Viaggio nel partito-rebus che moltiplica i voti e fa

Storie Cronache ferraresi.
Vasco Brondi racconta
la topografia epica
della sua Emilia 10 | 11
Mappe Modelli cool.
Così la Corea del Sud ha
fatto boom investendo
sulla cultura pop 17
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PUBBLICAZIONE SETTIMANALE
Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, LO/MI
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Innovazioni La coscienza
dello startupper. Quando
l’impegno sociale convince
gli investitori 20 | 21
Idee Nativi digitali. Perché
la generazione cresciuta
con i videogame non sa
mettersi in gioco 29
IL QUOTIDIANO DEL WEEKEND • 11 | 17 OTTOBRE 2014 • ANNO 1 N. 63 • EURO 3,00
CHRISTIAN MANTUANO / LUZ
il nome della cosa
Viaggio nel partito-rebus che moltiplica i voti e fa scappare i militanti
ANTONIO SGOBBA
n «Se domani il partito dovesse arrivare al 40%».
Era il 1989 e un militante della sezione del Pci di Mirafiori incominciavaun periodoipotetico. Ilsuo discorso veniva registrato da Nanni Moretti nel documentario La cosa, racconto del dibattito tra i militantidopo ladecisione dicambiarenome alpartito.
SCACCHIPUGILATO
lo sport per bulli secchioni
pagine 36 e 37
LITUANIA
un borsch a Stalinland
pagina 44
Venticinqueanni dopol'ipotesi dell'anonimocompagno torinese è diventata realtà alle elezioni europee. Se un giorno dovessimo avere tutto quel consenso, proseguiva, dovremmo pensarebene a come
utilizzarlo: «Non mi interessa che conquistiamo
voti e poi sotto sotto gli operai saranno sempre lì ad
avere sempre i soliti problemi», diceva il militante
col maglione rosso scuro e la camicia a quadri.
u
segue alle pagine 2 e 3
NUMERI
• 11 milioni di euro
Il passivo di bilancio registrato dal Partito
Democratico nel 2013
pagine 4/5
• 120
Gli agenti affetti da dislessia o disprassia
che saranno assunti dai servizi segreti britannici
pagina 8
• 57,5
I megabyte al secondo di internet in Romania. Terza al mondo nella classifica sulla
velocità della rete
pagina 22
• 85%
La crescita annuale del traffico sulla sezione “good news” dell’HuffPost
pagina 28
• 2003
L’anno in cui si è svolto il primo match nella storia di scacchipugilato
pagine 36/37
ILARIO LOMBARDO
n Giusto un anno fa a Genova, il Pd riuniva i
tesorieri regionali del partito per un incontro a
latere della Festa nazionale democratica. Invitato d’onore, John McCaffrey, responsabile
del fundraising del Labour Party inglese. La
platea pendeva dalle sue labbra, ansiosa di es-
a Rebibbia
con Zerocalcare
MARCO CUBEDDU
n «Pensa che in 15 anni sono stato solo una volta
fuori da Rebibbia per più di 4 notti. A Gaza. 9
giorni. Un incubo. L’idea di fare un viaggio non è
che mi fa schifo eh, ma io proprio non ce la faccio. Fino a qualche anno fa mi venivano le bolle
rosse quando dormivo fuori. Anche le presentazioni, per dire, ne ho 18 già programmate per Dimentica il mio nome, e anche se ne ho diverse vicine io vado, dormo fuori una notte, torno a Rebibbia, magari per un giorno, e poi riparto. Ormai ho imparato a conoscermi. Massimo 4 notti
posso resistere».
«Ma che ne so, non ti attira l’idea di andare in
Cina, in Australia, in America?»
«Sì. Per 4 notti».
u
segue alle pagine 32 e 33
sere indottrinata su come sopravvivere ai tagli
dei contributi pubblici e nell’ignoto mare della
caccia ai fondi privati, quando l’ospite esordisce così stupendo tutti. «Una delle peggiori
idee che abbiamo avuto nel Regno Unito è stata quella di abolire il finanziamento ai partiti». Anche in Italia formalmente il finanziamento pubblico non c’è più da 21 anni.
u
segue alle pagine 4 e 5
pagina 99we |
2 | STORIE
sommario
n STORIE | pagine 2-12
Il nome della cosa
Ritorno nelle sezioni in cui Nanni Moretti girò La Cosa: 25 anni dopo la Bolognina, in quello che fu il più grande partito comunista d’Europa continua la crisi d’identità, con i militanti sospesi tra
Twitter e Togliatti. E mentre prosegue il
dibattito fra sostenitori e critici del partito leggero, il Pd è costretto a ripensare
il proprio business model, in vista dell’abolizione dei finanziamenti dal 2017.
Difficile marcare una distanza più netta
dagli anni in cui i quadri si formavano alle Frattocchie. Poi la Gran Bretagna, dove i servizi arruoleranno 120 agenti dislessici o disprassici per sfruttarne l’abilità nel decifrare i messaggi. Mentre negli Usa la Chrysler torna a quotarsi in
Borsa. Una scommessa vinta per Obama? Per finire con il cantautore Vasco
Brondi che ripercorre la topografia dell’Emilia raccontata da libri, canzoni e
film.
n MAPPE | pagine 13-19
L’America Latina cerca centri
di gravità permanente
Quindici anni dopo la rottura chavista,
la sinistra sudamericana deve imparare
a leggere i nuovi bisogni dell’elettorato.
Questa la morale del primo turno presidenziale in Brasile, in cui la destra sogna
il colpaccio. Quindi il Texas, dove tornano a farsi sentire le spinte secessioniste,
che però si rivelano profondamente
americane nello spirito. E mentre la Corea investe sull’industria pop per crescere, il Botswana cerca di diversificare l’economia, dipendente dall’industria dei
diamanti. Infine, in un’Ucraina sempre
più in crisi, il finanziamento dei battaglioni è lasciato alla volontà dei singoli.
n INNOVAZIONI | pagine 20-23
Sociali ma non squattrinate
quando le start-up hanno
un’anima
Si occupano di cultura, istruzione, sanità, ambiente. E sempre più spesso attraggono l’interesse di investitori alla ricerca di ritorni sicuri. Sono le start-up a
vocazione sociale. Poi l’insospettabile
primato della Romania, tra i primi tre
Paesi al mondo per la velocità delle connessioni internet, e la polpa di cocco che
consentirà di usare come combustibile
l’idrogeno.
n IDEE | pagine 24-30
Bimbe troppo belle e altri ordinari
abusi
La violenza sulle donne documentata
negli scatti dei fotografi ospiti del Festivaldella fotografiaeticadiLodi. Aseguire il ritorno del fascino per la natura e il
selvaggio nella letteratura, le testate che
puntano sulle buone notizie per attrarre
più pubblicità e nuovi lettori, la App generation dei nativi digitali che nella vita
si comportano come nei videogame. Per
finire con i Millennium Goals e le reti locali.
n ARTI | pp 32-43
L’educazione aristocratica
di Zerocalcare a Rebibbia
Arriverà a giorni il libreria Dimentica il
mio nome, il nuovo graphic novel in cui
Zerocalcare, con eleganza e delicatezza,
ricostruisce la storia della sua famiglia.
Abbiamo incontrato l’autore nel nido
che lo protegge, il quartiere romano di
Rebibbia. A seguire, sempre nella capitale, il Festival internazionale del film
che quest’anno rende omaggio a Tomás
Milián. Poi lo scacchipugliato, disciplina fondata da Iepe Rubingh, artista-attaccabrighe olandese, i libri degli italiani
in spiaggia, l’arte del curatore e il romanzo d’esordio di Caleb Crain, celebre firma del New Yorker. Per finire con il nuovo fumetto per bambini dell’illustratrice
israeliana Rutu Modan e la moda.
n OZII | pagine 44-47
Un borscha Stalinland con vista
sul secolo breve
Viaggio in Lituania, tra feticisti dell’Urss
e spezzatino di castoro, e i giochi di pagina99.
ANTONIO SGOBBA
u
segue dalla prima
sabato 11 ottobre 2014
25 anni dopo
l’ultimo partito
non abita più qui
n Era solo una delle tante voci raccolte
un quarto di secolo fa da Moretti, che
aveva seguito i dibattiti di otto sezioni
sparse per l'Italia. Ma se tornassimo oggi esattamente negli stessi luoghi che
cosa troveremmo? Ci si divide, si litiga,
si ragiona, si piange e si ride ancora attorno a un partito? La prima cosa che
abbiamo scoperto è che nella maggior
parte dei casi il partito ha cambiato indirizzo. Ma ripartiamo da dove tutto è iniziato, o dove tutto è finito.
Bolognina
Nella stanza in cui Achille Occhetto
annunciò la fine del Pci, non troviamo
nulla che ricordi quella storia. Al numero 16 di via Tibaldi oggi c'è Magic Fashion, un parrucchiere cinese. Per arrivare al circolo Pd bisogna spostarsi di
qualche metro, in piazza dell'Unità. Il
coordinatore, Mario Oliva, 49 anni, di
professione funzionario amministrativo dell'Ospedale Sant'Orsola è un renziano di ferro, l'unico di tutto il circolo.
Da ragazzo era iscritto alla Fgci. «Qui i
compagni della base sono molto critici racconta - si fa fatica a arrivare a una sintesi. La maggior parte degli iscritti sono
over 60. Nel direttivo avevo messo dei
giovani, sono andati tutti via». Da queste parti il calo della partecipazione lo
hanno visto tutti: per le primarie regionali hanno votato meno di un terzo dei
tesserati. Se non si impegnano neanche
più gli iscritti, a che cosa serve il partito?
«Al sabato pomeriggio facciamo una
tombolata con gli anziani. Ci autofinanziamo così. Per due ore stanno in compagnia, sono contenti».
Francavilla di Sicilia
Il film di Moretti però partiva dall’estremo sud. Francavilla di Sicilia è comune di 4 mila abitanti in provincia di
Messina. Anche qui la sezione storica è
chiusa da tempo, il nuovo circolo è in
una sede più piccola e più economica, vicino al Comune. Lo scorso sabato pome-
Nella stanza in cui
Occhetto annunciò la fine
del Pci c’è Magic Fashion,
un parrucchiere cinese
riggio c'è stato un dibattito sull'articolo
18. «Alla fine eravamo solo in 13, c'era
maltempo», dice Patrizia Dai, 51 anni.
Anche lei aveva incominciato a fare politica nella Fgci, oggi è una dipendente
regionale ed è ancora iscritta al Pd.
«Stiamo andando contro tutti i nostri
principi. Una volta qui tutti i lavoratori
erano iscritti al Pci. Facevamo le lotte
per gli agrari. Ora rappresentiamo un
po' tutti e le lotte non le facciamo più.
Siamo diventati moderati. Io non mi ci
ritrovo in un partito così».
Ca’Nuova
La sezione Ca’Nuova non esiste più,
al suo posto c'è un circolo Arci. Per trovare la sede del Pd più vicina bisogna
andare nel quartiere Prà. Gli iscritti sono 155, una volta nel quartiere erano
dieci volte tanti, soprattutto operai. Il
coordinatore è Claudio Chiarotti, 43
anni, dipendente dell'azienda pubbli-
FERDINANDO SCIANNA / MAGNUM PHOTOS / CONTRASTO
LUOGHI In alto, all’interno del
circolo la Casa del Popolo 25
Apriledi Via Bronzino a Firenze,
teatro di numerose assemblee
aperte tra esponenti e militanti
del Pd. Sotto, una sezione del Pci
in una foto del 1983. In copertina,
il Presidente del Consiglio dei
Ministri Matteo Renzi
ca di igiene urbana. Ha incominciato a
militare nel Pci quando aveva 16 anni.
«Non è il Pd che immaginavo io», dice
Chiarotti. «Va bene il cambiamento,
ma il cambiamento può essere sia di
destra sia di sinistra. Questo è di destra. Sono un operaio, guadagno 1400
euro al mese e mi sento in colpa. All'interno del mio stesso partito mi fanno
sentire un privilegiato perché ho un
contratto a tempo indeterminato».
San Giovanni a Teduccio
Anche San Giovanni a Teduccio una
volta era un quartiere di operai. Le fabbriche di Napoli erano qui e lungo il corso c'erano ben due sezioni del Pci. Quella immortalata ne La cosaera la Pasquale Finocchio, intitolata a un operaio
24enne morto nel 1974 mentre riparava
un capannone. Ora a quell'indirizzo troviamo un minimarket. Per arrivare al
circolo Pdbisogna attraversarela strada
e andare qualche metro più in là, al civico 986 di corso San Giovanni. Gli iscritti
sono circa mille, su 25 mila abitanti del
quartiere, questo è ancorauno dei circoli più grandi del sud Italia. Salvatore Finocchio, 68 anni, è il fratello di quel Pasquale caduto sul lavoro. Anche lui era
un operaio, lavorava nello stabilimento
dove si facevano le carrozze dei treni delle Fs, oggi è un imprenditore, ha una piccola ditta che fa infissi anodizzati. La
tessera del partito ce l'ha in tasca da cinquant'anni: «E prima di me ce l'aveva
mio padre e prima ancora mio nonno.
Questa è sempre stata la zona più rossa
di Napoli». E oggi, che gli operai non ci
sono più e Renzi si mette contro i sinda-
sabato 11 ottobre 2014
| pagina 99we
STORIE | 3
Viaggio | Siamo tornati nelle sezioni dove Nanni Moretti
realizzò La Cosa nei giorni della svolta della Bolognina.
Da Francavilla di Sicilia a Lambrate, la crisi d’identità
continua. Tra manager in divisa bianca e tombolate
per anziani, il sol dell’avvenire del Pd è un rompicapo
LEOPOLDA "DiffeRenziAmoci Adesso!”,lo slogan dei sostenitori di Renzi
dete mai qui al circolo? «No, lo vediamo
più spesso al parco qui vicino, a giocare
coi bambini», dice la coordinatrice.
La sezione è quasi la stessa di 25 anni
fa. Una volta era una delle più grandi e
popolari di Roma, dopo la svolta i locali
furono divisi a metà: da una parte il Pds
dall'altra Rifondazione, ora i vicini sono
quelli di Sel. Morezzi le discussioni di
venticinque anni fa se le ricorda, lui c'era: «Tutti i passaggi dal Pci al Pd sono
state operazioni a freddo, in mezzo ci deve essere sfuggito qualcosa».
Lambrate
Che manchi qualcosa si intuisce anche a Lambrate, dove il partito non è più
dov'era 25anni fa.Nella vecchiacasa del
popolo di via Conte Rosso ci è rimasta la
Cgil.Che siagiunto ilmomento diuscire
dal passato e di andare finalmente a vedere il partito nuovo, liquido e post ideologico? E allora andiamo nel centro di
Milano, in Brera, corso Garibaldi. Qui
tra gli iscritti ci sono manager e banchieri. Il coordinatore è un docente di economia della Statale laureato in Bocconi,
«Sono un operaio, guadagno
1400 euro al mese e mi fanno
sentire un privilegiato»
racconta Claudio Chiarotti
PIETRO PAOLINI / TERRAPROJECT / CONTRASTO
cati? «Anche se è un democristiano mi
piace», risponde Salvatore. «Fa bene a
pensare al lavoro, è la cosa più importante. Se continua così altro che 40%,
quello arriva al 52%. Sta andando sulla
strada giusta, sono i vecchi compagni
che fanno un po' di confusione».
Mirafiori
Inutile cercare la vecchia sezione di
fronte ai cancelli dello stabilimento
Fiat, in via Negarville. Il Pd si è trasferito in via Monastir, dove prima c'era
la Margherita. «Per un po' abbiamo
provato a tenere tutte e due le sedi, ma
ci costava troppo», spiega il tesoriere
del circolo, Giuseppe Bocciardi, 55
anni, dipendente Fiat. Ha incominciato a fare politica a 18 anni nel Psi,
prima del Pd era iscritto al partito di
Rutelli e Fioroni. Oggi il Pd ha il governo della sua città e della Regione.
Eppure dice che «questo momento
non lo viviamo bene. Il modo di gestire il partito è troppo distante dalla
gente. Facciamo solo due incontri al
mese e si risolvono in un dirigente che
viene qua e ci dice qual è la linea».
San Casciano in Val di Pesa
Spostiamoci in casa Renzi. O quasi. A
San Casciano Val di Pesa, una ventina di
chilometri da Firenze, il partito non si è
mai mosso. Lo trovi dov'era la vecchia
Casa del popolo. Tutto come nell’ottantanove. Tranne un particolare. Il coordinatore del circolo, Guido Gamannossi, ha 22 anni. Quando si discuteva della
svolta lui non era neanche nato, si è
iscritto al Pd tre anni fa. Nel suo circolo
non sono in tanti ad avere la sua età: «Su
un centinaio di iscritti, sotto i 25 anni saremo una decina. In tanti tra quelli che
si interessano di politica preferiscono il
Movimento 5 stelle».
Testaccio
Dobbiamo arrivare a venerdì pomeriggio per trovare qualcuno in un circolo. Roma, quartiere Testaccio, nella sede ci sono sette persone. Una è l'attuale
coordinatrice, Claudia Santoloce, 31 anni, dipendente pubblica. Un altro è
Claudio Morezzi, 62 anni, dipendente
pubblico pure lui, ex Pci, già segretario
di sezione. Nel quartiere c'è un iscritto
illustre, l'ex premier Enrico Letta. Lo ve-
Marco Leonardi, 40 anni, renziano.
Questa sera a moderare l'incontro
sull'articolo 18 ci sarà Alberto Palaveri,
45 anni, camicia bianca, amministratore delegato di un'impresa di packaging.
Interverranno anche un deputato, cuperliano, e un dirigente della Cgil. Il sindacalista, bretelle marroni su camicia a
righe marroni, attaccherà con: «Mio
padre era comunista, in Sicilia nei campi non lo facevanolavorare. Io sono arrivato a Milano negli anni Settanta e ho
un lavoro da dipendente. Ora dicono
che quelli come me hanno sbagliato, ma
quando nel1978 io sono statoassunto in
Sip...». Non tutto il pubblico apprezzerà
il genere. Lo interromperanno: «E quelli che hanno la partita Iva? Quelli non ce
l'hanno una dignità?». Quando sarà il
momento del dibattito interverrà Daniel Pludwinski, 38 anni, iscritto dal
2011, nativo renziano: «La raffigurazione del mondo del lavoro della Cgil mi lascia basito. Io dirigo un'impresa da 90
lavoratori, so di che parlo».
La discussione andrà avanti per un
paio d'ore, quando si saranno fatte le 23 i
più anziani incominceranno a spazientirsi. Dopo aver preso la giacca, prima di
uscire, interverrà Elda, 75 anni, figlia di
partigiani: «Dovete ricordarvi che la
gente ha fiducia nei sindacati». Saranno
passate da un pezzo le 23 e si continuerà
a discutere: «il 40% non lo abbiamo
preso con la linea della Cgil, con quella
lineaeravate al25». «Mase ivoti liprendiamo da Forza Italia a che serve?».
«Ragazzi, viviamo già in un mondo senza articolo 18, abbiamo smesso di essere
il partito dei lavoratori, ma da anni».
«Certo che l'onorevole, almeno stasera,
poteva arrivare puntuale».
CONTRASTO
l’homo renzianus
profilo di un follower
Compagni | Twitterico ma togliattiano.
Antropologia politica del militante 2.0
ALESSANDRO ROBECCHI
n Militanti, e già cominciamo male. E sì,
perché a voler tracciare una mappa di affinità e divergenze tra il militante del Pd
pre-renziano e l’homo novus che sostiene
il Pd due-punto-zero bisogna rivedere il
vocabolario. Militante non va più, parola
rottamata. Come padrone (in renziano:
imprenditore).
E si potrebbe continuare ad libitum,
dai matrimoni gay che diventano civil
partnership fino al florilegio di anglicismi e riferimenti alla cultura pop da una
parte, e vere e proprie espulsioni dall’altra: conflitto, lotta, classe. Il lavoro diventa job, gli slogan sono hashtag. Senza contare le parole che sopravvivono solo per
scherno dell’avversario: ideologico, usato come sinonimo di sorpassato, sconfitto, anacronistico. Fino alla differenza più
palmare ed evidente: il nome del partito,
che gli antichi militanti del Pci non avevano neppure bisogno di nominare (il Partito, punto) e che ora si chiama @pdnetwork. Moderno, smart, twitterico.
Dietro le parole ci sono angoli, spigoli,
giravolte. Il militante renziano è, almeno
nell’immaginario corrente, giovane e dinamico, e si contrappone al militante pre
– che pure ha votato il nuovo Pd – considerato mesto e perdente. Qui, più che politica, l’analisi si fa antropologica. Il democrat new edition è assai aggressivo e lo
è, in primis, contro il vecchio militante Pd
antemarcia. Il suo faro è la vittoria, contrapposta allo sconfittismo quasi compiaciuto della vecchia sinistra. Tanto ambita e voluta, tanto anelata, questa vittoria, che si sospetta sia un valore di per sé.
Conta vincere, essenziale è il potere, per
farci cosa si vedrà.
La burbanzosa ghigna del vincente,
l’arroganza di chi irride lo sconfitto sono
stati introiettati in fretta, complici comprensibili frustrazioni generazionali. Toni questi usati non contro quelli che sarebbero i veri sconfitti (la destra italiana),
bensì verso i propri compagni di strada
(la sinistra pre-Renzi). Il militante matteiano ostenta un revanscismo feroce,
non dissimile da quello dei reduci della
prima guerra mondiale nei confronti del
“panciafichisti” borghesi che non partirono per il Carso. Maledetti!
Della differenza generazionale si è, in
parte, detto. Nella vulgata corrente (nella
realtà è tutto da vedere) il follower renziano ha tra i 30 e i 40 anni, più giovane del
militante vecchia gestione. Sempre secondo l’immaginario, appartiene a quella
generazione di proletari della conoscen-
za che sa le lingue, è laureato, si muove
agilmente tra le nuove tecnologie, che
spesso lo accompagnano nella sua vita
lavorativa da precario. È insomma portato per un realismo al limite del cinismo. Se l’antico militante Pd di derivazione piciista guarda ai meccanismi sociali come a un portato delle dinamiche
economiche tra capitale e lavoro, l’approccio del neoadepto è più pragmatico e
sbrigativo: nemmeno lontanamente si
contesta un sistema (il capitalismo, il
mercato), ma se ne invoca un funzionamento più efficiente.
Una plastica riproduzione di quest’approccio si è avuta all’ultima Leopolda.
Davanti al finanziere Davide Serra che
accusava di «furto di futuro» le generazioni andate in pensione col sistema retributivo, trentacinquenni eleganti, laureati, ambiziosi, applaudivano estasiati,
in pratica accusando di «furto di futuro» i
padri che li hanno fatti studiare, cioè
quelli che un futuro gliel’hanno dato. Bizzarro testacoda.
Ma la più portentosa differenza tra il
nuovo militante Renzi-oriented e il vecchio iscritto al Pd è evidente nel bisogno
di autodefinizione. Mai –dal congresso di
Livorno fino alla segreteria Bersani – un
militante del più grande partito della sinistra europea aveva sentito il dovere di
ribadire ossessivamente il suo essere di
sinistra: perché sottolineare l’ovvio? Cosa che invece fa a ogni passo l’homo novus
di osservanza renziana. Un mantra,
un’autoipnosi: questo è di sinistra, noi
siamo di sinistra, quel che facciamo è di
sinistra, fosse anche abolire diritti o invocare libertà di licenziamento, fosse anche
governare con Angelino Alfano o raccogliere i consigli “riformisti” di Verdini.
Una campagna di autoconvincimento.
Queste alcune divergenze, e le affinità?
Ecco la principale: riconoscere nel segretario del Partito (qui torna la maiuscola e
scompare la simpatica chiocciolina) di
avere sempre ragione. Ciò che Giovannino Guareschi, uomo di destra, individuò
come tratto precipuo dei comunisti »trinariciuti» degli anni Cinquanta, rivive
oggi in forma moderna. In nome della vittoria (il 40% delle europee è un altro notevole mantra) sembrano bere tutto, farsi
piacere tutto, digerire tutto, purché venga dal quartier generale. Così come le minoranze Pd, i vecchi della Ditta, che fanno
il diavolo a quattro, ma alla fine si allineano ubbidienti. E pare questo, a pensarci, il
trait d’union più forte tra vecchi e nuovi
militanti: «L’ha detto Matteo» suona oggi, secoli dopo, come il vecchio «L’ha detto Togliatti». Modernissimi, eh?
pagina 99we |
4 | STORIE
sabato 11 ottobre 2014
militanti addio
arriva il Piddì
open source
Business model | Dal 2017 il finanziamento pubblico
non esisterà più. Così anche i democratici sono costretti
a ripensarsi come azienda. I principali azionisti
non saranno più gli iscritti ma i finanziatori privati
ILARIO LOMBARDO
u
segue dalla prima
n È stato mascherato da rimborsi elettorali, che sarebbero
ben altra cosa, se non fosse che
la furbizia italiana l’ha ridotta a
una semplice questione semantica: parole diverse per dire la
stessa cosa. La Seconda Repubblica si è ingozzata di miliardi
fino a raggiungere nel 2008 la
cifra record di 320 milioni di
euro. Ma la festa da lì a poco sarebbe finita. Dopo il caso del tesoriere della Margherita Luigi
Lusi, accusato di arraffare i soldi di un partito ormai morto,
dopo il dimezzamento dei rimborsi ordinato da Mario Monti
nel 2012 e la discesa dell’orda
grillina su Roma, siamo giunti
alla legge che chiude i rubinetti
dei contributi progressivamente fino al 2017, quando entrerà a
regime la nuova forma di finanziamento basata sul 2 per mille
e sulle donazioni private con
tetto massimo di 100 mila euro,
incoraggiate, si spera, dalle detrazioni al 26% sotto i 30 mila
euro.
«Per un partito come il Pd significa doversi reinventare»,
spiega
Antonio
Misiani,
«proiettarsi alla raccolta fondi,
e stabilire un rapporto conti-
nuo con gli elettori, visti non più
soltanto come sostenitori politici ma anche economici». Antonio Misiani è stato il tesoriere
che ha chiuso l’ultimo bilancio
del Pd, prima di lasciare le chiavi del forziere al renziano Francesco Bonifazi. Ha avviato con
la segreteria di Pierluigi Bersani la prima fase di austerity, ridimensionando sedi, comunicazione, il canale YouDem,
campagne elettorali, forum,
consulenze, fornitori, contratti.
Il passo successivo
ai tagli saranno le cene
elettorali con facoltosi
imprenditori. Poi sarà la
volta del crowdfunding
Ma non è bastato. Il disavanzo è
rimasto di quasi 11 milioni. Come ha tenuto a sottolineare il
successore Bonifazi. La critica
si è fatta aspra a metà settembre, quando il nuovo tesoriere
ha puntato gli artigli della rottamazione contro i costi della
segreteria Bersani: consulenze
«troppo alte», indennità, auto
blu, servizi web e stampa. Misiani però non ha voglia di passare per il contabile della vec-
chia guardia che sguazzava nei
dobloni di Zio Paperone: «Abbiamo avviato noi i tagli, e la verità è che prima della riforma
avevamo un budget alto, 60 milioni di euro di rimborsi solo nel
2011». Per capire, quella cifra
copriva il 91% delle entrate del
Pd. Il partito ne ha perso per
strada il 58%: i contributi elettorali sono scesi nel 2013 a 24,7
milioni e nel 2014 saranno la
metà: 12,8 milioni.
La ristrutturazione aziendale dei partiti, per galleggiare in
acque molto basse, è una via obbligata. Certo, a sorridere in
questa fase è il Movimento 5
Stelle che i rimborsi li ha rifiutati da principio e soddisfatto
osserva come anche Silvio Berlusconi, stanco di sborsare di
tasca propria, fatichi a recuperare un finanziamento dal basso, riesumando i club di Forza
Italia che lanciò nel 1994 come
una sorta di proto-meetup. Ma
il business model imposto dalla
duplice crisi, economica e politica, costringe il Pd più che altri
a ridefinire ruolo e identità:
«Avremo un partito con apparati più snelli, e più focalizzato
sulla comunicazione e la relazione con i cittadini», spiega
ancora Misiani. Non sarà semplice: l’orizzonte è l’autofinanziamento. Ma finora non si è capito granché delle mosse che ha
«con il modello cloud
più potere ai circoli»
n «Più che del tesseramento, discuterei di
idee, di come vogliamo costruire il Pd».
Francesco Nicodemo è il braccio armato sul
web del premier-segretario Matteo Renzi.
Dopo essere stato responsabile della comunicazione del nuovo Pd, in occasione del
rimpasto della segreteria il rottamatore ha
deciso di portarselo a Palazzo Chigi, dove
Nicodemo, napoletano, 36 anni, ricoprirà
lo stesso ruolo: sarà il mago che dovrà mettere a punto la nuova strategia online e sui
social network del premier. A Renzi lo accomuna lostesso gustoper imotti brevida 140
caratteri. Tipo: «Stiamo passando da un
partito collettivo a un partito connettivo». E
ancora: «Il Pd si sta trasformando in un partito “cloud”».
Cloud? Come la nuvola di Apple? Cosa
significa?
«Vuol dire che non abbiamo più bisogno
di un Ibm da sette metri, per registrare i dati c’è “cloud”: un partito più leggero nell’infrastruttura, ma più pesante nella capacità
di essere presente su tutto il territorio.
Questo è il tema: la forma partito, che partito immaginiamo, e non tanto il suo stato,
solido, liquido o gassoso. Ma che tipo di organizzazione vogliamo. Se vogliamo il partito piramidale di novecentesca memoria,
con il suo comitato centrale, la sua segrete-
NETWORK
Un momento della tre
giorni organizzata nel
2012 presso la Stazione
Leopolda da Matteo
Renzi in sostegno alla
sua candidatura per le
primarie del Partito
Democratico
in serbo Bonifazi. Un tweet ha
annunciato il 24 settembre la
prima riunione organizzativa
del fundraising. «Il pdnetwork
prende forma», ha esultato. Il
prossimo step saranno le cene
elettorali, con facoltosi imprenditori. Una volta si chiamavano
cene popolari, anche questo un
segno dei tempi. Bonifazi im-
magina un partito smart, leggero, 2.0, che si rilancia a partire
dal tesseramento online: «Ci
consentirà un approccio al crowdfunding con una interazione
costante, attraverso un portale
fatto bene, tra i progetti che il
Pd propone sul territorio e la
volontà del singolo cittadino».
Sarà un po’ come costruire un
asilo in Africa, o finanziare una
start-up: i simpatizzanti dem
potranno devolvere euro in maniera mirata. È un’evoluzione
genetica: il dna del partito del
Novecento, con retaggi ottocenteschi, si contamina delle
nuove forme di condivisione
mediatica e sociale. E addio per
sempre al Pci e ai suoi feticci. Il
partito non ha più bisogno di
due testate: «Non abbandoniamo né l’Unità né Europa» aveva promesso Bonifazi. La prima
ha chiuso lo scorso agosto, la seconda (lascito della Margherita-Dl) lo farà a novembre: in
due pesavano sul Pd per circa 3
milioni di euro, tra acquisto copie e pubblicità dedicata.
La comunicazione di Matteo
Renzi è diventata più centralizzata. E con YouTube, Twitter, e
Facebook a che vuoi che servano la settantina di giornalisti
ora a spasso dei due quotidiani?
Per la cara vecchia propaganda
bastano un pugno di smanettoni. Il Pd ai tempi di Matteo Renzi farà rete, sarà un partito-social. Un po’ Apple, un po’ riunione scout. Ma al di là degli an-
Pro | Per Francesco Nicodemo, uomo internet
del premier, occorre connettere comunità virtuali
e reali. E ai soldi si provvederà con le collette via web
ria, oppure un partito che è una rete di reti».
In che modo cambia il partito?
«Nel partito rete non c’è più un rapporto
dall’alto verso il basso, verticalizzato, ma
orizzontale e circolare. Il network e la connessione diventano fondamentali, e i circoli ritornano centrali, perché non hanno più
bisogno di passare da Roma per la vidimazione. Un po’ come la Pdcommunity, l’infrastruttura digitale che abbiamo costruito
con Matteo per le primarie, dove le comunità virtuali erano messe in connessione
con quelle reali, e dove tutti parlavano con
tutti. È un’inedita forma organizzativa di
partito e un nuovo modello di fare politica
che riflette la nuova leadership di Renzi».
Chiusa l’epoca dei rimborsi, un partito
così dove trova fonti di finanziamento?
«Grazie a Dio il finanziamento pubblico
non c’è più. I partiti si devono adattare ai
tempi, consapevoli che molte cose del passato non torneranno. Oltre al tesseramento,
dobbiamo trovare forme alternative di autofinanziamento. Il crowdfunding è la soluzione. E anche in questo caso i protagonisti
sonoicircoli.Sono lenostreantennesuiterritori, per captare quali siano i bisogni che il
Pd deve rielaborare politicamente. Non ha
più senso chiedere soldi per tenere aperta la
sezione. Lo ha invece se offri un corso di arte
o di digitalizzazione della terza età. Tutte
iniziative dal basso. Solo così le sedi non resteranno vuote».
Coinvolgimento dal basso, rivolto a
tutti i cittadini, e senza tessere partito: non è il modello che ha affermato il
M5S?
«È molto diverso costruire un partito con
oltreseimilacircoli,centinaia disindacietanti iscritti, dal realizzare un luogo della società
civile che si afferma contro la politica. Più che
con il M5S vedo somiglianze con le esperienze
americane di MoveOn che hanno portato al
trionfo di Barack Obama nel 2008».
(Ilario Lombardo)
sabato 11 ottobre 2014
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STORIE | 5
SIMONE DONATI / TERRAPROJECT / CONTRASTO
nunci bisognerà fare i conti con
la realtà e con le croste delle abitudini collettive. A bilancio, il
crollo verticale dei proventi dal
tesseramento è impressionante: da 3.030.323 nel 2012 a
1.123.622 euro nel 2012. Il
boom elettorale di Renzi è coinciso con il tonfo delle tessere. Se
nel 2013, che è stato un anno
congressuale, gli iscritti sono
stati 539 mila, per il 2014 si parla di meno di 100 mila tessere. Il
Pd è in preda a una crisi isterica.
Gli elettori aumentano, mentre
la “base” scompare. Effetto del
renzismo? Può essere che il premier-segretario che accentra su
di sé attenzioni ed emozioni,
che ha imposto le primarie
aperte a tutti e non solo ai mili-
tanti (che in un partito “open
source” sentono meno l’appartenenza), che sta svuotando
l’antica simbologia del Pd mentre lo ha traghettato nel Pse (paradossale no?), il leader che però ha portato il Pd al 41%, sia lui
la causa dell’emorragia di
iscritti e dei circoli deserti?
A compensare nelle casse del
Pd questo forte calo c’è stata
l’impennata dei cosiddetti
“contributi da persone fisiche”:
11 milioni di euro tra le erogazioni liberali e parte dell’indennità, da 1.500 a 3 mila euro, più
cospicuo versamento iniziale,
che i parlamentari democratici,
aumentati di numero con il voto del 2013, destinano al partito. Le restanti fonti di autofi-
nanziamento sono poca roba.
Gli utili della Festa dell’Unità,
per esempio, nel 2013, quando
ancora si chiamava Festa democratica, sono stati appena 4
mila euro.
La morale è che il partito ha
speso più di quanto ha preso: 48
milioni di uscite e 37 di entrate.
Il 29% della torta, è finito alle
strutture territoriali del Pd, e a
seguire, il 21%, al personale. È
anche vero però che le cose
stanno cambiando. I dipendenti del Pd sono 143 più una trentina in aspettativa non retribuita. Un quadro guadagna circa
3.500 euro, ma per esempio con
Renzi la segreteria è composta,
tolto Filippo Taddei, da parlamentari che non gravano sul Pd
«senza rimborsi i ricchi
peseranno di più»
n Miguel Gotor approccia da storico il
tema di cosa sia, deve essere o sarà un
grande partito di massa come il Pd. E anche ora che da senatore in quota Pierluigi
Bersani, di cui è stato braccio destro nella
corsa elettorale, vive dall’interno il partito e la politica, Gotor non può fare a meno
del suo sguardo da intellettuale e accademico, poco permeabile agli umori del
momento.
Che tipo di partito serve a una società come quella italiana?
«Un partito europeo, come esiste in
Francia, Spagna, Inghilterra, che risponde a una cultura politica, e a una storia.
L’anomalia dell’Italia in questi ultimi 20
anni, la causa principale della crisi del
suo sistema politico, è che ha avuto partiti
proprietari, vedi Berlusconi, o partiti
personali che inevitabilmente seguono la
parabola carismatica del loro leader. A
destra come a sinistra: basti pensare ai
partiti di Di Pietro, di Monti, di Vendola,
di Bossi, e ora al Movimento di Beppe
Grillo».
La mutazione del Pd, con Matteo
Renzi, radicalizza l’evoluzione di un
modello più aperto ma legato comunque a una leadership carismatica.
«Un partito aggrappato solamente
con un ulteriore stipendio da
funzionario.
Tra i democratici, in tanti,
controvoglia e preoccupati, si
sono adeguati al clima imperante che vede il finanziamento
pubblico come il brodo del diavolo. I grillini sono la primizia
politica di questa stagione. E un
po’ lo è anche Renzi. A sentire
un tesoriere locale, come il ligure Giovanni Battista Raggi, che
conosce l’umore del territorio e
la disaffezione imperante, un
dubbio è lecito: «Siamo così sicuri che i cittadini faranno la fila per finanziare i partiti con il 2
per mille? Ma se hanno difficoltà le onlus a chiedere soldi per
bimbi malati di cancro…». Il timore è che la corsa al finanzia-
mento e al volontariato ci possa
essere solo in clima elettorale,
con relativo disinteresse nei periodi in cui la gente non sente la
chiamata alle armi.
Dicono però nel Pd, da sponda renziana, che il fundraising
ridarà centralità all’elettore.
Non la vede così Piero Ignazi,
politologo e autore del libro
Forza senza legittimità. Il vicolo cieco dei partiti: «Temo che il
ruolo del singolo iscritto e dei
gruppi di base non verrà rivitalizzato, continueranno a essere
gli organi centrali a contare,
sulla base dei finanziamenti
che saranno capaci di ottenere
dai grandi donatori. Come fanno i partiti a chiedere soldi se la
gente non li legittima più e ha
perso entusiasmo?».
Lo scetticismo del professor
Ignazi diventa indignazione di
fronte alla scelta di abolire i
rimborsi: «Eravamo il Paese
europeo con il più generoso e
meno controllato dei finanziamenti pubblici, mentre ora, assieme alla Svizzera, siamo gli
unici a non averlo proprio. Siamo passati da una cattiva legge
a una pessima eliminazione.
Nei sistemi che funzionano esistono controlli e sanzioni, e si
rimborsa solo quello che effettivamente si spende, senza formule forfettizzate e imbroglione». Nei sistemi che funzionano ci sono anche rodati meccanismi di monitoraggio per scoraggiare qualsiasi gommosa intrusione di misteriosi finanziatori. Ecco l’altro grande capitolo aperto: il ruolo del lobbista,
quello sì, diventa ancor più centrale, ma l’addio ai rimborsi
non è stato accompagnato da
una legge che regolamenti le
pressioni dei gruppi di interesse, anche alla luce del fatto che il
donatore privato, sia esso un
singolo o un colosso industriale, diventa una delle principali
risorse del partito. L’Italia non
ha un registro delle lobby come
negli Stati Uniti o a Bruxelles,
ma qualcosa pare si stia muovendo se è vero che da queste
parti è stato avvistato più volte il
king maker dei lobbisti Usa,
Tony Podesta. Nel frattempo
l’opacità è totale, e, come spiega
Emanuele Cozzolino, deputato
M5S e firmatario della proposta per cancellare ogni forma di
finanziamento pubblico, «alla
faccia della trasparenza, nella
nuova legge è previsto che l’elenco dei donatori venga pubblicato dopo le elezioni, non
prima». Sempre che i finanziatori, specie quelli grossi, vogliano rendersi noti. Dopotutto era
stato proprio John McCaffrey a
spiegare ai tesorieri del Pd che il
cuore del fundraising sono i
grandi gruppi. Le piccole somme dei cittadini sono il colore,
non la ciccia.
Il nuovo modello di Pd declinato al futuro potrebbe avere
due volti: simile a un comitato
elettorale, all’americana, con
eserciti di volontari che si attivano solo a ridosso delle urne,
quando l’energia agonistica attraversa l’Italia, ma anche un
partito Spa, con gli elettori azionisti. Di fronte a questi scenari,
non resta che registrare la provocazione nostalgica di chi come Ugo Sposetti, il mitico tesoriere dei Ds, ha perso la sua battaglia, e oggi viene accusato dalle nuove leve di non voler mettere a disposizione del Pd il patrimonio di circa 2 mila immobili che è in mano alle fondazioni della galassia diessina: «La
fine del finanziamento pubblico è la fine della democrazia»,
butta lì, «ma la questione è
un’altra: i partiti non ci sono
Nel 2013 il partito
ha speso più di quanto ha
preso: 48 milioni di uscite
e 37 di entrate. Il 21%
è andato al personale
più. Un partito presuppone tre
cose fondamentali: un programma, un’organizzazione e
gli iscritti. Senza, a che serve il
finanziamento pubblico?». In
verità Sposetti, in Senato, aveva
messo in guardia il Parlamento: «Solo adesso si rendono
conto che per mantenere una
struttura di partito servono le
risorse». Sono mondi lontani
tra di loro. C’è anche un’estetica
del tesoriere che li rappresenta:
Bonifazi lo vedi dondolarsi in
Transatlantico con un ottimo
taglio di abito, scarpe alla moda, barba e capelli ben curati,
un guascone toscano sempre
con un sacchetto griffato in mano; Sposetti invece veste abiti
d’ordinanza e i baffi staliniani
che tagliano quel volto da funzionario sovietico di Vladivostok. Lo attraversa una lucida
disillusione che ti lascia inquietanti interrogativi: «La politica
italiana ha scelto il finanziamento privato», dice, «ma se le
lobby ormai si sono messe in
proprio, per quale motivo dovrebbero avere interesse a finanziare un partito?»
Contro | Secondo il bersaniano Miguel Gotor
la personalizzazione impressa da Renzi rischia
di condannare il partito all’inconsistenza
alla personalità del leader rischia l’i nconsistenza. I segretari passano, i
partiti restano. Ma c’è un altro limite:
un partito di sinistra non deve fotografare la realtà o fare da nastro trasportatore dei vari bisogni, il suo compito è indicare un indirizzo. In questo
senso è significativo che nella tessera
del Pd del 2014 ci sia scritto “L’Italia
cambia il Pd”: questa è la negazione
della politica e della funzione di indirizzo che dovrebbe svolgere per non
diventare coagulo di tutti i trasformismi possibili».
È ancora necessario affidarsi a
strutture così fortemente centrali e costose?
«Una forza di sinistra come il Pd ha bisogno di risorse economiche e di una
struttura che sia al tempo stesso centrale
e radicata nel territorio per evitare di essere preda dei cacicchi locali e di pulsioni
centrifughe che fiaccano il ruolo del partito facendo il gioco della destra. Non a
caso Bersani aveva formato una segreteria composta da membri non parlamentari, per garantire l’autonomia del partito
rispetto ai gruppi delle Camere. Ora Renzi ha fatto l’esatto opposto, solo per un
semplice espediente contabile».
