far soldi con una pelle di pidocchio, essere cioè

Fà di sólcc sö ’n d’öna pèl de piöcc.
È il colmo della sordidezza: far soldi con una pelle di pidocchio, essere cioè tanto avidi da riuscire
a vendere anche la pelle dei pidocchi. Esistono purtroppo persone bramose e miserabili, le quali
userebbero qualunque mezzo pur di accumulare beni e denaro, che poi finiranno in mano ad altri.
Nel terzo capitolo del “Milione” di Marco Polo si legge di un califfo di Bagdad che nella torre del
suo palazzo aveva radunato un tesoro immenso in oro e pietre preziose. Nel 1250 Bagdad fu
assalita dall’esercito del generale tartaro Alau, il quale fece credere con uno stratagemma che il
numero dei suoi armati fosse piuttosto scarso, nascondendo gran parte delle sue forze nei boschi
attorno alla città. Presentatosi Alau alle porte di Bagdad con un numero scarso di guerrieri, il
califfo cadde nel tranello e si avventurò fuori dalle mura inseguendo con la sua cavalleria Alau che
fuggiva verso i boschi: si trovò così assai presto circondato da un numero assai superiore di
guerrieri e dovette arrendersi. Quando Alau entrò nella torre trasecolò innanzi alla magnificenza
del tesoro accumulato dal califfo. Lo fece chiamare e gli domandò: “Perché hai pensato soltanto a
radunare tutte queste ricchezze? Tu sapevi che io stavo per attaccarti. Perché non hai impiegato
una parte di questi beni per arruolare dei soldati e difenderti con un grande esercito degno del tuo
trono?”. Il califfo non seppe che cosa rispondere e Anau lo fece allora rinchiudere nella torre
senz’acqua né cibo dicendogli: “Ha accumulato tutto questo oro, adesso sàziatene!”. Dopo quattro
giorno il califfo morì disperato.
Fà d’ògne èrba ü fass.
‘Fare d’ogni erba un fascio’. La locuzione è antica e puntualmente registrata nel suo dizionario
bergamasco da Antonio Tiraboschi, che si diffonde nell’elencazione dei vari tipi di erbe. I nostri
vecchi sapevano curarsi con le erbe, che conoscevano bene, anche se non le sapevano distinguere
in “semplici” (quelle della medicina popolare) e “composte” (quella della medicina ufficiale). Sul
ricorso alle erbe in quanto medicina pauperum ironizzò Molière, il quale tuttavia sapeva bene che
il contadino del villaggio più sperduto, esposto ad ogni genere di malattia e privo di ogni soccorso,
non poteva che affidarsi a rimedi naturali e non costosi. È noto peraltro che il mondo monastico si
dedicò all’uso delle erbe. I gesuati sapevano preparare un’acquavite pregiatissima e degli ottimi
cordiali; i carmelitani scalzi italiani erano famosi per l’acqua di melissa, i cavalieri di Malta per
l’acqua di fior d’arancio, i certosini per la chartreuse, liquore assai apprezzato in Francia. Con le
erbe si curava di tutto, dai morsi degli animali agli ascessi, dall’epilessia al fuoco di Sant’Antonio,
dalla cataratta all’alitosi. L’uomo moderno ha salvato, almeno in parte, il patrimonio di
conoscenze che in fatto di erbe vantavano le generazioni passate; riviste che trattano di
macrobiotica, di diete, del ritorno alla natura, assicurano che l’uso delle erbe preserva dalle
malattie e rallenta l’invecchiamento. Ciò che molti non dicono è che le erbe che crescono nei centri
abitati sono inquinate e che non è prudente usarle per decotti e infusi. Peraltro, il Grand Larousse
che in Francia andava per la maggiore negli anni Venti del Novecento dava per ogni pianta
indicazioni molto precise circa il suo uso in campo medico. Ciascuna erba, insomma, possiede la
sua virtù ed ecco perché non si deve fare di ogni erba un fascio.
Fà du baià.
‘Abbaiare in due modi diversi’. Lo si dice in Val Gandino e nella Media Val Seriana, dove baià può
assumere, a seconda delle circostanze, il significato figurato di ‘parlare’. È l’esprimersi in due
modi diversi per convenienza (o per ipocrisia). Baià significa propriamente ‘abbaiare’ e dunque
nella locuzione si scorge alcunché di spregiativo, come se il parlante abbaiasse, usasse un
linguaggio canino e fosse da considerare alla stregua di un animale. A volte in effetti si odono
discorsi tali da far dubitare dei sentimenti umani di chi li esprime. Baià nel senso di ‘parlare’ è
antico di qualche secolo: in un testo bergamasco secentesco (la versione dei primi undici canti
dell’“Orlando Furioso” di Ludovico Ariosto) trovo la voce baiöm per ‘abbaiamento’ ma nel senso
traslato di ‘discorso’ (il verso dice: assò che ’l mé baiöm a gh’ pòsse entrà, ‘così che il mio
discorso vi possa entrare’) . Chi volesse sapere com’era parlato il bergamasco nella prima metà
del Seicento potrebbe andare a leggersi questo testo ma non ne caverebbe gran che se non avesse
molta confidenza con la scrittura dei secoli passati.
Fàe bé, fàe mèi.
Letteralmente: ‘Facevo bene, facevo meglio’. Allude al senno di poi surrogando il condizionale con
l’imperfetto dell’indicativo e rinunziando a specificare la ragione del disappunto o del rammarico,
perché al bergamasco bastano poche parole per esprimere compiutamente un concetto. Siccome la
voce mèi significa non solo ‘meglio’ ma anche ‘miglio’, ecco che alla pronunzia della locuzione
Fàe bé, fàe mèi, dopo un’opportuna pausa di grave silenzio, si fa amaramente seguire il detto: Ol
”Fàe mèi” i l’à becàt i osèi.
Fà e desfà.
Di un lavoro inconcludente si dice che l’è töt ü fà e desfà, ‘è tutto un fare e disfare’. Si dice anche
che fà e desfà l’è töt ü laurà, ‘fare e disfare è tutto lavoro’. Un lavoro improduttivo, un
affaccendarsi per non approdare a nulla, un costruire e un distruggere: sembra questa la sorte del
genere umano. Già Empedocle, greco agrigentino di Acraga nato attorno al 495 a. C., medico che
liberò la città di Selinunte da un’epidemia malarica, sosteneva che la storia dell’umanità fosse
caratterizzata da un’alternanza di due forze fondamentali, l’amore e la discordia, onde ad un
periodo di pace e di progresso doveva seguire il tempo della guerra e della distruzione.
Sovvengono i vichiani corsi e ricorsi storici. Hölderlin per parte sua riteneva che la natura fosse
agitata da una forza panica, ch’egli chiamava organica, una forza atta a determinare, a unire e ad
ordinare ciò che è particolare e finito; ad essa si opporrebbe un’energia aorgica, universale,
informe e illimitata, un’energia primigenia, ctonia e selvaggia che produce il numinoso e che
induce al timor panico; per Hölderlin la storia dell’uomo sarebbe condizionata dallo scontro di
questi due elementi in perpetuo contrasto.
Fà èd la sissapaga.
Si dice anche sissipaga; è vocabolo di uso assai raro e significa ‘mostrare il sesso’, atto assai
sconveniente, perseguito dalla legge se commesso non solo in pubblico ma, ricorrendo certe
circostanze, anche in privato. Esistono tempi convulsi e situazioni anormali in cui viene meno il
riguardo che ogni persona deve a sé e al suo prossimo. La locuzione, usata in senso eufemistico,
risale agli anni dell’occupazione dell’armata napoleonica, quando a Milano i militari francesi, che
non erano certo degli stinchi di santo e men che meno dei gentiluomini (come ben sapeva
Giovannin Bongee), si davano all’assidua frequentazione delle prostitute. Queste, avendo a che
fare con simili soldatacci, pretendevano il pagamento anticipato della prestazione e alzando la
gonne oltre il ginocchio dicevano: “Ici sa paga!”.
Fà èd la stréa.
Si usa nel significato di ‘spaventare’. Si dice infatti: L’à ést la stréa, ‘Si è spaventato’. Questo modo
di dire ha un che di minaccioso, perché si ode anche: Te fó èd la stréa, ‘Ti faccio passare un brutto
quarto d’ora’. Esiste un’accezione più lata, quella di ‘tribolare’, ‘infliggere sofferenze prolungate
nel tempo’, tanto è vero che se di due coniugi uno con il passare del tempo si è rivelato gramo,
procurando afflizioni all’altro, si dice che l’ gh’à fàcc vèd la stréa. È locuzione sinonimica
dell’italiana Far vedere i sorci verdi, originata dall’immagine di tre topolini verdi dipinti sulla
carlinga dei velivoli di un reparto della nostra aviazione militare. Si trattava di apparecchi
trimotori S79 condotti da piloti ardimentosi e abilissimi, che negli anni Trenta vinsero diversi raid
dando del filo da torcere ai concorrenti inglesi, francesi e tedeschi. La retorica nazionalistica del
regime del tempo avvolse le imprese della squadriglia dei “sorci verdi” in un’aura di leggenda,
dando l’illusione che si disponesse di chissà quali forze in campo aeronautico. Ritornando alle
streghe, esse sono un’eredità del mondo celtico e latino. Alla fine dell’estate per un giorno i Celti
non accendevano il camino così da rendere fredda e inospitale la casa e si travestivano da demoni
e da streghe per spaventare gli spiriti maligni e tenere le anime dannate lontane dai loro villaggi.
La strega incuteva timore perché era ritenuta dotata di poteri occulti e capace di operare le fatture
della magia nera. Sono passati parecchi secoli ma dalle cronache si apprende che al giorno d’oggi
molte persone, più abiette che ingenue, non si peritano di ricorrere ai maghi e alle fattucchiere
nella speranza di recare molestia e danno ad altre persone. Questo dice fino a che punto sia
confusa e stordita la nostra società!
Fà ègn ol lacc ai zenöcc.
Letteralmente ‘far venire il latte alle ginocchia’. Si dice quando si ascolta un discorso insulso,
quando si ha a che fare con gente inetta e supponente che avanzi proposte stravaganti e scipite,
quando si è tediati da chi non sa far di meglio che lamentarsi passando in rassegna le sue disgrazie
e ripetendole come una litania per farsi compassionare. Sciaguratamente il mondo è pieno di
persone di questa risma. Nello stesso senso i mantovano dicono. Fa végnar al lat ai gumbétt, ‘Far
venire il latte ai gomiti’.
Fà ègn öna barba.
Chi ascolta un discorso lungo e noioso si sottopone ad un esercizio di pazienza, soprattutto se ha a
che fare con persone fastidiose che parlano soltanto di se stesse e che incominciano ogni
proposizione con il pronome personale io. La barba è associata al concetto della pazienza perché
cresce lentamente. Si deve sempre evitare di importunare il prossimo con lungagnate barbose.
Fà fèsta a Tór.
In una nota riguardante una sua poesia compresa nei “Nuovi Sonetti Bergamaschi” (1941)
l’avvocato Sereno Locatelli Milesi scrive che un tempo nei paesi chiamavano “Fèsta a Tór” coloro i
quali portavano il cappello duro. In effetti nel dizionario del Tiraboschi alla voce tór si legge:
“Dicesi scherzosamente al cappello di forma cilindrica”. Continua la nota del Locatelli Milesi: “I
ragazzi si davano la voce. Uno gridava: I fà fèsta a Tór!, ossia fanno festa a Torre Boldone. E gli
altri rispondevano in coro: I à tacàt béga a la Ranga!, c’è stata una rissa a Ranica!...”. Un tempo i
ragazzi passavano parte del loro tempo in strada senza correre alcun pericolo; la rara vista di una
persona che portava il cappello a cilindro, evidentemente per recarsi ad una cerimonia, richiamava
la loro attenzione. I monelli nella canzonatura sapevano essere caustici e talora perfino crudeli. Lo
sapeva bene Gregorio Pezzoli, sorta di macchietta che amava darsi arie da scienziato e che
indossava una marsina nera con tanto di tubino e contorno costituito da una tremenda zazzera e da
una barba profetica. I monelli si divertivano a schernirlo canterellando: Fàla taià, chèla barba lé!
Fàla taià, trènta ghèi barba e cheèi! Il Pezzoli era stato soprannominato Fàla taià. Quando appariva
in Piazza Vecchia era sempre circondato da uno stuolo cantilenante di discoli. Un giorno si risolse
al ridicolo oltraggio di un rasoio. Comparve sbarbato e con i capelli ben tagliati. E la ragazzaglia
subito a sbraitare: Fàla crèss, chèla barba lé! Fàla crèss! Il Pezzoli se ne andò brontolando: “Che
gente! Che mondo!”.
Fà fichèta.
‘Far dispetto per ripicca’. Nella locuzione: I se fà fichèta, ‘Si fanno i dispetti’, si dà per scontato
che il comportamento sia caratterizzato da puntiglio e da ostinazione. Nell’italiano colloquiale:
Fare le fiche.
Fa flanèla.
Si sa che gruppi di giovani erano soliti recarsi nelle case di tolleranza al solo scopo di ammirare le
“ragazze” che nella sala principale erano in attesa di essere prescelte dai clienti. La donna che
gestiva il lupanare, detta comunemente maîtresse, non tardava ad invitare i giovanotti a consumare
il rapporto dicendo loro in tono imperioso: “Qui non si fa flanella!”. La locuzione proviene dal
francese flâner, ‘vagare senza meta’, ‘bighellonare’, incrociato con flanella (inglese flannel), nome
di una nota stoffa di lana non rasata, usata per camicie e pigiami. Se qualcuno vi invita a non fare
flanella significa che state perdendo il vostro tempo nell’ozio mentre gli altri stanno lavorando.
Non è un bel complimento.
Fàga i pöles a ergü.
Dall’atto di spulciare ha tratto origine questo detto, che significa: ‘Passare in meticolosa rassegna
fatti, difetti o interessi altrui’. Indica sempre mancanza di riguardo.
Fàga l’àsen a öna dòna.
Un conto è dire che si corteggia una donna e ben altro conto è dire che s’ ghe fà l’àsen. Ma il
significato coincide, se non fosse per l’ironia insita nella locuzione bergamasca. La galanteria va
bene ma l’essere sottomesso e paziente come un asino non rende ridicoli? E che intenti può
nascondere l’affettazione del cicisbeo? Ma per essere garbati e gentili con le donne non è
necessario fàga l’àsen. Basterebbe ritornare al garbo e al riguardo dei gentiluomini di un tempo,
quando si cedeva il passo alle signore. La civiltà di un popolo si giudica anche da come sono
trattate le sue donne, dal rispetto che se ne ha. Luigi XIV, detto il Re Sole, era arrogante e vanesio
ma quando sullo scalone di Versailles incontrava la sua governante la salutava compunto
togliendosi il cappello. Non sarebbe male che s’insegnassero ancora le buone maniere e che i
giovani fossero educati alla gentilezza e alla cavalleria.
Fà giàcom giàcom i gambe.
Di una persona anziana malferma, che cammini con difficoltà, si dice che i ghe fà giàcom giàcom i
gambe; il suono iterato indica la deambulazione lenta e stentata a causa della debolezza delle
ginocchia.
Fà giondina.
In alcuni luoghi della Bergamasca si dice anche: Fà giurgina. Vuol dire ‘fare bisboccia’, ‘darsi alla
pazza gioia’. Analogo significato ha la locuzione arcaica Fà goghèta, attestata dalla letteratura
bergamasca del Seicento.
Fà i carte.
Non so come si possa prevedere il futuro con l’uso delle carte da gioco ma da tempo immemorabile
c’è gente che la fà i carte e gente che la se fà fà i carte. La pratica è antica: qualche pittura
parietale delle piramidi egizie raffigura dei sacerdoti che accostano un numero ad una figura e
accanto alla scena una iscrizione geroglifica spiega come quei sacerdoti traessero così gli auspici
per un buon raccolto. Si sostiene peraltro che i semi delle carte – fiori, picche, cuori e quadri – si
ricolleghino ai quattro elementi fondamentali della filosofia greca più antica (terra, aria, acqua e
fuoco); esiste anche l’ipotesi che si riferiscano all’avvicendarsi delle stagioni. I semi delle carte
bergamasche, disegnate nell’Ottocento da Pietro Masenghini con tratti sicuri e con un buon
colorismo, si credono introdotti dai lanzichenecchi o da altre truppe mercenarie tedesche, detestate
per la loro avidità e la loro sporcizia, gentaglia dedita ai furti e alle violenze, ribaldi e canaglie
amanti del vino e del gioco. Denari, coppe, bastoni e spade sono comunque simboli antichi,
prestandosi a rappresentare la ricchezza, il piacere, i viaggi e i combattimenti. Non diciamo poi dei
tarocchi, diffusi in tre differenti tipi di carte e di disegni (il lombardo, il toscano e l’emiliano), carte
ritenute per antonomasia adatte alla divinazione del futuro. Mi rivolsi tempo fa ad una signora nel
tentativo di capire qualcosa della cartomanzia. Appresi così che ad ogni carta è attribuito un
significato e che esistono vari sistemi per lo scoprimento delle carte: accostando le carte stesse, si
presumerebbe di prevedere il futuro, soprattutto negli affari di cuore, in particolare negli amori
non corrisposti, ma anche per malattie, disgrazie, ricchezza e fortuna. Ho imparato che il quattro
di spade si chiama Margì ma ho constatato che non esistono scientificità e attendibilità
nell’attribuzione di un significato ad una certa carta: in base a che cosa l’asso di spade sarebbe
foriero di chissà quali disgrazie? La cartomanzia non è che superstizione, come gli oroscopi, che
vorrebbero far dipendere il nostro destino dal moto di alcuni corpi celesti (alcuni e non altri!)
lontani da noi migliaia di anni-luce. Trovo studipo e penoso che la televisione nazionale trasmetta
oroscopi, il che la dice lunga sulla pessima qualità della programmazione e sulla grossolanità dei
programmatori. Faber est suæ quisque fortunæ, scrive Cicerone nel “De republica”. E Luigi
Alamanni (1495-1556) nella traduzione dell’“Antigone” di Sofocle scrive: Sua ventura ha ciascun
dal dì ch’ei nacque. Altro che carte!
Fà i cöncc sènsa l’ostér.
Letteralmente: ‘Fare i conti senza l’oste’. Può accadere che si creda di dover pagare un certa
somma e che ci venga invece presentato un conto salato che non ci aspettavamo. Si dice per tutti i
casi in cui si tiene conto soltanto del proprio punto di vista. Gli osti di un tempo per la verità non
godevano sempre di buona fama se a Treviglio fiorì il detto: Giüda cumè ’n ustér. Basta pensare
all’episodio del XV capitolo dei “Promessi Sposi”, nel quale l’oste, longa manus della polizia
milanese, presenta il conto a modo suo premurandosi di chiamare gli sbirri perché arrestino
Renzo. A quel tempo gli osti avevano buone orecchie, ascoltavano i discorsi degli avventori,
sapevano bene l’arte di cavar le parole dagl’ingenui e dai loquaci per aver contezza degli affari
altrui, erano buoni informatori dei gendarmi ma per loro tornaconto erano pronti a giurare di non
aver visto o sentito nulla di ciò che accadeva e che si diceva nella loro locanda. Gli osti del giorno
d’oggi non devono sentirsi coinvolti in giudizi dati su quelli di un tempo. Del resto, è passata tanta
acqua sotto i ponti. Ciò che conta è che non sia passata nelle botti.
Fà i galète.
Un caro amico della vecchia guardia, che per ricrearsi lo spirito in tempi tanto insulsi come questi
che viviamo ritorna spesso sui testi di Virgilio e di Orazio, di Cicerone e di Seneca, di Ovidio e di
Sallustio, mi segnala una locuzione interrogativa risalente alla bachicoltura, che suona: Ét fàcc i
galète?, che è quanto dire: ‘Dove hai trovato tanto denaro?’, oppure: ‘Come hai fatto a procurarti
tanti soldi?’. Occorre subito dire che non si devono confondere le galète con le galetine. Queste
ultime sono le arachidi, dette anche noccioline americane; ebbene, non hanno a che vedere con le
galète, che sono i bozzoli, ossia gl’involucri di seta che contengono la crisalide. Quando nelle
cascine si crescevano i bachi da seta (detti in bergamasco caalér perché il filugello ama porsi su
frasche o ramicelli in una posizione che ricorda quelli degli uomini a cavallo), i contadini
raccoglievano i bozzoli e li bollivano per impedire che la crisalide diventasse farfalla e bucasse il
bozzolo guastandolo. Indi vendevano i bozzoli alle filande; se l’annata era andata bene e i bozzoli
erano in quantità rilevante, la vendita fruttava un bel gruzzoletto: in una società caratterizzata da
un’economia agricola fondamentalmente autarchica, nella quale il ricorso al baratto non era molto
raro, l’arrivo di una somma consistente di denaro era come tanta manna. Certo, la coltura del baco
da seta comportava disagi, rischi e molto lavoro. Oggi purtroppo manca la consapevolezza che le
attuali condizioni di vita, molto meno dure di quelle dei secoli passati, si devono essenzialmente ai
sacrifici, alle lotte e alle conquiste delle generazioni che ci hanno preceduto. Mancando tale
consapevolezza, non si ha la percezione della dimensione storica nella quale si è inseriti e si rischia
di commettere errori di valutazione che finirebbero per pesare sulle generazioni future.
Fà i laùr col có ’n del sach.
La locuzione celebra la noncuranza degl’incoscienti. C’è gente che agisce senza la minima
considerazione, senza la cognizione di quel che sta facendo, dei rischi che corre, degli obblighi cui
deve sottostare. Non dobbiamo certo le conoscenze scientifiche e il progresso a persone che
lavoravano con la testa nel sacco. Indagatori, ricercatori, pionieri animati da grande passione
hanno sempre proceduto con attenzione, metodo e disciplina. Ma a volte le imprese sono tanto
rischiose che neppure il metodo e la disciplina bastano a scampare da eventi cruciali. Si sa come
morì Vittorio Bòttego, il grande esploratore italiano che per primo si era inoltrato nel territorio
selvaggio del Giuba: nel 1897, dopo aver raggiunto il lago Turcana, la sua spedizione fu
circondata e assalita dalle truppe di Menelik, il quale non andava per il sottile e riteneva nemici da
uccidere tutti gli stranieri, anche quelli di una spedizione scientifica.
Fà i laùr in grand.
Questa locuzione trova riscontro in tanti altri dialetti settentrionali e si traduce: ‘far le cose alla
grande’. Ma le cose sono in sé vaghe e indeterminate, per quanto in italiano si addicano di più al
senso della concretezza che alla sfera delle astrazioni. Il bergamasco laùr, nonostante sia l’evidente
contrazione dell’accusativo latino laborem e come tale si riferisca ad azioni concrete, comprende
una gamma vastissima di accezioni, dalle più primitive ed elementari alle più concettose e
sofisticate. Posso dire che l’à fàcc i laùr in grand di un letterato che abbia scritto un poema
complesso e ispirato, di uno scultore che abbia tratto dal marmo un gruppo di figure
armonizzandone i corpi e i gesti, di un musicista che abbia composto un’opera poderosa e di ampio
respiro, di un architetto che abbia saputo concepire un edificio grandioso con l’impiego di
materiali di ottima resa estetica. Se la locuzione esiste e si attaglia anche a queste situazioni, vuol
dire che i bergamaschi, ritenuti a torto assai parsimoniosi e chiusi in se stessi, quando vogliono i è
bu de fà i laùr in grand. E di pensare alla grande. In effetti, dopo tanti anni di supremazia nichilista
si avverte il bisogno di pensare un po’ alla grande. Ci hanno ripetuto come pappagalli che siamo
dei poveri disgraziati, che non sappiamo chi siamo, che non possiamo sapere da dove veniamo e
che non stiamo andando in alcuna parte. Ci hanno detto che siamo figli di nessuno, tutt’al più figli
di una manciata di atomi che precipitano ignari nello spazio. Ma la ragione non può dare risposte
meschine agl’interrogativi più pressanti della mente umana. La cultura ufficiale della defunta
Unione Sovietica giunse a rendere omaggio alle idee atomistiche di Lucrezio, che trattando delle
cause dei fenomeni naturali aveva inventato puerili teorie antiscientifiche. Non ci si può far guidare
dai ciechi né si possono ottenere lumi da chi vive nell’oscurità. Il dono della ragione va usato
meglio: cerchiamo di recuperare il concetto dell’essere, come lo intendeva Rosmini, l’essere che è
in noi e che non possiamo non avvertire in noi ma che è anche fuori di noi, in tutta l’opera del
creato. Proprio al pensiero di Antonio Rosmini (che era di ascendenza orobica perché i suoi
antenati erano arrivati a Rovereto dalla Valle Brembana) dovremmo ricorrere per il recupero del
valore della ragione dopo la catastrofe delle ideologie negatrici del trascendente o indifferenti ai
problemi metafisici, ideologie che nel Novecento hanno finito per ritorcere tragicamente le loro
tremende negatività contro l’uomo.
Fà i sò cöncc.
Ognuno dev’essere capace di fare i suoi conti. Ma occorre farli sulla scorta della realtà, non della
fantasia e delle suggestioni. Il medico Gerolamo Cardàno (1501-1576), matematico e naturalista,
ebbe l’imprudenza di coltivare una superstizione ingannevole quale l’astronomia. Asserì di aver
letto negli astri che sarebbe morto a quarantacinque anni e si diede alla bella vita, spendendo e
spandendo il suo patrimonio. Raggiunta l’età nella quale avrebbe dovuto morire, si ritrovò in
buona salute e con il capitale ridotto al lumicino. Gli fu giocoforza allora esercitare con la
massima cura la sua professione medica ma volle rifare i calcoli e dichiarò che la morte lo avrebbe
raggiunto a settantacinque anni. Arrivato a quell’età si ritrovò ancora in buona salute. Fu tale il
suo disappunto che volle invocare la morte e secondo la tradizione si lasciò morìre di fame. Come
tutti i medici del suo tempo, a discrete conoscenze scientifiche alternava idee assolutamente prive
di fondamento e credenze superstiziose, come quella di pensare che quando qualcuno sta parlando
male di noi avvertiamo un acufene (il fischio che si ode nell’orecchio).
Fà la bóca larga fina ai orège.
In francese esiste la locuzione iperbolica la bouche fendue jusqu’aux oreilles per indicare una
risata tanto ampia e sonora da sembrare che la bocca si spalanchi allargandosi fino alle orecchie.
Per efficacia essa fa il paio con la nostra, nella quale l’esagerazione raggiunge l’inverosimile. Ma
càpitano talora circostanze per le quali il grignà, ridere’, e il grignunà, ‘ridacchiare’, non bastano.
Occorrerebbe proprio ridere tanto di gusto da poter allargare la bocca fino alle orecchie, come
quando ci si sente domandare a quale segno zodiacale si appartiene. In questo caso mi sovviene
sempre un provocatorio racconto di Henry Miller, nel quale si descrivono i discorsi farneticanti di
alcune persone che partecipano ad un ricevimento (quello che gli americani con la loro
disinvoltura fin troppo spiccia chiamano party). In una prosa sarcastica e perfino irriguardosa
Miller passa in rassegna gli strani tipi che animano il ritrovo mondano e che sono uniti
apparentemente soltanto da una fiducia cieca nell’astrologia, notoriamente priva di fondamento
scientifico e basata su antiche conoscenze astronomiche incerte, lacunose e spesso errate (Keplero
la definì “figlia matta di madre saggia”). I personaggi del party, accomunati da un forte
egocentrismo e da una spaventosa superficialità, appaiono come nevrotici privi di fondamenti etici,
come poveri dissociati che non sanno nascondere il loro vuoto interiore. Nel racconto di Miller è
evidente la deriva morale e ideologica della società americana, facile preda delle sette più strambe
nonché delle suggestioni arcanistiche ed esoteriche esercitate da pseudoscienze come l’astrologia e
l’occultismo. Come si fa a prendere sul serio simili derive dell’intelligenza?
Fàla de bambo per mia pagà dasse.
C’è sempre chi fa lo gnorri, chi fa il finto tonto per sottrarsi ad un obbligo: di uno che si comporti
così, che faccia l’indiano o che faccia orecchio da mercante, in bergamasco si dice che l’ la fà de
bambo per mia pagà dasse, cioè che fa finta di essere stupido per non pagare il dazio. Si trattava di
un tributo doganale che una volta i Comuni esigevano da chi introduceva le merci nel loro
territorio o da chi le esportava. A Bergamo le porte delle vecchie Muraine (la cinta medievale di
cui è rimasto solo qualche sparuto brano e la torre angolare del Galgario) erano vigilate dai
commessi del dazio, i quali controllavano le merci in entrata e in uscita riscuotendo la relativa
gabella, che costituiva un cespite non indifferente per il Comune; ogni tanto capitava il furbastro
che con noncuranza e fingendosi stordito tentava di passare con la sua merce sotto il naso delle
guardie. Il dazio, si sa, è stato abolito da tempo ma c’è ancora parecchia gente che in certi
frangenti sa fare il finto tonto assumendo un’aria da allocco per non sottostare a un obbligo e
tentare di farla franca. È l’arte diffusa di fare il furbetto a scapito degli altri, un’arte indegna e vile
che andrebbe sempre sanzionata con la massima severità.
Fàla de òt.
‘Passarla liscia’, ‘Farla franca’. Ma anche: ‘Ottenere un buon risultato, una vittoria o un
guadagno insperato’. Mi è stato detto che la locuzione avrebbe avuto origine fra i giocatori di
bigliardo, perché quando la boccia piccola (ol balì) abbatte il “castello” dei quattro birilli che si
trovano al centro del tavolo da gioco si realizzano otto punti. L’ipotesi mi pare plausibile, anche
perché una volta udii un tale che diceva ad un altro: Te l’é fàcia de òt col balì. Intendeva dire: ‘Hai
avuto un colpo di fortuna’. Altra ipotesi (meno convincente) è quella che vorrebbe far derivare la
locuzione dall’introduzione dell’orario lavorativo giornaliero di otto ore (laurà de òt, ‘lavorare otto
ore’), avvertito come un privilegio da chi in campagna lavorava dalla mattina alla sera.
Fà la éta del Michelàss.
La locuzione si completa aggiungendo: mangià, biv e ’ndà a spass. Il detto, usato per indicare
persone che si diano alla bella vita e che non abbiano la minima voglia di lavorare, ricorda
l’indole infingarda dei soldati mercenari imperiali, chiamati micheletti perché il loro primo nucleo
era composto da giovani spagnoli che asserivano di essere devoti a San Michele. Ebbero pessima
fama per la loro sporcizia e per le ruberie, le prepotenze e le soperchierie che al loro passaggio
commettevano nei paesi e nelle campagne.
Fà la fì del póer Brina.
Il 20 aprile 1814 a Milano fu ucciso a furor di popolo sulla pubblica via Giuseppe Prina, ministro
delle finanze del Regno d’Italia, che aveva imposto tasse gravose. Napoleone, funesto genio della
guerra, era giunto alla conclusione della sua parabola: da più di quindici anni insanguinava i
campi e le contrade dell’intera Europa. Presentato dai testi scolastici come un eroe ravvolto in
un’aura di leggenda, una sorta di nobile e generoso condottiero che andava ovunque affermando le
idee liberali della rivoluzione francese, dai popoli fu visto in realtà come un oppressore e un
affamatore. La gente di Milano giustamente diceva: Liberté, egalité, fraternité: i francés in caròssa e
nun a pé. Furono anni di soperchierie, di confische, di ruberie a mano armata quelli
dell’imperialismo napoleonico: l’Italia fu trattata alla stregua di una colonia da depredare e da
umiliare. Imposto con la violenza delle armi, il regime voluto dal generale còrso si avvalse di
un’organizzazione statale fortemente accentrata, di leggi speciali repressive e di un apparato
persecutorio che si giovava di tribunali, di poliziotti e di spie. La coscrizione obbligatoria,
l’ammasso dei prodotti agricoli e la tassa personale imposta sul capo di ogni cittadino di età fra i
quindici e i sessant’anni, la soppressione degli ordini monastici e la confisca di tutti i loro beni, il
furto legalizzato degli argenti delle chiese (latrocinio che da solo valse a colmare lo spaventoso
deficit dello Stato francese), la ruberia spudorata di migliaia di opere d’arte, di codici antichi e di
arredi preziosi furono tutte malefatte che valsero a rappresentare il vero volto dell’assolutismo
napoleonico. Da un lato si issavano gli alberi della libertà per dare al popolo l’ingannevole
parvenza di un riscatto sociale, dall’altro si saccheggiavano gli erari pubblici e si depredavano a
man salva i dipinti delle chiese conventuali e i tesori delle biblioteche. Pur di sostenere le spese
delle sue guerre, Napoleone non esitò a desolare l’Italia e alla caduta del suo astro ne fecero le
spese gli uomini che si erano lasciati sedurre dalle idee rivoluzionarie. Come tante volte purtroppo
avviene, anche Giuseppe Prina si trovò a pagare per colpe commesse da altri. Fu una crudele
giustizia sommaria, senza un regolare processo nel quale il Prina avrebbe potuto far valere le sue
ragioni. Tante volte ai torti seguono le vendette e gli esseri umani non sempre sanno essere degni
del divino dono della ragione.
Fà la fì del rat.
In bergamasco non è rimasta traccia del latino classico mus, muris, che vuol dire ‘topo’, ‘sorcio’.
La voce latina deriva da una radice indoeuropea, *mus, che è alla base dell’inglese mouse e del
tedesco Maus. La voce mediterranea talpa è alla base del bergamasco tópa, che vuol dire appunto
‘talpa’, mentre per dire ‘topo’ in bergamasco usiamo le voci rat e sorèch (ma prevalentemente rat).
Sorèch, che ha per confratello il meridionale sòrece, corrisponde all’italiano sorcio, dal latino
sorex, soricis, parola di probabile origine mediterranea. Per quanto riguarda la voce rat, essa
presenta un’ampia diffusione in tutta l’area romanza e germanica e deriva da un’onomatopea,
essendo la serie consonantica composta dai suoni consonantici r e t espressivi dell’atto di rodere. I
celti dovevano usare una parola simile perché ‘topo’ in bretone si dice raz, in gaelico radàu e in
irlandese rata. Il topo, si sa, non è animale che susciti molte simpatie e ci vollero la fantasia e
l’ottimismo dell’americano Disney per far amare ai bambini e ai grandi un personaggio come il
topo Michele. In effetti l’uomo associa al topo non solo l’idea del sudiciume e della trasmissione di
alcune pericolose malattie infettive ma anche il senso di una insaziabile voracità. I granai annessi
ai templi dell’antico Egitto erano vigilati dai gatti, altrimenti i topi li avrebbero assaliti. In epoca
storica l’Europa fu devastata da immense ondate migratorie di topi provenienti dall’Oriente, che
distruggevano tutte le coltivazioni e che provocavano carestie terribili. Per fortuna i nostri
contadini tenevano sempre un gatto nella loro cascina e furono proprio i piccoli ma agguerriti
felini a salvare l’agricoltura europea messa in pericolo dalle invazioni cicliche dei topi. Un gatto,
se vede un topo, non si dà pace finché non lo cattura. E per il topo è una brutta fine. Ecco perché si
dice fà la fì del rat (oppure fà la fì del sorèch) per indicare una brutta fine, per dire che uno è morto
in malo modo. Un tempo ai figli maschi che non si risolvevano a sposarsi le mamme dicevano: Te
resteré per tò cönt e te faré la fì del póer ratì, ‘Rimarrai da solo e farai la fine del povero topolino’.
Ora si sono rassegnate e non dicono più niente.
Fà la figüra del ciocolatér.
È la figura che fa chi non sa dare una risposta ad una questione qualunque, chi non è in grado di
soddisfare una richiesta usuale e prevedibile, chi non sa come fare ad affrontare un impegno
tutt’altro che gravoso. Il detto risale al primo Ottocento, quando le famiglie altolocate durante i
ricevimenti si compiacevano di offrire agl’invitati la cioccolata calda, fatta con polvere di cacao,
vaniglia e zucchero. Dai palazzi patrizi la moda si diffuse nei salotti borghesi e i cioccolatai fecero
affari d’oro. Al tempo di Carlo Felice solo i patrizi torinesi potevano concedersi il lusso di
utilizzare carrozze trainate da quattro cavalli. Un cioccolataio arricchito sfidò la costumanza
procurandosi un tiro a quattro. La sua prima uscita in città non passò inosservata e Carlo Felice
gli fece sapere che si sentiva offeso nella sua dignità di monarca: disponendo anch’egli di una
quadriga, si trovava innanzi ai sudditi sullo stesso piano di un cioccolataio. Poteva un re fare un
simile figura? Così il cioccolataio dovette accontentarsi di un tiro a due. Che il detto, nato a
Torino, sia usato anche dai bergamaschi non deve sorprendere: le parole camminano con gli
uomini. L’occasione offre il destro per raccomandare di non eccedere nel consumo di cioccolato,
ora prodotto con l’impiego del grasso di cocco, che non fa certo bene alla salute. La comunità
europea attraverso i suoi oscuri burocrati è riuscita ad imporre leggi del tutto improvvide se non
rovinose, calpestando di fatto le sovranità nazionali e alterando il mercato agroalimentare con il
boicottaggio legislativo di tanti prodotti tipici e salutari.
Fàla franca.
Di uno che sia contravvenuto a un obbligo o ad una regola e che non sia stato scoperto si dice che
l’ l’à fàcia franca, ‘l’ha fatta franca’. Si sa che nei porti franchi non si paga dazio.
Fà la lègna.
Nella stagione invernale, quando si era liberi dai lavori della campagna, si potevano sfrondare gli
alberi spogli senza recar nocumento alla pianta. L’atto di recidere i rami era detto scalvà (o
sgalvà). La legna raccolta veniva spaccata a colpi di scure (la sgür) e accatastata nella legnaia per
la stagionatura. La legna sottile, quella delle fascine, usata per accendere il fuoco, era ottenuta
recidendo i ramicelli a colpi di roncola; essi venivano poi avviluppati con un ramo di salice (lo
stropèl) e la fascina era fatta. Era un lavoro faticoso. Ma senza legna il camino non dava calore.
Fà la part del sò doér.
Quando da ragazzi squadernavamo sotto gli occhi dei nostri genitori un bel voto credendo di
metirare chissà quale premio, ci sentivamo dire: “Brao, t’é fàcc la part del tò doér”. Non è
nell’indole dei bergamaschi di profondersi in lodi sperticate e in complimenti eccessivi, che sono
soltanto espressione di mancanza di sincerità e di discernimento. Se si deve fare un complimento,
ebbene, che sia meritato e che sia rivolto in forma breve, cordiale e spontanea. Non si richieda o
non si solleciti mai un complimento per non mettere in imbarazzo l’interlocutore; chi lo fa dimostra
di essere maledettamente pieno di sé e di possedere un animo grossolano. Che bisogno c’è di tanti
salamelecchi? Il Manzoni giustamente diceva che ai complimenti bisogna fare la tara. I nostri
genitori lo sapevano e per non farci inorgoglire si limitavano a dirci che avevamo compiuto il
nostro dovere. Ci insegnavano a non usare male il dono della parola, a non tessere le lodi di noi
stessi davanti agli altri per mendicarne qualche inutile e convenzionale complimento.
L’insegnamento poteva essere rappresentato dal motto latino Age quod agis. In effetti più delle
vane parole conta in molte circostanze il saper operare rettamente. La persuasione che si è
compiuto il proprio dovere procura una soddisfazione interiore che ripaga da sola di ogni fatica. I
riconoscimenti, gli onori, i festeggiamenti possono anche fare piacere ma attengono unicamente
alla mondanità e non si deve cadere nel compassionevole errore di chi stoltamente li va a cercare
tentando di procurarseli in tutti i modi, leciti e illeciti.
Fà la pelanda.
Ha due significati. Il primo è connesso con la bachicoltura: si mandavano i ragazzi a fà la pelanda,
a pelare cioè i rami dei gelsi per procurare le foglie che servivano ad alimentare i filugelli prima
della formazione del bozzolo; a volte i proprietari terrieri seguivano direttamente il buon
andamento della coltura dei bachi e a tempo opportuno impartivano l’ordine della defogliazione
dei rami dei gelsi. Il secondo significato è connesso con l’abitudine che avevano un tempo le
prostitute spagnole di indossare vestiti lunghi: dalla voce hopalanda è derivato il lombardo
pelanda, che ha il doppio significato di ‘abito lungo’ e di ‘donna di malaffare’. È nota la storiella
ridanciana di quel fattore che attendeva da un giorno all’altro l’arrivo della contessa, proprietaria
del fondo rustico, perché come ogni anno impartisse l’ordine di pelare i rami dei gelsi onde
alimentare i bachi da seta, chiamati in bergamasco caalér per la posizione che assumevano sulle
frasche e che ricordava quella di chi va a cavallo. Il buon uomo, preoccupato per la sorte dei
filugelli, prese carta e penna e scrisse: “Gentile signora contessa, la aspettiamo da un giorno
all’altro a fare la pelanda se no i cavalieri vanno tutti a puttane”, intendendo dire che i cavalieri
sarebbero andati alla malora. Ma che cosa avrà mai pensato la contessa apprendendo che se non
si fosse immediatamente recata a concedere le sue grazie ai cavalieri, costoro si sarebbero rivolti a
donnacce da strada?
Fà la sò careàna.
Chi ha letto “Les aventures de Gil Blas” di René Lesage, romanziere francese di genere picaresco
attivo nei primi decenni del Settecento, ricorderà che il protagonista, catturato da una congrega di
banditi, meditando di riacquistare la libertà, propose loro di farsi egli stesso bandito seguendoli e
imitandoli nelle loro imprese brigantesche. Gil Blas, narrando in prima persona le sue avventure,
dice che i grassatori accolsero di buon grado la sua idea aggiungendo: “ensuite on me ferait faire
mes caravanes” per dire che a poco a poco i banditi lo avrebbero ben istruito su come diventare un
perfetto delinquente. In effetti la locuzione fare la carovana, che in bergamasco suona fà la careàna,
significa ‘fare il noviziato’, ‘fare tirocinio’, ‘prendere pratica in un mestiere o in un’arte’. Lo
dicevano i Cavalieri di Santo Stefano, i quali accoglievano nel loro ordine solo quanti avevano
prestato il prescritto servizio marittimo navigando nel Mediterraneo da un’isola all’altra e da un
porto all’altro per difendere le imbarcazioni dai corsari e gli abitanti delle coste dagli assalti dei
feroci predoni saraceni. I crociati di Santo Stefano avevano fatto propria una voce levantina
diffusasi dalla Persia: in effetti il persiano karwān significa ‘comitiva di mercanti’ e ricorda l’uso
di compiere lunghi viaggi in compagnia per attraversare con sicurezza regioni insalubri o terre
infestate dai ladri. La condizione dei viandanti, pellegrini o mercanti, che si avventuravano in
plaghe desertiche con tende, carri, bestie da soma e salmerie, non poteva non essere assimilata a
quella dei coraggiosi ed eroici cavalieri crociati che per anni conducevano la loro vita in mare
correndo a soccorso dei naviganti e delle popolazioni costiere. Le loro imprese furono risapute in
tutta Europa e fu molto apprezzata la severità della loro regola, che imponeva un lungo e duro
tirocinio in mare, una ‘carovana’ sulle rotte del Mediterraneo aspramente conteso e minacciato dai
saraceni. Non deve stupire che la locuzione si ritrovi anche nel bergamasco. Di uno che debba
ancora impratichirsi bene o che debba ancora far tesoro dell’esperienza diciamo infatti che l’ gh’à
amò de fà la sò careàna. Purtroppo s’incontrano persone le quali non capiscono che la vita l’è töta
öna careàna e che ogni giorno ci offre la sua esperienza da tesaurizzare.
