Storie Cronache ferraresi. Vasco Brondi racconta la topografia epica della sua Emilia 10 | 11 Mappe Modelli cool. Così la Corea del Sud ha fatto boom investendo sulla cultura pop 17 y(7HC2I3*SKKKKO( +&!"!z!]!% PUBBLICAZIONE SETTIMANALE Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (convertito in Legge 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, LO/MI WWW.PAGINA99.IT Innovazioni La coscienza dello startupper. Quando l’impegno sociale convince gli investitori 20 | 21 Idee Nativi digitali. Perché la generazione cresciuta con i videogame non sa mettersi in gioco 29 IL QUOTIDIANO DEL WEEKEND • 11 | 17 OTTOBRE 2014 • ANNO 1 N. 63 • EURO 3,00 CHRISTIAN MANTUANO / LUZ il nome della cosa Viaggio nel partito-rebus che moltiplica i voti e fa scappare i militanti ANTONIO SGOBBA n «Se domani il partito dovesse arrivare al 40%». Era il 1989 e un militante della sezione del Pci di Mirafiori incominciavaun periodoipotetico. Ilsuo discorso veniva registrato da Nanni Moretti nel documentario La cosa, racconto del dibattito tra i militantidopo ladecisione dicambiarenome alpartito. SCACCHIPUGILATO lo sport per bulli secchioni pagine 36 e 37 LITUANIA un borsch a Stalinland pagina 44 Venticinqueanni dopol'ipotesi dell'anonimocompagno torinese è diventata realtà alle elezioni europee. Se un giorno dovessimo avere tutto quel consenso, proseguiva, dovremmo pensarebene a come utilizzarlo: «Non mi interessa che conquistiamo voti e poi sotto sotto gli operai saranno sempre lì ad avere sempre i soliti problemi», diceva il militante col maglione rosso scuro e la camicia a quadri. u segue alle pagine 2 e 3 NUMERI • 11 milioni di euro Il passivo di bilancio registrato dal Partito Democratico nel 2013 pagine 4/5 • 120 Gli agenti affetti da dislessia o disprassia che saranno assunti dai servizi segreti britannici pagina 8 • 57,5 I megabyte al secondo di internet in Romania. Terza al mondo nella classifica sulla velocità della rete pagina 22 • 85% La crescita annuale del traffico sulla sezione “good news” dell’HuffPost pagina 28 • 2003 L’anno in cui si è svolto il primo match nella storia di scacchipugilato pagine 36/37 ILARIO LOMBARDO n Giusto un anno fa a Genova, il Pd riuniva i tesorieri regionali del partito per un incontro a latere della Festa nazionale democratica. Invitato d’onore, John McCaffrey, responsabile del fundraising del Labour Party inglese. La platea pendeva dalle sue labbra, ansiosa di es- a Rebibbia con Zerocalcare MARCO CUBEDDU n «Pensa che in 15 anni sono stato solo una volta fuori da Rebibbia per più di 4 notti. A Gaza. 9 giorni. Un incubo. L’idea di fare un viaggio non è che mi fa schifo eh, ma io proprio non ce la faccio. Fino a qualche anno fa mi venivano le bolle rosse quando dormivo fuori. Anche le presentazioni, per dire, ne ho 18 già programmate per Dimentica il mio nome, e anche se ne ho diverse vicine io vado, dormo fuori una notte, torno a Rebibbia, magari per un giorno, e poi riparto. Ormai ho imparato a conoscermi. Massimo 4 notti posso resistere». «Ma che ne so, non ti attira l’idea di andare in Cina, in Australia, in America?» «Sì. Per 4 notti». u segue alle pagine 32 e 33 sere indottrinata su come sopravvivere ai tagli dei contributi pubblici e nell’ignoto mare della caccia ai fondi privati, quando l’ospite esordisce così stupendo tutti. «Una delle peggiori idee che abbiamo avuto nel Regno Unito è stata quella di abolire il finanziamento ai partiti». Anche in Italia formalmente il finanziamento pubblico non c’è più da 21 anni. u segue alle pagine 4 e 5 pagina 99we | 2 | STORIE sommario n STORIE | pagine 2-12 Il nome della cosa Ritorno nelle sezioni in cui Nanni Moretti girò La Cosa: 25 anni dopo la Bolognina, in quello che fu il più grande partito comunista d’Europa continua la crisi d’identità, con i militanti sospesi tra Twitter e Togliatti. E mentre prosegue il dibattito fra sostenitori e critici del partito leggero, il Pd è costretto a ripensare il proprio business model, in vista dell’abolizione dei finanziamenti dal 2017. Difficile marcare una distanza più netta dagli anni in cui i quadri si formavano alle Frattocchie. Poi la Gran Bretagna, dove i servizi arruoleranno 120 agenti dislessici o disprassici per sfruttarne l’abilità nel decifrare i messaggi. Mentre negli Usa la Chrysler torna a quotarsi in Borsa. Una scommessa vinta per Obama? Per finire con il cantautore Vasco Brondi che ripercorre la topografia dell’Emilia raccontata da libri, canzoni e film. n MAPPE | pagine 13-19 L’America Latina cerca centri di gravità permanente Quindici anni dopo la rottura chavista, la sinistra sudamericana deve imparare a leggere i nuovi bisogni dell’elettorato. Questa la morale del primo turno presidenziale in Brasile, in cui la destra sogna il colpaccio. Quindi il Texas, dove tornano a farsi sentire le spinte secessioniste, che però si rivelano profondamente americane nello spirito. E mentre la Corea investe sull’industria pop per crescere, il Botswana cerca di diversificare l’economia, dipendente dall’industria dei diamanti. Infine, in un’Ucraina sempre più in crisi, il finanziamento dei battaglioni è lasciato alla volontà dei singoli. n INNOVAZIONI | pagine 20-23 Sociali ma non squattrinate quando le start-up hanno un’anima Si occupano di cultura, istruzione, sanità, ambiente. E sempre più spesso attraggono l’interesse di investitori alla ricerca di ritorni sicuri. Sono le start-up a vocazione sociale. Poi l’insospettabile primato della Romania, tra i primi tre Paesi al mondo per la velocità delle connessioni internet, e la polpa di cocco che consentirà di usare come combustibile l’idrogeno. n IDEE | pagine 24-30 Bimbe troppo belle e altri ordinari abusi La violenza sulle donne documentata negli scatti dei fotografi ospiti del Festivaldella fotografiaeticadiLodi. Aseguire il ritorno del fascino per la natura e il selvaggio nella letteratura, le testate che puntano sulle buone notizie per attrarre più pubblicità e nuovi lettori, la App generation dei nativi digitali che nella vita si comportano come nei videogame. Per finire con i Millennium Goals e le reti locali. n ARTI | pp 32-43 L’educazione aristocratica di Zerocalcare a Rebibbia Arriverà a giorni il libreria Dimentica il mio nome, il nuovo graphic novel in cui Zerocalcare, con eleganza e delicatezza, ricostruisce la storia della sua famiglia. Abbiamo incontrato l’autore nel nido che lo protegge, il quartiere romano di Rebibbia. A seguire, sempre nella capitale, il Festival internazionale del film che quest’anno rende omaggio a Tomás Milián. Poi lo scacchipugliato, disciplina fondata da Iepe Rubingh, artista-attaccabrighe olandese, i libri degli italiani in spiaggia, l’arte del curatore e il romanzo d’esordio di Caleb Crain, celebre firma del New Yorker. Per finire con il nuovo fumetto per bambini dell’illustratrice israeliana Rutu Modan e la moda. n OZII | pagine 44-47 Un borscha Stalinland con vista sul secolo breve Viaggio in Lituania, tra feticisti dell’Urss e spezzatino di castoro, e i giochi di pagina99. ANTONIO SGOBBA u segue dalla prima sabato 11 ottobre 2014 25 anni dopo l’ultimo partito non abita più qui n Era solo una delle tante voci raccolte un quarto di secolo fa da Moretti, che aveva seguito i dibattiti di otto sezioni sparse per l'Italia. Ma se tornassimo oggi esattamente negli stessi luoghi che cosa troveremmo? Ci si divide, si litiga, si ragiona, si piange e si ride ancora attorno a un partito? La prima cosa che abbiamo scoperto è che nella maggior parte dei casi il partito ha cambiato indirizzo. Ma ripartiamo da dove tutto è iniziato, o dove tutto è finito. Bolognina Nella stanza in cui Achille Occhetto annunciò la fine del Pci, non troviamo nulla che ricordi quella storia. Al numero 16 di via Tibaldi oggi c'è Magic Fashion, un parrucchiere cinese. Per arrivare al circolo Pd bisogna spostarsi di qualche metro, in piazza dell'Unità. Il coordinatore, Mario Oliva, 49 anni, di professione funzionario amministrativo dell'Ospedale Sant'Orsola è un renziano di ferro, l'unico di tutto il circolo. Da ragazzo era iscritto alla Fgci. «Qui i compagni della base sono molto critici racconta - si fa fatica a arrivare a una sintesi. La maggior parte degli iscritti sono over 60. Nel direttivo avevo messo dei giovani, sono andati tutti via». Da queste parti il calo della partecipazione lo hanno visto tutti: per le primarie regionali hanno votato meno di un terzo dei tesserati. Se non si impegnano neanche più gli iscritti, a che cosa serve il partito? «Al sabato pomeriggio facciamo una tombolata con gli anziani. Ci autofinanziamo così. Per due ore stanno in compagnia, sono contenti». Francavilla di Sicilia Il film di Moretti però partiva dall’estremo sud. Francavilla di Sicilia è comune di 4 mila abitanti in provincia di Messina. Anche qui la sezione storica è chiusa da tempo, il nuovo circolo è in una sede più piccola e più economica, vicino al Comune. Lo scorso sabato pome- Nella stanza in cui Occhetto annunciò la fine del Pci c’è Magic Fashion, un parrucchiere cinese riggio c'è stato un dibattito sull'articolo 18. «Alla fine eravamo solo in 13, c'era maltempo», dice Patrizia Dai, 51 anni. Anche lei aveva incominciato a fare politica nella Fgci, oggi è una dipendente regionale ed è ancora iscritta al Pd. «Stiamo andando contro tutti i nostri principi. Una volta qui tutti i lavoratori erano iscritti al Pci. Facevamo le lotte per gli agrari. Ora rappresentiamo un po' tutti e le lotte non le facciamo più. Siamo diventati moderati. Io non mi ci ritrovo in un partito così». Ca’Nuova La sezione Ca’Nuova non esiste più, al suo posto c'è un circolo Arci. Per trovare la sede del Pd più vicina bisogna andare nel quartiere Prà. Gli iscritti sono 155, una volta nel quartiere erano dieci volte tanti, soprattutto operai. Il coordinatore è Claudio Chiarotti, 43 anni, dipendente dell'azienda pubbli- FERDINANDO SCIANNA / MAGNUM PHOTOS / CONTRASTO LUOGHI In alto, all’interno del circolo la Casa del Popolo 25 Apriledi Via Bronzino a Firenze, teatro di numerose assemblee aperte tra esponenti e militanti del Pd. Sotto, una sezione del Pci in una foto del 1983. In copertina, il Presidente del Consiglio dei Ministri Matteo Renzi ca di igiene urbana. Ha incominciato a militare nel Pci quando aveva 16 anni. «Non è il Pd che immaginavo io», dice Chiarotti. «Va bene il cambiamento, ma il cambiamento può essere sia di destra sia di sinistra. Questo è di destra. Sono un operaio, guadagno 1400 euro al mese e mi sento in colpa. All'interno del mio stesso partito mi fanno sentire un privilegiato perché ho un contratto a tempo indeterminato». San Giovanni a Teduccio Anche San Giovanni a Teduccio una volta era un quartiere di operai. Le fabbriche di Napoli erano qui e lungo il corso c'erano ben due sezioni del Pci. Quella immortalata ne La cosaera la Pasquale Finocchio, intitolata a un operaio 24enne morto nel 1974 mentre riparava un capannone. Ora a quell'indirizzo troviamo un minimarket. Per arrivare al circolo Pdbisogna attraversarela strada e andare qualche metro più in là, al civico 986 di corso San Giovanni. Gli iscritti sono circa mille, su 25 mila abitanti del quartiere, questo è ancorauno dei circoli più grandi del sud Italia. Salvatore Finocchio, 68 anni, è il fratello di quel Pasquale caduto sul lavoro. Anche lui era un operaio, lavorava nello stabilimento dove si facevano le carrozze dei treni delle Fs, oggi è un imprenditore, ha una piccola ditta che fa infissi anodizzati. La tessera del partito ce l'ha in tasca da cinquant'anni: «E prima di me ce l'aveva mio padre e prima ancora mio nonno. Questa è sempre stata la zona più rossa di Napoli». E oggi, che gli operai non ci sono più e Renzi si mette contro i sinda- sabato 11 ottobre 2014 | pagina 99we STORIE | 3 Viaggio | Siamo tornati nelle sezioni dove Nanni Moretti realizzò La Cosa nei giorni della svolta della Bolognina. Da Francavilla di Sicilia a Lambrate, la crisi d’identità continua. Tra manager in divisa bianca e tombolate per anziani, il sol dell’avvenire del Pd è un rompicapo LEOPOLDA "DiffeRenziAmoci Adesso!”,lo slogan dei sostenitori di Renzi dete mai qui al circolo? «No, lo vediamo più spesso al parco qui vicino, a giocare coi bambini», dice la coordinatrice. La sezione è quasi la stessa di 25 anni fa. Una volta era una delle più grandi e popolari di Roma, dopo la svolta i locali furono divisi a metà: da una parte il Pds dall'altra Rifondazione, ora i vicini sono quelli di Sel. Morezzi le discussioni di venticinque anni fa se le ricorda, lui c'era: «Tutti i passaggi dal Pci al Pd sono state operazioni a freddo, in mezzo ci deve essere sfuggito qualcosa». Lambrate Che manchi qualcosa si intuisce anche a Lambrate, dove il partito non è più dov'era 25anni fa.Nella vecchiacasa del popolo di via Conte Rosso ci è rimasta la Cgil.Che siagiunto ilmomento diuscire dal passato e di andare finalmente a vedere il partito nuovo, liquido e post ideologico? E allora andiamo nel centro di Milano, in Brera, corso Garibaldi. Qui tra gli iscritti ci sono manager e banchieri. Il coordinatore è un docente di economia della Statale laureato in Bocconi, «Sono un operaio, guadagno 1400 euro al mese e mi fanno sentire un privilegiato» racconta Claudio Chiarotti PIETRO PAOLINI / TERRAPROJECT / CONTRASTO cati? «Anche se è un democristiano mi piace», risponde Salvatore. «Fa bene a pensare al lavoro, è la cosa più importante. Se continua così altro che 40%, quello arriva al 52%. Sta andando sulla strada giusta, sono i vecchi compagni che fanno un po' di confusione». Mirafiori Inutile cercare la vecchia sezione di fronte ai cancelli dello stabilimento Fiat, in via Negarville. Il Pd si è trasferito in via Monastir, dove prima c'era la Margherita. «Per un po' abbiamo provato a tenere tutte e due le sedi, ma ci costava troppo», spiega il tesoriere del circolo, Giuseppe Bocciardi, 55 anni, dipendente Fiat. Ha incominciato a fare politica a 18 anni nel Psi, prima del Pd era iscritto al partito di Rutelli e Fioroni. Oggi il Pd ha il governo della sua città e della Regione. Eppure dice che «questo momento non lo viviamo bene. Il modo di gestire il partito è troppo distante dalla gente. Facciamo solo due incontri al mese e si risolvono in un dirigente che viene qua e ci dice qual è la linea». San Casciano in Val di Pesa Spostiamoci in casa Renzi. O quasi. A San Casciano Val di Pesa, una ventina di chilometri da Firenze, il partito non si è mai mosso. Lo trovi dov'era la vecchia Casa del popolo. Tutto come nell’ottantanove. Tranne un particolare. Il coordinatore del circolo, Guido Gamannossi, ha 22 anni. Quando si discuteva della svolta lui non era neanche nato, si è iscritto al Pd tre anni fa. Nel suo circolo non sono in tanti ad avere la sua età: «Su un centinaio di iscritti, sotto i 25 anni saremo una decina. In tanti tra quelli che si interessano di politica preferiscono il Movimento 5 stelle». Testaccio Dobbiamo arrivare a venerdì pomeriggio per trovare qualcuno in un circolo. Roma, quartiere Testaccio, nella sede ci sono sette persone. Una è l'attuale coordinatrice, Claudia Santoloce, 31 anni, dipendente pubblica. Un altro è Claudio Morezzi, 62 anni, dipendente pubblico pure lui, ex Pci, già segretario di sezione. Nel quartiere c'è un iscritto illustre, l'ex premier Enrico Letta. Lo ve- Marco Leonardi, 40 anni, renziano. Questa sera a moderare l'incontro sull'articolo 18 ci sarà Alberto Palaveri, 45 anni, camicia bianca, amministratore delegato di un'impresa di packaging. Interverranno anche un deputato, cuperliano, e un dirigente della Cgil. Il sindacalista, bretelle marroni su camicia a righe marroni, attaccherà con: «Mio padre era comunista, in Sicilia nei campi non lo facevanolavorare. Io sono arrivato a Milano negli anni Settanta e ho un lavoro da dipendente. Ora dicono che quelli come me hanno sbagliato, ma quando nel1978 io sono statoassunto in Sip...». Non tutto il pubblico apprezzerà il genere. Lo interromperanno: «E quelli che hanno la partita Iva? Quelli non ce l'hanno una dignità?». Quando sarà il momento del dibattito interverrà Daniel Pludwinski, 38 anni, iscritto dal 2011, nativo renziano: «La raffigurazione del mondo del lavoro della Cgil mi lascia basito. Io dirigo un'impresa da 90 lavoratori, so di che parlo». La discussione andrà avanti per un paio d'ore, quando si saranno fatte le 23 i più anziani incominceranno a spazientirsi. Dopo aver preso la giacca, prima di uscire, interverrà Elda, 75 anni, figlia di partigiani: «Dovete ricordarvi che la gente ha fiducia nei sindacati». Saranno passate da un pezzo le 23 e si continuerà a discutere: «il 40% non lo abbiamo preso con la linea della Cgil, con quella lineaeravate al25». «Mase ivoti liprendiamo da Forza Italia a che serve?». «Ragazzi, viviamo già in un mondo senza articolo 18, abbiamo smesso di essere il partito dei lavoratori, ma da anni». «Certo che l'onorevole, almeno stasera, poteva arrivare puntuale». CONTRASTO l’homo renzianus profilo di un follower Compagni | Twitterico ma togliattiano. Antropologia politica del militante 2.0 ALESSANDRO ROBECCHI n Militanti, e già cominciamo male. E sì, perché a voler tracciare una mappa di affinità e divergenze tra il militante del Pd pre-renziano e l’homo novus che sostiene il Pd due-punto-zero bisogna rivedere il vocabolario. Militante non va più, parola rottamata. Come padrone (in renziano: imprenditore). E si potrebbe continuare ad libitum, dai matrimoni gay che diventano civil partnership fino al florilegio di anglicismi e riferimenti alla cultura pop da una parte, e vere e proprie espulsioni dall’altra: conflitto, lotta, classe. Il lavoro diventa job, gli slogan sono hashtag. Senza contare le parole che sopravvivono solo per scherno dell’avversario: ideologico, usato come sinonimo di sorpassato, sconfitto, anacronistico. Fino alla differenza più palmare ed evidente: il nome del partito, che gli antichi militanti del Pci non avevano neppure bisogno di nominare (il Partito, punto) e che ora si chiama @pdnetwork. Moderno, smart, twitterico. Dietro le parole ci sono angoli, spigoli, giravolte. Il militante renziano è, almeno nell’immaginario corrente, giovane e dinamico, e si contrappone al militante pre – che pure ha votato il nuovo Pd – considerato mesto e perdente. Qui, più che politica, l’analisi si fa antropologica. Il democrat new edition è assai aggressivo e lo è, in primis, contro il vecchio militante Pd antemarcia. Il suo faro è la vittoria, contrapposta allo sconfittismo quasi compiaciuto della vecchia sinistra. Tanto ambita e voluta, tanto anelata, questa vittoria, che si sospetta sia un valore di per sé. Conta vincere, essenziale è il potere, per farci cosa si vedrà. La burbanzosa ghigna del vincente, l’arroganza di chi irride lo sconfitto sono stati introiettati in fretta, complici comprensibili frustrazioni generazionali. Toni questi usati non contro quelli che sarebbero i veri sconfitti (la destra italiana), bensì verso i propri compagni di strada (la sinistra pre-Renzi). Il militante matteiano ostenta un revanscismo feroce, non dissimile da quello dei reduci della prima guerra mondiale nei confronti del “panciafichisti” borghesi che non partirono per il Carso. Maledetti! Della differenza generazionale si è, in parte, detto. Nella vulgata corrente (nella realtà è tutto da vedere) il follower renziano ha tra i 30 e i 40 anni, più giovane del militante vecchia gestione. Sempre secondo l’immaginario, appartiene a quella generazione di proletari della conoscen- za che sa le lingue, è laureato, si muove agilmente tra le nuove tecnologie, che spesso lo accompagnano nella sua vita lavorativa da precario. È insomma portato per un realismo al limite del cinismo. Se l’antico militante Pd di derivazione piciista guarda ai meccanismi sociali come a un portato delle dinamiche economiche tra capitale e lavoro, l’approccio del neoadepto è più pragmatico e sbrigativo: nemmeno lontanamente si contesta un sistema (il capitalismo, il mercato), ma se ne invoca un funzionamento più efficiente. Una plastica riproduzione di quest’approccio si è avuta all’ultima Leopolda. Davanti al finanziere Davide Serra che accusava di «furto di futuro» le generazioni andate in pensione col sistema retributivo, trentacinquenni eleganti, laureati, ambiziosi, applaudivano estasiati, in pratica accusando di «furto di futuro» i padri che li hanno fatti studiare, cioè quelli che un futuro gliel’hanno dato. Bizzarro testacoda. Ma la più portentosa differenza tra il nuovo militante Renzi-oriented e il vecchio iscritto al Pd è evidente nel bisogno di autodefinizione. Mai –dal congresso di Livorno fino alla segreteria Bersani – un militante del più grande partito della sinistra europea aveva sentito il dovere di ribadire ossessivamente il suo essere di sinistra: perché sottolineare l’ovvio? Cosa che invece fa a ogni passo l’homo novus di osservanza renziana. Un mantra, un’autoipnosi: questo è di sinistra, noi siamo di sinistra, quel che facciamo è di sinistra, fosse anche abolire diritti o invocare libertà di licenziamento, fosse anche governare con Angelino Alfano o raccogliere i consigli “riformisti” di Verdini. Una campagna di autoconvincimento. Queste alcune divergenze, e le affinità? Ecco la principale: riconoscere nel segretario del Partito (qui torna la maiuscola e scompare la simpatica chiocciolina) di avere sempre ragione. Ciò che Giovannino Guareschi, uomo di destra, individuò come tratto precipuo dei comunisti »trinariciuti» degli anni Cinquanta, rivive oggi in forma moderna. In nome della vittoria (il 40% delle europee è un altro notevole mantra) sembrano bere tutto, farsi piacere tutto, digerire tutto, purché venga dal quartier generale. Così come le minoranze Pd, i vecchi della Ditta, che fanno il diavolo a quattro, ma alla fine si allineano ubbidienti. E pare questo, a pensarci, il trait d’union più forte tra vecchi e nuovi militanti: «L’ha detto Matteo» suona oggi, secoli dopo, come il vecchio «L’ha detto Togliatti». Modernissimi, eh? pagina 99we | 4 | STORIE sabato 11 ottobre 2014 militanti addio arriva il Piddì open source Business model | Dal 2017 il finanziamento pubblico non esisterà più. Così anche i democratici sono costretti a ripensarsi come azienda. I principali azionisti non saranno più gli iscritti ma i finanziatori privati ILARIO LOMBARDO u segue dalla prima n È stato mascherato da rimborsi elettorali, che sarebbero ben altra cosa, se non fosse che la furbizia italiana l’ha ridotta a una semplice questione semantica: parole diverse per dire la stessa cosa. La Seconda Repubblica si è ingozzata di miliardi fino a raggiungere nel 2008 la cifra record di 320 milioni di euro. Ma la festa da lì a poco sarebbe finita. Dopo il caso del tesoriere della Margherita Luigi Lusi, accusato di arraffare i soldi di un partito ormai morto, dopo il dimezzamento dei rimborsi ordinato da Mario Monti nel 2012 e la discesa dell’orda grillina su Roma, siamo giunti alla legge che chiude i rubinetti dei contributi progressivamente fino al 2017, quando entrerà a regime la nuova forma di finanziamento basata sul 2 per mille e sulle donazioni private con tetto massimo di 100 mila euro, incoraggiate, si spera, dalle detrazioni al 26% sotto i 30 mila euro. «Per un partito come il Pd significa doversi reinventare», spiega Antonio Misiani, «proiettarsi alla raccolta fondi, e stabilire un rapporto conti- nuo con gli elettori, visti non più soltanto come sostenitori politici ma anche economici». Antonio Misiani è stato il tesoriere che ha chiuso l’ultimo bilancio del Pd, prima di lasciare le chiavi del forziere al renziano Francesco Bonifazi. Ha avviato con la segreteria di Pierluigi Bersani la prima fase di austerity, ridimensionando sedi, comunicazione, il canale YouDem, campagne elettorali, forum, consulenze, fornitori, contratti. Il passo successivo ai tagli saranno le cene elettorali con facoltosi imprenditori. Poi sarà la volta del crowdfunding Ma non è bastato. Il disavanzo è rimasto di quasi 11 milioni. Come ha tenuto a sottolineare il successore Bonifazi. La critica si è fatta aspra a metà settembre, quando il nuovo tesoriere ha puntato gli artigli della rottamazione contro i costi della segreteria Bersani: consulenze «troppo alte», indennità, auto blu, servizi web e stampa. Misiani però non ha voglia di passare per il contabile della vec- chia guardia che sguazzava nei dobloni di Zio Paperone: «Abbiamo avviato noi i tagli, e la verità è che prima della riforma avevamo un budget alto, 60 milioni di euro di rimborsi solo nel 2011». Per capire, quella cifra copriva il 91% delle entrate del Pd. Il partito ne ha perso per strada il 58%: i contributi elettorali sono scesi nel 2013 a 24,7 milioni e nel 2014 saranno la metà: 12,8 milioni. La ristrutturazione aziendale dei partiti, per galleggiare in acque molto basse, è una via obbligata. Certo, a sorridere in questa fase è il Movimento 5 Stelle che i rimborsi li ha rifiutati da principio e soddisfatto osserva come anche Silvio Berlusconi, stanco di sborsare di tasca propria, fatichi a recuperare un finanziamento dal basso, riesumando i club di Forza Italia che lanciò nel 1994 come una sorta di proto-meetup. Ma il business model imposto dalla duplice crisi, economica e politica, costringe il Pd più che altri a ridefinire ruolo e identità: «Avremo un partito con apparati più snelli, e più focalizzato sulla comunicazione e la relazione con i cittadini», spiega ancora Misiani. Non sarà semplice: l’orizzonte è l’autofinanziamento. Ma finora non si è capito granché delle mosse che ha «con il modello cloud più potere ai circoli» n «Più che del tesseramento, discuterei di idee, di come vogliamo costruire il Pd». Francesco Nicodemo è il braccio armato sul web del premier-segretario Matteo Renzi. Dopo essere stato responsabile della comunicazione del nuovo Pd, in occasione del rimpasto della segreteria il rottamatore ha deciso di portarselo a Palazzo Chigi, dove Nicodemo, napoletano, 36 anni, ricoprirà lo stesso ruolo: sarà il mago che dovrà mettere a punto la nuova strategia online e sui social network del premier. A Renzi lo accomuna lostesso gustoper imotti brevida 140 caratteri. Tipo: «Stiamo passando da un partito collettivo a un partito connettivo». E ancora: «Il Pd si sta trasformando in un partito “cloud”». Cloud? Come la nuvola di Apple? Cosa significa? «Vuol dire che non abbiamo più bisogno di un Ibm da sette metri, per registrare i dati c’è “cloud”: un partito più leggero nell’infrastruttura, ma più pesante nella capacità di essere presente su tutto il territorio. Questo è il tema: la forma partito, che partito immaginiamo, e non tanto il suo stato, solido, liquido o gassoso. Ma che tipo di organizzazione vogliamo. Se vogliamo il partito piramidale di novecentesca memoria, con il suo comitato centrale, la sua segrete- NETWORK Un momento della tre giorni organizzata nel 2012 presso la Stazione Leopolda da Matteo Renzi in sostegno alla sua candidatura per le primarie del Partito Democratico in serbo Bonifazi. Un tweet ha annunciato il 24 settembre la prima riunione organizzativa del fundraising. «Il pdnetwork prende forma», ha esultato. Il prossimo step saranno le cene elettorali, con facoltosi imprenditori. Una volta si chiamavano cene popolari, anche questo un segno dei tempi. Bonifazi im- magina un partito smart, leggero, 2.0, che si rilancia a partire dal tesseramento online: «Ci consentirà un approccio al crowdfunding con una interazione costante, attraverso un portale fatto bene, tra i progetti che il Pd propone sul territorio e la volontà del singolo cittadino». Sarà un po’ come costruire un asilo in Africa, o finanziare una start-up: i simpatizzanti dem potranno devolvere euro in maniera mirata. È un’evoluzione genetica: il dna del partito del Novecento, con retaggi ottocenteschi, si contamina delle nuove forme di condivisione mediatica e sociale. E addio per sempre al Pci e ai suoi feticci. Il partito non ha più bisogno di due testate: «Non abbandoniamo né l’Unità né Europa» aveva promesso Bonifazi. La prima ha chiuso lo scorso agosto, la seconda (lascito della Margherita-Dl) lo farà a novembre: in due pesavano sul Pd per circa 3 milioni di euro, tra acquisto copie e pubblicità dedicata. La comunicazione di Matteo Renzi è diventata più centralizzata. E con YouTube, Twitter, e Facebook a che vuoi che servano la settantina di giornalisti ora a spasso dei due quotidiani? Per la cara vecchia propaganda bastano un pugno di smanettoni. Il Pd ai tempi di Matteo Renzi farà rete, sarà un partito-social. Un po’ Apple, un po’ riunione scout. Ma al di là degli an- Pro | Per Francesco Nicodemo, uomo internet del premier, occorre connettere comunità virtuali e reali. E ai soldi si provvederà con le collette via web ria, oppure un partito che è una rete di reti». In che modo cambia il partito? «Nel partito rete non c’è più un rapporto dall’alto verso il basso, verticalizzato, ma orizzontale e circolare. Il network e la connessione diventano fondamentali, e i circoli ritornano centrali, perché non hanno più bisogno di passare da Roma per la vidimazione. Un po’ come la Pdcommunity, l’infrastruttura digitale che abbiamo costruito con Matteo per le primarie, dove le comunità virtuali erano messe in connessione con quelle reali, e dove tutti parlavano con tutti. È un’inedita forma organizzativa di partito e un nuovo modello di fare politica che riflette la nuova leadership di Renzi». Chiusa l’epoca dei rimborsi, un partito così dove trova fonti di finanziamento? «Grazie a Dio il finanziamento pubblico non c’è più. I partiti si devono adattare ai tempi, consapevoli che molte cose del passato non torneranno. Oltre al tesseramento, dobbiamo trovare forme alternative di autofinanziamento. Il crowdfunding è la soluzione. E anche in questo caso i protagonisti sonoicircoli.Sono lenostreantennesuiterritori, per captare quali siano i bisogni che il Pd deve rielaborare politicamente. Non ha più senso chiedere soldi per tenere aperta la sezione. Lo ha invece se offri un corso di arte o di digitalizzazione della terza età. Tutte iniziative dal basso. Solo così le sedi non resteranno vuote». Coinvolgimento dal basso, rivolto a tutti i cittadini, e senza tessere partito: non è il modello che ha affermato il M5S? «È molto diverso costruire un partito con oltreseimilacircoli,centinaia disindacietanti iscritti, dal realizzare un luogo della società civile che si afferma contro la politica. Più che con il M5S vedo somiglianze con le esperienze americane di MoveOn che hanno portato al trionfo di Barack Obama nel 2008». (Ilario Lombardo) sabato 11 ottobre 2014 | pagina 99we STORIE | 5 SIMONE DONATI / TERRAPROJECT / CONTRASTO nunci bisognerà fare i conti con la realtà e con le croste delle abitudini collettive. A bilancio, il crollo verticale dei proventi dal tesseramento è impressionante: da 3.030.323 nel 2012 a 1.123.622 euro nel 2012. Il boom elettorale di Renzi è coinciso con il tonfo delle tessere. Se nel 2013, che è stato un anno congressuale, gli iscritti sono stati 539 mila, per il 2014 si parla di meno di 100 mila tessere. Il Pd è in preda a una crisi isterica. Gli elettori aumentano, mentre la “base” scompare. Effetto del renzismo? Può essere che il premier-segretario che accentra su di sé attenzioni ed emozioni, che ha imposto le primarie aperte a tutti e non solo ai mili- tanti (che in un partito “open source” sentono meno l’appartenenza), che sta svuotando l’antica simbologia del Pd mentre lo ha traghettato nel Pse (paradossale no?), il leader che però ha portato il Pd al 41%, sia lui la causa dell’emorragia di iscritti e dei circoli deserti? A compensare nelle casse del Pd questo forte calo c’è stata l’impennata dei cosiddetti “contributi da persone fisiche”: 11 milioni di euro tra le erogazioni liberali e parte dell’indennità, da 1.500 a 3 mila euro, più cospicuo versamento iniziale, che i parlamentari democratici, aumentati di numero con il voto del 2013, destinano al partito. Le restanti fonti di autofi- nanziamento sono poca roba. Gli utili della Festa dell’Unità, per esempio, nel 2013, quando ancora si chiamava Festa democratica, sono stati appena 4 mila euro. La morale è che il partito ha speso più di quanto ha preso: 48 milioni di uscite e 37 di entrate. Il 29% della torta, è finito alle strutture territoriali del Pd, e a seguire, il 21%, al personale. È anche vero però che le cose stanno cambiando. I dipendenti del Pd sono 143 più una trentina in aspettativa non retribuita. Un quadro guadagna circa 3.500 euro, ma per esempio con Renzi la segreteria è composta, tolto Filippo Taddei, da parlamentari che non gravano sul Pd «senza rimborsi i ricchi peseranno di più» n Miguel Gotor approccia da storico il tema di cosa sia, deve essere o sarà un grande partito di massa come il Pd. E anche ora che da senatore in quota Pierluigi Bersani, di cui è stato braccio destro nella corsa elettorale, vive dall’interno il partito e la politica, Gotor non può fare a meno del suo sguardo da intellettuale e accademico, poco permeabile agli umori del momento. Che tipo di partito serve a una società come quella italiana? «Un partito europeo, come esiste in Francia, Spagna, Inghilterra, che risponde a una cultura politica, e a una storia. L’anomalia dell’Italia in questi ultimi 20 anni, la causa principale della crisi del suo sistema politico, è che ha avuto partiti proprietari, vedi Berlusconi, o partiti personali che inevitabilmente seguono la parabola carismatica del loro leader. A destra come a sinistra: basti pensare ai partiti di Di Pietro, di Monti, di Vendola, di Bossi, e ora al Movimento di Beppe Grillo». La mutazione del Pd, con Matteo Renzi, radicalizza l’evoluzione di un modello più aperto ma legato comunque a una leadership carismatica. «Un partito aggrappato solamente con un ulteriore stipendio da funzionario. Tra i democratici, in tanti, controvoglia e preoccupati, si sono adeguati al clima imperante che vede il finanziamento pubblico come il brodo del diavolo. I grillini sono la primizia politica di questa stagione. E un po’ lo è anche Renzi. A sentire un tesoriere locale, come il ligure Giovanni Battista Raggi, che conosce l’umore del territorio e la disaffezione imperante, un dubbio è lecito: «Siamo così sicuri che i cittadini faranno la fila per finanziare i partiti con il 2 per mille? Ma se hanno difficoltà le onlus a chiedere soldi per bimbi malati di cancro…». Il timore è che la corsa al finanzia- mento e al volontariato ci possa essere solo in clima elettorale, con relativo disinteresse nei periodi in cui la gente non sente la chiamata alle armi. Dicono però nel Pd, da sponda renziana, che il fundraising ridarà centralità all’elettore. Non la vede così Piero Ignazi, politologo e autore del libro Forza senza legittimità. Il vicolo cieco dei partiti: «Temo che il ruolo del singolo iscritto e dei gruppi di base non verrà rivitalizzato, continueranno a essere gli organi centrali a contare, sulla base dei finanziamenti che saranno capaci di ottenere dai grandi donatori. Come fanno i partiti a chiedere soldi se la gente non li legittima più e ha perso entusiasmo?». Lo scetticismo del professor Ignazi diventa indignazione di fronte alla scelta di abolire i rimborsi: «Eravamo il Paese europeo con il più generoso e meno controllato dei finanziamenti pubblici, mentre ora, assieme alla Svizzera, siamo gli unici a non averlo proprio. Siamo passati da una cattiva legge a una pessima eliminazione. Nei sistemi che funzionano esistono controlli e sanzioni, e si rimborsa solo quello che effettivamente si spende, senza formule forfettizzate e imbroglione». Nei sistemi che funzionano ci sono anche rodati meccanismi di monitoraggio per scoraggiare qualsiasi gommosa intrusione di misteriosi finanziatori. Ecco l’altro grande capitolo aperto: il ruolo del lobbista, quello sì, diventa ancor più centrale, ma l’addio ai rimborsi non è stato accompagnato da una legge che regolamenti le pressioni dei gruppi di interesse, anche alla luce del fatto che il donatore privato, sia esso un singolo o un colosso industriale, diventa una delle principali risorse del partito. L’Italia non ha un registro delle lobby come negli Stati Uniti o a Bruxelles, ma qualcosa pare si stia muovendo se è vero che da queste parti è stato avvistato più volte il king maker dei lobbisti Usa, Tony Podesta. Nel frattempo l’opacità è totale, e, come spiega Emanuele Cozzolino, deputato M5S e firmatario della proposta per cancellare ogni forma di finanziamento pubblico, «alla faccia della trasparenza, nella nuova legge è previsto che l’elenco dei donatori venga pubblicato dopo le elezioni, non prima». Sempre che i finanziatori, specie quelli grossi, vogliano rendersi noti. Dopotutto era stato proprio John McCaffrey a spiegare ai tesorieri del Pd che il cuore del fundraising sono i grandi gruppi. Le piccole somme dei cittadini sono il colore, non la ciccia. Il nuovo modello di Pd declinato al futuro potrebbe avere due volti: simile a un comitato elettorale, all’americana, con eserciti di volontari che si attivano solo a ridosso delle urne, quando l’energia agonistica attraversa l’Italia, ma anche un partito Spa, con gli elettori azionisti. Di fronte a questi scenari, non resta che registrare la provocazione nostalgica di chi come Ugo Sposetti, il mitico tesoriere dei Ds, ha perso la sua battaglia, e oggi viene accusato dalle nuove leve di non voler mettere a disposizione del Pd il patrimonio di circa 2 mila immobili che è in mano alle fondazioni della galassia diessina: «La fine del finanziamento pubblico è la fine della democrazia», butta lì, «ma la questione è un’altra: i partiti non ci sono Nel 2013 il partito ha speso più di quanto ha preso: 48 milioni di uscite e 37 di entrate. Il 21% è andato al personale più. Un partito presuppone tre cose fondamentali: un programma, un’organizzazione e gli iscritti. Senza, a che serve il finanziamento pubblico?». In verità Sposetti, in Senato, aveva messo in guardia il Parlamento: «Solo adesso si rendono conto che per mantenere una struttura di partito servono le risorse». Sono mondi lontani tra di loro. C’è anche un’estetica del tesoriere che li rappresenta: Bonifazi lo vedi dondolarsi in Transatlantico con un ottimo taglio di abito, scarpe alla moda, barba e capelli ben curati, un guascone toscano sempre con un sacchetto griffato in mano; Sposetti invece veste abiti d’ordinanza e i baffi staliniani che tagliano quel volto da funzionario sovietico di Vladivostok. Lo attraversa una lucida disillusione che ti lascia inquietanti interrogativi: «La politica italiana ha scelto il finanziamento privato», dice, «ma se le lobby ormai si sono messe in proprio, per quale motivo dovrebbero avere interesse a finanziare un partito?» Contro | Secondo il bersaniano Miguel Gotor la personalizzazione impressa da Renzi rischia di condannare il partito all’inconsistenza alla personalità del leader rischia l’i nconsistenza. I segretari passano, i partiti restano. Ma c’è un altro limite: un partito di sinistra non deve fotografare la realtà o fare da nastro trasportatore dei vari bisogni, il suo compito è indicare un indirizzo. In questo senso è significativo che nella tessera del Pd del 2014 ci sia scritto “L’Italia cambia il Pd”: questa è la negazione della politica e della funzione di indirizzo che dovrebbe svolgere per non diventare coagulo di tutti i trasformismi possibili». È ancora necessario affidarsi a strutture così fortemente centrali e costose? «Una forza di sinistra come il Pd ha bisogno di risorse economiche e di una struttura che sia al tempo stesso centrale e radicata nel territorio per evitare di essere preda dei cacicchi locali e di pulsioni centrifughe che fiaccano il ruolo del partito facendo il gioco della destra. Non a caso Bersani aveva formato una segreteria composta da membri non parlamentari, per garantire l’autonomia del partito rispetto ai gruppi delle Camere. Ora Renzi ha fatto l’esatto opposto, solo per un semplice espediente contabile». Resta il nodo delle risorse. La fine dei rimborsi non ridefinisce la fisionomia di un partito? «In Senato ho votato contro l’abolizione dei rimborsi, in dissenso con il mio partito. Ritengo si sia trattato di un errore fatale, fatto per