la domenica DI REPUBBLICA DOMENICA 18 MAGGIO 2014 NUMERO 480 Cult La copertina. Se il mainstream non è più main Straparlando. Valentina Cortese: “Io e Hollywood” La poesia del mondo. “Le occasioni” di Montale CARLO VERDELLI MILANO M ILANO si è messa il gel, ma se qualcuno pensa che c’entri l’Expo sbaglia di grosso: quando l’ex sindaco Moratti se l’è aggiudicato (e mal ce ne incolse, viste le mazzette e i ritardi a meno di un anno dal via), la cresta della metropoli già lievitava, e ancora s’impenna. Te ne accorgi al volo mentre atterri a Linate o scendi dal treno alla stazione Centrale e prendi per viale Liberazione. Il cambio di scena, lì come altrove, è impetuoso. Sulla destra, tutto come prima. A sinistra, una vertigine. Sul terrapieno che ospitava un triste lunapark, straripa il Diamantone, una follia sfaccettata in vetro e acciaio di 137 metri, seguita da due diamantini e poi dalla Torre Solaria, 140 metri, dove pare abbiano già trovato alloggio Belen e Ma- ria De Filippi (a far loro compagnia, Mario Balotelli, ma lui sta nelle villette rinate sulle ceneri della sede storica della Gazzetta dello sport, in via Galilei). Sullo sfondo, il Bosco verticale di Stefano Boeri, con mille tipi di alberi arrampicati su due torri di 24 e 17 piani. Passi un ponte e ti ritrovi in piazza Gae Aulenti, davanti alla stazione Garibaldi: è rialzata, si accede per scale mobili, è dominata dall’ottavo grattacielo più bello del mondo, che sembra lo specchio deformato di una regina dei titani, circondato da due torri-ancelle (i comodini della regina?) e in mezzo un baracchino vecchio stile con sei calciobalilla, più uno da Guinness con 22 manopole per parte. Nella vertiginosa Porta Nuova-ex Varesine, ogni cosa è naturalmente a bassissimo impatto ambientale e altissimo profilo. Garantisce Manfredi Catella, splendi- do splendente quarantenne livornese, che prima favorisce l’incontro tra il colosso immobiliare americano Hines e l’allora piccolo marcantonio siculo lombardo Salvatore Ligresti e poi, fallito quest’ultimo, lo sostituisce con un fondo del Quatar. “Eccellenza italiana più innovazione internazionale”. Più o meno la stessa filosofia dell’altro polo che sta reinventando Milano, ovvero CityLife, assicurato dall’impegno delle Generali col sostegno di Allianz. La zona è quella dell’ex Fiera campionaria, il progetto è da due miliardi e 200 milioni di euro: tre grattacieli, di cui uno, la Torre Isozaki che toccherà il record dei 204 metri (più 40 di antenna per la Rai), un parco che diventerà il terzo polmone verde della città e altre annunciate meraviglie urbanistiche. Tra i vantaggi accessori di questa metamorfosi meneghina, c’è che se perdi l’orientamento in una delle zone della cintura, ti basta guardare in su e trovi subito una guglia o una torre a guidarti verso la salvezza. La metropoli del terziario avanzato sta diventando la culla italiana del terziario allungato verso l’alto. Non poteva che succedere qui. Milano è da sola il 10% del Pil nazionale, il suo sistema copre ancora, nonostante la grandine perdurante della crisi, il 20% dell’import-export. Capitale morale? Lasciamo perdere. Ma capitale all’europea, questo sì. E adesso, quasi all’improvviso, lo si vede a occhio. È come se in città fossero arrivate le montagne. Sono prevalentemente di vetro, dalle forme più incongrue, con una o più ali attaccate alle spalle o allo sterno, o lisce e dritte come lastre di ghiaccio. SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE CON UN COMMENTO DI GILLO DORFLES Milano la città verticale MILANO PORTA NUOVA, MARZO 2013. FOTO DI MARTINO LOMBEZZI/CONTRASTO Nessun fotomontaggio La più europea delle italiane è cresciuta davvero. In altezza L’attualità. Mohsin Hamid, otto consigli per vivere in Eurasia La storia. Ritorno in trincea, la Prima Guerra di Paolo Rumiz Next. Mit o Google? Ultimissime notizie dalla galassia dell’informazione L’incontro. Mordillo: “Benvenuti nella mia giungla” Repubblica Nazionale 2014-05-18 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 18 MAGGIO 2014 26 La copertina. Milano verticale In principio fu il Pirellone (che superò la Madonnina) ora sono venti (e saranno ventiquattro) i grattacieli che a un anno dall’Expo hanno trasformato il volto della città. Passeggiata col naso all’insù <SEGUE DALLA PRIMA PAGINA CARLO VERDELLI A I LORO piedi, oltre a palazzine disegnate a forma di nave (progetto di Zaha Hadid) o concepite come uno spartito musicale (Daniel Libeskind), un fiorire di giardini e piste ciclabili, parte in essere, parte in divenire, e comunque a ingresso libero. Edilizia super residenziale ma senza zone riservate ai beati pochi, o tanti, come spera chi sta costruendo. Non a tutti piace, a qualcuno dispiace moltissimo. L’architetto svizzero Mario Botta, che già ristrutturò la Scala, ad Arcipelagomilano.org parla di «scenario da cartolina turistica, che trova la sua ragion d’essere negli emirati arabi, dove appunto non vi era la città». Ancora più scontento, il premio Nobel e milanese d’adozione Dario Fo: «Oscene quelle torri a grappolo, che se hai la sfortuna di abitarci intorno il sole lo vedi a orari fissi. Milano era città d’acqua, con due canali e sette fiumi: hanno interrato tutto, prosciugato l’anima di una comunità. Il semplicismo degli imbecilli, unito alla voglia di razzìa di potentati stranieri che ricordano i Lanzichenecchi». Il primo cittadino Giuliano Pisapia, milanese da 65 anni (tra due giorni), vede tutto un altro film: «Ho sempre pensato che Milano fosse una città brutta con un’infinità di posti belli, spesso nascosti. Adesso è come una primavera, la bellezza si crea e si diffonde. Ho incontrato uno dei tanti milanesi che si erano trasferiti altrove in cerca di verde. “Sindaco, ma è diventata splendida!”, mi ha detto quasi incredulo. Questa mutazione in corso mi affascina. Anche perché è una mutazione, diciamo così, governata. Come Giunta, abbiamo imposto a chi costruiva servizi per i cittadini, verde che fosse pubblico, rispetto e integrazione con quel che si trovavano intorno». Milano è sempre stata una città bassa, con qualche appuntita eccezione. La Madonnina, “che te brilet de luntan”, sopra tutto e tutti: con i suoi 108,50 metri, ha dominato dal 1774 il Duomo e il resto, ha resistito agli assalti della Torre Branca e della Torre Velasca, per capitolare solo nel 1958 di fronte all’ardire laico del Pirellone di Giò Ponti, 127 metri, “la fiaba verticale” secondo Luciano Bianciardi. Finale della “IN CINQUE ANNI IL PROFILO È CAMBIATO PIÙ CHE NEI SESSANTA PRECEDENTI LO SA CHE QUESTA È LA COSA PIÙ ALTA COSTRUITA IN ITALIA? GUARDI, SI VEDONO I MONTI. PENSI CHE D’INVERNO LAVORIAMO SOPRA LA NEBBIA” Come nasce unoskyline LA SCALA fiaba: fino all’altro ieri, 2005, i grattacieli a Milano erano cinque; adesso sono venti, più altri quattro in costruzione. Sulla palma del più alto si discute: l’Unicredit Tower (di mastro Cesar Pelli, argentinoamericano di origini italiane) dichiara 231 metri, ma 85 sono di guglia, quindi al tetto sarebbero 146, mentre la futuribile sede della Regione Lombardia (del cinoamericano Ieoh Ming Pei, lo stesso del Jfk di New York) tocca i 161 metri senza aiutini. Si riconosce, tra l’altro, perché ha una scritta “Expo” stile Broadway in cima a una facciata (sui marciapiedi, per “lombardizzare” un po’ il complesso, visto che il capo è il leghista Roberto Maroni, rocce dell’Adamello, granito verde dello Spluga, dorato della Valmalenco). Immaginate un grande cantiere, anzi due, l’uno indipendente dall’altro. Alla periferia nord, verso Rho e Pero, ruspe e gru s’affannano a preparare l’Esposizione Universale di maggio, con l’angoscia che risucceda quel che capitò a inizio del secolo scorso, quando l’Italia perse il treno e l’Expo cominciò, invece che nell’annunciato 1905, l’anno successivo. Era dedicata ai trasporti. Quella del 2015 al cibo (e c’è chi ha cominciato a mangiarci sopra per tempo). Spérem. L’altro cantiere riunisce gli imprenditori privati che stanno mettendo il gel sulla testa di Milano, dal Portello a Porta Nuova, da Santa Giulia a Porta Vittoria, a prescindere dall’Expo e molto prima dell’Expo. Una Milano bis da 50 mila posti extra, tra TORRE UNICREDIT FIRMATA DA CESAR PELLI PER ORA È LA PIÙ ALTA TORRI GARIBALDI LE DUE GEMELLE SONO ALTE RISTRUTTURATA SU PROGETTO DI MARIO BOTTA Repubblica Nazionale 2014-05-18 la Repubblica DOMENICA 18 MAGGIO 2014 27 Era brutta, è più bella non è mai stata metropoli adesso avrà la sua City GILLO DORFLES schiando l’operaio Salvatore. Quando i pochi verranno ultimati, qui ci verrà Allianz. Sulla sinistra, le fondamenta della sinuosa Torre Hahid (170 metri), riservata alle Generali. Sulla destra, lo spazio per l’inarcata Torre Libeskind (165 metri), destinata a una marca del nuovo mondo, forse Samsung. «Il disegno è di creare una specie di cupola aperta e multietnica», spiega lievemente affaticato dall’ascesa Marco Pogliani, voce di Citylife. «Non a caso abbiamo scelto come architetti un ebreo polacco, Daniel Libeskind, un’iraniana inglese islamica, Zaha Hadid, e un giapponese scintoista, Arata Isozaki, coordinati da Francesco Dal Co, italiano e cristiano». Ci affacciamo alla balaustra, il tramonto è pulito, qualcuno indica i nomi delle montagne, cominciando da ovest: Bisbino, Rosa, Gran Paradiso, Resegone, Grigne. Milano è sdraiata sotto, la Madonnina un punticino quasi invisibile, la montagnetta di San Siro, nata brulla, è una gobba verde scura prima del grande spiazzo vuoto dell’Expo. Non fa freddo ma da quassù, nonostante i teloni di protezione, il vento si sente. «Eh sì, anche il gruista là fuori balla un po’», e indicandolo, Daniele Bonomi, 26 anni, responsabile sicurezza del cantiere, lo invita a smontare. Fine turno. Si torna giù, in un gruppo che ha l’aria di quelli che fecero l’impresa: la cosa più alta mai costruita in Italia. «Pensi che d’inverno», dice Daniele, «lavoriamo sopra la nebbia». ILANO NON È MAI STATA UNA VERA METROPOLI. Ha sempre avuto più l’aspetto di una borgata lombarda. Anche se la città è cresciuta enormemente negli anni, non ha mai trovato la formula per diventare una metropoli. A differenza di Torino, per esempio, o di Barcellona. I grandi architetti che hanno operato qui, penso a Giò Ponti con il Grattacielo Pirelli, ma anche a Franco Albini o Angelo