Fà la sò passada.
Occorre sapere che tutti commettono qualche pasticcio o qualche follia. Meglio passare mattana
da giovani che da vecchi.
Fà ’l bèch a l’óca.
Quando viene condotta a termine un’opera realizzata a regola d’arte si può dire: M’à fàcc ol bèch
a l’óca, ‘Abbiamo fatto il becco all’oca’, forse perché per un disegnatore o per un pittore che debba
riprodurre un’oca sulla tela o sulla carta la raffigurazione del becco costituisce la preoccupazione
minore ed è l’ultima cosa da fare.
Fà ’l de piö.
Letteralmente: ‘Fare il di più’. È il comportamento di chi si “allarga”, di chi non sa stare al sò
pòst, ‘al suo posto’, di chi vuole occuparsi di faccende che competono ad altri, di chi s’incarica di
trattare affari al posto di altri senz’averne il mandato, di chi insomma per intrinseca ignoranza e
per totale mancanza di signorilità nutre una eccessiva considerazione di sé e non si rende conto dei
propri limiti. Purtroppo si trova gente simile ad ogni angolo di strada. Gli va sempre data la
lezione che si merita. La ricevette, solenne come una lavata di capo, anche quel presuntuoso e
sciocco contino bergamasco che si recò a Venezia per essere ricevuto da Tiziano, al quale chiese di
fargli il ritratto. La storia è nota. Non conosciamo le parole precise con le quali il celebre artista
congedò il vanesio titolato ricusandone la richiesta ma possiamo immaginare che siano state più o
meno queste: “Par cossa vegnare fin qua de mi che gò tanto da far? Vu vegné de Bergamo e no
savé che a Bergamo ghe xé el Moron? Gh’avé sbaglià e vegnare de mi. Torné a Bergamo, feve far
el ritrato dal Moron e porteghe el saludo del Tissian”.
Fà ’l diàol a quàter.
Fare il tutto per il tutto, brigare in tutti i modi, leciti e illeciti, scatenare un putiferio pur di
conseguire il proprio scopo, ecco che cosa vuol dire fà ’l diàol a quàter. Il ricorso al numero
quattro amplia l’immagine della confusione e del bailamme che evoca la locuzione (come amplia
l’idea della potenza e della forza impiegata la locuzione i s’è fàcc in quàter, ‘si sono fatti in
quattro’). Invece il richiamo ad un comportamento esagitato o addirittura indiavolato evoca a sua
volta l’immagine del demonio, personificazione del male, l’angelo ribelle che si oppone al disegno
divino e che ricorre a qualunque espediente pur di ghermire le anime e di sottrarle alla salvazione.
Il male non è un’astrazione, è un’entità non concettuale e fantastica bensì viva e operante. C’è chi
lo sa tenere lontano con una vita onesta e specchiata, c’è anche chi giunge ad invocarlo e ad
adorarlo: esistono purtroppo i satanisti, che pregano Lucifero, che celebrano messe nere
convertendo le benedizioni in bestemmie, che profanano chiese e cimiteri, povere menti malate che
inseguono deliri di onnipotenza compiendo ogni sorta di trasgressioni e di immoralità ed
offendendo non solo le leggi religiose ma anche quelle civili. Satana è essere misterioso e terribile,
pervertito e pervertitore: la sua malvagità è immensa.
Fà ’l gnagno.
Chi ha un po’ di dimestichezza con la poesia in bergamasco sa che autori come il Mazza e il
Pedrali calcarono i palcoscenici e che altri scrissero commedie come Sereno Locatelli Milesi,
Renzo Avogadri e Luigi Gnecchi. In un suo sonetto Angelo Pedrali ricorda una figura
complementare del teatro filodrammatico, il trovarobe (tróa-ròbe in bergamasco), incaricato di
reperire gli oggetti occorrenti alla scena. Uno di questi, avendo letto nel copione che il re e la corte
dovevano fare il loro ingresso “con gran pompa”, si presentò alle prove con una pompa,
protestando che funzionava bene e che per troàla l’éra ’ndàcc sö fina in Pignöl… L’ambiente del
teatro filodrammatico tradizionale riappare in un sonetto nel quale il Locatelli Milesi descrive la
demolizione, verso la fine degli anni Trenta del Novecento, del teatro di San Cassiano: “la prima
dòna, ol gnagno, ol prim atùr, / i costöm, i palchècc, i póch scenare / tràcc insèm d’ü saatì che l’ fàa
’l pitùr, / l’orchèstra di intermès, ol lampadare, / fina la scöfia del sügeridùr. Il gnagno era l’attor
comico che sosteneva la parte del babbeo, dello scimunito che fraintendeva battute e situazioni.
Dire in bergamasco ad una persona de fà mia ’l gnagno significa invitarlo a non fare il finto tonto.
Sia pure fra alterne vicende, il teatro filodrammatico è giunto fino ai nostri giorni con il suo
repertorio di commedie brillanti che hanno rasserenato e divertito il pubblico. Il teatro è scuola di
vita per i giovani, i quali impegnandosi in una compagnia filodrammatica imparano a porgere la
parola e il gesto, acuiscono l’uso della memoria, del pensiero e della fantasia, capiscono che cosa
vuol dire calarsi in una parte ed imparano a cimentarsi in ruoli diversi.
Fà ’l latì a caàl.
Questa locuzione era in auge nel Settecento ed è testimoniata dagli scritti bergamaschi dell’abate
Giuseppe Rota, il quale scriveva: fà ’l latì a cavàl, perché al suo tempo non si era ancora verificato
il dileguo della consonante v intervocalica (cavàl>caàl). I vecchi dizionari della lingua italiana, dal
Fanfani al Tommaseo, avvertono che la locuzione Fare latino significa ‘parlare’. Ma che
conversazioni si possono fare quando si sta cavalcando, magari andando al trotto? Perciò fà ’l latì
a caàl indica una situazione sgradevole, nella quale si è costretti a compiere atti o passi che non si
vorrebbero fare.
Fà ’l magüt.
Il magüt è il manovale dell’edilizia, ossia l’aiutante del muratore. Il termine è di acquisizione
relativamente recente, provenendo dal milanese. C’è chi crede che derivi dal longobardo magu-,
‘ragazzo’ (ma da noi il giovane che aiutava il muratore era detto bòcia). Altri ritengono che il
milanese magüt si sia formato al tempo della fabbrica del Duomo di Milano, quando negli elenchi
delle paghe si scriveva mag.ut come abbreviazione di magister ut supra. Questa seconda ipotesi
pare la più probabile.
Fà ’l mestér del maiacarte.
I repertori lessicali bergamaschi dell’Ottocento alla voce maiacarte traducono ‘faccendiere’,
‘leguleio’, ‘azzeccagarbugli’, ossia uno che tratti questioni legali più per pratica che per diretta
conoscenza dei codici e che sia in grado di abborracciare pareri sulle più diverse questioni
indicando il miglior profitto da trarre per ogni situazione che gli venga prospettata. Con il passare
del tempo la voce ha esteso la sua accezione. Nel Novecento la si è usata soprattutto per indicare il
burocrate, il titolare di un pubblico ufficio che abbia confidenza con le scritture, i moduli e la carta
stampata in genere, uno che si sappia districare nell’immenso guazzabuglio delle norme che
compongono il diritto amministrativo. Occorre avvertire che la parola ha conservato nel Novecento
il senso fortemente ironico che già aveva nei secoli precedenti. In una situazione di diffuso
analfabetismo un azzeccagarbugli che sapeva mettere le mani fra tanti scartafacci e dalla polvere
degli scaffali togliere un decreto, un avviso o una grida, sembrava possedere tanta confidenza con
la carta stampata da potersene quasi cibare. Figuriamoci un impiegato pubblico, che riesca a
barcamenarsi fra scartoffie e timbri nella miriade dei testi e nelle tante norme confuse e complicate
che hanno sempre impedito alla macchina della burocrazia di essere efficiente, di riuscire cioè a
rendere il servizio per il quale è stata istituita. È perfino accaduto anni fa che un ministro della
Repubblica non avesse saputo esporre con la dovuta precisione la situazione finanziaria dello Stato
e non fosse riuscito a fornire un dato attendibile sulla follia di un debito pubblico da capogiro.
S’intende che nella formazione di tanto debito i maiacarte non avranno la maggiore responsabilità.
Ma è comunque un fatto che senza una burocrazia onesta ed efficiente non può esistere una buona
amministrazione della cosa pubblica. Insomma, il mestér del maiacarte è importante perché investe
direttamente la gestione del rapporto fra il cittadino e la pubblica amministrazione.
Fà ’l pass segónd la gamba.
Diversi pensatori in questi nostri tempi lamentano che l’avidità del denaro abbia indotto l’uomo ad
imprimere un eccessivo impulso al progresso tecnologico. La diagnosi non può essere più
realistica. Lo strapotere della tecnica modifica infatti il pensiero e il comportamento; ci si
allontana sempre di più dalla natura, dal suo ordine e dalle sue leggi, ci si affida ciecamente alla
tecnica per la soluzione di ogni problema, si acquisisce una mentalità utilitaristica ed
efficientistica, non si pone alcun limite all’individuazione di nuovi bisogni (se veri o indotti non
importa) e al loro soddisfacimento. Per i nostri vecchi, che avevano saputo mantenere i legami con
il mondo della natura, fà ’l pass segónd la gamba era una norma di vita. L’uomo non poteva
sottrarsi all’osservanza delle leggi insite nell’opera della creazione: il finalismo delle conquiste
scientifiche non poteva che accordarsi con quelle leggi, le quali inserivano l’uomo in una
dimensione metatemporale. Se ogni impegno veniva proporzionato alle concrete possibilità, se ogni
conto era ricondotto alle effettive capacità di spesa, se in ogni evento quotidiano il passo era
misurato sulla lunghezza della gamba, non sfuggiva ai nostri avi il senso dell’assoluto distinto dal
relativo, del contingente distinto dal trascendente. Se invece noi oggi riduciamo il senso
dell’esistenza ad una rincorsa fra bisogni e consumi, se poniamo l’effimero e l’appariscente al
centro delle nostre preferenze, come se lo scopo fondamentale della nostra vita consistesse nel
soddisfacimento di qualche bisogno immediato (spesso più indotto che reale), allora non stiamo più
al passo, perdiamo il giusto ritmo del nostro cammino, finiamo per uscire dai ranghi e ce ne
andiamo a zonzo per conto nostro senza una meta precisa. Così la ricerca umana della verità viene
tacitata dall’indifferenza e dall’agnosticismo, quando non ci s’illude di accostarsi al divino
abbracciando religioni esotiche e primitive o finendo nelle pericolose spire di sette dai fondamenti
teologici strampalati e dalle prospettive escatologiche confuse. Diversamente, smarrita la nozione
della vita interiore, non si sa più a quale antidoto ricorrere per sottrarsi all’angoscia e alla
disperazione (sempre attuali le pagine che Kierkegaard dedicò alla condizione umana sospesa fra
finito e infinito ed esposta al rischio di smarrimenti angosciosi). Siamo dunque al punto che le
immense risorse del pensiero cristiano sembrano come inerti e cancellate. Eppure non è scritto da
alcuna parte che al progresso della tecnica debba fatalmente corrispondere una diminuzione del
sentimento religioso, l’annullamento del senso contemplativo dell’esistenza, l’oscuramento della
capacità meditativa e speculativa della mente umana. Basta che il cervello dica alla gamba di
quale lunghezza dev’essere il passo. Perché a fà ’l pass piö lóngh de la gamba a s’ pica ’l nas in
tèra.
Falso come Giüda.
Questo paragone spontaneo si ritrova non solo in italiano ma anche in molti dialetti. Udendolo, il
pensiero corre all’iconografia cristiana e la memoria visiva ci ripropone la scena del bacio di
Giuda come la raffigurò da par suo Giotto a Padova. Nella storia sacra, assai meno conosciuta
oggi di un tempo, s’incontrano altre figure che hanno per nome Giuda ma il paragone spontaneo
attesta che il Giuda noto alla gente comune è l’Iscariota, il suicida che tradì Gesù per trenta denari
e che fu posto da Dante nell’ultimo cerchio infernale. Virgilio lo addita: “quell’anima là su, ch’ha
maggior pena…”. Quale terribile castigo essere eternamente sbranato da Lucifero! Degli
evangelisti solo Matteo narra la fine dell’apostolo che custodiva la borsa delle offerte, che era
giudeo e che si rivolgeva a Gesù con l’appellativo di ’maestro’ (gli altri, tutti galilei, lo
chiamavano ‘Signore’): s’impiccò ad un albero dai bei fiori di un carminio carico, un albero che
avrebbe poi assunto il suo nome. Giuda, definito “ladro” da Giovanni, era un infiltrato, seguiva un
progetto contingente e relativo, estraneo alla fede. Fallito il suo disegno, egli si uccise temendo la
legge degli uomini e non avendo fiducia nella misericordia di Dio. Dire di uno che è un Giuda
equivale a definirlo traditore e spergiuro.
Fà ’l sōmiòt.
Da ragazzi si aveva addosso l’argento vivo e qualche volta accadeva di essere esuberanti. Però
c’era sempre qualcuno che raggelava la nostra vivacità rinfacciandoci de fà ’l sōmiòt. In tempo di
fiera arrivavano i serragli e dietro le sbarre si vedeva qualche scimmia. “Ecco gli antenati
dell’uomo”, sentii dire una volta da un bel tomo innanzi a un baraccone che esponeva alcune
scimmie in gabbia. L’idea di discendere da un sōmiòt mi parve allora disgustosa e mortificante. A
scuola alcuni docenti s’infervoravano nell’esporre le idee darwiniste facendo calare dall’alto gli
assiomi della teoria evoluzionistica, della quale avvertivo la sostanziale brutalità materialistica; in
particolare, il crudele postulato della selezione naturale mi appariva in tutta la sua rozzezza
egoistica, ferocemente contraria al sentimento della solidarietà: da quel postulato non poté che
discendere l’aberrante concetto della superiorità di una razza rispetto ad un’altra. Ancor oggi gli
epigoni televisivi dell’evoluzionismo erudiscono in tono solenne gl’ignari telespettatori mostrando
al rallentatore il leone che insegue, che addenta e che sbrana una gazzella, per ammonire che in
quest’orfano mondo il forte ha tutto il diritto di fare il prepotente e di schiacciare il debole, alla
faccia di tutte le metafisiche e a gabbo dell’etica che esorta ad amare il prossimo. Da tempo ormai
si levano voci autorevoli che, sulla scorta inoppugnabile di scoperte paleontologiche e di dati
scientifici, ritengono superata la teoria evoluzionistica e ingannevoli le sue tesi. L’uomo, insomma,
non deriva dalla scimmia e la pretesa di elevare a dottrina filosofica generale la teoria
evoluzionistica, per sua stessa natura sottoposta a verifiche sperimentali, finalmente vacilla
nonostante le fin troppo interessate levate di scudi di certi ambienti accademici, che della scienza,
empirica per definizione, hanno fatto un dogma che nessuno potrebbe mettere in discussione.
Invero la scienza non può che procedere per ipotesi e per prove secondo metodi di verifica; da che
esiste, essa ha fatto grandi progressi a costo di enormi cantonate. Fu in effetti una enorme
cantonata la pretesa di declassare gli esseri umani a mammiferi di ordine superiore privandoli
della loro spiritualità e dichiarandoli sic et simpliciter animali, figli casuali di una natura
matrigna, vili pronipoti delle scimmie attraverso un lento processo evoluzionistico mai
scientificamente dimostrato. La crisi del darwinismo mi risarcisce delle volte (poche in verità) in
cui da ragazzo mi sentii dare del sōmiòt, epiteto che avvertivo come fortemente ingiurioso e che
avrei potuto tutt’al più accettare solo dai miei genitori. Tanto che una volta a chi incautamente me
ne gratificava risposi: A l’ se àrde lü che müs de sōmia che l’ gh’à sō! E me la diedi a gambe.
Fà ’l teàter.
Sciorinare un fiume di parole e abbandonarsi a una gestualità eccessiva, ridondante: questo vuol
dire ‘fare il teatro’. Che bisogno c’è di fare tante scene quando bastano poche parole?
Autocontrollo, misura e sobrietà del bergamasco, che ha in uggia il protagonismo e la teatralità. Vi
ricorrono le persone presuntuose e vuote, le quali non sanno in quale altro modo farsi notare; se ne
ride di gusto quando appaiono sulle scene. Alle maschere il bergamasco ne ha sempre delegato la
rappresentazione: Arlecchino, Brighella, Truffaldino, Scapino, Pedrolino ed altre ancora, che
secondo una tradizione inveterata sono senza ombra di dubbio provenienti dalla nostra terra. Ma
un paesetto attuffato nel verde smagliante della pianura padana, benedetta dalle acque e
santificata dal lavoro dei contadini, da qualche anno ha inalberato un cartello per rivendicare a sé
la nascita di Arlecchino. L’asserzione si fonda (meglio, ritiene di potersi fondare) sul fatto che era
mantovano un attor comico della Commedia dell’Arte: si chiamava Tristano Martinelli (guarda
caso, un cognome bergamasco!), era nato a Marcaria nel 1557 e morì a Mantova nel 1630. A lui si
vuole attribuire l’“invenzione” della maschera di Arlecchino durante una serie di recite che tenne
a Parigi fra il 1584 e il 1585. Sarà. Intanto i cugini mantovani si sono appropriati di Arlecchino.
Ma non è questione di vita o di morte. Oltretutto viene fatto presente che la Casa di Arlecchino sita
in quel di Oneta è in realtà la Casa del Selvatico (questo lo sapevamo già da un bel pezzo: hanno
scoperto l’acqua calda) e che Alberto Naselli, il quale nell’Improvvisa vestiva i panni di Zan
Ganassa, era ferrarese e non di San Giovanni Bianco. Bene. Ma come la mettiamo con la
tradizione? Brighella è bergamasco di Città Alta e manca poco che qualcuno in Corsarola
puntando l’indice non ci dica: “Guardi, è nato in quella casa là!”. Possibile che Brighella sia
bergamasco e Arlecchino no? L’autorità di Goldoni non può essere trascurata: egli più volte nelle
sue commedie fa proclamare in modo netto ed inequivoco ad Arlecchino l’origine bergamasca
come un vanto. Che poi Martinelli abbia inventato di sana pianta la figura di Arlecchino non sta
proprio in piedi. Maschere simili animavano le diableries e le charivaries che dalla Francia si
erano rapidamente diffuse in tempo di Carnevale in tutta l’Italia Settentrionale. Mancano i
documenti ma si può ben supporre che già nella seconda metà del Quattrocento (un secolo prima
che Martinelli calcasse le scene) fossero arrivati sui teatri veneziani gli zani bergamaschi (perché
dovrei scrivere zanni in ossequio al raddoppiamento centromeridionale quando la parola
appartiene alla fonetica settentrionale?) e che qualcuno di questi zani si fosse ispirato proprio ai
personaggi che nelle mascherate carnascialesche vestivano abiti versicolori e si agitavano con
movenze acrobatiche e coreutiche. La mancanza di documenti può forse giustificare che si mettano
la bautta, il batòcio e l’abito a rombi multicolori addosso a un bracciante della campagna
mantovana come il Tonello delle “Maccheronee” per trasformarlo in Arlecchino? Eh via, le son
cose da Merlin Cocai. Così asteniamoci dal proclamare la discendenza del francese Pierrot dal
bergamasco Pedrolino: l’ipotesi sarà anche affascinante ma in assenza di pezze d’appoggio un po’
di cautela non guasta. La stessa cosa si dica per Guignol, che qualcuno ritenne nativo di Chignolo
d’Isola sulla scorta di fantasie e non di documenti.
Fà marù.
Se un tale l’ fà marù vuol dire che si è fatto scoprire quando credeva di farla franca. L’à fàcc marù
chi si è fatto cogliere sul fatto. Si dice anche in altri dialetti lombardi ma non si sa bene quale sia
l’origine della locuzione. Si crede di poterla riferire ai marroni, cioè alle castagne che fanno
capolino dal riccio dischiuso. Ma l’ipotesi è assai debole e poco convincente. Probabilmente si
tratta di una voce italica molto antica, da connettere con l’accusativo latino maronem, indicante un
magistrato di tradizione etrusca al quale erano recati i malfattori colti in flagrante reato.
Fam, föm e frècc.
Fame, fumo e freddo erano familiari per gli spazzacamini; quelli della Val Vigezzo erano famosi a
Milano ma da noi si guardavano bene dal venire perché non era facile per loro sostenere la
concorrenza di quelli che scendevano dalle nostre valli.
Fà mia la pónta ai góge.
L’eccessiva pretesa di perfezione indurrebbe i pignoli a temperare la punta degli aghi. La
mancanza di buon senso raggiunge la stupidità quando per eccesso di zelo si applica
pedissequamente una norma a costo di recare danno. Summum jus, summa iniuria. La burocrazia
italiana, centralista e ottusa, pletorica e confusionaria, ha dato luogo in proposito ad episodi
penosi, più volte riferiti dalla stampa. Ma ben poco è stato fatto per eliminarne l’atavico
parassitismo.
Fà ’ndà la lapa.
Si potrebbe tradurre letteralmente ‘muovere la lingua’ ma non nel senso di ‘chiacchierare’ bensì in
quello di ‘blaterare’, indicativo di chi si perde in berciamenti, in mille parole inutili quando non
perfino stolte. La locuzione è di attualità. Non si creda che debba essere riferita soltanto ai cortili
dei vecchi sferisteri, alla aie delle cascine e ai lavatoi pubblici. Vi auguro di non capitare mai,
viaggiando in treno o in autobus, con persone tanto villane da infliggervi le loro lunghe
conversazioni con il telefono cellulare. Che cosa interessa a me delle faccende della signora che mi
sta vicino e che discute animatamente e ad alta voce con chi sa chi? Da quando le famiglie e la
scuola hanno rinunziato ad insegnare la buona educazione (quella che i nostri nonni chiamavano
sinteticamente e significativamente creanza), càpita di tutto e c’è gente che non sa più distinguere il
confine fra il pubblico e il privato durante conferenze e altre pubbliche riunioni, al cinema, a
teatro, perfino in chiesa, che è il luogo in cui si va per pregare Iddio. Il trillo del cellulare arriva
puntualmente a ricordare che si è smarrito il senso civico, che è diminuito il rispetto per il
prossimo, che non si sa più che cosa sia la riservatezza, quel tratto di signorilità che gli snob e gli
esterofili, illudendosi di darsi un tono, confondono con la privacy. Ci si è messa perfino la classe
politica ad usare il termine privacy in una legge votata dal Parlamento. Poveri noi, in quali mani
siamo capitati! Gente che in un empito di patriottismo proclama l’italiano lingua ufficiale della
Repubblica ma che non conosce l’uso del termine riservatezza! Del resto, basta sentire come tanti
di loro parlano l’italiano, con quali accenti burini e con quali erroracci morfosintattici, per sentirsi
cascare le braccia.
Fà ’ndà zó i brass.
Si dice anche: Fà borlà zó i brass. Letteralmente: ‘Far cadere le braccia’. Si ricorre a questa
locuzione quando ci si sente avviliti e disgustati da eventi o da situazioni assurde e irrimediabili.
Fàn dét de ènd e de spènd.
Significa combinarne di tutti i colori: non si può essere contemporaneamente venditori ed
acquirenti e dunque la locuzione si addice a chi, avendo perduto il lume della ragione, commette
ogni sorta di azioni riprovevoli. Càpita che per totale mancanza di buon senso se n’ faghe de ènd e
de spènd in tempi calamitosi, funestati da avvenimenti sconcertanti, che trascendono ogni
immaginazione ed ogni sopportazione. La storia dell’umanità offre purtroppo esempi a iosa della
sconsideratezza di chi l’ ne fà dét de ènd e de spènd. Ai tempi della Roma repubblicana Lucio Silla
per sei mesi fece esporre quotidianamente nel Foro le liste di proscrizione e la conseguenza fu che i
padri negavano asilo e soccorso ai figli caduti in disgrazia per tema di vedersi confiscare i
patrimoni; così i fratelli denunziavano i fratelli per impadronirsi delle loro ricchezze. Si spense
ogni luce di bontà, si soffocò ogni sentimento di pietà, si cancellarono l’umanità e la clemenza.
Qualche tempo prima Caio Mario, perseguitato dai partigiani di Silla, aveva raggiunto le rovine di
Cartagine e le aveva percorse dolente, sospirando e piangendo; a chi gli domandò la ragione di
tale commozione rispose che l’avidità, gli egoismi e le corruzioni avrebbero un giorno ridotto
Roma come Cartagine. Sulla tomba di Silla fu scritto: “Nessuno come lui fece tanto bene ai suoi
amici e tanto male ai suoi nemici”. La storia dovrebbe insegnare.
Fàn dét de ògne.
‘Farne di ogni colore’, ‘Combinare parecchi pasticci’, ‘Fare diversi guai’. Si dice: A l’ n’à fàcc dét
de ògne quando si deve dare l’idea dell’enormità dei guasti compiuti dalla persona di cui sta
parlando. Si rinunzia perfino a specificare il sostantivo perché forse non ne esiste uno adatto ad
esprimere la gravità delle azioni compiute.
Fà ol strigòss.
I libri, le riviste, i servizi televisivi, le agenzie turistiche ci propongono di compiere viaggi in ogni
parte del mondo allettandoci con prezzi modici. Quanti viaggiano per diporto, per istruzione o per
diletto intellettuale e quanti invece perché il turismo ha ormai assunto l’aspetto del comportamento
di massa? Chi segue la moda consumistica spesso non ha contezza di ciò che va a vedere e non sa
che, pur se potesse viaggiare tutta la vita, riuscirebbe a vedere soltanto una piccola parte di ciò che
meriterebbe di essere visto. Viaggiare può indubbiamente essere piacevole ma è tanto più
apprezzabile in quanto si abbia un valido motivo per lasciare, sia pure temporaneamente, la
propria casa e andarsene in giro per il mondo. Altrimenti qualche amico può dire, sicuramente
celiando, che s’ và ’n giro a strigossà. Non è un complimento perché lo strigòss è un tipo sciatto,
trascurato, male in arnese e sfaccendato, un perdigiorno che va a zonzo senza combinare alcunché
di buono. Anche la strigòssa, che ha poco sale in zucca, vagabonda qua e là perdendo il suo tempo.
Un dizionario recente attribuisce alla voce strigòssa il significato di ‘donna vile’. Mai sentito
proferire questa parola in una simile accezione. Il guaio di errori come questo è che vengono
creduti e tramandati per buoni anche quando scaturiscono dalla fantasia di qualche improvvisato
lessicografo.
Fà öna bèla noéna.
Il latino ecclesiastico novena deriva dal classico noveni, ‘a nove a nove’, ‘a gruppi di nove’ e
indica una nota pratica religiosa ossia un ciclo di preghiere o di pii esercizi che si protraggono per
la durata di nove giorni e che si prefiggono lo scopo di onorare un santo, di ottenere una grazia o
di manifestare una devozione (tradizionali e diffuse sono le novene di Natale e quelle in onore della
Madonna). I nostri contadini dei secoli passati, che annettevano molta importanza alla
meteorologia per il buon andamento dei lavori della campagna, erano soliti fare delle novene
anche in caso di siccità o di piogge prolungate. A un amico che non sa come fare a risolvere un
problema che lo assilla diciamo ancor oggi: Te gh’avrèsset de fà öna bèla noéna per significare che
quando si è umanamente compiuto il possibile, non rimane che sperare in un intervento divino. La
locuzione è proferita di solito con bonaria ironia perché non è giusto rivolgersi a Dio con la
mentalità degli antichi pagani e tanto meno pretendere che la Provvidenza debba ascoltarci ad
ogni costo. Forse dipende anche da ciò che si chiede. In ogni caso, pur se si pregasse per una
causa buona, non abbiamo il diritto di giudicare i disegni imperscrutabili del destino e ritenere che
la giustizia divina debba seguire gli stessi criteri di quella umana, tanto spesso imperfetta,
ingannevole e fallace. In questo mondo trafitto dal dolore, percosso dalla sofferenza, dove troppo
spesso trionfa l’ingiustizia e gl’innocenti, i buoni e gli onesti sono calpestati e devono soccombere
alla prepotenza, la negazione della prospettiva dell’immortalità si traduce in un incentivo
all’egoismo, alla violenza, alla vita sociale concepita come una lotta che non conosce solidarietà. È
pur vero che nessuno è ritornato indietro dall’altro mondo per dire come sono le cose nell’Aldilà
ma la novena riafferma la fede in una vita spirituale, affrancata dalla prigione dello spazio e del
tempo. Peraltro, i nostri vecchi non avevano bisogno della new age e di simili penose
estemporaneità per sapere come dovevano rivolgersi a Dio.
Fà öna buna mórt.
Indica il trapasso indolore di chi muore nel sonno o di chi si assopisce a poco a poco e senz’alcuna
sofferenza trascorre dalla vita alla pace eterna. La locuzione sottintende anche la condizione di chi
lascia questa terra in pace con Dio dopo essersi pentito dei peccati che fatalmente si compiono nel
corso dell’esistenza. Di chi è venuto a mancare in grazia di Dio e con i conforti religiosi si dice che
l’è mórt bé.
Fà öna figüra de camelòt.
‘Fare la figura del tanghero’. Si espone a questo rischio chi non è in grado di affrontare
determinate situazioni, chi dimostra di non capire i discorsi che si fanno, chi dà di sé una immagine
meschina, da minus habens o da mentecatto. La locuzione ricorda un tessuto povero che veniva
prodotto con peli di cammello nelle colonie francesi dell’Africa Settentrionale.
Fà öna sbaracada.
Fare bisboccia. I bergamaschi avranno preso in prestito la voce dai milanesi, che nello stesso
significato dicevano fà baracca, giovandosi a loro volta del castigliano barajar al tempo della
dominazione spagnola.
Fà öna spaiassada.
Si può tradurre: ‘Fare una scenata’. Ma ‘pagliacciata’ (con il rinforzo della sibilante iniziale) è
altra cosa perché implica un comportamento da pagliaccio, che richiama l’attenzione su di sé e che
sa mettere in ridicolo. Talora si odono anche locuzioni del tipo Fà ’l paiàss o Èss ü paiassù.
Fà orègia de mercànt.
Non si può pretendere che chi si dedica al commercio lavori in perdita: cambierebbe subito
mestiere. È naturale che non presti ascolto a chi lo vorrebbe indurre a rimetterci anziché a
guadagnare. Si fa orecchio da mercante quando non si dà retta a qualcuno, quando non si vuole
accedere ad una richiesta o si preferisce lasciar cadere un argomento. Forse dipende dal fatto che
non tutti i mercanti seguono la norma dell’onesto guadagno e della lealtà nelle operazioni di
compravendita. Ma l’atto di fare orègia de mercànt si estende a chi non trova mai il tempo per
ascoltare gli altri, a chi pensa solo a se stesso, a chi incomincia ogni frase con il pronome
personale io. A volte le troppe occupazioni costringono a non ascoltare. Eppure talora basterebbe
ascoltare un solo istante per dare sollievo a qualcuno. Purtroppo la società nella quale viviamo
non ci aiuta ad ascoltare le voci dei deboli e dei sofferenti. Siamo invogliati a seguire l’onda,
lasciandoci travolgere dal chiasso, dal frastuono: perfino i notiziari radiofonici e televisivi danno il
sommario delle notizie in tono concitato, con un sottofondo musicale da balera, ossessivo e
fastidioso. Che bisogno c’è di stordire la gente? E come si fa ad ascoltare chi suscita solo
inquietudine e contrarietà? Ecco che la locuzione giunge a proposito: in certi casi è opportuno fare
orecchio da mercante.
Fà passà i sólcc.
‘Far passare i soldi’ (da una mano all’altra o da una persona all’altra). Si dice quando un affare si
conclude senza perdita ma anche senza guadagno, cosicché i soldi entrati sono interamente
impiegati a sostenere i costi.
Fà pastì e pastù.
Le fiabe del tempo dei nostri bisnonni terminavano con la rima convenzionale: I à fàcc pastì e pastù
e a mé i me n’à lassàt gna ü bucù, che vuol dire: ‘hanno fatto un gran banchetto e a me non hanno
lasciato nemmeno un boccone’. Conclusa la vicenda che contrapponeva gli egoisti, i malvagi e i
prepotenti ai buoni, ai generosi e agl’indifesi si ritornava alla dura necessità di sbarcare il lunario
e di assicurarsi un piatto di minestra e il companatico. Era il passaggio, brusco ma inevitabile, dal
fantastico e dal meraviglioso alla vita di tutti i giorni, umile ed eguale. Frattanto però i bambini
avevano sbrigliato la loro fantasia immaginando un mondo lontano nello spazio e nel tempo, un
mondo vago e indeterminato nel quale si potevano incontrare fate e gnomi, streghe e orchi, prìncipi
e cavalieri, matrigne cattive e vecchiette buone, draghi dalle fauci fiammeggianti e gatti dotati di
poteri magici, giganti famelici e leggiadre principesse prigioniere di strani incantesimi. I bambini
apprezzavano il fatto che i ribaldi dovessero alfine pagare il fio delle loro malefatte e prendevano
coscienza dell’esistenza del bene e del male; naturalmente parteggiavano per i personaggi buoni,
nei quali finivano per identificarsi, e condividevano l’esigenza etica della sconfitta dei cattivi. La
narrazione non poteva che concludere con la notizia rassicurante che i vincitori, ripagati dal fatto
di aver superato ogni sorta di sacrifici e di traversie, “vissero tutti felici e contenti”. Le fiabe
aiutavano insomma a rinsaldare i princìpi morali che i piccini andavano apprendendo dalla
mamma e dal papà. Pediatri e psicologi sostengono da tempo che la fiaba non può essere surrogata
dalla televisione, dai cartoni animati, dai videogiochi, dall’informatizzatore. Dicono che le fiabe
esorcizzano i fantasmi dell’incoscio e che la soluzione positiva infonde fiducia in se stessi e
speranza per l’avvenire. Noi tutto questo lo sapevamo già. Ciò che pedagoghi e psicologi forse
ignorano è la straordinaria funzione educativa costituita dalla chiusa bergamasca, originale e
realistica. Il richiamo al pastì e al pastù, agli assaggi di cibi prelibati per palati raffinati da un lato
e a pietanze abbondanti che dall’altro possano saziare anche gli stomaci più capienti, riconduce ad
una primaria necessità vitale. L’arguta constatazione che di tutta quella favolosa imbandigione il
narratore non ha assaporato neppure un boccone insegna a fare i conti con la realtà. Perché anche
nella vita accade qualche volta di rimanere a bocca asciutta.
Fà pórs e spórs.
Letteralmente: ‘Fare porgi e sporgi’. Si dice quando due parti trovano un accordo e i spartés ol
mal a metà, cioè si sobbarcano per metà ciascuno un onere imprevisto anziché perdersi in
contestazioni e sopportare le ingenti spese di un’azione legale.
Fà scapà dét.
La traduzione letterale non illumina. Si dice quando a teatro, ad un ricevimento o in altri luoghi e
in altre circostanze si fa entrare una persona non attesa o non autorizzata: costei entra ma come se
scappasse, quindi con molta sveltezza per non dare nell’occhio. Altrettanto si dice (me l’ fa scapà
dét) se durante un ciclo di produzione si deve dare la precedenza ad un lavoro urgente.
Fà sammartì.
Significa ‘traslocare’. L’11 novembre, giorno di San Martino, scadevano le affittanze agrarie e i
fittavoli che non erano graditi al fattore e che avevano ricevuto la disdetta (l’escòmio) dovevano
abbandonare la cascina e cercare di stabilirsi presso un altro proprietario.
Fàs in quàter.
‘Farsi in quattro’. Quando occorre lavorare di buzzo buono o si deve dare una mano a chi ne ha
bisogno i bergamaschi non scherzano e quadruplicano energie e sforzi.
Fà sito.
All’infinito presente vale ‘tacere’. Ma è anche imperativo: Fà sito!, ‘Taci!’, ‘Sta’ zitto!’. In alcuni
luoghi della provincia si dice anche Tasì (oppure Tasì zó, forma integrata); l’imperativo è: Tas zó!,
non meno autorevole di Fà sito! Esiste un silenzio dettato dall’opportunità, che consiglia di
riflettere prima di parlare: dice una massima di Confucio che quando si parla molto si dicono
anche cose che sarebbe meglio tacere. Ricordo l’aurea sentenza del Manzoni: “La creanza è di non
dire le cose che possono dispiacere”. Esiste anche un silenzio che è viatico di serenità interiore:
dice un proverbio cinese che dall’albero del silenzio pende il frutto della tranquillità. Solo nel
raccoglimento e nella meditazione, lontano dal frastuono e dai chiacchiericci, si può ascoltare la
voce sommessa dello spirito: è nel silenzio che il pensiero trova la via della saggezza e della pace
interiore. Il diritto al silenzio è costantemente violato in questa nostra società del baccano. I nostri
vecchi non erano certo infastiditi dai rumori del traffico, dal frastuono dei cantieri edilizi, da lavori
stradali assordanti, dagli urli delle sirene spiegate, dalle motociclette lanciate a tutto gas da
ragazzotti privi di cervello, dal fracasso dissennato di manifestazioni musicali di massa gabellate
per concerti (un po’ di rispetto per la musica classica!). Non si litigava nei condomini per il volume
alto della televisione o della radio. Non dico che ci si debba tutti ritirare in un monastero per
apprezzare il valore del silenzio. Ci deve andare chi si sente chiamato. Ma anche noi abbiamo
diritto a non essere storditi, frastornati e rincitrulliti dal fracasso, dal bailamme e dalla baraonda
di una società impazzita, nella quale sofisticati imbonitori si affannano a vendere ogni sorta di
prodotti così da generare una quantità enorme di rifiuti e creare discariche, che ai tempi dei nostri
avi non esistevano.
Fàs mangià i lìber de la àca.
I nostri burattinai facevano spesso dire a Gioppino che si era fatto mangiare i libri dalla mucca. In
effetti il famoso burattino bergamasco sapeva leggere e scrivere stentatamente e a chi gliene
chiedeva la ragione rispondeva che da piccolo a l’ gh’ìa de stàga dré ai bèstie, doveva cioè
governare le mucche al pascolo. Mentre attendeva agli animali trovava il tempo di studiare. Ma un
giorno Gioppino si addormentò e una mucca gli divorò i libri di scuola. La locuzione valeva da
pretesto per caratterizzare rusticamente la figura del nostro burattino, estraneo alla cultura dotta
ma immerso nella cultura popolare e nella tradizione contadina. Un lungo racconto di Joseph
Conrad, intitolato “Tifone”, si conclude con quest’affermazione: “Ci sono cose delle quali i libri
non trattano affatto”. Non tutto il sapere è infatti nei libri. Si può ben dire che fino alla metà del
Novecento il folclore e il mondo contadino erano quasi estranei ai libri, costituendo una cultura
prevalentemente orale, trasmessa di generazione in generazione dai genitori ai figli, dagli anziani
ai giovani. La locuzione adombra inoltre l’antico contrasto fra cultura dotta e cultura popolare, fra
due modi di vivere diversi, con evidenti differenze di abito, di comportamento, di linguaggio. Come
l’uomo selvatico del mito alpino, anche Gioppino era contento quando pioveva perché poi sarebbe
ritornato il bel tempo e si lamentava col bel tempo perché poi sarebbero arrivate le intemperie.
Amava bere e mangiare smodatamente, ammirava con trasporto le grazie del gentil sesso, era assai
forzuto ma un po’ indolente, non esercitava un mestiere ben preciso, possedeva uno spirito
indipendente e si aggirava sempre armato di un grosso bastone. Tutti questi connotati,
riconducibili alla figura dell’uomo selvatico delle nostre Alpi, erano oggetto di derisione da parte
dell’uomo “civile”, che non si sarebbe mai fatto mangiare i libri dalla mucca. La derisione degli
aspetti rusticali e caricaturali di Gioppino ne implicava però l’esorcizzazione.
Fàs mia ardà dré.
Francesco Petrarca non amava le imbandigioni luculliane: quando era solo si accontentava per il
suo asciolvere del pane scuro che gli dava l’ortolano e dei pesciolini che riusciva a pescare nel
Sorga. Tuttavia, se doveva convitare un amico, lo accoglieva splendidamente e per fàs mia ardà dré
gli faceva apparecchiare un pranzo principesco. Anche chi pratica la sobrietà, la semplicità e la
modestia deve saper fare onore ad una persona di riguardo o ad un amico. Ecco che cosa vuol dire
fàs vardà dré: farsi criticare, esporsi ai rilievi e al pettegolezzo, perché il voltarsi indietro ad
osservare una persona è atto sicuramente inusuale. Per non farsi criticare occorre mantenere un
contegno pubblico dignitoso, soprattutto quando si fa un’offerta o un regalo, che non devono essere
indice di grettezza d’animo. Altrettanto scrupolo occorre nell’etichetta. Ma senza esagerare. Nel
manuale delle buone maniere della bisnonna leggo che la padrona di casa servendo il the alle
amiche deve indossare un abito elegantissimo e farsi assistere dai domestici, usare soltanto tazze
finissime bordate d’oro e tovaglioli bianchi trinati. E tenere in sala un tavolino sul quale le amiche
appoggeranno borsette e guanti, senza tuttavia togliersi mai il cappello… Forse era un po’ troppo.
Ma quei bei cappelli a larghe tese che usavano le dame un secolo fa, eleganti e fantastici, perché
non ritornano di moda?
Fà sö i valìs.
‘Fare le valige’. S’intende, per l’ultimo viaggio. Si tratta di locuzione eufemistica di gusto ironico,
che attenua il senso ineluttabile della morte e che presuppone serenità e forza d’animo.
Fà sö ü mes-ciòt.
