VeneziaMusica e dintorni n. 54 Gennario

veneziamusica
e dintorni
Edizioni La Fenice
VeneziaMusica e dintorni
n. 54 – febbraio 2014
Testata in corso di registrazione
Direttore responsabile
Giampiero Beltotto
a cura di
Leonardo Mello
VeneziaMusica e dintorni
è stata fondata da Luciano Pasotto
Editore
Fondazione Teatro La Fenice
Campo San Fantin
San Marco 1965
30124 Venezia
Realizzato da
Dali Studio S.r.l.
veneziamusica
e dintorni
Edizioni La Fenice
Sommario
3
4
Editoriale
40
Sul Carnevale di Venezia
Lo «zapping» musicale di Vittorio Montalti
di Alberto Massarotto
42
L’«Anatra digeritrice» di Mauro Lanza
di Alberto Massarotto
4
Il Carnevale e il teatro: l’unicità di Venezia
di Leonardo Mello
8
Il Carnevale di Venezia 2014
9
La festa (e le opere) della Fenice
11
Una «Cavalchina» datata 1907
13
La «Cavalchina» ieri e oggi
di Roberto Bianchin
15
Il «Carnevale dei Ragazzi» della Biennale
16 Lirica
16
Troppe regie dilettantesche e banali
di Massimo Bernardini
19
«Il campiello» di Wolf-Ferrari
21
«La bohème»: un nuovo stile
di Michele Girardi
23 Sinfonica e contemporanea
23
Strawinsky e Venezia
di Paolo Cattelan
26
Igor incontra Gesualdo
di Paolo Cecchi
28
«Elegy for Young Lovers», un’opera astratta e poetica
di Pier Luigi Pizzi
31
Henze: la musica, gli incontri, l’Italia
di Enzo Restagno
34
Al lavoro con l’autore dell’ «Elegy»
Il racconto di Francesco Antonioni
36 Dossier «Nuova Musica alla Fenice»
2
36
Creare collegamenti fra tradizione
e contemporaneità
di Cristiano Chiarot
37
Tre commissioni a tema
di Fortunato Ortombina
38
La ricerca sulla memoria di Luigi Sammarchi
| veneziamusica e dintorni
44 Dintorni – Inediti
44
«Le fate» di Wagner: un saggio inedito sul primo
lavoro teatrale
di Chiara Facis
49 Dintorni – Teatro
49
«L’ispettore generale» secondo Damiano Michieletto
a cura di Leonardo Mello
51 Carta Canta
51
Le recensioni
di Giuseppina La Face Bianconi
53
Le lettere di Verdi e Gaetano Fraschini
di Giorgio Gualerzi
55
Le «differenze» in scena diventano libro
56
In memoria di Carlo
di Giampiero Beltotto
editoriale
C
arnevale e Venezia sono due termini
che viene subito naturale accostare,
quasi fossero un’endiadi. La grande festa del rovesciamento delle regole, della trasgressione vitale e sfrenata, dei teatri affollati
e dello sciame di maschere che invade gioiosamente calli, campi e campielli costituiscono un vero e
proprio «marchio di fabbrica» della città lagunare,
le cui origini risalgono al mitico e lontano Medioevo. Momento di sfrenatezza e divertimento che attraversa i ceti sociali e le appartenenze identitarie,
il Carnevale, rilanciato dopo un lungo periodo di
silenzio verso la fine del secolo scorso, è diventato un appuntamento culturale e mondano tra i più
importanti a livello internazionale. Per quindici
giorni Venezia – tra regate in costume, balli in maschera come la celebre Cavalchina, pranzi di gala
e danze di piazza – si trasforma in un unico, grande palcoscenico, dove la popolazione si mescola e
si fonde con le migliaia di visitatori, rinnovando
un’antica tradizione di accoglienza di cui sono
testimoni, per esempio, i tanti diari di viaggio di
illustri personaggi stranieri, affascinati e increduli
di fronte alla magia della città d’acqua cosparsa di
coriandoli e costumi. Raccontarne in brevi cenni
passato e presente è sembrata dunque quasi un’esigenza irrinunciabile.
Ma, restando fedeli all’approccio multidisciplinare della rivista, molti altri sono come di consueto
gli argomenti affrontati. Tra questi uno in partico-
lare assume però un’importanza centrale: partendo dall’attenzione rivolta dalla Fenice alla musica
d’arte contemporanea, sia nel cartellone sinfonico
che in quello lirico, abbiamo voluto costruire un
piccolo «dossier» incentrato sulla figura di Hans
Werner Henze, di cui a marzo andrà in scena al
Malibran uno dei capolavori, quell’Elegy for Young
Lovers scritta a quattro mani con il poeta-librettista
Wystan Hugh Auden. Il compositore tedesco, tra
i massimi del secondo Novecento, scelse in giovane età, appena ventisettenne, l’Italia come patria
adottiva, per non lasciarla mai più, anche se forse
il nostro Paese è stato con lui meno generoso di
quanto gli spettasse di diritto. Eppure da noi sono
nati molti dei suoi lavori più celebri e applauditi,
compresa la citata Elegia.
Sulla stessa falsariga si collocano gli interventi che raccontano il progetto «Nuova Musica alla
Fenice», fortemente voluto dai vertici del Teatro
e quest’anno dedicato alla memoria di Giovanni
Morelli. Giunta alla terza edizione, l’iniziativa vede
protagonisti tre giovani autori italiani, inseriti nella
normale stagione concertistica, tutta improntata al
Novecento. Abbiamo dunque pensato, dopo l’inquadratura istituzionale, di dare loro voce permettendogli di illustrare la genesi del brano inedito
creato ad hoc e di parlare del proprio percorso artistico e della situazione in cui si trova a vivere chi
sceglie la composizione come propria espressione
artistica e professionale.
veneziamusica e dintorni |
3
Sul Carnevale di Venezia
Il Carnevale e il teatro:
l’unicità di Venezia
di Leonardo Mello
«Tutti i teatri, tutti i ridotti erano aperti. Le botteghe
da caffè, le trattorie, le malvasie, i magazzeni da vino
riboccavano di gente, come pure le strade, la Piazza,
e la Piazzetta di San Marco per molti casotti ove ammiravansi animali feroci, funamboli, e prestigiatori.
Che diremo delle maschere? Qui tu vedevi un Pantalone, che dialogava con qualche Zane, o Brighela. Là
un Arlechino che, in mezzo ad un crocchio, faceva
pompa della propria eloquenza. Da un’altra parte un
Matacino, o Pagliaccio, oppure un Trufaldino, oppure qualche nazionale mascheretta in vesta e zendado
neri».
C
osì, con la consueta precisione, Giuseppe Tassini descrive l’esplosione di vitalità che caratterizza da sempre il periodo
carnevalesco a Venezia. Una distesa di
persone, attratte da fenomeni da baraccone, anima
le calli e i campi cittadini, mentre i luoghi deputati allo spettacolo fanno a gara per proporre rappresentazioni musicali o comiche. Questo sciame
di cittadini, mescolato a un imponente numero di
visitatori approdato in laguna per l’occasione, il
più delle volte gira mascherato, o da solo oppure
costituendo una delle tante compagnie.
Tra i molti elementi evocati in quest’efficace
sintesi della festa per antonomasia, uno sembra
però essere peculiare, anzi esclusivo della realtà
veneziana: l’intrinseca unione tra divertimento,
sfrenatezza, mascheramento, ambiguità e la loro
radicata «dimensione scenica». Molte volte si è
sentito affermare che Venezia è «un enorme teatro
all’aperto», mettendo in evidenza dunque la teatra-
4
| veneziamusica e dintorni
lità diffusa di questa città, che di fatto nel corso
dei secoli inventa una concezione moderna della
macchina spettacolare, liberandola dal mecenatismo di corte per farle assumere connotati di stile
protoindustriale.
La festa, il rito e il teatro
Il Carnevale, pur non essendo l’unica parte
dell’anno in cui le sale restavano aperte, rappresenta certamente il periodo in cui massima è la concentrazione di spettacoli. Per comprendere però lo
stretto collegamento che si stabilisce tra la dimensione teatrale e la ricerca spasmodica di evasione,
accompagnata spesso da un’abbondante e vitalissima dose di trasgressione e licenziosità, bisogna
andare un po’ più a fondo in entrambe le direzioni.
La pausa carnevalesca, vero e proprio momento di sollievo nella continuità del vivere quotidiano, non è un’invenzione veneziana. Le sue radici
sono antichissime, e si perdono in quel cosiddetto
«mondo alla rovescia» che – a prescindere dai dubbi etimologici che ancora esistono sull’origine del
suo nome – rappresenta la sua essenza principale.
Strumento del potere, il Carnevale permette di trasgredire la norma, di evadere dai ruoli codificati a
cui chi appartiene a una determinata società – al
di là del ceto e del censo – necessariamente deve
sottostare. Ecco dunque che già nell’Oriente più
arcaico, e poi durante i diversi momenti consacrati
a Dioniso dall’antica Grecia, oppure nei Saturnali
romani, per fare solo alcuni esempi, la trasformazione e il rovesciamento dello status quo servono,
in fondo, come elemento di controllo sociale: nella
Sul Carnevale di Venezia
stessa concessione di infrangere provvisoriamente le regole è insito di per sé l’ordine di ritornare
subito dopo a rispettarle. Nella civiltà occidentale
come in quella orientale queste pratiche possedevano uno stretto legame con la religione. L’estasi,
l’ebbrezza, la sfrenatezza erano spesso indotti da
un dio, e sempre inseriti in un contesto rituale, governato da figure sacerdotali. Per rendersene conto basta pensare alla crudele vendetta operata da
Dioniso nei confronti di Penteo, il re tebano che
non vuole tributargli i sacrifici e gli onori dovuti.
Attraverso un processo di smarrimento della propria ratio il sovrano viene umiliato e privato dalla
follia delle Baccanti della propria stessa vita, come
ci racconta Euripide nell’omonima, corale tragedia. Oltre all’elemento rituale, però, un altro, nel
caso della Grecia, emerge in primo piano: Dioniso è il dio del teatro, a lui sono indirizzate tutte
le pratiche sceniche, che si tratti di tragedia come
di commedia (le rappresentazioni teatrali erano
sempre inserite in momenti dell’anno dedicati alla
divinità, come le Grandi Dionisie, che erano le più
importanti). Rito e teatro dunque si fondono, attraverso la figura di Dioniso, in un insieme che ha
al suo terzo vertice la maschera, da sempre potente
ed enigmatico mezzo per «vestirsi» di un’altra natura rispetto alla propria.
Riportando questi schematici cenni al discorso iniziale, e riprendendo le parole del Tassini, si
potrebbe dire che, nel corso del tempo, proprio
a Venezia cifra fondamentale del Carnevale, nato
nella forma in cui ci viene descritto già nel Medioevo, e poi mantenuto in vigore fino al secolo XIX,
sia proprio la sua teatralità. Abbondantemente depurata del suo carattere religioso, la festa assume
in laguna la forma di un unico grande spettacolo,
composto di molti diversi tasselli. Se infatti questa parentesi trasgressiva non è certo appannaggio
esclusivo della Serenissima – innumerevoli sono
le declinazioni di questa usanza, basti pensare alla
Festa dei Pazzi, o a quella dell’Asino, estremamente vitali in altre zone della Penisola nel corso dei
secoli – la sua forte dimensione scenica differenzia
il Carnevale veneziano da tutti gli altri, rendendolo
un evento unico e irripetibile nello sviluppo della cultura occidentale (è in questo senso difficile
costruire parallelismi sia con altre grandi mani-
festazioni nazionali, una per tutte Viareggio, che
con i Carnevali internazionali come Rio). Ma in
questo meccanismo importanza rilevante assume
proprio la storia delle scene lagunari. Tra Quattrocento e Cinquecento in Venezia si assiste al
fenomeno dell’insorgere delle Compagnie di Calza, gruppi conviviali che si assumono l’onere, tra
le tante altre possibilità di intrattenimento, della
rappresentazione teatrale, intesa come divertimento dilettantesco rivolto esclusivamente agli adepti.
Con il passare del tempo però queste formazioni
amatoriali vengono soppiantate dall’arrivo in città
di professionisti quali i comici dell’arte, che vedono aprirsi per loro ghiotte opportunità di lavoro.
Ecco dunque che la commedia all’improvviso,
sempre recitata attraverso maschere che rendono
facilmente riconoscibili i tipi umani che imitano e
prendono in giro, diviene una delle modalità più
apprezzate di svago, sia per le fasce più popolari
che, anche se in misura minore, per le allegre brigate di nobiluomini. D’altro canto, nel Carnevale
del 1637 la messinscena dell’Andromeda, opera
scritta da Benedetto Ferrari e musicata da Francesco Manelli, inaugurando il primo teatro pubblico
(quello di San Cassiano), dà inizio anche all’altro
filone spettacolare cui Venezia ha contribuito più
d’ogni altro grande centro europeo, il melodramma, vera passione cui gli abitanti non avrebbero
più potuto rinunciare. Intorno al teatro insomma
si svolgeva la vita cittadina, in un universo che andava ben oltre il momento della visione, occupando gran parte delle discussioni filosofiche e delle
chiacchiere da caffè, come sapeva bene lo stesso
Carlo Goldoni, spesso al centro di aspre polemiche
e severi confronti con l’opera dei suoi due maggiori
concorrenti, Carlo Gozzi e Pietro Chiari. Questa
situazione, anomala rispetto alla prassi delle altre
grandi corti, tra Seicento e Settecento permette di
avere attivi, a Venezia, fino a sedici teatri, divisi tra
quelli «musicali», la maggioranza, e quelli invece
destinati alla commedia. E simbolicamente questo
percorso si conclude con l’edificazione, nel 1792,
del più importante di essi, la Fenice, ad opera di
una società di appassionati che soppianta le nobili
figure impresariali del passato. In questo contesto
dunque, per tirare le somme del discorso, si inserisce l’irrinunciabile teatralità del Carnevale di Veveneziamusica e dintorni |
5
Sul Carnevale di Venezia
nezia, teatralità che contraddistingue non soltanto
gli spettacoli veri e propri, ma le stesse cerimonie
tradizionali, come il Volo dell’Angelo (poi della
Colombina) e la processione delle Marie, coinvolgendo l’intera vita sociale della città.
Stato e Chiesa
La preminenza del Carnevale come cuore delle
feste cittadine però, oltre alle condizioni favorevoli
cui si accennava poco prima, deriva anche da fattori di tipo politico e sociale. Da una parte sta la
Chiesa, che molto presto comprende l’importanza
di quell’«interruzione della normalità» che questo momento dell’anno rappresenta. Come molto
spesso è accaduto in altri ambiti, le autorità ecclesiastiche hanno nei confronti di queste manifestazioni, nate pagane, un atteggiamento di inclusione,
arrivando a «cavalcare» l’evento, e cercando d’altro canto – dove possibile – di limitarne la licenziosità. Così si hanno notizie certe di coinvolgimento
nello sfrenato divertimento carnevalesco di alte
cariche religiose, tra cui anche numerosi Papi. L’attenzione a questo tipo di pratiche – dove attraverso
il rovesciamento delle regole si soddisfa un’ampia
serie di appetiti, da quello sessuale al semplice appagamento della fame atavica che opprime il popolo – non poteva d’altro canto che essere alta da
parte delle gerarchie cattoliche, che permettevano
la licenziosità «incanalandola» in un determinato
momento dell’anno e dunque in qualche modo
istituzionalizzandola. Con le Ceneri tutto tornava
alla normalità, i signori erano di nuovo signori, i
servitori servitori.
Se questo discorso vale in generale, contorni
ancora più precisi assume a Venezia, dove la Chiesa, sin dal Quattrocento, aveva stabilito un dialogo,
spesso difficile, con l’autorità civile. La Serenissima, infatti, possedeva una politica piuttosto anomala nei confronti di queste esplosioni di vitalità.
E questo tema non ci può che condurre nuovamente a quel legame tra Carnevale e teatro (come
si diceva, i due elementi vengono a coincidere anche dal punto di vista temporale, essendo la festa
carnevalesca la stagione scenica di gran lunga più
importante). Nei confronti delle rappresentazioni
6
| veneziamusica e dintorni
– senza attardarci in dettagli storici – la Repubblica praticava un atteggiamento duplice: da un lato,
ufficialmente, gli spettacoli erano proibiti grazie a
parti, vale a dire decreti, che ne limitavano o impedivano la diffusione. Dall’altra però era sempre
possibile (salvo in momenti tragici come guerre o
pestilenze) trovare una deroga, spuntare una concessione «provvisoria». Questo approccio fondamentalmente tollerante ha di fatto permesso per
almeno due secoli la normale apertura delle sale.
Un elemento da non dimenticare, in questa benevolenza delle istituzioni, ancora una volta consiste
nella concezione moderna del teatro veneziano:
molte illustri famiglie nobili, assai influenti anche
a livello politico, avevano visto nelle scene da una
parte la possibilità di arricchirsi (anche se le esperienze felici, da questo punto di vista, non sono state molte) e dall’altro di accrescere il proprio potere
e il proprio prestigio in città. Di fronte a questo
tipo di politica anche la Chiesa è costretta a una
sostanziale accettazione del fenomeno, limitandosi
a qualche sporadica incursione moralistica rivolta
agli esponenti più reazionari della classe patrizia.
Decadenza e rinascita
«I teatri […] erano ormai vecchi e infelici. Le
decorazioni di specchi e lumiere eseguite da artigiani specializzati, talvolta così eccezionali che il pubblico accorreva a vederle anche in ore diverse dagli
spettacoli, erano un ricordo degli anni migliori; i
candelieri d’argento dei palchi, gli ornati di passamanerie e di stucchi d’oro, gli “sguazzaroni”, sui
quali invigilava una minuziosa serie di editti santuari, si corrompevano senza che nessuno pensasse
a restaurarli. I venditori di “folpi” e di pere cotte
infestavano la platea, la gente mangiava e sputava
dai palchi, le donne e i cicisbei conversavano ad
alta voce, gli spettatori annoiati si smascellavano in
rumorosi sbadigli, i corridoi puzzavano di smoccolatura e di piscio».
Con queste parole Ludovico Zorzi, attento studioso dei costumi veneziani, ritrae implacabilmente la situazione in cui versano le scene lagunari alla
fine del Settecento, quando l’esperienza millenaria
della Serenissima è giunta alla sua conclusione. In
Sul Carnevale di Venezia
un quadro ancora piuttosto divertente e «mosso» si
stagliano gli elementi che contribuiscono a rendere
quel periodo storico ormai concluso. Parallelamente, anche la cornice esterna, la strada, il campo, la
Piazza perdono il vitalismo dei tempi d’oro. Certo
il Carnevale non scompare, le manifestazioni più
antiche e importanti continuano a essere proposte,
così come durante l’Ottocento a San Marco si celebra la tradizionale e imponente corsa della Cavalchina (cfr. le pagine seguenti) e la Fenice continua
a essere il salotto più esclusivo e il luogo centrale
della festa. Ma soprattutto durante il XX secolo
quell’universo di colori, maschere, ciàcole, ebbrezza e spettacolo vanno scemando, fino a smarrirsi
completamente e lasciando funzionanti soltanto le
sale maggiori. La rinascita del Carnevale, ad opera
della Scuola Granda di San Marco, un’associazione di liberi cittadini affiancati immediatamente da
altri gruppi come la rinata Compagnia della Calza,
avviene solo nel 1979. È da allora che, intuite le
potenzialità anche turistiche dell’impresa, l’Amministrazione Comunale si è occupata del rilancio
a livello internazionale, riportando la festa tra gli
eventi più frequentati e seguiti dai media. Ma in
sede conclusiva va notato che anche questo suo rifiorire avvalora il rapporto che il Carnevale, qui da
noi, continua ad avere con il teatro, quasi che l’arte
della scena ne rappresentasse in qualche maniera
l’essenza più profonda. Determinante è infatti l’apporto a questo risorgimento offerto da un’istituzione come la Biennale Teatro, che entra in quegli
anni nel vivo dell’organizzazione. Grazie anche a
Maurizio Scaparro, l’allora direttore artistico della
sezione prosa, che credeva molto nell’operazione,
nei primi anni ottanta nacque il Carnevale del Teatro, attraverso le cui molteplici iniziative questi due
termini, inscindibili, sono tornati a essere declinati
insieme.
Bibliografia essenziale
Manlio Brusatin, Aldo De Poli, Venezia e lo spazio scenico, catalogo della mostra omonima, La
Biennale di Venezia, Venezia 1979.
Leonardo Mello, Il Settecento veneziano – Il teatro
comico, Corbo e Fiore, Mestre 2013.
Pompeo Molmenti, La storia di Venezia nella vita
privata, volume III, Edizioni Lint, Trieste 1981.
Fulvio Roiter, Carnevale veneziano, testi a cura di
Antonio Giubelli, Edizioni Zerella, Venezia
1987.
Giuseppe Tassini, Feste e spettacoli, Filippi Editore, Venezia, 2009.
Ludovico Zorzi, Il teatro e la città. Saggi sulla scena
italiana, Einaudi, Torino 1977.
veneziamusica e dintorni |
7
Sul Carnevale di Venezia
Il Carnevale 2014
I
l Carnevale di Venezia 2014 si svolgerà
dal 15 febbraio al 4 marzo, e sarà intitolato «La natura fantastica». Di seguito
le linee programmatiche del direttore
artistico Davide Rampello.
«Un Carnevale globale perché ogni cultura ha,
fin dalle proprie origini, attinto al patrimonio del
fantastico e del fiabesco come metafora narrativa
della vita.
Un Carnevale dell’attualità perché il fiabesco
naturalistico è il modo con cui affrontare, nella festa, i temi profondi del rapporto tra il genere umano e l’ambiente: i boschi, le valli, i mari, i monti, le
lagune e le misteriose creature animali e vegetali
che li abitano.
Tutti conoscono l’esigenza dell’uomo di raccontare il misterioso naturalistico mediante la favola.