demagogia, che la sinistra sconterà a lungo. Il finanziamento pubblico è una garanzia democratica in vigore in tutti i Paesi europei. La decisione di affidarsi al finanziamento privato inevitabilmente aumenterà la corruzione e favorirà i più ricchi che condizioneranno la formazione della rappresentanza politica». (Ilario Lombardo) pagina 99we | 6 | STORIE sabato 11 ottobre 2014 ARCHIVIO PALMA/A3/CONTRASTO STUDENTI Vincenzo Vitiello e Alfredo Reichlin ritratti nella scuola di Frattocchie per la formazione dei futuri parlamentari del Pci, 1956, Roma quando i compagni andavano a scuola Formazione | Alle Frattocchie gli aspiranti dirigenti imparavano l’ortodossia. Poi vennero le estati dissidenti di Cortona. Ora al segretario basta House of Cards MARCO LAUDONIO n C’era una volta Frattocchie. Nel ‘900 di blocchi contrapposti e ideologie, mondo libero e socialismo reale, era d’aiuto la scuola quadri alle pendici dei Castelli Romani per dare una pletora di strumenti ai futuri parlamentari Pci: dall’interpretazione giusta degli scritti gramsciani e del quadro geopolitico utili ad aprire le riunioni con frasi passepartout quali «l’analisi del quadro internazionale e dei gravi fatti» fino al libretto del capogruppo e ai brogliacci per la propaganda. Ma scuole di formazione le avevano la Dc (dal 1950 al 1970 a Roma, alla Camilluccia), il Psi, il Pri, addirittura la destra fuori dall’arco costituzionale con i campi Hobbit tentava la strada di un originale Pantheon tra Tolkien e Evola, tutti sperando di costruire la classe dirigente. In anni più recenti la formazione politica era tornata di moda, a inizio e fine estate. Le summer school non servivano per rinfrescare l’inglese o i fondamentali economici ma proprio per cercare una visione del mondo, o quantomeno una chiave di lettura. Dalla sua nascita all’avvento di Renzi la parte del leone l’ha fatta il Pd. Per volontà di Veltroni e di Giorgio Tonini la formazione politica faceva parte dello Statuto Pd e nel 2008 nasceva a Cortona, in un ex convento, S. Agostino, la scuola estiva del partito. Quasi mille ragazzi, apertura nella rocca di Castiglione del Lago con Edgar Morin introdotto da un inedito Dario Franceschini alle prese con Marx, chiusura in un afoso palasport a Montepulciano con Veltroni e scene di Into the wild, il film della felicità reale solo se condivisa.Su tuttoaleggiava iltam-tam sulla presenza a sorpresa di Jovanotti, cortonese di nascita, che però si palesava solo a tarda sera nelle cene di fronte al Teatro Signorelli. Nella breve stagione di Franceschini segretario la scuola andò sui binari, con il “treno per l’Europa”. Iniziative che avevano successo ma il taglio non piacque a Bersani che le bollò, con una delle sue metafore, come «andar per funghi». Ciò nonostante a Cortona ci si è ritrovati fino al 2013. Dopo le primarie il Pd renziano, con l’eccezione di una giornata sulla comunicazione all’interno della festa nazionale dell’Unità a Bologna, la formazione non l’ha più fatta. «Neanche se ne sembra avvertire la mancanza, nel 2013 M5S è stato visto come l’innovazione, ma il terremoto nel reclutamento non veniva certo dalla formazione ma dalle parlamentarie di Grillo e da quelle del Pd, gli altri invece continuano con la filiera di cooptazione», spiega il politologo dell’Università di Siena e membro del Direttivo dell'European Consortium for Political Research Luca Verzichelli, autore nel 2010 per Il Mulino di Vivere di politica: come (non) cambiano le carriere politiche in Italia. La scienza politica se ne è occupata poco «perché la personalizzazione ha scalzato la formazione standard dei quadri politici. Forse perché siamo stati osses- sionati, tutti, osservatori e politici, dalla ricerca del leader, e il rischio è che si siano formati polli di batteria. Mentre i partiti di massa coltivavano i politici in filiere diverse da quelle degli amministratori,oggiessere segretariodicircolo non è un trampolino, invece essere nello staff di chi guida il partito può essere molto più utile per finire in lista. L’elevata percentuale di professionisti della politica ha essenzialmente un background amministrativo locale, alcuni sono funzionari degli organismi di partito». Si potrebbe pensare che ci si forma su twitter ma la sua analisi è confermata anche dalle nuove leve come Giacomo Le leopolde sono l’essenza del renzismo, interventi di 7 minuti, senza documenti o bibliografia Possamai, vicesegretario uscente dei Giovani Democratici, capogruppo Pd al comune di Vicenza dove è stato il candidato più votato. «La politica solo virtuale non va, i social network possono essere utili ad agganciare i ragazzi disinteressati alla politica e convincerli a votare, ma non riescono nelle realtà locali a farti emergere. Si cresce sul campo, si viene buttati in acqua senza saper nuotare, questo ha alcune qualità e alcuni li- miti, manca qualcuno dei fondamentali, se la palestra è da consigliere o assessore può mancare l’agilità nel processo legislativo e nei contesti nazionali». Il Pd partito di sindaci però di formazione ne parla, il premier-segretario ha citato la serie tv House of cards come momento formativo, ma il Pd non ha più organizzato nulla. Almeno per il momento. Non sappiamo se perché la memoria da elefante di Renzi non cancella la sovrapposizione tra la 2 giorni napoletana di Finalmente Sud!, la scuola per i ragazzi del mezzogiorno, e la fiorentina kermesse della Leopolda. Certo è che l’impostazione cortonese stride con il nuovo corso: i professori universitari stavano proprio in cattedra, i sindaci che intervenivano erano pochi, quelli che dissentivano dalla linea Pd non pochi. La scuola era un battesimo o un ritorno alla politica, tanto che prima della sbornia per la democrazia diretta grillina si sperimentò la democrazia partecipativa sulla regolamentazione del lavoro confrontando e votando le proposte di Ichino, Treu, Damiano. Sforzo che a fronte della nuova stagione, che si vuole riformista, dei 1.000 giorni con la probabile battaglia parlamentare sul Jobs Act, forse andrebbe riproposto. Difficile che accada. Il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, ha annunciato per il 24 ottobre la nuova Leopolda. Sempre nell’ex stazione di Firenze con interventi di 7 minuti, senza documenti o bibliografie, probabile #leopolda2014 in vetta ai TT. Le leopolde sono l’essenza del renzi- smo, senza mai bandiere Pd, e nel frattempo la spending review dei bilanci di partito, ha lasciato campo libero a altre iniziative correntizie, spesso ingessate o parziali. I “giovani turchi” di Rifare l’Italia, la corrente del presidente Pd Matteo Orfini, hanno organizzato 4 weekend formativi. I FutureDem, i giovani più convinti della svolta impressa da Renzi, a #Cambiarelitalia hanno discusso soprattutto con esponenti di governo e si sono presentati libri su Renzi e l’autobiografia di Claudio Martelli. Questo 2014 di presunto, rinnovato primato della politica sembra il passaggio dalla politica pop - come l’hanno definita nell’omonimo libro Mazzoleni e Sfardini - a un pop post-politico, leggero e veloce, più immagine che approfondimento. Per Verzichelli «si è coltivato il mito della formazione parallela ma i comunicazionisti si sono illusi di poter servire i partiti leggeri. Ma pur trovando il leader, il Pd, formando pochi quadri, trova sempre meno persone che san parlare alla gente». È quella che il sociologo Aldo Bonomi definisce l’egologia predominante in questi anni di eclissi della società di mezzo, di partiti e sindacati. Senza più la necessità di affiancarsi a personaggi e stili pop, via le Mannoia e i Baricco, i Pif come gli Umberto Eco, i leader politici diventano tra camicie bianche, tweet, balli di gruppo sulle note di Happy, personaggi muscolari, più da rotocalco che da cronaca politica. Una semplice sovrastruttura avrebbe detto Carlo Marx. @marcolaudonio pagina 99we | 8 | STORIE sabato 11 ottobre 2014 una spia neuro-diversa salverà il Regno dal Califfo Intelligence | I servizi britannici arruoleranno 120 agenti affetti da dislessia o disprassia. Un paradosso? Tutt’altro. Il disturbo li abitua a cercare strade alternative, rendendoli molto più creativi dei colleghi. Come insegna Alan Turing GIAN MARIA VOLPICELLI n LONDRA. Dopo il sì del Parlamento inglese ai raid aerei contro l’Isis in Iraq, l’intelligence britannica ha portato l’allerta terrorismo ai massimi livelli, aumentando anche la sorveglianza sul web per individuare eventuali minacce. Si teme che dal Medio Oriente possano arrivare azioni di rappresaglia concrete, ma anche attacchi virtuali da parte di hacktivists ostili. L’asso nella manica della Gchq – Government Communication Headquarters, l’agenzia dei servizi segreti del Regno Unito che si occupa di monitorare le comunicazioni (vedi box a lato) – saranno più di 120 agenti dislessici o affetti da disprassia (un disturbo che limita le capacità di coordinazione). Le persone dislessiche, che faticano a leggere e comprendere testi relativamente semplici, sono anche molto creative e particolarmente abili quando si tratta di decifrare messaggi in codice. Lo stesso Alan Turing, il grande matematico ed esperto d’informatica britannico che durante la Seconda guerra mondiale riuscì a decrittare il linguaggio segreto nazista Enigma, era dislessico. «Quello che la gente spesso non capisce è che le persone “neuro-diverse” hanno delle capacità che si bilanciano fra loro: alcune sono molto sotto la media, altre ben al di sopra» ha dichiarato al Sunday Times uno degli agenti dislessici che lavorano nella Gchq, Matt. «Io leggo più lentamente dei miei colleghi, e scrivo malissimo, ma mi trovo anche a essere uno dei più creativi dell’intera agenzia». Per sopperire alle difficoltà nell’interpretare messaggi scritti, i dislessici devono imparare ad affinare le capacità inventive. Questo li porta ad approcciarsi ai testi da una prospettiva diversa da quella del lettore comune. Per dirlo con una metafora usata dall’ex cyber-analista di Scotland Yard Alan Culley, in un’intervista al Daily Mail: «La maggior L’AGENZIA GCHQ I decriptatori nell’ombra ARTHUR EDWARDS - WPA POOL / GETTY IMAGES STRUMENTI La regina Elisabetta preme il pulsante di Enigma, la macchina ideata da Turing per criptare e decifrare messaggi, presso Bletchey Park , centro di crittoanalisi britannico durante la Seconda guerra mondiale parte delle persone capisce quale sia l’immagine di un puzzle solo quando è quasi finito; i dislessici sono in grado di capirlo anche avendo solo due tasselli a disposizione». La Gchq ha pertanto approntato un gruppo di supporto per agenti con dislessia e disprassia, in modo da agevolare l’inclusione di individui “neuro-diversi” nei suoi ranghi. Si tratta solo di una delle varie iniziative adottate dall’intelligence del Regno Unito per portare avanti un’operazione di restyling e riorganizzazione. Per troppo tempo il profilo medio delle spie al servizio di Sua Maestà è stato pericolosamente ricalcato sul modello James Bond: gli agenti erano maschi eterosessuali, bianchi, provenienti da famiglie ricche e laureati in università d’élite come Oxford o Cambridge. I processi di selezione erano spesso dominati da logiche nepotistiche o sfacciatamente discriminatorie. Negli ultimi tempi le cose hanno cominciato a cambiare. La Gchq ha recentemente attivato un’iniziativa volta a incoraggiare nuovi talenti, inviando degli addetti in una ventina di scuole elementari e medie di tutto il Paese per promuovere lo studio di scienze, matematica, informatica e ingegneria. La particolarità di questo programma è che esso è rivolto soprattutto a giovani di sesso femminile – in linea con l’obiettivo di raggiungere il 35% di dipendenti donne, che a oggi costituiscono solo il 23% degli agenti dell’organizzazione. Anche sul fronte dei diritti delle persone gay, lesbiche, omosessuali e transgender (Lgbt) la Gchq è all’avanguardia: è membro dell’organizzazione gay Stonewall, e ha al suo interno una nutrita associazione per la difesa dell’orgoglio omosessuale. Il sito dell’agenzia mette in bella mostra un banner in cui Kate, una dipendente lesbica che lavora come consulente, spiega che sul posto di lavoro «c’è una rete di persone Lgbt attivissima» e che alla Gchq «vie- ne premiato chi lavora duro, qualunque sia il suo orientamento sessuale». Si tratta senza dubbio di un passo avanti rispetto all’epoca di Alan Turing. Nonostante il suo contributo decisivo alla lotta contro la Germania nazista, nel 1952 Turing fu arrestato a causa della sua omosessualità (all’epoca ancora un reato in Gran Bretagna). Cacciato con disonore dalla Gchq, Turing fu condannato alla castrazione chimica per mezzo di iniezioni di estrogeni, che lo resero impotente e gli fecero crescere il seno. Umiliato e depresso, il matematico si suicidò un paio d’anni dopo. Solo nel 2009, dopo una campagna web, il primo ministro Gordon Brown si scusò pubblicamente per l’ingiustizia e l’ingratitudine con cui Alan Turing era stato trattato. Fondata nel 1919 come Government Code and Cypher School, e ribattezzata Government Communication Headquarters nel secondo dopoguerra, la Gchq è rimasta a lungo semisconosciuta alla maggior parte degli inglesi. Mentre i fratelli maggiori MI5 e MI6 solleticavano l’immaginario del pubblico nelle loro incarnazioni cinematografiche, l’agenzia di sorveglianza delle comunicazioni continuava a lavorare più o meno nell’ombra, anche perché le sue mansioni erano assai meno adrenaliniche delle sparatorie alla 007. A lavorare nella Gchq erano soprattutto matematici e linguisti, che captavano le comunicazioni satellitari del globo per origliare informazioni militari, diplomatiche e commerciali, ritenute vitali nella Gran Bretagna della Guerra Fredda. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, la Gchq si trasferì in un nuovo quartier generale a Cheltenham, Inghilterra occidentale, soprannominato confidenzialmente La Ciambella, e ampliò il proprio raggio d’azione iniziando a scandagliare il mare magnum del web. L’agenzia arriva sotto i riflettori lo scorso anno, dopo le rivelazioni dell’ex informatico dell’Nsa Edward Snowden al Guardian. Insieme all’omologa americana Nsa, anche la Gchq sarebbe coinvolta in Prism, il programma di sorveglianza globale di internet e del traffico cellulare. Con la stessa Nsa, e con i servizi canadesi, neozelandesi e australiani, la Gchq sarebbe poi parte dell’alleanza segreta Five Eyes, che prevede la condivisione delle informazioni intercettate fra i vari servizi. L’agenzia ha anche attirato le ire dei leader del G20, le cui comunicazioni sarebbero state spiate nel corso di un summit a Londra nel 2009. In seguito all’affaire Snowden, nel novembre 2013 il direttore della Gchq è apparso in televisione per la prima volta nella storia, per rispondere a una commissione parlamentare in merito ai metodi poco trasparenti dell’organizzazione, ai rapporti con i servizi americani, e all’accusa di aver sorvegliato i leader di alcune ong impegnate nella difesa dei diritti umani. sabato 11 ottobre 2014 | pagina 99we STORIE | 9 FRANCESCO PATERNÒ n «Ho detto a Palmer di portarsi un cambio. Anzi, meglio due». Sergio Marchionne, che con il suo maglione di un solo colore può tirare avanti per giorni, trasforma in una facile battuta l'ordine dato a Richard Palmer, il capo della finanza di Chrysler. Perché lunedì 13, l'uomo dei conti fa appena in tempo a sentire la campanella di Wall Street Dopo la quotazione Marchionne promette un porta a porta dagli investitori suonare il benvenuto al nuovo titolo Fiat Chrysler Automobiles, per poi schizzare fuori con camicie e cravatte insieme al suo boss a cercare soldi per la nuova creatura. Marchionne ha promesso un porta a porta «con la valigetta in mano» presso gli investitori americani per ottobre e novembre, con l'obiettivo di rendere più appetibile il nuovo titolo e portare a casa denaro necessario a finanziare un piano industriale da 64 miliardi di dollari da qui al 2018. Quando negli obiettivi il gruppo dovrà vendere il 60% in più e sbarazzarsi di un indebitamento che oggi viaggia intorno ai 10 miliardi di euro, puntando su uno sfavillante mercato nordamericano che però – avverte più di un analista - potrebbe rallentare proprio dalla fine del 2015. Quando i tassi di interesse, bassissimi e dunque droga per i mercati, cominceranno a risalire. Al New York Stock Exchange la campanella suona soprattutto per Chrysler che, benché insieme a Fiat, torna a Wall Street dopo sedici anni. Era il 1998 e anche allora la più piccola delle tre Big di Detroit rientrava in borsa attraverso una fusione con Daimler che l'aveva comperata spendendo 36 miliardi di dollari. Poco più di tre lustri dopo, un clamoroso divorzio con i tedeschi e un'avventura finita male con il fondo Cerberus nel 2007 in cambio di altri 7,4 miliardi di dollari, Marchionne ha messo le mani sull'icona americana dell'auto facendo quel che per adesso si è rivelato l'affare della sua vita: per 3,7 miliardi di dollari, ha fuso le attività di Chrysler con Fiat salvando entrambe dalla bancarotta. Per la piccola grande di Detroit, anzi di Auburn Hills appena fuori la capitale del Michigan, il 13 ottobre è però una giornata particolare. Perché sarà lei, il gruppo comprato dagli stranieri, a guidare la nuova società nata dalla fusione e non il contrario, proveniendo già oggi dal Nordamerica il 60% degli utili di gruppo. La Chrysler torna insomma a essere americana a tutti gli effetti, pure travestita da multinazionale con quartier generale a Londra, di nuovo una delle tre insieme alla Gm e alla Ford che gli investitori possono prendere in considerazione per fare affari. Nel 2009, l'amministrazio- OHIO Un operaio monta pneumatici su una Jeep Wrangler presso lo stabilimento Chrysler North Assembly di Toledo BILL PUGLIANO / GETTY IMAGES così la Chrysler torna americana Auto | Rientra in Borsa (con Fiat) dopo sedici anni. E riprende il suo posto tra le big di Detroit. La scommessa obamiana è vinta? Ecco per chi suona la campanella di Wall Street ne Obama diede a Marchionne le chiavi della Chrysler in bancarotta pilotata e prestiti agevolati (rimborsati in anticipo) per gestire quel che si sarebbe rivelato un successo manageriale dell'uomo col maglione. Per Obama, il salvataggio della Chrysler (e della Gm) con l'iniezione di 60 miliardi di denaro pubblico (più i precedenti 25 dell'era Bush) è stata invece la più solida vittoria politica e base della sua rielezione. Conquistando per esempio nel 2012 lo stato dell'Ohio, che valeva 850 mila posti di lavoro dell’automotive, culla industriale della Jeep e senza il quale nessun candidato repubblicano è mai riuscito ad arrivare alla Casa Bianca. Cinque anni dopo, la campanella del Nyse suona anche per molti lavoratori del gruppo americano. Nelle fabbriche e negli uffici della Chrysler, della Jeep e degli altri marchi, il numero dei dipendenti è passato in questi cinque anni da 32 mila a 55 mila. Una crescita netta, anche se va tenuto in conto che nell'ultima fase di Daimler e poi di Cerberus ci furono molte incentivazioni a licenziarsi (haircuts in America) per mostrare al nuovo compratore quanto fosse basso il costo del lavoro. Il sindacato dei metalmeccanici, lo Uaw, l'ha però pagata cara insieme ai suoi aderenti, firmando un contratto in cui si rinunciava a benefit, si dava ai neo assunti la metà della paga degli altri a parità di funzioni, si negava il diritto di sciopero. Nel 2015, questo contratto scade e il sindacato, che nel giugno scorso ha cambiato presidente, chiederà a Marchionne e ai suoi omologhi di Gm e Ford (cambiati anche loro) di mettere un'altra marcia. Nel 2013, gli iscritti a Uaw sono aumentati del 2% come non accadeva dal 2008, meno di 400 mila persone rispetto agli oltre un milione e mezzo del 1979: è sicuro che alla Chrysler come nelle altre due Big ci saranno pressioni fortissime per avere una busta paga più pesante, con dentro anche il sacrosanto diritto di sciopero. Ma per la Chrysler fusa con la Fiat, i problemi maggiori potrebbero venire dal merca- to di riferimento nordamericano. Qui il gruppo di Auburn Hills sta macinando record di vendite, lo scorso settembre è stato il 53esimo mese consecutivo di crescita, da tempo a due cifre (+19% complessivamente, +47% per Jeep marchio-gallina dalle uova d'oro). E fanno soldi a palate in parti- Sta macinando record sul mercato Usa. Ma il meglio potrebbe essere già alle spalle colare i marchi degli enormi e americanissimi pick up, come Ram e Dodge Ram. In un report di Exane Bnp Paribas pubblicato alla vigilia dell'esordio borsistico di Fca, il capo analista Stuart Pearson ha scritto che il mercato statunitense è sì cresciuto del 30% negli ultimi tre anni, ma «il meglio potrebbe essere passato». E così, mentre il 13 ottobre la Chrysler farà fremere d'orgoglio molti ameri- cani, la banca d'affari francese consiglia agli investitori di «ridurre l'esposizione sugli Usa»; meglio puntare sulla solita Cina e (paradossalmente) sull'Unione europea dove si attende una ripresa della produzione. La nota dell’analista è arrivata dopo una settimana pesante per le altre due Big americane: la Ford ha dovuto rivedere al ribasso gli obiettivi a causa degli smottamenti dei mercati in Russia, in America Latina e in Europa, la Gm è stata bastonata in borsa dopo che un analista di Morgan Stanley ha dato un outlook negativo sui profitti. Marchionne ha invece ribadito che i suoi obiettivi restano intatti e che di una eventuale revisione se ne parlerà semmai alla fine di ottobre, dopo la presentazione dei risultati del terzo trimestre. Il report della banca d’affari francese è insensibile alle sirene dell’amministratore delegato di Fiat Chrysler e al doppio cambio in valigia di Palmer: il titolo Fca .- si legge ancora nella nota agli investitori - rimane «il meno attraente» fra i tre di Detroit, perché la gamma Fiat Chrysler è invecchiata e quando scatterà nel 2016 la vera offensiva dei nuovi modelli il mercato Usa potrebbe «indebolirsi»; perché il gruppo paga un ritardo enorme in Cina; perché Chrysler – rispetto a Gm e Ford – ha meno capacità di generare cassa. Eppoi, questi italiani. Exane dice a Chrysler perché suocera Fiat intenda: la banca consiglia agli investitori i titoli Gm e Ford perché danno più garanzie ai loro azionisti di un ritorno, mentre in Fca agli azionisti potrebbe essere chiesto di mettere soldi per l’esecuzione del piano industriale. Il 29 ottobre il consiglio di amministrazione di Fiat Chrysler Automobiles si riunirà per valutare tutte le opzioni. Marchionne, per una volta, è stato sibillino: non esclude nulla e sostiene di rimettersi alla volontà dei soci. «L’aumento ci sarà - ci dice un altro analista - non si è mai visto un Marchionne che non sa cosa farà tra un mese». La famiglia azionista di riferimento Agnelli-Elkann non mette un euro dal 26 giugno del 2003 (550 milioni). E nessuno ha poi gradito che Marchionne abbia escluso una quotazione a parte della Ferrari, il gioiello del gruppo per utili e prestigio internazionale. Forse sarebbe bene che Palmer disobbedisse per una volta al suo capo e si portasse dietro non due cambi, ma sette camicie. @fpatfpat pagina 99we | 10 | STORIE VASCO BRONDI Lungo lo stradone una fila di negozi con tutti i sacramenti moderni, e donne che vanno a far la spesa pedalando come se il tempo per loro non avesse peso. Una chiesetta in stile gotico d’epoca fascista, fioriture di antenne televisive sui tetti, e anche qui quel tono da vita nelle riserve. È un po’ come essere sotto il livello standard del progetto finanziario di vita universale Gianni Celati, Verso la foce n Mi sono accorto all’improvviso di vivere in Emilia attraverso le cose che leggevo, le canzoni che ascoltavo, i film che guardavo. Sono cresciuto a Ferrara e sembrava normale tutta quella pianura attorno, il fiume enorme vicino alla città, l’accento, la simpatia, le lamentele, il dialetto, le strade strette, i campi arati, i cieli bianchi, i paesaggi geometrici, le bestemmie, le preghiere, il silenzio di mattina, di pomeriggio e di sera. Probabilmente da piccolo credevo che tutto il mondo fosse più o meno così. La mia cartina geografica dell’Emilia è stata disegnata dai libri, dai dischi e dai film che rendevano protagonisti quei posti che sembravano anonimi, sembravano luoghi in cui niente sarebbe potuto succedere. Mi hanno fatto scoprire il posto in cui vivevo e da cui volevo ovviamente andarmene in fretta. Forse davvero non c’è niente di speciale, solo ottimi raccontatori che hanno reso epici dei posti minuscoli. Come quando ho sentito una canzone di Lucio Dalla che diceva Tra Ferrara e la luna e non ci po- sabato 11 ottobre 2014 cronache emiliane d’epica geografia artistica Paesaggi | La Ferrara di Bassani e di Antonioni. E poi la Bologna disegnata da Pazienza, il bar di Tondelli, i percorsi di Celati. Il cantautore ripercorre per pagina99 la topografia eroica dei posti raccontati da libri, canzoni e film Uno scenario bello e triste, poiché come scriveva Zavattini la malinconia è originaria del Po, altrove si tratta di imitazioni tevo credere. Tutte queste opere sono state per me come un libretto d’istruzioni scritto in modo poetico. Piazza Verdi e la coda per la mensa dell’università di Bologna disegnata da Pazienza in Pentothal. Le mitiche avventure del Posto Ristoro, il bar vicino alla stazione di Correggio descritto da Tondelli in Altri libertini. Le case misere ma fiere abbandonate in mezzo alla campagna e fotografate da Ghirri. Il diario allegro e disperato del viaggio a piedi sull’argine del Po scritto da Celati. Una passeggiata sulle mura di Ferrara in un inverno del 1944 descritta da Bassani che potrebbe essere dell’inverno scorso o del prossimo inverno. Ferrara sempre identica in bianco e nero nel 1950 nel primo film di Antonioni e a colori nel 1995 nel suo ultimo film. Zavattini che torna da Roma per stare un mese nel suo paesino d’origine, Luzzara, pernottando in una casa del centro e nell’appartamento di sopra sentiva un bambino piangere e la madre che si svegliava e lo raggiungeva camminando sui talloni perché il pavimento era gelato. Ho fatto viaggi di pochi chilometri nei posti meno turistici del mondo e mi sono sembrati bellissimi, cercando i luoghi che leggevo sui libri. Posti insignificanti diventavano leggendari. I Cccp che dicevano «Non a Berlino ma a Carpi» e io non capivo niente e con un mio amico abbiamo preso un paio di treni a sedici anni e siamo andati a Carpi a vedere cosa c’era se la consideravano addirittura meglio di Berlino. Abbiamo trovato una piazza enorme deserta, tantissima gente normalissima, nessuno vestito come noi ma ci è piaciuta comunque. Forse alla fine abbiamo capito che più o meno era come stare a Ferrara e allora ci è venuto il dubbio SCENARI In alto a sinistra, la foto realizzata da Luigi Ghirri per la copertina dell’album Epica Etica Etnica Pathosdei Cccp. In alto a destra, Bologna, via Stalingrado che intendessero che i nostri posti andavano benissimo e che anche lì i desideri si possono realizzare. Ho incontrato Massimo Zamboni dei Cccp qualche giorno fa per uno spettacolo che abbiamo fatto assieme. Dice che gli sembra incredibile la traccia che hanno lasciato i Cccp e quello che tutti si immaginano «quando noi – mi ha detto – stavamo in piedi per mi- racolo». E ho pensato che i miracoli sono importanti. Una volta sono andato in macchina a Canolo, la frazione del comune di Correggio dove sorge in mezzo ai campi un piccolo cimitero quadrato, una specie di fortino, splendido. Ho parcheggiato lì davanti, c’ero solo io. Seguendo il portico a destra, in fondo in alto ho trovato la lapide di Pier Vittorio Tondelli con una foto che non avevo mai visto, sullo sfondo dietro di lui dei graffiti, non mi ricordo che espressione avesse, credo sorridesse perché mi aveva reso felice. Per qualche strano motivo mi si stringe ancora la gola quando ripenso a uno scritto di un amico di Tondelli andato a trovarlo in ospedale in uno degli ultimi giorni della sua vita. Tondelli sentendosi chiedere come stava rispondeva sabato 11 ottobre 2014 | pagina 99we STORIE | 11 L’AUTORE n Cronache Emiliane è il titolo dello spettacolo che Vasco Brondi ha concepito per Romaeuropa Festival (andrà in scena il 17 e il 18 ottobre a Roma, presso la Pelanda del Macro testaccio, ore 22.00). Il cantautore presenterà le sue canzoni accompagnate da alcune letture elettrificate (l’accompagnamento musicale è affidato a Federico Dragogna). La scenografia dello spettacolo sarà realizzata invece con le foto di Luigi Ghirri. L’idea, che Vasco Brondi ha esemplificato nell’articolo scritto appositamente per pagina99, è quella di raccontare i suoi luoghi, le piccole cittadine emiliane, come un genius loci: un luogo dell’affetto, un territorio geografico, musicale, culturale e politico sospeso tra la terra e la luna. A partire dalle immagini di Luigi Ghirri, ognuna delle quali è un vero e proprio set di una raccolta di narrazioni, Le Luci della Centrale Elettrica presenterà musiche originali, cover stravolte e testi di Gianni Celati, Roberto ILARIA MAGLIOCCHETTI LOMBI Roversi, Pier Vittorio Tondelli e Cesare Zavattini. Un viaggio nell’immaginario che nutre la poetica dello stesso cantautore, reduce del successo del suo ultimo disco, Costellazioni, o un percorso per confondere la Via Lattea con la Via Emilia. ARCHIVIO GHIRRI ARCHIVIO GHIRRI «infinitamente triste». E poi diceva di non avere lavorato abbastanza e che sarebbe passato alla storia come uno scrittore emiliano minore. Invece con i suoi libri mi ha cambiato la vita. Sono stato a Gualtieri, il paesino dove ha vissuto e disegnato Ligabue, pioveva e nella piazza il museo che ospita i suoi quadri era chiuso per i danni causati dal terremoto, in piazza solo un si- gnore anziano seduto con l’ombrello aperto su una panchina e due operai maghrebini che lavoravano in una casa che affaccia sull’argine e poi sempre affacciato sull’argine l’unico negozio aperto, un kebabbaro. Chi ci avrebbe mai pensato. Anche quando il comune ha messo una targa sulla casa in cui è cresciuto Antonioni a Ferrara pioveva. La casa adesso è appena fuori dal centro, mentre prima, racconta Celati, in quel punto si era praticamente in mezzo a un bosco. Scrive Wim Wenders nel suo diario delle riprese di Al di là delle nuvole, l’ultimo film di Antonioni di cui Wenders era tecnicamente co-regista, che Ferrara era una delle pochissime parole che Antonioni riusciva ancora a dire non essendo più in grado di parlare a causa della malattia. Wenders vedendosi tagliare nel montaggio finale tutte le scene girate in città e chiedendo spiegazioni ad Antonioni questo gli rispondeva semplicemente Ferrara e indicava verso di sé, per dire che Ferrara era sua e poteva riprenderla solo lui. Antonioni che scriveva: «Il resto è nebbia. Ci sono abituato. A quella che circonda le nostre fantasticherie e a quella di Ferrara. Qui, d’inverno, quando scendeva mi piaceva camminare per le strade. Era il solo momento in cui potevo pensare d’essere altrove». A Ferrara ancora adesso cammino nelle strade descritte da Bassani, passo davanti al vecchio carcere dove durante il fascismo era finito anche lui ma diceva che si era trovato molto bene, che in quegli anni in carcere c’era anche della gente bellissima. Sono riuscito a incontrare Gianni Celati ma non gli ho detto che grazie al suo libro Verso la foce ho fatto uno dei viaggi più belli che mi sia capitato andando in bicicletta per cento chilometri dal centro di Ferrara fino a Goro, la foce del Po, procedendo sempre dritto, scendendo dall’argine solo per prendere qualcosa da bere in un bar. Vedere all’improvviso che comparivano in cielo i gabbiani. Trovare nel piccolo porto di Goro quello che credevo fosse un bar, perché c’erano davanti seduti una decina di anziani che parlavano e giocavano a carte, invece entrando nel chiosco mi sono accorto che dentro c’erano solo macchinette automatiche ma che era comunque un luogo di incontro. Un giorno in una lunga deviazione nella strada che faccio spesso da Ferrara a Milano ho trovato la casa di Luigi Ghirri a Roncocesi, la casa in cui ha vissuto gli ultimi anni, quella fotografata da lui con la neve davanti e per terra la traccia di ruote. Anche quando ho cercato quella casa sembrava stesse per nevicare e non sono sicuro di averla trovata, si somigliavano tutte. Ripensavo a Ghirri che scrive che Zavattini scrive che la malinconia è originaria del Po, che altrove si tratta di imitazioni. le mappe dell’appartenenza del provinciale Luigi Ghirri Sguardi | Fotografava nei dintorni di casa, ma poteva essere l’America. E l’assenza di storia diventava narrazione Ostiglia, centrale elettrica, 1987 ANDREA DUSIO n Con un nome così fotografico per il proprio progetto, Le luci della centrale elettrica, è probabile che Vasco Brondi senta un’affinità naturale col lavoro sul paesaggio che incarna la parte più conosciuta della produzione di Luigi Ghirri, quella schiacciata sull’idea di emilianità che è diventata un po’ il discorso minimo attorno al fotografo di Scandiano. Esiste però una consonanza più sfuggente, inscritta in una sensibilità poco italiana, sensibilità nel caso di Brondi continuamente fraintesa dalla critica attraverso i paragoni con la scuola dei nostri cantautori, e che anche in merito a Ghirri si presta ad analoghi travisamenti, per lo scambio superficiale tra sguardo e oggetto. Quando, verso la metà degli anni Settanta, l’Istituto di Storia dell’Arte dell’Università di Parma era uno degli avamposti di riflessione sulla fotografia contemporanea, Ghirri, che allora era interessato soprattutto all’arte concettuale e alla ARCHIVO GHIRRI registrazione dalla rappresentazione di territorio e paesaggio (le sue mappe precorrono quello che è diventato uno dei temi fondamentali del design), ebbe modo di conoscere alcuni fotografi americani che spostarono sensibilmente i suoi interessi, a partire da Walker Evans, Dorothea Lange e Lee Friedlander. A quel tempo, la fotografia italiana era ancora soprattutto di reportage, disconosciuta come linguaggio ad alto potenziale di sperimentazione, relegata nella retroguardia del sistema delle arti visive, anche come valore mercantile. Ghirri, in cui oggi ci sembra di ravvedere la lezione di Morandi, rimase in realtà profondamente affascinato dalla straight photography di Evans, così lontana dal pittoricismo residuale dei nostri fotografi di paesaggio. Pur se mediata dall’esempio local-local dei bolognesi Massimo Volume, la musica che costituisce la texture per le canzoni di Vasco Brondi è anch’essa di ascendenza schiettamente americana, gemmazione del noise-rock dei newyorkesi Sonic Youth. Feedback, chitarre preparate e accordature alternative indicate dal compositore Glenn Branca alla band di Thurston Moore e Lee Ranaldo suonavano nel panorama dell’art rock all’inizio degli anni Ottanta come una terza via tra la frigidità del post-punk e la fisicità del garage. La ricezione di quella lezione avvenne in Italia con almeno un decennio di ritardo. Ma rappresentò un enorme allargamento delle risorse espressive, risolvendo il problema dell’incompatibilità della nostra metrica con il rock. Ghirri guardava a Evans e Friedlander, il leader dei Massimo Volume Emidio Clementi sul cui esempio è modellato l’asimmetria apparente tra economie di testi e suoni che è il tratto distintivo del progetto Luci della centrale elettrica - a Jim Carroll e Robert Lowell. Senza spingere oltre le analogie, sembra importante recuperare l’osservazione delle foto di paesaggio di Ghirri, continuamente a rischio di sprofondare in un immaginario emiliano indistinto in cui si mescolano Fellini e Delfini, Marino Moretti e Silvio D’Arzo, Giovanni Lindo Ferretti e Franco Maria Ricci, a una riflessione che ponga la sua opera a confronto con quella dei maestri americani così bene messi a fuoco in quella fucina teorica parmigiana (si pensi ai contributi di Arturo Quintavalle). E dunque William Eggleston, Paul Strand, Ansel Adams, i New Documents e New Topographics, oggetto di un’attività critica in prima persona che appare oggi la chiave d’accesso più interessante per un nuovo approccio al suo lavoro. La questione dell’appartenenza ai luoghi però resta, e con essa il tentativo di far coincidere la passione per i viaggi domenicali, quelli che Ghirri poteva compiere senza allontanarsi che pochi chilometri da casa, con la ricerca ossessiva delle inquadrature naturali, come un segno nel segno (una mappa nella mappa?) entro cui il paesaggio, e dunque lo spazio, si rappresenta come una tautologia, con una forza raddoppiata. Un pezzo di architettura rimasto a delimitare un brano di cielo, un filare di alberi, il cancello che è tutto ciò che resta di un’antica proprietà. Perimetrare, delimitare, e il suo contrario, aprire, sconfinare. Il senso intrinsecamente americano del suo lavoro è inscritto anzitutto nella scelta della provincia come luogo in cui l’assenza di storia diventa narrazione visiva e soglia, adesione al luogo che contiene anche l’evasione da esso e da sé, come chi sappia che il proprio sguardo è destinato a dissolversi prima del più insignificante angolo di mondo. pagina 99we | 12 | OPINIONI CHRISTIAN RAIMO* u L EG G E R E n Qualche settimana fa a Bologna si è svolto un convegno organizzato dall’associazione Hamelin sugli adolescenti e la lettura. Per chi non li conosce, gli Hamelin sono un gruppo di Bologna che in questi anni, attraverso una rivista e cento iniziative, sono diventati un riferimento rispetto alla lettura per ragazzi e per l’infanzia. Incredibilmente, a seguire l’incontro c’erano 300 persone (insegnanti, bibliotecari, editori…) che avevano pagato 35 euro l’una, il che mi sembrava quanto meno un indizio evidente di un interesse non marginale per questi temi oggi in Italia, e la domanda enorme di formazione. Ha aperto la giornata Romano Montroni, libraio storico (alle Feltrinelli o poi alle Coop) e neo-direttore del Cepell, il Centro per il Libro e la Lettura, e per fortuna ha dato un segno inequivocabilmente diverso rispetto al suo predecessore. Se Gian Arturo Ferrari (alla Mondadori per anni) parlava di nuove la politica analfabeta e il crollo del welfare culturale strategie di mercato per vendere i libri nell’era del passaggio dal cartaceo al digitale, Romano Montroni giustamente se ne frega di questa falsa questione e pone l’accento sugli interventi educativi. Quindi lancia per la fine di ottobre (29, 30, 31) una tre giorni di letture ad alta voce proprio nelle scuole. Il titolo scelto è Libriamoci. Si potrebbe applaudire all’iniziativa, se non fosse che mi sono venute in mente almeno un paio di obiezioni che da vari anni a questa parte chiunque si occupa di politica culturale pone. La prima, che senso hanno queste iniziative sporadiche, una tantum, simboliche? La seconda, perché non partire dai modelli di promozione della lettura che già esistono, mapparli, metterli in rete, valutarli e da quelli progettare gli interventi? Queste obiezioni non sono come si dice di scuola. (Quando vedo che il Tropico del Libro, un sito che si occupa di editoria, lancia Open Atlas sulla lettura per ragazzi, una rete che mappi le varie iniziative che esistono in Italia, dalla rivista Andersen a Biblioragazzi ai Piccoli Maestri, mi viene da dire: ma perché il Cepell arriva sempre dopo e sempre malino?) Ma, se dovessi farle a voce, tradirebbero un tono un po’ recriminatorio. Da un po’ di anni ormai, c’è un folto numero di persone in Italia che si occupa di politiche culturali e lo fa supplendo a una mancanza o a una fragilità di forze, di competenze, e soprattutto di visione di chi ha un ruolo politico. Assessori imballati, responsabili culturali ingenui, decisori irresoluti, e una quantità nettamente eccessiva di impreparazione in ruoli chiave. Ora questa funzione suppletiva per me deve finire. Per varie ragioni evidenti. La prioritaria è che il welfare culturale – il sistema dei teatri, dei sabato 11 ottobre 2014 musei, delle biblioteche, degli archivi… - sta crollando. Nelle ultime settimane solo a Roma ha chiuso il Teatro Eliseo e sono stati licenziati gli orchestrali dell’Opera. La risposta della politica a questa rovina strutturale è la riduzione dell’offerta, l’esternalizzazione, la resa. Mai, dico mai, la