ANNO 65 GIUGNOLUGLIO 2014 06-07 Conciliare lavoro e famiglia: persone integrate per una società solidale La liturgia, al cuore dell’impegno sociale Unione Europea Conciliazione famiglia-lavoro Cattolici e politica Etiopia Immigrazione Madre e figlio Liturgia Politiche sociali aggiornamenti sociali Etiopia: alla scoperta dell’Africa emergente DIRITTI & GIUSTIZIA ECONOMIA INTERNAZIONALI POLITICA ETICA & BIOETICA SOCIETÀ CHIESA AMBIENTE aggiornamenti sociali orientarsi in un mondo che cambia 11 e 64 ti a no re on lic an mb 1M3 bb ve o0 pu no ern2 a 10 DA OLTRE 60 ANNI OFFRE AI SUOI ABBONATI ANALISI AUTOREVOLI E APPROFONDITE SUGLI ARGOMENTI DI MAGGIORE ATTUALITÀ ali ci o s ti en iali m c na o or ti s gi en li g a am ocia rn s o i g nti ag ame iali rn oc gio ti s ag amen li a i n ior soc aggamenti rn li o ia i c g o azi roone Siri es emer te a ag menti s sociali Movimenti Concili Neu ros cie ge ntnze i Europea Vati Unione rna Armi ValoriioToll eran cano io zaII g II non ne Vaticano Concilio g i a al Costituz gozi Don iona enti soci Corruz OCS ne abili ne E aggiornam Migranio ti aggiornamenti sociali aggio aggiorn rnamenti sociali amenti sociali 12 ge leg i ina a lla 4 p v z : dic un na ggni:o 6teme : da iviso go n Il fina i di stia gie me n ei br io nd ri: e oa i TT d o icid olo a la ip cri 13 co cn dell tranie i, nc ia ieri gno in20 no , te do lfar 64 rs Pri olog o II i seFemm peg ato mon ANNO Sca peTO m arc ec can ere ’i gn E sco e uove ne OS all me sso ti pa BRce : sm SEM nzioaAG Va iscern ra, ple n u 13 te TT ra20 che fare ll e C com d wel i d deSE a F go tini il ro, e no 64 zzi to i d enza Pap dialo Mar tr vo n O- imenMaria rsa un raga , la nes an Ce speri pa i e gn IOnarlo rese ula ci ingIu atte p l’e C lla scom b trgl Im form re13 am e inlu da20 da rollo la er b oneRicor anno p cont zi r il TV 64 a un La educa ra pe anno iveo porsi er a tt gu ggi ciali?”: come e tr pe La ternet osMa itài3so piaceghe intes 201 ali prdispiar“m di In lar la: qu re le Oltre e alle 13 Scuosupera di front le 20 ia ttora per l med a ele 64 I sociacampagn anno e le aPriL biu itica: llo, gr nella em 2013 o Be deltrat ura e pol superare a gis da Tonin viziosi Don una ChiesMa i circoli per e , lisi universal Pino Pugtimonianzaanno 64 ibilità ten marzo una tes bile? oro e sos insana nuovo à del lav trasto2013 rsit Papa Sca ntale: con Francesco: ambie in Chiesa nuova 09 087 06-0 05 i am Islniittà vionati obel rabteataneiI a I il C tllou giio Nleazaienpon o n M moAciifudeomciioaov-epraenctihseticanne Do rre niR r s icaiabmli Vaa zio eo li b o l a n TeemmirinaePPmeridm c d i ti socia u l a z a pe i i z tib rnpam i en a F tt ion heIns otnoclanigagil Lgio m ia o Cinria e DRoelazitica caCtUnerbeddriidi edei teologesimpea Si ter tà Polies zio Citegàn tecnman uro E ali o nsutiesoci 2013 olaPoa ci Ch ca ilaSorna Maggio tBii men n Sciua PadovLaaierra niEduisabgaggi r Tra io V nd Gu a i na Un rla netGiovoro muDnIimnmedici aPriLe 2013 o a v Fiscere IInter to o o e n a c i M g otitàgliaerca lLiaenia graz dipaa incaa Pil ib mi iM SostencoF ataimeiggliBeInnztye s mecatStDoolonanneciiataria muane nco citas esa Bene oRifugcomFuc ziFr ano ica avsor BeneiaziASomnwaeorrtgkrazMCihcoienesmciogornnaiza uCmipbolito wl ia John RaLRu d ire aone esc ss raa Me ial neItmomliitiFcroiannneIimcnagzele o ici d erguerli ic Cyb c p appainoimu io Itna tromlasztFu Donne uralGo ranini esa mo caSoara itii Pd’ olete is c rnaz a t o c e F o Pl l a Pic dagg ne Gran Bretagna Af Te in a rallp art Chi ttolet cari Palerm o Sonch eazioaCheileeisttttoo aaPraialMe della Chiesa In Fraternità te ti li iseri Concilio porn gl r ni o a Coop n Vati M io i Pu i cano g l ez nza c a D II l El à NEET Par Persona no cos cie lo so mp o o Be Pidi il Cait i politi ezione enib Obici in o CLDaeorttttriana Welfare Indi Partit Sost zio onrd tecStima d’az ipazioPar Tza o ne oc ne tecipa rn ivile Giti FrodeaPacem in vera Gotu terris giàstra a cle Stati Uni i Elezio Edit icca lit to Brasile neEtfis di Milano ibiMa liier al io ten g ni i Sos on as s Sviluppo o n Evceco scnfes eppe Dossetti Poli Gius Cosi an figli Papa Fr ca Ong k ento dei iaria Lib ertàRazzismo Soci ti religiSoc ial networ iz osa fidam à ci ItaliaetMult inaz viCostituzione ionali Gesuiti Af forma giud le all’ Ri es Giustizia igr Pa niImm 64 NO RE AN EMB 013 2 DIC 04 03 2013 Le elezioni ri 64 numeanno alla prova dei febbrAIo di coscienza 2013 L’obiezione Welfare: un “check di giustizia” tà pluralista per una socieper il nuovo Esecutivo 02 sociale: La fraternità come motore anno 64 Italia prospettive tra Francia genenaIo 01 2013 Dal Concilio a oggi: Chiesa costantiniano, le donne nellaAnno un dibattito costrutt ivo Concilio Vaticano II: e le donne? Alla ricerca della Politraspare tica italinza nel finanziamento non ai partitiana: lasc iamoci sco raggiare La pers al centroona delle rifor me India: i travagli in un Pae della poli se emergen tica te aggiornamenti sociali è una rivista dei gesuiti 05 04 Vedi tariffe e modalità di pagamento in 3a di copertina www.aggiornamentisociali.it che Ora aanblet per t tphone e smar aggiornamenti sociali Aggiornamenti Sociali è una rivista dei gesuiti che da oltre sessant’anni affronta gli snodi cruciali della vita sociale, politica ed ecclesiale articolando fede cristiana e giustizia. Offre strumenti per orientarsi in un mondo in continuo cambiamento, con un approccio interdisciplinare e nel dialogo tra azione e riflessione sociale. È frutto del lavoro di una équipe redazionale composta da gesuiti e laici delle sedi di Milano e di Palermo e di un ampio gruppo di collaboratori qualificati. Aggiornamenti Sociali fa parte della rete delle riviste e dei Centri di ricerca e azione sociale dei gesuiti in Europa (Eurojess), e della Federazione «Jesuit Social Network-Italia Onlus». anno 65 / 06-07 giugno-luglio 2014 Fondazione Culturale San Fedele Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo, compresa stampa, copia fotostatica, microfilm e memorizzazione elettronica, se non espressamente autorizzata per iscritto. © Fondazione Culturale San Fedele IT ISSN 0002-094X Registrazione Tribunale di Milano 18-11-1960 n. 5442 La testata fruisce dei contributi statali diretti di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 250. Chiuso in tipografia il: 21/5/2014. Il fascicolo precede nte è stato consegnato alle poste di Milano (CMP Roserio) per la spedizione il 30/4/2014. Direttore responsabile: Giacomo Costa SJ Direttore emerito: Bartolomeo Sorge SJ Redazione: Stefano Bittasi SJ, Paolo Foglizzo, Chiara Tintori, Giuseppe Riggio SJ, Giuseppe Trotta SJ A Palermo: Emanuele Iula SJ, Gianfranco Matarazzo SJ, Giuseppe Notarstefano, Giuseppina Tumminelli Comitato di consulenza scientifica: Floriana Cerniglia, Chiara Giaccardi, Berardino Guarino, Antonio La Spina, Mauro Magatti, Giulio Parnofiello SJ, Antonietta Pedrinazzi, Luca R. Perfetti, Filippo Pizzolato, Massimo Reichlin, Giuseppe Verde, Tommaso Vitale Editing: Francesca Ceccotti Segreteria e layout: Cinzia Giovari Progetto grafico: Amelia Verga Editore: Fondazione Culturale San Fedele Piazza San Fedele 4, 20121 Milano www.sanfedele.net Stampa: Àncora Arti Grafiche - Milano editoriale giugno-luglio 2014 Chiara Tintori Condividere per conciliare 445-452 Vivere una vita integrata e conciliata nelle sue diverse dimensioni (personale, familiare, lavorativa, ecc.) richiede di governare il proprio tempo e di condividere con la propria cerchia familiare carichi di lavoro e responsabilità. Carico di famiglia | Donne | Famiglia | Lavoro | Organizzazione del lavoro | Politiche mappe di conciliazione approfondimenti Denis Clerc Il sociale, gamba atrofizzata dell’Europa 454-460 Un’indagine attenta sulle politiche sociali dell’UE rivela come l’economia abbia preso il sopravvento sul sociale, inteso sempre più come un costo piuttosto che come un investimento sulle persone. Commissione europea | Concorrenza | Jacques Delors | Diritto economica | Politica sociale europea | Unione Europea del lavoro | Politica Andrea Grillo La riforma liturgica e l’impegno sociale. Rilettura pastorale di un rapporto delicato 461-469 Uno studio sul significato della liturgia, a partire dalla Sacrosanctum Concilium, per comprendere quale ruolo essa riveste nel rapporto tra fede e vita. Chiesa cattolica | Concilio Vaticano II | Liturgia | Rapporto Chiesa-società | Sacrosanctum Concilium 470 scheda / film Lunchbox punti di vista Giorgio Campanini Cattolici in politica: minoranza creativa nella società italiana 471-480 I cattolici impegnati in politica sono una minoranza divisa, ma non è necessario militare sotto un’unica insegna politica per essere lievito nella società. Occorre piuttosto pensare politicamente insieme. Chiesa cattolica | Impegno politico Rapporto Chiesa-società | Storia del cristiano | Italia | Partecipazione politica | scheda / documenti «Funzioni e ordinamento dello Stato moderno» 442 481 sommario voci del mondo Michele Boario – Emanuele Fantini L’Etiopia: potenzialità e contraddizioni dell’Africa emergente 482-493 La crescita economica dell’Etiopia si basa su un modello di sviluppo centrato sul ruolo dello Stato. La sua sostenibilità nel tempo richiede di dare maggiore spazio al settore privato e di gestire i cambiamenti sociali. Africa | Cooperazione internazionale | Crescita economica | Etiopia | Federalismo | Obiettivi di sviluppo del millennio | Politica di sviluppo | Regime autoritario | Sviluppo scheda / geo Etiopia Tom Greene SJ La risposta degli Stati Uniti all’immigrazione irregolare 494 495-500 La politica migratoria degli USA risponde a una triplice logica: sfruttamento politico della paura del diverso, militarizzazione della risposta e creazione di opportunità di profitto per le imprese del settore della detenzione. Controllo delle migrazioni | Diritti umani | Messico | Migrante | Migrazione illegale | Politica migratoria | USA immagini bussola Sonia Frangi Finestre 2014: Lipari 501-502 bibbia aperta / Madre e figlio di Giuseppe Trotta SJ 504-508 cristiani e cittadini / Papa Francesco, riformatore del mercato di Jeffrey D. Sachs 509-512 tools / La Presidenza del Consiglio dell’Unione Europea di Luca Lionello 513-517 recensione / Una nuova prosperità di Giorgio Nardone SJ 518-520 vetrina / Libri, film, eventi 521-524 443 Le elezioni europee su AS contatti e informazioni I tempi di lavorazione di Aggiornamenti Sociali non ci hanno consentito di commentare i risultati delle elezioni europee in questo numero, andato in stampa prima del loro svolgimento. Ci ripromettiamo di farlo sul nostro sito <www.aggiornamentisociali.it>, che invitiamo i nostri Lettori a consultare. 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Tali dati sono trattati conformemente alla normativa vigente, non possono essere ceduti ad altri soggetti senza espresso consenso dell’interessato e sono utilizzati esclusivamente per l’invio della Rivista e iniziative connesse. editoriale Condividere per conciliare Chiara Tintori Redazione di Aggiornamenti Sociali <[email protected]> D a circa vent’anni l’Unione Europea insiste sulla necessità di politiche di conciliazione tra vita professionale e familiare (work-life balance) sia nel campo delle strategie personali e familiari, sia in quello dell’organizzazione del lavoro, per rendere la vita dei suoi cittadini più sostenibile, meno frammentata e disarticolata. Di riflesso, il tema è apparso sporadicamente anche nell’agenda sociale e politica del nostro Paese, per lo più parallelamente all’obiettivo di una maggiore occupazione femminile oppure in funzione del raggiungimento della parità nei ruoli di responsabilità pubblica (quote rosa). Si tratta di punti di accesso al problema certamente importanti, specie per i rilevanti risvolti sociali, ma che non rendono pienamente giustizia alla complessità e alla profondità della questione, anche in termini antropologici: la gestione del proprio tempo rimanda infatti alla scelta delle priorità nella vita di ciascuno, al percorso di integrazione personale, alla custodia delle relazioni fondamentali e anche di quelle sociali, ovverossia ciò che con una formula classica si può definire “vita buona”. È proprio su questo orizzonte che intendiamo proiettare le nostre riflessioni sul tema della conciliazione dei tempi. In questa chiave, è bene cominciare sgomberando il campo da due equivoci riduttivi. Il primo è che la conciliazione riguardi solo le donne e le mamme. Certo, a queste ultime è chiesto molto spesso uno sforzo acrobatico per tenere insieme le esigenze di cura dei membri della famiglia – siano essi i figli, chi si ammala, o i genitori anziani – con le responsabilità lavorative. Tuttavia, la conciliazione tra tempi lavorativi e familiari riguarda donne e uomini, Aggiornamenti Sociali giugno-luglio 2014 (445-452) 445 giovani e meno giovani, a qualunque livello professionale. Quando un colloquio di lavoro di un giovane laureato termina con la frase: «Lei deve scegliere già da oggi tra il lavoro e la famiglia», qualcosa non torna: proporre un’occupazione che assorba tutto il tempo – personale, libero e familiare – vuol dire chiedere una scelta che non si può e non si deve fare, se non si vuole ridurre la vita a una prestazione, secondo i criteri esclusivi dell’efficienza produttiva e della visibilità sociale. Il secondo equivoco da cui liberare il campo è che la ricerca dell’equilibrio tra i tempi di lavoro e quelli familiari sia solo ed esclusivamente un obiettivo parallelo e funzionale alla maggiore occupazione femminile. Da più parti si sostiene, non senza fondamenti di verità, che una maggiore partecipazione femminile al mercato del lavoro produrrebbe benefici all’economia nazionale. Vorremmo però provare ad andare oltre tali prospettive – la conciliazione come problema solo delle donne e funzionale all’aumento del PIL – per offrire una pista di riflessione che possa aprire a un futuro personale e sociale di maggiore speranza. Crediamo che la posta in gioco non sia quella di mettere artificiosamente insieme una qualche forma di equilibrio tra lavoro, di qualunque tipologia si tratti, e vita extralavorativa, ma di assicurare una vita realmente equilibrata per tutti, che accresca il benessere personale e di conseguenza quello sociale. In una parola, una vita buona, come si diceva in apertura, proprio perché (ri)conciliata e integrata nelle sue varie dimensioni: personale, familiare, lavorativa, di impegno sociale o politico, ecc. Dopo aver denunciato alcuni limiti nell’utilizzo delle parole, offriamo di seguito qualche spunto di riflessione su tre livelli: personale, relazionale familiare e, infine, sociale. Limiti lessicali Quando l’Unione Europea tratta di conciliazione utilizza un’espressione inglese, work-life balance, cioè equilibrio tra la vita e il lavoro, che solleva un interrogativo di fondo: può il lavoro essere considerato un’attività separata dal resto della vita? Analogamente, nella lingua italiana l’espressione «conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro» evidenzia lo stesso limite di considerare le nostre giornate come attraversate da tanti impegni “di vita” (personali, familiari, sociali, ecc.) intervallati, quasi fosse un’interferenza, dal lavoro, così considerato estraneo al resto della vita. D’altro canto, parlare di «conciliazione tra responsabilità lavorative ed extralavorative» pone in risalto un altro limite: fare del lavoro il riferimento centrale delle proprie giornate, per cui tutto il 446 Chiara Tintori editoriale tempo per sé, per la famiglia e per gli altri è considerato in funzione del lavoro. «Conciliare i tempi di lavoro con quelli familiari» potrebbe essere l’espressione meno problematica e più inclusiva, poiché anche coloro che non hanno formato una nuova famiglia possono avere quella di origine ed essere coinvolti nelle attività di cura legate, ad esempio, ai genitori anziani o malati. Tuttavia, anche prendere come riferimento solo i tempi familiari rispetto a quelli lavorativi esclude il tempo personale, quanto mai necessario e salutare – indipendentemente dalla scelta di vita o professionale – affinché le nostre giornate siano veramente integrate e in costante tensione verso l’armonia con sé e con gli altri. Perché, prima di addentrarci nelle nostre riflessioni, ci siamo spesi su questioni terminologiche? Sostanzialmente perché il linguaggio è la principale spia del modo in cui una società e una cultura comprendono la realtà. Il fatto che vi siano espressioni vicine ma non identiche e non sempre perfettamente sovrapponibili segnala l’esistenza di una varietà di punti di vista a partire dai quali guardare la conciliazione: per capire veramente i problemi, è necessario tenere conto di tutti. In secondo luogo, rilevare limiti, tensioni o parziali contraddizioni nel lessico prevalente indica che non abbiamo ancora raggiunto una comprensione adeguata, soddisfacente e condivisa sia dei punti di riferimento sia della corretta gerarchia dei valori in gioco. Per questo è importante continuare a riflettere su questo tema, ed è quello che ci proponiamo di fare nelle pagine che seguono. In questo percorso terremo conto dei limiti linguistici appena evidenziati, utilizzando le diverse espressioni sulla base della pertinenza di ciascuna al singolo punto trattato, ma intendendole sostanzialmente come sinonimi. Conciliarsi Quanti di noi svolgono un’attività sanno molto bene cosa significhi tentare di conciliare i tempi di lavoro con quelli personali e familiari, conoscono la fatica fisica e psicologica dell’essere in bilico tra diverse responsabilità. Tra l’altro oggi i confini tra i tempi e gli spazi lavorativi e il resto della giornata sono molto labili per un numero crescente di tipologie occupazionali; se qualche anno addietro l’invadenza del lavoro nella vita personale era relegata al “portarsi a casa il lavoro”, oggi il lavoro “si porta ovunque”: bastano uno smartphone e una buona connessione perché telefonate, email, videoconferenze e documenti condivisi e facilmente accessibili facciano potenzialmente lavorare 24 ore al giorno, così come d’altro canto possono farci rimanere in contatto con vicende familiari o Condividere per conciliare 447 personali (ricevere in diretta i voti dei figli a scuola o i referti di esami clinici). Se tutto questo è potenzialmente vantaggioso, la debolezza dei confini tra lavoro e “altro” chiama in causa una prima dimensione, quella personale. La sfida della conciliazione è prima di tutto la sfida dell’equilibrio tra parti di sé, prima ancora che tra le attività che si svolgono. Un primo esercizio di equilibrio verso una conciliazione tra i tempi di lavoro e quelli dedicati alla famiglia è governare il proprio tempo. Qualunque esperienza umana è per sua natura limitata; così quella del lavoro – seppure essenziale per la sussistenza – non può occupare l’intera giornata regolarmente e quotidianamente, invadendo ogni spazio fisico e mentale, consumando energie intellettive e psicologiche con il rischio di compromettere il proprio equilibrio interiore e fisico, oltre che le relazioni con chi ci sta accanto. Laddove questo avvenga, come nel caso di alcune professioni (ad esempio i medici), ciò che conta è che la scelta lavorativa sia concordata all’interno della principale relazione familiare di riferimento e che conduca a una vita pacificata nella sua impossibilità – magari temporanea – di impegnarsi in altre attività extralavorative. Analogamente, se una mamma decidesse di dedicarsi interamente alla famiglia, rinunciando (davvero liberamente e non costretta dal modo in cui funziona il mercato del lavoro) all’esperienza professionale, potrebbe trattarsi di una scelta di conciliazione con se stessa, purché presa in accordo con il proprio partner. Il governo del proprio tempo, affinché ciascuna esperienza di vita possa avere uno spazio appropriato, presuppone un investimento iniziale, quello del tempo per sé, non in un’ottica egocentrica, ma come prerequisito per mettere nel giusto ordine di priorità quanto si vive. Sia la tradizione della spiritualità, sia l’indagine psicologica sottolineano l’importanza dell’integrazione del sé come traguardo progressivo di maturazione personale e come base per sperimentare una vita autenticamente umana, cioè una vita buona. La cura di questa integrazione è da rinnovare costantemente giorno dopo giorno, non può essere data per acquisita una volta per tutte e richiede di essere variabilmente coltivata, a seconda delle diverse fasi della vita. Se tutta la giornata è occupata da mansioni legate alle funzioni e ai ruoli ricoperti (in casa e fuori), la dimensione dell’integrazione profonda della persona rischia l’asfissia. Al contrario, l’integrazione personale è il presupposto per costruire solide relazioni interpersonali, così da partecipare attivamente alla promozione del bene comune della società nel suo insieme. Regolare i tempi e gli spazi personali, familiari, di lavoro o di qualunque altra attività sociale si svolga ed evitare che ciascuno di 448 Chiara Tintori editoriale questi ambiti venga assolutizzato consente un’armoniosa crescita verso l’integrale maturità umana. Come non è giusto far scegliere ai giovani tra il lavoro (la carriera) e il desiderio di metter su famiglia, così con l’andare degli anni è bene ricordare che l’equilibrio personale passa attraverso la possibilità e la scelta di spendersi su più fronti, almeno quello lavorativo e familiare (senza escluderne altri). Tra l’altro studi psicologici hanno mostrato come la molteplicità di ruoli (lavoratore, genitore, ecc.) possa generare benefici sotto diversi punti di vista e in modo trasversale; esiste infatti un vero e proprio arricchimento lavoro-famiglia, per cui l’esperienza di madre o di padre è in grado di migliorare la qualità di quella lavorativa, e viceversa (Ghislieri C. – Colombo L., Psicologia della conciliazione tra famiglia e lavoro, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014). L’esperienza della conciliazione all’interno di se stessi e della gestione del proprio tempo necessita di un periodo di apprendimento e di costante pratica che dura, potenzialmente, tutta la vita. Relazioni solidali L’unificazione delle nostre giornate, della nostra persona, di quello che siamo e delle nostre esperienze diventa più armonica e completa quando viviamo con e per qualcun altro in modo totalmente disinteressato. Perciò, un secondo esercizio verso l’equilibrio nella gestione dei tempi è quello di affiancare al termine conciliazione la parola “condivisione”. Condivisione, ad esempio, con chi ha il maggiore carico di lavoro (fuori e dentro casa) – più spesso la donna quando è impegnata professionalmente –, con chi è più stanco, frustrato e talvolta più colpevolizzato perché concilia male i propri impegni. Senza per questo assumere uno sguardo compassionevole o di cinica ammirazione, la scelta che già oggi possiamo compiere è incamminarci su strade di condivisione reale. Non si tratta di una ricerca affannata e sterile di parità tra i generi e/o i ruoli, ma di individuare percorsi unici e irripetibili di condivisione e corresponsabilità tra uomo e donna, tra membri della famiglia, tra generazioni, in un’ottica non di uguaglianza, ma di maggiore unità e coesione. Che cosa condividere? I ruoli e le responsabilità in famiglia, soprattutto: senza la condivisione quotidiana e metodica delle attività di cura dei più fragili (bambini, malati, anziani), la conciliazione rischia di essere pura retorica e di rimanere un generico e sporadico esercizio di affiancamento alla donna in tali compiti. In secondo luogo si tratta di condividere l’impegno perché questo cambio di paradigma sia accettato, sostenuto e promosso anche a livello sociale e politico. Perché non sostenere una campagna di moCondividere per conciliare 449 bilitazione culturale sulla condivisione dei lavori di cura in famiglia, a partire dalle scuole e da altre agenzie educative, per contrastare gli stereotipi di genere e per educare alle differenze, badando a non ricercare e proporre un modello teorico e ideale di condivisione? Infatti le uniche conciliazioni possibili e orientate a una vita buona sono frutto di negoziazioni uniche e continue all’interno di ogni relazione, a partire dai punti di forza e di debolezza di ciascun familiare, affinché senza alibi e in un clima di reciproca fiducia si possa condividere un percorso di apprendimento delle responsabilità quotidiane. Per condividere è necessario essere disponibili a mettersi personalmente in gioco e a vivere diversamente i ruoli attribuiti dalla tradizione e dalla società. Laddove questo, per motivi che possono dipendere ad esempio dal tipo di lavoro scelto o da condizioni familiari troppo vincolanti e complesse, rendesse impossibile trovare una conciliazione, diventa essenziale accettare anche la possibilità di riuscire a vivere un’esistenza attraversata da conflitti e limiti, educandoci a stare nelle tensioni come luoghi generativi e fecondi di umanizzazione, e di nuova conoscenza e ri-conoscenza di sé con altri. Si tratta certamente di proposte impegnative e talvolta faticose, che offrono però da un lato il vantaggio, tra gli altri, di proporre ai propri figli e alle proprie figlie un nuovo modello di genitori: presenti, attivi, responsabili e partecipi allo stesso modo nella vita familiare; dall’altro offrono l’opportunità di educare le nuove generazioni a fare esperienze di vita integrata e conciliata e a non temere i conflitti. Condividere non solo è indispensabile per conciliare i tempi familiari con quelli lavorativi, ma consente di acquisire nuovi e stimolanti punti di vista. Un legame familiare, forse in partenza asimmetrico, si nutre di reciprocità e si trasfigura in una complementarità concreta e fattiva, meglio se all’interno di un progetto a lunga scadenza. A questo proposito una particolare attenzione va posta sui nuclei familiari monoparentali, composti da un solo genitore, che in Italia sono il 15% delle famiglie, in progressivo aumento (dati 2012, tratti da Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali – INPS – ISTAT, Rapporto sulla coesione sociale. Anno 2013, in <www.lavoro.gov.it>). In questi contesti, già provati dalla mancanza di uno dei genitori, la condivisione non può che allargarsi, coinvolgendo tutte quelle relazioni amicali e solidali che affiancano la “nuova” famiglia. Possiamo vivere bene nella differenza tra donne e uomini, tra ruoli di cura familiari e compiti lavorativi, solo in esercizi reciproci e quotidiani di condivisione e corresponsabilità. Addestrarsi reciprocamente alle differenze passa anche da qui. 450 Chiara Tintori editoriale Politiche di conciliazione e giustizia sociale Vivere bene con e per l’altro implica una tensione a che la sollecitudine sperimentata nelle relazioni familiari si traduca in condivisione anche nelle realtà più ampie, quelle sociali e lavorative. Le politiche di conciliazione possono allora diventare strumenti che permettono a ciascuno di fare esperienza di una vita buona. Sono molto articolate e si compongono di un set diversificato e integrato di pratiche e strategie, purché inserite in un’ottica di sistema: dai servizi all’infanzia e agli anziani, ai piani degli orari per gestire e armonizzare i servizi pubblici in contesti urbani. Ma il versante sul quale è desiderabile un cambio di rotta è quello dell’organizzazione dei tempi di lavoro, almeno dove ciò è possibile. Strumenti quali i programmi e le politiche di flessibilità – nei tempi, negli spazi e nei servizi di lavoro –, già esistono e non possono che diffondersi sempre più, sulla base dei bisogni differenziati dei lavoratori: part time, telelavoro, job sharing, banca ore, elasticità ampia e reale dell’orario di lavoro in ingresso e uscita, congedi, piani ferie personalizzati, maggiordomo aziendale a cui delegare piccole commissioni esterne, portale di servizi da cui gestire ad esempio l’asilo nido, la baby sitter, l’assistenza agli anziani, l’acquisto di libri scolastici, check up e assistenza medica. Anche in un periodo in cui le risorse economiche scarseggiano, è auspicabile una nuova fase di welfare territoriale, in cui le aziende, in sinergia con tutti gli altri attori in gioco, soprattutto quelli presenti sul territorio dove operano, facilitino percorsi di condivisione. Questo non solo perché le persone “facciano meglio”, ma anche perché “stiano meglio”, ad esempio mettendo in comune i servizi tra le aziende, facendo rete per offrire supporti alla persona e alla famiglia, perché anche nell’ambiente di lavoro possa prendere forma quella vita integrata e riconciliata di cui si fa esperienza prima in se stessi, e poi nelle relazioni con i propri cari. Un certo tipo di mondo del lavoro, con sue leggi scritte e non scritte, con le sue prassi e le sue culture (del presidio e del controllo), con la sua talvolta inutile e obsoleta rigidità, potrebbe essere giunto al capolinea, per far spazio – perlomeno laddove le tipologie di lavoro lo consentano – a un nuovo modello basato sui risultati e non sulle ore di presenza in azienda. Le trasformazioni sociali e culturali avvenute nella sfera dei rapporti familiari e i mutamenti verificatisi nell’ambito dell’organizzazione del lavoro rendono necessaria la precisa volontà da parte di tutti i soggetti coinvolti di far fronte con efficacia a queste nuove situazioni. Innovazione è guardare al futuro con coraggio, affrontare Condividere per conciliare 451 con serenità i rischi, la sfida di un cambio di paradigma culturale, dove un approccio più bilanciato garantirebbe non solo più conciliazione tra i tempi lavorativi e familiari, ma soprattutto più benessere personale e sociale: una risorsa strategica per tutti. Da ultimo, ci sembra indispensabile segnalare come la questione della conciliazione richieda di essere proiettata su scala addirittura globale, per provare ad aggredire le ingiustizie che registriamo anche su questo terreno, o almeno tentare di non crearne di nuove. È indubbio, infatti, che la disponibilità di aiuti e collaboratori familiari rappresenti un potente strumento per favorire la conciliazione. Ma questo introduce un pericoloso dualismo nella società, trasformando la conciliazione in un lusso di chi può permettersela e scaricandone tutto il peso su chi è troppo povero e, per questo, costretto a rinunciare a qualsiasi conciliazione. Storicamente ha sempre funzionato così, nell’epoca della schiavitù o in quella delle domestiche che passavano l’intera vita a servizio di una famiglia, rinunciando a farsene una propria. Oggi si ripropone lo stesso fenomeno, con le molte donne immigrate impiegate come colf, badanti e tate che hanno lasciato i propri figli e la propria famiglia nel Paese di origine. In chiave di giustizia sociale, la sfida è quella di costruire anche per queste persone opportunità per sperimentare quella conciliazione che, come abbiamo visto, è condizione necessaria per l’integrazione personale e per una vita autenticamente buona. 