la domenica DI REPUBBLICA DOMENICA 16 NOVEMBRE 2014 NUMERO 506 Cult La copertina. L’era della nuova mediocrità Straparlando. Il lungo viaggio di Topazia Alliata La poesia. L’utopia romantica di Mário De Andrade Timoroso in scena e focoso in privato Nelle lettere inedite il grande tenore come non l’avete mai sentito E NRI CO F RA NCE SCHI NI LONDRA «C UORE MIO! VITA MIA! Ani- ma mia! Sangue mio! Bellezza mia! Gioia mia! Ciaciarella mia! Mimmina mia!». È Caruso che parla. O meglio, scrive. O forse, canta: perché le lettere del padre di tutti i tenori, che Christie’s ha scoperto e mette all’asta il 19 novembre a Londra, sono l’equivalente di una lunga canzone d’amore, con una donna come principale destinataria, Ada Giachetti, colei che fu la madre dei suoi due figli, più varie altre comprimarie nel corso del tempo. Un romanzo sentimentale, un feuilleuton, un’opera lirica o magari una soap opera, come verrebbe chiamata oggi: in cui l’amore della sua vita lo lascia per l’autista di famiglia, lui prima le fa causa poi continua a mandarle soldi fino alla morte, la sorella minore sostituisce la maggiore nel suo letto, una spasimante sudamericana sospira per lui, una giovane americana di buona famiglia lo sposa, un’altra lo denuncia per molestie allo zoo di Central Park, New York, e così via, in un carosello di passioni estasiate e furibonde, degne di un dramma di Puccini. >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE CON UN COMMENTO DI ANDREA BOCELLI E NRI CO CA RUSO MILANO, 4/11/1897 IA ADA! VITTORIA! VITTORIA! Nel M vero senso della parola. Vittoria riportata su tutti e senza che neanche io ne avessi potuto pensare, perché incerto della parte in tutto e per tutto. Figurati che credevo, se cantavo come alla prova generale, che mi davano un bel congedo in carta bollata. Invece non è stato così, perché? Perché la mia adorata mimma pregava per me, non è vero che pregavi per me? Avevo un po’ di nervoso prima di uscire perché avevo la voce, specialmente nei bassi, pesante molto, ma poi venuto il momento d’uscire, dopo d’avermi segnato e passato nel mio pensiero tutti i miei più cari, sono uscito. Ho cantato il mio primo duetto stupendamente e specialmente per il tempo, perché la sera prima non ne indovinavo nessuno tant’era la paura che avevo. Esco di nuovo a cantare la mia piccola romanza e alla fine di questa, che finisce con uno splendido si bemolle, viene giù il teatro di applausi, sicuro che sono durati un 5 minuti. Tesoro mio! Se avessi potuto tenerti vicino in quel momento, perché pensavo a te mentre il pubblico applaudiva; pensavo Oh! se la mia Ada sarebbe qui come sarebbe contenta di me, t’assicuro che mi avresti morsicato tutto o vita mia cara. FOTO EVERETT COLLECTION/CONTRASTO >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE il Caruso innamorato L’immagine. Letizia Battaglia, la mia vita in bianco e nero Officine. I giochi letterari di Queneau & Co. Spettacoli. Intervista a Robert Wyatt con assolo di Jonathan Coe L’incontro. Christopher Nolan, chi l’avrebbe detto che sarei arrivato fin quassù la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 16 NOVEMBRE 2014 28 La copertina. Il Caruso innamorato Cara Ada Va all’asta l’archivio segreto del cantante con le lettere alla sua amata Le nascose prima di morire Ecco il perché RTV-LA EFFE DOMANI SU RNEWS (ORE 13.45 E 19.45, CANALE 50 DEL DT E 139 DI SKY) IL VIDEOSERVIZIO SULL’ARCHIVIO SEGRETO DI ENRICO CARUSO <SEGUE DALLA COPERTINA EN R I C O FR A N C E S C H I N I I TUTTO DI PIÙ, come c’è stato di tutto e di più nella vita di un arti- D sta senza uguali, nato nel 1873 da una povera famiglia a Napoli, osannato sui palcoscenici di Milano, San Pietroburgo, Londra, New York, primo grande divo moderno della canzone, diretto dal vivo da Arturo Toscanini. Ma la caratteristica straordinaria del “Caruso innamorato” che esce prepotentemente fuori da queste lettere (piuttosto sgrammaticate, in verità) è che si tratta di una corrispondenza del tutto inedita. Non l’aveva mai letta neppure Enrico Caruso junior, suo figlio e autore della sua biografia ufficiale. Il tenore aveva consegnato le missive, insieme a una montagna di altre carte personali, appunti, fotografie, cartoline, telegrammi, ritagli, conti e assegni, a un intimo amico, Antonino Perrone, all’epoca residente negli Stati Uniti, a Boston, poco prima di ripartire nel maggio 1921 per Napoli, dove Caruso sarebbe morto appena tre mesi più tardi per i postumi di una pleurite mal curata e altri disturbi, alla precoce età di quarantotto anni. Accadde all’hotel Vesuvio, per l’occasione anche quello trasformato in palcoscenico, come per l’adeguato finale di un’opera, con il divo attorniato da una corte di familiari, medici, amici, servitori. Fu dunque quasi un testamento spirituale, nelle sue intenzioni probabilmente da mantenere segreto, quello che consegnò all’amico e che la famiglia di quest’ultimo ha poi custo- no di cui si innamorò mentre era sposata con dito gelosamente per generazioni, fino alla un altro uomo e che ripudiò il marito per fugrecente decisione di venderlo, affidandolo a gire con lui, lettere d’intenso desiderio sesuna delle più grandi case d’aste del mondo. E suale («Ada, ho bisogno di sentire il tuo corpo l’attesa per l’asta è spasmodica per un archi- incollato al mio per il resto delle nostre vite»), vio che, dicono i curatori di Christie’s, contie- più altre centoventuno di Ada a Caruso, colne la «storia non detta» del leggendario can- me di romanticismo («Mi sembra di impazzitante, una nuova fonte essenziale per com- re, non riesco a controllarmi, mi pare di moriprendere meglio il suo talento, la sua tecnica re, sono due giorni che non ricevo una tua lete la sua spesso problematica vita privata. Ne tera, che tortura è questa»). Ci sono testimofanno parte ben duecentoquindici lettere au- nianze del furore di Caruso quando la relatografe di Caruso ad Ada Giachetti, la sopra- zione termina fra accuse reciproche, insieme LE IMMAGINI ENRICO CARUSO NEI PANNI DEL DUCA DI MANTOVA NEL “RIGOLETTO” E ADA GIACHETTI NEL RUOLO DI MUSETTA NELLA PRIMA DE “LA BOHÈME” NEL 1895. AL CENTRO, UNA DELLE LETTERE CHE CARUSO SCRISSE ALLA SUA AMATA (4 NOVEMBRE 1897, TRASCRITTA IN QUESTE PAGINE) E UNA DI QUELLE CHE ADA SCRISSE AL TENORE (PARIGI, 23 LUGLIO 1912) alle prove che sino alla fine il tenore continuò a inviare denaro a quella che è stata certamente la donna della sua vita. Sebbene non certo l’unica: venti lettere autografe di Caruso a Rina Giachetti, sorella di Ada e a sua volta cantante, e centotrentacinque lettere di Rina a Enrico, raccontano in che modo lei prese il posto della sorella nel cuore, e sotto le lenzuola, del cantante. E poi altre lettere d’amore, di Caruso a Dorothy Benjamin, l’americana che divenne la sua prima moglie, di svariate innamorate a lui, come l’ereditiera argentina Vina Velasquez, («Mi tesoro, son las 11 de la noche y no puedo dormir»), o Luisa Starace, e della seconda moglie Teresa, della soprano Luisa Tetrazzini, delle donne che gli facevano causa e a cui lui pagava i danni al tribunale di Manhattan pur di mettere a tacere i sordidi pettegolezzi. In questo incredibile archivio c’è molto altro ancora, riflessioni sulla fama, sulla paura di andare in scena, sulla stanchezza («Il pubblico mi ha chiesto un bis per cinque minuti ma io sono crollato a terra stremato e ci sono voluti quattro uomini per portarmi via»). Ma su tutto il materiale spicca il “Caruso innamorato”: il più famoso e il più pagato cantante della sua generazione, il primo a incidere dischi e a venderne un milione di copie, la voce e il cognome diventati sinonimo della lirica, che fa cantare la carta come se fosse uno spartito per il suo privato, struggente “elisir d’amore”. © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica DOMENICA 16 NOVEMBRE 2014 29 Amore mio, io non canto che per te <SEGUE DALLA COPERTINA E NRI CO CA RUSO BUENOS AIRES, 20/5/1900 MORE MIO TANTO non mi dir niente per A quello che sto per dirti sappi che... in una sola parola senza andare per le lunghe.. Mi sono tagliato i baffi. Oh lo detto! Sì Amore l’ho dovuto fare perché mi davano grande noia ad impastricciarli e poi anche in riflesso alle opere che debbo fare come Werter e altre così ho creduto bene tagliarli però ve’, al mio ritorno li avrò o perbacco se li avrò. Altrimenti non ho coraggio di presentarmi a te, perciò spero che non mi dirai niente per questo anzi appena avrò tempo mi farò una fotografia e te la mando. BUENOS AIRES 8/6/1900 ti scrivo Amore della mia vita! Ripiglio adesso a scriverti da che ti ho spedito l’ultima mia. Dunque la notte del 6 finii di scriverti e dal mondo in cui ti scrissi puoi ben supporre in che stato ero. Difatti ero stanco ma però ero pieno di vita (e guarda bene la chiusa della lettera precedente) e esaltato. Mi posi sul letto ma che vuoi, invece di addormentarmi pensavo a te e pensando pensando feci ciò che non dovevo fare, cioè a dire chiusi gli occhi ecc. ecc. Dopo, reso ancor più stanco di prima, mi addormentai felicemente col tuo nome sulle labbra. La mattina seguente, cioè il giorno 7, mi svegliai sognandoti: eri nuda al letto, ed io ti baciucchiavo tutta. Il pubblico ha seguitato per 5 buoni minuti a chiedere il bis, e io duro, non lo ho concesso … la battaglia non era ancora finita, ci