Mangiarotti, hanno sempre costruito singole strutture, singoli edifici, anche di grande pregio, ma isolati, al di fuori di una vera pianificazione urbanistica, fuori da un contesto complessivo. All’interno di una città che giudico, nel suo complesso, piuttosto brutta, anche se sicuramente ha aspetti positivi come gli edifici liberty e art déco. Con Expo 2015 c’è però, finalmente, la speranza che qualcosa di buono possa accadere. Che si crei quell’intreccio urbanistico capace di realizzare una vera “City”. Sono ottimista. Dalla nuova sede IL PARAGONE della Regione Lombardia, il palazzo realizzato da QUI SOPRA UN PANORAMA DEL 1998 Pei Cobb Freed & Partners di New York, al Bosco E NELLA FOTO GRANDE LA STESSA VISUALE Verticale di Stefano Boeri, agli edifici che vedo NELL’APRILE DEL 2014 IN UNO SCATTO crescere intorno a piazza Gae Aulenti e alla Fiera, DI MARTINO LOMBEZZI (CONTRASTO) molte cose mi sembrano muoversi nella direzione giusta. Forse si sta davvero finalmente uscendo dalla vecchia borgata per diventare metropoli. Resta solo un grande sogno per Milano: la riapertura dei Navigli e la valorizzazione delle sue straordinarie vie d’acqua. Chiuderli fu un errore clamoroso. Andavano conservati e ampliati. Non so se oggi sarebbe tecnicamente possibile farli rivivere. Ma la cosa andrebbe studiata se davvero vogliamo pensare a una città più bella. © RIPRODUZIONE RISERVATA © RIPRODUZIONE RISERVATA TORRE SOLARIA BOSCO VERTICALE DI STEFANO BOERI D’ALTEZZA ALTA A SINISTRA SOLEA ( PALAZZO LOMBARDIA ) NUOVA SEDE DELLA REGIONE ALTEZZA ARCHITETTO IEOH MING PEI M DIAMANTONE PIRELLONE ALTEZZA ARCHITETTI POLISANO E CAPUTO DISEGNATO DA GIÒ PONTI NEL 1958 È ALTO TORRE GALFA PROGETTATA DA MELCHIORRE BEGA NEL 1956 È ALTA TORRE BREDA COSTRUITA NEL 1954 SU PROGETTO DI LUIGI MATTIONI È ALTA DUOMO LA “MADONNINA” HA DOMINATO LA CITTÀ DAL 1774 AL 1958 FOTO DI MARTINO LOMBEZZI/CONTRASTO casa e uffici, con prezzi al metro quadro tra i sei e gli undici mila euro, che ha cominciato a prender corpo all’inizio degli anni Duemila sulla scorta di dati sballati (forte aumento della popolazione residente, che non c’è stato; forte sottovalutazione della crisi che s’annunciava, che invece c’è stata eccome) e che adesso si trova alle prese col problema dell’assorbimento degli spazi: le stime, a oggi, parlano di un 40% di venduto complessivo, che non è male ma non basta. Spérem. «Negli ultimi cinque anni, Milano è cambiata più che nei 60 precedenti». Lucia De Cesaris, assessore all’Urbanistica e vicesindaco, ricorda bene come tutto è cominciato. Da un lato c’erano gli edificatori (i vari Ligresti, Zunino, Coppola, Statuto), dall’altro un combinato Comune-Regione (Albertini-Formigoni) che certo non li sfavoriva. «Ognuno è partito a costruire con un’idea sua, cercandosi l’architetto più figo, tutto in eccezione, in variante, come si dice. Il nostro lavoro è stato quello di dare regole certe alle tante isole che spuntavano, di renderle più milanesi per tutti i milanesi. Mi pare stia funzionando». Il punto più alto per osservare la lievitazione è il 43esimo piano della Torre Isozaki, 168 metri e sopra il cielo. Ci si arriva con stivali e caschetto, salendo scale appena abbozzate (l’ascensore si ferma al 35esimo). Per mettere in piedi un affare così, ci vogliono 38 mesi e 200 persone. Consegna prevista, 50esimo piano, febbraio 2015. «Ne mancano pochi», dice fi- Repubblica Nazionale 2014-05-18 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 18 MAGGIO 2014 28 L’attualità. Giochi senza frontiere Non nascere in Ciad. Non lavorare in una fabbrica di jeans Cerca di fare il parrucchiere. Ma soprattutto abbraccia l’asiatico che ormai è già in te. Mohsin Hamid racconta con ironia il nuovo mondo globalizzato.Che alla fine non è poi così male MOHSIN HAMID I IL MIO ultimo romanzo, Come diventare ricchi sfondati nell’Asia emergente, è una storia d’amore che racconta la vita di un uomo dalla nascita alla morte in una megalopoli asiatica in continua crescita che potrebbe essere Lahore, la metropoli pachistana da dieci milioni di abitanti in cui vivo anch’io. Il romanzo vorrebbe essere un manuale di self-help che spiega al lettore come diventare ricco sfondato nell’Asia emergente. O forse è in realtà un manuale di self-help che vuole essere un romanzo. In ogni caso, si articola in dodici passi costituiti da consigli tipo “trasferisciti in città”, “non innamorarti”, “diventa amico di un burocrate” e “preparati a usare la violenza”. Con il permesso dei lettori, vorrei proporre qui una guida in otto passi: Come sopravvivere all’emergere dell’Asia nella bella Europa. 1. NASCERE IN EUROPA Forse è superfluo dirlo, ma sarà infinitamente più semplice sopravvivere all’Asia emergente nella bella Europa se intanto siete riusciti a nascere nella bella Europa. Se foste nati, per dire, in Ciad, vi sarebbe toccato abbandonare la vostra casa, dire addio a quasi tutte le persone conosciute fino a quel momento, mettere mano ai risparmi di una vita, accendere un mutuo, pagare i trafficanti di essere umani e corrompere le guardie costiere, attraversare il deserto del Sahara, rischiare di morire di fame e di essere sequestrati o violentate, evitare tempeste di sabbia e banditi, arrivare in un piccolo porto libico la cui lingua locale ignorate, mercanteggiare per un passaggio su un barcone collaudato per quaranta persone che ne imbarca duecento, sprofondare in acque che pullulano di squali bianchi due miglia nautiche al largo di Lampedusa, riuscire a stare a galla nonostante i vestiti bagnati e le mani dei vostri compagni di viaggio vi zavorrino verso il fondo, farcela ad arrivare in spiaggia. E, dopo tutta questa fatica, riuscire a non essere rispediti in Ciad. 2. ESSERE EUROPEO EUROPEO Essere nati in Europa è dunque il miglior modo per arrivarci, ma non garantisce, purtroppo, l’essere considerati europei. L’Europa è un continente che aborre il razzismo, che non tollera la bigotteria religiosa e che difende la libertà di espressione. Ciò detto, in Europa è comunque estremamente van- “IMPARATE UN MESTIERE CHE NON POSSA ESSERE DELOCALIZZATO COME IL PARRUCCHIERE: NESSUNO VA A TAGLIARSI I CAPELLI IN BANGLADESH (ANCHE SE I SUDCOREANI STANNO STUDIANDO UN BARBIERE-ROBOT CHE ESAMINA IL DNA)” taggioso essere bianco, di origini cristiane e parlare con l’accento dei presentatori televisivi europei degli anni ‘80. Se non soddisfate uno o più di questi criteri, non tutto è perduto. Potreste essere comunque in grado di sopravvivere all’emergere dell’Asia stando nella bella Europa, ma diventerà, diciamo così, un po’ più complicato. Potreste trovarvi a dover sopravvivere all’emergere dell’Asia in un’Europa non così bella, il che, anche se è un peccato, non sarebbe neanche la cosa peggiore che vi potrebbe accadere. Di peggio vi potrebbe succedere di non sopravvivere affatto. Breve guida pereuropei riluttanti 3. IMPARARE UN MESTIERE CHE NON POSSA ESSERE SVOLTO ALTROVE La globalizzazione e i liberi mercati implicano che qualsiasi cosa che possa essere comprata e venduta in altri mercati, sarà comprata e venduta in altri mercati. Se la- Sopravvivere alla Super Asia gli otto buoni consigli di uno scrittore pachistano vorate in Europa in una fabbrica produttrice di jeans, probabilmente sapete già cosa ciò significhi perché la vostra fabbrica ha probabilmente già chiuso i battenti e qualcuno sta svolgendo la vostra mansione in una nuova fabbrica in Bangladesh. È dunque molto meglio lavorare in un servizio che possa essere fornito solo localmente, quale per esempio il parrucchiere: nessuno prenderà un volo per andare in Bangladesh a farsi tagliare i capelli — anche se credo che i sudcoreani stiano lavorando a un robot-parrucchiere che si alza in aria spinto da quattro motori, entra dalla finestra dei clienti, si posa sulla loro testa e taglia i capelli in 92 secondi, per poi decollare verso il cliente successivo. Questo robot è anche in grado di Repubblica Nazionale 2014-05-18 la Repubblica DOMENICA 18 MAGGIO 2014 INFOGRAFICA PAULA SIMONETTI 4,72% FOTO DI MARTIN PARR/MAGNUM/CONTRASTO 0,16 % 29 identificare i terroristi confrontando un follicolo pilifero con un database situato negli Stati Uniti. Forse, quindi, diventare parrucchiere non è l’idea migliore. Ma non c’è molto altro che si possa fare. 4. SPOSARSI CON UN PARTNER CHE ABBIA PARECCHI PIÙ ANNI L’Europa è il continente dell’amore, di Romeo e Giulietta, di Paolo e Francesca. Anche su questo, state attenti! Quando tornerete dal salone del parrucchiere dove vi guadagnate appena il pane quotidiano, non guardate il vicino o la vicina giovane dallo sguardo sexy e con un corpo perfetto che vi sorride. Perché l’Europa è anche la terra di Werther e Lotte, e l’argomento trascurato da I dolori del giovane Werther è il seguente: il giovane Werther commette l’errore di innamorarsi della giovane Lotte e la sua vita si trasforma in un disastro. Se il giovane Werther avesse aspettato qualche anno, avrebbe potuto incontrare la più matura vedova di nome Gertrude. La vecchia signora Gertrude avrebbe potuto certamente garantire al giovane Werther uno stile di vita al quale egli si sarebbe rapidamente abituato. Questa è la verità economica della bella Europa: mette le sue risorse nelle mani dei cittadini non più giovani. La vostra maggiore chance di godervi la Dolce Vita sta nel trovare qualcuno abbastanza anziano da essere stato protagonista de La dolce vita. Buona fortuna! 