Rassegna stampa 19 dicembre 2014

RASSEGNA STAMPA di venerdì 19 dicembre 2014
SOMMARIO
Su Avvenire di oggi, prendendo spunto dalle parole di Benigni qualche sera fa,
Ferdinando Camon confeziona un “piccolo elogio della nonnità”. Ecco la sua
riflessione: “nonno e nonna sono figure onnipresenti nella vita dei bambini, e hanno
un ruolo sempre più importante nel campo educativo e affettivo. 'Andare a trovare i
nonni' è un momento di felicità intensa per i piccoli, e per i nonni riceverli in casa è
gioia pura. Un grande studioso della Letteratura Italiana, forse il miglior critico del
Novecento, che attraverso i libri e gli autori vedeva la vita, i sentimenti, i problemi
personali e sociali, Geno Pampaloni, ha scritto in tarda età un libriccino di memorie,
in cui ha messo una definizione di vecchiaia che (cito a memoria, e chiedo scusa se
sbaglio qualcosa) suona così: «Si è vecchi quando per le scale i passi dei figli e dei loro
figli che ci vengono a trovare salgono troppo tardi, e scendono troppo presto». È una
frase densissima. Significa che i nonni si affacciano a tendere l’orecchio sulle scale
prima che i figli arrivino, e godono e si avvertono reciprocamente appena sentono il
primo scalpiccìo, e finita la radunata li accompagnano sulla porta e tendono l’orecchio
per sentire i passi allontanarsi, e richiudono la porta quando non si sente più nulla:
così la visita di figli e nipoti vien vissuta a partire da prima che cominci per continuare
anche dopo che è finita. Questo nel caso delle abitazioni separate, che nell’epoca dei
condomìni e degli appartamenti è il più frequente. Accade sempre più spesso che i
nonni facciano da supporto affettivo-educativo ai nipoti, li aiutino a fare i compiti, li
portino ai giardini, stiano con loro davanti alla tv, insomma spartiscano la vita. La
nonnità è una seconda paternità. Ritorno spesso su questo concetto, mi pare un test
del nostro tempo. Un test felice. La nonnità è la prima paternità che ritorna, riveduta
e corretta. Quand’erano padri e madri, i nonni hanno fatto degli errori: tutti, nessuno
escluso, tanto meno colui che scrive queste righe. Il ruolo di padre è di una difficoltà
estrema. Non significa parlare bene ai figli, cioè insegnargli il bene, insegnargli un
modello di vita con le parole. Ma insegnargli un modello di vita con la vita. Tutti
sbagliamo, perché non sappiamo. I nonni sanno, e sbagliano meno. Dice Freud che
l’amore paterno per i figli è inquinato da altri sentimenti, che non si possono portare
facilmente alla luce neanche con l’analisi, perché la coscienza li condanna e perciò li
nasconde. C’è anche gelosia, rivalità, bisogno d’imporre l’autorità, di ottenere
l’obbedienza. Vorrebbero migliorare i figli, farne dei capolavori. Realizzare attraverso
i figli le rivincite che la vita non gli ha dato. Per quanto sia difficile crederlo, i padri
non sentono questa ambiguità nel loro amore per i figli, ma i figli sì. Nei nonni queste
ambiguità svaniscono. Amano i nipotini per quel che sono e come sono. E i nipotini
sentono in loro questo amore totale, e lo ricambiano. Nei giorni di Natale, nelle grandi
rimpatriate dei clan, i gruppi più felici sono i figli e i nonni: i primi perché stanno con
i secondi, e viceversa. È il caso di dire (di comandare) al nipote 'onora il nonno e la
nonna'? Di fatto, lo fa già. Onorare vuol dire rispettare, obbedire, o almeno non
disubbidire, e stimare. Aver fiducia. Parlarne bene. Protestare se senti che qualcuno
ne parla male. Preoccuparti se senti che è malato. Piangere se senti che se n’è
andato. 'Onora il padre e la madre' significa 'onora tuo padre e suo padre, tua madre e
sua madre'. È già così, nelle famiglie. Specialmente in questi giorni. Sono i giorni più
felici dell’anno”. Dei giovani che “fanno paura” parla, invece, sulla prima pagina del
Corriere del Veneto il sociologo Vittorio Filippi: “E’ curioso il capovolgimento. Una
volta, fino a qualche decennio fa, erano i ragazzi, i giovani ad avere paura degli
adulti. Eravamo una società autoritaria, maschilista, gerarchica. Anche manesca. Il
potere degli adulti – genitori ed insegnanti in primis – era ampio ed indiscusso. Poi il
meccanismo si ruppe, ci fu il ’68 e gli anni settanta, gli adulti divennero i matusa e
soprattutto si disse che non dovevano più essere autoritari, ma autorevoli. Oggi, come
si diceva, il mondo appare rovesciato. I giovani non temono più gli adulti, non temono
più i genitori, gli insegnanti, tutto ciò che definiamo l’autorità. Anzi, sono gli adulti
che cominciano ad essere intimoriti, perché gli adolescenti appaiono sempre più
ingovernabili ed imprevedibili. In taluni casi fanno perfino paura. Sono decisamente
insofferenti alle regole, in famiglia come a scuola. In un crescendo inquietante, questi
adolescenti adottano sempre più comportamenti che una volta si sarebbero definiti
teppistici. Lo fanno soprattutto negli spazi pubblici tra l’ambito familiare e quello
scolastico (o lavorativo). Mentre gli ultimi due sono – bene o male – abbastanza
presidiati da regole e sanzioni, quelli pubblici si profilano come spazi sociali liquidi e
senza regole. Sregolati appunto. I trasporti pubblici ne sono l’esempio perfetto. Posti
tra casa e scuola e viceversa, vengono vissuti come quotidiane aree di libertà, di
piccola trasgressione, anche di piccola violenza. Per di più sono pochissimo presidiati
dagli adulti: un solo controllore, un solo autista, un solo capotreno. Se poi questo
adulto «istituzionale» osa esercitare il suo ruolo richiamando il rispetto delle regole
(pagare il biglietto o l’abbonamento, adottare un certo comportamento a bordo) allora
può scattare una violenza tanto inaudita quanto imprevista. Come ci racconta oggi la
cronaca infittita di episodi del tutto simili. Questi giovani sono stati definiti fragili e
spavaldi al tempo stesso. Fragili fino a tentare il suicidio per un brutto voto o per una
delusione d’amore. Ma anche spavaldi fino al rifiuto dell’autorità e del castigo. Gli
adulti hanno oggi di fronte due strade. La prima è quella del controllo sempre più
forte affidato alle telecamere o alle forze di polizia. La seconda è quella educativa. La
prima è utile, ma fino ad un certo punto. La seconda serve se nel patto con i ragazzi
ci stanno la fatica dell’ascolto, l’abitudine al rispetto delle regole, la voglia autentica
di educare, cioè di «tirare fuori» ciò che di buono si nasconde dentro i nostri
adolescenti. Anche di quelli che oggi mostrano il volto inaccettabile della violenza”
(a.p.)
3 – VITA DELLA CHIESA
L’OSSERVATORE ROMANO
Pag 6 Responsabilità ecumenica
Il Papa a una delegazione evangelica luterana tedesca: nel 2017 insieme per
commemorare il quinto centenario della Riforma
Pag 6 La storia siamo noi
Messa del Pontefice a Santa Marta
Pag 7 Con Gesù tutto è possibile
Ai ragazzi di Azione cattolica per gli auguri natalizi
LA REPUBBLICA
Pag 27 Da casa del Papa a museo per tutti, Francesco trasforma Castel Gandolfo
di Paolo Rodari
IL GIORNALE
Quell'«agenda parallela» di papa Francesco di Fabio Marchese Ragona
Il lavoro sottotraccia del Pontefice che trova il tempo anche per telefonare a Benigni
IL GAZZETTINO
Pag 11 Debiti e operazioni finanziarie sospette. I francescani sull’orlo della
bancarotta
Lettera choc del ministro generale. Troppi debiti e ammanchi, la situazione denunciata
alla magistratura
WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT
La grande truffa ai Francescani. La curia dei Frati di Assisi sull’orlo del crac di
Giacomo Galeazzi
Il ministro Perry: dubbie operazioni finanziarie, siamo pieni di debiti
«Un lavoro di piccoli passi», la diplomazia di Francesco di Andrea Tornielli
La «nobile» attività di chi crede nel dialogo e nel negoziato
WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT
Il pendolo di Bergoglio, tra capitalismo e rivoluzione di Sandro Magister
Marxista, liberista, peronista. Gli hanno applicato le etichette più disparate. I
contrastanti giudizi dell'Acton Institute e degli "Amici di papa Francesco"
5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
AVVENIRE
Pag 2 Piccolo elogio della nonnità di Ferdinando Camon
“Onora il nonno e la nonna”: Benigni dice ciò che si vive
Pag 13 Natale in tavola di Franco Cardini
Il banchetto famigliare del 25 dicembre è tutt’altro che un esempio di consumismo:
affonda anzi le sue radici nell’esigenza di “fare festa” staccandosi dall’ordinarietà
quotidiana
CORRIERE DEL VENETO
Pag 1 Se i giovani fanno paura di Vittorio Filippi
7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
CORRIERE DEL VENETO
Pagg 2 – 4 La mafia siciliana al Tronchetto di Alberto Zorzi, Alessio Antonini e
Monica Zicchiero
Dalle truffe all’impero dei granturismo: ascese e cadute del “cocco cinese”.
Acchiappaturisti e bancarelle, gli affari nel regno dell’omertà. La commissione antimafia
a Venezia: “Ci sono anche complicità politiche”
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag I Il fronte contro Venezia di Gianfranco Bettin
Pag VII Ici, Comune contro Comunità Ebraica di Alberto Francesconi
Contenzioso aperto dal 2011, la controparte eccepisce l’esenzione per gli edifici di culto.
Zappalorto autorizza il ricorso per il mancato pagamento relativo a oltre 90 immobili
10 – GENTE VENETA
Tutti gli articoli segnalati di seguito sono pubblicati sul n. 48 di Gente Veneta in uscita
sabato 20 dicembre 2014:
Pag 1 La logica di Dio passa attraverso ciò che è debole e piccolo di Francesco
Moraglia
Natale 2014: il messaggio del Patriarca
Pag 5 Un’adozione che parla del Natale di Paolo Fusco
«Il primo bambino adottato? E’ stato Gesù...». Così Davide e Luisa rileggono la loro
scelta di far diventare loro figlio un bambino messicano
Pagg 6 – 7 Un’adozione che parla del Natale di Giulia Busetto
La prima volta della benedizione: un rito per le famiglie adottive. Domenica scorsa la
toccante cerimonia al Centro “Urbani”. L’emozione: «Io, verso l’altare, con la mia
famiglia che mi aspetta». Don Barlese: «L’adozione è grazia per tutta la comunità»
Pagg 8 - 9 Il Patriarca ai carcerati: qui le basi del vostro futuro di Serena Spinazzi
Lucchesi
Martedì scorso mons. Moraglia ha celebrato la messa di Natale nel carcere di S. Maria
Maggiore: un momento gradito e atteso da voi, ma anche da me. «In questo tempo
presente, fatto di giorni faticosi, voi potete costruire il vostro domani. Potete prendere in
mano la vostra vita, ma occorre guardarsi dentro». Stop al sovraffollamento in carcere.
E celle aperte
Pag 15 Cristiani perseguitati: «Aiutiamo quelli che vogliono rimanere in patria»
di Alessandro Polet
Il partecipato incontro di preghiera per i cristiani perseguitati, con rappresentanti di
altre confessioni e altre religioni
Pag 17 Salvatore: Natale, per me, è il coraggio di rinascere di Lorenzo Mayer
Una malattia con cui è costretto a convivere da metà della sua vita, ma anche la
capacità di reagire, nel volontariato e in parrocchia. E’ la testimonianza di Salvatore
Coco: «Natale è la festa di un Dio che nasce debole per dare forza ai deboli»
Pag 18 Il Vicario degli Scalzi: «Avere sempre in mente Gesù è come portare il
gps: se cadi, lo Spirito ti soccorre» di Carlotta Venuda
Parla padre Emilio Josè Martinez, a Venezia per il quinto centenario della nascita di
santa Teresa d’Avila: «La mistica è un allenamento per il servizio»
Pag 36 Natale: viva il rito di Giorgio Malavasi
I riti, dice la psicologa Paola Scalari, sono un valore aggiunto: creano sicurezza e senso
di appartenenza alla famiglia. Per gli adulti tristi un consiglio: «Non vergognatevi di
chiedere aiuto. A Natale cercate un posto dove stare con gli altri»
All’interno del giornale l’inserto speciale con i principali appuntamenti pastorali del
periodo gennaio / marzo 2015 proposti dagli Uffici di Curia e da alcune realtà ecclesiali
… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 Esito modesto di un semestre di Danilo Taino
Bilancio critico per l’Italia
Pag 1 La partita del premier di Francesco Verderami
Pag 13 “Fidel scomunicato? Soltanto una leggenda. La Chiesa non scappa” di
Gian Guido Vecchi
Il cardinal Capovilla sul ruolo di Francesco e del Vaticano
Pag 29 Se l’analfabetismo ora sbarra anche le porte della rete di Luca
Mastrantonio
L’Italia e il Web: si accentua la spaccatura tra illetterati e chi legge e scrive (online)
LA REPUBBLICA
L’esorcismo del premier sul Quirinale di Stefano Folli
LA STAMPA
Russia, anche Putin ammette la crisi di Cesare Martinetti
AVVENIRE
Pag 1 Un “dono” al mercato di Assuntina Morresi
La sentenza Ue e due domande
Pag 3 Il non profit e gli scandali, una riforma anti-giungla di Adriano Propersi
Bilanci chiari e vertici responsabili: i primi passi
Pag 7 Il “nuovo secolo americano” apre alla leadership allargata di Vittorio E.
Parsi
IL GAZZETTINO
Pag 1 Cuba, sul disgelo l’incognita del congresso Usa di Mario Del Pero
Pag 27 I bambini di Peshawar e le vittime causate dall’Occidente “civile” di
Massimo Fini
LA NUOVA
Pag 1 Paese ancora in mezzo al guado di Andrea Sarubbi
Pag 1 Così usciamo dalla crisi senza merito di Ferdinando Camon
Torna al sommario
3 – VITA DELLA CHIESA
L’OSSERVATORE ROMANO
Pag 6 Responsabilità ecumenica
Il Papa a una delegazione evangelica luterana tedesca: nel 2017 insieme per
commemorare il quinto centenario della Riforma
«Possa la commemorazione comune luterana-cattolica della Riforma nel 2017
incoraggiarci a compiere ulteriori passi verso l’unità». È l’auspicio espresso da Papa
Francesco durante l’udienza di giovedì mattina, 18 dicembre, a una delegazione della
Chiesa evangelica luterana della Germania, accompagnata dalla commissione ecumenica
della Conferenza episcopale tedesca e dai vertici del Pontificio Consiglio per la
promozione dell’unità dei cristiani.
Sorelle e fratelli, vi saluto cordialmente e ringrazio il Vescovo Ulrich per le sue parole,
che testimoniano chiaramente il suo impegno ecumenico. Saluto anche gli altri
rappresentanti della Chiesa evangelica-luterana della Germania e della Commissione
ecumenica della Conferenza episcopale tedesca, in visita ecumenica a Roma. Il dialogo
ufficiale tra luterani e cattolici può oggi guardare ai suoi quasi cinquant’anni di intenso
lavoro. Il notevole progresso che, con l’aiuto di Dio, è stato realizzato costituisce un
solido fondamento di sincera amicizia vissuta nella fede e nella spiritualità. Nonostante le
differenze teologiche che permangono in varie questioni di fede, la collaborazione e la
convivenza fraterna caratterizzano la vita delle nostre Chiese e Comunità ecclesiali,
impegnate oggi in un comune cammino ecumenico. La responsabilità ecumenica della
Chiesa cattolica, come ha sottolineato san Giovanni Paolo II nell’Enciclica Ut unum sint,
è infatti un compito essenziale della Chiesa stessa, convocata e orientata dall’unità di
Dio Uno e Trino. Testi congiunti, come la “Dichiarazione Comune sulla dottrina della
giustificazione” - alla quale Lei ha fatto riferimento - tra la Federazione Luterana
Mondiale e il Pontificio Consiglio per la promozione dell’Unità dei Cristiani, firmata
ufficialmente quindici anni fa ad Augsburg, sono importanti pietre miliari, che
permettono di proseguire con fiducia sulla strada intrapresa. L’obiettivo comune
dell’unità piena e visibile dei cristiani sembra a volte allontanarsi a causa di diverse
interpretazioni, all’interno del dialogo, su ciò che è la Chiesa e la sua unità. Malgrado
queste questioni ancora aperte, non dobbiamo rassegnarci ma piuttosto concentrarci sul
prossimo passo possibile. Non dimentichiamo che stiamo facendo insieme un cammino
di amicizia, di stima reciproca e di ricerca teologica, un cammino che ci fa guardare
speranzosi al futuro. Ecco perché il 21 novembre scorso le campane di tutte le cattedrali
in Germania sono state fatte suonare, per invitare in ogni luogo i fratelli cristiani ad un
servizio liturgico comune per il cinquantesimo anniversario della promulgazione del
Decreto Unitatis redintegratio del Concilio Vaticano II. Mi rallegro che la Commissione di
dialogo bilaterale tra la Conferenza episcopale tedesca e la Chiesa evangelica-luterana
della Germania sta per terminare il suo lavoro sul tema “Dio e la dignità dell’uomo”. Di
grandissima attualità sono le questioni relative alla dignità della persona umana all’inizio
e alla fine della sua vita, così come quelle attinenti alla famiglia, al matrimonio e alla
sessualità, che non possono essere taciute o tralasciate solo perché non si vuole mettere
a repentaglio il consenso ecumenico finora raggiunto. Sarebbe un peccato se, su tali
importanti questioni legate all’esistenza umana, si verificassero nuove differenze
confessionali. Il dialogo ecumenico oggi non può più essere separato dalla realtà e dalla
vita delle nostre Chiese. Nel 2017 i cristiani luterani e cattolici commemoreranno
congiuntamente il quinto centenario della Riforma. In questa occasione, luterani e
cattolici avranno la possibilità per la prima volta di condividere una stessa
commemorazione ecumenica in tutto il mondo, non nella forma di una celebrazione
trionfalistica, ma come professione della nostra fede comune nel Dio Uno e Trino. Al
centro di questo evento ci saranno dunque la preghiera comune e l’intima richiesta di
perdono rivolte al Signore Gesù Cristo per le reciproche colpe, insieme alla gioia di
percorrere un cammino ecumenico condiviso. A ciò fa riferimento in maniera significativa
il documento prodotto dalla Commissione luterana-cattolica per l’unità, pubblicato l’anno
scorso e intitolato “Dal conflitto alla comunione. La commemorazione comune luteranacattolica della Riforma nel 2017”. Possa questa commemorazione della Riforma
incoraggiarci tutti a compiere, con l’aiuto di Dio e il sostegno del suo Spirito, ulteriori
passi verso l’unità e a non limitarci semplicemente a ciò che abbiamo già raggiunto.
Nella speranza che la vostra visita fraterna contribuisca a rafforzare la buona
collaborazione che esiste tra luterani e cattolici in Germania e nel mondo, invoco di
cuore la benedizione del Signore su di voi e sulle vostre comunità.
Pag 6 La storia siamo noi
Messa del Pontefice a Santa Marta
Negli inevitabili «momenti brutti» della vita bisogna «prendere su di sé» i problemi con
coraggio, mettendosi nelle mani di un Dio che fa la storia anche attraverso di noi e la
corregge se non capiamo e sbagliamo. È questo il suggerimento offerto da Papa
Francesco nella messa celebrata giovedì 18 dicembre nella cappella della Casa Santa
Marta. «Ieri la liturgia - ha fatto subito notare il Pontefice - ci ha fatto riflettere sulla
genealogia di Gesù». E con il passo odierno del Vangelo di Matteo (1, 18-24) si
conclude, appunto, questa riflessione, «per dirci che la salvezza è sempre nella storia:
non c’è una salvezza senza storia». Infatti «per arrivare al punto di oggi - ha spiegato c’è stata una lunga storia, una lunghissima storia che simbolicamente ieri la Chiesa ha
voluto dirci nella lettura della genealogia di Gesù: Dio ha voluto salvarci nella storia».