Resta il nodo delle risorse. La fine
dei rimborsi non ridefinisce la fisionomia di un partito?
«In Senato ho votato contro l’abolizione
dei rimborsi, in dissenso con il mio partito.
Ritengo si sia trattato di un errore fatale,
fatto per demagogia, che la sinistra sconterà a lungo. Il finanziamento pubblico è
una garanzia democratica in vigore in tutti i Paesi europei. La decisione di affidarsi
al finanziamento privato inevitabilmente
aumenterà la corruzione e favorirà i più
ricchi che condizioneranno la formazione
della rappresentanza politica».
(Ilario Lombardo)
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6 | STORIE
sabato 11 ottobre 2014
ARCHIVIO PALMA/A3/CONTRASTO
STUDENTI Vincenzo Vitiello e Alfredo Reichlin ritratti nella scuola di Frattocchie per la formazione dei futuri parlamentari del Pci, 1956, Roma
quando i compagni
andavano a scuola
Formazione | Alle Frattocchie gli aspiranti dirigenti imparavano l’ortodossia.
Poi vennero le estati dissidenti di Cortona. Ora al segretario basta House of Cards
MARCO LAUDONIO
n C’era una volta Frattocchie. Nel ‘900
di blocchi contrapposti e ideologie,
mondo libero e socialismo reale, era
d’aiuto la scuola quadri alle pendici dei
Castelli Romani per dare una pletora di
strumenti ai futuri parlamentari Pci:
dall’interpretazione giusta degli scritti
gramsciani e del quadro geopolitico utili ad aprire le riunioni con frasi passepartout quali «l’analisi del quadro internazionale e dei gravi fatti» fino al libretto del capogruppo e ai brogliacci
per la propaganda.
Ma scuole di formazione le avevano
la Dc (dal 1950 al 1970 a Roma, alla Camilluccia), il Psi, il Pri, addirittura la destra fuori dall’arco costituzionale con i
campi Hobbit tentava la strada di un
originale Pantheon tra Tolkien e Evola,
tutti sperando di costruire la classe dirigente.
In anni più recenti la formazione politica era tornata di moda, a inizio e fine
estate. Le summer school non servivano
per rinfrescare l’inglese o i fondamentali economici ma proprio per cercare una
visione del mondo, o quantomeno una
chiave di lettura. Dalla sua nascita all’avvento di Renzi la parte del leone l’ha
fatta il Pd. Per volontà di Veltroni e di
Giorgio Tonini la formazione politica
faceva parte dello Statuto Pd e nel 2008
nasceva a Cortona, in un ex convento, S.
Agostino, la scuola estiva del partito.
Quasi mille ragazzi, apertura nella
rocca di Castiglione del Lago con Edgar
Morin introdotto da un inedito Dario
Franceschini alle prese con Marx, chiusura in un afoso palasport a Montepulciano con Veltroni e scene di Into the
wild, il film della felicità reale solo se
condivisa.Su tuttoaleggiava iltam-tam
sulla presenza a sorpresa di Jovanotti,
cortonese di nascita, che però si palesava solo a tarda sera nelle cene di fronte al
Teatro Signorelli. Nella breve stagione
di Franceschini segretario la scuola andò sui binari, con il “treno per l’Europa”.
Iniziative che avevano successo ma il taglio non piacque a Bersani che le bollò,
con una delle sue metafore, come «andar per funghi». Ciò nonostante a Cortona ci si è ritrovati fino al 2013.
Dopo le primarie il Pd renziano, con
l’eccezione di una giornata sulla comunicazione all’interno della festa nazionale dell’Unità a Bologna, la formazione non l’ha più fatta. «Neanche se ne
sembra avvertire la mancanza, nel 2013
M5S è stato visto come l’innovazione,
ma il terremoto nel reclutamento non
veniva certo dalla formazione ma dalle
parlamentarie di Grillo e da quelle del
Pd, gli altri invece continuano con la filiera di cooptazione», spiega il politologo dell’Università di Siena e membro
del Direttivo dell'European Consortium for Political Research Luca Verzichelli, autore nel 2010 per Il Mulino di
Vivere di politica: come (non) cambiano le carriere politiche in Italia. La
scienza politica se ne è occupata poco
«perché la personalizzazione ha scalzato la formazione standard dei quadri
politici. Forse perché siamo stati osses-
sionati, tutti, osservatori e politici, dalla
ricerca del leader, e il rischio è che si siano formati polli di batteria. Mentre i
partiti di massa coltivavano i politici in
filiere diverse da quelle degli amministratori,oggiessere segretariodicircolo
non è un trampolino, invece essere nello
staff di chi guida il partito può essere
molto più utile per finire in lista. L’elevata percentuale di professionisti della
politica ha essenzialmente un background amministrativo locale, alcuni
sono funzionari degli organismi di partito».
Si potrebbe pensare che ci si forma su
twitter ma la sua analisi è confermata
anche dalle nuove leve come Giacomo
Le leopolde sono l’essenza
del renzismo, interventi
di 7 minuti, senza
documenti o bibliografia
Possamai, vicesegretario uscente dei
Giovani Democratici, capogruppo Pd al
comune di Vicenza dove è stato il candidato più votato. «La politica solo virtuale non va, i social network possono essere utili ad agganciare i ragazzi disinteressati alla politica e convincerli a votare, ma non riescono nelle realtà locali a
farti emergere. Si cresce sul campo, si
viene buttati in acqua senza saper nuotare, questo ha alcune qualità e alcuni li-
miti, manca qualcuno dei fondamentali, se la palestra è da consigliere o assessore può mancare l’agilità nel processo
legislativo e nei contesti nazionali».
Il Pd partito di sindaci però di formazione ne parla, il premier-segretario ha
citato la serie tv House of cards come
momento formativo, ma il Pd non ha
più organizzato nulla. Almeno per il
momento. Non sappiamo se perché la
memoria da elefante di Renzi non cancella la sovrapposizione tra la 2 giorni
napoletana di Finalmente Sud!, la
scuola per i ragazzi del mezzogiorno, e
la fiorentina kermesse della Leopolda.
Certo è che l’impostazione cortonese
stride con il nuovo corso: i professori
universitari stavano proprio in cattedra, i sindaci che intervenivano erano
pochi, quelli che dissentivano dalla linea Pd non pochi. La scuola era un battesimo o un ritorno alla politica, tanto
che prima della sbornia per la democrazia diretta grillina si sperimentò la democrazia partecipativa sulla regolamentazione del lavoro confrontando e
votando le proposte di Ichino, Treu,
Damiano. Sforzo che a fronte della nuova stagione, che si vuole riformista, dei
1.000 giorni con la probabile battaglia
parlamentare sul Jobs Act, forse andrebbe riproposto. Difficile che accada.
Il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, ha annunciato per il 24 ottobre la nuova Leopolda. Sempre nell’ex
stazione di Firenze con interventi di 7
minuti, senza documenti o bibliografie,
probabile #leopolda2014 in vetta ai TT.
Le leopolde sono l’essenza del renzi-
smo, senza mai bandiere Pd, e nel frattempo la spending review dei bilanci di
partito, ha lasciato campo libero a altre
iniziative correntizie, spesso ingessate o
parziali. I “giovani turchi” di Rifare l’Italia, la corrente del presidente Pd Matteo Orfini, hanno organizzato 4 weekend formativi. I FutureDem, i giovani
più convinti della svolta impressa da
Renzi, a #Cambiarelitalia hanno discusso soprattutto con esponenti di governo e si sono presentati libri su Renzi
e l’autobiografia di Claudio Martelli.
Questo 2014 di presunto, rinnovato
primato della politica sembra il passaggio dalla politica pop - come l’hanno definita nell’omonimo libro Mazzoleni e
Sfardini - a un pop post-politico, leggero e veloce, più immagine che approfondimento. Per Verzichelli «si è coltivato il mito della formazione parallela
ma i comunicazionisti si sono illusi di
poter servire i partiti leggeri. Ma pur
trovando il leader, il Pd, formando pochi quadri, trova sempre meno persone
che san parlare alla gente».
È quella che il sociologo Aldo Bonomi definisce l’egologia predominante in
questi anni di eclissi della società di
mezzo, di partiti e sindacati. Senza più
la necessità di affiancarsi a personaggi e
stili pop, via le Mannoia e i Baricco, i Pif
come gli Umberto Eco, i leader politici
diventano tra camicie bianche, tweet,
balli di gruppo sulle note di Happy, personaggi muscolari, più da rotocalco che
da cronaca politica. Una semplice sovrastruttura avrebbe detto Carlo Marx.
@marcolaudonio
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8 | STORIE
sabato 11 ottobre 2014
una spia neuro-diversa
salverà il Regno dal Califfo
Intelligence | I servizi britannici arruoleranno 120 agenti affetti da dislessia
o disprassia. Un paradosso? Tutt’altro. Il disturbo li abitua a cercare strade
alternative, rendendoli molto più creativi dei colleghi. Come insegna Alan Turing
GIAN MARIA VOLPICELLI
n LONDRA. Dopo il sì del
Parlamento inglese ai raid
aerei contro l’Isis in Iraq,
l’intelligence britannica ha
portato l’allerta terrorismo
ai massimi livelli, aumentando anche la sorveglianza
sul web per individuare
eventuali minacce. Si teme
che dal Medio Oriente possano arrivare azioni di rappresaglia concrete, ma anche attacchi virtuali da parte
di hacktivists ostili.
L’asso nella manica della
Gchq – Government Communication Headquarters,
l’agenzia dei servizi segreti
del Regno Unito che si occupa di monitorare le comunicazioni (vedi box a lato) –
saranno più di 120 agenti
dislessici o affetti da disprassia (un disturbo che limita le capacità di coordinazione).
Le persone dislessiche,
che faticano a leggere e
comprendere testi relativamente semplici, sono anche
molto creative e particolarmente abili quando si tratta
di decifrare messaggi in codice. Lo stesso Alan Turing,
il grande matematico ed
esperto d’informatica britannico che durante la Seconda guerra mondiale riuscì a decrittare il linguaggio
segreto nazista Enigma, era
dislessico.
«Quello che la gente spesso non capisce è che le persone “neuro-diverse” hanno
delle capacità che si bilanciano fra loro: alcune sono
molto sotto la media, altre
ben al di sopra» ha dichiarato al Sunday Times uno degli agenti dislessici che lavorano nella Gchq, Matt. «Io
leggo più lentamente dei
miei colleghi, e scrivo malissimo, ma mi trovo anche a
essere uno dei più creativi
dell’intera agenzia».
Per sopperire alle difficoltà nell’interpretare messaggi scritti, i dislessici devono
imparare ad affinare le capacità inventive. Questo li
porta ad approcciarsi ai testi
da una prospettiva diversa
da quella del lettore comune. Per dirlo con una metafora usata dall’ex cyber-analista di Scotland Yard Alan
Culley, in un’intervista al
Daily Mail: «La maggior
L’AGENZIA
GCHQ
I decriptatori nell’ombra
ARTHUR EDWARDS - WPA POOL / GETTY IMAGES
STRUMENTI
La regina Elisabetta
preme il pulsante di
Enigma, la macchina
ideata da Turing per
criptare e decifrare
messaggi, presso
Bletchey Park , centro di
crittoanalisi britannico
durante la Seconda
guerra mondiale
parte delle persone capisce
quale sia l’immagine di un
puzzle solo quando è quasi
finito; i dislessici sono in
grado di capirlo anche avendo solo due tasselli a disposizione».
La Gchq ha pertanto approntato un gruppo di supporto per agenti con dislessia e disprassia, in modo da
agevolare l’inclusione di individui “neuro-diversi” nei
suoi ranghi.
Si tratta solo di una delle
varie iniziative adottate dall’intelligence del Regno
Unito per portare avanti
un’operazione di restyling e
riorganizzazione. Per troppo tempo il profilo medio
delle spie al servizio di Sua
Maestà è stato pericolosamente ricalcato sul modello
James Bond: gli agenti erano maschi eterosessuali,
bianchi, provenienti da famiglie ricche e laureati in
università d’élite come
Oxford o Cambridge. I processi di selezione erano
spesso dominati da logiche
nepotistiche o sfacciatamente discriminatorie.
Negli ultimi tempi le cose
hanno cominciato a cambiare. La Gchq ha recentemente attivato un’iniziativa
volta a incoraggiare nuovi
talenti, inviando degli addetti in una ventina di scuole elementari e medie di tutto il Paese per promuovere
lo studio di scienze, matematica, informatica e ingegneria. La particolarità di
questo programma è che esso è rivolto soprattutto a
giovani di sesso femminile –
in linea con l’obiettivo di
raggiungere il 35% di dipendenti donne, che a oggi costituiscono solo il 23% degli
agenti dell’organizzazione.
Anche sul fronte dei diritti delle persone gay, lesbiche, omosessuali e transgender (Lgbt) la Gchq è all’avanguardia: è membro
dell’organizzazione gay Stonewall, e ha al suo interno
una nutrita associazione per
la difesa dell’orgoglio omosessuale. Il sito dell’agenzia
mette in bella mostra un
banner in cui Kate, una dipendente lesbica che lavora
come consulente, spiega che
sul posto di lavoro «c’è una
rete di persone Lgbt attivissima» e che alla Gchq «vie-
ne premiato chi lavora duro,
qualunque sia il suo orientamento sessuale».
Si tratta senza dubbio di
un passo avanti rispetto all’epoca di Alan Turing. Nonostante il suo contributo
decisivo alla lotta contro la
Germania nazista, nel 1952
Turing fu arrestato a causa
della sua omosessualità (all’epoca ancora un reato in
Gran Bretagna). Cacciato
con disonore dalla Gchq,
Turing fu condannato alla
castrazione chimica per
mezzo di iniezioni di estrogeni, che lo resero impotente e gli fecero crescere il seno. Umiliato e depresso, il
matematico si suicidò un
paio d’anni dopo. Solo nel
2009, dopo una campagna
web, il primo ministro Gordon Brown si scusò pubblicamente per l’ingiustizia e
l’ingratitudine con cui Alan
Turing era stato trattato.
Fondata nel 1919 come Government Code and Cypher
School, e ribattezzata Government Communication Headquarters nel secondo dopoguerra, la Gchq è rimasta a lungo semisconosciuta alla maggior parte degli inglesi. Mentre
i fratelli maggiori MI5 e MI6
solleticavano
l’immaginario
del pubblico nelle loro incarnazioni cinematografiche, l’agenzia di sorveglianza delle comunicazioni continuava a lavorare più o meno nell’ombra, anche perché le sue mansioni erano assai meno adrenaliniche
delle sparatorie alla 007.
A lavorare nella Gchq erano soprattutto matematici e linguisti, che captavano le comunicazioni satellitari del globo per
origliare informazioni militari,
diplomatiche e commerciali,
ritenute vitali nella Gran Bretagna della Guerra Fredda.
Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, la Gchq si trasferì in un
nuovo quartier generale a
Cheltenham, Inghilterra occidentale, soprannominato confidenzialmente La Ciambella, e
ampliò il proprio raggio d’azione iniziando a scandagliare il
mare magnum del web.
L’agenzia arriva sotto i riflettori lo scorso anno, dopo le rivelazioni dell’ex informatico dell’Nsa Edward Snowden al
Guardian. Insieme all’omologa americana Nsa, anche la
Gchq sarebbe coinvolta in Prism, il programma di sorveglianza globale di internet e del
traffico cellulare. Con la stessa
Nsa, e con i servizi canadesi,
neozelandesi e australiani, la
Gchq sarebbe poi parte dell’alleanza segreta Five Eyes, che
prevede la condivisione delle
informazioni intercettate fra i
vari servizi.
L’agenzia ha anche attirato le
ire dei leader del G20, le cui comunicazioni sarebbero state
spiate nel corso di un summit a
Londra nel 2009.
In seguito all’affaire Snowden,
nel novembre 2013 il direttore
della Gchq è apparso in televisione per la prima volta nella
storia, per rispondere a una
commissione parlamentare in
merito ai metodi poco trasparenti dell’organizzazione, ai
rapporti con i servizi americani, e all’accusa di aver sorvegliato i leader di alcune ong impegnate nella difesa dei diritti
umani.
sabato 11 ottobre 2014
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STORIE | 9
FRANCESCO PATERNÒ
n «Ho detto a Palmer di portarsi un cambio. Anzi, meglio
due». Sergio Marchionne, che
con il suo maglione di un solo
colore può tirare avanti per
giorni, trasforma in una facile
battuta l'ordine dato a Richard Palmer, il capo della finanza di Chrysler. Perché lunedì 13, l'uomo dei conti fa appena in tempo a sentire la
campanella di Wall Street
Dopo la quotazione
Marchionne promette
un porta a porta
dagli investitori
suonare il benvenuto al nuovo
titolo Fiat Chrysler Automobiles, per poi schizzare fuori
con camicie e cravatte insieme
al suo boss a cercare soldi per
la nuova creatura.
Marchionne ha promesso
un porta a porta «con la valigetta in mano» presso gli investitori americani per ottobre e novembre, con l'obiettivo di rendere più appetibile il
nuovo titolo e portare a casa
denaro necessario a finanziare un piano industriale da 64
miliardi di dollari da qui al
2018. Quando negli obiettivi
il gruppo dovrà vendere il
60% in più e sbarazzarsi di un
indebitamento che oggi viaggia intorno ai 10 miliardi di
euro, puntando su uno sfavillante mercato nordamericano
che però – avverte più di un
analista - potrebbe rallentare
proprio dalla fine del 2015.
Quando i tassi di interesse,
bassissimi e dunque droga per
i mercati, cominceranno a risalire.
Al New York Stock Exchange la campanella suona soprattutto per Chrysler che,
benché insieme a Fiat, torna a
Wall Street dopo sedici anni.
Era il 1998 e anche allora la
più piccola delle tre Big di Detroit rientrava in borsa attraverso una fusione con Daimler che l'aveva comperata
spendendo 36 miliardi di dollari. Poco più di tre lustri dopo, un clamoroso divorzio con
i tedeschi e un'avventura finita male con il fondo Cerberus
nel 2007 in cambio di altri 7,4
miliardi di dollari, Marchionne ha messo le mani sull'icona
americana dell'auto facendo
quel che per adesso si è rivelato l'affare della sua vita: per
3,7 miliardi di dollari, ha fuso
le attività di Chrysler con Fiat
salvando entrambe dalla bancarotta.
Per la piccola grande di Detroit, anzi di Auburn Hills appena fuori la capitale del Michigan, il 13 ottobre è però
una giornata particolare. Perché sarà lei, il gruppo comprato dagli stranieri, a guidare la
nuova società nata dalla fusione e non il contrario, proveniendo già oggi dal Nordamerica il 60% degli utili di gruppo. La Chrysler torna insomma a essere americana a tutti
gli effetti, pure travestita da
multinazionale con quartier
generale a Londra, di nuovo
una delle tre insieme alla Gm
e alla Ford che gli investitori
possono prendere in considerazione per fare affari.
Nel 2009, l'amministrazio-
OHIO Un operaio monta pneumatici su una Jeep Wrangler presso lo stabilimento Chrysler North Assembly di Toledo
BILL PUGLIANO / GETTY IMAGES
così la Chrysler
torna americana
Auto | Rientra in Borsa (con Fiat) dopo sedici anni. E riprende
il suo posto tra le big di Detroit. La scommessa obamiana
è vinta? Ecco per chi suona la campanella di Wall Street
ne Obama diede a Marchionne le chiavi della Chrysler in
bancarotta pilotata e prestiti
agevolati (rimborsati in anticipo) per gestire quel che si sarebbe rivelato un successo
manageriale dell'uomo col
maglione. Per Obama, il salvataggio della Chrysler (e della Gm) con l'iniezione di 60
miliardi di denaro pubblico
(più i precedenti 25 dell'era
Bush) è stata invece la più solida vittoria politica e base
della sua rielezione. Conquistando per esempio nel 2012
lo stato dell'Ohio, che valeva
850 mila posti di lavoro dell’automotive, culla industriale
della Jeep e senza il quale nessun candidato repubblicano è
mai riuscito ad arrivare alla
Casa Bianca.
Cinque anni dopo, la campanella del Nyse suona anche
per molti lavoratori del gruppo americano. Nelle fabbriche
e negli uffici della Chrysler,
della Jeep e degli altri marchi,
il numero dei dipendenti è
passato in questi cinque anni
da 32 mila a 55 mila. Una crescita netta, anche se va tenuto
in conto che nell'ultima fase di
Daimler e poi di Cerberus ci
furono molte incentivazioni a
licenziarsi (haircuts in America) per mostrare al nuovo
compratore quanto fosse basso il costo del lavoro.
Il sindacato dei metalmeccanici, lo Uaw, l'ha però pagata cara insieme ai suoi aderenti, firmando un contratto in
cui si rinunciava a benefit, si
dava ai neo assunti la metà
della paga degli altri a parità
di funzioni, si negava il diritto
di sciopero. Nel 2015, questo
contratto scade e il sindacato,
che nel giugno scorso ha cambiato presidente, chiederà a
Marchionne e ai suoi omologhi di Gm e Ford (cambiati
anche loro) di mettere un'altra marcia. Nel 2013, gli
iscritti a Uaw sono aumentati
del 2% come non accadeva dal
2008, meno di 400 mila persone rispetto agli oltre un milione e mezzo del 1979: è sicuro che alla Chrysler come nelle
altre due Big ci saranno pressioni fortissime per avere una
busta paga più pesante, con
dentro anche il sacrosanto diritto di sciopero.
Ma per la Chrysler fusa con
la Fiat, i problemi maggiori
potrebbero venire dal merca-
to di riferimento nordamericano. Qui il gruppo di Auburn
Hills sta macinando record di
vendite, lo scorso settembre è
stato il 53esimo mese consecutivo di crescita, da tempo a
due cifre (+19% complessivamente, +47% per Jeep marchio-gallina dalle uova d'oro).
E fanno soldi a palate in parti-
Sta macinando record
sul mercato Usa.
Ma il meglio potrebbe
essere già alle spalle
colare i marchi degli enormi e
americanissimi pick up, come
Ram e Dodge Ram.
In un report di Exane Bnp
Paribas pubblicato alla vigilia
dell'esordio borsistico di Fca,
il capo analista Stuart Pearson ha scritto che il mercato
statunitense è sì cresciuto del
30% negli ultimi tre anni, ma
«il meglio potrebbe essere
passato». E così, mentre il 13
ottobre la Chrysler farà fremere d'orgoglio molti ameri-
cani, la banca d'affari francese
consiglia agli investitori di
«ridurre l'esposizione sugli
Usa»; meglio puntare sulla
solita Cina e (paradossalmente) sull'Unione europea dove
si attende una ripresa della
produzione.
La nota dell’analista è arrivata dopo una settimana pesante per le altre due Big americane: la Ford ha dovuto rivedere al ribasso gli obiettivi a
causa degli smottamenti dei
mercati in Russia, in America
Latina e in Europa, la Gm è
stata bastonata in borsa dopo
che un analista di Morgan
Stanley ha dato un outlook
negativo sui profitti. Marchionne ha invece ribadito
che i suoi obiettivi restano intatti e che di una eventuale revisione se ne parlerà semmai
alla fine di ottobre, dopo la
presentazione dei risultati del
terzo trimestre.
Il report della banca d’affari
francese è insensibile alle sirene dell’amministratore delegato di Fiat Chrysler e al doppio cambio in valigia di Palmer: il titolo Fca .- si legge ancora nella nota agli investitori
- rimane «il meno attraente»
fra i tre di Detroit, perché la
gamma Fiat Chrysler è invecchiata e quando scatterà nel
2016 la vera offensiva dei nuovi modelli il mercato Usa potrebbe «indebolirsi»; perché
il gruppo paga un ritardo
enorme in Cina; perché
Chrysler – rispetto a Gm e
Ford – ha meno capacità di
generare cassa.
Eppoi, questi italiani. Exane dice a Chrysler perché suocera Fiat intenda: la banca
consiglia agli investitori i titoli
Gm e Ford perché danno più
garanzie ai loro azionisti di un
ritorno, mentre in Fca agli
azionisti potrebbe essere chiesto di mettere soldi per l’esecuzione del piano industriale.
Il 29 ottobre il consiglio di
amministrazione di Fiat
Chrysler Automobiles si riunirà per valutare tutte le opzioni. Marchionne, per una
volta, è stato sibillino: non
esclude nulla e sostiene di rimettersi alla volontà dei soci.
«L’aumento ci sarà - ci dice un
altro analista - non si è mai visto un Marchionne che non sa
cosa farà tra un mese». La famiglia azionista di riferimento Agnelli-Elkann non mette
un euro dal 26 giugno del
2003 (550 milioni). E nessuno ha poi gradito che Marchionne abbia escluso una
quotazione a parte della Ferrari, il gioiello del gruppo per
utili e prestigio internazionale. Forse sarebbe bene che
Palmer disobbedisse per una
volta al suo capo e si portasse
dietro non due cambi, ma sette camicie.
@fpatfpat
pagina 99we |
10 | STORIE
VASCO BRONDI
Lungo lo stradone una fila di negozi
con tutti i sacramenti moderni, e donne che vanno a far la spesa pedalando
come se il tempo per loro non avesse peso. Una chiesetta in stile gotico d’epoca
fascista, fioriture di antenne televisive
sui tetti, e anche qui quel tono da vita
nelle riserve. È un po’ come essere sotto
il livello standard del progetto finanziario di vita universale
Gianni Celati, Verso la foce
n Mi sono accorto all’improvviso di vivere in Emilia attraverso le cose che
leggevo, le canzoni che ascoltavo, i film
che guardavo. Sono cresciuto a Ferrara
e sembrava normale tutta quella pianura attorno, il fiume enorme vicino alla città, l’accento, la simpatia, le lamentele, il dialetto, le strade strette, i campi
arati, i cieli bianchi, i paesaggi geometrici, le bestemmie, le preghiere, il silenzio di mattina, di pomeriggio e di sera. Probabilmente da piccolo credevo
che tutto il mondo fosse più o meno così. La mia cartina geografica dell’Emilia è stata disegnata dai libri, dai dischi
e dai film che rendevano protagonisti
quei posti che sembravano anonimi,
sembravano luoghi in cui niente sarebbe potuto succedere.
Mi hanno fatto scoprire il posto in
cui vivevo e da cui volevo ovviamente
andarmene in fretta. Forse davvero
non c’è niente di speciale, solo ottimi
raccontatori che hanno reso epici dei
posti minuscoli. Come quando ho sentito una canzone di Lucio Dalla che diceva Tra Ferrara e la luna e non ci po-
sabato 11 ottobre 2014
cronache emiliane
d’epica geografia artistica
Paesaggi | La Ferrara di Bassani e di Antonioni. E poi la Bologna disegnata
da Pazienza, il bar di Tondelli, i percorsi di Celati. Il cantautore ripercorre
per pagina99 la topografia eroica dei posti raccontati da libri, canzoni e film
Uno scenario bello e triste,
poiché come scriveva
Zavattini la malinconia è
originaria del Po, altrove
si tratta di imitazioni
tevo credere. Tutte queste opere sono
state per me come un libretto d’istruzioni scritto in modo poetico. Piazza
Verdi e la coda per la mensa dell’università di Bologna disegnata da Pazienza in Pentothal. Le mitiche avventure del Posto Ristoro, il bar vicino alla
stazione di Correggio descritto da Tondelli in Altri libertini. Le case misere
ma fiere abbandonate in mezzo alla
campagna e fotografate da Ghirri. Il
diario allegro e disperato del viaggio a
piedi sull’argine del Po scritto da Celati. Una passeggiata sulle mura di Ferrara in un inverno del 1944 descritta da
Bassani che potrebbe essere dell’inverno scorso o del prossimo inverno. Ferrara sempre identica in bianco e nero
nel 1950 nel primo film di Antonioni e a
colori nel 1995 nel suo ultimo film. Zavattini che torna da Roma per stare un
mese nel suo paesino d’origine, Luzzara, pernottando in una casa del centro e
nell’appartamento di sopra sentiva un
bambino piangere e la madre che si
svegliava e lo raggiungeva camminando sui talloni perché il pavimento era
gelato.
Ho fatto viaggi di pochi chilometri
nei posti meno turistici del mondo e mi
sono sembrati bellissimi, cercando i
luoghi che leggevo sui libri. Posti insignificanti diventavano leggendari. I
Cccp che dicevano «Non a Berlino ma a
Carpi» e io non capivo niente e con un
mio amico abbiamo preso un paio di
treni a sedici anni e siamo andati a Carpi a vedere cosa c’era se la consideravano addirittura meglio di Berlino. Abbiamo trovato una piazza enorme deserta, tantissima gente normalissima,
nessuno vestito come noi ma ci è piaciuta comunque. Forse alla fine abbiamo capito che più o meno era come stare a Ferrara e allora ci è venuto il dubbio
SCENARI In alto a sinistra, la
foto realizzata da Luigi Ghirri
per la copertina dell’album
Epica Etica Etnica Pathosdei
Cccp. In alto a destra,
Bologna, via Stalingrado
che intendessero che i nostri posti andavano benissimo e che anche lì i desideri si possono realizzare.
Ho incontrato Massimo Zamboni
dei Cccp qualche giorno fa per uno
spettacolo che abbiamo fatto assieme.
Dice che gli sembra incredibile la traccia che hanno lasciato i Cccp e quello
che tutti si immaginano «quando noi –
mi ha detto – stavamo in piedi per mi-
racolo». E ho pensato che i miracoli sono importanti.
Una volta sono andato in macchina a
Canolo, la frazione del comune di Correggio dove sorge in mezzo ai campi un
piccolo cimitero quadrato, una specie
di fortino, splendido. Ho parcheggiato
lì davanti, c’ero solo io. Seguendo il portico a destra, in fondo in alto ho trovato
la lapide di Pier Vittorio Tondelli con
una foto che non avevo mai visto, sullo
sfondo dietro di lui dei graffiti, non mi
ricordo che espressione avesse, credo
sorridesse perché mi aveva reso felice.
Per qualche strano motivo mi si stringe
ancora la gola quando ripenso a uno
scritto di un amico di Tondelli andato a
trovarlo in ospedale in uno degli ultimi
giorni della sua vita. Tondelli sentendosi chiedere come stava rispondeva
sabato 11 ottobre 2014
| pagina 99we
STORIE | 11
L’AUTORE
n Cronache Emiliane è il titolo dello spettacolo
che Vasco Brondi ha concepito per Romaeuropa Festival (andrà in scena il 17 e il 18 ottobre a
Roma, presso la Pelanda del Macro testaccio,
ore 22.00). Il cantautore presenterà le sue canzoni accompagnate da alcune letture elettrificate (l’accompagnamento musicale è affidato a
Federico Dragogna). La scenografia dello spettacolo sarà realizzata invece con le foto di Luigi
Ghirri.
L’idea, che Vasco Brondi ha esemplificato
nell’articolo scritto appositamente per pagina99, è quella di raccontare i suoi luoghi, le piccole cittadine emiliane, come un genius loci: un
luogo dell’affetto, un territorio geografico, musicale, culturale e politico sospeso tra la terra e
la luna.
A partire dalle immagini di Luigi Ghirri,
ognuna delle quali è un vero e proprio set di
una raccolta di narrazioni, Le Luci della Centrale Elettrica presenterà musiche originali, cover stravolte e testi di Gianni Celati, Roberto
ILARIA MAGLIOCCHETTI LOMBI
Roversi, Pier Vittorio Tondelli e Cesare Zavattini. Un viaggio nell’immaginario che nutre la
poetica dello stesso cantautore, reduce del successo del suo ultimo disco, Costellazioni, o un
percorso per confondere la Via Lattea con la
Via Emilia.
ARCHIVIO GHIRRI
ARCHIVIO GHIRRI
«infinitamente triste». E poi diceva di
non avere lavorato abbastanza e che sarebbe passato alla storia come uno
scrittore emiliano minore. Invece con i
suoi libri mi ha cambiato la vita.
Sono stato a Gualtieri, il paesino dove ha vissuto e disegnato Ligabue, pioveva e nella piazza il museo che ospita i
suoi quadri era chiuso per i danni causati dal terremoto, in piazza solo un si-
gnore anziano seduto con l’ombrello
aperto su una panchina e due operai
maghrebini che lavoravano in una casa
che affaccia sull’argine e poi sempre affacciato sull’argine l’unico negozio
aperto, un kebabbaro. Chi ci avrebbe
mai pensato.
Anche quando il comune ha messo
una targa sulla casa in cui è cresciuto
Antonioni a Ferrara pioveva. La casa
adesso è appena fuori dal centro, mentre prima, racconta Celati, in quel punto si era praticamente in mezzo a un bosco. Scrive Wim Wenders nel suo diario delle riprese di Al di là delle nuvole,
l’ultimo film di Antonioni di cui Wenders era tecnicamente co-regista, che
Ferrara era una delle pochissime parole che Antonioni riusciva ancora a dire
non essendo più in grado di parlare a
causa della malattia. Wenders vedendosi tagliare nel montaggio finale tutte
le scene girate in città e chiedendo spiegazioni ad Antonioni questo gli rispondeva semplicemente Ferrara e indicava verso di sé, per dire che Ferrara era
sua e poteva riprenderla solo lui. Antonioni che scriveva: «Il resto è nebbia. Ci
sono abituato. A quella che circonda le
nostre fantasticherie e a quella di Ferrara. Qui, d’inverno, quando scendeva
mi piaceva camminare per le strade.
Era il solo momento in cui potevo pensare d’essere altrove».
A Ferrara ancora adesso cammino
nelle strade descritte da Bassani, passo
davanti al vecchio carcere dove durante il fascismo era finito anche lui ma diceva che si era trovato molto bene, che
in quegli anni in carcere c’era anche
della gente bellissima.
Sono riuscito a incontrare Gianni
Celati ma non gli ho detto che grazie al
suo libro Verso la foce ho fatto uno dei
viaggi più belli che mi sia capitato andando in bicicletta per cento chilometri dal centro di Ferrara fino a Goro, la
foce del Po, procedendo sempre dritto,
scendendo dall’argine solo per prendere qualcosa da bere in un bar. Vedere
all’improvviso che comparivano in cielo i gabbiani. Trovare nel piccolo porto
di Goro quello che credevo fosse un bar,
perché c’erano davanti seduti una decina di anziani che parlavano e giocavano a carte, invece entrando nel chiosco
mi sono accorto che dentro c’erano solo
macchinette automatiche ma che era
comunque un luogo di incontro.
Un giorno in una lunga deviazione
nella strada che faccio spesso da Ferrara a Milano ho trovato la casa di Luigi
Ghirri a Roncocesi, la casa in cui ha vissuto gli ultimi anni, quella fotografata
da lui con la neve davanti e per terra la
traccia di ruote. Anche quando ho cercato quella casa sembrava stesse per
nevicare e non sono sicuro di averla trovata, si somigliavano tutte. Ripensavo
a Ghirri che scrive che Zavattini scrive
che la malinconia è originaria del Po,
che altrove si tratta di imitazioni.
le mappe dell’appartenenza
del provinciale Luigi Ghirri
Sguardi | Fotografava nei dintorni
di casa, ma poteva essere l’America. E
l’assenza di storia diventava narrazione
Ostiglia, centrale elettrica, 1987
ANDREA DUSIO
n Con un nome così fotografico per il
proprio progetto, Le luci della centrale
elettrica, è probabile che Vasco Brondi
senta un’affinità naturale col lavoro sul
paesaggio che incarna la parte più conosciuta della produzione di Luigi Ghirri,
quella schiacciata sull’idea di emilianità
che è diventata un po’ il discorso minimo attorno al fotografo di Scandiano.
Esiste però una consonanza più sfuggente, inscritta in una sensibilità poco
italiana, sensibilità nel caso di Brondi
continuamente fraintesa dalla critica
attraverso i paragoni con la scuola dei
nostri cantautori, e che anche in merito
a Ghirri si presta ad analoghi travisamenti, per lo scambio superficiale tra
sguardo e oggetto.
Quando, verso la metà degli anni Settanta, l’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Parma era uno degli avamposti di riflessione sulla fotografia contemporanea, Ghirri, che allora era interessato soprattutto all’arte concettuale e alla
ARCHIVO GHIRRI
registrazione dalla rappresentazione di
territorio e paesaggio (le sue mappe precorrono quello che è diventato uno dei temi fondamentali del design), ebbe modo
di conoscere alcuni fotografi americani
che spostarono sensibilmente i suoi interessi, a partire da Walker Evans, Dorothea Lange e Lee Friedlander. A quel
tempo, la fotografia italiana era ancora
soprattutto di reportage, disconosciuta
come linguaggio ad alto potenziale di
sperimentazione, relegata nella retroguardia del sistema delle arti visive, anche come valore mercantile. Ghirri, in cui
oggi ci sembra di ravvedere la lezione di
Morandi, rimase in realtà profondamente affascinato dalla straight photography
di Evans, così lontana dal pittoricismo residuale dei nostri fotografi di paesaggio.
Pur se mediata dall’esempio local-local dei bolognesi Massimo Volume, la
musica che costituisce la texture per le
canzoni di Vasco Brondi è anch’essa di
ascendenza schiettamente americana,
gemmazione del noise-rock dei newyorkesi Sonic Youth. Feedback, chitarre preparate e accordature alternative indicate
dal compositore Glenn Branca alla band
di Thurston Moore e Lee Ranaldo suonavano nel panorama dell’art rock all’inizio
degli anni Ottanta come una terza via tra
la frigidità del post-punk e la fisicità del
garage. La ricezione di quella lezione avvenne in Italia con almeno un decennio
di ritardo. Ma rappresentò un enorme allargamento delle risorse espressive, risolvendo il problema dell’incompatibilità della nostra metrica con il rock. Ghirri
guardava a Evans e Friedlander, il leader
dei Massimo Volume Emidio Clementi sul cui esempio è modellato l’asimmetria
apparente tra economie di testi e suoni
che è il tratto distintivo del progetto Luci
della centrale elettrica - a Jim Carroll e
Robert Lowell.
Senza spingere oltre le analogie, sembra importante recuperare l’osservazione delle foto di paesaggio di Ghirri, continuamente a rischio di sprofondare in un
immaginario emiliano indistinto in cui si
mescolano Fellini e Delfini, Marino Moretti e Silvio D’Arzo, Giovanni Lindo Ferretti e Franco Maria Ricci, a una riflessione che ponga la sua opera a confronto con
quella dei maestri americani così bene
messi a fuoco in quella fucina teorica parmigiana (si pensi ai contributi di Arturo
Quintavalle). E dunque William Eggleston, Paul Strand, Ansel Adams, i New
Documents e New Topographics, oggetto di un’attività critica in prima persona
che appare oggi la chiave d’accesso più interessante per un nuovo approccio al suo
lavoro.
La questione dell’appartenenza ai luoghi però resta, e con essa il tentativo di far
coincidere la passione per i viaggi domenicali, quelli che Ghirri poteva compiere
senza allontanarsi che pochi chilometri
da casa, con la ricerca ossessiva delle inquadrature naturali, come un segno nel
segno (una mappa nella mappa?) entro
cui il paesaggio, e dunque lo spazio, si
rappresenta come una tautologia, con
una forza raddoppiata. Un pezzo di architettura rimasto a delimitare un brano di cielo, un filare di alberi, il cancello
che è tutto ciò che resta di un’antica proprietà. Perimetrare, delimitare, e il suo
contrario, aprire, sconfinare. Il senso intrinsecamente americano del suo lavoro
è inscritto anzitutto nella scelta della
provincia come luogo in cui l’assenza di
storia diventa narrazione visiva e soglia,
adesione al luogo che contiene anche l’evasione da esso e da sé, come chi sappia
che il proprio sguardo è destinato a dissolversi prima del più insignificante angolo di mondo.
pagina 99we |
12 | OPINIONI
CHRISTIAN RAIMO*
u L EG G E R E
n Qualche settimana fa a Bologna si
è svolto un convegno organizzato
dall’associazione Hamelin sugli adolescenti e la lettura.
Per chi non li conosce, gli Hamelin
sono un gruppo di Bologna che in
questi anni, attraverso una rivista e
cento iniziative, sono diventati un riferimento rispetto alla lettura per ragazzi e per l’infanzia. Incredibilmente, a seguire l’incontro c’erano 300
persone (insegnanti, bibliotecari,
editori…) che avevano pagato 35 euro l’una, il che mi sembrava quanto
meno un indizio evidente di un interesse non marginale per questi temi
oggi in Italia, e la domanda enorme
di formazione. Ha aperto la giornata
Romano Montroni, libraio storico
(alle Feltrinelli o poi alle Coop) e
neo-direttore del Cepell, il Centro
per il Libro e la Lettura, e per fortuna
ha dato un segno inequivocabilmente diverso rispetto al suo predecessore. Se Gian Arturo Ferrari (alla Mondadori per anni) parlava di nuove
la politica analfabeta
e il crollo del welfare culturale
strategie di mercato per vendere i libri nell’era del passaggio dal cartaceo
al digitale, Romano Montroni giustamente se ne frega di questa falsa
questione e pone l’accento sugli interventi educativi. Quindi lancia per
la fine di ottobre (29, 30, 31) una tre
giorni di letture ad alta voce proprio
nelle scuole. Il titolo scelto è Libriamoci.
Si potrebbe applaudire all’iniziativa, se non fosse che mi sono venute in
mente almeno un paio di obiezioni che
da vari anni a questa parte chiunque si
occupa di politica culturale pone.
La prima, che senso hanno queste
iniziative sporadiche, una tantum,
simboliche? La seconda, perché non
partire dai modelli di promozione
della lettura che già esistono, mapparli, metterli in rete, valutarli e da
quelli progettare gli interventi?
Queste obiezioni non sono come si
dice di scuola. (Quando vedo che il
Tropico del Libro, un sito che si occupa di editoria, lancia Open Atlas
sulla lettura per ragazzi, una rete che
mappi le varie iniziative che esistono
in Italia, dalla rivista Andersen a Biblioragazzi ai Piccoli Maestri, mi viene da dire: ma perché il Cepell arriva
sempre dopo e sempre malino?) Ma,
se dovessi farle a voce, tradirebbero
un tono un po’ recriminatorio. Da un
po’ di anni ormai, c’è un folto numero di persone in Italia che si occupa
di politiche culturali e lo fa supplendo a una mancanza o a una fragilità
di forze, di competenze, e soprattutto di visione di chi ha un ruolo politico. Assessori imballati, responsabili
culturali ingenui, decisori irresoluti,
e una quantità nettamente eccessiva
di impreparazione in ruoli chiave.
Ora questa funzione suppletiva
per me deve finire. Per varie ragioni
evidenti. La prioritaria è che il welfare culturale – il sistema dei teatri, dei
sabato 11 ottobre 2014
musei, delle biblioteche, degli archivi… - sta crollando.
Nelle ultime settimane solo a Roma ha chiuso il Teatro Eliseo e sono
stati licenziati gli orchestrali dell’Opera. La risposta della politica a questa rovina strutturale è la riduzione
dell’offerta, l’esternalizzazione, la resa. Mai, dico mai, la reazione è quella
di immaginare una politica di sistema sulle leve dell’educazione culturale: introdurre uno studio del teatro
o della musica serio nei licei, formare
gli insegnanti alla promozione alla
lettura (invece di una tre giorni),
consentire una cogestione degli spazi
pubblici attraverso forme di reale
partecipazione e sussidiarietà, che
non vogliono dire supplenza, volontariato, ma governo, presa di responsabilità.