452 Chiara Tintori punti di vista Opinioni e idee con cui confrontarsi voci del mondo La realtà di altri Paesi raccontata da chi la vive immagini Icone della società di oggi mappe approfondimenti Gli snodi del vivere in comune attraverso lo studio degli esperti approfondimenti Il sociale, gamba atrofizzata dell’Europa Denis Clerc Economista e membro del comitato scientifico della rivista Alternatives économiques Secondo l’opinione prevalente, l’Unione Europea presta molta attenzione alle questioni economiche e finanziarie e troppo poca ai problemi sociali. Ma è sempre stato così? Quale è stato lo sviluppo delle politiche sociali comunitarie lungo le diverse tappe della storia dell’UE? Ridare vigore alla “gamba” sociale dell’edificio europeo è probabilmente la sfida cruciale per il ciclo politico che si apre con il rinnovamento delle istituzioni dell’UE: il Parlamento appena eletto e la nuova Commissione che entrerà in carica negli ultimi mesi del 2014. L a disaffezione dei cittadini europei per la costruzione europea è palese, in gran parte perché si è diffusa l’impressione che essa sacrifichi le questioni sociali a vantaggio di quelle economiche, e che allo stesso tempo i presunti benefici della concorrenza «libera e non distorta» tardino a farsi vedere. Questo è un giudizio tagliato con l’accetta e senza dubbio esagerato, ma purtroppo non del tutto privo di fondamento: in materia di politica sociale, dopo l’adozione del Trattato di Amsterdam (1997), l’Unione Europea ha effettivamente cambiato rotta. Certo, non si tratta di un abbandono totale, come a volte si crede, ma le continue riduzioni verificatesi negli ultimi quindici anni mostrano chiaramente che, ormai, il sociale viene considerato dalle autorità europee più come un peso che come il cemento di una costruzione comune. 454 Aggiornamenti Sociali giugno-luglio 2014 (454-460) approfondimenti Quando l’Europa era (anche) sociale Contrariamente a ciò che si afferma in modo un po’ affrettato, il “Mercato comune”, come si diceva negli anni Sessanta-Settanta, agli inizi della costruzione europea, non era soltanto una “Europa degli affari”. Esso istituiva un Comitato economico e sociale europeo, che riuniva i rappresentanti dei partner sociali (datori di lavoro e salariati), e il Fondo sociale europeo destinato a migliorare le opportunità di occupazione. Queste due istituzioni esistono tuttora e le loro prerogative, così come gli stanziamenti destinati al loro funzionamento, non hanno smesso di crescere. Inoltre, il Trattato di Roma (1957) comprendeva due disposizioni fondamentali: quella che applica ai lavoratori migranti originari dei Paesi membri il diritto del lavoro, le condizioni salariali e le prestazioni sociali del Paese di accoglienza e quella per cui la sanità, le condizioni di lavoro e i diritti sociali dei lavoratori sono di competenza comunitaria. Previo accordo del Consiglio dei Ministri, la Commissione europea ha così potuto emanare numerose direttive, che i singoli Paesi membri erano tenuti a incorporare nella propria legislazione nazionale: sulla sicurezza nelle miniere o sulle navi, sulla protezione dal rumore o dalle sostanze tossiche, sulla durata massima settimanale dell’orario di lavoro, sui licenziamenti collettivi, ecc. Certo, la “gamba” economica del Trattato di Roma (e di quelli successivi) era nettamente più sviluppata rispetto a quella sociale, ma di fatto esistevano entrambe. Negli anni Ottanta, la costruzione europea inizia la svolta economico-liberale che, a partire dall’Atto unico europeo (1985) e poi dal Trattato di Maastricht (1992), approderà nel 1998 all’Unione economica e monetaria e alla moneta Per Atto unico europeo si intende l’insieme unica. Il paradosso di quel periodo è di modifiche apportate al Trattato di Roma che questa svolta si è realizzata sotto la con lo scopo di di rilanciare l’integrazione guida di Jacques Delors – presidente europea e di portare a termine la realizzadella Commissione europea dal 1985 zione del mercato unico, in cui le stesse regole valgono per tutti gli operatori, a preal 1995 – la cui strategia mirava a far scindere dalla loro nazionalità. crescere la gamba sociale quanto meno allo stesso ritmo di quella economica, al fine di combinare – come scrive nelle sue Mémoires – «la competizione che stimola, la cooperazione che rafforza e la solidarietà che unisce» 1. Tanto che – visto a posteriori – quel periodo si rivela l’età dell’oro dell’Europa sociale, come sostiene il sociologo francese Jean-Claude Barbier 2. 1 Delors J. – Arnaud J.-L., Mémoires, Plon, Parigi 2004, p. 326 (trad. it. Memorie, Rubbettino, Soveria Mannelli [CZ] 2009). 2 Barbier J.-C., La Longue Marche vers l’Europe sociale, PUF, Paris 2008, p. 83. Il sociale, gamba atrofizzata dell’Europa 455 Jacques Delors fa affidamento sul Comitato economico e sociale – «davvero un buon compagno di strada», scrive – per rilanciare il dialogo sociale. Gli accordi collettivi conclusi tra le parti sociali a livello europeo sono ripresi da alcune direttive della Commissione, ad esempio quelle sul congedo parentale (1996), sul lavoro part-time (1997), sull’informazione e la consultazione dei lavoratori (1998) e sul lavoro a tempo determinato (1999). Parallelamente, al Vertice di Strasburgo viene presentata una Carta comunitaria dei diritti sociali dei lavoratori (1989). Solo il Regno Unito rifiuta di firmarla, come si oppone anche alla proposta di inserire nel Trattato di Maastricht misure di progresso sociale su temi come l’uguaglianza di genere, le condizioni di lavoro, l’informazione dei lavoratori, la sicurezza sul lavoro e l’inclusione sociale: riguardo a tutti questi provvedimenti, era ormai previsto che la loro adozione da parte del Consiglio dei Ministri richiedesse soltanto una maggioranza qualificata (invece dell’unanimità). Queste disposizioni sono state quindi relegate in un protocollo allegato, firmato da 11 Stati (sui 12 di allora), prima di essere finalmente inserite nel Trattato di Amsterdam nel 1997 (nel frattempo il Regno Unito aveva cambiato maggioranza e punto di vista). In definitiva, come afferma l’economista francese Robert Salais, si può «concludere oggi che l’Europa sociale lanciata da Delors ha lasciato intravedere [un modello volto a] creare attraverso i diritti sociali i primi fondamenti di una comunità politica europea […], ma […] di fatto essa si è limitata essenzialmente a cercare di realizzare […] un sociale legato alla creazione di uno spazio di concorrenza leale e, di conseguenza, costantemente minacciato da stratagemmi che tendono a indebolire le protezioni» 3. Ma a nostro avviso si può anche dire che, sapendo che il contesto economico e politico era quello del liberalismo sfrenato, essa è riuscita a limitarne l’impatto sociale e a contenere l’ondata liberale. Non si può dire lo stesso dei successori di Delors, meno coraggiosi e meno caparbi. Prevale il diritto alla concorrenza A partire dal 1997, infatti, «il sociale diventa sempre più uno strumento della competitività economica», come sintetizza l’economista francese Michel Dévoluy 4. Si tratta di fare in modo che esso «non intralci il dinamismo dell’economia di mercato». Paradossalmente, questa priorità dell’economia, benché a scapito del sociale, è stata affermata non da un’istituzione economica, 3 Salais R., Le viol d’Europe, PUF, Parigi 2013, p. 325. Dévoluy M. – Koenig G. (edd.), L’Europe économique et sociale. Singularités, doutes et perspectives, Presses universitaires de Strasbourg, Strasburgo 2011, p. 175. 4 456 Denis Clerc approfondimenti ma giudiziaria: la Corte di giustizia dell’UE (precedentemente Corte di giustizia delle Comunità europee). Su questo punto essa ha contribuito a disfare il tessuto sociale in modo sorprendente e importante. Sorprendente perché, almeno in Francia, il giudice è spesso colui che dichiara nulle le decisioni economiche (o per lo meno impone loro dei limiti) quando non tengono sufficientemente conto della dimensione sociale. Importante perché, attraverso una serie di sentenze, la Corte di giustizia ha instaurato una giurisprudenza che subordina il sociale alle libertà economiche. Con la sentenza Schmidberger (2000), ha dato ragione a un’azienda olandese i cui camion erano stati bloccati in Austria da una manifestazione che impediva l’accesso a un ponte. Poiché la manifestazione era stata autorizzata a livello locale senza che lo Stato intervenisse, la Corte ha ritenuto che quest’ultimo avesse implicitamente tollerato una forma di restrizione alla libertà di circolazione, generatrice di danno economico tanto quanto il protezionismo. Con la sentenza Viking (2005) è stata data ragione a una società finlandese che, per ridurre i costi, aveva licenziato i propri marinai finlandesi, immatricolato le proprie navi sotto bandiera estone e assunto equipaggio estone: la libertà di iniziativa è stata considerata più importante rispetto all’azione collettiva del sindacato finlandese. Ugualmente, con la sentenza Laval (2005) la Corte di giustizia ha dato ragione alla filiale lettone di una società svedese che aveva distaccato dei lavoratori lettoni per costruire una scuola in Svezia … alle condizioni di lavoro e con i salari della Lettonia. Di fatto, esiste una direttiva europea che impone di pagare i lavoratori in trasferta all’estero secondo le regole del Paese di accoglienza, ma l’obbligo è limitato alle regole stabilite per legge; ma in Svezia, le questioni riguardanti i diritti sociali sono regolate in prevalenza attraverso accordi collettivi. Dumping sociale istituzionalizzato Oltre alla Corte di Giustizia, anche le altre istituzioni europee hanno fatto la propria parte in questo indebolimento relativo dello spazio del sociale. L’UE, di fatto, si basa ormai sul «metodo aperto di coordinamento» (MAC). La Commissione è incaricata di preparare una “agenda sociale”, che proponga grandi obiettivi strategici, a volte quantificati, da raggiungere entro una data lontana nel tempo (dal 2010, è la cosiddetta strategia Europa 2020). Una volta che questi obiettivi sono stati ratificati o emendati dal Consiglio Europeo, ciascun Paese è invitato a elaborare annualmente un resoconto degli strumenti utilizzati per realizzarli e dei risultati ottenuti. Il dispositivo è dunque totalmente volontario: nessuna direttiva, nessun finanziamento, nessun obbligo, nessuna sanzione. Il MAC si basa Il sociale, gamba atrofizzata dell’Europa 457 soltanto sul benchmarking, una sorta di albo d’oro risultante dal confronto tra i risultati dei vari Paesi, nella speranza che le buone pratiche si diffondano a macchia d’olio. In campo sociale, il risultato è stato spesso una sorta di concorrenza tra modelli nazionali. È il caso, ad esempio, della drastica riforma delle pensioni e del sussidio di disoccupazione – penso alla Germania e alle Riforme Hartz avviate dal cancelliere Schröder –, che intendeva ridurre il costo del lavoro e quindi migliorare la competitività. Le riforme in questione paiono auspicabili anche per gli altri Paesi e vengono allora raccomandate dalla Commissione, che preme perché anche loro le realizzino. Ormai l’economico non è più determinante “in ultima istanza”, ma – oserei dire – in prima istanza: il sociale è ai suoi piedi. Secondo l’economista del lavoro francese Isabelle Terraz 5, «fingendo di ignorare che i sistemi di protezione sociale e le istituzioni del mercato del lavoro sono il risultato di peculiarità nazionali, di compromessi storici e di modelli culturali diversi da Paese a Paese, il MAC torna a promuovere un modello sociale particolare, convinto che si tratti del giusto modo di reagire alle sfide del futuro». Va precisato, tuttavia, che se il MAC può generare effetti perversi, può anche dinamizzare certe politiche sociali; in particolare, ormai ogni obiettivo europeo si basa su degli indicatori di riferimento declinati Paese per Paese. Così, uno dei cinque obiettivi strategici di Europa 2020 è la diminuzione di 20 milioni del numero di individui in situazione di povertà o di esclusione sociale. Vengono utilizzati tre indicatori per misurare il numero di persone in queste condizioni: uno monetario (le persone il cui livello di vita è inferiore alla soglia di povertà nazionale), uno di «grave deprivazione materiale» (abitazione, alimentazione, ritardi nei pagamenti, ecc.) e uno di bassa intensità occupazionale (i nuclei familiari in cui gli adulti con meno di sessant’anni sono stati occupati per meno di un quinto dei 12 mesi precedenti). Nel 2010 si contavano nell’UE 117 milioni di persone che vivevano in famiglie in cui si verificava almeno una di queste condizioni. Nel 2012 questa cifra è passata a Europa 2020 (da leggere “venti-venti”) è la strategia decennale per la crescita definita dall’UE nel 2010. Non mira soltanto a uscire dalla crisi, ma vuole anche colmare le lacune del modello di crescita europeo e creare le condizioni per un diverso tipo di sviluppo economico, più intelligente, sostenibile e solidale. Per questo l’UE si è data cinque obiettivi da realizzare entro la fine del decennio, che riguardano l’occupazione, l’istruzione, la ricerca e l’innovazione, l’integrazione sociale e la riduzione della povertà, il clima e l’energia. La strategia indica anche sette settori di intervento su cui concentrare gli sforzi per il raggiungimento degli obiettivi: l’innovazione, l’economia digitale, l’occupazione, i giovani, la politica industriale, la povertà e l’uso efficiente delle risorse. 5 In Dévoluy M. – Koenig G. (dir.), L’Europe économique et sociale. Singularités, doutes et perspectives, cit., p. 195. 458 Denis Clerc approfondimenti 123 milioni a causa della Verso il massimo ribasso sociale crisi. Il Comitato per la La giurisprudenza che deriva dalla sentenza Laval non ha protezione sociale (uno gli stessi effetti dappertutto. In Francia ha poca importanza, degli organi della Com- perché la parte essenziale dei diritti sociali (contributi somissione europea) segue ciali, previdenza, ferie, condizioni di lavoro) è stabilita dalla attentamente questi in- legge o da accordi collettivi aventi forza di legge. Nonostante questo, oggi, sono circa 200mila i lavoratori in situazione dicatori, come quelli re- di distacco provenienti da altri Paesi dell’UE, tramite agenlativi a pensioni, sanità e zie di lavoro interinale ungheresi, polacche o ceche, e ora disoccupazione. Richia- anche bulgare o romene (dal 1° gennaio 2014 la libertà di ma l’attenzione di ogni circolazione e di lavoro riguarda anche i lavoratori di questi Stato membro sui ritardi due Paesi). I loro contributi sono versati agli enti previdenziali dei Paesi di origine secondo le percentuali in essi rispetto agli obiettivi eu- vigenti. Ma queste percentuali sono particolarmente basse ropei e svolge quindi, in nei Paesi ex comunisti dell’Europa centro-orientale, mentre qualche modo, un ruolo il salario netto versato a questi lavoratori è quasi sempre di sentinella. Si può spe- fissato al minimo stabilito dall’accordo collettivo del settore rare che tale ruolo serva a in cui operano. In Germania, dove il salario minimo legale stimolare gli Stati a fare non esiste, la giurisprudenza Laval permette di assumere lavoratori in distacco pagati due o tre euro all’ora nei settori uno sforzo supplementa- in cui le difficili condizioni di lavoro riducono il numero re in campo sociale per di candidati nazionali. Così, la libertà di circolazione dei correggere le tendenze lavoratori all’interno dell’UE sta attaccando le fondamenta oggi in atto. Un discorso della protezione sociale dei Paesi più sviluppati. analogo vale per un altro degli obiettivi di Europa 2020: riportare dal 14% del 2010 al 10% la percentuale di giovani tra i 18 e i 24 anni che hanno interrotto prematuramente la propria formazione. Contrariamente alla riduzione della povertà, in questo caso la tendenza recente si muove nella giusta direzione (12,8% nel 2012). Nei loro rapporti annuali 6, gli Stati membri devono spiegare le ragioni per le quali si avvicinano o si allontanano dagli obiettivi fissati. La Commissione può quindi formulare delle raccomandazioni, anche se questi obiettivi non sono di competenza delle autorità comunitarie. Così, la protezione sociale e l’istruzione, che rimangono essenzialmente prerogative nazionali, possono in parte “comunitarizzarsi”, in un processo di “sorveglianza multilaterale”. Insomma, come si vede, il sociale non è ignorato nei dispositivi europei. Ma, come osserva – non a torto – Michel Dévoluy, «la strumentalizzazione del sociale al servizio della competitività indebolisce la costruzione europea», con il rischio che venga istituzionalizzato così una sorta di dumping sociale all’interno dell’Unione 6 I cosiddetti Programmi nazionali di riforma (PNR), che definiscono annualmente gli interventi che ciascuno Stato deve adottare per il raggiungimento degli obiettivi nazionali di crescita, produttività, occupazione e sostenibilità, delineati dalla strategia Europa 2020. Il sociale, gamba atrofizzata dell’Europa 459 stessa. Invece di essere una componente dell’integrazione economica, come nel periodo del Mercato comune, il sociale potrebbe allora contribuire ad allentarla, dato che ogni Paese fa di tutto per ridurne i costi e, di conseguenza, per ridurre quella componente di welfare che era la caratteristica degli Stati fondatori. Ultimamente questo rischio si è accentuato in ragione della priorità attribuita alla concorrenza e al ruolo del mercato. L’Europa sociale esiste, ma tende a indebolirsi perché è percepita sempre di più come un costo e non come un investimento sulle persone, al contrario di ciò che proponevano Jacques Delors e Michel Dollé 7. Paradossalmente, da questo punto di vista, la crisi, che ha costretto la maggior parte dei Paesi – ad eccezione, purtroppo, di quelli con un debito pubblico giudicato eccessivo – a gonfiare la spesa per la protezione sociale al fine di bloccare la spirale depressiva della congiuntura, ha evidenziato l’importanza di mantenere o costruire le basi di un sistema di welfare. Non resta che persuadere le autorità europee che questo aspetto positivo vale anche per le persone, favorendone l’autonomia, l’occupabilità e l’integrazione sociale. 7 Delors J. – Dollé M., Investir dans le social, Odile Jacob, Parigi 2009. Testo originale «Le social, jambe atrophiée de l’Europe», in Projet, aprile 2014, 12-18. Traduzione di Cinzia Giovari. Neretti, riquadri e adattamento delle note a cura della Redazione. 460 Denis Clerc La riforma liturgica e l’impegno sociale Andrea Grillo Professore di Teologia Sacramentaria, Facoltà Teologica del Pontificio Ateneo S. Anselmo, <[email protected]> approfondimenti Rilettura pastorale di un rapporto delicato La riforma liturgica promossa dal Vaticano II intendeva rendere più consapevole e attiva la partecipazione dei credenti alla liturgia e colmare il divario progressivamente creatosi tra la fede celebrata nelle chiese e l’azione nella società. A cinquant’anni di distanza la questione è ancora attuale. Come va intesa la liturgia? Quale funzione svolge nel rapporto tra la fede e la vita? Quali prospettive apre all’impegno dei cristiani nella società la rinnovata comprensione della liturgia data dal Concilio? I l recente anniversario della Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium (SC) sulla liturgia ha portato alla ribalta, ancora una volta, una questione decisiva per il cristianesimo: quale rapporto possiamo o dobbiamo istituire tra l’azione rituale 1 della liturgia e l’azione dei cristiani sul piano etico, politico e sociale? E quindi, come evitare il pericolo di autoreferenzialità della liturgia, come pure quello opposto e almeno altrettanto grande di una sua mera riduzione strumentale? In una formula divenuta ormai classica, la SC aveva affermato chiaramente che «la liturgia è il culmine (culmen) verso cui tende l’a1 L’azione rituale è il linguaggio complesso, verbale e non verbale, mediante il quale libertà umana e grazia divina entrano in rapporto, valorizzando ogni livello della esperienza (sensoriale, morale, intellettuale e razionale) per vivere una comunione più profonda. Aggiornamenti Sociali giugno-luglio 2014 (461-469) 461 zione della Chiesa e, al tempo stesso, la fonte (fons) da cui promana tutta la sua energia» (n. 10). Parlare della liturgia in termini di culmen et fons evidenzia il suo ruolo complesso e fondamentale: essa è nello stesso tempo a monte e a valle rispetto a ogni altra azione, esperienza e compito ecclesiale. In questa prospettiva, la liturgia non è anzitutto qualcosa che la Chiesa gestisce e di cui è “padrona”, quanto piuttosto è la Chiesa a essere frutto della liturgia (cfr FUCI 2005, 41-50). Ciò apre immediatamente a una ulteriore riflessione che tematizza esplicitamente in che modo le “altre azioni” della Chiesa e dei cristiani possano rinnovarsi a partire dall’azione rituale. E questo senza pretendere alcun automatismo, ma anche senza chiudere i riti in una presunta e presuntuosa autosufficienza. Per rispondere a queste domande, preferiamo non tanto presentare le novità introdotte dal Concilio, frutto di un lungo percorso di riflessione avviato dal Movimento liturgico, quanto ragionare a partire dai dibattiti e dalle pratiche ad esso successivi. Di certo l’attuazione della SC ha cambiato il modo Con l’espressione Movimento liturgico (ML) di vivere i momenti liturgici, ma queci si riferisce ad alcuni teologi e liturgisti, sto cambiamento quale ripercussione attivi in particolare in Francia, Belgio e ha determinato sul piano sociologico, Germania, che all’inizio del XX secolo si sul modo di concepire la Chiesa e il suo adoperarono perché vi fosse una parteciimpegno nella società? In altri termipazione più attiva e consapevole dei fedeli ni, come comprendiamo oggi il ruolo alle celebrazioni liturgiche. decisivo che può essere svolto dal rito liturgico sia nei confronti della fede nel Mistero dell’incarnazione, passione, morte e resurrezione di Gesù Cristo Figlio di Dio (nel seguito dell’articolo ci riferiremo a questo Mistero usando il termine Evento pasquale o, più semplicemente, Evento), sia nel suo rapporto con la vita quotidiana dei credenti in tutte le sue sfumature, compreso anche l’impegno politico e sociale? Ci auguriamo che il percorso tracciato in queste pagine aiuti ad approfondire l’interrogativo sulla funzione che il rito è chiamato ad espletare nella relazione tra la fede e la vita. Una funzione che, in realtà, risulta così poco decisiva agli occhi di molti che, magari con buone intenzioni, finiscono per valorizzare in maniera esclusiva l’uno o l’altro polo, senza cogliere il ruolo di mediazione proprio del rito, che apre un modo diverso di stare nella Chiesa e nel mondo. La Sacrosanctum Concilium, votata il 4 dicembre 1963, è il primo documento adottato dal Concilio Vaticano II. Preceduta e preparata da un ampio dibattito, introduce una riforma liturgica generale per assicurare la partecipazione attiva del popolo di Dio all’azione rituale. L’elemento che più si ricorda di questa riforma è il passaggio dalla celebrazione in latino a quella nelle lingue parlate nei vari Paesi. 