IL LIMITE I RECINTI LINGUISTICI DELL’ARTE ED IL CONFINE APERTO DELLA CRITICA Siamo grati al prof. Ernesto Paolozzi per aver offerto a BLOOM la possibilità di pubblicare alcune lettere di Carlo Ludovico Ragghianti a lui indirizzate. Come è noto, per Ragghianti, l’arte, con Croce, possiede valenza storica, sebbene, oltre lo storicismo, dalla lezione di Longhi e Marangoni, per comprenderla, sia necessario affidarsi allo studio dei suoi specifici modi linguistici, “saper vedere” nel caso delle opere figurative. Di qui, come emerge in questi testi, il tracciare anche una decisa linea di demarcazione alla critica d’arte, fondata sugli specifici saperi che indagano i linguaggi artistici, rispetto all’estetica filosofica o alla stessa storia dell’arte, essendo tuttavia la critica anche il luogo dello sconfinamento in cui si incrociano, non solo storia, estetica, filologia, quanto le cose stesse della vita. SCONFINAMENTI. Dall’alloggio sociale al centro commerciale, dalla psicoanalisi alle pubbliche relazioni, dalle belle arti alle vetrine commerciali* Valentina Sonzogni “Ci sono governanti invisibili che controllano i destini di milioni di persone” Edward Bernays, Propaganda, (a cura di Mark Crispin Miller), Ig Publishing, New York, 2004, p. 61. Breve nota introduttiva In questo articolo, dal lungo titolo, presento e analizzo l’arrivo negli Stati Uniti di alcune nozioni moderne inizialmente sviluppate dalle avanguardie europee, con particolare riferimento alla propaganda, alla manipolazione delle opinioni e alla natura dello spazio pubblico.1 Qualche mese prima di iniziare questo testo, mi ero imbattuta in un progetto dello storico e teorico dei media Lev Manovich. Il titolo del progetto era Freud-Lissitzky Navigator (1999) ed era concepito allo stesso tempo come un gioco per il computer e come un prototipo di cultural reader.2 La mia attenzione fu catturata soprattutto dal modo in cui Manovich esplorava il ventesimo secolo, partendo da un incontro fittizio e mai avvenuto tra Sigmund Freud e l’artista russo El Lissitzky a Vienna, nell’estate del 1928. Pur non essendo mai accaduto, questo incontro si sarebbe potuto effettivamente verificare, per date e interessi comuni dei personaggi. La sua verosimiglianza mi aveva a tal punto affascinato da decidere di creare un mio navigatore virtuale, per assistere a un incontro tra tre austriaci fuori dal comune: Edward Bernays, il padre delle pubbliche relazioni e nipote di Freud, Frederick Kiesler, il teorico e architetto visionario della Endless House e Victor Gruen, l’inventore del moderno centro commerciale. Dopo qualche ricerca, però, mi resi conto che sia Bernays che Gruen erano davvero stati in contatto con Kiesler a un momento delle loro vite, e che il mio navigatore poteva guidarmi realmente in questa escursione tra pubbliche relazioni, vetrine e architettura.3 Edward Bernays, “Torches of Freedom”, 1929 La campagna “Torches of Freedom” (Torce di libertà) a New York è solo una delle numerose campagne pubblicitarie vincenti ideate da Edward Bernays (1891-1995), considerato il padre delle pubbliche relazioni. Nato a Vienna, Bernays era addirittura un “doppio” nipote di Freud: sua madre era la sorella di Freud e la sorella di suo padre sposò il padre della psicoanalisi. I Bernays si trasferirono a New York intorno al 1890 per cercare fortuna e solo nel 1913 il giovane Edward intraprese un viaggio in Austria per visitare il famoso zio, il cui pensiero lo influenzò al punto che, una volta tornato a New York, intraprese una carriera diversa da quella che suo padre aveva immaginato per lui. Ucciso il suo Edipo personale, Bernays si dedicò quindi a costruire la sua teoria delle pubbliche relazioni, in particolare basandosi sull’assunto secondo il quale le pulsioni inconsce che guidano gli adulti, affondano le radici nella fanciullezza e che, istinti e simboli, se ben congegnati, possono influenzare le preferenze individuali.4 Con queste idee in * Per il materiale fotografico relativo a Frederick Kiesler l’autrice desidera ringraziare la Österreichische Friedrich und Lillian KieslerPrivatstiftung di Vienna, il suo Direttore Peter Bogner con i suoi collaboratori Jill Meißner e Gerd Zillner. 1 Il titolo originale di questo saggio, scritto per una conferenza della Society of Architectural Historians, era Damaged Goods (Beni danneggiati), titolo che non intendeva esprimere un giudizio morale sugli sconfinamenti che ne sono l’oggetto di ricerca ma, al contrario, voleva sottolineare l’idea di movimento e di scambio di beni che, durante un trasporto, possono essere danneggiati, ovvero possono diventare qualcos’altro, cambiando di forma o di contenuto. Damaged Goods, inoltre, è il titolo di un testo teatrale che fu uno degli oggetti delle campagne di pubbliche relazioni di Bernays. Si veda: Larry Tye, The Father of Spin: Edward L. Bernays and The Birth of Public Relations, Henry Holt, New York, 1998, p.7. 2 La versione attuale del Freud-Lissitzky Navigator si trova: http://www.manovich.net/FLN/ (consultato il 10 febbraio 2014). I creatori, Manovich e Norman Klein lo descrivono come “a software narrative; a virtual exhibition; an imaginary software; a tool to navigate through 20th century cultural history (…)”. 3 Per quanto riguarda Gruen, la corrispondenza privata di Kiesler contiene una lettera datata 4 giugno 1939 in cui il primo si scusa per non aver potuto usare alcuni schizzi del secondo per la messa in scena di una rappresentazione dal titolo Journey to Paradise. Gruen, attore dilettante, faceva parte del gruppo di cabaret viennese “Das politische Kabarett” un collettivo teatrale dalle forti inclinazioni socialiste. Dopo aver lasciato l’Austria, fondò il Refugee Artist Group a New York per continuare con l’attività teatrale e l’attivismo. Il contatto con Kiesler fu cosa naturale in quanto questi era l’unico architetto austriaco di una certa fama a New York poiché Neutra, Schindler e molti altri si erano stabiliti sulla costa ovest, in California. La fonte principale di notizie sulle frequentazioni di Kiesler sono i diari della moglie Steffi che annotava, il 7 marzo del 1943, un appuntamento per un cocktail con Bernays: “5–7 cocktails Bernays / 163 E 63 Str.” Kiesler e Bernays servirono entrambi il corpo militare addetto alla stampa durante la Prima guerra mondiale. Il giornalista Joseph Freeman, marito dell’artista Charmion von Wiegand, frequentò Kiesler e fu anche collaboratore di Bernays. Si veda: Tye, The Father of Spin, p.150. La corrispondenza di Kiesler e i diari della moglie Steffi sono conservati presso l’archivio della Österreichische Friedrich und Lillian Kiesler-Privatstiftung, Vienna. 4 La teoria e l’approccio di Bernays alle pubbliche relazioni deriva, oltre che dalla familiarità con le teorie di Freud, dagli studi di Gustave Le Bon, lo psicologo sociale francese autore del libro The Crowd-A Study of the Popular Mind, 1895. Bernays conosceva anche il lavoro mano, Bernays diede forma alla teoria dello spin – ovvero dei “colpi a effetto”, nota ai nostri giorni soprattutto per l’uso che se ne fa in politica – alla quale dedicò due libri: Crystallizing Public Opinion, 1923, seguito nel 1928 da Propaganda. Il suo primo successo fu lavorare come impresario del famoso cantante Caruso durante il suo tour americano, in seguito al quale il giornale The New York Globe lo descrisse come “il Caruso degli addetti stampa e l’addetto stampa di Caruso.”5 Nel 1928, George Washington Hill, presidente della American Tobacco Company assunse Bernays per incrementare le vendite delle sigarette Lucky Strike. Bernays, ben a conoscenza della crescente importanza dei vari movimenti di emancipazione femminile nell’opinione pubblica, individuò nelle donne il bersaglio ideale di questa campagna pubblicitaria. Alle donne, infatti, era permesso fumare solamente nel privato delle loro abitazioni, sia per consuetudine motivata dal galateo, sia a causa di vere e proprie leggi che vietavano alle donne di fumare in strada. Bernays si rivolse allora allo psichiatra Abraham Brill, discepolo di Freud, per trovare uno stratagemma per indurre le donne a fumare in modo inconscio, pilotato e subliminale. Brill stabilì che le sigarette, generalmente associate con il genere maschile, potevano simboleggiare delle “torce di libertà” per le donne. Il 31 marzo 1929, una donna che lavorava come segretaria di Bernays, accese, non proprio casualmente, una sigaretta di marca Lucky Strike durante la Easter Parade sulla Quinta strada a New York, creando grande scompiglio tra gli altri partecipanti. Immediatamente dopo, un gruppo di donne, tutte segretamente assoldate da Bernays, ripeterono il gesto, accendendo tante “torce di libertà”. La stampa nazionale aveva ricevuto in anticipo un comunicato che annunciava il fatto che alcune donne avrebbero acceso delle “torce di libertà” in pubblico “nell’interesse della parità tra i sessi e per combattere un altro tabù di genere.”6 Bernays utilizzò quindi una battaglia sociale per produrre profitto, attraverso un evento creato ad hoc: il conseguente eco della stampa avrebbe fatto nascere nei consumatori il desiderio di un bene accessorio. Bernays prese in prestito le intuizioni di Freud sui simboli e il loro legame con le azioni e le utilizzò come mattoni per costruire l’arte delle pubbliche relazioni scrivendo, a tal riguardo, che un consulente di pubbliche relazioni dovrebbe avere la capacità di “cristallizzare le Pubblicità delle sigarette Lucky inclinazioni nascoste della mente del pubblico prima che raggiungano una forma Strike, anni Trenta definita”7. Bernays e Freud stavano lavorando entrambi sulla stessa materia, orientandola, ovviamente, in due direzioni opposte: mentre il primo tentava di sfruttare le pulsioni inconsce e i desideri per ricavarne un profitto, suo zio tentava di liberare da esse i suoi pazienti. 8 La campagna “Torches of Freedom” rimane, ancora oggi, un esempio straordinario di analisi creativa dei simboli collettivi e di come essi possano essere occultamente manipolati. Nel 1964, quando si venne a conoscenza delle malattie provocate dall’uso del tabacco, Bernays fu ingaggiato per creare una campagna contro il fumo, anche se l’impatto generale di questa non fu lontanamente paragonabile a “Torches of Freedom”. I primi beni europei erano stati in qualche modo manipolati e “danneggiati”: la psicoanalisi aveva incontrato il mercato. Frederick Kiesler, Contemporary Art Applied to the Store and Its Display, 1930 Nel 1949 il Museum of Modern Art di New York presentò una mostra dal titolo “Modern Art in Your Life” (L’arte moderna nella tua vita) nella quale gli oggetti di uso quotidiano venivano messi in relazione, per ispirazione o diretta derivazione, con la pittura e con la scultura per provare che “l’arte moderna è parte intrinseca della vita moderna”9. La tendenza a dichiarare ed illustrare reciproche influenze tra le belle arti e le arti applicate – come si intendevano in quegli anni, ovvero nella separatezza delle due sfere – era già stata inaugurata più o meno venti anni prima da un allora sconosciuto architetto, Frederick Kiesler che sul tema aveva scritto un manuale di allestimento e disegno di vetrine commerciali. di Walter Lippmann, autore di Public Opinion, 1922, e di The Phantom Public, 1925, libri nei quali l’umanità è vista come un blocco unico soggetto a impulsi irrazionali e bisognoso di essere indirizzato da una classe di professsionisti della mente. Larry Tye, op.cit., p. 97. 5 L. Tye, The Father of Spin, p. 16. 6 Ivi, p. 31. 7 Ivi, pp. 96-97. 8 Bernays era solito riferirsi a suo zio ripetendo “talvolta un sigaro è solo un sigaro” aggiungendo poi però che questo oggetto “aveva aiutato a introdurre la psicoanalisi negli Stati Uniti”. Edward Bernays comunque realizzò la traduzione di Introduzione alla psicoanalisi (1915) che avrebbe diffuso la psicoanalisi negli Stati Uniti. Tye, The Father of Spin, pp.186-189. 9 Modern Art in Your Life, Museum of Modern Art, New York, 1949. Mostra e catalogo a cura di René d’Harnoncourt e Robert Goldwater. La frase citata è tratta dall’introduzione. Nella mostra erano presentati alcuni esempi internazionali di questa consonanza tra arte e oggetti di uso comune come la Schröder House di Gerrit Rietveld o le sedie di tubolare di Marcel Breuer insieme a dipinti di Piet Mondrian e Theo Van Doesburg. Kiesler (1890-1965), nato in Galizia, in quel tempo parte dell’Impero austroungarico, era arrivato a Vienna durante la Prima Guerra mondiale e, dopo aver studiato al Politecnico nella Facoltà di architettura, aveva lavorato brevemente nello studio di Adolf Loos. Dopo alcuni anni trascorsi tra Vienna, Berlino e Parigi a stringere legami con l’avanguardia europea, Kiesler e sua moglie Steffi erano emigrati nel 1926 a New York per iniziare una nuova vita in un mondo che appariva pieno di possibilità. Nel 1930, Kiesler, che in quel periodo si barcamenava tra vari lavori, pubblicò un libro dal titolo Contemporary Art Applied to the Store and Its Display (L’arte contemporanea applicata ai negozi e alle loro vetrine) che proponeva alcune linee guida per la creazione della nuova figura professionale del vetrinista e, allo stesso tempo, invitava ad abbattere le barriere tra le discipline, interiorizzando la lezione delle avanguardie e del Modernismo per utilizzarle in ambito commerciale. Contemporary Art Applied to the Store and Its Display non era pertanto solo un libro sul mercato, ma nasceva già permeato dall’ottimismo generato dai forti cambiamenti economici di quel periodo e aveva tra i suoi obbiettivi nascosti quello di introdurre il pubblico americano ad un gusto nuovo, di forte matrice europea e avanguardistica. In un dattiloscritto inedito, che fungerà come base per l’introduzione del libro, Kiesler dichiara i suoi intenti, riferendosi alla “psico-funzione” della vetrina: “Per rendere appetibile la vostra merce dovrete essere tre uomini in uno: venditore, uomo di spettacolo e psicologo. Dovrete fare meglio di un qualsiasi professore freudiano (…)”.10 Nello stesso testo Kiesler parla anche di “bisogni reali o artificialmente procurati”, in modo molto simile al metodo di Bernays per progettare la nascita indotta di un bisogno che renderà possibile la vendita di un prodotto. Contemporary Art Applied to the Store and Its Display elenca numerosi esempi di come sia possibile adattare un’opera d’arte per servire gli scopi del mercato, come si evince dal titolo del primo capitolo “The Fine Arts Are the Basis of Every Kind of Decoration” (Le belle arti sono alla base di ogni tipo di decorazione). F. Kiesler, Contemporary Art Applied to the Store and Its Display, 1930. Courtesy Österreichische Friedrich und Lillian KieslerPrivatstiftung, Vienna Tale applicazione pratica dell’arte è messa in opera nell’espediente di usare il Cubismo di Picasso per vendere caramelle o scarpe in un display minimalista, in ciò che Kiesler chiama “decorazione pittorica”; ovvero l’utilizzo di una foto dell’opera d’arte come sfondo. Va da sé che ciò che si può fare con Picasso può esser fatto con qualsiasi altro movimento artistico, ad esempio usando opere del Dadaismo, o addirittura il segmento di una struttura di ponte di Gustave Eiffel, che può diventare la base di uno stand espositivo. Arte e architettura sono intercambiabili al bisogno. Un altro esempio selezionato da Kiesler per decorare una vetrina è un dipinto di Giorgio De Chirico, scelto per la sua capacità di mettere insieme “tutti i tipi di oggetti in modo illogico eppur naturale” all’interno di un’ “armonia logica e pittorica.” 11 Le caratteristiche teatrali di questo dipinto furono alla base della vetrina che Kiesler realizzò per il grande magazzino Saks Fifth Avenue a New York nel 1928, nella quale una pelliccia e un paio di guanti erano installati in maniera scenografica, surreale e minimale. La difesa di semplicità e minimalismo e l’eliminazione di qualsiasi ornamento deriva certamente dal suo maestro Loos, con il quale, nella sua biografia, Kiesler dichiara di aver lavorato a un progetto di recupero di un sob10 11 F. Kiesler, Putting Merchandise On the Spot, [1931], dattiloscritto, Österreichische Friedrich und Lillian Kiesler-Privatstiftung, Vienna. F. Kiesler, Contemporary Art Applied to the Store and Its Display, Brentano, New York, 1930, p. 21. borgo a Vienna.12 Kiesler apprende da Loos, oltre alla lezione sulla semplificazione, anche come attrarre l’attenzione dello sguardo distratto dei passanti, di come controllarlo e dirigerlo. Infine, l’influsso di Loos nei progetti di Kiesler sembra anche rivedersi nell’eliminazione della cornice attorno alla vetrina analogamente alle finestre senza cornici dell’edificio di Loos a Michaelerplatz, Vienna. Scrive Kiesler a proposito: “Se egli [l’architetto] omette le cornici intorno alle vetrine, la facciata stessa diventa allora la cornice.”13 Vista da questa angolazione, la vetrina diviene ancor di più una questione architettonica. Nella seconda parte del libro, Kiesler indaga le origini del commercio, una pratica che egli fa risalire alla cosidetta “TuchFrederick Kiesler, vetrina per Saks Fifth Avenue, halle” un mercato coperto, dove lo scambio dei beni in vendita con New York 1928. Courtesy Österreichische Friedil consumatore avveniva in modo continuativo e indisturbato. Più rich und Lillian Kiesler-Privatstiftung, Vienna tardi, questi spazi, parzialmente aperti, furono chiusi con delle vetrate, diventando così gli antenati di ciò che Gruen definirà più precisamente in termini architettonici come shopping mall. Tale scambio tra architettura e vetrina deriva chiaramente dal progetto del 1925 di Kiesler intitolato City in Space, un prototipo di città futura sospesa, che veniva utilizzata come superficie per mostrare modellini e disegni di altri artisti austriaci, nel contesto dell’ “Exposition internationale des arts decoratifs et industrielles modernes” del 1925 Frederick Kiesler, Contemporary Art Applied to the Store and Its Display, 1930. Courtesy Österreichische a Parigi. Inoltre, Friedrich und Lillian Kiesler-Privatstiftung, Vienna a testitmonianza della fluidità delle categorie kiesleriane, esistono anche due progetti per grandi magazzini, riprodotti in Contemporary Art Applied to the Store and Its Display, incapsulati in una pelle di vetro, da utilizzare come superficie di proiezione, eliminando in questo modo la classica vetrina.14 Kiesler critica anche le caratteristiche standard del negozio e propone variazioni che ritiene possano catturare efficacemente l’attenzione del compratore. Egli propone di rompere la rigidità della facciata degli esercizi commerciali attraverso una porta a imbuto che conduca il compratore all’interno del negozio senza che egli se ne renda conto.15 Anche Gruen applicherà questo principio compositivo al negozio Ciro’s nel 1939. Infine, nello stesso libro, Kiesler disegna una radicale ristrutturazione di una delle piazze più famose del mondo: Place de la Concorde a Parigi. Kiesler intuisce che Place de la Concorde è un caso di “non-luogo” antelitteram, e prova a rafforzarne l’identità trasformandola in un immenso centro commerciale accessibile dalle au12 Per la biografia di Frederick Kiesler si rimanda a Dieter Bogner, Friedrich Kiesler Inside the Endless House, Historisches Museum der Stadt Wien; Böhlau, Vienna, 1997. 13 F. Kiesler, Contemporary Art, p. 103. 14 F. Kiesler scrive ancora: “These outside frames, whether in old or new buildings, assume an entirely new function. The function will be that of a newspaper, a new form of advertising art (…) Important news will be broadcast directly to the passerby by means of a “screen curtain” which will suddenly sweep down close to the plate glass. Television will not only be used as a “Window Daily” but also as a highly efficient means of decorating the windows and the store itself. A small sketch in your art bureau’s office of some scheme worked out in a distant country (Paris, London, the Jungle), or a transmission of an actual view in some far-off city (Place de la Concorde) can be magnified or so adapted as to create a rare appeal at a trifling cost.” Frederick Kiesler, Window Shopping, [1941], dattiloscritto, Österreichische Friedrich und Lillian Kiesler-Privatstiftung, Vienna. 15 Altre raccomandazioni di Kiesler per massimizzare l’attrattività di un negozio sono: “Remove the background of a window and you see the interior of the store through the glass” e “Repeat the window inside but without glass!”. Kiesler, Contemporary Art, pp. 82, 85. Frederick Kiesler, Progetto per Place de la Concorde, 1925. Courtesy Österreichische Friedrich und Lillian Kiesler-Privatstiftung, Vienna tomobili da quattro accessi stradali a scorrimento veloce che collegano direttamente i sobborghi al cuore della capitale francese.16 L’impulso ad addomesticare tali “non-luoghi” trasformandoli in altri, seppur diversi “nonluoghi”, ci conduce all’analisi di alcuni progetti di Gruen, nei quali periferie abbandonate vengono rapidamente trasformate in trafficatissime midtown. La lezione della Vienna rossa nella quale si conducevano interessanti esperimenti di alloggi pubblici collettivi di matrice utopica e socialista, divengono, nel viaggio di sola andata verso il nuovo mondo, delle macchine mangiasoldi aperte al pubblico. Victor Gruen, il centro commerciale Milliron’s, 1949 Nella scena iniziale di una delle più celebri commedie americane, Colazione da Tiffany (1961) di Blake Edward, Holly Golightly, una squattrinata ragazza che si offre come accompagnatrice, guarda le vetrine della celebre gioielleria di New York all’alba di una nottata movimentata. L’idea dello shopping come terapia contro la tristezza è diventata ormai parte della nostra cultura: shopping e psiche si sono legati indissolubilmente nell’immaginario collettivo ed il centro commerciale si è tramutato nella nuova piazza dove si va, anche solamente per passeggiare. Non vi è nessun edificio che abbia influenzato le città contemporanee e le attività del tempo libero come il centro commerciale, specialmente nelle aree periferiche sprovviste di altri punti di aggregazione visibili. Victor Grünbaum (1903-1980) nacque e crebbe a Vienna negli anni in cui la capitale dell’Impero Asburgico continuava a trasformarsi dopo la costruzione avvenuta tra il 1860 e il 1906 della Ringstrasse, il lungo boulevard circolare che racchiude il centro di Vienna. Nel 1925 Gruen, con Rudi Baumfeld e Ralph Langer, partecipò a un concorso per disegnare un grande palazzo d’abitazione popolare, tipologia alla quale apparteneva il Karl Marx Hof di Karl Ehn che divenne l’icona della Vienna Rossa durante e oltre gli anni Trenta.17 Tale tipologia architettonica avrebbe determinato il carattere di molti progetti di Gruen per centri commerciali, nel quale le strutture ad alveare per i negozi erano combinate con larghe parti di uso comune. Gruen arriva a New York nel 1938, in fuga da Vienna dopo l’Anschluss. Nel 1939 disegna il suo primo negozio, Ciro’s sulla Audrey Hepburn in Breakfast at Tiffany’s, 1961 Quinta strada. La galleria sulla facciata è una perfetta trappola per i clienti: estende la soglia del negozio, facendo virtualmente arrivare i beni di consumo sul marciapiede, in una terra di nessuno. L’attenzione del consumatore viene così catturata, il desiderio creato sul momento e la resistenza ad entrare nel negozio scompare progressivamente, proprio come ipotizzato da Kiesler alcuni anni prima: è il “Gruen effect”.18 In un articolo del 1941 per la rivista Display World, Gruen descrive il rapporto tra venditore e compratore e ne parla in termini di “battaglia psicologica”, durante la quale la soglia e la facciata del negozio sono delle potenziali interfacce che catturano il consumatore. In un altro negozio, Gruen sviluppa ulteriormente il suggerimento di Kiesler su come disegnare una vetrina perfetta: Barton’s Bonbonniere, 1939, anticipa addirittura un certo sapore postmoderno: facendo partecipare allo spettacolo della vendita anche i commessi e le decorazioni di interni, come in una scatola di dolciumi aperta.19 Nel 1943, Gruen e la sua compagna di vita e di lavoro Elsie Krummeck prendono parte al famoso numero monografico di Architectural Forum intitolato “New Building for 194X”. Qui, il suo interesse vira verso una scala ambientale più ampia, come nel nuovo piano urbanistico della città di Syracuse, in cui il centro commerciale diventa luogo di incontro per la comunità locale, sostituendosi alla tradizionale piazza europea. Il suo profondo credo socialista lascia intendere che Gruen credesse davvero che i centri commerciali avrebbero potuto colmare il vuoto lasciato dalla mancanza di vita sociale e di iniziative culturali nelle aree suburbane: il sogno utopistico socialista poteva essere realizzato dal capitalismo americano. Nel Northland Center, 1951-54, a Detroit, Gruen attribuisce dei nomi per identificare gli spazi aperti e comuni del centro commerciale - corte, terrazza, strada o via - spiegando di aver preso in prestito l’idea dalle città del vecchio continente e dando così agli abitanti delle aree suburbane ciò che egli riteneva dovessero desiderare: 16 “Whereas shoppers once walked to and from the stores, they now travel by taxi, private car, subway, or elevated, going directly from residence to destination.” F. Kiesler, Window Shopping, cit. 17 F. Stadler e P.Weibel (a cura di), The Cultural Exodus from Austria: Vertreibung der Vernunft, Springer, Vienna; New York, 1993. 18 Per la biografia di Gruen si veda: M. Jeffrey Hardwick, Mall Maker. Victor Gruen, Architect of an American Dream, University of Pennsylvania Press, Philadelphia, 2003. 19 Il teatro fu per Gruen una importante fonte di ispirazione , almeno quanto per Kiesler. Gruen vedeva la platea come il marciapiede, la facciata come sipario, le vetrine come il palcoscenico, il magazzino come il retro del palco e addirittura l’architetto come regista e sceneggiatore. Hardwick, Mall Maker, p. 43. Victor Gruen, Ciro’s, New York 1939 un’atmosfera europea20. Il centro sociale di Northland era una città nella città con la sua centrale elettrica, serbatoi dell’acqua, corpo di polizia e sembrava, a tutti gli effetti, una municipalità separata da Detroit. “Qualcosa del valzer viennese invade Northland”, scrivevano i giornalisti che paragonavano il centro commerciale anche a Piazza S. Marco a Venezia, o alla Galleria Vittorio Emanuele a Milano. La realtà, fuori dai centri commerciali, restava invece molto diversa: il traffico caotico esasperava i pedoni e Gruen dovette suo malgrado ammettere che il centro commerciale senza automobili non sarebbe potuto esistere: “Milliron è progettato per clienti che girano su quattro ruote più che su due gambe”21. Qualche anno più tardi, nel 1956, la direzione di un altro centro commerciale, Southdale Center in un sobborgo di Minneapolis, si vide costretta a distribuire una mappa con le indicazioni di come orientarsi per ritrovare le proprie auto negli immensi parcheggi del centro commerciale. Il design di Milliron, forse il più celebre e iconico tra gli edifici di Gruen, nasce da considerazioni pratiche e da esigenze psicologiche: sia il progettista che il committente pensavano che i cittadini dei sobborghi dovessero smettere di recarsi in città per fare compere e che, per questo motivo, il centro commerciale dovesse mantenere una grande visibilità dalla strada. Così le automobili venivano parcheggiate sul retro in modo da non coprire la facciata e per permetterne la vista dall’autostrada; ciò poneva però un problema, non trascurabile: il retro dei negozi era infatti pieno di bidoni per la spazzatura e di merci in consegna. Il risultato fu che Gruen si trovò a dover spostare il parcheggio in un posto alquanto bizzarro: il tetto dell’edificio, che divenne così il principale segno di riconoscimento del Victor Gruen, Milliron Shopping Center, 1949 centro commerciale. È probabile che molti tra i clienti fossero attratti da quell’edificio così inusuale, che divenne così parte integrante dell’operazione di lancio di Milliron: l’architettura era diventata un’attrazione per le masse di consumatori, capaci di muovere centinaia di automobili e di famiglie, come se si trattasse di andare a visitare un museo. Il sogno era destinato però a terminare presto. Nel 1954 Hudson’s aprì presentando già i segni di quello che verrà definito “modernismo ansioso”22. Detroit Eastland (1951) e Montclair Houston (1952) furono disegnati come enormi snodi stradali per le automobili, circondati da vasti parcheggi e dotati un ufficio per i bambini smarriti e di agenti di polizia municipale che dirigevano il traffico all’interno. Il Gesamtkunstwerk, di viennese memoria, era stato tradotto in un modello di controllo architettonico che includeva le reazioni psico-fisiche degli utenti, anche se Gruen continuò a lungo a credere davvero che il Capitalismo avrebbe contribuito a dar forma alla città e alla cultura dell’urbanesimo, alla sua classe media e alla struttura della democrazia, non ravvisando i fattori di danno che questi luoghi contenevano, anche se ancora in potenza, per lo sviluppo culturale e sociale di un paese. In conclusione L’analisi di alcuni lavori di Bernays, Kiesler e Gruen mostra che queste tre personalità, condividevano alcune idee ed usavano strategie molto simili, derivanti dal loro comune background intellettuale e culturale. Tra i temi di interesse in questo racconto, è sicuramente da mettere in evidenza quello del linguaggio e del il suo potere di trasformare la realtà, pilotando le persone ad agire seguendo un canovaccio già scritto, come nel caso di Bernays che usava il linguaggio come principale catalizzatore nelle sue campagne. In una campagna che sviluppò per la Multiple Sclerosis Society, Bernays usò infatti la sigla “MS” per abbreviare il nome della malattia, che riteneva essere troppo lungo, contribuendo così a trasformare un male oscuro in un logo facile da ricordare per una battaglia da sostenere.23 Kiesler e Gruen in architettura e Bernays nelle pubbliche relazioni ridefiniscono l’individuo come bersaglio di 20 Hardwick, Mall Maker, p. 118. Kiesler aveva invece un’opinione differente sullo schema urbano da applicare alla città:“[stores] look like the labyrinth of an ancient European city. The seeker cannot find the merchandise, nor the merchandise the seeker”. Kiesler, Contemporary Art, p. 72. 21 Ivi, p. 95. Gruen descriveva Milliron’s come “A roadside display case”. Anche Eero Saarinen aveva disegnato il suo edificio della IBM per essere guardato da un’automobile che procedeva alla velocità di 30 miglia all’ora. Per Saarinen, si veda: Reinhold Martin, The Organizational Complex Architecture, Media, and Corporate Space, MIT Press, 2005, Cambridge-Londra. 22 Sarah Williams Goldhagen; Réjean Legault (a cura di) Anxious Modernisms: Experimentation in Postwar Architectural Culture, MIT Press, Cambridge-Londra, 2001. 23 Tye, op. cit., p. 73. Victor Gruen, Barton’s Bonbonniere 1939 una manipolazione inconscia. Le persone diventano così una moltitudine di “passanti” che guardano il mondo in uno stato di perenne distrazione, come descritto efficacemente da Walter Benjamin: il passante del Ventesimo secolo è un soggetto alienato, il celebre hollow man del poeta T. S. Eliot, il compratore nelle mani dei persuasori occulti di Vance Packard. I “beni”, di cui si scriveva all’inizio di questo testo, sono stati “danneggiati” per aver sottostimato il loro lato oscuro, pensando di diffondere versioni edulcorate di idee che generavano riflessione e conflitto sociale in Europa. Arrivarono in America con una svogliata risacca ideologica, come il cabaret satirico di Gruen che, trasportato a New York, divenne un circolo di nostalgici e smemorati emigrati lontani ormai da quei conflitti che proprio il genere del cabaret avevano generato. Del resto, il teatro e il palcoscenico furono temi interessanti per tutti loro: Bernays attraverso l’esperienza di addetto stampa di danzatori e cantanti d’opera, conobbe bene questo ambiente soprattutto tra il 1910 e il 1929 quando lavorò per Caruso e Diaghilev. Creare l’“evento” era sempre il momento strategico delle sue campagne. Gruen e Kiesler, dal canto loro, erano ben consapevoli di come utilizzare la luce, il suono e le quinte teatrali per dirigere lo sguardo (e il borsellino) dello spettatore all’interno dello spazio architettonico. Inoltre, tutti lavorarono all’idea di “americanizzare” il Modernismo, presentando se stessi come innovatori nelle loro rispettive discipline e provando a ridefinire la loro professione con nuovi titoli: Bernays si definiva “public relations counsel” mentre Kiesler si faceva chiamare “display manager” e Gruen preferiva la parola “environmental designer” alla definizione di architetto.24 La realtà era però un po’ diversa da quello che a prima vista si poteva credere: Bernays, l’uomo che convinse decine di migliaia di americani a smettere di mangiare dolci per iniziare a fumare sigarette, ammise anni più tardi in un’intervista: “Non mi piaceva il sapore del tabacco. Preferisco la cioccolata.”25 Gruen, invece, odiava lo shopping, sostenendo che nei centri commerciali vi fossero tantissime altre cose da fare, oltre a spendere i propri soldi. Kiesler infine non poté mai permettersi i beni che cercava di far vendere nelle sue vetrine poiché non raggiunse mai la notorietà in cui aveva sperato né un relativo benessere economico, sentendosi – e di fatto restando – sempre ai margini dalla società capitalista. 26 24 Per Bernays: Tye, op. cit., p. 73, per Gruen: Hardwick, Mall Maker, p. 216. Secondo Kiesler, inoltre, professione del display manager aveva molto in comune con il consulente di pubbliche relazioni: “he wins or loses as he moves”, “he overlooks no important theatre opening, he neglects no important film or exhibition”, “he must be able to absorb information like a sponge”. Kiesler, op. cit., p. 73. 25 Tye, op. cit., p. 27. 26 Si veda: F. Kiesler, Inside the Endless House, New York, 1966, il suo diario dove racconta le alterne fortune nel campo dell’architettura e le sue difficoltà nel campo degli affari. IL RECINTO DEL LUPO Taryn Rubicone Due film, usciti di recente, sembrano illustrare un analogo tema riverberandolo in forme diverse nelle modalità cinematografiche. Si tratta di Hannah Arendt, della regista tedesca Margarethe von Trotta, e di Thewolf of Wall Street, di Martin Scorsese. L’analogia può ravvisarsi nel fatto che entrambi sono biografici, narrando, l’uno, un significativo squarcio di vita di una delle più profonde filosofe del nostro tempo, l’altro, i pochi anni in cui uno speculatore finanziario, Jordan Belfort, riuscì ad accumulare una fortuna inverosimile truffando le innumerevoli persone che gli avevano affidato i propri risparmi per investirli in borsa. Entrambi quindi parlano di vittime incapaci di difendersi, sebbene questerestino solo sullo sfondo, e di carnefici che non si rendono conto del male perpetrato, ovvero di sistemi “speculativi”, organizzazioni sociali, nei quali i singoli finiscono con l’essere quasi inconsapevoli ingranaggi. Entrambi poi appaiono essere contradditori nel modo di utilizzare lo strumento cinematografico rispetto ai fatti, veri, narrati. Nel film sulla Arendt, la von Trotta sembra aderire, come è del resto nella gran parte delle sue opere, al pensiero ed ai sentimenti della protagonista, ebrea ma del tutto estranea al sionismo e semmai poliedricamente aperta a culture e tradizioni diverse, heideggeriana e pure critica, non solo negli aspetti politici, del suo maestro. Ed anzi, già nei primi fotogrammi, alla Arendt viene fatto enunciare il proprio credo, ribadito anche in altri film della von Trotta, circa la necessità di contemperare ragione e passione, se non di incorporare/negare la ragione (maschile) nei sensi, nel sentimento di vita (femminile), così come manifesta la protagonista ad Heidegger ospitandolo nel proprio talamo. Il film ripropone il clima di polemiche e critiche che si scatenarono, non solo da parte ebraico-israeliana, contro gli articoli scritti dalla filosofa su The New Yorker a commento del processo al criminale nazistaAdolf Eichmann, i quali poi costituirono il testo su La banalità del male. Seguendo il processo, la Arendt si rese conto dell’assoluta mediocrità ed insignificanza del gerarca, un uomo modesto, minuto, anonimo, insignificante, con un piatto linguaggio burocratico, in nessun modo perverso genio del male e dedito solo ad una cieca e formale obbedienza affidata al malinteso imperativo categorico kantiano, il quale, difendendosi dall’accusa di sterminio con il dichiararsi inconsapevole esecutore di ordini, rese palese alla filosofa come il male, il più ingiusto e deprecabile, il Male assoluto, invece che derivato da un atto di volontà, si realizzi all’inverso nella perdita di volontà dell’uomo, in quella cioè della capacità di pensare, discernere, nell’affidarsi a opinioni e valori condivisi, che lo conduce ad essere mero strumento di un sistema che lo prevarica e che egli più non giudica. Di qui l’interpretazione, di parte dell’opinione pubblica, dei suoi articoli riguardanti Eichmann come giustificativi delle sue azioni, tanto più che la Arendt, per ribadire la propria tesi, accusò lo stesso “sistema” ebraico, costituito, nel corso della guerra, dai rappresentanti degli ebrei in Germania, e, nel dopoguerra, da Israele, inteso, nel primo caso, corresponsabile dell’Olocausto – se gli ebrei avessero orgogliosamente affermato la propria “ebraicità” senza incasellarsi essi stessi come meri numeri alla mercé dei propri capi che li usarono per salvarsi, forse sarebbero sfuggiti meglio allo sterminio – e, nel secondo caso, fautore di nuove oppressioni, di un sempre analogo modo di rendere l’uomo mero mezzo, della politica e dei disegni promossi da Ben Gurion. Ebbene, anche a voler essere d’accordo con la Arendt-von Trotta sulla necessità di liberarsi di ogni sistema che ordina in disposizioni concluse (qui l’eco heideggeriano della critica della metafisica) uomini e cose, dello stesso pensiero, pure quello più “aperto” di Heidegger sull’essere, qualora si lascia sfuggire la vita, per un contatto più ravvicinato, fuori da schemi, con l’esistenza (nel film la Arendt sostiene che non possono non aversi lungo il vivere molti amori e che ha amato le persone concrete con cui ha vissuto), viene da interrogarsi sui modi in cui la regista ha aderito alla storia viva narrata, ovvero su quelli con cui, dati gli assunti illustrati, avrebbe dovuto tentare di venir via dagli stereotipi cinematografici, essi pure allestiti secondo un “sistema”, linguistico, sempre anche di mercato. Ebbene non c’è niente di più grigio, consueto - i critici favorevoli hanno scritto “classico” - del modo di fare cinema della von Trotta, e di questo film in particolare, con campi seguiti da controcampi, primi piani che non conoscono drammi né scandagli d’introspezione, una sapiente e rigida geometria del montaggio, in cui si alternano feedback e spezzoni documentari sul vero processo, insomma con tutto un armamentario teso a rimanere all’interno del sistema-cinema, al di là dello schermo, nel buio della sala e della camera, in un tetro contenitore dell’anima quindi, ravvivato solo dalla bravura dell’attrice Barbara Sukowa che rende all’astratto personaggio disegnato dalla regista come in un teorema, un po’ di vita. E’ indicativo dell’opaca, rigida e scolastica modalità del fare cinema della von Trotta il fatto che le drammatiche accuse di cui fu oggetto la Arendt vengano ridotte nel film a dispute tra amici ebrei, alla frattura con l’amico-innamorato Hans Jonas, senza tuttavia che nel piccolo lessico dell’amicizia tradita si possano riconoscere neppure immagini e scene che rendano i rovelli interiori. Se la von Trotta, attraverso la Arendt, predica sulla necessità di una adesione alle cose fuori dai sistemi che ne determinano sensi definiti, per contraddirsi nei modi filmici che utilizza, del tutto rigidi, tali da non esporre, se non per la bella recitazione della sua attrice, l’umanità della filosofa in cui si cala il suo assunto vitalistico, al contrario Scorsese aderisce completamente, nell’uso della macchina da presa, nella nervosa istantaneità delle riprese, quasi un susseguirsi di fotogrammi di natura fotografica invece che un “girare”, alla rutilante, esaltata, ebbra, vita del protagonista della sua storia. Anche in The wolf of Wall Street, sin dalle prime battute, viene messa in luce la filosofia, cui si ispirerà il protagonista, attraverso l’immagine dell’inspirazione di una buona dose di cocaina da parte del broker-maestro di Belfort, interpretato da uno strepitoso Leonardo Di Caprio, unita al profluvio di fandonie riferite agli investitori per convincerli a comprare le azioni proposte. Come è noto dell’uso della cocaina si occupò Sigmund Freud il quale, da consumatore, ne decantò la capacità di offrire una euforia non priva di lucidità, un senso di benessere che potesse essere di aiuto ai sofferenti della psiche. I manuali farmacologici descrivono i suoi effetti: euforia, allegria, sensazione di benessere, aumento di sicurezza e fiducia nelle proprie possibilità, molta voglia di parlare, di muoversi e camminare, sensazione di essere giusti, aumento del desiderio sessuale, aumento dell’attenzione, riduzione della sensazione di fatica fisica e mentale, deficit della capacità critica, comportamenti bizzarri quali l’accatastare oggetti, allucinazioni visive o tattili, e Martin Scorsese li fa attraversare tutti dal suo protagonista ma anche, si direbbe, dalla sua macchina da presa. La trama, come per il film sulla Arendt, riguarda un periodo molto breve, negli anni novanta postreaganiani, della vita di Jordan Belfort, il quale, riuscendo a quotare in borsa attività inesistenti, capannoni fatiscenti, ed essendo quindi proprietario del loro intero pacchetto azionario, con i suoi molti impiegati, riusciva a venderne le azioni a poveri risparmiatori, con la promessa di forti guadagni, facendone lievitare il valore, che finiva nelle sue tasche, sino a far crollare il castello di carte che, scoprendo il suo vuoto, conduceva alla disperazione gli investitori lasciando ricco il venditore. Valerio Caprara definisce l’interpretazione di Di Caprio “una performance mostruosa, una serie di esplosioni d’energia che sembrano a un certo punto dar fuoco allo schermo”essendo però anche le modalità filmiche messe in atto dal regista mosse dalla volontà di bruciare ed annullare il grande telo cinematografico e immettere lo spettatore nella vita stessa di Wall Street, o meglio, nella falsa vita di Wall Street. Lo stesso Caprara, a proposito della regia, scrive di “audace chiave stilistica … furiosa carica ritmica … ferocia del punto di vista storico … colonna sonora da sballo e straordinari assoli attoriali” per rilevare l’aspirazione delle immagini a uscire dal limite dello schermo e assalire lo spettatore. E, difatti, nel film, sembra essere la stessa macchina da presa in preda all’effetto della cocaina. Mentre cioè sullo schermo corrono veloci immagini di euforia, di allegre feste, entusiastici riti di cannibalismo finanziario e di motivazione produttiva, esaltati dialoghi parossistici, movimenti veloci di automobili, aerei, elicotteri, battelli su mari tempestosi e persone, esuberanze fisiche, orge sessuali, allucinazioni, è la stessa macchina da presa che si muove euforica senza linearità, si avvicina ai protagonisti quasi a risucchiarli seguendo nei movimenti i loro veloci gesti e divenendo essa stessa strumento erotico, non solo voyeuristico, quanto sinuosamente penetrante nella scena o aperta ad accoglierla per offrirla allo spettatore. E tuttavia le tre ore on cui si accatastano le azioni, tutte troppo simili e ripetitive, prevedibili, finiscono con l’annoiare tanto che, nei termini di Caprara, “l’ammirazione si ritrova in bilico sul disorientamento”. Vale a dire che la commedia, la quale pure mostra sullo sfondo i tanti drammi legati alla finanza allegra dei derivati, lascia il posto alla parodia, quasi all’avanspettacolo ridanciano che produce, dato il tema, un effetto straniante, del tutto contradditorio con l’aspirazione a rompere il limite dello schermo, bruciarne l’esiguo spessore in cui si avvolge il sogno. Naturalmente, la sapienza di Scorsese appare fondata sul conoscere la continuità tra avanguardia e cabaret, e tuttavia i movimenti mari(o)nettistici illustrati e quelli della ripresa, non bastano a coinvolgere lo spettatore, tramutando il gioco per salti di scene e inquadrature, in azioni tipiche della pubblicità (e del resto il protagonista finisce con l’insegnare tecniche di persuasione pubblicitaria) trasformando l’effetto coca in quello della ketamina, della dissociazione e della perdita di identità. Ma il perdersi della narrazione nella sequenza nevrotica delle immagini non induce nella critica, ed ancora in Caprara, il giudizio negativo ed anzi pur con i suoi limiti “Prendere o lasciare, insomma, tenendo presente che un cinema monumentale azzanna buongusto, equilibrio e verosimiglianza come i lupi azzannano la carne”. E invece no. Il film, anche qui, se non per la bravura dell’attore, non azzanna, e pur nel ricorso a dispositivi da nouvelle vague, con il ripetersi delle scene alla Godard ed il rivolgersi diretto del protagonista al pubblico in sala, come in Robbe Grillet, tutto il pandemonio resta oltre lo schermo ed il lupo rimane, contro la sua stessa natura dentro il recinto filmico inducendo lo spettatore a uscir via di corsa dal cinema. IL LIMITE CRITICO DELL’ARCHITETTURA Paolo Sibilio Interpretazione e sovrainterpretazione dell’architettura Nel libro di Umberto Eco “I limiti dell'interpretazione”, pubblicato nel 1990, sono messe in luce le diverse relazioni tra il significato letterale del testo e le sue possibili interpretazioni. Il libro di Eco è un saggio di semiotica ed ermeneutica e la sua lettura è poco diffusa tra gli architetti, a mio avviso colpevolmente, dal momento che la scrittura possiede una stretta attinenza con l’architettura e l’analisi sui suoi dispositivi, logici e di senso, non può essere ignorata da chi si occupa di forma, struttura e morfologia dell'architettura. Temi e linguaggi sono legati da una stretta relazione e, soprattutto, si sono influenzati nel loro procedere, nel loro crescere e trasformarsi nella storia. Ogni periodo storico manifesta analoghe strutture “costruttive” nei diversi linguaggi in tutte le varie componenti culturali, in tutte le arti che lo contraddistinguono, in tutto ciò che in sostanza lo caratterizza e lo rende univocamente riconoscibile e, se ciò vale per ogni epoca, vale probabilmente anche per la nostra con i suoi movimenti artistici e culturali. Per Umberto Eco i limiti dell’interpretazione sono riassumibili in ciò che “non può essere” o non può costituire il significato di un testo, tra le diverse