Le culture planetarie, prima nella forma dei miti,
poi in quella della natura antropizzata di cui tanta
parte si trova nella tradizione favolistica mondiale,
dispiegano un giacimento infinito di simboli e di
caratteri intorno alla creazione e all’origine della
vita, agli elementi atmosferici, agli esseri vegetali e
alle creature animali.
Oriente e Occidente, Asia e Oceania, Americhe ed Europa, Africa: nel Carnevale del fiabesco
si cercherà il mascheramento ispirato alle fiabe storiche della tradizione europea, alle novelle arabe e
mediorientali, ai simboli votivi delle culture africane e mesoamericane, fino alle allegorie indiane,
mongole e dell’antico Catay.
L’obiettivo sarà quello di stimolare il pubblico
della festa a riscoprire, con i mascheramenti individuali e con quelli urbani, il rilievo del fantastico,
8
| veneziamusica e dintorni
popolare e colto, esoterico e didascalico, nel suo
rapporto tra l’uomo e l’ambiente. Venezia è in questo, come tutti sanno, un miracolo della fantasia
essa stessa. Un pesce nella laguna, il punto d’intersezione delle culture alpine da un lato, dell’infinita
landa d’acque che le galere percorrevano incessantemente sino all’Egitto dall’altro. Città interfaccia
di Oriente e Occidente, dove i miti – e le paure –
delle creature mostruose e stupefacenti d’oltremare venivano tradotti in narrazione, pittura, ornato
architettonico, per poi essere esportati in Europa
lungo i canali e le strade battute dai mercanti.
A Venezia, nel Carnevale 2014, verrà rappresentato un enorme dizionario della fantasia: ogni
maschera diventerà simbolica traccia materiale di
uno straordinario incontro dello spazio con il tempo. […] Un dizionario del fantastico senza tempo,
un’enorme mappa morfologica della creatività
umana libera da costrizioni e felice di esplorare la
natura con i suoi misteri, di cui dar conto con forme, suoni e attitudini, libere di viaggiare nelle teste
dei nostri antenati come quelle dei nostri bambini.
Per la città di Venezia, per le sue numerose
istituzioni culturali, è un’occasione per contestualizzare nel territorio Veneto e lagunare la presenza
del fantastico: dai boschi del Cansiglio alle cime
delle Alpi, dagli orti e frutteti del Garda alle valli lagunari, dalle isole dell’Oriente oltremarino ai
Fondaci armeni, turchi e greci. Un mondo di favola
alimentato dai profumi e dai sapori dei forestieri,
cresciuto nei segreti suoni delle lingue che i mercanti portavano dall’Oriente e dal nord Europa,
documentato negli idiomi dei Principi e dei viaggiatori che affrontavano il lungo viaggio per Venezia, maestra di civiltà.»
Sul Carnevale di Venezia
La festa (e le opere)
della Fenice
I
l Teatro La Fenice affiancherà alla
Cavalchina, che si svolgerà sabato
grasso, una programmazione estremamente variegata. Tre infatti saranno le
opere allestite durante il Carnevale: La traviata, Il
barbiere di Siviglia e Il campiello di Ermanno WolfFerrari.
Il capolavoro verdiano è ormai quasi un simbolo della rinascita della Fenice, in quanto spettacolo
della riapertura nell’ormai lontano 2004. Da allora
l’allestimento di Robert Carson ha visitato con successo le platee di tutto il mondo, fino a raggiungere
le quasi cento repliche. La lettura del regista americano, rispettosa e moderna al tempo stesso, è stata
molto apprezzata da pubblico e critica, e si adatta
particolarmente bene alla bacchetta del giovanissimo Diego Matheuz, direttore principale del Teatro
lagunare dal 2011.
L’opera rossiniana ambientata in Andalusia, dal
20 febbraio sarà riproposta in Sala Grande nella rodata e applaudita versione di Bepi Morassi, ormai
specializzato nelle atmosfere del primo Ottocento (pur senza mai escludere «fughe» registiche in
avanti o all’indietro). Sul podio Giovanni Battista
Rigon, anch’egli esperto esecutore di melodie rossiniane.
A questi due spettacoli, entrambi prodotti dalla Fenice, ed eseguiti dalla sua Orchestra e dal suo
Coro, si affianca poi Il campiello, opera tarda del
compositore italo-tedesco che prende a spunto la
divertente storia goldoniana per mettere in note un
Settecento affascinante e idealizzato (cfr. pp. 1920). La messinscena, firmata da Paolo Trevisi per
il Teatro Sociale di Rovigo, giunge ora al Malibran
nell’ambito di un progetto complessivo, «I Teatri
del Veneto alla Fenice», che intende portare in città
produzioni di pregio realizzate nel territorio veneto.
Un Carnevale dunque all’insegna della varietà,
che riunisce il dramma di Violetta alla vitalità esuberante di Figaro ma anche alle esilaranti inquietudini sentimentali dei personaggi corali di matrice
goldoniana. E proprio l’amore, nelle sue molte possibili declinazioni e sfaccettature, potrebbe essere
forse individuato come leit-motiv delle tre rappresentazioni, che si alternano nei due palcoscenici
veneziani.
veneziamusica e dintorni |
9
Sul Carnevale di Venezia
Il barbiere di Siviglia di Rossini secondo Bepi Morassi (foto di Michele Crosera).
La traviata di Robert Carsen (foto di Michele Crosera).
10
| veneziamusica e dintorni
Sul Carnevale di Venezia
Una «Cavalchina»
datata 1907
U
n documento storico di grande importanza narra la festa della «Cavalchina» al Teatro La Fenice: si tratta di
una spassosa epistola-cronaca firmata
il 5 febbraio 1907, con lo spiritoso pseudonimo di
Marchese del Grullo, da uno dei principali collaboratori della «Gazzetta di Venezia».
Graziosissima signora – Per fortuna Voi eravate
assente: se a tanto splendore settecentesco si fosse aggiunto il fulgore dei vostri occhi e l’opulento
candore delle vostre spalle, la Fenice sarebbe già in
fiamme. Siamo al colmo: un guizzo di più avrebbe
provocato l’incendio.
Quando io lanciai l’idea della Cavalchina Goldoniana, avevo fiducia nel successo; ma esso ha superata ogni mia previsione. Tutte le donne belle di
Venezia, tutte quelle che sono graziose se non sono
belle, tutte quelle che son gentili, se non sono né
graziose né belle, accolsero l’idea con entusiasmo e
l’attuarono con supremo buon gusto. Io fui l’Herz
della Cavalchina; Loro il Marconi.
VI scrivo da un appartato camerino dove giunge attenuato il fragore della festa abbagliante.
Quando entrai mezz’ora fa, ne rimasi accecato,
e chiusi gli occhi, continuando a vedere come in
sogno sete gonfie di guardinfanti candori di tupé,
nei assassini su fossette rosee e su angoli di bocche
rosse; bagliori di gemme, strascichi di seta, fiamme rosse e colme scollature, sentendo tuttavia il
tintinnio di tutte le piccole armi della civetteria e
l’armeggio dei ventalini dai manichi d’avorio e il
curiosire degli occhialetti d’oro. […]
L’ambiente non l’hanno guastato stavolta con
goffe decorazioni del palcoscenico: la sala della Fe-
nice è già di per sé una grande cosa: Quella scena
dove Adriana Lecouvreur morì tre o quattro volte
compianta e zittita alcune sere fa, essendo in stile,
servì squisitamente all’uopo, e bastarono delle piante a vivificare lietamente quel rococò di carta, nel
mezzo del quale alcune Dame di buona volontà si
sacrificano a due ruote della Pesca […]. Sono là tutte le mie e le vostre care conoscenze: quelli che sappiamo più attivi del vostro Comitato di beneficenza.
Pensate alle ruote e ai cavallini la Contessa Gabriella Brandolin, in goldoniana (pare una statuetta di Sèvres), la contessina Falier, in goldoniana
bianca, la contessa Elena Papadopoli e la Contessa
Albrizzi (baute), deliziose sotto le candide parrucche la signora Walther Zannoni, la signora Walther
Oesterreicher; la Contessa Balbi Valier de Nordis,
la Contessa Giustina Valmarana, la baronessa Hellembach. È il trionfo dei pizzi, del broccato prezioso, dei merletti e delle gemme.
Tutto questo sul palcoscenico: Quanto alla Sala
[…] pensate ciò che dev’essere, così piena di aggraziato settecento quasi tutto autentico; tutta brulicante di pompadour fantasiosi, di tricorni neri, di
parrucche bianche, di mantelli rossi, di giustacuori
e di tragiche baute; tutta popolata di dame autentiche e di cicisbei malgrado loro posticci e di maschere d’ogni genere, fuorché il mediocre.
Non potete averne un’idea, mia dolce amica; ed
io rinuncio a darvene una, lasciando che la vostra
intuizione ricostruisca la scena con gli elementi che
vi offro.
Pensate dunque: la Contessa Teresa Miari è
arrivata poco fa con un lungo stuolo di Cavalieri
(il cav. Pegorini, il tenente di vascello Comoli e il
giovane Del Bono) mantelli rossi e giustacuori auveneziamusica e dintorni |
11
Sul Carnevale di Venezia
tentici; la baronessa Treves avvolge in un dorato
pompadour pesantissimo la maestosa figura. Biancheggiano nei palchi le acconciature (vi nomino le
più settecentesche) della Contessina Dada Albrizzi, deliziosa; della Signora Braas, della Contessa
Giustina Valmarana e Contessina, della Contessa
Foscari, di Donna Paola Blaas, della Signora Berchet Cucchetti, la Signora Nash-Mayneri (una
perfezione), la signorina Scarpa, la Signora Satom
Semama, Contessa Da Schio Alverà, la giovane signora Toso, la signora Capon, la signora Augelina
Levi Jesurum, la signora Letizia Ruol Carmignani,
la signorina Rosa; un bellissimo settecento inglese
la signorina Guggenheim; in veneziana la Contessa
Grimani Chiaradia; in bauta Donna Paola Blaas.
Pensate il lavoro di Vattovas, Gui ed altri celebri figari?
Entête poudrée: le signore e le signorine De
Laigue; una bella locandiera la signora Gerardt;
poudrée la signora Stahler e la signora CucchettiBerchet. In gran toilette Mrs Merrick, la signora
De Maria, la signora Anna Rietti e figlia, la signora
Rietti-Stucky: nei palchi Walther una Geisha perfetta, la signorina Oesterreicher; – in pepiano lo
splendore di Donna Angela Ceresa Mito con le sorelle signorina Marzot e signora Monici – a proscenio la bellissima signora Guarnieri di Feltre. Ancora veneziane, la signorina Mannati (popolana), la
nob. Bianchi e la Contessina Nani Mocenigo.
Direte che sono disordinato… […] Figuratevi
che a mezzanotte irrompono le maschere caratteristiche, con la missione cinese: e si fa una fotografia
al magnesio. Essi precedono di poco una portantina autentica con una coppia autentica di Eccellenze con servi, il tutto preceduto dal codega e seguito
di Cavalieri. È la coppia Gelich della compagnia
Zago, ammiratissima.
Bellissimi i palchi dove brillano: la signorina
Alverà, la signora Sullam Orefice, la Nob. Lichstenstern-Malfer, la Nob. Malfer-Paccagnella, le
signore Aymo e figlie, Barozzi-Foscari, Foscari Meloncini; la Contesse Beschwe e M.lle Chevrillon, la
C.ssa Sormani Moretti, le signore Viterbi Orefice,
Rosada Antonini e figlia, Angeli Walsch, Tagliapietra Antonelli, Mazzaro, Santi, consolessa francese,
e signorina, signorine Guidini e Venuti, signore
Bonaldi Croze, Becher-Squeraroli, Stefanelli, Za-
12
| veneziamusica e dintorni
dra-Vianello, Forti, Finzi-Ascoli, Casartelli, Miola,
Scattola, ecc. ecc.
In platea coppie bellissime di beduini, diavoli in
quantità in costume e scostumati, bebè, dominò di
tutti i colori; una giardiniera fresca, rotonda e scellerata, giapponesi e cinesi, e mille altre bizzarrie.
Si vende intanto un album di caricature di Fez
(sapete? è il caricaturista ricordato in dolce e brusco da Beppe Brunati nell’Oriente Veneziano) con
prefazione brillantissima del piccolo e irrequieto
Marco Londonio, incitatore e manipolatore della bricconata. Vedeste come hanno calunniato la
Contessa Elena Papadopoli, la Contessa Balbi Valier De Nordis, la signora Bonaldi Croze, la Contessa Albrizzi e la sua adorabile Dada – e quella
bruna signorina De Laigue, alla quale mi avevate
detto, vorreste rubare il nero degli occhi e il segreto della flessuosità; la bar.sa Hellembach, Mme
Steiner, la bella nordica dall’alta statura e dal ciuffo
bianco, il conte Pippo, il Principe Fritz Hohenlohe, l’avv. Erenfreund, il nostro presidente il barone
ed eterno giovane Mavneri, il cav. Barasciutti, il co.
Mario e Leone Rocca, Beppe Brunati, il giovane
Guetta, e la prandoniana eleganza di Paolo Labia.
Li vendono tutti sedici per tre lire e vanno a ruba:
ve ne manderò una copia e non me ne ringraziate:
l’ebbi gratis. […]
Fra poco si cenerà nelle sale della Fenice: una
cinquantina di intimi vanno a Casa Albrizzi.
Dolce amica (lasciatemi dire così, perché mi
sento trasportato in settecentismo stilistico irresistibilmente) dolce amica, io depongo per ora la
penna e vado a vedere se vi è qualche altra notevole
cosa nella sala; poi me ne andrò e ve ne scriverò
domani. Ove arriverà la gondola?
La mia prima casa è quella dov’è il mio cuore – scriveva un platonico del 700 – aggiungendo:
«In questo momento tutto avvampante d’affetto vi
bacio le mani e vi stringo e bacio le ginocchia col
pensiero». Credete! I secoli passano inutilmente
per il cuore umano, ed io sarei come il platonico
del 700, senza pensiero.
Vostro
Marchese Del Grullo
(da «Gazzetta di Venezia», 5 febbraio 1907, anno
CLXV, n. 36)
Sul Carnevale di Venezia
La «Cavalchina»
ieri e oggi
L
di Roberto Bianchin*
a «Cavalchina», momento centrale del
Carnevale veneziano tra XIX e XX
secolo, per molti anni è poi caduta
nell’oblio. Nel 2007 rinasce dalle sue
ceneri, e nel rinnovarsi e trasformarsi ogni anno è
tornata a essere uno degli avvenimenti più importanti della grande festa cittadina. Pubblichiamo i
brevi cenni storici scritti allora da Roberto Bianchin,
in quel periodo anche tra gli artefici della rifioritura
della manifestazione.
Scalpitavano i cavalli, prima che venisse dato il segnale della partenza. Alcuni nitrivano così forte da
spaventare le dame, molto eleganti, che assistevano
alla gara. Quando qualcuno si impennava, vicino
alle transenne, le dame si stringevano forte al braccio dei loro cavalieri. Poi la corsa incominciava. Veloce, tirata, dura, a tratti violenta, i cavalli lanciati
in un galoppo sfrenato, i cavalieri che non disdegnavano colpi proibiti, specialmente nelle curve,
pur di superarsi l’un l’altro e tagliare per primi il
traguardo tra gli incitamenti e gli applausi della
folla. Vincere a Venezia, nella Piazza San Marco
trasformata in un’arena, era il premio più importante dell’anno per i cavalieri venuti da ogni parte
del mondo.
Poi, spenti gli ardori della corsa, si andava a
festeggiare. Tutti assieme. Vincitori e vinti. Tutti
al Teatro La Fenice, per il Gran Ballo della Cavalchina, la festa dei cavalieri della corsa più sfrenata
del secolo. La festa più ricca, più sorprendente, più
esclusiva, più mondana, più internazionale. Con le
maschere più belle, i cibi più raffinati, le orchestre
migliori, gli spettacoli più importanti. «Tutte le
meraviglie si concentraron l’altra sera nel veglio-
ne del teatro della Fenice – raccontano le antiche
cronache – che con un portento i fratelli Meduna
[gli architetti-scenografi che avevano ricostruito il
Teatro dopo l’incendio del 1836] trasformarono
da una sera all’altra in un palagio incantato». «Costrussero nella scena com’un atrio, una galleria, variamente adornata da colonne e da una ricorrente
ringhiera – si legge nella «Gazzetta Privilegiata di
Venezia del 3 marzo 1838 – e per via d’un grande
specchio di cui copriron la parete del fondo, addoppiarono l’imponente spettacolo di quelle logge, di quegli ornamenti e di quel mare di luce che
inondava la sala».
Fu un «pensiero grandioso», annota il cronista
dell’epoca, con cui fu costruito un «magico ricinto» in cui «s’ascose e riparò il Carnovale» in una
notte «splendida ed assai gioconda», «singolarmente bella e animata», in quelle sale «affollate di
tante persone, illuminate da tante cere, beccheggianti di tanto suono», in cui «in doppio cerchio si
conducevan le danze per mezzo a quella fitta e viva
siepe d’avidi riguardanti». Ogni cosa, in teatro,
aveva mutato aspetto. Fu un’improvvisa trasformazione, un parapiglia, un allegro delirio, un tumultuoso spettacolo, in cui sembrava di venir trasportati «in un nuovo mondo» che assomigliava molto
al «fantastico e bizzarro dominio dei sogni». Una
magia che contagiò anche Lord Byron, che citò la
Cavalchina nelle sue lettere (Letters and Journals
of Lord Byron) magnificando il grande «masquel
ball», insieme alle grazie di «Madame Contarini»
che l’avevano evidentemente colpito, in una cor*
Giornalista
veneziamusica e dintorni |
13
Sul Carnevale di Venezia
rispondenza con un amico (Letter CCCXVII to
Mr. Murray), quando gli raccontava di quella volta
«when I came to Venice for the winter».
Questo accadeva al Gran Ballo della Cavalchina, nel Teatro La Fenice di Venezia, durante carnevali di duecento anni fa. Piano Piano, nel tempo,
di quella grande festa si persero le tracce e si smarrirono i ricordi. Fino al momento in cui, una sera
di nebbia, passeggiando pensieroso per campo San
Fantin, l’attuale sovrintendente del Teatro, Cristiano Chiarot, vide un cavallo, un purosangue bianco,
salire a passi lenti, eleganti, la scalinata del teatro. Il
cavallo, naturalmente, era solo nella sua immaginazione. Ma l’idea c’era davvero: «Rifacciamo la Cavalchina!». Detto fatto, quella sera stessa chiamò
il più celebre inventore di eventi internazionali di
alta scuola, l’architetto di interni Matteo Corvino,
lo incaricò di creare la Cavalchina del duemila, e gli
affiancò due saltimbanchi – il regista Antonio Giarola e l’autore di queste note – di cui si era innamorato quando aveva visto, in un teatrino viaggiante
di legni e specchi, un loro bizzarro spettacolo di
varietà in cui la commedia dell’arte si mescolava
alle antiche acrobazie circensi. La «nuova» Cavalchina, che miscela le reminiscenze del passato alle
suggestioni del presente, debuttò al Carnevale del
2007 con un immediato successo internazionale.
La sua formula è unica come unico è il luogo in
cui si svolge. Un gran ballo in maschera dell’Ottocento con uso di spettacoli à l’ancienne. Una festa
con lo spettacolo dentro. O, se preferite, uno spet-
14
| veneziamusica e dintorni
tacolo con la festa intorno. La platea, liberata dalle
poltroncine, diventa per una notte la sala da ballo
più prestigiosa del mondo, dove celebri orchestre
e affermati disc jockey si alternano fino all’alba con
un repertorio che inizia classicheggiante, si apre
alle musiche tra le due guerre, e diventa sempre
più moderno con il passar delle ore, sempre più
rock, poi sempre più discoteca di tendenza, accontentando il pubblico di ogni età e di ogni nazione.
I nomi più celebri del jet set internazionale
si aggirano, in splendidi costumi, nel foyer dov’è
collocato l’open bar e dove vengono intrattenuti
da curiosi personaggi di altri tempi, mentre nelle
eleganti Sale Apollinee viene servito il ricco buffet
di gala. Sul grande palcoscenico, tra un tempo e
l’altro della cena, sfilano i numeri più vari e sorprendenti del teatro di varietà, portati in scena
dagli artisti più affermati in campo internazionale,
selezionati appositamente in ogni angolo del mondo in esclusiva per la Cavalchina. […]
Con un piede nel passato, e lo sguardo nel futuro, la Cavalchina oggi rappresenta non solo l’evento più prestigioso del Carnevale di Venezia, ma una
festa-spettacolo unica al mondo. Originale, divertente, folle, trasgressiva. Capace di riannodare i fili
con la sua storia luminosa, come di volare alto oltre
i confini dell’oggi. In due parole, assolutamente
imperdibile.
(dal libretto di sala della «Cavalchina», Teatro La
Fenice, Venezia 2009)
Sul Carnevale di Venezia
Il «Carnevale dei
Ragazzi» della Biennale
I
l ritorno, nel 2008, di Paolo Baratta
alla presidenza della Biennale ha impresso una nuova direzione alle progettualità dell’ente veneziano, di cui si
sono visti i risultati negli ultimi tre, quattro anni.
L’obiettivo perseguito – pur restando la Biennale
vetrina d’arte tra le maggiori a livello internazionale – è stato quello di concentrarsi sulle nuove
generazioni. Questo è accaduto a due diversi livelli, e ha visto particolarmente attivi i settori dello
spettacolo e dell’arte dal vivo. Il primo, attraverso
più iniziative, ha convocato giovani talenti in laguna, mettendoli a confronto con professionisti e autentici maestri. Questa strada è stata condivisa con
convinzione dai direttori artistici, come Àlex Rigola per il teatro, Ivan Fedele per la musica e Virgilio
Sieni per la danza. La dimensione «College» ha
avuto un forte impatto soprattutto sul comparto
teatrale, cambiandone gli stessi connotati. Se per
molto tempo ci si era abituati ad assistere annualmente a una rassegna delle migliori proposte sceniche, ora il festival ha ripreso la sua fisionomia
etimologicamente biennale, alternandosi a un’annata prettamente laboratoriale, che ha coinvolto,
nel ruolo di «trasmettitori di conoscenza» figure
chiave della scena contemporanea, tra cui – per
citare soltanto qualche nome – Luca Ronconi, Romeo Castellucci, Jan Fabre, Rodrigo García. Non
rare sono state le volte che questi artisti emergenti,
provenienti da scuole e realtà geografiche assai diverse, a conclusione del percorso comune hanno
poi costituito nuovi gruppi e compagnie per continuare in proprio l’attività artistica e professionale.
