensione
cautelare della retribuzione in provvedimento definitivo, ossia in pena disciplinare, non si applicano
agli illeciti disciplinari commessi - come nella specie - anteriormente alla sua entrata in vigore.
Cass. civ. Sez. lavoro, 14-03-2013, n. 6501
In materia disciplinare, poiché gli artt. 240 e 333 cod. proc. pen. riguardano esclusivamente la
materia penale, nessuna norma di legge vieta che l'esercizio del potere disciplinare del datore di
lavoro possa essere sollecitato a seguito di scritti anonimi, restando escluso solo che questi possano
essere lo strumento di prova dell'illecito, né un simile divieto può desumersi dal generale principio
di correttezza e buona fede, che costituisce un metro di valutazione dell'adempimento degli obblighi
contrattuali e non anche una loro autonoma fonte.
Cass. civ. Sez. lavoro, 13-03-2013, n. 6337
Nel procedimento disciplinare, sebbene l'art. 7 della legge 25 maggio 1970, n. 300, non preveda un
obbligo per il datore di lavoro di mettere spontaneamente a disposizione del lavoratore, nei cui
confronti sia stata elevata una contestazione, la documentazione su cui essa si basa, egli è però
tenuto, in base ai principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, ad offrire in
consultazione i documenti aziendali all'incolpato che ne faccia richiesta, laddove l'esame degli stessi
sia necessario per predisporre un'adeguata difesa.
Cass. civ. Sez. Unite, 11-03-2013, n. 5942
L'art. 13, comma secondo, del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, nel prevedere la possibilità del
trasferimento d'ufficio di un magistrato ad altra sede o la destinazione dello stesso ad altre funzioni,
non contempla l'irrogazione di una sanzione, a titolo definitivo, bensì l'applicazione di una misura
cautelare, per sua natura provvisoria e destinata ad operare fino alla definizione del giudizio di
merito, sicché tale norma non pone alcuna necessaria correlazione tra la misura "de qua" e la
sanzione disciplinare di cui l'incolpato risulti astrattamente passibile (salva la condizione che quella
irrogabile nel caso di specie risulti diversa sia dall'ammonimento che dalla rimozione), non
configurando, pertanto, la prima una sorta di espiazione anticipata della seconda, con conseguente
necessità di una loro corrispondenza. Ne deriva che non integra alcun "demansionamento" del
magistrato incolpato la decisione adottata - in sede cautelare - dal giudice disciplinare, allorché
82
esso, pur optando per la misura del trasferimento ad altra sede con conservazione delle precedenti
funzioni, abbia privato temporaneamente l'incolpato, presso il nuovo ufficio, dell'esercizio delle
funzioni direttive o semidirettive precedentemente espletate.
Cass. civ. Sez. lavoro, 01-03-2013, n. 5147
Posto il divieto di sospensione unilaterale del rapporto di lavoro da parte del datore fuori dalle
ipotesi previste dalla legge e dalla contrattazione collettiva o comunque fuori da circostanze
eccezionali, spetta al lavoratore che abbia subìto un periodo di sospensione cautelare facoltativa
eccedente rispetto a quello della sospensione irrogata a seguito di procedimento disciplinare la
retribuzione maturata nel periodo eccedente, al netto degli assegni alimentari percepiti.
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21. I LICENZIAMENTI INDIVIDUALI
a) Licenziamento per giusta causa
Cass. civ. Sez. lavoro, 06-12-2013, n. 27390
In merito al rapporto di lavoro subordinato, il datore di lavoro, allorché abbia già intimato al
lavoratore il licenziamento per una determinata causa o motivo, può legittimamente intimargli un
secondo licenziamento, fondato su una diversa causa o motivo, restando quest'ultimo del tutto
autonomo e distinto rispetto al primo. Ne deriva che entrambi gli atti di recesso sono in sé
astrattamente idonei a raggiungere lo scopo della risoluzione del rapporto, dovendosi ritenere il
secondo licenziamento produttivo di effetti solo nell'ipotesi cui venga riconosciuto invalido od
inefficace il precedente.
Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 03-12-2013, n. 27057
In materia di licenziamento per assenza ingiustificata. Il dipendente in ferie non è tenuto a
comunicare la sua dimora temporanea ed i successivi eventuali mutamenti. La norma contrattuale
(art. 23 ccnl per il personale dipendente dalle amministrazioni del Comparto Regioni - Autonomie
locali) invocata tutela il diritto del datore di lavoro di conoscere il luogo ove inviare comunicazioni
al dipendente nel corso del rapporto di lavoro e non già, stante la natura costituzionalmente tutelata
del bene, ivi comprese le connesse esigenze di privacy, durante il legittimo godimento delle ferie
(che il lavoratore è libero, salvo diverse pattuizioni, di godere secondo le modalità e nelle località
che ritenga più congeniali al recupero delle sue energie psicofisiche), risolvendosi l'opposta
interpretazione in una compressione del diritto alle ferie, costringendo il lavoratore in viaggio non
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solo a far conoscere al datore di lavoro i luoghi e tempi dei suoi spostamenti, ma anche ad una
inammissibile e gravosa attività di comunicazione formale, magari giornaliera, dei suoi spostamenti.
Il lavoratore è infatti libero di scegliere le modalità (e località) di godimento delle ferie che ritenga
più utili (salva la diversa questione dell'obbligo di preservare la sua idoneità fisica, Cass. sez. un. n.
1892/82), mentre la reperibilità del lavoratore può essere oggetto di specifico obbligo disciplinato
dal contratto individuale o collettivo del lavoratore in servizio ma non già del lavoratore in ferie,
salvo specifiche difformi pattuizioni individuali o collettive.
Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 25-11-2013, n. 26290
Il lavoratore al quale sia contestato in sede disciplinare di avere svolto un altro lavoro durante
un'assenza per malattia ha l'onere di dimostrare la compatibilità dell'attività con la malattia
impeditiva della prestazione lavorativa contrattuale e la sua inidoneità a pregiudicare il recupero
delle normali energie psicofisiche, restando peraltro le relative valutazioni riservate al giudice del
merito all'esito di un accertamento da svolgersi non in astratto ma in concreto (così Cass. 19
dicembre 2000, n. 15916 ed in senso conforme Cass. 13 aprile 1999, n. 3647).
Cass. civ. Sez. lavoro, 31-10-2013, n. 24574
Nell'ipotesi in cui al lavoratore siano state contestate più infrazioni, alcune delle quali siano di per
sè sole sufficienti a giustificare la sanzione irrogata, la validità del provvedimento sanzionatorio non
è inficiata dal fatto che determinate infrazioni, fra quelle contestate dal datore di lavoro, non
risultino provate in giudizio, ove lo stesso giudice - al quale compete ogni valutazione circa la
proporzionalità della sanzione inflitta - fornisca logica spiegazione della ritenuta proporzionalità fra
la sanzione in concreto irrogata dal datore di lavoro e la violazione dei doveri del lavoratore della
quale sia stata fornita prova certa.
Cass. civ. Sez. lavoro, 11-10-2013, n. 23172
La costante, ingiustificata e rilevante prestazione inferiore rispetto a quella dei colleghi e il rifiuto di
abbandonare il posto di lavoro nonostante la preventiva notificazione della sanzione disciplinare
della sospensione dal servizio e dalla retribuzione costituiscono condotte idonee a legittimare il
recesso per giusta causa.
Cass. civ. Sez. lavoro, 30-09-2013, n. 22322
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In tema di licenziamento per giusta causa e di indennità sostitutiva del preavviso. Alla stregua di
una interpretazione letterale e logico-sistematica dell'art. 2118 cod. civ.. nel contratto di lavoro a
tempo indeterminato il preavviso non ha efficacia reale - che comporta, in mancanza di accordo tra
le parti circa la cessazione immediata del rapporto, il diritto alla prosecuzione del rapporto stesso e
di tutte le connesse obbligazioni fino alla scadenza del termine - ma efficacia obbligatoria. Ne
consegue che, nel caso in cui una delle parti eserciti la facoltà di recedere con effetto immediato, il
rapporto si risolve altrettanto immediatamente, con l'unico obbligo della parte recedente di
corrispondere l'indennità sostitutiva e senza che da tale momento possano avere influenza eventuali
avvenimenti sopravvenuti, a meno che la parte recedente, nell'esercizio di un suo diritto potestativo,
acconsenta, avendone interesse, alla continuazione del rapporto lavorativo, protraendone l'efficacia
sino al termine del periodo di preavviso.
Da tanto consegue anche che l'indennità sostitutiva del preavviso, per le ragioni sottese a tale
istituto, non assume portata compensativa delle retribuzioni perdute per effetto del recesso, ma
costituisce un'indennità di natura retributiva contrattualmente determinata, come tale non
suscettibile di riduzione in costanza di un aliunde perceptum.
Cass. civ. Sez. lavoro, 18-09-2013, n. 21362
L'esercizio da parte del lavoratore del diritto di critica nei confronti del datore di lavoro, con
modalità tali che, superando i limiti della continenza sostanziale (nel senso di corrispondenza dei
fatti alla verità, sia pure non assoluta ma soggettiva) e formale (nel senso di misura nell'esposizione
dei fatti), si traducano in una condotta lesiva del decoro dell'impresa datoriale - suscettibile di
provocare, con la caduta della sua immagine, anche un danno economico in termini di perdita di
commesse e di occasioni di lavoro - è comportamento idoneo a ledere definitivamente la fiducia che
sta alla base del rapporto di lavoro, integrando la violazione del dovere scaturente dall'art. 2105 cod.
civ., e può costituire giusta causa di licenziamento.
Cass. civ. Sez. lavoro, 03-09-2013, n. 20158
In tema di licenziamento per giusta causa, è infondato il motivo di ricorso in forza del quale il
lavoratore si dolga dell'illegittimità della sospensione cautelare dal servizio, disposta ai sensi
dell'art. 41 del CCNL della sanità, in conseguenza della sentenza di condanna dello per il reato di
spaccio di sostanze stupefacenti. Invero, l'art. 41 CCNL della sanità contiene un'elencazione delle
condotte legittimanti l'irrogazione della sanzione disciplinare del licenziamento per giusta causa,
avente valore puramente indicativo e certamente non tassativo, laddove, il fondamento del recesso
possa individuarsi in un comportamento di gravità tale da ledere il vincolo fiduciario tra le parti.
Invero, la circostanza per la quale il datore di lavoro sappia che un proprio dipendente, addetto a
mansioni così delicate, come quelle che riguardano una casa di cura per anziani e soggetti non
autosufficienti, sia stato condannato per spaccio di stupefacenti, appare certamente idonea a
rompere il vincolo fiduciario tra le parti, esponendo l'ambiente di lavoro ad eventuali danni e
ripercussioni, potenzialmente molto negative, qualora l'anzidetta circostanza giungesse a
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conoscenza dei pazienti o dei parenti degli stessi, che contano sull'affidabilità del personale della
struttura per garantire la salvaguardia ed il benessere dei ricoverati.
Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 08-02-2013, n. 3058
In tema di malattia e licenziamento disciplinare, è legittimo il licenziamento disciplinare emesso
senza la preventiva audizione del lavoratore, il quale per motivi "depressivi" aveva più volte
procrastinato l'incontro. L'indisponibilità ripetuta per motivi di salute non deve essere usata dal
lavoratore come mezzo dilatorio per rimandare sistematicamente il provvedimento disciplinare e
paralizzare, così, il potere disciplinare del datore di lavoro. Infatti, "nulla si poteva obiettare alla
Società appellante che si era mostrata sempre disponibile (per ben quattro volte) affinché
l’appellato potesse esercitare il diritto di difesa"; inoltre, la malattia (stato depressivo) "non
appariva, in concreto, aver impedito fisicamente al lavoratore di effettuare il colloquio, né di
ragguagliare adeguatamente il rappresentante sindacale sulle giustificazioni da fornire rispetto
ai fatti contestati".
Trib. Milano Sez. lavoro, 18-07-2013
Il principio della immutabilità della contestazione dell'addebito disciplinare mosso al lavoratore ai
sensi dell'art. 7, legge n. 300/1970 (Statuto dei lavoratori), preclude al datore di lavoro di licenziare
per altri motivi, diversi da quelli contestati, ma non vieta di considerare fatti non contestati e situati
a distanza anche superiore ai due anni dal recesso, quali circostanze confermative della
significatività di altri addebiti posti a base del licenziamento, al fine della valutazione della
complessiva gravità, sotto il profilo psicologico, delle inadempienze del lavoratore e della
proporzionalità o meno del correlativo provvedimento sanzionatorio del datore di lavoro.
Cass. civ. Sez. lavoro, 16-07-2013, n. 17370
La previsione di ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta in un contratto collettivo, non
vincola il Giudice, il quale deve sempre verificare, stante la inderogabilità della disciplina dei
licenziamenti, la conformità di quella previsione alla nozione di giusta causa ex art. 2119 c.c. e se,
in ossequio al principio generale di ragionevolezza e di proporzionalità, il fatto addebitato sia di
entità tale da legittimare il recesso, tenendo conto, altresì, dell'elemento intenzionale che ha sorretto
la condotta del lavoratore, salvo il caso in cui il trattamento contrattuale sia a questo più favorevole.
Cass. civ. Sez. lavoro, 07-05-2013, n. 10552
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Rientra tra i normali obblighi di correttezza e diligenza nello svolgimento del rapporto di lavoro
anche quello che fa carico al lavoratore di assicurarsi che impedimenti nell'espletamento della
prestazione, seppure legittimi, non arrechino alla controparte datoriale un pregiudizio ulteriore, per
effetto di inesatte comunicazioni che generino un legittimo affidamento in ordine alla effettiva
ripresa della prestazione lavorativa. (In applicazione di tale principio, la Suprema Corte ha
confermato la decisione impugnata, che aveva ritenuto legittimo il licenziamento disciplinare per
assenza ingiustificata dal lavoro per il tempo previsto dal contratto collettivo, nei confronti di un
lavoratore che, pur temporaneamente impossibilitato per ragioni di salute all'espletamento della
prestazione, non aveva rispettato il termine di ripresa del lavoro indicato nel certificato di malattia
inviato al datore, ma quello indicato in altro certificato non inviato).
Cass. civ. Sez. lavoro, 28-03-2013, n. 7819
La giusta causa di licenziamento di un cassiere di banca, affidatario di somme anche rilevanti,
dev'essere apprezzata con riguardo non soltanto all'interesse patrimoniale della datrice di lavoro ma
anche, sia pure indirettamente, alla potenziale lesione dell'interesse pubblico alla sana e prudente
gestione del credito. Priva di rilievo risulta la deduzione del ricorrente in ordine alla esistenza ed
alla efficacia scriminante della prassi aziendale invocata dal lavoratore.
Cass. civ. Sez. lavoro, 26-03-2013, n. 7499
L'invio di un esposto-denuncia ad enti preposti alla tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori
da parte di un dipendente addetto al controllo ed al collaudo di una caldaia oggetto di interventi di
riparazione, dei quali nell'esposto si denunciava l'inadeguatezza, integra giusta causa di recesso, nel
caso in cui i fatti denunciati si rivelino infondati in esito ad un'ispezione dell'ente competente alla
verifica dell'impianto.
Cass. civ. Sez. lavoro, 22-03-2013, n. 7311
L'assoggettamento del licenziamento per motivi disciplinari alle garanzie procedimentali previste
dai primi tre commi dell'art. 7 Statuto dei lavoratori (legge 20 maggio 1970, n. 300) non trova
deroga nel contratto di lavoro a tempo determinato, nemmeno per quanto riguarda la forma scritta
della contestazione delle infrazioni, salva restando la rilevanza dell'apposizione del termine al
relativo rapporto, al diverso fine di escludere, in caso d'illegittimità del licenziamento, l'esigenza di
una tutela reale del lavoratore mediante reintegrazione nel posto di lavoro.
Cass. civ. Sez. lavoro, 14-03-2013, n. 6501
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Non costituisce giusta causa o giustificato motivo di licenziamento l'avere il dipendente allegato
alla denuncia o all'esposto presentati all'Autorità Giudiziaria documenti aziendali, aventi ad oggetto
fatti di potenziale rilevanza penale accaduti presso l'azienda.
Cass. civ. Sez. lavoro, 18-02-2013, n. 3912
Ove una disposizione del contratto collettivo faccia riferimento alla sentenza penale di condanna
passata in giudicato, come atto idoneo a consentire il licenziamento senza preavviso, il giudice di
merito può, nell'interpretare la volontà delle parti collettive espressa nella clausola contrattuale,
ritenere che gli agenti contrattuali, nell'usare l'espressione "sentenza di condanna", si siano ispirati
al comune sentire che a questa associa la sentenza c.c. "di patteggiamento" ex art. 444 c.p.p. Tale
equiparazione non esonera dall'ulteriore indagine della idoneità dei fatti a ledere irrimediabilmente
il vincolo di fiducia con il lavoratore.
Cass. civ. Sez. lavoro, 30-01-2013, n. 2168
I comportamenti tenuti dal lavoratore nella vita privata ed estranei perciò all'esecuzione della
prestazione
lavorativa,
se,
in
genere,
sono
irrilevanti,
possono
tuttavia
costituire giusta causa di licenziamento allorché siano di natura tale da compromettere la fiducia del
datore di lavoro nel corretto espletamento del rapporto, in relazione alle modalità concrete del fatto
e ad ogni altra circostanza rilevante in relazione alla posizione delle parti, al grado di affidamento
richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, nonché alla portata soggettiva del fatto stesso.
(Nella specie il giudice di merito, con la sentenza confermata dalla S.C., aveva ritenuto legittimo
il licenziamento per giusta causa intimato a un dipendente postale che aveva patteggiato una pena
per il reato di violenza sessuale, attribuendo rilevanza al "forte disvalore sociale" dei fatti e all'eco
avutane nella stampa, nonché alla posizione del dipendente, quale coordinatore di circa trenta unità
addette al recapito, in ragione della responsabilità e preminenza rispetto ai componenti della
squadra, attribuendo rilievo al fatto che le condotte poste in essere fossero connotate da un "abuso
delle funzioni di guida e responsabilità connesse alla veste di capo della comunità religiosa").
b) Licenziamento per giustificato motivo
Cass. civ. Sez. lavoro, 08-11-2013, n. 25197
Il Giudice del merito, adito per la declaratoria di illegittimità del licenziamento irrogato al
prestatore per soppressione delle mansioni cui il medesimo era addetto, è tenuto al controllo della
effettiva sussistenza del giustificato motivo oggettivo posto alla base del recesso datoriale, mentre
non può sindacare la scelta dei criteri di gestione dell'impresa, in quanto espressione della libertà di
iniziativa economica tutelata dall'art. 41 della Costituzione. Il datore di lavoro, in ogni caso, ha
l'onere di provare l'impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse da quelle
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precedentemente svolte, pur esigendosi dallo stesso lavoratore una collaborazione nell'accertamento
di un suo possibile reimpiego nel contesto lavorativo, mediante l'allegazione dell'esistenza di altri
posti di lavoro nei quali poteva essere utilmente collocato, conseguendo a tale allegazione l'onere
della parte datoriale di provare la non utilizzabilità dei posti predetti.
Cass. civ. Sez. lavoro, 28-10-2013, n. 24259
E' legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo del dipendente distaccato presso
l'azienda dove è stato esternalizzato il servizio a cui era adibito, in assenza di alternative.
Cass. civ. Sez. lavoro, 23-10-2013, n. 24037
Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo determinato da ragioni inerenti all'attività
produttiva è una scelta riservata all'imprenditore, quale responsabile della corretta gestione
dell'azienda anche dal punto di vista economico ed organizzativo. Ne discende che una siffatta
scelta, quando risulti effettiva e non simulata o pretestuosa, non è assoggettabile al sindacato del
giudice al fine di verificarne la congruità e l'opportunità. La ricorrenza del giusto motivo di
licenziamento deve ritenersi sussistente anche nell'ipotesi di riassetto organizzativo dell'azienda,
posto in essere dall'imprenditore al fine di una gestione più economica della stessa.
L'impossibilità di utilizzare il lavoratore in altre mansioni, compatibili con la qualifica rivestita,
deve essere provata dal datore di lavoro, con riferimento all'organizzazione aziendale esistente
all'epoca del licenziamento ed anche attraverso fatti positivi tali da determinare presunzioni
semplici. Per mansioni equivalenti a quelle espletate devono intendersi quelle oggettivamente
comprese nella stessa area professionale e salariale e che, soggettivamente, si armonizzano con la
professionalità già acquisita dal lavoratore nel corso del rapporto, in modo da impedirne la
dequalificazione. In applicazione dell'art. 2103 c.c., è illegittima la modifica in peius della mansioni
del lavoratore, salvo che sia stata disposta con il consenso dello stesso al fine di evitare il
licenziamento o la messa in cassa integrazione. In tal caso, infatti, la diversa utilizzazione del
lavoratore non contrasta con l'esigenza di dignità e libertà della persona, configurando una
soluzione più favorevole per il dipendente.
Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 10-10-2013, n. 23068
In tema di licenziamento per inidoneità fisica del dipendente a svolgere le mansioni assegnategli, è
pacifico in giurisprudenza che la dichiarazione di inidoneità fisica in esito alle procedure di cui
all'art. 5 dello Statuto dei lavoratori non ha carattere di definitività, potendo il giudice della
controversia pervenire a diverse conclusioni sulla base della consulenza tecnica d'ufficio disposta
nel giudizio di merito, il datore di lavoro, nel momento in cui opta per l'immediato licenziamento
del dipendente, anzichè chiedere, secondo le normali regole contrattuali, la risoluzione giudiziaria
del rapporto di lavoro per sopravvenuta impossibilità della prestazione, agisce a suo rischio, che
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rientra nel principio del "rischio d'impresa", secondo una scelta del legislatore chiaramente rivolta a
tutela del soggetto più debole.