5. FARE RICERCHE SULL’ALBERO GENEALOGICO Grazie agli agi che garantisce un matrimonio vantaggioso, ora potrete godervi il tempo libero. Perché non usarlo per deliziare la vostra metà offrendole, come regalo di compleanno, l’analisi del Dna degli antenati? Basta un lieve strofinare del bastoncino sulla parte interna della guancia mentre dorme, per raccogliere un campione di cellule da spedire al laboratorio che vi farà avere i risultati rapidamente. Quando vi arriveranno, però, potrebbero non sortire l’effetto desiderato. A quanto pare, vostro marito o vostra moglie dal sangue blu e dagli occhi chiari non era al corrente dell’avvenuta mutazione M525 nei suoi geni e quindi dell’appartenenza all’aplogruppo R1b del cromosoma Y, che è comune nell’Europa Occidentale e anche nel… Ciad. «Stai tentando di dirmi che sono africano/a?», vi risponderanno stizziti. La domanda è interessante. “TORNATI A CASA FARETE YOGA, MEDITAZIONE E LETTURE SUFI. POI UN GIORNO, USCENDO PER STRADA, SCOPRIRETE CHE OVUNQUE I RAGAZZI FLIRTANO E FUMANO. E SARANNO TUTTI CINESI, TUTTI AFRICANI, TUTTI BIANCHI, TUTTI UMANI” 6. VIAGGIARE PER IL MONDO Quando non sarete più sposati, e nemmeno più giovani, ma avrete a disposizione parte del denaro che sarete riusciti a garantirvi con il divorzio, arriverà anche il vostro momento di esplorare il mondo. Che cosa è quest’Asia emergente, al cui assalto gli europei stanno tentando di sopravvivere? Prenotate un volo per la più improbabile destinazione che possiate immaginare: per il Pakistan. Lì, a Lahore, vi troverete a pernottare in un circolo fondato dagli inglesi, che è associato al circolo cui appartenete a casa vostra in Europa. Il circolo ha una discreta quantità di bevande alcoliche per i membri e una zona bar tranquilla nella quale farete conoscenza di qualcuno della vostra stessa età, una persona asiatica che avrà vissuto la sua intera vita in Asia e alla quale potrete chiedere com’è essere nativi del luogo, di un continente emergente. Ci sarà una pausa e un’alzata di sopracciglio. Poi la seguente risposta: «Nativo? Sta scherzando. Sono nato/nata qui e morirò qui. Ma non sono nativo/nativa di questo luogo. È cambiato così tanto che non lo riconosco. Quando metto piede fuori dal circolo, tutto è diverso da come io lo ricordo. I giovani si vestono in modo differente, parlano in modo differente. Non c’è più rispetto, non c’è più tradizione. Sono uno straniero. Lei ha forse percorso una grande quantità di miglia per arrivare qui, ma io ci arrivo dopo parecchi decenni. Io sono un migrante tanto quanto lei». 7. ALLA RICERCA DELLA FRONTIERA Sarete colti dallo smarrimento. La vostra convinzione che l’Europa e l’Asia fossero due cose differenti traballerà. Vi chiederete se le nazioni, e persino le civiltà, siano distinte in maniera significativa dal punto di vista dell’essere umano. Per porre fine a questa follia, per ritrovare delle certezze là dove impera la confusione, deciderete di recarvi alla frontiera fisica tra Europa e Asia per vedere con i vostri occhi dove, concretamente, finisce un continente e inizia l’altro. Inviterete a fare questo viaggio assieme a voi il vostro o la vostra amante di origine pachistana e insieme partirete per la Russia, volando a Mosca per poi raggiungere Orenburg. Là, per recarvi dall’Europa all’Asia, attraverserete insieme il fiume Ural lungo un modesto ponte pedonale bianco che sta nel centro della cittadina. «Hmm», direte. «Hmm», concorderà il vostro/la vostra amante. Un ragazzino vi sguscerà vicino su uno skateboard. Dopotutto non è una vera frontiera, concluderete. LE IMMAGINI Le fotografie che illustrano il racconto di Mohsin Hamid sono di Martin Parr dell’agenzia Magnum Da sinistra, Goa (India, 1993), la Torre pendente di Pisa (Italia, 1990) e le Piramidi di Giza (Egitto, 1992) 8. ABBRACCIATE L’ASIATICO CHE È IN VOI L’AUTORE Mohsin Hamid, 43 anni, pachistano, autore dell’articolo scritto per Repubblica, ha ricevuto ieri a Udine il Premio letterario internazionale Tiziano Terzani nell’ambito della X edizione del Festival Vicino/Lontano (www.vicinolontano.it) che si chiude oggi. Un riconoscimento attribuito, ex aequo con il poeta friulano Pierluigi Cappello, per il romanzo Come diventare ricchi sfondati nell’Asia emergente (Einaudi 2013). Sempre con Einaudi nel 2007 aveva pubblicato Il fondamentalista riluttante A casa vostra in Europa, già più anziani e affaticati dalle debolezze dell’età, probabilmente farete yoga per mantenere l’elasticità. Coltiverete la pienezza della mente con la meditazione associata alla respirazione per mantenere un senso di calma e di lucidità di fronte all’inevitabile fine della vita. Leggerete anche un poema epico sufi che narra di trenta uccelli che, mentre sono alla ricerca del re di tutti gli uccelli, scoprono che nel palazzo del re ci sono solo… loro. Poi uscirete di casa e nella piazza vicina, dopo aver alzato lo sguardo verso la vecchia chiesa, camminerete circondati da adolescenti che flirtano e fumano marijuana, e saranno adolescenti di ogni colore, tutti europei, tutti asiatici, tutti africani, tutti esseri umani. (Traduzione di Guiomar Parada) ©Mohsin Hamid 2014 © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2014-05-18 LA DOMENICA la Repubblica DOMENICA 18 MAGGIO 2014 30 La storia. 1914-2014 DISEGNO DI RICCARDO MANNELLI PER “REPUBBLICA” Uno straordinario reportage in dieci dvd Dalla Francia all’Ucraina partendo dalla sua Trieste comincia il viaggio del nostro Paolo Rumiz lungo i fronti europei della Grande Guerra In trincea col berretto di mio nonno Repubblica Nazionale 2014-05-18 la Repubblica DOMENICA 18 MAGGIO 2014 31 uandoarrivai nell’aia del Moulin de Binard, capii dal profumo che Joël stava per servire la cena. «On vous attendait», vi aspettavamo, disse allegramente tirando l’asino verso la stalla. S’era svegliato il vento del Norde, dopo tanta pioggia, nel cielo di Piccardia erano uscite le stelle. Ero sporco di fango di trincea fino alle ginocchia, mi cambiai in fretta e scesi in soggiorno.Jacquelineaveva preparato un magret de canard sapientemente caramellato e la tavola era piena di nuovi arrivi: quattro giovani operai fiamminghi e una coppia di inglesi molto old fashioned, nei quali fiutai subito ricchezza di storie. Q PAOLO RUMIZ PÉRONNE (FRONTE FRANCESE) Fu cena memorabile, bene irrorata di Borgogna. ”Pour le repos, le plaisir du militaire... la servante est jeune et gentille, légère comme un papillon”. Jacqueline cantò La Madelon, storia di una servotta adorata dai coscritti del ‘14. Gli inglesi attaccarono Tipperary, a me rimase Addio, mia bella addio. Era impossibile evitare la Guerra, lì sulla Somme. Era impressa nel paesaggio. C’erano più morti che vivi: un milione, contro cinquecentomila residenti. Un milione di Caduti in un fazzoletto. Centinaia di cimiteri, di inglesi, francesi, tedeschi, canadesi, indiani del Commonwealth, sparpagliati tra i boschi e i campi sterminati di indivia. Eppure, curiosamente, la vicinanza di quell’immensa armata-ombra mi accendeva il gusto della vita, come era successo a Ungaretti accanto al compagno morto in trincea. Ah, la Francia. Ritornare la sera dalla prima linea e sciogliere la fatica in un buon bicchiere... Une baguette, du fromage, une chanson... e ascoltare la notte che viene con lite di anatre nell’aia e scricchiolio di stelle allo Zenith. I due inglesi erano venuti lì per visitare il fronte dei loro vecchi; del resto sei visitatori su dieci venivano lì a imparare qualcosa dai luoghi della prima catastrofe mondiale. Lei raccontò una storia del nonno: un volumetto di spartiti musicali nel giustacuore gli aveva deviato una pallottola tedesca, nell’ultima battaglia di Ypres. «Si può ben dire — disse — che è stata la musica a salvarlo». Poi si rimise a cantare. Quel mio viaggio era pieno di storie, talmente pieno che faticavo a stivarle nel notes. Avevo visto la Luna enorme della Polonia orientale e una formazione di gru cercare il Nord sopra l’ossario di Verdun. Un uomo simile a un mago mi aveva portato in una radura dove l’erba non cresceva da un secolo per via dei veleni. In Ucraina avevo visto accendersi per i rivoltosi uccisi nel 2014 a Kiev gli stessi lumini che avevo portato per i morti di un secolo prima. In Belgio una gattina dolce mi aveva portato sulle tracce dal diavolo, nella trincea dove aveva combattuto un caporale di nome Hitler. Mi affacciai sulla terrazza. Le oche litigavano per contendersi un isolotto del canale, al sicuro dalla volpe. In alto, il fulgore di Cassiopea. In basso, la terra selvaggia ardeva, disegnava luci su un paesaggio sconosciuto. Riconoscevo bivacchi di soldati, lumini di campagna, fuochi fatui, bagliori di ciminiere, fornaci, lampioni, candele votive, roghi di foglie secche e, all’orizzonte, la debole luminescenza di una metropoli. In mezzo a tutto questo, un traffico di lucciole — o uomini, non so — che vagavano tracciando strani segni zodiacali, stelle di un emisfero sconosciuto. Ero da tre mesi in viaggio su una linea d’ombra, una notte interminabile di treni e fiumi erranti, una lunga notte punteggiata da nebulose di villaggi e cimiteri. Avevo attraversato il fango colloso delle Fiandre e il gelo dell’Ucraina, la neve delle Alpi Centrali e la pioggia dei Carpazi, i boschi della Serbia profonda e i sentieri della Polonia, ma ogni sera — ovunque fossi — luci bisbiglianti si accendevano qua e là. Luci alle quali, come in una danza rituale, aggiungevo le mie candele dei morti. Quel viaggio mi aveva cambiato. Avevo perduto molte certezze, ma ora percepivo cose nuove e oscure. Temevo per l’Europa, la vedevo scricchiolare sempre sulle stesse linee di faglia. Ma masticavo la vita a denti pieni. Ogni boccata d’aria era un morso, ogni espirazione una litania di ringraziamento. Cantavo, attraversando i luoghi della morte. Mi venne in mente la dolce Lala Lubelska, un’ebrea sopravvissuta ad Auschwitz, che aveva accettato di raccontare la sua storia solo a patto che il tema degli incontri fosse la bellezza della vita. Pace all’anima sua. Nel museo della guerra di Péronne, a pochi chilometri dalla fattoria, dormivano manichini distesi, in fosse rettangolari simili a tombe, o a trincee. La cura- L’AUTORE PAOLO RUMIZ DOPO AVER RACCONTATO, L’ESTATE SCORSA, IL FRONTE ITALOAUSTRIACO DEL PRIMO CONFLITTO MONDIALE, RIPERCORRE ORA I LUOGHI TEATRO DELLA GUERRA DEGLI ALTRI, DALLA FRANCIA ALLA POLONIA trice aveva scelto di non mostrare soldati in piedi, per il fatto elementare che la guerra è morte. In posizione eretta c’erano solo madri terribili vestite di nero, in agguato dietro un muro. In quei giorni l’Historial era chiuso per migliorie e, nelle sale, ogni manichino in divisa era protetto da un velo provvisorio. Quel velo, senza volerlo, diventava simbolo: sudario, ragnatela, diaframma temporale. I corpi dicevano “allunga la mano, tu che passi. Puoi toccarci. Tutto è appena successo”. Come sul fronte orientale, anche in Francia ogni tanto il velo si squarciava, e allora con “quelli di là” riuscivo quasi a parlarci. In Piccardia era specialmente facile. I Caduti abitavano il paesaggio, la segnaletica, la viabilità. “La bataille de la Somme”, stava scritto su enormi cartelli tra Amiens e