Altrimenti, quando ogni anno,
commentiamo i tassi crescenti di
analfabetismo funzionali e tassi decrescenti di lettori, poi non facciamo finta che un po’ non è anche colpa nostra.
*scrittore e insegnante
u 99 NASONI di Joshua Held
u SA N I TÀ
u MATRIMONI GAY
ora ammettiamolo
Ebola ci riguarda
un Paese ossessionato
dall’omosessualità altrui
CECILIA STRADA*
n Alla fine è successo: il primo
contagio da Ebola su suolo europeo. La notizia ha suscitato paura,
è accaduto a noi qualcosa che era
sempre stato “un problema degli
altri”. La paura è umana; inaccettabile, invece, è la strumentalizzazione di questa catastrofe umanitaria condotta in modo irresponsabile, e non da ieri, da più di
un politico. Esiste un rischio Ebola in Europa? No, se pensiamo
che Ebola arrivi su un barcone.
Non viaggia così: le caratteristiche del virus rendono inverosimili questi allarmi, pura propaganda. Ebola può viaggiare in aereo?
Sì. Un uomo d’affari in business
class, allora, è più pericoloso di un
disperato su un barcone. Bisogna
bloccare i voli? No, dicono gli
esperti: al contrario, aumenterebbe le proporzioni della catastrofe, rendendo più dura la vita
degli operatori sul campo, alimentando la disperazione. E poi,
dice l’Organizzazione Mondiale
della Sanità, il rischio qui è mini-
mo, perché l’Europa ha tutti gli
strumenti per reagire davanti a
un caso di Ebola: isola il paziente,
traccia la storia dei contatti, dispiega la logistica necessaria. In
sintesi: sistemi sanitari pronti a
reagire, personale, soldi.
«Ma come facciamo a proteggerci?». Bisogna affrontare il
problema, ed è proprio quello
che è mancato. La catastrofe in
Sierra Leone, Guinea, Liberia
non dipende solo dal virus, ma
dagli ultimi anni. Come siamo
arrivati fin qui? Per capirlo potremmo guardare i tagli al bilancio dell’Oms e l’effetto sui dipartimenti che si occupano di
epidemie: «Abbiamo il 35% di
personale in meno rispetto a
cinque anni fa», dicono a Ginevra. Inevitabilmente la risposta
diventa lenta e inefficace. O possiamo guardare i Paesi africani
coinvolti: sistemi sanitari senza
risorse, personale insufficiente.
Non potevano fermare l’epidemia, e quando sarà finita non saranno finiti i problemi perché si
morirà di tutto il resto, più di
quanto non si morisse prima.
Che fare, allora? I governi dei
Paesi ricchi e potenti devono mettere subito a disposizione i soldi,
la logistica, il personale per agire
dove Ebola, oggi, sta uccidendo e
devastando. E devono farlo subito. Senza un impegno mondiale,
immediato, Ebola non si ferma.
Poi bisognerà smettere di ignorare i problemi fino a quando non
bussano alla nostra porta. Assumersi la responsabilità di rifinanziare le organizzazioni internazionali – a partire dall’Oms – che
lavorano per noi tutti. Investire in
ricerca e prevenzione, e sì, farlo
anche se è una malattia che uccide soprattutto in Africa, dove non
ci sono ricchi compratori di vaccini. Aiutarli a ricostruire i loro sistemi sanitari. Se vogliamo ridurre il rischio per l’Europa, dovremmo cominciare a fare queste cose.
E dovremmo farle comunque:
perché siamo esseri umani e ci
importa degli altri esseri umani.
Anche quando non vivono a Roma o Madrid.
*presidente di Emergency
ANNA PAOLA CONCIA*
n Non so davvero più come affrontare il tema del riconoscimento delle coppie omosessuali.
Debbo confessare che in questi
anni, per spiegare, ho utilizzato
tutte le parole che avevo a disposizione.
È ancora più difficile oggi che
vivo e lavoro in Germania, e insieme alla mia compagna Ricarda, dallo Stato e dalla società siamo considerate una famiglia.
L'Italia, su questo tema, mi sembra sempre più lontana e incartata in un'inutile (quando non ridicolo) spreco di energie. Si, perché
l'annuncio del Ministro Angelino Alfano di una circolare contro
i Sindaci che riconoscono i matrimoni contratti all'estero tra
persone dello stesso sesso, è un
inutile conflitto tra Istituzioni.
Potrebbe essere evitato se l'istituzione preposta a legiferare
su questo tema, cioè il Parlamento, appunto legiferasse. Quella di
Alfano è propaganda, è evidente.
Sanno tutti che la scelta dei Sin-
daci di riconoscere i matrimoni
omosessuali non può in nessun
modo sostituirsi a una legge dello Stato. I sindaci danno solo servizi. Eppure è partita la tarantella sui giornali. Le sentinelle in
piedi subdolamente, con apparente pacatezza, lanciano messaggi falsi e discriminatori. E
parte anche qui la polemica. In
Italia quando si parla di omosessualità parte sempre la polemica.
Ai giornali piacciono il gay e la
lesbica perché tirano la polemica. E mai nessuno che vada oltre.
In Germania di gay e lesbiche
non si parla, se non in alcuni servizi televisivi sull'educazione alla
sessualità nelle scuole.
I gay e le lesbiche vanno molto in televisione, ma perché sono giornalisti stimati, conduttori di programmi nazional popolari, politici, attori, scrittori,
imprenditori. Qui l'omosessualità è una cosa normale. Ti dimentichi anche di esserlo, e vi
assicuro è una bellissima sensazione. Perché viverla è molto
meglio che sognarla. Qui vieni
giudicato dalla tua serietà, professionalità , onestà, se paghi le
tasse. Vale per gli eterosessuali,
come per gli omosessuali. E le
tue energie sono concentrate
sulla tua vita, sui tuoi progetti,
sul tuo lavoro. Non su quello che
dice o non dice Angelino Alfano
o sulle manifestazioni delle sentinelle in piedi. Oppure sulla
quotidiana esternazione di rappresentanti delle istituzioni che
sembrano non pensare ad altro
che all'omosessualità altrui.
Qui sei un cittadino e una cittadina che può contribuire al bene
della società, non ti senti soffocare. Anche questa è crescita,
anche questo è sviluppo, anche
questo è uno strumento per
uscire dalla crisi.
Faccio il tifo per il mio paese,
per questo conto sui molti e molte nel Governo, nel Parlamento e
nella società che vogliono uscire
da questo eterno medioevo, su
questi come su altri temi.
*senior consultant sales,
Camera di commercio italiana
per la Germania
sabato 11 ottobre 2014
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MAPPE | 13
FONTE: WORLD BANK
l’America Latina cerca
centri di gravità permanente
Bussole | Quindici anni dopo la rottura chavista, le sinistre devono imparare
a leggere i nuovi bisogni dell’elettorato. Come insegna il primo turno in Brasile
NICCOLÒ LOCATELLI
n A Dilma Rousseff non sono bastati quattro anni
di crescita economica e la conferma delle misure di
welfare a favore delle classi più deboli volute dal
suo predecessore Lula per vincere al primo turno le
presidenziali in Brasile. Nulla è compromesso: la
candidata del Partito dei Lavoratori (Pt) e attuale
capo di Stato dovrebbe riuscire a garantirsi un secondo mandato tra poche settimane, superando
Aécio Neves del Partito socialdemocratico brasiliano (Psdb, che a dispetto del nome è di destra) al
ballottaggio del 26 ottobre. Quello stesso giorno si
terràil primoturno dellepresidenziali inUruguay:
dovrebbero andare al ballottaggio il candidato di
centrosinistra ed ex presidente Tabaré Vazquez e
Luis Lacalle Pou del Partido Nacional o Blanco, di
centrodestra. Per quella data, con ogni probabilità
la Bolivia avrà già celebrato il trionfo di Evo Morales, al potere dal 2006 (a La Paz si vota il 12 ottobre).
Tre votazioni in un arco di tempo ristretto in tre
Paesi a loro modo simbolici dell’America Latina (il
Brasile per le dimensioni economiche e geopolitiche; la Bolivia per la questione indigena; l’Uruguay
per la solidità delle istituzioni democratiche) permettono di azzardare una riflessione che oltrepassa le frontiere dei collegi elettorali e investe tutta la
regione, a quindici anni dall’inizio della cosiddetta
svolta a sinistra – l’inaugurazione del primo mandato di Hugo Chávez in Venezuela nel 1999.
Partiamo dal Brasile, non tanto perché possiamo già ragionare sui dati del primo turno, quanto
perché la storia degli ultimi 16 mesi racchiude
delle lezioni valide per tutti i governi dell’area. Fino a giugno 2013 la popolarità di Dilma Rousseff
era al 70% e l’ipotesi che per rimanere a Planalto
(la sede ufficiale del capo di Stato) dovesse passare per un ballottaggio sembrava fantascientifica.
La Confederations Cup l’anno scorso e – molto
meno – i Mondiali di calcio quest’anno hanno però dato un palcoscenico globale ai delusi della
presidente. Le proteste, originate dall’aumento
dei biglietti degli autobus di San Paolo a fronte del
servizio scadente, si sono rapidamente allargate
nello spazio e negli argomenti. Hanno coinvolto
le principali città del Paese e temi che dovrebbero
essere il fiore all’occhiello di un governo di sinistra riformista: la qualità dell’istruzione, delle cure mediche, dei trasporti pubblici, la lotta alla corruzione e l’effettiva democraticità del sistema.
Cos’è accaduto? Nei suoi otto anni a Planalto
(2003-2010), Lula ha fatto la rivoluzione: non tanto nelle politiche adottate – il suo predecessore
Cardoso aveva timidamente preparato la strada sia
nel welfare sia nell’attenzione economico-finanziaria – quanto nell’impostazione. Il presidente
operaio ha messo al centro della sua agenda i diseredati del Paese, sussidiandone i bisogni e riuscendo in pochi anni a traghettarne milioni fuori dalla
povertà.
u
segue alle pagine 14 e 15
pagina 99we |
14 | MAPPE
sabato 11 ottobre 2014
NICCOLÒ LOCATELLI
u
segue da pagina 13
n Ciò è stato possibile anche grazie ai prezzi record delle materie prime (di cui il Brasile è grande
esportatore) negli anni precedenti alla crisi mondiale e all’apertura di Lula verso i capitali internazionali. Dilma è arrivata al potere quando la crisi
aveva già iniziato a premere al ribasso sui prezzi
delle commodities e ha adottato una politica protezionista a beneficio delle aziende nazionali.
Complice anche un real (la moneta nazionale)
troppo fluttuante, il Paese ha più che dimezzato la
sua crescita fino a entrare in recessione nel primo
semestre del 2014. Quest’anno dovrebbe crescere
meno dell’1% secondo il governo; nel 2010, quando Dilma vinse le elezioni, la crescita fu del 7,5%. Il
Brasile è inoltre diventato meno competitivo e me-
Rousseff paga il ribasso delle materie
prime e l’ostilità della finanza.
Ma anche l’impressione che
il Partido dos Trabalhadores abbia
finito per incancrenirsi al potere
no attraente per gli investitori, che da mesi stanno
facendo spudoratamente il tifo per la sconfitta della presidente: basti guardare con quale euforia ha
reagito la Borsa brasiliana ogni volta che un sondaggio ha dato Dilma in calo. Ma la colpa principale della presidente, parafrasando Trotsky, è quella
di non aver reso la rivoluzione «permanente»: non
aver capito cioè che la nuova classe media creata da
Lula, lungi dall’essere grata in eterno al Pt, ha nuove esigenze, nuove aspettative e nuove rivendicazioni; non si accontenta dei servizi gratuiti, li vuole
di qualità. In questi anni il governo del Brasile e il
suo principale partito hanno dato l’impressione di
essersi incancreniti al potere, ricorrendo a pratiche (la corruzione su tutte, vedi gli scandali Mensalão e Petrobras) che mal si conciliano con un
partito che dovrebbe stare dalla parte degli ultimi.
Dilma è favorita al ballottaggio, perché malgrado tutti i suoi problemi il Brasile di oggi è migliore
di quello di quattro anni fa (o 12, considerando anche l’era Lula) e perché lo sfidante Neves non pare
in grado di conquistare tutti i voti di Marina Silva,
la candidata “liberal-ambientalista” arrivata terza
al primo turno. Ma le proteste del giugno scorso e il
consenso –se sommato, superioreal 50%–raccolto dai due oppositori di Dilma sono un segnale valido anche fuori dal Brasile: persino i sostenitori
più fedeli possono stancarsi dei leader, se si dimostrano troppo attaccati alle poltrone e poco interessati al benessere dei loro concittadini.
Il Venezuela è forse l’esempio più lampante di
un potere in cancrena. A un anno e mezzo dalla
scomparsa di Hugo Chávez (5 marzo 2013) stanno
emergendo nella loro drammaticità tutti i problemi che il colonnello bolivariano –incapace di o non
interessato a risolverli – aveva saputo nascondere
o sfruttare: la polarizzazione politica, l’indifferenza per la separazione dei poteri, l’eccessiva dipendenza dall’esportazione delle materie prime, la
spesa pubblica (compresa quella a fini elettorali o
internazionali) fuori controllo, la violenza per le
strade. Chávez bypassava queste criticità grazie al
PAULO WHITAKER / REUTERS/CONTRASTO
CAMPAGNE La candidata
e presidente uscente Dilma Rousseff
saluta i suoi sostenitori durante
un comizio lo scorso 4 ottobre
a Porto Alegre, Brasile
«così do la caccia
alle bugie di Dilma»
DAVID GALLERANO
n «Marina Silva la più contraddittoria.
Aécio il più esagerato. Dilma la più affrettata». Questa, in sintesi, la valutazione sui tre
candidati di Preto no Branco, il primo esperimento di fact checking intrapreso dalla
grande stampa brasiliana. La creazione
della giornalista Cristina Tardáguila è passata da un piccolo blog sul sito di O Globo al
giornale di carta, il più diffuso e influente
del Paese, ottenendo un clamoroso successo. Per Tardáguila, raggiunta al telefono da
pagina99, «il politico mentiroso, bugiardo,
è una piaga in Brasile. Sebbene cresca lentamente, il livello di educazione del popolo
brasiliano è ancora generalmente molto
basso». Un vantaggio per i politici, che «se
ne sono sempre approfittati».
Finché Tardáguila non ha pensato di importare il modello americano del fact checking. Gli enunciati dei principali candidati
alla presidenza vengono analizzati e poi incasellati in “Positivi” (Vero, Vero ma...) o
“Negativi” (Falso, Esagerato, Contraddittorio, Prematuro). Nel bilancio finale, pubblicato all’indomani dei risultati del primo
turno, si nota una curva da verdade in netta
crescita. «Vorrei poter credere che siamo
rapporto diretto con il popolo e alla capacità di tenere uniti dietro di sé i vari settori del suo fronte:
dai militari alla compagnia petrolifera nazionale
Pdvsa, epurata dopo il tentato golpe anti-chavista
del 2002, ai membri del Partito socialista unito del
Venezuela. L’attuale presidente Maduro non ha
né il carisma né le capacità del suo predecessore;
vittorioso l’anno scorso con un margine esiguo in
elezioni legittime ma non legittimanti, per consolidarsi grida continuamente al golpe.
Dietro a questi numerosi quanto immaginari
tentativi di colpo di Stato ci sarebbero i nemici di
sempre: la destra colombiana vicina all’ex presidente Uribe, quella venezuelana –che in realtà con
le sue divisioni contribuisce alla stabilità di Maduro – e naturalmente gli Stati Uniti d’America. Ma
da quando al posto di Bush jr, da Chávez simpaticamente ribattezzato «Mr Devil», c’è un democratico nero come Obama, criticare la superpotenza è
più difficile.
Anche perché quest’ultima riserva all’America
Latina il benign neglect, quell’indifferenza benevola caratteristica della sua politica regionale po-
st-guerra fredda. Washington essenzialmente
ignora i Paesi a sud del Rio Grande/Rio Bravo a
meno che non siano in ballo i suoi interessi nazionali (su temi come l’immigrazione e il traffico di
droga) o le sue ossessioni (Cuba, malgrado le aperture di Obama e le riforme economiche di Raúl Castro). Il resto, compreso lo spionaggio ai danni di
Dilma e della compagnia petrolifera brasiliana
Petrobras, è rumore di fondo. Il Venezuela con
Chávez aveva basato la propria politica estera sull’opposizione agli Usa, che pure rimangono il primo partner commerciale di Caracas; oggi la crisi
economica non permette a Maduro l’assertività
internazionale – con relativa esposizione mediatica –del suo predecessore.
Un discorso simile vale per il più importante alleato sudamericano del Venezuela, l’Argentina:
oltre dieci anni di “sistema K”, prima con Néstor
Kirchner, adesso con sua moglie Cristina, hanno
rianimato Buenos Aires dopo il collasso legato al
default del 2001. Questo decennio non è stato però
sfruttato per modernizzare il Paese e svincolarlo
dalla dipendenza dall’export di materie prime. Ri-
Cristina Tardáguila | Parla la factchecker che esamina i candidati.
E ha affondato Marina Silva
riusciti a influenzare a tal punto i discorsi
dei candidati» confessa Tardáguila, «ma va
detto che se le loro frasi vere sono via via aumentate, in misura minore sono cresciute
anche quelle false». Ossia: ai candidati, più
che accorciarsi il naso, si è allungata la lingua. «C’è poi da dire» aggiunge la giornalista «che al progredire della campagna elettorale aumentano le competenze dei candidati, che in qualche modo imparano a presentare correttamente le loro proposte».
Ciò non dovrebbe riguardare però la presidente uscente Dilma Rousseff – reduce
della campagna del 2010 e da quattro anni
di governo con esposizione pubblica conti-
nua –che tuttaviaprimeggia nellaclassifica
delle frasi false di Preto no Branco. È Rousseff una grande bugiarda – conscia del suo
successo tra le classi più povere e meno
istruite – oppure è O Globo, notoriamente
ostile al Partito dei Lavoratori, che la vuole
far passare come tale? «Si noti che in termini relativi la quota di bugie e frasi vere è più o
meno simile tra tutti i candidati» – protesta
la giornalista – «la differenza è che Dilma
ha 11 minuti al giorno di propaganda gratuita in tv, Aécio 4 e Marina ne aveva 1,5.
Semplicemente, Dilma parla di più e sbaglia di più».
Il miglioramento della curva da verdade
non vale per tutti. Al crollo di Marina Silva,
che fino a poche settimane dal voto era in
vantaggio su Dilma e oggi è fuori dalla contesa, corrisponde un esponenziale aumento di frasi false. «È che quando ha cominciato ad andare bene, Rousseff ha rivolto tutta
la sua artiglieria contro di lei. E la poverina è
stata costretta a reagire. In difesa mentiva,
in attacco diceva cose vere. A godere, naturalmente, il terzo contendente, Neves».
In più momenti il lavoro del blog ha avuto un’influenza diretta sulla campagna elettorale. Per aver sbagliato (per eccesso) la cifra del saldo del bilancio dello Stato, Rousseff è stata crocifissa dagli avversari, con atteggiamenti della serie it’s the economy,
stupid. Per aver mentito sulla sua passata
votazione contraria al Cpmf – una tassa sulle transazioni finanziarie a beneficio di investimenti sulla sanità pubblica – Silva ha
forse perso il treno per il secondo turno. Ora
al via la seconda fase dell’opera di Preto no
Branco. Riparte la caccia al politico mentiroso, piaga del Brasile (e non solo).
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sultato: oggi si torna a parlare di Argentina solo
per l’eredità velenosa del crack del 2001, che a causa di un mancato accordo con alcuni fondi di investimento ha portato la quarta economia latinoamericana (dopo Brasile, Messico e Colombia) in
default tecnico.
Va meglio agli altri due alleati del Venezuela.
L’Ecuador e la Bolivia sono spesso accomunati a
Caracas perché i loro presidenti, Rafael Correa ed
Evo Morales, apparterrebbero alla stessa sinistra
populista ed estrema di Chávez. A parità di rapporto diretto con il popolo e indifferenza/disprezzo verso la separazione dei poteri, Correa e Morales stanno per ora riuscendo in quello che dovrebbe essere l’obiettivo di tutte le sinistre latinoamericane, “chaviste” e “riformiste”: coniugare le politiche redistributive a favore delle classi più basse
con la creazione di nuova ricchezza, l’intervento
dello Stato in economia con lo spazio per l’iniziativa privata nazionale e internazionale, il sostegno
alla domanda con l’equilibrio di bilancio. Questo
spiega come stravincano le elezioni e raccolgano al
tempo stesso il gradimento di imprese e istituzioni
finanziarie internazionali.
Nel loro caso, il rischio non è tanto quello di incancrenirsi al potere oggi, quanto quello di scontare l’eccessiva dipendenza dalla Cina (sotto forma
di prestiti, investimenti, scambi commerciali) domani. Uno dei motivi per cui Ecuador e Bolivia
stanno crescendo molto – e l’America Latina in generale ha retto meglio che in passato a questa crisi
economica – è proprio la domanda cinese di materie prime. Ottima, ma per difendersi dalla volatilità delle quotazioni delle commodities è importante “salire” nella catena produttiva e iniziare a ven-
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privatizzazioni e controriforme
il Brasile che sogna la restaurazione
Ritorni | Il lulismo ha latitato su salute, sicurezza, giustizia. E oggi c’è fame
di cambiamento. Su questo appetito affila le posate il candidato del Psdb Aécio,
nipote di quel Tancredo Neves che morì poco prima di insediarsi alla presidenza
In Bolivia ed Ecuador Morales
e Correa riescono a coniugare
redistribuzione e creazione
di nuova ricchezza. Ma
la separazione dei poteri vacilla
dere merci che abbiano del valore aggiunto.
L’ampliamento dei rapporti con una Cina in
ascesa è in ogni caso una delle grandi conquiste
dell’America Latina del post-guerra fredda. Non
solo della sinistra: la novità più interessante degli
ultimi anni non è l’Alba ispirata da Fidel Castro e
Chávez, ma l’Alleanza del Pacifico voluta da Messico, Colombia, Perù e Cile (da poco tornato a sinistra con Michelle Bachelet) con l’obiettivo di fare
dei loro Paesi una piattaforma degli scambi con
l’Asia Orientale e con Pechino in particolare.
Un’alleanza che per obiettivi, impostazione libero-scambista e basso profilo retorico è l’esatto opposto dell’asse bolivariano voluto da Cuba e Venezuela, e che – pur essendo più giovane di questo –
ha maggiori prospettive di successo.
Due parole sull’Uruguay. Non tanto perché a fine mese si vota anche qui; il centrodestra può vincere grazie al suo ringiovanimento, mentre la coalizione di centrosinistra del Frente Amplio punta
su un ex presidente di 74 anni che dovrebbe succedere a un presidente di 79. Quanto perché proprio
l’attuale presidente José Mujica si è fatto promotore di una norma che – se non verrà stravolta dal
prossimo capo di Stato – legalizza il consumo e soprattutto nazionalizza la produzione di marijuana. L’Uruguay è un Paese di circa 3 milioni di abitanti e non saranno le sue decisioni a cambiare le
sorti del narcotraffico mondiale, soprattutto visto
che il vicino Paraguay (principale produttore sudamericano di marijuana) non pare avere i mezzi
né la forza di combattere la produzione e l’export di
cannabis. Ma dopo circa 40 anni di fallimentare
guerra alla droga voluta dagli Stati Uniti, la legge
approvata a Montevideo riapre il dibattito su una
questione che – tra Paesi produttori, esportatori,
di transito e consumatori –riguarda tutto l’emisfero. Su questo argomento le barriere tra sinistra e
destra cadono e non è raro trovare (ex) presidenti
conservatori pronti a valutare la legalizzazione e
altri di sinistra – tra cui la stessa Dilma – più scettici. Il tema è destinato a rimanere centrale in
America Latina.
Comunque finiscano le elezioni in Brasile e
Uruguay, è presto per intonare il De profundis sulla sinistra sudamericana. L’alternativa che i governi riformisti e chavisti hanno davanti è chiara: rivoluzione permanente, intesa come capacità di
dare nuove risposte ai nuovi bisogni dell’elettorato
e del Paese in generale. Oppure incancrenimento
al potere, con il conseguente rischio di perderlo in
maniera dolorosa e inaspettata. La scelta è nelle
loro mani.
Cittadini in fila per le votazioni nella favela di Rocinha, la più grande di Rio de Janeiro, ottobre 2014
ALBERTO RIVA
n Diciamo che nella costruzione
del thriller sulle elezioni brasiliane
era stata ideata una variazione di
trama. Dilma Rousseff correva (e
corre) per la rielezione contro Aécio Neves, leader del partito che da
dodici anni è il maggiore avversario del Pt di Lula, cioè il Psdb, Partito della socialdemocrazia brasiliana. Sulla scelta della variazione
gli sceneggiatori sono stati, è vero,
un po’ drastici: prendere il jet privato del terzo candidato, il socialista Eduardo Campos, e farlo precipitare sulla città di Santos (patria
di Pelé e di Neymar). A quel punto,
l’unica conseguenza poteva essere
l’entrata in gara di Marina Silva
(vice di Campos), carismatica
ex-ministra luliana, ecologista, che
nel 2010 aveva preso, da sola, 20
milioni di voti.
Di colpo, lo scenario cambia.
Marina scalza Aécio nei sondaggi e
si piazza al secondo posto dietro
Dilma. Ma l’infatuazione dura poco: a differenza dei colleghi, Marina non finge di ignorare il voto dei
milioni e milioni di evangelici (è lei
stessa praticante) e si mostra vacillante sui temi etici: omofobia,
aborto, eccetera. Inoltre ha sempre
fatto molta paura all’establishment petista, in quanto il suo
profilo indio e la quasi monastica
coerenza ne fanno una specie di
Lula ante-litteram. È presa di mira
da tutti, e finisce per ricadere al
terzo posto in un crescendo verdiano al contrario.
Si arriva a domenica 6 ottobre:
Dilma al primo posto (41%) e Aécio che riconquista il secondo, e
meglio di quanto sperasse (33%).
Marina non ha vinto, ma (con il
21%) ha frantumato la solidità del
centro-sinistra.
Aécio, oggi come oggi, è la destra, che in Brasile si traduce in un
pensiero rimasto alle ormai nebbiose ricette di Fernando Henrique Cardoso, predecessore di Lula,
che mentre implementava qualche
timido programma sociale (d’altra
parte è un sociologo) spingeva
massicciamente sulle privatizzazioni, e in aeree strategiche come
petrolio e risorse minerarie, alcune
riuscite del tutto, altre a metà (vedi
la Petrobras, rimasta in mano al
governo).
Lula, giunto al potere il primo
gennaio 2003, inverte la rotta: acceleratore pigiato sui programmi
sociali (Borsa Famiglia, Luce per
tutti, La mia casa la mia vita, ecc.) e
rafforzamento dello Stato nella politica economica e finanziaria. Non
c’era la crisi mondiale, all’inizio.
Dilma ha ereditato queste direttrici e la crisi. E infatti la votano i poveri.
Però il modello si è piegato sotto
il peso di una coscienza sociale più
robusta. Lula e Dilma hanno latitato su salute, sicurezza, giustizia.
E oggi c’è fame di cambiamento.
Su questo appetito adesso affila
le posate Aecio Neves, 54 anni,
ex-governatore del grande Minas
Gerais, nipote di quel Tancredo
Neves che fu eletto presidente nel
1984 ma morì improvvisamente
(altro colpo di scena) prima di
prendere possesso dello scranno.
Tancredo Neves – che nel lontano
1953 fu ministro della Giustizia di
Getúlio Vargas, il dittatore populista che guardava con ammirazione
a Mussolini – tentò di allearsi con
Il consenso del governo
ha iniziato a cedere sotto
il peso di una coscienza
sociale più robusta
Hitler, ma fu rimesso in riga da
Roosevelt.
Aécio Neves ha masticato politica fin da ragazzo all’ombra del
nonno. Si affilia al Psdb, partito
che nasce nel 1988 (anno della
nuova Costituzione post-regime
militare) in uno scenario all’epoca
dominato dal Pmdb (oggi diffusissimo partito moderato) e il Pt
emerso dalle battaglie sindacali di
San Paolo.
Il Psdb, il partito dei Tucanos (i
tucani sono il loro simbolo) è quello che porta F. H. Cardoso alla presidenza ed è il partito che, ormai da
MARIO TAMA / GETTY IMAGES
tempo immemore, guida lo Stato
di San Paolo, vale a dire la maggiore e più inquinata economia del
Sud America, regione che da sola
ha le dimensioni, il Pil e il traffico
d’auto di un Paese di medie dimensioni.
Aécio si prepara alla presidenza
da anni. La crisi del Pt e la frantumazione politica sono la sua grande occasione. Gli effetti già si vedono. Quello eletto domenica è il parlamento più conservatore degli ultimi dodici anni. Cosa significa?
Significa la presenza di numerosi
deputati evangelici nel vero senso
della parola, cioè pastori di chiese.
E una settantina di deputati “ruralisti”, cioè rappresentati degli interessi dei proprietari terrieri (e in
Brasile per la terra non si scherza,
si muore).
Destra in Brasile significa questo: contrasto alle leggi per legalizzare aborto e liberalizzazione delle
droghe leggere (il problema del
narcotraffico in Brasile è una piaga
sociale), e acerrime resistenza alle
riforme per la salvaguardia della
terra, della foresta, delle riserve indigene. Questi settori sono trasversali ai partiti e hanno più o meno
forza a seconda delle alleanze.
L’incognita riguarda quale spazio e
quali nuove alleanze potrebbero
formarsi con un governo formato
da Aécio Neves. E sulla base delle
alleanze, pragmatiche (non programmatiche), quali idee rendere
vincenti.
sabato 11 ottobre 2014
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MAPPE | 16
la stella solitaria
del sogno texano
Indipendentismi | A Dallas e dintorni
tornano pulsioni mai sopite. Animate
da motivazioni economiche e strategiche.
Segnate però da uno spirito 100% Usa
DARIO FABBRI
n In Texas indipendentismo
e idiosincrasia per l’ingerenza di Washington si intrecciano da oltre un secolo nei
sentimenti della popolazione, al punto che è spesso assai complicato rintracciare
un principio di causalità tra
Un sondaggio del
2009 rivela che il 42%
dei locali voterebbe
per la secessione
le due tendenze. Stato più
esteso dell’Unione e unico
soggetto federato con un
passato da Repubblica, il Lone Star State (nomen omen)
è da sempre attraversato da
pulsioni secessioniste. Eppure, le rivendicazioni di leader e cittadini locali tradiscono uno spirito eminentemente americano. Perfino
nell’attuale fase di revival
autonomista, in cui il Texas
sembrerebbe disposto ad abbandonare gli Stati Uniti.
La percepita alterità perCOSTUMI Un evento
vade la cultura e le usanze
organizzato ad Austin
statali. Le vie di Austin – cadalla Star of Texas Fair
pitale consacrata al fondatoand Rodeo, associazione
re della Repubblica, Stephen
no-profit fondata nel
1938
Austin – sono dedicate pressoché esclusivamente alle
battaglie e ai personaggi della rivoluzione indigena: San
Jacinto, Gonzales, Lamar,
Bowie. A Houston – megalopoli eponima del primo presidente texano Sam Houston
– la monumentale Washin- di avere una griglia elettrica
gton Avenue non è intitolata autonoma che, qualora gli
al ben più celebre George, Usa fossero oggetto di un atma a Washington sul Brazos, tacco cibernetico, manterla cittadina in cui fu pensata rebbe acceso unicamente lo
l’offensiva anti-messicana. Stato della stella solitaria.
Da queste parti l’aggettivo
Ciò nonostante, è solo con
“nazionale” si usa per indica- la fine della guerra fredda
re il “locale”: la birra Lone che l’indipendentismo torna
Star è la national beer e il a ispirare movimenti politici,
football è il national pastime, in contrapposizione con
il baseball passatempo pre- l LE ORIGINI
ferito dal resto degli Usa. A
scuola gli studenti apprendono di un periodo aureo in
cui qui «vigeva la totale autodeterminazione». E il sincopato inglese parlato dai texani (drawl) ha caratteristiche uniche nel panorama
continentale.
n Benché i padri della “Nazione” si considerassero statuniOltre alle reminiscenze retensi e il loro obiettivo ultimo
pubblicane, ad alimentare
fosse tornare alla madrepatria,
l’anelito indipendentista sotra il 1836 e il 1845 il Texas è stano i connotati economici e
to una repubblica e da sempre
strategici dello Stato. Il Tel’epopea ribelle costituisce il
xas è il principale produttore
mito fondante dell’indipendendi gas degli Stati Uniti e postismo locale.
siede le maggiori riserve di
Originariamente parte del
petrolio del Paese (quasi 10
Messico, la provincia di Comiliardi di barili, un terzo
ahuila y Tejas fu anglicizzata a
del totale). Proprio la straorpartire dal 1821 per iniziativa
dinaria disponibilità di idrodell’imperatore Augustín de
carburi, caso unico in Nord
America, consente ad Austin
ULRICH EIGNER / ANZENBERGER / CONTRASTO
violenti e pacifici, e a riscuotere consensi tra la popolazione locale. Nel 1989 il rancher Rick McLaren fonda la
compagine Republic of Texas che persegue la secessione da Washington e si batte
contro «l’occupazione statunitense». No-global e fondamentalista cristiano, McLaren ritiene la lotta armata
l’unico mezzo per raggiungere l’emancipazione politica.
Nel 1997, dopo aver preso in
ostaggio una coppia di anziani che si rifiuta di cedere il
proprio terreno alla “repubblica texana”, si asserraglia
armato assieme ad altri sei
attivisti nel suo ranch di Fort
Davis, prima di arrendersi
alla polizia. Accusato di se-
una Repubblica costruita
intorno a Fort Alamo
Iturbide che, intenzionato a popolare il territorio, offrì notevoli
agevolazioni ai contadini statunitensi che si fossero stabiliti oltreconfine. In poco più di un decennio circa 35 mila coloni guidati da Stephen Austin si stanziarono tra i fiumi Sabine e Rio
Grande, a fronte di appena 8
mila cittadini messicani. Contrari alla legislazione anti-schiavista e alla tassazione
adottate nel frattempo da Città
del Messico, nel 1835 gli empre-
questro di persona e attività
eversiva, nel 2000 viene condannato a 99 anni di carcere.
Sulle ceneri della Republic
of Texas emerge in seguito il
Movimento Nazionalista Texano (Tnm) guidato da Daniel Miller, che mira alla secessione pacifica. Abile a
sfruttare il malcontento popolare generato dalla crisi
economica e dalle successive
riforme approvate a Washington, negli anni Duemila
Miller riesce a conquistare
fette di elettorato avulse alla
politica e a collocarsi nella
galassia del Tea Party.
Oggi risultano iscritti al
Tnm oltre 250 mila cittadini
e il partito può vantare solidi
sarios estadunidenses si ribellarono all’autorità centrale, rifiutandosi di consegnare un cannone al colonnello de Ugartechea. Fu l’inizio della rivoluzione.
Il 2 marzo 1836 a Washington sul Brazos i coloni dichiararono l’indipendenza della repubblica texana, innescando la
reazione del governo messicano. Ne seguì una guerra di sette
mesi, segnata da scontri sanguinosi: su tutti l’assedio dell’Alamo, oggi parte della memoria
storica statunitense, e il massacro di Goliad, in cui furono trucidati quasi 400 anglofoni. Fino a quando, nella decisiva battaglia di San Jacinto, gli indi-
legami con numerosi deputati statali. Addirittura, secondo un sondaggio del
2009 – il più recente in ma-
Oggi l’autonomismo
è anche la risposta
conservatrice alla
liberal Washington
teria – il 42% dei texani sarebbe pronto a votare l’indipendenza propugnata da
soggetti come il Tnm.
Tuttavia, proprio tale successo palesa la radice americana del secessionismo texa-
pendentisti riuscirono a sbaragliare la resistenza messicana e
a imporre al nemico la firma
dell’armistizio. A ottobre Sam
Houston fu eletto presidente
della Repubblica e Stati Uniti e
Francia si affrettarono a riconoscere il nuovo soggetto politico.
Tuttavia i governanti texani
si dimostrarono incapaci di amministrare lo Stato: in meno di
9 anni accumularono un debito
di 10 milioni di dollari e le truppe messicane invasero il territorio altre quattro volte. La stagione indipendentista si concluse nel dicembre del 1845
quando, su espressa richiesta
dei leader locali, Washington
annesse la neonata Repubblica.
no. Sebbene animati da ardore libertario, i fondatori
della leggendaria Repubblica, le cui gesta costituiscono
tuttora la scintilla delle rivendicazioni locali, si sentivano profondamente statunitensi. Durante la guerra rivoluzionaria Stephen Austin
chiese più volte l’intervento
militare degli Usa e già nel
marzo del 1836, pochi giorni
dopo la proclamazione della
Repubblica, Sam Houston
propose al presidente Andrew Jackson di incorporare
il territorio strappato ai messicani.
Allo stesso modo il governatore Rick Perry, che pure
nel 2009 durante un comizio
s’è detto favorevole alla secessione, probabilmente nel
2016 si candiderà alla Casa
Bianca per la seconda volta
consecutiva. Come accaduto
un secolo fa, ad animare le
istanze autonomiste non sono ragioni di carattere etnico
o religioso, quanto gli americanissimi desideri di autodeterminazione e agevolazioni
fiscali. Piuttosto che immaginarsi nazione, i texani rimpiangono l’alba della costruzione statale, quando i coloni
abbandonavano i territori
d’origine in cerca di condizioni di vita più favorevoli. E
oggi, tendenzialmente conservatori, vedono nella minacciata indipendenza l’antidoto contro la deriva liberal di Washington e il declino economico. Senza rinnegare il peculiare spirito americano che li anima inconsapevolmente.
pagina 99we |
17 | MAPPE
sabato 11 ottobre 2014
ICONE
RAIN
All’anagrafe Jung Ji-Hoon, il 31 enne Rain
è conosciuto come “il Re del k- pop” . Oltre
alla musica,con 6 albumall’attivo, lasua attività si estende alle soap opera e al cinema
(ha lavorato in Speed Racer dei fratelli Wachowski e, accanto a Bruce Willis e John
Cusack, in The prince, uscito negli Usa nel
2014).
Gli SHINee, band pop sudcoreana, si esibiscono a Marina Bay, località turistica di Singapore
ELISA CONTI
n Nel 2013, all’arrivo in Usa del rapper
sudcoreano Psy, il protagonista di
Gangnam Style, il video più visto di
tutti i tempi, il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, suo connazionale,
dovette riconoscere che la fama del
musicista eclissava la sua.
Effetto dell’hallyu, termine usato a
Seul per indicare l’influenza culturale,
quel soft power, ovvero la capacità di
condizionare gli altri che, secondo il
politologo americano Joseph Nye, assicura a un Paese una rilevanza politica
internazionale superiore al suo peso
economico, demografico o militare. Ed
è essenziale anche per le sue entrate:
nel solo 2013, per esempio, i profitti derivanti da musica, film e videogiochi
coreani hanno toccato i 4,7 miliardi di
dollari, con l’obiettivo di raddoppiarli
entro il 2017. Se si considera che nel
1980 gli incassi erano zero, mentre dal
2008 al 2012 sul mercato estero sono
aumentati del 19 % l’anno, si comprende perché nel suo discorso di insediamento, poco più di un anno fa, la neopresidente Park Geun-hye si sia impegnata ad allocare almeno il 2% del budget nazionale in favore di un rilancio
culturale. E si capisce anche il calcolo
della Bank of Korea che, presentando
un piano di finanziamenti da 917 milioni di dollari in 3 anni, ha comunicato
agli analisti che «le soap opera, la musica e la cucina presentano elevati potenziali di crescita e meritano adeguati
supporti finanziari».
«Il governo ha speso miliardi di dollari per rendere figa la Corea. Se investi
abbastanza soldi, non puoi fallire», dice a pagina99 la giornalista coreana
Euny Hong, che in The Birth of Korean
Cool. How one Nation is conquering the
World through Pop Culture (ed. Picador) illustra come un Paese che negli
anni 50era più poverodello Zimbabwe
sia riuscito a emergere globalmente.
La leggenda vuole che a indurre il primo ministro Kim Young-sam a puntare sulla Korean Wave nel 1994 sia stato
l’incasso mondiale del film Jurassic
Park di Steven Spielberg, superiore alle vendite della Hyundai. Ma la chiave
del successo è stata l’alleanza tra pubblico e privato, che Hong etichetta come «coercizione volontaria». «Se il governo dà indicazioni alle imprese»,
EDGAR SU / REUTERS / CONTRASTO
KIM KI DUK
la scoperta del cool
e il boom coreano
Se Park Chan-wook è il filosofo della vendetta, così acclamato da essere stato chiamato a dirigere il suo primo film made in
Usa (Stoker, con Nicole Kidman ), Kim ki
duk è il poeta della crudeltà. Nel 2011 ha
vinto il premio Un certain Regard a Cannes; nel 2012, il Leone d’oro al festival di Venezia; per il film Pietà.
Modelli | Oltre Gangnam style, c’è uno Stato che punta
sull’industria pop per crescere. Non senza revanscismi
DAVID CHANG
sottolinea, «rifiutarsi non è un’opzione. D’altra parte, tutta la nostra storia,
dal 1948 in poi, fa perno sull’accordo
profondo tra istituzioni, industria e popolazione su cosa sia meglio per il Paese. Ci sono proteste, ma ogni coreano
ritiene che tutto ciò che avvantaggia lo
Stato sia un guadagno anche per lui».
E nel fatidico 1994, dato che il livello
tecnologico era lontano da quello delle
nazioni avanzate, si decise di non rincorrerle neppure, saltando direttamente al digitale, con la precoce installazione della banda larga sull’intero
territorio. Poi, «dopo la crisi finanziaria del 1997-1998, il premier Kim
Dae-Jung suggerì a Hyundai e Samsung di concentrarsi su ambiti specifici: la prima doveva abbandonare i semi
conduttori e fare auto. La seconda
piantarla con le auto e focalizzarsi sull’elettronica. Lo scopo era eliminare le
inefficienze, sopprimendo una competizione inutile. Come se oggi Barack
Obama dicesse a Microsoft: “Smettete
di rivaleggiare con i Google Glass. Solo
Google puo costruire supporti simili,
quindi usate le vostre risorse per qualcos’altro”». In Corea funzionò così. E
con successo, visto che il Samsung Galaxy è tuttora uno degli smartphone
più venduti.
La sinergia tra pubblico e privato ha
dato frutti anche in altri settori. Quello cinematografico ha beneficiato per
venti anni di aiuti privati e pubblici,
elevando la qualità dei suoi film al
punto da farli regolarmente accettare
in festival elitari come Venezia e Cannes (dove Old Boy di Park Chan-wook
ha vinto il premio della Giuria nel
2004). Ma l’offensiva culturale ha seguito anche traiettorie non convenzionali. Per esempio, le soap opera coreane spopolano in Cile, Uzbekistan o
Egitto, perché il governo asiatico ha
pagato per farle tradurre. Il target sono i Paesi in via di sviluppo, di modo
I profitti da musica, film
e videogiochi
nel 2013 hanno toccato
i 4,7 miliardi di dollari
che, una volta ricchi, aspirino ai prodotti piazzati sul set. Uno studio ha
mostrato che a 100 dollari di intrattenimento esportato corrispondono acquisti di make up, tecnologia e cibo coreano per circa 400 dollari. «Un altro
Stato, prima di veicolare uno show all’estero, avrebbe valutato se poteva
guadagnarci», spiega Hong. «La Corea, invece, prima traduce una soap e
poi cerca con chi dividere i costi. Se
non lo trova, se li accolla per intero».
