GEORGE ELIOT Il v e l o d i s s o l t o seguito da La storia della vecchia nutrice di Elizabeth C. Gaskell A cura di Riccardo Reim TASCABILI ECONOMICI N E W T O N G. ELIOT, IL VELO D I S S O L T O E.C. GASKELL, LA STORIA DELLA VECCHIA N U T R I C E Racconto assai complesso, di raffinata indagine psicologica e ricco di stregate atmosfere, Il velo dissolto dimostra quanto George Eliot, pur mantenendo intatto il suo «realismo pessimistico» sempre orientato verso una gelida e sorvegliatissima ironia, conoscesse e fosse disponibile a trattare il genere «nero»; così come La storia della vecchia nutrice rivela un aspetto abbastanza insolito di Elizabeth C. Gaskell ( 1810-1865), nota più che altro per romanzi come Cranford e Mary Barton. I fantasmi di Walpole e della Radcliffe vengono spazzati via con tutta la loro pittoresca chincaglieria di catene, passaggi segreti e apparizioni notturne: non hanno più alcun bisogno di terrorizzare i vivi, perché, molto più semplicemente - e inquietantemente - diventano i vivi, riflettendo come uno specchio scuro la negatività dell'Inghilterra vittoriana. G e o r g e Eliot (pseudonimo di Mary Ann Evans, 1 8 1 9 1 8 8 0 ) è forse la più importante scrittrice vittoriana. Tra i suoi libri: Adam Bede, Il mulino sulla Floss (forse ancora oggi la sua opera più popolare), Silas Marner, Middlemarch, Daniel Deronda. Riccardo Reim è nato a Roma nel 1 9 5 3 . Scrittore e regista, ha pubblicato numerosi libri di teatro, saggistica e narrativa, tra cui: Pratiche innominabili, Lettere libertine, Nero per signora, L'Italia dei misteri, Il corpo della poesia, Controcanto e, con la Newton Compton, Da uno spiraglio. Indice p. 9 13 Introduzione di Riccardo Reim Nota biobibliografica George Eliot IL VELO DISSOLTO 19 43 Parte prima Parte seconda Elizabeth G. Gasiceli 69 LA STORIA DELLA VECCHIA NUTRICE In copertina: Paul Gauguin, Madame la Mort, 1891 Titoli originali: The Lifted Veil, traduzione di Riccardo Reim; The Old Nurse's Story, traduzione di Pietro Meneghelli Prima edizione: aprile 1993 Tascabili Economici Newton Divisione della Newton Compton editori s.r.l. © 1993 Newton Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214 ISBN 88-7983-168-2 Stampato su carta Tambulky della Cartiera di Anjala distribuita dalla Fennocarta s.r.l., Milano Copertina stampata su cartoncino Perigord Mat della Papyro S.p.A. George Eliot Il velo dissolto Elizabeth C. Gasiceli La storia della vecchia nutrice A cura di Riccardo Reim Tascabili Economici Newton Introduzione La più alta vocazione e scelta è vivere senza oppio, vivere ogni dolore con pazienza consapevole e lucida G. Eliot (lettera del 26 dicembre 1860) The Lifted Veil esce nel 1859, quando George Eliot — alias Mary Ann Evans — ha già pubblicato i tre racconti che formano il volume Scenes of Clerical Life (The Sad Fortunes of the Rev. Amos Barton, Mr. Gilfil's Love Story, Janet's Reperitance) e soprattutto Adam Bede, primo romanzo di vasto respiro che ha consolidato la sua fama nascente ottenendo un successo non più soltanto «di stima» ma anche di pubblico. La Eliot è ormai una donna non più giovanissima (era nata il 22 novembre 1819) che da quattro anni vive more uxorio con George H. Lewes , sfidando a viso aperto l'ipocrita perbenismo dei benpensanti vittoriani. È proprio Lewes, anzi, che l'ha convinta ad abbandonare l'attività di saggista e di traduttrice in favore della narrativa, un sogno che Mary Ann accarezzava timidamente fin dall'adolescenza e la cui realtà, ora, sembra volerla ripagare di una giovinezza troppo angusta e grigia, trascorsa ad accudire suo padre e a occuparsi dell'andamento della casa. «Il settembre 1856», leggiamo 1 2 ' George H. Lewes, una tra le più feconde e brillanti personalità del gruppo positivista, venne presentato alla Eliot dal filosofo Herbert Spencer. Sebbene dotato di un temperamento del tutto opposto, Lewes seppe penetrare nella chiusa natura della scrittrice." ne nacque una solidissima relazione che continuò fino alla morte di lui, avvenuta nel 1878. In una lettera del settembre 1855, George Eliot scriveva al suo caro amico Bry: «Se c'è una relazione nella mia vita che è ed è sempre stata profondamente seria, questa è la mia relazione con Mr. Lewes [...] Che una persona spirituale e non superstiziosa, sufficientemente addentro alle cose della vita, possa definire la mia relazione con Mr. Lewes immorale, lo si può capire solo tenendo ben presente quanto sottili e complesse siano le influenze che formano l'opinione pubblica. Ma io tengo ben presenti queste cose, e non nutro pensieri arroganti o spietati verso coloro che mi condannano, anche se avremmo potuto aspettarci un verdetto diverso». Fra le traduzioni della Eliot l'unica a essere rieditata in anni relativamente recenti è The Essence of Christianity, da Feuerbach (apparsa nel 1854, ora Harper and Row, New York 1957). La scrittrice tradusse anche la celebre Vita di Gesù di Strauss (1846) e si impegnò a lungo intorno al Tractatus di Spinoza senza però portare mai a termine il lavoro. 2 10 RICCARDO REIM in un suo appunto, «segnò un'era nuova nella mia vita, perché fu allora che cominciai a scrivere cose d'invenzione. Sempre c'era stato in me come il vago sogno che un giorno o l'altro avrei potuto scrivere un romanzo; e la mia oscura idea di ciò che il romanzo dovesse essere variava, naturalmente, da un 'epoca all'altra della mia vita. Ma non ero mai andata più in là di un capitolo introduttivo, che descriveva un villaggio dello Staffordshire e la vita delle fattorie circostanti. Col passare degli anni avevo perduto ogni speranza di essere mai in grado di scrivere un romanzo, come d'altronde disperavo di ogni altra cosa della mia vita a venire. Pensavo sempre che mi mancasse la potenza drammatica, sia nella costruzione che nel dialogo, mentre invece sentivo che nelle parti descrittive mi sarei trovata a posto.» Applicazione, entusiasmo, disciplina: nel 1860 vede la luce The Mill on the Floss (forse ancora oggi il suo libro più popolare), salutato come un capolavoro: tra questo e il precedente Adam Bede, si inserisce, appunto, il breve The Lifted Veil opera insolita — e per molti versi unica — nel corpus eliotiano, memore del lungo soggiorno a Ginevra di dieci anni prima (dove la scrittrice era stata ospite di M.d'Albert Durade, che diverrà in seguito il traduttore dei suoi romanzi in francese) e dei numerosi viaggi in Europa. Racconto assai complesso, di raffinata indagine psicologica e ricco di stregate atmosfere, dove ogni effetto viene raggiunto, potremmo dire, «per omissione» (quelle parole sconnesse e affannose della «morta», che nulla spiegano, ma lasciano intravedere e indovinare, piene di misteriose e terribili allusioni. ..), The Lifted Veil dimostra quanto George Eliot, pur mantenendo intatto il suo «realismo pessimistico» sempre orientato verso una gelida e sorvegliatissima ironia, conoscesse e fosse disponibile a trattare — a suo modo, s'intende — il genere «nero». È la storia, come è stato giustamente notato, «di una ricerca in cui trovarsi significa perdersi per sempre, nella vertiginosa caduta nell'abisso della perdita dell'identità» . Il destino si rivela anticipatamente agli «occhi» del 3 4 3 Vedi a questo proposito Giacomo Debenedetti, «Nota» a G. Eliot, Il mulino sulla Floss, Mondadori, Milano 1940 (II ed. 1970). Pietro Meneghelli, «Nota» a Il velo scostato, in Il cavaliere dalla piuma rossosangue e altri racconti — Ovvero i «fantasmi» delle donne vittoriane, Lestoille, Roma 1978. 4 11 INTRODUZIONE giovane Latimer in ogni più piccolo dettaglio; tutte le tessere, misteriosamente, vanno a comporre il mosaico che consentirà di decifrare il senso reale delle cose. Tutte, meno una; e attorno a quell'unica tessera mancante acquista un senso reale ciò che invece è soltanto illusorio: «Tenebre - tenebre - nessun dolore - null'altro che tenebre... Passo e ripasso nelle tenebre: i miei pensieri diventano tutt'uno con quell'oscurità, con la sensazione di sprofondarvi sempre più.. .» . Quando il velo sembra dissolversi ecco che insieme a lui sembra dissolversi il mondo intero: «l'unica porta che può ancora aprirsi a una relazione autentica, non illusoria con il mondo, è quella della morte: trovarsi, sciogliere l'enigma ha veramente voluto dire perdersi; l'orrore che trionfa al cadere del velo non è differente dall'orrore che aveva portato il protagonista a innalzarlo» . I fantasmi di Walpole e della Radcliffe vengono spazzati via con tutta la loro pittoresca chincaglieria di catene, passaggi segreti e apparizioni notturne: non hanno più alcun bisogno di terrorizzare i vivi, perché, molto più semplicemente — e inquietantemente — diventano i vivi, riflettendo come uno specchio oscuro la negatività dell'Inghilterra vittoriana. 5 6 Anche Elizabeth Gaskell (1810-1865), giudicata da Pat Rogers la scrittrice «che meglio sa approfondire la descrizione e l'analisi sociale dell'Inghilterra vittoriana» , esordisce, come la Eliot, non presto, fra i trentacinque e i quarant'anni: il suo primo libro, Mary Barton, viene iniziato quasi casualmente, come una sorta di terapia dopo la morte dell'unico figlioletto, e appare nel 1848 conoscendo un insperato quanto lusinghiero successo. Nella scrittura, dunque, la Gaskell cerca — e trova — il modo per superare un doloroso periodo di crisi e di smarrimento: ne scaturirà, in circa vent'anni di lavoro, una memorabile galleria di ritratti (soprattutto femminili) di grande finezza e spessore psicologico, di cui sono splendida 1 5 G. Eliot, Il velo dissolto, parte I. Vedi nota 4. The Oxford Illustrated History of English Literature, a cura di Pat Rogers, Oxford University Press 1987 (trad. it. Storia della letteratura inglese, Lucarini, Roma 1990). 6 7 12 RICCARDO REIM testimonianza le pagine di romanzi come Ruth (1853), Cranford (1953), North and South (1856), Silvia's Lovers (1863), Wives and Daughters (pubblicato postumo nel 1866), nonché la documentatissima Life of Charlotte Bronte (1857). Pur essendo nota soprattutto per i suoi romanzi di costume e di critica sociale, la Gaskell fu un'assidua collaboratrice del periodico dickensiano All the Year Round, dove pubblicò alcuni esemplari racconti del soprannaturale come The Grey Woman, The Ghost in the Garden Room e questo The Old Nurse's Story, raffinata narrazione neogotica in cui le oscure forze del male sono parte integrante della casa, il suo lato nascosto e rimosso, testimone di crudeltà lontane nel tempo e sepolte nella memoria. Se in The Lifted Veil è un cadavere a tornare alla vita, vindice e accusatore, in questo racconto l'anziana signorina Furnivall vede emergere dalle ombre delle pareti domestiche il più inquietante e insostenibile dei fantasmi: se stessa. RICCARDO REIM Nota biobibliografica LA VITA E LE OPERE DI GEORGE ELIOT Mary Ann Evans (George Eliot è il suo pen-name o nom de piume, come lei stessa lo definiva) nacque il 22 novembre 1819 ad Arbury Farm, nel Warwickshire, nella parrocchia rurale di Chivers Cotton. La scrittrice aveva dunque trentasette anni quando nel 1856 compose The Sad Fortunes of the Rev. Amos Barton, il primo dei tre lunghi racconti (gli altri due sono Mr. Gilfil's Love Story e Janet's Repentance) che nel 1858 verranno raccolti in volume con il titolo Scenes of Clerical Life. Fu George H. Lewes, l'uomo con cui visse ventisei anni sfidando la scandalo della perbenista società vittoriana sessuofoba e repressiva (i due furono costretti a trasferirsi all'estero per diverso tempo) a farle trovare la sua vocazione di artista, dopo la lettura di un «capitolo introduttivo che descriveva un villaggio dello Straffordshire e la vita delle fattorie circostanti», in una delle loro intime serate di «solitudine a due», a Berlino. Spirito ardente di entusiasmo religioso, temperato più tardi dai contatti con l'ambiente positivista e dalla lettura di un testo di critica storica sulle origini del cristianesimo, Inquiry concerning the Origin of Christianity di Charles Hennel, che doveva condurla a una profonda crisi razionalistica, la Eliot iniziò la sua attività letteraria come traduttrice, con la Vita di Gesù di Strauss e l'Essenza del cristianesimo di Feuerbach, apparsi rispettivamente nel 1846 e nel 1854. Fin dal 1850, inoltre, era redattrice della Westmister Review, una delle riviste intellettuali più prestigiose dell'epoca, sulla quale pubblicherà un largo numero di articoli critici e polemici. Scenes of Clerical Life (dove per la prima volta compare lo pseudonimo di George Eliot) segnò, come si diceva, il suo esordio nella narrativa e conobbe un ottimo successo «di stima»; Adam Bede, apparso nel 1859, conobbe anche un grande successo di pubblico e confermò la sua fama nascente. A partire da questo momento la vita di Mary Ann Evans si identifica quasi totalmente con quella di George Eliot, ovvero si risolve nella sua intensissima attività di scrittura: nel 1859 esce The Lifted Veil, nel 1860 The Mill on the Floss, giudicato come «il capolavoro che ribadisce il capolavoro»; un terzo libro, Silas Marner, del 1861, chiude, forse in tono minore, la trilogia dei romanzi, diciamo così, «rusticali», dove la Eliot trasferì tanto della sua infanzia trascorsa nella casa paterna accanto al fratello Isaac e delle sue appassionate letture adolescenziali dei romanzi della Sand. Nel 1862 viene pubblicata la prima parte di Romola e nel '63 la sua conclusione. In quest'opera, che la impegnò a lungo, la scrittrice volle tentare (con un esito non proprio felicissimo) l'esperienza del romanzo storico, scegliendo come sfondo la Firenze del Savonarola, su cui si documentò molto dettagliatamente, svolgendo un puntuale e accurato lavoro di ricerca storica. Nel 1864 vede la luce Brother Jacob, nel '66 Felix Holt the Radicai e nel '68 il suo primo tentativo di narrazione in versi, The Spanish Gipsy, cui fa seguito nel '69, sempre in versi, The Legend of Jubal. Tra il '69 e il '72 esce il grande romanzo in otto 14 N O T A BIOBIBLIOGRAFICA volumi Middlemarch, grandioso affresco della vecchia società di provincia all'epoca del «Reform Bill», definito da Virginia Woolf «uno splendido libro che, con tutte le sue imperfezioni, è uno dei pochi romanzi inglesi scritto per gente adulta». Nonostante alcune macchinosità e l'eccessiva prevalenza, in alcuni punti, dell'elemento etico-sociale su quello immaginativo, Middlemarch è oggi giudicato il più importante romanzo vittoriano: con esso la Eliot si pone decisamente all'avanguardia del pensiero e della cultura del suo tempo. Nel 1876 si chiude la grande stagione narrativa della scrittrice con il bellissimo Daniel Deronda, romanzo diseguale e non completamente risolto, ma che contiene alcune tra le più memorabili pagine dell'intera opera eliotiana. Il '77 e il '78 saranno dedicati a una serie di saggi critici, editi in volume nel 1879 con il titolo Impressions of Theophrastus Such. Il 28 novembre 1876 muore George H. Lewes, l'uomo con cui la Eliot aveva diviso gli anni più importanti della sua vita. Si può dire che questa unione, tanto criticata e osteggiata dai contemporanei, abbia segnato una svolta fondamentale nell'esistenza della scrittrice, come dimostra l'enorme mole di lavoro e di pubblicazioni dove l'impegno morale viene sempre più accentuandosi, nel senso polemico e costruttivo che fu sempre al fondo della sua opera, congiungendo, come nota Silvano Sabbatini «un trovato equilibrio emotivo con lo sbocco deciso delle proprie potenzialità artistiche». Dopo aver curato le opere postume di Lewes, George Eliot, ormai sessantenne, quasi a voler cercare una «legalità» alla fine della sua vita, sposa il 16 maggio 1880 il banchiere J. W. Cross. Trascorsi appena sette mesi dal matrimonio, la scrittrice moriva nella sua casa di Chelsea, il 22 dicembre 1880. La fortuna in Italia La Eliot non ha conosciuto una grande fortuna in Italia; sono reperibili in commercio Il mulino sulla Floss, a cura di G. Debenedetti, Mondadori, Milano 1950; La bella storia di Silas Marner, Rizzoli, Milano 1954; Middlemarch, a cura di Silvano Sabbadini, traduzione di Michele Bottalico, Mondadori, Milano 1983; Il velo dissolto (nella traduzione di Riccardo Reim, che qui si ripropone), Lucarini, Roma 1985, e nell'antologia Il cavaliere dalla piuma rosso-sangue e altri racconti, con il titolo «Il velo scostato», traduzione di Pietro Meneghelli, Lestoille, Roma 1978. Risultano tradotti ma introvabili Silas Marner il tessitore di Raveloe, Torino 1929; Adam Bede, Firenze 1931 ; Le tristi vicende del reverendo Amos Barton, Firenze 1954; Romola, Torino 1957. Critica Per quanto riguarda la formazione intellettuale di George Eliot, la sua poetica e le sue idee sul romanzo, si vedano tra i molti: M. L. Cazamian, Le Roman et les idées en Angleterre, Les Belles Lettres, Parigi 1935; B. Willey, Nineteenth Century Studies, Chattp and Windus, Londra 1949; J. Holloway, The Victorian Sage, Macmillan, Londra 1953; R. Stang, The Theory of the Novel in England 1850-1870, Routledge and Kegan Paul, Londra 1959; U. C. Knoepflmacher, Religious Humanism and Victorian Novel, Princeton University Press, 1965; B. J. Paris, Experiments in Life: G. Eliot's Quest for Values, Wayne University Presss, Detroit 1965. Sulle lettere: G. e K. Tillotson, Mid-Victorian Studies, The Athlone Press, Londra 1965. Sull'opera in versi: B. J. Paris, «G. Eliot's Umpublished Poetry», in Studies in Philology, Detroit 1959. Antologie critiche, assai importanti perché spesso raccolgono saggi altrimenti ir- NOTA BIOBIBLIOGRAFICA 15 reperibili: R. Stang, Discussions of G. Eliot, Heath and Co., Boston 1960; G. S. Haight, A Century of G. Eliot's Criticism, Houghton and Mifflin, Boston 1965; L. Lerner-J. Holstram, G. Eliot and Her Readers, Badley Head, Londra 1966; B. Hardy, Middlemarch: Criticai Approaches to the Novel, The Athlone Press, Londra 1967; B. Hardy, Criticai Essays on G. Eliot, Routledge and Kegan Paul, Londra 1970; G. R. Creeger, G. Eliot: A Collection of Criticai Essays, Prentice Hall, New Jersey 1970; D. Carrol, G. Eliot: The Critical Heritage, Routledge and Kegan Paul, Londra 1971; P. Swinden, Middlemarch: A Selection of Critical Essays, Macmillan, Londra 1972; W. Baker, Critics on G. Eliot, Alien and Unwin, Londra 1973. La storia «moderna» della critica eliotiana si può far iniziare con The Great Tradition di F. R. Leavis (Chatto and Windus, Londra 1948), che segna la fine della sfortuna critica della scrittrice, la quale, dopo aver goduto di grande favore in vita, conosce un periodo di oscurità che raggiunge il suo apice negativo negli anni '30-'40. Tra le principali monografie: J. Bennet, George Eliot: Her Mind and Her Art, Cambridge University Press, Londra 1948; R. Stump, Movement and Vision in G. Eliot's Novels, University of Washington Press, Seattle 1959; J. Thale, The Novels of G. Eliot, Columbia University Press, New York 1959; J. Beaty, Middlemarch from Notebook to Novel, Illinois University Press, Urbana 1960; W. J. Harvey, The Art of G. Eliot, Chatto and Windus, Londra 1961; W. Alien, G. Eliot, Macmillan, Londra 1965; I. Adam, G. Eliot, Routledge and Kegan Paul, Londra 1969; T. S. Pearce, G. Eliot, Evans, Londra 1973; N. Roberts, G. Eliot: Her Beliefs and Her Art, Paul Elek, Londra 1975. Importanti anche i saggi contenuti in: B. Hardy, The Appropriate Form, The Athlone Press, Londra 1964; R. Williams, The English Novel from Dickens to Lawrence, Chatto and Windus, Londra 1970; J. Calder, Women and Marriage in Victorian Fiction, Thames and Hudson, Londra 1976; G. Cunningham, The New Woman and Victorian Novel, Macmillan, Londra 1978. La situazione critica italiana, al pari di quella editoriale, è tutt'altro che ricca. Si vedano: G. Negri, G. Eliot, la sua vita nei suoi romanzi, Baldini, Milano 1891; L. Berti, Considerazioni sul realismo morale di G. Eliot, Sansoni, Firenze 1935; M. Praz, La crisi dell'eroe nel romanzo vittoriano, Sansoni, Firenze 1935; P. De Logu, La narrativa di G. Eliot, Adriatica, Bari 1969; F. Marroni, La verità difficile, Patron, Bologna 1980. Interessante per la genesi del romanzo è l'«Introduzione» di S. Sabbadini a Middlemarch, Mondadori, Milano 1983. L'edizione standard della narrativa eliotiana (mancando un'edizione critica) è ancora quella approvata in vita dall'autrice, The Novels of G. Eliot, 24 voll., Cabinet Edition, Blackwood, più volte riedita. A G. S. Haight si deve l'unica edizione di rilievo delle lettere, The G. Eliot Letters, 7 voll., Yale University Press, 1954-55; sempre a G. S. Haight si deve la migliore biografia della scrittrice, G. Eliot: A Biography, Oxford University Press, 1968. CENNI BIBLIOGRAFICI SU ELIZABETH GASKELL Elizabeth Cleghorn Gaskell (1810-1865) nacque a Knutsford, un piccolo centro rurale a poche miglia da Manchester, dove trascorse i primi anni della sua infanzia. Sposò William Gaskell, ministro della Chiesa Unitariana, vivendo praticamente all'ombra del marito fino al 1848, anno in cui pubblicò il suo primo romanzo, Mary Barton, iniziato quasi a mo' di terapia dopo la morte del figlioletto. Tra gli altri suoi libri vanno almeno ricordati: Ruth (1853), Cranford (1853), Lizzie Leigh and Other Tales (1854), North and South (1856), The Life of Charlotte Bronte(1857), Round the Sofà (1859), Silvia's Lovers (1863), Cousin Phillis (1864), Wives and Daughter (postumo, 1866). 