Inoltre, questa Corte ha ribadito (Cass. Sez. lav. n. 2953 del 4/4/1997) che "nel caso di contrasto tra
il contenuto del certificato del medico curante e gli accertamenti compiuti dal medico di controllo, il
giudice del merito deve procedere alla loro valutazione comparativa al fine di stabilire (con giudizio
che è insindacabile in sede di legittimità se adeguatamente motivato) quale delle contrastanti
motivazioni sia maggiormente attendibile, atteso che le norme che prevedono la possibilità di
controllo della malattia, nell'affidare la relativa indagine ad organi pubblici per garantirne
l'imparzialità, non hanno inteso attribuire agli atti di accertamento compiuti da tali organi una
particolare ed insindacabile efficacia probatoria che escluda il generale potere di controllo del
giudice".
Cass. civ. Sez. lavoro, 06-06-2013, n. 14319
La netta riduzione dell'attività amministrativa cui sia addetta una dipendente, provata dalla società
datrice di lavoro e accompagnata dal rifiuto della lavoratrice di accettare l'offerta di un impiego a
tempo parziale, costituisce giustificato motivo oggettivo di licenziamento nel caso in cui sia
accertata l'impossibilità di adibirla ad altre mansioni equivalenti.
Cass. civ. Sez. lavoro, 03-06-2013, n. 13918
La nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente, per la particolare configurazione del
rapporto di lavoro dirigenziale, non si identifica con quella di giusta causa o giustificato motivo e,
conseguentemente, fatti o condotte non integranti una giusta causa o un giustificato motivo
di licenziamento con riguardo ai generali rapporti di lavoro subordinato ben possono giustificare
il licenziamento del dirigente. Ne deriva che, ai fini della giustificatezza del licenziamento in
parola, può rilevare qualsiasi motivo, purché apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il
legame di fiducia con il datore di lavoro, nel cui ambito rientra l'ampiezza dei poteri attribuito al
dirigente.
Cass. civ. Sez. lavoro, 20-05-2013, n. 12233
Il superamento dei termini previsti per il comporto e l'aspettativa rappresenta la condizione
sufficiente a legittimare il recesso datoriale, escludendo ogni necessità di prova, da parte del datore
di lavoro, sia in ordine al giustificato motivo oggettivo, sia in relazione all'impossibilità
sopravvenuta della prestazione lavorativa che a quella della correlativa impossibilità di adibire il
lavoratore a mansioni diverse.
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Cass. civ. Sez. lavoro, 05-04-2013, n. 8440
Nel caso di licenziamento per avvenuto superamento del periodo di comporto, che è assimilabile
al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, poiché il dipendente ha diretta conoscenza
degli eventi che legittimano il potere del datore di lavoro di risolvere il contratto, non è necessario
che l'atto di recesso indichi in maniera analitica i singoli giorni di assenza.
Cass. civ. Sez. lavoro, 11-03-2013, n. 5963
L'obbligo
di
ripescaggio
gravante
sul
datore
di
lavoro
in
caso
di licenziamento per giustificato motivo oggettivo va riferito esclusivamente alle attitudini ed alla
formazione di cui il lavoratore è dotato al momento del licenziamento, con esclusione, in capo al
datore, dell'obbligo di fornire tale lavoratore di un'ulteriore o diversa formazione per salvaguardare
il suo posto di lavoro (nella specie, è stato reputato legittimo il licenziamento irrogato al dipendente,
addetto al reparto manutenzione carrozzeria dei veicoli della società, benché egli fosse in possesso
della patente K, necessaria per la guida di tutti i veicoli in dotazione alla società).
Trib. Bologna Sez. lavoro, 18-02-2013
Nel licenziamento individuale deve escludersi la sussistenza di un giustificato motivo oggettivo
quando, al di là di ogni eventuale riferimento a ragioni relative all'impresa, il recesso datoriale sia
fondato su un comportamento riconducibile alla sfera volitiva del lavoratore, lesivo dei suoi doveri
contrattuali, ed esprima, pertanto, un giudizio negativo nei suoi confronti, tale da esigere il rispetto
dell'iter prescritto dall'art. 7 della legge n. 300 del 1970 (Statuto dei lavoratori). In tale contesto non
assume alcun rilievo la circostanza che la valutazione sfavorevole non abbia ad oggetto le qualità
strettamente tecniche del lavoratore, ma investa altri aspetti dell'attività professionale o della sua
personalità, concorrenti ad integrarne il patrimonio professionale.
Cass. civ. Sez. lavoro, 11-02-2013, n. 3175
Per licenziare un dirigente in tempo di crisi è sufficiente il criterio della giustificatezza, anche in
mancanza del giustificato motivo oggettivo. Inoltre, il principio di libera recedibilità del rapporto
con le figure dirigenziali non è intaccato dall'accenno all'impossibilità di trovare una diversa
collocazione al manager fatto dall'azienda nella comunicazione di recesso, in quanto l'obbligo di
"repechage" non trova applicazione per i dirigenti.
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Cass. civ. Sez. lavoro, 02-01-2013, n. 6
È illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, qualora il datore di lavoro non provi
l'impossibilità di utilizzare la lavoratrice adibendola ad altre mansioni, a nulla rilevando il rifiuto da
questa opposto ad essere licenziata e poi assunta da altra impresa.
*
*
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22. I LICENZIAMENTI COLLETTIVI
Cass. civ. Sez. lavoro, 03-02-2014, n. 2298
La comunicazione di cui all'art. 4, comma 9, L. n. 223 del 1991, nella parte in cui fa obbligo al
datore di lavoro di indicare puntualmente le modalità con le quali sono stati applicati i criteri di
scelta dei lavoratori da licenziare, intende consentire ai lavoratori interessati, alle organizzazioni
sindacali e agli organi amministrativi di controllare la correttezza dell'operazione di collocamento in
mobilità e la rispondenza agli accordi raggiunti. A tal fine, dunque, non è sufficiente la trasmissione
dell'elenco dei lavoratori licenziati e la comunicazione dei criteri di scelta concordati con le
organizzazioni sindacali, né la predisposizione di un meccanismo di applicazione in via successiva
dei vari criteri, in quanto necessario controllare se tutti i dipendenti in possesso dei requisiti previsti
siano stati inseriti nella categoria da scrutinare, nonché, qualora i dipendenti siano in numero
superiore ai previsti licenziamenti, se siano stati correttamente applicati i criteri di valutazione
comparativa per la individuazione dei dipendenti da licenziare.
Cass. civ. Sez. lavoro, 11-10-2013, n. 23183
In occasione del collocamento del lavoratore in mobilità, ai sensi dell'art. 4 della legge 23 luglio
1991, n. 223, nel testo vigente "ratione temporis", il mancato rispetto dei termini di preavviso di cui
al comma nono (con il riconoscimento invece della corrispondente indennità) non determina
l'illegittimità del licenziamento, perché tale preavviso, avente la medesima funzione di quello
previsto dall'art. 2118 cod. civ., non può essere ricompreso nell'ambito delle norme procedurali, alla
cui violazione fanno riferimento gli artt. 4, comma 12, e 5, comma 3, della legge 223 cit. nel
comminare l'inefficacia del licenziamento.
Cass. civ. Sez. lavoro, 16-09-2013, n. 21076
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Per la scelta dei lavoratori da porre in cassa integrazione, la L. n. 223 del 1991, art. 1, comma 7,
prescrive che il datore di lavoro comunichi alle OO.SS. i criteri di scelta dei lavoratori da
sospendere, in relazione a quanto previsto dalla L. n. 164 del 1975, art. 5. Tale disposizione tutela,
nella gestione della cassa integrazione, i diritti dei singoli lavoratori e le prerogative delle OO.SS.
anche dopo l'entrata in vigore della disciplina del d.P.R. 10 giugno 2000, n. 218, la quale non
abroga o modifica le suddette disposizioni ma solo regola diversamente il procedimento
amministrativo, di rilevanza pubblica, di concessione di integrazione salariale.
Cass. civ. Sez. lavoro, 26-08-2013, n. 19576
In tema di licenziamenti collettivi, nella comunicazione scritta di cui all'art.4, comma 9, legge 23
luglio 1991, n. 223, il datore di lavoro deve indicare puntualmente i criteri di scelta dei lavoratori
licenziati o posti in mobilità e le modalità applicative dei criteri stessi e, quando il criterio di scelta
sia unico, il datore di lavoro deve in ogni caso specificarne le modalità di applicazione affinché la
comunicazione raggiunga un livello di adeguatezza idoneo a mettere in grado il lavoratore di
comprendere per quale ragione lui, e non altri colleghi, sia stato posto in mobilità o licenziato e
quindi di poter contestare il recesso datoriale; a tal fine, può essere idonea anche la comunicazione
dell'elenco dei lavoratori licenziati e del criterio di scelta del possesso dei requisiti per l'accesso alla
pensione di anzianità o di vecchiaia, in quanto la natura oggettiva del criterio rende superflua la
comparazione con i lavoratori privi del detto requisito.
Cons. Stato Sez. VI, 05-08-2013, n. 4084
Il sindacato del Giudice Amministrativo sul provvedimento di diniego dell'ammissione alla Cassa
integrazione guadagni, ordinaria o straordinaria, ha dei limiti connessi con l'ampio margine di
discrezionalità tecnica che caratterizza la valutazione dell'Ente previdenziale sul riconoscimento di
una situazione di crisi aziendale ai sensi dell'art. 1 della legge n. 164 del 1975 e, pertanto, le scelte
dell'Ente sono sindacabili soltanto se evidentemente illogiche, manifestamente incongruenti o
inattendibili ovvero viziate per palesi travisamenti in fatto.
Cass. civ. Sez. lavoro, 11-07-2013, n. 17177
In tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, non assume rilievo, ai fini
dell'esclusione della comparazione con i lavoratori di equivalente professionalità addetti alle unità
produttive non soppresse e dislocate sul territorio nazionale, la circostanza che il mantenimento in
servizio di un lavoratore appartenente alla sede soppressa esigerebbe il suo trasferimento in altra
sede, con aggravio di costi per l'azienda e interferenza sull'assetto organizzativo, atteso che, ove sia
mancato l'accordo sui criteri di scelta con le organizzazioni sindacali, operano i criteri legali
sussidiari previsti dall'art. 5, comma 1, della legge 23 luglio 1991, n. 223, che non contempla tra i
suoi parametri la sopravvenienza di costi aggiuntivi connessi al trasferimento di personale o la
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dislocazione territoriale delle sedi, rispondendo la regola legale all'esigenza di assicurare che i
procedimenti di ristrutturazione delle imprese abbiano il minor impatto sociale possibile e non
potendosi aprioristicamente escludere che il lavoratore, destinatario del provvedimento di
trasferimento a seguito del riassetto delle posizioni lavorative in esito alla valutazione comparativa,
preferisca una diversa dislocazione alla perdita del posto di lavoro.
Trib. Padova Sez. I, 17-06-2013
Il datore di lavoro che ricorre alla cassa integrazione guadagni straordinaria è gravato dall'onere di
provare il nesso di causalità fra la sospensione del singolo lavoratore e le ragioni per le quali la
legge gli riconosce il relativo potere di sospensione. Grava, invece, sul dipendente interessato dalla
procedura l'onere di provare il mancato rispetto, da parte del datore di lavoro, dei principi generali
di correttezza e buona fede nella scelta delle unità da sospendere, essendo a tal fine necessario
dimostrare non solo l'esistenza di diversi criteri di selezione, ma anche che la loro applicazione
avrebbe comportato la sospensione di altro dipendente, ovvero che la propria sospensione è stata
determinata da motivi discriminatori.