letture possibili e quella meramente letterale. In tal senso, nella lettura dell’architettura, i “limiti” interpretativi si manifestano nel non poter dire ciò che lo spazio costruito non può essere o divenire, fatto salvo ciò che è o potrebbe essere. Un qualsiasi edificio, progettato per una destinazione, potrà essere interpretato, seguendo Eco, in ogni modo, escluso in quello che contraddice la sua forma, i suoi spazi funzionali e la sua coerenza interna. Un edificio residenziale non potrà mai essere un campo di calcio ma, di contro, una chiesa potrà assumere la funzione di una palestra, di un centro conferenze o una sala per concerti e, sebbene siano molti gli esempi nel riutilizzo temporaneo o permanente di architetture sia storiche che contemporanee, pure accade spesso che edifici reinterpretati nell’uso e nella forma non rispondano bene, sia funzionalmente che esteticamente, alle nuove definizioni. Ciò vale anche per edifici del tutto nuovi quali quelli di certa architettura contemporanea, di cui può dirsi che, perdendo la riconoscibilità dell’uso e del linguaggio, totalmente liberi, tanto da disorientare il fruitore, non sembrano offrire limiti all’interpretazione e non avere quindi essi stessi alcun limite, sino a sconfinare nell’insensato. In un’altra raccolta di saggi-colloqui dal titolo “Interpretazione e sovrainterpretazione”, ancora Eco, in polemica con Rorty, per il quale un testo si espone senza limiti ad ogni possibile interpretazione, affronta la relazione tra autore e lettore ovvero la controllabilità delle interpretazioni dei testi letterari indirizzate dall’autore le quali, anche se sembrano sconfinare oltre il senso posto da chi ha scritto, conoscono comunque un limite derivato sia dalla organizzazione culturale esterna al testo che tuttavia lo ha determinato, sia dalla sua coerenza interna che lo rivolge a sensi definiti e non infiniti come vorrebbe Rorty: se le interpretazioni di un testo fossero variabili ed eterogenee e il limite solo ciò che contraddice il testo letterale, allora ogni interpretazione sarebbe legittima ed avrebbe uguale dignità sino a pervenire a sensi contraddittorii e, in definitiva, al “non senso”. Nel caso dell’architettura, in maniera analoga, potrebbe diventare legittimo trasformare una chiesa in una sala Bingo, una palestra in una biblioteca, una fabbrica in un supermercato e così via, sebbene, così come per la scrittura, almeno secondo Eco, non sia possibile renderla tanto elastica da possedere qualsivoglia significato e funzione. Chi si oppone all’assoluta perdita di limiti all’interpretazione che induce l’assenza di sensi definiti, per Eco, è l’Autore Modello, più che l’autore empirico quello che in una certa maniera lo surdetermina in base alle diverse convenzioni della lingua e che introduce nel testo modi per accompagnare il lettore a scegliere, tra le possibili interpretazioni, quelle che appartengono alla sua sfera culturale. Nell’architettura, quindi, potrebbe dirsi che l’interpretazione possibile di un testo edilizio o di uno spazio ne può riconoscere la buona fattura se incontra un “limite” che ne esclude il “non senso” (anche quello della infinita interpretazione) e che ci offre altresì la possibilità di discernere l’arte, comunque aperta ai sensi, dal “Kitsch” o peggio dalla banalità. Appare fuori di ogni dubbio, ad esempio, che un opera pittorica di Malevich, per astratta che sia (“Quadrato bianco su fondo bianco”, 1918), per suprematista che sia è e sempre sarà, oltre che un’opera d’arte, un quadro. Lo stesso dicasi per il Guggenheim di F. LL. Wright o per ville Savoye di Le Corbusier, il primo un museo e la seconda una casa, per citare esempi famosi, e comunque costruzioni con riconoscibili caratteri. Non solo, ma che sia una caverna, una capanna, un igloo o la villa sulla cascata, non sarà per noi difficile distinguere in tutte il senso della casa. Lontani dall’eccessiva possibilità interpretativa che condurrebbe al “non senso”, cioè, sino al moderno i manufatti rientrano appieno, per volontà dei costruttori, dei proprietari o degli architetti che li hanno costruiti, nel significato semantico; usi, costumi o periodi culturali che li hanno generati non ne hanno, nel tempo o nello spazio, modificato il “senso”, la riconoscibilità che pur offrendosi all’interpretazione non ne perde la struttura. Nella nostra realtà attuale, nell’ampliamento delle conoscenze e delle capacità tecnologiche, la ricerca costante del superamento dei “limiti” spinge sempre più la lettura del “senso” della costruzione verso picchi interpretativi inimmaginabili, sia nella rappresentazione, con l’introduzione delle restituzioni digitali che superano i vecchi modi della proiettiva e della stessa prospettiva, che nella realizzazione, attraverso l’utilizzo di materiali e tecniche innovative. Naturalmente, se ci si attenesse, in ogni campo, alle interpretazioni più consuete, non vi sarebbe avanzamento della conoscenza e solo l’allontanamento dai limiti interpretativi produce il nuovo sebbene questo sia condizione necessaria ma non sufficiente per la crescita culturale di una civiltà. La Grecia del IV secolo a. C. era sicuramente all’avanguardia nella ricerca del superamento dei propri limiti culturali e filosofici ma ciò non bastava a superare i limiti tecnologici di una civiltà proto-rurale. Il dio egizio Amon Rha era rappresentato nel XX sec. a. C. come un uomo dalla testa aquilina sormontata da un cerchio, venerato da una civiltà che non conosceva l’uso della ruota ma riusciva a costruire le più grandi opere architettoniche che l’umanità abbia mai realizzato sino al XVIII sec. d. C., mostrando così di non riconoscere nel cerchio il significato semantico della ruota pur dandone un valore ancestrale. Il limite all’interno del quale si configura il significato semantico dell’opera o dello spazio, se da un lato rassicura il lettore o nel caso dell’architettura, il fruitore, dall’altro ne riduce lo stimolo alla sua naturale crescita spirituale ed aspirazione intellettuale. Ritornando alla lettura del testo di Eco, viene mostrato come, mentre nel leggere un articolo di cronaca, ci accorgiamo che questo vale per il solo significato letterale, un brano di un romanzo di Jules Verne, di contro, si pone obbiettivi diversi. Nel primo caso l’autore descrive un evento realmente accaduto, caratterizzandolo aggiungendo o sottraendo particolari descrittivi limitatamente alla sua capacità narrativa o correttezza professionale. Nel secondo, se si utilizza ad esempio il romanzo “Ventimila leghe sotto i mari”, l’autore descrive un mondo che egli stesso non ha mai visto e che si materializza nella mente del lettore in maniera diversa secondo il proprio vissuto e il proprio retroterra culturale. In altri termini, il primo autore cercherà in tutti i modi, attraverso il testo, di limitare o concentrare la nostra attenzione su ciò che egli ha visto o, peggio, su ciò che egli vuole farci credere di aver visto. Il secondo cercherà di “stimolare” la nostra fantasia aprendo e rincorrendo quei limiti che solo l’immaginazione può superare. Nell’architettura, di fronte e dentro i suoi testi, gli edifici che decodifichiamo non solo negli usi spaziali, il dispositivo interpretativo pure si determina tra il mero significato letterale, se si vuole funzionale, ed i sensi che si affacciano alla nostra immaginazione. Pensiamo, a titolo di esempio, pur consapevoli della opinabilità della scelta, a un tempio greco del IV o III sec. a. C. Per magnifico che sia, esso é per noi rassicurante, nulla del suo spazio sarà motivo di turbamento. Sappiamo che, anche se il tempo le ha ormai cancellate, le sue parti mancanti erano nel posto in cui noi ci aspettiamo siano state e soprattutto nella forma di cui noi sappiamo essere state. Nulla ci impedisce di affermare che al centro della cella vi sia stata una statua delle fattezze della divinità a cui il tempio era dedicato, così come nulla ci potrà mai dissuadere dal fatto che, anche se ormai persa, tra due triglifi era inserita una metopa decorata e al disopra della trabeazione, sul prospetto principale, sicuramente si ergeva un frontone. Apparentemente esso non lascia nulla all’immaginazione che tenta di ricostruirlo e ricostruire i sensi che possedeva, ed anzi, insegnando in passato alle popolazioni greche, e nel corso della storia al mondo intero e alle generazioni successive cosa sia la perfezione, il bello, esso sembra imporre limiti alla nostra interpretazione, lasciando agire quello che Eco chiama “Autore modello”. Trasferendoci qualche migliaio di chilometri verso est, dalla Grecia antica a Giza, riconosciamo tre edifici, simili tra loro ma di differenti grandezze, disposti in modo apparentemente caotico, privi di qualsiasi decorazione o ornamento e, contrariamente ad altri edifici dell’area, privi di qualsiasi iscrizione. Tutti e tre gli edifici rappresentano una figura geometrica elementare: la piramide. Enormi, queste costruzioni, da millenni hanno scatenato le più assurde teorie: su come siano state costruite, sul perché siano state costruite e perfino sul quando siano state costruite. Che le considerassimo semplicemente tombe o gli dessimo i più improbabili significati simbolici o ancestrali, le piramidi di Giza producono uno stato di incertezza che conduce finanche al turbamento, ed anche in questo caso è probabile che questo sia stato il fine che si erano proposti i loro costruttori. Quale è in questo caso il limite all’interno del quale si inserisce il significato dell’opera? In un certo senso potremmo dire che le piramidi non offrano limiti all’interpretazione e che il solo limite interpretativo é nell’ampiezza della nostra immaginazione. Nel tempo le piramidi hanno mantenuto il loro valore semantico, intrinseco alle loro forme e soprattutto alle loro dimensioni. Non ne abbiamo un’immediata coscienza, ne ricerchiamo parti o rapporti simbolici sia nel contesto morfologico del sito ma ci spingiamo anche nello spazio cosmico, sì che, per comprenderne il significato simbolico-formale non ci possiamo dare alcun limite. Di fronte alle piramidi sembrerebbe che abbia ragione Rorty invece che Eco e, paradossalmente, l’assenza di limiti interpretativi cui si offrono, appare simile a quella di tanta architettura contemporanea che, rompendo ogni codice, sembra non offrirsi ad alcun senso e insieme ad infiniti sensi. E’ indicativo che in “interpretazione e sovrainterpretazione” Jonathan Culler mostri come Eco tenda a banalizzare le sovrainterpretazioni che, invece, sono quelle interpretazioni che aprono i limiti del testo interrogando il suo non-detto. In questo senso, anche il tempio greco del nostro esempio, offerto all’interpretazione di Robert Venturi, o meglio ancora di Frank Gehry, verrebbe totalmente decostruito, alla maniera del proprio cottage a Santa Monica, non offrendoci, certo, più alcuna testimonianza del mondo che rappresentava, ma facendolo sfuggire, proprio in una tale estrema interpretazione, alla banalizzazione di quelle di massa. Il linguaggio è cresciuto con la civiltà. Forme, strutture e temi sono mutati con i mutamenti culturali nella storia. La struttura semantica dello spazio architettonico, nelle sue infinite varianti o consolidate invarianti, ha accompagnato il cammino dell’uomo, dal tempio greco all’odierna architettura computerizzata, e proprio l’architettura, con le sue continue interpretazioni nella storia, sembra smentire l’assunto di Eco, sì che, se è vero che la fiaba dei tre porcellini non può che raccontare di tre porcellini, nessuno può impedire ad un nonno di raccontarla con 10, 100, infiniti porcellini, o immaginare un tempio greco con il frontone dipinto di blu, che, a pensarci, era di fatto proprio di tale colore! Ci misuriamo quindi con i nostri limiti interpretativi interni alla nostra storia e cultura, diversi da quelli passati e egualmente apparentemente fuori dalla portata del senso, ma è a tali limiti che bisogna forse guardare per non cadere nel banale, a sua volta non senso, se non per superarli almeno per raggiungerli ed aprire l’immaginazione. IL GRADO ZERO DELL’ARCHITETTURA Architettura senza architetti Gianluca Andreoletti Jean Attali: il grado zero dell’architettura come utopia negativa. Quasi cinquant’anni dopo, sostituendo il termine scrittura con architettura e scrittore con architetto, Jean Attali1, traslando le considerazioni di Roland Barthes2, sulla scrittura e la letteratura, nel campo dell’architettura contemporanea e cercando una risposta alle questioni sollevate da Rem Koolhaas riguardo allo shopping, si domanda se si stia vivendo uno stallo, un grado zero dell’architettura. Forse l’inizio del XXI secolo non potrebbe preannunciare, in seno alla tecnica ed al mercato globale, attraverso forme che gli anni ’60 e ’70 avevano preannunciato ciò che la letteratura avrebbe profetizzato nel quadro dell’ordine del linguaggio?Uno scrittore senza letteratura ovvero un architetto senza architettura? Una tale domanda non deriva, però, dalle considerazioni di Bernard Rudofsky, che auspicava uno stadio iniziale o vernacolare dell’architettura, bensì rivela un suo stadio finale, nel quale sembra trovarsi l’architettura del presente, che soggiace ad una forma priva di retaggio in funzione del suo stesso rinnovamento. Secondo Jean Attali, infatti, in architettura questo grado zero o l’omicidio barthiano potrebbe significare la reazione ad un’arte del costruire che identifica la disciplina con l’espressione visibile di un ordine politico. Ciò che caratterizza l’architettura moderna, prima, e contemporanea, ora, sembra essere la volontà di alienazione, di fuggire da qualsiasi riferimento a se stessa per proiettarsi verso la società. Infatti, da sempre, esiste un’evidente relazione tra l’architettura e la politica, con i suoi regimi, dottrine e modelli (Democrazia, Liberismo, Comunismo, ecc.) ma, oggi, non è più così, dopo la crisi delle ideologie, allorché un governo non è più molto differente da un altro e la politica ha cessato di produrre i suoi segni distintivi nell’ambiente urbano. La sconfitta dell’autorità politica, come forma di cultura generalizzata e pervasiva, l’oppressione descritta da Bataille, la sconfitta della cultura accademica ed autoritaria post-moderna denunciata da B. Zevi o il tramonto di un approccio tipologico, con un metodo scientifico di riferimento, liberano l’architettura nello spazio anonimo ed opportunista delle logiche di mercato e del consenso. Oggi, le funzioni richieste agli edifici si sono intensificate a scapito dello spazio che dovrebbero rappresentare. L’architettura risulta vilipesa dalla banalità dei loro diagrammi: shopping, parcheggio e relative infrastrutture: “lo shopping di cui parla Koolhaas - afferma Attali - non rappresenta soltanto l’acme del consumismo e della cultura di massa: significa la terribile degradazione del nostro ambiente urbano. Accettare l’esistenza di questo grado zero dell’architettura - continua J. Attali - comporta riunire diverse idee in un singolo punto di vista”. Riguardo alla analogia con la scrittura, operata dal filosofo francese, tale equivalenza definisce uno strato intermedio che non può essere ridotto all’ideologia o assimilato alla sola logica del progetto e che consegna l’architettura, a prezzo di una grande ambivalenza, al diretto contatto con i costumi sociali, ovvero la contingente elaborazione di uno spirito del tempo che di spirituale ha veramente poco. Inoltre, il paragone con la scrittura rivela il problema del linguaggio come l’espressione di una convenzione che non rappresenta più il cambiamento dei tempi, ma soprattutto l’inadeguatezza ed il rifiuto a rappresentarlo come qualcosa di comune e condiviso. Lo schiacciamento temporale sul presente, la fine del futuro come processo lineare ed evoluzionistico, ha liberato uno scenario di mondi possibili aperti su di una contemporaneità alla ricerca di se stessa, della propria identità, svincolata dalle logiche di mercato. La libertà critica del progettista nei confronti di un sistema di riferimento convenzionale, quale quello del linguaggio, allora, conserverà il suo senso solo se il linguaggio troverà posto in una condizione i cui limiti saranno quelli della società e non quelli di una convenzione (letteratura) o di un costume (classi sociali). Ma all’interno di una tale posizione è grande l’ambivalenza, o il dubbio, se sia giusto o no accettare acriticamente una società che sempre più è dominata dal mercato e che della manipolazione del consenso ne ha fatto una condizione preliminare e necessaria. Roland Barthes analizzò l’involuzione del linguaggio nelle nuove forme di letteratura, attraverso la quale essa stessa cessa di esistere, osservando la sua rivoluzione attraverso l’approdo alla spontaneità del linguaggio sociale. Barthes, inoltre, affermò l’esistenza di una realtà della forma indipendente dalla lingua e dallo stile, cercando di dimostrare come questa terza dimensione formale legasse lo scrittore alla sua società, studiando le trasformazioni del linguaggio letterario lungo un percorso che muove dalla scrittura trasparente di classici, passa per quella torbida del XIX° sec.(Flaubert) sino a quella moderna, priva di qualsiasi segno (Camus). 1 J. Attali e D. Gonzalez-Foerster, Le degré zero de l’architecture, in «L’architecture d’Aujourd’hui» n. 336, 2001. R. Barthes, Il grado zero della scrittura, Einaudi, Torino, 1972. L’edizione originale, Le degré zéro de l’ecriture suivi de Nouveaux essais critiques, Paris, 1953. 2 Ed è, appunto questa scrittura neutra, quella bianca di Camus e Blanchot, o quella parlata di Queneau, ad essere definita “grado zero della scrittura”. La letteratura, secondo il semiologo francese, deve segnalare qualche cosa di diverso dal suo contenuto e dalla sua forma individuale, che è la sua propria chiusura ed attraverso la quale s’impone come letteratura. Di qui un insieme di determinati segni senza alcun rapporto con l’idea, la lingua e lo stile, che tende ad astrarla dalla storia. Lo stadio finale o l’impasse al quale è approdata, oggi, l’architettura contemporanea, attraverso il superamento operato dal post-moderno è quello definito, qui, grado zero. La scrittura di grado zero, quindi, potremmo dire che si pone come crocevia della destrutturazione del linguaggio architettonico e procede verso forme di comunicazione extra-linguistiche, cioè, al di là del linguaggio, del suo sistema di valori ampiamente riconosciuti, di una letteratura, espressione di un potere socio-politico, rivelandone il rapporto del sensibile con l’extrasensibile e spostando l’attenzione nei territori polisemici dell’immagine. Una volta distrutti i nessi sintagmatici della parola e decostruita la grammatica e la sintassi del linguaggio, ci appare lo spazio profondo dell’immagine e della sua interpretazione. “L’immagine è ciò da cui sono escluso”3, ha scritto Roland Barthes, evidenziando la sua distanza dal reale, la sua in-corporeità mediatica, la sua sublime impresentabilità, la sua immaterialità virtuale, la sua alterità simbolica. L’architettura contemporanea, allora, si rimpossessa della sua potenza simbolica, ponendosi, però, al di fuori della sfera del simulacro. Un simbolo che ha più la dimensione orizzontale del quotidiano, che quella verticale dello straordinario. Il simbolo, così, non dischiude una via interpretativa, ma un’esperienza. E’ un’attenzione che si rivolge allo spazio dell’interrogazione, dove però a interrogare non siamo noi, ma è il simbolo. L’architettura nel suo periodo modernista, infatti, approfittando della perdita del sito, del suo sradicamento dal luogo, ha fatto dell’architettura un’astrazione, un puro contrassegno largamente autoreferenziale. Da questo progressivo distacco deriva, quello che oggi rappresenta una rinnovata tendenza ad includere, al di là delle questioni formali, problemi che chiedono, per essere compresi, un allargamento di campo, evitando il tranello di fermarsi alla cosa in se stessa e mantenendo l’interpretazione aperta a significati plurimi e spiazzanti. La complessità racchiusa nella dimensione mentale del significato diventa, così, la nuova cifra riconoscibile che, più o meno cripticamente la contiene, in attesa di un suo disvelamento. Un significato, che il più delle volte, aderisce al suo significante sin quasi a scomparire. L’estetica dell’assenza o l’assenza di uno stile codificato e trasmissibile, designa, allora, un mutamento identificabile con lo spostamento dalla concezione del Bello a quella del Sublime, da una ricerca autonoma ed autoreferenziale, basata su tipi e modelli morfologici precostituiti, ad una eteronoma che lavora sostanzialmente sull’immagine, il significato ed il senso. Il Sublime decreta, così, lo spostamento da una concezione estetica rassicurante ad una sconcertante perché “ la lacerazione che il sublime ha come effetto nel fruitore è la stessa che lo solca come concetto: antinomico, contraddittorio dialogo degli opposti”.4 Le condizioni attuali, a detta di J. Attali, sono simili a quelle degli anni ’60 e ‘70, dove lo sviluppo tecnologico ed il boom economico preludevano all’imminente società dominata dalla cultura di massa. Alla stessa stregua l’inizio del secolo si apre con il dilagante strapotere della cultura del mercato globale. A tale riguardo, J. Attali, sceglie le recenti considerazioni sullo shopping avanzate da R. Koolhaas per denunciare l’omologazione della società contemporanea e di conseguenza lo stallo di una disciplina che schiacciata dal peso del mercato non riesce più a proporre modelli alternativi validi. Ogni campo, persino, quello della religione e della cultura si equivalgono, dice l’architetto olandese, non c’è più niente di sacro, lo shopping si è impadronito di tutto. Anche in paesi come l’Indonesia, lo shopping, oggi, sta diventando l’atto fondamentale dell’urbanizzazione, al punto che i nuovi insediamenti non sono serviti da strutture di shopping, ma sono di fatto dipendenti dallo shopping e definiti dallo shopping. Il dibattito è aperto, come al solito R. Koolhaas è riuscito a stimolare una riflessione attraverso le sue contraddittorie sentenze ed i suoi ambigui paradossi. Egli, infatti, non crede più al potere dell’architettura di riformare la società e la sua soluzione sembra piuttosto essere l’accettazione della desolazione del mondo così com’è, hic et nunc, nel modo più risoluto possibile, come se prendere qualsiasi altra posizione e persino dare un giudizio significhi scivolare nel più bieco sentimentalismo. La questione del grado zero, ci si potrebbe domandare, è, allora, la questione della globalizzazione mediante un’ideologia espressa con il linguaggio dell’economia, che subordina tutti gli aspetti della vita culturale e sociale a competizione economica sempre più intensa? E che dire della crisi del piano urbanistico come strumento di controllo del territorio e il sempre più diffuso ricorso al progetto urbano? Per non parlare del project financing, come sorta di catalizzatore architettonico, che ha assunto su di sé la responsabilità o l’opportunità di rendere attuativo l’iter procedurale e che si trova nell’irriducibile paradosso di un sistema di mercato con dei tempi rapidis3 4 R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, Torino, 1979. M. Carboni, Il Sublime è Ora, Castelvecchi, Roma, 1993. simi di obsolescenza, legati ai meccanismi della moda e del progresso tecnologico, in contrasto ai tempi lunghi nei quali l’architettura si realizza. “ Junk Space” ( lo spazio spazzatura) è il nome che Koolhaas dà al più visibile aspetto del degrado spaziale urbano: “il sedimento edilizio della modernizzazione non è l’architettura moderna, ma lo “junk space”. Junk space: così chiamo questa nuova esperienza di spazio. Lo junk space è qualcosa di elusivo che non vogliamo capire, che non riusciamo a capire ma che prima o poi, dovremo capire perché si tratta probabilmente del solo spazio che ci resta. Junk space è ciò che resta dopo che la modernizzazione si realizza […] in definitiva l’apoteosi dello shopping è l’apoteosi della modernizzazione: un orgasmo di utilitarismo, uno sbocco folle della dottrina della forma che segue la funzione, la vendetta finale del funzionalismo”.5 Tale inquietante constatazione porta all’affermazione della definizione di un grado zero come di un “impasse”, uno stallo nel quale l’architettura contemporanea si trovi e nel quale si nasconda. Bruno Zevi: Paesaggistica e scrittura di grado zero. Anche per Bruno Zevi, la questione del grado zero è una questione , eminentemente politica. Osserva il critico, riferendosi, sempre, al testo di Roland Barthes: “«Si tratta di superare la Letteratura affidandosi a una lingua basica … allora, lo strumento non è più al servizio di un ideologia … è la maniera di esistere del silenzio … se la scrittura è veramente neutra, la Letteratura è vinta». Traslando: se la scrittura architettonica è veramente neutra, l’architettura del potere, classica, autoritaria, accademica, post-moderna è vinta” ed aggiunge, “Il ‘grado zero’ della modernità, quello che oggi gestiamo, non coincide affatto con un periodo di crisi. Siamo al servizio di un mondo drammatico ma vitale e lieto, in crisi ma carico di valori”.6 A differenza di J. Attali, per B. Zevi, la condizione del grado zero non è un punto di stallo, bensì un punto di svolta, una condizione di crisi ma vitale, che apre a nuove possibilità di sperimentazione. Il suo pensiero va a Frank Gehry, piuttosto che a Daniel Libeskind o Rem Koolhaas, artefici di una vittoria epocale, la sconfitta della viltà accademica del post-moderno. Essi rappresentano, infatti, coloro i quali consentono lo scambio intenso e fluido tra il messaggio irripetibile del genio e gli apporti democratici e popolari, rivendicando il diritto per gli architetti di cercare la creatività nel disagio, nell’incertezza, nel disturbato, anziché nel puro, nell’immacolato. Nel 1997, B. Zevi, organizza un concorso ed un convegno dal quale uscirà, come atti dello stesso, il manifesto di Modena, dove vengono riportati i vari gradi zero della storia e l’ultimo che si realizza con la chiusura di un secolo e di un millennio e che conclude la parabola iniziata con il manierismo del cinquecento. “Oggi la storia ci appare innervata da gesti creativi, che rendono idoli, dogmi, canoni armonici, tabù proporzionali, vitelli d’oro simmetrici non solo obsoleti, ma anche ridicoli. Il fronte della modernità ha prevalso”.7 Ecco il punto vero che coglie Zevi: la letteratura architettonica, il suo portato di tradizioni e tecnica, codificate con un linguaggio che celebra, di volta in volta, il potere politico, economico, unanimemente riconosciuto dalla sua società è ora rinnegato, decostruito, e riscritto con dei codici linguistici della cultura popolare. L’idea di modernità, infatti, è un sottoprodotto della concezione della storia come successione, come processo lineare, che non si riproduce. Per la prima volta nella storia, gli uomini non vivono più come un tempo all’ombra di quei sistemi religiosi o politici che li opprimevano e li consolavano allo stesso tempo, ma in una sorta di deserto spirituale. La nostra società è la prima che si appresta a vivere senza una dottrina metastorica, in assenza di valori universali ma soprattutto di un progetto. La mobilità, il telelavoro, la globalizzazione dei mercati con le oscillazioni delle Borse mondiali fanno il resto. I nostri assoluti, religiosi, filosofici, etici, estetici non sono collettivi ma privati. Il declino delle ideologie metastoriche che assegnano un fine ed una direzione alla storia, implica il tacito abbandono delle soluzioni globali. Siamo sempre più propensi ad adottare soluzioni parziali. L’essere non è nulla al di fuori del suo “evento” che accade, nell’esperienza di fine della storia, in un tempo dell’eterno ritorno. Odo Marquand ha definito il presente come “l’epoca dell’estraneità di fronte al mondo”. L’estraniamento dell’uomo e della donna contemporanei come l’estraniamento da se stessi, l’impossibilità di assumere la propria interiorità come identità. Marquand, sostiene, infatti, che l’abitante della grande città vive costantemente dentro il paradosso di fondare la propria esperienza sulla negatività. L’esistenza del potere finisce per indurci a rifuggire una simile totalizzante presenza; la vita sicura invita ad una vita rischiosa, la comodità e la vita sedimentaria ci inducono verso forme di nomadismo; l’ordine urbano invoca l’indeterminatezza del Terrain vague. Dagli anni ’80 ad oggi la città europea si è ricostituita attraverso la riqualificazione del vuoto, degli spazi urbani, delle piazze, dei parchi, dei suoi terrains vague, della sua viabilità e dei suoi nodi di scambio. La politica urbana adottata in città, quali, Barcellona, Parigi, Amsterdam, Berlino, Londra, Bilbao, Roma ne sono un esempio lampante. 5 R. Koolhaas, Junk Space in «Domus» n. 883/2001 pag. 34, l’articolo riprende le considerazioni dell’architetto olandese pubblicate in Harward design school, guide to shopping, Thaschen, 2002. 6 B. Zevi, Il manifesto di Modena, Paesaggistica e grado zero della scrittura architettonica, Venezia, 1998. 7 B. Zevi, op. cit. Per tutti gli anni ’80, sino ad oggi, il dibattito culturale porrà al centro dell’attenzione il tema del paesaggio. La riscoperta della specificità del sito sancisce la nuova alleanza fra l’architettura della grande scala e l’urbanistica intesa come progetto urbano, evidenziando, nella riqualificazione delle periferie, nell’identificazione di brani di città mediante sistemi di elementi naturali e nel progetto dei vuoti urbani, i temi privilegiati della progettazione di nuovi paesaggi. “Il termine francese terrain è un’estensione di quel suolo chiaramente delimitato proprio per la costruzione, per la città.[..] Si riferisce a territori più grandi e forse meno precisamente definiti, potenzialmente in uno stato di sfruttamento. [..] Vague deriva da vacuus, che è come dire vuoto, non occupato, ma anche libero, disponibile, non impegnato”, scrive Ignasi de Solà-Morales ed aggiunge: “la relazione tra l’assenza di uso, di attività, e il senso di libertà, di aspettativa, è fondamentale per capire il potenziale evocativo dei terrains vague all’interno delle città. Vuoto, assenza, ma anche promessa, lo spazio del possibile, delle aspettative”. 8 In breve essi sono estranei al sistema urbano, mentalmente esteriori, all’interno della struttura fisica della città, e ciò che Marc. Auge’ ha definito come nonluoghi.Sono la sua immagine negativa: tanto una critica quanto una possibile alternativa. Ed è proprio da qui, dai vuoti della città, dal suo grado zero, dai suoi interstizi della crisi che, si cerca di rifondare la città e soprattutto l’architettura. Il post-moderno ha mostrato come suo tratto comune e più imponente lo sforzo di sottrarsi alla logica del superamento dello sviluppo e dell’innovazione. Il progresso diventa routine nella società dei consumi, la novità non ha nulla di rivoluzionario e sconvolgente, è ciò che permette che le cose vadano avanti nello stesso modo. Ignasi de Solà-Morales: Mies ed il grado zero Il primo a parlare di grado zero, riconsiderando l’opera di Mies Van der Rohe sotto l’aspetto del suo bauen, è stato Ignasi de Solà Morales, accostando la ricerca del maestro tedesco alla teoria barthiana sulla scrittura ed alle successive evoluzioni dell’arte minimalista e pop degli anni ’60 e ’70 . Le considerazioni del critico spagnolo, infatti, sull’eredità del moderno, il successivo approdo alla condizione post-moderna, lo portarono alla definizione di quella condizione particolare di individualismo, nella quale si trova ad operare l’architetto contemporaneo. In questa ultima decade, sostiene de Solà Morales, riferendosi alla fine del secolo, l’architettura più sensibile non è stata l’espressione di un progetto collettivo in cui valori di razionalità, progresso erano tradotti in paesaggio urbano, ma è stata soltanto la presenza modesta di concetti personali che esponevano pubblicamente ciò che avrebbe dovuto essere considerato come esperienza privata, ma che, dato il decadimento dei grandi programmi e sistemi si è trasformato in una debole, anche se rispettabile, autenticità personale. L’architetto contemporaneo, così, nella sua solitudine, si confronta individualmente con la storia. Così facendo non potrà che stabilire una “differenza” tra sé, il passato, il presente ed un futuro che non esiste più. Egli si trova nell’angosciante situazione di poter disporre apparentemente di tutte quante le lezioni della storia ma di contro, di essere privo di qualsiasi altra guida al di fuori di quel proprio talento personale, materia pregiata di cui lo star-system si nutre. (Steiner) Si è creata, così, quell’architettura che Ignasi de Solà Morales definisce architettura dell’identità e della differenza. “Questa architettura ha investito tutto sulle immagini rielaborate, stilizzate, riferite a qualsiasi momento della storia dell’architettura. [..] Un’operazione molto complessa in cui il soggetto a partire da se stesso stabilisce il senso radicale della differenza, la moderna distanza tra il presente e qualsiasi passato, nonché la figurazione elaborata di una ripetizione che vuole evocare un impossibile universo permanente dell’essenziale in architettura”.9Questa architettura dell’identità e della differenza, svincolando l’architettura stessa dalla logica lineare ed evolutiva che la legava alla storia ed alla tradizione moderna, attraverso la rottura del post-moderno, ha permesso un grado di libertà maggiore consentendo così nuovi approcci sia nella pratica che nella teoria dell’architettura. Questa nuova strategia si applica, così, attraverso un’amplificazione della scala ed una riduzione dei valori formali sino all’essenza dell’oggetto architettonico. A questo tipo di operazione se ne è affiancata un’altra, quella cioè della “logica del limite” che deriverebbe dalla morte dell’architettura nella modernità grazie alla necessità di cedere ad una razionalità collettiva che l’aliena in qualcosa che al tempo stesso l’annienta e la trascende. La dissoluzione dell’architettura nell’Housing e nel Marketing della ragione di stato sono gli effetti più emblematici, che vedevano l’avanguardia stessa come una figura liberatrice dell’arte dall’elite borghese e quello della “religione del futuro”, che come conseguenza del rinnovamento incessante viveva una repentina obsolescenza di tutto ciò che produceva. La tradizione moderna, infatti, è una tradizione che si rivolta contro se stessa , afferma ed insieme nega l’architettura. Ogni nuova conquista avviene attraverso il superamento, la rottura con il passato. Questa logica del limite nasce all’interno della modernità come zona di frontiera nella quale depositare e conservare il senso, per distinguersi dalla decadenza operata dalla rapidità dell’oblio e per rinnovarsi attraverso un percorso che tende 8 9 Op. cit. I. de Solà Morales, Differenza e limite: individualismo nell’architettura contemporanea, in «Domus» n. 736, 1992. all’essenza, mediante una riduzione ed una purificazione dell’architettura stessa. Una tensione dell’arte, in genere, verso il proprio limite o ancora una riduzione dell’illusione, una ri-appropriazione dell’origine.”Questo linguaggio mallarmeiano è Orfeo che può salvare chi ama solo rinunciandovi e che tuttavia osa voltarsi un po’ indietro”.10Questo limite è forma vuota, impersonale, assoluta, per parafrasare Roland Barthes. Significa portarla indietro fino ai suoi limiti, portare l’esperienza estetica e pertanto di significato fino ai confini dell’insignificante, dell’ovvio, basandosi sull’astrazione attraverso gesti semplici che testimoniano l’incapacità di uscire dal limite. Oggi, la progettazione degli spazi urbani dismessi, dei vuoti, e la paesaggistica rappresenta, per così dire, il grado zero dell’architettura del 900, la sua autonomia, la tendenza, cioè, a non riconoscere più l’esteriorità, i codici, il soggetto dandosi delle regole proprie. Quindi il linguaggio avendo perso la sua funzione significativa con la destrutturazione di sé stesso, libera l’architettura in una realtà extra-linguistica, che è poi la dimensione nella quale opera il Sublime. L’estetica dell’assenza che caratterizza l’architettura della contemporaneità, lavora su questa aporia. Sull’impossibilità del linguaggio a significare la cosa, l’oggetto perché il suo significato è riposto altrove, e non assenza = mancanza, nulla. Questo altrove è lo spazio sconfinato dell’immagine e dei suoi molteplici significati. Il lavoro sul significato si manifesta tutto sulla superficie dell’opera attraverso la sua immagine materica, rasentando il più delle volte il limite dell’ovvio, nei pressi del vuoto o dell’assenza di significato. Questa operazione è quell’ambiziosa tentata dal Minimalismo di rifondare le arti plastiche andando fino ai loro limiti, portare l’esperienza estetica e pertanto di significato fino ai confini dell’insignificante. Quei limiti, sono anche confini smarginati e disgregati della città diffusa sono i luoghi dei Terrains vague, potenzialità inespresse ai quali la città contemporanea affida le sue speranze di rinascita o semplicemente di riqualificazione e di risemantizzazione della propria forma. Qui Vuoto significa assenza di forma, di Piano, luogo del possibile. In direzione opposta, l’operazione critica proposta dalla Pop-art, per la quale il significato si sarebbe raggiunto attraverso nuove icone popolari diffuse da mass media e dalla loro ripetizione omogenea. Entrambe le ricerche costituiscono l’eredità del presente lavoro sul significato, alla ricerca di un nuovo senso più rispecchiante le mutate condizioni di vita , la diversa sensibilità nei confronti delle cose. Questa nuova significazione della realtà passa necessariamente per il simbolo: significante allegorico, morale, anagogico. La materia è l’ultimo, estremo baluardo della forma, la sua massima riduzione, il suo grado zero. “L’opera di Mies non parte dalle immagini, ma dai materiali. [..] La realtà è, sin dall’inizio, il materiale per l’opera di architettura, e i suoi appelli ad intendere l’architettura unicamente come edificazione, come bauen, sono la dimostrazione che le condizioni percettive create dalla materialità degli edifici sono all’origine del loro significato spirituale.” 11 Ha scritto Solà Morales rileggendo l’opera di Mies, alla luce dello scritto di Barthes, depurandola dall’interpretazione del modello imitativo dell’architettura classica. L’opera d’arte moderna hanno scritto Deleuze e Guattari è un blocco di sensazioni, un insieme di percezioni e di affezioni. Le sensazioni non ci rinviano ad altri oggetti o a immagini di riferimento. Il materiale e la durata sono gli elementi che sostengono e producono tanto le percezioni che riceviamo attraverso i sensi quanto le affezioni, che non sono semplicemente soggettive e non si possono considerare pure reazioni dell’individuo nei confronti dell’opera. POSTFAZIONE 2014. Architetti senza architettura Circa dieci anni fa, il grado zero e le sue declinazioni, sembravano, delinearsi come un possibile punto di svolta, che da un lato mostrava la fine dell’epoca moderna e dall’altro si palesava come preludio verso qualcosa di differente, aperto al terzo millennio, portando con se un’inevitabile speranza per una nuova era. Con la grande crisi economica attuale, che in prima istanza è crisi culturale, si è, invece, manifestato come un declino latente e irreversibile, come una lenta consunzione sino al suo limite ultimo, di quel desiderio postmoderno (Marcuse, Lyotard, Derrida, ecc.) che voleva liberare la società dai modelli di massa e di regime, iscrivendosi a pieno titolo nell’ambito di quelle forze dell’ingovernabile che regolano gli spazi contemporanei delle nostre città e del territorio. Certo è innegabile che stiamo assistendo ad una presa di coscienza di massa dove la società così come era strutturata non riesce più a rispondere ai bisogni ed ai diritti conquistati, della maggior parte delle persone e che in questa fase di passaggio siano aumentate grandemente le disuguaglianze sociali, come dimostra un importante studio di Pickett e Wilkinson12, e che quindi sia inevitabile un cambiamento epocale che ancora tarda a realizzarsi. D’altro canto però, tutte queste istanze di rinnovamento passano per istanze distruttive e centripete, disgregando quello che è un sapere condiviso, dei valori e delle buone politiche che la società occidentale si era data. L’architettura, che sempre ha rappresentato la cultura di un popolo, ne paga le conseguenze. La produzione cultu10 R. Barthes, op. cit. I. de Solà-Morales, Mies van derRohe e il grado zero, Lotus n. 81, 1994, pp. 20-27 12 K. Pickett e R. G. Wilkinson, La misura nell’anima, Feltrinelli, Roma, 2009. 11 rale delle Università, le competenze delle professioni liberali, la capacità di critica degli intellettuali, subiscono, oggi, una grande svalutazione e ridimensionamento per poter essere riportate nell’alveo delle leggi di mercato, controllate dalle grandi multinazionali che invece non sottostanno a nessun controllo degli stati mondiali per via della deregulation e disparità globale. La cosa preoccupante è che il momento decisionale, che ha ricadute sulle popolazioni, si sta repentinamente spostando verso altri centri decisionali per lo più occultati al dibattito popolare. Le istanze popolari che venivano decodificate e portate a sistema dai liberi professionisti, autonomi pensatori della società civile, attraverso un iter strutturato nei secoli e soggetto a controllo di molteplici organi preposti ora sono considerate opera di caste chiuse. La conferma di ciò, è la nascita di tantissime associazioni civili che portano avanti battaglie per i diritti e la legalità negati dallo spostamento dei centri decisionali. Molto spesso, però, i risultati ottenuti dalle proteste portano a due differenti scenari: il primo quello nel quale si ritorna all’iter procedurale classico dove l’università, quale organo terzo o il libero professionista di chiara fama riconfigurano il procedimento decisionale con le varie competenze in questione. Mentre il secondo, è quello partecipato che mantiene sullo stesso piano varie competenze e che produce soluzioni sempre un po’ naìf , rappresentazione diretta della volontà popolare o per meglio dire del suo desiderio, con una scrittura di grado zero. Park Finction ad Amburgo in Germania, ne è uno dei più recenti risultati. Park Finction è un piccolo parco la cui realizzazione è stata sostenuta, voluta e progettata dagli abitanti del quartiere e realizzata secondo le forme di progettazione partecipata. Anche in questo caso, il risultato è discutibile sotto l’aspetto architettonico ma sicuramente apprezzabile sotto l’aspetto dei singoli abitanti, sebbene sia veramente una piccola porzione di spazio urbano nei confronti di quella grandissima operazione denominata Hafen City. Per di più, la coscienza collettiva si sta sempre più orientando verso forme dell’abitare più consapevoli, ecosostenibili ed ecocompatibili, dove la tecnologia assume un peso preponderante anche quando è low, ed è questo a mio modo di vedere l’aporia nella quale si dibatte oggi l’architettura senza architetti, l’ambivalenza inconciliabile tra le spinte populiste e la tecnologia a portata di mano. Forse, l’unica via di uscita è quella di orientarsi, in maniera strutturata, verso un’Ecologia della mente 13 come sintesi di storia, tecnica, emozioni e sostenibilità ambientale. 