reazione è quella di immaginare una politica di sistema sulle leve dell’educazione culturale: introdurre uno studio del teatro o della musica serio nei licei, formare gli insegnanti alla promozione alla lettura (invece di una tre giorni), consentire una cogestione degli spazi pubblici attraverso forme di reale partecipazione e sussidiarietà, che non vogliono dire supplenza, volontariato, ma governo, presa di responsabilità. Altrimenti, quando ogni anno, commentiamo i tassi crescenti di analfabetismo funzionali e tassi decrescenti di lettori, poi non facciamo finta che un po’ non è anche colpa nostra. *scrittore e insegnante u 99 NASONI di Joshua Held u SA N I TÀ u MATRIMONI GAY ora ammettiamolo Ebola ci riguarda un Paese ossessionato dall’omosessualità altrui CECILIA STRADA* n Alla fine è successo: il primo contagio da Ebola su suolo europeo. La notizia ha suscitato paura, è accaduto a noi qualcosa che era sempre stato “un problema degli altri”. La paura è umana; inaccettabile, invece, è la strumentalizzazione di questa catastrofe umanitaria condotta in modo irresponsabile, e non da ieri, da più di un politico. Esiste un rischio Ebola in Europa? No, se pensiamo che Ebola arrivi su un barcone. Non viaggia così: le caratteristiche del virus rendono inverosimili questi allarmi, pura propaganda. Ebola può viaggiare in aereo? Sì. Un uomo d’affari in business class, allora, è più pericoloso di un disperato su un barcone. Bisogna bloccare i voli? No, dicono gli esperti: al contrario, aumenterebbe le proporzioni della catastrofe, rendendo più dura la vita degli operatori sul campo, alimentando la disperazione. E poi, dice l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il rischio qui è mini- mo, perché l’Europa ha tutti gli strumenti per reagire davanti a un caso di Ebola: isola il paziente, traccia la storia dei contatti, dispiega la logistica necessaria. In sintesi: sistemi sanitari pronti a reagire, personale, soldi. «Ma come facciamo a proteggerci?». Bisogna affrontare il problema, ed è proprio quello che è mancato. La catastrofe in Sierra Leone, Guinea, Liberia non dipende solo dal virus, ma dagli ultimi anni. Come siamo arrivati fin qui? Per capirlo potremmo guardare i tagli al bilancio dell’Oms e l’effetto sui dipartimenti che si occupano di epidemie: «Abbiamo il 35% di personale in meno rispetto a cinque anni fa», dicono a Ginevra. Inevitabilmente la risposta diventa lenta e inefficace. O possiamo guardare i Paesi africani coinvolti: sistemi sanitari senza risorse, personale insufficiente. Non potevano fermare l’epidemia, e quando sarà finita non saranno finiti i problemi perché si morirà di tutto il resto, più di quanto non si morisse prima. Che fare, allora? I governi dei Paesi ricchi e potenti devono mettere subito a disposizione i soldi, la logistica, il personale per agire dove Ebola, oggi, sta uccidendo e devastando. E devono farlo subito. Senza un impegno mondiale, immediato, Ebola non si ferma. Poi bisognerà smettere di ignorare i problemi fino a quando non bussano alla nostra porta. Assumersi la responsabilità di rifinanziare le organizzazioni internazionali – a partire dall’Oms – che lavorano per noi tutti. Investire in ricerca e prevenzione, e sì, farlo anche se è una malattia che uccide soprattutto in Africa, dove non ci sono ricchi compratori di vaccini. Aiutarli a ricostruire i loro sistemi sanitari. Se vogliamo ridurre il rischio per l’Europa, dovremmo cominciare a fare queste cose. E dovremmo farle comunque: perché siamo esseri umani e ci importa degli altri esseri umani. Anche quando non vivono a Roma o Madrid. *presidente di Emergency ANNA PAOLA CONCIA* n Non so davvero più come affrontare il tema del riconoscimento delle coppie omosessuali. Debbo confessare che in questi anni, per spiegare, ho utilizzato tutte le parole che avevo a disposizione. È ancora più difficile oggi che vivo e lavoro in Germania, e insieme alla mia compagna Ricarda, dallo Stato e dalla società siamo considerate una famiglia. L'Italia, su questo tema, mi sembra sempre più lontana e incartata in un'inutile (quando non ridicolo) spreco di energie. Si, perché l'annuncio del Ministro Angelino Alfano di una circolare contro i Sindaci che riconoscono i matrimoni contratti all'estero tra persone dello stesso sesso, è un inutile conflitto tra Istituzioni. Potrebbe essere evitato se l'istituzione preposta a legiferare su questo tema, cioè il Parlamento, appunto legiferasse. Quella di Alfano è propaganda, è evidente. Sanno tutti che la scelta dei Sin- daci di riconoscere i matrimoni omosessuali non può in nessun modo sostituirsi a una legge dello Stato. I sindaci danno solo servizi. Eppure è partita la tarantella sui giornali. Le sentinelle in piedi subdolamente, con apparente pacatezza, lanciano messaggi falsi e discriminatori. E parte anche qui la polemica. In Italia quando si parla di omosessualità parte sempre la polemica. Ai giornali piacciono il gay e la lesbica perché tirano la polemica. E mai nessuno che vada oltre. In Germania di gay e lesbiche non si parla, se non in alcuni servizi televisivi sull'educazione alla sessualità nelle scuole. I gay e le lesbiche vanno molto in televisione, ma perché sono giornalisti stimati, conduttori di programmi nazional popolari, politici, attori, scrittori, imprenditori. Qui l'omosessualità è una cosa normale. Ti dimentichi anche di esserlo, e vi assicuro è una bellissima sensazione. Perché viverla è molto meglio che sognarla. Qui vieni giudicato dalla tua serietà, professionalità , onestà, se paghi le tasse. Vale per gli eterosessuali, come per gli omosessuali. E le tue energie sono concentrate sulla tua vita, sui tuoi progetti, sul tuo lavoro. Non su quello che dice o non dice Angelino Alfano o sulle manifestazioni delle sentinelle in piedi. Oppure sulla quotidiana esternazione di rappresentanti delle istituzioni che sembrano non pensare ad altro che all'omosessualità altrui. Qui sei un cittadino e una cittadina che può contribuire al bene della società, non ti senti soffocare. Anche questa è crescita, anche questo è sviluppo, anche questo è uno strumento per uscire dalla crisi. Faccio il tifo per il mio paese, per questo conto sui molti e molte nel Governo, nel Parlamento e nella società che vogliono uscire da questo eterno medioevo, su questi come su altri temi. *senior consultant sales, Camera di commercio italiana per la Germania sabato 11 ottobre 2014 | pagina 99we MAPPE | 13 FONTE: WORLD BANK l’America Latina cerca centri di gravità permanente Bussole | Quindici anni dopo la rottura chavista, le sinistre devono imparare a leggere i nuovi bisogni dell’elettorato. Come insegna il primo turno in Brasile NICCOLÒ LOCATELLI n A Dilma Rousseff non sono bastati quattro anni di crescita economica e la conferma delle misure di welfare a favore delle classi più deboli volute dal suo predecessore Lula per vincere al primo turno le presidenziali in Brasile. Nulla è compromesso: la candidata del Partito dei Lavoratori (Pt) e attuale capo di Stato dovrebbe riuscire a garantirsi un secondo mandato tra poche settimane, superando Aécio Neves del Partito socialdemocratico brasiliano (Psdb, che a dispetto del nome è di destra) al ballottaggio del 26 ottobre. Quello stesso giorno si terràil primoturno dellepresidenziali inUruguay: dovrebbero andare al ballottaggio il candidato di centrosinistra ed ex presidente Tabaré Vazquez e Luis Lacalle Pou del Partido Nacional o Blanco, di centrodestra. Per quella data, con ogni probabilità la Bolivia avrà già celebrato il trionfo di Evo Morales, al potere dal 2006 (a La Paz si vota il 12 ottobre). Tre votazioni in un arco di tempo ristretto in tre Paesi a loro modo simbolici dell’America Latina (il Brasile per le dimensioni economiche e geopolitiche; la Bolivia per la questione indigena; l’Uruguay per la solidità delle istituzioni democratiche) permettono di azzardare una riflessione che oltrepassa le frontiere dei collegi elettorali e investe tutta la regione, a quindici anni dall’inizio della cosiddetta svolta a sinistra – l’inaugurazione del primo mandato di Hugo Chávez in Venezuela nel 1999. Partiamo dal Brasile, non tanto perché possiamo già ragionare sui dati del primo turno, quanto perché la storia degli ultimi 16 mesi racchiude delle lezioni valide per tutti i governi dell’area. Fino a giugno 2013 la popolarità di Dilma Rousseff era al 70% e l’ipotesi che per rimanere a Planalto (la sede ufficiale del capo di Stato) dovesse passare per un ballottaggio sembrava fantascientifica. La Confederations Cup l’anno scorso e – molto meno – i Mondiali di calcio quest’anno hanno però dato un palcoscenico globale ai delusi della presidente. Le proteste, originate dall’aumento dei biglietti degli autobus di San Paolo a fronte del servizio scadente, si sono rapidamente allargate nello spazio e negli argomenti. Hanno coinvolto le principali città del Paese e temi che dovrebbero essere il fiore all’occhiello di un governo di sinistra riformista: la qualità dell’istruzione, delle cure mediche, dei trasporti pubblici, la lotta alla corruzione e l’effettiva democraticità del sistema. Cos’è accaduto? Nei suoi otto anni a Planalto (2003-2010), Lula ha fatto la rivoluzione: non tanto nelle politiche adottate – il suo predecessore Cardoso aveva timidamente preparato la strada sia nel welfare sia nell’attenzione economico-finanziaria – quanto nell’impostazione. Il presidente operaio ha messo al centro della sua agenda i diseredati del Paese, sussidiandone i bisogni e riuscendo in pochi anni a traghettarne milioni fuori dalla povertà. u segue alle pagine 14 e 15 pagina 99we | 14 | MAPPE sabato 11 ottobre 2014 NICCOLÒ LOCATELLI u segue da pagina 13 n Ciò è stato possibile anche grazie ai prezzi record delle materie prime (di cui il Brasile è grande esportatore) negli anni precedenti alla crisi mondiale e all’apertura di Lula verso i capitali internazionali. Dilma è arrivata al potere quando la crisi aveva già iniziato a premere al ribasso sui prezzi delle commodities e ha adottato una politica protezionista a beneficio delle aziende nazionali. Complice anche un real (la moneta nazionale) troppo fluttuante, il Paese ha più che dimezzato la sua crescita fino a entrare in recessione nel primo semestre del 2014. Quest’anno dovrebbe crescere meno dell’1% secondo il governo; nel 2010, quando Dilma vinse le elezioni, la crescita fu del 7,5%. Il Brasile è inoltre diventato meno competitivo e me- Rousseff paga il ribasso delle materie prime e l’ostilità della finanza. Ma anche l’impressione che il Partido dos Trabalhadores abbia finito per incancrenirsi al potere no attraente per gli investitori, che da mesi stanno facendo spudoratamente il tifo per la sconfitta della presidente: basti guardare con quale euforia ha reagito la Borsa brasiliana ogni volta che un sondaggio ha dato Dilma in calo. Ma la colpa principale della presidente, parafrasando Trotsky, è quella di non aver reso la rivoluzione «permanente»: non aver capito cioè che la nuova classe media creata da Lula, lungi dall’essere grata in eterno al Pt, ha nuove esigenze, nuove aspettative e nuove rivendicazioni; non si accontenta dei servizi gratuiti, li vuole di qualità. In questi anni il governo del Brasile e il suo principale partito hanno dato l’impressione di essersi incancreniti al potere, ricorrendo a pratiche (la corruzione su tutte, vedi gli scandali Mensalão e Petrobras) che mal si conciliano con un partito che dovrebbe stare dalla parte degli ultimi. Dilma è favorita al ballottaggio, perché malgrado tutti i suoi problemi il Brasile di oggi è migliore di quello di quattro anni fa (o 12, considerando anche l’era Lula) e perché lo sfidante Neves non pare in grado di conquistare tutti i voti di Marina Silva, la candidata “liberal-ambientalista” arrivata terza al primo turno. Ma le proteste del giugno scorso e il consenso –se sommato, superioreal 50%–raccolto dai due oppositori di Dilma sono un segnale valido anche fuori dal Brasile: persino i sostenitori più fedeli possono stancarsi dei leader, se si dimostrano troppo attaccati alle poltrone e poco interessati al benessere dei loro concittadini. Il Venezuela è forse l’esempio più lampante di un potere in cancrena. A un anno e mezzo dalla scomparsa di Hugo Chávez (5 marzo 2013) stanno emergendo nella loro drammaticità tutti i problemi che il colonnello bolivariano –incapace di o non interessato a risolverli – aveva saputo nascondere o sfruttare: la polarizzazione politica, l’indifferenza per la separazione dei poteri, l’eccessiva dipendenza dall’esportazione delle materie prime, la spesa pubblica (compresa quella a fini elettorali o internazionali) fuori controllo, la violenza per le strade. Chávez bypassava queste criticità grazie al PAULO WHITAKER / REUTERS/CONTRASTO CAMPAGNE La candidata e presidente uscente Dilma Rousseff saluta i suoi sostenitori durante un comizio lo scorso 4 ottobre a Porto Alegre, Brasile «così do la caccia alle bugie di Dilma» DAVID GALLERANO n «Marina Silva la più contraddittoria. Aécio il più esagerato. Dilma la più affrettata». Questa, in sintesi, la valutazione sui tre candidati di Preto no Branco, il primo esperimento di fact checking intrapreso dalla grande stampa brasiliana. La creazione della giornalista Cristina Tardáguila è passata da un piccolo blog sul sito di O Globo al giornale di carta, il più diffuso e influente del Paese, ottenendo un clamoroso successo. Per Tardáguila, raggiunta al telefono da pagina99, «il politico mentiroso, bugiardo, è una piaga in Brasile. Sebbene cresca lentamente, il livello di educazione del popolo brasiliano è ancora generalmente molto basso». Un vantaggio per i politici, che «se ne sono sempre approfittati». Finché Tardáguila non ha pensato di importare il modello americano del fact checking. Gli enunciati dei principali candidati alla presidenza vengono analizzati e poi incasellati in “Positivi” (Vero, Vero ma...) o “Negativi” (Falso, Esagerato, Contraddittorio, Prematuro). Nel bilancio finale, pubblicato all’indomani dei risultati del primo turno, si nota una curva da verdade in netta crescita. «Vorrei poter credere che siamo rapporto diretto con il popolo e alla capacità di tenere uniti dietro di sé i vari settori del suo fronte: dai militari alla compagnia petrolifera nazionale Pdvsa, epurata dopo il tentato golpe anti-chavista del 2002, ai membri del Partito socialista unito del Venezuela. L’attuale presidente Maduro non ha né il carisma né le capacità del suo predecessore; vittorioso l’anno scorso con un margine esiguo in elezioni legittime ma non legittimanti, per consolidarsi grida continuamente al golpe. Dietro a questi numerosi quanto immaginari tentativi di colpo di Stato ci sarebbero i nemici di sempre: la destra colombiana vicina all’ex presidente Uribe, quella venezuelana –che in realtà con le sue divisioni contribuisce alla stabilità di Maduro – e naturalmente gli Stati Uniti d’America. Ma da quando al posto di Bush jr, da Chávez simpaticamente ribattezzato «Mr Devil», c’è un democratico nero come Obama, criticare la superpotenza è più difficile. Anche perché quest’ultima riserva all’America Latina il benign neglect, quell’indifferenza benevola caratteristica della sua politica regionale po- st-guerra fredda. Washington essenzialmente ignora i Paesi a sud del Rio Grande/Rio Bravo a meno che non siano in ballo i suoi interessi nazionali (su temi come l’immigrazione e il traffico di droga) o le sue ossessioni (Cuba, malgrado le aperture di Obama e le riforme economiche di Raúl Castro). Il resto, compreso lo spionaggio ai danni di Dilma e della compagnia petrolifera brasiliana Petrobras, è rumore di fondo. Il Venezuela con Chávez aveva basato la propria politica estera sull’opposizione agli Usa, che pure rimangono il primo partner commerciale di Caracas; oggi la crisi economica non permette a Maduro l’assertività internazionale – con relativa esposizione mediatica –del suo predecessore. Un discorso simile vale per il più importante alleato sudamericano del Venezuela, l’Argentina: oltre dieci anni di “sistema K”, prima con Néstor Kirchner, adesso con sua moglie Cristina, hanno rianimato Buenos Aires dopo il collasso legato al default del 2001. Questo decennio non è stato però sfruttato per modernizzare il Paese e svincolarlo dalla dipendenza dall’export di materie prime. Ri- Cristina Tardáguila | Parla la factchecker che esamina i candidati. E ha affondato Marina Silva riusciti a influenzare a tal punto i discorsi dei candidati» confessa Tardáguila, «ma va detto che se le loro frasi vere sono via via aumentate, in misura minore sono cresciute anche quelle false». Ossia: ai candidati, più che accorciarsi il naso, si è allungata la lingua. «C’è poi da dire» aggiunge la giornalista «che al progredire della campagna elettorale aumentano le competenze dei candidati, che in qualche modo imparano a presentare correttamente le loro proposte». Ciò non dovrebbe riguardare però la presidente uscente Dilma Rousseff – reduce della campagna del 2010 e da quattro anni di governo con esposizione pubblica conti- nua –che tuttaviaprimeggia nellaclassifica delle frasi false di Preto no Branco. È Rousseff una grande bugiarda – conscia del suo successo tra le classi più povere e meno istruite – oppure è O Globo, notoriamente ostile al Partito dei Lavoratori, che la vuole far passare come tale? «Si noti che in termini relativi la quota di bugie e frasi vere è più o meno simile tra tutti i candidati» – protesta la giornalista – «la differenza è che Dilma ha 11 minuti al giorno di propaganda gratuita in tv, Aécio 4 e Marina ne aveva 1,5. Semplicemente, Dilma parla di più e sbaglia di più». Il miglioramento della curva da verdade non vale per tutti. Al crollo di Marina Silva, che fino a poche settimane dal voto era in vantaggio su Dilma e oggi è fuori dalla contesa, corrisponde un esponenziale aumento di frasi false. «È che quando ha cominciato ad andare bene, Rousseff ha rivolto tutta la sua artiglieria contro di lei. E la poverina è stata costretta a reagire. In difesa mentiva, in attacco diceva cose vere. A godere, naturalmente, il terzo contendente, Neves». In più momenti il lavoro del blog ha avuto un’influenza diretta sulla campagna elettorale. Per aver sbagliato (per eccesso) la cifra del saldo del bilancio dello Stato, Rousseff è stata crocifissa dagli avversari, con atteggiamenti della serie it’s the economy, stupid. Per aver mentito sulla sua passata votazione contraria al Cpmf – una tassa sulle transazioni finanziarie a beneficio di investimenti sulla sanità pubblica – Silva ha forse perso il treno per il secondo turno. Ora al via la seconda fase dell’opera di Preto no Branco. Riparte la caccia al politico mentiroso, piaga del Brasile (e non solo). sabato 11 ottobre 2014 | pagina 99we sultato: oggi si torna a parlare di Argentina solo per l’eredità velenosa del crack del 2001, che a causa di un mancato accordo con alcuni fondi di investimento ha portato la quarta economia latinoamericana (dopo Brasile, Messico e Colombia) in default tecnico. Va meglio agli altri due alleati del Venezuela. L’Ecuador e la Bolivia sono spesso accomunati a Caracas perché i loro presidenti, Rafael Correa ed Evo Morales, apparterrebbero alla stessa sinistra populista ed estrema di Chávez. A parità di rapporto diretto con il popolo e indifferenza/disprezzo verso la separazione dei poteri, Correa e Morales stanno per ora riuscendo in quello che dovrebbe essere l’obiettivo di tutte le sinistre latinoamericane, “chaviste” e “riformiste”: coniugare le politiche redistributive a favore delle classi più basse con la creazione di nuova ricchezza, l’intervento dello Stato in economia con lo spazio per l’iniziativa privata nazionale e internazionale, il sostegno alla domanda con l’equilibrio di bilancio. Questo spiega come stravincano le elezioni e raccolgano al tempo stesso il gradimento di imprese e istituzioni finanziarie internazionali. Nel loro caso, il rischio non è tanto quello di incancrenirsi al potere oggi, quanto quello di scontare l’eccessiva dipendenza dalla Cina (sotto forma di prestiti, investimenti, scambi commerciali) domani. Uno dei motivi per cui Ecuador e Bolivia stanno crescendo molto – e l’America Latina in generale ha retto meglio che in passato a questa crisi economica – è proprio la domanda cinese di materie prime. Ottima, ma per difendersi dalla volatilità delle quotazioni delle commodities è importante “salire” nella catena produttiva e iniziare a ven- MAPPE | 15 privatizzazioni e controriforme il Brasile che sogna la restaurazione Ritorni | Il lulismo ha latitato su salute, sicurezza, giustizia. E oggi c’è fame di cambiamento. Su questo appetito affila le posate il candidato del Psdb Aécio, nipote di quel Tancredo Neves che morì poco prima di insediarsi alla presidenza In Bolivia ed Ecuador Morales e Correa riescono a coniugare redistribuzione e creazione di nuova ricchezza. Ma la separazione dei poteri vacilla dere merci che abbiano del valore aggiunto. L’ampliamento dei rapporti con una Cina in ascesa è in ogni caso una delle grandi conquiste dell’America Latina del post-guerra fredda. Non solo della sinistra: la novità più interessante degli ultimi anni non è l’Alba ispirata da Fidel Castro e Chávez, ma l’Alleanza del Pacifico voluta da Messico, Colombia, Perù e Cile (da poco tornato a sinistra con Michelle Bachelet) con l’obiettivo di fare dei loro Paesi una piattaforma degli scambi con l’Asia Orientale e con Pechino in particolare. Un’alleanza che per obiettivi, impostazione libero-scambista e basso profilo retorico è l’esatto opposto dell’asse bolivariano voluto da Cuba e Venezuela, e che – pur essendo più giovane di questo – ha maggiori prospettive di successo. Due parole sull’Uruguay. Non tanto perché a fine mese si vota anche qui; il centrodestra può vincere grazie al suo ringiovanimento, mentre la coalizione di centrosinistra del Frente Amplio punta su un ex presidente di 74 anni che dovrebbe succedere a un presidente di 79. Quanto perché proprio l’attuale presidente José Mujica si è fatto promotore di una norma che – se non verrà stravolta dal prossimo capo di Stato – legalizza il consumo e soprattutto nazionalizza la produzione di marijuana. L’Uruguay è un Paese di circa 3 milioni di abitanti e non saranno le sue decisioni a cambiare le sorti del narcotraffico mondiale, soprattutto visto che il vicino Paraguay (principale produttore sudamericano di marijuana) non pare avere i mezzi né la forza di combattere la produzione e l’export di cannabis. Ma dopo circa 40 anni di fallimentare guerra alla droga voluta dagli Stati Uniti, la legge approvata a Montevideo riapre il dibattito su una questione che – tra Paesi produttori, esportatori, di transito e consumatori –riguarda tutto l’emisfero. Su questo argomento le barriere tra sinistra e destra cadono e non è raro trovare (ex) presidenti conservatori pronti a valutare la legalizzazione e altri di sinistra – tra cui la stessa Dilma – più scettici. Il tema è destinato a rimanere centrale in America Latina. Comunque finiscano le elezioni in Brasile e Uruguay, è presto per intonare il De profundis sulla sinistra sudamericana. L’alternativa che i governi riformisti e chavisti hanno davanti è chiara: rivoluzione permanente, intesa come capacità di dare nuove risposte ai nuovi bisogni dell’elettorato e del Paese in generale. Oppure incancrenimento al potere, con il conseguente rischio di perderlo in maniera dolorosa e inaspettata. La scelta è nelle loro mani. Cittadini in fila per le votazioni nella favela di Rocinha, la più grande di Rio de Janeiro, ottobre 2014 ALBERTO RIVA n Diciamo che nella costruzione del thriller sulle elezioni brasiliane era stata ideata una variazione di trama. Dilma Rousseff correva (e corre) per la rielezione contro Aécio Neves, leader del partito che da dodici anni è il maggiore avversario del Pt di Lula, cioè il Psdb, Partito della socialdemocrazia brasiliana. Sulla scelta della variazione gli sceneggiatori sono stati, è vero, un po’ drastici: prendere il jet privato del terzo candidato, il socialista Eduardo Campos, e farlo precipitare sulla città di Santos (patria di Pelé e di Neymar). A quel punto, l’unica conseguenza poteva essere l’entrata in gara di Marina Silva (vice di Campos), carismatica ex-ministra luliana, ecologista, che nel 2010 aveva preso, da sola, 20 milioni di voti. Di colpo, lo scenario cambia. Marina scalza Aécio nei sondaggi e si piazza al secondo posto dietro Dilma. Ma l’infatuazione dura poco: a differenza dei colleghi, Marina non finge di ignorare il voto dei milioni e milioni di evangelici (è lei stessa praticante) e si mostra vacillante sui temi etici: omofobia, aborto, eccetera. Inoltre ha sempre fatto molta paura all’establishment petista, in quanto il suo profilo indio e la quasi monastica coerenza ne fanno una specie di Lula ante-litteram. È presa di mira da tutti, e finisce per ricadere al terzo posto in un crescendo verdiano al contrario. Si arriva a domenica 6 ottobre: Dilma al primo posto (41%) e Aécio che riconquista il secondo, e meglio di quanto sperasse (33%). Marina non ha vinto, ma (con il 21%) ha frantumato la solidità del centro-sinistra. Aécio, oggi come oggi, è la destra, che in Brasile si traduce in un pensiero rimasto alle ormai nebbiose ricette di Fernando Henrique Cardoso, predecessore di Lula, che mentre implementava qualche timido programma sociale (d’altra parte è un sociologo) spingeva massicciamente sulle privatizzazioni, e in aeree strategiche come petrolio e risorse minerarie, alcune riuscite del tutto, altre a metà (vedi la Petrobras, rimasta in mano al governo). Lula, giunto al potere il primo gennaio 2003, inverte la rotta: acceleratore pigiato sui programmi sociali (Borsa Famiglia, Luce per tutti, La mia casa la mia vita, ecc.) e rafforzamento dello Stato nella politica economica e finanziaria. Non c’era la crisi mondiale, all’inizio. Dilma ha ereditato queste direttrici e la crisi. E infatti la votano i poveri. Però il modello si è piegato sotto il peso di una coscienza sociale più robusta. Lula e Dilma hanno latitato su salute, sicurezza, giustizia. E oggi c’è fame di cambiamento. Su questo appetito adesso affila le posate Aecio Neves, 54 anni, ex-governatore del grande Minas Gerais, nipote di quel Tancredo Neves che fu eletto presidente nel 1984 ma morì improvvisamente (altro colpo di scena) prima di prendere possesso dello scranno. Tancredo Neves – che nel lontano 1953 fu ministro della Giustizia di Getúlio Vargas, il dittatore populista che guardava con ammirazione a Mussolini – tentò di allearsi con Il consenso del governo ha iniziato a cedere sotto il peso di una coscienza sociale più robusta Hitler, ma fu rimesso in riga da Roosevelt. Aécio Neves ha masticato politica fin da ragazzo all’ombra del nonno. Si affilia al Psdb, partito che nasce nel 1988 (anno della nuova Costituzione post-regime militare) in uno scenario all’epoca dominato dal Pmdb (oggi diffusissimo partito moderato) e il Pt emerso dalle battaglie sindacali di San Paolo. Il Psdb, il partito dei Tucanos (i tucani sono il loro simbolo) è quello che porta F. H. Cardoso alla presidenza ed è il partito che, ormai da MARIO TAMA / GETTY IMAGES tempo immemore, guida lo Stato di San Paolo, vale a dire la maggiore e più inquinata economia del Sud America, regione che da sola ha le dimensioni, il Pil e il traffico d’auto di un Paese di medie dimensioni. Aécio si prepara alla presidenza da anni. La crisi del Pt e la frantumazione politica sono la sua grande occasione. Gli effetti già si vedono. Quello eletto domenica è il parlamento più conservatore degli ultimi dodici anni. Cosa significa? Significa la presenza di numerosi deputati evangelici nel vero senso della parola, cioè pastori di chiese. E una settantina di deputati “ruralisti”, cioè rappresentati degli interessi dei proprietari terrieri (e in Brasile per la terra non si scherza, si muore). Destra in Brasile significa questo: contrasto alle leggi per legalizzare aborto e liberalizzazione delle droghe leggere (il problema del narcotraffico in Brasile è una piaga sociale), e acerrime resistenza alle riforme per la salvaguardia della terra, della foresta, delle riserve indigene. Questi settori sono trasversali ai partiti e hanno più o meno forza a seconda delle alleanze. L’incognita riguarda quale spazio e quali nuove alleanze potrebbero formarsi con un governo formato da Aécio Neves. E sulla base delle alleanze, pragmatiche (non programmatiche), quali idee rendere vincenti. sabato 11 ottobre 2014 | pagina 99we MAPPE | 16 la stella solitaria del sogno texano Indipendentismi | A Dallas e dintorni tornano pulsioni mai sopite. Animate da motivazioni economiche e strategiche. Segnate però da uno spirito 100% Usa DARIO FABBRI n In Texas indipendentismo e idiosincrasia per l’ingerenza di Washington si intrecciano da oltre un secolo nei sentimenti della popolazione, al punto che è spesso assai complicato rintracciare un principio di causalità tra Un sondaggio del 2009 rivela che il 42% dei locali voterebbe per la secessione le due tendenze. Stato più esteso dell’Unione e unico soggetto federato con un passato da Repubblica, il Lone Star State (nomen omen) è da sempre attraversato da pulsioni secessioniste. Eppure, le rivendicazioni di leader e cittadini locali tradiscono uno spirito eminentemente americano. Perfino nell’attuale fase di revival autonomista, in cui il Texas sembrerebbe disposto ad abbandonare gli Stati Uniti. La percepita alterità perCOSTUMI Un evento vade la cultura e le usanze organizzato ad Austin statali. Le vie di Austin – cadalla Star of Texas Fair pitale consacrata al fondatoand Rodeo, associazione re della Repubblica, Stephen no-profit fondata nel 1938 Austin – sono dedicate pressoché esclusivamente alle battaglie e ai personaggi della rivoluzione indigena: San Jacinto, Gonzales, Lamar, Bowie. A Houston – megalopoli eponima del primo presidente texano Sam Houston – la monumentale Washin- di avere una griglia elettrica gton Avenue non è intitolata autonoma che, qualora gli al ben più celebre George, Usa fossero oggetto di un atma a Washington sul Brazos, tacco cibernetico, manterla cittadina in cui fu pensata rebbe acceso unicamente lo l’offensiva anti-messicana. Stato della stella solitaria. Da queste parti l’aggettivo Ciò nonostante, è solo con “nazionale” si usa per indica- la fine della guerra fredda re il “locale”: la birra Lone che l’indipendentismo torna Star è la national beer e il a ispirare movimenti politici, football è il national pastime, in contrapposizione con il baseball passatempo pre- l LE ORIGINI ferito dal resto degli Usa. A scuola gli studenti apprendono di un periodo aureo in cui qui «vigeva la totale autodeterminazione». E il sincopato inglese parlato dai texani (drawl) ha caratteristiche uniche nel panorama continentale. n Benché i padri della “Nazione” si considerassero statuniOltre alle reminiscenze retensi e il loro obiettivo ultimo pubblicane, ad alimentare fosse tornare alla madrepatria, l’anelito indipendentista sotra il 1836 e il 1845 il Texas è stano i connotati economici e to una repubblica e da sempre strategici dello Stato. Il Tel’epopea ribelle costituisce il xas è il principale produttore mito fondante dell’indipendendi gas degli Stati Uniti e postismo locale. siede le maggiori riserve di Originariamente parte del petrolio del Paese (quasi 10 Messico, la provincia di Comiliardi di barili, un terzo ahuila y Tejas fu anglicizzata a del totale). Proprio la straorpartire dal 1821 per iniziativa dinaria disponibilità di idrodell’imperatore Augustín de carburi, caso unico in Nord America, consente ad Austin ULRICH EIGNER / ANZENBERGER / CONTRASTO violenti e pacifici, e a riscuotere consensi tra la popolazione locale. Nel 1989 il rancher Rick McLaren fonda la compagine Republic of Texas che persegue la secessione da Washington e si batte contro «l’occupazione statunitense». No-global e fondamentalista cristiano, McLaren ritiene la lotta armata l’unico mezzo per raggiungere l’emancipazione politica. Nel 1997, dopo aver preso in ostaggio una coppia di anziani che si rifiuta di cedere il proprio terreno alla “repubblica texana”, si asserraglia armato assieme ad altri sei attivisti nel suo ranch di Fort Davis, prima di arrendersi alla polizia. Accusato di se- una Repubblica costruita intorno a Fort Alamo Iturbide che, intenzionato a popolare il territorio, offrì notevoli agevolazioni ai contadini statunitensi che si fossero stabiliti oltreconfine. In poco più di un decennio circa 35 mila coloni guidati da Stephen Austin si stanziarono tra i fiumi Sabine e Rio Grande, a fronte di appena 8 mila cittadini messicani. Contrari alla legislazione anti-schiavista e alla tassazione adottate nel frattempo da Città del Messico, nel 1835 gli empre- questro di persona e attività eversiva, nel 2000 viene condannato a 99 anni di carcere. Sulle ceneri della Republic of Texas emerge in seguito il Movimento Nazionalista Texano (Tnm) guidato da Daniel Miller, che mira alla secessione pacifica. Abile a sfruttare il malcontento popolare generato dalla crisi economica e dalle successive riforme approvate a Washington, negli anni Duemila Miller riesce a conquistare fette di elettorato avulse alla politica e a collocarsi nella galassia del Tea Party. Oggi risultano iscritti al Tnm oltre 250 mila cittadini e il partito può vantare solidi sarios estadunidenses si ribellarono all’autorità centrale, rifiutandosi di consegnare un cannone al colonnello de Ugartechea. Fu l’inizio della rivoluzione. Il 2 marzo 1836 a Washington sul Brazos i coloni dichiararono l’indipendenza della repubblica texana, innescando la reazione del governo messicano. Ne seguì una guerra di sette mesi, segnata da scontri sanguinosi: su tutti l’assedio dell’Alamo, oggi parte della memoria storica statunitense, e il massacro di Goliad, in cui furono trucidati quasi 400 anglofoni. Fino a quando, nella decisiva battaglia di San Jacinto, gli indi- legami con numerosi deputati statali. Addirittura, secondo un sondaggio del 2009 – il più recente in ma- Oggi l’autonomismo è anche la risposta conservatrice alla liberal Washington teria – il 42% dei texani sarebbe pronto a votare l’indipendenza propugnata da soggetti come il Tnm. Tuttavia, proprio tale successo palesa la radice americana del secessionismo texa- pendentisti riuscirono a sbaragliare la resistenza messicana e a imporre al nemico la firma dell’armistizio. A ottobre Sam Houston fu eletto presidente della Repubblica e Stati Uniti e Francia si affrettarono a riconoscere il nuovo soggetto politico. Tuttavia i governanti texani si dimostrarono incapaci di amministrare lo Stato: in meno di 9 anni accumularono un debito di 10 milioni di dollari e le truppe messicane invasero il territorio altre quattro volte. La stagione indipendentista si concluse nel dicembre del 1845 quando, su espressa richiesta dei leader locali, Washington annesse la neonata Repubblica. no. Sebbene animati da ardore libertario, i fondatori della leggendaria Repubblica, le cui gesta costituiscono tuttora la scintilla delle rivendicazioni locali, si sentivano profondamente statunitensi. Durante la guerra rivoluzionaria Stephen Austin chiese più volte l’intervento militare degli Usa e già nel marzo del 1836, pochi giorni dopo la proclamazione della Repubblica, Sam Houston propose al presidente Andrew Jackson di incorporare il territorio strappato ai messicani. Allo stesso modo il governatore Rick Perry, che pure nel 2009 durante un comizio s’è detto favorevole alla secessione, probabilmente nel 2016 si candiderà alla Casa Bianca per la seconda volta consecutiva. Come accaduto un secolo fa, ad animare le istanze autonomiste non sono ragioni di carattere etnico o religioso, quanto gli americanissimi desideri di autodeterminazione e agevolazioni fiscali. Piuttosto che immaginarsi nazione, i texani rimpiangono l’alba della costruzione statale, quando i coloni abbandonavano i territori d’origine in cerca di condizioni di vita più favorevoli. E oggi, tendenzialmente conservatori, vedono nella minacciata indipendenza l’antidoto contro la deriva liberal di Washington e il declino economico. Senza rinnegare il peculiare spirito americano che li anima inconsapevolmente. pagina 99we | 17 | MAPPE sabato 11 ottobre 2014 ICONE RAIN All’anagrafe Jung Ji-Hoon, il 31 enne Rain è conosciuto come “il Re del k- pop” . Oltre alla musica,con 6 albumall’attivo, lasua attività si estende alle soap opera e al cinema (ha lavorato in Speed Racer dei fratelli Wachowski e, accanto a Bruce Willis e John Cusack, in The prince, uscito negli Usa nel 2014). Gli SHINee, band pop sudcoreana, si esibiscono a Marina Bay, località turistica di Singapore ELISA CONTI n Nel 2013, all’arrivo in Usa del rapper sudcoreano Psy, il protagonista di Gangnam Style, il video più visto di tutti i tempi, il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon, suo connazionale, dovette riconoscere che la fama del musicista eclissava la sua. Effetto dell’hallyu, termine usato a Seul per indicare l’influenza culturale, quel soft power, ovvero la capacità di condizionare gli altri che, secondo il politologo americano Joseph Nye, assicura a un Paese una rilevanza politica internazionale superiore al suo peso economico, demografico o militare. Ed è essenziale anche per le sue entrate: nel solo 2013, per esempio, i profitti derivanti da musica, film e videogiochi coreani hanno toccato i 4,7 miliardi di dollari, con l’obiettivo di raddoppiarli entro il 2017. Se si considera che nel 1980 gli incassi erano zero, mentre dal 2008 al 2012 sul mercato estero sono aumentati del 19 % l’anno, si comprende perché nel suo discorso di insediamento, poco più di un anno fa, la neopresidente Park Geun-hye si sia impegnata ad allocare almeno il 2% del budget nazionale in favore di un rilancio culturale. E si capisce anche il calcolo della Bank of Korea che, presentando un piano di finanziamenti da 917 milioni di dollari in 3 anni, ha comunicato agli analisti che «le soap opera, la musica e la cucina presentano elevati potenziali di crescita e meritano adeguati supporti finanziari». «Il governo ha speso miliardi di dollari per rendere figa la Corea. Se investi abbastanza soldi, non puoi fallire», dice a pagina99 la giornalista coreana Euny Hong, che in The Birth of Korean Cool. How one Nation is conquering the World through Pop Culture (ed. Picador) illustra come un Paese che negli anni 50era più poverodello Zimbabwe sia riuscito a emergere globalmente. La leggenda vuole che a indurre il primo ministro Kim Young-sam a puntare sulla Korean Wave nel 1994 sia stato l’incasso mondiale del film Jurassic Park di Steven Spielberg, superiore alle vendite della Hyundai. Ma la chiave del successo è stata l’alleanza tra pubblico e privato, che Hong etichetta come «coercizione volontaria». «Se il governo dà indicazioni alle imprese», EDGAR SU / REUTERS / CONTRASTO KIM KI DUK la scoperta del cool e il boom coreano Se Park Chan-wook è il filosofo della vendetta, così acclamato da essere stato chiamato a dirigere il suo primo film made in Usa (Stoker, con Nicole Kidman ), Kim ki duk è il poeta della crudeltà. Nel 2011 ha vinto il premio Un certain Regard a Cannes; nel 2012, il Leone d’oro al festival di Venezia; per il film Pietà. Modelli | Oltre Gangnam style, c’è uno Stato che punta sull’industria pop per crescere. Non senza revanscismi DAVID CHANG sottolinea, «rifiutarsi non è un’opzione. D’altra parte, tutta la nostra storia, dal 1948 in poi, fa perno sull’accordo profondo tra istituzioni, industria e popolazione su cosa sia meglio per il Paese. Ci sono proteste, ma ogni coreano ritiene che tutto ciò che avvantaggia lo Stato sia un guadagno anche per lui». E nel fatidico 1994, dato che il livello tecnologico era lontano da quello delle nazioni avanzate, si decise di non rincorrerle neppure, saltando direttamente al digitale, con la precoce installazione della banda larga sull’intero territorio. Poi, «dopo la crisi finanziaria del 1997-1998, il premier Kim Dae-Jung suggerì a Hyundai e Samsung di concentrarsi su ambiti specifici: la prima doveva abbandonare i semi conduttori e fare auto. La