La materia artificiale: Polimeri e materie plastiche Morlotti Andrea 5° B Eco A.A 2013/2014 6) Tecniche di analisi 1) Cosa sono i polimeri (introduzione) 5) Degradazione delle materie plastiche 4) Classificazione polimeri La materia artificiale: polimeri e materie plastiche 2) Caratteristiche (lineari,ramificati,reticolar i -tatticità,disposizione 3) Sintesi polimeri e materie plastiche La materia artificiale: 1) Cosa sono i polimeri? I polimeri sono macromolecole formate da catene o da reticoli di piccole unità ripetitive. Sono molecole con pesi molecolari dell’ordine di centinaia, di migliaia o spesso di milioni. Un polimero lineare è una molecola di polimero in cui gli atomi sono disposti in una lunga catena, chiamata catena principale. Agli atomi della catena principale si possono attaccare atomi singoli o piccole catene ( gruppi laterali). Gli atomi che costituiscono la catena principale si ripetono in modo regolare, e questo ordine si ripete per tutta la lunghezza della catena polimerica. Per esempio, nel polipropilene, la catena principale è costituita da due atomi di carbonio che si ripetono regolarmente; un atomo di carbonio ha due atomi di idrogeno legati l’altro ha un atomo di idrogeno e un gruppo metilico laterale. Questa piccola struttura ricorrente si chiama unità strutturale o, come è più comunemente chiamata, monomero. Nei polimeri ramificati si hanno catene attaccate alla catena principale che sono di lunghezza comparabile alla catena principale stessa. Alcuni polimeri, come il polietilene, si possono produrre sia nella forma lineare che nella forma ramificata. Quando il campione diventa un'unica grande molecola i polimeri sono detti polimeri reticolari ; molte gomme appartengono a questa categoria (poliisoprene, polibutadiene). Un pneumatico di fatto è un'unica enorme molecola. Anche una palla da bowling contiene una sola molecola. A volte non si distingue più una catena principale, di fatto il polimero è costituito in modo che dalle ramificazioni crescono ramificazioni da cui crescono ramificazioni e cosi via. Questi sistemi si chiamano dendimeri. La tatticità è il modo in cui i sostituenti sono disposti rispetto alla catena principale in un polimero. I gruppi sostituenti tendono ad orientarsi lontani dalla catena principale. ( come nel poliestere) Se tutti i gruppi (in questo caso il gruppo fenilico) sono dalla stessa parte della catena diciamo che il polimero è isotattico. Se i gruppi sono alternativamente da una parte all’altra della catena, si dice che il polimero è sindotattico. Se i gruppi sono da entrambi i lati senza un particolare ordine, in modo casuale, diciamo che il polimero è atattico. Quando un polimero è costituto dall’unione di molecole piccole di un solo tipo viene detto omopolimero, mentre quando alla catena vengono uniti di monomero prende il nome di copolimero. I due diversi monomeri possono entrare nel copolimero in modi differenti: possono essere disposti in modo alternato, in questo caso prende il nome di copolimero alternato; possono presentarsi in qualsiasi ordine, copolimero statistico o random; oppure tutti i monomeri di un tipo possono essere raggruppati, copolimero a blocchi. Quest’ultimo tipo può essere visto come l’unione di due omopolimeri per le estremità terminali. Il poli(stirene-butadiene-stirene) o gomma SBS è un esempio di copolimero. È una gomma resistente usata per le suole di scarpe e pneumatici; ha nella durata la propria caratteristica fondamentale. Stirene Butadiene Questa gomma è un copolimero a blocchi il cui scheletro è costituito da tre segmenti, il primo e l’ultimo sono una lunga catena di polistirene, il pezzo centrale invece è polibutadiene. Polimerizzazione La polimerizzazione è il processo mediante il quale le piccole unità di molecole organiche, i monomeri, si uniscono in catena fra loro per formare il prodotto finale: il polimero, quindi le materie plastiche. Esistono diverse reazioni che portano alla formazione di un polimero: Polimerizzazione Polimerizzazione a catena Cationica Anionica Radicalica Polimerizzazione a stadi