13 G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1977. LA PITTURA FUORI DALLA PITTURA Gabriella Galdi L’opera d’arte, di qualunque genere sia, possiede un suo statuto, un suo terreno specifico, suoi limiti, per così dire istituzionali o, comunque, comunemente condivisi, che configurano il suo campo di applicazione e la sua riconoscibilità. L’opera musicale, ad esempio, possiede una partitura che regola i suoni offrendoli all’ulteriore perimetro dell’orchestra e dell’ascolto delle note e delle armonie convenzionali; la teatrale un artificioso recinto, canovaccio, scena, un tempo anche la cosiddetta unità di azione, in cui si rappresenta la vita; la pittorica i confini della tela, o le partizioni dell’affresco e quelli della fruizione, chiesa, galleria, museo; persino la scultura non è se non riferita ad uno spazio che contribuisce ad identificare e, in un certo senso, a limitare. In pittura, tradizionalmente, ci si riferisce al “quadro”, un piano in cui sono installati colori, immagini, secondo regole che incontrano i modi visivi propri alla cultura ed alla storia cui la rappresentazione appartiene e che si offrono alla decodificazione anche in altre epoche. Con le cosiddette avanguardie artistiche, tra la fine dell’ottocento e gli inizi del novecento, l’arte e particolarmente quella pittorica, tende a mettere in crisi il proprio statuto per chiedersi sui propri modi e sul proprio ruolo e offrirsi alla vita, a rompere cioè gli stessi limiti materiali che la identificano, la tela, la cornice, la galleria, il museo. In realtà, già il barocco aspira a infrangere, con la prospettiva, il piano stesso della rappresentazione e, successivamente, come mostra Michel Foucault nella lettura de “Las Meninas”, Velasquez (e non solo lui) si interrogherà sulla relazione del dentro-fuori il quadro. Contemporaneamente alle esperienze pittoriche che succedono alla corrente dell’Impressionismo, le teorie del “purovisibilismo” affrontano il tema della percezione visiva nella pittura, intesa luogo autonomo, creativo, alieno alla riproduzione delle cose e perciò, nella sua stessa autonomia, espressione dei modi storici del vedere in cui si manifesta quanto è estraneo alla tela, se si vuole il reale, negli stessi dispositivi visivi che lo rappresentano oltre le sue stesse raffigurazioni. Una interpretazione dell’arte derivata anche dall’analisi di George Simmel sulla “forma” che, come è nel saggio sull’ansa del vaso,viene interpretata quale limite, dell’oggetto, della cosa, e dell’opera d’arte, il quale però, proprio in quanto confine, è altresì protensione verso l’esterno, verso la vita. L’intenzione dell’arte, della pittura, a venir via dal quadro è quindi posta già dalle avanguardie, con la dinamizzazione delle figure rappresentate, nel futurismo e nel cubismo, che non si installano staticamente sulla tela e, anche, con l’astrattismo o il surrealismo che invocano la relazione con la vita interiore dell’uomo. E’ Dada però, e, nella pittura, Marcel Duchamp, a rompere il confine del “quadro” con il Grande vetro: La Mariée mise à nu par sescélibalaires, meme, che è lavorato tra il 1915 ed il 1923 segnando l’uscita dell’artista e dell’esperienza pittorica dal quadro e dallo stesso dipingere. Sui sensi esoterici, simbolici ed estetici di quest’opera molto si è detto e non vale qui ripetere le tante analisi se non per dire che se la sposa è la stessa pittura (Duchamp aveva dipinto negli anni precedenti altre mariée) la sua messa a nudo corrisponde alla rarefazione, nel vetro, delle immagini che ricorrono in sue opere precedenti e che l’artista rincorre con la rappresentazione la quale, proprio nel sottrarsi pudica all’amplesso con le cose (è stato messo in luce il senso relativo alla proibizione dell’incesto che, facendo vivere il sesso come colpa , lo assimila alla morte) si concede, ama l’artista (meme, pronunciato in francese m’aime, mi ama: la sposa messa a nudo dai suoi scapoli, mi ama). La pittura non può rendere il reale e perché lo sposalizio avvenga deve essere messa a nudo, mostrare tale impossibilità, divenendo essa stessa realtà, vita, offrendosi quindi all’artista che la rende tale in un annullamento reciproco. Giocando con gli spostamenti di senso delle parole, in cui si condensano vari significati, Duchamp gioca quindi l’arte come spostamento della vita nella galleria, mediante gli Objettrouvè o Ready Made, banali oggetti d’uso che, esposti dall’artista, ricevono le stimmate artistiche. Da Duchamp l’arte, la pittura, non potrà più restare nei limiti del quadro e delle sue istituzioni sì che nelle proprie manifestazioni successive non potrà non rompere i suoi confini tradizionali, invadere lo spazio esterno ed interrogarsi, interrogando i fruitori, sul proprio statuto. Si spiegano qui i tagli di Fontana, i cracklè di Burri, le neoavanguardie degli anni ‘60-‘70, l’Arte povera, il comportamentismo, le azioni di Fluxus, persino l’arte concettu- ale che usa tautologicamente la realtà stessa dell’arte, l’arte cioè quale luogo del reale, per chiedersi e chiedere sul suo senso, la Land Art, il NewDada alla Warhol, o, più esplicitamente, gli interventi degli artisti che operano proprio sui limiti del quadro tradizionale, quelli legati alla breve esperienza di Supports-Surfaces. Il Gruppo, costituitosi nel 1969 con una mostra al Musée de la ville di Parigi, riunisce artisti che si interrogano sui componenti elementari della pittura, mettendo in questione il suo necessario rimanere sulla parete a contrarre in sé il mondo esterno, in una analisi anche teorica che sconfina in una posizione politica: l’artista, il pittore, non può che operare all’interno dei limiti pittorici e tuttavia fare in modo che questi, non operando alcuna mimesi con realtà loro esterne, materiali o mentali, perdano il senso delimitativo per porsi quali segni che aprono al mondo, significanti possibili senza i quali non si avrebbe senso. Ne fanno parte Vincent Bioulès, Louis Cane, Marc Devade, Daniel Dezeuze, Noël Dolla, Jean-Pierre Pincemin, Patrick Saytour, André Valensi, Bernard Pagès et Claude Viallat, di cui alcuni, come Marc Devade, esplicitamente rivolti ad uscire dalla pittura estendendo i propri interessi alla poesia, alla letteratura, alla filosofia, ed altri, invece, come Louis Cane, a spingere la pittura, la superfice pittorica dentro e oltre se stessa (Cane farà infatti parte successivamente del gruppo Pitturapittura) in contraddizioni tali che condurranno allo scioglimento del consorzio culturale solo tre anni dopo. Per gli artisti diSupports/Surfaces la superfice bidimensionale delle opere pittoriche, ovvero il contorno che la delimita, la cornice, o il supporto che regge la tela e la tela stessa, determinano i poli di una falsa dialettica, priva di uscite, irrigidita in ferme convenzioni che separano l’arte dal mondo. Per rompere le obbligate dicotomie che opprimono l’arte, forma-fondo, superfice-profondità, pieno-vuoto, togliendola a se stessa, alla creatività, si pone la necessità di decostruire gli elementi del quadro che le determinano. Nel manifesto della loro prima esposizione essi infatti dichiarano: “L’oggetto della pittura è la pittura stessa e i quadri esposti non si rapportano che a sé stessi. Essi non fanno appello a un ‘altrove’ (la personalità dell’artista, la sua biografia, la storia dell’arte, per esempio), né offrono punti di fuga, perché le loro superfici, attraverso la rottura delle forme e dei colori operata, interdicono le proiezioni mentali o le divagazioni oniriche dello spettatore. La pittura è un fatto a sé stante ed è sul suo terreno che bisogna porre i problemi. Non si tratta di un ritorno all’origine né della ricerca di una purezza originaria, ma della semplice messa a nudo degli elementi pittorici che costituiscono il fatto pittorico. Di qui la neutralità delle opere presentate, la loro assenza di lirismo e di profondità espressiva”. Sfuggendo la tradizione pittorica occidentale che opera sulla dipendenza del segno dal reale, e guardando alle calligrafie orientali che, nella libertà delle proprie, autonome, configurazioni, aliene ad una chiusa relazione tra segno e significato, segno e cosa, trovano in sé possibili corrispondenze con ciò di cui dicono, i pittori del gruppo operano per ideogrammi, nel senso che le loro opere non si costruiscono all’interno dello spazio del quadro a sua volta nello spazio esterno, né perimetrano con i propri segni spazi, ma lasciano che questi si rapportino uno all’altro in un intino colloquio sì che forma e spazio, vuoto e pieno si configurino reciprocamente. Si infrangono quindi i limiti della cornice, della tela, del supporto e, oltre la pittura, le stesse circoscrizioni spaziali, così come è in Filet, di Claude Viallat, una griglia che ricorda le quadrettature con cui l’Alberti allestiva le prospettive e che, fatta materialmente di fili, viene lasciata fluttuare nello spazio appesa a due supporti, tale da determinare spazi sfuggendo il proprio piano. Considerando poi che la griglia prospettica aveva la logica conclusione nella cornice che delimitava l’area del punto di vista, Filet elimina anche la cornice offrendo la possibilità allo sguardo di estendersi oltre i suoi limiti, teoricamente all’infinito. Non solo, ma la rete appesa nel vuoto non ha un fronte e un retro, come accade ai quadri, annullando altresì sia l’alto/basso, il destra/sinistra, che anche il dentro/fuori. Il senza-cornice, il senza-linite, allude naturalmente anche allo sconfinamento dell’arte nel mondo cui condurre il proprio grado estetico. E l’interrogazione sui limiti della pittura quale modo di porre limiti al mondo, o di aderire ai limiti con cui si inquadra nelle convenzioni il reale, è posta anche da Daniel Dezeuze il quale presenta opere che destrutturano la struttura stessa del quadro al fine di far emergere gli strumenti che ne determinano nascosti la costrizione a rappresentare. Di qui l’estroversione del telaio, come nell’opera Châssis, o la sconnessione della cornice, con la messa in mostra di oggetti in termini casuali nella galleria, dal momento che essi, secondo l’artista, impediscono la protensione della forma verso l’esterno analizzata da Simmel. Ed anzi il telaio, perduta la tela perde persino il suo ruolo di supporto, per divenire esso stesso trama senza spessore, mobile, oltre ogni possibile fissazione del piano del quadro con le sue figure, come è nella serie delle Échelles, flessibili griglie colorate che appuntate alla parete si srotolano sul pavimento. La traduzione del telaio in una trama flessuosa che, sfuggendo il piano, non si riferisce neppure ad uno spazio, e che anzi essa contribuisce a formare mantenendolo nella propria mobilità e, pertanto, in una vuota disponibilità, conduce all’analisi della relazione tra il supporto più prossimo della pittura e, indefinitiva, tra la pittura stessa, e lemateriali stesure di colore. I due estremi di tale azione sulla tela-colore sono costituiti da Louis Cane e Marc Devade. Entrambi operano con il colore, ma, mentre Cane tende a fare delle stesse textures colorate le possibili trame della tela rivelando quasi materialmente il supporto e, materialisticamente, il lavoro del pittore, Devade stende in trasparenza i colori rendendoli liquidi ad annullareliquefare la stessa tela e, quasi, a scorrere oltre il suo limite. Non a caso MarcelinPleynet ha parlato a proposito delle loro opere di “grado zero” della pittura, di una pittura cioè che annulli, mostrandolo, ogni proprio parergon, per dirla con Derrida, non solo cioè ogni rappresentazione o possibile significato, quanto ogni sovrapposizione posticcia al suo essere strettamente pittura, sino ad “astrarsi” quasi da se stessa, in una paradossale collisione-implosione tra l’azione materiale del dipingere, alla Pollock, e la più fredda astrazione, alla Mondrian, in una modalità che tende a far uscire la pittura fuori di sé restando nella pittura onde alludere alla necessità di venir via dalle costrizioni che pure determinano la vita, rimanendo nella vita. RECINTARE Maria Luna Nobile L’insieme di figure che compongono la città contemporanea restituiscono un’immagine complessa, talvolta stratificata, talvolta fatta di elementi accostati uno all’altro, risultato dell’interazione tra uomo e ambiente, tra artificio e natura. Una delle operazioni del progetto urbano è “riconoscere” i materiali di cui la città è composta. Riconoscere per ricostruire. La città contemporanea dominata dalla frammentarietà e dal disordine, caotica e densa, è spesso oggetto di interventi che non tentano minimamente di “leggere” e tantomeno di interpretarne la natura urbana. Parlare di città contemporanea, in relazione al tema dei recinti urbani, significa parlare di città in dismissione, città dispersa, ma anche di città stratificata, in cui la ricerca delle figure di cui è composta, non è altro che un continuo ritornare alla memoria, portare alla luce il significato sotteso, lavorando sull’immaginazione, “è la città vista come casa della memoria, dentro cui tornano le immagini di una vita precedente associate a una speranza sconosciuta, nell’imminenza di una rivelazione”1. In questa città, tra i tanti materiali scomposti, illeggibili e frammentati, una riflessione sul progetto non può non tenere conto di quei recinti, muri, barriere, recinzioni, elementi di separazione dalla multiforme natura che restituiscono un’idea di inaccessibilità, di separazione. In questi luoghi si avverte la necessità di soffermarsi a ragionare sulla nozione tradizionale di “recinto”, o meglio la nozione “architettonica” di recinto, che in questo caso non sempre riesce a connotare questa condizione urbana: gli elementi che “recingono” sono molto spesso “privi di qualità” e la logica del loro “recingere” è a volte indifferente agli oggetti che vengono recintati. A volte, invece si tratta solo di elementi che in apparenza sembrano privi di qualità che ma che hanno una propria ragione di essere, un proprio carattere. A valle di queste considerazioni la ricerca oggetto di questo scritto pone al centro una questione: il recinto può essere considerato tra i “materiali” della composizione urbana? Cosa intendiamo quando parliamo di recinto come “materiale” della composizione urbana? Ragionare sui recinti nella città contemporanea, significa innanzitutto soffermarsi sul tipo di definizione di tale elemento, analizzando i molteplici significati. La nozione di recinto presa in considerazione è quella di elemento che delimita uno spazio separando l’esterno dall’interno, dialogando in maniera diversa con l’uno e con l’altro e mettendoli in relazione tra loro. Recintare/Delimitare Molte definizioni di recinto usano, più che il sostantivo, il verbo “recintare”, in quanto si pensa al recinto non solo come elemento fisico geometricamente definito, ma come atto del delimitare.“Recintare è l’atto insieme di riconoscimento ed appropriazione collettiva di una porzione di terreno o spazio fisico; è l’atto della sua delimitazione e separazione dal resto del mondo-natura. […] il recinto è la forma della cosa, il modo con cui essa si presenta al mondo esterno, con cui essa si rivela.”2 Con questa definizione Vittorio Gregotti, introduce l’editoriale del primo numero della rivista «Rassegna», Recinti. Lo spazio in seguito alla relazione che stabilisce con l’atto del recintare, con il recinto, assume delle caratteristiche tali da essere reso un “interno”. Inoltre interno e esterno sono considerati in quanto regioni topologiche, immaginarie, geometriche e tecniche, entrambi allo stesso modo in relazione col recinto stesso, che rappresenta il confine tra essi. Questa relazione che l’elemento stabilisce con lo spazio recintato è legata alle caratteristiche del luogo specifico in cui è inserito, determinando la forma dell’elemento stesso che in questo modo si rivela al mondo esterno. Il recinto,in quanto costruzione di un luogo, determina il carattere dello spazio contenuto e di conseguenza dello spazio che lo circonda, di notevole interesse, a tal proposito, sono gli studi di Gianugo Polesello, in cui il recinto diviene sistema misuratore di potenziali relazioni tra parti diverse della composizione urbana.3 1. L’idea di recinto: Recingere/ Costruire un luogo/Dimorare Una prima considerazione sul recinto parte dall’analisi del termine in relazione al significato che assume nell’ambito della disciplina architettonica e degli studi precedentemente affrontati sul tema. L’idea di recinto è da sempre legata all’idea di appropriazione di uno spazio e dunque dell’”abitare”. In questo senso non si può parlare di recinto se non si prende i considerazione l’azione antropica di individuazione di un luogo e “artificializzazione” dello stesso. Il recintare in quanto atto fondativo per eccellenza, è il primo gesto di appropriazione dello spa1 C. Piscopo, La città macchina desiderante, Officina Edizioni, Roma, 2012, pp. 34-35. “Esso fonda le due regioni topologiche, immaginarie, geometriche, tecniche, di esterno e di interno, pone il problema della costituzione mentale o fisica del limite, del confine e della sua violazione. Atto di architettura per eccellenza il recinto è ciò che stabilisce un rapporto specifico con un luogo specifico” V. Gregotti, editoriale in «Rassegna» n. 1 (Recinti), 1979. 3 M. L. Nobile, voce “recinto”, in A. De Poli, a cura di, ARCHITETTURA enciclopedia dell’architettura vol. 3, Motta - Il Sole 24 Ore, 2008 . 2 zio da parte dell’uomo. “Recingere è da sempre un atto fondativo; un luogo di culto, una città, si fondano recintandoli, proteggendoli verso l’esterno”4.Il luogo è abitato quando è recintato, lo spazio acquista misura, perde la sua definizione di “informe”. E’ il gesto che manifesta la fondazione di un luogo, di una città, ma anche del semplice abitare.“Abitare significa avere un luogo in cui stare; il rapporto con il luogo è perciò il momento principale di definizione, sul piano storico, delle diverse forme dell’abitazione. Ma il luogo è tale se è recinto, per cui la casa può essere definita come possibilità di un recinto di isolare, costruendo, un luogo individuale.”5 Il recinto come materiale della composizione della città, diviene elemento di misura e dunque di relazione tra parti diverse, tra vuoti, luoghi, spazi abitati o che sono stati abitati. Qualunque sia la funzione di questi vuoti, ci si sofferma sull’idea della separazione tra questi (un vuoto esterno ed un vuoto interno). Una delle caratteristiche principali del recintare è quella del separare un luogo (vuoto interno, contenuto) da un altro luogo (vuoto esterno, altro): “essere separato significa dimorare da qualche parte. La separazione si produce positivamente nella localizzazione”6.In questa accezione il termine recinto assume il significato in architettura di “fare luogo”. Per Lèvinas“ non siamo ‘gettati’ in questo mondo, ma siamo noi la dimora dalla quale si parte e alla quale si ritorna. Il dimorare è una posizione di partenza, quella dell’interiorità e si produce perché il nostro vivere interno è ‘vivere di …’, ha bisogno di esteriorità e si soddisfa di essa o ne sente la mancanza”6. In questo senso il recinto è ciò che mette in relazione interno ed esterno, in una relazione di reciproca dipendenza. 2. Definizioni di recinto: forma/materiale/luogo/composizione A partire dalle relazioni spaziali che si producono tra il vuoto che il recinto contiene e quello in cui è contenuto, non ci si può non soffermare sul ruolo che, in questa relazione, i recinti giocano come elementi solidali e come elementi a loro volta composti da pezzi e parti, nell’interesse verso l’elemento unitario, composito e riconoscibile, che delimita uno spazio e che ha una forma determinata non solo dall’elemento contenuto (che quindi si presenta come un “offset” di questo) ma anche da una relazione con lo spazio che sta all’esterno dell’elemento stesso. Il recinto è ciò che recinge e che separa uno spazio vuoto da un altro vuoto. Molte ricerche e studi sul tema hanno approfondito soprattutto la definizione di recinto come archetipo, come elemento regolare che individua uno spazio “da abitare” e lo rende interno, separandolo dall’ “informe” esterno. L’intento del recinto è di dare forma alla porzione di territorio che racchiude, delimita. Fino a oggi sfogliando i dizionari e le ricerche sul tema, si definisce “recinto” uno spazio chiuso da un muro o comunque da un elemento che impedisce qualsiasi forma di relazione tra interno e esterno, proprio perché stabilisce una separazione netta tra lo spazio al di fuori (esterno) e gli oggetti contenuti (interno). “Far architettura è essenzialmente far recinti. Il significato essenziale dell’architettura sta forse nel suo essere recinto, nel costruire un ambito di spazio controllato separando un interno da un esterno tramite un muro. L’idea archetipica di recinto assume un ruolo fondamentale nella riflessione teorica contemporanea: è, potremmo dire, l’altra faccia della riflessione settecentesca sulla capanna originaria. Sicuramente è nell’architettura delle origini che questo senso dell’essere dell’architettura in sé trova le sue più evidenti espressioni. In certi monumenti neolitici, nei giardini cintati, nelle case a corte, nei recinti egiziani e mesopotamici.”7 Giovanni Di Domenico esamina l’idea di recinto come atto primario dell’architettura: attraverso elementi di architettura preistorica, di archetipi quali il tempio, il giardino, la casa, si arriva alle opere di architetti moderni quali Mies Van Der Rohe e Barragàn8 che più rappresentano l’idea di recinto. Si tratta in ogni caso di un recinto inteso nel senso archetipico del termine, in quanto sempre relativo alla disposizione dell’elemento in relazione allo spazio interno. Questo recinto impone la sua forma al territorio circostante. “Tutto ha inizio, se così si può dire, da un’idea semplice e astratta: il cerchio circoscritto alla croce. Immagine archetipica e generale dell’organizzazione centrata e radiale, questa figura è quella, tra i geroglifici egiziani, che indica la città. […] Questa stessa idea la troviamo in epoca rinascimentale: la «città ideale» risponde a questi criteri di organizzazione. Al centro c’è in questo caso il palazzo del «Signore» e viene cosi soppiantata la forma della città comunale. Il grande sviluppo delle armi da fuoco fa il resto per quanto riguarda la cinta muraria: il paradigma del cerchio e la croce viene ad essere riaffermato.”9 L’archetipo, l’idea di centro, la forma geometrica pura, regolare, la posizione degli elementi, la distanza tra gli elementi contenuti e il perimetro. Sono tutte immagini a cui l’idea di recinto classica rimanda. 4 A. Aymonino e V. P. Mosco, a cura di, Spazi pubblici contemporanei. Architettura a volume zero, Skira, 2006. A. Renna, L’illusione e i cristalli, CLEAR, Roma, 1980, p. 54. 6 E. Lèvinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, 1990 ripreso da Franco La Cecla in F. La Cecla, Mente Locale. Per un'antropologia dell'abitare, Eleuthera, 1995. 7 G. Di Domenico, L’idea di Recinto. Il recinto come essenza e forma primaria dell’architettura, Officina, Roma, 1998, p. 9. 8 Lo stesso Barragàn nei suoi progetti richiama al giardino sacro e quindi al recinto come elemento indispensabile dell’abitare, del fare architettura. In particolare il recinto è l’elemento che mette in relazione la natura e l’azione dell’uomo: “Penso con amore ai bei giardini orientali che formano recinti incantevoli, che valorizzano gli spazi e trasformano la natura in una vera casa.” New York, 1983. 9 Cfr. “L’archetipo”, in Rassegna n. 1 (Recinti), 1979. p. 9. 5 Ma ogni volta che siamo dall’altro lato del muro, siamo di fronte a un recinto? In questa ricerca si pensa al recinto come declinazione del verbo recintare, come spazio recintato, delimitato. Si può definire recinto solo l’elemento ordinatore, geometrico, il tempio, la fortezza, la villa, in cui è possibile trovare un’idea di simmetria, un centro e un’asse? Sono queste le caratteristiche che rendono uno spazio recintato, delimitato, interno? E’ la forma geometrica regolare a stabilire dei rapporti di misura e distanza che determinano la definizione di recinto? Partendo delle definizioni tratte non solo da dizionari, ma anche da studi e progetti di architettura la ricerca mira a dimostrare che il termine recinto può essere indicativo di una serie di spazi che pur non essendo apparentemente geometricamente definiti in modo regolare, hanno la caratteristica di vuoto “interno” separato dal vuoto ”esterno”, dunque di spazio recintato/delimitato. Ci soffermiamo sulla relazione esistente tra area, determinata da misura e posizione degli elementi contenuti, e spazio interno; e su quella tra perimetro, elemento che definisce la forma della cosa, e spazio esterno. L’esempio della fabbrica, dell’insediamento industriale è molto utile ai fini di questa dimostrazione. Di fatto le industrie vengono costruite sulla base di regole interne molto ben definite. La posizione degli elementi, degli accessi, la relazione tra elemento che delimita, il recinto industriale, elemento contenuto, l’organismo della fabbrica, è fondamentale nel progetto di questo tipo di costruzione. Sebbene la forma non sempre sia rispondente ai canoni di simmetria e il recinto non sempre si presenti come un “offset”10 dell’elemento contenuto, e non sia sempre un elemento unitario, è possibile riconoscere all’interno di questi insediamenti delle relazioni precise di misura, distanza e posizione tra elementi contenuti e elemento che delimita. Per questo motivo è possibile riconoscere delle precise caratteristiche che qualificano lo “spazio del recinto”, in quanto spazio recintato. Recinto/Recinzione Molto spesso, soprattutto nel caso del recinto di fabbrica, la relazione area-perimetro non è ben chiara, oppure gli elementi che delimitano l’area subiscono modificazioni non sempre rispondenti alle caratteristiche dello spazio interno e alle relazioni tra gli elementi del progetto. In primo luogo occorre fare una distinzione tra il termine “recinto” e il termine “recinzione” in architettura. Nei casi in cui lo spazio delimitato non ha alcun tipo di carattere e non risponde alle qualità (centralità, misura, distanza, posizione) che definiscono l’idea di recinto, si può parlare di recinzione. Si intende per “recinto” un elemento che rimanda a un’idea di spazio, quindi si definisce “recinto” un’area contraddistinta da determinate caratteristiche spaziali. Il termine “recinzione”, al contrario, indica semplicemente l’elemento fisico che serve ad individuare uno spazio, è ciò che sta intorno all’area, che la delimita, il suo perimetro. Nel caso della recinzione questo perimetro non ha nessuna relazione con ciò che è contenuto, né con gli elementi esterni alla recinzione stessa. Il termine recinzione oggi assume un significato legato all’idea di elemento che serve a delimitare uno spazio in modo del tutto casuale; la recinzione di solito è fatta di elementi non fissi, più soggetti alle variazioni del tempo, in quanto le modificazioni sono determinate non da logiche spaziali ma di tipo meramente funzionale, ma con ciò non è detto che di fronte a ogni spazio non geometricamente definito possiamo parlare di recinzione. Come abbiamo appena detto, a differenza della recinzione, il termine recinto indica un elemento che delimita una porzione di territorio, stabilendo determinate caratteristiche di qualità dello spazio. Queste caratteristiche possono dipendere esclusivamente dalla posizione degli elementi all’interno di questo spazio, oppure possono essere determinate dalla posizione di elementi all’esterno di essi. Per questo motivo la forma del recinto può essere o meno geometrica e regolare a seconda dello spazio che è recintato e della posizione degli elementi all’interno e all’esterno di esso.“Procediamo dall’esterno verso l’interno, Per prima cosa viene la recinzione, carattere fondamentale dello spazio urbano del Medioevo. La città è definita da una cinta che ne fa uno spazio chiuso e limitato. Le mura materializzano la singolarità e l’unità della città che essa oppone alla campagna circostante.”11 Il caso della cinta muraria della città del Medioevo è uno dei casi in cui il recinto non ha una forma regolare e definita come le fortezze o le città ideali del seicento, ma al pari delle città greche ha un andamento che si adatta più alle condizioni esterne, morfologiche fisiche del territorio, o semplicemente strategiche (le mura servivano alle città anche per proteggersi e quindi per costruire intorno un territorio sfavorevole al nemico). Se consideriamo quindi il recinto come elemento che recinge e delimita dobbiamo soffermare la nostra attenzione sulla relazione che questo elemento determina con lo spazio interno, esterno e con gli elementi che contiene o esclude. 10 La parola “offset” è presa in prestito dai programmi di disegno CAD, in cui il termine è riferito a un comando che permette di ripetere la stessa forma all’esterno o all’interno di un perimetro dato, ad una certa distanza definita dall’utente. Letteralmente “portare fuori”, nel nostro caso è riferito all’idea di archetipo del recinto come ripetizione della stessa forma dell’elemento che si vuole recintare, lo spazio vuoto tra elemento contenuto e recinto è la distanza da noi definita. Ad esempio una villa posta al centro, circondata da un giardino recintato, in cui lo spazio tra edificio costruito e recinto è rappresentato dal giardino che determina la distanza. 11 Si definisce recinzione una “Delimitazione di uno spazio aperto, di solito lungo un confine di proprietà. Tramite un elemento in elevazione artificiale o naturale. Le recinzioni artificiali più diffuse sono i muri, le reti metalliche, le palizzate, le lamiere. Quelle naturali consistono nella piantumazione di siepi spesso abbinate a quelle artificiali.” Tratto da: voce “recinzione”, in A. De Poli, a cura di, ARCHITETTURA enciclopedia dell’architettura vol. 3, Motta Architettura - Il Sole 24 Ore, 2008. Leon Battista Alberti nel primo libro del “De Re Edificatoria” elenca le cose di cui è composta l’arte di edificare. Tra queste cose il muro: e il muro non è solo quell’elemento di chiusura degli edifici che separa lo spazio interno della casa dall’esterno, ma è anche quello che recinge il vuoto che sta intorno all’edificio. “Muro chiamiamo noi ogni muraglia, che movendosi da terra si alza in alto a reggere il peso delle coperture, e quella muraglia ancora che è tirata intorno all’edificio per recingere il voto di quello.”12 In queste parole emergono diversi concetti: il recinto come “elemento che recinge” (perimetro), l’idea dello “spazio recintato” (area) e dell’“elemento contenuto” in quello spazio vuoto, che di conseguenza induce a un ragionamento sulla “posizione” dell’elemento nel vuoto che determina la forma del recinto, e al tempo stesso della forma e della posizione del perimetro rispetto al vuoto esterno, quella Regione di cui ci parla Alberti che nel caso della città compatta, e anche della città industriale, perde il suo carattere di luogo “aperto” per riempirsi di materiali urbani più o meno composti. 1. Definizioni di recinto: recinti industriali e operazioni di composizione Il “recinto industriale” ha una particolarità in più rispetto all’idea di “recinto” come atto sacro di appropriazione di una parte di territorio da parte dell’uomo che decide di abitarlo. Nel recinto industriale la relazione tra spazio recintato (area) e elemento che recinge (perimetro) è originariamente legata a delle precise regole di posizione e funzionamento interno, sia per quanto riguarda le funzioni legate alla produzione, sia per quanto riguarda la relazione tra percorsi interni, esterni e accessi. Queste caratteristiche rendono il recinto elemento che infrastruttura l’intero territorio circostante imponendo le sue regole anche all’esterno. La definizione di recinto industriale non è tanto legata a una forma che abbia una geometria precisa, ma piuttosto alla disposizione di alcuni elementi rispetto a una spazialità interna che funziona in maniera autonoma rispetto al resto. Proprio per questo motivo i recinti industriali non sono affatto tutti uguali, e le loro variazioni dipendono da un lato dalla loro specifica funzione, dall’altro dal tempo in cui sono stati edificati, e dalla storia delle aggiunte, delle sottrazioni, delle modificazioni, cui sono stati sottoposti e proprio il recinto è l’elemento che risente di più delle modificazioni, si deforma si interrompe, se ne cambiano i materiali. A questa multiforme varietà ci si trova di fronte quando il fenomeno della dismissione si produce, quando la vita e il funzionamento delle fabbriche si interrompono e si perdono quelle relazioni funzionali che tengono insieme gli elementi che compongono gli insediamenti industriali e il recinto. Molto spesso ci troviamo di fronte a delle enormi aree dismesse in cui parti di edifici ed elementi non più produttivi vengono smontati o riutilizzati, in virtù di una modificazione e riutilizzo dello spazio interno all’insediamento industriale stesso. In questi casi non bisogna dimenticare che, la dismissione interessa aree in cui è presente una moltitudine di piccoli insediamenti, tutti diversamente “recintati”, diversi per forma e relazioni interne ed esterne: il recinto stesso assume differenti consistenze, è fatto di parti, pezzi, elementi variabili per materiali, geometrie, funzioni, e soprattutto è differentemente “rappresentativo”. L’area a cui si fa riferimento per dimostrare la tesi del recinto come materiale urbano, corrisponde all’area delimitata a nord dalla piazza della stazione FS di Piazza Garibaldi e dal fascio dei binari della linea NapoliSalerno, a est da Via Traccia, a sud da Via Marina e dal confine/barriera del porto di Napoli, e a ovest dal corso Lucci e dal nucleo storico di Sant’Anna alle Paludi. Questo luogo più di altri è rappresentativo della possibilità di individuare all’interno di una città una sua parte caratterizzata dalla presenza di elementi di delimitazione, recinti in gran parte industriali. La natura di questi recinti rende la parte solidale, da ripensare quindi nella sua unitarietà e tenendo conto del fatto che è proprio la parcellizzazione delle diverse aree delimitate dall’elemento recinto a renderla unica. L’area individuata è caratterizzata dalla presenza di un mosaico di recinti. “Le aree industriali si mostrano nel loro insieme dentro la città storica con una loro compattezza, con una loro logica di distribuzione e quindi invitano a un progetto complessivo […] Non è soltanto un fatto quantitativo di dimensione, è anche un po’ come Pirenne sostiene, un fatto geografico. Ci sono dei fattori che fanno si che il sistema industriale abbia sovente una sua configurazione d’assieme una sua configurazione unitaria, appunto una logica geografica […] L’industria si costruisce secondo una logica differente, come ad esempio quella del recinto. Un suolo è delimitato: gli edifici si dispongono lungo il confine e costituiscono un ordine formale. Questo diventa un principio di trasformazione o di reinvenzione possibile dell’insediamento. Il recinto diventa cittadella. Dovremmo essere capaci di leggere questa vocazione delle fabbriche dentro la città e poi saper leggere il loro disegno d’assieme, la loro 12 “Tutta l’arte di edificare consiste in sei cose le quali sono queste: La Regione, Il Sito, lo Scompartimento, le Mura, le Coperture e i Vani. La Regione sarà un ampio e aperto luogo per tutto, Una parte della quale sarà il Sito. Ma il Sito sarà un certo spatio determinato del luogo, il quale sarà cinto intorno di muro a uso e a utilità. Lo Scompartimento è quello che divisa tutto il sito dell’edificio in parti minori, la onde avviene che di così fatte e adatte membra insieme, pare che l’edificio sia di minori edifici ripieno. Muro chiamiamo noi ogni muraglia, che movendosi da terra si alza in alto a reggere il peso delle coperture, e quella muraglia ancora che è tirata intorno all’edificio per recingere il voto di quello.” L. B. Alberti, De Re Aedificatoria, libro I, in R. De Fusco, Il codice dell’architettura. Antologia di trattatisti, Liguori, 2003. solidarietà, il loro proporsi a progettare.”13Da questo ragionamento sulla natura dei recinti industriali deriva la necessità di ragionare sulle definizioni dei tipi diversi di recinto che compongono l’area. Recinto come area, che delimita uno spazio interno imponendo la sua “forma” allo spazio circostante, e il recinto come perimetro, che delimita uno spazio residuale, e che assume quindi una forma determinata da fattori esterni, più che interni, all’area delimitata. Recinto capanna e Recinto fortezza. Archetipi di riferimento: la capanna di Le Corbusier e forte Belvedere A valle del ragionamento sulla composizione e dell’esperienza intuitiva sull’area progetto, si ritorna alla teoria, provando a definire, in base agli studi sulle definizioni del recinto come elemento architettonico, dei tipi. Si arriva alle due definizioni di recinto, due archetipi che corrispondono a due diversi modi di “fare recinto”: recinto “capanna” e “fortezza”. Queste due definizioni servono a chiarire il metodo utilizzato per la lettura dell’area oggetto della ricerca. 1. Il Recinto capanna (area) Si intende per “recinto capanna” un tipo di insediamento che ha una forma determinata dalla disposizione degli elementi contenuti all’interno. Gli insediamenti industriali hanno quasi sempre delle regole di funzionamento dello spazio interno, per cui lo spazio si organizza in base alla posizione di alcuni elementi e dei percorsi tra questi. Gli accessi sono determinati in base alla relazione degli elementi con l’esterno. Non a caso la “nascita fatale dell’architettura”, ne rappresenta una delle più appropriate immagini di riferimento. L’uomo decide di insediarsi in un territorio, viene scelta una porzione di questo e si procede all’operazione di bonifica del suolo. Il territorio viene reso abitabile, a questo punto c’è bisogno delle infrastrutture necessarie a collegare l’insediamento con il resto della città. L’insediamento è costituito da parti differenti che composte insieme restituiscono un’immagine di cittadella, si dispongono i vari edifici principali e gli elementi che servono al funzionamento della fabbrica, gli elementi sono collegati da percorsi interni, e si definiscono gli accessi. All’origine della civiltà e antico quanto l’uomo, Le Corbusier identifica l’atto del recintare attraverso tre operazioni di dominio: il “picchettaggio della capanna”, l’individuazione del centro, la creazione del percorso come collegamento tra interno e esterno.“L’uomo primitivo ha fermato il carro, decide che qui sarà il suo posto. Sceglie una radura, abbatte gli alberi troppo vicini, spiana il terreno all’intorno; apre il cammino che lo collegherà al fiume o a quelli della tribù appena lasciata; pianta i picchetti che fisseranno la tenda. La circonda con una palizzata in cui ricava una porta. La porta della capanna si apre sull’asse del recinto e la porta del recinto sta di fronte alla porta della capanna.”14 Metafora, nel mondo arabo, di una natura salvata, sottratta all’ostilità del deserto, il recinto descrive l’atto originario dell’edificazione della casa antica intorno all’altare degli dei della famiglia.“Dopo aver posto obliquamente la stiva, in modo che la terra smossa cadesse all’interno del recinto […] Tracciato il solco e individuato uno spazio con una dimensione finita, questo viene svuotato, pulito. Il campo per trovare una sua possibile esistenza deve essere vuoto, libero; tutto ciò che contiene deve essere espulso, portato all’esterno oltre il limite segnato dal solco. Le pietre vengono tolte dal terreno e poste al bordo del campo a segnarne il confine. Con quelle stesse pietre si può costruire sovrapponendole una sull’altra a secco, il muro che cinge e difende lo spazio appena liberato, che gli da una forma certa, il segno concreto della sua esistenza, del suo tirarsi fuori dal nulla.”15 L’uomo sceglie il luogo adatto all’abitare dalla radura e lo rende proprio, lo rende un interno prendendosene cura e stabilendo quale dovrà essere la relazione tra l’elemento che costruirà al suo interno, la capanna, la casa, il suo recinto e lo spazio vuoto che sta tra le cose, indicando qual è il modo per mettere in comunicazione questo spazio interno con l’esterno, indicando un accesso e quindi stabilendo così dei rapporti di posizione, direzione, misura. “Il primo che avendo recintato un terreno o un campo, si preoccupò di escludere tutto ciò che in esso si trovava fu il vero fondatore dell’era storica seguente.”16 2. Recinto/AREA Un rimando immediato tra la definizione di recinto come area, in merito alla composizione, può essere l’opera Untitled N. 24 di Rothko.In questa opera (carattere riconoscibile in molte delle opere successive di Marc Rothko) sia le forme che i bordi riconoscibili sono imprecisi e tormentati, i colori, indefiniti. Linee e i contorni sono sostanzialmente assenti, il colore predomina sul disegno. Le masse che compongono il quadro e che si appoggiano sullo sfondo (o dentro) tendono a non sovrapporsi mai, rispettando una logica di posizionamento ben precisa. Nell’opera di Rothko le presenze complesse, sono articolate al loro interno da modulazioni cromatiche e diffe13 D. Vitale, Le pietre d’attesa, in “La trasformazione delle aree dismesse nella esperienza europea”, Bollettino del Dipartimento di Progettazione Urbana Argomenti 2 1996 (atti del convegno), p. 39. 14 Le Corbusier, Verso un’architettura, prima edizione 1923, Longanesi Milano, 1973, p. 53. 15 P. Zanini, I significati del confine, Bruno Mondadori editore, Milano, 2000. pp. 6-7. 16 M. Serres, Le origini della geometria, Feltrinelli, Milano, 1994. p. 41. renziate in base agli effetti di volumetria, evocando al rapporto più legato alla definizione di un area interna che con il bordo o con il limite esterno17. La definizione di recinto come area, è legata dunque al concetto di interno/contenuto. Il rimando agli studi di Kandinsky è inevitabile.“Il concetto di elemento può essere interpretato in due diverse maniere: come concetto esterno e come concetto interno. Dall’esterno ogni singola forma disegnata o dipinta è un elemento. Dall’interno, l’elemento non è quella forma stessa, ma la tensione interna che vive in essa.”18 Per Franco Purini, il recinto introduce i concetti di misura, distanza e posizione, “rivelandosi come un sistema spaziale capace di instaurare rapporti significativi tra elementi di confine ed elementi contenuti”. Risulta illuminante il ragionamento sul rapporto tra Piazza San Marco e la Piazzetta, in cui è fondamentale la posizione degli elementi all’interno dello spazio e i rapporti di misura19 che si vengono a determinare tra gli stessi: “Recinti reali e recinti virtuali, alcuni materializzati da una cinta muraria, o da quinte di edifici, come avviene in molte piazze, atri invece costituiti da tracce invisibili o discontinue, avvertite inconsciamente in quanto delimitazioni implicite che individuano zone particolari, recinti immateriali. Osservando la strutturazione del sistema formato da piazza San Marco e dalla Piazzetta a Venezia si può verificare facilmente. Gli oggetti architettonici sono nello spazio e contengono uno spazio. Lo spazio interno è circoscritto e quindi finito e misurabile, quello esterno è indeterminato e infinito, pura estensione incommensurabile”20 3. Il Recinto fortezza (perimetro) Si intende per “recinto fortezza” un tipo di insediamento che ha una forma determinata dalla disposizione degli elementi all’esterno di esso. Ci sono degli insediamenti industriali che nascono su porzioni di territorio già caratterizzato dalla presenza di alcuni elementi: questi inevitabilmente determinano una condizione di adeguamento alle preesistenze. Molto spesso la forma dello spazio che viene delimitato, deve adeguarsi alle caratteristiche morfologiche del territorio nel quale si inserisce; spesso dipende da caratteristiche geografiche o, come in questo caso, dalla presenza di alcuni tracciati principali ed elementi primari o “recinti capanna”. La definizione di “recinto fortezza”, così come inteso da questa ricerca, rimanda all’idea delle mura della città greca o medioevale, che in quanto strumento di difesa devono necessariamente adattarsi alle regole imposte dalla geografia, dal suolo e inoltre garantire un territorio sfavorevole al nemico che viene dall’esterno. Un esempio di fortezza la cui forma si adatta alla morfologia del territorio, è il Forte Belvedere di Firenze, le mura perimetrali della fortezza si adattano alla collina su cui giace, determinandone la particolare figura.“Ciò che si perde nella pratica della fortificazione è l’idea che il recinto sia strumento di definizione e organizzazione dell’interno più che dell’esterno; si mostra, al contrario, che interno ed esterno sono complementari. Il recinto di difesa organizza per il nemico un territorio sfavorevole. Nel momento dell’adattamento dell’archetipo ad un’intricata configurazione della città sono comunque, più in generale, l’insediamento umano e la sua geometria a fare i conti con uno spazio-tempo tutt’altro che ideale.”21 4. Recinto/PERIMETRO Il concetto di recinto come “perimetro” risulta bene espresso dall’opera di Bruce Nauman, “Dance or Exercise on the perimeter of a square”, contenuta nella mostra monografica “Make me Think Me” che ‘artista ha tenuto al Museo MADRE nel 2006. “Dance or Exercise on the perimeter of a square” è un video che Nauman ha prodotto nel suo studio tra il 1967 e il 1968. Come molte delle sue opere l’artista ragiona sulla relazione tra corpo e percezione, tra forma e senso, e descrive attraverso il “camminare” intorno al quadrato regolare (individuato sul pavimento come perimetro attraverso un segno). L’azione del camminare si manifesta in un primo momento con il passare da un angolo all’altro del quadrato e mano a mano diventa sempre più ritmica e metodica, al ritmo di un metronomo. L’uomo si rivolge all’interno e all’esterno del quadrato ad intervalli alterni. Si tratta di una sperimentazione sul concetto di limite, o meglio di delimitazione di uno spazio,legato all’azione umana del delimitare. Il limite è inteso in questo senso come perimetro, la misura dei passi che riprende la misura del quadrato non è casuale. Un esercizio in cui il corpo si relaziona con lo spazio attraverso la definizione di una misura e di una operazione precisa. “In quale maniera passiamo dalla materia informe ad una forma piena di significato? Il formare avviene nel modo del circoscrivere, come un includere e un escludere rispetto a un limite. […] Le figure architettoniche istituiscono recinti, definiscono il rapporto interno - esterno , sono il limite e la crosta. Possiamo definire il concetto attraverso il recinto? Il concetto chiesa (luogo sacro), banca (luogo dello scambio), scuola (luogo della 17 Si fa riferimento all’articolo di A. Catellani, Variazioni semiotiche intorno ad Untitled N. 24 di Mark Rothko, pubblicato dalla rivista «Ocula», Occhio semiotico sui media nel n. 5 dal tema “Spazio e Spazialità” Settembre 2004. 18 W. Kandisky, Punto linea superficie, Adelphi, 1968. p. 28. 19 P. Scala, Elogio della mediocritas, la misura del progetto urbano, Cuen, 2008. 20 F. Purini, Comporre l’architettura, Laterza, Roma, 2005, p. 120. 21 Redazione, ”L’adattamento dell’archetipo alla realtà materiale”, in Rassegna n. 1 (Recinti), 1979, p. 1. trasmissione del sapere), è definito dalla presenza del recinto che viene instaurato, dalla possibilità del suo attraversamento, nonché dalla nozione di movimento (che appare opposta alla fissità di recinto), necessario all’appropriazione dello spazio geografico, fisico e spirituale insieme. Le nozioni interno - esterno hanno assunto nel tempo pregnanza diversa e differenti sono le figure dei recinti possibili.”22 Il recinto come insieme degli elementi di delimitazione di uno spazio, indica la possibilità di considerare il recinto non solo come un elemento continuo, lineare, ma anche come un insieme di pezzi ciascuno fatto in modo diverso. La possibilità di re-interpretare la figura del recinto archetipo, fatto da un elemento fisso, lineare, il più delle volte invalicabile, che impedisce l’attraversamento, è uno degli obiettivi del ragionamento sul significato del recintare. Il recinto può essere considerato come un insieme di diversi pezzi, i lati del perimetro non necessariamente sono uguali tra loro, poiché ciascun lato ha una diversa relazione con lo spazio all’interno e all’esterno di esso. Osservando la città, la sua morfologia e i materiali della composizione, in particolare i suoi recinti, si può pensare ad un progetto che prenda in considerazione in primo luogo il rapporto tra interno, esterno e limite, in secondo luogo il valore che i diversi lati del perimetro assumono in relazione a misura dimensione e uso degli spazi che delimita. Questa operazione di reinterpretazione dell’elemento “recinto” e dello spazio “recintato” si manifesta principalmente laddove si vuole dare senso a quelle aree della città contemporanea de-funzionalizzate, quali ad esempio aree dismesse, vuoti, aree portuali, aree militari, ma anche residenze, in cui, qualora se ne riconosca un carattere, l’elemento recinto va reinterpretato e ripensato per poter diventare un elemento di progetto, e di memoria dei luoghi. La possibilità di smontare i recinti, considerandoli come elementi fatti di linee diverse che hanno una diversa relazione a seconda dello spazio interno e esterno con cui si rapportano, è una delle operazioni progettuali che può essere applicata a quei luoghi urbani che risultano separati dal tessuto della città consolidata. 