‘Provocare un rimescolamento’, ‘Fare un guazzabuglio’, ‘Combinare un gran pasticcio’. La
locuzione si attaglia non soltanto alla concretezza (potrebbe, ad esempio, riferirsi ad un cibo) ma
anche a un concetto. Uso correttamente la locuzione se dico che il fenomeno dell’immigrazione
rischia di diventare ü mes-ciòt per come è concepito e per come è gestito. Occorre sgomberare il
campo da ogni demagogia, prima fra tutte quella che vorrebbe obbligarci ad essere sempre e
comunque accoglienti perché vi furono anni nei quali dalle nostre terre partivano migliaia di
persone per cercare lavoro all’estero. Gli esseri umani hanno le gambe per camminare ed è giusto
che possano andare là dove la necessità li spinge. Ma non esiste alcun obbligo morale di
accogliere persone che lasciano dei conti in sospeso nel loro paese e che da noi vengono per
delinquere, per spacciare droga, per rubare, per mettere le loro donne sulle strade, per esercitare
una concorrenza sleale nei confronti delle nostre imprese industriali e commerciali. Così non esiste
alcun obbligo morale di accogliere un numero illimitato di persone, a costo di collassare i servizi
pubblici e di impoverire la nazione. Altro argomento demagogico è quello di accusare chi non è
sempre e comunque accogliente di essere razzista e di aver paura del diverso. Dietro questa
autentica scemenza si nasconde il calcolo spregiudicato degli usurai della grande finanza,
interessata ad abbattere le sovranità nazionali e ad imporre le leggi del loro strozzinaggio. Strano
che a molte persone, che si definiscono progressiste, stiano a cuore i cinici interessi di una ristratta
casta di globalizzatori. Ancor più strano che si esalti esteriormente il sentimento nazionale
diffondendo ovunque il tricolore e intonando in ogni circostanza l’inno di Mameli e che al
contempo si favorisca l’annacquamento e il deperimento della cultura e dell’etnia italiana. Se
sull’identità etnica e culturale di una nazione non si devono fare tante retoriche, non si dovrebbero
neppure favorire dei mes-ciòcc. A che cosa si ridurrebbe domani l’Italia se non fosse più
degl’italiani? E l’Europa dovrebbe dimenticare la sua civiltà ed annullare il suo immenso
patrimonio culturale sotto i colpi disgreganti di un multiculturalismo esasperato e di flussi
migratori stravolgenti? Est modus in rebus.
Fà stà a pà e pessì.
Esiste la variante fà stà a pà e cicì, che si discosta stranamente dal dettato originario della
locuzione: non ha infatti senso mettere a dieta una persona somministrandogli, oltre al pane, dei
buoni bocconcini di carne tenera, quel che nel linguaggio infantile si chiama cicì (da cìcia, ‘carne
adiposa’). Ha senso invece, avendo a che fare con un lavativo che avanzi delle pretese, minacciare
di trattarlo a pà e pessì perché i pesciolini, che vanno fritti in padella, sono assai scarsamente
nutrienti e hanno poco sapore, cosicché si mastica tanto per mangiare poco.
Fà stà coi bödèi sö l’aspa.
Significa: ‘Far stare in un’ansia spasmodica’. È locuzione di un realismo sconcertante: per effetto
d’iperbole s’immagina che sull’aspo si trovino le budella al posto del filo da raccogliere in
matassa.
Fà stà ’ndré ’l fiàt.
Letteralmente: ‘Fare stare indietro il fiato’. È più che ‘trattenere il respiro’, che implica un atto di
volontà, perché secondo questa locuzione la respirazione viene interrotta a causa di un evento
esterno. Accade quando si viene messi in ansia o in apprensione nel timore di conoscere alcunché
di molto spiacevole. E se un amico ha qualche esitazione nel comunicarci una notizia importante, ci
viene spontaneo dirgli: Parla, dóca, che te me fé stà ’ndré ’l fiàt, ’Parla, dunque: mi stai facendo
fermare il respiro’. Ho udito la locuzione anche nel senso di ‘Non dar tregua’. Esempio: Te me fé
stà ’ndré ’l fiàt, ‘Non mi stai dando tregua’.
Fà sunà i campane.
Un tempo non esisteva altro mezzo che il suono delle campane per avvertire la comunità di un
evento straordinario. Apprendendo un fatto inaudito, incredibile e sconcertante, esclamiamo ancor
oggi: Laùr de campana a martèl! Suonar le campane con il martello equivaleva a suonare a stormo,
cosa che annunziava un evento grave e pericoloso, come l’approssimarsi di un esercito nemico, il
timore di una inondazione, lo scoppio di un grande incendio. Quanti erano intenti al lavoro della
bottega o della campagna accorrevano nella piazza per apprendere la nuova e decidere il da farsi.
Anche il sunà i campane a la lónga, cioè a distesa, non era fatto di tutti i giorni. Ancora
nell’Ottocento a Bergamo quando si apprendeva un evento increscioso, un accadimento assurdo o
un atto sconsiderato, si esclamava: Fì sunà ’l Campanù!, con allusione alla grande campana della
torre civica di Piazza Vecchia, che una volta era suonata a mano: i rintocchi possenti erano uditi in
gran parte della pianura, oltrepassavano l’Adda e col vento favorevole erano percepiti fino alle
porte di Milano. La tradizione del suono possente, austero e solenne dei centottanta colpi del
coprifuoco battuti alle dieci di ogni sera dal Campanone di Bergamo Alta dura dal Medio Evo: in
quei rintocchi vibra la voce ammonitrice della storia.
Fà turnà ’ndré i mórcc.
Vale: ‘Resuscitare’. È un’iperbole; di solito si dice dell’acquavite o di un cordiale che sia dato da
bere ad un persona che si è sentita mancare.
Fà ü bèl afare.
L’intonazione della voce risulta non di rado determinante nel precisare il significato di una frase.
Se io dico ad un amico che ha concluso un bell’affare, le mie parole suoneranno come complimento
o come disapprovazione a seconda del tono che avrò dato alla mia voce. Ci si può affannare a
fermare sulla carta le parole rare e le locuzioni tipiche della lingua bergamasca per documentarle
e tramandarle ma spesso ci si rende conto che non basta scrivere, poiché l’espressione dei pensieri
e dei sentimenti dipende anche dal suono della voce. Il dire a un amico: T’é fàcc ü bèl afare! può
rappresentare un rimprovero se le parole sono pronunziate con ironia. E quante volte può accadere
di ricorrere all’ironia per deplorare comportamenti improvvidi e decisioni prive di lungimiranza!
Se Tarquinio il Superbo fosse stato re di Bergamo anziché di Roma, nella vicenda dei libri sibillini
sarebbe stato sicuramente canzonato dai bergamaschi. La leggenda narra infatti che nel 461 a. C.
la sibilla cumana avesse proposto a Tarquinio di acquistare i nove libri degli oracoli e delle
profezie che ella teneva presso di sé. Il re rispose che il prezzo richiesto era troppo alto. La sibilla
allora bruciò tre libri e offrì al re i sei rimasti allo stesso prezzo. Tarquinio s’incaponì e rifiutò
ancora. Più testarda dello stesso re, la sibilla arse altri tre libri. Costernato, Tarquinio la supplicò
di non dare alle fiamme anche i tre libri rimasti, che si risolse ad acquistare senza discutere,
pagando il prezzo che la sibilla aveva richiesto per l’intero corpo dei nove libri. Si deve proprio
dire che Tarquinio, indisponendo la sibilla, l’ìa fàcc ü bèl afare, se si pensa all’importanza che era
attribuita a quei libri, nei quali erano scritte regole rituali da osservare per la salvezza dello Stato.
I tre libri superstiti furono custoditi nel tempio di Apollo Palatino e consultati nei momenti più
gravi della vita dell’Urbe finché nell’83 a. C. un incendio li distrusse. Per volere del Senato il testo
fu parzialmente ricostruito da una commissione di quindici esperti sulla scorta dei frammenti
rimasti e della tradizione. Anche occupandoci delle locuzioni bergamasche facciamo parte a tutto
campo della storia. Ricordo in proposito i seguenti versi di Cesare Pascarella: Vedi noi? Mò noi
stamo a fa bardoria: / nun ce se penza e stamo a l’osteria, / ma invece stamo tutti ne la storia. La
storia la fanno gli uomini con le loro azioni, coi afare che i fà. E basta l’intonazione della voce per
esprimere un giudizio positivo o negativo, come nel caso di Tarquinio il Superbo, che l’ìa pròpe
fàcc ü bèl afare!
Fà ü laùr piö grand de chèl che l’è.
Tutto è relativo e dunque non si devono mai considerare le cose più grandi di ciò che sono.
Domandarono una volta a Mario Luzi se l’Accademia di Svezia, non avendo preso in
considerazione la sua candidatura al Premio Nobel per la letteratura, fosse lontana dalla poesia
colta e impegnata. Il poeta rispose: “Il Nobel è un premio; come tutti i premi, è conferito a chi in
un determinato momento è favorito da varie circostanze. Solo in casi eccezionali il Nobel è stato
attribuito a personalità di grande valore”. Verissimo. Basti pensare che il Nobel per la letteratura
non è stato conferito ad un grande poeta di rilievo europeo come Giovanni Pascoli e neppure a
Gabriele D’Annunzio, a Riccardo Bacchelli, a Giuseppe Ungaretti, a Carlo Emilio Gadda. Dante e
Virgilio sono fra i più grandi poeti di tutti i tempi ma non ricevettero mai un premio.
Fà ün öv fò de la caàgna.
Si sa che gli animali da cortile vanno seguiti costantemente. Al giorno d’oggi sono assai poche le
famiglie che dispongono di un’aia o di un cortile e di un prato di loro esclusiva proprietà dove
possano razzolare le galline; sono assai poche anche le donne disposte a far la vita della massaia
o, come si diceva da noi un tempo, della regiura (dal latino regere, ’regnare’, ‘comandare’,
‘governare’). La regiura era la padrona della cascina, che esercitava con assennatezza la sua
autorità indiscussa su tutto l’andamento della casa colonica; a lei tutti gli uomini della famiglia si
rivolgevano con rispetto e deferenza, dandole del vu, ‘voi’. Adesso i polli sono allevati con criteri
industriali in batteria per ottenerne l’accrescimento rapido ma si è perduta la nozione del sapore
della carne e delle uova dei ruspanti. È rimasta però nell’uso comune questa locuzione, che risale
al tempo in cui le galline facevano le uova nella stia. Così di una persona diciamo che l’à fàcc ün
öv fò de la caàgna per significare che ha compiuto un gesto o un atto insolito, che non ci
aspettavamo. Le nostre massaie di un tempo erano infatti tanto brave da abituare le galline a
deporre le uova in una cesta; se ciò una volta non accadeva, la massaia si preoccupava e si
domandava che cosa avesse potuto distogliere la gallina dalla sua abitudine. A Treviglio si dice: fà
l’öv fò de la scurbèta. È la stessa cosa. Il mondo contadino aveva innumerevoli tratti comuni, che
l’uomo contemporaneo non conosce. Il mito del “villaggio globale” ci preclude il rapporto
diuturno che i nostri avi intrattenevano con la terra. E con artifici e virtualità si pretende di farci
credere che avremmo trovato la gallina dalle uova d’oro.
Fà ü trentü.
In un breve testo bergamasco della prima metà del Cinquecento, un testo che traduce il principio
della novella IX della prima giornata del “Decamerone” di Giovanni Boccaccio (e che appare in
una strana grammatica italiana scritta in latino e pubblicata nella prima metà dell’Ottocento) si
legge la locuzione fà ü trentü nel significato di ‘fare una scenata’, ‘trattare villanamente’. Oggi in
bergamasco diremmo fà öna spaiassada. Non ho mai sentito dire fà ü trentü; e penso che da molto
tempo la locuzione sia caduta in disuso perché non è registrata né dallo Zappettini né dal
Tiraboschi. Lo Zappettini registra tö sö ’l trentü, ‘fare fagotto’, ‘andarsene’: finita la mesata, c’era
chi se ne doveva andare ma chissà se all’atto del saldo del conto tutto filava liscio o se si
questionava. Forse ci scappava una scenata, ü trentü appunto… Ma sembra che il detto dipenda
dall’uso, invalso secoli or sono, di licenziare i trovatelli assegnando loro trentuno monete una
tantum. Per i ricercatori dirò che il breve testo bergamasco (del quale non si conosce l’autore) fa
parte di una crestomazia di analoghi testi dialettali (veneziano, padovano, mantovano, napoletano)
composta dal filologo Leonardo Salviati, passato alla storia solo per essere stato avversario di
Torquato Tasso (il che, sinceramente, non costituisce affatto un titolo di merito).
Fà zó öna spatafiada.
Che cosa sia una spatafiada possono spiegare solo i bergamaschi veraci. Di uno scritto lungo,
prolisso e poco o punto comprensibile a intelligenze comuni si dice che l’è öna spatafiada. Il
termine non sottende soltanto la tradizionale diffidenza della gente semplice per la saccenteria e gli
sfoggi di erudizione ma tradisce anche il senso d’imbarazzo che si prova a contatto con linguaggi
criptici o con un’esposizione involuta, appesantita da termini inusuali. Il termine deriva certamente
da epitaffio per il tramite della voce volgare pataffio con la quale nell’alto Medio Evo si
designavano le iscrizioni sepolcrali redatte in latino epigrafico, caratterizzato da abbreviazioni,
come il trigramma o.d.s., iniziali della formula obiit diem supremum, che si traduce ‘morì’. Tutta la
nostra storia dei secoli passati rivive nella solennità e nella stringatezza del latino lapidario inciso
nei marmi che ornano le chiese, i musei, le pinacoteche, le accademie e le dimore storiche. Peccato
che la più grande lingua del mondo antico, una lingua alla quale la cultura moderna deve
moltissimo, sia stata intesa da certuni come strumento di discriminazione sociale e sia stata perciò
cacciata dalle scuole. Un bene va messo a disposizione di tutti, non eliminato. Non si dovrebbe
privare un popolo di una parte tanto importante delle sue radici culturali. Questo non è progresso
ma arretramento. Ciò non significa che si debbano accettare senza colpo ferire i discorsi fumosi, le
espressioni oscure, i testi ermetici e impenetrabili. Risulta scostante e perfino irritante il linguaggio
di certa burocrazia parassitaria, che tende a nascondere la sua inefficienza dietro il paravento di
un linguaggio che i rappresentanti del popolo, a qualunque partito appartengano, dovrebbero
sempre contrastare con risolutezza.
Ferà la spusa.
È locuzione scherzosa che non si ode più ma che nei nostri paesi si usava ancora un secolo fa. Si
diceva quando i promessi sposi, accompagnati dalle due mamme, si recavano presso un orefice a
comperare l’anello della sposa, oltre agli orecchini, a una spilla e a una catenella. Questi oggetti
potevano anche essere di bigiotteria ma l’anello doveva essere d’oro e la spesa toccava alla madre
del fidanzato. In “Provincia e paese” (1934) di Sereno Locatelli Milesi si legge: “Ferà la spusa è
espressione poco gentile ma significativa, che è forse il ricordo di antica tradizione la quale voleva
che simbolicamente il dono nuziale indicasse l’auspicio, per la futura famiglia, di un lavoro
proficuo e di una completa sottomissione da parte della donna: si porta a ferà la spusa come si
mettono gli zoccoli alle zampe del cavallo votato ormai alla fatica, e come gli si impone il morso,
fissato dalla briglia tenuta con ferma mano dal conducente”. La locuzione era indubbiamente
scherzosa, passando una bella differenza fra una donna e un cavallo! Ma se si pensa alle
incombenze affidate alla donna nella società contadina ci si rende conto del vincolo al quale ella si
sottometteva e delle responsabilità alle quali andava incontro sposandosi. Era una vita di grandi
sacrifici, affrontata spesso con serenità e forza d’animo, in un mondo che per tanti versi era
arretrato e ingiusto ma che per altri versi era meno caotico e convulso di quello in cui viviamo.
Fèsta granda in paìs.
Si dice quando si vuol esprimere giubilo, perché la locuzione richiama nella sua sinteticità il
tripudio popolare per un evento particolarmente lieto. Ai nostri tempi se la squadra nazionale di
calcio vincesse il campionato mondiale vi dico io che festa grande si farebbe, che gazzarra e che
caroselli di automobili strombazzanti e di gioventù vociante fino alle ultime ore della notte, alla
faccia della pubblica quiete. Un tempo la festa intesa come manifestazione di contento popolare era
limitata alla giornata del santo patrono e al tempo del carnevale, cui seguiva la quaresima,
interrotta nel suo bel mezzo: allora si abbruciava allegramente in piazza il fantoccio della Vecchia
o quello del póer Piéro, rappresentazione dell’uomo selvatico delle nostre Alpi. Un po’ sacra e un
po’ profana, la festa granda non poteva che essere coinvolgente e solenne: essa conciliava le
esigenze della tradizione rurale, saldamente ancorata ai ritmi delle stagioni e alle leggi della
natura, con le esigenze della spiritualità individuale e collettiva, cosicché tutta la comunità si
sentiva in obbligo di parteciparvi. La festa era la sosta per ritrovarsi, l’occasione per indossare
panni eleganti e decorosi oppure per mascherarsi e celiare, il pretesto per laute imbandigioni, il
motivo per radunarsi in piazza, là dove si affacciavano la chiesa e il palazzo civico. Ora si tende ad
abolire la festa, che viene sempre più ridotta a “tempo libero”, non ci si ritrova più in piazza e ci
s‘intruppa nelle discoteche e nei grandi magazzini, moderni templi dell’alienazione. Non ci
s’incontra più, non si dialoga e non si riflette: ci si aggrega, come gli animali del branco. Il tempo
della festa non solo perde il suo spirito comunitario ma per giunta non è più tappa sul cammino
dell’interiorità, della spiritualità. Se manca la coscienza della comunità che festa è?
Una curiosità: a Levate una volta mi capitò di sentire: “I à fàcc ü festù de la cà del diàol”. Quasi
un ossimoro, perché l’Inferno non è luogo di festa bensì di dolore e di sofferenza. Ma la fantasia
popolare si sbriglia ed ama l’esagerazione e il paradosso.
Fiaca, barbér, che l’aqua la scòta.
Si dice per raccomandare di non agire con precipitazione. Spesso l’affrontare d’impeto un
problema o una situazione non può che recare danno, come farebbe un barbiere che intingesse il
pennello nell’acqua bollente. L’esortazione assume un tono comprensibilmente imperativo
riflettendo la sensazione di dolore e il disappunto del cliente che si sente passare quel pennello
sulle guance. Fiaca non è che il corrispettivo dell’italiano fiacca (lat. flaccus).
Ficà ’l vèl.
Le lingue accolgono talora anche vocaboli e locuzioni gergali ed il bergamasco non è da meno
degli altri linguaggi nell’impossessarsi di parole criptiche entrate a poco a poco nell’uso comune.
Probabilmente nel nostro caso si tratta di una locuzione proveniente dal furbesco della malavita
dei secoli passati ma il bergamasco l’ha assunta dal gergo dei pastori della Valle Seriana, il
famoso e favoloso gaì che quasi nessuno ormai sa più parlare. Ficà ’l vèl significa ‘partire’,
‘andarsene’ ma in un senso proprio della malavita, cioè ‘svanire’, ‘dileguarsi’; sarei tentato di
tradurre: ‘smammare’. Nel primo capitolo del poema parodistico “Giopì a l’Infèren” (1930) di
Giuseppe Cavagnari trovo il verso “i gambe a spala e l’à ficàt ol vèl”. Cavagnari scrisse nel
dialetto ottocentesco di Romano Lombardo e si dilettò di usare nelle sue poesie locuzioni e vocaboli
che udiva dalla viva voce dei contadini della Bassa Bergamasca. I pastori seriani durante la
transumanza passavano anche di là e poterono lasciare qualche traccia del loro gergo nella
parlata romanese.
Finì de trebülà.
L’à finìt de trebülà, diciamo apprendendo la notizia della morte di una persona particolarmente
provata da una malattia o da qualche disgrazia. Ma il significato del detto si estende al senso della
vita umana, intesa come una serie di triboli ed una lunga sofferenza.
Finì la cöcagna.
Quando si deve spartire una torta, si ha a che fare con appetiti diversi e con differenti e concorrenti
criteri di spartizione. Chi ha più appetito ma spesso chi è più ingordo impone il suo crtierio agli
altri con le buone o con le cattive e finisce per aggiudicarsi l’intera torta. Non so se la voce
provenzale cucanha indichi genericamente uno stato di letizia connesso con una straordinaria
abbondanza di torte, di leccornie e di ogni altro cibo prelibato, stato che s’identificava un tempo
nel favoloso paese di Cuccagna, gemello del paese di Bengodi, o se contenga l’idea
dell’aggiudicazione della torta e di ogni altro ben di Dio mediante il superamento di una gara,
consistente nell’arrampicarsi su di un palo scivoloso in cima al quale fanno bella mostra di sé
alcune derrate alimentari appetitose e pregiate. Ma per i bergamaschi la cöcagna è una condizione
quasi indescrivibile di benessere quale il più esperto ed avveduto dei governanti non saprebbe mai
realizzare, una condizione di benessere tale da permettere di tripudiare e di gavazzare da mane a
sera per la gran copia di beni materiali ed in particolare di ogni cibo squisito. Da noi nelle
pubbliche feste si issava in piazza l’albero della cuccagna. Ora non si usa più perché l’è finida la
cöcagna. Per chi è rimasto ai piedi dell’albero essa non è mai incominciata: è come se la gente
fosse stata fatta salire su di un treno per una gita di piacere ma poi ne fosse stata fatta scendere
prima della partenza, magari con il capotreno che in tono di scherno le avesse detto: “Siamo al
capolinea, la corsa è finita”. In effetti a molta gente non interessa di sapere che il termine cöcagna
deriverebbe secondo i filologi da una voce gotica kōka, ‘torta’. Perché non l’ha nemmeno
assaggiata.
Fò del ròss.
Noi italiani non abbiamo soltanto il patrimonio artistico più consistente del mondo; abbiamo
anche, grazie ai nostri dialetti, derivati direttamente dal latino parlato, un patrimonio glottologico
che non trova l’eguale in alcun’altra nazione europea. Purtroppo si fa ben poco per salvare questa
immensa risorsa linguistica; anzi, si fa moltissimo per distruggerla barbaramente, in nome di un
falso progresso e di un egualitarismo avvilente. Ogni parola bergamasca che non abbia la radice
comune con il corrispondente termine della lingua italiana cade in disuso e rischia di perire in
breve tempo. È il caso di ròss, voce di probabile origine celtica. L’inglese ha un termine analogo,
presente nella locuzione rush of people, ‘affluenza di gente’, ‘calca’. Pietro Monti nel suo
“Vocabolario della Gallia Cisalpina” (1836) accostò il comasco ròsc ad analoghe voci delle
sopravvissute lingue celtiche delle isole britanniche. Il bergamasco ròss indica il gruppo, la
schiera, la moltitudine. Cosi öna rossada indica una sfilata, un assembramento amorfo, una
quantità consistente e indistinta di individui. A comporre il ròss (o la rossada) possono essere infatti
non solo degli uomini ma anche degli animali, come un certo numero di pecore al pascolo o uno
stormo di piccioni o di anatre selvatiche. Tràs fò del ròss equivale a ‘uscire dal branco’; la
locuzione è quanto mai attuale perché indica il riscatto dell’identità davanti al grigiore
dell’omologazione, la rivalsa dell’individualità cosciente rispetto al livellamento della
globalizzazione, la reazione dell’autonomia e della consapevolezza contro la distruzione delle
radici e la cancellazione delle costumanze tramandate dagli avi.
Fortünàt come ü cà in césa.
Questo paragone spontaneo, comune a tutti i dialetti lombardi, ricorre all’ironia per ricordare che
le chiese sono luoghi di culto. I cani non pregano e quindi non devono entrare: non è il loro posto.
Se entrano, giustamente ne sono allontanati. Anche i cani fanno parte dell’opera della creazione
ma per loro natura sono dispensati dal credere e dal pregare. Proprio perché ha una natura
diversa da quella del cane, l’uomo a volte ritiene di potersi dispensare da solo.
Galantòm de ’Lbì.
Evidentemente un tempo gli albinesi avevano fama di essere onesti presso gli altri bergamaschi
come presso i milanesi godevano di questa fama i sondriaschi (galantòm de Sondrio, si diceva
nell’Ottocento a Milano). Non ho mai udito questo detto, che tuttavia doveva essere usato perché
figura in un sonetto bergamasco di Sereno Locatelli Milesi. Senza ombra di dubbio i galantuomini
si sono rarefatti. In questi nostri tempi l’uomo si attacca tenacemente a ciò che lo alletta e
raramente riesce a vedere le cose con un certo distacco: in questo modo si finisce per diventare
schiavi di ciò che si possiede, si desidera la roba d’altri, si prova invidia per chi è più ricco, si
smarrisce la nozione dell’onore e della dignità e si è tentati di compiere azioni disoneste. In una
società in cui i furbi la fanno franca, i dritti sono premiati e i disonesti sono esaltati; in una società
in cui una persona è stimata soltanto per il denaro che possiede, come pretendere che il
galantomismo goda di buona considerazione?
Gandì pumpùs.
Dice una vecchia filastrocca della Media Valle Seriana: Gandì pumpùs, Léf en d’öna braga, Péa
sparnigada, Bargégia tèra róssa, Cazzà lóngh i décc, Casnìgh cópa gécc. In Val Camonica si dice:
Mòn patatér, Èza segalér, Incüsen mès banchér, perché Monno era nota per la coltivazione delle
patate, Vezza d’Oglio per i suoi campi di segale e Incudine per la ricchezza dei suoi abitanti.
Arguzia e sarcasmo si alternano nel definire l’aspetto dei luoghi e nel cogliere l’indole della gente.
Si sa per altro che i blasoni popolari attribuiscono ironicamente una determinata caratteristica,
per lo più negativa, agli abitanti di un paese. Per fare un esempio, gli abitanti di Seriate sono
chiamati àsegn, quelli di Zogno möi e quelli di Parzanica diàoi, intendendo per diàoi i cervi volanti.
Sembra il caso di annotare che il toponimo dovrebbe suonare Parzanìca e non Parzànica perché
nella lingua locale si dice Parsanéga. Ma gl’italianizzatori, con una presunzione degna di miglior
causa, hanno combinato ben altri disastri stravolgendo completamente il senso e l’etimo di tanti
nostri toponimi storici.
Ghe n’è piö tance de fò che de dét.
Ci sono più matti fuori che negl’istituti manicomiali. Ora poi che secondo una certa corrente di
pensiero il pazzo non esisterebbe, che cosa si deve dire? In realtà, non essendo certe forme curabili
con criteri ambulatoriali e strutture territoriali, dalle cronache si apprende che spesso in un
momento di raptus ammalati di mente sostanzialmente privi di cure adeguate e di sorveglianza
uccidono parenti e conoscenti senza che ciò induca a riformare le leggi vigenti. Come non di rado
accade, abbonda la demagogia e mancano la funzionalità e l’efficienza: i problemi sono così
scaricati sulla società, che ne deve subire le tristi conseguenze. La stessa anomalia il detto
popolare riferisce ai delinquenti: ce ne sono più fuori che dentro e per effetto di una legislazione
eccessivamente indulgente ladri matricolati, imbroglioni incalliti e violenti recidivi sono rimessi in
libertà dopo una breve detenzione. Ma accade anche che a causa di pene profondamente ingiuste
perché troppo miti vengano liberati feroci criminali e assassini che hanno compiuto delitti odiosi
ed efferati e ciò offende fortemente non solo le vittime e i loro parenti ma la stessa giustizia, che
dovrebbe essere anzitutto severa. Dura lex sed lex, dicevano gli antichi.
Ghe n’ìv gna ü gna ù?
Si narra che il cardinale bolognese Giuseppe Mezzofanti si vantasse un giorno con il cardinale
bergamasco Angelo Maj di essere poliglotta e non soltanto di conoscere profondamente alcune
lingue antiche e moderne ma di trovarsi a proprio agio anche con tutti i dialetti d’Italia, che egli
sosteneva di comprendere benissimo. Il cardinal Maj da buon scalvino lo mise alla prova e gli disse
di tradurre il seguente scioglilingua: Ghe n’ìv gna ü gna ù? Gh n’ó gna ü gna mé!, che tradotto in
italiano suona: ‘Non ne avete nemmeno uno neanche voi? Non ne ho nemmeno uno neanch’io!”. Il
cardinal Mezzofanti rimase di stucco ed esclamò: “Ma questo è un miagolio!”. Il cardinal Maj
allora dovette spiegare che la frase aveva un senso preciso, essendo riferita alla mancanza di
quattrini. Naturalmente gl’incolti e i babbei prendono spunto da scioglilingua come quello
proferito dal cardinal Mai per cianciare della “babele dei dialetti”, che sarebbero “elementi di
arretratezza e di divisione”, negando così la ricchezza della nostra storia e la straordinaria risorsa
del nostro immenso patrimonio glottologico. Anche in italiano esistono gli scioglilingua, che sono
spesso degli autentici non-sense. Si pensi a questo: Il ratto rosa rose il raso rosso. Oppure a
quest’altro: Sisto sesto spesso s’intesta e se insiste resiste. Dovremmo allora prendercela con la
lingua nazionale e metterla al bando come pretenderebbero di fare gli snob con i dialetti?
Gna ’n gré gna ’n farina.
Conversavo tanti anni fa con una gentildonna bergamasca, appartenente alla vecchia nobiltà colta
e raffinata, capace di svariare dall’italiano aulico, impreziosito da citazioni dai classici, al
bergamasco puro, da manuale, parlato di gusto, con il piacere dell’espressività dei vocaboli e delle
locuzioni. La dama non si capacitava che i giovani tendessero a non parlare più in dialetto. “Stento
a credere – mi diceva – che esistano persone nate e residenti a Bergamo le quali non solo non
sanno parlare in bergamasco ma addirittura non lo capiscono. Ma come s’ fài – soggiungeva
cambiando naturalmente registro – a stà ché a Bèrghem e a mià capì ol nòs’ parlà gna ’n gré gna
’n farina?”. La mia interlocutrice sosteneva giustamente che la lingua usata per tanti secoli dagli
antenati tramanda l’anima, il costume e la psicologia di una gente, ne riflette l’etica e il senso
comunitario, richiama la conoscenza del mondo della natura, delle attività della campagna,
dell’artigianato, del commercio e dell’industria. La gentildonna d’antico lignaggio orobico, i cui
rami risalivano fino ai secoli medievali, se n’è andata ormai da diversi anni: le è stato così
risparmiato il sommo disdoro di assistere alla moria della lingua, alla rovina delle radici, al
depauperamento e alla dispersione dello spirito della comunità. Un tempo il dialetto era il pane
quotidiano della gente di tutti i ceti sociali. Ora il non parlarlo e il non capirlo più gna ’n gré gna
’n farina equivale a non mangiare mai il pane di frumento, come se non si avesse più contezza del
frumento né in chicchi né macinato. Significa perdere il senso della storia e del territorio nel quale
si vive.
I à sunàt ol Campanù.
Ancora nell’Ottocento il suono serale del Campanone era avvertito dagli abitanti della città di
Bergamo come invito al riposo notturno. Alle ventidue di ogni giorno la grande campana della
torre civica di Piazza Vecchia suona i centottanta colpi del coprifuoco, un tempo battuti
manualmente con un grosso martello dal campanaro comunale. La tradizione, assai antica, risale
probabilmente all’epoca comunale: i colpi erano battuti con lentezza e il suono grave e solenne
annunziava la chiusura notturna delle porte della cerchia muraria di Bergamo Alta. Al termine dei
centottanta colpi i guardiani chiudevano le porte e concedevano l’accesso dal ponticello pedonale
di una pusterla laterale soltanto ai cittadini che si facevano riconoscere. L’onda sonora sovrastava
austera l’intera città, si propagava autorevolmente sulla pianura e nei giorni di vento favorevole
valicava l’Adda ed era udita fino alle porte di Milano. Non si cancelli la bella tradizione del suono
serale del grande bronzo che richiama alla concordia civile e che ricorda le virtù etiche della gente
bergamasca.
I fiöi del Coleù.
I bergamaschi un tempo amavano chiamarsi così. Anche i s-cècc del Coleù, che è la stessa cosa (scèt valse all’origine per citto, ‘piccolo’, indi significò ‘ragazzo’ e infine genericamente ‘figlio’). Il
triorchitico condottiero generò, a quanto si sa, soltanto figlie femmine ma l’orgoglio di discendere
in linea retta, almeno idealmente, dal celebre capitano di ventura è ben comprensibile, quando si
pensi alla fama attinta dal Colleoni, monumentato a Venezia e a Varsavia, e quando si consideri il
suo attaccamento alla terra orobica (volle il suo mausoleo nel cuore di Bergamo Alta e dal suo
feudo di Malpaga vigilò il confine abduano tenendo a bada le truppe spagnole di stanza a Milano).
Se questa è la “bergamaschità”, sta bene. Ma al di là di un concetto genericamente “romantico”,
risulta assai problematico far indossare ai fiöi del Coleù l’avviluppante camicia di Nesso della
“bergamaschità”, perché non si può disquisire né di razza né di etnia, non si può concionare né di
civiltà né di cultura, non si possono azzardare definizioni scientifiche in ordine alla psicologia,
all’indole, ai comportamenti. Né i differenti aspetti del territorio possono determinare precise
tipologie che distinguano gli abitanti della città da quelli della provincia e gli abitanti della
montagna da quelli della pianura. Altrettanto si dica del tipo bergamasco, che risulta impossibile
profilare e ritagliare perché sia raffrontato con il tipo milanese, il tipo bresciano, il tipo comasco.
Non si può negare che esista una generica “fisionomia” bergamasca, legata alla storia e alle
vicende del territorio, alla lingua locale e ai suoi proverbi e ai suoi detti, allo spirito tradizionale
della gente, all’etica condivisa. Ma le comunanze con i bresciani, i milanesi, i comaschi, per citare
soltanto gli abitanti geograficamente più vicini, non sono poche. Accontentiamoci dunque della
nostra generica e indefinibile “bergamaschità”. Volendo evitare una sovrapposizione del verbo
bergamasco schità, ‘schizzare’, voce fin troppo domestica, stridente e sconveniente, razzolante fra
le gallinesche deiezioni delle aie e dei pollai, ci si diriga verso i lidi aulici di una vaga ed erudita
“orobicità”. Del resto, dipende sempre dai punti di vista: sappiamo come ci vediamo noi ma non
siamo ottimi giudici perché ci conosciamo fin troppo bene; sappiamo anche come ci vedono gli
altri, che non sono giudici attendibili, perché ci conoscono poco e male. Ghe n’è de chèi, pò, che
chi sà chi i se crèd de èss…
Íga adòss ol folèt.
Dei ragazzi molto vivaci si dice che i gh’à adòss ol folèt, sono cioè spiritati come un folletto, figura
immaginaria e mitica delle leggende popolari, che si divertiva come un discolo a fare dispetti di
ogni sorta alle massaie.
Íga amò de mangiàn de polènta.
Di una persona impreparata, inesperta di un mestiere o di un’attività, oppure più genericamente di
chi non abbia sufficienti esperienze della vita per cavarsela bene da solo diciamo che l’ gh’à amò
de mangiàn de polènta, perché la polenta è il cibo per antonomasia, almeno dalla metà del secolo
XVII, quando la coltivazione del mais, già ampiamente diffusa nel Rovigotto, fu introdotta su larga
scala nella Bergamasca. Che poi nel 1931 si sia celebrato il centenario della polenta è fatto
attinente al gusto dello scherzo ilare e festoso della bergamascheria del tempo. La notizia,
spacciata goliardicamente per vera, rimbalzò da Bergamo a Milano e fu solennemente accreditata
da alcune importanti testate giornalistiche, prima fra tutte il “Corriere della sera”, che non si
peritò di dedicare all’avvenimento due compatte colonne di piombo. Si può immaginare quali risate
partirono da Bergamo quando si constatò che la burla del centenario aveva sortito l’effetto voluto.
Per ritornare alla nostra locuzione, essa è solitamente proferita nei confronti di persone che non
solo dimostrano imperizia o scarsa capacità in un certo mestiere o in una determinata attività ma
che per giunta sopravvalutano se stesse dandosi perfino qualche aria. Non ci si deve meravigliare
di trovare tipi tanto incapaci quanto boriosi in questo mondo chiassoso e stordito, tutto proteso a
gloriare l’esteriorità e la vanità; ormai ci si deve stupire che esistano ancora persone tanto ben
educate e ammodo da praticare le virtù dell’umiltà e della modestia pur essendo capaci ed esperte.
Però c’è anche gente che sa giudicare con obiettività i fatti e che ha in uggia le chiacchiere inutili,
gente che sa bene come si possa crescere e diventare belli e intelligenti mangiando buone fette di
polenta. Come fanno a saperlo quanti non hanno mai mangiato la polenta con il radicchio tagliato
molto sottile e con mezzo uovo lesso, ovvero con d’öna ciapa de öv? Sia detto en passant: è voce
nobile ciapa, scaturita dal tardo latino clapa, derivato dal classico capulus, donde il cappio della
lingua italiana. Ma diciamo ancora della polenta. Bisogna provare a mangiarla con i fichi secchi
per capire che il metro di giudizio sull’esperienza e sulla capacità di una persona dipende anche
dalla quantità di polenta mangiata; bisogna assaggiarla, come facevano una volta i nostri
contadini, con le cipolle cotte in un guazzetto in cui si trovi qualche brandello di salsiccia e tutto
improvvisamente si chiarisce. Ecco perché più un tale si dà arie per la sua boria e più deve
mangiare polenta. Non c’è altro rimedio.
Íga botép.
Chi ha buon tempo non ha preoccupazioni di sorta. Potrebbe dunque essere considerato un
buontempone. Ma il botép non è soltanto l’assenza di assilli e di rovelli, la spensieratezza, il beato
rilassamento: esso costituisce in realtà il divertimento puro e consiste nel saper trascorrere gran
tempo della giornata in allegria celiando e sollazzandosi con le trovate più piacevoli. L’acme del
godimento si raggiunge nell’architettare scherzi e nel mettere in ridicolo i tangheri e i babbei.
Ricordo che un amico un giorno mi propose di giocare un tiro terribile a scorno di uno dei tanti
palloni gonfiati che s’incontrano in giro per la città. Gli risposi che non me la sentivo di tenergli
bordone perché la beffa sarebbe stata troppo atroce. E l’amico, che non si rassegnava all’idea
feroce: E ’l botép indó l’ làsset?
Íga del selvàdegh.
Diciamo che la gh’à del selvàdegh, ‘ha del selvatico’, una persona che vive appartata e che non
ama la compagnia degli altri, una persona di poche parole, che può apparire perfino scortese e
scostante come se rifuggisse la presenza dei propri simili. La locuzione rievoca il mito alpino
dell’uomo selvatico, detto anche uomo dei boschi, il Wildmann tirolese, che sul versante
meridionale delle Alpi era detto, a seconda delle zone, selvàdegh, salvanèl, salvàn, silvàn. Viveva
alle quote alte, si cibava dei frutti dei boschi, allevava le capre, dal latte sapeva ottenere il burro e
il formaggio e dal siero la cera, utilizzava la resina, estraeva e lavorava il ferro, sapeva curarsi
con le erbe, era sempre armato di un grosso bastone, veniva raffigurato come un uomo peloso dalla
capigliatura folta. Parlava in una lingua antica (retica? celtica?) e amava esprimersi in rima. Era
detto màest selvàdegh dai contadini, che andavano in montagna per incontrarlo e apprendere da
lui come produrre il caglio. Le leggende riguardanti l’uomo selvatico delle Alpi furono raccolte fra
la seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento. Ora i demologi non raccolgono più
nulla perché non è rimasta memoria orale: degli antichi miti alpini ciò che a suo tempo non fu
scritto è stato dimenticato o cancellato. In Bergamasca rimangono ad attestare l’antica esistenza
del selvatico toponimi quali Sima de l’Òm, Còrna de l’Òm, Gròta de l’Òm, Pass de l’Umì, Pass di
Tri Umì oppure denominazioni di luogo quali Tamba del Pagà, Còrna del Pagà e Gròta del Pagà,
perché il selvatico era detto anche pagano, ‘abitatore del pagus’ e per traslato ‘non convertito’. In
realtà la conversione ci fu e la si deduce dalla diffusione dopo il Mille della devozione a
Sant’Onofrio, il santo eremita che non toccò mai il denaro e che nelle chiese è stato raffigurato dai
nostri pittori del Trecento e del Quattrocento con una lunga barba, i capelli fluenti e una tricosi
pronunziata. I miti nascondono sempre una realtà non facilmente decifrabile. Che sia esistito
l’uomo selvatico è certo. Ma era veramente selvatico? Ogni tentativo di assimilarlo ad un essere
primitivo e trogloditico non ha trovato alcun fondamento scientifico.
Íga dét la mà.
Non ha senso tradurre: ‘Aver dentro la mano’. Significa: ‘Aver pratica’, ‘Essere esperto’, ‘Avere
competenza’. La locuzione celebra la manualità provetta di tante operazioni di riparazione e di
recupero, ad incominciare da quelle che compie il chiururgo.
Íga di bèle manére.
I cultori di poesia in bergamasco ricorderanno una spassosa composizione di Giuseppe Mazza
detto Felìpo intitolata “La quistiù del nòm”: la Rösa aspetta un bambino e interpella il Tóne, suo
marito, sul nome da imporre al nascituro. La Rösa pensa ai nomi dei divi del cinema e dello
spettacolo ma il Tóne le propone di scegliere fra i nomi dei genitori e dei nonni. La Rösa crede
però di emanciparsi e dice al marito: T’é mai capìt negóta de móda e de etichèta. Ma è proprio lei,
la Rösa, a non sapere che cosa siano la distinzione e la signorilità, che non consistono certo
nell’imporre al proprio figlio il nome di un attore o di un canzonettaro famoso. Il nome Sabrina, ad
esempio, è insignificante ma si diffuse dopo che ebbe successo nel 1954 il film omonimo: esso fu
tratto da Sabrinus, l’antico nome latino del Severn, un fiume inglese. Perché chiamare così una
figlia quando la nostra tradizione offre nomi bellissimi? La suggestione esercitata dalla televisione,
dal cinema e dai rotocalchi è stata confusa con l’etichetta e il galateo, quello che le nostre nonne
chiamavano i bèle manére. Non mancavano di cultura e di identità le signore delle classi elevate di
un tempo, che si chiamavano Caterina, Carolina, Giuseppina, Angelica, Anna, Maria, Lucia,
Margherita, Marta, Maddalena, Orsola, ecc. Per loro l’etichetta era tutta contenuta nel galateo,
nella conoscenza e nella pratica delle bèle manére. Fu monsignor Giovanni Della Casa a scrivere
per primo il celebre trattato che insegnava il buon comportamento a tanti nobilotti. Egli riferì in
proposito l’episodio di monsignor Matteo Giberti, vescovo di Verona, il quale, facendo recapitare a
un certo conte Ricciardo un invito a pranzo, gli fece consegnare anche una garbata lettera nella
quale, pur complimentandosi per i modi urbani e costumati dello stesso conte, raccomandava
tuttavia di evitare “un atto difforme colla bocca, masticando alla mensa con uno strepito molto
spiacevole a udire”. Il conte non se n’ebbe a male e durante il pranzo ebbe cura di non biascicare
per non disgustare l’anfitrione. Leggo in un manuale di mia nonna questa illuminante prosetta:
“Esistono ancora incorreggibili maleducati che sbadigliano in conversazione, o che volgono altrui
le spalle, o che mormoran fra loro, o interrompono i discorsi altrui. Ci son quelli che si piglian
tutte le confidenze, che entrano in tutti i nostri affari, che vogliono imporre sempre la loro volontà,
ci son quelli che scherzano su tutto e tutti e non sanno tollerare una celia degli altri, ci son quelli
che in un caffè s’impadroniscono di tutti i giornali e li ritengono per sé; quelli che chiedono a
prestito libri e non pensano più a restituirli…”. Come si vede, in fatto di buone maniere, di garbo e
di distinzione, c’è ancora tanta gente che ha parecchio da imparare.
