la domenica DI REPUBBLICA DOMENICA 15 GIUGNO 2014 NUMERO 484 Cult La copertina. Hollywood non produce più divi Straparlando. Bernardini: “La fisica dell’anima” La poesia del mondo. L’Italia sognata da Goethe Catania. Houston. Spazio E ora ambasciatore italiano in Europa Luca Parmitano si racconta: “Sì, da grande ho fatto l’astronauta” L’uomo delle stelle SI MONETTA FI O R I ROMA dell’universo e la perfezione muta del nulla. Il Cristoforo Colombo del nuovo millennio ha il volto di Luca Parmitano, trentasette anni, siciliano. È un maggiore dell’aeronautica e lavora per l’European Space Agency. Ora è stato chiamato da Renzi per fare da ambasciatore del semestre di presidenza italiana dell’Unione Europea. Il fisico scolpito ne restituisce l’atleta, l’indole disciplinata del militare, mentre negli occhi balena l’estro imprevedibile di chi viaggia anche con la mente a distanze siderali. I suoi predecessori sono sempre rimasti dentro la navicella, lui no, è andato oltre, mettendo piede nello Spazio. Per centosessantasei giorni — dal 28 maggio all’11 novembre dello scorso anno — è rimasto in orbita, ospite della Stazione Spaziale Internazionale. Per due volte ha aperto il portellone della camera di compensazione e si è incamminato nel vuoto. Un’avventura che ora ha la consistenza del sogno e il timbro della malinconia. Perché chi ha viaggiato oltre la storia e la geografia fa fatica a tornare sulla Terra. «Ho superato un limite che è proprio dell’immaginazione. Una nuova prospettiva per cui non è stato ancora inventato il linguaggio». Che cosa intende? «Quella spaziale è una condizione inimmaginabile, che non è cresciuta con l’evoluzione umana. Le culture dell’uomo sono nate dall’osservazione, da cui poi scaturiscono un linguaggio e un pensiero. Staccarsi da Terra è un esperienza inedita, per cui fatico a trovare le parole». Che cosa l’ha spinta a lanciarsi nello Spazio? «Qualcuno l’ha chiamato il gene di Ulisse, un codice che portiamo scritto nel nostro Dna. È quella pulsione che davanti a un orizzonte ti spinge a domandarti cosa ci sia oltre. L’istinto a superare ogni confine, che è prima di tutto mentale. Fin da bambino il cielo notturno ha esercitato su di me un’attrazione inspiegabile. Una voce che mi chiama. Forse è quella che Colombo avvertiva dal mare». E che cosa ha scoperto? «Moltissimi limiti li abbiamo inventati noi. Pensi ai confini tra i vari paesi della Terra. Dallo Spazio non si vedono. Si vedono solo terre e mari. Capolavori assoluti». I limiti di cui lei parla sono il prodotto della storia. «Ma da lassù noi siamo invisibili. Ed è invisibile l’opera dell’uomo. Grandi porti, grandi aeroporti, le conquiste del progresso. Scompare tutto allo sguardo di chi vive in orbita. Però questo accade di giorno. Di notte è un’esplosione di luci, e quelle luci siamo noi». Si rovescia la prospettiva. «Completamente. L’Europa, vista dall’alto, è una cascata luminosa. La vita delle grandi capitali disegna un’ininterrotta scia luccicante. Ricompare in questo modo l’impresa umana. E nel contrasto tra ciò che è invisibile durante il giorno ed è visibile di notte ho intravisto la nostra piccolezza, ma anche la capacità di evolvere. E costruire». >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE La storia Un nuovo caso per il Doktor Alzheimer Spettacoli Scola e Milazzo graphic film per Massimo Troisi L’incontro Arto Lindsay: “Ancora non so suonare” LUCA PARMITANO, 37 ANNI. FOTO NASA È IL PRIMO ITALIANO che ha sfidato la voragine buia la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 15 GIUGNO 2014 28 La copertina. L’uomo delle stelle 1° La mia giornata nello Spazio italiano ad aver trascorso sei mesi nello Spazio > SVEGLIA NELLA STAZIONE SPAZIALE SUONA OGNI MATTINA ALLE SEI 6° italiano ad andare nello Spazio > LAVORO LA GIORNATA LAVORATIVA È DI DIECI ORE 1° astronauta dell’Esa under 40 > ATTIVITÀ FISICA OBBLIGATORIAMENTE ALMENO DUE ORE AL GIORNO > PASTI NEI GIORNI DI FESTA LASAGNE DELLO CHEF DAVIDE SCABIN Visti da lassù non siamo così male “Non c’è nessun confine, solo terre, nubi nottilucenti e mari”. Gli appunti di viaggio di Luca Parmitano > TEMPO LIBERO POCHISSIMO. DEDICATO AI LIBRI O ALLA CHITARRA >SEGUE DALLA COPERTINA S IMO N E T T A F IO R I > BLOG LA SICILIA: “MI SONO GIRATO ED ERA LÌ...” > RIPOSO SI DORME PER DIECI ORE DENTRO UN SACCO A PELO L EI COME HA COSTRUITO la sua vita da astronauta? «Mi piacerebbe dire che ho scelto, in realtà non è così. Una scelta implica una carriera, con una progressione già definita. Mentre approdare nello Spazio significa compiere un percorso, affidato a ripetuti tentativi. Posso solo dire che il mio è stato un sogno. Il sogno di dare un contributo all’esplorazione spaziale, e dunque all’evoluzione dell’uomo». Ma da Catania a Houston, qual è la strada? «I mie genitori sono insegnanti, a casa ho assorbito la passione per la lettura e dunque per l’immaginazione. Sono cresciuto con il realismo magico di García Marquez, i viaggi di Chatwin e le invenzioni fantascientifiche di Dan Simmons, il migliore nel suo genere. Dopo normalissime scuole pubbliche, mi sono diplomato all’accademia dell’Aeronautica Militare e ho cominciato a viaggiare per il mondo. Texas. Germania. Belgio. Francia. Russia. Ora Houston. Vivere in cinque paesi significa vincere lo shock dell’alterità, imparare nuove lingue, impadronirsi di mondi sconosciuti. Prima di superare il limite dello spazio, ho imparato ad abbattere frontiere mentali e culturali». Anche il suo profilo appare sfaccettato: un militare un po’ filosofo, laureato con tesi in diritto internazionale e ingegnere spaziale. «Seguire la regola non significa rinunciare all’immaginazione. Quelli del nostro corso, in SPECIALE ONLINE Oggi su www.repubblica.it l’approfondimento con tutte le immagini riprese da Luca Parmitano durante la sua missione nello Spazio Accademia, furono i primi a laurearsi in scienze politiche: una richiesta dell’Aeronautica Militare che avrei capito soltanto più tardi. Da pilota sperimentatore è stato necessario approfondire gli studi ingegneristici. Forse anche nella mia formazione ho superato rigidi confini disciplinari». Nel 2007 ricevette una medaglia per il coraggio in volo. «Si riferisce all’episodio sulla Manica? Andai a sbattere contro un enorme uccello, riportando gravissimi danni all’aereo che pilotavo. Avevo due possibilità: lanciarmi fuori o l’atterraggio d’emergenza». Lei preferì la seconda soluzione, mettendo a rischio la sua vita ma non quella degli altri. «Mi venne istintivo fare così». Ma un’avventura extraterrestre modifica anche la percezione di se stessi? la Repubblica DOMENICA 15 GIUGNO 2014 29 1° italiano ad aver passeggiato nello Spazio LA PASSEGGIATA LUCA PARMITANO DURANTE LA SUA PRIMA PASSEGGIATA SPAZIALE, IL 9 LUGLIO 2013. LA SECONDA (16 LUGLIO) VENNE INTERROTTA PER UN GUASTO TECNICO Carta d’identità NATO A: PATERNÒ (CATANIA) 27 SETTEMBRE 1976 STUDI: LICEO SCIENTIFICO (QUARTO ANNO IN CALIFORNIA CON BORSA DI STUDIO). LAUREA IN SCIENZE POLITICHE ALL’UNIVERSITÀ FEDERICO II DI NAPOLI, DIPLOMA ALL’ACCADEMIA AERONAUTICA DI POZZUOLI FOTO REDUX/CONTRASTO ADDESTRAMENTO: CON LA U.S. AIR FORCE ALLA EURO-NATO JOINT JET PILOT TRAINING (TEXAS). NEL 2007 SELEZIONATO DALL’AERONAUTICA ITALIANA COME PILOTA COLLAUDATORE. NEL 2009 SELEZIONATO DALL’ESA COME ASTRONAUTA. NEL 2011 ASSEGNATO COME INGEGNERE DI VOLO ALLA PRIMA MISSIONE DI LUNGA DURATA DELL’AGENZIA SPAZIALE ITALIANA (ASI) SULLA STAZIONE SPAZIALE INTERNAZIONALE LAVORO: MAGGIORE DELL’AERONAUTICA MILITARE E ASTRONAUTA DELL’ESA «Questa è una cosa più difficile da dire. Spesso provo un moto di nostalgia, una sorta di “mal di Spazio”, sì, un po’ come il mal d’Africa. Ti manca quella dimensione che trasforma in straordinario ogni gesto ordinario. L’assenza di peso fisico ti dà anche una leggerezza interiore. Dal centro di controllo mi dicevano che sorridevo sempre. È vero, ero felice». La prima cosa che ha visto quando è uscito a spasso nello Spazio? «Non l’ho vista, l’ho sentita. Il nulla. L’universo s’annuncia non allo sguardo, ma all’udito. Un silenzio irreale. Come se improvvisamente qualcuno spegnesse il sonoro. Tutto d’un tratto s’interrompe l’assordante scampanellìo degli strumenti che cozzano sul tuo scafandro. Continui a vedere gli oggetti che si toccano, eppure non senti più niente. Avverti solo la ventola che mette in RICONOSCIMENTI: NEL 2007 INSIGNITO DELLA MEDAGLIA D’ARGENTO AL VALORE AERONAUTICO. DAL PRIMO LUGLIO 2014 AMBASCIATORE DEL SEMESTRE DI PRESIDENZA ITALIANA DELLA UE FAMIGLIA: SPOSATO CON KHATY. HANNO DUE FIGLIE SARA (7 ANNI) E MAIA (4). VIVONO A HOUSTON PASSIONI: IMMERSIONI, SNOWBOARD, PARACADUTISMO, SOLLEVAMENTO PESI E NUOTO. LIBRI E CHITARRA circolazione l’aria dentro la tuta. È quello il suono della vita». Com’è il nero dello Spazio? «Un nero diverso da tutti gli altri. È assenza di colore, l’assoluta mancanza di luce. È come se tutto si perdesse là