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Kate Mosse
Il codice
del destino
Traduzione di
Gianna Lonza
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Titolo originale dell’opera:Citadel Copyright © 2012 by Mosse Associates Ltd
Questo romanzo è un’opera di fantasia. Personaggi e situazioni sono invenzioni
dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi analogia
con fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è puramente casuale.
Realizzazione editoriale: Elàstico, Milano
La citazione iniziale è tratta da Adrienne Rich, Esplorando il relitto, Poesie, Savelli
Editore, 1979, a cura di Liana Borghi.
ISBN 978-88-566-3655-0
I Edizione 2014
© 2014 - EDIZIONI PIEMME Spa, Milano
www.edizpiemme.it
Anno 2014-2015-2016 - Edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10
Stampato presso ELCOGRAF S.p.A. - Stabilimento di Cles (TN)
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Alla memoria di due donne senza nome
assassinate a Baudrigues
il 19 agosto 1944
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Siamo, sono, sei
per viltà o per coraggio
quell’uno che torna sempre
a questa scena
portando un coltello, una macchina fotografica
un libro di miti
nel quale i nostri nomi non compaiono.
Adrienne Rich, Esplorando il relitto
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Personaggi principali
la rete «citadel»
sandrine Vidal
Marianne Vidal
lucie Ménard
liesl Blum
suzanne Peyre
Geneviève saint-loup
a carcassonne
Raoul Pelletier
Robert Bonnet
leo authié
sylvère laval
Marieta Barthès
Jeanne Giraud
Max Blum
nella Haute Vallée
audric Baillard
achille Pujol
erik Bauer
Yves Rousset
Guillaume Breillac
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Prologo
AGOSTO 1944
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Coustaussa
19 agosto 1944
I cadaveri, la prima cosa che vede. Al limitare del villaggio un
paio di stivali da uomo e i piedi nudi di una donna con le dita
puntate in basso verso il terreno, come quelli di una ballerina. I corpi roteano lentamente nel torrido sole di agosto. Le
piante dei piedi sono nere per il terriccio, o forse gonfie per
la calura, difficile dirlo da quella distanza. Intorno sciama una
nuvola di mosche, ronzano rabbiose, si nutrono.
La donna, nota come Sophie, deglutisce con forza, ma non si
ritrae, non distoglie lo sguardo, restituisce loro la dignità strappata dalla modalità della loro morte. Non si arrischia ad avvicinarsi – forse è una trappola, ha l’aria di essere una trappola –
ma dal suo nascondiglio tra gli arbusti del sottobosco che segna
il punto di congiunzione con la vecchia strada che porta a Cassaignes, vede che le vittime hanno le braccia legate sulla schiena
con una grezza corda contadina. Le mani dell’uomo sono serrate a pugno, come se fosse morto lottando. Indossa pantaloni
di tela blu; è un contadino oppure un profugo, non un partigiano. La brezza solleva lievemente la gonna di lei, di un tessuto
giallo chiaro con un motivo di fiordalisi. Facendosi ombra sugli
occhi, Sophie segue la linea della corda su fino alle foglie verde
scuro del vecchio leccio, fino al ramo che è servito da forca. Le
vittime hanno in testa un cappuccio marrone di ruvida canapa
da sacchi, stretto intorno al collo dal cappio... e poi il salto.
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Non conosce i due, ma recita una preghiera per segnare il
momento del trapasso. Non perché sia credente, ma perché rispetta il rituale. Il mito cristiano non ha significato per lei. Ha
visto troppo per credere in quel Dio, in quelle belle favole.
Ogni morte sarà ricordata.
Trae un profondo sospiro, allontana da sé il pensiero di essere arrivata troppo tardi, l’incubo che il massacro sia già cominciato. Si accuccia, si allontana a volte correndo, a volte
strisciando, nascosta dietro il lungo muretto che fiancheggia il
sentiero fino al villaggio. Sa che c’è un tratto di cinque, sei metri tra l’estremità del muretto e i primi capanni del vecchio casolare degli Andrieu. Allo scoperto, senza un tetto o una zona
d’ombra. Se l’aspettano, se stanno all’erta dietro le finestre
oscurate della casa di fianco al cimitero abbandonato, sarà su
quel pezzo di terreno che il proiettile la colpirà.
Ma non ci sono cecchini, neanche uno. Raggiunge l’ultima
capitelle, una di quelle antiche costruzioni di pietra usate dai
pastori come ovili, che addossate le une alle altre punteggiano
le colline a nord di Coustaussa, e vi scivola dentro. Per qualche tempo i partigiani se ne sono serviti per immagazzinarvi
armi, ora sono vuote.