Per condensazione Per addizione Polimerizzazione radicalica Avviene attraverso reazioni a catena iniziate da radicali. Le reazioni a catena avvengono in 3 fasi: 1) Formazione dei radicali primari: le reazioni piu comuni sono la degradazione termica di perossidi o azocomposti. Radicali primari 2) Il radicale primario reagisce con il monomero a dare un nuovo radicale 3) Fase di propagazione: Il nuovo radicale reagisce con altri monomeri e si ottiene l’allungamento della catena. In questo modo possono essere sintetizzate materie plastiche come il polietilene, il polipropilene e il polistirene. Polimerizzazione cationica e anionica Nella polimerizzazione cationica la catena è iniziata da specie elettrofile (acido solforico,acidi di Lewis). Dalla reazione dell’acido con il monomero, si forma un carbocatione (composto organico carico positivamente). Esso reagisce con altri monomeri per ottenere l’allungamento della catena. Nella polimerizzazione anionica si esegue lo stesso procedimento, ma la catena è iniziata da specie nucleofile. Polimerizzazione a stadi La polimerizzazione avviene attraverso la reazione tra monomeri aventi almeno due gruppi funzionali. Possiamo avere reazioni di condensazione o addizione. Nelle reazioni di condensazione viene eliminata una piccola molecola, ad esempio tra acidi e alcoli si formano i poliesteri. formazione molecola di HCl Nelle reazioni di addizione avviene un addizione ad un doppio legame, utilizzata per la produzione di resine, materiali plastici come le poliammidi (Nylon) e poliuretani. Polimerizzazioni di coordinazione Questa tecnica si è sviluppata in seguito alla scoperta dei chimici Giulio Natta e Karl Ziegler negli anni ‘50. I catalizzatori Ziegler-Natta sono composti organometallici di metalli di transizione (tipicamente il titanio) che permettono di controllare la sintesi dei polimeri. Si possono ottenere polimeri controllati stereochimicamente: - polimeri lineari, mentre con la polimerizzazione non catalizzata si ottengono polimeri ramificati. – polimeri isotattici e sindotattici, senza catalizzazione si formano polimeri atattici. I catalizzatori agiscono formando un legame di coordinazione con il monomero I polimeri possono essere classificati in base alle loro caratteristiche di lavorabilità ed impiego in: Materiali termoplastici Plastomeri (materie plastiche) Materiali termoindurenti Elastomeri; Fibre. I materiali plastici se sottoposti alla sollecitazione meccanica si allungano e restano nella forma imposta. Gli elastomeri invece ritornano alla loro forma originale. Materiali plastici Le materie plastiche sono perfettamente plasmabili, il che significa che si possono formare e stampare facilmente. I materiali termoplastici sono polimeri che possono essere ulteriormente lavorati dopo la sintesi. Possono essere sia lineari che ramificati. I polimeri che dopo la formatura non si possono piu fondere sono i termoindurenti. Presentano una struttura reticolare. Alcuni polimeri termoplastici sono il polietilene, polipropilene, polistirene,poliesteri, policarbonati, polivinilcloruro, poliammidi e polimetacrilato. Alcuni polimeri termoindurenti sono i poliuretani, i poliesteri e resine epossidiche. Elastomeri (o gomme) Gli elastomeri sono polimeri caratterizzati da un alto grado di elasticità. L’elasticità è la tendenza a tornare alla forma originale in seguito a una sollecitazione meccanica. Le molecole di un elastomero se tirate non restano allineate, ma tendono a tornare alla forma originale aggrovigliata. Per migliorare le loro proprietà gli elastomeri vengono reticolati cioè vengono formati dei reticoli con legami covalenti tra le diverse catene polimeriche, unendole in un unico reticolo tridimensionale. In questo modo, quando le catene sono unite tra loro, è ancora piu difficile far cambiare la loro posizione originale. Questo però rende difficile il riciclo degli elastomeri. Un esempio di elastomero è il polibutadiene, polimero dell’isoprene. I polibutadieni possono essere trattati allo scopo di aumentare durezza e resistenza. A questo scopo le catene