dentro, nel buio del vuoto». Si ha la sensazione di perdersi? «In un certo senso sì. Come se si potesse essere risucchiati da una voragine. Ma la cosa che più mi ha colpito è la sensazione di essere a mio agio. Forse perché l’avevo immaginato un’infinità di volte: questo è il mio momento, ho pensato, è qui che devo essere». E la paura? «La paura è come un rumore di fondo, nei momenti di stress c’è sempre. Però siamo abituati a conviverci, e a tradurla in un sentimento reattivo. Pensi a una stanza buia, la prima cosa che ti viene da fare è cercare la luce. Nel caso di una missione aerospaziale la luce è la conoscenza, il lungo addestramento, le centinaia di ore passate sott’acqua. In fondo la paura è uno strumento dell’evoluzione umana». Come l’ha raccontata alle sue figlie? «Ho scritto loro una lettera: il cammino non esiste finché non si fa il primo passo. Vale sempre, indipendentemente dal percorso scelto. L’importante è amare camminare». Ma durante la vita in orbita cambia il mondo emotivo e sentimentale? «Non saprei dire. Certo la distanza ti crea paradossalmente una più forte vicinanza. Staccandomi dalla Terra me ne sentivo lontano, però anche più legato all’intera umanità. Un sentimento d’amore che non conoscevo. Ho capito cosa sia il mito della “Terra Madre”. Ti viene da abbracciarla, vorresti carezzare la sabbia o farti inebriare dal vento». Quasi un rapporto erotico. «Direi fisico. In orbita non ci si può sdraiare né sprofondare. Non esiste la sabbia né il vento. Non senti i profumi. Alcune sensazioni tattili scompaiono completamente. L’assenza di queste percezioni scatena l’immaginazione». Qual è lo spettacolo più bello del mondo? «L’orizzonte terrestre, che sembra contenere la risposta a tutte le domande. Non solo la curvatura della Terra ma l’atmosfera intorno: sottile, fragile, trasparente. Là ho visto fenomeni di una bellezza indescrivibile, come le nubi “nottilucenti”: colpite dai raggi del sole diventano di un blu turchese che fatico a descrivere. Il colore della fantasia e dell’invenzione». Ha mai immaginato di incontrare un extraterrestre? «No, non è stato un mio pensiero. Certo non si può escludere che in un pianeta lontanissimo e irraggiungibile ci sia qualcosa di parallelo a ciò che noi chiamiamo vita. Ma è qualcosa che non fa parte della nostra esperienza, dunque estraneo al ciclo dell’acqua. Certo non credo agli omini verdi con le antennine». Tornato sulla Terra, cosa vede che prima non vedeva? «La perfezione delle cose. Quando ero in orbita, sorvolando il Pacifico del Sud fui ipnotizzato da una formazione di nubi straordinariamente simmetrica. Scattai una fotografia intitolandola Il cielo perfetto. In realtà si trattava di un ingenuità. Il cielo è sempre perfetto, così come sono sempre perfetti il mare o gli occhi delle mie figlie. Soltanto che non ce ne accorgiamo. E soprattutto non ce ne stupiamo più. È bellissimo lasciarsi sorprendere dalle cose». Ora il viaggio continua in Europa. «Sì, mi ha scelto Palazzo Chigi per fare da ambasciatore del semestre di presidenza italiana. Anche per questo mi sento un privilegiato». Perché l’hanno scelta? «Per raccontare la mia storia, che è quella di un italiano». Dovrebbe rappresentare l’Italia del merito, il paese che funziona. «Sì, il senso è questo. Il nostro carattere nazionale tende all’autodenigrazione. Invece esiste un “sistema Italia” che continua a esercitare fascino nel mondo. Il traguardo che ho raggiunto non è soltanto mio ma di un’intera comunità. Un paese che ha dato tanto, e molto ricevuto dall’Europa. E la ricchezza degli incroci non vale solo in ambito aerospaziale». Che cos’è la malinconia dell’astronauta? «È il sentimento di una perdita. Per sei mesi ho vissuto un’esperienza straordinaria, che ho cercato di trattenere in tutti i modi. Scrivendo e fotografando. Creando una memoria. Ma dal momento in cui ho rimesso piede sulla terra, il corpo mi ha comunicato che ero rientrato nell’ambiente normale della gravità del peso. E questa reazione naturale ha cominciato a trasformare la mia vita in orbita in un ricordo che ha la consistenza del sogno. Se chiudo gli occhi riesco a vedere perfettamente quello che ho fatto, ma è come se guardassi un’altra persona. La malinconia nasce da qui». © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica LA DOMENICA 30 DOMENICA 15 GIUGNO 2014 L’attualità. Testimoni L’ottantacinquenne Micha Bar-Am ha documentato per Magnumogni aspetto del Paese in cui si rifugiò bambino Dai primi kibbutz alla guerra del Kippur, da Eichmann alle maschere antigas nelle case di Tel Aviv. “Oggi la gente ha meno voglia di vedere.E sa una cosa? Capita anche a me” V A N N A V A N N U C C IN I IN REALTÀ NESSUNA FOTOGRAFIA HA MAI FERMATO UNA GUERRA. FORSE AI TEMPI DEL VIETNAM LE IMMAGINI DELLA TV PROVOCARONO DAVVERO UN CAMBIAMENTO DI MENTALITÀ NEGLI AMERICANI. MA ADESSO CHE DA QUALUNQUE CELLULARE PUÒARRIVARE L’IMMAGINE PIÙ SPAVENTOSA... 1 ROMA ERUSALEMME 1978, giorno dell’Indipendenza. Un prato, tovaglie da picnic stese sull’erba, bambini che fanno chiasso. In primo piano un uomo in maniche di camicia che cuoce carne sul barbecue. Un’immagine serena. Se non fosse per la pistola dentro la fondina che sta lì da una parte, quasi ai margini della fotografia. L’uomo al barbecue sicuramente in questo momento non ci pensa, ma che sa che è lì, funzionante, se ne avesse bisogno. La pace è fragile. Un’altra foto viene da Suez, 1973, ma non c’è bisogno di conoscere la data, né di sapere chi siano quei soldati arabi bendati e in catene, ammassati in una trincea, per sentirne compassione. Alcuni sono girati di spalle, piegati su se stessi, per il dolore delle ferite forse, o per nascondere l’umiliazione di essere lì. Vicino, ci sono soldati israeliani rilassati e indifferenti che si godono il trionfo. La guerra di Jom Kippur, che era cominciata con una vittoria a sorpresa degli egiziani, è finita con la loro sconfitta totale. Le ombre dei militari israeliani si allungano sulla trincea, tra loro anche quella del fotografo, si vede la silhouette della macchina fotografica. Qualcosa ci fa sentire che anche questi soldati sono perduti. Micha Bar-Am è il fotografo d’Israele più significativo, e conosciuto. «C’è stato un tempo — racconta per dire di quanto ancorché centrale fosse piccolo quel mondo — in cui io conoscevo metà della popolazione d’Israele, e l’altra metà conosceva me». Fotografo della Magnum, le sue foto sono comparse sulle copertine dei giornali G Riflette per un momento, guarda la moglie. «È molto difficile dirlo. Di recente a Los Angeles hanno aperto il museo dell’ebraismo americano, e quando si sono accorti che dovevano dire qualcosa su Israele mi hanno chiesto dieci foto che dessero un’idea di che cosa è Israele oggi. Però, si sono raccomandati, niente foto di soldati, né di arabi...». «Né di ultraortodossi» continua la moglie. «Non volevano temi conflittuali». Così, alla fine, insieme a un amico pittore Micha ha fatto un pastiche di tante foto insieme, per rappresentare la complessità. «Perché io critico il mio paese, non sono certo uno che lo vuole difendere dalle critiche, ma mi sta a cuore che non si perda la speranza». Non gli piace la categorizzazione di fotografo di guerra. Le sue foto narrano delle storie, storie di tutti i giorni, che nel suo paese si sa possono essere drammatiche. Racconta tutto quello che fa parte del ciclo della vita, e in Israele la guerra ne ha fatto parte finora, «ogni decina d’anni più o meno». Per parecchio tempo ha fotografato la vita miserabile delle famiglie di un villaggio arabo, un suo privato contributo alla pace. Arrivò in Israele bambino. I genitori, sionisti convinti, lasciarono Berlino nel ‘36. Riconoscerebbero Israele oggi? «Sicuramente no. Non potrebbero uscire dal loro sogno. Per la generazione mia e di mia moglie è diverso, ci siamo abituati al cambiamento». Visivamente, il cambiamento che colpisce di più è quel muro, che per gli israeliani è un baluardo contro il terrorismo ma per i palestinesi un mostro che rende la vita impossibile. Lo ha fotografato? «Il muro è un compromesso», sospira. «È il realismo della vita che lo ha creato. Orribile a vedersi, e causa di sofferenze per i palestinesi. Ma ha fermato gli attentati, perciò lo accetto». Un cambiamento altrettanto vistoso che mi ha colpito visitando Israele, gli dico, è la decisione collettiva degli israeliani di non vedere, di non guardare, di non avere nulla a che fare con quello che succede in Palestina. Per gli ebrei israeliani, forse anche perché non possono più andare nei Territori occupati come facevano fino a qualche anno fa, i palestinesi è come se vivessero su un altro pianeta invece che a qualche decina di chilometri di distanza dalle loro case. Come fotografo, questa cecità deliberata la percepisce? «Sto preparando una mostra che avrà esattamente questo titolo: Cecità. E non è solo in omaggio al mio amico Saramago. Ma