Da lì, Sophie ha una chiara veduta del villaggio sottostante,
le magnifiche rovine del castello verso ovest. Scorge delle macchie di sangue sul muro a calce del casolare degli Andrieu, due
chiazze rosse a forma di stella come gli schizzi di vernice di un
pennello. Nette nei punti centrali, impiastricciate lungo gli orli,
che già scuriscono nel cocente sole pomeridiano. Si irrigidisce;
si augura che, prima di penzolare dalla forca, l’uomo e la donna
siano stati uccisi a colpi di arma da fuoco. L’impiccagione è una
morte crudele, lenta, degradante. Le è già capitato di vedere,
a Quillan e a Mosset, una doppia esecuzione. Per punizione e
per avvertimento, i cadaveri vengono lasciati agli uccelli, come
sulle forche medievali.
Per terra, alla base del muro, nota delle impronte confuse,
impresse da corpi che sono stati trascinati, e segni di pneumatici che scendono al villaggio, non verso il leccio. Forse altre
due vittime.
Almeno quattro morti.
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Teme che tutti gli abitanti siano stati portati in place de la
Mairie, la piazza del municipio, mentre i soldati perquisivano
i casolari e le case. Camicie brune o camicie nere, i metodi
sono gli stessi. Cercano disertori, partigiani, armi.
Cercano lei.
Sophie scruta il terreno per cogliere il luccichio del metallo. Se riesce a identificare i bossoli, forse potrà riconoscere
l’arma e magari capire chi ha sparato. La Gestapo o la Milizia;
forse uno dei suoi. Ma è troppo lontana, e gli assassini sono
stati attenti a non lasciare tracce.
Si concede di accucciarsi sui talloni per qualche momento,
protetta dall’ombra, la schiena appoggiata all’ovile. Il cuore
sussulta agitato nel petto, come il motore di una vecchia macchina riluttante ad avviarsi. Ha le braccia coperte da una ragnatela di graffi e tagli che si è fatta nei boschi tra i rovi e le
spine, secche e malignamente aguzze dopo settimane di siccità; la sua camicia strappata mostra una pelle scurita dal sole
e sulla spalla, come un marchio, la cicatrice. La Croce di Lorena, le ha detto Raoul. La tiene nascosta. Basta quel segno a
identificarla.
Si è tagliata i capelli, si è abituata a portare i pantaloni,
ma è sottile, inequivocabilmente femminile. Si guarda gli stivali, stivali maschili, chiusi con lacci e imbottiti sul tallone con
carta di giornale perché non sembrino troppo goffi indosso a
lei. Ricorda le scarpe che portava quando era andata a ballare
con Raoul a Païchérou: rosso ciliegia con piccoli tacchi neri.
Chissà che ne è stato? Forse sono ancora nell’armadio nella
casa di rue du Palais; forse qualcuno le ha prese. Non che le
importi. Non sa che farsene di quelle civetterie, ora.
Non vuole ricordare, ma un’immagine le s’insinua nella
mente: lei all’angolo di rue Mazagran, due anni prima, i suoi
occhi persi in quelli di un ragazzo che sapeva che l’avrebbe
amata. E più tardi, quella stessa estate, nello studio di suo padre, a Coustaussa, quando le avevano spiegato come stavano
veramente le cose.
«Avanzate, spiriti dell’aria. Avanzate, eserciti dell’aria.»
Sbatte le palpebre per cacciare quei ricordi. Dal suo rifugio nell’ovile, si azzarda a volgere lo sguardo verso il gruppo
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di case, poi verso il Camp Grand e la garriga a nord. Dopo
aver avvertito la gente del villaggio dell’imminente assalto,
Marianne e Lucie si sono appostate a ovest, mentre Suzanne
e Liesl lanceranno l’attacco più duro dalle rovine del castello.
Nessuno in vista ancora. Non sa se verranno innumerevoli,
come scritto nella promessa.
«Diecimila volte diecimila.»
Il silenzio martellante è greve sulla terra in attesa. Sembra
che l’aria stessa vibri, cangiante e palpitante. La calura, le cicale, la distesa sinuosa della lavanda selvatica, il vento di tramontana che sussurra tra gli arbusti bassi della macchia mediterranea.