16 NOTA BIOBIBLIOGRAFICA Non esiste un'edizione completa delle opere di Elizabeth Gaskell. Le raccolte più ampie sono la cosiddetta «Knutsford Edition» (che non include The Life of Charlotte Bronte), a cura di A.W. Ward, The Works of Mrs. Gaskell, 8 voll., Smith, Elder& Co., Londra 1906; The Novels and Tales of Mrs. Gaskell, a cura di C.K. Shorter, II voll., Oxford University Press, Londra-New York 1906-1919; The Letters, a cura di J.A.V. Chapple e A. Pollard, Manchester University Press, Manchester 1966. Tra gli studi critici più recenti si vedano: B. Hardy, «Mrs. Gaskell and George Eliot», in Sphere History of Literature, vol. 6, a cura di A. Pollard, 1970; A. Easson, Elizabeth Gaskell, Routledge and Kegan Paul, Londra 1979; Enid L. Duthie, The Themes of Elizabeth Gaskell, Macmillan, Londra 1980; Tessa Brodesky, Elizabeth Gaskell, Leamington Spa, Berg 1986. In italiano: M.L. Astaldi, La signora Gaskell, Bocca, Roma 1954; F. Marroni, La fabbrica nella valle, Adriatica, Bari 1987. Traduzioni italiane Il paese delle nobili signore (Cranford), trad. di Mario Casalino, Rizzoli, Milano 1950; Cranford, trad. di Augusta Grosso, UTET, Torino 1951 ; Mary Barton, trad. di Fedora Drei, Mondadori, Milano 1981; La vita di Charlotte Brontè, trad. di Simone Buffa di Castelvetro, La Tartaruga, Milano 1987; Storie di bimbi, di donne, di streghe, trad. di Marisa Sestito, Giunti, Firenze 1988; La donna grigia, trad. di Grazia Colli, Solfanelli, Chieti 1988; Il fantasma nella stanza del giardino e altri racconti, trad. di Francesco Marroni, Lucarini, Roma 1989; Il racconto della vecchia balia, trad. di Rosario Berardi, Solfanelli, Chieti 1990. R. R. GEORGE ELIOT IL VELO DISSOLTO Parte prima Il momento della mia morte si avvicina. Negli ultimi tempi sono andato soggetto ad attacchi di angina pectoris, e da come vanno queste cose, stando a quel che dice il mio medico, posso sperare che la mia vita non si prolunghi ormai più di qualche mese. A meno che, dunque, io non sia afflitto, oltre che da facoltà mentali fuori del comune, anche da una costituzione fisica molto forte, non dovrò sopportare ancora per molto il gravoso fardello di questa esistenza terrena. Se fosse altrimenti — se dovessi vivere fino a quell'età alla quale la maggior parte degli uomini aspira e si prepara — saprei, per una volta, se la pena di un'attesa delusa può essere maggiore di quella provocata da una previsione esatta. Perché io prevedo il momento della mia morte e tutto quanto accadrà in quegli istanti estremi. Esattamente tra un mese, il 20 settembre 1850, alle dieci di sera, mi troverò seduto su questa poltrona, in questo studio, stanco di intuire e di prevedere ancora, senza delusioni e senza speranze. Mentre guarderò la lingua bluastra di una fiamma alzarsi nel camino e la lampada starà languendo, comincerà nel mio petto l'orribile contrazione. Avrò appena il tempo di raggiungere il campanello e tirare con forza il cordone prima che sopraggiunga il senso di soffocamento. Nessuno risponderà alla mia chiamata. Io so perché. I miei due domestici sono amanti, e avranno litigato: la governante se ne sarà andata via di casa furiosa due ore prima, sperando di far credere a Perry che si sarebbe annegata. Alla fine Perry, allarmato, le è corso dietro. La piccola sguattera si è addormentata su una panca: non risponde al campanello, non si sveglia neppure... Il senso di soffocamento cresce: la lampada si spegne, con un orribile puzzo... Compio un enorme sforzo, mi attacco di nuovo al campanello. Ho paura di morire, ma nessuno viene in mio aiuto. Avevo sete di cose 20 GEORGE ELIOT sconosciute; quella sete è scomparsa. O Dio, lasciatemi con ciò che già conosco e di cui già sono stanco: non chiedo altro. Agonia di dolore e soffocamento — e intanto la terra, i campi, il ruscello sassoso dietro il gruppo di vecchie casupole, il sentore di fresco dopo la pioggia, la luce del mattino attraverso la finestra della mia camera, il caldo del focolare dopo l'aria gelata — su tutto questo scenderanno per sempre le tenebre? Tenebre — tenebre — nessun dolore — null'altro che tenebre... Passo e ripasso nelle tenebre: i miei pensieri diventano tutt'uno con quell'oscurità, con la sensazione di sprofondarvi sempre più... Prima che venga quel momento, voglio usare le mie ultime ore di lucidità e di forza per raccontare la storia della mia vita. Prima d'ora non mi sono mai confidato a fondo con nessun essere umano; non mi sono mai sentito incoraggiato a far conto sulla comprensione dei miei simili. Una volta morti, però, tutti abbiamo diritto a ottenere compassione, tenerezza, carità: solo i vivi non ottengono perdono — i vivi allontanano l'indulgenza e il rispetto degli uomini come il vento impetuoso dell'est allontana la pioggia. Finché il cuore batte, feritelo, è la vostra sola opportunità; finché gli occhi possono ancora volgersi verso di voi colmi di preghiere e di lacrime, freddateli con uno sguardo gelido e crudele; finché l'orecchio, il delicato messaggero delle cose più segrete dell'animo, può ancora percepire i toni della gentilezza, sbarazzatevene con fredda cortesia, con beffarda affabilità, con affettata indifferenza; finché l'intelletto creativo freme davanti all'ingiustizia, struggendosi per un desiderio di fratellanza umana, affrettatevi, opprimetelo con i giudizi malevoli, con i paragoni superficiali, con la noncuranza che distorce le cose. A lungo andare il cuore non batterà più — ubi saeva indignatio ulterior cor lacerare nequit; gli occhi cesseranno di chiedere; l'orecchio diverrà sordo; la mente avrà smesso di pensare e non avrà più bisogno di nulla. Allora i vostri discorsi caritatevoli potranno avere libero sfogo; potrete ricordare e compatire la fatica, la lotta disperata, il fallimento; allora potrete dare il giusto valore a quanto di buono era stato fatto, trovare le attenuanti agli errori e magari accettare di dimenticarli. Sono discorsi banali, da libro di scuola; perché mi ci sono fer- IL VELO DISSOLTO 21 mato su? Non mi riguardano gran che, visto che non mi lascerò dietro niente che possa venir ricordato dagli altri. Non ho parenti che possano risanare, piangendo sulla mia tomba, le ferite inflittemi mentre ero con loro. Solo la storia della mia vita forse potrà, dopo la morte, procurarmi presso gli estranei una simpatia maggiore di quella che abbia mai sperato di riscuotere dagli amici mentre ero vivo. La mia infanzia, per contrasto con gli anni successivi, mi appare forse più felice di quanto non sia stata in realtà. A quel tempo la cortina del futuro era per me impenetrabile, come per gli altri bambini; come loro conoscevo tutte le gioie dell'ora presente, tutte le dolci, infinite speranze del domani. Avevo una madre piena di tenerezza; anche ora, dopo il triste scorrere di tanti anni, ritrovo la traccia di una sensazione mai dimenticata al ricordo delle sue carezze mentre mi teneva sulle ginocchia — quelle braccia intorno al mio corpo piccino, la sua guancia premuta contro la mia. Una malattia agli occhi mi rese cieco per un breve periodo, e mia madre mi tenne in grembo dalla mattina alla sera... Quell'amore senza uguali scomparve presto dalla mia vita, e anche per la mia coscienza infantile fu come se l'esistenza fosse divenuta più gelida. Come prima cavalcavo il mio piccolo pony bianco con lo stalliere a lato, ma non c'erano più occhi amorosi a guardarmi alla partenza, né braccia liete ad aprirsi per me al ritorno. Forse l'amore di mia madre venne a mancarmi più di quanto sarebbe mancato a qualsiasi altro bambino di sette o otto anni, per il quale tutte le altre gioie della vita sarebbero rimaste intatte; ma certamente ero un bambino molto sensibile. Ricordo ancora la trepidazione mista a un delizioso eccitamento che mi prendeva udendo il calpestio dei cavalli rimbombare sull'impiantito delle stalle; il risuonare delle voci degli stallieri, il confuso abbaiare dei cani che esplodeva quando la carrozza di mio padre passava con fragore sotto l'arco d'ingresso del cortile; il suono del gong che annunciava il pranzo e la cena... Il passo cadenzato dei soldati che talvolta percepivo — la casa di mio padre era vicina a una capitale di contea piena di grandi caserme — mi faceva singhiozzare e tremare, eppure quando era passato desideravo che tornasse ancora. Immagino che mio padre mi considerasse un bambino piuttosto strano, e non abbia mai nutrito molto affetto per 22 GEORGE ELIOT me, pur essendo scrupolosissimo nell'adempimento di quelli che considerava i doveri di un genitore. Ma aveva già superato la mezza età, e io non ero il suo unico figlio. Mia madre era stata la sua seconda moglie e lui aveva già quarantacinque anni quando l'aveva sposata. Era un uomo risoluto, inflessibile, estremamente metodico: veniva da una famiglia di banchieri, ma aveva la vocazione del proprietario terriero, e aspirava ad avere un peso nella vita della contea; una di quelle persone ogni giorno uguali a se stesse, che non vengono influenzate dal tempo bello o brutto, che non conoscono né allegria né tristezza. Io sentivo un gran rispetto per lui, e in sua presenza apparivo più timido ed emotivo del solito; un fatto, questo, che probabilmente lo convinse a educarmi in modo diverso da quello tradizionale scelto invece per il mio fratello maggiore, che era allora un ragazzo già grande, studente a Eaton. Ma mio fratello era destinato a essere il suo successore e continuatore: dopo Eaton, naturalmente, sarebbe andato a Oxford, per imbastire relazioni sociali e utili conoscenze. Mio padre non era uomo da sottovalutare l'apporto della conoscenza dei drammaturghi greci o degli scrittori satirici latini nel raggiungimento di una prestigiosa posizione sociale, ma in fondo non stimava poi tanto «quegli spiriti coronati, ma morti», e si sentiva autorizzato a tranciare giudizi per aver letto l'Aeschylus di Potter e sfogliato l'Horace di Francis. A queste sue disposizioni negative, tuttavia, se ne aggiungeva una positiva, derivata da una sua recente esperienza nel campo delle speculazioni minerarie: che una educazione scientifica fosse davvero la più utile e adatta per un figlio minore. Oltretutto, era chiaro che un ragazzo introverso e sensibile come me non era in grado di affrontare la rude esperienza di una scuola pubblica: il signor Letherall lo aveva affermato piuttosto decisamente. Il signor Letherall era un omone alto e con gli occhiali, che un giorno prese la mia piccola testa fra le sue grandi mani, e comprimendola qua e là cominciò a esplorarla con fare sospettoso. A un certo punto mi piazzò i suoi due grossi pollici sulle tempie e mi spinse via un po' a distanza, guardandomi fisso attraverso gli occhiali scintillanti. Quello che vide sembrò non piacergli molto, perché corrugò la fronte con aria severa e, passandomi i pollici sulle sopracciglia, disse a mio padre: IL VELO DISSOLTO 23 «L'insufficienza è là, signore, là... e qui», aggiunse toccandomi la sommità della testa, «qui c'è un eccesso... Bisogna fare in modo che questo venga fuori, e che quest'altro resti invece sopito». Io tremavo, in parte perché intuivo confusamente di essere oggetto di riprovazione, in parte perché ero in preda al mio primo odio; odio per quel grosso individuo occhialuto che mi palpava la testa come se avesse voluto comprarla e stesse tirando sul prezzo. Non so quanto il signor Letherall sia stato responsabile del sistema educativo adottato in seguito nei miei confronti, ma apparve presto con chiarezza che le lezioni private di storia naturale, scienze e lingue moderne erano i mezzi con cui si cercava di rimediare ai miei difetti costituzionali. Non capivo niente di macchine, quindi dovetti occuparmene molto; non avevo alcuna memoria per le classificazioni, dunque si ritenne necessario che studiassi sistematicamente zoologia e botanica; avevo sete di avventure e di azione, così venni imbottito di cognizioni sulle leggi della meccanica, dei corpi elementari, dei fenomeni elettrici e magnetici. Un ragazzo più disponibile di me avrebbe senza dubbio tratto profitto da quegli ottimi istitutori e dai loro apparati scientifici, trovando, di certo, i fenomeni elettrici e magnetici davvero così affascinanti come ogni mercoledì mi veniva assicurato che fossero. Stando così le cose, invece, potevo fare il paio, per la totale ignoranza su tutto ciò che mi veniva insegnato, con il peggior studente di latino che fosse mai uscito da una scuola classica. Leggevo di nascosto Plutarco, Shakespeare e il Don Chisciotte: mi riempii in tal modo la testa di fantasticherie, mentre il mio maestro mi assicurava che «un uomo colto, a differenza di un ignorante, conosce il motivo per cui l'acqua scorre verso il basso». Io non avevo alcun desiderio di essere quel tipo di uomo colto: ero felice che l'acqua scorresse, potevo guardarla per ore, ascoltare il suo gorgoglio fra i ciottoli e vederla bagnare il verde brillante delle piante palustri. Non mi importava sapere perché scorresse: ero del tutto convinto che vi fossero delle ottime ragioni per una cosa talmente bella. Non c'è bisogno che mi dilunghi ancora su questa parte della mia vita: ne ho detto quanto basta per spiegare la mia natura di ragazzo sensibile e privo di senso pratico, cresciuto 24 GEORGE ELIOT in un ambiente sfavorevole a un suo sviluppo salutare e felice. Quando compii sedici anni venni mandato a Ginevra per completare i miei studi. Fu un cambiamento felice per me: la prima visione delle Alpi al tramonto, mentre scendevamo dal Jura, mi sembrò quasi un ingresso in paradiso. Nei tre anni trascorsi a Ginevra, al cospetto della Natura e della sua terribile bellezza, provai un continuo, impetuoso senso di esaltazione, simile a un sorso di vino inebriante. Penserete forse che io fossi un poeta, per questo mio precoce sentimento verso la Natura. Purtroppo non ero così fortunato: un poeta si esprime nel suo canto e sa che presto o tardi un orecchio lo ascolterà e un'anima sensibile gli darà risposta. Ma la sensibilità del poeta senza voce... la sensibilità del poeta che sa esprimersi solo con lacrime silenziose lungo le rive assolate, quando la gran luce del meriggio brilla sull'acqua, o con una repentina chiusura in se stesso alle parole aspre degli uomini... questa muta passione porta con sé un fatale senso di solitudine tra gli altri esseri umani. Ma vi erano dei momenti in cui questa solitudine mi pesava meno: quando, al calar della sera, uscivo in barca dirigendomi verso il centro del lago: mi sembrava allora che il cielo, le vette splendenti delle montagne, l'azzurra distesa dell'acqua, mi circondassero di un caldo amore, come nessun volto umano aveva saputo esprimermi da quando quello di mia madre era svanito dalla mia vita. Disteso nella barca, facevo come Jean Jacques: lasciavo che mi portasse dove voleva, mentre guardavo le cime incandescenti di sole spegnersi una dopo l'altra, come se il carro di fuoco del profeta passasse sopra di loro percorrendo la sua strada verso la dimora della luce... Poi, quando le cime s'erano fatte tristi e come morte, era il momento di tornare a casa; infatti ero tenuto sotto una sorveglianza piuttosto stretta, e non mi era permesso di rimanere fuori fino a tarda sera. Questo mio stato d'animo non era certo favorevole alla nascita di qualche amicizia intima tra i numerosi giovani della mia età che si trovavano a Ginevra per ragioni di studio. Tuttavia, una vera amicizia ci fu, e, caso singolare, proprio con un giovane di tendenze intellettuali diametralmente opposte alle mie. Lo chiamerò Charles Meunier, perché il suo vero IL VELO DISSOLTO 25 nome — un nome inglese, come la sua origine — è in seguito divenuto famoso. Era orfano, e viveva di un misero salario portando avanti i suoi studi di medicina, per i quali aveva una particolare predisposizione. È strano che con il mio carattere distratto, impressionabile e poco osservatore, che odiava la ricerca e tendeva alla contemplazione, io mi sentissi attratto da un giovane il cui maggiore interesse era la scienza. Ma il nostro non era un legame intellettuale; scaturiva da una fonte che può felicemente mettere insieme l'intelligente e lo stupido, il realista e il sognatore: scaturiva da una comunione di sentimenti. Charles era povero e brutto, deriso dai giovani ginevrini e impresentabile nei salotti. Vedevo che, come me, era un isolato, anche se per motivi differenti. Spinto da uno slancio di simpatia, azzardai qualche timido approccio. Basterà dire che fra noi sorse quel tanto di cameratismo che le nostre differenti abitudini potevano permettere: nei rari giorni di vacanza di Charles ce ne andavamo insieme sul Salève, o prendevamo il battello per Vevay, mentre io ascoltavo distrattamente i monologhi nei quali esponeva le sue ardite concezioni riguardo a esperimenti e scoperte future, che nella mia mente si confondevano con la visione delle acque azzurre e delle nubi che vagavano nel cielo, col canto degli uccelli e il luccichio lontano dei ghiacciai. Lui sapeva benissimo che i miei pensieri erano altrove, ma gli piaceva ugualmente parlare con me di quanto gli stava a cuore. Non è forse vero che parliamo delle nostre speranze e dei nostri progetti anche ai cani e agli uccelli quando sappiamo che ci amano?... Ho voluto ricordare questa mia sola amicizia perché è collegata a uno strano e terribile avvenimento della mia vita successiva, di cui parlerò dopo. Una grave malattia — non ne ricordo altro che un confuso dolore fisico e morale e la saltuaria presenza di mio padre al mio capezzale — pose fine al felice periodo ginevrino. Seguì la languida monotonia della convalescenza, con i giorni che gradualmente si facevano più vari e distinti man mano che mi rafforzavo ed ero in grado di fare passeggiate in carrozza sempre più lunghe. In uno di quei giorni, che ricordo meglio degli altri, mio padre si sedette accanto dov'ero e disse: «Quando sarai in condizioni di viaggiare, Latimer, ti porterò a casa con me. Il viaggio ti distrarrà e ti farà bene; attra- 26 GEORGE ELIOT verseremo il Tirolo e l'Austria, vedrai molti posti nuovi. I nostri vicini, i Filmore, verranno con noi; Alfred ci raggiungerà a Basilea e tutti insieme andremo a Vienna, poi torneremo passando per Praga...». Mio padre venne chiamato fuori della stanza prima di aver terminato la frase e mi lasciò a fantasticare sulla parola Praga con una strana sensazione, come se una scena nuova e meravigliosa si stesse per aprire davanti a me... Una città sotto un pesante cielo assolato — un sole estivo di secoli lontani fermato nel suo corso — mai rinfrescata, da tempo immemorabile, dalla rugiada notturna o dalle rapide nuvole portatrici di pioggia... Un sole che bruciava la polverosa, consunta grandezza di genti condannate in eterno a vivere nell'estenuante ripetersi dei ricordi, come sovrani ormai deposti e invecchiati ancora adorni delle loro vesti d'oro a brandelli. La città appariva così ardente che il grande fiume sembrava una lingua metallica e le statue annerite, mentre passavo sotto i loro occhi vuoti lungo il ponte sterminato, mi parvero, con le loro antiche acconciature e le loro sante corone, i veri abitatori e padroni del luogo. Gli uomini e le donne, affaccendati e banali nel loro frettoloso va e vieni, erano invece come uno sciame di insignificanti, effimeri visitatori che infestassero la città per un giorno. Sono severe creature di pietra come queste, pensavo, i padri di bimbi svaniti nel tempo, in quelle case che affollano il pendio davanti a me, corrose dal tempo; loro i cortigiani ossequiosi nello splendore logoro e cencioso del palazzo che si distende monotono sulla collina; loro che si dedicano con stanchezza al culto nell'aria greve delle chiese, non spinti da paure o speranze, ma condannati dal loro stesso destino a essere per sempre vecchi senza mai morire, vivendo nella fissità come in un perpetuo meriggio, senza il riposo della notte né la rinascita del mattino... Un assordante rumore metallico mi fece trasalire all'improvviso, e di nuovo divenni cosciente di essere nella mia stanza: una delle molle del caminetto era caduta mentre Pierre apriva la porta recandomi la solita medicina. Il mio cuore batteva con violenza, e gli chiesi di lasciarmi la medicina lì accanto; l'avrei presa al più presto. Appena fui di nuovo solo, cominciai a chiedermi se avevo dormito. Era stato dunque un sogno?... Quella visione mera- IL VELO DISSOLTO 27 vigliosa, precisa... tanto particolareggiata nei suoi dettagli da comprendere perfino una macchia di luce multicolore proiettata sul selciato dai vetri di una lampada a forma di stella... la visione di una città straniera totalmente sconosciuta alla mia fantasia! Non avevo mai visto un'immagine di Praga: nella mia mente era solo un nome, vagamente associato a vecchi ricordi di glorie imperiali e di guerre religiose. Nelle mie precedenti esperienze in fatto di sogni non mi era mai accaduto qualcosa del genere; anzi, spesso avevo provato un senso di mortificazione perché solo il frequente terrore degli incubi che li accompagnava aveva a volte impedito ai miei sogni di venire definiti sconnessi e banali. Ma non potevo credere di aver dormito: ricordavo distintamente il graduale manifestarsi della visione, come nuove immagini su uno scenario in dissolvenza o come un panorama che si fa nitido allorché il sole dissolve il velo della nebbia mattutina. E mentre ero conscio dell'inizio di questa visione, mi ricordavo al tempo stesso di Pierre, entrato per annunciare a mio padre che il signor Filmore lo stava aspettando, e di mio padre che usciva in fretta dalla stanza... No, non era stato un sogno. Forse era — e il pensiero mi si riempì di trepida esultanza — era il dono della poesia, finora solo torbida e travagliata sensibilità, che improvvisamente si mutava in una spontanea creazione? Di certo, era così che Omero aveva visto la pianura di Troia, e Dante le dimore dei trapassati, e Milton il volo verso la terra del Tentatore... Forse la mia malattia era la causa di tanti felici mutamenti nella mia personalità, era stata lei a dare una più ferma tensione ai miei nervi, a rimuovere qualche oscuro impedimento?... Avevo letto spesso di effetti simili, ma in opere della fantasia... O meglio, no: anche in alcune biografie autentiche si parlava dell'influsso esaltante, stimolante esercitato da alcune malattie sulle facoltà mentali... Forse che l'ispirazione di Novalis non era divenuta più intensa man mano che progrediva la consunzione della tisi? Quando la mia mente si fu soffermata per qualche tempo su questa idea così esaltante, pensai che forse potevo verificarla con uno sforzo di volontà. La visione era cominciata mentre mio padre stava parlando del nostro viaggio a Praga... Neppure per un attimo mi era venuto in mente che si trattasse di una vera e propria rappresentazione di quella città: crede- 28 GEORGE ELIOT vo... speravo che fosse un'immagine che il mio genio, finalmente libero, aveva dipinto in un istante, con i colori ricavati da qualche ricordo sepolto. Supponiamo che ora avessi fissato la mia mente su qualche altro luogo... Venezia, ad esempio, tanto più familiare di Praga alla mia immaginazione: forse avrei ottenuto lo stesso risultato. Mi concentrai su Venezia; stimolai la mia fantasia con ricordi poetici e mi sforzai di sentirmi davvero a Venezia, così come prima mi ero sentito a Praga. Invano. Riuscivo solo a dare nuovi colori alle incisioni del Canaletto appese nella mia stanza d'un tempo, a casa; la scena era mutevole, e la mia mente vagava invano alla ricerca di immagini più vivide: non percepivo nessuna forma, nessuna ombra senza un consapevole lavorio mentale che la provocasse. Tutto era sforzo prosaico e non la rapita passività sperimentata mezz'ora prima. Ero scoraggiato, ma mi dissi che l'ispirazione è volubile. Per diversi giorni rimasi in uno stato di eccitata aspettativa, attento a qualche altra manifestazione del mio nuovo dono. Feci correre il pensiero su tutto ciò che conoscevo, nella speranza di poter trovare qualcosa che avrebbe risvegliato, con una qualche vibrazione, il mio talento assopito. Nulla: il mio mondo rimaneva come sempre nell'ombra, e quel lampo di strana luce non volle ritornare, sebbene lo attendessi con fremente impazienza. Mio padre mi accompagnava ogni giorno in una gita in carrozza e in una passeggiata a piedi che, man mano che mi tornavano le forze, si faceva sempre più lunga. Una sera concordammo che sarebbe passato a prendermi il giorno dopo alle dodici per andare a scegliere insieme un carillon e altri oggetti che è di rigore acquistare per qualsiasi inglese abbastanza ricco in visita a Ginevra. Quando avevo un appuntamento con mio padre ero sempre in ansia per farmi trovare pronto all'ora stabilita, perché era il più puntuale degli uomini e dei banchieri. Ma, con mia grande sorpresa, alle dodici e un quarto non era ancora arrivato... Sentivo in me tutta l'impazienza di un convalescente che non ha nulla da fare, e che ha appena ricavato un po' di eccitazione dalla prospettica di distrarsi e di fare del moto. Incapace di stare seduto ed economizzare le mie energie, camminavo in su e in giù per la stanza, guardando al di fuori IL VELO DISSOLTO 29 il corso del Rodano proprio dove si stacca dal lago azzurro cupo, e al tempo stesso pensando a cosa mai avesse potuto causare il ritardo di mio padre. D'un tratto mi accorsi che mio padre era nella stanza, ma non da solo; con lui c'erano altre due persone. Strano: non avevo udito alcun passo, non avevo visto aprirsi la porta... tuttavia vedevo mio padre, e alla sua destra la nostra vicina, la signora Filmore, che ricordavo benissimo, benché fossero cinque anni che non la vedevo. Era una donna di mezza età, dall'aspetto piuttosto comune, vestita di seta e cachemire; la signora alla sinistra di mio padre, invece, doveva avere non più di vent'anni: una persona alta, snella, con fluenti capelli biondi acconciati in trecce e riccioli fin troppo elaborati e voluminosi per coronare la figurina flessuosa e il volto dai lineamenti minuti e dalle labbra sottili. Il suo viso, però, non aveva un aspetto giovanile: i lineamenti erano affilati e gli occhi grigio chiaro erano al tempo stesso penetranti, inquieti e sarcastici. Erano fissi su di me quegli occhi, con un'aria di divertita curiosità, e io provai una penosa sensazione, come se un vento tagliente mi passasse attraverso il corpo. Il vestito verde pallido e le foglie che sembravano incorniciare il biondo chiaro dei capelli, mi fecero pensare a Water-Nixie, la dea delle acque... La mia mente era infarcita di poesia tedesca, e questa pallida donna dallo sguardo fatale, nelle sue vesti verdi, mi appariva come nascente da gelide acque piene di giunchi, quasi la figlia di un antico fiume. «Dunque, Latimer, pensavi che fossi in ritardo», disse mio padre... Ma appena ebbi udita la sua ultima parola l'intero gruppo svanì, e tra me e il paravento cinese dipinto che si trovava davanti alla porta non c'era più nulla. Mi sentii di ghiaccio; fui solo capace di barcollare in avanti e gettarmi sul divano. Quel mio strano, nuovo potere si era ancora manifestato... Ma era un potere? Non si trattava piuttosto di una malattia, una sorta di delirio intermittente che concentrava le mie facoltà mentali in attimi di attività frenetica, lasciando ancora più povere le mie ore di normalità? Tutto ciò su cui posavo lo sguardo mi appariva irreale; mi aggrappai convulsamente al campanello, come a volermi liberare da un incubo, e suonai due volte. Subito arrivò Pierre con un'espressione preoccupata. 