«La nostra salvezza, quella che Dio ha voluto per noi, non è una salvezza asettica, di
laboratorio», ma «storica». E Dio, ha affermato Francesco, «ha fatto un cammino nella
storia col suo popolo». Proprio la prima lettura - tratta dal profeta Geremia (23, 5-8) «dice una cosa bella sulle tappe di questa storia», ha fatto osservare il Papa rileggendo
le parole della Scrittura: «Verranno giorni nei quali non si dirà più “per la vita del
Signore che ha fatto uscire gli israeliti dalla terra di Egitto”; ma piuttosto “per la vita del
Signore che ha fatto uscire e ha ricondotto la discendenza della casa di Israele dalla
terra del settentrione e da tutte le regioni dove li aveva dispersi”». «Un altro passo,
un’altra tappa», ha spiegato Francesco. Così, «passo dopo passo, si fa la storia: Dio fa la
storia, anche noi facciamo la storia». E «quando noi sbagliamo, Dio corregge la storia e
ci porta avanti, avanti, sempre camminando con noi». Del resto, «se noi non abbiamo
chiaro questo, non capiremo mai il Natale, non capiremo mai e il mistero
dell’incarnazione del Verbo, mai». Perché «è tutta una storia che cammina» - ha
rimarcato il Pontefice - e che certo non è finita col Natale, perché «adesso, ancora, il
Signore ci salva nella storia e cammina col suo popolo». Ecco allora a cosa servono «i
sacramenti, la preghiera, la predicazione, il primo annuncio: per andare avanti con
questa storia». Servono a questo «anche i peccati, perché nella storia di Israele non
sono mancati»: nella stessa genealogia di Gesù «c’erano tanti grossi peccatori». Eppure
«Gesù va avanti. Dio va avanti, anche con i nostri peccati». Tuttavia in questa storia «ci
sono alcuni momenti brutti», ha fatto presente Francesco: «momenti brutti, momenti
bui, momenti scomodi, momenti che danno fastidio» proprio «per gli eletti, per quelle
persone che Dio sceglie per condurre la storia, per aiutare il suo popolo ad andare
avanti». Il Papa ha ricordato anzitutto «Abramo, novantenne, tranquillo, con sua moglie:
non aveva un figlio, ma una bella famiglia». Però «un giorno il Signore lo disturba» e gli
ordina di uscire dalla sua terra e di mettersi in cammino. Abramo «ha novant’anni» e per
lui quello è certo «un momento di disturbo». Ma così è stato anche per Mosè «dopo che
è fuggito dall’Egitto: si è sposato e suo suocero aveva quel gregge tanto grande e lui era
pastore di quel gregge». Aveva ottant’anni e «pensava ai suoi figli, all’eredità che
lasciava, a sua moglie». Ed ecco che il Signore gli comanda di tornare in Egitto per
liberare il suo popolo. Però «in quel momento per lui era più comodo lì, nella terra di
Madian. Ma il Signore scomoda» e a nulla vale la domanda di Mosè: «Ma chi sono io per
fare questo?». Dunque, ha affermato Francesco, «il Signore ci scomoda per far la storia,
ci fa andare tante volte su strade che noi non vogliamo». E ha quindi ricordato anche la
vicenda del profeta Elia: «Il Signore lo spinge a uccidere tutti i falsi profeti di Balaam e
poi, quando la regina lo minaccia, ha paura di una donna»; ma «quell’uomo che aveva
ucciso quattrocento profeti ha paura di una donna e vorrebbe morire per la paura, non
vuole più continuare ad andare». Per lui era davvero «un momento brutto». Nel passo
evangelico di Matteo, ha proseguito il Pontefice, «oggi abbiamo letto un altro momento
brutto nella storia di salvezza: ce ne sono tanti, ma veniamo a quello di oggi». Il
personaggio centrale è «Giuseppe, fidanzato: voleva tanto la sua promessa sposa, e lei
se n’era andata dalla cugina ad aiutarla, e quando torna si vedevano i primi segni della
maternità». Giuseppe «soffre, vede le donne del villaggio che chiacchieravano nel
mercato». E soffrendo dice a se stesso di Maria: «Questa donna è buona, io la conosco!
È una donna di Dio. Ma cosa mi ha fatto? Non è possibile! Ma io devo accusarla e lei
verrà lapidata. Ne diranno di tutti i colori di lei. Ma io non posso mettere questo peso su
di lei, su qualcosa che non capisco, perché lei è incapace di infedeltà». Giuseppe decide
allora di «prendere il problema sulle proprie spalle e andarsene». E «così le
“chiacchierone” del mercato diranno: guarda, l’ha lasciata incinta e poi se ne è andato
per non prendersi la responsabilità!». Invece Giuseppe «preferì apparire come
peccatore, come un cattivo uomo, per non fare ombra alla sua fidanzata, alla quale
voleva tanto bene», anche se «non capiva». Abramo, Mosè, Elia, Giuseppe: nei loro
«momenti brutti - ha rimarcato Francesco - gli eletti, questi eletti di Dio, per fare la
storia devono prendere il problema sulle spalle, senza capire». Ed è tornato sulla
vicenda di Mosè, «quando, sulla spiaggia, ha visto venire l’esercito del faraone: di là
l’esercito, di qua il mare». Si sarà detto: «Che cosa faccio? Tu mi hai ingannato,
Signore!». Però poi prende il problema su di sé e dice: «O vado indietro e faccio il
negoziato o lotto ma sarò sconfitto, o mi suicido o confido nel Signore». Davanti a
queste alternative Mosè «sceglie l’ultima» e, attraverso di lui, «il Signore fa la storia».
Questi «sono momenti proprio così, come il collo di un imbuto», ha sottolineato il
Pontefice. Quindi il Papa ha riproposto la storia di un altro Giuseppe, «il figlio di
Giacobbe: per gelosia i suoi fratelli volevano ucciderlo, poi lo hanno venduto, diventa
schiavo». Ripercorrendo la sua storia, ha messo in risalto la sofferenza di Giuseppe, che
ha anche «quel problema con la moglie dell’amministratore, ma non accusa la donna. È
un uomo nobile: perché distruggerebbe il povero amministratore se sapesse che la
donna non è fedele!». Allora «chiude la bocca, prende sulle spalle il problema e va in
carcere». Ma «il Signore va a liberarlo». Tornando al Vangelo della liturgia, il Pontefice
ha evidenziato nuovamente che «Giuseppe nel momento più brutto della sua vita, nel
momento più oscuro, prende su di sé il problema». Fino ad accusare «se stesso agli
occhi degli altri per coprire la sua sposa». E «forse - ha notato - qualche psicanalista dirà
che» questo atteggiamento è «il condensato dell’angoscia», alla ricerca di «una uscita».
Ma, ha aggiunto, «dicano quello che vogliono!». In realtà Giuseppe alla fine ha preso con
sé la sua sposa dicendo: «Non capisco niente, ma il Signore mi ha detto questo e questo
apparirà come mio figlio!». Perciò «per Dio fare storia con il suo popolo significa
camminare e mettere alla prova i suoi eletti». Difatti «generalmente i suoi eletti hanno
passato momenti bui, dolorosi, brutti, come questi che abbiamo visto»; ma «alla fine
viene il Signore». Il Vangelo, ha ricordato il Papa, ci racconta che egli «invia l’angelo». E
«questo è - non diciamo la fine, perché la storia continua - proprio il momento previo:
prima della nascita di Gesù una storia; e poi viene l’altra storia». Proprio in
considerazione di queste riflessioni, Francesco ha raccomandato: «Ricordiamo sempre di
dire, con fiducia, anche nei momenti più brutti, anche nei momenti della malattia,
quando noi ci accorgeremo che dobbiamo chiedere l’estrema unzione perché non c’è
uscita: “Signore, la storia non è incominciata con me né finirà con me. Tu vai avanti, io
sono disposto». E così ci si mette «nelle mani del Signore». È questo l’atteggiamento di
Abramo, Mosè, Elia, Giuseppe e anche di tanti altri eletti del popolo di Dio: «Dio
cammina con noi, Dio fa storia, Dio ci mette alla prova, Dio ci salva nei momenti più
brutti, perché è nostro Padre». Anzi, «secondo Paolo è il nostro papà». Francesco ha
concluso con la preghiera «che il Signore ci faccia capire questo mistero del suo
camminare col suo popolo nella storia, del suo mettere alla prova i suoi eletti e la
grandezza di cuore dei suoi eletti che prendono su di loro i dolori, i problemi, anche
l’apparenza di peccatori - pensiamo a Gesù - per portare avanti la storia».
Pag 7 Con Gesù tutto è possibile
Ai ragazzi di Azione cattolica per gli auguri natalizi
«Stando uniti a Gesù tutto è possibile»: lo ha detto Papa Francesco ai ragazzi dell’Azione
cattolica ricevuti giovedì mattina, 18 dicembre, nella Sala del Concistoro in occasione del
tradizionale incontro per gli auguri natalizi. Ecco il discorso del Pontefice.
Cari ragazzi dell’A.C.R. (A-ci-erre), benvenuti! Sono contento di incontrarvi. È un
appuntamento per lo scambio degli auguri di Natale. Vi ringrazio per gli auguri che mi
avete rivolto a nome di tutta l’Azione Cattolica Italiana, qui rappresentata dai
responsabili che vi hanno accompagnato. Ma sono rimasti zitti e hanno lasciato parlare
voi. Questo è molto buono, complimenti! Li ricambio di cuore a tutti voi, ai vostri cari e
all’intera Associazione. Ho sentito che quest’anno vi state impegnando su un tema che
ha come slogan “Tutto da scoprire”. È un bel cammino, che richiede il coraggio e la
fatica della ricerca, per poi gioire quando si è scoperto il progetto che Gesù ha su
ciascuno di voi. Prendendo spunto da questo slogan, specialmente dalla parola “tutto”,
vorrei darvi alcuni suggerimenti per camminare bene nell’Azione Cattolica, in famiglia e
nella comunità. Primo. Non arrendersi mai, perché quello che Gesù ha pensato per il
vostro cammino è tutto da costruire insieme: insieme ai vostri genitori, ai fratelli, agli
amici, ai compagni di scuola, di catechismo, di oratorio, di A.C.R. Secondo. Interessarsi
alle necessità dei più poveri, dei più sofferenti e dei più soli, perché chi ha scelto di voler
bene a Gesù non può non amare il prossimo. E così il vostro cammino nell’A.C.R.
diventerà tutto amore. Mi è piaciuto tanto quello della pompa dell’acqua. È bello, è un
bel progetto. Terzo. Amare la Chiesa, volere bene ai sacerdoti, mettersi al servizio della
comunità - perché la Chiesa non è soltanto i sacerdoti, i vescovi..., ma è tutta la
comunità -, mettersi al servizio della comunità. Donare tempo, energie, qualità e
capacità personali alle vostre parrocchie, e così testimoniare che la ricchezza di ognuno
è un dono di Dio tutto da condividere. È importante! Quel “tutto”: tutto da scoprire,
tutto da condividere, tutto da costruire insieme, tutto amore... Quarto. Essere apostoli di
pace e di serenità, a partire dalle vostre famiglie; ricordare ai vostri genitori, ai fratelli,
ai coetanei che è bello volersi bene, e che le incomprensioni si possono superare, perché
stando uniti a Gesù tutto è possibile. Questo è importante: tutto è possibile. Ma questa
parola non è un’invenzione nuova: questa parola l’ha detta Gesù, quando scendeva dal
monte della Trasfigurazione. A quel papà che chiedeva di guarirgli il figlio, Gesù cosa ha
detto? «Tutto è possibile a coloro che hanno fede». Con la fede in Gesù si può tutto,
tutto è possibile. Quinto. Parlare con Gesù. La preghiera: parlare con Gesù, l’amico più
grande che non abbandona mai, confidare a Lui le vostre gioie e i vostri dispiaceri.
Correre da Lui ogni volta che sbagliate e fate qualcosa di male, nella certezza che Lui vi
perdona. E parlare a tutti di Gesù, del suo amore, della sua misericordia, della sua
tenerezza, perché l’amicizia con Gesù, che ha dato la vita per noi, è un evento tutto da
raccontare. Tutti questi “tutto” sono importanti. Che ne dite? Ve la sentite di provare a
mettere in pratica questa proposta con il “tutto”? Io penso che voi già vivete parecchie
di queste cose. Adesso, con la grazia del suo Natale, Gesù vuole aiutarvi a fare un passo
ancora più deciso, più convinto, e più gioioso per diventare suoi discepoli. Basta una
piccola parola: “Eccomi”. Ce la insegna la nostra Madre, la Madonna, che ha risposto così
alla chiamata del Signore: “Eccomi”. Possiamo chiederlo insieme con un’Ave Maria. E
ricordate bene: tutto da scoprire, tutto da costruire insieme, tutto amore, tutto da
condividere, tutto è possibile, e la fede è un evento tutto da raccontare. Grazie della
vostra visita. Ricordatevi di pregare per me, per favore, ricordatevi di questo. Adesso di
cuore vi benedico. Vi benedica Dio Onnipotente, Padre, Figlio e Spirito Santo.
LA REPUBBLICA
Pag 27 Da casa del Papa a museo per tutti, Francesco trasforma Castel Gandolfo
di Paolo Rodari
Città del Vaticano. Jorge Mario Bergoglio da arcivescovo di Buenos Aires non usava
andare in villeggiatura. Eletto Papa, anche. Anzi, pochi mesi dopo l'elezione, ha fatto
sapere in Vaticano che avrebbe gradito che le Ville Pontificie di Castel Gandolfo
venissero adibite ad altri scopi. Quali? Anzitutto la condivisione. Rendere le Ville
accessibili a tutti, fedeli e turisti insieme. E con le Ville, parte del Palazzo Apostolico,
eccezion fatta naturalmente per l'appartamento pontificio nel quale, anche solo per brevi
periodi, il Papa se vuole può sempre alloggiare. Nel Palazzo, l'idea che inizierà a
prendere corpo già dalla settimana prossima (ma l' allestimento finirà in primavera) è
quella di creare una sorta di museo, ovvero una Galleria dei Ritratti dei Pontefici, che si
sono avvicendati al Soglio di Pietro dal 1500 ad oggi, con tanto di stemmi e didascalie a
spiegarne l'araldica. «Poiché in tutto il percorso dei Musei Vaticani solo raramente i
visitatori si imbattono nei ritratti dei Pontefici - spiega Sandro Barbagallo, curatore delle
Collezioni Storiche dei Musei - e in tali occasioni non c'è nessuna opportunità né di
poterne leggere il nome, né di conoscere quale ruolo più o meno importante abbiano
avuto nella Storia del Papato, abbiamo pensato di aiutarli a conoscere la loro "vera"
storia. L'apertura di questa Galleria sarà, infatti, un'occasione per far conoscere al
grande pubblico la vita, le gesta e le virtù di Papi santi, magnanimi e benigni, generosi
committenti e protettori di geni artistici, ma anche dalle rispettive insegne araldiche,
spesso coincidenti al nobile casato di appartenenza». Condividere ciò che si ha, financo il
proprio patrimonio - quello archeologico delle ville, palazzo a parte, parla di un'area di
circa 55 ettari di cui 30 tenuti a giardino e i restanti 25 destinati all'attività agricola - è
nel dna di Francesco. E, infatti, spiega il direttore delle ville Osvaldo Gianola, «qui si
tratta di una svolta che chiamerei proprio della condivisione. Aprire anche i giardini e il
palazzo che fino a ieri erano appartenuti alla sfera privata dei Papi, è un grande gesto di
condivisione. E anche, se posso dirlo, di spending review. Nelle ville lavorano 55 persone
con relative famiglie. Ci sono giardinieri, agronomi, operai, uscieri, esperti di arte
topiaria, contadini, coltivatori. Far arrivare ogni giorno dei turisti significa valorizzare al
massimo il loro lavoro e renderlo utile a tutti. E anche questa è stata una delle
preoccupazioni che ha spinto Francesco ad aprire: far sì che il lavoro di questa gente
acquisti un significato nuovo». Non solo, dunque, dal Palazzo Apostolico vaticano:
seppure l'appartamento resterà sempre a sua disposizione, è in qualche modo pure dal
palazzo di Castel Gandolfo che il Papa si tiene alla larga. Anche se, a onore del vero,
Francesco non è un'eccezione. Come spiega Barbagallo, coautore con monsignor Paolo
Nicolini del volume "Il Palazzo Apostolico e le Ville Pontificie di Castel Gandolfo", presto
in uscita per le Edizioni Musei Vaticani, «molti Papi non hanno abitato "a Castello",
ognuno per ragioni diverse, ma tutte condivisibili». Papa Braschi, ad esempio, «non
amava la campagna». E così sui colli non mise mai piede. Altri Pontefici, alcuni eletti sul
Colle Quirinale già anziani (l'ultimo conclave convocato sul Quirinale ebbe luogo nel
1846), furono impossibilitati a partire per la villeggiatura proprio a causa dell'età
avanzata. I medici pontifici, in sostanza, non lo permisero loro: sarebbero potuti morire
durante il viaggio. In qualche caso, invece, furono gli stessi medici a convincere i
Pontefici della salubrità delle Ville Pontificie: «Il 23 novembre del 1700 - racconta ancora
Barbagallo - venne eletto Clemente XI Albani, che nei primi nove anni di pontificato non
riuscì mai a lasciare Roma, angustiato per la guerra che imperversava in Europa per la
successione spagnola. Fu solo nel 1710 che il medico pontificio Giovanni Maria Lancisi
riuscì a convincere il Papa a trasferirsi a Castel Gandolfo, dove fece poi ritorno con
regolarità». Dopo Leone XII, Pio X e Benedetto XV furono costretti a restare in Vaticano
a causa delle contese con il Regno d'Italia. Quindi venne Papa Luciani che sui colli non
andò mai a motivo di un pontificato troppo breve. Non così altri Pontefici. Ratzinger ama
le Ville. Qui ha trascorso lunghi periodi del suo pontificato, compreso il mese successivo
alla rinuncia, dal 28 febbraio 2013. Amava il pomeriggio passeggiare col segretario
Georg Gänswein fra lecci, cipressi e la piccola siepe di mortella - le tre specie che negli
anni Trenta il direttore Emilio Bonomelli e l'architetto Giuseppe Momo impiantarono
creando il curatissimo giardino all' italiana ancora oggi perfettamente conservato - fino
al laghetto con i pesci rossi e le carpe nel «giardino della Madonnina» e qui dare un po'
di pane ai pesci. Il pane, poi, non lo riportava a casa, ma lo nascondeva in una nicchia
delle antiche mura della villa di Domiziano, in parte perfettamente intatte. Karol Wojtyla
trascorreva anch'egli lunghi periodi a palazzo, facendo anche un po' di sport nei giardini
e ricevendo, privatamente e non, capi di stato e amici.