Cambrai. “Chemin des Dames prossima uscita”, campeggiava sulla A 26 oltre Reims. Pensai che sul Carso nulla, disperatamente nulla diceva cos’era accaduto a chi passava sulle strade. Per la politica la memoria restava muffa e retorica, e mi chiesi che futuro avesse un Paese così pronto a dimenticare. Dormii male per le libagioni. Vidi un drappello di ulani; li riconobbi dai grandi cavalli e i riflessi d’ottone dell’elmetto sormontato da un tronco di piramide rovesciata. Scendevano al buio, su terreno privo di alberi, segnato da stagni verdastri e tappeti di erica viola. Uno degli uomini, vedendomi, si alzò sulle staffe, sollevò l’indice della sinistra e lo portò sulle labbra per dirmi di tacere. Io tirai una mela fuori dalla tasca e la porsi alla bestia, che nitrì nell’ombra, uscì dalla fila e si avvicinò, ma quando mi fu accanto, mostrò sotto gli speroni una gabbia toracica scoperchiata. Sentivo il fischio rauco dei polmoni che spremevano, sotto le costole, il mantice di una fisarmonica senza note. Tutto era cominciato dalle parti di Redipuglia, nell’ottobre del 2013. Avevo appena finito il viaggio sul fronte italiano, ed ero andato con i soliti amici a cantare in osteria. A un tratto, ricordo bene, qualcosa mi chiamò fuori. Nella pioggia, la terra serpeggiava di segnali. Le case sentivano il fronte, fiutavano posti da arma bianca nella notte nera. Trincea delle Frasche, San Michele, Selz, Monte Sei Busi. Conoscevo a me- Presi scarpe grosse e poche altre cose: qualche mappa, orari dei treni, una lampada frontale, taccuini, un vecchio libro. E dall’attaccapanni staccai un cappello di foggia militare austriaca, buono per la pioggia moria quel dislivello. Ogni metro era impregnato di agonie, segnato da vite smembrate, crocefisse su reticolati o mutilate da tagliole, ma nulla rammentava l’immensità del dolore. Avrei dovuto calpestare bossoli, immondizie, sangue, stracci, membra umane, gavette, resti di cibo, zoccoli, ferri, escrementi, suole di scarpe, ma l’uomo e la natura avevano cancellato ogni cosa. La notte profumava di erba, e interi paesi dormivano, mangiavano e facevano l’amore sui resti di un immane sacrificio umano. Andai al sacrario, per stare da solo con i Centomila. La torcia elettrica cercò invano un fiore in quella nudità totalitaria. Ero lan- ciato nello spazio, come su un’astronave, la pianura si apriva come una sterminata pista d’atterraggio. Li sentivo, maledettamente vicini. Erano lì, nel buio. Ondate regolari di uomini-frangenti che andavano a sfracellarsi sul Carso come su una scogliera. Il cielo si preparava al temporale. Chiesi: «Voi che abitate la casa dei venti, ditemi come parlare con voi. Com’è possibile questo oblio... Come bucare la linea d’ombra dell’inconcepibile...». Non ebbi risposta. Proseguii a piedi fino al cimitero austro-ungarico sull’altro lato della strada. La torcia illuminò lapidi con nomi polacchi, dalmati, slovacchi, tedeschi e magiari. Szász, Borodin, Turko, Wiszniowski, Felberger, Vraty, Cattarinich. Si udiva un mormorio pieno di consonanti slave e vocali ebraiche, pareva un canto di musica klezmer. C’era tutto l’impero e il suo ordine plurale in quel perimetro minimo, qualcosa di molto simile a ciò che oggi l’Europa Unita non è capace di essere. Vennero nubi come bastimenti. Cannonate sempre più vicine, il cielo intero si preparava alla battaglia. Gli alberi strattonati dal vento scossero via le foglie e la pianura spense le luci. Tornai veloce, ma non feci in tempo. Nembi enormi tracimarono dal monte e sui gradoni dei Centomila la pioggia cominciò a tambureggiare, poi divenne rullo di guerra. Le scalinate del sacrario erano diventate cascate. C’erano solo duecento metri tra me e la macchina, ma in mezzo c’erano colonne d’acqua e così mi riparai sotto il tetto del museo della guerra. Oltre le grate di una finestra, vidi tagliole, cesoie, mitraglie, baionette e corone di spine illuminate dai fulmini. Qualcosa mi disse “vai a cercare le guerre degli altri”. Era un ordine, non un suggerimento. Dovevo andare, e subito: i giorni dei morti si avvicinavano, si stava aprendo nel cielo una finestra irripetibile. Era tempo di fare un viaggio anche alle radici di me stesso. Come triestino, ero figlio di una città rimasta austriaca cinque secoli, un italiano ciapà col s’ciopo, come i trentini e tanti goriziani, istriani e dalmati. Ero, a dir poco, complicato. Mio padre era stato ufficiale nell’esercito del Tricolore e avevo — per parte di madre — un illustre, italianissimo zio irredentista. Ma mio nonno — italiano di lingua — aveva combattuto con l’Austria, per il suo imperatore, e mia nonna, senza muoversi da Trieste, aveva cambiato sei bandiere nel demenziale andirivieni dei confini. La mia vecchia diceva: «La guerra del quattordici». Io protestavo, dicevo che era sbagliato, che era iniziata nel ‘15. E lei ogni volta daccapo a dirmi: «Picio mio, noi de Trieste semo ‘ndai in guera nel quatordici». Dovevo dunque partire da quella data, dalla guerra di quegli italiani nella divisa sbagliata, der vergessene Krieg, il conflitto dimenticato a Est, quello oltre i Carpazi, senza contare la Serbia. Poco si era scritto di quel fronte smisurato, quattro volte più ampio e infinitamente più mobile di quello italiano o franco-belga. Quell’orizzonte spopolato che un giorno nereggiò di milioni di uomini in armi non poteva essere più diverso dalle gole dell’Ortigara e dalle vigne dello Champagne. Non ne sapevo nulla, e lì dovevo andare. Ricordo che presi scarpe grosse e poche altre cose. Qualche mappa, orari dei treni, una lampada frontale, taccuini e un vecchio libro, la Guerra mondiale di A. J. P. Taylor. Prima di uscire staccai dall’attaccapanni un berretto di foggia militare austriaca, buono per la pioggia, identico a quello di mio nonno. Me l’aveva regalato un alpino italiano, un uomo di pascoli e foreste, Gianni Rigoni Stern. Per quel copricapo in Francia mi avrebbero preso per tedesco, in Germania per un italiano originale, in Ucraina per un nazionalista anti-russo, in Italia per un austriacante. A tutti avrei dovuto spiegare che era solo il cappello di mio nonno. DIECI DOCUFILM IN EDICOLA “PAOLO RUMIZ RACCONTA LA GRANDE GUERRA” È IL TITOLO DELLA SERIE DI VIDEO REPORTAGE IN VENDITA CON REPUBBLICA DAL 21 MAGGIO OGNI MERCOLEDÌ A 9,90 EURO PIÙ IL PREZZO DEL GIORNALE. LA PRIMA USCITA È IL DVD “MALEDETTI BALCANI” © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2014-05-18 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 18 MAGGIO 2014 32 Spettacoli. Actor’s studio Dean? “Ha viscere e palle”. Newman? “Diventerà una star”. Marilyn? “Una gattina randagia”. Le lettere in cui il regista raccontava l’altra faccia di Hollywood ANTONIO MONDA NEW YORK P MAESTRO LA COPERTINA DEL LIBRO THE SELECTED LETTERS OF ELIA KAZAN (ALFRED A. KNOPF, 649 PAGINE) A DESTRA IL REGISTA NEL1949. QUI IN BASSO, MARLON BRANDO IN UN TRAM CHE SI CHIAMA DESIDERIO (1951) IÙ DI SESSANT’ANNI dalla decisione di collaborare con la commis- sione per le attività anti-americane, il nome di Elia Kazan suscita tuttora una divisione tra chi lo ammira incondizionatamente e chi manifesta un netto disprezzo. Nessuno tuttavia ne ha mai messo in dubbio il talento folgorante, e l’importanza che ha avuto nella storia dello spettacolo. Almeno due generazioni di attori si sono formati alla sua scuola, e un’intera classe di drammaturghi, a cominciare da Arthur Miller, Thornton Wilder e Tennessee Williams, deve a lui la realizzazione di spettacoli indimenticabili. Per non parlare dei capolavori del cinema, la fondazione del Group Theatre e dell’Actors Studio. Ora, la pubblicazione di trecento lettere inedite ci consente di comprendere l’intimità di una personalità imperiosa e controversa, e di riflettere sulle sue scelte artistiche, politiche e persino sentimentali. Molte hanno il sapore della confidenza quotidiana (con la prima moglie, Molly Day Thacher, parlava anche delle amanti), altre rivelano un itinerario esistenziale oscillante tra la ricerca della verità e la constatazione della fallacia di ogni risultato. Se è illuminante quella con cui convince John Rockefeller a finanziare il Repertory Theatre, appaiono profetiche le riflessioni sui film nei quali denunciò il razzismo (Gentlemen’s agreement e Pinky), la corruzione nei sindacati (Fronte del porto) e la politica ridotta a immagine vuota (Un volto portò a realizzare il romanzo autobiografico tra la folla). Soprannominato “Gadg”, da “gadget”, America, America dal quale trasse il suo perché piccolo, Kazan sapeva essere di volta film preferito. La scelta di collaborare con in volta duttile e inflessibile per difendere la la commissione fu tormentata, ma la propria libertà artistica: non ebbe paura di damnatio memoriae non nasce dalla defronteggiare Jack Warner e Darryll Zanuck posizione (gli otto nomi che fece erano mentre discuteva aspramente con John già conosciuti, e fu proprio lui ad aiutare Steinbeck e Clifford Odets. I cinephile si Zero Mostel), ma da una lettera aperta emozioneranno leggendo come forgiò ta- in cui spiegò di aver «scelto il male milenti diversissimi come James Dean, Robert nore» e la necessità di utilizzare anche De Niro, Montgomery Clift e Marlon Brando: mezzi dolorosi per «combattere il coKubrick scrisse che era «senza dubbio il mi- munismo». Negli anni Settanta inglior regista americano, capace di fare mi- staurò un intenso rapporto con Marracoli con gli attori». Non mancano le rivela- tin Scorsese, che gli ha dedicato il zioni: in Fronte del porto voleva a tutti i costi magnifico Letter to Elia e lo conPaul Newman, e scrisse a Budd Schulberg sidera tuttora il suo mentore. che Marlon Brando era un «ERRORE». Ebbe Fu lui, insieme a De Niro, a connumerose amanti, tra le quali Marilyn Mon- segnargli commosso l’Oscar alroe, («commovente e patetica»), e amici che la carriera di fronte a una plarimasero sempre al suo fianco come Ten- tea divisa: per metà la stannessee Williams. Più controverso il rapporto ding ovation, guidata da con Arthur Miller, con il quale fu amico fra- Meryl Streep, e per l’altra terno, ruppe all’epoca del maccartismo e si il folto numero di attori, riconciliò in vecchiaia. La corrispondenza capeggiato da Nick Nolte, consente di analizzare la disaffezione per rimasti seduti a non apHollywood, riflessa negli