Untitled - Dottorato di ricerca in composizione architettonica

Riproponiamo, grazie alla gentile concessione dell’autore, il testo della proposta agli architetti di adottare, come i medici, un codice etico,
non una norma deontologica rivolta, come è oggi, a salvaguardare la professione da concorrenze sleali e da inadempienze verso i committenti, quanto una regola che impegni a proteggere il paesaggio e l’ambiente, anche costruito, in cui è riconoscibile la nostra storia e, quindi,
la nostra identità. Alla proposta, del gennaio 2014, sono seguiti dibattiti sui blog, ma non prese di posizioni di istituzioni ufficiali, Ordini,
Università, Ministeri. Tra i commenti quello di Giorgio Mirabelli sul sito http://www.amatelarchitettura.com/, ci è parso più significativo,
essendo, noi di Bloom, naturalmente, concordi con Settis e con tutti quanti hanno sostenuto la sua proposta.
IL GIURAMENTO DI VITRUVIO*
Salvatore Settis
Come i medici con Ippocrate gli architetti dovrebbero legare etica e conoscenza impegnandosi a realizzare sempre edifici di qualità evitando scempi ambientali.
Le devastazioni del nostro paesaggio sono l'opera di una perversa alleanza tra forze diverse dell'imprenditoria,
della finanza, della politica e delle mafie.
Ma ne sono responsabili anche architetti, ingegneri e urbanisti. Vorrei qui insistere sull'etica dell'architetto. Un
architetto deve corrispondere alle aspettative del suo committente chiunque sia e quali che siano le sue richieste,
o, mentre progetta e mentre costruisce un edificio o trasforma un paesaggio o una città, deve avere in mente un
più ampio orizzonte? E quale?
Il profilo etico delle professioni non è oggi in prima linea. Inoltre, solo in alcune professioni questo profilo è
stato esplicito. Il caso più chiaro è quello della professione medica e del connesso «giuramento di Ippocrate».
Appartenente al Corpus Hippocraticum e databile intorno al 400 a.C., questo testo conobbe la sua fortuna in età
moderna con le scuole mediche del Cinquecento. Poi venne rilanciato in Francia dopo la Rivoluzione Francese e
riaffermato con la dichiarazione di Ginevra della World Medical Association (1948). Il giuramento è ancora in
uso in Gran Bretagna, dove l'ultima versione è stata lanciata nel 1996. In tutte le redazioni alcuni punti-chiave restano costanti, in particolare il solenne giuramento del medico: «Regolerò ogni prescrizione per il giovamento dei
malati secondo le mie possibilità e il mio giudizio; e giuro che mi asterrò dal recar loro qualsiasi danno e offesa
(...) In qualsiasi casa io entri, giuro che vi entrerò solo per il bene dei malati, astenendomi da ogni offesa volontaria e da ogni abuso».
Vorrei ora proporre un passo di un altro autore antico, Vitruvio. Questo architetto dell'età di Augusto è per noi
straordinariamente importante per via del suo trattato «De architectura», una vasta opera in dieci libri che è il solo
trattato di architettura di età classica che sia sopravvissuto. In Vitruvio c'è un passo che delinea la figura dell'architetto ideale, indicandone le caratteristiche salienti. Si trova all'inizio del I libro: «La scienza dell'architetto richiede l'apporto di molte discipline e di conoscenze relative a svariati campi. Egli dev’essere in grado di giudicare i prodotti di ogni altra arte. La sua competenza nasce da due componenti: quella pratica, che è la costruzione
e quella teorica. La "fabrica" consiste nell'esercizio continuato e ripetuto dell'esperienza costruttiva, che si concreta quando l'architetto di sua propria mano, sulla base di un disegno progettuale, realizza l'edificio desiderato.
La ratiocinatio consiste nella capacità di esporre e spiegare gli edifici, una volta costruiti con debita diligenza,
secondo computi matematici e proporzionali.
Solo chi padroneggia sia la pratica che la teoria è dotato di tutte le armi necessarie epuò conseguire pieno successo (...). L'architetto deve dunque avere ingegno naturale ma anche sapersi sottoporre alle regole dell'arte (...).
Deve avere cultura letteraria, essere esperto nel disegno, preparato in geometria e ricco di cognizioni storiche;
deve avere nozioni di filosofia e di musica, saper qualcosa di medicina e di diritto, ma anche di astronomia e astrologia».
La citazione potrebbe continuare: per ciascuna delle virtù intellettuali (e delle competenze) del suo architetto
ideale, Vitruvio dà infatti un'articolata motivazione. Per esempio, le nozioni mediche gli servono per studiare il
clima e fare in modo che le abitazioni che costruisce siano salubri. Ora, usando i requisiti dell'architetto elencati
da Vitruvio, potremmo mettere insieme un «giuramento di Vitruvio», facendone il perfetto equivalente del giuramento di Ippocrate. Se chiunque costruisce oggi in Italia tenesse fede a un simile giuramento, nessuno avrebbe
mai osato, ad esempio, edificare numerosissime abitazioni a un passo dalle discariche di Campania e sarebbe impegnato a costruire solo “salubres habitationes”. Né questo è un problema della sola Campania. Mi basti ricordare
due soli esempi: a Crotone, i cortili di tre scuole sono stati pavimentati con tonnellate di rifiuti tossici da una vicina fabbrica; a Milano, i cantieri di un intero quartiere (Santa Giulia) sono stati sequestrati perché esso era in costruzione sopra un gigantesco deposito illegale di scorie cancerogene provenienti da stabilimenti dismessi (Montedison e acciaierie Redaelli). Eppure, il progetto di Santa Giulia era stato presentato alla Biennale di Venezia
2006 come un progetto d'avanguardia firmato da un celebre architetto, Norman Foster (viene in mente l'amara riflessione di Giancarlo De Carlo sul «fenomeno della copertura professionale» di grandi architetti in occasione di
operazioni speculative).
Se la 'World Medical Association continua ad «aggiornare» il giuramento di Ippocrate (ad esempio, cancellandone il divieto di aborto) e in tal modo ne riafferma implicitamente la perenne attualità, analogamente anche
noi potremmo, anzi forse dovremmo, chiederci di continuo quali, delle qualità che Vitruvio chiedeva all'architetto, siano ancora attuali. La storia è certamente una di queste.
Sappiamo bene quanto stia arretrando nelle scuole di architettura, in tutto il mondo, lo studio della storia in
generale, e in particolare della storia dell'arte e della storia dell'architettura: quasi fosse un peso gravoso di cui liberarsi per vivere gioiosamente uno smemorato presente. La feroce presentificazione dei monumenti storici tende
a separare la categoria della tutela, radicata nella storia, dalle pratiche della gestione, interamente determinate
dall'economia. Le urgenze del presente ci spingono a rileggere le vicende del passato non come mero accumulo di
dati eruditi ma come memoria vivente delle comunità umane. Solo questa concezione degli studi storici può trasformare la consapevolezza del passato in lievito per il presente, in serbatoio di energie e di idee per costruire il
futuro. È infatti dovere, anzi mestiere, di chi "fa storia" coltivare uno sguardo lungo, una visione delle cose e degli uomini che riguarda tanto il passato quanto il futuro, necessariamente imperniandosi sul presente ma non come spettatori passivi, bensì interpretandone le contraddizioni alla luce della storia, premessa necessaria per provare a costruire un futuro diverso e migliore. Questo è il contesto nel quale dobbiamo chiederci quale debba essere la nuova etica dell'architetto davanti alle sfide del presente. E in questo contesto, il rispetto della storia (e dei
contesti) e l'attenzione per la salute sono due facce della stessa medaglia.
* Da Il sole24ore 12 gennaio 2014
COMMENTO**
Giorgio Mirabelli
“Come i medici con Ippocrate gli architetti dovrebbero legare etica e conoscenza impegnandosi a realizzare sempre edifici di qualità
evitando scempi ambientali”
Il Prof. Salvatore Settis, con “Il Giuramento di Vitruvio” ha proposto, provocatoriamente, che gli architetti
siano vincolati sotto l’aspetto etico e della conoscenza così come lo sono i medici con “Il Giuramento di Ippocrate”. Come era prevedibile, questo articolo è passato quasi sotto silenzio soprattutto tra gli addetti ai lavori, e non è
riuscito a provocare quel dibattito che avrebbe potuto e dovuto. Questo perché Settis ha posto l’accento su un argomento alquanto “spinoso”, ma di enorme rilievo, quale è la “responsabilità” dei professionisti della progettazione, di cui quasi mai si ha il coraggio di parlare come si dovrebbe. E’ come se architetti, ingegneri ed urbanisti
non fossero tra gli attori protagonisti del processo di trasformazione del territorio, ma, a seconda dei casi, fossero
delle figure estranee o, ancora peggio, dei semplici “realizzatori” dei “desiderata” del potere di turno, sia politico
che economico-finanziario. Tutto ciò deriva principalmente da un grosso equivoco di fondo generato da un convincimento molto diffuso ed alimentato dagli stessi progettisti (in particolare dagli architetti), che sono ritenuti e
si ritengono soprattutto degli artisti. Da questa considerazione scaturisce “l’assioma” che essendo un artista, il
progettista ha delle responsabilità limitate, o addirittura nessuna (escludendo quelle di natura penale chiaramente), rispetto a chi opera scelte politiche di sviluppo e pianificazione territoriale e a chi determina quelle di natura
economico-costruttiva. Ma ratificare strumenti urbanistici di varia natura e quindi condividerne le scelte progettuali e/o firmare i progetti per le richieste dei permessi di costruire, sono o no, per un Progettista, atti di responsabilità anche sotto l’aspetto etico e morale?
“Il problema è politico: i politici devono combattere l’ingiustizia distributiva che affligge le nostre città, sta
ai politici affrontare l’emergenza generale in cui viviamo. Gli architetti si occupano di ben altre cose” (M. Fuksas).
“L’architetto cala sulla città il suo mantello per garantire che sia “alla moda”, contemporanea davvero…
Salvo poi rinchiudersi, come fa Fuksas, nell’alibi di non avere alcuna responsabilità, di essere un umile artista,
un artigiano che potrà al massimo dire “lasciamo i problemi a quelli che dovrebbero gestirli” (F. La Cecla)
La stessa cosa che, quasi un secolo fa, rispondeva Mies van der Rohe quando, in pieno regime nazista, veniva
accusato di essere un collaborazionista: “Gli artisti hanno sempre lavorato per i potenti, perché stupirsi?”; abbandonando poi la Germania solo dopo aver perso il Concorso per la ricostruzione di Berlino che Hitler affidò ad
Albert Speer. Ed anche lui parlava di sé definendosi appunto un “artista”. A conforto di questa tesi, purtroppo, e
di quanto sia radicata nella nostra professione, esiste una vasta “collezione” di affermazioni, interventi e prese di
posizioni di architetti vari e di varia caratura, da cui scegliere fior da fiore. A dimostrazione anche di una certa
arroganza ipocrita e in alcuni casi addirittura di profondo disinteresse per il problema della responsabilità sociale
e dei comportamenti etici e morali nell’esercitare la professione, senza per questo voler togliere nulla alla naturale dimensione artistica di questo bellissimo “mestiere”. Un esempio per tutti. Nel 2009 il matematico Piergiorgio
Odifreddi intervista per «la Repubblica», l’architetto Peter Eisenman,figura di rilievo e “guru” del decostruttivismo. Alla domanda “di come e cosa rispondere alle critiche che gli erano state rivolte da chi abitava nell’ House
VI da lui progettata e se lui vivrebbe mai in una casa simile”, risponde: “Io no! Non vivrei in nessuna delle case
che progetto… io posso parlare del progetto, ma non della reazione della gente: non realizzo le mie opere preoccupandomi di cosa ne dirà il pubblico, così come Joyce non scriveva ‘Finnegans Wake’ preoccupandosi
delle reazioni dei lettori”.
Solo uno sprovveduto potrebbe immaginare che Eisenman non sappia la differenza tra un’architettura ed un
libro! Ma la sua risposta evidenzia l’autoreferenzialità e l’arroganza presenti nella nostra professione, ma
in maniera preoccupante in molti di coloro che, a torto o a ragione, sono riconosciuti e/o si pongono come punto
di riferimento nell’architettura contemporanea. Perché non è possibile pensare che un libro, un quadro, un film,
un componimento musicale o poetico, insomma qualsiasi opera frutto dell’espressione artistica dell’uomo, possa
essere paragonata ad un’opera di architettura se rapportata alla peculiare capacità di incidere in modo significativo sulla qualità della nostra vita. E’ addirittura banale esprimere con un paradosso il concetto che si
può benissimo non leggere libri, non visitare mostre, non andare al cinema, non ascoltare musica e così via, impoverendo certo l’aspetto culturale ed intellettuale della nostra vita. Ma tutto ciò sarebbe dovuto solo ad una scelta individuale che non ha niente a che vedere con la qualità intrinseca dell’opera d’arte e quindi con un’eventuale
responsabilità dell’artista, che opera in assoluta libertà, seguendo solamente la stella polare della sua creatività.
Ma l’architettura è qualcosa di diverso e di più complesso. E’ nata insieme all’uomo. Fa parte indissolubilmente
della nostra vita, perché anche senza accorgercene noi “respiriamo” architettura tutti i giorni. Luoghi e spazi
che “abitiamo” nello svolgimento delle attività quotidiane e che per fortuna o purtroppo altri decidono come, perché, dove e quando realizzare e quindi opere che l’intera collettività, è costretta a subire.
“Il compito dell’architetto è quello di creare luoghi significativi per aiutare l’uomo ad abitare”.
Dove la parola “abitare” assume per Norberg-Schulz (Paesaggio, Ambiente, Architettura) un significato più
generale, riferendosi a tutte quelle “realtà costruite” che l’uomo “abita” nell’arco della sua vita. Ed è proprio questa la differenza fondamentale che fa dire allo scrittore e storico Robert Byron: “Le Gallerie devono essere visitate, i libri devono essere aperti. Gli edifici invece sono sempre con noi. La democrazia è un fatto urbano e
l’architettura è la sua arte”.
Ma il problema etico e morale non riguarda solo questo aspetto. C’è anche quello della corruzione che, specialmente in Italia, è diventato “patologico” con il 70% dell’importo totale prodotto dal mondo delle Costruzioni,
degli appalti e di tutto quello che gira intorno. Già nel 2001 la Transparency International (associazione non governativa che si occupa della corruzione nel mondo) dichiarava che il settore immobiliare copriva ben il 78% della corruzione mondiale e naturalmente noi ci siamo immediatamente adeguati. Nel suo articolo Settis parla
dell’intervento sul quartiere di Santa Giulia a Milano, in costruzione su un terreno con un enorme deposito
di rifiuti cancerogeni. Progettato da Norman Foster e presentato nel 2006 addirittura alla Biennale di Architettura
a Venezia. Diamo certo per scontata la buona fede dell’archistar Foster. Ma quando la magistratura ha sequestrato
il terreno, non ricordo alcuna dichiarazione o netta presa di posizione da parte del progettista. Come e quanto, invece, sarebbe stato opportuno, “educativo” e soprattutto “dirompente” un segnale di questa portata? Per non parlare di quello che è successo nella “terra dei fuochi” in Campania. Si è parlato delle enormi responsabilità della
“politica” e di quelle di imprese ed imprenditori. Anche in questo caso però non ho sentito denunciare, almeno
con la stessa portata, le responsabilità di chi ha firmato progetti su quei terreni, a meno che non siano tutti di natura abusiva. Ma per dirla tutta il silenzio più “imbarazzante” è sempre e senza alcun dubbio quello degli Ordini
Professionali. Alla luce di tutto ciò, parlare poi di “Qualità del progetto” in senso assoluto e completo non può
riguardare solo gli aspetti architettonici, sia formali che funzionali, ed escludere quelli etici e morali che fanno
parte di tutte le Professioni. Anche perché al tema dell’etica si legano altri concetti importanti come quelli di libertà e di dignità
“…oggi per una rinascita bisogna essere responsabili, ma per essere responsabili bisogna essere liberi, senza
condizionamenti, altrimenti non ci può essere autonomia e libertà e senza di esse non c’è responsabilità” (M. Pistoletto).
Allora forse tocca anche a noi “progettisti”, come ultimo “baluardo”, cercare di recuperare quel ruolo di protagonisti, all’interno di qualsiasi “percorso progettuale”, che la committenza pubblica e privata hanno oramai da
tempo ridimensionato e spesso annullato, con la nostra “colpevole” complicità e disponibilità. Oggi l’Italia, versa
in una situazione che è quasi un eufemismo definire drammatica, con un territorio consumato e devastato da disastri idrogeologici, terremoti e dall’abusivismo “legalizzato”, dove la qualità diffusa dell’architettura è sparita non
solo nella pratica quotidiana, ma soprattutto in quegli interventi a scala diversa che dovrebbero concorrere a definire l’identità, ma soprattutto la qualità delle trasformazioni del territorio. Oggi in Italia è ancora possibile chiedere al “progettista” un’assunzione di responsabilità? Oppure vogliamo continuare a fare come gli struzzi o come le
tre scimmiette? Nessuno è immune da colpe, ma arriva il momento in cui bisogna per forza invertire la rotta per
poter andare avanti. Poco meno di due anni fa uscì su «Panorama» un articolo di una giovane “free lance”, Maddalena Bonaccorso, che all’interno di una visione critica su architetti ed un certo tipo di architettura,
proponeva uno “squarcio” di speranza di cui abbiamo enormemente bisogno.
“Ai quattro angoli del globo giovani architetti costruiscono rispondendo alle esigenze della gente, da Johan
Anrys a Tirana, ad Alejandro Aravena in Cile, a Hu Li in Cina … avanza una nuova generazione di giovani architetti che vivono nel mondo reale e non più in quello del “distacco” da terra,…e che utilizzano parole finora sconosciute ai grandi progettisti: responsabilità, ascolto, morale, riuso, autocostruzione, dignità e spazio pubblico. Ai
quattro angoli del globo, l’architettura è diventata sociale; non è più un contenitore fine a sé stesso. E mentre gli
studi di progettazione si confrontano con i temi che stanno modificando profondamente il nostro modo di vivere e
di abitare – la crisi economica planetaria, gli sconvolgimenti delle guerre, gli insediamenti informali all’interno
delle megalopoli, l’inquinamento, gli spazi vuoti da recuperare – l’architettura torna ad essere un fondamento della morale. Perché è nella gestione dello spazio che si decide se una società diventa violenta o sceglie di non esserlo, e ogni città è una sfida che solo il rapporto virtuoso tra pubblico e privato può vincere”.
** Dal Blog “Amatelarchitettura”
CENTRALITÀ ECCENTRICHE. SUL PERIFERICO E LE SUE (POSSIBILI) QUALITÀ
Luigi Manzione
Tutto questo paesaggio periferico, immerso nel frastuono dei veicoli che sembravano essersi riuniti qui da tutte le direzioni del mondo,
gli appariva confortevole come quel paese di confine dei sogni, dove uno poteva sostare, a differenza di qualsiasi altra parte nell’interno
del paese. Sentiva il desiderio di dimorare in una di quelle baracche sparse, con un giardino posteriore che dava direttamente sulla steppa,
oppure lì sopra il deposito, dove un paralume appena acceso, diffondeva un riflesso giallo. Matite; un tavolo; una sedia. Dalle zone periferiche emanavano freschezza e forza, come in una perenne epoca di pionieri.
(Peter Handke, Pomeriggio di uno scrittore, Parma, Guanda, 1987, p. 52)
Alla moltitudine che vive nelle agglomerazioni, la periferia appare forse un habitat consueto e senza tempo. In
realtà ha una precisa origine e ragione storica: essa nasce paradossalmente come occasione di speranza, progetto
utopico per l’”uomo liberato” degli architetti moderni. Nel tempo, utopia, liberazione, speranza si sono convertite
nel loro opposto, e nessun piano, nessuna teoria sono stati realmente in grado di invertire questa fatale tendenza.
Dopo aver attraversato un destino di dannazione e di abbandono, la periferia richiede – di nuovo – un progetto di
riscatto. Un progetto concreto, non più ideologico o illusorio: la ricostruzione di “utopie concrete” a partire dalle
situazioni locali e determinate.
Ripensare la periferia
Che cos’è la periferia oggi? È individuabile un insieme di caratteri nelle diverse situazioni geografiche? Nella
molteplicità delle variabili sociali, economiche, storiche, culturali, ambientali, la periferia che ci interroga maggiormente ha poco più di mezzo secolo, e lo dimostra in pieno. È una realtà dai confini incerti, di cui può darsi
solo una definizione non univoca. Qui si rileva in primo luogo l’eclissi progressiva della città-palinsesto e la rarefazione delle gerarchie di spazi definiti nella durata, in parallelo all’emergere di nuove forme di centralità. La
concentrazione delle qualità non è più criterio esclusivo per definire la città. Indicatore e fattore di urbanità non è
più, di per sé, il centro fisico e geometrico dell’insediamento, quanto ciò che è tra i centri: margini, tragitti, spazi
intermedi. Sembra dissolversi un tipo di centralità monadica, legata alla singola città, così come diviene sempre
più evidente la confederazione, spesso spontanea, di centri, il saldarsi di insediamenti secondo forme e direzioni
variabili, lungo i segmenti di raccordo della rete dell’urbanizzato, gli assi delle infrastrutture, del commercio e
della residenza.
Senza riproporre una logica di opposizione tra centro e periferia, si può dire che quest’ultima si caratterizza
non solo per la presenza di edilizia residenziale, più o meno dispersa, ma anche di infrastrutture e manufatti che
rappresentano in un certo senso l’equivalente del monumento per la città storica: catalizzatori di paesaggi, eventi,
modi inediti di socialità. Oltre la città, i contorni della continuità si sfocano; le relazioni di leggibilità tra costruito
e tessuto si decompongono. Queste relazioni vanno ora ritrovate e rielaborate nel singolo caso, nel singolo intervento. È questo forse il compito principale del progetto urbano contemporaneo, il punto di partenza per il suo rinnovamento e per la ridefinizione dei temi e degli strumenti disciplinari.
Intesa come entità irriducibilmente altra dalla città, la periferia da speranza (nel secondo dopoguerra) si è mutata in disillusione (al volgere del millennio), in luogo della negazione. Pur nella consapevolezza di un’impresa
tutt’altro che facile, ritornare a ragionare sul progetto della periferia, considerata come città esistente, da reinventare come la città consolidata a partire dalle tracce della sua sedimentazione, significa ribaltare un punto di vista
oppositivo (o esclusivo) tra i due termini “città” e “periferia”. L’osservazione delle periferie produce, del resto,
descrizioni in parte diverse da quelle dello scorso ventennio. Descrizioni meno retoriche e più asciutte, nelle quali
si riposizionano criticamente alcune mitologie: la dispersione senza limiti, il transito incessante, l’atopia, etc. Le
periferie si tramutano in superperiferie; i non-luoghi diventano superluoghi, aggregazioni complesse di “luoghi in
cui la società lascia il suo inprint”.1 Oggi la periferia è la città: la città della maggioranza degli abitanti, in cui si
sovrappongono i segni di nuove specie di spazi (pubblici o privati, esclusivi o popolari, eterogenei, mercificati).
Ma è anche il luogo in cui si rappresenta plasticamente la progressiva crescita delle disuguaglianze, dove si materializzano le differenze tra la “città dei ricchi” e la “città dei poveri”.2
Ripensare la periferia presuppone la presa d’atto di una mutazione che non riguarda più solo la materialità dei
luoghi, ma la cultura degli individui e dei cittadini. In questo senso, la tradizionale opposizione città-periferia diventa poco credibile, tanto sul piano dei discorsi quanto su quello delle pratiche. Le periferie si connotano sempre
meno come entità geografiche – in virtù della loro eccentricità – e sempre più come qualcosa avente a che fare
con l’identità di moltitudini, per le quali diventano nuovi luoghi “centrali”, più che di comunità. Luoghi la cui
1
G. Martinotti, I superluoghi della mobilità, in Matteo Agnoletto (a cura di), La civiltà dei superluoghi. Notizie dalla metropoli quotidiana, Bologna, Damiani, 2007, pp. 29-34.
2
B. Secchi, La città dei ricchi e la città dei poveri, Roma-Bari, Laterza, 2013.
biografia appare tutta da rileggere attraverso le vicissitudini che ne hanno radicalmente mutato i caratteri nel tempo; luoghi sospesi, in attesa di accogliere qualità e significati per mezzo di un progetto di trasformazione.
Ed è anche un problema di riconoscibilità di situazioni e di processi a prima vista privi di logica e di ordine.
Appena varcati i limiti della città consolidata ritroviamo infatti un arcipelago disseminato di “isole concrete”, regolato da apparati normativi (nazionali, locali, di settore, etc.) e, nello stesso tempo, dominato da una logica individualistica di tipo NIMBY, quella della casa unifamiliare con piccolo giardino o del condominio sempre più
“securizzato” e autosufficiente. Una logica spesso assecondata, quando non alimentata, dai governi e dalle amministrazioni locali. In questa prospettiva ritornare a osservare la periferia è un atto difficile, nonostante il patrimonio accumulato negli ultimi decenni del Novecento. Il problema di fondo riguarda proprio la ricerca (teorica e
progettuale). Sappiamo che in quella che una volta era identificata come una distesa senza nome sono avvenute e
stanno avvenendo mutazioni radicali. Sappiamo dove cercare, ma non sappiamo ancora cosa cercare.
Comunità, moltitudine
In quello che fu il mondo occidentale, lo sviluppo delle periferie si è accompagnato alla riconfigurazione della
città tradizionale e all’eclissi della nozione di comunità. Che cosa è avvenuto in Italia? In un mondo globalizzato
è possibile rintracciarne le linee di specificità? Tra gli anni ’50 e ’60 del Novecento si instaura una duratura frattura nella continuità della città consolidata: in Italia, dove l’armatura di nuclei storici comprende insediamenti di
ogni dimensione (dalle metropoli come Milano, Roma e Napoli, ai medi e piccoli centri), una nuova rete di formazioni frammentarie – come quella che Arnaldo Bagnasco denomina la “Terza Italia”, o la metropoli diffusa
veneziana o adriatica, o ancora il continuum largamente abusivo tra Napoli e Salerno – si sovrappone ad un preesistente decentramento dell’habitat. Qui, come altrove, il dispiegarsi di nuove logiche insediative fa “saltare” le
regole millenarie della costruzione della città e, insieme, l’illusione che sia ancora possibile esportare nella periferia il modello della città, ricrearvi in maniera puramente analogica l’”effetto città”.
Gli universi contemporanei dell’architettura, della città e della periferia sono ormai molto distanti dal tempo in
cui Luigi Ghirri e Gianni Celati3 ci accompagnavano alla scoperta del “paesaggio italiano”: nelle dinamiche, nelle
concettualizzazioni, negli scenari, un nesso è ancora individuabile se oggi – nell’epoca della non città o
dell’anticittà4 – i meccanismi di formazione e riproduzione del costruito, sempre meno attribuibili a professionalità identificabili e qualificate, restano sostanzialmente omogenei (nei tipi, nelle forme, negli spazi), anche al di là
dei luoghi specifici della geografia peninsulare. La diffusione sotto i nostri occhi di manufatti governati, almeno
in apparenza, da un principio di anarchia – tentativi individualistici di convertire spazi in luoghi, di aggregare pêle-mêle dimensioni private e pubbliche, di far convivere attività, soggetti, potenzialità differenti e spesso incompatibili – è un processo casuale o sottintende, invece, regole più o meno formalizzate, più o meno localmente determinate?
Difficile rispondere, trovandosi di fronte una metropoli (diffusa) senza luoghi, ma anche una metropoli senza
architettura che, nel Mezzogiorno, ha peraltro una tradizione di più lunga durata. La periferia meridionale appare
sempre più monofunzionalmente residenziale, senza verde pubblico, senza spazi di aggregazione per gli abitanti;
dove lo spazio pubblico è una nozione dimenticata, le urbanizzazioni secondarie (in certi casi anche le primarie)
carenti, i servizi e le attrezzature vaghi ricordi di epoche lontane. Le modalità di occupazione del suolo, i tipi edilizi, le pratiche abitative, la frequentazione-appropriazione dello spazio pubblico appaiono qui arbitrari e aleatori,
accostati in vis-à-vis talvolta sconcertanti. Il rapporto classico tipologia-morfologia si inverte: mentre nella città
storica è la dimensione morfologica a stabilire le regole di costituzione della tipologia, nella città diffusa si osserva, al contrario, una riduzione della complessità morfologica a vantaggio della ricchezza delle soluzioni tipologiche (dei moduli di aggregazione, ripetizione, serialità/eccezione). Soluzioni spesso ottenute mediante processi di
autocostruzione in situazioni di precarietà e abusivismo diffusi.
Come spesso accade nel Mezzogiorno, questa ricchezza è il risultato della elusione sistematica di apparati
normativi non di rado ridondanti e ottusi, inevitabilmente in collisione con una “società di individui”, ovunque
consolidata. È in questo contesto che va collocata la “fine di qualsiasi regola urbanistica” che caratterizza la città
del Sud, a partire da Napoli.5 In tali condizioni, la descrizione della città diviene un esercizio complesso, non più
riassumibile nella sequenza camminare-vedere-rilevare. Occorre andare più in profondità, “entrare in contatto con
le pratiche sociali così come vengono vissute e raccontate dagli stessi protagonisti, coglierne le differenti temporalità, ricostruire microstorie, riconoscere immagini e miti diffusi, annotare ciò che ai diversi soggetti appare come un impedimento al completo dispiegarsi dei loro progetti individuali e collettivi”. 6 Occorre spostare lo sguardo sulle pratiche quotidiane, sulle temporalità (ripetitive e differenti), sulle microstorie dei luoghi e degli abitanti.
3
L. Ghirri, Paesaggio italiano, Milano, Electa, 1989; G. Celati, Verso la foce, Milano, Feltrinelli, 1989.
Stefano Boeri, L’Anticittà, Roma-Bari, Laterza, 2011.
5
Lorenzo Bellicini, “Periferia italiana ‘90”, in L. Bellicini, Richard Ingersoll, Periferia italiana, Roma, Meltemi, 2001, p. 49.
6
Bernando Secchi, Prima lezione di urbanistica, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 141-142.
4
Una ricerca sulla periferia italiana in questa prospettiva è ancora tutta da fare. Proprio osservando le cose da questo punto di vista, ci si accorge che, nel proliferare dei processi di individuazione, omologazione/differenziazione
e nel dominio della comunicazione immateriale e istantanea, il tema della comunità e delle relazioni interpersonali, per quanto indebolito, non può dirsi azzerato. La socializzazione nei quartieri e le relazioni tradizionali di vicinato sono pratiche ormai in estinzione, è vero, ma ciò non significa che la città sia scomparsa. Essa si ricompone
secondo modalità e scale diverse, di cui è difficile prevedere gli sviluppi. Si può allora riconcettualizzare il rapporto tra (rete) globale e (esistenza) locale in termini di spazio fisico e di relazioni interpersonali? Nella grande
crisi che ci attraversa, l’intensità delle migrazioni, l’accoglienza dello “straniero” in un mosaico etnico e culturale
che si proietta sul territorio, generano dinamiche che pongono un’esigenza fondamentale di riconoscimento. La
questione dell’identità, della percezione che gli individui e i gruppi hanno di se stessi, sostanzia così – in
un’epoca sempre più segnata dalla intolleranza – un’idea di società multietnica in cui sia possibile un arricchimento reciproco, a condizione che ciascuna comunità accetti di relativizzare – ossia di mettere a contatto con
l’altro – i propri modi di vita e la propria visione del mondo.7
Rammendo o visione d’insieme?