stava ancora il finale. Stavo rauco che più non ne potevo, ma siccome c’è un anima buona che prega per me, e questa sei tu, con alla fine del «Baluardo m’è il vangelo», presi uno di quei si naturali; che me lo sentii in testa molto bene, e lo tenni fino a quando più non potetti, portandolo più come un baritono, e giù il teatro, come la prima sera, un applauso lungo lungo coprì tutto il finale dell’orchestra e coro. Caddi a terra, e rimasi fino a che cala la tela come regola, e dopo ci vollero 4 persone per alzarmi tanto che ero stanco. LONDRA 20/5/1904 Non ho potuto scriverti questi giorni avanti perché ho avuto moto da fare e tu lo hai veduto cioè in 9 giorni fare 2 opere. Il debutto fu per me felicissimo col Rigoletto. Feci i soliti bis ricevendo applausi entusiastici. I Pagliacci poi è stato il colmo dell’entusiasmo. Li ho ubriacati tutti senza dargli a bere. E dire che da bambino gli preferivo Del Monaco ANDREA BO CELLI OPO DI LUI, NULLA è stato come prima: Enrico D Caruso ha rivoluzionato il mondo della lirica. La sua carriera segna una discontinuità epocale, modificando l’approccio interpretativo e i gusti del pubblico. Da un lato, tornisce d’inedita vitalità i grandi ruoli ottocenteschi, rinnovandoli, dall’altro quasi inventa quella tenorilità eroica, di virilità torrida, che le partiture della Giovane Scuola, al giro di boa del secolo, andavano sempre più chiedendo ai loro protagonisti. Interprete carismatico, d’intelligenza musicale superlativa, ha saputo divulgare nel mondo l’immenso patrimonio del melodramma: spettacolo nobile e popolare di cui l’Italia vanta con giusto orgoglio la paternità. E poi, fu un grande visionario, comprese per primo le enormi potenzialità della nascente industria discografica ed anche grazie a tale intuizione divenne una star planetaria, con oltre un milione di dischi venduti. Anche nella tecnica vocale, è stato un pioniere. È interessante ricordare come Mario Del Monaco descrivesse il segreto della propria potenza emissiva, come frutto dell’emulazione dell’impostazione vocale di Enrico Caruso: un approccio alla fonazione con ampio coinvolgimento dell’aritenoide, che è il muscolo tensore delle corde vocali e — cito testualmente — “affondando, scavando la laringe, dando massima cavità all’organo vocale”. Infine, un ricordo del mio primo incontro con la voce di Caruso: un anziano zio melomane mi narrò, con passione ed eloquenza, delle prodezze artistiche di quell’interprete napoletano. Dopo cotanta presentazione, quando ebbi modo di ascoltarne la voce, mi lasciò perplesso... Avevo forse sei o sette anni, ed ero avvezzo al timbro imperioso di Del Monaco, o a quello dolce e appassionato di Gigli... Non avevo i mezzi per contestualizzare l’artista né per comprendere quanto, sul risultato finale, potessero agire i mezzi rudimentali per captare le voci... Naturalmente ebbi modo di ricredermi ampiamente, quando crebbi e quando mi avvicinai allo studio del canto. © RIPRODUZIONE RISERVATA LONDRA 25/5/1904 Di voce sto magnificamente, ma cara mia mi ha preso una di quelle fifite che avanti di cominciare ogni rappresentazione, divento talmente nervoso che sono quasi quasi brutale con tutti: vorrei trovare qualche cosa che mi calmi ma non riesco; mi hanno detto che la camomilla fa bene, ma ho paura di impiastricciarmi lo stomaco. NEW YORK 28/1/1908 Adesso cominciamo a provare il Trovatore. Qui gli accenti drammatici non vogliono entrare in testa a questa gente poiché quando io faccio degli accenti o singhiozzi son freddi nell’applaudire; invece quando canto come un automa sono tutti contenti e fanno i matti. Io ho capito che invece di affaticarmi a dare fare e fare canto in una certa maniera che per gli americani fa effetto e per me è un risparmio ed è perciò che tutti dicono, ah! Come canta Caruso quest’anno. Magnifico! © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 16 NOVEMBRE 2014 L’attualità.Testimoni Il matrimonio a sedici anni, la Milano di Pasolini, la Palermo delle stragi, della primavera e di oggi Una vita in bianco e nero ora raccolta in un libro “Certi giorni questi vicoli ancora mi emozionano” ATTILIO BOLZONI PALERMO P IL LIBRO “DIARIO” DI LETIZIA BATTAGLIA SARÀ IN LIBRERIA DA MERCOLEDÌ PROSSIMO 19 NOVEMBRE PER CASTELVECCHI (176 PAGINE, 50 EURO). DA QUI, PER GENTILE CONCESSIONE DELL’EDITORE E DELL’AUTRICE, SONO TRATTE TUTTE LE FOTO PUBBLICATE IN QUESTE PAGINE ERCHÉ TI SEI SPOSATA A SEDICI ANNI? «Perché ho incontrato un uomo che mi amava e mi of- friva il mondo». Torna indietro con i pensieri e con i sensi, sul suo viso scivolano allegrie, pene, qualche tormento. Un sorriso tenero svela però che si è acquietata, che ha capito che è andata come doveva andare. Se poi sia stata lei a prendersi da sola il mondo o il mondo a prendersi lei, a questo punto della sua esistenza poco le importa mentre è al riparo nella sua casa di Palermo. Un palazzo che sa molto di famiglia. Il suo appartamento è al secondo piano. Sullo stesso pianerottolo abita il fratello Salvatore, verso mezzogiorno gli odori delle due cucine si confondono. All’attico ci sta sua figlia Patrizia. Al superattico l’altra figlia Angela, che dopo un viaggio in India è diventata Shobha. Per raccontare se stessa Letizia Battaglia non sa da che parte cominciare. «Dall’inizio o dalla fine? Da quando ero bambina o da quando sono andata a vivere a Parigi, dai miei nipotini o dalle mie foto?». Una, bellissima, è alle sue spalle. Milano, 1971. Un uomo con la faccia coperta da dita nodose. «È Pier Paolo Pasolini al circolo Turati, quel giorno c’erano anche Dario Fo e Mario Capanna». Milano? «Sì, sono stata lì tre anni, ma forse è meglio iniziare dal principio, quando sono nata...». Pensa all’inizio e ricomincia dalla fine: «Adesso mi sento forte nella testa e nelle mie idee, ho avuto tanto e non voglio più nulla». Letizia è fatta così, generosamente sottosopra. E così: «Adesso posso non avere più pudori: io sono una maestra di fotografia». E così: «Io non sono una fotografa, la fotografia è solo una parte di me». Dobbiamo fermarci davanti a un caffè, ricordare per un po’ la nostra Palermo e mettere in ordine uno dietro l’altro momenti e sentimenti. A marzo Letizia Battaglia compirà ottant’anni. «Sono nata nel 1935, mio padre faceva il marittimo, ci spostavamo da una città all’altra, Palermo, Trieste, Civitavecchia, Napoli, ancora Palermo...». La memoria pesca lontano. Alla guerra, i bombardamenti. «Ho negli occhi ancora l’immagine della nostra casa sventrata a Civitavecchia e quella di un cane che trascinava, chissà dove, la manica di una giacca con dentro il braccio di qualcuno». Il primo ritorno in Sicilia. Le elementari alle Ancelle, le alunne con i guanti, gli inchini, i rampolli della grassa borghesia e dell’aristocrazia siciliana. «Fra i banchi ho conosciuto tutta la Palermo bene, io non avevo la divisa fatta dal sarto ma quella che dava la scuola... Un giorno venne una vecchia nobile a casa mia e le dissi “Mamma arriva, intanto si accomodi in salotto”, lei mi guardò con disprezzo e rispose: “Salotto? Mia cara, questo non è un salotto”... non me le sono mai dimenticate le parole e gli occhi di quella donna». Le prime ansie, i primi slanci, le prime ribellioni. È adolescente ed è già donna. L’amore si chiama Franco. È incantata, nel 1951 si sposa. E nonostante l’età, lui — che di anni ne ha sette in più — segna come su una mappa il percorso della vita di Letizia. «Sarei dovuta diventare una delle tante belle ed eleganti signore di Palermo». Sognava altro. Per fortuna arrivano le figlie. Prima Cinzia, poi Angela e Patrizia. Il matrimonio è come una prigione. E dura tanto, troppo. Letizia se ne va. «Se l’avessi fatto prima avrei tolto infelicità a me e a mio marito... Franco non c’è più da sei anni, l’ho ritrovato, fino all’ultimo giorno sono stata vicina a lui». Nel 1971 — dopo una lunga analisi — lascia la Sicilia per Milano. Comincia come cronista, collabora prima con Le Ore e poi con Abc, settimanali anticonformisti e anticlericali molto diffusi in quegli anni, servizi di politica e scatti molto osé per l’epoca. Con il “pezzo” le chiedevano sempre le foto, altrimenti non glielo pubblicavano. Letizia diventa Letizia: fotografa. E dopo il primo amore abbandonato a Palermo, trova il secondo amore. Santi, anche lui fotografo. Letizia è curiosa, avida di vita. È in quei mesi che conosce l’altra Milano. E Pasolini. «Ce l’avevo già dentro, ma da quel momento non me lo sono fatto scappare più... qualche mese prima avevo anche incontrato a Venezia Ezra Pound... piangevo...». Da Palermo quelli del quotidiano L’Ora, che giù tutti chiamavano il L’Ora, prima chiedono a lei e a Santi qualche articolo sui siciliani diventati “milanesi”, poi il direttore Vittorio Nisticò li vuole in redazione. Scendono. E Letizia è ancora nella sua Sicilia. «Ma già allora non c’era una sola Letizia». Fa volontariato alla “Real Casa dei Matti”, l’ospedale psichiatrico di via Pindemonte. Fa scuola di teatro al Teatès di Michele Perriera, fa foto che porta sulle scrivanie di talentuosi giornalisti come Salvo Licata, Mario Genco, Nino Sofia. E si butta nella mischia siciliana. Sono gli anni in cui il potere politico e criminale di Palermo sta cambiando, i primi cadaveri eccellenti, la guerra di mafia che si annuncia alla periferia dell’impero. Con la