che si formano vengono reticolate tramite il processo della vulcanizzazione, in cui vengono formati dei ponti di zolfo tra le catene. Le fibre Una fibra polimerica è un polimero le cui catene sono completamente allungate (o allungate quasi completamente) ed allineate una vicino all’altra, sullo stesso asse. I polimeri disposti in questo modo possono essere filati ed usati come fibre tessili. Molti indumenti sono realizzati con fibre polimeriche. Alcuni polimeri che possono essere trasformati in fibre sono: poliammidi (nylon), poliesteri, poliacrilonitrili (fibre acriliche), poliuretani, fibre aramidiche ( Nomex, kevlar) e polietilene ad alta densità. Tra le fibre sono presenti forze intermolecolari (legami a idrogeno, legami dipolodipolo etc) che mantengono l’allineamento delle fibre e aumentano la resistenza allo scorrimento Questi legami a idrogeno ed altre interazioni secondarie tra ogni singola catena trattengono le catene in modo molto efficace, così fermamente che non scivolano una sull’altra. Significa che quando si tira una fibra di nylon non si allunga molto, o per niente. È il motivo per cui le fibre sono utili per essere utilizzate come corde e fili. I materiali compositi Un composito è un materiale formato da una matrice polimerica rinforzata con una fibra. Tra i materiali usati come rinforzo abbiamo: Fibre di vetro: ottenute per filatura a caldo di vetri a composizione variabile Fibre di carbonio: sottili filamenti costituiti da carbonio elementare Poliammidi Poliesteri Fibre aramidiche: poliammidi aromatiche come il Kevlar e il Nomex Cristallinità polimeri I polimeri, e di conseguenza anche tutte le materie plastiche, si possono presentare disposti in maniera ordinata oppure formando un grande groviglio, senza un ordine preciso. Nel primo caso il polimero è detto cristallino nel secondo invece è detto amorfo. La maggior parte dei polimeri tende inoltre a ripiegarsi su loro stessi; gli unici che tendono ad allungarsi completamente sono i materiali fibrosi (fibre). Per il polietilene la lunghezza delle catene arriverà fino a 100 A prima che le catene si ripieghino. Inoltre non si limitano a ripiegarsi, ma formano dei “pacchi”. Talvolta una parte della catena è racchiusa nel cristallo e un’altra parte non lo è. Quando questo accade otteniamo disordine. Le lamelle non sono più ordinate e regolari, ma presentano catene ramificate. In questo caso una parte del polimero è cristallino ed una parte non lo è. Quasi tutti i polimeri cristallini non lo sono completamente. Possiamo quindi affermare che i polimeri cristallini sono composti da 2 parti: quella cristallina e quella amorfa. La frazione cristallina è nelle lamelle mentre quella amorfa è al loro esterno. materiale resistente, ma lo rende altrettanto fragile. Un polimero totalmente cristallino sarebbe troppo fragile per poter essere utilizzato come materia plastica. Le regioni amorfe danno al materiale tenacità ossia la capacità di piegarsi senza rompersi. La struttura polimerica influenza di gran lunga la cristallinità. Se la struttura è regolare ed ordinata formerà facilmente cristalli. Se non lo è non lo farà. Ad esempio il polistirene atattico è amorfo, il polistirene sindotattico è cristallino. Un buon esempio è rappresentato dal nylon: i gruppi ammidici polari nella catena principale del nylon 6,6 sono fortemente attratti l’uno all’altro e tra di essi si formano legami idrogeno molto forti che tengono insime i cristalli. Transizione vetrosa Raffreddando un polimero amorfo si ottiene un solido con caratteristiche plastiche o gommose. Raffreddando ulteriormente si ottiene la perdita della plasticità o elasticità e si forma un solido rigido. La transizione di fase è detta transizione vetrosa (Tg) ed è molto importante sapere se Tg è maggiore o minore della temperatura d’utilizzo del polimero. liquido Liquido Temperatura di fusione (Tf) Temperatura Solido amorfo plastico o gommoso di fusione (Tf) temperatura Solido cristallino Temperatura di transizione vetrosa Solido amorfo rigido Degradazione delle materie plastiche La degradazione è