Per un attimo Sophie si rivede nel suo passato sicuro e
protetto. Prima di essere Sophie. Si cinge le ginocchia tra le
braccia; si dice che sarebbe appropriato se le cose finissero
lì dove erano cominciate. Se la ragazza di allora e la donna
di ora fossero insieme, fianco a fianco, nel momento decisivo
dell’estrema resistenza. La storia, compiuto il suo ciclo, torna
al punto di partenza.
Era lì, nelle stradine anguste tra le case, la chiesa e le rovine
del castello, che lei aveva giocato a trapette con i figli dei profughi spagnoli. Era lì che nella verde penombra greve del profumo del timo e del rosmarino aveva baciato un ragazzo per
la prima volta. Uno dei fratelli Rousset, nervoso per il timore
che sua nonna potesse guardare dalla finestra e coglierlo sul
fatto. Sophie ricorda soltanto la bizzarra sensazione dei denti
che si toccavano. E anche la vaga coscienza di fare qualcosa
da persone grandi, qualcosa di peccaminoso e illecito. Chiude
gli occhi. Era Yves Rousset o Pierre? Che importava ormai?
Ma è il viso di Raoul che le si affaccia alla mente, non i tratti
schietti di un ragazzo morto da tempo.
Tutto è immobile e tranquillo. Oggi i rondoni non si lanciano a capofitto, non si raggruppano a stormo, non disegnano volute nell’infinito cielo azzurro. I cardellini non cantano. Sanno quello che sta per avvenire, lo percepiscono
come, la settimana scorsa, l’avevano percepito tutte loro, sulla
punta delle dita, sulla pelle.
Eloise fu la prima a essere arrestata cinque giorni fa
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all’Hôtel Moderne et Pigeon a Limoux. Quattro giorni dopo,
fu la volta di Geneviève a Couiza. Alcuni particolari – la boîte
aux lettres, il fatto che lì si trovasse di persona il sottocomandante Schiffner – avevano fugato ogni dubbio: qualcuno li
aveva traditi. In quel momento Sophie capì che ormai era
questione di ore, di giorni al massimo. Tradita la ragnatela di
contatti che si estendeva a sud, da Carcassonne a quelle colline, a quella valle del fiume Salz, a quelle rovine.
Al pensiero di quanto soffriranno, cerca di scacciare dalla
mente il ricordo degli amici incarcerati nella caserma Laperrine in boulevard Barbès, o nel quartier generale della Gestapo sulla route de Toulouse. Sa quanto sono lunghe le notti
in quelle celle buie e anguste nell’attesa raccapricciante della
pallida luce dell’alba, del rumore della chiave che sferraglia
nella serratura. Le hanno immerso la testa nell’acqua nera soffocante, le hanno stretto la gola con violenza, l’hanno palpata
tra le cosce. Ha sentito il sussurro tentatore del cedimento e
sa quanto sia difficile resistervi.
Appoggia la testa sulle braccia. È stanca di tutto questo,
nauseata. Ha paura di quello che sta per accadere, ma più che
mai desidera che finisca.
«Avanzate, eserciti dell’aria.»
Una raffica di mitragliatrice dalle colline e in risposta il
crepitio di un’arma automatica. I pensieri si disintegrano
come un vetro che va in frantumi. Sophie è in piedi, pronta a
estrarre dalla cintura la sua Walther P38, che ha spalmato con
grasso d’oca per impedire che si inceppi. Sentirne il peso nella
mano è rassicurante, familiare.
Incurante di una copertura, si mette a correre tenendosi
bassa, rapida fino al margine della proprietà Sauzède. Una
volta c’erano oche e galline, ma ora non ci sono più, e la porta
che conduce al pollaio pende spalancata da un cardine rotto.
Salta oltre il muretto basso e atterra su rimasugli di paglia
e sulle zolle irregolari, poi va verso il successivo giardino, zigzagando da un’aiuola all’altra. Entra nel villaggio da est, sguscia nel cimitero abbandonato e corre tra le lapidi simili a
denti rotti conficcati nel terreno arido. Attraversando rue de
la Condamine, sfreccia nello stretto vicolo che, aspro e ripido,
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costeggia la torre rotonda e da ultimo scorge distintamente la
piazza del municipio, place de la Mairie.
Come aveva sospettato, gli abitanti del villaggio sono lì, radunati sotto il sole cocente, impossibilitati a fuggire: rue de la
Mairie è bloccata da un furgone della Feldgendarmerie messo
di traverso, e rue de l’Empereur è chiusa da una Citroën Traction Avant della Gestapo. Le donne e i bambini sono in fila
sul lato ovest della piazza, accanto al monumento ai caduti in
guerra; i vecchi sono sul versante sud. Sophie si concede un
sorriso amaro. Da come hanno disposto gli abitanti, i tedeschi
e la Milizia si aspettano di essere attaccati dalle colline, il che
le va bene. Ma l’espressione le si indurisce nel vedere il rosso
nastro di sangue sul terreno polveroso e il corpo di un giovane
riverso sulla schiena. La mano destra freme a scatti come una
marionetta sospesa a un filo logoro, poi gli ricade inerte di lato.