Sulla medesima falsariga si collocano anche, per
quanto riguarda il cinema, le opere prime com-
missionate e proiettate poi durante il periodo della
Mostra.
Il secondo livello riguarda più da vicino la formazione. Intensificando i rapporti con le scuole
del territorio, e facendo in modo che gli ostacoli
alla comprensione di un’opera d’arte venissero
appianati mediante spiegazioni comprensibili e
appetibili anche a un ragazzino delle elementari,
la Biennale ha sempre più aperto le sue porte alla
cittadinanza. In questo contesto si inserisce anche
il «Carnevale dei Ragazzi», giunto alla sua quinta
edizione e previsto dal 22 febbraio al 4 marzo. In
questi undici giorni i Giardini della Biennale, e soprattutto il Padiglione Centrale, saranno invasi di
bambini, accompagnati dai genitori, che verranno
invitati a interagire gratuitamente con gli artisti e
con gli operatori. Il fine è stimolare, attraverso un
approccio esperienziale e allo stesso tempo ludico,
l’attenzione e l’energia creativa di questi piccoli visitatori. Ogni anno il filone tematico cambia.
Se nel 2012 tutto era incentrato sulle potenzialità
del racconto, e nell’anno successivo faceva il suo
ingresso la musica – con l’impegno diretto del direttore Ivan Fedele –, ora «La casina dei biscotti», questo il titolo della manifestazione, sviluppa
maggiormente il lato performativo, affidandosi a
un grande coreografo e danzatore come Virgilio
Sieni e ai suoi interventi speciali. Da segnalare in
chiusura la consueta presenza di partner stranieri,
che portano a Venezia le proprie specificità culturali, fornendo anche ai più piccoli la possibilità
di entrare in contatto con realtà molto diverse da
quelle per loro abituali.
veneziamusica e dintorni |
15
Lirica
Troppe regie d’opera
dilettantesche e banali
P
di Massimo Bernardini*
er affrontare seriamente il tema della regia d’opera bisogna riflettere
sullo scenario in cui ci troviamo.
In Italia abbiamo sicuramente avuto grandi artisti che in questi anni hanno riletto
l’opera. Mi vengono in mente ad esempio le tante produzioni di Giorgio Strehler cui ho assistito
alla Scala e non solo. Ho anche avuto, nel recente
passato, il privilegio di essere presente alle prove
del Don Giovanni, vedendo lavorare insieme Muti
e Strehler su una ripresa di quest’opera e ascoltando dalla viva voce del direttore d’orchestra il suo
apprezzamento per l’esperienza di partnership con
l’artista triestino. Parto da qui, perché in quel caso
il rapporto che il regista stabiliva con l’opera era
fortissimo: la cultura musicale di Strehler era cospicua – aveva praticato con costanza il violino in
gioventù – e possedeva un’approfondita conoscenza del testo musicale. Questo è il primo punto di
discrimine che si incontra analizzando il problema
del teatro d’opera oggi. Ci sono due livelli di «non
comprensione» in cui spesso cade la regia contemporanea: il primo riguarda direttamente il testo,
il secondo quello che definirei il testo/musica. Si
tratta infatti di testi musicati non soltanto perché
cantati, ma anche perché teatralizzati. In qualsiasi
forma di melodramma vi è sempre una profonda
connessione di questi due livelli, cui si aggiungono
l’orchestrazione, la scelta del tipo di voce, l’altezza
di quella stessa voce. Il teatro musicale è lo sposalizio di tutti questi elementi, e la sua complessità
deriva dall’interazione tra essi. In più, dall’Ottocento in avanti il compositore è pienamente consapevole non solo della struttura armonica scelta,
di come l’ha strumentata, dei timbri vocali pre-
16
| veneziamusica e dintorni
scelti e di tutte le precisissime indicazioni che dà
ai professori d’orchestra e ai cantanti: oltre a tutto ciò, sappiamo che fornisce sempre anche delle
note di regia. Ebbene, queste ultime negli ultimi
cinquant’anni sono state sistematicamente bistrattate o ignorate, perché considerate al più inutili.
Già questa mi sembra una posizione gravissima
da parte della regia contemporanea. Perché se è
possibile, e forse lecito, prendersi alcune libertà rispetto alle indicazioni originarie, mi sembra invece
folle e arbitrario prescinderne completamente. Se
si riprende in mano il carteggio tra Verdi e Boito
ci si rende conto che il compositore ha in sé una
enorme consapevolezza del rapporto scena/parola, nota/orchestrazione. Il compositore – e penso
naturalmente anche a Wagner – dopo una lunga
disamina ha valutato, corretto, rivalutato, ricorretto. Prima di arrivare alla stesura definitiva ha sperimentato un’infinità di modifiche e cambiamenti.
E quando dico questo mi riferisco non soltanto
alla creazione musicale, ma a una vera e propria
immagine scenica che il compositore ha in mente.
Trovo che davanti a una simile ricchezza tante regie
di oggi arrivino disarmate. Questo accade perché
il regista – a differenza di Strehler – spesso non ha
la necessaria cultura musicale per entrare dentro
questo mondo. Bisogna intendersene, non si può
improvvisare. Nei frequenti dialoghi che ho avuto
con Riccardo Muti, lui mi ha più volte detto che
lavora sempre sul teatro italiano perché è l’unico di
cui sappia pesare fino in fondo la parola: la conosce perfettamente e conosce anche il rapporto che
*
Giornalista e conduttore televisivo
Lirica
essa instaura con la scelta armonica e con la scelta
dell’altezza vocale. Non affronta – che so – Strauss
perché non ha la stessa padronanza. Nelle regie di
oggi avviene l’opposto, c’è una presunzione totale. Spesso le scelte commerciali che fanno i grandi
teatri italiani e mondiali coinvolgono famosi registi di cinema, televisione, prosa. Sono meccanismi
che hanno a che fare con lo show business, grazie
ai quali vengono contrattate persone che magari
non amano il teatro d’opera, e sono solo curiose
di fare quell’esperienza. Invece è necessario avere
la consapevolezza di andare a sbattere con un testo
di una complessità plurilinguistica enorme, che è il
punto di arrivo di una lunga dialettica intellettuale
e artigianale. Perché è questo che ci dimentichiamo: questi compositori erano degli incredibili «mestieranti» – uso volutamente questo termine un po’
forte –, era gente che riceveva continue commissioni da parte dei teatri. Scrivevano, mettevano in
scena, spesso dirigevano. Provavano i propri lavori
con il pubblico, verificandone l’esito, li cambiavano, lavoravano incessantemente con i musicisti.
Poi, dopo cent’anni, arriva qualcuno che si sente in
diritto di modificare le cose in modo arbitrario. È
questo che rende alcune regie insopportabilmente
banali. Però sotto c’è un altro problema, che investe un’opinione pubblica che scambia il dilettantesco per il nuovo. Mi succede di frequente, girando
per i teatri italiani, di assistere a spettacoli che sono
semplicemente dilettanteschi nella loro ansia di
novità. Eppure, alla fine, quest’opinione pubblica
«modernista» – per usare una parola antica – per
premiare il nuovo a tutti costi esprime il suo incondizionato plauso. Come è successo in recenti episodi, non si è più capaci di distinguere il nuovo vero,
problematico, discutibile, su cui fare anche delle
battaglie, da tutto ciò che è nulla più che dilettantesco. Ci sono allestimenti che sono soltanto penosi,
e in questi casi da parte delle istituzioni musicali
bisognerebbe avere il coraggio di ammettere l’errore, di certificare che il tale regista non è in grado di
mettere in scena questi grandi capolavori, si tratti
di Verdi o di Wagner, di Rossini o di Puccini. Invece vedo che si resta prigionieri dello star system e
dunque vince il nuovo per il nuovo. Il teatro lirico
è ingabbiato nelle dinamiche perverse dello show
business, dall’aspetto «comunicativo», per cui alla
fin fine ciò che interessa è trasformare ogni cosa in
evento, e quindi in caso. Se un regista fa in modo
che per due mesi nei media si parli esclusivamente
del suo Verdi rimpasticciato senza senso, anche se
tutti lo criticano e il pubblico è indignato, si considera comunque un successo e la questione viene
cavalcata.
Però va detto che nel panorama attuale ci sono
anche grandi registi. Fra quelli che negli ultimi
anni mi hanno colpito positivamente al primo posto metterei Robert Carsen. Prima di tutto perché
propone messinscene diversissime l’una dall’altra, e questo vuol dire che studia le partiture. Ha
una cifra creativa che si ritrova costantemente, ma
ogni volta se la gioca in maniera differente. Una
delle cose più belle che ho visto, oltre alla famosa Traviata veneziana, per certi aspetti estrema ma
molto consapevole, è stato il Candide di Leonard
Bernstein alla Scala, inserito dentro un enorme
schermo televisivo. In realtà Carsen mi piace perché, nel rispetto dell’opera che affronta, è sempre
molto moderno nel suo approccio, basti pensare
all’utilizzo che fa delle luci. Questo tema mi porta
quasi naturalmente a menzionare un altro regista
che apprezzo molto, Bob Wilson. Pur di tutt’altra scuola – per certi aspetti potrebbe essere quasi
l’opposto di Carsen –, Wilson usa con grande maestria la luce, che è un elemento di cui i grandi compositori non potevano per forza di cose disporre.
La tecnologia di cui il texano si serve non esisteva
quando nacquero questi capolavori, ed essa offre
inedite possibilità di illuminare la scena. Il Macbeth
verdiano che ho visto al Comunale di Bologna, ad
esempio, mi ha entusiasmato, anche se conteneva
un difetto, non tanto contro la partitura quanto
contro il pubblico. C’era infatti una linea di neon
fra la buca e il palcoscenico che aveva un grandissimo effetto dal punto di vista visivo, ma probabilmente disturbava gli spettatori. A mio parere
è sempre un delitto far soffrire il pubblico, anche
se è la malattia patologica del Novecento. Tra gli
italiani salverei Franco Zeffirelli, anche se non in
toto, perché rispetta la partitura e i cantanti. Poi
certo è il campione dell’illustrativismo, spiega tutta
la storia per filo e per segno e fino in fondo. Non
ha paura di usare le soluzioni più scontate, però
senza dubbio sa che cos’è il teatro musicale. Poi
veneziamusica e dintorni |
17
Lirica
ovviamente Luca Ronconi. Ho negli occhi ancora adesso, oltre al mitico Viaggio a Reims di Rossini, l’uso di certi video all’inizio del Guglielmo
Tell realizzato per la Scala nel lontano ’88, dove
in enormi schermi erano riprodotte delle cascate
alpine. Era meraviglioso! Ronconi è un gigante
delle scene, anche se ha tentazione – nella lirica
un po’ meno – di trasformare gli attori e i cantanti
in strumenti della propria messinscena. Protegge
molto bene le partiture, un po’ meno gli interpreti, ma in ogni caso dà un respiro visivo molto
potente a quello che si sta sentendo. E devo dire
che, in tempi più recenti, mi sono piaciuti alcuni spettacoli della Fura dels Baus: loro sono dei
veri visionari. Questo mischiare materiali da video
d’arte con una corporalità fisica in scena raggiunge
esiti notevoli, anche se talvolta pure loro mettono
alla prova i cantanti. Spesso si sente dire che non
ci sono più i tenori, i soprani, i contralti di una
volta: ebbene mi chiedo quanto un teatro di regia
così esigente nei loro confronti non abbia pesato
e non pesi tuttora su tutto questo. A un cantante
che è alle prese con la complessità tipica del teatro musicale, alla quale accennavo prima, in cui si
devono emettere note difficili inserite in una partitura complessa, dialogando con un partner o altre
18
| veneziamusica e dintorni
volte con il coro, viene imposta anche la penitenza
di eseguire movimenti innaturali che aumentano le
difficoltà della sua interpretazione. Bisognerebbe
avere un po’ di pietà per questi poveri artisti della
voce. È vero che i registi più saggi tengono conto
del fatto che loro devono prima di tutto sentire
bene l’orchestra, ma al di là di questo dovrebbe
essere loro riservata la posizione migliore per cantare e ascoltare. A partire da questo si può poi inventare una serie di azioni. Invece spesso queste
ultime sono le prime che vengono fissate nel lavoro registico, e poi si cerca un compromesso con
gli interpreti. Questa, secondo me, è una posizione
sbagliata. Sono i cantanti e i direttori d’orchestra
i veri padroni del teatro musicale. Sono loro che
devono imporre le proprie condizioni. Poi la regia
lavorerà su questi dati. Ma questo purtroppo non
accade più, riportandoci al punto di partenza: il
compositore, quando fissa le regole della sua opera, tiene presenti tutte queste implicazioni. Il fatto
che le sue indicazioni siano l’ultima cosa seguita
oggi nell’elaborazione di un allestimento la dice
lunga sui limiti dell’attuale modo di affrontare il
grande teatro musicale del passato, che dobbiamo
rispettare proprio perché prodotto consapevole
della propria epoca.
Lirica
«Il campiello»
di Wolf-Ferrari approda
al Malibran
I
l campiello è una delle più celebri
commedie di Carlo Goldoni. Scritta
per il Carnevale del 1756, quando è
già da tre anni passato al Teatro San
Luca, la sala più importante per la commedia, viene rappresentata con grande successo. Si tratta per
molti aspetti di un’opera di svolta, che rappresenta
un’evoluzione della famosa «riforma» che il poeta
rifinisce e modifica nell’arco di tutta la sua carriera. L’ambientazione popolare, ma soprattutto la
dimensione «corale» che contraddistingue questo
testo lo rendono, in certa misura, un precedente
di capolavori come Le baruffe chiozzotte, composto sei anni dopo con una maggiore consapevolezza d’intenti drammaturgici (e anche con una certa
maggiore crudezza nel delineare i diversi personaggi). Ma l’allargamento a un numero consistente di
«caratteri», tutti perfettamente delineati anche con
poche battute, e il contesto in cui essi si trovano
ad agire, rendono manifesta la grande arte dell’autore, che partendo dalle maschere della commedia
dell’arte costruisce, in un iter progressivo e rispettoso delle abitudini sia degli attori che degli spettatori, opere dalla grande e indiscutibile modernità.
Dell’importanza di questa commedia si deve
essere reso conto, circa centottant’anni dopo, anche Ermanno Wolf-Ferrari (1876-1948), se proprio
con Il campiello ha chiuso la sua attività goldoniana, dopo Le donne curiose (1903), I quattro rusteghi (1906) e La vedova scaltra (1931). La distanza
temporale tra Il campiello (1936) e le due prime
prove è notevole, e nel frattempo lo stile operistico
del compositore italo-tedesco è andato trasformandosi, e più acuti, in un certo senso, si sono fatti i
rimpianti per l’amato Settecento. Ecco dunque,
nell’arco di cinque anni (1931-1936), sorgere due
«trascrizioni» da Goldoni, entrambe firmate, per
quanto attiene al libretto, da Mario Ghisalberti,
drammaturgo con il quale la collaborazione diviene continua negli ultimi dieci anni di vita del
musicista (sue le parole della Dama boba da Lope
de Vega, 1937, e degli Dei a Tebe da Ludwig Strecker, 1943). Se pure questa sua ultima incursione
nel mondo dell’Avvocato veneziano non rappresenta l’apice del suo teatro musicale, anche grazie
all’adattamento di Ghisalberti Il campiello riesce a
trasmettere all’ascoltatore atmosfere squisitamente
goldoniane, che risuonano nell’arco di tutti gli atti,
ma assumono particolare nitore nel terzo.
Poco frequentato dai teatri italiani di oggi e
di ieri – mentre invece grande successo riscosse
in Germania – il teatro di Wolf-Ferrari rischia di
perdersi nei meandri della storia novecentesca. Eppure uno studioso come Bruno Barilli, dopo aver
assistito alla ripresa romana dei Quattro rusteghi
(1929), sulle colonne del «Corriere Italiano» ne
delinea un ritratto artistico di notevole spessore:
«Ingegno lucido, scienza e facilità fanno oggi di
lui uno dei compositori più illustri dell’Italia moderna. Il suo temperamento non è profondo, ma
profonda è la sua cultura, e conciliante il suo umore, la sua comicità non è violenta né originale, ma
sempre fine e trasparente, il suo lirismo non è possente e impetuoso, ma rivela un’anima nobilissima,
tenera e sincera; il suo è un carattere amichevole,
armonioso e eguale, Wolf Ferrari possiede l’arte
innata di piacere, il gusto della cerimonia, l’abitudine dell’osservazione e il senso gentile sorprendente della parodia. Nell’apparenza egli è italiano
tre volte, poiché deriva dal Rossini del Barbiere,
veneziamusica e dintorni |
19
Lirica
dal Mozart delle Nozze di Figaro e dal Verdi del
Falstaff, ma soprattutto egli è moderno, perché cosciente, complicato e lieve sa sfruttare il suo largo
sapere, senza mortificare il pubblico, conservando
la sua futilità distinta e maliziosa. Le sue commedie
musical, quasi senza vizii e senza perplessità, sono
composte da un musicista che ha saputo educarsi
con rigore e amore, assimilando durevolmente e
amministrando la roba altrui da signore che conosce la misura e l’opportunità».
A riproporre in tempi recenti Il campiello ha
pensato qualche anno fa il Teatro Sociale di Rovigo in uno spettacolo diretto da Stefano Romani e
firmato da Paolo Trevisi che il 28 febbraio approda
al Malibran nell’ambito del progetto «I Teatri del
Veneto alla Fenice», promosso dalla Fondazione
veneziana e teso a portare in laguna il meglio delle
produzioni nate all’interno del territorio regionale.
(l.m.)
La trama del «Campiello»
Atto primo. In un campiello veneziano vivono
varie persone: Gasparina con lo zio Fabrizio; due
vedove bramose di nuovo marito e madri di belle figlie da marito, la sdentata Cate Panciana, con
Lucieta, e la sorda Pasqua Polegana con Gnese; e
Orsola, venditrice di frittelle, col figlio Zorzeto.
Fra le case del campiello c’è una locanda, dove da
poco alloggia il napoletano cavalier Astolfi, senza
una lira ma amante della bella vita: gli piace Gasparina che, vanitosa com’è («caricata», ovvero
affettata, tanto da usare la «z» al posto della «s»),
sta al gioco della sua corte; e gli piacciono, al contempo, Lucieta e Gnese. Ma queste al gioco non
stanno, innamorate come sono Lucieta (gelosa di
Gnese) del merciaio Anzoleto (geloso di Zorzeto)
20
| veneziamusica e dintorni
che sta per sposare; e Gnese di Zorzeto, con quale
ha avuto il permesso di fidanzarsi da Orsola: ma
per il matrimonio c’è tempo. A Lucieta il cavalier
Astolfi offre un anello che ella, sdegnata, rifiuta: lo
prende per lei sua madre Cate mentre il cavaliere
si concentra sulla benevolente e leziosa Gasparina.
Atto secondo. Mentre Fabrizio si lamenta del
chiasso nel campiello, Astolfi invita a pranzo tutti quanti. La sdegnosa Gasparina, che nonsi vuole
mischiare col popolino, rifiuta; ma l’occasione è
buona lo stesso per il cavaliere, che può parlare al
termine del convito con Fabrizio, chiedendogli in
sposa la nipote. Fabrizio, napoletano pure lui, sa di
che consistenza sia la condizione del cavaliere, ma
non vede l’ora che Gasparina se ne vada di casa,
e asseconda il progetto matrimoniale. Così Astolfi
e Gasparina possono parlare un po’, giusto prima
che, a forza di vino, si passi da un inizio di lite a un
ballo generale.
Atto terzo. Sempre più irritato dal gran chiasso
del campiello, Fabrizio sta trasferendosi, ma ancora può invitare a casa Astolfi. Crucciato è Anzoleto,
perché Lucieta è andata a casa di Orsola e Zorzeto:
la aspetta e, quando esce, le dà uno schiaffo. Poi
si riconcilia con l’amata per intervento di Cate, e
quindi di nuovo si irrita vedendo passare Zorzeto,
che insulta. Questi risponde a sassate: il campiello
diventa tutto una rissa. Ma Astolfi interviene pacificatore e invita tutti un’altra volta, stavolta a cena.
A tavola tutto si riappacifica; e il cavaliere annuncia
che sta per sposarsi con Gasparina, con la quale se
ne andrà da Venezia. Gasparina, commossa, saluta
la sua città e il campiello dov’è vissuta («Bondì Venezia cara»).
(dal Dizionario dell’opera, a cura di Pietro Gelli,
Baldini Castoldi Dalai, Milano 2007)
Lirica
«La bohème»:
un nuovo stile
I
di Michele Girardi*
l 19 aprile torna in scena alla Fenice La
Bohème di Puccini, con la direzione di
Jader Bignamini e la regia di Francesco
Micheli. L’opera, composta su libretto
di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa e andata in scena
per la prima volta l’1 febbraio 1896 al Teatro Regio
di Torino, è una tra le più rappresentate al mondo.
In questo breve saggio Michele Girardi, specialista
del Maestro di Torre del Lago, ne delinea la struttura
e la situa nel felice contesto storico in cui è nata.
I versi e le peculiarità drammatiche del libretto della Bohème, il vertice dell’arte drammatica e
poetica di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa, hanno
imposto a Puccini di aderire con la massima naturalezza a un’azione prevalentemente priva di episodi statici, salvo le espansioni sentimentali dell’incontro tra Rodolfo e Mimì e il loro duetto sul letto
di morte di lei.