bisogna prendere atto: non voler vedere a volte è un modo per preservare la propria sanità mentale. Non vogliamo vedere per paura che la nostra mente scoppi. È escapismo, non c’è dubbio. Io stesso mi accorgo di non essere più avido di guardare com’ero un tempo. Oggi molte foto che ho fatto forse non le farei. E la ragione è che non c’è una soluzione alla complessità. Questo vale per tutto il mondo, non solo per Israele, vale per la carestia nel Sudan come per il Bengala. Quando una soluzione razionale non s’intravede, uno volta le spalle al problema, evita di guardarlo». E quando correva grossi rischi per prendere quella determinata foto che avrebbe fatto il giro del mondo, era spinto dall’idea che quella foto avrebbe potuto influenzare le persone, aiutare a far cessare una guerra? «Nessuna foto, nemmeno della situazione più orribile, ha mai fermato una guerra. La Siria oggi è un esempio lampante. Forse al tempo della guerra nel Vietnam le immagini che arrivavano sugli schermi televisivi hanno provocato un cambiamento di mentalità negli americani. Ma oggi, quando da ogni telefono cellulare possono arrivare immagini spaventose, la maggioranza della gente pensa solo a evitarle. Ognuno cerca i propri alibi. C’è chi s’interessa solo al macello degli animali. C’è anche chi continua a preoccuparsi del massacro degli uomini. Ma in generale la tendenza è all’escapismo. E una foto non la cambierà». Tace per un momento, poi sorride: «Forse intacca qualcosa, ecco. Vede? Voglio mantenere sempre una piccola porzione di speranza». Una delle sue foto famose è quella di Eichmann, nella sua gabbia di vetro, durante il processo, 1961. «È passato tanto tempo, ma quel momento non l’ho mai dimenticato. Era la prima volta che si parlava dell’Olocausto, prima di allora i sopravvissuti non avevano mai raccontato in pubblico gli orrori che avevano vissuto. Dopo la drammatica requisitoria del procuratore Hausner, alla sua domanda che cosa avesse da dire sulle accuse, Eichmann rispose: Im Sinne der Anklage nicht schuldig. Innocente. Ebbi un colpo a cuore». Allora si era riusciti per la prima volta a parlare dell’Olocausto, oggi non le sembra che venga usato dai politici spesso per alimentare la paura? «L’uso politico dell’Olocausto è odioso. Ma io capisco anche l’ansia, e la preoccupazione, e la paura che si ripeta». 4 Sessant’anni nella vita degli israeliani L’AUTORE FOTO RELI AVRAHAMIRI MICHA BAR-AM (FOTO) È STATO OSPITE DELLE “GIORNATE DI STUDIO SULL’IMMAGINAZIONE DOCUMENTARIA” A CURA DI MAURIZIO G. DE BONIS E ORITH YOUDOVICH PER “PUNTO DI SVISTA” ALL’INTERNO DEL FESTIVAL “FOTOLEGGENDO” IN CORSO A ROMA (FOTOLEGGENDO.IT) più famosi del pianeta. Per sessant’anni ha accompagnato con la sua camera le speranze, i dolori e gli errori del suo paese. Fotografie indimenticabili che colgono la realtà di un momento ma istantaneamente t’illuminano sul contesto. Sembrano prese per caso, ma hanno una forza simbolica e una verità storica incredibili. Micha Bar-Am è a Roma per parlare del futuro della fotografia alla decima edizione di Fotoleggendo. Non è molto d’accordo che si parli di “giornate di studio sull’immagine documentaria”. La fotografia documenta sempre qualcosa, dice, perché c’è sempre qualcosa di fronte alla camera. Ma il mistero della fotografia è quel qualcosa in più che l’obbiettivo riesce a catturare e che è quasi una magia. Qualcosa che non si può imparare ma solo sviluppare; come uno scrittore che non solo scrive ma riesce a dare senso alle parole. «La fotografia assomiglia alla poesia», dice. Ha ottantacinque anni ma l’energia di un giovane. Come la moglie Orna che lo accompagna, bel viso incorniciato da un cespuglio di ricci grigi e occhi vivacissimi. Insieme si dedicano da qualche tempo nella loro casa di Tel Aviv ad archiviare e digitalizzare l’immenso materiale fotografico accumulato in tutti questi anni. E litigano. Perché lui vuole conservare solo le opere migliori mentre lei vuol conservare tutto perché, sostiene, già oggi noi vediamo le foto di quarant’anni fa con altri occhi. Come possiamo decidere ora che cosa sarà importante tra quarant’anni? Ci sono foto che col tempo cambiano di significato. E oggi, che cosa fotograferebbe Micha per rappresentare Israele com’è adesso? © RIPRODUZIONE RISERVATA 6 9 la Repubblica DOMENICA 15 GIUGNO 2014 2 31 3 1. PRIMI PASSI 1958, DIMONA. ISRAELE HA SOLO DIECI ANNI. PIÙ O MENO COME I BAMBINI NELLA FOTO INTITOLATA “FERMATA DELL’AUTOBUS” 2. PROCESSO 1961, GERUSALEMME. UNO DEGLI SCATTI PIÙ FAMOSI DI BAR-AM È QUELLO AD ADOLF EICHMANN DURANTE IL PROCESSO 3. RIFUGIATI 1969, STRISCIA DI GAZA. UNA DONNA ANZIANA (E SULLO SFONDO UN SOLDATO ISRAELIANO) NEL CAMPO PER RIFUGIATI DI DEIR-AL-BALAH 4. PRIGIONIERI 1969, STRISCIA DI GAZA, “RADUNO”: UN ELICOTTERO, UNA JEEP, UN SOLDATO E UOMINI A TERRA DIETRO IL FILO SPINATO 5. LEADER 1970, SINAI. IL PRIMO MINISTRO GOLDA MEIR E IL CAPO DI STATO MAGGIORE ISRAELIANO SU UN ELICOTTERO MILITARE 7 5 8 6. PACE 1974, CANALE DI SUEZ. SEDIE VUOTE INTORNO AL FUOCO: “L’ULTIMA MATTINA DELLA GUERRA DEL KIPPUR” 7. A CASA 1976, AEROPORTO DI TEL AVIV. “OSTAGGI DEL DIROTTAMENTO AEREO DI RITORNO DA ENTEBBE” 8. GUERRA 1982, BEIRUT. SCATTA “L’OPERAZIONE PACE IN GALILEA”, L’ESERCITO ISRAELIANO ENTRA A BEIRUT OVEST 1991. “OPERAZIONE SALOMONE”. “EBREI IN PARTENZA DALL’ETIOPIA, PONTE AEREO PER ISRAELE” 10. IN FAMIGLIA 1991, RAMAT GAN. “RITRATTO DI FAMIGLIA CON GATTO”. LA FAMIGLIA È QUELLA DI MICHA BAR -AM DURANTE LA GUERRA DEL GOLFO 10 FOTO MICHA BAR-AM/MAGNUM 9. PARTENZE la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 15 GIUGNO 2014 32 L’anniversario. 14 giugno 1864 “Signora Auguste, lei è sposata?”, “Non lo so” Centocinquant’anni fa nasceva il medico che s’imbatté nella paziente zerodi un male che oggi colpisce cinquanta milioni di persone VITTORIO ZUCCONI A SIGNORA ALZÒ LO SGUARDO DAL PIATTO DI VERZA E MAIALE E sorrise timida, come i pazienti in ospedale sorridono ai medici, all’uomo accanto al letto. Come si chiama, signora: «Auguste». È sposata? «Non so». Come si chiama suo marito? «Auguste». Che cosa sta mangiando? «Patate e spinaci». Oh mio Dio, mormorò l’uomo accanto al letto. Nel suo camice bianco, gli occhiali pince-nez stretti sul naso sopra gli obbligatori baffoni alla Kaiser Wilhelm, annotava furiosamente scuotendo la testa incredulo. Auguste Deter, la signora, lo guardava domandandosi chi fosse quel distinto uomo rotondetto, insistente e noioso che in quei giorni del 1901 la tormentava con domande impossibili in una corsia dell’ospedale psichiatrico di Francoforte. Lei non sapeva, povera donna confusa, che il nome di quel medico sarebbe riecheggiato da allora come il rintocco di una condanna spietata: Alzheimer. Doktor Aloysius “Alois” Alzheimer. Auguste Deter, anni cinquantuno, sposata con un ferroviere dell’Assia, sarebbe stata la “paziente zero” della sindrome di Alzheimer, la prima persona ufficialmente diagnosticata con quel male e con il nome di uno, ma non il solo, psichiatra o neurologo che l’avesse identificata come una patologia diversa dalla demenza senile. Nell’istituto cittadino per disturbi mentali e nervosi di Francoforte, dal nome teutonicamente inquietante di Städtische Heilanstalt für Irre und Epileptische, dove il marito disperato l’aveva condotta per mano, nessuno dei medici aveva mai visto un caso simile. Una donna ancora giovane, incapace di identificare e ricordare che cosa stesse mangiando, che alla richiesta di scrivere “donna” scriveva “penna”, e che vagava per ore nei corridoi del lugubre asilo aggrappata a una coperta. Fu il luminare e barone delle ancora giovani specialità di psichiatria e neurologia, il professore, naturalmente tedesco, Emil Kraepelin, a battezzare in una relazione a un congresso del 1906 con il nome di Alzheimer quella condizione che il giovane collega aveva studiato con intensità maniacale, fumando casse di sigari, e illustrato in un agile trattatello di ben sette volumi. Alois avrebbe riconosciuto segni visibili di degenerazione nel cervello di Auguste, esaminato e frugato al microscopio per giorni e mesi dopo la sua morte con le nuove tecniche di contrasto all’argento. Molti altri, fra i quali due psichiatri italiani, erano arrivati vicini alla stessa conclusione, che quella manifestata dalla signora fosse una sindrome fino ad allora non identificata. Ma fu il nome di Alzheimer a restare per sempre. E a diventare, tragica ironia, indimenticabile. Era nato esattamente un secolo e mezzo fa, Alzheimer, il 14 giugno del 1864, in un villaggio della Baviera chiamato Marktbreit. A ventitré anni appena, Aloysius, figlio di piccoli commercianti, aveva già frequentato alcune delle più auguste università della neonata Germania unificata, Berlino, Tubinga, Würzburg, e acquisito un dottorato in medicina con un’ampia dissertazione sul cerume dell’orecchio, porticina laterale che lo aveva condotto alla sua passione: il cervello. Ma con un