462 Andrea Grillo approfondimenti 1. La liturgia è un optional? Se l’Evento pasquale è già nella vita e la vita già comunica a questo Evento, quale ruolo può avere la liturgia, e anzitutto l’eucaristia, che non sia secondario, accessorio e comunque dispensabile? La diffusa difficoltà a concepire la funzione della liturgia si mostra in modo esemplare nel bisogno di introdurre una duplice sottolineatura: il rito non è né l’Evento pasquale né la vita. Oggi dobbiamo avere il coraggio di chiederci: una volta che avessimo ribadito questa affermazione negativa con tutta la forza necessaria, non avremmo forse già definitivamente squalificato la delicata funzione che il rito liturgico svolge proprio perché quell’Evento resti ancora evento di questa nostra vita e perché la nostra vita comunichi profondamente proprio a quell’Evento? Per poter dare una risposta fondata a questa domanda è necessario passare in rassegna alcune possibili interpretazioni per vagliarne la bontà. a) Posizioni riduzionistiche A prima vista, potrebbe sembrare che il rapporto più importante – cioè quello tra la Pasqua e la nostra esistenza – abbia già una sua relazione profonda, mentale od operativa, che la liturgia rischia semplicemente di appesantire, di solennizzare o addirittura di ostacolare. La liturgia si incaricherebbe soltanto di esprimere una esperienza che fondamentalmente si fa altrove rispetto allo spazio e tempo che essa determina, che può accadere ovunque e sempre piuttosto che nel “qui ed ora” del rito. Proprio per questo la liturgia sperimenterebbe una sua costitutiva inessenzialità nei confronti del vero rapporto, già esistente e in qualche modo autosufficiente, tra Evento della Pasqua e vita storica della comunità. Qui ci troviamo al centro di un problema che non è soltanto pratico, ma riguarda piuttosto il ruolo che il culto sacramentale esercita perché la fede in Cristo Signore possa restare un atto fondamentale della vita, anche nella sua determinazione storico-sociale. Da un altro punto di vista, potrebbe apparire che il rito liturgico abbia un rapporto diverso con l’Evento pasquale rispetto a quello che ha con la vita. Esso sarebbe una sorta di dato acquisito, assicurato dalla tradizione, dalla sua struttura collaudata e ripetuta, dai riferimenti interni e dalla sua stratificazione. Invece, il rapporto con la vita dipenderebbe in ogni atto di culto da una buona volontà, quasi fosse un optional e una specie di aggiunta a ciò che il rito realizza di per sé in modo quasi autonomo e staccato rispetto al quotidiano. A uno sguardo più attento, però, anche questa visione risulta assai manchevole e bisognosa di essere corretta. Il rito liturgico è se La riforma liturgica e l’impegno sociale 463 stesso solo se mantiene strutturalmente il doppio rapporto con l’Evento pasquale e con la vita, se mette in comunicazione questi due poli. Aver perduto questa percezione delle cose, aver creduto che rito ed Evento dialoghino indipendentemente dalla vita, è una delle ragioni della crisi che ha fatto sorgere, all’inizio del XX secolo, la questione liturgica, mettendo così in moto quella riflessione sulla che, attraverso il Movimento liturgico, ha portato alla riforma liturgica del Vaticano II. Per superare queste aporie sono state proposte e praticate nel tempo diverse risposte che non sempre si sono rivelate all’altezza. Spesso si è reagito alla difficoltà del rito di essere in rapporto con la vita e con l’Evento con un certo semplicismo, soprattutto con l’illusione che questo rapporto potesse essere diretto e immediato, quasi fosse sufficiente, per così dire, “mettere la vita nel rito” per risolvere l’imbarazzo. Un’altra risposta inadeguata è stata quella di pensare che il rapporto della vita quotidiana con l’Evento pasquale fosse concepibile nei termini di un “farsi presente”, un “rappresentarsi” dell’Evento nella vita a cui poi ci si dovrebbe adeguare. Se così fosse, noi dovremmo pensare che si possa conoscere l’Evento prima di partecipare ad esso, e questo comprometterebbe irrimediabilmente non solo la nostra liturgia, ma anche la nostra stessa fede. Se credere fosse solo “rappresentarsi” il Mistero pasquale, e vivere fosse solo adeguare l’esistenza a quella rappresentazione del Mistero, la liturgia, di nuovo, non potrebbe essere altro che un peso da portare, una tassa da pagare o una convenzione puramente esteriore da sopportare. b) Un mistero inesauribile Per chiarire quanto appena detto, è utile fare riferimento all’esperienza delle relazioni tra uomini. Se si applicasse la modalità semplicistica della rappresentazione nell’approccio agli altri, le conseguenze sarebbero spesso deleterie. Se quando ci troviamo di fronte a un altro riteniamo di poterlo conoscere semplicemente pensandolo interiormente, oppure facendo qualcosa insieme, il suo mistero ci rimane irrimediabilmente nascosto. Pensiamo di dominarlo, ma in realtà ne restiamo fuori giudicandolo o strumentalizzandolo. Se vogliamo aver parte al mistero di un altro, dobbiamo invece intrecciare “riti” con lui: salutarlo, parlargli, ascoltarlo, fargli doni, riceverli, mangiare, passeggiare, insieme ridere e piangere. Solo così scopriamo sorprendentemente due effetti di questi riti: – riusciamo a escludere di poter sapere tutto di lui, vale a dire che più “celebriamo con lui” e più riconosciamo di non poterlo “giudicare”, di non poterlo ridurre a una nostra idea... 464 Andrea Grillo approfondimenti – possiamo sentire con lui una profonda connaturalità, coappartenenza, partecipando noi della sua vita e lui della nostra. Il rito, nell’incontro interumano, è ciò che media l’evento di un altro da me che in tal modo posso fare entrare nella mia vita. Ancor più precisamente, l’evento che è l’altro da me mediato dal rito ci conduce alla profondità insondabile della nostra esistenza come mistero di grazia e d’amore. Il medesimo ruolo svolge il rito liturgico per il rapporto con il Mistero di Dio rivelatosi in Cristo. Se pensiamo di poter semplicemente rappresentare il Mistero nella teoria o di adeguarlo nella prassi, ci illudiamo di possederne la totalità, ma ne restiamo fuori. In questa prospettiva, la liturgia decade irrimediabilmente a semplice espressione esterna di questa nostra presunta certezza interiore. Se invece accettiamo di entrare ritualmente in rapporto con esso, allora cominciamo a farne parte: non possiamo più percepirne la totalità, ma sappiamo di partecipare ad essa per grazia. Solo la partecipazione all’Evento consente di conoscerlo adeguatamente, ossia di farne parte senza poterlo esaurire, lasciandolo restare nella sua insondabilità di Mistero. Celebrare il Mistero significa in questo caso porre le condizioni per dipendere dall’Evento – ossia per stare in un rapporto di “comunione” con il Dio fatto carne – e perciò poterne vivere la pienezza del dono di grazia. Viceversa, se la conoscenza del Mistero fosse la condizione della partecipazione, si verificherebbe immediatamente l’impossibilità di una autentica partecipazione, poiché avremmo già tutto il contenuto assicurato nella semplice rappresentazione e non ci interesserebbe più far parte di esso nella celebrazione. L’idea che la conoscenza e la vita – ridotte a intellettualismo e a moralismo – possiedano “concettualmente” la chiave del Mistero è uno dei modi con cui la fede può indebolirsi al punto tale da perdere ogni aggancio con la vita. 2. Alcuni corollari Questa comprensione rinnovata della funzione svolta dal rito nel rapporto tra la vita del credente e l’Evento fondamentale della fede che è il Mistero pasquale è feconda sotto altri due aspetti che toccano nel vivo l’esperienza quotidiana di ogni uomo: una comprensione più matura della libertà umana e del tempo. a) Libertà e dipendenza Su questo aspetto è interessante richiamare il contributo del teologo gesuita Karl Rahner. In un suo famoso saggio sul simbolo (Rahner 1965), egli aveva individuato uno spazio proprio e irriduLa riforma liturgica e l’impegno sociale 465 cibile alla dimensione simbolica nella fede. Alla base del suo ragionamento vi era la convinzione che la tensione dell’uomo a trovare la propria essenza (in un linguaggio più piano, trovare se stesso) passa per l’espressione in altro. Rahner poneva così un legame tra esperienza ed espressione 2, che sfugge facilmente alla percezione dell’uomo moderno. La forte correlazione tra i poli della questione – trovare la propria essenza ed esprimersi in altro da sé – risulta oggi estremamente problematica. Il motivo della incomprensione si deve alla dimenticanza che per la realizzazione di sé è necessario il rapporto con l’altro. I molteplici livelli in cui si sperimenta l’alterità sono vissuti oggi più sotto il segno dell’opposizione che sotto quello della correlazione. Così, solo per citare i casi principali, si contrappongono autonomia ed eteronomia, novità e tradizione, libertà e autorità. Bisogna notare che il recupero del ruolo del rito perché la fede cristiana sperimenti un profondo rapporto tra Evento pasquale e vita privata, pubblica e comunitaria del battezzato, deve riscoprire non l’opposizione, ma la correlazione, il rapporto quasi genealogico tra questi elementi che la cultura contemporanea tende a opporre. Che l’eteronomia sia fonte di autonomia, che la tradizione garantisca la novità, che l’autorità sia sorgente di libertà è ciò che il rito produce simbolicamente, rendendo possibile l’esperienza secondo cui l’Evento – luogo originario di eteronomia, tradizione e autorità – può essere effettivamente rilevante e decisivo per una vita che si voglia autonoma, nuova e libera. b) Il rito tra tempo ordinario e tempo festivo In parallelo con queste avvertenze rispetto alla correlazione tra libertà e autorità, la mediazione del rito tra Evento pasquale e vita può essere compresa anche con una adeguata riflessione sul tempo. La cultura di oggi tende a percepire il rapporto con il tempo non più nella scansione tra feriale e festivo, ma in quella tra tempo del lavoro e tempo libero. Questa evoluzione culturale non riesce più a collocare agevolmente il rito festivo all’interno della alternativa secca tra lavoro e riposo. Questa mancanza è una delle cause più profonde del tramonto del rito. Bisogna invece scoprire che il rito liturgico non soltanto dice qualcosa della nostra libertà, ma regola anche il senso del nostro tempo in un modo assolutamente peculiare. Il tempo festivo è dono 2 La relazione tra esperienza ed espressione costituisce la “natura dell’uomo” tra invisibilità e visibilità, tra pensiero e linguaggio, tra interiorità ed esteriorità. Nella logica dell’attenzione al linguaggio (la “svolta linguistica”) maturata dalla filosofia del Novecento, l’espressione è condizione della esperienza. 466 Andrea Grillo approfondimenti del tempo, riconoscimento ed esperienza della relazione entro cui e grazie a cui il tempo si dischiude nell’uomo. Non c’è una vera correlazione tra il tempo della vita e il senso del tempo rivelato dall’Evento, ossia l’amore, se non ci lasciamo donare un tempo diverso sia da quello del compito lavorativo, sia da quello della assenza di compito, del tempo libero. Entrambi questi tempi hanno bisogno di un’interruzione rituale, che dica il loro senso e senza la quale restano certo importanti, ma privi di anima. Bisogna quindi riconoscere che il rito permette una continuità tra vita ed Evento soltanto a patto di saper interrompere la vita per farla corrispondere alla sua verità. L’impatto della riscoperta del festivo da parte di SC (la domenica e l’anno liturgico) costituisce una risorsa fondamentale per una lucida impostazione del rapporto della fede con il lavoro e con la vacanza. 3. Il rito come mediazione Il rito non è né l’Evento né la vita: questa affermazione da cui abbiamo preso le mosse resta vera. Ma è proprio questo suo “essere altro” a garantire un rapporto significativo tra vita ed Evento grazie alla sua mediazione. Infatti, il nostro rapporto con la Pasqua e il nostro rapporto con la vita non è mai diretto. Proprio questo livello – quello del nostro rapporto con l’Evento della Pasqua e con la pienezza della vita – è il terreno su cui il rito diventa necessario e prezioso. Il rito liturgico è perciò quella dimensione espressiva che configura e rafforza l’esperienza dell’Evento nella vita e l’esperienza della vita nell’Evento. Ci fa entrare nell’Evento con la vita e nella vita alla luce dell’Evento. Ma per farlo ha bisogno di uomini e donne disposti a interrompere la loro vita per lasciar spazio alla verità della loro libertà come dono. Persone disposte a partecipare all’Evento non solo nelle comode forme della rappresentazione o dell’adeguamento. Il rito rinuncia sia a rappresentare sia ad adeguare, aprendo così a una vita realmente inesauribile e disposta alla conversione continua, capace di vivere le logiche dei diritti e dei doveri alla luce della logica dei doni. Se riformuliamo la questione partendo dal suo centro, ossia dal Mistero di Cristo, dalla incarnazione, passione, morte e resurrezione del Figlio di Dio, vediamo che questo Evento non è mai accessibile direttamente, non si constata semplicemente come un fatto dimostrabile, ma vi si entra attraverso una narrazione e una celebrazione, mediante una “parola” e attraverso un “sacramento”. Il narrare e il celebrare non sono semplicemente due mezzi con cui rappresento l’Evento, ma piuttosto sono linguaggi, mediazioni, prospettive, che mi dispongono “entro” l’efficacia dell’Evento. In La riforma liturgica e l’impegno sociale 467 altri termini, nella espressione rituale (molteplice e stratificata) l’esperienza non è semplicemente “espressa”, ma “sperimentata”. Come dice il Concilio in SC 59, i sacramenti non solo «suppongono» la fede come esperienza, ma anche «la nutrono, la irrobustiscono e la esprimono», cioè la edificano esprimendola nelle forme complesse dell’azione rituale. Dire «Credo in Dio, Padre Onnipotente» è già rito, perché originale mediazione dell’evento nel quotidiano e del quotidiano nell’evento. È già sempre una affermazione simbolico-rituale, perché esprime non il mio sapere o il mio dovere, la mia coscienza o il mio impegno, ma il mio essere, il mio trovare me stesso soltanto nella relazione a Cristo, il mio partecipare di Dio in Cristo. Questa professione resta coerente con quanto dice solo quando ammette di non poter dire tutto, proprio sul fondamento del fatto di essere accolto nel Mistero della creazione e redenzione di Dio, di far parte del mistero stesso che Dio è e che in Cristo si è rivelato. Il rito liturgico non è allora una sorta di appesantimento del rapporto diretto tra Cristo e il quotidiano, ma piuttosto l’elemento unificante, il medium, che mette in comunicazione i due poli nella comunione che si attua tra l’“una volta per tutte” e il “qui e ora”. Ad esempio, la forma del “pasto” permette al “sacrificio della croce” di entrare nella quotidianità del bisogno dell’uomo e, nello stesso tempo, consente al bisogno autoreferenziale del cibo di aprirsi alla relazione originaria, che lo fonda e lo trascende. Per realizzare questo, però, il rito deve assumere tutta la ricchezza del proprio bagaglio di linguaggi, codici e messaggi, perché proprio in questo modo – con tutti questi elementi che lo costituiscono – vede realizzato l’essenziale e crede presente quello che sta celebrando. Il rito modifica il quotidiano, distinguendolo e salvandolo dal banale, poiché ne allontana la ripetitività e così disvela la libertà nella sua sostanza di grazia; nello stesso tempo ristruttura il rapporto con l’Evento, distinguendolo e salvandolo dalla lontananza, poiché ne avvicina la verità e rende possibile parteciparvi, scoprendo nella grazia una libertà. Per questo tutti gli elementi del rito, comprese tutte le dimensioni linguistiche che corrispondono a profondi bisogni dell’uomo, realizzano quella presenza della sostanza che non è soltanto “essere ciò che vediamo”, ma anche “ricevere quel che si è”, dono del corpo di Cristo che riceviamo ed edificazione della Chiesa che siamo. 4. Per una diversa esperienza ecclesiale e sociale Alla luce di questo breve percorso, si coglie come il testo di SC abbia impostato una diversa esperienza ecclesiale e spirituale, un 468 Andrea Grillo approfondimenti Concilio Vaticano II, Costituzione Sacrosanctum Concilium sulla sacra liturgia, 1963 (SC). FUCI (2005), Il Concilio davanti a noi, AVE, Roma. Grillo A. (2003), La nascita della liturgia nel XX secolo. Saggio sul rapporto tra Movimento Liturgico e (post-)Modernità, Cittadella, Assisi. Grillo A. – Ronconi M. (2009), La riforma della Liturgia. Introduzione a Sacrosanctum Concilium, Periodici San Paolo, Milano. Rahner K. (1965), «Sulla teologia del simbolo», in Id., Saggi sui sacramenti e sull’escatologia, Paoline, Roma, 51-107. La riforma liturgica e l’impegno sociale risorse modo diverso di stare nella Chiesa e nel mondo. Tale mutamento, tuttavia, rinuncia alle “vie brevi” proprio mediante il gesto profetico con cui si annuncia che l’intelligenza dei riti è decisiva per «tutta l’azione della Chiesa» – anzi, ne costituisce il «culmen et fons» – ma tale intelligenza avviene grazie al rito stesso (SC, nn. 10-11). Potremmo dire che la sollicitudo della Chiesa per la “res socialis”, che risale alla fine del XIX secolo con il rullo di tamburi della Rerum novarum del 1891, acquista a partire da Sacrosanctum Concilium un orizzonte più maturo. La sollecitudine pastorale diventa consapevole che inevitabilmente l’attenzione per le res novae passa attraverso una modalità di partecipazione al “culmine” e alla “fonte” dell’agire ecclesiale che la liturgia incarna storicamente con l’apporto di una pluralità di linguaggi concorrenti. Riuniti nell’assemblea che celebra, tutti i battezzati vivono l’esperienza di un dono che “parola” e “sacramento” rendono presente e attuale in modo originario, senza riduzioni o strumentalizzazioni. Questa esperienza illumina l’agire dei cristiani sul piano etico, politico e sociale, tocca la lotta tra i diritti e i doveri che riguarda ogni generazione. La percezione acuta del dono può esprimersi solo trasgredendo i linguaggi ordinari e sovrapponendo le espressioni più diverse: cantando e tacendo, muovendosi e arrestandosi, levandosi in piedi o inginocchiandosi nel raccoglimento, ascoltando religiosamente o acclamando nella gioia. Tutto questo non riduce o supera la lotta tra diritti e doveri, ma la contestualizza in una comunione originaria e definitiva da cui e verso cui muove il corso della storia. Alla ambizione pastorale del Concilio Vaticano II corrisponde una Chiesa che, per vivere la pienezza della propria vocazione sociale, sa sempre iniziare e finire sul livello simbolico della azione rituale, interpretando così profeticamente e sacerdotalmente la condizione storica della propria regalità. In altri termini, una Chiesa che, nel suo culmine e fonte liturgico, scopre il primato di un centro di Cristo e dell’alter Cristus che è “periferia”. 469 scheda / film A Lunchbox di Ritesh Batra India, Francia, Germania, USA 2013 Academy 2 Drammatico, 105 min Ila ogni giorno cucina il pranzo per il marito, lo ripone in una lunchbox e lo consegna a chi glielo porterà, che per errore lo fa avere ad un’altra persona, Saajan. Suo marito non si accorge di ricevere cibo preparato da un’altra donna mentre Sajaan inizia a rispondere ai biglietti che Ila inserisce nella lunchbox, dando il via a un epistolario destinato a incidere sulle vite di entrambi. 470 Saajan Fernandes, scontroso impiegato dell’ufficio reclami di un’azienda, prossimo alla pensione dopo 35 anni di grigio ma onorato servizio, cominciano ad arrivare i succulenti manicaretti che Ila cucina per il marito. La donna si rende conto dell’errore e invece di chiarire l’equivoco col fattorino, manda insieme al pranzo un biglietto per il misterioso destinatario. Fernandes risponde in maniera abbastanza fredda, dando però il via a un epistolario destinato a cambiare la vita dei protagonisti, due persone con dei vuoti da riempire. Fernandes infatti è vedovo e conduce un’esistenza piuttosto ritirata, mentre Ila si sente trascurata dal marito e neanche i pasti che lei cucina con infinita cura, quasi in una versione indiana e neorealista del Pranzo di Babette o di Come l’acqua per il cioccolato, riescono a farle ritrovare la strada per il cuore del proprio (si scoprirà infedele) consorte. Ma i treni sbagliati possono arrivare nelle stazioni giuste e forse sarà il cuore di Fernandes ad essere raggiunto da Ila. Prende così vita un lungo scambio di messaggi, che si trasformerà in un’affettuosa amicizia, fatta di brevi confessioni sulle loro solitudini, sulle loro paure, sui ricordi e sulle loro piccole gioie. Scriversi diventerà un modo per sentirsi vicini in una metropoli come Mumbai che spesso distrugge speranze e sogni. La consegna del pasto sarà il rito quotidiano che li unirà. Lunchbox è un film sobrio, delicato e originale diretto dall’esordiente Ritesh Batra: una regia che prende immediatamente le distanze dalla commedia tipica di Bollywood, scartando alla radice eccessi, ridondanze e fatuità. L’autore sceglie infatti di concentrarsi sugli aspetti più profondi della narrazione, privilegiando l’interiorità dei personaggi, il loro bisogno di comunicare e, soprattutto di sentirsi meno soli. Quello che gli preme restituire, anche attraverso la costruzione della messa in scena, è il loro intimo sentire, il loro disagio di fronte a un’esistenza vuota e sempre uguale. Così il loro agire minimale – per lo più costituito dalle abitudini culinarie di lei e da quelle professionali di lui – si coniuga con il peso e il significato della parola scritta e della riflessione; e parallelamente si alterna, nel montaggio, alle riprese della vita cittadina, caotica e opprimente. La macchina da presa interviene dunque nel sottolineare ed isolare l’unicità della loro relazione epistolare, offrendo uno spessore, umano e spirituale, che risalta sullo sfondo metropolitano, freddo e indifferente. Un distacco che si esprime anche nei colori: tonalità di grigio e di colori scuri caratterizzano le immagini d’ambiente; mentre sfumature più calde, accoglienti e vivaci riguardano il cibo, nelle sue varie articolazioni. Lunchbox è un film in cui il rito quotidiano del cucinare e del pranzo viene elevato a strumento di conoscenza reciproca, di partecipazione emotiva, di vitalità, un vero e proprio linguaggio relazionale, che in un quotidiano “spendersi per l’altro” trova la strada di un’insospettabile apertura degli orizzonti. Andrea Lavagnini punti di vista Cattolici in politica: minoranza creativa nella società italiana Giorgio Campanini Professore f.r. di Storia delle dottrine politiche nell’Università di Parma Quanto incide la tradizione cattolica sulla società del nostro Paese? E in politica i cattolici sono davvero una minoranza, e di che tipo? A tali quesiti cerca di dare una risposta questo contributo, tracciando le linee principali della storia della presenza cattolica in politica nel corso dei 150 anni di vita della nostra Repubblica, dalla Breccia di Porta Pia a oggi, e indicando alcune piste di riflessione per tutti i cattolici impegnati. L’ impegnativo e un poco provocatorio titolo di questo contributo fa riferimento al concetto di minoranza dei cattolici nella attuale situazione della società italiana, ma di che tipo di minoranza si parla? Passiva e insignificante, oppure attiva e creativa? Da un primo punto di vista, si potrebbe affermare che in Italia i cattolici sono ancora una componente maggioritaria del popolo italiano: al di là del numero dei praticanti domenicali (tra il 20 e il 25% della popolazione), le tradizioni, il linguaggio, le arti e i costumi sono indicativi di questa presenza della Chiesa e dei cattolici (cfr Melloni 2013 e Garelli 2007). L’Italia, anche quella parzialmente secolarizzata di oggi, non è pensabile al di fuori della sfera di influenza del cattolicesimo: chiunque abbia occasione di visitare popoli di altra tradizione, dall’Africa alla Cina, non manca di rendersi conto dell’orma profonda che il cattolicesimo ha impresso nella società italiana. Aggiornamenti Sociali giugno-luglio 2014 (471-480) 471 Tuttavia il processo di secolarizzazione in atto nel nostro Paese da almeno 150 anni, e cioè dalla raggiunta unità politica, ha influenzato profondamente la società italiana; lo si constata soprattutto in due importanti ambiti: quello della cultura, al cui interno la presenza cattolica, pure importante e significativa, può apparire marginale, e quello del costume, con particolare riferimento alla sfera famigliare e sessuale, anche se i matrimoni religiosi, contratti in forma cattolica, rappresentano ancora oggi un’ampia maggioranza 1. Un particolare ambito di riflessione, al quale faremo soprattutto riferimento, è rappresentato dalla politica. Qui si pone un duplice problema, che può essere affrontato a partire da due diversi punti di vista. I cattolici, in politica, sono realmente una minoranza? E se di minoranza si può parlare, essa è marginale e passiva, oppure è autenticamente creativa e, dunque, capace di incidere sulla società italiana (cfr in proposito Sorge 2010, 65 e Turi 2014, 48 ss.)? Si cercherà di rispondere a questi interrogativi, sempre a partire dalla scelta di campo dichiarata in precedenza, e cioè che si farà riferimento esclusivo alla presenza dei cattolici nella società e, più specificamente, in politica. Un necessario excursus storico Per poter rispondere a questi interrogativi, si impone un rapido excursus storico, riferito ai circa 150 anni che ci separano dall’Unità d’Italia (1860) e dalla fine del potere dei pontefici (1870), cioè dalla Breccia di Porta Pia, assunta dall’ideologia laicista come punto di riferimento non solo della fine del potere temporale dei papi, ma anche della (presunta) fine del cattolicesimo. Questa tesi ha avuto una parvenza – ma solo una parvenza – di credibilità per quanto riguarda gli anni che vanno dal 1870 al 1943, e cioè sino alla caduta del fascismo. In questa stagione di circa settant’anni, in effetti, i cattolici sono stati sostanzialmente assenti dalla vita politica (salvo la breve parentesi del Partito popolare di Luigi Sturzo dal 1919 al 1923), ma non certo dalla vita sociale. L’amplissima messe di studi sul Movimento cattolico ha posto in evidenza come siano state molteplici le forme di presenza dei cattolici nella società: dalle cooperative alle società di mutuo soccorso, dalle casse rurali alle amministrazioni comunali. Il non ex1 Si deve riconoscere che il processo di secolarizzazione, soprattutto da un decennio a questa parte, ha in parte scalfito l’antico legame tra Chiesa e famiglia (cfr Campanini 2013b, 41 ss.). Resta però il fatto che negli anni Duemila i matrimoni celebrati con rito civile, non pochi dei quali contratti da emigrati non cattolici, sono stati poco più di un terzo del totale e che molti di questi – secondi matrimoni di divorziati – sarebbero stati celebrati con rito religioso se la attuale disciplina della Chiesa lo avesse consentito (cfr Donati 2012, 48 ss.). 472 Giorgio Campanini punti di vista pedit, ossia il divieto di partecipare at- Con il non expedit (“non conviene”) papa tivamente alla vita politica, non esclu- Pio IX nel 1868 dichiarò inaccettabile per deva una forte presenza nel sociale, che i cattolici italiani partecipare alle elezioni politiche e, per estensione, alla vita politiin effetti si è verificata soprattutto nelle ca. Fu abrogato ufficialmente da Benedetto Regioni del Settentrione, ma anche il XV nel 1919. Mezzogiorno ha registrato significative esperienze, soprattutto in Campania e in Sicilia (cfr Traniello e Campanini 1997 e Scoppola 2005). A questo settantennio di apparente marginalità è subentrato un cinquantennio (1943-1992) di forte protagonismo e, al limite, di egemonia dei cattolici attraverso il partito della Democrazia cristiana, di dichiarata ispirazione cattolica e a lungo appoggiato e sostenuto dalla stessa gerarchia ecclesiastica; la DC ha svolto un ruolo fondamentale nella resistenza ai totalitarismi, sia con la lotta partigiana sia, ancor più, con la resistenza passiva, il soccorso ai perseguitati e l’aiuto alle popolazioni disastrate; nell’elaborazione della Carta costituzionale; nell’avvio della ricostruzione, nella gestione di quella fase storica detta del “miracolo economico” (1950-1970) alla quale si guarda ancora oggi, anche da parte dei critici di quella stagione, con ammirazione e nostalgia. La fase terminale della DC, con i fenomeni di degenerazione accentuatisi dopo la morte di Aldo Moro (1978) non può fare dimenticare i suoi meriti precedenti: gli stessi fenomeni di corruzione che hanno caratterizzato quella stagione appaiono a non pochi osservatori ben poca cosa di fronte al malcostume e alla corruzione che hanno caratterizzato spesso la cosiddetta “seconda Repubblica”. Si era pensato che i cattolici al potere fossero la causa prima della corruzione, ma si è dovuto constatare che il cambio della classe dirigente non ha affatto eliminato il fenomeno, anzi, lo ha forse accentuato. In sintesi, i circa 150 anni di storia che ci separano dall’Unità possono essere definiti ora quelli dell’esclusione, ora quelli dell’inclusione. Siamo oggi di fronte a una nuova marginalità, quasi a un nuovo non expedit (Bobba 2010)? I cattolici minoranza politica? La drammatica fine della DC ha indotto diversi osservatori a decretare la fine di una forte presenza cattolica in politica, e specificamente nelle sue istituzioni rappresentative, nazionali e locali. Ma le cose stanno veramente così? Anche prescindendo dalle conclamate (ma spesso retoriche e strumentali) affermazioni di ossequio alla Chiesa, al suo Magistero e alla sua Tradizione, si deve constatare che la presenza dei cattolici nelle istituzioni non è mai venuta meno. Si potrebbe quasi affermare che, se si tornasse a riunire i cattolici Cattolici in politica: minoranza creativa nella società italiana 473 “osservanti” presenti nei diversi partiti, essi sarebbero ancora la maggioranza relativa e quindi hanno un peso tutt’altro che marginale. Perché, dunque, la sensazione diffusa della loro “insignificanza” o, comunque, marginalità? La risposta è semplice e complessa nello stesso tempo: semplice, poiché è evidente che presenze cattoliche frammentate e disperse sebbene numerose non hanno la forza di una compagine unitaria e compatta; complessa, perché questa frammentazione corrisponde a un nuovo contesto storico che i cattolici non hanno il potere di modificare e che in Occidente, e comunque in Italia, deriva dalla conclusione del periodo delle contrapposizioni ideologiche, con l’inizio della stagione delle contrapposizioni programmatiche. A lungo gli italiani si sono divisi su “grandi questioni”: il rapporto Stato-Chiesa, le forme della democrazia, la collocazione del Paese nel contesto internazionale, risolte la prima grazie al Concordato del 1929 e alle successive intese del 1984, la seconda con l’approvazione della Carta Costituzionale che fonda i diritti della persona; la terza con l’ingresso dell’Italia nell’Europa unita. Non manca chi – interpretando in modo estremistico alcune sollecitazioni e messe in guardia del Magistero – ritiene di poter identificare una formazione politica cattolica sulla base della discriminante rappresentata dalle questioni etiche, da quelli che vengono definiti “principi non negoziabili” (cfr Campanini 2013a), espressione che per altro non ricorre nei documenti del Magistero della Chiesa, ma appare assai arduo identificare una formazione unitaria di cattolici sulla base di questioni come la regolazione delle convivenze o le decisioni relative al “fine vita”. Senza contare che una siffatta formazione avrebbe inevitabilmente una connotazione negativa, e cioè quella della difesa di alcuni valori, ma non avrebbe alle spalle alcun progetto reale di società. I nodi da sciogliere Il terreno sul quale si giocherà il futuro del Paese, e sul quale sarà giudicata la creatività dei cattolici, è vasto e complesso, ma vi sono tre questioni fondamentali da affrontare e, possibilmente, da risolvere. La prima è di natura economica, ove si pone il problema