la domenica - La Repubblica

la domenica
DI REPUBBLICA
DOMENICA 16 NOVEMBRE 2014 NUMERO 506
Cult
La copertina. L’era della nuova mediocrità
Straparlando. Il lungo viaggio di Topazia Alliata
La poesia. L’utopia romantica di Mário De Andrade
Timoroso in scena
e focoso in privato
Nelle lettere inedite
il grande tenore
come non l’avete
mai sentito
E NRI CO F RA NCE SCHI NI
LONDRA
«C
UORE MIO! VITA MIA! Ani-
ma mia! Sangue mio!
Bellezza mia! Gioia
mia! Ciaciarella mia!
Mimmina mia!». È Caruso che parla. O meglio, scrive. O forse,
canta: perché le lettere del padre di tutti i
tenori, che Christie’s ha scoperto e mette all’asta il 19 novembre a Londra, sono l’equivalente di una lunga canzone d’amore, con
una donna come principale destinataria,
Ada Giachetti, colei che fu la madre dei suoi
due figli, più varie altre comprimarie nel
corso del tempo.
Un romanzo sentimentale, un feuilleuton, un’opera lirica o magari una soap opera,
come verrebbe chiamata oggi: in cui l’amore della sua vita lo lascia per l’autista di famiglia, lui prima le fa causa poi continua a
mandarle soldi fino alla morte, la sorella minore sostituisce la maggiore nel suo letto,
una spasimante sudamericana sospira per
lui, una giovane americana di buona famiglia lo sposa, un’altra lo denuncia per molestie allo zoo di Central Park, New York, e così via, in un carosello di passioni estasiate e
furibonde, degne di un dramma di Puccini.
>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE
CON UN COMMENTO DI ANDREA BOCELLI
E NRI CO CA RUSO
MILANO, 4/11/1897
IA ADA! VITTORIA! VITTORIA! Nel
M
vero senso della parola. Vittoria riportata su tutti e senza
che neanche io ne avessi potuto pensare, perché incerto
della parte in tutto e per tutto. Figurati che
credevo, se cantavo come alla prova generale, che mi davano un bel congedo in carta bollata. Invece non è stato così, perché? Perché
la mia adorata mimma pregava per me, non
è vero che pregavi per me? Avevo un po’ di
nervoso prima di uscire perché avevo la voce, specialmente nei bassi, pesante molto,
ma poi venuto il momento d’uscire, dopo d’avermi segnato e passato nel mio pensiero
tutti i miei più cari, sono uscito. Ho cantato il
mio primo duetto stupendamente e specialmente per il tempo, perché la sera prima non
ne indovinavo nessuno tant’era la paura che
avevo. Esco di nuovo a cantare la mia piccola romanza e alla fine di questa, che finisce
con uno splendido si bemolle, viene giù il teatro di applausi, sicuro che sono durati un 5
minuti.
Tesoro mio! Se avessi potuto tenerti vicino in quel momento, perché pensavo a te
mentre il pubblico applaudiva; pensavo Oh!
se la mia Ada sarebbe qui come sarebbe contenta di me, t’assicuro che mi avresti morsicato tutto o vita mia cara.
FOTO EVERETT COLLECTION/CONTRASTO
>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE
il Caruso
innamorato
L’immagine. Letizia Battaglia, la mia vita in bianco e nero Officine. I giochi letterari di Queneau & Co. Spettacoli. Intervista
a Robert Wyatt con assolo di Jonathan Coe L’incontro. Christopher Nolan, chi l’avrebbe detto che sarei arrivato fin quassù
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LA DOMENICA
DOMENICA 16 NOVEMBRE 2014
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La copertina. Il Caruso innamorato
Cara Ada
Va all’asta
l’archivio segreto
del cantante
con le lettere
alla sua amata
Le nascose
prima di morire
Ecco il perché
RTV-LA EFFE
DOMANI SU RNEWS
(ORE 13.45 E 19.45,
CANALE 50 DEL DT E 139 DI SKY)
IL VIDEOSERVIZIO SULL’ARCHIVIO
SEGRETO DI ENRICO CARUSO
<SEGUE DALLA COPERTINA
EN R I C O FR A N C E S C H I N I
I TUTTO DI PIÙ, come c’è stato di tutto e di più nella vita di un arti-
D
sta senza uguali, nato nel 1873 da una povera famiglia a Napoli,
osannato sui palcoscenici di Milano, San Pietroburgo, Londra,
New York, primo grande divo moderno della canzone, diretto
dal vivo da Arturo Toscanini. Ma la caratteristica straordinaria
del “Caruso innamorato” che esce prepotentemente fuori da
queste lettere (piuttosto sgrammaticate, in verità) è che si tratta di una corrispondenza del tutto inedita. Non l’aveva mai letta
neppure Enrico Caruso junior, suo figlio e autore della sua biografia ufficiale. Il tenore aveva consegnato le missive, insieme a
una montagna di altre carte personali, appunti, fotografie, cartoline, telegrammi, ritagli, conti e assegni, a un intimo amico,
Antonino Perrone, all’epoca residente negli Stati Uniti, a Boston, poco prima di ripartire nel
maggio 1921 per Napoli, dove Caruso sarebbe morto appena tre mesi più tardi per i postumi
di una pleurite mal curata e altri disturbi, alla precoce età di quarantotto anni. Accadde all’hotel Vesuvio, per l’occasione anche quello trasformato in palcoscenico, come per l’adeguato finale di un’opera, con il divo attorniato da una corte di familiari, medici, amici, servitori.
Fu dunque quasi un testamento spirituale, nelle sue intenzioni probabilmente da mantenere segreto, quello che consegnò all’amico e
che la famiglia di quest’ultimo ha poi custo- no di cui si innamorò mentre era sposata con
dito gelosamente per generazioni, fino alla un altro uomo e che ripudiò il marito per fugrecente decisione di venderlo, affidandolo a gire con lui, lettere d’intenso desiderio sesuna delle più grandi case d’aste del mondo. E suale («Ada, ho bisogno di sentire il tuo corpo
l’attesa per l’asta è spasmodica per un archi- incollato al mio per il resto delle nostre vite»),
vio che, dicono i curatori di Christie’s, contie- più altre centoventuno di Ada a Caruso, colne la «storia non detta» del leggendario can- me di romanticismo («Mi sembra di impazzitante, una nuova fonte essenziale per com- re, non riesco a controllarmi, mi pare di moriprendere meglio il suo talento, la sua tecnica re, sono due giorni che non ricevo una tua lete la sua spesso problematica vita privata. Ne tera, che tortura è questa»). Ci sono testimofanno parte ben duecentoquindici lettere au- nianze del furore di Caruso quando la relatografe di Caruso ad Ada Giachetti, la sopra- zione termina fra accuse reciproche, insieme
LE IMMAGINI
ENRICO CARUSO
NEI PANNI
DEL DUCA
DI MANTOVA
NEL “RIGOLETTO”
E ADA GIACHETTI
NEL RUOLO
DI MUSETTA
NELLA PRIMA
DE “LA BOHÈME”
NEL 1895.
AL CENTRO,
UNA DELLE
LETTERE
CHE CARUSO
SCRISSE
ALLA SUA AMATA
(4 NOVEMBRE 1897,
TRASCRITTA
IN QUESTE PAGINE)
E UNA DI QUELLE
CHE ADA SCRISSE
AL TENORE
(PARIGI,
23 LUGLIO 1912)
alle prove che sino alla fine il tenore continuò
a inviare denaro a quella che è stata certamente la donna della sua vita.
Sebbene non certo l’unica: venti lettere autografe di Caruso a Rina Giachetti, sorella di
Ada e a sua volta cantante, e centotrentacinque lettere di Rina a Enrico, raccontano in che
modo lei prese il posto della sorella nel cuore,
e sotto le lenzuola, del cantante. E poi altre lettere d’amore, di Caruso a Dorothy Benjamin,
l’americana che divenne la sua prima moglie,
di svariate innamorate a lui, come l’ereditiera argentina Vina Velasquez, («Mi tesoro,
son las 11 de la noche y no puedo dormir»), o
Luisa Starace, e della seconda moglie Teresa,
della soprano Luisa Tetrazzini, delle donne
che gli facevano causa e a cui lui pagava i danni al tribunale di Manhattan pur di mettere a
tacere i sordidi pettegolezzi.
In questo incredibile archivio c’è molto altro ancora, riflessioni sulla fama, sulla paura di andare in scena, sulla stanchezza («Il
pubblico mi ha chiesto un bis per cinque minuti ma io sono crollato a terra stremato e ci
sono voluti quattro uomini per portarmi
via»). Ma su tutto il materiale spicca il “Caruso innamorato”: il più famoso e il più pagato cantante della sua generazione, il primo a incidere dischi e a venderne un milione
di copie, la voce e il cognome diventati sinonimo della lirica, che fa cantare la carta come se fosse uno spartito per il suo privato,
struggente “elisir d’amore”.
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Amore mio,
io non canto
che per te
<SEGUE DALLA COPERTINA
E NRI CO CA RUSO
BUENOS AIRES, 20/5/1900
MORE MIO TANTO non mi dir niente per
A
quello che sto per dirti sappi che... in
una sola parola senza andare per le
lunghe.. Mi sono tagliato i baffi. Oh
lo detto!
Sì Amore l’ho dovuto fare perché mi davano
grande noia ad impastricciarli e poi anche in
riflesso alle opere che debbo fare come Werter e
altre così ho creduto bene tagliarli però ve’, al
mio ritorno li avrò o perbacco se li avrò.
Altrimenti non ho coraggio di presentarmi a te,
perciò spero che non mi dirai niente per questo
anzi appena avrò tempo mi farò una fotografia e
te la mando.
BUENOS AIRES 8/6/1900
ti scrivo
Amore della mia vita!
Ripiglio adesso a scriverti da che ti ho spedito
l’ultima mia. Dunque la notte del 6 finii di scriverti
e dal mondo in cui ti scrissi puoi ben supporre in
che stato ero. Difatti ero stanco ma però ero pieno
di vita (e guarda bene la chiusa della lettera
precedente) e esaltato. Mi posi sul letto ma che
vuoi, invece di addormentarmi pensavo a te e
pensando pensando feci ciò che non dovevo fare,
cioè a dire chiusi gli occhi ecc. ecc.
Dopo, reso ancor più stanco di prima, mi
addormentai felicemente col tuo nome sulle
labbra. La mattina seguente, cioè il giorno 7, mi
svegliai sognandoti: eri nuda al letto, ed io ti
baciucchiavo tutta.
Il pubblico ha seguitato per 5 buoni minuti a
chiedere il bis, e io duro, non lo ho concesso … la
battaglia non era ancora finita, ci stava ancora il
finale. Stavo rauco che più non ne potevo, ma
siccome c’è un anima buona che prega per me, e
questa sei tu, con alla fine del «Baluardo m’è il
vangelo», presi uno di quei si naturali; che me lo
sentii in testa molto bene, e lo tenni fino a
quando più non potetti, portandolo più come un
baritono, e giù il teatro, come la prima sera, un
applauso lungo lungo coprì tutto il finale
dell’orchestra e coro. Caddi a terra, e rimasi fino
a che cala la tela come regola, e dopo ci vollero 4
persone per alzarmi tanto che ero stanco.