Quali sono i modi di una possibile ricomposizione e, di conseguenza, le direzioni agibili di un progetto per le
periferie? Si tratta di un progetto politico – sebbene molto diverso da quello perseguito negli anni ’60-’70 – prima
che puramente disciplinare. È forse per questa ragione che quasi nessuno finora si è arrischiato a disegnare ipotesi
e scenari concreti. Lo ha fatto recentemente Renzo Piano in un articolo pubblicato sul Domenicale del Sole-24
Ore.8 Se le periferie sono la “città del futuro”, la prospettiva del “rammendo” disegnata da Piano, per quanto “gigantesca”, appare in parte limitativa e rischia di essere ineffettuale. Le “ricette” proposte per le periferie configurano infatti un progetto senza politica, la cui attuabilità risulta tutta da verificare. Il contenimento della crescita e
dell’espansione periferica è un presupposto necessario, ma non sufficiente. Oltre che nella creazione di spazi
pubblici lontano dal centro, nella dotazione di verde attrezzato, nell’offerta di trasporto pubblico efficiente come
alternativa credibile all’automobile, il problema risiede nell’equilibrio, sempre precario, tra lo stock di abitazioni
esistenti, utilizzate e vuote. Da mezzo secolo la cultura urbanistica italiana s’interroga su questo nodo fondamentale (dai tempi della rivista Città-Classe), e più in generale sul tema dello “spreco”, senza trovare soluzioni reali
ad un ovvio meccanismo in base al quale per rendere disponibili alloggi o si opera sull’accesso alle abitazioni
sfitte o se ne costruiscono di nuove laddove è possibile: ossia in periferia, dove oltre le case non c’è nulla, o molto poco.
Costruire sul costruito, densificarlo o diradarlo, riconvertirlo, (ri)naturalizzarlo sono operazioni possibili e utili. Operazioni non derivanti però da una expertise puramente tecnica, ma scelte di campo che presuppongono un
progetto di società. Si è discusso a lungo sull’opposizione centralità-dispersione, sul modello individuale (che i
francesi chiamano “pavillonaire”) contrapposto alla residenza collettiva, e sui relativi caratteri culturali e antropologici, sui vantaggi e sui costi di tali opzioni. La costruzione nel tempo della periferia mostra l’evoluzione dei
discorsi e delle pratiche (anche di quelle quotidiane degli abitanti), riflettendo le grandi trasformazioni della società e del territorio. Quando si parla di “microchirurgia” per le periferie, si guarda allora solo ad un certo tipo di
periferia – quella progettata in opposizione alla città tra gli anni ’50 e ’70 – senza tener conto della disseminazione insediativa, largamente spontanea e anonima, del successivo trentennio, che rappresenta oggi una parte cospicua del territorio oltre la città compatta. Una pratica del rammendo ha senso nelle aree di margine, a contatto con
la “città di pietra”. Altrove appare poco perseguibile, specie dove non esistono tessuti da ricucire, ma piuttosto
reti a maglie larghe punteggiate da oggetti, grandi e piccoli, e da spazi, più o meno significativi e condivisi.
Se i processi insediativi hanno condotto alla devastazione e alla depredazione (economica, politica, ambientale) di quanto circonda i tessuti urbani storici – in molti casi, nell’Italia meridionale, alla radicale manomissione
degli stessi centri storici – è pur vero che l’emergere di nuovi bisogni nel campo della residenza e dello spazio
pubblico, in coincidenza con l’acuirsi delle differenze e delle disuguaglianze, non permette più di ridurre la periferia ad una questione di degrado, da affrontare e risolvere per via puramente disciplinare. In questa ottica, quella
del rammendo appare una nuova “retorica”.9 Le idee su cui si basa delineano una formula che, come si è detto, è
superata dalle dinamiche recenti, succedutesi alle forme classiche dell’urbanizzazione e della metropolizzazione.
In Italia siamo forse ancora lontani dallo spettro della “slumizzazione” evocato da Mike Davis 10; non è tuttavia
inutile collocare i processi in atto nel contesto della crisi globale (economica e di paradigmi), delle migrazioni,
delle mutazioni nelle forme e nelle temporalità del lavoro e del non-lavoro, etc.
7
Jürgen Habermas, Charles Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Milano, Feltrinelli, 2001.
Ripubblicato in http://renzopianog124.com/post/74931428466/il-rammendo-delle-periferie
9
conrad-bercah, “La retorica del ‘rammendo’”, zeroundicipiù, febbraio 2014 http://www.zeroundicipiu.it/2014/02/26/la-retorica-delrammendo/
10
M. Davis, Planets of Slums, Londra-New York, Verso, 2006.
8
Così contestualizzato, il problema appare quindi di ordine politico, prim’ancora che tecnico. La “medicalizzazione” del ruolo dell’architetto evocata da Renzo Piano non convince del tutto se si ripercorrono le mitologie del
recente passato: la supposta inutilità del welfare, la sicurezza, la sostenibilità, etc. È vero, la contrapposizione
centro-periferia non ha più senso. Eppure la nozione di centro, con il relativo valore economico e ideologico (nelle rappresentazioni dei cittadini, degli amministratori, degli operatori), è talmente consolidata da non lasciare intravedere, in tempi ragionevoli, equilibri possibili in virtù di azioni di corretta amministrazione, stante peraltro la
delirante complessità del quadro normativo e delle connesse procedure burocratiche. Occorrerebbe mettere mano
a una radicale riforma dell’ordinamento urbanistico nazionale e locale, puntare su pochi strumenti normativi e di
pianificazione, anziché continuare a tenere in piedi un sistema che ha fatto della farraginosità il viatico
dell’inefficienza e della paralisi.
Se nell’immediato non si può contare sulla realizzabilità di importanti standard di attrezzature, spazi aperti e
verdi, né illudersi che sia possibile soddisfare i nuovi bisogni abitativi mediante politiche esclusivamente pubbliche, si può almeno trarre profitto, con intelligenza e senso critico, dalle occasioni che, per quanto limitate, possono presentarsi nelle periferie, introducendo “qualità” e usi, promuovendo relazioni e interazioni, stimolando “partecipazione”, producendo più equità e benessere per tutti. Per quanto detto finora, ciò non significa necessariamente “traslare” la città in periferia, nel tentativo di esportarvi l’”effetto città”, ma riconfigurare gli spazi periferici a partire dal loro essere segmenti di città, apparentemente senza qualità ma dotati implicitamente di caratteri
e di attività.
L’ipotesi del “rammendo” si forma, in conclusione, in un contesto di sostanziale sottovalutazione delle implicazioni socioeconomiche e politiche sottese alla grande questione delle periferie. È un approccio da architetti che,
per non diventare tecnocrati, si propongono come medici del costruito, nei casi peggiori come tecnici del maquillage, del miglioramento locale tutto giocato in chiave microambientale e di ricostituzione figurativa di contesti
degradati e spesso violentati. Tutto ciò evita però accuratamente di operare sulle contraddizioni, lasciandole del
tutto irrisolte. Non si capisce come si possa rammendare un paesaggio costruito che nel tempo si è così dilatato,
nelle proporzioni e nella presenza, da diventare “normale”, quasi abitudinario, per la maggior parte dei cittadini.
Credere che la “tecnica” possa risolvere, da sola, i problemi di cui ci occupiamo appare largamente illusorio, dal
momento che nel loro insieme tali questioni delineano un segmento essenziale della “nuova questione urbana”
del XXI secolo.
Ci si lamenta spesso del fatto che la stampa generalista non interviene in modo critico quando si affronta il discorso della periferia. Il problema è che manca in Italia una cultura diffusa e una coscienza civica di ciò che è – o
potrà essere – la città e la periferia. L’informazione può contribuire a formare questa consapevolezza, ma non è
un compito che possa essere ragionevolmente assegnato solo ad essa. Il problema riguarda in primis la riflessione
disciplinare e la discussione politica, che con tale riflessione dovrebbe mantenere (o riaprire) un dialogo come è
stato negli anni ’50-’60 del Novecento. Non esiste, o non esiste più, in Italia un’elaborazione teorica sulla periferia, né l’interesse da parte della classe politica ad accostarsi a temi difficili, e tutto sommato pericolosi, per chi
deve gestire il territorio e i poteri ad esso connessi. Su questa assenza occorre riflettere, e da qui ripartire per costruire un progetto per la periferia considerata, al Nord come al Sud, come città esistente e da reinventare a partire
dalla sua biografia e dalle tracce della sua sedimentazione. Un progetto (politico) di urbanità, e non solo un insieme di precetti e regole per ritocchi, ricuciture, piccole e grandi chirurgie senza visione d’insieme.
[Questo scritto riprende e rielabora alcuni punti di un mio precedente articolo, “La città senza qualità”, pubblicato su archphoto (marzo
2014): http://www.archphoto.it/archives/2389 ].
RESISTENZA, ARCHITETTURA E DISTRUZIONE DELLA BIOSFERA
Mario Coppola
L'opera d'arte non è uno strumento di comunicazione. L'opera d'arte non ha niente a che fare con la comunicazione. L'opera
d'arte non contiene letteralmente la minima informazione. C'è invece un'affinità fondamentale tra l'opera d'arte e l'atto di resistenza. Questo sì. Essa ha qualcosa a che fare con l'informazione e la comunicazione in quanto atto di resistenza.
Gilles Deleuze
E' particolarmente difficile fare in conti con l'arte e in particolar modo con l'architettura in questo periodo storico, si rischia di sbagliare i calcoli e di dare giudizi approssimativi, se non addirittura errati. I numeri del male
odierno sono noti e descrivono un andamento che parrebbe essere privo di speranza: le calotte polari si sciolgono
ogni giorno di più insieme a ghiacciai di dimensioni bibliche, e i poveri orsi polari sono solo le prime vittime, diciamo una specie di ammonizione.
La deforestazione avanza con ritmi impressionanti direttamente proporzionali alla diminuzione della biodiversità: dai dati diffusi da Greenpeace, in Amazzonia, l'ecosistema più ricco del pianeta (ospita circa sessantamila
specie di piante, mille specie di volatili e più di trecento specie di mammiferi), la foresta occupa un’area di circa
6,5 milioni di chilometri quadrati (pari a circa il 5% della superficie terrestre) e tra il 2000 e il 2007 la deforestazione è avanzata a un tasso medio di 19,368 chilometri quadrati all’anno. Questo significa che in sette anni oltre
154 chilometri quadrati di foresta sono stati distrutti1, e con loro tutte le specie vegetali e animali che vi abitavano. Allargando gli orizzonti al resto del pianeta scopriamo che ogni minuto che passa viene distrutta una superficie di foresta primaria pari a trenta campi di calcio: insieme agli alberi capitolano interi ecosistemi, e con essi decine, centinaia di specie animali e vegetali smettono di arricchire la biosfera con la loro specifica neghentropia,
vale a dire l'ordine e la complessità della vita di cui l'uomo si nutre in tutti i sensi possibili (biologico, psicosomatico, spirituale).
Si prevede che nel 2050 la velocità del biocidio aumenterà di mille volte (cioè qualcosa del tipo trentamila
campi di calcio al minuto, che corrispondono a 225 milioni di metri quadrati): a quel punto lo scenario apocalittico del film "Elysium" diverrebbe realtà in brevissimo tempo, e la Terra si trasformerebbe in una landa desertica
ricoperta di baraccopoli brulicanti di esseri umani disperati, intenti a sopravvivere tra tumori e malattie infettive,
morendo lentamente a causa dell'assenza generalizzata di alimenti, acqua e felicità.
Secondo la comunità scientifica si tratta della sesta grande ondata di estinzione di massa e la prima a responsabilità interamente umana: risulta ormai evidente che è il modello stesso di sviluppo fin qui perseguito ad essere
colpevole del processo di distruzione ed è chiaro che qualunque sforzo culturale, prim'ancora di quelli tesi alla
pacificazione dei conflitti intestini al mondo antropico, deve essere rivolto a scongiurare il pericolo di questa catastrofe. Se questi sono gli anni marchiati dalla mareggiata umana che investe il pianeta, il ruolo dell'arte come
resistenza nei secoli a venire è certamente un ruolo ecologico, di resistenza anzitutto alla distruzione della biosfera: rispetto a questo ruolo, come sempre, l'arte può assumere atteggiamenti differenti e persino apparentemente
opposti pur restando arte, come accadeva con il Guernica di Picasso, che raffigurava in maniera truculenta e iperrealista il male e il peggio possibile della civiltà umana - la guerra - e la Joie de vivre di Matisse, che invece tentava di plasmare un'armonia di compossibilità - persone, coppie, gruppi, alberi e animali - in simbiosi tra loro.
Se Picasso sceglieva di usare disarmonie, stridori e "bruttezza" per dar vita a una figura capace di estrinsecare
la violenza umana, nel panorama architettonico attuale ruolo simile sembra essere quello dell'architettura "brutta",
cacofonica di Rem Koolhaas, che estremizza esplicitamente individualismo e prevaricazione - fuck the context e
bigness - in una costruzione estremamente belligerante e tagliente, che mette in scena con notevole forza
quell'ammasso/congestione conflittuale di individui in guerra e competizione perpetua che, come i grattacieli, affollano e si spintonano nelle megalopoli odierne che a loro volta affollano ed essiccano la Terra. A differenza di
Picasso, il quale palesemente dipingeva Guernica per esorcizzare e forse scongiurare il male a venire, certo non
per aumentare il proprio guadagno, è evidente il punto di "debolezza" - o, a seconda del punto di vista, di forza di Koolhaas, le cui architetture finiscono in bilico tra l'essere "provocazione" che "ammonisce" e una cinica opportunità di profitto che cavalca e promuove il più bieco individualismo (è piuttosto difficile dimostrare una funzione "educativa" o anche solo "trasformativa" di senso opposto); malgrado sia chiaro che sarebbe impossibile
"vendere" e far costruire un'architettura affermandone apertamente la bruttezza, la negatività e la funzione "di
1
I dati sono riportati dal sito internet di Greenpeace, che riguardo l'Amazzonia specifica: "Il Brasile è al quarto posto nella classifica dei
paesi emettitori a livello globale. La deforestazione e il cambio d’uso dei suoli forestali causa il 75% delle emissioni del paese. Di questa
percentuale il 59% proviene dalla perdita di copertura forestale e dagli incendi nella regione amazzonica. La causa principale di questa distruzione è l’allevamento bovino, in linea con l’aumento dell’export brasiliano di capi bovini e carne. Si stima che l’Amazzonia conservi
tra 80 e 120 miliardi di tonnellate di carbonio. Se queste riserve di carbonio venissero distrutte, si emetterebbero in atmosfera una quantità
di gas serra pari a cinquanta volte quelle prodotte dagli Stati Uniti in un anno." Dal sito internet di Greenpeace online all'indirizzo web:
http://www.greenpeace.org/italy/it/campagne/foreste/amazzonia/
monito", risulta altrettanto ovvio che non è più possibile attendere gli esiti di tali operazioni nella speranza che
possano intaccare la coscienza capitalista prima della catastrofe annunciata.
Dall'altra parte, la prospettiva radicale del prato vivente - e privo di città - di Matisse potrebbe trovare una eco
nell'esilio di Paolo Soleri, morto poco più di un anno fa: il tentativo di plasmare un'architettura/città come manifesto di una convivenza armonica con l'ecosistema terrestre lontano dalle metropoli è certamente coraggioso e
ammirevole ma forse, in un bilancio globale, ugualmente assai poco incisivo (ricorda da vicino talune esperienze
politiche radicali che, pur consapevoli di essere completamente al di fuori di una dimensione popolare e quindi
realizzabile in un sistema democratico, anziché tentare di migliorare "dall'interno" i grandi movimenti politici,
combattendone corruzione e sciatteria, preferiscono una schiacciante sconfitta rispetto a una - certamente meno
"eroica" - presa d'atto e compromissione con le forze maggioritarie di segno simile, si pensi in questi giorni alla
proposta politica di Alexis Tsipras, "L'altra Europa").
Ciò nonostante, in un'ottica positiva l'esperienza di Paolo Soleri riesce ad affermare con forza che un cambio
di paradigma culturale in vista di una ecologia planetaria implica una trasformazione altrettanto radicale dell'assetto architettonico, e non soltanto per diminuire drasticamente l'impatto "ambientale" dell'habitat antropico (è
noto quanto l'architettura tradizionale sia "costituzionalmente" insostenibile dal punto di vista energetico e ambientale, dal momento in cui, malgrado frangisole e pannelli fotovoltaici, è proprio l'edificio "classico" a non essere concepito per stabilire una simbiosi con l'ambiente circostante; se così fosse l'architettura non risulterebbe
come elemento "alieno" rispetto al paesaggio naturale, e la sua morfologia e il suo linguaggio sarebbero "simili" a
quelli di ogni altra formazione organica o inorganica del pianeta). L'esortazione più fertile di Soleri, in questo
senso, è che se il sostantivo dell'architettura è lo spazio, e quindi la sua forma e la sua struttura (che diviene architettura, città e megalopoli), deve essere quest'ultimo - lo spazio - a essere ecologico prima di ogni altra cosa, prima di essere riempito di vegetazione e acqua, prim'ancora di utilizzare le ultime tecnologie a disposizione per diminuire costi energetici e produrre energia alternativa. E' lo spazio a dover comunicare in maniera inequivocabile
il cambiamento che vuole l'uomo come parte della Terra e della biosfera, e non più virus o massa tumorale che
avanza e si riproduce a spese del resto dell'ecosistema; perciò dell'esperienza di Soleri è impellente comprendere
che l'architettura stessa, le sue figure, le sue tessiture e il suo linguaggio, deve diventare strumento di comunicazione, grimaldello culturale in grado di trasformare la sensibilità umana attivando un processo di "ecologizzazione" anzitutto popolare e di massa.
Roma - la città occidentale per sua natura "infinita", e quindi la metropoli e la megalopoli che da essa derivano, come ricorda Massimo Cacciari - si è costituita, come tutte le individualità viventi, nello stadio infantile a
partire dalla costruzione della propria individualità, cioè del muro di cinta; a partire dall'uccisione di Remo che ne
scavalca il confine minandone l'emancipazione dall'esterno e, quindi, l'autonomia. In seguito l'adolescenza
dell'umanità - che si trascina da troppo tempo, come ammonisce Edgar Morin - come tutte le adolescenze è stata
conflittuale e si è manifestata con guerre, prevaricazioni e competizione: è forse giunto il momento di un'età matura che riapra il "muro" di un'individualità ormai non più necessaria, visto che ormai è la "natura" a doversi difendere dall'uomo e non più viceversa, come dimostrano gli accadimenti ai confini tra città ed ecosistema - le cui
barriere sono di fatto i nuovi muri di Berlino della contemporaneità - dove animali spauriti si gettano in una disperata ricerca di cibo che finisce con una morte violenta. D'altro canto, è facile cadere nella retorica della "sostenibilità" - che a ragione Morin definisce palliativo insufficiente - come risposta salvifica: l'"aumento di efficienza" e il conseguente risparmio energetico (si pensi ai "progressi" fatti nel campo dell'automobilistica con motori
capaci di prestazioni sempre maggiori con quantità minori di carburante e di gas di scarico) non può essere la
strada di una modificazione reale dell'attuale processo di sviluppo tecnologico. Non è possibile pensare di guardare le "performance" giudicando con gli stessi parametri di sempre - quelli del paradigma "cartesiano" di un
progresso scientifico che vede il mondo come strumento anziché fine da amare e con cui coesistere - e quindi anche nel caso dell'architettura il problema non è certo quello di uno spazio più "performante" in termini di "produttività" o efficienza comunicativo/distributiva (come vorrebbe la "Semiologia parametrica" di Patrik Schumacher,
che promuove geometrie curvilinee estremamente intricate e articolate che dovrebbero "migliorare" il network
dell'economia post-fordista e finiscono con lo schiacciare il contesto, come accade nella limousine parametrica
del Galaxy Soho a Pechino, che investe le baraccopoli all'esterno).
Al contrario, un cambio paradigmatico di questo tipo potrebbe significare una diminuzione di alcuni dei valori
con cui siamo abituati a giudicare spazi e architettura in vista di un significativo aumento in termini di biodiversità e quindi di coesistenza, che diventano i nuovi parametri di giudizio di riferimento (tornando alla metafora automobilistica, il motore elettrico sviluppato negli ultimi anni nei laboratori della Tesla, che a breve saranno in
vendita a costi popolari in tutto il mondo, non è affatto una "evoluzione" popperiana del motore a scoppio, ma al
contrario un cambio radicale - incommensurabile, direbbe Kuhn - di struttura e tecnologia, che riprende e sviluppa il motore ideato da Nikola Tesla tra la fine dell'ottocento e l'inizio del novecento, forse perdendo in velocità
ma “guadagnando” in ecologia e persino in spazio interno disponibile).
Un architetto di rilievo nel campo dell’architettura contemporanea che si occupa del problema dell’ibridazione
della forme architettonica con quella biologica è l’olandese Ben Van Berkel, co-fondatore dello studio internazionale UNStudio, la cui sigla sta per “United Network”.
Van Berkel fa parte della “terza generazione" di progettisti dopo quella decostruttivista di Peter Eisenman e
quella “post-decostruttivista” di Zaha Hadid, e come Greg Lynn anche l’olandese studia sui libri di Deleuze – in
particolare “La piega. Leibniz e il barocco” – e prende parte attiva nella ricerca morfogenetica degli anni ’90. I
concetti post-decostruttivisti di “differenza”, di transizione, di topologia, delle proprietà intensive (opposte a quelle “estensive”), di popolazione e affollamento costituiscono l’humus culturale nel quale l’architetto di Amsterdam
conduce la propria ricerca formale fin dal principio, senza cadere nel malinteso di Lynn secondo cui il cuore della
ricerca della "piega" sarebbe il calcolo differenziale, e quindi la ricerca di una forma sempre più fluida, organica
e bio-mimetica. Il direttore di UN Studio, infatti, coltiva l’hobby della pittura in una visione multi-disciplinare di
architettura come arte collettiva, “rizomatica”, nella quale convergono e si intrecciano diversi saperi – come nel
diagramma deleuziano in cui la gerarchia ad albero cede il passo al criss-crossing "orizzontale" della rete – senza
escludersi l’un l’altro e senza fondersi mai interamente in una creazione "totalizzante". Una ricerca
sull’”ibridazione”, sulla transizione come chiave di fertilità e fecondità che non scivola nel nuovo “ismo” e non
insegue il “blob” come "nemico" e opposto del “cubo” – come parrebbe essere quella di Lynn, nelle sue definizioni di “blob architecture” e simili – ma che incentra le proprie energie proprio sul passaggio, sulla “trasfigurazione” della figura architettonica tradizionale che viene topologicamente “deformata” restando però latente, divenendo trans-figura arricchita dagli apporti dell’ingegneria infrastrutturale, della biologia, della sociologia sistematizzata e di altri saperi, costantemente mossi e direzionati dalla creatività, dalla sensibilità e dell'etica
dell’architetto. Un’architettura-arte del network, come suggerisce il nome dello studio, nella quale confluiscono i
programmi computazionali e algoritmici senza divenire “fine”, restando strumentali a un arricchimento e a
un’espansione della sintassi, del lessico e quindi della semantica architettonica, che si naturalizza attraverso innesti collaterali e plurali, lasciandosi “trasformare” dagli studi sui percorsi minimi e sulle connessioni – ereditati da
Frei Otto e Antonì Gaudì – e sulle interazioni sociali oltre che dalle scienze prettamente biologiche sull’autoformazione delle strutture viventi. Il risultato di un simile lavoro è una spazialità intensiva, naturalizzata e intessuta, un’architettura di transizione che mostra la ricchezza della prossimità e della connessione tra essere umano
e animale, tra civiltà e biosfera, tra uomo come “artificio” ed organismo biologico e infine tra cultura umanistica
e cultura scientifica che divengono una cosa sola, un intreccio osmotico che ripara la frattura cartesiana proponendo una trans-architettura “reticolare” come coesistenza di incompossibilità in simbiosi. Questo tema della
transizione e della trans-figura come ibrido di artificio e origine biologica è evidente nella chiave espressiva che
Van Berkel utilizza di frequente (usando, nel suo sito internet, l'immagine di un volto "ibrido", trasfigurazione
umana/animale), dando vita a una composizione meticcia, ottenuta da una linearità continua ma allo stesso tempo
poligonale e “spezzettata” che evoca la calligrafia della texture di Amsterdam, risultato di secoli di mediazione e
di compromesso tra la forma dei canali naturali e la geometria urbana composta da lotti più o meno rettangolari.
L’intreccio e l’ibridazione, nodi cruciali del lavoro di UNStudio, si trasformano in un’architettura spazialmente
ecologica, una spazialità come zona di indistinzione e incontro, oscillazione tra polarità un tempo trattate come
opposti separati - ancora una volta ritorna il dualismo soggetto/oggetto cartesiano - che qui divengono tutt'uno,
ambiente striato dove venature di tecnica si tessono con ispirazioni artistiche, generando un progetto dove interno
ed esterno, anzitutto, scompaiono e dove lo spazio antropico diviene "estensione" ed "espansione" di quello nonantropico, "naturale". E' quanto accade, ad esempio, nella Möbius House (Het Gooi, Paesi Bassi, 1993 - 1998),
che prende il nome dal celebre matematico e astronomo tedesco August Ferdinand Möbius (1790 - 1868) inventore del noto "nastro" bidimensionale che, nello spazio tridimensionale, ha una sola linea di bordo e una sola faccia (per mezzo di una torsione della sezione). Il concetto matematico del nastro, che concretizza una continuità
totale tra esterno ed interno - che letteralmente sconfinano ciascuno nell'altro - si trasforma in spazio architettonico nella casa di Het Gooi, pensata come "secrezione" materica del ciclo giornaliero di vita della famiglia immersa
nella natura. Gli spazi collettivi della casa non sono più semplici stanze, uguali di fatto alle camere da letto, ma
sono invece punti di intersezione dei flussi molteplici che costituiscono l'involucro dell'edificio: spazi multidirezionali, aperti, manifestazione del concetto di indistinzione e intreccio che a loro volta plasmano una scocca
unica, descritta da una geometria elastica e adattiva incastonata nel terreno, che, pur essendo poligonale e "discretizzata", non si proietta al di sopra degli alberi e del suolo naturale ma ne fa parte, ne costituisce indurimento,
"architetturalizzazione". Un ottimo esempio della figura architettonica tradizionale che viene naturalizzata e trasformata in una trans-figura tipo/topologica è rappresentato dalla Mirai House (Laiden, Paesi Bassi, 2009 2012): il complesso di laboratori e uffici si dispone secondo una tipologia a corte con giardino centrale che però
si flette, piega e si adatta in maniera estremamente elastica al lotto, aprendosi letteralmente sull'asse viario principale. In questo modo il corpo dell'edificio - che mantiene la struttura spaziale a corte interna - si relaziona al proprio contesto come una forma di vita: il volume esterno, sintetico e spigoloso, diviene una superficie topologica,
carapace organico che si "contrae" e si abbassa, restando continuo, sia per ragioni psicosomatiche - evitando una
struttura introversa, chiusa in se stessa e quindi separata dall'esterno - sia per ragioni "fisiologiche", muovendosi
a seconda dell'esposizione per modulare e direzionare l'irraggiamento solare in entrata. Lo stesso tema della
"transizione" dalla forma "rigida" - quasi ortogonale - a quella organica e relazionale si manifesta all'interno, dove laboratori e uffici si dispongono in maniera semplice, secondo divisioni e schemi "funzionali" tradizionali, per
poi articolarsi nella geometria composita che intesse gli spazi connettivi "di mediazione", senza fratture né tagli,
in una armonia di compossibilità dove geometrie diverse - dal rettangolo puro alla forma irregolare tridimensionale - convivono tenute insieme da una bio-antropo-logica unitaria e coerente. Il risultato è un edificio a corte vivente, un'architettura post-decostruttivista "bio-antropica" in cui storia e cultura coesistono organicamente con il
corpo e l'"origine biologica": la distinzione tra elemento "umano" ed elemento naturale viene annullata in una costruzione "strutturalmente" e "costituzionalmente" ecologica, in cui i giardini e la vegetazione si trovano "all'interno" del lessico, della sintassi e della figura architettonica prim'ancora che sulla copertura del volume, che si
schiude come un tulipano.
TECNOLOGIE SOSTENIBILI E PROCESSSI DI TRASFORMAZIONE DEL COSTRUITO
Alfonsina Gentile
A metà del XVIII secolo, l’introduzione delle nuove tecnologie industrializzate, ha modificato radicalmente le
tecniche costruttive e i processi di lavorazione. I procedimenti trasformativi, non solo hanno riguardato l’aspetto
materico e costruttivo degli edifici, attraverso l’utilizzo del cemento armato e delle ossature metalliche, che hanno rivoluzionato la tradizionale soluzione in muratura portante di tipo massivo, ma anche la possibilità di mantenere e a volte migliorare le qualità ambientali caratterizzanti la tipologia costruttiva tradizionale.
Da allora fino ad oggi, la ricerca scientifica e l’avanzamento tecnologico hanno raggiunto risultati sia in termini qualitativi sia prestazionali fino a qualche tempo fa inimmaginabili. L’apporto delle nuove tecnologie
all’interno del progetto architettonico, è stato talmente determinate, che oggi non si può prescindere dal parlare
dell’aspetto formale e spaziale della configurazione se non unitamente a quello tecnologico che ha influenzato
notevolmente i comportamenti esistenti. Le innovazioni introdotte, oltre a riguardare il piano delle tecnica, mero
strumento o metodo finalizzato alla produzione, non si limitano a modificare esclusivamente procedure o macchinari, ma implicano cambiamenti sul piano degli atteggiamenti metodologici e conoscitivi, dando luogo alla
manifestazione di nuove sintassi, che prendono forma proprio attraverso l’introduzione e l’utilizzo delle nuove
tecnologie, e che quindi vanno ad assumere un valenza conoscitiva, e non solo utilitaristica.
La cultura della tecnica non può essere ridotta a un mero atto pratico, né tantomeno la cultura del progetto
può essere ristretta esclusivamente all’atto creativo, il quale anzi può e deve ampliare i suoi orizzonti attingendo
al mondo della tecnica. L’apporto tecnologico all’interno della disciplina architettonica oggi si è spostato dal piano deterministico, esclusivamente fatto di scelte tecniche e materiali, all’intero processo edilizio, dalle fasi di
ideazione a quelle di dismissione ed eventuale recupero di un’opera. L’architettura viene ad essere così investita
dai caratteri propri alla metodologia scientifica, rilevabili nell’oggettività, nella trasmissibilità e nel controllo sperimentale, grazie ai quali può assumere valenza culturale, e nuovi contenuti. Tali connotazioni che per il Movimento Moderno rappresentavano solo una linea di tendenza, durante il secondo dopoguerra, trovano terreno fertile per la loro piena maturazione. La produzione edilizia nel periodo della ricostruzione è infatti caratterizzata dalle modificazioni dei modelli produttivi tradizionali, grazie all’introduzione e all’utilizzo delle nuove tecnologie
industrializzate nei diversi settori. La necessità ottimizzare le tecniche ed i meccanismi che ne regolano il processo inducono trasformazioni sostanziali nel campo della stessa ricerca tecnologica, la quale si innesta nella sfera
della progettazione architettonica, in un sistema culturalmente e scientificamente strutturato.
E’ solo negli anni Settanta, con l’embargo del petrolio, e la presa di coscienza della limitatezza delle risorse,
che si comincia a porre l’attenzione alla questione ambientale. La crisi di quegli anni, dovuta non solo alla mancanza di petrolio, ma anche a particolari condizioni di mercato, mette in difficoltà l’intera economia occidentale,
che si basava fino a quel momento sulla disponibilità di energia a basso costo. E’ la crisi dell’intero modello di
organizzazione economica, caratterizzato dalle grandi concentrazioni, e da strutture di tipo centralizzato. Da qui
la necessità di impostare nuovi modelli produttivi, più consoni ad uno sviluppo equilibrato, attraverso l’utilizzo di
tecnologie innovative ed appropriate e un uso consapevole e razionale delle risorse. Si generano numerosi dibattiti sulla “questione ambientale” e su quello che viene definito “sviluppo sostenibile”. L’alterazione dell’ambiente
a scala planetaria, viene attribuita alle implicazioni derivanti dai nuovi indicatori economici dei paesi industrializzati, e pertanto si pensa alla necessità di delineare nuovi modelli di sviluppo che possano garantire alle generazioni future una quantità di risorse ambientali almeno pari a quelle contemporanee. Da qui la necessità di trasformazione dei modelli di utilizzazione dell’energia, attraverso il ricorso a risorse naturali rinnovabili, e
all’assunzione dei principi della bioclimatica come principi ispiratori del progetto d’architettura. Si valorizzano le
potenzialità del luogo, sperimentando nuovi materiali e tecnologie, le cui prestazioni debbono essere progettate
attraverso un processo di manipolazione che reinventi una filiera produttiva a basso impatto ambientale nella utilizzazione di energie rinnovabili.
