Repubblica Nazionale 2014-05-18

la domenica
DI REPUBBLICA
DOMENICA 18 MAGGIO 2014 NUMERO 480
Cult
La copertina. Se il mainstream non è più main
Straparlando. Valentina Cortese: “Io e Hollywood”
La poesia del mondo. “Le occasioni” di Montale
CARLO VERDELLI
MILANO
M
ILANO si è messa il gel, ma se
qualcuno pensa che c’entri
l’Expo sbaglia di grosso:
quando l’ex sindaco Moratti se l’è aggiudicato (e mal
ce ne incolse, viste le mazzette e i ritardi a
meno di un anno dal via), la cresta della
metropoli già lievitava, e ancora s’impenna. Te ne accorgi al volo mentre atterri a Linate o scendi dal treno alla stazione Centrale e prendi per viale Liberazione. Il cambio di scena, lì come altrove, è impetuoso.
Sulla destra, tutto come prima. A sinistra,
una vertigine. Sul terrapieno che ospitava
un triste lunapark, straripa il Diamantone, una follia sfaccettata in vetro e acciaio
di 137 metri, seguita da due diamantini e
poi dalla Torre Solaria, 140 metri, dove pare abbiano già trovato alloggio Belen e Ma-
ria De Filippi (a far loro compagnia, Mario
Balotelli, ma lui sta nelle villette rinate sulle ceneri della sede storica della Gazzetta
dello sport, in via Galilei). Sullo sfondo, il
Bosco verticale di Stefano Boeri, con mille
tipi di alberi arrampicati su due torri di 24
e 17 piani. Passi un ponte e ti ritrovi in piazza Gae Aulenti, davanti alla stazione Garibaldi: è rialzata, si accede per scale mobili,
è dominata dall’ottavo grattacielo più bello del mondo, che sembra lo specchio
deformato di una regina dei titani, circondato da due torri-ancelle (i comodini della
regina?) e in mezzo un baracchino vecchio
stile con sei calciobalilla, più uno da Guinness con 22 manopole per parte.
Nella vertiginosa Porta Nuova-ex Varesine, ogni cosa è naturalmente a bassissimo impatto ambientale e altissimo profilo. Garantisce Manfredi Catella, splendi-
do splendente quarantenne livornese,
che prima favorisce l’incontro tra il colosso immobiliare americano Hines e l’allora
piccolo marcantonio siculo lombardo Salvatore Ligresti e poi, fallito quest’ultimo,
lo sostituisce con un fondo del Quatar. “Eccellenza italiana più innovazione internazionale”. Più o meno la stessa filosofia dell’altro polo che sta reinventando Milano,
ovvero CityLife, assicurato dall’impegno
delle Generali col sostegno di Allianz. La
zona è quella dell’ex Fiera campionaria, il
progetto è da due miliardi e 200 milioni di
euro: tre grattacieli, di cui uno, la Torre Isozaki che toccherà il record dei 204 metri
(più 40 di antenna per la Rai), un parco
che diventerà il terzo polmone verde della
città e altre annunciate meraviglie urbanistiche. Tra i vantaggi accessori di questa
metamorfosi meneghina, c’è che se perdi
l’orientamento in una delle zone della cintura, ti basta guardare in su e trovi subito
una guglia o una torre a guidarti verso la
salvezza. La metropoli del terziario avanzato sta diventando la culla italiana del
terziario allungato verso l’alto. Non poteva che succedere qui. Milano è da sola il
10% del Pil nazionale, il suo sistema copre
ancora, nonostante la grandine perdurante della crisi, il 20% dell’import-export. Capitale morale? Lasciamo perdere.
Ma capitale all’europea, questo sì. E adesso, quasi all’improvviso, lo si vede a occhio.
È come se in città fossero arrivate le montagne. Sono prevalentemente di vetro,
dalle forme più incongrue, con una o più ali
attaccate alle spalle o allo sterno, o lisce e
dritte come lastre di ghiaccio.
SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE
CON UN COMMENTO DI GILLO DORFLES
Milano
la città
verticale
MILANO PORTA NUOVA, MARZO 2013. FOTO DI MARTINO LOMBEZZI/CONTRASTO
Nessun fotomontaggio
La più europea delle italiane
è cresciuta davvero. In altezza
L’attualità. Mohsin Hamid, otto consigli per vivere in Eurasia La storia. Ritorno in trincea, la Prima Guerra di Paolo Rumiz
Next. Mit o Google? Ultimissime notizie dalla galassia dell’informazione L’incontro. Mordillo: “Benvenuti nella mia giungla”
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LA DOMENICA
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La copertina. Milano verticale
In principio fu il Pirellone (che superò la Madonnina) ora sono venti
(e saranno ventiquattro) i grattacieli che a un anno dall’Expo
hanno trasformato il volto della città. Passeggiata col naso all’insù
<SEGUE DALLA PRIMA PAGINA
CARLO VERDELLI
A
I LORO piedi, oltre a palazzine disegnate a forma di nave
(progetto di Zaha Hadid) o concepite come uno spartito musicale (Daniel Libeskind), un fiorire di giardini e
piste ciclabili, parte in essere, parte in divenire, e comunque a ingresso libero. Edilizia super residenziale
ma senza zone riservate ai beati pochi, o tanti, come spera chi sta costruendo. Non a tutti piace, a qualcuno dispiace moltissimo. L’architetto svizzero Mario Botta,
che già ristrutturò la Scala, ad Arcipelagomilano.org
parla di «scenario da cartolina turistica, che trova la sua
ragion d’essere negli emirati arabi, dove appunto non vi
era la città». Ancora più scontento, il premio Nobel e milanese d’adozione Dario Fo: «Oscene quelle torri a grappolo, che se hai la sfortuna di abitarci intorno il sole lo vedi a orari fissi. Milano era città d’acqua, con due canali e sette fiumi: hanno interrato tutto, prosciugato l’anima di una comunità. Il semplicismo degli imbecilli, unito alla voglia di razzìa di potentati stranieri che ricordano i Lanzichenecchi».
Il primo cittadino Giuliano Pisapia, milanese da 65 anni (tra due giorni), vede tutto
un altro film: «Ho sempre pensato che Milano fosse una città brutta con un’infinità di
posti belli, spesso nascosti. Adesso è come una primavera, la bellezza si crea e si diffonde. Ho incontrato uno dei tanti milanesi che si erano trasferiti altrove in cerca di verde.
“Sindaco, ma è diventata splendida!”, mi ha detto quasi incredulo. Questa mutazione
in corso mi affascina. Anche perché è una mutazione, diciamo così, governata. Come
Giunta, abbiamo imposto a chi costruiva
servizi per i cittadini, verde che fosse pubblico, rispetto e integrazione con quel che
si trovavano intorno».
Milano è sempre stata una città bassa,
con qualche appuntita eccezione. La Madonnina, “che te brilet de luntan”, sopra
tutto e tutti: con i suoi 108,50 metri, ha dominato dal 1774 il Duomo e il resto, ha resistito agli assalti della Torre Branca e della Torre Velasca, per capitolare solo nel
1958 di fronte all’ardire laico del Pirellone
di Giò Ponti, 127 metri, “la fiaba verticale”
secondo Luciano Bianciardi. Finale della
“IN CINQUE
ANNI
IL PROFILO
È CAMBIATO
PIÙ CHE NEI
SESSANTA
PRECEDENTI
LO SA
CHE QUESTA
È LA COSA
PIÙ ALTA
COSTRUITA
IN ITALIA?
GUARDI,
SI VEDONO
I MONTI.
PENSI CHE
D’INVERNO
LAVORIAMO
SOPRA
LA NEBBIA”
Come
nasce
unoskyline
LA SCALA
fiaba: fino all’altro ieri, 2005, i grattacieli
a Milano erano cinque; adesso sono venti,
più altri quattro in costruzione. Sulla palma del più alto si discute: l’Unicredit
Tower (di mastro Cesar Pelli, argentinoamericano di origini italiane) dichiara
231 metri, ma 85 sono di guglia, quindi al
tetto sarebbero 146, mentre la futuribile
sede della Regione Lombardia (del cinoamericano Ieoh Ming Pei, lo stesso del Jfk
di New York) tocca i 161 metri senza aiutini. Si riconosce, tra l’altro, perché ha una
scritta “Expo” stile Broadway in cima a
una facciata (sui marciapiedi, per “lombardizzare” un po’ il complesso, visto che
il capo è il leghista Roberto Maroni, rocce
dell’Adamello, granito verde dello Spluga, dorato della Valmalenco).
Immaginate un grande cantiere, anzi
due, l’uno indipendente dall’altro. Alla periferia nord, verso Rho e Pero, ruspe e gru
s’affannano a preparare l’Esposizione
Universale di maggio, con l’angoscia che
risucceda quel che capitò a inizio del secolo scorso, quando l’Italia perse il treno e
l’Expo cominciò, invece che nell’annunciato 1905, l’anno successivo. Era dedicata ai trasporti. Quella del 2015 al cibo (e c’è
chi ha cominciato a mangiarci sopra per
tempo). Spérem.
L’altro cantiere riunisce gli imprenditori privati che stanno mettendo il gel sulla
testa di Milano, dal Portello a Porta Nuova,
da Santa Giulia a Porta Vittoria, a prescindere dall’Expo e molto prima dell’Expo.
Una Milano bis da 50 mila posti extra, tra
TORRE UNICREDIT
FIRMATA DA CESAR
PELLI PER ORA
È LA PIÙ ALTA
TORRI GARIBALDI
LE DUE GEMELLE
SONO ALTE
RISTRUTTURATA
SU PROGETTO
DI MARIO BOTTA
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Era brutta, è più bella
non è mai stata metropoli
adesso avrà la sua City
GILLO DORFLES
schiando l’operaio Salvatore. Quando i pochi verranno ultimati, qui ci verrà Allianz.
Sulla sinistra, le fondamenta della sinuosa Torre Hahid (170 metri), riservata alle
Generali. Sulla destra, lo spazio per l’inarcata Torre Libeskind (165 metri), destinata a una marca del nuovo mondo, forse
Samsung. «Il disegno è di creare una specie di cupola aperta e multietnica», spiega
lievemente affaticato dall’ascesa Marco
Pogliani, voce di Citylife. «Non a caso abbiamo scelto come architetti un ebreo polacco, Daniel Libeskind, un’iraniana inglese islamica, Zaha Hadid, e un giapponese scintoista, Arata Isozaki, coordinati
da Francesco Dal Co, italiano e cristiano».
Ci affacciamo alla balaustra, il tramonto è
pulito, qualcuno indica i nomi delle montagne, cominciando da ovest: Bisbino, Rosa, Gran Paradiso, Resegone, Grigne.
Milano è sdraiata sotto, la Madonnina
un punticino quasi invisibile, la montagnetta di San Siro, nata brulla, è una gobba verde scura prima del grande spiazzo
vuoto dell’Expo. Non fa freddo ma da quassù, nonostante i teloni di protezione, il
vento si sente. «Eh sì, anche il gruista là
fuori balla un po’», e indicandolo, Daniele
Bonomi, 26 anni, responsabile sicurezza
del cantiere, lo invita a smontare. Fine turno. Si torna giù, in un gruppo che ha l’aria
di quelli che fecero l’impresa: la cosa più alta mai costruita in Italia. «Pensi che d’inverno», dice Daniele, «lavoriamo sopra la
nebbia».