se puntare su uno Stato forte e interventista oppure su uno Stato che stimoli e regoli l’economia di mercato a partire dalla consapevolezza che il problema prioritario da risolvere è quello della disoccupazione, soprattutto femminile e giovanile. La seconda questione riguarda il rapporto fra Stato e autonomie locali (Regioni, Province, Comuni) sia sotto il profilo della legisla474 Giorgio Campanini punti di vista zione sia dal punto di vista dell’allocazione delle risorse disponibili, ovvero in quale misura debbano essere assegnate allo Stato o agli enti locali, con una versione ora più forte ora più debole del principio di sussidiarietà. L’ultima questione aperta è il ruolo dell’Italia in Europa e, in generale, nella comunità internazionale: se il suo contributo alla pace e allo sviluppo debba avvenire attraverso missioni militari a fini umanitari o se invece debba essere privilegiata la via della cooperazione allo sviluppo, valorizzando, in questa prospettiva, energie intellettuali e conoscenze scientifiche spesso abbondanti in Italia e qui impossibilitate a esprimersi. Sullo sfondo si colloca il contributo che l’Italia può dare alla pace nel mondo, nella linea indicata dai periodici messaggi dei pontefici. Ci si è limitati all’indicazione di alcune grandi tematiche, sia perché stilare l’elenco dei problemi del Paese significherebbe compilare un lungo e a volte malinconico cahier de doléances, sia perché l’indicazione delle priorità non può essere opera individuale, ma implica l’incontro e la collaborazione di diverse competenze. Né è un caso che da molti e da molto tempo si invochi la redazione di un manifesto-programma come quello che, alla vigilia della caduta del fascismo, venne stilato a Camaldoli nel 1943 e pubblicato a Roma nel 1945 sotto forma di “Codice”. Il conflitto delle interpretazioni Come avviene in ambito filosofico e teologico, anche in politica si è di fronte al “conflitto delle interpretazioni”: a partire dallo stesso patrimonio di valori che si esprime nel cattolicesimo, si è di fronte a diverse letture degli stessi problemi e, conseguentemente, a differenti proposte politiche. Riprendendo le tematiche in precedenza evidenziate, come affrontare i problemi dell’econoIl Codice di Camaldoli è un documento (titolo originale Per la comunità cristiana) emerso dall’incontro che si tenne dal 18 al 24 luglio 1943 presso il monastero benedettino di Camaldoli, sotto la guida di mons. Adriano Bernareggi, assistente ecclesiastico dei laureati dell’Azione Cattolica, dove un gruppo di intellettuali – laici e religiosi – cattolici si riunì con lo scopo di confrontarsi e riflettere sul magistero sociale della Chiesa, sui problemi della società, sui rapporti tra individuo e Stato, tra bene comune e libertà individuale. Il 25 luglio e i successivi av- venimenti modificarono il piano di lavoro, che prevedeva una ampia partecipazione; la stesura fu affidata a Sergio Paronetto, Pasquale Saraceno, Ezio Vanoni, Giuseppe Capograssi che la completarono nel 1944. Una delle caratteristiche essenziali del “Codice”consiste nel porre la giustizia sociale tra i fini primari dello Stato, così come la salvaguardia della libertà, istanze che influenzarono gli intellettuali cattolici dell’ala sociale della DC e la stessa stesura della Carta Costituzionale (cfr Baietti e Farese 2012). Cattolici in politica: minoranza creativa nella società italiana 475 mia? Puntando sul pubblico o sul privato? Come realizzare concretamente il principio di sussidiarietà? Come contemperare la “scelta pacifista” insita nella natura profonda del messaggio cristiano con il doveroso impegno a favore delle vittime della violenza? Interpellate su questo insieme di problemi, le comunità cristiane darebbero inevitabilmente risposte diverse e proporrebbero conseguentemente soluzioni differenziate: analogamente i cristiani che siedono in Parlamento o nei Consigli regionali e locali si dividerebbero. Come sarebbe possibile militare nello stesso partito se, pur nell’accordo su valori fondamentali, si optasse per soluzioni operative profondamente diverse? Da questo punto di vista sembra si debba affermare che – almeno nella normalità dell’agire politico e fatta salva la necessaria unità sui temi etici – la diversità dei punti di vista e delle conseguenti decisioni operative non è l’eccezione, bensì la regola: quanto è avvenuto in una situazione di emergenza, come nella stagione della guerra fredda e del prolungato infeudamento di varie forze politiche all’ideologia marxista e alla prassi del comunismo, è stato il risultato di una contingenza eccezionale, fortunatamente superata. È possibile che, a proposito dell’attuale crisi economica, possa essere invocato il caso dell’eccezionalità e non si può escludere che di fronte alla gravità del problema i cattolici ovunque schierati trovino, felicemente, un punto di incontro e di convergenza per il bene del Paese; ma questa unità non potrebbe diventare la regola una volta che il quadro generale del Paese fosse sottratto all’assillo dell’emergenza. La pluralità delle scelte politiche dei cattolici è d’altra parte ormai la linea prevalente in pressoché tutti i Paesi dell’Occidente (esclusa la Germania, almeno in parte), dagli Stati Uniti alla Francia, dalla Gran Bretagna alla Polonia. E non è un caso che Paesi che hanno conosciuto una stagione, talora assai lunga, di “unità politica” dei cattolici, li vedano ora schierati su posizioni diverse. Ciò che importa, alla fine, non è tanto il restare insieme a ogni costo, ma semmai il pensare insieme a un comune progetto di società: affrontando i problemi senza essere condizionati dalle reciproche “appartenenze”, con la piena disponibilità al dialogo e all’accettazione di posizioni che inizialmente erano state rifiutate in via pregiudiziale. È a questo livello che potrebbe essere raggiunta dai cattolici impegnati in politica non una compiuta unità ma una convergenza pratica, non solo in ordine ad alcuni valori condivisi ma anche, non in pochi casi, in ordine alle soluzioni concrete da adottare. Le comunità cristiane, nelle loro varie articolazioni, potrebbero essere il luogo, doverosamente “neutrale” quanto alle scelte di campo, nel quale realizzare questo confronto tra cattolici. Si potrebbe 476 Giorgio Campanini punti di vista qui verificare che quanto unisce è assai più di quanto divide (cfr Alici 2013). Quali potrebbero essere i luoghi di questa possibile “nuova creatività”, che riprenda, nel contesto del XXI secolo, le intuizioni della migliore cultura cattolica, dal “Codice di Camaldoli”, così attento alla giustizia sociale, alle grandi intuizione del sindaco di Firenze Giorgio La Pira, pioniere della riconciliazione tra i popoli e dell’impegno per la pace? La risposta a questo interrogativo implicherebbe un’analisi ad ampio raggio dei problemi della società italiana, pertanto ci si limiterà qui a individuare tre nodi fondamentali del messaggio sociale cristiano, oggetto di ripetuti interventi del Magistero sociale della Chiesa e riconducibili alla fondamentale categoria di bene comune. Il primo ambito di questo progetto di rinnovata creatività dei cattolici è quello della politica internazionale, in duplice prospettiva: quella dell’impegno per la pace e quella della lotta alla fame, all’ignoranza e al sottosviluppo. È ben noto l’apporto significativo e determinante fornito dai cattolici alla pacificazione in Europa, soprattutto attraverso l’impegno per l’Europa unita. Questo ideale appare oggi sbiadito, se non del tutto oscurato, per le cadute efficientistiche e burocratiche che le istituzioni europee hanno conosciuto, soprattutto da due decenni a questa parte. Ma è possibile, ed è compito preminente dei credenti, rifondare le radici ideali e spirituali dell’Europa e farne un punto essenziale di riferimento per la collaborazione tra i popoli e per la pace nel mondo. Oltre tutto, su questo terreno sono possibili larghe convergenze fra credenti e non credenti (cfr Simone 2008 e Alici 2008). Un secondo campo di impegno è quello della giustizia sociale, esso pure antico e sempre al di là della forma-partito. Si sta facendo strada nel mondo una economia umanistica che sta conoscendo una stagione felice, dall’India del premio Nobel per l’economia Amartya Sen agli Stati Uniti di un altro vincitore del medesimo riconoscimento, Joseph Stiglitz, e che anche in Italia ha conosciuto significative espressioni nell’ambito della cosiddetta “economia di comunione”, con il superamento della pura e autoreferenziale economia di mercato, finalizzata esclusivamente al profitto, in nome di un’economia partecipata e solidale, preoccupata non soltanto dell’efficienza produttiva ma anche e soprattutto delle relazioni umane; un’economia che non rinuncia all’efficienza ma che non fa esclusivamente del profitto la categoria-chiave del suo operato (cfr Bruni 2008 e Zamagni 2008). Si tratta, per ora, di piccole isole, quasi di una sorta di spina nel fianco del dominante modello capitalistico, ma di esperienze che vanno diffondendosi e che del resto sono sollecitate dalla Cattolici in politica: minoranza creativa nella società italiana 477 crescente consapevolezza, acuita dalla crisi, dell’inevitabile fine di un modello di economia consumistico e distruttivo dell’ambiente e delle relazioni umane. L’idea che progresso economico e aumento del PIL vadano di pari passo con il soddisfacimento dei bisogni fondamentali e con il conseguimento di quella che, sinteticamente, si può definire “felicità collettiva”, trova sempre meno sostenitori e si va facendo strada la convinzione che un’economia della quantità debba cedere il passo a un’economia della qualità: e che cos’altro è tutto ciò, se non la ripresa della grande tradizione patristica e medievale, a partire dalla modernità travolta dalla cultura e dalla prassi del capitalismo? Passando dalla sfera del pubblico (politica ed economia) a quella del privato, o meglio, dell’apparente privato, un ruolo determinante è chiamata a svolgere un’istituzione oggi rimessa drammaticamente in discussione dall’esplosione dei diritti (o sedicenti tali) degli individui, la cui protezione è sempre più frequentemente estesa anche in ambito legislativo: la famiglia. Dire “famiglia” non è dire uso libero e disinibito in tutte le sue forme di una sessualità orientata esclusivamente alla relazione e al piacere dei singoli individui, bensì evocare un progetto di vita fondato su due pilastri essenziali, quello della stabilità – perché solo nel tempo la relazione di coppia può esprimere la sua potenzialità creativa e aprirsi alla generazione, di per sé stessa un impegno a lunga durata – e quello della solidarietà, del reciproco servizio e anche della capacità di sacrificio, fondamento di quelle energie solidaristiche che le attuali società occidentali stanno largamente perdendo e che, non a caso, finiscono per mettere in crisi la famiglia stabile fondata su un amore capace di affrontare e superare la sfida della durata. Un “modello” di famiglia, dunque, che è strutturalmente, per il suo stesso esistere, una scuola di solidarietà e di impegno per la giustizia che nessun’altra realtà può sostituire (cfr Donati 2012 e CEI 2011). Del resto, come essere solidali e aperti se la relazione di coppia si pone nel segno di una esclusiva gratificazione reciproca, lasciando fuori dal suo orizzonte ogni “terzo”, e cioè molto spesso il figlio e, in ogni caso, la società? Per una nuova creatività politica L’attuale situazione dell’Italia e del mondo dovrebbe rappresentare per i cattolici italiani una forte sollecitazione a tornare a “pensare” politicamente, come diceva Giuseppe Lazzati (1988). La crisi della DC è intervenuta quando la frenesia del “fare” ha eclissato l’attitudine a pensare: da questo punto di vista, la tragica fine di Aldo Moro (1978), un uomo che, ostinatamente e cocciutamente, richiamava l’importanza e il valore del pensiero, è emblematica: per una 478 Giorgio Campanini punti di vista lunga stagione la politica dei cattolici Sotto la responsabilità della Giunta centrasi è trascinata sull’onda del passato le dell’Azione Cattolica e in accordo con la senza riuscire a trovare vie nuove e Santa Sede, nel 1925 si costituisce l’Istituto cattolico di attività sociali (ICAS), per conseguentemente impantanandosi garantire alle istituzioni sociali “bianche” nella pura gestione del potere. quegli spazi che la Confederazione italiana La nuova situazione del mondo – dei lavoratori (CIL) sembrava ormai incae non soltanto gli inquietanti scenari pace di tutelare e che, oltre a promuovere dell’economia – pongono ai cattolici attività di studio, ebbe il compito di curare l’organizzazione delle Settimane sociali dei l’istanza di ritornare a pensare, indivi- cattolici italiani. duando momenti e luoghi adatti. In altre stagioni l’Istituto cattolico di attività sociali (ICAS) ha svolto un ruolo di grande importanza. Non sono mancati poi, in questi anni, dalle periodiche Settimane sociali dei cattolici ai Convegni di Todi, interessanti esperimenti in questa direzione; non si è riusciti però a creare luoghi specifici per l’esercizio di quel discernimento che è essenziale per la politica come lo è per l’etica (cfr Campanini 2010). Quale può oggi essere la via da seguire, in modo anche da promuovere e coordinare una rete fra i vari centri di ricerca di ispirazione cristiana che non mancano nel nostro Paese? Il ricco Magistero sociale della Chiesa dovrebbe rappresentare il fondamento di questa riflessione comune, ma la sua concreta lettura nello specifico contesto politico italiano non potrebbe che essere responsabilità di chi vi è direttamente impegnato, in linea con quella legittima “autonomia” della politica sottolineata dal Concilio Vaticano II (cfr Savagnone 2013). Si tratta dunque di pensare politicamente, insieme, per poi agire politicamente, anche se divisi. Passa per questa via l’auspicio di una nuova e felice stagione dell’impegno politico dei cattolici, che sia volto soprattutto a ridurre e, se possibile, a debellare, l’inaccettabile scandalo della povertà in un Paese e in un mondo che grazie alle acquisizioni della tecnica potrebbe avere ragione di questo male antico. A questa priorità dell’impegno politico dei cattolici ci ha fortemente richiamato papa Francesco nella sua esortazione apostolica Evangelii gaudium, allorché, a partire dalla denuncia dello scandalo della povertà, ha affermato: «Ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati ad essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri» (n. 187), sottolineando che questo è uno dei compiti primari della politica. «Prego il Signore» – conclude ancora su questo punto il Pontefice – che ci regali più politici che abbiano davvero a cuore la società, il popolo, la vita dei poveri» (n. 205). Questa nuova generazione di politici, tuttavia, non potrà cadere dall’alto: potrà soltanto essere il frutto di un’attenta analisi dei problemi e di una lucida individuazione delle soluzioni. Alla fine, è questo uno dei fondamentali banchi di prova della “creatività” politica. Cattolici in politica: minoranza creativa nella società italiana 479 risorse In una cultura come quella italiana ancora impregnata di valori cristiani, pur se non esplicitamente percepiti come tali, i cattolici pienamente appartenenti alla comunità cristiana sono una minoranza: tutte le indagini statistiche e sociologiche vanno in questa direzione. Ma vi sono fondamentalmente due modi di essere minoranza: quello “catacombale”, il solo possibile ieri come oggi dove l’ambiente esterno è ostile e a volte persecutorio, quello lucido e aperto tipico di tutte le minoranze attive e propositive, consapevoli di essere portatrici di valori inconsapevolmente condivisi da molti altri, da quanti forse senza rendersene conto attendono un orientamento per il loro incerto cammino. Al di là di eventuali scelte di campo partitiche, i cattolici italiani – ora anche con la forte sollecitazione del magistero di papa Francesco – sono chiamati a essere questa minoranza creativa e propositiva, interprete dell’anima profonda del Paese, incunabolo di una nuova società che prenda il posto di quella attuale, in cui ormai quasi nessuno si riconosce più. Essere minoranza creativa implica la pazienza dei tempi lunghi e insieme lucidità e coraggio nell’intraprendere il cammino: ma non può che essere questo il terreno sul quale si misureranno la forza e la fantasia del cattolicesimo italiano. Alici L. (2007), Forme del bene condiviso, il Mulino, Bologna. stiani nella società e nello Stato, 2 voll., AVE, Roma. — (2013), I cattolici e il Paese, La Scuola, Brescia. Melloni A. (2013), Tutto e niente. I cristiani d’Italia alla prova della storia, Laterza, Roma-Bari. Baietti S. – Farese G. (edd.) 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Non si può evidentemente distruggere la casa […] prima che sia stata costruita l’altra. Ma la casa si può usarla come un meno peggio e tuttavia non accettare e pensare efficacemente alla costruzione della casa nuova. Ora a me pare che, per noi cattolici, il modo efficace di pensare alla costruzione della casa nuova sia anzitutto partire da questa premessa: non avere paura dello Stato. [...] Respingere ogni visione pessimistica: non limitare l’autorità dello Stato, invece che diffondere uno scetticismo sulla sua funzione o esasperare nel garantismo la sua efficienza; affermare, costruire e diffondere un’analisi sociologica che veda tutta la verità del presente, che determini la coscienza profonda dei compiti prossimi, non rinviandoli a decenni: che quindi consenta di fondare una ideologia politica e infine un programma di strumentazione giuridica. Questo è il presupposto di tutto. O si fa questo, o altrimenti non ci si salverà. L’avere indebolito lo Stato o avere paralizzato la sua autorità allo scopo di difendersi non tanto da eventuali pericoli presenti, ma da quelli che altri potrebbero apprestarci cogliendo le nostre forme per imporci un’autorità tirannica, potrebbe far sì che molte di queste cose a un certo punto ci rovinino addosso. Al posto di uno Stato debole, agnostico, insufficiente, verranno altri che costruiranno uno Stato forte e volitivo, eventualmente senza di noi, eventualmente contro di noi. Nel capo XIII dell’Epistola ai romani, negli ultimi versetti, S. Paolo […] indica negli uomini che governano lo Stato, anche se sono romani, anche se sono pagani, anche se si valgono di questa autorità contro Dio, i ministri. […] Nel testo greco, mentre per parecchi versetti ritorna la parola diacono, diaconos, alla fine, quando si tratta di inculcare ai romani che bisogna pagare il tributo a chi si deve, qualunque tributo, allora si indicano coloro che esigono il tributo non più come diaconi, come ministri semplicemente, ma con una parola più forte, più comprensiva: leitourgoi. Gli «operatori liturgici», per così dire, nel senso evidentemente dei liturgici che apprestavano i servizi pubblici nello Stato greco, gli operatori liturgici di Dio. A me pare che gli uomini i quali vedano profilarsi uno Stato capace di imporre loro dei gravi sacrifici di ordine materiale allo scopo però di avviare ad una reformatio del corpo sociale e ad una maggiore aequalitas fra gli uomini debbano vedere finalmente profilarsi i «liturgici di Dio». Pubblichiamo la conclusione della relazione generale tenuta da Giuseppe Dossetti al III Convegno nazionale di studio dell’Unione giuristi cattolici italiani nel 1951 sul tema «Funzioni e ordinamento dello Stato moderno». Nonostante siano trascorsi più di sessanta anni dal momento in cui fu pronunciato, questo discorso presenta una sorprendente attualità sui limiti degli assetti istituzionali consacrati nella Carta costituzionale, adottata solo alcuni anni prima, e sulla necessità di un cambiamento riformatore. Il testo della relazione di Dossetti con un ampio apparato critico è tratto da G. Dossetti, «Non abbiate paura dello Stato!». Funzioni e ordinamento dello Stato moderno, a cura di E. Balboni, Vita e Pensiero, Milano 2014. 481 voci del mondo L’Etiopia: potenzialità e contraddizioni dell’Africa emergente Michele Boario Economista dello sviluppo, consulente di organizzazioni internazionali e del Ministero degli Affari Esteri, <[email protected]> Emanuele Fantini Università di Torino, Dipartimento di Culture, Politica e Società, <[email protected]> I risultati ottenuti nell’ultimo decennio in termini di crescita economica hanno portato l’Etiopia alla ribalta dell’attenzione internazionale. Il modello di sviluppo etiope si fonda sul ruolo dello Stato attraverso una politica di massicci investimenti pubblici. Per quanto ancora si rivelerà sostenibile questa strategia, che emargina il settore privato? E come il sistema politico, che ha registrato negli ultimi anni una restaurazione autoritaria, potrà reggere alle tensioni provocate dai cambiamenti sociali innescati dalla crescita economica? Quale nuovo ruolo è chiamata ad assumere la cooperazione internazionale allo sviluppo? U na ventata di afro-ottimismo ha contagiato negli ultimi anni gli analisti economico-finanziari, la stampa specializzata e le organizzazioni internazionali che guardano con rinnovato interesse ad un “continente in movimento» (Bonaglia e Wegner 2014): la società di consulenza McKinsey dal 2010 ha puntato i riflettori sui “leoni africani” (McKinsey Global Institute 2010); secondo la rivale Ernst & Young per gli investimenti esteri diretti «è arrivata l’ora dell’Africa» (Ernst & Young 2011); le speranze della rivista The Economist sono riposte nell’«Africa che cresce» a velocità superiore rispetto alle altre regioni del pianeta (Africa rising 2013); la Commissione economica per l’Africa dell’ONU si chiede invece come liberare il potenziale del continente per trasformarlo in un «polo di crescita economica globale» (UNECA 2012). Le perplessità 482 Aggiornamenti Sociali giugno-luglio 2014 (482-493) voci del mondo in merito all’attendibilità delle statisti- L’appellativo “tigri asiatiche” identifica, che su cui si basano queste analisi o sul a partire dalla fine degli anni ’90, quattro carattere strutturale delle trasformazio- Paesi dell’Asia orientale (Corea del Sud, Hong Kong, Singapore e Taiwan) che regini economiche in corso nel continente stravano tassi di crescita particolarmente africano non mancano (Jerven 2013). elevati. Altri quattro Paesi (Filippine, InGli elenchi dei Paesi virtuosi cambiano donesia, Malesia e Thailandia) venivano in base agli indicatori e ai processi presi talvolta identificati come “tigri minori”. in esame, senza che sia per ora emersa L’acronimo BRICS riunisce cinque Paesi una categoria omogenea e definita, co- (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) me nel caso delle “tigri asiatiche” o dei diventati protagonisti dell’economia mondiale negli ultimi due decenni. BRICS. L’Etiopia è uno tra i pochi Paesi sempre menzionati nelle classifiche e nei rapporti sull’Africa emergente, in virtù di tre elementi: un tasso di crescita del PIL (Prodotto interno lordo) che negli ultimi 7 anni si è attestato attorno alla media del 10% e alla cui origine non vi è l’esportazione di materie prime ma un vasto programma di investimenti pubblici; l’adozione di strategie e politiche di sviluppo in virtù delle quali l’Etiopia è uno dei pochi Paesi africani che sembrano in grado di raggiungere gli Obiettivi di sviluppo del Millennio alla loro scadenza naturale nel 2015 1; una tradizione di stabilità politica che ne fa un alleato chiave delle diplomazie occidentali in una regione strategica ma turbolenta quale il Corno d’Africa, in particolare per quanto riguarda la guerra al terrorismo di matrice fondamentalista islamica. Questi risultati sono stati ottenuti nel contesto di una chiusura sempre più marcata dello spazio politico, in particolare all’indomani delle controverse elezioni nazionali del 2005. La coalizione dell’Ethiopian People Revolutionary Democratic Front (EPRDF) si è di fatto trasformata in partito unico, e una serie di leggi e dispositivi di controllo ha limitato fortemente gli spazi per l’espressione della critica e del dissenso da parte dell’opposizione politica, della stampa indipendente, delle organizzazioni non governative e della diaspora (Human Rights Watch 2014). Questa tendenza continua anche dopo l’improvvisa morte nel 2012 di Meles Zenawi, leader dell’EPRDF, primo ministro dal 1991 e principale artefice delle politiche che hanno trasformato il Paese negli ultimi anni. Nonostante la recente restaurazione autoritaria, l’Etiopia resta uno dei principali beneficiari a livello mondiale della cooperazione internazionale allo sviluppo, anche da parte dei Paesi europei e degli USA, che almeno sulla carta vincolano la concessione 1 Fissati nel 2000 dall’Assemblea generale dell’ONU, gli Obiettivi di sviluppo del Millennio indicano una serie di traguardi in settori come l’istruzione, la sanità, l’ambiente e la parità tra i sessi, da raggiungere entro il 2015 (a riguardo cfr Fantini 2007). L’Etiopia: potenzialità e contraddizioni dell’Africa emergente 483 di aiuti al rispetto della democrazia e dei diritti umani. L’Etiopia è uno dei pochi Paesi in cui anche la Cooperazione Italiana, nonostante i pesanti tagli di risorse subiti negli ultimi anni, mantiene una presenza significativa. A dispetto del volume di risorse investite, i donatori europei e americani sembrano tuttavia perdere terreno e influenza, come in altri contesti africani, di fronte all’avanzata di nuovi e non ortodossi partner dello sviluppo, quali Cina, India, Turchia, Brasile o Corea del Sud. Il presente articolo analizza le principali trasformazioni politiche, economiche e sociali che investono oggi l’Etiopia, evidenziandone potenzialità e contraddizioni, e suggerendo come esse pongano alcune questioni sulla legittimità e la tenuta dell’attuale Governo, nonché sull’efficacia delle strategie a cui si ispirano le politiche internazionali di cooperazione allo sviluppo. Federalismo etnico e centralismo democratico L’attuale assetto istituzionale dell’Etiopia è il risultato dell’insurrezione armata condotta dal 1975 al 1991 dal Fronte popolare di liberazione dell’Eritrea (EPLF) e dal Fronte popolare di liberazione del Tigrè (TPLF) contro il regime militare filosovietico del Derg. Tra i principali fattori alla base del conflitto vi era la “questione nazionale”, insita nel processo di formaIl termine Derg (che in lingua ge’ez signifizione dello Stato etiope, che tradizioca “Consiglio”), abbreviazione di Consiglio nalmente vedeva il dominio di alcuni di coordinamento delle Forze armate, della gruppi etnici, in particolare gli amhara Polizia e delle Forze territoriali, indica il redell’altopiano centrale, nei confronti gime militare al potere in Etiopia dal 1974 degli altri. Nel tentativo di risolvere la (anno in cui fu deposto l’imperatore Hailé Selassié) al 1991. questione nazionale, all’indomani della vittoria contro il Derg, l’EPLF dichiara l’indipendenza dell’Eritrea dall’Etiopia, mentre il TPLF, espressione di una minoranza della popolazione in una regione economicamente e geograficamente marginale, il Tigrè, coopta altre élite regionali nel Fronte popolare rivoluzionario e democratico dell’Etiopia (EPRDF) e ridisegna il Paese in una repubblica federale. La Costituzione del 1995 divide il Paese in 9 Stati regionali a base etnica e 2 distretti cittadini (Addis Abeba, la capitale, e Dire Dawa). Ispirandosi al principio di autodeterminazione dei popoli, prevede una forte autonomia per gli Stati regionali, incluso il diritto alla secessione, in rottura con la tradizione centralista ereditata dall’epoca imperiale. In Africa il federalismo etiope rappresenta l’esperimento più radicale di istituzionalizzazione dell’appartenenza etnica come principale referente della vita politica. Diversi osservatori l’hanno descritto come un tentativo originale di rispondere alla crisi dello 484 Michele Boario – Emanuele Fantini voci del mondo Stato postcoloniale, coniugando la modernità delle garanzie costituzionali e dei diritti di cittadinanza con la legittimità tradizionale legata all’appartenenza etnica. A corollario del federalismo etnico, l’EPRDF ha promosso, con particolare vigore dal 2001 a oggi, un forte decentramento amministrativo. Nella pratica, tuttavia, federalismo etnico e decentramento amministrativo sono fortemente limitati dalla struttura gerarchica e centralizzata dell’EPRDF. Richiamandosi al centralismo democratico del partito marxista-leninista e all’esperienza della lotta armata di liberazione, l’EPRDF si pone come avanguardia politica della popolazione rurale, sovrapponendo e identificando la propria struttura con quella dell’amministrazione pubblica, in continuità con la tradizione culturale e