comandamento spirituale e privato inculcato dalla madre, quando gli aveva detto: è dovere dei più forti assistere e aiutare i più deboli. Nessuno come quella povera donna, Auguste, dovette apparirgli più debole, più bisognosa di un aiuto che lui, lo scienziato, lo studioso, il medico illustre, non poteva dare. Fu per lui il primo incontro con questo male di speciale, unica efferatezza, nella sua diabolica abilità di distruggere la sostanza e l’anima della personalità umana: la memoria. Non fu neppure casuale che il paziente zero fosse stata una paziente, perché il male colpisce più femmine che maschi, e affligge le donne due volte, una prima come malate e una seconda come assistenti delle vittime, visto che, almeno negli Stati Uniti ma verosimilmente in tutti i circa cinquanta milioni di casi registrati nel mondo, sono per due terzi donne coloro che si prendono cura del malato. In istituti, nelle propria case, in ville sontuose, come L L’indimenticabile quella “mansion” di Bel Air, sulle colline di Los Angeles, dove Nancy Reagan accompagnò il marito perquindici anni nel viaggio verso la notte, fra l’addio alla Casa Bianca nel 1989 e la scomparsa nel 2004. Come accadde nella vicenda dell’Aids, divenuto un incubo globale quando cominciarono a soccomberne celebrità, così sono stati i famosi a costruire per il grande pubblico le dimensioni strazianti della sindrome. Reagan, che ne mostrava i sintomi ancora in carica, s’incantava per ore a rigirarsi fra le dita un modellino della Casa Bianca confessando alla moglie di non riuscire a ricordare che cosa fosse quell’edificio dove aveva trascorso otto anni. Mentre nella notte, sorvegliato dagli agenti del Servizio segreto preoccupati che non piombasse nella piscina, rastrellava in vestaglia e pigiama le AVEVA ACQUISITO DA GIOVANE IL DOTTORATO CON UN’AMPIA DISSERTAZIONE SUL CERUME DELLE ORECCHIE, LA PORTICINA PER ESPLORARE IL SUO VERO OBIETTIVO: IL CERVELLO. MORÌ A SOLI CINQUANTUNO ANNI DI SETTICEMIA foglie secche dal grande giardino. Alzheimer non ha risparmiato le bellissime, come Rita Hayworth. I duri con il fucile in pugno, come Charlton Heston. Gli attori celebri come Peter Falk, che verso la fine della propria vita confessò di non ricordare chi fosse quel fottuto Tenente Colombo del quale sentiva tanto parlare. Costa duecentoventi miliardi di dollari all’anno, secondo l’Associazione Alzheimer, soltanto negli Stati Uniti, facendone, insieme con l’autismo, una delle condizioni patologiche più costose e destinate ad aumentare il proprio peso con l’invecchiamento della popolazione. Senza per ora prospettiva di terapie efficaci, nonostante alcuni nuovi farmaci di modesto effetto ritardante. E anche se proprio in questi giorni grandi università negli Usa, in Canada e Australia stanno reclutando volontari per sperimentare una molecola che, ipoteticamente, avrebbe potere preventivo. Non mancano neppure gli autori che denunciano l’inevitabile complotto medico-farmaceutico, arrivando a parlare del Mito dell’Alzheimer come un libro che ha fatto immediatamente polemica. C’è chi rimprovera alla cultura medica ufficiale di volere a ogni costo definire come una patologia l’inevitabile invecchiamento anche del cervello, dimenticando il monito di Terenzio Afro, che avvertiva, diciassette secoli or sono, che senectus ipsa est morbus, la vecchiaia è di per sé una malattia. Ma chi vive ogni giorno la realtà, poco si cura delle inevitabili diatribe attorno a una condizione ancora senza una causa determinata e una spiegazione riconosciuta. E nella nebbia delle ipotesi, nell’impotenza della medicina, nello struggimento di chi la Repubblica DOMENICA 15 GIUGNO 2014 33 Io e nonna, i giorni d’autunno in cui eravamo due dodicenni S T E FAN ME RRI LL BLO CK A COLONNA SONORA DI QUELL’AUTUNNO, quando avevo dodici anni, erano le canzoni del Re leone, un cd che Nana infilava nello stereo del salotto e io mettevo a ripetizione. Anche quando i miei genitori abbassavano il volume a zero, alla millesima replica di Hakuna Matata, la musica continuava a risuonare nelle nostre teste. Spesso e volentieri, la sera a cena, o in macchina mentre andavamo al centro commerciale, mi mettevo a cantare a squarciagola una versione storpiata dei primi versi in zulù di The Circle of Life, e Nana si inseriva con perfetto tempismo: «From the day we arrive in the planet…». «Oddio, ricominciano!», si lamentava divertita mia madre mentre io e Nana, come due fratelli in pestifera intesa, ci producevamo in terrificanti acuti. Era così che vedevo Nana nel 1994, più una sorella che una nonna. Un paio d’estati prima, un medico aveva diagnosticato a Nana un “probabile” morbo di Alzheimer. Ma con una storia familiare come la nostra, in cui ogni generazione aveva concluso i suoi giorni bofonchiando in un groviglio eloquente di ammassi neurofibrillari e placche amiloidi, l’aggettivo “probabile” era decisamente ridondante. Mia nonna era partita già da tempo per un viaggio che gli scienziati chiamano retrogenesi, un ritorno alla nascita. Mentre il mio cervello di preadolescente si sviluppava, il suo regrediva, e ci fu un momento di equilibrio in cui si incrociarono, procedendo in direzioni opposte. Nel 1994 eravamo tutti e due mentalmente dei dodicenni, mentre ci esibivamo in un raccapricciante duetto sugli ampollosi versi di Tim Rice: «Till we find our place/ on the path unwinding…». Ma con il passare dei mesi, le nostre strade imboccarono percorsi divergenti: io avanzavo, Nana indietreggiava. Un pomeriggio d’inverno, quando mia madre era uscita per comprare qualcosa al negozio di alimentari, Nana fu presa dal panico, e in preda a una crisi isterica uscì di casa correndo. Con le mie braccia esili feci del mio meglio per trattenerla, ma alla fine la dovetti placcare. «Dove stavi andando?», le chiesi sulla soglia di casa. «Non ricordo», mi disse. Cresciuto nelle praterie del Texas studiando a casa, ero un ragazzino solitario e amante della lettura, e leggevo e scrivevo allora per la stessa ragione di oggi: soggiornare nella vita mentale degli altri. Ma fu l’Alzheimer di Nana che trasformò quel desiderio in un impulso irrefrenabile. Dove stavi andando? Nemmeno Nana era in grado di spiegare che cosa stava pensando solo pochi istanti prima: entrare in quello spazio mentale estraneo e solitario richiedeva, era evidente, uno sforzo di immaginazione. Nei quindici anni successivi, quei primi tentativi di capire Nana si svilupparono fino a sfociare nel mio primo romanzo, Io non ricordo. In quegli anni, leggendo libri di narrativa per trovare conforto, mi accorsi che l’Alzheimer era un argomento su cui la letteratura era stranamente silente. Qualche straordinaria eccezione c’è, naturalmente: mi vengono in mente il meraviglioso racconto di Alice Munro intitolato L’orso attraversò la montagna, lo straziante thriller di Alice LaPlante intitolato Non ricordo se ho ucciso, e il pionieristico racconto epico di Matthew Thomas intitolato We Are Not Ourselves (in Italia lo pubblicherà Neri Pozza nella primavera del 2015). Ma considerando che l’Alzheimer è diventato una crisi sanitaria di vasta portata, mi domando spesso perché la narrativa non produca di più, in quantità e qualità, su un’epidemia che richiede, come nessun’altra, un’immaginazione letteraria. Dove stavi andando? Otto mesi dopo, Nana si svegliò nell’oscurità profonda di una notte di settembre, uscì dalla sua stanza (per andare dove? e perché?), aprì la porta sbagliata, mise il piede in fallo e cadde per le scale della cantina uccidendosi. Ma molto prima di quella caduta reale, Nana era già caduta nello stesso luogo oscuro delle generazioni prima di lei e delle generazioni che seguiranno, l’oscurità inconoscibile in fondo al cerchio della vita della mia famiglia. Dove stavi andando? Nana non era in grado di spiegarlo. Tutto quello che abbiamo, per illuminarci la strada, sono le storie che raccontiamo. (Traduzione di Fabio Galimberti) Stefan Merril Block ha scritto Io non ricordo (2008) e La tempesta alla porta (2011) in Italia pubblicati da Neri Pozza L Dr. Alzheimer deve amare e assistere coloro che vede scivolare via dalle mani verso il vuoto come nei sogni brutti, la paura scatenata dal nome del dottore con i baffi da Kaiser si gonfia. «Attenti — avverte uno specialista americano — non cadete nel panico. Dimenticare il nome di un amico è senilità, dimenticare il nome del marito è Alzheimer». Come lo dimenticava Auguste, aggrappata alla sua coperta. Herr Doktor Aloysius “Alois” Alzheimer non conobbe il morso del male al quale aveva dato il proprio none. Morì per una setticemia fulminante, accasciandosi mentre viaggiava in treno verso i suoi microscopi che imbrattava con le cenere del sigaro eternamente fra le labbra. Aveva cinquantuno anni. La stessa età della signora che lo guardava senza ricordare. © RIPRODUZIONE RISERVATA LUI E LEI NELLA FOTO GRANDE, IL DOTTOR ALOYSIUS ALZHEIMER (IL PRIMO