Ultimi fuochi, e la plaudire. crescente passione per la narrativa, che lo © RIPRODUZIONE RISERVATA Elia Kazan amici miei Repubblica Nazionale 2014-05-18 la Repubblica DOMENICA 18 MAGGIO 2014 33 Lo so bene che Brando è bravo ma non lo voglio in “Fronte del porto” POLVERE DI STELLE ELIA KAZAN A DESTRA, DALL’ALTO PAUL NEWMAN NEGLI ANNI ’50; MARILYN MONROE CON ARTHUR MILLER NELLA TENUTA DI ROXBURY, CONNECTICUT, NEL 1956; JAMES DEAN E JULIE HARRIS IN LA VALLE DELL’EDEN (1955) A MARLON BRANDO, LUGLIO 1953 aro Marlon, non posso fingere che sia facile o semplice scriverti. Ti spedisco la sceneggiatura di un film in corso di preparazione. Ci ho lavorato a lungo e continuerò a farlo. È qualcosa di molto profondo, che si ispira alla gente normale. Non voglio dire di più del soggetto del film. Solo qualche parola sulla parte. In base ai criteri comuni che utilizzano produttori e registi per il casting, tu non sei la persona giusta per questa parte. Ma del resto non eri la persona giusta neppure per la commedia di Williams (Tennessee, ndt), e non eri neppure la persona giusta per Zapata. Questo ragazzo è un ex pugile, mezzo ingenuo mezzo gangster. È un giovane che ha smarrito il senso della dignità interiore o dell’autostima. All’inizio della nostra storia non sa quando l’ha persa o come. A mano a mano che si dipana la storia, grazie alla relazione con una ragazza scopre la vergognosa situazione alla quale ha ceduto. Il succo della storia ha a che vedere con il suo tentativo di ritrovare la propria dignità e la propria autostima. Ci sarebbe ancora molto da dire, ma puoi andare avanti da solo da qui, se ti interessa. Penso che sia una parte da giganti e una sfida tremenda. C A BUDD SCHULBERG, LUGLIO 1953 Caro Budd, un ultimo appunto prima che io tagli la corda e me ne vada. Dovrò lasciare a te la responsabilità di sistemare le cose con Brando. Nei prossimi dieci giorni non voglio dover pensare al film. Non sono pazzo per ciò che concerne la parte di Brando. Dal mio punto di vista non è giusto per la parte. Ma è un bravo attore e se riesce a entusiasmarsi e a lavorare come un debuttante che fa di tutto per partire alla grande andrà bene. Deve essere affamato e desideroso. Ho promesso a Sam che l’avrei preso se avesse voluto fare un film e penso che dal punto di vista commerciale senza dubbio ci aiuterà. In ogni caso, arriva in città domenica due agosto e riparte il cinque ed è imperativo che legga la sceneggiatura e ci dica sì oppure no. Non può portarsi appresso la sceneggiatura in Europa. Il tempo a nostra disposizione inizia a diminuire e non possiamo aspettare che sua maestà si metta comodo a Parigi e ci mandi la sua risposta quando ne ha voglia… Se non prendiamo Brando, e penso che probabilmente non accadrà, io sarei dell’idea di prendere Paul Newman. Quel ragazzo sarà una star del cinema. Non ho nessun dubbio in proposito. È affascinante come Brando e la sua mascolinità è notevole ed è anche più attuale. Non è ancora bravo quanto Brando, e probabilmente non lo sarà mai, ma è un attore molto bravo in ogni caso, con molto vigore, molta interiorità e molto sex appeal. Io scelgo lui, senza neanche vederne altri. FOTO CAMERA PRESS bene. Sembrano persone, non attori. Sono proprio soddisfatto di questo. Due persone. E Dean ha il vantaggio di non essere mai apparso sullo schermo. A JOHN STEINBECK, MARZO 1954 Caro John, ho cercato tra moltissimi giovani prima di scegliere questo Jimmy Dean. Non ha lo spessore di Brando, ma è molto più giovane di lui ed è molto interessante, ha le palle, e l’eccentricità, e un “problema serio” da qualche parte nelle viscere, non so di preciso che cosa o dove. È un poco irresponsabile, ma è veramente bravo e penso sia il migliore in un settore che per altro è misero. La maggior parte dei giovani che diventano attori a diciannove, venti o ventuno anni è davvero inesperta ed esce dritto dritto dalla scuola professionale di New York. Dean ha una autentica vena di cattiveria, ma anche una autentica vena di dolcezza. Ho incontrato difficoltà enormi per la ragazza. Terribile! Le ragazze sono peggio dei ragazzi. Mio dio, sono proprio nullità. O non hanno vissuto o sono irresponsabili. Quella di Abra è una grande parte. Spero che ora tu non svenga. Voglio utilizzare Julie Harris… Pensi sia impazzito? La sceneggiatura dipende a tal punto da lei nell’ultima scena con Adam e dalla sua forza che devo necessariamente utilizzare una vera attrice. Non sono riuscito a trovarne una di vent’anni. Sono nullità. Sì, sanno tutto di balli scolastici, vestiti, fidanzati, ma non esprimono niente che vada bene per la mia ultima scena. Alla fine ho fatto un provino fotografico a Julie e quando la sua faccia è in movimento dimostra vent’anni, credo. Una cosa a favore: lei e Jimmy Dean insieme stanno proprio QUEL PAUL SARÀUNA STAR DEL CINEMA, NON HO NESSUN DUBBIO È AFFASCINANTE COME BRANDO, LA SUA MASCOLINITÀ È NOTEVOLE E ANCHE PIÙ ATTUALE. IO SCELGO LUI, SENZA VEDERNE ALTRI LA MONROE SEMBRAVA UNA GATTINA RANDAGIO E MI HA FATTO PENA. MA NON ERO INTERESSATO A LEI, QUELLO È VENUTO DOPO. NON È AFFATTO UNA DONNA TUTTA SESSO. ALMENO NON PER LA MIA ESPERIENZA HO CERCATO MOLTISSIMI GIOVANI PRIMA DI SCEGLIERE QUESTO JIMMY DEAN: UN IRRESPONSABILE CHE HA LE PALLE E L’ECCENTRICITÀ. E POI NON È MAI APPARSO SULLO SCHERMO A MOLLY DAY THACHER (LA PRIMA MOGLIE, NDT), 29 NOV. 1955 Carissima Molly, in un certo senso è vero che (Marilyn, ndt) non ha significato nulla. D’altra parte è stata un’esperienza umana, ed è iniziata, se ciò può avere un significato, nel modo più umano possibile. Aveva appena subito una perdita. Il suo ragazzo, o “quello che la manteneva” (se vuoi essere cattiva), era appena morto. La famiglia di lui non ha permesso che lei vedesse il corpo o mettesse piede in casa, dove viveva da quando lui è morto. Una notte ha cercato di intrufolarsi, ma è stata cacciata fuori. L’ho incontrata sul set di Harmon Jones quando sono andato a fargli visita. Harmon pensa che lei sia una persona ridicola e la disprezza. L’ho trovata in lacrime, quando me l’ha presentata. L’ho portata a cena perché mi sembrava una trovatella patetica e commovente. Ha singhiozzato per tutta la cena. Non ero “interessato” a lei, quello è venuto dopo. Ma ero tremendamente commosso da lei e pensavo che aveva moltissimo talento. Ho avuto modo di conoscerla nel tempo e l’ho presentata ad Arthur Miller, che è stato molto preso da lei. Non si può fare a meno di restarne affascinati. Ha talento, è divertente, vulnerabile, indifesa in modo straziante, senza speranza e ha un certo valore; non è una bugiarda, non è cattiva, non è maliziosa e ha alle spalle una vita da orfana che ti strazia quando la ascolti. È un po’ come tutte le protagoniste di Charlie Chaplin messe insieme. Non mi vergogno di essere rimasto affascinato da lei. Lei non è quello che appare adesso. Quando l’ho conosciuta era un gattino randagio, e tutto ciò che aveva erano pochi vestiti e un pianoforte. Immagino di averle dato molte speranze, anche Arthur gliele ha date. Lei si è presa una cotta per Art, non per me. Non è una donna tutta sesso come viene pubblicizzata. Almeno non in base alla mia esperienza. A WARREN BEATTY, 22 MAGGIO 1963 Caro Warren, perdona l’impertinenza di un amico. Mi piaci davvero, e mi demoralizza venire a sapere che stai facendo impazzire tutti in Maryland. So che le voci sono inaffidabili e non è giusto ripeterle. Ma diamine! Ripeto sempre “Warren sotto sotto è una persona magnifica!”. Ma c’è enorme contraddizione nel tuo modo di fare. Da una parte dici di voler diventare una stella . L’hai detto e ripetuto non solo a me, ma a un sacco di altre persone. Devo dirti che diventare un fuoriclasse dipende, e lo sai benissimo, dal fatto di lavorare con i registi migliori e recitare in buoni film. Quando però questi registi sentono che sei un tipo “difficile”, l’unica reazione legittima che possono avere è: “Chi ne ha bisogno?”. A me sembra che devi trovare un modo giusto per affermare te stesso e far valere le tue opinioni. Al tempo stesso, devi far sì che sia piacevole lavorare con te, dignitoso trattare con te, divertente trascorrere tempo con te, e si deve percepire che intendi contribuire allo sforzo collettivo. È disdicevole che tanti pensino tu sia un problema. Hai molto: sei intelligente, hai talento e sensibilità. Sei affascinante, forte e fisicamente in gamba. Ma tutto ciò può essere reso nullo da quelle voci — vere, vere in parte, abbastanza false o qualsiasi altra cosa — che si raccontano su di te. Forse sono un impertinente a scriverti in questi termini. Non sono né tuo padre né tuo fratello, solo un amico. Tu però pensa alle cose che ti ho detto. A ROBERT DE NIRO, 15 APRILE 1975 Caro Bobby, ti piacciono le mie lettere? Eccone un’altra. C’è qualcosa di molto importante che ho dimenticato di dirti, o di scrivere tra gli appunti che ti ho consegnato. Stahr (il protagonista de Gli ultimi fuochi, ndt) ha il senso di una missione. Una missione che deve perseguire da solo. Il che è un modo molto romantico di vivere la propria vita, non credi? Quante persone conosci che hanno il senso di una missione? Stahr è determinato ad andare contro tutti quegli stronzi pieni di soldi che gli stanno attorno e portare a termine la sua missione. Qual è? Far sì che il Cinema sia riconosciuto come un’arte. Thalberg fece un discorso proprio su questo ed è nel libro che ti ho dato. Ma io penso che la sua missione andasse ancor più nel profondo e fosse più umana. Voleva dare rispetto al lavoro nel quale era impegnato, e quindi dare dignità alla sua stessa vita. Quella di Stahr è una parte fantastica, qualcosa con la quale non ti sei mai cimentato. So che puoi farcela. Ma niente di tale portata è semplice. Occorrerà un sacco di lavoro, di duro e buon lavoro. E serviranno riflessione, cura, sperimentazione e… lavoro. Quindi non arrivare stanco. Non tanto per me, Bobby, quanto PER IL TUO STESSO BENE. (Traduzione di Anna Bissanti) © 2014 by the Estate of Elia Kazan. All rights reserved Published by Arrangement with Alfred A. Knopf, a division of Random House LLC, New York and Agenzia Santachiara © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2014-05-18 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 18 MAGGIO 2014 Next. Ultima 34 ora 5-7 milioni di anni fa