Questo business model poggia su un
K factor, un fattore etnico: lo han. «È
un peculiare tipo di rabbia che è parte
integrante della cultura della Corea, un
Paese che in 5000 anni ha subito 400
invasioni senza mai aver invaso nessuno», nota Hong. «Nel manuale diagnostico psichiatrico esiste perfino
una malattia specifica , lo hwabyoung,
causata dallo han, e se ne può morire».
Lo han ha alimentato il desiderio di rivalsa, e quindi la competizione, principalmente con l’arcinemico Giappone.
Negli anni ’90, l’obiettivo di Samsung era battere non Microsoft o Apple, ma la nipponica Sony. Nel 2002,
finalmente, Samsung ne superò la
quota di mercato. Due anni prima del
previsto. Eppure, oggi proprio il Paese
del Sol Levante intende imitare l’esempio coreano e riposizionarsi sul
mercato come Cool Japan, grazie a un
fondo da 500 milioni di dollari. Hong,
forse per origine, è scettica sull’operazione. «Il cool si può costruire fino a un
certo punto. Cina e Giappone hanno
invaso più volte il sud est asiatico e qui
sono i cattivi. Invece noi siamo la vittima che si riscatta e tutti ci hanno in
simpatia. In più, per la loro storia, pochi giapponesi sarebbero disposti a cedere gran parte del controllo al governo. E la Cina è ancora troppo disomogenea al suo interno per condurre
un’impresa collettiva come la nostra.
Ma è il nostro principale consumatore.
E dovremo tenerne conto».
Orgoglio della comunita di foodies coreani
trapiantati in America, Chang si è guadagnato due stelle Michelin grazie alla cucina
fusion dei suoi due ristoranti di New York,
Momokuku e Momofuku ko. Di origine coreana è anche Hooni Kim, lo chef del newyorkese Danji (una stella Michelin), che
scandalizza i compatrioti perchè mette in
conto il Kimchi, il tipico cavolo fermentato.
Per un coreano è come far pagare l’acqua
del rubinetto.
YOON EUN KYUNG
E KIM EUN-HEE
Sono i due acclamati autori di Winter Sonata, serie tv incentrata su un architetto colpito da amnesia, che ha spopolato in Uzbekistan, Iraq, Egitto. In Giappone il successo è
stato tale che l’export dalla Corea ai confini
nipponici è cresciuto di 2,3 miliardi di dollari nei primi due anni dalla messa in onda.
Si stima in 27 miliardi di dollari il giro d’affari generato dalla serie nel settore del turismo internazionale.
sabato 11 ottobre 2014
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MAPPE | 18
neanche nel Botswana
un diamante è per sempre
Risorse | Il Paese meno corrotto d’Africa è diventato un modello
di sfruttamento delle miniere. Ha strappato alla De Beers l’80% dei proventi
e il controllo di tutta la filiera. Ma i giacimenti potrebbero presto esaurirsi
LORENZO SIMONCELLI
n GABORONE. A quattro chilometri di distanza dall’aeroporto di Gaborone, capitale
del Botswana, uno dei pochi
Paesi virtuosi dell’Africa
sub-sahariana, si erge maestoso nel mezzo della savana
un complesso di 35 mila metri
quadrati con alte mura di pro-
Fra il 1966 e il 1999,
l’economia locale
ha registrato la crescita
più elevata al mondo
tezione e telecamere ovunque.
È il Debswana Complex, il
quartier generale di una società compartecipata 50-50 tra
la famiglia De Beers, ormai
nelle mani del gigante minerario Anglo-Gold ma ancora
leader mondiale nella vendita
di diamanti, e lo Stato del Botswana. Da qui esce il 40% del
rifornimento annuo di diamanti grezzi.
Il piccolo Paese sub-sahariano (2,1 milioni di persone),
insieme alla Repubblica democratica del Congo, è primo
al mondo per produzione di
diamanti grezzi, 22 milioni di
carati all’anno (dati Statista.com).
La maggior parte viene
estratta da Jwaneng (culla
delle piccole pietre in Setswana, la lingua locale), una miniera scoperta nel 1982, capace di produrre circa 2,5 milioni di carati al mese (un carato
vale tra i 3 mila e i 26 mila dollari a seconda di colore e brillantezza), garantendo un fatturato da 6 miliardi di dollari
all’anno.
Nel 2006 De Beers si è assicurata i diritti di estrazione per i
successivi 25 anni. Vedendosi
costretta, tuttavia, a scendere
a patti con il governo locale.
Il 15% delle pietre preziose
va direttamente all’Okavango
Diamond Company, al 100%
nelle mani dello Stato, che ha
il diritto di vendere i diamanti
a qualsiasi cliente. Un canale
che garantisce un terzo del Pil
al Paese, la cui economia si basa di fatto sull’export delle pietre preziose. Nell’accordo è
previsto che nelle casse di Gaborone De Beers debba anche
CONFLITTI
i boscimani
sotto sfratto
per le pietre
Dato che la riserva di Jwaneng è
stata attribuita in concessione alla
De Beers fino al 2021 e che verso il
2030 probabilmente non sarà più
produttiva, il governo locale sta
cercando nuovi depositi di diamanti. La località è stata identificata a Gope, nel bel mezzo della
Central Kalahari Game Reserve,
un deserto arido dove vivono, o
meglio vivevano, circa 5 mila boscimani (sono 100 mila in tutto il
Paese), tribù ancestrale dedita alla caccia.
Va usato il passato perché sono
stati recentemente sfrattati dal
governo di Gaborone, con l’accusa
di «rovinare la fauna selvatica»
per via della loro condotta non più
sostenibile. Al contrario, i privati
che vengono da ogni parte del
mondo per cacciare gli animali
selvatici non ricevono alcuna restrizione, a patto che paghino alti
pedaggi all’ingresso delle riserve
(tra loro, nel 2012, l’ex re di Spagna Juan Carlos).
Tutto lascia pensare che la vera
giustificazione dello sfratto sia legata a cosa c’è sotto la terra, e non
sopra. Lo scorso 5 settembre sono
iniziati i lavori di estrazione nella
miniera di proprietà della Gem
Diamonds, che si è assicurata diritti minerari per 25 anni e a produzione completa dovrebbe fatturare 4,9 miliardi di dollari annui.
Un progetto in fieri da oltre dieci
anni, quando era ancora di proprietà della De Beers, ma su cui il
governo aveva sempre negato l’intenzione di procedere.
La decisione di iniziare il fracking, la rottura della roccia, non
segue propriamente la decisione
governativa di conservare il territorio, dato il forte impatto sull’ecosistema che l’estrazione mineraria provoca. Nonostante nel
corso degli anni diverse sentenze
di tribunali locali abbiano riconosciuto i diritti dei boscimani a tornare a occupare le loro terre, la
maggior parte di loro vive in campi di reinsediamento fuori dalla
riserva. Secondo Survival International, organizzazione inglese a
protezione dei diritti dei popoli
indigeni, questa nuova collocazione impedisce loro di vivere normalmente, rendendoli dipendenti
dalle razioni alimentari governative, e spingendoli così verso l’alcolismo e altre attività antisociali.
JOAO SILVA / CONTRASTO
ESTRAZIONE
Lavoratori nella
miniera di diamanti
di Jwaneng, Botswana
versare le tasse e il 75% dei
guadagni delle proprie esportazioni.
L’80% dei proventi rimane
dunque nel Paese. Un patto
che lascia soddisfatta anche la
multinazionale sudafricana.
Per il Ceo di De Beers Philippe
Mellier, «con questa mossa
portiamo il mercato dei diamanti in una nuova era della
storia».
Questo modello produttivo
è in effetti unico in Africa, dove spesso vige la nazionalizzazione delle miniere, come in
Zimbabwe e Zambia (con risultati pessimi), e fa invidia ai
vicini di casa del Sudafrica, un
tempo l’Olimpo dell’estrazione delle pietre preziose e oggi
relegato al 53° posto su 112
Paesi in termini di attrazione
per investitori esteri (dati Fraser Institute).
«Il Botswana è unico, ha
miniere ricche e produttive e
un governo stabile e affidabile» ha confermato James Suzman, ex capo delle relazioni
esterne di De Beers. Anche se
si trova da 48 anni al potere,
ossia dall’indipendenza britannica del 1966, il Botswana
Democratic Party – che quasi
sicuramente vincerà anche le
elezioni del prossimo 24 ottobre – ha garantito lo sviluppo
della più antica democrazia
multipartitica funzionante
nel Continente. Risultato certificato anche dal Mo Ibrahim
Index, che ha consegnato a
Gaborone lo scettro di Paese
meno corrotto d’Africa. Se a
questo si aggiunge una crescita economica media del 9%
tra il 1966 (anno dell’indipendenza dalla Gran Bretagna) e
il 1999, la più alta al mondo, si
capisce perché il Botswana si è
trasformato nella mecca dell’estrazione diamantifera.
Ma i problemi non mancano. A cominciare dal tempo.
L’aumento della richiesta, soprattutto asiatica – che nel
2016 varrà il 28% della domanda mondiale – sta riducendo la quantità delle pietre
preziose in superficie (passata
da 33,6 milioni di carati nel
2007 a 22,7 lo scorso anno), costringendo le aziende a scavare
più a fondo, e con costi maggiori. «Le principali miniere sono
state ormai sfruttate dai grandi
gruppi e difficilmente si troveranno nuove cave di rilevanza
comparabile» ha detto a pagina99 Keith Whitelock, ingegnere minerario attivo da 60
anni nel settore.
Il 2030 è considerato l’anno
limite in cui, almeno in Botswana, i diamanti potrebbero
essere finiti.
Ed è proprio pensando al
futuro che il governo di Gaborone, attraverso un nuovo accordo con De Beers, ha di fatto
costretto l’azienda sudafricana a spostare anche il reparto
manifatturiero e vendita nel
Con la Repubblica
democratica del
Congo è il primo
produttore di carati
Paese, nel tentativo di trasformare il Botswana nel primo
Paese al mondo a filiera completa: estrazione, produzione
e vendita.
Un’operazione storica, che ha
costretto De Beers a spostare il
60% del suo personale da Londra e a vendere per la prima volta, nel 2013, le proprie pietre a
Gaborone invece che nella City.
Un progetto di cui beneficia
buona parte della popolazione.
Il 50% degli impiegati delle
vendite è autoctono e sono state
già costituite 21 aziende manifatturiere che impiegano 3.200
persone.
Tuttavia la qualità della lavorazione, almeno rispetto ai
grandi centri come Tel Aviv o
Anversa, è ancora scarsa. I costi
di produzione sono ancora
troppo alti, tra i 40 e i 60 dollari
al carato. Dai 30 ai 50 carati in
più dell’India, da cui proviene il
60% della lavorazione mondiale. Si aggiunga la carenza di infrastrutture, cui pure il presidente sta mettendo mano, preferendo tuttavia investire sulla
diversificazione economica del
Paese. Ciò che serve per affrancarsi da una dipendenza integrale dall’estrazione mineraria.
Perché, al contrario di ciò che
dice lo slogan di De Beers, un
diamante non è per sempre.
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19 | MAPPE
sabato 11 ottobre 2014
a Kiev le casse sono vuote
e si fa la questua per i fucili
Fundraising | Il finanziamento dei battaglioni
è lasciato alla scelta dei singoli. Fra imprenditori
interessati e attivisti votati alla causa, lo slalom
dei paramilitari per comprare farmaci e pallottole
ILARIA MORANI
n DONETSK. All’ingresso dello stadio Olimpico di Kiev i volontari del battaglione Azov attendono le offerte con una cassetta trasparente. Indossano la balaclava e impugnano due
aste con le bandiere del gruppo paramilitare
che combatte nel Donbass contro i separatisti
filorussi. Sono davanti ai tornelli perché molti
dei loro compagni sono ultras delle squadre di
calcio, soprattutto della Dinamo Kiev e del
Dnipro. Il denaro fa parte della cassa destinata
al battaglione per comprare attrezzatura militare, cibo e benzina. Oltre a pagare gli stipendi
dei combattenti. Il governo ucraino non lo può
fare, il ministero della Difesa negli ultimi 20
anni non ha curato il benessere del proprio
esercito che ora, in tempo di guerra, è ridotto a
chiamare a raccolta migliaia di civili e chiedere
loro di difendere il Paese. E sono loro a pagare
il prezzo più alto in questa guerra.
Ogni giorno in una delle sedi del battaglione
Azov, alle spalle di piazza Maidan a Kiev, arrivano almeno 10 ragazzi pronti a superare le selezioni dell’arruolamento. Si presentano con
uno zaino in spalla e pochi spiccioli: sono professori, studenti, artigiani, operai. Tutti i battaglioni paramilitari che sostengono l’esercito
adottano questa procedura. I più grossi, l’Azov, il Dnipro, Dnipro1, Dnipro2, il Donbass,
lo Shachtersk e l’Aydar riescono a diffondere il
loro messaggio con facilità, attraverso la radio,
la tv, i manifesti nelle strade e raccogliere fino
a un milione di hryvnja al mese, circa 58 mila
euro. Gli altri hanno un’importanza solo locale
e difendono singoli villaggi o perfino strade,
nell’est del Paese. Una ragazza ha addirittura
comprato un drone per inviare le immagini del
suo distretto al Ministero, per controllare se
avvengono incursioni.
Kiev ha le casse vuote. Molti comandanti dei
battaglioni in corsa per un posto in Parlamento nelle prossime elezioni di ottobre nelle interviste annunciano di voler riformare l’esercito e rendere regolari le truppe di volontari,
mettere a fondo denaro per comprare attrezzatura e armi di ultima generazione. Ma serve
tempo e al momento l’esercito ucraino è costretto a fronteggiare i separatisti che utilizzano armi russe ben più potenti e precise. Chi finanzia allora i difensori del Paese? Se il governo non può che mettere a bilancio solo una
piccolissima parte del denaro necessario, utile
per l’attrezzatura minima di partenza e pochi
medicinali di base per gli ospedali militari,
tutto il resto del lavoro è svolto dal volontariato. Militante.
Dallo stadio alle piazze. I banchetti per la
raccolta sono ovunque. Un conto corrente unico cerca di raccogliere la beneficenza e distribuirla attraverso i canali dei religiosi e delle associazioni. A Dnepropetrovsk, accanto al palazzo della regione, un vecchio istituto di cultura sovietica ospita i volontari del Pravy Sektor (Settore Destro), l’unico, insieme all’Aydar, a non essere sotto il diretto comando del
Ministero della Difesa. In quelle stanze si ac-
cumulano abiti, cibo e medicine e ogni sabato
un’auto parte per la base dei combattenti, accampati nelle campagne dell’est. Accanto, nello stesso palazzo, Natasha coordina il lavoro di
alcune donne che cuciono e riempiono borse
con il kit di pronto soccorso per diversi battaglioni. «Ci teniamo in contatto tramite i social
network e il telefono. Chi ha bisogno chiama e
facciamo il possibile», racconta. Manca tutto,
soprattutto le garze per tamponare le ferite.
Per questo si ricorre a rimedi estremi: «Gli assorbenti interni delle donne sono ottimi per le
ferite da arma da fuoco. Nel kit ne mettiamo
sempre una scatola».
Il leader del Dnipro1, battaglione con sede a
Dnepropetrovsk, racconta di un fondo al quale
i commercianti della zona di Donetsk possono
inviare i propri soldi. Chiunque ha interessi
economici nel Donbass ha più necessità di altri a contribuire alla vittoria dell’Ucraina: le
miniere e le acciaierie, principale risorsa della
Dalle raccolte fondi nelle curve
degli stadi agli assorbenti usati
per tamponare le ferite,
tutti gli escamotage dei volontari
per combattere i russi
zona, sono ferme da mesi e la crisi già presente
da tempo si sta aggravando. Sono gli stessi privati a pagare gli stipendi dei volontari: più o
meno 200 euro al mese. Ma non solo. In campagna elettorale sono tanti i politici che sfruttano la situazione per assicurarsi voti: tra di loro si contano i maggiori finanziatori de battaglioni. Il leader del partito dei Radicali Oleg
Lyashko ogni settimana si reca a Mariupol,
città sotto il controllo dell’esercito ucraino, per
sostenere le truppe dell’Azov. L’oligarca è anche il leader del battaglione Ukrayina. Oppure il governatore di Dnepropetrovsk, Ihor Kolomoiskyi, fondatore del Dnipro Battalion.
Accanto ai volontari che fanno la questua in
piazza c’è un cartello pubblicitario. È ritratto
un soldato dell’esercito regolare impegnato in
un’operazione, dietro di lui si staglia un cielo
nuvoloso e una bandiera blu e gialla: «Spirito
e nessuna paura, gloria all’Ucraina» recita
l’avviso. Una foto simile appare anche al termine dei prelievi bancomat. Anche qui c’è un
soldato in uniforme e fucile in braccio, ma stavolta la frase è più esplicita: «Grazie per il supporto! Grazie per essere un cliente di Private
Bank, abbiamo comprato 400 giubbotti antiproiettile per i militari». E tra le possibili scelte: «Dona ai feriti di Ato» (le forze dell’antiterrorismo, ndr), «Dona all’esercito». In farmacia accanto alla cassa una scatola gialla dove inserire i farmaci segnalati nella lunga lista
affissa alla porta.
Nel centro di Kiev c’è poi l’unico punto di
raccolta della città per i generi di prima necessità, questa volta da inviare ai profughi, l’altro
TUTTE LE FOTO DI MARCELLO FAUCI
AIUTI Dall’alto, Liena che oggi
gestisce il gruppo di venti volontari del
centro per i profughi del Donbass,
l'unico presente a Kiev. Sotto alcuni
momenti di vita nella struttura
lato della guerra ucraina. Migliaia sono in fuga
dalle regioni dell’est per trovare rifugio e accoglienza presso le case messe a disposizione dalle comunità religiose e dai singoli cittadini.
Liena ha 45 anni, prima degli scontri di Maidan lavorava come produttrice televisiva. Ma
le cose sono cambiate in fretta. Tanti feriti
chiedevano aiuto e lei aveva molti contatti per
procurare farmaci. «Ho lasciato il mio lavoro e
ora gestisco un gruppo di venti volontari come
me». Chi si presenta alla porta del centro si deve registrare e dimostrare di provenire dalle
zone massacrate dalle bombe. E al sabato si distribuisce anche il cibo.
Persino gli ospedali sono sostenuti dai volontari. All’istituto militare di Dnepropetrovsk alcune carrozzine sono state donate
da ucraini residenti in Italia. I letti, le attrezzature e i medicinali sono stati acquistati dai
cittadini: il governo invia solo i farmaci di base, racconta un medico: «Per il resto dobbiamo attrezzarci con quello che troviamo in
farmacia».
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20 | INNOVAZIONI
sabato 11 ottobre 2014
sociali ma non squattrinate
quando le start-up hanno un’anima
Vocazione | Si occupano di cultura, istruzione, sanità, ambiente. E sempre
più spesso attraggono l’interesse di investitori alla ricerca di ritorni sicuri.
Perché il settore cresce. E anche in Italia, fra mille ritardi, qualcosa si muove
HANDUP
PAOLO FIORE
n Nell’era dei sacerdoti della tecnologia e
delle presentazioni liturgiche di nuovi prodotti, c’è chi risponde ancora a una vocazione. Si definiscono così, «a vocazione sociale», quelle start-up che si occupano di istruzione, cultura, sanità, ambiente. Senza che
sociale sia necessariamente sinonimo di
squattrinato.
Perché il modello di business è simile a
quello degli aspiranti Jobs. E perché si tratta
pur sempre di giovani imprese innovative.
In dieci anni l’idea di start-up è cambiata.
Non solo garage e circuiti: la vocazione sociale cresce. E inizia, con qualche difficoltà,
ad attirare capitali, anche grazie a fonti di finanziamento alternative al canale bancario.
Una giovane impresa no profit è finita tra
le 10 start-up che la Cnn consiglia di «tenere
d’occhio». Si chiama Watsi e utilizza il crowdfunding per «curare persone in tutto il
mondo». Ogni donatore può vedere chi riceverà i suoi soldi, per quale intervento serviranno e quanti ne mancano per raggiungere
l’obiettivo. Watsi non si ferma a chiedere di
donare per migliorare gli ospedali, ma crea
un rapporto diretto. Fa conoscere (con tanto
di foto) Barnabas, «uno studente tanzaniano che ha bisogno di 1.160 dollari per camminare normalmente». O Kervenson, da
Haiti, che curerebbe un disturbo cardiaco
congenito con 1.500 dollari. In tre anni di
attività, Watsi ha curato oltre 2.600 pazienti
grazie a 7.700 donatori.
La vocazione ha anche il suo social network. Si chiama GoodWall, una sorta di Fa-
cebook delle buone azioni, concentrato su
ambiente e diritti civili. Sì a gruppi ed eventi, ma niente «like». Il pollice all’insù è sostituito da un più inclusivo «Take part».
GoodWall è stato ideato da sei ragazzi svizzeri e ha raccolto finanziamenti per 1,1 milioni di franchi, 880 mila euro.
Tra una start-up innovativa che sogna
Zuckerberg e una a vocazione sociale «il
modello di business non cambia», dice
Alessandro Lerro, avvocato esperto di crowdfunding. Quello che cambia, semmai, è
la prospettiva: «È possibile che l’azienda
non punti tanto alla crescita di valore, come è tipico della new economy, quanto invece alla produzione di dividendi». Insomma: le dimensioni (e la cessione per fare
cassa) non sono tutto. Lerro è stato l’advisor di Pauwlonia, il primo caso di equity
BUSINESS UMANITARIO
Utenti di hand up, una app che connette
donatori e senza tetto destinando i fondi
raccolti per cure mediche e ospitalità
sabato 11 ottobre 2014
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crowdfunding italiano. Una start-up a vocazione sociale che prende il nome da una
pianta a rapido processo di crescita dalla
quale si ricava legna leggera, duttile e resistente a forti escursioni termiche. In meno
di 60 giorni (la metà di quanto sperato) ha
raggiunto l’obiettivo: 520 mila euro. Arrivati non da privati benefattori, ma da investitori qualificati, «come dimostra la media
di oltre 40 mila euro per investimento»,
sottolinea Lerro.
Ancora meglio ha fatto HandUp, un’app
che connette donatori e senzatetto azzerando le commissioni obbligatorie. «Il 100%
dei fondi viene utilizzato per cure mediche e
ospitalità», si legge sul sito ufficiale. Per sostenersi, il team ricorre solo a contributi volontari. Un’idea che ha stregato gli utenti
della piattaforma di crowdfunding Kickstarter e raccolto un finanziamento da 850
mila dollari.
Con i rubinetti bancari chiusi, ottenere un
prestito è complicato. Ancor di più se la finalità sociale, che di certo non assicura ritorni miliardari immediati, viene scambiata
per beneficenza. Quali sono le alternative?
«Il venture capital in Italia ha dimensioni
molto ridotte e quindi, per qualsiasi attività,
il crowdfunding è una soluzione», afferma
Lerro. Un’opportunità che vale ancor di più
per le start-up a vocazione sociale, perché
«hanno un impatto sul crowd spesso molto
superiore alle altre e quindi sono avvantaggiate nel coinvolgimento del pubblico».
Non è il solo plus. Ce n’è anche uno fiscale,
studiato per attrarre gli investitori in un settore che non ha il profitto come obiettivo
primario. Le persone fisiche e giuridiche che
puntano sulle start-up innovative a vocazione sociale possono contare su detrazioni Irpef del 25% e deduzioni sull’imponibile Ires
del 27%. Le aliquote per le giovani imprese
innovative si fermano al 19 e al 20 per cento.
Un solido incentivo fiscale, alcune buone
idee e qualche segnale di crescita. Ma i numeri complessivi delle imprese italiane a vocazione sociale raccontano un settore anco-
INNOVAZIONI | 21
costruisce con una batteria, un interruttore, fili elettrici e una bottiglia di plastica.
Ma se la mancanza di varietà è un difetto,
il vero punto debole è un altro: la redditività.
Secondo l’analisi del Politecnico di Milano,
il rendimento medio sul capitale investito
dai soci è pari a -22,18%. In altre parole: chi
ha investito, nella maggior parte dei casi, per
ora ci ha rimesso.
Un dato di fatto che, al netto degli incentivi fiscali, spaventa gli investitori. La soluzione potrebbe arrivare dal pubblico. Non
inteso come “statale”, ma come “privato diffuso”. È il caso dell’equity crowdfunding.
L’esordio in Italia non è stato esplosivo. Ma è
forse troppo presto per valutare. «In un Paese dove il venture capital ha raramente superato i 100 milioni di euro annui, non si potevano aspettare numeri mirabolanti», afferma Lerro. E poi, non di solo equity vive il crowdfunding. «Nella fase iniziale, potrebbe essere più indicato il modello reward-based,
fondato su un finanziamento a fronte di una
ricompensa o del pre-ordine di un prodotto.
Oltre a essere più semplice ed economico,
consente di osservare il gradimento del pubblico e di creare una community di sostenitori».
Se è vero che esercitano un forte appeal
sulla folla di piccoli investitori, le startup a
vocazione sociale possono sorridere nonostante le difficoltà. Guardando ad alcuni segnali incoraggianti, ma soprattutto a un numero: la Banca mondiale prevede che, entro
il 2025, i crowd-investment toccheranno i
92 miliardi di dollari.
u I N T E RV I STA
non smineremo per fare soldi
ma certo non guido una charity
Selene Biffi | A 32 anni ha già lanciato due progetti
di successo. Ora ci riprova con Bibak, un dispositivo
portatile che favorirà le bonifiche nei Paesi più poveri
start-up, le ore di lavoro sono interminabili, le entrate modeste – quando ci
sono –e le cose da fare molte».
Sharing economy, start-up a vocazione sociale, crowdfunding: l’economia sta cambiando o sono fenomeni destinati a sgonfiarsi?
«Non si tratta né di fenomeni né di
bolle, ma di possibilità che all’estero
portano avanti il cambiamento da
quasi 40 anni. Il fondo britannico per
le imprese e l’innovazione sociale ha
una dotazione di 900 milioni di sterline, quasi dieci volte di più rispetto a
Segnalata dalla Cnn fra le 10
imprese da tenere d’occhio, Watsi
utilizza ilcrowdfunding per curare
pazienti in tutto il mondo e mette
in relazione donatori e beneficiari
ra tutto da costruire. Alla fine di settembre,
le start-up innovative iscritte alle Camere di
Commercio erano 2.655. Quelle a vocazione
sociale che figuravano nell’elenco meno di
70. Da inizio anno il saldo è positivo: il gruppo si infoltisce, adagio. Conta 25 elementi in
più rispetto a gennaio.
Le buone idee non mancano. Come Filmvoices, che punta a far godere il cinema e
gli altri prodotti culturali ai non vedenti. O
Network Mamas, una sorta di sportello virtuale per le mamme. Itapad sviluppa app
per la valorizzazione del patrimonio culturale italiano. Anteo, uno spin-off dell’Università Ca’ Foscari, sintetizza il suo approccio con 3P: planet, people, profit. Sostenibilità sì, ma con profitto. Un’ambizione comune a molte start-up a vocazione sociale.
Quelle italiane sono piccole o piccolissime, con un capitale sociale medio di 13 mila
euro. Nessuna ha più di quattro addetti.
Tutte hanno un valore della produzione inferiore ai 100 mila euro. Con due eccezioni.
La Walden Technology, che sposa tecnologia e riabilitazione in quel di Bari, e la Europa Cube, ramo bolognese del centro studi
Eurogiovani.
Un’analisi del Dipartimento di Ingegneria gestionale del Politecnico di Milano
descrive un ambiente ancora poco variegato: più di una start-up a vocazione sociale
su due si occupa di attività editoriali o
istruzione. Nessuna rientra tra le imprese
«ad alto valore tecnologico in ambito
energetico». Perché anche produrre energia in modo semplice e a basso costo ha
una vocazione sociale. In Svizzera, ad
esempio, ci stanno provando i ragazzi di
Led Safari. Il loro obiettivo è dare la luce ai
Paesi in via di sviluppo. La loro invenzione
è una lampada led a energia solare che si
«Siamo indietro: Londra
finanzia iniziative simili
con un fondo da 900
milioni di sterline»
ESPERTI Bonifica di mine anti-uomo a Cipro
n Selene Biffi è una startupper sociale seriale. È giovane ed è italiana: ha
fondato la sua prima società a 22 anni, con un budget a dir poco risicato:
150 euro. Oggi ha 32 anni ed è già madre di Plain Ink, una onlus che promuove l’alfabetizzazione con fumetti
educativi, e di Spillover, progetto pluripremiato che divulga la scienza attraverso app e spy game.
Adesso Selene Biffi ci riprova: la
sua ultima creatura, ancora in embrione, si chiama Bibak. Si propone di
aiutare le comunità a bonificare i villaggi dalle mine anti-uomo, con sensori concepiti per essere assemblati
facilmente, applicati su bastoni, rastrelli e droni. E, dopo lo sminamento, riconvertiti ad altro uso. Ad esempio come generatore di energia o per
regolare il flusso di acqua in agricoltura.
L’idea nasce dai numeri: statisti-
che delle Nazioni Unite parlano di
110 milioni di mine sparse in oltre 70
Paesi, che uccidono o mutilano 20
mila persone all’anno, il 47% dei quali
bambini. Biffi sfrutta il Graduate Studies Program della Singularity University per costruire un suo team (Lorenn Ruster e Shirley Andrade) e un
prototipo. Aspettando i primi test.
Tempi ancora da definire ma luogo
già indicato: Afghanistan.
Plain Ink, Spillover, Bibak: come si sostiene economicamente
una start-up che non mira al profitto?
«Una start-up che non mira al profitto non significa che sia una charity,
e cioè che si debba supportare solo
con donazioni o grant di fondazioni.
Ad esempio, Spillover è una start-up a
vocazione sociale. Il profitto non è il
nostro scopo principale, ma la soste-
BARBARA LABORDE /AFP / GETTY
nibilità finanziaria è fondamentale».
Come si comincia?
«Ci sono diverse strade: si può ottenere un finanziamento da Business
Angels o da fondi di investimento privati, in cambio di equity. Si può raccogliere ilcapitale inrete supiattaforme
di crowdfunding, oppure partecipare
a bandi e concorsi».
Cosa direbbe a un ragazzo che
vuole fondare una start-up perché
allettato dalle prospettive di guadagno?
«Non credo che la creazione di una
start-up dipenda dalle prospettive di
guadagno. Chi la fonda spesso lo fa
perché ha un’idea che vuole esplorare, perché ha voglia di crearsi un lavoro o perché crede di poter fare la differenza con un progetto. Agli inizi è
sempre dura con qualsiasi tipo di
quanto viene riservato alle start-up
tecnologiche generiche in Italia. È
quindi un problema culturale e di
percezione, specialmente in un Paese
come il nostro, dove si fa sempre molta fatica a cambiare e a spostare i propri orizzonti, anche professionali, un
po’ più in avanti. Fin da subito, cerco
di impostare tutti i miei progetti con
un focus internazionale, perché so
che è necessario andare oltre i nostri
confini per riuscire a fare davvero la
differenza».
Per creare una start-up come Bibak e i sensori per le mine anti-uomo bisogna essere visionari. Cosa
direbbe a chi, pur avendo una buona
idea, non ha il coraggio di esserlo?
«Il percorso di avviamento di una
start-up richiede impegno e determinazione. È necessario credere molto
nella propria idea e non arrendersi di
fronte alle difficoltà e alla lentezza
con cui spesso le cose si muovono.
Quando si vuole veramente raggiungere un obiettivo, sono poche le scuse
che reggono. Bisogna solo trovare la
passione e mettersi al lavoro, i risultati poi verranno».
P.F.
sabato 11 ottobre 2014
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INNOVAZIONI | 22
polpa di cocco all’idrogeno
il combustibile perfetto
GABRIELE DE PALMA
n La maggior parte delle oltre 10
milioni di tonnellate di noci di
cocco raccolte ogni anno in India
viene destinata al consumo alimentare oppure offerto in sacrificio a Parvati, Ganesh e agli altri
dei durante le cerimonie religiose
induiste.
Alcuni ricercatori dell’Hydrogen Energy Center della Banaras
Hindu University di Varanasi
hanno invece pensato di portare il
frutto in laboratorio, dove stavano
cercando una soluzione a un problema annoso: conservare l’idrogeno in spazi contenuti. Non sono
stati i primi a puntare sul cocco,
ma chi li aveva preceduti ne aveva
utilizzato solo la corteccia legnosa,
così come altri materiali biologici
da carbonizzare, mai la polpa.
L’idrogeno potenzialmente sarebbe il combustibile perfetto: è
abbondante in natura più di ogni
altro elemento chimico, si ottiene
facilmente dall’acqua per elettrolisi e i residui della combustione
sono semplicemente vapori acquei. Il problema appunto è catturarlo e concentrarlo sufficientemente perché possa bruciare alla
bisogna e magari possa sfruttare
come canale distributivo quello
Il frutto cattura
le molecole di H2
e quando serve
le libera facilmente
attualmente usato per trasportare
il petrolio e gli altri idrocarburi.
Una soluzione sarebbe portarlo a
temperature bassissime, intorno a
meno 250 gradi, che però è poco
comodo per un utilizzo di massa.
Altro sistema è comprimerlo, però
anche in questo caso alla pressione necessaria con le tecnologie
odierne si rischiano deflagrazioni
in caso di incidenti. L’Hindenburg, il dirigibile tedesco esploso
in fase di atterraggio a New York,
chiuse di fatto l’adozione dell’idrogeno come combustibile per uso
civile nel 1926 (è rimasto in uso invece come carburante – congelato
a -183° C e a una pressione di due
atmosfere e mezzo – del gigantesco serbatoio dello Shuttle). Così
la ricerca si è concentrata su materiali che fossero in grado di trattenere l’idrogeno in concentrazioni
sufficienti. Alcuni metalli ci riescono molto bene ma, dopo poco
tempo che accumulano e rilasciano idrogeno, la loro struttura cede
compromettendo l’efficienza.
Il carbonio invece è un elemento ideale: cattura facilmente le
molecole di H2 e le libera altrettanto facilmente quando serve.
Serve però un carbone particolarmente performante in questo senso, così, a forza di tentativi, si è arrivati alla polpa di cocco. Finora è
il materiale organico carbonizzato
INDIA Un venditore di cocco nelle strade di Siliguri
che si è rivelato più efficace. Il segreto secondo Vivey Dixit, a capo
del team indiano di ricerca, è tutto
nella composizione del frutto che,
a differenza della noce esterna,
presenta potassio e magnesio in
quantità tali da aumentare la capacità di imprigionamento del
carbone di polpa di cocco. Il potassio polarizza il carbone mentre il
magnesio dissocia la molecola (gli
atomi di idrogeno si presentano in
coppia) facilitandone l’assorbimento. Il vantaggio che presenta
invece nei confronti dei metalli è
che questo carbone si è dimostrato
molto più resistente, senza deteriorarsi con l’uso. Il che apre la
strada non tanto alla coltivazione
intensiva di cocco per la prossima
era energetica, quanto piuttosto a
cercare di copiarne il funzionamento e riprodurlo sinteticamente in laboratorio.
i droni marini studiano
la vita degli Oceani
Regno Unito | Una flotta di robot eco-compatibili
ricostruirà la catena alimentare dell’Atlantico
WAVE GLIDER I ll drone che si alimenta con energie rinnovabili
n Sette sommergibili gialli con
nessuno a bordo, nemmeno il comandante. Sono i nuovi acquisti
del Centro Oceanografico Nazionale del Regno Unito. La flotta di robot marini dalla carena
dipinta di giallo sarà utilizzata
per studiare la catena alimentare degli oceani.
I wave glider (letteralmente:
scivolatori delle onde) sono dei
droni molto particolari in grado
di alimentarsi con energie completamente rinnovabili e reperite in loco: energia delle onde, del
ventoe delsole. L’autonomia potenzialmente è infinita. Ma per
ora i robot rientrano alla base per
comunicare i dati e perché siamo
ancora ai primi tentativi. La flotta è composta da diversi modelli,
alcuni destinati a navigare sulla
superficie, altri in grado di immergersi in profondità. Tutti sono stati farciti di strumentazione
per il rilevamento dati, dalle videocamere ai termometri e altri
rilevatori ambientali.
La prima missione, partita nei
giorni scorsi, prevede una rotta a
sud-ovest dicirca 500 km,in una
zona dove la fauna marina pullula, o così si spera, perché si incontrano le correnti fredde della
Manica e quelle calde dell’Atlantico, generando un ecosistema
adatto al plancton attorno a cui
ruota la catena alimentare sottomarina. Del fenomeno si sa molto in teoria ma manca una verifica multi-strumentale protratta
nel tempo per capirne di più. I
sette natanti automatizzati controllati via satellite registreranno tutto con calma e faranno ritorno in porto tra qualche mese
per riportare agli oceanografi
nuovi dati da studiare.
«Attualmente molte decisioni
su come gestiamo gli oceani sono
prese a partire da pochissimi da-
DIPTENDU DUTTA / AFP / GETTY IMAGES
LA CIFRA
290
Il controvalore,
in dollari, di un
bitcoin registrato il 6
ottobre scorso.
È il prezzo più basso
dal 7 novembre 2010.
In questi quattro anni
la criptomoneta
peer-to-peer
ha superato anche
i mille dollari (l'apice
il 4 dicembre 2013,
1.147 dollari).
Poche ore dopo aver
toccato il minimo ,
bitcoin ha ripreso a
crescere, chiudendo
sopra quota 325
ti», spiega Russel Wynn, responsabile scientifico del progetto,
lasciando intuire il potenziale
del contributo dei wave glider,
«oggi mancano risposte anche a
domande relativamente banali
come: “Dove vanno a mangiare
delfini e uccelli marini?”».
Il monitoraggio a base di satelliti e boe ha enormi lacune
mentre le navi attrezzate per la
ricerca sono molto costose e non
possono navigare in continuazione. Uno sciame di piccoli sottomarini gialli, a impatto zero,
potrà fare molto per migliorare
la conoscenza dei mari.
SICUREZZA INFORMATICA
pacemaker
anti hacker
n Si intitola Content of premarket submissions for management of Cyber Security in Medical Device ed è il primo tentativo di regolamentare i dispositivi medici
elettronici proteggendoli il più possibile
dagli attacchi informatici.
Le linee guida sono state redatte dalla
Federal and Drugs Administration
(Fda) statunitense a più di un anno dalle
consultazioni aperte nella primavera del
2013. «Sappiamo che non esiste il dispositivo medico a prova di attacco», ammette Suzanne Schwartz, dirigente del-
l’Fda, «è importante che i produttori di
dispositivi restino vigili e proteggano i
pazienti dai rischi alla sicurezza informatica». Software e hardware non sono
inattaccabili per definizione, quando poi
sono messi in rete, la loro tutela non può
che assumere l’assetto di una preoccupazione costante e continua. Possibilmente
utilizzando tutte le armi di difesa a disposizione, come raccomanda il documento,
che richiede ad esempio che ogni oggetto
incroci sistemi di password e nome utente solidi, anche rilevamento di dati biometrici (retina o impronte digitali). Il lato più debole è come al solito il software.
Qualche anno fa in un meeting di hacker,
alcuni sono riusciti a prendere il controllo da remoto di una pompa per insulina
impiantabile nel corpo e l’hanno spenta.
A inizio 2013 due studiosi di sicurezza in-
formatica hanno dimostrato che molti
dei dispositivi medici in commercio hanno le stesse falle nel codice dei sistemi industriali facilmente hackerabili e hackerati in passato, sfruttando le vulnerabilità di alcuni prodotti delle principali
aziende sul mercato (Philips, General
Electrics, Siemens) e rubando le credenziali di un medico tramite una app per il
monitoraggio delle funzioni vitali post-intervento operatorio. Le linee guida
prevedono software autentico e aggiornamenti certificati al sistema operativo.
Il problema è che manca proprio una cultura della difesa dagli attacchi informatici per chi realizza software per i dispositivi medici. La Fda sta cercando di alzare il
livello di attenzione. È quantomai utile.
GDP
Un pacemaker fatto di resina epossidica
GETTY IMAGES
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23 | INNOVAZIONI
ARNOLD MORASCHER / LAIF / CONTRASTO
ON LINE Un internet cafè in Transilvania, Romania
perché è rumena
la città più veloce
del mondo
Internet | Timisoara è la più connessa
e il Paese surclassa anche gli Usa. Tra le ragioni
del primato il numero record di informatici
e le reti spontanee. Oltre all’esempio dei pirati
JACOPO FRENQUELLUCCI
n L’auto-organizzazione batte la deregulation, almeno sul
web. Secondo le misurazioni
della società di test di connessione Ookla, infatti, la Romania, grazie alla proliferazione
di reti locali promosse dagli
stessi utenti, è al terzo posto
nella classifica mondiale della
velocità di download con 57,5
megabyte al secondo, mentre
gli Stati Uniti arrancano in
ventiseiesima posizione, sotto i 30 megabyte al secondo.
L’opinione di Susan Crawford, ex consulente per l’innovazione di Barack Obama,
è che sia colpa del Telecom-
munication act del 1996, nato con il proposito di rimuovere le barriere di accesso al
mercato, ma secondo cui «le
compagnie che forniscono
accesso a internet non devono affrontare né competizione né controlli».
Nella nazione della Silicon
Valley e di Apple, nessuno
degli operatori ha investito
sulla fibra ottica in maniera
significativa, e addirittura
Verizon, uno dei big del settore, non costruisce nuove
infrastrutture tecnologiche
dal 2010. Sta provando a
cambiare le carte in tavola
Google con il suo servizio Fiber: nella prima città cablata, Kansas City, la velocità
sabato 11 ottobre 2014
media sfiora i 50 megabyte.
Nulla a che vedere comunque con Timisoara in Romania, dove gli oltre 300 mila
abitanti nel 2013 hanno viaggiato a una velocità di 89,9
megabyte al secondo, il dato
più alto al mondo: e non si
tratta certo di un exploit, perché delle quindici città più
connesse al mondo ben sei
provengono dal Paese che
dal 2007 fa parte dell’Unione
europea. Qui la media della
connessione si ferma però a
26,6 mb/s, trascinata a fondo
dal novantottesimo posto
mondiale dell’Italia che con i
suoi 8,96 mb/s insegue Namibia, Mauritania e Senegal.
Più fattori contribuiscono
a questo primato, ed è sicuramente decisiva la possibilità per gli operatori di poter
installare reti fisiche proprie,
senza particolari limitazioni
legislative. A ciò si aggiungono una concorrenza spietata
(con più di 100 operatori
presenti sul mercato) e l’assenza di qualsiasi logica di
pubblica utilità, se è vero che
meno del 20% della popolazione, cioè quella concentrata nelle principali città, ha
accesso a internet ad alta velocità: il risultato è che il costo mensile di un abbonamento si aggira intorno ai 5
euro.