22 G. Tamaro, Voce facciata, in Dizionario critico illustrato delle voci più utili all’architetto moderno, diretto da Luciano Semerani, C.E.L.I., 1993. LIMES/LIMEN: IL FUNZIONAMENTO DI UNA FIGURA DECISIVA Carmine Piscopo Il limite la soglia, dove si fermano l’hospes e l’hostis, ma da dove comincia lo spazio di piena autonomia di chi risiede di qua, dentro (per aprirsi ai suoi bisogni, per tenere al sicuro, insieme con le sue cose, sé, i suoi, tutti quelli che fanno parte concreta di quella irrefutabile, incontrovertibile situazione). Un mito, una metafora, una figura che struttura e attiva la vita e la storia umana, croce e delizia del nostro immaginario. E, quando si dice “nostro”, non ci si riferisce unicamente agli ambiti umani: perché, senza le delimitazioni dello spazio vitale (Lebensraum, come dicono i tedeschi), nessuna esistenza, la subumana compresa, si potrebbe porre in essere. In particolare, non potrebbe esserci la civiltà. Come ci spiega suggestivamente Freud nei suoi studi sull’origine del riso, su cui si è formata una dotta e affollata letteratura. La civiltà, dice l’inauguratore della psicoanalisi moderna, è nata nel momento in cui un uomo è caduto sotto gli occhi di un altro uomo e questo non gli è saltato addosso per aggredirlo, ma si è limitato a sorriderne. Cioè a confermare con piena soddisfazione la propria solidità e immunità da incidenti e, insieme, a riconoscere che l’altro non è una preda, ma uno che agisce, a suo rischio o vantaggio, entro uno spazio altro, che è suo. Nasce così un nuovo orizzonte di non belluinità, di relazioni complesse e mobili sul terreno dell’agonismo e dell’antagonismo, di traslazioni dell’aggressività dal versante della fisicità su quello del potenziamento e dell’esercizio delle abilità di competizione non solo corporee. Ma, nello stesso tempo, si manifesta la terribile contraddizione tra le pulsioni, che vorrebbero esprimersi senza condizionamenti esterni, e l’imprescindibile necessità di infrenare, inibire, perfino rimuovere quelle tensioni. Trattenerle subliminarmente. La civiltà, sotto questo aspetto, si rivela col volto di medaglia dalla duplice faccia: quella dello svolgimento in avanti delle vicende e quella della giustificazione (sempre più soft e perfino gradevole) dell’esistenza e del pieno, cogente funzionamento dei limiti. La tessitura di lacci e lacciuoli di distinzioni e diversità, di rapporti sempre più intrigati e complessi fra il Medesimo e l’Alterità, dove in maniera più esplicita e corposa, dove in maniera più leggera e attenuata, progressivamente si sublima e si esalta nelle istituzioni e nei processi culturali, sia sui terreni scientifici e tecnologici, sia su quelli artistici e creativi. I confini, i limiti sono, ad esempio, materia di interpretazione e accertamento in maniera specifica della giurisprudenza. La quale, pur avendo sempre vigilato e vigilando tuttora istituzionalmente sui fondamenti e sugli svolgimenti semantici, ermeneutici, formali dei principi di sua pertinenza, appoggiandosi a griglie di estrema e raffinata sapienzialità, si trova oggi, tuttavia, se non in sofferenza, certamente in fase di ripensamenti di fronte a questioni in movimento, come quelle determinate dalla mediatizzazione degli spazi e dalla globalizzazione delle informazioni e delle comunicazioni, o quelle concernenti le relazioni con gli spazi extraterrestri. Senza dire che con la materia complessa della definizione delle nuove frontiere si intreccia, ingarbugliando i discorsi, l’insieme delle contraddizioni irrisolte da sempre dei due universi paralleli e contrapposti dei confini formali e dei confini informali. Facciamo solo due esempi, tra gli infiniti che hanno contraddistinto e continuano a contraddistinguere la storia umana, attingendoli rispettivamente dal mondo antico e da quello contemporaneo. Nell’Atene di Pericle (seconda metà del sec. V a. C.), nel pieno splendore di una città dove vivevano e operavano Fidia, Sofocle e altri ingegni, quando il modello della gestione democratica della vita pubblica si definì in maniera esemplare per l’antichità e per i tempi successivi, si manifestò alla luce del sole l’apertura drammatica di una forbice tra prospettive progressiste e azione concreta di indirizzo imperiale. D’impulso di un moto di crescita delle attività politiche e militari si era cominciata a istituire sull’Egeo una vera e propria egemonia della capitale dell’Attica sulle isole e sui tratti di mare circostanti. Non potevano non sorgere, nelle comunità interessate, sensi di disagio e d’impazienza. Tra queste, quella dell’isola di Melo, come ci racconta Tucidite1, mandò un’ambasceria ad Atene per chiarire in maniera ferma la volontà dei Meli di difendere giustamente la loro autonomia. Ma dalla controparte ateniese si oppose semplicemente un netto rifiuto di quelle loro richieste, con la spiegazione brutale che tra il giusto e l’ingiusto non c’è differenza e che la giustizia, in casi come quello, è dettata unicamente dalla parte che la può imporre con la forza. “È legge di natura generale e necessaria”, spiegarono i democraticissimi ateniesi, “che si domini dovunque possibile”. E su questa linea, con la forza delle armi, fu poi nel concreto risolta la vertenza. Melo fu assediata dagli eserciti ateniesi, fu presa e distrutta: i suoi abitanti furono in parte venduti come schiavi (donne e bambini), in parte uccisi (tutti gli uomini in età di usare le armi). 1 Tucidite, La guerra del Peloponneso, l. V. Mentre questo si consumava nei fatti, sul piano formale il rapporto Atene-Melo si definiva (da parte dei vincitori) come alleanza tra comunità cointeressate alla pace e ai pacifici scambi sull’Egeo. Eventi del tutto analoghi si sono ripetuti frequentemente nel corso dei secoli. Ancora oggi, tra confini formali e confini sostanziali, si registrano tragiche dissonanze. La storia continua ad andare in scena in maschera: sotto la maschera delle finzioni continua a celare la sua brutalità, che possiamo ascoltare esplicitata, ad esempio, nelle parole di Stalin: “Ognuno impone il proprio sistema fin dove riesce ad arrivare il suo esercito. Non potrebbe essere diversamente”2. Ed è questo il secondo esempio che qui si adduce, riferito all’Urss, cioè all’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche, che in concreto significava impero della Russia sovietica sugli Stati (subalternamente, coattivamente) satelliti. La questione dei confini è intrisa di sangue e di prepotenze e oggettivamente in genere si definisce come tracciato dettato dalla volontà di potenza dei più forti. Dove c’è riva, c’è rivalità, il cui etimo è collegato con “riva”. Dove c’è rivalità c’è il sorgere delle diversità. Dove c’è confine, c’è soglia di contraddizioni e di interpretazioni fra loro divergenti. Osserva Rudolf Arnheim, teorico del pensiero visivo (visual thinking), che uscire dall’acqua e portarsi sulla spiaggia, passando il confine tra acqua e terra, è visto e registrato nella propria lingua in modi del tutto opposti da un americano e da un tedesco. “Quando un americano esce dall’acqua per tornare al suo asciugamano sulla spiaggia”, egli scrive, “dice «sto entrando», mentre un tedesco direbbe «sto uscendo»”3. Riguardo, però, a queste convenzioni, finzioni e mitologie dei confini e dei limiti, nel mondo contemporaneo, i livelli della coscienza critica stanno innalzandosi e allargandosi ovviamente non in maniera omogenea, nell’uso delle argomentazioni, nelle intenzionalità, nelle capacità o incapacità di aggregazione. Intanto, qualcosa si muove. E gli effetti di ricaduta investono perfino gli assetti e i profili delle discipline, erodendoli, se non sconvolgendoli. Il riscontro più immediato si ha nella geografia, la scienza della rappresentazione grafica dei confini della terra e della configurazione delle sue parti, oltre che dell’organizzazione della vita su di essa nelle sue manifestazioni fondamentali. Dalle sue origini (VII-VI sec. a. C., a opera di Anassimandro) in poi, i suoi metodi si sono venuti progressivamente affinando e i suoi ambiti sempre più specializzando e allargando, fino ad arrivare ai nostri giorni, dal secondo Novecento in qua, in cui però essa sta nel suo complesso correndo il rischio di smarrire la sua identità, di essere osservata sotto la lente del dubbio se abbia fondamento epistemologico e di essere presa sul serio unicamente per l’oggettività dei dati riguardanti la misurazione delle distanze lineari. Per tutto il resto, tanta materia, che per secoli è sembrata di sua pertinenza, viene reclamata e spesso aggiudicata ad altre discipline, che vanno dalle humanities alla matematica, alla geometria, alla statistica. Il suo codice costitutivo oggi è in frantumi. Le sue rappresentazioni dei confini fra gli Stati, ormai, sono attualmente solo espressioni grafiche, ma nei confronti della realtà viva e in movimento esse risultano del tutto inadeguate e false. Basti pensare ai grandi movimenti migratori di massa sul Mediterraneo, alle situazioni magmaticamente fluide in Africa e in Medio Oriente, a quanto sta accadendo in Cina con le pianificazioni di città fino a quaranta milioni di abitanti e alla necessità di far confluire e distribuire in queste megalopoli centinaia di milioni di individui provenienti dalle campagne. Basti pensare alle dinamiche del mondo del lavoro, con le sue esigenze di continue riconversioni e di mobilità. Sono aspetti, che si vengono mettendo sempre meglio a fuoco, grazie alle nuove generazioni di atlanti, come agli studi di istituti, spesso di impianto internazionale, funzionanti di impulso di organismi supernazionali, impegnati a rispondere alle esigenze della governance dei maggiori problemi e delle maggiori emergenze della vita contemporanea. Accanto a tali ricerche, si pongono e si lasciano apprezzare anche contributi di autori interessati ad affrontare questi temi in proprio, sollecitati dall’esigenza unicamente di apportare il proprio contributo. E’ il caso di un libro recentissimo scritto a quattro mani4, dove la leva degli sconvolgimenti della geografia antropica e del lavoro è individuata in quella che è chiamata “the struggle for the common”. Ma le questioni dei confini e dei conflitti nel mondo contemporaneo non si circoscrivono negli ambiti giuridici e geografici, esse si estendono e coinvolgono in maniera ravvicinata concetti e interpretazioni di ogni sapere, comportamento, espressione di vita sia sul versante della materialità, sia su quello dell’immaterialità. Con conseguenze di analoghe destabilizzazioni e tentativi di ripensamento e ridisegno della relazionalità precedentemente stabilita. Sul piano psicoanalitico, dove si colloca il confine tra psiche e soma? Sul terreno della biologia, come si distingue la frontiera tra vita e morte? Sui piani delle varie scienze, come si fa a segnare nettamente la linea di demarcazione fra scientifico e non scientifico? Quanta parte di sapere, che dall’illuminismo in qua è stata inventariata come non scientifica, è stata poi sdoganata e riconsiderata degna di esame scientifico, secondo un 2 M. Gilas, Conversazioni con Stalin, Feltrinelli, Milano, 1962, p. 121. R. Arnheim, Parabole della luce solare, Editori Riuniti, Roma 1992, p. 40. 4 S. Mezzadra e B. Neilson, Border as Method or the Multiplication of Labor, Duke University Press, Durham and London, 2013. 3 criterio del tutto laico e sperimentale della scientificità, che si costituisce, come spiega Popper, sulla falsificabiltà, se non si vuole assumere e usare la scientificità come un analogo teologico? All’interno della speculazione filosofica contemporanea, i confini tra la verità e il suo contrario sono diventati estremamente mobili e inafferrabili. Il concetto stesso di verità è apparso e appare tuttora di difficile definizione e molto mobile, cioè relativo. Cioè da combattere, secondo Benedetto XVI, che ha preso su di sé e sul cristianesimo l’impegno dell’assoluta intransigenza nei confronti del pensiero e della morale aperti alle inclusività del relativismo. Nelle indagini sulla verità, il principale asse di riferimento è quello fissato da Heidegger e poi confluito nell’ermeneutica e nel pensiero debole. Per avvicinarsi ad essa, secondo Heidegger, occorre partire dall’etimo greco (aletheia), che vuol dire “non-nascondimento”, processo di disoccultamento di ciò che non può, non deve essere occultato. In margine a tale aspetto, egli aggiunge una splendida (e complessa) glossa: “La verità è nonverità. Nel non essere-nascosto come verità è presente, ad un tempo, l’altro ‘non’ del duplice rifiuto. La verità è-presente come tale nel contrasto di illuminazione di duplice nascondimento. La verità è la lotta originaria in cui, sempre in un particolare modo, viene conquistato l’Aperto in cui sta dentro ogni cosa e da cui emerge, ritirandovisi, ciò che si manifesta e si costituisce come ente. Comunque questa lotta erompa e si storicizzi, sempre attraverso di essa, si costituiscono, separandosi, i lottanti: l’illuminazione e il nascondimento. In tal modo è conquistato l’Aperto del campo di lotta. L’apertura di questo Aperto, cioè la verità, può esser ciò che è, cioè questo aprimento, solo se e fintantoché essa si istituisce nel suo Aperto” (Sentieri interrotti, a cura di Pietro Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1997, p. 45). Di qua parte e si dirama l’ermeneutica moderna, dove tiene una posizione centrale e decisiva Hans-Georg Gadamer, che in tutti i suoi scritti, ma soprattutto nella sua opera maggiore5, allarga e consolida l’idea di verità heideggeriana, ai fini essenzialmente dell’abbattimento e della distruzione delle certezze ontologiche del pensiero ingenuamente oggettivistico delle scienze umane del passato e del presente. Dalla sua teorizzazione emerge il profilo di una nuova frontiera, che Gadamer chiama dell’esperienza ermeneutica, su cui ritorniamo tra poco, che prospetta un solido approdo a una spiaggia dove velleitarismi e dogmatismi non possono mettere piede. Ed è verso questa spiaggia che bisogna indirizzare anche il nostro pensare e il nostro fare, non solo in filosofia, ma anche in tutte le altre discipline e in tutti gli altri saperi e procedimenti, disinfestandoli innanzitutto dei germi degli ontologismi, delle certezze prefabbricate, degli assolutismi fondati su griglie di unilateralismo, unidirezionalismo, di quelle arroganze e prepotenze, che impongono e producono in concreto, attraverso i cordoni sanitari dei limiti, delle gerarchie e delle separatezze, la marginalizzazione della Diversità, come ha portato alla luce in maniera esemplare e netta in numerose opere Michel Foucault6. La proposta, ovvero la proposizione, come direbbe Wittgenstein, che qui si formula, non si divarica affatto dal dibattito, ora più radicale ed estremizzante, ora più cauto e moderato, che ha investito fin qua il tema dei confini e dei connessi conflitti. Non è pensabile di tirarsi fuori dai processi dialettici del proprio tempo con un balzo di lato o con una fuga in avanti. Né si può far finta che non ci sia mai stato quello che è stato ed è. L’ipotesi possibile è dell’assunzione di responsabilità verso le situazioni in movimento nel proprio tempo, dando tutto il contributo possibile all’avanzamento e al potenziamento della razionalità, non di quella di impianto “certo” o consacrato di etimo illuministico, già denunziata dalla Scuola critica di Francoforte, a partire dai due fondatori, Horkheimer e Adorno, e diventata oggetto di desacralizzazione per i Nuovi Filosofi, in particolare per Foucault e i suoi allievi, tra cui c’è qualcuno, come Michel Serres, che parla di “follia della verità solare” e della necessità che le scienze acquisiscano un po’ di saggezza attraverso la pratica della moderazione e del pudore7. Ma se tutto l’incalzante e corrosivo discorso finora prodotto sui confini e i limiti, ha generato guasti, macerie, dismissioni sul piano semantico e concettuale, a Remo in poi sappiamo che questo stesso discorso, come una proprietà ben installata al proprio interno, ha, nello stesso tempo, liberato la cultura di molte concrezioni e passività, di molte certezze costituite su arroganze mentali e materiali o su assunzioni di spiegazioni maternamente rassicuranti riguardo ad aspetti dell’esistenza oggettivamente inquietanti. Come un discorso che usa frantumi di castelli ideologici (Levy-Strauss), è servito a illuminare proiezioni perfino prelogiche. D’altronde, questo era in programma all’interno del “discorso filosofico della modernità”, come ha spiegato Habermas, il solido e agguerrito continuatore delle speculazioni dei francofortesi8. 5 Cfr. H. G. Gadamer, Verità e metodo, con testo tedesco a fronte, trad. it. di G. Vattimo, intr. di Giovanni Reale, Bompiani, Milano, 2000. Cfr. M. Foucault, Storia della follia nell'età classica (1961), trad. it. di F Ferrucci, E. Renzi e V. Vezzoli, Rizzoli, Milano, 1963; Nascita della clinica: il ruolo della medicina nella costituzione delle scienze umane, oppure con sottotitolo Una archeologia dello sguardo medico (1963), trad. it. di A. Fontana, Einaudi, Torino, 1969; Le parole e le cose: un'archeologia delle scienze umane (1966), trad. it. di E. Panaitescu, Rizzoli, Milano 1967; Sorvegliare e punire: nascita della prigione (1975), trad. il. di A. Tarchetti, Einaudi, Torino, 1976. 7 M. Serres, Il mantello di Arlecchino «Il terzo istruito»: l’educazione dell’era futura, Marsilio, Venezia, 1991, p. 175 e segg. 8 cfr. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Roma-Bari, 1987. 6 Per una resa di conti con le questioni aperte, in termini di sostenibilità e di affidabilità, offre una grande opportunità l’idea di esperienza ermeneutica avanzata da Gadamer, a cui si accennava sopra. Essa, in sostanza, ci aiuta a riconoscerci nel nostro esserci, nelle sue tensioni, nelle sue inquietudini, nella sua provvisorietà e storicità, in cui intanto si rispecchiano molte possibilità, mai pregiudizialmente scontate, di squarci e aperture di luce entro il buio e il mistero che ci circondano. La cifra fondante di questa prospettiva è costituita dall’accettazione del limite, dei confini, che Gadamer chiama inequivocamente con il loro nome, Grenze, che in tedesco vuol dire appunto “frontiera”, “limite”. Nella speculazione gadameriana, questo termine riguarda esclusivamente i limiti dell’individuo uomo e dell’uomo in quanto tale, in quanto ente che si pone in essere nella relazionalità complessa con la realtà, con la storia, con gli altri, con l’Altro. Non si tratta, dunque, dei limiti, quali i lacci e lacciuoli imposti dal super-Io, dai castranti e coattivi diktat delle consuetudini sociali intrise di fobie e altre pulsioni prelogiche. Si tratta, invece, dei limiti come figura essenziale della condizione umana e dell’immaginario stesso dell’uomo in quanto tale. Ma lasciamo la parola al filosofo, che ha intrattenuto una grande familiarità con Napoli, da cui è stato insignito del riconoscimento di “cittadino onorario”: “L’autentica esperienza è quella in cui l’uomo diventa cosciente della propria finitezza [seiner Endilichkeit]. In essa, la capacità e l’autoconsapevolezza della sua ragione progettante trovano il loro limite [seine Grenze]. Si viene a scoprire che è una pura apparenza che tutto si possa modificare o annullare, che ogni momento sia il momento giusto per qualunque cosa, che tutto in qualche modo ritorni. Chi sta e agisce nella storia fa invece continuamente l’esperienza del fatto che nulla ritorna. Riconoscere ciò che è non significa qui conoscere ciò che in un certo momento è, ma la giudiziosa comprensione dei limiti (Einsicht in die Grenzen] entro i quali è ancora aperto un futuro per l’aspettativa e il progettare; o, più fondamentalmente, comprendere che ogni aspettativa e ogni progetto degli esseri finiti sono finiti e limitati. In tal modo, la discussione sul concetto di esperienza giunge qui a un risultato ricco di implicanze per il nostro problema della definizione della coscienza della determinazione storica. Questa, come forma autentica dell’esperienza, deve rispecchiare la struttura generale dell’esperienza stessa” 9. Se questo è il senso, a questo punto, non si può non rivolgere un benvenuto al limite/ai limiti, come forma attiva del nostro pensare, progettare, operare, a tutte le latitudini e in tutti i settori propri dell’uomo. In architettura, che cosa significa ciò? Che anch’essa è cosa umana, fatta dall’uomo e per l’uomo, come viene puntualmente sottolineando Di Battista in ogni nuovo fascicolo di “Domus”, ma come da sempre si è saputo e insegnato. Da Vitruvio a Leon Battista Alberti, da Gropius, Van de Velde, Mies Van der Rohe, Le Corbusier (v., tra l’altro, L’unité d’habitation di Marsiglia 1947-1952), Taut, a Soleri, Venturi e oltre, corre un filo rosso di “grande alleanza” con la vita in genere e con quella umana più specificatamente. Questa costante sembrerebbe ovvia, se non banale, ma non lo è. Perché essa pone un aut-aut perentorio, tra un’opzione etico-civile ineludibile e un’opzione estetizzante, narcisistico-autoreferenziale, delle grandi evasioni e sublimazioni. La prima è attesa e legittimata dai bisogni reali e, insieme, dai calcoli rigorosi e dalle interpretazioni delle possibilità di svolgimento consentite dalle situazioni in movimento negli ambiti scientificotecnologici e dalle sollecitazioni a proiettarsi in avanti provenienti dalle esperienze in atto e dalle risposte non date ancora alle domande della civiltà dell’uomo. La seconda è nutrita di passività e insensibilità nei confronti della relazionalità con la storia e tende ad esaltare al massimo il soggettivismo, a celebrare riti e miti di potere, di vanità e di funebrità, come nelle varie declinazioni del monumentalismo. A riscontro del fatto che l’architettura da sempre abita il terreno di soglie, fatte di continuità e di confluenze. Così essa può farsi veicolo tanto di ottimismo e vitalismo, come in Le Corbusier, Gropius, Wright, Mies Van der Rohe, Aalto, Neutra, Schindler, Gehry, tanto di nichilismo, di pessimismo, di parodismo. L’architettura può puntare tanto sul costruttivismo e sul funzionalismo, quanto sul minimalismo e sul decostruttivismo, come nel caso di Koolhaas, Eisenman, Gehry, Zaha Hadid, Libeskind, Tschumi, che assumono ad antitesi privilegiata il costruttivismo sovietico, e, in applicazione di strategie liberatorie e, insieme, euristiche, scommettono su geometrie conflittuali, sui rifiuti programmati di assi rigidi di orientamento gerarchico, sulle contraddizioni e gli scandagli della complessità. La loro sfida, che in sostanza punta sul sogno, è dell’attendibilità: o è inattendibile il sogno, o è inattendibile la veglia, con le sue misure e le sue misurazioni precise, fredde, autoritarie, esclusive. Ma se, sotto tale aspetto, il loro è un coraggioso, anzi un azzardoso lancio di dadi sul tavolo della contemporaneità, è fondamentalmente perché i decostruttivisti hanno un sicuro lasciapassare: possono procedere in avanti confermati e incoraggiati dal fatto che poggiano i loro calcoli su solide griglie di esperienze ermeneutiche. L’orbita, infatti, entro cui si muove la loro costellazione di pianeti ognuno con un suo inimitabile profilo, è quella dell’osservazione positiva e della valorizzazione dei limiti del possibile umano. 9 H. G. Gadamer, Verità e metodo, con testo tedesco a fronte, trad. it. di G. Vattimo, intr. di G. Reale, Bompiani, Milano, 2000, p. 737. A riscontro, si allegano, tra i tanti che si potrebbero addurre, due stralci estremamente persuasivi. Il primo riguarda Koolhaas, il secondo Eisenman. Il primo autore, sin dagli esordi, quelli del lancio del manifesto retroattivo per la città di Manhattan, colloca il suo asse di osservazione sul terreno di una ineludibile, terrificante realtà storica. E, quando si dice realtà, si intende non l’epidermica manifestazione delle cose, che, dopo i rifiuti clamorosi e irriverenti nell’ambito della modernità, ha ripreso, come se niente fosse stato, a incantare in nuovi idilli l’attenzione di autori salottieri e di intrattenimento. La realtà, invece, a cui ci si riferisce è quella che si nasconde dietro quelle che appaiono le cose, come ribadisce un libro di recente apparso in vetrina scritto da Carlo Rovelli10. Per Rem Koolhaas, il possibile del limite umano da accettare e, simultaneamente, da rilanciare come inesauribile risorsa creativa è l’ingovernabilità crescente e travolgente degli spazi urbani del nostro tempo, ingovernabilità in cui si rispecchia fisiologicamente il caos della vita. La traduzione in termini di architettura di questa presa d’atto, è stata spiegata da Koolhaas nel 2001 in Junkspace, un testo ormai diventato un classico dei nostri giorni. Qui egli scrive: “Il Junkspace inventa storie da ogni parte, i suoi contenuti sono dinamici e tuttavia stagnanti, riciclati o moltiplicati in una clonazione: forme in cerca di funzione […] Il Junkspace perde le architetture come un rettile perde la sua pelle, rinasce ogni lunedì mattina. Negli edifici di una volta, la materialità si basava su uno stato finale che poteva essere modificato solo a prezzo di una distruzione parziale. Nel momento esatto in cui la nostra cultura ha abbandonato la ripetizione e la regolarità come qualcosa di opprimente, i materiali da costruzione sono diventati sempre più modulari, unificati e standardizzati; ora la sostanza giunge predigitalizzata […] Nel Junkspace […] non vi sono che sottosistemi, senza megastrutture, particelle orfane in cerca di una cornice o un ordine. Ogni materializzazione è provvisoria: tagliare, piegare, strappare, rivestire: la costruzione ha acquistato una nuova morbidezza come la sartoria … Il giunto ha smesso di essere un problema, una sfida intellettuale […] Ogni elemento svolge il proprio compito in un isolamento negoziato. Là dove una volta il dettaglio suggeriva l’incontrarsi, forse per sempre, di materiali diversi, vi è ora un accoppiamento provvisorio, sul punto di essere disfatto, riaperto, un abbraccio temporaneo con alte probabilità di separazione; non più un incontro orchestrato fra differenze, ma la fine improvvisa di un sistema, uno stallo. Solo un cieco, leggendo con le dita le sue linee di faglia, potrebbe forse comprendere le storie di Junkspace …11. Se Koolhaas fa avvicinare le punte di realtà e fantasia entro uno scenario di carattere apocalittico, perché, nella sua interpretazione della contemporaneità e della storia, ormai siamo entrati in una dilagante, effusiva, magmatica realtà ed è qui collocato il limite costitutivo della contemporaneità, Eisenman cerca la cifra-limite del possibile umano nel funzionamento della figuralità come dispositivo di invenzione e connotazione della poiesi. Anche per lui il limite impone accettazione e, insieme, interpretazione creativa. Ma, per l’attivazione di questo processo partecipativo e innovativo, è postulato da Eisenman un abbattimento radicale, fino a un grado zero, di tutte le superfetazioni, gli appesantimenti, le rigidità del fare architettura. Per liberare le figure e farne scattare tutto il dinamismo compositivo, occorre lavorare di smantellamento, di sottrazione, un po’ come suggeriva Michelangelo in margine al fare scultura: per lui, infatti, la scultura non si faceva per via di aggiunzioni e di laccature, ma scavando nel marmo e tirando fuori la figura che era lì dentro in attesa. In Eisenman, la valorizzazione e la contattazione della figuralità fanno da bordo e da metodo, per quella che, con Aldo Trione (Estetica della mente dopo Mallarmé, Cappelli, Bologna 1987), si potrebbe chiamare esattamente estetica della mente, una concezione poietica rigorosamente intellettuale. Non è un caso che Eisenman, nella densa, stringente tessitura di esposizione della sua idea, si riferisca dialogicamente e dialetticamente in costanza di rapporto ai decostruzionisti francesi, in particolare a Derrida e a Deleuze, molto analitici e consequenziali. E mentre Koolhaas procede, nelle sue riflessioni, puntualmente per affondi veloci e campi lunghi, come si direbbe cinematograficamente, Eisenman fa avanzare diagramma dopo diagramma la sua riflessione, come per costruire mappe e itinerari accurati, esatti, inequivoci, che non diano spazio ad interpretazioni e glosse estemporanei, soprattutto che esaltino al massimo il limite-metodo della figuralità, che egli colloca precisamente entro la cifra di una figura al quadrato (figure-figure), al di qua di ogni adattamento parziale e di ogni contaminazione di impurità, come egli stesso sottolinea: “[…] spacing will be used in an somewhat different way from Derrida’s idea. Spacing, as opposed to forming, begins to suggest a possible figure/figure, as opposed to figure/ground, relationship, which in turn suggests a new possibility for the interstitial. Spacing produces a displaced condition of the interstitial. The interstitial could be a void within a void, an overlapping within space of space, creating a density in space not given by the forming of a container with a profile. Where figure/ground was an abstraction, a figure/figure relationship is a figural condition that is 10 C. Rovelli, La realtà non è come ci appare. La struttura elementare delle cose, Cortina, Milano, 2014. R. Koolhaas, Junkspace. Per un ripensamento radicale dello spazio urbano, a cura di G. Mastrigli, Quodilibet, Macerata, 2006, pp. 7072. 11 no longer necessarily abstract. It is space conceived of as a matrix of forces. It is affective in that it displaces previous forms of the interstitial” 12. Un’opzione, dunque, di concretezza, garantita dalla figura/figura, in contrapposizione alle esposizioni alle vaghezze dell’arbitrario, che sarebbero fisiologiche a seguito del ricorso a quella che l’autore chiama “figure/ground”. Qui il limite, offerto e garantito dalla figuralità, si fa forza creatrice di spazio, di spessore, di aperture del vuoto nel vuoto, di spazio nello spazio. In breve, funziona come leva che rinnova, integra, fa lievitare l’immaginario e i suoi interventi nel mondo, proprio come equivalente di esperienza ermeneutica di cui parla Gadamer. Qui, il limite è dato dalla “dalla figura senza fine”, ossia dalla sua apertura. Per tale via, la riabilitazione e la valorizzazione del limite è conquista, è avanzamento semantico e concettuale, reso legittimo da un lungo, intenso dibattito delle idee nell’ambito della modernità. Non è assolutamente un déjà-vu. È altro rispetto al passato. Come un’immagine diagrammatica del pianeta in movimento, è qualcosa che apre e destabilizza il senso e il disegno della figura chiusa, i cui limiti geometrici, come i limiti di una ragione antica, sono oggi riconoscibili entro il recinto di un sapere arbitrario e imperfetto, che puntualmente si sottrae al vento proveniente dall’intersoggettività e dall’interrelazionalità delle pulsioni vitali, per disporsi al centro di funebri esposizioni ove si celebrano i confini certi. Tutto ciò, che sembra avere a che fare con il problema di un confine, entro cui un dato tema possa ancora dire di essere se stesso e non altro, in realtà ha più propriamente a che fare con i limiti di una situazione, dove, come si diceva all’inizio, chi sta dentro difficilmente immagina come essa possa apparire se vista, per così dire, dal di fuori. Una circostanza, che “costituisce”, come afferma Salvatore Veca, “un problema. Un problema, più o meno formulabile come il problema di cosa vuol dire pensare o tracciare un confine”13. Giacché, come afferma Freud, tracciando un confine, non si dice ancora perché lo si traccia. 12 P. Eisenman, Processes of the Interstitial: Spacing and the Arbitrary Text, in Eisenman Architects 1988-1998, Blurred Zones. Investigations of the Interstitial, The Monacelli Press, Broadway, New York, 2003, p. 100. 13 S. Veca, Modi della ragione, in A. Gargani (a cura di), Crisi della ragione, Einaudi, Torino, 1979, p. 289. LA CITTÁ E I SUOI RECINTI INTERNI Anna Irene Del Monaco Il testo che segue prende l'avvio dalla considerazione che chi mi ha invitato già conosce un mio testo, il libro già pubblicato con il titolo Città e Limes. Roma-Beijing-New York1. Facendo una piccola violenza al mio ritegno ho deciso, dunque, di presentare qui una piccola costellazione di pensieri maturati, in tempi diversi e su problemi diversissimi tra loro, dopo la pubblicazione di quel libro. Ho intenzione di riprendere formalmente quella ricerca e di portarla avanti. Mi si pongono, però, importanti – per me – questioni. Devo continuare a considerare la città comunque un organismo sempre in espansione, come ho fatto, con l'entusiasmo del dottorando, in quella mia prima prova? Da qui le considerazioni, faticose, scritte in un lungo tempo e limate assiduamente fino ad oggi che stanno sotto il paragrafo Life and Death; inoltre, a proposito di scrittura, dunque di forma del pensiero, quale deve essere il metodo corretto ed efficace e il “tipo di scrittura” con i quali affrontare, da architetto, temi tanto imponenti e difficili come la città, la sua forma e la sua storia? Da questa domanda nascono le considerazioni raccolte nel paragrafo Per una scrittura degli affetti. Infine, il concetto di limes che ho appreso con facilità pensando all'uso che i romani ne fecero in età imperiale (confine fortificato artificialmente o naturalmente a protezione dello spazio della loro civiltà) può essere ristretto solo alla funzione di definire l'organismo urbano come unità compatta e omogenea, che si identifica con la forma della suo recinto esterno, oppure quel concetto deve essere ampliato ad includere anche i limites interni di cui è costituita la città antica e moderna, recinto di recinti? E dunque, mi chiedo, non sarà più interessante e produttivo riprendere la mia ricerca volgendo lo sguardo verso l'interno della città, ai suoi successivi recinti in restringimento, dall'esterno all'interno, nelle fasi di decadenza e alle sue partizioni interne, sociali e fisiche? I segni che mi spingono a questo oggi ci sono di nuovo tutti e li enumero nell'ultimo paragrafo dal titolo I recinti interni della città; nuovi ricchi e nuovi poveri; inclusione/esclusione. Con questo testo, dunque, espongo con grande temerarietà lo stato delle mie considerazioni alla cui elaborazione è stato fondamentale il continuo confronto con chi mi ha avviato agli studi e alla ricerca. A chi oggi mi legga spetta il compito di essere indulgente e, soprattutto, di aiutarmi con le sue critiche, con le sue considerazioni, a mettere meglio a fuoco i miei propositi. Life and Death L'andamento crescente dello sviluppo urbano segue la logica del growth forever, cioè l'idea della crescita senza fine della città e della società moderna, tipica della “prima modernità”, direbbe Ulrich Beck 2, in contrapposizione alle “teorie del rischio della seconda modernità”. Della crescita urbana ci sembra di conoscere tutto: ben sappiamo che essa è proceduta quasi sempre scandita dalla sequenza progressiva di allargamenti del limes esterno attraverso riverberazioni, rotazioni, sfrangiamenti del recinto urbano originario, cinta muraria o elemento della morfologia naturale che esso fosse. Sappiamo che esso, molto spesso, ha costituito, quasi contraddittoriamente, un elemento di inerzia passiva rispetto alla direzione dello sviluppo, alla stregua di un dispositivo elastico di misurazione-costrizione che tendeva a frenare, dunque a controllare o a impedire, l'occupazione del suolo oltre il suo fronte – un evidente ostacolo fisico, militare, amministrativo, simbolico, funzionale infine, da superare ovvero da trasformare, mantenendone la giacitura, in una struttura urbana diversa e tuttavia ancora strettamente legata alla impronta originaria come sua “filiazione”, ancorché lontana. E sappiamo che ciò vale sia per i limites concentrici che per quelli lineari. Per il caso concentrico si pensi a qualunque caso di studio in cui siano presenti antiche mura urbane (o resti di esse) che cingono una città secondo un tracciato lineare chiuso. Esemplare a questo proposito, lo studio di Gianfranco Caniggia sul processo di espansione di Firenze, dalle mura romane alla seconda metà del secolo scorso. Per il caso lineare, si pensi anche soltanto alla Rambla di Barcellona, in passato sede di un torrente stagionale, limes naturale collocato subito fuori dal quartiere gotico originario (Rambla deriva dall'arabo raml e significa torrente), trasformatosi nel Trecento in un collettore, risanato e prosciugato nel Settecento e, infine, divenuto luogo della trasformazione identitaria di quella città, simbolo vibrante della vita pubblica contemporanea. Ma la storia della città è fatta anche di restringimenti, abbandoni, rovina. Noi contemporanei ben conosciamo l'esistenza, nella storia, della categoria della decadenza, che è in primo luogo ripiegamento della civiltà urbana, fatto di sconfitte e di resistenze che ci paiono persino eroiche. Ce ne parlano ad ogni passo i monumenti annichiliti dal tempo e il paesaggio delle nostre antichità. Tuttavia, occorre confessarlo, ci pare che tutto ciò appartenga più che a un flesso della nostra stessa storia a una realtà che non è quella in cui la nostra vera storia scorre. Così i resti che ci rammentano i tempi quando le città invecchiavano e morivano, sembrano appartenere a un layer diverso da quello in cui si svolge la nostra vita e nel quale prendono forma i nostri progetti; un layer 1 A. I. Del Monaco, Città e limes. Roma-Beijing-New, Nuova Cultura, Roma, 2012. Ulrich Beck è un sociologo tedesco che ha pubblicato diversi studi sulla modernità, problemi ecologici individualizzazione e globalizzazione, oltre ad aver introdotto nuovi concetti nella sociologia, quali l'idea di una “seconda modernità” e la “teoria del rischio”. È stato membro dal 1995-97 della Commissione per le questioni del futuro. È membro del Gruppo Spinelli per il rilancio dell'integrazione europea 2 compresente eppure integralmente separato dal nostro. Di questo sentimento io mi azzardo a dire che sia responsabile anche la coscienza occidentale della modernità, che si regge sulla presunzione che la diversità tecnologica ci abbia reso invulnerabili a tutta la categoria degli eventi che ha afflitto, di tempo in tempo, ogni civiltà a noi precedente fiaccandone, a volte definitivamente, la “forza propulsiva”. Così, mentre abbiamo studiato con precisione filologica, passione e perfino entusiasmo i processi della crescita delle città riconoscendo nella loro morfologia i segni indelebili delle fasi di espansione dei loro limites, poco o nulla ci hanno interessato i processi di restringimento, di decadenza, di riduzione delle città a disperati ultimi fortini della civiltà. Di tanto in tanto ci imbattiamo in piante di città antiche – per esempio quella di Leptis Magna – in cui gli archeologi hanno rilevato un arroccato limes interno che è il muro della ridotta urbana della fase bizantina, quando le tribù barbariche ne avevano compresso la popolazione e reso deserti i fori imperiali, i mercati, le terme, prima di portarla a morte. E così le mura aureliane di Roma, di cui tanto ho discusso nel mio libro, perché non considerarle, piuttosto che un'ultima, grandiosa opera di un impero ancora fiorente, una prima “ridotta” di una città che, concepita fino ad allora senza confini, già da tempo, invece, era in fase di restringimento, di decadenza? Ed io stessa, che ho studiato di Roma gli effetti che l'impronta delle mura aureliane ha avuto nelle fasi di espansione della città Capitale d'Italia, sarei tentata di studiare le modalità e le fasi con cui avvenne l'ineluttabile restringimento della capitale dell'impero che si ritrasse, in pochi secoli, dal suo limes aureliano fino a raccogliersi infine attorno all'ansa del fiume, di fronte al ponte Elio, povera comunità di quindicimila sopravvissuti dai tempi della grande metropoli che Roma romana fu. Francamente aspetto un Gianfranco Caniggia che applichi la sua capacità di lettura della storia attraverso i segni della città presente per descriverci i processi di riduzione, invece che quelli di espansione della città, con la stessa chiarezza con la quale ci ha insegnato il procedere, certo e progressivo, dal più elementare materiale edilizio alle case a corte medievali, alle case a schiera rinascimentali, ai palazzetti settecenteschi, alle case in linea pronte a spiccare il volo nell'orizzonte della città moderna. Tuttavia sempre più frequentemente emergono all'attenzione degli studiosi – e dei politici, naturalmente – fenomeni contemporanei inquietanti come quello che gli esperti3 chiamano, ad esempio, il fenomeno delle shrinking cities, cioè delle città moderne in via di progressivo abbandono, città che furono importanti, storiche sedi della prima industrializzazione nel secolo scorso (Detroit, Manchester, Lipsia, ecc.), nelle quali il trend di crescita positiva ha avuto una decisa inversione a causa di impetuose trasformazioni dovute alla politica industriale, all'innovazione tecnologica, agli andamenti del mercato mondiale del lavoro e alle metamorfosi delle aspirazioni di massa. Ecco un compito impegnativo, ma forse indispensabile cui mi piacerebbe che le facoltà di architettura collaborassero – e nel mio angolo io stessa: studiare non soltanto la vita delle città, ma le loro life and death, per dirla con Jane Jacobs. E non soltanto studiarle come fenomeno, ma cominciare ad applicare ai progetti urbani e ai progetti delle grandi maglie infrastrutturali il concetto di exit strategy – finora applicato negli Stati Uniti soltanto ai progetti di grandi edifici commerciali dei quali, sin dalle prime fasi di ideazione si stabilisce le modalità del loro abbandono virtuoso, fatto di demolizioni giudiziose, di intelligente riciclo dei materiali edilizi più preziosi, di accurata e prevista restituzione del suolo agli usi agricoli, alla riqualificazione ambientale o alla riabilitazione urbana. A ben guardare, di città abbandonate è piena la storia – non serve a rammentarcelo Osvald Spengler nel suo Il Tramonto dell'Occidente – oppure di città mai più rifiorite: Samarra, Hsiuen Tsinag, Pataliputra, le grandi città Maya. Altre città furono ricostruite altrove, la popolazione in fuga da patrie ormai vecchie e sterili per sopravvivere all'alterazione ambientale, alla crescente diminuzione di risorse naturali, ai rivolgimenti della storia: Fatehpur Sikri, le diverse Nuova Delhi, ecc. In un periodo, il nostro, nel quale le forze che presiedono alla vita delle città paiono travolgere ogni capacità di previsione e di controllo – basti considerare ciò che avviene nei grandissimi paesi entrati con furore nei processi della modernità, l'India, la Cina, tutto il sud-est asiatico, il Brasile, l'Africa occidentale e orientale... – mi sembra necessario, naturale direi, rimettere concettualmente il nostro tempo moderno nel flusso ininterrotto degli eventi storici, nella continuità della Storia, vorrei dire, per studiare la città moderna con occhi nuovi e antichi, che non escludano la caduta, la resurrezione, la morte del nostro mondo. Per una scrittura degli affetti Leggendo alcuni ragionamenti di Mario Guido Cusmano sulle città che egli definisce “piccole-città dei nostri giorni”4, ho avuto modo di conoscere, dopo la pubblicazione di Città e limes. Roma-Beijing-New York, un tipo di lettura dei fenomeni urbani che, apparentemente, sosterrebbe almeno in parte l'ambizione – forse temeraria – delle mie tesi (la crescita urbana come implicitamente determinata, o almeno prefigurata, dall'impronta originaria della città). Nella realtà le sue considerazioni impongono di far entrare i fattori di scala in qualsiasi trattazione sistematica di ciò che riguarda la genesi forma urbana. Ma ciò che più mi interessa dei suoi scritti è il fatto che egli mi abbia dato un supplemento di luce non ragionando su modelli teorici, assunti schematici, chiari paradigmi 3 4 P. Oswalt, Shrinking Cities: Complete Works 2, Verlag GmbH, Aachen, 2006. M. G. Cusmano, Le parole della città. Viaggio nel lessico urbano, FrancoAngeli/Urbanistica, Milano 2009, p. 39. esemplificativi, ma attraverso il distillato di una soggettiva esperienza della città – durata tutta la vita – vissuta nella sua realtà fattuale e interpretata con quella facoltà degli uomini veramente colti che alcuni chiamano “immaginazione storica” 5, la capacità di veder trasparire dalle cose della realtà, dalle piccole e dalle grandi, le passioni umane, le emozioni, i drammi, le speranze che hanno alimentato il passato da cui veniamo, dunque la nostra stessa identità. Un passato specchiandoci nel quale, noi, se avessimo la sapienza di Cusmano e di altri limpidi maestri, cercheremmo di serenamente “divinare” il nostro futuro. E mi chiedo: quale tipo di scrittura si addice a noi architetti quando parliamo di cose grandi come la città e l'architettura? Certamente l'osservazione, il disegno, il progetto. Ma quando vogliamo riflettere, comporre e trasmettere pensieri che precedano e presiedano alla osservazione, al disegno al progetto – ciò che è tra gli specifici compiti di noi ricercatori e docenti di architettura giovani o anziani – spesso, forse sempre, ci sembra di dover mutuare – o mimare – il linguaggio che riteniamo scientifico dei sociologi, dei pianificatori, dei filosofi, perfino degli ingegneri che non siamo, che non possiamo, non dobbiamo essere. Noi, che per tanti aspetti, come i musicisti e gli scrittori – non oso dire i poeti – sappiamo che il nostro mestiere, la nostra identità ha senso solo in quanto sappiamo trarre e trasmettere “affetti” dalla materia fisica, economica e sociale che siamo chiamati a modellare, dovremmo studiare e scrivere delle cose nostre appunto con la “scrittura degli affetti”. Come fa Cusmano, appunto, come faceva Quaroni, come Aldo Rossi, come lo stesso Le Corbusier con le sue fulminanti affermazioni, luminose come distici greci. In altre parole dovremmo scrivere di architettura e soprattutto di città sintetizzando sentimenti ed emozioni che la città trasmette, nella superiore forma degli affetti, come dice la scuola freudiana, che fa “della parola 'affetto' un concetto strutturale, riservato a quella categoria di ordine superiore sotto cui rientrano sia i sentimenti che le emozioni, proprio come la parola 'costruzione' descrive sia le abitazioni degli uomini che le costruzioni delle termiti” 6. Ma ciò non significa abbandonarsi alla confusione che sempre ci sopraffà quando pensiamo di essere abilitati ad estrarre liberamente pensiero dal nostro groviglio interiore. No; al contrario significa distillare con lentezza, pazienza e suprema semplicità, il senso della nostra esperienza, del nostro misuratissimo sapere. E non posso mai più dimenticare la somma di correzioni, ripensamenti, abrasioni e sovrascritture che i più grandi di tutti, metti persino Leopardi, hanno sempre saputo apportare alle proprie pur brevissime composizioni, maturate in tempi lunghi, intensissimamente, per noi. I recinti interni della città; nuovi ricchi e nuovi poveri; inclusione/esclusione Inclusione ed esclusione sono concetti comuni alle dinamiche urbane di tutti i tempi, generatrici di limites interiori, recinti nel corpo stesso della città. La narrativa ottocentesca ha esaltato questa condizione: i dualismi presenti nei racconti The tale of two cities di Charles Dickens del 1859 oppure l'urbanità promiscua che esprime Honoré de Balzac nei suoi scritti dove, nel quadro della Parigi del 1841, “tutto si intreccia e convive equivocamente”7 e fa pensare ai diversi luoghi dove la città, invece, si ritira la notte. Non si può dimenticare la Londra Vittoriana di Gustave Doré e Blanchard Jerrold8, città di contrasti sorprendenti in cui costruzioni pubbliche eloquenti e nuovi quartieri benestanti facevano da contrasto a baraccopoli e slum come Whitechapel. Né può tralasciarsi la Londra Georgiana studiata da Sir John Summerson, propugnatore dell'idea che l'equilibrio sociale nella città possa essere raggiunto soltanto concependo e costruendo la città stessa come un artefatto9 complesso un'opera d'arte e di tecnica collettiva, l'unica concezione in grado di produrre la città in modo che fornisca servizi a tutti, ricchi e diseredati facendo di una città un solo quartiere. Infine c'è la Roma post-unitaria descritta da Leonardo Benevolo, in cui spicca, ma come eccezione inarrivabile, il caso del Quartiere delle Vittorie, nel quale un unico disegno urbano proposto dalla mano pubblica e da grandi architetti, Giovannoni e Piacentini prevedeva la presenza di edifici residenziali destinati a ceti sociali diversi. Ma anche esso, alla fine, proprio per le ragioni del suo successo, fu ed è quartiere separato più degli altri dal corpo indistinto della città. I recinti interni della città, dunque, sembrano proporsi come campo di ricerca obbligato per chi, finora, sì è occupato, come me, del limes che definisce verso l'esterno, verso tutti i possibili esterni, l'identità della città. Sembra quasi che dove c'è città, assieme alle mura di cinta, sempre si siano contemporaneamente erette mura interne, fisiche o sociali. Ben sappiamo che in Europa l'urbanità, differentemente promiscua, diffusasi 5 M. G. Cusmano, op.cit., p. 82; Cusmano menziona Charles Wright Mills, autore de The sociology of Immagination e, parafrasando la sua opera, intitola un capitolo “l'immaginazione urbanistica” definendola “come se fosse una facoltà, quasi un'intima convinzione, per cui chi progetta si pone per primo nel tempo e nello spazio fra gli utenti della città – fra chi vive e la soffre – e rifugge dalla posizione di artefice distaccato o di spettatore. E se in questo, aggiunge Wright Mills, l'esperienza può essere 'una lezione terribile ma sotto tanti altri aspetti una lezione splendida' chi accetta questa condizione ha compreso che si può valutare il fenomeno urbano presente e futuro solo collocandosi con l'intelletto e la sensibilità all'interno della propria epoca.” 