L’esempio della Traviata, fino a quel momento rimasta un unicum nel melodramma, aveva già
fatto capire a Puccini come l’elemento attuale e
quotidiano potesse venire stilizzato senza forzature all’interno del codice melodrammatico, ma
fu guardando a Falstaff, in particolare, che poté
trarre spunti decisivi per realizzare in Bohème la
sua poetica visione della realtà, pur nell’ambito di
un genere differente. Il Falstaff presenta un’azione
che scorre velocissima senza un attimo di sosta, le
parole suggeriscono invenzioni musicali che rompono sovente i legami con la strofa, mantenendone
di esilaranti con la rima, per seguire la realtà drammatica che evolve rapidissima, senza mai far cogliere in un tal prezioso ordito la rassicurante presenza
del numero chiuso. Nel Falstaff si possono iden-
tificare brani della partitura corrispondenti agli
schemi tradizionali, ma la loro conduzione, come
accadrà in Bohème, si articola su presupposti più
consentanei a una dialettica di tipo strumentale e
sonatistico.
Dall’ultimo capolavoro di Verdi, praticamente
costruito su una mobile successione di recitativo
e arioso, Puccini ebbe probabilmente la definitiva
conferma di quale fosse il modo migliore di evadere dalle costrizioni dell’opera a numeri, rimanendo all’interno della propria tradizione, per creare
un organismo unitario e coerente. Nella Bohème
egli doveva trattare un’azione legata al quotidiano, dove ogni gesto rispecchiasse la vita di tutti i
giorni. Al tempo stesso, mediante il concatenarsi
delle situazioni, doveva conquistare un livello narrativo più alto, comunicando per metafora l’idea
di un mondo in cui il tempo fugge, e di cui la giovinezza è protagonista (prospettiva già indicata
nell’ultimo capitolo del romanzo di Murger). Nella
Bohème un ironico disincanto è sempre immanente anche nei momenti più intensamente poetici. Il
lato sentimentale sorge senza soluzione di continuità da un meccanismo che ha necessità di natura
concreta, e ad esso ritorna trasformato in emblema. Nei primi due quadri dell’opera, particolare
mai sottolineato a sufficienza, l’elemento comico
ha larga parte e convive con quello sentimentale.
A Falstaff guardano anche certi dettagli di pittura
sonora: il piccolo «incantesimo del fuoco» (I.5) e
il lieve spruzzo d’acqua con cui Rodolfo bagna il
*
Musicologo e Docente di Drammaturgia musicale all’Università di Pavia
veneziamusica e dintorni |
21
Lirica
volto di Mimì colta da malore (violini in pizzicato coi flauti raggrumati in una seconda maggiore,
«Pensier profondo»), producono una sensazione
quasi fisica – com’è per l’assottigliarsi della pancia di Falstaff, descritto da violoncelli e ottavino a
quattro ottave di distanza. Anche il temino puntato
dell’inizio di Bohème, che nel corso dell’opera torna sovente per ricordare come l’amore sia solo uno
fra i tanti momenti dell’esistenza, verrà trattato con
una concezione simile a quello esposto nelle tre
battute iniziali del Falstaff, una quartina in staccato
22
| veneziamusica e dintorni
che ricorre a ritmo indiavolato per tutta la prima
parte dell’atto d’apertura.
Se in Manon Lescaut è ancora percepibile la
divisione in numeri chiusi, nonostante il coordinamento di intere sezioni della partitura tramite dissimulati espedienti sinfonici, con l’opera successiva
Puccini si volge ad uno stile musicale differente,
basato su un continuum sonoro modellato sulle
specifiche esigenze drammatiche del soggetto. Un
dispositivo di cui l’ultimo Verdi aveva disvelato le
possibilità.
Sinfonica e contemporanea
Strawinsky e Venezia
N
di Paolo Cattelan*
ella stagione sinfonica 2013-2014
della Fenice, tutta dedicata al Novecento, Igor Strawinsky ha un
ruolo da protagonista. Paolo Cattelan ripercorre le tappe che legarono il compositore
russo alla città d’acqua.
Si firmava Igor Strawinsky: una traslitterazione
latina sui generis dal russo che non rende inequivocabilmente in tutte le lingue europee la corretta
pronuncia del cognome. Ma che, proprio per questo, allude ad una vicenda biografica molto complessa e a un ambivalente senso di appartenenza
alla patria e alla Western Culture, fino alla fine avvenuta a New York il 6 aprile 1971, di primo mattino,
nell’appartamento sulla Quinta Strada con vista su
Central Park che la moglie Vera Arturovna de Bosset aveva appena acquistato. Qui, racconta Robert
Craft, ancora pochi giorni prima di morire Strawinsky scriveva in russo firmandosi con caratteri
latini e quando Vera Arturovna lo esortò a firmare anche in cirillico, per tutta risposta, sotto il suo
sguardo, egli vergò invece una dedica: «Oh, come
ti amo!». Le sue spoglie compirono poi un ultimo
viaggio verso «Venise inspiratrice eternelle de nos
apaisement» come recita la lapide di Sergej Diaghilew accanto a cui Strawinsky ha voluto essere
sepolto nell’isola di San Michele.
Per ironia della sorte, anni prima è stato proprio un veneziano, Gian Francesco Malipiero, in
una «specie di monografia» che a suo dire non
avrebbe voluto scrivere, a diffondere l’immagine
di Strawinsky musicista apolide. Presente il 28
maggio 1913 a Parigi quando per la prima volta
va in scena il Sacre du printemps, Malipiero parla
di un’esperienza nuova, traumatica e senza ritorno
(«Mi svegliai da un lungo letargo») e di un successivo misconoscimento di Strawinsky come artifex
novecentista delle tradizioni musicali classiche e
della poetica della forma come mezzo di realizzazione del linguaggio musicale. Leggiamo dal volumetto che Malipiero ha dedicato a Strawinsky: «La
prima guerra mondiale (1914) lo ha sradicato dalla
sua terra e questo è il segreto di tutte le sue evoluzioni. […] Spesso ritorniamo col pensiero agli
anni che precedettero la prima guerra mondiale e
perciò, quando è la volta dello Strawinsky di allora,
ci avviene di annullare mentalmente tutto il resto
della sua produzione, persino la Sinfonia dei Salmi,
l’Edipo Re, il Concerto per violino».
Ma, con buona pace di Malipiero, il tratto biografico e artistico che più lega Strawinsky a Venezia
è molto tardivo rispetto a quel «mitico anteguerra». Le prime venute nel Veneto, per via del Festival della Società Internazionale di Musica Contemporanea, ossia la Biennale Musica, datano 1925: in
quell’anno Strawinsky fu a Venezia per eseguire lui
stesso come solista la sua Sonata per pianoforte: un
ascesso in suppurazione all’indice della mano destra guarì non appena cominciò a toccare i tasti: e
questo «piccolo miracolo» fa da pendant nei Dialogues alla «rivelazione» avuta, nel 1926 a Padova,
durante l’esposizione del corpo di Sant’Antonio
(rivelazione da cui nacque il primo dei suoi lavori
«sacri», il Pater noster per coro misto a cappella
pubblicato nel 1932). Nel 1934 poi Strawinsky di-
*
Musicologo
veneziamusica e dintorni |
23
Sinfonica e contemporanea
rige alla Biennale il figlio Soulima in Capriccio. Ma
è il «sacro» il più fertile terreno di crescita delle sue
«interpretazioni veneziane» degli anni cinquanta.
Nel 1956 su sollecitazione di Alessandro Piovesan, direttore del Festival musicale della Biennale,
compone il Canticum Sacrum ad Honorem Sancti
Marci Nominis, per coro, orchestra, due cantanti
solisti (tenore e baritono) e organo «battente». La
composizione presenta elementi eterogeni mirabilmente fusi in un’architettura: cinque Movimenti,
come le cupole della basilica di San Marco (dove il
13 settembre 1956 l’opera sconcertò il pubblico e i
critici), Movimenti costruiti su un testo latino eterodosso dove sono liberamente messi in sequenza
passi tratti dalla Vulgata: a quelli dell’Evangelista
ne sono accostati altri dal Cantico dei Cantici, dal
Deuteronomio, dalle Epistole di Giovanni, altri ancora dal Libro dei Salmi. Serialismo dodecafonico e
tonalità, intuizione poetica e storicizzante, formalismo e sperimentalismo coesistono in quest’opera
che non resterà un ramo secco della produzione
strawinskiana.
Infatti solo due anni dopo, il 23 settembre
1958, è la volta di un’altra première sacra veneziana: Threni id est Lamentationes Jeremiae Prophetae,
dedicata ad Alessandro Piovesan in memoriam del
direttore della Biennale Musica appena scomparso. La sede dell’esecuzione è questa volta la Scuola Grande di San Rocco e l’organico più ampio di
quello del Canticum: quattro solisti, coro misto
e orchestra (nello strumentario ricercato e forse
impreziosito da arcani retaggi veneziani compare
anche un sarrusofono). Le Lamentazioni di Geremia appartengono tanto al rituale ebraico, dove
rammentano il dolore per la distruzione del tempio di Gerusalemme ad opera di Babilonia, che
a quello cristiano-cattolico dove sono incluse nei
canti per la Settimana Santa, o sia nell’Ufficio pasquale delle Tenebrae quando, per commemorare
la morte di Gesù, si spengono tutti i lumi. Distante da ogni modello di musica funzionale liturgica,
il sostrato dell’opera è dodecafonico, la struttura
integralmente seriale, la forma è tripartita asimmetricamente in parti dette Elegie (Prima – Tertia –
Quinta) sempre tratte dalla Vulgata. Ma la seconda
parte (Elegia Tertia) è ulteriormente architettata
in tre volte (Querimonia, Sensus Spei, Solacium),
24
| veneziamusica e dintorni
come una piccola cripta che contiene un «cuore
palpitante» all’interno dell’opera. Ma il gioco dei
simboli e la loro molteplice forza di rifrazione musicale è più radicato e permea interamente Threni.
Le prime due Elegie sono punteggiate da interventi corali che contrassegnano l’intonazione del testo
associandolo alla musica delle lettere dell’alfabeto
ebraico: cinque lettere nell’Elegia Prima, quindici
lettere nell’Elegia Tertia, dove ogni lettera riappare
tre volte consecutive, e precisamente quattro lettere nella Querimonia, otto nel Sensus Spei, tre nel
Solacium). Tanto rigore costruttivo, tanto rigore
intellettuale non significa però che Strawinsky abbia giurato fede ad un sistema. Anche rispetto alla
dodecafonia qui manifestamente assunta a fondamento e limite della composizione, egli progressivamente si libera dalla sistematicità e, per dirla con
le parole di Roman Vlad, domina il materiale impiegato imponendo la «polarizzazione tonale della
scala dodecafonica».
A far da contraltare alle opere sacre degli anni
cinquanta, Venezia è presente nella carriera di Strawinsky anche come luogo di esperienze teatrali,
vale a dire la dimensione della riflessione spirituale
fa da contraltare, come nella grande storia della civiltà musicale veneziana, alla sfera di un’arte diretta alla sociabilità. In tal senso The Rake’s Progress
(La carriera del libertino) non può certo essere dimenticata in un discorso su Strawinsky e Venezia, a
partire dal fatto ben noto che la première fu alla Fenice l’11 settembre del 1951. Per la verità, quando
parla della scelta del teatro veneziano, il compositore si schermisce e sembra minimizzare. Dice che
l’opera («decisamente un’opera composta di Arie,
Recitativi, Cori e Concertati […]») aveva bisogno
di un teatro non grande per il suo debutto, un teatro che rappresentasse appieno la vocazione «da
camera» del testo musicale, come Così fan tutte di
Mozart, prima di passare ai grandi teatri, al Metropolitan, alla Scala. Ma se si guarda dentro la partitura e dentro il libretto, affiora la possibilità di un
tutt’altro genere di nesso tra l’opera e il luogo della
sua prima esecuzione. Il Rake è infatti un Don Giovanni. Un Don Giovanni che Strawinsky vuole far
rivivere in opera superando il tabù mozartiano e
proiettandosi verso il più vasto pubblico possibile
(«coltivavo da molti anni l’idea di scrivere un’opera
Sinfonica e contemporanea
in inglese»). Nel novero delle ispirazioni , oltre ai
celebri «quadri» di Hogarth, anche un modus operandi in cui si coglie un segno squisitamente veneziano. Non è un caso che nell’intervista avant-scène
concessa nel 1951 a Emilia Zanetti, Strawinsky
tenti un paragone tra H.W. Auden e Chester Kallmann – i librettisti del Rake – e Lorenzo Da Ponte.
E dica che, in un confronto tra i libretti, quello del
Rake sarebbe «altrettanto buono se non migliore»
del Don dapontiano. E cosa aveva fatto Da Ponte
per Mozart? Aveva raccolto sincreticamente la tradizione, forse suffragandola con la propria personale esperienza di libertino amico di Casanova, ma
certamente fondendo Molière e Tirso per il tramite
di quella librettistica con cui a Venezia nella seconda metà del Settecento era tornato in auge il mito
«vecchissimo» del Burlador. Anche Strawinsky per
il mezzo dei suoi poeti librettisti spinge sìncreticamente sulla tradizione: attraversa l’Ottocento,
Faust, Goethe e Grabbe intuendo (come solo un
musicista cèco di raro talento aveva fatto prima di
lui: Erwin Schulhoff con Flammen) la possibilità
di rinnovare lo spazio figurale, musicale e poetico
della storia. Ma se anche il luogo eletto alla prima
esecuzione doveva esercitare la propria funzione
simbolica, questo, per Strawinsky, «cittadino del
mondo», non apolide, non poteva che essere, quindi, Venezia.
veneziamusica e dintorni |
25
Sinfonica e contemporanea
Igor incontra
Gesualdo
S
di Paolo Cecchi*
travinskij iniziò ad interessarsi a Gesualdo – grazie soprattutto all’intercessione del querulo segretarioispiratore Robert Craft – attorno al
1954-1955, quando ha da poco dato inizio a quella
svolta epocale del proprio itinerario artistico (che
definì «la seconda grande crisi della mia vita») che
lo portò ad abbandonare l’estetica e il polistilismo
di conio «neoclassico», per intraprendere una
strada che di lì a poco sarebbe approdata ad una
personalissima appropriazione della tecnica dodecafonica. Ciò che verosimilmente interessava a
Stravinskij dell’opera di Gesualdo erano due aspetti, che costituirono altrettanti problemi compositivi dei primi anni della propria svolta seriale, e che
vennero via via dipanati e «risolti» nel corso della
progressiva focalizzazione del nuovo linguaggio in
opere come il Settimino, Agon, In Memoriam Dylan Thomas e Canticum sacrum: il costruttivismo
contrappuntistico, ed in particolare la tecnica canonica (modalità compositive che sia nel periodo
russo-parigino che nel trentennio «neoclassico»
non costituirono, salvo rare eccezioni, un aspetto
importante dell’officina compositiva di Stravinskij)
e l’uso sistematico del cromatismo pantonale. Il
compositore russo infatti già agli esordi del periodo seriale intensificò progressivamente il ricorso
ad organizzazioni contrappuntistiche complesse
(ad esempio elaborate soluzioni canoniche compaiono già in Agon, mentre in Canticum sacrum sono
utilizzate procedure come la retrogradazione e l’inversione, sia in ambito «locale» che nell’organizzazione della macroforma della composizione), e nel
contempo approdò all’uso della serie dodecafonica come formante principale della composizione
26
| veneziamusica e dintorni
attraverso una progressiva intensificazione, nelle
opere dei primi anni cinquanta, del ricorso sistematico al cromatismo, come ad esempio si constata
nella serie di cinque suoni (Mi, Mi bemolle, Do,
Do diesis, Re) che costituisce la struttura geneticogenerativa di In memoriam Dylan Thomas. Tra il
1957 e il 1959 Stravinskij concretizzò il proprio
interesse per Gesualdo dapprima completando le
parti mancanti del Sesto e del Basso nei tre mottetti (due dei quali contengono un canone) Illumina
nos, Da pacem Domine e Assumpta est Maria, che
Gesualdo pubblicò nel 1603 nella raccolta delle
Sacrae Cantiones a 5, 6 e 7 voci. Si trattava de facto di un cauto tentativo (esperito non attraverso la
tecnica della rielaborazione/ricomposizione, ma
mediante il più «neutro» compito di innestare due
voci composte ex novo in organismi contrappuntistici preesistenti, senza mutarne nulla dell’organico
e della scrittura) di sondare le strutture e i meccanismi stilistici che stavano alla base del linguaggio
gesualdiano, operazione che Stravinskij intuiva potesse risolversi non solo in un semplice (omaggio)
all’ammirato predecessore, bensì in un’ulteriore
tappa dell’indagine dell’ars antica del contrappunto dai franco-fiamminghi a Bach (nel 1956 aveva
tra l’altro ultimato la rielaborazione per coro e orchestra delle variazioni canoniche per organo Von
Himmel Hoch di Bach), esperita pensando ad una
sua rifunzionalizzazione – per analogia delle strutture, non certo come calco stilistico – nell’ambito
della propria nuova officina compositiva, che con
*
Musicologo - Insegna Storia e storiografia della musica
all’Università di Bologna.
Sinfonica e contemporanea
Canticum sacrum, e poi con ben maggiore radicalità con Threni e con Movements, andò assimilando
la lezione della serialità dodecafonica di Webern,
nella quale la concezione e l’assetto contrappuntistico della texture della composizione costituiscono una caratteristica strutturale imprescindibile.
Subito dopo l’esperienza di «restauratore sui
generis» dei tre mottetti, Stravinskij decise di rielaborare per un organico orchestrale cameristico
(2 oboi, 2 fagotti, 4 corni, 3 trombe, 3 tromboni,
e quartetto d’archi) tre tardi madrigali gesualdiani a cinque voci (pubblicati nel 1611 negli ultimi
due libri), prescegliendo tre esempi del lascito del
compositore napoletano tra i più radicali dell’uso
del cromatismo e della dissonanza trattata in modo
irregolare: Asciugate i begli occhi, Ma tu cagion
di quell’atroce pena e Beltà poiché t’assenti. La ricomposizione venne intitolata Monumentum pro
Gesualdo di Venosa (un titolo che implicitamente
sottolinea il carattere statico-rotativo – e quindi
dotato di una sua fissità «monumentale» – della
riconversione orchestrale rispetto al dinamismo
orizzontale dei madrigali originali) e venne presentata in prima assoluta a Venezia nel 1960 (presunto
quadricentenario della nascita del «nobile dilettante di musica»). La suddivisone e l’alternanza di
gruppi strumentali via via variabili, ricavati dalla
segmentazione dell’organico orchestrale, una accentuata verticalizzazione della trama contrappuntistica originale ottenuta attraverso raddoppi ed
estensioni strumentali, il frequente emergere degli
ottoni, danno l’impressione che Stravinskij abbia
in un certo senso voluto celebrare Gesualdo attraverso Giovanni Gabrieli, «fossilizzando» la mercuriale mobilità dei madrigali originali in una trama
strumentale che non di rado occultamente ricorda
le grandi pagine vocal-strumentali dell’organista
marciano. Inoltre Stravinskij utilizza nella propria
rielaborazione una serie di tecniche – tra cui la
suddivisione e la parcellizzazione delle singole voci
originali tra più strumenti o gruppi strumentali,
l’utilizzo di echi localizzati e di ripetizioni di brevi
incisi, un divisionismo per «strati» timbrici potenzialmente anticontrappuntistico – che decostruiscono l’espressionismo e la strutturazione retorica degli originali – ad esempio mitigando spesso,
mediante la diffrazione timbrica e la ripartizione
pluristrumentale delle linee melodiche – l’effetto
sia degli incontri dissonanti, sia della pervasiva ricorrenza delle colorature cromatiche. Si pensi ad
esempio alla lunga, strepitosa ascesa cromatica delle cinque voci che compare in Beltà poiché t’assenti,
in corrispondenza, poco dopo l’incipit, del verso
«Come ne porti il cor, porta i tormenti» (gesto
compositivo del quale si ricordò, sin quasi ai limiti
della citazione, il tardo Monteverdi, nel secondo
atto dell’ Incoronazione di Poppea, musicando l’invocazione polifonica dei famigli del filosofo, «Non
morir Seneca»): nella rielaborazione stravinskiana
l’episodio, esposto «divisionisticamente» dai fiati,
suona espressivamente inerte quanto timbricamente suadente, quasi Stravinskij avesse voluto
sterilizzare il radicalismo linguistico gesualdiano
(costituito da un intrico di rigore costruttivo e di
erosione dall’interno delle fondamenta della fabbrica contrappuntistica rinascimentale) onde pervenire ad una sorta di «sguardo dal di fuori» sonoramente realizzato dei tre madrigali reinterpretati,
teso ad oggettivizzare una musica che egli voleva
celebrare e nel contempo proiettare oltre se stessa,
in un’operazione ri-compositiva ambivalente, ammirata e rapace.
veneziamusica e dintorni |
27
Sinfonica e contemporanea
«Elegy for
Young Lovers», un’opera
astratta e poetica
I
di Pier Luigi Pizzi*
l 27 marzo giunge al Malibran l’Elegy
for Young Lovers di Hans Werner
Henze nell’applaudita versione di Pier
Luigi Pizzi. Il regista spiega il suo approccio all’opera.
Elegy for Young Lovers è un’opera di forte
ispirazione, profonda, poetica. L’ho allestita con
entusiasmo al Teatro delle Muse di Ancona nel
2005, dove è stata salutata da un generale consenso. Gioacchino Lanza Tomasi mi chiese subito di
riprenderla al San Carlo di Napoli. Poi è andata
in tournée a Bilbao e adesso approda al Malibran.