Mr. Google News “I giornali vanno reinventati” ACTA DIURNA 33.000 anni fa 59 a.C. STORIE ORALI PITTURE RUPESTRI ACTA DIURNA La comunicazione orale era l’unico mezzo per trasmettere informazioni alla generazione successiva L’uomo di Neanderthal ha disseminato di capolavori le grotte di tutta Europa Nell’antica Roma veniva pubblicato ogni giorno un resoconto degli eventi accaduti JAIME D’ALESSANDRO 1825 «I L PRESENTE DELL’INFORMAZIONE è straordinario e il futuro lo sarà ancora di più. Chi non lo capisce è perché non guarda nella giusta direzione». A parlare è un sessantaduenne con la barba bianca e un ottimismo incrollabile da adolescente. Si chiama Richard Gingras ed è a capo di Google News, quell’aggregatore di notizie che può contare su oltre un miliardo di lettori unici a settimana in 72 Paesi e in 45 lingue. In precedenza ha ricoperto ruoli importanti in Excite e Apple, e ancora prima alla Cbs, Nbc e Pbs dove ha creato il primo magazine online interattivo nel 1979. «A esser sincero non è mai esistito nella storia un periodo così fertile di opportunità e di strumenti per i media». «Le rispondo con una citazione e un esempio. Marshall McLuhan, e più tardi Andy Warhol, dissero che in futuro chiunque avrebbe potuto diventare famoso per quindici minuti. Alla fine però quel che sta succedendo negli open media è che chiunque può diventare famoso in quindici minuti. Recentemente Espreso Tv, network di Kiev nato da meno di un anno, ha raggiunto il primo posto fra gli eventi più guardati di sempre su YouTube, scalzando il lancio di Baumgartner dalla stratosfera: 17,6 milioni di ore visualizzate in 54 giorni». 1994 WORLD WIDE WEB È l’inizio del boom, l'invenzione è di Tim Berners-Lee 1867 1876 MACCHINA PER SCRIVERE TELEFONO Samuel Morse inventa il telegrafo e manda i piccioni in pensione La dattiloscrittura ebbe il suo debutto con Le avventure di Tom Sawyer di Mark Twain Inventato da Antonio Meucci nel 1871, viene brevettato da Alexander Graham Bell 1973 MOTORI DI RICERCA TELEFONO CELLULARE Non esiste Google: i primi motori nascono all’inizio degli anni ‘90 Il 3 aprile Martin Cooper, ingegnere della Motorola, fa la prima telefonata con un cellulare Che futuro ha la notizia I cronisti U servono sempre GIUSEPPE SMORTO INSTANT MESSAGING passato che delle testate scomparissero e per inciso attraverso Google News i siti di informazione ricevono 10 miliardi di visite al mese. È bene poi ricordarsi che i giornali sono da sempre uno strumento potente, ma non sono mai stati business fruttuoso. Io credo semplicemente che, nel caso di organi di informazione in crisi, non si sfrutti il potenziale che hanno. I cosiddetti big data, tanto per citare un caso, possono dirci molto della realtà delle cose e con una precisione che non è mai esistita prima. Se vengono usati a fini commerciali, perché non adoperarli per raccontare il mondo? Per non parlare degli archivi dei quotidiani. Se solo i giornali li organizzassero come si deve… Sono autentiche miniere d’oro. Una delle più importanti testate americane ha realizzato un’app dedicata alla cucina, e il 98 per cento dei materiali erano ricette pubblicate negli ultimi venti anni. È stato un successo, anche economico. Non ci credevano nemmeno loro». La Einkommende Zeitungen, fondata nel 1650 da un libraio di Lipsia come settimanale, dopo dieci anni diventa quotidiano 1990 1996 RICHARD GINGRAS SENIOR DIRECTOR «Avveniva anche in GOOGLE NEWS IL PRIMO QUOTIDIANO La prima è fondata nel 1825 a Parigi da Charles Havas, seguito da Wolff (Berlino) e Reuter (Londra) TELEGRAFO «Si possono usare software simili per produrre notizie brevi sui risultati di un match di calcio, per dirne una. Ma non c’è verso che un computer, oggi come domani, sia capace di raccontare una storia così come lo fa una persona. Ed è proprio il raccontare il mondo che non scomparirà mai né potrà scomparire quella capacità tutta umana di capire cosa è interessante e cosa no». NON C’È MAI STATO UN PERIODO COSÌ FERTILE DI STRUMENTI E OPPORTUNITÀ: IN FUTURO LE INFORMAZIONI SARANNO IL TESSUTO DELL’ESISTENZA. MA NESSUNO SI POTRÀ SOSTITUIRE ALL’UOMO NELLA CAPACITÀ DI SCEGLIERE E RACCONTARE LE AGENZIE DI STAMPA W E R S D 1841 1660 n algoritmo non sarà mai un giornalista, un motore di ricerca non sarà mai una prima pagina. Anche se, grazie alla tecnologia, il giornalismo di oggi ha infinite possibilità. A chi parla di crisi, si può rispondere con i numeri. Mai così tanti lettori, se consideriamo il moltiplicarsi dei modi di informarsi. E poi, pensate proprio che non ci sia più bisogno di giornalismo? Intendendo per questa professione, una certa sensibilità, l’indipendenza, la curiosità, il coraggio. Materie che non si insegnano nemmeno nei Master, ma che fanno la differenza: a Kiev, o anche in zone estese della nostra Italia, dove fare questo mestiere significa vivere costantemente sotto minaccia. Quindi non è in crisi il giornalismo, forse un modo di farlo: non basta più la bella scrittura. È probabile che il giornalista di domani debba sapere di informatica, ma il più bravo degli ingegneri non potrà mai sostituirlo. E un reportage sul campo farà sempre la differenza, solo che ognuno di noi si sceglierà il modo di leggerlo: sulla carta, sul tablet, sul cellulare o sul prossimo device non ancora in commercio. Ci ha regalato il mondo delle faccine. Intrattenere una conversazione non è mai stato così divertente © RIPRODUZIONE RISERVATA 1997 ? 2002 IL PRIMO BLOG SOCIAL NETWORK Nasce in America nel 1997 come diario digitale Grazie a Friendster, poi MySpace e ora Facebook, passiamo un quarto del nostro tempo collegati ai social network 2011 ONLINE CONTENT COLLABORATION Videoscrittura, tecnologia web e una spruzzata di social network. Agitate, mescolate: siete sulla nuvola 2006 MICROBLOGGING Tweet, tweet, tweet… 200 milioni di esplosioni di 140 caratteri al giorno. Di chi siete il follower? © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2014-05-18 la Repubblica DOMENICA 18 MAGGIO 2014 550 301-800 SERVIZIO POSTALE PRIMI MANOSCRITTI Nascono le lettere, ma i francobolli (e la filatelia) arriveranno molto più tardi In Occidente venivano scritti senza spazi e senza sollevare mai la penna 1150 PICCIONI VIAGGIATORI 1563 1440 IL PRIMO GIORNALE 1919 «F La possibilità di stampare libri ha contribuito alla diffusione del sapere tra le masse 1925 LE RADIO TV La prima trasmissione comprendeva esibizioni di famosi cantanti d’opera della Metropolitan Opera House Non ci sono più solo le voci: a Londra iniziano le prime trasmissioni televisive 1964 WORD PROCESSOR 1970 1969 I programmi di videoscrittura salvano un po’ di alberi, permettendoci di scrivere più in fretta POSTA ELETTRONICA INTERNET Nascono le prime email per scambiare messaggi fra le varie università Iniziata come progetto militare, l’Arpanet è servita da fondamenta per lo sviluppo successivo di internet Mai come oggi le informazioni ci bombardano eppure i media sono in difficoltà Come si dovrà comunicare? A confronto le tesi (opposte) di due guru mondiali Mr. Media Mit “Tanta scelta, poca curiosità” Nell’antichità sono stati per molto tempo il più veloce mezzo di comunicazione IL TORCHIO DI GUTENBERG In Europa il primo foglio di notizie appare a Venezia: redatto a mano per incarico del governo e pubblicato tutti i mesi 35 RA DIECI ANNI avremo tanti media basati sulle relazioni personali, ma saremo del tutto carenti di notizie vere». Ethan Zuckerman ha la stazza del regista Michael Moore, teorie altrettanto radicali e il piglio del giovane hacker. A vederlo, si direbbe il perfetto evangelista del digitale e delle sue infinite potenzialità. E invece Zuckerman, direttore del Center for Civic Media al Mit di Boston, è l’esatto contrario. Il suo ultimo saggio, Rewire (Egea), ribalta gran parte dei luoghi comuni sul web e sulla libertà che offrirebbe. «Partiamo dalle basi: noi vediamo il mondo attraverso i media. Quel che raccontano è il nostro sguardo. Peccato che sia uno sguardo sempre più distorto». «Sappiamo di poter viaggiare ovunque, attraverso la Rete possiamo leggere e guardare qualsiasi cosa ed entrare in contatto con chiunque. Eppure la maggior parte delle persone continua a non allontanarsi troppo da casa e a leggere media locali. Tutti oggi possono raccontare una storia e possono condividerla, ma pochi lo fanno e pochissimi hanno un vero pubblico. Le fonti di informazione stanno diminuendo e sulla Rete sono sempre più provinciali. Non abbia- CON IL WEB mo mai avuto così SOLTANTO tanta scelta, ma alla TEORICAMENTE fine guardiano solo LE POSSIBILITÀ nel nostro giardino. DI SAPERE Prima avevamo una SONO INFINITE. gerarchia, quella dei DI FATTO giornali, ora abbia- CI INTERESSA mo libertà. Peccato SOLO IL NOSTRO non si si traduca in GIARDINO. una maggior ric- MAGGIORE chezza». LIBERTÀ NON SI TRADURRÀ IN MAGGIORE CONOSCENZA PERCHÉ I SOCIAL NETWORK HANNO RISTRETTO GLI ORIZZONTI «Dal 1979 al 2009, gli articoli dedicati a quel che succede oltre il nostro uscio di casa si sono ridotti mediamente di due terzi. Nel 2010 negli Usa sono state visualizzate 9,8 miliardi di pagine web sui cento siti di informazione più seguiti, e il 93 per cento riguardava fonti statunitensi. Altrove è peggio: in Francia siamo al 98 così come in Italia o in Cina. Ci sono delle eccezioni, come il New York Times, ma di fatto il mondo che ETHAN ZUCKERMAN stiamo osservando è DIRETTORE CENTER sempre più piccolo». FOR CIVIC MEDIA 2005 DEL MIT DI BOSTON «Facebook organizza automaticamente quel che compare sulla nostra pagina in base alle “affinità”. Il risultato è che ci imbattiamo in cose che ci piacciono ma che non necessariamente ci servono. Inoltre, il 93 per cento dei nostri contatti sui social network li conosciamo nella vita reale, pur superficialmente. Questo significa che i social network non sono necessariamente un luogo dove avvengono veri scambi. Anzi, tutt’altro». CITIZEN JOURNALISM INFOGRAFICA GAIA RUSSO Con l’attentato terroristico nella metro di Londra si inizia a diffondere in Europa il giornalismo partecipativo «Le informazioni viaggeranno sull’onda dell’emotività diffondendosi a macchia d’olio senza esaminarne la fondatezza . Avremo anche una pluralità di fonti locali, non professionali, come in parte già avviene. Ma saremo sempre più