ILANO NON È MAI STATA UNA VERA METROPOLI. Ha sempre avuto
più l’aspetto di una borgata lombarda. Anche se la città è
cresciuta enormemente negli anni, non ha mai trovato la
formula per diventare una metropoli. A differenza di
Torino, per esempio, o di Barcellona. I grandi architetti che
hanno operato qui, penso a Giò Ponti con il Grattacielo Pirelli, ma anche a
Franco Albini o Angelo Mangiarotti, hanno sempre costruito singole
strutture, singoli edifici, anche di grande pregio, ma isolati, al di fuori di una
vera pianificazione urbanistica, fuori da un
contesto complessivo. All’interno di una città che
giudico, nel suo complesso, piuttosto brutta,
anche se sicuramente ha aspetti positivi come gli
edifici liberty e art déco.
Con Expo 2015 c’è però, finalmente, la speranza
che qualcosa di buono possa accadere. Che si crei
quell’intreccio urbanistico capace di realizzare
una vera “City”. Sono ottimista. Dalla nuova sede
IL PARAGONE
della Regione Lombardia, il palazzo realizzato da
QUI SOPRA UN PANORAMA DEL 1998
Pei Cobb Freed & Partners di New York, al Bosco
E NELLA FOTO GRANDE LA STESSA VISUALE
Verticale di Stefano Boeri, agli edifici che vedo
NELL’APRILE DEL 2014 IN UNO SCATTO
crescere intorno a piazza Gae Aulenti e alla Fiera,
DI MARTINO LOMBEZZI (CONTRASTO)
molte cose mi sembrano muoversi nella direzione
giusta. Forse si sta davvero finalmente uscendo
dalla vecchia borgata per diventare metropoli.
Resta solo un grande sogno per Milano: la riapertura dei Navigli e la
valorizzazione delle sue straordinarie vie d’acqua. Chiuderli fu un errore
clamoroso. Andavano conservati e ampliati. Non so se oggi sarebbe
tecnicamente possibile farli rivivere. Ma la cosa andrebbe studiata se davvero
vogliamo pensare a una città più bella.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA
TORRE
SOLARIA
BOSCO
VERTICALE
DI STEFANO BOERI
D’ALTEZZA
ALTA
A SINISTRA
SOLEA (
PALAZZO
LOMBARDIA
)
NUOVA SEDE
DELLA REGIONE
ALTEZZA
ARCHITETTO
IEOH MING PEI
M
DIAMANTONE
PIRELLONE
ALTEZZA
ARCHITETTI
POLISANO
E CAPUTO
DISEGNATO
DA GIÒ PONTI
NEL 1958
È ALTO
TORRE GALFA
PROGETTATA
DA MELCHIORRE
BEGA NEL 1956
È ALTA
TORRE BREDA
COSTRUITA NEL 1954
SU PROGETTO
DI LUIGI MATTIONI
È ALTA
DUOMO
LA “MADONNINA”
HA DOMINATO
LA CITTÀ DAL 1774
AL 1958
FOTO DI MARTINO LOMBEZZI/CONTRASTO
casa e uffici, con prezzi al metro quadro tra
i sei e gli undici mila euro, che ha cominciato a prender corpo all’inizio degli anni
Duemila sulla scorta di dati sballati (forte
aumento della popolazione residente, che
non c’è stato; forte sottovalutazione della
crisi che s’annunciava, che invece c’è stata eccome) e che adesso si trova alle prese
col problema dell’assorbimento degli spazi: le stime, a oggi, parlano di un 40% di
venduto complessivo, che non è male ma
non basta. Spérem.
«Negli ultimi cinque anni, Milano è cambiata più che nei 60 precedenti». Lucia De
Cesaris, assessore all’Urbanistica e vicesindaco, ricorda bene come tutto è cominciato. Da un lato c’erano gli edificatori (i
vari Ligresti, Zunino, Coppola, Statuto),
dall’altro un combinato Comune-Regione
(Albertini-Formigoni) che certo non li sfavoriva. «Ognuno è partito a costruire con
un’idea sua, cercandosi l’architetto più figo, tutto in eccezione, in variante, come si
dice. Il nostro lavoro è stato quello di dare
regole certe alle tante isole che spuntavano, di renderle più milanesi per tutti i milanesi. Mi pare stia funzionando».
Il punto più alto per osservare la lievitazione è il 43esimo piano della Torre Isozaki, 168 metri e sopra il cielo. Ci si arriva
con stivali e caschetto, salendo scale appena abbozzate (l’ascensore si ferma al
35esimo). Per mettere in piedi un affare
così, ci vogliono 38 mesi e 200 persone.
Consegna prevista, 50esimo piano, febbraio 2015. «Ne mancano pochi», dice fi-
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L’attualità. Giochi senza frontiere
Non nascere in Ciad. Non lavorare in una fabbrica di jeans
Cerca di fare il parrucchiere. Ma soprattutto abbraccia l’asiatico
che ormai è già in te. Mohsin Hamid racconta con ironia
il nuovo mondo globalizzato.Che alla fine non è poi così male
MOHSIN HAMID
I
IL MIO ultimo romanzo, Come diventare ricchi sfondati nell’Asia emergente, è
una storia d’amore che racconta la vita di un uomo dalla nascita alla morte in
una megalopoli asiatica in continua crescita che potrebbe essere Lahore, la metropoli pachistana da dieci milioni di abitanti in cui vivo anch’io. Il romanzo vorrebbe essere un manuale di self-help che spiega al lettore come diventare ricco
sfondato nell’Asia emergente. O forse è in realtà un manuale di self-help che
vuole essere un romanzo. In ogni caso, si articola in dodici passi costituiti da consigli tipo “trasferisciti in città”, “non innamorarti”, “diventa amico di un burocrate” e “preparati a usare la violenza”.
Con il permesso dei lettori, vorrei proporre qui una guida in otto passi: Come
sopravvivere all’emergere dell’Asia nella bella Europa.
1. NASCERE IN EUROPA
Forse è superfluo dirlo, ma sarà infinitamente più semplice sopravvivere all’Asia
emergente nella bella Europa se intanto siete riusciti a nascere nella bella Europa. Se foste nati, per dire, in Ciad, vi sarebbe toccato
abbandonare la vostra casa, dire addio a
quasi tutte le persone conosciute fino a quel
momento, mettere mano ai risparmi di una
vita, accendere un mutuo, pagare i trafficanti di essere umani e corrompere le guardie costiere, attraversare il deserto del Sahara, rischiare di morire di fame e di essere sequestrati o violentate, evitare tempeste di
sabbia e banditi, arrivare in un piccolo porto
libico la cui lingua locale ignorate, mercanteggiare per un passaggio su un barcone collaudato per quaranta persone che ne imbarca duecento, sprofondare in acque che pullulano di squali bianchi due miglia nautiche
al largo di Lampedusa, riuscire a stare a galla nonostante i vestiti bagnati e le mani dei
vostri compagni di viaggio vi zavorrino verso il fondo, farcela ad arrivare in spiaggia. E,
dopo tutta questa fatica, riuscire a non essere rispediti in Ciad.
2. ESSERE EUROPEO EUROPEO
Essere nati in Europa è dunque il miglior
modo per arrivarci, ma non garantisce, purtroppo, l’essere considerati europei. L’Europa è un continente che aborre il razzismo,
che non tollera la bigotteria religiosa e che
difende la libertà di espressione. Ciò detto,
in Europa è comunque estremamente van-
“IMPARATE UN MESTIERE
CHE NON POSSA ESSERE
DELOCALIZZATO COME
IL PARRUCCHIERE:
NESSUNO VA A TAGLIARSI
I CAPELLI IN BANGLADESH
(ANCHE SE I SUDCOREANI
STANNO STUDIANDO
UN BARBIERE-ROBOT
CHE ESAMINA IL DNA)”
taggioso essere bianco, di origini cristiane e
parlare con l’accento dei presentatori televisivi europei degli anni ‘80. Se non soddisfate uno o più di questi criteri, non tutto è
perduto. Potreste essere comunque in grado
di sopravvivere all’emergere dell’Asia stando nella bella Europa, ma diventerà, diciamo
così, un po’ più complicato. Potreste trovarvi a dover sopravvivere all’emergere dell’Asia in un’Europa non così bella, il che, anche
se è un peccato, non sarebbe neanche la cosa peggiore che vi potrebbe accadere. Di
peggio vi potrebbe succedere di non sopravvivere affatto.
Breve
guida
pereuropei
riluttanti
3. IMPARARE UN MESTIERE CHE NON POSSA
ESSERE SVOLTO ALTROVE
La globalizzazione e i liberi mercati implicano che qualsiasi cosa che possa essere
comprata e venduta in altri mercati, sarà
comprata e venduta in altri mercati. Se la-
Sopravvivere alla Super Asia
gli otto buoni consigli
di uno scrittore pachistano
vorate in Europa in una fabbrica produttrice
di jeans, probabilmente sapete già cosa ciò
significhi perché la vostra fabbrica ha probabilmente già chiuso i battenti e qualcuno
sta svolgendo la vostra mansione in una nuova fabbrica in Bangladesh.
È dunque molto meglio lavorare in un servizio che possa essere fornito solo localmente, quale per esempio il parrucchiere: nessuno prenderà un volo per andare in Bangladesh a farsi tagliare i capelli — anche se credo che i sudcoreani stiano lavorando a un robot-parrucchiere che si alza in aria spinto da
quattro motori, entra dalla finestra dei clienti, si posa sulla loro testa e taglia i capelli in
92 secondi, per poi decollare verso il cliente
successivo. Questo robot è anche in grado di
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INFOGRAFICA PAULA SIMONETTI
4,72%
FOTO DI MARTIN PARR/MAGNUM/CONTRASTO
0,16 %
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identificare i terroristi confrontando un follicolo pilifero con un database situato negli
Stati Uniti. Forse, quindi, diventare parrucchiere non è l’idea migliore. Ma non c’è molto altro che si possa fare.
4. SPOSARSI CON UN PARTNER CHE ABBIA
PARECCHI PIÙ ANNI
L’Europa è il continente dell’amore, di Romeo e Giulietta, di Paolo e Francesca. Anche
su questo, state attenti! Quando tornerete
dal salone del parrucchiere dove vi guadagnate appena il pane quotidiano, non guardate il vicino o la vicina giovane dallo sguardo sexy e con un corpo perfetto che vi sorride. Perché l’Europa è anche la terra di
Werther e Lotte, e l’argomento trascurato
da I dolori del giovane Werther è il seguente:
il giovane Werther commette l’errore di innamorarsi della giovane Lotte e la sua vita si
trasforma in un disastro.
Se il giovane Werther avesse aspettato
qualche anno, avrebbe potuto incontrare la
più matura vedova di nome Gertrude. La
vecchia signora Gertrude avrebbe potuto
certamente garantire al giovane Werther
uno stile di vita al quale egli si sarebbe rapidamente abituato. Questa è la verità economica della bella Europa: mette le sue risorse
nelle mani dei cittadini non più giovani. La
vostra maggiore chance di godervi la Dolce
Vita sta nel trovare qualcuno abbastanza anziano da essere stato protagonista de La dolce vita. Buona fortuna!
5. FARE RICERCHE SULL’ALBERO GENEALOGICO
Grazie agli agi che garantisce un matrimonio vantaggioso, ora potrete godervi il
tempo libero. Perché non usarlo per deliziare la vostra metà offrendole, come regalo di
compleanno, l’analisi del Dna degli antenati? Basta un lieve strofinare del bastoncino
sulla parte interna della guancia mentre
dorme, per raccogliere un campione di cellule da spedire al laboratorio che vi farà avere i risultati rapidamente.
Quando vi arriveranno, però, potrebbero
non sortire l’effetto desiderato. A quanto pare, vostro marito o vostra moglie dal sangue
blu e dagli occhi chiari non era al corrente
dell’avvenuta mutazione M525 nei suoi geni e quindi dell’appartenenza all’aplogruppo R1b del cromosoma Y, che è comune nell’Europa Occidentale e anche nel… Ciad.
«Stai tentando di dirmi che sono
africano/a?», vi risponderanno stizziti. La
domanda è interessante.