LONDRA 20/5/1904
Non ho potuto scriverti questi giorni avanti
perché ho avuto moto da fare e tu lo hai veduto
cioè in 9 giorni fare 2 opere. Il debutto fu per me
felicissimo col Rigoletto. Feci i soliti bis
ricevendo applausi entusiastici.
I Pagliacci poi è stato il colmo dell’entusiasmo. Li
ho ubriacati tutti senza dargli a bere.
E dire che da bambino
gli preferivo Del Monaco
ANDREA BO CELLI
OPO DI LUI, NULLA è stato come prima: Enrico
D
Caruso ha rivoluzionato il mondo della lirica. La
sua carriera segna una discontinuità epocale,
modificando l’approccio interpretativo e i gusti
del pubblico. Da un lato, tornisce d’inedita
vitalità i grandi ruoli ottocenteschi, rinnovandoli, dall’altro
quasi inventa quella tenorilità eroica, di virilità torrida, che le
partiture della Giovane Scuola, al giro di boa del secolo,
andavano sempre più chiedendo ai loro protagonisti.
Interprete carismatico, d’intelligenza musicale superlativa,
ha saputo divulgare nel mondo l’immenso patrimonio del
melodramma: spettacolo nobile e popolare di cui l’Italia
vanta con giusto orgoglio la paternità. E poi, fu un grande
visionario, comprese per primo le enormi potenzialità della
nascente industria discografica ed anche grazie a tale
intuizione divenne una star planetaria, con oltre un milione
di dischi venduti.
Anche nella tecnica vocale, è stato un pioniere. È interessante
ricordare come Mario Del Monaco descrivesse il segreto della
propria potenza emissiva, come frutto dell’emulazione
dell’impostazione vocale di Enrico Caruso: un approccio alla
fonazione con ampio coinvolgimento dell’aritenoide, che è il
muscolo tensore delle corde vocali e — cito testualmente —
“affondando, scavando la laringe, dando massima cavità
all’organo vocale”.
Infine, un ricordo del mio primo incontro con la
voce di Caruso: un anziano zio melomane mi narrò,
con passione ed eloquenza, delle prodezze
artistiche di quell’interprete napoletano. Dopo
cotanta presentazione, quando ebbi modo di
ascoltarne la voce, mi lasciò perplesso...
Avevo forse sei o sette anni, ed ero avvezzo
al timbro imperioso di Del Monaco, o a
quello dolce e appassionato di Gigli... Non
avevo i mezzi per contestualizzare
l’artista né per comprendere quanto, sul
risultato finale, potessero agire i mezzi
rudimentali per captare le voci...
Naturalmente ebbi modo di ricredermi
ampiamente, quando crebbi e quando mi
avvicinai allo studio del canto.
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LONDRA 25/5/1904
Di voce sto magnificamente, ma cara mia mi ha
preso una di quelle fifite che avanti di cominciare
ogni rappresentazione, divento talmente
nervoso che sono quasi quasi brutale con tutti:
vorrei trovare qualche cosa che mi calmi ma non
riesco; mi hanno detto che la camomilla fa bene,
ma ho paura di impiastricciarmi lo stomaco.
NEW YORK 28/1/1908
Adesso cominciamo a provare il Trovatore. Qui
gli accenti drammatici non vogliono entrare in
testa a questa gente poiché quando io faccio
degli accenti o singhiozzi son freddi
nell’applaudire; invece quando canto come un
automa sono tutti contenti e fanno i matti. Io ho
capito che invece di affaticarmi a dare fare e fare
canto in una certa maniera che per gli americani
fa effetto e per me è un risparmio ed è perciò che
tutti dicono, ah! Come canta Caruso quest’anno.
Magnifico!
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LA DOMENICA
DOMENICA 16 NOVEMBRE 2014
L’attualità.Testimoni
Il matrimonio a sedici anni, la Milano di Pasolini,
la Palermo delle stragi, della primavera e di oggi
Una vita in bianco e nero ora raccolta in un libro
“Certi giorni questi vicoli ancora mi emozionano”
ATTILIO BOLZONI
PALERMO
P
IL LIBRO
“DIARIO”
DI LETIZIA BATTAGLIA
SARÀ IN LIBRERIA
DA MERCOLEDÌ
PROSSIMO
19 NOVEMBRE
PER CASTELVECCHI
(176 PAGINE, 50 EURO).
DA QUI, PER GENTILE
CONCESSIONE
DELL’EDITORE
E DELL’AUTRICE,
SONO TRATTE
TUTTE LE FOTO
PUBBLICATE
IN QUESTE PAGINE
ERCHÉ TI SEI SPOSATA A SEDICI ANNI? «Perché ho incontrato un uomo che mi amava e mi of-
friva il mondo». Torna indietro con i pensieri e con i sensi, sul suo viso scivolano allegrie,
pene, qualche tormento. Un sorriso tenero svela però che si è acquietata, che ha capito
che è andata come doveva andare. Se poi sia stata lei a prendersi da sola il mondo o il mondo a prendersi lei, a questo punto della sua esistenza poco le importa mentre è al riparo
nella sua casa di Palermo. Un palazzo che sa molto di famiglia. Il suo appartamento è al
secondo piano. Sullo stesso pianerottolo abita il fratello Salvatore, verso mezzogiorno
gli odori delle due cucine si confondono. All’attico ci sta sua figlia Patrizia. Al superattico l’altra figlia Angela, che dopo un viaggio in India è diventata Shobha. Per raccontare
se stessa Letizia Battaglia non sa da che parte cominciare. «Dall’inizio o dalla fine? Da
quando ero bambina o da quando sono andata a vivere a Parigi, dai miei nipotini o dalle
mie foto?». Una, bellissima, è alle sue spalle.
Milano, 1971. Un uomo con la faccia coperta da dita nodose. «È Pier Paolo Pasolini al circolo Turati, quel giorno c’erano anche Dario Fo e Mario Capanna». Milano? «Sì, sono stata lì tre anni, ma forse è meglio iniziare dal
principio, quando sono nata...».
Pensa all’inizio e ricomincia dalla fine: «Adesso mi sento forte nella testa e nelle mie idee, ho avuto tanto e
non voglio più nulla».
Letizia è fatta così, generosamente sottosopra. E così: «Adesso posso non avere più pudori: io sono una maestra
di fotografia». E così: «Io non sono una fotografa, la fotografia è solo una parte di me».
Dobbiamo fermarci davanti a un caffè, ricordare per un po’ la nostra Palermo e mettere in ordine uno dietro
l’altro momenti e sentimenti.
A marzo Letizia Battaglia compirà ottant’anni. «Sono nata nel 1935, mio padre faceva il marittimo, ci spostavamo da una città all’altra, Palermo, Trieste, Civitavecchia, Napoli, ancora Palermo...». La memoria pesca lontano. Alla guerra, i bombardamenti. «Ho negli occhi ancora l’immagine della nostra casa sventrata a Civitavecchia e quella di un cane che trascinava, chissà dove, la manica di una giacca con dentro il braccio di qualcuno».
Il primo ritorno in Sicilia. Le elementari alle Ancelle, le alunne con i guanti, gli inchini, i rampolli della grassa borghesia e dell’aristocrazia siciliana. «Fra i banchi ho conosciuto tutta la Palermo bene, io non avevo la divisa fatta dal
sarto ma quella che dava la scuola... Un giorno venne una vecchia nobile a casa mia e le dissi “Mamma arriva, intanto
si accomodi in salotto”, lei mi guardò con disprezzo e rispose: “Salotto? Mia cara, questo non è un salotto”... non me
le sono mai dimenticate le parole e gli occhi di quella donna».
Le prime ansie, i primi slanci, le prime ribellioni. È adolescente ed è già donna. L’amore si chiama Franco. È incantata, nel 1951 si sposa. E nonostante l’età, lui — che di anni ne ha sette in più — segna come su una mappa il percorso della vita di Letizia. «Sarei dovuta diventare una delle tante belle ed eleganti signore di Palermo». Sognava altro. Per fortuna arrivano le figlie. Prima Cinzia, poi Angela e Patrizia. Il matrimonio è come una prigione. E dura tanto, troppo. Letizia se ne va. «Se l’avessi fatto prima avrei tolto infelicità a me e a mio marito... Franco non c’è più da
sei anni, l’ho ritrovato, fino all’ultimo giorno sono stata vicina a lui». Nel 1971 — dopo una lunga analisi — lascia la
Sicilia per Milano. Comincia come cronista, collabora prima con Le Ore e poi con Abc, settimanali anticonformisti e
anticlericali molto diffusi in quegli anni, servizi di politica e scatti molto osé per l’epoca. Con il “pezzo” le chiedevano sempre le foto, altrimenti non glielo pubblicavano. Letizia diventa Letizia: fotografa.
E dopo il primo amore abbandonato a Palermo, trova il secondo amore. Santi, anche lui fotografo.
Letizia è curiosa, avida di vita. È in quei mesi che conosce l’altra Milano. E Pasolini. «Ce l’avevo già dentro,
ma da quel momento non me lo sono fatto scappare più... qualche mese prima avevo anche incontrato a Venezia Ezra Pound... piangevo...».
Da Palermo quelli del quotidiano L’Ora, che giù tutti chiamavano il L’Ora, prima chiedono a lei e a Santi qualche
articolo sui siciliani diventati “milanesi”, poi il direttore Vittorio Nisticò li vuole in redazione. Scendono. E Letizia è
ancora nella sua Sicilia. «Ma già allora non c’era una sola Letizia». Fa volontariato alla “Real Casa dei Matti”, l’ospedale psichiatrico di via Pindemonte. Fa scuola di teatro al Teatès di Michele Perriera, fa foto che porta sulle scrivanie di talentuosi giornalisti come Salvo Licata, Mario Genco, Nino Sofia. E si butta nella mischia siciliana. Sono gli
anni in cui il potere politico e criminale di Palermo sta
cambiando, i primi cadaveri eccellenti, la guerra di mafia che si annuncia alla periferia dell’impero. Con la sua
gonna svolazzante e con i suoi zoccoli, Letizia arriva
sempre per prima sulla scena del delitto. È testimone
oculare nella Palermo più cupa, le sue foto fanno il giro
del mondo. E c’è un nuovo amore ancora. Anche lui si
chiama Franco. E anche lui fa il fotografo. Compagno
per lunghissimi anni. Quando finisce una storia privata ne comincia una pubblica: la “primavera” palermitana, il vento che spazza via i notabili invischiati con i
boss, le paure e le speranze di una città. Letizia viene
nominata dal sindaco Orlando assessore comunale, delega alla Vivibilità Urbana. Porta sempre quelle sue
gonne colorate e gli zoccoli. «È stato il periodo più bello
della mia vita, più bello della fotografia, mi sentivo cittadina e quindi più che solo una fotografa. Ma io non facevo politica, io amministravo, facevo cose concrete,
vedevo un angolo sporco e facevo sistemare una pianta». Dopo la giunta “colorata” di Leoluca Orlando, l’elezione alla Regione Siciliana. «Esperienza inutile, non
facevo niente, non mi facevano sapere niente».