IL GIORNALE
Quell'«agenda parallela» di papa Francesco di Fabio Marchese Ragona
Il lavoro sottotraccia del Pontefice che trova il tempo anche per telefonare a Benigni
«Todos somos Papa Francisco». Ci scherzano su alcuni giovani sacerdoti sudamericani
che passeggiano vicino a Piazza San Pietro all'indomani dello storico discorso di Barack
Obama sulla riapertura delle relazioni diplomatiche con Cuba. Quel «Todos somos
americanos», pronunciato al termine del discorso dal presidente degli Stati Uniti, si è già
trasformato in un inno a Papa Francesco, l'uomo che con lettere e telefonate ha reso
possibile il disgelo tra i due Paesi. «Oggi siamo tutti contenti perché abbiamo visto come
due popoli, che si erano allontanati da tanti anni, ieri hanno fatto un passo di
avvicinamento» ha detto Papa Francesco parlando della vicenda cubana a un gruppo di
tredici ambasciatori presso la Santa Sede ricevuti nel Palazzo Apostolico. «Nonostante i
mille impegni in agenda, il Papa ci ha messo davvero il cuore», fanno sapere dalle sacre
stanze: dopo gli incontri segretissimi in Vaticano, ad ottobre, con le delegazioni cubane e
statunitensi e dopo le telefonate e le lettere a Raùl Castro e a Obama, Francesco è
riuscito a chiudere il cerchio, trovando una soluzione condivisa dopo decenni di fine
lavoro diplomatico e viaggi apostolici compiuto dai suoi predecessori (da Giovanni Paolo
II a Benedetto XVI). Tutto era cominciato sotto il pontificato di Papa Roncalli, pontefice
santo che si era impegnato in prima persona appena esplosa la crisi cubana; 55 lunghi
anni di silenzio per arrivare alla svolta, annunciata nel giorno del settantottesimo
compleanno dell'uomo «venuto dalla fine del mondo» che ha fatto crollare
quest'ennesimo muro. «Oggi Papa Giovanni sarebbe felice, ma siamo tutti molto felici»,
confida al Giornale il Card. Loris Capovilla, 99 anni, già segretario particolare di Giovanni
XXIII. «Io mi rallegro per questo passo in avanti che porta all'unione dei cuori. È
importante che ci sia sempre dialogo, sempre armonia tra i popoli per il bene
dell'umanità intera». Il porporato ricorda ancora vividamente quei primissimi giorni della
crisi tra Stati Uniti e Cuba e la conseguente interruzione dei rapporti diplomatici tra i due
Paesi: «Non potrò mai dimenticare il dolore e il disappunto di Papa Giovanni per la fuga
del clero locale dopo la salita al potere di Castro. Quella sera il Papa era furioso e
continuava a ripetere: "I rapporti diplomatici non s'interrompono mai"». A distanza di
mezzo secolo un altro Papa, questa volta latinoamericano, è riuscito a far riaprire la
porta del dialogo tra i due Paesi, impegnandosi in prima persona tra un impegno
pastorale e l'altro. È infatti fittissima l'agenda di Francesco, una tabella di marcia molto
rigida che incrocia gli impegni da capo di Stato con quelli da parroco della porta accanto
e da padre spirituale. È l'agenda «trasversale» di papa Francesco, il Pontefice che ogni
giorno trova il tempo per lasciare messaggi in segreteria telefonica, regalare i sacchi a
pelo ai senzatetto, che incontra gli ammalati, che riceve ospiti di tutti i tipi alla Domus
Santa Marta (dai vecchi amici ai capi di Stato), che telefona a sorpresa, ad esempio, alla
nonnina centenaria perché gli ha regalato una sciarpa o che chiama persino Roberto
Benigni dopo il suo show televisivo dedicato ai Dieci Comandamenti. Una telefonata
personale di un'ora e un quarto quella del Pontefice all'attore toscano, fanno sapere fonti
vaticane. Una lunga chiamata (fatta martedì mattina) durante la quale Papa Bergoglio
avrebbe confidato a Benigni di aver seguito una volta dal vivo un suo spettacolo a
Buenos Aires: l'allora arcivescovo aveva comprato un biglietto per lo show ed era
rimasto colpito dalla sua bravura.
IL GAZZETTINO
Pag 11 Debiti e operazioni finanziarie sospette. I francescani sull’orlo della
bancarotta
Lettera choc del ministro generale. Troppi debiti e ammanchi, la situazione denunciata
alla magistratura
Città del Vaticano - «La Curia generale si trova in una situazione di grave, sottolineo
"grave", difficoltà finanziaria, con un cospicuo ammontare di debiti». È quanto scrive in
una lettera choc pubblicata sul sito ufficiale dei Frati minori, il loro ministro generale,
padre Micheal Perry portando alla luce quanto emerso da un'indagine interna avviata a
settembre, sulle attività finanziarie operate dall'ufficio dell'economato degli stessi
francescani. Dall'indagine, spiega Perry, è emerso anche che «i sistemi di vigilanza e di
controllo finanziario della gestione del patrimonio dell'Ordine erano o troppo deboli
oppure compromessi, con l'inevitabile conseguenza della loro mancanza di efficacia
rispetto alla salvaguardia di una gestione responsabile e trasparente». Inoltre,
«sembrano esserci state un certo numero di dubbie operazioni finanziarie, condotte da
frati cui era stata affidata la cura del patrimonio dell'Ordine, senza la piena conoscenza e
il consenso né del precedente né dell'attuale Definitorio generale». Secondo il superiore
generale dei francescani «la portata e la rilevanza di queste operazioni hanno messo in
grave pericolo la stabilità finanziaria della Curia generale». «Queste dubbie operazioni spiega ancora frate Perry - vedono coinvolte persone che non sono francescane, ma che
sembra abbiano avuto un ruolo centrale nella vicenda». «Per questi motivi - annuncia - il
Definitorio generale all'unanimità ha deciso di chiedere l'intervento delle autorità civili,
affinché esse possano far luce in questa faccenda». È stato chiesto a «tutti i Ministri
provinciali e Custodi la loro comprensione e un contributo finanziario per aiutarci a far
fronte all'attuale situazione, che implica anche il pagamento di cospicue somme di
interessi passivi». L'ordine si è affidato a un team di avvocati per «riprendere il controllo
sulle attività economico-finanziarie della Curia generale». L’Economo generale si è
dimesso.
WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT
La grande truffa ai Francescani. La curia dei Frati di Assisi sull’orlo del crac di
Giacomo Galeazzi
Il ministro Perry: dubbie operazioni finanziarie, siamo pieni di debiti
Francescani sull'orlo della bancarotta. Tre mesi di indagine e ora l'allarme per un «buco»
di svariati milioni di euro. Lo scandalo, secondo Panorama, è scoppiato nel mese di
ottobre e anche il Papa lo è venuto a sapere: la procura svizzera avrebbe sequestrato
alcuni depositi della Congregazione dei Frati minori francescani, per decine di milioni di
euro, perché investiti in società finite sotto inchiesta per traffici illeciti. Gli investimenti
risalgono al periodo in cui era superiore dei frati minori José Rodriguez Carballo, oggi
segretario della Congregazione per i religiosi. Adesso, dunque, l'ordine fondato dal
«Poverello» di Assisi si ritrova sommerso dai debiti. Ad alimentare il passivo sarebbe
stato anche l'hotel Il Cantico, ristrutturato recentemente a via Gregorio VII a Roma e
utilizzato anche dalla Cei per la tradizionale cena con i giornalisti durante l'assemblea
generale. La gestione del Cantico è affidata proprio all’ex-economo generale, padre
Giancarlo Lati, sostituito da padre Silvio De La Fuente, ufficialmente per motivi di salute.
È una «grave situazione di difficoltà finanziaria» quella che, in una lettera a tutti i frati,
documenta il ministro generale, padre Michael Perry. Nel mirino le operazioni «dubbie»
condotte proprio dall'economato. Sotto accusa «il ruolo significativo che alcune persone
esterne, che non sono membri dell'Ordine, hanno avuto nella faccenda». Imminente il
ricorso alla magistratura, nel sospetto di una maxi-truffa. È emerso che «i sistemi di
vigilanza e di controllo finanziario della gestione del patrimonio dell'ordine erano o
troppo deboli oppure compromessi, con l'inevitabile conseguenza della loro mancanza di
efficacia rispetto alla salvaguardia di una gestione responsabile e trasparente». Inoltre
«sembrano esserci state un certo numero di dubbie operazioni finanziarie, condotte da
frati cui era stata affidata la cura del patrimonio». Quindi «la portata e la rilevanza di
queste operazioni hanno messo in grave pericolo la stabilità finanziaria della Curia
generale». Perciò a essere coinvolte sono «persone che non sono francescane ma che
sembra abbiano avuto un ruolo centrale nella vicenda». È stato chiesto l'intervento delle
autorità civili, affinché «possano far luce». E le «autorità ecclesiastiche competenti»
sono state informate. A tutti i ministri provinciali e ai custodi è stato chiesto «un
contributo finanziario per aiutarci a far fronte all'attuale situazione, che implica anche il
pagamento di cospicue somme di interessi passivi». L'Ordine si è affidato a un «team di
avvocati altamente qualificati» e ha avviato una serie di iniziative per riprendere il
controllo sella situazione. Dopo la sostituzione dell'economo, è stato chiamato da
Salerno per affrontare l'emergenza padre Pasquale Del Pezzo, esperto in questioni
economiche e amministrative. È lui il delegato speciale per gli affari economici della
Curia generale. Perry dichiara di comprendere la «delusione» di molti tra i confratelli e
segnala come incoraggiamento l'esempio offerto da «papa Francesco nel suo appello alla
verità e alla trasparenza nelle attività finanziarie sia nella Chiesa che nelle società
umane». Negli istituti dell'Ordine si mostra sorpresa. «Devo approfondire le questioni
contenute nelle lettera», commenta padre Rosario Gugliotta, custode della Porziuncola e
della basilica di Santa Maria degli Angeli in Assisi. Il predecessore di Perry alla guida dei
Frati minori, José Rodriguez Carballo, ora in Vaticano come segretario della Dicastero dei
religiosi, è il firmatario con il cardinale Joao Braz de Aviz, delle nuove «Linee
orientative» per l'amministrazione dei beni degli ordini religiosi, contro le «finanze
allegre».
«Un lavoro di piccoli passi», la diplomazia di Francesco di Andrea Tornielli
La «nobile» attività di chi crede nel dialogo e nel negoziato
In un'epoca in cui per molti, a vari livelli, le parole «dialogo» e «diplomazia» sono
l'equivalente di buonismo e inconcludente arrendevolezza, quando non sono considerate
alla stregua di parolacce, il messaggio che giunge dalle Americhe con il disgelo tra gli
Usa e Cuba è significativo. Ricevendo le credenziali da tredici nuovi ambasciatori
accreditati presso la Santa Sede, Papa Francesco ha parlato della diplomazia come di un
«un lavoro di piccoli passi» che avvicina i popoli e semina fratellanza e pace. E parlando
a braccio ha detto: «Vi auguro un lavoro fruttuoso, un lavoro fecondo. Il lavoro
dell’ambasciatore è un lavoro di piccoli passi, di piccole cose, ma che finiscono sempre
per fare la pace, avvicinare i cuori dei popoli, seminare fratellanza fra i popoli. E questo
è il vostro lavoro, ma con piccole cose, piccoline. E oggi tutti siamo contenti, perché
abbiamo visto come due popoli, che si erano allontanati da tanti anni, ieri hanno fatto un
passo di avvicinamento. Ecco, questo è stato portato avanti da ambasciatori, dalla
diplomazia. È un lavoro nobile il vostro, tanto nobile». Il pubblico riconoscimento
tributato al Papa sia da Barack Obama come da Raúl Castro mentre annunciavano il
disgelo, ha provocato commenti molto diversi tra loro. C'è chi ha notevolmente
enfatizzato il ruolo di Francesco e chi si è invece spinto a scrivere che Bergoglio ha avuto
un ruolo minimo, perché quanto avvenuto mercoledì non altro non sarebbe che il
risultato di un percorso in atto da molto tempo. Senza cadere nel rischio di enfatizzare
troppo, o di troppo minimizzare, e cercando di seguire la filosofia dei «piccoli passi» a
cui ha accennato lo stesso Francesco e le parole misurate usate dal suo Segretario di
Stato Pietro Parolin ai microfoni di Radio Vaticana, si possono fare alcune osservazioni.
La prima riguarda l'innegabile ritorno al centro della scena internazionale della
diplomazia vaticana. Non un ritorno di protagonismo mediatico o effimero: se infatti è
vero che ieri la Segreteria di Stato ha confermato pubblicamente il ruolo giocato dalla
Santa Sede, è altrettanto vero che le trattative sono avvenute nel più stretto riserbo,
senza che filtrassero indiscrezioni. Si tratta piuttosto una ripresa di iniziativa. «Il tempo
è superiore allo spazio» recita una delle massime care a Papa Francesco, che sulla scia
dei predecessori rimane ancorato alla cultura del dialogo e dell'incontro. Una seconda
osservazione: è innegabile che a questa ripresa di iniziativa abbia contribuito l'approccio
del Papa venuto «dalla fine del mondo». Sia gli amici, sia i capi di Stato tradizionalmente
più «vicini» alla Santa Sede, sia quelli meno vicini o più lontani, riconoscono la credibilità
e la personale testimonianza del vescovo di Roma. Una terza osservazione riguarda il
ruolo discreto ma importante del Segretario di Stato Parolin, che da nunzio apostolico in
Venezuela ha conosciuto da vicino i problemi dell'area, nelle cui mani si trovano in
questo momento anche altri dossier delicati, come quello riguardante la Cina. E quelli,
tragicamente attuali, che riguardano il Medio Oriente. Per una singolare circostanza, oggi
ai vertici della Segreteria di Stato ci sono diplomatici che hanno avuto a che fare con
Cuba. Il Sostituto Angelo Becciu è stato nunzio nell'isola caraibica, mentre l'ex «ministro
degli Esteri» Dominique Mamberti, appena nominato Prefetto della Segnatura apostolica,
aveva comunque visitato Cuba durante il suo incarico. Il processo è stato certamente
favorito dai viaggi di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Ed è stato accompagnato
dall'episcopato cubano, in primis dal cardinale Ortega y Alamino, come pure
dall'episcopato statunitense. Il segnale di speranza arrivato con l'annuncio di Obama e
Castro - e ai due leader va ovviamente riconosciuto il merito principale di quanto
avvenuto - appare dunque anche il frutto di un percorso che ha visto impegnata la
Chiesa cattolica nel favorire il dialogo tra le parti, il dialogo nelle comunità, la fine di un
embargo il cui peso grava sulle spalle della popolazione. Certo, nel mondo teatro della
«terza guerra mondiale a pezzi», per citare ancora una volta Francesco, nel mondo dei
conflitti ammantati di religione e di fondamentalismo, sono ben altre le situazioni che
spaventano, per la loro portata tragica di orrori, e per l'impotenza a cui sembra
confinato ogni tentativo di soluzione negoziata. Il Papa e più in generale la Santa Sede
finiscono nel mirino dei fondamentalisti d'Oriente e d'Occidente, di chi crede fermamente
nelle guerre di religione, di chi auspica l'armagheddon tra gli occidentali «crociati» e
l'islam. La tessitura paziente, il «lavoro dei piccoli passi», il cercare di trovare vie
praticabili per rendere più stabile o meno instabile la situazione, appaiono come utopie.
La Santa Sede rimane talvolta isolata nel suo tenace riferimento multilaterale, nel suo
chiedere soluzioni condivise dalle Nazioni Unite, anche quando è necessario «fermare
l'ingiusto aggressore». «Serve più dialogo, non meno dialogo», ripetono Francesco e i
suoi collaboratori. Con la coscienza di essere una voce spesso flebile e certamente
inerme di fronte alle potenze e ai potenti. Una voce interessata soltanto a salvare vite
umane, promuovere la pace, alleviare le sofferenze dei civili. Una voce che non ha avuto
né ha da rivendicare meriti, né è preoccupata di piantare bandiere.
WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT
Il pendolo di Bergoglio, tra capitalismo e rivoluzione di Sandro Magister
Marxista, liberista, peronista. Gli hanno applicato le etichette più disparate. I
contrastanti giudizi dell'Acton Institute e degli "Amici di papa Francesco"
Un altro dei misteri di papa Francesco riguarda la sua visione dell'economia mondiale.
C'è chi l'ha collocato tra i marxisti impenitenti, dopo aver letto il documento
programmatico del suo pontificato, l'esortazione apostolica "Evangelii gaudium". E c'è
chi dallo stesso documento ha tratto la conclusione opposta, dipingendo un Jorge Mario
Bergoglio grande amico del libero mercato. Dalla prima delle due definizioni, quella di
comunista, il papa ha preso ripetutamente le distanze, fino a scherzarci sopra. Dalla
seconda, quella di filocapitalista, no. Ma non è per niente sicuro che essa corrisponda al
suo pensiero. A individuare in Francesco un paladino della libera economia non è stato
qualche isolato spirito bizzarro, ma l'Acton Institute, uno dei più autorevoli "think tank"
degli Stati Uniti, la cui idea maestra è che il capitalismo tanto più fiorisce quanto più la
società in cui opera è libera e religiosamente ispirata. Lo scorso 4 dicembre l'Acton
Institute ha assegnato il suo più alto riconoscimento annuale, il Novak Award 2014, a un
giovane e brillante economista finlandese, Oskari Juurikkala, il quale ha tenuto la sua
lezione di investitura proprio sul tema: "Un apprezzamento pro mercato di papa
Francesco". Il premio è stato assegnato a Roma, nella Pontificia Università della Santa
Croce, l'ateneo dell'Opus Dei, a pochi passi dal Vaticano. La tesi di Juurikkala è che il
messaggio di Bergoglio, con la sua enfasi sui poveri, non solo non è in contraddizione
con il libero mercato, ma porta ad esso dei benefici, perché aiuta a "purificarlo e
arricchirlo". Alla lezione di Juurikkala ha fatto da contrappeso, nello stesso evento, Carlo
Lottieri, filosofo del diritto e membro dell'Istituto Bruno Leoni, un "think tank" anch'esso
marcatamente liberista, presieduto fino al 2011 da Sergio Ricossa. Lottieri, che insegna
all'università di Siena e in Svizzera alla facoltà teologica di Lugano, continua a vedere in
Francesco non un amico ma un avversario delle libertà economiche, non da ultimo per
l'esperienza "peronista" da lui assimilata in Argentina, "mai veramente conclusa e
complessivamente disastrosa". Ma c'è dell'altro. Da un paio di mesi si è costituito a
Roma un "Cenacolo degli amici di papa Francesco" che vanta tra i suoi soci più assidui i
cardinali Walter Kasper e Francesco Coccopalmerio, il direttore de "La Civiltà Cattolica"
Antonio Spadaro e il segretario del pontificio consiglio della giustizia e della pace Mario
Toso. L'ultimo loro incontro, lo scorso 10 dicembre, l'hanno dedicato a quello che
ritengono il vero manifesto rivelatore della visione economica e politica del papa: non la
"Evangelii gaudium" ma il discorso da lui tenuto il 28 ottobre in Vaticano ai "movimenti
popolari", discorso da essi definito "storico" e "rivoluzionario". Ad ascoltare ed applaudire
papa Francesco, quel giorno, c'era un campionario dell'ultrasinistra mondiale, dagli
zapatisti del Chiapas al centro sociale Leoncavallo di Milano. Particolarmente numerosi i
sudamericani, tra i quali il presidente boliviano Evo Morales in qualità di leader
“cocalero”. E che cosa ha detto il papa? Che il rinnovamento del mondo appartiene a
loro, alle "periferie" che "odorano di popolo e di lotta", alla moltitudine degli esclusi e dei
ribelli, grazie a un processo di loro ascesa al potere che “trascende i procedimenti logici
della democrazia formale”. È stupefacente la similitudine tra questo discorso di papa
Francesco e le teorie sostenute dal filosofo della politica Toni Negri e dal suo discepolo
Michael Hardt in un libro del 2001 che ha fatto epoca ed è stato tradotto in più lingue:
“Impero”. Sia Francesco che Toni Negri individuano la sovranità mondiale vera in un
dominio transnazionale del denaro, che alimenta le guerre per ingrossare i propri
profitti, contro il quale solo la moltitudine dei "movimenti popolari" può portare a una
"riappropriazione della democrazia" non formale ma sostanziale. Anche a Strasburgo, nel
discorso che ha rivolto il 25 novembre al parlamento europeo, papa Francesco non ha
mancato di ergersi contro "i sistemi uniformanti di potere finanziario al servizio di imperi
sconosciuti". Poi però, pochi giorni dopo, ha ricevuto in Vaticano con tutti gli onori
Christine Lagarde, la numero uno di quel Fondo Monetario Internazionale che è proprio
l'emblema del deprecato impero. Il mistero è lontano dall'essere sciolto.
Torna al sommario
5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO
AVVENIRE
Pag 2 Piccolo elogio della nonnità di Ferdinando Camon
“Onora il nonno e la nonna”: Benigni dice ciò che si vive
Sostituire 'Onora il padre e la madre' con 'Onora il nonno e la nonna'? Roberto Benigni
l’ha fatto pensare a più d’uno con ciò che ha saputo dire nella presentazione televisiva
dei Comandamenti. Sostituire no, ha riflettuto lui stesso, perché padre e madre sono
insostituibili, ma integrare sì. Perché nonno e nonna sono figure onnipresenti nella vita
dei bambini, e hanno un ruolo sempre più importante nel campo educativo e affettivo.