“TORNATI A CASA
FARETE YOGA,
MEDITAZIONE E LETTURE
SUFI. POI UN GIORNO,
USCENDO PER STRADA,
SCOPRIRETE CHE OVUNQUE
I RAGAZZI FLIRTANO
E FUMANO. E SARANNO
TUTTI CINESI, TUTTI
AFRICANI, TUTTI BIANCHI,
TUTTI UMANI”
6. VIAGGIARE PER IL MONDO
Quando non sarete più sposati, e nemmeno più giovani, ma avrete a disposizione parte del denaro che sarete riusciti a garantirvi
con il divorzio, arriverà anche il vostro momento di esplorare il mondo. Che cosa è quest’Asia emergente, al cui assalto gli europei
stanno tentando di sopravvivere?
Prenotate un volo per la più improbabile
destinazione che possiate immaginare: per
il Pakistan. Lì, a Lahore, vi troverete a pernottare in un circolo fondato dagli inglesi,
che è associato al circolo cui appartenete a
casa vostra in Europa.
Il circolo ha una discreta quantità di bevande alcoliche per i membri e una zona bar
tranquilla nella quale farete conoscenza di
qualcuno della vostra stessa età, una persona asiatica che avrà vissuto la sua intera vita
in Asia e alla quale potrete chiedere com’è
essere nativi del luogo, di un continente
emergente.
Ci sarà una pausa e un’alzata di sopracciglio. Poi la seguente risposta: «Nativo? Sta
scherzando. Sono nato/nata qui e morirò
qui. Ma non sono nativo/nativa di questo luogo. È cambiato così tanto che non lo riconosco. Quando metto piede fuori dal circolo,
tutto è diverso da come io lo ricordo. I giovani si vestono in modo differente, parlano in
modo differente. Non c’è più rispetto, non
c’è più tradizione. Sono uno straniero. Lei ha
forse percorso una grande quantità di miglia
per arrivare qui, ma io ci arrivo dopo parecchi decenni. Io sono un migrante tanto quanto lei».
7. ALLA RICERCA DELLA FRONTIERA
Sarete colti dallo smarrimento. La vostra
convinzione che l’Europa e l’Asia fossero
due cose differenti traballerà. Vi chiederete
se le nazioni, e persino le civiltà, siano distinte in maniera significativa dal punto di
vista dell’essere umano. Per porre fine a questa follia, per ritrovare delle certezze là dove
impera la confusione, deciderete di recarvi
alla frontiera fisica tra Europa e Asia per vedere con i vostri occhi dove, concretamente,
finisce un continente e inizia l’altro. Inviterete a fare questo viaggio assieme a voi il vostro o la vostra amante di origine pachistana
e insieme partirete per la Russia, volando a
Mosca per poi raggiungere Orenburg. Là,
per recarvi dall’Europa all’Asia, attraverserete insieme il fiume Ural lungo un modesto
ponte pedonale bianco che sta nel centro della cittadina. «Hmm», direte. «Hmm», concorderà il vostro/la vostra amante. Un ragazzino vi sguscerà vicino su uno skateboard. Dopotutto non è una vera frontiera,
concluderete.
LE IMMAGINI
Le fotografie
che illustrano
il racconto
di Mohsin Hamid
sono di Martin Parr
dell’agenzia Magnum
Da sinistra,
Goa (India, 1993),
la Torre pendente
di Pisa (Italia, 1990)
e le Piramidi di Giza
(Egitto, 1992)
8. ABBRACCIATE L’ASIATICO CHE È IN VOI
L’AUTORE
Mohsin Hamid, 43 anni, pachistano,
autore dell’articolo scritto per Repubblica,
ha ricevuto ieri a Udine il Premio letterario
internazionale Tiziano Terzani
nell’ambito della X edizione del Festival
Vicino/Lontano (www.vicinolontano.it)
che si chiude oggi. Un riconoscimento
attribuito, ex aequo con il poeta friulano
Pierluigi Cappello, per il romanzo
Come diventare ricchi sfondati nell’Asia
emergente (Einaudi 2013). Sempre
con Einaudi nel 2007 aveva pubblicato
Il fondamentalista riluttante
A casa vostra in Europa, già più anziani e
affaticati dalle debolezze dell’età, probabilmente farete yoga per mantenere l’elasticità. Coltiverete la pienezza della mente con
la meditazione associata alla respirazione
per mantenere un senso di calma e di lucidità di fronte all’inevitabile fine della vita.
Leggerete anche un poema epico sufi che
narra di trenta uccelli che, mentre sono alla
ricerca del re di tutti gli uccelli, scoprono che
nel palazzo del re ci sono solo… loro. Poi uscirete di casa e nella piazza vicina, dopo aver
alzato lo sguardo verso la vecchia chiesa,
camminerete circondati da adolescenti che
flirtano e fumano marijuana, e saranno adolescenti di ogni colore, tutti europei, tutti
asiatici, tutti africani, tutti esseri umani.
(Traduzione di Guiomar Parada)
©Mohsin Hamid 2014
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La storia. 1914-2014
DISEGNO DI RICCARDO MANNELLI PER “REPUBBLICA”
Uno straordinario reportage in dieci dvd
Dalla Francia all’Ucraina partendo dalla sua Trieste
comincia il viaggio del nostro Paolo Rumiz
lungo i fronti europei della Grande Guerra
In trincea
col berretto
di mio
nonno
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uandoarrivai nell’aia del Moulin de Binard, capii dal profumo
che Joël stava per servire la cena. «On vous attendait», vi
aspettavamo, disse allegramente tirando l’asino verso la
stalla. S’era svegliato il vento del Norde, dopo tanta pioggia,
nel cielo di Piccardia erano uscite le stelle. Ero sporco di fango
di trincea fino alle ginocchia, mi cambiai in fretta e scesi in soggiorno.Jacquelineaveva preparato un magret de canard sapientemente caramellato e la tavola era piena di nuovi arrivi: quattro giovani operai fiamminghi e una coppia
di inglesi molto old fashioned, nei quali fiutai subito ricchezza di storie.
Q
PAOLO RUMIZ
PÉRONNE (FRONTE FRANCESE)
Fu cena memorabile, bene irrorata di Borgogna.
”Pour le repos, le plaisir du militaire...
la servante est jeune et gentille,
légère comme un papillon”.
Jacqueline cantò La Madelon, storia di una
servotta adorata dai coscritti del ‘14. Gli inglesi attaccarono Tipperary, a me rimase Addio,
mia bella addio. Era impossibile evitare la Guerra, lì sulla Somme. Era impressa nel paesaggio.
C’erano più morti che vivi: un milione, contro cinquecentomila residenti. Un milione di Caduti in
un fazzoletto. Centinaia di cimiteri, di inglesi,
francesi, tedeschi, canadesi, indiani del Commonwealth, sparpagliati tra i boschi e i campi sterminati di indivia. Eppure, curiosamente, la vicinanza di quell’immensa armata-ombra mi accendeva il
gusto della vita, come era successo a Ungaretti accanto al compagno morto in trincea. Ah, la Francia. Ritornare la sera dalla prima linea e sciogliere la fatica
in un buon bicchiere... Une baguette, du fromage, une
chanson... e ascoltare la notte che viene con lite di anatre nell’aia e scricchiolio di stelle allo Zenith.
I due inglesi erano venuti lì per visitare il fronte dei
loro vecchi; del resto sei visitatori su dieci venivano lì
a imparare qualcosa dai luoghi della prima catastrofe mondiale. Lei raccontò una storia del nonno: un volumetto di spartiti musicali nel giustacuore gli aveva
deviato una pallottola tedesca, nell’ultima battaglia
di Ypres. «Si può ben dire — disse — che è stata la musica a salvarlo». Poi si rimise a cantare. Quel mio viaggio era pieno di storie, talmente pieno che faticavo a
stivarle nel notes.
Avevo visto la Luna enorme della Polonia orientale
e una formazione di gru cercare il Nord sopra l’ossario
di Verdun. Un uomo simile a un mago mi aveva portato in una radura dove l’erba non cresceva da un secolo per via dei veleni. In Ucraina avevo visto accendersi per i rivoltosi uccisi nel 2014 a Kiev gli stessi lumini che avevo portato per i morti di un secolo prima.
In Belgio una gattina dolce mi aveva portato sulle tracce dal diavolo, nella trincea dove aveva combattuto
un caporale di nome Hitler.
Mi affacciai sulla terrazza. Le oche litigavano per
contendersi un isolotto del canale, al sicuro dalla volpe. In alto, il fulgore di Cassiopea. In basso, la terra selvaggia ardeva, disegnava luci su un paesaggio sconosciuto. Riconoscevo bivacchi di soldati, lumini di campagna, fuochi fatui, bagliori di ciminiere, fornaci, lampioni, candele votive, roghi di foglie secche e, all’orizzonte, la debole luminescenza di una metropoli. In
mezzo a tutto questo, un traffico di lucciole — o uomini, non so — che vagavano tracciando strani segni
zodiacali, stelle di un emisfero sconosciuto.
Ero da tre mesi in viaggio su una linea d’ombra, una
notte interminabile di treni e fiumi erranti, una lunga notte punteggiata da nebulose di villaggi e cimiteri. Avevo attraversato il fango colloso delle Fiandre e
il gelo dell’Ucraina, la neve delle Alpi Centrali e la pioggia dei Carpazi, i boschi della Serbia profonda e i sentieri della Polonia, ma ogni sera — ovunque fossi — luci bisbiglianti si accendevano qua e là. Luci alle quali,
come in una danza rituale, aggiungevo le mie candele dei morti.
Quel viaggio mi aveva cambiato. Avevo perduto
molte certezze, ma ora percepivo cose nuove e oscure. Temevo per l’Europa, la vedevo scricchiolare sempre sulle stesse linee di faglia. Ma masticavo la vita a
denti pieni. Ogni boccata d’aria era un morso, ogni
espirazione una litania di ringraziamento. Cantavo,
attraversando i luoghi della morte. Mi venne in mente la dolce Lala Lubelska, un’ebrea sopravvissuta ad
Auschwitz, che aveva accettato di raccontare la sua
storia solo a patto che il tema degli incontri fosse la bellezza della vita. Pace all’anima sua.
Nel museo della guerra di Péronne, a pochi chilometri dalla fattoria, dormivano manichini distesi, in
fosse rettangolari simili a tombe, o a trincee. La cura-
L’AUTORE
PAOLO RUMIZ
DOPO AVER
RACCONTATO,
L’ESTATE
SCORSA,
IL FRONTE
ITALOAUSTRIACO
DEL PRIMO
CONFLITTO
MONDIALE,
RIPERCORRE
ORA I LUOGHI
TEATRO
DELLA GUERRA
DEGLI ALTRI,
DALLA FRANCIA
ALLA POLONIA
trice aveva scelto di non mostrare soldati in piedi, per
il fatto elementare che la guerra è morte. In posizione
eretta c’erano solo madri terribili vestite di nero, in
agguato dietro un muro. In quei giorni l’Historial era
chiuso per migliorie e, nelle sale, ogni manichino in divisa era protetto da un velo provvisorio. Quel velo, senza volerlo, diventava simbolo: sudario, ragnatela, diaframma temporale. I corpi dicevano “allunga la mano, tu che passi. Puoi toccarci. Tutto è appena successo”. Come sul fronte orientale, anche in Francia ogni
tanto il velo si squarciava, e allora con “quelli di là” riuscivo quasi a parlarci. In Piccardia era specialmente
facile. I Caduti abitavano il paesaggio, la segnaletica,
la viabilità. “La bataille de la Somme”, stava scritto su
enormi cartelli tra Amiens e Cambrai. “Chemin des
Dames prossima uscita”, campeggiava sulla A 26 oltre Reims. Pensai che sul Carso nulla, disperatamente nulla diceva cos’era accaduto a chi passava sulle
strade. Per la politica la memoria restava muffa e retorica, e mi chiesi che futuro avesse un Paese così
pronto a dimenticare.