sua gonna svolazzante e con i suoi zoccoli, Letizia arriva sempre per prima sulla scena del delitto. È testimone oculare nella Palermo più cupa, le sue foto fanno il giro del mondo. E c’è un nuovo amore ancora. Anche lui si chiama Franco. E anche lui fa il fotografo. Compagno per lunghissimi anni. Quando finisce una storia privata ne comincia una pubblica: la “primavera” palermitana, il vento che spazza via i notabili invischiati con i boss, le paure e le speranze di una città. Letizia viene nominata dal sindaco Orlando assessore comunale, delega alla Vivibilità Urbana. Porta sempre quelle sue gonne colorate e gli zoccoli. «È stato il periodo più bello della mia vita, più bello della fotografia, mi sentivo cittadina e quindi più che solo una fotografa. Ma io non facevo politica, io amministravo, facevo cose concrete, vedevo un angolo sporco e facevo sistemare una pianta». Dopo la giunta “colorata” di Leoluca Orlando, l’elezione alla Regione Siciliana. «Esperienza inutile, non facevo niente, non mi facevano sapere niente». Poi le stragi. Prima Falcone e Borsellino, un anno dopo don Pino Puglisi. Letizia non vuole fotografare più i morti, gli amici morti. Parte per Parigi. È depressa, per lunghi mesi passa le sue giornate al tavolino di un bistrò. «Senza parlare, senza bere perché io non bevo nulla». Solo una grande solitudine. Lei dentro un gorgo e gli altri che la onorano. Le arrivano i premi più prestigiosi. Dalla 2014 © SHOBHA Letizia Battaglia Non disolafoto Arrivava sempre prima sulla scena del delitto “Ma preferisco il periodo da assessore: vedevo un angolo sporco e ci facevo mettere una pianta” 30 la Repubblica DOMENICA 16 NOVEMBRE 2014 Francia, dalla Germania, da Londra. È anche la prima donna europea a vincere negli Stati Uniti la borsa Eugene Smith. La consacrazione. Torna un’altra volta a Palermo. Ma da quel momento non farà più una mostra nella sua città. «Sono passati venticinque anni...». Letizia è impastata con Palermo, la ama e la patisce, prova rabbia ma non può farne a meno. «Mi emoziono sempre camminando nei vicoli... una statua della Madonna, un Gesù, gli odori, una finestra sbilenca...». Sta molto a casa. Con il cane Pippo che azzanna le sue scarpe e con il telefono che squilla sempre. Amici vicini e lontani, parenti. «Come le tartarughe mi sono ricostruita una corazza e ho ricostruito la famiglia. L’amore c’era per tutti ma in qualche modo si era disperso». Parla dei suoi fratelli, quelli che ci sono ancora e quelli che non ci sono più. E di Massimiliano, Gianfranco, Francesca, Matteo e Marta, i suoi cinque nipoti. E delle sue «splendide figlie». Fotografa ancora. Fotografa le bambine. Ce ne sono bellissime, raccolte con cura e scelte per Diario, il suo ultimo libro. «Le cerco, le rincorro, in loro mi ritrovo io stessa bambina». Quando va in giro per Palermo la fermano, l’abbracciano. «Quando ero deputata alla Regione tutti mi chiamavano onorevole e io alzavo il dito medio della mano e rispondevo “Tié”. Gli onorevoli di solito vengono chiamati onorevoli anche quando non sono più in carica, a me invece continuano a salutarmi sempre nello stesso modo: “Ciao Letizia”...». Ciao Letizia. 31 LE IMMAGINI QUI SOPRA “FUNERALI DEL SINDACO DEMOCRISTIANO VITO LIPARI, UCCISO DALLA MAFIA” (1980, CASTELVETRANO). SOTTO “QUARTIERE ALBERGHERIA” (1977, PALERMO). NELLA PAGINA DI SINISTRA “QUARTIERE KALSA. IL PANE” (1979, PALERMO) E “QUARTIERE LA CALA LA BAMBINA CON IL PALLONE” (1980, PALERMO). ACCANTO AL TITOLO “LETIZIA CON LE FIGLIE PATRIZIA E SHOBHA” (2014) © RIPRODUZIONE RISERVATA “ E poi ci sono le bambine, oggi fotografo soprattutto loro. Le cerco, le rincorro, finisce che mi ritrovo io stessa bambina ” la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 16 NOVEMBRE 2014 32 Officine. Esercizi di stile FA B IO GAMBARO «D PARIGI EI TOPI CHE SI COSTRUISCONO da soli il labirinto da cui si propongono di scappare». Non senza ironia, Raymond Queneau definiva così i membri dell’Oulipo, l’Ouvroir de littérature potentielle fondato insieme all’amico François Le Lionnais a Parigi, in un ristorante di Saint-Germain-des-Près, il 24 novembre del 1960. Non un movimento né una scuola letteraria, più semplicemente un laboratorio per un gruppo ristretto di amici appassionati di letteratura, giochi e matematica, alle prese con meccanismi letterari calibratissimi, sempre attraversati da una vena di poetica follia. Da allora l’Oulipo, alle cui attività hanno partecipato anche Italo Calvino, Georges Perec e Marcel Duchamp, ha attraversato in maniera quasi sotterranea oltre mezzo secolo di storia letteraria francese, rivelandosi un punto di riferimento insostituibile per tutti coloro interessati alle ardite esplorazioni linguistiche di una «letteratura potenziale» preoccupata innanzitutto di elaborare regole, tecniche e strutture, a partire dalle quali far nascere opere spiazzanti e imprevedibili. A questa avventura appassionante, anche se non sempre conosciuta come meriterebbe, la Francia sta per rendere omaggio con una bella mostra organizzata dalla Bibliothèque de France negli storici locali della Bibliothèque de l’Arsenal e intitolata “Oulipo: la littérature en jeu(x)”. Aperta dal 18 novembre al 15 febbraio, la mostra curata da Camille Bloomfield e Claire Lesage presenterà oltre trecento documenti, molti dei quali inediti, ripercorrendo così la storia del gruppo dalla nascita ai giorni nostri, ricordando tra l’altro che le attività di questi sorprendenti giocolieri della parola proseguono oggi attraverso le ricerche di una quindicina di scrittori, tra cui Marcel Bénabou, Jacques Roubaud, Paul Fournel, Hervé Le Tellier et Anne Garréta. Grazie alla vasta scelta di libri, manoscritti, disegni, foto, quadri, lettere, progetti, appunti e giochi, il mano i romanzi di quel periodo — Le città invisibili, Il visitatore avrà la possibilità di entrare nell’officina castello dei destini incrociati e Se una notte d’inverno oulipiana, scoprendo tutte le sfumature di un inge- un viaggiatore — tutti costruiti attorno a regole e gneria poetica che trasforma la letteratura in ars com- strutture assai complesse. Come ricorda Raffaele Arabinatoria, ma sempre in nome della più grande libertà gona nel bel catalogo dell’esposizione, Calvino evocaartistica. «Mi impongo delle regole per essere total- va spesso «il miracolo di una poetica apparentemente mente libero», ricordava paradossalmente Perec, che artificiale e meccanica che tuttavia poteva dar luogo si considerava «un prodotto dell’Oulipo al 97%». Non a una libertà e a una ricchezza infinite». E come Calvino, molti altri membri del gruppo — da a caso molte delle sue opere sono nate sfruttando in maniera sistematica le procedure elaborate dal grup- Jacques Bens a Harry Mathews, da Paul Braffort a Jean po. Si pensi al romanzo intitolato La scomparsa, un Lescure — hanno lasciato innumerevoli testimonianze lunghissimo “lipogramma” scritto interamente sen- individuali e collettive, figlie di una creatività tutta imza mai usare parole contenenti la lettera “e”, che in perniata sulla triade gioco-invenzione-sorpresa, solo apfrancese significa rinunciare a circa un terzo del vo- parentemente gratuita e stravagante. Dagli anagramcabolario, al genere femminile e al tempo presente. mi alle parole incrociate, dalla poesia visiva ai giochi a Per non parlare del suo capolavoro, La vita istruzioni struttura multipla, la produzione dell’Oulipo è ricca e vaper l’uso, il cui spettacolare manoscritto è strutturato riegata, a cominciare da Cento miliardi di poesie di Quecome un’immensa scacchiera su cui l’autore si muove neau, esempio perfetto di una letteratura fatta d’infiniseguendo un elaborato reticolo di regole e vincoli. te combinazioni che invita il lettore a giocare con il testo, Quando Queneau e Le Lionnais inventarono l’Ouli- sfruttandone tutte le potenzialità. I membri del gruppo po come “sottocommissione” del Collegio di Patafisi- erano però coscienti di non essere certo i primi a muoca di Alfred Jarry, probabilmente non immaginavano versi in tale direzione, motivo per cui inventarono il “plache la loro passione per i giochi letterari avrebbe avu- gio per anticipazione”. Che poi era un modo per rendere to tanto successo e incontrato tanti estimatori. Calvi- omaggio a quegli autori che in passato avevano fatto delno per esempio si unì al gruppo nel 1972, proponendo le regole e delle strutture l’asse portante del loro lavoro diversi testi tra cui il Piccolo sillabario illustrato e L’in- letterario: da Arnaut Daniel, il trovatore provenzale del cendio della casa abominevole, un gioco poliziesco a XII secolo inventore della sestina, fino a Raymond Rousstruttura combinatoria che doveva essere lo spunto sel, il cui Come ho scritto alcuni dei miei libri è sempre per un futuro romanzo. E che l’esperienza oulipiana stato considerato un sorta di guida spirituale da tutti gli sia stata particolarmente importante per lo scrittore scrittori dell’Oulipo. italiano, trapiantato in quegli anni Parigi, lo confer© RIPRODUZIONE RISERVATA La Banda Oulipo Scrivere tutto un romanzo senza la lettera “e” o una poesia con versi di una parola sola A divertirsi così cominciarono mezzo secolo fa autori come Queneau, Calvino, Perec Ora Parigi ha deciso: la “letteratura potenziale” val bene una mostra FOTO DI GRUPPO RIUNIONE