un processo che porta alla modificazione chimica del polimero ed influisce sulle sue proprietà meccaniche e fisiche. Sono processi chimicamente complessi. Possiamo avere: Degradazione termica: dovuta al riscaldamento; Degradazione fisica: dovuta alla raffreddamento al di sotto della temperatura di transizione vetrosa; Degradazione fotochimica: dovuta alle radiazioni, in particolare le radiazioni UV; Ossidazione: da parte dell’ossigeno. In tutti questi casi possiamo avere la modificazione dei gruppi funzionali, la rottura delle catene polimeriche sino alla liberazione dei composti volatili. Per limitare la degradazione vengono utilizzate sostanze antiossidanti. Nei polimeri biodegradabili la degradazione avviene ad opera di enzimi e micorganismi. Degradazione chimica Il termine “degradazione” si riferisce all’alterazione della struttura chimica delle plastiche, delle gomme e delle fibre. Tale variazione causa una diminuizione o un aumento del peso molecolare con conseguente deterioramento delle proprietà meccaniche. La degradazione dei polimeri ha interessato gli scienziati sin da quando i materiali naturali come la gomma iniziarono ad essere usate durante il XIX secolo. Nel 1930 con lo sviluppo delle moderne industrie plastiche, la conoscenza della natura dei processi di deterioramento assunse molta importanza. Inoltre si scoprì che piccole concentrazioni di additivi avevano un effetto benefico sulla stabilità del materiale. Più il deterioramento era conosciuto, più intelligentemente questi additivi potevano essere utilizzati. Solo tra il 1945 e il 1950 gli scienziati iniziarono ad interessarsi ai fenomeni chimici di degradazione dei polimeri. I materiali polimerici esposti all’atmosfera subiscono processi di degradazione che si manifestano con un generale abbassamento delle proprietà meccaniche. Gli studi eseguiti indicano i processi fotochimici come i principali responsabili della degradazione. I risultati di questi studi rivestono una grande importanza tecnologica; in base a questi sono stai messi a punto sistemi stabilizzanti estremamente efficaci che hanno permesso l’utilizzo di materiali facilmente degradabili. La maggior parte dei materiali è esposta a condizioni ambientali che portano alla degradazione e alla rottura ( per esempio raggi solari, ossigeno ed ozono atmosferici, umidità, temperature estreme, solventi, agenti chimici corrosivi). Molte di queste condizioni avvengono in presenza di uno stato tensionale nel polimero e l’effetto di degradazione può essere nettamente più distruttiva rispetto alla singola azione. La rottura può avvenire dopo molto tempo (anche anni) o in maniera rapida (giorni o settimane). Per questo sono stati attuati test di invecchiamento accelerato al fine di predire il comportamento di un nuovo materiale e per facilitare il miglioramento del polimero tramite aggiunte di additivi stabilizzanti. La degradazione delle plastiche avviene a causa di un deterioramento nella loro struttura chimica. Questo deterioramento non è necessariamente causato da acidi concentrati o solventi ma può avvenire per mezzo di sostanze apparentemente innocue come a ad esempio l’acqua (idrolisi) e l’ossigeno (ossidazione), ritenuto il più importante agente degradante. L’ossidazione può essere indotta e accelerata dalla radiazione (fotossidazione) o dall’energia termica (termo-ossidazione). È causata dal contatto con acidi ossidanti, dall’esposizione ai raggi UV, da una prolungata esposizione a eccessivo calore o dall’esposizione ad agenti atmosferici. L’effetto è un deterioramento delle proprietà meccaniche. All’interno della degradazione ossidativa, un'altra fonte di degradazione è quella idrolitica ad opera di acqua e acidi. L’idrolisi è un problema per i polimeri di condensazione; è una forma di degradazione dovuta al contatto con l’acqua, o più precisamente con gli ioni idrogeno (H+) e gli ioni ossidrili (OH-) in acqua. L’attacco dell’acqua può essere veloce se la temperatura è sufficientemente alta, mentre quello degli acidi dipende dalla resistenza che il polimero oppone a