SEDUTO DA SINISTRA) CON IL SUO STAFF DELL’OSPEDALE PSICHIATRICO DI FRANCOFORTE. QUI A LATO, LA PAZIENTE ZERO AUGUSTE DETER © RIPRODUZIONE RISERVATA LA DOMENICA UN DRAGO A FORMA DI NUVOLA la Repubblica DOMENICA 15 GIUGNO 2014 34 Spettacoli. Mai visti regia ETTORE SCOLA illustrazioni IVO MILAZZO con GERARD DEPARDIEU MARIE GILLAIN MASSIMO TROISI NASTASSJA KINSKI direttore della fotografia LUCIANO TOVOLI musiche ARMANDO TROVAJOLI Fece saltare tutto a pochi giorni dal ciak Ora quella storia è diventata una graphic novel disegnata dal papà di Ken Parker e con Massimo Troisi “Gli sarebbe piaciuto stare di nuovo insieme sul set Eccolo accontentato” Scola il mio ultimo film è un fumetto la Repubblica DOMENICA 15 GIUGNO 2014 35 SOPRALLUOGHI FINITI, ERAVAMO PRONTI PER LE RIPRESE. A PARIGI, SULL’ILE SAINT-LOUIS, AVEVO INDIVIDUATO UNA BELLISSIMA LIBRERIA IN CUI GIRARE, RIPARATA, DIFESA DAL RESTO DELLA CITTÀ A NGELO CAROTE N U TO ROMA TTORE SCOLA dice che il cinema è uno stato d’animo. «Si fa quando E lo senti dentro di te». Il suo ultimo film non solo si vede, ma si tocca, è sulla sua scrivania, girato con acquerelli, senza pellicola. L’industria del cinema vola verso le stregonerie immateriali del digitale, lui ne porta la magia su carta, altro fascino decadente. Era un film perduto, cancellato, e adesso esce in un albo. Dieci anni fa Scola aveva deciso di rinunciare. «Il mercoledì saremmo partiti con le riprese, era tutto pronto, sopralluoghi finiti a Parigi, set fissato a Ile Saint-Louis, avevo individuato una bellissima libreria antica in cui girare, riparata, difesa dal resto della città». Produzione Medusa. Poi Scola va al festival di Setubal e annuncia che basta, non se ne fa niente, dice che è tutto rinviato fino al giorno in cui Berlusconi non sarà più a capo del governo. «Era successo che un deputato di Forza Italia, ex Pci, Ferdinando Adornato, alla Camera aveva citato il mio nome come esempio del liberalismo e della magnanimità di Berlusconi. “Pensate”, disse, “produce finanche un film di Scola...”». Erano gli anni della battaglia politica sulla legge Gasparri. Sottotema: la libertà dell’artista nell’era Berlusconi. «Non sono un regista bizzoso, sapevo bene che il produttore era lui, l’accordo era stato firmato un anno prima. Ma non volevo andare sul set e lavorare grazie alla larghezza di idee di chi mi “concedeva” un film, non è amore per l’arte. Insomma, con quelle premesse non mi andava più». Questa è la storia del film mai nato. Solo che adesso il film c’è. L’ha disegnato Ivo Milazzo, il fumettista papà di Ken Parker, al braio nel mio film non glielo affiderei». Perquale un giorno arriva per caso la sceneg- ché un attore di Scola è uno specchio di espegiatura di Un drago a forma di nuvola. «L’ho rienze. «Manfredi, Gassman, Mastroianni, letta», ricorda, «e mi sono commosso. Ho di- Sordi, Tognazzi: mi piaceva vederli anche segnato dalla prima all’ultima tavola secon- fuori dal set, privatamente, frequentarli, codo il mio modo di illustrare, ma fedele al mon- noscerne le idee, l’istinto, le preferenze. Prido immaginato da Ettore. All’inizio era per- ma di lavorare insieme dovevo sapere cosa plesso, immaginava il fumetto come un luo- leggessero, cosa pensassero dell’amore, delgo di avventure e di movimento, mentre qui l’amicizia, in modo che il ruolo da interprec’è una trama intima. Ma le storie che mi af- tare si potesse inserire bene dentro il loro fascinano di più sono proprio quelle calate mondo. Un attore deve avere una natura vinel mondo reale, quelle che arrivano dalla vi- cina al personaggio che gli affido». La figlia ta di tutti i giorni». Il film, o il fumetto («chia- del libraio è Nastassja Kinski, ma la sorpresa miamola storia» risolve Scola), racconta le dell’albo sta in un piccolo ruolo, un barista giornate di un libraio che si dedica ai volumi italiano che ha occhi, riccioli e pose di Massiantichi e alla figlia, paralizzata e priva della mo Troisi. Milazzo si augura che «la sua faparola dopo un incidente in triciclo da bam- miglia ne sia rallegrata». A vent’anni dalla morte, Scola parla di lui bina. «La sua missione è offrirle avventure e viaggi attraverso la lettura dei libri». Un film scegliendo con premura le parole, profondo, assorto. C’è una foto di Troisi semi nascosta, sulla cura e sulla rinuncia. Milazzo ha disegnato i personaggi della con pudore, su uno degli scaffali della maestoria ispirandosi agli attori che aveva scel- stosa libreria di casa, un palazzotto riparato to Scola per la pellicola mai girata. Marie Gil- dal sole nel cuore dei Parioli, il tavolo da ping lain è la giovane cliente che inizierà a fre- pong nel patio. Nello studio alloggiano gli inquentare la libreria, invaghita del suo tito- finiti amori di Scola, i romanzi francesi allare. Spiega Scola: «Con lei avevo già fatto La l’ingresso, su un tavolino un volume su Orcena, in cui si innamorava di un professore, son Welles. E poi la foto di Troisi. «Con lui è Giancarlo Giannini, il quale per sottrarsi co- stato un colpo di fulmine. Mi piaceva quel mincia a distruggere l’immagine ideale che suo lato intellettuale che emergeva dietro la ragazza si era fatta di lui». Il libraio è Ge- l’apparente afasia. Non tutti sanno che rard Depardieu, trasferito su carta con una Massimo era uno studioso della questione fedeltà assoluta. «Lo avevo appena diretto in meridionale, dei rapporti fra il sud e il resto Concorrenza sleale. Ne avevo apprezzato la d’Italia. Non impazziva per il mestiere delfinezza psicologica. Poi, come nel film il per- la regia, lavorando con me sentiva comsonaggio di Giannini, anche lui nella realtà presa e accettata questa sua pigrizia. Dopo si è impegnato molto per distruggere la sua Splendor mi disse “facciamone un altro inimmagine: mi riferisco alla storia sulle tasse sieme, poi un altro, poi un altro...”». Quando e la Russia. Non era così, Depardieu, quando nasce il progetto di Un drago a forma di nul’ho conosciuto. Ecco, forse oggi il ruolo da li- vola, Troisi già non c’è più. «Forse la parte al cinema l’avrei affidata a Silvio Orlando. Ma in quel ruolo volevo un altro Troisi, era lui l’archetipo. Non ce ne sono molti di Troisi, nel mondo. Massimo aveva questa eleganza inglese presente in alcuni napoletani, rideva molto quando gli dicevo che mi ricordava Hugh Griffith (premio Oscar come attore non protagonista nel ’60 per lo sceicco di Ben Hur, ndr). Una generazione è cresciuta avendo Massimo come modello, con il desiderio di parlare come lui, di pensare come lui. Sono sicuro che durante le riprese avrei pensato a Massimo. E adesso che lo vedo lì, disegnato, dentro la storia, penso che sì, queSU RTV E LAEFFE sto è proprio il nostro quarto film insieme». La colonna sonora sarebbe stata di ArLUNEDÌ IN RNEWS (ORE 13.45 E 19.45, mando Trovajoli, costola musicale di Ettore CANALE 50 DEL DIGITALE Scola. La fotografia di Luciano Tovoli. «È staE 139 DI SKY) IL REGISTA to incredibile», racconta il regista, «ritrovaETTORE SCOLA re nel lavoro di Ivo Milazzo i suoni, le luci, gli SI RACCONTA IN VIDEO umori che pensavo di mettere nel film. Ha di- CON MASSIMO FU UN COLPO DI FULMINE: AVEVA L’ELEGANZA INGLESE DI CERTI NAPOLETANI E SAPEVA CHE AVREI ACCETTATO SEMPRE LA SUA PIGRIZIA. QUESTA LA RITENGO LA NOSTRA QUARTA VOLTA ASSIEME DEPARDIEU OGGI NON LO RIVORREI: MI HA DELUSO, HA DISTRUTTO LA PROPRIA IMMAGINE CON QUELLA STORIA SULLE TASSE E LA CASA IN RUSSIA. A ME GLI ATTORI DEVONO PIACERE ANCHE OLTRE IL LAVORO segnato una Parigi non convenzionale. Ha illustrato in modo magnifico le visioni della ragazza, che con le nuvole ricostruisce una città e un cielo a sua misura. Un tratto da impressionista che un disegnatore giapponese non avrebbe». Un incontro fortunato. C’è sempre stato tanto cinema nelle tavole di Milazzo, a partire dal volto di Ken Parker plasmato sul Robert Redford di Corvo rosso non avrai il mio scalpo. «La mia tecnica narrativa», parla il disegnatore, «è fatta di contaminazioni. Proprio per inseguire questa mia libertà e nuovi incontri ho lasciato la produzione seriale». Così come c’è sempre stato il fumetto tra le passioni di Scola. «Forse la prima della mia vita», racconta il regista, «avrò avuto quattro o cinque anni e mi incantavo con Topolino, Paperino, l’Uomo mascherato, Mandrake. Ricordo Bibì e Bibò, Capitan Cocoricò, il professor Pier Cloruro de Lambicchi. Tentavo di ricopiarli, forse per capirli meglio. Mi è sempre piaciuto molto disegnare. Pupazzetti, caricature. Da ragazzo ne portavo al Marc’Aurelio, il bisettimanale satirico. Lì conobbi Vittorio Metz e Marcello Marchesi, prìncipi della sceneggiatura dell’epoca che mi arruolarono come “negro”, revisore anonimo dei loro copioni per Totò, Nino Taranto, Macario o Carlo Croccolo. Se ne scrivevano a decine. Ho cominciato così. Amo meno invece il cinema d’animazione: mi pare che neghi il rigore e la purezza della grafica immobile». A ottantatré anni portati come