6 I. Matthis, Per una Metapsicologia degli affetti - Traduzione dall’inglese di Davide Milonia da Sketch for a metapsychology of affect in International Journal of Psycho-Analysis, 2000, n. 81, pp. 215-227. 7 L. Caracciolo, G. Sagona, Lo spirito della città nella Parigi di Balzac, Sellerio, Palermo, 1993. 8 http://www.victorianlondon.org/ 9 J. Summerson, The City as an Artifact, 1961. nell'Ottocento ed ai primi del Novecento, è stata quasi sempre caratterizza da quartieri urbani popolati e progettati “per censo”; mentre, invece, la condizione urbana della lunga fase storica precedente, dunque comune a molte città europee – Barocca, Rinascimentale, Medioevale – era spesso caratterizzata da un tessuto urbano popolare densissimo e ripartito per quartieri o per vie, in cui i cittadini si distinguevano e localizzavano “per mestieri”. I nomi delle vie, in molte città, lo testimoniano ancora oggi. I ricchi vivevano nei grandi palazzi molto evidenti, in generale, nel tessuto urbano per la loro dimensione emergente. Ma la dimensione compatta della città premoderna – consentiva, comunque, di gestire unitariamente e con qualità la sua forma-immagine, seppure composta da una pluralità di parti. E non si può nascondere che la forza iconica di quel tipo di figurazione unitaria della città abbia avuto molto peso anche nelle elaborazioni dell'espressionismo – forse come nostalgia di un passato molto amato, certamente come mitico obbiettivo d'ogni sensibile architetto di alta “immaginazione storica”- fra cui spicca su tutte, io credo, quella espressa nel libro La Corona delle città da Bruno Taut10. E non credo sia stato un puro caso il fatto che Ludovico Quaroni volle che la pubblicazione in italiano di quel libro fosse uno dei primi volumi editi da una collana scientifica da lui diretta. Altrettanto ben conosciuto è il fenomeno dell'immigrazione dalle campagne alle città avvenuto dopo le due guerre mondiali del secolo scorso. Questo fenomeno da una parte creò la grande corona delle periferie spontanee separate dalla città, dall'altra indusse la costruzione di nuove parti ufficiali di città, nuovi quartieri residenziali realizzati sulla base di principi e azioni di filantropia politica con lo scopo di attuare i principi dello stato sociale. Nacquero così altri recinti, altre identità sociali chiuse nel loro spazio architettonico, eloquente nel definire le caratteristiche sociali dei suoi abitanti. Il secondo dopoguerra, fase storica esasperata dalle emergenze di ricostruzione, ha costituito il palcoscenico in cui andò in scena l'eroico Modernist Interlude, come usa definirlo Richard Plunz11 nei suoi appunti didattici per il suo corso di Urban Design della Columbia University of New York; ma in Europa, tutto sommato, non si è realizzato qualcosa che corrispondesse all'astratto modello del Plain Voisin di Le Corbusier. Esso, piuttosto – oso dirlo, ma non posso farne a meno – ha costituito il catastrofico modello di riferimento per l'urbanizzazione delle nuove città asiatiche contemporanee, le cui autostrade multicorsia e flyover hanno rimosso e sradicato quasi completamente la dimensione pedonale, umana, in aree urbane popolate da decine di milioni di abitanti, realizzando, irreversibilmente, nuovi, insuperabili recinti, parti recluse e desolanti della nuova metropoli moderna. Nelle città occidentali (europee) la suddivisione della città “in recinti”, dal secondo dopoguerra ai primi anni '90, è stato piuttosto il frutto dell'affermazione e della sperimentazione sul concetto di “quartiere”, che ha generato anche casi estremi di ghettizzazione come nelle Banlieues parigine. Mentre, invece, nel continente Americano (da Nord a Sud) hanno preso piede altri modelli insediativi chiusi, come le gated communities immerse nelle città informali e tuttavia separati da esse, con una evidente affermazione in termini quantitativi, delle gated communities a Nord e delle città informali a Sud. Limites interiori e ineguaglianze sembrano dunque, oggi, aspetti diversi dello stesso fenomeno. Che il tema delle “inequalities” si stia, infatti, affermando come cruciale nella realtà contemporanea e nel prossimo futuro lo testimoniano, fra le altre alcune importanti opere che recentemente hanno visto la luce, tra cui anche il lavoro pubblicato da Bernardo Secchi per Laterza, dal titolo La città dei ricchi e la città dei poveri. Egli sostiene che: “L'urbanistica ha forti, precise responsabilità nell'aggravarsi delle disuguaglianze. Siamo di fronte a una nuova questione urbana che è causa non secondaria della crisi che oggi attraversano le principali economie del pianeta”. Personalmente non condivido l'importanza e la responsabilità che Secchi attribuisce all'urbanistica come disciplina teorica e pratica, il cui significato, rilevanza e prospettive disciplinari sono oscure nel mondo contemporaneo a studiosi del campo ben più autorevoli di me. Certamente, però, Bernardo Secchi, avverte i nuovi pericoli che lievitano nelle complessità del problema e ci rammenta che “molti indicatori12 possono però far sospettare che, in un'epoca di crescente globalizzazione e individualizzazione della società, di progressiva demolizione delle strutture istituzionali e culturali del welfare state e di profonda modifica delle strutture demografiche delle diverse parti del mondo, le tradizioni più recenti possano sopraffare quelle più antiche, ponendo in ogni parte del mondo, diversi e importanti problemi per il futuro della città e per il suo progetto; il che, in un pianeta che sempre più si urbanizza, è come dire diversi e importanti problemi per il futuro dell'umanità e per le politiche che cercano di costruirlo”. “Le tradizioni più recenti” dice Secchi, e vuole indicare il complesso di azioni e comportamenti che inducendo un accelerato, imponente, irrefrenabile rimescolamento della società, traccia in esso nuove barriere, non necessariamente o non soltanto fisiche. Per questo, io credo, autorevoli studiosi internazionali come Richard Sennet e Saskia Sassen oggi si definiscano “urbanisti”; e forse legittimamente. A ben guardare, studiando essi da tempo le città con la lente di sociologi attentissimi alla storia, 10 B. Taut, La Corona delle città, Mazzotta, Milano, 1973 (saggio introduttivo di Ludovico Quaroni) titolo originale Die Stadt-korone, 1919 11 Punzi è director Urban Design Program, Columbia University of New York. 12 B. Secchi, op.cit., p. 29 all'economia e alla cultura della civiltà di massa, sanno che forse non è più degli architetti – mai lo è stato degli urbanisti – rimuovere i confini che la “cruda ragione urbana” d'oggi incide direttamente nella coscienza individuale e collettiva dei cittadini. Il nuovo libro, di prossima uscita, di Saskia Sassen dal titolo Expulsion. Brutality and Complexity in the Global Economy13, come è anticipato dalla breve sinossi disponibile riporta preoccupanti affermazioniconstatazioni: “Soaring income inequality and unemployment, expanding populations of the displaced and imprisoned, accelerating destruction of land and water bodies: today’s socioeconomic and environmental dislocations cannot be fully understood in the usual terms of poverty and injustice. They are more accurately understood as a type of expulsion – from professional livelihood, from living space, even from the very biosphere that makes life possible.” A questo punto, per tentare un confronto con la Sassen, mi sembra sia utile riprendere in esame il pensiero di Secchi. Egli, in sostanza, si pone l'obiettivo di introdurre “la nuova questione urbana” nella continuità della storia: “nelle culture occidentali la città è stata a lungo immaginata come spazio dell'integrazione sociale e culturale. Luogo sicuro, protetto dalla violenza della natura e degli uomini, produttore di nuove identità, sede privilegiata di ogni innovazione tecnica e scientifica, culturale e istituzionale. Nella città occidentale ricchi e poveri si sono da sempre incontrati e continueranno a incontrarsi, ma sono anche sempre più resi visibilmente distanti. Oggi più che in passato, nelle grandi aree metropolitane, le disuguaglianze saltano agli occhi e strategie di distinzione ed esclusione sono state spesso favorite dallo stesso progetto urbanistico. Bisogna tornare a riflettere sulla struttura spaziale della città, riconoscere l'importanza che nel costruirla ha la forma del territorio. Tornare a conferire agli spazi urbani una maggiore, più diffusa porosità, permeabilità e accessibilità; disegnarli con ambizione, tenendo conto della qualità delle città che ci hanno preceduto e ragionare di nuovo sulle dimensioni del collettivo”. A parte la bellissima speranza nella possibilità di attuare il “disegno urbano” come atto risolutivo delle contraddizioni della città moderna, mi sembra che egli senta e trasmetta il senso d'allarme che la separazione e l'impermeabilità sostanziale – contrapposta al concetto di porosità – dei nuovi recinti interni della città fa gravare sulla sua sensibilità di riformista. Tutto ciò è molto lontano dalla cruda chiarezza delle prospettive di catastrofe che la Sassen attribuisce al futuro urbano. Da un lato, dunque, sta Bernardo Secchi - che esprime la necessità di costruire un quadro aggiornato in cui modelli e questioni vengano discusse in uno sperato insieme organico di discipline - è teso a dimostrare nella continuità storica dei processi, la possibilità della loro soluzione con i mezzi dell'illuminismo più umanitario; dall'altro sta la visione senza illusioni della Sassen, che ha concepito il suo nuovo libro come una ricerca realista, evidence-based, basata, cioè, su evidenze incontrovertibili esplorando il destino di alcuni luoghi del mondo che non sono sempre geograficamente definiti ma sono luoghi concettuali o nuove tipologie urbane – si veda il concetto di cross-border networks introdotto nei suoi studi sulle città globali. In altre parole posso affermare che la differenza tra i due stia in questo: che se oggi Secchi cerca di attribuire a qualcuno, all'urbanistica o alla politica, la responsabilità dell'emergenze attuale, dei problemi e dei fallimenti, aprendo alla possibilità di una soluzione “tradizionale” pur se moderna e ricca d'aggiornate esperienze, invece il messaggio d'allarme della Sassen vuole convincerci che oggi e più ancora domani, nella ragnatela globale dei finanziatori senza volto, senza nome e senza nazionalità, sarà ben difficile attribuire a qualcuno o a qualche disciplina umanistica o scientifica responsabilità politiche o sociali; il contesto e i profitti, saranno brutali e senza precedenti. Il capitale finanziario mobile che avidamente si lancia sulle città in espansione o le abbandona altrettanto repentinamente al proprio destino è un capitale senza patria, non più legato a salvaguardare almeno l'immagine delle proprie città, concepite come immagine della propria identità dominante. Le soluzioni riformiste sembra inermi di fronte alla perdita del rapporto tra costruttori della ricchezza e la città. Occorre studiare la città con occhi nuovi. Propositi di ricerca Queste, dunque, sono le premesse – ancora grezze – su cui si fonda il mio proposito di riprendere a scrivere la mia ricerca – che ho avuto la fortuna di continuare sul campo – indirizzandola a indagare sulle condizioni che determinano l'affermarsi, il sopravvivere il moltiplicarsi dei limiti e recinti “fisici” all'interno della città contemporanea, considerata nelle sue stratificazioni storiche. Gli esempi sui cui mi applicherò in una prima fase, come per riflettere prima di andare oltre, saranno alcuni casi studio molto distanti fra loro geograficamente e culturalmente; Isfahan, Hanghzou, Durban, Khartoum, Londra, e potrei riprendere Roma, Beijing, New York, tentando anche un confronto tra soggetti tanto ricchi di storia e problemi. Le cinque città sono da me conosciute non soltanto nella letteratura, ma “dal vero” anche se studiate, fin qui, con diversi gradi di 13 S. Sassen, Expulsion. Brutality and Complexity in the Global Economy, Harvard University Press-Belknap Press, Boston, 2014. approfondimento. Con un bel carico di dubbi credo di poter addirittura anticipare che, considerando come fattori primari della organizzazione interna della città i modelli urbanistici, le ragioni economiche, l'istinto antropologico e l'identificazione sociale, in ciascuno dei casi, forse imprevedibilmente, emergerà sugli altri, di volta in volta, principalmente uno di tali fattori il quale, dunque, sembra proporsi come fondamento della identità della città, interprete della sua intera storia. Vedremo. . HUGO HÄRING. OLTRE L’ARCHITETTURA Vincenzo Ariu Quando nel 1921 Häring arriva a Berlino la parola d’ordine è Neues Bauen: per gli architetti berlinesi degli anni venti è di vitale importanza superare i limiti storici dell’architettura della tradizione, non più in grado di rispondere alle nuove esigenze di una società in movimento. Neues Bauen, letteralmente nuovo costruire, rappresenta un insieme di idee nel quale è possibile rintracciare l’origine dialettica della cultura moderna tedesca, in perenne ricerca di una identità autoctona, ma con lo sguardo proteso verso il mondo classico e mediterraneo. Nel novecento le antinomie originarie si traducono nello scontro-incontro tra Tecnica e Kunstwollen, nella ricerca di una sintesi dei valori, in molti casi declinandosi, da una parte, in un mero meccanicismo e dall’altra in un irrazionalismo. Dentro il Neues Bauen convivono forze e idee contrapposte che pur nella consapevolezza delle differenze sono convinte assertrici della necessità di una riflessione profonda dentro cui le antiche teorie sullo stile, sul rapporto tra forma e contenuto, componenti di una inattuale autonomia disciplinare, sono strumenti inadeguati alle impellenti richieste delle nuove strutture sociali. Non deve stupire, quindi, se, dopo l’evento tragico della Grande Guerra, architetti eterogenei come i fratelli Taut, Mies, Gropius, Luckhard, Mendelson e lo stesso Häring si sentiranno accomunati dagli stessi principi del Neues Bauen. Se in passato Argan, e sulle sue orme König, riassumevano le contraddizioni interne della nuova architettura nei vortici tragici dell’Espressionismo artistico, forse oggi si può più precisamente parlare di una solida speranza visionaria di superamento dei valori anacronistici di un passato noto, senza, nello stesso tempo, riuscire ancora a cogliere, se non in negativo, il nuovo. Comune è quindi la critica e la volontà di rinnovamento, le visioni dello Zarathustra nietzscheano. Oltre, c’è solo il nihilismo, nel quale possono coesistere utopie diverse. Tra le innumerevoli definizioni che negli anni venti animano il dibattito architettonico, si distinguono le posizione estreme di Mies van der Rohe e Hugo Haring. Uniti dall’amicizia, all’arrivo di Hugo Haring a Berlino, Mies gli cede una stanza del suo studio per qualche anno. L’assidua critica reciproca, all’insegna di un grande rispetto e stima, li porterà a posizioni dialetticamente opposte. Per Mies Bauen è il significato costruttivo recondito dell’architettura. Nel 1923 pubblica all’interno della rivista “G”, come responsabile della sezione architettonica, il noto articolo “Bauen”, nel quale precisa il suo pensiero: “Noi non riconosciamo forma alcuna, bensì soltanto problemi costruttivi. La forma non è il fine del nostro lavoro, bensì il risultato. Non esiste nessuna forma in sé. L’effettiva pienezza della forma è condizionata e strettamente legata ai propri compiti. Sì, è l’espressione più elementare della loro soluzione. La forma come fine è formalismo; e noi lo rifiutiamo. Altrettanto poco aspiriamo a uno stile. Anche la volontà di stile è formalista. Noi abbiamo altre preoccupazioni. Ci preme sostanzialmente di liberare la pratica del costruire dalla speculazione estetica, per riportare il costruire a ciò che deve essere: COSTRUIRE. (…)” Costruire è cogliere l’essenza, rinunciare a ogni retorica, eliminare dal segno architettonico il contenuto simbolico e, forse, estetico. Tutto ciò che cede alle lusinghe dello stile è formalismo e Mies laconicamente afferma “Noi abbiamo altre preoccupazioni”. Dentro il problema della costruzione fisica dell’architettura egli ritrova il fondamento disciplinare rifiutando in toto tutte le teorie e le tradizioni estetiche del passato. Tabula rasa, per rileggere la storia e la classicità con l’occhio attento del costruttore o forse, meglio del demiurgo. Il Bauen miesiano è assoluto, è verità, è la ricerca di una nuova e nello stesso tempo originaria bellezza. Il Neues Bauen di Hugo Häring è un’altra cosa, è il consolidarsi del trapasso storico tra la tradizione delle culture geometriche e le culture organiche. Costruire è un atto naturale, è, secondo le teorie dell’etnologo Leo Frobenius, la presa di coscienza esistenziale dell’abitare, la trasformazione antropica, senza atto ferire, del mondo fisico. Costruire è la trasformazione organica di una realtà altrettanto organica. Geometrico e organico-genesi: dal geometrico all’organico Nel saggio del 1934 Probleme der Stilbildung Hugo Häring esplicita la relazione e i significati dei termini organico e geometrico della sua personale teoresi. Rilegge nella dialettica tra un operare geometrico e un operare organico i termini dialettici della storia delle civiltà. L’origine del costruire non può che essere organica, l’uomo, animale intelligente ma sprovvisto di quella forza necessaria per sopravvivere in un mondo inospitale, si erge a custode della “tecnica”. Costruisce utensili, strumenti, ripari e le prime costruzioni come se fossero protesi di una propria inadeguatezza anatomica. La Protesi (die Protese) è l’organo supplementare che libera l’uomo dal dover modificare il proprio corpo adeguandolo all’ambiente. L’uomo cultore di una propria identità corporea si spoglia di ogni aspetto ferino (Bestialität), le mitiche figure incroci tra uomo e animale scompaiono con l’evoluzione e con esse la necessità della forza fisica per il dominio del mondo. In tal modo la tecnica primitiva, fondata sulla magia, si modifica sancendo la vittoria dell’homo sapiens e la fine degli esperimenti compiuti dalla natura nella ricerca della forma dell’uomo. Si modifica il paradigma e la magia, pian piano, lascia il posto alla razionalità. La costituzione magica della tecnica primitiva è così sostituita dalla “divina” geometria più adatta al perfezionamento delle prime protesi. Il processo, ineludibile e necessario, sancisce il dominio delle culture geometriche e con essa una fase evolutiva interlocutoria nella quale si sviluppa la tecnica moderna. Una fase di addestramento nella quale le tecniche si impadroniscono dei segreti della materia, la ordinano, sviluppano le possibili manipolazioni secondo logiche geometriche e meccaniche. Questa tecnica eccezionalmente evoluta si trova costretta, nel passare del tempo, nelle rigide convenzioni delle culture geometriche, che ne limitano l’infinito potenziale creativo. Se la tecnica moderna ha come fine esclusivo la prestazione funzionale, secondo Häring, essa non può che produrre in modo organico e a tal fine non può essere ordinata a priori. Le culture geometriche possono, quindi, essere considerate “(…) come una fase di transizione tra un’epoca di cultura magica ad un’epoca di forme culturali organiche, dotate di qualità metafisiche a noi ancora sconosciute; come un’epoca di passaggio, capace di fondere e di ricostruire nuove forme culturali, il cui primo segno è la creazione di protesi.” E come tali, esaurito il compito, le culture geometriche lasciano il posto, o meglio sono fagocitate dall’irruenza della nuova cultura che tutto ingloba e tutto include. In questo trapasso epocale il ruolo dell’architettura, figlia primigenia delle culture geometriche, è destinato a mutare. Il sapere su cui essa si fonda è da sempre elitario, accessibile a una ristretta parte della società, distinta dalla massa della gente, spinta a separarsene. L’architettura è intelletto, in essa predomina l’astrazione, è fondata su principi spirituali, autonomi rispetto alle funzioni e alle identità dei luoghi. Le sue innumerevoli configurazioni possono essere identiche in ogni luogo. Il senso profondo dell’architettura è l’omologazione delle diverse popolazioni e razze in un’unica collettività culturale. In quanto prodotto del pensiero astratto, l’architettura rinuncia alla ricchezza creativa della natura. Secondo Häring lo Stato, con la progenie dei ceti dominanti, è il garante della struttura architettonica. Le strutture organiche invece hanno un’origine religiosa e comunitaria rappresentano una comune esperienza dell’anima. Le strutture architettoniche sono statiche e refrattarie al mutamento. Solo, quando le pulsioni organiche represse della società sono molto intense le strutture architettoniche si scuotono e lo stile inamovibile muta. Häring mutua le teorie del Wöfflin, lo stile dipende dai principi formali, mentre questi ultimi sono indissolubilmente legati a una cultura specifica. In questa prospettiva le culture classiche e latine, incontrastate egemoni delle strutture geometriche, produttrici del pensiero razionale occidentale si distinguono dalle culture germaniche. Se le prime dominano la storia senza soluzione di continuità sino a oggi, le seconde si manifestano compiutamente per la prima volta solo nello stile gotico. In esso la cupola non è più centripeta, la sua assolutezza geometrica, le regolarità imposte dal canone lasciano il posto al misterioso processo naturale del divenire delle forme. L’atmosfera degli spazi gotici è così magica, traccia di una dimensione mistica e popolare, nonché incommensurabile e divina. Ma nella fase ancora evolutiva delle culture geometriche il gotico appare ancora provvisorio, preparatorio, interlocutorio. È una fase della vita degli stili, la fase in cui i popoli germanici hanno reso manifesto il bisogno di ritrovare l’antico legame (religio) con la natura. Una primigenia unione nella quale le culture organiche trasfigurano i caratteri di stirpe e di razza, qualunque essi siano, nell’ambiente antropico. Le creazioni, le costruzioni, umane, in tal modo, trovano l’essenza. Il processo creativo segue le leggi intrinseche di ogni comunità e rinuncia all’arbitrio compiaciuto dell’artefice, che comunque ritroverà nel fatto compiuto anche il suo lavoro. Il risultato finale è così il risultato di un’insieme di fattori che comprendono l’espressività, il rapporto con la materia e con l’ambiente dell’artefice e della comunità intera. È insomma la manifestazione di un’identità. Le culture non sono quindi autarchiche generatrici di forme; esse sono parte di un sistema omnicomprensivo nel quale anche il nulla non è escluso. In questo contesto l’uomo è strumento e nello stesso tempo padrone incontrastato della tecnica. In questa ultima egli ritrova la creatività della natura e un possibile nuovo connubio. La fine delle proporzioni classiche Con l’epilogo delle culture geometriche decadono contemporaneamente le tecniche di controllo della forma a esse connesse. L’autorità delle proporzioni classiche sicuro mezzo per secoli del controllo della forma scema di fronte alla corrispondenza tra vita e forma delle strutture organiche. Secondo Häring, la proporzione nata dal genio della cultura greca già in origine manifesta la sua inadeguatezza. Dapprima essa è frutto del legame con il divino, ma subito dopo deve fare i conti con una tecnica ancora primitiva. Diventa quindi la quintessenza della misurabilità della vita, ma in tal modo delimita quest’ultima ne definisce i confini, costruisce intorno ad essa una gabbia dorata. Per i greci il rettangolo è la figura strutturale che solleva fin dall’inizio la proporzione, il reciproco rapporto tra due misure. La conseguenza è la necessità di trovare una legge formale costitutiva. Compito della proporzione è raggiungere nell’opera costruita l’equilibrio statico nel mondo della vita e dei fenomeni, il controllo e il congelamento delle interazioni tra individuo e cosmo. Per i greci la legge delle proporzioni, dei numeri, della geometria, dell’ordine rappresenta l’incontro con uno stato aurorale nel quale la vita ne è una parte. La proporzione non ha quindi una funzione estetica quanto piuttosto un ruolo fondativo. L’edificio è quindi il risultato di un processo evolutivo fondato su un rapporto numerico che controlla ogni singola parte in relazione con il tutto, che risolve le tensioni, che inevitabilmente raggiunge lo stato di quiete iniziale. La proporzione che ha per contenuto la legge costitutiva è l’espressione del mondo greco arcaico e solo in esso si manifesta compiuto e significante. La trasposizione delle regole proporzionali e geometriche nelle altre realtà si spoglia del contenuto e appare nella sola dimensione estetica estranea alle dinamiche della vita. Häring con una interpretazione originale delle teorie sullo stile più note del XIX secolo, è affascinato dalla primigenia forza espressiva del gotico. I numeri e le proporzioni che controllano gli armonici slanci verticali delle cattedrali non sono più costitutive come nelle opere dei greci, ma simboli memori di una tradizione non solo cristiana ma magica e barbarica. L’uso della geometria e delle proporzioni nel gotico è l’opposto contrario del mondo greco, non è il fondamento costitutivo quanto piuttosto un corollario simbolico intelligibile. La cattedrale gotica trova il suo principio costitutivo nell’ordine naturale e le proporzioni hanno il compito di assicurare effetti psicologici. Non ritratta di una critica tout court delle teorie delle proporzioni, ma di una progressiva perdita di senso costitutivo che si manifesta in tutta la sua forza secondo Häring nell’architettura neoclassica. L’architettura moderna, quindi, quando deve dare ordine a una creazione di tipo geometrico non può redimersi dal confrontarsi con il proporzionamento dei suoi elementi, sempre tenendo conto del fatto che con esso non si garantisce la qualità dell’opera, “come siamo ignari del suono che produrrà un violino ben accordato”1. La fine delle proporzioni classiche è solo l’ineludibile conseguenza del declino delle culture geometriche a favore di quelle organiche. Nelle strutture organiche la costruzione è un organismo vitale:“non ci ri- guardano più né la rappresentazione di ordinamenti divini nelle figure geometriche, come per gli egiziani, né il conflitto mirante a trascendere il corpo e la sua massa, come per i greci, e nemmeno il raffigurare lo spazio in funzione della sua sperimentazione, come nei secoli che dividono Roma dal barocco.(...)La geometria impone allo spazio un ordine fondato su leggi geometriche. La cultura organica reclama un ordine dello spazio con l’obiettivo di realizzare la vita. La prima ha generato il concetto di architettura, la seconda quella primordiale del costruire.”2 Il Neues Bauen di Hugo Häring ripudia le proporzioni geometriche ma non dimentica l’importanza dei problemi estetici, metrici e armonici. Modello è sempre la natura, una natura barbarica nella quale è visibile una bellezza e un’armonia frutto di una tensione interna, di finalità intrinseca all’essenza delle cose. Ma nelle proporzioni si evidenzia una certa dicotomia tra la teoria estremamente coerente nella sua continua reiterazione e la prassi progettuale. Se da una parte abbiamo progetti nei quali le relazioni proporzionali sono derive di un processo organico dall’altra si distinguono le Siedelungen nelle quali i volumi rispettosi dell’organizzazione urbanistica complessiva non sono molto dissimili dalle realizzazioni degli illustri colleghi fedeli alle regole geometriche classiche. Un progetto esemplare: la fattoria Garkau3 Il più noto lavoro costruito nel periodo più fecondo di Hugo è certamente il Gut Garkau. realizzato nel periodo compreso tra la fine del 1924 e l’estate del 1925 comprende una stalla, un granaio e una rimessa. Il complesso non presenta all’apparenza nessuna particolarità che lo distingue dai complessi analoghi dell’epoca se non per una bizzarra sequela di superfici curve distinte nei colori e nei materiali eterogenei. Già Joedicke nel 1965, in un periodo nel quale la figura di Haring non figurava più tra i maestri consacrati del Movimento Moderno, suggeriva di osservare il Gut Garkau nelle sue relazioni tra programma funzionale, conformazione dello spazio interno e conseguente figurazione dello spazio esterno. Di fatto il complesso è un tentativo di tradurre in costruzione l’essenza delle funzioni. La critica che di volta in volta si è occupata di Häring e di questo suo lavoro paradigmatico ne ha sottolineato l’aspetto ideologico, l’intransigente funzionalismo criticato perfino da Adolf Behne e incomprensibile agli occhi del collega e amico Mies van der Rohe per il quale le funzioni si evolvono e mutano continuamente mentre lo spazio e con esso la forma sono assoluti e universali. Ma in realtà Hugo Häring è mentore di un funzionalismo idealistico distante da una visione pragmatica e efficienti- 1 H. Häring. Proportionen, in “Deutsche Bauzeitung”, 1934, n. 29, 18 luglio, tratto da “Il segreto della forma”, 1983, Jaca Book, Milano. 2 3 Ibidem, p. 57. J. Joedicke. Edilizia Moderna, 1965 n. 86, pp. 46-53. sta. Funzionalismo esistenziale il cui obiettivo ultimo è ritrovare la corrispondenza tra forma e contenuto, l'aderenza tra costruzione e spazio vitale. La fattoria Garkau è stata progettata tra il 1922 e il 1923 e realizzata in gran parte entro il 1925. Garkau si trova nelle vaste pianure lievemente ondulate a sud di Lubecca, ai margini del lago di Pönitz. Il programma funzionale previsto dal committente, Otto Birtner, era piuttosto preciso e prevedeva un ampio utilizzo di tecniche innovative e sperimentali. Il complesso è composto da più edifici raccolti in un cortile quadrangolare ai margini del lago, cui si accede da due strade da sud. La strada principale è a est e porta direttamente alla casa del fattore, mentre quella a est arriva alla stalla, oltre la rimessa. La casa del fattore con l’ala, in cui vi sono gli uffici, la rimessa e il polla- io chiudono la corte a ovest. Il granaio è correttamente al centro della composizione ed è attraversato dai percorsi a senso unico dei carri trainati ancora con i buoi facilitando lo scarico del raccolto. Häring immagina ogni locale attraversato da percorsi dinamici che permettono l’interazione tra la forma derivante dall’ottimizzazione funzionale e la forma fluida dei movimenti possibili degli operatori e i loro mezzi. Sia dal punto di vista funzionale sia da quello simbolico i percorsi aprono lo spazio interno verso l’esterno senza soluzione di continuità. L’edificio più interessante del complesso dal punto di vista costruttivo e architettonico è sicuramente il granaio. Il vasto spazio necessario alla conservazione del prodotto è coperto da una grande copertura, rivestita di tegole, costituita da tavole di legno intersecate tra loro e inchiodate diagonalmente nei punti di incrocio che consentono di realizzare ampie campate con travi piuttosto corte. La forma complessiva goticheggiante è determinata dalla linea di spinta. Questa interessante soluzione riprende tecniche costruttive della tradizione tedesca già usata da noti architetti espressionisti come Otto Bartning. La copertura è posata su uno zoccolo murario di mattoni. Verso il lago essa è in leggero aggetto mentre verso la corte interna il muro sopravanza la copertura formando all’interno una serie di depositi. L’acceso pedonale, una scala rotonda in cemento armato, si trova sul lato sudest del granaio. All’esterno, i prospetti di testata sono caratterizzati da un rivestimento ligneo controventato da due setti anch’essi di legno. La stalla, invece, ha una insolita pianta a forma di “pera” che segue la disposizione delle 42 vacche previste dal programma funzionale e della relativa mangiatoia centrale, che è con la sua forma ovale il fulcro della composizione. Il bestiame non si fronteggia, non è a diretto contatto riducendo il pericolo di contagio in caso di epidemia. L’ispe-zione del bestiame avviene lungo un corridoio semicircolare che consente la visione di ogni singolo capo non solo da dietro ma anche davanti. Sopra la stalla c'è il fienile, da esso è possibile, quando serve, far scivolare il foraggio da una caditoia locata sul soffitto. Il toro da riproduzione è isolato in suo recinto dove può muoversi liberamente. L’aerazione della stalla avviene tramite una serie di fessure aperte al margine del soffitto inclinato in funzione di esse. La ventilazione dell’ambiente è regolata in modo autonomo. Le finestre, immediatamente sottostanti alle bocchette dell’aerazione, non si aprono e consentono unicamente l’illuminazione ottimale della stalla. Dal punto di vista costruttivo il soffitto della stalla e il tetto del fienile sono sorretti da pilastri disposti lungo il margine della mangiatoia; il tetto, una soletta di calcestruzzo armato dello spessore di 8 cm, e il soffitto hanno la stessa inclinazione per il controllo della ventilazione. La pendenza del tetto verso l’interno dell’edificio confluisce in un compluvio di raccolta dell’acqua. L’invenzione tecnica che si trasforma in nuove figurazioni architettoniche si conferma nella soluzione della tramoggia per la pula. Il granaio dista 50 metri dalla stalla. La pula e la paglia vengono pompate in una tramoggia da circa 100 metri cubi, dalla quale sono scaricate aprendo semplicemente una valvola nel punto di mescola. La forma dell’edificio è completato dalle dimore per i vitelli, i torelli e le mucche. L’insieme degli edifici, secondo le stesse parole di Häring: “(…) è il risultato del porsi l’obiettivo di trovare forme aderenti, nel modo più semplice e diretto, alle esigenze di realizzazione funzionale del complesso.(…) Qui non c’è il minimo spazio per influenze esterne, né per il folclore né per le tradizioni locali, quali i frontoni coronati da effigi di cavalli sassoni; ciononostante, l’edificio si inserisce nel paesaggio assai più armonicamente dei vecchi edifici circostanti.”4 Il progetto della Gut Garkau è, quindi a ragione, da considerare come un’opera paradigmatica. Come denota Peter Blundell Jones il problema che interessa Häring per la prestazione funzionale riguardava più il problema dell’identità dell’edificio che la concreta prestazione in sé, così come la struttura a vista era più un fatto di espressione tettonica che di semplificazione del processo costruttivo. Quanto il Bauen sia l’espressione del significato dell’uso è facile dedurlo analizzando la forma a pera della stalla. Secondo Haring la posizione del toro nella concavità minore dell’elissoide è il perno sul quale ruota l’intera composizione planimetrica. È la scelta più importante generatrice del progetto, ma questo gesto fondativo non può essere considerato una soluzione meramente funzionale a vantaggio degli animali o dell’agricoltore, visto che una soluzione lineare sarebbe stata altrettanto funzionale e sicuramente più economica. Per comprendere il significato della forma si deve considerare la distinzione cruciale tra Organwerk (l’opera organica) e Gestalwerk (l’opera formale), concettualizzazioni solo formalmente posteriori alla costruzione della fattoria. La collocazione del toro ha un valore essenzialmente espressivo che può essere decodificato solo chiarendo le distinzioni tra ciò che comunemente si definisce come pragmatico ed espressivo, estetico e simbolico. Sulla scia delle definizioni di quella cultura mitteleuropea che comprende teorici dell’architettura quali Bötticher e Alois Riegl, il più umile strumento esprime il suo scopo appena si impara a usarlo. Il significato di un oggetto è dunque connesso all’uso e l’uso al suo significato: non è possibile fare a meno di leggere nelle cose il loro uso. 4 Ibidem. CITTÀ, LIMITI, ARCHITETTURA Francesco Sorrentino Osservando con Google maps Pechino, Los Angeles, Città del Messico o le più vicine Londra, Parigi ed Istanbul, è difficile non rimanere colpiti dall’estensione della maglia urbana che sembra ripetersi all’infinito oltre la scacchiera che le conforma. Eppure gli scenari delle metropoli sono in qualche modo entrati a far parte del senso comune e costituiscono l’immagine stereotipata della città odierna, “un’immagine simbolo della città di fine millennio sono le luci di Los Angeles che si interrompono nel deserto, contro le colline, che si tuffano nell’oceano.”1 Nel suo essere diffusa, illimitata, la città contemporanea pone nuovi problemi e mostra nuove esigenze, come quelle legate alla riqualificazione delle zone marginali, le aree costruite negli ultimi decenni, che mostrano ormai da tempo segni di degrado. In tali aree il progetto di architettura si confronta con il concetto di limite non solo nei suoi fattori intrinseci 2, ma soprattutto in quelli estrinseci, derivanti dal contesto con il quale si relaziona, che si costituisce già, nel suo essere area marginale, come limite. Il testo di Claudio Zanirato “Architettura al limite. Il limite dell’architettura, l’architettura del limite” 3, uno studio sul rapporto della città con il proprio confine, dopo un excursus storico su tale rapporto, che si conclude nell’illustrazione della città diffusa, individua quelle zone marginali, aree industriali dismesse, o aree urbane degradate, caratterizzate da un edificato sparso, scarsa densità, assenza di servizi, forte presenza di snodi delle reti infrastrutturali, quali luoghi che, pur nell’impossibilità di segnare un netto confine urbano (anche perché spesso spinte all’interno del nucleo cittadino) si pongono come nuovi confini, recinti interni: “molto più che in passato, la città oggi è tracciata da margini interni, quali aree industriali dismesse, aree carcerarie e militari obsolete, aree ferroviarie...sono questi dei margini statici e non dinamici”4. Dal testo, emerge fortemente la necessità di individuare anche per la città attuale una soglia, un limite fisico o percettivo, che la distingua dal suo opposto che si è fantasmizzato ormai nel forte ispessimento della cintura periferica,o che lasci emergere la singola opera di architettura rispetto al contesto nel quale è collocata. Secondo Zanirato, la città e l’opera di architettu1 C. Zanirato, Architettura al limite. Il limite dell’architettura, l’architettura del limite, Alinea, 1999, p. 76. 2 I fattori “intrinseci” si intendono quelle operazioni che predispongono partizioni verticali ed orizzontali, delimitazioni spaziali, dalle quali il progetto di architettura non può prescindere, se non altro per l’ individuazione di una soglia una separazione tra interno ed esterno. 3 Ibidem. 4 Ibidem, p. 69. ra traggono forma da un’alterità cui si oppongono5, e tale dialettica oppositiva, necessaria alla percezione della forma stessa, non può prescindere dalla sussistenza di un limite: “ha quindi senso recuperare la logica del limite: contro la smisuratezza, per riaffermare il progetto urbano, per continuare a dare un senso ai manufatti, attraverso il disegno netto del passaggio tra spazi edificati e non”6. Il recupero della logica del limite ed il tipo di pro- getto ad esso associato, pur intendendo il limite quale “limite unificante”, soglia che, in luogo del separare unisce, proprio nella volontà di “riaffermare il progetto urbano”,di ricostituire la “forma”, offre l’idea di un progetto di tipo tradizionale, di stampo rinascimentale, o al più illuminista, nell’inconsapevolezza che la nostra epoca, postmoderna (Vattimo, Lyotard), oltremoderna o ultramoderna (Esposito), esito dello sviluppo postindustriale, vede solo progettualità “deboli” 7, alleggerite da fiducie avanguardistiche, scevre da ingenui ottimismi progressivi verso disegni compiuti. D’altronde da molti anni la legislazione urbanistica non solo locale e nazionale ma anche in ambito internazionale promuove progetti di riqualificazione delle aree fatiscenti o dismesse, delle aree portuali e ferroviarie inattive, e delle periferie in cui sono presenti fenomeni di degrado ambientale e sociale, ovvero strategie di recupero, certamente utili al miglioramento delle nostre città, in quanto promuovono la logica del concentramento e della densificazione urbana, evitando fenomeni di dispersione e consumo di suolo, ma tali da generare un meccanismo di crescita dall’interno della città stessa, fuori quindi da visioni complessive di lungo termine e di maggiore ampiezza 5 “Ogni città riceve la sua forma dal deserto cui si oppone”,in C. Zanirato, op. cit.., e da I. Calvino, Le città invisibili, Einaudi, 1972. 6 C. Zanirato, op. cit., p. 70. 7 G. Vattimo e P. A. Rovatti (a cura di), Il pensiero debole, Feltrinelli, 2010. urbana. Tali strategie infatti hanno senso nei limiti circoscritti alle aree in cui si interviene, che possono allargarsi agli immediati contesti limitrofi, ma che difficilmente potranno avere effetti globali sulla totalità dell’organismo metropolitano, sottoposto ad una serie infinita di pressioni economico-speculative, alle quali il progetto d’architettura risponde solo limitatamente. Al di là, quindi, del progetto dei nuovi limiti urbani, che la città continuerà comunque a produrre ogni qualvolta verranno dismesse aree non più funzionali, o ogni qualvolta, di fronte all’interesse suscitato da nuove aree riqualificate o di espansione, altre verranno abbandonate, è necessario prendere consapevolezza della limitatezza del progetto di architettura, del suo essere destinato ad un ambito ristretto della scena urbana, all’interno del quale è possibile trovare soluzioni, proporre innovazione, restituire un servizio alla collettività. Ciò non vuol dire che il progetto non sia in grado di trovare strade alternative, di ambire allo sconfinamento o al superamento dei limiti, come quelli imposti, ad esempio, dalla tecnologia o dalla disciplina stessa. Di fronte alla presa di coscienza del carattere pressoché illimitato della città attuale ed abbandonate le illusioni di agire con successo su tale illimitatezza, molti progettisti hanno fatto del progetto uno strumento di confronto con la grande realtà urbana ed i suoi fenomeni, come avviene a Rem Koolhaas, che affida il progetto alla Bigness in un gioco di identificazione tra l’opera di architettura e il consumo di massa promosso dal mercato urbano e globale. L’architettura di Koolhaas è strettamente legata infatti alla cultura di massa, fortemente presente nelle realtà metropolitane alle quali l’architetto si ispira, ed è forse tale legame che gli permette di comprendere i limiti del progetto, che Koolhaas riduce a “bene di consumo”, destinato ad un’utenza più o meno ampia cui pero non si offre alcuna nuova prospettiva di vita, alcun nuovo “destino”: “L’unica cosa che fanno gli architetti, di tanto in tanto, è produrre, nell’ambito di alcune circostanze predeterminate, edifici più o meno magistrali. Vi è un’incredibile sopravvalutazione del potere dell’archi-tettura in termini di ciò che di buono essa possa fare, ma, ancor di più, nel senso del male che ha fatto o che potrebbe fare”8. Nelle opere di Koolhaas non solo è presente la realtà urbana, ma vi è l’idea ed il sottile compiacimento che siano i fenomeni speculativi che governano la città diffusa, a mostrare la vera struttura della città contemporanea, tanto 8 R. Koolhaas, Conversations with Students, a cura di S. Kwinter, Rice University School of Architecture e Princeton Architectural Press, Houston-New York 1996, p. 43, in R. Moneo, Inquietudine teorica e strategia progettuale nell’opera di otto architetti contemporanei, Electa, 2005, p. 258. che è la stessa città diffusa che in Junkspace9 assurge a modello. Secondo quanto rileva Rafael Moneo, un architetto che, pur lavorando la “forma” ne tiene in vita le relazioni interne ed esterne, “… il modello, per Koolhaas, è la città spontanea, la città frutto di uno sviluppo non controllato, un prototipo che da nessun’altra parte si è prodotto, con tanta potenza ed energia, come nelle città americane” 10, rilevando un atteggiamento di matrice pop, alla Warhol, inconsapevole però del fatto “che, da sempre, il costruire è determinato dall’economia e, quindi, al contrario dell’arte warholiana, la quale assimilando le opere alla fluidità delle merci tende a interrompere l’istituzionalizzazione dei valori della moderna art pour l’art, è proprio riscattandosi dal mercato e dalla moda che l’architettura può riscoprire il suo senso”11. Un atteggiamento differente nei confronti del limite si ravvisa nella crescente attenzione che molti progettisti dedicano allo studio della pelle, l’involucro esterno dell’edificio, che oggi riveste un ruolo sempre più importante nel progetto di architettura. Con l’uso sempre più frequente della la tecnologia digitale, il dispositivo dell’interfaccia, in luogo del limite o confine12, restituisce meglio all’abitante della città contemporanea quelle facoltà di interconnessione tra realtà differenti, allo stesso modo con cui l’interfaccia di Google maps consente di osservare il nostro pianeta dall’alto. A differenza del limite o del confine come spazio soglia in grado di unire due realtà contigue, l’interfaccia offre la possibilità di stabilire interazioni con realtà fra di loro distanti e di diversa natura. Da qui l’idea che la stessa città e la sua architettura possano determinarsi nell’ interfaccia, in luoghi che consentono l’interconnessione non solo fisica, ma anche virtuale, simbolica e semantica tra differenti realtà e contesti. Diversi sono gli esperimenti in ambito architettonico che già da tempo fanno parte dello scenario delle nostre città, a partire dalle insegne luminose che rivestono gli edifici di Tokyo e di New York, a Shinjuku o Times Square, fino alle più recenti sperimentazioni in cui vengono messi a punto sistemi di facciata capaci di interagire con l’ambiente circostante13. 