seconda piantarla con le auto e focalizzarsi sull’elettronica. Lo scopo era eliminare le inefficienze, sopprimendo una competizione inutile. Come se oggi Barack Obama dicesse a Microsoft: “Smettete di rivaleggiare con i Google Glass. Solo Google puo costruire supporti simili, quindi usate le vostre risorse per qualcos’altro”». In Corea funzionò così. E con successo, visto che il Samsung Galaxy è tuttora uno degli smartphone più venduti. La sinergia tra pubblico e privato ha dato frutti anche in altri settori. Quello cinematografico ha beneficiato per venti anni di aiuti privati e pubblici, elevando la qualità dei suoi film al punto da farli regolarmente accettare in festival elitari come Venezia e Cannes (dove Old Boy di Park Chan-wook ha vinto il premio della Giuria nel 2004). Ma l’offensiva culturale ha seguito anche traiettorie non convenzionali. Per esempio, le soap opera coreane spopolano in Cile, Uzbekistan o Egitto, perché il governo asiatico ha pagato per farle tradurre. Il target sono i Paesi in via di sviluppo, di modo I profitti da musica, film e videogiochi nel 2013 hanno toccato i 4,7 miliardi di dollari che, una volta ricchi, aspirino ai prodotti piazzati sul set. Uno studio ha mostrato che a 100 dollari di intrattenimento esportato corrispondono acquisti di make up, tecnologia e cibo coreano per circa 400 dollari. «Un altro Stato, prima di veicolare uno show all’estero, avrebbe valutato se poteva guadagnarci», spiega Hong. «La Corea, invece, prima traduce una soap e poi cerca con chi dividere i costi. Se non lo trova, se li accolla per intero». Questo business model poggia su un K factor, un fattore etnico: lo han. «È un peculiare tipo di rabbia che è parte integrante della cultura della Corea, un Paese che in 5000 anni ha subito 400 invasioni senza mai aver invaso nessuno», nota Hong. «Nel manuale diagnostico psichiatrico esiste perfino una malattia specifica , lo hwabyoung, causata dallo han, e se ne può morire». Lo han ha alimentato il desiderio di rivalsa, e quindi la competizione, principalmente con l’arcinemico Giappone. Negli anni ’90, l’obiettivo di Samsung era battere non Microsoft o Apple, ma la nipponica Sony. Nel 2002, finalmente, Samsung ne superò la quota di mercato. Due anni prima del previsto. Eppure, oggi proprio il Paese del Sol Levante intende imitare l’esempio coreano e riposizionarsi sul mercato come Cool Japan, grazie a un fondo da 500 milioni di dollari. Hong, forse per origine, è scettica sull’operazione. «Il cool si può costruire fino a un certo punto. Cina e Giappone hanno invaso più volte il sud est asiatico e qui sono i cattivi. Invece noi siamo la vittima che si riscatta e tutti ci hanno in simpatia. In più, per la loro storia, pochi giapponesi sarebbero disposti a cedere gran parte del controllo al governo. E la Cina è ancora troppo disomogenea al suo interno per condurre un’impresa collettiva come la nostra. Ma è il nostro principale consumatore. E dovremo tenerne conto». Orgoglio della comunita di foodies coreani trapiantati in America, Chang si è guadagnato due stelle Michelin grazie alla cucina fusion dei suoi due ristoranti di New York, Momokuku e Momofuku ko. Di origine coreana è anche Hooni Kim, lo chef del newyorkese Danji (una stella Michelin), che scandalizza i compatrioti perchè mette in conto il Kimchi, il tipico cavolo fermentato. Per un coreano è come far pagare l’acqua del rubinetto. YOON EUN KYUNG E KIM EUN-HEE Sono i due acclamati autori di Winter Sonata, serie tv incentrata su un architetto colpito da amnesia, che ha spopolato in Uzbekistan, Iraq, Egitto. In Giappone il successo è stato tale che l’export dalla Corea ai confini nipponici è cresciuto di 2,3 miliardi di dollari nei primi due anni dalla messa in onda. Si stima in 27 miliardi di dollari il giro d’affari generato dalla serie nel settore del turismo internazionale. sabato 11 ottobre 2014 | pagina 99we MAPPE | 18 neanche nel Botswana un diamante è per sempre Risorse | Il Paese meno corrotto d’Africa è diventato un modello di sfruttamento delle miniere. Ha strappato alla De Beers l’80% dei proventi e il controllo di tutta la filiera. Ma i giacimenti potrebbero presto esaurirsi LORENZO SIMONCELLI n GABORONE. A quattro chilometri di distanza dall’aeroporto di Gaborone, capitale del Botswana, uno dei pochi Paesi virtuosi dell’Africa sub-sahariana, si erge maestoso nel mezzo della savana un complesso di 35 mila metri quadrati con alte mura di pro- Fra il 1966 e il 1999, l’economia locale ha registrato la crescita più elevata al mondo tezione e telecamere ovunque. È il Debswana Complex, il quartier generale di una società compartecipata 50-50 tra la famiglia De Beers, ormai nelle mani del gigante minerario Anglo-Gold ma ancora leader mondiale nella vendita di diamanti, e lo Stato del Botswana. Da qui esce il 40% del rifornimento annuo di diamanti grezzi. Il piccolo Paese sub-sahariano (2,1 milioni di persone), insieme alla Repubblica democratica del Congo, è primo al mondo per produzione di diamanti grezzi, 22 milioni di carati all’anno (dati Statista.com). La maggior parte viene estratta da Jwaneng (culla delle piccole pietre in Setswana, la lingua locale), una miniera scoperta nel 1982, capace di produrre circa 2,5 milioni di carati al mese (un carato vale tra i 3 mila e i 26 mila dollari a seconda di colore e brillantezza), garantendo un fatturato da 6 miliardi di dollari all’anno. Nel 2006 De Beers si è assicurata i diritti di estrazione per i successivi 25 anni. Vedendosi costretta, tuttavia, a scendere a patti con il governo locale. Il 15% delle pietre preziose va direttamente all’Okavango Diamond Company, al 100% nelle mani dello Stato, che ha il diritto di vendere i diamanti a qualsiasi cliente. Un canale che garantisce un terzo del Pil al Paese, la cui economia si basa di fatto sull’export delle pietre preziose. Nell’accordo è previsto che nelle casse di Gaborone De Beers debba anche CONFLITTI i boscimani sotto sfratto per le pietre Dato che la riserva di Jwaneng è stata attribuita in concessione alla De Beers fino al 2021 e che verso il 2030 probabilmente non sarà più produttiva, il governo locale sta cercando nuovi depositi di diamanti. La località è stata identificata a Gope, nel bel mezzo della Central Kalahari Game Reserve, un deserto arido dove vivono, o meglio vivevano, circa 5 mila boscimani (sono 100 mila in tutto il Paese), tribù ancestrale dedita alla caccia. Va usato il passato perché sono stati recentemente sfrattati dal governo di Gaborone, con l’accusa di «rovinare la fauna selvatica» per via della loro condotta non più sostenibile. Al contrario, i privati che vengono da ogni parte del mondo per cacciare gli animali selvatici non ricevono alcuna restrizione, a patto che paghino alti pedaggi all’ingresso delle riserve (tra loro, nel 2012, l’ex re di Spagna Juan Carlos). Tutto lascia pensare che la vera giustificazione dello sfratto sia legata a cosa c’è sotto la terra, e non sopra. Lo scorso 5 settembre sono iniziati i lavori di estrazione nella miniera di proprietà della Gem Diamonds, che si è assicurata diritti minerari per 25 anni e a produzione completa dovrebbe fatturare 4,9 miliardi di dollari annui. Un progetto in fieri da oltre dieci anni, quando era ancora di proprietà della De Beers, ma su cui il governo aveva sempre negato l’intenzione di procedere. La decisione di iniziare il fracking, la rottura della roccia, non segue propriamente la decisione governativa di conservare il territorio, dato il forte impatto sull’ecosistema che l’estrazione mineraria provoca. Nonostante nel corso degli anni diverse sentenze di tribunali locali abbiano riconosciuto i diritti dei boscimani a tornare a occupare le loro terre, la maggior parte di loro vive in campi di reinsediamento fuori dalla riserva. Secondo Survival International, organizzazione inglese a protezione dei diritti dei popoli indigeni, questa nuova collocazione impedisce loro di vivere normalmente, rendendoli dipendenti dalle razioni alimentari governative, e spingendoli così verso l’alcolismo e altre attività antisociali. JOAO SILVA / CONTRASTO ESTRAZIONE Lavoratori nella miniera di diamanti di Jwaneng, Botswana versare le tasse e il 75% dei guadagni delle proprie esportazioni. L’80% dei proventi rimane dunque nel Paese. Un patto che lascia soddisfatta anche la multinazionale sudafricana. Per il Ceo di De Beers Philippe Mellier, «con questa mossa portiamo il mercato dei diamanti in una nuova era della storia». Questo modello produttivo è in effetti unico in Africa, dove spesso vige la nazionalizzazione delle miniere, come in Zimbabwe e Zambia (con risultati pessimi), e fa invidia ai vicini di casa del Sudafrica, un tempo l’Olimpo dell’estrazione delle pietre preziose e oggi relegato al 53° posto su 112 Paesi in termini di attrazione per investitori esteri (dati Fraser Institute). «Il Botswana è unico, ha miniere ricche e produttive e un governo stabile e affidabile» ha confermato James Suzman, ex capo delle relazioni esterne di De Beers. Anche se si trova da 48 anni al potere, ossia dall’indipendenza britannica del 1966, il Botswana Democratic Party – che quasi sicuramente vincerà anche le elezioni del prossimo 24 ottobre – ha garantito lo sviluppo della più antica democrazia multipartitica funzionante nel Continente. Risultato certificato anche dal Mo Ibrahim Index, che ha consegnato a Gaborone lo scettro di Paese meno corrotto d’Africa. Se a questo si aggiunge una crescita economica media del 9% tra il 1966 (anno dell’indipendenza dalla Gran Bretagna) e il 1999, la più alta al mondo, si capisce perché il Botswana si è trasformato nella mecca dell’estrazione diamantifera. Ma i problemi non mancano. A cominciare dal tempo. L’aumento della richiesta, soprattutto asiatica – che nel 2016 varrà il 28% della domanda mondiale – sta riducendo la quantità delle pietre preziose in superficie (passata da 33,6 milioni di carati nel 2007 a 22,7 lo scorso anno), costringendo le aziende a scavare più a fondo, e con costi maggiori. «Le principali miniere sono state ormai sfruttate dai grandi gruppi e difficilmente si troveranno nuove cave di rilevanza comparabile» ha detto a pagina99 Keith Whitelock, ingegnere minerario attivo da 60 anni nel settore. Il 2030 è considerato l’anno limite in cui, almeno in Botswana, i diamanti potrebbero essere finiti. Ed è proprio pensando al futuro che il governo di Gaborone, attraverso un nuovo accordo con De Beers, ha di fatto costretto l’azienda sudafricana a spostare anche il reparto manifatturiero e vendita nel Con la Repubblica democratica del Congo è il primo produttore di carati Paese, nel tentativo di trasformare il Botswana nel primo Paese al mondo a filiera completa: estrazione, produzione e vendita. Un’operazione storica, che ha costretto De Beers a spostare il 60% del suo personale da Londra e a vendere per la prima volta, nel 2013, le proprie pietre a Gaborone invece che nella City. Un progetto di cui beneficia buona parte della popolazione. Il 50% degli impiegati delle vendite è autoctono e sono state già costituite 21 aziende manifatturiere che impiegano 3.200 persone. Tuttavia la qualità della lavorazione, almeno rispetto ai grandi centri come Tel Aviv o Anversa, è ancora scarsa. I costi di produzione sono ancora troppo alti, tra i 40 e i 60 dollari al carato. Dai 30 ai 50 carati in più dell’India, da cui proviene il 60% della lavorazione mondiale. Si aggiunga la carenza di infrastrutture, cui pure il presidente sta mettendo mano, preferendo tuttavia investire sulla diversificazione economica del Paese. Ciò che serve per affrancarsi da una dipendenza integrale dall’estrazione mineraria. Perché, al contrario di ciò che dice lo slogan di De Beers, un diamante non è per sempre. pagina 99we | 19 | MAPPE sabato 11 ottobre 2014 a Kiev le casse sono vuote e si fa la questua per i fucili Fundraising | Il finanziamento dei battaglioni è lasciato alla scelta dei singoli. Fra imprenditori interessati e attivisti votati alla causa, lo slalom dei paramilitari per comprare farmaci e pallottole ILARIA MORANI n DONETSK. All’ingresso dello stadio Olimpico di Kiev i volontari del battaglione Azov attendono le offerte con una cassetta trasparente. Indossano la balaclava e impugnano due aste con le bandiere del gruppo paramilitare che combatte nel Donbass contro i separatisti filorussi. Sono davanti ai tornelli perché molti dei loro compagni sono ultras delle squadre di calcio, soprattutto della Dinamo Kiev e del Dnipro. Il denaro fa parte della cassa destinata al battaglione per comprare attrezzatura militare, cibo e benzina. Oltre a pagare gli stipendi dei combattenti. Il governo ucraino non lo può fare, il ministero della Difesa negli ultimi 20 anni non ha curato il benessere del proprio esercito che ora, in tempo di guerra, è ridotto a chiamare a raccolta migliaia di civili e chiedere loro di difendere il Paese. E sono loro a pagare il prezzo più alto in questa guerra. Ogni giorno in una delle sedi del battaglione Azov, alle spalle di piazza Maidan a Kiev, arrivano almeno 10 ragazzi pronti a superare le selezioni dell’arruolamento. Si presentano con uno zaino in spalla e pochi spiccioli: sono professori, studenti, artigiani, operai. Tutti i battaglioni paramilitari che sostengono l’esercito adottano questa procedura. I più grossi, l’Azov, il Dnipro, Dnipro1, Dnipro2, il Donbass, lo Shachtersk e l’Aydar riescono a diffondere il loro messaggio con facilità, attraverso la radio, la tv, i manifesti nelle strade e raccogliere fino a un milione di hryvnja al mese, circa 58 mila euro. Gli altri hanno un’importanza solo locale e difendono singoli villaggi o perfino strade, nell’est del Paese. Una ragazza ha addirittura comprato un drone per inviare le immagini del suo distretto al Ministero, per controllare se avvengono incursioni. Kiev ha le casse vuote. Molti comandanti dei battaglioni in corsa per un posto in Parlamento nelle prossime elezioni di ottobre nelle interviste annunciano di voler riformare l’esercito e rendere regolari le truppe di volontari, mettere a fondo denaro per comprare attrezzatura e armi di ultima generazione. Ma serve tempo e al momento l’esercito ucraino è costretto a fronteggiare i separatisti che utilizzano armi russe ben più potenti e precise. Chi finanzia allora i difensori del Paese? Se il governo non può che mettere a bilancio solo una piccolissima parte del denaro necessario, utile per l’attrezzatura minima di partenza e pochi medicinali di base per gli ospedali militari, tutto il resto del lavoro è svolto dal volontariato. Militante. Dallo stadio alle piazze. I banchetti per la raccolta sono ovunque. Un conto corrente unico cerca di raccogliere la beneficenza e distribuirla attraverso i canali dei religiosi e delle associazioni. A Dnepropetrovsk, accanto al palazzo della regione, un vecchio istituto di cultura sovietica ospita i volontari del Pravy Sektor (Settore Destro), l’unico, insieme all’Aydar, a non essere sotto il diretto comando del Ministero della Difesa. In quelle stanze si ac- cumulano abiti, cibo e medicine e ogni sabato un’auto parte per la base dei combattenti, accampati nelle campagne dell’est. Accanto, nello stesso palazzo, Natasha coordina il lavoro di alcune donne che cuciono e riempiono borse con il kit di pronto soccorso per diversi battaglioni. «Ci teniamo in contatto tramite i social network e il telefono. Chi ha bisogno chiama e facciamo il possibile», racconta. Manca tutto, soprattutto le garze per tamponare le ferite. Per questo si ricorre a rimedi estremi: «Gli assorbenti interni delle donne sono ottimi per le ferite da arma da fuoco. Nel kit ne mettiamo sempre una scatola». Il leader del Dnipro1, battaglione con sede a Dnepropetrovsk, racconta di un fondo al quale i commercianti della zona di Donetsk possono inviare i propri soldi. Chiunque ha interessi economici nel Donbass ha più necessità di altri a contribuire alla vittoria dell’Ucraina: le miniere e le acciaierie, principale risorsa della Dalle raccolte fondi nelle curve degli stadi agli assorbenti usati per tamponare le ferite, tutti gli escamotage dei volontari per combattere i russi zona, sono ferme da mesi e la crisi già presente da tempo si sta aggravando. Sono gli stessi privati a pagare gli stipendi dei volontari: più o meno 200 euro al mese. Ma non solo. In campagna elettorale sono tanti i politici che sfruttano la situazione per assicurarsi voti: tra di loro si contano i maggiori finanziatori de battaglioni. Il leader del partito dei Radicali Oleg Lyashko ogni settimana si reca a Mariupol, città sotto il controllo dell’esercito ucraino, per sostenere le truppe dell’Azov. L’oligarca è anche il leader del battaglione Ukrayina. Oppure il governatore di Dnepropetrovsk, Ihor Kolomoiskyi, fondatore del Dnipro Battalion. Accanto ai volontari che fanno la questua in piazza c’è un cartello pubblicitario. È ritratto un soldato dell’esercito regolare impegnato in un’operazione, dietro di lui si staglia un cielo nuvoloso e una bandiera blu e gialla: «Spirito e nessuna paura, gloria all’Ucraina» recita l’avviso. Una foto simile appare anche al termine dei prelievi bancomat. Anche qui c’è un soldato in uniforme e fucile in braccio, ma stavolta la frase è più esplicita: «Grazie per il supporto! Grazie per essere un cliente di Private Bank, abbiamo comprato 400 giubbotti antiproiettile per i militari». E tra le possibili scelte: «Dona ai feriti di Ato» (le forze dell’antiterrorismo, ndr), «Dona all’esercito». In farmacia accanto alla cassa una scatola gialla dove inserire i farmaci segnalati nella lunga lista affissa alla porta. Nel centro di Kiev c’è poi l’unico punto di raccolta della città per i generi di prima necessità, questa volta da inviare ai profughi, l’altro TUTTE LE FOTO DI MARCELLO FAUCI AIUTI Dall’alto, Liena che oggi gestisce il gruppo di venti volontari del centro per i profughi del Donbass, l'unico presente a Kiev. Sotto alcuni momenti di vita nella struttura lato della guerra ucraina. Migliaia sono in fuga dalle regioni dell’est per trovare rifugio e accoglienza presso le case messe a disposizione dalle comunità religiose e dai singoli cittadini. Liena ha 45 anni, prima degli scontri di Maidan lavorava come produttrice televisiva. Ma le cose sono cambiate in fretta. Tanti feriti chiedevano aiuto e lei aveva molti contatti per procurare farmaci. «Ho lasciato il mio lavoro e ora gestisco un gruppo di venti volontari come me». Chi si presenta alla porta del centro si deve registrare e dimostrare di provenire dalle zone massacrate dalle bombe. E al sabato si distribuisce anche il cibo. Persino gli ospedali sono sostenuti dai volontari. All’istituto militare di Dnepropetrovsk alcune carrozzine sono state donate da ucraini residenti in Italia. I letti, le attrezzature e i medicinali sono stati acquistati dai cittadini: il governo invia solo i farmaci di base, racconta un medico: «Per il resto dobbiamo attrezzarci con quello che troviamo in farmacia». pagina 99we | 20 | INNOVAZIONI sabato 11 ottobre 2014 sociali ma non squattrinate quando le start-up hanno un’anima Vocazione | Si occupano di cultura, istruzione, sanità, ambiente. E sempre più spesso attraggono l’interesse di investitori alla ricerca di ritorni sicuri. Perché il settore cresce. E anche in Italia, fra mille ritardi, qualcosa si muove HANDUP PAOLO FIORE n Nell’era dei sacerdoti della tecnologia e delle presentazioni liturgiche di nuovi prodotti, c’è chi risponde ancora a una vocazione. Si definiscono così, «a vocazione sociale», quelle start-up che si occupano di istruzione, cultura, sanità, ambiente. Senza che sociale sia necessariamente sinonimo di squattrinato. Perché il modello di business è simile a quello degli aspiranti Jobs. E perché si tratta pur sempre di giovani imprese innovative. In dieci anni l’idea di start-up è cambiata. Non solo garage e circuiti: la vocazione sociale cresce. E inizia, con qualche difficoltà, ad attirare capitali, anche grazie a fonti di finanziamento alternative al canale bancario. Una giovane impresa no profit è finita tra le 10 start-up che la Cnn consiglia di «tenere d’occhio». Si chiama Watsi e utilizza il crowdfunding per «curare persone in tutto il mondo». Ogni donatore può vedere chi riceverà i suoi soldi, per quale intervento serviranno e quanti ne mancano per raggiungere l’obiettivo. Watsi non si ferma a chiedere di donare per migliorare gli ospedali, ma crea un rapporto diretto. Fa conoscere (con tanto di foto) Barnabas, «uno studente tanzaniano che ha bisogno di 1.160 dollari per camminare normalmente». O Kervenson, da Haiti, che curerebbe un disturbo cardiaco congenito con 1.500 dollari. In tre anni di attività, Watsi ha curato oltre 2.600 pazienti grazie a 7.700 donatori. La vocazione ha anche il suo social network. Si chiama GoodWall, una sorta di Fa- cebook delle buone azioni, concentrato su ambiente e diritti civili. Sì a gruppi ed eventi, ma niente «like». Il pollice all’insù è sostituito da un più inclusivo «Take part». GoodWall è stato ideato da sei ragazzi svizzeri e ha raccolto finanziamenti per 1,1 milioni di franchi, 880 mila euro. Tra una start-up innovativa che sogna Zuckerberg e una a vocazione sociale «il modello di business non cambia», dice Alessandro Lerro, avvocato esperto di crowdfunding. Quello che cambia, semmai, è la prospettiva: «È possibile che l’azienda non punti tanto alla crescita di valore, come è tipico della new economy, quanto invece alla produzione di dividendi». Insomma: le dimensioni (e la cessione per fare cassa) non sono tutto. Lerro è stato l’advisor di Pauwlonia, il primo caso di equity BUSINESS UMANITARIO Utenti di hand up, una app che connette donatori e senza tetto destinando i fondi raccolti per cure mediche e ospitalità sabato 11 ottobre 2014 | pagina 99we crowdfunding italiano. Una start-up a vocazione sociale che prende il nome da una pianta a rapido processo di crescita dalla quale si ricava legna leggera, duttile e resistente a forti escursioni termiche. In meno di 60 giorni (la metà di quanto sperato) ha raggiunto l’obiettivo: 520 mila euro. Arrivati non da privati benefattori, ma da investitori qualificati, «come dimostra la media di oltre 40 mila euro per investimento», sottolinea Lerro. Ancora meglio ha fatto HandUp, un’app che connette donatori e senzatetto azzerando le commissioni obbligatorie. «Il 100% dei fondi viene utilizzato per cure mediche e ospitalità», si legge sul sito ufficiale. Per sostenersi, il team ricorre solo a contributi volontari. Un’idea che ha stregato gli utenti della piattaforma di crowdfunding Kickstarter e raccolto un finanziamento da 850 mila dollari. Con i rubinetti bancari chiusi, ottenere un prestito è complicato. Ancor di più se la finalità sociale, che di certo non assicura ritorni miliardari immediati, viene scambiata per beneficenza. Quali sono le alternative? «Il venture capital in Italia ha dimensioni molto ridotte e quindi, per qualsiasi attività, il crowdfunding è una soluzione», afferma Lerro. Un’opportunità che vale ancor di più per le start-up a vocazione sociale, perché «hanno un impatto sul crowd spesso molto superiore alle altre e quindi sono avvantaggiate nel coinvolgimento del pubblico». Non è il solo plus. Ce n’è anche uno fiscale, studiato per attrarre gli investitori in un settore che non ha il profitto come obiettivo primario. Le persone fisiche e giuridiche che puntano sulle start-up innovative a vocazione sociale possono contare su detrazioni Irpef del 25% e deduzioni sull’imponibile Ires del 27%. Le aliquote per le giovani imprese innovative si fermano al 19 e al 20 per cento. Un solido incentivo fiscale, alcune buone idee e qualche segnale di crescita. Ma i numeri complessivi delle imprese italiane a vocazione sociale raccontano un settore anco- INNOVAZIONI | 21 costruisce con una batteria, un interruttore, fili elettrici e una bottiglia di plastica. Ma se la mancanza di varietà è un difetto, il vero punto debole è un altro: la redditività. Secondo l’analisi del Politecnico di Milano, il rendimento medio sul capitale investito dai soci è pari a -22,18%. In altre parole: chi ha investito, nella maggior parte dei casi, per ora ci ha rimesso. Un dato di fatto che, al netto degli incentivi fiscali, spaventa gli investitori. La soluzione potrebbe arrivare dal pubblico. Non inteso come “statale”, ma come “privato diffuso”. È il caso dell’equity crowdfunding. L’esordio in Italia non è stato esplosivo. Ma è forse troppo presto per valutare. «In un Paese dove il venture capital ha raramente superato i 100 milioni di euro annui, non si potevano aspettare numeri mirabolanti», afferma Lerro. E poi, non di solo equity vive il crowdfunding. «Nella fase iniziale, potrebbe essere più indicato il modello reward-based, fondato su un finanziamento a fronte di una ricompensa o del pre-ordine di un prodotto. Oltre a essere più semplice ed economico, consente di osservare il gradimento del pubblico e di creare una community di sostenitori». Se è vero che esercitano un forte appeal sulla folla di piccoli investitori, le startup a vocazione sociale possono sorridere nonostante le difficoltà. Guardando ad alcuni segnali incoraggianti, ma soprattutto a un numero: la Banca mondiale prevede che, entro il 2025, i crowd-investment toccheranno i 92 miliardi di dollari. u I N T E RV I STA non smineremo per fare soldi ma certo non guido una charity Selene Biffi | A 32 anni ha già lanciato due progetti di successo. Ora ci riprova con Bibak, un dispositivo portatile che favorirà le bonifiche nei Paesi più poveri start-up, le ore di lavoro sono interminabili, le entrate modeste – quando ci sono –e le cose da fare molte». Sharing economy, start-up a vocazione sociale, crowdfunding: l’economia sta cambiando o sono fenomeni destinati a sgonfiarsi? «Non si tratta né di fenomeni né di bolle, ma di possibilità che all’estero portano avanti il cambiamento da quasi 40 anni. Il fondo britannico per le imprese e l’innovazione sociale ha una dotazione di 900 milioni di sterline, quasi dieci volte di più rispetto a Segnalata dalla Cnn fra le 10 imprese da tenere d’occhio, Watsi utilizza ilcrowdfunding per curare pazienti in tutto il mondo e mette in relazione donatori e beneficiari ra tutto da costruire. Alla fine di settembre, le start-up innovative iscritte alle Camere di Commercio erano 2.655. Quelle a vocazione sociale che figuravano nell’elenco meno di 70. Da inizio anno il saldo è positivo: il gruppo si infoltisce, adagio. Conta 25 elementi in più rispetto a gennaio. Le buone idee non mancano. Come Filmvoices, che punta a far godere il cinema e gli altri prodotti culturali ai non vedenti. O Network Mamas, una sorta di sportello virtuale per le mamme. Itapad sviluppa app per la valorizzazione del patrimonio culturale italiano. Anteo, uno spin-off dell’Università Ca’ Foscari, sintetizza il suo approccio con 3P: planet, people, profit. Sostenibilità sì, ma con profitto. Un’ambizione comune a molte start-up a vocazione sociale. Quelle italiane sono piccole o piccolissime, con un capitale sociale medio di 13 mila euro. Nessuna ha più di quattro addetti. Tutte hanno un valore della produzione inferiore ai 100 mila euro. Con due eccezioni. La Walden Technology, che sposa tecnologia e riabilitazione in quel di Bari, e la Europa Cube, ramo bolognese del centro studi Eurogiovani. Un’analisi del Dipartimento di Ingegneria gestionale del Politecnico di Milano descrive un ambiente ancora poco variegato: più di una start-up a vocazione sociale su due si occupa di attività editoriali o istruzione. Nessuna rientra tra le imprese «ad alto valore tecnologico in ambito energetico». Perché anche produrre energia in modo semplice e a basso costo ha una vocazione sociale. In Svizzera, ad esempio, ci stanno provando i ragazzi di Led Safari. Il loro obiettivo è dare la luce ai Paesi in via di sviluppo. La loro invenzione è una lampada led a energia solare che si «Siamo indietro: Londra finanzia iniziative simili con un fondo da 900 milioni di sterline» ESPERTI Bonifica di mine anti-uomo a Cipro n Selene Biffi è una startupper sociale seriale. È giovane ed è italiana: ha fondato la sua prima società a 22 anni, con un budget a dir poco risicato: 150 euro. Oggi ha 32 anni ed è già madre di Plain Ink, una onlus che promuove l’alfabetizzazione con fumetti educativi, e di Spillover, progetto pluripremiato che divulga la scienza attraverso app e spy game. Adesso Selene Biffi ci riprova: la sua ultima creatura, ancora in embrione, si chiama Bibak. Si propone di aiutare le comunità a bonificare i villaggi dalle mine anti-uomo, con sensori concepiti per essere assemblati facilmente, applicati su bastoni, rastrelli e droni. E, dopo lo sminamento, riconvertiti ad altro uso. Ad esempio come generatore di energia o per regolare il flusso di acqua in agricoltura. L’idea nasce dai numeri: statisti- che delle Nazioni Unite parlano di 110 milioni di mine sparse in oltre 70 Paesi, che uccidono o mutilano 20 mila persone all’anno, il 47% dei quali bambini. Biffi sfrutta il Graduate Studies Program della Singularity University per costruire un suo team (Lorenn Ruster e Shirley Andrade) e un prototipo. Aspettando i primi test. Tempi ancora da definire ma luogo già indicato: Afghanistan. Plain Ink, Spillover, Bibak: come si sostiene economicamente una start-up che non mira al profitto? «Una start-up che non mira al profitto non significa che sia una charity, e cioè che si debba supportare solo con donazioni o grant di fondazioni. Ad esempio, Spillover è una start-up a vocazione sociale. Il profitto non è il nostro scopo principale, ma la soste- BARBARA LABORDE /AFP / GETTY nibilità finanziaria è fondamentale». Come si comincia? «Ci sono diverse strade: si può ottenere un finanziamento da Business Angels o da fondi di investimento privati, in cambio di equity. Si può raccogliere ilcapitale inrete supiattaforme di crowdfunding, oppure partecipare a bandi e concorsi». Cosa direbbe a un ragazzo che vuole fondare una start-up perché allettato dalle prospettive di guadagno? «Non credo che la creazione di una start-up dipenda dalle prospettive di guadagno. Chi la fonda spesso lo fa perché ha un’idea che vuole esplorare, perché ha voglia di crearsi un lavoro o perché crede di poter fare la differenza con un progetto. Agli inizi è sempre dura con qualsiasi tipo di quanto viene riservato alle start-up tecnologiche generiche in Italia. È quindi un problema culturale e di percezione, specialmente in un Paese come il nostro, dove si fa sempre molta fatica a cambiare e a spostare i propri orizzonti, anche professionali, un po’ più in avanti. Fin da subito, cerco di impostare tutti i miei progetti con un focus internazionale, perché so che è necessario andare oltre i nostri confini per riuscire a fare davvero la differenza». Per creare una start-up come Bibak e i sensori per le mine anti-uomo bisogna essere visionari. Cosa direbbe a chi, pur avendo una buona idea, non ha il coraggio di esserlo? «Il percorso di avviamento di una start-up richiede impegno e determinazione. È necessario credere molto nella propria idea e non arrendersi di fronte alle difficoltà e alla lentezza con cui spesso le cose si muovono. Quando si vuole veramente raggiungere un obiettivo, sono poche le scuse che reggono. Bisogna solo trovare la passione e mettersi al lavoro, i risultati poi verranno». P.F. sabato 11 ottobre 2014 | pagina 99we INNOVAZIONI | 22 polpa di cocco all’idrogeno il combustibile perfetto GABRIELE DE PALMA n La maggior parte delle oltre 10 milioni di tonnellate di noci di cocco raccolte ogni anno in India viene destinata al consumo alimentare oppure offerto in sacrificio a Parvati, Ganesh e agli altri dei durante le cerimonie religiose induiste. Alcuni ricercatori dell’Hydrogen Energy Center della Banaras Hindu University di Varanasi hanno invece pensato di portare il frutto in laboratorio, dove stavano cercando una soluzione a un problema annoso: conservare l’idrogeno in spazi contenuti. Non sono stati i primi a puntare sul cocco, ma chi li aveva preceduti ne aveva utilizzato solo la corteccia legnosa, così come altri materiali biologici da carbonizzare, mai la polpa. L’idrogeno potenzialmente sarebbe il combustibile perfetto: è abbondante in natura più di ogni altro elemento chimico, si ottiene facilmente dall’acqua per elettrolisi e i residui della combustione sono semplicemente vapori acquei. Il problema appunto è catturarlo e concentrarlo sufficientemente perché possa bruciare alla bisogna e magari possa sfruttare come canale distributivo quello Il frutto cattura le molecole di H2 e quando serve le libera facilmente attualmente usato per trasportare il petrolio e gli altri idrocarburi. Una soluzione sarebbe portarlo a temperature bassissime, intorno a meno 250 gradi, che però è poco comodo per un utilizzo di massa. Altro sistema è comprimerlo, però anche in questo caso alla pressione necessaria con le tecnologie odierne si rischiano deflagrazioni in caso di incidenti. L’Hindenburg, il dirigibile tedesco esploso in fase di atterraggio a New York, chiuse di fatto l’adozione dell’idrogeno come combustibile per uso civile nel 1926 (è rimasto in uso invece come carburante – congelato a -183° C e a una pressione di due atmosfere e mezzo – del gigantesco serbatoio dello Shuttle). Così la ricerca si è concentrata su materiali che fossero in grado di trattenere l’idrogeno in concentrazioni sufficienti. Alcuni metalli ci riescono molto bene ma, dopo poco tempo che accumulano e rilasciano idrogeno, la loro struttura cede compromettendo l’efficienza. Il carbonio invece è un elemento ideale: cattura facilmente le molecole di H2 e le libera altrettanto facilmente quando serve. Serve però un carbone particolarmente performante in questo senso, così, a forza di tentativi, si è arrivati alla polpa di cocco. Finora è il materiale organico carbonizzato INDIA Un venditore di cocco nelle strade di Siliguri che si è rivelato più efficace. Il segreto secondo Vivey Dixit, a capo del team indiano di ricerca, è tutto nella composizione del frutto che, a differenza della noce esterna, presenta potassio e magnesio in quantità tali da aumentare la capacità di imprigionamento del carbone di polpa di cocco. Il potassio polarizza il carbone mentre il magnesio dissocia la molecola (gli atomi di idrogeno si presentano in coppia) facilitandone l’assorbimento. Il vantaggio che presenta invece nei confronti dei metalli è che questo carbone si è dimostrato molto più resistente, senza deteriorarsi con l’uso. Il che apre la strada non tanto alla coltivazione intensiva di cocco per la prossima era energetica, quanto piuttosto a cercare di copiarne il funzionamento e riprodurlo sinteticamente in laboratorio. i droni marini studiano la vita degli Oceani Regno Unito | Una flotta di robot eco-compatibili ricostruirà la catena alimentare dell’Atlantico WAVE GLIDER I ll drone che si alimenta con energie rinnovabili n Sette sommergibili gialli con nessuno a bordo, nemmeno il comandante. Sono i nuovi acquisti del Centro Oceanografico Nazionale del Regno Unito. La flotta di robot marini dalla carena dipinta di giallo sarà utilizzata per studiare la catena alimentare degli oceani. I wave glider (letteralmente: scivolatori delle onde) sono dei droni molto particolari in grado di alimentarsi con energie completamente rinnovabili e reperite in loco: energia delle onde, del ventoe delsole. L’autonomia potenzialmente è infinita. Ma per ora i robot rientrano alla base per comunicare i dati e perché siamo ancora ai primi tentativi. La flotta è composta da diversi modelli, alcuni destinati a navigare sulla superficie, altri in grado di immergersi in profondità. Tutti sono stati farciti di strumentazione per il rilevamento dati, dalle videocamere ai termometri e altri rilevatori ambientali. La prima missione, partita nei giorni scorsi, prevede una rotta a sud-ovest dicirca 500 km,in una zona dove la fauna marina pullula, o così si spera, perché si incontrano le correnti fredde della Manica e quelle calde dell’Atlantico, generando un ecosistema adatto al plancton attorno a cui ruota la catena alimentare sottomarina. Del fenomeno si sa molto in teoria ma manca una verifica multi-strumentale protratta nel tempo per capirne di più. I sette natanti automatizzati controllati via satellite registreranno tutto con calma e faranno ritorno in porto tra qualche mese per riportare agli oceanografi nuovi dati da studiare. «Attualmente molte decisioni su come gestiamo gli oceani sono prese a partire da pochissimi da- DIPTENDU DUTTA / AFP / GETTY IMAGES LA CIFRA 290 Il controvalore, in dollari, di un bitcoin registrato il 6 ottobre scorso. È il prezzo più basso dal 7 novembre 2010. In questi quattro anni la criptomoneta peer-to-peer ha superato anche i mille dollari (l'apice il 4 dicembre 2013, 1.147 dollari). Poche ore dopo aver toccato il minimo , bitcoin ha ripreso a crescere, chiudendo sopra quota 325 ti», spiega Russel Wynn, responsabile scientifico del progetto, lasciando intuire il potenziale del contributo dei wave glider, «oggi mancano risposte anche a domande relativamente banali come: “Dove vanno a mangiare delfini e uccelli marini?”». Il monitoraggio a base di satelliti e boe ha enormi lacune mentre le navi attrezzate per la ricerca sono molto costose e non possono navigare in continuazione. Uno sciame di piccoli sottomarini gialli, a impatto zero, potrà fare molto per migliorare la conoscenza dei mari. SICUREZZA INFORMATICA pacemaker anti hacker n Si intitola Content of premarket submissions for management of Cyber Security in Medical Device ed è il primo tentativo di regolamentare i dispositivi medici elettronici proteggendoli il più possibile dagli attacchi informatici. Le linee guida sono state redatte dalla Federal and Drugs Administration (Fda) statunitense a più di un anno dalle consultazioni aperte nella primavera del 2013. «Sappiamo che non esiste il dispositivo medico a prova di attacco», ammette Suzanne Schwartz, dirigente del- l’Fda, «è importante che i produttori di dispositivi restino vigili e proteggano i pazienti dai rischi alla sicurezza informatica». Software e hardware non sono inattaccabili per definizione, quando poi sono messi in rete, la loro tutela non può che assumere l’assetto di una preoccupazione costante e continua. Possibilmente utilizzando tutte le armi di difesa a disposizione, come raccomanda il documento, che richiede ad esempio che ogni oggetto incroci sistemi di password e nome utente solidi, anche rilevamento di dati biometrici (retina o impronte digitali). Il lato più debole è come al solito il software. Qualche anno fa in un meeting di hacker, alcuni sono riusciti a prendere il controllo da remoto di una pompa per insulina impiantabile nel corpo e l’hanno spenta. A inizio 2013 due studiosi di sicurezza in- formatica hanno dimostrato che molti dei dispositivi medici in commercio hanno le stesse falle nel codice dei sistemi industriali facilmente hackerabili e hackerati in passato, sfruttando le vulnerabilità di alcuni prodotti delle principali aziende sul mercato (Philips, General Electrics, Siemens) e rubando le credenziali di un medico tramite una app per il monitoraggio delle funzioni vitali post-intervento operatorio. Le linee guida prevedono software autentico e aggiornamenti certificati al sistema operativo. Il problema è che manca proprio una cultura della difesa dagli attacchi informatici per chi realizza software per i dispositivi medici. La Fda sta cercando di alzare il livello di attenzione. È quantomai utile. GDP Un pacemaker fatto di resina epossidica GETTY IMAGES pagina 99we | 23 | INNOVAZIONI ARNOLD MORASCHER / LAIF / CONTRASTO ON LINE Un internet cafè in Transilvania, Romania perché è rumena la città più veloce del mondo Internet | Timisoara è la più connessa e il Paese surclassa anche gli Usa. Tra le ragioni del primato il numero record di informatici e le reti spontanee. Oltre all’esempio dei pirati JACOPO FRENQUELLUCCI n L’auto-organizzazione batte la deregulation, almeno sul web. Secondo le misurazioni della società di test di connessione Ookla, infatti, la Romania, grazie alla proliferazione di reti locali promosse dagli stessi