Poi le stragi. Prima Falcone e Borsellino, un anno dopo
don Pino Puglisi. Letizia non vuole fotografare più i morti, gli amici morti. Parte per Parigi. È depressa, per lunghi mesi passa le sue giornate al tavolino di un bistrò.
«Senza parlare, senza bere perché io non bevo nulla». Solo una grande solitudine. Lei dentro un gorgo e gli altri
che la onorano. Le arrivano i premi più prestigiosi. Dalla
2014 © SHOBHA
Letizia
Battaglia
Non
disolafoto
Arrivava sempre prima sulla scena del delitto
“Ma preferisco il periodo da assessore: vedevo
un angolo sporco e ci facevo mettere una pianta”
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DOMENICA 16 NOVEMBRE 2014
Francia, dalla Germania, da Londra. È anche la prima
donna europea a vincere negli Stati Uniti la borsa Eugene Smith. La consacrazione. Torna un’altra volta a Palermo. Ma da quel momento non farà più una mostra nella sua città. «Sono passati venticinque anni...».
Letizia è impastata con Palermo, la ama e la patisce,
prova rabbia ma non può farne a meno. «Mi emoziono
sempre camminando nei vicoli... una statua della Madonna, un Gesù, gli odori, una finestra sbilenca...».
Sta molto a casa. Con il cane Pippo che azzanna le sue
scarpe e con il telefono che squilla sempre. Amici vicini
e lontani, parenti. «Come le tartarughe mi sono ricostruita una corazza e ho ricostruito la famiglia. L’amore
c’era per tutti ma in qualche modo si era disperso». Parla dei suoi fratelli, quelli che ci sono ancora e quelli che
non ci sono più. E di Massimiliano, Gianfranco, Francesca, Matteo e Marta, i suoi cinque nipoti. E delle sue
«splendide figlie». Fotografa ancora. Fotografa le bambine. Ce ne sono bellissime, raccolte con cura e scelte per
Diario, il suo ultimo libro. «Le cerco, le rincorro, in loro mi
ritrovo io stessa bambina». Quando va in giro per Palermo la fermano, l’abbracciano. «Quando ero deputata alla Regione tutti mi chiamavano onorevole e io alzavo il
dito medio della mano e rispondevo “Tié”. Gli onorevoli
di solito vengono chiamati onorevoli anche quando non
sono più in carica, a me invece continuano a salutarmi
sempre nello stesso modo: “Ciao Letizia”...». Ciao Letizia.
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LE IMMAGINI
QUI SOPRA “FUNERALI DEL SINDACO DEMOCRISTIANO VITO LIPARI,
UCCISO DALLA MAFIA” (1980, CASTELVETRANO). SOTTO “QUARTIERE
ALBERGHERIA” (1977, PALERMO). NELLA PAGINA DI SINISTRA
“QUARTIERE KALSA. IL PANE” (1979, PALERMO) E “QUARTIERE LA CALA
LA BAMBINA CON IL PALLONE” (1980, PALERMO). ACCANTO
AL TITOLO “LETIZIA CON LE FIGLIE PATRIZIA E SHOBHA” (2014)
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“ E poi ci sono le bambine, oggi fotografo
soprattutto loro. Le cerco, le rincorro,
finisce che mi ritrovo io stessa bambina ”
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LA DOMENICA
DOMENICA 16 NOVEMBRE 2014
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Officine. Esercizi di stile
FA B IO GAMBARO
«D
PARIGI
EI TOPI CHE SI COSTRUISCONO da soli il labirinto da cui si propongono di
scappare». Non senza ironia, Raymond Queneau definiva così i
membri dell’Oulipo, l’Ouvroir de littérature potentielle fondato
insieme all’amico François Le Lionnais a Parigi, in un ristorante di
Saint-Germain-des-Près, il 24 novembre del 1960. Non un movimento né una scuola letteraria, più semplicemente un laboratorio
per un gruppo ristretto di amici appassionati di letteratura, giochi
e matematica, alle prese con meccanismi letterari calibratissimi,
sempre attraversati da una vena di poetica follia. Da allora l’Oulipo, alle cui attività hanno partecipato anche Italo Calvino, Georges Perec e Marcel Duchamp, ha attraversato in maniera quasi sotterranea oltre mezzo secolo di storia letteraria francese, rivelandosi un punto di riferimento insostituibile per tutti coloro interessati alle ardite esplorazioni linguistiche di una «letteratura potenziale» preoccupata innanzitutto di elaborare regole, tecniche e strutture, a partire dalle quali far nascere opere spiazzanti e imprevedibili.
A questa avventura appassionante, anche se non sempre conosciuta come meriterebbe, la Francia sta per rendere omaggio con una bella mostra organizzata dalla Bibliothèque de France negli storici locali della Bibliothèque
de l’Arsenal e intitolata “Oulipo: la littérature en jeu(x)”. Aperta dal 18 novembre al 15 febbraio, la mostra curata
da Camille Bloomfield e Claire Lesage presenterà oltre trecento documenti, molti dei quali inediti, ripercorrendo
così la storia del gruppo dalla nascita ai giorni nostri, ricordando tra l’altro che le attività di questi sorprendenti giocolieri della parola proseguono oggi attraverso le ricerche di una quindicina di scrittori, tra cui Marcel Bénabou, Jacques Roubaud, Paul Fournel, Hervé Le Tellier et Anne Garréta.
Grazie alla vasta scelta di libri, manoscritti, disegni, foto, quadri, lettere, progetti, appunti e giochi, il mano i romanzi di quel periodo — Le città invisibili, Il
visitatore avrà la possibilità di entrare nell’officina castello dei destini incrociati e Se una notte d’inverno
oulipiana, scoprendo tutte le sfumature di un inge- un viaggiatore — tutti costruiti attorno a regole e
gneria poetica che trasforma la letteratura in ars com- strutture assai complesse. Come ricorda Raffaele Arabinatoria, ma sempre in nome della più grande libertà gona nel bel catalogo dell’esposizione, Calvino evocaartistica. «Mi impongo delle regole per essere total- va spesso «il miracolo di una poetica apparentemente
mente libero», ricordava paradossalmente Perec, che artificiale e meccanica che tuttavia poteva dar luogo
si considerava «un prodotto dell’Oulipo al 97%». Non a una libertà e a una ricchezza infinite».
E come Calvino, molti altri membri del gruppo — da
a caso molte delle sue opere sono nate sfruttando in
maniera sistematica le procedure elaborate dal grup- Jacques Bens a Harry Mathews, da Paul Braffort a Jean
po. Si pensi al romanzo intitolato La scomparsa, un Lescure — hanno lasciato innumerevoli testimonianze
lunghissimo “lipogramma” scritto interamente sen- individuali e collettive, figlie di una creatività tutta imza mai usare parole contenenti la lettera “e”, che in perniata sulla triade gioco-invenzione-sorpresa, solo apfrancese significa rinunciare a circa un terzo del vo- parentemente gratuita e stravagante. Dagli anagramcabolario, al genere femminile e al tempo presente. mi alle parole incrociate, dalla poesia visiva ai giochi a
Per non parlare del suo capolavoro, La vita istruzioni struttura multipla, la produzione dell’Oulipo è ricca e vaper l’uso, il cui spettacolare manoscritto è strutturato riegata, a cominciare da Cento miliardi di poesie di Quecome un’immensa scacchiera su cui l’autore si muove neau, esempio perfetto di una letteratura fatta d’infiniseguendo un elaborato reticolo di regole e vincoli.
te combinazioni che invita il lettore a giocare con il testo,
Quando Queneau e Le Lionnais inventarono l’Ouli- sfruttandone tutte le potenzialità. I membri del gruppo
po come “sottocommissione” del Collegio di Patafisi- erano però coscienti di non essere certo i primi a muoca di Alfred Jarry, probabilmente non immaginavano versi in tale direzione, motivo per cui inventarono il “plache la loro passione per i giochi letterari avrebbe avu- gio per anticipazione”. Che poi era un modo per rendere
to tanto successo e incontrato tanti estimatori. Calvi- omaggio a quegli autori che in passato avevano fatto delno per esempio si unì al gruppo nel 1972, proponendo le regole e delle strutture l’asse portante del loro lavoro
diversi testi tra cui il Piccolo sillabario illustrato e L’in- letterario: da Arnaut Daniel, il trovatore provenzale del
cendio della casa abominevole, un gioco poliziesco a XII secolo inventore della sestina, fino a Raymond Rousstruttura combinatoria che doveva essere lo spunto sel, il cui Come ho scritto alcuni dei miei libri è sempre
per un futuro romanzo. E che l’esperienza oulipiana stato considerato un sorta di guida spirituale da tutti gli
sia stata particolarmente importante per lo scrittore scrittori dell’Oulipo.
italiano, trapiantato in quegli anni Parigi, lo confer© RIPRODUZIONE RISERVATA
La
Banda
Oulipo
Scrivere tutto un romanzo
senza la lettera “e”
o una poesia con versi
di una parola sola
A divertirsi così
cominciarono
mezzo secolo fa
autori come
Queneau, Calvino, Perec
Ora Parigi ha deciso:
la “letteratura potenziale”
val bene una mostra
FOTO DI GRUPPO
RIUNIONE DELL’OULIPO DEL 23 SETTEMBRE 1975 A CASA LE LIONNAIS.
SEDUTI DA SINISTRA: ITALO CALVINO, HARRY MATHEWS, FRANÇOIS
LE LIONNAIS, RAYMOND QUENEAU, JEAN QUEVAL, CLAUDE BERGE
IN PIEDI DA SINISTRA: PAUL FOURNEL, MICHÈLE MÉTAIL,
LUC ETIENNE, GEORGES PEREC, MARCEL BÉNABOU,
PAUL BRAFFORT, JEAN LESCURE, JACQUES DUCHATEAU
COSA ACCADREBBE
SE L’OULIPO
NON FOSSE MAI
ESISTITO O SE FOSSE SUBITO
SCOMPARSO?
A BREVE LO RIMPIANGEREMMO.