quest’ultimi. Certi gruppi come esteri e ammidi sono particolarmente sensibili all’idrolisi e questo fa si che siano inclini sia all’attacco sia degli acidi sia degli alcali. Laddove questi gruppi sono localizzati all’interno della catena principale l’idrolisi porta immancabilmente alla scissione della catena e alla riduzione del peso molecolare. La degradazione delle plastiche è anche causata dal calore, dagli sforzi e dalle radiazioni. Durante la formatura il materiale è sottoposto sia all’effetto del calore, sia ad uno strato di tensione, pertanto è necessario aggiungere degli stabilizzanti e degli antiossidanti all’interno delle plastiche per conservare le proprietà del materiale; questi additivi aiutano anche a ritardare la degradazione durante la vita di utilizzo del prodotto. Per quanto riguarda i polimeri è largamente riconosciuto che i materiali plastici cristallini esibiscono una maggior resistenza chimica rispetto a quelli amorfi a causa della diversa struttura di queste due classi di materiali. Le plastiche semicristalline quindi offrono un interessante combinazione tra capacità di sopportare carichi applicati e buona resistenza chimica. Invecchiamento fisico Con invecchiamento fisico si indica l’insieme dei fenomeni cui sono sottoposti i materiali polimerici quando, raffreddati al di sotto della propria temperatura di transizione vetrosa, non essendo in uno stato di equilibrio termodinamico, subiscono lente variazioni conformazionali che portano ad un raggiungimento di tale equilibrio. È necessario conoscere la natura di questo tipo di fenomeni e delle rilevanti implicazioni che questi hanno su alcune proprietà meccaniche sia su materiali amorfi sia su materiali semicristallini. Quando un materiale polimerico viene raffreddato al di sotto della sua temperatura di transizione vetrosa (Tg), occorre un certo tempo per raggiungere lo stato di equilibrio termodinamico; durante questo periodo di tempo le proprietà del materiale variano sensibilmente. Il tipo di raffreddamento gioca un ruolo fondamentale sui fenomeni di invecchiamento fisico. Se si raffredda velocemente, raggiunta la temperatura finale, il polimero si troverà piu lontano rispetto allo stato di equilibrio termodinamico rispetto ad un raffreddamento lento. Questi fenomeni sono di importanza basilare quando si trattano materiali che vengono ottenuti tramite processi di trasformazione che comportano un raffreddamento rapido del materiale o del manufatto finale. Al contrario dell’invecchiamento chimico, quello fisico è un fenomeno termo reversibile; infatti è sufficiente riscaldare al di sopra della propria Tg per un periodo breve per permettere al materiale di “ dimenticare” la propria storia termica e riacquistare le proprietà che aveva prima dell’invecchiamento. Le temperature nel quale avvengono fenomeni di invecchiamento fisico talvolta possono essere vicine o coincidenti alle temperature di uso comune del materiale e quindi gli effetti dell’invecchiamento fisico sulle proprietà dei materiali stessi possono essere molto importanti. Vi sono alcuni aspetti generali che caratterizzano l’invecchiamento fisico dei materiali. L’effetto principale è quello di rendere il materiale maggiormente rigido e di conseguenza anche più fragile. Inoltre si verifica una diminuizione di resilienza, in modo particolarmente marcato per i polimeri più tenaci. Un’altra proprietà meccanica ad essere influenzata è il valore del carico di snervamento, influenzato a sua volta dal tempo di invecchiamento fisico subito dal materiale. Principali prove: fisiche, meccaniche e chimiche Le principali prove che possono essere effettuate su un campione di materiale plastico di tipo termoplastico possono essere di 3 tipi, cioè fisiche, chimiche o meccaniche. Le principali prove effettuate sono: Indice di fluidità Prova di trazione Resistenza all’urto Prove termiche Spettroscopia infrarossa (IR) Calorimetria a scansione differenziale (DSC) Indice di fluidità La prova ha lo scopo di determinare l’indice di fluidità dei materiali termoplastici con il metodo del plastometro