Cass. civ. Sez. lavoro, 27-05-2013, n. 13112
In caso di licenziamento collettivo per cessazione dell'attività, la circostanza che il licenziamento di
un lavoratore intervenga oltre la scadenza del termine di centoventi giorni dalla conclusione della
procedura di mobilità non impedisce al dipendente l'esercizio della facoltà di chiedere direttamente
all'ufficio del lavoro competente l'iscrizione nelle liste di mobilità, nel caso in cui il ritardo sia
dovuto a fatto imputabile al datore di lavoro, avendo, il termine assegnato al lavoratore per
formulare la richiesta d'iscrizione, natura ordinatoria, in quanto tale prorogabile, al cospetto di
adeguate giustificazioni del ritardo.
Cass. civ. Sez. lavoro, 15-05-2013, n. 11720
In tema di cassa integrazione guadagni, nel caso in cui il datore di lavoro abbia provveduto, in
favore dei lavoratori, all'anticipazione delle relative somme e l'INPS non abbia provveduto,
nonostante la domanda avanzata dall'avente diritto, al rimborso ai sensi dell'art. 12 del d.lgs.lgt. 9
novembre 1945, n. 788, ossia con il sistema del conguaglio tra i contributi dovuti e le prestazioni
corrisposte, ma abbia corrisposto direttamente le somme dovute, spettano su tale somma gli
interessi legali sin dalla data della domanda di rimborso.
Cass. civ. Sez. lavoro, 09-05-2013, n. 10985
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In caso di progetto imprenditoriale volto a ridimensionare l'organico dell'intero complesso aziendale
al fine di diminuire il costo del lavoro, il datore si può limitare ad indicare, nella comunicazione di
avvio della procedura di mobilità, il numero complessivo dei lavoratori eccedenti, suddiviso tra i
diversi profili professionali contemplati dalla classificazione del personale occupato nell'azienda,
soprattutto al cospetto di un accordo con i sindacati che adotti il criterio di scelta del possesso dei
requisiti per l'accesso alla pensione.
Cass. civ. Sez. lavoro, 20-03-2013, n. 6959
In tema di collocamento in mobilità e licenziamento collettivo, la comunicazione di avvio della
procedura ex art. 4, comma 3, della legge 23 luglio 1991, n. 223rappresenta una cadenza essenziale
per la proficua partecipazione alla cogestione della crisi da parte del sindacato e per la trasparenza
del processo decisionale del datore di lavoro; ne consegue che il lavoratore è legittimato a far valere
l'incompletezza dell'informazione, in quanto la comunicazione rituale e completa della mancanza di
alternative ai licenziamenti rappresenta, nell'ambito della procedura, una cadenza legale che, se
mancante, risulta ontologicamente impeditiva di una proficua partecipazione alla cogestione della
crisi da parte del sindacato.
Cass. civ. Sez. lavoro, 20-02-2013, n. 4186
In materia di licenziamenti collettivi, tra imprenditore e sindacati può intercorrere, secondo quanto
indicato dall'art. 5 della legge 23 Luglio 1991, n. 223, un accordo inteso a disciplinare l'esercizio del
potere di collocare in mobilità i lavoratori in esubero, stabilendo criteri di scelta anche difformi da
quelli legali, purché rispondenti a requisiti di obiettività e razionalità; in tale ottica, deve ritenersi
razionalmente giustificato il ricorso al criterio della maturazione dei requisiti per essere collocato in
pensione di anzianità, trattandosi di un criterio oggettivo che permette di scegliere, a parità di
condizioni, il lavoratore che subisce il danno minore dal licenziamento, potendo sostituire il reddito
da lavoro con il reddito da pensione.
Cass. civ. Sez. lavoro, 21-01-2013, n. 1315
In tema di licenziamenti collettivi, la disciplina dettata dall'art. 4 della legge n. 223 del
1991 prevede un'articolata procedimentalizzazione dei licenziamenti per riduzione di personale, che
ricomprende gli adempimenti informativi (relativi, tra l'altro, ai nominativi ed ai requisiti dei
lavoratori licenziati, ed alle modalità con cui sono stati applicati i criteri di scelta) previsti nei
confronti delle sole associazioni sindacali di categoria e della P.A.; ne consegue che, per la
compiutezza e autosufficienza del meccanismo descritto, deve escludersi l'applicazione analogica,
alla materia dei licenziamenti collettivi, dell'onere di comunicazione dei motivi, ai sensi dell'art. 2
legge n. 604 del 1996, al singolo lavoratore che ne faccia richiesta, mentre questi, quando non sia
aderente alle organizzazioni sindacali, può ottenere tali informazioni quanto meno dagli uffici
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pubblici destinatari della comunicazione e, ove essi non vi provvedano, attraverso l'ordine del
giudice emesso ex artt. 210 e 213 cod. proc. civ. nel corso del processo, senza che, pertanto, ne resti
leso il diritto del singolo lavoratore di non aderire ad associazioni sindacali.
Cass. civ. Sez. lavoro, 16-01-2013, n. 880
Nella comunicazione di apertura della mobilità l'impresa ha l'onere di specificare ogni elemento
idoneo ad incidere sull'assetto occupazionale e sulla effettiva necessità della procedura nonché a
garantire la certezza e la trasparenza delle scelte aziendali e la effettività del ruolo svolto dal
sindacato attraverso una completa e trasparente informazione preventiva. L'inosservanza di tale
onere si risolve in un inadempimento essenziale che non può esser sanato nei successivi incontri
sindacali né con le informazioni rese in tali contesti ed invalida la procedura.
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*
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23. LE DIMISSIONI DEL LAVORATORE
Cass. civ. Sez. lavoro, 19-09-2013, n. 21454
In tema di danno da errate informazioni della P.A., con riferimento al risarcimento del danno subito
dal lavoratore che si sia dimesso anticipatamente nella convinzione, derivante da erronea
informazione dell'INPS circa la congruità della sua posizione contributiva utile, di avere maturato il
diritto alla pensione di anzianità, benché sia da escludersi in via generale che l'ordinamento
imponga all'assicurato l'obbligo di verificare l'esattezza dei dati forniti dall'I.N.P.S., può trovare
applicazione il principio di cui all'art. 1227, comma secondo, cod. civ., che impone l'onere di
doverosa cooperazione della parte creditrice per evitare l'aggravamento del danno indotto dal
comportamento inadempiente del debitore, sicché l'assicurato deve essere risarcito in misura
diminuita, qualora abbia trascurato le espressioni cautelative usate dalla pubblica amministrazione e
idonee a far dubitare dell'esattezza dei dati esposti.
Cass. civ. Sez. V, 24-07-2013, n. 17986
Le somme corrisposte dal datore di lavoro, in aggiunta alle spettanze di fine rapporto, come
incentivo alle dimissioni anticipate del dipendente (cosiddetti incentivi all'esodo) non hanno natura
liberale né eccezionale, ma costituiscono reddito di lavoro dipendente, essendo predeterminate al
fine di sollecitare e rimunerare, mediante una vera e propria controprestazione, il consenso
del lavoratore alla risoluzione anticipata del rapporto. La causa di siffatte prestazioni, pertanto,
presupponendo una pattuizione, esclude che dette somme possano essere esentate dall'imposta,
quali "sussidi occasionali" che, a differenza degli incentivi programmati, sono concessi
96
estemporaneamente e graziosamente, in coincidenza con rilevanti esigenze personali e familiari
del lavoratore. Tali somme, pertanto, saranno assoggettate alla tassazione separata di cui all'art. 16,
comma primo, lettera a), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, non rientrando nell'esenzione di cui
all'art. 48, comma secondo, del medesimo d.P.R.
Cass. civ. Sez. lavoro, 02-07-2013, n. 16507
La clausola del contratto collettivo, la quale stabilisce che il lavoratore che al termine del periodo di
aspettativa non riprenda servizio senza giustificato motivo sia considerato dimissionario, è nulla, in
quanto stabilisce una causa di risoluzione del rapporto non prevista dalla legge.
App. Bologna Sez. lavoro, 14-06-2013
Accolta la domanda di annullamento delle dimissioni rassegnate dal lavoratore subordinato, deve
ritenersi legittima la determinazione in via equitativa del pregiudizio dal medesimo subito qualora
quantificato in una somma parametrata alla metà della retribuzione netta che avrebbe percepito nel
periodo di validità delle dimissioni, detratto l'importo erogato quale incentivo all'esodo. In tale
ipotesi, invero, il principio secondo cui l'annullamento di un negozio giuridico ha efficacia
retroattiva, non comporta il diritto del lavoratore alle retribuzioni maturate dalla data delle
dimissioni a quella della riammissione al lavoro, spettando esse solo dalla data della sentenza che
dichiara la illegittimità delle dimissioni.
Cass. civ. Sez. lavoro, 05-03-2013, n. 5413
A seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 29 del 1993, essendo il cd. rapporto di pubblico impiego
privatizzato regolato dalle norme del codice civile e dalle leggi civili sul lavoro, nonché dalle norme
sul pubblico impiego, solo in quanto non espressamente abrogate e non incompatibili,
le dimissioni del lavoratore costituiscono un negozio unilaterale recettizio, idoneo a determinare la
risoluzione del rapporto di lavoro dal momento in cui venga a conoscenza del datore di lavoro e
indipendentemente dalla volontà di quest'ultimo di accettarle, sicché non necessitano più, per
divenire efficaci, di un provvedimento di accettazione da parte della pubblica amministrazione.
*
*
24. L’ATTIVITA’ SINDACALE
Cons. Stato Sez. III, 13-01-2014, n. 97
97
*
Un sindacato è legittimato a difendere in sede giurisdizionale gli interessi di categoria dei soggetti
di cui ha la rappresentanza istituzionale o di fatto, solo quando venga invocata la violazione di
norme poste a tutela della intera categoria, non anche quando si verta su questioni concernenti
singoli iscritti ovvero su questioni capaci di dividere la categoria in posizioni contrastanti. Ciò in
quanto l'interesse collettivo della associazione sindacale deve identificarsi con l'interesse di tutti gli
appartenenti alla categoria unitariamente considerata e non con interessi di singoli associati o di
gruppi di associati; se difatti si riconoscesse all'associazione di categoria la legittimazione ad agire
anche in questi ultimi casi, si avrebbe una vera e propria sostituzione processuale in
violazione dell'art. 81 c.p.c., secondo cui nessuno può fare valere in giudizio in nome proprio un
diritto altrui se non nei casi espressamente previsti dalla legge.
Cass. civ. Sez. lavoro, 25-11-2013, n. 26286
E' antisindacale la condotta della parte datoriale che ometta di richiedere il nulla osta per il
licenziamento del lavoratore ai sensi della normativa di cui alla contrattazione collettiva nazionale
di categoria (nella specie CNLG), nella parte in cui prevede una procedura a garanzia dei lavoratori
per i casi di licenziamento. Ai fini della integrazione degli estremi della condotta antisindacale di
cui all'art. 28 dello Statuto dei Lavoratori (L. n. 300 del 1970) è, invero, sufficiente che tale
comportamento leda oggettivamente gli interessi collettivi di cui sono portatrici le organizzazioni
sindacali, non essendo all'uopo necessario uno specifico intento lesivo da parte del datore di lavoro.