9 R. Koolhaas, Junkspace. Per un ripensamento radicale dello spazio urbano, a cura di G. Mastrigli, Macerata, Quodlibet, 2006. 10 R. Moneo, Inquietudine teorica e strategia progettuale nell’ope ra di otto architetti contemporanei, Electa, 2005, p. 260. 11 A. Cuomo, Nichilismo e utopia nell’architettura tedesca contemporanea, Franco Angeli, 2009, pp. 293-294. 12 Ritorna qui il concetto di limite come di limite unificante. 13 Risale al 1986 il progetto della Torre dei Venti dell’architetto Toyo Ito a Yokohama, una struttura rivestita da neon e lampadine, che interagiscono con le variazioni del vento e dei rumori della strada e della temperatura, creando effetti luminosi cangianti. Il progetto dello UN Studio di Ben Van Berkel e Carolin Bos per i Magazzini di Seoul, propone una facciata composta da dischi di vetro, trattato per avere un comportamento iridescente, che cambiano colore in base all’angolo di osservazione. In tal modo, grazie anche alla retroilluminazione applicata ai dischi, la facciata di notte simula le variazioni degli effetti cromatici della luce diurna. Una ricerca attenta alle potenzialità interconnettive dell’involucro edilizio è svolta con molta efficacia dall’architetto francese Jean Nouvel. Il progetto della Copenaghen Concert Hall, è un esempio emblematico dell’applicazione di una “facciata mediatica”, che avvolge come un enorme telo proiettore blu l’intero edificio. Di giorno la facciata risponde alle diverse condizioni di illuminazione solare, mentre di notte rende possibile la proiezione di video-istallazioni artistiche o di filmati e immagini pubblicitarie. Nell’albergo Sofitel Vienna Stephansdom-Stilwerk, Jean Nouvel mette in scena un gioco di trasparenze che si pone su un piano allusivo più sottile, al quale partecipano, non solo la pelle delle edificio, ma anche le partizioni interne. L’edificio, posto sulla sponda del Canale del Danubio, che scorre nel centro città, è composto da un volume più basso a sagoma trapezoidale dal quale emerge un parallelepipedo in vetro, ripartito in maniera tale da avere porzioni di facciata opache, per le quali il vetro è trattato a specchio, e porzioni trasparenti, che mostrano alla città gli interni delle aree pubbliche dell’albergo. Il progetto del soffitto delle zone trasparenti è stato affidato all’artista Pippilotti Rist, nota per le sue video istallazioni. La Pippilotti ha rivestito il soffitto della lobby, del belvedere e del ristorante panoramico, posizionato all’ultimo piano,con pannelli luminosi, che ritraggono con colori accesi e tonalità psichedeliche immagini del quotidiano, legate al mondo dei media e alla sessualità. L’arte dell’artista è rivolta a coinvolgere lo spettatore sul piano sensoriale, ad annullarne la distanza fisica dalle immagini proiettate. L’edificio, nel mostrare il suo soffitto alla città, innesca un meccanismo seduttivo (non è forse un caso che Pippilotti Rist dedichi molto della sua arte all’indagare i temi della sessualità) coinvolgendo un pubblico più ampio, che va oltre la semplice clientela dell’albergo, per allargarsi alla folla che attraversa l’intero panorama urbano. Tale gioco diviene, nella trasparenza della superficie vetrata dell’edificio, un gioco di infiniti rimandi ripetuti a scala urbana,al quale l’opera dell’artista si aggiunge con ulteriori allusioni, e “di fatti dietro l’allestimento dell’inseguirsi, uno dietro l’altro, dei velari costruttivi dei suoi edifici, non si cella nulla, il vuoto, l’infinita apertura, l’assenza originaria femminea”14. La città attuale mostra, probabilmente come da sempre, ai propri abitanti l’infrangersi dei propri i limiti, oggi non più porte predeterminate nella murazione per l’ingresso-uscita dello straniero, quanto vere 14 A. Cuomo, op. cit., p. 293. Alberto Cuomo, attraverso il pensiero di Jean Baudrillard, legge l’architettura di Jean Nouvel, in particolare i Grandi Magazzini Lafayette di Berlino: “Con Baudrillard si potrebbe definire l’architettura di Nouvel, per il rincorrersi delle trasparenze che allestisce, o per il suo essere gioco di superfici prive di profondità, prive di distinzione tra autenticità e artificio, una architettura della seduzione o una architettura del femminile”. e proprie lacerazioni, squarci sanguinolenti di vita a propria volta al limite, come è evidente nelle aree degradate o dismesse, o talvolta, in maniera più sorda, nelle varie condizioni pure interne alla città che determinano forme di malessere sociale, ed è nel dare risposta a tali limiti che l’architettura, sebbene impossibilitata a ricucire definitivamente tali ferite, riesce a trovare le risposte più affascinanti. NECESSITA’ DEL LIMITE Nicola Maria D'Angelo La globalizzazione del capitale e l'assoggettamento di ogni elemento, naturale ed umano, alle sue logiche, hanno dissolto il concetto stesso di limite. Una società votata alla crescita perenne ha bisogno di risorse illimitate o per lo meno ha bisogno di dimenticare che il pianeta è materialmente finito tale da limitare il processo di accumulazione della ricchezza 1. Tutto sembra dissolversi, il limite biofisico appare come una noiosa castrazione delle immense potenzialità offerte dalla tecnica, eppure già nel 1972 le preoccupazioni per un futuro in cui l'uomo fosse incapace di conciliare i suoi bisogni con i limiti fisici del pianeta, portò il Club di Roma a chiedere al System Dynamics Group del Massachusetts Institute of Technology (MIT) di intraprendere uno studio che mettesse alla luce i rischi rappresentati da una continua corsa verso la crescita. Lo studio condotto da Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows, Jorgen Randers e William W. Behrens III intitolato The limits to the growth, nella traduzione italiana, “I limiti dello sviluppo”, metteva alla luce, attraverso una serie di proiezioni computerizzate, i limiti di sopportazione del nostro pianeta. Gli stessi autori affermarono “che il pianeta è limitato, e lo sviluppo economico e soprattutto sociale non può proseguire molto a lungo senza andare a scontrarsi con i confini fisici del pianeta”. A quello studio ne sono seguiti altri, più affinati, grazie all'utilizzo di tecnologie sempre più avanzate, che hanno permesso proiezioni sempre più precise, eppure, non siamo stati in grado di diminuire la nostra rincorsa perenne alla crescita economica e sociale. Abbagliati dalla promessa di conservare i nostri standard elevati di comodità abbiamo iniziato a comportarci come se la nostra stessa vita non dovesse avere più una fine. Abbiamo deciso di dimenticare i “confini fisici del pianeta” e abbiamo continuato ad agire come se i limiti, di qualunque natura, non esistessero più. Il nostro fare oggi non è più guidato dalla consapevolezza di dover agire nel rispetto dei limiti, che siano di natura fisica, etica o morale, ma è guidato da esigenze altre, esterne all'interesse generale. Ed è in questo contesto che sono possibili progetti come il Dubai ski center. Inaugurato nel 2005 a Dubai il complesso è il primo e l'unico ski center del paese, con all'esterno temperature intorno ai 40 gradi all'ombra e all'interno piste da sci tali da attrarre 500.000 visitatori all’anno. Il procedimento per creare la neve nel deserto è simile a quello usato sulle piste da sci in di montagna, l'acqua viene raffreddata, mandata attraverso tubi verso i cannoni e sparata di notte quando i 23 congelatori sono al massimo della potenza e la temperatura è di 7-8 gradi sotto zero. Per conservare la neve, tra il tetto ed il soffitto dell’impianto è stata creata un’intercapedine di cinque metri, così come per le pareti. Sotto la pista scorrono cento chilometri di tubi che contengono glicolo etilenico e mantengono la temperatura della neve a meno 16 2. Una volta sciolta, la neve serve a raffreddare l'acqua dell'impianto di condizionamento del centro commerciale. Una macchina perfetta che ha ispirato altri progetti faraonici e che riesce ad anticipare qualunque tipo di cinema fantascientifico; una macchina che contribuisce a produrre otto milioni di visitatori l’anno. Il Dubai ski è in buona compagnia, basta ricordare la continua rincorsa di molti stati in crescente sviluppo economico per costruire la torre più alta al mondo, come la Kingdom Tower di Gedda in Arabia Saudita che punta a superare il chilometro. Per ora bisogna accontentarsi degli 829,8 metri del Burj Khalifa ancora a Dubai, al momento il più alto edificio del mondo. Nella nuova Gedda Tower sarà possibile acquistare appartamenti da 55 milioni di dollari con prezzi che vanno da 117.000 dollari a metro quadrato. Appare davvero arduo poter rintracciare negli esempi più importanti della contemporaneità un limite che guidi il fare, limite già necessario duemila anni fa, come riportato in un aneddoto su Dinocrate da Vitruvio. “Dinocrate architetto macedone avrebbe voluto erigere una monumentale statua in onore di Alessandro, trasformando in essa buona parte del monte Athos, sede tradizionalmente riservata alla celebrazione degli dei. La colossale statua avrebbe dovuto comprendere entro la sua superficie anche una città di nuova fondazione. Vitruvio che riporta l'aneddoto, mette in evidenza come una città siffatta fosse del tutto priva di campi e frutteti e non avrebbe consentito agli abitanti di disporre dei mezzi di sostentamento necessari per la loro vita. Alessandro, assodata questa conseguenza dannosa, si rivolse a Dinocrate, architetto adulatore, che aveva disposto il progetto non sostenuto da un vero ragionamento e lo respinse.”3 Nicola Emery si serve dell'aneddoto vitruviano per mettere in risalto quanto la volontà di adulare il potere e la pretesa di un progetto estremamente originale 2 1 M. O'Connor, Is Capitalism Sustainable? Citato in K. Frampton, Storia dell'architettura moderna, Zanichelli, Bologna, 1982. Sul Dubai Ski Center v. M. Chiusano “Dubai, lo sci nel deserto ecco la Disneyland degli emiri”, in «Repubblica», 05.01.09. 3 N. Emery, Distruzione e Progetto. L'architettura promessa, Christian Marinotti, Milano, 2011. abbiano portato Dinocrate a perdere ogni senso del limite. Vitruvio nel suo De Architettura avanza un monito rispetto alla conoscenza e al rispetto dei limiti. Conoscere e rispettare il limite vuol dire avere ben presente quale deve essere il punto di arresto del fare. Punto di arresto che non può essere dettato dalle possibilità offerte dalla tecnica o da presupposti velleitari e personalistici come nel caso di Dinocrate ma va ricercato nell’adesione di ogni progetto ai bisogni vitali dell'uomo. Anche in Calvino il valore di una delle più maestose e belle opere del fare, la città, si misura con la capacità di rispondere ai bisogni dell'uomo quando afferma che “d'una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”4.. La contemporaneità avrebbe fornito a Vitruvio numerosi aneddoti. Progetti velleitari, invivibili e sovradimensionati sono infatti rintracciabili in molte delle nostre città, ma l'elemento di novità rispetto all’epoca in cui Vitruvio si trovava a scrivere è che oggi, molti di questi progetti, pur velleitari, sembrano rispondere proprio ai bisogni dell'uomo. Il limite del nostro fare, come detto, dovrebbe riconoscersi non nella potenzialità della tecnica, che ormai appare illimitata, bensì nei bisogni dell’uomo i quali tuttavia nel mondo contemporaneo sono alterati dal mercato globale fondato sul consumo. Come ha osservato Zygmunt Bauman “i nuovi bisogni richiedono nuove merci, le nuove merci richiedono nuovi bisogni e desideri”5, per cui assistiamo ad una costante produzione di bisogni e di desideri, i quali vengono “dopati” per raggiungere maggiori profitti. Scompare ogni punto di arresto, ciò che è velleitariamente straordinario - megaedifici, cattedrali al consumismo, ecc. - ci appare ordinario, e l’architettura invece che rispondere ai bisogni veri dell'uomo si adegua alle logiche del mercato, diviene un prodotto tra gli altri, tanto che un architetto come Rem Koolhaas si compiace di presentarla quale oggetto di consumo, alla stregua di Andy Warhol, che utilizzava le immagini artistiche come stereotipi pubblicitari e le immagini pubblicitarie come arte: “Warhol si rivolge alla società in modo aggressivo, sforzandosi di rifletterla nel suo lavoro, un ritratto è, per lui, il ritratto del ritratto, non c'è partecipazione personale, tutto rientra nel mondo del consumo. Marilyn Monroe non è una persona, ma ciò che significa per il pubblico. Conta l'immagine” 6. Allo stesso modo, cioè, anche nelle architetture di Koolhaas, ciò che conta è l’immagine già consolidata e assorbita dal pubblico, quella che si adegua alla 4 I. Calvino, Le città Invisibili, Einaudi. Z. Bauman, Consuming Life, Polity Press, Cambrige 2007 (trad. it., Consumo Dunque sono, Laterza, Roma 2009, p. 40). 6 R. Moneo, Inquietudine teorica e strategia progettuale nell'opera di otto architetti contemporanei, Electa, Milano, 2005, p. 264. 5 Bigness che “promette all’architettura una sorta di status post-eroico, un riallineamento alla neutralità. ... la bigness schiera la generosità dell’urbanistica contro la grettezza dell’architettura”7, punto di arrivo dove all'enormità dell’oggetto architettonico corrisponde la sua completa perdita di autonomia, “massimamente e minimamente architettonica”. Vale a dire che, secondo Koolhaas, l’architettura non solo ha abbandonato ben volentieri la ricerca del suo fine, ma si è anche arresa “alle tecnologie, agli ingegneri, agli appaltatori, ai realizzatori, ai politici, ad altri ancora”, dissolvendo non solo il limite del fare ma anche il limite della propria essenza. E pure, nelle parole di Koolhaas il progetto trova ancora speranze prima di cedere completamente il campo alla post-architettura, se si afferma che non tutta l'architettura sarà assorbita dalla Bigness, che “ci sono molti ‘bisogni’ troppo confusi, troppo deboli, troppo indecorosi, troppo provocatori, troppo segreti, troppo sovversivi, troppo ‘niente’, per entrare a far parte della costellazione della Big-ness”8, ovvero bisogni che la post-architettura non è in grado di soddisfare. Questi bisogni possono aiutarci a ritrovare il punto di arresto per il nostro fare, possono riportare la produzione architettonica ad una scala umana ad una architettura capace di ritrovare i propri compiti, forse un'architettura di resistenza. “L'architettura non è un veicolo o un simbolo per cose estranee al proprio essere. In una società che celebra il superfluo, l'architettura può, nel proprio ambito, opporre resistenza, ribellarsi alla dissipazione gratuita di forme e significati e parlare il proprio linguaggio” 9. Ritrovare il senso del limite può far riscoprire quelle peculiarità dell'architettura che vengono dissolte nell'architettura della Bigness, far riscoprire valori come la fatica e l’abnegazione dissolti dalla facilità del tutto è possibile e del tutto è lecito visto che è possibile. Il riconoscimento del limite potrebbe essere interpretato come una riduzione della capacità creativa ma guardando alla storia dell'architettura, o all’esperienza dell'arte, ci accorgiamo che forse è vero il contrario. L'arte di Marina Abramović, ad esempio, è una continua ricerca volta al superamento dei limiti del corpo e della mente. Nella sua arte il limite non scompare ma viene tenacemente allontanato. Nel 1974, l'artista, nello studio Morra a Napoli, organizza una delle sue prime performance. Resta in piedi per sei ore di fronte al pubblico partenopeo, accanto ad un tavolo con ogni genere di utensile per provocarle dolore o piacere, da una piuma a una pistola carica. La performance degenera e si conclude quando la pistola le viene puntata alla tempia e l'esibizione viene interrotta. Il limite è stato palesato e si è scelto 7 R. Koolhaas, Junkspace, Quodlibet, Macerata 2006, p. 23. Ibidem. 9 P. Zumthor , Pensare Architettura, Electa, Milano, 2005 p. 19. 8 di non valicarlo, l'artista viene salvata dalla sua stessa opera. Limitare le possibilità offerte dalla tecnica e lavorare compiendo un passo indietro è la poetica di un grande regista giapponese come Yasujiro Ozu. Ozu è nato a Tokyo il 12 dicembre 1903 ed è morto il 12 dicembre 1963. Insieme a Kurosawa Akira e Mizoguchi Kenji è uno dei registi più importanti del suo paese. Il suo lavoro è stato omaggiato da progetti di registi contemporanei come il tedesco Wim Wenders e il cinese Hou Hsiao-hsien. I suoi film ci narrano di un Giappone che era sul punto di scomparire e che oggi non esiste più. Con un approccio neorealista Ozu si immerge nei contesti ordinari della società giapponese dell’immediato dopoguerra per restituirci una cronaca della quotidianità. “Ozu si serve di un limitatissimo numero di temi e di elementi formali. Le sue storie i suoi personaggi sono sempre gli stessi: storie domestiche, incentrate sulla struttura tradizionale della famiglia giapponese e sull’individuazione dei sintomi della sua progressiva scomposizione”10. Ma l’elemento che rende interessante la sua opera nel contesto di questa riflessione sul limite è che Ozu unisce ad una composizione austera un utilizzo della camera da presa a dir poco radicale, girando quasi sempre con la camera ad un'altezza da terra di settanta centimetri, il corrispondente di una persona seduta su un tatami. L'obiettivo della macchina da presa si colloca in una posizione molto distante dalle convenzioni cinematografiche, e in tal modo, come nell’opera di molti artisti, il passo indietro, la radicalità, l’imposizione di una fortissima limitazione fanno progredire la ricerca artistica in profondità piuttosto che in estensione, come ricorda Martì Arìs. Il limite è per il regista giapponese un’opportunità espressiva, tanto che effettua un’operazione di riduzione alla ricerca dell’essenza dei suoi strumenti, e con questo approccio riesce a costruire sequenze di raro impatto poetico dove il silenzio e l’assenza assumono un valore espressivo. Le immagini che lo ritraggono nell’atto di filmare una scena lo fanno assomigliare più ad un contorsionista che ad un regista, seduto a terra con le esili gambe incrociate, ricurvo su se stesso per immergere lo sguardo nell’obiettivo, sembra intento nell’atto di sbirciare più che di filmare. Ma forse è proprio questo sbirciare a rendere singolare il suo modo di riprendere, e a far sì che nelle scene la sua presenza non si avverta. Sempre il cinema ci dimostra come le limitazioni possano aumentare l'espressività e la creatività. Nel 2001 con la pellicola “L'uomo che non c'era” i fratelli Coen ritornano al bianco e nero, un passo indietro che sembra stimolare la ricerca di molti registi contemporanei. Pellicole come Nebraska di Alexander Payne o The Artist di Michael Hazanavicius riscuotono sempre 10 C. Martì Arìs, Silenzi Eloquenti, Marinotti, Milano, 2002, più spesso un enorme successo di critica e di pubblico. In The Artist, film premiato agli Oscar, il regista francese non solo ritorna al bianco e nero ma esclude la presenza dei dialoghi, e l’assenza del colore e dei dialoghi accentuano ed amplificano altri tipi di sensazioni da tempo assopite e dimenticate. Come ricordava Paul Valèry, “occorre maggior finezza per fare a meno di una parola che non per introdurla”11. In architettura le costrizioni, i vincoli, i limiti hanno sempre rappresentato un’occasione per il progettista: non ci sarebbero state cattedrali gotiche senza i vincoli imposti dalla statica; forse non potremmo ammirare la cupola di Santa Maria del Fiore di Brunelleschi se le economie del tempo non avessero imposto una costruzione senza centina. Anche la storia di una delle opere più rappresentative di tutti i secoli, il Partenone, è ricca di limiti imposti al progettista. Infatti quando Pericle incaricò Ictino della sua costruzione, nel 450 a.C., gli Ateniesi avevano già iniziato a edificare di un tempio dedicato ad Atena sull'Acropoli. Ictino elevando il Partenone non si liberò di tutto l'impianto Cimoniano ma fu abile a realizzare il suo progetto riutilizzando quello che per economie e tempi era possibile riutilizzare, come i rocchi delle colonne del Partenone di Callicrate 12. Emblematica per l’utilizzo poetico delle costrizioni e dei vincoli è l’opera di Lewerentz. L'architetto svedese in alcuni suoi ultimi lavori scelse di utilizzare il mattone come unico materiale. Egli si impose una forte limitazione e questa ampliò le qualità delle sua opera come mai era avvenuto sino ad allora. Nella chiesa di San Marco a Bjorkhagen, un sobborgo di Stoccolma, nel 1964, lavorò sul protagonismo della materia costruttiva, il mattone appunto, costruendo uno spazio di misteriosa densità, totalizzante proprio nell’uso limitato ad un solo materiale utilizzato per le volte di copertura, per i pavimenti e per i muri perimetrali. I mattoni furono accostati senza mai essere tagliati con una malta di spessore più elevato rispetto alla consuetudine, in modo da conferire protagonismo ad ogni singolo modulo. Fu per questo necessario utilizzare una malta molto secca ottenuta con pietrisco di ardesia “Un sistema che ricorda gli antichi edifici bizantini e persiani, ma anche il linguaggio vernacolare delle fattorie svedesi. Lewerentz disegnò la disposizione di ogni singolo mattone in una scala di 1:20 e pretese che i muratori non usassero né filo a piombo né una livella ad aria”13. Dall’immaterialità delle bianche facciate e dei volumi perfetti, “Le sue ultime opere sono più austere di qualsiasi minimalista, più intransigenti di quelle di 11 Citato in C. Martì Arìs, op. cit. R. Carpenter, Gli architetti del Partenone, Einaudi, Torino 1979. 13 C. St. John Wilson, Sigurd Lewerentz - edifici e luoghi sacri, in «Casabella» n. 687, marzo 2001. 12 qualsiasi brutalista”14. L'obiettivo di Lewerentz secondo Richard Weston era enfatizzare la natura del materiale, nel caso delle chiese di St. Mark e St. Peter, il mattone. “Cosi come Kahn ci dimostra cosa il mattone può fare, Lewerentz ci dimostra cosa il mattone è”15. L'opera di Lewerentz sembra affermare che il progetto si nutre delle costrizioni16 . Nei suoi edifici la luce, il materiale, lo spazio, vengono esaltati e ritornano ad essere peculiari dell'architettura a partire da una scelta iniziale fortemente limitante e da un processo costruttivo rivolto a raccogliere l’eredità del passato mentre molti architetti si fanno affascinare dall’high-tech. Questi esempi, nel cinema e nell’architettura, ci mostrano come il limite, e persino le costrizioni, stimolino domande attorno al “che cosa”, che è una delle premesse del nostro fare. Se questo sembra rispondere ai falsi bisogni indotti dal consumo - cui invita ad esempio Koolhaas - i quali ci portano a dimenticare la nostra finitezza, ripensare e riproporre, materiali, contenuti, fini definiti, non vuol dire soltanto ricordare la nostra costituzione “finita” ed i limiti del nostro pianeta, ma anche e soprattutto, riflettere sulle potenzialità espressive ancora presenti nelle limitazioni cui apparteniamo e, quindi sull’essenza stessa del nostro fare16. 14 Ibidem. Ripreso in K. Frampton, op. cit. 16 Per il concetto di costrizioni nel progetto v. S. Raffone, Altre Parole nel vuoto, Giannini, Napoli 2010, p. 20 e p.64. 15 LA DERIVA SENZA LIMITI DELL’ARCHITETTURA Rosario Di Petta Ciò che sembra caratterizzare più di ogni altra cosa l’attuale fase della ricerca progettuale architettonica è senza dubbio il predominio della tecnologia, ovvero della scienza applicata alla tecnica, quella che Emanuele Severino definisce tecnoscienza. Un fenomeno giudicato dal filosofo inevitabile, in quanto egli ravvede nel pensiero filosofico del nostro tempo “la coscienza inevitabile dell’assenza di ogni limite e di ogni verità assoluta”. La questione della totale rottura delle regole della architettura contemporanea rinvia inevitabilmente alla più ampia problematica della perdita definitiva del senso del limite, della “morale naturale”, delle “leggi di natura”, a favore di un diritto che viene di volta in volta adattato alla società secondo le proprie necessità. Nella nota introduttiva al saggio del Severino si tecnica e architettura, Renato Rizzi riassume il messaggio severiniano, notando come “il pensiero architettonico moderno e contemporaneo crede ingenuamente, e con sempre maggiore convinzione, che la tecnica sia una strumentazione astratta (e insieme concreta) dominabile dalla nostra volontà, assoggettabile alle nostre decisioni. La ritiene insomma un utensile prodotto per il nostro servizio. Saremmo noi, poi, a decidere del suo uso buono o cattivo... Su queste presunzioni si fonda l'intera (in)sensibilità estetica e informale dell'architettura contemporanea”.1 Diventata sempre più prodotto di marketing all’interno di un mondo globalizzato, l’architettura ed i suoi protagonisti più acclamati non hanno esitato a divenire parte dello spettacolare mondo colorato che ha di fatto trasformato molti luoghi urbani in tante disneyland dove tutto appare possibile e tecnologicamente innovativo, con l’uso di nuovi ed accattivanti materiali dalle superfici luccicanti. Un’architettura sempre più spesso rivolta verso una totale identificazione con le logiche concettuali proprie della performance artistica. La diffusione planetaria delle riviste cartacee e digitali di architettura ha contribuito non poco alla consacrazione del talento inventivo di molti architetti che, deposti gli abiti angusti della ricerca paziente, hanno abbracciato con favore i bagliori improvvisi e le straordinarie opportunità offerte dalla nuova era architettonica, intuendo la convenienza e persino la disarmante semplicità nella creazione di disinvolte bizzarrie formali, il cui unico fine sembra quello di gettare stupore negli occhi dello spettatore, evadendo da qualsiasi regola compositiva consolidata. E’ dalla fine degli anni Settanta che Frank O. Gehry intraprende una nuova linea di ricerca nella sua produzione progettuale, iniziando a lavorare su frammenti derivanti dal taglio o dal libero montaggio delle componenti costruttive, al fine di sconvolgere l’ordine del discorso, autoritario e rigido, del progettare architettonico. Nel fare tutto ciò, agisce con la volontà di determinare una sorta di dialogo creativo tra diversità materiche e formali, incidendo e spaccando la struttura da edificare in modo che il dentro e il fuori s’intreccino per formare un’unità caotica e disordinata.2 La cacofonia visuale prodotta diviene così inafferrabile da un’unica prospettiva, al punto tale da produrre un effetto spiazzante sull’osservatore, che non riesce ad orientarsi nella moltitudine di figure costruttive che non hanno principio né fine. In un ambito puramente artistico l’architetto californiano dimostra in tal modo grande abilità nell’invenzione di un universo formale inedito che, a dispetto delle tradizionali problematiche poste dal tema dell’abitare, persegue sempre più spesso il traguardo della rappresentatività delle diverse funzioni dell’edificio. La componente scultorea e rappresentativa diviene così il dato preminente nelle architetture realizzate da Gehry, nell’intento di abolire qualsiasi connotazione del tradizionale apparato compositivo, a vantaggio di una caotica, creativa, libera circolazione del vivere, che offra le possibilità tipiche di un set scenografico ricco di idee, stimoli ed immagini. L’architettura diviene evento, al pari delle altre manifestazioni artistiche contemporanee, inglobando e simboleggiando le sue funzioni sociali ed economiche. E’ lo stesso Gehry, d’altronde, a dichiarare i limiti delle questioni teoriche in architettura, a vantaggio del fascino della imprevedibilità artistica: “Troppo spesso in architettura ci si perde in discussioni teoriche, che mi piacciono, ma non funzionano come base e parametro del mio procedere. Penso che la realtà sia folle e difficilmente sia prevedibile cosa comporti, specialmente quando affronti un intervento urbano”.3 La perdita di senso del limite in architettura coincide in buona parte, così come rilevato oramai da tempo da Vittorio Gregotti, con la crisi che vive la parola “realismo”, guardata sempre più nel mondo delle arti con un certo sospetto. Si è caricata sempre più di connotazioni antimoderne, conservatrici, in2 1 R. Rizzi, L'inconsapevolezza: forma della dimenticanza, in E. Severino, Tecnica e architettura, Milano, 2003, p. 18. Cfr in G. Celant, Frank O. Gehry, Gruppo Editoriale L’Espresso, Moncalieri, 2013, p. 17. 3 Ibidem, p. 116. genue, che non terrebbero in conto la complessità del reale, a favore dell’esortazione ad una praticità utilitaristica e ad un adattamento empirico alle condizioni di produzione e di consumo che caratterizzano la nostra società.4 Si è andata facendo strada la convinzione che l’architetto debba essere un crea-tore di sogni, capace di indurre gli individui a desiderare forme inusuali di architetture che, all’atto pratico si rivelano il più delle volte inabitabili e per nulla rispondenti alle reali necessità della vita quotidiana. Quando propone il suo progetto per un resort integrato sull’isola di Sentosa, a Singapore, Gehry piega l’architettura alle sue visioni oniriche, con spazi conformati da morfologie ispirate a creature dell’oceano che sembrano emerse dal mare ed adagiate tra grandi vele di vetro alte fino a novanta metri. Il complesso che ospita quattro alberghi, uno stabilimento termale, un casinò, strutture per convegni, ristoranti e diversi punti vendita, prevede persino un gruppo di esseri chiamati Acquabrid (un incrocio tra antiche creature marine e tecnologia moderna), pervenendo al risultato di un paesaggio polimorfico e futuristico in cui l’architettura, con i suoi consolidati principi, viene del tutto dimenticata. Si giunge così, come rilevato da tempo da Mario Perniola, ad una netta “separazione dell’architettura dalla costruzione, (ad una) rivendicazione della sua autonomia rispetto all’edificare, (ad un) allargamento dello spazio plastico al di là dei limiti dell’immobile, (ad una) estensione della competenza architettonica a contesti sempre più ampi, (ad un) impegno a una invenzione del paesaggio su scala sempre più vasta”.5 La dilatazione dello spazio plastico al di là del singolo edificio è un fenomeno che appare quindi inarrestabile e che connota la linea di ricerca di tanti protagonisti dell’architettura contemporanea. E’ sufficiente prendere in esame il recente concorso di progettazione vinto dallo studio Zaha Hadid per il Masterplan del nuovo complesso culturale di Changsha, capitale della provincia cinese dell’Hunan, il Changsha Meixihu International Culture and Art Centre, per assistere ad un intersecarsi vorticoso di curve che si irradiano da tre strutture indipendenti collegate da un passaggio pedonale, negando qualsiasi idea di facciata, copertura, o scansione ritmica delle aperture, in favore di un flusso unico generato dal più grande degli edifici, il Grand Theatre, la cui forma evoca quattro petali di un fiore; il Museo di arte contemporanea è poi composto da tre petali che si adagiano in maniera fluida attorno al suo atrio centrale. L’idea della fluidità che anima e dà forma a tutti i progetti della Hadid richiama inevitabilmente la dinamica dei fluidi, restituendo alle sue architetture una forte valenza scultorea ed un indiscutibile fascino sensoriale, ma ad una analisi più attenta, emergono i limiti della mancata connessione con il territorio urbano e della indifferenza quasi programmatica alle istanze distributive e funzionali. Il risultato consiste nella creazione di una spazialità che sembra adatta ad una fruizione distratta, restituendo di fatto l’idea di un luogo abitato da uomini dotati di pattini o skateboard, intenti a solcare infinite superfici curve, in un movimento perenne che non ammette pause di riflessione. Accanto alla volontà di scardinare sempre più la consistenza tettonica dell’architettura, in un’ansia analitica tesa a decostruire ed assemblare frammenti, con un risultato spesso volutamente disarmonico, ha preso piede la convinzione che l’architettura, al pari delle altre arti, debba esprimere con esiti formali estremi dei contenuti concettuali che riassumano in una sorta di landmark, costruito a mò di logo, l’idea tematica dell’edificio. L’architettura è quindi diventata produzione di segnali, secondo quanto rileva Roberto Masiero, “messaggi, metafore, artificio tra gli artifici: non produce più solo forme o costruzioni, ma configurazioni … la tecnica è diventata innanzi tutto modalità neuronale, pensiero”.6 Nella nuova ala del Museo di Storia militare di Dresda, Daniel Libeskind pone in essere una architettura che stride fortemente con l’esistente; si tratta infatti di un cuneo alto 30 metri, di vetro e cemento, una struttura appuntita che invade l'edificio neoclassico ottocentesco spezzandolo in due parti. Dice Libeskind: ”Volevo creare uno stacco audace, una dislocazione fondamentale per penetrare l’arsenale storico”, ponendo l’accento sulle valenze ideali a fondamento del suo intervento, volto a rappresentare un museo militare contro la guerra, un luogo della memoria che insegni la cultura della pace. Per fare tutto ciò gli appare del tutto lecito spezzare il gioco plastico e spaziale dell’edificio monumentale esistente con una enorme scheggia di vetro e acciaio che appare del tutto sovradimensionata in relazione sia all’edificio che al contesto in cui esso sorge. In definitiva, è possibile affermare che anche in questa occasione sembra confermarsi per il colto architetto polacco una scarsa propensione all’analisi contestuale, a favore di un gioco puramente concettuale che si erge a fondamento dell'intervento progettuale. Liberata da ogni responsabilità etica, la città diviene per le contemporanee archistar un terreno artistico dove sperimentare ogni forma possibile di artisticità e di dominio della tecnica, in virtù di ambizioni personali anteposte alla risoluzione concreta delle eterne problematiche legate al tema dell’abitare. 4 Cfr. in V. Gregotti, L’architettura del realismo critico, Bari, 2004, p. 3. 5 M. Perniola, Il sex appeal dell’inorganico, Torino, 1994, p. 110. 6 R. Masiero, Estetica dell’architettura, Bologna, 1999, p. 215. E’ facile osservare che se l’architettura si adegua a tali logiche spettacolari, proprie di un cinico marketing globale, e rese possibili dagli inarrestabili progressi in ambito tecnologico, si arriva facilmente ad “immaginare la città come un congegno meccanico (ed a piegarla) alle esigenze della sfera tecnica – progettarla a misura di una linea tranviaria o di un’autostrada urbana – ma, poiché queste esigenze verranno rese obsolete dal progresso stesso della tecnica, progettarla per rispondere a specifiche funzioni sarà tragicamente insensato, perché queste funzioni saranno per forza di cose labili…, mentre la forma della città, per la sua stessa consistenza fisica, è destinata a durare per secoli, e la sola garanzia che la sua durata non sarà soltanto quella materiale delle sue pietre… sarà di disegnarla ricorrendo a tutti i temi consolidati nel corso di mille anni: perché poi il fatto che questi temi siano ancora vivissimi oggi … garantisce che il loro significato sarà ancora vivissimo nei secoli a venire”.7 7 M. Romano, La città come opera d’arte, Torino, 2008, pp. 108109. DECLINAZIONI DEL LIMITE TRA PUBBLICO E PRIVATO Luisa Mauro I luoghi in cui l’uomo espleta il suo comportamento sociale implicano anche la condizione di una loro sostanziale divisione che, nell’ambito stesso delle aree residenziali, determina ‘limiti’. L’individuo, dunque, sembra inquadrato quasi sincronicamente in spazi che esulano dalla dinamicità e dalla trasformazione e sembra essere caratterizzato da una peculiare, ma pur sempre paradossale, condizione di muoversi entro un limite spaziale nel quale convergono le sue necessità di vita. In generale il concetto di ‘limite’ per definizione1 è inteso come “l’estremo che circoscrive una cosa, punto, linea, o superficie al di là dei quali non trova alcuna parte della cosa, mentre al di qua di essi c’è tutta la cosa nella sua interezza” o semplicemente come “la sostanza della conoscenza stessa” o la “linea di demarcazione tra il finito stesso e l’infinito”. In questo senso può dirsi che l’uomo determina per sé una particolare condizione vitale, soprattutto intellettuale e culturale, che si avvale di decisi confini entro i quali circoscrive i rapporti con le cose e quelli istituzionalizzati al suo vivere nella società, attinenti il suo stato di diritto politico, economico e giuridico. A ciò si aggiunge che, nel passato come nel presente, la sua capacità di associarsi e di sentirsi in una certa misura “a casa” si determina anche e soprattutto nella frantumazione individualistica degli interessi e nella “omologazione” dei comportamenti e delle aspirazioni nelle società sviluppate. Da questa interpretazione generale nasce anche un’organizzazione civile dei luoghi residenziali e, in epoca moderna, dei grandi quartieri di abitazione, in cui il limite, sia quello perimetrale che quello di varia natura che si configura al loro interno, sostanzialmente consistente in un passaggio materiale, non diventa “il limite del libero confronto” di convinzioni e di interessi, ma si traduce nella possibilità di concreta oscillazione tra il carattere pubblico e privato della condizione abitativa. In tale prospettiva l’espediente rivolto a determinare delimitazioni, anche quello più semplice e naturale come una siepe, una staccionata di legno, un palo conficcato nel terreno o anche un solido muro, non costituisce solo il divieto di entrare in un certo spazio riservato, ma può possedere anche il significato letterale di passaggio da un territorio all’altro, da uno spazio all’altro, da una condizione all’altra. Ciò significa che il “limite” può costituirsi come un elemento che separa, ma anche che aggrega, che unisce, permette uno scambio, un rafforzamento, un’efficacia diretta ed una possibile interazione, in quanto costituzione del 1 V. voce “limite” in Grande Dizionario Enciclopedico UTET. privato ma anche zona franca pubblica. Nei quartieri residenziali cioè, in cui il limite tra il privato e ciò che è esterno, pubblico, viene concretamente percepito, chiunque passi dall’uno all’altro si ritrova, non solo dal punto di vista materiale ma anche sociale e culturale, come sospeso tra due mondi al punto tale che questo “margine”, designato come limite, diventa quasi ideale, atto solo a delimitare il passaggio da una situazione sociale ad un’altra. In tale contesto, dove il limite non rappresenta un forte e sostanziale distacco, si percepisce l’articolazione complessiva della società, ma anche il carattere liberale della scelta di chi ha accettato pienamente l’integrazione e non ha rinunciato, però, alle condizioni di una vita privata, e l’orientamento verso una simile scelta è confermato dall’esperienza ormai diffusa e consolidata della edilizia residenziale olandese,distante da quella della nostra esperienza culturale. Se percorriamo una nostra città, ad esempio Napoli, dal centro verso la periferia, durante il tragitto si passa da un costruito denso e pesante, costituito da palazzi storici, intervallati quasi regolarmente da vuoti troppo esigui e poco accoglienti verso le numerose forme di vita, di cultura, di religione e di etnia presenti, ad un costruito sparso, diradato, caratterizzato da pochi elementi concentrati in uno spazio fin troppo ampio che è difficile definire città, ma che non si può nemmeno considerare ‘campagna’ e che viene definita ormai comunemente come “città diffusa”.Questo passaggio è graduale e, nell’attraversarlo, non si incontrano barriere fisiche che ci fanno percepire in modo chiaro la separazione tra il centro e la periferia, tra il dentro ed il fuori mentre, al contrario, è sempre più netta la separazione tra il pubblico ed il privato, evidenziata da muri, recinti ed altre tipologie di barriere costituite da elementi forti e pesanti. Nell’osservare, invece, una città come Rotterdam e nel percorrerla dal centro verso la periferia, si passa da uno spazio esteso, caratterizzato da un costruito non eccessivamente denso, da un rapporto tra pieni e vuoti maggiore rispetto alle nostre città italiane, dalla coesistenza di edifici storici e grattacieli frutto delle correnti contemporanee e da una forte presenza di vuoti che accolgono le più disparate funzioni collettive e che conferiscono al costruito un valore aggiunto, ad un paesaggio periferico in cui è netta la separazione tra la campagna ed i quartieri residenziali di nuova costruzione, pur essendo questi luoghi privi di una barriera fisica vera e propria che distingua tra loro le parti, così come è inconsistente la separazione tra il centro e la periferia e tra gli spazi pubblici e quelli privati. I confini, si sa, non sono soltanto muri, non sono solo linee, quanto anche quelle separazioni immateriali che si delineano nelle dinamiche dei flussi, siano essi di beni, di persone, di merci, ecc. e, nelle città olandesi la differenza tra il centro e la periferia si percepisce, attraversando o sostando in essi, tramite elementi fisici, come il modo in cui vengono trattati gli spazi verdi, ma anche attraverso elementi astratti come il ritmo dinamico che governa il centro cittadino e quello lento e pigro che, al contrario, caratterizza i lembi periferici. Se consideriamo, poi, singolarmente i diversi quartieri residenziali ci rendiamo conto che ad essi si può applicare lo stesso discorso: pur non essendo presente una barriera pesante tra gli spazi pubblici, privati e semiprivati, la loro destinazione è chiara e definita e si percepisce apertamente praticandoli, sebbene le distinzioni tra i luoghi lascino in vita una loro permeabilità. Sostando cioè in uno spazio collettivo, si comprende in modo chiaro che quello è un luogo destinato alla collettività così come è evidente la percezione che si ha stando, invece, in uno spazio rivolto ad un uso privato, aperto o chiuso che sia, anche se i diversi spazi colloquiano oltre ogni rigida separazione pure presente. Sono rappresentativi, a tal proposito, due quartieri residenziali situati nella periferia a Nord-Est di Rotterdam: il complesso Ringvaartplasbuurst Oost a Prinseland ed il complesso di Nieuw Terbregge, realizzati rispettivamente tra il 1991 ed il 1993 e tra il 1999 ed il 2002 su progetto dello studio Mecanoo di Delft. Il primo sorge in un grande lotto (450 m per 180 m) a Sud di Via Jaques Dutilweg, una strada a scorrimento veloce con andamento Est-Ovest e consiste in cinque file di case a schiera distribuite in blocchi paralleli alla strada, ovvero anch’essi con andamento Est-Ovest. A partire da Nord verso Sud, la prima fila di case a schiera si suddivide in quattro blocchi longitudinali, paralleli alla Via Jaques Dutilweg di lunghezza pari a 95 metri ciascuno e separati da cinque strade carrabili perpendicolari alla strada principale. Immediatamente si percepisce l’assenza di una demarcazione tra il pubblico, il privato ed il semiprivato con elementi pesanti e la caratterizzazione dell’uso di elementi leggeri. Le altre quattro file di case a schiera, poste a sud dalla prima, si suddividono, invece, in otto stecche longitudinali di 34 e 44 metri lineari il cui andamento est-ovest non è parallelo alla prima fila di residenze poiché queste si curvano con angolazioni differenti, blocco per blocco, in modo da creare così uno sviluppo a zig-zag, dando vita a spazi interstiziali tutti diversi tra loro. Inoltre queste file di otto blocchi sono separate tra loro a due a due dalle strade carrabili e ogni coppia da percorsi pedonali, con andamento parallelo alle strade carrabili (Nord-Sud), che attraversano quattro giardini tematici (francese, olandese, giapponese e inglese) i quali caratterizzano così gli spazi collettivi fino ad arrivare al lago artificiale Rin- gvaartplas, limite Sud del quartiere. Ciò conferma l’idea che in Olanda la mancanza del confine permette una sostanziale interrelazione tra le parti. Tipico dei Mecanoo, infatti, è l’utilizzo di elementi paesaggistici a sottolineare il rapporto tra gli insediamenti residenziali e i luoghi in cui questi si calano. Come sostiene Pietro Valle “gli spazi pubblici e semiprivati sono trattati non secondo tipologie acquisite (corte/strada) ma con finiture diversificate che aiutano a caratterizzare luoghi diversi all’interno della serialità dell’housing”2. Il secondo complesso residenziale, Niew Terbregge, si trova alla periferia Nord di Rotterdam, al lato Nord dell’autostrada A 16 che corre con andamento Est-Ovest e sorge in un lotto di forma quasi triangolare, delimitato da tre canali artificiali sì che la composizione di tutti gli oggetti architettonici che lo costituiscono si adatti a tale forma, a conferma della volontà di istituire un rapporto aperto tra l’uomo e l’ambiente, tra il pubblico e il privato. A differenza del caso precedente, in questo sobborgo le residenze sono composte sia da case a schiera che da blocchi quadrangolari che accolgono otto residenze ognuno. Le case a schiera non hanno tutte la stessa dimensione longitudinale in quanto, accoppiate a due a due con andamento Nord-Sud, si adattano alla dimensione variabile del lotto, laddove il congiungersi delle coppie apre al centro il doppio accesso, carrabile e pedonale, organizzato su due livelli: al livello inferiore il percorso carrabile con accesso ai garage ed al livello superiore il percorso pedonale di distribuzione alle singole residenze: “I Mecanoo sono sempre stati particolarmente attenti a coordinare la presenza delle automobili nei complessi residenziali, pur mantenendo una massiccia presenza di spazi pedonali. L’invenzione di un doppio livello di accesso alle residenze sperimentato nel complesso di Nieuw Terbregge a Rotterdam è esemplare a questo riguardo: una strada inferiore di accesso ai garage è inframezzata da aiuole con alberi che spuntano sul superiore deck pedonale pubblico di legno, il quale dà luce al livello carrabile attraverso i giunti tra le tavole e i fori dove spuntano gli alberi. I due tipi di percorsi sono separati ma anche uniti dal paesaggio, dalla luce e dalla superficie dello schermo orizzontale” 3.Dei tre canali che circondano il complesso, poi, quello a Sud, di larghezza quasi tripla rispetto agli altri due, separa ed unisce contemporaneamente le stecche di case a schiera dai quattro blocchi a pianta quadrata che ospitano otto residenze ciascuno. Ognuno di questi quattro blocchi si trova a ridosso del canale, nel punto di intersezione tra il canale stesso e la direzione longitudinale che passa al centro di ogni coppia di stecche di residenze a schiera, e, di conseguenza, degli otto alloggi che lo costituiscono, 2 P. Valle, Mecanoo. Pragmatismo sperimentale, Skira, Milano, 2007, p. 22. 