30 GEORGE ELIOT «Monsieur ne se trouve pas bien?», chiese con ansia. «Sono stanco di aspettare, Pierre», dissi con tutta la chiarezza e l'energia che potei, come chi è deciso a mostrarsi sobrio nonostante il vino bevuto, «ho paura che sia accaduto qualcosa a mio padre... di solito è così puntuale... Fai una corsa all'Hotel des Bergues e vedi se è ancora là.» Pierre lasciò subito la stanza con un rassicurante «bien monsieur»; la semplice, prosaica realtà di questa scena mi sollevò alquanto. Andai nella mia camera da letto, adiacente al soggiorno, presi un flacone di acqua di colonia e con grande cura tolsi il tappo e mi strofinai quell'essenza tonificante sulle mani, sulla fronte e sotto le narici, traendo un rinnovato piacere da quel profumo perché me lo ero procurato attraverso molti piccoli, attenti gesti e non per qualche improvvisa e folle ispirazione. Avevo già cominciato a sperimentare qualcosa degli orrori dati in sorte a coloro la cui natura supera i confini della semplice condizione umana. Godendo ancora della freschezza del profumo, tornai in salotto; ma non era vuoto come quando lo avevo lasciato. Davanti al paravento cinese c'era mio padre, con la signora Filmore alla sua destra, e alla sua sinistra la snella ragazza bionda dai lineamenti affilati e gli occhi penetranti fissi su di me con divertita curiosità. «Dunque, Latimer, pensavi che fossi in ritardo», disse mio padre... Non udii, non vidi più nulla... finché non presi coscienza di essere sdraiato sul divano, con la testa in basso: Pierre e mio padre mi stavano accanto. Appena mi fui riavuto del tutto, mio padre lasciò la stanza e ritornò dicendo: «Ho informato le signore sulle condizioni della tua salute, Latimer. Erano in attesa nella stanza accanto... Per oggi sarà meglio che rinunciamo al nostro giro di acquisti.» Subito dopo aggiunse: «La signora più giovane è Bertha Grant, una nipote orfana della signora Filmore. Il signor Filmore l'ha adottata e ora vive con loro, così sarà nostra vicina quando torneremo a casa... forse sarà anche qualcosa di più, perché ho il sospetto che tra lei e Alfred ci sia del tenero, e io lo riterrei un fidanzamento soddisfacente, visto che il signor Filmore intende provvedere per lei in tutto e per tutto come se fosse IL VELO DISSOLTO 31 sua figlia. Non ricordavo che tu non sapessi che vive con i Filmore». Non fece altre allusioni al fatto che fossi svenuto vedendola, e di certo io per nulla al mondo gliene avrei dato la ragione: rifiutavo l'idea di rivelare a chiunque quella che avrebbe potuto essere considerata una penosa anomalia, e meno che mai a mio padre, che avrebbe dubitato per sempre della mia sanità mentale. Non intendo soffermarmi minuziosamente sui particolari della mia esperienza. Ho descritto in modo dettagliato questi due casi perché hanno avuto effetti evidenti e determinanti sul mio destino. Poco tempo dopo quest'ultimo fatto — credo proprio il giorno seguente — cominciai a rendermi conto di un aspetto della mia abnorme sensibilità al quale, data la natura vaga e superficiale dei rapporti con le altre persone dal tempo della mia malattia, non avevo fatto caso. Si trattava del trasferimento dei processi mentali di quelli che mi circondavano nel mio proprio pensiero: le riflessioni frivole e sconnesse di qualche conoscente di nessuna importanza, come la signora Filmore ad esempio, si imponevano alla mia percezione, come la voce di uno strumento musicale importuno e stonato o l'infaticabile ronzio di un insetto prigioniero. Ma questa sgradevole recettività era intermittente, e mi lasciava attimi di tregua in cui l'animo di chi mi stava vicino tornava ad apparirmi ermeticamente chiuso e in cui provavo un sollievo come quello che il silenzio dona a dei nervi affaticati. Avrei potuto credere che questo mio dono importuno fosse solo un malsano esercizio dell'immaginazione, ma il fatto che riuscissi ad anticipare parole e azioni del tutto imprevedibili provava che ero in qualche modo in contatto con le menti degli altri. Questo fenomeno, sgradevole e fastidioso quando intrattenevo rapporti con persone qualsiasi, diveniva fonte di intensa pena e dolore quando sembrava aprirmi l'animo di coloro che mi erano molto vicini... quando i discorsi razionali, le attenzioni cortesi, le frasi brillanti che costituivano il tessuto dei loro caratteri erano visti come isolati, in una specie di immagine al microscopio in cui balzavano fuori tutte le sottintese futilità, tutto l'egoismo represso, tutto l'insieme caotico di puerilità, di bassezza, di ricordi astiosi e di pensieri nascosti volti all'in- 32 GEORGE ELIOT differenza e alla noncuranza, che facevano apparire le parole e le azioni umane come foglie messe a coprire una massa di rifiuti in continua fermentazione. A Basilea fummo raggiunti da mio fratello Alfred, divenuto ormai, a ventisei anni, un bell'uomo sicuro di sé, in stridente contrasto con la mia personalità fragile, nervosa e inconcludente. Credo che a quel tempo mi si attribuisse una certa bellezza, un po' femminea e un po' spettrale... infatti alcuni pittori specializzati in ritratti, di cui Ginevra è piena, mi avevano spesso domandato di posare per loro, e una volta avevo fatto da modello per un dipinto di genere, che rappresentava un menestrello morente. Io, tuttavia, detestavo il mio aspetto fisico, e solo la convinzione che fosse necessario come sostegno del mio genio poetico avrebbe potuto farmi riconciliare con esso. Questa tenue speranza era ormai quasi del tutto svanita, e nel mio viso non vedevo altro che i segni di una costituzione malsana, fatta per subire passivamente il dolore, troppo debole per le sublimi fatiche della creazione poetica. Alfred, dal quale ero stato quasi sempre lontano e che nel suo attuale stadio di sviluppo fisico e morale mi appariva come un perfetto estraneo, cercava di essere estremamente amichevole e fraterno nei miei confronti. Aveva la gentilezza superficiale di un carattere semplice e soddisfatto di sé, che non teme rivali e non ha mai conosciuto contrarietà. Non sono sicuro di essere stato sempre così ben disposto verso di lui da non averlo mai invidiato, anche quando i nostri desideri non si erano ancora scontrati, e di essermi mai trovato in quello stato d'animo che accetta le confidenze generose e le buone intenzioni. Tra le nostre due nature deve esserci stata una naturale antipatia. Così, in poche settimane egli divenne l'oggetto del mio odio più intenso; quando entrava in una stanza dov'ero anch'io e ancor più quando parlava, provavo una sensazione di stridore metallico che mi faceva serrare i denti. La mia abnorme percezione si fissava di continuo e con maggiore intensità sui suoi pensieri e sulle sue emozioni, più che su quelli di chiunque altro. Ero esasperato ogni momento dalle meschine manifestazioni della sua presunzione, dalla sua predilezione per gli atteggiamenti protettivi, dalla compiaciuta certezza della passione di Bertha Grant per lui, dal IL VELO DISSOLTO 33 disprezzo ammantato di pietà che provava per me — che mi si rivelavano non dal tono della voce, dalle parole, da ciò che faceva (cose a cui una mente acuta e sospettosa presta comunque attenzione), bensì nel loro semplice, nudo meccanismo. Insomma, eravamo rivali e i nostri desideri si scontravano, anche se lui non ne era consapevole. Non ho ancora detto nulla dell'effetto che Bertha Grant produsse su di me dopo una più stretta conoscenza. Questo effetto fu determinato soprattutto dal fatto che, unica eccezione tra quanti mi stavano intorno, ella sfuggiva al mio disgraziato dono della preveggenza. Riguardo a Bertha ero sempre in uno stato di incertezza: potevo studiare l'espressione del suo viso, tentare di interpretarne il significato; potevo chiedere la sua opinione con l'effettivo interesse di chi la ignora; potevo ascoltare le sue parole e attendere un suo sorriso con speranza o timore: aveva per me il fascino di un destino sconosciuto. Dico che fu soprattutto questo il motivo del forte ascendente di Bertha su di me, perché, in teoria, nessun carattere femminile sembrava avere meno affinità del suo con quello di un giovane ritroso, romantico e appassionato qual ero io. Bertha era pungente, sarcastica, priva di fantasia, precocemente cinica; restava critica e fredda davanti alle scene più commoventi, si divertiva a sezionare parola per parola le mie poesie preferite ed era particolarmente sprezzante verso i lirici tedeschi, che a quel tempo erano la lettura che amavo di più. Fino a questo momento non sono stato capace di definire i miei sentimenti verso di lei: non era una semplice infatuazione giovanile, perché era assolutamente l'opposto, perfino nel colore dei capelli, della donna ideale che per me incarnava la bellezza; e poi, non provava quell'entusiasmo per le cose grandi ed elevate che, anche nel momento in cui il suo dominio su di me era al culmine, continuai a reputare l'elemento più nobile del carattere umano. Ma non esiste tirannia più assoluta di quella che una natura egocentrica e negativa può esercitare su un'altra natura morbosamente sensibile, sempre in cerca di simpatia e di sostegno. Anche le persone più indipendenti reagiscono al silenzio di qualcuno aumentando la loro considerazione per le sue opinioni; provano maggior soddisfazione ad accattivarsi il rispetto di un individuo abitualmente critico, capzioso 34 GEORGE ELIOT e malevolo: nessuna meraviglia, dunque, che un giovane esaltato e completamente privo di fiducia in se stesso restasse in vigile attesa di fronte all'impenetrabile segreto di un volto di donna, come se fosse l'altare di una divinità dall'incerta benevolenza che ne dominasse il destino. Un giovane appassionato non sa concepire in un'altra mente la completa assenza di quei sentimenti che lo fanno vibrare; magari sono flebili, latenti, inattivi, ma devono esserci... forse possono venire risvegliati. Talvolta, in qualche attimo di felice allucinazione, sarà portato a credere che essi sono presenti in tutta la loro forza proprio perché non riesce a scorgerne alcun segno... E questo, come ho già detto, si verificava in me al massimo grado, perché Bertha era la sola persona che rimanesse per me in quella misteriosa esclusione spirituale che rende possibili queste delusioni giovanili. E poi, indubbiamente, agiva anche un altro tipo di fascino: quella indefinibile attrazione fisica che gode nel farsi beffe delle nostre previsioni psicologiche e che spinge gli uomini che dipingono silfidi a innamorarsi di qualche bonne et brave femme dal passo pesante e piena di lentiggini. Il comportamento di Bertha verso di me era tale da incoraggiare tutte le mie illusioni, da attizzare la mia giovanile passione e da rendermi sempre più schiavo dei suoi sorrisi. Riandando a quella situazione con la sconsolata saggezza di oggi, devo concludere che la sua vanità e il suo desiderio di dominio dovevano sentirsi molto gratificati dalla convinzione che fossi svenuto, la prima volta che l'avevo vista, per la forte impressione che la sua persona aveva prodotto su di me. Anche alla donna più prosaica piace credere di essere l'oggetto di una violenta, poetica passione, e anche senza avere in sé una briciola di romanticismo, Bertha possedeva quel gusto per l'intrigo che le rendeva piccante l'idea che il fratello dell'uomo destinato a sposarla morisse d'amore e di gelosia per lei. Che poi intendesse sposare mio fratello, a quel tempo davvero non lo credevo; infatti, sebbene le attenzioni di Alfred fossero sempre assidue e sapessi bene che sia lui che mio padre erano già decisi a compiere questo passo, non c'era stato ancora nessun fidanzamento ufficiale, nessuna dichiarazione esplicita. Di solito Bertha, mentre civettava con mio fratello e accettava la sua corte in modo da fargli capire che IL VELO DISSOLTO 35 ne gradiva le intenzioni, mi faceva credere, con le parole e gli sguardi più discreti — piccole astuzie femminili che non si sarebbero mai potute ritorcere contro di lei — che egli era in realtà l'oggetto della sua segreta derisione, che lo considerava, come me, solo un bellimbusto che sarebbe stata lieta di lasciare deluso. Mi coccolava apertamente in presenza di mio fratello, come se fossi troppo giovane e malaticcio per essere preso per un innamorato (e così mi considerava anche lui), ma credo che nel suo intimo godesse del turbamento in cui mi gettava carezzandomi i riccioli, ridendo alle mie citazioni poetiche. Queste carezze mi venivano sempre fatte alla presenza dei nostri amici; quando eravamo soli mi teneva a maggior distanza, cogliendo però ogni tanto l'occasione, con le parole o con qualche piccolo gesto, per incoraggiare la mia timida, sciocca speranza di essere il suo preferito. E perché non avrebbe dovuto seguire la sua preferenza? Non avevo, è vero, una posizione brillante come mio fratello, ma ero ricco, ero poco meno di un anno più giovane di lei, e lei stessa era un'ereditiera, ben presto in età di decidere da sola. L'alternarsi di timori e speranze, che indirizzavo in questa sola direzione, trasformava ogni giorno trascorso con lei in un delizioso tormento. Vi fu poi un gesto deliberato, da parte sua, che contribuì ancor di più a farmi perdere il senso della realtà. Durante il periodo del nostro soggiorno a Vienna, Bertha compiva vent'anni e, siccome amava molto i gioielli, profittammo tutti dell'occasione offerta dai magnifici negozi di quella Parigi tedesca per comprarle dei gioielli come regalo di compleanno. Il mio naturalmente, fu il più modesto: un anello di opale... l'opale era la mia pietra preferita, perché sembra accendersi e poi tornare pallido, come se avesse un'anima. Lo dissi a Bertha quando glielo donai, e aggiunsi che era un emblema della natura poetica, che cambia al cambiare della luce del cielo e degli occhi delle donne. Quella sera lei si presentò vestita con grande eleganza, portando bene in vista tutti i regali di compleanno ricevuti; tutti tranne il mio. Le guardai con ansia le dita, ma l'opale non c'era. Non ebbi occasione, durante la serata, di farglielo notare; ma il giorno seguente, dopo la prima colazione, quando la trovai seduta da sola davanti alla finestra, le dissi: «Hai vergogna di portare il mio povero opale. Avrei dovu- 36 GEORGE ELIOT to ricordare che disprezzi le nature poetiche. Dovevo regalarti un corallo, un turchese o qualche altra pietra opaca e insensibile». «Io, disprezzarlo?», rispose, e tirando una sottile catenella d'oro che portava sempre al collo la trasse del tutto fuori dalla scollatura: alla sua estremità era appeso il mio anello. «Mi fa un po' male, ti confesso», continuò con il suo solito sorriso enigmatico, «portarlo in questo nascondiglio segreto. Ma visto che la tua natura poetica è così sciocca da preferire una posizione più esposta al pubblico, non c'è ragione per cui debba sopportare più a lungo questo fastidio.» Sfilò l'anello dalla catenina e se lo mise al dito, sempre sorridendo, mentre il sangue mi saliva alle gote e non ero in grado di pronunciare neppure una parola per pregarla, come avrei voluto, di lasciare l'anello dov'era. Questo gesto mi scombussolò del tutto, e per due giorni interi me ne stetti rinchiuso nella mia stanza tutto il tempo che Bertha era assente per potermi inebriare di nuovo ripensando a questa scena e a tutti i sottintesi che implicava. Bisogna dire che durante questi due mesi — che mi sembrarono lunghi come una vita per la novità e l'intensità delle gioie e dei dolori che conobbi — la mia morbosa partecipazione alle coscienze altrui continuò a tormentarmi: ora si trattava di mio padre, ora di mio fratello, ora della signora Filmore o di suo marito, ora del nostro domestico tedesco... una corrente di pensieri mi si rovesciava addosso, come un frastuono nelle orecchie da cui non ce la facevo a liberarmi, anche se non impediva ai miei impulsi e alle mie idee di continuare il loro Ubero corso. Era come se un soprannaturale senso dell'udito mi consentisse di percepire un rombo di suono là dove per gli altri era un perfetto silenzio. La fatica e il disgusto di questa involontaria intromissione nell'animo altrui erano compensati solo dall'impenetrabilità di Bertha e dalla mia crescente passione per lei; passione enormemente stimolata, se non addirittura creata, proprio da quel mio non sapere. Era la mia oasi di mistero nello squallido deserto della consapevolezza. Ero sempre stato attento a non far trasparire nulla che potesse rivelare la mia infelice condizione, a evitare azioni o discorsi stravaganti, tranne una volta, quando, in un momento IL VELO DISSOLTO 37 di particolare rancore verso mio fratello, anticipai alcune parole che stava per pronunciare: una frase piuttosto spiritosa, che si era preparata in anticipo. Alfred aveva spesso delle esitazioni un po' compiaciute nel parlare, e alla pausa di un istante che fece prima della seconda parola, la mia impazienza e la mia gelosia mi spinsero a continuare la frase per lui, come se fosse qualcosa che conoscessimo entrambi a memoria. Divenne rosso e rimase sbigottito, oltre che seccato... Nell'istante stesso in cui le parole mi erano sfuggite di bocca, ebbi come un moto di panico, temendo che quell'anticipazione del suo discorso — tutt'altro che scontato e facile da prevedere — avesse tradito la mia eccezionale facoltà, facendomi apparire come una specie di tranquillo invasato che tutti, Bertha per prima, avrebbero temuto ed evitato. Ma, come al solito, esageravo l'impressione che i miei gesti e le mie parole potevano provocare sugli altri: nessuno mostrò di aver considerato la mia interruzione nulla più di uno sgarbo da perdonare subito, considerando la mia fragilità nervosa. Mentre questa eccessiva percezione del presente era in me pressoché costante, non si era più ripetuta alcuna distinta preveggenza come quella che ho descritto a proposito del mio primo incontro con Bertha, e attendevo con impaziente curiosità di poter controllare se la mia visione di Praga si sarebbe dimostrata o no come un caso dello stesso genere. Pochi giorni dopo l'incidente dell'anello di opale ci trovammo a visitare, come facevamo spesso, il palazzo di Lichtenberg. Non sono mai stato in grado di guardare molti quadri in successione; i dipinti, quando si esprimono con vera potenza, mi colpiscono così forte che ne bastano uno o due per esaurire tutte le mie capacità di contemplazione. Quella mattina avevo ammirato un dipinto di Giorgione: una dama dagli occhi crudeli, che si ritiene rappresenti l'immagine di Lucrezia Borgia. Ero rimasto a lungo ad osservarlo, affascinato dal terribile realismo di quel volto astuto, inesorabile; finché percepii una strana, velenosa sensazione: come se avessi respirato a lungo un profumo fatale e mi stessi rendendo conto solo in quel momento dei suoi effetti. Forse non mi sarei mosso neanche allora, se il resto del gruppo non fosse tornato nella sala, annunciandomi che sarebbero andati alla Galleria del Belvedere per via di una scommessa tra mio fratello e il signor Filmore 38 GEORGE ELIOT su un ritratto lì esposto. Li seguii come in sogno, ben poco cosciente di quanto accadeva intorno a me, finché non salirono tutti alla Galleria lasciandomi di sotto, poiché mi ero rifiutato di guardare ancora anche un altro solo quadro, per quel giorno. Mi diressi verso la Grande Terrazza, perché eravamo d'accordo che ci saremmo ritrovati nei giardini, una volta risolta la controversia. Rimasi lì seduto per un po', vagamente conscio del giardino ben curato, con la città e le verdi colline in lontananza; poi, per evitare la compagnia del guardiano, mi alzai e scesi i larghi gradini di pietra, con l'intenzione di andarmi a sedere in un punto più inoltrato del giardino. Avevo appena raggiunto il viale ghiaioso, quando sentii un braccio intrecciarsi al mio, e una mano leggera poggiarsi dolcemente sul mio polso. In quello stesso istante fui colto da uno strano, malefico sgomento, quasi la continuazione, o meglio, il culmime della sensazione che mi sentivo addosso per lo sguardo di Lucrezia Borgia. Il giardino, il cielo d'estate, la certezza del braccio di Bertha intrecciato al mio, tutto svanì, e mi sembrò di trovarmi improvvisamente nelle tenebre... Poi cominciai poco a poco a distinguere la fioca luce di un camino acceso, e mi parve di trovarmi a casa, in biblioteca, seduto nella poltrona di cuoio di mio padre. Riconoscevo il camino, gli alari per il fuoco, la mensola di marmo nero con al centro il medaglione bianco raffigurante Cleopatra morente... Una pena intensa e senza speranza mi gravava il petto. La luce si faceva più vivida... Bertha entrò con una candela in mano — Bertha, mia moglie — e mi guardava con occhi crudeli. Portava gioielli verdi, e