politica amhara, che identifica con un unico termine (menghist) lo Stato, il Governo e il partito al potere. I partiti etnici che compongono l’EPRDF, al potere nei rispettivi Stati regionali, fungono da cinghia di trasmissione delle politiche e delle priorità stabilite a livello nazionale. Paradossalmente, questo sistema ha finito per garantire all’attuale Governo un controllo del territorio e una penetrazione nella vita quotidiana delle comunità locali nettamente superiori a quelli dei suoi predecessori, sulla carta ben più centralizzati. La sfida più significativa alla tenuta di questo sistema di governo si è verificata in occasione delle elezioni nazionali del maggio 2005, quando l’opposizione, riunita nella Coalizione per l’unità e la democrazia, ha riportato un successo imprevisto, aggiudicandosi il sindaco della capitale Addis Abeba e rivendicando la maggioranza dei seggi in Parlamento. I risultati ufficiali, pubblicati tre mesi dopo il voto, attribuivano invece la vittoria all’EPRDF, spingendo l’opposizione a boicottare il nuovo Parlamento. Nei mesi seguenti l’EPRDF avviava una restaurazione autoritaria, volta a recuperare consenso e controllo della popolazione. Architrave di questo progetto è la trasformazione dell’EPRDF da partito di militanti (300mila nel 2006) a partito di massa, di fatto partito unico, con 5 milioni di iscritti attuali. L’iscrizione al partito è oggi indispensabile per accedere a incarichi nella funzione pubblica e alle risorse controllate dal Governo (fertilizzanti, microcredito, ecc.). In nome della partecipazione, inoltre, il numero dei rappresentanti eletti nei consigli locali è stato innalzato a 300, ma l’EPRDF è l’unica forza politica in grado di esprimere un numero così elevato di candidati, a livello locale e nazionale: infatti si è aggiudicato la quasi totalità dei seggi in palio alle elezioni nazionali del 2010 e a quelle amministrative del 2008 e del 2013. La chiusura dello spazio politico è stata completata con l’adozione di misure di limitazione dell’espressione del dissenso: L’Etiopia: potenzialità e contraddizioni dell’Africa emergente 485 una legge antiterrorismo che lascia notevoli margini di discrezionalità al Governo nel sanzionare atti giudicati in contrasto con la sicurezza nazionale; una legge sulle organizzazioni della società civile (2009) che vieta alle ONG (Organizzazioni non governative) “internazionali” (ovvero che ricevono più del 10% del budget da finanziatori stranieri) di lavorare nei settori politicamente sensibili, quali i diritti umani o la risoluzione dei conflitti; minacce, ritorsioni e incarcerazioni di giornalisti indipendenti, sia etiopi sia stranieri. La morte improvvisa di Meles nell’agosto 2012 ha aperto una fase di riconfigurazione politica. Nell’immediato, le differenti componenti dell’EPRDF hanno trovato un accordo nella promozione a Primo ministro e leader del partito dell’ex vice di Meles, Hailemariam Desalegn, figura atipica rispetto alla tradizione di leadership politica etiope: appartiene infatti a un gruppo etnico minoritario del Sud del Paese, e non alle etnie amhara o tigrina che hanno tradizionalmente espresso la classe dirigente; diversamente da Meles e dalla sua cerchia ristretta di consiglieri, la carriera politica di Hailemariam non è stata legittimata dalla partecipazione alla guerra di liberazione; inoltre per la prima volta il leader non appartiene alla Chiesa ortodossa etiope, ma al movimento pentecostale, in forte crescita nel Paese, e in particolare a una setta considerata da molti eretica, anche all’interno del mondo protestante, per via del rifiuto del dogma della Trinità (Haustein e Fantini 2013). Anche in virtù di questi elementi, non è ancora certo che la leadership di Hailemariam sarà riconfermata in occasione delle elezioni nazionali del 2015. Nel frattempo, l’attuale Governo continua a fondare la propria legittimità sull’eredità politica di Meles e sul culto della sua persona, celebrandolo come “leader visionario” e “padre della pace e dello sviluppo”. Il modello del developmental State Tra i lasciti più significativi del lungo governo di Meles, vi è senza dubbio il processo di crescita economica che ha interessato l’Etiopia negli ultimi 10 anni. Le stime del Governo parlano di una media del 10,7% all’anno. Nel 2012, le statistiche ufficiali hanno presentato l’Etiopia come la dodicesima economia a più rapida crescita nel mondo. Se riuscisse a continuare su questa strada, potrebbe raggiungere il gruppo dei Paesi a medio reddito entro il 2025, come previsto dal piano di sviluppo del Governo (Growth and transformation plan, GTP). Tuttavia l’attendibilità di queste statistiche è da valutare con prudenza. Innanzi tutto, i dati per il calcolo del PIL sono considerati poco affidabili da quasi tutti i principali osservatori internazionali; inoltre la stima del tasso di crescita appare viziata da errori metodologici, velleità propagandistiche e timori 486 Michele Boario – Emanuele Fantini voci del mondo dei funzionari pubblici nel riportare risultati non in linea con gli obiettivi programmati. Inoltre, la forte inflazione che ha interessato il Paese negli ultimi anni ha generato una sorta di “illusione monetaria”: nelle dichiarazioni ufficiali si tende infatti a confondere i risultati nominali con quelli reali (cioè al netto dell’inflazione). Pur con queste riserve, la crescita economica dell’Etiopia resta significativa: le stime informali del Fondo Monetario Internazionale (FMI) indicano una crescita media annua che nell’ultimo decennio si attesterebbe intorno a un ragguardevole 7% reale. Al di là dei numeri, l’originalità del caso etiope è legata al modello di sviluppo che ha permesso questi risultati. Dagli anni ’90 l’EPRDF ha rifiutato le politiche di aggiustamento strutturale e liberalizzazione economica promosse dalla Banca Mondiale (BM) e dal FMI, per adottare invece una strategia ispirata al modello del developmental State asiatico, che prevede un ruolo di guida e l’intervento attivo dello Stato per orientare l’economia e stimolarne la crescita. Paradossalmente, oggi questo modello è lodato dalle stesse istituzioni finanziarie internazionali (BM e FMI), che presentano l’Etiopia come caso di successo per l’intero continente, in sintonia con gli attuali paradigmi dello sviluppo inclini a rivalutare il ruolo dello Stato e della good governance. In Etiopia il processo di crescita economica non è guidato dall’estrazione di risorse naturali, come in Angola o in Ciad, né dallo sviluppo del settore privato, come in Kenya. Negli ultimi anni esso è stato favorito da una vasta politica di investimenti pubblici (strade, edilizia abitativa, grandi dighe e centrali idroelettriche, all’origine anche di tensioni con l’Egitto sulla gestione del Nilo). La domanda chiave è quanto a lungo una tale politica possa continuare a sostenere la crescita. Anche se non esiste una risposta univoca e valida per tutti i Paesi, la storia economica evidenzia che arriva sempre il momento in cui lo Stato deve progressivamente ritirarsi per garantire la sostenibilità della crescita. L’evidenza empirica mostra che in Etiopia negli ultimi dieci anni il developmental State ha funzionato, ad esempio riducendo la percentuale della popolazione considerata povera (dal 38,9% nel 2004 al 29,6% nel 2012, secondo i dati della BM). I dati economici più recenti sollevano tuttavia dubbi sulla possibilità di continuare ancora a lungo su questa strada. Le risorse finanziarie e umane sono quasi totalmente assorbite dalle attività di investimento delle imprese pubbliche e non sono dunque disponibili per le iniziative private; nel medio periodo si registra, inoltre, un calo sia dei consumi sia degli investimenti privati, mentre la componente pubblica di questi ultimi è in aumento. Queste tendenze andrebbero invertite. L’Etiopia: potenzialità e contraddizioni dell’Africa emergente 487 Per mantenere la crescita economica in Etiopia è necessario aumentare la produttività delle attività esistenti, comprese quelle agricole, e crearne di nuove: entrambi gli sforzi richiedono maggiori investimenti da parte del settore privato. L’evidenza empirica mostra con chiarezza una relazione positiva tra la quota di investimenti privati sul totale degli investimenti e il tasso di crescita del PIL. Nove posti di lavoro su dieci, nel mondo “in via di sviluppo”, si trovano nel settore privato. Mercati più accessibili e competitivi consentono ai Paesi a basso reddito di intraprendere percorsi di crescita per affrancarsi dalla povertà. Inoltre le esportazioni generate dal settore privato permettono di aumentare la valuta estera disponibile per importare quanto necessario alla costruzione di infrastrutture. Allo stesso modo, le imposte pagate da imprese private e singoli cittadini permettono la fornitura di servizi sanitari e istruzione. Infine i flussi migratori dalle campagne verso le città, che inevitabilmente accompagneranno la trasformazione strutturale auspicata dal GTP a favore dell’industria, potranno essere assorbiti soltanto da un’espansione del settore privato. Tutto ciò non significa che il developmental State non abbia un ruolo da giocare. La capacità dello Stato è certamente alla base della stabilità politica ed economica e contribuisce a garantire che i diritti umani, la sicurezza personale e la proprietà privata siano rispettati. Lo Stato svolge inoltre un ruolo importante per superare quelli che la teoria economica chiama “fallimenti del mercato” (ad esempio per quanto riguarda la disponibilità dei beni pubblici, come la sicurezza, o la sanità). È dunque auspicabile che i donatori internazionali sostengano l’intervento del Governo nei mercati in cui le inefficienze limitano la crescita del settore privato e impediscono la partecipazione dei poveri, senza dimenticare che l’esperienza dei Paesi sviluppati indica chiaramente che mercati competitivi, fondati su principi di responsabilità sociale e popolati da imprese private dinamiche, offrono il modo più efficace per creare ricchezza, posti di lavoro e prosperità per tutti su basi sostenibili. Nel caso etiope, il Governo correttamente segnala la debolezza del settore privato. Diversi fattori storici e politici hanno limitato l’imprenditorialità e gli investimenti privati. Gli anni del Derg, caratterizzati da una proprietà statale quasi totale e da costante guerra civile, hanno atrofizzato l’iniziativa privata e spinto i migliori imprenditori a fuggire all’estero. Negli ultimi anni, una parte della diaspora etiope è rientrata, ma il livello di imprenditorialità rimane basso. Per di più, alla scarsità di investimenti privati interni si aggiunge uno dei più bassi tassi di investimenti diretti esteri. Infine, nel valutare le dimensioni effettive del settore privato dell’economia 488 Michele Boario – Emanuele Fantini voci del mondo etiope bisogna tener conto dell’esistenza di due grandi e influenti blocchi, in teoria privati, ma di fatto strettamente legati al Governo: MIDROC (Mohammed International Development Research and Organization Companies), conglomerato di proprietà dello sceicco etio-saudita Mohammed Hussein Ali Al Amoudi, ed EFFORT (Endowment Fund for the Rehabilitation of Tigray, Fondo di dotazione per il risanamento del Tigré), gruppo di imprese “affiliate al partito” che operano, spesso in posizione di leader, nei settori di commercio, agricoltura, fertilizzanti, produzione di cemento, tessile e abbigliamento, bestiame, cuoio, trasporti, estrazione mineraria, ingegneria e finanza. Settori come le telecomunicazioni, l’energia, le banche, le assicurazioni, il trasporto aereo, il trasporto su terra e lo zucchero sono in una situazione di monopolio pubblico o di predominio dello Stato. In un contesto fortemente burocratico come quello dell’Etiopia, le imprese statali hanno notevoli vantaggi rispetto a quelle private, tra cui la facilità di accesso al credito, alla valuta straniera e allo sdoganamento delle merci importate. In aggiunta a tutti i problemi esaminati finora, è importante osservare che il successo economico in Etiopia viene ancora guardato con sospetto. In particolare, tra i fedeli della Chiesa ortodossa etiope è radicata l’idea che l’arricchimento derivi da un patto col diavolo, mentre tra i politici e i funzionari governativi posizioni analoghe sono alimentate dal background ideologico marxista. Come risultato, al di là delle dichiarazioni ufficiali, l’operato del Governo e l’atteggiamento della società sono spesso poco favorevoli verso gli imprenditori privati. Non sorprende dunque che in Etiopia la cultura imprenditoriale rimanga poco sviluppata. Anche la cooperazione internazionale allo sviluppo, tradizionalmente concentrata in Etiopia su settori quali la sanità, l’istruzione e la sicurezza alimentare, deve cominciare a sostenere la crescita economica etiope trovando risorse addizionali e puntando di più sull’iniziativa privata. Oggi il settore privato riceve appena il 2% degli aiuti pubblici allo sviluppo destinati all’Etiopia. Una società in trasformazione e fermento I processi politici ed economici appena descritti hanno innescato profonde trasformazioni nella società etiope, in direzione della crescente diversificazione e stratificazione di un tessuto sociale in passato accomunato da condizioni generali di povertà prossime alle soglie di sussistenza. Le stime ufficiali registrano un generale miglioramento degli indicatori di sviluppo sociale. L’osservazione diretta sembrerebbe confermare questa tendenza a livello di servizi sociali di L’Etiopia: potenzialità e contraddizioni dell’Africa emergente 489 base, ad esempio in termini di presenza di personale medico nelle aree rurali, di tassi di accesso all’istruzione primaria e secondaria, di potenziamento delle infrastrutture idriche e fognarie. Tuttavia, secondo la classifica redatta sulla base dell’indice di sviluppo umano dalle Nazioni Unite, nel 2013 l’Etiopia occupava il 173° posto su 186 Paesi (UNDP 2013), registrando soltanto un leggero miglioramento rispetto al 2003 (169° su 175). Più di una persona su dieci nel Paese è considerato “malnutrito cronico”, cioè dipendente in maniera strutturale dagli aiuti alimentari a prescindere dall’andamento della produzione agricola. L’ambiguità di questi dati deriva anche dalle contraddizioni delle strategie di mobilitazione della popolazione ai fini dello sviluppo adottate dal Governo etiope. Da un lato, ispirandosi all’esperienza della lotta armata, esse enfatizzano il coinvolgimento attivo della popolazione, richiamando i temi della partecipazione che dominano la retorica ufficiale della cooperazione internazionale allo sviluppo. Dall’altro lato, il mito fondante della lotta armata è tradotto e aggiornato in una serie di politiche che, in nome dello sviluppo e della partecipazione, inquadrano la popolazione e monopolizzano le risorse in chiave autoritaria (cfr Tommasoli 2014). Accanto al partito, sono state create negli ultimi anni delle strutture parallele, le “armate dello sviluppo”, in cui la popolazione è inquadrata per categorie (donne, giovani, contadini, ecc.) e chiamata a contribuire ai lavori pubblici “comunitari” (costruzione di scuole, strade, dispensari, ecc.) e a mettere in pratica i programmi di sviluppo promossi dal Governo. La struttura capillare e gerarchica di queste organizzazioni si fonda sulla selezione di donne, contadini e villaggi “modello”, che, in cambio della cooptazione nel partito e dell’accesso agevolato alle risorse controllate dallo Stato (terra, credito, fertilizzanti, aiuti alimentari), sono incaricati di mostrare, attraverso il loro esempio, la bontà delle politiche governative. Una delle novità che ha accompagnato queste politiche è il cambio di strategia in materia di sviluppo rurale: dal sostegno all’agricoltura familiare e di sussistenza ai fini del raggiungimento della sicurezza alimentare, all’adozione di un modello di produzione orientato al mercato. Questo passaggio alimenta processi di concentrazione della terra a favore di alcuni “contadini modello” che diventano imprenditori agricoli e la conseguente trasformazione di altri contadini in braccianti salariati. Tra i più penalizzati vi sono i giovani: da un lato non riescono ad accedere ad appezzamenti di dimensione sufficiente a sostenere una famiglia e quindi a compiere il passaggio generazionale alla categoria degli adulti; dall’altro non trovano sbocco in un mercato del lavoro ancora asfittico a causa dei 490 Michele Boario – Emanuele Fantini voci del mondo nodi descritti sopra. Per molti l’unica prospettiva resta l’emigrazione, sia verso i principali centri urbani del Paese, sia all’estero. L’emigrazione clandestina di ragazze etiopi verso i Paesi del Golfo persico, dove finiscono impiegate come lavoratrici domestiche in condizioni che spesso rasentano la schiavitù, rappresenta un fenomeno sempre più consistente, rispetto al quale urge la definizione di una politica ufficiale che assicuri la tutela dei diritti umani fondamentali e che affronti il nodo dell’emigrazione come potenziale risorsa di sviluppo. Questi itinerari di ascesa sociale e accumulazione economica – più o meno di successo – alimentano anche un’altra trasformazione, peraltro registrata in diversi contesti africani: l’ampliarsi della fascia di popolazione che si identifica come classe media. Non è più soltanto il risultato dell’espansione del settore pubblico – che con un milione di funzionari resta il principale datore di lavoro nel Paese – ma anche della crescita economica, in ambito sia rurale sia urbano. Emerge una “classe media multitasking”, che genera il proprio reddito e alimenta le proprie aspirazioni attraverso percorsi che alternano e sovrappongono posizioni nel settore pubblico, nell’economia privata e nel settore dello sviluppo e della cooperazione internazionale. Un particolare fermento si registra infine nella sfera religiosa. La Costituzione federale del 1995 riconosce la libertà di culto e la separazione tra Stato e Chiesa, in rottura sia con le persecuzioni patite da tutti i gruppi religiosi sotto la dittatura filosovietica del Derg, sia con lo status di religione di Stato di cui godeva la Chiesa ortodossa etiope in epoca imperiale. Ad approfittare del nuovo clima di libertà religiosa è stato soprattutto il movimento pentecostale, i cui fedeli sono passati dal 5,5% della popolazione nel 1984 al 21% nel 2011. Il proselitismo aggressivo delle Chiese pentecostali e la loro carica di rottura con la tradizione contribuiscono a rimettere in discussione lo storico, ma pur sempre delicato, equilibrio tra cristianesimo e islam (cui aderisce il 33,9% della popolazione). Inedite sono infine le tensioni tra il Governo e la comunità islamica. Nel 2011 il Governo ha tentato di imporre una leadership e una dottrina islamica “moderata” e “filogovernativa”, pilotando la nomina dei vertici del Consiglio supremo degli affari islamici e giustificandosi con la necessità di contrastare l’islam estremista e filoterrorista. L’interferenza ha suscitato le proteste della comunità islamica e numerose manifestazioni pacifiche per chiedere il rispetto dei principi costituzionali. L’episodio ha riaperto la questione dell’identità dei musulmani in Etiopia: pur facendo parte della storia del Paese – i primi musulmani arrivarono nel VII sec. a seguito del profeta Maometto – l’islam L’Etiopia: potenzialità e contraddizioni dell’Africa emergente 491 non è mai diventato costitutivo dell’identità nazionale ed è stato di fatto escluso dalla storiografia ufficiale e dal potere. Di fronte al risentimento alimentato da questa esclusione, l’ingerenza del Governo in nome della lotta all’estremismo e al terrorismo di matrice islamica rischia purtroppo di trasformarsi in una profezia che si autoavvera. Le questioni aperte L’interazione dei processi politici, economici e sociali qui descritti pone sfide urgenti e complesse sia al Governo etiope sia ai suoi partner della cooperazione internazionale allo sviluppo. Una prima questione riguarda l’inclusività dei processi di crescita economica e sviluppo. Nel modello del developmental State teorizzato da Meles (Zenawi 2012), la coalizione di governo è chiamata a restare al potere per almeno vent’anni, al fine di garantire la stabilità e la continuità necessarie a consolidare i processi di sviluppo. La legittimità di questo progetto, che sacrifica la possibilità di alternanza democratica sull’altare della stabilità e della crescita economica, è fortemente vincolata alla capacità dell’EPRDF di promuovere processi di sviluppo inclusivi. Come ammesso dallo stesso Meles «cesseremo di esistere come nazione a meno di crescere in fretta e condividere la nostra crescita» (cit. in De Waal 2013). Prima ancora che sul terreno della democrazia, le prossime elezioni nazionali del 2015 si giocheranno sul consenso che l’EPRDF avrà saputo consolidare rispondendo alle aspettative di fasce sempre più ampie della popolazione di poter beneficiare in qualche misura della ricchezza che viene creata nel Paese. Una seconda questione attiene alla relazione tra sviluppo, crescita economica e democrazia e non riguarda solo l’Etiopia. La preparazione di diversi appuntamenti nei prossimi anni – definizione dell’agenda globale per lo sviluppo post 2015 (a riguardo cfr Pallottino 2013), revisione del trattato di Cotonou tra UE e Paesi ACP (Africa, Caraibi e Pacifico) – impone ai “donatori tradizionali”, tra cui l’Italia e i Paesi dell’UE, di ripensare teorie, politiche e strumenti della cooperazione allo sviluppo alla luce di due fenomeni, particolarmente evidenti nel caso etiopico. Da un lato la sempre maggior rilevanza degli attori della cooperazione economica for profit, anche rispetto alla contrazione degli aiuti pubblici allo sviluppo e alla necessità di favorire processi di crescita endogeni attraverso il rafforzamento di iniziative private: il moltiplicarsi degli investimenti esteri diretti (ad esempio il progetto del gruppo tessile H&M di fare dell’Etiopia la sua piattaforma per la produzione in Africa); il diffondersi delle iniziative di responsabilità sociale d’impresa, di fondazioni private e del filantrocapitalismo; e 492 Michele Boario – Emanuele Fantini voci del mondo Africa rising (2013) = «Africa rising. A hopeful continent, special report», in The Economist, 2 March, in <www.economist.com». Bonaglia F. – Wegner L. (2014), Africa. Un continente in movimento, il Mulino, Bologna. De Waal A. (2013), «The theory and practice of Meles Zenawi», in African Affairs, n. 446 (gennaio), 148-155. Ernst & Young (2011), It’s time for Africa. 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(edd.), Good Growth and Governance in Africa. Rethinking development strategies, Oxford University Press, Oxford (UK), 140-174. L’Etiopia: potenzialità e contraddizioni dell’Africa emergente risorse infine la crescita delle rimesse della diaspora africana, che sommate agli investimenti esteri superano ormai il volume degli aiuti pubblici allo sviluppo. Dall’altro lato, vanno segnalate le contraddizioni insite nel sostegno a regimi autoritari, come quello dell’Etiopia o del Ruanda, a dispetto dei principi di condizionalità democratica, e l’affermarsi di modelli di cooperazione alternativa da parte dei Paesi emergenti (Cina, Brasile, Turchia, Indonesia, ecc.), nell’ambito della “crescita del Sud” fotografata dall’ultimo Rapporto sullo sviluppo umano (UNDP 2013). Di fronte all’attrattiva esercitata sui Governi africani da parte di modelli come quello cinese, che coniugano crescita economica e autoritarismo politico, i Paesi europei e l’Italia sono chiamati a ridefinire innanzitutto il loro modello di sviluppo e nello specifico le teorie della good governance, per riaffermare il legame tra sviluppo e democrazia con maggiore incisività teorica e coerenza nella pratica. 493 scheda / geo L’ Etiopia 494 Etiopia è considerata il più antico Stato africano, il cui nome compare già nei poemi omerici. Il primo regno etiope storicamente rilevante è quello di Axum (IV-I secolo a.C.), ma è nel XIII secolo d.C. che venne fondata la dinastia salomonica (che rivendicava la discendenza diretta da re Salomone) e con essa l’impero etiope, caduto nel 1974, quando un colpo di Stato ha deposto l’ultimo imperatore Hailé Selassié e ha portato al potere una giunta militare guidata dal dittatore Menghistu Hailé Mariam. Questa storia di indipendenza politica (interrotta solo dai 5 anni di dominazione coloniale italiana), culturale e religiosa (grazie al ruolo peculiare della Chiesa ortodossa etiope) ha reso l’Etiopia un punto di riferimento per tutto il continente, soprattutto negli anni della decolonizzazione. Nell’Etiopia gli africani vedevano – e in parte vedono ancora – un modello da seguire nel processo di affrancamento dalle potenze coloniali. Non è un caso che nel 1964 Addis Abeba sia stata scelta come sede per l’Organizzazione dell’unità africana e nel 2002 per l’Unione africana. Oggi l’Etiopia è un Paese di 91 milioni di abitanti che cerca di uscire dal sottosviluppo secolare che l’attanaglia: circa il 40% della popolazione vive con meno di 1,25 dollari al giorno. Dal punto di vista economico, si sta muovendo su quattro fronti. Il primo è lo sviluppo dell’agricoltura, in maggior parte legata ancora a metodi tradizionali, ma che può contare su coltivazioni di eccellenza, quali il caffè, di cui è uno dei maggiori produttori mondiali, e il teff, un cereale autoctono che si sta rapidamente diffondendo in Occidente perché privo di glutine. Il secondo fronte è quello dell’energia: attraverso la realizzazione di grandi dighe sui principali corsi d’acqua, compreso il Nilo azzurro, e lo sfruttamento delle grandi risorse geotermiche, l’Etiopia punta non solo all’autosufficienza energetica, ma anche all’esportazione di elettricità nei Paesi confinanti. La terza scommessa è il turismo, con la valorizzazione di percorsi legati alla storia del Paese, che toccano le regioni settentrionali, e di altri più naturalistici, che interessano quelle meridionali. Infine, il Governo sta cercando di potenziare le infrastrutture (strade e ferrovie) e di stringere intese con i Paesi confinanti (Gibuti e Sudan) per accedere ai porti del Mar Rosso. Politicamente, l’Etiopia si fonda su un delicato equilibrio tra le etnie principali. Storicamente il gruppo dominante è quello degli amhara (38% della popolazione), ma dal 1991, anno della caduta della dittatura di Menghistu, sono i tigrini del Nord (7% della popolazione) a svolgere un ruolo prevalente nelle istituzioni statali. A livello internazionale, l’Etiopia ha stretto un’alleanza molto forte con gli Stati Uniti. I recenti interventi nella guerra civile somala sono stati letti da molti analisti come un capitolo della “guerra globale” che Washington sta combattendo per contenere la diffusione del fondamentalismo islamico. Enrico Casale Tom Greene SJ Coordinatore Sociale della Conferenza, Washington, USA voci del mondo La risposta degli Stati Uniti all’immigrazione irregolare La morte di troppi migranti nel Mediterraneo continua a interpellare la coscienza del Paese e dell’Europa. Il rispetto dei diritti umani dei migranti è però una questione globale: l’analisi dell’evoluzione della politica migratoria degli Stati Uniti mostra come essa risponda a una strategia di sfruttamento della paura e alla logica della militarizzazione, con evidenti finalità commerciali. Si tratta di una dinamica che può illuminare anche quanto accade in altre parti del mondo. V iviamo in un mondo di grandi disuguaglianze che causano la migrazione di milioni di persone in cerca di un luogo sicuro in cui vivere e trovare un lavoro che consenta di mantenere la propria famiglia. Eppure, anziché averne compassione e accoglierli degnamente, il mondo preferisce rispondere con crescente violenza, con atteggiamenti aggressivi e ostili che penalizzano e abbrutiscono chi migra. Negli Stati Uniti, la risposta che viene data ai migranti è determinata da tre fattori: paura, commercializzazione e militarizzazione; presumibilmente altri Paesi seguono questo esempio, cercando di dirottare i flussi migratori verso altri Stati e sfuggendo così alla responsabilità di approfondire le cause che spingono le persone a varcare i loro confini. Aggiornamenti Sociali giugno-luglio 2014 (495-500) 495 Un clima di paura: realtà concreta o realtà virtuale? Border Patrol 1 è un videogame giocato già molti milioni di volte: lo scopo è uccidere i messicani che cercano di attraversare il confine con gli Stati Uniti. Il gioco propone tre categorie di migranti messicani: i nazionalisti, i trafficanti di droga e le “fattrici”. Il nazionalista è raffigurato come un invasore armato che tenta di riconquistare il territorio statunitense un tempo appartenente al Messico. Il trafficante di droga è un personaggio coperto di tatuaggi che porta in spalla un carico di marijuana, mentre le donne messicane sono rappresentate come “fattrici”, che portano con sé bambini denutriti e piagnucolosi. Non ci sono figure di messicani intesi come amici, parenti, vicini di casa, richiedenti asilo, seri lavoratori o esseri umani (!). Se sconcerta scoprire quanti milioni di persone hanno utilizzato questo gioco, è addirittura desolante osservare come il dibattito congressuale americano sulla riforma dell’immigrazione sembri adottare le stesse categorie proposte dal videogioco. Nel 2013, a una domanda sugli studenti immigrati irregolari che terminano la scuola superiore col massimo dei voti, il membro del Congresso Steven King di New York ha risposto che «per ogni immigrato che diventa il primo della classe ce ne sono altri 100 che pesano 60 chili e hanno polpacci come meloni perché trasportano 35 chili di marijuana attraverso il deserto» 2. L’immagine evocata da King ricalca il modello proposto dal videogame. Quando ho sentito questa affermazione, sono rimasto sbalordito che un rappresentante eletto dal popolo potesse insinuare un tale stereotipo nel dibattito nazionale sulla riforma dell’immigrazione. Comunque, riflettendoci sopra, mi sono reso conto che affermazioni di questo genere sono la logica conseguenza di un clima che si è andato formando da qualche tempo: l’idea che gli immigrati siano dei criminali e la tendenza a criminalizzare gli immigrati che vivono negli Stati Uniti. Questo è l’ambiente in cui alcuni credenti impegnati lavorano per una riforma dell’immigrazione, in un clima in cui gli oppositori approfittano dei timori della popolazione, descrivendo gli immigrati alla stregua di criminali che attentano alla nostra sicurezza e al nostro modo di vivere. Giocare sulla paura è divenuta la tattica preferita di quanti vogliono rallentare od ostacolare gli sforzi per 1 In <http://nerdnirvana.org/g4m3s/borderpatrol.htm>. Parker A., «G.O.P. Congressman’s Remarks Undermine Party’s Immigration Efforts», in The Caucus (blog di The New York Times), 23 luglio 2013, <http:// thecaucus.blogs.nytimes.com/2013/07/23/g-o-p-congressman-undermines-partysimmigration- efforts/?