Tuttavia, a fare la differenza sono soprattutto le
competenze degli utenti: la
Romania è il sesto Paese al
mondo per numero assoluto di informatici, con un
rapporto tra tecnici e cittadini che è 150 volte più alto
di quello degli Stati Uniti.
Uno studente di Bucarest,
durante la scuola dell’obbligo, passa davanti al pc otto
volte il tempo di un suo coetaneo di Washington. Questo esercito di programmatori, quando alla fine degli
anni ’90 si è trovato di fronte all’impossibilità di godere di un servizio pari a quello che andava affermandosi
negli altri paesi europei, ha
creato di propria iniziativa
una serie di reti locali ethernet – prima all’interno dei
singoli palazzi per arrivare
poi a coprire interi quartieri
– aumentando così in maniera esponenziale la velocità di connessione. Lo
spontaneismo si è allora organizzato: sono nati amministratori di sistema che
chiedevano una piccola
quota mensile per i costi di
mantenimento, offrendo in
cambio anche servizi aggiuntivi (dalla condivisione
di materiale “pirata” e dai
software fino ai film, passando per la musica).
Queste reti di vicinato sono arrivate a contare anche 3
mila persone iscritte, prima
di unirsi a loro volta in vere e
proprie società e andare a
contrattare con i fornitori di
linea; i quali hanno risposto
ben volentieri a una sempre
maggiore richiesta di banda
e alle proposte di collaborazione e di pacchetti congiunti, contribuendo così a innescare un circolo virtuoso. Oggi Interlan, la più grande di
queste reti spontanee che di
Dietro al boom del web
la volontà di accedere
gratis a contenuti
protetti da copyright
amatoriale hanno ormai ben
poco, copre tutta la città di
Bucarest e i suoi due milioni
di abitanti; e grazie agli introiti le compagnie hanno
potuto completare il passaggio da una rete telefonica a
56 kilobyte al secondo a
quella via fibra in poco più di
due anni, dal 2006 al 2009,
evitando così la fase intermedia dell’Adsl.
C’è chi sostiene sia stata
principalmente la volontà di
accedere gratuitamente a
contenuti protetti da diritto
d’autore la causa di questo
boom del web in Romania:
difficile smentire questa tesi, se già nel 2007 l’attuale
presidente della Repubblica, Traian Basescu, gelò Bill
Gates durante l’inaugurazione di una sede Microsoft
che avrebbe portato 600 posti di lavoro: «È stata la pirateria ad aiutare le nuove generazioni a scoprire la tecnologia, senza di essa non
avremmo avuto lo sviluppo
dell’informatica nel nostro
Paese». Secondo gli esperti,
oltre il 70% del software utilizzato dagli utenti rumeni è
stato scaricato illegalmente:
non è quindi un caso che
proprio la casa madre del sistema operativo Windows
abbia acquistato già nel
2003 lo studio Rav (Romanian anti virus) per affidargli la creazione del Defender, il sistema di sicurezza
installato sulla maggioranza
dei pc al mondo; e che Bitdefender, programma sempre
made in Bucarest, abbia vinto per cinque volte il premio
di miglior software per la
protezione della redazione
di PcMag. Nel 2014 il mercato della tecnologia in Romania raggiungerà, secondo
le stime di Business monitor, il fatturato complessivo
di un miliardo di euro per la
prima volta, con una crescita
rispetto all’anno precedente
vicina al 10%.
Se a est del muro di Berlino è stata determinante la libera iniziativa, negli Stati
Uniti potrebbe invece essere
l’intervento pubblico la soluzione del problema. A Chattanooga, 170.000 anime nel
Tennessee, l’amministrazione comunale, guidata dal democratico Andy Berke ha
scelto di reagire alla crisi
puntando, attraverso la società municipale dell’energia
elettrica, su una speciale
connessione a fibra ottica:
oggi la rete offre una connessione da un gigabyte al secondo, più di dieci volte il valore di Timisoara. Il progetto
ha avuto poco seguito tra i
cittadini, che hanno sottoscritto il servizio in meno di
5.000, ma ha richiamato
start-up e soprattutto investitori, per un totale di 50 milioni di dollari immessi nell’economia locale.
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24 | IDEE
sabato 11 ottobre 2014
bimbe troppo belle
e altri ordinari abusi
u ALBUM ICONOGRAFICO DEL WEEKEND
SOPRUSI Dal 17 al 19 e dal 24 al 26 ottobre si terrà a Lodi
la quinta edizione del Festival della Fotografia Etica.
Quest’anno lo spazio tematico della rassegna sarà
dedicato alla violenza ai danni delle donne in tutto
il mondo. Si parte dagli Stati Uniti, e in particolare dai
concorsi di bellezza per bambine. Un viaggio tra Alabama,
Georgia e Carolina del Sud per illustrare una realtà
in ascesa ma molto discussa. Poi il Kenya, con un’indagine
per immagini sulla mutilazione genitale femminile. Quindi
l’Arabia Saudita, con il suo complicato mondo femminile,
in bilico tra modernità e tradizione. Una storia
appassionante proviene dalla Somalia, dove la squadra
di basket donne del Paese continua ad allenarsi
imperterrita nonostante le minacce degli integralisti. Infine
India, Pakistan, Bangladesh, Uganda, Nepal e Cambogia,
per raccontare la tragedia delle donne sfigurate dall’acido.
ESTREMI Nonostante il
Kenya abbia promulgato una
legge che ne vieta
l’esecuzione, le donne delle
tribù Masai continuano a
subire la mutilazione dei
genitali femminili.
È quanto mostra al Festival
della Fotografia Etica la
freelance Meeri Koutaniemi
con Taken, lavoro che fa
parte di un progetto a lungo
termine riguardante la
menomazione genitale
femminile in diversi
continenti.
L’Organizzazione Mondiale
della Sanità stima che ci siano
più di 140 milioni di donne
vittime di tale pratica nel
mondo.
CONTESE Beautiful childè il
lavoro presentato al festival
da Laerke Posselt. La
fotografa danese ha voluto
rappresentare alcuni
concorsi di bellezza per
bambini negli Stati Uniti e la
vita quotidiana di Sophia ed
Evie, due piccole
concorrenti.
Pratica esistente da almeno
50 anni, queste gare sono
cresciute ultimamente in
popolarità.
Ne è nato un dibattito su
quanto possa essere
pericoloso incoraggiare dei
bambini a vivere secondo
ideali tipici del mondo adulto,
enfatizzando l'aspetto
sessuale e interferendo con
l'immagine di sé.
Un fenomeno le cui cause
sono da rintracciare
all’interno di un insieme di
fattori culturali, religiosi e
sociali radicati in alcune
tradizioni, che hanno origine
nel ritenere gli organi genitali
femminili come impuri e sono
giustificate da diverse
credenze circa su cosa sia un
comportamento sessuale
appropriato.
La mutilazione femminile è
stata giudicata come lesiva
dei diritti umani ed è ritenuta
una seria violazione
all’indipendenza sessuale
delle donne. Essa riflette una
radicata disuguaglianza tra i
sessi e costituisce un’estrema
forma di discriminazione.
sabato 11 ottobre 2014
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IDEE | 25
BASKET A Mogadishu,
la capitale somala
distrutta dalla guerra, ci
sono giovani donne che
rischiano la vita tutte le
volte che si presentano
sul campo da gioco. La
storia fotografica firmata
da Jan Garup racconta di
come Suweys e
compagne sfidino le
posizioni islamiche sui
diritti delle donne ogni
volta che giocano lo
sport del nemico
RECLUSIONE Negli scatti
dell’inglese Olivia Arthur, il
controverso e inesplorato mondo
delle donne saudite. Jeddah Diary,
questo il nome della selezione,
spalanca le porte sulla paradossale e
bizzarra microsfera in cui vivono
queste ragazze, nascoste dietro alte
mura e avvolte nell’onnipresente
abaya. Vivono all’interno di una bolla,
dove non tutto è così rigido come si
potrebbe pensare. Tuttavia
l’interazione sociale è complicata, il
comportamento da tenere varia a
seconda del luogo e della circostanza
in cui ci si trova, le identità devono
rimanere segrete e le fotocamere
sono quasi sempre indesiderate. Con
un rapido sguardo su una realtà che
di solito è inaccessibile agli occhi
degli estranei, Jeddah Diary
rappresenta una riflessione sulla
natura della privacy e sulla sottile
linea che esiste tra ciò che è
consentito o meno vedere.
americano. Per via della
loro passione sono nel
mirino di fazioni militari
come al-Shabaab e di
altri gruppi integralisti
islamici.
Per giocare, sono
protette da uomini
armati pagati
dall’associazione per del
basket somala. Per
andare agli allenamenti,
devono nascondere la
loro tuta sotto abiti
lunghi.
ACIDO Nelle foto della tedesca AnnChristine Woehrl, il terribile destino delle
donne sfregiate dall’acido. Ogni anno si
registrano circa 1500 casi di aggressione
con acido a livello mondiale. Le
sopravvissute spesso non osano denunciare
il colpevole alla polizia, in quanto vi
dipendono economicamente. Quindi si
presume che il numero di aggressioni non
registrate sia significativamente superiore.
Ci sono poi coloro che si danno fuoco con il
cherosene o di coloro che cercano di
suicidarsi per fuggire da una vita
vergognosa fatta di abusi e repressioni da
parte di mariti o suoceri, anche loro
immortalate nelle foto di Woehrl. Per
trovarle, la fotografa ha visitato l’India, il
Pakistan, il Bangladesh, l’Uganda e il Nepal.
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26 | IDEE
sabato 11 ottobre 2014
di nuovo selvaggi
il fascino estremo
dell’essenziale
Tendenze | Il distacco con la natura si è fatto abisso.
Per chi non è pronto per l’avventura, si moltiplicano i
titoli che aiutano a fuggire. Dal Wild trekking di Cheryl
Strayed alle Tracce nel deserto di Robyn Davidson
VALENTINA PIGMEI
n «Pensare alla nostra vita
nella natura, quotidianamente trovarsi davanti alla materia, entrare in contatto con
rocce, alberi, vento sulle gote.
La terra solida! Il mondo autentico! Il senso comune!
Contatto! Contatto! Chi siamo? Dove siamo?».
Sono parole di Henry David
Thoreau, scritte nel 1857, ma
potrebbero essere state scritte
ora. Se all’epoca di Thoreau il
divario tra uomo e natura cominciava a esistere, possiamo
dire che oggi sia diventato
abissale. Perso il famoso contatto con il selvaggio, l’uomo è
disorientato, infelice, povero.
E allora una capanna nel bosco, un sentiero di montagna,
una barca a vela in mezzo all’oceano diventano più che
mai luoghi di cura, di fuga, di
rinascita. Così come è sempre
più diffuso il desiderio di sognare e di vivere, se non in prima persona almeno attraverso la letteratura e il cinema,
esperienze estreme nella natura.
Se non è possibile scappare
in mezzo al nulla, si può sempre leggere le storie di chi lo ha
fatto. Anzi, è grazie alla letteratura e al suo potere rivelatorio che questo succede: sono i
libri che inventano mondi
lontani, disegnano terre di pace, evocano avventure del corpo e dello spirito; sono i libri i
responsabili delle scelte di vita estreme che tanto piacciono in questi nostri tempi tecnologici e urbani.
Se Chris McCandless, la cui
storia (vera) è raccontata nel
film Into the wild, ha ispirato
migliaia di persone con la sua
celebre fuga in Alaska, a sua
volta sappiamo che McCandless aveva portato con sé e
letto alcuni classici della letteratura. «Volevo il movimento,
non un’esistenza quieta. Volevo l’emozione, il pericolo, la
possibilità di sacrificare qualcosa al mio amore». L’autore
di questo brano - sottolineato
da McCandless e ritrovato insieme alla sua salma, come
Jon Krakauer racconta nel li-
bro Nelle terre estreme, (Corbaccio) da cui è tratto il film - è
Lev Tolstoj. Fu soprattutto la
lettura di Tolstoj, secondo
Krakauer, a sedurre il giovane
McCandless, oltre naturalmente quella di Thoreau.
Il quale, non a caso, se ne
andò per due anni a vivere in
una capanna auto-costruita in
Massachusetts e poi scrisse
Walden o la vita nei boschi,
diventando il padre del nature
writing americano. Anche
Sylvain Tesson, scrittore e
viaggiatore, ha vissuto sei mesi da solo in una capanna in Siberia, e poi ha raccontato la
sua impresa in un libro vendutissimo in Francia, Nelle foreste siberiane (Sellerio). Con
Sylvain Tesson,
uno degli autori
più citati, ha vissuto
sei mesi da solo in
una capanna in Siberia
sarcasmo lieve, lontano dalla
mitologia della wilderness
americana, Tesson sa di «non
essere abbastanza eremita per
sopravvivere senza buoni autori». Così parte con una settantina di titoli, per star sicuro. Del resto, il villaggio più vicino è a 120 chilometri e non
ha nessun mezzo di trasporto
se non le proprie gambe; gli
ospiti sono rari, tra loro pescatori, guardiani della riserva e
qualche orso.
Eppure il suo viaggio da fermi è assai movimentato: tra la
solitudine dei ghiacci Tesson
capisce molte cose importanti. La ricerca di sé, il desiderio
di spartanità, la pulizia interiore: alla base di tutte queste
avventure nella natura selvaggia c’è soprattutto questo.
«Per desiderare una capanna
al centro di una radura», scrive Tesson, «bisogna prima
aver sofferto di indigestione
nel cuore delle città moderne.
Dopo essere rimasti paralizzati dal grasso del conformismo e invischiati nello strutto
delle comodità, si è maturi per
il richiamo della foresta».
Thoreau era meno ironico di
Tesson, ma il concetto era lo
stesso: «Datemi verità, invece
che amore, denaro, fama».
Una ricerca di verità talvolta
quasi religiosa, anche se con la
religione istituzionale non ha
nulla a che vedere, ma contiene piuttosto - almeno negli
esiti letterari migliori - un ritorno ai valori essenziali e una
protesta implicita verso la società.
«Quando ti senti parte della
natura è come una specie di
religione: è accettare che ci sia
qualcosa di illimitato, qualcosa di molto più importante del
tuo ego», ha detto Erling Kagge a pagina99, uno dei più famosi esploratori viventi autore di Filosofia per esploratori
polari(Add Editore).
«E poi la bellezza di fare le
spedizioni al Polo è proprio
questa: è imparare l’arte di
mangiare a piccoli bocconi;
sentire di avere tutto ciò di cui
si ha bisogno e ricordarsi di
cosa è importante nella vita».
Allo stesso modo c’è qualcosa
religioso nella storia di Cheryl
Strayed, autrice del bestseller
Wild (Piemme) che, partita da
sola per un trekking estremo,
a ogni tappa è costretta a bruciare le pagine del libro che si
porta appresso nell’enorme
zaino.
Avventure estreme, solitarie che, come ha insegnato
una volta per tutte il giovane
McCandless di Into the wild,
hanno senso solo se condivise.
Questi racconti che siano ambientati al polo sud, nel deserto o in altri luoghi sperduti,
sono sempre incredibilmente
popolati di esseri umani con
esistenze al limite, ma proprio
per questo indimenticabili. «I
sentieri sono luoghi d’incontro, di conversazione di convivialità… era nelle mie intenzioni scrivere libri densamente popolati, di vivi e di morti»,
dice Robert MacFarlane a pagina99. MacFarlane è l’autore
di una trilogia sulla natura
composta da Montagne della
mente, Luoghi selvaggi e Le
antiche vie (gli ultimi due da
Einaudi), e già considerata un
classico del nature writing
FOX SEARCHLIGHT PICTURES
SOLITARI In alto da
sinistra, una scena del
film Into The Wilddi
Sean Penn, 2007.
Sotto, la protagonista
del film Wild, Reese
Witherspoon, diretto
da Jean Marc Vallèe.
In alto a destra, lo
scrittore Sylvain
Tesson (al centro); una
scena di backstage del
film Tracks, 2013
contemporaneo. «Nei miei
anni di vagabondaggio ho navigato sotto la luce di Giove attraverso un’antica sea road in
Nord Atlantico, circumnavigato una montagna sacra di
7000 mila metri nella Cina
occidentale, in inverno, ed
esplorato il martoriato deserto palestinese della West
Bank. In tutti questi posti ho
incontrato persone per le quali camminare e seguire i sentieri è stato fondamentale nella comprensione di sé e del lo-
ro posto nel mondo», continua MacFarlane che ha di recente pubblicato un libro illustrato, Holloway (Faber & Faber), sulle strade incavate del
Dorset, ed è impegnato nella
scrittura di Underland, un libro che racconta «di mondi
sotterranei e perduti che si
trovano sotto le nostre campagne e città».
Presentato con successo lo
scorso settembre al Toronto
Film Festival, il film tratto da
Wild, sceneggiato da Nick
Hornby e dalla stessa Cheryl
Strayed, diretto da Jean-Marc
Vallée, (autore di Dallas Buyers Club) e interpretato da
Reese Witherspoon, esce il 5
dicembre in Usa e il prossimo
febbraio in Italia. Il film, fedelissimo al libro omonimo, racconta di quando Strayed all’età di 26 anni, nel 1995, sola e
senza alcuna preparazione,
partiva per il Pacific Crest
Trail, il più lungo sentiero di
montagna degli Stati Uniti
che collega il British Columbia con la California.
Incapace di far fronte al dolore della morte – quella della
madre, scomparsa giovanissima di cancro – entra in un negozio sportivo e vede per caso
una guida della Pacific Crest
Trail. Senza soldi, stanca di girare a vuoto e con un proble-
sabato 11 ottobre 2014
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IDEE | 27
JEAN-PIERRE CLATOT / GETTY IMAGES
PARAMOUNT VANTAGE
ma di dipendenza dall’eroina,
decide di partire.
Dei quattromila chilometri
del sentiero, Cheryl ne percorrerà “solo” milleseicento, con
varie difficoltà tipo temperature polari, animali selvatici,
piedi feriti dagli scarponi, fame, sete, mentre lo zaino pesantissimo le spezza la schiena. È una lunga lotta contro il
proprio dolore.
«Ne è valsa la pena», dice
vent’anni dopo la Strayed.
Millesettecento miglia – quasi
le stesse percorse da Cheryl
Strayed – sono quelle fatte da
Robyn Davidson che attraversò a piedi le immense solitudini del deserto australiano, in
compagnia di un cane e quattro cammelli. Era il 1977. Ci
sono voluti ben 37 anni perché un regista portasse sullo
schermo la storia raccontata
nel libro autobiografico Orme
(Feltrinelli) che, riletto oggi,
non ha perso fascino, ne ha
forse acquistato (Tracks, diretto da John Curran e interpretato da Mia Wasikowska, è
uscito lo scorso anno nelle sale). A breve diventerà film anche Revenant, un romanzo
dal respiro epico, che narra
una delle avventure più famose del West, quella di Hugh
Glass. Figura leggendaria,
Glass era un trapper, ovvero
SEE-SAW FILMS
un esploratore e cacciatore di
pellicce.
Assalito da un grizzly, viene
abbandonato dai compagni
che gli rubano armi e cavallo;
ma Glass non è morto, è gravemente ferito e, nell’estate del
1823, si rimette in viaggio attraverso i territori selvaggi di
Dakota, Montana, Wyoming e
Nebraska – tremila miglia di
pura wilderness – con solo uno
scopo: vendicarsi.
Scritto da Michael Punke
nel 2003 e solo oggi in traduzione italiana, Revenant(Einaudi) è un’opera di fiction
anche se, ammette l’autore,
«L’era del commercio di pellicce è inestricabilmente intrecciata alla leggenda». La
storia è dalla parte di Hugh
Glass e della sua impresa, documentata da varie fonti. La
forza epica di un personaggio
come Glass – che avrà il volto
di Leonardo di Caprio nel
film diretto da Alejandro
González Iñárritu – ha di
nuovo a che fare con la religiosità della natura selvaggia: «E se Glass credeva in un
dio, per lui abitava in quell’immensa distesa occidentale. Non una presenza fisica,
ma un’idea, qualcosa che andava oltre la comprensione
umana, qualcosa di più grande».
DA VEDERE E DA LEGGERE
n Nella lingua inglese
wild è un aggettivo dai
molteplici significati e anche un sostantivo che significa «natura incontaminata, popolata di animali selvaggi», e può quindi riferirsi tanto al bosco
quanto all’oceano o al deserto. The Call of the Wild
era il titolo originale del
Richiamo della foresta di
Jack London: oggi nessuno tradurrebbe wild con
foresta, ma in quel caso era
corretto. Oggi basta accendere la tv e sarete sommersi da trasmissioni dedicate
all’estremo: c’è Wild-Oltrenatura, la serie condot-
ta da Fiammetta Cicogna
arrivata alla decima edizione (su Italia 1); Nanuk-Prove d’avventura,
con Caterina Guzzanti e
Davide De Michelis (su
Raitre, dal 21 gennaio); solo sul canale tematico canale tematico NatGeo
Wild di Sky c’è Wild Real
Tv, Sfide selvagge e Destination Wild Italia. Dal 27
ottobre partirà anche Survive the tribe su National
Geographic
Channel
(Sky), dove il biologo Hazen Audel si cimenterà in
battute di caccia nella foresta amazzonica e nella costruzione di igloo con gli
Inuit. Più wild di così. E in
libreria sono ormai tanti, e
spesso anche buoni, i libri
che raccontano storie
d’immersione nella natura. Se la casa editrice Corbaccio pubblica da sempre
storie favolose, come La
grande avventura di Stefano Ardito - il racconto fresco di stampa su Filippo
De Filippi, il «grande sconosciuto» della storia dell’esplorazione italiana e del
suo straordinario viaggio
in Asia nel 1913 - oggi si
uniscono anche l’ottima
casa editrice Nutrimenti,
la collana “Frontiere” di Einaudi (con le edizioni di
Robert MacFarlane, Richard Mabey e molti altri)
e la neonata serie “Wild” di
Fabbri. Esce in questi giorni L’ultima spedizione
(Nutrimenti) di Robert F.
Scott, il diario del famoso
esploratore e della sua avventura al Polo Sud nel
1913, un libro notevole. La
frontiera invisibile (Fabbri), scritto dallo skyrunner Kilian Jornet, ha un
sottotitolo che dice tutto:
Sull’Himalaya. In inverno. Senza corde. Bisogna
correre o morire. Sempre
da Fabbri è uscito di recente Lasciateli giocare con gli
orsi di Peter B. Hoffmei-
ster, una guida originale
per insegnare ai genitori
come far vivere i bambini
nelle natura selvaggia.
Una vicenda non tanto conosciuta in Italia ma dotata di una certa freschezza
narrativa benché scritto
parecchi anni fa è Indian
Creek. Un inverno da solo
sulle Montagne Rocciose di
Pete Fromm (Keller), la
storia di un giovane studente svogliato che riceve
la proposta di trascorrere
sette mesi da solo per proteggere la schiusa di 2 milioni di uova di salmone.
La casa editrice Edt pubblica, per la prima volta in
Italia, le opere di Roger
Deakin, ecologista e documentarista, autore di vari
libri tra cui Nel cuore della
foresta. Un viaggio attraverso gli alberi e Diario
d’acqua, dove si racconta il
suo viaggio a nuoto attraversato la Gran Bretagna,
con indosso una muta fatta
confezionare apposta per
le acque più gelate. Infine
il piccolo editore Gingko
compie una vera e propria
operazione “natura selvaggia” ripubblicando da una
parte classici come Disobbedienza civile di Thoreau,
Al polo nord di Emilio Salgari o Sud di Ernest Shac-
kleton, e dall’altra titoli
nuovi come Polar Dream
di Helen Thayer, best seller in Usa nel 2002, o Il silenzio dell’acqua di Mirna
Fornasier: due viaggi in solitaria tra i ghiacci, compiuti da due donne. Per i
ragazzi, e non solo, è appena uscito un libro illustrato
da disegni strepitosi, L’incredibile viaggio di Shackleton di William Grill
(Isbn Edizioni), il racconto
della mitica spedizione
dell’Endurance: 28 uomini
e 69 cani alla conquista del
Polo Sud.
V.P.
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28 | IDEE
sabato 11 ottobre 2014
altro che good news is no news
ora la buona novella porta denari
Media | Negli Usa sempre più testate
puntano sulle analisi ottimistiche della
realtà per recuperare lettori e attrarre
pubblicità. Da noi ci prova il Corriere
LELIO SIMI
n Confrontate queste due aperture di
pagina. Da una parte il titolo dai toni
decisamente allarmisti è dedicato all’emergenza Ebola, Catastrofe: il mondo ci ha dormito sopra. Una grande foto ritrae un bambino lasciato solo su
un vecchio materasso e un operatore
sanitario coperto da testa a piedi da
una tuta protettiva. L’altra invece racconta la storia di un uomo che ha subito un trapianto di fegato. L’immagine è
quella della sua famiglia sorridente
con la più piccola delle figlie che mostra un cartello Our daddy needs a kidney, diventata simbolo di una campagna di sensibilizzazione per la dona-
In un anno il traffico
dell’inserto dell’Huffington
Post dedicato alle notizie
positive è aumentato
dell’85 per cento
zione degli organi. Titolo: Ecco come
queste persone hanno convinto degli
sconosciuti ad aiutare gli altri. Due
modi contrapposti di raccontare eventi drammatici, entrambi pubblicati
nello stesso momento dall’Huffington
Post, edizione americana, qualche
giorno fa. Il primo nella pagina principale del sito, il secondo nella sezione
Good News creata dal giornale per un
pubblico che «vuole arrivare a fine
giornata senza essere preso dall’ansia e
dalla depressione».
I numeri sembrano premiare questo esperimento lanciato nel 2012:
nell’ultimo anno il traffico di questo
inserto digitale è cresciuto dell’85% e
mediamente – dicono dall’HuffPost –
le sue notizie sono condivise nei social
il doppio delle altre. Ecco che così molti editori stanno scoprendo che dare la
possibilità ai lettori di visitare il «lato
soleggiato delle notizie» (come ha
scritto la rivista Digiday) potrebbe essere anche un buon affare. Negli Stati
Uniti l’Huffington Post non è assolutamente l’unica grande testata ad aver
tentato questa strada: dalla Abc che ha
da qualche tempo ha una sezione dedicata alle buone notizie fino al Washington Post che proprio in queste settimane ha lanciato The Optimist un aggregatore di articoli dedicato alle
«persone che vogliono fare del mondo
un posto migliore».
Già ma quali sono le ragioni di tanto
interesse verso questo nuovo taglio
delle notizie? Una prima risposta potrebbe essere, molto pragmaticamente, che le grandi aziende siano le prime
a spingere per avere nei giornali spazi
più confortevoli per veicolare i propri
messaggi promozionali. Non è difficile
immaginare che un brand possa preferire collocare un proprio messaggio
accanto al racconto di una storia edificante che non a un articolo che sostiene che il virus ebola è ormai fuori controllo.
Qualche altra risposta alle ragioni di
questa tendenza può venirci da uno sito come Upworthy uno dei fenomeni
di questi ultimi anni con i suoi numeri
da capogiro e in continua crescita (87
milioni di utenti unici solo nel suo primo anno di vita). Il sito lanciato nel
2012 non ha una singola sezione dedicata alle good news, è tutta la sua linea
editoriale ad essere incentrata su una
lettura comunque positiva della realtà.
Per dare un’idea: uno dei suoi contenuti più letti (circa 17 milioni di visualizzazioni) è Questo ragazzo incredibile ha vissuto su questo pianeta 19 fantastici anni. Quello che ci lascia è meraviglioso che racconta con una serie
di video la storia di un ragazzo che a 14
anni ha scoperto di essere malato terminale di cancro e la sua voglia di lottare contro la malattia.
L’uso sistematico di toni enfatici,
uso disinvolto di click-bait e l’ossessione zuccherosa di infondere in tutti fiducia nell’umanità hanno fatto guadagnare al sito non pochi detrattori. Ma
va anche detto che assieme a questo tipo di contenuti vengono realizzate anche azioni concrete: ad esempio una
sottoscrizione lanciata assieme al servizio citato ha contribuito a raccogliere 750 mila dollari a favore della ricerca sul cancro. Un mix che ha comunque contribuito a conquistare il gradimento anche del pubblico più giovane.
I lettori di Upworthy sono infatti per il
43,2% compresi tra i 18 e 34 anni rivela
un’indagine comScore. Ovvero proprio quella fascia di età che le testate
tradizionali oggi hanno difficoltà a riconquistare. Un elemento questo che
non deve essere passato inosservato a
chi ha deciso di avviare questo tipo di
progetti.
Non per tutti però questi nuovi approcci devono essere sempre e comunque sinonimo di superficialità o di
buonismo distribuito a piene mani.
Per alcuni infatti dare notizie positive
vuol dire soprattutto cercar di raccontare i fatti con più contestualizzazione
e con elementi che aiutino a dare risposte concrete ai problemi. Su questa onda in America sono nate etichette come positive journalism o solution
journalism. «Perché il punto», ha det-
LIAU CHUNG-REN / REUTERS / CONTRASTO
HONG KONG Yau e Chen dopo
la loro promessa di matrimonio
in diretta dal l’occupazione
studentesca. La notizia è stata
riportata dalla sezione Good
Newsdell’Huffington Post
to alla Columbia Journalism Review,
David Bornstein firma del New York
Times e fondatore di Solution Journalism Network, «non è produrre più notizie positive o al contrario più indignazione, ma chiederci cosa possiamo
fare? Cosa dovremmo sviluppare? Dov’è più urgente fare investimenti? Sono queste le domande che i nostri lettori ci pongono ogni giorno».
In Italia è stato il Corriere della Sera
il più convinto a perseguire questa
strada con Buonenotizie che in poco
tempo è diventato il terzo blog più seguito del sito del giornale. Poi a maggio
di quest’anno ha ampliato ulteriormente il progetto dando vita alla sezione Corriere Sociale che guarda con
particolare interesse anche al mondo
del terzo settore e del volontariato. «Ci
siamo resi conto che anche da noi esisteva un pubblico sempre più numeroso che chiedeva un approccio diverso,
non solo bad news ma anche storie di
solidarietà e capacità di fare comunità», ci racconta Giangiacomo Schiavi,
vicedirettore del Corriere della Sera e
responsabile del progetto, «il punto
però è che questo tipo di storie non ti
vengono incontro, devi andartele a
cercare. Insomma devi fare un lavoro
di giornalismo vero, sul campo, che
sappia intercettarle e approfondirle
seriamente altrimenti è solo “marketing del bene” che può avere anche successo ma rischia di essere solo una moda temporanea».
La questione ancora tutta da valuta-
re è quanto questi nuovi approcci sapranno modificare realmente il modo
di fare oggi giornalismo. «Affinché
certe tematiche si affermino», sostiene
Schiavi, «nei giornali serve un lavoro
continuo, non è aprendo una singola
sezione che si cambia modo di pensare,
deve esserci il coinvolgimento di tutti i
giornalisti e quindi un nuovo modo di
organizzare il nostro lavoro. E servono
nuove fonti perché alcune di quelle che
abbiamo usato fino ad oggi ormai sono
logore e ci portano a raccontare le stesse storie e le stesse persone». Un lavoro
e un cambiamento che deve trovare
però sostegno economico. «Sì certo c’è
anche questo aspetto, in questi ultimi
tempi abbiamo notato un crescente interesse anche da parte degli investitori
pubblicitari. Siamo consapevoli che
questo tipo di storie possono aprire un
filone nel quale le aziende sono interessate a investire sempre più».
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IDEE | 29
LORENZO MACCOTTA / CONTRASTO
Un bambino gioca con un videogioco presso il Parco degli Acquedotti, Roma
l’innaturale allergia al rischio
della generazione app
MARTA DORE
n I loro amici sono sempre a
disposizione - e di amici ne
contano a centinaia.
Non hanno mai provato l’emozione di perdersi, né in città né durante qualsiasi spostamento, eppure non hanno mai
avuto una cartina in mano.
Se vogliono sapere che ora è
a Timbuctu, chi era Castruccio Castracani o qual è la ricetta originale della Sacher Torte
lo scoprono in pochi attimi.
Se si annoiano, hanno in tasca migliaia di giochi e se qualcuno volesse farsi un’idea di
ciascuno di loro, non dovrebbe far altro che guardare lo
schermo del loro smartphone:
l’insieme delle app che ognuno ha sul proprio telefono è
come un’impronta digitale
che racconta chi è quel ragazzo, quali sono i suoi interessi,
come e con chi spende le sue
giornate.
È questo il ritratto che il teorico delle “intelligenze multiple” Howard Gardner, professore di Scienze Cognitive e
dell’Educazione ad Harvard,
fa dei cosiddetti nativi digitali,
ragazzi nati dalla fine degli anni Novanta, e che fin da piccoli
hanno avuto a che fare con
computer, web, smartphone e
tablet. A loro Gardner ha de-
Nativi digitali | Nella vita si muovono come nei videogame,
avverte uno studioso di Harvard. Evitano gli azzardi.
Seguono percorsi prestabiliti. E non si mettono mai in gioco
dicato un libro pubblicato in
Italia da Feltrinelli, Generazione App - La testa dei giovani e il nuovo mondo digitale.
Firmato anche da Katie Davis, informatica e studiosa del
ruolo delle tecnologie digitali
nella vita degli adolescenti, il
libro parte da una tesi chiara:
«I giovani di quest'epoca non
solo sono immersi nelle app,
ma sono giunti a vedere il
mondo e le loro stesse vite come un insieme di app - o forse,
in molti casi, come un’unica
app che funziona dalla culla
alla tomba».
Gardner è convinto che il ricorso continuo a quelle che
non sono altro che scorciatoie
veloci per raggiungere un certo risultato determini un nuovo modo di concepire il mondo, se stessi e le relazioni con le
altre persone. L’aspetto più
interessante, e sorprendente,
su cui Gardner e Davis punta-
no la loro attenzione riguarda
l’atteggiamento che hanno i
ragazzi verso la costruzione
del loro futuro.
«Molti arrivano all’università con la vita già completamente programmata, come in
una super app. Le loro identità
sono prematuramente determinate: non si concedono lo
spazio per esplorare alternative», scrive Gardner. L’idea è
che, abituati a non essere mai
soli - con genitori e amici sempre a portata di cellulare - e a
seguire i procedimenti strutturati delle app per ottenere
qualcosa, i teenager oggi siano
terrorizzati alla sola idea del
fallimento. Il risultato è che
evitano in ogni modo di affrontare rischi sia nel campo
degli studi e del lavoro sia nelle loro relazioni personali, filtrate da una distanza fisica di
sicurezza che inibisce qualsiasi vera empatia e intimità pro-
fonda con gli altri: «I giovani
non rischiano nulla perché così facendo nessuna parte di loro risulta vulnerabile».
La descrizione di tanta freddezza stupisce non solo per l’idea tradizionale che si ha dell'adolescenza, età in cui da
Danno sfogo alle loro
pulsioni solo sul web.
Uno spazio in cui sanno
essere rivoluzionari
sempre, da quella testa calda
di Caino fino alla provocante
Miley Cirus, la trasgressione è
un faro comportamentale, ma
anche per quello che si sa oggi
del cervello degli adolescenti.
In un saggio pubblicato sulla rivista scientifica Nautilus
(http://nautil.us), Robert Sapolsky, professore di biologia,
neurologia e neurochirurgia a
Stanford, ha scritto: «Il cervello adolescente è unico. La
sua particolarità dipende dal
fatto che la corteccia frontale
non è ancora del tutto sviluppata. Questo spiega la turbolenza di quell’età». La corteccia frontale è la parte che si è
evoluta più di recente ed è
quella da cui dipendono le decisioni più accorte e la ragionevolezza dei nostri comportamenti. I suoi neuroni, infatti, finiscono di formarsi solo
dopo i vent’anni. Considerato
poi che a quell’età si è in preda
allo tsunami degli ormoni, appare chiaro perché gli adolescenti tendono da sempre a
correre rischi, ad avere emozioni esplosive e a sperimentare nuove strade. A essere rivoluzionari, insomma.
E allora che succede? Possi-
bile che l’uso invasivo delle
app abbia il potere di trasformare una caratteristica evolutiva del nostro cervello?
«La mia affermazione riguarda l’avversione a correre
rischi in ambito scolastico e
nella vita in generale», precisa
a pagina99 Gardner. «Gli studenti non fanno altro che
chiederci istruzioni estremamente precise, come se stessero seguendo un programma
sul computer, e si comportano
come se ogni passo falso li eliminasse dalla corsa al successo. Il loro atteggiamento potrebbe però essere abbastanza
diverso se si parla delle tre D:
drinking,
driving
and
drugs!».
Non solo. In questo periodo
di crisi, oppressi dalla pressione a cui sono sottoposti a scuola e nella ricerca di un buon lavoro (o di un lavoro tout
court), è possibile che selezionino gli ambiti in cui possono
correre rischi. «Sono calcolatori quando si tratta di scuola,
stages e lavoro, ovunque vengano valutati e dove correre rischi non è premiato», precisa
Katie Davis. «Può darsi, invece, che confinino gli azzardi tipici dell’adolescenza ai contesti online, che servono da zona
franca dove sfogarsi». Come
dire? Rivoluzionari sì, ma solo
2.0.
pagina 99we |
30 | IDEE
sabato 11 ottobre 2014
u L’I N T E RV E N TO
GIOVANNI CAMILLERI*
n L’Onu cambia strategia mentre si
prepara a lanciare i nuovi Obiettivi di
sviluppo del millennio. Cambia il processo per definirli e acquista importanza il territorio: non mero spazio amministrativo, ma un complesso di reti –
istituzionali, sociali, economiche – che
ne costituiscono il potenziale, la capacità di inventare, costruire. Purché sappia
dialogare con la rete più ampia che è il
pianeta. Per dare risposte globali a quelli che sembrano problemi locali.
Ai bisogni individuali e locali devono
corrispondere risposte globali. Alla crisi, ai conflitti, al degrado ambientale, a
un’emigrazione che uccide nei mari e
crea problemi di convivenza nei Paesi
più ricchi e fuga di cervelli in quelli più
poveri, non ci possono essere solo risposte nel piccolo orto di casa. Quello che fino a ieri è stato soprattutto un paradigma teorico – la coniugazione del locale
al globale – è diventato un’esigenza primaria: una logica di partnershippiuttosto che di confronto tra blocchi e che includa tutti, a cominciare dai cittadini,
con le loro culture e tradizioni, ma anche con un comune obiettivo che è poi la
battaglia per uscire dalla crisi, avere una
vita e un lavoro dignitosi, acqua potabile
e aria pulita. Una sfida che travalica i
confini geografici e culturali, i modelli
economici, le religioni, le categorie imprenditoriali, gli Stati nazionali.
la nuova visione dell’Onu
matura nei territori
Sviluppo | I Millennium Goals per il 2000-15 hanno ottenuto
risultati significativi. Ora le Nazioni Unite immaginano
il mondo che vorremmo nel 2030. Riscoprendo le reti locali
Che mondo vorremmo?
Gli Obiettivi di sviluppo del Millennio Mdg 2000-2015 (v. scheda) hanno
raggiunto risultati importanti, ma il
cammino è in salita. Era necessario pen-
Il 14 e 15 ottobre Torino
ospita i rappresentanti
di 140 Paesi per discutere
di cultura e localizzazione
sare a quali debbano essere i nuovi
obiettivi per il 2015-30, ma anche e soprattutto a come si possa passare dalle
parole ai fatti; come possano essere condivisi e vissuti da tutti i cittadini, e come
possano avere un impatto reale. Forse
nei Paesi economicamente avanzati gli
Obiettivi del millennio (un sondaggio
dice che solo il 6% della popolazione
mondiale li conosce) sono stati percepiti come un traguardo che riguarda solo
le nazioni più povere, senza riflettere sul
fatto che acqua, energia, salute, istruzione, sicurezza, carenza di lavoro – solo
per fare alcuni esempi – sono una meta
comune a tutti. Nel Nord e nel Sud.
Per questo, il 14 e il 15 ottobre, sono
ospiti di Torino i rappresentanti della
società civile e dei governi nazionali e locali di circa 40 Paesi. Per capire il mondo che vogliamo. A 15 anni dal lancio de-
GIULIO PISCITELLI / CONTRASTO
SBARCHI L’arrivo nel
porto di Napoli degli 877
migranti recuperati dalla
Marina Italiana nello
Stretto di Sicilia nel corso
dell'operazione Mare
Nostrum, settembre 2014
gli Mdg, che furono il primo coraggioso
tentativo di concepire una risposta globale, formalizzata dall’Assemblea generale dell’Onu nel 2000, a Torino, e in altre cinque città, si cercherà di capire
quale può essere il ruolo dei territori in
questa sfida. Si discuteranno proposte
che i cittadini e i diversi attori sociali ed
economici dei Paesi di Asia, Africa e
America Latina hanno identificato per
contribuire alla proposta che il segretario generale Ban Ki-moon lancerà nel
2015 all’Assemblea generale. Il percorso è stato lungo: il lavoro sui nuovi
IL BILANCIO
n I Millennium Development
Goals stabiliti nel 2000 e sottoscritti da 189 Stati membri
dell’Onu miravano al raggiungimento di otto traguardi entro il 2015: dallo sradicamento
della fame e della povertà
estrema alla lotta alle grandi
malattie. La riduzione della
povertà è una parziale vittoria,
stando al Millenium Development Goals Report 2014 dell’Onu: nel 1990 quasi metà
della popolazione nelle aree
povere viveva con meno di 1,25
dollari al giorno. Questo tasso
è sceso del 22% nel 2010, riducendo a 700 milioni le persone
in estrema povertà. Diminuisce la percentuale di denutriti,
dal 24% degli anni Novanta al
14% nel periodo 2011-13.
Pure la malnutrizione cronica è scesa tra i bambini, ma
ne colpisce ancora uno su
quattro (in totale 162 milioni).
Il tasso di mortalità infantile si
è quasi dimezzato, ma le malattie prevenibili restano la
principale causa di morte. Il
tasso di mortalità materna è
diminuito del 45% tra il 1990 e
il 2013, ma nel solo 2013 quasi
300 mila donne sono morte
per cause prevenibili legate a
parto o gravidanza.
Quanto all’istruzione, il tasso di bambini che nelle regioni
in via di sviluppo frequenta la
scuola è del 90% (era dell’83%
nel 2000). La lotta a malaria,
Tbc, Aids ha fatto passi avanti:
tra il2000 e il2012, lalotta alla
malaria ha salvato la vita di 3,3
milioni di persone, il 90% delle
quali bambini sotto i 5 anni
nell’Africa sub-sahariana. La
lotta alla Tbc avrebbe invece
salvato 22 milioni di vite dal
1995 e l’accesso agli antiretrovirali per i sieropositivi dal
1996 ne ha salvate 6,6 milioni.
Quasi due miliardi di persone hanno guadagnato l’accesso ai servizi igienico sanitari,
ma 2,5 miliardi di persone non
hanno ancora un efficiente sistema di servizi e un miliardo
ne è totalmente escluso. L’accesso all’acqua potabile è real-
tà per 2,3 miliardi di persone.
L’empowerment femminile ha
visto nel gennaio del 2014 46
Paesi con oltre il 30% di parlamentari donne, mentre è arretrata la discriminazione scolastica. L’assistenza allo sviluppo si allontana invece dalle
aree povere, anche se la negoziazione del debito dei Paesi in
via di sviluppo è migliorata.