verdi foglie ricamate sull'abito da ballo bianco. Ogni suo pensiero carico d'odio era chiarissimo dentro di me... «Pazzo, idiota! Perché non ti uccidi, allora?» Fu un momento terribile. Lessi nella sua anima spietata, vidi la sua arida avidità, l'odio feroce — sentii che mi si avvolgeva intorno, come un'aria che fossi costretto a respirare. Venne avanti con la sua candela e rimase china su di me con un sorriso amaro e pieno di disprezzo. Vidi la grande spilla di smeraldo che aveva sul petto, un serpente tempestato di pietre con gli occhi di diamante. Rabbrividii... disprezzavo quella donna dall'anima arida e dai pensieri meschini, ma mi sentivo senza difesa di fronte a lei, come se torcesse tra le sue IL VELO DISSOLTO 39 mani il mio cuore sanguinante, e fosse decisa a stringerlo finché ogni goccia vitale di sangue non ne fosse stillata via... Era mia moglie, e ci odiavamo... Pian piano il camino, la biblioteca in penombra, la fiamma della candela svanirono, come se si dissolvessero su uno sfondo di luce... solo il serpente verde con gli occhi di diamante rimaneva, come una traccia scura sulla retina... Poi ebbi la sensazione di un rapido battito di palpebre, e su di me si aprì la viva luce del giorno: vidi il giardino, udii le voci... Ero seduto sui gradini della Terrazza del Belvedere, i miei amici mi stavano intorno. La confusione mentale in cui mi gettò questa tremenda visione mi fece star male per diversi giorni, e prolungò il nostro soggiorno a Vienna. Fremevo di orrore ogni volta che la scena mi si ripresentava alla mente, e si ripresentava di continuo, nei minimi dettagli, come se si fossero impressi a fuoco nella mia memoria. Eppure, tale è la follia del cuore umano sotto l'influsso dei suoi desideri immediati, sentivo una gioia temeraria, selvaggia al pensiero che Bertha sarebbe stata mia, perché l'avverarsi della mia precedente visione, al momento del nostro primo incontro, lasciava poche speranze che quest'ultimo, orribile squarcio sul futuro fosse solo un gioco della mia fantasia e non avesse alcun rapporto con la realtà. Solo una cosa, pensai, avrebbe potuto gettare qualche dubbio sulla mia terribile convinzione: la scoperta che la mia visione di Praga non rispondesse a verità... e Praga era la prossima tappa del nostro itinerario. Intanto, non appena mi trovai di nuovo con Bertha, ricaddi, come prima, sotto la sua completa influenza. Che importanza aveva aver letto nel cuore di Bertha adulta e donna — di Bertha mia moglie? Bertha la ragazza era ancora, per me, un mistero affascinante: fremevo alle sue carezze, sentivo il fascino della sua presenza; ero impaziente di sentirmi sicuro del suo amore. La paura di avvelenarsi è troppo debole per dominare la sete. E nei riguardi di mio fratello ero geloso come prima, altrettanto suscettibile ai suoi meschini atteggiamenti protettivi; perché il mio orgoglio, la mia sensibilità malata erano gli stessi di sempre, e si contraevano a ogni offesa, come un occhio quando vi entra un granello di polvere. Il futuro, anche se portato nel raggio della percezione sensibile da una visione da far rabbrividire, non aveva altra forza che 40 GEORGE ELIOT quella di un'astrazione contro la forza dell'emozione presente: il mio amore per Bertha, l'avversione e la gelosia verso mio fratello. È una vecchia storia: gli uomini si vendono spontaneamente al diavolo tentatore, e firmano un patto con il loro sangue solo perché scadrà in un giorno lontano; poi si precipitano ad afferrare la coppa di cui la loro anima ha sete, con uno slancio che la nera nube che li accompagnerà in eterno non rende meno selvaggio. Non vi sono scorciatoie né binari sicuri per la saggezza: dopo tanti secoli di scoperte, il sentiero dell'anima passa ancora per uno spinoso deserto da affrontare in solitudine, con i piedi sanguinanti, con grida di aiuto rotte dai singhiozzi, così come veniva percorso da tutti gli altri uomini nei tempi lontani. La mia mente rifletteva in modo febbrile, cercando il mezzo per poter soppiantare mio fratello, poiché avevo troppo timore, non conoscendo i veri sentimenti di Berta, di azzardare qualsiasi passo che potesse spingerla a una confessione. Avrei trovato il coraggio anche per questo, pensavo, se la mia visione di Praga si fosse rivelata veritiera... eppure, che orrore in quella certezza! A fianco della snella, giovane Bertha, di cui aspettavo ansiosamente le parole e gli sguardi, il cui contatto era la felicità, appariva di continuo la Bertha dalle forme più mature, gli occhi più duri, la bocca più rigida, con la sua anima arida ed egoista messa a nudo: non più un affascinante segreto, ma una realtà innegabile che si imponeva ogni momento al mio sguardo riluttante... Sareste capaci di negarmi la vostra compassione, voi che mi state leggendo? Riuscite a immaginare questa doppia coscienza che agiva in me, simile a due corsi d'acqua paralleli che mai uniscono le loro acque, mai si confondono in un unico gorgoglio? Pure, dovreste sapere qualcosa dei presentimenti che nascono dal contrasto fra un'intuizione e la passione; le mie visioni, infatti, altro non erano che presentimenti intensificati fino all'orrore. Avrete conosciuto l'impotenza dell'idea contro la forza dell'impulso; e le mie visioni, una volta passate nella memoria, altro non erano che idee... pallide ombre che mi ammonivano invano, mentre le mie mani volevano afferrare cose concrete e amate. Molto più tardi ho pensato con amaro rimpianto che se IL VELO DISSOLTO 41 avessi potuto prevedere qualcosa di più o di diverso — se invece di quella visione odiosa che avvelenò il mio amore senza poterlo distruggere o magari insieme a essa avessi potuto presagire il momento in cui avrei guardato per l'ultima volta il viso di mio fratello, un balsamo consolatore sarebbe sceso sui miei sentimenti per lui, l'odio e l'orgoglio sarebbero stati certamente addolciti dalla pietà, e il racconto dei miei peccati nascosti sarebbe risultato più breve. Ma questo è uno di quei pensieri inutili con i quali noi uomini amiamo illuderci. Ci piace credere che l'egoismo che è in noi avrebbe potuto dissolversi facilmente, che è stata solo la pochezza delle nostre conoscenze a limitare la nostra generosità, i nostri scrupoli, la nostra umana pietà e a impedire loro di vincere la dura indifferenza verso le emozioni e i sentimenti dei nostri simili. La nostra tenerezza, la nostra forza di rinuncia ci sembrano grandi, una volta che l'egoismo ha avuto il suo momento — quando, dopo aver tanto inseguito una vittoria che è la rovina di qualcun altro, questa vittoria finalmente arriva e noi la disprezziamo, perché ci viene offerta dalla gelida mano della morte. Giungemmo a Praga di notte, e io ne fui lieto: mi sembrò che stare nella città per diverse ore senza poterla vedere fosse come il rinvio di un momento terribile, decisivo. Non dovevamo restare a lungo a Praga, ma proseguire quasi subito per Dresda; così fu deciso che la mattina successiva avremmo fatto un giro in carrozza per dare uno sguardo d'insieme alla città e visitare i luoghi più significativi prima che il caldo diventasse troppo opprimente. Eravamo infatti in agosto, e la stagione era secca e afosa. Accadde però che le signore impiegarono più tempo del previsto nei loro preparativi mattutini e, con un percettibile (anche se nascosto dalle buone maniere) malumore di mio padre, salimmo in carrozza solo a mattina inoltrata. Mentre entravamo nel quartiere ebraico, dove volevamo visitare l'antica sinagoga, pensai con sollievo che saremmo rimasti in quella parte piatta e chiusa della città perché, troppo stanchi e accaldati per proseguire oltre, avremmo fatto ritorno senza vedere altro che le strade dove eravamo già passati. Questo mi avrebbe tenuto per un altro giorno l'animo in sospeso; l'uni- 42 GEORGE ELIOT co mezzo, per uno spirito oppresso, di non perdere la consolazione della speranza. Ma quando sotto le volte annerite dell'antica sinagoga, scarsamente illuminate solo dalle sottili candele della lampada sacra, la nostra guida ebrea prese il Libro della Legge e lo lesse per noi nella sua antica lingua... sentii con un brivido che quello strano edificio dalle luci fioche, quella decrepita testimonianza dell'ebraismo medievale, faceva parte della mia visione. Oh, quei santi cristiani, anneriti e polverosi, sotto le loro arcate più alte, fra i loro ceri più grandi, avrebbero potuto consolarsi indicando con disprezzo quella vita ben più decrepita della loro... Come mi aspettavo, quando lasciammo il quartiere ebraico i più anziani del nostro gruppo avevano desiderio di ritornare in albergo. Ma ora invece di rallegrarmene come avevo fatto prima, provai un improvviso, irresistibile impulso a procedere senza indugio fino al ponte e mettere così fine a quell'incertezza che avevo cercato in ogni modo di prolungare. Dissi, con fermezza insolita, che avrei lasciato la carrozza per proseguire a piedi, da solo; potevano pure fare ritorno senza di me. Mio padre, pensando che si trattasse soltanto di una delle mie solite «poetiche assurdità», obiettò che camminare sotto quella canicola non mi avrebbe fatto che male; però, alle mie insistenze, disse con rabbia che ero libero di seguire i miei assurdi propositi, a patto che Schmidt (il nostro domestico) fosse venuto con me. Accettai, e mi incamminai con Schmidt verso il ponte. Non avevo neppure oltrepassato l'arcata del grande cancello antico che dà l'accesso al ponte, che cominciai a tremare, sentendomi di ghiaccio sotto il sole di mezzogiorno... Tuttavia proseguii. Cercavo qualcosa — un piccolo dettaglio della mia visione che ricordavo con particolare intensità... E lo trovai: la macchia di luce multicolore, proiettata sul selciato attraverso una lampada a forma di stella. Parte seconda Prima che finisse l'autunno, quando le foglie ingiallite erano ancora fitte sui faggi del nostro parco, mio fratello e Bertha si fidanzarono, e venne deciso che il loro matrimonio avrebbe avuto luogo all'inizio della primavera successiva. Nonostante la certezza acquisita fin da quel momento sul ponte di Praga, che Bertha sarebbe stata un giorno mia moglie, la mia timidezza congenita e la sfiducia avevano continuato a paralizzarmi, e le parole tante volte preparate per confessare il mio amore erano morte senza essere mai state pronunciate. Come prima, restava in me lo stesso conflitto: il desiderio di una prova d'amore dalle labbra stesse di Bertha e la terribile paura di riceverne una parola di rifiuto o di disprezzo che mi sarebbe piovuta addosso come un acido corrosivo. Cosa mi importava di una certezza lontana? Io tremavo per uno sguardo del presente, bramavo una gioia del presente. .. ero paralizzato e gelato da una paura presente. E così passarono i giorni: fui spettatore del fidanzamento di Bertha e udii parlare del suo matrimonio come se mi trovassi sotto l'effetto di un incubo cosciente... sapendo che era un sogno che sarebbe svanito, ma sentendomi preso in una stretta soffocante. Quando non mi trovavo con Bertha — e stavo con lei molto spesso, perché continuava a trattarmi, come al solito, con quella specie di scherzosa protezione che non risvegliava alcuna gelosia in mio fratello — passavo il mio tempo vagabondando, facendo passeggiate o lunghe cavalcate finché non veniva il tramonto, per poi rinchiudermi nella mia stanza con i miei libri che non leggevo più, poiché i libri avevano perso il potere di avvincere la mia attenzione. Il continuo studio di me stesso era arrivato a quel grado di intensità in cui le nostre emozioni assumono la forma di un dramma, imponendosi ir- 44 GEORGE ELIOT resistibilmente alla nostra attenzione e facendoci piangere non tanto per le nostre reali sofferenze, quanto per il loro pensiero. Sentivo una specie di dolorosa pietà per il mio sfortunato destino: il destino di una creatura totalmente votata al dolore, con nulla in sé che potesse fargli conoscere il piacere — che il pensiero del male futuro derubava della gioia presente, e che il pensiero di una gioia futura non riusciva a consolare di un tormento presente e un presente timore. Passai in silenzio attraverso quelle sofferenze che per un poeta sono lo spasimo esaltante dell'espressione, e creano un'immagine del proprio dolore. Nessuno mi rimproverò mai questa vita allucinata e vagabonda. Sapevo quel che mio padre pensava di me: «Un ragazzo che non farà mai niente di buono nella vita: vista la rendita che gli spetta, può anche permettersi di sprecare gli anni in modo insulso; non mi prenderò certo la pena di fargli iniziare una carriera». Un tiepido mattino ai primi di novembre me ne stavo fuori, sul portico, carezzando Cesare, un pigro, vecchio Terranova reso ormai quasi cieco dagli anni, l'unico cane che mi abbia mai prestato attenzione — giacché perfino i cani mi sfuggivano per andarsi ad accucciare davanti alle persone felici — quando lo stalliere portò il cavallo che mio fratello voleva montare per andare a caccia, e mio fratello in persona apparve sulla porta: florido, impettito, contento di sé, convinto che una persona come lui — proprio per la sua grande superiorità — aveva il dovere di non essere sgarbato con i suoi simili. «Latimer, vecchio mio», mi disse in tono cordialmente compassionevole, «peccato che tu non faccia una galoppata con i cani, ogni tanto! È il miglior rimedio contro la depressione!» «Depressione!», pensai con amarezza, mentre il cavallo si allontanava. «È questa la parola con cui le persone volgari e limitate come te credono di poter definire esperienze di cui tu non potrai mai sapere niente più di quanto ne sa il tuo cavallo. È a quelli come te che toccano in sorte le cose buone di questo mondo... Insensibilità totale, sano egoismo, tronfia allegria — ecco le chiavi della felicità.» Per un attimo mi sfiorò il pensiero che il mio egoismo era IL VELO DISSOLTO 45 forse più grande del suo — un egoismo sofferente invece di un egoismo soddisfatto. Ma poi, ancora una volta, fui esasperato dalla mia veggenza nell'animo di Alfred, così soddisfatto, senza alcun dubbio o paura, senza aspirazioni inappagate, senza tutte quelle sottili torture della sensibilità che rappresentavano il tessuto della mia esistenza... Tutto questo sembrava sciogliermi da ogni legame con lui. No, quell'uomo non aveva bisogno di pietà, né di amore; quei sentimenti delicati avrebbero avuto tanto effetto su di lui quanto ne ha la tenue, bianca bruma sulle rocce dove si posa dolcemente. Non c'erano dolori in serbo per lui: se non avesse sposato Bertha, sarebbe stato solo per seguire un'altra strada che lo attirava di più. La casa del signor Filmore distava non più di mezzo miglio dai cancelli della nostra proprietà, e tutte le volte che mio fratello se ne andava in un'altra direzione, mi ci recavo, sperando di trovare Bertha in casa. Poco più tardi, dunque, mi avviai da quella parte. Eccezionalmente, era sola, e passeggiammo insieme davanti alla casa: di rado si spingeva a piedi oltre i viali ben curati e coperti di ghiaia. Ricordo che mentre il pallido sole di novembre brillava sulla sua chioma bionda, mi apparve come una bellissima silfide... Mi camminava a fianco, punzecchiandomi, al solito, con la sua sottile ironia, mentre io l'ascoltavo tra la tenerezza e il malumore: era l'unica traccia attraverso la quale la misteriosa personalità di Bertha mi si rivelava. Quel giorno forse predominava il malumore, perché non ero ancora riuscito a smaltire l'attacco di odio geloso che mio fratello aveva scatenato in me con la sua protettiva condiscendenza. Improvvisamente la interruppi e, lasciandola sbigottita, le chiesi quasi con violenza: «Bertha, come puoi amare Alfred?». Per un istante mi guardò stupita, ma subito tornò a sorridere e mi rispose con sarcasmo: «Perché credi che io lo ami?». «Come puoi dire una cosa simile, Bertha?» «Come! La tua saggezza ti fa pensare che io debba amare l'uomo che sposo? Sarebbe la cosa più spiacevole del mondo. Litigherei con lui, ne sarei gelosa... il nostro ménage andrebbe avanti in modo assai volgare. Un po' di tranquillo disprezzo contribuisce parecchio all'eleganza della vita.» 46 GEORGE ELIOT «Bertha, questi non sono i tuoi veri sentimenti. Perché ti diverti a ingannarmi inventando questi discorsi cinici?» «Non ho bisogno di inventare nulla per ingannarti, mio piccolo Tasso» (era questo il nomignolo con il quale mi prendeva abitualmente in giro). «Il modo migliore per imbrogliare un poeta è dirgli la verità.» Tentava di difendere a spada tratta la verità di quel suo paradosso, e per un attimo l'ombra della mia visione — la Bertha che per me non aveva più segreti nell'animo — passò tra me e la radiosa fanciulla, la silfide giocosa i cui sentimenti erano un affascinante mistero. Credo di essere rabbrividito, o di aver lasciato trapelare in qualche altro modo il mio momentaneo lato di orrore. «Tasso!», disse lei afferrandomi i polsi e guardandomi bene in faccia, «Stai realmente cominciando a capire la ragazza senza cuore che sono?... Non sei neanche la metà del poeta che credevo tu fossi: non riesci nemmeno a credere la verità su di me.» L'ombra tra noi si allontanò e svanì. La fanciulla che mi stringeva con le dita leggere, che mi fissava col suo affascinante volto di fata — che, pensavo, stava tradendo un interesse per i miei sentimenti che mai avrebbe apertamente confessato — questa calda, viva presenza si impossessò di nuovo dei miei sensi e del mio spirito, come un canto di sirena che risorge dopo essere stato soffocato per un momento dal fragore minaccioso delle onde. Fu un attimo dolcissimo... come risvegliarsi consapevole di essere giovane dopo aver sognato la vecchiaia. Dimenticai ogni cosa al di fuori della mia passione, e con gli occhi stralunati: «Bertha», dissi, «mi amerai almeno all'inizio del nostro matrimonio? Non importa anche se mi amerai soltanto un poco». Il suo sguardo attonito, mentre mi lasciava la mano scansandosi bruscamente da me, mi fece rendere conto della mia incomprensibile, sconsiderata imprudenza. «Perdonami», ripresi in fretta non appena fui di nuovo in grado di parlare «non sapevo quel che stavo dicendo.» «Ah, l'attacco di follia del Tasso è arrivato, vedo», rispose con calma, essendo riuscita a riprendersi prima di me. «La- IL VELO DISSOLTO 47 sciamolo tornare a casa, a tenere la testa al fresco. Io devo andare, comincia a fare buio.» Me ne andai, furioso contro me stesso. Mi ero lasciato sfuggire parole che, se lei vi avesse riflettuto sopra, potevano farle nascere dei sospetti sulle anormali condizioni della mia mente — sospetti che temevo più di ogni altra cosa al mondo. E mi vergognavo anche per l'evidente indegnità che avevo commesso parlando in quel modo davanti alla promessa sposa di mio fratello. Mi avviai lentamente verso casa, entrando nel parco da un cancello privato invece che da quello principale. Mentre mi avvicinavo, vidi un uomo uscire di gran corsa dal cortile delle scuderie in fondo al parco. Che fosse successa una disgrazia in famiglia? No, probabilmente quella furia era dovuta soltanto a una delle solite, urgenti commissioni d'affari di mio padre. Tuttavia, senza un preciso motivo affrettai il passo e in breve fui a casa... Non mi dilungherò sulla scena che vi trovai. Mio fratello era morto, sbalzato giù di sella dal suo cavallo; ucciso sul colpo da una commozione cerebrale. Salii di sopra, nella stanza dove giaceva e dove trovai mio padre seduto accanto a lui con uno sguardo di fredda disperazione. Dal momento del nostro ritorno a casa, avevo evitato mio padre più di ogni altra persona; la radicale incompatibilità delle nostre nature rendeva la mia veggenza dei suoi più intimi pensieri un costante tormento. Ma ora, quando lo raggiunsi e gli restai vicino in un triste silenzio, sentii la presenza di un nuovo elemento che ci univa come mai prima. Mio padre era stato uno degli uomini di maggior successo nel mondo della finanza; non aveva conosciuto sofferenze sentimentali o malattie. Il suo più grande dolore era stata la morte della prima moglie. Ma poco dopo sposò mia madre, e ricordo che alla mia acuta osservazione di bimbo non sfuggì che appena una settimana dopo la sua morte era esattamente quello di prima. Ma adesso, infine, un dolore era venuto — il dolore della vecchiaia, che tanto più soffre per il crollo delle speranze e quell'orgoglio, quanto più quelle speranze e quell'orgoglio sono limitati e privi di ideali. Suo figlio avrebbe dovuto sposarsi presto... probabilmente si sarebbe presentato alle prossime elezioni locali... L'esistenza di quel figlio era il miglior motivo per acquistare ogni anno nuove terre e allargare 48 GEORGE ELIOT la proprietà... È terribile vivere facendo sempre le stesse cose, un anno dopo l'altro, senza sapere perché le facciamo. Forse la tragedia di una gioventù tradita e di una passione infelice è meno pietosa della tragedia di una vecchiaia delusa e frustrata nelle proprie ambizioni. Vidi a fondo nella desolazione del cuore di mio padre e provai un moto di profonda pietà nei suoi confronti, che era l'inizio di un nuovo affetto, un affetto che crebbe e si rafforzò nonostante la strana ostilità che mi dimostrò durante i primi uno o due mesi dopo la morte di mio fratello. Se non fosse stato per l'influsso conciliante di quella mia compassione per lui — la prima compassione che io abbia mai provato — sarei rimasto ferito nel constatare che mio padre trasferiva su di me l'eredità del figlio maggiore con un senso di mortificazione, come se il destino lo avesse costretto all'ingrato compito di considerarmi importante. Fu soltanto suo malgrado che cominciò a pensare a me con una certa affettuosa benevolenza. Credo che non vi sia nessun figlio trascurato, cui una morte abbia reso accessibile un posto migliore, che non intenda quello che voglio dire. A poco a poco, tuttavia, la mia nuova condiscendenza verso i suoi desideri, effetto della pazienza che scaturiva da quella mia pietà per lui, riuscì a conquistare il suo affetto, ed egli cominciò a compiacersi del tentativo di farmi prendere il posto di mio fratello nei limiti consentiti dalla mia più debole personalità. Mi accorsi che l'ipotesi, che ogni tanto si prospettava, di un mio matrimonio con Bertha, gli era piuttosto gradita, tanto che arrivò perfino a contemplare, per me, ciò che non aveva accettato per mio fratello: che suo figlio e la nuora andassero a vivere con lui. La nuova tenerezza verso mio padre fece di questo periodo il più felice che avessi trascorso fin dall'infanzia... Furono anche gli ultimi mesi in cui ebbi la dolce illusione di amare Bertha, e del desiderio, del dubbio o della speranza che pure lei mi amasse. Si comportava con me con una nuova consapevolezza, tenendomi a una certa distanza, e anch'io ero soggetto a un duplice imbarazzo... per un senso di delicatezza verso mio fratello morto e per la preoccupazione circa l'effetto che quelle mie parole precipitose potevano aver provocato nella sua mente. Ma il nuovo ostacolo che questa reciproca riservatezza aveva eret- IL VELO DISSOLTO 49 to fra noi mi assoggettava ancora di più al suo potere: non importa che l'altare del tempio sia spoglio, se il velo che lo nasconde è impenetrabile. Il bisogno di qualcosa