capillare. La prova consiste nell’inserire il materiale in granuli all’interno di un fornetto cilindrico riscaldato, in modo da portarlo allo stato fuso, e facendolo fluire dopo un determinato tempo attraverso un capillare di deflusso, in condizioni di temperatura e di pressione di prova definite in base al materiale utilizzato. Viene determinato il quantitativo di materiale estruso rispetto ad un tempo definito espresso in (g/10’ o cm3/10’). Durante l’estrusione del materiale si nota un rigonfiamento nello spaghetto in uscita dal cilindro; questo sta ad evidenziare la natura viscosa ed elastica (soprattutto la componente elastica) dei polimeri che provoca l’espansione dello spaghetto quando viene meno la costrizione fisica. L’operatore al termine della prova deve pesare i pezzi di spaghetto, ottenuti mediante taglio effettuato all’uscita del capillare da una lametta ad intervalli di tempo predefiniti, riportando il peso medio ottenuto considerando il tempo di taglio realmente utilizzato. Il tempo di taglio viene scelto in finzione della fluidità del materiale ed è tanto maggiore più questo è viscoso ( in modo da ottenere pezzi lunghi circa 1-2 cm). Le principali norme riferite alla prova sono la ISO 1133 e la ASTM D 1238 che sono equivalenti tranne per il tempo di riscaldamento che per la prima è di 4 minuti, mentre la seconda di 6 minuti. Le normative definiscono anche, a seconda del tipo di materiale, le temperature a cui eseguire la prova. È importante specificare sempre insieme all’indice di fluidità anche le condizioni di prova, in modo che tale valore possa essere confrontato operativamente o rispetto a dei riferimenti. Per alcuni materiali come poliammidi policarbonati e ABS è fondamentale essiccare i campioni per eliminare l’umidità all’interno dello stesso, essa andrebbe a compromettere seriamente i valori di fluidità. Prova di trazione La prova di trazione è quella maggiormente richiesta quando si vogliono definire le caratteristiche meccaniche dei materiali. Esso consiste nel sollecitare lungo l’asse longitudinale un provino di materiale plastico di determinate dimensioni, tramite una macchina chiamata dinamometro, registrando nel corso della prova la forza necessaria a tirare il provino e la sua deformazione tramite l’applicazione di un estensimetro sul provino stesso. La traversa mobile si sposta attraverso 2 colonne parallele e il provino viene afferrato da due morsetti posti rispettivamente sulla colonna e sul basamento della macchina. Il provino ha le due estremità allargate rispetto alla sezione rettangolare centrale. Questa forma, definita a osso di cane o a farfalla, ha lo scopo di fare in modo che la rottura avvenga nella zona utile centrale. La prova può essere effettuata utilizzando provini stampati ad iniezione o ricavati dalla lavorazione di manufatti, semilavorati o film. Da questa prova si ricavano valori di importanti proprietà dei materiali ricavate da una curva forza-deformazione. La curva che si ricava è costituita da 4 parti corrispondenti ad altrettanti modi di trasformare il lavoro fatto dal dinamometro sul provino. La prima parte riguarda una trasformazione di tipo elastico reversibile. La seconda comprende,oltre alla trasformazione elastica, l’inizio del processo di deformazione plastica cioè un processo irreversibile che presenta un valore di carico massimo corrispondente al punto di snervamento del materiale. La terza parte riguarda essenzialmente il processo di deformazione plastica con conseguente sviluppo di calore. Nella quarta fase si ha una trasformazione associata ad un processo noto come strain hardeing che porta alla rottura del materiale. Le fondamentali proprietà che si possono ottenere da una prova di trazione sono: Modulo elastico Sollecitazione a snervamento Allungamento percentuale a snervamento Sollecitazione a rottura Allungamento percentuale a rottura Le norme più utilizzate per l’esecuzione della prova sono la ISO 527/1-2-3 e l’ASTM D 638. La differenza tra le 2 sta nelle dimensioni del provino. Entrambe prevedono l’utilizzo di almeno 5 