Per l’Ambiente la minaccia
globale resta elevata con emissioni di anidride carbonica che
continuano la tendenza al rialzo, mentre milioni di ettari di
foresta si perdono ogni anno,
accompagnati dall’estinzione
di specie e riduzione delle fonti
rinnovabili.
Obiettivi è nato con la Conferenza dell’Onu sullo Sviluppo del 2012 (Rio +
20), in cui si avviò un processo di consultazione globale che sta giungendo a conclusione e di cui Torino è tappa chiave
per il ruolo dei cittadini e dei territori.
Un processo di dialogo
Questo processo vuole contribuire a
farsì cheinuoviObiettivi 2015-30(Sdg,
Sustainable Development Goals) siano
non solo un accordo tra Stati, ma anche
un nuovo patto tra cittadini del pianeta,
sintetizzato da sei incontri che coinvolgono soggetti istituzionali, enti locali,
accademici, settore privato, comunità e
associazioni della società civile. Ci si arriva dopo che circa due milioni di persone, in decine di Paesi, sono state impegnate in discussioni e incontri pubblici
su ciò che ritengono necessario per un
futuro di sviluppo. Potremmo dire che
le indicazioni del mondo che vogliamo
sono nate attraverso la raccolta delle
suggestioni e dei punti di vista arrivati
da soggetti molto diversi: dai giovani
delle aree rurali del Ghana, dal piccolo
commercio femminile dell’Ecuador,
dalle reti degli entilocali mondiali, dalle
associazioni indigene o da quelle degli
imprenditori del Nord e del Sud. Il prodotto di questi incontri confluisce ora in
sei dialoghi nazionali, per sintetizzare i
risultati del dibattito sui temi principali: Trasparenza e responsabilità; Partnership con la società civile; Ruolo del
settore privato; Efficacia delle istituzioni; Cultura e localizzazione. È quest’ultimo il focus della discussione in calendario a Torino.
Localizzazione
Per localizzazione si intende la necessità di far nascere e radicare nei territori
i risultati prodotti dai futuri Sdg. Il territorio si può intendere come un mero
spazio geografico racchiuso tra le frontiere di un’unità amministrativa. Oppure lo si può intendere come il complesso
delle reti che lo compongono e ne costituiscono il vero potenziale: il territorio
come risorsa fondamentale, realtà di
persone, associazioni, risorse ambientali con storia, identità e tradizioni, istituzioni che sono – o dovrebbero essere –
l’espressione dei soggetti che vi abitano.
Il potenziale del territorio, che si tratti di
regione, area metropolitana o di un piccolo comune, cresce tanto quanto è capace di proiettarsi all’esterno, sapendo
interagire con la dimensione nazionale
e globale. La capacità di mettere in relazione queste tre dimensioni (locale, nazionale, internazionale) è una sfida che
oggi acquista una valenza pragmatica,
ineluttabile e ineludibile. Se nel nostro
Comune arrivano dei migranti in cerca
di aiuto, non esiste solo un problema di
accoglienza, ma una necessità di coordinamento locale, nazionale e internazionale così come, simmetricamente,
nei Paesi d’origine saranno necessari sicurezza umana e sviluppo. Difficile, certo, ma non impossibile. Questa valorizzazione strategica del potenziale dei territori è forse la vera nuova risorsa per le
nuove sfide locali, nazionali e globali.
*Coordinatore per l’Iniziativa Articolazione Reti Territoriali del Programma Onu per lo Sviluppo
pagina 99we |
32 | ARTI
MARCO CUBEDDU
u
segue dalla prima
n Ecco, per raccontare Zerocalcare, che a differenza di quanto
credevo non soffre a sentirsi chiamare con lo pseudonimo, anzi,
maledice il giorno in cui Makkox
in buona fede ha fatto il suo vero
nome in una prefazione, bisogna
partire da Rebibbia, il suo “Pisolone”, un sacco a pelo che lo tiene
al sicuro. Dove anche il suo ultimo libro, Dimentica il mio nome
(in uscita per Bao Publishing,
240 pagine, euro 18), è ambientato, e dove tutta la sua famiglia
abita ancora («Stamo tutti a Rebibbia, mi madre, mi nonna, mi
padre, io avrò cambiato 4 case da
quando sono andato a vivere da
solo. Tutte a Rebibbia»).
E infatti è a Rebibbia che ci incontriamo. Da neoromano, mi
perdo per raggiungere la linea B.
Siccome sono in ritardo, gli scrivo: «Ciao Michele io sto per
prendere la metro da Tiburtina
spero di non arrivare in ritardo».
«Azzz no mi sa che arrivi prima
di me anzi, tra 15 min stai qua! (se
arrivo alle 17.45 mi uccidi?)»
Avevamo appuntamento alle
18.00. Altri elementi necessari
per inquadrare Zerocalcare: la
premura. La gentilezza. Effettivamente arrivo prima di lui, per
uno di quei miracolosi incastri
che rendono la viabilità romana
imperscrutabile. Impossibile essere puntuali: o in largo anticipo
o in drammatico ritardo. Lo
aspetto appollaiato su un muretto di mattoni davanti alla stazione. Intorno, famiglie di carcerati
al rientro dalle visite. Arriva e si
scusa di essere uscito «praticamente in pigiama». Eppure,
un’altra sua caratteristica è l’eleganza intrinseca, nonostante
l’accento da borgata e il look da
redskin a riposo. Siccome nel
nuovo libro le componenti autobiografiche, alterate da parti
fantastiche, lasciano pensare a
un’educazione aristocratica della nonna materna, viene sponta-
l’educazione aristocratica
di Zerocalcare a Rebibbia
Si notano subito la sua
gentilezza e l’eleganza
intrinseca, nonostante
il look e l’accento
neo ricondurlo ai personaggi di
Dickens, cui la vita di strada non
ha intaccato il sangue blu che
scorre nelle loro vene.
«Ma no, mi nonna è stata educata da dei nobili russi, ma mica
era nata nobile, e poi è finito tutto
da giovane, ha avuto una vita
pazzesca, rocambolesca, tanto
che è finita a Rebibbia. Ma tu dove stai qui a Roma?».
«Pigneto purtroppo, un covo
di radical chic, sto cercando di
scappare».
«Eh, quello è l’inferno. Ma zona isola?».
«No, per fortuna, sulla Casilina, verso Torpignattara, coi cinesi che tengono lontani gli hipster».
«Ah, due giorni fa avevamo
occupato un posto da quelle parti, per farci una scuola sociale di
fumetto».
Già, eleganza e squotteraggio
in lui si conciliano benissimo.
Andiamo a bere qualcosa al bar
Al vecchio casello («Qua è abbastanza di passaggio, no, sai, farmi vedere che mi fanno un’inter-
sabato 11 ottobre 2014
vista, da ste parti, poi tutti ci
guardano storto, e ch’hanno pure raggione»). Se non dovessimo
parlare d’altro parleremmo tutto
il tempo di politica. Quella è la
parte della sua vita che lo interessa davvero. L’unica cosa che
chiede venga riportata con attenzione:«Perché ame sedovessi perdere il rispetto della mia
gente, mi farebbe troppo male».
Occupazioni, cineforum, presentazioni di libri sono stati per
lui molto più formativi del liceo
classico. I centri sociali sono il solo ambiente in cui Zerocalcare si
sente veramente a suo agio. Oltre
alla sua cameretta. Per lui sono
mondi distinti, quello del suo
successo
editoriale
(oltre
200.000 copie vendute, tutti che
lo vogliono sui giornali e sulle ri-
viste, tutti che lovorrebbero in tv)
e quello delle locandine, delle copertine dei cd autoprodotti, che
continua a fare. Eppure, nelle sue
storie è molto autoironico sulle
idiosincrasie politiche, sulle contraddizioni del suo antagonismo.
«Sì, con me stesso mi viene facile. Ma sugli ambienti che frequento non faccio mai ironia, è
una parte troppo importante
della mia vita, e l’ironia potrebbe
venire fraintesa, strumentalizzata da chi vuole raccontare
quelli dei centri sociali come stereotipi, alieni fuori dal mondo. E
non mi va».
Ci sediamo a un tavolino metallico. Intorno a noi gridano due
gruppi di vecchietti, parlano della sconfittadella Romacon laJuve («Ma che parlamo a fa coi la-
ziali de carcio»). Prendo una birra. Lui prende un succo di frutta.
«Astemio?».
«Sono un punk straight edge:
non bevo, non fumo, non mi drogo, non assumo nessuna sostanza che alteri la coscienza o che dia
dipendenza. Forse ho iniziato
perché avevano delle felpe fighe.
Una volta eravamo in tanti. Mo’
praticamente del mio gruppetto
semo rimasti solo io e Secco, l’amico mio».
«Quello del poker on line delle
tue storie?».
«Quello«.
«E lui come l’ha presa la fama?».
«Sai che non ne parliamo
mai? Lo sa di essere un mio personaggio. Ma non è mai venuto a
una mia presentazione. O, che
so, su Facebook, non ha mai condiviso un mio link».
«Timidezza?».
«Ma no, è che a lui, ma a tutti
gliamici miei,inrealtà,è chenon
gli frega niente di ste cose. Noi
parliamo di risse, di arresti, chi è
stato menato da chi».
«Cioè, non è cambiata la tua
vita?».
«Ma sai che no. Cioè, lavoro
un botto più di prima, ma per il
resto no».
«Beh, ma anche economicamente, direi che ti è cambiata per
forza. Ora, ho capito che non ti
trasferiraiai Parioli,peròinsomma, una villa a Rebibbia?».
«Ma io più che altro ero convinto, e lo sono anche adesso, che
nondurerà.Per meerastranofare delle storie su riviste che non
chiudessero dopo due settimane. Quindi la stabilità è una cosa
pazzesca. Ma sono sicuro che arriverà il giorno in cui dovrò cercarmi un lavoro. E i soldi mi serviranno per tirare a campare.
Quindi niente lussi, anche se ho
comprato diversi videogiochi,
uno tipo quelli vecchi da bar, che
era il sogno mio avercelo in casa
da regazzino».
Il successo di Zerocalcare viene dal suo blog, dove ogni maledetto lunedì su due ha raccontato
la sua vita.
«Io non pensavo potesse interessare a qualcuno. Quelle erano
paranoie mie e basta, credevo.
Poi, facendole leggere agli amici,
ho capito che interessavano anche ad altri, così ho messo su il
blog».
«Che nonostante gli impegni
continui a portare avanti, gratis».
«Sì, anche se ho smesso di
considerarlo un patto di sangue,
non lo aggiorno più con la regolarità di un tempo, perché non ce
la faccio proprio. Però è un mio
punto d’onore continuare a fare
delle cose gratis su internet, non
voglio che la gente pensi che ho
usato il blog come un trampolino, chepoi loè stato,ma nonè solo questo, è una cosa a cui tengo
davvero».
«Eppure i tuoi numeri sono
impressionanti. Nessuna tentazione mondana?».
«È proprio l’informalitàdei lavori creativi che non sopporto.
Quando lavoravo normalmente
facevo le mie ore e fine. La mia vita era fuori. Invece nei lavori
creativi il lavoro è fatto di feste, di
cene, di aperitivi, di socialità. Io
l’ho fatto all’inizio, ma poi ho capito che non lo volevo più fare.
Anche perché se cominciassi a fare quella vita lì poi non potrei più
raccontare le mie storie, non mi
sentirei pulito. Però è chiaro che,
vendendo bene, sono nella posizione per non farlo. È un privilegio potermelo evitare. E poi mi fa
veramente schifo, ti rendi conto
che quest’ambiente è perfettamente in grado di assorbire tutto,
dalla guardia al black block».
«E da un punto di vista creativo, sei cambiato?».
«Ho il terrore di non approcciare le cose con lo stesso spirito
di quando le ho cominciate. Non
voglio vivere facendo qualcosa
solo perché so che ha consenso.
Anche se c’è una parte di me che
mi dice…».
«Tipo l’Armadillo che rappresenta la tua coscienza nelle tue
storie?».
«Esatto, che mi dice daje Calcà,
che te frega, però ecco, ad esempio, io questa storia la sento molto
diversa dalle altre cose fatte, infatti c’ho un botto de paura, però mi
sentivo chesi èchiuso unciclo con
questo libro. La profezia dell’armadillo lo sento datato di tre anni, la mia visione degli affetti, delle cose, si è evoluta, era il momento di raccontare questa storia, anche se mi terrorizza a morte».
«Perché?».
«Perché ho paura che la gente
sabato 11 ottobre 2014
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ARTI | 33
Anteprima | A giorni in libreria Dimentica il mio nome,
il nuovo graphic novel del fumettista che con eleganza
e delicatezza ricostruisce la storia della sua famiglia.
L’abbiamo incontrato nel nido che lo protegge, il suo quartiere
dica Che palle, ma che frignone
questo».
«Io l’ho trovata più adulta, con
parti divertenti che funzionano e
lasciano prevalere i sentimenti,
raccontati in maniera sofisticata
ma col pregio della banalità, in
senso buono. Quelle esperienze
che abbiamo vissuto tutti e che
fanno sentire i tuoi lettori così
dentro la storia».
«Ma l’hai letto? Ti è piaciuto?
Io non ho manco visto il pdf ancora, è la prima intervista che
faccio con qualcuno che l’ha letto
emiinteressa capirechenepensi
perché io sono terrorizzato a
morte».
«Sì, ho ricevuto il pdf. Tra l’altro, fra parentesi, mi hai fatto vivere un’esperienza surreale. Il
tuo libro si chiama Dimentica il
mio nome. Ma su tutte le pagine
del pdf che mi hanno mandato
stava scritto il mio in obliquo,
che era come non poterselo scordare mai. Ho pensato che nell’ufficio stampa di Bao o fossero dei
geni della metacomunicazione,
o fossero pazzi: pdf criptato, nome impresso su tutte le pagine,
manco fossero documenti della
Cia, tipo che temono un Calcareleak».
«Ahahahaha, così se lo metti
su eMule sanno che sei stato tu».
«Comunque, a parte gli scherzi, non c’è un altro modo per dirlo, è molto bello».
«Dici? Ma non è sdolcinato?».
«No. È tenero. Il rapporto con
tua nonna, con tua mamma, con
tuo padre…».
«Eh, quella è una mia altra
paura. Da una parte il patto che
ho fatto con mia mamma è che
non dico a nessuno pubblicamente cosa è vero e cosa no. E
dall’altra che mio padre magari
se laprende, che lofaccio passare
come un cojone».
«Io l’ho trovato delizioso il
modo in cui racconti delle difficoltà tra padre e figlio di darsi affetto, che lo fanno con le mosse
delle arti marziali praticamente.
E in generale, l’inizio soprattutto, chiunque ha perso un nonno
non può che immedesimarsi,
quando tieni la mano a tua nonna, il modo in cuiti senti in imbarazzo in ospedale».
«Io avevo molta paura perché
per la prima volta non raccontavo solo i fatti miei, ma anche
quellidellamia famiglia,ancheil
lutto, il dolore, cose che mi mettono in imbarazzo».
«La parte sull’oscenità del dolore è stupenda».
«Mi sento in colpa ma il dolore
mi fa schifo, mi ripugna, mi repelle. Proprio le fragilità del dolore scomposto,io possovenirti a
prendere in macchina alle tre del
mattino, pure in bici dall’altra
parte del mondo, ma non ti so dare assistenza al dolore, sono impreparato».
«In generale c’è un grande pudore nelle tue storie. Penso che
questo contribuisca a rendere il
tuo mondo accogliente, vero, ma
allo stesso tempo finto, non so,
penso alle storie di Topolino, To-
polinia e Paperopoli che praticamente mettono albando cose come la morte».
«Nelle mie storie, ad esempio,
il sesso non c’è perché non lo so
raccontare. E perché coinvolge
un’altra persona. Io sono un’orsolina, quella roba non mi va di
darla in pasto ai lettori. Pensa
che nella mia vita non ho mai disegnato neanche un paio di tette».
Dimentica il mio nome è un libro delicato, che affronta il tema
della crescita e dell’identità con
umorismo e paradossi, ma senza
dimenticare la commozione, la
nostalgia, i rimpianti. Un impasto generazionale che attraverso
i miti degli anni ’80 e ’90, personaggi pop, nel senso di popolari,
ma con una grande profondità,
dei grandi valori («Prendi Ken
Shiro, un modello», «Io ti confesso che da bambino stravedevo
per Sauzer, il malvagio imperatore di Nanto», «Ma che infanzia
c’hai avuto, ahò»), tratta sentimenti comuni a tutti con visioni
originali e un’eleganzadata dalla
cura dei testi e dalla scelta dei colori (bianco, nero e arancione).
Prima di salutarci facciamo
due passi per Rebibbia, al tramonto («Mica è il Bronx»), dietro un campetto, tra stradine minuscole, kebabbari, sovrastati
dal bianco e nero dei palazzi sui
cui si attarda un sole arancione
dalle sfumature nucleari, parlando delle avances delle major,
dell’hip hop, del punk, della bellezza delle scritte Acab, dell’autoproduzione, del rapporto coi
fan («Il fatto che passo ore a fare
disegnini alle presentazioni a me
«Sono straight edge:
non bevo, non fumo né
mi drogo, non assumo
nessuna sostanza»
sembra un dovere nei confronti
di chi viene a sentirmi, poi certo,
ai lettori gli fa piacere comprare i
miei libri anche per quello, e certi
colleghi mi vedono male perché i
lettori si aspettano che lo facciano anche loro») dei fan, delle critiche («cerco di leggere tutto, a
volte rosico proprio, mi è pure
capitato di beccarmi con qualcuno che mi insultava pesantemente e mi hanno portato via
perché volevo mettergli le mani
addosso»), di graffiti.
«Uno per cui c’ho una grande
stima, artisticamente e politicamente, è Blu. Vorremmo fargli
fare un pezzo su quella facciata…
lo conosci?».
«Ho un tatuaggio tratto da un
suo disegno».
«Eh, io ho due tatuaggi. Ne ho
fatto uno su un braccio senza
pensare che poi misi poteva riconoscere alle manifestazioni, così
ne ho fatto poi uno anche sull’altro, tanto se devo mettere la maglia a maniche lunghe per non
farmi riconoscere… però ho tenuto puliti i polpacci così posso
mettere i pantaloncini. Che disegno hai fatto di Blu?».
«Un nastro di Möbius fatto di
carri armati e ruspe, sta su una
fabbrica di Praga».
«Eh, a Praga devo andarci».
«Non è che poi ti vengono le
bolle se stai troppo fuori da Rebibbia?».
«Ma no, basta che faccio tutto
in quattro giorni».
@cubamsc
PERSONAGGI Diego Bianchi, Zoro e Valerio Mastandrea
CONTRASTO
una scanzonata
nouvelle vague
Cult | Da Mastandrea a Zoro,
s’avanzano gli autori #daje
ALESSANDRO LANNI
n Pop e politica. A Roma è nata una nouvelle vague che ha
una cifra precisa: cazzeggio e
impegno, #daje e Cinema
America, pallone e Twitter. È
un'alchimia delicata - e finora
perfetta - che sta distillando
una nuova identità culturale in
città. Addio macchiette e risate, dimenticate la romanità becera e di plastica che ammorba
da un ventennio il cinema e la
tv. E anche la koinè leggera e
smargiassa che ha avuto padri
nobili come Proietti e Verdone
e gli ultimi eredi che abitano la
Garbatella dei Cesaroni. La
nuova romanità è riservata e timida ma sta creando fenomeni
cult che col rimbalzo tra vecchi
strumenti e social network
stanno diventando di massa.
Difficile non vedere il capostipite di questa nuova generazione in Zoro, al secolo Diego
Bianchi. D'altra parte cos'è Gazebo se non il circolo degli amici portato in tv a cazzeggiare e
fare informazione tra un tweet
e l'altro? Ne è passato di tempo
da quando su un blog a sfondo
nero, analizzava vizi e virtù (soprattutto vizi) del Partito. Privato e pubblico erano mescolati con l'insofferenza e la fedeltà
tipiche del militante di sinistra. All'indomani della sconfitta di Veltroni alle politiche
del 2008 inventò, insieme a
qualche amico, la Fondazione
Daje e “Ficcati nella fanga” era
lo slogan a doppia interpretazione che certificava la depressione post voto. Poco dopo, Zoro spicca il volo e telecamerina
in mano passa per il salotto di
Serena Dandini per arrivare fino alla conduzione della seconda serata di Rai Tre e alla
regia di un film, Arance e martello prodotto da Fandango,
uscito poche settimane fa.
In una città in cui non si sa
quali dovrebbero essere gli incubatori per le nuove idee, è
nato qualcosa di originale. Mica poco. La “generazione #daje” non ostenta, più che ridere
sorride, fa politica ma nell'epo-
ca del disincanto. Il centro sociale e la sezione non sono più
la scuola di vita di un tempo,
oggi sono più che altro ambiente il gruppo di amici e conoscenti da portare in scena.
Il neo-romano rivendica le
proprie origini nel rione o in
periferia, coltiva con cura la cadenza strascicata, ma sa bene
che il Pigneto è un po' meno off
di quanto si racconti. Si prenda
per esempio un Ivano De Matteo, attore e regista trasteverino e laziale come Bruno Giordano, che ha vinto un’altra partita il mese scorso a Venezia
quando I nostri ragazzi è stato
acclamato al mostra del cine-
La “generazione
#daje”più che ridere
sorride, fa politica ma
nel disincanto
ma. Radici nei cento metri tra
Santa Maria e piazza San Calisto e storie crude da raccontare
come la vicenda dei genitori
sindacalisti a tutti i costi anche
di figli stronzi. Oppure il
neo-divorziato
Mastandrea
che deve inventarsi una vita ritrovandosi senza un soldo (Gli
equilibristi è del 2012).
Ecco, lo stesso Valerio Mastandrea è un altro esempio di
questa romanità, disillusa e
impegnata. Con lo stesso tono
dimesso e schivo con cui saliva
sul palco del Teatro Parioli insieme a Maurizio Costanzo riceve il David di Donatello nel
2013. Premio che condivide
con lo stesso De Matteo sul
palco del Cinema America ancora occupato, e sala in cui lo
scorso giugno insieme a Zerocalcare sceglie gli attori del
film tratto dalla graphic novel
La profezia dell'armadillo.
Film sceneggiato dai due insieme al più timido esponente del
neo-romanismo, il recensore
incappucciato Johnny Palomba.
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34 | ARTI
una effimera
Festa romana
sabato 11 ottobre 2014
Cinema | Quest’anno la kermesse cerca emozioni
forti anche se indigeste. Fra grandi star come
Kevin Kostner, film popolari, sfacciate
contaminazioni tv. E l’omaggio a Tomás Milián
ROBERTO SILVESTRI
n Quest’anno al Festival internazionale del film di Roma (dal 16 al 25 ottobre) si
volta provocatoriamente pagina. L’indicazione è: solo
emozioni forti. Magari anche indigeste. Certo, mai come al Lido di Venezia, stretto
a tenaglia com’è tra lo scandaloso buco di amianto, le
speculazioni edilizie e la corruzione che ne stanno distruggendo l’aria, l’aura e il
prestigio. È a rischio come
secondo appuntamento cinematografico al mondo dopo Cannes, la Mostra d’arte,
nonostante un’edizione 2014
di buona qualità.
Roma poteva essere una
soluzione praticabile di ricambio, ma le ambizioni (e i
budget) sono stati ridimen-
Fra le opere più attese
Gone Girl il rude film
di David Fincher
con Ben Affleck
sionati dal nuovo corso politico. E al suo terzo e (probabile) ultimo anno di direzione, Marco Mueller ha voluto
così esagerare e, speriamo,
scandalizzare. Ha accettato
di fare una Festa metropolitana con film e attori di richiamo, primi tra tutti Kevin
Smith, Walter Salles e Kevin
Costner, con premi assegnati
telematicamente dal pubblico, piuttosto che un festival
«di sole anteprime mondiali
assolute». Ma declinandola
più pensando all’effimero di
Nicolini (che poi è quel reale,
fatto di fantasia e desiderio,
che si chiama immaginario e
non è mai appagato dal presente) che all’ossessione per
lo spettacolo, il divo consacrato e il red carpet di Bettini
(che certo il film su Califano
l’avrebbe gradito). E così ecco commedie e film comici
all’italiana, a spudorata contaminazione televisiva, come
Andiamo a quel paese di Ficarra e Picone, chiamati a
chiudere la festa.
Il sito del festival promette
un cartellone pieno di «film
popolari ma originali». Altri
titoli sono tutto un programma: Soap opera di Alessandro Genovesi, con Diego
Abatantuono (che apre le
danze) o Trash di Stephen
Daldry. Nella sezione “Gala”,
la più glamour, alcune delle
opere più attese, come Gone
Girl, con Ben Affleck, il nuovo film di David Fincher dal
titolo
talebano
almeno
quanto l’energia e gli umori
con i quali si caracollano i
suoi thriller dal rude gioco
maschio; e Se lo vogliono gli
ICONE Un ritratto
dell'attore di origini
cubane Tomás Milián,
Roma, 1974
dei di Takashi Miike, un prolifico (e controverso) regista
giapponese pulp che è da
sempre stato un punto di riferimento
spirituale
di
Mueller (perché ostile a ogni
cristallizzazione
stilistica,
non disdegna mai di sporcare le sue storie, sempre violentissime, con interferenze
SUI MONTI DELL’ANATOLIA
NUOVO CINEMA TURCO
Il regno d’inverno
di Nuri Bilge Ceylan
drammatico
• minuti 196
Il cinema turco o è metropolitano o anatolico. O spezza lance contro l’arcaicità dei costumi e la donna oppressa, o contro la diabolica modernità. È
lento e muto o veloce e logorroico. Bilge Ceylan con questo
film Palma d’oro a Cannes
confonde gli schemi e infetta
di cinismo e avidità, lentezza
di tempi e incalzare del motto
di spirito, il villaggio sperduto
e nevoso. Turismo, islam, crescita, femminismo, lotta di
classe, Cechov, Shakespeare,
minatori sepolti, bimbi umiliati e sopraffina tecnica recitativa confliggono sui comodi
divani del piccolo hotel Othello, di cui è padre-padrone
Aydin, fuggito dalla città per
scrivere la storia del teatro turco. (r.s.)
camp e deviazioni tratte da
forme popolari di comunicazione di massa come manga,
fumetto, anime, canzoni
pop, western spaghetti).
In gara poi tre cineasti italiani come Pasquale Scimeca, Claudio Noce e Alessandro Piva, tutti iconoclasti,
anche se trattano di missio-
nari o utilizzano Emir Kusturica come superstar, ma
indocili alla definizione di cineasti da festival. Non accettano di fare opere di nicchia
ma non sono neanche pronti
al compromesso in nome
della (presunta) oggettiva
scienza del blockbuster.
Inoltre, la “Retrospettiva”.
DA LAMPEDUSA ALLA SVEZIA
PROFUGHI IN VIAGGIO
Io sto con la sposa
di A. Augugliaro, G. Del
Grande e K.S. Al Nassiry
docu-fiction
• minuti 89
Un corteo nuziale, sposa inclusa, nasconde profughi palestinesi e siriani approdati a
Lampedusa, che scavalcano
con destrezza le frontiere italiane, francese, tedesche e danesi e approdano, dopo 4 giorni e tremila chilometri in Svezia, unico paese europeo che
concede un asilo politico non
disumano agli arabi in fuga
dalle dittature. Il documentario, finanziato dal basso, racconta un’emozionante storia
vera di disobbedienza civile
come fosse una favola in stile
Ken Loach. Durante il “cammino della speranza” si scopre
il criminale trattamento Ue
dei profughi politici. Ma il
continente è più transnazionale e solidale di quanto la
Fortezza non speri. (r.s.)
Il risarcimento storico (dovuto da anni) agli artigiani e
artisti nostrani del cinema
horror, fantastico, di paura.
«Danze macabre: il cinema
gotico all’italiana» è dedicata agli spaghetti nightmares
che dal 1957 alla metà degli
anni Settanta permisero a
Cinecittà di dominare il mer-
LA FOLLIA AMERICANA
DEGRADO TEXANO
Joe
di David Gordon Green
drammatico
• minuti 117
Provincia texana, degrado,
alcolismo, violenza. Il teenager Gary (Tye Sheridan)
vive nel terrore di una famiglia misera e miserabile e si
affida a Joe (Nicolas Cage)
taciturno boscaiolo dal passato oscuro, che lo protegge
come un padre. Ma la follia
omicida scoppierà. Passato
in concorso alla Mostra di
Venezia 2013, il film è immerso in un’angoscia esistenziale sovraccarica, non
sostenuta dall’interpretazione di Cage. Al suo posto il
regista ha scelto Al Pacino
per il successivo Manglehorn (in gara quest’anno
Venezia) sempre ambientato nel Lone Star State, con
risultati ben diversi. (m.c.)
sabato 11 ottobre 2014
| pagina 99we
scurità, che è per noi simbolo
di morte», spiegava Freda ricordando come queste esperienze, quel sobbalzare sulle
sedie della prima visione ci
legava a filo doppio ai nostri
villosi antenati che, terrorizzati dai fulmini e dalla violenza indomabile della natura, «si appiattivano contro le
umide pareti delle grotte».
Non manca nella rassegna
il più baviano dei film di Fellini, Tre passi nel delirio. E
ancora. Una sezione collaterale composto da gialli, thriller, spionistici, fantasy, melodrammi, insomma da film
di genere di produzione internazionale. Una mostra di
fotografie di moda firmate
da Kate Berry, la figlia suicida di Jane Birkin e una di
Asia Argento, la sulfurea cineasta estrema il cui padre è
Dario. Largo spazio insomma dedicato al cinema di genere, meglio se ultrà. Come
The Guardians of The Galaxy, nella sezione a parte “Alice nella città”, che è l’incontro di Guerre Stellari con i
pazzi della Troma, sovversiva casa di produzione indi-
La retrospettiva è
dedicata agli spaghetti
nightmares che per anni
dominarono il mercato
ROMANO GENTILE / A3 / CONTRASTO
cato mondiale con film, disprezzati quando i loro autori erano vivi, ma poi letteralmente copiati e saccheggiati
nelle forme e nella sostanza
dalla nuova Hollywood di
Spielberg e Lucas e poi di Tarantino. Li presenterà addirittura Joe Dante in persona
questi 15 capolavori, liberi e
iperbolici, istintivi e violenti,
carnali e più caldi e barocchi
dei colleghi britannici della
Hammer, griffati Mario Bava (ne vedremo 5, da non
perdere il film super masochista, e censurato a suo
tempo, La frusta e il corpo),
Corrado Farina, Massimo
Pupillo, Antonio Margheriti
(Danza macabra) e Riccardo
Freda (I vampiri e Lo spettro) che non solo si smarcavano da ogni compatibilità
con il finanziamento pubblico ma penetravano nelle nostre zona dark più delicate,
erotiche e turbolente, popolate da vampiri (e di anziani
che succhiano l’essenza ai
giovani, anche senza canini
sporgenti, ne conosciamo a
iosa), fantasmi, revenant,
spettri, quelle zone dove risiede «la nostra paura dell’ignoto e soprattutto dell’o-
pendente di rock visuale demenziale. O, fuori concorso,
da non perdere assolutamente Ja visto jamais visto
di Andrea Tonacci che è stato un esponente del cinema
udigrudi brasiliano degli anni Settanta ed è tuttora un
prestidigitatore affascinante
di immagini. Ma il padrino
dell’edizione numero 9 è un
altro.
Chi fu il simbolo più cosmopolita del cinema popolare italiano nell’epoca della
sua esportabilità massima,
gli anni ’60 e ’70? L’anello
mancante tra cinema d’autore e cinema di genere, tra
commedia e tragedia?
Chi è ancora oggi l’unico
attore di composizione, l’unico nostro divo mai inattuale, dagli anni Sessanta al primo decennio del secolo nuovo, capace per tecnica e indole di portare a nuova fusione
generi e filoni differenti come il poliziesco e il comico-erotico e di tirare fuori
perfino dal personaggio d’ordine più conformista un’anima anarchica e sovversiva?
Ovviamente è Tomás Milián, figlio di mignotta in
tanti suoi successi ma anche
figlio anagrafico di un generale cubano che si suicidò nel
1957 per non piegarsi al dittatore Fulgencio Batista,
perché fedele al presidente
detronizzato, il liberale Gerardo Machado. Trasferitosi
a Miami, dopo la vittoria per
lui preoccupante dei barbudos, poi a New York a rifarsi
le ossa come membro dell’Actor’s Studio, Tomás viene
scoperto da Mauro Bolognini al festival di Spoleto, impegnato in un assolo mimico
mozzafiato. Messo sotto contratto dalla Vides di Cristaldi
per La notte brava e Il bell’Antonio di Bolognini, se-
ARTI | 35
durrà e poi sarà sedotto da
Visconti, Pasolini, Zurlini,
Maselli, Loy, Brusati, Lizzani, Castellani, Lattuada e
Antonioni. Insomma da tutto l’arco nobile del nostro cinema, allora caput mundi
per prestigio e fattura. Ma
Milián non ballerà una sola
estate. Già naturalizzato statunitense per alti meriti anti-castristi, Tomás Quintín
Rodríguez Varona y Milián
diventa cittadino italiano nel
1969 (e a Roma afferma di
voler essere sepolto, anche se
oggi vive a Miami) e segue un
percorso artistico obliquo,
quasi trilaterale, che per 50
anni lo consacrerà campione
di incassi nazionale, divo internazionale e spesso complice attivo dei suoi copioni.
Tanto che dagli anni ’80 alternandoli ai duetti con
Bombolo, entrerà con disinvoltura e forza iconica global
nei drammi hollywoodiani o
quasi di Dennis Hopper,
Abel Ferrara (Oltre ogni rischio), Sydney Pollack (Habana), Bernardo Bertolucci
(La luna), Oliver Stone
(J.F.K.), Steven Spielberg
(Amistad), Steven Soderbergh (Traffic), James Gray, del
connazionale e sodale Andy
Garcia, fino a Nessuno si salva da solo di Sergio Castellitto, attualmente in lavorazione.
Corpo e personalità snodabile, performer prodigioso
quando affronta i climi crepuscolari e l’ipocrisia borghese dei drammi dell’alienazione, o le tensioni disumane degli horror di Lucio
Fulci, Milián scatena i suoi
lati dark più proletari nei
western spaghetti di Sergio
Sollima, dove indossa la
grottesca maschera del peone miserabile o del bandito
messicano, infido e feroce,
ma capace di guidare le rivoluzioni armato solo di coltello, come il suo Cucillo in Corri uomo corri (1968). O
quando indossa i panni
straccioneschi, la parrucca
ricciuta e la barba ispida dei
poliziotteschi di Umberto
Lenzi, Sergio e Bruno Corbucci e Giulio Petrone. Er Pirata, il maresciallo Nico Giraldi, e Er Monnezza, ovvero
Marazzi Sergio, il commissario delle periferie, l’Accattone filosofo, saranno i suoi
alias preferiti, i “tipi” giusti,
come il tenente Colombo per
Peter Falk.
Premiato a Roma con il
Marc’Aurelio alla carriera
Tomás Milián, che negli ultimi anni ha affascinato le platee mondiali con caratterizzazioni di potenza feroce, sarà l’ospite d’onore e il simbolo dell’ultima festa di Mueller (fra l’altro è appena uscita
l’autobiografia
Monnezza
amore mio, scritta con Manlio Gomarasca per Rizzoli).
Larga parte del merito di
questo viaggio al termine
della notte “commerciale” è
anche il critico e presentatore tv Marco Giusti che ha affiancato Mueller a Venezia
negli anni scorsi organizzando le retrospettive più amate
da Tarantino (sul western e il
cinema erotico all’italiana) e
più odiate dai critici in difficoltà quando si maneggia il
cinema bis, ovvero tutti gli
stracult «diversamente artistici».
la finestra sulla paura
ai tempi della crisi
Apocalisse | Una serie di titoli agghiaccianti.
Dalle danze macabre alle immersioni gotiche,
sul red carpet capitolino sfilano tutti i colori del buio
MARIUCCIA CIOTTA
n La depressione a Venezia, la
morte a Toronto, la paura a Roma. Il cinema registra i sentimenti dell’aldiqua e i festival fanno da specchio. Tema dominante
delle ultime edizioni internazionali, il disagio di stare al mondo
declinato in tutte le sue sfumature nell’epoca assediata dalla
Grande Crisi e dai terremoti geopolitici. Fantasmi di un’apocalisse annunciata che si moltiplicano
in titoli di un terrore esistenziale
tradotto in thriller, horror, noir,
psicodramma. Un ritorno ai generi che invade anche il cartellone del festival romano in tutte le
sezioni fino alla retrospettiva dedicata ai cineasti cult del gotico
italiano.
Tra Freda, Margheriti e Mastrocinque spunta perfino il nome di Fellini con l’episodio Toby
Dammit di Tre passi nel delirio,
star Terence Stamp, omaggio e
plagio, messa in forma d’autore
di Operazione paura di Mario
Bava, il capofila del brivido al
quale il festival dedica un focus
nella sezione Danze macabre. E
se alla fine degli anni Sessanta il
diavolo di Bava/Fellini è una
bambina bionda che gioca a palla, nell’era contemporanea il demonio si presenta col suo vero
nome, Lucifero (regia di Gust
Van den Berghe) e semina sventura in Messico, ispirato dalla cosmogonia dantesca. A Manhattan, invece, il signore delle tenebre si manifesta nel camice bianco di un medico dell’ospedale The
Knich dove Steven Soderbergh
ambienta la sua già leggendaria
serie tv, «immersione gotica nel
lato più oscuro del XXI secolo».
E via con ogni forma di spavento,
a cominciare dall’atteso David
Fincher di Gone Girlche indaga il
«perfetto matrimonio america-
no» dove si annidano le perversioni più oscure. Famiglie devastate nel dopo subprime come in
Time Out Mind di Oren Moverman che vede Richard Gere senzatetto alla deriva, clochard sulla
quinta strada.
Film in prima mondiale o europea che lastricano le strade della paura ai quattro angoli della
terra, spazio unico di un’angoscia
senza frontiere abitato dalle malefatte pubbliche e private, comprese quelle dell’alta finanza in
Spunta persino Fellini
con un omaggio a
Mario Bava, capofila
del nostro brivido
La spia – A Most Wanted Man di
Anton Corbijn, thriller di inganni e doppi giochi in grado di
«sconvolgere gli equilibri geopolitici», tratto da John Le Carré,
ultima performance di Philip Seymour Hoffman. Titolo seguito
dal crudele e visionario Tusk del
regista americano di Clerks, Kevin Smith. E sempre dall’America arriva Nightcrawel opera prima di Dan Gilroy con Kake Gillenhaal (I segreti di Brokeback
Mountain) nella parte di un giovanedisoccupato ches’improvvisa videoamatore sciacallo per i
network tv: colleziona le scene
più cruente e sanguinose di incidenti e delitti.
Da Hollywood al Brasile di
Marco Dutra, esponente del neo
Cinema Novo che intesse uno
psycho-thriller sul malessere del
paese in Quando eu era vivo, allucinazioni intorno alla malsana
ossessione per il passato.
L’allarme scatenato sui media
dai tagliatori di testa Isis penetra
nell’immaginario, dilaga dal terrorismo individuale a quello collettivo, e fa risorgere il flagello colombiano Pablo, interpretato da
Benicio del Toro in Escobar: Paradise Lost dell’attore italiano alla prima regia Andrea Di Stefano.
Dall’Italia arrivano altri due titoli
agghiaccianti, letteralmente per
il film di Claudio Noce (Good
morning Aman) interpretato da
Emir Kusturica, La foresta di
ghiaccio, sul mistero di un pacifico piccolo paese alpino sconvolto
da oscure manovre dentro una
centrale elettrica. Fiction superata dalla cronaca nerissima di
questi giorni sul processo per la
discarica velenosa della Montedison, fiumi tossici, morti a valanga, silenzio.
Al noir politico si dedica invece
Alessandro Piva con I milionari,
trent’anni della Napoli immortalata dal genere camorrista, anche
qui un affondo nel marciume nostrum, sul solco di La mani sulla
città di Francesco Rosi.
Insomma, tutti i colori del buio
sfileranno al Festival internazionale del film di Roma n. 9, non a
caso coronato dalla presenza di
Tahashi Miike, regista dell’ultraviolenza morale, più di cento film
all’attivo, già ospite della capitale
con Il canone del male (2012) e
che presenterà in anteprima As
the Gods Will tratto da un manga
popolarissimo (un milione e
mezzo di copie vendute). Ancora
un link con il batticuore di queste
ore, la rivolta degli studenti di
Hong Kong, aggrediti nottetempo dalle Triadi mafiose del distretto di Kowloon, che nel film di
Tahashi assumono l’aspetto della
bambola perversa Daruma. La
malvagia pupattola obbliga un
gruppo di liceali bravi ragazzi al
gioco estremo della paura, una
serie di innocui trastulli per bambini trasformati in una macchina
micidiale. Chi perde muore.
HORROR I tre volti della paura, film a episodi del 1963, diretto da Mario Bava
EVERETT COLLECTION / CONTRASTO
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36 | ARTI
sabato 11 ottobre 2014
neuroni e testosterone
l’arte dello scacchipugilato
DARIO FALCINI
n BUCCINASCO. Nebbia, fari e i capannoni
della periferia Sud: alle 20 a Buccinasco è
sempre autunno. A un paio di chilometri dalla
meta il navigatore si fa diffidente, alla fine acconsente a fermarsi davanti alla palestra Fit
Square.
Nell’aria risuona una suite per paratibie e
fiatone, ogni calcio alle caviglie lo accusi un
po’ anche tu. «Fino a una decina di anni fa c’erano solo tre specialità di kick boxing in Italia,
ora i contatti arrivano da tutte le parti» spiega
un istruttore, che forse crede di rispondere alla nostra perplessità. Riconoscere Simona
non è un grosso problema: sul tatami è l’unica
ragazza.
Diana si sta cambiando, qualcuno dovrà
prestarle i guantoni perché ha fatto tardi in
ufficio e non è riuscita a passare da casa. Fra
poco la scacchiera uscirà dalla scatola e allora
sarà surrealismo.
«Il chessboxing nasce come progetto artistico con l’obiettivo di far incontrare due
mondi agli antipodi. Volevamo creare un ibrido in grado di scuotere i pregiudizi e testare i
limiti umani. Il sogno è ancora presente, ma
ora siamo uno sport a tutti gli effetti» così risponde da Berlino Iepe Rubingh, occhiali da
sole e cappello da cowboy calato in fronte.
Non è il look a fare di lui un artista, ma l’an-
Il pioniere è Gianluca Sirci,
ex promessa del ring. Ha sfiorato
il titolo mondiale, sconfitto di un
soffio dal gigantesco matematico
siberiano Nikolay Sazhin
sia di stupire: quindici anni fa paralizzò il
traffico del quartiere Mitte con del nastro
bianco rosso, mesi dopo ci riprovò a Tokyo e
rimediò 10 giorni di carcere e 50 mila yen di
multa. Stanco del pericolo, nel 2003 popolò
un ring di Amsterdam di alfieri e pedoni: era
il primo match nella storia dello scacchipugilato. Fino a quel momento la disciplina era
esistita solo nella mente di Enki Bilal, che aveva inchiostrato le sue visioni nella graphic novel Freddo Equatore, e in quella del regista
taiwanese Joseph Kuo. Il suo film Ninja scaccomatto ha ispirato Method Man e gli altri
Wu Tang Clan, che rappano su caselle bianche e nere nel videoclip di Da Mystery of Chessboxin’, contenuto nell’album capolavoro 36
Chambers.