3 Ibidem, pp. 22-23. quattro sono posizionati proprio sull’acqua e quattro si trovano in corrispondenza del terrapieno. Ancora una volta, dunque, i Mecanoo utilizzano l’elemento naturale, nell’attenzione al paesaggio, come veri e propri limiti di un quartiere che rendono molto chiara la distinzione tra le parti, sebbene pur essendo netti esso si costituiscono quali luoghi di relazione e nei loro complessi residenziali, la relazionalità emerge, oltre la cura del dettaglio, negli stessi elementi che l’insieme progettato e costruito i quali sono anche rappresentativi del paese cui pure rinviano, come è per l’acqua che occupa sia in Olanda che nei loro progetti una posizione rilevante. Nelle opere del gruppo di Deft sembra cioè, come è nella tradizione olandese, che i limiti, del quartiere o delle abitazioni, ogni limite, si fluidifichino, tanto da finire con il non essere facilmente riconoscibili sebbene la loro percezione spaziale risulti comunque molto forte, soprattutto nel rapporto/contrasto tra edificio e paesaggio e tanto più nel privilegiare il contrasto tra l’oggetto architettonico pesante e l’elemento leggero su cui poggia, l’acqua che ne costituisce il limite. Allo stesso modo nei singoli alloggi, le delimitazioni del privato appaiono decise attraverso i materiali, e tuttavia proprio il loro uso sapiente, l’abilità nell’alternare elementi opachi ed elementi trasparenti che lascino passare lo sguardo in alcuni punti (gli spazi collettivi di una casa) e bloccare la vista in altri (come ad esempio le camere da letto, per garantire la giusta privacy a chi vi abita) o l’uso degli elementi naturali, particolari alberature che caratterizzano gli spazi semiprivati a separare il pubblico dal privato, manifestano la volontà a rendere una permeabilità tra il dentro e il fuori, l’interno e l’esterno, che faccia venir meno le pur definite partizioni. Vale a dire che attraverso la composizione di oggetti architettonici ed elementi naturali, vengono realizzati non solo nuovi quartieri, ma anche nuovi modi di abitare improntati alla sostenibilità ecologica e sociale, in modo tale che i diversi confini, sia fisici che sociali non siano incolmabili barriere, quanto elementi che integrano, uniscono, costruito e ambiente, ovvero individuo e comunità, uomo e natura, città e campagna, pubblico e privato. LA SMATERIALIZZAZIONE DEL LIMITE DELLA LINEA DI TERRA Antonio Mollo Il linguaggio analogico sarebbe un linguaggio di relazioni, che comporta i movimenti espressivi, i segni paralinguistici, il respiro, le grida, (...) si definisce allora l'analogico a partire da una certa "evidenza", da una certa presenza che si impone immediatamente, (...); il linguaggio analogico procede per somiglianze(...). Gilles Deleuze, Francis Bacon, Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata, 2002 Le vicende ecologiche del pianeta, fanno sì che la Terra chieda all'Architettura non solo rispetto, ma un nuovo e diverso coinvolgimento, capace di valorizzarle reciprocamente: “costruire, significa collaborare con la terra, imprimere il segno dell'uomo su un paesaggio che ne resterà modificato per sempre”1. Nasce un nuovo approccio culturale al progetto, urge la diffusione di una nuova coscienza ecologica 2 in un uomo non più soggetto cartesiano, in un essere finalmente libero di guardare alla natura non come ad un bottino da saccheggiare, ma consapevole dei propri limiti e della propria estrema fragilità 3. L’architettura con tutta la forza dirompente della sua grandezza fisica si fa specchio della complessità del contemporaneo, cercando da sempre di ordinare la realtà fisica che ci circonda, cristallizzando risposte in immagini volte a indicare possibili futuri tra biologico e geologico, tra integrazione e mimesi dove artificio e natura convivono e si dissolvono ibridandosi nella ricerca di nuove forme mutanti, vitali ed ecologiche. Con questa premessa, rileggendo la produzione architettonica del Movimento Moderno, “sembra che la prima preoccupazione di ogni intervento era rendere innanzitutto il suolo più simile possibile al piano di lavoro sul quale il progetto era stato disegnato, eliminando ogni asperità ogni dislivello e ogni differenza 1 M. Yourcenar, Memorie di Adriano, Einaudi, Torino, 2002 E. Morin propone una selezione di saggi (redatti tra il 1972 e il 2007) il cui minimo comun denominatore sembra essere un moderato pessimismo circa la capacità politico-sociale contemporanea di proporre un deciso cambiamento programmatico, antropologico e anche epistemico, per la soluzione (o, almeno la pianificazione delle azioni da intraprendere) di annose, improcrastinabili, nonché inquietanti problematiche ecologiche: “La coscienza ecologica ci fa abbandonare l’idea che il nostro ambiente sia fatto di elementi, di cose, di specie vegetali e animali che il genio umano può impunemente manipolare e asservire. Essa ci rivela che l’insieme delle interazioni tra gli esseri viventi all’interno di un sito geofisico costituisce una organizzazione spontanea che ha sue regole proprie, l’ecosistema, e che gli ecosistemi sono inglobati in una entità di insieme, auto organizzata e auto regolata, che forma la biosfera. Essa ci indica che la crescita industriale, tecnica e urbana incontrollata tende non soltanto a distruggere ogni vita negli ecosistemi locali, ma anche e soprattutto a degradare la biosfera e a minacciare alla fine la vita stessa (...).” E. Morin, L'anno I dell'era ecologica, Armando Editore, 2007, p. 54. 3 "La filosofia cartesiana (...), si presenta come una grande opera retorica dedicata all'etica della ricerca scientifica, secondo la quale la conquista della verità razionale è concepita come potere e dominio sulla natura (...)". A. d'Atri, Vita e Artficio. La filosofia di fronte a natura e tecnica, Bur Saggi, Milano, 2008 , p. 130. 2 di quota”4. Il confronto architettura-natura oggi non è infatti più riassumibile nell'atteggiamento ieratico di Mies van der Rohe che fa librare la casa Fansworth su esili profili in ferro conficcati nel terreno, la linea di terra non è più il limite dove poggiare ed elevare l'oggetto architettonico per dare vita a quel ”sapiente, rigoroso e magnifico gioco di volumi portati insieme alla luce” 5. Molte cose sono mutate da allora. Oggi, la natura entra sempre più prepotentemente nel processo progettuale, anche come materiale da costruzione, instaurando un nuovo rapporto con tutto ciò che ci circonda e dimostrando a volte, scarso interesse per le composizioni tettonicamente ben proporzionate, anch’esse, alla fine dei conti, pensate come oggetti scultorei autonomi rispetto ai contesti, portaerei calate dall'alto e poggiate nel paesaggio naturale, come quella provocatoria per un hotel progettata da Hollein 6. Renzo Piano scrive infatti a proposito dell'ideazione del centro servizi di Nola Vulcano Buono: “Il nostro progetto si è trovato di fronte il problema di (...) come evitare il banale accostamento dei volumi edilizi e delle funzioni, e dare invece un'identità unica e riconoscibile (...)”7. Ci si inserisce nel paesaggio naturale utilizzando gli strumenti della natura stessa, dialogando con essa con forme di mimesi geomorfologica o forme ipogee che sempre più sembrano non volersi confrontare con l'orizzonte, dove la linea di terra non diventa più la base su cui edificare, ma la materia prima cui dare una nuova forma attraverso lo scavo e la sopraelevazione, la deformazione, l’intreccio con i nuovi strumenti progettuali, le nuove forme intellettuali e i nuovi modi di porre domande di competenza architettonica. Solo la sezione può svelare i misteri delle architetture contemporanee racchiuse sotto la coltre terrestre, le quali non assumono più la linea di terra come confine su cui costruire, ma modificano il terreno incidendolo, corrugandolo, sollevandolo, creando spessori, inventando rigonfiamenti, plasmando le 4 R. Banham, L'architettura di quattro ecologie, Costa & Nolan, Genova, 1983. 5 Le Corbusier, Vers une architecture, G. Crès & Cie, Parigi, 1923. 6 Nel 1963 il Pritzker Prize Hans Hollein, avvertendo forse un limite in tanta produzione architettonica colloca, una nave da guerra nel paesaggio naturale, un collage-manifesto, simbolo della discontinuità radicale tra natura e artificio. 7 R. Piano, Giornale di bordo, Passigli, Firenze, 2005, p. 286. superfici, dando vita alla terra in modo nuovo, inedito, plastico, lontano dalle architetture tradizionali, vicino forse a memorie scultoree, astratte, confrontabili direttamente con le immagini suggestive dei paesaggi manipolati della land art. Questo tipo di rapporto architettura-natura può essere riassunto nella parola “geomorfismo”, una categoria che esprime bene la recente e crescente preoccupazione per l’aggressione che il paesaggio subisce quotidianamente in tutto il mondo civilizzato, ma che mette anche in evidenza la cattiva coscienza dell'uomo moderno cui corrisponde una sorta di esorcismo che conduce a mascherare i propri prodotti, quali agenti trasformatori della crosta terrestre, dietro la cortina fumogena della vegetazione pervasiva e della vaga analogia esteriore fra spazi urbanizzati e spazi naturali. Spesso il geomorfismo come poetica (o meglio come tattica) si ammanta di motivazioni ecologiche e di novità tecnologiche di tutto rispetto, ma nelle sue forme più corrive non va al di là dell’allestimento di maschere sovrapposte al vero volto delle costruzioni da cui troppo clamorosamente trasparirebbe la volontà di appropriazione del territorio e di aggiramento dei vincoli imposti dalle leggi per la protezione della natura. Non sarebbe giusto tuttavia attribuire a ogni forma di geomorfismo questa ipocrisia di fondo perché non di rado esso si presenta come espressione di una sensibilità ispirata dal rispetto e dalla ricerca di un'armonia strutturale tra architettura e scenario naturale 8. Gli indirizzi più recenti di questa tendenza sono riducibili a due grandi filoni, quello che potremmo definire della “montagna artificiale” e quello della “costruzione ipogea”. Nel suo progetto per il museo Klee a Berna, Renzo Piano, immagina di proseguire con tre “cupole-colline” (un auditorium nella prima, la collezione permanente e le esposizioni temporanee nella seconda, gli ambienti di servizio e di studio nella terza) i rilievi del sito. Come ha notato Jean Marie Martin “Piano ha costretto l’architettura ad un passo a ritroso ed ha dato al museo l’aspetto di una vasta grotta, per proteggervi nella penombra le meraviglie che custodirà”. La terra quindi si può anche sollevare, per farle ricoprire un’architettura sottostante, come ha fatto Kengo Kuma nel “Kitakami Canal Museum. Il Kitakami è un antichissimo canale giapponese; forse uno dei più antichi, il progetto prevedeva la costruzione di un museo e di un parco alla congiunzione del canale con il fiume, fedele alla sua teoria della cancellazione dell’architettura, e dell’architettura come paesaggio, Kengo Kuma ha immaginato un sentiero a “U” che scendendo di quota diventa incisione nel terreno, percorso ipogeo, edificio, museo, in una riuscita commistione di land art, architettura e infra- struttura che dissolve la distinzione fra costruito e non costruito, interno ed esterno, forma e contenuto. Addirittura Jean Nouvel, architetto molto celebrato per le sue capacità tecniche e tecnologiche, che mai rinuncerebbe a una volontà di forma per ambigui mimetismi, nel progetto del Museo per l’Evoluzione Umana a Burgos, in Spagna, introduce il tema della “nuova” collina urbana, che è allo stesso tempo caverna in cui accogliere gli spazi museali, il centro congressi e esposizioni, alberghi, centri commerciali. La ricerca sul tema dell’architettura sotterranea connota anche il sogno metafisico di Emilio Ambasz: “gli elementi del suo vocabolario di ricerca (le incisioni nella topografia dei terreni, i muri, gli spazi ipogei, i prismi netti e specchiati) si assemblano nella costruzione del Lucile HaIseII Conservatory, a San Antonio, Texas, in un vero e proprio percorso mitico e iniziatico, memore delle antiche culture centroamericane, che vorrebbe riconciliare natura e architettura, attraverso una concezione architettonica basata sullo scavo e sul vuoto, più che sul dominio del costruito sul suolo. La tendenza a far reagire il progetto di architettura con la protezione costituita da un manto di terra, massimo artificio che pretende però di essere letto come evento naturale, quasi un’improvvisa increspatura della crosta terrestre dovuta a un fenomeno sismico o eruttivo, che offre accoglienza a una architettura esente da protagonismo volumetrico, oltre lo specialismo di un Ambasz interseca altre espe-rienze della ricerca contemporanea”9. Tra queste, il centro per il fitness di Carlos Ferrater a Barcellona, che si manifesta in superficie attraverso grossi setti infissi nel terreno a raggiera per formare una stella, la quale da luce e aria agli spazi sotterranei, tagliando la terra per accoglierla e sostenerla ma anche per ricomporla in una nuova forma. Rilievi costruiti artificialmente e edifici ipogei, che rappresentano l’attuale condizione dell’architettura nel generare una terza natura che supera le tradizionali opposizioni tra naturale e artificiale, utilizzando linguaggi che non traducono più il paesaggio ma parlano la sua stessa lingua. 8 9 P. Portoghesi, Natura e architettura, Skira, Milano, 1999, p. 66. C. Pozzi, Ibridazioni architettura/natura, Meltemi, Roma. 2003. LA LINEA D’OMBRA DEL MEDITERRANEO Alberto Cuomo Una labile linea di separazione tra terra e mare, quella dell’estremo lembo di un’anonima spiaggia di Los Angeles che si affaccia sul gonfio Pacifico, è per Jean Baudrillard il limite ultimo dell’Occidente, là dove muore con il morire del sole il quale, scomparendo bruno nel mare, si affaccia già luminoso sull’Oriente. L’Occidente porta nel nome il suo essere luogo del tramonto, dell’occaso, del declinare oltre ogni splendore, essendo luogo dell’ombra già in origine, quando, nei lidi del continente a nord di Creta, cui gli elleni avevano dato il nome Europa, si affacciava sul Mediterraneo. Uno dei possibili significati del nome Europa, figlia di Agenore, re di Tiro, i cui resti sono ancora visibili nella città libanese che mantiene il toponimo, infatti, è nell’unione di εὐρύς, ampio e, ōp, occhio che rinvia al cerchio notturno della luna piena, tanto più che il mito, sebbene narri del rapimento della fanciulla da parte di Zeus, la quale assunse le sembianze di un toro bianco, simbolo del sole, onde giacere con lei, la vede nell’iconografia cavalcare l’animale solare e quasi vincerlo. E’ dal ratto di un sole che si inabissa di luna, notturno, quindi, che ha origine l’intero occidente, dai fratelli di Europa, i quali in cerca di lei fondarono i regni dell’Asia Minore, della Fenicia e della prima città greca, Tebe, e dalla stessa fanciulla che, divenuta regina di Creta, diede la nascita ai figli di Zeus e, tra essi, a Minosse, che segna il passaggio dalla cultura egizia a quella greca, con l’origine della scrittura lineare, fondato ancora sull’oscuro, sulle tenebre del labirinto che seguiranno il pure vincente Teseo. Del resto, non sono forse le peregrinazioni di Ulisse a rivelare già il carattere notturno, misterioso, del mare nostrum? E’ particolarmente nel moderno allora, nella associazione tra scienza e progresso che muove l’Occidente sin verso il realizzarsi del logos, di una luminosa ragione, di un suo definitivo dominio sulle cose, che il Mediterraneo, suo mare, viene inteso in una solarità, luogo del luminoso e, in architettura, della forma, di chiari ordini in cui allestire l’abitare1. Luogo solare di ragione lungo il moderno, e tenebroso e oscuro di epos e mitologie nel passato, il Mediterraneo più che rinviare ad una definita fisionomia si colloca sul limite della luce e dell’ombra quale incrocio di ragioni diverse e distinte, area dagli attraversamenti molteplici, di cangianti riflessi marini e di infinite mescolanze di acque e terre. A individuare il carattere multiforme del mare nostrum non si possono non rileggere i testi di Fernand Braudel nel libro che gli dedica, scritto, non a caso, a più mani. Dopo aver ripreso un noto passo di Lucien Febvre, nel quale si mostra come, malgrado provenienti da altri mondi, arbusti, fiori, piante, siano divenuti costitutivi del paesaggio mediterraneo, il Braudel, già nella breve introduzione riconosce che “nel paesaggio fisico come in quello umano, il Mediterraneo crocevia, il Mediterraneo eteroclito si presenta al nostro ricordo come un’immagine coerente, un sistema in cui tutto si fonde e si ricompone in un’unità originaria”, per interrogarsi su come spiegare tale essenza profonda che compone l’eterogeneo pur tenendo viva la diversità e proporre il suo variegato ed unitario carattere, coerente nella compresenza delle molteplici vicende della natura e degli uomini, quale “occasione per presentare un altro modo di accostarsi alla storia”, questa pure racconto organico riguardante un analogo tema e composto di narrazioni plurime, innumeri intrecci e modi narrativi. Nel suo testo Braudel ci offre sin dall’approccio al tema il senso di una mediterraneità plurale, a più facce. Proprio nell’incipit infatti scrive: “Che cos’è il Mediterraneo? Mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di civiltà accatastate le une sulle altre” 2. Ed i diversi testi, propri e di altri autori, sembrano essi stessi accatastarsi o, meglio, mescolarsi nel loro rendersi fluidi, a farsi attraversare da storie di navi, di viaggi, di pesca e di guerre, di odi e divinità, che pure convivono in un unico racconto, una analoga scrittura. Egli quindi, ad indicare come al carattere eterogeneo del mare interno corrisponda un’ottica multiversa, essendo persino la sua grandezza variabile, circondandosi ed immergendosi in se stesso, descrive anche, particolarmente a proposito della sponda e della cultura meridionale, di un Mediterraneo altro, come è per Albert Camus, nativo di quella sponda per il quale esso è sempre altrove, mai localizzato. E’ noto come Matvejevic 3, a mostrare il dilatarsi della mediterraneità verso l’intersecarsi delle sue correnti con le culture più interne, ha esteso il Mediterraneo oltre i confini delle sue rive, dilungandolo sin nel cuore dell’Europa, là dove giunge l’ulivo o, meglio, dove arriva l’ultimo alito del suoi venti. 2 1 Benedetto Gravagnuolo legge, tra gli altri, Il mito Mediterraneo nell’architettura contemporanea, Electa Napoli, Napoli 1994, come mito di una solarità accecante, priva d’ombra. F. Braudel, Il Mediterraneo, trad. it. Bompiani, Milano, 1987, da cui sono tratte qui le citazioni. 3 P. Matvejevic, Mediterraneo. Un nuovo breviario, trad. it. Garzanti, Milano, 1988. A propria volta Massimo Cacciari, affrontando il tema della geografia politico-culturale europea, si direbbe seguendo l’immagine del mare configurata da Braudel, fatto di isole, montagne, vulcani, ha mostrato l’Europa stessa come arcipelago, irriducibile pluralità, costellazione di città circondate dalla sua acqua che, composta da quella dei fiumi, si prolunga in essi a trovare, nei diversi idiomi, nomi e sensi differenti: “Thálassa è per i greci quello più usuale perché quello materno: nel suo grembo sono cresciuti, lungo i suoi cammini hanno viaggiato per conoscere, combattere, commerciare. Thálassa, mare nostrum, Mediterraneo. Non è nome generico del mare; è nome di persona” di quella che ci è più cara, la madre, nelle nostre lingue (si pensi al francese o alla nostra ma(d)re o “comare”) assimilata al mare. “Invece Pélagos rappresenta la vasta distesa, l’interminabile piaga dell’alto mare. Quando come un deserto, il mare ci abbraccia da ogni lato e ad un tempo ci custodisce e ci minaccia, quando il suo essere senza limite contraddice con la massima forza il nostro ‘ritmo stento’, il nostro ‘balbo parlare’ (Montale), allora esso assume il nome di Pélagos. E le ‘salmastre parole’ che ne intessono il canto appartengono allo háls, all’undantemsalum di Ennio. E’ il Mare come Sale: la via difficile-amara che sempre ci si agita intorno perennemente inquieta. Ma quando possiamo immaginarci il Mare come cammino, quando l’occhio discerne nell’inquietudine del pélagos la possibile via, e la cerca e la prova, allora póntos diviene il suo nome più proprio (è lo stesso nome che indica il cammino in sanscrito e in avestico). Un ponte è perciò il mare …” Ed ancora, sebbene atrygetos, non arabile, non vendemmiabile, “vinoso” o dalla radice “marmorire”, fondo oscuro, essendo altresì “Polyphoisbos, multisonante” delle sue lingue che “congiurano nel nominarlo nella molteplicità dei suoi volti, senza mai esaurirne il significato. Mosaico di nomi, che ritroviamo in quell’instancabile (àtrytos davvero!) gioco di echi e rimandi, di affinità elettive, corrispondenze e lontananze tra città, isole, scogli, grotte, insenature, baie…”. Fecondo di nomi esso è fecondo d’isole, “e tra esse, proprio come l’isola più bella, sorge la città, la polis per antonomasia Atene, dove per la prima volta la voce del popolo agitata come tempesta scrosciò nell’agorà … per ridiscendere rapida, verso il ‘porto felice’ e di lì salpare verso Cipro, verso Tiro lontana, verso la Coclide, verso l’antico Egitto”, verso le altre città dove il mare continua a risuonare nelle voci delle piazze 4. Rispetto a tale mare polimorfo, eteroclito, il mito di una mediterraneità solare, di un Mediterraneo quale culla originaria della evoluzione progressiva del logos, della ragione, è quindi solo nel senso comune più consunto della modernità, e della sua architettura. Indubbiamente tale idea si pone nel ‘700, quando, come mostra Marino Niola, “il Sud diventa luogo elettivo della differenza meridiana indispensabile a fondare la modernità, ovvero la civiltà del Settentrione. E il passato si configura come un altrove ancor più che un prima … Di questa invenzione del Mediterraneo l’archeologia è veicolo materiale e simbolico. In questo tornante culturale l’archeologia appare come una forma di allegoria, uno spazio topologico in cui la contemplazione delle rovine, dei resti del passato, si piega all’elaborazione di un lutto delle forme necessario a dirimere una controversia ereditata su chi, tra Nord e Sud, abbia il diritto di dirsi erede – figlio maturo proprio perché moderno – di quel passato illustre, e chi invece l’antico lo porti incarnato senza merito, come una reliquia vivente”5. E tuttavia, malgrado l’aspirazione dei viaggiatori settecenteschi del Grand Tour a ritrovare l’origine luminosa del cammino di progresso aperto dalla ragione, sebbene cioè i Goethe o i Berkeley si rivolgano all’archeologia per scoprire le vestigia di un tempo in cui fondare e distaccare insieme la modernità, i loro appunti di viaggio dimostrano come spesso, più che dal disseppellimento dei resti delle antiche civiltà, essi si lasciassero coinvolgere dal fascino dello scavo, del suo buio, delle sue oscure introspezioni. E’ il caso di M.me De Stael che, in visita alla città di Napoli, scrive di “una grotta sotterranea dove i lazzaroni vivono a migliaia, uscendo solo a mezzogiorno per vedere il sole e dormendo l’altro tempo, mentre le donne filano”, dimenticando cioè la città vera che, ancora Benjamin, vedrà estroversa ed esposta lungo le colline alla luce, ma emergente dalla vita sotterranea che brulica nella sua porosità o dagli scavi della vicina Pompei. O anche il caso di Goethe, il quale descrive i fanciulli di Napoli come “piccoli Huroni”, ritrovando “nelle spiagge e promontori, e i seni e i golfi, isole e penisole, giardini di delizie, alberi rari, viti rampicanti e montagne perdute fra le nubi” del Sud, il senso vivo dell’Odissea, quella fatta di luoghi oscuri in cui perdersi, come accadrà anche a Le Corbusier nel suo viaggio in Oriente. Se cioè nello stesso mito della solarità , invertendo i suoi segni “la mediterraneità si configura, all’opposto, come infantile fissazione ad uno stadio di mancato sviluppo ad una condizione submoderna”, quella di un Sud quale sorgente, luogo edenico dell’infanzia del mondo, emerge altresì nei viaggiatori settecenteschi la fascinazione che promana da una mediterraneità ferma nel tempo, al di qua della storia e del progresso moderno, area di divinità arcaiche, satiri e diavoli, ammaliatori di folle, come è per il suonatore di violino seguito dai lazzari felici che la De Stael descrive, o di riti ed usanze lontane messe in scena a Napoli, a S. 5 4 M. Cacciari, L’Arcipelago, Adelphi, Milano 1997, pp. 13-17 Si è qui sintetizzato un intervento di Marino Niola, al convegno che egli stesso ha organizzato presso l’istituto Italiano per gli Studi Filosofici a Napoli il 9-11 aprile 2002. Lucia, dove gli inglesi fittano nei bassi le sedie per godere, come in uno spettacolo, del diverso muoversi vociante della gente, essendo proprio questo suo lato oscuro a mostrarne il carattere più autentico, colto alfine da Nietzsche. Alimentando il mito solare del Mediterraneo, la stessa cultura moderna si concede quindi ai sensi della sua primitiva oscurità e, mentre rispetto agli stucchevoli bianchi marmi del Canova appariranno ben più vivi i corruschi bronzi di Gemito, sarà nelle interpretazioni novecentiste della mediterraneità, nei cielimare plumbei di Carrà, chiusi come scrigni opachi da cui emerge come in una fenditura il bianco soffice dell’onda, nei verdi cieli opprimenti di De Chirico, sorretti da una macabra luce livido-gialla, o negli enigmi insondabili della scrittura e della pittura di Savinio, che essa rende la sua stessa luce all’ombra, la chiarezza lucida della forma all’informe enigmatico del sogno. Così nell’architettura moderna italiana, erroneamente attribuita ad una solare mediterraneità in cui riscoprire la “forma”, nel riferimento alla tradizione rinascimentale, essendo invece quell’esperienza già il luogo della crisi del modernismo architettonico, della sua luminosa razionalità, proprio nella consapevolezza greca e latina circa l’ombra che circonda ogni luce (il termine Aletheia già dice di una verità emergente dal buio di una dimenticanza) l’interrompersi di ogni circoscrizione che tenti di conchiudere possibili armonie o solo definiti ordini (i greci conoscevano l’arco e la volta ma, volontariamente, lo ricorda Winckelmann, non usarono mai costruzioni circolari mentre i romani costruirono Roma nel solco delle murazioni sollevando l’aratro sul luogo delle porte, intese aperte all’esterno) . Così è per Cattaneo o Figini e Pollini, i quali nel nitore degli intonaci sembrano voler circonfondere di luce i decisi volumi delle loro architetture, per segnarli invece con l’ombra di improvvisi aggetti o di lunghe pensiline in copertura che, togliendoli al sole, li dilungano appiattiti sul terreno. Per Terragni, anche, il quale espone i suoi soffitti di vetro al luminoso del cielo, a giocare però negli interni con le penombre agite dagli innumerevoli diaframmi che si inseguono tra la più abbagliante luce e la più tenebrosa oscurità. E persino per Le Corbusier, i suoi volumi sotto la luce i quali, a Chandigarh, a La Tourette, a Ronchamp, la rendono, nelle loro chiuse recinzioni, solo epifania dell’ombra, già segretamente custodita nei grigi e ottusi cementi. Anche nel moderno allora la luce mediterranea si accompagna all’ombra, rivolte entrambe a rompere il limite della forma nell’infinito spettro dei toni, nell’arcobaleno molteplice della storia e delle vicende dell’Occidente che si stende tra loro. Ed è la dualità di luce ed ombra ad aprire anche agli infiniti mediterranei su cui si sofferma Braudel, il quale ci mostra come nel corso dei tempi diverse siano state le dimensioni del mare nostrum, oggi piccolo bacino di attra- versamento, ieri infinito aperto all’inabissamento di Atlandite, inconcluso anello d’acqua disteso dal più estremo oriente sin oltre le colonne d’Ercole, come il primo fiume Okeanos, dalle cui nozze con Teti, la Terra, sorsero le cose esistenti. Ancora una volta, nella possibile immedesimazione con il mare-fiume primario, il nostro mare si scopre luogo di una generatività oscura, non allineata in un “senso”, irrorando Okeanos, di cui Mediterraneo è memoria, immoto come Crono, sposo a sua volta di Gea, una fertilità della terra intesa come continua, indifferente, proliferazione delle cose offerte ad un esperire senza tempo, privo di esaustive comprensioni e conoscenze. D’altro canto è lo stesso primo mare, ignaro delle rotte del logos, a costituirsi come radicamento delle future ragioni, luogo della gestazione alla nascita delle cose nel tempo6, solcato dal loro primitivo, ancora confuso, allinearsi negli oscuri racconti del mythos che le condurrà solo alle soglie del loro riconoscimento sulla collina di Olimpo. E’ il Mediterraneo dei Fenici, di cui narra Sabatino Moscati7, quello di Troia, cara proprio alla divinità marina, Poseidone, città dell’albeggiare ancora denso d’ombre della nostra civiltà, distrutta dalla metis greca, dai popoli d’occidente, che offrirà in una compensazione una sua figlia al sorgere di Europa , in uno con la più oscura fondazione di Cartagine. E’ indicativo, di come la futura luminosità mediterranea si fondi sul buio del suo mare, il fatto che Creta, dalle origini troiane, si costituisca luogo intermedio tra gli alfabeti arcaici, pittografici, delle prime civiltà egizie e mesopotamiche e quelli astratti fatti di lettere e suoni da cui si genererà la linearità della scrittura e del pensare, luogo altresì del primo stare sul piano terreno, quello del labirinto, che appiattisce al suolo le montagne sacre di Babilonia, nel quale si muovono i passi di un andirivieni disorientato, ma infine stanziale. Così come è indicativo, di un impulso della ragione a rimuovere la sua oscura origine, il fatto che Roma, assimilato l’ordine greco, avverta la sorella Cartago, fondata su organici terrazzamenti inconsapevoli della regola ippodamea, dell’armonia della forma, come proprio distorto riflesso, seducente abisso di divinità primordiali aperto al possibile ritorno, da sfuggire e definitivamente distruggere – delenda Carthago – sin oltre le sue fondazioni, in modo da eliminarne persino il ricordo. D’altro canto se a Roma le più imperiose volumetrie si ergono sulla regola ippodamea infranta nella sua composita planimetria è la stessa ragione che eleva la polis a mostrare la sua acquea e mutevole origine. Il mito vuole Atene fondata dal dono dell’ulivo che il giavellotto di Atena fa sbocciare dalla roccia, preferito da Zeus all’altro do6 Cfr. la lettura di Heidegger di E. Severino, Gli abitatori del tempo, Armando Armando, Roma, 1978. 7 I testi di Sabatino Moscati, sul Mediterraneo sono diversi; sulla civiltà fenicia v. Il mondo dei Fenici, Il Saggiatore, Milano, 1966. no, il cavallo fatto sgorgare dal tridente di Poseidone, già fondatore di Sparta. Al segno della guerra che coinvolgeva le antiche città con l’introduzione della cavalleria nelle strategie belliche, la guerriera Atena oppone un simbolo di pacificazione, l’ulivo, il cui frutto sarà posto al centro della mensa mediterranea, figura del circolo comunitario, del patto relazionale di ingresso nella comunità, ancora quella cristiana ad esempio, e dell’uscita, con l’olio santo della cresima e dell’estrema unzione, attraverso il quale porre una conquista diversa, senza armi, culturale, razionale. Sarà pertanto dall’offerta dell’ulivo che la città più bella della Grecia, Atene, vedrà sorgere le euritmie del Partenone, dell’Eretteo, degli edifici che ordinano e polarizzano la città, costruiti sugli stessi numeri armonici offerti alla organizzazione sociale di cui scrive Platone, e se è il ritmo, il numero, il geometrico musicale a innalzare le pietre della polis, questo non individua forse nell’etimo, Rhein, lo scorrere, la fluidità dell’acqua, quella del mare-fiume primario, la cui battuta dell’onda segna il tempo e il suono dei tanti antichi riti comunitari, suscettibile di irrompere oltre le cadenze a sconnettere e inabissare ogni regola e ordine che si dia come definitivo. Si è detto dell’aspirazione dell’occidente moderno, della cultura centroeuropea, di porsi erede dell’antichità e dei greci, pur nell’inaugurare una nuova storia. Ed è proprio in quella cultura, nell’architettura e nella filosofia, che il ritmo della dialettica, o del cammino progressivo della scienza, conosce il suo naufragio, il perdersi dell’esistenza alla luce dell’oscuro sole dell’Essere che sfugge ogni possibile identificazione. Se infatti già nell’Ottocento, le contaminazioni diSchinkel tra le chiarezze del classico e le brumosità del gotico, i “pittoreschi” disegni a carboncino, immemori delle sapienti sue stesse pitture neoclassiche, attraversato l’hegelismo, per il quale lo spirito nel suo cammino verso l’identico non può non offrirsi al martirio della negazione, giungono alla fine del secolo a Semper, alla sua esaltazione, con Feuerbach, della materia, nella scoperta delle sue oscure ed essenziali leggi, e del fare stesso come conoscere, per coinvolgere Mies e Gropius i quali sublimano il contatto artigiano nel lampo eidetico del cristallo, abbacinato riflesso di una luce fuggita, sarà in Heidegger che, ricondotto il fare, il concreto esistere, alla luce dell’Essere, questo si da solo in un balenio, nascosto sole il quale non offre che ombre, e in fine una tensione alla morte. Ed è interrogando l’essere, quello parmenideo, che Heidegger percorre la polis, leggendo in essa il polos, l’asse, il cerchio metallico che cingeva e raggruppava in alto i capelli delle antiche divinità femminili, figura del raccogliersi di ondulazioni simili al mare, il polo verso cui si raduna la città, “che fa apparire l’ente nel suo essere … il sito della svelatezza dell’ente”, il luogo in cui questo si manifesta, anche se, pur essendo “il sito in sé raccolto della svela- tezza dell’ente … come dice la parola, l’aletheia è un’essenza conflittuale, e se tale conflittualità si mostra anche nel carattere contrastante dell’occultamento e dell’oblio, allora nella polis, intesa come sito essenziale dell’uomo dove domina ogni estrema opposizione essenziale, è inclusa ogni non-essenza (Un-wesen) relativa allo svelato e all’ente, vale a dire il ‘non-ente’ (das Unseinde) nella molteplicità della sua antiessenza (Gegenwesen)”8. Emerge come il luogo dell’evidenza, del disvelamento, la polis, dispone il disvelare, dell’essere e dell’ente, come un rivelare, un nascondere, un mostrare l’ente con la sua ombra, con il suo niente, lasciando decadere nello scorrere delle sue strade, nell’adunarsi nell’agorà, ogni aspirazione ad un definitivo, luminoso presentarsi dell’ente, ogni vocazione a fissarlo, per essere la stessa polis, fissazione di un limite, di una forma, disposta, come il polos che a pena trattiene le chiome straripanti oltre il suo cerchio, già alla effrazione. Sarà pertanto proprio dall’osservare come la luminosità mediterranea si trasformi nell’oscuro e persino nella violenza, che il testo curato da Braudel, affidata la conclusione a Georges Duby, prende congedo, oltre la morte che vi si affaccia, con le immagini della primitiva vitalità del nostro mare: “Da circa un secolo il Mediterraneo offre a chi lo scruta, agli avamposti della speranza, un volto di violenza. Veemenza del sole che divora i colori, veemenza dei profumi del giardino di Adone, veemenza del vento e dell’uragano sulla pietra arida e i cespugli anneriti, in un paesaggio severo, grigio e bianco, che erge i suoi cippi nel silenzio e nella solitudine sulle rive di un mare cupo e parsimonioso, maestro di miseria. Ne nascono le architetture spoglie di Saulages. E ne nascono quei contratti emblemi di dolore che vediamo gesticolare, contorti dalle burrasche marine, nel grande teatro di Picasso, così come i Massacri di André Masson. Non abbiamo ripudiato la vecchia eredità, solo abbiamo scelto di stabilirci nella sua parte tenebrosa. La Grecia del classicismo non ci piace più. Vogliamo quella che sa di sangue e di morte, la Grecia dionisiaca degli antri e dei miti, di Eraclito e del Minotauro, la Grecia viva e vera che da millenni sgozza i capri e danza, affamata ed ebbra, tra le icone e gli incantesimi. Il sole, ma tragico. La festa, ma popolare, il Mediterraneo , ma aspro e inebriante: il Mediterraneo dei poveri”9. Il Mediterraneo cioè dove il sole manifesti il suo lato notturno eliminando le linee nette di separazione tra luce ed ombra, ogni potere, ogni politeia dimentica dell’incertezza del discorrere, quello che auspica l’infrangersi di ogni possibile divisione, che irrompe in ogni recinto, in ogni forma definita, in ogni limite sempre figura di un possesso il quale, come canta Pino Daniele non si addice al mare: “chi tene o’ mare ossaie / 8 M. Heidegger, Parmenide, trad. it. Milano, 1999, pp. 170-171 e su polis, aletheia, tragedia, pp. 161-182. 9 G. Duby, L’eredità, in F. Braudel, op.cit., p. 282. porta na’ croce / cammina c’a vocca salata / chi tene o’ mare ossape che è fess e cuntento / chi tene o’ mare ossaie / nuntene niente”10. (Chi tiene il mare, lo sai, porta una croce, cammina con la bocca salata, chi tiene il mare lo sa che è fesso e contento, chi tiene il mare lo sai, non tiene niente). 10 La canzone di Pino Daniele è Chi tene o’ mare, posta non a caso nel Cd dal titolo Sott o’ sole. IL PAESAGGIO: LIMITI E CONFINI Gaetana Laezza Rinnovandosi continuamente per adattarsi ai mutati contesti, la città ha generato situazioni spaziali indefinite: i vuoti nati da progetti falliti, gli spazi interstiziali tra forme compiute, i manufatti inutilizzati, le infrastrutture obsolete e le aree abbandonate. Questi spazi sono resti, frammenti di progetti, scarti della vita della metropoli. Ma sono anche diventati luoghi in cui la città esprime la sua creatività, in cui trova spazio quell’energia spontanea che è in fondo il motore della stessa trasformazione urbana. Le “aree di risulta”, le “zone incompiute”, le “aree dismesse”, sono spazi fisiologici alla vita della metropoli, embrioni del rinnovamento urbano, non scorie da espellere. Gli spazi non più utilizzati sono riconquistati dalla natura, una natura abusiva, in parte di origine autoctona, in parte di importazione, a volte generata proprio da quelle opere che con la loro presenza l’hanno estromessa, esclusa, provandone a cancellare la presenza. Espandendosi oltre ogni limite la città contemporanea ha perduto i propri confini, per ritrovarli al suo interno, nei bordi che la ritagliano e che si dispiegano in aree abbandonate tra quelle costruite o che si stendono lungo gli altri recinti costituiti dalle infrastrutture che l’attraversano, e se il progetto di riqualificazione di queste aree è diventato il pretesto per l’inserimento di nuove funzioni, sovente aree verdi, tali da determinare un possibile equilibrio tra i pieni e i vuoti, la natura e il costruito, nonché rappresentare una via di comunicazione ecologica tra le singole aree naturali è probabile che il determinarle spesso in enclave, in una giardinizzazione tuttavia residuale, lasci loro il senso del limite, di un limite ugualmente invalicabile che continua a separare uomini e cose. Verificando l’ambiguità che permane nel fascino che subiamo dal concetto di “confine” e da quello di “soglia”, anche nella organizzazione urbana, che induce spesso a non affrontare con il necessario impegno la complessa questione delle separazioni che determinano, Piero Zanini si è soffermato, già nel 1997, con un suo saggio sui loro sensi, materiali e sociali: “Quello che vorremmo provare a fare con questo lavoro è descrivere un percorso attraverso il confine, luogo misterioso e non abbastanza frequentato. Luogo che incontriamo molte volte nei nostri spostamenti, luogo dove è facile imbattersi nell’imprevisto e muoversi, spesso a tentoni, nella scomodità. Vorremo cioè cominciare a osservare quello strano spazio che si trova «tra» le cose, quello che mettendo in contatto separa, o, forse, separando mette in contatto, persone, cose, culture, identità, spazi tra loro differenti. Lo spazio di confine quindi, ma anche (almeno questa è una delle ipotesi) il confine come spazio. Spazio che può avere un margine esterno, quello dove l’uomo abita, lavora, si muove e si diverte, quello delle architetture più concrete ed evidenti, ma anche un margine interno, interiore, intimo, legato ai nostri stati d’animo, alle speranze e alle utopie che li accompagnano. Margini che difficilmente riusciamo ad osservare chiaramente, anche se spesso ne affermiamo con certezza l’esistenza” 1. Riconoscendo quindi come anche la definizione a verde dei tanti bordi interni ed esterni alla città possa costituire una sorta di nuova murazione, come è talvolta per le aree periurbane che rinnovano in un certo senso la separazione tra città e campagna, Zanini si sofferma sulla necessità di tradurre i “limiti” che comunque si configurano nella trasformazione del paesaggio, naturale e urbano, in “confini”, luoghi cioè in cui si determini una osmosi, una relazione tra le parti che essi separano, essendo il senso stesso del con-fine rivolto a significare in passato il sentiero che attraversava due campi unendoli nella separazione. Di qui l’idea di rilevare, comprendere, conoscere, anche i dispositivi mentali, storici, culturali, sociali, che inducono ad individuare nel paesaggio i limiti che separano per agirvi in modo da rimuoverli, da architetti, ma anche da artisti, sociologi, antropologi, mutandoli in confini condivisi. E proprio un antropologo, Marc Augé, si è soffermato, anni prima, nei suoi saggi, sui cosiddetti nonluoghi, intesi spazi non identitari, relazionali e storici: le autostrade, gli svincoli, gli aeroporti, le ferrovie, ma anche i grandi centri commerciali, le strutture sportive, ecc. Spazi in cui milioni di individui si incrociano senza entrare in relazione. I nonluoghi sono prodotti della società contemporanea che, per Augé, non è capace di integrare in sé i modi di vita sociale e i luoghi così come nella storia. In tal modo il mondo, privo di integrazioni, tiene vive tutte le diversità in limiti materiali che divengono altresì recinti sociali, culturali, mentali. Viene meno la dicotomia storica centro/periferia per aree che sono centro e periferia insieme, ovvero per periferie che accolgono funzioni le quali ne fanno un centro nevralgico della città e per aree centrali che, deteriorandosi, conoscono processi 1 P. Zanini, Significati del confine, Mondadori, Milano, 1997, p. XIII. di marginalizzazione. Gli stessi spazi di margine, gli spazi di risulta, non estranei nelle nostre città, gli spazi sottostanti le autostrade e gli spazi cuscinetto che le circondano, gli spazi che vengono fuori dalle aree dismesse, conoscono spesso una rifunzionalizzazione che, invece di assimilarli alla vita urbana nel riconoscimento delle loro caratteristiche, ne mantiene la marginalità trasformandoli in aree di parcheggio o in timide aree verdi, poste ai confini tra la scala territoriale e la scala urbana. E invece proprio questi stessi spazi potrebbero costituire quei “confini” di cui scrive Zanini, mantenendo il ruolo di fasce di rispetto delle aree industriali attive, delle grandi vie di comunicazione, delle aree industriali dismesse, ma costituendo altresì un possibile disegno unitario che li faccia divenire tessuto connettivo del paesaggio urbano, riportandoli ad una vivibilità civile che, in una nuova qualità, possa restituirli alla collettività. Le aree di margine, gli spazi vuoti, le aree abbandonate, i luoghi di risulta, possono cioè diventare aree strutturanti la nuova città-paesaggio, in cui il progetto del vuoto può diventare fondamentale sul progetto del pieno, in cui cioè lo spazio vuoto è potenzialmente il pieno. Anche tutti gli spazi ignorati dall’architettura, le superfici asfaltate utilizzate per la manovra e la sosta delle auto, le aree occupate dai binari ferroviari, le zone adibite a deposito, le ex aree industriali, le stazioni inutilizzate, gli spazi urbani abbandonati, sono oggi da considerare come possibili lineamenti significativi nel nuovo volto della città. Essi non hanno una forma stabile, sono di per se stessi spazi dinamici, veri frammenti di un nuovo paesaggio costituito dai resti delle strutture abbandonate e dalla natura "abusiva" appropriatasi illegalmente dei luoghi. Si fa strada una nuova idea del margine, inteso come sistema, nuova infrastruttura, fondata sulle diverse gerarchie degli spazi reietti e recuperati alla vita urbana, che possa garantire un efficace collegamento tra le grandi emergenze architettoniche e funzionali, vale a dire un sistema di spazi aperti che, collocato su aree di scarso valore economico, disegna una nuova qualità ambientale ed estetica, restituendo identità ad un territorio apparentemente poco caratterizzato. Da qui la definizione di molti architetti-paesaggisti del parco-margine che trova la sua formulazione già nell’Ottocento con la creazione della cintura verde, e proposto nel Novecento in alcune città, come Stoccolma, dove l’architetto Harold Blom nel 1938 elaborò un programma di costruzione di un green belt system. Negli ultimi decenni il sistema infrastrutturale si è incrementato generando nei nostri tessuti urbani dei “vuoti” che si offrono oggi come possibili scenari utili a concorrere al recupero di parti della città contemporanea. Se da un lato l’infrastruttura ha reso possibile la connessione tra sistemi lontani, dall’altro ha creato elementi di frattura e disconnessione fra le parti del territorio. Proprio nei luoghi delle connessioni cioè si sono verificati fenomeni di separazione, configurati “vuoti urbani” che possono diventare occasioni per strutturare nuove relazioni, tra l’infrastruttura, gli insediamenti urbani ed il paesaggio, svolgendo così un ruolo di possibili “nuove centralità”. Il passaggio consolidato tra queste contraddizioni è diventato in tal modo il luogo del progetto. Obiettivo della progettazione contemporanea è quello di valorizzare questi non luoghi che attualmente sono le aree degradate, attraverso trasformazioni capaci di esprimere contenuti formali, qualità espressive e identitarie. Il processo da seguire per la progettazione di una strada, ma più in generale di qualsiasi infrastruttura, si basa su una serie di principi. Scrive il paesaggista Paolo Bürgi: “L’infrastruttura sta fra le cose, permette le relazioni in senso materiale, fisico, ma anche in senso immateriale, sul piano del pensiero. In un certo senso anche l’infrastruttura è un processo. Creare relazioni, porre in comunicazione, permettere il confronto e lo scambio di conoscenza sono processi, anche se diversi da quelli del paesaggio. Perciò non credo ci debba essere troppa differenza tra progettare un’infrastruttura rispetto, per esempio a fare un giardino, un parco.” 