_r=0>. 2 496 Tom Greene SJ voci del mondo offrire un percorso verso la regolarizzazione agli 11-12 milioni di immigrati irregolari che vivono negli USA. Si direbbe che la paura pervada ogni aspetto della nostra vita e di fatto impedisca l’interazione con altre persone e culture, che invece farebbe scomparire la paura e favorirebbe rapporti di amicizia, solidarietà e comunione. Nel Salvador, le università americane annullano i programmi di scambi internazionali in seguito a un allarme lanciato dal Dipartimento di Stato americano prendendo a pretesto un episodio isolato, in cui peraltro non erano coinvolti cittadini americani. Dopo l’attentato di Bengasi, in cui l’11 settembre 2012 fu ucciso il diplomatico americano John Stevens, il Dipartimento di Stato ha rafforzato le misure di sicurezza per i propri dipendenti in tutto il mondo, impedendo loro ogni interazione costruttiva con le popolazioni locali e provocando una crescente dipendenza da informazioni di seconda mano nello stilare le relazioni sulla situazione locale, sulla cui base viene deciso il destino di migliaia di richieste di asilo politico. Quali speranze ci sono di riconoscere l’umanità dell’“altro” quando sussiste un tale clima di ostilità e paura? La commercializzazione dei migranti e la privatizzazione della detenzione Gli Stati Uniti spendono per la detenzione degli immigrati 2,8 miliardi di dollari all’anno, una somma doppia rispetto al 2006. Nel 2004, a Houston (Texas) c’erano 45 posti letto per minori non accompagnati in stato di detenzione: oggi si calcola che ce ne siano 400. Un analogo incremento si è avuto negli spazi per gli adulti e ogni giorno ci sono 34mila migranti (uomini e donne) incarcerati. Per poter detenere una popolazione così numerosa, gli Stati Uniti mantengono una costellazione di 250 centri di reclusione, in grande maggioranza di proprietà e a gestione privata. Società come GEO Corp. e Community Corrections of America (CCA) fanno a gara nell’ottenere contratti pubblici e traggono vantaggio dalla cultura della paura. Di conseguenza il mondo imprenditoriale ormai considera gli immigrati non solo come criminali, ma come una occasione per fare affari: immigrati uguale soldi, e subito! Nel 2006, l’industria privata della detenzione è riuscita a convincere i parlamentari conservatori ad approvare una legge secondo la quale il numero di immigrati detenuti può essere pari a 34mila ogni giorno 3. In pratica la legge garantisce alle imprese private 3 Miroff N., «Controversial quota drives immigration detention boom», in The Washington Post, 14 ottobre 2013, <www.washingtonpost.com/world/controversialquota-drives-immigration-detention-boom/2013/10/13/09bb689e-214c-11e3-ad1a1a919f2ed890_story.html>. La risposta degli Stati Uniti all’immigrazione irregolare 497 del settore della detenzione che le strutture da loro costruite e gestite saranno riempite di migranti in stato di detenzione al costo di circa 160 dollari al giorno pro capite. Che importa se la maggior parte di questi immigrati reclusi non ha precedenti penali? La detenzione dei migranti è un affare! Il sistema è vorace, e guai a chi si azzarda a sottrarre nutrimento finanziario all’insaziabile bocca dell’industria delle carceri. Nel discutere il bilancio federale, il Dipartimento per la sicurezza interna ci ha provato, sostenendo che il Governo avrebbe potuto risparmiare riducendo il numero di posti per la detenzione di migranti a 31.800; i deputati conservatori degli Stati in cui il sistema della detenzione privata è profondamente radicato hanno respinto questa proposta e stabilito un aumento del budget per tenere i migranti in prigione di 400 milioni di dollari. Questa costruzione di opportunità di rendita da parte di imprese private a scopo di lucro in un periodo di crisi economica non è oggetto di un esame approfondito e suscita scarsa indignazione, mentre i programmi federali per fornire cibo ai bambini poveri vengono tagliati con nonchalance. La militarizzazione dei migranti: il confine inteso come zona di guerra Nel 2007 ho avuto modo di visitare la cittadina di confine di Brownsville (Texas), una località tranquilla della valle del Rio Grande con una popolazione di oltre un milione di persone, per la maggior parte immigrati messicani di prima, seconda o terza generazione. Brownsville è sempre stata in ottimi rapporti con Matamoros, la città gemella dall’altro lato della frontiera. Ricordo che attraversavo il confine semplicemente per andare a pranzo e fare due passi nella piazza centrale di Matamoros e poi rientrare negli Stati Uniti. Nessuna fila di macchine in attesa di controlli al confine; anzi, erano evidenti gli scambi commerciali e l’interazione quotidiana tra cittadini dei due Paesi che attraversavano la frontiera per fare acquisti, andare a lavorare o a scuola. Ora è tutto cambiato. Il Dipartimento per la sicurezza interna ha eretto un muro di acciaio che separa le due cittadine, attraversando addirittura il campus dell’Università statale di Brownsville. Il muro è un segno di divisione che impedisce alle due comunità persino di vedersi. I tempi di attesa al confine si sono allungati, perché sono aumentati i controlli e le ispezioni. Le pattuglie che sorvegliano il confine sono triplicate dopo l’11 settembre e un nuovo progetto di legge propone di aumentare gli agenti di 20mila unità, nonostante il numero di persone arre498 Tom Greene SJ voci del mondo state per ingresso clandestino sia al minimo degli ultimi 39 anni 4. Il basso numero di arresti si accompagna tuttavia a un aumento della violenza nei confronti degli immigrati: da gennaio 2010 la polizia di frontiera ha ucciso 16 persone, tutte disarmate, accusate al massimo di aver lanciato dei sassi. Quello che appare un uso sproporzionato della forza ha richiamato l’attenzione del Governo statunitense, che ha ordinato un’inchiesta al riguardo. Il rapporto finale dell’inchiesta ha concluso che la polizia di frontiera non dispone di un metodo adeguato di raccolta di informazioni sulle accuse di uso sproporzionato della forza e che alcuni agenti non sono a conoscenza delle regole della polizia di frontiera sull’uso della forza. Gli uomini della polizia di frontiera svolgono un lavoro difficile, ma la mancanza di standard adeguati per le indagini sui casi di persone uccise al confine mostra una mancanza di rispetto per le vite che essi spezzano. Il progetto di riforma 5 della legge sull’immigrazione approvato dal Senato degli Stati Uniti il 27 giugno 2013 prosegue la tendenza alla militarizzazione e stanzia oltre 46 miliardi di dollari per l’acquisto da fornitori accreditati di equipaggiamento militare da destinare al confine con il Messico, tra cui elicotteri Blackhawk, droni, sensori a raggi infrarossi. In seguito al voto favorevole del Senato, il deputato Beto O’Rourke di Brownsville si è dimesso dal Congressional Hispanic Caucus (il gruppo che riunisce i deputati di origine latinoamericana) per protestare contro la militarizzazione della propria città e della zona di confine. Quello che più fa infuriare è la lampante mancanza di qualunque consultazione dei residenti, sulla cui vita si abbattono gli effetti della costruzione del muro e della militarizzazione della frontiera: una mancanza che consente agli interessi economici dei fornitori del Governo di dettare le politiche pubbliche. Il giuramento di fedeltà alla bandiera americana afferma che gli Stati Uniti sono «un’unica nazione sotto Dio», ma ormai c’è chi sostiene che si stiano tramutando in «una nazione in appalto» 6 a causa dell’esternalizzazione della responsabilità del Governo per la sicurezza interna a imprese private, che hanno mostrato una 4 Sharkey J., «Border Patrol grows as seizures drop», in Aljazeera America, 22 agosto 2013, <http://america.aljazeera.com/articles/2013/8/22/border-patrol-growingasapprehensionsdrop.html>. 5 Border Security, Economic Opportunity, and Immigration Modernization Act (S.744). Il progetto non è ancora stato discusso alla Camera dei rappresentanti. 6 Stanger A., One Nation under Contract. The Outsourcing of American Power and the Future of Foreign Policy, Yale University Press, New Haven (Ct, USA), 2009. La risposta degli Stati Uniti all’immigrazione irregolare 499 insufficiente disponibilità a mantenere adeguati meccanismi di controllo e assunzione di responsabilità. Le imprese di detenzione private a scopo di lucro e i fornitori militari sono una prova che questo è quello che sta accadendo riguardo all’immigrazione. È compito della comunità dei credenti ridare concretezza al fatto di essere una nazione sotto Dio, un Dio che esige rispetto per la dignità umana di ogni persona, a prescindere dal fatto che abbia i documenti in regola. Man mano che le imprese private assumono al posto del Governo la responsabilità dei trattamenti inflitti ai migranti, cambiano le strategie per ottenere il riconoscimento della oro dignità. Oltre ai gruppi di pressione su deputati e senatori, ci sono oggi coloro che sfidano le imprese private attraverso la pressione che possono esercitare come azionisti (shareholder advocacy). Grazie a queste pressioni, una delle maggiori imprese attive nel settore della detenzione sta elaborando una nuova politica per il rispetto dei diritti umani dei propri detenuti. L’applicazione e il rispetto di questa politica resta l’obiettivo ultimo, ma i risultati raggiunti attraverso questa pressione fanno sperare che si riuscirà ad arginare l’ondata di commercializzazione e militarizzazione degli immigrati in atto negli Stati Uniti. L’immagine che abbiamo delle persone fa la differenza: se ce le rappresentiamo come criminali pericolosi, ecco che ne derivano politiche repressive. Se invece in loro vediamo noi stessi e li incontriamo come esseri umani, allora le nostre politiche e le nostre leggi saranno il riflesso di questa immagine. Articolo pubblicato in Promotio Iustitiae, n° 113, 2013/4; titolo originale «U.S. Migrant Detention in a Culture of Fear, Commercialization and Militarization». Traduzione dall’originale inglese di Simonetta Russo. Adattamento, neretti e note a cura della Redazione. 500 Tom Greene SJ © SONIA FRANGI immagini Sonia Frangi Finestre 2014: Lipari Una finestra aperta sulla bottega di un pescatore, un lavoro che fa parte della tradizione e della vita quotidiana, uno di quegli antichi mestieri che hanno resistito nel tempo e che tendono a scomparire soppiantati dal progresso o dall’industrializzazione. Ma il lavoro, qualunque esso sia, è parte integrante della vita dell’uomo, spazio essenziale per il rispetto e la promozione della dignità della persona. 502 cristiani e cittadini Alla riscoperta dell’insegnamento sociale della Chiesa tools Strumenti per capire e pensare la nostra società recensione Dalla biblioteca di Aggiornamenti Sociali, un libro da leggere vetrina Libri, film, eventi segnalati dalla Redazione bussola bibbia aperta Elementi di riflessione sociale a partire da testi biblici bibbia aperta Madre e figlio di Giuseppe Trotta SJ Redazione di Aggiornamenti Sociali F in dalle origini del cristianesimo Maria ha goduto di una particolare venerazione da parte dei credenti: un papiro del III sec. d.C. conserva una delle più antiche preghiere alla Madre di Dio. In questo appellativo è sintetizzata l’unicità di una donna resa grande da una maternità straordinaria, ma la cui figura è spesso tratteggiata in modo irrealistico, che l’allontana dall’esperienza quotidiana. A questo proposito il Concilio Vaticano II esorta «i teologi e i predicatori della parola divina ad astenersi con ogni cura da qualunque falsa esagerazione» (cfr Lumen gentium 67). Se ci si attiene ai testi biblici, Maria emerge come una donna che, nonostante il destino eccezionale, non è stata preservata dalle necessità di una comune esistenza umana, in particolare quella di sperimentare e apprendere: la Vergine ha dovuto imparare a essere la madre di Gesù e lui, a sua volta, a esserne figlio. Per quanto irripetibile, questa relazione offre molti spunti di riflessione, soprattutto se paragonata ad altre simili descritte dalla Bibbia stessa, come quella fra Eva, Caino e Abele, la prima famiglia 504 Aggiornamenti Sociali giugno-luglio 2014 (504-508) della storia biblica. In questo confronto si può rileggere l’esperienza di tante madri e figli il cui rapporto fondamentale, strutturante, presenta spesso dei vissuti non così semplici da rielaborare. Una maternità compromessa Uno dei titoli attribuiti a Maria è “la nuova Eva”. A partire da Giustino, un padre della Chiesa del II sec. d.C., il confronto fra le due donne è servito a illustrare il ruolo della prima nella storia della salvezza. Anche un discorso sulla relazione madre-figlio può giovarsene, perché la filiazione da Eva è all’origine della vita sulla terra e di uno stile di rapporti familiari da cui dipende, in parte, un certo andamento degli eventi nella storia. Ricordiamo la vicenda: Dio aveva ordinato all’umanità di cibarsi di tutti gli alberi del giardino, tranne quello della conoscenza del bene e del male. Eva, ingannata dal serpente, ne mangia il frutto e lo dà anche ad Adamo (cfr Genesi 2-3). Con questo gesto i due progenitori trasgrediscono la legge, percepita come un impedimento da superare per realizzare in pieno il proprio essere limitato. bibbia aperta Il senso di quel comando, invece, era di mantenere l’umanità all’interno di una relazione costitutiva con l’altro da sé in quanto elemento necessario alla pienezza, non limitante. Entra così nella storia un modo autoreferenziale di affermarsi, di “crescere e moltiplicarsi”, in cui l’altro non è un soggetto di pari dignità, ma un oggetto funzionale. Il rapporto con il maschile, attraverso il quale si costituisce e si manifesta la femminilità di Eva, viene alterato e si riflette anche sulla sua maternità. Prima della trasgressione, infatti, Adamo riconosce la differenza di questa nuova creatura, che Dio ha tratto dal suo fianco, rispetto a sé e alle altre a cui ha appena dato il nome dicendo: «Costei si chiamerà donna (’ iššâ) perché dall’uomo (’ îš) è stata tratta» (Genesi 2,23). Qui la relazione è basata sull’equilibrio fra differenza e somiglianza – sottolineato dal gioco delle parole ebraiche – grazie al quale ciascuno dei due può riconoscere la propria specifica personalità. Dopo la trasgressione, invece, la donna riceve il suo nome proprio, che, però, non fa più riferimento al rapporto originario e costitutivo con l’uomo, ma alla funzione da lei assunta nella storia in quanto madre: «Adamo chiamò la sua donna Eva, perché lei fu la madre di tutti i viventi» (Genesi 3,20). In questo modo, il nome della donna – che nella mentalità biblica ne esprime l’essere – rappresenta la sua relazione con i figli che, in un contesto esistenziale divenuto autoreferenziale, può anche essere svincolata da quella con Adamo, il quale sembra prenderne atto e avallare la situazione, escludendosi da tale rapporto. Infatti, la prima filiazione viene descritta così: Adamo conobbe Eva, la sua donna, la quale concepì e generò Caino e disse: «Ho acquistato un uomo con il Signore». Poi partorì ancora suo fratello Abele (Genesi 4,1-2). Pur avendo concepito il primo figlio dal suo uomo, la prima donna dice (e a chi sta parlando? A se stessa!) di aver “acquistato” un uomo “con” il Signore. Adamo è sparito, sostituito da un Dio interpretato come potere assoluto – cioè sciolto da ogni vincolo relazionale – di dare la vita. Non si tratta di colpevolizzare Eva e tutte le donne in lei, come ha fatto una certa interpretazione misogina di questi testi, ma di smascherare le logiche deleterie secondo cui i progenitori agiscono. Del resto lei è «la donna ingannata, ingannatrice a sua volta poi negata come donna, promossa come madre e infine conosciuta come oggetto. Che può fare un essere-oggetto se non […] possedere infine come è posseduto?». Eva è prigioniera della mentalità fallica del serpente, il quale l’ha ingannata facendole credere di poter accrescere il proprio essere appropriandosi di ciò che non ha e non può possedere (cfr Balmary M., Abele o la traversata dell’Eden, EDB, Bologna 2004, 139-148 e 219-221). La logica autoreferenziale che elimina dalla filiazione la relazione essenziale con l’altro sesso si riflette nel verbo usato da Eva, «ho acquistato», dalla cui radice ebraica, qānâ, viene anche il nome del figlio, qaîn, “Caino”. “Comperare”, “possedere” sono i possibili significati di questa parola, di cui il primogenito porta impresso nel suo essere il senso economico, la logica di mercato, frutto dell’azione di una madre onnipotente, capace di “acquistare” un figlio usando Dio come partner. Il racconto della prima filiazione prosegue mostrandoci gli effetti di un tale modo possessivo e autoreferenziale di impostare la relazione madre-figlio: Caino presentò dei frutti del suolo come offerta al Signore; mentre Abele anche lui presentò delle primogenite del suo gregge e il loro grasso. Il Signore considerò Abele e la sua offerta, ma non considerò Caino e la sua Madre e figlio 505 offerta. Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto (Genesi 4,3-5). Il primogenito è in preda a un comprensibile narcisismo, viste le premesse, e risulta incapace di accettare un “No!” apparentemente immotivato da parte di un Dio costretto a prendere il posto di un padre annichilito di fronte al ruolo materno della donna. Il racconto non spiega perché l’offerta di Caino venga ignorata e così tende a suscitare lo stesso risentimento e desiderio di rivalsa provato dal protagonista di fronte alla percezione di aver subito un torto. Il lettore è chiamato a distaccarsi dal riferimento narcisistico verso se stesso per capire la pedagogia di Dio, il quale, da vero padre, contrasta la preferenza accordata dalla madre al primogenito con quella donata al minore. Infatti Abele, il cui nome significa “nebbia”, “vapore” o anche “vanità” (cfr Qoelet 1,2), è stato reso insignificante da Eva, anche lui è vittima di un amore materno squilibrato. Se Caino cogliesse l’occasione offertagli di dominare l’istinto narcisistico e vendicativo potrebbe diventare fratello di Abele, superando la relazione possessiva ed esclusiva con la madre (cfr Wénin A., Da Adamo ad Abramo, o l’errare dell’uomo. Lettura narrativa e antropologica della Genesi, EDB, Bologna 2008, 93-112). A ben vedere, anche se Dio accoglie l’offerta del figlio minore e ignora quella del maggiore, prende più a cuore le sorti di quest’ultimo, chiamandolo ad andare oltre se stesso: Il Signore disse allora a Caino: «Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il fallimento è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dominalo» (Genesi 4,6-7). Il primogenito si dibatte in una comprensibile difficoltà di cui non ha colpa e da cui non sarebbe aiutato a uscire da un atteggiamento paternalistico o giudicante. Perciò Dio dimostra la sua 506 Giuseppe Trotta SJ sollecitudine nei suoi confronti rivolgendogli un appello a dominare le emozioni negative, in cui risuona non un rimprovero castrante, ma la fiducia di poter riuscire nell’impresa. Purtroppo Caino resta chiuso in se stesso, non riesce a venir fuori dalla gabbia dorata dell’amore materno e infatti non risponde al monito del Dio-padre che lo affida alla sua libertà responsabile verso il fratello. Se la parola aveva contraddistinto in origine la possibilità degli umani di entrare in un rapporto privilegiato col potere creatore di Dio (cfr Genesi 1,26-30), è proprio di questa possibilità di interlocuzione che la maternità compromessa di Eva priva il primogenito e il minore. Abele, però, non ha bisogno di esprimersi verbalmente, gli bastano i gesti, perché, in quanto escluso, ultimo, è favorito agli occhi di quel potere che è amore e giustizia insieme. La nuova Eva e il nuovo Adamo In Caino si ripete la vicenda dei genitori, anche lui è costretto ad allontanarsi da Dio, il quale, però, lo protegge: Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato (Genesi 4,15). Più tardi nella storia di Israele la Legge imporrà l’obbligo di consacrare ogni primogenito e il segno di protezione e appartenenza diventerà la circoncisione: Il Signore disse a Mosè: «Consacrami ogni primogenito, quello che apre il grembo tra i figli di Israele, di uomini o di animali: esso appartiene a me» (Esodo 13,1-2). Il rituale avveniva a Gerusalemme, nel tempio, e vi si può scorgere anche la funzione simbolica di esorcizzare ogni possibile possessività dei genitori verso il figlio. Anche su Gesù viene compiuto questo rito (cfr Luca 2,21-24) e così la sua relazione filiale viene da subito collocata, almeno simbolicamente, nel giusto equilibrio fra unità e alterità, in particolare nei confronti bibbia aperta della madre. Maria, infatti, potrebbe a ben diritto pensare di aver “acquistato un figlio con il Signore”, perché il suo rapporto con Gesù si svolge in un certo senso in assenza del padre. E invece proprio in questo si manifesta la qualità della sua maternità verginale. Impostato correttamente nel suo inizio, come si è poi incarnato e sviluppato nel concreto il rapporto madre-figlio? Può aiutarci un testo inedito di Paola Bassani, psicologa, animatrice del Centro Giovani Coppie San Fedele di Milano, scomparsa di recente, rielaborato qui di seguito. Il primo episodio in cui avviene quel distacco nella relazione da cui Gesù emerge nella sua autonomia di figlio e Maria come madre più consapevole è proprio nel tempio a Gerusalemme, dopo il tradizionale pellegrinaggio annuale. Durante il ritorno a Nazareth, accortisi dell’assenza del figlio nella carovana, Giuseppe e Maria tornano indietro e lo trovano nel tempio a discutere con i dottori della legge. La domanda-rimprovero della madre è carica di tutta l’ansia accumulata nei tre giorni di ricerca: «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo», ma deve fare i conti con la risposta di un Gesù ormai dodicenne, età in cui il giovane israelita diventa responsabile in prima persona dell’osservanza della legge: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (cfr Luca 2,41-52). Per la prima volta Maria affronta la lenta fatica di separarsi dal proprio figlio, la pazienza di esserci ma non troppo, di lasciare che trovi la sua strada senza pretendere di conoscerla per lui. Gesù, invece, impara a fare i conti con i limiti, le ansie, le aspettative dei genitori: sentire il conflitto tra il loro bene e i propri progetti gli consente di crescere, di fare delle scelte profondamente personali. Maria rimprovera Gesù, ma poi sta con i suoi tormenti e le sue gioie, le conserva nel cuore. Cosa significa? Innanzitutto non si lamenta, non si arrabbia: sente lacerarsi le viscere, ma nel profondo sa che il figlio ha ragione. Perciò non si mette a congetturare, a cercare di capire con la testa, ma accoglie i dolori e le ansie nel luogo dell’amore, dove aveva fatto esperienza di fiducia e libertà. La capacità di Maria di stare con i suoi vissuti, di custodirli ed elaborarli, in psicologia viene definita “capacità negativa”. La funzione della madre in questo senso è fondamentale: deve essere in grado di stare con le emozioni negative, l’ansia, la rabbia, la paura, senza scappare, agirle o sentirsi minacciata da esse, soprattutto senza sentire minacciato il bene che prova nei confronti del figlio. In questo modo gli insegna a non temere il mondo emotivo, ad ascoltarlo, a riconoscere e dare un nome alle emozioni che lui stesso prova e quindi a governarle. Secondo alcuni studi psicoanalitici recenti l’integrazione fra emotività e corporeità è necessaria per uno sviluppo umano equilibrato, ma non è un evento naturale. L’insediarsi dello psichico nel corporeo è un fenomeno legato al tempo, ai ritmi, al divenire del corpo, di cui il femminile fa esperienza soprattutto nella gravidanza. Pertanto il silenzio di Maria non indica un atteggiamento passivo o rinunciatario di una madre dolce, ma debole, bensì il coraggio di farsi carico del proprio vissuto emotivo di mamma, senza farne oggetto il figlio, come Eva, ma lasciandogli tempo e spazio. Un altro episodio significativo manifesta il passaggio verso lo stadio adulto della relazione: le nozze di Cana (cfr il riquadro alla p. seguente). La secca risposta di Gesù alla richiesta più o meno esplicita di Maria sembra segnare un’ulteriore incomprensione (tra l’altro è la stessa espressione rivolta a GeMadre e figlio 507 Giovanni 2,1-5 1 solo madre e figlio, ma una donna e un uomo che portano avanti un proprio progetto con dignità e collaborazione. In quest’ottica, il femminile di Maria non è lo stereotipo della donna, ma un archetipo indispensabile per la realizzazione di ogni essere umano, per la sua reale incarnazione. Da questa femminilità autentica, vergine, deriva una maternità realmente feconda ed efficace. Per questo, in punto di morte, dalla croce Gesù affida Maria al discepolo amato, anonimo, dicendo alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!», e a lui: «Ecco tua madre!» (cfr Giovanni 19,25-27). Ancora una volta egli fa appello alla femminilità di Maria, a quella dimensione viscerale, profonda, forte e sensibile, capace anche di andare oltre i legami di parentela. Lei, con la sua maternità, ha generato lui come uomo e figlio; adesso lui dona lei al mondo come donna e madre. Inoltre, offre al discepolo la possibilità di fare la sua stessa esperienza. Infatti, in chiave psicoanalitica, Gesù, uomo e figlio compiuto, presentando Maria al discepolo perché la prenda con sé nella sua casa come madre, lo invita a familiarizzarsi con quel femminile e a integrarlo nel suo maschile, come ha fatto lui, il “nuovo Adamo”. A partire da questa offerta del figlio, Maria resta per tutti – uomini e donne – l’esempio di una femminilità e di una maternità integra e feconda, di un’umanità pienamente realizzata nella sua capacità di generare nuova vita. Tre giorni dopo, ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. 2 Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. 3 Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno più vino». 4 E Gesù rispose: «Cosa c’è tra me e te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora». 