Diana ora è pronta. È arrivata in sala, dove
la fatica prosegue con i pugni al sacco e il salto
della corda. Ha 21 anni e fa l’impiegata a Rivalta Scrivia, provincia di Alessandria. Ha iniziato a combattere solo da quattro anni, ma
ha già all’attivo una trentina di incontri. Trenta giorni fa a Buccinasco ha vinto il primo incontro di scacchipugilato femminile disputato in Italia contro Simona Stercoli, che nel
frattempo ha abbandonato la comitiva dei
kick boxer e si è avvicinata al quadrato.
«Tutto è iniziato per gioco in estate, quando mi è stato chiesto di combattere un match
di esibizione» racconta Diana Maftei. «Per
preparare la sfida ho passato tutti i pomeriggi
di agosto in palestra e le serate sulla scacchiera: l’ultima volta era stata quindici anni fa e
non ricordavo un granché. Vengo dalla Romania, da noi gli scacchi sono insegnati alle
elementari e mio zio era un appassionato. Poi
sono venuta in Italia e ho smesso». «Nella boxe, così come negli scacchi, devi stare in mezzo – prosegue –. Sui bordi si rischia: le botte si
prendono alle corde, lì ti riduci all’arrocco.
Traggo vantaggio dalla mia indole ad atten-
RIA NOVOSTI / CAMERA PRESS / CONTRASTO
MATCH Gianluca Sirci durante
la finale dei campionati mondiali
di scacchipugilato giocata contro
il russo Nikolay Sazhin, Mosca, 28
novembre 2013
dere e studiare l’avversario, il resto è capacità
di concentrazione».
Ora è sul ring, seduta. Tre lei e l’avversaria
c’è un tavolo di plastica e sopra una scacchiera. Le due si calano le cuffie, la musica da discoteca è così forte che la sentono tutti. Serve
a isolarle, evitare che possano cogliere consigli dal pubblico o dialogare con i tecnici. Attorno gli allenamenti vanno avanti, ma appena il coach si distrae un attimo i ragazzi della
kick boxing si voltano a spiare l’insolita scena.
Diana intanto sposta un pedone e schiaccia in
fretta sull’orologio digitale.
«Di solito un incontro avviene sulle 11 riprese: il round di scacchi dura quattro minuti,
quello di boxe tre e in mezzo c’è una pausa di
appena sessanta secondi. Si vince per scaccomatto o per k.o., oppure perché l’atleta ha terminato i 12 minuti a disposizione per muovere. In caso di pareggio si va alla conta dei punti» spiega Volfango Rizzi. Ha 40 anni ed è tornato apposta dall’Inghilterra, dove faceva
l’insegnante, per portare lo scacchipugilato in
Italia. La sua passione lo ha spinto a stampare
sabato 11 ottobre 2014
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ARTI | 37
Sfide | Un round alla scacchiera e uno indossando i guantoni. Si vince
per ko, scacco matto oppure ai punti. Frutto dell’ingegno di Iepe Rubingh,
un artista-attaccabrighe olandese, la disciplina da noi ha trovato casa
a Buccinasco. «Vogliamo scuotere i pregiudizi e testare i limiti umani»
la rivista Spqr: sta per Scacchi Pugilato Qualcos’altro & Rugby ed è in standby dopo quattro numeri. Volfango pagava di tasca sua la
pubblicazione delle 80 pagine a colori e i risparmi sono finiti.
Diana va all’attacco con i bianchi, Simona è
più lenta nelle giocate e presto si trova sotto di
due pedine. La lancetta arriva a destinazione,
il timer scatta: è già tempo di picchiare. Con
zelo Volfango alza le corde e leva il tavolo dal
ring, mentre le ragazze indossano guantoni
da 12 once. Sono più imbottiti del consueto,
piccola precauzione e aiutino agli scacchisti
Ora lo sguardo di Simona è cambiato: è decisamente a suo agio, si diverte di più. È un
peso leggero, studia dieci secondi la posizione
e parte con la testa giù. Diana contiene bene.
Quando suona il gong fanno ritorno dai due
allenatori, finalmente protagonisti con le loro
urla dall’angolo.
«Non so giocare a scacchi e non ho tempo di
imparare – ammette subito Ermes, il maestro
di Simona Stercoli –. All’inizio mi sembrava
una cosa assurda, quasi dissacrante. Poi ho
capito che le due attività hanno elementi in
comune, al di là delle frequenze cardiache che
vanno su e giù. Magari gli scacchi la aiuteranno a diventare più riflessiva anche in combattimento».
L’anno prossimo Simona potrebbe ritrovarsi campionessa d’Italia. Nel 2015 sarà assegnato per la prima volta il titolo e lei ha già
in tasca il ticket per la finale: con Diana è l’unica chessboxer in tutto il Paese. «Siamo stati
fortunati perché le ragazze condividono la categoria, da regolamento non si può combattere se la differenza di peso è superiore agli 11
chili - dice Volfango Rizzi -. Tra gli uomini è
più complicato, non è semplice creare buoni
abbinamenti».
In tutto il Paese non si raggiungono i 15
atleti. Il pioniere è Gianluca Sirci, biologo di
Spoleto che vanta una finale nazionale degli
Il vate italiano è Volfango Rizzi:
tornato dall’Inghilterra
per importare il chessboxing,
ha fondato la rivista Spqr (Scacchi,
pugilato, qualcos’altro e rugby)
Assoluti contro Roberto Cammarelle. Era il
2003 e da allora le sue abitudini si sono modificate: ha raggiunto i 120 chili e passa ore
sui libri di tattica di Garri Kasparov, il maestro russo secondo cui «gli scacchi sono in assoluto lo sport più violento». Lo scorso anno a
Mosca Sirci ha sfiorato la cintura mondiale di
scacchipugilato contro Nikolay Sazhin, ma il
gigantesco matematico siberiano dopo aver
incassato due ganci destri gli ha divorato il re
alla nona ripresa. Gli scacchisti sono leggermente favoriti: possono tentare lo scaccomatto oppure costringere l’avversario a consumare tutto il tempo a disposizione, mentre i pugili più scarsi devono solo preoccuparsi di non
andare in terra.
Ha una chance per il titolo anche Serge Leveque, proprietario di un’agenzia di scommesse a Senigallia, che l’11 ottobre si giocherà
il primato continentale a Londra. I due sono
sulla quarantina e cominciano a soffrire l’esuberanza del catanese Giuseppe Grasso.
«Li conosco bene – conferma Iepe Rubingh
–. In Italia il movimento è in crescita e può
raggiungere il livello di Russia e Germania.
Altrove siamo presenti a Los Angeles e soprattutto in Asia, dove Afghanistan e Nepal
affiancheranno presto Iran e Cina. Infine c’è
l’India, la federazione più grande, che conta
500 iscritti. La scorsa settimana ero a Calcutta e ho assistito a un torneo con più di 100 in-
contri».
Da Buccinasco, la Scala del chessboxing italiano, non è semplice mettere a fuoco l’istantanea che arriva dal Bengala. Il tavolino è tornato sul ring, oltre alle pedine fuori gioco ora
ospita due paradenti blu. Prendono posto Sara e Diana. «Lo scacchipugilato crea un ponte
tra la mente e il corpo – prosegue Rubingh –.
Penso che possa contribuire a ridefinire il
concetto di mascolinità nella società contemporanea: da un lato ci riporta alla nostra essenza primordiale di combattenti e cacciatori,
allo stesso tempo insegna a tenere sotto con-
trollo il testosterone».
Non parlatene con Simona. L’orologio ha
ripreso a correre, la musica è sempre più fastidiosa e Diana le mette pressione muovendo
nei primi dieci secondi. Se all’inizio faticava a
dare continuità alle giocate, ora ha il respiro
affannoso e non pare più seguire alcun filo.
Prima va con l’alfiere in B4 e inchioda il cavallo sul re, poi si rifugia in un arrocco disperato.
«La boxe è la mia passione, mi alleno sei
volte alla settimana – racconta la 34enne di
Abbiategrasso –. Gli scacchi, invece, sono una
novità e ho ancora parecchio da imparare.
Dopo il round di pugilato sono annebbiata,
per cui gioco peggio. Devo riuscire a dominare l’adrenalina». Si vedono i cuori battere il
petto delle ragazze, le mani tremano mentre
afferrano i pedoni. Stanno recuperando, ma
ci vuole tempo e i ritmi del gioco sono esagerati.
Diana si lega i capelli sadicamente e capisce
che ormai l’avversaria ha perso il controllo
della situazione. L’alfiere ha un corridoio
troppo invitante e il re nero è costretto ad abdicare. Una goccia di sudore percorre il naso
della vincitrice e allaga la scacchiera.
quel freddo contropiedista
che mette in riga il mondo
Magnus Carlsen | A 22 anni è il re del genere tradizionale.
Nel tempo libero fa il modello. Aspettando il match perfetto,
a cui si sente destinato. «Purtroppo per me» ci racconta
n Bobby Fischer ci ha lasciato nel
2008 dopo aver mandato al diavolo
gli Stati Uniti d’America, Boris
Spasskij è impegnato a combattere
un altro match del secolo contro il
suo cuore infartuato. I diplomatici
del nobil giuoco sono arnesi vecchi,
i secchioni e i maghi della statistica
sulla via dell’estinzione. Ora comanda la generazione Pc, che spesso con Windows 8 ha in comune la
simpatia.
Il prossimo Campionato del
Mondo di scacchi vedrà il via fra un
mese nella polifunzionale Sochi.
L’indiano Viswanathan Anand proverà un’altra volta la spiacevole sensazione di sentirsi preistoria, quando sulla sedia davanti a lui si accomoderà Magnus Carlsen. Lo scorso
novembre il ragazzo lo ha mortificato a domicilio dopo un dominio lungo sei stagioni.
Carlsen è nato a Tonsberg, in
Norvegia. La sua vita dà la definizione di genio: a 2 anni poteva risolvere un puzzle da 50 pezzi, a 5 già se
la cavava con torre e pedoni. A 22
era il più forte sul pianeta. Solo Garri Kasparov ci mise meno, 147 giorni per l’esattezza. L’uomo che ha sfidato l’intero genere umano a scacchi e Vladimir Putin alla democrazia gli offrì i suoi segreti, il norvegese nemmeno ringraziò. Carlsen guida una covata di fenomeni allevati
dalle sfide a sotfware sempre più infallibili. Le stesse notti insonni trascorse dall’italiano Fabiano Caruana, numero due al mondo, o dalla
ventenne campionessa cinese Hou
Yifan.
«Uso i computer per analizzare le
partite, verifico che le mie idee fossero giuste» spiega a pagina99 Magnus Carlsen. Sembra chiuso in se
stesso, ma è solo sicuro: qualche
mese fa ha impiegato nove mosse
per umiliare Bill Gates in un match
di esibizione.
re. Fosse calcio sarebbe un contropiedista, a tennis il più letale dei
pallettari.
«È fondamentale rimanere concentrati sulle possibili risposte del
tuo avversario – dice –. Saper prendere decisioni, ragionare in modo
analitico, agire in modo creativo: è
utile nella vita quanto nel gioco».
Consigli che mai penseresti di ricevere dal ragazzo che ammicca
dalla copertina di GQ. Look curato e
mento in fuori, Magnus Carlsen è
testimonial di un brand di abbigliamento olandese. Il re dei cerebrali
sembra il cantante di una boy band
e fa arrossire le mamme con le pose
su riviste patinate e cartelloni pubblicitari.
«Faccio promozione a me stesso e
agli scacchi, ma essere famoso non
significa nulla» si limita a dire. Di
certo col marketing ci sa fare e il suo
staff non lascia nulla al caso. I suoi
Ora al comando c’è
la generazione Pc, che
spesso con Windows 8
ha in comune la simpatia
CAMPIONE Il norvegese Magnus Carlsen
«La tecnologia è molto utile nella
fase di preparazione, quella che
amo di meno – prosegue –. Il duello
è la parte più importante di una partita, oltre che la più divertente. Senza un po’ di guerra psicologica non
c’è gusto».
Chennai, Golfo del Bengala. Carlsen ha la prima mossa e il cavallo
bianco va in F3. Il Mozart degli
scacchi inaugura i suoi Mondiali
con la giocata che il cecoslovacco
A.TESTA / THE NEW YORK TIMES / CONTRASTO
Richard Reti usò per battere l’imbattibile Capablanca. Era il 1924.
«È un serpente, se gli mostri un
fianco ti ha già morso» ci spiega
Eric Lobron, ex grande maestro tedesco che ora si gode la compagnia
della supermodella Carmen Kass.
Negli scacchi la vittoria vale 1, il pareggio 0.5: chi non perde mai alla fine festeggia. Oggi le nuove leve vanno subito all’attacco, Carlsen invece
ti mette nelle condizioni di sbaglia-
profili social sono curati e decisamente affollati, anche se lui dice di
usarli più che altro per comunicare
con gli amici quando è in viaggio
per il globo.
«In nessun modo queste attività
mi distraggono dal lavoro – assicura
–. Me le posso permettere perché
non ho ritmi di allenamento fissi,
ma faccio ogni giorno ciò che voglio.
Di solito non passo più di un’ora alla
scacchiera, solo un paio di settimane prima dei tornei aumento i carichi».
È quanto sta succedendo in questi giorni, con la rivincita di Anand
alle porte. Una nuova sfida, gloria e
pubblicità. «Vado avanti finché
avrò qualcosa da imparare, la partita perfetta è quella ancora da giocare – chiude Magnus Carlsen –. Non
so cosa farò dopo, ma purtroppo sono destinato a scoprirlo».
D.F.
pagina 99we |
38 | ARTI
l GUSTAVE FLAUBERT
• Madame Bovary
Universale Economica Feltrinelli
Kalavojna, Croazia
ELEONORA MARANGONI
n Nel mezzo di un gelido inverno Albert Camus scoprì dentro
di lui «un’estate invincibile».
Noi andiamo incontro all’autunno riguardando le foto delle
vacanze che abbiamo raccolto
durante l’estate grazie al contest lanciato in collaborazione
con Soli al Sole, il blog che spia
le letture degli italiani in spiaggia. Durante l’estate i lettori di
l FULVIO ERVAS
l BJÖRN LARSSON
• Se ti abbraccio non aver paura
Marcos y Marcos
Solanas, Sardegna
• Diario di uno scrittore
Iperborea
Lidalina, Filicudi, Sicilia
l ARTHUR SCHOPENAUER
• L’arte di capire le donne
Newton Compton
Spiaggia di levante, Lazio
l DONNA TARTT
• Il cardellino
Rizzoli
Torre del Cerrano, Teramo, Abruzzo
l ERNEST HEMINGWAY
• Fiesta mobile
Oscar Mondadori
Orosei, Sardegna
l’invincibile estate del classico
Autunno | Mappa nostalgica
dei libri sotto l’ombrellone
fotografati dai nostri lettori
Stando alla nostra
indagine, i bestseller
tanto attesi non sono
stati poi così letti
pagina99 hanno inviato i loro
scatti in vacanza, che sono stati
raccolti sulla pagina Instagram
di Soli al Sole.
Sono arrivati contributi da
tutta Italia. Ci avete scritto da
calette nascoste, stabilimenti
affollati e laghi d’alta montagna. Barche a vela, scogli sperduti e pedalò. Piscine, per chi
non poteva allontanarsi dalla
città, o verande al riparo per chi
ha trovato il tempo cattivo.
Un’estate atipica, questa, fra
piogge e schiarite: oltre al sole, è
mancata anche la canzone dell’estate. Nessun tormentone alla radio e, stando ai risultati della nostra indagine, tutto sommato nemmeno nei libri: i bestseller tanto attesi (e in vetta alle
classifiche) non erano poi così
letti in spiaggia. Il cardellino di
sabato 11 ottobre 2014
SIMONE DONATI / TERRAPROJECT / CONTRASTO
BAGNANTI Il lungomare di Barcola, Trieste
Donna Tartt, premio Pulitzer
di quest’anno che era stato annunciato come il libro delle vacanze, non si vedeva neanche
tanto in giro. Spuntava qua e là,
nelle ceste di vimini di qualche
signora bene, sul lettino di un
addetto ai lavori, in bella vista
nelle librerie del porto. Ma forse, anche a causa della mole
Miss Tartt è rimasta in incognito in versione kindle o all’ombra
sul comodino, e gli italiani le
hanno preferito altro.
Persino i gialli, storicamente
principi dell’ombrellone, quest’anno se ne sono rimasti un
po’ in disparte, e i contributi che
abbiamo ricevuto registravano
in effetti un’altra tendenza: i veri vincitori di questa stagione
sono stati i classici. C’era Emma
Bovary sulle spiagge croate,
Martin Eden sulle alture di Filicudi, Il conte di Montecristo in
terza fila da Rocco a Sperlonga.
La luna e i falò di Pavese a Varigotti, La signorina Else sul lago
l NEIL GAIMAN
• American Gods
kindle
Castiglion della pescaia, Grosseto, Toscana
di Garda e Zerocalcare sulla riva di Martignano. Arturo Bandini aspettava primavera in una
piscina erbosa del Chianti e le
corride di Hemigway erano finite nei golfo di Oresei. Non potevano mancare, in giro per la
penisola, i Buendia di Gabriel
Garcia Marquez, la cui scomparsa ha fatto tornare Cent’anni di solitudine in testa alle
classifiche, costringendoci a ripassare l’intricato albero genealogico di Macondo.
l MARCO LODOLI
• Nuove isole
Einaudi
Letojanni, Taormina, Sicilia
Fra gli editori “da spiaggia”
studiati da Soli al Sole Sellerio si
conferma fra i primi. Segue Feltrinelli, che con la sua Universale Economica batte per un
soffio gli Oscar Mondadori. Fra
gli autori, Wu Ming con L’armata dei sonnambuli e, fra i
“nuovi grandi”, il più letto era il
francese Emanuel Carrère (accanto a Faletti, che molti hanno
ripreso in mano a qualche mese
dalla scomparsa).
In generale, più che affannarsi sull’ultima uscita o accontentarsi dell’ennesimo Maigret,
gli italiani sembrano aver scelto
queste vacanze per (ri)leggere
l’opera dei grandi. Si tratta ovviamente di un’indagine aleatoria, ottenuta grazie ai contributi di lettori curiosi o annoiati,
disseminati sulle rive più o meno assolate di tutta Italia. Eppure il peso netto fra i libri che
gli italiani comprano (e dicono
di aver letto) e quelli che poi effettivamente si portano dietro
quando staccano la spina e si
sdraiano finalmente al sole indisturbati, qualcosa, del nostro
paese, la racconta. Tempo di bilanci, in questa estate tiepida?
Di nostalgia per i libri che abbiamo amato? Di ammissioni
di colpa per quelli che non siamo mai riusciti a finire? Intanto
siamo pronti per l’autunno, ed è
curioso notare come, forse anche grazie a questo ritorno alle
origini, giusto al rientro dalle
vacanze il popolo dei social si sia
tuffato a capofitto nel mondo
degli elenchi, stilando liste di
romanzi fondamentali. Lo scopo era individuare i dieci libri
dai quali non si può prescindere, grazie ai quali siamo i lettori
che siamo. Il risultato: un’orda
di titoli più o meno essenziali e
più o meno imperdibili, una
scomposto patrimonio letterario di consigli per gli acquisti,
compiti per le vacanze e buoni
propositi. Il lessico famigliare
dell’Italia che legge e al cambio
di stagione si ritrova, suo malgrado, a spolverare gli scaffali.
l JOSEPH CONRAD
l ROBERT PENN WAREN
• Cuore di tenebra
Garzanti
Sperlonga, Lazio
• Tutti gli uomini del re
66th & 2nd
Dormelletto, Lago Maggiore
sabato 11 ottobre 2014
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ARTI | 39
l’arte del curatore
che non cura nessuno
Mestieri | A metà fra lo sciamano e l’arredatore, è una sorta di mediatore
per il pubblico. Luci e ombre di una professione misteriosa. Che però,
come una guardia svizzera in Vaticano, delimita e protegge uno spazio sacro
il suo percorso a seconda dei suoi gusti e della sua soggettività». La fine del mestiere è
dunque in arrivo? Per il nostro autore no,
perché in fondo in fondo, quando si parte,
avere qualcuno che ci guidi in territori sconosciuti e ci faccia scoprire qualcosa che non
ci aspettavamo, può sempre essere utile. Sarà per questo che abbonda la letteratura divulgativa sull’arte contemporanea, di cui lo
stesso Bonami è stato un pioniere. Con Non
ci capisco niente (Electa Mondadori, 145 pagine, euro 22,90), un altro critico e curatore,
Francesco Poli, ha scritto un breve vademe-
ROBERTA LOMBARDI
n Il curatore, chi è costui? Rispetto ai neonati mestieri degli anni zero, dagli esperti di
social media ai maker, la professione del curatore ha già superato abbondantemente la
fase adolescenziale ed è ormai entrata, forse
con qualche rimpianto, nella consolidata età
adulta. Ma se il termine è ormai sempre più
diffuso, non è ancora chiaro per molti né di
cosa si tratti esattamente né se sia giusto
chiamarlo lavoro. «Faccio cose, vedo gente»,
potrebbe spiegare qualcuno. Sicuramente la
migliore risposta può darcela Francesco Bonami, curatore nel 2003 della Biennale di
Venezia e primo italiano che questo mestiere lo ha fatto a livelli veramente internazionali, affermandosi nell’Olimpo dei Beati che
stringono le redini dell’arte contemporanea.
Il suo Curator. Autobiografia di un mestiere
misterioso (Marsilio, pagine 143, 16,50 euro) tira fuori luci e ombre di una professione
che provocatoriamente definisce a metà tra
quella dello sciamano e quello dell’arredatore, non lesinando frecciatine a colleghi e artisti.
A suo dire, questo mestiere l’ha involontariamente creato Marcel Duchamp nel
1917, quando, rovesciando un orinatoio, lo
ha presentato come opera d’arte a New
York, scandalizzando mezzo entourage di
artisti e collezionisti. Da quel momento è
stata necessaria una figura di mediatore tra
artista e pubblico, un po’ come quando dopo
Nel suo Curator, Bonami fa il
rottamatore: «Difficile ammazzare
i padri». Quelli della vecchia guardia,
Bonito Oliva e Celant, si rifiutano di
collaborare alla propria scomparsa
A volte sembra essere colui che
risponde alla frequente domanda:
«Ma che cosa significa?», con un
perentorio «Mistero della Fede».
Leggi: ti dico che è così e tu credici
Gesù Cristo è stata necessaria la figura dell’apostolo che portasse il Verbo ai più. Il
Protestantesimo in questo ambito non è ancora arrivato, ma abbondano semmai gli
aspiranti evangelisti.
A volte il curatore sembra essere colui che
risponde alla frequente domanda: «Ma che
cosa significa?», con un perentorio «Mistero
della Fede». Leggi: ti dico che è così e tu credici. Più concretamente, è colui che facendo
dialogare le opere fra di loro in un percorso
più o meno dotato di senso, dovrebbe aiutarci a vivere l’arte come un’esperienza arricchente e stimolante. Ecco perché il curatore
ha un po’ dell’arredatore e un po’ dello sciamano. Non è che cura nessuno, né l’artista,
né tanto meno lo spettatore. E probabilmente neanche se stesso. Però ha il potere di fare
del visitatore di una mostra un’annoiata anima in pena così come un felice pellegrino di
un viaggio artistico.
Forse, un po’ come una guardia svizzera in
Vaticano, il curatore delimita e proteggere
uno spazio sacro. Bonami ci avvalla l’ardita
metafora e non abbandona il suo spirito provocatorio per ribadire che è un mestiere inu-
WOLFGANG STAHR/ LAIF /CONTRASTO
ESPOSIZIONI
Un’opera dello scultore svizzero Urs
Fischer in mostra alla 54ª edizione
della Biennale di Venezia diretta da
Bice Curiger nel 2011
tile: «Il curatore è di facciata, è decorativo,
sta lì a fare bella figura, ma non serve a molto. Le mostre si facevano anche prima, gli artisti attaccavano le loro opere e la gente le
guardava». Ribaltando la famosa frase dell’artista tedesco Joseph Beuys, secondo cui
ognuno poteva essere artista, Bonami ci
spiega che ognuno può essere curatore. «Lo
spettatore quando entra in un museo si cura
la propria mostra senza saperlo, scegliendo
cum, una guida Routard nell’universo dell’arte, fornendo una selezione di ostelli,
(ops!), opere, a cui accostarsi.
Per chi invece pensa che l’arte sciamanica
del curatore possa trasformare un non-artista in artista, da cui il ragionamento che il sistema dell’arte sia tutto un bluff ai danni del
“consumatore”, Bonami ci risponde che chi
può fare l’artista è solo e unicamente l’artista
stesso. Il curatore può al massimo fornire
delle occasioni, come l’intramontabile Biennale di Venezia, che a maggio del 2015 sarà
nelle mani del nigeriano Okwui Enwezor.
Un po’ un Obama dell’arte. «Sicuramente
sono stati pochi i curatori di colore ad avere
avuto un impatto. Okwui ha lo sguardo dell’analista politico, per cui l’arte è uno dei
tanti elementi che contribuiscono alla comprensione di una società».
Verso il gentil sesso l’istituzione lagunare
è stata più generosa della Casa Bianca, anche se le donne che l’hanno diretta si contano sulle dita di mezza mano: si tratta di Bice
Curiger, nel 2011, e del duo spagnolo María
de Corral e Rosa Martínez nel 2005. Ma in
un mondo che è stato a lungo dominato dagli uomini, le figure femminili sono in costante aumento.
E a proposito della “vecchia guardia” italiana, composta da Achille Bonito Oliva e
Germano Celant, Bonami veste i panni del
rottamatore. In Italia non abbiamo ancora
ucciso il padre. «Sono i padri che abbiamo
che sono più difficili da ammazzare. Si rifiutano di collaborare alla loro scomparsa, nel
senso che non sanno mettersi in una posizione diversa, non vogliono partecipare al cambiamento con un ruolo diverso. È come per
la macchina. Si dice che una delle cose che
gli anziani soffrono di più è quando gli viene
tolta la patente. Ma alla fine si può comodamente vivere senza guidare, anzi».
Per chi abbia la giusta dose di coraggio,
passione e incoscienza, l’autostrada dell’arte
è sempre aperta. Lunga vita quindi a un mestiere che se non “curerà” il mondo, potrebbe, o vorrebbe, contribuire a farci vivere un
po’ meglio.
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40 | ARTI
sabato 11 ottobre 2014
MILAN BURES / THE NEW YORK TIMES / CONTRASTO
MARCO ROSSARI
n C’è una vasta letteratura a sfondo omosessuale fatta di irresistibile vitalismo venato di cupio dissolvi, che – da Jean Genet a John Rechy, da Pier Vittorio Tondelli a
Cyril Collard – ha raccontato la formazione di un giovane uomo attraverso furori per nulla astratti, declinati in una seria di incontri fugaci, rabbiosi, descritti con toni crudi. È come se quel tipo di romanzo,
a fronte di una società omofoba,
scegliesse invece del lamento o del
ripiegamento (o dell’autocensura,
pensiamo al Maurice di E.M. Forster), una rivendicazione aggressiva, una sfida a viso aperto, con cui
spiattellare la propria esuberanza
(anche quando si fa sordida), come
se la letteratura fosse anch’essa
una sfilata giustamente impudica
per le strade del centro, un gay pride letterario contro i benpensanti
bigotti.
Poi ci sono scrittori che preferiscono una strada più misurata, che
descrivono la propria sessualità a
tinte più tenui, meno esuberanti,
con una timidezza – non per forza
dovuta al giudizio della società –
volta a raccontare un’altra parte
del discorso, più fragile o più nascosta.
A questa schiera appartiene Caleb Crain, firma del New Yorker, al
suo esordio con Errori necessari
(ottima traduzione di Federica
Aceto, 66thand2nd, pagine 555, 20
euro), che racconta la storia – presumibilmente autobiografica – del
giovane Jacob Putnan, intellettuale americano espatriato a Praga.
Siamo all’inizio degli anni Novanta, poco dopo la caduta del Muro, e
dopo una laurea a Harvard l’aspirante scrittore si trasferisce nella
capitale dell’allora Cecoslovacchia
per insegnare l’inglese. Lì, con
grande prudenza, comincia a
esplorare la propria sessualità, cercando di non rivelare agli amici la
propria tendenza omoerotica.
In una città quanto mai letteraria – non solo per il retaggio kafkiano, ma anche perché dopo la Rivoluzione di Velluto viene eletto Presidente proprio uno scrittore, ossia
il drammaturgo Václav Havel, di
cui Crain ha tradotto l’autobiogra-
la Praga sommessa
degli espatriati americani
Caleb Crain | Esce Errori necessari, romanzo d’esordio della celebre firma
del New Yorker. Esplorazione (forse autobiografica)
della propria omosessualità nella Cecoslovacchia dei primi anni Novanta
ALESSANDRO TOSATTO / CONTRASTO
SCORCI Dall’alto il castello
di Praga; una veduta dalla
collina Letna del lungofiume
Moldava
fia in inglese – si snoda una vicenda
sommessa, raccontata da una voce
che non alza mai il tono. È un mondo impercettibile, quello che narra.
Con stile piano e accurato, con un
intimismo estenuato che all’inizio
può sembrare remissivo, ma alla
lunga – capitolo dopo capitolo –
avvolge il lettore in una trama crepuscolare. Fino a portarlo a percepire sotto pelle l’indeterminatezza
di un’età e di un mondo. Malinconie, cene, passeggiate, molti pianti,
paure di aids e malattie, una bohè-
me lieve. Quasi a emblema, scopre
che “tiepido”, ossia teplý, è una parola di slang ceco per dire omosessuale.
È una poetica rivendicata da
Cain anche davanti al dolore, per
esempio quando il suo protagonista riceve una telefonata dagli Stati
Uniti e scopre che un’amica si è
suicidata: «I suicidi provocano una
rottura in un romanzo, e lo stesso
fanno nella vita, e in questa vicenda si vede solo l’ombra della storia
di Meredith, come quella di una
persona che passa davanti al
proiettore uscendo dal cinema».
Ombre fugaci sono un po’ tutti i
personaggi, dagli amici precari agli
amanti di Jacob. È un’inquietudine gentile, a pervadere queste pagine, che trova ancora una volta suggello nella lingua straniera, dove la
mancanza si esprime con la terza
persona singolare, come il verbo
piovere. Per dire “mi manchi”, si
dice “manca”. Come a scusarsi, a
smarcarsi, perfino da quella nostalgia.
sabato 11 ottobre 2014
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ARTI | 41
FORME DI VITA
NATURALE BELLEZZA
Animalium, il grande
museo degli animali
di Katie Scott e Jenny Broom
Electa Kids
• pagine 224
• euro 22,00
Invertebrati e pesci, poi anfibi, rettili, uccelli o mammiferi. Il nostro
pianeta dispone di una varietà incredibile di esseri viventi. Che si
sono evoluti in maniera così eterogenea al punto che noi uomini viviamo insieme ad altri due milioni
di specie di forme di vita (almeno
quelle che conosciamo). Ecco allora che questo bellissimo libro unisce la didattica e la divulgazione
(illustrazioni realistiche che accompagnano la descrizione delle
specie secondo un ordine evoluzionistico) alla felicità dei bambini
che avranno queste pagine fra le
mani. Disegni accurati che mostrano esseri antichi e moderni,
grandi e piccoli, dolci e paurosissimi. E si avrà la sensazione di esser
davvero dentro un museo a cielo
aperto di fronte alla naturale bellezza di questi animali.
LA COLLERA
BUFFE PROPORZIONI
Non sarai mica arrabbiato?
di T. Tellegen e M. Boutavant
Rizzoli
• pagine 80
• euro 18,00
Dodici storie strampalate e buffe
scritte dal prolifico olandese Toon
Tellegen. A disegnarle il francese
Marc Boutavant, fra gli illustratori
per l’infanzia più apprezzati - suo il
celebre asinello protagonista di
Ariol e l’orsetto de Il giro del mondo di Mouk in bicicletta , tradotto
in più di 15 lingue e protagonista di
una serie televisiva. Ci sono coleotteri ed elefanti, lombrichi e scarabei, e poi formiche, scoiattoli e altri animali più o meno iracondi
(per qualcosa che succede loro) e
che vogliono mantenere la calma.
Ci riusciranno? Con le illustrazioni che creano un mondo sproporzionato e buffissimo, queste storie
delicate parlano ai bambini della
collera, spiegano loro cos’è e come
ci si può comportare. E lo fanno
con un garbo e una delicatezza rari.
FAVOLA SURREALE
COME UN’OPERA D’ARTE
Il compleanno
di Pierre Mornet
Gallucci
• pagine 62
• euro 17,50
Un incontro in un bosco. Una
bambina, nel giorno del suo compleanno, ne incontra un’altra. Nasce un’amicizia che però porta la
prima ad addentrarsi in un universo buio e spaventoso, popolato
dalla Regina della notte e altre
strane creature. Un testo poetico,
ottimamente tradotto dal francese
da Yasmina Melouah di Pierre
Mornet, autore molto noto oltralpe per le sue meravigliose opere in
acrilico e olio - che non finiscono
soltanto nei libri per bambini, ma
anche nelle scenografie dell’Opera
di Lille, nelle collezioni degli stilisti Kenzo e Prada, nonché in molte
gallerie d’arte a Parigi e in America. Un tratto d’autore, dunque, qui
per la prima volta cimentatosi anche con la scrittura. E, visto il risultato, si spera che non sarà l’ultima.
a cena dalla Regina
la povera Nina
alle prese col galateo
Infanzia | Un fumetto per bambini (ma delizierà
anche gli adulti) sulle disfunzioni alimentari
a firma Rutu Modan, famosa illustratrice israeliana
GIUNTINA
Un estratto da A cena dalla Reginadi Rutu Modan
NADIA TERRANOVA
n Mangia con la bocca chiusa,
stai composta, chiedi il sale
per favore, non dondolarti sulla sedia… La povera Nina non
riesce a godersi la cena, costretta a sorbirsi la tiritera dei
genitori. Felpa gialla con zip e
cappuccio, calzini spaiati,
chioma rossa arruffata: è incantevole questa specie di Pippi Calzelunghe famelica e contemporanea creata da Rutu
Modan per A cena dalla regina (Giuntina, traduzione di
Shulim Vogelmann, in libreria dal 23 ottobre), fumetto
per bambini che delizierà gli
adulti dicendo la verità sulle
disfunzioni alimentari: è tutta
colpa delle buone maniere.
Mentre Nina passa dall’in-
gordigia alla stizza nel giro di
una pagina in cui c’è spazio per
sei vignette e altrettanti rimbrotti di papà e mamma, capiamo subito da che parte sta
il torto. Basta guardare nel
piatto: in mezzo a una polti-
L’autrice sarà a Lucca
Comics (dal 30 ottobre
al 2 novembre) con una
sua mostra personale
glia da tipica cena familiare
spicca un ciuffo verde; a una
bambina che si fionda sulle
verdure, e con tanto entusiasmo da preferire le mani alle
posate, andrebbe eretto un
PAZZO PER AMORE
IL PALADINO INFELICE
Orlando furioso e innamorato
di I. Fei e R. Petruccioli
La nuova Frontiera junior
• pagine 123
• euro 15,00
Un grande classico della tradizione
raccontato da Idalberto Fei e accompagnato dalle illustrazioni immaginifiche di Rita Petruccioli. Traduce
una delle storie più belle della letteratura scritta dall’Ariosto: compito non
facile, vista la mole dell’originale (un
lunghissimo poema di 46 canti e
38.736 versi che Ariosto scrisse per
tutta una vita) e il tema tanto affascinante quanto complicato. Ma l’autore ci riesce perfettamente, narrando
con grazia la furiosa pazzia del paladino Orlando, innamoratodella bella
Angelica. E poi la guerra fra i cristiani
di Carlo Magno e i pagani di Agramante, il re d’Africa. Per finire con l’amore fra Ruggero e Bradamante, pagano il primo e cristiana la seconda,
che vogliono convolare a nozze incontrando mille ostacoli. Una bellissima occasione per leggere ai propri
bambini un grande classico.
monumento, altro che rimproveri. È proprio vero che i
grandi non sono mai contenti.
Chissà poi a cosa serve questo
loro galateo, perché il cibo è
molto più buono se ingollato
con una foga che noi, con qualche anno più di Nina, potremmo definire epicurea con un
aggettivo socialmente accettabile.
Pronta la risposta dei genitori: pensa se ti invitasse a cena la regina d’Inghilterra,
pensa se dovessi andare a Buckingham Palace e non ti sapessi comportare in modo adeguato, in che imbarazzo ti troveresti. A quel punto l’elemento fantastico esplode: bussa
un messo di corte che, con tanto di squilli di tromba, è venuto a portare a Nina l’invito formale della sovrana. Non han-
no ancora imparato, i grandi, a
stare attenti alle parole? Anni
e anni di fiabe non hanno insegnato loro che le frasi fatte
sanno come vendicarsi trasformandosi in realtà?
Insieme alla protagonista, a
Buckingham Palace entra anche l’arte di Rutu Modan, e fa
scintille. Pensate a una tavola
sontuosamente imbandita e
popolata da nobili, ammiragli,
diplomatici e servitù in livrea:
è un’occasione appetibile per
qualsiasi illustratore, e Modan sembra essersela creata su
misura, come un parco giochi
al quale accedere con lo sguardo sovversivo e genuino di una
bambina pestifera. Sfilano
portate succulenti, sughi ricercati, carni costose. Peccato
che alla nostra Nina facciano
schifo tanto le quaglie all’ana-
QUOTIDIANITÀ MAGICA
CLASSICI SENZA TEMPO
Fiabe e storie
di Hans Christian Andersen
Donzelli
• pagine 912
• euro 37,00
Le fiabe di Hans Christian Andersen
non hanno uguali per forza e ampiezza di diffusione nelle culture occidentali. Composte e pubblicate fra il 1835
e il 1874, nascono in gran parte dalla
fantasia dell’autore e solo in misura
residuale dalla materia popolare a cui
lui stesso dichiarò di ispirarsi. Lo
scrittore danese non si limita infatti a
ripercorrere e reinterpretare il filo
dellagrande tradizionefavolisticaeuropea, inauguratada Basile,fissata da
Perrault e ulteriormente strutturata
da Hoffmann. Andersen cambia radicalmente la prospettiva della fiaba.
Prima di lui maghi, streghe, gnomi,
draghi, fate e orchi erano figure dotate di poteri speciali, dalla sapienza impenetrabile, misteriosa, ignota al lettore. Il suo genio è stato quello di reinventare queste figure irreali immergendole nella quotidianitàdel mondo
reale.
nas quanto le beccacce alle
mandorle, per lei i camerieri
possono anche riportarsi indietro i loro portavivande
d’argento, lei vuole solo una
cosa: spaghetti al ketchup.
Riuscirà nell’intento, dopo
aver scioccato la nobiltà britannica con quella bizzarra richiesta?
Già autrice di fumetti sull’identità ebraica e sui temi più
controversi della società israeliana, stavolta Rutu Modan
devia dal suo stile rigoroso. Il
tratto rimane riconoscibile
ma qui si diverte a sguazzare
nella burla con un tono fiabesco e paradossale. Negli ultimi
anni l’autrice, nata a Tel Aviv
nel 1966, ha conquistato diversi riconoscimenti internazionali e, ormai affermata anche in Italia (i suoi lavori pre-
cedenti sono pubblicati da
Rizzoli e Coconino Press), nel
2013 ha vinto come miglior
autore il Gran Guinigi, il premio assegnato da Lucca Comics. Torna al festival con una
mostra personale (18 ottobre /
2 novembre 2014, in collaborazione con l’ambasciata
israeliana e il mensile Pagine
ebraiche). Pare che in quei
giorni la si potrà avvistare in
giro per Lucca. Guardatevi attorno all’ora di pranzo, cercate
la tizia che acciuffa un rigatone con le mani o lascia gocciolare un panino impiastricciato. Cercatela, e sentitevi ancora più liberi di leccarvi le dita
di rimando (del resto anche la
regina dice che si può fare).
Rutu Modan, sbrodolona come noi, ma molto più geniale
nel raccontarlo.
IL TOPO CHE VOLÒ SULL’OCEANO
CASO EDITORIALE
Lindbergh
di Torben Kuhlmann
orecchio acerbo
• pagine 96
• euro 19,50
Un piccolo caso editoriale. L’autore,
trentenne, ha una smodata passione
per le macchine volanti. Ecco così che
se la porta dietro sino all’università:
infatti questo libro altro non è che la
sua tesi di laurea. Pieni voti. Pubblicazione. E un successo che nessuno s’aspettava. Uscito all’inizio di quest’anno, già alla terza ristampa in Germania, il topo volante di Torben Kuhlmann è stato già tradotto in undici
lingue. Ambientato nel 1912, in Germania, racconta la storia di un topolino di biblioteca che, per sfuggire alle
numerose trappole, decide di costruirsi un velivolo per arrivare dall’altra parte dell’oceano. Grazie a questa incredibile impresa, il topo diventa una celebrità e il piccolo Charles
Lindbergh, guardando uno dei tanti
manifesti a lui dedicati, decide che da
grande volerà anche lui.
pagina 99we |
42 | ARTI
sabato 11 ottobre 2014
dal Re Sole a Lady Gaga
tacchi killer in mostra
FLAVIA PICCINNI
n Intorno alle scarpe esiste una mitologia antichissima. Inizia con
l’uomo Cro-Magnon, che allacciava
pelle alla corteccia degli alberi e si
costruiva delle infradito. Fino a
Carrie Bradshaw, al secolo Sara Jessica Parker, che in Sex and The City
rapinata in un vicolo di Manhattan
supplica: «Prenda la borsa, l’anello,
l’orologio, ma mi lasci le mie Manolo Blahnik». Eppure l’epos dello stiletto (dal latino piolo, termine usato
in riferimento ai tacchi femminili
dal 1930) negli anni è stato alimentato dalle odi di Marlyn Monroe e di
Madonna, di Lady Gaga e di Beyoncé. Oggi il tacco alto è simbolo di
femminilità allo stato puro, ma è
così solo dal primo Ottocento. Prima non aveva nessuna valenza erotica, rappresentava esclusivamente
la posizione sociale. A portarli in
auge fu il Re Sole, che per rimediare
alla sua scarsa altezza utilizzava tacchi rossi di 5/6 centimetri in grado
di evidenziare il suo rango di regnante. Fu perfino emanata una
legge per evitare che questi si diffondessero fuori dalla corte, ma arginarne il successo fu impossibile,
tanto che oggi negli Stati Uniti è
stato coniato il termine shoeaholic
per definire una persona che possiede più di 60 paia di scarpe, e non
ha intenzione di smettere di acquistarne.