di ignoto, di misterioso è così assoluto nella nostra anima che basta a mantenere quel dubbio, quella speranza e quella lotta che sono la sua stessa vita, al punto che se tutto il futuro ci apparisse noto a partire da domani, tutti gli uomini si interesserebbero soltanto delle poche ore che ci separano da quel momento: palpiteremmo per le incertezze del nostro unico mattino, della nostra unica sera; ci precipiteremmo di furia alla Borsa per le nostre ultime possibilità di speculazione, di vincita, di disillusione; salterebbero fuori dozzine di profeti della politica a prevedere crisi o non-crisi nelle uniche ventiquattr'ore rimaste aperte a ogni profezia. Immaginate le condizioni della mente umana nel momento in cui tutti i problemi fossero risolti, tutti meno uno, che avrà la sua soluzione alla fine di un giorno d'estate, ma che per il momento resta oggetto di ipotesi, dubbi, discussioni... L'arte e la filosofia, la letteratura e la scienza sciamerebbero come api su quell'unico problema che conserva in sé il miele della probabilità con un interesse ancora più appassionato, proprio perché il piacere ne finirebbe al tramonto. I nostri impulsi, le nostre risorse spirituali non si adattano all'idea del loro futuro annullamento più di quanto non faccia il battito del nostro cuore o la nostra energia muscolare. Bertha, la snella, bionda fanciulla i cui pensieri ed emozioni continuavano per me a rimanere un enigma in mezzo alla estenuante ovvietà delle altre menti che mi circondavano, mi assorbiva come quella sola giornata ancora sconosciuta, come quell'unico, ipotetico problema destinato a non avere soluzione fino al tramonto; e tutti i misteriosi e soffocati slanci, le incredulità, la fiducia e i dubbi del mio carattere, erano convogliati in questa sola direzione. E mi fece credere di amarmi. Senza mai abbandonare il suo tono di badinage e di giocosa superiorità, mi inebriò facendomi credere che le fossi necessario, che non si sentisse mai a proprio agio se io non mi trovavo accanto a lei, pronto a sottemettermi alla sua scherzosa tirannia. Occorre talmente poco a una donna per instupidirci a questo modo! Una mezza parola, un improvviso momento di silenzio, perfino un attacco di sciocca irritazione verso di noi ci può servire da hashish 50 GEORGE ELIOT per un bel po' di tempo. Grazie a una sottilissima trama di astuzie quasi impercettibili, mi portò a credere che mi aveva sempre, nel suo inconscio, amato più di Alfred, ma che, nella sua ignara e influenzabile sincerità di giovane fanciulla era rimasta affascinata dal fatto di essere ammirata e scelta da un uomo come mio fratello, che aveva una posizione sociale così brillante. Si prendeva in giro con molto garbo per la propria vanità e ambizione. Cosa contava per me essere illuminato da quella infelice previsione, ora che possedevo tutti i beni di mio fratello, compreso il più intimo? Le nostre dolci illusioni il più delle volte sono coscienti di essere tali, come quegli effetti multicolori che sappiamo essere provocati da orpelli, pezzi di vetro e stracci. Ci sposammo diciotto mesi dopo la morte di Alfred, in una fredda e limpida mattinata di aprile in cui vi furono sole e grandine insieme. Bertha, nel suo abito di seta bianca ornato di foglie verde pallido, i delicati colori dei capelli e del volto, appariva come lo spirito stesso del mattino. Mio padre era felice al di là di ogni sua speranza: era convinto che il matrimonio avrebbe completato la salutare modificazione del mio carattere, facendo di me un uomo sufficientemente pratico e realista per occupare il posto che mi spettava nella società, tra gli uomini normali. Era deliziato dal tatto e dalla perspicacia di Bertha ed era certo che mi avrebbe saputo guidare, facendo di me quel che voleva: avevo solo ventun anni, ed ero pazzamente innamorato di lei. Povero papà! Conservò le sue speranze fin dopo il primo anno di matrimonio, e non le aveva ancora perdute del tutto quando sopraggiunse la paralisi a risparmiargli la delusione completa. Affretterò il seguito della mia storia senza dilungarmi, come ho fatto finora, sulle mie esperienze interiori. Quando ci si conosce bene l'un l'altro si è portati a parlare soprattutto degli avvenimenti, lasciando a chi ascolta il compito di dedurre sentimenti e sensazioni. Per qualche tempo dopo il nostro ritorno a casa, fummo presi in un giro di visite, dando splendide feste e creando una certa impressione sul vicinato per lo sfarzo dei nostri equipaggi, dato che mio padre aveva serbato questo sfoggio di accresciuta ricchezza in occasione del matrimonio di suo figlio. Demmo così ai nostri conoscenti la libera opportunità di no- IL VELO DISSOLTO 51 tare fino a che punto io fossi una povera figura di erede e di sposo. La fatica nervosa di questo tipo di vita, le falsità e le insulsaggini che dovevo doppiamente sopportare — attraverso le mie percezioni esterne e attraverso quelle interne — mi avrebbero fatto impazzire se non fossi stato preda di una specie di ebbrezza dovuta alle gioie del primo amore. Due sposi novelli circondati da tutti i vantaggi della ricchezza, presi tutto il giorno nel vortice della vita di società, che riempiono i loro momenti di intimità con carezze rubate di sfuggita, si preparano alla loro futura vita coniugale come il novizio si prepara per il convento: dall'esperienza del suo esatto contrario. In tutti quei mesi affollati e pieni di eccitazione, l'intima personalità di Bertha mi rimase totalmente sconosciuta e riuscivo a leggere dentro di lei ancora soltanto tramite il linguaggio delle sue labbra e del suo contegno. Conservavo ancora l'umano interesse di chiedermi se quanto dicevo o facevo le piacesse, di aspettare con ansia una parola affettuosa, di esagerare con delizia il significato di un sorriso. Ma ero sempre più consapevole di un cambiamento di modi nei miei confronti, talvolta così evidente da poter essere chiamato arrogante freddezza, pungente e gelida come la grandine caduta nel soleggiato mattino del nostro matrimonio, talvolta appena percettibile, come nell'evitare abilmente una passeggiata o una cena tète-à-tète che avevo a lungo desiderato. Soffrii molto per questo — sentii quasi il mio cuore spezzarsi nel comprendere che il breve giorno della mia felicità si avviava al tramonto... Ma dipendevo ancora da Bertha, ansioso di ricevere gli ultimi raggi di una gioia che presto sarebbe sparita per sempre, aspettando e sperando di cogliere un qualche residuo bagliore, ancora più bello nella sua luce morente. Ricordo — come potrei non ricordarlo? — il momento in cui quella dipendenza e quella speranza mi abbandonarono del tutto, quando la tristezza che avevo sentito per il crescente divenirmi estranea di Bertha fu quasi una gioia a cui ripensare, come il rimpianto di chi ricorda le ultime sofferenze di un arto ormai paralizzato. Fu con esattezza al termine dell'estrema malattia di mio padre, che ci aveva necessariamente distratti dalla vita di società avvicinandoci maggiormente l'uno all'altra. Fu la sera in cui mio padre morì. Quella sera il velo che aveva celato l'animo di Bertha — che mi aveva fatto tro- 52 GEORGE ELIOT vare in lei sola la benefica possibilità di conoscere il mistero, il dubbio, la speranza — fu sollevato per la prima volta. Forse fu il primo giorno dall'inizio della mia passione per lei che quella passione venne completamente neutralizzata dalla presenza di un sentimento più forte di natura ben diversa. Avevo vegliato accanto al letto di morte di mio padre: ero stato testimone dell'ultimo, ardente sguardo di rimpianto lanciato dalla sua anima al bene ormai trascorso della vita — l'ultima, debole sensazione d'amore che aveva ricevuto dalla stretta della mia mano. Cosa sono tutte le nostre passioni personali quando abbiamo partecipato a quella suprema agonia? In un primo momento, quando ci allontaniamo dalla presenza della morte, ogni altro rapporto con i vivi viene assorbito, nel nostro sentire, dal grande vincolo di una comune natura, di un comune destino. In questo stato d'animo raggiunsi Bertha nel suo salottino privato. Era semisdraiata su un divano, la schiena rivolta verso la porta; la ricca, sontuosa massa dei suoi capelli biondopallido coronava il collo sottile, sopra lo schienale del divano. Ricordo che appena ebbi chiuso la porta dietro di me fui preso da un freddo tremore e da una vaga sensazione — vaga e forte come un presentimento — di essere odiato e solo. So come dovevo apparire in quel momento, perché mi vidi nel pensiero di Bertha quando alzò su di me i suoi penetranti occhi grigi e mi guardò: un miserabile visionario che si sentiva attorniato da fantasmi nella piena luce del giorno, che tremava al vento anche quando le foglie restavano immobili, senza alcun desiderio per le cose che tutti desiderano, che corre dietro ai raggi di luna. Eravamo uno di fronte all'altra, e ci giudicavamo a vicenda. Era giunto per me il terribile momento della completa illuminazione, e compresi che le tenebre non mi avevano nascosto nessun orizzonte, ma solo un banale, squallido muro. Da quella sera in poi, durante tutti gli abominevoli anni che seguirono, vidi per intero nell'animo meschino di quella donna: vidi le piccole astuzie e le brutali negazioni là dove ero stato felice di immaginare una timida sensibilità e un'intelligenza in lotta con qualche segreto sentimento — vidi le vane, incostanti futilità della ragazza trasformarsi nella sistematica civetteria, nell'egoismo intrigante della donna — vidi la repulsione e l'antipatia irrigidirsi in un IL VELO DISSOLTO 53 odio crudele, pronto a ferire per il solo piacere di affermare se stesso. Perché anche Bertha, a modo suo, sentiva l'amarezza della disillusione. Aveva creduto che la mia selvaggia passione di poeta mi avrebbe reso suo schiavo e che, essendo il suo schiavo, l'avrei obbedita in tutto e per tutto. Con la completa superficialità di una natura negativa e priva di immaginazione, era incapace di concepire che la sensibilità fosse in qualche modo differente dalla debolezza. Una debolezza, aveva pensato, che mi avrebbe fatto cadere in suo potere, e ora scopriva che nascondeva una forza per lei ingovernabile. Le nostre posizioni si rovesciarono. Prima del matrimonio aveva dominato completamente la mia immaginazione perché rappresentava un segreto per me; ero stato io a creare quella personalità ignota davanti alla quale tremavo come se davvero le appartenesse. Ma adesso che la sua anima era a nudo davanti a me, adesso che ero costretto a conoscere le sue intime ragioni, a seguire i trucchi meschini che preparavano le sue parole e i suoi atti, si trovò senza alcun potere su di me, eccetto quello di procurarmi un freddo brivido di disgusto... — priva di ogni potere perché non poteva provocare alcun effetto in me con gli strumenti di cui disponeva. Ero indifferente alle ambizioni mondane, alle vanità sociali, a tutte le attrattive che entravano nel raggio della sua immaginazione limitata: la mia vita era governata da interessi del tutto incomprensibili per lei. Era davvero da compatire con un marito del genere: questa era l'opinione generale. Una signora graziosa, brillante come Bertha, che sapeva sorridere ai visitatori mattutini, faceva bella figura nelle sale da ballo ed era capace di dire quelle battute leggere che in bocca a una simile donna vengono scambiate per intelligenza, poteva essere sicura di attirarsi tutte le simpatie a scapito di un marito malaticcio, distratto e, come alcuni sospettavano, un po' pazzo. Perfino i domestici le dimostravano stima e compassione. Perché non era possibile udire litigi tra noi: la nostra incompatibilità, la repulsione reciproca, restavano confinate nel silenzio dei nostri cuori... Se la padrona usciva molto spesso e sembrava non gradire la compagnia del padrone, non era naturale, poverina? Il padrone era così bislacco. Ero gentile e giusto coi miei dipen- 54 GEORGE ELIOT denti, ma suscitavo in loro una pietà intrisa di timore e disprezzo; infatti le persone di questa categoria, sia uomini che donne, sono ben poco influenzate, nel loro giudizio sul valore altrui, da considerazioni di ordine generale o da esperienze personali: giudicano le persone come giudicano le monete, e apprezzano quelle che passano per essere di gran valore. Dopo qualche tempo interferivo talmente poco nelle abitudini di Bertha da far sembrare straordinario che il suo odio per me crescesse così intenso e insaziabile. Ma aveva cominciato a sospettare, per qualche mio gesto involontario, che vi fosse in me un anormale potere di penetrazione — che, seppure a tratti, fossi stranamente consapevole dei suoi pensieri e delle sue azioni... e cominciò ad avere di me un terrore che talvolta alternava ad atteggiamenti di sfida. Rifletteva di continuo su come avrebbe potuto liberarsi da un tale incubo, su come spezzare l'odioso legame con un essere che disprezzava come un imbecille e temeva come un inquisitore. Per un bel po' visse nella speranza che la mia evidente infelicità mi conducesse al suicidio; ma il suicidio non era nella mia natura. Ero troppo dominato dalla sensazione di essere in balìa di forze sconosciute per credere di potermene sbarazzare così facilmente. Nei confronti del mio destino ero divenuto di una totale passività, perché il mio unico, ardente desiderio si era consumato da solo, e l'impulso non predominava più sulla conoscenza. Fu per questo motivo che non pensai mai di prendere qualche iniziativa per una completa separazione, che avrebbe reso evidente a tutti il nostro disaccordo. Perché avrei dovuto cercare un miglioramento in una nuova direzione quando soffrivo proprio per le conseguenze di un gesto che era il risultato del mio più intenso atto di volontà? Sarebbe stato nella logica di chi avesse avuto qualche desiderio da soddisfare, ma io desideri non ne avevo. Così, Bertha e io vivevamo sempre più lontani l'uno dall'altra: per i ricchi è facile essere sposati e divisi. Questo periodo della nostra vita che ho descritto in poche frasi riempì uno spazio di anni. Quanta miseria, quale orribile e lento accumularsi di odio e di peccato può essere contenuto in una frase! E dire che gli uomini giudicano le vite degli altri con parole sommarie come queste. Riassumono l'esperienza dei loro simili e pronunciano un giudizio pieno di belle IL VELO DISSOLTO 55 parole, sentendosi saggi e virtuosi — vincitori di quelle tentazioni che sanno definire scegliendo così bene gli aggettivi... Sette anni di infelicità trascorrono in un lampo sulle labbra di un uomo che non li ha mai contati in momenti di gelido sconforto, di tortura del cuore e della mente, di lotte orrende e inutili, di rimorso e di disperazione. Impariamo a memoria le parole, non il loro significato; il significato dobbiamo pagarlo con il nostro sangue, ed è impresso nelle più sottili fibre dei nostri nervi. Ma ora voglio affrettarmi a terminare la mia storia. La brevità è sempre bene accettata, sia da chi è pronto a capire, sia da chi non capirà mai. Qualche anno dopo la morte di mio padre, in una sera di gennaio, ero seduto nella biblioteca rischiarata dalla debole luce del camino — seduto nella poltrona di cuoio che era stata di mio padre — quando sulla porta apparve Bertha, con una candela in mano, avanzando verso di me. Conoscevo il vestito da ballo che indossava: il vestito da ballo bianco, con i gioielli verdi, brillava alla luce della candela che illuminava il medaglione con Cleopatra morente sulla mensola del caminetto. Perché veniva a trovarmi prima di uscire? Da mesi non la vedevo mettere piede in biblioteca, mio abituale rifugio. Perché restava davanti a me, la candela in mano, lo sguardo crudele e carico di disprezzo... con quel serpente che le splendeva, come un demone familiare, sul petto?... Per un attimo pensai che questo realizzarsi della mia visione di Vienna dovesse segnare una svolta orribile nel mio destino, ma nella mente di Bertha non lessi nient'altro che disprezzo per l'espressione di opprimente angoscia, con cui rimanevo a guardarla... «Pazzo, idiota! Perché non ti uccidi, allora?»... questo era ciò che pensava. Ma subito venne alla ragione della sua visita, e si decise a parlare. L'evidente futilità di quello che era venuta a dirmi creò un contrasto quasi ridicolo con le mie aspettative e la mia apprensione. «Ho dovuto assumere una nuova cameriera. Fletcher sta per sposarsi e desidera che io ti chieda per suo marito l'osteria e la cascina di Molton. Vorrei che li ottenesse. Devi prometterlo adesso, perché Fletcher va via domattina... e sbrigati, che ho fretta.» 56 GEORGE ELIOT «Va bene, puoi prometterglielo», dissi con indifferenza, e Bertha uscì rapida dalla biblioteca. Mi sono sempre chiuso in me stesso alla vista di qualche persona nuova, soprattutto quando si trattava di una persona la cui vita interiore, con ogni probabilità, era tale da poter affaticare il mio riluttante dono di veggenza con triviali e ignoranti banalità. Ma rifuggii ancor più la vista di questa nuova cameriera, perché il suo arrivo mi era stato annunciato in un momento al quale continuavo ad attribuire un senso di fatalità: nutrivo un vago timore di scoprire che avrebbe avuto in qualche modo una parte nel cupo dramma della mia vita, che qualche nuova, spaventosa visione me l'avrebbe svelata come un genio del male... Quando alla fine, com'era inevitabile, la incontrai, la mia vaga paura si tramutò in vero e proprio disgusto. Questa signora Archer era una donna alta, impettita, dagli occhi scuri, con un viso abbastanza bello per dare al suo aspetto grossolano e duro l'odioso tocco di una civetteria sfrontata e sicura di sé. Tutto questo bastava per farmela evitare, senza mettere in conto il senso di disprezzo con cui mi considerava. La vedevo di rado, però mi accorsi presto che in poco tempo era divenuta la favorita della sua padrona e che in capo a otto o nove mesi era nato nella mente di Bertha un confuso sentimento di paura e dipendenza verso di lei, un sentimento che si associava a scene confuse nel salottino privato di mia moglie, a lume di candela, e a qualcosa chiuso a chiave nello stipo di Bertha... ma i miei colloqui con lei erano ormai così brevi e avvenivano talmente di rado da solo a solo che non avevo modo di percepire con maggior precisione queste immagini che erano nella sua mente... Nella rapidità del pensiero i ricordi si contraggono al punto che talvolta rassomigliano alla realtà esteriore solo un po' più di quanto i simboli di un alfabeto orientale rassomigliano agli oggetti che li hanno ispirati. Intanto, durante l'ultimo anno o poco più, si era verificata una sempre più evidente modificazione nelle mie facoltà mentali. La mia veggenza nelle menti di quanti mi circondavano andava facendosi più debole e irregolare, e i pensieri che affollavano la mia doppia percezione dipendevano sempre meno da contatti diretti. Tutto ciò che apparteneva alla mia individualità sembrava stesse morendo poco a poco... — sta- I IL VELO DISSOLTO 57 vo così perdendo lo strumento attraverso il quale i propositi e le emozioni interiori degli altri mi pervenivano. Ma insieme alla provvidenziale liberazione dalla mia estenuante veggenza, si andava sviluppando qualcos'altro di quello che definivo — in modo che si è poi dimostrato esatto — la previsione di avvenimenti esteriori. Era come se il rapporto fra me e gli altri esseri umani andasse man mano svanendo e il rapporto con quelle cose che si dicono inanimate, invece, si elevasse a nuova vita. Pian piano che la mia infelicità, da violento tormento causato da una passione angosciosa, si tramutava nello squallore di una sofferenza abituale, vivevo sempre più staccato dagli altri, mentre le visioni del tipo di quella che avevo avuto a Praga divenivano sempre più frequenti... visioni di città ignote, pianure sabbiose, colossali rovine, cieli di mezzanotte rischiarati da fantastiche costellazioni, valichi montani, angoli erbosi chiazzati dal sole pomeridiano che filtrava tra i rami degli alberi... Ero al centro di queste scene, e in tutte, dietro quelle apparizioni grandiose, sentivo incombere su di me la presenza di qualcosa di sconosciuto e implacabile. La continua sofferenza aveva spento, in me, la fede religiosa: per i più miseri — coloro che non amano e non sono amati — non c'è religione, non c'è culto possibile se non quello del demonio... E fra tutte queste visioni ritornava, sempre, quella della mia morte: l'angoscia, il senso di soffocamento, l'ultima lotta di chi cerca invano di aggrapparsi alla vita. Così stavano le cose verso la fine del settimo anno di matrimonio. Mi ero ormai completamente liberato dal mio dono di veggenza, dalla anormale conoscenza di pensieri che non mi appartenevano, e invece di intromettermi contro la mia volontà nei mondi delle altre menti, vivevo continuamente nel mio solitario futuro. Bertha si era accorta del mio grande cambiamento. Con mia sorpresa, di recente sembrava cercare l'occasione di restare in mia compagnia, intavolando quel tipo di conversazione distante ma familiare che possono tenere un marito e una moglie che vivono in cortese ma insanabile incompatibilità. Sopportai la cosa con tranquilla sottomissione, senza essere sufficientemente interessato ai suoi scopi per analizzarli a fondo; tuttavia non potei impedirmi di percepire un che di eccitato e di trionfante nel suo comportamento e nell'espressione del suo viso: qualcosa di troppo sottile 58 GEORGE ELIOT per manifestarsi in parole o atteggiamenti, ma che dava l'idea che stesse vivendo in uno stato di attesa e di incerta speranza. Il mio sentimento principale era di soddisfazione, perché la parte più intima del suo pensiero mi era di nuovo impenetrabile, e quasi mi rallegravo della distratta malinconia che mi faceva dare risposte contraddittorie, tradendo la totale incomprensione di quanto lei stava dicendo. Ricordo bene Io sguardo e il sorriso con cui un giorno, dopo un errore di questo genere da parte mia, disse: «Avevo creduto che tu fossi un chiaroveggente, e che per questo fossi tanto ostile verso gli altri che ti somigliavano, perché volevi essere il solo... Ma ora vedo bene che sei diventato più ottuso di tutti gli altri». Non risposi nulla. Mi sorse il dubbio che il suo riavvicinamento fosse causato dal desiderio di mettere alla prova la mia facoltà di scoprire qualcuno dei suoi segreti; ma non volli dare peso a questa ipotesi. Le sue motivazioni, come pure le sue azioni, non mi interessavano, e qualunque fosse la soddisfazione che andava cercando non avevo nessuna voglia di contrariarla. C'era ancora della pietà nel mio animo, per ogni creatura vivente, e Bertha era viva — viva e circondata da cose che la facevano soffrire. Proprio in questo periodo accadde un fatto che mi risvegliò in qualche modo dalla mia inerzia, dandomi un interesse che ormai credevo impossibile per l'attimo fuggente della mia vita terrena. Si trattava della visita di Charles Meunier: mi aveva scritto che aveva intenzione di venire in Inghilterra a riposarsi del troppo lavoro e che avrebbe avuto piacere di vedermi. Meunier era ormai famoso in tutta l'Europa, ma la sua lettera mi esprimeva con nostalgia il ricordo di un rapporto