Dormii male per le libagioni. Vidi un drappello di
ulani; li riconobbi dai grandi cavalli e i riflessi d’ottone dell’elmetto sormontato da un tronco di piramide
rovesciata. Scendevano al buio, su terreno privo di alberi, segnato da stagni verdastri e tappeti di erica viola. Uno degli uomini, vedendomi, si alzò sulle staffe,
sollevò l’indice della sinistra e lo portò sulle labbra per
dirmi di tacere. Io tirai una mela fuori dalla tasca e la
porsi alla bestia, che nitrì nell’ombra, uscì dalla fila e
si avvicinò, ma quando mi fu accanto, mostrò sotto gli
speroni una gabbia toracica scoperchiata. Sentivo il
fischio rauco dei polmoni che spremevano, sotto le costole, il mantice di una fisarmonica senza note.
Tutto era cominciato dalle parti di Redipuglia, nell’ottobre del 2013. Avevo appena finito il viaggio sul
fronte italiano, ed ero andato con i soliti amici a cantare in osteria. A un tratto, ricordo bene, qualcosa mi
chiamò fuori. Nella pioggia, la terra serpeggiava di segnali. Le case sentivano il fronte, fiutavano posti da
arma bianca nella notte nera. Trincea delle Frasche,
San Michele, Selz, Monte Sei Busi. Conoscevo a me-
Presi scarpe grosse e poche
altre cose: qualche mappa,
orari dei treni, una lampada
frontale, taccuini, un vecchio
libro. E dall’attaccapanni
staccai un cappello di foggia
militare austriaca,
buono per la pioggia
moria quel dislivello. Ogni metro era impregnato di
agonie, segnato da vite smembrate, crocefisse su reticolati o mutilate da tagliole, ma nulla rammentava
l’immensità del dolore. Avrei dovuto calpestare bossoli, immondizie, sangue, stracci, membra umane,
gavette, resti di cibo, zoccoli, ferri, escrementi, suole
di scarpe, ma l’uomo e la natura avevano cancellato
ogni cosa. La notte profumava di erba, e interi paesi
dormivano, mangiavano e facevano l’amore sui resti
di un immane sacrificio umano. Andai al sacrario, per
stare da solo con i Centomila. La torcia elettrica cercò
invano un fiore in quella nudità totalitaria. Ero lan-
ciato nello spazio, come su un’astronave,
la pianura si apriva come una sterminata pista d’atterraggio. Li sentivo, maledettamente vicini. Erano lì, nel buio. Ondate regolari di uomini-frangenti che andavano a sfracellarsi sul Carso come su
una scogliera. Il cielo si preparava al temporale.
Chiesi: «Voi che abitate la casa dei venti, ditemi come parlare con voi. Com’è
possibile questo oblio... Come bucare la linea d’ombra dell’inconcepibile...».
Non ebbi risposta. Proseguii a piedi fino al cimitero austro-ungarico sull’altro
lato della strada. La torcia illuminò lapidi con nomi polacchi, dalmati, slovacchi, tedeschi e
magiari. Szász, Borodin, Turko, Wiszniowski, Felberger, Vraty, Cattarinich. Si udiva un mormorio pieno
di consonanti slave e vocali ebraiche, pareva un canto di musica klezmer. C’era tutto l’impero e il suo ordine plurale in quel perimetro minimo, qualcosa di
molto simile a ciò che oggi l’Europa Unita non è capace di essere.
Vennero nubi come bastimenti. Cannonate sempre più vicine, il cielo intero si preparava alla battaglia. Gli alberi strattonati dal vento scossero via le foglie e la pianura spense le luci. Tornai veloce, ma non
feci in tempo. Nembi enormi tracimarono dal monte
e sui gradoni dei Centomila la pioggia cominciò a tambureggiare, poi divenne rullo di guerra. Le scalinate
del sacrario erano diventate cascate. C’erano solo
duecento metri tra me e la macchina, ma in mezzo c’erano colonne d’acqua e così mi riparai sotto il tetto del
museo della guerra. Oltre le grate di una finestra, vidi tagliole, cesoie, mitraglie, baionette e corone di spine illuminate dai fulmini. Qualcosa mi disse “vai a cercare le guerre degli altri”. Era un ordine, non un suggerimento. Dovevo andare, e subito: i giorni dei morti si avvicinavano, si stava aprendo nel cielo una finestra irripetibile. Era tempo di fare un viaggio anche alle radici di me stesso. Come triestino, ero figlio di una
città rimasta austriaca cinque secoli, un italiano ciapà
col s’ciopo, come i trentini e tanti goriziani, istriani e
dalmati. Ero, a dir poco, complicato. Mio padre era stato ufficiale nell’esercito del Tricolore e avevo — per
parte di madre — un illustre, italianissimo zio irredentista. Ma mio nonno — italiano di lingua — aveva
combattuto con l’Austria, per il suo imperatore, e mia
nonna, senza muoversi da Trieste, aveva cambiato
sei bandiere nel demenziale andirivieni dei confini.
La mia vecchia diceva: «La guerra del quattordici». Io
protestavo, dicevo che era sbagliato, che era iniziata
nel ‘15. E lei ogni volta daccapo a dirmi: «Picio mio, noi
de Trieste semo ‘ndai in guera nel quatordici». Dovevo dunque partire da quella data, dalla guerra di quegli italiani nella divisa sbagliata, der vergessene
Krieg, il conflitto dimenticato a Est, quello oltre i Carpazi, senza contare la Serbia. Poco si era scritto di quel
fronte smisurato, quattro volte più ampio e infinitamente più mobile di quello italiano o franco-belga.
Quell’orizzonte spopolato che un giorno nereggiò di
milioni di uomini in armi non poteva essere più diverso dalle gole dell’Ortigara e dalle vigne dello Champagne. Non ne sapevo nulla, e lì dovevo andare.
Ricordo che presi scarpe grosse e poche altre cose.
Qualche mappa, orari dei treni, una lampada frontale, taccuini e un vecchio libro, la Guerra mondiale di
A. J. P. Taylor. Prima di uscire staccai dall’attaccapanni un berretto di foggia militare austriaca, buono
per la pioggia, identico a quello di mio nonno. Me l’aveva regalato un alpino italiano, un uomo di pascoli e
foreste, Gianni Rigoni Stern. Per quel copricapo in
Francia mi avrebbero preso per tedesco, in Germania
per un italiano originale, in Ucraina per un nazionalista anti-russo, in Italia per un austriacante.
A tutti avrei dovuto spiegare che era solo il cappello di mio nonno.
DIECI
DOCUFILM
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“PAOLO
RUMIZ
RACCONTA
LA GRANDE
GUERRA”
È IL TITOLO
DELLA SERIE
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DAL
21 MAGGIO
OGNI
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A 9,90 EURO
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DEL
GIORNALE.
LA PRIMA
USCITA
È IL DVD
“MALEDETTI
BALCANI”
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Repubblica Nazionale 2014-05-18
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 18 MAGGIO 2014
32
Spettacoli. Actor’s studio
Dean? “Ha viscere e palle”. Newman?
“Diventerà una star”. Marilyn? “Una gattina
randagia”. Le lettere in cui il regista
raccontava l’altra faccia di Hollywood
ANTONIO MONDA
NEW YORK
P
MAESTRO
LA COPERTINA
DEL LIBRO
THE SELECTED
LETTERS OF ELIA
KAZAN (ALFRED
A. KNOPF,
649 PAGINE)
A DESTRA
IL REGISTA
NEL1949.
QUI IN BASSO,
MARLON BRANDO
IN UN TRAM
CHE SI CHIAMA
DESIDERIO (1951)
IÙ DI SESSANT’ANNI dalla decisione di collaborare con la commis-
sione per le attività anti-americane, il nome di Elia Kazan suscita tuttora una divisione tra chi lo ammira incondizionatamente e chi manifesta un netto disprezzo. Nessuno tuttavia ne
ha mai messo in dubbio il talento folgorante, e l’importanza
che ha avuto nella storia dello spettacolo. Almeno due generazioni di attori si sono formati alla sua scuola, e un’intera classe
di drammaturghi, a cominciare da Arthur Miller, Thornton
Wilder e Tennessee Williams, deve a lui la realizzazione di spettacoli indimenticabili. Per non parlare dei capolavori del cinema, la fondazione del Group Theatre e dell’Actors Studio. Ora,
la pubblicazione di trecento lettere inedite ci consente di comprendere l’intimità di una personalità imperiosa e controversa, e di riflettere sulle sue scelte artistiche, politiche e persino sentimentali. Molte hanno il sapore della confidenza quotidiana (con la prima moglie, Molly Day Thacher, parlava anche delle amanti), altre rivelano un itinerario esistenziale oscillante tra la ricerca della verità e la constatazione della fallacia di ogni risultato. Se è illuminante quella con cui convince John Rockefeller a finanziare il Repertory Theatre, appaiono profetiche le riflessioni sui film nei quali denunciò il razzismo (Gentlemen’s agreement e Pinky), la corruzione nei sindacati (Fronte del porto) e la
politica ridotta a immagine vuota (Un volto
portò a realizzare il romanzo autobiografico
tra la folla).
Soprannominato “Gadg”, da “gadget”, America, America dal quale trasse il suo
perché piccolo, Kazan sapeva essere di volta film preferito. La scelta di collaborare con
in volta duttile e inflessibile per difendere la la commissione fu tormentata, ma la
propria libertà artistica: non ebbe paura di damnatio memoriae non nasce dalla defronteggiare Jack Warner e Darryll Zanuck posizione (gli otto nomi che fece erano
mentre discuteva aspramente con John già conosciuti, e fu proprio lui ad aiutare
Steinbeck e Clifford Odets. I cinephile si Zero Mostel), ma da una lettera aperta
emozioneranno leggendo come forgiò ta- in cui spiegò di aver «scelto il male milenti diversissimi come James Dean, Robert nore» e la necessità di utilizzare anche
De Niro, Montgomery Clift e Marlon Brando: mezzi dolorosi per «combattere il coKubrick scrisse che era «senza dubbio il mi- munismo». Negli anni Settanta inglior regista americano, capace di fare mi- staurò un intenso rapporto con Marracoli con gli attori». Non mancano le rivela- tin Scorsese, che gli ha dedicato il
zioni: in Fronte del porto voleva a tutti i costi magnifico Letter to Elia e lo conPaul Newman, e scrisse a Budd Schulberg sidera tuttora il suo mentore.
che Marlon Brando era un «ERRORE». Ebbe Fu lui, insieme a De Niro, a connumerose amanti, tra le quali Marilyn Mon- segnargli commosso l’Oscar alroe, («commovente e patetica»), e amici che la carriera di fronte a una plarimasero sempre al suo fianco come Ten- tea divisa: per metà la stannessee Williams. Più controverso il rapporto ding ovation, guidata da
con Arthur Miller, con il quale fu amico fra- Meryl Streep, e per l’altra
terno, ruppe all’epoca del maccartismo e si il folto numero di attori,
riconciliò in vecchiaia. La corrispondenza capeggiato da Nick Nolte,
consente di analizzare la disaffezione per rimasti seduti a non apHollywood, riflessa negli Ultimi fuochi, e la plaudire.
crescente passione per la narrativa, che lo
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Elia
Kazan
amici
miei
Repubblica Nazionale 2014-05-18
la Repubblica
DOMENICA 18 MAGGIO 2014
33
Lo so bene che Brando è bravo
ma non lo voglio in “Fronte del porto”
POLVERE DI STELLE
ELIA KAZAN
A DESTRA, DALL’ALTO
PAUL NEWMAN NEGLI ANNI ’50;
MARILYN MONROE
CON ARTHUR MILLER
NELLA TENUTA DI ROXBURY,
CONNECTICUT, NEL 1956;
JAMES DEAN E JULIE HARRIS
IN LA VALLE DELL’EDEN (1955)
A MARLON BRANDO, LUGLIO 1953
aro Marlon,
non posso fingere che sia facile
o semplice scriverti. Ti spedisco
la sceneggiatura di un film in corso di preparazione. Ci ho lavorato
a lungo e continuerò a farlo. È
qualcosa di molto profondo, che
si ispira alla gente normale. Non
voglio dire di più del soggetto del
film. Solo qualche parola sulla
parte. In base ai criteri comuni
che utilizzano produttori e registi per il casting, tu non sei la persona giusta per questa parte.