Cinque morti.
Sophie non riesce a distinguere chi è al comando dell’operazione – la visuale è impedita dallo schieramento di giacche
grigie e stivali neri, dalla distesa verde delle uniformi dei soldati semplici – ma sente gli ordini, in francese: che nessuno
si muova.
Gli uomini non dispongono di molti mezzi di trasporto ma
sono bene armati, il che non è frequente. Bombe a mano alla
cintura, bandoliere a tracolla scintillanti al sole come cotte
di maglia; alcuni sono provvisti di mitra M40, ma per lo più
hanno fucili semiautomatici Kar-98.
Gli ostaggi sono combattuti tra il coraggio e il buonsenso.
Vogliono resistere, agire, fare qualcosa, qualsiasi cosa. Ma
hanno ricevuto l’ordine di non mettere a rischio la missione e
sono paralizzati dalla realtà del giovane ammazzato che giace
per terra di fronte a loro. Qualcuno – forse la madre, forse la
sorella – singhiozza.
«C’est fini?»
Sophie fatica a respirare. Vede ogni cosa, sente ogni cosa,
ma non l’accetta.
Quella voce.
La persona che sperava di non vedere mai più. La voce che
sperava di non sentire mai più.
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Sapevi che sarebbe venuto. È quello che volevi.
Il crepitio della mitragliatrice che spara dai ruderi del castello la riporta al presente. Colto di sorpresa, un soldato si
gira di scatto e risponde al fuoco a casaccio. È solo un ragazzo. Una donna strilla e stringe a sé i figli cercando di proteggerli. Jacques Cassou, un brav’uomo anche se allineato con
Pétain, si allontana di corsa dal gruppo. Sophie sa quello che
accadrà, ma non può impedirlo. Almeno avesse aspettato ancora qualche istante per non attirare l’attenzione su di sé, ma
il panico ha avuto la meglio. L’uomo cerca di trovare salvezza
in rue de la Condamine, costringendosi a correre sulle gambe
stanche e gonfie per sfuggire all’orrore, ma diventa un facile
bersaglio. Sophie vede i proiettili delle mitragliatrici Schmeisser conficcarsi nel vecchio, che per la violenza dei colpi rotea
vorticosamente su se stesso. Sua figlia Ernestine, una donna
ottusa e rancorosa, si lancia in avanti nel tentativo di sorreggerlo. Ma lei è troppo lenta e lui è troppo pesante. Jacques vacilla e cade in ginocchio. I soldati continuano a sparare. La seconda scarica li abbatte entrambi.
Sei, sette morti.
Il mondo precipita. Il segnale non è stato dato, ma sentendo le mitragliate, Marianne e Lucie lanciano il primo candelotto fumogeno da Camp Grand. Sorvola le case e atterra al
margine della piazza vicino al furgone, liberando un pennacchio di fumo verde. Scoppia un altro candelotto, e un altro
ancora, emettendo sbuffi blu, rosa, arancioni, gialli nell’aria
soffocante. I soldati sono disorientati e sparano all’impazzata.
Sophie si rende conto che hanno i nervi tesi. Quali che siano
stati gli ordini impartiti, sanno che qualcosa non quadra. Non
è un’operazione come le altre.
«Halten Sie! Halten!»
L’urlo del Kommandant lancia l’ordine di interrompere
il fuoco, poi lo ripete in francese. La disciplina è immediatamente ripristinata, ma il breve intervallo è bastato perché
gli ostaggi si sparpagliassero, come Marianne ha detto loro di
fare, alla ricerca di un riparo in chiesa, tra gli arbusti erbosi
sotto Chemin de la Fontaine, nelle cantine del presbiterio.
Sophie non si muove.
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Ora che non ci sono più civili in piazza, Suzanne e Liesl
lanciano l’attacco frontale dai ruderi del castello e dalla densa
vegetazione di arbusti lungo rue de la Mairie. I proiettili percuotono il terreno. Una bomba a mano esplode non appena
impatta contro il monumento ai caduti.