5 La madre dice ai servi: «Fate quello che vi dirà». sù da un indemoniato! Cfr Marco 5,7). Ma lei non si ferma davanti al suo «No!» e invita comunque i servi a seguirne le istruzioni. Cosa sta facendo? Disobbedisce al Figlio di Dio? Non lo ascolta? Maria si rivela una donna attenta e tenace: emerge in lei un femminile intuitivo e sempre più sicuro di sé, come se il processo di separazione dal figlio avesse conferito alla madre una maggiore fiducia anche in se stessa, in ciò che è bene fare. Caino, nel suo narcisismo, aveva interpretato il rifiuto di Dio come un’offesa personale. Lei, invece, non fa una piega e dimostra un atteggiamento di grande confidenza verso Gesù, andando oltre le sue parole grazie alla profonda empatia materna con cui ne intuisce i sentimenti più intimi, al punto da poterli anche dolcemente forzare. Da parte sua, in questo comportamento il figlio non vede più in lei tanto una mamma petulante, quanto una donna che “seduttivamente” lo invita ad agire. Perciò la sua risposta è da uomo, ironica, ha il sapore complice di chi riconosce una sensibilità “altra” da sé, da accogliere e rispettare, alla quale ci si può liberamente adeguare, senza per questo lasciarsene possedere abdicando alla propria. Qui Gesù e Maria non sono più 508 Giuseppe Trotta SJ di Jeffrey D. Sachs Direttore di The Earth Institute, Columbia University, New York; Consigliere speciale del Segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon per gli Obiettivi di sviluppo del millennio G li insegnamenti di Gesù offrono una buona notizia per i giusti, siano essi poveri ed emarginati oppure ricchi ma generosi. Tutti possono trovare posto nel regno. C’è invece poco conforto per coloro che pensano che solo la loro ricchezza potrà salvarli. La parabola di Lazzaro e dell’uomo ricco è un monito sul destino dei ricchi che ignorano i poveri (Luca 16,19-31). Quindi non dovremmo essere sorpresi dalle reazioni molto divergenti all’esortazione apostolica di papa Francesco Evangelii gaudium. Da un lato, in tutto il mondo la gente è stata immediatamente attirata dalla forza del messaggio di speranza e giustizia sociale del Papa, entusiasmata dalla sua critica alla «dittatura di una economia senza volto e senza uno scopo veramente umano» (EG, n. 55) e ispirata dal suo appello alla solidarietà con i poveri. Tuttavia negli Stati Uniti un certo numero di persone notoriamente ricche e alcuni commentatori che abitualmente parlano in loro nome hanno reagito con grande irritazione: «Marxista», hanno strillato alcuni e l’accusa è riecheggiata; il Papa è «confuso», hanno dichiarato altri. cristiani e cittadini Papa Francesco, riformatore del mercato Altri ancora hanno cercato di sminuire la portata del suo messaggio, sostenendo che in realtà esso è diretto alla sua terra di origine, l’Argentina, piuttosto che agli Stati Uniti. Almeno una persona molto benestante ha minacciato di rifiutare una donazione per il restauro della Cattedrale di St. Patrick di New York. Coloro che presumono di leggere nelle parole del Papa un piano economico specifico si sbagliano. Egli, come Gesù, non offre alcun piano di questo genere: «Questo non è un documento sociale», precisa (EG, n. 184). Gesù non rovesciò i tavoli dei cambiavalute per dare attuazione a una riforma del sistema bancario del suo tempo, ma piuttosto per sollevare una questione morale: la casa della giustizia divina era diventata un covo di ladri. Papa Francesco porta il messaggio di Gesù al cuore del capitalismo contemporaneo, ricordandoci che abbiamo bisogno di un quadro di riferimento morale per la nostra economia del XXI secolo. Questo messaggio però è fondamentalmente sovversivo nei confronti degli atteggiamenti prevalenti nei corridoi del potere americano, a Wall Street come a Aggiornamenti Sociali giugno-luglio 2014 (509-512) 509 Washington. Proprio per questo la sua importanza è cruciale. Troppi tra i ricchi e i potenti negli Stati Uniti sono in balia di una ideologia economica che pone il diritto di proprietà sopra la dignità umana, persino al di sopra della sopravvivenza delle persone. Troppi credono che la moralità sia il risultato del mercato. Non è un’esagerazione. La dottrina del libertarianismo, ad esempio, come esposta da Ayn Rand [1905-1982, scrittrice e filosofa americana di origine russa, N.d.R.] e dai suoi seguaci, tra cui Alan Greenspan, ex presidente della Federal Reserve [la Banca centrale americana, N.d.R.], si basa sull’idea che la giustizia economica sia definita dalla “libertà” del mercato, intesa come libertà di acquistare, vendere e proteggere la proprietà personale. Né il Governo, né la legislazione e neppure l’autocontrollo morale dovrebbero interferire. Secondo questa teoria, le tasse sono considerate una forma di servitù nei confronti dello Stato, anche quando le entrate fiscali sono destinate a nutrire i poveri, sostenere i disoccupati, fornire servizi sanitari agli indigenti e proteggere l’ambiente per tutti. La Chiesa e il diritto di proprietà La Chiesa ha giustamente e costantemente respinto l’idea che il diritto di proprietà privata sia sacrosanto. La Chiesa moderna, sin da quando per la prima volta ha affrontato la questione economica durante la prima rivoluzione industriale, in particolare nell’enciclica Rerum novarum di Leone XIII (1891), ha giudicato con favore l’economia di mercato, ma in una forma in cui il diritto alla proprietà privata sia inserito in un quadro di riferimento etico. La moralità e la dignità umana devono occupare il primo posto e il diritto di proprietà dovrebbe essere sensibile al più alto richiamo della giustizia. Così si esprime Leone XIII: «È lecito, dice san Tommaso, anzi necessario all’umana vita che l’uomo abbia la proprietà 510 Jeffrey D. Sachs dei beni. Ma se inoltre si domandi quale debba essere l’uso di tali beni, la Chiesa per bocca del santo Dottore non esita a rispondere che, per questo rispetto, l’uomo non deve possedere i beni esterni come propri, bensì come comuni, in modo che facilmente li comunichi all’altrui necessità. […] In conclusione, chiunque ha ricevuto dalla munificenza di Dio copia maggiore di beni, sia esteriori e corporali sia spirituali, a questo fine li ha ricevuti, di servirsene al perfezionamento proprio, e nel medesimo tempo come ministro della divina provvidenza a vantaggio altrui» (RN, n. 19). Sulla stessa linea, Leone XIII sosteneva che i contratti conclusi sulla base del libero consenso tra le parti possono essere considerati ingiusti quando esse sono troppo disuguali per ricchezza e potere. Come Paolo VI più tardi affermò nell’enciclica Populorum progressio (1967), rinviando proprio all’insegnamento di Leone XIII, «la legge del libero consenso rimane subordinata alle esigenze del diritto naturale» (PP, n. 59). Su scala globale Paolo VI osservò che anche il libero scambio tra le nazioni deve essere soggetto alle esigenze della giustizia sociale. L’insegnamento della Chiesa descrive il quadro di riferimento morale del diritto di proprietà attraverso l’espressione “destinazione universale dei beni”. Certo – sostiene la Chiesa – la proprietà è e deve essere (perlopiù) privata, in quanto essa aumenta l’efficienza, protegge la famiglia e permette alla classe media di resistere al saccheggio da parte dello Stato. Tuttavia la proprietà deve essere compresa anche come un patrimonio pubblico; i bisogni dell’umanità devono avere la precedenza sulle pretese dei singoli individui alla proprietà privata, soprattutto quando sono in gioco le necessità dei poveri o l’ambiente. In linea con questa grande tradizione, papa Francesco si pone come obiettivo niente di meno che ristabilire un fonda- cristiani e cittadini mento morale per i nostri rapporti economici locali, nazionali e globali, attraverso la diffusione dell’insegnamento della Chiesa sulla giustizia sociale, che affonda le proprie radici nella tradizione ebraica. Ma, al di là delle dottrine specifiche, il Papa richiama temi universali che sono condivisi da molte grandi religioni, oltre che da agnostici e atei, a cui ha rivolto l’invito a unirsi nella ricerca della giustizia e della pace. Egli scrive che un dialogo interreligioso «in cui si cerchi la pace sociale e la giustizia è in sé stesso, al di là dell’aspetto meramente pragmatico, un impegno etico che crea nuove condizioni sociali» (EG, n. 250). Il codice morale del Papa Papa Francesco sta dando nuovo vigore a un codice morale largamente, se non universalmente, condiviso, ma che è stato eclissato dai lustrini della nostra era mediatica e dirottato dall’idolatria della proprietà privata (che il Papa paragona al vitello d’oro; cfr EG, n. 55). Con la sua gioia e umiltà, Francesco sta cercando di svegliarci dal nostro torpore, da ciò che egli chiama «la globalizzazione dell’indifferenza» (EG, n. 54). Papa Francesco ci chiede di risvegliare la nostra coscienza morale personale. Non sappiamo quello che facciamo – ci spiega – perché «Quasi senza accorgercene, diventiamo incapaci di provare compassione dinanzi al grido di dolore degli altri, non piangiamo più davanti al dramma degli altri né ci interessa curarci di loro, come se tutto fosse una responsabilità a noi estranea che non ci compete. La cultura del benessere ci anestetizza e perdiamo la calma se il mercato offre qualcosa che non abbiamo ancora comprato, mentre tutte queste vite stroncate per mancanza di possibilità ci sembrano un mero spettacolo che non ci turba in alcun modo» (ivi). La scienza economica, che è la mia professione, esemplifica questo progres- sivo allontanamento dalla morale. Nella sua ricerca del “rigore scientifico”, la teoria economica dominante ha abbandonato da molto tempo il tradizionale interesse per un quadro di riferimento etico. Una scienza che ebbe inizio come branca dell’indagine morale, nel XX secolo si era ormai trasformata in una “ragazza pompon” del materialismo egoistico, con poco o nessun interesse per la ricerca etica. Il benessere umano, al centro degli interessi filosofico-morali degli economisti classici, nelle mani di quelli del XX secolo è diventato praticamente sinonimo dei beni materiali di cui ciascuno dispone. Ci sono tre conseguenze disastrose della globalizzazione dell’indifferenza. La prima è che la società nel suo complesso, comprese le élite della finanza e del mondo accademico, ha abbandonato ogni interesse per il destino dei poveri, quando non arriva addirittura a incolparli della loro condizione. La seconda è che i mercati finanziari sono stati deregolamentati e gli scambi di mercato sono diventati il test della moralità. Anche se le grandi banche di Wall Street spacciavano titoli tossici a ignari acquirenti stranieri, alimentando così la bolla finanziaria che scoppiò nel 2008, l’amministratore delegato di Goldman Sachs dichiarava che, in fin dei conti, l’azienda stava compiendo la volontà di Dio, poiché contribuiva a creare ricchezza e posti di lavoro. La terza conseguenza è che gli economisti di professione, cui appartengo, sono stati complici di questo processo, gettando alle ortiche la deontologia professionale nel momento in cui molti si precipitavano ad accettare impieghi estremamente ben remunerati a Wall Street. Il premiato documentario Inside Job del 2010 [vincitore del premio Oscar nel 2011, per la regia di Charles H. Ferguson, N.d.R.] mette in mostra un ceto di professionisti dell’economia che ha smarrito la propria bussola morale. Papa Francesco, riformatore del mercato 511 risorse I risultati sono devastanti. La disuguaglianza nella distribuzione del reddito negli Stati Uniti ha raggiunto il più alto livello nell’arco di un secolo, se non di più. L’illegalità e la corruzione nel mondo della finanza hanno quasi portato al crollo dell’economia mondiale. E, in un’epoca di ricchezza globale senza precedenti, i poveri di tutto il mondo sono stati spesso lasciati soli a cercare di sopravvivere in mezzo a tremende avversità. Consideriamo un recente esempio particolarmente scioccante. Il Fondo globale per la lotta all’AIDS, la tubercolosi e la malaria è l’istituzione chiave a livello mondiale per finanziare la lotta contro queste tre malattie mortali, che la scienza moderna è in grado di curare e spesso di prevenire. Il Fondo globale ha salvato milioni di vite dispensando farmaci e presidi preventivi come le zanzariere contro la malaria. Eppure, quando lo scorso anno il Fondo globale lanciò un appello per ottenere nuovi fondi, chiedendo 5 miliardi di dollari ai Governi e alle imprese di tutto il mondo per potersi prendere cura di centinaia di milioni dei più poveri della terra, non riuscì a raggiungere il proprio obiettivo, raccogliendo solo 4 miliardi. Il miliardo che manca avrà un costo considerevole in termini di morti e sofferenze, nel momento in cui gli ambulatori esauriranno farmaci e presidi sanitari salvavita. Eppure questo miliardo di dollari è inferiore ai guadagni registrati nel 2013 da diversi proprietari di hedge fund. È meno di quanto spende ogni giorno il Pentago- no [il Ministero della difesa statunitense, N.d.R.]. È meno di un dollaro all’anno per ciascun abitante dei Paesi ad alto reddito. Perché il Fondo globale non ha raccolto abbastanza denaro? C’è solo una ragione – e non è una giustificazione –: la globalizzazione della indifferenza. Ridare vigore a un codice morale economico globale può essere la nostra ancora di salvezza nel XXI secolo. In un momento in cui le nostre società sono lacerate da disuguaglianze senza precedenti, in cui sei milioni di bambini sotto i cinque anni potrebbero essere salvati ogni anno da morte prematura e in cui la distruzione sconsiderata dell’ambiente mette la vita degli esseri umani e di milioni di altre specie in pericolo, il nostro atteggiamento e i nostri giudizi morali saranno la determinante principale del nostro destino. A questo punto della storia, l’umanità è a un bivio e seguirà la strada che saremo noi a scegliere. Abbiamo i mezzi tecnici per risolvere i nostri problemi a livello nazionale e globale: mettere la povertà al bando, combattere le malattie, proteggere l’ambiente e dare istruzione e formazione a chi non ce l’ha. Ma possiamo farlo e lo faremo solo se ci sta abbastanza a cuore da sopportare lo sforzo che richiede. Siamo di fronte a una crisi morale molto più che a una crisi finanziaria o economica. Per questo dobbiamo essere grati a papa Francesco: con amore ci ricorda che le nostre aspirazioni più alte sono davvero alla nostra portata. EG = FRANCESCO, esortazione apostolica Evangelii gaudium, 2013. Francesco», in Aggiornamenti Sociali, 1 (2014) 5-12. PP = PAOLO VI, enciclica Populorum progressio, 1967. Foglizzo P., «“Chiamati a essere poveri”: una proposta personale, una questione sociale», in Aggiornamenti Sociali, 12 (2013) 814-821. RN = Leone XIII, enciclica Rerum novarum, 1891. Costa G., «La gioia del Vangelo: il segreto di papa GFATM, The Global Fund to Fight AIDS, Tuberculosis and Malaria, <www.theglobalfund.org>. Titolo originale «Market Reformer», pubblicato in America, 24 marzo 2014; traduzione di Paolo Foglizzo. 512 Jeffrey D. Sachs La Presidenza del Consiglio dell’Unione Europea tools di Luca Lionello Dottorando di ricerca in Istituzioni e Politiche presso la Facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica di Milano N egli ultimi mesi i mezzi di informazione italiani hanno parlato sempre più frequentemente del “semestre europeo” e delle responsabilità che l’Italia assumerà nella seconda parte di questo anno, quando diventerà Presidente del Consiglio dell’Unione Europea (nel resto dell’articolo questa istituzione sarà chiamata semplicemente Consiglio). Nonostante sia una notizia ampiamente discussa dai media, non è sempre chiaro che cosa esattamente il Governo italiano si accinga a presiedere. Si parla spesso impropriamente di Presidenza europea o di Presidenza dell’Unione Europea (UE). Anche la stessa dicitura “semestre europeo” solitamente utilizzata in realtà non è corretta, perché nel linguaggio ufficiale dell’UE essa identifica ormai le procedure volte a coordinare le politiche economiche e di bilancio nell’ambito dell’UE portate avanti dalle varie istituzioni europee e non la Presidenza semestrale del Consiglio. Alla luce di questa possibile confusione, in prima battuta è utile fare chiarezza sui nomi delle diverse istituzioni europee e sulle loro funzioni. Dal 1º luglio 2014, infatti, l’Italia sarà a capo di una soltanto di queste istituzioni: il Consiglio, la cui Presidenza, secondo le regole previste dal Trattato di Lisbona, spetta a ogni Stato membro per un periodo di sei mesi in base a un sistema di rotazione paritaria. Il Consiglio è un organismo intergovernativo responsabile, insieme con il Parlamento Europeo, della funzione legislativa e di quella di approvazione del bilancio. Per una serie di materie particolarmente sensibili, come ad esempio il coordinamento delle politiche economiche o la politica estera e di sicurezza comune, il Consiglio assume invece una posizione predominante adottando da solo le decisioni più importanti. Il Consiglio di cui l’Italia assumerà presto la Presidenza non va confuso né col Consiglio d’Europa, che non è un’istituzione dell’UE (cfr Liva 2012), né col Consiglio Europeo, l’altra istituzione intergovernativa dell’UE in cui siedono i Capi di Stato o di Governo dei Paesi membri e che svolge una funzione di impulso politico definendo gli orientamenti e le priorità politiche generali dell’UE. Mentre il Consiglio ha una Presidenza Aggiornamenti Sociali giugno-luglio 2014 (513-517) 513 semestrale a rotazione, il Consiglio Europeo ha un Presidente fisso, eletto una volta ogni due anni e mezzo a maggioranza qualificata, con mandato rinnovabile una sola volta, carica al momento ricoperta da Herman Van Rompuy, il cui incarico scadrà il prossimo dicembre. La distinzione tra le due Presidenze è stata sancita dal Trattato di Lisbona. Prima della sua entrata in vigore, il 1º dicembre 2009, la Presidenza a rotazione tra i Governi nazionali riguardava infatti sia il Consiglio sia il Consiglio Europeo. Il Trattato di Lisbona ha deciso invece di introdurre una Presidenza permanente del Consiglio Europeo per meglio coordinare i suoi lavori interni e garantirne una rappresentanza più efficace verso l’esterno. Infine, va ricordato che il quadro delle maggiori istituzioni europee è completato dalla Commissione Europea, presieduta da José Manuel Barroso, e dal Parlamento Europeo. Primus inter pares a gruppi di tre Soffermiamoci ora sul Consiglio, considerandone i compiti e le modalità di funzionamento. Poiché si tratta di un’istituzione intergovernativa, la sua Presidenza viene esercitata a rotazione dall’esecutivo di ogni Paese membro, il quale agisce come primus inter pares per un periodo di sei mesi. Sebbene sia un periodo limitato nel tempo, si tratta di un’occasione importante grazie alla quale il Governo di turno può avanzare le sue proposte per lo sviluppo della politica europea e del processo di integrazione. La Presidenza a rotazione è un meccanismo creato nel 1957 dal Trattato di Roma. Si tratta di una regola consolidata che mira a garantire una gestione condivisa del coordinamento intergovernativo dell’UE. Il Trattato non prevede una disciplina dettagliata del funzionamento della Presidenza, che pertanto si è evoluta insieme con gli sviluppi politici e 514 Luca Lionello istituzionali dell’UE. In effetti, anche se nel corso del processo di integrazione le istituzioni sovranazionali (Parlamento e Commissione Europea) si sono progressivamente rafforzate, in moltissimi settori della politica europea i Governi non hanno accettato cessioni sostanziali di sovranità e si sono riservati il potere di decisione seguendo il modello della gestione intergovernativa. Il Consiglio svolge pertanto una funzione fondamentale nell’equilibrio istituzionale dell’UE. D’altra parte l’allargamento dell’Unione nel corso degli ultimi vent’anni ha profondamente trasformato il funzionamento della Presidenza a rotazione di questa istituzione. Se agli inizi del processo di integrazione un Governo assumeva la Presidenza ogni tre anni ed esisteva una forte omogeneità tra i Paesi membri dal punto di vista delle priorità e delle strategie politiche, in seguito all’allargamento dell’UE ciascun Paese membro attualmente ricopre la carica ogni quattordici anni. La Presidenza è diventata quindi un compito quasi eccezionale per il Governo di uno Stato membro e risulta più difficile coordinare il passaggio di consegne da un Paese all’altro. Per facilitare la continuità dell’operato del Consiglio, il Trattato di Lisbona ha pertanto introdotto una gestione della Presidenza a gruppi predeterminati di tre Stati membri per un periodo di diciotto mesi, nell’arco del quale ciascun Governo esercita la Presidenza per sei mesi, mentre gli altri lo assistono in tale compito sulla base di un programma stabilito in comune. La Presidenza a gruppi di tre intende favorire la continuità nella gestione della Presidenza del Consiglio, permettendo di perseguire obiettivi più ambiziosi di quelli normalmente realizzabili in un orizzonte di soli sei mesi. Allo stesso tempo, la formazione dei terzetti favorisce uno scambio di esperienza tra gli Stati membri di lunga data e quelli en- tools trati solo di recente nell’UE e assicura un equilibrio nella Presidenza tra Paesi grandi e piccoli. Ad esempio, l’Italia sarà in gruppo con la Lettonia e il Lussemburgo per il periodo 1º luglio 2014-31 dicembre 2015. I terzetti e l’ordine di successione vengono stabiliti dal Consiglio, tenendo conto delle diversità degli Stati membri e degli equilibri geografici dell’Unione, mentre il Parlamento Europeo non viene coinvolto in queste scelte. si con il Presidente della Commissione e gli altri Governi del terzetto. Il Consiglio si riunisce in una “formazione” diversa a seconda del settore delle politiche UE di cui si occupa. Ad esempio, la formazione Economia e Finanza (ECOFIN) vede la partecipazione dei ministri dell’Economia e delle Finanze, mentre la formazione Ambiente è composta dai ministri delle Politiche ambientali. Ogni formazione viene presieduta dal ministro del Governo titolare della Presidenza del I compiti della Presidenza Consiglio competente per materia. L’unidel Consiglio ca eccezione è costituita dalla formazione Gli effettivi poteri di cui gode la Pre- Affari esteri, che a partire dall’entrata in sidenza del Consiglio sono oggetto di di- vigore del Trattato di Lisbona nel 2009 è battito tra gli specialisti delle istituzioni presieduta dall’Alto Rappresentante per europee. Alcuni infatti considerano la gli Affari esteri e la politica di sicurezza Presidenza come una responsabilità senza dell’Unione Europea, ruolo ricoperto atpotere, facendo notare che il Consiglio è tualmente da Catherine Ashton. comunque in grado di operare anche senIn secondo luogo, la Presidenza fisza il coordinamento del suo Presidente, sa le priorità politiche per il semestre. il quale non può impedire l’adozione di All’inizio del mandato, il Capo di Stato decisioni a lui scomode. Altri hanno in- o di Governo del Paese che ha assunto vece apprezzato il ruolo di leadership che la Presidenza presenta davanti al Parlala Presidenza del Consiglio può svolgere. mento Europeo un programma d’azione, Per molti Governi il semestre di presiden- illustrando quali sono le sue priorità e in za del Consiglio è diventato un banco di che modo intende raggiungerle. Allo stesprova del loro europeismo e un’occasione so modo, una volta concluso il proprio per illustrare agli altri partner la propria mandato, il Governo uscente svolge una visione del processo di integrazione e le relazione finale davanti al Parlamento proprie priorità politiche. Europeo per illustrare i risultati ottenuti. Le responsabilità che gravano sulla La Presidenza svolge poi una funzioPresidenza del Consiglio sono fonda- ne di negoziato nel processo decisionale, mentalmente quattro. Innanzitutto il dovendo trovare un compromesso tra gli Presidente espleta alcuni compiti ammi- Stati membri, in particolare nel caso in nistrativi di organizzazione delle riunioni cui i Governi abbiano interessi nazionali del Consiglio stesso, fissandone l’agenda contrapposti. Questo compito è evidene coordinando il dibattito, consultando- temente necessario al fine di raggiungere le maggioranze richieste in seno al Consiglio per Col termine “formazione” si identificano le dieci aree di l’adozione di una decisioazione politica in cui è organizzato il lavoro del Consiglio: ne comune. Ricordiamo Affari generali; Affari esteri; Economia e finanza; Giustiche il Trattato di Lisbona zia e affari interni; Occupazione, politica sociale, salute e ha introdotto un sistema consumatori; Competitività; Trasporti, telecomunicazioni ed energia; Agricoltura e pesca; Ambiente; Istruzione, giovendi votazione “a doppia tù, cultura e sport. maggioranza”, che entrerà La Presidenza del Consiglio dell’Unione Europea 515 pienamente in vigore a partire dal 2017. Perché una proposta sia adottata, servono due tipi di maggioranza: una maggioranza di Paesi (almeno 55%) e una maggioranza della popolazione totale dell’UE (i Paesi a favore dovranno rappresentare almeno il 65% della popolazione dell’UE). Infine, la Presidenza è responsabile della rappresentanza del Consiglio. Questa funzione è esercitata sia all’interno dell’UE, ad esempio durante i negoziati tra il Consiglio stesso e il Parlamento Europeo per l’approvazione delle leggi o del bilancio, sia verso l’esterno in relazione ai soggetti terzi. Opportunità e rischi La Presidenza del Consiglio deve evidentemente esercitare i suoi compiti con imparzialità e nell’interesse generale dell’Unione. Per questo motivo viene previsto un dialogo molto stretto tra la Presidenza e le altre istituzioni UE (il Parlamento, la Commissione e il Consiglio Europeo). In particolare, la collaborazione col Consiglio Europeo è stata modificata a seguito delle decisioni prese col Trattato di Lisbona del 2009. Infatti, l’ultima volta che l’Italia ha assunto un ruolo di guida e coordinamento nelle istituzioni europee, nella seconda metà del 2003, il Governo italiano aveva gestito la Presidenza di due organi: il Consiglio e il Consiglio Europeo. Questa volta, invece, la Presidenza italiana dovrà gestire competenze più circoscritte relative alla sola Presidenza del Consiglio. Questa limitazione introdotta dal Trattato di Lisbona, in realtà, non impedirà automaticamente al Governo italiano, nella qualità di Presidente del Consiglio, di esercitare un ruolo di impulso anche sui lavori del Consiglio Europeo. Le regole di procedura di quest’ultimo prevedono infatti che il suo Presidente debba fissare l’agenda e coordinare 516 Luca Lionello il lavoro in stretta cooperazione con lo Stato membro che ha la Presidenza del Consiglio. In questa prospettiva, mentre il Presidente del Consiglio Europeo deve assicurare la preparazione e la continuità dei lavori del Consiglio Europeo, il Presidente del Consiglio può svolgere un ruolo più di iniziativa politica. Questo vale in particolare per il Consiglio in formazione Affari generali, che ha il compito di preparare i lavori del successivo Consiglio Europeo stabilendone l’agenda insieme con il Presidente del Consiglio Europeo. La cooperazione tra le due Presidenze è così stretta che il Capo di Stato e di Governo titolare della Presidenza del Consiglio può prendere il posto del Presidente del Consiglio Europeo in caso di fine prematura del suo mandato o di un suo impedimento. Grazie a questa stretta collaborazione, il Governo titolare della Presidenza del Consiglio sarà pertanto in grado di influenzare l’agenda politica del Consiglio Europeo e quindi dell’UE. Le regole di procedura non fissano in realtà le modalità di cooperazione dei due Presidenti, al di là di una serie di incontri periodici prestabiliti. Il loro rapporto dipende in concreto dalla maggiore o minore sintonia tra il Presidente del Consiglio Europeo e il Capo di Stato o di Governo del Paese di turno titolare della Presidenza del Consiglio. In base a quanto abbiamo detto, pur agendo in maniera super partes e nel rispetto del principio di leale cooperazione, la Presidenza può godere di un margine di manovra importante nell’adempimento dei suoi compiti. Si tratta di un soft power che il Governo incaricato della Presidenza può usare per modellare l’agenda politica e spingere l’attenzione degli altri Governi verso questioni specifiche di suo interesse, facendo attenzione a non abusarne. I risultati ottenibili in concreto dalla Presidenza di turno dipendono essenzial- tools Consiglio dell’UE, <www.consilium.europa.eu>. economica e monetaria lungo le direttive già indicate dalla Commissione Europea nel Blue Print on a Deep and Genuine Economic and Monetary Union, pubblicato nel novembre 2012. Questo processo di riforma prevede il superamento della crisi del debito sovrano attraverso la creazione dell’unione bancaria, fiscale, economica e politica (così dette “quattro unioni”). Al momento è stata realizzata solo l’Unione bancaria, che tuttavia necessita del sostegno delle altre per essere realmente efficace. Un’ultima considerazione: trattandosi di un incarico oneroso, l’assunzione della