Íga ergóta per la caàgna.
Letteralmente: ‘Avere qualcosa nel cesto’. Quando s’ gh’à ergóta per la caàgna vuol dire che
qualcosa bolle in pentola: può essere qualche pensiero, una preoccupazione, una intenzione oppure
qualche fantasia che sta girando per la testa.
Íga i mà in pasta.
Se vedete una persona che sta impastando, che la gh’à i mà in pasta, dovete presumere che sappia il
fatto suo e che sia capace di impastare. La locuzione indica chi conosce bene una faccenda o una
situazione ed ha tutta la capacità di dominarla.
Íga la biligòrnia.
È una condizione di spirito tutt’altro che invidiabile, innanzi alla quale anche la medicina
specialistica e i metodi psicanalitici devono ammettere i loro limiti. La biligòrnia è sinonimo di
crisi profonda, una situazione interiore nella quale ansia ed emotività si fondono preludendo ad
uno stato depressivo. L’etimologia della parola, di sicura ascendenza latina (è ipotizzabile una
base aggettivale umbilicōrnica), ci porterebbe lontano e ci indurrebbe a riflettere sull’origine dei
traslati. Meglio precisare l’accezione del vocabolo. Se dico che gh’ó adòss la biligòrnia oppure che
l’ m’è egnìt la biligòrnia intendo significare che sono di malumore, un malumore greve, che
sconfina nella delusione più amara, nella sfiducia più nera, nel tedio, nella noia, nell’apatia: a
questo punto il passo verso la disperazione non è molto lungo. Letterariamente la biligòrnia
bergamasca è equiparabile allo spleen dei romantici e dei maudits. Ma non tutti sanno sublimare
un simile stato d’animo sulle ali dorate della poesia. Alla biligòrnia si arriva quando si è perduto
ogni slancio vitale, ogni fiducia nella vita e si sta cadendo nell’indifferenza, ci si sta dissolvendo
nel vuoto interiore. I deboli e gl’incapaci credono di surrogare la mancanza di entusiasmo e la
perdita di amore alla vita con i paradisi artificiali e si abbandonano alla droga, ai superalcolici,
alla musicaccia a pieno volume: è la loro incredibile e vile risposta all’angoscia, al tedium vitæ.
Può succedere a tutti de ìga la brèta stórta, ‘di essere arrabbiati’, de èss zó de squàder, ‘di essere di
malumore’. Ma si sa che la vita non è una tranquilla passeggiata. Eppure merita di essere vissuta
per se stessa, secondo norme morali che corrispondano al suo grande valore. Càpita qualche volta
de ìga la biligòrnia. Ma bisogna essere capaci de fàla passà senz’aspettare l’aiuto degli altri.
Íga la bòta piéna e la moér ciòca.
Anche in italiano si dice che non si può avere contemporaneamente la botte piena e la moglie
ubriaca. Per uscir di metafora si consideri la perdurante opposizione fra mondialismo e localismo,
due modi diversi e contrastanti di concepire la realtà. La globalizzazione dei mercati finanziari,
economici e commerciali ha prodotto fatalmente riflessi pesanti sulla politica degli stati, sulla vita
sociale, sull’uso della lingua. Non è un caso, ad esempio, che per la pigrizia mentale e la scarsa
cultura dei gestori dei mezzi di comunicazione si siano diffuse in questi anni voci angloamericane,
non poche delle quali (è il colmo) di estrazione latina, come media, symbol, news, mission.
Giganteschi interessi economici agiscono in una dimensione planetaria concependo il mondo come
un immenso mercato di consumatori, ritenendo illimitata la risorsa delle materie prime e
assumendo la concorrenza come unico dettame da seguire. Continuando a sacrificare la morale e
la giustizia sull’altare del villaggio globale i ricchi diventeranno sempre più ricchi e i poveri
sempre più poveri, con conseguenze disastrose per l’intera umanità. Che bisogno ho di far
ubriacare tutte le sere la moglie quando un bicchiere di vino può bastare per stare sereni e
contenti? L’avvedutezza e la parsimonia che consiglia il nostro detto popolare dovrebbero essere
assunte a norma dei rapporti economici e commerciali. Posto che la logica del profitto stenta ad
accordarsi con quella dell’etica, si dovrà pur trovare un punto d’incontro perché le risorse non
siano dilapidate, gli squilibri sociali siano attenuati anziché accentuarsi, le differenze e le tipicità
culturali siano salvaguardate anziché essere cancellate. La capacità della botte non è illimitata; se
non se ne tiene conto, se si trasmoda, se ci s’illude di potersi ubriacare tutte le sere le conseguenze
saranno fatali.
Íga la brèta stórta.
Si dice anche: Íga la peröca stórta. Berretto o parrucca, entrambe le locuzioni significano: ‘Essere
di malumore’. Una persona dall’aspetto torvo e contrariato, che non appaia ben disposta nei
confronti del prossimo, può aver dormito male ed essersi rivestita senza la necessaria cura,
ponendosi sbadatamente il berretto storto sul capo (la parrucca è roba da ancien régime). Meglio
non averci a che fare.
Íga la calaméta di sólcc.
È locuzione rara ma molto espressiva. Di un tale arricchitosi con facili guadagni, frutto più della
fortuna che dell’ingegno, sentii dire: Chèl lé l’ gh’à la calaméta di sólcc in di mà, ‘Quello ha la
calamita dei soldi in mano’: il detto aveva un risvolto etico, riguardante il denaro poco o punto
meritato. E si sa che le cose del mondo vanno così. Ma un’altra volta sentii dire questo aforisma:
Töcc a m’ gh’à la calaméta di sólcc in di dicc, ’Tutti abbiamo la calamita dei soldi nelle dita’, a
significare che con il lavoro ci si può arricchire. Il denaro infatti affranca dalla povertà e fa
diventare ricco chi ne possiede molto. Ricco ma raramente signore. Difendendo la memoria di
Socrate, Senofonte ricordava che il grande filosofo ateniese chiamava ricchi soltanto coloro i quali
sapevano usare con discernimento le loro ricchezze; gli altri ricchi, ancor che possedessero beni
immensi, egli poneva nel novero dei poveri. E diceva che la loro povertà era insanabile perché
riguardava lo spirito. In effetti, a che serve essere ricchi se si è sorretti da uno spirito di egoismo e
di avarizia? Soccorrono due quartine di Trilussa: Ho conosciuto un vecchio / ricco ma avaro: a un
punto tale / che guarda li quatrini ne lo specchio / pe’ vedé raddoppiato er capitale. / Allora dice:
“Quelli li do via / perché ce faccio la beneficenza; / ma questi me li tengo pe’ prudenza”. / E li
ripone ne la scrivania. Il ricco avaro vive da poveraccio.
Íga la canèta de éder.
Di certe persone che si aggirano impettite e che faticano a curvarsi perché non hanno la minima
voglia di lavorare, soprattutto se si tratta di dedicarsi, anche solo per qualche tempo, a un lavoro
manuale faticoso, si dice che i gh’à la canèta de éder, ossia la spina dorsale di vetro, che si spezza
alla minima pressione. La locuzione non viene pronunziata se non in tono irridente e con un forte
senso di disapprovazione.
Íga la lüna stórta.
Si dice di una persona che sia di malumore e che dia risposte indisponenti o scostanti. Si sa che la
luna non compare mai nello stesso luogo e nella stessa forma: al primo quarto è visibile nel
pomeriggio o di sera mentre all’ultimo quarto si alza dopo la mezzanotte e scompare prima di
mezzogiorno. Della falce di luna si dice: gobba a levante, luna calante; gobba a ponente, luna
crescente.
Íga la passiènsa de Giòbe.
Risale al Medio Evo la diffusione della devozione di Giobbe, santo per volontà popolare, poiché la
lettura del testo biblico che si teneva in chiesa per istruzione religiosa suscitava talora nell’animo
dei fedeli sentimenti di ammirazione e di venerazione verso alcune figure dell’Antico Testamento.
Nella tradizionale iconografia cristiana la figura di Giobbe piagato e sofferente precede quella di
San Rocco, invocato nel Cinquecento e nel Seicento durante le pestilenze. Se San Rocco è
solitamente rappresentato con una gamba nuda sulla quale appare una piaga o un bubbone, le
antiche raffigurazioni di San Giobbe, fedeli al testo biblico, sono ancor più realistiche: un versetto
dice che il sant’uomo, archetipo della pazienza e della rassegnazione, fu colpito da una malattia
della pelle che lo devastò da capo a piedi. Per questa prova Giobbe fu assunto a protettore di
quanti un tempo soffrivano di infezioni cutanee come la scabbia e la rogna e veniva pregato e
invocato quando si temeva il diffondersi della lebbra (è attestata in bergamasco la voce livra a
ricordare questo tremendo contagio che da noi arrivò in epoca tardoimperiale dall’Oriente). La
pazienza talvolta confina con l’inanità ma leggendo con attenzione il testo biblico ci si rende conto
che Giobbe era uomo di grande forza interiore, non ignavo, non accidioso, bensì determinato e
padrone di se stesso. La sua pazienza ha qualcosa di eroico. Ma il buon senso vuole che non si
abusi mai della pazienza altrui. Insegna un nostro proverbio che la passiènsa di ólte la ghe scapa
anche ai sancc! Basta comunque la sopravvivenza di una locuzione per indurre a riflettere sui
luoghi comuni della vecchia storiografia medievalistica. Si è parlato di secoli bui per la scarsità
dei documenti. Ma non vi fu sonno della ragione, poiché nel lungo tempo trascorso dal crollo
dell’Impero Romano d’Occidente allo splendore del Rinascimento si posero le basi del pensiero e
del costume che hanno dato sicurezza all’uomo moderno, sorsero e vigoreggiarono gli usi e le
tradizioni che hanno consentito l’approdo alle scoperte scientifiche e tecnologiche. Senza la
pazienza di Giobbe l’uomo occidentale non sarebbe riuscito a migliorare il suo tenore di vita e ad
ampliare le sue prospettive.
Íga l’apér.
I nostri autori scrivono preferibilmente: Íga la pér. Significa: ‘Avere l’opportunità’, ‘Avere l’agio’.
Nell’italiano arcaico suonerebbe: Avere l’appaio. La sesta strofa del “Miserere” di Carlo Porta
principia così: Mò el credarìssev, fioeuj, che hoo avuu bell pari / a segnamm e a cercà de tend a
mì… Nel bergamasco moderno ìga issé la pér indica una condizione nella quale, per forti e
avvantaggiati che si sia, non si può che risultare soccombenti.
Íga ’l có ’n di nìoi.
Letteralmente: ‘Avere il capo nelle nuvole’. Càpita ai poeti e ai sognatori. In effetti è impossibile
avere i piedi per terra quando si ha la testa fra le nuvole. Ma le pagine più belle le hanno scritte i
poeti.
Íga ’l farfù ’n del có.
Vuol dire ‘non connettere’, ‘non avere comprendonio’, ‘essere debole di mente’, come se
all’interno della testa un insetto divorasse il cervello. Il farfù è un bruco che attacca le piante dal
legno non troppo compatto, come quello degli alberi da frutta. Esso aggredisce preferibilmente il
ciliegio, il noce, il pero, raramente il castagno. Nei luoghi vicini alla città ho udito dire farfù ma il
Tiraboschi nel suo dizionario (1873) registrò la voce tarfù spiegandola così: ‘Insetto che perfora in
ogni senso il legno nel quale vive, e produce con ciò grandi danni alle foreste’. Questo bruco (un
lepidottero un po’ più grande del baco da seta) è nella denominazione di Linneo il cossus cossus,
ossia il perdilegno, detto anche rodilegno, perché rode il legno scavandovi gallerie e intristendo
l’albero in cui alligna. Perché le due versioni farfù e tarfù? La seconda sembra la più antica e
autentica, forse mutuata da tarpon, voce piemontese e lombarda indicante la talpa, che scava
gallerie sotto terra; tarfù è poi diventato, in qualche parte dell’area bergamasca, farfù per incrocio
con farfala (in effetti il rodilegno fa il bozzolo e si muta in farfalla onde deporre le uova).
Comunque sia, se il farfù rovina il legno, figuriamoci il cervello. Ecco perché di un tale che parlava
a vanvera infilando una stupidaggine dietro l’altra udii dire: Chèl lé a l’ gh’à ’l farfù ’n del có.
Íga ’l füghì ’n di braghe.
Letteralmente: ‘Aver l’acciarino nelle brache’. Per traslato: ‘Avere una fretta dannata’, come se si
avvertisse nelle retrovie la presenza di un’arma da fuoco pronta a sparare.
Íga ’l magù.
Il bergamasco magù, al pari del mantovano magon, proviene da una voce mago-, ‘stomaco’,
sicuramente barbarica e ritenuta tradizionalmente longobarda. All’origine la locuzione indicava il
mal di stomaco, poi per traslato è diventata espressiva dell’umor nero per i milanesi mentre per i
bergamaschi è espressiva di chi si commuove intensamente perché indotto a provare pietà. In
bergamasco, dunque, il magù è l’accoramento.
Íga ’l manès.
Indica la discrezionalità e il potere di chi tratta e sbriga faccende. Un tempo non era inusuale che
nelle famiglie contadine il maneggio degl’interessi e degli affari dell’azienda colonica fosse
affidato ad una donna della famiglia stessa, una donna molto sicura di sé e particolarmente
autoritaria, chiamata regiura (latino regere, ‘governare’). Di solito era una persona energica e
tuttavia molto sensata e competente, nei confronti della quale gli uomini di casa manifestavano un
sincero e profondo rispetto. Qualche volta la regiura poteva anche non essere del tutto all’altezza
del suo compito. Tanto è vero che esiste una locuzione bergamasca che suona così: L’è inötel dàga
’l manès a la spusa quando la madòna l’à fàcc i dèbecc, ‘È inutile affidare il maneggio alla nuora
quando la suocera ha contratto dei debiti’. Registro anche il detto: Se la mama la mangia, la s-cèta
la se grata, per dire che se la mamma si dà a spese pazze alla figlia non rimane che grattarsi la
testa per le preoccupazioni.
Íga ’l pél söl stòmech.
Di una canaglia che non abbia scrupoli nel perseguire o nel raggiungere il suo scopo, a costo di
travolgere quelli che incontra sul suo cammino, diciamo che l’ gh’à ’l pél söl stòmech (i vecchi
dicevano pil, dal latino pilus). La voce stòmech non designa solamente lo stomaco vero e proprio
(che anticamente era detto magù, o meglio magó, secondo la pronunzia arcaica) ma viene riferita
anche al petto, al seno; un’abbondante villosità è sempre stata associata ad un che di selvatico
(nelle vecchie pitture il mitico uomo dei boschi è spesso rappresentato con una vistosa tricosi).
Perciò la locuzione pél söl stòmech è allusiva a persona priva di retta coscienza, che agisca come
un selvatico e che non esiti a far torto ad altri pur di ottenere ciò che brama. I nostri sono tempi nei
quali s’incontrano diverse persone fornite di molto pelo sullo stomaco. Non c’è da
meravigliarsene: quando non si crede più nei valori assoluti, quando conta soltanto l’hic et nunc e
si smarrisce il senso vero della vita, quando un egoistico individualismo prende il sopravvento sullo
spirito comunitario e sulla solidarietà sociale, che cosa si può mai pretendere? Una volta
cancellati certi princìpi o ignorati certi comandamenti etici e spirituali che valgono non solo per le
singole persone ma anche per l’intero corpo sociale, non si è più in grado di scorgere alcun valore
oltre i beni materiali: il denaro e il potere diventano gli obiettivi da perseguire con ogni mezzo,
lecito o illecito. Le persone dure di cuore, che i gh’à ’l pél söl stòmech, finiscono per avere il
predominio su quelle che osservano e che onorano la legge morale prima ancora che le leggi civili.
Del resto, la locuzione italiana carità pelosa indica una magnanimità del tutto interessata, un gesto
solo apparentemente generoso, compiuto con un preciso tornaconto. Non si educa mai abbastanza,
soprattutto al senso e all’uso della libertà, che non è un valore limitato al mondo della materia.
Che progetto educativo può mai scaturire da ideologie materialistiche e da visioni relativistiche,
che si appellano alla ragione solo per quel che fa comodo? Non lamentiamoci troppo della
diffusione di idee e di comportamenti egoistici quando sono derisi e disprezzati i concetti dai quali
discendono i princìpi educativi che inducono al rispetto e alla valorizzazione della persona umana.
Se il denaro e il potere contano come valori assoluti non ci si deve stupire di incontrare gente col
pél söl stòmech. Dipende tutto da come si vede il mondo e dall’educazione che si è ricevuta.
Íga ’l sègn.
Occorre intendersi bene sul significato che di volta in volta può assumere la voce sègn in
bergamasco. Se dico che i à sunàt ol sègn alludo ai rintocchi della campana che chiamano ad una
sacra funzione (perciò quando i suna l’öltem sègn significa che di lì a poco la funzione
incomincerà). Se dico che un fatto l’à lassàt ol sègn intendo alludere ad una conseguenza o ad una
traccia lasciata da quello stesso fatto (anche lo scorrere del tempo lascia il suo segno su di noi). Se
di una persona dico che l’è a sègn voglio dire che è presente e lucida, che ragiona bene, come fa
chi ha equilibrio e intelligenza. Se invece un tale a l’istà mia a sègn (o l’è mia a sègn) significa che
non ha le idee chiare, come chi eccede nel bere e fa discórs de ciòch, ‘discorsi da ubriachi’. Inoltre
esiste la locuzione ìga ’l sègn, che non è facilmente traducibile. Colui il quale l’ gh’à ’l sègn può
operare guarigioni, aver contezza delle pratiche magiche e annullare (desfà, ‘disfare’) le fatture
malvage, talora con l’imposizione delle mani talaltra ricorrendo a rituali o a formule sperimentate,
che gli sono state tramandate da un altro guaritore più anziano (che l’ gh’à passàt ol sègn, ‘che gli
ha trasmesso il segno’). Di solito la persona che si dedica a quest’attività non ha nulla da spartire
con i chiromanti, gli astrologi e quanti altri sostengono di aver confidenza con il mondo
dell’occulto. Non potrei mai rivolgermi ad un bergamasco verace per domandargli di che segno è,
essendo la divinazione del futuro sulla base dei segni zodiacali totalmente estranea alla nostra
cultura popolare. Sebbene circoscritta in un mondo di azioni concatenate fra terra, sole e luna, la
nostra gente di un tempo non si sentiva affatto di affidare la propria sorte agli astri che vedeva
brillare nel firmamento. A mano a mano che l’astronomia è progredita con passi da gigante,
l’astrologia, ancora praticata nel Cinquecento dagli eruditi, è stata abbandonata dagli uomini di
scienza, i quali hanno da tempo dimostrato la totale inaffidabilità dei pronostici basati sugli
oroscopi, nonostante i giornali e le televisioni (perfino quelle delle reti pubbliche) ci subissino di
assurdi vaticini fondati (si fa per dire) sullo zodiaco. È davvero inquietante sapere che, essendo
dimostrata la totale inesistenza di qualunque relazione fra la posizione dei corpi celesti e la sorte
degli esseri umani, ci si ostina a dare in pasto alla gente delle previsioni tanto generiche quanto
infondate, che si traducono in un cumulo di corbellerie. Che cos’altro potrebbe produrre una
pratica oscurantista, insostenibile non solo sul piano scientifico ma anche dal punto di vista
morale? Ai suoi inganni si affidano soltanto i creduloni e i gonzi (dei quali un tempo si diceva che i
sà gna de che banda l’ nàss ol sul).
Íga mia del tép de pèrd.
Serbiamo memoria del concetto di otium e di negotium in auge presso i nostri antichi, i quali,
vivendo mediamente molti meno anni di noi e in condizioni ben più precarie delle nostre, sapevano
apprezzare il valore del tempo: l’otium non aveva nulla a che vedere con l’infingardaggine e la
poltroneria, era infatti la ricreazione dello spirito, che si manifestava a volta a volta nella lettura
edificante, nella conversazione elevata, nella meditazione e nella contemplazione, anche nel
raccoglimento e nella preghiera, come c’insegnano i primi autori della cristianità latina. Il necotium (ovvero il non otium) consisteva nella dedizione al lavoro, al commercio, ad un’arte o ad
un’industria, poiché non si dà otium senza negotium, posto che prima si deve provvedere al proprio
sostentamento e poi ci si può anche abbandonare alla speculazione intellettuale. Dice infatti il
proverbio: Primum vivere, deinde philosophari. Con l’espansione dell’economia mercantile e
l’avvento della rivoluzione industriale l’otium diventò suo malgrado il padre dei vizi e l’anticamera
della perdizione. Ecco perché le nostre nonne ci narravano la favola della cicala e della formica e
ci dicevano: “Chi ha tempo non aspetti tempo”. Quando siamo angustiati da un malanno o da una
sventura, l’intensità della sofferenza ci induce ad esclamare: Ol tép a l’ passa mai. In realtà un
aforisma insegna: Ol tép a l’ se fèrma mai. Infatti i giorni lieti e sereni trascorrono tanto in fretta
da far dire: Ol tép a l’ vula. Dunque, facevano bene le nonne a rivolgerci un’esortazione come
questa: Dóvra bé ’l tò tép! Oppure: Böta mia vià ’l tò tép! La raccomandazione era dettata da una
visione certamente non gretta e materialistica della vita, una visione che considerava la vita un
dono unico e irripetibile, da usare bene. A che scopo perdere il proprio tempo? È vero che ’l tép a
l’è töt tecàt ma è anche vero che ol tép che s’à perdìt a l’ turna piö indré.
Íga ’mpó de creànsa.
Ogni lingua ha i suoi vocaboli. In italiano esistono le voci etichetta e galateo, la prima appresa dai
nostri cugini francesi (étiquette, ‘cartellino’, dal francese antico estiquer, ‘attaccare’), quando
l’accesso ad un luogo prestigioso era riservato a chi era munito del biglietto d’invito (ma in
spagnolo etiquetta assunse il significato di ‘cerimoniale’ e quindi ‘complesso di norme da
osservare nei ricevimenti’); la seconda deriva dal nome di monsignor Galateo Florimonte, il quale
ebbe il merito d’invogliare monsignor Giovanni Della Casa a scrivere (e a pubblicare nel 1559 a
Milano) il suo “Galateo overo de’ costumi”, perché in quel tempo anche nel ceto dominante erano
poche le persone capaci di comportarsi civilmente. Non era bastato “Il libro del Cortegiano” che
Baldesar Castiglione, conte mantovano e nunzio pontificio, aveva dato alle stampe nel 1528 per
insegnare il buon comportamento a chi frequentava le corti. Oggi in bergamasco ricorriamo alle
locuzioni buna edücassiù e bune manére ma i nostri vecchi dicevano creànsa, una sola parola che
racchiudeva in sé concetti come l’urbanità, il riguardo, il garbo, la cortesia. È ben vero che anche
un tempo non tutti praticavano la creànsa ma che cosa diranno i posteri di noi, del nostro modo di
vivere, delle nostre convenzioni e delle nostre abitudini? Quale buona educazione potranno mai
ravvisare nell’insistenza con la quale i mezzi di comunicazione di massa propongono modelli di
comportamento da cialtroni? Le reti televisive a diffusione nazionale da molto tempo ci propinano
ad ogni ora spettacoli nei quali sono sfacciatamente ostentati i gesti più volgari, il turpiloquio più
becero, la villania da trivio, insieme con l’esaltazione dell’arte d’ingannare il prossimo, con la
glorificazione della prepotenza e della sopraffazione. Perfino il demoniaco, il sadico, il criminoso
sono presentati come fatti positivi e da imitare, tanto si è smarrito il senso etico della vita sociale. I
posteri non mancheranno di rilevare negativamente l’eccessiva propensione all’esteriorità,
all’apparenza. E sicuramente biasimeranno l’assenza di un progetto educativo, che dovrebbe
coinvolgere le famiglie, la scuola e gli strumenti mediatici. Forse i nostri vecchi non conoscevano
la direzione dei meridiani e dei paralleli e non sapevano quali cause si dibattano in una corte
d’assise ma in fatto di educazione ci davano dei punti. Avevano rispetto di se stessi e del prossimo:
pensiamo a come si vestivano, a come si comportavano in pubblico, a come sapevano stare a
tavola, in chiesa, a teatro, in treno e in autobus. I maleducati e i villani c’erano anche allora ma
nessuno sarebbe stato tanto imbecille da sognarsi di osannarli e di proporli come modelli di
comportamento.
Íga ’mpó del matemàtech.
Non è colpa mia se la voce matemàtech non compare nei repertori lessicali bergamaschi. Per aver
udito più volte questa locuzione posso assicurare che va sempre riferita a persona che ad un
pizzico di bizzarria associ la capacità innata di avere intuizioni geniali. È ben diverso dallo
stròlech, che medita e che rimugina almanaccando e stillandosi il cervello. Il matemàtech è
naturalmente dotato e azzecca d’istinto i procedimenti logici da seguire per la risoluzione di un
problema.
Íga ’n bóca chèl che s’ gh’à ’n cör.
Letteralmente: ‘Avere sulla bocca ciò che si ha nel cuore’. La sincerità non chiede altro.
Íga ’n có ’l stüpì.
È una locuzione che si trova nelle poesie dialettali del romanese Giuseppe Cavagnari (1862-1940),
che alla fine dell’Ottocento ottenne una certa notorietà per alcuni suoi romanzi d’impronta verista
(“Le vittime della terra”, “Compari e comari”, “I settimini”), nei quali descrisse la psicologia e le
usanze della gente di campagna del suo tempo denunziandone insieme le dure condizioni di vita. In
una sua poesia il Cavagnari parla di una vecchietta ormai rassegnata alla morte e dice che la gh’ìa
’n có ’l stüpì, ovvero era giunta alla fine dei suoi giorni, come una candela che abbia lo stoppino
arso fino al capo. Lo stoppino (fatto appunto di stoppa, la parte più grezza della canapa o del lino
o del cotone, che non veniva usata per la filatura) era il lucignolo della candela o della lanterna. È
naturale che l’uso di questa locuzione sia tramontato: da molto tempo la luce elettrica è entrata
nelle case e le giovani generazioni non hanno più neppure il ricordo delle candele, dei lumi ad olio
e delle lucerne. Eppure, se ci volgiamo indietro a guardare, ci pare di scorgere nell’oscurità la
fiammella di un lucignolo, una luce fievole che i nostri vecchi tengono ancora accesa per noi sul
sentiero della storia, per mostrarci il percorso dalle generazioni che ci hanno preceduto.
Íga ’n di mà ’l balì.
Chi ama giocare a bocce sa bene che cosa vuol dire Íga ’n di mà ’l balì, ossia condurre la partita
avendo dalla propria il pallino. La locuzione sta a indicare la posizione di vantaggio di chi
comanda, di chi può disporre di un potere e lo gestisce facendo, se vuole, il bello e il cattivo tempo.
Si pensi al mondo dell’informazione. Rispetto ad un tempo, quando non esistevano i giornali, il
telefono, la radio, la televisione e gli strumenti informatici, noi oggi veniamo subissati da una gran
quantità di notizie, che ci provengono da più fonti per via mediatica. Ma non pensiamo quasi mai
che le notizie, prima di essere diffuse, sono selezionate e manipolate alla fonte. Certe informazioni
vengono trasmesse, altre no. E tante informazioni non sono date esponendo semplicemente il fatto,
l’accaduto, l’assunto o la materia, lasciando poi ai lettori o agli ascoltatori di farsene liberamente
un giudizio. No, esse vengono esposte in modo diverso a seconda dell’opinione o della fazione cui
appartiene la fonte d’informazione. Così le agenzie giornalistiche, i quotidiani, i telegiornali e le
testate che si avvalgono di internet giocano la loro partita avvalendosi del loro potere e tentando di
influenzare pesantemente la pubblica opinione. Si sa che tutti hanno le loro idee e se non sempre le
nostre collimano con quelle degli altri, pazienza! Noi non siamo obbligati a pensarla come gli altri
e gli altri non sono obbligati a pensarla come noi. Ma una cosa è certa: si desidera essere
informati il più obiettivamente e il più serenamente possibile e si prova stima e ammirazione per
chi si sforza di informare con equilibrio e imparzialità. Come è certo che si prova un incontenibile
disprezzo verso chi manipola sfacciatamente le notizie trattandoci come tanti cretini da
indottrinare. Qualcuno deve pur avere in mano il pallino ma la sua professionalità deve consistere
nel dare notizie sicure, complete e obiettive, che incidano il meno possibile sui comportamenti di
massa. Chi opera nel mondo della comunicazione non ha mai abbastanza senso di responsabilità
nel rispettare le opinioni altrui. In questo dannato e caotico “villaggio globale” (così lo definì
Marshall McLuhan), come faccio a replicare a chi per deprecabile spirito di fazione mi dà
informazioni sbagliate o tendenziose? Potrei anche augurargli un accidente (se lo meriterebbe ma
non serve). Il problema è un altro: non dare in mano il pallino a gente che non lo merita, a servi, a
leccapiedi e a ruffiani. Dice un proverbio bergamasco: Dà mia ’l bastù ’n di mà gna a pòrco gna a
vilà, ‘Non dare il bastone in mano né a porco né a villano’. Sante parole.
Íga ’n di mà ’l pan e pò a’ la fórves.
Letteralmente: ‘Avere in mano il panno e le forbici’. Si dice quando si è padroni di prendere una
decisione senza dipendere da altri perché si ha la situazione in pugno. La locuzione, che ricorda il
tempo in cui tanti indumenti venivano confezionati in casa, si adatta sia al prepotente sia al
magnanimo. Ma solo il secondo è sicuro di se stesso. Il primo non ha la virtù dei cavalieri antichi,
che trattavano con umanità i vinti: è tracotante con i deboli ma sottomesso e vile con i potenti. Il
magnanimo sa resistere alla tentazione di trattare con durezza i soccombenti. Forte non è chi
giovandosi della sua posizione privilegiata travolge chi non si può difendere ma chi aiuta il suo
prossimo a sollevarsi, a rialzarsi. Così sarà degno di stima non l’irresponsabile che propaganda
l’uso indiscriminato della droga pur sapendo che essa rovina la vita di tanti giovani, non il
criminale che la diffonde a caro prezzo ma chi si prodiga per strappare quei giovani ad un tragico
destino e restituirli alla società.
Íga póca sal in söca.
Nel suo dizionario bergamasco Antonio Tiraboschi registrò questa locuzione, che significa ‘Aver
poco sale in zucca’, ‘Avere poco giudizio’. Zucca mihi patria est, scriveva nel suo scanzonato
maccheronico Teofilo Folengo, che certamente pensava ai tortelli di zucca. Non credo che
l’inquieto benedettino mantovano pensasse alla zucca come sinonimo di ‘testa’, ‘capo’. Ma proprio
nel tempo in cui visse, incominciarono ad arrivare dall’America del Sud i semi delle zucche gialle,
quelle maestose cucurbitacee che ora si annoverano fra i prodotti più tipici dell’agricoltura
padana. Con la diffusione delle zucche americane si rivalutò l’uso culinario di quest’ortaggio, che
per la sua forma tondeggiante assunse l’accezione traslata di ‘testa’, ‘capo’, un’accezione fra lo
schernevole e lo spregiativo, giustificata dal fatto che non sempre si fa buon uso della materia
grigia contenuta nella testa. Eppure è proprio con il capo che filosofeggiamo, che ci poniamo il
problema della conoscenza di noi stessi e del mondo che ci circonda, che c’interroghiamo sul senso
della nostra esistenza, che cerchiamo d’interpretare la realtà e che tentiamo di raggiungere la
verità assoluta. Ma occorre avere sale in zucca, ossia giudizio, buon senso, assennatezza,
altrimenti, come un cibo senza sale è scipito, così un’argomentazione priva di logica risulta
inconsistente e sconclusionata. Secoli or sono gli oggetti che si usavano in cucina erano di legno o
di terracotta smaltata; il vasellame di vetro e gli utensili di metallo si trovavano soltanto nelle
dimore dei ricchi. Per la conservazione di un genere tanto importante come il sale, che tende a
sciogliersi e a rapprendersi col variare dell’umidità atmosferica, la gente comune ricorreva da
tempo immemorabile all’involucro della lagenaria siceraria, un tipo di zucca che era già coltivato
nelle nostre campagne fin dall’epoca romana. Il dizionario del Tommaseo spiega appunto che la
locuzione ‘sale in zucca’ deriva “dall’uso di tenere nelle cucine il sale in una zucca appesa al
muro”. C’è poi un’altra zucca, la lagenaria vulgaris, che ha la forma della fiasca (la si vede nei
quadri che raffigurano San Giacomo Maggiore nei panni del pellegrino). In essa i contadini di un
tempo conservavano il vino. E sapevano bene che anche nello svuotare la fiasca del vino bisognava
avere sale in zucca. Lasciamo perdere le zucche di Halloween, ormai diffusesi anche da noi per il
malvezzo di scimmiottare gli stranieri, significativo di un’identità debole, priva di radici profonde.
Íga pura de la sò ómbra.
Aver paura della propria ombra è il colmo della pusillanimità. Da gente simile non si ottiene mai
niente di buono.
Íga ü mestér in di mà.
Fra i proverbi raccolti dall’abate Giovan Battista Angelini (1679-1767) ne figura uno che dice:
Ch’à mestér tróa pà da per töt. È bergamasco arcaico e in italiano suona: ‘Chi possiede un mestiere
trova pane ovunque’. Ecco perché ancor oggi è diffusa la locuzione Íga ü mestér in di mà, ‘avere
un’occupazione’. L’assolutezza del proverbio deve però fare i conti con la realtà. Saper fare un
mestiere è una grande risorsa ma non è detto che il suo esercizio frutti sempre e comunque un
pane. Le ideologie e la politica, ad esempio, lo possono impedire. Rifiutando sdegnato di entrare in
Firenze ravvolto nel saio della penitenza, come pretendevano i miserabili cialtroni che reggevano
la città, Dante rispose che anche nel suo duro esilio un pane non gli sarebbe mai mancato. Ma
proprio al sommo poeta toccò di sperimentare quanto sappia di sale il pane altrui. E lo sapeva
bene anche l’abate Angelini, cui la grande erudizione non fruttò che una vita assai parsimoniosa.
Storico scrupoloso e severo, nello scrivere le vicende della città di Bergamo attraverso i secoli
s’imbatté in documenti che rivelavano le prepotenze e le ribalderie compiute dagli antenati delle
famiglie patrizie più in vista. Per questo egli non poté pubblicare i due volumi manoscritti della sua
storia, che dovette cedere per una somma irrisoria dopo essere stato pubblicamente minacciato.
Del volume più compromettente si è ormai perduta da tempo ogni traccia. Povero Angelini! Tanto
onesto e coscienzioso lavoro sarà stato forse cancellato in pochi minuti da una vandalica fiammata.
Dunque, a volte il mestiere può bastare per un tozzo di pane e niente più. Altre volte non basta
neppure per il pane. Esistono circostanze nelle quali si dev’essere disposti a cambiare mestiere, ad
imparare presto un altro lavoro. Occorrono adattabilità e intraprendenza. Ma infine ciò che il
proverbio non dice è che per sbarcare il lunario occorre anche la fortuna. La dea bendata non
premia né la volontà né il merito. E non vale neppure la pena di chiedersi perché tanti tangheri
abbiano successo.
Íga ùs in capìtol.
Di una persona autorevole, che goda di buon credito e che sappia farsi valere diciamo che la gh’à
ùs in capìtol, ‘ha voce in capitolo’. Si sostiene che la locuzione si riferisca alle adunanze capitolari
dei canonici, dei frati o delle monache, adunanze convocate per la trattazione di problemi comuni,
che richiedevano una consultazione o un esame collegiale; chi godeva della considerazione
generale ed era ben ascoltato aveva voce in capitolo. Ma c’è anche chi afferma trarre la locuzione
la sua origine dalle voci di spesa dei capitoli di un bilancio pubblico. Se non c‘è stanziamento, non
c’è la voce e non ci sono soldi da spendere e senza denaro le opere non si possono fare e allora non
si conta un fico secco. Personalmente propendo per la seconda ipotesi e penso alla sorte che ebbe
l’esperanto, lingua escogitata a tavolino da Ludwik Zamenhof, medico polacco: diffusasi nei primi
trent’anni del Novecento fra le persone colte dell’Europa, dell’America e dell’Asia, la lingua della
fratellanza universale, che, per non far torto a nessun popolo e a nessuna cultura, utilizza radici e
lemmi delle principali lingue neolatine, anglosassoni e slave, è stata a poco a poco abbandonata
dopo la seconda guerra mondiale. Il nobile sogno di una minoranza colta, generosa e illuminata, si
è infranto innanzi all’invadenza dell’angloamericano, che ha dalla sua la potenza del dollaro e che
ora spopola con il linguaggio tecnologico ed informatico. Ma la resa incondizionata alla
prepotenza economica e finanziaria di un pugno di massoni costituisce un tragico errore. Si
tengano dunque accese le fiaccole dell’esperanto, del latino, del greco antico, dei dialetti italiani,
tanto ricchi ed espressivi: gli stanziamenti saranno esigui o quasi nulli ma è importante, per non
soccombere del tutto, che rimanga la voce in capitolo!
Íghela sö con vergü.
Nell’italiano colloquiale si dice: Avercela con qualcuno, per significare che non si è ben disposti
nei confronti di qualcuno a causa di un’offesa, di uno sgarbo o di una questione non risolta.
L’integrazione dell’avverbio di luogo che segue la forma verbale rafforza l’idea della forte
contrarietà e dell’animo alterato. Il buon senso dice che come s’ ghe l’à sö si può anche trovare il
modo de mètela zó.
Íghen a mal.
Nel vocabolario italiano di Nicola Zingarelli è registrata, alla voce male, la locuzione aversene a
male nel significato di ‘offendersi’. Nell’ottocentesco dizionario di Pietro Fanfani si legge: “avere a
male, recarsi a male, aver per male e simili, si dicono del ricever con indignazione checchessia e
crucciarsene”. Il dizionario di Devoto e Oli esemplifica se n’è avuto a male per indicare l’uso del
termine male riferito sul piano morale a precisi atteggiamenti. Non deve sorprendere che una
locuzione dialettale si ritrovi pari pari in lingua italiana: il confine fra l’espressione dotta e quella
popolare non è mai delimitato con assoluta esattezza e per molto tempo i dialetti hanno nutrito
della loro linfa generosa la lingua nazionale trasferendo in essa vocaboli e locuzioni. Potremmo
tutt’al più, nella fattispecie, distinguere fra italiano aulico (“si è adontato”) e italiano colloquiale
(“se n’è avuto a male”). Trovo autorevole attestazione della locuzione bergamasca in una lettera
che nel 1842 Gaetano Donizetti inviò da Vienna al maestro bergamasco Antonio Dolci, suo
carissimo amico: “Prepàrati a ricevermi collo stignàt söl föch e la polènta coi osèi, se nò a ghe n’ó
a mal”. Dal che si evince che anche il bergamasco Donizetti all’occorrenza parlava e scriveva in
bergamasco.
Íghen gna ’ndòss gna ’n fòss.
Non c’è da stare allegri se ci si trova nella condizione di chi non ha indumenti di ricambio: non
averne né addosso né in fosso significa proprio questo. Il fòss della locuzione ricorda il tempo in
cui le donne andavano a lavare i panni nelle acque limpide delle rogge.
Íghen mai assé.
Non averne mai abbastanza: è la locuzione che si riferisce agl’insaziabili, che sono
sostanzialmente degli egoisti. La temperanza, la morigeratezza, il controllo di sé inducono
senz’alcun sacrificio alla sobrietà e alla parsimonia, virtù che aiutano a tenere a freno l’avidità di
cibo, di sostanze, di denaro. I beni materiali non sono tutto nella vita e il superfluo va lasciato a chi
ne ha bisogno. Leggendo il “Bellum Iugurthinum” di Sallustio ci si rattrista della facilità con la
quale il re numida poté corrompere molti magistrati romani allettandoli con elargizioni di oro e di
denaro: la bramosia di ricchezza finiva per avere il sopravvento sul senso dell’onore, sul concetto
del dovere, sull’obbligo della lealtà. Poco più di cent’anni prima della nascita di Cristo l’avidità
aveva già degradato e abbrutito il ceto dirigente della più grande capitale del mondo antico e il
mercimonio aveva avuto ragione della virtù (“la sola cosa, dice Sallustio, che non si può dare né
ricevere”). È il sintomo della decadenza che qualche secolo dopo avrebbe travolto l’Urbe. Ma
ancor più impressionante è la pagina del “Bellum Civile” nella quale Cesare descrive con quale
cupidigia il governatore Quinto Scipione desolò la provincia della Siria spogliandola di ogni
risorsa. Non sorprende che gli umanisti medievali coniassero per Roma l’acrostico Radix omnium
malorum avaricia, dove avaricia sta per ‘avidità’, ‘insaziabilità’, ‘ingordigia’. E se ci riferissimo
alla storia moderna anziché a quella antica avremmo ragione non tanto di rattristarci bensì
d’inorridire per i terribili misfatti compiuti a causa della funesta ed esecrabile auri fames da esseri
privi di scrupoli e di senso morale capitati per mala sorte alla guida di nazioni e di popoli.
Íghen sura i cheèi.
Si dice anche in italiano quando non se ne può più di cose o di faccende che infastidiscono e che
tediano. Ma certo in bergamasco fa un altro effetto il dire: Ghe n’ó fina sura i cheèi, ‘Ne ho fin
sopra i capelli’. Vale a dire che se ne ha piena l’anima ma con l’aggravante del subissamento:
sembra di avvertire che qualcosa ci avviluppi, c’inghiotta, ci ricopra e ci travolga. Come non
averne fin sopra i capelli, ad esempio, del luogo comune che farebbe del bergamasco un dialetto
incomprensibile? Ma come si può definire incomprensibile un linguaggio che nel corso dei secoli è
stato parlato da milioni di persone? Che stupidaggine è mai questa di ritenere incomprensibile e
ostico un idioma soltanto perché noi non lo conosciamo e non lo comprendiamo? Se poi
orecchianti presuntuosi e persone di scarsa coscienza filologica si mettono a pontificare con la
pretesa di proclamare e di sancire l’“incomprensibilità” del bergamasco, allora davvero vien
voglia di esplodere in qualche salutare invettiva. Nella “Guida ai dialetti lombardi” (1971) di
Attilio Spiller e Silvio Menicanti leggo che la frase “Ho bevuto il vino” si tradurrebbe in
bergamasco nel modo seguente: Ho bi ol i. Ma quando mai? E ci si sono messi in due per scrivere
una simile corbelleria! Nel bergamasco arcaico si diceva: Ó bivìt ol vì. Oggi si dice: Ó biìt ol vì,
che è tutt’altra cosa rispetto a quanto scritto in quella “Guida” dalla quale è bene non lasciarsi
guidare, perché gli autori dimostrano di non sapere che il dileguo della consonante v non si
verifica se essa è preceduta da un’altra consonante. Perfino Italo Calvino si lasciò prendere la
mano dal malvezzo di parlar male del bergamasco e nel suo “Barone rampante” attribuì
candidamente ad alcuni carbonai bergamaschi l’esortazione: Hegn hobet ho de hot. Ho trascritto
tale e quale. Ma questo non è bergamasco e Calvino non dovette capire bene ciò che dicevano quei
carbonai, i quali avranno sicuramente aspirato la sibilante e tuttavia avranno detto: É höbet zó de
bass (oppure zó de bah), non parendo possibile che avessero detto ho de hot, anzitutto perché non
esiste spirantizzazione della esse sonora e poi perché non si dice zó de sót. A meno che quei
carbonai godessero di burlarsi del foresto che li ascoltava, come spesso un tempo facevano i nostri
montanari per prendersi gioco dei baggiani curiosi i quali non avevano niente di meglio da fare
che starli ad ascoltare. Il sospetto è avvalorato dalla forma assurda dell’altra frase
“incomprensibile” riportata da Calvino e cioè: Hanfa la hapa hota l’hoc. Si dovrebbe tradurre
‘Afferra la zappa sotto il ceppo’ e si dovrebbe scrivere: Sanfa la sapa sóta ’l sòch. Ma un buon
bergamasco non si sognerebbe mai di dire: Sanfa la sapa. Direbbe invece: Branca la sapa. Inoltre la
frase non ha senso perché non ha alcun significato esortare ad afferrare una zappa sotto il ceppo o
ciocco che dir si voglia. Ecco dunque che il parlante, usando la spirantizzazione, ricorre
scherzosamente a quattro voci che incominciano con il suono aspirato per prendersi gioco di chi lo
ascolta, trattandolo da gonzo. E questi non si accorge di essere burlato: prendendo per buona la
celia, crede così di avere scoperto chissà quale linguaggio criptico. Sbrigliando la fantasia, che
non gli mancava, Calvino poté anche immaginare che i carbonai bergamaschi si scontrassero a
colpi di pietre con un gruppo di musulmani armati di scimitarra. Ma la filologia è un’altra cosa.