Un altro ordine del Kommandant, e gli uomini della Gestapo si dividono in due gruppi. Alcuni, prendendo di mira il
contingente sulle colline, sparano indiscriminatamente mentre di corsa si infilano in rue de la Condamine e sboccano
nella garriga. Gli altri si dirigono al castello. Attraverso il
fumo colorato e la polvere, Sophie scorge i berretti blu della
Milizia francese che spariscono giù per rue de la Peur e intuisce, col cuore straziato, che non intendono lasciare testimoni.
Sa di essere una contro sette ma non ha alternative: deve
andare allo scoperto. E poi lo vede: in abiti civili, in piedi vicino alla macchina con la mano destra appoggiata sul cofano
e la Mauser che gli pende dalla sinistra. Sembra calmo, indifferente, mentre intorno infuria il fuoco del combattimento.
Sophie abbassa il cane della pistola e si porta in piena vista.
«Lasciali andare.»
Pronuncia quelle parole o le pensa soltanto? Le sembra
che la sua voce venga da lontano, distorta, un sussurro sotto
acque tempestose.
«Tu vuoi me, non loro. Lasciali andare.»
Impossibile che la senta, eppure sì, la sente in mezzo al fracasso, le urla, il crepitio delle mitragliatrici. Ode la sua voce e
si gira, guardando verso l’angolo nordoccidentale della piazza
del municipio dove lei si è piantata. Quegli occhi. Le sorride?
Oppure si dispiace che la storia debba finire in quel modo?
Sophie non lo sa.
La chiama per nome, il suo vero nome. Un suono dolce che
rimane sospeso nell’aria. Minaccia o lusinga, non lo sa, ma
sente indebolirsi la propria risolutezza.
Lui lo ripete e, questa volta, suona falso e amaro sulla sua
bocca. Un tradimento. L’incantesimo è rotto.
La donna che chiamano Sophie leva il braccio e spara.
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Parte Prima
LA PRIMA ESTATE
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Codex I
Gallia
La piana di Carsac
Anno Domini 342, luglio
Guardando davanti a sé, oltre il fiume, il giovane monaco
scorgeva il profilo della città sulla collina. Una fortezza circondata da mura basse che si stagliavano nitide nella luce incerta dell’alba. Una corona di pietra posata sulla verde piana
di Carsac. I pendii collinari intorno all’insediamento erano
ricchi, fertili, ubertosi. Filari di vitigni che si allargavano a
ventaglio come la coda di un pavone. Argentei ulivi, fichi carichi di frutti purpurei quasi maturi, mandorli.
A est si levava un sole bianco nel cielo azzurro pallido. Arinius si avvicinò al margine dell’acqua. Una lieve foschia indugiava sulla superficie argentea del fiume Atax. Sulla destra,
radure tra sambuchi e frassini. Le canne si piegavano e frusciavano nella brezza. Il profilo inconfondibile dell’angelica
con i suoi fusti cavi e affusolati, ritti come soldati sull’attenti, e
le foglie grandi come la sua mano. I cespi della consolida maggiore con le sue campanule rosa. Il tuffo dei pesci e delle bisce, i portatori d’acqua che silenziosamente scivolavano sulla
superficie riflettente del fiume.
Settimana dopo settimana, da un mese, due mesi, il giovane monaco camminava, camminava, camminava, seguendo
le anse e il flusso del grande Rodano da Lugdunum verso sud,
in direzione del mare. Si alzava ogni giorno all’alba, prima
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della preghiera del mattutino, con in mente il ricordo del
dolce mormorio delle voci dei confratelli. Viaggiava da solo.
Nella calura del mezzogiorno, tra l’ora sesta e la nona, si riparava dal sole nelle capanne dei pastori e nel verde denso dei
boschi. Nel tardo pomeriggio, mentre si levavano i primi echi
dei vespri dalle cappelle delle comunità, si rimetteva in cammino. La liturgia delle ore segnava il susseguirsi dei giorni e
delle notti. Un cammino lento, a passo costante, da nord a
sud, da est a ovest.
Arinius non sapeva con precisione da quanto tempo era in
viaggio, sapeva soltanto che la stagione cambiava, che la primavera scivolava dolcemente nell’estate. I colori di aprile e
maggio, i fiori bianchi, la ginestra gialla, la phlox rosa, cedevano all’oro di giugno e luglio. I vitigni verdi della Gallia Narbonensis e a perdita d’occhio i campi di orzo. I forti venti che
sferzavano le austere distese di sale e l’azzurro mare del Sinus
Gallicus. Il suo itinerario in quel tratto seguiva la Via Domitia, la via del vino di epoca romana, lungo strade di pedaggi
e tributi. Gli era stato facile confondersi tra i mercanti diretti
in Spagna.