d’incanto, in un un’ora e mezza Scola si concede il gusto lento di un paio di sigarette. «Non girerò altri film, di questo ormai sono certo. Troppa fatica». Per Che strano chiamarsi Federico, il documentario dedicato a Fellini, era tra i registi candidati all’ultimo David di Donatello. Chissà se l’industria del cinema sentirà come un suo figlioletto Un drago a forma di nuvola, chissà se avrà voglia di osare, candidarlo a un premio, compiendo quella rivoluzione che Hollywood non ebbe il coraggio di vivere, negando una nomination come migliore attrice a Jessica Rabbit. E un altro film a fumetti? Scola ha lo sguardo assorto. «Ce ne sono parecchi che non ho girato. Uno si sarebbe dovuto chiamare Il badato. La storia di un avvocato napoletano, estroso, rivoluzionario, un tipo che spiazza i suoi stessi clienti. Un ruolo perfetto per Giancarlo Giannini. Quando comincia a dare segni di Alzheimer, confondendo le cause, la figlia gli mette accanto una badante, una donna straniera, ma lui si ribella a questa aggressione». Un’altra storia perfetta per il cinema su carta. © RIPRODUZIONE RISERVATA IL LIBRO. LE TAVOLE QUI PUBBLICATE SONO TRATTE DA UN DRAGO A FORMA DI NUVOLA, DI ETTORE SCOLA E IVO MILAZZO, IN LIBRERIA PER BAOPUBLISHING (104 PAGINE, 17 EURO) la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 15 GIUGNO 2014 36 Next. Spegni e riaccendi Sovraccarico Protocolli insicuri Per garantire la connessione di miliardi di dispositivi, il protocollo base di Internet è stato aggiornato da IpV4 a IpV6 ma altri protocolli (SSL, Https, BGP) sono datati o compromessi, rendendola meno sicura. 1 2 LA TOP TEN DEI RISCHI Censura Violazione privacy Per tutelare i diritti di proprietà intellettuale le aziende chiedono agli stati di obbligare gli Internet Service Provider a incastrare i downloader illegali. File-sharing e reti peer to peer sono però spesso la scusa per chiudere siti scomodi. 6 7 Se Internet fa boom ARTURO DI CORINTO NTERNET? POTREBBE COLLASSARE DA UN MOMENTO ALL’ALTRO». Sono stati in molti a predire la catastrofe ma finora si sono sbagliati tutti. Tuttavia è vero che alcune porzioni di internet possano essere isolate per un periodo più o meno lungo, ed è successo spesso. Anche venerdì scorso quando un crash di Wind ha mandato off line un quarto degli italiani. Il punto è che, in generale, la Rete è stata progettata per connettere alcune centinaia di computer, non per gestire gli zettabyte di dati odierni che ci portano in casa i milioni di video di Youtube e le chiacchiere di oltre due miliardi di utenti dei social network, motivo per cui i suoi “tubi” possono intasarsi e il traffico dati bloccarsi. Per questo ci si chiede cosa avverrà con l’internet delle cose e le smart cities, quando centinaia di milioni di dispositivi digitali saranno connessi al nostro corpo e alle nostre case. È stato stimato che nel 2020, per una popolazione di quasi 8 miliardi di persone, ci saranno oltre 50 miliardi di dispositivi connessi: 7 per ciascuno. E parliamo di stime cautelative. Domenico Laforenza, del Cnr di Pisa, tuttavia è tranquillo: «La Rete è pronta a collegarli tutti tramite IP (Internet protocol, ndr), visto che oggi il numero dei dispositivi collegabili è di circa 340 miliardi di miliardi di miliardi di miliardi (3,4 × 10 alla 38) di indirizzi. Il problema sarà piuttosto il traffico che genereranno. «Come sulle autostrade quando aumentano le auto si creano file e ingorghi, con i dati e i dispositivi digitali accadrà lo stesso. Allargare le autostrade, aggiungendo altre corsie usando fibra ottica e reti wireless di nuova generazione, diventa quindi un imperativo». Dunque il rischio di un’interruzione massiva di internet rimane. E se il sovraccarico causato dai video, dalla telefonia digitale e dal numero di utenti può essere forse gestito ingegneristicamente, lo scenario più preoccupante riguarda il sabotaggio dei cavi strategici che sul fondo del mare collegano paesi e continenti. Una rottura può isolare un’intera nazione. Fantascienza? Nel 2008 è successo. A causa dell’ancora di una nave. Si temette fosse colpa di Al Qaeda. Più concreto ancora il pericolo di una pearl harbour «I 2020 Popolazione mondiale: 8 miliardi 50 miliardi di dispositivi (7 per ciascuno) la Repubblica DOMENICA 15 GIUGNO 2014 37 Isolamento Attacco zombie Sabotaggio cavidotti Senza il sistema dei nomi di dominio i computer non sarebbero capaci di trovare gli indirizzi (Url), sul web. Compromessi, possono isolare intere regioni ed essere usati per phishing (furto di dati), spamming, o attacchi di computer zombie (botnet). Gli attacchi da negazione di servizio collassano i server internet inondandoli di richieste attraverso reti di computer zombie controllati all’insaputa dei proprietari tramite virus trojan. La rottura dei cavi transoceanici può isolare interi continenti. Ogni anno vengono riparati 80-100 cavi sottomarini. No governance 4 Discriminazione 5 ILLUSTRAZIONE DI: MARCO GORAN 3 Frontiere virtuali Come arma di ricatto verso le aziende straniere, paesi come Cina, India e Iran minacciano di non far più collegare i loro cittadini a siti stranieri innalzando muraglie virtuali. 8 9 Due giorni fa il crash di un operatore ha disconnesso un quarto degli italiani per ore. Cosa succederà quando (nel 2020) ci saranno 50 miliardi di dispositivi online? Ecco dieci buone ragioni per domandarselo digitale denunciato nel 2012 da Leon Panetta, segretario di Stato Usa, circa gli effetti della guerriglia cibernetica che gli stati combattono segretamente. Una guerriglia che punta a sfruttare le vulnerabilità generali di internet per colpire servizi essenziali. Come le falle di sicurezza nei protocolli per le transazioni sicure, il “sequestro” di server e protocolli di Rete per redigerne il traffico verso siti canaglia o la mancata manutenzione di reti e sistemi operativi (Microsoft ha smesso di aggiornare Windows XP) per intrufolarsi negli uffici statali. Il più pericoloso sarebbe l’attacco ai Root Server e ai DNS (il sistema dei nomi di dominio) con l’obiettivo di isolare anche temporaneamente intere regioni e usare i server compromessi per furti d’identità (phishing), spamming, o risvegliare botnet (rete di computer zombie) e “sdraiare” i server nemici con attacchi DDoS (denial of service, il malfunzionamento dovuto a un attacco informatico). Come ci ricorda Alessandro Berni, responsabile Ict del Centro Ricerche Nato di La Spezia, «il rischio che milioni di elettrodomestici “intelligenti” possano essere utilizzati per lanciare questi attacchi su scala globale è tutt’altro che fantascientifica. L’anno scorso sono stati usati a questo scopo router Adsl, casalinghi, smart tv e, appunto, frigoriferi “intelligenti”». Se la concentrazione di servizi cloud e l’elevata interconnessione di banche dati e centri di comando via internet protocol di dighe, oleodotti, riserve d’acqua e ferrovie, ha reso le nostre vite più vulnerabili, tuttavia il rischio maggiore per l’internet del futuro riguar- da alla fin fine scelte di carattere prettamente politico. Secondo la Open Net Initiative almeno 70 stati attuano una censura politica, sociale o ideologica della Rete. Certo, nel caso dei paesi occidentali non è censura diretta ma il risultato del tentativo di controllare chi la usa. E la famosa dottrina dei Three-strikes, la disconnessione forzata da internet per i downloader recidivi dopo il terzo avviso, è stata bloccata dalla Corte Costituzionale francese. Ma nel mondo si assiste al proliferare di leggi fotocopia che perseguono l’uso senza scopo di lucro di film, software e musica con la minaccia di chiudere i siti ospitanti anche se legali. Infine, c’è il gender gap. Negando alle donne di molti paesi l’opportunità di costruire la propria identità e cittadinanza digitali si dimezza il capitale sociale della Rete. Insomma, se i governi non riusciranno a stabilire regole comuni per la gestione della Rete, si imporrà la legge del più forte. Con il rischio, da una parte, dell’affermazione di Reti non comunicanti come minacciano Cina e Iran quando Usa e Europa chiedono il rispetto dei diritti umani, dall’altra quello della cancellazione della neutralità della Rete se le corporation riusciranno a imporre un dazio per accedere alle autostrade digitali ad alta velocità, obbligando chi non paga a viaggiare su mulattiere digitali. «Per questo», ci dice Demi Getschko, presidente del Nic.br, l’organismo che soprassiede a tutti gli indirizzi internet brasiliani, «il nostro governo ha approvato una Carta dei diritti della Rete, il Màrco Civil, affinchè nel futuro a tutti gli internauti vengano garantite parità di accesso, privacy e sicurezza». © RIPRODUZIONE RISERVATA 10 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 15 GIUGNO 2014 38 Sapori. Bontà divina IN PRINCIPIO FU L’AMBROSIA, NETTARE MISTERIOSO DALLA GRECIA DI ZEUS AL COLOSSEO, COSÌ SI NUTRIVANO GLI ABITANTI DELL’OLIMPO MA, SOPRATTUTTO, I LORO