'Andare a trovare i nonni' è un momento di felicità intensa per i piccoli, e per i nonni
riceverli in casa è gioia pura. Un grande studioso della Letteratura Italiana, forse il
miglior critico del Novecento, che attraverso i libri e gli autori vedeva la vita, i
sentimenti, i problemi personali e sociali, Geno Pampaloni, ha scritto in tarda età un
libriccino di memorie, in cui ha messo una definizione di vecchiaia che (cito a memoria, e
chiedo scusa se sbaglio qualcosa) suona così: «Si è vecchi quando per le scale i passi dei
figli e dei loro figli che ci vengono a trovare salgono troppo tardi, e scendono troppo
presto». È una frase densissima. Significa che i nonni si affacciano a tendere l’orecchio
sulle scale prima che i figli arrivino, e godono e si avvertono reciprocamente appena
sentono il primo scalpiccìo, e finita la radunata li accompagnano sulla porta e tendono
l’orecchio per sentire i passi allontanarsi, e richiudono la porta quando non si sente più
nulla: così la visita di figli e nipoti vien vissuta a partire da prima che cominci per
continuare anche dopo che è finita. Questo nel caso delle abitazioni separate, che
nell’epoca dei condomìni e degli appartamenti è il più frequente. Accade sempre più
spesso che i nonni facciano da supporto affettivo-educativo ai nipoti, li aiutino a fare i
compiti, li portino ai giardini, stiano con loro davanti alla tv, insomma spartiscano la vita.
La nonnità è una seconda paternità. Ritorno spesso su questo concetto, mi pare un test
del nostro tempo. Un test felice. La nonnità è la prima paternità che ritorna, riveduta e
corretta. Quand’erano padri e madri, i nonni hanno fatto degli errori: tutti, nessuno
escluso, tanto meno colui che scrive queste righe. Il ruolo di padre è di una difficoltà
estrema. Non significa parlare bene ai figli, cioè insegnargli il bene, insegnargli un
modello di vita con le parole. Ma insegnargli un modello di vita con la vita. Tutti
sbagliamo, perché non sappiamo. I nonni sanno, e sbagliano meno. Dice Freud che
l’amore paterno per i figli è inquinato da altri sentimenti, che non si possono portare
facilmente alla luce neanche con l’analisi, perché la coscienza li condanna e perciò li
nasconde. C’è anche gelosia, rivalità, bisogno d’imporre l’autorità, di ottenere
l’obbedienza. Vorrebbero migliorare i figli, farne dei capolavori. Realizzare attraverso i
figli le rivincite che la vita non gli ha dato. Per quanto sia difficile crederlo, i padri non
sentono questa ambiguità nel loro amore per i figli, ma i figli sì. Nei nonni queste
ambiguità svaniscono. Amano i nipotini per quel che sono e come sono. E i nipotini
sentono in loro questo amore totale, e lo ricambiano. Nei giorni di Natale, nelle grandi
rimpatriate dei clan, i gruppi più felici sono i figli e i nonni: i primi perché stanno con i
secondi, e viceversa. È il caso di dire (di comandare) al nipote 'onora il nonno e la
nonna'? Di fatto, lo fa già. Onorare vuol dire rispettare, obbedire, o almeno non
disubbidire, e stimare. Aver fiducia. Parlarne bene. Protestare se senti che qualcuno ne
parla male. Preoccuparti se senti che è malato. Piangere se senti che se n’è andato.
'Onora il padre e la madre' significa 'onora tuo padre e suo padre, tua madre e sua
madre'. È già così, nelle famiglie. Specialmente in questi giorni. Sono i giorni più felici
dell’anno.
Pag 13 Natale in tavola di Franco Cardini
Il banchetto famigliare del 25 dicembre è tutt’altro che un esempio di consumismo:
affonda anzi le sue radici nell’esigenza di “fare festa” staccandosi dall’ordinarietà
quotidiana
«Nun vedo l’ora che vène Natale / pe’ famme ’na magnata de torone; / pe’ famme na’
magnata de torone / pe’ famme ’na bevuta dar boccale ». È uno stornello dei bulli di
Trastevere del tempo della miseria, quello di Belli ma ancora di quello di Trilussa. Il
Natale come occasione di mangiare finalmente a sazietà qualcosa di buono, per una
bella bevuta in libertà. Alla quartina romanesca rispondeva, anni più tardi, una canzone
di Renato Carosone e Gegè di Giacomo dedicata, in pieni anni Cinquanta, a un’altra
miseria: quella della Napoli di un dopoguerra non ancor del tutto trascorso, la Napoli
ch’era ancora per tanti versi quella della Pelle di Malaparte: «Mo’ vène Natale / nun
tengo dinare: / me leggo o’ giornale / e me vad’a’ccuccà». Alla tristezza un po’ spaccona
del trasteverino costretto ad aspettar Natale per mangiare e per bere un po’ meglio del
solito rispondeva la disperazione allegra del miserabile napoletano che, senza un soldo,
nel giorno di festa poteva solo ingannare la fame andandosene a letto. In entrambe le
situazioni, la povertà e magari la fame si misurano con la coscienza del tempo festivo.
Questi due esempi potrebbero sembrare privi di qualunque aggancio con il carattere
spirituale della grande festa, ma non è così. Presupposto di entrambi è che per Natale
bisogna far festa, e che se ciò non è possibile tanto vale non vivere nemmeno un giorno
come quello, andarsene a dormire. In due occasioni, san Francesco d’Assisi associa a
sua volta il Natale alla necessità di far festa, e festa espressa anzitutto attraverso il cibo:
quando dice che, se gli capiterà d’incontrare l’imperatore, gli chiederà un editto che
ordini a tutti di spargere per Natale granaglie per strada in modo che gli uccelli dell’aria
possano aver di che mangiare quel giorno in abbondanza; e quando dichiara che sia
intenzione sarebbe, per Natale, di strofinare pezzi di carne sui muri affinché perfino
pietre e mattoni potessero godere di quell’abbondanza. Che la festa si celebri e si onori
anzitutto per mezzo di banchetti, conviti e simposi è una realtà comune si può dire a
qualunque civiltà tra le molte che il genere umano è stato capace nei millenni di
concepire; non meno comune è, d’altra parte, il rapporto tra penitenza, dolore, e
astensione dal cibo. La festa si onora con quella che gli antropologi definiscono l’“orgia”:
che non ha nulla del significato che volgarmente in italiano le si attribuisce, ma che
significa semplicemente occasione durante la quale il cibo e le bevande, di qualità e in
abbondanza, vengono consumati oltre il bisogno, talvolta fino alla totale distruzione delle
scorte. Il valore di ciò è essenzialmente rituale: si consuma oltre il bisogno in certe
occasioni con lo stesso atteggiamento devozionale con il quale ci si astiene da certi cibi o
da certe bevande oppure si digiuna totalmente in altre. Alla base di tale comportamento,
nelle società tradizionali, c’è la coscienza di una profonda differenza tra giorni “festivi” e
giorni “feriali”: la Modernità occidentale ha sistematicamente reagito ad essa
sostituendole la distinzione tra giorni “di riposo” e giorni “di lavoro”, quindi azzerando il
concetto sacrale e comunitario di festa per imporre al suo posto un diverso modello
antropologico fondato sulla primarietà dell’uomo come produttore di ricchezza. Da un
malinteso apprezzamento di tale realtà dipende la reazione di chi vorrebbe eliminare
quel che resta, magari al livello inconscio, di “senso della festa” nel Natale, appiattendo
tutto il desiderio e il bisogno di mangiare, bere e vivere convivialmente meglio sulla
misura del consumismo. Una sia pure graduale riconquista del senso del Sacro
dovrebbe, al contrario, proprio partire da un’accentuazione conferita di nuovo alla festa,
da un rinnovato e più profondo senso della sacralità che ai giorni festivi è propria e
quindi da una distinzione profonda, anche esistenziale, rispetto alle consuetudine dei
giorni feriali. Non è di domenica, o a Natale, che si dovrebbe mangiare “come tutti i
giorni” per reagire al consumismo; è, al contrario, giorno per giorno che sarebbe
opportuno limitare qualitativamente e quantitativamente i consumi per sottolineare quel
che il cristianesimo, religione del pane e del vino, fondamentalmente ripete, cioè che
anche il cibo e il vino sono di per sé suscettibili di essere investiti di sacralità. Da qui gli
usi natalizi incentrati non solo sul consumo, ma anche sulla preparazione comunitaria
della tavola e del cibo della festa. L’Avvento serve anche a questo: nella società
tradizionale europea era il tempo nel quale si uccideva il porco e se ne destinava gran
parte al consumo differito per mezzo di vari sistemi di conservazione; immediatamente
prima, nelle ultime settimane del tempo liturgico ordinario (“per san Martino”), si
procedeva alla svinatura; quindi ci si dava alle preparazioni che richiedevano un certo
tempo, come la preparazione di conserve, marmellate e confetture. Alla festa, non si
arrivava senza la Vigilia: almeno ventiquattr’ore di digiuno e/o d’astinenza. Sulla tavola
della Vigilia, necessariamente – e ritualmente: l’economia non c’entra – povera e
spoglia, comparivano cibi frugali e non carnei: minestre o zuppe a base di cereali, di
verdura (le cime di rapa stufate con i panzerotti della cucina pugliese) o di frutti poveri
(la minestra di castagne secche bollite diffusa in tutto l’arco alpino e appenninico con
molte variabili: talora in semplice acqua priva di sale cui si aggiungeva devozionalmente
un cucchiaino di cenere); o naturalmente il pesce, guardato peraltro con qualche
sospetto in quanto si trattava di un cibo spesso ricercato e costoso. Il principe della
tavola natalizia della Vigilia, che in qualche regione specie del Sud arriva fino al pranzo
stesso di Natale, è il capitone: la grossa anguilla, consumata in ricordo della lotta e della
vittoria contro «l’Antico Serpente», e quindi immolata nella notte nella quale Gesù,
nascendo, ha ucciso il Male; ma anche ricordo forse di un’antica tradizione cristiana
orientale, quella della celebrazione del Natale coincidente con l’Epifania, il 6 gennaio,
antica festività di Iside signora delle acque cui i pesci erano graditi. Se la Vigilia è giorno
di magro, nel Natale invece il grasso trionfa: ed è sovente – non necessariamente –
grasso della carne di porco o di grossi bipedi da cortile, come il cappone (meno comune
l’oca, che arrostita e ripiena di carne di maiale e di frutta trionfa oltralpe), ma comunque
associato di solito, tra noi, alla cottura nell’acqua, la bollitura. Il Natale è la festa del
bollito come la Pasqua è quella dell’arrosto: i due tipi di cottura rinviano a due tipi
diversi di socialità, quella contadina del focolare su cui si dispongono i recipienti per la
cottura indiretta e quella pastorale del forno o dello spiedo o della griglia “sacrificatori”,
per la cottura diretta. Per devozione al Bambino, che come tutti i bambini del mondo ha
bisogno di cibi teneri e più facili da digerirsi, il Natale è la festa della pasta ripiena
servita in minestra (i vari tortellini, ravioli, cappelletti in brodo). I dolci sono un altro
elemento tipico della mensa natalizia: e debbono richiamare il pane quotidiano arricchito
di zucchero, canditi, frutta secca. È un pane speciale, la buccella dei romani (a Lucca si
fa ancora il buccellato: ciambella di pane soffice e dolce condito con uvetta e semi di
anice). I vari christstollen tedeschi, il panettone milanese, il pandolce genovese, i “pani
dei pescatori” veneziani sono pani di farina di grano variamente arricchiti; e al pane si
richiamano anche i dolci nei quali si fa ampio uso anche di conserva di frutta secca o,
adesso di cioccolato, come il panforte senese e volterrano e il panpepato ferrarese
(originariamente, entrambi dovrebbero contenere anche semi di pepe nel loro impasto).
Talora ai pani si sostituiscono biscotti o ciambelle (come le cartellate pugliesi, frittelle al
mosto cotto o al miele). Il torrone cremonese è a sua volta un pane speciale, nel quale
alla farina si sostituisce integralmente lo zucchero condito miele, albume d’uovo, frutta
secca. Ma il Natale, che nella tradizione latina si è andato costruendo per acculturazione
attorno alla festa pagane del solstizio d’inverno (divenuta festa della regalità sacra
dell’imperatore) e alle libertates decembris, è in realtà una “festa lunga”. La tradizione
cristiana delle “Tredici Notti” (quella rammentata da Shakespeare in La notte
dell’Epifania) attribuisce un significato speciale a ciascuno dei dodici giorni tra Natale ed
Epifania. Il cenone di Capodanno è una specie di secondo cenone di Natale in cui però
trionfa il maiale bollito (zamponi, cotechini, ecc.) accompagnato da legumi o seguito da
frutta che debbono ricordare in qualche modo la forma del denaro (quello metallico,
naturalmente), come auspicio di prosperità per l’anno nuovo: quindi lenticchie o chicchi
d’uva. Una volta, per ricordarsi che anche il cibo è preghiera, i Pater, le Ave e le poste
del rosario servivano ottimamente come timer: mia nonna non usava mai l’orologio per
cuocere i tortellini natalizi nel brodo, ma sapeva perfettamente quante Ave Maria erano
necessarie per cuocere a puntino i vari tipi di pasta. Di recente, nell’Atlante marocchino,
ho visto fare lo stesso: recitare alcune sure del Corano (che sono 114, di differente
lunghezza) a seconda del punto di cottura della semola del cuscus che si voleva
ottenere. «Tu usi le preghiere come scusa per far bollire le pentole», rimproveravo mia
nonna. «Nemmeno per idea – mi rispondeva lei –: faccio bollire le pentole come scusa
per pregare». Perché – commenterebbe un musulmano – se Dio non volesse, nemmeno
le pentole bollirebbero. Il che è una bella variabile del nostro panem nostrum
cotisdianum da nobis hodie.
CORRIERE DEL VENETO
Pag 1 Se i giovani fanno paura di Vittorio Filippi
E’ curioso il capovolgimento. Una volta, fino a qualche decennio fa, erano i ragazzi, i
giovani ad avere paura degli adulti. Eravamo una società autoritaria, maschilista,
gerarchica. Anche manesca. Il potere degli adulti – genitori ed insegnanti in primis – era
ampio ed indiscusso. Poi il meccanismo si ruppe, ci fu il ’68 e gli anni settanta, gli adulti
divennero i matusa e soprattutto si disse che non dovevano più essere autoritari, ma
autorevoli. Oggi, come si diceva, il mondo appare rovesciato. I giovani non temono più
gli adulti, non temono più i genitori, gli insegnanti, tutto ciò che definiamo l’autorità.
Anzi, sono gli adulti che cominciano ad essere intimoriti, perché gli adolescenti appaiono
sempre più ingovernabili ed imprevedibili. In taluni casi fanno perfino paura. Sono
decisamente insofferenti alle regole, in famiglia come a scuola. In un crescendo
inquietante, questi adolescenti adottano sempre più comportamenti che una volta si
sarebbero definiti teppistici. Lo fanno soprattutto negli spazi pubblici tra l’ambito
familiare e quello scolastico (o lavorativo). Mentre gli ultimi due sono – bene o male –
abbastanza presidiati da regole e sanzioni, quelli pubblici si profilano come spazi sociali
liquidi e senza regole. Sregolati appunto. I trasporti pubblici ne sono l’esempio perfetto.
Posti tra casa e scuola e viceversa, vengono vissuti come quotidiane aree di libertà, di
piccola trasgressione, anche di piccola violenza. Per di più sono pochissimo presidiati
dagli adulti: un solo controllore, un solo autista, un solo capotreno. Se poi questo adulto
«istituzionale» osa esercitare il suo ruolo richiamando il rispetto delle regole (pagare il
biglietto o l’abbonamento, adottare un certo comportamento a bordo) allora può
scattare una violenza tanto inaudita quanto imprevista. Come ci racconta oggi la cronaca
infittita di episodi del tutto simili. Questi giovani sono stati definiti fragili e spavaldi al
tempo stesso. Fragili fino a tentare il suicidio per un brutto voto o per una delusione
d’amore. Ma anche spavaldi fino al rifiuto dell’autorità e del castigo. Gli adulti hanno oggi
di fronte due strade. La prima è quella del controllo sempre più forte affidato alle
telecamere o alle forze di polizia. La seconda è quella educativa. La prima è utile, ma
fino ad un certo punto. La seconda serve se nel patto con i ragazzi ci stanno la fatica
dell’ascolto, l’abitudine al rispetto delle regole, la voglia autentica di educare, cioè di
«tirare fuori» ciò che di buono si nasconde dentro i nostri adolescenti. Anche di quelli
che oggi mostrano il volto inaccettabile della violenza.
Torna al sommario
7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA
CORRIERE DEL VENETO
Pagg 2 – 4 La mafia siciliana al Tronchetto di Alberto Zorzi, Alessio Antonini e Monica
Zicchiero
Dalle truffe all’impero dei granturismo: ascese e cadute del “cocco cinese”.
Acchiappaturisti e bancarelle, gli affari nel regno dell’omertà. La commissione antimafia
a Venezia: “Ci sono anche complicità politiche”
Venezia. La prima volta l’avevano arrestato il 17 aprile del 2013, con l’accusa di essere il
socio occulto della società Euro Coibenti, subappaltatrice di Fincantieri, in cui sarebbero
stati ripuliti i soldi sporchi delle cosche. Le manette erano poi scattate nuovamente il 23
giugno scorso, quando le fiamme gialle gli avevano notificato nella sua casa di via San
Pio X a Mestre un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per associazione mafiosa,
estorsione e riciclaggio, ancora una volta sulla base delle indagini della Direzione
distrettuale antimafia di Palermo, con la quale proprio nelle scorse settimane ha iniziato
una collaborazione da «pentito». Ora però nei guai sono finiti coloro che di Vito Galatolo,
41 anni, ritenuto il capo del mandamento dell’Acquasanta e figlio di uno degli storici
boss di Cosa Nostra (quel Vincenzo condannato all’ergastolo come esecutore materiale
dell’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa), sarebbero stati i «collaboratori»
nella sua permanenza veneziana. Ieri mattina all’alba i carabinieri del Ros di Padova
hanno infatti notificato 8 avvisi di garanzia ad altrettante persone indagate per concorso
esterno in associazione mafiosa ed eseguito una dozzina di perquisizioni. Nel mirino c’è
di nuovo il Tronchetto. L’isola nuova, costruita negli anni Sessanta come porta d’accesso
per Venezia, è diventata nei decenni una terra di nessuno, dove i taxi regolari non
attraccano mai, dove l’Actv fatica tuttora a imporsi contro le barche dei motoscafisti
abusivi, anche se le indagini di questi anni dei Ros hanno migliorato la situazione.
Proprio qui Galatolo aveva trovato lavoro poco dopo essere arrivato a Mestre, uscito nel
2012 da un decennio passato dietro le sbarre. Prima il lavoro con la società Canal
Grande nel 2012, poi il contratto con la Travel Venice, firmato il 2 aprile 2013, pochi
giorni prima dell’arresto nella vicenda Euro Coibenti. Società che fanno riferimento a una
vecchia conoscenza dei Ros, quell’Otello Novello detto il «cocco cinese», che con i suoi
granturismo spadroneggia da 30 anni al Tronchetto. Novello è il primo della lista degli
indagati, insieme ad altri sette dipendenti (o ex) delle società, quelli con cui Galatolo
aveva legami più stretti. Come Maurizio Greggio, genero di Novello, nella cui abitazione i
carabinieri hanno pure trovato oltre 37 mila euro in contanti, o come Donato Flauto,
comandante di uno dei 16 lancioni delle società, che aveva preso l’abitudine di passare a
prendere a casa Galatolo per portarlo al lavoro. L’amicizia tra le due famiglie era
divenuta stretta, tanto che è stata perquisita anche la figlia di Flauto. Ci sono poi due
siciliani di Palermo, amici stretti del boss, ovvero Salvatore Caponnetto (il cui zio,
Maurizio, aveva rapporti stretti e ora è in carcere per rapina: entrambi sono difesi
dall’avvocato Mauro Serpico, ex legale di Galatolo prima della collaborazione) e Pasquale
Fantaci, e infine Fabiano Bullo, Stefano Franzanchini e un’altra persona. Il capo
d’imputazione per ora è quello del 416 bis, nella forma del «concorso esterno in
associazione mafiosa facente capo a Vito Galatolo, già attivo in Palermo e recentemente
operante a Venezia-Mestre». La data indicata nel decreto di perquisizione va dal 2012 al
23 giugno 2014, cioè appunto al giorno dell’arresto. I Ros, guidati dal colonnello Paolo
Storoni, e il pm titolare dell’inchiesta, Giovanni Zorzi della Dda veneziana, sono partiti
proprio dall’arresto di Galatolo a giugno e da due domande molto semplici: perché il
boss era arrivato a Venezia? E perché Novello l’ha assunto? Per ora il «cocco cinese»,
attraverso il suo avvocato Massimiliano Cristofoli Prat, nega tutto: «Gli fu chiesto da un
conoscente comune di dare un lavoro a Galatolo e gli fece un piacere - dice il legale - lui
non sapeva nulla del suo passato e quando l’ha saputo ha ritenuto di non lasciarlo per
strada». Versione che però ha un punto debole ovvero che, quando Vito venne
arrestato, Novello ne assunse subito il figlio Vincenzo, 19enne. «E comunque - continua
l’avvocato Cristofoli Prat - Galatolo veniva regolarmente al lavoro la mattina presto,
faceva la manutenzione delle barche, controllava l’olio e le puliva. Poi accompagnava i
turisti a bordo». Sullo sfondo c’è anche un’altra ipotesi, per ora senza riscontri rilevanti,
ovvero che come avvenuto per i subappalti di Fincantieri, queste società potessero
essere una valvola di sfogo per gli incassi illeciti della cosca Galatolo. Nei prossimi giorni
gli inquirenti capiranno se dai materiali sequestrati possa emergere qualche altro
elemento interessante: oltre ai 37 mila euro di Greggio, sono stati sequestrati anche pc,
documenti vari, gioielli di cui gli indagati dovranno rendere conto. Ma a molti è stato
chiesto anche se detenessero armi ed esplosivi, e potrebbe non essere un caso visto che
Galatolo nelle sue dichiarazioni da pentito ha parlato anche dell’ordigno per l’attentato al
pm di Palermo Antonino Di Matteo. In realtà gli inquirenti smentiscono di aver ricevuto
alcun verbale dai colleghi palermitani, ma l’impressione è che siano andati a colpo sicuro
con le perquisizioni. Nella sede delle società si è presentato anche l’ispettorato del
lavoro, che però ha fatto solo delle contestazioni minori sulle norme di sicurezza.