Tossendo, avvolse strettamente intorno al suo corpo esile
il mantello grigio con cappuccio, sebbene non facesse affatto
freddo. La tosse era di nuovo peggiorata e la gola gli bruciava.
Si imbacuccò, rimboccando il tessuto intorno al collo e riagganciando il fermaglio, una fibula di bronzo a forma di croce
con una decorazione di minute foglie di quercia smaltate sui
quattro bracci e una foglia verde nel centro. L’unica cosa preziosa che possedeva. Non aveva voluto separarsene quando
era entrato nella comunità. Era un regalo di sua madre, Servilia, il giorno in cui erano arrivati i soldati.
Guardando al di là del fiume le mura della città, ringraziò
Dio per essersi salvato. Gli era giunta voce che lì trovavano rifugio uomini di tutte le fedi e di tutti i credi. Che lì vivevano
fianco a fianco gnostici, cristiani e seguaci delle antiche religioni. Che era un luogo sicuro e un asilo per tutti coloro che
vi arrivavano.
Si portò una mano al petto, volendo toccare la foglia di papiro che conosceva bene e che teneva celata sotto la tunica. Il
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pensiero gli andò ai suoi fratelli in Cristo, ciascuno dei quali
aveva sottratto via di nascosto una copia del testo proibito.
Si erano divisi a Massilia dove si diceva che fossero approdate Maria di Magdala e Giuseppe di Arimatea per diffondere la parola del Signore. Da lì i suoi confratelli erano salpati
alla volta di Smirne in Asia Minore, per proseguire uno verso
la Città Santa di Gerusalemme e le piane di Sephal, un altro
verso Menfi, e l’ultimo verso Tebe nell’Alto Egitto. Arinius
non avrebbe mai saputo se fossero riusciti nell’impresa, e loro
non avrebbero conosciuto la sua sorte. Ciascuno era destinato
a portare da solo il fardello della propria missione.
Arinius si considerava un servo di Dio, obbediente e zelante. Non era particolarmente coraggioso e neppure un dotto,
ma attingeva forza dalla convinzione che gli scritti sacri non
dovevano essere distrutti. Non avrebbe sopportato di veder
bruciare le parole di Maria Maddalena, di Tommaso, di Pietro
o di Giuda. Ricordava ancora lo scoppiettio delle fiamme che
si levavano nell’aria, rosse, bianche, dorate, mentre i preziosi
documenti venivano consegnati al rogo. Il papiro e il vello, i
codici e i rotoli, la sapienza greca, ebraica, copta ridotti in cenere nera. L’odore delle canne, dell’acqua, della colla, della
cera, che permeava il cortile della comunità nella capitale della
Gallia, che era stata il suo mondo.
Il papiro era come una seconda pelle sotto la tunica. Arinius non capiva il testo; non sapeva leggere il copto, e poi lo
scritto era sbavato e sbrecciato. Sapeva soltanto che, a quanto
si diceva, il potere contenuto nelle sette strofe di quel Codex,
il più breve di tutti, era assoluto. Grande quanto quello contenuto negli antichi scritti dell’Esodo, nei libri di Enoch, Daniele, Ezechiele. Più importante di tutta la conoscenza contenuta entro le mura delle grandi biblioteche di Alessandria e
Pergamo.
Aveva sentito un confratello recitare alcuni versi e non li
aveva dimenticati. Parole magiche, miracolose, si erano librate nella frescura del chiostro della comunità di Lugdunum. L’Abate si era infuriato quando l’aveva saputo. Convinto che quel codice era il più pericoloso tra i libri proibiti
racchiusi nella biblioteca, aveva decretato che trattava di ma-
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gia e stregoneria, e che chiunque lo avesse difeso sarebbe
stato denunciato come eretico. Nemico della vera fede. Il novizio era stato punito.
Arinius però pensava di portare con sé le parole sacre di
Dio e che fosse suo destino, forse addirittura lo scopo ultimo
della sua vita su questa terra di Dio, assicurare che la verità
contenuta nel papiro non andasse perduta. Nient’altro contava.
In quel momento lo raggiunse sull’argine dell’Atax il rintocco della campana che, diffondendosi oltre il pigro corso
del fiume, chiamava i fedeli al canto delle laude. Levando lo
sguardo sulla città in cima alla collina, Arinius pregò di esservi accolto. Poi con la destra afferrò il suo bordone, imboccò il ponte di legno e si diresse alla volta di Carcaso.