Cambiano i comportamenti, cambiano le tecnologie, cambia l’architettura nei suoi aspetti configurazionali e
spaziali, muta anche il concetto di benessere. Fino a un certo punto della nostra sessa storia, infatti, il concetto di
benessere è inteso solo in termini di soddisfacimento prestazionale a determinati requisiti; ora subisce un evoluzione, venendosi a riferire non solo a fattori fisici, (sicurezza, stabilità, microclima, rumore, illuminazione, radiazione, inquinamento…) ma anche a quelli psicofisici. La questione ambientale, il concetto di vivibilità, non possono così considerarsi degli specialismi, ma condizioni necessariamente intrinseche al progetto d’architettura, ed
è grazie all’utilizzo delle nuove tecnologie che si possono delineare quadri di valori possibili all’interno dei quale operare, onde rispondere alle diverse esigenze in relazione al contesto temporale, spaziale e sociale al quale ci
si riferisce. Il costruire rappresenta la modificazione artificiale dello spazio naturale che l’uomo opera per genera-
re il proprio habitat a seconda delle proprie esigenze; ma questo deve necessariamente non contrapporsi, quanto
integrarsi con l’ambiente circostante, in modo da non alterarne l’equilibrio. Le azioni che gli uomini compiono
per generare il proprio habitat sono regolate ed orientate dai processi tecnologici che trasformano continuamente
flussi di materia, energia e ed informazione in entrata e in uscita. Grazie all’utilizzo della tecnologia che può rappresentare quindi un tramite fra l’uomo e l’ambiente è possibile tentare di gestire tale rapporto, contribuendo a
sviluppare un senso critico verso scelte appropriate e sostenibili.
Tutta la cultura progettuale contemporanea, è orientata in tal senso, ovvero nel tentativo di cercare soluzioni
possibili efficaci ed efficienti, per garantire la qualità della vita ad una quantità sempre maggiore di individui, evitando lo spreco e la distruzione di un patrimonio ambientale non più rinnovabile, attraverso strategie di sviluppo sostenibile. La sostenibilità delle tecnologie richiede una gestione complessa, nonché la precisazione di tecniche e forme idonee ad un’innovazione equilibrata, attraverso la ricerca di compatibilità, misura degli interventi,
scelta e messa a punto di soluzioni che consentano la riduzione degli sprechi, la salvaguardia ed il recupero
dell’ambiente naturale ed antropizzato. Il tutto secondo un modello ecologicamente sostenibile, ma tecnologicamente avanzato, finalizzato a ridurre l’utilizzo di risorse senza incidere con una indiscriminata crescita in peso e
volume dei prodotti, come è invece caratteristico nelle tecniche di produzione di massa. Individuare soluzioni
progettuali e tecnologiche appropriate, in grado di relazionarsi opportunamente al contesto ambientale di riferimento, oggi non può essere una scelta all’interno dell’ intero processo progettuale, ma un imperativo categorico.
L’utilizzo delle nuove tecnologie appropriate che utilizzino fonti energetiche rinnovabili, può diventare per il
progetto d’architettura motivo di sperimentazione non solo meramente tecnologica o impiantistica, ma anche
formale e spaziale, in quanto non bisogna considerare la tecnologia stessa esclusivamente un supporto ambientale in grado di risolvere qualsiasi problematica o deficit. L’evoluzione tecnologica, il progresso, hanno dato
all’uomo l’illusione del predominio sulla natura, dell’autosufficienza, rispetto ai condizionamenti imposti
dall’ambiente. Da qui il fraintendimento della tecnologia quale mezzo attraverso il quale l’uomo potesse avere un
controllo sulla natura, e potesse intervenire sulla modificazione dell’ambiente, nella sempre maggiore convinzione che attraverso la tecnologia si potesse riprodurre in termini interamente artificiali un habitat idoneo alle necessità abitative umane. Oggi invece non appare più pensabile operare per l’uomo a discapito dell’ambiente in
cui egli stesso vive e, in generale, l’architettura deve far propria la condizione di sostenibilità, e gestire la complessità degli interventi attraverso soluzioni appropriate e consapevoli, durante l’intero ciclo di vita dell’edificio.
L’edificio non può essere pertanto progettato come un elemento statico convenzionale, ma deve essere considerato come un elemento dinamico ed interattivo, che dialoga continuamente con l’ambiente esterno. Bisogna
considerarlo come un organismo vitale, che interagisce con l’ambiente, ed ha comportamenti differenti in base
alle diverse sollecitazioni. Poiché le variabili derivanti dalle condizioni esterne sono indeterminate e molteplici, è
opportuno che l’edificio sia interattivo, progettato per avere un comportamento dinamico, adatto ad accogliere
soluzioni flessibili ed integrate, e che sia in grado di innescare processi di autoregolazione. Gli edifici sostenibili,
sono pertanto, banalmente, quelli che usano energie passive, quanto quelli dinamici, che utilizzano flussi variabili di materia e diverse composizioni energetiche. Il concetto di sostenibilità quindi non deve essere soltanto inteso come mero risparmio di risorse esclusivamente nella fase iniziale di progettazione, ma deve accompagnare
l’intero processo edilizio per un uso efficacie ed efficiente dei diversi mezzi, capace di garantire e promuovere
valore al flusso di materiali, energia ed informazione all’interno della complessità del progetto lungo l’intera durata degli edifici progettati.
L’innovazione tecnologica, i nuovi materiali rappresentano una grande potenzialità per il settore delle costruzioni, non solo per le prestazioni che possono offrire, ma anche per l’impatto che possono avere. L’innovazione
più che essere rappresentata dall’applicazione di una tecnologia o dall’utilizzo di un materiale, per esprimersi nella sua totalità, necessita di un approccio di filiera. La questione non può essere riferita ad una semplice tecnologia
o materiale da costruzione in sé, ma piuttosto all’intero processo costruttivo auspicando un approccio integrato,
promuovendo attività di collaborazione e sinergia tra i diversi attori coinvolti: produttori, fornitori di materiali,
tecnologie e servizi, centri di ricerca, adottando misure tali da favorire la creazione di reti e strutture per la realizzazione di percorsi di ricerca condivisi. Le soluzioni tecnologiche del resto non sono di solito univoche e predeterminate ma, individuata una problematica, si può definire una gamma di soluzioni possibili, appunto processi
e tecnologie, che devono necessariamente avere carattere di “appropriatezza” in relazione al contesto ambientale
sociale ed economico a cui si riferiscono, onde individuare gli interventi sostenibili, i quali devono mirare al perseguimento di obiettivi sia di lungo che di breve termine, cercando un punto di equilibrio, fra le diverse esigenze,
e i diversi fattori che rendono un intervento sostenibile.
Le tecnologie innovative ed appropriate, rappresentano lo strumento materiale attraverso il quale ciò può essere realizzato, ma al contempo non si può ridurre la sostenibilità a semplice innovazione, scienza, o tecnologia.
Non si può ignorare la straordinaria importanza di quanti potremmo definire “ispiratori di concezioni di architettura”, la cui opera visionaria consiste nell’elaborazione di una visione d’insieme per mezzo della quale è possibile
collocare in un nuovo contesto i numerosi risultati specifici ottenuti nel campo delle scienze naturali e della ricerca tecnologica. Le nuove tecnologie sostenibili si sviluppano rispetto ad uno scenario processuale riguardante, da
una parte, il controllo del processo di produzione e gestione delle trasformazioni ambientali (sia riferite agli interventi di nuova costruzione che di riqualificazione dell’esistente), dall’altra il presupposto strumentale per la
verifica del risultato finale. Pertanto la peculiarità del progetto di architettura oggi risiede nella sua complessità, e
nella capacità di contemplare al suo interno sia le istanze dettate dall’uomo sia la salvaguardia ambientale. Ciò
richiede al progettista una varietà di conoscenze e di competenze che spesso non è possibile maturare e che implica la capacità di comprendere l’intera filiera del progetto allo scopo di coordinare le competenze richieste.
L’eco-sostenibilità di un progetto, non solo sta nell’effettuare scelte progettuali ecocompatibili, ma nel ricercare
una sinergia tra linguaggio, innovazione tecnologica, natura ed ecologia del costruito, programmando e gestendo
i diversi processi che si vanno a generare e che non possono avere carattere di casualità, essendo necessario conoscere a monte quali implicazioni ogni azione, ogni scelta, possa determinare. Solo una sinergia fra mondo della
ricerca e quello della produzione , potrà garantire che nel settore delle costruzioni si possa giungere alla definizione di un prodotto “industriale” che determini interventi consapevoli e sostenibili.
Bibliografia
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«Il progetto sostenibile» n. 27, L'impronta ambientale del costruito, 2010
«Il progetto sostenibile» n. 28 ,Recupero e conservazione tra innovazione e permanenza, 2011
IL LIMITE DOPPIO DELLA FELICITA'
Paolo M. Picaro
Parlando dell'estrema civiltà latina, dipingevo la cultura artistica come un fenomeno che sale dal popolo, simile a una secrezione, che
dapprima indica ricchezza, sovrabbondanza di salute, poi subito si rapprende, si indurisce, si oppone a ogni vero contatto dello spirito
con la natura, nasconde sotto la parvenza persistente della vita l'affievolirsi della vita, forma come una guaina in cui lo spirito costretto
langue, presto vacilla, poi muore. Infine, spingendo all'estremo il mio pensiero, dicevo che la cultura nasce dalla vita, uccide la vita.
André Gide
Il film di animazione "L'arte della felicità", prodotto della creatività napoletana, narra la storia di un tassista in
lutto per il fratello morto di cancro dall'altra parte del mondo. Il tassista in realtà è un pianista che ha smesso di
suonare quando il fratello con cui duettava è partito per diventare monaco buddista in un paese dell'estremo oriente e il protagonista capisce solo dopo la morte che quella partenza e la decisione del buddismo sono dettate
dal sopravanzare della malattia: partendo, il fratello maggiore spera di dare del tempo al protagonista, in maniera
da renderlo indipendente da lui, da abituarlo alla sua assenza, ed egli stesso attraverso la pratica del buddismo
tenta di sedare la paura della morte.
La narrazione si svolge in una Napoli disastrata, come è stata in questi ultimi anni, imbottita di
immondizia, di sudiciume organico, inorganico e
umano, dove il protagonista si aggira alla guida di
una macchina che pare rappresentare la città intorno: gli interni sono lerci, colmi di immondizia,
di lattine, di fazzoletti sporchi, di cartacce; la ceneriera straborda i mozziconi di sigaretta che il
tassista/pianista fuma di continuo, senza interruzione, nel tentativo di placare il dolore in una anestesia alla nicotina. Il ricordo del fratello si fa
rappresentazione di una vita oppressa da una routine asfittica, in cui l'estro del protagonista viene
schiacciato del tutto dai ricordi, dalle abitudini
distrutte, così come la città langue per una sommatoria infinita di piccoli problemi, disastri più o
meno grossi, meccanismi corrotti che generano
insieme il tumore della spazzatura e il malcostume diffuso, l'inefficienza, la criminalità, la violenza, l'intolleranza. Il finale precipita in un pessimismo cosmico che annichilisce qualunque speranza di una salvezza interna alla prassi della vita:
Napoli viene fatta letteralmente a pezzi dall'eruzione del Vesuvio e dal terremoto allegato, che
insieme fanno venire giù gli splendidi cornicioni della urbs partenopea. Si vedono cadere in frantumi palazzi,
ponti, archi, colonne, in un oceano di sanpietrini che ingurgita senza pietà tutto ciò che vi si ergeva, e il tassista
fugge a più non posso tra palazzi divenuti macerie e fumo, lapilli e fiamme. Alla fine il protagonista riesce finalmente a uscire fuori dall'inferno di crolli e rovine, abbatte un ultimo muro e distrugge definitivamente l'automobile, che si schianta contro un albero immenso. Salvo dall'incidente per miracolo, il tassista si ritrova in una landa
vergine, regno di piante millenarie che inghiottono con il loro verde le pietre di resti archeologici indefiniti, di cui
non si ha memoria. Qui non si odono più i fragori della devastazione di Napoli, il rumore assordante dei pezzi di
tufo che impattano con il manto stradale; le nuvole scompaiono e il rumore della foresta diventa sottofondo dolce,
rassicurante, respiro di una madre immortale. Un pianoforte magico, che esce dalle radici di un albero come ne
fosse estroflessione viva, risucchia finalmente il protagonista, il quale si libera di tutto, del fratello, dei ricordi, di
Napoli, del tassì e delle sigarette, per suonare melodie inedite.
Il messaggio è chiarissimo, ed ha una forza impressionante: non può esserci scampo dalla cultura, dalla rappresentazione, dalla codificazione, quando questa si sia ingolfata e aggrovigliata troppo; non può esserci altra via
di fuga che una rigenerazione totale, che un ripristino completo del codice che, dopo una distruzione impietosa,
deve ripartire dall'unico grado zero possibile, che non è certo il quadrato di Malevich, ma è la natura fertile dove
tutto è cominciato, che è piena di vita viva, dove non c'è posto per le colonne, per gli archi, per i ricordi del fratello morto.
In altre maniere, "La grande bellezza" fa esattamente lo stesso discorso senza arrivare alla medesima conclusione: le meraviglie della città eterna ormai sono lo sfondo connivente, colluso con lo spettacolo orrido che avviene nel mezzo, come se la bellezza che lascia senza fiato ormai generasse meccanicamente, automaticamente
un panorama immorale, empio, impossibile da redimere. Una produzione tanto eccezionale, un codice così perfetto, un'architettura così vasta e meravigliosa non richiedono più alcun contributo, anzi forse schiacciano per la loro
perfezione, e gli uomini soccombono al male del loro ozio, trasformano l'architettura più bella del mondo nella
cornice di feste assurde dove schifosi personaggi si agitano convulsamente, non trovando altra via di fuga che il
vuoto di una vita inutile, privata di ogni innovazione, di ogni poesia, di ogni vitalità.
Come nelle parole di Gide, che anticipa la lettura di Roberto Esposito, è la vita che a un certo punto soccombe
alla cultura, all'arte, al codice che inizialmente ha permesso alla vita stessa di svilupparsi, di articolarsi in strutture
man mano più ampie, più ricche, più elaborate e raffinate, e che alla fine uccide la vita che doveva proteggere e
promuovere.
Certo, il finale de "L'arte della felicità" potrebbe essere innestato nel film premio oscar di Sorrentino senza
colpo ferire, mostrando una Roma che cade definitivamente in rovina come la nostra Pompei, magari sotto le
bombe di un terrorista più colto e originale di Bin Laden, che saggiamente decida di radere al suolo non le mani
della società occidentale ma la testa, la memoria, l'identità. Eppure il regista napoletano non lo fa, e nonostante
faccia morire l'unica rappresentante di una vita pulita, onesta, trasparente (Sabrina Ferilli, ndr), alla fine Roma
sopravvive, la "grande bellezza" resta in piedi e continua a interrogare il protagonista. Come a dire che forse siamo ancora in tempo a evitare una nuova fine cruenta, una terza guerra mondiale che dopo atroci e immonde sofferenza ci riporterebbe per forza a una condizione di partenza, ricaricando la nostra energia potenziale che ora è
tutta al di fuori di noi e della nostra vita, che non possiamo far altro che ammirare dall'esterno, da fuori come fa il
mitico Gep Gambardella.
Quel che emerge è
una sorta di doppio
limite: il primo riguarda il codice, la cultura,
come se a un certo
punto il sopravanzare
della prassi consolidata, della "tradizione"
antica e millenaria diventasse più pesante
della materia plasmatica che lo ha generato,
della pulsione creativa
alla base; il secondo
invece riguarda proprio questa materia, il
terremoto causato dall'eruzione del vulcano,
che rappresenta le viscere della terra, che sono selvagge, imprendibili, inarrestabili.
E' una vita fragile, delicata, leggera quella che sta tra questi due infiniti, tra questi due limiti che ne delimitano
l'ambito di esistenza, al di là dei quali, da un lato e dall'altro, la vita è minacciata, la sua sopravvivenza stessa è in
pericolo, che sia essa a contatto con l'immunitas, la crosta inerte e sterile dell'eccesso antropico o direttamente
immersa nel magma grezzo della fertilità - atto creativo/distruttivo - che diviene autocombustione per la vita stessa. Sono forse questi anche i termini della felicità, del carattere "umano" nei suoi limiti irriducibili, nella sua doppia veste di memoria e creazione: senza recinzioni l'uomo soccombe alle belve, ma quando le recinzioni sopravanzano diventano massa tumorale e finiscono per inghiottire la stessa relazionalità umana, e la promiscuità viene
prosciugata del tutto, seccando definitivamente la vita.
E' questa l'interrogazione più avvincente che riguarda l'abitare contemporaneo, e che porta dentro la domanda
sulla connessione tra l'avanzamento tecnologico e lo sbudellamento del nostro pianeta e della fragile biosfera da
cui tutti dipendiamo.
ESOTISMI E FOLKLORISMI IN EUROPA E RUSSIA TRA '800 E '900
Brunella Velardi
Il crescente interesse per civiltà remote nel tempo e nello spazio, la curiosità mista al bisogno di ritrovare una
dimensione naturalista e per certi versi primordiale dell’esistenza – necessità che va di pari passo con l’avanzare
di una modernità in sempre più veloce sviluppo tecnico e industriale – espressi prepotentemente nella pittura europea tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, si manifestano come fenomeni di evasione e, a tratti,
come affiorare di una tendenza che finisce per fare del rimando all’elemento esotico una moda, quasi un cliché.
L’introduzione di ambientazioni, richiami, citazioni da mondi lontani si declina, nella pittura del tempo, in
forme impressioniste, simboliste, divisioniste, e assume valenze diverse: di primitivismo, in quanto ricerca di una
purezza originaria e primordiale come stile di vita libero, incondizionato e in sintonia con la natura, che può tradursi anche nella riscoperta del mondo rurale; di esotismo, come attrazione per ciò che è “altro” e lontano; di arcaismo, vale a dire tentativo di ricerca e recupero delle proprie radici, e, in quest’ottica, assume a maggior ragione interesse, insieme alle manifestazioni artistiche dei popoli cosiddetti primitivi, ogni prodotto della loro cultura
che sia espressione di tradizioni autoctone o di religioni e credenze.
Nei dipinti di Gauguin, come è noto, questa tendenza è di gran lunga più manifesta che in altri, e se in parte si
spiega con la sua scelta di trascorrere lunghi periodi a Tahiti, ciò va innanzitutto confrontato con un dato anagrafico: le sue origini peruviane fanno della sua ricerca del primitivo un viaggio allo stesso tempo alla ricerca delle
sue stesse radici, in cui la sensucht occidentale per un’esistenza pura ormai persa nei fumi dell’industrializzazione
e del progresso va a coincidere, almeno in parte, con la vicenda personale dell’artista 1. Ma idoli, statue, stilemi
ricorrono anche in altri artisti a lui coevi. In dipinti come il Ritratto di Hélène Rouart di Degas o Le Chahut di
Seurat2, nella fattispecie, il richiamo è all’antichità egizia, la cui tradizione iconografica e statuaria presenta quegli stessi caratteri di rigidità della linea e fissità delle figure che si ritrova in molta scultura “nera” o “primitiva”.
Lo stesso può dirsi per alcune esperienze di poco successive a quelle citate, come nel caso dell’espressionismo
tedesco (si pensi ad esempio a Maskenstillleben di Emil Nolde).
Nell’arte moderna occidentale e francese in particolare, dunque, il frequente rifarsi a universi lontani, mitici,
talvolta idealizzati, si configura come una sorta di evasione attraverso la quale ritrovare le origini della civiltà occidentale ed esorcizzare il timore di una corsa al progresso che allontana l’uomo dalla sua natura animale per
proiettarlo nell’attraente ma altrettanto inquietante mondo delle macchine.
In sostanza, arcaismi e primitivismi sono, in questo caso, importazioni: gli artisti mutuano elementi esotici,
prendendoli in prestito da altre culture e da altri luoghi li trasfigurano nei linguaggi dell’arte occidentale.
L’intento è quello di fare propri tali caratteri, assimilarli per tentare di restituire alla cultura occidentale ciò che
essa ha ormai perduto.
La mostra di Palazzo Strozzi3 affrontava un tema di per sé ben noto alla critica occidentale, ma il campo di
applicazione e la prospettiva sociologica, culturale e geografica nuove aprivano la strada a un gran numero di riflessioni e considerazioni. Bisogna innanzitutto individuare una linea di demarcazione tra il fenomeno del primitivismo nell’arte contemporanea europea sopra descritto e circoscritto a una serie di movimenti e indirizzi di ricerca che proseguiranno per qualche decennio, e l’insieme, seppure assai eterogeneo, dei movimenti
d’avanguardia che nascono in Russia o comunque per impulso di artisti originari dell’area di influenza russa che
a quel fenomeno sembrano partecipare.
L’esposizione appariva svolgersi su due piani: da un lato metteva in luce gli esotismi che, al pari di ciò che
accadeva nella coeva pittura francese, si insinuavano nei paesaggi e nell’immaginario degli artisti russi. Xilografie giapponesi, stampe, chine e sculture cinesi, mongole, tibetane, persino temi ellenici rappresentavano
l’elemento “altro” di cui quella cultura, incuriosita, cercava di appropriarsi attraverso la pratica artistica.
Più che nei movimenti europei, in cui l'esotismo si riferiva a terre remote, in Russia quest'attenzione si rivolge
in particolar modo alle culture dei paesi confinanti. Il meccanismo messo in atto sembra quindi teso alla conoscenza di civiltà che si trovano a essere lontane a causa dell'estensione geografica del territorio russo, e le cui distanze vengono in qualche modo, attraverso questo interesse, accorciate dagli artisti, come per interloquire con i
loro vicini di casa, piuttosto che all'importazione di atmosfere irraggiungibili dall'uomo occidentale.
1
Bisogna peraltro rilevare che una specifica attenzione all’arte precolombiana emerge in particolare nei vasi-autoritratto realizzati da Gauguin, il cui modello è di probabile derivazione precolombiana, mentre le sue pitture appaiono maggiormente influenzate dall’arte giapponese e da quella giavanese; la produzione artistica e artigianale peruviana resterà invece piuttosto marginale se non esclusa dal novero delle
fonti di ispirazione degli artisti dell’epoca. A tale proposito, cfr. F. Anton, Perù, Il Saggiatore, 1960.
2
Cfr. M. G. Messina, Le muse d’oltremare. Esotismo e primitivismo nell’arte contemporanea, Einaudi, 2003.
3
L’Avanguardia russa, la Siberia e l’Oriente, Firenze, Palazzo Strozzi 27 settembre 2013 - 19 gennaio 2014.
Dall’altro lato un ricchissimo corredo di maschere, oggetti totemici, ossa animali, figure taumaturgiche e
sciamaniche ricostruivano il contesto culturale in cui le avanguardie russe trovarono terreno fertile per svilupparsi
nelle forme più disparate4. Si trattava, nella quasi totalità dei casi, di testimonianze provenienti dall'entroterra russo. Nonostante gli artisti operassero per lo più verso il confine occidentale, o comunque nell'area europea del Paese, il loro repertorio è fortemente impregnato di ricordi e suggestioni di origine rurale e popolare, e in molti casi
si evince fortissimo il fascino per la foresta, le catene montuose e i grandi laghi, per quel paesaggio naturale tipico dell'entroterra asiatico.
Nella temperie culturale delle avanguardie, il bisogno di rottura con la pittura tradizionale e di interpretazione
di una modernità che se da un lato induce a inseguirla nelle sue manifestazioni esteriori (futurismo, raggismo, orfismo), dall’altro porta a una riflessione più profonda sul senso della rappresentazione in sé e sulla ricerca di
un’arte assoluta che trascende la caducità dei limiti temporali (suprematismo), coinvolse tutti gli artisti russi, alcuni dei quali si trasferirono poi, in tempi diversi, per lo più tra Germania (Kandinsky) e Francia (Larionov e
Goncharova) dove poterono approfondire i rapporti con le avanguardie europee.
Ancor più li accomunava, tuttavia, l’attaccamento al tema delle proprie origini, che risulta immediatamente
evidente a chi osserva l’evoluzione della loro produzione artistica: fin dai primi esperimenti si nota la frequenza
di scene rurali, di ambientazioni di paese o di città, che presentano una forte caratterizzazione; non scenari generici, dunque, ma pregni di riferimenti alla geografia, alle tradizioni, ai colori delle loro terre natie. Ciò può dirsi,
ad esempio, per Marc Chagall, che pur seguendo un percorso del tutto peculiare, si inserisce perfettamente in
questo puzzle: la sua “infanzia trascorsa a Vitebsk segna tutta la sua opera, che si nutre infatti dei temi iconografici legati a quei luoghi: le vecchie case di legno, le viuzze strette, le insegne dei negozi, gli animali e tutti i personaggi della collettività ebraica, ove viene educato nella stretta osservanza delle tradizioni comunitarie e religiose”5.
Kazimir Malevič in realtà non abbandonò mai l’amore per il mondo contadino; la
scoperta degli impressionisti e dei fauves nel 1904 gli fornirà ulteriori strumenti con i
quali organizzare il colore per ritrarre quella realtà (si vedano dipinti come Uomo che
porta un sacco, 1911ca. e Contadina con secchi e bambino, 1912). Ancora, tra il ’12 e il
’13, appresa la lezione di Cézanne, Malevič continua su questa falsariga, accostandosi
allo stile di Fernand Léger (Raccolta della segale, 1912, Taglialegna, 1912-’13): qui la
costruzione delle immagini per blocchi geometrici conduce a quella stilizzazione che sfocerà poi nell’astrattismo suprematista. Dopo questa fase, la più celebre nella multiforme
esperienza dell’artista ucraino, si assiste a un ritorno al figurativo, con linguaggi diversi
ma con gli stessi temi del principio: Mietitrici, Contadini, Testa di contadino (1930),
Fanciulle nei campi (1928-’32). Testa, del 1928-’29, appartiene a questo periodo ed è
stata accostata, nella mostra di cui si parlava, a una maschera lignea degli inizi del XX
secolo, indossata dai Koriaki, popolazione della penisola della Kamčatka, durante i rituali
di ringraziamento per una pesca proficua. L’uso di poche linee stilizzate nei tratti del volto scolpito come di quello dipinto denota una curiosità da parte dell’artista verso
l’elemento rurale che va di pari passo con l’interesse per il folklore come ricerca di valori
primigeni in quelle comunità ancora immuni dalla modernizzazione.
Tuttavia l’artista che intrattiene il più profondo legame con la componente etnologica
è Kandinsky, autore di alcuni saggi etnografici sulle origini contadine della legislazione
russa e sul paganesimo della comunità dei Sirieni. La mostra di Vercelli6 riporta l'attenzione sugli studi che Peg Weiss condusse tra la fine degli anni '70 e fino alla sua morte a
metà degli anni '90 proprio su quelle ricerche. La studiosa americana mise in luce come
l'opera del padre dell'astrattismo sia intimamente connessa con la sua profonda conoscenza delle usanze dei popoli Komi - tra cui appunto i Sirieni - e delle pratiche sciamaniche.
Alla luce dell'analisi della Weiss, Kandinsky non appare semplicemente influenzato o
suggestionato dalla ritualità sciamanica, ma risulta conoscerla a tal punto da porsi egli
stesso come interprete dello sciamanismo in forme artistiche, e rivestire quel ruolo utilizzandone la simbologia e trasponendola in figure che pervengono sulla tela alla stregua degli spiriti invocati dagli
sciamani.
4
«I più grandi pittori russi dell’avanguardia […] non hanno integrato gli elementi primitivismi a una nuova concezione della superficie del
quadro, come i francesi hanno fatto con l’arte africana e polinesiana nella struttura cézanniana. Hanno invece incorporato le scoperte formali del postimpressionismo a una struttura di base primitivista», Jean-Claude Marcadé in G. Néret, Malevič, Taschen 2003, p. 19.
5
Marc Chagall. La vita e le opere 1887-1985, in Chagall delle meraviglie, catalogo della mostra, Roma, Complesso del Vittoriano 8 marzo – 1 luglio 2007, Skira, p. 297.
6
Kandinsky. L’artista come sciamano, Vercelli, Arca, 29 marzo – 6 luglio 2014
Se in taluni dipinti figurativi diKandinsky compaiono personaggi che ricordano quelli incontrati durante le sue
spedizioni e i temi rappresentati richiamano quelli da lui studiati, come la persistenza della doppia fede cristiana e
pagana (dvoeverie), rimandi a quel mondo si rintracciano ancora in molte composizioni astratte e fino alle opere
che precedono la sua morte, sottoforma di archi e frecce, figure antropomorfe, cavalieri.
Se da un lato l'esperienza personale di Kandinsky è in parte paragonabile a quella di Gauguin (gli antenati di suo padre si erano stabiliti
in Siberia, regione confinante con la Vologda,
dove l'artista condusse i suoi primi studi)7, è
interessante notare che, dopo aver indagato a
fondo il campo della figuratività attraversando
anche le sperimentazioni impressioniste, sia
Kandinsky che Malevič approdano a un astrattismo che, peraltro, non riconosceranno mai
come tale, ma piuttosto come estrema espressione della concretezza della sensibilità pura
rispetto all’estrazione/astrazione del bello dalla
realtà 8.
Gli anni in cui questi due artisti si allontanano da quella figurazione ispirata al tema delle origini sono tra l’altro gli stessi in cui viene
pubblicato Totem e Tabù di Sigmund Freud
(1912-’13), dal sottotitolo “Concordanze nella vita psichica dei selvaggi e dei nevrotici”: «In origine le anime erano immaginate come assai simili a individui, e soltanto nel corso di una lunga evoluzione hanno perso i caratteri di materialità fino a raggiungere un alto grado di “spiritualizzazione”»9. In questo breve passo sembra quasi
ravvisare il passaggio dall’aderenza alla realtà fisica alla trascendenza delle forme astratte e suprematiste dei due
artisti.
“Viva il meraviglioso Oriente! Noi ci uniamo agli artisti orientali contemporanei per lavorare con loro. Viva
lo spirito nazionale! Noi procediamo al fianco degli artisti russi. […] incitiamo a dipingere in base alle esperienze
del passato. Affermiamo che la pittura ignora i limiti del tempo. Siamo in contrasto con l’Occidente perché avvilisce le forme orientali, perché rende tutto privo di valore”10, scrive Mikhail Larionov nel Manifesto del Raggismo, movimento definito nello stesso documento «sintesi di cubismo, futurismo e orfismo»: nella dichiarazione
contemporanea di rifiuto e assimilazione delle ricerche europee l’artista afferma con forza la sua vicinanza al
mondo orientale e russo, confermata peraltro in opere come il ciclo Le stagioni, tra le cui fonti di ispirazione
compare il lubok, tipo di stampa ricorrente in varie occasioni nei pittori dell’avanguardia russa. Lubok cinese
(primi anni del ‘900), di Natalja Goncharova, compagna di Larionov, mischia moda delle chinoiseries ed espressione artistica tradizionale russa. Lo stesso Malevič si cimenterà, nel 1914, nella rappresentazione di lubok i cui
protagonisti saranno, ancora una volta, i suoi contadini.
Per tornare alla terminologia usata all’inizio, se in relazione all’arte europea possiamo parlare di primitivismi
ed esotismi, nel caso di artisti come Malevič e Kandinsky si tratterebbe allora più propriamente di folklorismi,
laddove, analogamente a quanto fa Gauguin nel suo periodo bretone e a Tahiti – quando cioè nei suoi dipinti entrano semplici contadini e nativi polinesiani -, gli artisti russi ritrovano del bagaglio di usanze e credenze popolari
nel caso del primo, e di antiche comunità a rischio di estinzione nel secondo, la fonte più pura e fertile della loro
ispirazione.
7
«This passage suggests the possibility that Kandinsky’s trip into the eastern fringes of the Vologda area, bordering on the Ural Mountains
and the beginning of western Siberia, was prompted by an urge to seek his identity in his ethnic heritage, to seek in the “soul of people” his
own roots», P. Weiss, Kandinsky and Old Russia: an ethnographic experience, in Syracuse Scholar, Vol. 7 n. 1, articolo 5, 1986.
8
Sull’argomento cfr. A. Kojève, Le pitture concrete di Kandinskij, Abscondita 2004 e K. Malevič, Manifesto del Suprematismo, in M. De
Micheli, Le avanguardie artistiche del Novecento, Feltrinelli 2009.