Venezia. Una ricettazione quando aveva appena 18 anni, un’inchiesta per truffa con il
gioco d’azzardo risalente ormai a 30 anni fa. Poi Otello Novello, per tutti il «cocco
cinese» per quegli occhi un po’ allungati, si è buttato sul business dei granturismo e in
queste tre decadi ha messo in piedi un impero. Oggi nelle due società, la Canal Grande e
la Travel Venice, lavorano circa un’ottantina di persone, su un totale di 16 lancioni. Tra
di loro, appunto, anche Vito Galatolo e poi, una volta che il boss del mandamento
dell’Acquasanta venne arrestato lo scorso 23 giugno, pure il figlio Vincenzo. Ma non è di
oggi il collegamento del nome di Novello con la malavita organizzata. Per anni si disse
che era uno dei terminale della banda dei «mestrini» della mala del Brenta, tanto che lui
ha incaricato il suo avvocato di fare anche qualche querela. Poi però nel 2001 arrivò la
mazzata e anche allora furono i carabinieri del Ros a fare le indagini per conto del pm
Paola Tonini. Novello venne infatti arrestato con accuse pesanti: l’uso dei metodi mafiosi
per sgominare il campo da possibili rivali e anche una rapina. Si fece un anno e mezzo di
carcere prima del processo, al termine del quale fu condannato a un anno e 8 mesi con
però solo il riconoscimento della concorrenza illecita con violenza e minaccia. Anche
allora lo difendeva l’avvocato Massimiliano Cristofoli Prat. «In quell’occasione dissi anche
che forse qualche decennio prima il mio cliente aveva usato metodi un po’ forti, ma che
ora era un imprenditore a tutti gli effetti e oggi lo ribadisco». «Mafia? Ma quale mafia,
noi siamo imprenditori, lavoriamo nel turismo», diceva il «cocco cinese» in un’intervista
dell’epoca, quando era tornato in pista dopo la sentenza. «Noi le tasse le paghiamo continuava, ricordando che per ogni attracco venivano pagati 5 euro a Ca’ Farsetti tutto è registrato. Se fossimo abusivi perché lo Stato e il Comune accettano i nostri
soldi?». Dall’operazione «Tallero», quella del 2007 sui motoscafi abusivi, si era salvato,
perché all’epoca i Ros avevano messo nel mirino le barche più piccole. Ma questo non
significa che in questi anni i militari non l’avessero mai tenuto sotto controllo, per vedere
se rigava dritto. Ora questa storia di Galatolo pare riaprire la partita. «Qui nell’isola
problemi non ce ne sono - diceva ancora nell’intervista di 11 anni fa - Altrimenti ci
avrebbero mandato la polizia, non vi pare?».
Venezia. Gli ombrelli con il cielo azzurro e il profilo di piazza San Marco costano otto
euro, le felpe con la scritta Venezia (in bianco rosso e verde che fa molto bandiera
italiana e che piace ai turisti dell’Est Europa con i pantaloni della tuta in triacetato)
appena cinque euro e i cavatappi e i portachiavi con la gondola di plastica non più di due
euro. Prezzi bassi quelli delle bancarelle del Tronchetto, prezzi alla portata del turismo di
quantità. Quello di cui a Venezia nessuno vuole sentire parlare ma che fa girare pacchi e
pacchi di soldi. Perché i cinesi che salgono e scendono dai lancioni marchiati Travel
Venice e dai barconi registrati dalla Canal Grande, i polacchi che sbarcano dai pullman
targati Napoli, Roma o Viterbo e gli indiani che affollano le banchine per un tour della
serie tutta Italia tutto compreso spendono poco. Ma sono tanti. E alle bancarelle che
affollano il Tronchetto si fermano, guardano e comprano. Poco importa che gli ombrellini
siano visibilmente made in China e che alla bancarella ci siano dei bengalesi. Il
Tronchetto è Venezia. E a Venezia si compra. E le perquisizioni? «Go tacà a un boto, non
so». Figurarsi. Al Tronchetto ci deve essere un turno unico che inizia alle 13 perché
nessuno di quelli che ci lavorano dalle 14 in poi sa niente di niente. Nemmeno delle
guide che portano a spasso i polacchi, i cinesi, gli indiani e che danno l’impressione perché, sia chiaro, solo di impressione si tratta - che qui le cose non siano tanto regolari.
D’altra parte non è la prima volta che qualcuno avanza l’ipotesi che l’abusivismo
convenga a tanti. Dai tempi della Mala del Brenta il Tronchetto è sempre stato il posto
giusto per inventarsi i lavori. E le regole e le tasse sono sempre state le prime a saltare.
«Credo che non si sia mai voluto estirpare il fenomeno - scriveva un investigatore dei
Ros dieci anni fa - in fondo motoscafisti, intromettitori e tutti gli altri offrono un servizio
che altri non danno, insomma occupano spazi liberi. Fanno comodo alle agenzie di
viaggio che fanno prezzi stracciati, agli autisti dei bus e anche ai turisti». In fondo al
Tronchetto prima o poi ci passano tutti. Perfino l’orda degli unni padani che portavano in
laguna l’acqua del sacro fiume Po saliva ordinata e compatta sui lancioni della flotta di
Otello Novello, quel Cocco Cinese indagato, arrestato, rilasciato e poi di nuovo tornato di
fronte ai giudici per i suoi presunti legami con la famiglia Galatolo. Sulla lunga banchina
in cui oggi, dopo un giro in laguna, scendono i cinesi armati di Iphone 6 e macchine
fotografiche sono saliti e scesi per anni i tifosi del Venezia calcio, le squadre in trasferta
e tutti quelli che a Venezia ci vivono e lavorano. Non è un caso se poco distante ci sono
due ragazzi che scaricano da una monovolume un paio di elettrodomestici destinati a
una nuova cucina. «Il centro commerciale ci ha chiesto ottanta euro per il trasporto,
facciamo da noi», dicono trascinando un piccolo frigorifero dal molo a una patanea . A
loro modo, ma probabilmente non sanno di esserlo, sono abusivi anche loro. Non quanto
quelli che chiedono una mancia per portare i cinesi o gli indiani in quella o quell’altra
vetreria di Murano, in quello o quell’altro bed and breakfast, in quello o in quell’altro
ristorante. E nemmeno quanto quelli che vestiti di blu con tanto di berretto (che sembra
quello in dotazione ai vigili italiani) dirottano i turisti dall’imbarcadero dell’Actv ai taxi
senza nome. Che però non esistono. Perché qui al Tronchetto nessuno li ha visti e
nessuno sa nulla. Nemmeno i due operai stranieri che stanno scaricando un camion
pieno di terra e arbusti poco lontano dalle bancarelle dei bengalesi verso il molo dei ferry
che portano al lido le auto (e i tanko in piazza San Marco). Perfino i controllori delle Ztl
che sostano perennemente nelle Panda bianche del Comune non hanno visto mai nulla.
«No italiano», scuote la testa il bengalese che beve una Fanta accanto alla bancarella.
English? Français? Nemmeno quello. Il portachiavi a forma di gondola? «Due euro». Ma
se si vuole spendere meno c’è il gatto cinese che fa oscillare il braccio di plastica. «Con
un euro lo porti a casa». E l’italiano è perfetto.
Venezia. Ancora lui, ancora il Tronchetto. Non è passato nemmeno un mese dalla
sentenza-choc che ha praticamente «raso al suolo» l’indagine «Tallero», che ecco l’Isola
Nuova tornare nel mirino di un’inchiesta. Lo scorso 24 novembre la Corte d’appello di
Venezia aveva dichiarato non solo la prescrizione, ma anche assolto nel merito su alcune
imputazioni i motoscafisti abusivi accusati di aver spadroneggiato per anni sia al
Tronchetto che in piazzale Roma, con metodi mafiosi: minacce agli operatori, cartelli
Actv imbrattati per sviare i turisti, pontili altrui usati come propri. Tanto che il giorno
dopo, su questo giornale, Loris Trabujo, che secondo l’accusa era il «boss» di piazzale
Roma e che secondo la Corte non si è invece macchiato di alcun reato, aveva detto di
voler chiedere 5 milioni di euro di danni. «Eravamo dei semplici operatori che lavoravano
tranquillamente, spesso con tanto di licenze», aveva detto Trabujo, che poi aveva preso
le distanze dal Tronchetto: «Non avevamo nulla da spartire, molti nemmeno li
conoscevo». Parole che avevano fatto arrabbiare non poco gli inquirenti, pronti a
ricordare come agli atti del processo ci fossero ampie testimonianze dei rapporti tra
Trabujo e la banda dei mestrini, fatti da un lato di partecipazioni di massa al suo
matrimonio, dall’altro di rapporti di aiuto reciproco: come quando, subito dopo l’incendio
di una delle sue barche, Trabujo chiama immediatamente Roberto Paggiarin, detto
«Paja», storico leader del gruppo malavitoso legato alla banda di Felice Maniero. Ora
però la faccenda si fa anche più seria, perché Galatolo è un mafioso a cinque stelle. Dieci
anni di carcere, l’uscita nel 2012, poi un nuovo arresto nel 2013 e quello definitivo lo
scorso 23 giugno. Da allora, dopo una lunga meditazione che l’ha portato a lasciare gli
avvocati Rosanna Vella e Mauro Serpico (come sempre fa chi si «pente») è iniziata una
collaborazione con la procura di Palermo, che nelle ultime settimane ha portato a
eclatante operazioni di polizia giudiziaria. Come quella di tre giorni fa, quando 120
finanzieri del nucleo speciale di polizia valutaria e del comando provinciale di Palermo
hanno perquisito il bunker dei Galatolo all’Acquasanta, una delle circoscrizioni del
capoluogo siciliano. Cercavano il tritolo, perché pare che Vito Galatolo ne abbia parlato
agli inquirenti. Lui che secondo i magistrati faceva girare soldi e pizzini sulla tratta
Mestre-Palermo, perché era proprio dal luogo in cui viveva come «sorvegliato speciale»
che continuava a gestire il clan di famiglia. Ma ora, con il suo pentimento e le sue
rivelazioni scottanti, tutto torna in discussione.
Venezia. «Bisogna capire di quali complicità si nutre questo sistema, a cominciare da
quelle politiche». Quando l’indagine sul Tronchetto una ventina di giorni fa è finita con
una raffica di assoluzioni di fronte alla Corte d’appello (che aveva seguito l’indicazione
della Cassazione di considerare gli episodi di minacce e intimidazioni come isolati e non
come un piano unico), Gianfranco Bettin ha protestato. E si è preso la consueta dose di
minacce di morte. Ma il suo avvertimento non è caduto nel vuoto: a gennaio la
commissione parlamentare Antimafia e Claudio Fava arriveranno a Venezia per un
approfondimento sul Tronchetto. «Un segnale importante, la presenza della commissione
antimafia. Importante come la tenacia dei carabinieri del Ros e della Procura, che non se
la son messi via», sorride Bettin dopo gli avvisi di garanzia e le perquisizioni di ieri . Da
tempo denuncia che il Tronchetto è «terra di nessuno», luogo dove accadono cose
inimmaginabili di là dallo spin off in fondo a destra del ponte lagunare. «Questa indagine
importantissima non nasce oggi e andrà certamente oltre, con sviluppi importanti. Si
prefigura un salto di qualità: l’investimento di Cosa Nostra nel business del turismo che
è l’industria veneziana di ieri , di oggi e di domani». Se l’ipotesi investigativa è che dalle
intimidazioni e le minacce di casa nostra si è passati ai capitali e alle liason di Cosa
Nostra, sul Tronchetto ci sono complicità e silenzi da esplorare, dice Bettin. Politici?
«Anche. Tre settori chiave dell’economia cittadina si sono rivelati in mano a forme
affaristico criminali: la partita enorme della salvaguardia e quella altrettanto ingente
delle bonifiche a Porto Marghera, entrambe parte del sistema del Consorzio Venezia
Nuova - riepiloga -. Un sistema criminale di colletti bianchi. Poi c’è il turismo». Ma
mentre salvaguardia e Marghera sono sempre stati al centro del dibattuto pubblico, il
Tronchetto è sempre rimasto ai margini. «Qualcuno può aver avuto paura di parlare: il
settore ha una certa capacità di intimidazione e rappresaglia - spiega -. Un’altra parte
può essere coinvolta nel business e quindi ci guadagnava». Consulenze, studi: il
cosiddetto indotto. «Vito Galatolo lavorava al Tronchetto, forse si nascondeva a Mestre
per progettare l’attentato a Di Matteo, forse cercava sbocchi commerciali sul turismo.
Non è un segreto che una a parte della criminalità nostrana, che a suo tempo fu
condannata come mafia del Nord, unico caso in Italia, abbia reinvestito sul turismo conclude l’ex assessore all’Ambiente di Venezia -. Si tratta di capire se ci sia stato un
salto di qualità con Cosa Nostra. Esattamente come è avvenuto con la camorra, che si
occupa del business del turismo e dell’edilizia sul litorale del Veneto Orientale».
IL GAZZETTINO DI VENEZIA
Pag I Il fronte contro Venezia di Gianfranco Bettin
Il drammatico momento di Venezia, ben descritto sul Gazzettino di ieri da Tiziano
Graziottin, ha soprattutto due ragioni. La prima è la difficoltà, a volte l’incapacità,
dell’intera classe dirigente della città. La seconda è la difficoltà di rappresentarla e di
farla valere, perfino di descriverla, non solo qui ma anche laddove si prendono decisioni
chiave per il suo destino, ad esempio a Roma, in parlamento e al governo. Si veda la
vicenda, di stringente urgenza, del Patto di stabilità che il Comune rischia di violare.
Messi a posto i conti ordinari, con una dura spending review e malgrado i tagli dei
trasferimenti statali (meno 66% in quattro anni, contro una media nazionale di poco
oltre il 40!), oggi la principale minaccia viene da tale meccanismo complicato da
spiegare. Basti dire che si chiede al Comune di realizzare oggi obiettivi definiti sulla base
delle risorse che aveva 7 o 8 anni fa. Come se a una famiglia o a un’impresa si
chiedesse di rispettare con il reddito di oggi obiettivi definiti in base a quello, ben
maggiore, che aveva all’epoca. Se non ce la fai, non potendo né tagliare servizi (ma
dopo quattro anni di tagli, cosa ancora si può tagliare senza devastare welfare e lavoro?)
né vendere beni (il mercato lo sa, che hai l’acqua alla gola, e aspetta che ribassi sempre
più…), le sanzioni ti precipitano in una spirale dalla quale rischi di non uscire più. Tutti i
Comuni subiscono il Patto, ma solo Venezia se lo vede caricato di entrate aggiuntive che
nascono dalla sua “specialità” (Legge speciale e Casinò, a suo tempo pensati proprio per
fronteggiare i grandi costi necessari a sostenere Venezia, che però restituisce allo stato,
in termini di Pil, una ricchezza ben maggiore di quella che riceve). Beffardamente,
queste entrate di un tempo, oggi minimizzate, fanno lievitare gli obiettivi del Patto e
rendono impossibile rispettarlo. Ci sono anche altri problemi - la rigenerazione
socioeconomica e ambientale, la ripresa demografica, l’innovazione delle reti
tecnologiche, l’apertura di spazi e opportunità per le nuove generazioni, la sicurezza ma senza valicare l’ostacolo del Patto la città verrà ulteriormente impoverita, anche nelle
prospettive. Contro Venezia, peraltro, stanno lavorando in tanti, e proprio nel momento
in cui, come scrive il Gazzettino, al pari di altre istituzioni e enti del territorio, è “senza
testa”, politicamente parlando (istituzionalmente ce l’ha, ma il Commissario Zappalorto,
che pure sembra aver capito e preso a cuore la questione, ha limiti ovvii di movimento).
Si straparla di privilegi che la città avrebbe, di costi standard che non rispetterebbe, ma
non si tiene conto della sua complessità e unicità. Si carica la classe dirigente locale non
solo dei suoi limiti o errori, ma anche di cose che dipendono da altri livelli. Era inevitabile
sciogliere il Comune, a giugno. Ma non era inevitabile votare, infine, a maggio 2015, si
poteva votare lo scorso novembre. Non è inevitabile lasciare com’è il Patto di stabilità.
Lo schieramento che ieri ha risposto all’appello della Fondazione Pellicani, in modo
trasversale, può cambiare il quadro: ad esempio, anche con uno sciopero generale
cittadino o comunque con una corale e grande mobilitazione, come accadde in altri anni,
per una memorabile “vertenza Venezia” che fece della città una priorità nazionale. Può
costringere o convincere la politica, a ogni livello, a tornare a capire Venezia, a uscire da
speculazioni e opportunismi e a riprendersi democraticamente la città, restituendola a un
futuro degno della sua storia e delle attese della parte più consapevole dei suoi abitanti
e della sua stessa classe dirigente.
Pag VII Ici, Comune contro Comunità Ebraica di Alberto Francesconi
Contenzioso aperto dal 2011, la controparte eccepisce l’esenzione per gli edifici di culto.
Zappalorto autorizza il ricorso per il mancato pagamento relativo a oltre 90 immobili
Il Comune passa alle vie legali nei confronti della Comunità Ebraica veneziana. Di mezzo
non ci sono dispute religiose ma più prosaiche questioni tributarie, un po’ come avveniva
nel passato, quando gli ebrei veneziani erano tenuti a pagare un sostanzioso affitto
annuale, periodicamente aggiornato, per poter esercitare le loro attività nel Ghetto. E di
Ghetto di parla anche nella questione relativa a oltre 90 immobili che, per il Comune,
avrebbero dovuto pagare l’Ici, ma che per la Comunità veneziana, ne sarebbero esenti.
La vicenda risale al 2006 ed è stata contestata dal Comune cinque anni dopo, con
l’irrogazione di sanzioni per oltre 32mila euro per il mancato pagamento dell’Imposta
comunale sugli immobili, poi soppiantata dall’Imu. Nel frattempo la Comunità ebraica
aveva presentato ricorso contro le multe eccependo una serie di motivazioni, fra le quali
il fatto che alcuni fabbricati risultano destinati al culto e alle attività ad esso collegate.