Ma del resto non eri la persona giusta neppure per la commedia
di Williams (Tennessee, ndt), e non eri neppure la persona giusta per Zapata. Questo ragazzo è un ex pugile, mezzo ingenuo
mezzo gangster. È un giovane che ha smarrito il senso della dignità interiore o dell’autostima. All’inizio della nostra storia
non sa quando l’ha persa o come. A mano a mano che si dipana
la storia, grazie alla relazione con una ragazza scopre la vergognosa situazione alla quale ha ceduto. Il succo della storia ha a
che vedere con il suo tentativo di ritrovare la propria dignità e
la propria autostima. Ci sarebbe ancora molto da dire, ma puoi
andare avanti da solo da qui, se ti interessa. Penso che sia una
parte da giganti e una sfida tremenda.
C
A BUDD SCHULBERG, LUGLIO 1953
Caro Budd,
un ultimo appunto prima che io tagli la corda e me ne vada.
Dovrò lasciare a te la responsabilità di sistemare le cose con
Brando. Nei prossimi dieci giorni non voglio dover pensare al
film. Non sono pazzo per ciò che concerne la parte di Brando. Dal mio punto di vista non è giusto per la parte. Ma è un
bravo attore e se riesce a entusiasmarsi e a lavorare come
un debuttante che fa di tutto per partire alla grande andrà
bene. Deve essere affamato e desideroso. Ho promesso a
Sam che l’avrei preso se avesse voluto fare un film e penso
che dal punto di vista commerciale senza dubbio ci aiuterà.
In ogni caso, arriva in città domenica due agosto e riparte
il cinque ed è imperativo che legga la sceneggiatura e ci dica
sì oppure no. Non può portarsi appresso la sceneggiatura in
Europa. Il tempo a nostra disposizione inizia a diminuire e non
possiamo aspettare che sua maestà si metta comodo a Parigi
e ci mandi la sua risposta quando ne ha voglia…
Se non prendiamo Brando, e penso che probabilmente non
accadrà, io sarei dell’idea di prendere Paul Newman. Quel ragazzo sarà una star del cinema. Non ho nessun dubbio in proposito. È affascinante come Brando e la sua mascolinità è notevole ed è anche più attuale. Non è ancora bravo quanto Brando,
e probabilmente non lo sarà mai, ma è un attore molto bravo in
ogni caso, con molto vigore, molta interiorità e molto sex appeal. Io scelgo lui, senza neanche vederne altri.
FOTO CAMERA PRESS
bene. Sembrano persone, non attori. Sono proprio soddisfatto
di questo. Due persone. E Dean ha il vantaggio di non essere mai
apparso sullo schermo.
A JOHN STEINBECK, MARZO 1954
Caro John,
ho cercato tra moltissimi giovani prima di scegliere questo
Jimmy Dean. Non ha lo spessore di Brando, ma è molto più
giovane di lui ed è molto interessante, ha le palle, e l’eccentricità, e un “problema serio” da qualche parte nelle viscere, non so di preciso che cosa o dove. È un
poco irresponsabile, ma è veramente bravo e
penso sia il migliore in un settore che per altro è misero. La maggior parte dei giovani che diventano attori a diciannove,
venti o ventuno anni è davvero inesperta ed esce dritto dritto dalla
scuola professionale di New York.
Dean ha una autentica vena di cattiveria, ma anche una autentica
vena di dolcezza. Ho incontrato
difficoltà enormi per la ragazza.
Terribile! Le ragazze sono peggio dei ragazzi. Mio dio, sono proprio nullità. O non hanno vissuto
o sono irresponsabili. Quella di
Abra è una grande parte. Spero che
ora tu non svenga. Voglio utilizzare
Julie Harris… Pensi sia impazzito? La
sceneggiatura dipende a tal punto da
lei nell’ultima scena con Adam e dalla
sua forza che devo necessariamente utilizzare una vera attrice. Non sono riuscito a
trovarne una di vent’anni. Sono nullità. Sì,
sanno tutto di balli scolastici, vestiti, fidanzati,
ma non esprimono niente che vada bene per la mia ultima scena. Alla fine ho fatto un provino fotografico a Julie e quando la
sua faccia è in movimento dimostra vent’anni, credo.
Una cosa a favore: lei e Jimmy Dean insieme stanno proprio
QUEL PAUL
SARÀUNA STAR
DEL CINEMA,
NON HO
NESSUN DUBBIO
È AFFASCINANTE
COME BRANDO,
LA SUA MASCOLINITÀ
È NOTEVOLE
E ANCHE PIÙ ATTUALE.
IO SCELGO LUI,
SENZA VEDERNE
ALTRI
LA MONROE
SEMBRAVA
UNA GATTINA
RANDAGIO
E MI HA FATTO PENA.
MA NON ERO
INTERESSATO A LEI,
QUELLO È VENUTO
DOPO. NON È AFFATTO
UNA DONNA TUTTA
SESSO. ALMENO
NON PER LA MIA
ESPERIENZA
HO CERCATO
MOLTISSIMI
GIOVANI
PRIMA
DI SCEGLIERE
QUESTO
JIMMY DEAN:
UN IRRESPONSABILE
CHE HA LE PALLE
E L’ECCENTRICITÀ.
E POI NON È MAI
APPARSO
SULLO SCHERMO
A MOLLY DAY THACHER (LA PRIMA MOGLIE, NDT), 29 NOV. 1955
Carissima Molly,
in un certo senso è vero che (Marilyn, ndt) non ha significato nulla. D’altra parte è stata un’esperienza umana, ed è iniziata, se ciò può avere un significato, nel modo più umano possibile. Aveva appena subito una perdita. Il suo ragazzo, o “quello
che la manteneva” (se vuoi essere cattiva), era appena morto.
La famiglia di lui non ha permesso che lei vedesse il corpo o mettesse piede in casa, dove viveva da quando lui è morto. Una notte ha cercato di intrufolarsi, ma è stata cacciata fuori. L’ho incontrata sul set di Harmon Jones quando sono andato a fargli
visita. Harmon pensa che lei sia una persona ridicola e la disprezza. L’ho trovata in lacrime, quando me l’ha presentata.
L’ho portata a cena perché mi sembrava una trovatella patetica e commovente. Ha singhiozzato per tutta la cena. Non ero
“interessato” a lei, quello è venuto dopo. Ma ero tremendamente commosso da lei e pensavo che aveva moltissimo talento. Ho avuto modo di conoscerla nel tempo e l’ho presentata ad
Arthur Miller, che è stato molto preso da lei. Non si può fare a
meno di restarne affascinati. Ha talento, è divertente, vulnerabile, indifesa in modo straziante, senza speranza e ha un certo valore; non è una bugiarda, non è cattiva, non è maliziosa e
ha alle spalle una vita da orfana che ti strazia quando la ascolti.
È un po’ come tutte le protagoniste di Charlie Chaplin messe insieme. Non mi vergogno di essere rimasto affascinato da lei. Lei
non è quello che appare adesso. Quando l’ho conosciuta era un
gattino randagio, e tutto ciò che aveva erano pochi vestiti e un
pianoforte. Immagino di averle dato molte speranze, anche
Arthur gliele ha date. Lei si è presa una cotta per Art, non per
me. Non è una donna tutta sesso come viene pubblicizzata. Almeno non in base alla mia esperienza.
A WARREN BEATTY, 22 MAGGIO 1963
Caro Warren,
perdona l’impertinenza di un amico. Mi piaci davvero, e mi
demoralizza venire a sapere che stai facendo impazzire tutti in
Maryland. So che le voci sono inaffidabili e non è giusto ripeterle. Ma diamine! Ripeto sempre “Warren sotto sotto è una persona magnifica!”. Ma c’è enorme contraddizione nel tuo modo
di fare. Da una parte dici di voler diventare una stella . L’hai detto e ripetuto non solo a me, ma a un sacco di altre persone. Devo dirti che diventare un fuoriclasse dipende, e lo sai benissimo,
dal fatto di lavorare con i registi migliori e recitare in buoni film.
Quando però questi registi sentono che sei un tipo “difficile”,
l’unica reazione legittima che possono avere è: “Chi ne ha bisogno?”. A me sembra che devi trovare un modo giusto per affermare te stesso e far valere le tue opinioni. Al tempo stesso, devi
far sì che sia piacevole lavorare con te, dignitoso trattare con te,
divertente trascorrere tempo con te, e si deve percepire che intendi contribuire allo sforzo collettivo. È disdicevole che tanti
pensino tu sia un problema. Hai molto: sei intelligente, hai talento e sensibilità. Sei affascinante, forte e fisicamente in gamba. Ma tutto ciò può essere reso nullo da quelle voci — vere, vere in parte, abbastanza false o qualsiasi altra cosa — che si raccontano su di te. Forse sono un impertinente a scriverti in questi termini. Non sono né tuo padre né tuo fratello, solo un amico. Tu però pensa alle cose che ti ho detto.
A ROBERT DE NIRO, 15 APRILE 1975
Caro Bobby,
ti piacciono le mie lettere? Eccone un’altra. C’è qualcosa di
molto importante che ho dimenticato di dirti, o di scrivere tra
gli appunti che ti ho consegnato. Stahr (il protagonista de Gli
ultimi fuochi, ndt) ha il senso di una missione. Una missione che
deve perseguire da solo. Il che è un modo molto romantico di vivere la propria vita, non credi? Quante persone conosci che hanno il senso di una missione? Stahr è determinato ad andare contro tutti quegli stronzi pieni di soldi che gli stanno attorno e portare a termine la sua missione. Qual è? Far sì che il Cinema sia
riconosciuto come un’arte. Thalberg fece un discorso proprio su
questo ed è nel libro che ti ho dato. Ma io penso che la sua missione andasse ancor più nel profondo e fosse più umana. Voleva dare rispetto al lavoro nel quale era impegnato, e quindi dare dignità alla sua stessa vita. Quella di Stahr è una parte fantastica, qualcosa con la quale non ti sei mai cimentato. So che
puoi farcela. Ma niente di tale portata è semplice. Occorrerà un
sacco di lavoro, di duro e buon lavoro. E serviranno riflessione,
cura, sperimentazione e… lavoro. Quindi non arrivare stanco.
Non tanto per me, Bobby, quanto PER IL TUO STESSO BENE.
(Traduzione di Anna Bissanti)
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Repubblica Nazionale 2014-05-18
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 18 MAGGIO 2014
Next. Ultima
34
ora
5-7 milioni di anni fa
Mr. Google News
“I giornali vanno
reinventati”
ACTA
DIURNA
33.000 anni fa
59 a.C.