Presidenza del Consiglio non è immune da rischi. Una gestione goffa degli importanti incarichi istituzionali affidati al Governo incaricato della Presidenza rischia di comprometterne il prestigio a livello europeo e internazionale, riducendo di fatto il suo peso politico in seno alle istituzioni intergovernative. Anche le crisi di Governo che avvengono durante il semestre europeo sono generalmente considerate un fallimento della prova europea cui i Paesi membri sono chiamati a sottoporsi con l’assunzione della Presidenza. Law Review, 3, 597-604. Chalmers D. – Davies G. – Monti G. (2010), European Union Law, Cambridge University Press. Draetta U. (2009), Elementi di diritto dell’Unione Europea, Giuffré, Milano. Chiti M. P. – Greco G. (2005), Trattato di diritto amministrativo europeo, Giuffré, Milano. Liva M. (2012), «Consiglio d’Europa», in Aggiornamenti Sociali, 5, 445-448. Commissione Europea (2012), Blue Print on a Deep and Genuine Economic and Monetary Union, in <www.ec.europa.eu>. Tesauro G. (2012), Diritto dell’Unione Europea, CEDAM, Padova. Common Market Law Review Editorial Comments (2010), «The post-Lisbon institutional package: Do old habits die hard?», in Common Market risorse mente dal carattere e dalla capacità di leadership del Governo incaricato. Per fare alcuni esempi, il semestre di Presidenza tedesco nella seconda metà del 2007 è stato particolarmente importante per rilanciare il progetto di riforma dei Trattati dopo il fallimento della Costituzione europea e arrivare alla firma del Trattato di Lisbona. Durante il semestre francese, nella seconda metà del 2008, la Presidenza guidata da Nicolas Sarkozy ha svolto un ruolo importante di coordinamento della posizione europea in relazione alla crisi russo-georgiana che ha permesso di evitare una pericolosa escalation del ricorso alla forza nella regione. Venendo all’Italia, nel 1990 il semestre di Presidenza è stato un momento importante per accelerare il negoziato sulla creazione dell’Unione monetaria, che ha poi portato alla firma del Trattato di Maastricht. Per quanto riguarda le priorità della prossima Presidenza italiana, è auspicabile che il Governo proceda sulla via delle riforme dell’Unione, mettendo all’ordine del giorno il tema della crescita e dell’occupazione a livello europeo. Questo potrà essere fatto rafforzando l’integrazione della zona euro e sviluppando l’Unione Thomson R. (2008), «The Council Presidency in the European Union, Responsibility with Power», in Journal of Common Market Studies, 3, 593-617. La Presidenza del Consiglio dell’Unione Europea 517 Mauro Magatti – Laura Gherardi Una nuova prosperità Quattro vie per una crescita integrale recensione Feltrinelli Milano 2014 pp. 198, € 18 di Giorgio Nardone SJ Professore di Etica speciale I mpegnato ormai da alcuni anni a riflettere sulle sorti del capitalismo (cfr Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista e La grande contrazione. I fallimenti della libertà e le vie del suo riscatto), in quest’ultimo volume il sociologo Mauro Magatti prosegue la sua ricerca insieme alla collega Laura Gherardi. I due autori esplorano il volto che il capitalismo ha saputo assumere «a seguito della crisi finanziaria, economica, sociale ed energetica del 2008» (p. 10) e si interrogano sui suoi (eventuali) destini prefigurando una sperata “nuova prosperità”, che sappia coniugare la ripresa della crescita con un rinnovato fondamento cultural-ideale dell’agire umano. Il titolo del primo capitolo – «Gli spiriti del capitalismo» – espone già la principale categoria interpretativa: il capitalismo, nel tempo, diviene. Come osservano i sociologi francesi Luc Boltanski ed Ève Chiapello, «facendo propri i valori in nome dei quali è criticato, il capitalismo si rilegittima, si trasforma e si rilancia. Silenzia la critica e, riattivando il desiderio, motiva le persone a partecipare al circuito economico» (p. 23). In effetti, esso ha a che fare con le cose 518 Aggiornamenti Sociali giugno-luglio 2014 (518-520) dure o inevitabili della vita (produzione e consumo) e, al tempo stesso, col desiderio umano inteso come unione tra una qual certa forza aggressiva (alcuni parlerebbero di libido) e una dimensione che sconfina nel simbolico e nell’ideale. Perciò il capitalismo non è statico, ma diviene nelle tecniche produttive e nel suo “spirito”, giacché a trasformarsi è anche e proprio questo “spirito”, ossia «l’ideologia che sostiene, giustifica e stimola l’impegno delle persone alla produzione e al consumo» (p. 24). Vi fu il capitalismo della prima industrializzazione ottocentesca (liberazione dalla antica dipendenza di tipo agrario e personale); fece seguito quello novecentesco (uguaglianza di tutti entro il quadro giuridico dello Stato-nazione, nascita dello Stato sociale, liberazione dall’incertezza e dal bisogno, consumo di massa); venne infine il capitalismo dei nostri anni. In quest’ultimo stadio, le nuove tecniche informatiche si uniscono a un ideale di scelta individuale che ignora il mondo. In ciascuna di queste fasi è centrale la parola “liberazione”: essa sembra specificare la già citata nozione di desiderio. «Combinandosi con le dimensioni materiali e recensione istituzionali, lo spirito del capitalismo definisce una “economia psichica” che costituisce la grammatica combinatoria tra individuo e sistema, tra psiche e materialità, tra cultura e struttura. Anche se declinata secondo accezioni assai diverse nelle varie fasi storiche, la libertà è sempre stata il valore fondativo dell’assiologia del capitalismo. Incrociandosi con i destini della modernità, questa formazione economicosociale è stata capace di mettere a profitto le diverse domande di liberazione avanzate dalle società occidentali nel corso degli ultimi secoli» (p. 17). Di liberazione aveva già parlato il sociologo e filosofo Max Weber (1864-1920) rispetto alle tradizionali forme di dipendenza (asservimento alla terra e controllo sociale delle piccole comunità). Ma questa liberazione, realizzata dal capitalismo e dall’urbanizzazione, fu pagata con l’assoggettamento alla impersonale catena di montaggio. Preso atto di questi elementi del capitalismo, le analisi del libro sono guidate da una domanda ermeneutica estremamente esigente: quali sono i valori che sostengono e legittimano l’impegno personale e che sarebbero lo “spirito del capitalismo” in questa determinata fase storica? Dobbiamo sempre ricordare che la realtà viva di tale impegno va colta nell’attività produttiva di una società, non nei discorsi di questo o quel personaggio. La risposta a questa domanda viene dalla considerazione delle vicende degli ultimi anni. Finora la storia del capitalismo pareva unire assieme la critica e il suo superamento, lati negativi e nuovi lati positivi sempre riaffioranti. Pare però che a un certo punto questa logica si sia arrestata: nell’ultimo capitalismo, quello entrato in crisi sul piano strutturale e simbolico nel 2008, affiora un grave limite antropologico ed etico. Esso fa riferimento «a un’assiologia del tutto diversa da quella precedente per la concezione che propone dell’Io, della libertà e del legame» (p. 36): nasce il ca- pitalismo “tecno-nichilista”. Già nei movimenti post-Sessantotto emergeva una nozione “estetica” dell’io e della sua ormai solitaria libertà: ogni forma di legame con altri e con il territorio portatore di una tradizione era avvertita soltanto come limite doloroso. L’avvento di Internet (che apre alla istantanea e individualistica mondialità di ciascuno con ciascun altro) accentua e stabilizza la novità. Nasce un «sistema tecnico planetario [che] si è, poi, combinato con “lo spazio estetico mediatizzato” – di cui Internet è l’emblema – i cui tratti costitutivi sono la sensorialità, la spettacolarizzazione e l’equivalenza dei significati […] Nel capitalismo tecno-nichilista, il potere della tecnica, ampliando gli spazi dell’azione individuale, si combina con una mediatizzazione sempre più pervasiva nel quadro di una progressiva perdita di senso condiviso» (p. 35). La vita contemporanea si fonda su due “infrastrutture”. Una è «il sistema tecnico planetario», che è un «quadro rigido» dal quale siamo costretti a «performance sempre più elevate» – lo si noti – «sia quando lavoriamo, sia quando consumiamo» (p. 39). La seconda è puramente emotiva, poiché nel già citato «spazio estetico mediatizzato» si coltiva «una soggettività emotiva e superficiale» (ivi). Da un lato vi è una iper-razionalizzazione tecnica, dall’altro una iper-soggettivizzazione. Diventano allora difficili un agire che sia «razionale rispetto al valore» e un’affettività che sia «capace di appassionarsi e prendere cura» (pp. 39-40). Si può uscire da tale situazione? Come è sempre avvenuto nella lunga storia che stiamo esaminando, la dura necessità ha una sua funzione: il tecno-nichilismo deve fare i conti con il «vincolo delle risorse ambientali e sociali, che […] ha consumato senza preoccuparsi di rigenerarle» (p. 42). La crisi ecologica e l’apparire sulla scena economica del mondo di nuovi soggetti di gigantesca rilevanza (Cina, Brasile ecc.) pongono termine all’ultima Una nuova prosperità 519 triste stagione del capitalismo. Ne nascerà un’altra migliore? Già nell’introduzione del libro si risponde affermativamente, sia pure nel modo della fondata speranza: dei «segnali sembrano suggerire che nelle società avanzate sia presente, ancorché sottotraccia, un piano culturale emergente» (p. 12). Esso si fonderebbe su una «concezione di valore» inteso come «valore contestuale (o condiviso)» (ivi). Dovrebbe verificarsi ancora una volta quel rinnovamento di cui il capitalismo è stato capace dopo ogni sua crisi. Dal punto di vista dei consumatori, il tener conto del “contestuale” significa avvertire il rapporto tra benessere del singolo e ambiente, anche quello sociale. Dal punto di vita dei produttori (delle «aziende più innovative», p. 27), il medesimo tener conto significa non opporre più guadagno e tutela dell’ambiente, ma assumere una progettualità a più lungo termine, tale da convertire ciò che prima si avvertiva come limite in nuove opportunità. Di «creazione di valore condiviso» hanno parlato nel 2011 gli economisti americani Michael E. Porter e Mark R. Kramer come «una crescita che sappia coniugare valore economico e valore sociale inteso, in senso ampio, come valore per le collettività» (p. 58). Il loro approccio è audace fin nella innovazione semantica: il nuovo valore economico sarà in se stesso “condiviso”. Nel passato la produzione era perseguita a spese dell’ambiente, a spese dei salariati, a spese del territorio (ci si trasferisce dove il produrre costa meno). Certamente non tutto era lecito, ma si trattava di limiti imposti dallo Stato. Ormai però è l’interesse della stessa azienda (non siamo affatto in una prospettiva di libera benevolenza) a imporre di tener conto di ciò che avviene nei tempi lunghi e nelle comunità in cui si opera. Al riguardo, gli AA. del nostro libro preferiscono parlare di “valore contestuale”, così illustrato: «per prosperare, oltre che per legittimarsi nelle condizioni poste dalla seconda globalizzazione, 520 Giorgio Nardone SJ le imprese intuiscono che è opportuno entrare in una relazione di win-win con il contesto, con il quale scambiano valore, e con le collettività che lo popolano» (p. 60). Lo sviluppo della green economy e la produttiva collaborazione tra molti resa possibile da Internet sono un esempio del nuovo che avanza. Vi sarebbe una innovazione nella nozione stessa di bene con la nascita dei “beni relazionali”. Il godimento di tali beni «dipende da una condivisione nella reciprocità, dunque dalla relazione con altri. Non riducibili a merci, tali beni soddisfano bisogni evoluti di chi vive nelle società avanzate» (p. 63). È il caso, ad esempio, del social housing, cioè la ricerca di soluzioni abitative che valorizzino la dimensione relazionale andando oltre le concezioni novecentesche degli edifici residenziali. La parte finale del libro espone teorie affini al contestualismo: il “convivialismo”, l’economia della “contribuzione”, la “generatività”. Tutte pongono l’accento sui tempi lunghi della nuova progettualità imprenditoriale, sulla cura per molte realtà che risultano favorevoli alla produzione proprio quando sono valutate in modo non più strumentale. Tutto si ridurrà a convertire la psicologia verticistica del manager? Si tratta piuttosto della nascita di una nuova comune attenzione: ciò che conta è l’approvazione di coloro che formano il “contesto” sociale. Il lettore di questo libro deve affrontare un linguaggio non difficile, ma assai mobile e vario, spesso allusivo, quasi inventato lì per lì. D’altronde, il capitalismo si presenta come una unità assai complessa: per comprenderlo si dovranno usare linguaggi diversi e accostare tra loro realtà anche disparate. In effetti, assai ampia e differenziata e sempre innovantesi è la realtà che qui si coglie in azione: la vita umana. Che nell’agire produttivo proprio essa si offra tutta intera allo sguardo è forse il messaggio ultimo del libro. Leggere Francesco Jorge Mario Bergoglio Jorge Mario Bergoglio Jorge Mario Bergoglio FRANCESCO FRANCESCO FRANCESCO il desiderio allarga il cuore LA CROCE E LA PACE CHI SONO I GESUITI Esercizi spirituali con il papa - I Esercizi spirituali con il papa - II Introduzione di Antonio Spadaro NOVITÀ € 12,90 Meditare con Francesco NOVITÀ € 12,90 Riflettere con il Papa NOVITÀ € 12,90 Il “segreto” della Compagnia di Gesù Jorge Mario Bergoglio FRANCESCO Puoi acquistare anche sul nostro sito LA BELLEZZA EDUCHERà IL MONDO INEDITO € 5,90 Educare secondo Bergoglio Dio non si stanca di perdonare INEDITO € 5,90 L’ annuncio di Francesco CHIAMA E ACQUISTA SUBITO Tel. 051 326027 Editrice Missionaria Italiana - tel. 051.326027 / fax 051.327552 - [email protected] / www.emi.it AA.VV. Dono, dunque siamo Otto buone ragioni per credere in una società più solidale UTET, Torino 2013, pp. 142, € 12 D onare, per-donare, con-donare. Diverse coniugazioni di un solo verbo, di un’unica azione, che appare oggi, in una società asservita all’utile e schiacciata dalle logiche economiche e frenetiche dell’interesse, del profitto e dello scambio, quasi sovversiva. Ma che proprio per questo risulta decisiva, perché fa saltare gli schemi e reintroduce nella grammatica incancrenita del linguaggio consumistico il concetto della gratuità e dell’assenza di garanzie, chiamando in causa la libertà di ciascuno di poter scegliere se, come e quanto “rischiare” nei rapporti con l’altro. E perché così facendo apre alla relazione, dilata la dimensione del tempo contro il vulnus della smemoratezza, promovendo la socialità, una nuova (ma sarebbe forse meglio dire primigenia) so- cialità, meno succube dei feticci dell’utile e del tornaconto immediato. È un coro a più voci ma che canta sul medesimo spartito quello degli otto autori di questo agile volume collettaneo pubblicato dalla UTET lo scorso anno: filosofi (Salvatore Natoli e Laura Boella), sociologi (Zygmunt Bauman), antropologi (Marco Aime e Marino Niola), psicanalisti (Luigi Zoja), enigmisti (Stefano Bartezzaghi), economisti (Stefano Zamagni) sono stati chiamati a dare una loro interpretazione sul tema del dono e l’hanno letto e sviscerato secondo le sue molteplici sfaccettature, interpellandosi e interpellandoci sul ruolo del dono – e dunque della gratuità pur nelle sue molteplici e talora contraddittorie declinazioni (l’amicizia, la generosità, la solidarietà, il volontariato) – nel terzo millennio. Un dono per la riflessione. Marco Ostoni Elena Parasiliti Ti chiamo per nome Storie di riconciliazioni possibili Terre di Mezzo, Milano 2013, pp. 160, € 12 L a sentenza di un giudice, di condanna o di assoluzione dell’imputato, è solo il primo passo verso il ristabilimento della giustizia violata da un presunto reato. Lo scopo della giustizia civile e penale dovrebbe essere quello di ripristinare la giusta relazione fra le parti in conflitto, ma non sempre viene raggiunto. Una vera conciliazione fra vittima e reo rientra nell’ambito della giustizia riparativa, quella che si ristabilisce quando 522 chi ha subito il torto è disponibile a concedere il suo perdono al colpevole, il quale, da parte sua, riconosce il male commesso e si dispone a ripararlo secondo le modalità concordate con la controparte. Accade spesso, invece, che la vittima voglia a tutti i costi farla pagare al reo, mentre questi non è minimamente disposto a riconoscersi colpevole; oppure si pratica un falso perdono sotto forma di oblio, rinuncia a denunciare il male subito, come se nulla fosse successo, a parte la rabbia e il desiderio di rivalsa che non vanno via. vetrina In queste situazioni c’è un’implicita negazione dell’altro, un non volerlo riconoscere nella sua personalità, cercare di annullarlo in qualche modo, farne sparire il nome. Questo libro raccoglie una serie di storie in cui, invece, il faticoso percorso della denuncia e del riconoscimento del male fino al giusto perdono è riuscito: vittima e colpevole sono arrivati a pronunciare l’uno il nome dell’altro. In appendice un elenco di Associazioni che stanno introducendo in Italia la pratica della mediazione, un percorso privilegiato per arrivare alla giustizia riparativa. Giuseppe Trotta SJ Matt Ridley Un ottimista razionale Come evolve la prosperità Codice Edizioni, Torino 2013, pp. 418, € 15,90 O ttimista e razionale. Anzi, ottimista perché razionale. Tale si definisce Matt Ridley, divulgatore scientifico americano già noto in Italia per alcuni volumi pubblicati, fra gli altri, da Instar e Adelphi. E il suo nuovo libro non a caso reca nel titolo il doppio aggettivo: perché si prefigge di dimostrare, dati alla mano, che gli scenari per il mondo non possono essere così cupi come molti “catastrofisti” (specie in una fase di prolungata crisi come l’attuale) li vogliono vedere. Lo fa partendo dal presupposto che i molteplici e straordinari miglioramenti avvenuti, pur fra molte contraddizioni, negli ultimi diecimila anni nella qualità media della vita delle persone difficilmente potranno lasciare il posto a repentini cambiamenti in negativo. Non è, quella di Ridley, una fiducia scriteriata nel progresso, ma una proiezione costruttiva sul futuro dell’umanità basata sull’analisi attenta e documentata delle trasformazioni (sociali, culturali, economiche, tecnologiche, politiche, ecc.) che hanno contraddistinto la nostra storia a partire dalla rivoluzione del Neolitico e con un’impressionante accelerazione a partire dalla Rivoluzione industriale. Ma soprattutto alla luce di una grande fiducia riposta nell’“intelligenza collettiva”, ovvero nella capacità dell’uomo di adeguarsi di volta in volta ai tempi assecondando i cambiamenti, mettendo a confronto conoscenze, studi, analisi per individuare soluzioni atte a superare problemi di approvvigionamento delle risorse, migliorare la produttività, individuare alternative a materie prime in via di esaurimento, ridurre l’inquinamento, ripensare gli stili di vita, ecc. Ridley mette sotto osservazione anche i “grandi pessimismi” emersi a partire soprattutto dalla seconda metà del ’900 (la crisi demografica, quella petrolifera, il terrore delle pandemie, il timore dell’insostenibilità della crescita economica, ecc.); in particolare punta il dito sui due più inquietanti “spettri” che volteggiano sul mondo d’oggi: il surriscaldamento del clima e la fame che in Africa tiene in scacco circa 1 miliardo di persone. E di fronte ad essi conclude con la stessa incrollabile certezza: «La domanda non è se sia possibile proseguire sulla stessa strada di adesso, perché la risposta è ovviamente negativa, ma piuttosto quale sia il modo di assecondare al meglio la corrente di cambiamento necessaria affinché cinesi, indiani e africani possano vivere agiatamente come fanno oggi gli americani» (pp. 310-311). Marco Ostoni 523 Estate giovani 2014 Attività estive dei gesuiti per i giovani e del Jesuit Social Network A nche quest’anno i gesuiti propongono ai giovani numerose attività. In particolare segnaliamo, dal 13 al 20 luglio, a Ziano Piacentino (PC) gli esercizi spirituali ignaziani tenuti da Giuseppe Riggio SJ e da Anna Maria Bucciotti. A Selva di Val Gardena, dal 6 al 17 agosto, si terrà il corso «Che società vogliamo? testimonianze e proposte», guidato dal dott. Gherardo Colombo e da Silvano Fausti SJ. Nella settimana dal 16 al 23 agosto, a San Giacomo d’Entracque (CN), la settimana biblica sul tema «Ospiti inattesi. Lo straniero nella Bibbia e nel cinema», guidata da Giancarlo Gola SJ, p. Dominik Markl SJ, Guido Bertagna SJ e Francesca Mazzini. Il Jesuit Social Network, sempre a Selva di Val Gardena, dal 26 luglio al 6 agosto, propone il percorso «Scoprirsi nelle diversità. Rileggersi a confronto con l’ingiustizia del mondo», per giovani dai 19 ai 35 anni, dove a partire dalla lettura della propria esperienza e della propria interiorità si cercherà di comprendere che temi complessi come la giustizia trovano un luogo di incontro proprio dentro di noi e sono in grado di cambiarci e di metterci in movimento. Per info e iscrizioni: [email protected], www.jsn.it, www.gesuiti-selva.it. A Reggio Calabria, Giovanni Ladiana SJ terrà il corso di esercizi spirituali ignaziani per chi opera in terre di mafia, dal titolo «“Cessi la cattiveria dei malvagi, rendi saldo il giusto, tu che scruti mente e cuore, o Dio giusto”. Essere credenti in terre di mafia». Il corso si svolgerà dal 16 al 23 giugno presso la casa di spiritualità Santa Maria Porto di Pace. Info e prenotazioni: 0965/679021. Presso la Residenza Universitaria di Campo dei Gesuiti a Venezia dal 17 al 24 agosto si terrà la quinta edizione del corso biennale «Faith and politics» per giovani europei alla ricerca di un legame tra fede e politica. Info e prenotazion su www.faithandpolitics.eu. Segnaliamo infine le varie esperienze missionarie, tra cui i campi di volontariato organizzati dalla Lega Missionaria Studenti in Romania, a Cuba e in Perù (info su www.legamissionaria.it) e quello in Benin organizzato dal MAGIS, dal 5 al 29 agosto (info su www.jsn.it). 17-19 luglio, Monastero di Siloe, Poggi del Sasso (GR) Siloe Film Festival Alla ricerca della bellezza I l Centro Culturale San Benedetto, in collaborazione con l’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali della CEI, il Progetto Culturale della CEI, la Fondazione Ente dello Spettacolo, la Fondazione Bertarelli e l’ACEC, organizza la 524 prima edizione del Siloe Film Festival, dedicato al cinema documentario e ai cortometraggi. Il Festival ha come tema per l’edizione 2014 «Alla ricerca della bellezza» e prevede un bando di concorso (www. siloefilmfestival.it – sezione Concorso) rivolto agli autori di cortometraggi a soggetto e d’animazione (durata max. 30 vetrina minuti) e di documentari (durata max. 60 minuti). «I film selezionati – spiega Fabio Sonzogni, direttore artistico del Siloe Film Festival – racconteranno del bisogno di lavare gli occhi, tornare a desiderare di sapere, tornare a guardare. Dovranno mostrare la strada che conduce alla Bel- lezza, al suo riconoscimento, a quella Luce nascosta tra le pieghe delle cose, anche tra la fatica del vivere». Termine ultimo per presentare le opere è venerdì 20 giugno 2014. I titoli selezionati per il Festival saranno poi resi noti venerdì 4 luglio 2014. Info: [email protected] 3-7 novembre, Milano 2014 International Metropolis Conference Migration. Energy for the Planet, feeding cultures I l Forum internazionale Metropolis mette in connessione buone pratiche, politiche e ricerche in materia di migrazione. Esso mira ad approfondire l’analisi dei fenomeni sociali legati alle migrazioni, a incoraggiare le ricerche sulle politiche migratorie e a facilitare l’uso dei risultati delle indagini da parte dei governi e delle organizzazioni non governative. Nei suoi 18 anni di vita il progetto è cresciuto costantemente fino a coinvolgere attualmente vari organismi internazionali, molte istituzioni e ONG provenienti da Nord America, Europa e gran parte dell’Asia. Quest’anno il Forum si terrà a Milano, in previsione dell’Expo del 2015, e porrà l’accento sul valore e sul significato delle migrazioni nei primi anni di questo secolo. Nei cinque giorni della Conferenza sono previste otto sessioni plenarie mattutine con relatori altamente qualificati, che offriranno riflessioni e spunti su alcune delle più importanti e attuali questioni migratorie quali: 1. Il fenomeno delle migrazioni forzate causate dalle tensioni e dai conflitti nel Mediterraneo; 2. Le sfide che i migranti irregolari pongono ai cittadini e ai governi dei Paesi che li accolgono, analizzando il crescente fenomeno delle sanctuary cities, città che offrono servizi pubblici ai migranti irre- golari, nonostante le restrizioni na ziona li; 3. Le politiche dell’Unione Europea per la governance delle migrazioni nei prossimi dieci anni sulla base dei cambiamenti istituzionali introdotti con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona; 4. La possibilità di accordi commerciali regionali come ASEAN, UE, NAFTA e Unione africana per favorire una cooperazione intercontinentale nella gestione delle migrazioni; 5. Migrazioni, cibo e cultura: l’alimentazione come lente attraverso cui esplorare la proliferazione delle industrie culturali e la diversità produttiva nelle città; 6. Il vantaggio competitivo della diversità: analisi delle politiche pubbliche e imprenditoriali volte ad attrarre immigrati di talento le cui competenze possono essere fonte di arricchimento per tutti; 7. Migrazione come strumento di sviluppo; 8. Il ruolo dei mezzi di comunicazione, tra cui i social media, nel guidare l’opinione pubblica in merito ai migranti, alla migrazione e alla diversità culturale. Nel pomeriggio seguiranno numerosi workshop paralleli che analizzeranno in dettaglio una vasta gamma di temi. Info e iscrizioni: www. metropolis2014.eu. 525 Appuntamenti Roma, 3 giugno Alle ore 12, presso la Camera dei Deputati, si terrà la presentazione dell’ultimo libro di Bartolomeo Sorge SJ, Gesù sorride. Milano, 8 giugno Alle ore 20,45, all’Auditorium San Fedele (via Hoepli 3/b), concerto dell’ensemble Entr’acte, composto anche da alcuni strumentisti della Scala, con musiche di Cras, Galante e Ravel. Nel corso dell’iniziativa saranno raccolti fondi per il Monastero di Deir Mar Musa, la comunità monastica fondata in Siria dal gesuita Paolo Dall’Oglio (rapito il 29 luglio 2013). L’ingresso è gratuito con offerta libera. Info: [email protected] 02.86352231 Bologna, 11 giugno L’Istituto regionale di Studi sociali e politici “Alcide De Gasperi” organizza un colloquio su «Il rinnovamento di papa Francesco». Interverrà con una sua riflessione il direttore di Aggiornamenti Sociali, Giacomo Costa SJ. Via Scipione dal Ferro 4, ore 21. 526 Roma, 18 giugno In occasione della Giornata del Rifugiato (20 giugno), presso l’Aula Magna dell’Università Gregoriana (via della Pilotta 4), alle 18 si terrà il Colloquio sulle Migrazioni dal titolo «Chi chiede asilo lo chiede a te. La vera sicurezza è l’ospitalità». Interverranno l’on. Enrico Letta, don Virginio Colmegna, Presidente della Casa della Carità di Milano, e Giovanni Lamanna SJ, Presidente del Centro Astalli. Info e prenotazioni: Fondazione Centro Astalli, 06.69925099 - [email protected] Bergamo, 20 giugno La Redazione del quotidiano on line santalessandro.org della Diocesi di Bergamo organizza il convegno «La Chiesa, i social network e Internet». Interverranno Giacomo Costa SJ, direttore di Aggiornamenti Sociali, con la relazione «La comunità cristiana e la rete: un incontro possibile» e don Antonio Sciortino, direttore di Famiglia Cristiana, con la relazione «Come abitare da credenti i social network e la rete». Conclusioni di don Alberto Carrara, direttore di santalessandro.org. Sala Piatti, via San Salvatore in Città Alta, ore 17,30-20. 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Rilettura pastorale di un rapporto delicato 454-460 461-469 PUNTI DI VISTA Giorgio Campanini Cattolici in politica: minoranza creativa nella società italiana 471-480 VOCI DEL MONDO Michele Boario – Emanuele Fantini L’Etiopia: potenzialità e contraddizioni dell’Africa emergente 482-493 Tom Greene SJ La risposta degli Stati Uniti all’immigrazione irregolare IMMAGINI Sonia Frangi Finestre 2014: Lipari 495-500 501-502 bussola bibbia aperta / Madre e figlio504-508 di Giuseppe Trotta SJ cristiani e cittadini / Papa Francesco, riformatore del mercato509-512 di Jeffrey D. Sachs tools / La Presidenza del Consiglio dell’Unione Europea 513-517 di Luca Lionello recensione / Una nuova prosperità 518-520 di Giorgio Nardone SJ vetrina / Libri, film, eventi522-526
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