di stima e di un antico debito di simpatia che è inseparabile dalla nobiltà del carattere... e anch'io sentii che la sua presenza avrebbe potuto essere per me una specie di momentanea resurrezione in un più felice modo di vivere del passato. Arrivò, e per quanto fu possibile ritrovai il nostro piacere di un tempo per le escursioni a due, anche se, invece di montagne e ghiacciai e ampi laghi azzurri, ci dovevamo accontentare di pendii, pozze d'acqua e campi coltivati. Gli anni ci avevano cambiati entrambi, ma con quale diverso risultato! Meunier era adesso una figura brillante nell'alta società, che IL VELO DISSOLTO 59 le donne eleganti amavano ascoltare, la cui amicizia era assai ricercata dagli aristocratici che volevano mostrarsi intelligenti. Con la massima delicatezza riuscì a nascondere ogni segno dello sbigottimento che, sono sicuro, dovette provare nel momento che ci ritrovammo e ogni desiderio di scoprire le mie condizioni di vita e la mia situazione; cercò, esercitando il suo affascinante garbo di uomo di società, di rendere allegro il nostro incontro. Bertha rimase molto colpita dall'inaspettato fascino di un visitatore che aveva ritenuto accettabile solo in grazia della sua celebrità, e fece un grande sfoggio di civetteria e modi seducenti. Sembrò riuscire in pieno a ottenere l'ammirazione di Meunier, perché il suo atteggiamento verso di lei fu lusinghiero e pieno di attenzioni. La presenza di Charles ebbe un effetto benefico su di me, specie durante i nostri rinnovati vagabondaggi a due, quando mi faceva meravigliosi racconti delle sue esperienze professionali, tanto che più di una volta, quando il discorso scivolava sulle implicazioni psicologiche delle malattie, mi venne da pensare che, se fosse rimasto con me abbastanza a lungo, forse avrei potuto arrivare al punto di confidargli i segreti della mia esistenza. Non si poteva trovare qualche rimedio anche per me nella sua scienza? Nella sua intelligenza così brillante e viva poteva non esserci un po' di compassione per me?... Ma questo pensiero si limitava a sfiorarmi ogni tanto, e morì prima di diventare un desiderio. L'orrore di tornare di nuovo a intromettermi nell'intimità di un'altra mente, infatti, mi faceva, per un irrazionale impulso, avvolgere ancora di più il velo della dissimulazione intorno alla mia mente; così come, talvolta, eseguiamo automaticamente un gesto che ci aspettiamo di veder fare da qualcun altro. La visita di Meunier si approssimava alla fine, quando avvenne qualcosa che creò una certa agitazione nella casa, soprattutto per l'effetto incredibilmente forte che sembrò produrre su Bertha — su Bertha, sempre padrona di se stessa, mai preda delle agitazioni femminili, controllata e impassibile perfino nell'odio. Questo qualcosa fu l'improvvisa, grave malattia della sua cameriera, la signora Archer. Devo menzionare, a questo punto, una circostanza che aveva colpito la mia attenzione poco prima della venuta di Meunier; ovvero 60 GEORGE ELIOT che c'era stata come una lite tra Bertha e questa cameriera, avvenuta, credo, durante la visita a una famiglia amica, dove costei, data la distanza, aveva accompagnato la sua padrona. Avevo, senza volere, udito la Archer parlare con tale odiosa insolenza che mi era sembrato un motivo più che sufficiente per licenziarla su due piedi. Ma invece non fu licenziata; al contrario, Bertha sembrò sopportare in silenzio certi fastidi provocati dalle ripicche della donna... Restai parecchio sorpreso nell'osservare che la sua malattia sembrava destare la più grande sollecitudine in Bertha, che le rimaneva accanto giorno e notte, non permettendo a nessun altro di sostituirla nelle sue funzioni di infermiera. Il nostro medico di famiglia era in vacanza, così la presenza di Meunier si rese doppiamente preziosa; egli si occupò del caso con un interesse che mi sembrò andare molto al di là della diligenza professionale, tanto che un giorno, mentre se ne stava in silenzio dopo averla visitata, gli chiesi: «Si tratta di una malattia molto particolare, Meunier?». «No», rispose lui, «è un attacco di peritonite che sarà mortale e che materialmente non si differenzia da molti altri casi che ho già trattato. Ma ti dirò che cosa ho in mente. Vorrei eseguire un esperimento su questa donna, se me lo permetti. Non le potrà fare alcun male e non le recherà sofferenza, perché non tenterò nulla finché la vita sensoriale non sia del tutto scomparsa. Voglio sperimentare gli effetti di una trasfusione di sangue nelle arterie dopo che il cuore avrà cessato di battere da alcuni minuti. Ho già tentato l'esperimento parecchie volte sopra animali morti per la stessa malattia con risultati sorprendenti; ora vorrei provare su un soggetto umano. Ho nel mio bagaglio i tubicini necessari, e il resto dell'apparecchiatura potrebbe venir preparato con facilità. Userei il mio stesso sangue, prelevandolo dal braccio. La donna non passerà la notte, ne sono certo, e vorrei che mi promettessi la tua assistenza per questo esperimento. Non è possibile portarlo a termine senza un aiuto e non mi sembra il caso di cercare un assistente tra i vostri medici di provincia: potrebbero diffondere una versione distorta e assurda di tutta la cosa.» «Hai parlato a mia moglie di questa idea?», dissi. «Mi sembra particolarmente interessata a questa donna; era la sua cameriera favorita.» IL VELO DISSOLTO 61 «Per la verità», rispose Meunier, «vorrei che non ne sapesse nulla. Le donne creano sempre difficoltà insormontabili in cose di questo genere, e poi la vista degli effetti prodotti sul presunto cadavere potrebbero essere impressionanti... Noi due aspetteremo insieme, tenendoci pronti. Quando appariranno certi sintomi io ti chiamerò nella stanza, e al momento giusto faremo in modo di allontanare di lì tutti gli altri.» Non occorre che riferisca il resto della nostra conversazione su questo argomento: entrò nei minimi particolari, vincendo il mio ribrezzo, riuscendo a suscitare in me un misto di meraviglia e di curiosità per i possibili risultati di quell'esperimento. Preparammo tutto il necessario e mi istruì su quello che avrei dovuto fare in qualità di suo assistente. Non aveva detto nulla a Bertha circa la sua assoluta convinzione che la Archer non sarebbe giunta al mattino, e cercò di persuaderla a lasciare la malata e prendersi una notte di riposo. Ma Bertha era ostinata: sospettava che la fine era ormai prossima e credeva che noi volessimo soltanto risparmiare i suoi nervi. Rifiutò di lasciare la stanza della malata. Meunier e io ci tenemmo pronti nella biblioteca, lui recandosi di frequente di sopra e tornandone sempre con la notizia che il caso stava assumendo esattamente la piega prevista. A un certo punto mi chiese: «Puoi immaginare quali motivi di rancore possa avere quella donna verso la sua padrona che le è così affezionata? ». «Credo vi sia stato un dissapore tra loro prima della malattia... Ma perché me lo chiedi?» «Perché nelle ultime cinque o sei ore ho notato — dal momento, credo, in cui ha perso ogni speranza di salvarsi — che sembra esservi in lei come uno strano impulso a dire qualcosa che il dolore e la debolezza le impediscono di dire... e ha uno sguardo carico di odio negli occhi che volge di continuo verso la sua padrona. Spesso in questa malattia la mente rimane singolarmente lucida fino all'ultimo.» «Non mi sorprende che vi siano in lei sentimenti malevoli», risposi. «È una donna che mi ha sempre ispirato diffidenza e disgusto; ma era riuscita a conquistarsi il favore della sua padrona.» A questa risposta tacque e rimase a fissare il fuoco con aria assorta, finché non andò nuovamente di sopra. Re- 62 GEORGE ELIOT stò assente più a lungo del solito, e quando riscese mi disse con calma: «Vieni, è il momento». Lo seguii nella stanza dove aleggiava la morte. Entrando, le cortine scure del grande letto formavano uno sfondo che metteva in forte risalto il pallore del viso di Bertha. Vedendomi, ebbe uno scatto d'insofferenza, poi fissò su Meunier uno sguardo indagatore e pieno di collera; ma egli alzò una mano come a imporre il silenzio mentre scrutava la donna morente e le sentiva il polso: quel volto era ormai livido, spettrale, coperto di sudore freddo, e le palpebre abbassate nascondevano i grandi occhi scuri. Dopo un minuto o due, Meunier si spostò all'altro capo del letto, verso Bertha, e con il suo tono abituale di elegante cortesia la pregò di lasciare la paziente alle nostre cure — sarebbe stato fatto tutto il possibile — la malata non era più in condizioni di rendersi conto della sua presenza affettuosa. Bertha esitava, in apparenza quasi desiderosa di credere alle sue assicurazioni e di obbedire. Guardò il volto spettrale della moribonda come a volervi leggere una conferma di quanto le veniva detto, quando, per un istante, le palpebre abbassate si sollevarono di nuovo e parve che quegli occhi senza espressione guardassero verso di lei. Un brivido attraversò le ossa di Bertha, che si rimise al capezzale con la tacita implicazione che non avrebbe abbandonato la stanza. Le palpebre non si sollevarono più. Guardai Bertha mentre spiava il volto della morente. Indossava un ricco pegnoir e i suoi capelli biondi erano in parte raccolti sotto una cuffia di merletto... nel suo abbigliamento era, come sempre, una donna elegante, degna di figurare in un dipinto della moderna vita aristocratica: ma mi domandai come aveva potuto quel viso sembrarmi il viso di una donna nata da un'altra donna, con ricordi d'infanzia, capace di dolore, desideroso di tenerezza... I suoi tratti in quel momento apparivano taglienti in modo disumano, gli occhi erano così duri e febbrili... sembrava una crudele divinità che trovasse il suo godimento spirituale davanti all'agonia di una mortale. Quei lineamenti così tesi vennero attraversati, quando l'ultimo respiro fu esalato, come da un lampo, e tutti sentimmo che il velo nero era definitivamente calato. Quale segreto esisteva IL VELO DISSOLTO 63 tra Bertha e quella donna? Distolsi lo sguardo da lei, nell'orribile timore che la mia veggenza potesse tornare, e fossi così obbligato a vedere quello che si era creato tra i cuori delle due donne. Sentii che Bertha aveva atteso il momento della morte come il suggello del suo segreto: ringraziai il cielo che restasse sempre suggellato anche per me. Meunier disse piano: «Se n'è andata». Poi offrì il braccio a Bertha, che stavolta accettò di venire portata fuori. Due domestiche, credo per ordine suo, entrarono nella stanza a dare il cambio a quella più giovane che era rimasta presente fino a quel momento. Quando entrarono Meunier aveva già aperto l'arteria del collo lungo e sottile che giaceva rigido sul cuscino; le mandai via, con l'ordine di restarsene lontano finché non le avessimo chiamate di nuovo: il medico, spiegai, doveva tentare un'operazione per assicurarsi in pieno del decesso. Durante i venti minuti che seguirono dimenticai tutto, salvo Meunier e l'esperimento in cui era assorbito al punto da farmi credere che i suoi sensi sarebbero risultati impenetrabili a tutti i suoni o le immagini che non fossero in relazione con quel suo lavoro. Fu mio compito, all'inizio, attivare la respirazione artificiale nel corpo dopo che era stata effettuata la trasfusione, ma poi Meunier mi diede il cambio, e potei vedere il lento, stupefacente ritorno alla vita... il petto cominciò a sollevarsi, le inspirazioni si fecero più forti, le palpebre tremarono e l'anima sembrò essere tornata dietro di loro... La respirazione artificiale fu interrotta, ma il petto continuò a sollevarsi ritmicamente, e le labbra si mossero. Proprio allora udii la maniglia della porta girare: forse Bertha era stata avvertita dalle donne che avevamo mandato via: probabilmente una qualche vaga paura si era impadronita di lei, perché entrò con espressione allarmata... Avanzò verso i piedi del letto e lanciò un grido soffocato. Gli occhi della morta erano aperti, e si fissarono nei suoi con piena consapevolezza — la consapevolezza dell'odio. Con un improvviso, supremo sforzo, la mano che Bertha aveva creduto immobile per sempre si puntò contro di lei, e il volto disfatto si mosse. La voce strozzata, affannosa disse: «Tu vuoi avvelenare tuo marito... il veleno è nello stipo nero... io te l'ho procurato... hai riso di me, hai raccontato 64 GEORGE ELIOT menzogne alle mie spalle, facendomi odiare... perché eri gelosa... te ne penti ora?...». Le labbra continuarono a mormorare, ma i suoni si fecero indistinti. Poi ogni suono cessò — rimase solo un leggero movimento: la fiamma si era alzata rapida, e ancor più rapida andava spegnendosi. Le corde del cuore di quella disgraziata avevano reagito all'odio e alla vendetta; lo spirito della vita le aveva sfiorate per un istante, poi era svanito di nuovo, per sempre. Gran Dio! Significa questo, dunque, tornare alla vita... risvegliarsi con tutta la nostra sete insoddisfatta, con le maledizioni non pronunciate che ci salgono alle labbra, con i nostri muscoli tesi a completare i peccati incompiuti? Bertha, pallida, rimase ai piedi del letto, tremante e inerme, senza speranza di salvezza, come un astuto animale la cui tana sia ormai circondata dalle fiamme dirompenti. Anche Meunier sembrava paralizzato; per lui, in quel momento, la vita non fu solo un problema scientifico. Quanto a me, questa scena mi sembrò accordarsi con tutto il resto della mia esistenza: l'orrore mi era familiare, e questa nuova rivelazione era soltanto il diverso ritorno di un antico dolore. Da allora Bertha e io abbiamo vissuto separati — lei nelle sue proprietà, padrona di metà delle nostre ricchezze, io viaggiando per paesi stranieri, fino a questo rifugio nel Devonshire, dove sono venuto a morire. Bertha vive nella pietà e nell'ammirazione di tutti... Cosa mai potevo fare contro una donna così affascinante con cui chiunque, eccetto me, avrebbe potuto essere felice? Non c'era stato alcun testimone a quella scena nella stanza della moribonda, eccetto Meunier, le cui labbra, come mi aveva promesso sarebbero rimaste serrate per sempre. Una volta o due, stanco di vagare, mi sono fermato in qualche angolo a me caro e il mio cuore si è aperto agli uomini, alle donne, ai bimbi i cui volti cominciavano a divenirmi familiari; ma poi fuggivo via di nuovo, con terrore, al ricomparire della mia solita facoltà di veggenza — fuggivo lontano, per vivere di continuo con quell'unica Presenza Ignota rivelata e occultata al tempo stesso dalla mobile cortina della terra e del cielo. Infine, l'ultima malattia si è impadronita di me e mi ha costretto a vivere qui — mi ha costretto a vivere dipendendo dai miei domestici. E allora la maledizione della IL VELO DISSOLTO 65 mia veggenza — della mia doppia coscienza è ritornata ancora, per non lasciarmi mai più. Conosco tutti i loro meschini pensieri, la loro scarsa considerazione, la loro stanca pietà. È il 20 settembre 1850. Conosco questi numeri che ho appena scritto, come un epitaffio da lungo tempo familiare. Li ho visti innumerevoli volte sopra questa pagina, qui, sul mio scrittoio, quando mi si è aperta davanti la scena della mia agonia di moribondo. ELIZABETH C. GASKELL LA STORIA DELLA VECCHIA NUTRICE Come sapete, bambini miei, vostra madre era orfana e figlia unica. Avrete anche sentito dire che vostro nonno era un uomo di chiesa sù nel Westmoreland, dove io sono nata. Io ero soltanto una ragazzina, e frequentavo la scuola del villaggio, quando un giorno vostra nonna venne a chiedere alla direttrice se c'era qualche alunna disposta a fare la bambinaia. Mi sentii molto orgogliosa, ve lo posso garantire, quando la direttrice fece il mio nome e mi descrisse come una ragazza forte, onesta e brava a cucire; disse che i miei genitori erano persone molto rispettabili, anche se erano poveri. Pensai che nulla mi sarebbe piaciuto di più che servire presso quella giovane, graziosa signora, che arrossiva violentemente, come capitava a me, quando parlava del bambino che stava per nascere, e di quello che avrei dovuto fare per prendermi cura di lui. Ma vedo che questa parte della mia storia non vi interessa molto, e che aspettate invece con ansia che io arrivi a parlare di quel che accadde dopo: ci arriverò subito, non temete. Fui dunque assunta e mi trasferii nella parrocchia, prima che la signorina Rosamond (la bambina che venne al mondo allora, e che adesso è vostra madre) nascesse. Per essere sincera, io avevo ben poco da fare quando lei arrivò, perché sua madre non la lasciava mai, e dormiva con lei persino la notte. Io mi sentivo molto orgogliosa quando, ogni tanto, la signora si fidava a lasciarmela. Non ci fu mai, e non credo vi sarà neppure in futuro, una creatura come lei, sebbene voi tutti, a vostra volta, siate stati piuttosto belli. Ma quanto a dolcezza e grazia nessuno di voi ha potuto esser pari a vostra madre, che assomigliava in tutto a vostra nonna, che aveva nel sangue il carattere di una vera signora; era la nipote di Lord Furnivall del Northumberland. Credo non avesse né fratelli né sorelle, ed era cresciuta nella 70 ELIZABETH C. GASKELL famiglia del mio padrone, fino a quando non sposò vostro nonno, che era solo un curato, figlio di un negoziante del Carlisle — comunque era un uomo bello e intelligente — il quale si dedicava instancabilmente alla sua parrocchia, che era molto vasta e si estendeva fino ad oltre Westmoreland Fells. Quando vostra madre, la piccola signorina Rosamond, aveva quattro o cinque anni, i suoi genitori morirono a distanza di due settimane l'uno dall'altro. Ah, che tristi tempi furono! La mia graziosa e giovane signora ed io ci stavamo preparando all'arrivo di un altro bambino, quando il mio padrone tornò a casa un giorno da una delle sue lunghe cavalcate, esausto e fradicio, e s'ammalò della febbre di cui poi morì; lei non si riprese più da quel colpo; ma visse quanto bastò per vedere, prima di esalare l'ultimo respiro, il suo bambino che le veniva poggiato sul petto, morto. La mia padrona, dal suo letto di morte, mi aveva pregato di non abbandonare mai la signorina Rosamond; ma anche se non m'avesse detto nulla, avrei seguito la piccola fino in capo al mondo. Subito dopo, ancora prima che i nostri singhiozzi si fossero spenti, giunsero gli esecutori testamentari e i tutori, a sistemare gli affari. Erano il cugino della mia povera signora, Lord Furnivall, e il signor Esthwaithe, un negoziante di Manchester, fratello del padrone. Non era ancora ricco come divenne poi, e aveva una famiglia molto numerosa. Bene! Non so se fu una loro decisione, o se dipese da una lettera che la mia padrona aveva scritto dal suo letto di morte a suo cugino, il mio padrone; comunque sia, venne stabilito che la signorina Rosamond ed io dovessimo andare a stare nella residenza dei Furnivall, nel Northumberland. Il mio padrone ci fece capire che era stato desiderio della madre che la bimba vivesse con la famiglia, cosa cui non aveva nulla da obbiettare, perché una persona o due in più non avrebbero fatto differenza in una casa tanto grande. Così, sebbene non fosse questo il modo in cui avrei voluto fosse considerato l'arrivo della mia beniamina — che, graziosa e bella com'era, avrebbe dovuto essere salutata come un raggio di sole da qualunque famiglia, per quanto numerosa fosse — provai un certo compiacimento, perché tutta la gente di Dale avrebbe sgranato tanto d'occhi alla notizia che io sarei diventata la cameriera della giova- LA STORIA DELLA VECCHIA NUTRICE 71 ne signora nella residenza di Lord Furnivall, Furnivall Manor. Ma sbagliavo quando credevo che saremmo andate a vivere con il padrone. Scoprii che la famiglia aveva lasciato Furnivall Manor da cinquant'anni o più. Non riuscii a sapere se la mia povera signora vi era mai stata, anche se era cresciuta presso la famiglia; e io me ne rattristai, perché mi sarebbe piaciuto che la signorina Rosamond trascorresse la sua giovinezza negli stessi luoghi in cui era cresciuta sua madre. Gli uomini del mio padrone, a cui, quando ne ebbi l'ardire, feci molte domande, mi dissero che la Manor House si trovava ai piedi di Cumberland Fells, e che era un posto molto grande. Vi abitava una Furnivall, prozia del mio padrone, con intorno a sé solo pochi servitori; era un posto davvero molto salubre ed il Lord pensava che per alcuni anni sarebbe stato molto indicato per la signorina Rosamond, che con la sua presenza avrebbe rallegrato la vecchia zia. Mi fu ordinato dal Lord di avere pronto per un certo giorno il bagaglio della signorina Rosamond. Il Lord era un uomo austero e orgoglioso, così com'era fama di tutti i Furnivall; non pronunciava mai una parola più del necessario. Si diceva che avesse molto amato la mia povera padrona; ma lei, poiché sapeva che il padre di lui si sarebbe opposto, non lo aveva mai assecondato, e aveva sposato invece il signor Esthwaithe. Io so ben poco di queste cose; comunque il Lord non si sposò mai. Ma non si curò mai granché della signorina Rosamond, come io mi aspettavo avrebbe dovuto fare, se avesse davvero amato la madre ora morta. Mandò insieme a noi a Manor House un uomo di sua fiducia, dicendogli di tornare da lui a Newcastle quella sera stessa; così questi non ebbe molto tempo, prima di liberarsi anche lui di noi, di presentarci a tutti gli estranei. Di modo che noi due, povere creature (io non avevo ancora diciotto anni) fummo lasciate sole nella vecchia, grande Manor House. Mi sembra solo ieri quando arrivammo in carrozza. Avevamo lasciato molto presto la nostra vecchia cara dimora, ed entrambe avevamo pianto, fin quasi a spezzarci il cuore, sebbene stessimo viaggiando nella carrozza del Lord, di cui una volta pensavo tanto bene. Era il tardo pomeriggio di un giorno di settembre, quando ci fermammo a cambiare i cavalli 72 ELIZABETH C. GASKELL per l'ultima volta in una piccola città piena di carbonai e di minatori. La signorina Rosamond si era addormentata, ma il signor Henry mi disse di svegliarla, in modo che potesse vedere il parco e Manor House quando vi fossimo arrivati. Pensai ch'era un peccato, ma feci come aveva detto, per timore che poi si lamentasse di me con Lord Furnivall. Non si vedeva più traccia né di città né di villaggi, e ci accorgemmo di stare passando un cancello che si apriva su di un parco vasto e selvaggio — non come i parchi del nord; si sentiva il rumore dell'acqua che scorreva, c'erano rocce, acacie nodose e vecchie querce, tutte scortecciate per l'età. La strada continuò in salita per circa due miglia, poi vedemmo una grande, maestosa casa, con molti alberi intorno, tanto vicini che in alcuni punti i loro rami frustavano le mura quando il vento soffiava. Alcuni, enormi, giacevano a terra spezzati; non sembrava che ci fosse chi si prendesse cura del posto, ammassando la legna o tenendo puliti i viali ricoperti di muschio. Solo di fronte alla casa tutto era in ordine. Sul grande viale non c'era un'erbaccia; e nessun albero, o pianta rampicante, ingombrava il muro della facciata, su cui si aprivano molte finestre. Ad entrambi i lati della casa c'era un'ala sporgente, ognuna delle quali era la parte terminale di altre estensioni laterali; la casa, sebbene apparisse così desolata, era addirittura più grande di quanto mi sarei aspettata. Dietro di essa si alzava la collina rocciosa, che sembrava spoglia e non recintata. Sul lato sinistro della casa, guardandola di fronte, c'era un piccolo giardino di foggia antica, come scoprii più tardi. Una porta si apriva su di esso dalla facciata ovest: era stato ricavato da un folto, buio boschetto, per iniziativa di qualche vecchia Lady; ma i rami degli alberi della foresta erano cresciuti e gettavano di nuovo la loro ombra su di esso, e vi erano rimasti ormai ben pochi fiori. Arrivammo con la carrozza fino al grande ingresso principale ed entrammo nel salone; pensai che avremmo potuto sperderci, tanto era largo e grandioso. Un candeliere di bronzo pendeva dal centro del soffitto; ed io, che non ne avevo mai visto uno, lo guardai affascinata. A una estremità della sala c'era un grande camino, largo quanto un lato delle case del mio paese, con alari e enormi molle per la legna; accanto a LA STORIA DELLA VECCHIA NUTRICE 73 esso erano dei pesanti sofà di stile antico. Dalla parte opposta della sala, a sinistra entrando — sul lato ovest — vi era un organo, costruito dentro la parete, e tanto largo da occuparne una gran parte. Dietro, sullo stesso lato, c'era una porta; dall'altra parte, da ogni lato del camino, vi erano altre porte che conducevano all'ala est. Per tutto il tempo che fui in quella casa non vi andai mai, quindi non posso dirvi cosa ci fosse. Il pomeriggio stava finendo, e la sala, dato che il fuoco non era stato acceso, appariva buia e tetra; ma noi non vi restammo per molto. Il vecchio servitore che ci aveva aperto il portone si inchinò al signor Henry e ci condusse, attraverso la porta che si apriva dalla parte opposta dell'enorme organo, attraverso molte stanze più piccole ed un corridoio, nel salotto ovest dove, egli disse, si trovava la signorina Furnivall. La povera piccola signorina Rosamond si teneva stretta a me, impaurita, come se si sentisse sperduta in quel posto tanto grande; ma anch'io, per parte mia, non mi sentivo molto meglio di lei. Il salotto ad ovest aveva un aspetto molto allegro; c'era un bel fuoco, ed era arredato con una quantità di bei mobili di legno. La signorina Furnivall era una donna non lontana dall'ottantina, probabilmente, ma non ne sono sicura. Era alta e magra e aveva un volto tutto pieno di rughe che sembravano tracciate con la punta di un ago. I suoi occhi erano molto vigili: per compensare, suppongo, la totale sordità, che la costringeva a usare una cornetta. Seduta accanto a lei, intenta a lavorare sullo stesso grande arazzo, c'era la signora Stark, sua cameriera e amica, che aveva quasi la stessa età. Aveva vissuto con la signorina Furnivall fin da quando erano entrambe giovani, e ora sembrava più un'amica che una domestica; era estremamente fredda, grigia e dura — come se non avesse mai amato, o non si fosse mai presa cura di nessuno. Non credo, in realtà, che avesse mai amato altri che la sua padrona che, per via della sua grave sordità, lei trattava spesso come se fosse stata una bambina. Il signor Henry fece alcune comunicazioni da parte di Lord Furnivall, poi fece un cenno di saluto a tutti noi — senza neppure accorgersi della mano che la mia piccola, dolce signorina Rosamond gli tendeva — e ci lasciò là, in piedi, sotto gli sguardi indagatori che le due signore ci lanciavano attraverso gli occhiali. 