Nuova occasione per riparlare di un’opera che, pur
essendo di grandissima attualità, si potrebbe in un
certo senso definire classica. Si tratta di un lavoro
teatrale veramente compiuto, nato dall’operazione
straordinaria realizzata da Hans Werner Henze e
Wystan Hugh Auden, il poeta che ha composto
il libretto. I due artisti si conoscevano da tempo
ma non avevano mai lavorato insieme. Poi a un
certo punto l’occasione è venuta e ne è nata questa
Elegy.
Ho conosciuto bene Henze, nei primi anni della mia attività di scenografo. Fu a Napoli, dove lui
viveva all’inizio degli anni cinquanta. Io ero impegnato al Teatro di Corte con Il turco in Italia di
Rossini, messo in scena da Franco Enriquez, con
la direzione di Vittorio Gui. Henze venne a vedere
lo spettacolo, ci incontrammo e nel tempo diventammo amici. Con lui regista ho allestito il Flauto
magico a Stoccarda, e con lui autore e regista Der
junge Lord a Francoforte. Ho dunque potuto frequentare Hans per tanti anni. Cosí, quando Alessio Vlad mi ha proposto di mettere in scena questa
28
| veneziamusica e dintorni
sua opera sono andato a Marino, nei Castelli Romani, dove Hans viveva, per discuterne con lui.
Abbiamo sperato che fosse presente alla prima di
Ancona, ma purtroppo era già malato e non gli fu
possibile.
C’è molto di lui in quest’opera. Non dico che
sia autobiografica, anche perché nasce dalla complicità con Auden, però presenta molti aspetti del
suo carattere introverso. Un riccio che si chiudeva
in se stesso. Aveva una forte personalità, addirittura a tratti perfino aggressiva, che nascondeva però
una sorta di dolcezza, di timidezza e di fragilità.
I suoi personaggi passano attraverso la sua psicologia e la sua sensibilità di artista e di uomo. Per
questo mi soffermo sulle nostre frequentazioni,
perché mi è stato estremamente utile conoscerlo
di persona e ricevere spunti diretti per affrontare
il lavoro di traduzione visiva della sua opera, che è
estremamente semplice e austera, si potrebbe dire
minimalista, nel senso migliore del termine. Un
minimalismo che mira all’essenziale, quindi basato
su pochi segni, ma in realtà carico di atmosfera e
di indagini psicologiche. Rispetto ad altri allestimenti che ho realizzato a Venezia, su musiche di
Britten, o Korngold, l’esigenza di concentrare tutta l’attenzione sulla tensione psicologica dei personaggi qui è forse ancora più esasperata. I personaggi di Henze sono figure inquiete, indefinite.
Lo stesso plot, dove si parla di una storia accaduta
tanti anni prima e poi per un caso tornata attuale,
con tutte le conseguenze che ne derivano, si presta
a un tipo di lettura carico di tensioni.
*
Regista
Sinfonica e contemporanea
L’egocentrismo del protagonista è di estrema
modernità: io l’ho collocato fuori dal tempo. La
vicenda può essere accaduta ieri o l’altro ieri. I
personaggi sono vestiti come si vestirebbero oggi
o come si sarebbero vestiti dieci anni fa. Tutto si
svolge in un’alta montagna – che è un luogo della
memoria – in un albergo che è spazio della mente,
tutto profondamente indefinibile e indefinito. Certo ci sono alcuni elementi emblematici indispensabili al racconto, come la macchina da scrivere di
Carolina, gli schedari e i materiali di lavoro, ma
tutto ciò è collocato in uno spazio rarefatto, fuori da qualsiasi tipo di realtà quotidiana. La storia,
nella sua dimensione poetica, è bella e inquietante. Già il titolo definisce un genere letterario preciso, l’elegia appunto, e tutto passa attraverso la
trasposizione della realtà nell’astrazione poetica.
Il protagonista è uno scrittore che ha cinicamente
fabbricato il proprio successo letterario sfruttando
l’ispirazione poetica di un altro personaggio, Hilde, con lucida consapevolezza. Il linguaggio, sia
letterario che musicale, è crudo e allo stesso tempo ricco di colori, di atmosfere liriche indefinite.
Tanto è vero che anche l’immagine scenica risulta
indefinita con uno sfondo di montagne viste come
ombre che appaiono e svaniscono e mutano come
se fossero stati dell’anima. Un modo di visualizzare l’inquietudine e l’illogicità della narrazione,
anche se siamo in presenza di una costruzione
drammaturgica estremamente precisa, ottenuta
grazie alla perfetta fusione delle due personalità
del poeta e del compositore. È un’opera poetica
che Henze ha vestito di note entrando perfettamente nel linguaggio di Auden. Il risultato espressivo ed emotivo è totalmente coinvolgente.
Di conseguenza il lavoro di preparazione e di
creazione ad Ancona, con il gruppo di interpreti, è
stato molto intenso, perché è un’opera che richiede la condivisione e la partecipazione di tutti.
Per quanto riguarda la ripresa al Malibran c’è
un contrattempo che mi impedisce di seguire personalmente il riallestimento. Sono impegnato a
Roma nella preparazione del Maometto II, lo spettacolo nato alla Fenice che ora viene riproposto al
Teatro dell’Opera, in una nuova versione.
Quindi ho approfittato del fatto che Massimo
Gasparon, regista che spesso ha rimesso in sce-
na spettacoli da me firmati, fosse disponibile per
chiedere a lui di curarne la realizzazione.
Sono sicuro comunque, che pur non avendo
seguito direttamente la preparazione in Ancona,
Massimo, conoscendo molto bene il mio modo di
lavorare, non avrà problemi e anzi potrebbe anche
avere qualche nuova intuizione, nella linea da me
tracciata allora. Sarà interessante, a cose fatte, confrontare le due versioni.
Tornando all’opera di Henze, e al livello di
astrazione che ho voluto inserirvi per assecondare
il suo clima poetico, devo dire che, parlando più
in generale, questo approccio caratterizza con evidenza tutte le mie messinscene per così dire «contemporanee», ma è presente anche nel resto delle
mie produzioni. Non sono mai stato incline al realismo e al verismo, e questo si vede già dall’orientamento verso opere che non appartengono a
quel genere musicale. A Caracalla quest’estate,
affrontando per la prima volta nella mia carriera
la Cavalleria rusticana di Mascagni, ho trovato una
chiave di lettura non verista, «depurata», cercando
di eliminare quell’enfasi che è tipica di questo tipo
di composizioni. E devo dire che questo scopo si è
raggiunto con molta naturalezza, ambientando la
vicenda non nella Sicilia di Verga, con il folclore
che generalmente l’accompagna, ma nell’Italietta
degli anni trenta, in epoca fascista, mettendo a
confronto la beata indifferenza di tutto un paese e
la solitudine disperata di Santuzza.
Questo per dire che l’astrazione, molto più facile nel repertorio moderno o contemporaneo, in
altri modi si può applicare praticamente a tutto il
repertorio operistico dal barocco al melodramma.
Altre riflessioni merita invece il ricorso all’attualizzazione, di cui si è abusato, che non può
essere sistematico, e anzi in molti casi è forzato e
pretestuoso, non avendo nessun tipo di riscontro
in ciò che il pubblico vede e deve porre in relazione con i valori veicolati dalla drammaturgia e dalla
musica. Quando si affronta un lavoro registico ci
si deve rendere conto e convincere che non può
essere completamente attualizzata un’opera che
parla un linguaggio che non è quello di oggi, e per
di più lo fa attraverso il canto. Il fatto stesso che
gli interpreti cantino non appartiene al quotidiano. Certo vi sono dei casi in cui è possibile tentaveneziamusica e dintorni |
29
Sinfonica e contemporanea
re operazioni del genere, soprattutto nell’ambito
dell’opera buffa. Quando si è trattato di mettere
in scena La pietra del paragone di Rossini la trasposizione funzionava benissimo, anzi la commedia ci
guadagnava in ironia. Ma quando – per fare solo il
primo esempio che mi viene in mente – Don Carlos si rivolge a Elisabetta di Valois, quando cioè ci
troviamo in presenza di un linguaggio poetico e
in una situazione storicamente definita, l’attualiz-
30
| veneziamusica e dintorni
zazione non regge, si banalizza. Stiamo assistendo
non a caso a un susseguirsi di esempi imbarazzanti, che superano ormai il limite di accettabilità.
Credo che oggi la vera modernità stia nel portare in scena le opere rispettandole per quello che
sono, senza per questo compiere operazioni museali o archeologiche. Reinventare le drammaturgie
mi sembra al contrario terribilmente scontato.
Sinfonica e contemporanea
Henze: la musica,
gli incontri, l’italia
H
di Enzo Restagno*
o conosciuto Hans Werner Henze
molti anni fa, non mi ricordo nemmeno quanti, forse trentacinque.
Curiosamente non mi fu di nessuna utilità sapere la sua lingua, che invece mi servì
molto per stabilire un rapporto con altri compositori di area tedesca. Avendo studiato a Vienna,
conosco discretamente quell’idioma, ma Henze
preferiva di gran lunga parlare italiano (tanto che
uno dei suoi più grandi desideri a un certo punto è
stato quello di diventare italiano, di immergersi nel
nostro popolo, nella nostra natura e nella nostra
storia e divenirne intensamente partecipe). Non ho
mai sentito nella mia vita nessun tedesco parlare
un italiano elegante e perfetto come il suo. Questo
gli era possibile, oltre che, naturalmente, grazie alla
sua intelligenza, soprattutto per le letture raffinate
che aveva compiuto. Mi colpì sempre questo suo
italiano così ben pronunciato, ricco di aggettivazione, impeccabile nella sintassi, pur sempre con
un accento straniero che conferiva un tono ulteriormente scultoreo alla sua parlata. Lo incontrai
per la prima volta, se non vado errato, al Festival di
Montepulciano, che lui aveva appena cominciato
a inventare e dirigere in quella magnifica cittadina
della Toscana non lontana da Siena. Lui si era invaghito di quella bellezza, ma il fascino che suscitava
in lui il nostro Paese non si limitava alla sola Toscana. Visse per esempio molto tempo a Marino, sui
colli laziali, e ancora a Ischia, a Napoli, a Roma:
di tutti questi posti aveva saputo impregnarsi in
maniera molto significativa, al punto che di molti
si ritrovano dei riflessi nelle sue opere. Si potrebbe rileggere il catalogo, peraltro molto vasto, delle
sue composizioni sottolineando con la matita rossa
i molti impulsi tratti da quei luoghi e dalla nostra
letteratura, in particolar modo i classici. O ancora,
per fare solo degli esempi, le tante ispirazioni legate al cinema nostrano, soprattutto quello romano.
Via via la nostra amicizia si è consolidata, e quando
pochi anni dopo cominciai a dirigere Settembre
Musica, nulla mi parve più normale che consacrare
un’edizione a Henze. Ogni anno, infatti, all’interno del festival, si costruisce il ritratto di un autore
contemporaneo, rappresentando alcuni concerti a
lui dedicati. Erano tempi più floridi, e c’era la possibilità di preparare anche un libro incentrato di
volta in volta su un diverso compositore. Queste
pubblicazioni prevedevano anche delle conversazioni, e approfittando di quell’occasione mi recai
appunto a Marino ed ebbi modo, restandovi una
settimana, di farmi raccontare tutta la sua vita.
Henze aveva un carattere asciutto, sapeva cogliere
benissimo l’essenza delle cose e da queste far tralucere poi quelle che definirei le riverberazioni sentimentali delle cose stesse. Discutemmo di tutto, a
partire ovviamente dalle sue opere, ma spaziando
anche nei tanti incontri felici della sua vita, come
quello con Bertolt Brecht, o con Ingeborg Bachmann, o ancora con Wystan Hugh Auden, l’autore
del libretto per l’Elegy for Young Lovers, che viveva
allora nel suo eremo a Ischia.
Bisogna premettere che Henze possedeva una
natura musicale straordinaria, era quasi un enfant
prodige, cominciò prestissimo a comporre e aveva
una meravigliosa vena di spontaneità. Si ritrovò a
fare i conti con la seconda guerra mondiale, e mi
*
Musicologo e critico musicale
veneziamusica e dintorni |
31
Sinfonica e contemporanea
raccontò di dovere la sua salvezza proprio al suo
orecchio musicale. Era stato infatti arruolato in
una compagnia panzer, e gli avevano affidato il
ruolo di telegrafista. Ma visto che era così bravo
nel captare i suoni fu presto spostato a terra, e
dopo qualche tempo il suo panzer fu annientato
dai russi. La sua vita, pur passando per il dolore e
la miseria della guerra, è costellata di incontri, di
scoperte. Scoperte soprattutto relative alla grande
musica che il nazismo aveva proibito, fatto questo
che lo accomuna ad altri artisti della sua generazione. Sto parlando di Schönberg, Berg, Webern, la
scuola dodecafonica, e molti altri autori che erano
considerati «degenerati». Dopo la guerra ci fu, anche da questo punto di vista, una grande liberazione: quelle musiche erano registrate ma sigillate in
armadi d’acciaio, con doppi e tripli lucchetti. Mentre prima era vietata qualsiasi esecuzione e trasmissione radiofonica, a conflitto terminato si poteva
finalmente suonarle e ascoltarle di nuovo. C’era
un senso di ferita nei confronti della generazione
precedente, che aveva portato la Germania alla catastrofe e, conseguentemente, in quel Paese la volontà di cambiare completamente era più forte che
altrove. Si sentiva insomma la necessità di ripartire veramente da zero, tendenza in cui si inserisce
anche l’avventura della Nuova Musica, della quale
Henze fu, all’inizio, uno degli adepti, data anche la
facilità con cui assorbiva immediatamente qualunque procedura seriale e dodecafonica. Ma questo
non gli bastava, perché aveva molto più da dire. La
musica che sorgeva da questo giustificatissimo rigore morale era però assolutamente spietata, quasi
disumana. Si proponeva di essere completamente
oggettiva e di cancellare le pulsioni esistenziali e
individuali. Henze non si rassegnava a un tipo di
scrittura del genere, quindi in pochissimo tempo fu
considerato un apostata. I critici arrivarono a dire,
per prenderlo in giro, che inseriva delle «canzoni»
nelle sue opere. Questo perché possedeva un acuto
senso della melodia e del teatro, tanto che fece furore con uno dei primi lavori, Boulevard Solitude,
composto nei primissimi anni cinquanta. Vistosi
dunque in un certo senso rifiutato dagli ambienti
intellettuali tedeschi decise di autoesiliarsi, e scelse
di trasferirsi in Italia, che era il Paese dei suoi sogni
(il che non è poi strano, molti tedeschi colti, an-
32
| veneziamusica e dintorni
cor prima di Goethe, hanno sognato l’Italia). Così
venne da noi e qui rimase tutta la vita. Facendo
un bilancio posteriore e complessivo, devo dire
che forse l’Italia è stata un po’ avara, con questo
grande compositore, nel senso che avrebbe potuto
«adottarlo» un po’ di più. Certo aveva una cerchia
di appassionati che stimavano il suo lavoro, tra cui
critici importanti, ma esisteva anche un fronte a lui
ostile. In alcuni ambienti era punto di riferimento,
ma non già come maître à penser, ma piuttosto, al
contrario, come figura da non imitare. Alcuni dei
compositori più rigorosi di quell’epoca lo consideravano una sorta di occasione perduta, date le
sue indiscusse qualità e capacità. Comunque il riconoscimento di Henze nel mondo fu grandissimo:
lui, soprattutto da giovane, con Boulevard Solitude
– che in fondo è una trasposizione nella Monaco
disperata dell’immediato dopoguerra della vicenda
di Manon Lescaut – e poi con l’Elegy for Young Lovers, conquistò tutti i più importanti palcoscenici
internazionali. Il libretto di quest’ultima, scritto
appunto da Auden – autore tra l’altro anche del
Rake’s Progress di Strawinsky – affronta in modo
squisito drammi esistenziali quali l’ambizione
sconfinata di uno scrittore, che arriva quasi a provocare una tragedia per poterla mettere in scena. È
un vecchio tema sul quale riflettere, in cui si afferma che l’esperienza vissuta, secondo la coscienza
dell’artista, precede la creazione. Si rovescia insomma il punto di vista comune: Wagner non ha
scritto il Tristano e Isotta perché ha avuto una grande storia d’amore con Mathilde Wesendonck, ma
invece ha avuto quella storia d’amore per poter poi
comporre il Tristano. Questo paradosso viene assunto come centro motore nella poetica dell’Elegy.
L’opera, che ebbe un successo enorme, contiene anche delle pagine rigorosamente dodecafoniche, ma
ha una larga cantabilità. Non mi inoltro qui nella
descrizione della composizione, ma ci terrei in sede
conclusiva a dire qualcosa sul rapporto tra la scrittura di Hans Werner Henze e la contemporaneità,
che allora voleva dire la musica seriale e dodecafonica, weberniana o postweberniana. In fondo il
compositore che idealmente fu più vicino a Henze
è Strawinsky. E sappiamo che il grande musicista
russo, da un certo momento della sua vita in poi,
cominciò a scrivere musica seriale. Questo generò
Sinfonica e contemporanea
molte discussioni, nonché alcune alzate di sopracciglio e accuse di poco rigore nel suo approccio alla
dodecafonia. Ed è vero, Strawinsky non è mai stato un compositore seriale rigoroso, e nemmeno ha
mai voluto esserlo. Da vecchio però si è reso conto
dei pregi che avrebbe potuto estrarre da quel tipo
di scrittura, utilizzandola dunque in modo molto
personale e intermittente (d’altro canto anche Alban Berg usò la dodecafonia a fasi alterne nei suoi
componimenti). Un uso libero, dunque, che non
rinnega mai completamente la sensibilità armonica, intendendo con questo sintagma il modo più
diretto in cui l’orecchio umano può rapportarsi
con la realtà acustica. Ecco quindi, in pochissime
parole, la ragione della vicinanza ideale e culturale
che per tutta la vita Henze ebbe con Strawinsky, il
quale, proprio in occasione della rappresentazione
romana dell’Elegy for Young Lovers, lo incoraggiò
e aiutò moltissimo, segnalando questo giovane
compositore al suo editore (un fatto rilevante, data
l’enorme influenza che aveva negli ambienti musicali). L’Elegy, d’altro canto, da allora non ha mai
smesso di essere allestita in tutto il mondo. Chiudo
rimarcando una sua caratteristica, certo non esclusiva soltanto dei più grandi compositori, ma in essi
piuttosto frequente: Henze componeva e orchestrava con una grandissima rapidità. E questo dato
fa parte della naturale scioltezza della sua mano,
che sembrava nata apposta per fissare le note sul
pentagramma.
(questo articolo nasce da una conversazione raccolta
il 13 gennaio 2014)
veneziamusica e dintorni |
33
Sinfonica e contemporanea
Al lavoro con
l’autore dell’«elegy»
Il racconto di Francesco Antonioni
F
rancesco Antonioni, compositore affermato a livello internazionale, è stato
per un lungo periodo collaboratore di
Hans Werner Henze, quando l’autore
tedesco era già anziano, e può dunque offrire la sua
testimonianza diretta sia sul versante artistico che
umano.
Quando ha incontrato Henze?
L’ho conosciuto in occasione dell’esecuzione di
un mio brano orchestrale all’Auditorium di Roma.
Sapevo che cercava un assistente, e mi sono proposto. Così sono rimasto a stretto contatto con lui
per circa tre anni, dal 2004 al 2006. L’ho aiutato
in particolare a scrivere la Phaedra e un pezzo intitolato Sebastian im Traum. In quel periodo era
molto ammalato, ed era sicuro di morire, salvo poi
riprendersi con un colpo di teatro. Andavo spesso
a casa sua, mi dava i manoscritti e io glieli riportavo
rimessi a posto. Nel linguaggio letterario si direbbe
che gli facevo un po’ da editor. Ma forse è più calzante l’espressione «garzone di bottega».
Quali erano gli aspetti più peculiari della sua tecnica compositiva?
Henze aveva un modo di scrivere che potrei
definire «artigianale». Noi tutti siamo abituati ad
avere sottomano un’infinità di fogli di carta, oppure più spesso ancora un computer. Quindi possiamo buttare giù qualche idea e poi cambiare a
piacimento. Henze invece correggeva pochissimo,
34
| veneziamusica e dintorni
sembrava che scrivesse quasi sotto dettatura. In realtà il momento della scrittura non durava tanto,
ma era invece assai lunga la fase in cui pensava alle
cose da scrivere. Spesso passava tutta la giornata a
riflettere sulla musica che avrebbe composto, poi la
mattina dopo appena alzato la metteva su carta. Mi
stupì molto una cosa: lui mi consegnava alcune pagine da rivedere, poniamo dalla 1 alla 10, io me le
portavo a casa, ci lavoravo, le mettevo a posto, facevo delle osservazioni e delle precisazioni. Dopo
una settimana gliele riportavo. Ebbene, quando ritornavo con il lavoro fatto mi dava le pagine 11-20:
aveva cioè composto senza vedere le precedenti.
Mi sono sempre chiesto come facesse. Poi ho scoperto che quando cominciava a scrivere aveva già
molto chiaro il disegno generale dell’opera e anche
gran parte dei dettagli. E questo processo avveniva
tutto nella sua mente. Un’altra sua caratteristica,
datagli dal grande talento oltre che dall’esperienza,
era l’istinto assoluto per la durata. Aveva sempre
molto chiaro in testa quanto dovesse durare una
certa tensione di un pezzo perché avesse il giusto
peso nella distribuzione generale della composizione. E questo sia nel teatro che nei brani orchestrali,
senza differenze. Infatti quando si ascolta la musica di Henze in ogni pezzo si riconosce sempre
una grande teatralità. Ma teatralità vuol dire, in
senso tecnico, una percezione perfetta del ritmo e
del passo che bisogna tenere in un testo musicale.
Questo passo non è sempre veloce, a volte può essere anzi molto lento. Però anche in questo caso
non è mai un momento nel quale si perde la concezione generale del lavoro.
Sinfonica e contemporanea
Che cosa ha ricavato da quell’esperienza?
Il rapporto con Henze mi ha dato moltissimo.