Ignorànt come öna böba.
‘Ignorante come un’upupa’. È un paragone spontaneo diffuso nella pianura bergamasca e allusivo
alla facilità con la quale l’upupa, che nidificava nei campi di frumento, si lasciava catturare dai
contadini. Strano che questo grazioso volatile dalla cresta mobile e dalle piume screziate fosse
ritenuto di cattivo augurio e fosse definito l’uccello dei cimiteri (il suo verso fu definito “luttuoso
singulto” dal Foscolo nei “Sepolcri”). Si dice anche: ignorànt come ü bö, ‘ignorante come un bue’.
Tipico dell’area trevigliese è gnurànt ’mè ’n gabe, ‘ignorante come un guardinfante’,
quell’aggeggio fatto di cerchi metallici che nel Settecento le donne portavano per tener gonfie le
gonne.
Ignorànt come ü codér.
Per indicare l’origine di questo paragone spontaneo è necessario ricordare che la cote è una pietra
particolarmente dura, usata dai contadini per affilare la falce e ogni altra lama da taglio. Il
contadino che andava nei campi a falciare l’erba teneva appeso alla cinta dei pantaloni il codér, un
corno di bue colmo d’acqua nel quale si trovava immersa la pietra cote: quando la lama non
tagliava bene egli interrompeva la falciatura e affilava la lama con la cote inumidita. Coderòt era
detto a Pradalunga il cavatore di pietra cote; qualcuno lo chiamava anche cosseròt, perché la
cosséra era la vena di pietra cote e un buon cavatore doveva conoscere bene la vena della pietra
(talché il coderòt che lavorava alla vena era detto anche venadùr). Il materiale estratto veniva
depositato in una cassetta di legno detta argala (non si usavano i carrelli su rotaie); quando la
cassetta era piena, il bòcia, un ragazzo che era detto argalòt (ma anche carghì), trascinava la
cassetta fino al luogo di lavorazione: là il consadùr sceglieva il pezzo di pietra da lavorare e il
picadùr batteva la pietra per conferirle la forma voluta. Poi ogni cote veniva sottoposta alla
fitadüra, un’operazione affidata alle donne, che lisciavano la cote sulla mola bagnata e insabbiata.
Le pietre venivano radunate in gruppi di venticinque, impagliate e messe in casse. Quelle di
Pradalunga era famose: se ne vendevano non solo in Italia ma anche all’estero. Nella seconda
metà dell’Ottocento il dialettologo Antonio Tiraboschi registrò circa cento vocaboli di questo
specifico settore produttivo ormai estinto apprendendoli direttamente dalle maestranze che
lavoravano nelle cave di pietra cote di Pradalunga. Le voci furono pubblicate per la prima volta da
Davide Cugini, che nel 1933 diede alle stampe un importante saggio sull’industria estrattiva delle
coti bergamasche.
I laurécc del Ràa.
I laurécc sono i lavoranti. Dice il motto scherzoso che i lavoranti del Rava a mangià i südàa e a
laurà i zelàa, ‘sudavano mangiando e gelavano lavorando’. Esiste la variante: a laurà i stantàa,
‘esitavano a lavorare’. Figuriamoci che razza di lavoratori erano se tutto il loro impegno
consisteva nell’affannarsi a mangiare e se quando dovevano lavorare facevano il tiratarde, si
perdevano cioè in mille esitazioni e in mille indugi oppure i zelàa, facevano finta di tremare per il
freddo. Di loro si poteva dire, secondo un’altra locuzione, usata per deridere i fannulloni, che
erano largh a mangià e schéss a laurà, ‘generosi nel cibarsi e avari nel lavorare’.
I mà sö la consulada.
È la locuzione dei neghittosi, dei lavativi, dei fanegotù, ‘fannulloni’, che dopo aver mangiato a
crepapancia se ne stanno a riposo, beatamente assisi con le mani sull’epa, ironicamente detta
consolata. Sembra di udire la voce severa di qualche antenato che chiama al lavoro dicendo in tono
di rimprovero: Só bu a’ mé de stà lé coi mà sö la consulada!, ‘Sono capace anch’io di starmene lì
con le mani sulla pancia!’.
In cìmbalis.
Incredibile ma vero: un bell’ablativo latino rivive in bergamasco per indicare la condizione di chi è
brillo, di chi incomincia ad avvertire l’effetto del vino, che lo sta rendendo euforico. Per la verità
un nesso c’è a dar retta al proverbio che recita: Chi parla latì i vanta l’aqua ma i biv ol vì, ‘Chi
parla latino vanta l’acqua ma beve il vino’. Gli anticlericali incalliti godevano un tempo di
favoleggiare che all’esterno della porta della cella vinaria dei conventi maschili figurasse una
scritta del seguente tenore: Qui bene bibit bene dormit / qui dormit non peccat / qui non peccat
vadit in cœlum / ergo qui bene bibit vadit in cœlum. Latino facile e filosofia beffata da un
sillogismo degradato a celioso sofisma. Niente di male se si sorride al motto arguto. Ma con tutta
probabilità il monaco in questione, se mai sarà esistito, avrà somministrato il vino con somma
parsimonia per il modesto asciolvere dei confratelli. Non ci si pensa mai eppure San Benedetto da
Norcia ebbe meriti immensi. Finito il mondo antico, travolto non solo dalle migrazioni ma anche
dalla sua corruzione, egli diede una prospettiva europea alla sua opera e fra le tante cose buone
dell’antica Roma salvò anche i vitigni: come celebrare la Messa senza il pane e il vino? Ed ecco le
campagne incolte arate ed irrigate verdeggiare a primavera di frumento ed i colli terrazzati
fasciarsi di filari di viti. Dall’Italia alla Spagna, dalla Francia alla Germania, dall’Inghilterra
all’Irlanda il monachesimo benedettino salvò non soltanto le antiche pergamene ma anche il sapere
antico dei contadini: migliaia e migliaia di frati dei quali non conosciamo neppure il nome
impedirono che l’Europa s’imbarbarisse eticamente ed economicamente insegnando agli
agricoltori le tecniche della coltivazione e dell’allevamento. I vitigni dell’epoca romana durarono
fino all’Ottocento, quando arrivò dall’America la filossera, che li decimò. Quel che rimase fu poi
rovinato quasi interamente dalla peronospora, cosicché oggi si produce vino da vitigni importati o
innestati. Sorridiamo pure pensando allo spirito gaudente del surriferito motto latino ma, se la
salute ce lo permette, assaporiamo pasteggiando un bicchiere di buon vino, facendo della sobrietà
scudo alla tentazione di andare in cimbalis. Chi abusa delle bevande alcoliche si espone a brutte
figure e finisce per rovinarsi la salute.
In del bèl de l’oselanda gh’è mórt la sièta.
Nel roccolo o nel paretaio una civetta ammaestrata richiamava, imitandone il canto, gli uccelli di
passo, che scendevano alla volta dell’impianto e che venivano catturati con le reti. La morte della
civetta nella stagione delle migrazioni sarebbe stata perciò disastrosa. La barbara usanza di
accecare le civette a scopo d’aucupio non è più né consentita né praticata ma un tempo, quando il
cibo scarseggiava, era tollerata e giustificata dalla necessità di catturare gli uccelli di passo. Il
detto è usato per significare che un certo affare è andato in fumo proprio nel momento in cui si
sperava di poterlo concludere felicemente. Circa la pratica dell’aucupio, vale la pena di ricordare
la battaglia ingaggiata a Capri dal medico svedese Axel Munthe, il quale nel libro “La storia di
San Michele” narrò come riuscì a porre fine all’ecatombe dei volatili che, sostando a Capri nel
viaggio di ritorno dall’Africa all’Europa, incappavano a migliaia nelle reti di un avido uccellatore
del luogo, strenuus venator in conspectu Domini.
In setù.
È la posizione di chi a letto sta seduto con la schiena appoggiata alla testiera. Nella prima metà del
Settecento si sarà detto in setó e prima ancora in sentó, perché la locuzione modale deriva dal
verbo sentà, ‘sedere’, ‘assidersi’. Oggi diciamo sentà zó, con l’avverbio di luogo che accompagna
sempre il verbo; se vogliamo che una persona si sieda non le diciamo: a l’ se sènte, forma riflessiva
che vuol dire ‘si senta’, ‘si ascolti’, ma diciamo: a l’ se sènte zó, che vuol dire ‘si sieda’, ‘si segga’.
In sentó, dunque, ossia ‘seduto’. Che sentó abbia perduto la n e sia divenuto setù non deve stupire:
mónt, ‘monte’, è diventato mut, pónt, ‘ponte’, è diventato put, zént è diventato zét, témp è diventato
tép per una intrinseca debolezza del suono nasale che precede quello dentale. Ogni lingua ha le sue
norme e fintanto che è parlata si modifica più o meno lentamente.
In tanta malura.
Di un luogo difficilmente raggiungibile, posto in una situazione infelice per la natura infeconda del
suolo, per il clima immite e per la vegetazione incolta, si dice che l’è metìt in tanta malura. Basta
questa locuzione per significare lo squallore e l’abbandono di un luogo nel quale i coltivi non
diano frutti apprezzabili e tutto vada alla malora. Giungendo a Bergamo nell’XI secolo dalla
fiorentina Vallombrosa i benedettini che s’insediarono ad Astino non avrebbero mai immaginato
che il loro monastero sarebbe un giorno decaduto in una desolazione penosa. Lontano dalla città,
alle propaggini occidentali dell’anfiteatro dei colli, il luogo fu rifugio al beato Guala, divenne oasi
di pace, di lavoro e di beneficenza elargita ai poveri, fu centro di meditazione, dotato di una
biblioteca ricchissima, alla quale accedevano anche i rampolli del patriziato bergamasco dediti
allo studio. Un giorno la soldataglia ardì violare l’oasi vallombrosana mettendo a sacco il
monastero, che decadde fino ad essere soppresso e ridotto nell’Ottocento dapprima a ricovero per
gli alienati di mente e poi (incredibile a dirsi!) a cava di mattoni e di pietre in dispregio della
dignità architettonica del complesso. Si giunse nel 1921 ad abbattere il portico cinquecentesco
dell’Isabello. L’erba crebbe sul tetto della chiesa, i coppi esplosero, durante le piogge le lacrime
del cielo rigarono gli affreschi dilavati, guastarono i pavimenti devastati e il degrado fu tale da
potersi dire che Astino l’éra cassàt in tanta malura. Dopo la trascuratezza e le terribili ingiurie
inferte dagli uomini e dal tempo, il luogo languente ed estenuato è destinato a rifiorire, a risorgere
a vita nuova. Quod est in votis. Ma dopo tanta rovina solo il fascinoso richiamo della storia potrà
idealmente restituirci le spirituali memorie del luogo sacro, i canti della compieta, le concettose
dispute teologiche dei laureandi e il ciabattio dei sandali dei frati che discendevano e risalivano le
scale. L’aridità dell’anima dell’uomo moderno, proteso all’abbondanza dei beni materiali, ha
condannato per troppo tempo all’oblio e alla consunzione il complesso monumentale
vallombrosano, appartato e avvertito come estraneo alla città. Forse è quell’anima moderna, così
arida e così gretta, a trovarsi in tanta malura.
I pèss i bóca.
Il verbo italiano abboccare si riferisce all’atto del pesce che viene catturato all’amo dal pescatore.
Ma se in bergamasco dico che un tale l’à bocàt alludo certamente al fatto che sia caduto in una
trappola che gli era stata tesa oppure che ingenuamente e suo malgrado sia divenuto oggetto di
una burla. Penso ad un fatto che mise a rumore il mondo giornalistico italiano nel 1960, allorché
Gaio Fratini, abilissimo nello schiccherare testi apocrifi imitando la maniera ora di questo ora di
quell’autore, insieme con Delfini e con altri confezionò un elzeviro dagli accesi toni antisocialisti,
inviandolo alla redazione culturale del quotidiano comunista come testo autentico di Pasolini. Il
pezzo fu pubblicato, Pasolini smentì e l’infortunio suscitò grande clamore: proprio il caso di dire
che i destinatari dello scherzo i éra bocàt, ‘avevano abboccato’. Ricordo certi tiri giocati a
Bergamo in pieno Novecento, come quando fu fatto credere che sarebbe arrivata in città la
commissione ministeriale incaricata di risolvere la vexata quæstio delle exuviæ del Colleoni o
quando fu fatto credere che un certo ministro dalle placide abitudini romane sarebbe giunto
all’Accademia Carrara alle otto del mattino per visitare la galleria d’arte. Anche allora i pesci
abboccarono. Ma la più strepitosa fu quando ai bottegai della città pervenne una cartolina con la
quale s’ingiungeva di recarsi presso gli uffici daziari onde riscuotere un non meglio precisato
dividendo in un certo giorno che non poteva non essere il primo di aprile. E in quella circostanza i
pesci che abboccarono furono più di un centinaio.
I padrù de la piassa.
La piazza è sempre appartenuta al popolo, fin dai tempi dell’agorà delle polis greche e dei fora dei
municipi romani, centri della vita religiosa, civile e culturale della comunità. La platèia attica
rivisse nei cuori romanici delle città italiane e nelle monumentali piazze del tempo dei Comuni e
delle Signorie, miracoli urbanistici non più ripetuti. Se la città dispone al centro di un ampio spazio
sul quale si affacciano in solenni architetture la cattedrale, il palazzo civico, il broletto o
l’arengario, il piccolo paese di montagna e il villaggio di pianura non rinunziano a riservare alla
loro gente un punto d’incontro, fosse anche un modesto sagrato sul quale intrattenersi nei dì di
festa dopo le funzioni. Piassaröl è parola bergamasca che sopravvive ormai a stento e che si
attaglia alla civile disposizione di certuni ad affacciarsi sulla piazza del proprio borgo e a
trascorrervi qualche tempo osservando i passanti e conversando con qualche amico. Padrone della
piazza, il piassaröl può stare seduto al tavolino di un caffè o far parte di un crocchio che se ne stia
all’ombra di un albero o di un porticato; egli parla di tutto: del marciapiedi sconnesso, dell’ultima
burrascosa seduta del consiglio comunale, degli spettacoli televisivi, dei prezzi del fruttivendolo, di
come il portiere ha parato un tiro insidioso, della vigilessa dalla multa facile, di come una via si
stia dissestando perché malamente selciata da maestranze raccogliticce. Buontemponi e
microcefali, si dirà, gente che non vede al di là del proprio naso. Eppure a volte in luoghi che non
si conoscono ci si trae d’impaccio grazie alle informazioni che vengono elargite da un piassaröl, il
quale conosce la gente del paese e sa a chi ci si deve rivolgere per sbrigare questo o quell’affare.
Ora non ci sono più piassaröi in città, dove la piazza incominciò a rinunziare alla centralità della
sua funzione quando diventò luogo di esercitazione delle truppe e di esecuzione delle condanne
capitali e poi arengo di comizi e di manifestazioni politiche e sindacali. La retorica risorgimentale
vi collocò nel bel mezzo i suoi goffi monumenti celebrativi e la stravaganza dei tempi recenti vi si è
sbizzarrita con la posa, ora transitoria ora definitiva, di inutili e bislacchi “arredi urbani”. Quel
che resta del popolo è stato dirottato alla volta dei centri commerciali e delle balere, dove gli spazi
sono riservati alle merci e alla automobili e dove la comunità è stata fatta a pezzi e annientata
dalla dittatura del denaro.
I ròbe i se fà spèsse.
Quando un problema che sembrava trascurabile incomincia a complicarsi assumendo aspetti
preoccupanti e pericolosi si dice che i ròbe i se fà spèsse, ‘le cose s’infittiscono’. Un esempio. Tanto
tempo fa c’era chi ammoniva sui pericoli di una conduzione dei programmi televisivi nazionali
all’insegna dell’improvvisazione, del disimpegno, del pessimo gusto. Come sempre accade, si viene
definiti uccelli del malaugurio, si viene derisi e snobbati, con il bel risultato che ormai da anni si è
precipitati nella faziosità più bieca, nel vuoto intellettuale e nella spazzatura di programmi
offensivi dell’intelligenza prima ancora che dell’etica e della cultura di un popolo. La televisione
continua imperterrita a intervenire in modo pesante e determinante nei costumi e nelle abitudini
orientando la mentalità comune e le scelte comportamentali: sembra che la felicità dipenda tutta
dalla risoluzione dei quiz e che le sorti della nazione dipendano da una lotteria, da un festival di
canzonette o da un dibattito televisivo. Insomma, i ròbe i s’è fàce spèsse. La povera lingua italiana
è stata ridotta ad un “italianese” sciatto, incolto e plebeo da una caterva di giornalisti che non si
sa bene che razza di studi abbiano fatto perché non sanno coniugare correttamente i verbi, non
conoscono la proprietà dei termini e non riescono a pronunziare le parole senza ricorrere agli
accenti incredibili e fastidiosi dei borgatari romani, come se avessero imparato l’italiano a
Trastevere o in Ciociaria.
I se peténa i strée.
Quando sta passando l’acquazzone, le nuvole lasciano cadere le ultime gocce e nella parte di cielo
già sgombro ricompare il sole: i bergamaschi allora dicono che si pettinano le streghe. I milanesi
invece, quando un temporale sta per finire, dicono: El diavol el se petenna la coa. È difficile
penetrare nello spirito magico della locuzione, che pare essere il lascito di una credenza molto
antica della quale non sia rimasta memoria. Lasciamo pure ai milanesi il loro diavolo poiché ci
bastano ed avanzano le nostre streghe, le quali, per essere donne disadorne, trascurate e
scarmigliate, avevano certamente capelli arruffati: si affrettavano a pettinarseli alla fine del
temporale, approfittando della forte umidità esalata dal suolo e diffusa nell’aria, allo scopo di dare
ad essi una forma e di tenerli composti. Esiste questa variante: Quando l’ piöv e gh’è fò ’l sul, i
bala i strée. Dunque, prima della fine del temporale le streghe evocavano la tregenda danzando
sotto la pioggia e poi si ravviavano i capelli bagnati. È da registrare che una donna grintosa, che
voglia piegare gli altri ai suoi voleri, è detta stréa del pèten, ‘strega del pettine’. La credenza che
mette in relazione i capelli delle streghe con il tempo perturbato è diffusa in tutto l’arco alpino; in
Tirolo si narra che le streghe si servono dei capelli rimasti nel pettine per farne pioggia o
grandine. Una traccia dell’antica superstizione che connetteva i capelli con l’acqua è in Giovenale
(XII, 81) e in Petronio (103), i quali alludono alla consuetudine dei marinai romani di consacrare i
capelli agli dèi del mare nel timore di un naufragio (“naufragorum ultimum votum”).
La belèssa de l’àsen.
Quando di una ragazza giovane, ben formata e appariscente diciamo che la gh’à la belèssa de
l’àsen intendiamo significare che possiede soltanto la dote della bellezza, destinata a sfiorire con il
passare degli anni. Anche un asino giovane può apparire bello. In realtà il motto nasce da un
fraintendimento: si tratta infatti della trasposizione della locuzione francese la beauté de âge, ‘la
bellezza dell’età’. Forma bonum fragile, diceva il poeta.
La bói!
Il detto sottintende che la pentola incomincia a bollire e che il brodo è sul punto di tracimare. È un
minaccioso grido di ribellione e di protesta, al quale ricorsero spesso le contadine e le operaie
della pianura padana nei decenni che precedettero la Guerra Europea. Un gentiluomo non
dovrebbe mai mettere una donna nella condizione di dover dire: La bói! Ma come gentiluomini
certi proprietari e certi imprenditori non dovevano essere un gran che.
La cà di piöcc.
Con questa colorita locuzione iperbolica si designa la testa. Una volta un tale mi domandò se
sapevo il nome dei tre Re Magi. Mi contraddisse udendone i nomi storici e replicò: “I è i piöcc, i
pöles e i sömeghe”. “Ma perché definire Re Magi i pidocchi, le pulci e le cimici?”. “Ah, chèsto ghe
l’ só mia dì”, rispose. Se non lo sapeva lui…
La campana la suna de s-cèp.
Il sunà de s-cèp è il suono fesso che dà una campana crepata. Si usa questa locuzione quando ci si
vuol riferire ad una persona che non rispetta gli orari, soprattutto l’orario di lavoro, come se
adducesse a scusa dei suoi ritardi il fatto di non udire le ore suonate da una campana fessurata.
La creànsa de Bordògna.
I nostri nonni narravano che tanto tempo fa a Bordogna, amena frazione di Roncobello, fosse
accaduto un fatto straordinario ed esilarante, presto risaputo in tutta la Bergamasca. In una
determinata ricorrenza annuale gli abitanti di Bordogna erano usi ritrovarsi di sera in un locale
della canonica per gustare un piatto di gnocchi, cucinati dalle donne del paese. Dopo la prima
portata una fantesca recava altri gnocchi ai commensali, i quali dovevano rifiutarli per creanza.
Un anno capitò che si scatenasse un violento temporale: dalle finestre, tenute aperte a causa della
calura estiva, entrarono alcune folate di vento che spensero i lumi. La sala piombò nell’oscurità ed
occorse qualche tempo prima che si provvedesse a riaccendere fiaccole e candele. Quando
finalmente la sala ritornò ad essere illuminata ci si avvide che i piatti di portata erano
desolatamente vuoti: aprofittando del buio, sicuri di farla franca, tutti gl’invitati si erano gettati
sulla seconda razione di gnocchi e la creanza era andata a farsi benedire. Il fatterello insegna a
non fidarsi troppo della natura umana.
La cüra de l’öa.
Negli ultimi anni dell’Ottocento si diffuse l’abitudine di fare a settembre la cura dell’uva, in
omaggio alle proprietà terapeutiche del frutto della vite. Ho rintracciato nella raccolta della
vecchia “Rivista di Bergamo” diretta da Nino Zucchelli un articolo del professor Carlo Traini,
limpida figura di educatore e di studioso, che ebbi la fortuna di conoscere nei miei anni giovanili.
Lo scritto s’intitola: “L’uva o il succo d’uva”. Ecco come principia: “Chi non ha notato come i
tralci della vite paiono contorcersi in un’ansia amorosa, mentre si stendono sui filari dei colli
feraci, in atto di offrire le turgide file degli acini componenti i grappoli, affinché il sole, da chimico
insuperabile, vi accenda il suo fuoco e le riempia di essenze vitali? Non abbiamo mai pensato al
prodigio di questa misteriosa alchimia solare che dà all’uva proprietà alimentari e medicinali che
nessun altro frutto può vantare?”. Il professor Traini con questo suo insolito scritto spezzava una
lancia a favore della cura dell’uva affermando: “Le qualità alimentari di questo frutto sono ormai
messe in evidenza dalle accresciute cognizioni chimiche e fisiologiche, cosicché è generalmente
risaputo che il maggior valore di queste qualità deriva dalla sostanza dolce in essa contenuta, uno
zucchero, cioè, del tutto speciale, costituito per intero da glucosio e da uno zucchero semplice che
non ha bisogno di essere digerito, perché è già pronto ad essere utilizzato, tanto per infondere
calore ed energia nell’organismo come convertirsi in glicoceno nel fegato”. Enumerava poi il
Traini le molte virtù medicinali dell’uva ed in particolare del succo d’uva, da somministrare, di
regola, al mattino a stomaco vuoto e fra i pasti. E concludeva il suo saggio con questa
considerazione: “Se l’Italia non ha il sottosuolo con abbondanza di carbone e di minerali che
fanno ricche altre nazioni, essa dispone però di un suolo inondato di sole, suolo che, fecondato col
sudore dei suoi forti e geniali lavoratori, è ricco di grano, di olio e di uva, la bella triade di
prodotti fondamentali per l’umana sussistenza. L’uva da sola distilla un elisir di lunga vita la cui
formula si riassume nel trinomio: godimento, alimento, medicamento. Perché gli Italiani non
mangiano uva e non ne bevono il succo, spiritoso o no, a preferenza di tante bevande artificiali non
sempre salutari?”.
La ’é zó che la par pagada.
‘Scende tanto che sembra pagata’. Si dice quando piove a dirotto. In bergamasco si dice: A treàcasège, locuzione che indica l’atto d’inclinare il secchio per rovesciarne con forza il contenuto.
La fàbrica del Dòm.
Il modo di dire proviene dal Milanese e indica una costruzione, una impresa o un lavoro che non
sia ancora stato compiuto e del quale non si sa prevedere la fine. In bergamasco diciamo: ü laurà
piö finìt, ‘una faccenda infinita’. Sette secoli sono occorsi per erigere il Duomo di Milano e
l’Insigne Fabbrica esiste tuttora come istituzione deputata al mantenimento del meraviglioso
edificio, scampato per miracolo agli scellerati bombardamenti angloamericani dell’ultima guerra.
Il Duomo di Monza fu finito solo nell’Ottocento. La locuzione origina dunque dal concetto di
cattedrale come fabbrica eterna, in continua costruzione, edificio tanto solenne e autorevole da
rappresentare lo spirito e le virtù dell’intera comunità. Il concetto è patrimonio comune non solo
della gente milanese ma di tutta la popolazione lombarda: prolungare all’infinito la ricerca del
bello perché nei secoli le generazioni partecipino all’edificazione del tempio di Dio, quasi a voler
rinsaldare le radici più profonde. Le becere accuse di provincialismo e di localismo cadono allora
miseramente. E si rilegge volentieri la bella prosa del Pascoli dedicata al Duomo di Barga: “Nella
mia casa ch’io salti da un travicello all’altro. Ma il Duomo ha da essere grande”.
La gh’à mia cólpa la gata.
Il motto si completa aggiungendo: se la padruna l’è mata. Si dice quando una figlia mostra di avere
gli stessi difetti della madre. Il paragone con gli animali domestici non adeguatamente ammaestrati
è tipico del mondo contadino di un tempo.
La ghe creperà la àca a ü póer màrter.
La ruota della fortuna volge a suo capriccio arridendo sovente agli egoisti e ai prepotenti, a quanti
non si fanno scrupolo di travolgere chi incontrano sulla loro strada pur di fare quattrini, pur di
perseguire biecamente il loro esclusivo tornaconto. Può darsi che un giorno la sorte muti ma è
vano sperarlo: non possiamo applicare i concetti della giustizia umana, pur tanto incerta e
ondivaga, al succedersi degli eventi. La fortuna è cieca: anziché volgersi contro gli avidi e i
tracontanti può incrudelire là dove non dovrebbe, rovinando qualche poveraccio. Ma non è
possibile ribellarsi al destino; dobbiamo accettare le prove e portare i nostri fardelli, lievi o grevi
che siano. Per gli spavaldi e per gli arraffoni arriverà comunque il momento del redde rationem,
non quando vogliamo noi ma quando lo deciderà la sorte. Per capire bene il senso di questa
locuzione occorre rammentare che un tempo per tanta gente che campava di stenti la mucca della
stalla costituiva l’unica fonte sicura di sostentamento. Se ad un povero martire moriva la mucca
non rimanevano che la fame, la miseria e la disperazione, soprattutto quando in casa c’erano
bocche di vecchi e di bambini da sfamare. Ancora alla fine dell’Ottocento sulle nostre colline e in
pianura la mezzadria costringeva i contadini ad una vita dura, precaria e piena di privazioni. Nelle
zone di montagna, dove il frazionamento delle proprietà terriere permetteva solo il conseguimento
di redditi molto modesti, il flagello dell’emigrazione spopolava le vecchie contrade e migliaia di
giovani si recavano all’estero per vendere le loro braccia come muratori, carbonai, boscaioli e
minatori. Forse ci si è dimenticati che, morta la mucca, trovando forza nella disperazione il povero
martire a poco a poco si traeva dagl’ìmpicci con il sudore della fronte e risaliva così la china nella
quale era stato precipitato dalla sfortuna. Per quel po’ di benessere grazie al quale si vive con
qualche decoro dobbiamo ringraziare anche i poveri martiri del passato, quelli che, leggendo nel
gran libro della campagna, sapevano che il sudore della fronte è il lievito della civiltà.
La gh’ìa resù chèla póera egina.
Il problema gnoselogico è antico quanto l’uomo ma innanzi ad esso l’atteggiamento del dotto
differisce da quello dell’uomo comune (o qualunque che dir si voglia). Questi, pur diffidando dei
paludamenti accademici e delle aulicità, solitamente non teme di apprendere nuove nozioni. Un
sottile senso pratico e utilitaristico lo induce ad aumentare comunque il numero delle sue nozioni,
che egli ritiene scarse. Se per ristrettezze propedeutiche dedica poco tempo alla lettura e non ha
confidenza con testi che richiedano una certa concentrazione, egli annette tuttavia importanza
all’osservazione e al dialogo, dai quali può sperare di apprendere sempre qualcosa di nuovo.
Proverbiale ed emblematico dell’inestinguibile desiderio di sapere è il motto che parla di una umile
vecchietta alla quale rincresceva di morire perché lasciando questa terra non avrebbe più imparato
alcunché. Il dotto conquista con lo studio la sua erudizione ma a mano a mano che stende il suo
sguardo sull’immensità dello scibile e che s’impossessa di nuove conoscenze si rende tristemente
conto che non potrà mai sapere tutto. “So di non sapere”, diceva Socrate. Era il paradosso di chi
capiva che ogni nuova conoscenza pone ulteriori problemi e dischiude percorsi insospettati
prospettando altri campi da indagare e da studiare. Anche Goethe ricorse ad un paradosso quando
volle significare il turbamento del sapiente innanzi alla sterminata vastità dello scibile. Egli scrisse
infatti: “Si sa soltanto quando si sa poco; con il sapere aumenta l’incertezza”. Più si sa e più i
problemi aumentano: mit dem Wissen wächst der Zweifel. L’ignoto induce sempre al timore,
all’irresolutezza. La coscienza si spaura innanzi alla vastità dell’universo e ai suoi misteri come
innanzi al microcosmo e ai suoi innumerevoli aspetti infinitesimali: tutto diventa difficoltoso e la
risoluzione di un problema presuppone l’affaccio su altri problemi. L’erudito si appella allora alla
ragione, che se la cava come può, disponendo di poche risorse certe. Essa si limita infatti ad
apprestare al sapiente i metodi della conoscenza. Pico della Mirandola, erudito fra gli eruditi,
perseguendo l’ideale pansofistico si sgomenta pensando che di tante discipline ciò che si conosce
non è che una parte assai piccola. Anch’egli tuttavia, come il popolano, non rinunzia ad accrescere
il suo sapere. Solo l’ignorante, ricco o povero che sia, non vuole apprendere e si ritiene pago della
sua pochezza. Aveva dunque ragione chèla póera egina che l’ ghe rincressìa de mör perchè ògne dé
che passàa la ne ’mparàa öna nöa, ‘quella povera vecchietta alla quale rincresceva di morire perché
ogni giorno che passava ne imparava una nuova’.
La gòba del saù.
Sarà davvero esistita una donna gobba che da ambulante vendeva il sapone per i borghi di
Bergamo? Può ben essere. La poverina doveva essere non solo malfatta ma anche singolarmente
brutta, perché ho sempre udito pronunziare la locuzione in senso ironico e spregiativo (es.: L’è
bèla come la gòba del saù, ‘È bella come la gobba del sapone’) o come insulto, preceduto da un
aggettivo qualificativo acconcio (es.: Bröta gòba del saù!, ‘Brutta gobba del sapone!’). Certo non è
locuzione da gentiluomini.
La guèra l’è guèra per töcc.
I prussiani dicevano: Krieg ist Krieg. Alla guerra e alle sue conseguenze non ci si sottrae anche
nella vita civile. Essa coinvolge tutti nelle sue leggi spietate. Lo sanno bene i popoli della vecchia
Europa, che si è dilaniata in lunghi e terribili conflitti finendo per rinunziare al suo primato.
Occorrerebbe rileggere ogni tanto qualche sofferto memoriale della Grande Guerra per non
perdere del tutto il ricordo: il fronte, la trincea... Dalla “Autobiografia effimera” (Roma, 1990) del
fiorentino Corrado Pavolini (1898-1980), commediografo, docente di sanscrito e di estetica del
cinema, fratello incolpevole del gerarca Alessandro (finito male nel 1945), trascrivo il seguente
passo, datato 1918, ultimo anno di guerra: “A volte s’incontrano, per le campagne, dei solitari
tabernacoli. Sotto c’è una Madonnina pensosa, o un Cristo. Allora come in un’onda amara ci risale
al pensiero il nostro lontano paese, sommerso nelle nebbie e nella neve; dove anche Dio è severo
per la nostra maledizione. E qui gli occhi di Gesù sono una dolcezza, un perdono per ciò che non
abbiamo commesso. Sarebbe così buono fermarsi, adorare per tutta la vita queste divinità benigne!
Ma bisogna andare senza tregua, sfiniti, scalzi, come bestie rognose. Noi siamo i pellegrini laceri.
Ma il nostro cuore è grande come il mondo”.
La lèngua ’n bóca.
È ben vero che co la lèngua ’n bóca s’ và fina a Róma, ‘con la lingua in bocca si va fino a Roma’. Il
buon uso della lingua comporta che a far domande sensate e a ricevere risposte appropriate si
arriva dove si vuole, foss’anche a una meta un tempo assai lontana come Roma. Ma la lingua è
solo uno strumento che consente di articolare i suoni. Essa va sempre governata dal cervello.
Appunto per questo a Treviglio si dice che prima de parlà sa tas, ‘prima di parlare si tace’, perché
se non si pensa e se non si sa che cosa dire è meglio non parlare. Un noto proverbio bergamasco
insegna che s’ gh’à mia de parlà dóma per fa balà la lèngua, ‘non si deve parlare soltanto per
agitare la lingua’. Diciamo allora che una persona la parla perchè la gh’à la lèngua ’n bóca quando
intendiamo significare che parla a vanvera, senza riflettere, solo perché si trova la lingua in bocca
e la vuole usare ad ogni costo, anche a sproposito. Si avverte che mè stà atèncc a parlà oppure mè
stà atèncc a come s’ fà a parlà, perché a volte basta una sola parola proferita con leggerezza per
suscitare reazioni impreviste e non volute. Una volta Dante passando per una via di Firenze udì un
asinaio che conducendo dei somari si divertiva a recitare un canto dell’Inferno. Di quando in
quando costui interrompeva la declamazione dei versi per pungolare i somari gridando: “Arrì,
arrì!”, come facevano un tempo i mulattieri toscani. Il poeta attese che l’asinaio gli giungesse a
tiro, si tolse il mantello di panno pesante e gli assestò una gran botta dicendogli: “Tu canti i miei
versi ma io non ho scritto codesto tuo arrì! Tu hai confidenza solo coi versi degli asini tuoi: non
profanare dunque i miei versi con i tuoi ragli!”.
La mà del diàol.
Mancino era un tempo sinonimo di tristo, di malvagio. Non ero né tristo né malvagio quando, a sei
anni, fui forzato a suon di sberle a scrivere con la destra. Fra i ricordi della mia prima età
ricompare ancor oggi il quaderno della prima classe elementare e vedo ancora la mia mano destra
che arranca faticosamente sulla pagina tracciando lettere incerte ed ecco le lacrime che cadono
sulla pagina e che si confondono con l’inchiostro. Per fortuna alle generazioni successive alla mia
è stato risparmiato questo supplizio. La sinistra era detta la mano cattiva, quella del diavolo: così
per tanto tempo il mancinismo venne forzato con gravi conseguenze psicologiche per chi era
costretto a scrivere con la destra. Eppure Alessandro Magno, Carlo Magno, Giovanna d’Arco,
Leonardo da Vinci e Michelangelo Buonarroti erano mancini!
La Madòna che và in Egét.
Da tempo non sento più nel dialetto vivo il verbo sfantà, ‘svanire’, ‘sparire’, ‘dileguare’. Quando
mi sovviene penso a un ameno episodietto che si divertivano un tempo a raccontare i vecchi
trevigliesi e che mi fu narrato una volta dal senatore Aurelio Colleoni. Si diceva che un contadino
della periferia di Treviglio desiderasse far dipingere sul muro esterno del suo cascinale una
santèla, ossia un affresco di carattere religioso a scopo devozionale. Egli si rivolse a un noto
pittore trevigliese che a tempo perso e per la pagnotta si prestava ad eseguire anche lavori modesti,
a metà strada fra l’artistico e l’artigianale. Il pittore sottopose al contadino i disegni di alcuni
soggetti e questi scelse quello raffigurante la scena della fuga in Egitto. Stabiliti i termini del
contratto, il pittore si accinse all’opra e in men che non si dica dipinse l’affresco, che faceva la sua
bella figura e che era ammirato da quanti passavano accanto al cascinale. L’artista tuttavia non
dovette usare dei colori adatti all’affresco perché dopo due o tre mesi un temporalone estivo dilavò
la scena sacra scolorendola al punto da renderla pressoché indecifrabile. Il proprietario della
cascina corse dal pittore e protestò: “La santèla l’è sfantada vià!”. Il pittore la prese dalla lontana
e disse che non ricordava più neppure quale soggetto avesse dipinto e quando avesse eseguito il
lavoro. Il contadino rispose: “L’éra la Madòna che và in Egét. A l’ì pitürada che l’ sarà tri mis”. E
il pittore, sornione: “Cosa pretendìv dòpo tri mis? Che la sìes lé amò? Se la gh’ìa de ’ndà in Egét,
a st’ura la sarà bé riàda!”. Si osservi che nel dialetto della Bassa si dice Madòna e non Madóna.
Lamentàs del bröd grass.
Il brodo grasso, quello di carne bollita, saporito e sostanzioso, non era certo piatto di tutti i giorni
per le famiglie di un tempo: c’erano persone che non se lo potevano mai permettere, altre che ne
usufruivano soltanto nelle feste solenni o in circostanze speciali. La povertà un tempo era molto
diffusa ma negli anni del consumismo è difficile rendersi ben conto delle condizioni di vita delle
generazioni che ci hanno preceduto. La povertà non è scomparsa e quella vera è la più appartata, è
quella silenziosa e dignitosa di tante persone anziane dei nostri ceti popolari che vivono nella
penuria ma che non si ridurranno mai a mendicare, come fanno indisturbati in pieno centro delle
città giovani che non hanno la minima voglia di lavorare. Per converso esistono persone che non
sanno che cosa voglia dire privarsi dell’effimero e che non hanno fatto un solo sacrificio per
meritare la prosperità e l’abbondanza di cui dispongono. Proprio fra costoro si può trovare chi si
lamenta del brodo grasso. Ma è tutta la società che ha fatto indigestione di brodo grasso e che deve
riconquistare il senso della moderazione e della sobrietà.
La Mèssa di oseladùr.
Fino ai primi anni del Novecento era assai diffusa la pratica dell’aucupio con l’impianto del
roccolo. Nei giorni di precetto gli uccellatori si recavano alla “Messa prima”, che si celebrava alle
luci dell’alba, per accorrere poi al roccolo, verificandosi il passo di certe specie di uccelli di primo
mattino. Se anche il prete era uccellatore, celebrava la Messa con straordinaria rapidità. La stessa
cosa accadeva per i cacciatori. Per indicare una Messa di breve durata si dice ancor oggi Mèssa di
oseladùr oppure Mèssa di cassadùr. Non tocca a noi, sentenziosi e sofisticati pronipoti, giudicare
quei preti e quei fedeli, tanto più che la loro intenzione era sicuramente buona e molto gradita al
Signore.
La mórt a l’è ciara a’ per i òrb.
La morte è un fatto tanto evidente da risultare chiaro anche a chi non ha il dono della vista. Il
famoso saggio pubblicato nel 1920 a Parigi dal dottor Sergio Voronoff e intitolato “Vivere”
incominciava così: “L’uomo si rivolta contro la morte come contro la più grande delle ingiustizie,
perché egli ha in sé il senso intimo della propria immortalità. Ciascuna cellula di cui è composto, e
che nei primi tempi della creazione del mondo formava un essere completo, indipendente, conserva
la memoria della sua vita indefinita, eterna, e vibra d’orrore davanti alla morte impostale
dall’associazione con altre cellule”. E più avanti: “Il conflitto costante fra l’istinto della vita e
l’orrore della morte ha generato il profondo pessimismo che ha tormentato i più grandi pensatori,
e che mescola a tutte le nostre gioie un senso di amarezza: questo istinto ha stimolato in tutti i
tempi appassionate ricerche per trovare l’elisir che permetta di prolungare i termini dell’esistenza
fino al momento in cui la sazietà di una lunga vita non faccia invocare il sonno e il riposo”. Con le
sue cure il dottor Voronoff tentò di rallentare il processo d’invecchiamento, sostenendo fra i primi
che la vita media dell’essere umano potrebbe raggiungere i centovent’anni. Impotente innanzi
all’ineluttabilità della morte, l’uomo vive nella speranza che essa giunga il più tardi possibile. Il
testo n. 86 degl’Inni Orfici è costituito da una preghiera rivolta alla morte: l’orante conclude la
sua supplica chiedendo di vivere una vita molto lunga.
La mórt improìsa.