FEDELI COMUNI MORTALI 10 piatti per dieci autori L’antenato Antesignano della colatura di alici, il garum romano (a sua volta derivato dal garos, già in uso nella cucina greca del V secolo a.C.) era classificato in tre tipologie, secondo l'affioramento nella botte di fermentazione delle alici sotto sale: flos floris, liquamen e alleo Il menù Nel secondo secolo d.C., lo scrittore greco Ateneo codifica la carta delle portate: “È consuetudine dei banchetti presentare al convitato sdraiato sul divano una tavoletta contenente l'elenco dei cibi preparati, per far sapere quali pietanze servirà il cuoco” Focaccia di Enea Salsa di Catius Virgilio obbliga il protagonista dell’Eneide a soffrire la fame al punto da tale da addentare i piatti su cui sono appoggiati i cibi. Per replicarli, farina, olio, acqua e salvia tritata Due tipi di olio extravergine, nella ricetta del personaggio di Orazio: quello delicato da mixare con vino, erbe e salamoia; l’altro, robusto, da aggiungere dopo il bollore Il passato di legumi raccontato da Aristofane ne Le rane prevede un soffritto nel burro, cui aggiungere acqua. Una volta a bollore, cuocervi i piselli fin quando sono morbidissimi VIRGILIO “ENEIDE” ORAZIO “SATIRE” ARISTOFANE “LE RANE” Cipolle al cartoccio Conserva di fichi In Storia vera, Luciano di Samosata fantastica di arrivare nell’isola di Bucefali, dove gusta le cipolle cosparse di zucchero e pepe, cotte sotto la cenere La ricetta di Columella (De re rustica): frutti maturi e caldi di sole, pestati insieme a cumino, anice e sesamo. Pallottoline d’impasto avvolte in foglie di fico e fatte seccare LUCIANO DI SAMOSATA “STORIA VERA” COLUMELLA “DE RE RUSTICA” Mangiare da dio. Mitiche ricette dell’anticaRoma LICIA GRANELLO La scuola Duecento anni prima di Cristo, in Grecia servivano due anni di scuola per meritare l’appellativo di cuoco, mentre la devozione nei confronti della gastronomia trova il suo posto nell’Olimpo grazie alla dea Adefagèa “L A NINFA gli servì ogni sorta di cibi perché mangiasse e bevesse ciò di cui si cibano i mortali; poi si sedette anch’ella di fronte a Odisseo divino; le ancelle ambrosia e nettare le servirono”. Nel quinto libro dell’Odissea, Omero posiziona Calipso a un passo da Ulisse, ma non le permette di condividere lo stesso cibo offerto al naufrago affamato. La cucina degli Dèi vanta regole auree e rigidissime. Trasgressioni a parte. Un attimo Ètnos prima della definitiva esplosione dell’estate, il Mediterraneo prorompe nei desideri. Terra promessa e sogno di salvezza per i migranti, evasione vacanziera per tutti coloro che rifuggono (o non possono permettersi...) le mete esotiche, grazie al suo carico immaginifico di terre fertili e spiagge assolate, cieli nitidi e sapori intatti, ereditati da tempi lontanissimi. La cucina dell’Olimpo si spande dall’Acropoli di Atene e raggiunge le sue propaggini italiane, in un mix arcaico e goloso, che attraversa prima la civiltà greca e poi quella romana, senza soluzione di continuità, mandando in la Repubblica DOMENICA 15 GIUGNO 2014 39 Beati loro, senza metabolismo DISEGNI DI ANNALISA VARLOTTA MARINO NIOLA Dolmades Le foglie di vite e di fico ammollate sono dei contenitori profumati e millenari, in cui avvolgere pezzi di pesce o di carne insieme al riso. La cottura sotto la cenere o in pentola ATENEO “DEIPNOSOFISTI” Seppie farcite Cervo alla Ulisse Nel De re coquinaria, Apicio prescrive un ripieno di cervella, carne, uova, miele, pepe, prezzemolo, sedano e colatura di alici. Molluschi sbollentati, farciti e in padella Dura un giorno intero, il banchetto dell’Odissea La marinatura a base di pancetta, burro, erbe, aceto, vino bianco e rosso, precede la cottura in forno, in un tegame coperto APICIO “DE RE COQUINARIA” OMERO “ODISSEA” D IL LIBRO “LA CUCINA DEGLI DÈI - MITI E RICETTE DALL’ANTICA GRECIA ALLA ROMA IMPERIALE” DI ANNA FERRARI È PUBBLICATO DA BLU EDIZIONI (271 PAGINE, 14 EURO) Focaccette al miele Placenta Citati nelle pagine che Apuleio dedica alla favola di Amore e Psiche (Le metamorfosi), i dischetti di pasta lievitata, fritti e inzuppati in uno sciroppo di zucchero e miele Una miscela mirabolante di grano antico e creta, alla base del dolce piatto (plakoùnta), che Catone illustra dettagliatamente nel De agri cultura. Rifinitura con alloro e miele APULEIO “LE METAMORFOSI” CATONE “DE AGRI CULTURA” passerella i prodromi della dieta che non a caso verrà battezzata mediterranea. Duemila anni prima dell’avventura italiana del professor Ancel Keys, infatti, legumi e farine macinate e pietra, olio (extra) vergine e vini speziati, erbe di campo e formaggelle di capra già abitano le tavole tra Micene e Roma. In principio fu l’ambrosia. E nettare, miele, fumo. A leggere gli scritti del tempo, viene da pensare che oggi gli Dèi dell’Olimpo sarebbero magrissimi, tanto aerei e impalpabili risultavano i loro menù, tra bocconi misteriosi (non c’è ricetta per l’ambrosia), profumi inebrianti e meravigliose bevande. Ma gli eroi, IMMI COME MANGI e ti dirò se sei un immortale. Così la pensano gli antichi. Che attribuiscono agli Dèi un’alimentazione dell’altro mondo. Distante anni luce da quella degli umani. Questi, infatti, sono essenzialmente consumatori di cereali e legumi, carne e latte, formaggi e verdure. E soprattutto di pane, il simbolo stesso del nutrimento, al punto che il poeta Esiodo chiama la spiga di grano bios, che vuol dire vita. Mentre gli spocchiosissimi celesti seguono una dieta assolutamente choosy e veggie. Niente farinacei, e della carne solo l’odore. Quello degli animali sacrificati e affumicati che sale nell’empireo. I numi non disdegnano affatto i piaceri della tavola, ma consumano solo cibi esclusivi, di cui i terrestri devono accontentarsi di favoleggiare. Come nettare e ambrosia. Veri e propri elisir d’immortalità. L’uomo che li assaggia non conosce né vecchiaia né morte. Ma resta sospeso in una bolla di immortalità. Proprio come i celesti. Che non hanno sangue nelle vene in quanto non hanno metabolismo. Non a caso l’astuto Ulisse, che vuole tornare da Penelope e invecchiare con lei, rifiuta di assaggiare i manicaretti soprannaturali della ninfa Calipso, perché sa che non ne uscirebbe morto. Insomma a fare la differenza tra la stirpe divina e quella umana è soprattutto la dieta. E la distanza alimentare tra gli abitatori del cielo e quelli della terra diventa il modello di quella che separa i divi dalla gente comune, i nobili dai plebei, i ricchi dai poveri, i primi dagli ultimi. Non a caso i gastronomi dell’antichità come Apicio, Ateneo, Archestrato di Gela, sono attentissimi all’esclusività delle materie prime e delle preparazioni. E teste d’uovo come Platone trasformano pasticcieri del calibro di Tearione in autentiche star dei fornelli. Masterchef presi e compresi dalla loro arte. Alcuni paragonano il profumo dei loro piatti al canto delle sirene. E aggiungono che c’è un solo modo per sottrarsi all’incantesimo: usare la cera, proprio come Ulisse, ma per tapparsi il naso invece che le orecchie. E in Grecia c’è perfino la dea dei ricchi gourmet, si chiama Adefagia, da aden, sazietà, e fagein, divorare. Insomma nostra signora della degustazione. Oggi, invece, per mangiare da dio non c’è bisogno di chiamarsi Giove. Basta andare in una buona gastronomia. quelli che più di qualsiasi comune mortale possono avvicinarsi alle divinità, si nutrono in modo sostanzioso e gagliardo. Così, al di là della sequenza delle carni arrostite, che domina l’alimentazione soprattutto maschile dall’alba dell’umanità, la contaminazione tra sacro e profano passa attraverso l’olio e il vino. Nulla sembra cambiato da quando Atena vinse la sfida di nume dell’Attica, regalando ai suoi abitanti l’ulivo, mentre il rivale Poseidone aveva fatto sgorgare l’acqua dalle rocce dell’Acropoli. Un campione della cultura alimentare capace di nutrire il corpo dentro e fuori, se è vero che gli eroi si cospargono d’olio prima e dopo le fatiche fisiche, mentre con impacchi d’olio e foglie si curano ulcere, dolori muscolari, mali di testa. Ben cinque tipologie a differenziare la qualità, dal men che mediocre cibarium, fatto con gli scarti del frantoio, al caducum (da olive cadute), al maturum, su su fin al viride (il nostro “verdone”) e al setoso oleum ex albis ulivis, ottenuto da olive verde chiaro e denocciolate, riservato alla famiglia imperiale. In quanto al vino, è fortemente alcolico — Ulisse fa ubriacare Polifemo offrendoglielo puro, invece che allungato con venti parti d’acqua, come d’uso — speziato con timo e finocchio, dolcificato con il miele (caratteristica che piace agli Dèi perché lo rende simile al nettare). Se la cucina divina vi attira, sperimentate le ricette de La cucina degli Dèi, appena pubblicato dalla studiosa di mitologia Anna Ferrari per Blu Edizioni. Poi organizzate una gita in Georgia, terra madre del vino, dove i contadini ancora interrano sotto il letto le anfore per la