STORIE ORALI
PITTURE RUPESTRI
ACTA DIURNA
La comunicazione orale
era l’unico mezzo
per trasmettere informazioni
alla generazione successiva
L’uomo di Neanderthal
ha disseminato di capolavori
le grotte di tutta Europa
Nell’antica Roma
veniva pubblicato
ogni giorno un resoconto
degli eventi accaduti
JAIME D’ALESSANDRO
1825
«I
L PRESENTE DELL’INFORMAZIONE
è straordinario e il futuro lo
sarà ancora di più. Chi non lo
capisce è perché non guarda
nella giusta direzione». A
parlare è un sessantaduenne
con la barba bianca e un ottimismo incrollabile da adolescente. Si chiama
Richard Gingras ed è a capo di Google News,
quell’aggregatore di notizie che può contare su
oltre un miliardo di lettori unici a settimana in
72 Paesi e in 45 lingue. In precedenza ha ricoperto ruoli importanti in Excite e Apple, e ancora prima alla Cbs, Nbc e Pbs dove ha creato il primo magazine online interattivo nel 1979. «A esser sincero non è mai esistito nella storia un periodo così fertile di opportunità e di strumenti
per i media».
«Le rispondo con una
citazione e un esempio.
Marshall McLuhan, e
più tardi Andy Warhol,
dissero che in futuro
chiunque avrebbe potuto diventare famoso per
quindici minuti. Alla fine però quel che sta succedendo negli open media è che chiunque può
diventare famoso in
quindici minuti. Recentemente Espreso Tv,
network di Kiev nato da
meno di un anno, ha raggiunto il primo posto fra
gli eventi più guardati
di sempre su YouTube,
scalzando il lancio di
Baumgartner dalla
stratosfera: 17,6 milioni di ore visualizzate in
54 giorni».
1994
WORLD WIDE WEB
È l’inizio del boom,
l'invenzione
è di Tim Berners-Lee
1867
1876
MACCHINA PER SCRIVERE
TELEFONO
Samuel Morse
inventa il telegrafo
e manda i piccioni
in pensione
La dattiloscrittura
ebbe il suo debutto
con Le avventure di Tom Sawyer
di Mark Twain
Inventato da Antonio
Meucci nel 1871, viene
brevettato da Alexander
Graham Bell
1973
MOTORI DI RICERCA
TELEFONO CELLULARE
Non esiste Google:
i primi motori
nascono all’inizio
degli anni ‘90
Il 3 aprile Martin Cooper,
ingegnere della Motorola,
fa la prima telefonata
con un cellulare
Che futuro
ha
la notizia
I cronisti U
servono
sempre
GIUSEPPE SMORTO
INSTANT MESSAGING
passato che delle testate scomparissero e per inciso attraverso Google
News i siti di informazione ricevono 10 miliardi
di visite al mese. È bene poi ricordarsi che i giornali sono da sempre uno strumento potente, ma
non sono mai stati business fruttuoso. Io credo
semplicemente che, nel caso di organi di informazione in crisi, non si sfrutti il potenziale che
hanno. I cosiddetti big data, tanto per citare un
caso, possono dirci molto della realtà delle cose
e con una precisione che non è mai esistita prima. Se vengono usati a fini commerciali, perché
non adoperarli per raccontare il mondo? Per
non parlare degli archivi dei quotidiani. Se solo
i giornali li organizzassero come si deve… Sono
autentiche miniere d’oro. Una delle più importanti testate americane ha realizzato un’app dedicata alla cucina, e il 98 per cento dei materiali
erano ricette pubblicate negli ultimi venti anni.
È stato un successo, anche economico. Non ci
credevano nemmeno loro».
La Einkommende Zeitungen,
fondata nel 1650 da un libraio
di Lipsia come settimanale,
dopo dieci anni diventa quotidiano
1990
1996
RICHARD GINGRAS
SENIOR
DIRECTOR
«Avveniva anche in GOOGLE NEWS
IL PRIMO QUOTIDIANO
La prima è fondata nel 1825
a Parigi da Charles Havas,
seguito da Wolff (Berlino)
e Reuter (Londra)
TELEGRAFO
«Si possono usare software simili per produrre notizie brevi sui risultati di un match di calcio,
per dirne una. Ma non c’è verso che un computer, oggi come domani, sia capace di raccontare
una storia così come lo fa una persona. Ed è proprio il raccontare il mondo che non scomparirà
mai né potrà scomparire quella capacità tutta
umana di capire cosa è
interessante e cosa no». NON C’È
MAI STATO
UN PERIODO
COSÌ FERTILE
DI STRUMENTI
E OPPORTUNITÀ:
IN FUTURO
LE INFORMAZIONI
SARANNO
IL TESSUTO
DELL’ESISTENZA.
MA NESSUNO
SI POTRÀ
SOSTITUIRE
ALL’UOMO
NELLA
CAPACITÀ
DI SCEGLIERE
E RACCONTARE
LE AGENZIE DI STAMPA
W E R
S D
1841
1660
n algoritmo non sarà mai un giornalista, un motore di ricerca non sarà mai una prima pagina. Anche se, grazie alla tecnologia, il giornalismo di oggi ha infinite possibilità. A chi parla di crisi, si può rispondere con i numeri. Mai così tanti lettori, se
consideriamo il moltiplicarsi dei modi di informarsi. E poi, pensate proprio che non ci sia
più bisogno di giornalismo? Intendendo per questa professione, una certa sensibilità, l’indipendenza, la curiosità, il coraggio. Materie che non si insegnano nemmeno nei Master,
ma che fanno la differenza: a Kiev, o anche in zone estese della nostra Italia, dove fare questo mestiere significa vivere costantemente sotto minaccia.
Quindi non è in crisi il giornalismo, forse un modo di farlo: non basta più la bella scrittura. È probabile che il giornalista di domani debba sapere di informatica, ma il più bravo
degli ingegneri non potrà mai sostituirlo. E un reportage sul campo farà sempre la differenza, solo che ognuno di noi si sceglierà il modo di leggerlo: sulla carta, sul tablet, sul cellulare o sul prossimo device non ancora in commercio.
Ci ha regalato il mondo
delle faccine. Intrattenere
una conversazione
non è mai stato
così divertente
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1997
?
2002
IL PRIMO BLOG
SOCIAL NETWORK
Nasce in America
nel 1997 come diario
digitale
Grazie a Friendster,
poi MySpace e ora Facebook,
passiamo un quarto del nostro tempo
collegati ai social network
2011
ONLINE CONTENT
COLLABORATION
Videoscrittura, tecnologia web
e una spruzzata di social network.
Agitate, mescolate: siete sulla nuvola
2006
MICROBLOGGING
Tweet, tweet, tweet…
200 milioni di esplosioni
di 140 caratteri al giorno.
Di chi siete il follower?
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Repubblica Nazionale 2014-05-18
la Repubblica
DOMENICA 18 MAGGIO 2014
550
301-800
SERVIZIO POSTALE
PRIMI MANOSCRITTI
Nascono le lettere,
ma i francobolli
(e la filatelia) arriveranno
molto più tardi
In Occidente
venivano scritti
senza spazi e senza
sollevare mai la penna
1150
PICCIONI
VIAGGIATORI
1563
1440
IL PRIMO GIORNALE
1919
«F
La possibilità di stampare libri
ha contribuito alla diffusione
del sapere tra le masse
1925
LE RADIO
TV
La prima trasmissione
comprendeva esibizioni
di famosi cantanti d’opera
della Metropolitan Opera House
Non ci sono più solo le voci:
a Londra iniziano le prime
trasmissioni televisive
1964
WORD PROCESSOR
1970
1969
I programmi
di videoscrittura
salvano un po’ di alberi,
permettendoci
di scrivere più in fretta
POSTA ELETTRONICA
INTERNET
Nascono le prime email
per scambiare messaggi
fra le varie università
Iniziata come progetto
militare, l’Arpanet è servita
da fondamenta per lo sviluppo
successivo di internet
Mai come oggi
le informazioni
ci bombardano
eppure i media
sono in difficoltà
Come si dovrà
comunicare?
A confronto
le tesi (opposte)
di due guru
mondiali
Mr. Media Mit
“Tanta scelta,
poca curiosità”
Nell’antichità sono stati
per molto tempo
il più veloce mezzo
di comunicazione
IL TORCHIO
DI GUTENBERG
In Europa il primo foglio di notizie
appare a Venezia: redatto a mano
per incarico del governo
e pubblicato tutti i mesi
35
RA DIECI ANNI avremo
tanti media basati
sulle relazioni personali, ma saremo
del tutto carenti di
notizie vere». Ethan
Zuckerman ha la
stazza del regista Michael Moore, teorie altrettanto radicali e il piglio del giovane
hacker. A vederlo, si direbbe il perfetto evangelista del digitale e delle sue infinite potenzialità. E invece Zuckerman, direttore del
Center for Civic Media al Mit di Boston, è l’esatto contrario. Il suo ultimo saggio, Rewire
(Egea), ribalta gran parte dei luoghi comuni sul web e sulla libertà che offrirebbe. «Partiamo dalle basi: noi vediamo il mondo attraverso i media. Quel che raccontano è il nostro sguardo. Peccato che sia uno sguardo
sempre più distorto».
«Sappiamo di poter viaggiare ovunque,
attraverso la Rete possiamo leggere e guardare qualsiasi cosa ed entrare in contatto
con chiunque. Eppure la maggior parte delle persone continua a non allontanarsi troppo da casa e a leggere media locali. Tutti oggi possono raccontare una storia e possono
condividerla, ma pochi lo fanno e pochissimi
hanno un vero pubblico.
Le fonti di informazione stanno diminuendo e sulla Rete
sono sempre più provinciali. Non abbia- CON IL WEB
mo mai avuto così SOLTANTO
tanta scelta, ma alla TEORICAMENTE
fine guardiano solo LE POSSIBILITÀ
nel nostro giardino. DI SAPERE
Prima avevamo una SONO INFINITE.
gerarchia, quella dei DI FATTO
giornali, ora abbia- CI INTERESSA
mo libertà. Peccato SOLO IL NOSTRO
non si si traduca in GIARDINO.
una maggior ric- MAGGIORE
chezza».
LIBERTÀ NON
SI TRADURRÀ
IN MAGGIORE
CONOSCENZA
PERCHÉ I SOCIAL
NETWORK HANNO
RISTRETTO
GLI ORIZZONTI
«Dal 1979 al
2009, gli articoli dedicati a quel che succede oltre il nostro
uscio di casa si sono
ridotti mediamente
di due terzi. Nel
2010 negli Usa sono
state visualizzate
9,8 miliardi di pagine web sui cento siti
di informazione più
seguiti, e il 93 per
cento riguardava
fonti statunitensi.
Altrove è peggio: in
Francia siamo al 98
così come in Italia o
in Cina. Ci sono delle
eccezioni, come il
New York Times, ma
di fatto il mondo che ETHAN ZUCKERMAN
stiamo osservando è DIRETTORE CENTER
sempre più piccolo». FOR CIVIC MEDIA
2005
DEL MIT DI BOSTON
«Facebook organizza automaticamente
quel che compare sulla nostra pagina in base alle “affinità”. Il risultato è che ci imbattiamo in cose che ci piacciono ma che non necessariamente ci servono. Inoltre, il 93 per
cento dei nostri contatti sui social network li
conosciamo nella vita reale, pur superficialmente. Questo significa che i social network
non sono necessariamente un luogo dove avvengono veri scambi. Anzi, tutt’altro».
CITIZEN JOURNALISM
INFOGRAFICA GAIA RUSSO
Con l’attentato terroristico
nella metro di Londra si inizia
a diffondere in Europa
il giornalismo partecipativo
«Le informazioni viaggeranno sull’onda
dell’emotività diffondendosi a macchia d’olio senza esaminarne la fondatezza . Avremo
anche una pluralità di fonti locali, non professionali, come in parte già avviene. Ma saremo sempre più provinciali».
(j.a.)
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Repubblica Nazionale 2014-05-18
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 18 MAGGIO 2014
36
Sapori. Familiari
LA MERENDA
PIÙ AMATA
DAGLI ITALIANI
(E NON SOLO)
COMPIE 50 ANNI
MA OVVIAMENTE
CI SONO ANCHE
ALTRE VERSIONI
VECCHIE E NUOVE.