Prima di tutto ho compreso come ogni operazione artistica sia qualcosa di molto intimo. Entrare
nella sua bottega di compositore mi è servito a
confrontarmi con lui, possiamo dire, da pari a pari.
Non perché ambissi a essere considerato un altro
Henze, ma semplicemente perché ero presente in
quando il compositore è nudo, quando cioè crea e
fissa su carta le note. Questa è una grande attestazione di stima ma anche un atto di enorme onestà,
perché è allora che si vedono gli errori, le incertezze, le decisioni prese lungo la strada, le necessità
di adattarsi alle esigenze pratiche dei committenti.
Più in generale, direi che ho capito quanto Henze
abbia fatto di tutta la sua vita, di ogni istante della
sua giornata, un momento della vita di un artista.
Ed essere artista è una cosa che soltanto un grande
artista può insegnare.
Quell’incontro ha influenzato in qualche modo
la sua poetica?
Quando si entra in contatto con una personalità magnetica come quella di Henze direi che è inevitabile. Avevo però già un mio stile consolidato,
che mi ha permesso di filtrare molte delle cose che
provenivano da lui. Cionondimeno quel grado di
complessità che ha la musica di Henze, la sua sottigliezza e intelligenza sono elementi dei quali ho
voluto farmi influenzare. Ma vorrei aggiungere una
riflessione. Chiunque, come me, conosca bene le
sue partiture, quando le ascolta eseguire resta positivamente sorpreso. Mi spiego meglio con un esempio: la partitura è come un progetto architettonico,
da cui poi sorge un palazzo. Nel caso di Henze,
quando ci si trova di fronte alla realizzazione musicale di quel progetto che è la partitura ci sono
sempre molte cose che alla lettura erano sfuggite.
La messa in opera di una sua composizione è sempre una sorpresa sonora.
veneziamusica e dintorni |
35
Dossier «Nuova Musica alla Fenice»
Creare collegamenti
fra tradizione e
contemporaneità
I
di Cristiano Chiarot*
l progetto «Nuova Musica alla Fenice»,
partito nel 2011 e da quest’anno dedicato a Giovanni Morelli, intende favorire l’ascolto di composizioni inedite
all’interno della programmazione sinfonica del Teatro veneziano. Sovrintendente e Direttore artistico
spiegano finalità e dettagli dell’iniziativa.
La commissione di tre nuove composizioni, iniziata con la stagione 2011-2012, si inserisce in un
disegno complessivo che la Fenice sta sviluppando negli ultimi anni. Tale disegno, perseguito con
molta determinazione, considera la musica nella
sua dinamicità e intende creare collegamenti tra la
grande tradizione del passato e la realtà contemporanea, troppo spesso considerata un «genere» a sé
stante e di difficile fruizione da parte del pubblico.
In questo contesto abbiamo voluto riproporre, per
fare un solo esempio, la Lou Salomé di Giuseppe
Sinopoli, opera magnifica e dimenticata. Le motivazioni che ci hanno spinto in questa direzione
partono da lontano e investono la funzione che,
a nostro parere, deve svolgere una Fondazione
come la Fenice: se da una parte infatti compito irrinunciabile è proporre spettacoli di qualità dove
protagonista è il repertorio della nostra migliore
tradizione, dall’altra diviene necessario guardare a
quanto accade oggi, e alle molte energie che – faticosamente, dati i tempi – cercano di esprimere
la propria creatività attraverso la musica. In questa
strategia è stato subito chiaro che prioritario sarebbe stato muoverci noi verso questi giovani autori,
supportandoli e invitandoli a far parte del nostro
cartellone. Da tutto ciò è nata l’idea, al di là e oltre
i dettami ministeriali, del progetto Nuova musica
36
| veneziamusica e dintorni
alla Fenice, all’interno del quale in ogni stagione a
tre compositori è commissionata un’opera inedita,
eseguita in prima assoluta dalla nostra Orchestra.
Questo progetto, che continuerà con regolarità nei
prossimi anni, ha una particolarità che sottolinea
e chiarifica ulteriormente le intenzioni che l’hanno
fatto nascere: invece di costruire occasioni ad hoc,
dove la nuova musica venga ascoltata da addetti ai
lavori e spettatori particolarmente appassionati,
abbiamo deciso di inserire questi brani all’interno
della normale stagione sinfonica. In questo modo si
ribadisce la volontà di creare un dialogo tra quanto
nasce ora, nel tempo presente, e i capolavori musicali del passato, in un amalgama che ha contagiato
il nostro pubblico, dimostrando – se ce ne fosse
bisogno – che la buona musica esiste anche oggi ed
esisterà sempre.
(dal booklet del CD «Nuova musica alla Fenice», di
imminente pubblicazione)
*
Sovrintendente Fondazione Teatro La Fenice
Dossier «Nuova Musica alla Fenice»
Tre commissioni
a tema
O
di Fortunato Ortombina*
ffrire ogni anno a tre giovani compositori la possibilità di vedere eseguito un
proprio brano inedito fa parte della filosofia complessiva che permea la programmazione generale della Fenice, e che se da un
lato favorisce appunto la nascita di novità assolute,
dall’altro tenta di riproporre opere già eseguite ma
– come spesso accade oggigiorno – mai più riprese.
Intorno a queste due bisettrici ruota l’atteggiamento che vogliamo rivolgere alla musica contemporanea, e in questo senso ci è sembrato assolutamente
naturale inserire le composizioni all’interno della
nostra stagione sinfonica. Questo ha portato anche
ad un altro elemento importante: trattandosi di stagioni a tema, è stato richiesto a ogni singolo autore
di mettersi in relazione con un argomento specifico.
Così il primo anno Filippo Perocco, Paolo Marzocchi e Giovanni Mancuso si sono confrontati con
quella che era la spina dorsale del cartellone, vale
a dire le sei Suite per orchestra di Bach e le nove
sinfonie di Beethoven; mentre nell’annata successiva Edoardo Micheli, Federico Costanza e Stefano Alessandretti hanno tratto ispirazione dall’impalpabile relazione fra Čajkovskij e Mozart. [Nel
2014, poi, abbiamo consegnato come tema-guida a
Luigi Sammarchi, Vittorio Montalti e Mauro Lanza la Scuola di Vienna]. Questo tipo di indirizzo,
lungi dal voler esercitare un condizionamento, ha
fatto sì che nascessero pezzi assolutamente originali a partire da quelle atmosfere. E a giudicare
dai risultati estetici finora ascoltati, devo dire che è
stata un’esperienza estremamente positiva, sia per
il livello dei lavori che per la risposta del pubblico,
che si è rivelato curioso e attento a queste nuove
proposte, sfatando il mito dell’incomprensibilità
del mondo musicale contemporaneo. Da tutto ciò
si trae un segnale molto incoraggiante, che conferma a posteriori la convinzione da cui siamo partiti,
cioè che esistono oggi, come sempre sono esistiti
nella storia della musica, autori di grande bravura
e serietà. Quanto alla scelta, abbiamo optato per
musicisti che – pur con un curriculum professionale di tutto rispetto – non avevano ancora raggiunto
la ribalta del sistema produttivo odierno. Ci siamo
dunque dati alla ricerca, che se caratterizza l’atto
creativo non può però essere meno determinante
nei criteri di selezione di un’istituzione come la
Fenice, considerando anche l’elevata propensione
alla sperimentazione che da sempre contraddistingue il Teatro e la città in cui esso vive.
(dal booklet del CD «Nuova musica alla Fenice», di
imminente pubblicazione)
*
Direttore artistico Teatro La Fenice
veneziamusica e dintorni |
37
Dossier «Nuova Musica alla Fenice»
La ricerca sulla memoria
di Luigi Sammarchi
L
uigi Sammarchi, nato a Bologna nel
1962, il 12 gennaio ha presentato,
nell’ambito del progetto «Nuova Musica alla Fenice», il suo brano inedito, E
sì com’io bevesse al fondo Lethe. Ne parliamo con
l’autore.
Qual è l’origine di questo brano?
Il titolo è la citazione di un endecasillabo di
Pico della Mirandola. È già da un po’ di tempo che
lavoro sulla memoria, sulle implicazioni, mentali
e filosofiche, che si stabiliscono tra essa e l’oblio
(il Lete è appunto il fiume dell’oblio). Ho cercato
di applicare queste speculazioni filosofiche a delle strutture musicali. E dato che Giovanni Morelli
scrisse un saggio straordinario proprio su memoria
e oblio mi è sembrato calzante, quasi naturale, dedicargli questo pezzo. Di solito, nel mio modo di
procedere creativo, cerco di estrapolare la forma
compositiva dalla citazione poetica.
Mi può dire qualcosa in più sulla struttura del
pezzo?
Sostanzialmente è una forma ABA, cioè una
struttura ad arco dove l’inizio è speculare alla fine.
C’è una parte centrale dove vi sono delle figurazioni melodiche che via via prendono corpo. Ma
nel momento stesso in cui prendono corpo si dissolvono.
38
| veneziamusica e dintorni
Lei ha avuto modo di incontrare, nel corso della sua formazione, importanti figure di docenti. Da
chi ha tratto maggiori stimoli per la sua carriera di
compositore?
Tra i miei insegnanti, Adriano Guarnieri è stato molto importante per gli imput che mi ha dato
nel creare un mio autonomo percorso. Mi ha aiutato a mettere a fuoco la mia poetica, lasciandomi
totalmente libero: lui è un docente che non vuole
mai lasciare la sua impronta, almeno da un punto
di vista compositivo. Ma è stato fondamentale nel
darmi gli strumenti per iniziare. Per quanto riguarda poi Alvise Vidolin, forse il suo apporto è stato
ancora maggiore. Oltre a essere un didatta straordinario, è tra gli esecutori più importanti nell’ambito della musica contemporanea. Una qualità di
lavoro come la sua l’ho raramente incontrata nella
mia vita. Ho infinita stima di lui sia dal punto di vista didattico che interpretativo. Per me è stata una
figura essenziale, soprattutto per quanto riguarda
l’elettronica, che a mio parere è uno strumento
fondamentale per agire sul suono.
Una domanda d’obbligo, anche se forse un po’
banale: qual è il suo rapporto con la tradizione musicale occidentale?
Me l’hanno già chiesto in precedenza, e non la
trovo per nulla una questione banale, anzi la domanda mi sembra molto azzeccata. A partire dai
miei studi, che si sono orientati maggiormente verso la musica antica che verso quella moderna, penso che non possa in nessun modo essere reciso il le-
Dossier «Nuova Musica alla Fenice»
game che ci unisce a chi è venuto prima di noi. Gli
stessi Brahms, Mozart, Beethoven stabilivano un
fortissimo rapporto con i loro predecessori. Non
vedo per quale motivo non dovremmo farlo noi.
Anche perché, non vorrei dire una cosa esagerata,
ma sinceramente credo che la musica contemporanea debba uscire dall’equivoco del voler o dover
fare sempre qualcosa di nuovo, perché il nuovo per
il nuovo diventa immediatamente accademia. Alla
fin fine è più giusto riflettere intorno ai grandi archetipi della musica. Io per esempio tuttora studio
molto Beethoven, che secondo me era un musicista
straordinario.
Come vive oggi un compositore? Quali sono le
difficoltà che incontra nel suo lavoro?
In Italia è veramente dura, perché c’è un
problema di fondo, direi istituzionale. Il nostro
settore è in difficoltà, e non c’è alcun serio investimento da parte dello Stato, né in termini eco-
nomici né in termini culturali. La musica avrebbe bisogno di essere molto più supportata. E se
questo è vero in generale, ovviamente la produzione contemporanea ne viene ulteriormente
penalizzata. Per questo trovo molto importante
che la Fenice continui invece a promuovere gli
autori di oggi. Perché la musica non è morta, è
anzi assolutamente viva. Deve solo trovare spazi.
Ci vorrebbe più attenzione, soprattutto da parte
delle istituzioni politiche, nei confronti di quello
che è un patrimonio fondamentale per il Paese.
Anche all’estero ultimamente ci sono dei problemi, dovuti alla depressione, però per esempio in
Paesi come la Germania c’è una grande fruizione
di musica, per cui il settore sente meno la crisi,
perché di gente che va a teatro ce n’è veramente
tanta. Io non sono un esterofilo a priori, nemmeno la Germania la vedo come un paradiso terrestre, ma ho degli amici che lavorano là e quello
che percepiscono è una grande attenzione e una
grande partecipazione agli eventi musicali. Qui
da noi tutto questo manca.
veneziamusica e dintorni |
39
Dossier «Nuova Musica alla Fenice»
Lo «zapping» musicale
di Vittorio Montalti
P
di Alberto Massarotto*
er chi si riconosce nelle meticolose narrazioni che Georges Perec
adotta nel descrivere il mondo che
lo circonda, riscontrerà nella musica di Vittorio Montalti un’attrazione esclusiva.
Della raffinata predisposizione all’osservazione, il
giovane compositore romano trattiene l’emozione
suscitata cercando di traslarla in musica. Non rimane assolutamente niente di descrittivo o di puramente didascalico nei suoi lavori se non l’intento
di riportare in vita le suggestioni che sono scaturite
dalle immagini stesse. Su questo tipo di attitudine
si impernia Unnamed Machineries, commissionato in occasione del progetto «Nuova musica alla
Fenice» e collocato all’interno del programma del
concerto sinfonico del Teatro previsto per il 7 e 8
febbraio.
Unnamed Machineries presenta un’unica struttura che si propone come contenitore di sette figure musicali che il compositore fa convivere al
suo interno attraverso l’elaborazione di particolari
formule compositive predisposte ad hoc. Da una
possibile individuazione intuitiva del materiale,
niente viene lasciato al caso durante il processo
elaborativo nel quale viene sperimentata l’effettiva
reazione della sostanza alle regole introdotte. Un
quadro dalla struttura unitaria resa acusticamente
dall’innesto di diverse entità musicali collegate tra
loro attraverso l’implicazione di un numero minimo di elementi comuni. Ne risulta una specie di
zapping musicale in cui dalla presentazione della
prima sezione, subito l’orecchio dell’ascoltatore
viene proiettato alla seconda la quale, senza riuscire a completarsi durante la sua esecuzione, lascia
immediatamente il posto ad un’altra parte della
40
| veneziamusica e dintorni
prima unità attraverso un procedimento di accumulazione di entità scomposte e rimontate nella
linearità consequenziale del lavoro orchestrale. A
un simile procedimento viene inoltre applicata una
suddivisione a blocchi cronometrici differenti, discernibili da una tacita applicazione della serie di
Fibonacci.
L’originale idea di ripetizione che sta alla base
di Unnamed Machineries ricerca il suo fondamento
nell’uso del loop parallelamente a una particolare ricerca del suono ottenuta da insolite preparazioni strumentali attraverso le quali lo strumento
musicale si impreziosisce di corpi esterni al fine
di provocare la distorsione del suono sul nascere
dell’emissione, prendendo in considerazione una
rinnovata gamma di fenomeni acustici che, spingendosi fino al rumore, ne allargano le possibilità timbriche. Procedimento che in altri lavori di
Vittorio Montalti lascia il posto alla componente
elettronica, approfondita tout court presso l’istituto Ircam di Parigi. L’esplorazione delle diverse
dimensioni sonore ha consentito al compositore di
acquisire nel tempo la possibilità di ribaltarne le
prospettive dialettiche dovute alle vicendevoli incursioni della sfera elettronica su quella acustica.
Un’attenzione particolare alla componente
ritmica risulta quindi fondamentale e si risolve in
un’accurata quanto spasmodica distribuzione di
una serie di cambi di tempo su minimi segmenti di
musica parallelamente a un’accurata articolazione
delle figure ritmiche. Ne deriva un ossessivo gioco
di rimandi simultanei distribuiti su piani differen*
Pianista e musicologo
Dossier «Nuova Musica alla Fenice»
ziati che, investendo sia la nervatura motivica che
quella ritmica, consentono al materiale implicato
una sorta di evoluzione dovuta a un processo di
alimentazione interna dello stesso come risultato
dell’andamento esecutivo. Pur riscontrando un
certo grado di riconoscibilità nell’ossessività dei tagli, Unnamed Machineries introduce a piccole dosi
nuovi elementi genici alle singole sezioni capaci
di modificarne l’assetto originario. Ne risulta un
ascolto in cui l’identificabilità degli elementi viene
ramificata in un tessuto in continuo rinnovamento.
Analogamente alle suggestioni letterarie, le
tecniche compositive adottate in Unnamed Machineries ricorrono nella poetica di Vittorio Montaldi
sia sul piano strumentale che su quello teatrale.
Ne è un esempio l’opera L’arte e la maniera di affrontare il proprio capo per chiedergli un aumento
rappresentata a Venezia in occasione del Festival
della Biennale Musica 2013. Qui la fusione tra il
piano acustico e quello elettronico si inserisce in
contrappunto alle voci dei protagonisti all’interno
di un’abbagliante discorsività. Il nome di Vittorio
Montalti è ormai legato al Festival musicale del
quale, oltre ad avervi partecipato attivamente più
volte, ha ricevuto il Leone d’argento nel 2010.
Tutte le composizioni di Vittorio Montalti sono
edite da Edizioni Suvini Zerboni mentre la sua produzione artistica è consultabile sul sito web: http://
www.vittoriomontalti.com/vittoriomontalti.com
veneziamusica e dintorni |
41
Dossier «Nuova Musica alla Fenice»
L’«Anatra digeritrice»
di Mauro Lanza
I
n un suo recente saggio, Jessica Riskin
ripercorre le tappe delle «ambigue
origini della vita artificiale» riconducendo la totalità delle sue argomentazioni alla mitica figura dell’anatra digeritrice. L’interesse suscitato dall’automa meccanico, progettato da Jacques de Vaucanson nella prima metà del
Settecento, risiedeva nelle sue presunte capacità di
adempiere alle funzioni fisiologiche dell’animale,
oltre al fatto di comportarsi allo stesso modo. Ben
presto l’automa raggiunse notorietà universale, elevato a emblema leggendario persino da Voltaire.
Come attesta il saggio citato, da allora il fascino
suscitato dall’anatra non ha registrato alcuna variazione. Lo testimonia il titolo della composizione
che Mauro Lanza presenterà il 6 e il 7 giugno in occasione del progetto «Nuova musica alla Fenice».
L’idea principale che investe Anatra digeritrice
si edifica sulle possibilità fisiologiche che gli strumenti musicali, in quanto corpi meccanici, possono essere in grado di compiere in rapporto a quelle
dell’automa. Le qualità organiche del suono che
uno strumento musicale è in grado di rilasciare
permettono un procedimento di rigenerazione del
materiale musicale operato da un rinnovato punto
d’osservazione rappresentato dal tema mitologico.
Tale espediente ha consentito al giovane compositore veneziano di ottenere una sostanziosa gamma
di sonorità da sfruttare attraverso l’orchestra per
indagare l’imperscrutabile universo sonoro che ancora oggi tale strumento è capace di rappresentare.
Il sistema di filtraggio timbrico applicato alla fonte
sonora affonda le sue radici nell’esperienza compositiva della seconda Scuola di Vienna alla quale
Mauro Lanza vuole rendere omaggio.
42
| veneziamusica e dintorni
Oltre che al trattamento timbrico, in Anatra
digeritrice il riferimento si espande allo spirito aforistico proprio della musica di quel periodo che
investe le varie parti della composizione orchestrale. Il lavoro si compone infatti di una serie di
entità formali che si rapportano direttamente alla
natura degli ingranaggi indispensabili alle funzioni
motorie dell’automa. Pur nella loro brevità, ciascuna delle componenti musicali interne di Anatra
digeritrice presenta caratteristiche proprie. Per ciascuna delle sue parti è stato applicato il lavoro di
declinazione dei timbri al fine di farle riverberare
in maniera sempre diversificata scomponendone
la simultaneità sonora al fine di mostrare singolarmente gli elementi che contribuiscono alla conformazione della sua immagine.
L’esecuzione musicale di Anatra digeritrice si
trasforma in questo modo in un’appassionante
elencazione in musica dei meravigliosi elementi costitutivi dell’opera secondo un gusto d’elencazione
proprio del catalogo considerato nell’accezione
medievale del termine.
Poiché qualsiasi cosa è sottoponibile a una
possibile classificazione di oggetti di natura eterogenea, i singoli congegni meccanici dell’automa
sono stati sottoposti a catalogazione tanto quanto
il robot stesso ha fatto parte integrante di lunghe
liste di affascinanti oggetti consimili. Partendo da
questo aspetto tratto dalla propria curiosità, Mauro Lanza ne estende il raggio d’azione all’ambito
musicale traendone il principio propulsore grazie
al quale gli è stato possibile concepire molti suoi
lavori che, pur mostrando caratteristiche anche
molto diverse, conservano simili «congetture meccaniche».
Dossier «Nuova Musica alla Fenice»
In questo senso il lavoro orchestrale si avvicina
alla ricerca scientifica del noto musicologo Giovanni Morelli, a cui il progetto è dedicato, in quanto
autore di smisurati e intriganti cataloghi bibliografico-comparativi applicati a opere musicali tra loro
apparentemente lontane.
L’aspetto meccanico dei singoli congegni musicali è reso attraverso una meticolosità ritmica che,
pur nella sua immediatezza, concorre a rinforzare
gli elementi caratteristici di ognuno. Ne deriva una
sistematicità che si rinforza dell’esperienza maturata presso l’Ircam di Parigi sia come compositore
in ricerca prima, che, successivamente, in qualità
di insegnante nel campo della sintesi per modelli
fisici e della composizione assistita. Un passaggio
fondamentale per il consolidamento della propria
cifra stilistica, impreziosita da un’importante serie
di residenze artistiche realizzate presso autorevoli
centri di ricerca, consolidata attraverso l’alternanza di una serie di composizioni elettroniche e strumentali che si sono susseguite fino alla loro compresenza all’interno di un’unica soluzione. Tutte
le composizioni di Andrea Lanza sono edite da
Casa Ricordi mentre la sua produzione artistica è
consultabile sul sito web https://soundcloud.com/
maurolanza (a.m.)
veneziamusica e dintorni |
43
Dintorni – Inediti
«Le fate» di Wagner
Un saggio inedito sul primo lavoro teatrale
C
di Chiara Facis*
onsiderati gli anniversari appena trascorsi, la contrapposizione Verdi-Wagner sembra rivelare sul suolo italico
una propensione ben precisa. Se pensiamo infatti che il genio di Busseto ha pure visto di
recente il suo culto ravvivato dalla fresca ricorrenza dell’unità nazionale, in questa sede il principe di
Bayreuth sembra proprio destinato alla sconfitta.