provinciali». (j.a.) © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2014-05-18 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 18 MAGGIO 2014 36 Sapori. Familiari LA MERENDA PIÙ AMATA DAGLI ITALIANI (E NON SOLO) COMPIE 50 ANNI MA OVVIAMENTE CI SONO ANCHE ALTRE VERSIONI VECCHIE E NUOVE. PERCHÉ L’IMPORTANTE NON SEMPRE È IL BARATTOLO MA GLI INGREDIENTI La novità Si chiama “ChoX” la nuova spalmabile a base di cioccolato Domori, declinato di volta in volta con nocciole, caffè, extravergine, zucchero di canna e tè, anche in versione bianca, da gustare sia calda che fredda (Illyteca, Via Luigi Einaudi 2/a Trieste, tel. 040-2462230) Il premio All’International Chocolate Awards 2013 di Londra, primo premio nella categoria “dark” per Guido Castagna con la crema “Nocciole +55”. Vittoria nella sezione “milk” per Marco Vacchieri di Rivalta Torinese (Guido Castagna Cioccolato Via Maria Vittoria 27/C Torino, tel. 011-19886585) La cioccolateria Storica rivale della tonda gentile, la nocciola di Giffoni – a sua volta IGP – è alla base di “Amore di Nonna”, firmato dalla cioccolateria pugliese Maglio, nella doppia versione al latte e fondente (Maglio Arte Dolciaria Via Templari 1 Lecce, tel. 0832-243816) Un’altra nutella è possibile. Crema al cioccolato fatta in casa spalmare e leccarsi le dita LICIA GRANELLO C INQUANT’ANNI E NON DIMOSTRARLI. Non una ruga sciupa il vasetto di vetro che contiene la crema spalmabile più famosa del mondo, nata nell’aprile 1964 dal felice passaggio di testimone tra il fondatore della Ferrero, Pietro — l’ideatore della ricetta — e il figlio Michele, capace di sdoganarla da qualsivoglia provincialismo, sostituendo al banale “Supercrema” un nome da premio Pulitzer del marketing. Nutella, ovvero la nocciola inglese (nut) ingentilita da una desinenza cremosa, oggi vende mille tonnellate di prodotto al giorno in tutto il pianeta, e da tutto il pianeta raccoglie gli ingredienti della ricetta: nocciole dalla Turchia, olio di palma dalla Malesia, cacao da Costa d’Avorio e Nigeria, vanillina dagli Stati Uniti. Un vanto globale per l’azienda che ha sede in Lussemburgo e conta oltre quaranta milioni di riferimenti su Google. Ma tra analisi sociologiche e citazioni cinefile, diatribe nutrizionali e dubbi etici, un’altra nutella è possibile. Perché niente più delle creme spalmabili sa modularsi su ricette, gusti e desideri più o meno inconfessabili, a cominciare dalla frutta secca che regala fragranza e pastosità. Il Piemonte, terra-madre di mille piccole grandi rivoluzioni gastronomi- tellette. Ma ancora mezzo secolo fa, tra camche, dai grissini a Slow Food, è terra di noci pagna, colline e primi contrafforti alpini, i e nocciole. Un tempo così diffuse e in tale boschi erano fonte inesauribile di legna, quantità, da farne olio per alimentare le gherigli e affini. Molto prima di allora, a metà dell’Ottolampade, lusso nemmeno immaginabile nel Terzo millennio, se è vero che per estrar- cento, i pasticceri valdesi avevano cominre un litro di liquido occorrono quasi tre ciato a sostituire parzialmente il cioccolato — diventato carissimo per il blocco delle imquintali di frutti. Ben lo sanno i protagonisti della cucina portazioni imposto dalla Francia — con le d’autore, che dosano gli olii di noci e noccio- nocciole, che non costavano niente e rendele col contagocce per impreziosire con un vano in termini di cremosità, sapore, fineztocco di aromatica eleganza insalate e tar- za. Tra le prime sperimentazioni del genia- le pasticcere piemontese Michele Prochet e la commercializzazione del primo gianduiotto in coincidenza con il Carnevale di Torino del 1864, la cultura alimentare piemontese fece suo un matrimonio che non ha mai conosciuto crisi. Mentre la Nutella ha seguito un percorso industriale che l’ha portata a dominare il mondo delle creme in vasetto, valenti cioccolatieri e piccole imprese artigiane hanno continuato la tradizione delle spalmabili. Ogni pasticcere forte di una ricetta simile a cento altre nella preparazione, ma diversa e originale per scelta di materie prime e dosaggio degli ingredienti, dalla percentuale di nocciole alla tipologia di cacao e cioccolato, fino alle aromatizzazioni (vaniglia, cannella, zenzero, etc...). Non fatevi sedurre dal glamour dei barattoli. Sotto il vestito della confezione, cercate l’etichetta, ricordando che gli ingredienti vengono elencati in ordine decrescente di quantità. Se nocciole e cioccolato sono in fondo alla lista, se non c’è traccia di burro di cacao (al contrario dei tristanzuoli grassi vegetali), né di aromi naturali, armatevi di pazienza e allegria e regalatevi il più sano e irresistibile dei fai-da-te. D’obbligo, a fine assaggio, leccarsi le dita. © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2014-05-18 la Repubblica DOMENICA 18 MAGGIO 2014 Pane e... French toast a strati con crema al cioccolato A guarnire, una spruzzata di cacao in polvere 5 5 ingredienti per una crema modi per gustarla 37 Il primo brand è opera di Proust STEFANO BARTEZZAGHI La ricetta Vi spiego come preparare un’alternativa da maestro INGREDIENTI PER 250 G. DI CREMA 100 G. DI NOCCIOLE PIEMONTE IGP; 80 G. DI ZUCCHERO A VELO 30 G. DI CIOCCOLATO FONDENTE EXTRABITTER (63% DI CACAO) 30 G. DI CIOCCOLATO AL LATTE FINISSIMO (35% DI CACAO) 5 G. DI CACAO IN POLVERE Q uesta è la ricetta di una crema spalmabile casalinga. Per una variante più fine, si possono sostituire le nocciole con la pasta di nocciole. La ricetta domestica, sulla falsa riga della nostra crema Gianduja, è composta dal 40% di nocciola Piemonte Igp e non presenta grassi vegetali aggiunti. Per prima cosa, tostare in forno le nocciole sgusciate 15’ a 120°C. Una volta raffreddate, si frullano con lo zucchero a velo fino a ottenere un impasto omogeneo e cremoso. A questo punto, unire il cioccolato fondente e al latte, dopo averli debitamente sciolti a bagnomaria (non oltre 45°C). Infine, aggiungere un cucchiaino di cacao in polvere. Versare in un vasetto di vetro sterilizzato e chiudere. Conservare a temperatura ambiente, tra 18 e 20°C, in un luogo fresco e asciutto. A piacere, si può aggiungere ¼ di bacca di vaniglia Bourbon. Nocciole Gelato Vitamina E, magnesio e manganese nella tonda e gentile delle Langhe Igp, con la quale Michele Prochet mescola la pasta di cacao per elaborare la primissima ricetta del gianduiotto Latte, panna e zucchero mescolati e scaldati a 70°C, a cui aggiungere la crema spalmabile, mixando a freddo. Per il variegato, aggiungere la crema colata a filo sulla base mantecata Cacao Brioche Ottenuto separando la massa di cacao dal suo grasso pregiato. Nelle creme di qualità, il burro di cacao viene restituito alla miscela, per migliorare spalmabilità e fragranza Per la farcitura super golosa, inserire qualche cucchiaiata di crema nel sac-à-poche, dopo averla diluita con pochissima marmellata fluida o con un cucchiaino di panna e riempire a piacere Zucchero Crostata Dal bianco raffinato a quello di canna grezzo, troppo spesso copre gli altri ingredienti per quantità, livellando il gusto In ricette light, maltitolo o dolcificanti di sintesi Sulla classica frolla cotta coperta di carta da forno e fagioli secchi perché non si gonfi, la crema amalgamata con qualche cucchiaio di ricotta e spolverata di nocciole tritate Latte Muffin Rigorosamente in polvere, quasi sempre in versione magra, può essere sostituito utilizzando il cioccolato al latte. Nelle ricette vegane, niente latte oppure latte di soia o riso Farina, zucchero e lievito mescolati insieme, poi uova, latte, burro fuso e poca crema Negli stampini, pastella, un cucchiaio di crema fredda, il resto dell’impasto e infornare Vaniglia Biscotti Prima scelta per i semi dei preziosi baccelli della vanilla planifolia Bourbon, dal Madagascar e dall’isola della Rèunion Nelle produzioni a basso costo subentra la vanillina I più semplici: crema e farina in pari quantità, più un uovo intero. Cucchiaini di impasto leggermente schiacciati sulla placca del forno foderata con un silpat (8 minuti di cottura) LO CHEF GUIDO GOBINO È UNO DEI MIGLIORI MAESTRI CIOCCOLATIERI ITALIANI. NEL SUO LABORATORIO TORINESE DECLINA IL CIOCCOLATO IN MODO ORIGINALE CON ATTENZIONE SPECIALE ALLE NOCCIOLE DI LANGA, COME NELLA RICETTA PER I LETTORI DI REPUBBLICA N EL 1976, UNA BOTTIGLIETTA di Coca Cola atterrava su un pianeta desolato e vi portava la vita (in senso biologico, non festaiolo) al ritmo del Bolero di Ravel. Accadeva nel film Allegro non troppo, di Bruno Bozzetto. Qualcosa del genere si è però registrata anche sul pianeta della lingua e della letteratura, con l’irruzione dei nomi commerciali (i brand) dei prodotti sulla scena comunicativa. È uno strano tipo di parole, spesso in oscillazione fra il nome proprio e il nome comune. Oggi i banconi alimentari dei supermercati sono pieni di merci il cui nome — in libri, articoli, post — viene spesso scritto con la minuscola e magari flesso come un nome comune («prendiamo due fante»). Va’ a spiegare ai bambini la differenza fra carne in scatola e Simmenthal. O all’avventore di un bar il diverso statuto dei nomi Campari e gin. Generazioni di spettatori, oramai, hanno ammirato la scena di Palombella Rossa in cui il trentacinquenne Michele Apicella, interpretato da Nanni Moretti, prorompe: «Le merendine di quando ero bambino non torneranno più!». Solo che lui intendeva il pane con il cioccolato, non la Fiesta. Molti dei suoi spettatori più giovani pensano invece a merendine confezionate, i cui nomi risuonano alla memoria dolci ed evocativi come la famosa petite madeleine di quell’altro narratore. E il bello che la suddetta madeleine era a sua volta un “brand”, derivava dal nome della cuoca che l’avrebbe inventata, Madeleine Paulmier. Tale precedente proustiano non è stato tenuto in considerazione quando, una ventina d’anni fa, si aprì un dibattito sull’opportunità e il senso di menzionare marchi e brand nei romanzi, contro i pudori dei letterati che ritengono più elegante la parafrasi («Gustò un formaggino dopo averlo estratto dalla scatola tonda che riportava l’immagine di un felino asiatico»). I playboy vengono chiamati dongiovanni perché Don Giovanni era il playboy, per eccellenza. Quindi, da un certo punto di vista, che ogni crema spalmabile al cioccolato possa essere chiamata genericamente e anche al minuscolo nutella è segno di