PERCHÉ
L’IMPORTANTE
NON SEMPRE
È IL BARATTOLO
MA GLI INGREDIENTI
La novità
Si chiama “ChoX” la nuova
spalmabile a base di cioccolato
Domori, declinato di volta
in volta con nocciole, caffè,
extravergine, zucchero di canna
e tè, anche in versione bianca,
da gustare sia calda che fredda
(Illyteca, Via Luigi Einaudi 2/a
Trieste, tel. 040-2462230)
Il premio
All’International Chocolate
Awards 2013 di Londra, primo
premio nella categoria “dark”
per Guido Castagna con
la crema “Nocciole +55”. Vittoria
nella sezione “milk” per Marco
Vacchieri di Rivalta Torinese
(Guido Castagna Cioccolato
Via Maria Vittoria 27/C
Torino, tel. 011-19886585)
La cioccolateria
Storica rivale della tonda gentile,
la nocciola di Giffoni – a sua
volta IGP – è alla base di “Amore
di Nonna”, firmato
dalla cioccolateria pugliese
Maglio, nella doppia versione
al latte e fondente
(Maglio Arte Dolciaria
Via Templari 1
Lecce, tel. 0832-243816)
Un’altra nutella è possibile.
Crema al cioccolato fatta in casa
spalmare e leccarsi le dita
LICIA GRANELLO
C
INQUANT’ANNI E NON DIMOSTRARLI. Non una ruga sciupa il vasetto di vetro che contiene la crema spalmabile più famosa
del mondo, nata nell’aprile 1964 dal felice passaggio di testimone tra il fondatore della Ferrero, Pietro — l’ideatore
della ricetta — e il figlio Michele, capace di sdoganarla da
qualsivoglia provincialismo, sostituendo al banale “Supercrema” un nome da premio Pulitzer del marketing.
Nutella, ovvero la nocciola inglese (nut) ingentilita da
una desinenza cremosa, oggi vende mille tonnellate di prodotto al giorno in tutto il pianeta, e da tutto il pianeta raccoglie gli ingredienti della ricetta: nocciole dalla Turchia,
olio di palma dalla Malesia, cacao da Costa d’Avorio e Nigeria, vanillina dagli Stati Uniti. Un vanto globale per l’azienda che ha sede in Lussemburgo e conta oltre quaranta milioni di riferimenti su Google. Ma tra analisi sociologiche e citazioni cinefile, diatribe nutrizionali e dubbi etici, un’altra nutella è possibile. Perché niente più delle creme spalmabili sa modularsi su ricette, gusti e desideri più o meno inconfessabili, a cominciare dalla frutta secca che regala fragranza
e pastosità. Il Piemonte, terra-madre di mille piccole grandi rivoluzioni gastronomi- tellette. Ma ancora mezzo secolo fa, tra camche, dai grissini a Slow Food, è terra di noci pagna, colline e primi contrafforti alpini, i
e nocciole. Un tempo così diffuse e in tale boschi erano fonte inesauribile di legna,
quantità, da farne olio per alimentare le gherigli e affini.
Molto prima di allora, a metà dell’Ottolampade, lusso nemmeno immaginabile
nel Terzo millennio, se è vero che per estrar- cento, i pasticceri valdesi avevano cominre un litro di liquido occorrono quasi tre ciato a sostituire parzialmente il cioccolato
— diventato carissimo per il blocco delle imquintali di frutti.
Ben lo sanno i protagonisti della cucina portazioni imposto dalla Francia — con le
d’autore, che dosano gli olii di noci e noccio- nocciole, che non costavano niente e rendele col contagocce per impreziosire con un vano in termini di cremosità, sapore, fineztocco di aromatica eleganza insalate e tar- za. Tra le prime sperimentazioni del genia-
le pasticcere piemontese Michele Prochet e
la commercializzazione del primo gianduiotto in coincidenza con il Carnevale di
Torino del 1864, la cultura alimentare piemontese fece suo un matrimonio che non ha
mai conosciuto crisi.
Mentre la Nutella ha seguito un percorso
industriale che l’ha portata a dominare il
mondo delle creme in vasetto, valenti cioccolatieri e piccole imprese artigiane hanno
continuato la tradizione delle spalmabili.
Ogni pasticcere forte di una ricetta simile a
cento altre nella preparazione, ma diversa
e originale per scelta di materie prime e dosaggio degli ingredienti, dalla percentuale
di nocciole alla tipologia di cacao e cioccolato, fino alle aromatizzazioni (vaniglia, cannella, zenzero, etc...).
Non fatevi sedurre dal glamour dei barattoli. Sotto il vestito della confezione, cercate l’etichetta, ricordando che gli ingredienti vengono elencati in ordine decrescente di quantità. Se nocciole e cioccolato
sono in fondo alla lista, se non c’è traccia di
burro di cacao (al contrario dei tristanzuoli
grassi vegetali), né di aromi naturali, armatevi di pazienza e allegria e regalatevi il
più sano e irresistibile dei fai-da-te. D’obbligo, a fine assaggio, leccarsi le dita.
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Repubblica Nazionale 2014-05-18
la Repubblica
DOMENICA 18 MAGGIO 2014
Pane e...
French toast a strati
con crema al cioccolato
A guarnire, una spruzzata
di cacao in polvere
5 5
ingredienti
per una crema
modi
per gustarla
37
Il primo
brand
è opera
di Proust
STEFANO BARTEZZAGHI
La ricetta
Vi spiego come preparare
un’alternativa da maestro
INGREDIENTI PER 250 G. DI CREMA
100 G. DI NOCCIOLE PIEMONTE IGP; 80 G. DI ZUCCHERO A VELO
30 G. DI CIOCCOLATO FONDENTE EXTRABITTER (63% DI CACAO)
30 G. DI CIOCCOLATO AL LATTE FINISSIMO (35% DI CACAO)
5 G. DI CACAO IN POLVERE
Q
uesta è la ricetta di una crema spalmabile casalinga. Per
una variante più fine, si possono sostituire le nocciole con
la pasta di nocciole. La ricetta domestica, sulla falsa riga della nostra crema Gianduja, è composta dal 40% di nocciola Piemonte Igp e non presenta grassi vegetali aggiunti. Per prima cosa, tostare in forno le nocciole sgusciate 15’ a 120°C. Una volta raffreddate, si frullano
con lo zucchero a velo fino a ottenere un impasto omogeneo e cremoso. A questo punto, unire il cioccolato fondente e al latte, dopo averli debitamente sciolti a bagnomaria (non oltre 45°C). Infine,
aggiungere un cucchiaino di cacao in polvere.
Versare in un vasetto di vetro sterilizzato e
chiudere. Conservare a temperatura ambiente, tra 18 e 20°C, in un luogo fresco e
asciutto. A piacere, si può aggiungere ¼ di
bacca di vaniglia Bourbon.
Nocciole
Gelato
Vitamina E, magnesio
e manganese nella tonda
e gentile delle Langhe Igp,
con la quale Michele Prochet
mescola la pasta di cacao
per elaborare la primissima
ricetta del gianduiotto
Latte, panna e zucchero
mescolati e scaldati a 70°C,
a cui aggiungere la crema
spalmabile, mixando
a freddo. Per il variegato,
aggiungere la crema colata
a filo sulla base mantecata
Cacao
Brioche
Ottenuto separando la massa
di cacao dal suo grasso
pregiato. Nelle creme
di qualità, il burro di cacao
viene restituito alla miscela,
per migliorare spalmabilità
e fragranza
Per la farcitura super golosa,
inserire qualche cucchiaiata
di crema nel sac-à-poche,
dopo averla diluita
con pochissima marmellata
fluida o con un cucchiaino
di panna e riempire a piacere
Zucchero
Crostata
Dal bianco raffinato
a quello di canna grezzo,
troppo spesso copre gli altri
ingredienti per quantità,
livellando il gusto
In ricette light, maltitolo
o dolcificanti di sintesi
Sulla classica frolla cotta
coperta di carta da forno
e fagioli secchi perché non
si gonfi, la crema amalgamata
con qualche cucchiaio
di ricotta e spolverata
di nocciole tritate
Latte
Muffin
Rigorosamente in polvere,
quasi sempre in versione
magra, può essere sostituito
utilizzando il cioccolato
al latte. Nelle ricette vegane,
niente latte oppure latte
di soia o riso
Farina, zucchero e lievito
mescolati insieme, poi uova,
latte, burro fuso e poca crema
Negli stampini, pastella,
un cucchiaio
di crema fredda, il resto
dell’impasto e infornare
Vaniglia
Biscotti
Prima scelta per i semi
dei preziosi baccelli
della vanilla planifolia
Bourbon, dal Madagascar
e dall’isola della Rèunion
Nelle produzioni a basso
costo subentra la vanillina
I più semplici: crema e farina
in pari quantità, più un uovo
intero. Cucchiaini di impasto
leggermente schiacciati
sulla placca del forno
foderata con un silpat
(8 minuti di cottura)
LO CHEF
GUIDO GOBINO
È UNO DEI MIGLIORI
MAESTRI
CIOCCOLATIERI
ITALIANI. NEL SUO
LABORATORIO
TORINESE DECLINA
IL CIOCCOLATO
IN MODO ORIGINALE
CON ATTENZIONE
SPECIALE
ALLE NOCCIOLE
DI LANGA, COME
NELLA RICETTA
PER I LETTORI
DI REPUBBLICA
N
EL 1976, UNA BOTTIGLIETTA di
Coca Cola atterrava su un
pianeta desolato e vi
portava la vita (in senso
biologico, non festaiolo) al
ritmo del Bolero di Ravel. Accadeva nel
film Allegro non troppo, di Bruno
Bozzetto. Qualcosa del genere si è però
registrata anche sul pianeta della lingua
e della letteratura, con l’irruzione dei
nomi commerciali (i brand) dei prodotti
sulla scena comunicativa. È uno strano
tipo di parole, spesso in oscillazione fra il
nome proprio e il nome comune. Oggi i
banconi alimentari dei supermercati
sono pieni di merci il cui nome — in libri,
articoli, post — viene spesso scritto con la
minuscola e magari flesso come un nome
comune («prendiamo due fante»). Va’ a
spiegare ai bambini la differenza fra
carne in scatola e Simmenthal. O
all’avventore di un bar il diverso statuto
dei nomi Campari e gin.
Generazioni di spettatori, oramai, hanno
ammirato la scena di Palombella Rossa in
cui il trentacinquenne Michele Apicella,
interpretato da Nanni Moretti,
prorompe: «Le merendine di quando ero
bambino non torneranno più!». Solo che
lui intendeva il pane con il cioccolato,
non la Fiesta. Molti dei suoi spettatori più
giovani pensano invece a merendine
confezionate, i cui nomi risuonano alla
memoria dolci ed evocativi come la
famosa petite madeleine di quell’altro
narratore. E il bello che la suddetta
madeleine era a sua volta un “brand”,
derivava dal nome della cuoca che
l’avrebbe inventata, Madeleine
Paulmier. Tale precedente proustiano
non è stato tenuto in considerazione
quando, una ventina d’anni fa, si aprì un
dibattito sull’opportunità e il senso di
menzionare marchi e brand nei romanzi,
contro i pudori dei letterati che
ritengono più elegante la parafrasi
(«Gustò un formaggino dopo averlo
estratto dalla scatola tonda che riportava
l’immagine di un felino asiatico»).