Ciò che il giudice deve accertare è, dunque, la obiettiva idoneità della condotta denunciata a
produrre l'effetto che la citata diposizione intende impedire, ovvero la lesione della
libertà sindacale e del diritto di sciopero.
Cass. civ. Sez. lavoro, 20-08-2013, n. 19252
Lo strumento processuale di cui all'art. 28 dello Statuto dei Lavoratori è finalizzato a realizzare in
tempi rapidi il ripristino delle situazioni di violazione dei diritti di libertà e di attività sindacale, al
precipuo fine di favorire l'ordinato svolgimento del conflitto sociale, il che presuppone che le
organizzazioni sindacali ricorrano a tale strumento sulla base di scelte conformi ai generali canoni
della buona fede e della correttezza, che sono alla base dell'esecuzione dei contratti collettivi. Ne
consegue che non è conforme ai suddetti canoni la proposizione dell'azione ex art. 28 dello Statuto
prospettando come antisindacale il comportamento del datore di lavoro - nella specie consistito
nella predisposizione del periodo delle ferie annuali, senza la preventiva convocazione delle
organizzazioni sindacali - analogo a quello tenuto in precedenza (per circa venti anni), in assenza di
reazioni dei sindacati, assumendone il contrasto con una norma del contratto collettivo provinciale
applicabile nella specie, ma in concreto mai applicata nell'ambito dell'azienda interessata.
Cass. civ. Sez. lavoro, 31-07-2013, n. 18368
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Costituisce comportamento antisindacale la condotta del datore di lavoro che, in occasione di uno
sciopero, abbia sanzionato con il licenziamento senza preavviso il comportamento di tre lavoratori due dei quali rappresentanti sindacali - che si siano trattenuti, nella zona di passaggio dei carrelli,
cinque-sei minuti in più degli altri aderenti all'astensione dal lavoro, ove la maggior permanenza sia
imputabile alla discussione avviata con i rappresentanti dell'azienda (che avevano scelto detti
lavoratori come loro interlocutori) e nessun altro manifestante sia stato attinto da misure
disciplinari, neppure di tipo conservativo, sussistendo una sicura sproporzione, sia sul piano
oggettivo che soggettivo, tra l'addebito e la misura irrogata.
Corte cost., 23-07-2013, n. 231
È costituzionalmente illegittimo, per violazione agli artt. 2, 3 e 39 Cost., l'art. 19, comma 1, lett. b),
dello Statuto dei lavoratori, (legge n. 300 del 1970), recante le "Norme sulla tutela della libertà e
dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell'attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme
sul collocamento", nella parte in cui non prevede che la rappresentanza sindacale aziendale possa
essere costituita anche nell'ambito di associazioni sindacali che, quantunque non firmatarie dei
contratti collettivi applicati nell'unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione
relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori dell'azienda. Siffatta declaratoria di
incostituzionalità è finalizzata ad eliminare l'aporia indotta dall'esclusione dal godimento dei diritti
in azienda del sindacato non firmatario di alcun contratto collettivo, ma dotato dell'effettivo
consenso da parte dei lavoratori.
Cass. civ. Sez. lavoro, 09-07-2013, n. 16981
In tema di trasferimento del dirigente sindacale aziendale, l'art. 14 dell'accordo interconfederale
del 18 aprile 1966, la cui disciplina è stata estesa ai trasferimenti dei componenti delle r.s.u. dall'art.
5 del c.c.n.l. 7 maggio 2003 per l'industria metalmeccanica, disciplina generale, sezione 2, secondo
il quale, in caso di trasferimento, va avviata su richiesta dell'organizzazione dei lavoratori, una
procedura conciliativa entro sei giorni dalla notifica del provvedimento effettuata dall'associazione
datoriale, si interpreta nel senso che la mancata richiesta dell'esame conciliativo da parte del
sindacato dei lavoratori non rende operante, per l'inutile decorso del termine, il trasferimento del
dirigente r.s.u. ove sia intervenuto il preventivo diniego di nulla osta da parte del medesimo
sindacato, dovendosi ritenere una diversa interpretazione, che imponga di attivare in ogni caso - e,
dunque, anche in caso di diniego espresso - la procedura conciliativa a pena di operatività del
provvedimento
datoriale,
lesiva
della
tutela
dell'inamovibilità
sancita
dall'art.
22 statuto dei lavoratori, che non può essere derogato da una disciplina contrattuale peggiorativa.
Cass. civ. Sez. lavoro, 08-07-2013, n. 16930
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In tema di condotta antisindacale, l'eventuale natura plurioffensiva del comportamento datoriale,
che abbia dato luogo anche ad una lesione dell'interesse individuale del lavoratore, comporta
l'insorgere di due azioni - quella collettiva e quella individuale - distinte, autonome e senza
interferenze. Ne consegue che l'attualità della condotta antisindacale e la permanenza dei suoi effetti
- alla cui esistenza è subordinata la concessione del provvedimento repressivo - vanno accertate con
riferimento agli interessi di cui il sindacato è portatore esclusivo, senza che possano essere
condizionate dalle vicende dell'azione individuale eventualmente intrapresa.
Cass. civ. Sez. lavoro, 10-06-2013, n. 14511
Il datore di lavoro non è obbligato a trattare e stipulare contratti collettivi con tutte le organizzazioni
sindacali, rientrando nella propria autonomia negoziale la possibilità di sottoscrivere un nuovo
contratto con organizzazioni sindacali anche diverse da quelle che hanno trattato e sottoscritto il
precedente, ancora in corso. Costituisce, pertanto, condotta antisindacale solo l'uso distorto della
libertà negoziale della parte datoriale, qualora produttivo di un'apprezzabile lesione della
libertà sindacale dell'organizzazione esclusa.
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25. IL RAPPORTO PREVIDENZIALE
Cass. civ. Sez. lavoro, 27-01-2014, n. 1659
L'esclusione dall'iscrizione alla Cassa ingegneri ed architetti per il professionista, in relazione al
periodo in cui questi sia stato iscritto ad altra forma di previdenza obbligatoria, non opera per il solo
fatto dell'iscrizione dell'ingegnere od architetto ad altra Cassa, essendo necessario anche, ai fini
dell'esclusione, che il professionista abbia effettivamente svolto l'attività professionale tutelata
dall'altra Cassa ovvero il lavoro subordinato tutelato dall'INPS o da altre ente analogo.
Cass. pen. Sez. III, 19-12-2013, n. 3705
La punibilità della condotta prevista dal reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali
deve essere individuato nel mancato accantonamento delle somme dovute all'Istituto (in nome e per
conto del quale tali somme sono state trattenute) di modo che non puoi ipotizzarsi l'impossibilità di
versamento per fatti sopravvenuti, quali potrebbe essere la situazione di illiquidità della società
rappresentata.
Cass. civ. Sez. lavoro, 02-12-2013, n. 26962
100
In materia di previdenza forense, il parziale adempimento dell'obbligo contributivo e, dunque, il
versamento di una contribuzione inferiore al dovuto, influisce certamente sulla misura della
pensione, atteso che la inadempienza, se riferita agli anni utili per la determinazione della base
pensionistica, abbassa la media del reddito professionale su cui si calcola la pensione.
Cass. civ. Sez. lavoro, 26-11-2013, n. 26411
La previsione normativa di cui all'art. 19, L. n. 576 del 1980, in materia di prescrizione dei
contributi, dei relativi accessori e dei crediti conseguenti a sanzioni dovuti in favore della Cassa
Nazionale Forense, individua un distinto regime della prescrizione medesima, a seconda che la
comunicazione dovuta da parte dell'obbligato, in relazione alla dichiarazione di cui agli artt. 17 e 23
della medesima legge, sia stata omessa o sia stata resa in modo non conforme al vero. L'ipotesi di
esclusione del decorso del termine prescrizionale decennale, invero, si riferisce solo al primo caso,
mentre in ordine alla seconda fattispecie il decorso di siffatto termine è da intendersi riconducibile
al momento della data di trasmissione della menzionata dichiarazione alla Cassa.
Cons. Stato Sez. V, 20-11-2013, n. 5480
Il lavoratore gode di un vero e proprio diritto soggettivo al versamento dei contributi previdenziali
in proprio favore in conformità alle prescrizioni di legge della propria posizione assicurativa,
costituendo questa un bene suscettibile di lesione e di tutela giuridica nei confronti del datore di
lavoro che lo ha pregiudicato, con la conseguenza che, in caso di omesso o tardivo versamento dei
contributi, esso lavoratore può agire in giudizio anche prima che si sia concluso il rapporto giuridico
previdenziale, per ottenere la condanna del datore di lavoro alla regolarizzazione della posizione
assicurativa mediante il versamento all'Ente previdenziale dei contributi omessi e non prescritti,
mentre, per i contributi prescritti, può avvalersi del rimedio previsto dall'art. 13, l. 12 agosto 1962 n.
1338, che gli consente di ottenere in contraddittorio necessario con l'Ente, la condanna del datore di
lavoro alla costituzione di una rendita vitalizia reversibile pari alla pensione o alla quota di pensione
corrispondente ai contributi omessi.
Cass. civ. Sez. lavoro, 06-11-2013, n. 24997
In tema di contribuzione per malattia, a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 20, comma 1, del d.l.
25 giugno 2008, convertito nella legge 6 agosto 2008, n. 133, di interpretazione autentica dell'art. 6,
secondo comma, della legge 11 gennaio 1943, n. 138, non è più dovuto dai datori di lavoro il
versamento della contribuzione INPS per il trattamento economico di malattia, senza che - a seguito
della declaratoria di illegittimità costituzionale (sent. n. 82 del 2013) della norma per violazione del
principio di uguaglianza, nonché, in via conseguenziale ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo
101
1953, n. 87, dell'art. 16, lett. b) del d.l. 6 luglio 2011, n. 98, convertito nella legge 15 luglio 2011, n.
111, che ha differito al 30 aprile 2011 il termine finale del periodo di tempo al quale si riferivano i
contributi i cui versamenti erano comunque acquisiti all'INPS - operi la regola dell'irripetibilità delle
contribuzioni anteriormente versate che non restano, pertanto, acquisite alla gestione previdenziale.
Trib. di Roma, Sez. lavoro, 5-11-2013
Il tenore letterale della art. 24, comma 4, della legge n. 214/2011 non giustifica l’esistenza di un
diritto potestativo in favore del lavoratore che sarebbe libero di scegliere se rimanere fino all’età di
70 anni o meno, diritto di fronte al quale sussisterebbe soltanto un obbligo del datore di lavoro di
acconsentire alla prosecuzione del rapporto fino all’età richiesta dal lavoratore. L’utilizzazione del
termine “incentivato”, in assenza di altre indicazioni che consentano di affermare sia il diritto del
lavoratore che la disciplina dell’esercizio di tale diritto, porta ad affermare che la disposizione abbia
un valore prettamente programmatico: ciò significa che l’art. 24, comma 4, è, in sostanza, un invito
alle parti finalizzato ad una eventuale prosecuzione fino al limite massimo dei 70 anni, in coerenza
con l’impianto complessivo della riforma del sistema pensionistico che porta all’innalzamento
dell’età pensionabile. La norma, non prevede alcun diritto potestativo ma incentiva la permanenza
in servizio con coefficienti di trasformazione favorevoli e attraverso la tutela dell’art. 18 della legge
n. 300/1970 che va a sostituire la disposizione attraverso la quale per i lavoratori che raggiungevano
l’età pensionabile esisteva soltanto il recesso “ad nutum”.