Di uno che sia pallido e smunto, con un’espressione spaventata nel viso, diciamo che l’par la
reclàm de la mórt improìsa. Non è che la traccia di un’orazione spontanea, che suonava press’a
poco così: Signùr, salvém de la fam, de la pèst, de la guèra e de la mórt improìsa. Al buon Dio per
rispetto i nostri vecchi davano del voi e lo pregavano di scamparli dalla fame, dalla peste, dalla
guerra e dalla morte improvvisa. Fame, peste e guerra sono ora un po’ meno presenti ma la morte
è presenza costante, certa e ineludibile; se arriva improvvisamente, senza che abbiamo avuto il
tempo di pentirci del male che abbiamo commesso, come la mettiamo con il tribunale di Dio? Ma
da tempo l’idea della nostra fine è stata rimossa. Fra Settecento e Ottocento le ragioni igieniche
sono invocate per allontanare il camposanto dall’abitato: non si crede più nell’Aldilà e il cimitero
(dal greco koimetèrion, ‘dormitorio’) non è più ritenuto luogo di sosta e di dormitio prima della
resurrezione dei corpi alla fine dei tempi. Spinoza e i liberi pensatori del secolo dei “lumi” ridanno
credito ai deterministi dell’ellenismo: ritorna in auge Epicuro, il quale nega perfino l’esistenza
della morte (“nulla essa è per noi, egli afferma, perché quando c’è la morte noi non siamo più
niente”). La morte improvvisa dunque non impensierisce, essa non sarebbe altro che uno
spauracchio agitato da chi crede ancora nelle chimere metafisiche. Così Brecht può scrivere, con
una buona dose di rozzezza e di semplicioneria: “Non esiste ritorno (…). Morite come tutte le
bestie, e dopo non c’è niente”. Meno crudo e desolato è Camus, che da esistenzialista nel suo
“Mito di Sisifo” nega però all’uomo qualunque prospettiva di speranza. L’aveva intravista, la
speranza, Cesare Pavese quando, nel “Mestiere di vivere”, cercò una “strada per giungere alla
fede” e la individuò in “una sommersione in un mare d’amore”. Tutto sta nel dare una giusta
risposta all’angosciosa domanda rivolta alla luna che il Leopardi pone sulle labbra del suo pastore
errante: “dimmi ove tende / questo vagar mio breve?”. I nostri avi non si rassegnavano all’idea
che la vita umana fosse priva di un punto di arrivo diverso dalla morte fisica e che tutto si
risolvesse nel tirare a campare, nel mandare avanti la baracca, nello sbarcare il lunario e via
discorrendo, senza una prospettiva oltre la vicenda biologica. Chiedevano a Dio di scamparli dalla
morte improvvisa perché avevano capito che fra l’“al di qua” e l’Aldilà si pone il mistero della
vita. Su questo mistero non dobbiamo certo farci illuminare da chi non ha altre speranze che quelle
terrene, limitate e inappaganti.
La müsica l’è sèmper chèla.
Dopo le promesse e le roboanti dichiarazioni di buoni propositi, sovente chi conquista il potere
sostituendo i vecchi dirigenti finisce per imitarne i metodi e i comportamenti. In simili casi i
bergamaschi sono soliti ricorrere alla loro proverbiale arguzia per commentare così: I è cambiàcc
i sunadùr ma la müsica l’è sèmper chèla. Per il vero esiste anche una versione decisamente scurrile
che si avvale dell’immagine del bocàl ma non pare il caso di riferirla qui, essendo già troppe e
insopportabili le volgarità, le sconcezze e le trivialità del corrente linguaggio televisivo
romaneschizzato per aggiungerne una in bergamasco, idioma che sulle labbra delle persone
educate (sono ancora molte, grazie a Dio) suona civile e garbato come pochi. Al tempo di Giano
della Bella, nobile ghibellino mutatosi in popolano guelfo allo scopo di introdurre nel governo
della signoria fiorentina i famosi “ordinamenti di giustizia”, i giudici, che pendevano
scandalosamente da una parte, anziché osservare nelle sentenze l’obbligo sacrosanto
dell’equanimità, divennero strumenti animosi della repressione tirannica della fazione dominante,
tanto che Tommaso Gallarati Scotti nella sua appassionata “Vita di Dante” poté scrivere: “Si
ripeteva l’antica vicenda del popolo oppresso dalle classi fattesi nei secoli potenti e prepotenti, che
a un dato momento insorge per un principio di giustizia contro i privilegi degli oppressori, ma che,
conquistato il potere, diventa ingiusto a sua volta e avido di dominare con gli stessi mezzi e con le
stesse armi dei vinti avversari e, negando ad essi le libertà rivendicate per sé, prepara altre
violenze che riconducono alle vecchie forme”. Cambiati i suonatori, dunque, la musica era ancora
eguale se non peggiore. Gli “ordinamenti di giustizia” della signoria fiorentina risalgono al 1293.
Da allora ad oggi molta acqua è passata non solo sotto il Ponte Vecchio che attraversa l’Arno ma
anche sotto i ponti dei fiumi di tante altre città. Ed ovunque vi siano state rivoluzioni, ribaltamenti
di potere, mutamenti repentini di dirigenze si è visto il ritorno, subitaneo o graduale, delle vecchie
forme gestionali, perché chi fa le rivoluzioni intende sempre imporre le sue riforme agli altri
guardandosi bene dal riformare se stesso. Se la storia è questa, come dar torto a chi lamenta che,
cambiati il maestro di cappella e i suonatori, la musica sia sempre la stessa?
La nòsta tèra.
“Io son Sordello, della tua terra”, fa dire Dante nel VI canto del “Purgatorio” al trovatore di
Goito il quale ha riconosciuto in Virgilio un suo conterraneo. In bergamasco la voce tèra è
espressiva dell’identità di un popolo, di una gente, di una cultura. Basta dire: la nòsta tèra e già la
territorialità assume contorni ben definiti e la sua visione dipana alture, valli, pianure, fiumi,
strade, la città e i paesi, centri di vita abitati da millenni, una vita che segue un’etica sperimentata
da molte generazioni e che si avvale di una parlata con suoni propri, dagli accenti e dalle
inflessioni inconfondibili. Questa è la tèra ed ogni popolo ha il diritto di possederne una per vivere
in pace con i popoli vicini. Narra una leggenda americana che sulla tomba del capo di una tribù
indiana, caduto combattendo per la libertà del suo popolo, ad ogni primavera spuntava una piuma
di quelle che adornavano la sua testa, quasi a rivendicare il possesso del territorio sottratto alla
tribù. Nel secolo XVIII gl’indiani dell’America del Nord erano 70 milioni; ora sono ridotti a 4
milioni e la loro cultura è stata estirpata, ridotta a folclore per il turismo domenicale. Ma non si
possono dimenticare le parole che Luther Standing Bear, capo dei Sioux Oglala, indirizzò al
Congresso degli Stati Uniti: “La nostra terra vale più del vostro denaro: non possiamo vendervela
perché non possiamo vendere le vite degli uomini e degli animali che la popolano: essa è stata
creata per noi dal Grande Spirito e solo a lui appartiene. Voi contate pure i vostri soldi ma solo il
Grande Spirito sa contare i granelli di sabbia e i fili d’erba di queste pianure. Se lo desiderate, vi
possiamo regalare ciò che possediamo e lasciarvi tutto ciò che riuscirete a portare con voi: ma la
terra non è in vendita”. Come i pellirosse, ora ribattezzati nativi per ipocrisia eufemistica, anche
noi stiamo perdendo la nostra identità storica e la nostra cultura perché stiamo perdendo il senso
del rapporto con la terra. Sbaglia chi crede che essa possa ridursi tutta alle carte di un catasto.
L’uomo non può, se non a scapito della sua dignità, costringere la sua esistenza entro una visione
biecamente materialistica e tecnicistica, che riconosce come valori essenziali il denaro, la
ricchezza, il potere, il successo, gli agi, i piaceri, le apparenze, l’esteriorità. Chi perde il senso
dell’appartenenza ad una terra, ad un popolo, ad una cultura rischia di possedere solo un’identità
burocratica. Troppo poco per un essere umano.
La passada di tóle.
Tanti anni fa a Valgoglio, nell’Alta Valle Seriana, la sera dell’ultimo giorno dell’anno i ragazzi
percorrevano le vie del paese armati di pentole, di latte e di ferrivecchi, che battevano e che
scuotevano facendo un fracasso indiavolato: era la passada di tóla, che si faceva per spaventare
l’anno vecchio e indurlo ad andarsene ed insieme per risvegliare e richiamare l’anno nuovo, dal
quale ci si attendeva pace e prosperità.
La prima galina che canta.
Quando i ragazzi combinano una marachella, si domanda chi è stato. “Non sono stato io”, ci si
sente rispondere da uno dei bricconcelli. Di solito si dice allora che la prima galina che canta l’à
fàcc l’öv. Recita un detto latino: Excusatio non petita, accusatio manifesta.
L’arca de Noè.
Di una casa nella quale si trovino diversi animali si dice che l’è l’arca de Noè. La conoscenza degli
episodi dell’Antico Testamento era molto diffusa nelle generazioni che ci hanno preceduto.
Largh a mangià e schéss a laurà.
Si dice degli scansafatiche e dei gabbamondo che sono grandi divoratori ma pessimi lavoratori.
L’ironia è ben fondata in una terra povera di risorse, dove tuttavia non è mancata la voglia
d’intraprendere, di realizzare e di progredire. C’è da augurarsi che lo spirito di attaccamento al
lavoro non si disperda e che sia condiviso dalle nuove generazioni: un popolo è libero e forte
quando sa superare le difficoltà con i propri mezzi.
Largh de bóca e strécc de mà.
Secondo un’antica opinione la gente di Val Brembana sarebbe ‘larga di bocca ma stretta di mano’,
ossia larga di promesse ma tutt’altro che generosa. A loro volta i valbrembanini chiamavano un
tempo bagià, ‘baggiani’, i malghesi che provenendo dalla campagna milanese conducevano le loro
mandrie all’alpeggio. Si tende sempre ad attribuire a molti i difetti di una sola persona secondo il
fallace criterio della massima: Ex uno disce omnes.
La scènsa di àsegn.
La calligrafia era detta un tempo ‘scienza degli asini’ perché, pur essendo considerata materia
d’insegnamento, non comportava l’apprendimento di particolari nozioni non essendo una vera
disciplina. Svalutata e trascurata per troppo tempo, la calligrafia ha tuttavia la sua importanza,
perché dalla cura con la quale si scrive si giudica il carattere della persona. Com’è possibile
scrivere senza alcun ordine e senz’alcuna regolarità, mettendo in difficoltà chi deve leggere?
La sciura co la ranza.
È la bianca e ossuta dama dalla falce, alla quale nessuno può sfuggire. Un tempo sulle pareti
esterne dei cimiteri i nostri pittori la raffiguravano trionfante nella sua raggelante scheletricità ad
ammonimento della caducità umana. Qualche nostro poeta dialettale ha reso omaggio alla regalità
della dama scrivendo Sciura con l’iniziale maiuscola. Sentendosi presso a morire, Pietro Ruggeri
da Stabello (1797-1858) chiese un pettine all’amico che lo assisteva, si ravviò i capelli e disse:
“Sono presentabile. Ora puoi aprire la porta e far entrare la signora dalla falce”.
Lassà bói.
Letteralmente: ‘Lasciar bollire’. Indica l’atteggiamento disincantato di chi non si cura di un certo
fatto o di una determinata situazione che gli viene descritta come sconveniente. A volte è bene non
impicciarsi di fatti che non ci riguardano e di vicende ingarbugliate nelle quali, se intervenissimo,
rischieremmo di rimanere impigliati. Vi sono casi nei quali è bene rimanere indifferenti ed esortare
così se stessi: Lassa bói!
Lassàga i pène.
In italiano si dice: “Rimetterci le penne”. Significa: “Essere ridotto a mal partito”. È ciò che
accade agli uccelli inviischiati nella pania: catturati, non volano più.
Lassà in pas i póer mórcc.
Se qualcuno parla male di una persona defunta gli si dice di lasciare in pace i poveri morti. Un
tempo si diceva de no tirà i mórcc a tàola per raccomandare di non ricordare difetti ed errori di chi
ormai era nel numero dei più. Vale sempre e comunque l’esortazione latina: Parce sepulto.
Lassàla alì.
L’uso dell’infinito presente non rende mai bene il senso di una locuzione, che va contestualizzata.
In questo caso, ad esempio, se riferendomi ad una persona io dico che ghe l’ó lassàda alì, intendo
significare che gli ho lasciato credere di avere ragione, gli ho lasciato pensare di essere nel giusto.
Ci si comporta così quando non ci si vuole scontrare, non si ha alcun interesse a contraddire
l’interlocutore o addirittura si ritiene di poter trarre un vantaggio dal fatto di lasciarlo nella sua
convinzione. Tante volte non vale davvero la pena di imbarcarsi in discussioni inutili e in
polemiche sterili. Si pensi alla corrente di pensiero secondo la quale si potrebbe costruire un homo
mechanicus, una macchina pensante in grado di competere con il cervello dell’uomo, una sorta di
intelligenza artificiale che superi le capacità logiche della nostra mente. Non ci si dovrebbe
arenare innanzi alla quæstio dei limiti razionali? L’intelligenza crea la logica ma non la coscienza.
Lo strumento informatico tecnologicamente più aggiornato non può reggere il confronto con il
gatto di casa o con il merlo indiano, che sono anzitutto esseri viventi. Ricerchino pure, compiano
pure ulteriori progressi ma non s’illudano di porre sullo stesso piano l’homo mechanicus e l’homo
sapiens. Sorge il sospetto che quanti divinizzano il progresso tecnologico non si siano mai piegati
abbastanza sulle pagine di Aristotele e di San Tommaso d’Aquino. Poi, muovendosi il progresso
entro limiti naturali invalicabili, s’ ghe la lassa alì, ‘gliela si lascia valere’, perché altrimenti si
finirebbe per litigare. E non ne vale la pena.
Lassàla borlà ’n tèra.
‘Lasciarla cadere a terra’. Si dice quando si ritiene che non sia il caso di urtarsi o di litigare e si
preferisce lasciar cadere una questione pendente o lasciar perdere una ragione di attrito. Esempio:
L’avrèss püdìt fà di stòrie ma l’à pensàt bé de lassàla borlà ’n tèra, ‘Avrebbe potuto questionare ma
ha preferito lasciar perdere’. Nella forma negativa si ode anche: Lassàla mia ’ndà ’n tèra.
Lassà ’ndà l’aqua al mar.
L’acqua del fiume è destinata a raggiungere il mare ed è inutile tentare di fermarla. Esistono
situazioni innanzi alle quali non ci si può opporre ed è giocoforza rassegnarsi.
Lassà zó la caàgna.
Letteralmente significa ‘calare la cesta’, gesto che compivano le persone che abitavano ai piani alti
per evitare di scendere e di risalire le scale: il garzone del lattaio o del fornaio o del salumiere
deponeva nella cesta quanto richiesto e l’interessato faceva risalire la cesta tirando la corda alla
quale era appesa. La locuzione però assunse ben presto un altro significato. Se di un tale che
conoscevo mi dicono che è morto, mi viene spontaneo dire: I à lassàt zó la caàgna, perché era la
sua ora e i l’à tiràt sō, ‘lo hanno portato in cielo’. È una locuzione eufemistica. Un tempo le ceste di
vimini erano molto usate ed erano fabbricate manualmente da bravi intrecciatori. Uno di questi era
lo Svìsser, strano tipo fra il mendicante e la macchietta, vissuto fra le due guerre e così chiamato
perché in gioventù aveva lavorato per qualche tempo in Svizzera senza tuttavia trarne profitto
alcuno. Viveva all’ultimo piano di una vecchia e modesta casa di Bergamo Alta. Prima di ridursi
all’accattonaggio aveva costruito con le sue mani decine di ceste, di cestoni, di cestini, di panieri,
di caagne e di caagnōi. Una volta gli era stata conferita l’incombenza di realizzare una cesta
enorme: egli vi lavorò per molti giorni dopo essersi procurato il legno adatto sui boschi dei nostri
colli. Ultimato il lavoro, si accorse che il cesto era troppo grande per passare attraverso l’angusta
porta della sua abitazione. Rifare dunque la cesta? E dove? Lo Svìsser risolse di chiamare un
muratore, al quale fece togliere la maestà della porta: il cestone poté così essere portato all’aperto
e consegnato al committente ma il guadagno fu impiegato per pagare il muratore che aveva tolto e
rimesso la maestà alla porta. Davanti ad un calice di vino all’osteria egli narrava talora l’episodio
agli avventori e commentava: “I è laùr che sōcéd a laurà”. Povero Svìsser! Arrivò anche per lui il
tempo che i lassès zó la caàgna; indigente e privo di parenti prossimi, fu portato via con il carro dei
poveri e non un’anima ne seguì il feretro.
Lassà zó la cassöla.
È sinonimo di puntualità quasi ossessiva perché si sa bene che a mezzogiorno in punto i muratori si
affrettano a deporre la cazzuola (“strumento di piastra di ferro, di forma triangolare, che serve per
maneggiar la calcina nel murare, intonacare e arricciare”, dice il vocabolario del Tiraboschi alla
voce cassöla). Disponendo di un intervallo piuttosto breve per la consumazione del pasto, che
portavano da casa in un recipiente metallico con coperchio a vite detto schissèta, i muratori di un
tempo interrompevano il loro lavoro al prim bòt del mesdé, al primo tocco del mezzogiorno. Il
gesto di deporre in fretta la cazzuola fu presto interpretato come una sorta di disimpegno da parte
di chi interrompe un lavoro. I muratori lo possono fare ma non sempre nelle vicende della vita è
lecito piantar tutto in asso e andarsene prima che una certa opera sia compiuta. Per quanto poi
attiene alla puntualità, se è giusto e sacrosanto andarsene una volta concluso l’orario di lavoro, è
ancor più sacrosanto e doveroso iniziare il proprio turno all’orario stabilito. Se ciò vale per tutti,
vale a maggior ragione nei pubblici uffici, che devono erogare un servizio pagato dai cittadini. A
proposito di puntualità, Luigi XIV era solito dire che essa è necessaria agli uomini d’affari, è un
atto di cortesia da parte del re e un dovere ineludibile da parte dei gentiluomini.
La strada de ’ndà a Mèssa.
Se un tempo una bimba domandava ingenuamente alla nonna: “Cosa te me làsset quando te
möret?”, si sentiva rispondere: “Te lasse la strada de ’ndà a Mèssa”. Occorre pensare quanto
fosse diffusa la povertà per comprendere bene la risposta della nonna, una risposta priva di ogni
ironia, pronunziata con l’attitudine di chi educa, di chi addita alle giovani generazioni la
supremazia dei valori spirituali su quelli materiali, dei quali i ceti popolari potevano assai
scarsamente disporre. Con il lavoro arrivò poi il benessere e con il benessere le utopie, soprattutto
la convinzione che attraverso il possesso dei beni terreni si potesse raggiungere la felicità e che
questa felicità si potesse ottenere interrompendo ogni rapporto con il soprannaturale, da
cancellare e da sradicare perseguitando e opprimendo quanti nel soprannaturale credevano, come
sciaguratamente accadde nei Paesi cosiddetti socialisti, dove un bieco e rozzo pensiero di regime
umiliò e vilipese le libertà personali con metodi polizieschi e terroristici. L’uomo s’illude di
riscrivere le leggi oggettive della storia, di eliminare la presenza di Dio dal cosmo, di negarne
l’atto della creazione; essere imperfetto, l’uomo ritiene con le sue sole forze di poter realizzare la
società perfetta, egli che non sa più identificare il vero benessere nel bene comune perché ha
smarrito il senso autentico della comunità. Supponendo di dare un senso alla sua esistenza
nell’abbandono all’edonismo e nella resa al consumismo, l’uomo s’illude dunque che il progresso
stia nello sperpero dei beni materiali. In un romanzo di Giovanni Arpino intitolato “La trappola
amorosa” (1937) si legge questo pensiero: “Il borghese credeva nel suo progresso, poi ha lasciato
il termine progressista a quelli che non possiedono il passato e che non sanno niente del futuro”.
Già, perché l’unica vera eredità della nonna povera era la strada de ’ndà a Mèssa, ‘la strada per
andare a Messa’. Nella loro saggezza le vecchie generazioni, temprate dai sacrifici, intuirono il
limite del modello conoscitivo che affidava tutto alla scienza e alla tecnica e niente alla filosofia, al
pensiero, all’etica, come se il dialogo fra il sensibile e lo spirituale dovesse interrompersi per
sempre e il divino dovesse separarsi per sempre dall’umano e scomparire in chissà quale etere
nebuloso. Così, cancellato il senso del passato, estirpate le radici, dispersa la saggezza antica,
nella quale era l’eredità migliore, ci si arrende alla barbarie di massa e si ha paura di un cielo
privo di angeli, si teme il vuoto lasciato dalla negazione pertinace del sacro, si finisce addirittura
per dar credito ai maghi e alle fattucchiere, ai ciurmadori e agl’imbroglioni dell’occulto, che certo
non sono da assumere a maestri di etica. Si paventa la zona d’ombra, si teme la terra di nessuno
che ormai separa l’interiorità dalla razionalità, avendo la forte secolarizzazione indotto l’uomo ad
un individualismo esasperato, dal quale non lo può sottrarre alcuna moderna efficienza produttiva,
alcun circuito consumistico, alcun falso valore imposto dalla globalizzazione. Perduta l’identità
spirituale e culturale, si rischia di smarrire la via che conduce all’appuntamento più alto con la
spiritualità.
Laurà dai stèle ai stèle.
Si è ormai smarrita la nozione di questo detto perché più nessuno lavora dalle stelle alle stelle,
ossia dal primo mattino, quando in cielo le stelle trascolorano, alla sera inoltrata, quando riappare
nella volta del cielo il luccichio delle stelle. La locuzione evoca il lavoro dei carbonai delle nostre
montagne, i quali, secondo un metodo antichissimo, ottenevano il carbone dalla combustione lenta
della legna. Dopo aver scelto il legname adatto, in parte stagionato e in parte ancora verde, ed
averlo ridotto in toppi da sovrapporre l’uno all’altro, su uno spiazzo pianeggiante denominato aràl
(dal latino locus arealis, ‘luogo dell’area’), costruivano il poiàt, ossia la catasta della legna da
trasformare in carbone. Il poiàt era vuoto all’interno e veniva ricoperto da un leggero strato di
terriccio, che rallentava la combustione. I carbonai a turno sorvegliavano notte e giorno la catasta
fumante fino a quando la legna non era stata tutta ridotta in carbone. Per un paio di mesi, da aprile
a maggio, lavoravano dunque dalle stelle alle stelle per produrre il carbone di legna, molto
richiesto fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, quando nelle case si usavano ancora le stufe e
le caldaie erano alimentate con il carbone. Orari di lavoro come quelli osservati anni addietro dai
carbonai delle nostre valli non sono più consentiti dalla legislazione sociale vigente. Del resto, non
si vive per lavorare ma si lavora per vivere. Tuttavia non si deve smarrire il ricordo dei sacrifici
compiuti dalle generazioni che ci hanno preceduto. E a ben riflettere, a certi giovani che s’illudono
di trovare nella droga un rimedio al loro vuoto interiore, non farebbe male laurà dai stèle ai stèle.
Laurà de fì.
‘Lavorare curando le finiture’. Se n’è perduta perfino la nozione. Nei capìtoi dell’abate Rota si
trova la locuzione: Laurà de schiribìss, che implica la capacità di eseguire a puntino trine e
merletti, volute e arabeschi.
Laùr de campana a martèl!
È locuzione esclamativa, pronunziata a commento di fatti o di eventi inauditi e di eccezionale
gravità. Fin dal Medio Evo si suonava la campana a martello quando incombeva un pericolo
grave. Si è perduta la nozione della vita comunitaria di un tempo, quando al mattino gli uomini
validi lasciavano il borgo o la cascina per recarsi al lavoro nei campi. Oggi si vive in una
rumorosa confusione e non si sa che cosa sia il silenzio, non si apprezzano la quiete e la serenità:
la nostra vita è un assillo continuo, una corsa convulsa per rispettare gli orari e far fronte
agl’impegni mentre tutto attorno regna un baccano infernale di clacson, di motori e di sirene, di
musicacce volgari strombazzate a pieno volume con percussioni assordanti, quando non ci si
mettono anche i cantieri edilizi e quelli dei lavori stradali. Una volta nella pace della campagna il
suono lontano di un bronzo sacro si diffondeva su spazi vasti da un paese all’altro. La campana
suonava il mattutino, il mezzogiorno e l’Ave Maria, avvertiva che si celebravano le funzioni
religiose, suonava a festa nel giorno del santo patrono, annunziava le agonie e i trapassi e allora il
suono invitava alla preghiera del Requiem. In casi eccezionali la campana della chiesa assolveva
al compito affidato in città alla campana civica: salutare l’arrivo del nuovo podestà, convocare i
consigli comunali, avvertire la popolazione di un pericolo imminente. La campana suonava a
stormo all’approssimarsi di un esercito (nel 1917 gli austriaci compirono pesanti ritorsioni nei
confronti dei sacerdoti veneti che avevano fatto suonare le campane all’annunzio della rotta di
Caporetto). Le campane del cremonese, del mantovano, del ferrarese e del rovigotto suonarono a
stormo nel novembre del 1951, quando il Po ruppe gli argini e alluvionò il Polesine. Fino alla fine
dell’Ottocento il suono fedele delle campane di Martinengo suonate a distesa nelle sere nebbiose
orientava i carrettieri che nel fitto della boscaglia si dirigevano al guado del Serio.
Laùr de macc!
È locuzione esclamativa. Corrisponde al napoletano: Cose ’e pazze! In bergamasco il nome
italiano lavoro si rende sostantivando l’infinito presente (ol laurà), mentre ü laùr può essere un
oggetto, un’operazione, una cosa, una faccenda, una situazione. I nostri avi potevano abitare in
città, in collina, in montagna o in pianura ma la loro vita doveva essere ben dura e faticosa se ogni
cosa, concreta o astratta, era un laùr (accusativo latino laborem, ‘fatica’, ‘pena’). Se ritornassero
in vita, davanti a tanti aspetti del mondo contemporaneo avrebbero ragione di esclamare: Laùr de
macc! Innanzi ad una società alla deriva, priva di punti fermi, che registra un forte aumento di
suicidi nei giovani e negli anziani, che cos’altro si dovrebbe dire? Di un mondo allo sbando, nel
quale le coscienze sono tanto intorpidite da tollerare che s’invochi pubblicamente l’uso della droga
in nome di una falsa libertà, a infame sostegno dei traffici mafiosi, che cos’altro si deve dire? Dei
poveri sciagurati che dai ponti si divertono a lanciare pietre sulle automobili, delle bande di piccoli
delinquenti dediti al furto e alla violenza, dei figli snaturati che macchiano le loro mani sacrileghe
del sangue dei genitori, che cos’altro si dovrebbe dire? E fra i laùr de macc includiamo anche il
sensazionalismo colpevole e morboso delle televisioni che dedicano tanto spazio ai fatti criminosi
più efferati ed impressionanti senza mai dare un severo giudizio morale.
Leà a pà e fich.
’Crescere a pane e fichi’. Significa che si proviene da una famiglia povera e che si sono trascorse
l’infanzia e la fanciullezza nelle ristrettezze cibandosi di companatico misero.
Leà de tèra.
È una iperbole di straordinaria efficacia: sgridare uno con tanta asprezza e con un tale impeto
d’ira che la persona così rimproverata si senta quasi levata da terra. Esempio: A l’ l’à leàt de tèra,
‘Lo ha sgridato aspramente’. Si noti che ‘sgridare’ in bergamasco suona usà dré, letteralmente
‘vociare dietro’.
Leà la pèl del müs.
La fantasia popolare ama ricorrere a locuzioni paradossali e ad immagini icastiche. Emblematico
è questo caso, che vuole esprimere gli effetti sconvolgenti di una severissima sgridata o di un
rimprovero scorticante. Se dico che una persona la m’à usàt dré voglio significare che mi ha
rimproverato ma se dico che la m’à leàt la pèl del müs intendo significare che mi ha detto delle
cose tremende e umilianti, al punto che il mio volto sarebbe diventato un muso…
Leà sö col pé sbagliàt.
Giornata nera quella di chi si alza dal letto con il piede sbagliato. Si dice anche: Desdàs fò co la
lüna sbagliada, ‘Svegliarsi con la luna sbagliata’. Ho sentito dire anche: Co la lüna stórta, ‘Con la
luna storta’. Perché si attribuisca alla luna un comportamento da persona scontrosa o selvatica si
può arguire dall’influsso che la forza di gravità del nostro satellite esercita sull’acqua. Fu Newton
a descrivere l’attrazione lunare sulle masse equoree (l’inalzamento e il flusso dell’acqua del mare
in corrispondenza del plenilunio e del novilunio mentre nel primo e nell’ultimo quarto il fenomeno
è meno vistoso). Si dà il caso che il nostro corpo sia composto per l’80 per cento di acqua. Forse
qualche tratto un po’ anomalo della nostra personalità è influenzato dalla “marea biologica” che
nel nostro organismo si verifica al tempo del plenilunio e del novilunio. È antica credenza dei
contadini padani che non si debba indugiare a fissare la luna né dormire al chiarore della luna
piena perché si ridurrebbero gli umori oculari e si perderebbe la vista. Può accadere a tutti di
alzarsi dal letto di quando in quando con il piede sbagliato o con la luna storta. A chi è villano
capita sempre ma non è colpa della luna: la lüna l’è tónda e ’l vilàn l’è quàder.
Lecàs i dicc.
‘Leccarsi le dita’. Si dice anche nell’italiano colloquiale non solo per indicare un cibo prelibato ma
anche per alludere ad un fatto molto piacevole o ad una situazione molto fortunata. Nello stesso
senso si dice: Lecàs i barbìs, ‘Leccarsi i baffi’. Rara e pittoresca è la locuzione: Ciciàs i ónge,
letteralemente ‘Succhiarsi le unghie’.
Lèngua, làgreme e ónge.
Si diceva un tempo che la donna possedeva tre armi: léngua, làgreme e ónge. Nel lungo cammino
verso la sua piena emancipazione, intrapreso e sviluppatosi nelle nazioni di tradizione cristiana,
nelle quali la cultura religiosa ha diffuso il concetto della sostanziale eguaglianza delle persone di
sesso diverso davanti alla divinità, a poco a poco la donna ha conquistato una serie di diritti che le
competono. Non che un tempo le nostre donne di casa non sapessero farsi rispettare. Entro le
pareti domestiche era la donna spesso ad avere voce in capitolo: nel disbrigo delle faccende, che
erano in tutto affidate a lei, l’uomo di solito si guardava bene dall’ingerirsi. Da noi in Lombardia
si usava il termine regiura o resgiora, ‘reggitrice’, in Emilia risdura e in Veneto parona, ‘padrona’,
per indicare una donna che aveva l’esclusiva responsabilità delle faccende domestiche e degli
affari della famiglia. Tutt’al più gli uomini, se avevano un contrasto con le donne di casa,
ricorrevano a qualche proverbio maschilista (del tipo: “Chi dice donna dice danno”) o
ironizzavano su prerogative femminili quali la lingua, le lacrime e le unghie. Perseguendo una
falsa idea di emancipazione, oggi le donne vengono indotte a imitare gli uomini fino a rasentare il
ridicolo. Purtroppo l’anima popolare ha perduto la memoria del mito alpino della donna selvatica,
che era stupendamente bella e luminosa. Vestita di bianco, usciva dagli antri e dalle selve non solo
per cantare e danzare ma per aiutare i contadini nelle semine e nei raccolti. Insegnava alle spose a
filare il lino e regalava loro gomitoli che non finivano mai, riconduceva nel villaggio i bambini che
si erano smarriti nel bosco e dava cibo ai poveri. Non voleva mai nulla in cambio ma pretendeva di
essere rispettata; del resto, chiunque le avesse mancato di riguardo avrebbe richiamato su di sé la
sciagura. Oggi la curiosità e la spettacolarizzazione consumistica hanno privato la donna della sua
riservatezza e della sua dignità: le lusinghe dell’ambizione, del successo, del guadagno facile
tendono ad allontanare sempre di più la donna dalla sua natura autentica, profonda e misteriosa
come la vita.
L’è öna Babilònia.
Di un luogo in cui regnino il disordine e il caos diciamo che l’è öna Babilònia, con allusione
all’episodio biblico della torre di Babele, edificata dagli uomini a sfida del cielo: ne sortì la
maledizione delle lingue, che disperse i superbi costruttori, divenuti l’uno straniero all’altro.
L’è öna repüblica.
Si dice di una situazione confusa e ingovernabile. Il motto si diffuse forse alla caduta della
monarchia francese. Ghigliottinato il re, imperversò il Terrore: si può immaginare con quale
apprensione seguissero qui da noi le notizie provenienti d’oltr’Alpe i ceti abbienti, timorosi di
perdere i loro privilegi. Oppure il detto nacque qualche anno dopo, al sorgere della Repubblica
Bergamasca, quando l’armata francese di Napoleone entrò in Bergamo Alta con il tradimento,
disarmò i soldati veneziani ed esautorò l’ultimo podestà della Serenissima. Accecata dallo spirito
di fazione, ci fu gente che si abbandonò a gesti vandalici: le insegne del leone di San Marco furono
distrutte, gli stemmi dei rettori veneti che ornavano la facciata di Palazzo Vecchio furono strappati
e frantumati, fu presa a martellate e rovinata la fontana che era stata donata alla città da Alvise
Contarini, furono sfregiate e cancellate le immagini sacre fatte dipingere dalla pietà popolare agli
angoli di alcune vie e sulle facciate di alcune abitazioni private, furono liberati i delinquenti
comuni del carcere, fu dato alle fiamme il Teatro Riccardi e si sparse la voce calunniosa che
l’incendio fosse stato ordinato dal podestà veneto. Ma avvenne di peggio perché furono requisiti gli
argenti delle chiese, furono sestuplicate le tasse, furono depredate migliaia di opere d’arte, che
presero la via della Francia insieme con i codici antichi e i tesori di cultura di molte biblioteche, fu
istituita la leva obbligatoria, i prodotti agricoli furono assoggettati all’ammasso. Dopo il fallimento
dell’insorgenza dei marcolini valdimagnini e brembani, stroncata a colpi di cannone, i cadaveri dei
caduti furono ammucchiati attorno all’albero della libertà issato in Piazza Vecchia e il popolo
costretto a danzare attorno al macabro cumulo mentre l’esercito francese esercitava il diritto di
saccheggio e di stupro in alcuni paesi della Valle Imagna. Non si poteva certo ravvisare in queste
soperchierie la tanto agognata e magnificata civiltà dei lumi che i giacobini bergamaschi si
aspettavano. In quegli anni convulsi fu questa l’immagine data dall’istituto repubblicano. Non ci si
stupisce che allora per alludere ad uno stato di confusione irrimediabile si ricorresse
all’esclamazione: L’è öna repüblica!
L’è öna röda.
Icasticità e sinteticità sono i requisiti principali di molte locuzioni che i demologi e i filologi
attingono dalla viva parlata popolare. Ma anche il tesoro dell’esperienza e il senso della storia
sono connaturati con queste locuzioni, frutto di lunghe e attente osservazioni della realtà; esse sono
state tramandate fedelmente di padre in figlio per lungo ordine di generazioni come sentenze
oracolari o massime sapienziali d’indiscusso e perenne valore. Una di queste locuzioni fiorisce
spontaneamente sulle nostre labbra quando vogliamo significare l’avvicendamento di una
generazione all’altra e il fatto che i figli, una volta diventati adulti, si trovino a ripercorrere le
strade già battute dai padri, ripetendone le esperienze e le vicissitudini. Diciamo allora che l’è öna
röda. Lo diciamo anche quando vediamo crescere i figli, quando si giunge ad appuntamenti
significativi nell’esistenza di una persona, come il lavoro, il matrimonio, la nascita di un figlio o di
un nipote. E quasi senza accorgercene rendiamo allora omaggio ad uno dei simboli più
rappresentativi dell’uomo della preistoria, l’uomo geniale che per millenni operò tramandando
oralmente il sapere e le norme della vita sociale, l’uomo che addomesticò gli animali e che rapì
agli dei la scintilla che gli permise di accendere il fuoco, l’uomo che innestò gli alberi e che inventò
la ruota. Emblema talora del cosmo, talaltra della divinità o della regalità, l’immagine della ruota,
attestata da antichi graffiti, è un archetipo dell’uomo preistorico. Quando diciamo: L’è öna röda,
rivivono in noi gli uomini dell’antichità, che hanno lavorato, sperato e creduto anche per noi. Non
si smarrisca nell’uomo contemporaneo l’eredità dei millenni lontani.
L’è scapada la quaia.
Era un pessimo uccellatore chi non sapeva catturare le quaglie perché si distraeva quando
passavano o perché non sapeva usare il richiamo appropriato. Si dice quando ci si lascia sfuggire
un’occasione.
L’è sèmper la stèssa minèstra.
Esprime desiderio di evasione dalla consuetudine, soprattutto da parte di chi intende sottrarsi al
vincolo della fedeltà coniugale.
L’età de la stüpidéra.
È l’adolescenza, l’età della spensieratezza, quando è scarsa la propensione ad assumere delle
responsabilità.
L’è ü negòsse de Varés.
Si dice di un affare in perdita. Solitamente si completa il detto aggiungendo per amor di rima: che
s’ cómpra a òt e s’ vènd a sés, ‘che si compera a otto e si vende a sei’. Chi combina simili affari non
è buon mercante e deve cambiare mestiere. Meglio che presti la sua opera da dipendente (sóta
padrù, ‘sotto padrone’).
Ligà l’àsen indó l’ völ ol padrù.
Si dice quando si deve ottemperare ad un ordine che suscita perplessità o che non è condiviso. Si
lega l’asino dove vuole il padrone; se questi è presuntuoso e incapace lo farà legare in un terreno
fangoso anziché in un prato erboso oppure sotto il sole cocente anziché al riparo. Finché si tratta
del padrone dell’asino, pazienza. Ma c’è anche chi esercita il comando sulle nazioni e sui popoli.
Ligàs sö i braghe co la löanghina.
Ci si vuol riferire ad una favolosa età dell’oro con la locuzione: Quando i se ligàa sö i braghe co la
löanghina, ’Quando si cingevano i pantaloni con le salsicce’. Il bergamasco löanghina è diminutivo
di lögànega, cibo proveniente dalla Lucania. Si legge infatti nel quarto libro di Varrone:
“Lucanicam dicunt, quod milites a Lucaneis didicerunt”, dal che si evince che le salsicce erano già
conosciute dai soldati romani. Semmai è da chiedersi perché fossero state assunte a simbolo di
abbondanza ma la risposta è presto data pensando alla fame patita per tante generazioni dalla
povera gente, presso la quale, sia pure confusamente, è sopravvissuto per secoli il mito esiodeo di
una felice comunità originaria, di un eden perduto, l’archetipo di un paradiso terrestre mai
abbastanza rimpianto. La consapevolezza di vivere in una società imperfetta, segnata dalla
sofferenza e dall’insoddisfazione, dall’impossibilità di raggiungere una condizione di generale
letizia, ha indotto i bergamaschi ad evocare con bonaria ironia il tempo favoloso in cui i bachècc i
parlàa, i póie i portàa ol s-ciòp e i òmegn i se ligàa sö i braghe co la löanghina, ‘i ramicelli
parlavano, le galline portavano lo schioppo e gli uomini si cingevano le brache con le salsicce’.
L’invìdia l’è mai mórta.
Settimo dei vizi capitali, dopo l’ira, l’accidia, la gola, la lussuria, la superbia e l’avarizia (cattivi
sentimenti che la morale condanna e che tuttavia in questi tempi bislacchi trovano spesso
giustificazione e perfino condivisione ed esaltazione a causa del torvo e sfacciato materialismo
imperante), l’invidia alligna e cresce con la gelosia, si sfoga nel pettegolezzo, gode della calunnia,
trascina chi ne patisce nel baratro della depressione. Nel canto XIII dell’Inferno, evocando il
suicidio di Pier della Vigna, Dante la chiama “meretrice”; ne esecra poi i misfatti compiangendo
nel canto VI del Purgatorio la sorte toccata a Pier de la Brosse. Davvero l’invidia non è mai morta
se tutta la storia dell’umanità è cosparsa di sopraffazioni, di violenze e di conflitti combattuti per
colpa di esseri che soffrono delle fortune altrui anziché compiacersene, il che è tanto immorale e
indegno quando il godere delle disgrazie altrui anziché dolersene. “Fu il sangue mio d’invidia sì
riarso / che se veduto avesse uom farsi lieto / visto m’avresti di livore sparso”, confessa Guido del
Duca a Dante nel Purgatorio. Epicuro, sostenitore di una puerile visione cosmologica atomistica e
chiuso in una morale utilitaristica, nelle sue sentenze ammoniva tuttavia con sano realismo che
soltanto gli stolti, non accontentandosi di quanto possiedono, si rodono invidiando i più ricchi e si
tormentano per quanto non hanno. Eppure, diceva il pensatore greco, quasi sempre il
raggiungimento della ricchezza non comporta la fine dei mali bensì il principio di mali nuovi e ben
peggiori. E concludeva sentenziando che soltanto chi ha l’anima ammalata e non sa vivere secondo
le leggi della natura può invidiare gli altri per i beni materiali che possiedono. Certo il ritenere che
il possesso di molti beni materiali dia la felicità è un terribile errore, al quale Nietzsche diede
credito elaborando la teoria del risentimento (una sorta di sordo rancore che si cova contro una
società dominata dall’egualitarismo, che tarperebbe le ali ai più capaci). In realtà se l’invidia
dilaga è colpa dei modelli di comportamento sbagliati che i mezzi di comunicazione di massa
continuano a proporre senza che alcuna autorità intervenga a correggere tanto scempio
dell’educazione pubblica. In conclusione, chi patisce d’invidia non ha alcuna considerazione di sé.
E non se ne rende conto se non recupera la sua dimensione etica.
L’öle l’è lé, l’ula l’è là, gh’ l’àla lé lé la löm?
Non è che uno scioglilingua ma possiede un significato ben preciso e sembra essere stato concepito
per denigrare e confondere quanti sostengono che il bergamasco sarebbe un linguaggio
“incomprensibile”. Esso suona cosi: L’olio è lì, l’ampolla è là, ha lì lei il lume? Già al tempo dei
lumi ad olio i bergamaschi dovevano dunque difendersi dalla balorda diceria che pretendeva di
attribuire loro un linguaggio ostico e irsuto. Bella educazione quella di offendere un popolo
oltraggiandone la lingua!
Lóngh come la quarisma.
Di una situazione che duri oltre ogni ragionevole limite si dice che l’è longa come la quarisma
perché le prescrizioni della quaresima, osservate un tempo assai più di adesso, rappresentavano
un’autentica mortificazione dei sensi ed erano vissute con spirito penitenziale. Si dice che l’è lóngh
come la quarisma anche chi esegua un lavoro con esasperante lentezza per pigrizia o
incompetenza. Tutti hanno sperimentato più di una volta le lungaggini e la generale inefficienza dei
servizi pubblici che dipendono dall’amministrazione centrale dello Stato, un’amministrazione
eccessivamente costosa e troppo spesso supponente, pletorica e parassitaria, insensibile ai diritti
del cittadino.
L’óngia incarnada.