Una materia analoga a quella che da tempo divide lo Stato al Vaticano per le proprietà
ecclesiastiche che non pagavano l’Ici in quanto luoghi di culto. Sta di fatto che, nel
maggio scorso, la Commissione tributaria provinciale ha parzialmente accolto il ricorso
relativamente a una serie di immobili destinati al culto. Una motivazione che al Comune
non è andata giù, tanto che il commissario straordinario Vittorio Zappalorto, in sede di
Giunta comunale, ha autorizzato il ricorso in Appello alla Commissione tributaria
regionale per il recupero delle sanzioni a suo tempo irrogate. A detta del Comune la
Comunità non ha «dimostrato in modo puntuale e circoscritto l’effettivo utilizzo di ogni
singolo fabbricato per attività meritevoli all’esenzione». Onere che, scrive Zappalorto,
spettava alla stessa Comunità. Per questo il commissario ha dato mandato alla Direzione
finanza e tributi del Comune di procedere con il ricorso. Oltre alle sanzioni del 2006,
peraltro, risulterebbero pendenti anche gli accertamenti relativi al 2007 e al 2008 per gli
stessi motivi. Dalla Comunità Ebraica per ora nessun commento ufficiale. Un esponente
del Consiglio, il commercialista Giuseppe Salvadori, si limita a osservare che «si tratta di
questioni poi risolte con il passaggio all’Imu», per le quali in ogni caso è stato dato
mandato a uno studio legale di seguire la questione.
Torna al sommario
… ed inoltre oggi segnaliamo…
CORRIERE DELLA SERA
Pag 1 Esito modesto di un semestre di Danilo Taino
Bilancio critico per l’Italia
L’ultimo vertice europeo tenuto sotto la presidenza di turno italiana della Ue, ieri, non è
stato un trionfo. Come non sono stati, per il governo Renzi, una marcia trionfale i sei
mesi precedenti, soprattutto se misurati sulla retorica che li ha preceduti e sulle
aspettative sollevate. Segno che la «strategia dell’impazienza» a Bruxelles funziona
meno che a Roma. E soprattutto constatazione che i 28 partner sono oggi più divisi su
questioni fondamentali di quanto lo fossero a inizio anno. Ieri lo si è visto prima e
durante il Consiglio europeo. L’agenda non era folta ma rilevante: gli investimenti in
Europa sulla base del Piano da 21 miliardi (che diventano più di 300) presentato dal
presidente della Commissione Jean-Claude Juncker e i rapporti con la Russia. Sul primo
punto, il Consiglio ha accettato le linee di Juncker, ha chiarito che gli investimenti dei
governi all’interno del Piano non saranno conteggiati ai fini del patto di Stabilità europeo
e ha rinviato la formalizzazione di queste decisioni a gennaio. Dubbi e poca convinzione
sull’utilità di questa strategia sono però venuti da più di un membro. Sulla non
contabilizzazione a deficit degli investimenti nazionali (la cosiddetta Golden Rule) tutto è
invece rinviato all’anno prossimo, ma qui il no di Angela Merkel è netto. Difficile definire
questo risultato una svolta in direzione di investimenti e crescita, obiettivo dichiarato di
Renzi. Le divisioni sono state ancora più nette sulla posizione da tenere nei confronti di
Mosca. Barack Obama e il Congresso di Washington sono intenzionati a intensificare le
sanzioni (ieri ne sono scattate di nuove sulla Crimea). Su questo i 28 hanno posizioni
diversissime e l’hanno fatto sapere addirittura prima di iniziare la discussione sul tema,
durante la cena. Il presidente francese François Hollande ha detto che se Putin facesse
«gesti» positivi non solo non si dovrebbero varare altre sanzioni, ma al contrario
allentare quelle esistenti. Alcuni Paesi dell’Est vorrebbero invece seguire le orme
dell’America. La Germania fa capire di non pensare a una de-escalation delle misure
contro il Cremlino. Renzi si è collocato vicino a Hollande: «assolutamente no» a ulteriori
sanzioni; e ha aggiunto che sulla Russia occorre fare una riflessione «diversa da quella
fatta finora». Posizione controversa nella Ue, che continua a fare apparire l’Italia come
uno dei Paesi più disponibili a considerare le argomentazioni di Putin. Un semestre dopo,
«svolte» vere e concrete nessuna. E 28 partner più divisi di prima. Esito modesto, si
poteva e si doveva fare meglio.
Pag 1 La partita del premier di Francesco Verderami
Era evidente che la corsa per il Colle non sarebbe potuta rimanere una variabile
indipendente della politica, e infatti - per quanto il capo dello Stato abbia tentato di
tenere le sue dimissioni slegate dalle questioni di governo e dalle dinamiche
parlamentari - da oltre un mese ogni mossa è influenzata e dettata da quell’evento.
Tutto insomma ruota attorno alla data d’addio di Napolitano. E nel «triangolo della
politica» - che include Palazzo Chigi, Montecitorio e Palazzo Madama - ci si stava
preparando all’evento per il 14 gennaio: ce n’è traccia nelle conversazioni riservate delle
massime cariche e nell’organizzazione del cerimoniale per l’elezione del nuovo
presidente della Repubblica, che si stava già predisponendo. C’è un motivo quindi se ieri
in Parlamento la frase con la quale Napolitano ha annunciato la sua «imminente»
decisione, è stata legata al compromesso sulla legge elettorale, la clausola di
salvaguardia che sposta al settembre del 2016 l’entrata in vigore dell’Italicum. Si tratta
di un elemento con cui Renzi stabilizza il quadro politico, rasserena deputati e senatori
sulla durata della legislatura e facilita il percorso delle riforme. Ma il rischio è che i due
disegni di legge si fermino in Parlamento a un passo dall’approvazione per dover lasciare
strada alle votazioni sul Quirinale. Per favorire il varo dei provvedimenti, e quindi Renzi,
Napolitano potrebbe posticipare di qualche giorno le dimissioni, così da lasciare dopo
aver raggiunto l’obiettivo: quello cioè di aver consegnato un Paese che si avvia ad
ammodernare le istituzioni e dotato di un nuovo sistema elettorale. È da vedere se le
previsioni sulla «data» - che accomunano autorevoli esponenti di maggioranza e
opposizione - si realizzeranno. Ma già il solo esercizio interpretativo sulle volontà del
capo dello Stato testimonia come proprio «la data» sia determinante nelle manovre per
il Quirinale. Manovre che sono in corso e si alimentano ogni giorno con le solite voci e i
soliti nomi: l’ultimo ritorno di fiamma è Mattarella, ex giudice della Consulta, ministro ai
tempi della Dc e anche dell’Ulivo, attorno a cui viene ritagliato l’identikit di Palazzo Chigi.
È una personalità che - secondo gli uomini di Renzi - Berlusconi farebbe difficoltà a non
accettare, visto che il suo nome richiama all’estremo sacrificio nella lotta alla mafia. Non
è dato sapere se si tratti di una mossa diversiva o se l’indicazione sia stata formalizzata
al Cavaliere, che di Mattarella rammenta le dimissioni dall’ultimo governo Andreotti -
insieme ad altri quattro ministri della sinistra dc - in polemica per il decreto con cui
vennero riaccese le tv del Biscione. Una cosa è certa: la corsa per il Colle è troppo lunga
per essere già terminata. Anzi, nemmeno è iniziata che si intravvedono i bagliori dello
scontro. È bastato che ieri il ministro Boschi prospettasse un metodo, in base al quale il
Pd proporrebbe «un nome» agli altri partiti, per far saltare i nervi anche all’Ncd.
Parafrasando un famoso slogan della campagna elettorale del ‘48, Cicchitto ha avvisato
l’alleato: «Nel segreto dell’urna Dio ti vede, Renzi no»... Altro che Grillo e Salvini: il
premier non può perder tempo, e prima di trovare l’intesa con il Cavaliere deve
compattare la maggioranza e il suo partito. D’altronde la clausola di salvaguardia sulla
legge elettorale non è stato solo un segno distensivo verso Forza Italia, ma anche - anzi
soprattutto - verso la minoranza interna. Eppure, proprio nel Pd temono che
l’emendamento «salva legislatura» possa essere un cavallo di Troia, perché basterebbe
un decreto del governo per cambiare data all’introduzione dell’Italicum. A quel punto,
come si comporterebbe il nuovo capo dello Stato? Perciò l’opposizione dem chiede per il
Colle «una figura di garanzia». E si torna alla sfida sul Quirinale, sfida che non può
iniziare senza l’ufficializzazione dell’addio da parte di Napolitano. Nel frattempo, però,
all’ombra della partita decisiva, il premier ne sta giocando altre, e non di secondo piano.
L’attesa per il varo dei decreti attuativi al Jobs act ha allertato quanti - da Sacconi a
Ichino - temono cedimenti verso il fronte filo-Cgil. Ma Renzi potrebbe smentire se stesso
e la campagna che ha fatto in Europa? È Natale, e in Parlamento c’è l’ingorgo. In verità
anche a palazzo Chigi, dato che il premier sta pensando di convocare due distinti
Consigli dei ministri: l’ultimo nel giorno di vigilia, per mettere sotto l’albero il decreto
sull’Ilva.
Pag 13 “Fidel scomunicato? Soltanto una leggenda. La Chiesa non scappa” di
Gian Guido Vecchi
Il cardinal Capovilla sul ruolo di Francesco e del Vaticano
Città del Vaticano. «Guardi, prima ancora che di sapienza diplomatica, io vorrei parlare
di una grande azione umanitaria e cristiana del Santo Padre e dei suoi collaboratori.
Questo è davvero uno dei grandi momenti della storia dell’umanità...». Il cardinale Loris
Capovilla, due mesi fa, ha compiuto serenamente novantanove anni e parla con la
vivacità e la gioia di un ragazzo. Stava nel Palazzo Apostolico, come segretario di
Giovanni XXIII, quando al Papa appena eletto arrivò da Cuba la notizia della rivoluzione
di Fidel Castro, all’inizio del 1959. Missionari e suore in fuga dall’isola, l’irritazione di
Roncalli e del cardinale Domenico Tardini, suo Segretario di Stato, «perché non si
scappa, non si scappa mai: bisogna restare là».
Eminenza, sono passati quasi 56 anni e non è un caso della storia che proprio la Santa
Sede abbia avuto un ruolo decisivo: tutto nasce in fondo da quella reazione di Papa
Giovanni, no?
«Da lui e dai suoi successori, fino a Francesco. Il Santo Padre ha fatto sorgere il sole di
una bella giornata promettente per tutta la famiglia umana. Ciò che è accaduto lo
dobbiamo ai nostri pontefici e a tutti gli uomini di buona volontà che hanno saputo
interpretare il pensiero dominante della Chiesa, la pace tra le nazioni».
La Chiesa non ha mai abbandonato la via del dialogo.
«È evidente. Un religioso non abbandona il campo dove il Signore Iddio lo ha mandato,
non è compito nostro scappare. Se ci mandano via allora purtroppo ci tocca andare, se ci
arrestano ci tocca purtroppo andare in prigione. Ma un religioso non può dire: adesso
con te non gioco più! Io non ti abbandono, anche se mi hai fatto un torto. Con
attenzione e rispetto, resto al tuo servizio e a servizio di tutta l’umanità».
Non che la via diplomatica fosse accettata da tutti, a un certo punto nacque pure nella
Chiesa la voce che Fidel Castro fosse stato scomunicato da Giovanni XXIII...
«Macché, non ho mai capito come sia nata questa storia, la parola scomunica non
esisteva nel vocabolario giovanneo. Né Roncalli né i successori hanno scomunicato Fidel
Castro. Del resto non si tratta solo di diplomazia. Ricordo quando Giovanni Paolo II
arrivò a Cuba, già ammalato, e Castro lo accolse con grande rispetto. Lo stesso accadde
con Benedetto XVI. Incontrarsi, darsi la mano, guardarsi negli occhi: anche quelli sono
passi avanti che il mondo ha accolto con sollievo».
Tutto si compie con un Papa latinoamericano: un caso?
«Io credo si debba rendere merito alla sua persona. Però non penso che fosse più
sensibile alla questione in quanto latinoamericano: non è questione di provenienza
geografica, tutta l’umanità ha sofferto di questa ferita».
C’è qualcosa che teme, ora?
«Noi uomini dobbiamo guardarci sempre dal nostro orgoglio, dagli interessi della nostra
congrega. Gli unici interessi buoni sono quelli di tutta l’umanità. Dopo la visita di
Francesco in Corea sappiamo che si è aperta una strada nel grande continente asiatico,
verso la Cina. Sappiamo che ci sono stati dei contatti...».
Il Papa ha detto ieri: «Dio fa la storia e la corregge quando sbagliamo».
«È proprio così. Abbiamo vissuto davvero un giorno molto bello che onora tutta
l’umanità. Ne verranno degli altri, perché il Signore ci accompagna e gli uomini di buona
volontà non mancano. Non bisogna avere paura di andare avanti ma confidare ancora e
sempre nel dialogo, con umiltà e preghiera».
Pag 29 Se l’analfabetismo ora sbarra anche le porte della rete di Luca
Mastrantonio
L’Italia e il Web: si accentua la spaccatura tra illetterati e chi legge e scrive (online)
Ludwig Wittgenstein, nelle sue riflessioni filosofiche, sosteneva che i limiti del linguaggio
di una persona sono i limiti del suo mondo, cioè di tutto ciò che può capire, pensare,
esprimere. Per almeno un italiano su tre, Internet è fuori dal mondo, qualcosa che non
capisce, cui non vuole accedere. I dati Istat parlano di circa 22 milioni di italiani dai sei
anni in su (il 38,3% della popolazione) che nel 2014 non hanno effettuato un accesso a
Internet. Un dato che cronicizza vecchi divari e rafforza nuovi conflitti: quello
infrastrutturale tra Nord e Sud, quello sociale tra lavoratori attivi e pensionati, e quello
anagrafico e linguistico tra vecchi e giovani. L’autoritratto di un Paese diviso: tra chi si fa
i selfie e chi dice «autoscatto». Da una parte, a grandi linee, ci sono i «nativi digitali».
Giovani nati dal 1985 in poi, cresciuti in un mondo iperconnesso, dove motori di ricerca
come Google sono la babysitter tuttologa e social network come Twitter sono la
terminazione naturale e spesso immediata del proprio corpo e della propria mente (a
volte con effetti nocivi, vedi Mario Balotelli): è connesso l’84% degli italiani tra i 14 e i
24 anni. Dall’altro lato, ci sono le fasce di età più avanzata e in uscita dal mondo del
lavoro che non usano Internet. Tra i 65 e i 74 anni, la percentuale di chi non si connette
è del 74%, e arriva al 93,4 per gli over 75. Continuano a vivere secondo i propri
costumi, antecedenti al web, in un mondo dove il web è in crescita: l’Istat, infatti,
segnala l’aumento delle famiglie che hanno un accesso Internet da casa (dal 60,7% del
2013 al 64) e di una connessione a banda larga (dal 59,7% al 62,7%). Restando alla
metafora antropologica, si possono chiamare «aborigeni digitali». I blocchi, ovviamente,
non sono granitici, né omogenei: molti italiani sono cresciuti in un mondo offline e si
sono poi adattati a quello online, sono i «migranti digitali». E il caso di Gianni Morandi, il
ragazzo nato nel 1944 che amava i Beatles e i Rolling Stones e oggi, praticamente, vive
su Facebook. E ancora, è il caso dei tanti spettatori dello show televisivo di Roberto
Benigni, I Dieci Comandamenti : l’età media dei circa dieci milioni che hanno visto
ognuna delle puntate su Rai1 era di 57 anni, ma l’evento televisivo - si tratta di
«convergenza mediatica» - ha scatenato commenti e condivisioni sui social network,
entrando nei trending topic, cioè gli hashtag di successo su Twitter, come #Benigni o
#iDieciComandamenti. Ma la vera eccezione, in negativo, riguarda i giovanissimi nati in
epoca digitale ma, di fatto, non connessi: non usa Internet, infatti, il 50 per cento dei
bambini tra i 6 e i 10 anni (sono un milione e mezzo). Le motivazioni? Il contesto, che è
determinante. Lo rivela il caso dei nati nei primi Anni Zero: nei nuclei in cui entrambi i
genitori usano la Rete, il tasso di disconnessione scende al 6,7%, mentre in case dove
mamma e papà sono offline sale al 40,1%. Si tratta di ragazzi nati nell’era digitale ma
tagliati fuori dalle infrastrutture online , che rischiano di essere analogici fuori tempo
massimo, «alieni» rispetto ai coetanei digitali. Spesso, ovviamente, si tratta di una
scelta, discutibile o meno, di pedagogia o sicurezza: tra i minorenni, il 58% dei non
utenti tra i 6 e i 10 anni e il 42,2% della fascia tra gli 11 e i 14 anni non accede al web
per scelta dei genitori. Non si tratta, comunque, di un problema solo di infrastrutture o
di contesto sociale, ma di forma mentis, e dunque un problema culturale. Lo dimostra il
fatto che chi resta offline magari ha uno smartphone , presente nel 93,6 per cento delle
famiglie. E ancora, le motivazioni del non accesso a Internet spesso sono personali,
psicologiche, cognitive. Gli italiani che non si connettono a Internet lo trovano non
interessante (28,7%), non ne sano nulla (27,9%) o ammettono di non saperlo usare
(27,3%); c’è chi lo trova inutile (23,5%) e chi dice di non avere gli strumenti tecnici
(14,3%); i restanti, pochi, lamentano i costi troppo alti o la paura per la privacy. Quindi?
Questo analfabetismo digitale sembra richiamare l’analfabetismo di ritorno, sul quale
recentemente è stato lanciato un chiaro allarme da parte di linguisti, storici, professori e
docenti: cresce la fetta di popolazione che non pratica, nella forma base, operazioni di
calcolo, elaborati di lettura. Matematica e lingua italiana. Elementi basici dell’alfabeto
digitale, grammatica linguistica più codice informatico. Come se in Italia, all’unificazione
della lingua parlata, che ha vinto sul dialetto grazie alla televisione, stia seguendo una
disunità: non semplicemente tra analogici e digitali, ma tra analfabeti (o illetterati), sia
analogici sia digitali, e coloro i quali invece leggono e scrivono online. Molti italiani non
connessi percepiscono Internet come un linguaggio ignoto, che mostra le spalle; rischia,
così, di assomigliare al latino. Lingua universale, nell’età moderna, per la Chiesa e i dotti
di tutta Europa; ma incomprensibile e impraticabile per i popoli. Come quello italiano,
che nel Dopoguerra assisteva ancora alla messa in latino, senza capirne il senso.
LA REPUBBLICA
L’esorcismo del premier sul Quirinale di Stefano Folli
Renzi ostenta tranquillità ma è un modo per mascherare la paura di un lungo stallo in
Parlamento. Non è esatto, come sostiene polemico Renato Brunetta, che il capo dello
Stato abbia steso una coltre di nebbia sulla data delle sue dimissioni. Al contrario, il
quadro è piuttosto chiaro e non da oggi. Il termine ufficiale del semestre di presidenza
europea è il 13 gennaio. Quella è anche la scadenza sempre individuata da Napolitano
come fine anticipata del secondo mandato. Ed è, appunto, una scadenza «imminente»,
giorno più giorno meno. Insistere su di una confusione istituzionale che non c'è, ha poco
senso. Tuttavia è vero che in queste settimane di attesa e di transizione c'è chi ha
interesse a pescare nel torbido. Ieri Beppe Grillo ha attaccato il presidente con toni di
rara violenza (chissà cosa pensa Francesco Storace, che per meno è stato condannato in
base al reato di vilipendio). Non c'è da stupirsi: nel vuoto altri attacchi seguiranno prima
che le Camere comincino a votare per eleggere il successore di Napolitano (si prevede
intorno alla fine di gennaio). Grillo ha trovato questa scorciatoia per tornare a esistere
sui giornali e magari per tamponare la piccola diaspora dei parlamentari Cinque Stelle. O
almeno provarci. Anche da tali episodi si capisce che le prossime settimane saranno
ricche di insidie. Nonostante le apparenze, il punto non è tanto l'incertezza sulla data
esatta delle dimissioni di Napolitano, quanto l' incertezza su quello che accadrà subito
dopo in Parlamento. Infatti il quadro resta opaco, nonostante l'ottimismo del presidente
del Consiglio. Renzi garantisce che «andrà tutto bene» e che deputati e senatori «hanno
imparato la lezione del 2013». È un riferimento trasparente al caos di un anno e mezzo
fa che portò alla rielezione di Giorgio Napolitano. Ma è anche il segno di una paura che il
premier si sforza di esorcizzare fin d'ora. Con quali strumenti? Che il Parlamento abbia
imparato la lezione non è facile da credere. Al contrario, la verità è che le forze politiche
hanno continuato a sfilacciarsi. Il «renzismo» come filosofia e pratica del potere si è
imposto lasciando nel Pd una scia di risentimenti che lo stesso presidente della
Repubblica, in modo abbastanza inusuale, ha cercato di arginare criticando con asprezza
la minoranza interna. Quanto al centrodestra, nel 2013 la crisi attuale quasi non
esisteva. Il panorama parlamentare è quindi frastagliato come forse mai in passato. E la
lezione è stata appresa così poco che ci sono voluti mesi per eleggere un giudice della
Corte Costituzionale, mentre per un altro non c'è stato niente da fare. Renzi ovviamente
vede il pericolo di un lungo stallo. L'elezione del presidente della Repubblica è di solito il
paradiso dei franchi tiratori e i 101 voti segreti contro Prodi sono lì a ricordarlo. Oggi
occorre davvero molto ottimismo per credere che la storia sarà diversa in assenza di
accordi vincolanti. Che per ora non ci sono, sebbene Renzi stia seguendo l'unica strada
possibile: rinforzare i paletti della maggioranza, e in primo luogo del Pd, e poi rivolgersi
a Berlusconi. Al quale verrà proposta una candidatura espressione dei democratici, ma
«non ostile» a lui. In altri termini, il premier rimane fedele alla linea iniziale. Nessuna
candidatura condivisa con il fronte berlusconiano, al di là della retorica sul patto del
Nazareno, ma un messaggio tra le righe: per Forza Italia il candidato renziano, scelto
con accortezza, è sempre meglio di un salto nel buio. Per ora Berlusconi si lascia portare
dalla corrente e accetta quasi tutto. Ma nessuno può indovinare cosa accadrà se le
votazioni a vuoto cominceranno ad accavallarsi e Salvini, oltre a Grillo, suonerà le sue
trombe. Ecco perché Renzi vorrebbe chiudere al più presto. Ma il metodo Cossiga e
anche il metodo Ciampi, uno nel 1985 e l' altro nel '99, erano il frutto di un sistema
politico che non c'è più. In un Parlamento frammentato il «metodo» non sarà
un'architettura decisa a tavolino. Stavolta si dovrà individuare un nome e poi costruirgli
intorno una maggioranza credibile.