provini per ogni test per determinare valori medi ritenuti significativi. Prove di resistenza all’urto Izod e Charpy Nelle prove meccaniche come ad esempio nella prova di trazione il materiale sollecitato assorbe energia lentamente. Nelle condizioni effettive d’impiego invece i materiali assorbono le forze applicate molto velocemente come a causa della caduta di oggetti, colpi, collisioni. Lo scopo delle prove d’urto è simulare queste collisioni. Per studiare il comportamento di materiali plastici esposti a sollecitazioni d’urto specifiche si usano provini di forma standard per valutarne la fragilità o la tenacità secondo metodi Izod e Charpy . i due tipi di prova non sono confrontabili tra loro e può anche accadere che un materiale si comporti meglio di un altro in un prova mentre nell’altra la situazione si capovolga. Entrambe le prove vengono eseguite con con un apparecchio di percussione a pendolo, in cui il provino viene colpito dalla mazza battente lasciata cadere da una data altezza e il materiale viene così sollecitato di taglio. Dopo la rottura (non sempre è l’esito finale della prova) l’energia residua fa risalire la mazza battente e la differenza tra l’altezza di caduta e l’altezza di ritorno viene utilizzata dallo strumento per calcolare l’energia necessaria per provocare la rottura del provino espressa in Joule. Le prove possono essere eseguite a temperature diverse da quella dell’ambiente mediante apposite apparecchiature. Questo tipo di prove non sono adatte per materiali morbidi o flessibili in quanto il provino non viene rotto poiché la mazza colpendolo lo flette e passa oltre. Le norme per quanto riguarda i 2 tipi di prova differiscono in quella ISO (ISO 180 per Izod e ISO179 per Charpy), mentre rimangono uguali per la ASTM D( ASTM D 256) Nella prova Izod il provino viene posizionato verticalmente nel portavetrini , dal quale emerge per metà,dove viene serrato. Ad esso, di forma rettangolare, viene applicata un incisione al centro. La mazza deve colpire il provino dove è presente il taglio. Questo test tuttavia ha scarsa attinenza pratica con il comportamento all’urto nelle condizioni effettive di impiego. Questo a causa della diversa sensibilità all’intaglio dei materiali, la prova Izod penalizza alcuni tipi di materiali rispetto ad altri. Nella prova di resistenza all’urto di Charpy il provino viene appoggiato a due appoggi che presentano due spalline che lo trattengono dopo l’urto. La distanza tra i due appoggi è un parametro che influisce sul risultato finale della prova e per questo le norme definiscono per ogni tipo di provino la relativa misura. Anche per questa prova c’è la possibilità di eseguire l’intaglio, a V o a U, oppure utilizzare il provino non intagliato. Nel caso sia previsto l’intaglio il provino viene colpito dalla parte opposta ad esso. Prove Vicat e HDT Il comportamento di tutte le materie plastiche , in modo particolare dei materiali termoplastici, è notevolmente influenzato dalla temperatura di impiego. I polimeri termoplastici subiscono importanti variazioni di proprietà a seconda delle temperature che si manifestano. I polimeri amorfi rammolliscono ad una temperatura definita ti transizione vetrosa; la determinazione della temperatura di rammollimento Vicat è una misura tecnologica che indica il limite di utilizzo di un dato materiale in funzione della temperatura. Essa consiste nel misurare la temperatura alla quale una punta metallica di forma cilindrica, caricata con un apposito peso, penetra nel materiale per 1mm. Le principali norme di riferimento per questa prova sono la ISO 306 e la ASTM D 1525 che sono sostanzialmente equivalenti tra di loro. La prova HDT invece determina la temperatura alla quale un provino rettangolare, sollecitato centralmente a flessione con apposito carico, si deforma per un valore di 0,25 mm. Le principale norme relative a questa prova sono ISO 75 e ASTM D 648, le quali sono equivalenti tranne per la dimensione dei provini che varia leggermente. Spettroscopia infrarossa IR La spettroscopia infrarossa si basa sull’interazione