2 Gli spazi a margine costituiscono un elemento predominante nelle nostre città. Pensiamo agli spazi sottostanti le autostrade e gli spazi che le circondano, gli spazi laterali alle linee ferroviarie, gli spazi che costituiscono le fasce di rispetto degli aeroporti. Per anni sono stati spazi completamente abbandonati dall’architettura e spesso trasformati esclusivamente in aree di deposito, o in introversi accampamenti di emarginati in una terra di nessuno al limite tra il nomadismo di scala territoriale e la stanzialità di scala urbana. Oggi le situazioni riscontrabili nella maggior parte dei nostri territori urbani hanno assunto una loro precisa connotazione, offrendo ipotesi per la restituzione di questi spazi al paesaggio contemporaneo. Quali bordi, spazi latenti in attesa di definizione, sia essa funzionale che formale, essi possono trasformare il vuoto che li caratterizza in un elemento strategico nella modificazione della città contemporanea, facendo cioè divenire il vuoto uno spazio interstiziale, non più vuoto cioè in senso assoluto ma spazio tra le cose o dentro le cose. In questo senso lo spazio vuoto diventa un interstizio, un intervallo definito tra edifici, allo stesso modo in cui un edificio può a sua volta essere un intervallo tra vuoti. Gli spazi fisici di risulta, di bordo, non pianificati, divengono allora luoghi di creatività, della costruzione di nuovi momenti di comunicazione e di ricerca della memoria e della identità singolare e sociale, di mediazione, di riposo e di si2 P. Bürgi, Percezione, in L. Ponticelli e C. Micheletti, Nuove infrastrutture per nuovi paesaggi, Skira, Milano 2003, p. 25. lenzio tra l'ipertrofia e il disordine metropolitano. Essi costituiscono per così dire una frontiera verso cui indirizzarsi lasciando alle spalle l’autocelebrazione dell’architettura che pure persiste nelle megalopoli, nel tentativo vano di esorcizzare attraverso il consumo culturale i sensi di colpa di una società che interpreta sempre più la vita come mera attività di intrattenimento. Sono spazi in cui sono certamente presenti contraddizioni, ambiguità, mutazioni e trasformazioni e che vivono in una costante indefinizione la quale tuttavia può essere intesa come disponibilità al futuro. Essi quindi sono dei veri e propri laboratori del cambiamento in cui la creatività sociale può misurarsi. In quanto terre di nessuno e spazi di indeterminazione dovute alle trasformazioni dell'urbano che li circonda, essi sono, più che non-luoghi, luoghi “altri” di possibile apertura all’altro, luoghi in cui rappresentare e raccogliere le istanze della diversità, vibranti come sono di vita e di attese. Per questo l’idea centrale di molti progetti per il loro recupero è proprio nella connettività tra le parti di territorio disconnesse, nell’intenzione di fornire al paesaggio la sua riconoscibilità ed una più chiara identità. Un’idea che investe la stessa progettazione delle infrastrutture da tempo soggetta alle proteste sociali ed alla sferza della critica. E’ indicativo ad esempio che Bruno Zevi, scrivendo di una delle prime grandi infrastrutture italiane, l’Autostrada del Sole, insignita per il tratto in prossimità di Salerno del premio InArch proprio per il suo inserimento nel paesaggio, già rilevava che, in generale vi è oggi “la mancanza di una visione del paesaggio, di un progetto di tracciato, di un disegno corretto dei manufatti”, mentre successivamente Eugenio Galfetti ha sottolineato come in questi ultimi decenni siano stati costruiti “migliaia di chilometri di facciate autostradali, una sorta di muraglia cinese, un’ammucchiata che trasforma il paesaggio dell’autostrada in uno spazio squallido …”. Attualmente si è fatta strada però con sempre maggiore convinzione la necessità di eliminare, per quanto possibile, gli impedimenti causati dal sistema infrastrutturale, nel tentativo di riconnettere, in un sistema omogeneo e praticabile, le aree delle infrastrutture, e restituire al tessuto urbano la sua continuità. Considerando come le infrastrutture possano alterare gli stessi concetti di città, periferia, centro, in favore della frammentazione del territorio si è delineato il tentativo di formulare una nuova interpretazione del paesaggio europeo secondo cui le infrastrutture hanno non solo il compito di garantire l’efficienza dei collegamenti, ma anche di riorganizzare e sviluppare i luoghi in cui si inseriscono. Da qui la convinzione che la progettazione delle infrastrutture possa rientrare pienamente nell’ambito del progetto urbano e di paesaggio. In definitiva può dirsi che, mentre nel passato l’architettura si limitava esclusivamente a riempire gli spazi vuoti, oggi dopo anni di indiscriminato uso del territorio, si è evidenziata la necessità di contrastare l’aggressione al patrimonio naturale ormai segnato dalle industrie e dalle nuove espansioni residenziali, riconoscendo alle periferie, interne ed esterne alla città, alle aree in cui la città muore per fare posto all’indistinzione, a quelle rivolte a mere funzioni di collegamento, il ruolo vitale che pure possiedono, per renderle parti integranti delle nostre città. IL PORTO COME FRONTIERA URBANA La riqualificazione del waterfront di Liverpool. Laura Mariniello “Immaginiamo che un luogo non sia diverso dalla mente umana, densa di ricordi” S. Freud. Molto spesso il “limite” delle città storiche(qui inteso anche come spazio di frontiera)è costituito proprio dalle aree portuali, il cui caratteristico paesaggio è, nella maggior parte dei casi, riconosciuto dall’Unesco come patrimonio mondiale dell’umanità. Il patrimonio culturale è spesso considerato come l’incubatore di nuove attività creative fondamentali per la produzione di ricchezza economica, sociale e culturale della città. In questa prospettiva la rigenerazione ed il recupero delle aree portuali può diventare il punto d’inizio di un piano integrato di rigenerazione e sviluppo sostenibile di tutta la città, intesa come un organismo vivente, complesso, adattivo e dinamico in continua evoluzione, che riesce ogni volta a reagire alle perturbazioni esterne ed alle sfide economiche trovando nuovi equilibri, che le permettono di adattare continuamente se stessa a soddisfare i bisogni umani. Pertanto, il processo di rigenerazione delle aree/città portuali dovrebbe essere guidato da tre principi fondamentali: 1. la sinergia tra differenti attori e istituzioni, tra il sistema economico ed il sistema socio-culturale; 2. la circolazione delle risorse (riuso, riciclo e rigenerazione in analogia con un organismo naturale) che, in questo caso, significa privilegiare attività di restauro, recupero e riqualificazione; 3. la creatività come strumento per il potenziamento delle risorse, dello sviluppo economico e delle produzione di ricchezza della città in grado di consentire, nel campo specifico della progettazione urbana e architettonica, di coniugare la creazione di luoghi/spazi belli con gli obiettivi anche ecologici (la tutela dell’ambiente e la riduzione degli sprechi energetici). In effetti l’architettura e la pianificazione urbanistica possono svolgere un ruolo chiave nella trasformazione della città e nella costruzione di un’identità locale in un contesto urbano globalizzato, riuscendo a determinare ordine, armonia, qualità e bellezza contro un contesto dominato, invece, dal disordine, dal degrado e dal conflitto. In particolare il degrado sociale e urbano della città, cominciato nel periodo della Rivoluzione Industriale, ha conosciuto un considerevole peggioramento nell’epoca della rivoluzione tecnologico-informatica (ovvero l’epoca della globalizzazione) cui si è accompagnato anche un pericoloso processo di smaterializzazione sociale e culturale. La riqualificazione delle aree portuali potrebbe essere quindi il punto di inizio per la rigenerazione di una città più umana, dove venga potenziato non solo il settore economico di produzione della ricchezza (attività terziarie, turismo, commercio) ma anche e soprattutto il capitale sociale e culturale attraverso un modello di sviluppo democratico, che veda la partecipazione (la sinergia) di tutti i cittadini alle scelte politiche e governative della città. A tale scopo l’architettura non deve puntare solo alla creazione di spazi scenografici, ma deve progettare luoghi ovvero spazi pubblici (public realm) come punti d’incontro dove le persone possono intrattenersi e dove sono possibili di nuovo gli scambi faccia a faccia per dialogare, scambiarsi idee, promuovere ed inserire iniziative culturali, economiche, ecc. La rigenerazione dei luoghi (centri storici, aree portuali, waterfront, paesaggi culturali ecc.) è spesso inclusa in una “strategia estetica” di città bella, secondo un modello già realizzato a Parigi alla fine del 1800 e poi reinventato, solo qualche decennio fa, a Barcellona. Un gran numero di esperienze, ormai diffuse in tutto il mondo, hanno dimostrato come, attraverso il restauro e la riqualificazione del patrimonio artistico, culturale e ambientale, alcune città abbiano attratto numerosi investimenti, riguardanti non solo il settore del turismo, ma tutti gli ambiti economici. Inoltre la bellezza non è solo il prodotto della creatività, ma anche ciò che stimola e fa nascere la creatività e l’innovazione. Pertanto se è vero che la città creativa è fatta da abitanti creativi, è anche vero che è il luogo a generare persone creative. Del resto è scientificamente dimostrato che la qualità estetica dei luoghi ha il potere di generare nuove idee e innovazione. La bellezza come bene pubblico (public realm) può ispirare azioni creative, non solo per riqualificare beni materiali (architettura vecchia/nuova o migliorare l’economia nel senso di produzione di ricchezza, posti di lavoro ecc.), ma anche per rafforzare la coesione sociale e la cooperazione. In quest’ottica la bellezza assume un valore sociale, in quanto aumenta la sensazione di benessere psico-fisico e riduce lo stress, migliorando, in più le relazioni interpersonali: promuove l’attenzione, il rispetto, la cura e incoraggia gli scambi emotivi tra le persone. Tuttavia la “strategia estetica” di sviluppo urbano, sebbene stimoli la creatività e l’attrazione di attività artistiche, da sola non è sufficiente a determinare una possibile qualità urbana, magari anche con dispositivi rivolti alla sostenibilità, in quanto si rischierebbe solo di fare una semplice operazione di “urbanmake up”, se non si riducono anche gli impatti negativi sulla vita quotidiana. Per essere davvero efficace e vincente la “strategia estetica” deve essere combinata con azioni non solo connesse all’architettura, al paesaggio urbano, , alle mostre d’arte, ai grandi eventi,nel nostro caso alla riqualificazione delle aree portuali, ma deve essere capace di stimolare i cittadini, nei loro comportamenti e a sintetizzare gli elementi conflittuali. Ogni azione deve essere in grado di combinare elementi multipli e conflittuali per soddisfare esigenze creative, come, ad esempio, combinare scelte di bellezza/utilità, bellezza/equità, diritti/doveri, interessi privati/generali (il bene comune). Questa creatività appartiene al campo civile e prevede una autoorganizzazione che consenta ad ogni abitante di diventare creativo come un artista o un imprenditore, in grado, cioè, di dare vita a nuovi valori in un modo innovativo e originale in conformità con una“estetica civica”, che si esprime nell’incoraggiare uno stile di vita più sano e coerente con l’ecosistema, nel sostenere il senso civico e la partecipazione alla vita urbana, al fine di promuovere i beni comuni, di scegliere gli obiettivi di interesse comune e, quindi, di incoraggiare la democrazia, arrestando l’attuale declino sociale e culturale. Luoghi belli possono diventare spazi di vita sociale e promuovere il senso di comunità. La sfida è trasformare (in un processo che vede coinvolte sinergicamente tutte le scuole, università e reti culturali) i valori culturali – estetici – ambientali in valori civili, per costruire un senso di orgoglio civico nel tutelare e gestire i tesori di bellezza (il patrimonio artistico culturale, inteso come bene pubblico), nello stimolare le interazioni culturali ed emotive nonché la cooperazione secondo un processo autorganizzativo e adattivo. Così, oltre a incentivare la produzione di ricchezza economica, la città potrebbe combattere un altro tipo di povertà, ugualmente grave: la povertà sociale e culturale (presente altresì nei casi di emarginazione e disoccupazione) causata dalla frammentazione sociale (le città come luogo abitato da persone sole, sempre più sole) e promuovere, invece, la coesione, in grado di stimolare relazioni circolari tra beni intermedi (privati e pubblici) e persone. L’esempio di Liverpool La città di Liverpool ha subito, nel corso degli ultimi vent’anni, un processo di riqualificazione urbana davvero eccezionale. È da qui, dal porto di Liverpool ovvero lo storico Albert Dock, che sono cominciati i sogni di riscatto sociale per milioni di emigranti che nel secolo scorso lasciarono l’Europa per cercare un futuro negli Stati Uniti. La città - circa 500 mila abitanti, capoluogo dell'omonimo distretto metropolitano e della contea metropolitana inglese del Merseyside, sorge lungo l'estuario della Mersey e affaccia sul Mare d'Irlanda, non lontano dal confine con il Galles. Fondata nel 1207 dal re Giovanni Senza terra al fine di crearvi un nuovo porto, che non fosse sotto il controllo del conte di Chester, fu inizialmente utiliz- zata solo come base per l'invio di truppe nella vicina Irlanda e come fortezza con la costruzione di un possente castello (poi distrutto nel 1726). Per più di quattro secoli dalla sua fondazione, Liverpool, rimase un centro relativamente poco importante. A metà del XVI secolo la sua popolazione non superava i 500 abitanti e rimase un piccolo porto, subordinato, di fatto, a quello di Chester, fino al 1650. Soltanto nel XVIII secolo, con l'apertura del commercio verso le Indie Occidentali, incentrato soprattutto sulla tratta degli schiavi, Liverpool diventa il porto principale del paese, conoscendo uno sviluppo senza precedenti. All'inizio del XIX secolo circa il 40% di tutto il commercio mondiale transita ormai nel porto di questa città. Ma il XIX secolo è anche il periodo in cui inizia la grande trasformazione urbana di Liverpool con la costruzione di grandi edifici storici (St. George's Hall, Lime Street Station ecc.). La sua espansione continua incessante anche durante la prima parte del XX secolo, quando la città diventa uno degli obiettivi principali per i grandi flussi migratori provenienti dall'Europa continentale nonché principale porto europeo per i collegamenti con gli Stati Uniti. Perfino il tragico viaggio inaugurale del Titanic sarebbe dovuto partire dal porto di Liverpool, e fu solo in un secondo momento che venne spostato a Southampton. Dopo la seconda guerra mondiale, furono costruiti nuove zone residenziali e soprattutto il nuovo bacino di Seaforth, il più grande del Regno Unito. Tuttavia, la città negli anni cinquanta entra in un periodo di profonda crisi, con la chiusura di numerose fabbriche e la conseguente perdita di moltissimi posti di lavoro. Una prima rinascita culturale si ha, però, negli anni sessanta che fanno di Liverpool una delle città di riferimento per milioni di giovani, attratti soprattutto dal Merseybeat, lo stile musicale pop nato in questa città e i cui più famosi interpreti furono i Beatles e il gruppo Gerry and the Pacemakers. Dall’altro lato, però, continua inarrestabile il declino economico della città e del suo storico porto: l’Albert Dock, che subisce un altro duro colpo a partire dal 1970con l'introduzione dei container nello stoccaggio dei materiali, rendendo, così, il bacino di Seaforth obsoleto, perché isolato dal contesto urbano e in gran parte inutilizzato. La disoccupazione raggiunge negli anni ottanta i livelli più alti di sempre, con il tragico epilogo degli incidenti dei Toxteth Riots. Tuttavia, già a partire dagli anni Settanta-Ottanta, si stimola l’investimento dei privati per i primi significativi progetto di riqualificazione urbana: i flagship projects con l’iniziativa culturale del Garden Festival (1984), l’avvio dei lavori di restauro dell’Albert Dock con il suo storico complesso di magazzini portuali da sempre principale landmark della città e, per questo motivo, designato nel 2004 come sito Unesco; l’insediamento residenziale di Great George St. nel recin- to della Cattedrale Anglicana; il Wavertree Technology Park, etc. Con la designazione del Merseyside a regione Obiettivo 1 per l’Unione Europea per i fondi strutturali del periodo 1993-99 e di nuovo del periodo 2000-06, Liverpool ha potuto beneficiare di risorse per le operazioni di rigenerazione avviate. Per gestire la trasformazione la Liverpool Vision (prima Urban Regeneration Company del Regno Unito fondata nel 1999) elabora nel 2000 lo Strategic Regeneration Framework, un piano strategico processuale (di durata ventennale) che, evolvendo insieme alla città, consente la ri-progettazione di parti problematiche del centro cittadino, promuovendo strategicamente la sua nuova immagine nonché la ricostruzione dell’identità cittadina. Il primo passo del progetto di riqualificazione urbana è stato, comunque, il recupero del Pier Head, storico molo dominato da tre grandi edifici storici vittoriani, anch’essi adeguatamente restaurati, the Three Graces, a cui è stato affiancato il progetto del Liverpool Museum, conclusosi nel 2011 ad opera del gruppo danese 3XN, che si inserisce come una nuova Quarta Grazia, dalla forma autenticamente moderna e fluida di un enorme cannocchiale, che guarda contemporaneamente alle preesistenze storiche (le Tre Grazie) e allo storico porto, da sempre landmark urbano e zona di frontiera tra la città e il resto del mondo. Il basso volume, fortemente dinamico, visibile dal fiume e dalla città, dialoga armoniosamente con gli edifici storici allineati lungo il porto e la sua ampia permeabilità favorisce il flusso dei cittadini lungo i Docks, luogo di ristoranti, musei e boutique, creando uno spazio urbano piacevole e vivace, ideale per l’incentivazione di attività ricreative. La sua forma evoca il profilo delle navi mercantili che un tempo dominavano il porto, mentre il rivestimento in pietra naturale Juragold reinterpreta, nel motivo originale, il dettaglio architettonico degli edifici storici e reagisce in modo espressivo e dinamico alle variazioni atmosferiche e all’intensità della luce Le grandi vetrate inclinate alle due estremità dell’edificio, rivolte alla città ed al porto, sembrano simbolicamente aprirsi alla storia della città e al contempo permettere ai passanti di guardare all’interno. L’atrio funge non solo da hall d’ingresso e da spazio di connessione tra le gallerie espositive, ma anche da luogo d’incontro. Secondo Kim Herforth Nielsen, direttore creativo di 3XN: “Questo museo connette tra loro le diverse realtà fisiche, sociali e architettoniche della città. Fin dall’inizio l’idea portante del progetto è stata la creazione di un museo che fungesse da collegamento, fisico e simbolico. Mi fa molto piacere vedere realizzato in pieno questo ideale”. Tuttavia la rigenerazione non ha riguardato solo le zone del Pier Head e dell’Albert Dock, ma è stata diffusa a tutta la città ed anche alle aree retro-portuali: dal nuovo Retail Core, concepito intorno al sovradimensionato centro commerciale Liverpool One (in luogo purtroppo, degli antichi magazzini e strutture portuali) icona dichiaratamente post-moderna ed evocativa della City of Consumption che ha soppiantato inevitabilmente la City of Production, fino ai Creative Clusters Ropewalks e Baltic Triangle. In particolare, l’intervento su Ropewalks costituisce inoltre una ricucitura urbana con gli ordinati quartieri residenziali vittoriani e georgiani e con le aree verdi del campus universitario. Qui la cura del verde, delle pavimentazioni, dell’arredo urbano e dell’arte urbana, come chiave interpretativa dei luoghi, unite ad alcune significative attrezzature per lo sviluppo e la fruizione dell’arte contemporanea, si sono inserite in un processo di rigenerazione di quest’area che è oggi fra le più vive della città. Nell’area di Hope Street, invece, l’asse che connette le due grandi cattedrali della città (quella Anglicana di inizio secolo e quella Cattolica più moderna) l’amministrazione ha approntato una strategia che prevede l’implementazione del capitale sociale e culturale attraverso la redazione di due documenti: il Knowledge Quarter Prospectus e il Green Infrastructure Plan, dove sono stati pubblicati una serie di percorsi culturali fra le attrezzature già esistenti (le cattedrali, l’ex-chiesa di St. Luke, la Filarmonica, l’Università, il Liverpool Institute for Performing Arts, ecc.), e quelle nuove all’interno degli spazi per la fruizione diversificata del Public Realm. Più a Nord, sono state riprogettate anche le direttrici di entrata al cuore cittadino: il restauro della stazione centrale Edge Lane,Lime Street, il quartiere residenziale di Kensigton, etc. Tutti questi interventi portati avanti parallelamente a quelli sul waterfront, dimostrano come il progetto di riqualificazione e urbana e architettonica abbia avuto un’ impronta fortemente olistica, non mirata, quindi, solo a sterili ed auto-referenziate operazioni scenografiche di Urban Make Up, ma capace di creare allo stesso tempo luoghi nuovi e di valorizzare quelli esistenti. Tutto ciò ha contribuito ad una diffusione e ad una fruizione democratica della bellezza in tutti i quartieri della città, incoraggiando e promuovendo la creatività e l’identità civica degli abitanti. La riqualificazione dell’area portuale ha riaperto al mondo i confini angusti della vecchia città portuale degradata degli anni ’70 dandole il giusto impulso nel dare risalto alle proprie attrazioni culturali. E tale sforzo è stato premiato con l'assegnazione a Liverpool del titolo di capitale europea della cultura per l'anno 2008. Ma non solo, la riqualificazione ha avuto risvolti assai proficui anche sul versante economico in generale e sul turismo, soprattutto quello legato alla tradizione musicale degli anni sessanta. Insieme al capitale economico e culturale il processo di rigenerazione del waterfront ha interessato anche il capitale sociale, riuscendo finalmente ad arginare la disoccupazione e l’emarginazione al punto da ridurre moltissimo anche il tasso di criminalità che, ad oggi, è tra i più bassi di Inghilterra e che fanno di Liverpool una delle aree metropolitane più tranquille d'Europa. Inoltre, secondo recenti sondaggi Liverpool è considerata la città più musicale del Regno Unito e la sua vivacità culturale è senz’altro il motivo principale d’attrazione, con i suoi numerosi e poliedrici festival, ormai passerelle e mete obbligatorie per i talenti di tutto il mondo. Una città che ha fatto e (continua a fare) della creatività la sua carta vincente e la sua chiave di sviluppo economico, sociale, culturale. IL CONFINE/LIMITE: INVOLUCRO E FACCIATA Maria Amato Il tema del limite costituisce dall’inizio della storia delle civiltà organizzate il fondamento dello sviluppo del pensiero architettonico. Lo spazio, sia esso consistente o metafisico, è contenuto e marginato, all’interno di un sistema complesso che costituisce quella frontiera che talvolta è atmosfera altre volte suono o luce, molto più frequentemente architettura. L’architettura svolge il suo primordiale scopo sociale nel costituire elemento di definizione delle situazioni spaziali compatibili con le attività umane. Il limite è quindi un concetto definibile con lo strumento del progetto, non solo teorizzando, ma con l’individuazione degli elementi e dei segni caratterizzanti il luogo, riconducibili comunque alla sfera della composizione architettonica. Il confine stabilisce una differenza vera o presunta tra due luoghi e la sua esistenza produce effetti sul territorio, dall’una e dall’altra parte di una linea immaginaria. Questa linea può essere visibile, definita da cippi, dall’abbattimento di alberi, da recinzioni e fortificazioni: “… la nozione di confine intesa come linea mentale che segna e produce differenze, si sovrappone allo stato fisico del territorio modificandolo, è applicabile non solo a grandissima scala di rapporto tra Stati o regioni, ma anche a scale minori”.1 Quanto riportato fa trasparire un primo livello di lettura che ha una dimensione propriamente urbana e fa cenno ad un secondo, riferito all’architettura. Fin dalle sue origini la costruzione è stata organicamente connaturata al concetto di limite, capace non solo di definire e misurare la quantità di spazio di cui l’uomo prende possesso e in cui vive, ma anche per conferirgli identità. L’architettura inoltre è individuata come forma liminare, dove viene espresso più chia-ramente il concetto di limite come entità autonoma, e questa autonomia nello specifico viene espressa dalla facciata, che nella sua individualità risulta essere linea di incontro tra un dentro e un fuori, dove però non sempre questo contatto sarà espresso da una dipendenza, la facciata infatti, si proporrà come un limite capace di evidenziare l’autonomia delle parti, l’autonomia del dentro e quella del fuori. Negli ultimi decenni abbiamo visto perdersi il l’immagine tradizionale di rivestimento esterno, laddove un nuovo ruolo viene affidato all’involucro cui è affidato un ruolo parlante2, essendo la nuova interpretazione della facciata collegata anche alla innovazione dei materiali. Questo nuovo ruolo è legato al fatto che si affida al prospetto l’idea della comunicazione, nel senso che esso influisce anche sulla città, in quanto trasforma la sua immagine. “Le nuove macchine sono i nuovi ‘trasmettitori’ urbani ad alta concentrazione d’immagine, architetture isolate per le quali non esistono più codici di riferimento, ordini o dogmi che gli derivino dalla necessità di appartenenza ad un genere, ad una famiglia ad un contesto preciso di riferimento”3. Vale a dire che i nuovi interventi con la loro immagine i loro prospetti, quasi danno vita o meglio si fanno garanti di una nuova identità di luogo. Attraverso il testo di Daniela Colafranceschi sulla facciata possiamo addentrarci sui modi con i quali gli architetti interpretano il progetto dell’involucro, ovvero quello dei limiti dell’edificio. Per introdurre il concetto di equivalenza tra involucro e limite, possiamo far riferimento a questa definizione di Roberto Venturi: “Progettare dall’esterno verso l’interno, come dall’interno verso l’esterno produce delle tensioni necessarie che aiutano a fare architettura. Se l’esterno si differenzia dall’interno, il muro, punto di transizione, diviene fatto architettonico; l’architettura si ha quando si incontrano forze, interne ed esterne d’uso e spazio. Tali forze, interne ed ambientali sono generali e particolari, principali e secondarie. L’architettura, parete fra interno ed esterno, tra edificio e città, diviene la registrazione spaziale di questa risoluzione e del suo dramma”4. Per far comprendere meglio la relazione tra la facciata e l’involucro Daniela Colafranceschi rileva che “in un edificio può esservi una corrispondenza più o meno diretta tra la facciata e le altre componenti architettoniche che caratterizzano il suo interno, ma la maggiore o minore autonomia che questa assume nella composizione generale non ne diminuisce il ruolo primario di mediazione, di definizione e di limite, tra una precisa condizione privata e la sua rappresentazione scenica in pubblico”5. Il punto da sottolineare è proprio il ruolo di mediazione attribuito alla facciata, per quanto il suo concetto negli anni si sia evoluto al punto di parlare di pelle degli edifici resta il fatto che prescindere dalla sua consistenza materica, sia essa vetro, schermo, rame o altro, essa rappresenta di fatto un limite. Astraendoci momentaneamente dai materiali e soffermandoci sulla separazione introduciamo il discorso riportando la parte iniziale di un’intervista fatta dall’architetto Daniela Colafranceschi a James Wines. Alla domanda su 1 3 L. Benevolo e B. Albrecht, Le origini dell’architettura, Laterza, Bari, 2002, p. 177. 2 D. Colafranceschi, Architettura in Superficie, Gangemi, Roma. Ibidem. R. Venturi, in D. Colafranceschi, op. cit. 5 Ivi. 4 come bisogna interpretare nell’architettura l’elemento di separazione tra interno ed ester-no o tra qualsiasi coppia di valore opposto J. Wines risponde: “Quando iniziai ero molto interessato alla pelle o alla membrana di separazione come riflessione di un qualche ‘commento’ sul nostro ambiente. In tutto il nostro lavoro sin dal principio non abbiamo mai considerato il muro come piano astratto, elemento puramente costruttivo o materico. Esso è invece stato sempre nel nostro lavoro un elemento di informazione, di racconto, di commento … Non consideriamo il muro solo come struttura o come elemento divisorio, esso contiene sempre riferimenti al contesto in cui si colloca, al tipo di società cui è destinato … Il muro insomma, la superficie esterna dell’edificio, è soprattutto per noi il luogo in cui il progetto comunica i suoi significati, la sua identità, l’appartenenza ad un contesto specifico di riferimento … Il nostro tentativo è quello di distruggere l’idea del muro perfino come idea di separazione, di annullare cioè la sua qualità più propria: esso può essere interno ed esterno insieme, unità nella differenza. Abbiamo molti dubbi in architettura, ma una cosa è certa: i muri continuano a dare informazioni, hanno sempre dato informazioni sull’intorno e sull’ambiente. Alcuni degli architetti che io conosco e che lei ha intervistato sembrano ancora molto legati all’idea del muro come parte di una composizione formale astratta. Anche i nostri edifici possono talvolta dare questo tipo di impressione, ma nella realtà quello che più ci interessa nella concezione di un’architettura sono gli stimoli che ci vengono dalla società, dall’esterno, dall’ambiente, dalla topografia o dal territorio, da qualcosa insomma che viene da tutt’altra parte che non dal ‘muro’. Il muro è per noi un filtro; un filtro che riceve e trasmette molte informazioni, riceve e trasmette proprio come un televisore. Il muro come membrana filtra le informazione, e ne restituisce i significati in un gioco continuo di ricevere e dare. La maggior parte degli architetti però, come le ho detto, considera ancora preminentemente il muro come parte di una composizione astratta, con una funzione pragmatica rispetto all’edificio, quella del contenere … io penso che il fine di un edificio non è quello di autocelebrarsi plasticamente ma di essere veicolo e catalizzatore di informazioni per significare una cultura e un luogo”6. E’ doveroso sottolineare che quest’ intervista fa parte di un lavoro di particolare interesse riguardo appunto il tema della facciata. Il testo ha il titolo “Sull’Involucro in Architettura” dove l’autrice, Daniela Colafranceschi, attraverso otto interviste rivolte ad esponenti contemporanei, riesce a raccontare grazie alle diverse interpretazioni, come questo tema sia stato affrontato e che interrogativi ponga. Dall’intervista a Jean Nouvel si evince come lui non abbia una filosofia generale riguardo la pelle o la facciata degli edifici. Nello specifico egli precisa che: “... non do in generale molta importanza agli aspetti didattico espressivi della costruzione, non amo cioè mostrare sempre quello che l’architettura vuole significare”7, e sul tema della facciata sostiene che ogni facciata deve rispondere ad un tema che fa parte del concetto fondativo del progetto, quindi il tema della facciata non deve dissociarsi dal tema del progetto, ed il suo disegno non è mai posto apriori. Quindi, per spiegare come la facciata sia uno degli elementi che costituisce l’architettura e come si pieghi al linguaggio dell’intero involucro progettato, e soprattutto al luogo dove prende forma, utilizza come esempio l’Istituto del Mondo Arabo: “… la facciata a sud rappresenta il tema della perforazione del muro da parte della luce e della sua geometria, la facciata a nord, non avendo in quel caso a disposizione la luce, il tema della linearizzazione del paesaggio, della sua scomposizione in serigrafie sovrapposte. Così se la facciata tessuta a sud è spessa, a strati, composta di tutti i congegni che ne determinano la ‘massa’, l’altra è sovrimpressione, si vede in controluce e si lega all’altra”. Vale a dire che, nonostante precisi come la facciata sia sempre legata al progetto di architettura, comunque ad un certo punto richiede un’autonomia: “… La facciata è la risultante di una forma del pensiero architettonico tutto è collegato e sarebbe sciocco pensare che la facciata debba essere automatica conseguenza dell’architettura a cui appartiene… ”.8 Naturalmente l’immagine di una facciata o meglio la sua identità è legata ai materiali che si utilizzano ed ecco che Jean Nouvel esprime il suo interesse per il vetro, ma soprattutto relazionandolo con quello che lui individua come il materiale più importante ossia “la Luce”: “… tutto è luce, la materia viene dopo, e il rapporto luce/materia che fa si che si possa girare con la materialità e l’immaterialità ... Il vetro è una tecnologia che ci permette di mostrare più facilmente una profondità dietro la pelle, di giocare sulla profondità stessa dello sguardo …”9, A differenza di molti architetti Nouvel tiene ad affermare di non avere un materiale che preferisce, o meglio, che la sua ricerca non implica l’uso di un materiale che si ripeti continuamente preferendo combinazioni “luce e materia”, “luce e vetro”. E, a proposito del vetro, molte architetture tendono ad offrirlo ad una sovrapposizione di trame cercando di manifestare delle tessiture, di offrire effetti di riflessione, di giocare con il sole, come fa appunto lo stesso Nouvel che manipola la rifrazione della luce con la sovrimpressione di un’immagine, di una trama10. 7 J. Nouvel, in D. Colafranceschi, op. cit. Ivi. 9 Ivi. 10 Ivi. 8 6 J. Wines, in D. Colafranceschi, op. cit. Se Nouvel parla ancora, malgré soi, in termini di facciata un’altra interpretazione viene proposta da Domenique Perrault il quale tende di eliminare nella sua ricerca tale nozione per aderire al concetto di involucro cui affida un nuovo ruolo, intendendolo come qualcosa che avvolge, avviluppa. Egli sottolinea l’importanza dell’involucro, e del ruolo che svolge come elemento di incontro tra interno ed esterno, e se da una parte la sua progettazione prevede la possibilità della percezione dell’interno, comunque bisogna altresì sottolineare il suo essere anche luogo per un occultamento. Anche Perrault, esprime il suo consenso e la sua preferenza, tra i diversi materiali, per il vetro, in quanto lo identifica come migliore materiale per tener vivo il rapporto tra esterno ed interno. Grazie all’utilizzo del vetro cioè, alla trasparenza di una facciata, “se ne percepisce un’estetica dell’uso piuttosto che una proposta estetizzante di facciata”, nel senso che l’usarlo non si adegua ad un bisogno formalistico quanto aspira a nuove possibilità espressive. In una posizione intermedia e per degli aspetti diversa è quanto si deduce dal pensiero di Renzo Piano. Egli dice: “… Il tema della pelle è un tema che io ritengo nobile come quello della decorazione, intesa come aggiunta di qualcosa di applicato, ma come l’indispensabile lavoro sulle grane, sulle gradazioni, sulla luce dei materiali …, la ‘grana’ questo valore che non si esprime solo con un intonaco, con il cemento armato, ma si esprime anche attraverso le loro vibrazioni. Quando io penso alla decorazione, penso ad un senso di ricchezza … La ricchezza non implica una mancanza di frugalità: se si pensa a quanto erano frugali le superfici di mattoni di una volta, e pure quanto erano ricche. Intendo quindi la ricchezza di vibrazioni, ricchezza di grana e che al tempo stesso esprimeva frugalità” 11. Anche per Renzo Piano appare fondamentale il rapporto tra materiale e luce, così come emerge nei progetti che cita, l’edificio per abitazioni in Rue de Meax, le torri dell’IRCAM a Parigi e gli interventi nella città di Berlino, dove mostra che in essi la superficie non è tanto importante in quanto rivestimento, ma piuttosto per l’effetto che la luce vi induce, in quanto crea riflessi su di un muro e ne attraversa la superficie traforata. Torna quindi il concetto di pelle sebbene egli dichiari di non riuscire a darle autonomia anche se poi quando disegna finisce per conferirgliela soffermandosi sull’immagine e sui materiali dell’esterno. La pelle diventa allora il lasciapassare, la parola d’ordine attraverso cui l’esterno colloquia con l’interno, ed egli stesso cita il museo della collezione De Menil di Houston: “la pelle è costituita da Cedro rosso dell’Ovest. Lì questa idea è nata subito, perché l’edificio era bene che respirasse, era bene che acqui- stasse un’atmosfera simile a quella degli edifici che sono lì accanto, gli edifici della prima Houston, dei primi del secolo e dei pionieri. Il legno era l’elemento evocativo di un tema legato alla memoria dei luoghi, del centro storico della città, per quanto Houston possa avere un centro storico. Molte case le abbiamo sollevate, con dei grandi cavi, spostati di due o trecento metri per fare spazio e allora era giusto che questo museo, prendendo il posto di quelle case spostate un po’ più in là, ereditasse da quelle stesse case la pelle di legno”12. In questo caso, secondo quanto annota la Colafranceschi, nonostante Renzo Piano esprimesse particolare interesse per il vetro, descritto come materiale che può assumere delle atmosfere ed è metaforico, la sua predilezione andava ad una” pelle” intesa nella sua matericità e consistenza e, quindi, come diaframma opaco. Con Jacques Herzog il tema viene affrontato ancora con un altro accento. In primo luogo nell’intervista della Colafranceschi vengono rilevate le due componenti dell’involucro e del simbolo, dove l’involucro generico è affidato alla tecnica costruttiva e l’intenzione simbolica all’impiego di tecniche elettroniche che determinano per così dire l’ornamento, e a tale proposito Herzog mette in luce come le due cose, involucro e simbolo non possano scindersi. Interrogato sulla creazione, nel corso del progetto, della superficie esterna, risponde in maniera incisiva e chiara: “… la questione non è semplice: prima la piattaforma, poi l’edificio e poi ancora la pelle. Alle volte si comincia con l’idea di un dettaglio per una pelle, per una superficie esterna e termini invece con il come posizionerai l’edificio sul terreno ... noi mettiamo molta attenzione sul posizionamento dell’edificio, del suo situarlo. Poiché noi consideriamo ogni luogo come specifico, ci interessa trovare ogni volta una soluzione che sia specifica nel porre qualcosa in un posto specifico”13. Quanto riportato all’inizio sul concetto di muro e di come esso sia stato superato nel suo significato di separazione, per lasciare il posto ad un’idea di tramite, di un rapporto tra un dentro e un fuori, è stato utile per trovare un comune denominatore alle diverse interpretazioni che, nonostante le diverse sfumature, insistono sul tema della comunicazione, intesa sia come proiezione verso l’esterno del mondo interno e viceversa, sia come narrazione e informazione di eventi. Quest’ultimo aspetto è forse quello più vicino a J. Wines il quale mette in luce nell’intervista riportata, come il muro perdendo il suo significato limitante si apra proprio alla comunicazione, per cui no, nessuna facciata si pone, ma qualcosa che sia l’opposto di una facciata, nell’idea che si possa passare attraverso lo spazio concentrandosi maggiormente sulle informa12 11 R. Piano, in D. Colafranceschi, op. cit. 13 Ivi. J. Herzog, in D. Colafranceschi, op. cit. zioni che vi passano attraverso: “… Possiamo utilizzare dei video per descrivere ciò che non possiamo vedere, ma possiamo utilizzare ciò che non si vede per descrivere la superficie. E’ un differente modo di trattare il contenuto dell’architettura, più descrittivo, e di usare quell’ idea per fare alcune transizioni. I muri come passaggi possono esibirsi come sfida del progetto proponendosi come linee di transizione nello spazio che possano monitorare le condizioni di cambiamento sociale ed ambientale” 14. Questo aspetto meno comune va a chiudere un anello di interpretazioni: la facciata come tema progettuale, la facciata come limite, confine, come involucro, come pelle, coincidente con il simbolo. Per scelta non si fa cenno al ruolo sociale della facciata e su che ruolo abbia nel divenire della città, perché si vuole evidenziare l’aspetto più simbolico dove però non si perda di vista l’immagine e l’identità del progetto. 14 J. Wines ,in D. Colafranceschi, op. cit. Jean-Luc Nancy Politica e «essere con» Mimesis Milano 2014 L’interrogativo che attraversa i testi contenuti nel presente volume muove dall’urgenza teorica di approfondire una riflessione ontologico-politica che Nancy ha ormai avviato da due decenni. È possibile avanzare un’idea di democrazia che non si riduca alla legge dell’equivalenza generale o alla mera accumulazione di merci e capitali? Come concepire una politica che si faccia carico dell’essere-con e al tempo stesso abbia la forza di sottrarsi a qualsiasi totalizzazione del reale? In tale prospettiva, da quali categorie politiche ripartire per ridefinire l’esperienza che ci fa essere-insieme? Attraverso la decostruzione di alcuni paradigmi quali «democrazia», «popolo», «identità», «comune», «comunismo», il pensiero di Nancy tenta di aprire dei varchi che preparino il campo a inedite configurazioni del mondo. Ciò che qui la scrittura tenta di declinare non è tuttavia una politica propriamente detta quanto la definizione stessa dello «spazio»della politica da ri-tracciare a partire dal cum che si dà quale condizione ontologica prima di tutti i viventi. Alberto Cuomo La città infinita e altri scritti Libria, Melfi 2013 L'interrogazione, esplicita o sottintesa, che si pone nei diversi saggi del libro riguarda la possibilità, per l'architettura, di essere ancora attività negativa, critica, così come nel moderno, degli assetti, territoriali, sociali, politici, che pure la pongono. La consapevolezza della fine di ogni utopia, di ogni progressività e, quindi, di ogni possibile avanguardismo, sembra aver condotto infatti il progetto all'abbandono degli atteggiamenti oppositivi verso lo stato delle cose per una assuefazione ai suoi regimi e, principalmente, al mercato, con i suoi caratteri primariamente speculativi, sì che anche l'azione critica ancora agita si manifesta in una sorta di negazione celibe, ovvero in una autonegazione dell'architettura rivolta a mostrare la propria "sparizione". E tuttavia, pure nella fine degli "eroismi", la testimonianza dell'architettura circa il proprio dissolversi quale evento in cui si riflette il nostro vivere può essere intesa come estremo impegno" tragico", in contrasto con gli esempi di quella oggi maggiormente celebrata che sembra abbia fatto della stessa propria sparizione una musica da organetto da proporre al mercato. ferenza e anzi l'occultamento della catastrofe ambientale: sono questi per Chomsky gli elementi fondanti di un potere non solo statunitense ma globale, che agisce per assoggettare i popoli e fare gli interessi di pochi, con il consenso e il belletto intellettuale fornito dalle tecno-intellighenzie di turno. Questo universale richiamo morale è il fiume carsico di tutte le opere di Chomsky, una delle voci più autorevoli dei nostri tempi, in grado come pochissimi altri di pronunciare verità indocili e di indicare la strada di un vero cambiamento. Laura Grazia Mariniello Tecniche architettoniche per la sostenibilità Aracne editrice, Roma 2013 Noam Chomsky I padroni dell’umanità. Saggi politici Ponte alle Grazie, Milano 2014 In questa raccolta - che antologizza oltre quarant'anni di lotte e di pensiero - è il rigore dell'analisi a trascinare sul banco degli imputati i "padroni dell'umanità" e le idee che per decenni, anzi secoli, hanno giustificato lo sfruttamento capitalistico e le guerre, dal Vietnam al Nicaragua, dal Centro America alla Serbia e all'Iraq. Principali accusati restano gli Stati Uniti: un'economia ufficialmente liberista ma in realtà sovvenzionata dallo Stato, una visione "messianica" del proprio ruolo nel mondo, una società dominata dalle multinazionali, la manipolazione dell'opinione pubblica per costruire un "consenso senza consenso" e piegare le masse "stupide" alla volontà di pochi "illuminati", la deroga al principio di universalità che vorrebbe regole uguali per tutti nel diritto internazionale, l'indif- Il tema di questo saggio è rivolto ad indagare in che modo l'architettura contemporanea, facendosi carico delle tematiche ambientali relative allo sviluppo sostenibile, sia riuscita a rinnovare se stessa, ristabilendo un rapporto armonico con la natura e, allo stesso tempo, producendo un nuovo linguaggio architettonico, in cui l'ambiente naturale torna ad essere il soggetto principale ed in cui si introducono nuove regole, da cui non si può più prescindere. La ricerca è stata differenziata in base alla scala architettonica, ricercando le innovazioni tecnologiche e linguistiche sia alla scala dell'edificio che alla scala urbana. Sono state analizzate alcune opere prodotte da architetti contemporanei, in cui sono presenti tematiche relative non solo all'aspetto tecnologico, riferito strettamente al problema del risparmio energetico e dell'abbattimento delle emissioni di CO2, ma anche a quello etico della sostenibilità architettonica, che rivendica il diritto di tutti alla "bellezza", intesa sia come salubrità degli ambienti sia come qualità estetica democraticamente concepita.
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