9
S. Freud, Totem e tabù, Boringhieri 1969, p. 116. Si fa strada, nell’arte come nella neonata psicanalisi (anticipata dalla corrispondenza tra
filogenesi e ontogenesi nella Fenomenologia dello spirito hegeliana, attraverso le tre tappe di coscienza, autocoscienza e ragione), il parallelismo tra l’evoluzione dell’uomo come specie e quella dell’uomo come individuo: ne consegue che l’interesse per il primitivo coincide
con un tentativo di riconquista della purezza dell’ingenuità infantile: «L’uomo primitivo è forse selvaggio e crudele, ma sembra almeno
privo del fardello dell’ipocrisia» (E. H. Gombrich, La storia dell’arte, Einaudi 1966, p. 84).
10
M. Larionov, Manifesto del Raggismo, 1913 in M. De Micheli, op. cit., p. 387.
I GIUDIZI “STRACCIONI” DI PIPPO CIORRA
Alberto Cuomo
Gli editoriali di «Bloom» erano affidati a Renato Nicolini, e la redazione, quando Renato ci ha lasciato, ritenendolo insostituibile, ha eliminato il testo di apertura. Questo scritto è pertanto anomalo, in quanto non rientra
nelle due rubriche in cui si articola «Bloom», non essendo neppure un editoriale introduttivo dei temi proposti.
Lo muovono però due necessità: quella di manifestare l’indignazione per i superficiali, e gratuitamente cattivi,
giudizi espressi da Pippo Ciorra nella qualità di commissario nel concorso di abilitazione per l’insegnamento
universitario delle materie del settore della Progettazione Architettonica, e quella di ribadire il senso di questa
rivista ritenuta con sufficienza, sia pure indirettamente, negli stessi giudizi, “locale”.
In un suo articolo recente Ernesto Galli della Loggia ha definito “straccione” le riviste culturali riguardanti le
discipline tradizionalmente “umanistiche” le quali, onde ottenere buone valutazioni dall’ANVUR e nei giudizi
per le abilitazioni universitarie, privilegiano la lingua inglese invece che la nostra lingua madre, sebbene depositaria di termini e concetti caratterizzanti l’evoluzione di quelle stesse discipline. È possibile allora, forse, utilizzare il termine “straccione” anche per ogni atteggiamento che, manifestando la presunta superiorità del proprio
internazionalismo, più che internazionalità, tenda a snobbare, disdegnare, quanto appartiene al “locale”, anche
quello alto che aspira a conservare la memoria della nostra storia culturale.
Diversi osservatori, anche esterni all’accademia, hanno annotato il cattivo uso della lingua nei verbali della
Commissione del concorso e, particolarmente, nelle esternazioni valutative di Pippo Ciorra. Ma, se si tiene conto
dello straordinario prestigio planetario di questo commissario - Giuseppe, ahimè non Joseph - il suo non corretto
esprimersi nell’idioma del bel paese appare del tutto giustificato dal suo essere in fondo extra-italiano, anzi oltreitaliano, e dalla necessità di tenere testa ai tanti impegni in giro per il globo, pendolare com’è tra Roma e la prestigiosa università di Camerino. D’altro canto che Ciorra sia cosmopolita è scritto nel suo nome (nomen omen di-
cevano i latini) che rinvia allo spagnolo chorro, torrente, fiotto, getto, o, anche, acqua che cola, un appellativo offerto ad una famiglia iberica la quale, insediata nel 1400 nell’alto Lazio, era dedita alla costruzione di impianti idraulici, secondo una vocazione forse solo sopita in Pippo, la quale deve essergli zampillata fuori, come da una
tubazione crepata, nella scorrevole deiezione dei suoi giudizi. Così, malgrado la disponibilità verso il destino esotico del nostro, il suo noncurante e giocoso disprezzo su quanto non possiede una patina di internazionalità ed è
solo locale, non può non fare includere il suo atteggiamento tra quelli “straccioni”, propri a chi, come per le riviste segnalate da Galli della Loggia, tenta di conquistarsi una dignità superiore a buon prezzo, si direbbe d’accatto,
attribuendo un presunto valore scientifico alla propria xenofilia in spregio di chi è riconosciuto solo nei nostri
confini. Giudizi quali “Interessante e originale per l’interpretazione dei riferimenti il suo lavoro sulla memoria
come mi sembra particolarmente significativo proprio perché ripreso poi dalla cultura architettonica internazionale…” o “la candidata non è scema, ha dimestichezza con la scena internazionale e rivela curiosità”, o ancora
“molto integrato in un gruppo più o meno omogeneo di ricercatori e studiosi, di esperti del tema del paesaggio
come strumento di progettazione urbana sostenibile una specie di landscape urbanism alla palermitana”, manifestano come per Pippo - il quale, a leggere i verbali, sembra fosse nella commissione almeno in compagnia di Pluto e Paperino - se si hanno riferimenti sovralocali, al di là dei contenuti esposti, almeno non si è scemi, mentre il
far parte di un gruppo di ricercatori di una città ed una università italiana rivelerebbe, pur nell’interesse verso
tendenze d’oltreconfine, una mero brodo locale.
Certo, Pippo ha ragione, l’architettura italiana è in declino, come del resto ha scritto in un suo recente libercolo, e, quindi, per essere à la page bisogna forse, per lui, “fare l’americano”. Un tempo, tra gli anni settanta e gli
anni ottanta, nel mondo, molti architetti tentavano di imparare l’italiano solo per leggere in anteprima i saggi di
Tafuri e della sua “scuola”, mentre Eisenman si dava da fare nel trovare finanziamenti per una nuova facoltà di
architettura nella New York University, il più prestigioso ateneo forse del mondo in discipline umanistiche, ispirata alla cultura architettonica italiana. E del resto, malgrado gli sforzi della storiografia anglosassone e
d’oltreoceano di affermare, particolarmente per il progetto “moderno” – quanto al passato non c’è storia naturalmente – un primato extraeuropeo, le avanguardie, dell’arte e dell’architettura, erano europee e, pur nel fascismo,
persino italiane. Le stesse tendenze postmoderne del progetto, tra i riferimenti a Lyotard, Debord, Vattimo, Derrida, Deleuze, non parlano certo la lingua inglese dell’internazionalismo. Ma evidentemente tutto questo Pippo
non lo deve sapere e, inconsapevole, si affida alla scorciatoia di un’altra lingua, quella inglese, ormai lingua ufficiale della comunità scientifica globale, quale modo per offrirsi una patente culturale che gli consenta di guardare
dall’alto in basso quanti invece, orgogliosi di appartenere ad una importante e significativa tradizione, si sforzano, anche attraverso l’uso della lingua, come fa «Bloom», di proseguirla nel nostro presente globalizzato. Ciò che
Pippo neppure sa è che «Bloom» usa di proposito solo il nostro idioma, volendo essere orgogliosamente “locale”,
italiana – sarebbe semplice offrirsi una spruzzata di internazionalità traducendo in inglese brevi abstract degli articoli. Alla nostra rivista non interessano cioè le valutazioni burocratiche quanto quelle dei lettori, ed ha la pretesa, guarda un po’, di farsi leggere anche da quanti, in altri paesi, non possiedono come lingua-madre l’italiano.
Una presunzione? Certo! Nella considerazione che ormai non si pubblicano più riviste rivolte alla riflessione (a
parte Casabella e qualche numero di Architectural Review) quanto solo alla illustrazione di architetture sapientemente fotografate e ritoccate in photoshop a supporto delle più numerose pagine di pubblicità, «Bloom » aspira a
tenere in vita uno dei caratteri specifici della cultura architettonica italiana, il pensare sui temi del progettare, possedendo quindi, proprio in tale peculiarità “locale”, forse anche un valore sovralocale. Pure la scelta di mettere
online, utilizzando il web, fatto per fruizioni distratte e veloci, una rivista che invita invece a soffermarsi sugli argomenti offerti alla lettura, spesso senza l’ausilio di foto, pur essendo contradditoria con il dispositivo adoperato,
è voluta, nella indicazione di un diverso modo di usare internet, che sta trovando del resto spazio anche
nell’editoria (si pensi agli e-book, ai kindle ecc.). Queste scelte, palesi per chi si accosta a «Bloom», avrebbero
richiesto, a proposito dei saggi pubblicati e esibiti da alcuni concorrenti, non un frettoloso e superficiale giudizio
sul carattere “locale” della pubblicazione, quanto una più ponderata opinione sul merito, sui contenuti, dei testi,
tanto più che la rivista, non solo è edita da un Dottorato quale palestra per l’esercizio alla ricerca da parte di giovani studiosi, ma, volutamente, venuto meno ogni steccato che separava le “tendenze”, è aperta al confronto, fondata sull’intreccio rizomatico delle diverse visioni dell’architettura, sì che, essendo in essa presenti scritti di diversa valenza, forma, contenuto, esige per ciascuno di essi giudizi specifici, oltre il rifugiarsi nella presunta generalità “locale” attribuitale.
Il povero Pippo non ha però tutte le colpe e, forse, i suoi candidi e osceni giudizi (ricordo che il termine osceno, così come era per Carmelo Bene nella citazione di Gilles Deleuze, si addice a qualcosa che non può essere
messo in scena) sono da attribuire al suo essere frastornato dalla farraginosità delle procedure previste dalla legge, che impone la verifica delle cosiddette “mediane”, delle citazioni, dei referenti e di tutte le amenità burocratiche in cui si perdono le “scuole”, quelle che un tempo formavano ottimi ricercatori e docenti senza inutili verifiche quantitative, sia pure con il piccolo costo di mandare in cattedra magari l’amante segreta di un “barone”,
spesso comunque brava. Sono cioè, probabilmente, anche le modalità stupide della legge a confondere le anime
semplici come quella di Pippo.
I dispositivi escogitati per i concorsi di abilitazione, non nuovi, hanno già dato cattiva prova dove sono da
tempo applicati. E’ il caso delle abilitazioni al primariato per i medici ospedalieri. Anche per i sanitari del servizio pubblico è previsto il doppio turno concorsuale: la valutazione dei titoli professionali, che offre l’abilitazione
a primario, e il successivo esame, riservato ai soli abilitati, onde accedere al primariato resosi libero in un reparto.
Per i medici sappiamo come è finita, con l’ingerenza della partitocrazia, che opera sovente la spartizione dei posti
in concorso, sulla base dell’assenza di selezione alle abilitazioni. Se quindi non sono accettabili le proteste che
piovono da ogni parte sulla commissione concorsuale delle discipline compositive (si sono aggiunte di recente
anche quelle sulla commissione in Storia e Restauro) rea di non essere stata più blanda, di non aver tenuto conto
cioè delle aspettative degli atenei, dal momento che la scelta di limitare il numero delle abilitazioni riconoscendo
il titolo solo ai concorrenti più bravi, onde impedire una futura vendita delle vacche a forte presenza politica, appare giusta e condivisibile, proprio una tale scelta avrebbe preteso atteggiamenti più rigorosi che non quello che
emerge nei giudizi di Pippo (paradossalmente, proprio il commissario ritenuto, per così dire, più effervescente,
Cherubino Gambardella, nei sue valutazioni si è dimostrato il più sobrio e rigoroso) dai quali trapela almeno una
sensibilità molto superficiale, spia della superficialità con cui sono stati esaminati i titoli. Passi per la nostra rivista, considerata “locale” malgrado gli almeno tremila lettori in tutto il mondo e i numerosi accessi sul sito, ma per
il povero Pippo sono “locali” anche le pubblicazioni edite dall’Istituto Italiano per i Beni Filosofici che negli anni
ha ospitato i maggiori intellettuali del mondo e che, allorché sceglie di pubblicare il libro di un architetto, lo fa
con un vaglio molto più serio e stretto che non quello di una commissione per l’abilitazione universitaria.
Quanto neppure hanno percepito gli incoscienti Pippi della commissione (e non solo dalla commissione per le
discipline progettuali) è l’enorme danno che, in quanto affidatari della prima sperimentazione delle modalità concorsuali, la propria superficialità ha reso all’università, oltre che ai singoli ricercatori. Gli esiti del concorso e le
proteste che sono derivate circa la faciloneria dei commissari pippini, infatti, sollecitano due possibili contromisure: la definizione di maglie più larghe ai fini della valutazione abilitativa o, come ha già annunciato la ministra
attuale, la richiesta agli atenei di fare da sé. In entrambi i casi si determinerebbe un ulteriore decadimento del sistema universitario italiano, affidato a gestioni localistiche – del resto i giudizi di Pippo fanno emergere la maggiore considerazione per alcuni atenei periferici, tra i quali quello di Camerino – riferite ad altri valori che non
quelli della ricerca. I giudizi “straccioni” di Pippo non sono quindi forse che il primo passo verso il definitivo declino degli studi di architettura e dell’università in generale.
ARCHITETTURA E TETTONICA* NEL MODERNO: MIES V/S MIES
Vincenzo Ariu
Tettonico/atettonico
La tettonica, secondo una nota definizione di Eduard Sekler, è una “data espressività” cioè
l’espressione della resistenza statica della forma costruttiva. Una definizione per la quale la verità costruttiva è posta in secondo piano, è accantonata per
lasciare il posto, paradossalmente, alla rappresentazione della stessa. Nella logica della rappresentazione,
la percezione del vero è possibile solo attraverso il
mostrare, attraverso la configurazione verosimile. Ma,
se il meccanismo raggiunge la perfezione nel sistema
degli ordini dell’antichità, nella modernità (storica),
nell’epoca dell’uomo (faber) libero e abbandonato,
s'infrange definitivamente il legame (religio) tra la
rappresentazione e il vero.
Già, nell’architettura barocca, ad esempio, è possibile cogliere una notevole differenza tra l’aspetto
semantico della costruzione e la reale struttura, a volte
nascosta. Resistenza statica e forma della rappresentazione della stessa divergono nella costruzione architettonica e, non sono, più intelligibili. Nell’allegoria
barocca la forma non rappresenta più inequivocabilmente un contenuto determinato del simbolo1.Nella
moltitudine di contenuti possibili, non c’è più posto
per l’espressione strutturale, e l’edificio rasenta
*
Quando si parla di tettonica affiorano antichi ricordi scolastici:
nozioni di geologia, faglie, pieghe, discordanze tettoniche, ricoprimenti, diapirismo, ovvero la teoria della deriva dei continenti,
zolle litosferiche in movimento. Eppure, l’origine etimologica del
termine è diversa, più che alla terra, alla creazione divina, rimanda direttamente al fare dell’uomo, al fare poietico. Interessante è
lo studio di Roberto Masiero: “La parola architettura deriva dal
greco architektonía. E’ composta da archi-, particella prepositiva
che serve a denotare superiorità, preminenza, eccellenza, e tectonía che significa costruzione. Arché indica ciò che è principio: è
ciò che sta nelle profondità mitologiche e araldiche dell’origine,
ma è anche ciò che si impone per principio, perché è evidente,
logico, elementare. (…) La parola téctōn deriva da una radice
√*tak- dalla quale nascono anche le parole del lessico italiano
«tecnica», «tetto», «tettonica», «tessuto». Designa un fare e un
comporre: così nel sanscrito taksan, legnaiuolo, nell’antico persiano takhsh, fabbricare, nel greco téychō, fabbrico, produco, teŷchos e toîchos fabbricato, muro, riparo, parete.” R. Masiero. Estetica dell’architettura. Il Mulino, Bologna 1999 pag. 13. Il termine tettonico è strettamente collegato alla capacità poietica del
costruttore piuttosto che manifestazione del naturale, della potenza delle forze terrestri quali peso, gravità, resistenza.
1
W. Benjamin, Il dramma del barocco Tedesco, Einaudi, Torino,
1970 (orig. 1928). Benjamin individua nella connessione opera
d’arte simbolo uno degli errori gravi della cultura. Il tentativo di
unire il sensibile con il sovrasensibile. “ (…) L’unità dell’oggetto
sensibile e di quello sovrasensibile, il paradosso del simbolo teologico, viene distorta nella forma di una relazione tra apparizione
e essenza.” Il barocco in questo senso è rivoluzionario. A differenza del classicismo istituisce la procedura allegorica, in grado di
coniugare opposti.
l’atettonico. Sempre secondo Selker, l’atettonico2 si
manifesta, quando l’iterazione espressiva fra il carico
e il sostegno scema. Quando la discordanza tra gli elementi strutturali non appare nella sua immediatezza
intuitiva. In questo senso la problematica è riduttiva e
schematica. Eduard Sekler riduce la tettonica a un
problema di codice espressivo: una colonna sarà tanto
grande quanto il “buon senso” si aspetterebbe, ignorando le leggi costruttive e statiche. Nel buon senso vi
è la sintesi tra l’esperienza percettiva di tante altre costruzioni, di tanti edifici costruiti senza calcolo, esuberanti, pesanti; edifici costruiti secondo sistemi costruttivi consolidati in un contesto, e anche edifici costruiti con nuove tecnologie che, in qualche modo, riprendono forme e rapporti già dati. Dalla dimensione
religiosa del mondo classico si passa, così, ad uno
schematico psicologismo, per il quale la percezione
non muta con la conoscenza.
Nell’opera di Mies la tettonica è, al contrario, il
confronto diretto tra architettura e “tecnica mondo”3.
2
Eduard Sekler introduce il concetto di atettonico in un saggio
sulla Casa Stoclet di Josef Hoffmann. Secondo il Sekler, nel capolavoro di Hoffmann il rivestimento in lastre, tipico della sperimentazione allora in auge tra i viennesi, dimostra la sua atettonicità: “Negli angoli o in ogni altro punto di giuntura, in cui due o più
di queste modanature parallele si uniscono, si ottiene un effetto
che tende alla negazione della compattezza dei volumi costruiti.
Permane la sensazione che il muro non sia stato eretto nel senso di
una costruzione massiccia, bensì consista di ampi strati di materiale sottile, giuntati agli angoli con bande metalliche per proteggerne gli spigoli (…) Il risultato visivo è davvero sorprendente,
nonché del tutto atettonico. “Atettonico” è qui usato per descrivere la maniera in cui l’interazione espressiva fra il carico e il sostegno in architettura è trascurata o offuscata visivamente (…) Ci
sono molti altri particolari atettonici nella casa Stoclet. I pesanti
pilastri non hanno niente da sostenere che corrisponda a un adeguato peso visivo, bensì sostengono una copertura piana e sottile,
come avviene ad esempio nell’entrata e sopra la loggia sul tetto a
terrazza (…) In questo contesto è altrettanto interessante il fatto
che le finestre siano a filo facciata o persino leggermente sporgenti, e non arretrate, cosa che avrebbe tradito la sottigliezza del
muro.” E. F. Sekler, “The Stoclet House by Josef Hoffmann”, in
Essays in the History of Architecture Presented to Rudolph
Wittkower, Phaidon Press, London 1967 pp. 230-231. Traduzione
tratta da K. Frampton. Tettonica e Architettura, trad. it. Fi M. De
Benedetti, Skira, Milano 2005, p. 39.
3
Non posso che riprendere il fondamentale Die Seele im technischen Zeitalter di Arnold Gehlen, secondo il quale la tecnica moderna ha intellettualizzato arte e scienza, operando una scissione
del sapere. I campi del sapere operano secondo logiche differenti,
l’uomo moderno incapace di controllare la totalità, rinuncia alla
comprensione. La tecnica moderna ha oggettivato il mondo, un
mondo che si dà per scontato logico e finito. La tecnica, quindi,
raccoglie in sé oggettività, come promessa razionale, e mistero
magico, come impossibilità a comprenderla. L’uomo moderno si
confronta con la realtà in modo opposto all’uomo antico: se per
quest’ultimo la magia incominciava dove la ragione non poteva
La dialettica tra tettonico e stereotomico, proposta da
Frampton, non mi sembra chiarire la logica costruttiva
dell’opera miesiana. Una dialettica nella quale è evidente che la nuova “geometria dello spazio” del padiglione di Barcellona e della casa Tugendhat non possa
essere contrapposta alla tettonica delle opere americane, distinguendo un Mies d’avanguardia da un Mies
maturo classico.
L’Avanguardia, come è noto, ha sicuramente influenzato il repertorio figurativo di Mies van der Rohe, ma non ne ha mai influenzato il discorso ontologico sul costruire. Ammessa l’evidente ripresa
delle geometrie De Stjil nella casa di campagna di
mattoni dei primi anni venti, in essa è già evidente
una nuova definizione tettonica, che non rinuncia alle
logiche della tradizione, ma, addirittura le usa per ridefinire il discorso spaziale. La casa così ardita nella
strutturazione esterna è, in realtà, governata da un sistema tradizionale di muri portanti di laterizio nei
quali si posa, sicuro, un tetto piano. Tettonica e sistema costruttivi tradizionale sposano la nuova spazialità. Più Wright meno van Doesburg.
Nel padiglione di Barcellona il gioco si complica, i
muri diventano diaframmi non portanti, il piano orizzontale del tetto, estremamente sottile, poggia su esili
colonne in ferro cruciformi, esilità accentuata dal rivestimento di acciaio cromato. L’espressione della
resistenza costruttiva dell’acciaio, il peso del solaio si
declinano in una sorta di mutevole simbiosi. Librati
nello spazio, l’uno si ancora all’altro in un gioco di
sforzi di trazione e comprensione. Il fruitore di un simile spazio, pur non conoscendo la resistenza delle
colonne ed il peso del solaio, riconosce nuove armonie, nuovi equilibri. Per Mies, costruire è ritrovare un
nuovo equilibrio. L’architettura non è fatta di gesti, di
forme originali, essa è sempre un fatto conoscitivo, un
avanzamento collettivo.
Di nuovo il fantasma di Semper, e il suo tentativo
di fondere la tradizione architettonica con le logiche
della natura. Ricerca delle leggi, dell’ordine che tutto
unisce, ricerca dell’origine, del punto dal quale tutto
ha inizio.
La tettonica, secondo il Semper, ha origine dalla
carpenteria. L’architettura stessa, come opera d’arte
monumentale, si sviluppa proprio grazie all’opera del
carpentiere che rende possibile con la logica della
struttura, la costruzione di un involucro. Cornice e riempimento, reticolato, sostegno, intelaiatura sono gli
elementi primari ai quali è affidata la tettonica4 di un
edificio. Le regole della cornice rimandano all’arte
tessile, esse ordinano le fasce, le coperture, le cucituarrivare, l’uomo moderno si affida subito alla magia della tecnica,
confidando in una ragione che mai potrà essere soddisfatta.
4
G. Semper, Lo stile, Laterza, Bari, 1992. (tit. orig. Der Stil in
den technischen und tektonischen Künsten oder praktische
Ästhetik. Ein Handbuch für Technker, Künstler und Kunstfreunde.
1860-63).
re, gli orli, le bordure. Nella cornice il riempimento,
scarico staticamente, è il luogo della decorazione. Essa ha un carattere simbolico, e nelle civiltà più evolute, come in quella Greca, è stato occasione per definire un linguaggio puramente strutturale: esemplare il
caso della trabeazione. Nella cornice triangolare è ancor più necessario accentuare la natura del riempimento. Gli elementi sono autonomi, non devono
confondersi. Nella cornice Semper sintetizza una delle prime regole della sua teoria tettonica: “Secondo, la
funzione struttiva delle singole parti che compongono
la cornice. La loro ornamentazione deve rispecchiare
le forze che sostengono la struttura e a cui il pegma
deve la sua solidità.”5
Dalla legge generale Semper definisce sintassi e
grammatica del costruire. In essa fonda il criterio di
giudizio universale, nell’espressione architettonica
non si può contraddire la tettonica, anzi l’ornamento
deve essere occasione per renderla manifesta.
Espressione è ornamento: l’ornamento è l’espressione dell’idea strutturale, cosi una colonna sospesa
sarà differente da una colonna caricata a compressione. La prima deve apparire resistente a trazione, elastica, attiva; la seconda deve rappresentare la resistenza reattiva e la forza di tensione. Per Semper la tettonica: “E’ proprio questa funzione statica che va trasferita sul piano simbolico, sì da rendere l’idea di una
struttura capace di reggersi autonomamente; (…)”.6
Reggersi autonomamente e posizione eretta, l’architettura soggiace alla forza di gravità, ogni sua parte
deve essere coerente con essa. Così una forma triangolare se ha il vertice verso l’alto, come in un timpano, darà l’idea di scaricare il peso su architravi, colonne; se, invece, ha il vertice in basso apparirà appeso. Tempio greco e Maison de l’home di Le Corbusier: nel primo il timpano scarica sulla trabeazione e
le colonne, nella maison il timpano si presenta rovesciato, stilizzato; esso scarica, dichiaratamente appeso, il peso sul montante di ferro. Nel reticolato
l’architettura conquista lo spazio. L’origine è una cornice multipla o divisa, ovvero l’intreccio, l’incrocio di
canne di bambù. Le regole del reticolato seguono le
leggi tettoniche universali individuate. La struttura
reticolare sempre esistita, origine stessa dell’edificare,
è l’essenza di tutta l’architettura. Così si passa
dall’orditura di travi del soffitto a cassettoni che ricopre il tempio greco, agli edifici più recenti. Nei reticolati gli elementi intrecciati, travi di legno, ecc.,
5
Ibidem.
Ibidem. Semper può dire, infatti: “La banda orizzontale (nella
cornice triangolare) è la catena che tiene uniti i due lati obliqui del
triangolo. Pertanto qualunque motivo ornamentale deve essere per
lo meno neutro rispetto a questa funzione. Sbagliate sono, per esempio, le scanalature verticali dell’epistilio di alcuni templi romani appartenenti al più sfarzoso ordine corinzio o gli intagli verticali visibili sui timpani di certe finestre tardorinascimentali: questo tipo di decorazione, infatti, annulla dal punto di vista ottico
tutta la tensione della traversa.”, p. 206.
6
possono superare la cornice per risolvere tecnicamente l’incastro e per accentuarne l’aspetto simbolico.
Sono i pròkrossoi7 classici, fungono da coronamento,
si collocano a corona e sottolineano ritmi ed euritmie,
l’intima connessione tra interno ed esterno.
Nel sostegno è presente la combinazione di elementi portati e portanti, perché è nell’elemento portato che l’architetto rende manifesta e rappresenta il
carico reale. Solo per contrapposizione è possibile esprimere lo sforzo del sostegno che comunque deve
avere una forma adeguata ed eloquente. Così dal basso in alto la forma del sostegno garantisce stabilità e
presa. Nel tripode8 Semper ritrova la perfezione
dell’archetipo tettonico del sostegno. Da esso, anzi da
un rinforzo interno aggiunto nella sua genesi nel periodo ellenico, nasce la stele, forma artistica e architettonica autonoma dalla chiara funzione struttiva. Semper è sempre più convinto: “ (…) il linguaggio formale dell’architettura è un linguaggio formale derivato e
i suoi tipi erano già fissati prima che nascesse un’arte
monumentale.” 9 Così il tripode e la stele governati
dalla base circolare rappresentano l’equa distribuzione del carico.
Nell’architettura Greca è raggiunto il massimo equilibrio nel linguaggio architettonico, che corrisponde ad una preciso principio tettonico: “Il principio a cui ci riferiamo si fonda su una legge universale
del mondo fenomenico: le combinazioni che più fanno riposare il nostro occhio sono quelle in cui nulla ci
suggerisce l’idea della solidità e della durata della costruzione o suscita un dubbio in proposito.”10 Nel valore simbolico e strutturale del telaio, Semper coglie
l’essenza immutabile dell’architettura. Sintesi compiuta di forma e contenuto, il telaio strutturale attraversa la storia degli uomini. In questo senso,
l’architettura greca rappresenta il massimo esempio,
nella quale espressione e equilibrio raggiungono lo
stile, l’essenza della sintesi possibile.
7
Ibidem. Nello specifico Semper scrive: “In primo luogo si tratta
di elementi aggettanti, facenti parte di una intelaiatura che, in essi,
termina o fuoriesce: quindi sporgenze solide e inamovibili.
L’espressività di questi elementi, ad esempio: la serie di mutuli su
cui poggia la cornice di coronamento, è dovuta al fatto che riecheggiano il contesto interno. Essendo prominenti, i Greci li
chiamavano pròkossoi, o anche krossòi(frange di abito), probolài;
i Romani proceres.”, p. 217.
8
“Fra tutti i sostegni mobili, il tripode rinforzato (secondo il principio della maglia triangolare) è certamente il più perfetto: in
quanto corrisponde, da ogni punto di vista, alle esigenze statiche e
formali di un sistema rigido al suo interno, dotato al contempo di
grande stabilità e maneggevolezza. E’ insomma l’ideale di una
struttura che poggia saldamente sul suolo, ma che è anche molto
mobile (…) questo oggetto, comunque, non avrebbe stabilità al
suo interno, né funzionalità rispetto all’esterno senza corona che
collega i tre piedi e, contemporaneamente, sorregge il carico, cioè
il recipiente.” Ogni elemento del tripode è funzionale e simbolico,
conclude il Semper p. 221-222.
9
Ibidem.
10
Ibidem.
Il telaio senza sema del Moderno
Se con la teoria semperania il telaio strutturale ritrova nell’espressione tettonica l’essenza dell’architettura simbolica, nel Moderno, perso il sema, il telaio si
trasforma in architettura tout court. Dalla struttura a
graticcio dell’Europa centrale si passa al Balloom
Frame, sino ai telai in mattoni e ghisa del Leiter
Building e a quelli in acciaio del Fair Building di William Le Baron Jenney. Con la maison Dom-ino del
1914 di Le Corbusier, il telaio libera definitivamente
lo spazio planimetrico dell’edificio, si rende autonomo. Si prospetta l’ennesimo divorzio: l’ordine strutturale può essere indipendente dall’ordine spaziale, può
essere occluso o manifesto, esser esso stesso architettura, o essere sostegno invisibile di puri volumi plastici. L’evoluzione del telaio recide il legame tra ornamento e struttura semperiano; oramai separati, reclamano indipendenza, autonomia, ed in questo modo
denunciano la loro aleatorietà, la loro dimensione stocastica.
Nel moderno non sembra esserci spazio per la tettonica, nello “stile internazionale”, secondo Hitchcock e Johnson, volume, regolarità geometrica e
perfezione tecnica sono i nuovi principi estetici
dell’architettura. Per Le Corbusier, l’inventore del
plan libre, la struttura è indipendente dalla distribuzione spaziale, anche se tra essi permane un sottile e
celebrale legame nella magia dei numeri e dalle proporzioni. Nella villa Monzie a Garches, il ritmo strutturale regolare delle campate, di due dimensioni alternate, si riflettono, almeno negli studi iniziali, nel prospetto della facciata principale. Ma, per Le Corbusier
la struttura, quando è architettura, è geometria, figura,
è pura costruzione dello spirito11.
Bisogna tornare a Perret per ritrovare nella struttura architettonica l’espressione della tettonica. Il Maestro francese, secondo le parole del Benevolo:
“ (…) è spinto spontaneamente a identificare il telaio
in cemento armato (che è un fatto costruttivo) con il
telaio prospettico, e a trasferire sul primo le esigenze
e le associazioni spaziali del secondo. Da qui
l’esigenza della simmetria e la suggestione continua
degli ordini architettonici, se non come presenze formali, come termini di paragone (…) ”12. Solo negli
ordini classici ritrova un codice espressivo strutturale.
Come argutamente ha notato Frampton, nella architet11
Le Corbusier scrive in Verso unarchitettura (1923), Longanesi,
Milano 1973, “La modanatura è la pietra di paragone
dell’architetto. Qui si rivela artista o semplice ingegnere. La modanatura è libera da ogni costrizione. Non si tratta più di consuetudini, né di tradizioni, né di procedimenti costruttivi, né di adattamento a bisogni utilitaristici. La modanatura è una pura creazione dello spirito; richiama l’arte plastica.” Non è solo la modanatura, senza funzione, creazione dello spirito nell’opera di Le Corbusier. Spazio, struttura, dettagli rincorrono l’arte, sono sottomessi
alle esigenze dell'espressione plastica.
12
L. Benevolo, Storia dell’architettura moderna. Laterza, Bari,
1960.
tura di Perret, la forma rappresentativa della struttura,
in genere, non coincide con la forma esatta strutturale.