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Carcassonne
Luglio 1942
Sandrine si svegliò di sobbalzo. Dritta, gli occhi sgranati, la
destra tesa in avanti come ad afferrare qualcosa. Quasi avesse
lasciato nel sogno una parte di sé, per qualche istante rimase
in bilico tra il sonno e la veglia. Nel dormiveglia le sembrava
di librarsi nell’aria e vedere se stessa da una grande altezza,
come i doccioni di pietra della cattedrale di Saint-Michel, che
con le loro smorfie irridevano i passanti.
La sensazione di scivolare lontano dal tempo, di precipitare da una dimensione in un’altra attraverso uno spazio
bianco e infinito. Fuggiva, correva, scappava da figure che
le davano la caccia. Vaghi profili bianchi, rossi, neri; visi color verde chiaro nascosti sotto i cappucci, ombre e fiamme. Il
freddo luccichio del metallo dove avrebbe dovuto esserci la
pelle. Sandrine non ricordava chi fossero quei soldati o che
cosa volessero, forse non lo aveva mai saputo. Ma già il sogno
dileguava. Restava soltanto la sensazione di una minaccia, di
un tradimento. E anche queste emozioni si dissolvevano.
A poco a poco la stanza si precisò intorno a lei. Era al sicuro nel suo letto e nella sua casa in rue du Palais. A mano a
mano che gli occhi si abituavano all’oscurità, Sandrine distingueva lo scrittoio di mogano sbiancato contro la parete tra le
due finestre. Sulla destra del letto, il divano dall’alto schienale
rivestito con un tessuto di seta cinese verde pallido e il piedi-
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stallo per le piante. Di fronte, accanto alla porta, la libreria
bassa con gli scaffali stracolmi di volumi.
Si cinse le ginocchia tra le braccia nude, tremante nel
freddo del mattino. Allungò la mano per tirar su il piumone,
come se toccando qualcosa di reale potesse sentirsi più solida,
meno trasparente, ma le sue dita incontrarono soltanto il cotone del lenzuolo stropicciato. Il piumone, che lei aveva scalciato via durante la notte, giaceva per terra vicino al letto.
Non vedeva le lancette dell’orologio sul cassettone, ma qualcosa nella luce che filtrava dalle fessure delle persiane e il canto
degli uccelli nella strada le dicevano che era quasi mattina. Non
era tenuta ad alzarsi, ma sapeva che non avrebbe ripreso sonno.
Scivolò giù dal letto e in punta di piedi attraversò la camera
cercando di evitare le assi cigolanti del pavimento. I suoi abiti
erano posati alla rinfusa sul bracciolo di una poltroncina di
bambù ai piedi del letto. Si sfilò la camicia e la lasciò scivolare
per terra. Sebbene avesse diciotto anni, Sandrine aveva ancora le fattezze del garçon manqué, il monello che era sempre
stata. Era tutta gambe e braccia, neanche un tratto morbido. I
capelli neri erano ribelli e aveva la carnagione scura delle contadinelle, abbronzate per le tante giornate passate all’aperto.
La cipria non aveva alcun effetto. Mentre infilava le braccia
sottili nelle maniche della blusa di cotone, notò una macchia
all’interno dell’ampio colletto rotondo dove il giorno prima
aveva provato la cipria di sua sorella. La strofinò con il pollice, ma la sbavatura era tenace e non si cancellò.
La gonna, arrivata fino a lei dopo essere stata usata in famiglia, era troppo larga. La governante, Marieta, l’aveva stretta
in vita di almeno cinque centimetri, spostando un gancetto
e facendo un’asola. Non le cadeva a pennello, ma era passabile. A Sandrine piaceva la sensazione del raso sulle gambe; le
piaceva anche come il tessuto a quadretti rossi, neri e gialli si
muoveva quando lei camminava. Di quei tempi tutti usavano
abiti di seconda mano. Suo invece era il maglione senza maniche bordeaux, che Marieta le aveva fatto a maglia l’inverno
scorso, e che in parte contrastava e in parte si armonizzava
con la sua carnagione.
Appollaiata sull’orlo della poltroncina, Sandrine si infilò le
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preziose calze a quadri, écossaises, che suo padre le portato in
regalo dalla Scozia. Il suo ultimo viaggio. François Vidal era uno
dei tanti che da Carcassonne erano partiti per il fronte e non
erano più tornati. Dopo mesi di attesa senza combattere – drôle
de guerre, la guerra fittizia come sarebbe stata chiamata – era
stato ucciso il 18 maggio 1940 nelle Ardenne come molti altri
del suo gruppo. Ordini contraddittori, un agguato, dieci morti.