ALLA LUNGA TUTTO TORNEREBBE
IN ORDINE E L’UMANITÀ
FINIREBBE PER TROVARE,
ANNASPANDO, CIÒ CHE L’OULIPO
SI SFORZA DI PROMUOVERE
COSCIENTEMENTE
FRANÇOIS LE LIONNAIS
“LE SECOND MANIFESTE”
PARIGI, 1973
la Repubblica
DOMENICA 16 NOVEMBRE 2014
A SINISTRA, QUADERNO
CON APPUNTI PREPARATORI
PER “LENTE SORTIE DE L’OMBRE”
DI JACQUES BENS,
TRA I FONDATORI DELL’OULIPO
La vera libertà
è rispettare
regole assurde
STE F A NO BA RTE ZZA GHI
U
NA LINEA
A SINISTRA, DOSSIER PREPARATORIO
PER UN ROMANZO POLIZIESCO
DI FRANÇOIS LE LIONNAIS
E MICHEL LEBRUN.
SOPRA, RITRATTO IN CIFRE
DI ETIENNE LÉCROART.
SOTTO, IL MANIFESTO DELLA MOSTRA
“OULIPO, LA LITTÉRATURE EN JEU(X)”
ALLA BIBLIOTHÈQUE DE L’ARSENAL
DI PARIGI DA MARTEDÌ 18 NOVEMBRE
AL 15 FEBBRAIO 2015
QUI SOPRA,
ESTRATTO
DEL DOSSIER
PREPATORIO
DI “LA VITA
ISTRUZIONI
PER L’USO”
DI GEORGES
PEREC:
UNA BOZZA
DI PAGINA
CON DISEGNI
A SINISTRA, “ORESTE”
DI HARRY MATHEWS
33
immaginaria, e
dell’immaginario,
lega Jacopo da
Lentini, il notaio
duecentesco che ha istituito il
sonetto, a Raymond
Queneau, che settecento anni
dopo ha incominciato a porsi
domande al riguardo: come se
uno fosse il sogno dell’altro, o
la sua ombra. Cosa significa
scrivere poesie composte da
due quartine e due terzine di
endecasillabi, in cui si
alternano quattro rime? Cosa
significa scrivere un romanzo
senza usare la lettera “e”?
Due affermazioni di Queneau
aiutano a capire. Da giovane,
Queneau era stato
surrealista, aveva bazzicato i
luoghi di elucubrazione della
«scrittura automatica» e se ne
era allontanato. Disse di sé di
avere frequentato la
«negazione della letteratura»
(lo scardinamento surrealista
di ogni forma precedente, per
esempio il sonetto) e di avere
poi negato anche quella
negazione. Propugnava un
ritorno alla letteratura
classica? Sì e no. Negli anni
Trenta la sua crisi
esistenziale, oltre che
letteraria, fu superata proprio
con un viaggio in Grecia: al
ritorno affermò che il poeta
classico che scrive una
tragedia seguendo regole che
conosce è più libero del poeta
contemporaneo che scrive
quello che gli passa per la
testa ma è schiavo di altre
regole, a lui ignote.
La libertà della scrittura
automatica, della fantasia
onirica, dell’inconscio
svincolato non produce opere.
L’artista cerca il gioco fra la
propria libertà espressiva e le
restrizioni di una grammatica
o di una tradizione artistica
casomai da trasgredire. Nei
RAYMOND QUENEAU
GEORGES PEREC
ITALO CALVINO
MARCEL BÉNABOU
JACQUES JOUET
“CENTOMILA MILIARDI
DI POESIE” (1960) SONO DIECI
SONETTI I CUI VERSI POSSONO
COMBINARSI TRA LORO
FINO A PRODURRE IL NUMERO
PROMESSO DAL TITOLO (OGNI
VERSO È SINTATTICAMENTE
COMPATIBILE CON GLI ALTRI,
ED È STAMPATO
SU UNA STRISCIA DI CARTA
LIBERA DA TRE LATI)
NEL 1969 SCRIVE IL ROMANZO
“LA SCOMPARSA” DA CUI
È ASSENTE LA VOCALE “E”;
È LA STORIA DELLA SPARIZIONE
DI ANTON VOYL (IL NOME
CORRISPONDE ALLA PAROLA
"VOYELLE", VOCALE, PRIVA DI E).
LA LEGGENDA VUOLE
CHE ALL’USCITA DEL ROMANZO
NESSUNO SI ACCORSE DELLA
PARTICOLARITÀ ALFABETICA
NE “IL CASTELLO DEI DESTINI
INCROCIATI” (1973) I RACCONTI
NASCONO DA UNA GRIGLIA
DI LINEE DI TAROCCHI
CHE SI INTRECCIANO
SU UN TAVOLO DA GIOCO.
OGNI NARRATORE-GIOCATORE
DEVE RIASSUMERE
LA SUA STORIA IN UNA
SEQUENZA DI TAROCCHI,
SENZA USARE PAROLE
IL SUO “UN AFORISMA PUÒ
NASCONDERNE UN ALTRO”
(1980) È UNA MACCHINA
LETTERARIA PER PRODURRE
AFORISMI. L’AUTORE INDIVIDUA
FORMULE AFORISTICHE
E ALCUNI INSIEMI DI PAROLE,
DALLA CUI COMBINAZIONE
SI RICAVANO AFORISMI INEDITI
(COME: “NE UCCIDE
PIÙ L’ARINGA CHE LO SPADA”)
“METRO POETICO” (1995)
È UNA RACCOLTA DI POESIE
SCRITTE IN METRÒ. OGNI
VERSO È STATO COMPOSTO
MENTALMENTE IN UNA TRATTA
E TRASCRITTO ALLA FERMATA
SUCCESSIVA. IL LIBRO
CONTIENE ANCHE LUNGHI
POEMI SCRITTI PERCORRENDO
ININTERROTTAMENTE
L’INTERA RETE PARIGINA
primi anni Cinquanta si
incominciò a parlare di
creatività, cercando di
ancorare a qualche
fondamento tecnico o
scientifico la passata visione
idealistica dell’ispirazione.
Nel 1960, dopo un convegno
assai conviviale sull’opera di
Queneau, a lui e al
matematico François Le
Lionnais venne l’idea di
fondare un gruppo di studio e
di sperimentazione: nacque
l’Ouvroir de littérature
potentielle (Oulipo). Il
gruppo e il suo modo di
lavorare assieme non
assomigliava ad alcun
precedente, salvo forse
all’impresa patafisica di
Alfred Jarry. Nel gruppo, ma
possibilmente in ogni
partecipante, dovevano
convivere l’intelligenza
letteraria e la scientifica. Il
tono di ogni lavoro e di ogni
riunione doveva risultare
costantemente semiserio,
senza che mai l’aspetto del
rigore prevalesse sullo spirito
giocoso e gioioso, né l’inverso.
Né puro seminario scientifico
né puro cabaret letterario ma
un continuo compenetrarsi
delle due modalità: una
interminabile jam session di
parole. Al centro
dell’attenzione, la contrainte,
traducibile come «vincolo» o
«restrizione», a metà strada
fra la regola di gioco e
l’istituto letterario (ma
l’Oulipo ha avuto anche un
interessante spin off
pittorico). Occorreva provare
a inventare nuove
contraintes, mirando
idealmente alla stessa
potenza generativa della
rima, del verso metrico, della
tragedia classica. Il senso di
queste operazioni è indicato
dall’aggettivo che compare
nel nome del gruppo, e che
definisce l’orizzonte aperto
dalla contraintes: potentielle.
La letteratura potenziale è la
possibilità non ancora
esperita, la forma che non ha
ancora trovato la materia in
cui sostanziarsi. Un esempio:
la riduzione delle poesie più
note in strofette che
sembrano haiku giapponesi
(o poesie di Sandro Bondi). Si
ottiene mantenendo solo le
parole finali di ogni verso.
«Vita/oscura,/smarrita./Dura/
e forte/paura./Morte/vi
trovai...». Da una sottrazione
nasce un testo nuovo: era lì, in
potenza, e la contrainte lo ha
messo in atto. Questo lo
spirito della letteratura
potenziale: una burla
scientificamente condotta
che gioca con i veri strumenti
che producono la poesia. E
finisce per farceli conoscere
meglio.
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la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 16 NOVEMBRE 2014
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Spettacoli. Musica ribelle
“Sì, ho vissuto in modo spericolato
ora proverò a comportarmi meglio”
A settant’anni, con un disco e un libro,
uno dei padri della psichedelia inglese
fa ordine nella sua vita.Ma non troppo
G UIDO ANDRUET T O
«I
SITWORTHIT?», ”Ne vale la pena?”, cantava Robert Wyatt
con la sua voce dolce e straziante in Shipbuilding, una
ballata contro la guerra delle Falkland composta nel
1982 da Elvis Costello. Ascoltarla procura un brivido lungo la schiena, ancora oggi. Segno che il cantautore di
Canterbury, dove negli anni Sessanta si era formata una
nuova scena musicale d’avanguardia in cui si fondevano rock psichedelico, jazz ed elettronica, ha davvero
dentro di sé il fuoco sacro della musica. Fondatore dei
Soft Machine e dei Matching Mole, due band che hanno
scritto con i Pink Floyd la storia della psichedelia inglese, in cinquant’anni di attività segnati anche dalla sua
militanza nel partito comunista, Wyatt ha collezionato innumerevoli collaborazioni
con artisti del calibro di Brian Eno, Syd Barret, David Gilmour, Phil Manzanera, Paul
Weller e Mike Oldfield. Non solo: con un pugno di altre band quali The Wilde Flowers,
Gong e Caravan, Wyatt è il creatore di un’evoluzione della psichedelia chiamata “progressive rock” e di un particolare sottogenere particolarmente colto e adorato dalla
critica che prende proprio il nome di “Canterbury sound”.
Nato a Bristol nel 1945, da quando ha ventotto anni vive su una sedia a rotelle per
via di un drammatico incidente (cadde
da una finestra al quarto piano durante do c’è una guerra in corso. È molto difficiun party alcolico a Londra, e rimase pa- le chiudersi nel proprio mondo quando il
ralizzato). Wyatt oggi risiede a Louth, nel mondo è in guerra. Non si può rimanere
Lincolnshire, dove lo abbiamo raggiunto indifferenti. La cosa più difficile per me è
al telefono in occasione della pubblica- quando avverto la sensazione di trovarzione di Different Every Time, un doppio mi sempre dalla parte sbagliata: l’estaalbum che raccoglie i brani più rappre- blishment e l’opinione pubblica prendosentativi del suo vasto repertorio, da Ju- no molto spesso delle posizioni che diverst As You Are a The Age of Self fino a Moon gono nettamente dalla mia».
Nella musica ha sempre cercato lo
in June dei Soft Machine, unitamente a
scambio. Perché le sue collaborazioni
una nuova biografia curata da Marcus
con altri artisti sarebbero, come dice
O’Dair per l’editrice Serpent’s Tail, che
lei, delle «dittature benevole»?
sarà presentata dal cantante il 23 no«Perché se lavoro a un disco mio e invivembre alla Queen Elizabeth Hall del
to qualcuno a suonarci, sono io che mi asSouthbank Centre di Londra.