Così, ad un’attenta analisi, si scopre che le strutture
portanti sono rivestite con materiali preziosi nella casa di rue Franklin, oppure, quando il calcestruzzo è
lasciato a vista come nel garage Marboeuf, alludono
direttamente agli ordini classici13. Nel lavoro di Perret
Kernform e Kunstform non coincidono. Lo studio della colonna in calcestruzzo è il tipico esempio del tentativo di conciliare razionalismo strutturale e espressione tettonica. Così si passa dalle colonne di NotreDame di La Raincy, rastremate verso l’alto, e dalla
superficie segnata dalle tavole della casseforme, a
suggerire la presenza di scanalature classiche, sino
agli studi specifici di un nuovo capitello nelle colonne
del Municipio di Le Havre. Eppure, proprio la continuità con la tradizione classica impedisce, al maestro
francese, la sperimentazione di una nuova espressione
strutturale, di una nuova tettonica. Perret sembra quasi suggerire: senza l’ordine classico è impossibile
l’espressione tettonica dell’architettura.
Nel classico architettura e tettonica si confondono,
sintesi perfetta. Ogni tentativo moderno di riconciliare
ciò che è separato, è costretto a capitolare. Le metafisiche della tecnica e della scienza sono separate da
quelle dell’arte.
Un tentativo interessante di riconciliazione tra architettura e espressione strutturale, tettonica, è sicuramente presente nell’architettura italiana tra le due
guerre. In particolare Giuseppe Terragni, nella Casa
del Fascio di Como, prova a ricomporre l’infranto: dal
telaio strutturale in calcestruzzo armato, di tutto punto
misurato e proporzionato, secondo leggi contingenti e
universali, si sviluppano lo spazio architettonico e le
facciate dei prospetti esterni. Il telaio strutturale pur
essendo regolare e geometrico non è omogeneo, ma
segue le specificità degli spazi distributivi orizzontali
e verticali. Nel giuoco delle travi e dei pilastri del vasto atrio a doppia altezza, prospiciente l’ingresso, si
distinguono, nel soffitto in vetrocemento, delle travi
di grande dimensione. Accarezzate dalla luce, sono
stabili, solide; incastonate nel fitto reticolo strutturale
definendo lo spazio. Anche i dettagli dei soffitti di
stucco nero lucido a filo intonaco, delle navate interne, e i pilastri, distinti da un rivestimento in lastre di
calcare di Botticino, collaborano all’equilibrio del tut13
A tal proposito Peter Collins nota: “La spaziatura più ampia
della campata centrale, il forte aggetto degli elementi verticali
portanti , il ritmo accelerato dell’ultimo piano di coronamento e le
variazioni in altezza delle travi, sono tutti elementi introdotti o
sfruttati come deliberati accorgimenti estetici per creare proporzioni contrastanti di un valore emozionale calcolato, mentre
l’entasi delle colonne portanti e il metodo di giunzione ad esse
delle travi tramite bande intermedie, o alette, indicano una attenzione particolare per le più delicate finezze dell’articolazione trabeata, che si è vista raramente nell’ancien régime in poi.” In Concrete: the Vision of a New Architecture. A Study of August Perret
and his Precursors, Faber and Faber, New York, 1959, p. 186.
to. Nelle facciate esterne, il telaio strutturale è manifesto secondo leggi diverse: nel prospetto principale
d’ingresso, il telaio è esso stesso, in gran parte, facciata, le note proporzioni non sono un corollario posticcio, ma la vera essenza matematica dell’edificio,
sintesi e rappresentazione di struttura e spazio; negli
altri prospetti la struttura è mostrata sottilmente nei
dettagli, nella graticola strutturale posta centralmente
in tre dei quattro prospetti, nella grande vetrata dalla
quale si colgono i solai, dalle aperture verticali che
segnano l’angolo, dalle finestre orizzontali che segnano il solaio, ecc. Il telaio strutturale si intuisce, anche,
quando è tamponato, mascherato e diventa muro. Nel
muro, il blocco di Terragni trova stabilità, contrapposizione di leggerezza e pesantezza, una nuova sintassi
tettonica.
Purtroppo, l’originale esperimento di Giuseppe
Terragni non avrà seguito: la guerra, la morte prematura, l’incondizionata resa del Razionalismo italiano, compromesso con il regime, indirizzeranno la
ricerca disciplinare verso altre questioni.
L'espressione della struttura immateriale in Mies
Nell’opera americana di Mies van der Rohe si precisa la questione dell’espressione strutturale. Temi e
argomenti intuiti nel periodo europeo si chiariscono
grazie, soprattutto, alla potenza dell’industria statunitense e alle grandi commesse. Se, in Europa, gli edifici di Mies, preziosi ma di modeste dimensioni, ponevano la questione strutturale in secondo piano rispetto
alla definizione sintattica e grammaticale dello spazio,
nei grandi edifici dell’IIT e nei grattacieli, costruiti
nel nuovo continente, la struttura è l’essenza stessa
dell’architettura.
Per Mies van der Rohe non si tratta di rinnegare il
passato, ma semplicemente di farlo maturare. Non si
tratta di un semplice ritorno alla tradizione classica,
ma la continua ricerca del corpo dell’architettura, del
suo senso. Imprescindibilmente proiettato verso il futuro, ha lo sguardo rivolto verso le macerie del passato, del proprio passato, come l’angelo della storia,
come ogni uomo e artista, sia d’avanguardia sia arroccato a un passato spesso inventato.
Continua è la ricerca di un equilibrio maturato, di
volta in volta, attraverso la smaterializzazione del pesante (il tetto, il basamento) e il consolidamento
dell’esile, del fragile, dell’evanescente. Continuo approfondimento della percezione e della sensazione del
soggetto di fronte alla cosa architettonica. Proporzione e la qualità dei materiali non sono già dati,
non esiste trattatistica, o sapere della tradizione che
possa confortare il progettista. L’artista, Mies, corregge impercettibilmente infinite volte i modelli, che
collaboratori e studenti pazientemente costruiscono, e
sembra suggerire che solo dal fenomeno è possibile
cogliere l’essenza, raggiungere la bellezza, la manifestazione visibile della conoscenza della cosa, in un
preciso momento storico. Metodo induttivo empirico,
dal particolare Mies coglie la legge.
Passo dopo passo, Mies van der Rohe approfondisce le molteplici sfaccettature della struttura in relazione allo spazio e alla materia. Nell'opera miesiana si
distinguono almeno cinque temi progettuali, sintesi
dialettiche tra spazio, struttura e espressione strutturale: 1) costruzione tradizionale in muratura e innovazione spaziale dei primi progetti delle ville in mattoni;
2) edifici con struttura puntiforme interna regolare,
solaio uniforme (struttura rivestita) e spazio flessibile,
come nel secondo progetto di grattacielo in curtain
wall, nel padiglione di Barcellona, nella Villa Tugendhat, sino allo stesso Segream Building; 3) edifici con
struttura, puntiforme o a telaio, manifesta all’esterno,
solaio uniforme (anch’esso rivestito) e spazio unitario, come nella Farnsworth, Crown Hall, Teatro di
Mannheim; 4) edifici con struttura, puntiforme o a telaio, in calcestruzzo, manifesta all’esterno, solaio uniforme (anch’esso rivestito) e spazio flessibile, come la
Carman Hall o Promontory Appartaments; 5) edifici
con struttura esterna o interna, solaio nervato e spazio
unitario o flessibile, come nel Bürohaus, in, nel Minerals and Metals Research Building, casa Fifthy fifthy,
Covention Hall, Nationalgalerie di Berlino.
Solo il primo tema concettuale coincide con una
fase cronologica precisa, gli anni trenta, della carriera
di Mies. Gli altri temi ricorrono in diverse opere, a
volte distanti nel tempo. Comunque, non esiste una
distinzione netta, i temi precisano un aspetto, lo chiariscono, ribadiscono una certa logica del costruire. A
questi temi, maturati nel corso della carriera, Mies accompagna una continua riflessione su un possibile
nuovo equilibrio tra la gravità, come forza della natura e l’architettura, e il costruire come definizione dello spazio. In questo senso la tecnica moderna consente l’espressione tettonica più inaudita: la natura,
l’energia e la forza della natura diventano esse stesse
risorse, strumento. La gravità non va più contrastata
con ciclopiche costruzioni capaci di resistere. Oggi, la
tecnica consente con minor sforzo e, con materiali resistenti a trazione di appendere parti dell’edificio. Il
curtain wall ne è la massima espressione, copre la
struttura, è uniforme, inizia come finisce deciso (decaeděre, tagliare) da una cesoia. Il curtain wall è
l’altra faccia della riflessione tettonica, ulteriore possibilità di esprimere la struttura, renderla percepibile
ai sensi. Dalle prime costruzioni tradizionali sino ai
più arditi progetti della maturità, l’opera di Mies cerca
di esprimere le leggi universali del costruire, le leggi
dalle quali partire per qualsiasi innovamento.
Casa Wolf a Guben (1927) è uno straordinario esempio di costruzione ancorata alla tradizione e, contemporaneamente, esempio di totale rivoluzione spaziale. Nonostante l’apparente prevalenza del volume
la casa è un gioco di superfici murarie che conquistano lo spazio. All’esterno i muri delimitano una corte
verso la collina a terrazze artificiali, altri muri delimitano il lotto verso la strada, altri ancora si appropriano
del territorio degradante a terrazze. All’interno i setti
murari definiscono uno spazio fluido che comprende
sala da pranzo, soggiorno, studio e spazio della musica. Grandi vetrate continue sostituiscono nella sala da
pranzo la finestra tradizionale, una pensilina aggettante sottolinea la superficie del solaio, così come una
vasto balcone posto in un angolo. I muri portanti tradizionali in laterizio sono coronati da una fascia orizzontale di mattoni posti verticalmente, segnano delicatamente il solaio come superficie. I due piani, nella
logica miesiana corrispondono ai due spazi orizzontali, distinti da un basamento e da due solai. L’espressione tettonica del muro è alterata solo nei particolari
delle finestre, tutte senza piattabanda, e nelle pensiline ardite poggiate su travi visibili in calcestruzzo armato.
Nel modello di progetto del grattacielo dal perimetro curvo del 1922 dalla cortina di vetro trasparente
si vedono le superfici continue dei solai e, arretrati, i
pilastri portanti. La struttura magicamente sostiene le
solette in equilibrio, e non contamina lo spazio orizzontale. La leggerezza dei solai e la continuità dei pilastri rendono credibile staticamente un progetto, allora, irrealizzabile. L’espressione strutturale, la pura
sintassi del costruire, corrisponde ai successivi capolavori di Barcellona e Brno. L’equilibrio tra colonne e
solai è ottenuta smaterializzando il secondo.
Non molto diverso è il discorso nei grattacieli americani, osservando il Seagram Building possiamo
notare come la struttura è percepibile sostanzialmente
solo dall’interno dell’edificio. Partendo dal piano terra, vero sistema urbano pedonale, i pilastri sostengono, apparentemente, la superficie senza peso del soffitto. Dall’esterno la struttura è invisibile. Dietro il
curtain wall, appeso, si percepiscono, come nei primi
grattacieli disegnati da Mies, solo i solai leggeri. La
verità strutturale lascia il posto alla nuova grammatica
della costruzione in acciaio, nella quale è necessaria,
sembra indicare Mies, la ridefinizione espressiva dei
rapporti tra gli elementi architettonici. Ad una più attenta analisi dell’edificio, si svela l’arcano: la struttura
portante si manifesta nell’angolo, solo nell’angolo il
pilastro corre incontrastato verso il coronamento, solo
in quel punto dichiara la sua necessità. Sugli angoli il
curtain wall trova sostegno, è, in sostanza, appeso e lo
dichiara con l’arretramento del pilastro dal filo della
facciata.
Nella Farnsworth House, invece, la struttura portante è posta all’esterno, i solai del basamento, ora sospeso, e del tetto, sono in struttura di acciaio interamente rivestita. Le colonne in profilati di acciaio poste all’esterno dell’edificio sostengono i piani paralleli
dei solai appesi. I piani come sospesi levitano è nello
stesso tempo sono ancorati nei pilastri. Tutto è dipinto
di bianco, l’equilibrio è conseguenza del rapporto ge-
ometrico tra le parti e il disegno dei dettagli. Le colonne, come alberi, emergono da terra e si ergono verso il cielo. Stranamente non c’è il basamento, o meglio il basamento esiste, ma è sospeso, come appeso
alle colonne stesse. Gli angoli sono liberi e in questo
modo accentuano la smaterializzazione delle colonne:
la casa, in realtà è come composta da soli piani orizzontali, puro spazio. All’interno il pavimento di travertino è un tappeto e il solaio del soffitto un piano
senza spessore, senza peso. Il terrazzo esterno è
anch’esso sospeso da sostegni del tutto simili alle colonne. Le colonne esterne non intaccano i piani dei
solai. Indipendenti, esse sono sculture astratte immerse nel paesaggio. La casa si presenta come uno spazio
sterilizzato interno ad una natura selvaggia, dal quale
tutto è visibile. Visibilità e chiarezza, la natura è un
mistero che si manifesta.
Nella Crown Hall l’espressione strutturale nuovamente si sdoppia. All’esterno sono visibili le capriate
di acciaio saldato, sotto le quali è sospeso il soffitto. Il
ritmo ordinato dei montanti in profilati di acciaio della struttura del tamponamento in vetro, come metope
e triglifi di un tempio dorico, accompagnano l’intero
perimetro dell’edificio. Dimensioni, il particolare assemblaggio con la soletta di coronamento e il distacco
dalla quota del giardino adiacente, sono un’esplicita
espressione di leggerezza, visibile solo a breve distanza. Gli unici montanti portanti sono profilati di sezione maggiore, i quali poggiano a terra e, in alto, sono
saldati alle grandi capriate d’acciaio. Di nuovo un
gioco tra elementi leggeri e elementi pesanti, un gioco
di equilibrio e misura: la struttura non intacca gli angoli, la struttura portante e quella dei tamponamenti,
ad una certa distanza, interagiscono, raggiungendo
uno stato di quiete espressiva. Per dirla con le parole
di Semper, raggiungono le … combinazioni che più
fanno riposare il nostro occhio… nulla ci suggerisce
l’idea della solidità e della durata della costruzione o
suscita un dubbio in proposito.
All’interno, la struttura, ancor più che nella Farnsworth House, è come smaterializzata, si confonde
con i telai dei serramenti vetrati. Il soffitto, quando
incontra la vetrata continua, evita il contatto sia con i
profili d’acciaio delle vetrate sia con i montanti portanti la copertura. Si ha così uno spazio, nuovamente,
delimitato da due superfici parallele senza spessore e
senza peso, nelle quali la struttura è quasi assente.
Il discorso muta quando l’edificio mette in mostra
la struttura in calcestruzzo. Nelle due versioni del
Promontory Apartaments, una con la struttura in calcestruzzo nascosta da un’uniforme curtain-wall e la
seconda con la struttura in calcestruzzo a vista, si notano due differenti logiche: quando l’edificio mostra
la struttura in calcestruzzo esprime la gravità, il ritmo
degli elementi verticali è più rado e corrisponde ai pilastri. Una leggera risega ogni cinque piani ne accentua la qualità strutturale e nello stesso tempo segna,
con la sua ombra decrescente, la facciata. Nei prospetti laterali è visibile il telaio della struttura accentuato
dai tamponamenti in laterizio. Il piano terra è di nuovo uno spazio libero, l’entrata è completamente vetrata e il soffitto, arretrato dalla struttura a pilastri esterna, è come appeso, una superficie leggera. Nei prospetti si nota la logica del tamponamento, il quale è in
mattoni nel parapetto, mentre lascia la restante parte
completamente finestrata sino al soffitto.
Nella versione in vetro e acciaio, preludio dei Lake
Shore Drive, la facciata principale è composta da profili in acciaio. La struttura è pressoché nascosta dietro
il curtain wall continuo. La facciata dichiara di essere
appesa. Non c’è compromesso, i profilati corrono
lungo il prospetto, quando si fermano sono liberi e
leggeri, appesi all’ultimo solaio, il coronamento disegna con il suo perimetro la forma del cielo. Di nuovo
Semper!
Nelle due versioni del Promontory Appartemnts si
svela chiaramente la ricerca di una nuova logica espressiva della costruzione, nella quale la tecnica moderna e i nuovi materiali sostituiscono, quando necessario, le logiche ancor valide della tradizione disciplinare.
Nella dialettica pesante/leggero, Mies, cambia registro quando la struttura si manifesta nella sua interezza. L’esempio compiuto è senza dubbio la Nationalgalerie di Berlino nella quale l’enorme piastra nervata del tetto scarica il peso su otto colonne. La piastra non è più un semplice piano, ma è una struttura
pesante anche all’apparenza. Le colonne di conseguenza non sono più esili ed esterne allo spazio, come
nella Crown Hall, ma possenti strutture progettate secondo canoni classici, perché esse svolgono un ruolo
classico. Composte da profilati d’acciaio formano una
croce e, come nel padiglione di Barcellona costruito
più di trent’anni prima, sono vere e proprie colonne di
un porticato aperto sul piano del basamento. L’entasi,
e il gioco di ombre delle alette dei profilati, moderne
scanalature, ne accentuano la plastica spaziale. Il dettaglio del giunto di collegamento della piastra nervata
del tetto e colonna ribalta la logica del capitello dorico: l’abaco, l’echino non servono nella struttura in acciaio, si smaterializzano, dove c’era il pieno ora c’è il
vuoto, il carico si concentra in un punto e il carico
greve della copertura sembra fluttuare. Mies non rinnega le logiche della tradizione classica, le trasforma,
le attualizza, cioè rende attuale, atto, ciò che era passato. Nell’atto creativo, Mies, ricerca una logica che
trascende la storia. Logica costruttiva come atto conoscitivo significa rifondare continuamente la tradizione, il sapere trasmissibile, l’intelligibilità del fare.
OLTRE I CONFINI: UN MUSEO DE-COSTRUTTIVISTA AD ATENE
Gabriele Szaniszlò
La ricerca progettuale de-costruttivista ha rappresentato negli anni ’80 del Novecento l’avanguardia
progressista nella sperimentazione architettonica rispetto al post-moderno ed alle ricerche allora in corso
di sviluppo attraverso il lavoro professionale1, molte
delle quali fondavano i propri principi su un nuovo
modernismo ibridato da processi di contaminazione
locale. La ragione del progetto de-costruttivista va ricercata oltre il limite del principio forma-funzione,
principio su cui si basa gran parte della costruzione
dell’architettura dal Movimento Moderno in poi, perché esso rappresenta un modo di superare i limiti spaziali e funzionali secondo cui la città moderna si è andata strutturando nel tempo attraverso regole, come lo
zoning per esempio, il quale da strumento di pianificazione è diventato strumento per innalzare i tanti
confini urbani.
Per i de-costruttivisti la conoscenza della realtà è
prima di tutto coscienza che i fenomeni che vediamo e
viviamo hanno la ragione d’essere in meccanismi che
sono dietro le cose stesse e che dobbiamo e possiamo
conoscere solo decostruendo, cioè smontando le componenti della realtà così come si manifesta ed appare
ai nostri sensi.
Questo principio si fonda sul pensiero di Jacques
Deridda che afferma che la “decostruzione non è una
teoria globale, né un sistematico tessuto di idee. Decostruzione è una strategia, un modo di leggere i testi
letterari e filosofici [e tutta la realtà, Nda] per raggiungerne il significato profondo… Decostruzione significa scavare in profondità, scoprire le premesse inconsce su cui si basa il testo … Decostruzione non è
un attacco alle strutture dall’esterno, ma si può conseguire qualcosa solo operando dall’interno… Decostruzione opera necessariamente dall’interno facendo
uso di tutti gli strumenti sovversivi, strategici, economici della vecchia struttura perché da questa non è
consentito rimuovere alcun elemento2... Il programma
è il seguente: rovesciare, lavorare dall’interno, rompere…”3.
Decostruzione significa quindi aprire i confini,
spostare le superfici che delimitano le cose per vedere
ciò che c’è dietro il loro apparire, scoprire le molteplici componenti visibili ed invisibili, verificando che
la realtà è una composizione di elementi anche antite1
K. Frampton, Storia dell’architettura moderna, Zanichelli,
Bologna 1993, Cap 6. Architettura nel mondo e «reflective
practice»
2
J. Deridda, Grammatologie, Suhrkamp, Franfurt/M, 1983, p. 45,
(citato in Architecture in Transition v. nota successiva)
3
A. M. Muller, The dialectic of modernism, in Architecture in
Transition, Prestel, Munich, 1991, pp. 10-11.
tici ma necessari e complementari. Conoscenza è
consapevolezza che la realtà è il risultato di una combinazione di frammenti che individuiamo attraverso
un processo di scomposizione.
La traduzione di questo pensiero nella metodologia
per il progetto de-costruttivista porta alla conformazione di un’architettura che si manifesta con un articolato carattere compositivo interprete del complesso
sistema di relazioni derivate dalla conoscenza delle
condizioni e contraddizioni del contesto, inteso come
realtà plurale, dal quale l’edificio raccoglie sollecitazioni e restituisce soluzioni. Il programma progettuale
de-costruttivista si basa sul principio dello smontaggio
della realtà attribuendo all’edificio il ruolo di contenitore dinamico di funzioni intercambiabili. Le sue matrici compositive derivano prevalentemente dalla conoscenza dell’ambiente in cui si colloca l’intervento e
le sue forme si sviluppano a partire dagli spazi creati
dalla disgiunzione degli elementi del contesto, dal loro significato e funzione. Decostruire nella progettazione architettonica ed urbana significa disgiungere,
dislocare, attivare una operazione di separazione delle
componenti di una determinata realtà spaziale e territoriale, aprire le maglie ed i confini che tengono legati
questi insiemi, trasformarli in sistemi aperti, capirne i
concetti ed i meccanismi e riproporli in una rinnovata
dimensione architettonica. I termini del binomio disgiunzione-confine interagendo tra loro consentono di
dislocare, slittare la forma dal contenuto, le superfici
esterne dell’edificio dallo spazio interno, i margini del
quartiere dal tessuto interno, le infrastrutture dalle aree che circoscrivano. Nell’interspazio, nel vuoto, che
si crea dallo slittamento tra queste parti si innesta il
processo progettuale decostruttivista che agisce come
una pleura architettonica che si sviluppa alimentandosi delle due parti che, pur disgiunte, mantiene a se
unite. È in questo vuoto che si crea l’evento. Qui si
manifesta l’eccezionalità dello spazio decostruttivista.
Il processo progettuale che assume la decostruzione come base teorico-concettuale della propria metodologia, pone come condizione del progetto la costruzione delle contraddizioni assumendo quale caratteristica morfologica l’uso della deformazione delle
geometrie tradizionali la cui applicazione si rende
possibile grazie all’impiego di tecnologie innovative.
La ricerca e le opere di Bernard Tschumi rappresentano una delle espressioni più significative di questa metodologia che assume il progetto come momento di superamento dei limiti fisici, concettuali e
culturali esistenti a partire dalla rimozione dei confini
che circoscrivono gli ambiti spaziali di cui è formata
la città ed anche quelli culturali-concettuali di cui è
caratterizzato l’ambiente. I confini determinati dai
quartieri, isolati, edifici, monumenti, tracciati, assi
viari, reti di infrastrutture, come dagli stessi confini
sociali e culturali non sono recinti invalicabili, ma si
aprono, si disgiungono dallo stretto rapporto con il
contesto per trasformarsi in flussi diversamente incanalabili; sono intrecci che si possono districare, bordi
permeabili lungo i quali attivare processi di integrazione e contaminazione reciproca. I confini sono da
intendere come luoghi dell’incontro e da utilizzare
come elementi della composizione architettonica disponibili sul tappeto del contesto dove, confrontandosi
ed intrecciandosi con le loro differenti geometrie, delineano scenari per nuovi sistemi insediativi, per nuove potenzialità spaziali e diverse disponibilità funzionali.
In tal senso il Nuovo Museo dell’Acropoli di Atene
di Bernard Tschumi è un esempio emblematico di
come il processo progettuale de-costruttivista trasforma l’area dell’intervento nel luogo dove confluiscono le trame delle linee di confine degli elementi
del sistema urbano esistente, che da ambiti spaziali
chiusi si trasformano in componenti di un sistema urbano aperto.
Il tempio ed il museo
Nel risalire verso ovest la passeggiata che costeggia il Teatro di Dionisio ad Atene, spazialmente delimitata sulla destra dal verde di un giardino continuo e
dalle irte pendici della rupe dell’Acropoli e sulla sinistra da una successione di isolati urbani formati dalle
aggregazioni di palazzine per abitazioni di epoca tardo
Ottocentesca, la nostra attenzione ed i nostri sguardi
vengono rapiti continuamente dal Partenone che
dall’alto diffonde sulla valle la sua magnetica presenza. A metà del cammino tuttavia lo sguardo è improvvisamente risucchiato da un ‘vuoto urbano’ presente nella compatta quinta edilizia di sinistra; questo
vuoto è il risultato dell’arretramento del nuovo museo
dell’Acropoli dal confine nord dell’area, quella verso
il Partenone, su cui il museo è stato costruito dopo il
completo abbattimento del vecchio isolato.
Un vuoto che si è modificato nel ‘luogo’ dell’incontro e del confronto tra due monumenti della storia
dell’architettura: in alto sulla rocca troneggia il Partenone di Ictino, Callicrate, Fidia, di Pericle, mentre in
basso nella valle il moderno Museo dell’Acropoli di
Atene che percepisce ed interpreta la forza del contesto. Il museo ‘riverente’ verso il Tempio della Classicità, assume da questo, dall’Acropoli e dall’impianto
urbano circostante, le matrici compositive, che vengono reinterpretati dal progettista attraverso la sua ‘irriverente’ teoria progettuale de-costruttivista che per
Tschumi significa proporre una architettura che attraverso la conoscenza del contesto ne assume i contenuti ed i segni e con un azione che superando i confini
delle singole entità traduce i frammenti, di cui è fatta
la realtà, nella costruzione dell’evento spaziale.
L’evento è per Tschumi l’elemento propulsivo del
processo progettuale contemporaneo che sostituisce il
gerarchico rapporto di causa ed effetto stabilito dalla
forma segue la funzione che è stata una delle certezze
del pensiero modernista.
L’evento è il momento ed il luogo in cui le persone
usano e fruiscono, per un determinato scopo, l’architettura i cui spazi sono costruiti come restituzione ed
interpretazione di una giustapposizione e successione
di frammenti assunti dal contesto nel quale l’opera si
colloca. L’evento diventa il catalizzatore delle sollecitazioni che provengono dalla conoscenza per frammenti della realtà che ci circonda, esso è un “… turning-point, un punto di svolta, non è un’origine non è
una fine è il contrario della proposizione la forma segue la funzione … J. Deridda ha proposto questo concetto che l’architettura dovrebbe diventare l’architettura dell’evento cioè aprire ciò che nella nostra storia e tradizione è conosciuto come fisso, monumentale, essenziale” 4.
“L’architettura è molto di più l’evento che ha luogo nei suoi spazi piuttosto che lo spazio esso stesso”5.
L’evento che si svolge nell’ architettura è così per
definizione una combinazione di differenze … e gli
architetti creano le condizioni per costruire … nuove
relazioni tra gli spazi e l’evento”6.
Ma in questa situazione l’atmosfera è già carica di
eventi, preesistenti: il confronto epocale con architetture lontanissime nel tempo, il confronto con tessuti
urbani che dai loro margini si affacciano l’uno affianco l’altro lungo l’ideale linea di confine disegnata
dal Dionisio Areopagho, le architetture della sacra
classicità greca che dominano sul caos di quella casbah di edifici di cui è fatta la Plaka e sull’affollata
scacchiera ottocentesca ricca di palazzine che caratterizza il quartiere Veikou. Nel mezzo si eleva quest’oggetto, il museo, un’architettura apparentemente estranea, ma invece prepotentemente protesa ad essere presente come soggetto innovatore ed allo stesso tempo
essere il complemento urbano necessario del contesto
esistente, risultato di un processo di interazione tra innovazione e preesistenza che apparentemente antitetici e confinati nel loro tempo sono invece indispensabili per il rinnovarsi della cultura classica della Grecia
antica che prosegue nell’incontro con la cultura moderna. È un esempio di come i molteplici elementi
compositivi presenti nell’architettura degli edifici della Classicità greca, uscendo dagli stretti confini del
tempo e del luogo e dai vincoli del rigore classico,
vengono assunti come elementi di una moderna spazialità che utilizza così componenti edilizi identici nel
4
B. Tschumi, Event Architecture, in Architecture in Transition, p.
127, op. cit.
5
Ibidem p. 125.
6
Ibidem p. 130.
significato ma realizzati con materiali differenti.
L’architettura è la materializzazione di un’idea afferma Bernard Tschumi ed implica il superamento del
confine tra teoria e pratica e questo passaggio dal concetto alla sua concretezza fisica non è un meccanico
assemblaggio di materiali, ma è un procedimento logico che richiede l’assunzione di principi, lo stabilire
dei valori e la definizione di contenuti.
Duemilacinquecento anni di storia separano i due
edifici ma che ora ritroviamo legati da un intreccio di
frammenti fatti da idee, segni, elementi compositivi,
giaciture planimetriche, un confronto di materiali, e
che rendono indissolubile il reciproco rapporto.
Tschumi assume dal luogo l’essenza concettuale e
materica del proprio progetto tradotto, attraverso un
sapiente uso dei materiali, in un’esemplare opera di
architettura capace di proporsi nella sua unicità e diversità come un edificio fortemente contestualizzato
secondo principi di una metodologia progettuale innovativa. Il legame tra idea, materiali, luogo, evento e
spazio costruito dimostra che il passaggio dal concetto
alla concretezza dell’edificio si basa su conoscenze
tecniche e storiche che implica un lavoro approfondito
con un elevato grado di sensibilità che sa arricchirsi
delle sollecitazioni e dei contenuti che provengono dal
luogo e dalle preesistenze e che sono state tradotte in
una molteplicità di eventi-spazio architettonici che superando i confini del tempo sono materialmente restituiti in fondamentali elementi compositivi dello
spazio del museo.
La colonna e la sala ipostila
Nel museo dell’Acropoli sono stati utilizzati materiali ‘moderni’ ad alto contenuto tecnologico, conglomerato cementizio, vetro, acciaio resi duttili al
confronto con la massività lapidea del tempio classico
trasformando la pesantezza degli elementi antichi nella leggerezza degli stessi introdotti nell’opera moderna. Il porticato, il pilastro, il basamento, la sala ipostila del museo, sono per forma la reinterpretazione
contemporanea del peristilio, della colonna, del basamento del tempio greco ricomposti dal progettista in
una propria idea di architettura.
Quarantasei possenti colonne in marmo pantelico
formano il peristilio del Partenone, alte ognuna 10,43
metri con un diametro alla base di 1,905 metri ed in
sommità di 1,481 metri, costruita ognuna in 17 rocchi
segnati sulla circonferenza da 20 scanalature ad angolo, montati l’uno sull’altro perfettamente allineati,
rocchi e scanalature, grazie ad un sistema di assemblaggio con pignone di legno ad incastro nel bicchiere
centrale, analogo ai sistemi prefabbricati contemporanei. La forma di ogni colonna saggiamente rigonfia
nell’entasis centrale, la loro fitta disposizione lungo il
perimetro del tempio, il materiale con cui appaiono
alla vista ne fanno singolarmente e nell’insieme
l’elemento compositivo caratterizzante l’architettura
del tempio.
La colonna del museo moderno è, al pari della colonna dorica, fisicamente presente come elemento determinante della composizione spaziale dell’edificio, è
realizzata con una ‘mescola’, il calcestruzzo, resa più
forte ed elastica con l’introduzione di tondini di ferro,
si trasforma, per colata in adeguate casseforme e successivo indurimento, in colonna liscia dritta priva di
scanalature, essenziale. L’edificio moderno risponde
all’antico realizzando un megalitico portico di ingresso sospeso su quattro sole colonne, anch’esse alte e
possenti, che in ragione del materiale moderno con cui
sono costruite consentono interassi molto ampi offrendo una maggiore percezione della continuità tra
spazio interno e spazio esterno come nel portico
d’ingresso così nella sala ipostila del secondo piano.