Erano trascorsi due anni da allora. Sandrine sentiva ancora la mancanza di suo padre – e spesso di notte aveva degli
incubi – ma lei e Marianne avevano imparato a tirare avanti.
La verità era, per quanto Sandrine odiasse ammetterlo, che a
ogni mese che passava i contorni del suo viso e il suo dolce
sorriso si facevano sempre più indistinti nel ricordo.
Il sole sorgeva. La luce filtrava attraverso la vetrata a losanghe colorate della scala, creando un caleidoscopico disegno di
rombi azzurri, rosa, verdi sulle piastrelle rosso ruggine. Sandrine esitò per un attimo davanti alla porta della camera di sua
sorella. Sebbene intendesse sgusciare fuori, sentì l’improvviso
impulso di controllare se Marianne fosse sana e salva nel suo
letto. Appoggiò la mano sulla maniglia di metallo lavorato e
scivolò dentro. In punta di piedi si avvicinò al letto. Nella grigia penombra riusciva appena a distinguere la testa di sua sorella sul cuscino, i capelli castani annodati nei bigodini. Il viso
di Marianne era bello come sempre, ma intorno agli occhi la
preoccupazione aveva intessuto una ragnatela di rughe sottili.
Di fianco al letto, le sue scarpe. Sandrine aggrottò la fronte:
come mai erano imbrattate di fango?
«Marianne?» la chiamò con un sussurro.
Sua sorella aveva cinque anni più di lei. Insegnava storia
all’École des Filles in square Gambetta, ma passava molte ore
del suo tempo libero nel centro della Croce Rossa in rue de Verdun. Da ragazza tranquilla e brava, Marianne si era offerta come
volontaria dopo la resa della Francia nel giugno 1940, quando
decine di migliaia di persone, rimaste prive di ogni avere, erano
fuggite dalla zona occupata dirigendosi a sud, verso la Linguadoca. Da allora si adoperava per trovare cibo, coperte, un tetto
per i profughi che abbandonavano ogni loro avere davanti alle
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forze naziste in avanzata. Il suo lavoro era di vegliare su come
venivano trattati i prigionieri chiusi nel carcere di Carcassonne
o mandati nei campi di internamento sulle montagne.
«Marianne» la chiamò di nuovo. «Esco. Non starò via
molto.»
Sua sorella mormorò qualcosa, si girò nel letto, ma non si
svegliò.
Ritenendo di avere fatto il proprio dovere, Sandrine sgusciò fuori della camera e chiuse piano la porta. Marianne non
approvava che lei uscisse al mattino presto. Sebbene non vigesse il coprifuoco nella zone non-occupée – la zone nono,
come veniva chiamata – i pattugliamenti si susseguivano con
regolarità e c’era nervosismo nell’aria. Ma soltanto nel silenzio delle prime ore del mattino, lontana dalle tensioni, dalle
restrizioni, dai compromessi della quotidianità, Sandrine si
sentiva se stessa. Non intendeva rinunciare a quei momenti di
libertà, se non vi fosse stata costretta.
Se non vi fosse stata costretta.
Nella casa silenziosa dove tutti dormivano, scese la scala scorrendo la mano sul legno tiepido della ringhiera. Ai suoi piedi
danzavano rombi di luce colorata. Per un attimo si chiese se altre ragazze, in altri tempi, avessero provato quei suoi stessi sentimenti. Confinata, intrappolata tra l’infanzia e la vita adulta che
stava per sopraggiungere. E nell’aria circostante l’eco di tanti
cuori soffocati, di spiriti prigionieri, che palpitavano, sospiravano, respiravano. Tante vite diverse che nei secoli erano passate nelle stradine del borgo medievale o nella fortezza SaintLouis, bisbigliavano e gridavano per farsi sentire. Sandrine non
capiva quello che dicevano, non ancora, sebbene percepisse
una certa irrequietezza correrle nelle vene, nel sangue.
L’antico spirito del Midi, sepolto nella memoria profonda
dei monti e delle colline, nei laghi e nel cielo, aveva da tempo
cominciato a fremere. Per così dire. Le bianche ossa di coloro
che dormivano nel cimitero di Saint-Michel, nel cimitero di
Saint-Vincent, nei camposanti di campagna della Haute Vallée
cominciavano a riscuotersi. Il mormorio, il lieve tremito, che attraversava le città dei morti, parole portate lontano dal vento.
La guerra stava arrivando nel Sud.
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