I playboy vengono chiamati dongiovanni
perché Don Giovanni era il playboy, per
eccellenza. Quindi, da un certo punto di
vista, che ogni crema spalmabile al
cioccolato possa essere chiamata
genericamente e anche al minuscolo
nutella è segno di successo, profondo e
lusinghiero. Eccellenza, appunto. Ma
purtroppo questo punto di vista non è
quello commerciale, per il quale, al
contrario, le legittime ragioni di
esclusività impongono controlli e ritorni
del nome comune al nome proprio. È per
questo che il naming più recente flirta
con la grammatica e pesca i suoi nomi
propri nel vocabolario (come per i
biscotti: Macine, Gocciole, Abbracci,
secondo l’esempio antico dei Baci
Perugina). Si crea una sorta di zona
franca lessicale fra specie
merceologiche, singoli prodotti, forme
assestate nel mondo. Sono brand affabili
e colloquiali, tramite cui l’industria si
riveste di naturalezza.
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Repubblica Nazionale 2014-05-18
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 18 MAGGIO 2014
38
L’incontro. Diavoletti
ARGENTINO come Maradona (“Ma lui si crede Dio, e io sono agnosti-
NON HO CULTURA
E HO SCARSA
INTELLIGENZA,
MA POSSIEDO
UN GRANDE ISTINTO
IL PROTAGONISTA
DELLE MIE STRISCE,
QUELL’OMINO
INFINITESIMO
NELLA GALASSIA
CHE METTE TANTA
ALLEGRIA, SONO IO
co”) e come Papa Francesco (“Ma lui tifa San Lorenzo, io una squadretta da quattro soldi”) quando aveva cinque anni la nonna lo
portò a vedere Biancaneve: “Quel giornò scoprii l’America e l’amore per i cartoon”. Da allora non ha più smesso di disegnare, creando
mondi surreali fatti di giraffe dai colli lunghissimi e da impossibili
partite di pallone: “Se si gioca, nudo. La sua matita appuntita è per caso la lente d’ingrandimento di Dio? «Non
religioso. La mia famiglia era cattolica e sono cresciuto con il catechismo,
che però m’annoiava a morte. Passati i cinquant’anni sono diventato agnostico.
perché limitare l’assurdo? Fin- sono
È probabile comunque che la mia visione del mondo sia ancora influenzata da
quell’idea di onniveggenza, di beffardo e implacabile sguardo dall’alto, da cui mi
minacciato da bambino». È un leit motiv ricorrente nelle sue vignette,
ché renderemo il pianeta imper- sentivo
come in quella della suora in chiesa, mano nella mano del prete, che alza gli occhi
e esclama terrorizzata ‘‘Cielo, mio marito!’’: «Non c’è voluto molto per capire che
stato l’uomo a creare Dio a sua immagine e somiglianza, e non viceversa. A
fetto sarà sempre una risata èquesto
punto, mi sono chiesto perché mai Dio dovesse vedersi condannato a
rispecchiare l’uomo anziché un animale: giraffa, elefante, cane... M’è venuto in
aiuto l’inglese, dove cane è dog e Dio è God, cane ribaltato». Ama, anche nelle
quella che ci salverà”
vignette, le simmetrie, la specularità: «Uno dei miei disegnatori preferiti, e
Guillermo
Mordillo
MARIO SERENELLINI
VENEZIA
A
MILLE METRI D’ALTEZZA,
immaginandoci in vetta a una delle sue
giraffe, la Laguna, là sotto, appare una pozza ingarbugliata di
ponti, gondole, cupole, calli, canali, vaporetti e milioni di cucuzzoli
di cappellini in trasloco di massa, di campo in campo, dei turisti di
giornata. Parlare con Guillermo Mordillo, primo surrealista della
giungla, intrico di giraffe, lunghissime giraffe, e di elefanti, alci, coccodrilli,
ippopotami, interminabili serpenti, tucani, leoni, struzzi, tutti con gli occhioni
a palla, bloccati nello stupore frontale d’immagini fototessera, significa farsi
catapultare nel suo mondo animale e primordiale, lasciandosi andare di liana
in liana, nei suoi labirinti grafici: foreste, metropoli, lagune.
A Venezia, dove è stato celebrato e premiato al “Cartoons on the Bay” il
disegnatore argentino, ottantadue anni d’intatto entusiasmo infantile, non
manca di suggestionare l’interlocutore, minimizzando come ovvie le vertigini
visionarie, spiazzanti e fulminee, di quei grattacieli in cima ai quali predilige
organizzare partite di pallone o di tennis o tuffi parabolici o ancora, di grattacielo
in grattacielo, erba rasata e buche di golf. E sotto, gli abissi. «Se il gioco è gioco,
perché non giocarlo fino in fondo, con tutte le approssimazioni e assurdità che ci
vengono in mente? Confinando due squadre di calcio, per esempio, alle soglie del
cielo, al posto d’un giardino pensile. A pensarci bene, non sono più surreali gli
improbabili ritagli di terreno da cui i ragazzini riescono a ricavare i
loro campetti? In ogni caso non c’è mai premeditazione in quel
che invento. Vado d’istinto. Non ho alcuna cultura. E scarsa
intelligenza. Ma sono dotato di grande istinto». La sua estrema
modestia rovescia anche il rito dell’intervista, anticipando il
ritratto di sé: a parole, ma con identico procedere, a strisce
successive, delle sue vignette. Prima striscia: «Ho la barbetta
ispida e imbiancata, sono senza capelli e basso come
Maradona». Seconda striscia: «Sembro un monaco, un saggio,
ma sono un diavoletto, Mordillo, cioè “morso di cavallo”, che
HO CAPITO PRESTO CHE È STATO L’UOMO
A CREARE DIO A SUA IMMAGINE E SOMIGLIANZA,
E NON VICEVERSA. QUINDI MI DOMANDO
PERCHÉ DEBBA VEDERSI CONDANNATO
A RISPECCHIARE L’UOMO E NON UN IPPOPOTAMO
suona più allegro del mio nome, Guillermo».
Terza striscia: «Il protagonista dei miei disegni è
minuscolo. Il mondo è immenso, lui è un picciuolo:
una cosina infinitesima nel paesaggio, sul globo
terrestre, nella galassia. Non crea però ansia, ma
tanta allegria». Gag finale: «Quell’omino, c’est moi».
Le sue vignette sono zoomate disarmanti sul niente
di noi mortali, il suo occhio è un telescopio cosmico, che
spesso si diverte a immaginare l’ultimo gruzzolo
d’abitanti accatastati sulla calotta polare d’un pianeta
amici più grandi, Benito Jacovitti, si divertiva a ricordarmi che lui era nato nel
‘23 e io nel ‘32, lui era alto 1.86 e io 1.68. Siamo due gemelli a rovescio, mi
diceva». Nelle sue peregrinazioni artistiche e di vita, l’Italia è sempre stata tappa
obbligata, per i ripetuti premi (Andersen, Tolentino, Bordighera, Lucca...), le
edizioni tempestive (dalla Emme di Rosellina Archinto alla Mondadori), le
mostre (alla Stazione Centrale di Milano e, la più importante in Europa, due anni
fa, al Museo Luzzati di Genova) e i complici di lapis, da Crepax ad Altan, da Pratt
a Bonvi. Quali sente ancora a lei più vicini ? «Jacovitti e Osvaldo Cavandoli, il
papà di Mister Linea». Sono due radiografie della sua comicità: le Babeli grafiche,
gli ingorghi comici di nasi, cappelli, gomiti, calzini nelle tavole di Jacovitti e
l’omino di Cavandoli, quello della Lagostina, smarrito nel vuoto, farfugliante
nello spazio circense d’un filo sospeso, suo cammino e suo destino: «Sì, due artisti
che hanno influenzato molto il mio lavoro. E due grandi amici: che purtroppo non
posso più incontrare. Per questo vado sempre meno ai raduni mondiali del
fumetto, dove una volta facevamo insieme bisboccia».
In ormai mezzo secolo di successi, omini e animali di Mordillo non hanno mai
detto una parola: «Le mie vignette sono nate mute, perché non conoscevo la
lingua dei Paesi in cui ho cominciato a disegnare per guadagnarmi da vivere,
prima gli Stati Uniti, poi la Francia. Ho vissuto anche in Perù e in Spagna, prima
di trasferirmi, diciassette anni fa, a Montecarlo: ma ormai la mia fauna aveva
preso l’abitudine di esprimersi solo a mosse e sguardi. Ora però i miei personaggi
diventeranno tondi palloncini e parleranno — in tedesco! — in un
lungometraggio 3D che stanno realizzando da due anni in Germania».
L’animazione è stata un colpo di fulmine, da bambino. «Sì, grazie a mia nonna,
che mi ha portato al cinema a cinque anni a vedere Biancaneve e i sette nani,
appena uscito nel 1937. È stata la mia scoperta dell’America. Da quel momento
ho cominciato a scalpitare per i cartoon: il primo impiego fu alla Paramount,
dove ho contribuito alla caratterizzazione di star a disegni animati come Braccio
di ferro e la piccola Lulù». Il cinema è rimasto un amore parallelo al disegno.
«Fellini, che ho avuto anche la fortuna di incontrare, una quarantina d’anni fa, a
una mostra del grande Oski, è un mio idolo. Lui non mi conosceva e mi chiese
l’ora. “Le nove meno venti” risposi, mordendomi subito la lingua. Per tutta la vita
mi sono rimproverato per non aver detto “Otto e mezzo”».
In Mordillo palpita anche un altro grande schermo: il campo di calcio. È il
FELLINI ERA UN MIO IDOLO. CI SIAMO
INCONTRATI SOLO UNA VOLTA, MI CHIESE
L’ORA E PER TUTTA LA VITA MI SONO
RIMPROVERATO DI AVER RISPOSTO
NOVE MENO VENTI ANZICHÉ OTTO E MEZZO
sangue argentino? «Ho giocato a pallone fino a vent’anni, ogni giorno in strada,
partite che duravano sei ore. Era la pelota, il calcio dei poveri, degli immigrati: in
squadra, tanti ‘tani, cioè napoletani, come noi chiamavamo gli italiani, anche
quelli del nord. Maradona? Grandissimo giocatore. Ma si crede Dio. E io sono
agnostico». Altro argentino in auge è Papa Francesco: «È la prima volta che un
papa è più giovane di me — ride — Lo stimo molto. Una persona autentica,
che, come già faceva in Argentina, si mette dalla parte dei più semplici. In
questo, siamo simili. Ma lui è divenuto papa, io saltimbanco. Altra
differenza: lui tiene per l’importante San Lorenzo, io per una squadretta
da quattro soldi. Anche da tifoso mi sembrava di non potermi permettere
di più. I miei erano immigrati dalla Spagna, mio padre dall’Estremadura,
mia madre dalle Asturie. La casa dove abitavamo era la più misera del
quartiere: continua a esserlo anche oggi. Mio padre era elettricista, una
fortuna in quella situazione: non c’era nulla che funzionasse nel
quartiere e lui veniva continuamente chiamato per le riparazioni.
Sono stati per me anni felici. Ero lasciato libero di esprimermi, di
coltivare i miei sogni: disegnare, fare il clown, far ridere gli altri.
L’infanzia è l’unico vero lusso della mia vita». Ha sempre
sentito l’umorismo come un obbligo, una necessità? «Sono
lentissimo nel disegno, come l’amico Quino. Entrambi non
abbiamo la facilità del tratto, ma siamo animati da pari
passione. Per completare una tavola mi occorrono ormai
due o tre settimane. Dal primo scarabocchio (a due
anni) a oggi non avrò prodotto più di duemila
disegni. Ma continua a essere una spinta
quotidiana: l’utopia permanente d’un mondo felice.
L’umorismo è la tenerezza della paura: un modo di
esorcizzare drammi, inquietudini, angosce. In un
mondo felice l’umorismo non è necessario. Ma
finché renderemo il pianeta imperfetto, la risata ci
salverà».
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Repubblica Nazionale 2014-05-18