In quest’ultima, nel vuoto del suo volume interno, una
miriade di lisce colonne di cemento si innalza svelando, nella loro essere disposte secondo diverse assialità, la magia di un ambiente che è contemporaneamente il luogo della disgiunzione tra le geometrie dei vari
livelli del museo, che seguono le trame dei tracciati
preesistenti, e luogo del ricongiungersi dei visitatori al
mito dell’arte classica per il tramite di una infinità di
statue antiche disposte negli gli spazi tra le colonne.
La sala ipostila è costruita per essere il luogo
dell’evento spaziale, così disegnata per evidenziarne il
senso del percorso e lo slancio verso l’alto, verso la
conoscenza della storia dell’Acropoli che avviene superando i confini del tempo, attraversando nello stesso
istante due stagioni della cultura e dell’arte occidentale.
L’intercolumnio
L’intercolumnio del Partenone (foto 4), dove i cittadini passeggiavano e sostavano varia da metri 2,47 a
metri 2,51 sui lati lunghi e di 2,25 metri sui fronti. Osservando ancora oggi di scorcio il tempio, la fitta successione dei pieni delle colonne doriche e dei vuoti
dell’intercolumnio, si trasforma visivamente in parete
piena o porticato secondo l’angolazione del punto di
vista dell’osservatore rispetto i lati del tempio, quasi
come una scena teatrale che si modifica in funzione
delle esigenze della rappresentazione. Visto di scorcio
l’intercolumnio è un confine chiuso, visto di fronte si
trasforma in una superficie permeabile.
L’osservazione di questo effetto visivo che trasforma gli elementi compositivi dello spazio del tempio greco da una condizione statica ad una dinamica,
da una condizione di chiusura ad una di apertura, è
stata studiata da Tschumi e riproposta nel museo con
modalità e materiali diversi ma utilizzando la stessa
idea di base, direi la identica intenzione di realizzare
un evento spaziale uguale ma riprodotto architettonicamente con materiali differenti. Sulle facciate esterne
laterali del secondo e terzo livello del museo, rispondendo contemporaneamente all’esigenza di creare
all’interno un sistema di pareti per l’esposizione, il
progettista realizza una successione di dieci quinte per
lato ruotate rispetto all’allineamento del solaio su cui
appoggiano e separate tra loro da una distanza che
crea un vuoto da cui rivolgere sempre uno sguardo al
Partenone. È una composizione che ripropone nella
successione di vuoti e pieni un moderno intercolumnio. Le quinte sono dei setti murari rivestiti esternamente con una lamina di alluminio opportunamente
pressopiegata a formare piccole scanalature che riproducono la stessa trama che solca la marmorea colonna
dorica del Partenone. Viste frontalmente lungo la facciata le quinte formano un effetto di parete continua
mentre man mano che aumenta la vista di scorcio queste si assottigliano sempre più fino a ridursi allo spessore di una moderna ed esile colonna dorica in metallo
cromato lasciando spazio alla vera ampiezza dei vuoti
che rivelano così la loro essenza di essere un moderno
intercolumnio fatto in metallo e vetro. Percorrendo
quindi perimetralmente dall’esterno il museo si rivela
allo sguardo il gioco sapiente della disposizione delle
quinte/colonne, di un moderno intercolumnio, che si
chiude o si apre governando la relazione tra spazio interno e spazio esterno.
L’attacco a terra
L’attacco a terra dell’antica colonna del tempio dorico è risolta senza mediazione del basamento ma scaricando direttamente sullo stilobate continuo in pietra,
che a sua volta appoggia sui gradini del crepidoma,
(foto 8). Allo stesso modo le grandi colonne del portico di ingresso al museo, che ne sorreggono la copertura protesa con un ampio sbalzo verso l’Acropoli,
denunciano l’attacco diretto a terra mostrando agli occhi del visitatore il nodo strutturale del passaggio dalla
colonna al plinto circolare, ai pali di fondazione. È un
nodo realizzato in unica mescola di conglomerato cementizio armato che evidenzia la plasticità e la forza
portante della fondazione che inoltre consente di spostare l’asse di scarico delle forze a terra dal solo punto
centrale della colonna superiore a tre centri dei pali
che affondano nel terreno separando così l’intersezione tra colonna e terreno di fondazioni verso aree
libere dai resti degli scavi archeologici presenti sul
terreno. È una soluzione che rifacendosi a quella del
tempio in pietra antica dell’attacco netto tra fusto e
stilobate mette anch’essa in luce, attraverso un'unica
fusione in calcestruzzo armato l’articolazione strutturale e formale dell’attacco netto tra pilastro, plinto, pali, reperti archeologici e terreno di fondazione.
Il museo evidenzia come la forma dell’edificio decostruttivista, connotata da una intersezione complessa di segni e di geometrie, si rende possibile grazie all’utilizzo delle possibilità fisiche dei materiali ad
elevata tecnologia che assumono un ruolo fondamentale nella costruzione del concetto di smontaggio e disgiunzione degli elementi del progetto. La tecnologia
avanzata, come quella del vetro strutturale, del cemento armato con le campate dalle grandi luci, non è proposta quale strumento di enfatizzazione dello stile
High-Tech ma come necessaria per la costruzione della forma dell’edificio che sottopone i propri spazi ad
elevate sollecitazioni fisiche. I materiali moderni propongono riconfigurazioni di elementi architettonici
del passato: il cemento prende il posto della pietra nella rappresentazione della colonna, l’acciaio e l’alluminio pressopiegati sono assunti come metalli pregiati
per ridisegnare antichi decori che rivivono in moderni
componenti edilizi. Forma e materiali sono gli strumenti per superare i confini fisici , annullare le differenze temporali in un presente che si fonde con il passato.
PETER ZUMTHOR. IMPARARE DA DUE OPERE A PICCOLA SCALA.
Nicola Maria D'Angelo
Nel maggio del 2008, Francesco Dal Co, in un editoriale pubblicato su «Casabella», riaccende il dibattito sull'insegnamento dell'architettura e sull'importanza di interrogarsi “sui modi in cui si insegna, sul
ruolo degli insegnanti, sulla funzione e il significato
che la società contemporanea assegna all'educazione e
alla formazione”1. Dal Co, mette alla luce il progressivo deterioramento delle scuole di architettura, non
solo italiane, e il continuo affievolirsi del dibattito
teorico intorno al tema dell'insegnamento dell'architettura. Nei numeri 766, 777, 778 di «Casabella» vengono quindi riportati i contributi di maestri come Le
Corbusier, Pier Luigi Nervi, Mies van der Rohe. Questi scritti ci riportano ad un'epoca che ormai sembra
lontana, dove gli studenti avevano sete di apprendere
e di manifestare il loro pensiero critico. In particolare
il contributo di Le Corbusier, raccolto nelle pagine
della rivista, nasce come risposta agli studenti dell'Architectural Association School di Londra, che nelle
pagine del loro Focus, domandano ai grandi maestri
cosa vuol dire insegnare architettura. Le Corbusier
inizia la sua riflessione con un “se dovessi insegnarvi
l'architettura? Davvero una domanda difficile...”. Ed è
davvero una domanda difficile, cui troppo spesso oggi
si risponde con certezze coriacee, lontane dai dubbi
che animavano i maestri di un tempo. Il risultato è un
esercito di studenti che vive in un enorme “discount
dell'architettura” dove costruire la propria formazione, come si fosse tra i banchi di un grande centro
commerciale, prendendo qua e là i prodotti più appetibili. In questo discount, come in tutti i discount del
mondo, si finisce per prendere sempre gli stessi prodotti, quelli più pubblicizzati, quelli che apparentemente garantiscono il successo, quelli che sembrano offrire la maggiore libertà e che consentono di
conseguire i risultati sperati con il minimo sforzo. Del
resto i media ci propinano solo il tipo di architetti di
successo, quelli che costruiscono nuove città nei paesi
ricchi d’Oriente e che hanno studi in varie città del
mondo con centinaia di dipendenti e non danno conto
dell’altro tipo, di quelli cioè costretti ad abbandonare
l’attività progettuale per altri lavori. Questo modo di
vedere sembra animare anche le nostre scuole, che
puntano sempre più spesso a costruire professionalità
rivolte a coltivare l’illusione di poter trasformare ampi brani di città e meno adatte a costruire, ad esempio,
una chiesa di campagna. Lo slogan “dal cucchiaio alla
città” sembra essere stato tacitamente ribaltato a favore di un “dalla città al cucchiaio!” Secondo quanto
afferma da tempo Sandro Raffone, nelle scuole di ar
chitettura spesso s’impara a progettare partendo dalla
fine, celebrando il risultato, la forma che è in grado di
abbagliare e convincere, senza riflettere sul perché,
sul come, sul che cosa2. Eppure oggi ci sono validi
motivi, soprattutto in Italia, per recuperare il valore
del fare proprio ai progetti di piccola scala rispetto ai
formalismi che si spingono sino ai disegni di grande
scala. Le ristrettezze economiche, la natura finita del
nostro territorio già saturo di costruzioni, la necessità
di recuperare un ingente patrimonio edilizio in dismissione, lo spopolamento che migliaia di piccoli
centri stanno vivendo, ci portano a riflettere su quanto
in futuro la capacità di agire attraverso piccole opere
possa avere fette di mercato importanti. E invece
l’approccio al progetto fondato sullo studio dei particolari appare reazionario, ancorato ad un amore nostalgico per la figura dell'architetto artigiano, ormai
trascorsa. Imparare a lavorare alla piccola scala non è
soltanto dettata da scelte di origine economica e da
opportunità di lavoro: la piccola scala può rappresentare l'antidoto per l’attuale formalismo che invade i
nostri ambienti di vita e per sua natura si adatta all'insegnamento e all'apprendimento dell'architettura, sì
che, la riflessione sulla scala del nostro lavoro può
riaccendere, in parte, anche quella sull'insegnamento
del progettare.
Uno degli architetti contemporanei aduso ancora
ad un paziente lavoro artigiano, sulla piccola scala, e,
tuttavia, apprezzato dalla critica internazionale, è sicuramente Peter Zumthor. Cresciuto in una famiglia
in cui la manualità era un elemento importante del
fare quotidiano, Zumthor lavora nella bottega del padre ebanista, formandosi, come lui stesso afferma,
proprio grazie al genitore, dal quale ha imparato a
puntare su qualità e precisione, con spirito di sopportazione e perseveranza, attraverso l’applicazione per
otto ore al giorno in attività sovente molto ripetitive e
noiose. Successivamente si iscrive alla Kunstgewerbeschule di Basilea, l’Accademia di Arti Applicate,
organizzata secondo le linee del Bauhaus, la scuola
tedesca che aveva puntato proprio sull'imparare facendo. Alla Kunstgewerbeschule segue il corso annuale di preparazione, Vorkurs, per imparare i rudimenti
del design, e la Fachklasse, in cui decide di approfondire l'arredamento e la progettazione d'interni.
Nel Vorkurs apprende i principi della composizione
con linee, superfici e volumi, quelli della grafica e
della tipografia, le tecniche per riconoscere e mesco-
1
2
F. Dal Co, Insegnare architettura, in «Casabella», n. 766, 2008,
p. 3
S. Raffone, Altre parole nel vuoto, Giannini Editore, Napoli,
2010.
lare i colori, disegnando a mano oggetti, animali,
piante, esseri umani onde imparare anche ad osservare
con precisione.3 Intervistato da Francesco Garutti racconta di aver disegnato cubi per dodici ore la settimana, per sei mesi. “Hai davanti a te il cubo sul supporto e devi disegnarlo. L’insegnante si siede, guarda
il modo in cui osservi il cubo, si sofferma sul tuo lavoro e magari ti dice: «stai per caso guardando questo
cubo da un elicottero? Io non lo vedo così. Ricomincia». Lo stesso avveniva con la scrittura”4.Alcuni degli insegnanti della Kunstgewerbeschule provenivano
dal Bauhaus ed erano permeati da quella inclinazione
alla manualità che aveva caratterizzato la scuola tedesca. L’itinerario formativo era molto rigido e le attività artigianali, così come nella Bauhaus criticata per
questo da Banham, erano privilegiate rispetto a quelle
artistiche: a Basilea tutto veniva fatto a mano.
Successivamente Zumthor si iscrive alla facoltà di
Architettura e Design del Pratt Institute di New York,
fino al 1966, ma l'esperienza americana non lo segnerà. Al Pratt -“dove non ho imparato nulla” - frequenta il corso di progettazione industriale e conosce
Sibyl Moholy-Nagy, la moglie di László MoholyNagy, che era stata una delle protagoniste dell'architettura europea e aveva attraversato i decenni d'oro
della Bauhaus. Nel 1967, tornato in Svizzera, riceve
un incarico presso l'Ufficio Cantonale per i Monumenti Storici del Cantone dei Grigioni, incarico che
durerà dieci anni, nel corso dei quali Zumthor sviluppa una sorta di educazione etnologica in storia dell'arte. Nel 1978 viene incaricato presso l'Università di
Zurigo per la tutela e l'inventario dei beni storici. Trascorre quindi anni a censire fattorie, a osservare agglomerati abitativi, realizzando inventari e studiando
le strutture degli insediamenti storici, su cui pubblica
due libri. Anni in cui la capacità di apprendere dalle
contingenze e la curiosità gli permettono di approfondire l'architettura vernacolare e di comprendere la
storia dell'arte partendo dal basso, dalle opere minori,
proprio quelle alla piccola scala, che segneranno la
sua formazione.
È il 1979 quando apre il suo primo studio ad Haldestein dove nel 1985 realizza la sua prima casa-studio
in legno. Il progetto prevede la realizzazione di una
sala al piano superiore dove progettare e lavorare e
uno spazio al piano terra per la famiglia dove vivere a
contatto con il giardino, ma il piano terra non verrà
mai utilizzato. Con l'aumentare dei lavori e la necessità di ospitare altri collaboratori Zumthor, nel 2004,
realizza una nuova casa-atelier proprio accanto al precedente studio, tutt'ora in funzione. Il nuovo edificio
mantiene la continuità tra spazi dedicati al lavoro, allo
studio e alle funzioni quotidiane dell'abitare. Ad Haldestein Zumthor trova l'ambiente ideale per coltivare
la sua idea di lavoro che non si distacca dalla vita
quotidiana ma con essa coincide. “In un certo senso,
l’immagine è quella del contadino aiutato da una famiglia numerosa a coltivare la terra: figli, nipoti e così
via. È così che ho sempre lavorato”55
Kenneth Frampton colloca la sua opera all'interno
del filone che fa del materiale una componente espressiva e che parte da Sigur Lewerentz per giungere
agli architetti Herzog e de Meuron, considerando
Zumthor tra i migliori e più raffinati interpreti di questa tendenza e individuando nella cappella a Sumvig
del 1988 la prima architettura di rilievo nella sua produzione, e nella copertura degli scavi di Coira il riferimento per l'opera successiva6. Lo stesso Frampton
ascrive l'opera di Zumthor e Herzog e De Meuron al
minimalismo svizzero-tedesco fondato sul materiale e
distinto da quello anglo-americano, attribuendo ai tre
interpreti una enorme influenza su un gran numero di
architetti, tra i “Diener & Diener” e Marcel Meili,
particolarmente nella predilezione per i volumi definiti con precisione. Il lavoro alla piccola scala si ritrova soprattutto nelle prime produzioni dove Zumthor controlla il progetto nella totalità dei suoi dettagli, fino al maniacale rapporto con il cantiere e
l’utilizzo di numerosi plastici per conseguire il risultato finale. Tra le sue opere iniziali due risultano assai
significative: la cappella di Sogn Bededetg, e soprattutto le terme di Vals, che gli fecero vincere il premio
Pritzke.
Quando mi sono recato a Sumvigt in Svizzera, nel
settembre del 2013, sono arrivato nel piccolo borgo in
macchina, dopo la serie interminabili di curve che
attraversano lo splendido scenario del cantone dei
Grigioni. La cappella di Sogn Bededetg sorge su un
pendio scosceso nei pressi di Sumvigt. Una piccola
chiesa di campagna, modesta nelle dimensioni. Rispetto al contesto esistente, rappresenta un’eccezione
e, circondata da case rurali, si innesta nel terreno con
la sua forma aerodinamica che sembra protendere
verso la vallata. Con la tradizione locale ha in comune
i materiali utilizzati e il rivestimento in scandole di
legno, con colori caldi, che vanno dal rosso al grigio
del legno più invecchiato. Le scandole di legno coprono tutta la struttura e, rispondendo alla luce, ammorbidendola, ed esaltando il tratto sinuoso della
forma della cappella. fanno vibrare l'esterno della costruzione. Dalla base del sentiero si scorge immediatamente la piccola cappella e il campanile ottenuto da
una costruzione in legno che appoggia su una base
trilitica pure in legno. Lasciata l’auto a poche decine
di metri dalla stradina rurale che conduce alla cappella, superato il pendio, ho potuto constatare che la cappella era sempre aperta. La porta di ingresso è ottenuta curvando verso l'esterno la superficie della parete
5
3
F. Garutti, Intervista a Peter Zumthor,in « Klat» n. 5, 2011.
4
Ibidem.
Ibidem.
K. Frampton, Storia dell'architettura Moderna, Zanichelli, Bologna 1982, p. 438.
6
curva in modo da esaltare la forma organica della costruzione. Una scala in cemento con cinque gradini
conduce alla porta e al piano della chiesa che si colloca in alto rispetto all'ingresso. I gradini che conducono all'ingresso sono in cemento e non toccano la struttura. L'aria, il vuoto, costituiscono il giunto di connessione che enfatizza la soglia d'ingresso, indicando
il limite tra l'esterno e l'interno. Una piccola piastra di
acciaio permette ai fedeli di togliersi la neve dalle
scarpe prima di entrare nella piccola cappella. Io non
ne ho bisogno, fortunatamente l'inverno rigido deve
ancora arrivare. La dimensione della porta è quella di
una porta domestica con la maniglia in ferro costruita
artigianalmente e, passata la soglia si ha la sensazione di entrare in un luogo familiare sebbene si entri per
la prima volta. Ho chiuso la porta alle mie spalle e
sono stato proiettato in uno spazio dove il profumo
del legno e la qualità della luce determinavano un'atmosfera ideale per ritrovarsi e pregare. La quota di
calpestio della chiesa è circa tre metri più alta rispetto
all'imposta verso valle della costruzione in legno. Qui
la memoria si fa evidente, le sensazioni e l'atmosfera
che si respira sono frutto della somma di piccoli accorgimenti, piccole ancore disseminate qua e là come
agenti stimolanti che riattivano nei visitatori e nei fedeli sensazioni già vissute, appartenenti ad un bagaglio comune di emozioni, fatto di familiarità, di case,
di raccoglimento. All'interno il pronao è ridotto al
minimo. Un piccolo gradino conduce nello spazio
vero e proprio che ha un'altezza due volte quella
dell'ingresso. La forma planimetrica a goccia è esaltata dalla presenza dei pilastri in legno i quali sorreggono la copertura scollegati dalla parete-rivestimento
a sua volta in legno che, connessa ai pilastri con piccoli giunti tondi in acciaio vede inchiodate all’esterno
le scandole in legno. Il rivestimento interno, dipinto
di un colore grigio argenteo, conferisce autonomia ai
pilastri e smaterializza l'involucro. I pilastri si susseguono ravvicinati e sostengono la copertura. Tra il
rivestimento continuo e la copertura una finestra a
nastro segna la connessione percorrendo tutto il perimetro sinuoso della costruzione e facendo entrare la
luce da tutte le direzioni in modo da enfatizzare la
separazione tra i pilastri in legno e l’involucro. La
copertura e il pavimento sono in legno come il resto
della struttura e degli arredi fissi. L'altare è posizionato nella parte “gonfia” della costruzione, verso valle. Dall'interno è impossibile vedere l'esterno se non
attraverso le finestre alte che consentono soltanto la
vista del cielo. I passi risuonano sul pavimento ligneo
che ricopre il vuoto tra il piano di calpestio e il terreno sottostante offrendo un’eco al ritmo dello spazio.
Le terme di Vals sono state la tappa finale del mio
viaggio. Il paesaggio circostante è quello delle alpi
svizzere ricco di verde con sinuose strade che si inerpicano tra le severe montagne rocciose. A Vals sgorga
una sorgente di acqua calda che ha permesso l'istitu-
zione di un impianto termale dove nel 1893 fu costruito anche un albergo. Sostituito l’impianto con una
nuova costruzione nel 1960, questa ha il pregio di non
richiamare lo stile vernacolare alpino tornato di moda
ma sebbene presenti molti limiti. Nel 1994 accanto al
vecchio albergo viene decisa l’edificazione di un
nuovo volume termale. Il tema è appassionante e viene scandagliato da Zumthor in profondità: montagna,
pietra, acqua, costruire in pietra, con la pietra, dentro
la montagna, costruire fuori dalla montagna, essere
dentro la montagna, sono la catena di parole che guidano in progetto nelle fasi iniziali e il tentativo di darle un'interpretazione architettonica. La pietra e lo scavo sono i presupposti iniziali cui Zumthor vuole dare
enfasi: le terme devono essere un monolite da scavare, da conquistare, la luce deve lambirlo, attraversare i
suoi spazi, riflettersi nell'acqua. La ricerca del materiale è come sempre una delle prime che lo studio si
trova ad affrontare. Nella volontà dell’architetto c'è
l'uso di grandi blocchi di pietra, giganti, mastodontici,
ciclopici. La massa si ottiene con la massa e le terme
devono essere un unico monolite scavato. La ricerca
però conduce ad un esito deludente e sorprendente
allo stesso tempo. Quando Zumthor si reca in una cava nei Grigioni chiedendo al capo di preparargli il
blocco più grande possibile si accorge di quanto sia
piccolo il blocco più grande rispetto a quello che immaginava. Camminando per la cava si accorge di numerosi mucchi di lastre di pietra lunghe e sottili e
comprende il modo più semplice e veloce per tagliare
la pietra 7. La macchina da taglio consentiva di segare
lastre lunghe e sottili ottimizzando tempi e risorse,
inoltre quel tipo di pietra si prestava ad essere tagliata
in quel modo. Una soluzione che arriva a due anni
dall'inizio del progetto, semplice e pratica ma dal risultato eccezionale. Le lastre tagliate in tre spessori
diversi vengono sovrapposte con sottili strati di malta
insieme al calcestruzzo armato, a formare quello che i
muratori chiamano “muro composito di Vals” 8, il quale, nel rendere un effetto assolutamente monolitico,
colpito dalla luce, vede gli strati di pietra vibrare come la roccia all'interno di una cava. Lo spazio, a sua
volta, sembra ricavato da scalpellini pazienti che hanno scalfito la dura roccia per abitarla. La costruzione
sfrutta il dislivello e vi si incastra, dall'alto si percepisce il prato che continua sulla copertura senza soluzione di continuità. Si inserisce tra le costruzioni degli
anni sessanta ma sembra precederle nel tempo proprio
come nelle intenzioni del progettista 9. Sono gli edifici
degli anni sessanta ad essere stati costruiti attorno alle
terme! Dal basso i muri in pietra diventano un prospetto di due piani che sorregge il cordolo in cemento
7
B. Stec, Conversazione con Peter Zumthor in «Casabella», n.
719, 2004, p. 10.
8
D. Steiner, Bagni termali di Vals, in «Domus», n. 798, 1997, p.
27.
9
P. Zumthor, Pietra e Acqua, in « Casabella», n. 648, 1997, p.56.
della copertura a verde. Il primo piano è una massa
continua scavata da poche aperture mentre al secondo
piano due grandi loggiati lasciano intravedere lo spazio con la piscina scoperta e altre due grandi vetrate
illuminano lo spazio interno. Le ringhiere in ottone
che delimitano i loggiati sono arretrate di circa un
metro rispetto al filo esterno per enfatizzare la massa
rocciosa e la profondità dello scavo. Alle piscine termali si accede attraverso un percorso buio illuminato
artificialmente che parte dal vecchio Hotel. Una volta
superata la reception un lungo corridoio con piccole
fontanelle dalle quali sgorga acqua curativa accompagna agli spogliatoi. L'acqua lascia sulle pareti il segno
del suo scorrere lento. Negli spogliatoi ci si trova a
circa tre metri dalle vasche termali che si raggiungono
attraverso una cordonata in pietra limitata da una
lunga ringhiera in ottone, i cui montanti tondi sono
affogati nella pietra dalla quale sembrano nascere.
Tutto l'edificio è costruito in lastre di pietra tagliate
in modo diverso a seconda dello spazio che si attraversa. Ogni cosa all'interno della costruzione richiama
il concetto della stratificazione. La pietra si accarezza
con i piedi scalzi e con le mani quando si entra nelle
vasche. Lo spazio è articolato attorno ad enormi pilastri abitabili che limitano lo spazio e regolano i percorsi. Quattro grandi pilastri centrali delimitano la
vasca più grande e accolgono al loro interno piccole
vasche di acqua fredda e docce termali. Sui blocchi
che delimitano lo spazio appoggiano i solai di copertura che costruiscono un insieme di elementi portati i
quali, non toccandosi tra loro, lasciano passare la luce che entra nella costruzione attraverso gli stretti
“giunti di connessione”. Lo spazio interno è continuo
e tutti gli spazi sono intercomunicanti senza interruzioni. Due grandi vetrate affacciano verso valle offrendo agli ospiti una zona di relax con una vista mozzafiato. Dall'interno si può accedere ad una vasca che
è in continuità con l'esterno e godere delle acque termali immersi nel paesaggio di Vals in tutte le stagioni,
con il sole o con la pioggia e la neve. Al piano terra
sono incassati, nella zona adiacente al terrapieno, gli
impianti di depurazione e quelli di trattamento delle
acque mentre nella parte esposta a valle trovano posto
le stanze per i fanghi e i massaggi, oltre a quelle per i
trattamenti di fisioterapia. Le piccole stanze sono dotate di minuscole aperture quadrate in prossimità di
ogni lettino in maniera da consentire la vista all'esterno ai clienti che si sottopongono ai trattamenti.
Come sempre nelle opere di Zumthor le aperture sono
misurate in funzione dello spazio interno e delle visuali che riescono a ritagliare e non in funzione di
capricci formali o per l’estetica del prospetto. Le terme sono lontane dalle esibizioni di giochi acquatici di
molti impianti termali, si rivolgono a visitatori che
vogliono rilassarsi. La costruzione offre un'esperienza
corporea. L'atto del bagnarsi, del lavarsi richiama sensazioni di una sacralità ancestrale. Il contatto con la
pietra e con le diverse temperature dell'acqua genera
sulla pelle sensazioni autentiche che stimolano il silenzio e la riflessione.
Nota Friedrich Achleitner: “Benché sia possibile
cogliere i vari passaggi che scandiscono il progetto e
lo sforzo enorme compiuto per definire ogni dettaglio,
a prima vista resta un mistero come la pesantezza
possa tramutarsi in levità e l’involucro spaziale produrre una sensazione di così chiara libertà come avviene in quest’opera di Zumthor”10.
10
F. Achleitner, Elementare profondità, in «Casabella», n. 648,
1997, p. 59.
IL CORPO E LA CITTA’ METAFISICA: METAPOLIS
L’architettura fluida della scena di Frederic Flamand e Zaha Hadid
Pina Russo
Nella stagione teatrale dell’anno 2000, presso il
Centro Coreografico Charleroi Danse (noto fino a
qualche anno prima con il nome di Ballet Royal de
Wallonie), il coreografo, nonché direttore della compagnia di Bruxelles, Frederic Flamand, presenta al
pubblico una nuova e sorprendente messinscena, avvalendosi della collaborazione dell’architetto angloirachena Zaha Hadid.
Sulla scia della sperimentazione avviata alcuni anni prima con gli architetti Elizabeth Diller e Ricardo
Scofidio per la creazione della performance Moving
Target, il versatile Flamand, sensibile agli stimoli delle nuove tecnologie applicabili alla trasposizione sulla
scena di architetture virtuali e della cosiddetta videodanza1, mette in essere una sperimentazione linguistica e formale della danza, intesa come rappresentazione dell’indissolubile rapporto tra il corpo umano e lo
spazio-luogo che lo circonda, inserito in quello più
ampio e spersonalizzante della città metafisica. A partire, quindi, dalle riflessioni e dallo scambio di idee
che ha con l’architetto Zaha Hadid , egli avvia uno
studio approfondito che, nel corso del primo decennio
del nuovo millennio, lo vede collaborare con altri famosi architetti quali Jean Nouvel, Thom Mayne, Dominique Perrault e Ai Weiwei, nel tentativo di rappresentare, attraverso l’incontro di discipline diverse quali l’architettura, le arti plastiche, il cinema e la
danza - l’uomo moderno e le sue contraddittorie relazioni con il mondo circostante.
Il coreografo belga affronta, dunque, con nuovo
spirito critico le antiche problematiche della rappresentazione dell’uomo e della sua espressività corporale, a cui è sottesa quella emotiva e concepisce il danzatore in quanto essere dotato di un corpo inteso come
medium che riesce a colmare la distanza tra spazio
circostante e sé del danzatore-uomo. Riprendendo, in
parte, l’approccio degli inizi degli anni Settanta, prima
solo estetico e formale e, poi, ideologico e politicizzato, il corpo acquista nuovamente l’”attenzione compositiva sull’esperienza come ‘embodied experience’
(…). In tal modo non si ha più un corpo virtuosistico,
secondo la vecchia concezione, ma un corpo allenato
nella conoscenza di sé, in grado di agire sulla scena
secondo il metodo dell’improvvisazione in cui azione
e reazione coesistono”2. Flamand supera anche, le performances post-moderne, che avevano portato ad una
sperimentazione della danza “basata sulla dialettica
fra totale indeterminazione e improvvisazione guidata,
(…) affidata ad esecutori che ‘mettono in scena’ un
corpo idealizzato come naturale e rilassato. (…) Un
corpo che danza non può mai essere totalmente privo
di tensione: essere in situazione di danza significa porre il corpo in una condizione di inevitabile preparazione, se non altro intesa come disciplina che predispone all’ascolto, all’attenzione e alla prontezza di risposta agli stimoli interiori ed esteriori dell’agire performativo. Ogni gesto e azione fisica diventano oggetto di analisi e vengono riproposti nella nuova dimensione di movimenti coreici minimi, soggetti a scomposizione e a ricomposizione, nella costante trasparenza del processo creativo, spesso mostrato e banalizzato nel suo farsi durante la performance – come
accade, ad esempio nelle task dances in cui le istruzioni coreografiche sono enunciate al momento della
messa in scena e spesso determinate da meccanismi di
generazione casuali che mettono lo spettatore nella
condizione assai benefica per l’arte tutta, di una continua sorpresa percettiva”3. Flamand si pone al centro,
facendosi influenzare sia dalle correnti americane,
suggestionate fortemente dalle tendenze delle avanguardie contemporanee promotrici della libera espressività scevra della tecnica tradizionale, sia dalle più
tradizionaliste correnti europee figlie del neoespressionismo e del teatrodanza 4.
È lo stesso Flamand a spiegare il perché della scelta della figura di un architetto, che potesse accompagnarlo nella sua sperimentazione dell’interazione tra
corpo e spazio scenico, affermando che il suo intento
era quello di portare sulla scena la complessità della
vita dell’uomo moderno nella città e, del resto, chi
meglio di un architetto sarebbe stato in grado di assolvere l’arduo compito di ricomporre sulla scena la città
moderna e le complesse relazioni che l’uomo sviluppa
in essa e con essa?
L’intervento di Zaha Hadid si inserisce in un momento di profondo cambiamento delle rappresentazioni delle architetture di scena: l’architetto riesce così a
riproporre in scala teatrale il suo pensiero sulla città
moderna, forte delle innumerevoli possibilità espressive che lo stesso Flamand amava usare5. Dalla fine
1
A. Pontremoli, La danza. Storia, teoria, estetica nel Novecento,
Laterza, Bari, 2004, p.128. “La videodanza ha proposto, e continua a proporre, una nuova creatività nell’ambito della ricerca coreografica (…), di un corpo sottoposto a ripresa ed eventualmente
a post-produzione deformante, ma pur sempre di una corporeità
reale transcodificata nell’informazione audiovisiva”
2
Ivi, p. 118.
Ivi, pp. 117-118.
4
Cfr. ivi, p. 121.