Tuttavia, la possibilità di rimanere in servizio dopo il compimento dei 66 anni e 3 mesi e fino ai 70
anni con la fruizione degli incentivi previsti dalla legge, è subordinata, in assenza di un diritto
potestativo, al consenso di entrambe le parti, cosa che nella fattispecie considerata non si è
verificata.
Cass. civ. Sez. lavoro, 30-10-2013, n. 24534
Il principio pro rata è stato posto, per le Casse privatizzate, dall'art. 3, comma 12, della legge n. 335
del 1995 ed opera solo dall'entrata in vigore di tale legge di riforma ed in relazione alle anzianità già
maturate rispetto all'introduzione delle modifiche incidenti sulla determinazione della quota
pensionistica e, quindi, con riferimenti ai criteri di liquidazione che, al momento di introduzione di
dette modifiche, sarebbero stati altrimenti applicabili a tali pregresse anzianità. Successivamente, in
base all'art. 1, comma 763, della legge n. 296 del 2006, è stato introdotto un principio similare, ma
meno rigido di quello sancito dall'art. 3, comma 12, della citata legge n. 335. Ed infatti, non è stato
più previsto il principio del pro quota, imponendo tuttavia alle Casse privatizzate nell'esercizio del
loro potere regolamentare di tenere presente tale principio, nonché i criteri di gradualità e di equità
fra generazioni a partire dal 1° gennaio 2007.
Cass. civ. Sez. lavoro, 22-10-2013, n. 23943
102
Sussiste l'obbligo del pagamento dei contributi IVS - secondo l'interpretazione autentica e conforme
al dettato costituzionale del comma 208, art. 1, L. n. 662/1996 - da parte dei soci di società a
responsabilità limitata. Infatti non rientrano nella previsione legislativa i rapporti di lavoro per i
quali è prevista l'iscrizione alla gestione previdenziale di cui all'art. 2 della legge 335 del 1995. In
questi casi vi è un regime di doppia contribuzione. L'applicazione di questi principi comporta che
sono dovuti sia i contributi, a carico della società, relativi alla loro attività di amministratori (da
versare alla gestione separata di cui all'art. 2, comma 26, della L. 8 agosto 1995, n. 335), sia i
contributi dovuti, personalmente, quale soci che svolgono l'attività nella società, alla gestione
commercianti.
Cass. civ. Sez. lavoro, 17-10-2013, n. 23614
In tema di fondi previdenziali integrativi, devono considerarsi ammessi il riscatto o, in alternativa,
la portabilità della posizione previdenziale, in base all'art. 10 delD.Lgs. n. 124 del 1993, da un
fondo cd. a prestazione definita, ad un fondo di capitalizzazione individuale, posto che anche
nell'ambito dei fondi a ripartizione è enucleabile e quantificabile una posizione individuale, secondo
le metodologie di calcolo elaborate dalla statistica e dalla matematica attuariale.
Cass. civ. Sez. lavoro, 08-10-2013, n. 22876
In tema di riliquidazione di trattamento pensionistico dei dirigenti degli enti pubblici del parastato,
l'art. 59, comma 4, della legge n. 449 del 1997, nel prevedere la soppressione, a decorrere dal 1
gennaio 1998, di meccanismi di adeguamento dei trattamenti pensionistici diversi da quello di cui
all'art. 11 del d. lgs. n. 503 del 1992, pure se collegati all'evoluzione retributiva del personale in
servizio (cd. "clausole oro"), ha precluso -anche nei confronti del personale già in quiescenza alla
data dell'entrata in vigore della legge- la rivalutazione automatica del trattamento pensionistico
integrativo mediante computo nella base di calcolo della retribuzione di posizione riconosciuta ai
dirigenti Enasarco con delibera n. 23 del 23.3.1998, - e con effetti retributivi per tutto il 1997 -,
posto che per i lavoratori già pensionati il divieto di adeguamento dei trattamenti pensionistici era
ormai operante al momento in cui, con la su richiamata delibera, i miglioramenti retributivi e la loro
applicazione retroattiva erano stati decisi.
Cass. civ. Sez. lavoro, 08-10-2013, n. 22874
In tema di ricongiunzione di periodi assicurativi, la clausola di salvezza di cui all'art. 1, co.
777, legge 27 dicembre 2006, n. 296, non è applicabile nel caso in cui l'INPS proceda all'erogazione
di trattamenti pensionistici maturati, anche grazie al versamento di contributi all'estero, in forza di
provvedimento giudiziale provvisoriamente esecutivo ma non definitivo e proponga impugnazione
avverso lo stesso, in quanto detta clausola si riferisce all'ipotesi della liquidazione di trattamenti
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pensionistici più favorevoli in forza di sentenze già passate in giudicato al momento dell'entrata in
vigore della legge stessa e non può essere riferita a sentenze suscettibili di essere ancora impugnate.
Cass. civ. Sez. lavoro, 04-10-2013, n. 22724
L'atto di accertamento amministrativo (nella specie, verbale ispettivo INAIL) di un Istituto
previdenziale, relativo a contributi o premi non versati, è un provvedimento amministrativo a tutti
gli effetti, che pertanto deve essere motivato -al pari di tutti gli atti amministrativi esplicanti
direttamente efficacia nei confronti dei terzi (ai sensi dell'art. 3 della legge n. 241 del 1990)- in
modo adeguato a consentire al destinatario dell'atto di ricostruire esattamente l'iter logico seguito
dall'ente previdenziale al fine di garantirgli l'esercizio del proprio diritto di difesa, anche nella
eventuale fase di immediata impugnazione dell'atto, di cui all'art. 24, comma 3, d.lgs. n. 46 del
1999, essendo irrilevante - ai suddetti fini - che si tratti di una impugnativa facoltativa.
Cass. civ. Sez. lavoro, 01-10-2013, n. 22403
In tema di previdenza complementare dei dipendenti ex INAM, l'errata iscrizione del lavoratore,
assunto stabilmente dopo l'entrata in vigore della legge 20 marzo 1975, n. 70 (3 aprile 1975), al
fondo previdenziale integrativo (prima dell'INAM e poi dell'INPS), con effettuazione delle relative
trattenute, ove sia intervenuta in epoca anteriore all'entrata in vigore dell'art. 18, comma 9, del d.lgs.
21 aprile 1993, n. 124, è sanata per effetto del disposto del primo periodo del medesimo comma 9,
che consente il riscatto dei periodi pregressi, rispondendo ad un criterio di ragionevolezza, e ad una
interpretazione costituzionalmente orientata ex art. 38, secondo comma Cost., che l'iscrizione
effettuata erroneamente, ma successivamente consentita, anche con riguardo al passato, dal
legislatore, non sia posta nel nulla, dovendosi ritenere chiara la volontà negoziale del lavoratore di
essere iscritto al fondo.
Cass. civ. Sez. lavoro, 19-09-2013, n. 21453
In tema di pensione indebitamente corrisposta, trova applicazione non già la speciale disciplina
dell'indebito previdenziale, bensì l'ordinaria disciplina dell'indebito civile, nell'ipotesi in cui
l'I.N.P.S. abbia continuato ad erogare i ratei della pensione di invalidità, pur dopo il decesso del
beneficiario, accreditandoli sul conto corrente cointestato al coniuge superstite, trattandosi di
erogazione di somme estranee ad un rapporto previdenziale facente capo al percettore.
Cass. civ. Sez. lavoro, 19-09-2013, n. 21454
Nell'ipotesi in cui l'I.N.P.S. abbia fornito all'assicurato, mediante il rilascio di estratti-conto
assicurativi, contenenti risultanze di archivio e pur se privi di sottoscrizione, una erronea
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indicazione (in eccesso) del numero dei contributi versati, solo apparentemente sufficienti a fruire di
pensione di anzianità, il danno sofferto dall'interessato per la successiva interruzione del rapporto di
lavoro per dimissioni e del versamento dei contributi, è riconducibile non già a responsabilità
extracontrattuale, ma contrattuale, in quanto fondata sull'inadempimento dell'obbligo legale
gravante su enti pubblici dotati di poteri di indagine e certificazione, anche per il tramite delle
clausole generali di correttezza e buona fede (applicabili alla stregua dei principi di imparzialità e di
buon andamento di cuiall'art. 97 Cost.), di non frustrare la fiducia di soggetti titolari di interessi al
conseguimento di beni essenziali della vita (quali quelli garantiti dall'art. 38 Cost.), fornendo
informazioni errate o anche dichiaratamente approssimative, pur se contenute in documenti privi di
valore certificativo.
Cass. civ. Sez. lavoro, 18-09-2013, n. 21355
La somma ottenuta giudizialmente dal lavoratore a titolo di riserva matematica, nel caso di
omissioni contributive, costituisce una provvista - necessaria ad ottenere un beneficio
corrispondente alla pensione, attraverso una previdenza sostitutiva ed eventualmente tramite il
pagamento di quanto è necessario per costituire la rendita di cui all'art. 13 della legge 12 agosto
1962, n. 1338 - non assimilabile in alcun modo ad un trattamento pensionistico e retributivo del
lavoratore e, dunque, non soggetta a tassazione.
Cass. civ. Sez. lavoro, 16-09-2013, n. 21082
In tema di modificazione, totale o parziale, della rendita per inabilità conseguente a infortunio o
malattia professionale, la qualificazione della modificazione operata dall'INAIL quale rettifica o
revisione non è determinata dal "nomen juris" imposto dal provvedimento amministrativo, né dal
risultato dell'accertamento emerso dal giudizio su di esso, ma deve essere preminentemente fondata
sull'effettiva volontà che sorregge l'atto, distinguendo se sia finalizzato a correggere l'iniziale
riconoscimento per emendarlo dall'errore da cui era affetto (nel qual caso si ha rettifica), ovvero ad
adeguarlo all'intervenuto mutamento delle condizioni dell'attitudine lavorativa (ove si ha revisione),
restando sottoposte le due fattispecie a differente disciplina relativa a criteri, metodi e strumenti del
suo accertamento e a decorrenza del termine di esercizio della relativa facoltà.
Cass. civ. Sez. lavoro, 11-09-2013, n. 20818
In tema di contribuzione previdenziale, le società a capitale misto, ed in particolare le società per
azioni a prevalente capitale pubblico, aventi ad oggetto l'esercizio di attività industriali (nella
specie, una società per la gestione e la fornitura di servizi agli enti locali in materia di fornitura di
acqua, gas ed elettricità) sono tenute al pagamento dei contributi previdenziali previsti per la cassa
integrazione guadagni e la mobilità, non potendo trovare applicazione l'esenzione stabilita per le
imprese industriali degli enti pubblici, trattandosi di società di natura essenzialmente privata,
105
finalizzate all'erogazione di servizi al pubblico in regime di concorrenza, nelle quali
l'amministrazione pubblica esercita il controllo esclusivamente attraverso gli strumenti di diritto
privato, e restando irrilevante, in mancanza di una disciplina derogatoria rispetto a quella propria
dello schema societario, la mera partecipazione - pur maggioritaria, ma non totalitaria - da parte
dell'ente pubblico.