A gennaio compirà settant’anni, ma è sumo la responsabilità di quello che sarà
da tempo che lei ormai conduce una vi- il risultato finale. E così divento una speta da eremita della musica. Come mai? cie di dittatore. Viceversa se sto suonan«È vero, mi piace la solitudine. Vorrei do per il disco di un altro, non spetta a me
anzi essere molto più solo, ma non sono decidere come produrlo o come fare il
un monaco e sfortunatamente non vivo mixaggio o come registrare l’audio».
in un monastero. Mi accontento di una soCon Björk, che la volle per Submarine,
l’intesa fu totale.
litudine che non è mai totale, ci sono gli
«Björk è magica. È lo specchio della sua
amici e poche altre persone che vedo ogni
tanto, ma da tempo ho smesso di suona- terra, l’Islanda, che è fatta di ghiacci ma
re in giro. Sono concentrato più che altro anche di vulcani e di geyser da cui sgorga
nel mettere ordine nella mia vita. Per la acqua calda. Incarna la potenza del fuoco
musica ho vissuto in modo spericolato e e la purezza del ghiaccio, ci mette coragadesso sto provando solo a comportarmi gio e onestà in quello che fa, nella sua mumeglio. Poi, certo, a volte mi capita anco- sica, nel modo in cui canta. Per questo colra di suonare per qualcuno, ma accade pisce molto chi l’ascolta. È stato bello candavvero molto raramente. L’ispirazione tare per lei, anche se ero un po’ teso».
però continua ad arrivarmi. Possono esTornando indietro, al 1968, cosa ricorda del tour americano dei Soft Machisere delle piccole linee melodiche o armoniche che sento nella mia testa, o mane con la Jimi Hendrix Experience?
«Una energia nervosa, eccitante. Un
gari mentre sono al pianoforte, oppure
quando suono la tromba. Ma possono ar- brano dietro l’altro, velocissimi. Non c’erivare anche mentre cammino per stra- ra tempo di accordare gli strumenti, di
provare i microfoni. Si saliva sul palco e si
da, così, all’improvviso».
Nel suo album Comicopera del 2007 suonava. One, two, three, four, bang!
ha reinterpretato una canzone dei Hendrix era grandioso, e anche molto caC.S.I. di Giovanni Lindo Ferretti, can- rino e gentile con tutti noi. Anche gli altri
tando in italiano una cosa come «il no- del suo gruppo lo erano. Alla fine del tour
stro mondo è adesso». Come vede il il suo batterista, Mitch Mitchell, mi represente? Si sente fuo- galò la sua batteria. È la stessa che ho poi
ri dal nostro tempo? suonato negli anni successivi, soprattut«In un certo senso to nel ’69, nel ‘70 e nel ’71. Guardando
vorrei allontanarme- Hendrix, Mitch e Noel Redding ho impane, ma non ci riesco. È
rato molto. Lì con loro, sul palc o m e
co, sembravamo una slot maquanchine».
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Robert
Wyatt
Sto sempre
dalla parte
sbagliata
CAPITA ANCORA
CHE SUONI
PER QUALCUNO
MA È RARO. L’ISPIRAZIONE,
INVECE, QUELLA RESTA
PUÒ PRENDERMI
QUANDO SONO AL PIANO
O PER STRADA, COSÌ,
MENTRE CAMMINO
RICHARD WRIGHT
HA CREATO
QUELL’AURORA
BOREALE DI ARMONIE
INTORNO AI PINK FLOYD
CHE LI HA RESI
COSÌ RICONOSCIBILI,
EPPURE È SEMPRE STATO
SOTTOVALUTATO
la Repubblica
DOMENICA 16 NOVEMBRE 2014
35
Jonathan Coe.
Misi su un suo disco
e iniziai a scrivere
IERI E OGGI
J O N A THA N COE
IN BASSO
ROBERT WYATT
AI TEMPI
DEI SOFT MACHINE
(IL SECONDO
DA SINISTRA)
E IN QUESTO
RITRATTO COME
È OGGI A QUASI
SETTANT’ANNI
W
FOTO RENAUD MONFOURNY
ELVIS COSTELLO
È UN GRANDE:
È CAPACE DI PORTARE
SUL PALCO UN QUARTETTO
D’ARCHI, POI DI COLPO
UN SET DI PERCUSSIONI
E DOPO UN’ORA E MEZZA
UN LIVE ROCK’N’ROLL.
MAGNIFICO
YATT. POCHI MINUTI FA
questa pagina era
bianca. La fissavo, non
sapendo cosa scrivere.
Poi ho chiuso gli occhi e
ho aspettato di vedere qual era la prima
cosa che mi saltava in mente pensando a
Robert Wyatt. È stata un’immagine della
mia scrivania. Una piccola scrivania in
legno di pino che avevo comprato nel
1991. Era sistemata in un angolo della
nostra camera da letto nel piccolo
appartamento preso in affitto per alcuni
mesi a poca distanza da King’s Road, a
Chelsea. Sopra c’era un laptop Toshiba
nuovo di zecca, mio orgoglio e mia
felicità. Me ne vantavo spesso con gli
amici, spiegando che quel laptop aveva
un hard drive della capacità di 20 MB,
grande abbastanza da poter contenere
l’intero romanzo che mi ero riproposto di
scrivere. Infatti avevo iniziato a scrivere.
Avevo anche già un titolo — La famiglia
Winshaw — e un’idea alquanto concreta
della trama e della struttura. Era un libro
ambizioso, ma l’ambizione
fondamentale era quella di scrivere
qualcosa di fortemente politico che non
desse ai lettori l’impressione di leggere
un’arringa. Coniugare rabbia con
cordialità e comprensione: sarebbe stato
possibile? Per molto tempo non ne fui
sicuro. Restavo seduto alla scrivania
tutto il giorno e tutta la sera, scrivevo
quello che riuscivo a scrivere, ma non era
molto. Poi, più avanti, in quello stesso
anno, quasi il giorno stesso in cui uscì,
comprai l’album Dondestan di Robert
Wyatt. Era il suo primo vero album dopo
Old Rottenhat, uscito circa sei anni
prima, e all’improvviso — riascoltando
quella voce, penetrando in quella
sonorità, sentendomi accolto in quello
spazio lirico nel quale l’impegno politico
era sempre andato d’accordo con la
generosità e l’umorismo — mi si
spalancò un mondo di nuove possibilità.
L’ispirazione che stavo cercando era da
sempre lì, sotto il mio naso. Era lì,
nell’album di Robert del 1974, Rock
Bottom, quando i suoi straordinari
vocalizzi senza parole nella parte
introduttiva di Sea Song avevano fornito
una confortante colonna sonora a molti
adolescenti in preda a delusioni d’amore.
Era lì, in Nothing Can Stop Us, nelle sue
sublimi versioni di cover come Strange
Fruit e At Last I Am Free. Ed era stata lì,
sicuramente, in Old Rottenhat, l’album
che aveva cristallizzato l’emergere aspro
della thatcherite meglio di chiunque
altro, ma che aveva altresì presagito
l’ascesa del New Labour dieci anni prima
che Tony Blair emendasse la Clausola 4
(“Se dimentichiamo le nostre radici e chi
ERO UN PO’ TESO
MA È STATO BELLO
CANTARE
PER BJÖRK. È LO SPECCHIO
DELLA SUA TERRA
INCARNA LA POTENZA
DEL FUOCO E LA PUREZZA
DEL GHIACCIO. CI METTE
CORAGGIO E ONESTÀ
siamo/il movimento si disintegrerà come
fanno i castelli costruiti sulla sabbia”).
La più famosa caratteristica delle band di
Canterbury — al di là del loro
virtuosismo strumentale,
dell’autolesionismo tipicamente inglese
e di certe tendenze dadaiste — era la loro
assoluta incapacità di raggiungere un
vasto pubblico, di spiccare il volo dalle
pagine delle riviste specializzate di
musica per raggiungere i mass media e
la coscienza nazionale. Troppo
espansivi? Troppo chiusi? Chissà. Una
delle due ovvie eccezioni a questa regola
fu Tubular Bells di Mike Oldfield. L’altra è
Robert Wyatt. Nel trambusto del mondo
musicale britannico alla fine degli anni
Settanta, la maggior parte degli artisti
che erano riusciti ad affermarsi faceva
fatica a restare a galla. Robert, invece,
pareva procedere a vele spiegate.
Buona parte della longevità e della
popolarità di un artista dipendono in
definitiva dalla fortuna, ma in questo
caso non penso che la fortuna ebbe molto
a che farci. Oggi le sue canzoni sono più
conosciute, sempre più trasmesse e più
amate che mai. E questo dipende
sicuramente dall’ampiezza della sua
visione. Dopo i suoi album per la Virgin
degli anni Settanta, Wyatt sviluppò una
nuova prospettiva, più apertamente
politicizzata, senza perdere nulla del suo
umorismo o della sua autoironia — erano
un po’ il suo marchio di fabbrica. Tutto a
un tratto la sua musica non fu più
introversa, ma proiettata verso l’esterno,
inclusiva, universale. Iniziò a parlare (e a
cantare) per una generazione intera. E
sono sicuro che lo fece
inconsapevolmente, altrimenti se ne
sarebbe astenuto. Rabbrividisco al solo
pensiero di come sarebbero stati gli
ultimi decenni senza il commento
continuo e alternativo fornito dalla
musica e dalle parole di Robert. Una volta
disse che non aveva nulla da obiettare
alle canzoni che non avevano senso,
perché quando le canzoni hanno senso il
più delle volte a lui quel senso non
piaceva. Per quanto riguarda le sue
canzoni, saranno anche indefinite,
sicuramente. In qualche caso addirittura
eccentriche. Per me, però, hanno un
senso di gran lunga superiore alla
maggior parte delle cose che ci sono al
mondo oggi. Sempre più, Robert Wyatt è
la voce del buonsenso. Canzoni sensate
per tempi insensati. Non sorprende di
conseguenza che io, come innumerevoli
altre persone, sia stato ispirato ed
elevato da esse così a lungo. E per questo
sarò loro grato per sempre.
(Traduzione di Anna Bissanti)
© 2014 Marcus O’Dair/Serpent’s Tail
London www.profilebooks.com
QUEL GIORNO
CON JIMI HENDRIX
SEMBRAVAMO
UNA SLOT MACHINE
UN BRANO DIETRO L’ALTRO,
NEANCHE IL TEMPO
DI ACCORDARE
GLI STRUMENTI E PROVARE.
SI SALIVA E SI SUONAVA
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la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 16 NOVEMBRE 2014
36
Next. Semaforo verde
Da Los Angeles a Seoul,come usare le informazioni per migliorare la vita nelle metropoli
JAIME D’ AL ESSAND R O
LOS ANGELES
P
ER INCONTRARE IL FUTURO bisogna attraversare il passato, almeno a Los Angeles.