utenti, è al terzo posto nella classifica mondiale della velocità di download con 57,5 megabyte al secondo, mentre gli Stati Uniti arrancano in ventiseiesima posizione, sotto i 30 megabyte al secondo. L’opinione di Susan Crawford, ex consulente per l’innovazione di Barack Obama, è che sia colpa del Telecom- munication act del 1996, nato con il proposito di rimuovere le barriere di accesso al mercato, ma secondo cui «le compagnie che forniscono accesso a internet non devono affrontare né competizione né controlli». Nella nazione della Silicon Valley e di Apple, nessuno degli operatori ha investito sulla fibra ottica in maniera significativa, e addirittura Verizon, uno dei big del settore, non costruisce nuove infrastrutture tecnologiche dal 2010. Sta provando a cambiare le carte in tavola Google con il suo servizio Fiber: nella prima città cablata, Kansas City, la velocità sabato 11 ottobre 2014 media sfiora i 50 megabyte. Nulla a che vedere comunque con Timisoara in Romania, dove gli oltre 300 mila abitanti nel 2013 hanno viaggiato a una velocità di 89,9 megabyte al secondo, il dato più alto al mondo: e non si tratta certo di un exploit, perché delle quindici città più connesse al mondo ben sei provengono dal Paese che dal 2007 fa parte dell’Unione europea. Qui la media della connessione si ferma però a 26,6 mb/s, trascinata a fondo dal novantottesimo posto mondiale dell’Italia che con i suoi 8,96 mb/s insegue Namibia, Mauritania e Senegal. Più fattori contribuiscono a questo primato, ed è sicuramente decisiva la possibilità per gli operatori di poter installare reti fisiche proprie, senza particolari limitazioni legislative. A ciò si aggiungono una concorrenza spietata (con più di 100 operatori presenti sul mercato) e l’assenza di qualsiasi logica di pubblica utilità, se è vero che meno del 20% della popolazione, cioè quella concentrata nelle principali città, ha accesso a internet ad alta velocità: il risultato è che il costo mensile di un abbonamento si aggira intorno ai 5 euro. Tuttavia, a fare la differenza sono soprattutto le competenze degli utenti: la Romania è il sesto Paese al mondo per numero assoluto di informatici, con un rapporto tra tecnici e cittadini che è 150 volte più alto di quello degli Stati Uniti. Uno studente di Bucarest, durante la scuola dell’obbligo, passa davanti al pc otto volte il tempo di un suo coetaneo di Washington. Questo esercito di programmatori, quando alla fine degli anni ’90 si è trovato di fronte all’impossibilità di godere di un servizio pari a quello che andava affermandosi negli altri paesi europei, ha creato di propria iniziativa una serie di reti locali ethernet – prima all’interno dei singoli palazzi per arrivare poi a coprire interi quartieri – aumentando così in maniera esponenziale la velocità di connessione. Lo spontaneismo si è allora organizzato: sono nati amministratori di sistema che chiedevano una piccola quota mensile per i costi di mantenimento, offrendo in cambio anche servizi aggiuntivi (dalla condivisione di materiale “pirata” e dai software fino ai film, passando per la musica). Queste reti di vicinato sono arrivate a contare anche 3 mila persone iscritte, prima di unirsi a loro volta in vere e proprie società e andare a contrattare con i fornitori di linea; i quali hanno risposto ben volentieri a una sempre maggiore richiesta di banda e alle proposte di collaborazione e di pacchetti congiunti, contribuendo così a innescare un circolo virtuoso. Oggi Interlan, la più grande di queste reti spontanee che di Dietro al boom del web la volontà di accedere gratis a contenuti protetti da copyright amatoriale hanno ormai ben poco, copre tutta la città di Bucarest e i suoi due milioni di abitanti; e grazie agli introiti le compagnie hanno potuto completare il passaggio da una rete telefonica a 56 kilobyte al secondo a quella via fibra in poco più di due anni, dal 2006 al 2009, evitando così la fase intermedia dell’Adsl. C’è chi sostiene sia stata principalmente la volontà di accedere gratuitamente a contenuti protetti da diritto d’autore la causa di questo boom del web in Romania: difficile smentire questa tesi, se già nel 2007 l’attuale presidente della Repubblica, Traian Basescu, gelò Bill Gates durante l’inaugurazione di una sede Microsoft che avrebbe portato 600 posti di lavoro: «È stata la pirateria ad aiutare le nuove generazioni a scoprire la tecnologia, senza di essa non avremmo avuto lo sviluppo dell’informatica nel nostro Paese». Secondo gli esperti, oltre il 70% del software utilizzato dagli utenti rumeni è stato scaricato illegalmente: non è quindi un caso che proprio la casa madre del sistema operativo Windows abbia acquistato già nel 2003 lo studio Rav (Romanian anti virus) per affidargli la creazione del Defender, il sistema di sicurezza installato sulla maggioranza dei pc al mondo; e che Bitdefender, programma sempre made in Bucarest, abbia vinto per cinque volte il premio di miglior software per la protezione della redazione di PcMag. Nel 2014 il mercato della tecnologia in Romania raggiungerà, secondo le stime di Business monitor, il fatturato complessivo di un miliardo di euro per la prima volta, con una crescita rispetto all’anno precedente vicina al 10%. Se a est del muro di Berlino è stata determinante la libera iniziativa, negli Stati Uniti potrebbe invece essere l’intervento pubblico la soluzione del problema. A Chattanooga, 170.000 anime nel Tennessee, l’amministrazione comunale, guidata dal democratico Andy Berke ha scelto di reagire alla crisi puntando, attraverso la società municipale dell’energia elettrica, su una speciale connessione a fibra ottica: oggi la rete offre una connessione da un gigabyte al secondo, più di dieci volte il valore di Timisoara. Il progetto ha avuto poco seguito tra i cittadini, che hanno sottoscritto il servizio in meno di 5.000, ma ha richiamato start-up e soprattutto investitori, per un totale di 50 milioni di dollari immessi nell’economia locale. pagina 99we | 24 | IDEE sabato 11 ottobre 2014 bimbe troppo belle e altri ordinari abusi u ALBUM ICONOGRAFICO DEL WEEKEND SOPRUSI Dal 17 al 19 e dal 24 al 26 ottobre si terrà a Lodi la quinta edizione del Festival della Fotografia Etica. Quest’anno lo spazio tematico della rassegna sarà dedicato alla violenza ai danni delle donne in tutto il mondo. Si parte dagli Stati Uniti, e in particolare dai concorsi di bellezza per bambine. Un viaggio tra Alabama, Georgia e Carolina del Sud per illustrare una realtà in ascesa ma molto discussa. Poi il Kenya, con un’indagine per immagini sulla mutilazione genitale femminile. Quindi l’Arabia Saudita, con il suo complicato mondo femminile, in bilico tra modernità e tradizione. Una storia appassionante proviene dalla Somalia, dove la squadra di basket donne del Paese continua ad allenarsi imperterrita nonostante le minacce degli integralisti. Infine India, Pakistan, Bangladesh, Uganda, Nepal e Cambogia, per raccontare la tragedia delle donne sfigurate dall’acido. ESTREMI Nonostante il Kenya abbia promulgato una legge che ne vieta l’esecuzione, le donne delle tribù Masai continuano a subire la mutilazione dei genitali femminili. È quanto mostra al Festival della Fotografia Etica la freelance Meeri Koutaniemi con Taken, lavoro che fa parte di un progetto a lungo termine riguardante la menomazione genitale femminile in diversi continenti. L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che ci siano più di 140 milioni di donne vittime di tale pratica nel mondo. CONTESE Beautiful childè il lavoro presentato al festival da Laerke Posselt. La fotografa danese ha voluto rappresentare alcuni concorsi di bellezza per bambini negli Stati Uniti e la vita quotidiana di Sophia ed Evie, due piccole concorrenti. Pratica esistente da almeno 50 anni, queste gare sono cresciute ultimamente in popolarità. Ne è nato un dibattito su quanto possa essere pericoloso incoraggiare dei bambini a vivere secondo ideali tipici del mondo adulto, enfatizzando l'aspetto sessuale e interferendo con l'immagine di sé. Un fenomeno le cui cause sono da rintracciare all’interno di un insieme di fattori culturali, religiosi e sociali radicati in alcune tradizioni, che hanno origine nel ritenere gli organi genitali femminili come impuri e sono giustificate da diverse credenze circa su cosa sia un comportamento sessuale appropriato. La mutilazione femminile è stata giudicata come lesiva dei diritti umani ed è ritenuta una seria violazione all’indipendenza sessuale delle donne. Essa riflette una radicata disuguaglianza tra i sessi e costituisce un’estrema forma di discriminazione. sabato 11 ottobre 2014 | pagina 99we IDEE | 25 BASKET A Mogadishu, la capitale somala distrutta dalla guerra, ci sono giovani donne che rischiano la vita tutte le volte che si presentano sul campo da gioco. La storia fotografica firmata da Jan Garup racconta di come Suweys e compagne sfidino le posizioni islamiche sui diritti delle donne ogni volta che giocano lo sport del nemico RECLUSIONE Negli scatti dell’inglese Olivia Arthur, il controverso e inesplorato mondo delle donne saudite. Jeddah Diary, questo il nome della selezione, spalanca le porte sulla paradossale e bizzarra microsfera in cui vivono queste ragazze, nascoste dietro alte mura e avvolte nell’onnipresente abaya. Vivono all’interno di una bolla, dove non tutto è così rigido come si potrebbe pensare. Tuttavia l’interazione sociale è complicata, il comportamento da tenere varia a seconda del luogo e della circostanza in cui ci si trova, le identità devono rimanere segrete e le fotocamere sono quasi sempre indesiderate. Con un rapido sguardo su una realtà che di solito è inaccessibile agli occhi degli estranei, Jeddah Diary rappresenta una riflessione sulla natura della privacy e sulla sottile linea che esiste tra ciò che è consentito o meno vedere. americano. Per via della loro passione sono nel mirino di fazioni militari come al-Shabaab e di altri gruppi integralisti islamici. Per giocare, sono protette da uomini armati pagati dall’associazione per del basket somala. Per andare agli allenamenti, devono nascondere la loro tuta sotto abiti lunghi. ACIDO Nelle foto della tedesca AnnChristine Woehrl, il terribile destino delle donne sfregiate dall’acido. Ogni anno si registrano circa 1500 casi di aggressione con acido a livello mondiale. Le sopravvissute spesso non osano denunciare il colpevole alla polizia, in quanto vi dipendono economicamente. Quindi si presume che il numero di aggressioni non registrate sia significativamente superiore. Ci sono poi coloro che si danno fuoco con il cherosene o di coloro che cercano di suicidarsi per fuggire da una vita vergognosa fatta di abusi e repressioni da parte di mariti o suoceri, anche loro immortalate nelle foto di Woehrl. Per trovarle, la fotografa ha visitato l’India, il Pakistan, il Bangladesh, l’Uganda e il Nepal. pagina 99we | 26 | IDEE sabato 11 ottobre 2014 di nuovo selvaggi il fascino estremo dell’essenziale Tendenze | Il distacco con la natura si è fatto abisso. Per chi non è pronto per l’avventura, si moltiplicano i titoli che aiutano a fuggire. Dal Wild trekking di Cheryl Strayed alle Tracce nel deserto di Robyn Davidson VALENTINA PIGMEI n «Pensare alla nostra vita nella natura, quotidianamente trovarsi davanti alla materia, entrare in contatto con rocce, alberi, vento sulle gote. La terra solida! Il mondo autentico! Il senso comune! Contatto! Contatto! Chi siamo? Dove siamo?». Sono parole di Henry David Thoreau, scritte nel 1857, ma potrebbero essere state scritte ora. Se all’epoca di Thoreau il divario tra uomo e natura cominciava a esistere, possiamo dire che oggi sia diventato abissale. Perso il famoso contatto con il selvaggio, l’uomo è disorientato, infelice, povero. E allora una capanna nel bosco, un sentiero di montagna, una barca a vela in mezzo all’oceano diventano più che mai luoghi di cura, di fuga, di rinascita. Così come è sempre più diffuso il desiderio di sognare e di vivere, se non in prima persona almeno attraverso la letteratura e il cinema, esperienze estreme nella natura. Se non è possibile scappare in mezzo al nulla, si può sempre leggere le storie di chi lo ha fatto. Anzi, è grazie alla letteratura e al suo potere rivelatorio che questo succede: sono i libri che inventano mondi lontani, disegnano terre di pace, evocano avventure del corpo e dello spirito; sono i libri i responsabili delle scelte di vita estreme che tanto piacciono in questi nostri tempi tecnologici e urbani. Se Chris McCandless, la cui storia (vera) è raccontata nel film Into the wild, ha ispirato migliaia di persone con la sua celebre fuga in Alaska, a sua volta sappiamo che McCandless aveva portato con sé e letto alcuni classici della letteratura. «Volevo il movimento, non un’esistenza quieta. Volevo l’emozione, il pericolo, la possibilità di sacrificare qualcosa al mio amore». L’autore di questo brano - sottolineato da McCandless e ritrovato insieme alla sua salma, come Jon Krakauer racconta nel li- bro Nelle terre estreme, (Corbaccio) da cui è tratto il film - è Lev Tolstoj. Fu soprattutto la lettura di Tolstoj, secondo Krakauer, a sedurre il giovane McCandless, oltre naturalmente quella di Thoreau. Il quale, non a caso, se ne andò per due anni a vivere in una capanna auto-costruita in Massachusetts e poi scrisse Walden o la vita nei boschi, diventando il padre del nature writing americano. Anche Sylvain Tesson, scrittore e viaggiatore, ha vissuto sei mesi da solo in una capanna in Siberia, e poi ha raccontato la sua impresa in un libro vendutissimo in Francia, Nelle foreste siberiane (Sellerio). Con Sylvain Tesson, uno degli autori più citati, ha vissuto sei mesi da solo in una capanna in Siberia sarcasmo lieve, lontano dalla mitologia della wilderness americana, Tesson sa di «non essere abbastanza eremita per sopravvivere senza buoni autori». Così parte con una settantina di titoli, per star sicuro. Del resto, il villaggio più vicino è a 120 chilometri e non ha nessun mezzo di trasporto se non le proprie gambe; gli ospiti sono rari, tra loro pescatori, guardiani della riserva e qualche orso. Eppure il suo viaggio da fermi è assai movimentato: tra la solitudine dei ghiacci Tesson capisce molte cose importanti. La ricerca di sé, il desiderio di spartanità, la pulizia interiore: alla base di tutte queste avventure nella natura selvaggia c’è soprattutto questo. «Per desiderare una capanna al centro di una radura», scrive Tesson, «bisogna prima aver sofferto di indigestione nel cuore delle città moderne. Dopo essere rimasti paralizzati dal grasso del conformismo e invischiati nello strutto delle comodità, si è maturi per il richiamo della foresta». Thoreau era meno ironico di Tesson, ma il concetto era lo stesso: «Datemi verità, invece che amore, denaro, fama». Una ricerca di verità talvolta quasi religiosa, anche se con la religione istituzionale non ha nulla a che vedere, ma contiene piuttosto - almeno negli esiti letterari migliori - un ritorno ai valori essenziali e una protesta implicita verso la società. «Quando ti senti parte della natura è come una specie di religione: è accettare che ci sia qualcosa di illimitato, qualcosa di molto più importante del tuo ego», ha detto Erling Kagge a pagina99, uno dei più famosi esploratori viventi autore di Filosofia per esploratori polari(Add Editore). «E poi la bellezza di fare le spedizioni al Polo è proprio questa: è imparare l’arte di mangiare a piccoli bocconi; sentire di avere tutto ciò di cui si ha bisogno e ricordarsi di cosa è importante nella vita». Allo stesso modo c’è qualcosa religioso nella storia di Cheryl Strayed, autrice del bestseller Wild (Piemme) che, partita da sola per un trekking estremo, a ogni tappa è costretta a bruciare le pagine del libro che si porta appresso nell’enorme zaino. Avventure estreme, solitarie che, come ha insegnato una volta per tutte il giovane McCandless di Into the wild, hanno senso solo se condivise. Questi racconti che siano ambientati al polo sud, nel deserto o in altri luoghi sperduti, sono sempre incredibilmente popolati di esseri umani con esistenze al limite, ma proprio per questo indimenticabili. «I sentieri sono luoghi d’incontro, di conversazione di convivialità… era nelle mie intenzioni scrivere libri densamente popolati, di vivi e di morti», dice Robert MacFarlane a pagina99. MacFarlane è l’autore di una trilogia sulla natura composta da Montagne della mente, Luoghi selvaggi e Le antiche vie (gli ultimi due da Einaudi), e già considerata un classico del nature writing FOX SEARCHLIGHT PICTURES SOLITARI In alto da sinistra, una scena del film Into The Wilddi Sean Penn, 2007. Sotto, la protagonista del film Wild, Reese Witherspoon, diretto da Jean Marc Vallèe. In alto a destra, lo scrittore Sylvain Tesson (al centro); una scena di backstage del film Tracks, 2013 contemporaneo. «Nei miei anni di vagabondaggio ho navigato sotto la luce di Giove attraverso un’antica sea road in Nord Atlantico, circumnavigato una montagna sacra di 7000 mila metri nella Cina occidentale, in inverno, ed esplorato il martoriato deserto palestinese della West Bank. In tutti questi posti ho incontrato persone per le quali camminare e seguire i sentieri è stato fondamentale nella comprensione di sé e del lo- ro posto nel mondo», continua MacFarlane che ha di recente pubblicato un libro illustrato, Holloway (Faber & Faber), sulle strade incavate del Dorset, ed è impegnato nella scrittura di Underland, un libro che racconta «di mondi sotterranei e perduti che si trovano sotto le nostre campagne e città». Presentato con successo lo scorso settembre al Toronto Film Festival, il film tratto da Wild, sceneggiato da Nick Hornby e dalla stessa Cheryl Strayed, diretto da Jean-Marc Vallée, (autore di Dallas Buyers Club) e interpretato da Reese Witherspoon, esce il 5 dicembre in Usa e il prossimo febbraio in Italia. Il film, fedelissimo al libro omonimo, racconta di quando Strayed all’età di 26 anni, nel 1995, sola e senza alcuna preparazione, partiva per il Pacific Crest Trail, il più lungo sentiero di montagna degli Stati Uniti che collega il British Columbia con la California. Incapace di far fronte al dolore della morte – quella della madre, scomparsa giovanissima di cancro – entra in un negozio sportivo e vede per caso una guida della Pacific Crest Trail. Senza soldi, stanca di girare a vuoto e con un proble- sabato 11 ottobre 2014 | pagina 99we IDEE | 27 JEAN-PIERRE CLATOT / GETTY IMAGES PARAMOUNT VANTAGE ma di dipendenza dall’eroina, decide di partire. Dei quattromila chilometri del sentiero, Cheryl ne percorrerà “solo” milleseicento, con varie difficoltà tipo temperature polari, animali selvatici, piedi feriti dagli scarponi, fame, sete, mentre lo zaino pesantissimo le spezza la schiena. È una lunga lotta contro il proprio dolore. «Ne è valsa la pena», dice vent’anni dopo la Strayed. Millesettecento miglia – quasi le stesse percorse da Cheryl Strayed – sono quelle fatte da Robyn Davidson che attraversò a piedi le immense solitudini del deserto australiano, in compagnia di un cane e quattro cammelli. Era il 1977. Ci sono voluti ben 37 anni perché un regista portasse sullo schermo la storia raccontata nel libro autobiografico Orme (Feltrinelli) che, riletto oggi, non ha perso fascino, ne ha forse acquistato (Tracks, diretto da John Curran e interpretato da Mia Wasikowska, è uscito lo scorso anno nelle sale). A breve diventerà film anche Revenant, un romanzo dal respiro epico, che narra una delle avventure più famose del West, quella di Hugh Glass. Figura leggendaria, Glass era un trapper, ovvero SEE-SAW FILMS un esploratore e cacciatore di pellicce. Assalito da un grizzly, viene abbandonato dai compagni che gli rubano armi e cavallo; ma Glass non è morto, è gravemente ferito e, nell’estate del 1823, si rimette in viaggio attraverso i territori selvaggi di Dakota, Montana, Wyoming e Nebraska – tremila miglia di pura wilderness – con solo uno scopo: vendicarsi. Scritto da Michael Punke nel 2003 e solo oggi in traduzione italiana, Revenant(Einaudi) è un’opera di fiction anche se, ammette l’autore, «L’era del commercio di pellicce è inestricabilmente intrecciata alla leggenda». La storia è dalla parte di Hugh Glass e della sua impresa, documentata da varie fonti. La forza epica di un personaggio come Glass – che avrà il volto di Leonardo di Caprio nel film diretto da Alejandro González Iñárritu – ha di nuovo a che fare con la religiosità della natura selvaggia: «E se Glass credeva in un dio, per lui abitava in quell’immensa distesa occidentale. Non una presenza fisica, ma un’idea, qualcosa che andava oltre la comprensione umana, qualcosa di più grande». DA VEDERE E DA LEGGERE n Nella lingua inglese wild è un aggettivo dai molteplici significati e anche un sostantivo che significa «natura incontaminata, popolata di animali selvaggi», e può quindi riferirsi tanto al bosco quanto all’oceano o al deserto. The Call of the Wild era il titolo originale del Richiamo della foresta di Jack London: oggi nessuno tradurrebbe wild con foresta, ma in quel caso era corretto. Oggi basta accendere la tv e sarete sommersi da trasmissioni dedicate all’estremo: c’è Wild-Oltrenatura, la serie condot- ta da Fiammetta Cicogna arrivata alla decima edizione (su Italia 1); Nanuk-Prove d’avventura, con Caterina Guzzanti e Davide De Michelis (su Raitre, dal 21 gennaio); solo sul canale tematico canale tematico NatGeo Wild di Sky c’è Wild Real Tv, Sfide selvagge e Destination Wild Italia. Dal 27 ottobre partirà anche Survive the tribe su National Geographic Channel (Sky), dove il biologo Hazen Audel si cimenterà in battute di caccia nella foresta amazzonica e nella costruzione di igloo con gli Inuit. Più wild di così. E in libreria sono ormai tanti, e spesso anche buoni, i libri che raccontano storie d’immersione nella natura. Se la casa editrice Corbaccio pubblica da sempre storie favolose, come La grande avventura di Stefano Ardito - il racconto fresco di stampa su Filippo De Filippi, il «grande sconosciuto» della storia dell’esplorazione italiana e del suo straordinario viaggio in Asia nel 1913 - oggi si uniscono anche l’ottima casa editrice Nutrimenti, la collana “Frontiere” di Einaudi (con le edizioni di Robert MacFarlane, Richard Mabey e molti altri) e la neonata serie “Wild” di Fabbri. Esce in questi giorni L’ultima spedizione (Nutrimenti) di Robert F. Scott, il diario del famoso esploratore e della sua avventura al Polo Sud nel 1913, un libro notevole. La frontiera invisibile (Fabbri), scritto dallo skyrunner Kilian Jornet, ha un sottotitolo che dice tutto: Sull’Himalaya. In inverno. Senza corde. Bisogna correre o morire. Sempre da Fabbri è uscito di recente Lasciateli giocare con gli orsi di Peter B. Hoffmei- ster, una guida originale per insegnare ai genitori come far vivere i bambini nelle natura selvaggia. Una vicenda non tanto conosciuta in Italia ma dotata di una certa freschezza narrativa benché scritto parecchi anni fa è Indian Creek. Un inverno da solo sulle Montagne Rocciose di Pete Fromm (Keller), la storia di un giovane studente svogliato che riceve la proposta di trascorrere sette mesi da solo per proteggere la schiusa di 2 milioni di uova di salmone. La casa editrice Edt pubblica, per la prima volta in Italia, le opere di Roger Deakin, ecologista e documentarista, autore di vari libri tra cui Nel cuore della foresta. Un viaggio attraverso gli alberi e Diario d’acqua, dove si racconta il suo viaggio a nuoto attraversato la Gran Bretagna, con indosso una muta fatta confezionare apposta per le acque più gelate. Infine il piccolo editore Gingko compie una vera e propria operazione “natura selvaggia” ripubblicando da una parte classici come Disobbedienza civile di Thoreau, Al polo nord di Emilio Salgari o Sud di Ernest Shac- kleton, e dall’altra titoli nuovi come Polar Dream di Helen Thayer, best seller in Usa nel 2002, o Il silenzio dell’acqua di Mirna Fornasier: due viaggi in solitaria tra i ghiacci, compiuti da due donne. Per i ragazzi, e non solo, è appena uscito un libro illustrato da disegni strepitosi, L’incredibile viaggio di Shackleton di William Grill (Isbn Edizioni), il racconto della mitica spedizione dell’Endurance: 28 uomini e 69 cani alla conquista del Polo Sud. V.P. pagina 99we | 28 | IDEE sabato 11 ottobre 2014 altro che good news is no news ora la buona novella porta denari Media | Negli Usa sempre più testate puntano sulle analisi ottimistiche della realtà per recuperare lettori e attrarre pubblicità. Da noi ci prova il Corriere LELIO SIMI n Confrontate queste due aperture di pagina. Da una parte il titolo dai toni decisamente allarmisti è dedicato all’emergenza Ebola, Catastrofe: il mondo ci ha dormito sopra. Una grande foto ritrae un bambino lasciato solo su un vecchio materasso e un operatore sanitario coperto da testa a piedi da una tuta protettiva. L’altra invece racconta la storia di un uomo che ha subito un trapianto di fegato. L’immagine è quella della sua famiglia sorridente con la più piccola delle figlie che mostra un cartello Our daddy needs a kidney, diventata simbolo di una campagna di sensibilizzazione per la dona- In un anno il traffico dell’inserto dell’Huffington Post dedicato alle notizie positive è aumentato dell’85 per cento zione degli organi. Titolo: Ecco come queste persone hanno convinto degli sconosciuti ad aiutare gli altri. Due modi contrapposti di raccontare eventi drammatici, entrambi pubblicati nello stesso momento dall’Huffington Post, edizione americana, qualche giorno fa. Il primo nella pagina principale del sito, il secondo nella sezione Good News creata dal giornale per un pubblico che «vuole arrivare a fine giornata senza essere preso dall’ansia e dalla depressione». I numeri sembrano premiare questo esperimento lanciato nel 2012: nell’ultimo anno il traffico di questo inserto digitale è cresciuto dell’85% e mediamente – dicono dall’HuffPost – le sue notizie sono condivise nei social il doppio delle altre. Ecco che così molti editori stanno scoprendo che dare la possibilità ai lettori di visitare il «lato soleggiato delle notizie» (come ha scritto la rivista Digiday) potrebbe essere anche un buon affare. Negli Stati Uniti l’Huffington Post non è assolutamente l’unica grande testata ad aver tentato questa strada: dalla Abc che ha da qualche tempo ha una sezione dedicata alle buone notizie fino al Washington Post che proprio in queste settimane ha lanciato The Optimist un aggregatore di articoli dedicato alle «persone che vogliono fare del mondo un posto migliore». Già ma quali sono le ragioni di tanto interesse verso questo nuovo taglio delle notizie? Una prima risposta potrebbe essere, molto pragmaticamente, che le grandi aziende siano le prime a spingere per avere nei giornali spazi più confortevoli per veicolare i propri messaggi promozionali. Non è difficile immaginare che un brand possa preferire collocare un proprio messaggio accanto al racconto di una storia edificante che non a un articolo che sostiene che il virus ebola è ormai fuori controllo. Qualche altra risposta alle ragioni di questa tendenza può venirci da uno sito come Upworthy uno dei fenomeni di questi ultimi anni con i suoi numeri da capogiro e in continua crescita (87 milioni di utenti unici solo nel suo primo anno di vita). Il sito lanciato nel 2012 non ha una singola sezione dedicata alle good news, è tutta la sua linea editoriale ad essere incentrata su una lettura comunque positiva della realtà. Per dare un’idea: uno dei suoi contenuti più letti (circa 17 milioni di visualizzazioni) è Questo ragazzo incredibile ha vissuto su questo pianeta 19 fantastici anni. Quello che ci lascia è meraviglioso che racconta con una serie di video la storia di un ragazzo che a 14 anni ha scoperto di essere malato terminale di cancro e la sua voglia di lottare contro la malattia. L’uso sistematico di toni enfatici, uso disinvolto di click-bait e l’ossessione zuccherosa di infondere in tutti fiducia nell’umanità hanno fatto guadagnare al sito non pochi detrattori. Ma va anche detto che assieme a questo tipo di contenuti vengono realizzate anche azioni concrete: ad esempio una sottoscrizione lanciata assieme al servizio citato ha contribuito a raccogliere 750 mila dollari a favore della ricerca sul cancro. Un mix che ha comunque contribuito a conquistare il gradimento anche del pubblico più giovane. I lettori di Upworthy sono infatti per il 43,2% compresi tra i 18 e 34 anni rivela un’indagine comScore. Ovvero proprio quella fascia di età che le testate tradizionali oggi hanno difficoltà a riconquistare. Un elemento questo che non deve essere passato inosservato a chi ha deciso di avviare questo tipo di progetti. Non per tutti però questi nuovi approcci devono essere sempre e comunque sinonimo di superficialità o di buonismo distribuito a piene mani. Per alcuni infatti dare notizie positive vuol dire soprattutto cercar di raccontare i fatti con più contestualizzazione e con elementi che aiutino a dare risposte concrete ai problemi. Su questa onda in America sono nate etichette come positive journalism o solution journalism. «Perché il punto», ha det- LIAU CHUNG-REN / REUTERS / CONTRASTO HONG KONG Yau e Chen dopo la loro promessa di matrimonio in diretta dal l’occupazione studentesca. La notizia è stata riportata dalla sezione Good Newsdell’Huffington Post to alla Columbia Journalism Review, David Bornstein firma del New York Times e fondatore di Solution Journalism Network, «non è produrre più notizie positive o al contrario più indignazione, ma chiederci cosa possiamo fare? Cosa dovremmo sviluppare? Dov’è più urgente fare investimenti? Sono queste le domande che i nostri lettori ci pongono ogni giorno». In Italia è stato il Corriere della Sera il più convinto a perseguire questa strada con Buonenotizie che in poco tempo è diventato il terzo blog più seguito del sito del giornale. Poi a maggio di quest’anno ha ampliato ulteriormente il progetto dando vita alla sezione Corriere Sociale che guarda con particolare interesse anche al mondo del terzo settore e del volontariato. «Ci siamo resi conto che anche da noi esisteva un pubblico sempre più numeroso che chiedeva un approccio diverso, non solo bad news ma anche storie di solidarietà e capacità di fare comunità», ci racconta Giangiacomo Schiavi, vicedirettore del Corriere della Sera e responsabile del progetto, «il punto però è che questo tipo di storie non ti vengono incontro, devi andartele a cercare. Insomma devi fare un lavoro di giornalismo vero, sul campo, che sappia intercettarle e approfondirle seriamente altrimenti è solo “marketing del bene” che può avere anche successo ma rischia di essere solo una moda temporanea». La questione ancora tutta da valuta- re è quanto questi nuovi approcci sapranno modificare realmente il modo di fare oggi giornalismo. «Affinché certe tematiche si affermino», sostiene Schiavi, «nei giornali serve un lavoro continuo, non è aprendo una singola sezione che si cambia modo di pensare, deve esserci il coinvolgimento di tutti i giornalisti e quindi un nuovo modo di organizzare il nostro lavoro. E servono nuove fonti perché alcune di quelle che abbiamo usato fino ad oggi ormai sono logore e ci portano a raccontare le stesse storie e le stesse persone». Un lavoro e un cambiamento che deve trovare però sostegno economico. «Sì certo c’è anche questo aspetto, in questi ultimi tempi abbiamo notato un crescente interesse anche da parte degli investitori pubblicitari. Siamo consapevoli che questo tipo di storie possono aprire un filone nel quale le aziende sono interessate a investire sempre più». sabato 11 ottobre 2014 | pagina 99we IDEE | 29 LORENZO MACCOTTA / CONTRASTO Un bambino gioca con un videogioco presso il Parco degli Acquedotti, Roma l’innaturale allergia al rischio della generazione app MARTA DORE n I loro amici sono sempre a disposizione - e di amici ne contano a centinaia. Non hanno mai provato l’emozione di perdersi, né in città né durante qualsiasi spostamento, eppure non hanno mai avuto una cartina in mano. Se vogliono sapere che ora è a Timbuctu, chi era Castruccio Castracani o qual è la ricetta originale della Sacher Torte lo scoprono in pochi attimi. Se si annoiano, hanno in tasca migliaia di giochi e se qualcuno volesse farsi un’idea di ciascuno di loro, non dovrebbe far altro che guardare lo schermo del loro smartphone: l’insieme delle app che ognuno ha sul proprio telefono è come un’impronta digitale che racconta chi è quel ragazzo, quali sono i suoi interessi, come e con chi spende le sue giornate. È questo il ritratto che il teorico delle “intelligenze multiple” Howard Gardner, professore di Scienze Cognitive e dell’Educazione ad Harvard, fa dei cosiddetti nativi digitali, ragazzi nati dalla fine degli anni Novanta, e che fin da piccoli hanno avuto a che fare con computer, web, smartphone e tablet. A loro Gardner ha de- Nativi digitali | Nella vita si muovono come nei videogame, avverte uno studioso di Harvard. Evitano gli azzardi. Seguono percorsi prestabiliti. E non si mettono mai in gioco dicato un libro pubblicato in Italia da Feltrinelli, Generazione App - La testa dei giovani e il nuovo mondo digitale. Firmato anche da Katie Davis, informatica e studiosa del ruolo delle tecnologie digitali nella vita degli adolescenti, il libro parte da una tesi chiara: «I giovani di quest'epoca non solo sono immersi nelle app, ma sono giunti a vedere il mondo e le loro stesse vite come un insieme di app - o forse, in molti casi, come un’unica app che funziona dalla culla alla tomba». Gardner è convinto che il ricorso continuo a quelle che non sono altro che scorciatoie veloci per raggiungere un certo risultato determini un nuovo modo di concepire il mondo, se stessi e le relazioni con le altre persone. L’aspetto più interessante, e sorprendente, su cui Gardner e Davis punta- no la loro attenzione riguarda l’atteggiamento che hanno i ragazzi verso la costruzione del loro futuro. «Molti arrivano all’università con la vita già completamente programmata, come in una super app. Le loro identità sono prematuramente determinate: non si concedono lo spazio per esplorare alternative», scrive Gardner. L’idea è che, abituati a non essere mai soli - con genitori e amici sempre a portata di cellulare - e a seguire i procedimenti strutturati delle app per ottenere qualcosa, i teenager oggi siano terrorizzati alla sola idea del fallimento. Il risultato è che evitano in ogni modo di affrontare rischi sia nel campo degli studi e del lavoro sia nelle loro relazioni personali, filtrate da una distanza fisica di sicurezza che inibisce qualsiasi vera empatia e intimità pro- fonda con gli altri: «I giovani non rischiano nulla perché così facendo nessuna parte di loro risulta vulnerabile». La descrizione di tanta freddezza stupisce non solo per l’idea tradizionale che si ha dell'adolescenza, età in cui da Danno sfogo alle loro pulsioni solo sul web. Uno spazio in cui sanno essere rivoluzionari sempre, da quella testa calda di Caino fino alla provocante Miley Cirus, la trasgressione è un faro comportamentale, ma anche per quello che si sa oggi del cervello degli adolescenti. In un saggio pubblicato sulla rivista scientifica Nautilus (http://nautil.us), Robert Sapolsky, professore di biologia, neurologia e neurochirurgia a Stanford, ha scritto: «Il cervello adolescente è unico. La sua particolarità dipende dal fatto che la corteccia frontale non è ancora del tutto sviluppata. Questo spiega la turbolenza di quell’età». La corteccia frontale è la parte che si è evoluta più di recente ed è quella da cui dipendono le decisioni più accorte e la ragionevolezza dei nostri comportamenti. I suoi neuroni, infatti, finiscono di formarsi solo dopo i vent’anni. Considerato poi che a quell’età si è in preda allo tsunami degli ormoni, appare chiaro perché gli adolescenti tendono da sempre a correre rischi, ad avere emozioni esplosive e a sperimentare nuove strade. A essere rivoluzionari, insomma. E allora che succede? Possi- bile che l’uso invasivo delle app abbia il potere di trasformare una caratteristica evolutiva del nostro cervello? «La mia affermazione riguarda l’avversione a correre rischi in ambito scolastico e nella vita in generale», precisa a pagina99 Gardner. «Gli studenti non fanno altro che chiederci istruzioni estremamente precise, come se stessero seguendo un programma sul computer, e si comportano come se ogni passo falso li eliminasse dalla corsa al successo. Il loro atteggiamento potrebbe però essere abbastanza diverso se si parla delle tre D: drinking, driving and drugs!». Non solo. In questo periodo di crisi, oppressi dalla pressione a cui sono sottoposti a scuola e nella ricerca di un buon lavoro (o di un lavoro tout court), è possibile che selezionino gli ambiti in cui possono correre rischi. «Sono calcolatori quando si tratta di scuola, stages e lavoro, ovunque vengano valutati e dove correre rischi non è premiato», precisa Katie Davis. «Può darsi, invece, che confinino gli azzardi tipici dell’adolescenza ai contesti online, che servono da zona franca dove sfogarsi». Come dire? Rivoluzionari sì, ma solo 2.0. pagina 99we | 30 | IDEE sabato 11 ottobre 2014 u L’I N T E RV E N TO GIOVANNI CAMILLERI* n L’Onu cambia strategia mentre si prepara a lanciare i nuovi Obiettivi di sviluppo del millennio. Cambia il processo per definirli e acquista importanza il territorio: non mero spazio amministrativo, ma un complesso di reti – istituzionali, sociali, economiche – che ne costituiscono il potenziale, la capacità di inventare, costruire. Purché sappia dialogare con la rete più ampia che è il pianeta. Per dare risposte globali a quelli che sembrano problemi locali. Ai bisogni individuali e locali devono corrispondere risposte globali. Alla crisi, ai conflitti, al degrado ambientale, a un’emigrazione che uccide nei mari e crea problemi di convivenza nei Paesi più ricchi e fuga di cervelli in quelli più poveri, non ci possono essere solo risposte nel piccolo orto di casa. Quello che fino a ieri è stato soprattutto un paradigma teorico – la coniugazione del locale al globale – è diventato un’esigenza primaria: una logica di partnershippiuttosto che di confronto tra blocchi e che includa tutti, a cominciare dai cittadini, con le loro culture e tradizioni, ma anche con un comune obiettivo che è poi la battaglia per uscire dalla crisi, avere una vita e un lavoro dignitosi, acqua potabile e aria pulita. Una sfida che travalica i confini geografici e culturali, i modelli economici, le religioni, le categorie imprenditoriali, gli Stati nazionali. la nuova visione dell’Onu matura nei territori Sviluppo | I Millennium Goals per il 2000-15 hanno ottenuto risultati significativi. Ora le Nazioni Unite immaginano il mondo che vorremmo nel 2030. Riscoprendo le reti locali Che mondo vorremmo? Gli Obiettivi di sviluppo del Millennio Mdg 2000-2015 (v. scheda) hanno raggiunto risultati importanti, ma il cammino è in salita. Era necessario pen- Il 14 e 15 ottobre Torino ospita i rappresentanti di 140 Paesi per discutere di cultura e localizzazione sare a quali debbano essere i nuovi obiettivi per il 2015-30, ma anche e soprattutto a come si possa passare dalle parole ai fatti; come possano essere condivisi e vissuti da tutti i cittadini, e come possano avere un impatto reale. Forse nei Paesi economicamente avanzati gli Obiettivi del millennio (un sondaggio dice che solo il 6% della popolazione mondiale li conosce) sono stati percepiti come un traguardo che riguarda solo le nazioni più povere, senza riflettere sul fatto che acqua, energia, salute, istruzione, sicurezza, carenza di lavoro – solo per fare alcuni esempi – sono una meta comune a tutti. Nel Nord e nel Sud. Per questo, il 14 e il 15 ottobre, sono ospiti di Torino i rappresentanti della società civile e dei governi nazionali e locali di circa 40 Paesi. Per capire il mondo che vogliamo. A 15 anni dal lancio de- GIULIO PISCITELLI / CONTRASTO SBARCHI L’arrivo nel porto di Napoli degli 877 migranti recuperati dalla Marina Italiana nello Stretto di Sicilia nel corso dell'operazione Mare Nostrum, settembre 2014 gli Mdg, che furono il primo coraggioso tentativo di concepire una risposta