LA STAMPA
Russia, anche Putin ammette la crisi di Cesare Martinetti
Con quella faccia un po’ così, rossa e accaldata, con quel tono di voce ora pedagogico
ora sarcastico, un po’ da ultimo zar, un po’ da segretario generale del Pcus, Vladimir
Putin ha riconosciuto ieri che il rublo e la patria sono in crisi. Ed è una novità. Ma come
un «piccolo padre» premuroso per il suo popolo ha promesso che tutto si aggiusterà, la
colpa è dell’Occidente che «vuol tagliare le unghie dell’orso russo». Unico errore aver
vissuto troppo di rendita su gas e petrolio. Ma intanto la crisi c’è, durerà un paio di anni.
Eppure già più niente assomiglia a prima e il Moskovsky Komsomoletz, quello che una
volta era il quotidiano della gioventù comunista ed è poi diventato un fervente
sostenitore del Cremlino, riconosce che la magia si è rotta, e il «mago» non sembra più
in grado di controllare tutto. Negli anni di Gorbaciov si faceva la coda per il pane, in
quelli di Putin per l’iPhone 6, mobili ed elettrodomestici. Ieri Ikea ha chiuso perché i
magazzini sono stati svuotati in due giorni. È teso Putin, tossicchia persino all’inizio della
conferenza stampa di fine anno quando non può sfuggire alle domande sulla crisi
economica. Poi riprende a poco a poco sicurezza: «In Ucraina abbiamo ragione». E non
si risparmia le battute, non teme nemmeno di apparire intollerante quando si irrita
perché è stata data la parola ad una giornalista tv che gli chiede dei diritti umani in
Cecenia, uno dei temi notoriamente tabù. Ma la giornalista non è una qualunque, bensì
Ksenija Sobchak, già protagonista di serie pop in tv che le valsero il soprannome di
«Paris Hilton russa» ora diventata fervente oppositrice politica. Ma anche figlia di tanto
padre, quell’Anatoly Sobchak (ora scomparso) che fu dissidente (perseguitato) nell’Urss,
poi sindaco democratico di San Pietroburgo. La città di Putin, che dopo aver fatto la
faccia feroce, indossa subito dopo quella paternalista con la petulante giornalista
chiamandola «Ksiuscha», come si usava in famiglia. Lo scambio con Kesnja dà il tono
della comparsata di Putin che ha davvero indossato tutte le maschere appese nel
guardaroba della storia al Cremlino, compresa quella molto sovietica di quando ha detto
di non temere colpi di palazzo perché «abbiamo il sostegno dell’anima e del cuore dei
cittadini russi». Confidando però, poi, da vero «liberale», nel fatto che l’economia
mondiale si aggiusterà e la Russia tornerà forte. Cosa c’è da aspettarsi ora? Al di là della
propaganda si sa che la diplomazia è in movimento, gli europei sono sempre più
insofferenti per gli effetti delle sanzioni. E in Russia sarebbe il momento ideale per far
emergere un competitor in grado di lanciare la sfida nel 2018. Ma il regime post
democratico di Vladimir Vladimirovic, per ora, non lascia spazi. L’ex petroliere
Khodorkovksij, dopo dieci anni di Siberia, ha perso smalto. Il blogger moscovita Navalny
è agli arresti domiciliari. E la bella Ksenja? Ancora troppo «Ksiuscha».
AVVENIRE
Pag 1 Un “dono” al mercato di Assuntina Morresi
La sentenza Ue e due domande
Un embrione umano non può mai essere utilizzato a fini industriali o commerciali.
Questo è stato ribadito ieri dalla Corte di giustizia europea, che ha chiarito il criterio in
base al quale stabilire quando un organismo si può definire 'embrione umano': deve
avere «capacità intrinseca di svilupparsi in un essere umano». In sé la questione è
chiara: in base alle normative Ue, non è possibile brevettare l’uso di embrioni a fini
commerciali o industriali. La sentenza Brüstle del 2011, emessa sempre dalla Corte di
giustizia Ue, includeva nella definizione di embrione anche ovociti sviluppati per
partenogenesi, cioè non fecondati ma capaci di svilupparsi a seguito di manipolazioni
chimiche ed elettriche. Appellandosi a questa sentenza, l’ufficio brevetti inglese aveva
respinto due richieste dell’azienda americana International Stem Cell Corporation (Isco),
che riguardavano metodi di produzione di materiale biologico da ovociti sviluppatisi per
partenogenesi (i cosiddetti 'partenòti'): poiché gli ovociti così trattati erano
esplicitamente considerati embrioni umani dalla sentenza Brüstle, non si poteva
brevettare una procedura che ne prevedesse l’uso. La Isco ha avviato un contenzioso
sostenendo che, alla luce delle più recenti conoscenze scientifiche, questi ovociti non
potrebbero mai diventare un essere umano, perché contengono solamente il Dna
materno, e mancano totalmente di quello paterno. La stessa Isco ha anche modificato la
sua domanda di brevetto, per escludere qualsiasi manipolazione aggiuntiva di tipo
genetico che potesse anche solo in linea di principio portare allo sviluppo di un essere
umano. La Corte Ue non risolve contenziosi nazionali, ma con la sentenza ha chiarito
l’interpretazione della norma per tutti gli Stati membri, esplicitando la definizione di
'embrione umano'. E con una nota a margine ha precisato la conseguenza
dell’applicazione di quel criterio: «Pertanto – si legge – le utilizzazioni di un organismo
del genere a fini industriali o commerciali possono essere, in linea di principio, oggetto di
brevetto ». Cioè, se si esclude che un ovocita attivato per partenogenesi sia un
embrione – e questo lo stabilirà il giudice inglese –, allora la Isco potrà fare domanda di
brevetto. Ma qui la storia non finisce: piuttosto, comincia. Innanzitutto la normativa
distingue fra 'scoperta', che non può essere brevettata, e 'invenzione', che invece può
esserlo, perché implica l’intervento dell’ingegno umano. Quindi, per esempio, organi,
cellule e parti del corpo così come si presentano naturalmente non possono essere
brevettati – e quindi un ovocita umano in quanto tale non può essere brevettato. Ma
possono esserlo le procedure di isolamento, manipolazione o ricostruzione, e quindi, per
esempio, potrebbero esserlo i trattamenti degli ovociti che la Isco vuole registrare, e i
prodotti che ne seguono. Ed ecco le domande. La prima: fino a che punto è lecita la
manipolazione di parti del corpo umano, specie – ma non solo – se a fini commerciali?
La seconda: in che modo procurarsi le parti del corpo umano da trattare? Alla prima
risponde la normativa quando vieta la brevettabilità nei casi contrari all’ordine pubblico o
al buon costume: si riconosce cioè il fatto che trarre profitto da un’attività non è sempre
lecito, e si dà spazio a valutazioni di tipo etico, che però non sempre hanno risposte
chiare, specie quando sono coinvolte cellule particolari, quali i gameti. Come valutare,
ad esempio, una procedura per sintetizzare gameti artificiali, cioè per generare in
laboratorio spermatozoi e ovociti a partire da altre cellule? E un futuro 'utero artificiale'
potrà essere brevettato come un modello particolare di incubatrice? La seconda
domanda si pone da decenni, in particolare per gli ovociti, ma può essere estesa ad
altro: è lecito commerciare parti del corpo umano, anche se è il proprio? L’esperienza –
ma innanzitutto il buon senso – ci dice che le donne non si sottopongono gratis a
trattamenti ormonali e a interventi chirurgici per produrre tanti ovociti da regalare alla
ricerca. Lo fanno solo se ben pagate. Ma brevettare una tecnica come quella della Isco
significa proporre un’attività commerciale basata sulla produzione e la cessione di ovociti
da parte delle donne. Si vorrà mascherare ipocritamente tutto questo con la parola
'donazione'? E poi, di che parleremo: della 'donazione' del corpo umano al mercato?
Pag 3 Il non profit e gli scandali, una riforma anti-giungla di Adriano Propersi
Bilanci chiari e vertici responsabili: i primi passi
Le recenti indagini su Mafia Capitale ripropongono una tematica già vista. Gli scandali
toccano soggetti non profit (cooperative sociali, fondazioni e associazioni) che abusano
della veste giuridica, che fa presumere finalità non lucrative, per compiere atti ed
operazioni illecite portando vantaggi diretti agli amministratori e ai soci occulti. Se
guardiamo nell’'archivio reati' del Paese possiamo ricordare centinaia di scaldali fiscali, di
abuso nella raccolta fondi (ricordiamo la missione Arcobaleno, o gli interventi umanitari
per vari eventi sismici, ad esempio) e di distrazioni di risorse. A questo punto c’è da
chiedersi se tutto ciò rientra nella statistica che riguarda una minoranza di soggetti
delinquenti, come avviene anche nel settore delle imprese e della Pubblica
Amministrazione, o se invece il fenomeno è indotto anche da una carenza di attenzione
da parte del legislatore e dei regolatori all’attività del mondo cooperativo e del Terzo
Settore.
CONTROLLI MENO EFFICACI. Non possiamo non partire dalla considerazione che gli enti
non profit sono aziende, cioè organizzazioni di beni e persone che svolgono un’attività
istituzionale con contenuti anche economici, svolta senza finalità lucrative. Come le altre
aziende (imprese ed enti pubblici) per garantire il perseguimento delle proprie finalità
devono gestire le risorse, sempre scarse, in modo efficace ed efficiente e dotarsi di
adeguati sistemi di governance che garantiscano il perseguimento e il rispetto del fine
dell’ente. A differenza delle imprese – dove prevalgono gli interessi 'proprietari' che si
fanno carico della gestione e ne indirizzano gli atti e le finalità – negli enti non profit
manca questa figura definita di 'titolarità della gestione': la gestione è demandata a una
governance affidata agli amministratori che non hanno il controllo diretto dei portatori
del capitale di rischio, come invece avviene nelle imprese. Negli enti non profit si ha
quindi per natura un sistema di controllo meno efficace rispetto alle imprese. Ciò
avviene anche rispetto alla Pubblica Amministrazione, ove non esistono interessi
proprietari ma c’è comunque una normativa di settore molto pregnante e definita che
garantisce il perseguimento del fine dell’ente, senza dimenticare la presenza di controlli
da parte della Corte dei Conti che ha poteri di intervento con sanzioni sia civili che
penali. Questa situazione di fatto e di diritto consente più facilmente a soggetti
spregiudicati di 'impossessarsi' della gestione dell’ente anche a vantaggio di interessi
propri o di terzi e comunque non leciti.
IL RISCHIO DI UNA «GIUNGLA». La natura peculiare del soggetto non profit evidenzia
una debolezza strutturale che non è stata nel tempo colmata con adeguate misure
normative, volte a garantire la correttezza dei comportamenti degli enti pur in presenza
di una crescita continua e tumultuosa delle dimensioni del Terzo Settore. Ci si è limitati
cioè a ritenere che la natura ideale, umanitaria, sociale del settore inducesse di per sé
comportamenti etici, senza necessità di introdurre misure cautelari specifiche. Al
riguardo basti pensare che le norme civilistiche fondamentali fissate dal libro primo del
codice civile agli art.14/47 sono estremamente scarse e ad esempio non prevedono
nemmeno l’obbligo della redazione del bilancio né l’adeguatezza minima di patrimonio
degli enti; anche le regole di governance sono estremamente limitate e non è previsto
l’obbligo di controlli esterni sulla gestione. Lo sviluppo del settore a dire il vero è stato
accompagnato anche da normative speciali che hanno supplito alla carenza civilistica
introducendo norme settoriali per le organizzazioni di volontariato, le cooperative sociali,
le Ong, le onlus, le imprese sociali ecc. che hanno via via introdotto anche norme
attinenti il controllo e la rendicontazione degli enti. La norma fiscale poi, in ragione
dell’abuso che nel tempo si è fatto dello strumento giuridico non profit, ha anch’essa
supplito stabilendo regole di governance e di rendicontazione a garanzia dell’effettiva
attività non lucrativa svolta dagli enti. Ad oggi possiamo però comunque affermare che il
settore è una 'giungla' o una 'galassia' che dir si voglia di norme non coordinate e
organiche che lasciano spazio comunque a comportamenti anche non corretti senza
specifiche previsioni di cautele regolamentari.
I «TASSELLI» NECESSARI PER UNA RIFORMA. Da anni si parla della necessità di
trasparenza degli enti e si richiede la redazione di bilanci e relazioni degli amministratori
chiari e leggibili, ma è ancora radicata nel settore la tendenza alla riservatezza, spesso
giustificata da esigenze di tutelare il perseguimento delle finalità dell’ente, ma che anche
lascia spazio ad abusi non controllabili. Non esistono poi registri ufficiali, come per le
imprese con il Registro delle Imprese tenuto dalle Camere di Commercio, ove attingere
informazioni essenziali sull’ente, sugli organi sociali e sui rendiconti; coesistono invece
vari registri regionali, provinciali e nazionali scoordinati e con informazioni parziali. È
ormai una 'litania' recitata da tempo e da tutti quella di richiedere la revisione del libro
primo del codice civile e di uniformare e semplificare le norme fiscali del Terzo Settore.
Ora la riforma del Terzo Settore proposta da Renzi sembra aprire la strada ad una
riforma organica, che si augura possa arrivare in porto entro il 2016. Gli obiettivi che si
propone il disegno di legge delega sono validi e coerenti con le esigenze del Terzo
Settore e dovranno tenere conto della natura peculiare degli enti sopra brevemente
indicata e quindi sopperire ai limiti genetici dei soggetti del Terzo Settore. C’è da
augurarsi che sia portata avanti una riforma a tutto campo e che includa tutti i soggetti
non profit, partiti politici e sindacati inclusi. Facendo riferimento alla vicenda romana
cerchiamo di evidenziare alcuni 'tasselli' che dovrebbero essere ordinati per rendere
incisiva la normativa per il Terzo Settore.
BILANCI CHIARI, TRASPARENTI E PUBBLICI. L’obbligo della rendicontazione economica
finanziaria e patrimoniale andrebbe esteso a tutti i soggetti non profit. Le regole
essenziali di rendicontazione sono già state emanate dall’Agenzia per il Terzo Settore e
si possono trovare sul sito della stessa agenzia presso il ministero del Welfare. Si tratta
non di una norma obbligatoria, bensì di un atto di indirizzo che sta gradualmente avendo
applicazione nella maggior parte degli enti. Occorrerà renderlo obbligatorio e richiederne
la pubblicazione su un unico registro nazionale come avviene per le imprese.
L’informativa di bilancio è differenziata in relazione alla dimensione degli enti anche per
non gravare di costi gli enti minori. Nella redazione dei bilanci gli enti non profit non
possono fare riferimento, come taluni fanno, alle norme delle imprese (art.2423 e
seguenti cod. civ.), in quanto nelle imprese il perseguimento della finalità di reddito
orienta tutta la struttura del bilancio; la finalità non lucrativa dell’ente richiede invece
l’adozione di schemi appositamente costruiti, che diano anche informazioni sulla
missione svolta e sui risultati sociali che non possono essere espressi solo dai numeri di
bilancio. Gli enti dovranno, ciascuno in relazione alla propria attività, dare informative di
missione specifiche con adeguati indicatori di risultato che diano conto dell’attività
sociale effettivamente svolta. Dovrà anche essere prevista una norma a tutela e
garanzia del patrimonio dell’ente che stabilisca l’entità minima del patrimonio aziendale
nei vari casi operativi e siano previste norme di intervento degli amministratori e dei
revisori in caso che venga meno l’entità minima del patrimonio aziendale cosi come
avviene per le imprese allorquando conseguano perdite che intacchino il patrimonio
netto (art.2446 e seguenti cod.civ.). Tale norma eviterebbe situazioni di dissesto
aziendale consentendo interventi tempestivi in caso di crisi.
L’INFORMATIVA SULLA GOVERNANCE. La presenza di interessi proprietari portatori di
capitale di rischio è fondamentale per chi entra in rapporto con le imprese ai fini della
valutazione del rischio di intrattenere relazioni con tali soggetti imprenditoriali. Non è
così negli enti non profit caratterizzati, come si è detto sopra, da varie tipologie poco
regolamentate che hanno come riferimento normativo principalmente le norme
statutarie interne e generalmente poco note ai terzi. Da qui la necessità che in modo
sintetico possa apparire in un registro nazionale accessibile a tutti una breve descrizione
della governance e dei soggetti responsabili della gestione; sarà così possibile risalire
alle persone rappresentative dell’ente, rendendo possibile la valutazione del loro profilo e
della loro affidabilità.
Pag 7 Il “nuovo secolo americano” apre alla leadership allargata di Vittorio E.
Parsi
Sarà ben diverso il nuovo secolo americano da quello immaginato dai neocon, ai tempi
dell’amministrazione di George W. Bush. Allora, i filosofi, i politologi e i semplici
propagandisti che si riconoscevano nella dottrina neoconservatrice diedero persino vita a
una fondazione dal nome “The New American Century”, che preconizzava, auspicava e
lavorava per diffondere l’idea che il XXI secolo sarebbe stato un «secolo americano»
tanto quanto lo era stato il XIX. Meno di dieci anni dopo, l’egemonia degli Stati Uniti
appare appannata, anche ma non solo per la guida ondivaga dell’attuale presidente,
Barack Obama, che tante speranze aveva suscitato alla sua elezione, in gran parte
onestamente andate deluse. Sulla speranza e sulla fiducia gli venne persino assegnato il
premio Nobel per la pace, caso unico nella sua centenaria storia, e caso a maggior
ragione destinato a non ripetersi vista la pochezza dei risultati. Eppure, nella giornata di
mercoledì, il ricordo di quel premio è sembrato meno imbarazzante. Non certo perché
dal Medio Oriente arrivassero notizie tali da renderlo meno immeritato, ma perché forse
l’altro ieri ha iniziato a essere scritta la parola fine alla guerra fredda caraibica, quella
che per oltre mezzo secolo ha contrapposto gli Stati Uniti a Cuba e che è
complessivamente durata più a lungo della vera Guerra Fredda, tra Stai Uniti e Unione
Sovietica, sopravvivendole di quasi cinque lustri. La fine delle ostilità tra Cuba e gli Stati
Uniti, a cui si è giunti anche grazie ai buoni uffici del Papa argentino, ci ha
simbolicamente reso l’immagine di un altro e diverso “secolo americano” che si va ad
aprire, un secolo non più segnato dall’egemonia statunitense sull’intero emisfero
occidentale, ma semmai da un nuovo protagonismo e da una nuova vitalità dell’America
tutta: dai ghiacci artici alle gelide acque dello Stretto di Magellano. Obama, Raúl Castro
e Bergoglio: la più improbabile triade americana che si potesse immaginare solo dieci
anni fa, ci hanno consegnato l’icona di un altro possibile ordine, continentale e mondiale.