successo, profondo e lusinghiero. Eccellenza, appunto. Ma purtroppo questo punto di vista non è quello commerciale, per il quale, al contrario, le legittime ragioni di esclusività impongono controlli e ritorni del nome comune al nome proprio. È per questo che il naming più recente flirta con la grammatica e pesca i suoi nomi propri nel vocabolario (come per i biscotti: Macine, Gocciole, Abbracci, secondo l’esempio antico dei Baci Perugina). Si crea una sorta di zona franca lessicale fra specie merceologiche, singoli prodotti, forme assestate nel mondo. Sono brand affabili e colloquiali, tramite cui l’industria si riveste di naturalezza. © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2014-05-18 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 18 MAGGIO 2014 38 L’incontro. Diavoletti ARGENTINO come Maradona (“Ma lui si crede Dio, e io sono agnosti- NON HO CULTURA E HO SCARSA INTELLIGENZA, MA POSSIEDO UN GRANDE ISTINTO IL PROTAGONISTA DELLE MIE STRISCE, QUELL’OMINO INFINITESIMO NELLA GALASSIA CHE METTE TANTA ALLEGRIA, SONO IO co”) e come Papa Francesco (“Ma lui tifa San Lorenzo, io una squadretta da quattro soldi”) quando aveva cinque anni la nonna lo portò a vedere Biancaneve: “Quel giornò scoprii l’America e l’amore per i cartoon”. Da allora non ha più smesso di disegnare, creando mondi surreali fatti di giraffe dai colli lunghissimi e da impossibili partite di pallone: “Se si gioca, nudo. La sua matita appuntita è per caso la lente d’ingrandimento di Dio? «Non religioso. La mia famiglia era cattolica e sono cresciuto con il catechismo, che però m’annoiava a morte. Passati i cinquant’anni sono diventato agnostico. perché limitare l’assurdo? Fin- sono È probabile comunque che la mia visione del mondo sia ancora influenzata da quell’idea di onniveggenza, di beffardo e implacabile sguardo dall’alto, da cui mi minacciato da bambino». È un leit motiv ricorrente nelle sue vignette, ché renderemo il pianeta imper- sentivo come in quella della suora in chiesa, mano nella mano del prete, che alza gli occhi e esclama terrorizzata ‘‘Cielo, mio marito!’’: «Non c’è voluto molto per capire che stato l’uomo a creare Dio a sua immagine e somiglianza, e non viceversa. A fetto sarà sempre una risata èquesto punto, mi sono chiesto perché mai Dio dovesse vedersi condannato a rispecchiare l’uomo anziché un animale: giraffa, elefante, cane... M’è venuto in aiuto l’inglese, dove cane è dog e Dio è God, cane ribaltato». Ama, anche nelle quella che ci salverà” vignette, le simmetrie, la specularità: «Uno dei miei disegnatori preferiti, e Guillermo Mordillo MARIO SERENELLINI VENEZIA A MILLE METRI D’ALTEZZA, immaginandoci in vetta a una delle sue giraffe, la Laguna, là sotto, appare una pozza ingarbugliata di ponti, gondole, cupole, calli, canali, vaporetti e milioni di cucuzzoli di cappellini in trasloco di massa, di campo in campo, dei turisti di giornata. Parlare con Guillermo Mordillo, primo surrealista della giungla, intrico di giraffe, lunghissime giraffe, e di elefanti, alci, coccodrilli, ippopotami, interminabili serpenti, tucani, leoni, struzzi, tutti con gli occhioni a palla, bloccati nello stupore frontale d’immagini fototessera, significa farsi catapultare nel suo mondo animale e primordiale, lasciandosi andare di liana in liana, nei suoi labirinti grafici: foreste, metropoli, lagune. A Venezia, dove è stato celebrato e premiato al “Cartoons on the Bay” il disegnatore argentino, ottantadue anni d’intatto entusiasmo infantile, non manca di suggestionare l’interlocutore, minimizzando come ovvie le vertigini visionarie, spiazzanti e fulminee, di quei grattacieli in cima ai quali predilige organizzare partite di pallone o di tennis o tuffi parabolici o ancora, di grattacielo in grattacielo, erba rasata e buche di golf. E sotto, gli abissi. «Se il gioco è gioco, perché non giocarlo fino in fondo, con tutte le approssimazioni e assurdità che ci vengono in mente? Confinando due squadre di calcio, per esempio, alle soglie del cielo, al posto d’un giardino pensile. A pensarci bene, non sono più surreali gli improbabili ritagli di terreno da cui i ragazzini riescono a ricavare i loro campetti? In ogni caso non c’è mai premeditazione in quel che invento. Vado d’istinto. Non ho alcuna cultura. E scarsa intelligenza. Ma sono dotato di grande istinto». La sua estrema modestia rovescia anche il rito dell’intervista, anticipando il ritratto di sé: a parole, ma con identico procedere, a strisce successive, delle sue vignette. Prima striscia: «Ho la barbetta ispida e imbiancata, sono senza capelli e basso come Maradona». Seconda striscia: «Sembro un monaco, un saggio, ma sono un diavoletto, Mordillo, cioè “morso di cavallo”, che HO CAPITO PRESTO CHE È STATO L’UOMO A CREARE DIO A SUA IMMAGINE E SOMIGLIANZA, E NON VICEVERSA. QUINDI MI DOMANDO PERCHÉ DEBBA VEDERSI CONDANNATO A RISPECCHIARE L’UOMO E NON UN IPPOPOTAMO suona più allegro del mio nome, Guillermo». Terza striscia: «Il protagonista dei miei disegni è minuscolo. Il mondo è immenso, lui è un picciuolo: una cosina infinitesima nel paesaggio, sul globo terrestre, nella galassia. Non crea però ansia, ma tanta allegria». Gag finale: «Quell’omino, c’est moi». Le sue vignette sono zoomate disarmanti sul niente di noi mortali, il suo occhio è un telescopio cosmico, che spesso si diverte a immaginare l’ultimo gruzzolo d’abitanti accatastati sulla calotta polare d’un pianeta amici più grandi, Benito Jacovitti, si divertiva a ricordarmi che lui era nato nel ‘23 e io nel ‘32, lui era alto 1.86 e io 1.68. Siamo due gemelli a rovescio, mi diceva». Nelle sue peregrinazioni artistiche e di vita, l’Italia è sempre stata tappa obbligata, per i ripetuti premi (Andersen, Tolentino, Bordighera, Lucca...), le edizioni tempestive (dalla Emme di Rosellina Archinto alla Mondadori), le mostre (alla Stazione Centrale di Milano e, la più importante in Europa, due anni fa, al Museo Luzzati di Genova) e i complici di lapis, da Crepax ad Altan, da Pratt a Bonvi. Quali sente ancora a lei più vicini ? «Jacovitti e Osvaldo Cavandoli, il papà di Mister Linea». Sono due radiografie della sua comicità: le Babeli grafiche, gli ingorghi comici di nasi, cappelli, gomiti, calzini nelle tavole di Jacovitti e l’omino di Cavandoli, quello della Lagostina, smarrito nel vuoto, farfugliante nello spazio circense d’un filo sospeso, suo cammino e suo destino: «Sì, due artisti che hanno influenzato molto il mio lavoro. E due grandi amici: che purtroppo non posso più incontrare. Per questo vado sempre meno ai raduni mondiali del fumetto, dove una volta facevamo insieme bisboccia». In ormai mezzo secolo di successi, omini e animali di Mordillo non hanno mai detto una parola: «Le mie vignette sono nate mute, perché non conoscevo la lingua dei Paesi in cui ho cominciato a disegnare per guadagnarmi da vivere, prima gli Stati Uniti, poi la Francia. Ho vissuto anche in Perù e in Spagna, prima di trasferirmi, diciassette anni fa, a Montecarlo: ma ormai la mia fauna aveva preso l’abitudine di esprimersi solo a mosse e sguardi. Ora però i miei personaggi diventeranno tondi palloncini e parleranno — in tedesco! — in un lungometraggio 3D che stanno realizzando da due anni in Germania». L’animazione è stata un colpo di fulmine, da bambino. «Sì, grazie a mia nonna, che mi ha portato al cinema a cinque anni a vedere Biancaneve e i sette nani, appena uscito nel 1937. È stata la mia scoperta dell’America. Da quel momento ho cominciato a scalpitare per i cartoon: il primo impiego fu alla Paramount, dove ho contribuito alla caratterizzazione di star a disegni animati come Braccio di ferro e la piccola Lulù». Il cinema è rimasto un amore parallelo al disegno. «Fellini, che ho avuto anche la fortuna di incontrare, una quarantina d’anni fa, a una mostra del grande Oski, è un mio idolo. Lui non mi conosceva e mi chiese l’ora. “Le nove meno venti” risposi, mordendomi subito la lingua. Per tutta la vita mi sono rimproverato per non aver detto “Otto e mezzo”». In Mordillo palpita anche un altro grande schermo: il campo di calcio. È il FELLINI ERA UN MIO IDOLO. CI SIAMO INCONTRATI SOLO UNA VOLTA, MI CHIESE L’ORA E PER TUTTA LA VITA MI SONO RIMPROVERATO DI AVER RISPOSTO NOVE MENO VENTI ANZICHÉ OTTO E MEZZO sangue argentino? «Ho giocato a pallone fino a vent’anni, ogni giorno in strada, partite che duravano sei ore. Era la pelota, il calcio dei poveri, degli immigrati: in squadra, tanti ‘tani, cioè napoletani, come noi chiamavamo gli italiani, anche quelli del nord. Maradona? Grandissimo giocatore. Ma si crede Dio. E io sono agnostico». Altro argentino in auge è Papa Francesco: «È la prima volta che un papa è più giovane di me — ride — Lo stimo molto. Una persona autentica, che, come già faceva in Argentina, si mette dalla parte dei più semplici. In questo, siamo simili. Ma lui è divenuto papa, io saltimbanco. Altra differenza: lui tiene per l’importante San Lorenzo, io per una squadretta da quattro soldi. Anche da tifoso mi sembrava di non potermi permettere di più. I miei erano immigrati dalla Spagna, mio padre dall’Estremadura, mia madre dalle Asturie. La casa dove abitavamo era la più misera del quartiere: continua a esserlo anche oggi. Mio padre era elettricista, una fortuna in quella situazione: non c’era nulla che funzionasse nel quartiere e lui veniva continuamente chiamato per le riparazioni. Sono stati per me anni felici. Ero lasciato libero di esprimermi, di coltivare i miei sogni: disegnare, fare il clown, far ridere gli altri. L’infanzia è l’unico vero lusso della mia vita». Ha sempre sentito l’umorismo come un obbligo, una necessità? «Sono lentissimo nel disegno, come l’amico Quino. Entrambi non abbiamo la facilità del tratto, ma siamo animati da pari passione. Per completare una tavola mi occorrono ormai due o tre settimane. Dal primo scarabocchio (a due anni) a oggi non avrò prodotto più di duemila disegni. Ma continua a essere una spinta quotidiana: l’utopia permanente d’un mondo felice. L’umorismo è la tenerezza della paura: un modo di esorcizzare drammi, inquietudini, angosce. In un mondo felice l’umorismo non è necessario. Ma finché renderemo il pianeta imperfetto, la risata ci salverà». © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2014-05-18
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