5
Cfr. C. Salter, Entangled: Technology and Transformation of performance, MIT, 2010, p. 258. Salter, nel suo studio storico del
3
degli anni Novanta egli stesso si era fatto portavoce di
un genere di performance in cui la danza e la tecnologia erano strettamente connesse, con l’uso dei nuovi
strumenti della tecnologia computerizzata e virtuale
allo scopo di reinventare “il ruolo percettivo e ontologico della danza nel contesto di un zeitgeist digitale” 6,
sebbene, soprattutto all’inizio, l’utilizzo dei software
per la danza non fosse considerato alla portata di tutti
e fosse stato criticato per le inaspettate realizzazioni
che ne derivarono. Il coreografo americano, precursore della post modern dance, Merce Cunnigham, era
stato l’ideatore e quindi il primo, agli inizi degli anni
Novanta, ad utilizzare Life Forms, un programma di
animazione digitale in 3D, in grado di costruire sequenze coreografiche e set, e a dover affrontare le
nuove possibilità che l’appena nato strumento tecnologico offriva degli studi prospettici, coreografici e
non solo, notando che “le figure animate erano molto
somiglianti alle figure macchine [costumi ndr] fuoriproporzione del Balletto Triadico di Schlemmer”7 ed
ad avviarsi, con ben poche conoscenze delle possibilità dello strumento che si apprestava ad utilizzare , alla
creazione di motion in termini spaziali, la cui possibilità di realizzazione era essenzialmente dovuta solo
allo strumento utilizzato, che pertanto, fu in grado di
aprire a nuove e impensate visioni della percezione
della spazialità e dello studio del corpo nello spazio 8.
Flamand, ben conscio del concetto del tempo fluido bergsoniano, che più volte citerà nelle sue interviste, accetta la sfida lanciata anni prima da Oskar
Schlemmer di considerare il rapporto tra uomo e architettura (Schlemmer aveva usato il termine “alleanza”), in quanto “uomo e architettura si somigliano,
perché l’uomo è misura di ogni cosa e l’architettura è
l’arte della misurazione”9, facendo “alleare” la sua idea di corpo danzante con la plasticità delle forme
rapporto tra scena, architettura e tecnologie, sottolinea come
l’interesse di Frederic Flamand sia focalizzato nel porre i danzatori “faccia a faccia” (e corpo a corpo) con superfici inusuali e materiali tecnologici, che trovarono la loro realizzazione concreta nelle
produzioni con i diversi architetti. (Desidero segnalare al lettore
che ho personalmente curato la traduzione sia dei passi di C. Salter, citati nel testo, che, più avanti, di quelli di A. Betsky e P.
Schumacher).
6
Ivi, p. 261.
7
Ivi, p. 265. Schlemmer, direttore del laboratorio del teatro del
Bauhaus riteneva che “il costume può svilupparsi dall’organismo
interno del corpo e manifestare questo aspetto invisibile,
l’anatomia metafisica. Oppure può essere derivato dall’aspetto
esterno della figura umana e dalle sue singole forme, manifestandole in modo preciso, elevandole dalla casualità alla tipicità. Il
costume può inoltre assorbire le proprie regole dallo spazio e divenire esso stesso – spazio all’interno dello spazio – una struttura
spaziale, oppure può essere derivato dal movimento e conformato
agli elementi di moto del mondo organico-biologico o tecnicomeccanico” (O. Schlemmer, Scritti sul teatro, a cura di M. Bistolfi, trad.it. di M. Bistolfi e R. Pedio, Feltrinelli, Milano, 1982,
p.88).
8
Cfr. C. Salter, op.cit., p. 265.
9
C. Fiorillo, Introduzione a una fenomenologia dell’interno architettonico, Millennium, Bologna, 2008, p. 69.
dell’architettura di Zaha Hadid, per scoprire come il
corpo dell’uomo del nuovo millennio potesse relazionarsi con il sé e con le nuove metropoli in cui abita.
È così che nasce il progetto Metapolis. Quello che
si legge in primis nel progetto scenografico è
l’impronta forte, nell’architettura della scena, della
“mano” dell’architetto Hadid, che per rappresentare la
città “metafisica”, compie una sorta di sintesi delle
sue architetture, in cui svela l’essenza della sua poetica visionaria. La formazione culturale della Hadid,
l’ha resa non solo un architetto ma anche una designer
abile nel passare dalla progettazione degli yacht a
quella delle teiere, una pittrice, una scultrice in cui le
influenze dei Suprematisti e di Malevich, in particolare, si fondono con quelle del Bauhaus e soprattutto
assumono una forma decostruttivista in cui si vede la
forma prevalere sulla funzione. “I disegni rappresentano con molteplici visuali simultanee la tensione tra
forma ed energia che può produrre uno spazio progressivo e privo di condizionamenti” 10.
Tutto ciò è evidente nell’approccio alla progettazione della scena che, secondo anche la teoria di Flamand, vede a fondamento del movimento della danza
(dove ci sono reazioni di tensione-contrazione secondo la vecchia scuola di Martha Graham) una frammentazione delle parti, dei corpi architettonici che
muovendosi con fluidità si riaggregano per formare un
corpo nuovo, diverso. È possibile fare un parallelo tra
le sue architetture costruite e lo spazio architettonico
di Metapolis. Se nei suoi progetti, infatti, “è interessante osservare il rapporto con il tempo, inteso non
come durata della vita dell’edificio ma come il tempo
di percorrenza di un ipotetico visitatore che procede
alla scoperta graduale del succedersi degli spazi, di
cui non è possibile avere una vista complessiva”11 e
quello che emerge è “l’invito a farsi percorrere, con
un senso di sorpresa simile a quello che si ha in un
contesto naturalistico, dove ad ogni istante si hanno
delle visuali inaspettate e distinte” 12, nell’architettura
di scena l’invito a farsi percorrere, a relazionarsi è duplice, essendo rivolto sia allo spettatore-visitatore e
che al danzatore-fruitore. Il primo assiste ai movimenti delle strutture sulla scena, che avvengono simultaneamente al movimento dei danzatori, i quali, a loro
volta, sperimentano nuove prospettive nel relazionarsi
con le strutture di scena, quasi fossero prolungamenti
dei loro corpi, in un continuum corpo-architettura
immerso nella fluidità del tempo musicale, che ne detta i ritmi.
Il corpo fondamentale della struttura di Metapolis è
costituito da tre ponti mobili, in alluminio e fibra di
vetro, di dieci metri, che vengono spostati dai danzatori che si relazionano con essi creando un tutt’uno
10
M. Guccione, Zaha Hadid, Motta Architettura, Milano, 2007, p.
20.
11
Ivi, p. 22.
12
Ibidem.
per portare gli spettatori all’interno della città metafisica del nuovo millennio. Il ponte è utilizzato come
simbolo che unisce e divide, simbolo di passaggio e
attraversamento, segno evidente dell’esistenza di un al
di qua e di un al di là, di continuo movimento e continuo divenire, una” liquidità” che rispecchia quella della società odierna. Flamand e Hadid “evocano una città utopica, in conflitto tra fluidità e attrito, tra pubblico e privato, tra individuo e folla, tra mobile e immobile, tra urbanizzazione e spopolamento, tra ordine e
caos”13. In Metapolis c’è metafisica, ma non nel senso dechirichiano, dove il movimento è fissato nel silenzio, quasi fosse “congelato”: nell’opera di Flamand
e Hadid il termine allude a ciò che oltrepassa il fisico,
la corporeità e si spinge in un futuro virtuale. Qui,
contrariamente al mondo sospeso e immobile della
novecentesca e metafisica città dechirichiana non c’è
libertà dal rumore, dall’ossessività, dalla massa caotica, anzi, si è completamente immersi nella città globale del terzo millennio, fino a diventarne un prolungamento magmatico, una sorta di “blob”.
Al fine di sostituire il fondale tradizionale sono posti degli schermi su cui vengono proiettate immagini
di città, di movimento, che ribaltano totalmente le
prospettive, creando una sorta di quarta dimensione in
cui lo spettatore si trova completamente immerso e
spaesato. Gli stessi danzatori sono dotati di costumi in
tessuto “schermo” su cui vengono proiettate immagini
di città e di caos urbano, divenendo, al pari di quelli
schlemmeriani ausilio per “accendere” il movimento
dei danzatori, prolungamento delle loro membra e, in
questo caso, della loro interiorità sul palcoscenico, inteso come «laboratorio per esperimenti scientifici [e]
nello stesso tempo, come lo spazio idoneo a far affiorare gli strati inconsci e misteriosi dell’animo umano»14.
I ritmi della città sono perciò evocati attraverso
l’utilizzo di molteplici linguaggi, che, basandosi su
materiali differenti (percezioni visive per lo spettatore
e tattili per i danzatori), formano uno spazio fluido,
ibrido in cui “scivolano” i danzatori, i quali sono avvolti in una complessità spaziale che sembra catturarli
e rilasciarli, creando, come già accennato in precedenza, un organismo vivente, uno spazio che respira, passando costantemente, come fa ogni essere umano,
dall’inspirazione all’espirazione, dalla contrazione alla tensione, fluidità fluidamente interrotta15. La velocità di tali azioni è anch’essa importante nella definizione della forma sulla scena: il ritmo della città diviene
una sorta di metronomo, che scandisce il tempo del
movimento, definendolo. Secondo Patrick Schumacher, stretto collaboratore di Zaha Hadid, nella realtà
13
M. Porcu, Danzare di Architettura. Frederic Flamand, in “Abitare” n. 401, dicembre 2000, p. 23.
14
C. Fiorillo, op.cit., p. 67.
15
Cfr. A. Betsky, Zaha Hadid Complete Works, Thames & Hudson, London, 2004, PD, p. 73.
“il movimento risulta da un cambiamento di posizione, da una posizione di quiete attraverso una accelerazione e una decelerazione fino ad una nuova posizione
di quiete”16: nella finzione scenica, viceversa, “un
movimento perfetto che cominci e si fermi è per noi
innaturale”17, in quanto non crea opportunamente la
preparazione all’evento. Secondo Schumacher “la definizione della forma” in architettura «ha a che fare
principalmente con il controllo funzionale e il design
dei tre stati: chiuso, aperto e lo stato tra essi»18. Lo
spazio di Zaha Hadid è “un irresolubile intreccio tra
principi contrapposti. Elementari. Pienovuoto, pesanteleggero, solidofluido, apertochiuso, opacotrasparente” 19 e al tempo stesso rappresenta la modernità nei
suoi flussi comunicativi, elettronici: “la fluidità che
prende corpo nei suoi progetti determina uno spazio
energetico e attraente, leggero ed esaltante, che sembra mimare la simultaneità del funzionamento della
mente, la varietà ininterrotta del flusso dei pensieri, lo
scorrere luminoso delle informazioni in rete” 20. Tali
interventi sono riscontrabili in plastici di progetti che,
per il loro aspetto formale, sembrano rinviare ai tre
ponti mobili di Metapolis. Nel progetto di concorso
per l’Ampliamento del Centro d’Arte Regina Sofia a
Madrid del 1999, quasi contemporaneo alla rappresentazione, si nota come il corpo aggiuntivo sia caratterizzato dalla flessibilità degli spazi e dalla loro differente possibilità di fruizione. Gli spazi che possono
essere utilizzati come un unicum o per diverse esibizioni, in relazione alle esigenze del momento, non
possono non rimandare ai tre ponti di Metapolis, che
si muovono singolarmente o in gruppo e che vengono
variamente attraversati dai danzatori21.
Nello stesso modo nel progetto per il Centro di Arte Contemporaneo di Roma, datato sempre 1999, le
linee di forza, che avvolgono plasticamente gli edifici
preesistenti a livelli differenti, rimandano alla fluidità
e alla circolazione, alla mobilità dei ponti di Metapolis. In nuce, quindi, è possibile leggere nei progetti
dell’architetto anglo-iracheno, quello che la collaborazione tra Flamand e Hadid porterà sulla scena dal
punto di vista formale: il loro intento di “tradurre i
movimenti dei danzatori in una calligrafia spaziale, [i
cui] schizzi preliminari sono più che altrove vicini alla
scrittura araba»22 ma anche «un gioco con le nuove
tecnologie visive, instabile sul filo sottile tra fascinazione e repulsione”23. Il risultato di questo connubio
ha il sapore di una sofisticata sperimentazione: “tra le
16
P. Schumacher, Move: Architecture in Motion – Dynamic Components and Elements, Birkhauser, Basel, 2010, p. 8.
17
Ibidem.
18
Ibidem.
19
M. Guccione, op.cit., p .25.
20
Ibidem.
21
Cfr. il numero monografico di «El Croquis» sull’opera di Zaha
Hadid, n. 103, p.62.
22
M. Porcu, op.cit., p.23.
23
Ibidem.
immagini e le strutture, protagonista dell’arena, rimane il corpo, nudo, reale, virtuale, concettuale. Con la
sua fragilità e sensualità” 24. La Meta-polis, la città del
caos fluido, in cui si muovono uomini fluidi, apparentemente omologati, è infine creata, ma in essa emergono, ugualmente, le tensioni e le contraddizioni
dell’animo umano in tutta la loro spigolosità.
24
Ibidem.
INELUTTABILITÁ DELLA TECNICA
Antonio Mollo
La betulla non oltrepassa mai la sua possibilità. Il popolo delle api abita dentro l’ambito della sua possibilità. Solo
la volontà, che si organizza con la tecnica in ogni direzione, fa violenza alla terra e la trascina nell’esaustione,
nell’usura e nelle trasformazioni dell’artificiale. Essa obbliga la terra ad andare oltre il cerchio della
possibilità che questa ha naturalmente sviluppato, verso ciò che non è più il suo possibile, e quindi è l’impossibile.
Martin Heidegger, Oltrepassamento della metafisica, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1980, p. 64
L'essere umano è, come ogni altra forma di vita
(zoe-bios), in relazione continua con il proprio ambiente (ethos-oikos) ma ha potuto assumere il proprio
posto nel mondo principalmente grazie alla cultura,
attraverso cui egli ha dato ordine, con le sue conoscenze e le sue istituzioni, allo stato della natura
nonché al proprio senso dell'essere.
Il rapporto tra la vita animale che pure appartiene
all’uomo, zoe, e l’ambiente, è stato regolato per noi
occidentali dalla visione greca e da quella giudaicocristiana, la quale pure assumerà la grecità nella
evoluzione latina, rimanendo, per entrambe, la natura
estranea al proprio (ethos) dell’uomo, alla sfera etica,
il cui ambito, già in origine, escludeva il mondo naturale, essendo limitato alla regolazione dei rapporti
umani, senza alcuna estensione agli altri enti1. "I
Greci concepivano la natura come quell’ordine immutabile che nessuna azione umana poteva violare,
(...) avendo in sé la sua norma, vincolata dal sigillo
della necessità (anànke), la natura era pensata come
quell’orizzonte inoltrepassabile, quel limite insuperabile a cui l’azione umana doveva piegarsi come alla
suprema legge. L’impossibilità di dominare la natura
iscrive sia il fare tecnico, sia l’agire politico nell’ordine immutabile della natura, che l’uomo non può
dominare, ma solo svelare. Nasce da qui la concezione greca della verità come svelamento (a-létheia)
della natura (physis), dalla cui contemplazione (theorìa) nascono le conoscenze che regolano l’agire e il
fare umano. Il primato della teoria sulla prassi deriva
proprio dalla consapevolezza che non si dà corretta
azione tecnica o etica se non riconoscendo le leggi
immutabili che presiedono la regolarità dei movimenti
della natura che l’azione umana non può modificare,
non tanto per la modestia delle disponibilità tecniche,
quanto perché se la natura è pensata come immutabile, per ciò stesso non è assoggettabile. All’interno di
questa concezione saranno l’etica e la tecnica a scrutare l’ordine della natura per reperire le regole del
‘retto agire’ e del ‘retto fare’. Per questo la natura non
rientra nelle responsabilità etiche dell’uomo, perché
l’uomo non è misura, ma è misurato dall’ordine
cosmico cui si esprime quel Lògos a cui le leggi degli
uomini dovranno ispirarsi"2. In proposito Platone
manifesta chiaramente come l’uomo sia soggetto alla
1
U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica,
Milano, Feltrinelli 1999, capitolo 3.1 e capitolo 3.
2
A. d'Atri, Vita e artificio. La filosofia di fronte a natura e tecnica, Bur, Milano 2008, v. l’introduzione di Umberto Galimberti.
natura, parte della natura stessa: "Anche quel piccolo
frammento che tu rappresenti, o uomo meschino, ha
sempre il suo intimo rapporto con il cosmo e un
orientamento ad esso, anche se non sembra che tu ti
accorga che ogni vita sorge per il Tutto e per la felice
condizione dell’universa armonia. Non per te infatti
questa vita si svolge, ma tu piuttosto vieni generato
per la vita cosmica".3
La concezione giudaico-cristiana interpreta a sua
volta la natura come creata, al pari della vita umana,
da Dio, ancora estranea quindi all’uomo, cui però essa
viene consegnata: "Poi Iddio disse: facciamo l'uomo a
nostra immagine, secondo la nostra somiglianza:
domini sopra i pesci del mare e su gli uccelli del cielo,
su gli animali domestici, su tutte le fiere della terra e
sopra tutti i rettili che strisciano sopra la superficie"4.
In questo modo la natura non è solo espressione
dell’ordine immutabile della necessità determinato da
Dio, ma anche possibile dominio di una volontà, e il
suo significato non è più cosmologico, ma antropoteologico, nel senso che, soggiacendo all’ordine divino, essa è offerta al possibile dominio dell’uomo
fatto a immagine e somiglianza di Dio. Questa visione
del mondo comporta che l’indagine sulla natura non
ha più in vista la conoscenza delle sue leggi immutabili, cui si rivolgeva la theorìa greca, quanto una
intenzione progettuale che la assoggetti al servizio
dell’uomo sì che, secondo il programma baconiano,
scientia est potentia5, il conoscere è in se stesso
dominio. All'interno di questi diversi sguardi sul
reale, di queste diverse visioni del mondo, la questione antropologica per eccellenza è proprio quella della
tecnica, si direbbe manifestazione della compensazione di una carenza biologica dell'uomo ed espressione della sua volontà di controllo-dominio degli
eventi naturali. Intesa nella sua prima accezione, la
tekhnê è qualcosa di insito nella stessa essenza
dell'uomo in quanto nasce dall’istinto di sopravvivenza che ha portato l'essere umano a superare le
imperfezioni organiche, producendo modelli culturali
che adeguassero il mondo alle proprie esigenze. Di
3
Platone, Leggi, Libro X, 903c.
Genesi, 1,26
5
F. Bacone, Instauratio Magna, Pars secunda: Novum Organum
(1620); tr. it. La grande instaurazione, Parte seconda: Nuovo
organo, Milano, Rizzoli 1998, p. 78: “Scientia et potentia humana
in idem coincidunt, quia ignoratio causae destituit effectum.
Natura non nisiparendo vincitur, et quod in con-templatione instar
causae est, id in operatione instar regul.ae est” (trad. it. p. 300).
4
qui la seconda accezione: se gli artifici tecnologici
sono stati uno dei più importanti fattori culturali per
consentire all'uomo di compensare le proprie deficienze biologiche di animale incompiuto adattandosi a
tutti gli ambienti, ciò è stato possibile grazie alla loro
capacità di sostituire, potenziare ed alleggerire il
lavoro dell'organismo tramite utensili e congegni, in
grado di mediare il rapporto con il mondo esteriore
sino a determinare il controllo degli stessi eventi
naturali. Parallelamente al crescere della potenza della
tecnica il lavoro culturale che ne allestiva le strumentazioni stabiliva anche i loro fini. Ciò già nelle civiltà
delle origini caratterizzate da una cultura magica in
cui la tekhnê era percepita come un medium per la
relazione vitale con la natura, e principalmente nella
civiltà occidentale moderna la cui cultura scientifica,
propositrice dei mezzi tecnici, sebbene antropocentrica, rivolta cioè a controllare i singoli fenomeni naturali, ma soprattutto a dominare la natura stessa svelandone i segreti nascosti delle sue forme e dei suoi
principi, tentava anche di segnarne i limiti d’uso,
intendendoli anche quale “pericolo” per l’umanità. E
anzi, per Heidegger/Holderlin “l’estremo pericolo”
della tecnica poteva tradursi in una “salvezza” per
l’uomo, il quale, riconoscendo il proprio essere mero
“fondo” rispetto al carattere “impositivo” delle nuove
strumentazioni, avrebbe altresì attenuato la propria
volontà di potenza in relazioni più armoniche con gli
altri enti. Oggi però l’idea che le nuove scoperte, e i
nuovi mezzi che derivano, possano condurre ad una
catastrofe del pianeta, induce a formulare ipotesi di ritorno alla natura, oltre lo stesso ecologismo e l’applicazione di misure sostenibili. "Nella cultura del nostro
tempo riemerge con forza il tema della condanna
dell’impresa umana di controllo della natura come
impresa empia. Attraverso quella condanna si apre
spazio all’esaltazione del primitivo, all’idea di una
natura in sé benefica, all’idea di una civiltà malefica
in quanto antinatura, all’idea che il remoto passato
della storia sia stato popolato dai selvaggi innocenti di
Rousseau, invece che dai bestioni ‘tutto stupore e
ferocia’ di Vico. Si esprime da più parti una sorta di
nostalgia per l’ipotetica vita felice di uomini che nella
realtà vivono molto duramente, soffrono molto,
muoiono molto giovani e vedono morire molti dei
loro figli. Alle origini della storia umana, come scriveva Hobbes, «domina un continuo timore e il pericolo di una morte violenta e la vita dell’uomo è solitaria,
povera, lurida, brutale e corta». I miti del primitivismo non tengono conto delle sofferenze che costa la
lotta per la sopravvivenza in una natura ostile, non
tengono conto che anche in comunità di tipo agricolo,
che si sono volontariamente isolate dalla civiltà in
nome di un rifiuto della medesima, possono avvenire,
come di recente é avvenuto, spaventose tragedie e
manifestarsi forme terribili di autodistruzione. L’idea
che l’uomo possa reimmergersi nella Natura, come
regredendo nel grembo di una madre benefica, possa
rinunciare al controllo dell’ambiente, recuperando una
perduta innocenza, è un’antica e ben radicata illusione. Ma l’idea che l’uomo, spinto dai suoi rimorsi,
possa cancellare sé stesso dalla natura è anche un’idea
assurda e pericolosa. L’esistenza di un rapporto
antagonistico con la natura non è una malvagia invenzione umana, ma la condizione dell’esistenza stessa di
ogni specie vivente. Ogni individuo fa il suo ingresso
nella natura come un essere debole e indifeso e questo
vale per l’uomo (che, come tutti sanno, ha un’infanzia
assai più lunga di quella degli altri animali) più che
per qualunque altra specie animale."6
E invece, così come è avvenuto nell’intero corso
della storia umana, il rapporto con la natura non può
non essere mediato dalla tecnica, e la stessa salvaguardia della natura non può avvenire se non ricorrendo all'assistenza tecnica: “restiamo sempre prigionieri della tecnica e incatenati ad essa sia che la
accettiamo con entusiasmo, sia che la neghiamo con
veemenza” 7, anche se la tecnica diventa sempre più
un orizzonte totalizzante del tutto lontano dalla natura
e forse lontano dallo stesso linguaggio che la tradizione ci ha consegnato. Viaggiamo nelle singolari
forme microscopiche e macroscopiche della natura,
svelandone e violandone il segreto ed i principi nascosti nel suo DNA, nei suoi processi di crescita e di
rigenerazione delle sue forme, che sempre più influenzano discipline come l'architettura.
Salti di scala e forzature fella forma, con l’ausilio
del calcolo informatico, generano edifici ibridi, innesti di una natura/archi/tecnologica aliena alle forme
della nostra memoria, ed ai tessuti storici delle nostre
città in un preteso mimetismo rispetto al paesaggio.
E’ la “transarchitettura”, teorizzata lungo la linea di
un malinteso Deleuze, da Gregg Lynn, secondo cui i
nostri edifici dovrebbero approssimarsi a qualcosa di
vivo, simili a un animale, o a una materia organica.
Le forme ed i processi di forma che la natura produce non si conservano in eterno, ma, al contrario, a
fronte di quelle che periscono altre ne nascono, sicché
la natura non solo si riproduce nel tempo, ma nel
tempo si innova, si differenzia e si costruisce. Alla
luce di queste considerazioni, risulta evidente che la
natura in realtà coincide con la storia delle sue trasformazioni e in questo senso essa fabbrica illimitatamente se stessa. La natura altro non è che il laboratorio di se stessa che con quattro miliardi di anni di
esperienza secondo i transarchitetti vale la pena di
capire imitandone i modi, alla luce delle nuove conoscenze scientifiche e dei nuovi progressi della tecnica
ed in nome di una sempre maggiore efficienza e
funzionalità degli edifici. Il grande tema della sfida
energetica per il futuro sviluppo dell'umanità, non può
6
P. Rossi, Nuova civiltà delle macchine, Rai Eri, Milano 2001M. Heidegger, Oltrepassamento della metefisica, in Saggi e
discorsi, Mursia, Milano, 1980.
7
ignorare l'osservazione e la conoscenza delle strategie
degli organismi naturali in quanto intenti a consumare
la quantità minima di energia possibile per le proprie
attività, al fine di garantire maggiori prestazioni per la
perpetuazione della specie.
L’architettura quindi dovrebbe, a seguire tale linea, rompere il legame con le influenze derivanti
dalla sua storia, non prendere più come riferimento,
oltre che i trattatisti o Palladio anche i dettati modernisti, per aprirsi ai sistemi costruttivi organici, lasciandosi contaminare da altri settori, come la biologia perché possa svilupparsi e ramificarsi così come
un organismo naturale. Non è più solo la forma a
interessare quanto le morfogenesi mutanti, che si
adattano e cambiano in una metamorfosi di crescita
tendente sempre più all'organico, al vivo, per architetture ambiziose che regolano l’energia senza finire
nella retorica della sostenibilità, dei pannelli solari e
delle turbine eoliche, ripensando le premesse stesse
del concetto di energia intesa, in un rinnovato rapporto con lo spazio, con la forma, quale movente e prodotto di processi di nascita e di crescita, al modo della
natura. Si studia in tal senso ogni forma di vita e,
particolarmente, quella più elementare, quella dei
batteri come è in un progetto di Magnus Larsson nel
deserto del Sahara che, al confine fra biologia, bioedilizia e architettura, propone un muro-duna di seimila
chilometri il quale rilasci un batterio, il Bacillus
pasteurii, provvisto della capacità di trasformare la
sabbia in arenaria, creando in tal modo ambienti con
oasi d'acqua e vegetazione, da utilizzare per rendere il
territorio più accogliente impedendo le grandi migrazioni verso i paesi ricchi.
In termini analoghi lo studio americano Howeler
Yoon Architecture propone una struttura mutante da
inserire in un vuoto urbano generato da una fabbrica
in disuso: la costruzione è composta da microcapsule/baccelli abitabili e riconfigurabili dove coltivare
delle microalghe per la produzione di biocombustibile; l'edificio cambia la sua configurazione iniziale
grazie a dei bracci meccanici crescendo in verticale ed
orizzontale, un organismo dinamico, vivo, che ha
poco a che fare con l'armonia congelata dei passati
prospetti in pietra.
Il carattere liquido, metamorfico e instabile della
società, così ben descritto da Zigmunt Baumann nella
Vita liquida8, si materializza nell’architettura, transformata e transmutata anche nella svanita opposizione di fisico e virtuale, generando alternative agli
angusti confini della disciplina delle costruzioni. I
calcoli informatici, secondo l’analisi di Karl Chou, ci
condurranno alla conoscenza di tutte le componibilità
delle cellule e, quindi, dei dispositivi biologici e
trasformativi dei minerali, che potranno essere utiliz8
Z. Baumann, vita liquida, trad.it. di M. Cupellaro, Laterza,
Roma-Bari, 2012.
zati nel progetto per determinare una architettura viva,
così come gli enti in natura. Di qui l’orientarsi attuale
dei linguaggi architettonici verso lo sposalizio tra
mondo informatico e mondo biologico, portando gli
architetti più innovativi ad ampliare la gamma di
possibilità altrimenti inaccessibili. Opere sperimentali
al confine tra finzione e realtà, interattive e cibernetiche come quelle dell’olandese Lars Spuybroek alla
guida del gruppo Nox. La D-Tower per esempio è
un’opera pubblica per la città di Doetinchem, costruita nel 2003 e consistente in tre parti strettamente
correlate fra loro: torre-scultura interattiva, questionario e website, un ibrido, un miscuglio di media differenti, dove l’architettura è parte di un più grande
sistema interattivo di relazioni.
La forma è curiosa, indeterminata, vaga, sembra
quasi organica: ricorda un insetto, ma con dettagli
che spaziano dallo stile delle volte gotiche agli studi
per la Sagrada Familia di Gaudí, in cui si combinano
geometrie standard e non. E' una struttura luminescente alta 12 metri che usa come materiale un laminato di fibra di vetro, sorretto da una struttura di
acciaio tubolare con Led che illuminano dall’interno
l’opera.
Il colore della torre è dato da un computer che
processa le risposte date in un questionario di 300
domande, a cui rispondono ottanta abitanti selezionati; il questionario riguarda quattro emozioni quotidiane correlate con altrettanti colori: odio/verde, amore/rosso, felicità/blu, paura/giallo. Il questionario,
scritto dall’artista olandese Serafijn, che ha collaborato con NOX, pone domande che evolvono nel corso
dell’anno: cominciano amichevolmente su temi
generali per diventare più dettagliate e inquisitorie
verso dicembre. Ogni sera la torre prende il colore
dell’emozione principale del giorno traslando il
sondaggio virtuale in un messaggio urbano. Un oggetto pubblico mostra così i sentimenti nascosti della
città attraverso una rappresentazione fisica di dati e ne
amplifica gli umori. Tuttavia la realizzazione dei Nox
resta ancora solo un’installa-zione urbana lontana
dalla complessità di un’archi-tettura vera e propria,
così come le opere citate di Magnus Larsson e dello
studio Howeler+Yoon ancora solo meri progetti, o di
Ben van Berkel, dell’Unstu-dio, di Delugan, Eva
Castro, i quali conducono, attraverso il computer, le
sue infinite componibilità formali, alle più estreme
conseguenze, alla totale insensatezza dei segni architettonici i quali non identificano più alcun abitare
funzionalmente determinato, quanto solo spazi di
attesa del nulla.
Pur non volendo aderire alla ipotesi di un nuovo
“realismo”, proposto anche per l’architettura, se le
attuali avventure dei trans-post-decostruzionisti sembrano mosse dalla volontà di determinare un universo
totalmente astratto, virtuale, come è nella recente
filmografia (v. il film “Trascendece”), vale per loro
quanto sostiene Ferraris circa le affascinanti immagini
che ci vengono proposte, e la miriade di interpretazioni che inducono e che ci consegnano ad un “regime
di populismo mediatico, nel quale purché se ne abbia
il potere si può pretendere di far credere qualsiasi
cosa”9.
9
M. Ferraris , G. Vattimo, L’addio al pensiero debole che divide i
filosofi, Dialogo tra Maurizio Ferraris e Gianni Vattimo, «La
Repubblica», 19 agosto 2011.
DALL’AGORÀ AL SOCIAL NETWORK
Paolo Sibilio
Bruno Zevi scriveva, ormai nel lontano 1948, in
Saper vedere l’architettura: “Che lo spazio, il vuoto,
sia il protagonista dell’architettura, a pensarci bene, è
in fondo naturale: perché l’architettura non è solo arte, non è solo immagine di vita storica o di vita vissuta da noi o da altri; è anche e soprattutto l’ambiente, la
scena dove la nostra vita si svolge.”1
I testi di Zevi sono stati il fondamento della cultura
architettonica di almeno tre generazioni di architetti
italiani. Che l’architettura sia lo spazio dove si inverano le relazioni umane è diventato l’assioma euclideo di tutte le correnti culturali che dal dopoguerra ad
oggi si sono formate ed hanno accompagnato il cammino degli architetti e la lettura della critica architettonica.
La “verità evidente” euclidea2, non lontana dalle
citazioni del postmoderno, trasferì in quegli anni dalla
materia allo spazio il valore architettonico: spazio fisico carico di valori formali, simbolici, storici. Dagli
anni cinquanta e per tutto il XX Sec., su binari differenti, la cultura architettonica percorse il suo viaggio
nel tempo. La critica, ugualmente, rileggeva e soprattutto riscriveva il percorso dell’uomo nella storia. Il
focolare domestico per la casa, l’agorà per la città erano il centro dello spazio cosmico attorno al quale
nascevano, si radicavano le strutture culturali e sociali
della civiltà.