Si sa che i principianti e i dilettanti che si dedicano ad uno strumento musicale ne possono trarre
suoni sgradevoli e perfino raccapriccianti. Fra i musicisti bergamaschi è invalsa l’abitudine di
deplorare tali esibizioni con una locuzione sarcastica, che si rifà al dolore e al fastidio provocati
da un’unghia incarnita. Se un giovane violinista facesse scaturire dal suo strumento dei miagolii
strazianti, qualcuno gli potrebbe domandare: Sét dré a sunà la müsica de l’óngia incarnada? Ai
principianti tuttavia si possono perdonare gli strimpellamenti mentre sono da accogliere a pollice
verso le meschine esibizioni di quanti godono di suonare pur non avendo professionalità. Ciò vale
non solo per la musica ma anche per le altre arti. Aveva ben ragione l’imperatore Giuliano detto
l’Apostata di scrivere nell’anno 363 in un suo polemico libello intitolato “Misopogon” e dedicato
ai cittadini di Antiochia: “Oltre il Reno ho udito i barbari intonare canti selvaggi in una lingua
simile al gracchiare di uccelli rauchi e li ho visti trarre gran diletto dal loro canto. Similmente
accade ai cattivi poeti di essere uno strazio per chi li ascolta ma di riuscire gradevolissimi a se
stessi”.
Laurà con coscènsa.
Per i nostri vecchi non era concepibile lavorare senza l’impiego della coscienza, parola che
comprendeva la dedizione, l’applicazione, la concentrazione, la diligenza, lo scrupolo, l’onestà, la
compiutezza, tutte caratteristiche che non potevano mancare nell’esecuzione di qualunque lavoro o
nell’esercizio di qualunque professione. Non saprei illustrare meglio questa locuzione che con il
seguente frammento, che traggo dall’”Elogio dei giudici scritto da un avvocato” (I ed. 1935), un
saggio di piacevole lettura del noto giurista fiorentino Piero Calamandrei (1889-1956): “Il
dramma del giudice è l’abitudine. Il giudice che si abitua a render giustizia è come il sacerdote che
si abitua a dir Messa. Felice quel vecchio parroco di campagna che fino all’ultimo giorno prova
nell’appressarsi all’altare con vacillante passo senile quel sacro turbamento che lo accompagnò,
prete novello, nella sua prima Messa; felice quel magistrato che fino al giorno che precede i limiti
di età prova nel giudicare quel senso religioso di costernazione che lo fece tremare cinquant’anni
prima, quando, pretore di prima nomina, dové pronunciare la sua prima sentenza”.
L’ura del campanél.
Kronos, divinità glaciale e impassibile, apprese all’uomo a misurare il tempo inarrestabile dando
un nome ai vari momenti della giornata. Il bergamasco non sfugge alla regola: dé (latino dies) e
nòcc si riconoscono dal ciàr (la luce) e dal fósch (il buio). Nell’arco delle ventiquattr’ore si
succedono il mesdé e la mèsa-nòcc nonché la matina, ol dòpo-mesdé e la sira. Per indicare l’ora
antelucana, il tempo che precede l’alba, i nostri vecchi dicevano: L’è antedé (latino ante diem) ma
ormai questa voce non si ode più. Si può ancora sentire la locuzione la ’é la dé, ‘sta per spuntare
l’alba’ (ma anche la dé la spónta oppure l’è sà la dé) e ci si ricorda allora che il sostantivo
maschile latino dies era usato in alcuni casi anche al femminile. Il bergamasco conta i setimane, i
mis, i stagiù e i agn, conta anche i sècoi ma davanti ai millenni ricorre all’aggettivo numerale e
dice méla agn, ‘mille anni’. Può anche dire ü migliù de agn, ‘un milione di anni’, oppure ü migliàrd
de agn, ‘un miliardo di anni’ per non arrendersi davanti alla necessità di misurare i tempi
astronomici. Ma davanti agli anni-luce cede al registro italiano perché il suo campo d’interesse è
soprattutto nelle vicende della terra e nel contare le ore della giornata per mettere bene a frutto il
proprio tempo. Oggi si tende a dire l’öna, i dò, i trè, i quàter… Ma quand’ero ragazzo sentivo
ancora dire ün’ura, dò ure, trè ure… Non si diceva a m’ se èd ai trè, ‘ci vediamo alla tre’, ma a m’
se èd ai trè ure. Gli orologi dei campanili suonavano anche la mès’ura e il quart d’ura, perché si sa
che esistono il prim quart e il segónd quart (o öltem quart); se manca un quarto alle sei oggi si dice
che l’ manca ü quart ai sés ma da ragazzo sentivo ancora dire: a l’ cala ü quart ai sés ure. Ai miei
tempi non era consigliabile rivolgersi ad un amico con la domanda: che ur’él adèss?, ‘che ore
sono?’. C’era sempre lo spiritoso che ti rispondeva: L’è l’ura del campanél.
Mai ciamàs per nòm.
Se un vostro amico, rammaricandosi di aver commesso un errore, si dà dello stupido, non rincarate
la dose dicendogli: Mai ciamàs per nòm!, ‘Mai chiamarsi per nome!’. A meno che non siate in
confidenza e purché usiate un tono scherzosamente indulgente.
Mancàet a’ té.
Letteralmente si traduce: ‘Mancavi anche tu’. Ma occorre spiegare, perché non tutti colgono il
sottile humor dei bergamaschi, che svaria dall’arguzia all’ironia senza sconfinare nel sarcasmo. Al
tempo delle famiglie numerose, quando parlare di controllo delle nascite avrebbe suscitato
scandalo e sdegno perché si riteneva odioso e delittuoso sopprimere una vita che stava per nascere,
capitava che fosse in arrivo un altro figlio, magari quello dei dodici o dei quattordici. C’era
sempre chi domandava al padre: Come l’ ciamerì?, ‘Come lo chiamerete?’. E il padre rispondeva
invariabilmente: Mancàet a’ té. Poi il figlio arrivava e c’era posto anche per lui perché tutti
condividevano i sacrifici e le penurie. (Dicevano: Ògne angelì l’ gh’à ’l sò fagutì). È rimasta la
locuzione a dare il senso di un arrivo inatteso in una situazione già difficilmente sostenibile:
mancavi solamente tu per complicare ancor di più le cose. In tempi di confusione come questi che
stiamo vivendo mi viene spontaneo pronunziare questa locuzione quando mi trovo infastidito da
qualche falso profeta che come un propagandista di lucidi per le scarpe o di creme per la pelle
pretendebbe che perdessi il mio tempo ad ascoltare le bubbole e le fantasticherie della setta alla
quale ha aderito. Povere persone incolte e sradicate, prive di adeguati studi filosofici e teologici,
mancanti di sicuri strumenti conoscitivi, irretite dalle maglie tentacolari dei testimoni di Geova, dei
buddisti (i giapponesi della Soka Gakkai e gli asiatici di Krishna), degl’induisti, dei mormoni, dei
seguaci della new age e di altre similari credenze fondate non su di una salda ed elaborata dottrina
ma sulle sabbie mobili di vaghe intuizioni, su suggestioni puerili quando non su errori grossolani,
equivoci e fraintendimenti, esoterismi ed elementi magici! Sono i rischi che deve correre una
società aperta come la nostra, nella quale chi ha meno difese etiche, ideologiche e conoscitive
viene travolto dai venditori di fumo, magari anche da santoni e da occultisti che fanno i baffi d’oro
sull’ingenuità dei gonzi. Mancavano soltanto loro, ciechi che guidano altri ciechi, a rendere ancor
più problematica questa società inquieta e convulsa.
Mancà trènta a ’ndà a trentü.
Si dice di chi non ragiona bene e dimostra dai discorsi che fa di essere quasi privo di cervello.
Dovendo arrivare a trentuno, occorrerebbe averne trenta: la situazione di chi invece manca di
trenta appare desolante e irrimediabile.
Mancà ü gioedé.
Di una persona che abbia problemi psichici si dice che l’ ghe manca ü gioedé. Vi fu un tempo nel
quale l’istituto manicomiale consentiva la libera uscita al giovedì agli ospiti sedati, che non
risultavano pericolosi a sé ed agli altri. Da questo fatto ebbe origine il detto: Ol gioedé l’è ’l dé di
macc, ‘Giovedì è il giorno dei matti’. Se nei giorni precedenti a quello della libera uscita un ospite
aveva dato segni di agitazione il permesso di uscita veniva temporaneamente sospeso. La
sospensione era annotata sulla scheda riassuntiva dei permessi d’uscita, cosicché il medico poteva
subito rilevare la mancata uscita al giovedì.
Mandà a dì.
È l’atto di far sapere qualcosa a qualcuno per interposta persona. In caso contrario, a s’ manda
mia a dì, ossia si dice direttamente all’interessato quanto dovuto. Di solito un buon bergamasco a l’
manda mia a dì, preferisce dire pane al pane e vino al vino senza tanti giri di parole, sa esprimere
idee e sentimenti con il necessario rispetto ma con l’altrettanto necessaria schiettezza, sa sostenere
le proprie ragioni senza timore e con la più opportuna determinazione. Se la verità va sempre
onorata, si ha il diritto di farla valere: mandà mia a dì è allora un gesto di ragionevolezza e di
sincerità, che induce al dialogo più che al litigio.
Mandà al Sinquandò.
Una sola volta in vita mia ho udito proferire questa locuzione: fu tanti anni fa da un vecchio
agricoltore dei nostri colli. Egli non è più da tempo, la sua vigna è stata abbandonata e la sua casa
colonica, che nella bella stagione esponeva una frasca per accogliere ogni domenica le comitive
che assaporavano pane e salame con l’irrorazione del vinello nostrano mesciuto da un boccale di
terracotta, la sua casa, dicevo, rimasta a lungo deserta, è stata rammodernata e lottizzata per nuovi
abitatori non bergamaschi e ridipinta con un pacchiano colore da sobborgo marinaro, un colore
che avrebbe fatto arrabbiare l’antico proprietario. Se ritornasse in vita, egli manderebbe architetti,
impresari e novelli proprietari proprio al Sinquandò. Perché mandà al Sinquandò vuol dire
mandare alla malora o per lo meno mandare in un luogo lontano e tanto fuori mano che di là non
si possa nuocere. Appare sicuramente autorevole a tal proposito l’unica attestazione letteraria che
io conosca, un endecasillabo di un sonetto bergamasco di Bortolo Belotti che suona: Quando s’
manda i braghér al sinquandò, ‘Quando si mandano i rompiscatole alla malora’. Belotti usa
l’iniziale minuscola ma io non riesco ad evitare l’uso della maiuscola avendo trovato memoria
sentita e affettuosa dell’unica località che io conosca chiamata Cinquandò in un libro di
Gianandrea Gavazzeni, “La casa perduta”, pubblicato nel 1988. Il luogo, accoccolato a mezza
costa del colle della Maresana, era ben noto al grande direttore d’orchestra, che durante l’infanzia
e l’adolescenza vi aveva trascorso alcune settimane di settembre e di prim’ottobre: un’antica casa
padronale con una cappella per le funzioni religiose, uno studio con biblioteca, un’autorevole
cantina con botti e torchi, un cucinone con gli spiedi ad acqua e varie stanze, una delle quali fatta
apposta per conservare su tavole di legno la frutta destinata all’inverno; poi il giardino, il vigneto,
i castagni, i noci, il bosco ceduo, il roccolo per l’uccellagione. Ne rimase memoria viva nel
musicista, il quale negli anni Quaranta vi s’ispirò per comporre i tre “Concerti del Cinquandò”.
Non giurerei sull’unico etimo che mi pare plausibile, cioè la contrazione dialettale di un numerale
femminile sinquantadò, ‘cinquantadue’ (ma riferito a che cosa?). E non saprei precisare il rapporto
fra la locuzione mandà al Sinquandò e il luogo così vivamente rimpianto dal maestro Gavazzeni
nella sua prosa affascinante e sottilmente struggente. Alla rarità della locuzione corrisponde
comunque la rarità del toponimo.
Mandà de Ana a Càifa.
Se si vuol indicare che si viene inutilmente mandati da una persona ad un’altra soltanto per
perdere tempo si dice che s’ vé mandàcc de Ana a Càifa, locuzione alla quale si sente talvolta
aggiungere: e da Eróde a Pilato. I nostri vecchi conoscevano bene tutte le vicende e le sequenze
della Passione di Nostro Signore, che in non pochi paesi era drammatizzata con il concorso di
attori scelti fra i fedeli. Molti di loro non sapevano leggere ma conoscevano bene i segreti della
natura e vivevano una spiritualità salda e convinta.
Mangià dét in de la stèssa scödèla.
‘Cibarsi dalla stessa scodella’. Significa ‘avere molta confidenza’. Se una persona che non abbia
dimestichezza con me si permette di prendersi qualche libertà, ho il diritto di dirgli: Mé e lü m’à
mai mangiàt dét in de stèssa scödèla, letteralmente: ‘Io e lei non abbiamo mai mangiato nelle stessa
scodella’. Gl’invadenti sono sempre da allontanare perché non possiedono alcun senso del rispetto.
Mangià fò.
Maià è variante rusticale. Un conto è dire: Mangià fò de cà, ‘Pranzare fuori di casa’; altro è dire:
Mangià fò la ròba, ‘Dissipare’, ‘Dar fondo ad un patrimonio’. In questo senso la locuzione è
attualissima. Stiamo dilapidando i giacimenti di petrolio e frattanto l’atmosfera s’impregna di
tonnellate di anidride carbonica e di anidride solforosa, si bruciano quantità enormi di ossigeno,
senza del quale la vita sulla terra si estingue, le piogge acide riducono il patrimonio forestale,
l’effetto-serra scioglie i ghiacciai, le fonti inaridiscono, sale il livello dei mari, mutano le
condizioni climatiche. Un vecchio capo di una tribù indiana fu portato davanti al Congresso degli
Stati Uniti d’America. Egli rivolse ai deputati queste parole: “Quando noi indiani abbiamo fame e
freddo, uccidiamo un bufalo ma lasciamo tutti gli altri animali liberi di pascolare e di riprodursi.
Voi li uccidete uno dopo l’altro, senza altro scopo che quello di ridurci alla fame. Quando
vogliamo costruire una capanna, raccogliamo i rami caduti a terra. Quando voi bianchi dovete
costruire una città, abbattete intere foreste. Quando dobbiamo costruire un focolare, utilizziamo le
pietre sparse al suolo. Ma se voi dovete costruire una strada, rompete le montagne con la dinamite.
Della natura noi indiani prendiamo soltanto l’utile. Voi bianchi distruggete il capitale”.
Mangià fò ol rèf e i pèsse.
‘Dilapidare il refe e le pezze’. Si dice di chi sciupa tutti i suoi averi.
Mangià la baionèta di todèsch.
Di un pubblico funzionario che fosse ligio al proprio dovere e che avesse fama d’incorruttibilità si
diceva un tempo che l’ìa mangiàt la baionèta di todèsch per indicare che era tutto d’un pezzo e che
aveva la rigidità dei burocrati dell’amministrazione austroungarica. Purtroppo la tradizione della
buona amministrazione del pubblico denaro all’insegna dell’onestà e dell’oculatezza è stata
travolta dall’inefficienza e dalla corruttela della burocrazia centralista, pletorica, clientelare,
parassitaria e dissipatrice.
Mangià la fòia.
Si dice anche nell’italiano colloquiale quando si vuol significare che nonostante i tenui indizi ci si
rende conto di una situazione o si intuiscono le intenzioni altrui. Si formulano varie ipotesi
sull’origine del detto; esso parrebbe derivare dal fatto che i bachi sa seta si nutrono mangiando le
foglie dei gelsi: c’è chi sostiene che assaggiano le foglie per accertarsi della loro commestibilità e
chi invece asserisce che mangiando le foglie essi si sviluppano evolvendosi fino a formare il
bozzolo.
Mangià la sal per scödes la sit.
Si dice quando credendo di ovviare a una situazione negativa si sceglie un rimedio non solo
inefficace ma addirittura dannoso, come sarebbe quello di succhiare granelli di sale per vincere la
sete: è ben vero che di primo acchito il sale stimola le ghiandole salivali ma esso non fa che
aumentare la sete. Càpita ai sognatori e agli utopisti di illudersi di estinguere la loro sete di ordine
e di giustizia indicando soluzioni che si rivelano disastrose. Fu l’umanista Tommaso Moro (14781535), cancelliere di Enrico VIII, ad immaginare che esistesse un’isola chiamata Utopia (‘non
luogo’ in greco, ovviamente un paradosso) dove i cittadini vivevano felicemente in una società
ideale nella quale tutti si volevano bene. Si sa che Moro (ma il suo vero nome era Thomas More) fu
vittima dell’assolutismo: finì decapitato durante lo scisma anglicano per non aver voluto
riconoscere la supremazia del re inglese sull’autorità papale. Gl’illuministi e i giacobini a loro
volta credettero di scoprire verità rivoluzionarie predicando la libertà, l’eguaglianza e la
fratellanza, senz’accorgersi che queste verità erano già state proclamate tanto tempo prima in
Palestina da Gesù di Nazareth, il quale dava anche la parola ai muti e la vista ai ciechi, faceva
camminare i paralitici, liberava gli ossessi e resuscitava i morti mentre a Parigi durante il Terrore
le teste di centinaia di migliaia di persone rotolarono sotto la lama della ghigliottina in un’orgia di
sangue. Non si dice poi di quanti s’illusero che le idee marxiste potessero migliorare la società: i
regimi totalitari che s’ispirarono a quelle idee provocarono milioni di morti, trasformarono gli
Stati in galere, ridussero i popoli alla povertà e offesero la dignità dell’uomo perseguitandone e
opprimendone le libere manifestazioni con i metodi brutali dei gulag. Se si ha sete, che cosa c’è di
meglio di un bicchiere d’acqua?
Mangiàs ün’ala de fìdech.
Esempio: A l’ m’è egnìt adòss öna ràbia tal che ó mangiàt ün’ala de fìdech, ‘Mi sono arrabbiato
tanto che mi sono mangiato un’ala di fegato’. Ma la locuzione è assai diffusa e anche diversi
dizionari della lingua italiana la riportano. Si dice che ci si è mangiata un’ala di fegato quando si
riesce ad ottenere un determinato risultato soltanto a caro prezzo e con molta sofferenza. Che il
fegato abbia le ali non è propriamente vero ma nella fantasia popolare, che ama le metafore, i lobi
del fegato per la loro forma sono assimilati alle ali.
Massa-sèt e strópia-quatórdes.
‘Ammassa sette e storpia quattordici’: epiteto confacente al miles gloriosus e dunque agli
smargiassi, agli spaccamontagne e ai gradassi, tronfi delle loro vanterie. Purtroppo esistono
persone piene di sé, megalomani e presuntuosi che si ergono a modello per l’intera umanità,
vanagloriosi e spacconi che pretendono chissà quali riconoscimenti e che da perfetti gabbamondo
vivono soltanto in grazia della bontà e dell’altruismo del prossimo. Traggo dal “Vangelo della
vita” di F. W. Förster quest’aurea sentenza: “I chiacchieroni e i rodomonti non diventano quasi
mai veri uomini perché, essendo smisuratamente occupati di se stessi, alla prova decisiva si
rivelano deboli e vigliacchi”.
Mé gh’ó i ùs e lü l’ gh’à i nus.
Nella stagione autunnale capitavano nelle fiere e nei mercati i venditori di noci, che si avvalevano
di un garzone il quale decantava la qualità della merce; talvolta costoro si appostavano presso un
panettiere (fornér in bergamasco e prestiné in milanese) e il garzone richiamava gli avventori al
grido: Pà e nus, mangià de spus. Chi però incassava il denaro delle vendite era il proprietario delle
noci. Ciò che conta dunque, ammonisce il detto, non sono i richiami dell’imbonitore (costretto ad
ammettere di avere solo le voci ma non le noci) bensì il possesso della mercanzia, senza della quale
non esiste commercio. Esiste una variante che dice: Mé gh’ó i göss e lü l’ gh’à i nus, ovvero: lui si
gode le noci e a me restano soltanto i gusci. Un’altra variante è ancor più esplicita e dice: Mé
pórte vià i ùs e i óter i mangia i nus, ossia: io mi devo accontentare di aver trattato l’affare e gli
altri ne godono i frutti. Occorre aggiungere, per amore di completezza, che i ragazzi in vena di
celie rifacevano a modo loro il verso all’imbonitore gridando: Nus e pà, mangià de cà.
Mèi grignà che löcià.
Il verbo grignà ha implicazioni con l’inglese to grin e presuppone una radice celtica mentre löcià
deriva da una forma latina luctare, ‘piangere per un lutto’. Sono i quarti di nobiltà della lingua
bergamasca. ‘Meglio ridere che piangere’, perché la vita, pur essendo tanto breve, s’incarica di
procurarci non poche occasioni di amarezza, di pianto, di angoscia. Affrontiamo dunque il destino
con un po’ di serenità e con un pizzico di buonumore, altrimenti non riusciamo neppure ad
apprezzare i lati belli dell’esistenza. Viviamo tempi di precarietà, nei quali si registra una
progressiva perdita di valori e di certezze: dopo tanta predicazione nichilistica, dopo tanta
esaltazione dell’individualismo e del relativismo, che cosa ci si può attendere se non lo
scardinamento, la negazione e la rovina dei princìpi e degl’ideali sui quali si dovrebbe fondare una
società sana e solidale, sorretta da un vivo senso comunitario? Il ripudio dei valori spirituali,
surrogati da miserevoli miti di cartapesta, l’adattamento dei princìpi etici al proprio tornaconto
personale, la corsa sfrenata al successo, la competitività assunta a norma di vita sono tutti aspetti
che caratterizzano negativamente la società contemporanea, una società nella quale non si è più
capaci di ridere, di considerare le vicende umane con indulgente arguzia. Si assiste invece ad un
umorismo corrosivo, avvelenato da ideologie grevi e intolleranti, un umorismo rancoroso e
malvagio che si avvale del sarcasmo più bieco per seminare sentimenti di faziosità, per suscitare
odio viscerale nei confronti dell’avversario. Ma davvero in questa balorda società dei consumi,
così globalizzata e mondializzata, che si vanta di essere multietnica e multiculturale, che è preda di
conflitti insanabili e che è percorsa e terrorizzata da inaudite violenze, non si è più capaci di
sorridere bonariamente e di trascorrere qualche istante in allegria senza odiare o senza scadere
nel pessimo gusto? Cuor contento il ciel l’aiuta, dicevano i nostri vecchi, che non si affannavano ad
accumulare e che credevano di più nella generosità che nell’avidità. Alla fine della rincorsa
egoistica verso il successo i miti si dissolvono come neve al sole e non restano che il vuoto
interiore, il pianto e la disperazione.
Mèi pèrd che troà.
Riferendoci ad una persona che non solo non ha valore alcuno ma che può anche recare fastidi a
chi la accosta, possiamo dire: Mèi pèrdela che troàla, ‘Meglio perderla che trovarla’.
Menà la stónda.
Rilevo dal Tiraboschi: “Aver la luna a rovescio. Dicesi di persona bisbetica, stravagante e
fantastica”. È locuzione al tramonto, come poco usata è ormai la voce stónda nel senso di
‘ubriachezza’. Mi è capitato qualche volta di udire: L’à ciapàt öna stónda, per dire: ‘Ha preso una
ubriacatura solenne’. Il tono della frase era sempre sospensivo e sottintendeva una conclusione,
come se si dovesse dire: L’à ciapàt öna stónda che l’éra assé a’ mèsa. Ma se all’articolo
indeterminativo si sostituisce quello determinativo ecco che la locuzione cambia significato. Infatti:
Ciapà la stónda, ‘Arrabbiarsi tanto da perdere il controllo di sé’.
Mèt a copèla.
Te mète mé a copèla!, ci dicevano quando da bambini facevano i discoli. Ci attendeva una
punizione severa. Capivamo bene il senso della minaccia pensando al sale o al pepe che dovevano
essere sbriciolati nel mortaio con il pestello. A Siena l’Accademia degl’Intronati ha tuttora per
stemma una zucca da sale sormontata da due pestelli, perché un tempo non si commerciava il sale
raffinato ma solo quello grosso, che andava pestato per essere ridotto in polvere. A proposito di
zucche, si è diffusa anche da noi la costumanza tipicamente americana di Halloween, il capodanno
celtico, del quale ancora nell’Ottocento rimaneva nelle campagne padane una traccia, perché nella
notte fra il 31 ottobre e l’1 novembre i contadini accendevano nei campi le ‘teste illuminate’,
gl’involucri delle zucche intagliati simulando gli occhi, il naso e la bocca: era un antico richiamo
al culto dei morti, sublimato poi dalla pietas cristiana, che invita a deporre fiori sulle tombe e a
pregare in suffragio delle anime dei morti. In un’epoca d’insicurezza e di smarrimento come questa
in cui viviamo, un’epoca di evidente regresso spirituale, etico, culturale e sociale, la diffusione
della festa di Halloween, che sconfina nell’orrido e nel demoniaco, è sintomo di arretramento. Era
molto più umana e pia l’ingenua costumanza dei nostri contadini, che per il ritorno notturno dei
trapassati lasciavano sul tavolo della cucina un bicchiere di vino, dei dolcetti (le fave dei morti),
castagne abbrustolite e patate lesse. Ciò non aveva niente da spartire con l’horror e le stregonerie,
che ingenerano solo confusione nei culti e nelle credenze. Sarebbero da mettere metaforicamente a
copèla quanti favoriscono il degrado etico della nostra società.
Mèt al lòt.
Affidarsi completamente alla sorte significa non avere fiducia nelle proprie capacità. Il che non
significa che non si debba giocare qualche volta al lotto impiegando somme modeste e
senz’attendersi di vincere. Ma l’insistenza con la quale lo Stato invita a giocare al lotto suscita
perplessità e pone sacrosanti interrogativi di ordine morale. Non si sottovaluti mai la condanna del
gioco d’azzardo espressa da Dostojewsky nel suo romanzo “Il giocatore”. Lo Stato non rastrella
abbastanza soldi con le tasse? Deve proprio alimentare la speranza di vincite colossali e lusingare
le persone a giocare cifre consistenti, che dovrebbero essere impiegare altrimenti? George
Washington diceva che “il gioco è figlio dell’avidità, fratello dell’ingiustizia, padre della
malvagità”. E in un articolo apparso nell’anno 1900 sul quotidiano socialista “l’Avanti!” il gioco
del lotto fu definito “la tassa sugl’imbecilli”.
Mèteghela in del baöl a ergü.
‘Accoccargliela a qualcuno’, ‘buggerare’. È locuzione ormai caduta in disuso, sostituita
nell’eloquio corrente da modi dire molto più espliciti, rozzi e triviali, tipici del romanesco e dei
dialetti meridionali.
Mètela zó.
Significa: ‘Desistere da una contesa’. Il ricorso al linguaggio figurato è qui di una evidenza
sorprendente perché l’argomento del contendere sembra assumere la concretezza di un oggetto che
debba essere deposto al suolo.
Mètes i mà ’n di cheèi.
‘Mettersi le mani nei capelli’. È il gesto della disperazione.
Mètes la mà söl cör.
‘Mettersi la mano sul cuore’: è il gesto del sentimento che prevale sul rigore astratto della ragione,
è l’abundantia cordis, è la vittoria della poesia che trascende e che trasfigura, è la generosità
gratuita, che non attende e che non vuole ricompensa.
Mèt fò i gasète.
Indica il propalare una notizia parlandone ad ogni angolo di strada. Se spopolate, se vi compiacete
di diffondere a destra e a manca una nuova riferendola a quanti incontrate per via, allora sì dré a
mèt fò i gasète. Ritornano alla mente gli strilloni di un tempo, che vendevano i giornali agl’incroci
annunziando a squarciagola un fatto straordinario, un evento sensazionale, un accadimento
strepitoso descritto nelle colonne del foglio. Il giornale era chiamato anticamente gazzetta (ma
esistono ancora testate che usano tale sostantivo, come la Gazzetta di Mantova e la Gazzetta dello
Sport). Il primo giornale italiano fu stampato a Venezia e costava una gazzetta, moneta di scarso
valore in auge nel Cinquecento, così chiamata probabilmente da una voce bizantina, gaza, che
voleva dire ‘gruzzolo’, ‘tesoro’. Il richiamo a una moneta è rimasto anche nella testata del
bolognese Il resto del Carlino, giornale che costava appunto il resto di un carlino, la moneta che
Carlo d’Angiò fece coniare nel 1278. Oggi le notizie ci arrivano con il televideo, per internet e con
il cellulare ma al tempo della mia infanzia alcuni strilloni passavano per le contrade vociando e io
ricordo ancora la cantilena dello strillone che verso le undici del mattino trascorreva nel mio
borgo esitando un quotidiano locale. Eheu, quantum mutatus ab illo! Gli strilloni non esistono più
ma l’atto de mèt fò i gasate perdura e si è affinato. Diffondendo una nuova si tende sempre ad
ottenere un certo esito. Così le agenzie di stampa propalano certe notizie e non altre,
manipolandole già alla fonte. Quando poi le stesse notizie vengono date dalla televisione o dalla
carta
stampata,
subiscono
una
manipolazione
ulteriore,
alla
faccia
dell’obiettività
dell’informazione, che rimane una chimera. La libertà di stampa non è sempre esercitata con la
dignità necessaria e non di rado degrada nella faziosità più bieca.
Mèt in còsta.
‘Raddrizzare’. È l’atto che si compie disponendo un mattone sul lato più stretto. In metafora
significa mettere alle strette e ridurre a partito chi non fa giudizio.
Mèt in piassa.
Un tempo si diceva che i panni sporchi si lavano in famiglia. Alla faccia del buon senso, fondato
sull’esperienza di un lungo ordine di generazioni, ora certi spettacoli televisivi mettono tutto in
piazza e chi ne fa le spese sono la riservatezza, il pudore, la dignità personale: c’è gentucola
ingenua o sprovveduta o smaniosa di apparire, poveri diavoli che vanno a raccontare faccende
riservate, drammi esistenziali, affari di famiglia, storie penose di truffe miserande, puntigli e
rancori, cattive azioni e rivalse, coniugi che litigano rinfacciandosi pubblicamente offese e
tradimenti, genitori e figli che si scambiano accuse penose, vicini di casa che si rimproverano ogni
nefandezza, ogni sorta di difetti e di umane bassezze. E tutti fanno spettacolo per un quarto d’ora di
finta celebrità davanti ad un pubblico raccogliticcio, popolani senz’arte né parte chiamati ad
esprimere in sala il loro illuminato parere quando per simili casi occorrerebbero, a seconda delle
situazioni, buoni confessori, buoni psicologi, buoni avvocati e buoni giudici. Il costume,
sistematicamente aggredito e alterato da una mondanità deprimente, finisce per imbarbarirsi, non
esiste più confine fra il lecito e l’illecito, si mette in piazza la propria parte peggiore e sembra
ormai che per confessare i propri peccati occorra partecipare a qualche show televisivo. I nostri
vecchi non erano tanto stolti da ostentare coram populo le loro debolezze (chi non ne ha?),
nell’assurda speranza di ottenere un’assoluzione che nessun programma televisivo è in grado di
dare. Si guardavano bene insomma dall’esporsi al pubblico ludibrio.
Mèt in quàder.
Che questa locuzione possa essere riferita al senso del bello, ad un concetto estetico largamente
diffuso e condiviso si desume generalmente dal contesto nel quale la locuzione stessa è usata. Un
tempo gli uffici pubblici esponevano in quadro avvisi, decreti, ordini e tabelle e tuttora ostendono
l’effige incorniciata del capo dello Stato ma non si ha memoria che la nostra locuzione possa
essere originata da un costume tipicamente burocratico. Ho sempre udito dire che andassero messi
in cornice un tramonto suggestivo, un panorama meraviglioso, uno spettacolo avvincente, una
scena edificante, il che avveniva quando, non usandosi ancora la fotografia, si doveva
commissionare ad un pittore il compito di fissare sulla tela ciò che, appagando la vista, allietava
l’intelletto e il cuore. Ricordiamo così la nobiltà di una tradizione cara ai bergamaschi, che ebbero
i loro valenti artisti fin dai secoli più remoti dell’evo di mezzo, come attestano le poche pitture a
fresco scampate all’ira feroce del tempo e agl’insulti stolti degli uomini. Si ebbe rispetto e
considerazione per gli artisti se è vero che a Pacino di Villa d’Almè, parteggiante per i ghibellini, i
guelfi, avendolo nel 1406 catturato mentre dipingeva, decisero di non torcere un capello
restituendolo alla libertà per non offender l’arte. Umili dipintori di trebüline e di santèle per la
devozione popolare ed insigni artisti di fulgide pale d’altare che celebrano la gloria della Madonna
e dei santi… Nelle famiglie abbienti e costumate si appendevano alle pareti i severi ritratti degli
antenati, commissionati magari a maestri famosi secondo una tradizione che da un secolo all’altro
si avvaleva del magistero del Lotto, del Moroni, di Frà Galgario, del Ceresa, del Piccio, dello
Scuri, del Coghetti. E vi fu un tempo nel quale anche la più modesta famiglia borghese agognava di
possedere un quadro del Pezzotta o del Loverini o dell’Agazzi o di qualche altro maestro della
nostra illustre tradizione pittorica, radicata nel realistico sentire lombardo e ricca tuttavia di una
espressività sua propria, che è continuata nel Novecento in artisti dotati di talento e tutt’altro che
“provinciali”, una tradizione apprezzata dal collezionismo più intelligente e illuminato. Si dice che
le nuove tecnologie e i nuovi mercati aprano insospettate prospettive d’impegno agli artisti. Sta
bene. Ma non è il caso di celebrare i funerali della pittura da cavalletto. Sarà meglio invece
sensibilizzare all’arte le nuove generazioni perché il concetto del bello sopravviva e progredisca
sconfiggendo il pessimo gusto del kitch, ormai tanto diffuso. Se si possiede l’idea del bello, si sa
che cosa merita di essere messo in quadro.
Mèt i sólcc sóta ’l quadrèl.
Esiste anche la variante: Mèt i sólcc sóta ’l stremàss, ‘Mettere i soldi sotto il materasso’. Quando
presero piede gl’istituti di credito i contadini vennero esortati a depositare il loro denaro in banca
anziché continuare a nasconderlo sotto una mattonella dell’impiantito o sotto una piastrella del
pavimento. Si diceva loro: Come fì a èss issé ignoràncc de mèt amò i sólcc sóta ’l quadrèl?, ‘Come
fate ad essere tanto ignoranti da mettere i soldi sotto la mattonella?’. Si dava con facilità
dell’ignorante alla nostra povera gente di un tempo e tanti contadini, umiliati e svillaneggiati,
finivano per credere di essere ignoranti davvero nonostante sapessero leggere meglio dei dotti nel
grande libro della natura.
Mèt la béssa in sé.
‘Mettere la biscia in seno’. Significa: ‘Seminare discordia’, ‘Ingenerare dissidi’. Esiste anche la
forma riflessiva: Mètes la béssa in sé, ‘Procurarsi dei fastidi’, ‘Danneggiarsi’. Per quanto innocua
all’uomo, la biscia è pur sempre un serpente.
Mèt la ciàv sóta l’öss.
Letteralmente: ‘Mettere la chiave sotto l’uscio’. Si diceva un tempo per indicare che un pigionante
aveva sgomberato di notte il locale affittato andandosene alla chetichella per non pagare la quota
dovuta.
Mèt mia la mà söl föch.
Significa: ‘Non dare alcuna garanzia’. In realtà, in un mondo di persone oneste basterebbe la
parola. Se esiste questa locuzione, vuol dire che in certe società e culture di un passato molto
lontano per dare garanzia su di un fatto o su di una persona occorreva compiere un gesto estremo
come quello di mettere per un attimo una mano sopra un fuoco a rischio di scottarsi e di provare un
forte dolore.
Mèt ol car denàcc al bö.
Occorre rispettare l’ordine delle cose. Se si espone un fatto, lo si deve fare narrando l’accaduto
nello svolgersi della sua vicenda senza saltare di palo in frasca. Così se in un ragionamento si
segue una certa logica, non si deve arrivare a conclusioni affrettate e pregiudizievoli. È il bue che
tira il carro, non viceversa: come si può allora mettere il carro davanti al bue?
Mèt ol mal in de l’öa.
Significa metaforicamente ‘spargere zizzania’. Se durante una conversazione ci lasciassimo
sfuggire un giudizio ingeneroso su chicchessia, l’interlocutore potrebbe esortarci a mèt mia ol mal
in de l’öa, esorcizzando così il nostro malanimo. Il dizionario ottocentesco del Tiraboschi registra
l’espressione mal de l’öa per indicare la crittogama, malattia che ricopre di una muffa biancastra
le foglie e i grappoli della vite, impedendo la maturazione dell’uva. Chi non si è fatto dire da un
contadino quante cure richieda un vigneto non può sapere il lavoro faticoso che questo comporta e
che consiste in operazioni da eseguire per lo più manualmente e con somma perizia in diversi
periodi dell’anno. Quando si stappa una bottiglia di vino non si pensa quasi mai che il suo
contenuto è frutto di grandi cure e di trepide attese per la salute delle piante e l’andamento della
stagione. Per rispetto di chi lo ha prodotto, il vino andrebbe centellinato e gustato a sorso a sorso,
con parsimonia, non tracannato balordamente, come fanno i beoni e i babbei. Da tempo ormai si è
perduto il ricordo dell’enorme produzione di vino che secoli fa si otteneva dalla fascia collinare
bergamasca come si sono perduti molti dei vitigni originari, risalenti all’epoca romana se non
addirittura a quella retica, a causa della diffusione della filossera e della peronospora, che
nell’Ottocento desolarono i nostri vigneti decimandoli e spesso distruggendoli interamente. Si può
immaginare quali danni economici furono inferti allora all’economia della nostra provincia e quali
furono le tristi conseguenze per tante famiglie di contadini ridotte alla fame e costrette ad
espatriare. La malattia dell’uva aveva dunque conseguenze terribili, che possiamo appena intuire
osservando sulle prime alture delle nostre valli le forme a gradoni di tante terrazze abbandonate da
tempo e ormai quasi sfatte. La locuzione ricorda che il male, qualunque esso sia, va sempre tenuto
lontano ed esorcizzato.
Mèt ol paltò de lègn.
Significa ‘morire’ perché ‘indossare il cappotto di legno’ vale per ‘entrare nella bara’. L’à metìt sö
’l paltò de lègn è forma eufemistica per dire: ‘È morto’.
Mèt sö i fanài.
È un traslato che vale per dire: ‘inforcare gli occhiali’; evidentemente ha tratto lo spunto
dall’aspetto dei fanali delle automobili. I vecchi milanesi invece dicevano che meteven su
l’impennada, traendo lo spunto dalla carta oleata, detta appunto impennada, che anticamente si
applicava alle finestre al posto dei vetri, troppo costosi per la povera gente.
Mèt sö la bréa.
Fa parte della briglia il paraocchi, che costringe il cavallo a guardare davanti a sé e a procedere
diritto. Se una persona procede quasi a tentoni o non vede un ostacolo laterale gli si domanda: T’ài
metìt sö la brèa?, ‘Ti hanno messo la briglia?’. Millenaria consuetudine dell’uomo con il cavallo,
interrotta dai moderni mezzi di locomozione.
Mèt sö ol spolverì.
Nelle case patrizie i notai erano chiamati a redigere atti di compravendita, lasciti testamentari,
contratti e altri documenti: scrivevano intingendo nel calamaio la penna d’oca. Non si usava
ancora la carta assorbente per asciugare l’inchiostro: quando il foglio era stato scritto, un
domestico, quasi certamente analfabeta, vi spargeva sopra una polverina assai minuta (lo spolverì)
che assorbiva l’inchiostro eccedente e che veniva rimossa con qualche soffio. Quando le decisioni
sono già state prese da altri è inutile che ci convochino per una ratifica: sarebbe come se ci
invitassero a mètega sö ol spolverì, ‘a spargere la polverina’ sul documento per fare asciugare
l’inchiostro. Non siamo né servitori né lacché. Purtroppo in democrazia molte volte l’istituto della
delega viene confuso con la rinunzia all’esercizio dei propri diritti e chi ha deciso per noi vuole che
lo si applauda e che lo s’incensi: è la pretesa dei centralisti e degli autocrati, sempre lontani dalle
vere aspettative dei cittadini.
Mèt sö öna préda.
Se una questione è conclusa e non se ne vuole più parlare si dice che s’ ghe mèt sö öna préda,
letteralmente ‘si mette sopra ad essa una pietra’, come se si trattasse di una lastra tombale.
Mèt vià ’l pensér.
Si dice anche: Mèt in banda ’l pensér, ‘Accantonare il pensiero’. Si ricorre a questo modo di dire
quando non è possibile perseguire un disegno o realizzare un proposito a causa di difficoltà e di
ostacoli insormontabili: meglio rassegnarsi ed evitare una sconfitta. Succede anche quando si fa
del bene: per un attimo si viene sfiorati dall’idea di ricevere un’espressione di gratitudine ma
occorre subito mèt vià ’l pensér. Se nell’ottenere il favore vi dicono: “Per ora grazie, poi ci
vediamo”, state certi che i a ederì piö…
Mèt zó del ciòch.
È documentata la voce tardolatina clocca, ‘campana’, proveniente da una parola celtica indicante
ciò che batte, ciò che dà il colpo. Da clocca derivano il femminile ciòca, ‘campanaccio’, il maschile
ciòch, ‘rumore’, ‘baccano’, e il verbo ciocà, ‘scampanellare’ e per traslato ‘far chiasso’. Mèt zó
del ciòch è locuzione che indica il fare frastuono o produrre un rumore assordante ma anche lo
sbraitare, il vociare per richiamare l’attenzione su di sé. Si sa che le persone insignificanti e
insulse amano agitarsi chiassosamente allo scopo di apparire. Il darsi ossessivamente da fare e
l’ostinarsi a mettersi in mostra è tipico di gente vanagloriosa e vuota. Ora che non si mandano più
a memoria le poesie del Giusti nessuno si ricorda del “Re Travicello” e di quei due versi che
dicono: Le teste di legno / fan sempre fracasso. Si dice che i difetti sono come gli odori: chi sente
d’aglio non se ne accorge ma ammorba chi gli sta vicino. Così c’è gente che ritiene di doversi
collocare al centro esatto dell’universo, che incomincia sempre i suoi discorsi con il pronome
personale io, che si sente in diritto di infliggere agli altri la sua sicumera. Questa gente non mette
in pratica l’insegnamento di Pascal, il quale scrisse: “Volete che si pensi bene di voi? Evitate di
lodarvi, evitate di parlarne”.
Mèt zó ’l capèl.
Indica l’atto di chi mendica appoggiando al suolo il cappello rovesciato nella speranza che i
passanti vi depongano un’offerta. La locuzione ’Ndà a mèt zó ’l capèl vale per ‘Essere ridotti a mal
partito’ e quindi ‘Essere costretti a mendicare’. Gli accattoni di un tempo ricorrevano a qualche
ingenuo espediente per attirare l’attenzione dei passanti. Il povero Svìsser (così chiamato perché in
gioventù aveva lavorato in Svizzera) mendicando in Corsarola prima della guerra metteva un
cappello ad un lato ed un altro all’altro lato della via; standosene da una parte della via, a chi
passava dall’altra diceva: Òe lü, siòr, se l’ völ istà còmod a l’ varde che gh’è ü capèl a’ de la sò
banda, ‘Oh, quel signore, se non si vuole incomodare guardi che c’è un cappello anche dalla sua
parte’. Ancora prima della guerra, quando il traffico automobilistico era quasi inesistente, nei
giorni estivi il Pipelé, mendicante cieco che suonava la chitarra, e il Gandóla, altro mendicante che
gli faceva da secondo con il suo mandolino, sostavano sotto la porta del Pantano, l’uno da una
parte e l’altro dall’altra, mettendo al centro del passaggio un cappello per la raccolta delle offerte.