DELL’OULIPO DEL 23 SETTEMBRE 1975 A CASA LE LIONNAIS. SEDUTI DA SINISTRA: ITALO CALVINO, HARRY MATHEWS, FRANÇOIS LE LIONNAIS, RAYMOND QUENEAU, JEAN QUEVAL, CLAUDE BERGE IN PIEDI DA SINISTRA: PAUL FOURNEL, MICHÈLE MÉTAIL, LUC ETIENNE, GEORGES PEREC, MARCEL BÉNABOU, PAUL BRAFFORT, JEAN LESCURE, JACQUES DUCHATEAU COSA ACCADREBBE SE L’OULIPO NON FOSSE MAI ESISTITO O SE FOSSE SUBITO SCOMPARSO? A BREVE LO RIMPIANGEREMMO. ALLA LUNGA TUTTO TORNEREBBE IN ORDINE E L’UMANITÀ FINIREBBE PER TROVARE, ANNASPANDO, CIÒ CHE L’OULIPO SI SFORZA DI PROMUOVERE COSCIENTEMENTE FRANÇOIS LE LIONNAIS “LE SECOND MANIFESTE” PARIGI, 1973 la Repubblica DOMENICA 16 NOVEMBRE 2014 A SINISTRA, QUADERNO CON APPUNTI PREPARATORI PER “LENTE SORTIE DE L’OMBRE” DI JACQUES BENS, TRA I FONDATORI DELL’OULIPO La vera libertà è rispettare regole assurde STE F A NO BA RTE ZZA GHI U NA LINEA A SINISTRA, DOSSIER PREPARATORIO PER UN ROMANZO POLIZIESCO DI FRANÇOIS LE LIONNAIS E MICHEL LEBRUN. SOPRA, RITRATTO IN CIFRE DI ETIENNE LÉCROART. SOTTO, IL MANIFESTO DELLA MOSTRA “OULIPO, LA LITTÉRATURE EN JEU(X)” ALLA BIBLIOTHÈQUE DE L’ARSENAL DI PARIGI DA MARTEDÌ 18 NOVEMBRE AL 15 FEBBRAIO 2015 QUI SOPRA, ESTRATTO DEL DOSSIER PREPATORIO DI “LA VITA ISTRUZIONI PER L’USO” DI GEORGES PEREC: UNA BOZZA DI PAGINA CON DISEGNI A SINISTRA, “ORESTE” DI HARRY MATHEWS 33 immaginaria, e dell’immaginario, lega Jacopo da Lentini, il notaio duecentesco che ha istituito il sonetto, a Raymond Queneau, che settecento anni dopo ha incominciato a porsi domande al riguardo: come se uno fosse il sogno dell’altro, o la sua ombra. Cosa significa scrivere poesie composte da due quartine e due terzine di endecasillabi, in cui si alternano quattro rime? Cosa significa scrivere un romanzo senza usare la lettera “e”? Due affermazioni di Queneau aiutano a capire. Da giovane, Queneau era stato surrealista, aveva bazzicato i luoghi di elucubrazione della «scrittura automatica» e se ne era allontanato. Disse di sé di avere frequentato la «negazione della letteratura» (lo scardinamento surrealista di ogni forma precedente, per esempio il sonetto) e di avere poi negato anche quella negazione. Propugnava un ritorno alla letteratura classica? Sì e no. Negli anni Trenta la sua crisi esistenziale, oltre che letteraria, fu superata proprio con un viaggio in Grecia: al ritorno affermò che il poeta classico che scrive una tragedia seguendo regole che conosce è più libero del poeta contemporaneo che scrive quello che gli passa per la testa ma è schiavo di altre regole, a lui ignote. La libertà della scrittura automatica, della fantasia onirica, dell’inconscio svincolato non produce opere. L’artista cerca il gioco fra la propria libertà espressiva e le restrizioni di una grammatica o di una tradizione artistica casomai da trasgredire. Nei RAYMOND QUENEAU GEORGES PEREC ITALO CALVINO MARCEL BÉNABOU JACQUES JOUET “CENTOMILA MILIARDI DI POESIE” (1960) SONO DIECI SONETTI I CUI VERSI POSSONO COMBINARSI TRA LORO FINO A PRODURRE IL NUMERO PROMESSO DAL TITOLO (OGNI VERSO È SINTATTICAMENTE COMPATIBILE CON GLI ALTRI, ED È STAMPATO SU UNA STRISCIA DI CARTA LIBERA DA TRE LATI) NEL 1969 SCRIVE IL ROMANZO “LA SCOMPARSA” DA CUI È ASSENTE LA VOCALE “E”; È LA STORIA DELLA SPARIZIONE DI ANTON VOYL (IL NOME CORRISPONDE ALLA PAROLA "VOYELLE", VOCALE, PRIVA DI E). LA LEGGENDA VUOLE CHE ALL’USCITA DEL ROMANZO NESSUNO SI ACCORSE DELLA PARTICOLARITÀ ALFABETICA NE “IL CASTELLO DEI DESTINI INCROCIATI” (1973) I RACCONTI NASCONO DA UNA GRIGLIA DI LINEE DI TAROCCHI CHE SI INTRECCIANO SU UN TAVOLO DA GIOCO. OGNI NARRATORE-GIOCATORE DEVE RIASSUMERE LA SUA STORIA IN UNA SEQUENZA DI TAROCCHI, SENZA USARE PAROLE IL SUO “UN AFORISMA PUÒ NASCONDERNE UN ALTRO” (1980) È UNA MACCHINA LETTERARIA PER PRODURRE AFORISMI. L’AUTORE INDIVIDUA FORMULE AFORISTICHE E ALCUNI INSIEMI DI PAROLE, DALLA CUI COMBINAZIONE SI RICAVANO AFORISMI INEDITI (COME: “NE UCCIDE PIÙ L’ARINGA CHE LO SPADA”) “METRO POETICO” (1995) È UNA RACCOLTA DI POESIE SCRITTE IN METRÒ. OGNI VERSO È STATO COMPOSTO MENTALMENTE IN UNA TRATTA E TRASCRITTO ALLA FERMATA SUCCESSIVA. IL LIBRO CONTIENE ANCHE LUNGHI POEMI SCRITTI PERCORRENDO ININTERROTTAMENTE L’INTERA RETE PARIGINA primi anni Cinquanta si incominciò a parlare di creatività, cercando di ancorare a qualche fondamento tecnico o scientifico la passata visione idealistica dell’ispirazione. Nel 1960, dopo un convegno assai conviviale sull’opera di Queneau, a lui e al matematico François Le Lionnais venne l’idea di fondare un gruppo di studio e di sperimentazione: nacque l’Ouvroir de littérature potentielle (Oulipo). Il gruppo e il suo modo di lavorare assieme non assomigliava ad alcun precedente, salvo forse all’impresa patafisica di Alfred Jarry. Nel gruppo, ma possibilmente in ogni partecipante, dovevano convivere l’intelligenza letteraria e la scientifica. Il tono di ogni lavoro e di ogni riunione doveva risultare costantemente semiserio, senza che mai l’aspetto del rigore prevalesse sullo spirito giocoso e gioioso, né l’inverso. Né puro seminario scientifico né puro cabaret letterario ma un continuo compenetrarsi delle due modalità: una interminabile jam session di parole. Al centro dell’attenzione, la contrainte, traducibile come «vincolo» o «restrizione», a metà strada fra la regola di gioco e l’istituto letterario (ma l’Oulipo ha avuto anche un interessante spin off pittorico). Occorreva provare a inventare nuove contraintes, mirando idealmente alla stessa potenza generativa della rima, del verso metrico, della tragedia classica. Il senso di queste operazioni è indicato dall’aggettivo che compare nel nome del gruppo, e che definisce l’orizzonte aperto dalla contraintes: potentielle. La letteratura potenziale è la possibilità non ancora esperita, la forma che non ha ancora trovato la materia in cui sostanziarsi. Un esempio: la riduzione delle poesie più note in strofette che sembrano haiku giapponesi (o poesie di Sandro Bondi). Si ottiene mantenendo solo le parole finali di ogni verso. «Vita/oscura,/smarrita./Dura/ e forte/paura./Morte/vi trovai...». Da una sottrazione nasce un testo nuovo: era lì, in potenza, e la contrainte lo ha messo in atto. Questo lo spirito della letteratura potenziale: una burla scientificamente condotta che gioca con i veri strumenti che producono la poesia. E finisce per farceli conoscere meglio. © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 16 NOVEMBRE 2014 34 Spettacoli. Musica ribelle “Sì, ho vissuto in modo spericolato ora proverò a comportarmi meglio” A settant’anni, con un disco e un libro, uno dei padri della psichedelia inglese fa ordine nella sua vita.Ma non troppo G UIDO ANDRUET T O «I SITWORTHIT?», ”Ne vale la pena?”, cantava Robert Wyatt con la sua voce dolce e straziante in Shipbuilding, una ballata contro la guerra delle Falkland composta nel 1982 da Elvis Costello. Ascoltarla procura un brivido lungo la schiena, ancora oggi. Segno che il cantautore di Canterbury, dove negli anni Sessanta si era formata una nuova scena musicale d’avanguardia in cui si fondevano rock psichedelico, jazz ed elettronica, ha davvero dentro di sé il fuoco sacro della musica. Fondatore dei Soft Machine e dei Matching Mole, due band che hanno scritto con i Pink Floyd la storia della psichedelia inglese, in cinquant’anni di attività segnati anche dalla sua militanza nel partito comunista, Wyatt ha collezionato innumerevoli collaborazioni con artisti del calibro di Brian Eno, Syd Barret, David Gilmour, Phil Manzanera, Paul Weller e Mike Oldfield. Non solo: con un pugno di altre band quali The Wilde Flowers, Gong e Caravan, Wyatt è il creatore di un’evoluzione della psichedelia chiamata “progressive rock” e di un particolare sottogenere particolarmente colto e adorato dalla critica che prende proprio il nome di “Canterbury sound”. Nato a Bristol nel 1945, da quando ha ventotto anni vive su una sedia a rotelle per via di un drammatico incidente (cadde da una finestra al quarto piano durante do c’è una guerra in corso. È molto difficiun party alcolico a Londra, e rimase pa- le chiudersi nel proprio mondo quando il ralizzato). Wyatt oggi risiede a Louth, nel mondo è in guerra. Non si può rimanere Lincolnshire, dove lo abbiamo raggiunto indifferenti. La cosa più difficile per me è al telefono in occasione della pubblica- quando avverto la sensazione di trovarzione di Different Every Time, un doppio mi sempre dalla parte sbagliata: l’estaalbum che raccoglie i brani più rappre- blishment e l’opinione pubblica prendosentativi del suo vasto repertorio, da Ju- no molto spesso delle posizioni che diverst As You Are a The Age of Self fino a Moon gono nettamente dalla mia». Nella musica ha sempre cercato lo in June dei Soft Machine, unitamente a scambio. Perché le sue collaborazioni una nuova biografia curata da Marcus con altri artisti sarebbero, come dice O’Dair per l’editrice Serpent’s Tail, che lei, delle «dittature benevole»? sarà presentata dal cantante il 23 no«Perché se lavoro a un disco mio e invivembre alla Queen Elizabeth Hall del to qualcuno a suonarci, sono io che mi asSouthbank Centre di Londra. A gennaio compirà settant’anni, ma è sumo la responsabilità di quello che sarà da tempo che lei ormai conduce una vi- il risultato finale. E così divento una speta da eremita della musica. Come mai? cie di dittatore. Viceversa