74 ELIZABETH C. GASKELL Fui molto sollevata quando chiamarono il vecchio cameriere che ci aveva introdotto e gli dissero di condurci alle nostre stanze. Così uscimmo dal grande salotto, per entrare in un'altra camera di soggiorno e, passata questa, andammo su per una lunga rampa di scale e attraversammo una lunga galleria — che doveva essere qualcosa di simile ad una libreria, dal momento che c'erano libri lungo tutta una parete, e finestre con scrittoi lungo tutta l'altra — finché arrivammo alle nostre stanze che, appresi con soddisfazione, erano proprio sopra la cucina: avevo infatti cominciato a pensare che mi sarei perduta in quella casa terribilmente vuota. C'era una vecchia camera dei bambini, usata, molti anni prima, da tutti i bambini della famiglia, con un bel fuoco che ardeva dietro la grata ed il bricco che bolliva sulla fiamma, e tutto l'occorrente per il tè già pronto sul tavolo; oltre a questa stanza c'era la camera per la notte, con un lettino a sbarre vicino al letto destinato a me. Il vecchio James chiamò Dorothy, sua moglie, ad augurarci il benvenuto, ed entrambi furono tanto ospitali e gentili che, poco alla volta, la signorina Rosamond e io ci sentimmo quasi come a casa nostra; dopo il tè, ella sedette sulle ginocchia di Dorothy, chiacchierando con tutta la scioltezza che la sua piccola lingua le consentiva. Presto scoprii che Dorothy era del Westmoreland, e questo ci legò molto; non avrei mai pensato di incontrare delle persone gentili come il vecchio James e sua moglie. James aveva vissuto quasi tutta la vita preso la famiglia dei padroni, ed era convinto che nessuno fosse nobile quanto loro. Sentiva addirittura una certa superiorità nei confronti di sua moglie, perché, fino a che l'aveva sposata, ella era vissuta nella casa di un agricoltore. Ma era molto innamorato di lei; tanto quanto poteva esserlo. Avevano alle loro dipendenze una ragazza, per i lavori pesanti. Si chiamava Agnes; così lei ed io, James e Dorothy, con la signorina Furnivall e la signora Stark, formavano la famiglia; senza scordare, naturalmente, la mia dolce signorina Rosamond. Mi capitò spesso di domandarmi cosa mai avessero fatto prima che arrivasse la piccola, tanto erano presi da lei. Sia in cucina che in salotto avveniva la stessa cosa. La dura, triste signorina Furnivall e la impassibile signora Stark sembravano rianimarsi quando lei arrivava, saltellando come un uccellino, e giocava pavoneggiandosi qua e LA STORIA DELLA VECCHIA NUTRICE 75 là, con un continuo, delizioso cinguettio di felicità. Sono sicura che le due anziane signore ci dovettero rimanere male molte volte, vedendola scomparire in cucina, anche se erano troppo orgogliose per chiederle di fermarsi con loro. Si stupivano dei suoi gusti; per quanto, come diceva la signora Stark, non c'era di che meravigliarsi, se si pensava da quale famiglia proveniva suo padre! La vecchia residenza era un posto straordinario per la piccola signorina Rosamond. Compì esplorazioni tutt'intorno, con me sempre dietro di lei; andò dappertutto, tranne che nell'ala est, che era sempre chiusa, e in cui non ci venne neppure in mente di andare. Ma nella parte nord e ovest c'erano parecchie stanze interessanti, piene di oggetti che erano delle vere curiosità, anche se probabilmente non sarebbero state tali per gente che avesse più esperienza del mondo. Le finestre erano ombreggiate dai rami ondeggianti degli alberi e dall'edera che le aveva circondate; ma nella penombra riuscivamo a distinguere vecchie brocche di porcellana, scatole d'avorio intarsiate e grossi, pesanti libri; vecchi quadri erano disseminati un po' dappertutto. Ricordo che una volta la mia cara bambina volle che Dorothy venisse con noi per dirci chi erano tutte quelle persone: erano infatti ritratti di familiari, anche se Dorothy non potè dirci i nomi di tutti loro. Eravamo state quasi in tutte le stanze, quando arrivammo al salone di rappresentanza, sopra la sala d'ingresso; lì scoprimmo un ritratto della signorina Furnivall o, piuttosto, della signorina Grace, come veniva chiamata una volta, dato che aveva una sorella maggiore. Come doveva essere stata bella! Aveva uno sguardo risoluto e fiero, in cui brillava una punta di alterigia, e teneva le sopracciglia un poco sollevate e le labbra leggermente storte, come se si stesse chiedendo come potessimo avere l'ardire di starla a guardare. Indossava un abito di foggia per me molto strana, ma che doveva essere molto alla moda quando lei era giovane: un cappello di stoffa morbida, bianca, leggermente inclinato sulla fronte, con una meravigliosa serie di piume d'uccello che ne adornava un lato, e un vestito di satin blu, che si apriva sul davanti su di un corsetto bianco trapuntato. «È proprio vero quel che dicono», notai quando fui stanca di guardarla. «La bellezza è davvero una cosa fugace! Chi 76 ELIZABETH C. GASKELL avrebbe potuto immaginare, a vederla adesso, che la signorina Furnivall era stata così eccezionalmente bella?» «Sì», disse Dorothy, «la gente cambia, purtroppo. Ma se è vero quello che il padre del mio padrone diceva sempre, la signorina Furnivall, la sorella più vecchia di Grace, era ancora più bella. Il suo ritratto è qui, da qualche parte; ma se vuoi che te lo mostri, non devi mai lasciarti scappare che l'hai visto, nemmeno con James. Pensi che la piccina riuscirà a tenere a freno la lingua?», mi chiese. Io non ne ero troppo sicura, perché era una bimba molto aperta e chiacchierona, cosicché preferii dirle di andare a nascondersi. Quando fu andata aiutai Dorothy a voltare un grande quadro appeso con la faccia rivolta alla parete. La donna che vi era rappresentata batteva senza dubbio, in bellezza, la signorina Grace; e credo anche nell'espressione di sprezzante orgoglio. Avrei potuto guardarla per un'ora intera, ma Dorothy era in apprensione, e si affrettò a girarlo di nuovo, ingiungendomi di correre a cercare la signorina Rosamond, perché vicino alla casa c'erano molti posti pericolosi in cui non avrebbe voluto che la bambina andasse. Ero una ragazza fiera e coraggiosa, e detti poco peso a quello che aveva detto la vecchia governante, perché a me piaceva giocare a nascondino, come a tutti i bambini della parrocchia; ma corsi ugualmente a cercare la mia piccola. Man mano che l'inverno avanzava e le giornate divenivano più brevi, qualche volta mi sembrava di udire un suono, come se qualcuno stesse suonando il grande organo della sala d'ingresso. Non lo sentivo tutte le sere, ma sicuramente molto spesso; di solito ciò avveniva quando stavo seduta accanto alla signorina Rosamond, dopo averla messa a letto, a tenerla buona fino a che non s'addormentava. Allora lo sentivo risuonare, sempre più forte, in lontananza. La prima volta, quando scesi, chiesi a Dorothy chi fosse stato a suonare quella musica, e James disse subito, bruscamente, che ero una sciocca, se scambiavo il rumore del vento che sibilava tra gli alberi per una musica; ma io vidi che Dorothy lo guardava molto spaventata e Bessy, la sguattera, disse qualcosa tra i denti e se ne andò in fretta. Capii che non avevano gradito la domanda, così mi controllai fino a che LA STORIA DELLA VECCHIA NUTRICE 77 non mi trovai sola con Dorothy; sapevo infatti che da lei mi sarebbe stato molto più facile sapere qualcosa. Perciò, il giorno dopo, scelsi il momento opportuno, e le chiesi chi fosse che suonava l'organo; dato che lo sapevo bene che si trattava di un organo e non del vento, nonostante avessi taciuto di fronte a James. Ma Dorothy era stata preparata, ne sono certa, e non riuscii a tirarle fuori una parola. Allora tantai con Bessy, per quanto l'avessi sempre tenuta un po' a distanza, perché io ero al livello di James e Dorothy, e lei era poco più che una sguattera. Così lei mi disse che non avrei dovuto mai, mai parlarne; e che se lo avessi fatto non avrei mai dovuto rivelare che era stata lei a farmi quelle confidenze. Era un suono molto strano, e lei lo aveva udito molte volte, soprattutto nelle notti d'inverno, e prima dei temporali. La gente diceva che era il vecchio Lord che suonava sul grande organo del salone, proprio come faceva quando era vivo; ma chi fosse il vecchio Lord, o perché suonasse, e perché suonasse nelle tempestose serate d'inverno in particolare, lei non avrebbe potuto né saputo dirmi. Bene! Vi ho detto che sono coraggiosa, perciò pensai che era piuttosto piacevole avere quella musica grandiosa che rimbombava nella casa, chiunque fosse il suonatore; infatti a volte si innalzava sopra le forti raffiche di vento, e gemeva ed esultava come una creatura vivente, e poi cadeva in toni del tutto sommessi; solo che era sempre un motivo musicale, perciò era assurdo chiamarla vento. Pensai dapprima che potesse essere la signorina Furnivall che suonava, all'insaputa di Bessy; ma un giorno in cui ero nel salone da sola, aprii l'organo e sbirciai sopra ed intorno ad esso, come avevo fatto una volta tempo addietro con l'organo di Crosthwaite Church; vidi che all'interno era completamente distrutto, sebbene sembrasse così robusto e bello. Allora, sebbene fosse giorno pieno, cominciai a rabbrividire; lo chiusi, corsi via velocemente verso la mia camera, e per un certo periodo dopo questo episodio non mi piacque udire la musica, più di quanto non piacesse a James o a Dorothy. Nel frattempo la signorina Rosamond si faceva amare sempre di più. Le anziane signore gradivano la sua presenza durante il pranzo; James stava in piedi dietro la sedia della si- 78 ELIZABETH C. GASKELL gnorina Furnivall, e io dietro quella della signorina Rosamond, con gran pompa; e, dopo pranzo, ella giocava in un angolo del grande salotto, ferma come un topolino, mentre la signorina Furnivall dormiva, e io pranzavo in cucina. Ma le piaceva poi venire con me nella camera dei bambini; dato che, come diceva, la signorina Furnivall era così triste e la signora Stark così noiosa; invece lei e io eravamo sempre allegre; e, pian piano, arrivai a non far caso a quella misteriosa, insinuante musica, che non faceva alcun danno, purché non sapessimo da dove veniva. L'inverno fu molto freddo. A metà ottobre cominciò il gelo e durò per molte, molte settimane. Ricordo che un giorno, a pranzo, la signorina Furnivall sollevò i suoi occhi tristi e pesanti e disse alla signora Stark: «Temo che avremo un terribile inverno», con una strana, significativa espressione. Ma la signora Stark finse di non udire, e parlò a voce alta di qualcos'altro. La mia piccola dama e io non ci curavamo del gelo; non noi! Fintanto che non pioveva ci arrampicavamo lungo le scarpate dietro la casa, e andavamo su per le creste rocciose che erano esposte al vento e piuttosto brulle, e lì facevamo gare di corsa nell'aria fresca e tagliente; una volta scendemmo per un nuovo sentiero che ci portò oltre i due vecchi, nodosi alberi di agrifoglio che crescevano a metà strada lungo il lato orientale della casa. Ma i giorni si facevano sempre più corti; e il vecchio Lord — se era lui — suonava con sempre più tormento sul grande organo. Una domenica pomeriggio, deve essere stato verso la fine di novembre, chiesi a Dorothy di prendersi cura della piccola quando usciva dal salotto, dopo che la signorina Furnivall aveva fatto il suo sonnellino; perché era troppo freddo per portarla con me in chiesa, e tuttavia io volevo andarvi. Dorothy promise di farlo; era così affezionata alla piccola che tutto sembrava filare a meraviglia. Bessy e io uscimmo in fretta, sebbene il cielo gravasse pesante e scuro sopra la terra bianca, quasi che la notte non si fosse diradata del tutto; e l'aria, anche se immobile, era aspra e pungente. «Avremo una nevicata», mi disse Bessy. E infatti, già mentre eravamo in chiesa, la neve cominciò a venire giù fitta, a grandi fiocchi, così fitta che quasi oscurava le finestre. Smise LA STORIA DELLA VECCHIA NUTRICE 79 di nevicare prima che uscissimo, ma c'era uno strato soffice e spesso sotto i nostri piedi mentre arrancavamo verso casa. Prima che raggiungessimo il salone spuntò la luna e credo che ci fosse più luce, grazie alla luna o alla neve bianca e abbagliante, di quando eravamo andate in chiesa, tra le due o le tre. Non vi ho detto che la signorina Furnivall e la signora Stark non andavano mai in chiesa; esse erano solite leggere le preghiere insieme, in un loro quieto, malinconico modo; sembrava che per loro la domenica fosse molto lunga, con il lavoro di ricamo che le teneva occupate. Perciò quando andai da Dorothy in cucina, per prendere la signorina Rosamond e portarla di sopra con me, non mi meravigliai quando la vecchia mi disse che le signore avevano tenuto la piccola con loro, e che non era mai andata in cucina, come io le avevo ordinato di fare quando fosse stata stanca di stare in salotto. Perciò presi le mie cose e andai a cercarla, per portarla a cena nella sua cameretta. Ma quando entrai nel salotto vi trovai sedute le due anziane signore che, molto quiete e tranquille, si scambiavano di tanto in tanto qualche parola come se non ci fosse mai stata vicino a loro la luce dell'allegria della signorina Rosamond. Pensai che forse si era nascosta — era uno dei suoi giochi favoriti — e le aveva convinte a fingere di non saper nulla; perciò andai in silenzio a sbirciare dietro il divano, e dietro la sedia, facendo credere di essere seriamente spaventata nel non trovarla. «Cosa c'è, Hester?», chiese la signora Stark vivacemente. Non so se la signorina Furnivall si era accorta di me, poiché, come vi ho detto, era molto sorda, e continuò a sedere, ferma, fissando gravemente il fuoco, con la sua faccia inespressiva. «Sto solo cercando la mia piccola Rosy-Posy», risposi, ancora pensando che la bimba fosse lì, vicino a me, sebbene non potessi vederla. «La signorina Rosamond non è qui», disse la signora Stark. «Se ne è andata più di un'ora fa a cercare Dorothy». Si voltò anche lei e continuò a guardare il fuoco. A questo punto ebbi un tuffo al cuore, e desiderai di non aver mai lasciato la mia piccola. Ritornai da Dorothy e glielo dissi. James era uscito per tutta la giornata; così lei, io e Bessy prendemmo dei lumi e salimmo prima nella camera della bambina, poi girammo per la 80 ELIZABETH C. GASKELL grande casa, chiamando e supplicando la signorina Rosamond di venir fuori dal suo nascondiglio e di non spaventarci a morte in quel modo. Ma non ci fu risposta; nulla. «Oh!», dissi alla fine. «Può essere andata a nascondersi nell'ala est!». Ma Dorothy disse che non era possibile; che lei stessa non ci era mai stata, perché le porte erano sempre chiuse, e a quanto le risultava solo l'amministratore del padrone ne aveva le chiavi. Comunque, né lei né James le avevano mai viste. Allora dissi che sarei tornata a vedere se, dopo tutto, non fosse nascosta in salotto, all'insaputa delle due signore; e dissi che se l'avessi trovata lì l'avrei frustata ben bene, per la paura che mi aveva fatto prendere; ma certo non intendevo farlo davvero. Dunque, ritornai nel salotto a ovest, e dissi alla signora Stark che non riuscivamo a trovarla da nessuna parte, e chiesi il permesso di cercare dietro ai mobili, poiché pensavo che si poteva essere addormentata al caldo in qualche angolo nascosto; ma no! Cercammo dappertutto. La signorina Furnivall si alzò e guardò, tremando, in tutti gli angoli, ma la piccola non c'era; poi uscimmo di nuovo, tutti quelli della casa, e cercammo in tutti i posti dove avevamo cercato prima, ma non la trovammo. La signorina Furnivall rabbrividiva e tremava tanto che la signora Stark la ricondusse al caldo in salotto; ma non prima di avermi fatto promettere che l'avrei portata da loro, quando fosse stata ritrovata. Ohimè! Cominciavo a pensare che non sarebbe mai stata ritrovata, quando mi venne in mente di guardare fuori nel grande cortile antistante, tutto coperto di neve. Ero di sopra quando guardai giù; ma c'era una luna così luminosa che riuscii a vedere chiaramente due piccole impronte, che sembravano partire dalla porta d'ingresso e girare l'angolo dell'ala orientale. Non so come mi precipitai giù, ma aprii con furia il grande, pesante, portone; mi tirai la veste sulla testa a mo' di mantello e corsi fuori. Girai l'angolo; ma mi trovai in una zona completamente buia; quando però ritornai nella luce della luna, ritrovai le piccole impronte che salivano — salivano verso le rocce. Faceva molto freddo; così freddo che l'aria quasi mi strappava le pelle dal viso mentre correvo; ma continuai a LA STORIA DELLA VECCHIA NUTRICE 81 correre, piangendo al pensiero di come la mia povera piccina doveva essere stanca e spaventata. Ero in vista degli alberi di agrifoglio quando scorsi un pastore che scendeva per la collina, portando qualcosa tra le braccia, avvolto in una coperta. Egli mi gridò qualcosa, e mi chiese se avevo smarrito una bambina; e, poiché non potevo rispondere per il pianto, egli protese verso di me il suo fardello ed io vidi la mia dolce piecolina che giaceva immobile, bianca e rigida, tra le sue braccia, come se fosse stata morta. Il pastore mi raccontò di essere andato sulle rocce per radunare il suo gregge, prima che scendesse il freddo intenso della notte, e che sotto gli alberi di agrifoglio (macchie nere sul profilo della collina, dove per miglia attorno non c'erano cespugli) aveva trovato la mia bimba, il mio agnello, la mia regina, la mia dolcezza; rigida e fredda, nel terribile intorpidimento causato dal congelamento. Oh, la gioia, e le lacrime, nel riaverla tra le braccia! Non gliela lasciai portare; ma la presi in braccio, coperta e tutto, e mentre me la tenevo stretta al cuore, al caldo, sentii la vita che lentamente ritornava in quel piccolo tenero corpo. Ma non si era ancora riavuta quando arrivammo all'ingresso; e io non avevo più fiato per parlare. Entrammo attraverso la porta della cucina. «Portate il braciere», dissi; la trasportai di sopra, e cominciai a spogliarla vicino al fuoco, che Bessy aveva alimentato. Chiamai la mia creatura con tutti i dolci, teneri nomi che mi venivano in mente — mentre i miei occhi erano accecati dalle lacrime; e finalmente, oh! alla fine aprì i suoi occhioni blu. Allora la misi nel suo caldo lettino e spedii Dorothy al piano di sotto a dire alla signorina Furnivall che andava tutto bene; decisi di sedere al suo capezzale per quella lunghissima notte. Ella si addormentò dolcemente appena la sua testolina ebbe toccato il cuscino, e io la vegliai fino all'alba, quando si risvegliò tutta radiosa — così io subito pensai — e, miei cari, così penso anche ora. Mi disse che aveva pensato di andare da Dorothy, perché tutte e due le vecchie signore si erano addormentate, e si annoiava in salotto; e poi che mentre attraversava l'anticamera aveva visto la neve cadere soffice e fitta, attraverso l'alta finestra. La voleva vedere poggiarsi, candida e bella, sul terre- 82 ELIZABETH C. GASKELL no; perciò si era avviata verso il grande ingresso; e allora, andando alla finestra, l'aveva vista posarsi, luminosa e soffice, sul viale; ma, mentre stava lì, aveva visto una bambina, più piccola di lei, «ma così graziosa», come disse la mia piccina; «e questa bambina mi invitò a uscire; era così graziosa e così dolce, che non potei far altro che andare». E allora quest'altra bimba l'aveva presa per mano, e l'una accanto all'altra, erano andate oltre l'angolo est. «Siete una bambina impertinente e raccontate bugie», dissi, «che cosa direbbe la vostra dolce mamma, che è in cielo, e che non ha mai detto una bugia in vita sua, alla sua piccola Rosamond, se la sentisse — e io credo che la senta — dire le bugie?» «Veramente, Hester!», singhiozzò la mia piccina, «Ti sto dicendo la verità. Davvero!» «Non dite così!», risposi con severità. «Vi ho rintracciata grazie alle impronte sulla neve; si vedevano solo le vostre; se ci fosse stata un'altra bambina che saliva, dandovi la mano, sù