globale, formalizzata dall’Assemblea generale dell’Onu nel 2000, a Torino, e in altre cinque città, si cercherà di capire quale può essere il ruolo dei territori in questa sfida. Si discuteranno proposte che i cittadini e i diversi attori sociali ed economici dei Paesi di Asia, Africa e America Latina hanno identificato per contribuire alla proposta che il segretario generale Ban Ki-moon lancerà nel 2015 all’Assemblea generale. Il percorso è stato lungo: il lavoro sui nuovi IL BILANCIO n I Millennium Development Goals stabiliti nel 2000 e sottoscritti da 189 Stati membri dell’Onu miravano al raggiungimento di otto traguardi entro il 2015: dallo sradicamento della fame e della povertà estrema alla lotta alle grandi malattie. La riduzione della povertà è una parziale vittoria, stando al Millenium Development Goals Report 2014 dell’Onu: nel 1990 quasi metà della popolazione nelle aree povere viveva con meno di 1,25 dollari al giorno. Questo tasso è sceso del 22% nel 2010, riducendo a 700 milioni le persone in estrema povertà. Diminuisce la percentuale di denutriti, dal 24% degli anni Novanta al 14% nel periodo 2011-13. Pure la malnutrizione cronica è scesa tra i bambini, ma ne colpisce ancora uno su quattro (in totale 162 milioni). Il tasso di mortalità infantile si è quasi dimezzato, ma le malattie prevenibili restano la principale causa di morte. Il tasso di mortalità materna è diminuito del 45% tra il 1990 e il 2013, ma nel solo 2013 quasi 300 mila donne sono morte per cause prevenibili legate a parto o gravidanza. Quanto all’istruzione, il tasso di bambini che nelle regioni in via di sviluppo frequenta la scuola è del 90% (era dell’83% nel 2000). La lotta a malaria, Tbc, Aids ha fatto passi avanti: tra il2000 e il2012, lalotta alla malaria ha salvato la vita di 3,3 milioni di persone, il 90% delle quali bambini sotto i 5 anni nell’Africa sub-sahariana. La lotta alla Tbc avrebbe invece salvato 22 milioni di vite dal 1995 e l’accesso agli antiretrovirali per i sieropositivi dal 1996 ne ha salvate 6,6 milioni. Quasi due miliardi di persone hanno guadagnato l’accesso ai servizi igienico sanitari, ma 2,5 miliardi di persone non hanno ancora un efficiente sistema di servizi e un miliardo ne è totalmente escluso. L’accesso all’acqua potabile è real- tà per 2,3 miliardi di persone. L’empowerment femminile ha visto nel gennaio del 2014 46 Paesi con oltre il 30% di parlamentari donne, mentre è arretrata la discriminazione scolastica. L’assistenza allo sviluppo si allontana invece dalle aree povere, anche se la negoziazione del debito dei Paesi in via di sviluppo è migliorata. Per l’Ambiente la minaccia globale resta elevata con emissioni di anidride carbonica che continuano la tendenza al rialzo, mentre milioni di ettari di foresta si perdono ogni anno, accompagnati dall’estinzione di specie e riduzione delle fonti rinnovabili. Obiettivi è nato con la Conferenza dell’Onu sullo Sviluppo del 2012 (Rio + 20), in cui si avviò un processo di consultazione globale che sta giungendo a conclusione e di cui Torino è tappa chiave per il ruolo dei cittadini e dei territori. Un processo di dialogo Questo processo vuole contribuire a farsì cheinuoviObiettivi 2015-30(Sdg, Sustainable Development Goals) siano non solo un accordo tra Stati, ma anche un nuovo patto tra cittadini del pianeta, sintetizzato da sei incontri che coinvolgono soggetti istituzionali, enti locali, accademici, settore privato, comunità e associazioni della società civile. Ci si arriva dopo che circa due milioni di persone, in decine di Paesi, sono state impegnate in discussioni e incontri pubblici su ciò che ritengono necessario per un futuro di sviluppo. Potremmo dire che le indicazioni del mondo che vogliamo sono nate attraverso la raccolta delle suggestioni e dei punti di vista arrivati da soggetti molto diversi: dai giovani delle aree rurali del Ghana, dal piccolo commercio femminile dell’Ecuador, dalle reti degli entilocali mondiali, dalle associazioni indigene o da quelle degli imprenditori del Nord e del Sud. Il prodotto di questi incontri confluisce ora in sei dialoghi nazionali, per sintetizzare i risultati del dibattito sui temi principali: Trasparenza e responsabilità; Partnership con la società civile; Ruolo del settore privato; Efficacia delle istituzioni; Cultura e localizzazione. È quest’ultimo il focus della discussione in calendario a Torino. Localizzazione Per localizzazione si intende la necessità di far nascere e radicare nei territori i risultati prodotti dai futuri Sdg. Il territorio si può intendere come un mero spazio geografico racchiuso tra le frontiere di un’unità amministrativa. Oppure lo si può intendere come il complesso delle reti che lo compongono e ne costituiscono il vero potenziale: il territorio come risorsa fondamentale, realtà di persone, associazioni, risorse ambientali con storia, identità e tradizioni, istituzioni che sono – o dovrebbero essere – l’espressione dei soggetti che vi abitano. Il potenziale del territorio, che si tratti di regione, area metropolitana o di un piccolo comune, cresce tanto quanto è capace di proiettarsi all’esterno, sapendo interagire con la dimensione nazionale e globale. La capacità di mettere in relazione queste tre dimensioni (locale, nazionale, internazionale) è una sfida che oggi acquista una valenza pragmatica, ineluttabile e ineludibile. Se nel nostro Comune arrivano dei migranti in cerca di aiuto, non esiste solo un problema di accoglienza, ma una necessità di coordinamento locale, nazionale e internazionale così come, simmetricamente, nei Paesi d’origine saranno necessari sicurezza umana e sviluppo. Difficile, certo, ma non impossibile. Questa valorizzazione strategica del potenziale dei territori è forse la vera nuova risorsa per le nuove sfide locali, nazionali e globali. *Coordinatore per l’Iniziativa Articolazione Reti Territoriali del Programma Onu per lo Sviluppo pagina 99we | 32 | ARTI MARCO CUBEDDU u segue dalla prima n Ecco, per raccontare Zerocalcare, che a differenza di quanto credevo non soffre a sentirsi chiamare con lo pseudonimo, anzi, maledice il giorno in cui Makkox in buona fede ha fatto il suo vero nome in una prefazione, bisogna partire da Rebibbia, il suo “Pisolone”, un sacco a pelo che lo tiene al sicuro. Dove anche il suo ultimo libro, Dimentica il mio nome (in uscita per Bao Publishing, 240 pagine, euro 18), è ambientato, e dove tutta la sua famiglia abita ancora («Stamo tutti a Rebibbia, mi madre, mi nonna, mi padre, io avrò cambiato 4 case da quando sono andato a vivere da solo. Tutte a Rebibbia»). E infatti è a Rebibbia che ci incontriamo. Da neoromano, mi perdo per raggiungere la linea B. Siccome sono in ritardo, gli scrivo: «Ciao Michele io sto per prendere la metro da Tiburtina spero di non arrivare in ritardo». «Azzz no mi sa che arrivi prima di me anzi, tra 15 min stai qua! (se arrivo alle 17.45 mi uccidi?)» Avevamo appuntamento alle 18.00. Altri elementi necessari per inquadrare Zerocalcare: la premura. La gentilezza. Effettivamente arrivo prima di lui, per uno di quei miracolosi incastri che rendono la viabilità romana imperscrutabile. Impossibile essere puntuali: o in largo anticipo o in drammatico ritardo. Lo aspetto appollaiato su un muretto di mattoni davanti alla stazione. Intorno, famiglie di carcerati al rientro dalle visite. Arriva e si scusa di essere uscito «praticamente in pigiama». Eppure, un’altra sua caratteristica è l’eleganza intrinseca, nonostante l’accento da borgata e il look da redskin a riposo. Siccome nel nuovo libro le componenti autobiografiche, alterate da parti fantastiche, lasciano pensare a un’educazione aristocratica della nonna materna, viene sponta- l’educazione aristocratica di Zerocalcare a Rebibbia Si notano subito la sua gentilezza e l’eleganza intrinseca, nonostante il look e l’accento neo ricondurlo ai personaggi di Dickens, cui la vita di strada non ha intaccato il sangue blu che scorre nelle loro vene. «Ma no, mi nonna è stata educata da dei nobili russi, ma mica era nata nobile, e poi è finito tutto da giovane, ha avuto una vita pazzesca, rocambolesca, tanto che è finita a Rebibbia. Ma tu dove stai qui a Roma?». «Pigneto purtroppo, un covo di radical chic, sto cercando di scappare». «Eh, quello è l’inferno. Ma zona isola?». «No, per fortuna, sulla Casilina, verso Torpignattara, coi cinesi che tengono lontani gli hipster». «Ah, due giorni fa avevamo occupato un posto da quelle parti, per farci una scuola sociale di fumetto». Già, eleganza e squotteraggio in lui si conciliano benissimo. Andiamo a bere qualcosa al bar Al vecchio casello («Qua è abbastanza di passaggio, no, sai, farmi vedere che mi fanno un’inter- sabato 11 ottobre 2014 vista, da ste parti, poi tutti ci guardano storto, e ch’hanno pure raggione»). Se non dovessimo parlare d’altro parleremmo tutto il tempo di politica. Quella è la parte della sua vita che lo interessa davvero. L’unica cosa che chiede venga riportata con attenzione:«Perché ame sedovessi perdere il rispetto della mia gente, mi farebbe troppo male». Occupazioni, cineforum, presentazioni di libri sono stati per lui molto più formativi del liceo classico. I centri sociali sono il solo ambiente in cui Zerocalcare si sente veramente a suo agio. Oltre alla sua cameretta. Per lui sono mondi distinti, quello del suo successo editoriale (oltre 200.000 copie vendute, tutti che lo vogliono sui giornali e sulle ri- viste, tutti che lovorrebbero in tv) e quello delle locandine, delle copertine dei cd autoprodotti, che continua a fare. Eppure, nelle sue storie è molto autoironico sulle idiosincrasie politiche, sulle contraddizioni del suo antagonismo. «Sì, con me stesso mi viene facile. Ma sugli ambienti che frequento non faccio mai ironia, è una parte troppo importante della mia vita, e l’ironia potrebbe venire fraintesa, strumentalizzata da chi vuole raccontare quelli dei centri sociali come stereotipi, alieni fuori dal mondo. E non mi va». Ci sediamo a un tavolino metallico. Intorno a noi gridano due gruppi di vecchietti, parlano della sconfittadella Romacon laJuve («Ma che parlamo a fa coi la- ziali de carcio»). Prendo una birra. Lui prende un succo di frutta. «Astemio?». «Sono un punk straight edge: non bevo, non fumo, non mi drogo, non assumo nessuna sostanza che alteri la coscienza o che dia dipendenza. Forse ho iniziato perché avevano delle felpe fighe. Una volta eravamo in tanti. Mo’ praticamente del mio gruppetto semo rimasti solo io e Secco, l’amico mio». «Quello del poker on line delle tue storie?». «Quello«. «E lui come l’ha presa la fama?». «Sai che non ne parliamo mai? Lo sa di essere un mio personaggio. Ma non è mai venuto a una mia presentazione. O, che so, su Facebook, non ha mai condiviso un mio link». «Timidezza?». «Ma no, è che a lui, ma a tutti gliamici miei,inrealtà,è chenon gli frega niente di ste cose. Noi parliamo di risse, di arresti, chi è stato menato da chi». «Cioè, non è cambiata la tua vita?». «Ma sai che no. Cioè, lavoro un botto più di prima, ma per il resto no». «Beh, ma anche economicamente, direi che ti è cambiata per forza. Ora, ho capito che non ti trasferiraiai Parioli,peròinsomma, una villa a Rebibbia?». «Ma io più che altro ero convinto, e lo sono anche adesso, che nondurerà.Per meerastranofare delle storie su riviste che non chiudessero dopo due settimane. Quindi la stabilità è una cosa pazzesca. Ma sono sicuro che arriverà il giorno in cui dovrò cercarmi un lavoro. E i soldi mi serviranno per tirare a campare. Quindi niente lussi, anche se ho comprato diversi videogiochi, uno tipo quelli vecchi da bar, che era il sogno mio avercelo in casa da regazzino». Il successo di Zerocalcare viene dal suo blog, dove ogni maledetto lunedì su due ha raccontato la sua vita. «Io non pensavo potesse interessare a qualcuno. Quelle erano paranoie mie e basta, credevo. Poi, facendole leggere agli amici, ho capito che interessavano anche ad altri, così ho messo su il blog». «Che nonostante gli impegni continui a portare avanti, gratis». «Sì, anche se ho smesso di considerarlo un patto di sangue, non lo aggiorno più con la regolarità di un tempo, perché non ce la faccio proprio. Però è un mio punto d’onore continuare a fare delle cose gratis su internet, non voglio che la gente pensi che ho usato il blog come un trampolino, chepoi loè stato,ma nonè solo questo, è una cosa a cui tengo davvero». «Eppure i tuoi numeri sono impressionanti. Nessuna tentazione mondana?». «È proprio l’informalitàdei lavori creativi che non sopporto. Quando lavoravo normalmente facevo le mie ore e fine. La mia vita era fuori. Invece nei lavori creativi il lavoro è fatto di feste, di cene, di aperitivi, di socialità. Io l’ho fatto all’inizio, ma poi ho capito che non lo volevo più fare. Anche perché se cominciassi a fare quella vita lì poi non potrei più raccontare le mie storie, non mi sentirei pulito. Però è chiaro che, vendendo bene, sono nella posizione per non farlo. È un privilegio potermelo evitare. E poi mi fa veramente schifo, ti rendi conto che quest’ambiente è perfettamente in grado di assorbire tutto, dalla guardia al black block». «E da un punto di vista creativo, sei cambiato?». «Ho il terrore di non approcciare le cose con lo stesso spirito di quando le ho cominciate. Non voglio vivere facendo qualcosa solo perché so che ha consenso. Anche se c’è una parte di me che mi dice…». «Tipo l’Armadillo che rappresenta la tua coscienza nelle tue storie?». «Esatto, che mi dice daje Calcà, che te frega, però ecco, ad esempio, io questa storia la sento molto diversa dalle altre cose fatte, infatti c’ho un botto de paura, però mi sentivo chesi èchiuso unciclo con questo libro. La profezia dell’armadillo lo sento datato di tre anni, la mia visione degli affetti, delle cose, si è evoluta, era il momento di raccontare questa storia, anche se mi terrorizza a morte». «Perché?». «Perché ho paura che la gente sabato 11 ottobre 2014 | pagina 99we ARTI | 33 Anteprima | A giorni in libreria Dimentica il mio nome, il nuovo graphic novel del fumettista che con eleganza e delicatezza ricostruisce la storia della sua famiglia. L’abbiamo incontrato nel nido che lo protegge, il suo quartiere dica Che palle, ma che frignone questo». «Io l’ho trovata più adulta, con parti divertenti che funzionano e lasciano prevalere i sentimenti, raccontati in maniera sofisticata ma col pregio della banalità, in senso buono. Quelle esperienze che abbiamo vissuto tutti e che fanno sentire i tuoi lettori così dentro la storia». «Ma l’hai letto? Ti è piaciuto? Io non ho manco visto il pdf ancora, è la prima intervista che faccio con qualcuno che l’ha letto emiinteressa capirechenepensi perché io sono terrorizzato a morte». «Sì, ho ricevuto il pdf. Tra l’altro, fra parentesi, mi hai fatto vivere un’esperienza surreale. Il tuo libro si chiama Dimentica il mio nome. Ma su tutte le pagine del pdf che mi hanno mandato stava scritto il mio in obliquo, che era come non poterselo scordare mai. Ho pensato che nell’ufficio stampa di Bao o fossero dei geni della metacomunicazione, o fossero pazzi: pdf criptato, nome impresso su tutte le pagine, manco fossero documenti della Cia, tipo che temono un Calcareleak». «Ahahahaha, così se lo metti su eMule sanno che sei stato tu». «Comunque, a parte gli scherzi, non c’è un altro modo per dirlo, è molto bello». «Dici? Ma non è sdolcinato?». «No. È tenero. Il rapporto con tua nonna, con tua mamma, con tuo padre…». «Eh, quella è una mia altra paura. Da una parte il patto che ho fatto con mia mamma è che non dico a nessuno pubblicamente cosa è vero e cosa no. E dall’altra che mio padre magari se laprende, che lofaccio passare come un cojone». «Io l’ho trovato delizioso il modo in cui racconti delle difficoltà tra padre e figlio di darsi affetto, che lo fanno con le mosse delle arti marziali praticamente. E in generale, l’inizio soprattutto, chiunque ha perso un nonno non può che immedesimarsi, quando tieni la mano a tua nonna, il modo in cuiti senti in imbarazzo in ospedale». «Io avevo molta paura perché per la prima volta non raccontavo solo i fatti miei, ma anche quellidellamia famiglia,ancheil lutto, il dolore, cose che mi mettono in imbarazzo». «La parte sull’oscenità del dolore è stupenda». «Mi sento in colpa ma il dolore mi fa schifo, mi ripugna, mi repelle. Proprio le fragilità del dolore scomposto,io possovenirti a prendere in macchina alle tre del mattino, pure in bici dall’altra parte del mondo, ma non ti so dare assistenza al dolore, sono impreparato». «In generale c’è un grande pudore nelle tue storie. Penso che questo contribuisca a rendere il tuo mondo accogliente, vero, ma allo stesso tempo finto, non so, penso alle storie di Topolino, To- polinia e Paperopoli che praticamente mettono albando cose come la morte». «Nelle mie storie, ad esempio, il sesso non c’è perché non lo so raccontare. E perché coinvolge un’altra persona. Io sono un’orsolina, quella roba non mi va di darla in pasto ai lettori. Pensa che nella mia vita non ho mai disegnato neanche un paio di tette». Dimentica il mio nome è un libro delicato, che affronta il tema della crescita e dell’identità con umorismo e paradossi, ma senza dimenticare la commozione, la nostalgia, i rimpianti. Un impasto generazionale che attraverso i miti degli anni ’80 e ’90, personaggi pop, nel senso di popolari, ma con una grande profondità, dei grandi valori («Prendi Ken Shiro, un modello», «Io ti confesso che da bambino stravedevo per Sauzer, il malvagio imperatore di Nanto», «Ma che infanzia c’hai avuto, ahò»), tratta sentimenti comuni a tutti con visioni originali e un’eleganzadata dalla cura dei testi e dalla scelta dei colori (bianco, nero e arancione). Prima di salutarci facciamo due passi per Rebibbia, al tramonto («Mica è il Bronx»), dietro un campetto, tra stradine minuscole, kebabbari, sovrastati dal bianco e nero dei palazzi sui cui si attarda un sole arancione dalle sfumature nucleari, parlando delle avances delle major, dell’hip hop, del punk, della bellezza delle scritte Acab, dell’autoproduzione, del rapporto coi fan («Il fatto che passo ore a fare disegnini alle presentazioni a me «Sono straight edge: non bevo, non fumo né mi drogo, non assumo nessuna sostanza» sembra un dovere nei confronti di chi viene a sentirmi, poi certo, ai lettori gli fa piacere comprare i miei libri anche per quello, e certi colleghi mi vedono male perché i lettori si aspettano che lo facciano anche loro») dei fan, delle critiche («cerco di leggere tutto, a volte rosico proprio, mi è pure capitato di beccarmi con qualcuno che mi insultava pesantemente e mi hanno portato via perché volevo mettergli le mani addosso»), di graffiti. «Uno per cui c’ho una grande stima, artisticamente e politicamente, è Blu. Vorremmo fargli fare un pezzo su quella facciata… lo conosci?». «Ho un tatuaggio tratto da un suo disegno». «Eh, io ho due tatuaggi. Ne ho fatto uno su un braccio senza pensare che poi misi poteva riconoscere alle manifestazioni, così ne ho fatto poi uno anche sull’altro, tanto se devo mettere la maglia a maniche lunghe per non farmi riconoscere… però ho tenuto puliti i polpacci così posso mettere i pantaloncini. Che disegno hai fatto di Blu?». «Un nastro di Möbius fatto di carri armati e ruspe, sta su una fabbrica di Praga». «Eh, a Praga devo andarci». «Non è che poi ti vengono le bolle se stai troppo fuori da Rebibbia?». «Ma no, basta che faccio tutto in quattro giorni». @cubamsc PERSONAGGI Diego Bianchi, Zoro e Valerio Mastandrea CONTRASTO una scanzonata nouvelle vague Cult | Da Mastandrea a Zoro, s’avanzano gli autori #daje ALESSANDRO LANNI n Pop e politica. A Roma è nata una nouvelle vague che ha una cifra precisa: cazzeggio e impegno, #daje e Cinema America, pallone e Twitter. È un'alchimia delicata - e finora perfetta - che sta distillando una nuova identità culturale in città. Addio macchiette e risate, dimenticate la romanità becera e di plastica che ammorba da un ventennio il cinema e la tv. E anche la koinè leggera e smargiassa che ha avuto padri nobili come Proietti e Verdone e gli ultimi eredi che abitano la Garbatella dei Cesaroni. La nuova romanità è riservata e timida ma sta creando fenomeni cult che col rimbalzo tra vecchi strumenti e social network stanno diventando di massa. Difficile non vedere il capostipite di questa nuova generazione in Zoro, al secolo Diego Bianchi. D'altra parte cos'è Gazebo se non il circolo degli amici portato in tv a cazzeggiare e fare informazione tra un tweet e l'altro? Ne è passato di tempo da quando su un blog a sfondo nero, analizzava vizi e virtù (soprattutto vizi) del Partito. Privato e pubblico erano mescolati con l'insofferenza e la fedeltà tipiche del militante di sinistra. All'indomani della sconfitta di Veltroni alle politiche del 2008 inventò, insieme a qualche amico, la Fondazione Daje e “Ficcati nella fanga” era lo slogan a doppia interpretazione che certificava la depressione post voto. Poco dopo, Zoro spicca il volo e telecamerina in mano passa per il salotto di Serena Dandini per arrivare fino alla conduzione della seconda serata di Rai Tre e alla regia di un film, Arance e martello prodotto da Fandango, uscito poche settimane fa. In una città in cui non si sa quali dovrebbero essere gli incubatori per le nuove idee, è nato qualcosa di originale. Mica poco. La “generazione #daje” non ostenta, più che ridere sorride, fa politica ma nell'epo- ca del disincanto. Il centro sociale e la sezione non sono più la scuola di vita di un tempo, oggi sono più che altro ambiente il gruppo di amici e conoscenti da portare in scena. Il neo-romano rivendica le proprie origini nel rione o in periferia, coltiva con cura la cadenza strascicata, ma sa bene che il Pigneto è un po' meno off di quanto si racconti. Si prenda per esempio un Ivano De Matteo, attore e regista trasteverino e laziale come Bruno Giordano, che ha vinto un’altra partita il mese scorso a Venezia quando I nostri ragazzi è stato acclamato al mostra del cine- La “generazione #daje”più che ridere sorride, fa politica ma nel disincanto ma. Radici nei cento metri tra Santa Maria e piazza San Calisto e storie crude da raccontare come la vicenda dei genitori sindacalisti a tutti i costi anche di figli stronzi. Oppure il neo-divorziato Mastandrea che deve inventarsi una vita ritrovandosi senza un soldo (Gli equilibristi è del 2012). Ecco, lo stesso Valerio Mastandrea è un altro esempio di questa romanità, disillusa e impegnata. Con lo stesso tono dimesso e schivo con cui saliva sul palco del Teatro Parioli insieme a Maurizio Costanzo riceve il David di Donatello nel 2013. Premio che condivide con lo stesso De Matteo sul palco del Cinema America ancora occupato, e sala in cui lo scorso giugno insieme a Zerocalcare sceglie gli attori del film tratto dalla graphic novel La profezia dell'armadillo. Film sceneggiato dai due insieme al più timido esponente del neo-romanismo, il recensore incappucciato Johnny Palomba. pagina 99we | 34 | ARTI una effimera Festa romana sabato 11 ottobre 2014 Cinema | Quest’anno la kermesse cerca emozioni forti anche se indigeste. Fra grandi star come Kevin Kostner, film popolari, sfacciate contaminazioni tv. E l’omaggio a Tomás Milián ROBERTO SILVESTRI n Quest’anno al Festival internazionale del film di Roma (dal 16 al 25 ottobre) si volta provocatoriamente pagina. L’indicazione è: solo emozioni forti. Magari anche indigeste. Certo, mai come al Lido di Venezia, stretto a tenaglia com’è tra lo scandaloso buco di amianto, le speculazioni edilizie e la corruzione che ne stanno distruggendo l’aria, l’aura e il prestigio. È a rischio come secondo appuntamento cinematografico al mondo dopo Cannes, la Mostra d’arte, nonostante un’edizione 2014 di buona qualità. Roma poteva essere una soluzione praticabile di ricambio, ma le ambizioni (e i budget) sono stati ridimen- Fra le opere più attese Gone Girl il rude film di David Fincher con Ben Affleck sionati dal nuovo corso politico. E al suo terzo e (probabile) ultimo anno di direzione, Marco Mueller ha voluto così esagerare e, speriamo, scandalizzare. Ha accettato di fare una Festa metropolitana con film e attori di richiamo, primi tra tutti Kevin Smith, Walter Salles e Kevin Costner, con premi assegnati telematicamente dal pubblico, piuttosto che un festival «di sole anteprime mondiali assolute». Ma declinandola più pensando all’effimero di Nicolini (che poi è quel reale, fatto di fantasia e desiderio, che si chiama immaginario e non è mai appagato dal presente) che all’ossessione per lo spettacolo, il divo consacrato e il red carpet di Bettini (che certo il film su Califano l’avrebbe gradito). E così ecco commedie e film comici all’italiana, a spudorata contaminazione televisiva, come Andiamo a quel paese di Ficarra e Picone, chiamati a chiudere la festa. Il sito del festival promette un cartellone pieno di «film popolari ma originali». Altri titoli sono tutto un programma: Soap opera di Alessandro Genovesi, con Diego Abatantuono (che apre le danze) o Trash di Stephen Daldry. Nella sezione “Gala”, la più glamour, alcune delle opere più attese, come Gone Girl, con Ben Affleck, il nuovo film di David Fincher dal titolo talebano almeno quanto l’energia e gli umori con i quali si caracollano i suoi thriller dal rude gioco maschio; e Se lo vogliono gli ICONE Un ritratto dell'attore di origini cubane Tomás Milián, Roma, 1974 dei di Takashi Miike, un prolifico (e controverso) regista giapponese pulp che è da sempre stato un punto di riferimento spirituale di Mueller (perché ostile a ogni cristallizzazione stilistica, non disdegna mai di sporcare le sue storie, sempre violentissime, con interferenze SUI MONTI DELL’ANATOLIA NUOVO CINEMA TURCO Il regno d’inverno di Nuri Bilge Ceylan drammatico • minuti 196 Il cinema turco o è metropolitano o anatolico. O spezza lance contro l’arcaicità dei costumi e la donna oppressa, o contro la diabolica modernità. È lento e muto o veloce e logorroico. Bilge Ceylan con questo film Palma d’oro a Cannes confonde gli schemi e infetta di cinismo e avidità, lentezza di tempi e incalzare del motto di spirito, il villaggio sperduto e nevoso. Turismo, islam, crescita, femminismo, lotta di classe, Cechov, Shakespeare, minatori sepolti, bimbi umiliati e sopraffina tecnica recitativa confliggono sui comodi divani del piccolo hotel Othello, di cui è padre-padrone Aydin, fuggito dalla città per scrivere la storia del teatro turco. (r.s.) camp e deviazioni tratte da forme popolari di comunicazione di massa come manga, fumetto, anime, canzoni pop, western spaghetti). In gara poi tre cineasti italiani come Pasquale Scimeca, Claudio Noce e Alessandro Piva, tutti iconoclasti, anche se trattano di missio- nari o utilizzano Emir Kusturica come superstar, ma indocili alla definizione di cineasti da festival. Non accettano di fare opere di nicchia ma non sono neanche pronti al compromesso in nome della (presunta) oggettiva scienza del blockbuster. Inoltre, la “Retrospettiva”. DA LAMPEDUSA ALLA SVEZIA PROFUGHI IN VIAGGIO Io sto con la sposa di A. Augugliaro, G. Del Grande e K.S. Al Nassiry docu-fiction • minuti 89 Un corteo nuziale, sposa inclusa, nasconde profughi palestinesi e siriani approdati a Lampedusa, che scavalcano con destrezza le frontiere italiane, francese, tedesche e danesi e approdano, dopo 4 giorni e tremila chilometri in Svezia, unico paese europeo che concede un asilo politico non disumano agli arabi in fuga dalle dittature. Il documentario, finanziato dal basso, racconta un’emozionante storia vera di disobbedienza civile come fosse una favola in stile Ken Loach. Durante il “cammino della speranza” si scopre il criminale trattamento Ue dei profughi politici. Ma il continente è più transnazionale e solidale di quanto la Fortezza non speri. (r.s.) Il risarcimento storico (dovuto da anni) agli artigiani e artisti nostrani del cinema horror, fantastico, di paura. «Danze macabre: il cinema gotico all’italiana» è dedicata agli spaghetti nightmares che dal 1957 alla metà degli anni Settanta permisero a Cinecittà di dominare il mer- LA FOLLIA AMERICANA DEGRADO TEXANO Joe di David Gordon Green drammatico • minuti 117 Provincia texana, degrado, alcolismo, violenza. Il teenager Gary (Tye Sheridan) vive nel terrore di una famiglia misera e miserabile e si affida a Joe (Nicolas Cage) taciturno boscaiolo dal passato oscuro, che lo protegge come un padre. Ma la follia omicida scoppierà. Passato in concorso alla Mostra di Venezia 2013, il film è immerso in un’angoscia esistenziale sovraccarica, non sostenuta dall’interpretazione di Cage. Al suo posto il regista ha scelto Al Pacino per il successivo Manglehorn (in gara quest’anno Venezia) sempre ambientato nel Lone Star State, con risultati ben diversi. (m.c.) sabato 11 ottobre 2014 | pagina 99we scurità, che è per noi simbolo di morte», spiegava Freda ricordando come queste esperienze, quel sobbalzare sulle sedie della prima visione ci legava a filo doppio ai nostri villosi antenati che, terrorizzati dai fulmini e dalla violenza indomabile della natura, «si appiattivano contro le umide pareti delle grotte». Non manca nella rassegna il più baviano dei film di Fellini, Tre passi nel delirio. E ancora. Una sezione collaterale composto da gialli, thriller, spionistici, fantasy, melodrammi, insomma da film di genere di produzione internazionale. Una mostra di fotografie di moda firmate da Kate Berry, la figlia suicida di Jane Birkin e una di Asia Argento, la sulfurea cineasta estrema il cui padre è Dario. Largo spazio insomma dedicato al cinema di genere, meglio se ultrà. Come The Guardians of The Galaxy, nella sezione a parte “Alice nella città”, che è l’incontro di Guerre Stellari con i pazzi della Troma, sovversiva casa di produzione indi- La retrospettiva è dedicata agli spaghetti nightmares che per anni dominarono il mercato ROMANO GENTILE / A3 / CONTRASTO cato mondiale con film, disprezzati quando i loro autori erano vivi, ma poi letteralmente copiati e saccheggiati nelle forme e nella sostanza dalla nuova Hollywood di Spielberg e Lucas e poi di Tarantino. Li presenterà addirittura Joe Dante in persona questi 15 capolavori, liberi e iperbolici, istintivi e violenti, carnali e più caldi e barocchi dei colleghi britannici della Hammer, griffati Mario Bava (ne vedremo 5, da non perdere il film super masochista, e censurato a suo tempo, La frusta e il corpo), Corrado Farina, Massimo Pupillo, Antonio Margheriti (Danza macabra) e Riccardo Freda (I vampiri e Lo spettro) che non solo si smarcavano da ogni compatibilità con il finanziamento pubblico ma penetravano nelle nostre zona dark più delicate, erotiche e turbolente, popolate da vampiri (e di anziani che succhiano l’essenza ai giovani, anche senza canini sporgenti, ne conosciamo a iosa), fantasmi, revenant, spettri, quelle zone dove risiede «la nostra paura dell’ignoto e soprattutto dell’o- pendente di rock visuale demenziale. O, fuori concorso, da non perdere assolutamente Ja visto jamais visto di Andrea Tonacci che è stato un esponente del cinema udigrudi brasiliano degli anni Settanta ed è tuttora un prestidigitatore affascinante di immagini. Ma il padrino dell’edizione numero 9 è un altro. Chi fu il simbolo più cosmopolita del cinema popolare italiano nell’epoca della sua esportabilità massima, gli anni ’60 e ’70? L’anello mancante tra cinema d’autore e cinema di genere, tra commedia e tragedia? Chi è ancora oggi l’unico attore di composizione, l’unico nostro divo mai inattuale, dagli anni Sessanta al primo decennio del secolo nuovo, capace per tecnica e indole di portare a nuova fusione generi e filoni differenti come il poliziesco e il comico-erotico e di tirare fuori perfino dal personaggio d’ordine più conformista un’anima anarchica e sovversiva? Ovviamente è Tomás Milián, figlio di mignotta in tanti suoi successi ma anche figlio anagrafico di un generale cubano che si suicidò nel 1957 per non piegarsi al dittatore Fulgencio Batista, perché fedele al presidente detronizzato, il liberale Gerardo Machado. Trasferitosi a Miami, dopo la vittoria per lui preoccupante dei barbudos, poi a New York a rifarsi le ossa come membro dell’Actor’s Studio, Tomás viene scoperto da Mauro Bolognini al festival di Spoleto, impegnato in un assolo mimico mozzafiato. Messo sotto contratto dalla Vides di Cristaldi per La notte brava e Il bell’Antonio di Bolognini, se- ARTI | 35 durrà e poi sarà sedotto da Visconti, Pasolini, Zurlini, Maselli, Loy, Brusati, Lizzani, Castellani, Lattuada e Antonioni. Insomma da tutto l’arco nobile del nostro cinema, allora caput mundi per prestigio e fattura. Ma Milián non ballerà una sola estate. Già naturalizzato statunitense per alti meriti anti-castristi, Tomás Quintín Rodríguez Varona y Milián diventa cittadino italiano nel 1969 (e a Roma afferma di voler essere sepolto, anche se oggi vive a Miami) e segue un percorso artistico obliquo, quasi trilaterale, che per 50 anni lo consacrerà campione di incassi nazionale, divo internazionale e spesso complice attivo dei suoi copioni. Tanto che dagli anni ’80 alternandoli ai duetti con Bombolo, entrerà con disinvoltura e forza iconica global nei drammi hollywoodiani o quasi di Dennis Hopper, Abel Ferrara (Oltre ogni rischio), Sydney Pollack (Habana), Bernardo Bertolucci (La luna), Oliver Stone (J.F.K.), Steven Spielberg (Amistad), Steven Soderbergh (Traffic), James Gray, del connazionale e sodale Andy Garcia, fino a Nessuno si salva da solo di Sergio Castellitto, attualmente in lavorazione. Corpo e personalità snodabile, performer prodigioso quando affronta i climi crepuscolari e l’ipocrisia borghese dei drammi dell’alienazione, o le tensioni disumane degli horror di Lucio Fulci, Milián scatena i suoi lati dark più proletari nei western spaghetti di Sergio Sollima, dove indossa la grottesca maschera del peone miserabile o del bandito messicano, infido e feroce, ma capace di guidare le rivoluzioni armato solo di coltello, come il suo Cucillo in Corri uomo corri (1968). O quando indossa i panni straccioneschi, la parrucca ricciuta e la barba ispida dei poliziotteschi di Umberto Lenzi, Sergio e Bruno Corbucci e Giulio Petrone. Er Pirata, il maresciallo Nico Giraldi, e Er Monnezza, ovvero Marazzi Sergio, il commissario delle periferie, l’Accattone filosofo, saranno i suoi alias preferiti, i “tipi” giusti, come il tenente Colombo per Peter Falk. Premiato a Roma con il Marc’Aurelio alla carriera Tomás Milián, che negli ultimi anni ha affascinato le platee mondiali con caratterizzazioni di potenza feroce, sarà l’ospite d’onore e il simbolo dell’ultima festa di Mueller (fra l’altro è appena uscita l’autobiografia Monnezza amore mio, scritta con Manlio Gomarasca per Rizzoli). Larga parte del merito di questo viaggio al termine della notte “commerciale” è anche il critico e presentatore tv Marco Giusti che ha affiancato Mueller a Venezia negli anni scorsi organizzando le retrospettive più amate da Tarantino (sul western e il cinema erotico all’italiana) e più odiate dai critici in difficoltà quando si maneggia il cinema bis, ovvero tutti gli stracult «diversamente artistici». la finestra sulla paura ai tempi della crisi Apocalisse | Una serie di titoli agghiaccianti. Dalle danze macabre alle immersioni gotiche, sul red carpet capitolino sfilano tutti i colori del buio MARIUCCIA CIOTTA n La depressione a Venezia, la morte a Toronto, la paura a Roma. Il cinema registra i sentimenti dell’aldiqua e i festival fanno da specchio. Tema dominante delle ultime edizioni internazionali, il disagio di stare al mondo declinato in tutte le sue sfumature nell’epoca assediata dalla Grande Crisi e dai terremoti geopolitici. Fantasmi di un’apocalisse annunciata che si moltiplicano in titoli di un terrore esistenziale tradotto in thriller, horror, noir, psicodramma. Un ritorno ai generi che invade anche il cartellone del festival romano in tutte le sezioni fino alla retrospettiva dedicata ai cineasti cult del gotico italiano. Tra Freda, Margheriti e Mastrocinque spunta perfino il nome di Fellini con l’episodio Toby Dammit di Tre passi nel delirio, star Terence Stamp, omaggio e plagio, messa in forma d’autore di Operazione paura di Mario Bava, il capofila del brivido al quale il festival dedica un focus nella sezione Danze macabre. E se alla fine degli anni Sessanta il diavolo di Bava/Fellini è una bambina bionda che gioca a palla, nell’era contemporanea il demonio si presenta col suo vero nome, Lucifero (regia di Gust Van den Berghe) e semina sventura in Messico, ispirato dalla cosmogonia dantesca. A Manhattan, invece, il signore delle tenebre si manifesta nel camice bianco di un medico dell’ospedale The Knich dove Steven Soderbergh ambienta la sua già leggendaria serie tv, «immersione gotica nel lato più oscuro del XXI secolo». E via con ogni forma di spavento, a cominciare dall’atteso David Fincher di Gone Girlche indaga il «perfetto matrimonio america- no» dove si annidano le perversioni più oscure. Famiglie devastate nel dopo subprime come in Time Out Mind di Oren Moverman che vede Richard Gere senzatetto alla deriva, clochard sulla quinta strada. Film in prima mondiale o europea che lastricano le strade della paura ai quattro angoli della terra, spazio unico di un’angoscia senza frontiere abitato dalle malefatte pubbliche e private, comprese quelle dell’alta finanza in Spunta persino Fellini con un omaggio a Mario Bava, capofila del nostro brivido La spia – A Most Wanted Man di Anton Corbijn, thriller di inganni e doppi giochi in grado di «sconvolgere gli equilibri geopolitici», tratto da John Le Carré, ultima performance di Philip Seymour Hoffman. Titolo seguito dal crudele e visionario Tusk del regista americano di Clerks, Kevin Smith. E sempre dall’America arriva Nightcrawel opera prima di Dan Gilroy con Kake Gillenhaal (I segreti di Brokeback Mountain) nella parte di un giovanedisoccupato ches’improvvisa videoamatore sciacallo per i network tv: colleziona le scene più cruente e sanguinose di incidenti e delitti. Da Hollywood al Brasile di Marco Dutra, esponente del neo Cinema Novo che intesse uno psycho-thriller sul malessere del paese in Quando eu era vivo, allucinazioni intorno alla malsana ossessione per il passato. L’allarme scatenato sui media dai tagliatori di testa Isis penetra nell’immaginario, dilaga dal terrorismo individuale a quello collettivo, e fa risorgere il flagello colombiano Pablo, interpretato da Benicio del Toro in Escobar: Paradise Lost dell’attore italiano alla prima regia Andrea Di Stefano. Dall’Italia arrivano altri due titoli agghiaccianti, letteralmente per il film di Claudio Noce (Good morning Aman) interpretato da Emir Kusturica, La foresta di ghiaccio, sul mistero di un pacifico piccolo paese alpino sconvolto da oscure manovre dentro una centrale elettrica. Fiction superata dalla cronaca nerissima di questi giorni sul processo per la discarica velenosa della Montedison, fiumi tossici, morti a valanga, silenzio. Al noir politico si dedica invece Alessandro Piva con I milionari, trent’anni della Napoli immortalata dal genere camorrista, anche qui un affondo nel marciume nostrum, sul solco di La mani sulla città di Francesco Rosi. Insomma, tutti i colori del buio sfileranno al Festival internazionale del film di Roma n. 9, non a caso coronato dalla presenza di Tahashi Miike, regista dell’ultraviolenza morale, più di cento film all’attivo, già ospite della capitale con Il canone del male (2012) e che presenterà in anteprima As the Gods Will tratto da un manga popolarissimo (un milione e mezzo di copie vendute). Ancora un link con il batticuore di queste ore, la rivolta degli studenti di Hong Kong, aggrediti nottetempo dalle Triadi mafiose del distretto di Kowloon, che nel film di Tahashi assumono l’aspetto della bambola perversa Daruma. La malvagia pupattola obbliga un gruppo di liceali bravi ragazzi al gioco estremo della paura, una serie di innocui trastulli per bambini trasformati in una macchina micidiale. Chi perde muore. HORROR I tre volti della paura, film a episodi del 1963, diretto da Mario Bava EVERETT COLLECTION / CONTRASTO pagina 99we | 36 | ARTI sabato 11 ottobre 2014 neuroni e testosterone l’arte dello scacchipugilato DARIO FALCINI n BUCCINASCO. Nebbia, fari e i