Un ordine fondato dalla ricerca ostinata dell’intesa, del dialogo e delle ragioni della pace,
che non rifiuta le dure necessità poste dalle sfide della politica internazionale, ma che
nemmeno si arrende impotente alla loro logica talvolta feroce. «Somos todos
americanos» ha detto il presidente Obama, nel momento in cui lo storico
riavvicinamento veniva annunciato al mondo, e in quella frase è nascosto un
riconoscimento implicito di un nuovo multilateralismo capace di liberare le straordinarie
energie di quel grande continente. Il nostro secolo potrebbe dunque non vedere la
feroce lotta tra un egemone declinante e chi aspira a sostituirlo, ma piuttosto indicare la
via della ricerca di un allargamento e di un rinnovamento di quella leadership di cui
comunque, ora più che mai, il sistema internazionale necessita. Del resto, dal vecchio
continente, laddove un tempo si concentravano la potenza, la ricchezza e tutti gli
attributi della sovranità statale, giungono notizie che quasi sembrano fare da pendant a
quelle caraibiche. La Russia, che si illudeva e illudeva molti osservatori sulle sue
possibilità di rientrare nel novero delle grandi potenze di domani, di poter restaurare
l’antica “grandezza” del passato, è oggi travolta da una crisi finanziaria ed economica
che è in gran parte frutto della sua incapacità di rinnovarsi, della sua ostinazione a
cercare di intraprendere sempre le stesse strade tante volte percorse in passato. E
quella crisi potrebbe portare più rapidamente di quanto non tanti non vogliano credere al
declino di Putin e del suo regime. La nostra Europa sembra invece decisamente
incagliata, alle prese con l’urgenza di un processo di trasformazione che non riesce a
compiersi, con il rischio che i sempre più forti marosi della crisi interna finiscano col
danneggiare in maniera irreparabile la navicella dell’Unione. L’Occidente così forse non
tramonterà, ma piuttosto si rinnoverà, ritrovando energie, ancora una volta,
oltreoceano, nelle Americhe piuttosto che nell’America. Ma questo nuovo pluralismo
potrebbe portare con sé una capacità inedita di ritrovarsi nelle proprie radici senza che
questo necessariamente implichi il consolidarsi di una contrapposizione sterile e
pericolosa con ciò che Occidente non è. Il nuovo secolo (pan)-americano potrebbe
essere in grado di dare vita a nuove inedite forme di relazione con l’Asia e con quella
Cina che è anch’essa alla ricerca di una sua inedita via, capace di coniugare lo sviluppo
interno con una maggiore equità e la propria ascesa con la stabilità continentale.
IL GAZZETTINO
Pag 1 Cuba, sul disgelo l’incognita del congresso Usa di Mario Del Pero
Accuratamente preparato e discusso, l’annuncio di Barack Obama e Raul Castro ha
nondimeno sorpreso. Pochi si aspettavano un’azione così incisiva e coraggiosa, da ambo
le parti, e l’avvio di un percorso che, per quanto destinato a incontrare numerosi
ostacoli, appare oggi ineluttabile. Ma perché Obama ha deciso proprio ora di riaprire le
relazioni diplomatiche con Cuba e di allentare, laddove possibile, l’embargo economico
nei confronti dell’isola? Quali sono le condizioni che hanno permesso questa decisione e
quali le possibili conseguenze? Gli obiettivi, innanzitutto. Con questa iniziativa Obama
facilita l’uscita dall’isolamento non solo di Cuba ma degli stessi Usa. Sempre più soli nel
mantenere una politica di rigidità ed ostracismo verso Cuba e sempre più criticati dal
resto della comunità internazionale. L’Assemblea generale dell’Onu ha approvato più di
venti risoluzioni nelle quali si chiede la fine dell’embargo statunitense contro L’Avana.
L’ultima di queste risoluzioni risale a poche settimane fa ed è stata votata da 188 dei
193 membri dell’Assemblea. A questo isolamento politico è corrisposto, nell’ultimo
ventennio, un crescente isolamento economico: laddove Cuba si apriva agli investimenti
stranieri, essa continuava a rimanere in larga misura off-limits per quelli statunitensi.
Ciò avveniva in un contesto regionale nel quale l’influenza e il peso degli Stati Uniti
diminuivano rapidamente. E anche il desiderio di riacquisire una centralità nelle
Americhe almeno in parte perduta spiega l’iniziativa di Obama su una questione, Cuba,
che ha spesso alimentato frizioni e scontri tra gli Usa e i loro partner latino-americani.
Infine incide il valore simbolico della decisione, che di certo non sfugge ad altri
interlocutori di Washington, a partire da quello iraniano, verso i quali il messaggio
intende essere inequivoco: liberata da vincoli elettorali e desiderosa di lasciare un
marchio significativo in quest’ultimo biennio di governo, l’amministrazione statunitense
si muoverà con quel coraggio e quella incisività che le sono spesso mancati nei
precedenti sei anni. Lo farà, però, soprattutto se le condizioni lo permetteranno.
L’assenza di relazioni diplomatiche e il persistere di uno stato di guerra fredda tra i due
paesi rappresentavano davvero degli anacronistici cimeli di una storia ormai terminata.
Passati sono i tempi in cui Chuck Norris sgominava i tentativi cubani d’invasione degli
Stati Uniti; passato è il timore che un fuoco rivoluzionario sempre più flebile e bolso si
estenda da Cuba al resto del Continente; passato è quel convincimento molto
trionfalistico del post-guerra fredda secondo il quale l’irrigidimento dell’embargo e
l’intensificazione delle pressioni avrebbero fatto crollare il regime; passato è infine anche
il peso politico di una comunità cubano-statunitense che, per la centralità della Florida
nelle elezioni presidenziali, ha spesso tenuto in ostaggio la politica statunitense verso
Cuba. La comunità cubana negli Usa è oggi divisa secondo linee di frattura generazionali
assai marcate. I figli degli esuli anti-castristi e gl’immigrati più recenti hanno una
posizione meno dogmatica e legata al passato. Sono favorevoli alla fine dell’embargo e
alla normalizzazione delle relazioni. Sognano un futuro d’interdipendenza e di
abbattimento delle barriere e non la prosecuzione di una contrapposizione ormai priva di
significato. Ecco perché il processo apertosi appare ineluttabile. Ineluttabile ma non
semplice. Il fronte repubblicano ha infatti a sua disposizione molteplici strumenti per
ostacolarlo e rallentarlo. Obama ha già iniziato a usare i suoi poteri presidenziali per
attenuare un embargo la cui rimozione completa necessita però del voto congressuale.
Un congresso che potrebbe far mancare i fondi per la riapertura dell’ambasciata
statunitense a Cuba o bloccare la nomina del nuovo ambasciatore. Probabile che ciò
avvenga. Anche se, per una volta, l’iniziativa politica sembra essere in mano al
Presidente e ai democratici, nella consapevolezza che l’incapacità di molti repubblicani a
uscire dalla guerra fredda potrebbe avere anche dei costi elettorali già a partire dal
2016.
Pag 27 I bambini di Peshawar e le vittime causate dall’Occidente “civile” di
Massimo Fini
Quando si parla di Talebani si fa una certa e voluta confusione fra talebani afgani e quelli
pakistani. Sono due movimenti diversi, che operano in realtà radicalmente diverse, che
hanno mentalità diverse. I talebani afgani, guidati dal Mullah Omar, dopo l'invasione
americana-Nato del 2001, si battono contro l'occupazione dello straniero in una guerra
che dura da 13 anni. In Pakistan non c'è un'occupazione straniera, ma una guerra civile
fra gruppi integralisti e il governo di Nawaz Sharif. Diversa è anche la mentalità. Gli
afgani, talebani o no, non sono mai stati terroristi. Sono stati costretti a diventarlo, e
solo all'interno del proprio Paese, dopo l'occupazione americana. Nel 2006 i comandanti
militari talebani chiesero un incontro al Mullah Omar e gli dissero: «Noi non possiamo
continuare a combattere con le abituali tecniche di guerriglia, perché di fronte abbiamo
un nemico invisibile e irraggiungibile: gli americani usano solo l'aviazione e i droni».
Chiesero quindi l'autorizzazione a utilizzare anche metodi terroristi. Omar, in linea di
principio, era contrario. Perché l'attentato terrorista, per quanto mirato, provoca
inevitabilmente vittime fra i civili e di tutto hanno bisogno i talebani afgani tranne che di
alienarsi le simpatie della popolazione sul cui sostegno si basa la loro lotta di resistenza
all'occupante straniero. Comunque alla fine, di fronte all'evidenza, dovette cedere alle
richieste dei suoi comandanti e autorizzò il terrorismo ma solo contro obbiettivi militari e
politici. E così è stato, in Afghanistan. Attacchi come quello perpetrato tre giorni fa dai
talebani pakistani di Tehrik-i-Taliban Pakistan che ha ucciso ragazzini e bambini, sia pur
di una scuola militare e figli di militari, non si sono mai visti in Afghanistan. Il portavoce
del Mullah Omar, Zabihullah Mujahid, ha condannato senza mezzi termini questo
eccidio: «L'Emirato islamico d'Afghanistan è scioccato da quanto è avvenuto e condivide
il dolore delle famiglie dei bambini uccisi nell'attacco». Dichiarazione opportunamente
occultata, che io sappia, da tutta la stampa dell'Occidente (con l'eccezione virtuosa di
RaiTre) che ha interesse a fare di tutta l'erba un fascio per nascondere la guerra infame
che sta conducendo in Afghanistan. Tuttavia un legame fra quanto accade oggi in
Pakistan e il movimento di liberazione talebano in Afghanistan c'è. Il 5 maggio del 2009
gli americani, convinti che i leader talebani si nascondessero nelle zone montuose a
cavallo fra Afghanistan e Pakistan convinsero, o piuttosto costrinsero, il corrottissimo
presidente del Pakistan Asif Ali Zardari, a lanciare un'offensiva devastante contro la valle
di Swat, pakistana. I profughi furono due milioni. I morti non calcolati e incalcolabili (i
giornali occidentali titolarono «Due milioni in fuga dai Talebani» mentre invece fuggivano
dalla violenza dell'esercito pakistano). Di recente lo stesso copione si è ripetuto, anche
se i profughi questa volta sono stati 'solo' un milione. Posto che è assolutamente turpe
colpire dei bambini, si può capire, anche se in alcun modo giustificare, quanto ha detto il
portavoce di Tehrik-i-Taliban Pakistan, Omar Khorasan: «È la nostra risposta alle vostre
aggressioni che ammazzano i nostri figli, le nostre donne, distruggono le nostre case.
Adesso anche voi proverete un poco del nostro dolore». Oggi tutte le 'anime belle
occidentali' si sdegnano per i bambini assassinati a Peshawar. Avrebbero un minimo di
credibilità se si fossero sdegnati almeno una volta, una sola, per le migliaia di bambini
assassinati, per mano nostra, in Afghanistan o per quelli uccisi, su nostro ordine,
dall'esercito pakistano in Waziristan. E a questo proposito voglio ricordare che durante la
seconda guerra mondiale gli americani buttarono su Berlino, Dresda, Lipsia delle 'bombe
giocattolo', in realtà delle mine su cui i bambini tedeschi, curiosi, si avvicinavano
saltando per aria. La cultura superiore.
LA NUOVA
Pag 1 Paese ancora in mezzo al guado di Andrea Sarubbi
«Dopo tutti i saluti che ho fatto, sarà ancora più bello farmi eleggere per la terza volta»:
su Twitter si scherza, e l’account satirico Moniti di Re Giorgio è una fonte inesauribile di
battute, ma al Quirinale si comincia a fare sul serio. Non sono una novità le dimissioni:
anche due anni fa, al momento della rielezione, si sapeva che il bis era in realtà una
proroga, per consentire all’Italia di uscire dal fosso. Che il Paese ce l’abbia fatta, però, è
ancora da dimostrare. L’allora presidente uscente - forse non occorre nemmeno
ricordarlo - accettò la rielezione perché il Parlamento si era incartato. Marini e Prodi,
candidati ufficiali, erano stati impallinati dai franchi tiratori; Amato e D’Alema, nomi
pronti a venir fuori, non avevano i numeri, così come, per motivi opposti, Rodotà. Era
l’epoca in cui i Cinquestelle erano compatti, e il patto del Nazareno ancora non era stato
firmato: il Pd, da solo o con un pezzo di Sel, non poteva farcela. Ecco allora la soluzione
d’emergenza: un altro po’ di tempo a Giorgio Napolitano, per riprendere fiato e
riprovarci in un momento migliore. Se fosse tutto qui, davvero, non ci sarebbe niente da
aggiungere. Perché in effetti, rispetto ai tempi più difficili trascorsi da Enrico Letta a
Palazzo Chigi, oggi la maggioranza parlamentare di Renzi ha una base di partenza più
larga (i fuoriusciti di Sel e alcuni transfughi di Grillo, tanto per cominciare) e
un’accresciuta forza contrattuale nei confronti di Forza Italia, che a sua volta è mangiata
dalla Lega e che - se vorrà ancora dire la sua sulle riforme costituzionali - deve
necessariamente piegarsi a una linea più morbida. Se, insomma, la proroga del
presidente uscente doveva servire soltanto a far passare la nottata, la missione è più o
meno compiuta. In realtà, però, il discorso di re-insediamento di Giorgio Napolitano
diceva ben altro, mettendo dei paletti ben precisi: il varo delle riforme costituzionali - e
in primo luogo quella elettorale, che avrebbe dovuto correggere il Porcellum sul premio
di maggioranza e sulle liste bloccate - e di quelle economiche, che avrebbero dovuto
dare una risposta alla crisi sul fronte strutturale. «Se mi troverò dinanzi a sordità come
quelle contro cui ho cozzato nel passato - chiosò il capo dello Stato nell’Aula di
Montecitorio, puntando il dito contro quello stesso Parlamento che lo applaudiva - non
esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al Paese». Ovvero, tradotto in linguaggio
corrente, «mi dimetterò e lascerò al mio successore, ammesso che riusciate a trovarne
uno, il compito di decidere sulle sorti della legislatura». Per se stesso, insomma,
Napolitano aveva previsto un ruolo di traghettatore e di pontiere, senza prevedere quello
che sarebbe successo nei mesi successivi: non immaginava probabilmente che il Pd
avrebbe sostituito il presidente del Consiglio, né vedeva all’epoca alternative a un
accordo con Berlusconi. Ma chiedeva riforme in cambio della propria permanenza, e ora
- alla vigilia delle dimissioni - parla come se tutto fosse davvero compiuto: sia negli
auguri di martedì alle alte cariche istituzionali, sia in quelli di ieri al corpo diplomatico, ha
dato ad alcuni (anche a parlamentari di maggioranza, per la verità) l’impressione di
voler trarre conclusioni un po’ affrettate, mentre invece è ancora tutto in mare aperto e
le previsioni del tempo non escludono tempeste. Si può parlare di riforme economiche
strutturali, che abbiano risolto i problemi cronici dell’Italia anche rispetto ai parametri
europei? No, se guardiamo le reazioni di Bruxelles rispetto ai provvedimenti di questi
mesi: la crisi non è alle spalle, la spending review di Cottarelli è stata utilizzata anche
per scopi congiunturali, se non arriva la ripresa economica sono guai. E sul fronte
istituzionale? L’Italicum (solo per la Camera, tra l’altro) è ancora nel guado, a metà tra
le modifiche al Senato e la tentazione del voto col vecchio Mattarellum; la riforma del
bicameralismo non ha ancora finito la prima navetta, e ogni volta salta fuori qualche
modifica. Tutte buone intenzioni, che evidentemente lasciano Napolitano tranquillo. Ma
l’Italia, a differenza del suo stanco presidente, non può permettersi di riposare.
Pag 1 Così usciamo dalla crisi senza merito di Ferdinando Camon
Ieri i giornali riportavano la previsione che col nuovo anno ci sarà anche per noi italiani
l’uscita dalla crisi: non nel senso che la nostra economia correrà come nei tempi
anteriori alla crisi, ma nel senso che la produzione smetterà di calare e segnerà una
piccola crescita. E non alla fine del 2015, ma fin dal primo trimestre. Sono previsioni
rischiose, perché riguardano eventi che non dipendono solo da noi, ma anche dagli altri,
in Europa e nel mondo. Tuttavia se a formularle sono più fonti, appaiono meno insicure.
La crisi dura ormai da troppo tempo. Siamo fra gli ultimi a uscirne. E l’uscita, se sarà
questa, si avvicina d’improvviso, senza preannunci. Perché non l’abbiamo preparata con
qualche grande rivoluzione interna. Non abbiamo fatto grandi riforme, non abbiamo
inventato un grande prodotto, non abbiamo varato una grande legge che metta fine alla
corruzione, una che faccia funzionare in maniera rapida il Parlamento, che sblocchi la
giustizia, che ci faccia votare in maniera più democratica, che stabilisca un buon
rapporto dare-avere tra cittadini e Stato, e tra regioni e Stato, una riforma scolastica
che faccia uscire dalle nostre scuole superiori e dalle università dei giovani diplomati e
laureati in grado di reggere e possibilmente vincere il confronto con i coetanei europei…
Finché non faremo queste rivoluzioni, non meriteremo di uscire dalla crisi. Sulla
corruzione Renzi ha sbandierato nuove norme, con le quali allunga la prescrizione e
aumenta le pene. Ma in Parlamento qualcuno gli aveva proposto una leggina brevissima
e chiarissima: «Per i reati di corruzione commessi dalla o con la amministrazione
pubblica, le sanzioni penali e civili, e i tempi della prescrizione, sono raddoppiati».
Questo per indicare che la corruzione commessa da chi ha, o con chi ha, un ruolo
pubblico, va punita più severamente degli altri reati. Chi ruba all’amministrazione
pubblica ruba al popolo, e in questo momento rubare al popolo vuol dire rubare a chi
non ha il necessario. Tre giorni fa siamo finiti sulla prima pagina del New York Times per
la facilità e la frequenza dei reati di corruzione, e per l’incapacità di punirli. Ci voleva
quella leggina. Il mondo l’avrebbe apprezzata. Siamo una repubblica da settant’anni, e
non sappiamo ancora con quale sistema votare. E questo perché, al momento di
scegliere il sistema, i partiti cercano il sistema più utile a loro, non al paese. I partiti
rappresentano interessi separati, e spesso contrari, a quelli dello Stato. Le nostre regioni
sono divise da sistemi fiscali contrastanti fra loro, e questo dovrebb’essere un problema
per l’Europa: non dovrebbe l’Europa dire qualcosa a uno Stato che differenzia il
trattamento fiscale dei suoi cittadini? Abbiamo segretari di partito condannati per
corruzione che continuano a presenziare al Parlamento, riscuotendo lo stipendio.
Abbiamo consiglieri regionali condannati, ma che conservano il vitalizio. Non sappiamo
punire la corruzione, perché si ammanta di un’aura di merito: chi ruba molto è molto
bravo, e i grandi colpevoli suscitano il timore popolare. Anche in prigione: quando un
capo-clan, che ha fatto grandi rapine, va in carcere, riceve un trattamento di riguardo
dagli altri detenuti e dalle guardie. Perfino i gerarchi nazisti (spero che non ce ne siano
più) entravano in carcere per le stragi che avevan comandato, e venivan salutati col
grado: «Signor capitano, signor maggiore…». Su pensioni d’oro e stipendi d’oro Renzi
aveva grandi progetti, ma son rimasti sulla carta, tutti li volevamo ma urtavano
gl’interessi di pochi potenti, e i pochi potenti possono più del popolo. La crisi era/è il
momento giusto per rivedere questi squilibri. La crisi permette o impone riforme audaci.
Ma non le abbiamo fatte. Se davvero (come i giornali dicono, come tutti speriamo)
stiamo per uscire dalla crisi, ne usciamo con lo stesso Stato che ha meritato di entrarci.
Non è un buon segno.
Torna al sommario