per la collina, non credete che avrebbe lasciato le sue impronte accanto alle vostre?» «Non posso farci niente, cara, cara Hester», ella disse, in lacrime, «se non le ha lasciate. Non le ho mai guardato i piedi, ma con la sua piccola mano teneva stretta la mia, ed era una mano freddissima. Mi ha portato sul sentiero delle rocce, verso gli alberi di agrifoglio; e lì ho visto una signora che piangeva e singhiozzava; ma quando mi ha vista, ha smesso di piangere e mi ha rivolto un sorriso pieno di orgoglio e di dignità; mi ha preso sulle ginocchia e ha cominciato a cullarmi per farmi addormentare; è tutto qui, Hester — ma è la verità, e la mia cara mamma lo sa», disse piangendo. Allora pensai che la bambina stesse delirando, così finsi di crederle quando raccontò la sua storia di nuovo, e poi di nuovo ancora, sempre nello stesso modo. Alla fine Dorothy bussò alla porta con la colazione della signorina Rosamond; mi disse che le due signore erano già nella sala da pranzo, e che mi volevano parlare. Tutte e due erano state nella camera della bambina la sera precedente, ma la signorina Rosamond si era già addormentata; perciò l'avevano solo guardata senza rivolgermi alcuna domanda. «Adesso sentirò!», pensai tra me e me, mentre camminavo LA STORIA DELLA VECCHIA NUTRICE 83 lungo la galleria nord. «Eppure», ripresi coraggio, «era proprio a loro che l'avevo affidata; ed è colpa loro se ha potuto uscire inosservata.» Perciò entrai con sicurezza e raccontai ciò che avevo da raccontare. Parlai con la signorina Furnivall, gridandole dritto nell'orecchio; ma quando nominai la piccola bimba nella neve che con le sue moine l'aveva invitata a uscire e l'aveva condotta verso una nobile e bella signora sotto l'albero di agrifoglio, ella gettò le braccia al cielo — due vecchie braccia avvizzite — e gridò forte: «Oh, Cielo, perdono. Abbi pietà!». La signora Stark la afferrò; piuttosto bruscamente, mi parve; ma ella era fuori di sé e la signora Stark mi indirizzò una specie di pauroso ammonimento: «Hester, tenetela lontana da quella bambina! La porterà alla rovina! Quella perfida creatura! Ditele che quella è una bambina malvagia! ». Poi la signora Stark mi spinse in fretta fuori della stanza; dove, in verità, io fui molto felice di andare; ma la signorina Furnivall continuò a gridare: «Oh! abbi pietà! Non potrai mai perdonare? Sono passati tanti anni...». Rimasi piuttosto sconvolta. Non osai più lasciare la signorina Rosamond, né di giorno né di notte, per il timore che mi sfuggisse di nuovo, spinta da qualche fantasticheria; o ancor più perché temevo di aver scoperto che la signorina Furnivall era pazza, per lo strano modo in cui la trattavano; temevo che qualcosa di simile (che poteva essere ereditario, voi capite) potesse minacciare la mia cara bambina. Il tremendo gelo non passava mai; e ogni volta che c'era una notte più tempestosa del solito, tra le raffiche e il rumore del vento, udivamo il vecchio Lord suonare sul grande organo. Ma, fosse o non fosse il vecchio Lord, dovunque la signorina Rosamond andasse, io la seguivo; poiché il mio amore per lei, dolce orfana indifesa, era più forte della paura per quel solenne, terribile suono. Tra l'altro, spettava a me tenerla serena e allegra, come si conveniva alla sua età. Perciò giocavamo insieme, e giravamo un po' dappertutto; io non osavo perderla di vista una seconda volta in quella casa così vasta e piena di angoli sconosciuti. Così accadde che un pomeriggio, poco prima di Natale, stavamo giocando insieme sul tavolo da biliardo nel grande salone (non che ne fossimo capaci, ma le piaceva far rotolare le lisce palle di avorio con le sue mani- 84 ELIZABETH C. GASKELL ne, e a me piaceva assecondarla); gradatamente, senza che ce ne accorgessimo, nel salone si fece buio, sebbene fuori ci fosse ancora luce, e io stavo pensando di portarla in camera, quando all'improvviso, lei gridò: «Guarda, Hester! C'è la mia povera bambina fuori nella neve!». Mi girai verso le finestre, lunghe e strette, e lì vidi davvero una bambina più piccola di Miss Rosamond — vestiva in modo inadeguato all'aria gelida di una simile notte — che piangeva, e picchiava contro i vetri della finestra, come per chiedere di entrare. Sembrava che singhiozzasse e gemesse, tanto che la signorina Rosamond non riuscì a sopportarne la vista, e già correva verso la porta per aprirla, quando, tutt'un tratto, vicinissimo a noi, il grande organo tuonò così forte e rimbombante, che mi fece tremare; e per di più, mi venne allora in mente che, anche nel silenzio di quel terribile gelo, non avevo udito il suono delle piccole mani che battevano sul vetro della finestra, sebbene la Bimba Fantasma avesse apparentemente usato tutta la sua energia; e, sebbene l'avessi vista gemere e piangere, non mi era giunto all'orecchio il benché minimo rumore. Non so se ricordai tutto questo proprio in quel momento; il suono dell'organo mi aveva assordata, terrorizzandomi. Solo questo so: afferrai la signorina Rosamond prima che aprisse la porta d'ingresso e, tenendola stretta, la trasportai via, mentre urlava cercando di divincolarsi, fino alla grande cucina, dove Dorothy e Agnes erano impegnate a cucinare. «Che cosa ha la mia piccina?», esclamò Dorothy, quando portai dentro la signorina Rosamond, che singhiozzava come se le si spezzasse il cuore. «Non mi lascia aprire la porta per fare entrare la bambina; e lei morirà se resterà fuori nella neve tutta la notte. Crudele, cattiva Hester!», diceva, colpendomi; ma avrebbe potuto colpirmi anche più duramente e non ci avrei badato, perché avevo visto sul volto di Dorothy uno sguardo atterrito che mi aveva gelato il sangue. «Chiudi la porta posteriore della cucina, e assicurala bene con il chiavistello», ella disse a Agnes. Non disse altro; mi diede dell'uvetta e delle mandorle per acquietare la signorina Rosamond; ma questa singhiozzava, e parlava della piccina nella neve, e non volle nemmeno toccare quelle leccornie. Fui LA STORIA DELLA VECCHIA NUTRICE 85 felice quando alla fine si addormentò. Allora scivolai giù in cucina e dissi a Dorothy che avevo preso una decisione. Avrei portato la mia cara piccina a casa di mio padre, a Applethwhaite; laggiù la vita era modesta, ma serena. Dissi che mi ero spaventata a sufficienza con la faccenda dell'organo che suonava; adesso che avevo visto con i miei occhi questa bambina che si lamentava, tutta vestita come nessuna bambina dei dintorni poteva essere vestita, che picchiava per entrare, e senza che si potesse sentire alcun suono — con la ferita sulla spalla destra; ora che la signorina Rosamond l'aveva riconosciuta per il fantasma che l'aveva quasi portata alla morte (e Dorothy sapeva che era vero), non intendevo più sopportare quella situazione. Vidi Dorothy cambiare colore una o due volte. Quando ebbi finito disse che non credeva potessi portare con me la signorina Rosamond, perché era la pupilla del mio padrone, e io non avevo alcun diritto su di lei; e mi domandò se avrei avuto il coraggio di lasciare una bimba alla quale volevo tanto bene solo per dei rumori e delle visioni che non potevano farmi alcun male, e a cui tutti loro si erano adattati! Io ero tutta sconvolta e tremante; dissi che era facile parlare, per lei che sapeva cosa volevano dire quelle visioni e quei suoni e che, forse, aveva avuto a che fare con la bambina-fantasma mentre era ancora in vita. La convinsi a raccontarmi tutto quello che sapeva, e, alla fine, quasi desiderai che non m'avesse detto nulla, tanto ne rimasi spaventata. Disse che aveva sentito raccontare quella storia dai vecchi dei dintorni che erano ancora vivi al tempo del suo matrimonio; allora la gente veniva ancora in visita nel salone, prima che si facesse quella brutta fama in tutta la regione. Il vecchio Lord era il padre della signorina Furnivall — signorina Grace, come la chiamava Dorothy, dato che la signorina Maude era più grande e perciò il titolo di signorina Furnivall spettava a lei. Il vecchio Lord era divorato dall'orgoglio. Nessuno aveva mai conosciuto un uomo orgoglioso come lui; e le sue figlie erano come lui. Nessuno era considerato degno, quando si parlava del loro matrimonio, sebbene avessero da scegliere; infatti erano allora due bellissime ragazze, come avevo potuto notare dai loro ritratti appesi nel salotto 86 ELIZABETH C. GASKELL di rappresentanza. Ma, come dice un vecchio detto, «l'orgoglio non dà frutti»; quelle due splendide, altere fanciulle si innamorarono dello stesso uomo; si trattava di un semplice musicista che il loro padre aveva fatto venire da Londra perché suonasse con lui a Manor House. Il vecchio Lord, infatti, nonostante la sua alterigia, amava la musica più di ogni altra cosa. Sapeva suonare quasi tutti gli strumenti conosciuti; però, stranamente, la musica non lo inteneriva. Era un vecchio duro e ostinato che, si diceva, con la sua condotta aveva spezzato il cuore della povera moglie. Aveva una grande passione per la musica ed era pronto a spendere per assecondarla. Per tale motivo aveva fatto venire questo straniero, il quale pare suonasse così bene che perfino gli uccelli sugli alberi interrompevano il loro cinguettio per ascoltarlo. Piano piano, questo musicista acquistò un tale ascendente sul vecchio Lord che questi, ogni anno, lo attendeva ansiosamente; era stato lui che aveva fatto portare il grande organo dall'Olanda e lo aveva fatto montare nel salone, dove era ancora adesso. Egli insegnò al vecchio Lord a suonarlo, ma molto spesso, mentre Lord Furnivall era tutto preso dal suo organo e dalla sua musica, il bruno straniero andava a passeggio per i boschi con una delle due figlie, ora la signorina Maude, ora la signorina Grace. La signorina Maude ebbe la meglio, e fu la prescelta; si sposarono, all'insaputa di tutti. Prima ch'egli tornasse l'anno successivo ella aveva partorito una bimba in una fattoria della brughiera, mentre suo padre e la signorina Grace la credevano a Doncaster Races. Il matrimonio e la maternità non l'avevano affatto addolcita; anzi, era più altera ed irascibile che mai, forse perché gelosa della signorina Grace, alla quale suo marito rivolgeva qualche attenzione galante — per mantenere il loro segreto — come diceva lui alla moglie. Ma la signorina Grace sembrava sul punto di divenire la favorita e la signorina Maude diventava sempre più scontrosa, sia nei confronti della sorella che del marito. Questi si sottraeva a una situazione per lui ormai spiacevole, trattenendosi a lungo in paesi lontani. Quell'estate se ne partì un mese prima del solito, lasciandosi dietro l'impressione che non sarebbe più ritornato. Nel frattempo la bimba cresceva nella casa di campagna e LA STORIA DELLA VECCHIA NUTRICE 87 la madre almeno una volta a settimana faceva sellare il cavallo e si lanciava in una selvaggia cavalcata attraverso le colline per andarla a trovare; — ella, quando amava, amava davvero, e quando odiava, odiava fino in fondo. Il vecchio Lord continuava a suonare — a suonare l'organo, e la servitù pensava che quella dolce musica avrebbe addolcito il suo terribile carattere del quale (a detta di Dorothy) si raccontavano cose tremende. Si ammalò, e per camminare dovette servirsi di una stampella; suo figlio — padre dell'attuale Lord Furnivall — era in America con l'esercito, e poiché l'altro figlio si trovava in marina, la signorina Maude poteva fare quel che voleva. I rapporti fra lei e la sorella Grace divenivano di giorno in giorno più freddi ed ostili: alla fine non si parlarono quasi più, se non alla presenza del vecchio Lord. Il musicista straniero tornò l'estate successiva, ma fu quella l'ultima volta. Tanto gli amareggiarono la vita con le loro gelosie e le loro sfuriate che, dopo che fu ripartito, non se ne sentì più parlare. La signorina Maude, che da tempo aveva programmato di rendere pubblico il suo matrimonio alla morte del padre, si trovò sola, con un matrimonio segreto e una figlia adorata, ma che non osava riconoscere, a vivere con un padre che temeva e una sorella che odiava. Trascorsa l'estate successiva senza che lo straniero comparisse, le sorelle divennero entrambe tristi e cupe; avevano nello sguardo un'espressione di sofferenza che peraltro non toglieva nulla alla loro bellezza. La signorina Maude alle volte si consolava, perché il padre, che era sempre più preso dalla musica, diveniva ogni giorno più grave. Lei e la signorina Grace vivevano ormai del tutto separate, in camere diverse; l'una nel lato ovest e la signorina Maude in quello est, cioè nelle camere che ora erano chiuse. Ella pensò quindi di poter tenere con sé la figlioletta senza che nessuno venisse a saperlo, se non coloro che non avrebbero osato parlarne, e che avrebbero dovuto accettare la versione fornita da lei stessa, che cioè si trattava della figlioletta di un contadino ch'ella voleva tenere presso di sé. Tutto questo era risaputo, disse Dorothy; ma quel che accadde in seguito nessuno lo sapeva esattamente, tranne la signorina Grace e la signora Stark, che già da allora era la sua cameriera, e le era molto più vicina di quanto non lo fosse la 88 ELIZABETH C. GASKELL sorella. La servitù, da qualche allusione, da qualche parola sfuggita involontariamente, intuì che la signorina Maude, con il bruno straniero, aveva avuto ben più successo della signorina Grace. A questa fu reso noto l'inganno del corteggiatore, e il matrimonio segreto della sorella. A quella notizia i colori abbandonarono, per sempre, le guance e le labbra della signorina Grace; e più di una volta la si udì minacciare che prima o poi si sarebbe vendicata. La signora Stark cominciò ad essere usata come spia nelle camere ad est. In una terribile nottata, proprio all'inizio del nuovo anno, mentre una spessa coltre di neve copriva ogni cosa, e i fiocchi cadevano tanto fitti da annebbiare la vista di chiunque si trovasse all'aperto, si udì un forte, violento rumore; al di sopra di tutto la voce del vecchio Lord, che pronunciava terribili bestemmie e agghiaccianti maledizioni, e poi le grida di una bambina e gli orgogliosi toni di sfida di una donna altera. Un colpo, e un silenzio di morte, gemiti e pianti che si spegnevano in lontananza verso la collina. Il vecchio Lord radunò la servitù e comunicò a tutti, con terribili imprecazioni, che sua figlia era disonorata e che l'aveva cacciata di casa — lei e la sua bambina — e se qualcuno avesse osato andare in suo aiuto, o fornirle cibo o alloggio, sarebbe stato maledetto per sempre. La signorina Grace gli era accanto, pallida ed immobile, come pietrificata: quand'egli ebbe terminato, emise un lungo sospiro, come se si fosse liberata da un peso e avesse finalmente soddisfatto un antico desiderio. Da quel giorno il Lord non toccò più l'organo, e morì prima che l'anno fosse finito; né c'era da meravigliarsene! Infatti, la mattina successiva a quella notte di paura e di crudeltà, i pastori trovarono la signorina Maude seduta sotto gli alberi di agrifoglio, che, con un sorriso da demente, cullava una bimba morta, che aveva una brutta ferita sulla spalla destra. «Ma non fu quella ferita ad ucciderla», disse Dorothy, bensì il freddo ed il gelo. Ogni animale aveva la sua tana, ogni gregge il suo ovile — solo la bimba e la sua mamma erano state condannate a vagare tra le rupi! Ora sai tutto e mi chiedo se tu sia meno spaventata di prima!» Io avevo più paura che mai e non lo negai; avrei voluto che la signorina Rosamond e io fossimo lontane da quella casa spaventosa; ma non volevo lasciarla e non osavo portarla con LA STORIA DELLA VECCHIA NUTRICE 89 me. Ma quale guardia le facevo, e come la tenevo sotto il mio controllo! Serravamo a chiave le porte e chiudevamo le imposte un'ora prima del buio, piuttosto che correre il rischio di farlo con cinque minuti di ritardo. Ciò nonostante la mia piccola sentiva sempre i pianti ed i lamenti della sventurata bambina, né riuscivamo a distoglierla dal desiderio di soccorrerla e salvarla dal vento e dalla neve. In questo periodo mi tenni il più possibile lontana dalla signorina Furnivall e dalla signora Stark: avevo paura di loro — capivo che nulla di buono poteva venire da quegli occhi vitrei, sempre assorti nei cupi ricordi di anni ormai trascorsi. Eppure, nel mio timore, nutrivo per loro, soprattutto per la signorina Furnivall, una strana pietà. Coloro che scendevano nella fossa non potevano avere uno sguardo più disperato del suo! Alla fine provai una tale pena per lei — che non parlava se non quando ve la costringevano — che cominciai a pregare per lei; insegnai anche alla signorina Rosamond a pregare per chi aveva commesso grave peccato; ma spesso, mentre lo faceva, ella si fermava ad ascoltare, si alzava ed esclamava: «Sento la bimba lamentarsi e piangere disperatamente, lasciala entrare, o morirà!». Una notte, subito dopo Capodanno, udii il campanello del salotto ovest che suonava tre volte, per chiamarmi. Non volevo lasciare sola la signorina Rosamond, benché fosse addormentata, poiché il vecchio Lord aveva suonato con più disperazione che mai, e temevo che la mia piccina potesse essere svegliata dalla voce della bambina fantasma; sapevo però che non avrebbe potuto vederla, perché le imposte erano ben chiuse. Così la sollevai dal letto, l'avvolsi in alcune coperte e la portai giù nel salotto, dove le vecchie signore erano intente al solito ricamo. Alzarono lo sguardo quando entrai, e la signora Stark mi chiese stupita: «Perché mai avete strappato la signorina al caldo del suo letto?». «Perché temevo», sussurrai, «che potesse essere attirata dalla misteriosa bambina sulla neve». Mi interruppe bruscamente (con un'occhiata alla signorina Furnivall) e disse che la signorina Furnivall desiderava che disfacessi un lavoro sbagliato, che nessuna delle due riusciva a riprendere. Adagiai la mia piccina sul divano e sedetti su di uno sgabello vicino a loro, cercando di indurire il mio cuore, perché sentivo il vento alzarsi e ululare. La signorina Rosamond dormiva, malgrado il frastuono 90 ELIZABETH C. GASKELL del vento che fischiava, la signorina Furnivall non diceva una parola, né alzava lo sguardo, quando le raffiche facevano tremare le finestre. Ma tutt'a un tratto ella si alzò e sollevò una mano, come per imporci silenzio. «Sento delle voci», disse, «sento delle urla terribili — sento la voce di mio padre!» Proprio in quel momento la mia piccola si destò con un sobbalzo: «La mia piccola amica sta piangendo, oh come sta piangendo!». Cercò di alzarsi per andare da lei, ma si trovò i piedi impigliati nella coperta, ed io l'afferrai perché non cadesse. Tutto il mio corpo era scosso da brividi, a sentire parlare di questi rumori e di queste parole che noi non potevamo udire. Ma in pochi minuti crebbero fino a giungere anche alle nostre orecchie, e così udimmo voci, urla, lamenti, invece dell'infuriare del vento invernale. La signora Stark e io ci guardammo, ma non osammo parlare. Improvvisamente la signorina Furnivall si avviò verso la porta, attraversò l'anticamera, passando per il corridoio ovest, e aprì la porta del grande salone. La signora Stark la seguì e io non osai rimanere sola, anche se il mio cuore sembrava sul punto di fermarsi per la paura. Tenendo stretta fra le braccia la piccola andai con loro. Nel salone le grida erano ancora più forti; sembravano provenire dall'ala est, e avvicinarsi sempre più alle porte chiuse a chiave. Notai allora che il grande candelabro d'argento appariva tutto illuminato, anche se la sala era al buio e un fuoco ardeva nel vasto camino, ma senza dare calore; rabbrividii di terrore e strinsi ancora di più la mia bambina. Ed ecco che improvvisamente la porta est tremò e lei, divincolandosi per liberarsi, si mise a gridare: «Hester, devo andare! La mia bambina è lì; la sento, sta venendo! Hester, devo andare!». La tenni stretta con tutte le mie forze; la stringevo a me con grande decisione. Anche se fossi morta le mie mani sarebbero rimaste aggrappate a lei, tanto radicata nella mia mente era questa volontà. La signorina Furnivall rimaneva in ascolto, senza far caso alla mia piccina che ora era a terra, e a cui io, in ginocchio, cingevo il collo con le braccia, mentre lei continuava a gridare e ad agitarsi per liberarsi. All'improvviso la porta est cedette con un grande frastuono, come spalancata da una forza irresistibile, e in una vivida LA STORIA DELLA VECCHIA NUTRICE 91 e misteriosa luce, entrò un uomo alto, con i capelli grigi e gli occhi scintillanti. Spingeva, con un'espressione di odio implacabile, una donna bellissima, che procedeva rigida, con una bimba aggrappata alle vesti. «Oh Hester! Hester», urlò la signorina Rosamond. «È la signora. La signora che era sotto l'albero di agrifoglio; e la mia bambina è con lei. Hester! Hester! Lasciami andare da lei; mi chiamano, lo sento. Devo andare!» Faceva sforzi convulsi per staccarsi e io la tenevo tanto stretta da temere di farle del male; ma sarebbe comunque stato meglio che consentirle di avvicinare quei fantasmi terrificanti! Essi avanzarono verso la grande porta del salone, dove i venti ululavano e infuriavano in cerca di preda; prima di raggiungerla, la donna si voltò, sfidando il vecchio con altero disprezzo, ma subito ebbe paura e con un gesto disperato sollevò le braccia per proteggere la figlia, la sua piccina, da un colpo della stampella, che era già alzata. La signorina Rosamond era più sconvolta di me, e rabbrividì fra le mie braccia singhiozzando (la povera piccina a questo punto si sentiva mancare). «Vogliono ch'io vada sulle rupi con loro, mi chiamano. Oh, piccola mia! Vorrei venire, ma questa malvagia e crudele Hester mi trattiene a forza!» Ma quando vide la gruccia alzata, svenne e io ne resi grazie a Dio. In quel momento, mentre il vecchio, con la chioma scarmigliata e ondeggiante, stava per colpire la bambina atterrita, la signorina Furnivall, accanto a me, esclamò: «Padre, padre! Risparmia la bambina innocente!». Allora io vidi, noi tutti vedemmo, un'altra figura materializzarsi e farsi distinta nella incerta luce azzurrognola della sala; nessuno l'aveva vista finora: era un'altra figura di donna, accanto a quella del vecchio, con uno sguardo carico di odio implacabile e di trionfante disprezzo. Era molto bella, con un ampio e morbido cappello bianco, un po' ripiegato in avanti sulla fronte orgogliosa e le labbra vermiglie atteggiate in un'espressione di disprezzo. Indossava un abito di satin blu aperto sul davanti; io avevo già visto quell'immagine. Era quella della signorina Furnivall da giovane. I paurosi fantasmi avanzavano, incuranti della supplica della signorina Furnivall. La gruccia colpì la spalla destra 92 ELIZABETH C. GASKELL della bambina, mentre la sorella più giovane guardava con atroce impassibilità. In quel momento le deboli luci e il fuoco senza calore si spensero e la signorina Furnivall cadde ai nostri piedi, colpita da paralisi — vicina alla morte. Quella notte fu portata nel suo letto; non se ne alzò mai più. Giaceva con il volto verso il muro, mormorando piano, ma continuamente: «Ahimè! Alle colpe di gioventù non si può porre rimedio in vecchiaia! Alle colpe di gioventù non si può porre rimedio in vecchiaia!».
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