capannoni della periferia Sud: alle 20 a Buccinasco è sempre autunno. A un paio di chilometri dalla meta il navigatore si fa diffidente, alla fine acconsente a fermarsi davanti alla palestra Fit Square. Nell’aria risuona una suite per paratibie e fiatone, ogni calcio alle caviglie lo accusi un po’ anche tu. «Fino a una decina di anni fa c’erano solo tre specialità di kick boxing in Italia, ora i contatti arrivano da tutte le parti» spiega un istruttore, che forse crede di rispondere alla nostra perplessità. Riconoscere Simona non è un grosso problema: sul tatami è l’unica ragazza. Diana si sta cambiando, qualcuno dovrà prestarle i guantoni perché ha fatto tardi in ufficio e non è riuscita a passare da casa. Fra poco la scacchiera uscirà dalla scatola e allora sarà surrealismo. «Il chessboxing nasce come progetto artistico con l’obiettivo di far incontrare due mondi agli antipodi. Volevamo creare un ibrido in grado di scuotere i pregiudizi e testare i limiti umani. Il sogno è ancora presente, ma ora siamo uno sport a tutti gli effetti» così risponde da Berlino Iepe Rubingh, occhiali da sole e cappello da cowboy calato in fronte. Non è il look a fare di lui un artista, ma l’an- Il pioniere è Gianluca Sirci, ex promessa del ring. Ha sfiorato il titolo mondiale, sconfitto di un soffio dal gigantesco matematico siberiano Nikolay Sazhin sia di stupire: quindici anni fa paralizzò il traffico del quartiere Mitte con del nastro bianco rosso, mesi dopo ci riprovò a Tokyo e rimediò 10 giorni di carcere e 50 mila yen di multa. Stanco del pericolo, nel 2003 popolò un ring di Amsterdam di alfieri e pedoni: era il primo match nella storia dello scacchipugilato. Fino a quel momento la disciplina era esistita solo nella mente di Enki Bilal, che aveva inchiostrato le sue visioni nella graphic novel Freddo Equatore, e in quella del regista taiwanese Joseph Kuo. Il suo film Ninja scaccomatto ha ispirato Method Man e gli altri Wu Tang Clan, che rappano su caselle bianche e nere nel videoclip di Da Mystery of Chessboxin’, contenuto nell’album capolavoro 36 Chambers. Diana ora è pronta. È arrivata in sala, dove la fatica prosegue con i pugni al sacco e il salto della corda. Ha 21 anni e fa l’impiegata a Rivalta Scrivia, provincia di Alessandria. Ha iniziato a combattere solo da quattro anni, ma ha già all’attivo una trentina di incontri. Trenta giorni fa a Buccinasco ha vinto il primo incontro di scacchipugilato femminile disputato in Italia contro Simona Stercoli, che nel frattempo ha abbandonato la comitiva dei kick boxer e si è avvicinata al quadrato. «Tutto è iniziato per gioco in estate, quando mi è stato chiesto di combattere un match di esibizione» racconta Diana Maftei. «Per preparare la sfida ho passato tutti i pomeriggi di agosto in palestra e le serate sulla scacchiera: l’ultima volta era stata quindici anni fa e non ricordavo un granché. Vengo dalla Romania, da noi gli scacchi sono insegnati alle elementari e mio zio era un appassionato. Poi sono venuta in Italia e ho smesso». «Nella boxe, così come negli scacchi, devi stare in mezzo – prosegue –. Sui bordi si rischia: le botte si prendono alle corde, lì ti riduci all’arrocco. Traggo vantaggio dalla mia indole ad atten- RIA NOVOSTI / CAMERA PRESS / CONTRASTO MATCH Gianluca Sirci durante la finale dei campionati mondiali di scacchipugilato giocata contro il russo Nikolay Sazhin, Mosca, 28 novembre 2013 dere e studiare l’avversario, il resto è capacità di concentrazione». Ora è sul ring, seduta. Tre lei e l’avversaria c’è un tavolo di plastica e sopra una scacchiera. Le due si calano le cuffie, la musica da discoteca è così forte che la sentono tutti. Serve a isolarle, evitare che possano cogliere consigli dal pubblico o dialogare con i tecnici. Attorno gli allenamenti vanno avanti, ma appena il coach si distrae un attimo i ragazzi della kick boxing si voltano a spiare l’insolita scena. Diana intanto sposta un pedone e schiaccia in fretta sull’orologio digitale. «Di solito un incontro avviene sulle 11 riprese: il round di scacchi dura quattro minuti, quello di boxe tre e in mezzo c’è una pausa di appena sessanta secondi. Si vince per scaccomatto o per k.o., oppure perché l’atleta ha terminato i 12 minuti a disposizione per muovere. In caso di pareggio si va alla conta dei punti» spiega Volfango Rizzi. Ha 40 anni ed è tornato apposta dall’Inghilterra, dove faceva l’insegnante, per portare lo scacchipugilato in Italia. La sua passione lo ha spinto a stampare sabato 11 ottobre 2014 | pagina 99we ARTI | 37 Sfide | Un round alla scacchiera e uno indossando i guantoni. Si vince per ko, scacco matto oppure ai punti. Frutto dell’ingegno di Iepe Rubingh, un artista-attaccabrighe olandese, la disciplina da noi ha trovato casa a Buccinasco. «Vogliamo scuotere i pregiudizi e testare i limiti umani» la rivista Spqr: sta per Scacchi Pugilato Qualcos’altro & Rugby ed è in standby dopo quattro numeri. Volfango pagava di tasca sua la pubblicazione delle 80 pagine a colori e i risparmi sono finiti. Diana va all’attacco con i bianchi, Simona è più lenta nelle giocate e presto si trova sotto di due pedine. La lancetta arriva a destinazione, il timer scatta: è già tempo di picchiare. Con zelo Volfango alza le corde e leva il tavolo dal ring, mentre le ragazze indossano guantoni da 12 once. Sono più imbottiti del consueto, piccola precauzione e aiutino agli scacchisti Ora lo sguardo di Simona è cambiato: è decisamente a suo agio, si diverte di più. È un peso leggero, studia dieci secondi la posizione e parte con la testa giù. Diana contiene bene. Quando suona il gong fanno ritorno dai due allenatori, finalmente protagonisti con le loro urla dall’angolo. «Non so giocare a scacchi e non ho tempo di imparare – ammette subito Ermes, il maestro di Simona Stercoli –. All’inizio mi sembrava una cosa assurda, quasi dissacrante. Poi ho capito che le due attività hanno elementi in comune, al di là delle frequenze cardiache che vanno su e giù. Magari gli scacchi la aiuteranno a diventare più riflessiva anche in combattimento». L’anno prossimo Simona potrebbe ritrovarsi campionessa d’Italia. Nel 2015 sarà assegnato per la prima volta il titolo e lei ha già in tasca il ticket per la finale: con Diana è l’unica chessboxer in tutto il Paese. «Siamo stati fortunati perché le ragazze condividono la categoria, da regolamento non si può combattere se la differenza di peso è superiore agli 11 chili - dice Volfango Rizzi -. Tra gli uomini è più complicato, non è semplice creare buoni abbinamenti». In tutto il Paese non si raggiungono i 15 atleti. Il pioniere è Gianluca Sirci, biologo di Spoleto che vanta una finale nazionale degli Il vate italiano è Volfango Rizzi: tornato dall’Inghilterra per importare il chessboxing, ha fondato la rivista Spqr (Scacchi, pugilato, qualcos’altro e rugby) Assoluti contro Roberto Cammarelle. Era il 2003 e da allora le sue abitudini si sono modificate: ha raggiunto i 120 chili e passa ore sui libri di tattica di Garri Kasparov, il maestro russo secondo cui «gli scacchi sono in assoluto lo sport più violento». Lo scorso anno a Mosca Sirci ha sfiorato la cintura mondiale di scacchipugilato contro Nikolay Sazhin, ma il gigantesco matematico siberiano dopo aver incassato due ganci destri gli ha divorato il re alla nona ripresa. Gli scacchisti sono leggermente favoriti: possono tentare lo scaccomatto oppure costringere l’avversario a consumare tutto il tempo a disposizione, mentre i pugili più scarsi devono solo preoccuparsi di non andare in terra. Ha una chance per il titolo anche Serge Leveque, proprietario di un’agenzia di scommesse a Senigallia, che l’11 ottobre si giocherà il primato continentale a Londra. I due sono sulla quarantina e cominciano a soffrire l’esuberanza del catanese Giuseppe Grasso. «Li conosco bene – conferma Iepe Rubingh –. In Italia il movimento è in crescita e può raggiungere il livello di Russia e Germania. Altrove siamo presenti a Los Angeles e soprattutto in Asia, dove Afghanistan e Nepal affiancheranno presto Iran e Cina. Infine c’è l’India, la federazione più grande, che conta 500 iscritti. La scorsa settimana ero a Calcutta e ho assistito a un torneo con più di 100 in- contri». Da Buccinasco, la Scala del chessboxing italiano, non è semplice mettere a fuoco l’istantanea che arriva dal Bengala. Il tavolino è tornato sul ring, oltre alle pedine fuori gioco ora ospita due paradenti blu. Prendono posto Sara e Diana. «Lo scacchipugilato crea un ponte tra la mente e il corpo – prosegue Rubingh –. Penso che possa contribuire a ridefinire il concetto di mascolinità nella società contemporanea: da un lato ci riporta alla nostra essenza primordiale di combattenti e cacciatori, allo stesso tempo insegna a tenere sotto con- trollo il testosterone». Non parlatene con Simona. L’orologio ha ripreso a correre, la musica è sempre più fastidiosa e Diana le mette pressione muovendo nei primi dieci secondi. Se all’inizio faticava a dare continuità alle giocate, ora ha il respiro affannoso e non pare più seguire alcun filo. Prima va con l’alfiere in B4 e inchioda il cavallo sul re, poi si rifugia in un arrocco disperato. «La boxe è la mia passione, mi alleno sei volte alla settimana – racconta la 34enne di Abbiategrasso –. Gli scacchi, invece, sono una novità e ho ancora parecchio da imparare. Dopo il round di pugilato sono annebbiata, per cui gioco peggio. Devo riuscire a dominare l’adrenalina». Si vedono i cuori battere il petto delle ragazze, le mani tremano mentre afferrano i pedoni. Stanno recuperando, ma ci vuole tempo e i ritmi del gioco sono esagerati. Diana si lega i capelli sadicamente e capisce che ormai l’avversaria ha perso il controllo della situazione. L’alfiere ha un corridoio troppo invitante e il re nero è costretto ad abdicare. Una goccia di sudore percorre il naso della vincitrice e allaga la scacchiera. quel freddo contropiedista che mette in riga il mondo Magnus Carlsen | A 22 anni è il re del genere tradizionale. Nel tempo libero fa il modello. Aspettando il match perfetto, a cui si sente destinato. «Purtroppo per me» ci racconta n Bobby Fischer ci ha lasciato nel 2008 dopo aver mandato al diavolo gli Stati Uniti d’America, Boris Spasskij è impegnato a combattere un altro match del secolo contro il suo cuore infartuato. I diplomatici del nobil giuoco sono arnesi vecchi, i secchioni e i maghi della statistica sulla via dell’estinzione. Ora comanda la generazione Pc, che spesso con Windows 8 ha in comune la simpatia. Il prossimo Campionato del Mondo di scacchi vedrà il via fra un mese nella polifunzionale Sochi. L’indiano Viswanathan Anand proverà un’altra volta la spiacevole sensazione di sentirsi preistoria, quando sulla sedia davanti a lui si accomoderà Magnus Carlsen. Lo scorso novembre il ragazzo lo ha mortificato a domicilio dopo un dominio lungo sei stagioni. Carlsen è nato a Tonsberg, in Norvegia. La sua vita dà la definizione di genio: a 2 anni poteva risolvere un puzzle da 50 pezzi, a 5 già se la cavava con torre e pedoni. A 22 era il più forte sul pianeta. Solo Garri Kasparov ci mise meno, 147 giorni per l’esattezza. L’uomo che ha sfidato l’intero genere umano a scacchi e Vladimir Putin alla democrazia gli offrì i suoi segreti, il norvegese nemmeno ringraziò. Carlsen guida una covata di fenomeni allevati dalle sfide a sotfware sempre più infallibili. Le stesse notti insonni trascorse dall’italiano Fabiano Caruana, numero due al mondo, o dalla ventenne campionessa cinese Hou Yifan. «Uso i computer per analizzare le partite, verifico che le mie idee fossero giuste» spiega a pagina99 Magnus Carlsen. Sembra chiuso in se stesso, ma è solo sicuro: qualche mese fa ha impiegato nove mosse per umiliare Bill Gates in un match di esibizione. re. Fosse calcio sarebbe un contropiedista, a tennis il più letale dei pallettari. «È fondamentale rimanere concentrati sulle possibili risposte del tuo avversario – dice –. Saper prendere decisioni, ragionare in modo analitico, agire in modo creativo: è utile nella vita quanto nel gioco». Consigli che mai penseresti di ricevere dal ragazzo che ammicca dalla copertina di GQ. Look curato e mento in fuori, Magnus Carlsen è testimonial di un brand di abbigliamento olandese. Il re dei cerebrali sembra il cantante di una boy band e fa arrossire le mamme con le pose su riviste patinate e cartelloni pubblicitari. «Faccio promozione a me stesso e agli scacchi, ma essere famoso non significa nulla» si limita a dire. Di certo col marketing ci sa fare e il suo staff non lascia nulla al caso. I suoi Ora al comando c’è la generazione Pc, che spesso con Windows 8 ha in comune la simpatia CAMPIONE Il norvegese Magnus Carlsen «La tecnologia è molto utile nella fase di preparazione, quella che amo di meno – prosegue –. Il duello è la parte più importante di una partita, oltre che la più divertente. Senza un po’ di guerra psicologica non c’è gusto». Chennai, Golfo del Bengala. Carlsen ha la prima mossa e il cavallo bianco va in F3. Il Mozart degli scacchi inaugura i suoi Mondiali con la giocata che il cecoslovacco A.TESTA / THE NEW YORK TIMES / CONTRASTO Richard Reti usò per battere l’imbattibile Capablanca. Era il 1924. «È un serpente, se gli mostri un fianco ti ha già morso» ci spiega Eric Lobron, ex grande maestro tedesco che ora si gode la compagnia della supermodella Carmen Kass. Negli scacchi la vittoria vale 1, il pareggio 0.5: chi non perde mai alla fine festeggia. Oggi le nuove leve vanno subito all’attacco, Carlsen invece ti mette nelle condizioni di sbaglia- profili social sono curati e decisamente affollati, anche se lui dice di usarli più che altro per comunicare con gli amici quando è in viaggio per il globo. «In nessun modo queste attività mi distraggono dal lavoro – assicura –. Me le posso permettere perché non ho ritmi di allenamento fissi, ma faccio ogni giorno ciò che voglio. Di solito non passo più di un’ora alla scacchiera, solo un paio di settimane prima dei tornei aumento i carichi». È quanto sta succedendo in questi giorni, con la rivincita di Anand alle porte. Una nuova sfida, gloria e pubblicità. «Vado avanti finché avrò qualcosa da imparare, la partita perfetta è quella ancora da giocare – chiude Magnus Carlsen –. Non so cosa farò dopo, ma purtroppo sono destinato a scoprirlo». D.F. pagina 99we | 38 | ARTI l GUSTAVE FLAUBERT • Madame Bovary Universale Economica Feltrinelli Kalavojna, Croazia ELEONORA MARANGONI n Nel mezzo di un gelido inverno Albert Camus scoprì dentro di lui «un’estate invincibile». Noi andiamo incontro all’autunno riguardando le foto delle vacanze che abbiamo raccolto durante l’estate grazie al contest lanciato in collaborazione con Soli al Sole, il blog che spia le letture degli italiani in spiaggia. Durante l’estate i lettori di l FULVIO ERVAS l BJÖRN LARSSON • Se ti abbraccio non aver paura Marcos y Marcos Solanas, Sardegna • Diario di uno scrittore Iperborea Lidalina, Filicudi, Sicilia l ARTHUR SCHOPENAUER • L’arte di capire le donne Newton Compton Spiaggia di levante, Lazio l DONNA TARTT • Il cardellino Rizzoli Torre del Cerrano, Teramo, Abruzzo l ERNEST HEMINGWAY • Fiesta mobile Oscar Mondadori Orosei, Sardegna l’invincibile estate del classico Autunno | Mappa nostalgica dei libri sotto l’ombrellone fotografati dai nostri lettori Stando alla nostra indagine, i bestseller tanto attesi non sono stati poi così letti pagina99 hanno inviato i loro scatti in vacanza, che sono stati raccolti sulla pagina Instagram di Soli al Sole. Sono arrivati contributi da tutta Italia. Ci avete scritto da calette nascoste, stabilimenti affollati e laghi d’alta montagna. Barche a vela, scogli sperduti e pedalò. Piscine, per chi non poteva allontanarsi dalla città, o verande al riparo per chi ha trovato il tempo cattivo. Un’estate atipica, questa, fra piogge e schiarite: oltre al sole, è mancata anche la canzone dell’estate. Nessun tormentone alla radio e, stando ai risultati della nostra indagine, tutto sommato nemmeno nei libri: i bestseller tanto attesi (e in vetta alle classifiche) non erano poi così letti in spiaggia. Il cardellino di sabato 11 ottobre 2014 SIMONE DONATI / TERRAPROJECT / CONTRASTO BAGNANTI Il lungomare di Barcola, Trieste Donna Tartt, premio Pulitzer di quest’anno che era stato annunciato come il libro delle vacanze, non si vedeva neanche tanto in giro. Spuntava qua e là, nelle ceste di vimini di qualche signora bene, sul lettino di un addetto ai lavori, in bella vista nelle librerie del porto. Ma forse, anche a causa della mole Miss Tartt è rimasta in incognito in versione kindle o all’ombra sul comodino, e gli italiani le hanno preferito altro. Persino i gialli, storicamente principi dell’ombrellone, quest’anno se ne sono rimasti un po’ in disparte, e i contributi che abbiamo ricevuto registravano in effetti un’altra tendenza: i veri vincitori di questa stagione sono stati i classici. C’era Emma Bovary sulle spiagge croate, Martin Eden sulle alture di Filicudi, Il conte di Montecristo in terza fila da Rocco a Sperlonga. La luna e i falò di Pavese a Varigotti, La signorina Else sul lago l NEIL GAIMAN • American Gods kindle Castiglion della pescaia, Grosseto, Toscana di Garda e Zerocalcare sulla riva di Martignano. Arturo Bandini aspettava primavera in una piscina erbosa del Chianti e le corride di Hemigway erano finite nei golfo di Oresei. Non potevano mancare, in giro per la penisola, i Buendia di Gabriel Garcia Marquez, la cui scomparsa ha fatto tornare Cent’anni di solitudine in testa alle classifiche, costringendoci a ripassare l’intricato albero genealogico di Macondo. l MARCO LODOLI • Nuove isole Einaudi Letojanni, Taormina, Sicilia Fra gli editori “da spiaggia” studiati da Soli al Sole Sellerio si conferma fra i primi. Segue Feltrinelli, che con la sua Universale Economica batte per un soffio gli Oscar Mondadori. Fra gli autori, Wu Ming con L’armata dei sonnambuli e, fra i “nuovi grandi”, il più letto era il francese Emanuel Carrère (accanto a Faletti, che molti hanno ripreso in mano a qualche mese dalla scomparsa). In generale, più che affannarsi sull’ultima uscita o accontentarsi dell’ennesimo Maigret, gli italiani sembrano aver scelto queste vacanze per (ri)leggere l’opera dei grandi. Si tratta ovviamente di un’indagine aleatoria, ottenuta grazie ai contributi di lettori curiosi o annoiati, disseminati sulle rive più o meno assolate di tutta Italia. Eppure il peso netto fra i libri che gli italiani comprano (e dicono di aver letto) e quelli che poi effettivamente si portano dietro quando staccano la spina e si sdraiano finalmente al sole indisturbati, qualcosa, del nostro paese, la racconta. Tempo di bilanci, in questa estate tiepida? Di nostalgia per i libri che abbiamo amato? Di ammissioni di colpa per quelli che non siamo mai riusciti a finire? Intanto siamo pronti per l’autunno, ed è curioso notare come, forse anche grazie a questo ritorno alle origini, giusto al rientro dalle vacanze il popolo dei social si sia tuffato a capofitto nel mondo degli elenchi, stilando liste di romanzi fondamentali. Lo scopo era individuare i dieci libri dai quali non si può prescindere, grazie ai quali siamo i lettori che siamo. Il risultato: un’orda di titoli più o meno essenziali e più o meno imperdibili, una scomposto patrimonio letterario di consigli per gli acquisti, compiti per le vacanze e buoni propositi. Il lessico famigliare dell’Italia che legge e al cambio di stagione si ritrova, suo malgrado, a spolverare gli scaffali. l JOSEPH CONRAD l ROBERT PENN WAREN • Cuore di tenebra Garzanti Sperlonga, Lazio • Tutti gli uomini del re 66th & 2nd Dormelletto, Lago Maggiore sabato 11 ottobre 2014 | pagina 99we ARTI | 39 l’arte del curatore che non cura nessuno Mestieri | A metà fra lo sciamano e l’arredatore, è una sorta di mediatore per il pubblico. Luci e ombre di una professione misteriosa. Che però, come una guardia svizzera in Vaticano, delimita e protegge uno spazio sacro il suo percorso a seconda dei suoi gusti e della sua soggettività». La fine del mestiere è dunque in arrivo? Per il nostro autore no, perché in fondo in fondo, quando si parte, avere qualcuno che ci guidi in territori sconosciuti e ci faccia scoprire qualcosa che non ci aspettavamo, può sempre essere utile. Sarà per questo che abbonda la letteratura divulgativa sull’arte contemporanea, di cui lo stesso Bonami è stato un pioniere. Con Non ci capisco niente (Electa Mondadori, 145 pagine, euro 22,90), un altro critico e curatore, Francesco Poli, ha scritto un breve vademe- ROBERTA LOMBARDI n Il curatore, chi è costui? Rispetto ai neonati mestieri degli anni zero, dagli esperti di social media ai maker, la professione del curatore ha già superato abbondantemente la fase adolescenziale ed è ormai entrata, forse con qualche rimpianto, nella consolidata età adulta. Ma se il termine è ormai sempre più diffuso, non è ancora chiaro per molti né di cosa si tratti esattamente né se sia giusto chiamarlo lavoro. «Faccio cose, vedo gente», potrebbe spiegare qualcuno. Sicuramente la migliore risposta può darcela Francesco Bonami, curatore nel 2003 della Biennale di Venezia e primo italiano che questo mestiere lo ha fatto a livelli veramente internazionali, affermandosi nell’Olimpo dei Beati che stringono le redini dell’arte contemporanea. Il suo Curator. Autobiografia di un mestiere misterioso (Marsilio, pagine 143, 16,50 euro) tira fuori luci e ombre di una professione che provocatoriamente definisce a metà tra quella dello sciamano e quello dell’arredatore, non lesinando frecciatine a colleghi e artisti. A suo dire, questo mestiere l’ha involontariamente creato Marcel Duchamp nel 1917, quando, rovesciando un orinatoio, lo ha presentato come opera d’arte a New York, scandalizzando mezzo entourage di artisti e collezionisti. Da quel momento è stata necessaria una figura di mediatore tra artista e pubblico, un po’ come quando dopo Nel suo Curator, Bonami fa il rottamatore: «Difficile ammazzare i padri». Quelli della vecchia guardia, Bonito Oliva e Celant, si rifiutano di collaborare alla propria scomparsa A volte sembra essere colui che risponde alla frequente domanda: «Ma che cosa significa?», con un perentorio «Mistero della Fede». Leggi: ti dico che è così e tu credici Gesù Cristo è stata necessaria la figura dell’apostolo che portasse il Verbo ai più. Il Protestantesimo in questo ambito non è ancora arrivato, ma abbondano semmai gli aspiranti evangelisti. A volte il curatore sembra essere colui che risponde alla frequente domanda: «Ma che cosa significa?», con un perentorio «Mistero della Fede». Leggi: ti dico che è così e tu credici. Più concretamente, è colui che facendo dialogare le opere fra di loro in un percorso più o meno dotato di senso, dovrebbe aiutarci a vivere l’arte come un’esperienza arricchente e stimolante. Ecco perché il curatore ha un po’ dell’arredatore e un po’ dello sciamano. Non è che cura nessuno, né l’artista, né tanto meno lo spettatore. E probabilmente neanche se stesso. Però ha il potere di fare del visitatore di una mostra un’annoiata anima in pena così come un felice pellegrino di un viaggio artistico. Forse, un po’ come una guardia svizzera in Vaticano, il curatore delimita e proteggere uno spazio sacro. Bonami ci avvalla l’ardita metafora e non abbandona il suo spirito provocatorio per ribadire che è un mestiere inu- WOLFGANG STAHR/ LAIF /CONTRASTO ESPOSIZIONI Un’opera dello scultore svizzero Urs Fischer in mostra alla 54ª edizione della Biennale di Venezia diretta da Bice Curiger nel 2011 tile: «Il curatore è di facciata, è decorativo, sta lì a fare bella figura, ma non serve a molto. Le mostre si facevano anche prima, gli artisti attaccavano le loro opere e la gente le guardava». Ribaltando la famosa frase dell’artista tedesco Joseph Beuys, secondo cui ognuno poteva essere artista, Bonami ci spiega che ognuno può essere curatore. «Lo spettatore quando entra in un museo si cura la propria mostra senza saperlo, scegliendo cum, una guida Routard nell’universo dell’arte, fornendo una selezione di ostelli, (ops!), opere, a cui accostarsi. Per chi invece pensa che l’arte sciamanica del curatore possa trasformare un non-artista in artista, da cui il ragionamento che il sistema dell’arte sia tutto un bluff ai danni del “consumatore”, Bonami ci risponde che chi può fare l’artista è solo e unicamente l’artista stesso. Il curatore può al massimo fornire delle occasioni, come l’intramontabile Biennale di Venezia, che a maggio del 2015 sarà nelle mani del nigeriano Okwui Enwezor. Un po’ un Obama dell’arte. «Sicuramente sono stati pochi i curatori di colore ad avere avuto un impatto. Okwui ha lo sguardo dell’analista politico, per cui l’arte è uno dei tanti elementi che contribuiscono alla comprensione di una società». Verso il gentil sesso l’istituzione lagunare è stata più generosa della Casa Bianca, anche se le donne che l’hanno diretta si contano sulle dita di mezza mano: si tratta di Bice Curiger, nel 2011, e del duo spagnolo María de Corral e Rosa Martínez nel 2005. Ma in un mondo che è stato a lungo dominato dagli uomini, le figure femminili sono in costante aumento. E a proposito della “vecchia guardia” italiana, composta da Achille Bonito Oliva e Germano Celant, Bonami veste i panni del rottamatore. In Italia non abbiamo ancora ucciso il padre. «Sono i padri che abbiamo che sono più difficili da ammazzare. Si rifiutano di collaborare alla loro scomparsa, nel senso che non sanno mettersi in una posizione diversa, non vogliono partecipare al cambiamento con un ruolo diverso. È come per la macchina. Si dice che una delle cose che gli anziani soffrono di più è quando gli viene tolta la patente. Ma alla fine si può comodamente vivere senza guidare, anzi». Per chi abbia la giusta dose di coraggio, passione e incoscienza, l’autostrada dell’arte è sempre aperta. Lunga vita quindi a un mestiere che se non “curerà” il mondo, potrebbe, o vorrebbe, contribuire a farci vivere un po’ meglio. pagina 99we | 40 | ARTI sabato 11 ottobre 2014 MILAN BURES / THE NEW YORK TIMES / CONTRASTO MARCO ROSSARI n C’è una vasta letteratura a sfondo omosessuale fatta di irresistibile vitalismo venato di cupio dissolvi, che – da Jean Genet a John Rechy, da Pier Vittorio Tondelli a Cyril Collard – ha raccontato la formazione di un giovane uomo attraverso furori per nulla astratti, declinati in una seria di incontri fugaci, rabbiosi, descritti con toni crudi. È come se quel tipo di romanzo, a fronte di una società omofoba, scegliesse invece del lamento o del ripiegamento (o dell’autocensura, pensiamo al Maurice di E.M. Forster), una rivendicazione aggressiva, una sfida a viso aperto, con cui spiattellare la propria esuberanza (anche quando si fa sordida), come se la letteratura fosse anch’essa una sfilata giustamente impudica per le strade del centro, un gay pride letterario contro i benpensanti bigotti. Poi ci sono scrittori che preferiscono una strada più misurata, che descrivono la propria sessualità a tinte più tenui, meno esuberanti, con una timidezza – non per forza dovuta al giudizio della società – volta a raccontare un’altra parte del discorso, più fragile o più nascosta. A questa schiera appartiene Caleb Crain, firma del New Yorker, al suo esordio con Errori necessari (ottima traduzione di Federica Aceto, 66thand2nd, pagine 555, 20 euro), che racconta la storia – presumibilmente autobiografica – del giovane Jacob Putnan, intellettuale americano espatriato a Praga. Siamo all’inizio degli anni Novanta, poco dopo la caduta del Muro, e dopo una laurea a Harvard l’aspirante scrittore si trasferisce nella capitale dell’allora Cecoslovacchia per insegnare l’inglese. Lì, con grande prudenza, comincia a esplorare la propria sessualità, cercando di non rivelare agli amici la propria tendenza omoerotica. In una città quanto mai letteraria – non solo per il retaggio kafkiano, ma anche perché dopo la Rivoluzione di Velluto viene eletto Presidente proprio uno scrittore, ossia il drammaturgo Václav Havel, di cui Crain ha tradotto l’autobiogra- la Praga sommessa degli espatriati americani Caleb Crain | Esce Errori necessari, romanzo d’esordio della celebre firma del New Yorker. Esplorazione (forse autobiografica) della propria omosessualità nella Cecoslovacchia dei primi anni Novanta ALESSANDRO TOSATTO / CONTRASTO SCORCI Dall’alto il castello di Praga; una veduta dalla collina Letna del lungofiume Moldava fia in inglese – si snoda una vicenda sommessa, raccontata da una voce che non alza mai il tono. È un mondo impercettibile, quello che narra. Con stile piano e accurato, con un intimismo estenuato che all’inizio può sembrare remissivo, ma alla lunga – capitolo dopo capitolo – avvolge il lettore in una trama crepuscolare. Fino a portarlo a percepire sotto pelle l’indeterminatezza di un’età e di un mondo. Malinconie, cene, passeggiate, molti pianti, paure di aids e malattie, una bohè- me lieve. Quasi a emblema, scopre che “tiepido”, ossia teplý, è una parola di slang ceco per dire omosessuale. È una poetica rivendicata da Cain anche davanti al dolore, per esempio quando il suo protagonista riceve una telefonata dagli Stati Uniti e scopre che un’amica si è suicidata: «I suicidi provocano una rottura in un romanzo, e lo stesso fanno nella vita, e in questa vicenda si vede solo l’ombra della storia di Meredith, come quella di una persona che passa davanti al proiettore uscendo dal cinema». Ombre fugaci sono un po’ tutti i personaggi, dagli amici precari agli amanti di Jacob. È un’inquietudine gentile, a pervadere queste pagine, che trova ancora una volta suggello nella lingua straniera, dove la mancanza si esprime con la terza persona singolare, come il verbo piovere. Per dire “mi manchi”, si dice “manca”. Come a scusarsi, a smarcarsi, perfino da quella nostalgia. sabato 11 ottobre 2014 | pagina 99we ARTI | 41 FORME DI VITA NATURALE BELLEZZA Animalium, il grande museo degli animali di Katie Scott e Jenny Broom Electa Kids • pagine 224 • euro 22,00 Invertebrati e pesci, poi anfibi, rettili, uccelli o mammiferi. Il nostro pianeta dispone di una varietà incredibile di esseri viventi. Che si sono evoluti in maniera così eterogenea al punto che noi uomini viviamo insieme ad altri due milioni di specie di forme di vita (almeno quelle che conosciamo). Ecco allora che questo bellissimo libro unisce la didattica e la divulgazione (illustrazioni realistiche che accompagnano la descrizione delle specie secondo un ordine evoluzionistico) alla felicità dei bambini che avranno queste pagine fra le mani. Disegni accurati che mostrano esseri antichi e moderni, grandi e piccoli, dolci e paurosissimi. E si avrà la sensazione di esser davvero dentro un museo a cielo aperto di fronte alla naturale bellezza di questi animali. LA COLLERA BUFFE PROPORZIONI Non sarai mica arrabbiato? di T. Tellegen e M. Boutavant Rizzoli • pagine 80 • euro 18,00 Dodici storie strampalate e buffe scritte dal prolifico olandese Toon Tellegen. A disegnarle il francese Marc Boutavant, fra gli illustratori per l’infanzia più apprezzati - suo il celebre asinello protagonista di Ariol e l’orsetto de Il giro del mondo di Mouk in bicicletta , tradotto in più di 15 lingue e protagonista di una serie televisiva. Ci sono coleotteri ed elefanti, lombrichi e scarabei, e poi formiche, scoiattoli e altri animali più o meno iracondi (per qualcosa che succede loro) e che vogliono mantenere la calma. Ci riusciranno? Con le illustrazioni che creano un mondo sproporzionato e buffissimo, queste storie delicate parlano ai bambini della collera, spiegano loro cos’è e come ci si può comportare. E lo fanno con un garbo e una delicatezza rari. FAVOLA SURREALE COME UN’OPERA D’ARTE Il compleanno di Pierre Mornet Gallucci • pagine 62 • euro 17,50 Un incontro in un bosco. Una bambina, nel giorno del suo compleanno, ne incontra un’altra. Nasce un’amicizia che però porta la prima ad addentrarsi in un universo buio e spaventoso, popolato dalla Regina della notte e altre strane creature. Un testo poetico, ottimamente tradotto dal francese da Yasmina Melouah di Pierre Mornet, autore molto noto oltralpe per le sue meravigliose opere in acrilico e olio - che non finiscono soltanto nei libri per bambini, ma anche nelle scenografie dell’Opera di Lille, nelle collezioni degli stilisti Kenzo e Prada, nonché in molte gallerie d’arte a Parigi e in America. Un tratto d’autore, dunque, qui per la prima volta cimentatosi anche con la scrittura. E, visto il risultato, si spera che non sarà l’ultima. a cena dalla Regina la povera Nina alle prese col galateo Infanzia | Un fumetto per bambini (ma delizierà anche gli adulti) sulle disfunzioni alimentari a firma Rutu Modan, famosa illustratrice israeliana GIUNTINA Un estratto da A cena dalla Reginadi Rutu Modan NADIA TERRANOVA n Mangia con la bocca chiusa, stai composta, chiedi il sale per favore, non dondolarti sulla sedia… La povera Nina non riesce a godersi la cena, costretta a sorbirsi la tiritera dei genitori. Felpa gialla con zip e cappuccio, calzini spaiati, chioma rossa arruffata: è incantevole questa specie di Pippi Calzelunghe famelica e contemporanea creata da Rutu Modan per A cena dalla regina (Giuntina, traduzione di Shulim Vogelmann, in libreria dal 23 ottobre), fumetto per bambini che delizierà gli adulti dicendo la verità sulle disfunzioni alimentari: è tutta colpa delle buone maniere. Mentre Nina passa dall’in- gordigia alla stizza nel giro di una pagina in cui c’è spazio per sei vignette e altrettanti rimbrotti di papà e mamma, capiamo subito da che parte sta il torto. Basta guardare nel piatto: in mezzo a una polti- L’autrice sarà a Lucca Comics (dal 30 ottobre al 2 novembre) con una sua mostra personale glia da tipica cena familiare spicca un ciuffo verde; a una bambina che si fionda sulle verdure, e con tanto entusiasmo da preferire le mani alle posate, andrebbe eretto un PAZZO PER AMORE IL PALADINO INFELICE Orlando furioso e innamorato di I. Fei e R. Petruccioli La nuova Frontiera junior • pagine 123 • euro 15,00 Un grande classico della tradizione raccontato da Idalberto Fei e accompagnato dalle illustrazioni immaginifiche di Rita Petruccioli. Traduce una delle storie più belle della letteratura scritta dall’Ariosto: compito non facile, vista la mole dell’originale (un lunghissimo poema di 46 canti e 38.736 versi che Ariosto scrisse per tutta una vita) e il tema tanto affascinante quanto complicato. Ma l’autore ci riesce perfettamente, narrando con grazia la furiosa pazzia del paladino Orlando, innamoratodella bella Angelica. E poi la guerra fra i cristiani di Carlo Magno e i pagani di Agramante, il re d’Africa. Per finire con l’amore fra Ruggero e Bradamante, pagano il primo e cristiana la seconda, che vogliono convolare a nozze incontrando mille ostacoli. Una bellissima occasione per leggere ai propri bambini un grande classico. monumento, altro che rimproveri. È proprio vero che i grandi non sono mai contenti. Chissà poi a cosa serve questo loro galateo, perché il cibo è molto più buono se ingollato con una foga che noi, con qualche anno più di Nina, potremmo definire epicurea con un aggettivo socialmente accettabile. Pronta la risposta dei genitori: pensa se ti invitasse a cena la regina d’Inghilterra, pensa se dovessi andare a Buckingham Palace e non ti sapessi comportare in modo adeguato, in che imbarazzo ti troveresti. A quel punto l’elemento fantastico esplode: bussa un messo di corte che, con tanto di squilli di tromba, è venuto a portare a Nina l’invito formale della sovrana. Non han- no ancora imparato, i grandi, a stare attenti alle parole? Anni e anni di fiabe non hanno insegnato loro che le frasi fatte sanno come vendicarsi trasformandosi in realtà? Insieme alla protagonista, a Buckingham Palace entra anche l’arte di Rutu Modan, e fa scintille. Pensate a una tavola sontuosamente imbandita e popolata da nobili, ammiragli, diplomatici e servitù in livrea: è un’occasione appetibile per qualsiasi illustratore, e Modan sembra essersela creata su misura, come un parco giochi al quale accedere con lo sguardo sovversivo e genuino di una bambina pestifera. Sfilano portate succulenti, sughi ricercati, carni costose. Peccato che alla nostra Nina facciano schifo tanto le quaglie all’ana- QUOTIDIANITÀ MAGICA CLASSICI SENZA TEMPO Fiabe e storie di Hans Christian Andersen Donzelli • pagine 912 • euro 37,00 Le fiabe di Hans Christian Andersen non hanno uguali per forza e ampiezza di diffusione nelle culture occidentali. Composte e pubblicate fra il 1835 e il 1874, nascono in gran parte dalla fantasia dell’autore e solo in misura residuale dalla materia popolare a cui lui stesso dichiarò di ispirarsi. Lo scrittore danese non si limita infatti a ripercorrere e reinterpretare il filo dellagrande tradizionefavolisticaeuropea, inauguratada Basile,fissata da Perrault e ulteriormente strutturata da Hoffmann. Andersen cambia radicalmente la prospettiva della fiaba. Prima di lui maghi, streghe, gnomi, draghi, fate e orchi erano figure dotate di poteri speciali, dalla sapienza impenetrabile, misteriosa, ignota al lettore. Il suo genio è stato quello di reinventare queste figure irreali immergendole nella quotidianitàdel mondo reale. nas quanto le beccacce alle mandorle, per lei i camerieri possono anche riportarsi indietro i loro portavivande d’argento, lei vuole solo una cosa: spaghetti al ketchup. Riuscirà nell’intento, dopo aver scioccato la nobiltà britannica con quella bizzarra richiesta? Già autrice di fumetti sull’identità ebraica e sui temi più controversi della società israeliana, stavolta Rutu Modan devia dal suo stile rigoroso. Il tratto rimane riconoscibile ma qui si diverte a sguazzare nella burla con un tono fiabesco e paradossale. Negli ultimi anni l’autrice, nata a Tel Aviv nel 1966, ha conquistato diversi riconoscimenti internazionali e, ormai affermata anche in Italia (i suoi lavori pre- cedenti sono pubblicati da Rizzoli e Coconino Press), nel 2013 ha vinto come miglior autore il Gran Guinigi, il premio assegnato da Lucca Comics. Torna al festival con una mostra personale (18 ottobre / 2 novembre 2014, in collaborazione con l’ambasciata israeliana e il mensile Pagine ebraiche). Pare che in quei giorni la si potrà avvistare in giro per Lucca. Guardatevi attorno all’ora di pranzo, cercate la tizia che acciuffa un rigatone con le mani o lascia gocciolare un panino impiastricciato. Cercatela, e sentitevi ancora più liberi di leccarvi le dita di rimando (del resto anche la regina dice che si può fare). Rutu Modan, sbrodolona come noi, ma molto più geniale nel raccontarlo. IL TOPO CHE VOLÒ SULL’OCEANO CASO EDITORIALE Lindbergh di Torben Kuhlmann orecchio acerbo • pagine 96 • euro 19,50 Un piccolo caso editoriale. L’autore, trentenne, ha una smodata passione per le macchine volanti. Ecco così che se la porta dietro sino all’università: infatti questo libro altro non è che la sua tesi di laurea. Pieni voti. Pubblicazione. E un successo che nessuno s’aspettava. Uscito all’inizio di quest’anno, già alla terza ristampa in Germania, il topo volante di Torben Kuhlmann è stato già tradotto in undici lingue. Ambientato nel 1912, in Germania, racconta la storia di un topolino di biblioteca che, per sfuggire alle numerose trappole, decide di costruirsi un velivolo per arrivare dall’altra parte dell’oceano. Grazie a questa incredibile impresa, il topo diventa una celebrità e il piccolo Charles Lindbergh, guardando uno dei tanti manifesti a lui dedicati, decide che da grande volerà anche lui. pagina 99we | 42 | ARTI sabato 11 ottobre 2014 dal Re Sole a Lady Gaga tacchi killer in mostra FLAVIA PICCINNI n Intorno alle scarpe esiste una mitologia antichissima. Inizia con l’uomo Cro-Magnon, che allacciava pelle alla corteccia degli alberi e si costruiva delle infradito. Fino a Carrie Bradshaw, al secolo Sara Jessica Parker, che in Sex and The City rapinata in un vicolo di Manhattan supplica: «Prenda la borsa, l’anello, l’orologio, ma mi lasci le mie Manolo Blahnik». Eppure l’epos dello stiletto (dal latino piolo, termine usato in riferimento ai tacchi femminili dal 1930) negli anni è stato alimentato dalle odi di Marlyn Monroe e di Madonna, di Lady Gaga e di Beyoncé. Oggi il tacco alto è simbolo di femminilità allo stato puro, ma è così