vinificazione. Bevete con moderazione per evitare di fare la fine del Ciclope. © RIPRODUZIONE RISERVATA © RIPRODUZIONE RISERVATA la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 15 GIUGNO 2014 40 L’incontro. Altri carioca QUELLI COME CAETANO VELOSO E GILBERTO GIL IN QUEGLI ANNI ERANO DAVVERO DELLE POPSTAR. LA LORO ERA UNA MUSICA RIVOLUZIONARIA, POI VENNERO I MILITARI, GIUSTO MEZZO SECOLO FA... Cresciuto in una sperduta cittadina brasiliana, negli anni Settanta si ritrova catapultato a New York. E tra un Brian Eno, un Jim Jarmush e un Basquiat diventa protagonista della scena no wave: “Volevamo e credevamo di suonare del rock e invece ci prendevano per punk”. Poi, dopo che “non solo il Lower East Side ma persino pezzi di Brooklyn sono diventati un brand”, è ritornato a casa. E oggi, a sessantun’anni, ancora sinceramente “convinto di non saper suonare la chitarra”e con in valigia il suo nuovo raffinatissimo mix di pop sperimentale e sonorità tropicabrasiliano dell’adolescenza fino a reinventarsi produttore di quelli che erano i suoi idoli di gioventù: a lui si deve il suono contaminato di Estrangeiro, uno degli album più celebrati di Caetano Veloso, nonché la riscoperta di un outli, si gode i Mondiali: “Sto con chi stati sider come Tom Zé. Lindsay ricorda come in quegli anni «Veloso e i tropicalisti erano vere e proprie popstar. Li vedevi alla televisione, li sentivi alla radio, estremamente popolari e anche coraggiosi, perché per l’epoca quella protesta, ci mancherebbe, ma erano era una musica nuova, rivoluzionaria. Fu un momento molto bello, ma anche molto, molto breve: la dittatura militare si stava via via inasprendo, il clima si pesante, e nel 1969 Veloso e Gil vennero arrestati. Alla fine se ne scappasono anche un tifoso sfegatato. fece rono a Londra. Proprio lo scorso 31 marzo ricorrevano i cinquant’anni dal colpo di Stato. In Brasile se ne è parlato molto perché quella della dittatura rimauna questione aperta: come è potuto accadere? perché non ci fu una reaIn pratica sono due volte male- nezione? Sono domande ancora molto attuali nella società brasiliana, e del resto anche oggi il paese sta vivendo un momento molto delicato». Il riferimento è alle proteste di piazza contro i Mondiali di calcio e contro la presidente Dilma dettamente eccitato” Rousseff: «Manifestazioni del genere in Brasile non se ne vedevano da tantis- Arto Lindsay V A LER I O M A TTI O L I ROMA RTO LINDSAY è uno dei monumenti di una New York che ormai non A esiste più. A fine anni Settanta fu fondatore dei DNA, colonne di quella no wave celebrata da Brian Eno nella raccolta No New York, praticamente uno dei quattro o cinque dischi più influenti di sempre. Abitava assieme ai vari Lydia Lunch e Jim Jarmusch nell’allora degradatissimo Lower East Side, era compagno di eccessi di gente come Amos Poe e Jean-Michel Basquiat, e dalla sua chitarra tirava fuori un suono dissonante e ansiogeno, buono tanto per i locali punk quanto per le gallerie d’arte. «Noi in realtà volevamo suonare soltanto del rock’n’roll», puntualizza. «Non credevamo mica di fare musica d’avanguardia. Sì, magari era un po’ più strana della media, ma tuttora mi considero prima di tutto un musicista di social music, come la chiamava Miles Davis». Questo sessantunenne occhialuto che ancora sostiene di «non saper suonare la chitarra» (e che proprio per questo è diventato uno dei chitarristi più imitati dall’universo indie rock), è venuto in Italia a presentare il doppio cd antologico Encyclopedia of Arto, equamente diviso tra estratti dal suo catalogo solista e una selezione di brani dal vivo. Siamo a oltre trentacinque anni dalle prime prove dei DNA: la New York no wave è morta e sepolta, a Manhattan ci abitano solo i ricchi e «persino quartieri di Brooklyn come Williamsburg e Greenpoint sono diventati un brand». Più che un cambio di prospettiva è un ribaltamento pressoché totale, e infatti da circa un decennio Lindsay è tornato a vivere nella sua patria elettiva: il Brasile. Che poi è il paese in cui è cresciuto, ben prima di trasferirsi nella New York delle avanguardie downtown, dei Television e di MI PIACEVA LA BOLOGNA DEL ’77, FRIGIDAIRE E ANDREA PAZIENZA. PARE CHE QUANDO SEQUESTRARONO DOZIER, I BRIGATISTI PER NON FARSI SENTIRE MENTRE PARLAVANO GLI METTEVANO NELLE ORECCHIE MUSICA A PALLA. BEH, ERA MUSICA DEI DNA, LA NOSTRA Patti Smith: «Erano gli anni Sessanta. Ora vivo a Rio, allora abitavo in una minuscola città nello Stato del Pernambuco che sembrava rimasta al medioevo; i miei primi contatti con la musica del mondo “lì fuori” risalgono agli anni del liceo, quando conobbi dei ragazzi figli di diplomatici americani che mi raccontarono dei gruppi californiani e dei festival rock. Però in Brasile c’era già stato il movimento tropicalista che era stato un autentico shock: musicisti come Caetano Veloso, Gilberto Gil, Gal Costa, Os Mutantes...». In pieni anni Ottanta Lindsay riprenderà proprio il bagaglio simo tempo. In un certo senso a pesare è anche la delusione del dopo-Lula. Il suo stesso partito è diventato come un qualsiasi altro partito politico brasiliano: sostanzialmente un luogo di potere e di corruzione. È stato coinvolto in scandali terribili, e col passare degli anni la situazione è sempre più degenerata. Anche le politiche contro la povertà portate avanti da Lula, pur mosse dalle migliori intenzioni, alla fine rispondevano alla più classica politica neoliberista. E con Dilma Rousseff siamo ancora nel pieno di questo processo». Sui Mondiali l’opinione di Arto è, da perfetto brasiliano, duplice: «Sono arrabbiato per il modo in cui sono stati organizzati: la Federazione mondiale e quella brasiliana si sono comportate come vere e proprie organizzazioni criminali. E dunque resto totalmente e decisamente dalla parte di chi protesta. E dico di più: credo anche che esattamente questo sia il momento giusto per protestare. Però, però, sono anche un appassionato di calcio e non smetterò mai di tifare Brasile, non potrei. Dunque, in sostanza, è come se in questi giorni fossi doppiamente eccitato...». Tratta Brasile-Stati Uniti a parte, l’altro paese con cui Arto Lindsay intrattiene da sempre un rapporto preferenziale è proprio l’Italia. È un legame che risale agli anni delle scorribande con DNA e Lounge Lizards (il gruppo fake-jazz fondato da John Lurie) e a raccontarlo oggi getta una luce insolita sull’influenza che l’avanguardia newyorchese subì da parte del nostrano binomio arte-politica: «Eravamo molto presi dall’Autonomia e dal Movimento del ’77, ci piaceva questo legame tra politica, teoria, creatività e vita di tutti i giorni. All’epoca, quando suonammo coi Lounge Lizards in Italia, mi trattenni a Bologna per un po’ e produssi anche un disco di una formazione locale, gli Hi-Fi Bros. Era divertente, ci esibivamo nelle situazioni più disparate: SONO ARRABBIATO, CERTO, E DELUSO IL PARTITO DI LULA È DIVENTATO COME UN QUALSIASI ALTRO PARTITO POLITICO BRASILIANO: UN LUOGO DI POTERE E DI CORRUZIONE teatri d’opera, Feste dell’Unità, squat punk...». D’altra parte, l’interesse era reciproco: la no wave e i DNA in particolare furono la colonna sonora ufficiosa di esperienze come Frigidaire, la rivista nata nel 1980 che ospitò i fumetti di Stefano Tamburini, Tanino Liberatore, Filippo Scozzari, Massimo Mattioli e ovviamente Andrea Pazienza. E l’inconfondibile volto di Arto Lindsay, questo bislacco incrocio tra un impiegato di banca e un nerd prosciugato dalle troppe anfetamine, per qualche tempo fu veramente tra le icone sotterranee delle avanguardie post-settantasettine. «Mi ricordo che i ragazzi di Frigidaire vennero anche a trovarci a New York: c’era Tamburini, l’autore di Ranxerox, e Emi Fontana, che poi divenne la compagna dell’artista Mike Kelley. Di Frigidaire conservo ancora diversi numeri. Recentemente ho anche riacquistato i volumi di Ranxerox in portoghese». Lindsay ricorda anche un altro episodio, piuttosto inquietante: «Nel 1981 le Brigate Rosse rapirono James Lee Dozier, il generale della Nato. Mentre lo tenevano sequestrato i brigatisti lo obbligavano a indossare un paio di cuffie da cui mandavano musica a volume altissimo. Presumo lo facessero per impedirgli di ascoltare le loro conversazioni, nomi, non so. Ma vuoi sapere che musica era quella che gli mettevano in cuffia a tutto volume? Beh, pare fosse proprio la nostra, proprio un disco dei DNA. O almeno così narrava la leggenda». Di tempo da allora ne è passato e oggi lo stesso Lindsay ha in qualche modo smussato gli angoli. Anche come musicista. I suoi lavori da solista sono un raffinatissimo incrocio tra pop sperimentale e recuperi brasiliani. Un esempio lo trovate sul primo cd di Encyclopedia of Arto. Ma sul secondo, quello dal vivo, c’è lui da solo con la sua chitarra. Ed è ancora, di nuovo, l’Arto tagliente e atonale dei tempi passati. © RIPRODUZIONE RISERVATA
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