Cass. civ. Sez. lavoro, 22-08-2013, n. 19423
In materia di contributi figurativi, il diritto al loro accredito per il periodo di maternità in forza del
disposto dell'art. 25, comma 2, d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151 - come interpretato autenticamente
dall'art.2, comma 504, della l. 24 dicembre 2007, n. 244 - è consentito in favore della lavoratrice in
maternità nell'intervallo tra un rapporto di lavoro subordinato ed un altro purché al momento
dell'entrata in vigore dello stesso d.lgs. n. 151 del 2001 - ossia al 27 aprile 2001 - la lavoratrice non
fosse titolare di un trattamento pensionistico, risultasse iscritta ad un'assicurazione
di lavoro dipendente ordinaria o sostitutiva od esclusiva ed avesse versato i contributi per almeno
cinque anni in costanza di rapporto di lavoro, restando per converso irrilevante che nel relativo
periodo la lavoratrice fosse disoccupata o svolgesse attività lavorativa autonoma ed a prescindere
dalla collocazione temporale del quinquennio di versamenti; viceversa il diritto all'accredito dei
contributi figurativi non spetta in favore di lavoratrice dipendente che dopo la maternità abbia
ripreso a lavorare in condizione di autonomia senza più tornare a svolgere attività
di lavoro dipendente né prima né dopo l'entrata in vigore del d.lgs. n. 151/2001.
Cass. civ. Sez. lavoro, 20-08-2013, n. 19261
In materia di assegni familiari, il datore di lavoro ha una generale funzione sostitutiva dell'ente
previdenziale, per conto del quale anticipa gli assegni ai propri dipendenti (compensando i relativi
importi sulla misura globale dei contributi dovuti all'I.N.P.S. e versando cosi la sola eccedenza); ne
deriva che, in caso di prestazioni indebitamente erogate al lavoratore e poste a conguaglio, il datore
di lavoro è tenuto a recuperare le relative somme, trattenendole su quelle da lui dovute al lavoratore
medesimo a qualsiasi titolo in dipendenza del rapporto di lavoro, giusta la previsione
dell'art. 24 del d.P.R. 30 maggio 1955, n. 797.
Cass. civ. Sez. lavoro, 06-08-2013, n. 18710
In tema di sgravi contributivi di cui all'art. 8, comma 9 seconda parte, legge 29 dicembre 1990, n.
407, previsti in caso di nuove assunzioni di lavoratori iscritti nelle liste di disoccupazione ordinaria
da almeno ventiquattro mesi, non compete al libero professionista il riconoscimento dello sgravio
totale, in quanto la nozione di impresa cui fa riferimento la disciplina non può essere intesa sulla
base dell'elaborazione della giurisprudenza della Corte Europea di Giustizia - ossia come "attività
che consiste nel'offrire beni o servizi su un determinato mercato a prescindere dallo status giuridico
106
di detta entità e dalle sue modalità di finanziamento" -, poiché la normativa nazionale sugli sgravi
contributivi è da considerarsi di stretta interpretazione in quanto derogatoria rispetto alla
sottoposizione generale agli obblighi contributivi e dovendosi tenere conto del fatto che il mancato
riconoscimento degli sgravi al libero professionista può alterare la concorrenza solo ove questi
abbia organizzato la propria attività in modo tale che l'entità dei mezzi impiegati sovrasti l'apporto
consistente nell'attività propria del professionista.
Cass. civ. Sez. VI - Lavoro Ordinanza, 06-08-2013, n. 18744
In tema di trattamento previdenziale, ove la pensione (nella specie di reversibilità) sia stata
conseguita con la totalizzazione dei periodi lavorativi prestati presso diversi Stati membri della
Comunità Europea, le quote aggiuntive previste dall'art. 10, terzo comma, della legge 3 giugno
1975, n. 160, spettano solo se il "pro rata" italiano sia superiore al trattamento minimo, senza che
rilevi il diverso regime previsto per la perequazione automatica di cui al primo comma della
medesima norma, il cui riconoscimento alle pensioni inferiori al trattamento minimo è stato esteso
dal successivo art. 14 del d.l. 30 dicembre 1979, n. 663, convertito nella legge 29 febbraio 1980 n.
33.
Cass. civ. Sez. lavoro, 02-08-2013, n. 18527
Nella base imponibile, sulla quale calcolare l'entità del contributo di solidarietà a carico del datore
di lavoro, da versare a titolo di finanziamento dei fondi di previdenza integrativi costituiti al fine di
erogare prestazioni previdenziali o assistenziali in favore del lavoratore e dei suoi familiari,
rientrano anche le somme erogate dal datore di lavoro per il pagamento dei premi assicurativi ove la
polizza sia stata stipulata contro i rischi extraprofessionali e non quando l'assicurazione abbia ad
oggetto la copertura dei rischi da infortuni professionali, trattandosi, in tal caso, di pagamento
effettuato per soddisfare l'interesse del datore di lavoro di cautelarsi dagli eventuali effetti della
propria responsabilità ex art. 2087 cod. civ. o per il fatto dei dipendenti e non di una integrazione
della retribuzione.
Cass. civ. Sez. VI - 5 Ordinanza, 20-06-2013, n. 15498
Le leggi di previdenza di categoria, come la legge del 13 luglio 1965, n. 859, istitutiva del Fondo
di previdenza per il personale di volo presso l'INPS (modificata dalla legge 31 ottobre 1988, n. 480,
e quindi integrata dal d.lgs. 24 aprile 1997, n. 164), alle quali corrisponde in generale un più
vantaggioso sistema di tutela e di prestazioni, costituendo deroga alle leggi
sulla previdenza generale, e comportando regole contributive conseguenziali, non sono suscettibili
di interpretazione analogica; pertanto, non è sufficiente l'esposizione al medesimo rischio per
attrarre altri soggetti non contemplati, e sottoposti ad apposita disciplina previdenziale, nello stesso
fondo categoriale.
107
Cass. civ. Sez. lavoro, 11-06-2013, n. 14640
Il riconoscimento degli sgravi contributivi ex art. 3, comma 5, della legge 23 dicembre 1998, n. 448,
presuppone una comunicazione circostanziata all'ente previdenziale da parte dell'interessato, quale
quella prescritta dalle denunce mensili attraverso i modelli DM10, che non può a tal fine essere
surrogata da registrazioni operate dal datore di lavoro per le diverse finalità contabili, fiscali ed
amministrative. (Nella specie la S.C. ha confermato la decisione della Corte territoriale che, in
materia di opposizione a cartella esattoriale a titolo di omissione contributiva, aveva ritenuto
inidonea per il riconoscimento dei benefici in questione l'iscrizione nel libro matricola dei nuovi
lavoratori assunti a tempo indeterminato e l'indicazione della relativa retribuzione).
Cass. civ. Sez. VI - Lavoro Ordinanza, 11-06-2013, n. 14674
L'esercizio di attività di lavoro autonomo, soggetta a contribuzione nella Gestione Separata I.N.P.S.,
che si accompagni all'esercizio di un'attività di impresa commerciale, artigiana o agricola, la quale
di per sé comporti l'obbligo dell'iscrizione alla relativa gestione assicurativa presso l'I.N.P.S., non fa
scattare il criterio dell'attività prevalente, secondo la regola espressa dalla norma risultante
dall'art. 1, comma 208, L. n. 662 del 1996, come interpretata in via di interpretazione autentica
dall'art. 12, comma 11, D.L. n. 78 del 2010. Le attività predette rimangono, quindi, distinte e, sotto
il citato profilo, autonome, sicché parimenti distinto ed autonomo resta l'obbligo assicurativo nella
rispettiva gestione. Non opera, dunque, il criterio semplificante e derogatorio della unificazione
della posizione previdenziale in un'unica gestione con una sorta di fictio juris, per cui chi è ad un
tempo commerciante ed artigiano, con caratteristiche tali da comportare l'iscrizione alle relative
gestioni assicurative, è come se svolgesse un'unica attività di impresa, quella appunto prevalente,
con la conseguenza che unica è la posizione previdenziale.
Cass. civ. Sez. lavoro, 29-05-2013, n. 13399
I trattamenti pensionistici integrativi aziendali hanno natura giuridica di retribuzione differita, ma,
in relazione alla loro funzione previdenziale, sono ascrivibili alla categoria delle erogazioni solo in
senso lato in relazione di corrispettività con la prestazione lavorativa, con la conseguenza che
l'autonomia privata non subisce, in linea generale, limiti alla determinazione del "quantum" dovuto
e dei presupposti e requisiti di erogazione di dette pensioni, potendo determinare altresì le
condizioni della reversibilità delle prestazioni in favore del coniuge e dei figli del pensionato. (In
applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva escluso la
reversione della pensione in favore del coniuge del pensionato - nel caso, separato giudizialmente
alla data di risoluzione del rapporto di lavoro - in quanto la contrattazione collettiva limitava la
reversibilità al coniuge convivente).
108
Cass. civ. Sez. VI - Lavoro Ordinanza, 24-05-2013, n. 13053
Il principio del pro rata è stato posto, per le casse privatizzate, dalla legge n. 335 del 1995, art. 3,
comma 12, ed opera solo dall'entrata in vigore di tale legge di riforma ed in relazione alle anzianità
già maturate rispetto alla introduzione delle modifiche incidenti sulla determinazione della pensione
e, quindi, con riferimento ai criteri di liquidazione che, al momento di introduzione di dette
modifiche, sarebbero stati altrimenti applicabili a tali pregresse anzianità.
Cass. civ. Sez. VI - Lavoro Ordinanza, 21-05-2013, n. 12439
Nei giudizi per prestazioni previdenziali, l'onere di dichiarare l'esatto valore della prestazione
dedotta in giudizio, previsto a pena di inammissibilità dall'art. 152 disp. att. cod. proc. civ., nel testo
novellato dal d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv. in legge 15 luglio 2011, n. 111, sussiste solo per il
ricorso introduttivo del giudizio e non anche per quelli concernenti i gradi successivi al primo.
Corte giustizia Unione Europea Sez. I, 16-05-2013, n. 589/10
L'articolo 45, Trattato 25 marzo 1957, deve essere interpretato nel senso che non osta, in
circostanze come quelle di cui trattasi nel procedimento principale, a una decisione che disponga la
riduzione dell'importo della pensione di vecchiaia percepita nel primo Stato membro nel limite
dell'importo delle prestazioni corrisposte nell'altro Stato membro in forza dell'applicazione di
un'eventuale norma anticumulo, purché tale decisione non determini, in capo al beneficiario di tali
prestazioni, una situazione sfavorevole rispetto a quella in cui si trova una persona la cui situazione
non presenta alcun elemento transnazionale e purché, nel caso in cui l'esistenza di un tale
svantaggio fosse accertata, essa sia giustificata da considerazioni oggettive e sia proporzionata
rispetto all'obiettivo legittimamente perseguito dal diritto nazionale, aspetto che incombe al giudice
del rinvio verificare.