Ma prima di dichiarare che in Italia il repertorio
wagneriano – richiedente una ben determinata
qualità di studio, impegno, disposizione culturale
– debba soccombere davanti alle più immediatamente accattivanti arie e pagine corali verdiane
(beninteso che Verdi non è solo quello della trilogia popolare) si provi a considerare come alcune
pregevoli letture – la Tetralogia presentata da Muti
alla Scala o le più recenti interpretazioni di Daniele
Gatti, per esempio – o come alcuni felici esperimenti possano suscitare un inatteso, entusiastico
consenso da parte del pubblico italiano per un
compositore in buona parte ancora da scoprire. È
questo il caso, per l’appunto, della prima esecuzione in Italia di un’opera wagneriana di raro ascolto,
Die Feen (Le fate), al Teatro Lirico di Cagliari nel
1998 che, grazie alla direzione di Gabor Ötvös e al
sontuoso allestimento di Beni Montresor, ha riscosso indiscutibile successo non solo di critica, ma
anche e soprattutto di pubblico. Perché, si dirà, si
tratta dell’argomento leggiadro e ameno di una fiaba, perché questo è ancora il Wagner degli esordi,
non quello maturo con tutte le sue manie ancestrali, il superomismo nietzschiano e le implicazioni
mistiche troppo complesse per la solarità dell’anima latina. Ma è proprio prendendo in esame quella
che è la prima opera teatrale completa dell’autore
44
| veneziamusica e dintorni
tedesco – Die Feen, appunto – che si possono individuare nelle fondamentali componenti dello stile
musicale wagneriano dettagli forse mai abbastanza
rilevati, come l’influsso dell’opera italiana e la stima – peraltro costante a dispetto di qualsiasi forma
di rivalità – per il genio di Mendelssohn; stima che
non si sarebbe solo limitata alla parabola iniziale
nella produzione del musicista di Bayreuth. C’è da
osservare a proposito che Mendelssohn era stato a
tutti gli effetti un fanciullo prodigio; Wagner no.
Ma non solo. Mendelssohn, oltre a ciò, rappresentava per il mondo musicale del suo tempo quella
facoltà suprema – di innata impronta mozartiana,
si direbbe – di superare ogni dilemma compositivo,
soprattutto nella facoltà di contemperare la vis
drammatica dei contenuti dello Sturm und Drang
entro strutture classiche di apollinea chiarità, con
la semplice spontaneità che solo dei massimi geni
poteva essere. Un esempio di stile, quindi, che
all’epoca aveva sconfitto il signore della scena lirica
mitteleuropea che era Weber. Nei primi anni trenta
dell’Ottocento,dunque, il giovane Wagner si accostava a poco a poco alla sua maturità stilistica, sempre seguito quale genioin fieri dalla vigile presenza
delle due sorelle maggiori che avrebbero rappresentato importanti riferimenti per la sua carriera
artistica: Luise era infatti moglie del prestigioso
editore Friedrich Arnold Brockhaus; Rosalie era
attrice teatrale. Ed era soprattutto quest’ultima ad
avere il ruolo del mentore ideale per il futuro grande musicista. Era stata infatti Rosalie, quale interprete nel ruolo di Margherita, ad approvare per
*
Musicologa
Dintorni – Inediti
prima le Sieben Kompositionen zu Goethes Faust
opus 5 scritte dal fratello nel 1830, tanto per fare
un esempio. Proprio in quel periodo, Richard stava
iniziando a cimentarsi nell’opera lirica. Dopo un
primo tentativo rimasto alla sola fase librettistica, il
Leutbald, il giovane musicista pensò ad un’opera di
carattere pastorale di cui nulla è rimasto. Sempre
Rosalie, in seguito, aveva giudicato con severità il
successivo esperimento del fratello nel genere lirico, Die Hochzeit (Le nozze), tratto da un testo di
Johann Gustav Büsching, da lei rifiutato per il gusto dell’orrido che lo improntava. Così, dopo aver
distrutto quel lavoro biasimato di cui è rimasta solo
la partitura della prima scena (eseguita peraltro postuma, appena cent’anni dopo, a Rostock), Wagner
si apprestò dunque nel 1833 alla composizione di
quella che è rimasta a tutti gli effetti la sua prima
opera lirica completa, Die Feen. A questo proposito, c’è da ribadire che, nonostante il teatro lirico
dell’epoca vedesse la supremazia di Weber, come si
è già detto, e di Heinrich Marschner, la cui ampia
fortuna d’operista era stata determinata soprattutto dal suo lavoro teatrale del 1828, Der Vampyr –
diretto nelle parti corali proprio da Wagner a Würzburg nello stesso periodo –, il giovane autore delle
Fate, pur mantenendo la sua attenzione nei confronti dei modelli vigenti, non perdesse di vista soprattutto Mendelssohn, e tale ipotesi è suffragata
da vari aspetti che non sembrano affatto dovuti al
caso. Wagner, infatti, completò partitura e libretto
delle Feen nel dicembre 1833, come si diceva, cioè
nello stesso anno in cui Mendelssohn, alcuni mesi
prima, aveva composto ed eseguito la sua ouverture Die schöne Melusine. Non basta. Wagner avrebbe tenuto a mente quel pezzo sinfonico al punto da
utilizzarne il tema ascendente dell’incipit – il tema
di Melusine – , proprio all’apertura del suo Rheingold, come Leitmotiv del Reno. Non solo. Lo spunto essenziale dell’ouverture che interessa Wagner
per il suo nuovo libretto d’opera è proprio la medesima leggenda medievale d’origine francese, cioè
la vicenda della naiade Melusina che diviene sposa
di un mortale, ma non esita a scomparire con i figli
e ogni beneficio compiuto non appena il marito
trasgredisce al giuramento di non indagare mai sulla vera natura della consorte. Per non seguire pedissequamente il modello mendelssohniano, Wa-
gner derivò la traccia per il suo libretto dal lavoro
teatrale d’uno tra i più noti e raffinati favolisti italiani, le cui fiabe avrebbero interessato i musicisti
di ogni tempo – si pensi all’Amore delle tre melarance musicato da Prokofiev o alla Turandotscelta
da Busoni e Puccini –. Ci si riferisce in questo caso
al veneziano Carlo Gozzi, la cui elaborata fiaba teatrale intitolata La donna serpente (1762) era imperniata proprio sulla leggenda di Melusina. Wagner dunque trasferì l’azione scenica dall’Oriente
favoloso del Gozzi ad un paesaggio da leggenda
bardica, dipanando la vicenda fiabesca in una
«grande opera romantica» da tre atti, quasi una
féerie, secondo la voga dell’epoca, per l’argomento
fantastico e per i numerosi cambiamenti di scena
nonché il complesso allestimento richiesti. L’antefatto dell’opera, riferito nel corso del primo atto,
narra di un giovane principe, Arindal (tenore), il
quale, accanitosi in una caccia spietata a una cerva
di rara bellezza, decide di seguire la preda nel profondo delle acque di un fiume. Quivi trova un regno incantato dove incontra la fata Ada (soprano)
della quale si innamora perdutamente. Ada impone ad Arindal di non chiederle mai nulla circa la
sua identità; solo così potranno vivere felici. I due
si sposano; dalla loro unione nascono due figli.
Mentre le altre fate trepidano per l’immortalità di
Ada, la coppia trascorre otto anni sereni. Ma un
giorno Arindal viene meno alla promessa fatta alla
sposa, trovandosi all’istante solo e reietto in una
landa deserta a cercare invano la moglie e i figli
scomparsi. Nell’angoscia lo trovano i tre fedelissimi Gunther (tenore), Morald (baritono) e Gernot
(basso), i quali lo esortano a seguirli dimenticando
la donna che lo ha sedotto, dipinta da Gernot come
una perfida strega di nome Dilnovaz. Gravi oneri
attendono infatti Arindal: suo padre, Re di Tramond, è morto, il suo regno è sotto assedio e sua
sorella Lora, rimasta sola nel castello a sostenere
l’avanzata dei nemici, attende da lui aiuto e rinforzi. Arindal, dunque, segue i tre amici, ma gli appare Ada che gli rammenta di essere pronta a lasciare
per lui il privilegio della propria immortalità; Arindal, però, qualsiasi cosa accada e lo provi, non dovrà mai maledirla, pena una spietata punizione. Da
quell’istante la ragione di Arindal viene messa a
dura prova da una serie di allucinanti episodi, nesveneziamusica e dintorni |
45
Dintorni – Inediti
suno dei quali corrisponde a realtà. Nel frattempo,
il principe divenuto re giunge a Tramond in aiuto
della sorella, ma l’angoscia non gli permette di assumere il comando delle truppe. Il fidato Morald
lo fa per lui. Arindal crede di vedere in una scena
allucinante Ada mentre getta i loro bambini in una
voragine infuocata, ma in realtà ciò non è mai avvenuto. Mentre le truppe battono in ritirata, Harald,
comandante del contingente alleato, ritorna dichiarando che la disfatta è dovuta ad un esercito
guidato da una regina guerriera, Ada. Ma si tratta
di falsità: Ada ha infatti sconfitto Harald perché
questi era a capo di un drappello di traditori e ciò
consente un clamoroso trionfo all’esercito di Tramond. Il regno, dunque, è salvo, ma Arindal, ormai
fuori di sé, ha maledetto Ada ed è condannato alla
pazzia, mentre la sua sposa rimane pietrificata. Nel
frattempo, Lora e Morald assumono la reggenza di
Tramond, sperando e pregando assieme al popolo
affinché Ada e Arindal siano liberati dal sortilegio.
Il giovane re, dopo aver a lungo vaneggiato nella
sua follia quale novello Orlando pazzo per amore,
cade addormentato; ode in sogno Ada che lo chiama e continua a vegliare su di lui pur prigioniera
del maleficio. Quindi Arindal ode la voce del mago
Groma che, invisibile ai suoi occhi, lo sollecita ad
affrontare una serie di prove che egli dovrà superare con l’ausilio di uno scudo, una spada e una lira
fornitegli dal mago stesso. Appaiono due fate amiche di Ada, Zemina (soprano) e Farzana (contralto), che accompagnano Arindal nelle prove. Levando lo scudo, il giovane, confortato dalla voce di
Groma, dissipa dunque gli spiriti delle potenze
ctonie che gli si parano di fronte sul cammino verso il mondo sotterraneo; lo stesso avviene dei guardiani di bronzo vigilanti un luogo segreto appena
Arindal brandisce la magica spada. Infine, proprio
in quella grotta nascosta, ecco Ada pietrificata. È
allora che Groma consiglia ad Arindal di suonare
la lira: grazie all’arcano potere di quella melodia e
al messaggio d’amore dello sposo, Ada è sciolta
dall’incantesimo. Affidato quindi il regno di Tramond a Lora e a Morald, Arindal per il suo coraggio riceve dal Re delle fate il dono dell’immortalità
e regna per sempre con Ada nel mondo incantato.
Da quanto si può evincere dal libretto e dalla partitura della prima opera teatrale wagneriana
46
| veneziamusica e dintorni
completa, Die Feen denotano già alcune tematiche
ricorrenti anche nelle opere della maturità, come,
ad esempio, il divieto di porre domande circa
l’identità e l’origine della persona amata, oppure
come la pietà per una creatura ferita. Vi compaiono
inoltre concetti di fondamentale importanza, come
i temi della liberazione e della redenzione che tanta
parte avranno nella Tetralogia. Inoltre, le immagini
di regine guerriere presenti nel’opera – Ada a capo
di un esercito alleato; Lora impegnata nella resistenza all’assedio – sono un chiaro riferimento ai
grandi miti delle tradizioni celtica e scandinava – si
pensi alle epopee delle regine Maev e Boadicea o
al mito della fata Morgana nelle leggende britanniche – e preconizzano inoltre la figura di Brunilde.
Sempre comune agli stessi filoni letterari è anche
il mito della creatura soprannaturale che rinuncia
alla propria immortalità – o la perde a causa di una
punizione – per unirsi ad un amato mortale, come
accade ancora nella Walkiria. Quest’opera prima
di un autore ventenne non manca quindi di colti riferimenti. Per quanto concerne la partitura orchestrale e la mise en scéne, Die Feen riservano altre
gradevoli sorprese. La parte orchestrale denota il
tratto di un sinfonista già approvato nelle sue precedenti esperienze . Ne è un primo saggio l’ouverture in mi maggiore che non si configura come una
semplice esposizione rapsodica dei principali Leitmotive, bensì come pezzo sinfonico chiaramente
strutturato in base allo studio dei canoni beethoveniani e weberiani. All’alzarsi del sipario, anche
la prima scena dell’opera, diretta in medias res – il
giardino delle fate –, denota la padronanza del fattore scenico con il piglio del compositore cresciuto
negli ambienti teatrali sin dalla fanciullezza; essa
comporta infatti l’esecuzione di una pagina corale
e, nel contempo, di un’azione coreografica. Impossibile a proposito non rammentare ancora l’influsso di Mendelssohn e del suo Sommernachtstraum,
sia sotto il profilo scenico che musicale. La stessa
sicurezza nella trattazione delle voci e della complessiva materia sonora si ritrova nei concertati e
nei cori alla conclusione di ciascun atto, tutti condotti con notevole esperienza nell’orchestrazione e
adeguato senso della componente spettacolare.
Per quanto riguarda gli interpreti e le rispettive
voci, molto esige Wagner dal tenore protagonista;
Dintorni – Inediti
il personaggio di Arindal, nonostante la sua prima
aria nel primo atto sia notevolmente debitrice nei
confronti dell’opera italiana – Wagner era infatti
un sincero ammiratore di Bellini ed esortava gli
interpreti tedeschi ad esercitarsi in «un bel legato
all’italiana» –, denota già le caratteristiche essenziali dell’Heldentenor, con una tessitura insistita
nel registro acuto ma non priva di pienezza e pastosità sulle note centrali e gravi. Ma è soprattutto
nel suggestivo Lied sulle note dell’arpa, quasi un
Leich da Minnesaenger nel terzo atto, alla scena
dell’incantesimo, che la melodia tedesca per voce
di Arindal riceve la sua regalità e la Saengerkrieg
alla Wartburg trova già qui la sua ideale anteprima.
Tuttavia, la vera dominatrice dell’intera opera
è Ada, il personaggio in cui l’autore si esprime al
massimo delle sue qualità. Immagine di una femminilità simbolica dalle mille sfaccettature sulla
scena e nella parte musicale, Ada è a tutti gli effetti
il personaggio più eloquente di questo felice saggio
di precoce maturità wagneriana. Venus ed Elisabeth, femme fatale e amante pura, guerriera e trepida madre al contempo, la fata incarna l’archetipo
di un dualismo lunare Diana-Ecate. Vocalmente,
Ada è un soprano drammatico di acuto potente e
notevole spessore emotivo, ma duttile nei repentini cambiamenti di registro e nelle innumerevoli
sfumature dinamiche. Caratteristiche non facili da
coniugare in un ruolo che è un vero banco di prova
per le migliori interpreti wagneriane. Quasi un’elegia di grazia melanconica è l’aria – ancora improntata allo stile italiano – che Wagner minia per lei
alla sua entrata in scena a metà del primo atto –
«Wie muss ich doch beklagen» –, ma è nel cuore
del secondo atto, nel lungo monologo drammatico
«Weh’ mir, so nah’ die fuerchterliche Stunde», che
la protagonista si rivela nella sua inconfondibile
identità musicale e scenica, perorando il suo sentimento in un’infinita gamma dinamica, continue
modulazioni e imperiosi crescendi, in un dissidio
interiore che è già quello della Walkiria, fino al
tema trionfale con cui Ada conferma la sua certezza nell’amore di Arindal. Un’aria importante per
un personaggio d’alto rilievo degno di un’elettiva
interprete wagneriana.
Alla coppia ideale Ada-Arindal, Wagner pone a
confronto una coppia di carattere realistico, Lora-
Morald e, con minor successo, una coppia di carattere comico, Drolla-Gernot, quale nota di colore,
ma è nei ruoli drammatici che il giovane autore riesce a dare il meglio di sé, delineando ad esempio
una personalità coraggiosa e positiva come quella
di Lora, ben rilevata dalle sue vibranti pagine del
secondo atto come «O musst du Hoffnung schwinden» in cui la principessa guerriera si rivela nella
sua dolente e sincera umanità, in un’aria in cui è
ancora evidentissima la lezione belliniana. Nel suo
complesso, la partitura procede trattata dall’autore
con mano sicura fino a sfociare nella grande scena
delle apparizioni del terzo atto, in cui l’eterea grafia delle pagine corali femminili e l’orchestrazione
sfolgorante sono già quelle di Tannhäuser e di Lohengrin. Fermo restando il fatto, ovviamente, che
nelle Feen non si possono certo reperire il superamento della forma chiusa e un discorso musicale continuo nonché la forma di rappresentazione
totale (Wort-Ton-Drama), propri del Wagner maturo, si può in ogni modo affermare che essa rappresenta a tutti gli effetti l’interessante documento
di un’evoluzione artistica nel suo pieno divenire.
Ad onta di tutto ciò, Die Feen, Wagner vivente,
non ebbero l’onore di una prima rappresentazione.
I continui rinvii al teatro di Lipsia e i malintesi con
il regista Franz Hauser rammaricarono a tal punto il giovane musicista da indurlo ad abbandonare
il progetto dopo una revisione della partitura nel
1834 – in cui aveva riscritto il grande monologo
di Ada nel secondo atto – e a dedicarsi alla composizione di una nuova opera lirica ispirata alla
commedia Misura per misura di Shakespeare, intitolata in un primo tempo La novizia di Palermo
– in ossequio allo stimato Bellini –, e poi come Das
Liebesverbot –(Il divieto d’amare) – , che si rivelò
peraltro di qualità inferiore rispetto al lavoro precedente. In seguito, Wagner volle donare la partitura autografa delle Fate in segno di riconoscenza
al suo generoso mecenate Ludwig II di Baviera .
Quel piccolo gioiello dimenticato dal suo autore
avrebbe trovato esecuzione postuma all’Hof-und
Nationaltheater di Monaco nel 1888, con la direzione di Franz Fischer.
Tornando al rapporto fra gli italiani e la musica
di Wagner, si nota che, tra le difficoltà attribuite ai
cantanti nostrani nell’approccio al repertorio lirico
veneziamusica e dintorni |
47
Dintorni – Inediti
wagneriano, esiste ancora l’ipotesi che gli stranieri
studino di più. Ma la storia dell’interpretazione wagneriana non difetta certo di egregi nomi italiani,
basti pensare a Giuseppe Borgatti, primo interprete italiano del Siegfried nel 1899, voce chiarissima
e fraseggio nitido da tipico Heldentenor; al mai abbastanza ricordato Mario Del Monaco, pregevole
Siegmund e Lohengrin; a Renata Tebaldi, definita
da Karl Boehm «grande Elisabeth» nonché Isolde.
Se si guarda poi anche ai grandi interpreti stranieri,
il nome leggendario a proposito delle Fate è quello di Birgit Nilsson, indimenticabile protagonista
dall’acuto esemplare pur nel timbro inconfondibilmente brunito; un cenno a sé merita inoltre il tenore finlandese Raimo Sirkia, esperto nel repertorio
lirico tedesco, che alla prima italiana delle Fate a
48
| veneziamusica e dintorni
Cagliari nel 1998 ha presentato un superbo Arindal di vocalità nobile, quasi baritonale sulle note
centrali, duttilissima in ogni sottigliezza dinamica.
La sorte sembra essersi accanita sulla partitura
originale di quest’opera fiabesca, irrimediabilmente perduta negli ultimi, rovinosi giorni del secondo
conflitto mondiale.
Rimane il fatto che, nel corso di tutta la sua produzione musicale e saggistica, dalla stima tributata
a Bellini nelle sue prime esperienze teatrali – come
Die Feen –, al Rienzi, al Parsifal concepito sulla visione del Duomo di Siena, Wagner, spirato proprio
a Venezia scelta quale ultimo e ideale ubi consistam,
ha reso chiara testimonianza del suo amore sincero
per l’arte, la letteratura, la musica di questa nazione chiamata Italia . Proviamo a farlo anche noi.
Dintorni – Teatro
«L’ispettore generale»
secondo
Damiano Michieletto
I
a cura di Leonardo Mello
l 21 gennaio, al Verdi di Padova, ha debuttato L’ispettore generale di Gogol’,
firmato da Damiano Michieletto per il
Teatro Stabile del Veneto. Il regista illustra i motivi della sua scelta e la lettura data alla pièce.
Perché ha scelto questo testo?
Durante i colloqui avuti con lo Stabile del Veneto mi era stato richiesto di allestire una commedia.
Conoscevo bene L’ispettore generale, e l’ho subito
proposto, prima di tutto perché, pur essendo un
classico, non è abusato e viene raramente messo in
scena, come del resto il suo autore. Esisteva solo
una versione del Teatro di Genova, e un’altra diretta
da Franco Branciaroli. Ma al di là di questo, la vera
motivazione è che ero fortemente attratto dal tipo
di comicità e di satira presenti nel testo, strettamente legate ai temi della corruzione e dell’ipocrisia. I
personaggi mi affascinavano e mi comunicavano
un’estrema vitalità. Quindi si preannunciava interessante ingaggiare una sfida con un testo mordace
e corposo come questo, suddiviso in ben cinque atti,
che a livello di portata drammaturgica equivale ad
affrontare una commedia di Shakespeare. Per tutto
ciò pensai che avrebbe avuto tutti gli ingredienti per
diventare uno spettacolo efficace.