Mia crèdega a töt.
Una sana diffidenza insegna che non si deve credere a tutto. Nonostante ciò, negli strani tempi in
cui viviamo c’è gente disposta a dare credito a storie assurde e pazzesche: alberelli esotici che
conterrebbero ragni dal veleno mortale, elicotteri che lancerebbero vipere munite di paracadute,
lenti a contatto che s’incollerebbero agli occhi, tutte panzane diffuse oralmente non si sa da chi,
leggende metropolitane incontrollate e irrazionali come quella della ragazza che si fa dare un
passaggio in automobile e che dimentica la borsetta sul sedile. Il giorno successivo
l’accompagnatore, che ha rinvenuto nella borsetta il documento d’identità della ragazza, la va a
trovare per riconsegnarle la borsetta e si sente dire che è morta da un anno. O come la catena di
Sant’Antonio, che minaccia guai terribili a chi la interrompe e che obbliga a scongiuri e
defixiones. Com’è possibile dar credito a simili fanfaluche? Si diceva un tempo, per significare la
credulità di una persona, che l’éra de Credér… Quelli di Credaro non si offendevano, forti del fatto
che l’etimo del toponimo aveva ben altra accezione.
Mögia, bò, che l’èrba la crèss.
La locuzione suona in italiano: ‘Muggisci, bue; l’erba nel frattempo cresce’. Ma se il bue muggisce
perché ha fame, morirà assai prima che l’erba sia cresciuta tanto da poter essere brucata. Si dice
per indicare l’attesa vana di un evento che arriverà troppo tardi, se mai arriverà. Chissà perché
per i dialetti italiani l’erba non cresce mai? Forse perché sono duri a morire i pregiudizi di una
stupida mentalità piccolo-borghese che crede di scorgere nei dialetti un elemento di divisione.
Eppure si tratta di lingue che vantano i loro quarti di nobiltà, essendo scaturite direttamente dal
latino parlato; sono tesori di umanità e possiedono il sigillo dell’autenticità popolare. In una
nazione policentrica com’è l’Italia le culture locali hanno dato contributi determinanti alla civiltà e
alla cultura dell’intero Paese. Perché allora in tanta parte della classe politica non esiste
sensibilità per questo tema? Perché si preferisce l’indifferenza, in attesa che il problema si
esaurisca da solo con l’estinzione dei dialetti? Non è con la politica dello struzzo che si affrontano i
problemi. Se esistono in Italia delle lingue, pur piccole che siano, esse costituiscono un patrimonio
da difendere e da salvaguardare. Ci preoccupiamo che non si estinguano certe piante o certe specie
animali; perché non dovremmo preoccuparci di salvare le nostre lingue popolari? Chi non conosce
la ricchezza del loro lessico e delle loro locuzioni non ha il diritto di sminuirne il valore. Qualche
stravagante politico di basso profilo arriva ad affermare che la cultura locale non sarebbe
rappresentata dal dialetto. Come si possono concepire simili balordaggini? In Scozia il gaelico è
parlato ormai soltanto da sessantamila persone ma nel college di Skye gli studenti imparano a
parlare proprio l’antica lingua scozzese. Visitando il college, il principe ereditario si è rivolto agli
allievi dicendo: “Dovete imparare bene il gaelico, dovete parlarlo come i vostri avi e rigenerarlo
perché la morte dell’antica lingua della Scozia costituirebbe una perdita irreparabile per la cultura
dell’intera umanità”. Magari noi avessimo dei politici tanto maturi ed avveduti, con una coscienza
culturale così ammirevole! Qui se il bue muggisce perché ha fame, il bovaro fa lo gnorri. Così, in
attesa che i nostri politici ci acculturino e s’istruiscano acquisendo la nozione del pluralismo
linguistico e culturale come antidoto all’omologazione, il nostro immenso patrimonio glottologico
va senza remissione alla malora.
Mör a ónse.
Letteralmente: ‘morire a once’; quindi, a poco a poco, con lentezza estenuante. L’oncia è una
piccola unità di misura, la dodicesima parte della libbra, che secondo il sistema italiano era un
terzo di un chilogrammo: un’oncia corrispondeva praticamente a circa 30 grammi. In italiano un
tempo si diceva ad oncia ad oncia per dire ‘a poco a poco’. A una persona che s’industri di
contristarci a più riprese facendoci oggi un torto e dandoci domani un dispiacere diciamo: Te me
fé mör a ónse, ‘Mi fai morire a poco a poco’. Ma oggi è l’intera umanità a morire a poco a poco a
ónse: disastri ecologici, l’inquinamento dei mari provocato dallo scarico accidentale di migliaia di
tonnellate di petrolio, la riduzione della fascia di ozono, la distruzione delle foreste tropicali,
l’inaridimento e la desertificazione di vasti territori sono gli aspetti più appariscenti di un dissesto
ambientale che può assumere proporzioni apocalittiche. Si aggiungano la contaminazione delle
falde acquifere, l’inquinamento dei corsi d’acqua, l’occultamento delle scorie radioattive negli
abissi marini, le modificazioni climatiche provocate dall’emissione di anidride carbonica e di
anidride solforosa, lo stravolgimento degli equilibri del mondo vegetale e la fine di varie specie
animali e si completi il quadro con la possibilità, mai troppo remota, che qualche governante pazzo
scateni un attacco nucleare. Che diritto ha l’uomo di fare tutto questo? Egli sta forse decretando la
sua fine, una fine lenta ed estenuante, come se avesse scelto de mör a ónse? Che la terra sia proprio
un sistema finito, privo di un lungo futuro?
Mör d’ü cólp.
Letteralmente: ‘Morire di un colpo’. S’intende: ‘Morire d’infarto cardiaco’. Gioppino soleva dire
di suo nonno Giocondo che era tipo tanto ameno che ü dé per ol botép a l’ gh’à dàcc ü cólp e l’è
mórt de la contentèssa, ‘un giorno per la grande allegria gli venne un colpo al cuore e morì di
contentezza’.
Mör söl baladùr.
Letteralmente: ‘Morire sul ballatoio’. È locuzione allusiva fra lo scherzoso e il grossolano per
indicare la morte al compimento di un atto sessuale.
Mórt mé, mórcc töcc.
Si ricorre a questo motto quando si vuol significare che tutti i pensieri e le preoccupazioni della
vita di questo mondo non contano più davanti alla morte. È anche un modo per indicare i limiti del
nostro potere: morto io è come se fossero morti tutti, faccio dunque ciò che posso fintanto che sono
vivo ma poi le cose andranno come Dio vorrà. Le vecchie generazioni non attribuivano a questa
sentenza un’accezione egoistica; non intendevano dire: faccio quel che mi pare finché sono in vita
perché nell’Aldilà non so che cosa capiterà. Il senso era piuttosto: quando arriverà anche per me
la morte, ogni mio potere sarà annullato e perciò non avrò più alcun obbligo nei confronti dei vivi.
Ora sento qualche volta pronunziare il motto con un significato ben diverso da quello che vi
annettevano i nostri vecchi. Colpa della perdita d’identità, dello sperpero dell’eredità spirituale e
morale degli avi. Colpa della superficialità con la quale oggi si tende ad affrontare i problemi della
trascendenza: dai grandi media, che sembrano ormai capaci soltanto di mistificare e d’ingenerare
confusione, si viene indotti a ignorare la religione o ad accostarsi ad essa pensando che le fedi
siano intercambiabili. Con il risultato che si è diffusa una mentalità edonistica e consumistica
dettata essenzialmente da una concezione utilitaristica, individualistica ed egocentrica della vita:
morto io, morti tutti, perciò io mi diverto più che posso perché del domani non ho alcuna certezza,
gli altri vadano alla malora e i posteri, dei quali non m’importa un fico secco, si arrangino. Dove
potrà mai andare l’umanità, quali traguardi potrà mai raggiungere con un’etica simile?
Naturalmente questa mentalità, che è assai diffusa e che ha fatto della morte fisica un tabù, è
favorita da un complesso di condizioni e di situazioni che non dispongono certo alla riflessione,
alla meditazione e alla ricerca della propria interiorità. Si vive nel chiasso, nel frastuono
trogloditico e assordante di musicacce di consumo ritmate da percussioni selvagge e ossessionanti
mentre si avrebbe bisogno di un po’ di silenzio. Si è spinti ad inseguire immagini virtuali quando
sarebbe meglio passeggiare quietamente lontano dal bailamme, su di un sentiero di campagna o di
montagna per recuperare il senso della natura. Il pensiero della morte non ci deve indurre ad
arrenderci ad una competitività sfrenata, non deve allontanarci dal proposito di raccoglierci e di
meditare qualche volta in solitudine per ritrovare noi stessi. È illusorio pensare di costruire una
solidarietà profonda fra gli uomini se le porte della metafisica rimangono inesorabilmente chiuse.
’Mpià fò ’l föch.
Accendere il fuoco. Un tempo una donna non avrebbe mai sposato un uomo che non fosse stato
capace de fà ’l föch, ossia di scegliere la legna e di disporla bene nel camino prima di accendere il
fuoco perché non le avrebbe dato alcun affidamento. Al tempo delle nostre nonne correva ancora
un proverbio che diceva: Chi no l’è bu de fà föch, no l’è bu de fà sö cà. Chi non sa far fuoco non sa
far casa, non è degno di formare una famiglia. È solo il caso di ricordare che durante la
dominazione veneziana il termine fuoco veniva usato dai funzionari nell’accezione di ‘famiglia’,
per cui se si
diceva che il tal paese contava trecento fuochi significava che era popolato da
trecento famiglie.
’Mpicà scöla.
Marinare la scuola. A Milano gli studenti dicono bigià la scoeula. I bergamaschi addirittura i la
’mpica, ‘la impiccano’. Alle superiori una volta domando al mio compagno di banco: “Perché sei
stato a casa ieri? Non stavi bene?”. Risposta: “No, ho impiccato scuola per non farmi interrogare
in filosofia”.
Nàss al vach.
Il bergamasco distingue fra sulìv e vach se deve indicare un terreno in pendio che si trovi esposto a
meridione e che quindi sia soleggiato od invece un terreno che si trovi a bacìo e quindi a
settentrione e in ombra. La voce vach non è che la bergamaschizzazione del latino opacus. Di una
persona di scarso intelletto si dice in Valle Brembana che l’è nassida al vach, come una pianta che
abbia avuto una crescita stentata perché posta a tramontana. Di una persona sveglia e sicura di sé
si dice invece che l’è nassida al sulìv.
Nàss co la camisa.
Di chi è fortunato si dice che l’è nassìt co la camisa, locuzione che si diffuse da noi durante la
dominazione veneziana. Ancor oggi nel Veneto di uno cui arrida la buona sorte si dice che el xè
nassuo co ’a camiseta. Si sa che i parti meno travagliati sono quelli dei bimbi nati con la placenta,
detta appunto camiseta, fatto che è ritenuto di buon auspicio per la vita. Un tempo nelle campagne
padane di un neonato avvolto nella placenta si diceva che era venuto al mondo con la camicia della
Madonna. Esisteranno anche persone baciate dalla dea bendata. Ma siamo proprio tanto sicuri che
tutto vada loro sempre bene? O non arrivano prima o poi anche per loro i dispiaceri, le disgrazie,
le sofferenze? Quanta stupida invidia in meno se si pensasse che chi appare ricco e fortunato può
non esserlo affatto! Si potrà anche nascere con la camicia. Ma un conto è percorrere tutta la vita in
salita, superando giorno per giorno le asperità del sentiero, e un conto è vivere abulicamente in
discesa, senza mai gustare il sapore della conquista. Sulla vetta, oltre le nubi, splende il sole.
’Ndà a bale in ària.
Allude ad una caduta rovinosa. Si usa però soltanto in senso traslato per indicare il fallimento di
un’attività commerciale. Di uno che sia pié de dèbecc, ‘pieno di debiti’, ci si aspetta solo che l’
vaghe a bale in ària, ‘che fallisca’.
’Ndà a fónd i gnòch.
Gli gnocchi risalgono certamente alla diffusione dell’uso della farina di frumento, assai più
compatta e gustosa della farina di altri cereali. L’impasto, che con la sola farina di frumento
risulterebbe troppo omogeneo, viene ammorbidito da frammenti di verdura e dall’aggiunta di
farina di patate (il tubero fu importato dall’America Meridionale). Chi ha dimestichezza non dico
con l’arte culinaria ma almeno con la cucina casalinga di tutti i giorni sa bene che occorre armarsi
di schiumarola ed essere lesti a togliere dalla pentola gli gnocchi che vengono a galla durante la
cottura; se subiscono una eccessiva bollitura gli gnocchi tendono a spappolarsi e a depositarsi sul
fondo del recipiente. A quel punto, addio gnocchi e addio pasto! Ecco perché, se un affare non è
andato bene, si dice metaforicamente che i è ’ndàcc a fónd i gnòch. Non c’è come rimanere a bocca
asciutta e a pancia vuota per capire che cosa vuol dire dover rinunziare ad una meta che si
confidava di poter raggiungere. La locuzione evoca i tempi della penuria di cibo, quando non si
sapeva se l’indomani si sarebbe potuto mettere qualcosa sotto i denti: un piatto di gnocchi valeva
bene a calmare i morsi della fame.
’Ndà a la Patirassa.
Forse più nessuno a Bergamo ricorda questa locuzione eufemistica, che significa ‘andare al
cimitero’. Nella prima metà dell’Ottocento uscendo da Porta Cologno (che si apriva sulla cinta
medievale delle vecchie Muraine, demolite nel 1901, là dove Via Quarenghi incrocia Via
Paleocapa) s’imboccava, come oggi, la strada detta Cremasca e si attraversava una notevole
estensione di terreno coltivato, punteggiato da qualche cascinale sparso qua e là: quel luogo era
chiamato Patirazza. Vi si trovavano un ospedaletto per i contagiosi, un lazzaretto per i colerosi e il
cimitero di San Giorgio, che si estendeva dove oggi i venditori ambulanti tengono ogni lunedì un
noto mercato nundinale. Si è ipotizzato che la voce Patirassa derivi dal deponente latino pati,
‘soffrire’, con allusione alle tristi presenze evocanti il dolore, la sofferenza e la morte. Più
probabilmente dovrà essere fatta risalire al nome di una cascina, chiamata per consuetudine con il
cognome (del tipo Patti, Patera, Patelli) di un antico proprietario del fondo agricolo. Soppressi gli
ospedali minori in epoca napoleonica ed aperto in Borgo Palazzo il cimitero denominato Unico,
benedetto il 2 maggio 1904 dal vescovo Guindani, l’area fu destinata ad altri usi e la locuzione
eufemistica ’Ndà a la Patirassa fu sostituita dalla più recente ’Ndà a l’Único, che mi è capitato di
udire qualche volta dai dialettofoni della città.
’Ndà al babe.
Locuzione eufemistica. Significa ‘morire’, ‘andare al cimitero’. In milanese: ’Ndà al babi.
’Ndà a belase.
Prima della guerra un industriale bergamasco, dovendo mettersi in viaggio, soleva dire al suo
autista (che allora in bergamasco era ancora detto scioför alla francese): “Và a belase che gh’ó
frèssa”. La contraddizione in termini aveva un senso preciso. Il bergamasco ’Ndà a belase,
letteralmente ‘andare a bell’agio’, indica l’atto di procedere comodamente, senz’alcuna
impellenza, come se ci si muovesse per diporto, senz’ansia o assillo veruno. Se l’autista avesse
guidato con precipitazione, lanciando la vettura ad alta velocità, l’industriale sarebbe arrivato per
tempo a destinazione o sarebbe rimasto vittima di un incidente? L’ossimoro, apparentemente
contraddittorio, rispondeva alla locuzione latina Festina lente, ‘Affrèttati lentamente’, che accosta
due termini antitetici per raccomandare accortezza e studio nel perseguire una meta da
raggiungere senza tentennamenti o tergiversazioni. Era il perentorio invito che Augusto rivolgeva
ai suoi generali soprattutto quando si profilavano pericoli e difficoltà. Diverso è il caso di quel
merciaiolo di Albino, popolarmente denominato Ciapì (in bergamasco il ciapì è il diavolo, tanto
veloce nell’inseguirti che l’ te ciapa, ti acchiappa), il quale, avendo un passo spedito, si recava a
piedi fino a Bergamo pur di procurarsi la merce richiesta. Strada facendo gli capitava di superare
dalle parti di Nembro la diligenza pubblica che in dialetto era detta bàgher, una sorta di
giardiniera sgangherata trainata da un ronzino bolso e munita di capote (il mantice per ripararsi
dalle intemperie). “’Ndo ’ndét, Ciapì?”, gli domandava il vetturale. “’Ndó a Bèrghem”,
rispondeva il merciaiolo. “Salta sö!”, gli diceva il vetturale. E lui: “Nò, gràssie. Te ’ndé tròp a
belase e mé gh’ó frèssa”, ‘Vai con troppa calma e io ho fretta’. Infatti sulla strada del ritorno gli
accadeva di incontrare nei pressi di Redona il bàgher che caracollava flemmaticamente alla volta
della città. Anche allora il servizio pubblico era una lumaca e il cittadino, pur pagando fior di
tasse, doveva contare sui propri mezzi e sbrogliarsela da solo. Altro che Festina lente!...
’Ndà a cà drécc.
Quando i giovani operai concludevano il turno di lavoro si sentivano dire dal principale o dal
capo-reparto: Và a cà drécc!, ‘Va’ a casa diritto!’. La raccomandazione era rivolta con un tono fra
il serio e il faceto e sottintendeva di non attardarsi all’osteria o di non perdere del tempo a
corteggiare le ragazze. Un amico mi disse che quando da ragazzo usciva di casa si sentiva dire
invariabilmente da sua madre: “Camina arènt ai mür e stà atènt ai carècc!”.
’Ndà a cagnù.
Cagnù è voce figurata per ‘verme’. Quindi: ’Ndà a cagnù, ‘andare in putrefazione’. Locuzione
tremendamente realistica; in senso traslato: ‘andare in rovina’.
’Ndà a cassa de barbèi.
Si dice che va a caccia di farfalle chi ha la testa piena di fantasie inconcludenti.
’Ndà a chèl paìs.
Solitamente si ricorre a questa locuzione quando ci si vuole liberare di un importuno, che viene
senza tanti complimenti invitato a togliersi di mezzo e quindi ad andare a quel paese. Quale sia
questo paese non è detto ma i nostri vecchi, che non mancavano del senso delle distanze, solevano
mandà a Pechino le persone fastidiose. C’era anche chi invitava ad andà in Prössia a fà sö i pipe,
‘andare in Prussia a fabbricar pipe’, e chi mandava volentieri i seccatori a Mónsa a ferà i óche, ‘a
Monza a ferrare le oche’. Qualche volta al colmo dell’esasperazione i nostri antenati potevano
anche mandare uno scocciatore a móns ol lüf, ‘a mungere il lupo’. Come in ogni altra lingua,
esistono anche in bergamasco locuzioni più basse e crude. Ma cinema e televisione da tempo fanno
a gara per diffondere consimili espressioni volgari e sconce del romanesco e di altri dialetti
centromeridionali e non pare proprio il caso di perderci qui in simili trivialità, che sono indice di
animo sordido e meschino.
’Ndà a dòne.
La traduzione letterale italiana ‘andare a donne’ è molto generica. Per un bergamasco della mia
generazione chi l’ và a dòne è certamente un fomnaröl, un ‘donnaiolo’. Ma non basta: occorre
specificare che chi l’ và a dòne è di tanto facile accontentatura che, se non trova la disponibilità di
una donna qualunque, finisce per accettare anche prestazioni mercenarie pur di cavarsi l’uzzolo.
Devo dire che l’atto in sé, e cioè l’indà a dòne, è sempre stato considerato con una certa
commiserazione e che la locuzione stessa, per quanto io sappia, non è mai pronunziata senza un
tono di compatimento, magari anche indulgente, dal momento che esistono debolezze
obiettivamente assai più gravi. Certo si sa che il dongiovannismo non è indice di ordine morale né
di pieno dominio dei propri istinti. Ma tant’è: non siamo tutti eguali e innanzi al fascino femminile
c’è sempre chi, lungi dall’essere gentiluomo, rischia di perdere il controllo di sé facendosi
compatire. Sovviene in proposito un episodio che fa parte della fiaba d’amore dei principi russi
Pietro e Fevronia, vissuti nel XIII secolo e venerati come santi dagli ortodossi, fiaba edificante che
si ricava da una narrazione anonima forse precedente al secolo XVI. Si racconta che un giorno la
casta Fevronia, la quale sapeva leggere nel pensiero delle persone che le stavano vicine,
attraversava un fiume su di una barca su cui si trovava anche un giovane boiardo con la propria
moglie. Molti boiardi erano uomini malvagi e violenti e quello che accompagnava la principessa
non era da meno degli altri. Avvertendo Fevronia di essere concupita, disse al boiardo, tutto
compreso nei suoi pensieri lascivi: “Attingi un po’ d’acqua dal fiume sporgendoti da questo lato
della barca, bevila e dimmi che sapore ha”. Il boiardo obbedì e rispose: “È acqua, non sa di
niente”. E Fevronia: “Bene, ora fa’ la stessa cosa dall’altro lato della barca e dimmi se ha un
sapore diverso”. Il boiardo obbedì ancora e rispose: “Mia signora, l’acqua è sempre la stessa”. E
la principessa: “Anche la natura femminile è sempre eguale. Ma tu stai facendo torto alla tua
donna e volgi altrove il tuo pensiero. Come potrebbe ancora amarti se avesse come me il dono
della chiaroveggenza e se potesse leggere nella tua mente?”.
’Ndà a fà ü gir söi Müre.
Privilegio bergamasco le passeggiate domenicali al primo sole di primavera lungo il viale delle
Mura e le passeggiate estive all’ombra generosa e folta degl’ippocastani; d’autunno i bambini
stupiscono agli schiocchi delle castagne che cadono al suolo (in dialetto: castègne génge, ‘castagne
d’India’, perché l’albero fu importato dalle Indie) e d’inverno gl’innamorati affrontano
romanticamente nella neve il lungo percorso che si snoda fra i bastioni, gli spalti e i baluardi
dell’immensa piazzaforte veneziana edificata a difesa del confine occidentale di Terraferma. Le
Mura, che dissanguarono l’erario della Serenissima non meno delle ingenti spese militari sostenute
per far fronte ai continui assalti dell’espansionismo turco, s’incominciarono nel 1561 fra le fiere
proteste dei bergamaschi per la demolizione di centinaia di case e di chiese e si conclusero nel
1588, com’è scritto su di una lapide che il rettore veneto fece murare sotto il baluardo della Fara.
Esse fanno parte della veduta della città e racchiudono l’acropoli antica come in uno scrigno.
Attorno al 1880 furono sottratte al degrado al quale erano state condannate dapprima dai francesi
di Napoleone, che da gran ladri quali erano rovinarono le cannoniere per fondere i cannoni, e poi
dagli austriaci, che abbatterono le garitte e che interrarono gli spalti trascurando ogni
manutenzione. Si aprì il viale, si misero a dimora gl’ippocastani e si offrì alla cittadinanza una
passeggiata splendida, fra le più belle d’Europa: dall’alto delle Mura la vista spazia nei giorni
sereni sull’ampia pianura padana e discerne la cresta degli Appennini emiliani e la chiostra delle
Alpi piemontesi. Non è per malanimo che si può dire a una persona de ’ndà a fà ü gir söi Müre.
Lassù gli orizzonti si allargano, le passioni si placano, si è indotti alla meditazione e alla calma. Se
aveste a che fare con un importuno (a volte succede), in cuor vostro potreste anche augurargli de
bötàs zó di Müre, ‘di gettarsi dalle Mura’. Ma se glielo diceste si potrebbe offendere. Meglio
consigliargli una bella passeggiata a beneficio del fisico e a ristoro dello spirito.
’Ndà a l’osteréa.
Andare all’osteria era il passatempo che si concedevano tanti uomini dopo la giornata lavorativa:
si beveva un calice di vino, si parlava del più e del meno e se c’era tempo si giocava una partita a
carte o a bocce. Non mancava chi alzava il gomito. Alla fine dell’Ottocento un’osteria di Via
Baioni metteva a disposizione degli avventori alcune carriole: chi era ubriaco veniva messo nella
carriola e accompagnato a casa da un avventore sobrio. Un conto era andà a l’osteréa e un conto
era andà al café, dove si potevano incontrare i gentiluomini, i professionisti, gli eruditi e le dame
dell’aristocrazia. Fu il bergamasco Pedrocchi a fondare nel 1772 l’omonimo caffè patavino lodato
da Stendhal. Quanti altri ritrovi evocano momenti della nostra storia! Al Florian, sotto i portici
della Procuratie, sedevano i senatori veneziani e il Guardi vendeva le sue vedute lagunari. Au Deux
Magots di Parigi convenivano Mallarmé, Verlaine e Rimbaud e Sartre se ne stava per ore a
scrivere seduto a un tavolino. Alle Giubbe Rosse di Firenze si ritrovavano Marinetti, Boccioni,
Balla, Russolo e poi Palazzeschi, Papini, Prezzolini, Rosai. Al Bristol di Varsavia Maria Curie
festeggiò il suo Premio Nobel, al Centrale di Vienna andava Hoffmansthal ad ammazzare il tempo,
al Caffè Greco di Roma entrò una volta per bere un caffè un cardinale che poi divenne papa con il
nome di Leone XIII, al Biffi Scala di Milano in certe sere capitavano Arturo Toscanini, Enrico
Caruso, Tito Schipa, Beniamino Gigli. Anche i caffè bergamaschi hanno avuto la loro storia, come
il Carini, dove s’incontravano i patrioti del Risorgimento, i Tre Gobbi della contrada di Broseta,
dove Donizetti trascorreva qualche ora serena con i vecchi amici, il Tasso di Piazza Vecchia e il
Café de la Baössa del Mercato del Fieno, dove Ciro Caversazzi e Luigi Angelini conversavano di
problemi urbanistici. Costume civile d’incontrarsi al caffè per scambiarsi notizie e opinioni, come
fanno ancora qualche volta i poeti, gli scrittori, i musicisti, gli artisti. Ma in certi locali oggi è
impossibile sostare a causa del frastuono infernale della musicaccia plebea diffusa dagli
altoparlanti. Come si può pretendere che la gente s’intrattenga in un bar nel quale per capirsi
occorrerebbe sbraitare?
’Ndà al trani.
Com’è ben noto, Trani è una ridente cittadina della provincia barese, famosa per la produzione di
un vino ad alto tenore alcolico, usato per il “taglio”, cioè per elevare la gradazione e lo spessore
dei vini deboli. Nella seconda metà dell’Ottocento, quando la filossera desolò i nostri vigneti,
giunsero in Lombardia da Trani alcuni produttori per vendere il loro vino e in pochi anni a Milano
si diffusero le mescite di vino di Trani al Verziere, a Porta Genova, a Porta Ticinese: erano piccoli
locali, osteriette frequentate da bottegai, da artigiani, da operai, anche da qualche sfaccendato e vi
si poteva consumare per poca spesa un frugale pasto alla casalinga. Bisognerebbe leggere
“Milanon Milanin” di Emilio De Marchi per ritrovarsi idealmente in quegli ambienti, oppure le
prose di Paolo Valera, che non fu testimone soltanto delle barricate milanesi del 1898 ma anche
del piccolo mondo degli umili e dei semplici, i frequentatori di quelle osterie che presto furono
chiamate trani dal luogo di provenienza del vino che vi si beveva. Quei locali si diffusero ben presto
anche a Bergamo, a Brescia, a Como. I peccati veniali vanno in prescrizione anche presso i
tribunali superiori e io posso ora tranquillamente confessare che tanti e tanti anni fa nei rari
momenti dell’allegria goliardica con qualche amico ero capitato al Dür in Via Taramelli o al
Carbone in Borgo Santa Caterina per centellinare un bicchiere di rosso pugliese o un calicetto di
aleatico. A Bergamo ai tempi della mia giovinezza c’era ancora qualche altro trani in Città Alta,
alle Cinque Vie, in Pignolo. Se andate ora a Venezia non trovate più nemmeno là le vecchie
malvasie, così chiamate perché vi si mesceva il vino dolce e liquoroso di Malvasia. Sentori,
fragranze, afrori e sapori dei luoghi perduti ritornano alla memoria con le vecchie parole sincere
del dialetto, con i canti popolari che non si odono più perché i giovani non sanno più cantare in
coro. Alcuni di loro s’illudono di divertirsi uscendo dalle balere bevuti e impasticcati e guidando
all’impazzata oppure presumono di “rivitalizzare” la città con le gazzarre e i sabba demenziali
delle street parade, che le autorità dovrebbero avere il buon senso di prevenire con un doveroso
divieto. Certo i trani dei nostri nonni non erano luoghi di elevazione spirituale. Ma gli umili e i
semplici che vi convenivano possedevano pure una loro interiorità, alla quale oggi, per quel che
valgono certi ritrovi, si contrappone soltanto il vuoto della coscienza e il sonno dell’intelletto.
’Ndà a l’Único
È locuzione eufemistica che significa: ‘andare al cimitero’. Aperto nel 1901, l’attuale cimitero del
Comune di Bergamo fu detto Unico perché concepito in sostituzione dei camposanti aperti in
conseguenza delle disposizioni dettate in materia cimiteriale in epoca napoleonica. L’editto di
Saint-Cloud del 12 giugno 1804 ingiunse infatti di cessare l’antica consuetudine di seppellire i
morti nelle chiese o nelle immediate adiacenze e di sotterrare i cadaveri in campi periferici rispetto
agli abitati, campi che dovevano essere disadorni e cintati da muri di due metri di altezza. Erano
evidenti nelle disposizioni impartite non soltanto preoccupazioni di ordine igienico e sanitario ma
anche intenti di forte contrasto della pietas cristiana nel culto dei morti, in linea con l’irreligiosità
giacobina, che giunse a manifestare punte di violento fanatismo. In applicazione del regolamento di
polizia medica emanato il 5 settembre 1806 dal governo del Regno d’Italia, fantoccio e suddito del
potere francese, la municipalità di Bergamo aprì il cimitero di Santa Lucia, che sorse su pianta
pentagonale nella zona dell’attuale Via Nullo e che si rivelò ben presto insufficiente a causa della
sua esigua capienza. Si provvide allora, quando già era incominciata la dominazione asburgica, a
costituire il cimitero di San Giorgio in località Malpensata, nello spiazzo sul quale ancor oggi si
tiene il mercato del lunedì. Per gli abitanti di Città Alta e di Valtesse fu invece aperto un altro
camposanto, concepito su pianta ottagonale nei pressi della Morla, nel luogo ove poi fu ricavato il
campo sportivo intitolato al generale Umberto Utili. Intorno a questo camposanto sorsero subito
problemi non indifferenti perché fu oggetto di nette contestazioni da parte del Comune di Valtesse,
il quale ne rivendicò una metà; inoltre fu spesso inondato dalle acque della Morla, che nelle sue
piene si muta da innocuo rigagnolo in torrente impetuoso. Altro cimitero fu aperto in San Maurizio,
su di un’area nella quale un tempo erano state sepolte le suore benedettine di San Fermo. Questo
cimitero, sorto su pianta circolare, fu poi incluso nell’ampio perimetro del Cimitero Unico
progettato da Ernesto Pirovano con la fronte monumentale ispirata all’antico stile medo-persiano.
Continuò a funzionare il cimitero di Redona fino alla soppressione del suo Comune, che nel 1927
fu assorbito da quello di Bergamo con altri Comuni viciniori (Valtesse, Colognola e Grumello del
Piano).
’Ndà a mangià i redécc de la banda de la raìs.
Letteralmente: ‘Andare a mangiare i radicchi dalla parte della radice’. Ovvero: ‘Morire’.
Eufemismo rustico e fantasioso.
’Ndà a ’ndüinàla!
Quando la soluzione di un problema è affidata essenzialmente all’imprevedibile un bergamasco
esclama sconsolato: ’Ndà a ’ndüinàla!, letteralmente: ‘Andare a indovinarla!’, per significare che
occorrerebbe essere indovini. Per millenni l’uomo si è illuso di affidarsi agli astri per divinare il
futuro. Che i sacerdoti caldei 3000 anni prima di Cristo pretendessero di prevedere il futuro
scrutando gli astri può essere compreso considerando le scarsissime cognizioni scientifiche del
loro tempo. L’astronomia moderna ha però dimostrato con le sue straordinarie conquiste quanto
fallace fosse l’antica superstizione che la posizione e il movimento dei corpi celesti possano
determinare o condizionare la vita delle nazioni e dei singoli individui, ipotesi del tutto
indimostrabile
e
priva
di
qualunque
fondamento
scientifico.
Come
accreditare
una
pseudodisciplina fondata su un colossale errore? Come ritenere attendibile una previsione
astrologica basata sul sistema tolemaico, che poneva la Terra al centro dell’universo e che
possedeva una conoscenza astronomica esigua ed errata? Nonostante ciò, quotidiani e riviste fanno
a gara per pubblicare gli oroscopi e perfino la televisione pubblica, incapace di assicurare un
servizio degno di un Paese civile, infligge quotidianamente le previsioni astrologiche a seconda dei
vari segni zodiacali. Tanto per continuare a spendere balordamente i soldi estorti ai contribuenti
da un canone di istituzione fascista furbescamente trasformato in tassa di possesso. In tempi
dominati dalla razionalità e dal mito della scienza fa specie questa penosa e sciocca credulità in
una visione confusamente deterministica, che facendo discendere il destino dagli astri negherebbe
all’uomo il valore delle sue azioni e delle sue scelte. Quanta commiserazione provo per chi mi
domanda: “Lei di che segno è?”. Mi dicono che per certe persone questo costituirebbe argomento
di conversazione. Gran magra risorsa. Non le invidio. A me hanno insegnato che ogni essere
umano è il principale artefice del suo destino e che là dove non arrivano il nostro ingegno e le
nostre forze non rimane che affidarsi alla Provvidenza. Altro che oroscopi!
’Ndà a no ìghen.
La tentazione di scrivere Noìghen è forte ma un luogo simile non esiste. Per gl’imprudenti esiste
sempre il rischio di combinare qualche affare sbagliato, di perdere il proprio denaro e di finire a
no ìghen, di finire cioè per ‘non averne’. Quando si teme d’imboccare una brutta strada o
d’imbarcarsi in un’impresa aleatoria si dice che s’ và a no ìghen per esprimere il presentimento di
una disfatta o di un fallimento. È la sorte toccata a tanta parte dell’arte contemporanea, perdutasi
ad inseguire il futile e l’appariscente, praticata da gente che non sa disegnare, che non sa
dipingere, che non sa incidere, che non sa scolpire, gente che ignora il valore della manualità e che
affida le sue fortune ai ritrovati della tecnologia, senza rendersi conto che la ripetitività non ha a
che fare con l’arte. Del resto, in un mondo votato all’indifferenza, in un mondo nel quale la vita è
priva di senso, l’arte non può che trastullarsi nell’esplorazione del vuoto e nell’espressione
dell’insignificanza. Essa è in pieno dissolvimento e simula l’assenza di pensiero e di etica con il
ricorso ad assunti puerili e a linguaggi banali; maschera così l’assenza dell’assoluto e l’orrore del
vacuo: con le carnevalate di massa e l’esaltazione di fenomeni da baraccone tenta di esorcizzare la
disperazione di chi non ha più alcun punto fermo a cui affidarsi.
’Ndà a piòte.
Per quanto conservativi possano apparire, i nostri linguaggi popolari hanno accolto nel corso dei
secoli una quantità considerevole di neologismi. Ogni apporto ha una sua storia ma chi la vorrebbe
scrivere arriva spesso troppo tardi e deve accontentarsi delle congetture, che a volte sono credibili,
altre volte no. Se si pensa alla locuzione ‘ndà a piòte, ‘andare a piedi’, ci si rende conto che si
tratta di un’acquisizione recente, della seconda metà del Novecento. Essa non è registrata dai
nostri tradizionali repertori lessicali e non figura in alcun testo bergamasco letterario del secolo
scorso. Oltretutto non esiste in bergamasco la forma singolare piòta; la parola si presenta sempre
al plurale. Occorre precisare che, a parte la locuzione ’ndà a piòte, il sostantivo assume
un’accezione lievemente caricaturale, fra l’arguto e il satirico, come se ci si dovesse riferire a
persona dall’andatura un po’ impacciata a causa di piedi non perfettamente sagomati, dalla forma
sproporzionata rispetto alla corporatura. Pare anche di rilevare nell’uso del vocabolo piòte
un’allusione ad una certa piattezza della pianta dei piedi. Per cui l’andà a piòte indica sempre una
fatica insita nell’atto di camminare, il disagio di dover percorrere un indeterminato ma disagevole
tratto di strada a piedi, magari senza la minima voglia di farlo o mettendo già in conto che alla fine
della camminata ci si ritroverà coi piedi indolenziti. Che ci possano essere di mezzo i piedi piatti è
provato dal latino plattus, ‘piatto’, nonché dal fatto che nei dialetti dell’Italia Centrale la piòtta è
proprio il piede piatto; ma la parola è di uso assai antico se gli etimologi spiegano il nome di
Plauto, famoso commediografo romano, vissuto all’incirca fra il 255 e il 184 a. C., facendolo
discendere da Plotus (antico umbro Plote), un cognomen allusivo ad una famiglia i cui componenti
erano accomunati dai piedi piatti (il passaggio dal rustico Plotus alla forma urbana Plautus
risponde ad un’esigenza puristica epidermica, di tipo eminentemente ipercorrettistico, come il
nostro libricino della buona lingua diventa suo malgrado libriccino, forma da evitare, a causa della
pronunzia centromeridionale, che tende a raddoppiare le consonanti anche là dove non si deve).
Piedi piatti a parte, l’andare a piòte ha i suoi vantaggi, anzitutto perché riattiva la circolazione del
sangue e tiene lontani dall’indolenza, inoltre perché dà il tempo e l’agio di osservare quanto è
d’attorno e di riflettere con la necessaria serenità. Se poi si ha fretta e gli impegni urgono, allora è
meglio prendere l’autobus, il treno o l’automobile. Ma a volte la demagogia di certi pubblici
amministratori condanna i cittadini ad andare a piòte, anche se il blocco totale o parziale della
circolazione stradale è provvedimento demagogico, miope e ininfluente rispetto al problema
dell’inquinamento, da risolvere in ben altri modi.
’Ndà a rane.
La gente bergamasca non è avvezza a rivolgersi al prossimo augurando astiosamente ogni sorta di
mali. In molte altre contrade d’Italia si odono purtroppo invettive, maledizioni e altre espressioni
orribili, che certo cinema e molti spettacoli televisivi di pessimo gusto si sono incaricati di
diffondere senz’alcun riguardo per la buona educazione: turpiloqui da mascalzoni, inviti volgari e
irosi, gestacci villani e trivialità di ogni genere, di cui ci si dovrebbe soltanto vergognare, sono
stati scelleratamente proposti alla stregua di modelli da imitare. Dopo tutta l’acqua lurida passata
sotto i ponti la locuzione bergamasca che qui si presenta risulta di un candore disarmante. Ad una
persona che non intende ragione sorge quasi spontaneo dire: Ma và a rane! Per andare a catturare
delle rane occorre indossare un impermeabile e calzare degli stivali, armarsi di una torcia elettrica
(una volta si usava una lanterna) e seguire di notte il corso di un ruscello, di un torrentello, di una
roggetta o di un fossato. Le “garrule presaghe della pioggia” (così le definì Lorenzo Mascheroni
nell’“Invito a Lesbia Cidonia”) si lasciano catturare, abbacinate dalla luce della torcia. Ma
l’impresa quasi sempre non conviene a causa del freddo, dell’umidità e del fondo scivoloso; spesso
poi le rane fuggono e non di rado il bottino è assai scarso. Non occorre invocare accidenti terribili
per il prossimo molesto o rivolgergli delle maledizioni atroci: basta augurargli seraficamente de
’ndà a rane.
’Ndà a rebuldù.
Letteralmente: ‘Andare a ribaltoni’. Non succedeva solo alle carrozze di ribaltare, di rotolare su se
stesse prima di fermarsi. Poveri passeggeri, che ne uscivano barcollanti e ammaccati! Oggi, a
giudicare dall’elevato numero delle vittime degl’incidenti stradali, è assai peggio. Succede anche
alla società di andare a catafascio quando le leggi morali non ispirano più le menti e non
governano più i cuori.
’Ndà a röda.
La traduzione letterale ingannerebbe. Significa infatti: ‘Mangiare e bere a sbafo’. La sera, quando
la famiglia tutta era attorno al desco, il padre rimproverava così il figlio fannullone, che non lo
aveva aiutato nel lavoro dei campi: T’é lassàt a cà ’l carèt ma t’é portàt dré i röde. Fuor di
metafora, il figlio non aveva lavorato (perché il carretto era rimasto nella barchessa) ma
comunque cenava (le ruote lo avevano condotto a tavola).
’Ndà a San Momà.
Nel Comune di Strozza, in Valle Imagna, esiste la località Cà Campo, nella quale si trova un
oratorio dedicato a San Pantaleone e a Santa Brigida. All’interno della chiesetta una statua
raffigura San Momà, che è la versione valdimagnina di San Mamete (o San Manimete o San
Mamante), un eremita di Cesarea in Cappadocia, che subì il martirio verso il 259 dopo Cristo, al
tempo di Aureliano, per non aver voluto rinnegare innanzi ai pagani la sua fede cristiana. Come
San Pantaleone, anche San Momà è ricordato per la sua bontà d’animo: è scritto che nel suo
eremo convivessero pacificamente, educati da lui, animali di razze diverse e nemiche fra di esse
secondo le leggi spietate della natura. Anni fa le mamme della Valle Imagna che non avevano latte
e che volevano evitare il ricorso al latte vaccino (non sempre immune da infezioni a quel tempo) si
rivolgevano a San Momà. Risalivano lentamente la tortuosa mulattiera di Cà Campo compiendo
un’opera di misericordia, perché recavano con sé in un paniere del pane e del vino, che strada
facendo offrivano ai mendicanti e agli affamati. L’usanza è stata abbandonata attorno agli anni
Quaranta del Novecento sia per l’affievolirsi della devozione sia per la bassa natalità ma in Valle
Imagna è sopravvissuto a tutt’oggi il detto: ’Ndà a San Momà l’ völ dì partì incö e rià ’ndomà,
’Andare a San Momà vuol dire partire oggi e arrivare domani’, detto che forse si spiega pensando
alla tortuosa mulattiera che conduce al tempietto (tanto tortuosa da essere chiamata ol tòrcc dalla
gente del posto). Per raggiungere la serenità interiore del santo eremita, che riusciva a mettere
d’accordo animali di razza diversa, il percorso da compiere non è breve: dunque, si parte oggi per
arrivare domani. Ma si arriva. Rimane da osservare che il culto di San Mamete, diffuso un tempo
nei territori di Bisanzio (dove gli islamici hanno cancellato ogni traccia del cristianesimo), è tipico
degli ambienti pastorali.