Bisogna entrare nel municipio, Downtown, anno 1928, salirne le scalinate monumentali, percorrerne i corridoi troppo grandi e troppo vuoti e camminare
sui pavimenti in graniglia con disegni déco. La City Hall sembra ferma a Il grande sonno di Chandler con echi che arrivano fino a L. A. Confidential di Ellroy o
a L. A. Noire della Rockstar Games. Il presente è visibile solo in alcune foto alle pareti: Eric Garcetti, sindaco democratico di appena quarantatré anni. Il futuro invece ha il volto di Peter Marx, da febbraio il primo “Chief Innovation Technology Officer di Los Angeles”. Carica che, fino a ieri, apparteneva al mondo delle aziende hi-tech e non certo a quello dell’amministrazione pubblica.
Barba bianca, tono pacato, Marx ha passato alcuni anni a Roma quando era
piccolo. Il padre lavorava a Cinecittà. «Ho anche una Vespa», racconta sorridendo mentre ci sediamo nella sala del consiglio. Con un lungo passato nel mondo dei videogame, prima
di esser chiamato da Garcetti era vicepresidente della Qualcomm, colosso dei microprocessori per mobile. «Chi me lo ha fatto fare? Lavorare su un’intera città è un’opportunità unica. Non capita due volte»,
spiega. «La tecnologia sta cambiando la nostra vita e la vita di molti di noi si svolge nelle metropoli. Los
Angeles è sempre stata una città che guardava
avanti. Uno dei nodi di Arpanet, il primo nucleo di
quel che poi sarebbe diventata Internet, era qui. E
sempre qui ci sono università come il California Institute of Technology. È grazie agli Open Data che
portiamo avanti questa tradizione». Lo scorso 31
maggio, il sito data.lacity.org, ha aperto i battenti:
pubblica in tempo reale tutte le informazioni relative alla città, dagli incidenti stradali al consumo
idrico ed energetico e chiunque può usarle per sviluppare servizi. Ma soprattutto i 37 dipartimenti
dell’amministrazione comunale possono incrociare i dati riducendo gli sprechi e aumentando la precisione degli interventi. «Oggi gli smartphone, domani le automobili e dopodomani le infrastrutture
stradali, trasmetteranno una quantità enorme di
informazioni che riguardano la città», continua
Marx. «Devono essere pubbliche. Perché non è corretto che i dati siano appannaggio di pochi, e d’altra parte le risorse a disposizione degli enti pubblici sono limitate. Ci
Chicago
Seoul
È LA REGINA DEGLI OPEN DATA.
LA CITTÀ ORGANIZZA
IN CONTINUAZIONE HACKATHON,
MARATONE DI HACKER,
PER SVILUPPARE APPLICAZIONI
LEGATE AI SERVIZI AI CITTADINI
E SOSTIENE I PROGETTI MIGLIORI
IL 96 PER CENTO DEI CITTADINI
È CONNESSO AL WEB. TUTTI I SERVIZI
DELLA MUNICIPALITÀ SONO
ACCESSIBILI DA MOBILE E PERFINO
DA SMART TV. INTANTO SI LAVORA
A MIGLIORARE SISTEMI INTELLIGENTI
PER LA GESTIONE DEL TRAFFICO
Barcellona
TUTTI I TRASPORTI E I SERVIZI
AI CITTADINI SONO ONLINE
E VENGONO GESTITI IN TEMPO REALE.
ALLE PICCOLE E MEDIE IMPRESE
IL COMUNE DÀ ACCESSO AI DATI
E ALLE INFRASTRUTTURE
PER SVILUPPARE NUOVI PROGETTI
Se i Big Data sono il braccio destro del sindaco
Rio de Janeiro
VENGONO RACCOLTI I DATI
DA TUTTA L’AREA URBANA,
DAL TRASPORTO ALLA CRIMINALITÀ,
CHE POI VENGONO GESTITI
IN MANIERA INTEGRATA.
ANCHE IN QUESTO CASO
I DATI SONO APERTI
Nizza
L’ANNO SCORSO HA LANCIATO
“CONNECTED BOULEVARD”: SENSORI
PER IL TRAFFICO, SUI CASSONETTI,
NEI PARCHEGGI. IN CENTRO
SI PERDEVA IL 47 PER CENTO IN MENO
DI TEMPO PER IL PARCHEGGIO. ORA
VIA APP SI SPENDONO POCHI MINUTI
Singapore
È LA CITTÀ CHE DA VENTI ANNI
HA INVESTITO LE RISORSE MAGGIORI
IN OPEN DATA E BANDA LARGA.
HA IL SISTEMA INTEGRATO
DEI TRASPORTI PIÙ COMPLETO. I DATI
VENGONO GESTITI IN TEMPO REALE
PER MIGLIORARE LA VIABILITÀ
Italia MILANO, GENOVA, ROMA E SOPRATTUTTO BOLOGNA E TORINO STANNO APRENDO PORTALI DEDICATI A OPEN DATA DOVE VENGONO PUBBLICATE STATISTICHE E ANALISI. MA PER ELABORARE
la Repubblica
DOMENICA 16 NOVEMBRE 2014
Perché siano davvero utili
37
vanno elaborate in tempo reale. Già, ma da chi?
Los Angeles
È STATA LA PRIMA CITTÀ A DOTARSI
DI UN CHIEF INNOVATION TECHNOLOGY
OFFICER. DAL 31 MAGGIO
METTE ONLINE TUTTI I DATI RELATIVI
ALLA VIABILITÀ, AL CONSUMO
ENERGETICO, ALLA RACCOLTA
E ALLO SMALTIMENTO DEI RIFIUTI
San Francisco
HA INIZIATO A CONNETTERE
GLI AUTOBUS NEL 2004. REALIZZA
“ECO MAPPE” DELLA CITTÀ USANDO
LE RILEVAZIONI TERMICHE
DELLA NASA PER AUMENTARE
IL RISPARMIO ENERGETICO.
IL COMUNE SOSTIENE LE START UP
Amsterdam
DOPO LOS ANGELES, HA NOMINATO
UN CHIEF INNOVATION TECHNOLOGY
OFFICER. TUTTA LA CITTÀ È CABLATA
IN FIBRA: CONTROLLO DEI CONSUMI
ENERGETICI, SISTEMA
DI ILLUMINAZIONE CONNESSO WI-FI
E SISTEMA DI VIABILITÀ INTEGRATO
LE INFORMAZIONI E GESTIRE IL TRAFFICO IN TEMPO REALE C’È ANCORA MOLTA STRADA DA FARE
sono molte persone in gamba che lavorano per questo municipio e molte altre che lavorano per società
private. L’unico modo per sfruttare il talento delle
une e delle altre è permettere che tutti possano accedere alle informazioni».
Anche Chicago ha recentemente lanciato un
progetto simile, mentre fra i comuni più attivi ci sono New York, San Francisco, Boston, Atlanta. Ma il
punto non è tanto se le nostre città diventeranno
smart, ma come faranno a diventarlo, quanto tempo ci metteranno e quanti investimenti saranno
necessari. «Di progetti pilota per una “città intelligente” l’Italia è già piena», sottolinea Nicola Villa,
che per la Cisco si occupa proprio di Big Data e analisi avanzate. «Peccato che non basti installare tre
panchine o qualche lampione dotato di sensori per
fare il salto di qualità. Dal trasporto pubblico ai telefoni che abbiamo in tasca, è un proliferare di standard diversi che rendono difficile se non impossibile la costruzione di servizi che funzionino davvero». City Protocol, nato a Barcellona due anni fa, ha
come missione proprio quella di creare piattaforme per le città partendo spesso dalla logica degli
Open Data. Dell’organizzazione, alla quale si aderisce pagando una piccola quota annuale, fanno
parte quaranta città: Amsterdam, Buenos Aires,
Genova, Helsinki, Istanbul, Livorno, Milano, Mosca, New York, Parigi, Roma, Seoul, Stoccolma,
Taipei, Torino, Venezia. E multinazionali di prima
grandezza del calibro di Microsoft, Cisco, Fujitsu,
GdF Suez, Hp, Ibm, Italtel, Oracle, Siemens, Telefonica, più una serie di università e centri di ricerca. Prosegue Villa: «Molte iniziative interessanti falliscono proprio per l’assenza di un denominatore comune. Capita che un’azienda municipalizzata faccia un bando e acquisti dei mezzi che usano
certi sensori che poi magari non si parlano con quelli installati ai semafori da qualcun altro. L’altro
ostacolo è lo stabilire chi raccoglie, possiede e organizza i dati in modo che siano accessibili e fruibi-
li». A Los Angeles è un compito che svolge il Comune, ad Amsterdam è invece una società a partecipazione pubblica così come a Singapore dove si incrociano i dati (anonimi) forniti dagli operatori telefonici con i sensori sparsi per la città e i gps montati sui mezzi pubblici, così da modificare in tempo
reale sia le tariffe di accesso al centro secondo il traffico sia la coordinazione dei semafori.
Stiamo parlando di volumi di dati enormi che
vanno elaborati in tempo reale. Se semplicemente
si immagazzinano su un database per poi essere
elaborati in seguito non sarà possibile fornire servizi puntuali. Bisogna abbandonare il concetto dei
dati statistici e passare a quello dei “dati predittivi
e prescrittivi” che permettono non solo di cambiare subito il numero di tram su una certa linea secondo il numero di passeggeri, ma di anticipare le
esigenze della città secondo le condizioni che si
stanno verificando. «Il futuro è una grande mappa
tridimensionale della città, interattiva, accessibile a tutti e che muta secondo per secondo», immagina Marx. «Quando lavoravo al videogame SimCity pensavo che un’immagine verosimile delle nostre metropoli avrebbe potuto avere un aspetto del
genere. Ma SimCity è solo una simulazione, nel nostro caso invece sarà la rappresentazione di una cosa vera». Che, per una volta, potrebbe esser priva
di copyright. E per questo anche piena di pericoli,
aperta sia a buone idee sia a chi i dati vuole usarli
per un suo tornaconto. «Non a caso ad Amsterdam
la società che raccoglie e gestisce i dati è a partecipazione pubblica», nota Giancarlo Capitani del Politecnico di Milano. «Se le grandi multinazionali
dell’hi-tech iniziano a sviluppare applicazioni e servizi per le smart cities attingendo agli Open Data,
di fatto gli si lascia campo libero in un settore strategico. Bisogna avere una visione di insieme e compiere scelte precise». Esattamente quel che in Italia non sta accadendo salvo pochissime eccezioni.
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la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 16 NOVEMBRE 2014
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Sapori. Vecchi e nuovi
ESATTAMENTE
QUATTRO ANNI FA
VENIVA
DICHIARATA
“PATRIMONIO
CULTURALE
E IMMATERIALE
DELL’UMANITÀ”.