Cosa la colpisce di più di questi personaggi, anche
un po’ grotteschi nella loro meschinità?
La possibilità, per me, di giocare sul limite: da
una parte il realismo nell’impostazione dello spet-
tacolo e dall’altra queste figure che invece arrivano
a essere quasi caricaturali. Già in Gogol’ sono molto bold, per usare una parola inglese, molto «caricati». E poi trovo il meccanismo drammaturgico
veramente geniale: la notizia che presto arriverà
un fantomatico ispettore generale, cui segue uno
scambio di persona – vero e proprio topos della
letteratura teatrale: qualcuno che è scambiato per
qualcun altro – e poi il finale a sorpresa quando
l’autentico ispettore annuncia la sua venuta. Sin
dalla prima lettura ho trovato straordinario il modo
in cui Gogol’ sviluppa l’intreccio.
Nella sua lettura c’è un riferimento alla contemporaneità? Alla nostra situazione attuale?
No, anche se questa era stata la prima idea che
mi era venuta: spingere molto il testo creando dei
paralleli e dei riferimenti, anche didascalici e scoperti, a personaggi politici di oggi. Poi mi sono reso
conto che basta leggere un giornale e si sprofonda
in una situazione molto peggiore di quella descritta
dalla commedia. Non passa giorno che non vi sia
un episodio di corruzione, uno scandalo, una tangente… Perciò, alla fin fine, mi sembrava banale
aggiungere cronaca su cronaca. Allora ho preferito
creare un distacco estetico e narrativo, nutrendomi
comunque della complessità del tempo in cui vivo,
senza però far diventare lo spettacolo uno specchio
dei problemi e della miseria in cui siamo immersi.
Anni fa, conversando con registi come Luca Ronconi, Massimo Castri e Luigi Squarzina di Goldoni,
veneziamusica e dintorni |
49
Dintorni – Teatro
è emersa una personalità molto meno bonaria del
commediografo veneziano di quella cui eravamo
abituati, anzi direi quasi crudele. Lei ha allestito un
riuscitissimo Ventaglio, quindi si è cimentato con la
sua scrittura. Trova che vi siano delle corrispondenze
tra lui e il sarcasmo esilarante di Gogol’?
è chiaro che le attese del pubblico saranno molto
precise e assai legate alle sue consuetudini.
Credo che si possano incontrare delle forti
corrispondenze dal punto di vista della comicità. Secondo me certe scene di Gogol’ si nutrono
profondamente della tradizione italiana. Poi certo
tutto dipende dal punto di vista che un regista assume nell’affrontare le opere che sceglie: un testo
di Goldoni può essere letto come una semplice
commedia, anche un po’ frivola, e può al contrario
essere il ritratto crudele di una società allo sfascio.
In tutti i suoi testi, anche quelli più comici, c’è il
tema della dissoluzione economica e morale. Basti
pensare alla Bottega del caffè, dove si ride molto ma
a un livello sottostante si trova anche molto marcio.
Quindi dipende tutto da cosa si vuol tirare fuori da
questi testi. È anche un discorso di prospettiva: se
fino a un certo punto la tradizione interpretativa si
è mossa in una certa ottica è ovvio che in seguito
si cerca di trovare altre piste, altri percorsi, altre
sfumature. È chiaro poi che se si mette in scena
Goldoni in Veneto, le aspettative sono di un certo
tipo. È un po’ lo stesso tema del rapporto tra opera
lirica e pubblico. Se, come ho fatto io, si allestisce
un’opera di Verdi alla Scala, si sa già, ancor prima
del debutto, che gli spettatori hanno determinate
aspettative, e se la proposta scenica non le soddisfa
il giudizio sarà comunque negativo, al di là del valore drammaturgico dell’operazione. Diranno sempre: «Questo non è Verdi!». Allo stesso modo se si
mettono in scena Le baruffe chiozzotte a Venezia
Sono due mondi diversissimi per tanti motivi,
alcuni anche ovvi, legati a dimensioni, numero di
persone coinvolte, budget... Da una parte ci sono
attori, dall’altra cantanti che fanno anche gli attori. Nella prosa non c’è né il direttore d’orchestra
né una partitura musicale che già stabilisce il ritmo
narrativo, quindi questo ritmo lo si può costruire
a proprio piacimento. Rilevate queste grosse differenze, però, l’obiettivo registico rimane lo stesso:
raccontare bene una storia al pubblico. Non mi
pongo mai il problema di quale pubblico mi troverò davanti, non mi chiedo se sia appassionato di
prosa o d’opera. Cerco di fare in modo che la mia
proposta sia di qualità, onesta intellettualmente e
radicata nel materiale drammaturgico su cui lavoro e che devo restituire in scena. Poi lascio che
gli spettatori giudichino. Tornando alla domanda,
lirica e prosa da un punto di vista tecnico sono realtà molto diverse (è difficile, ad esempio, chiedere a un cantante di inventare un’improvvisazione,
mentre con gli attori questo si fa di frequente), e
anche il modo di organizzare le prove è profondamente differente, ma quello che accomuna questi
due mondi, permettendomi di passare facilmente
dall’uno all’altro, è il fine che mi pongo: creare una
narrazione che sia efficace, costruire una comunicazione emotiva che transita dalla scena al pubblico. E questo vale per tutte le arti performative
e dal vivo.
50
| veneziamusica e dintorni
Lei passa con disinvoltura dalla prosa alla lirica.
Il procedimento creativo è lo stesso o cambia?
Carta canta
Le recensioni
L
di Giuseppina La Face Bianconi*
’Istituto Italiano Antonio Vivaldi,
fondato a Venezia nel 1947 e diretto
da Antonio Fanna nella Fondazione
Giorgio Cini, promuove alacremente
la ricerca sulla personalità artistica e la musica del
«Prete rosso». Escono con encomiabile regolarità
i «Quaderni vivaldiani» (Firenze, Leo S. Olschki),
ponderose monografie di autori sia italiani sia stranieri che alimentano una conoscenza sempre più
capillare e plastica dell’opera di Vivaldi. Il penultimo «Quaderno», Antonio Vivaldi: A Life in Do-
cuments di Micky White, ha il pregio di raccogliere
organicamente e di trascrivere in ordine cronologico, commentandoli analiticamente, tutti i documenti relativi alla biografia del musicista e della
sua famiglia, finora sparsi in tante pubblicazioni
diverse: peccato non avervi incluso le informazioni
tratte dai libretti delle opere e degli oratorii, cruciali nella traiettoria d’un musicista che fu in pri*
Docente di Musicologia e Storia della Musica all’Università
di Bologna
Micky White,
Antonio Vivaldi: A Life in Documents,
Firenze, Leo S. Olschki, 2013 («Studi di musica veneta – Quaderni vivaldiani»,
17), xviii-316 pp., ISBN 978-88-222-6221-9, euro 35.
Fabrizio Ammetto,
I concerti per due violini di Vivaldi,
Firenze, Leo S. Olschki, 2013 («Studi di musica veneta – Quaderni vivaldiani»,
18), xxxii-366 pp., ISBN 978-88-222-6209-7, euro 38.
Christoph Wolff,
Mozart sulla soglia della fortuna. Al servizio dell’imperatore, 1788-1791,
Torino, EDT, 2013 («Contrappunti/Musica»), xiii-200 pp.,
ISBN 978-88-6639-960-5, euro 22.
Emanuele d’Angelo,
Leggendo libretti. Da “Lucia di Lammermoor” a “Turandot”,
Roma, Aracne, 2013, pp., ISBN 978-88-548-6645-4, euro 15.
veneziamusica e dintorni |
51
Carta canta
mis compositore di teatro. L’ultimo «Quaderno»
si deve a un violinista italiano, Fabrizio Ammetto,
che si è addottorato in musicologia a Bologna e da
alcuni anni è ordinario nel Dipartimento di Musica dell’Università di Guanajuato, nel Messico.
Oggetto della sua dissertazione, qui pubblicata,
sono I concerti per due violini di Vivaldi. Si tratta
di ventotto composizioni che tra i tanti concerti
del violinista Vivaldi spiccano, e non è un caso, per
l’ampiezza delle dimensioni e per il piglio agonistico: in essi il compositore deve infatti lasciare spazio
a entrambi i solisti, vuoi esaltando la competizione
tra di loro sul piano del virtuosismo, vuoi aprendo
ampi squarci dialogici nel discorso. In altre parole,
l’organico incide sulle scelte stilistiche. Ammetto
traccia la genesi del doppio concerto, a Roma, a
Bologna; esamina le singole composizioni vivaldiane; ne determina la destinazione originaria, in qualche caso evidentemente didattica: il maestro guida
e assiste l’allieva in una gara che punta al brillante
esibizionismo tipico del genere «concerto». Il musicologo discute i dati filologici, i ripensamenti negli autografi, i casi d’incerta attribuzione, ricostruisce i due concerti incompleti, riordina le datazioni.
È un lavoro di classe, che Michael Talbot, capofila
della musicologia vivaldiana internazionale, considera «un modello di ciò che si può raggiungere con
uno studio di questo tipo».
Il musicologo tedesco Christoph Wolff, insigne
studioso di Bach e Mozart nella Harvard University, riesamina la biografia artistica e umana di Mozart sulla soglia della fortuna (Torino, EDT). Negli anni dal 1788 al 1791 il musicista fu nominato
Kammermusikus (compositore della musica di camera) dell’imperatore Giuseppe II e poi Leopoldo
II. Contrariamente a un cliché diffuso, gli ultimi
52
| veneziamusica e dintorni
quattro anni della vita di Mozart – pur nella cronica incapacità del compositore di gestire le proprie finanze – non furono una sequela di delusioni
e mortificazioni; anzi, sulle ultime composizioni
teatrali e strumentali non aleggia certo un’aura
autunnale, bensì spira la brezza di una rinnovata
primavera creativa. Prima d’essere assalito, il 20
novembre 1791, da un’infezione che in pochi giorni lo stroncò (5 dicembre), Mozart versava in una
condizione di inesausto fervore inventivo e progettuale: lo testimoniano sia le creazioni dell’ultim’anno, Clemenza di Tito e Flauto magico in testa, sia la
circostanza che la vedova Constanze, morendo nel
1842, poté lasciare ai figli un cospicuo patrimonio
derivante dai proventi editoriali delle musiche da
camera del musicista free-lance: un successo ahimè
postumo.
Ho segnalato di recente in questa rubrica l’edizione del libretto del Mefistofele di Arrigo Boito
dovuta a Emanuele d’Angelo. Ora questo italianista melomane barese, col suo Leggendo libretti
(Roma, Aracne), ci regala una raccolta di tredici
saggi monografici che coprono un secolo scarso di
storia dell’opera italiana, da Lucia di Lammermoor
a Turandot. Il grande melodramma viene indagato
«dalla parte del librettista», in un’analisi minuziosissima degli imprestiti e dei ricalchi poetici esibiti
da poeti teatrali d’alta levatura, come Salvadore
Cammarano e lo stesso Boito, o da astuti uomini
di spettacolo come Giovacchino Forzano col suo
Gianni Schicchi. I saggi – in qualche caso derivati
da programmi di sala della Fenice – si leggono con
piacere e con profitto, per la ricchezza dei rimandi
letterari e intellettuali sempre saldamente ancorati
alla lettera del testo.
Carta canta
Le lettere di Verdi
e Gaetano Fraschini
L
di Giorgio Gualerzi
’anno centenario testé trascorso, solcato in lungo e in largo alla ricerca di
testimonianze verdiane, non poteva
trascurare le figure di illustri interpreti
che lavorarono accanto e agli ordini del Maestro,
sottraendoli a un ingiustificato quanto immeritato
oblio. Fra costoro spicca per particolare importanza il tenore pavese Gaetano Fraschini, del quale fra
un paio d’anni ricorrerà il bicentenario della nascita.
Grazie alla famiglia Carrara-Verdi, gelosa (anche troppo) custode del lascito verdiano giacente
presso la villa di Sant’Agata, lo studioso Dario De
Cicco ha rivelato l’esistenza di un cospicuo gruppo
di lettere, 24 in tutto di cui 22 comprese in un arco
temporale che va dal 1857 al 1878, indirizzate dal
cantante a Verdi. Esse, come scrive De Cicco, «ci
guidano, per il tramite di due personalità dinamiche, poliedriche, pienamente inserite nel loro tempo e agenti entro ampi reticoli familiari, artistici,
storici, politici e spirituali – tra luci e ombre, accelerazioni e stasi in un mondo artistico-musicale ottocentesco che tanta parte ebbe negli sviluppi della
cultura melodrammatica».
Vari sono i capitoli che compongono questo
apprezzabile volumetto. In primo luogo come nacque, fin dagli anni quaranta, una speciale amicizia
tra musicista e interprete, che si nutrì di reciproca
stima e fiducia, facendo di Fraschini un insostituibile punto di riferimento, di cui Verdi non ebbe
mai a pentirsi. Pochissimi altri cantanti, e certamente nessun altro tenore (compreso Tamagno),
poterono, al pari di Fraschini, godere di una così
lunga e durevole attestazione di simpatia da parte di Verdi e vantare altrettanta dismetichezza con
lui. Fraschini rappresentava per Verdi una persona
nella quale aveva piena fiducia, essendo sempre attendibile e affidabile sia sul piano umano sia – ciò
che più conta per Verdi – su quello artistico. Non
a caso il Maestro lo scelse per ben cinque «prime»,
fra cui, nella parte tenorile più ardua da lui scritta,
Un ballo in maschera. E lo avrebbe voluto, se solo
le condizioni di salute glielo avessero ancora consentito, quale Radames alla Scala.
*
Critico musicale
Dario De Cicco (a cura di),
“Amico carissimo...”. Verdi e Fraschini attraverso alcune corrispondenze,
Libreria Musicale Italiana, Lucca 2013, 102 pp.,
ISBN 978-88-7096-747-0, 20 euro.
veneziamusica e dintorni |
53
Carta canta
Fraschini fu un cantante essenzialmente «in
divenire», che – scriveva Rodolfo Celletti – passò
da una fase in cui prevaleva «un canto impostato
sull’emissione di forza e sullo squillo altisonante» a
una nella quale, «fermo restando il vigore e il nitore del suono, una migliore tecnica e una più affinata sensibilità si traducevano in un fraseggiare ricco
di modulazioni e sfumature» (Riccardo di Warwick
apparteneva senza dubbio a questa seconda fase).
Le missive di Fraschini sono anche stimolanti
per la varietà di argomenti trattati. Si parla della
seconda Guerra d’indipendenza e delle condizioni
disperate in cui versava Ferdinando II di Borbone,
della città di Lisbona («paese almeno semibarba-
54
| veneziamusica e dintorni
ro»), dei baritoni Leone Giraldoni e Enrico Delle
Sedie, della pratica dello spiritismo, del brigantaggio a Napoli e della carriera fra luci e ombre del
soprano Anna de La Grange. Speciale interesse riveste infine il carteggio fra il tenore pavese e Ferdinando Guidicini, con intervento anche di Verdi, a
proposito del ruolo dei cantanti nel processo creativo. Su tutto, ed è un po’ la sigla del libro, domina
il pensiero di Verdi espresso in una lettera a Léon
Escudier del 1863: «Godo assai assai del successo
di Fraschini come se fosse cosa mia, e più che se
fosse cosa mia perchè io amo e stimo molto Fraschini». Null’altro da aggiungere, salvo una nota
di encomio per l’idea di questo prezioso libretto.
Carta canta
le «differenze» in scena
diventano libro
L
a più ampia ricognizione sul teatro
«emarginato», vale a dire quello perseguitato per ragioni politiche, ignorato o ostacolato in quanto lontano dai
centri istituzionali, quello delle minoranze etniche, religiose, ideologiche, comportamentali (dagli zingari alle donne, dai gay agli ebrei, eccetera) è
uscita da poco, per i tipi della Cambridge Scholars
Publishing. Il volume, Differences on Stage – che
si è aggiudicato il 2014 George Freedley Memorial Award, parte del Theatre Library Association
Book Awards – è però curato dall’italianissimo Paolo Puppa, celebre docente di Storia del Teatro a
Ca’ Foscari e drammaturgo in proprio, coadiuvato
da Alessandra De Martino e Paola Toninato.
L’opera, di quasi trecento pagine e ovviamente in lingua inglese, si presenta imponente nella
sua struttura suddivisa in sei macrozone, a partire da quella più «teorica», «For a Theoretical
Approach», che riunisce i contributi di Pasquale
Verdicchio (Sophisticating Action: Gramsci and
Theatre, or Can the Subaltern Act?), Gerardo Guccini (“Cultural Resistance” in the Eastern European
Countries Through the “Projet de Recherche” and
Matéi Visniec’s Dramaturgy) e Fernando Marchiori, che nel suo scritto Theatre Everywhere, Even in
the Theatre. Stage Art and the Poetics of the Oppressed raccoglie personalità e modalità sceniche
assai diverse tra loro ma tutte riconducibili agli
insegnamenti del brasiliano Augusto Boal.
La seconda parte, una delle più appassionanti, prende in considerazione alcune esperienze di
«marginalità scenica» italiane (o che con il nostro
Paese hanno un rapporto diretto), dal lavoro con i
detenuti (sempre Puppa scrive un mirabile saggio
sull’esperienza-pilota in questo senso, e non solo
entro i confini nazionali, quella Compagnia della
Fortezza diretta da più di venticinque anni da Armando Punzo con genialità e tenacia) al rapporto
tra teatro e malattia mentale, evidenziato da Roberto Cuppone a proposito dell’epopea di Marco
Cavallo, costruita nell’Ospedale psichiatrico di
Trieste coinvolgendo pazienti e medici e sotto la
direzione artistica di Giuliano Scabia.
Essendo impossibile in questa sede dare conto per intero della ricchezza del libro, ci si limita
a citare i titoli dei capitoli terzo e quarto – «The
Game of Mirrors: Romani and Jewish Theatre»
(dove si legge anche una riflessione sul teatro hyddish firmata da Paola Toninato) e «Translating the
Other» – per passare alle magnifiche conversazioni che sempre Puppa intreccia sulle «differenze»
con Lella Costa, Pippo Delbono e Daniele Lamuraglia nella quinta sezione, «Talking Theatre», al
tempo stesso densa e godibile.
Chiudono tre diverse scritture teatrali, tradotte
in inglese, che – oltre a trattare da differenti angolature i problemi connessi all’alterità e alla discriminazione – danno un saggio della vitalità della
drammaturgia nostrana: un monologo da Ragazze
(Girls) di Lella Costa, un altro da Barboni (Tramps) di Pippo Delbono, uno degli spettacoli più
poetici e belli degli ultimi vent’anni, e un ultimo,
Alcestis, di Paolo Puppa, magistralmente tradotto
da Joseph Farrell, anche autore della prefazione.
Un libro scorrevole e utilissimo per chiunque
intenda affrontare temi cruciali come questi, che
investono assai da vicino le pratiche sceniche contemporanee. (l.m.)
veneziamusica e dintorni |
55
In Memoria di Carlo
C
di Giampiero Beltotto
arlo Mazzacurati appartiene senza alcun dubbio al ristretto numero di letterati, di artisti, di pittori e di uomini
di cultura in genere che il Veneto ha
regalato alla nazione in questi ultimi cinquant’anni.
Stiamo parlando di Vedova e di Berto, di Meneghello e di Nono, di Parise, di Zanzotto e, appunto, di Carlo Mazzacurati.
C’è un motivo ricorrente che lega questi nomi:
l’universalità della produzione e la sua non autoreferenzialità. Zanzotto, certamente, poetava per
il mondo che lo ascoltava. Parise, di sicuro, non
era interessato a partecipare alla vita delle cricche
che, invero, più che occuparsi di cultura, si sono
spartite nei decenni posti e prebende.
Così l’amico Carlo produceva storie.
Il primo film che credo venga in mente a chi
abbia sfiorato la sua poetica del paesaggio umano
è Il toro. Un film che rende esplicito quell’esemplare antropologico che si è sviluppato tra l’Oglio
e il Tagliamento, in quell’ambito antropizzato,
divertente, tragico, curioso, a tratti da commedia
dell’arte che era diventato il Veneto tra la fine della guerra e l’avvento dei capannoni.
Mazzacurati ha amato delle Venezie gli uomini
56
| veneziamusica e dintorni
e le donne che le abitano e le rendono, antiretoricamente, così riconoscibili.
E un dono ci ha lasciato indimenticabile, per
cui ciascuno di voi che sia nato da queste parti
dovrebbe rendergli omaggio, imperituro omaggio: ha gettato via, finalmente!, la macchietta femminile legata alla servetta della monicelliana Carla
Gravina e quella del carabiniere stupido, legata
ai marescialli di De Sica. Magari cattivi, magari
avidi, magari pasticcioni, questi veneti, ma non
idioti.
Grazie Carlo.
Una riga per l’uomo.
Egli era gentile. Educato. Non voleva comprendere le tortuosità della politica e la logica
delle istituzioni: era un uomo bello nella sua innocente lettura di ciò che ciascuno di noi dovrebbe
essere. Che peccato averlo conosciuto così tardi.
Che peccato averlo solo sfiorato, e non stropicciato come si fa con quegli amici che sai che ti
riaccolgono sempre, di qualsiasi canagliata ti sia
macchiato l’anima.
Ci rimangono i suoi film: ci auguriamo di essere così intelligenti da riuscire a inchiodarne la
memoria nel cuore di questa civiltà di smemorati.
veneziamusica
e dintorni
Troppe regie dilettantesche e banali
di Massimo Bernardini
«La bohème»: un nuovo stile
di Michele Girardi
Strawinsky e Venezia
di Paolo Cattelan
Igor incontra Gesualdo
di Paolo Cecchi
«Elegy for Young Lovers», un’opera astratta e poetica
di Pier Luigi Pizzi
Henze: la musica, gli incontri, l’Italia
di Enzo Restagno
«L’ispettore generale»
Damiano Michieletto
secondo
I libri
di Giuseppina La Face Bianconi
Edizioni La Fenice