se sto suonan«È vero, mi piace la solitudine. Vorrei do per il disco di un altro, non spetta a me anzi essere molto più solo, ma non sono decidere come produrlo o come fare il un monaco e sfortunatamente non vivo mixaggio o come registrare l’audio». in un monastero. Mi accontento di una soCon Björk, che la volle per Submarine, l’intesa fu totale. litudine che non è mai totale, ci sono gli «Björk è magica. È lo specchio della sua amici e poche altre persone che vedo ogni tanto, ma da tempo ho smesso di suona- terra, l’Islanda, che è fatta di ghiacci ma re in giro. Sono concentrato più che altro anche di vulcani e di geyser da cui sgorga nel mettere ordine nella mia vita. Per la acqua calda. Incarna la potenza del fuoco musica ho vissuto in modo spericolato e e la purezza del ghiaccio, ci mette coragadesso sto provando solo a comportarmi gio e onestà in quello che fa, nella sua mumeglio. Poi, certo, a volte mi capita anco- sica, nel modo in cui canta. Per questo colra di suonare per qualcuno, ma accade pisce molto chi l’ascolta. È stato bello candavvero molto raramente. L’ispirazione tare per lei, anche se ero un po’ teso». però continua ad arrivarmi. Possono esTornando indietro, al 1968, cosa ricorda del tour americano dei Soft Machisere delle piccole linee melodiche o armoniche che sento nella mia testa, o mane con la Jimi Hendrix Experience? «Una energia nervosa, eccitante. Un gari mentre sono al pianoforte, oppure quando suono la tromba. Ma possono ar- brano dietro l’altro, velocissimi. Non c’erivare anche mentre cammino per stra- ra tempo di accordare gli strumenti, di provare i microfoni. Si saliva sul palco e si da, così, all’improvviso». Nel suo album Comicopera del 2007 suonava. One, two, three, four, bang! ha reinterpretato una canzone dei Hendrix era grandioso, e anche molto caC.S.I. di Giovanni Lindo Ferretti, can- rino e gentile con tutti noi. Anche gli altri tando in italiano una cosa come «il no- del suo gruppo lo erano. Alla fine del tour stro mondo è adesso». Come vede il il suo batterista, Mitch Mitchell, mi represente? Si sente fuo- galò la sua batteria. È la stessa che ho poi ri dal nostro tempo? suonato negli anni successivi, soprattut«In un certo senso to nel ’69, nel ‘70 e nel ’71. Guardando vorrei allontanarme- Hendrix, Mitch e Noel Redding ho impane, ma non ci riesco. È rato molto. Lì con loro, sul palc o m e co, sembravamo una slot maquanchine». © RIPRODUZIONE RISERVATA Robert Wyatt Sto sempre dalla parte sbagliata CAPITA ANCORA CHE SUONI PER QUALCUNO MA È RARO. L’ISPIRAZIONE, INVECE, QUELLA RESTA PUÒ PRENDERMI QUANDO SONO AL PIANO O PER STRADA, COSÌ, MENTRE CAMMINO RICHARD WRIGHT HA CREATO QUELL’AURORA BOREALE DI ARMONIE INTORNO AI PINK FLOYD CHE LI HA RESI COSÌ RICONOSCIBILI, EPPURE È SEMPRE STATO SOTTOVALUTATO la Repubblica DOMENICA 16 NOVEMBRE 2014 35 Jonathan Coe. Misi su un suo disco e iniziai a scrivere IERI E OGGI J O N A THA N COE IN BASSO ROBERT WYATT AI TEMPI DEI SOFT MACHINE (IL SECONDO DA SINISTRA) E IN QUESTO RITRATTO COME È OGGI A QUASI SETTANT’ANNI W FOTO RENAUD MONFOURNY ELVIS COSTELLO È UN GRANDE: È CAPACE DI PORTARE SUL PALCO UN QUARTETTO D’ARCHI, POI DI COLPO UN SET DI PERCUSSIONI E DOPO UN’ORA E MEZZA UN LIVE ROCK’N’ROLL. MAGNIFICO YATT. POCHI MINUTI FA questa pagina era bianca. La fissavo, non sapendo cosa scrivere. Poi ho chiuso gli occhi e ho aspettato di vedere qual era la prima cosa che mi saltava in mente pensando a Robert Wyatt. È stata un’immagine della mia scrivania. Una piccola scrivania in legno di pino che avevo comprato nel 1991. Era sistemata in un angolo della nostra camera da letto nel piccolo appartamento preso in affitto per alcuni mesi a poca distanza da King’s Road, a Chelsea. Sopra c’era un laptop Toshiba nuovo di zecca, mio orgoglio e mia felicità. Me ne vantavo spesso con gli amici, spiegando che quel laptop aveva un hard drive della capacità di 20 MB, grande abbastanza da poter contenere l’intero romanzo che mi ero riproposto di scrivere. Infatti avevo iniziato a scrivere. Avevo anche già un titolo — La famiglia Winshaw — e un’idea alquanto concreta della trama e della struttura. Era un libro ambizioso, ma l’ambizione fondamentale era quella di scrivere qualcosa di fortemente politico che non desse ai lettori l’impressione di leggere un’arringa. Coniugare rabbia con cordialità e comprensione: sarebbe stato possibile? Per molto tempo non ne fui sicuro. Restavo seduto alla scrivania tutto il giorno e tutta la sera, scrivevo quello che riuscivo a scrivere, ma non era molto. Poi, più avanti, in quello stesso anno, quasi il giorno stesso in cui uscì, comprai l’album Dondestan di Robert Wyatt. Era il suo primo vero album dopo Old Rottenhat, uscito circa sei anni prima, e all’improvviso — riascoltando quella voce, penetrando in quella sonorità, sentendomi accolto in quello spazio lirico nel quale l’impegno politico era sempre andato d’accordo con la generosità e l’umorismo — mi si spalancò un mondo di nuove possibilità. L’ispirazione che stavo cercando era da sempre lì, sotto il mio naso. Era lì, nell’album di Robert del 1974, Rock Bottom, quando i suoi straordinari vocalizzi senza parole nella parte introduttiva di Sea Song avevano fornito una confortante colonna sonora a molti adolescenti in preda a delusioni d’amore. Era lì, in Nothing Can Stop Us, nelle sue sublimi versioni di cover come Strange Fruit e At Last I Am Free. Ed era stata lì, sicuramente, in Old Rottenhat, l’album che aveva cristallizzato l’emergere aspro della thatcherite meglio di chiunque altro, ma che aveva altresì presagito l’ascesa del New Labour dieci anni prima che Tony Blair emendasse la Clausola 4 (“Se dimentichiamo le nostre radici e chi ERO UN PO’ TESO MA È STATO BELLO CANTARE PER BJÖRK. È LO SPECCHIO DELLA SUA TERRA INCARNA LA POTENZA DEL FUOCO E LA PUREZZA DEL GHIACCIO. CI METTE CORAGGIO E ONESTÀ siamo/il movimento si disintegrerà come fanno i castelli costruiti sulla sabbia”). La più famosa caratteristica delle band di Canterbury — al di là del loro virtuosismo strumentale, dell’autolesionismo tipicamente inglese e di certe tendenze dadaiste — era la loro assoluta incapacità di raggiungere un vasto pubblico, di spiccare il volo dalle pagine delle riviste specializzate di musica per raggiungere i mass media e la coscienza nazionale. Troppo espansivi? Troppo chiusi? Chissà. Una delle due ovvie eccezioni a questa regola fu Tubular Bells di Mike Oldfield. L’altra è Robert Wyatt. Nel trambusto del mondo musicale britannico alla fine degli anni Settanta, la maggior parte degli artisti che erano riusciti ad affermarsi faceva fatica a restare a galla. Robert, invece, pareva procedere a vele spiegate. Buona parte della longevità e della popolarità di un artista dipendono in definitiva dalla fortuna, ma in questo caso non penso che la fortuna ebbe molto a che farci. Oggi le sue canzoni sono più conosciute, sempre più trasmesse e più amate che mai. E questo dipende sicuramente dall’ampiezza della sua visione. Dopo i suoi album per la Virgin degli anni Settanta, Wyatt sviluppò una nuova prospettiva, più apertamente politicizzata, senza perdere nulla del suo umorismo o della sua autoironia — erano un po’ il suo marchio di fabbrica. Tutto a un tratto la sua musica non fu più introversa, ma proiettata verso l’esterno, inclusiva, universale. Iniziò a parlare (e a cantare) per una generazione intera. E sono sicuro che lo fece inconsapevolmente, altrimenti se ne sarebbe astenuto. Rabbrividisco al solo pensiero di come sarebbero stati gli ultimi decenni senza il commento continuo e alternativo fornito dalla musica e dalle parole di Robert. Una volta disse che non aveva nulla da obiettare alle canzoni che non avevano senso, perché quando le canzoni hanno senso il più delle volte a lui quel senso non piaceva. Per quanto riguarda le sue canzoni, saranno anche indefinite, sicuramente. In qualche caso addirittura eccentriche. Per me, però, hanno un senso di gran lunga superiore alla maggior parte delle cose che ci sono al mondo oggi. Sempre più, Robert Wyatt è la voce del buonsenso. Canzoni sensate per tempi insensati. Non sorprende di conseguenza che io, come innumerevoli altre persone, sia stato ispirato ed elevato da esse così a lungo. E per questo sarò loro grato per sempre. (Traduzione di Anna Bissanti) © 2014 Marcus O’Dair/Serpent’s Tail London www.profilebooks.com QUEL GIORNO CON JIMI HENDRIX SEMBRAVAMO UNA SLOT MACHINE UN BRANO DIETRO L’ALTRO, NEANCHE IL TEMPO DI ACCORDARE GLI STRUMENTI E PROVARE. SI SALIVA E SI SUONAVA © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 16 NOVEMBRE 2014 36 Next. Semaforo verde Da Los Angeles a Seoul,come usare le informazioni per migliorare la vita nelle metropoli JAIME D’ AL ESSAND R O LOS ANGELES P ER INCONTRARE IL FUTURO bisogna attraversare il passato, almeno a Los Angeles. Bisogna entrare nel municipio, Downtown, anno 1928, salirne le scalinate monumentali, percorrerne i corridoi troppo grandi e troppo vuoti e camminare sui pavimenti in graniglia con disegni déco. La City Hall sembra ferma a Il grande sonno di Chandler con echi che arrivano fino a L. A. Confidential di Ellroy o a L. A. Noire della Rockstar Games. Il presente è visibile solo in alcune foto alle pareti: Eric Garcetti, sindaco democratico di appena quarantatré anni. Il futuro