PARTENDO
DALLA TRADIZIONE
ECCO DIECI PIATTI
“RIVISITATI”
PER FESTEGGIARLA
NEL SEGNO
DELL’INNOVAZIONE
10
piatti
d’autore
Mandorle
e misticanza
REALE CASADONNA
CONTRADA SANTA LIBERATA
CASTEL DI SANGRO (AQ)
TEL. 0864-69382
NIKO ROMITO
propone un mix
di verdure
di campo condite
con aceto di vino,
extravergine e sale
marino, appoggiate
su una crema molto
densa, realizzata
emulsionando
mandorle e acqua
Pasta
e patate
IL MOSAICO TERME MANZI
P.ZA BAGNI DI GURGITELLO 4
CASAMICCIOLA TERME (NA)
TEL. 081-994722
NINO DI COSTANZO
ne elabora
una versione
straordinaria:
sul piatto
23 formati di pasta
artigianale
e tre tipologie
di patate (bianche,
gialle e viola)
in diverse consistenze
Mare&monti
mediterranei
L’appuntamento
Carrie D’Andrea Keys,
figlia dello scienziato-simbolo
della dieta mediterranea Ancel
Keys, sarà l’ospite d’onore
del primo Salone Internazionale
della Dieta Mediterranea,
dal 21 al 23 novembre a Pioppi,
la cittadina cilentana dove Keys
condusse le sue ricerche
SUD
VIA S. PIETRO E PAOLO 8
QUARTO (NA)
TEL. 081-0202708
MARIANNA VITALE
ricostruisce nel piatto
gli elementi
della piramide
alimentare:
lingua di vitello
con pesce azzurro
marinato,
verdure locali,
maionese al pomodoro
e polvere di capperi
Alici e pappa
al pomodoro
I laboratori
Durante le “Giornate della dieta
mediterranea – patrimonio
Unesco”, a Bologna in questi
giorni, incontri e degustazioni
di prodotti cilentani. Originali
i laboratori dedicati al consumo
consapevole dei prodotti ittici
e alla produzione casalinga
di pane con farine antiche
DA CAINO
VIA DELLA CHIESA 4
MONTEMERANO (GR)
TEL. 0564-602817
VALERIA PICCINI
associa il simbolo
della tradizione
contadina toscana
alla reginetta
del pesce azzurro
in una lasagnetta
con pasta fillo
Completa il piatto
una quenelle di sorbetto
al pomodoro
Ricciola
fumé
Al mercato
Fino a metà febbraio, a giovedì
alterni, al Mercato del Carmine
di Genova, Chef Kumalé,
super esperto di cucine
del mondo in Italia, declinerà
al plurale il concetto di “cucina
mediterranea”, attingendo
alle tradizioni culinarie dei paesi
affacciati sul mare nostrum
DON ALFONSO
CORSO S. AGATA 11
S. AGATA SUI DUE GOLFI (NA)
TEL. 081-8780026
ERNESTO IACCARINO
utilizza
l’affumicatore
a bassa temperatura
per profumare
la tagliata,
presentata con salsa
di yogurt, maionese
al pompelmo,
polvere di cedrangolo
ed extravergine
Mediterranea superstar.
Buon compleanno dieta,
premiata dall’Unesco
ora in versione grandi chef
LICIA GRANELLO
“I
L MEDITERRANEO FINISCE là dove finisce l’ulivo”, so-
steneva lo storico francese Bernard Braudel. In
realtà, negli ultimi anni i cambiamenti climatici hanno spinto gli ulivi fin quasi a un passo dalle Dolomiti, non esattamente il territorio cui
pensava il dottor Keys quando negli anni Cinquanta mise in connessione cibo, geografia e
longevità nei suoi studi cilentani.
Seimila anni dopo la domesticazione dell’ulivo, chiediamo ancora all’alimento-simbolo della dieta mediterranea di farci vivere bene e a lungo, esattamente come aveva promesso agli uomini la dea Atena. E in coda all’olio, una scia di alimenti che hanno segnato
la nostra storia culinaria.
Sono passati esattamente quattro anni — 16 novembe 2010 — dal giorno
in cui la dieta mediterranea è stata dichiarata patrimonio culturale imma-
la Repubblica
DOMENICA 16 NOVEMBRE 2014
Classica
Penne con pomodorini,
olive e basilico:
una delle ricette
più amate della dieta
mediterranea
Cous cous,
colori e profumi
DISPENSA PANE E VINI
VIA PRINCIPE UMBERTO 23
TORBIATO DI ADRO (BS)
TEL. 030-7450757
VITTORIO FUSARI
incrocia
la consistenza
dell’incocciatura
di grano marocchino
con sapori e sentori
di broccoli, pomodori,
sardine essiccate,
nero di seppia,
extravergine
e mozzarella di bufala
Compressione
di pasta e fagioli
LA FRANCESCANA
VIA STELLA 22
MODENA
TEL. 059-223912
MASSIMO BOTTURA
rivisita la zuppa
più classica
in un bicchiere
riempito a strati:
crema di fagioli,
bianco di radicchio
spadellato,
maltagliati
di crosta di Parmigiano
e rosmarino
Ricci e crema
di cavolfiore
S’APPOSENTU
VICO CAGLIARI 3
SIDDI (VS)
TEL. 070-9341045
ROBERTO PETZA
vela il fondo
del piatto
con una crema
di cavolfiore
(stufato e frullato)
Sopra, mandorle
condite
con scorze di limone,
sale marino a fiocchi
e sorbetto di ricci
Calamarata
ai frutti di mare
teriale dell’umanità Unesco a Nairobi. Una vittoria culturale prim’ancora
che gastronomica, capace di far salivare di soddisfazione i golosi di tutto il
pianeta. Sotto il capiente cappello della dieta mediterranea, infatti, coesistono pizza e bruschette, piatti storici come pasta e fagioli e i crostacei sotto
vuoto con emulsione di agrumi della cucina 2.0, l’intero plateau dei formaggi e la zuppa di pesce, le penne alla Norma e la pastiera napoletana. Il tutto,
annaffiato da un buon bicchiere di vino (meglio se rosso) e senza demonizzare le carni, che, a piccole dosi, abitavano anche le tavole dei centenari abitanti di Pollica e dintorni.
Quella che oggi ci appare una scelta obbligata per guadagnare in salute,
inseguiti come siamo dal terrore di tumori, ipertensione e diabete, un tempo lo era per motivi opposti: le malattie da benessere erano sconosciute ai più
semplicemente perché il benessere era un lusso, e per sopravvivere ci si doveva accontentare degli alimenti più poveri a disposizione, ovvero farine
grezze, verdure, legumi, formaggi, pesce (povero anche lui).
Come spesso succede, è stato il mondo a consegnarci lo specchio dove rimirare il nostro tesoro, dai lavori di Keys — che non a caso si trasferì in pianta stabile nel Cilento, dove morì ultracentenario — ai mille riconoscimenti
scientifici, su su fino al convegno internazionale “Food for tomorrow”, organizzato appena la scorsa settimana a New York, dove gli interventi incentrati
sul futuro del cibo hanno spaziato dall’agricoltura sostenibile alla necessità
di abbracciare una cultura alimentare più sana, portando a modello il regime alimentare esaltato da Ancel Keys.
Così, tra chi propone di dedicare alla dieta mediterranea una giornata
mondiale e chi vorrebbe trasformarla in brand, la passerella è garantita dall’alleanza di cuochi e produttori.
In una recentissima indagine del Centro di ricerche sociali sulla Dieta Mediterranea dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, il termine “cucina mediterranea” è stato sottoscritto dal primo all’ultimo dei cinquanta chef
stellati italiani intervistati. Accanto a loro, gli artigiani che assicurano la qualità dei fagioli di Controne e dei fichi dottati, del pesce di paranza e del provolone del monaco. Addentando una frisella con pomodorini e alici li benedirete tutti.
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PICCOLO PRINCIPE
PIAZZA PUCCINI 1
VIAREGGIO (LU)
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GIUSEPPE MANCINO
declina la pasta
artigianale campana
in tripla cottura:
bollita, spadellata
con calamari,
cozze, vongole,
poi a bagnomaria
nel vetro
con verdure
e frutti di mare
Baccalà
pietre di Ragusa
DUOMO
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CICCIO SULTANO
spadella
il baccalà prima
di cuocerlo a bassa
temperatura.
Assemblaggio
con polvere di fiori
di finocchio
e aglio fritto,
meringa salata
e fagioli Cosaruciaru
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La caprese
che ci assolve
da ogni
peccato
MA URI ZI O DE GI OV A NNI
D
ICIAMO LA VERITÀ: è il termine
“dieta” che dà fastidio.
Sappiamo che ha solo il
significato di “regime
alimentare” e che quello che
conta è l’aggettivo che segue: ma il suono
della parola, soprattutto se pronunciato
da un dottore in camice bianco e occhiali
e fronte corrugata lascia insorgere
immediato il senso di colpa e lo spettro di
lunghi periodi di sacrifici. Dieta: una
sentenza che ha in sé la condanna, per
chi come noi combatte strenuamente
contro la tendenza a mettere peso anche
solo pensando al cibo, e che è fortemente
convinto della necessità del carcere duro
per tutti coloro che si ingozzano
impunemente senza ingrassare.
La dieta, si sa, viene inflitta a ogni pie’
sospinto. Pressione alta? Dieta.
Pressione bassa? Pure. E la risposta è la
stessa per ogni malessere, dalla gastrite
al ginocchio della lavandaia, dalla
depressione al gomito del tennista.
Dieta. Per l’uomo comune, quindi, dieta
vuol dire rinuncia a qualsiasi cosa abbia
un minimo di sapore e sia in qualche
maniera appetibile, privilegiando
indegne gallette di riso soffiato e
merendine al polistirolo. Ma è qui che,
miracolosamente, ci viene in aiuto la
nostra cara, vecchia dieta mediterranea:
un ombrello etimologico, un’etichetta
che assolve e libera da ogni peccato di
natura alimentare. Perché come possono
essere loschi e proibiti alimenti prodotti
dalle nostre terre, frutto di una
millenaria tradizione agricola? Come
possono rientrare in terribili liste di
proscrizione cibi che caratterizzano la
storia di un popolo e che nascono al sole e
dalla terra di luoghi così ameni come i
paesi del bacino del Mediterraneo? Come
può essere peccaminoso un regime
alimentare che ha il sapore della cultura
stessa, ed è anche riconosciuto
dall’Unesco come patrimonio
immateriale dell’umanità?
Ecco quindi che magicamente la parola
terribile, quella che evoca
l’automortificazione e i sordi rumori
dello stomaco solitario e disperato al
cospetto di ogni vetrina di rosticceria,
diventa un’assoluzione e addirittura una
panacea. Perfino termini terribili, come
“carboidrati” e “lipidi”, pronunciati a
mezza voce in nascoste piazze di spaccio
come le trattorie tipiche, tornano alla
luce e vengono sdoganate col sorriso,
perfino dai temuti e normalmente
arcigni nutrizionisti.
E noi, vittime imperfette della strisciante
pinguedine, potremo sederci di fronte a
una meravigliosa caprese (mozzarella,
pomodoro, due foglie di basilico e
abbondante pane fresco) con rinnovato
ardore e la coscienza limpida come l’olio.
D’oliva, naturalmente extravergine.