tra una determinata radiazione e il materiale da essa attraversato o colpito. L’assorbimento dell’energia da parte della materia è, dal punto di vista pratico, l’effetto dell’interazione più importante. L’interazione è diversa a seconda del tipo di molecole attraversato dalla radiazione infrarossa, è quindi specifica per ogni materiale analizzato. Questo permette tramite uno spettro di assorbimento di ottenere informazioni sulla struttura dei campioni esaminati e di poter risalire alla loro identificazione. Tutte le molecole che compongono la materia sono costituite da atomi uniti tramite dei legami chimici, i quali si comportano sostanzialmente come molle e ciò fa in modo che questi abbiano dei moti vibrazionali gli uni rispetto agli altri. Queste vibrazioni hanno delle frequenze d’onda specifiche e caratteristiche in funzione alla molecola a cui si riferiscono. Quindi ogni molecola presenta diverse energie vibrazionali. La spettroscopia infrarossa si basa su questo presupposto per il quale investendo un appropriato campione di materiale con radiazione infrarossa, a cui sono associate energie dello stesso ordine di grandezza di quelle vibrazionali delle molecole, si ha un assorbimento dell’energia infrarossa. In questo modo lo spettrofotometro rivela e visualizza uno spettro in cui sono messi in relazione l’assorbimento di energia del materiale e le corrispondenti lunghezze d’onda della radiazione incidente. Lo spettro ottenuto presenterà dei picchi di assorbimento a determinate lunghezze d’onda e una linea base nelle zone in cui non presenta assorbimento. Calorimetria a scansione dimensionale (DSC) Ogni volta che un materiale plastico subisce un cambiamento del suo stato fisico, ad esempio quando fonde o quando evapora, o passa da una forma cristallina all’altra o quando reagisce chimicamente, esso cede e assorbe calore. La calorimetria a scansione differenziale (DSC) ha lo scopo di determinare le temperature a cui avvengono questi processi e le entalpie ad essi associate, misurando il flusso di calore necessario per mantenere un campione del composto in esame alla stessa temperatura di un riferimento inerte. Tramite questa analisi si possono anche ottenere indicazioni riguardo la percentuale di cristallinità presente nei polimeri semicristallini. Le norme principali che si riferiscono all’analisi DSC sono la ISO 11357/1-5 e le ASTM D 3417 e D 3418 Le grandezze termiche sono molto importanti, le principali sono: Temperatura di fusione e la temperatura di transizione vetrosa (Tg). La Tg rappresenta la temperatura al di sotto della quale le materie plastiche amorfe acquistano caratteristiche di durezza e fragilità simili a quelle del vetro. I polimeri semicristallini, essendo sia di natura amorfa che cristallina, possiedono entrambe le grandezza sopra indicate. La temperatura di fusione è la temperatura alla quale una polimero passa dallo stato solido a quello fluido. La transizione tra stato solido e stato liquido è differente per i materiali cristallini a basso e ad alto peso molecolare, così come anche tra i polimeri cristallini e semicristallini. Quando si analizzerà al DSC un polimero semicristallino si evidenzierà un campo di fusione più o meno allargato a seconda del composto. La cristallizzazione non avviene alla stessa temperatura della fusione, ma sempre a una temperatura più bassa e dipende dalla velocità della scansione eseguità. L’analisi si esegue inserendo in una delle due fornaci il campione all’interno di una capsula, per evitare di contaminarlo occorre usare delle pinze. La fornace vuota è usata come riferimento. La temperatura delle fornaci rimane uguale, vengono quindi registrati all’interno della capsula contenente il campione, eventuali scambi di calore dovuti a fenomeni chimico-fisici. Si ottiene in questo modo il termogramma DSC che costituisce una curva nella quale viene riportata la variazione di energia fornita dallo strumento alla fornace nel corso della scansione, rispetto ai corrispondenti valori di temperatura.
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