Cass. civ. Sez. lavoro, 09-05-2013, n. 10972
In tema di determinazione della base imponibile per il calcolo dei contributi di previdenza ed
assistenza sociale, in applicazione dell'art. 12 della legge 30 aprile 1969, n. 153, precedente l'entrata
in vigore delle disposizioni di cui alla legge 8 agosto 1995, n. 335, è corretta ed immune da vizi
logici o violazioni di legge la sentenza di merito che escluda che le agevolazioni di viaggio fruite
dai dipendenti di una società, svolgente attività di "tour operator", sotto forma di sconti per viaggivacanza organizzati e rimasti invenduti, trovino la propria ragion d'essere nella esistenza del
rapporto di lavoro, venendo in rilievo, piuttosto, oltre che il carattere occasionale dell'offerta e la
sua facoltatività, il carattere commerciale dell'iniziativa, svincolata dalle previsioni del contratto
collettivo e volta alla copertura dei costi aziendali necessari per l'organizzazione del viaggio.
109
Cass. civ. Sez. lavoro, 09-05-2013, n. 10982
In tema di requisiti per l'accesso alla pensione di anzianità, l'art. 59, comma settimo, lett. a),
della legge 27 dicembre 1997, n. 449, nell'indicare, tra i destinatari della disposizione, non soltanto
"i lavoratori dipendenti pubblici e privati qualificati dai contratti collettivi come operai", ma anche
"i lavoratori ad essi equivalenti, come individuati ai sensi del comma 10", si riferisce anche ai
lavoratori che, seppure non specificamente qualificati come operai dai contratti collettivi, esplicano
attività riconducibili a quelle proprie degli operai, che sono caratterizzate da lavoro manuale o,
comunque, che si mantengano nella sfera della semplice esecuzione, senza involgere alcuna
discrezionalità, non essendo d'ostacolo all'operatività della disposizione suddetta la mancata
emanazione del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, cui la norma aveva demandato la
concreta individuazione dei lavoratori da considerare equivalenti agli operai. (Nella specie, in
applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza con la quale i giudici di merito
avevano riconosciuto ad un lavoratore domestico, ai sensi della norma citata, il diritto di usufruire
della cd. finestra al marzo 2005).
Cass. civ. Sez. lavoro, 07-05-2013, n. 10556
La norma dell'art. 59, tredicesimo comma, della legge 27 dicembre 1997, n. 449, che prevede la
sospensione della perequazione automatica al costo della vita, concerne solo i trattamenti
previdenziali obbligatori e quelli specificamente contemplati da tale disposizione, e non si applica
alla pensione integrativa a carico del fondo aziendale, che ha natura retributiva (e non
previdenziale). Conseguentemente, con riferimento ai titolari di pensione costituita dal trattamento
previdenziale obbligatorio e da pensione integrativa a carico di apposito Fondo aziendale,
l'adeguamento della pensione spettante non si applica sull'intero importo ma solo sulla quota parte
relativa al trattamento integrativo, restando escluso invece l'adeguamento della quota di pensione
relativa al trattamento obbligatorio.
Cass. civ. Sez. lavoro, 30-04-2013, n. 10174
In tema di divieto di cumulo tra redditi da lavoro e pensioni di anzianità, la disciplina di emersione
prevista dall'art. 44, terzo comma, della legge 27 dicembre 2002, n. 289, non si applica agli illeciti
già accertati e contestati dall'I.N.P.S., prima dell'entrata in vigore della predetta disposizione, sia
perché il legislatore del 2002 non ha introdotto una generale sanatoria di tutti i comportamenti
elusivi, sia perché mancherebbe, in radice, la spontanea iniziativa del pensionato che ha posto l'ente
previdenziale al corrente della propria situazione di inadempimento e richiede, pertanto, di giovarsi
delle norme agevolative.
Corte giustizia Unione Europea Sez. III, 25-04-2013, n. 398/11
110
L'articolo 8 della Direttiva n. 2008/94/CE deve essere interpretato nel senso che, affinché esso trovi
applicazione, è sufficiente che il regime complementare di previdenza professionale non goda di
una copertura finanziaria sufficiente alla data in cui il datore di lavoro si trova in stato di insolvenza
e che, a causa della sua insolvenza, il datore di lavoro non disponga delle risorse necessarie per
versare a tale regime contributi sufficienti per consentire l'erogazione integrale delle prestazioni
dovute ai beneficiari. Non è necessario che questi ultimi dimostrino la sussistenza di altri fattori
all'origine della perdita dei propri diritti a prestazioni di vecchiaia.
Cass. civ. Sez. lavoro, 24-04-2013, n. 10009
In materia pensionistica, l'art. 3, comma 19, della legge 8 agosto 1995, n. 335 estende ai regimi
integrativi le norme restrittive in materia pensionistica, relative all'assicurazione generale
obbligatoria (AGO), mentre l'art. 15 della medesima legge (che ha aggiunto il comma 8-quinquies
all'art. 18 del d.lgs. 21 aprile 1993, n. 124, recante la disciplina delle forme pensionistiche
complementari) ha introdotto il divieto di percepire la pensione integrativa prima della maturazione
della pensione a carico dell'AGO, per cui l'accesso alle prestazioni di anzianità e di vecchiaia
assicurate dalle forme di previdenza complementare è subordinato al possesso dei requisiti per
fruire del trattamento pensionistico obbligatorio, senza che rilevino eventuali disposizioni più
favorevoli previste dalla disciplina del Fondo integrativo, non essendo queste fatte salve dalla legge.
Ne deriva che la fruizione del trattamento pensionistico integrativo per coloro che siano andati in
pensione il 31 agosto 1995, data di entrata in vigore della legge 8 agosto 1995, n. 335, presuppone
sia la cessazione del rapporto di lavoro, sia la maturazione di trentacinque anni di anzianità
contributiva, non essendo sufficienti i minori anni di contribuzione previsti dal regolamento del
fondo.
Cass. civ. Sez. lavoro, 09-04-2013, n. 8608
Nel condono previsto dall'art. 1, comma 230, della legge n. 662 del 1996 devono ritenersi incluse le
sanzioni previste per la violazione di norme che siano connesse con la violazione delle norme sul
collocamento, nonché con la denuncia e con il versamento dei contributi e dei premi. E con
riferimento a fattispecie in tutto analoghe a quella in esame "trattasi di norma indubbiamente
connessa con la denuncia ed il versamento dei contributi, in quanto intesa a rendere edotto il
lavoratore, e di riflesso anche l'ente previdenziale, di tutti gli elementi retributivi che costituiscono
la base imponibile della contribuzione previdenziale". L'art. 1 comma 230 della menzionata legge n.
662 del 1996 dispone che "la regolarizzazione estingue ... le obbligazioni per sanzioni
amministrative e per ogni altro onere accessorio connessi con la violazione delle norme sul
collocamento nonché con la denuncia e con il versamento dei contributi o dei premi medesimi.
Cass. civ. Sez. VI - Lavoro Ordinanza, 04-04-2013, n. 8228
111
Le somme accantonate dal datore di lavoro per la previdenza complementare - quale che sia il
soggetto tenuto alla erogazione dei trattamenti integrativi e quindi destinatario degli accantonamenti
- non si computano né nella indennità di anzianità (maturata fino al 31 maggio 1982) né nel
trattamento di fine rapporto.
Cass. civ. Sez. lavoro, 08-03-2013, n. 5827
In merito alle professioni intellettuali (nella fattispecie la professione di ingegnere), l'imponibile
contributivo va determinato alla stregua dell'oggettiva riconducibilità alla professione dell'attività
concretamente svolta, quantunque questa non sia riservata per legge alla professione medesima,
rilevando la circostanza che la competenza e le specifiche cognizioni tecniche di cui dispone il
professionista influiscano sull'esercizio dell'attività espletata, con la conseguenza che deve ritenersi
che le prestazioni siano state rese anche in virtù dell'impiego di esse.
Cass. civ. Sez. lavoro, 22-01-2013, n. 1473
In tema di previdenza integrativa, il Fondo gas, costituito presso l'INPS con gestione autonoma e
con funzione integrativa del trattamento A.G.O., è un fondo obbligatorio, atteso che la sua
istituzione è stata operata direttamente dalla legge n. 1084 del 1971, non è rimessa all'autonomia
contrattuale e ne è prescritta l'obbligatoria iscrizione degli impiegati ed operai in possesso dei
requisiti previsti dalla citata normativa. Ne deriva l'obbligo per l'impresa di denuncia dei lavoratori
operanti nello specifico settore, con indicazione dell'esatta categoria di appartenenza, la cui
violazione importa non solo il recupero dei contributi non versati al Fondo, maggiorati di interessi e
sanzioni, ma anche la decadenza dal beneficio della fiscalizzazione degli oneri sociali
eventualmente fruita.
*
*
*
26. RINUNZIE E TRANSAZIONI
Cass. civ. Sez. lavoro, 23-10-2013, n. 24024
In materia di atti abdicativi di diritti del lavoratore subordinato, le rinunce e le transazioni aventi ad
oggetto diritti del prestatore di lavoro previsti da disposizioni inderogabili di legge o di contratti
collettivi, contenute in verbali di conciliazione conclusi in sede sindacale, non sono impugnabili, a
condizione che l'assistenza prestata dai rappresentanti sindacali - della quale non ha valore
equipollente quella fornita da un legale - sia stata effettiva, così da porre il lavoratore in condizione
di sapere a quale diritto rinunci e in quale misura, nonché, nel caso di transazione, a condizione che
112
dall'atto stesso si evinca la questione controversa oggetto della lite e le "reciproche concessioni" in
cui si risolve il contratto transattivo ai sensi dell'art. 1965 cod. civ.
Cass. civ. Sez. lavoro, 28-08-2013, n. 19831
La dichiarazione sottoscritta dal lavoratore può assumere valore di rinuncia o di transazione, con
riferimento alla prestazione di lavoro subordinato ed alla conclusione del relativo rapporto, sempre
che risulti accertato, sulla base dell'interpretazione del documento, che essa sia stata rilasciata con la
consapevolezza di diritti determinati ovvero obiettivamente determinabili e con il cosciente intento
di abdicarvi o di transigere sui medesimi. Il relativo accertamento costituisce giudizio di merito,
censurabile, in sede di legittimità, soltanto in caso di violazione dei criteri di ermeneutica
contrattuale o in presenza di vizi della motivazione.
Cons. Stato Sez. III, 05-03-2013, n. 1330
Il regime delle transazioni in materia di diritti derivanti da un rapporto di lavoro subordinato trova
la sua regolamentazione nell'art. 2113 c.c. che prevede, non la nullità ma l'annullabilità del negozio
transattivo, subordinandola all'esito di una impugnazione in termini di decadenza; da tale previsione
si evince che la pubblica amministrazione, nella qualità di datore di lavoro, è assoggettata ad
obblighi e doveri vincolanti che escludono l'esercizio di poteri discrezionali, mentre viene
accentuata la protezione della parte debole del rapporto alla quale è riservata una tutela privilegiata
nei confronti del datore di lavoro.
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