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LA DOMENICA
DOMENICA 16 NOVEMBRE 2014
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L’incontro. Stelle
SE POTESSI
MANDARE
DAL FUTURO
UN MESSAGGIO
AL RAGAZZO
CHE ERO
GLI DIREI DI NON
PREOCCUPARSI
PERCHÉ TUTTE
LE COSE,
ANCHE QUELLE
BRUTTE,
SE ACCADONO
È PER UNA RAGIONE
A sette anni con “2001: Odissea nello Spazio” scoprì la magia del cinema e da allora non ha più smesso di rincorrerla. Con uno scopo
piuttosto preciso: “Restituire al pubblico la stessa emozione che
provai quel giorno in sala con mio padre”. Ci deve essere riuscito se
in quattordici anni i suoi film, da “Memento” all’ultimo “Interstellar”, hanno fruttato tre miliardi e mezzo di dollari. “Da ragazzino decisi che avrei fatto il regista. Ed do a indossare lo stesso tipo di vestiti per non perdere tempo a sceglierli. E poi le
tasche della giacca possono rivelarsi molto utili per infilarvi oggetti inutili».
Nolan è abituato ai set fai-da-te. Ha iniziato a fare sul serio all’università, gicortometraggi autofinanziati. Fu al corso di letteratura inglese che coero certo di potercela fare, mi sa- rando
nobbe Emma Thomas, oggi sua moglie, madre dei loro quattro figli e sua produttrice. Nel 1989 il primo cortometraggio, Tarantella: «Non so nemmeno se esiancora, da qualche parte» ride. «Era una serie di immagini messe l’una acrebbero bastati un paio di attori e sta
canto all’altra a contrasto, per la pura gioia di farlo. Poi subito dopo è nata l’ambizione, la necessità di sostenere le immagini con una narrazione». Seguono due
corti, Larceny e il kafkiano Doodlebug in cui un uomo insegue un insetto in una
una telecamera. Solo che non stanza
per poi scoprire che si tratta di una copia di se stesso e subire la stessa sorte. Suscitano apprezzamenti, ma Nolan deve comunque pagarsi il debutto nel
«The Following l’abbiamo girato con un gruppo di amici nei ficredevo che qualcuno alla fine lungometraggio.
ne settimana, una grande fatica». Il film, in bianco e nero, è un rompicapo noir
che contiene già gli elementi tipici del cinema di Nolan. Gli scarti temporali, i colpi di scena, la paranoia dei personaggi. Della sua formazione da autodidatta spiemi avrebbe anche pagato”
ga che «il vantaggio è stato il confronto fin da subito con ogni aspetto pratico e
Christopher
Nolan
AR I AN N A F I NO S
PARIGI
C
HRISTOPHER NOLAN si imbattè nel genio di Stanley Kubrick a sette an-
ni. «Mio padre mi portò a Leicester Square a vedere 2001: Odissea
nello spazio. Non ricordo nulla di quel giorno, né di quel che mi disse papà. Ma sento ancora l’emozione del ragazzino che scopre la potenza del cinema. Certe immagini grandiose del viaggio finale, la
scena in cui il computer Hal legge le labbra degli astronauti, mi sono rimaste dentro. Ecco, da regista mi piacerebbe restituire al pubblico quella stessa eccitazione, il senso di magia, di grandezza che solo il grande schermo può regalare».
L’appuntamento è all’Hotel Le Bristol, vicino agli Champs Élysées. Davanti
all’albergo delle celebrità, bloccata dietro le transenne, una piccola folla di ragazzi. Non sono cinefili ma fan in attesa di un’altra ospite famosa, Lady Gaga. In
questa stessa saletta, due anni fa, l’incontro con Nolan fu cancellato all’ultimo
momento, sull’onda dell’orrore della strage nel cinema di Denver in cui si proiettava il suo Il Cavaliere oscuro. Il ritorno. Era l’ultima traversia di una trilogia,
quella di Batman, tanto geniale quando circondata da un inquietante alone oscuro anche fuori dallo schermo. La morte, nel 2008, di Heath Ledger, al cui Joker
sarebbe stato tributato un Oscar postumo. Vari incidenti sul set e, nel 2012, la
sparatoria in sala. Ultimata la resurrezione cinematografica dell’Uomo pipistrello, Nolan è uscito dal girone infernale di Gotham per rivedere le stelle.
E si è lanciato nella sua odissea spaziale e sentimentale. Il suo Interstellar
è un kolossal basato sulle più moderne teorie scientifiche, ma anche il suo
film più romantico: «Il cuore della storia è la relazione tra un padre e un figlio, il diverso modo in cui questo rapporto può essere interpretato o messo
alla prova. E anche per questo il film è pieno di amore e di speranza».
Figlio di un pubblicitario inglese e di un’assistente di volo americana (ha entrambe le cittadinanze) Christopher Jonathan James Nolan, quarantaquattro anni, ha passato l’infanzia tra Londra e Chi-
LA SCUOLA MI HA ABITUATO ALLE UNIFORMI.
MA SE TENDO A INDOSSARE SEMPRE LO STESSO TIPO
DI VESTITI È SOPRATTUTTO PER NON PERDERE TEMPO
A SCEGLIERLI. E POI LE GIACCHE HANNO UTILISSIME
TASCHE PER INFILARCI DENTRO LE COSE PIÙ INUTILI
cago. A sette anni prese in mano la telecamera: «Ho iniziato a
girare film con la Super8 di mio padre». Il fratello sceneggiatore, Jonah, di sei anni più giovane, annovera tra i primi ricordi
quello di Chris che gira filmini con i pupazzetti in viaggio verso
lo Spazio, in una casalinga stop motion. Ciuffo biondo ben pettinato, abiti eleganti da ufficio, una compostezza che è retaggio degli anni nel collegio a indirizzo militare. A contrastare la freddezza dell’aspetto, la timidezza con cui si racconta. Spiega così le giacche che indossa sul set e il suo non vestire casual come tanti suoi
colleghi: «Sono abituato alle uniformi dai tempi della scuola. E ten-
tecnico del cinema. Ho imparato a registrare il suono, a montare, a usare la camera. E questo mi ha dato una conoscenza d’insieme a la capacità di capire le
qualità tecniche dei collaboratori». The Following arrivò in sala e Nolan ebbe così i soldi per finanziare Memento: «Un budget da quattro milioni e mezzo di dollari, un set vero: lì la mia vita è cambiata». Il film, infatti, gli valse l’attenzione
mondiale e una candidatura all’Oscar per la sceneggiatura. Tra gli estimatori
Steven Soderbergh che fece il suo nome per dirigere Insomnia, glaciale thriller
con Robin Williams e Al Pacino. Forte di questo successo (113 milioni di dollari
incassati nel mondo) Nolan presentò alla Warner la sua versione di Batman, che
abbandonava la componente pop per abbracciare atmosfere shakespeariane.
Crebbero i budget. Batman-Gli inizi costò 150 milioni, Il cavaliere oscuro 185, Il
cavaliere oscuro. Il ritorno 250. Accanto alla saga, altri progetti, autoriali e ambiziosi: The Prestige e soprattutto Inception.
In quattordici anni i suoi film hanno fruttato tre miliardi e mezzo di dollari.
L’intento di Nolan è evidente: mettere insieme il mainstream e il cult. Evidente,
e ricorrente, la sua ossessione per il tempo, nella struttura o nella narrazione.
«Sono attratto dalla soggettività del tempo. E da questo punto di vista Interstellar è il culmine di un lungo rapporto di fascinazione. Perché stavolta, per le
leggi della fisica, siamo entrati in territori in cui il tempo è davvero diverso, soggettivamente e scientificamente. E se c’è un antagonista in questa storia, se c’è
un nemico, è proprio il tempo».
Per usare uno degli scarti temporali che tanto piacciono a Nolan, tornando al
ragazzino folgorato dal cinema, in quel settimo anno di vita oltre alla scoperta
di Kubrick c’è anche quella di Spielberg. «Interstellar è certamente una costola
ideale di 2001 ma i riferimenti a quell’Odissea sono più che altro tecnici, il modo
in cui Kubrick ha mostrato lo Spazio e le astronavi. E poi il suo genio è inimitabile. Puoi esserne ispirato, influenzato, ma non puoi navigare nelle sue acque. La
sua estetica, personalità, filosofia sono uniche. Il mio Interstellar deve molto anche a Incontri ravvicinati del terzo tipo, non a caso credo sia il film più per famiglie che ho mai fatto. Io sono cresciuto nell’età d’oro dei blockbuster, dei film di
Spielberg e Lucas. Ed era un’epoca in cui l’etichetta “per famiglie” non aveva una
NEL VECCHIO COPIONE IL PROTAGONISTA
ERA UN BAMBINO. HO CAMBIATO IN ONORE
DI FLORA, LA NOSTRA PRIMOGENITA
MA SIA BEN CHIARO: I MIEI QUATTRO FIGLI
LI AMO TUTTI ALLO STESSO MODO!
connotazione negativa. I migliori kolossal di Hollywood di quel periodo sono per
la famiglia. Stavolta ho voluto regalare un’esperienza al cinema che padri e figli
potessero vivere insieme». Il nome in codice di Interstellar, sul quale, in pieno
stile Nolan, si era tenuto il segreto fino all’ultimo, è stato Flora’s Book, dal
nome della figlia. «La prima cosa che ho fatto è stata cambiare nel copione il personaggio del ragazzo con una femmina. Flora è la mia primogenita, mi sono molto identificato — anche se da padre di quattro ragazzini ci tengo a dire che li amo tutti allo stesso modo! Anche il personaggio
di Matthew McConaughey si prende cura di entrambi i figli, sebbene la
storia lo porti verso la figlia con cui condivide la passione per la scienza».
La famiglia è anche un serbatoio creativo: «Da sempre lavoro con
mia moglie e mio fratello Jonah. Con loro non ho bisogno di
rapporti politici e diplomatici. C’è uno scambio onesto di opinioni. Con Emma, mia moglie, applichiamo i criteri con cui
gestiamo la famiglia alla troupe. Abbiamo creato una sorta
di compagnia itinerante, e devo dire che ci troviamo bene».
Il fratello Jonah è l’alleato della scrittura: «Lavorerei sempre con lui, ma ora sta sviluppando progetti tutti suoi ed è
sempre più impegnato». Nessun accenno all’altro fratello,
Matthew, coinvolto qualche anno fa in una misteriosa vicenda, un omicidio da cui è stato assolto. Nolan è molto riservato, rispetto a un passato fatto di momenti anche difficili. «Se, nel film, potessi mandare un messaggio al ragazzo
che ero, gli direi di non preoccuparsi. Perché tutte le cose,
anche quelle brutte, succedono per una ragione. Della mia
vita non vorrei cambiare niente perché quello che ho vissuto mi ha fatto arrivare dove sono ora, dove volevo essere. A
dodici anni ho capito che avrei fatto il regista. Mi sarebbero
bastati una telecamera e due attori. L’unica cosa a cui non
avrei mai pensato è che per realizzare il mio sogno qualcuno
mi avrebbe pagato».
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