invece ha il volto di Peter Marx, da febbraio il primo “Chief Innovation Technology Officer di Los Angeles”. Carica che, fino a ieri, apparteneva al mondo delle aziende hi-tech e non certo a quello dell’amministrazione pubblica. Barba bianca, tono pacato, Marx ha passato alcuni anni a Roma quando era piccolo. Il padre lavorava a Cinecittà. «Ho anche una Vespa», racconta sorridendo mentre ci sediamo nella sala del consiglio. Con un lungo passato nel mondo dei videogame, prima di esser chiamato da Garcetti era vicepresidente della Qualcomm, colosso dei microprocessori per mobile. «Chi me lo ha fatto fare? Lavorare su un’intera città è un’opportunità unica. Non capita due volte», spiega. «La tecnologia sta cambiando la nostra vita e la vita di molti di noi si svolge nelle metropoli. Los Angeles è sempre stata una città che guardava avanti. Uno dei nodi di Arpanet, il primo nucleo di quel che poi sarebbe diventata Internet, era qui. E sempre qui ci sono università come il California Institute of Technology. È grazie agli Open Data che portiamo avanti questa tradizione». Lo scorso 31 maggio, il sito data.lacity.org, ha aperto i battenti: pubblica in tempo reale tutte le informazioni relative alla città, dagli incidenti stradali al consumo idrico ed energetico e chiunque può usarle per sviluppare servizi. Ma soprattutto i 37 dipartimenti dell’amministrazione comunale possono incrociare i dati riducendo gli sprechi e aumentando la precisione degli interventi. «Oggi gli smartphone, domani le automobili e dopodomani le infrastrutture stradali, trasmetteranno una quantità enorme di informazioni che riguardano la città», continua Marx. «Devono essere pubbliche. Perché non è corretto che i dati siano appannaggio di pochi, e d’altra parte le risorse a disposizione degli enti pubblici sono limitate. Ci Chicago Seoul È LA REGINA DEGLI OPEN DATA. LA CITTÀ ORGANIZZA IN CONTINUAZIONE HACKATHON, MARATONE DI HACKER, PER SVILUPPARE APPLICAZIONI LEGATE AI SERVIZI AI CITTADINI E SOSTIENE I PROGETTI MIGLIORI IL 96 PER CENTO DEI CITTADINI È CONNESSO AL WEB. TUTTI I SERVIZI DELLA MUNICIPALITÀ SONO ACCESSIBILI DA MOBILE E PERFINO DA SMART TV. INTANTO SI LAVORA A MIGLIORARE SISTEMI INTELLIGENTI PER LA GESTIONE DEL TRAFFICO Barcellona TUTTI I TRASPORTI E I SERVIZI AI CITTADINI SONO ONLINE E VENGONO GESTITI IN TEMPO REALE. ALLE PICCOLE E MEDIE IMPRESE IL COMUNE DÀ ACCESSO AI DATI E ALLE INFRASTRUTTURE PER SVILUPPARE NUOVI PROGETTI Se i Big Data sono il braccio destro del sindaco Rio de Janeiro VENGONO RACCOLTI I DATI DA TUTTA L’AREA URBANA, DAL TRASPORTO ALLA CRIMINALITÀ, CHE POI VENGONO GESTITI IN MANIERA INTEGRATA. ANCHE IN QUESTO CASO I DATI SONO APERTI Nizza L’ANNO SCORSO HA LANCIATO “CONNECTED BOULEVARD”: SENSORI PER IL TRAFFICO, SUI CASSONETTI, NEI PARCHEGGI. IN CENTRO SI PERDEVA IL 47 PER CENTO IN MENO DI TEMPO PER IL PARCHEGGIO. ORA VIA APP SI SPENDONO POCHI MINUTI Singapore È LA CITTÀ CHE DA VENTI ANNI HA INVESTITO LE RISORSE MAGGIORI IN OPEN DATA E BANDA LARGA. HA IL SISTEMA INTEGRATO DEI TRASPORTI PIÙ COMPLETO. I DATI VENGONO GESTITI IN TEMPO REALE PER MIGLIORARE LA VIABILITÀ Italia MILANO, GENOVA, ROMA E SOPRATTUTTO BOLOGNA E TORINO STANNO APRENDO PORTALI DEDICATI A OPEN DATA DOVE VENGONO PUBBLICATE STATISTICHE E ANALISI. MA PER ELABORARE la Repubblica DOMENICA 16 NOVEMBRE 2014 Perché siano davvero utili 37 vanno elaborate in tempo reale. Già, ma da chi? Los Angeles È STATA LA PRIMA CITTÀ A DOTARSI DI UN CHIEF INNOVATION TECHNOLOGY OFFICER. DAL 31 MAGGIO METTE ONLINE TUTTI I DATI RELATIVI ALLA VIABILITÀ, AL CONSUMO ENERGETICO, ALLA RACCOLTA E ALLO SMALTIMENTO DEI RIFIUTI San Francisco HA INIZIATO A CONNETTERE GLI AUTOBUS NEL 2004. REALIZZA “ECO MAPPE” DELLA CITTÀ USANDO LE RILEVAZIONI TERMICHE DELLA NASA PER AUMENTARE IL RISPARMIO ENERGETICO. IL COMUNE SOSTIENE LE START UP Amsterdam DOPO LOS ANGELES, HA NOMINATO UN CHIEF INNOVATION TECHNOLOGY OFFICER. TUTTA LA CITTÀ È CABLATA IN FIBRA: CONTROLLO DEI CONSUMI ENERGETICI, SISTEMA DI ILLUMINAZIONE CONNESSO WI-FI E SISTEMA DI VIABILITÀ INTEGRATO LE INFORMAZIONI E GESTIRE IL TRAFFICO IN TEMPO REALE C’È ANCORA MOLTA STRADA DA FARE sono molte persone in gamba che lavorano per questo municipio e molte altre che lavorano per società private. L’unico modo per sfruttare il talento delle une e delle altre è permettere che tutti possano accedere alle informazioni». Anche Chicago ha recentemente lanciato un progetto simile, mentre fra i comuni più attivi ci sono New York, San Francisco, Boston, Atlanta. Ma il punto non è tanto se le nostre città diventeranno smart, ma come faranno a diventarlo, quanto tempo ci metteranno e quanti investimenti saranno necessari. «Di progetti pilota per una “città intelligente” l’Italia è già piena», sottolinea Nicola Villa, che per la Cisco si occupa proprio di Big Data e analisi avanzate. «Peccato che non basti installare tre panchine o qualche lampione dotato di sensori per fare il salto di qualità. Dal trasporto pubblico ai telefoni che abbiamo in tasca, è un proliferare di standard diversi che rendono difficile se non impossibile la costruzione di servizi che funzionino davvero». City Protocol, nato a Barcellona due anni fa, ha come missione proprio quella di creare piattaforme per le città partendo spesso dalla logica degli Open Data. Dell’organizzazione, alla quale si aderisce pagando una piccola quota annuale, fanno parte quaranta città: Amsterdam, Buenos Aires, Genova, Helsinki, Istanbul, Livorno, Milano, Mosca, New York, Parigi, Roma, Seoul, Stoccolma, Taipei, Torino, Venezia. E multinazionali di prima grandezza del calibro di Microsoft, Cisco, Fujitsu, GdF Suez, Hp, Ibm, Italtel, Oracle, Siemens, Telefonica, più una serie di università e centri di ricerca. Prosegue Villa: «Molte iniziative interessanti falliscono proprio per l’assenza di un denominatore comune. Capita che un’azienda municipalizzata faccia un bando e acquisti dei mezzi che usano certi sensori che poi magari non si parlano con quelli installati ai semafori da qualcun altro. L’altro ostacolo è lo stabilire chi raccoglie, possiede e organizza i dati in modo che siano accessibili e fruibi- li». A Los Angeles è un compito che svolge il Comune, ad Amsterdam è invece una società a partecipazione pubblica così come a Singapore dove si incrociano i dati (anonimi) forniti dagli operatori telefonici con i sensori sparsi per la città e i gps montati sui mezzi pubblici, così da modificare in tempo reale sia le tariffe di accesso al centro secondo il traffico sia la coordinazione dei semafori. Stiamo parlando di volumi di dati enormi che vanno elaborati in tempo reale. Se semplicemente si immagazzinano su un database per poi essere elaborati in seguito non sarà possibile fornire servizi puntuali. Bisogna abbandonare il concetto dei dati statistici e passare a quello dei “dati predittivi e prescrittivi” che permettono non solo di cambiare subito il numero di tram su una certa linea secondo il numero di passeggeri, ma di anticipare le esigenze della città secondo le condizioni che si stanno verificando. «Il futuro è una grande mappa tridimensionale della città, interattiva, accessibile a tutti e che muta secondo per secondo», immagina Marx. «Quando lavoravo al videogame SimCity pensavo che un’immagine verosimile delle nostre metropoli avrebbe potuto avere un aspetto del genere. Ma SimCity è solo una simulazione, nel nostro caso invece sarà la rappresentazione di una cosa vera». Che, per una volta, potrebbe esser priva di copyright. E per questo anche piena di pericoli, aperta sia a buone idee sia a chi i dati vuole usarli per un suo tornaconto. «Non a caso ad Amsterdam la società che raccoglie e gestisce i dati è a partecipazione pubblica», nota Giancarlo Capitani del Politecnico di Milano. «Se le grandi multinazionali dell’hi-tech iniziano a sviluppare applicazioni e servizi per le smart cities attingendo agli Open Data, di fatto gli si lascia campo libero in un settore strategico. Bisogna avere una visione di insieme e compiere scelte precise». Esattamente quel che in Italia non sta accadendo salvo pochissime eccezioni. © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 16 NOVEMBRE 2014 38 Sapori. Vecchi e nuovi ESATTAMENTE QUATTRO ANNI FA VENIVA DICHIARATA “PATRIMONIO CULTURALE E IMMATERIALE DELL’UMANITÀ”. PARTENDO DALLA TRADIZIONE ECCO DIECI PIATTI “RIVISITATI” PER FESTEGGIARLA NEL SEGNO DELL’INNOVAZIONE 10 piatti d’autore Mandorle e misticanza REALE CASADONNA CONTRADA SANTA LIBERATA CASTEL DI SANGRO (AQ) TEL. 0864-69382 NIKO ROMITO propone un mix di verdure di campo condite con aceto di vino, extravergine e sale marino, appoggiate su una crema molto densa, realizzata emulsionando mandorle e acqua Pasta e patate IL MOSAICO TERME MANZI P.ZA BAGNI DI GURGITELLO 4 CASAMICCIOLA TERME (NA) TEL. 081-994722 NINO DI COSTANZO ne elabora una versione straordinaria: sul piatto 23 formati di pasta artigianale e tre tipologie di patate (bianche, gialle e viola) in diverse consistenze Mare&monti mediterranei L’appuntamento Carrie D’Andrea Keys, figlia dello scienziato-simbolo della dieta mediterranea Ancel Keys, sarà l’ospite d’onore del primo Salone Internazionale della Dieta Mediterranea, dal 21 al 23 novembre a Pioppi, la cittadina cilentana dove Keys condusse le sue ricerche SUD VIA S. PIETRO E PAOLO 