solo dal primo Ottocento. Prima non aveva nessuna valenza erotica, rappresentava esclusivamente la posizione sociale. A portarli in auge fu il Re Sole, che per rimediare alla sua scarsa altezza utilizzava tacchi rossi di 5/6 centimetri in grado di evidenziare il suo rango di regnante. Fu perfino emanata una legge per evitare che questi si diffondessero fuori dalla corte, ma arginarne il successo fu impossibile, tanto che oggi negli Stati Uniti è stato coniato il termine shoeaholic per definire una persona che possiede più di 60 paia di scarpe, e non ha intenzione di smettere di acquistarne. Questo tipo di curiosità – insieme a modelli assurdi come il cappello-scarpa della geniale Elsa Schiaparelli creato con Salvador Dali, modelli-mito come quelli firmati da Roger Vivier, modelli futuristici come quelli di Miu Miu antichissimi come una zeppa cinese di seta rossa con farfalle dorate - sono le protagoniste della mostra che fino al 15 febbraio sarà ospitata al Brooklyn Museum di New York. Si tratta di Killer Heels: The Art of High-Heeled shoes che racconta i più provocanti e affascinanti tacchi mai disegnati nella storia. Nessun luogo del mondo e nessuna epoca è messa da parte fra i 178 paia in esposizione selezio- Scarpe | 178 paia di calzature che hanno fatto la storia del costume sono esposte fino a febbraio al Brooklyn Museum. Ne abbiamo selezionate alcune, per capire come cambia lo sguardo sul mondo da una certa altezza Unicorn Tayss, 2013 «Queste scarpe – spiega l’ideatrice della mostra Lisa Small – sono opera dello stilista svizzero Walter Steiger del 2013. Rappresentano perfettamente l’idea che ha guidato la creazione dell’esposizione, ovvero che la moda è una cultura materiale in grado di rivelare molto degli uomini, del contesto sociale e della cultura del tempo». Questi tacchi raccontano molto del loro stilista che ha lavorato per Karl Lagerfeld e Chloé, e che possiede a Parigi uno dei pochi negozi dell’intera Francia dove vengono create calzature esclusivamente su misura. nati con minuzia da Lisa Small che ha organizzato quella che il New York Times ha definito come “la mostra più bella e la più attentamente organizzata da anni sull’argomento”. Ci sono le celebri creazioni dalle voluttuose suole rosse di Louboutin, le opere di Prada e di Ferragamo, le visionarie creazioni di stilisti emergenti come United Nude. «La mostra – spiega la curatrice - è stata organizzata in sei grandi sezioni tematiche: Revival e Reinterpretation, Rising in the East, Glamour and Fetish, Architecture, Metamorphosis, Space Walk. Non ho voluto dare forma all’esposizione cronologicamente o seguendo l’evoluzione dello stile attraverso i designer. Ho creduto che fosse molto più interessante evidenziare delle categorie condivise dai tempi, dagli stilisti, dalle epoche». Ben nutrito il còté italiano, rappresentato tanto dalle botteghe artigiane toscane, quanto da stilisti come Salvatore Ferragamo e Giuseppe Zanotti. Le creazioni più originali sono quelle realizzate dall’archistar Zaha Hadid, prodotte grazie all’utilizzo di una stampante 3-D, e le celebri Armadillo Shoes firmate nel 2009 da Alexander McQueen per Lady Gaga (oltre 20 cm di altezza). A sottolineare il mito del tacco, punteggiano questa spettacolare mostra dei corti inediti di artisti emergenti che spiegano come tutto, ma proprio tutto, cambi se considerato da un paio di stiletto 12 cm. 1690–1700 Bamboo Heel, 2012 «Questa scarpa francese è datata fra il 1690 e il 1700, eppure presenta dei tratti contemporanei grazie alla suola in cuoio e alla punta che abbiamo visto recentemente in numerose collezioni» commenta Lisa Small. Fa parte della Rogers Foundation ed è conservata al Metropolitan Museum. Un esempio di come già trecento anni fa bastasse una calzatura per trasformare il piede in un piccolo gioiello. «L’importante era presentare calzature innovative nella forma e capaci allo stesso tempo di suggerire un senso di continuum storico all’interno dell’esibizione, anche di designer poco conosciuti» sottolinea la curatrice Lisa Small. Tale è questa scarpa che supera i quindici centimetri di altezza, disegnata dalla stilista olandese emergente Winde Rienstra, nota per l’uso di materiali non convenzionali. sabato 11 ottobre 2014 | pagina 99we ARTI | 43 Platform Sandal, 1960 L’Image Tranquille, 2013 Nell’antica grecia erano le prostitute a usare le zeppe di sughero nei bordelli per sembrare più alte. Ne ha fatta di strada la zeppa per diventare la splendida creazione artistica qui accanto, realizzata da Salvatore Ferragamo e regalata dallo stesso stilista fiorentino al Metropolitan Museum of Art nel 1973. «Nel disegnare questi sandali arcobaleno - spiega Lisa Small Ferragamo forse fu ispirato dai costumi dei musical americani. Nell’immaginario collettivo questo modello è legato a Judy Garland che, nel mago di Oz, cantava Over the Rainbow». Ci sono scarpe che sembrano opere d’arte. Fra queste la creazione di Jantaminiau, brand tedesco che ha sede nel quartiere a luci rosse di Amsterdam, ed è frutto dell’estro di Jan Taminiau, che ha dato a queste opere artigianali del 2013 di René van den Bezrg l’evocativo nome de L’Image Tranquille. «Guardandole – commenta Lisa Small – sembra di avere in mano un mondo etereo, si teme quasi che da un momento all’altro possano rompersi eppure sono solidissime. Ecco l’inganno del modello ben riuscito». Pumps, 2013 Eamz, 2004 Nicholas Kirkwood, stilista inglese classe 1980 diplomato al prestigioso Central Saint Martins. Una delle chicche di questa esposizione «ho voluto dare spazio anche a designer poco noti, ma interessanti» spiega Small. Con il suo brand omonimo, fondato nel 2004, Korkwood si è fatto notare per la raffinatezza ed è presente nell’esposizione con una scarpa della collezione primavera/estate 2013. Si tratta di un paio di pumps scamosciate tempestate di cristallo Swarosvski dorati e color ghiaccio che fanno pensare a un mosaico greco o alle onde del mare, e si distinguono per l’eleganza fuori dal tempo. Disegnata dall’architetto Rem D. Koolhaas, direttore creativo e fondatore di United Nude (www.unitednude.com). Le scarpe, proposte nel 2004, sono state battezzate Eamz e ben sintetizzano il motto della casa di moda: «andiamo contro le regole della moda non perché non le amiamo, ma perché le disconosciamo». Questo modello, ha raccontato Koolhaas in diverse occasioni, è stato ispirato dalle sedie che si tengono sù senza gambe, con un gioco di pesi e leve. Geisha Lines, 2013 Printz, 2013 È nella collezione autunnale 2013 del brand Aperlaï, della trentenne Alessandra Lanvin. Linee grafiche, asimmetrie, contrasti, richiami artistici a Pollock per i materiali, a Picasso e Mondrian per i colori, ai viaggi esotici e all’audacia. Non è un caso che ogni tacco non sia mai più basso di 14 centimetri. «Il modello – conclude Lisa Small – è stato realizzato a Firenze ed è un’ode, come la stessa creatrice ha raccontato, al cubismo. Non ha neanche un anno, ma è già un pezzo cult». Sono forse il modello più noto al mondo. Stiamo parlando della celeberrima suola rossa di Christian Louboutin che è in mostra con un modello della primavera-estate 2013-2014 battezzato Printz. «Questo paio di scarpe –spiega la curatrice – sintetizzano il progetto: dimostrano come i tacchi a spillo siano un oggetto e un simbolo della cultura popolare. Gli stiletto nascondono tanto un pezzo della storia umana, quanto l’opportunità di guardare al design in modo innovativo e interessante dal punto di vista visuale. Le scarpe di Louboutin riescono davvero a fare entrambe le cose contemporaneamente». COURTESY BROOKLYN MUSEUM u LE FAVOLE DELL’A B B O N DA N Z A se Vanina spia dall’obiettivo PAOLO LANDI n La nuova cultura digitale offre, dal punto di vista della rappresentazione del sé e del mondo alcune nuove possibilità. Per esempio, si possono utilizzare i media in prima persona, in modo originale e autografo. Si vive costantemente in un presente astorico che non presuppone una visione lineare del tempo ma dove conta il qui e ora, si producono comportamenti comunicativi inediti in una sorta di micro-universi pa- ralleli al mondo reale che ridefiniscono e aggiornano lo stile e il gusto delle immagini. La nuova campagna di Pinko sembra immergersi in questa cultura, frammentando la doppia pagina sulle riviste cartacee in una serie di scatti, come se le foto fossero postate su Instagram. La struttura e il posizionamento spaziale delle figure è tale che le modelle sembrano fotografarsi a vicenda. Dal sito web di Pinko si apprende invece che c’è un deus ex-machina, la fotogra- fa Vanina Sorrenti, che inquadra le modelle che a loro volta puntano la macchina su di lei oppure si espongono in scatti posati o rubati. Come spettatori, capiamo di essere esclusi dalla scena e l’effetto è quello di sentirci voyeur di qualcosa che accade in un contesto intimo che non ci appartiene. È l’estetica frammentata digitale che domina, sono le finestre che si aprono quando si naviga in internet, sono le pratiche partecipative cui ci hanno abituato i social: condividere momenti anche intimi di sconosciuti o di amici virtuali in un consumo continuo dove il mosaico degli scatti deve restituire la verità delle immagini. LouLou Roberts, Helena Christensen e Kenza Fourati sono le protagoniste di questa campagna, ambientata in un loft di New York che, secondo la fotografa: «ha un twist emotivo, intimo ed evocativo». Tuttavia è alla modernità del linguaggio che si affida Pinko per affermare il suo essere di moda. Gli abiti sembrano ininfluenti, questa volta non so- no al centro dell’immagine. Al centro c’è un modo di essere, c’è la contemporaneità di tre donne che si appropriano dei dispositivi mediali ed è insolito che non si fotografino con l’iPhone ma usino una Polaroid (che sta tornando ora di nuovo prepotentemente di moda). Al centro c’è Pinko, sempre meno insegna di negozio e sempre più brand, con abiti che si caricano di valori immateriali, che si trasformano in una scelta di appartenenza, al di là di ogni bisogno, di ogni materiale necessità. Gli scatti di Vanina Sorrenti per Pinko pagina 99we | 44 | OZII sabato 11 ottobre 2014 l AUTOCRITICA non solo ibride i conti in tasca a Renault e Psa FRANCESCO PATERNÒ Renault Eolab n Al Salone dell’auto di Parigi, che chiude i battenti al pubblico il prossimo 19 ottobre, c’è di tutto e il suo contrario come tradizione in questo settore. Modelli con motori a zero emissioni e supercar assetate di benzina, uno a fianco all’altra con identici riflettori puntati addosso. Ma colpisce che sugli stand dei padroni di casa Renault e Psa (Peugeot-Citroen) siano state fatte scelte analoghe nella presentazione dei prototipi, cioè la faccia del costruttore e il suo domani. Renault ha lasciato più a bocca aperta: il suo concept, chiamato Eolab, ha una motorizzazione ibrida plug in, benzina più elettrico con presa per ricaricare la batteria anche in casa (se si ha un giardino, s’intende). Carlos Ghosn, numero uno del gruppo Renault-Nissan, ha sempre detto di non amare la soluzione ibrida. Ma il fallimento dei suoi fin troppo coraggiosi obiettivi per l’auto elettrica e la necessità per tutti i costruttori di rispettare le nuove norme sulle emissioni imposte dall’Unione europea per il 2020 sembrano averlo costretto a cambiare idea. Anche perché nel gruppo l’ibrido era stato riservato finora all’alto di gamma del partner giapponese. Sullo stand a fianco, Peugeot e Citroen hanno esposto due proto- tipi-fratelli con motorizzazione ibrida ad aria, tecnologia su cui il gruppo punta oltre all’ibrido “tradizionale” con benzina o diesel. Anche qui scelte necessarie per poter abbassare la media della gamma di emissioni e consumi e rientrare nella nuova più stringente normativa europea. Ma a memoria è difficile ricordareuna data in cui i due campioni di Francia si siano mossi così all’unisono. Se oltre Eolab si dà una occhiata ai numeri, per Renault è l’intero 2014 a essere un anno a zig zag. Il costruttore francese è ancora assente in Cina ma ben presente su due mercati in forte crisi, come la Russia (-14%) e in Brasile (-10%). Cresce in Europa (+16,6% nei primi 8 mesi), anche se è noto che sul Vecchio continente è molto difficile fare soldi a causa di una costante guerra dei prezzi. Pure i dati finanziari sono sull’ottovolante: a fronte di una redditività migliorata, la generazione di cassa è diminuita di 360 milioni nel primo semestre, ufficialmente a causa di investimenti messi da parte per il lancio della nuova Twingo. Una sbirciata infine ai grafici di borsa, il Cac40 di Parigi, e si vede che il valore del titolo è ridisceso ai valori del settembre 2013. Il titolo Psa è invece uscito dalla borsa dopo perdite colossali dell’ordine di 250 milioni di euro al mese. Tolto il volante alla famiglia Peugeot e fatto entrare nell’azionariato lo stato francese e i cinesi di Dongfeng, il nuovo amministratore delegato Carlos Tavares ha delineato una strategia chiara cominciando a tagliare i costi. Con risultati sorprendenti: nel primo semestre, il gruppo automobilistico ha registrato una generazione di cassa di 1,5 miliardi di euro. Non è la fine della crisi per il secondo costruttore francese, ma il segnale che le cose potrebbero cambiare rotta. Forse prima del prevedibile. @fpatfpat un borsch a Stalinland con vista sul secolo breve LUIGI SPINOLA n Non è necessario essere degli amanti di archeologia sovietica per apprezzare un viaggio in Lituania. Però può servire. Perché rispetto ai soliti cimiteri delle statue di bronzo, dove i Paesi passati dall’esperienza del socialismo reale hanno l’abitudine di raccogliere gli ex eroi del popolo, quello del parco di Grutas offre qualcosa in più. Qui un imprenditore che ha fatto fortuna con i funghi in conserva ha ambientato il primo parco a tema sull’Urss. Lo chiamano – i più con sdegno –Stalinworld. Tra Marx-Engels-Lenin e il compagno Vincas Mickevicius-Kapsukas (fondatore del partito locale) puoi fare Lituania | Per i feticisti dell’Urss c’è un parco a tema. Per gli altri vertiginose pagine di memoria. E un sorprendente Paese di frontiera Dal Museo dell’Olocausto a quello del Kgb, la Storia resta compagna fondamentale del viaggio finta di votare in un seggio popolare (la finzione di una finzione) o assaggiare l’immancabile borsch (zuppa di barbabietole con panna acida) con l’arrendevole cucchiaio che usava l’homo sovieticus. Nel tour sovietologico volendo si può includere anche una notte in un albergo della stazione termale di Druskininkai – dieci chilometri più a ovest – dove venivano a scaldarsi i gerontocrati del Pcus e ora s’incontrano i giovani leoni del capitalismo baltico. La Lituania però ha molto di più da offrire. Sia in cucina che come memoria storica. Qui il secolo breve ha vissuto alcune delle sue pagine più tragiche, scritte da sovietici e nazisti dopo che il patto Molotov-Von Ribentropp consegnò i Paesi baltici a Mosca, che poi li recuperò in seguito al devastante interludio tedesco. I lituani non dimenticano e conservano le tracce del dominio sovietico al Museo delle vittime del genocidio (detto anche del Kgb) a Vilnius e al Museo della deportazione e della resistenza di Kaunas, seconda città del Paese e sua capitale industriale. Ma sono diversi, oltre all’orsacchiotto tenuto al guinzaglio nel mini-zoo di Stalinland, le testimonianze di sfida all’Impero che qui iniziò a perdere i primi pezzi, quando una catena umanasi srotolòlungo itre Paesibal- MARTIN PARR / MAGNUM PHOTOS / CONTRASTO GRUTAS Una famiglia in visita a Stalinworld, Lituania tici per commemorare i cinquant’anni dello scellerato patto russo-tedesco. E inevitabilmente, un giro da queste parti oggi somiglia a un viaggio sul fronte della nuova guerra fredda. Il viaggio, specie quando l’estate è finita, ruota attorno a Vilnius, un tempo capitale di un Granducato multietnico che si estendeva dal Baltico fino al Mar Nero. Dell’età dell’oro quattrocentesca è rimasto qualche cenno di pietra, circondato dal centro storico barocco più esteso d’Europa. E poco o nulla di quella che fu definita la Gerusalemme del nord, quando Vilnius aveva una delle più vibranti comunità ebraiche del continente. Ancora tra le due guerre , lo yiddish si scriveva su sei giornali, i lettori potenziali erano 100 mila, le sinagoghe decine. Oggi ci sono solo 4 mila ebrei nella città, più altri mille nel resto del Paese. A fatica si colgono le tracce di quel mondo perduto nel viluppo di strade tra le vie Vokieciu, Gaono e Zydu che racchiudevano il ghetto. La piccola sinagoga corale è l’unica rimasta in piedi, mentre quel poco che si è salvato della Grande Sinagoga si trova oggi al Museo ebraico dello Stato e nel vicino, toccante, Museo dell’Olocausto. Il luogo della memoria più duro e necessario però è fuori città, una decina di chilometri a sud-ovest, tra gli alberi delle foreste di Panierai dovetra l’estatedel 1941e quella del 1944 i nazisti uccisero 70 mila ebrei. Ed è sempre fuori città – all’antica capitale Trakai, trenta chilometri a sud – che bisogna andare per uscire dal fosso del secolobreve emettersi allespalle ancheglisplendori controriformistidiVilnius, ritrovando la gloria delle vittoriose battaglie contro i Cavalieri teutonici. Il Castello di Trakai costruito (una prima volta) nel Trecento si trova in una delle venti isolette del Lago Galvè. Ci si arriva prendendo una lunga passerella di legno, ma sono tanti i sentieri da percorrere. I più interessanti conducono alle colorate case in legno dove vivono gli ultimi discendenti dei caraiti, una setta ebraica arrivata fin qui nel tardo medioevo daBaghdad. Evale lapena anche pagaiare sul Galvè, o sui vicini laghi Akmena ed Eserinis, magari dopo aver passato la notte in uno dei cottage dell’Akmenine Rezidencija, che hanno una parete di vetro con vista sull’acqua e una canoa per ogni ospite. Se è estate, vi inoltrerete anche più lontano,fino alle bianchissime dune della Penisola dei Curi. Non ora. L’autunno può far male nei Baltici. Puntate su pattini e bagni termali. Lanciatevi nello shopping di ambra lungo l’acciottolata Pilies Gatve di Vilnius che dal castello scende giù in direzione porta dell’Aurora. Immergetevi nellastoriae nellaculturalituana,ancora vivacissima (a sapere il lituano varrebbe la pena seguire le rappresentazioni teatrali del maestro Eimuntas Nekrošius e dei suoi discepoli). E voltando le spalle all’insensata cucina internazionale, infilatevi nelle taverne dove i cuochi sapranno stupirvi con un saporito spezzatino di castoro con le prugne. pagina 99we | 46 | OZII sabato 11 ottobre 2014 DITECI DI OGGI ora si racconta l’irrilevante, ma in stile Perec ANTONELLA SBRILLI Piazza Saint Sulpice, Parigi GETTY n Diteci di oggi è una rubrica settimanale che ha a che fare con il tempo e la scrittura, in particolare con i giorni raccontati. Nella finzione narrativa, i “crononimi”, così si chiamo i giorni in cui sono situate le storie, acquistano un risalto: portano a interrogarsi sul motivo che ha spinto un autore a sceglierli, s’intrecciano col presente della lettura e con le date della propria vita personale, formando catene di memoria. Di catene del genere si legge anche in una pagina di Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Màrquez: “Santa Sofia de la Piedad gli chiese, come tutte le mattine, che giorno della settimana era e lui rispose che era martedì 11 ottobre […] si ricordò d’un tratto che in un undici di ottobre, in piena guerra, lo aveva risvegliato la certezza brutale che la donna con la quale aveva dormito era morta. Lo era, in realtà, e non aveva dimenticato la data perché anche lei gli aveva chiesto un’ora prima che giorno era”. Delle tante storie che richiamano significativamente la data di oggi, questa settimana abbiamo scelto per il nostro gioco Orlando di Virginia Woolf: la vicenda raccontata - di metamorfosi e attraversamenti del tempo - si conclude l’11 ottobre del 1928, data che corrisponde al- l’uscita del volume. L’invito a cambiare epoca, forma e genere (come il/la protagonista del libro) è stato raccolto da numerosi lettori e lettrici della rubrica, che hanno viaggiato dal Rinascimento al Risorgimento, da Firenze a Vienna, nella storia e soprattutto nei libri che la raccontano, trovandosi accanto a persone e a personaggi, i più diversi. La concentrazione maggiore è nell’Ottocento, secolo che permette di ritrovarsi nella campagna inglese, in un’aula universitaria piena di patrioti italiani, negli scavi di Troia e anche facchino nel porto di Napoli. Ma ci sono anche salti in tempi più prossimi a noi, come quello che fa Sandra Muzzolini per assistere alla lettura di Howl di Ginsberg, a San Francisco, nel 1955. n Il gioco del prossimo numero Esattamente quarant’anni fa, nell’ottobre del 1974, lo scrittore Georges Perec, seduto sulle panchine e nei caffè di Place Saint-Sulpice a Parigi, prese nota di “tutto quello che non si osserva, quello che non ha importanza: quello che succede quando non succede nulla se non lo scorrere del tempo, delle persone, delle auto e delle nuvole”. Per tre giorni, 18, 19 e 20 otto- bre, Perec trascrisse le sue osservazioni, pubblicate poi col titolo Tentative d’épuisement d’un lieu parisien (Tentativo di esaurimento di un luogo parigino, tr. it. A. Lecaldano, Voland). In questo nostro 2014, è di nuovo ottobre, è di nuovo un fine settimana e dunque l’invito per il prossimo numero è a sostare su una panchina o in un caffè, descrivendo – in non più di 800 caratteri – quello che capita sotto gli occhi in un periodo di tempo circoscritto. I testi vanno inviati come sempre all’indirizzo [email protected] entro lunedì 13 ottobre, per consentire la scelta per il numero di sabato 18 ottobre 2014. u LE RISPOSTE DEI LETTORI la prego Monna Lisa, continui a sorridere L’invito di questa settimana era a immaginare un CambioTempo: in quali epoche, in che genere e in che forma avreste voluto ritrovarvi, fra il ‘500 e il presente. Ecco una selezione delle proposte arrivate via mail e su Twitter. MAI HIC, MAI NUNC Pensando a cosa mi piacerebbe vivere del passato, mi rendo conto di pensare innanzitutto ai momenti in cui il passato si è proiettato al futuro, in cui sono accadute le cose per la prima volta: che ne so: essere un pirata con Francis Drake mentre scopre il mare aperto oltre la Terra del Fuoco; assistere alla prima proiezione dei Lumière. Ma anche vivere il passato quando si è rivolto al trapassato, essere con Heinrich Schliemann all'apertura del tesoro di Priamo. Insomma, a quanto pare, mai Hic, mai Nunc. @sognidorothy IL SOGNO DELL’INDIPENDENZA Animi accesi all’Università di Pisa. Ci pensa un docente, eloquio accattivante. È Giuseppe Montanelli, per molti più un poeta che un politico. Il succo del suo discorso: la nostra indipendenza passa attraverso il combattimento, nemica l’Austria. Sì, ma come si fa? Bisognerebbe avere armi adeguate… Si va lo stesso, però. Chi a piedi. Chi a cavallo. Chi trovando posto su barrocci maleodoranti. Giorni di cammino, sotto i primi soli primaverili. Si va verso il Lombardo Veneto, verso Mantova. Si è unita gente della campagna. E - si sente dire – l’esercito toscano non starà a guardare. Ed ecco – 29 maggio 1848 - Curtatone e Montanara: palcoscenici di sangue. Battaglia dura. Sconfitta quasi annunciata, per noi toscani… Il sogno si ripete, negli ultimi giorni. Mi sento uomo dell’Ottocento. Riccardo Cardellicchio UN GIORNO FORTUNATO Ero sceso al porto per cercare di racimolare qualche soldo come ogni giorno, mi prestavo a fare di tutto. Sapevo che in quei giorni era atteso l'arrivo di un vascello famoso, quindi potevo sperare di poter portare i bagagli di qualche notabile e ricevere quindi una ragguardevole mancia. Così mi misi ad osservare l'imbocco del porto per poter subito correre al molo di attracco. E infatti dopo un'ora vidi arrivare un grande vascello con tante vele. Era una bella nave. Quel tipo di nave poteva attraccare solo al molo Ferdinando e così mi precipitai lì. Non avevo sbagliato, l'11 ottobre 1880 giunsero a Napoli i Sovrani di Grecia e io ricevetti laute mance per portare i loro bagagli all’Hôtel Bristol. Fu un giorno fortunato per me. Pierpaolo Limongelli RADIO E CORSETTO Era una bella sera di ottobre, quando raggiunsi in carrozza la mia residenza di campagna. Il viaggio era stato faticoso, ma allietato dalla vista delle colline friulane adornate di vigneti. Arrivata in camera slacciai il corsetto e gettai lontano scarpe e calze, prima di saltare sul soffice letto a baldacchino, orientato verso Est e schermato da veli di seta iridescente. La luce mi svegliò al mattino facendo evaporare i miei sogni. Allungai la mano verso il comodino e cercai a occhi chiusi di accendere la radio, intercettando una voce truce e sincopata, che parlava di guerra, di vittoria e di conquiste. Girai ancora la manopola e m’imbattei in un allegro motivetto "O vita! Vita, vita, che cosa sei tu?". Cullata dalle note e dalla stanchezza, mi addormentai di nuovo per svegliarmi di soprassalto, quasi spaventata. Guardai subito lo schermo del mio cellulare. Era tardi, tardissimo. Erano le dodici di lunedì 6 ottobre 2014. Lucia Rupolo ELISABETH E JANE, MARIANNE E ELINOR Sto vivendo la primavera della mia vita nei primi decenni dell’800, nella campagna inglese. Un cottage, un orto, un giardino e una biblioteca di 500 volumi. E intorno un orizzonte infinito di campi cullati dal vento e boschi che preservano le ombre. Indosso severi soprabiti, consoni alla campagna, eppure ingentiliti da un orlo fine di impalpabile trasparenza. La cuffia mi incornicia il viso mentre, china, curo altere rose e morbide peonie, inebriata dalla lavanda e dal rosmarino. Accanto alla finestra uno scrittoio. Fogli preziosi si riempiono di vita, del dolore dei pregiudizi e dell’orgoglio, figli della ragione e della gioia della dolcezza incantata, figlia del sentimento. Sono Elisabeth e Jane, Marianne e Elinor: ho scelto di essere una donna. Carla Baranzoni DAL KAOS AL COSMOS Il dubbio è legittimo, la dimensione spazio temporale spaventa. “Se potessi tornare indietro nel tempo la sostanza di cui sono fatto ritornerebbe ad essere me stesso o cambia forma, essenza?” Di sicuro se tornassi indietro nel tempo e nello spazio vorrei ritrovarmi di fronte a Raffaello e vederlo dipingere. Essere al di qua dell’affresco, dentro lo strato sottile, nell’attimo esatto in cui sta stendendo le prime velature della “Scuola di Atene” proprio sulla tavoletta che Telauge regge a Pitagora. Quella minuta lavagna è magica, è piena di numeri, che indicano frequenze, vibrazioni, intervalli di tempo, ottave, quinte, rapporti armonici che trasformano il Kaos in Cosmos. Lì, dentro quel rettangolo nero, è racchiuso il mistero dell’universo, l’anima del mondo. Lì nasce il numero, la musica, l’armonia della vita, il tetracordo, il suono che crea le cose. Lì dentro, dove vorrei finire ed esserci, c’è il mondo intero. Sì, avete capito bene, attraverso quel buco nero, mi piacerebbe trovarmi dentro quello spazio rinascimentale, divenire me stesso ed essere in quell’istante preciso dove l’architettura la fa da padrona, la scultura avvolge, la poesia risuona, la pittura domina, la musica compenetra, la geometria forma, la dialettica chiarifica, l’astronomia illumina, l’arte crea… Ohh che vertigine essere lì con il Maestro e con i più grandi pensatori. Essere insieme a loro, un personaggio vivo, creato e dipinto dall’VRBINATE. Franco Chirico IL PENNELLO COME UN MACIGNO Ormai questo pennello mi sembra più pesante di un macigno. Non vorrei far valere le mie convinzioni in questo modo: dipingere mi stanca troppo. Avrei voluto farlo come piace a me, con la mia scienza, ma a quanto pare dovrò arginare la sfrontatezza di quel giovinastro, che si fa largo a furia di corpi muscolosi e nudi. Egli non vede la bellezza che è nelle cose del mondo? La poesia e l'equilibrio dell'intero universo, oltre quella dell'essere umano? Non riesce a cogliere la perfezione e il mistero della natura? Dovrò farglielo capire io, com'è difficile! Ecco risolto l’arcano: la poesia. Devo assolutamente riuscire a raffigurarla! Se riuscissi a dipingere l'anima, tutti dovranno darmi ragione. «La prego, Monna Lisa, continui a sorridere così». Andrea Marinelli INDIETRO NEL FUTURO Se avessi potuto farlo, avrei scelto di vivere nell'Ottocento. È il secolo che ha visto nascere l'amore romantico, rivoluzioni di ogni tipo, i giornali, i primi partiti politici, la croce rossa, il romanticismo, l’impressionismo, l’abolizione della schiavitù e non solo queste otto cose. Tutto era ispirato da alti ideali e in loro nome si era disposti anche a morire; perché si credeva in un futuro migliore di cui avrebbero goduto le generazioni future. Si era capaci di sognare, insomma. Tutto era teso al futuro. Oggi invece il futuro e già presente; i partiti sono solo coperchi di- versi per contenitori uguali e contenuti difficili da distinguere; gli ideali sono stati rimpiazzati da slogan accattivanti e promesse irrealizzabili; l’amore è il bisogno più grande, ma non ci crede più nessuno. Mimmo Pugliese MI TROVO ACCANTO A SANTA TERESA D’AVILA In quei giorni la madre era molto preoccupata. Glielo leggevo sul volto e nello sguardo. Aveva da qualche giorno avuto le visioni, in cui le era apparso Nostro Signore coperto di piaghe. Che pena vederla tornare dalla confessione. Quel dolore che le procuravano i confessori era accettato da lei di buon grado, nonostante tutto. Fu così che mi feci coraggio e mi avvicinai a lei e le dissi: "Madre, c'è un padre gesuita a poche centinaia di metri da noi. Dicono sia un confessore molto bravo. Si chiama Diego de Cetina. Se vuole posso portargli una lettera scritta da lei per farlo venire in monastero." La madre accettò. Aveva sentito tanto parlare del fondatore dell'ordine dei gesuiti, Ignazio di Loyola, così tanto perseguitato in terra di Spagna. Era l'undici ottobre. Era l'anno 1555. Sotto il pontificato buio di papa Paolo IV, due ordini, i Gesuiti e le Carmelitane scalze, ricevevano la luce da Colui che scrive dritto sulle righe storte. Paola Toto LE TENTAZIONI DEL DOTTOR ANTONIO “Bevete più latte, il latte fa bene!”: il ritornello non mi si leva dalla testa. Gira e rigira con il suo ritmo da carosello. E fa rimbombare gli altri suoni che mi arrivano confusi, le immagini che mi passano davanti agli occhi come un caravanserraglio d’altri tempi: dodici boyscout in fila che cantano una canzoncina senza senso, tre camion carichi di operai che urlano ordini per montare un gigantesco cartellone di fronte a casa mia, i campi rinsecchiti dell’Eur, tra palazzoni in costruzione e vecchie glorie dell’E42, la corriera piena di negri che si mettono a suonare come se fossero a New Orleans.. ma soprattutto lei, quel demonio che provoca con le sue nudità oscene, con quel décolleté prorompente che fa la réclame al latte. Quella sciagurata che giganteggia sul manifesto appena montato. Che entra nei miei sogni e nei miei incubi, che diventa alta alta alta più alta dei palazzi. E comincia a spogliarsi ... che vuole da me? Tutto credevo meno di poter fare un viaggio non solo nel tempo, ma anche nell’immaginato. Nel personaggio immaginato da Fellini per Boccaccio 70: il dottor Antonio. Mi sono reincarnato nel dottor Antonio! @monsùDesiderio PUNTO NULLO Sono sedentario, mi sposto malvolentieri, quindi potendo o dovendo cambiare tempo, preferirei rimanere a casa mia, o almeno nell’area in cui la casa sorge. Seduto sulla sedia dello studio, mentre il tempo va all’indietro, vedo che intorno al 1960 la casa sparisce. Mi ritrovo in una pineta, fra pecore, cani e contadini al servizio della famiglia nobile che ha posseduto i terreni per secoli. Sulla mia sedia girevole osservo, finché posso. Poi la fame e la noia mi spingono verso la strada, in cerca di un posto dove mangiare. La piazza con l’edicola e il bar dell’angolo è annullata. Non riconosco niente e non succede niente. Comincio a chiedermi se il punto del mio studio, dove lavoro tutti i giorni, non sia un punto nullo dello spazio e del tempo. Appalachi I TWITTER Con l’orobilogio da Vienna a San Francisco Luglio 1997: accompagno Jonathan in Ucraina alla ricerca di Augustine (Ogni cosa è illuminata, Jonathan Safran Foer) San Francisco 1955, dopodomani vado alla Six gallery a sentire Ginsberg che legge Howl. Sono all’Opera di Vienna per la Tosca, con Emmy e Gisela, 21 settembre 1923 (Un’eredità di avorio e ambra, Edmund De Waal) 1876: salgo sulla nave che porterà Maryna Zalezowska in America (Susan Sontag, In America) 1870: una passeggiata con Ellen Olenska a Central Park, colori d’autunno (L’età dell’Innocenza, Edith Warthon) Mi faccio prestare l’orobilogio da Lupetto e #cambiotempo (Saltatempo, Stefano Benni) Sandra Muzzolini @sandra_mzz Sono Flaminia Sono Flaminia Borghese, nata il 18 aprile 1692, le cronache mi vogliono morta di parto il 7 gennaio 1717, ma le cronache mentono. TeneT @arepo_opera Sono Gertrude Sono Gertrude, La monaca di Monza, nel momento in cui, da sventurata, rispondo. @atrapurpurea Ed io? Come posso? Ci provo ,#cambiotempo e sono te che mi leggi. La Monaca di Monza @GertrudeTW Senza impegno Vorrei essere un personaggio di Jane Austen per essere una donna senza impegno! Francesca Chiusaroli @fchiusaroli sabato 11 ottobre 2014 | pagina 99we perdere la testa inseguendo Escher @DICONO DI NOI OGGI n «Un anello non è un modo per rappresentare un processo senza fine in modo finito?» scriveva lo scienziato americano Douglas Hofstadter nel suo celebre libro dal titolo Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda brillante, tradotto da Adelphi nel 1984. Un libro che metteva a confronto il matematico, il musicista e l’artista OZII | 47 olandese Escher, rivelando i paradossi, gli inganni, gli strani anelli del linguaggio e delle forme. «Il genio di Escher sta nella sua capacità di escogitare e realizzare figurativamente dozzine di mondi semi-reali e semi-immaginari, mondi pieni di Strani Anelli, nei quali sembra invitare gli spettatori a entrare». Come fa la mostra in corso a Roma al Chiostro del Bramante, fino a febbraio 2015. Curata da Marco Bussagli, l’esposizione presenta opere celebri e rarità, confronta Escher con artisti italiani - da Piranesi ai Futuristi -, ne segue l’attrazione per il nostro paese, dove visse negli anni Venti e Trenta, attraverso disegni e diari. Invita il pubblico all’interazione con i principi di geometria e di psicologia per- cettiva sottesi alle sue opere e incoraggia a farsi dei selfie su sfere e specchi, emulando l’autoritratto convesso in cui Escher si riprende nello studio della sua casa romana di Monteverde. Autore di disegni, xilografie, litografie che avvicinano l’arte e la scienza, Escher è al centro di un interesse ampio e sfaccettato anche sui social, dove le riproduzioni sono rilanciate e richiamate in vari modi: c’è chi gioca con i paradossi: “Domani sono andato alla mostra di Escher”, scrive su Twitter @serena_gandhi; «il tentativo di Escher di costruire l’impossibile grazie a errori prospettici me lo rende familiare» scrive @donnamancina, e Escher era mancino anche lui; «Senza Escher non sapremmo cosa mettere sulle copertine dei libri» twitta @BarbaraFanteschi. Ognuno di questi brevi messaggi dice qualcosa dell’artista e del suo effetto, che raggiunge biglietti d’auguri, schede telefoniche, piastrelle, copertine di vinili, di riviste, di libri, fra cui le Cosmicomiche di Calvino. E anche i francobolli, a cui Escher si è dedicato – come si vede in mostra - in varie occasioni. Aldo Spinelli, artista milanese che lavora sui temi della ricorsività, ci racconta che: «Esattamente 65 anni fa - nei primi giorni di ottobre del 1949 - le poste olandesi hanno distribuito un francobollo in occasione del 75° anniversario dell’Unione Postale Universale. E per la ricorrenza Escher si è servito di un simbolo, il marchio identificativo del postiglione, il corno postale, uno strumento musicale formato da un lungo tubo avvolto su sé stesso a elica. Essenziale nella sua forma, era proprio l’elemento più adatto per essere trattato dall’artista per realizzare l’immagine di una tassellatura tridimensionale (su una sfera)». Un altro francobollo l’artista l’aveva disegnato nel 1935 per il National Aviation Fund. Nelle ombre di aerei che sorvolano un profilo dell’Olanda – nota Spinelli – «la scritta che scorre perpendicolare su due lati del francobollo impernia la simmetria sulla “O”, che può essere letta sia in verticale che in orizzontale». Del resto, come ricorda un tweet dell’account @888infinito888: Siete u CRUCIVERBA n ORIZZONTALI 1. Gossip nostrano. 11. Stento, fatica. 18. Così è la spada dei Cavalieri Jedi. 19. Un nome palindromo. 20. Nellabeautynon c’è il pollaio. 22. Tutt’altro che nottambulo. 23. Redigere documenti ufficiali. 25. Antica città sul Golfo Persico. 27. Un applauso da fumetto. 29. Il soprabito di Clouseau. 31. Lo è un’associazione filantropica. 34. Provoca la perdita dei sensi. 36. La Tyler che... balla da sola. 37. Piccole insenature del litorale. 38. Il Joe R. scrittore. 40. Il kibbutz dei Maori. 41. Formazione in cui prevalgono fibre muscolari. 43. Decimare, distruggere. 46. Internazionale Socialista. 47. Il sitdi protesta. 48. Una scrittrice che si nasconde nel gioco di oggi. 50. Sono regolate dalla Luna. 52. Il simpatico Merad di Giù al Nord. 54. Riportano orari e scali aerei. 55. Un tipo di pane indiano. 57. La Emerald del jazz. 58. Giocava a pallavolo insieme a Mila. 59. Lo è chi abbandona il campo. 62. TraGameeThrones. 63. Esprime unione. 65. Una delle lingue bantu. 66. Un nonnulla. 68. Riassunto in inglese. 69. Principio di artrosi. 70. Il Wallach del cinema. 72. Trasmette il baseball americano. VALERIA RAIMONDI 74. Donne fuori dal mondo. 76. Insieme al castigo in un noto romanzo. 79. L’Anish archistar. 80. Fu nipote di Carlo Magno. 82. Comprende l’isola di Pemba. 84. Un doppio vivente. 88. Qui venne sviluppata la prima bomba atomica. 90. Ve ne sono di non edificabili. 91. I coniugi del design anni ‘50. 92. Una cellula riproduttiva dei vegetali. 93. Precede il dokeynello slang. n VERTICALI 1. Una tossina usata come antibiotico. 2. Può essere usato al posto di egregio. 3. La metropoli d’Israele. 4. Reiterato è routine. 5. Un golfo laziale. 6. Disgiuntiva eufonica. 7. Prepara la tesi. 8. Le consonanti in zuffa. 9. L’Efron giovane attore. 10. Il romanzo che ha ispirato il gioco di oggi. 12. Da vedere allo specchio. 13. L’indimenticato Tony della canzone. 14. Le monete più preziose. SOLUZIONI DEL NUMERO 62 l l chiuso in redazione l’8 otttobre alle ore 23.30 11 ottobre 2014, tiratura 35.000 copie 15. Quella à porter è la moda più diffusa. 16. Il noto Fantastichini. 17. Lo era Caronte. 18. Lo Strauss dei jeans (iniz.) 21. Si può svolgere ma non riavvolgere. 24. Quelle di mercato studianoil comportamento dei consumatori. 26. Un prefisso iterativo. 28. L’infinito del ciclista. Francobollo realizzato da Escher sicuri che un soffitto non possa essere anche un pavimento? Sul sito di pagina99, Lorenzo Pica parla degli Incredibili mondi di Escher nel blog Freemaninrealworld 30. La serie TV con lo spietato Frank Underwood. 32. Si muove in diagonale sulla scacchiera. 33. Un sindaco ispanico. 35. La Margherita che fu amante di Mussolini. 39. L’artista-attivista cinese più famoso. 41. Uno dei quattro giudici di X Factor. 42. Lo sono le ricchezze a cui si è dato fondo. 44. La Lucy di Kill Bill. 45. Un segno che si scambia durante la messa. 49. Caratterizza le facciate delle chiese gotiche. 51. Alla fine della fiera. 53. Argomenti di difesa. 56. To be or... to be. 60. Un ingrediente dello spritz. 61. Può essere dittico, trittico o polittico. 63. Paese senza confini. 64. Sgualdrina parigina. 65. Tante sono le desinenze verbali italiane. 67. Di proporzioni mastodontiche. 68. Un turbinio confuso di persone. 69. È sinonimo di bello. 71. Il treno di Montezemolo. 73. La Catherine che conduceva Harem. 75. Un individuo non meglio specificato. 77. La Harper de Il buio oltre la siepe. 78. C’è quel del vero. 79. Casa automobilistica coreana. 81. Già... nell’antica Roma. 83. Precede la Gabor... per due volte. 85. In mezzo al giorno. 86. Iniziali di Strehler. 87. Resa senza pari. 89. I limiti di Ozzy.
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