Questo tipo di curiosità – insieme
a modelli assurdi come il cappello-scarpa della geniale Elsa Schiaparelli creato con Salvador Dali,
modelli-mito come quelli firmati da
Roger Vivier, modelli futuristici come quelli di Miu Miu antichissimi
come una zeppa cinese di seta rossa
con farfalle dorate - sono le protagoniste della mostra che fino al 15
febbraio sarà ospitata al Brooklyn
Museum di New York. Si tratta di
Killer Heels: The Art of High-Heeled
shoes che racconta i più provocanti
e affascinanti tacchi mai disegnati
nella storia. Nessun luogo del mondo e nessuna epoca è messa da parte
fra i 178 paia in esposizione selezio-
Scarpe | 178 paia di calzature che hanno fatto la storia del costume sono
esposte fino a febbraio al Brooklyn Museum. Ne abbiamo selezionate
alcune, per capire come cambia lo sguardo sul mondo da una certa altezza
Unicorn Tayss, 2013
«Queste scarpe – spiega l’ideatrice
della mostra Lisa Small – sono
opera dello stilista svizzero Walter
Steiger del 2013. Rappresentano
perfettamente l’idea che ha
guidato la creazione
dell’esposizione, ovvero che la
moda è una cultura materiale in
grado di rivelare molto degli
uomini, del contesto sociale e della
cultura del tempo». Questi tacchi
raccontano molto del loro stilista
che ha lavorato per Karl Lagerfeld
e Chloé, e che possiede a Parigi uno
dei pochi negozi dell’intera Francia
dove vengono create calzature
esclusivamente su misura.
nati con minuzia da Lisa Small che
ha organizzato quella che il New
York Times ha definito come “la
mostra più bella e la più attentamente organizzata da anni sull’argomento”. Ci sono le celebri creazioni dalle voluttuose suole rosse di
Louboutin, le opere di Prada e di
Ferragamo, le visionarie creazioni
di stilisti emergenti come United
Nude. «La mostra – spiega la curatrice - è stata organizzata in sei
grandi sezioni tematiche: Revival e
Reinterpretation, Rising in the East, Glamour and Fetish, Architecture, Metamorphosis, Space Walk.
Non ho voluto dare forma all’esposizione cronologicamente o seguendo l’evoluzione dello stile attraverso
i designer. Ho creduto che fosse
molto più interessante evidenziare
delle categorie condivise dai tempi,
dagli stilisti, dalle epoche».
Ben nutrito il còté italiano, rappresentato tanto dalle botteghe artigiane toscane, quanto da stilisti
come Salvatore Ferragamo e Giuseppe Zanotti. Le creazioni più originali sono quelle realizzate dall’archistar Zaha Hadid, prodotte grazie
all’utilizzo di una stampante 3-D, e
le celebri Armadillo Shoes firmate
nel 2009 da Alexander McQueen
per Lady Gaga (oltre 20 cm di altezza). A sottolineare il mito del tacco,
punteggiano questa spettacolare
mostra dei corti inediti di artisti
emergenti che spiegano come tutto,
ma proprio tutto, cambi se considerato da un paio di stiletto 12 cm.
1690–1700
Bamboo Heel, 2012
«Questa scarpa francese è
datata fra il 1690 e il 1700,
eppure presenta dei tratti
contemporanei grazie alla
suola in cuoio e alla punta che
abbiamo visto
recentemente in numerose
collezioni» commenta Lisa
Small. Fa parte della Rogers
Foundation ed è conservata
al Metropolitan Museum. Un
esempio di come già
trecento anni fa bastasse una
calzatura per trasformare il
piede in un piccolo gioiello.
«L’importante era presentare
calzature innovative nella forma
e capaci allo stesso tempo di
suggerire un senso di continuum
storico all’interno dell’esibizione,
anche di designer poco
conosciuti» sottolinea la
curatrice Lisa Small. Tale è questa
scarpa che supera i quindici
centimetri di altezza, disegnata
dalla stilista olandese emergente
Winde Rienstra, nota per l’uso di
materiali non convenzionali.
sabato 11 ottobre 2014
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ARTI | 43
Platform Sandal, 1960
L’Image Tranquille, 2013
Nell’antica grecia erano le
prostitute a usare le zeppe di
sughero nei bordelli per sembrare
più alte. Ne ha fatta di strada la
zeppa per diventare la splendida
creazione artistica qui accanto,
realizzata da Salvatore
Ferragamo e regalata dallo stesso
stilista fiorentino al Metropolitan
Museum of Art nel 1973.
«Nel disegnare questi sandali
arcobaleno - spiega Lisa Small Ferragamo forse fu ispirato dai
costumi dei musical americani.
Nell’immaginario collettivo
questo modello è legato a Judy
Garland che, nel mago di Oz,
cantava Over the Rainbow».
Ci sono scarpe che
sembrano opere d’arte.
Fra queste la creazione di
Jantaminiau, brand
tedesco che ha sede nel
quartiere a luci rosse di
Amsterdam, ed è frutto
dell’estro di Jan Taminiau,
che ha dato a queste
opere artigianali del 2013
di René van den Bezrg
l’evocativo nome de
L’Image Tranquille.
«Guardandole –
commenta Lisa Small –
sembra di avere in mano
un mondo etereo, si teme
quasi che da un momento
all’altro possano rompersi
eppure sono solidissime.
Ecco l’inganno del
modello ben riuscito».
Pumps, 2013
Eamz, 2004
Nicholas Kirkwood, stilista inglese
classe 1980 diplomato al prestigioso
Central Saint Martins. Una delle
chicche di questa esposizione «ho
voluto dare spazio anche a designer
poco noti, ma interessanti» spiega
Small. Con il suo brand omonimo,
fondato nel 2004, Korkwood si è
fatto notare per la raffinatezza ed è
presente nell’esposizione con una
scarpa della collezione
primavera/estate 2013. Si tratta di un
paio di pumps scamosciate
tempestate di cristallo Swarosvski
dorati e color ghiaccio che fanno
pensare a un mosaico greco o alle
onde del mare, e si distinguono per
l’eleganza fuori dal tempo.
Disegnata dall’architetto Rem D.
Koolhaas, direttore creativo e fondatore
di United Nude
(www.unitednude.com). Le scarpe,
proposte nel 2004, sono state
battezzate Eamz e ben sintetizzano il
motto della casa di moda: «andiamo
contro le regole della moda non perché
non le amiamo, ma perché le
disconosciamo».
Questo modello, ha raccontato
Koolhaas in diverse occasioni, è stato
ispirato dalle sedie che si tengono sù
senza gambe, con un gioco di pesi e leve.
Geisha Lines, 2013
Printz, 2013
È nella collezione autunnale 2013 del brand
Aperlaï, della trentenne Alessandra Lanvin. Linee
grafiche, asimmetrie, contrasti, richiami artistici a
Pollock per i materiali, a Picasso e Mondrian per i
colori, ai viaggi esotici e all’audacia. Non è un caso
che ogni tacco non sia mai più basso di 14
centimetri. «Il modello – conclude Lisa Small – è
stato realizzato a Firenze ed è un’ode, come la
stessa creatrice ha raccontato, al cubismo. Non ha
neanche un anno, ma è già un pezzo cult».
Sono forse il modello più noto al
mondo. Stiamo parlando della
celeberrima suola rossa di
Christian Louboutin che è in
mostra con un modello della
primavera-estate 2013-2014
battezzato Printz. «Questo paio
di scarpe –spiega la curatrice –
sintetizzano il progetto:
dimostrano come i tacchi a spillo
siano un oggetto e un simbolo
della cultura popolare. Gli stiletto
nascondono tanto un pezzo della
storia umana, quanto
l’opportunità di guardare al
design in modo innovativo e
interessante dal punto di vista
visuale. Le scarpe di Louboutin
riescono davvero a fare entrambe
le cose contemporaneamente».
COURTESY BROOKLYN MUSEUM
u LE FAVOLE DELL’A B B O N DA N Z A
se Vanina spia dall’obiettivo
PAOLO LANDI
n La nuova cultura digitale
offre, dal punto di vista della
rappresentazione del sé e del
mondo alcune nuove possibilità. Per esempio, si possono utilizzare i media in prima persona, in modo originale e autografo. Si vive costantemente in un presente
astorico che non presuppone
una visione lineare del tempo ma dove conta il qui e ora,
si producono comportamenti comunicativi inediti in una
sorta di micro-universi pa-
ralleli al mondo reale che ridefiniscono e aggiornano lo
stile e il gusto delle immagini.
La nuova campagna di
Pinko sembra immergersi in
questa cultura, frammentando la doppia pagina sulle
riviste cartacee in una serie
di scatti, come se le foto fossero postate su Instagram.
La struttura e il posizionamento spaziale delle figure è
tale che le modelle sembrano
fotografarsi a vicenda.
Dal sito web di Pinko si apprende invece che c’è un
deus ex-machina, la fotogra-
fa Vanina Sorrenti, che inquadra le modelle che a loro
volta puntano la macchina
su di lei oppure si espongono
in scatti posati o rubati. Come spettatori, capiamo di essere esclusi dalla scena e l’effetto è quello di sentirci voyeur di qualcosa che accade
in un contesto intimo che
non ci appartiene.
È l’estetica frammentata
digitale che domina, sono le
finestre che si aprono quando si naviga in internet, sono
le pratiche partecipative cui
ci hanno abituato i social:
condividere momenti anche
intimi di sconosciuti o di
amici virtuali in un consumo
continuo dove il mosaico degli scatti deve restituire la verità delle immagini.
LouLou Roberts, Helena
Christensen e Kenza Fourati
sono le protagoniste di questa campagna, ambientata in
un loft di New York che, secondo la fotografa: «ha un
twist emotivo, intimo ed evocativo». Tuttavia è alla modernità del linguaggio che si
affida Pinko per affermare il
suo essere di moda.
Gli abiti sembrano ininfluenti, questa volta non so-
no al centro dell’immagine.
Al centro c’è un modo di essere, c’è la contemporaneità
di tre donne che si appropriano dei dispositivi mediali ed è insolito che non si fotografino con l’iPhone ma
usino una Polaroid (che sta
tornando ora di nuovo prepotentemente di moda). Al
centro c’è Pinko, sempre meno insegna di negozio e sempre più brand, con abiti che
si caricano di valori immateriali, che si trasformano in
una scelta di appartenenza,
al di là di ogni bisogno, di
ogni materiale necessità.
Gli scatti di Vanina Sorrenti per Pinko
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44 | OZII
sabato 11 ottobre 2014
l AUTOCRITICA
non solo ibride
i conti in tasca
a Renault e Psa
FRANCESCO PATERNÒ
Renault Eolab
n Al Salone dell’auto di Parigi, che
chiude i battenti al pubblico il
prossimo 19 ottobre, c’è di tutto e il
suo contrario come tradizione in
questo settore. Modelli con motori
a zero emissioni e supercar assetate di benzina, uno a fianco all’altra
con identici riflettori puntati addosso. Ma colpisce che sugli stand
dei padroni di casa Renault e Psa
(Peugeot-Citroen) siano state fatte
scelte analoghe nella presentazione dei prototipi, cioè la faccia del
costruttore e il suo domani.
Renault ha lasciato più a bocca
aperta: il suo concept, chiamato
Eolab, ha una motorizzazione ibrida plug in, benzina più elettrico
con presa per ricaricare la batteria
anche in casa (se si ha un giardino,
s’intende). Carlos Ghosn, numero
uno del gruppo Renault-Nissan,
ha sempre detto di non amare la soluzione ibrida. Ma il fallimento dei
suoi fin troppo coraggiosi obiettivi
per l’auto elettrica e la necessità per
tutti i costruttori di rispettare le
nuove norme sulle emissioni imposte dall’Unione europea per il
2020 sembrano averlo costretto a
cambiare idea. Anche perché nel
gruppo l’ibrido era stato riservato
finora all’alto di gamma del partner giapponese.
Sullo stand a fianco, Peugeot e
Citroen hanno esposto due proto-
tipi-fratelli con motorizzazione
ibrida ad aria, tecnologia su cui il
gruppo punta oltre all’ibrido “tradizionale” con benzina o diesel.
Anche qui scelte necessarie per poter abbassare la media della gamma di emissioni e consumi e rientrare nella nuova più stringente
normativa europea. Ma a memoria
è difficile ricordareuna data in cui i
due campioni di Francia si siano
mossi così all’unisono.
Se oltre Eolab si dà una occhiata
ai numeri, per Renault è l’intero
2014 a essere un anno a zig zag. Il
costruttore francese è ancora assente in Cina ma ben presente su
due mercati in forte crisi, come la
Russia (-14%) e in Brasile (-10%).
Cresce in Europa (+16,6% nei primi 8 mesi), anche se è noto che sul
Vecchio continente è molto difficile fare soldi a causa di una costante
guerra dei prezzi. Pure i dati finanziari sono sull’ottovolante: a fronte
di una redditività migliorata, la generazione di cassa è diminuita di
360 milioni nel primo semestre,
ufficialmente a causa di investimenti messi da parte per il lancio
della nuova Twingo. Una sbirciata
infine ai grafici di borsa, il Cac40 di
Parigi, e si vede che il valore del titolo è ridisceso ai valori del settembre 2013.
Il titolo Psa è invece uscito dalla
borsa dopo perdite colossali dell’ordine di 250 milioni di euro al
mese. Tolto il volante alla famiglia
Peugeot e fatto entrare nell’azionariato lo stato francese e i cinesi di
Dongfeng, il nuovo amministratore delegato Carlos Tavares ha delineato una strategia chiara cominciando a tagliare i costi. Con risultati sorprendenti: nel primo semestre, il gruppo automobilistico ha
registrato una generazione di cassa di 1,5 miliardi di euro. Non è la fine della crisi per il secondo costruttore francese, ma il segnale che le
cose potrebbero cambiare rotta.
Forse prima del prevedibile.
@fpatfpat
un borsch a Stalinland
con vista sul secolo breve
LUIGI SPINOLA
n Non è necessario essere degli amanti
di archeologia sovietica per apprezzare
un viaggio in Lituania. Però può servire.
Perché rispetto ai soliti cimiteri delle
statue di bronzo, dove i Paesi passati
dall’esperienza del socialismo reale
hanno l’abitudine di raccogliere gli ex
eroi del popolo, quello del parco di Grutas offre qualcosa in più. Qui un imprenditore che ha fatto fortuna con i funghi
in conserva ha ambientato il primo parco a tema sull’Urss. Lo chiamano – i più
con sdegno –Stalinworld.
Tra Marx-Engels-Lenin e il compagno Vincas Mickevicius-Kapsukas
(fondatore del partito locale) puoi fare
Lituania | Per i feticisti dell’Urss c’è un parco a tema. Per gli altri
vertiginose pagine di memoria. E un sorprendente Paese di frontiera
Dal Museo dell’Olocausto
a quello del Kgb, la Storia
resta compagna
fondamentale del viaggio
finta di votare in un seggio popolare (la
finzione di una finzione) o assaggiare
l’immancabile borsch (zuppa di barbabietole con panna acida) con l’arrendevole cucchiaio che usava l’homo sovieticus. Nel tour sovietologico volendo si
può includere anche una notte in un albergo della stazione termale di Druskininkai – dieci chilometri più a ovest –
dove venivano a scaldarsi i gerontocrati
del Pcus e ora s’incontrano i giovani leoni del capitalismo baltico.
La Lituania però ha molto di più da
offrire. Sia in cucina che come memoria
storica. Qui il secolo breve ha vissuto alcune delle sue pagine più tragiche, scritte da sovietici e nazisti dopo che il patto
Molotov-Von Ribentropp consegnò i
Paesi baltici a Mosca, che poi li recuperò
in seguito al devastante interludio tedesco. I lituani non dimenticano e conservano le tracce del dominio sovietico al
Museo delle vittime del genocidio (detto anche del Kgb) a Vilnius e al Museo
della deportazione e della resistenza di
Kaunas, seconda città del Paese e sua capitale industriale. Ma sono diversi, oltre
all’orsacchiotto tenuto al guinzaglio nel
mini-zoo di Stalinland, le testimonianze di sfida all’Impero che qui iniziò a
perdere i primi pezzi, quando una catena umanasi srotolòlungo itre Paesibal-
MARTIN PARR / MAGNUM PHOTOS / CONTRASTO
GRUTAS Una famiglia in visita a Stalinworld, Lituania
tici per commemorare i cinquant’anni
dello scellerato patto russo-tedesco. E
inevitabilmente, un giro da queste parti
oggi somiglia a un viaggio sul fronte della nuova guerra fredda.
Il viaggio, specie quando l’estate è finita, ruota attorno a Vilnius, un tempo
capitale di un Granducato multietnico
che si estendeva dal Baltico fino al Mar
Nero. Dell’età dell’oro quattrocentesca
è rimasto qualche cenno di pietra, circondato dal centro storico barocco più
esteso d’Europa. E poco o nulla di quella
che fu definita la Gerusalemme del
nord, quando Vilnius aveva una delle
più vibranti comunità ebraiche del continente. Ancora tra le due guerre , lo yiddish si scriveva su sei giornali, i lettori
potenziali erano 100 mila, le sinagoghe
decine. Oggi ci sono solo 4 mila ebrei
nella città, più altri mille nel resto del
Paese. A fatica si colgono le tracce di
quel mondo perduto nel viluppo di strade tra le vie Vokieciu, Gaono e Zydu che
racchiudevano il ghetto. La piccola sinagoga corale è l’unica rimasta in piedi,
mentre quel poco che si è salvato della
Grande Sinagoga si trova oggi al Museo
ebraico dello Stato e nel vicino, toccante, Museo dell’Olocausto. Il luogo della
memoria più duro e necessario però è
fuori città, una decina di chilometri a
sud-ovest, tra gli alberi delle foreste di
Panierai dovetra l’estatedel 1941e quella del 1944 i nazisti uccisero 70 mila
ebrei.
Ed è sempre fuori città – all’antica capitale Trakai, trenta chilometri a sud –
che bisogna andare per uscire dal fosso
del secolobreve emettersi allespalle ancheglisplendori controriformistidiVilnius, ritrovando la gloria delle vittoriose
battaglie contro i Cavalieri teutonici. Il
Castello di Trakai costruito (una prima
volta) nel Trecento si trova in una delle
venti isolette del Lago Galvè. Ci si arriva
prendendo una lunga passerella di legno, ma sono tanti i sentieri da percorrere. I più interessanti conducono alle colorate case in legno dove vivono gli ultimi discendenti dei caraiti, una setta
ebraica arrivata fin qui nel tardo medioevo daBaghdad. Evale lapena anche
pagaiare sul Galvè, o sui vicini laghi
Akmena ed Eserinis, magari dopo aver
passato la notte in uno dei cottage dell’Akmenine Rezidencija, che hanno una
parete di vetro con vista sull’acqua e una
canoa per ogni ospite. Se è estate, vi inoltrerete anche più lontano,fino alle bianchissime dune della Penisola dei Curi.
Non ora. L’autunno può far male nei
Baltici. Puntate su pattini e bagni termali. Lanciatevi nello shopping di ambra lungo l’acciottolata Pilies Gatve di
Vilnius che dal castello scende giù in direzione porta dell’Aurora. Immergetevi
nellastoriae nellaculturalituana,ancora vivacissima (a sapere il lituano varrebbe la pena seguire le rappresentazioni teatrali del maestro Eimuntas Nekrošius e dei suoi discepoli). E voltando
le spalle all’insensata cucina internazionale, infilatevi nelle taverne dove i cuochi sapranno stupirvi con un saporito
spezzatino di castoro con le prugne.
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46 | OZII
sabato 11 ottobre 2014
DITECI DI OGGI
ora si racconta
l’irrilevante,
ma in stile Perec
ANTONELLA SBRILLI
Piazza Saint Sulpice, Parigi
GETTY
n Diteci di oggi è una rubrica
settimanale che ha a che fare
con il tempo e la scrittura, in
particolare con i giorni raccontati. Nella finzione narrativa, i
“crononimi”, così si chiamo i
giorni in cui sono situate le storie, acquistano un risalto: portano a interrogarsi sul motivo
che ha spinto un autore a sceglierli, s’intrecciano col presente della lettura e con le date della
propria vita personale, formando catene di memoria. Di catene
del genere si legge anche in una
pagina di Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Màrquez:
“Santa Sofia de la Piedad gli
chiese, come tutte le mattine,
che giorno della settimana era e
lui rispose che era martedì 11 ottobre […] si ricordò d’un tratto
che in un undici di ottobre, in
piena guerra, lo aveva risvegliato la certezza brutale che la donna con la quale aveva dormito
era morta. Lo era, in realtà, e
non aveva dimenticato la data
perché anche lei gli aveva chiesto un’ora prima che giorno
era”.
Delle tante storie che richiamano significativamente la data
di oggi, questa settimana abbiamo scelto per il nostro gioco Orlando di Virginia Woolf: la vicenda raccontata - di metamorfosi e attraversamenti del tempo
- si conclude l’11 ottobre del
1928, data che corrisponde al-
l’uscita del volume. L’invito a
cambiare epoca, forma e genere
(come il/la protagonista del libro) è stato raccolto da numerosi lettori e lettrici della rubrica,
che hanno viaggiato dal Rinascimento al Risorgimento, da
Firenze a Vienna, nella storia e
soprattutto nei libri che la raccontano, trovandosi accanto a
persone e a personaggi, i più diversi.
La concentrazione maggiore
è nell’Ottocento, secolo che permette di ritrovarsi nella campagna inglese, in un’aula universitaria piena di patrioti italiani,
negli scavi di Troia e anche facchino nel porto di Napoli. Ma ci
sono anche salti in tempi più
prossimi a noi, come quello che
fa Sandra Muzzolini per assistere alla lettura di Howl di Ginsberg, a San Francisco, nel
1955.
n Il gioco del prossimo numero
Esattamente quarant’anni fa,
nell’ottobre del 1974, lo scrittore
Georges Perec, seduto sulle
panchine e nei caffè di Place
Saint-Sulpice a Parigi, prese nota di “tutto quello che non si osserva, quello che non ha importanza: quello che succede quando non succede nulla se non lo
scorrere del tempo, delle persone, delle auto e delle nuvole”.
Per tre giorni, 18, 19 e 20 otto-
bre, Perec trascrisse le sue osservazioni, pubblicate poi col titolo Tentative d’épuisement
d’un lieu parisien (Tentativo di
esaurimento di un luogo parigino, tr. it. A. Lecaldano, Voland).
In questo nostro 2014, è di nuovo ottobre, è di nuovo un fine
settimana e dunque l’invito per
il prossimo numero è a sostare
su una panchina o in un caffè,
descrivendo – in non più di 800
caratteri – quello che capita sotto gli occhi in un periodo di tempo circoscritto. I testi vanno inviati come sempre all’indirizzo
[email protected] entro lunedì 13 ottobre, per consentire
la scelta per il numero di sabato
18 ottobre 2014.
u LE RISPOSTE DEI LETTORI
la prego Monna Lisa, continui a sorridere
L’invito di questa settimana era a
immaginare un CambioTempo: in
quali epoche, in che genere e in che forma avreste voluto ritrovarvi, fra il
‘500 e il presente. Ecco una selezione
delle proposte arrivate via mail e su
Twitter.
MAI HIC, MAI NUNC
Pensando a cosa mi piacerebbe vivere del passato, mi rendo conto di
pensare innanzitutto ai momenti in
cui il passato si è proiettato al futuro,
in cui sono accadute le cose per la prima volta: che ne so: essere un pirata
con Francis Drake mentre scopre il
mare aperto oltre la Terra del Fuoco;
assistere alla prima proiezione dei Lumière.
Ma anche vivere il passato quando
si è rivolto al trapassato, essere con
Heinrich Schliemann all'apertura del
tesoro di Priamo. Insomma, a quanto
pare, mai Hic, mai Nunc.
@sognidorothy
IL SOGNO DELL’INDIPENDENZA
Animi accesi all’Università di Pisa.
Ci pensa un docente, eloquio accattivante. È Giuseppe Montanelli, per
molti più un poeta che un politico. Il
succo del suo discorso: la nostra indipendenza passa attraverso il combattimento, nemica l’Austria.
Sì, ma come si fa? Bisognerebbe
avere armi adeguate… Si va lo stesso,
però. Chi a piedi. Chi a cavallo. Chi
trovando posto su barrocci maleodoranti. Giorni di cammino, sotto i primi
soli primaverili. Si va verso il Lombardo Veneto, verso Mantova. Si è unita
gente della campagna. E - si sente dire
– l’esercito toscano non starà a guardare.
Ed ecco – 29 maggio 1848 - Curtatone e Montanara: palcoscenici di
sangue. Battaglia dura. Sconfitta quasi annunciata, per noi toscani…
Il sogno si ripete, negli ultimi giorni. Mi sento uomo dell’Ottocento.
Riccardo Cardellicchio
UN GIORNO FORTUNATO
Ero sceso al porto per cercare di racimolare qualche soldo come ogni
giorno, mi prestavo a fare di tutto. Sapevo che in quei giorni era atteso l'arrivo di un vascello famoso, quindi potevo sperare di poter portare i bagagli
di qualche notabile e ricevere quindi
una ragguardevole mancia.
Così mi misi ad osservare l'imbocco
del porto per poter subito correre al
molo di attracco.
E infatti dopo un'ora vidi arrivare
un grande vascello con tante vele. Era
una bella nave.
Quel tipo di nave poteva attraccare
solo al molo Ferdinando e così mi precipitai lì.
Non avevo sbagliato, l'11 ottobre
1880 giunsero a Napoli i Sovrani di
Grecia e io ricevetti laute mance per
portare i loro bagagli all’Hôtel Bristol.
Fu un giorno fortunato per me.
Pierpaolo Limongelli
RADIO E CORSETTO
Era una bella sera di ottobre, quando raggiunsi in carrozza la mia residenza di campagna. Il viaggio era stato faticoso, ma allietato dalla vista delle colline friulane adornate di vigneti.
Arrivata in camera slacciai il corsetto e gettai lontano scarpe e calze, prima di saltare sul soffice letto a baldacchino, orientato verso Est e schermato
da veli di seta iridescente.
La luce mi svegliò al mattino facendo evaporare i miei sogni. Allungai la
mano verso il comodino e cercai a occhi chiusi di accendere la radio, intercettando una voce truce e sincopata,
che parlava di guerra, di vittoria e di
conquiste. Girai ancora la manopola e
m’imbattei in un allegro motivetto "O
vita! Vita, vita, che cosa sei tu?".
Cullata dalle note e dalla stanchezza, mi addormentai di nuovo per svegliarmi di soprassalto, quasi spaventata. Guardai subito lo schermo del
mio cellulare. Era tardi, tardissimo.
Erano le dodici di lunedì 6 ottobre
2014.
Lucia Rupolo
ELISABETH E JANE,
MARIANNE E ELINOR
Sto vivendo la primavera della mia
vita nei primi decenni dell’800, nella
campagna inglese. Un cottage, un orto, un giardino e una biblioteca di 500
volumi. E intorno un orizzonte infinito di campi cullati dal vento e boschi
che preservano le ombre. Indosso severi soprabiti, consoni alla campagna,
eppure ingentiliti da un orlo fine di
impalpabile trasparenza. La cuffia mi
incornicia il viso mentre, china, curo
altere rose e morbide peonie, inebriata dalla lavanda e dal rosmarino. Accanto alla finestra uno scrittoio. Fogli
preziosi si riempiono di vita, del dolore dei pregiudizi e dell’orgoglio, figli
della ragione e della gioia della dolcezza incantata, figlia del sentimento.
Sono Elisabeth e Jane, Marianne e
Elinor: ho scelto di essere una donna.
Carla Baranzoni
DAL KAOS AL COSMOS
Il dubbio è legittimo, la dimensione
spazio temporale spaventa. “Se potessi
tornare indietro nel tempo la sostanza
di cui sono fatto ritornerebbe ad essere
me stesso o cambia forma, essenza?”
Di sicuro se tornassi indietro nel
tempo e nello spazio vorrei ritrovarmi
di fronte a Raffaello e vederlo dipingere. Essere al di qua dell’affresco,
dentro lo strato sottile, nell’attimo
esatto in cui sta stendendo le prime
velature della “Scuola di Atene” proprio sulla tavoletta che Telauge regge
a Pitagora. Quella minuta lavagna è
magica, è piena di numeri, che indicano frequenze, vibrazioni, intervalli di
tempo, ottave, quinte, rapporti armonici che trasformano il Kaos in Cosmos. Lì, dentro quel rettangolo nero,
è racchiuso il mistero dell’universo,
l’anima del mondo. Lì nasce il numero, la musica, l’armonia della vita, il
tetracordo, il suono che crea le cose.
Lì dentro, dove vorrei finire ed esserci, c’è il mondo intero. Sì, avete capito
bene, attraverso quel buco nero, mi
piacerebbe trovarmi dentro quello
spazio rinascimentale, divenire me
stesso ed essere in quell’istante preciso dove l’architettura la fa da padrona, la scultura avvolge, la poesia risuona, la pittura domina, la musica
compenetra, la geometria forma, la
dialettica chiarifica, l’astronomia illumina, l’arte crea… Ohh che vertigine
essere lì con il Maestro e con i più
grandi pensatori. Essere insieme a loro, un personaggio vivo, creato e dipinto dall’VRBINATE.
Franco Chirico
IL PENNELLO COME UN MACIGNO
Ormai questo pennello mi sembra
più pesante di un macigno.
Non vorrei far valere le mie convinzioni in questo modo: dipingere mi
stanca troppo.
Avrei voluto farlo come piace a me,
con la mia scienza, ma a quanto pare
dovrò arginare la sfrontatezza di quel
giovinastro, che si fa largo a furia di
corpi muscolosi e nudi.
Egli non vede la bellezza che è nelle
cose del mondo? La poesia e l'equilibrio dell'intero universo, oltre quella
dell'essere umano?
Non riesce a cogliere la perfezione e
il mistero della natura?
Dovrò farglielo capire io, com'è difficile!
Ecco risolto l’arcano: la poesia. Devo assolutamente riuscire a raffigurarla!
Se riuscissi a dipingere l'anima, tutti dovranno darmi ragione.
«La prego, Monna Lisa, continui a
sorridere così».
Andrea Marinelli
INDIETRO NEL FUTURO
Se avessi potuto farlo, avrei scelto di
vivere nell'Ottocento. È il secolo che
ha visto nascere l'amore romantico, rivoluzioni di ogni tipo, i giornali, i primi partiti politici, la croce rossa, il romanticismo, l’impressionismo, l’abolizione della schiavitù e non solo queste otto cose.
Tutto era ispirato da alti ideali e in
loro nome si era disposti anche a morire; perché si credeva in un futuro
migliore di cui avrebbero goduto le
generazioni future. Si era capaci di sognare, insomma. Tutto era teso al futuro. Oggi invece il futuro e già presente; i partiti sono solo coperchi di-
versi per contenitori uguali e contenuti difficili da distinguere; gli ideali sono stati rimpiazzati da slogan accattivanti e promesse irrealizzabili; l’amore è il bisogno più grande, ma non ci
crede più nessuno.
Mimmo Pugliese
MI TROVO ACCANTO
A SANTA TERESA D’AVILA
In quei giorni la madre era molto
preoccupata. Glielo leggevo sul volto e
nello sguardo. Aveva da qualche giorno avuto le visioni, in cui le era apparso Nostro Signore coperto di piaghe.
Che pena vederla tornare dalla confessione. Quel dolore che le procuravano
i confessori era accettato da lei di
buon grado, nonostante tutto. Fu così
che mi feci coraggio e mi avvicinai a lei
e le dissi: "Madre, c'è un padre gesuita
a poche centinaia di metri da noi. Dicono sia un confessore molto bravo. Si
chiama Diego de Cetina. Se vuole posso portargli una lettera scritta da lei
per farlo venire in monastero."
La madre accettò. Aveva sentito
tanto parlare del fondatore dell'ordine dei gesuiti, Ignazio di Loyola, così
tanto perseguitato in terra di Spagna.
Era l'undici ottobre. Era l'anno
1555. Sotto il pontificato buio di papa
Paolo IV, due ordini, i Gesuiti e le Carmelitane scalze, ricevevano la luce da
Colui che scrive dritto sulle righe storte.
Paola Toto
LE TENTAZIONI
DEL DOTTOR ANTONIO
“Bevete più latte, il latte fa bene!”: il
ritornello non mi si leva dalla testa.
Gira e rigira con il suo ritmo da carosello. E fa rimbombare gli altri suoni
che mi arrivano confusi, le immagini
che mi passano davanti agli occhi come un caravanserraglio d’altri tempi:
dodici boyscout in fila che cantano una
canzoncina senza senso, tre camion
carichi di operai che urlano ordini per
montare un gigantesco cartellone di
fronte a casa mia, i campi rinsecchiti
dell’Eur, tra palazzoni in costruzione e
vecchie glorie dell’E42, la corriera piena di negri che si mettono a suonare
come se fossero a New Orleans.. ma
soprattutto lei, quel demonio che provoca con le sue nudità oscene, con quel
décolleté prorompente che fa la réclame al latte. Quella sciagurata che giganteggia sul manifesto appena montato. Che entra nei miei sogni e nei
miei incubi, che diventa alta alta alta
più alta dei palazzi. E comincia a spogliarsi ... che vuole da me?
Tutto credevo meno di poter fare un
viaggio non solo nel tempo, ma anche
nell’immaginato. Nel personaggio immaginato da Fellini per Boccaccio 70:
il dottor Antonio. Mi sono reincarnato
nel dottor Antonio!
@monsùDesiderio
PUNTO NULLO
Sono sedentario, mi sposto malvolentieri, quindi potendo o dovendo
cambiare tempo, preferirei rimanere a
casa mia, o almeno nell’area in cui la
casa sorge. Seduto sulla sedia dello
studio, mentre il tempo va all’indietro,
vedo che intorno al 1960 la casa sparisce. Mi ritrovo in una pineta, fra pecore, cani e contadini al servizio della
famiglia nobile che ha posseduto i terreni per secoli.
Sulla mia sedia girevole osservo,
finché posso. Poi la fame e la noia mi
spingono verso la strada, in cerca di
un posto dove mangiare. La piazza
con l’edicola e il bar dell’angolo è annullata. Non riconosco niente e non
succede niente. Comincio a chiedermi
se il punto del mio studio, dove lavoro
tutti i giorni, non sia un punto nullo
dello spazio e del tempo.
Appalachi
I TWITTER
Con l’orobilogio da Vienna
a San Francisco
Luglio 1997: accompagno Jonathan
in Ucraina alla ricerca di Augustine
(Ogni cosa è illuminata, Jonathan
Safran Foer)
San Francisco 1955, dopodomani
vado alla Six gallery a sentire
Ginsberg che legge Howl.
Sono all’Opera di Vienna per la Tosca,
con Emmy e Gisela, 21 settembre
1923 (Un’eredità di avorio e ambra,
Edmund De Waal)
1876: salgo sulla nave che porterà
Maryna Zalezowska in America
(Susan Sontag, In America)
1870: una passeggiata con Ellen
Olenska a Central Park, colori
d’autunno (L’età dell’Innocenza,
Edith Warthon)
Mi faccio prestare l’orobilogio da
Lupetto e #cambiotempo
(Saltatempo, Stefano Benni)
Sandra Muzzolini @sandra_mzz
Sono Flaminia
Sono Flaminia Borghese, nata il 18
aprile 1692, le cronache mi vogliono
morta di parto il 7 gennaio 1717, ma le
cronache mentono.
TeneT @arepo_opera
Sono Gertrude
Sono Gertrude, La monaca di Monza,
nel momento in cui, da sventurata,
rispondo.
@atrapurpurea
Ed io? Come posso? Ci provo
,#cambiotempo e sono te che mi leggi.
La Monaca di Monza @GertrudeTW
Senza impegno
Vorrei essere un personaggio di Jane
Austen per essere una donna senza
impegno!
Francesca Chiusaroli @fchiusaroli
sabato 11 ottobre 2014
| pagina 99we
perdere
la testa
inseguendo
Escher
@DICONO DI NOI OGGI
n «Un anello non è un modo
per rappresentare un processo
senza fine in modo finito?»
scriveva lo scienziato americano Douglas Hofstadter nel suo
celebre libro dal titolo Gödel,
Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante, tradotto da
Adelphi nel 1984. Un libro che
metteva a confronto il matematico, il musicista e l’artista
OZII | 47
olandese Escher, rivelando i
paradossi, gli inganni, gli strani anelli del linguaggio e delle
forme. «Il genio di Escher sta
nella sua capacità di escogitare
e realizzare figurativamente
dozzine di mondi semi-reali e
semi-immaginari, mondi pieni di Strani Anelli, nei quali
sembra invitare gli spettatori a
entrare». Come fa la mostra in
corso a Roma al Chiostro del
Bramante, fino a febbraio
2015. Curata da Marco Bussagli, l’esposizione presenta opere celebri e rarità, confronta
Escher con artisti italiani - da
Piranesi ai Futuristi -, ne segue l’attrazione per il nostro
paese, dove visse negli anni
Venti e Trenta, attraverso disegni e diari. Invita il pubblico
all’interazione con i principi di
geometria e di psicologia per-
cettiva sottesi alle sue opere e
incoraggia a farsi dei selfie su
sfere e specchi, emulando l’autoritratto convesso in cui
Escher si riprende nello studio
della sua casa romana di Monteverde.
Autore di disegni, xilografie,
litografie che avvicinano l’arte
e la scienza, Escher è al centro
di un interesse ampio e sfaccettato anche sui social, dove
le riproduzioni sono rilanciate
e richiamate in vari modi: c’è
chi gioca con i paradossi: “Domani sono andato alla mostra
di Escher”, scrive su Twitter
@serena_gandhi; «il tentativo di Escher di costruire l’impossibile grazie a errori prospettici me lo rende familiare»
scrive @donnamancina, e
Escher era mancino anche lui;
«Senza Escher non sapremmo
cosa mettere sulle copertine
dei libri» twitta @BarbaraFanteschi.
Ognuno di questi brevi messaggi dice qualcosa dell’artista
e del suo effetto, che raggiunge
biglietti d’auguri, schede telefoniche, piastrelle, copertine
di vinili, di riviste, di libri, fra
cui le Cosmicomiche di Calvino. E anche i francobolli, a cui
Escher si è dedicato – come si
vede in mostra - in varie occasioni.
Aldo Spinelli, artista milanese che lavora sui temi della
ricorsività, ci racconta che:
«Esattamente 65 anni fa - nei
primi giorni di ottobre del
1949 - le poste olandesi hanno
distribuito un francobollo in
occasione del 75° anniversario
dell’Unione Postale Universale. E per la ricorrenza Escher si
è servito di un simbolo, il marchio identificativo del postiglione, il corno postale, uno
strumento musicale formato
da un lungo tubo avvolto su sé
stesso a elica. Essenziale nella
sua forma, era proprio l’elemento più adatto per essere
trattato dall’artista per realizzare l’immagine di una tassellatura tridimensionale (su una
sfera)». Un altro francobollo
l’artista l’aveva disegnato nel
1935 per il National Aviation
Fund. Nelle ombre di aerei che
sorvolano un profilo dell’Olanda – nota Spinelli – «la scritta
che scorre perpendicolare su
due lati del francobollo impernia la simmetria sulla “O”, che
può essere letta sia in verticale
che in orizzontale». Del resto,
come ricorda un tweet dell’account @888infinito888: Siete
u CRUCIVERBA
n ORIZZONTALI
1. Gossip nostrano.
11. Stento, fatica.
18. Così è la spada
dei Cavalieri Jedi.
19. Un nome palindromo.
20. Nellabeautynon c’è il pollaio.
22. Tutt’altro che nottambulo.
23. Redigere documenti ufficiali.
25. Antica città sul Golfo Persico.
27. Un applauso da fumetto.
29. Il soprabito di Clouseau.
31. Lo è un’associazione
filantropica.
34. Provoca la perdita dei sensi.
36. La Tyler che... balla da sola.
37. Piccole insenature del litorale.
38. Il Joe R. scrittore.
40. Il kibbutz dei Maori.
41. Formazione in cui prevalgono
fibre muscolari.
43. Decimare, distruggere.
46. Internazionale Socialista.
47. Il sitdi protesta.
48. Una scrittrice che si nasconde
nel gioco di oggi.
50. Sono regolate dalla Luna.
52. Il simpatico Merad
di Giù al Nord.
54. Riportano orari e scali aerei.
55. Un tipo di pane indiano.
57. La Emerald del jazz.
58. Giocava a pallavolo
insieme a Mila.
59. Lo è chi abbandona il campo.
62. TraGameeThrones.
63. Esprime unione.
65. Una delle lingue bantu.
66. Un nonnulla.
68. Riassunto in inglese.
69. Principio di artrosi.
70. Il Wallach del cinema.
72. Trasmette il baseball americano.
VALERIA RAIMONDI
74. Donne fuori dal mondo.
76. Insieme al castigo
in un noto romanzo.
79. L’Anish archistar.
80. Fu nipote di Carlo Magno.
82. Comprende l’isola di Pemba.
84. Un doppio vivente.
88. Qui venne sviluppata
la prima bomba atomica.
90. Ve ne sono di non edificabili.
91. I coniugi del design anni ‘50.
92. Una cellula riproduttiva
dei vegetali.
93. Precede il dokeynello slang.
n VERTICALI
1. Una tossina usata
come antibiotico.
2. Può essere usato
al posto di egregio.
3. La metropoli d’Israele.
4. Reiterato è routine.
5. Un golfo laziale.
6. Disgiuntiva eufonica.
7. Prepara la tesi.
8. Le consonanti in zuffa.
9. L’Efron giovane attore.
10. Il romanzo che ha ispirato
il gioco di oggi.
12. Da vedere allo specchio.
13. L’indimenticato Tony
della canzone.
14. Le monete più preziose.
SOLUZIONI DEL NUMERO 62
l
l
chiuso in redazione l’8 otttobre alle ore 23.30
11 ottobre 2014, tiratura 35.000 copie
15. Quella à porter
è la moda più diffusa.
16. Il noto Fantastichini.
17. Lo era Caronte.
18. Lo Strauss dei jeans (iniz.)
21. Si può svolgere
ma non riavvolgere.
24. Quelle di mercato studianoil
comportamento dei consumatori.
26. Un prefisso iterativo.
28. L’infinito del ciclista.
Francobollo realizzato da Escher
sicuri che un soffitto non possa
essere anche un pavimento?
Sul sito di pagina99, Lorenzo Pica parla degli Incredibili
mondi di Escher nel blog Freemaninrealworld
30. La serie TV con lo spietato
Frank Underwood.
32. Si muove in diagonale
sulla scacchiera.
33. Un sindaco ispanico.
35. La Margherita
che fu amante di Mussolini.
39. L’artista-attivista cinese
più famoso.
41. Uno dei quattro
giudici di X Factor.
42. Lo sono le ricchezze
a cui si è dato fondo.
44. La Lucy di Kill Bill.
45. Un segno che si scambia
durante la messa.
49. Caratterizza le facciate
delle chiese gotiche.
51. Alla fine della fiera.
53. Argomenti di difesa.
56. To be or... to be.
60. Un ingrediente dello spritz.
61. Può essere dittico,
trittico o polittico.
63. Paese senza confini.
64. Sgualdrina parigina.
65. Tante sono
le desinenze verbali italiane.
67. Di proporzioni mastodontiche.
68. Un turbinio confuso di persone.
69. È sinonimo di bello.
71. Il treno di Montezemolo.
73. La Catherine
che conduceva Harem.
75. Un individuo non meglio
specificato.
77. La Harper de Il buio oltre la siepe.
78. C’è quel del vero.
79. Casa automobilistica coreana.
81. Già... nell’antica Roma.
83. Precede la Gabor...
per due volte.
85. In mezzo al giorno.
86. Iniziali di Strehler.
87. Resa senza pari.
89. I limiti di Ozzy.