Nella città eterna, Roma, tra la meta del I sec. a.C.
e il I sec. d.C., nell’arco di appena 150 anni vennero
costruiti quattro fori imperiali, tutti nello stesso luogo.
Il foro cambiò forma, orientamento ma conservò tutti
i valori simbolici e funzionali originari. L’agorà per i
greci, il foro per i romani, la piazza del mercato dal
medioevo in poi, a scala urbana, rappresentarono il
luogo, lo spazio dove si costruirono le relazioni umane, dove si scambiavano le merci, le idee, dove si caratterizzava l’identità culturale di una civiltà. Lo spazio fisico fu e restò il protagonista dell’architettura.
La domanda che ci poniamo è se anche oggi è così, o meglio, se anche oggi è solo così come Zevi ci ha
insegnato. Come sempre accade, la pittura,
l’avanguardia delle arti figurative del novecento, fu la
prima a leggere e interpretare i cambiamenti della società, svincolata, a differenza dell’architettura, dalla
necessità di soddisfare esigenze plurime ma materiali.
1
B. Zevi, Saper vedere l’architettura, Einaudi, 1948.
In filosofia, contrariamente alla matematica, gli assiomi assumono il significato di verità evidenti tali che non necessitino di
essere dimostrate; in matematica l’assioma è la condizione per la
quale la dimostrazione del teorema è valida se è vero il postulato
anche se non dimostrato.
2
Tra gli anni ’30 e ’60 la forma riconoscibile della realtà si astrasse fino a scomparire dalla tela (Piet Mondrian, Kazimir Malevich). Negli anni ’50 e ‘60 la materia diventò protagonista, caricata del significato
simbolico del gesto (Alberto Burri, Jackson Pollock).
All’irrompere dei media nella vita quotidiana, la Pop
Art ne rappresentò limiti e opportunità (Roy Lichtenstein, Andy Warhol). L’architettura, nel contempo e in
tutto il suo evolversi nella storia, si era caratterizzata
nello spazio; spazio mutevole, come mutevoli furono i
comportamenti umani. Uno spazio fisico, immanente,
ricco di significati, di molteplici letture, di infinite varianti. Nella pittura, però, avvenne ciò che
nell’architettura era in qual periodo tecnicamente impossibile: la forma, il colore e finanche la materia
scomparvero, restò solo la tela. Lucio Fontana attraversò la tela e con un gesto creò, nei primi anni ’60, il
suo primo “Concetto spaziale”. Gli architetti non lo
seguirono, almeno per il momento. Negli anni ’70,
Christo e Jeanne-Claude prevaricarono i confini: lo
spazio architettonico era statico, almeno nel suo complesso, e venne impacchettato con corde e teli di plastica. Sottratti alla vista, i monumenti, i palazzi, le
chiese e i ponti abdicarono all’arte. La ricerca architettonica tra gli anni ’60 e ’70 era distratta dal soddisfacimento di bisogni contingenti sopraggiunti: la città, la casa, i luoghi dove si inveravano le relazioni
umane andavano reinventati, adeguati, adattati, ristrutturati e, come era iniziato ad accadere nelle grandi e piccole città europee, salvaguardati e tutelati.
Era giunto il momento di muoversi. questa volta
sul serio. Piano e Rogers, immaginarono, almeno nel
primo progetto, che il loro edificio, il Centro
Pompidou di Parigi, si potesse muovere: l’altezza dei
piani sarebbe potuta variare al variare delle necessità.
La tecnologia adesso lo permetteva, il budget no.
L’arte continuò, inesorabile, la sua corsa in avanti:
scomparve lo spazio, l’arte diventò “Concettuale”. Lo
spazio restò momentaneamente il luogo dove si compivano i gesti (“Tentativo di far formare dei quadrati
invece che dei cerchi attorno ad un sasso che cade
nell’acqua” di Gino De Dominicis), il luogo dove artisti come Joseph Beuys posero l’umanità di fronte ai
propri orrori. Senza rendersene conto, gli artisti, entrando nel tubo catodico, si trasferirono in un nuovo
spazio. I media si trasformarono da mezzo di conoscenza a fine della coscienza collettiva. Beuys riprese
le sue performance, Studio Azzurro, collettivo di video-artisti, ne amplificò fino all’eccesso le potenzialità. Lo spazio architettonico era ormai, seppure in ritardo, in moto. L’architettura diventò de-costruita,
fluida, dinamica, non è un caso che una delle persona-
lità emergenti degli anni ’90 che si pose tra le archistar indiscusse del XXI secolo fu Zaha Hadid. Non è
un caso perché, anche se naturalizzata britannica, il
suo retroterra culturale era lontano dalla storia, lontano dal peso della tradizione. Laureata, prima in matematica, la scienza astratta per eccellenza, approdò
all’architettura solo dopo la collaborazione con Rem
Koolhaas e Elia Zenghelis (OMA): i maestri non si
seguono, si superano.
L’architettura è ormai fluida, oseremmo dire liquida e persino gassosa, come nella “Nuvola” di Massimiliano Fuksas. Siamo arrivati al limite dello spazio
fisico. Dopo oltre mezzo secolo dal taglio della tela di
Lucio Fontana, che segnò il salto della pittura dalla
materia allo spazio, siamo arrivati all’architettura che
ha modificato la natura del suo spazio fisico. Abbiamo, però, perso di vista in questo viaggio “la scena
dove la nostra vita si svolge”. La scena, appunto. Zevi, infatti, nel suo scritto rimandava ad una scena, un
ambiente. Rileggendo, ci piace immaginare che nella
sua definizione egli abbia, in nuce, previsto ciò che
sarebbe accaduto dopo la sua morte: nelle relazioni
umane lo spazio, nella sua accezione fisica, è scomparso! In un futuro non remoto gli architetti si troveranno a misurarsi con i nuovi luoghi dell’architettura,
scene che, per l’appunto, oltrepassano i confini dello
spazio fisico diventando immateriali.
Torniamo per un attimo indietro di qualche millennio. I più antichi manufatti dell’umanità sono costituiti da pietre di selce lavorate in modo da essere
rese taglienti, avevano lo scopo di poter aumentare
nell’ominide la sua capacità offensiva e difensiva. Tra
i primati, gli antenati dell’uomo erano quelli capaci
più degli altri di difendersi, di uccidere. Riconosciuta
la sua straordinaria capacità di realizzare oggetti,
l’uomo iniziò a produrre utensili finalizzati al soddisfacimento di bisogni diversi, quali la conservazione
dei cibi, il trasporto dell’acqua, la decorazione per il
proprio corpo, finanche la realizzazione di oggetti
rappresentanti valori assoluti la cui finalità assumeva
caratteri sacri ed ancestrali. Anche se creati dall’uomo
questi oggetti assumevano, nelle loro fattezze, la sacralità degli idei. La manualità aveva dato vita alla
coscienza della società umana.
Durante la seconda guerra mondiale, le necessità
belliche avevano spinto gli scienziati tedeschi a immaginare una bomba che potesse raggiungere, lanciata dalle coste continentali, le città inglesi senza che
fosse necessario trasportarla per via aerea. La contraerea britannica aveva sviluppato, infatti, un sistema di
difesa capace di prevenire e reagire ai raid aerei: si era
dotata dei radar. Una bomba di diverse tonnellate di
esplosivo dotata di autonomo sistema di lancio e volo
prendeva il nome di V2: il primo missile. Era nata
l’era della propulsione a reazione. Oggi questa invenzione, nata per uccidere, ci consente di viaggiare in
aereo tra un continente e l’altro consentendoci di por-
tare nello spazio i satelliti meteorologici e quelli delle
comunicazioni sino ad far atterrare le prime sonde su
Marte.
Durante la guerra fredda, negli anni ’60, la difesa
americana iniziò a sviluppare una tecnologia capace
di mantenere intatti i collegamenti tra le basi militari
che eventualmente fossero sopravvissute ad una catastrofe nucleare. Alla fine degli anni ottanta questo sistema, scongiurato il pericolo, venne ceduto
all’industria civile: la difesa militare americana, senza
probabilmente rendersene conto, aveva donato
all’umanità la più grande invenzione destinata a trasformare la vita di tutti i giorni. Questa tecnologia
prese il nome di Internet.
Come spesso è capitato nella storia dell’uomo, lo
sviluppo di tecnologie nate per soddisfare il più primitivo bisogno di offesa e difesa dell’uomo contro
l’uomo è finito per diventare esso stesso strumento di
relazione tra individui, società e civiltà diverse.
“Every tool is a weapon if you hold it right” (Ogni
strumento è un'arma se si tiene bene) scrive Ani Di
Franco. Ogni oggetto creato dall’uomo, una volta prelevato dall'artista è posto così com'è in una situazione
diversa da quella di utilizzo, che gli sarebbe propria
potrebbe persino mutarsi in un’opera d’arte, ci insegna con la sua “fontana” Duchamp. Le cose sono così
come sono spetta a noi riportarle all’arte, secoli prima
affermava Federico II.
A cosa ci rimanda tutto ciò? I Social network sono
in pochi anni diventati lo strumento che in assoluto
produce e mantiene le relazioni sociali tra le nuove
generazioni, nuove agorà di scambio di informazioni
e idee. Le merci, per evidenti ragioni sono, almeno
per adesso, tenute fuori ma se consideriamo il valore
del prodotto economico dei servizi rispetto alle merci
e il peso economico che queste hanno nella nostra economia, ci rendiamo conto dell’equivalenza tra il
vecchio e nuovo foro della società contemporanea.
Similitudini di linguaggio e concettuali si sono già
consolidate nella costruzione di questo nuovo spazio:
portali di accesso, autostrade telematiche, finestre di
dialogo, rimandano a spazi o elementi fisici collegando in maniera segni e cose tra loro altrimenti non
relazionabili. In questo nuovo spazio ci si muove,
seppur lessicalmente, come in uno spazio fisico, si
naviga in rete, si aprono finestre, si chiudono applicazioni. Nella nuova dimensione ci si può anche perdere, come in “Lost in Google”3. L’avanguardia non è
più arte ma tecnologia, anche questa immateriale. Migliaia di designer vengono impegnati nel mondo per
progettare e realizzare dispositivi, tablet e smartphone, necessari per trasmigrare in questo nuovo spazio.
3
”Lost in Google” è una web-serie di successo pubblicata da The
Jackal sul canale web di You Tube, ottenendo, oltre che diversi
premi dalla critica cinematografica, centinaia di migliaia di visualizzazioni.
La manualità, la tecnica e l’ingegno sono completamente dedicate ai nuovi strumenti di connessione alla
rete, così come i bilioni di dollari investiti. La connettività tra il materiale e l’immateriale travalica i suoi
confini, come fece un tempo l’arte con l’architettura.
La casa è domotica, connessa con i suoi abitanti, dialoga continuamente con loro: accende il camino prima
che i suoi abitanti rientrino, partecipa alle attività domestiche e chiede aiuto in caso di infrazione.
Come ogni nuovo continente, il nuovo non-luogo
viene colonizzato da culture e civiltà diverse e diversificate che ne caratterizzeranno e comprometteranno
nel tempo il suo sviluppo. Non è, infatti, un caso che
gli Stati Uniti erano una colonia britannica, il Canada,
francese, il Messico e buona parte del Sud America,
spagnola, e la restante portoghese. Un imprinting culturale oltre che linguistico che si è conservato nei secoli.
La sfida adesso è lanciata: quale sarà l’imprinting
che la cultura architettonica contemporanea riuscirà,
prima che sia troppo tardi, a dare a questo nuovo spazio dove si relazionano e relazioneranno sempre più le
persone? Facciamo un altro piccolo passo indietro.
Bill Gates, fondatore di Microsoft, negli anni novanta
pubblica un saggio scritto a quattro mani dal titolo
“La strada che porta al domani”4. Letto a quell’epoca
il testo poteva essere considerato, come tanti altri
pubblicati da manager di successo, un’autobiografia
celebrativa di un giovane ragazzo diventato miliardario per aver investito tutto il suo tempo e i suoi pochi
soldi in un azienda che scalerà le vette di Wall Street.
Dal testo estrapoliamo due concetti che apparivano
allora secondari. Il primo l’ammissione di colpa per
aver, nella sua prima fase di sviluppo dei suoi software, sottovalutato l’apporto del web e di internet5; il secondo, la visione che il futuro sarà costituito da un
capitalismo “senza attrito”, fondato ed alimentato dalla connettività tra le persone. Il testo si chiudeva con
l’affermazione che la diminuzione del lavoro prodotta
dalla diminuzione dell’attrito del capitale avrebbe
aumentato il tempo libero che sarebbe stato impegnato nel soddisfacimento di bisogni intellettuali favoriti
dalla connettività. La bolla economica statunitense ha
infatti creato milioni di disoccupati che impegnano il
proprio tempo postando e messaggiando connessi ai
Social network. I due aspetti, apparentemente slegati
dalla critica architettonica devono essere, al contrario,
considerati alla stregua dei primi dolmen della storia
dell'architettura. Attendiamo, inermi, le nuove evolu-
zioni delle tecnologiche. Una volta, queste venivano
considerate scoperte, come il Nuovi Mondi di Colombo, Vespucci o Magellano: si scopriva il fuoco, la
gravità, le radiazioni, la penicillina. Oggi la tecnologia crea nuova tecnologia, rendendo immediatamente
obsoleta quella esistente. L'alienazione prodotta dalle
nuove forme di comunicazione e relazione è dietro
l'angolo, ma altresì le possibilità di socializzazione
che esse offrono sono infinite. Questo nuovo spazio è
vissuto quasi più dello spazio fisico, le nuove generazioni hanno più ricordi della loro vita postati nei
server dei Social Network che nei cassetti delle loro
scrivanie. Anche le rivoluzioni che per definizione
nascono nelle piazze, hanno trovato nella rete il luogo
dove si sono iniziati ad aggregare le istanze delle
masse. Gli storici inizieranno a scrivere non più di rivoluzioni come quella di piazza mercato a Napoli del
1647 o di Piazza Tienanmen a Pechino del 1989, ma
scriveranno della Primavera araba del 2011 nella
nuova agorà di nome Twitter o Facebook.
Questi spazi immateriali posso essere anche invasi.
"I barbari. Saggio sulla mutazione"6 di Alessandro
Baricco ci rappresenta una società in mutazione, dove
i barbari non sono popolazioni primitive di nomadi
che premono sulle mura dell’impero ma una giovane
generazione con elevate conoscenze tecnologiche prive di riferimenti culturali, una generazione che non ha
bisogno di sapere nulla perché tutte le informazioni
sono facilmente recuperabili sui motori di ricerca come Google; non ha bisogno di visitare o conoscere
nessuna città, perché possono farlo utilizzando Street
View comodamente dal PC; una generazione che condanna o assolve ciò che accade nella “piazza immateriale”, così come nelle arene dell’antica Roma, con il
“pollex versus” che assume oggi la più semplice connotazione di “Mi piace” 7. Questo spazio immateriale è
per tutto quanto detto “la scena dove la nostra vita si
svolge”, come scriveva Zevi. Questo nuovo spazio
sarà l’architettura del prossimo futuro.
Bill Gates, Steve Jobs, Mark Zuckerberg, i primi
maniscalchi del nuovo spazio, hanno definito quale
potesse essere questa nuova scena, correndo il rischio
di trasformarsi nei faraoni delle nuove piramidi segnando per sempre il cammino di questa odierna civiltà e lasciando a noi il solo compito di trascinare
delle grandi pietre.
4
B. Gates, La strada che porta al domani, Mondadori, Milano,
1995.
5
Nei primi anni novanta la piattaforma di navigazione nel Web
era un software di nome Netscape, il colosso Microsoft dal ’95
iniziò una vera e propria lotta, violando le leggi antitrust, al fine di
indebolire la presenza sul mercato di Netscape per sostituirlo con
Internet Explorer, parte integrante del sul suo sistema operativo.
6
A. Baricco, I barbari. Saggio sulla mutazione, Feltrinelli, Milano, 2008.
7
Il gradimento di un post è rappresentato dagli utenti dei Social
Network dall’aggiunta di un “mi piace” che viene attivato da un
icona a forma di pollice verso.
I PARCHI COME MEMORIA STORICA
Gaetana Laezza
Uno dei presupposti dell’architettura del paesaggio
è, per la maggior parte delle sue applicazioni,
l’intenzione di recuperare le aree abbandonate dalle
industrie, gli spazi interstiziali, i vuoti urbani, etc. Tra
i progetti riguardanti tali aree, i più interessanti, sono
quelli che oltre a prevederne la riconversione tentano
anche anche di recuperare la memoria storica in esse
sedimentata. Esempi emblematici di questo tipo di
parchi contemporanei sono principalmente il Mauerpark a Berlino, nato con l’idea di ricordare la presenza
ed il triste ruolo del muro che separava le due parti di
città, ed il Parc Citröen a Parigi che, con la riconversione dell’area di una industria meccanica, quella della nota fabbrica di auto, a verde, ha conservato anche
alcuni elementi dell’azienda i quali, anche con il mantenimento del nome, ravvivano il ricordo storico.
Il Mauerpark a Berlino
Dopo l’abbattimento del Muro di Berlino e la riunificazione della città, nella nuova municipalità è nata
l’idea di riconvertire gli spazi adiacenti all’area occupata dal muro di divisione tra le due parti urbane in
un’area verde. Il progetto aveva come obiettivo quello
di inglobare nel parco alcuni tratti dello stesso muro
così da creare uno spazio urbano che mantenesse il
ricordo della Germania divisa, in seguito agli orrori
nazisti, dalla guerra fredda. Il progetto si sarebbe dovuto orientare quindi, secondo l’amministrazione, nel
senso della precisa volontà di tenere viva la memoria
del Muro. Questo, con il suo parco, doveva possedere
molteplici sensi. Da un lato, con diversi monumenti
singolari, avrebbe dovuto ricordare le varie vittime
della divisione; dall'altro il tracciato della linea di
confine tra le due Germanie doveva rappresentare a
sua volta, senza ombra di dubbio, un’epoca significativa dell’intera storia tedesca.
L’opera, realizzata del paesaggista tedesco Gustave Lange, è stata compiuta in un arco temporale abbstanza breve, tra il 1992 ed il 1994. L’idea principale
del progettista è stata quella di convertire la cosiddetta
"striscia della morte", quella cioè in cui veniva ucciso
chi tentava la fuga dall’est, in una zona di attrazione
per la città. Al tempo stesso il parco doveva mantenere, non solo fisicamente, ma anche nel nome “Mauerpark” (Parco del Muro) il senso della distinzione, e
tuttavia dell’unità, delle due realtà urbane cresciute
nel tempo separatamente, in maniera diversa, e con
due centri. Il parco di Lange costituisce quindi, con il
recupero dell’area di frontiera tra le due parti della
città, anche un elemento di cerniera tra i due distretti,
quello di Prenzlauer Berg e di Wedding, per anni divisi fisicamente dalla linea invalicabile del Muro.
Trattandosi di un’area di confine, sotto il controllo
frontaliero, reso più attento dalla situazione politica,
essa non vedeva quasi zone verdi, malgrado la presenza di quartieri periferici, per le due Berlino, di edilizia residenziale ad alta intensità abitativa.
E’ noto come nel film “Il cielo sopra Berlino”, di
Wim Wenders, il regista sottolinei la presenza degli
spazi vuoti della città individuati come “camere chiare” adatte a consentire agli uomini, cittadini e visitatori, di traguardare il paesaggio urbano e ricostruire i
lineamenti dell’immagine della città. Ciò non solo
perché i vuoti permettono di abbracciare con lo
sguardo intere superfici (a volte anche fino all’orizzonte, cosa di per sé piacevole), bensì perché attraverso le falle che essi costituiscono nel pieno urbano si
può vedere, nel sovrapporsi di elementi diversi appartenenti ad avvenimenti diversi, il tempo, l’elemento
che scandisce la storia.
Il Mauerpark, costituito da una sommatoria di vuoti, forse proprio perché allinea e addensa spazi e tempi
diversi in cui si accomunano tutti gli abitanti di Berlino e tutti i tedeschi, è diventato in pochi anni uno dei
parchi più frequentati, discussi e conosciuti d’Europa.
Il primo progetto del Mauerpark era diretto alla trasformazione del vuoto lasciato dal tracciato del muro
e i movimenti di terra, situati sulla striscia una volta
occupata dalla no-men’s land, volevano essere meta-
fora del pieno invalicabile, ovvero del limite che c’era
durante gli anni della divisione. In un certo senso il
parco, rendendo il senso del cammino sottolineato dai
declivi, quello dell’attraversare/oltrepassare, senza la
presenza di ostacoli insormontabili ha ricostruito all’area il suo genius loci. Per questo, più che celebrare
il Mauerpark in quanto parco, luogo verde con la sua
orchestrazione di piante, alberi, prati, arbusti, è opportuno rilevare l’importanza della sua appropriazione
emblematica degli spazi reietti, vaghi, abbandonati
trasformati in luoghi identitari. Proprio per tale valore
il parco ha conosciuto diverse interpretazioni per essere, in un primo tempo, uno dei luoghi più creativi e
attraenti per le sottoculture di Berlino che occupavano
i suoi spazi ancora incerti, e divenire pian piano il
termine di una nuova centralità nell’incontro tra le
due periferie preesistenti.
Secondo il pensiero urbanistico del XIX secolo,
appartiene ai compiti della città mantenere e controllare lo spazio pubblico, compresi gli spazi verdi dove
realizzare una “forma civica della natura”. Il Mauerpark esemplifica l’esatto opposto di questo pensiero,
offrendo il paesaggio naturale alla libertà dei cittadini
che pian piano si appropriano dei suoi luoghi: “Le ferite del muro si stanno ricucendo lentamente. In contrasto al vitale centro urbano, le aree libere dei quartieri residenziali divisi dal muro stanno crescendo
gradualmente.”1
Il parco si sviluppa lungo un percorso principale,
che ha il compito di dividere la collina dal prato verde. Lungo la collina vi sono tratti del Muro. Qui sono
stati predisposti dei punti panoramici da cui osservare
e godere la vista dello skyline della città, inoltre è stato realizzato un anfiteatro con sedute in granito.
L’area destinata a prato, frequentata dagli abitanti
dei quartieri residenziali situati in zona, viene utilizzata principalmente per attività sportive. Un’altra area è
stata invece destinata a giardino recintato, in cui è
presente un bosco di betulle (Betula pendula), luogo
predisposto alla contemplazione e al silenzio, in ricordo della frattura non solo fisica ma anche morale
della presenza del Muro.
Il vociare del gioco, quindi, quello delle competizioni
sportive tra bambini o giovani, segno della vita che
continua e si diffonde, non annulla il silenzio della
memoria dove i chiari legni delle betulle, il loro verde
dolce, tenta già un rasserenamento del triste ricordo.
Il Parc Citröen a Parigi
Il Parco André-Citroën sorge su un’area di circa 14
ettari ed affaccia a Parigi, in un’area periferica oggetto di un intervento di riqualificazione ed espansione,
sulle rive della Senna. Precedentemente l’area era oc-
1
L. Picone, Il progetto del paesaggio in Europa. Tradizione e
innovazione, Aracne, Roma, 2007, p. 347.
cupata dalla fabbrica automobilistica francese, dismessa a partire dal 1976.
Nel 1985 viene indetto un concorso internazionale
per riqualificare e bonificare l’area nell’ambito dell’esteso programma per le periferia della capitale voluto
dalla municipalità. Il progetto vincitore è degli architetti Patrick Berger, Jean François Jodry e Jean Paul
Viguier con i paesaggisti francesi Gilles Clément e
Allain Provost.
L’idea di partenza, dal punto di vista paesaggistico, è stata quella ritrovare lo spirito ed i caratteri tipici
della campagna francese all’interno della città. Ciò
comportava però la necessità di un isolamento
dell’area verde rispetto al caos urbano ed ai significativi interventi edilizi previsti nella zona. Il parco allora è stato concepito guardando ai vuoti tipici della
cultura e dello stile dei giardini in Giappone, per sottolineare il suo carattere di sospensione dagli affanni
così come accade nei dejuner sur l’erbe. La struttura
del parco è definita da alcuni assi privilegiati legati tra
loro da relazioni gerarchiche: il Grande Canale, la
diagonale pedonale e l'assembramento regolare dei
Giardini Seriali.
Il parco è stato progettato intorno ad uno spazio
centrale, un vuoto simile a quelli delle città giapponesi, coltivato a semplice prato, di 320 metri per 130,
che affaccia sulla Senna attraverso il suo lato minore.
All'estremità del prato, è stato posizionato un sagrato
leggermente inclinato che funge da basamento per le
due grandi serre alte 15 metri e lunghe 45. Queste ospitano all’interno un giardino mediterraneo e un agrumeto. Tra le due serre sono stati posizionati i giochi d'acqua e le fontane, che creano al parco un fondale scenografico di alto impatto e di forte attrazione per
i visitatori.
La caratteristica principale del parco sta nella
composizione delle aree a verde, che come nel caso
dei giardini seriali che variano secondo il colore, qui
sono organizzati attraverso i sensi.
Nel Jardin Vert, ad esempio, associato al colore
verde e caratterizzato dalla presenza di piante acquatiche, il rumore dell’acqua che scorre accompagna il
visitatore lungo la sua passeggiata; nel Jardin Bleu,
all’interno del quale sono presenti molte piante ornamentali e floreali come i Muscari aucheri “passion
bleu” invece i profumi e i colori insieme invocano un
mondo sognante e la disponibilità al romanticismo.
Nel suo insieme, fondato sulla convivenza di essenze e forme diverse, mutevoli secondo le stagioni, il
giardino, pur nella sua staticità, appare mutevole a segnare la mutevolezza del vivere che ha condotto anche al profondo mutamento della zona. E infatti, nel
suo libro Le Jardin en Mouvement, il paesaggista
francese Gilles Clément descrive il progetto del parco: "Il giardino in movimento del parco AndréCitroën, non aveva il vantaggio di una natura rigogliosa, ma ha dovuto essere creato ex-novo. Per costi-
tuire uno stato "chiaro" dell'incolto, si è dunque provveduto a inserire qua e là delle essenze legnose, delle
piante spinose, in particolare dei roseti, e delle cortine
di bambù, allo scopo di evidenziare un piano di assetto leggibile in ogni stagione. Un altro dato imperativo
era la creazione di spazi a scala ridotta che assicurassero la transizione tra il grande vuoto centrale e i
giardini seriali (essendo la superficie disponibile di
circa 1.5 ettari). L'elenco delle specie previste nel
giardino in movimento è eterogeneo, con una rilevante presenza di flora esotica. Questo giardino è rappresentativo di un bioma planetario boreale dei nostri
climi. Sia per il giardino in movimento, sia per quelli
seriali, il movimento è per tanto atomico, secondo il
processo di trasmutazione dei corpi elementari descritti dall'alchimia. Quanto ai giardini seriali, essi
non derivano dalla teoria del giardino in movimento,
ma vi si richiamano in continuazione. La loro particolarità consiste nel modo analogico della lettura, basato
su corrispondenze semplici. Tale lettura consente di
declinare per ognuno di essi una dominante coloristica, una selezione di materiali e uno specifico rapporto
con i cinque sensi".
Il carattere vitalistico del giardino è confermato
dal suo successo. Trascorsi infatti ormai circa un trentennio dalla sua realizzazione, malgrado la presenza al
contorno di architetture firmate da architetti prestigiosi, il parco mantiene intatta la sua originaria freschezza, il suo essere punto di riferimento e di pausa per
l’intero quartiere di cui raccoglie i gesti del quotidiano restituendo con il suo vuoto la memoria della sua
trasformazione.
Rosanna Balistreri
Alchimia e architettura
E. M. Falcone Editore, Bagheria 2014
L’alchimia diviene nel 700 argomento di discussione nei salotti aristocratici dove si disquisisce sui
procedimenti e sulle varie fasi dell’Opus. Ispirati
dalle ricerche antiquarie e al recupero del passato,
molti nobili fanno uso della cultura come sfoggio
di uno status-symbol. All’interno di questa cerchia
però alcuni nobili “illuminati”, sotto l’influsso della nascente Arcadia, mostrano la volontà di costruire dei giardini ameni in cui poter praticare tutte le
arti in un clima di armonia tra micro e macro cosmo. L’architettura diventa il sentiero entro cui
strutturare il pensiero filosofico impregnando di
significati simbolici gli apparati decorativi delle
ville.
ro Scienza. Amore e Sapere debbono dirsi addio.
Che il "sophós" dismetta il suo abito di eterno
pellegrino e fissi la sua dimora. E questo il destino della nostra epoca? O ancora vi è "ciò" che
non possiamo esprimere, rappresentare, indicare
se non amandolo? Il discorso filosoficometafisico porta in sé la traccia di questa tensione, e proprio là dove affronta il suo problema, la
sua aporia costitutiva: che l'ente è, che nella sua
singolare identità mai coincide con le determinazioni che il lògos ne predica, che la sua sostanza
non può disvelarsi nella finitezza del suo apparire. Ogni ontologia deve basarsi su questa differenza - non differenza tra essere ed essente, ma
differenza immanente alla realtà dello stesso essente, e in particolare proprio di quello straordinario essente che ha corpo e mente. Oltre l'esercizio sempre più vacuo delle decostruzioni, oltre gli
astratti specialismi, oltre le accademie e le scuole,
sarà a tale problema, eterno "aporoúmenon", e al
"timore e tremore" che suscita, che questo libro
intende fare ritorno, ascoltando alcuni grandi
classici della tradizione metafisica, per svilupparlo ancora una volta.
Gilles Deleuze
Istinti e istituzioni
Mimesis, Sesto san Giovanni 2014
Peter Eisenman
Inside Out Scritti 1963-1988
Con un saggio di Roberto Damiani - illustrazioni in b/n
Quodlibet, Macerata 2014
Massimo Cacciari
Labirinto filosofico
Adelphi, Milano 2014
All'origine dei diversi discorsi, molti dei quali
"alla moda", sulla "fine della filosofia" che, almeno da Nietzsche, caratterizzano tanto pensiero
dell'Occidente, sta la "sentenza" hegeliana: che la
philosophia cessi di chiamarsi "amante" e si affermi finalmente come puro sapere, Sophia ovve-
teoriche come le pioneristiche indagini sulla dimensione concettuale e formale dell’architettura
per arrivare infine a interpretazioni - o misinterpretazioni - ravvicinate delle opere di alcuni maestri
del ’900 come Le Corbusier, Ludwig Mies van der
Rohe, Alison e Peter Smithson, James Stirling, Philip Johnson, Michael Graves, Aldo Rossi, John
Hejduk, molti dei quali sono stati interlocutori diretti e talvolta amici personali dell'autore. Rileggendo oggi questi saggi ci accorgiamo che, scomponendo e ridisegnando le loro opere, Eisenman ha
costantemente riflettuto anche su se stesso usando
quei maestri e amici alla maniera di maschere veneziane che, come insegna Hugo von Hofmannsthal, sono anzitutto libertà di esprimersi e polemizzare sotto un velo.
Da oltre cinquant’anni e come un fiume carsico Peter Eisenman spesso, dopo un’eclisse all'apparenza
irreversibile, è risalito alla ribalta, grazie soprattutto a una incessante attività di teorica» in un’epoca
più votata alla prassi, l’architetto americano non ha
mai smesso di riflettere sulla propria disciplina riservando sempre un posto privilegiato all’Italia, visitata per la prima volta nel 1961 insieme con il suo
mentore Colin Rowe, scoprendovi le proprie stelle
fisse da Alberti, Palladio e Piranesi fino a Luigi
Moretti e Giuseppe Terragni - l’autore più amato e
il più studiato. Questa antologia, ampiamente illustrata, spazia dunque da alcune approfondite analisi
L'uomo è l'animale che sa fare la storia. Eternamente combattuto tra istinto e legge, l'essere
umano sa creare, disfare, rivoluzionare. Deleuze
dialoga con Kant, Darwin e Freud alla ricerca di
una narrazione possibile per la bella e insuperabile ambiguità della natura umana. Tra racconto,
critica, pensiero e poesia, uno dei percorsi intellettuali più affascinanti degli ultimi decenni .