8 QUARTO (NA) TEL. 081-0202708 MARIANNA VITALE ricostruisce nel piatto gli elementi della piramide alimentare: lingua di vitello con pesce azzurro marinato, verdure locali, maionese al pomodoro e polvere di capperi Alici e pappa al pomodoro I laboratori Durante le “Giornate della dieta mediterranea – patrimonio Unesco”, a Bologna in questi giorni, incontri e degustazioni di prodotti cilentani. Originali i laboratori dedicati al consumo consapevole dei prodotti ittici e alla produzione casalinga di pane con farine antiche DA CAINO VIA DELLA CHIESA 4 MONTEMERANO (GR) TEL. 0564-602817 VALERIA PICCINI associa il simbolo della tradizione contadina toscana alla reginetta del pesce azzurro in una lasagnetta con pasta fillo Completa il piatto una quenelle di sorbetto al pomodoro Ricciola fumé Al mercato Fino a metà febbraio, a giovedì alterni, al Mercato del Carmine di Genova, Chef Kumalé, super esperto di cucine del mondo in Italia, declinerà al plurale il concetto di “cucina mediterranea”, attingendo alle tradizioni culinarie dei paesi affacciati sul mare nostrum DON ALFONSO CORSO S. AGATA 11 S. AGATA SUI DUE GOLFI (NA) TEL. 081-8780026 ERNESTO IACCARINO utilizza l’affumicatore a bassa temperatura per profumare la tagliata, presentata con salsa di yogurt, maionese al pompelmo, polvere di cedrangolo ed extravergine Mediterranea superstar. Buon compleanno dieta, premiata dall’Unesco ora in versione grandi chef LICIA GRANELLO “I L MEDITERRANEO FINISCE là dove finisce l’ulivo”, so- steneva lo storico francese Bernard Braudel. In realtà, negli ultimi anni i cambiamenti climatici hanno spinto gli ulivi fin quasi a un passo dalle Dolomiti, non esattamente il territorio cui pensava il dottor Keys quando negli anni Cinquanta mise in connessione cibo, geografia e longevità nei suoi studi cilentani. Seimila anni dopo la domesticazione dell’ulivo, chiediamo ancora all’alimento-simbolo della dieta mediterranea di farci vivere bene e a lungo, esattamente come aveva promesso agli uomini la dea Atena. E in coda all’olio, una scia di alimenti che hanno segnato la nostra storia culinaria. Sono passati esattamente quattro anni — 16 novembe 2010 — dal giorno in cui la dieta mediterranea è stata dichiarata patrimonio culturale imma- la Repubblica DOMENICA 16 NOVEMBRE 2014 Classica Penne con pomodorini, olive e basilico: una delle ricette più amate della dieta mediterranea Cous cous, colori e profumi DISPENSA PANE E VINI VIA PRINCIPE UMBERTO 23 TORBIATO DI ADRO (BS) TEL. 030-7450757 VITTORIO FUSARI incrocia la consistenza dell’incocciatura di grano marocchino con sapori e sentori di broccoli, pomodori, sardine essiccate, nero di seppia, extravergine e mozzarella di bufala Compressione di pasta e fagioli LA FRANCESCANA VIA STELLA 22 MODENA TEL. 059-223912 MASSIMO BOTTURA rivisita la zuppa più classica in un bicchiere riempito a strati: crema di fagioli, bianco di radicchio spadellato, maltagliati di crosta di Parmigiano e rosmarino Ricci e crema di cavolfiore S’APPOSENTU VICO CAGLIARI 3 SIDDI (VS) TEL. 070-9341045 ROBERTO PETZA vela il fondo del piatto con una crema di cavolfiore (stufato e frullato) Sopra, mandorle condite con scorze di limone, sale marino a fiocchi e sorbetto di ricci Calamarata ai frutti di mare teriale dell’umanità Unesco a Nairobi. Una vittoria culturale prim’ancora che gastronomica, capace di far salivare di soddisfazione i golosi di tutto il pianeta. Sotto il capiente cappello della dieta mediterranea, infatti, coesistono pizza e bruschette, piatti storici come pasta e fagioli e i crostacei sotto vuoto con emulsione di agrumi della cucina 2.0, l’intero plateau dei formaggi e la zuppa di pesce, le penne alla Norma e la pastiera napoletana. Il tutto, annaffiato da un buon bicchiere di vino (meglio se rosso) e senza demonizzare le carni, che, a piccole dosi, abitavano anche le tavole dei centenari abitanti di Pollica e dintorni. Quella che oggi ci appare una scelta obbligata per guadagnare in salute, inseguiti come siamo dal terrore di tumori, ipertensione e diabete, un tempo lo era per motivi opposti: le malattie da benessere erano sconosciute ai più semplicemente perché il benessere era un lusso, e per sopravvivere ci si doveva accontentare degli alimenti più poveri a disposizione, ovvero farine grezze, verdure, legumi, formaggi, pesce (povero anche lui). Come spesso succede, è stato il mondo a consegnarci lo specchio dove rimirare il nostro tesoro, dai lavori di Keys — che non a caso si trasferì in pianta stabile nel Cilento, dove morì ultracentenario — ai mille riconoscimenti scientifici, su su fino al convegno internazionale “Food for tomorrow”, organizzato appena la scorsa settimana a New York, dove gli interventi incentrati sul futuro del cibo hanno spaziato dall’agricoltura sostenibile alla necessità di abbracciare una cultura alimentare più sana, portando a modello il regime alimentare esaltato da Ancel Keys. Così, tra chi propone di dedicare alla dieta mediterranea una giornata mondiale e chi vorrebbe trasformarla in brand, la passerella è garantita dall’alleanza di cuochi e produttori. In una recentissima indagine del Centro di ricerche sociali sulla Dieta Mediterranea dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, il termine “cucina mediterranea” è stato sottoscritto dal primo all’ultimo dei cinquanta chef stellati italiani intervistati. Accanto a loro, gli artigiani che assicurano la qualità dei fagioli di Controne e dei fichi dottati, del pesce di paranza e del provolone del monaco. Addentando una frisella con pomodorini e alici li benedirete tutti. © RIPRODUZIONE RISERVATA PICCOLO PRINCIPE PIAZZA PUCCINI 1 VIAREGGIO (LU) TEL. 0584-4011 GIUSEPPE MANCINO declina la pasta artigianale campana in tripla cottura: bollita, spadellata con calamari, cozze, vongole, poi a bagnomaria nel vetro con verdure e frutti di mare Baccalà pietre di Ragusa DUOMO VIA BOCCHIERI 31 RAGUSA IBLA TEL. 0932-651265 CICCIO SULTANO spadella il baccalà prima di cuocerlo a bassa temperatura. Assemblaggio con polvere di fiori di finocchio e aglio fritto, meringa salata e fagioli Cosaruciaru 39 La caprese che ci assolve da ogni peccato MA URI ZI O DE GI OV A NNI D ICIAMO LA VERITÀ: è il termine “dieta” che dà fastidio. Sappiamo che ha solo il significato di “regime alimentare” e che quello che conta è l’aggettivo che segue: ma il suono della parola, soprattutto se pronunciato da un dottore in camice bianco e occhiali e fronte corrugata lascia insorgere immediato il senso di colpa e lo spettro di lunghi periodi di sacrifici. Dieta: una sentenza che ha in sé la condanna, per chi come noi combatte strenuamente contro la tendenza a mettere peso anche solo pensando al cibo, e che è fortemente convinto della necessità del carcere duro per tutti coloro che si ingozzano impunemente senza ingrassare. La dieta, si sa, viene inflitta a ogni pie’ sospinto. Pressione alta? Dieta. Pressione bassa? Pure. E la risposta è la stessa per ogni malessere, dalla gastrite al ginocchio della lavandaia, dalla depressione al gomito del tennista. Dieta. Per l’uomo comune, quindi, dieta vuol dire rinuncia a qualsiasi cosa abbia un minimo di sapore e sia in qualche maniera appetibile, privilegiando indegne gallette di riso soffiato e merendine al polistirolo. Ma è qui che, miracolosamente, ci viene in aiuto la nostra cara, vecchia dieta mediterranea: un ombrello etimologico, un’etichetta che assolve e libera da ogni peccato di natura alimentare. Perché come possono essere loschi e proibiti alimenti prodotti dalle nostre terre, frutto di una millenaria tradizione agricola? Come possono rientrare in terribili liste di proscrizione cibi che caratterizzano la storia di un popolo e che nascono al sole e dalla terra di luoghi così ameni come i paesi del bacino del Mediterraneo? Come può essere peccaminoso un regime alimentare che ha il sapore della cultura stessa, ed è anche riconosciuto dall’Unesco come patrimonio immateriale dell’umanità? Ecco quindi che magicamente la parola terribile, quella che evoca l’automortificazione e i sordi rumori dello stomaco solitario e disperato al cospetto di ogni vetrina di rosticceria, diventa un’assoluzione e addirittura una panacea. Perfino termini terribili, come “carboidrati” e “lipidi”, pronunciati a mezza voce in nascoste piazze di spaccio come le trattorie tipiche, tornano alla luce e vengono sdoganate col sorriso, perfino dai temuti e normalmente arcigni nutrizionisti. E noi, vittime imperfette della strisciante pinguedine, potremo sederci di fronte a una meravigliosa caprese (mozzarella, pomodoro, due foglie di basilico e abbondante pane fresco) con rinnovato ardore e la coscienza limpida come l’olio. D’oliva, naturalmente extravergine. © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 16 NOVEMBRE 2014 40 L’incontro. Stelle SE POTESSI MANDARE DAL FUTURO UN MESSAGGIO AL RAGAZZO CHE ERO GLI DIREI DI NON PREOCCUPARSI PERCHÉ TUTTE LE COSE, ANCHE QUELLE BRUTTE, SE ACCADONO È PER UNA RAGIONE A sette anni con “2001: Odissea nello Spazio” scoprì la magia del cinema e da allora non ha più smesso di rincorrerla. Con uno scopo piuttosto preciso: “Restituire al pubblico la stessa emozione che provai quel giorno in sala con mio padre”. Ci deve essere riuscito se in quattordici anni i suoi film, da “Memento” all’ultimo “Interstellar”, hanno fruttato tre miliardi e mezzo di dollari. “Da ragazzino decisi che avrei fatto il regista. Ed do a indossare lo stesso tipo di vestiti per non perdere tempo a sceglierli. E poi le tasche della giacca possono rivelarsi molto utili per infilarvi oggetti inutili». Nolan è abituato ai set fai-da-te. Ha iniziato a fare sul serio all’università, gicortometraggi autofinanziati. Fu al corso di letteratura inglese che coero certo di potercela fare, mi sa- rando nobbe Emma Thomas, oggi sua moglie, madre dei loro quattro figli e sua produttrice. Nel 1989 il primo cortometraggio, Tarantella: «Non so nemmeno se esiancora, da qualche parte» ride. «Era una serie di immagini messe l’una acrebbero bastati un paio di attori e sta canto all’altra a contrasto, per la pura gioia di farlo. Poi subito dopo è nata l’ambizione, la necessità di sostenere le immagini con una narrazione». Seguono due corti, Larceny e il kafkiano Doodlebug in cui un uomo insegue un insetto in una una telecamera. Solo che non stanza per poi scoprire che si tratta di una copia di se stesso e subire la stessa sorte. Suscitano apprezzamenti, ma Nolan deve comunque pagarsi il debutto nel «The Following l’abbiamo girato con un gruppo di amici nei ficredevo che qualcuno alla fine lungometraggio. ne settimana, una grande fatica». Il film, in bianco e nero, è un rompicapo noir che contiene già gli elementi tipici del cinema di Nolan. Gli scarti temporali, i colpi di scena, la paranoia dei personaggi. Della sua formazione da autodidatta spiemi avrebbe anche pagato” ga che «il vantaggio è stato il confronto fin da subito con ogni aspetto pratico e Christopher Nolan AR I AN N A F I NO S PARIGI C HRISTOPHER NOLAN si imbattè nel genio di Stanley Kubrick a sette an- ni. «Mio padre mi portò a Leicester Square a vedere 2001: Odissea nello spazio. Non ricordo nulla di quel giorno, né di quel che mi disse papà. Ma sento ancora l’emozione del ragazzino che scopre la potenza del cinema. Certe immagini grandiose del viaggio finale, la scena in cui il computer Hal legge le labbra degli astronauti, mi sono rimaste dentro. Ecco, da regista mi piacerebbe restituire al pubblico quella stessa eccitazione, il senso di magia, di grandezza che solo il grande schermo può regalare». L’appuntamento è all’Hotel Le Bristol, vicino agli Champs Élysées. Davanti all’albergo delle celebrità, bloccata dietro le transenne, una piccola folla di ragazzi. Non sono cinefili ma fan in attesa di un’altra ospite famosa, Lady Gaga. In questa stessa saletta, due anni fa, l’incontro con Nolan fu cancellato all’ultimo momento, sull’onda dell’orrore della strage nel cinema di Denver in cui si proiettava il suo Il Cavaliere oscuro. Il ritorno. Era l’ultima traversia di una trilogia, quella di Batman, tanto geniale quando circondata da un inquietante alone oscuro anche fuori dallo schermo. La morte, nel 2008, di Heath Ledger, al cui Joker sarebbe stato tributato un Oscar postumo. Vari incidenti sul set e, nel 2012, la sparatoria in sala. Ultimata la resurrezione cinematografica dell’Uomo pipistrello, Nolan è uscito dal girone infernale di Gotham per rivedere le stelle. E si è lanciato nella sua odissea spaziale e sentimentale. Il suo Interstellar è un kolossal basato sulle più moderne teorie scientifiche, ma anche il suo film più romantico: «Il cuore della storia è la relazione tra un padre e un figlio, il diverso modo in cui questo rapporto può essere interpretato o messo alla prova. E anche per questo il film è pieno di amore e di speranza». Figlio di un pubblicitario inglese e di un’assistente di volo americana (ha entrambe le cittadinanze) Christopher Jonathan James Nolan, quarantaquattro anni, ha passato l’infanzia tra Londra e Chi- LA SCUOLA MI HA ABITUATO ALLE UNIFORMI. MA SE TENDO A INDOSSARE SEMPRE LO STESSO TIPO DI VESTITI È SOPRATTUTTO PER NON PERDERE TEMPO A SCEGLIERLI. E POI LE GIACCHE HANNO UTILISSIME TASCHE PER INFILARCI DENTRO LE COSE PIÙ INUTILI cago. A sette anni prese in mano la telecamera: «Ho iniziato a girare film con la Super8 di mio padre». Il fratello sceneggiatore, Jonah, di sei anni più giovane, annovera tra i primi ricordi quello di Chris che gira filmini con i pupazzetti in viaggio verso lo Spazio, in una casalinga stop motion. Ciuffo biondo ben pettinato, abiti eleganti da ufficio, una compostezza che è retaggio degli anni nel collegio a indirizzo militare. A contrastare la freddezza dell’aspetto, la timidezza con cui si racconta. Spiega così le giacche che indossa sul set e il suo non vestire casual come tanti suoi colleghi: «Sono abituato alle uniformi dai tempi della scuola. E ten- tecnico del cinema. Ho imparato a registrare il suono, a montare, a usare la camera. E questo mi ha dato una conoscenza d’insieme a la capacità di capire le qualità tecniche dei collaboratori». The Following arrivò in sala e Nolan ebbe così i soldi per finanziare Memento: «Un budget da quattro milioni e mezzo di dollari, un set vero: lì la mia vita è cambiata». Il film, infatti, gli valse l’attenzione mondiale e una candidatura all’Oscar per la sceneggiatura. Tra gli estimatori Steven Soderbergh che fece il suo nome per dirigere Insomnia, glaciale thriller con Robin Williams e Al Pacino. Forte di questo successo (113 milioni di dollari incassati nel mondo) Nolan presentò alla Warner la sua versione di Batman, che abbandonava la componente pop per abbracciare atmosfere shakespeariane. Crebbero i budget. Batman-Gli inizi costò 150 milioni, Il cavaliere oscuro 185, Il cavaliere oscuro. Il ritorno 250. Accanto alla saga, altri progetti, autoriali e ambiziosi: The Prestige e soprattutto Inception. In quattordici anni i suoi film hanno fruttato tre miliardi e mezzo di dollari. L’intento di Nolan è evidente: mettere insieme il mainstream e il cult. Evidente, e ricorrente, la sua ossessione per il tempo, nella struttura o nella narrazione. «Sono attratto dalla soggettività del tempo. E da questo punto di vista Interstellar è il culmine di un lungo rapporto di fascinazione. Perché stavolta, per le leggi della fisica, siamo entrati in territori in cui il tempo è davvero diverso, soggettivamente e scientificamente. E se c’è un antagonista in questa storia, se c’è un nemico, è proprio il tempo». Per usare uno degli scarti temporali che tanto piacciono a Nolan, tornando al ragazzino folgorato dal cinema, in quel settimo anno di vita oltre alla scoperta di Kubrick c’è anche quella di Spielberg. «Interstellar è certamente una costola ideale di 2001 ma i riferimenti a quell’Odissea sono più che altro tecnici, il modo in cui Kubrick ha mostrato lo Spazio e le astronavi. E poi il suo genio è inimitabile. Puoi esserne ispirato, influenzato, ma non puoi navigare nelle sue acque. La sua estetica, personalità, filosofia sono uniche. Il mio Interstellar deve molto anche a Incontri ravvicinati del terzo tipo, non a caso credo sia il film più per famiglie che ho mai fatto. Io sono cresciuto nell’età d’oro dei blockbuster, dei film di Spielberg e Lucas. Ed era un’epoca in cui l’etichetta “per famiglie” non aveva una NEL VECCHIO COPIONE IL PROTAGONISTA ERA UN BAMBINO. HO CAMBIATO IN ONORE DI FLORA, LA NOSTRA PRIMOGENITA MA SIA BEN CHIARO: I MIEI QUATTRO FIGLI LI AMO TUTTI ALLO STESSO MODO! connotazione negativa. I migliori kolossal di Hollywood di quel periodo sono per la famiglia. Stavolta ho voluto regalare un’esperienza al cinema che padri e figli potessero vivere insieme». Il nome in codice di Interstellar, sul quale, in pieno stile Nolan, si era tenuto il segreto fino all’ultimo, è stato Flora’s Book, dal nome della figlia. «La prima cosa che ho fatto è stata cambiare nel copione il personaggio del ragazzo con una femmina. Flora è la mia primogenita, mi sono molto identificato — anche se da padre di quattro ragazzini ci tengo a dire che li amo tutti allo stesso modo! Anche il personaggio di Matthew McConaughey si prende cura di entrambi i figli, sebbene la storia lo porti verso la figlia con cui condivide la passione per la scienza». La famiglia è anche un serbatoio creativo: «Da sempre lavoro con mia moglie e mio fratello Jonah. Con loro non ho bisogno di rapporti politici e diplomatici. C’è uno scambio onesto di opinioni. Con Emma, mia moglie, applichiamo i criteri con cui gestiamo la famiglia alla troupe. Abbiamo creato una sorta di compagnia itinerante, e devo dire che ci troviamo bene». Il fratello Jonah è l’alleato della scrittura: «Lavorerei sempre con lui, ma ora sta sviluppando progetti tutti suoi ed è sempre più impegnato». Nessun accenno all’altro fratello, Matthew, coinvolto qualche anno fa in una misteriosa vicenda, un omicidio da cui è stato assolto. Nolan è molto riservato, rispetto a un passato fatto di momenti anche difficili. «Se, nel film, potessi mandare un messaggio al ragazzo che ero, gli direi di non preoccuparsi. Perché tutte le cose, anche quelle brutte, succedono per una ragione. Della mia vita non vorrei cambiare niente perché quello che ho vissuto mi ha fatto arrivare dove sono ora, dove volevo essere. A dodici anni ho capito che avrei fatto il regista. Mi sarebbero bastati una telecamera e due attori. L’unica cosa a cui non avrei mai pensato è che per realizzare il mio sogno qualcuno mi avrebbe pagato». © RIPRODUZIONE RISERVATA
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